Opera al Nero

di Dira_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***
Capitolo 12: *** Capitolo XI ***
Capitolo 13: *** Capitolo XII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 15: *** Capitoli XIV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XV ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 20: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XX ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 24: *** Capitolo XXIII ***
Capitolo 25: *** Capitolo XXIV ***
Capitolo 26: *** Capitolo XXV ***
Capitolo 27: *** Capitolo XXVI ***
Capitolo 28: *** Capitolo XXVII ***
Capitolo 29: *** Capitolo XXVIII ***
Capitolo 30: *** Capitolo XXIX ***
Capitolo 31: *** Capitolo XXX ***
Capitolo 32: *** Capitolo XXXI ***
Capitolo 33: *** Capitolo XXXII ***
Capitolo 34: *** Capitolo XXXIII ***
Capitolo 35: *** Capitolo XXXIV ***
Capitolo 36: *** Capitolo XXXV ***
Capitolo 37: *** Capitolo XXXVI ***
Capitolo 38: *** Capitolo XXXVII ***
Capitolo 39: *** Capitolo XXXVIII ***
Capitolo 40: *** Capitolo XXXIX ***
Capitolo 41: *** Capitolo XL ***
Capitolo 42: *** Capitolo XLI ***
Capitolo 43: *** Capitolo XLII ***
Capitolo 44: *** Capitolo XLIII ***
Capitolo 45: *** Capitolo XLIV ***
Capitolo 46: *** Capitolo XLV ***
Capitolo 47: *** Capitolo XLVI ***
Capitolo 48: *** Capitolo XLVII ***
Capitolo 49: *** Capitolo XLVIII ***
Capitolo 50: *** Capitolo XLIX ***
Capitolo 51: *** Capitolo L ***
Capitolo 52: *** Capitolo LI ***
Capitolo 53: *** Capitolo LII ***
Capitolo 54: *** Capitolo LIII ***
Capitolo 55: *** Capitolo LIV ***
Capitolo 56: *** Capitolo LV ***
Capitolo 57: *** Capitolo LVI ***
Capitolo 58: *** Capitolo LVII ***
Capitolo 59: *** Capitolo LVIII ***
Capitolo 60: *** Capitolo LIX ***
Capitolo 61: *** Capitolo LX ***
Capitolo 62: *** Capitolo LXI ***
Capitolo 63: *** Capito LXIII ***
Capitolo 64: *** Capitolo LXIII ***
Capitolo 65: *** Capitolo LXIV ***
Capitolo 66: *** Capitolo LXV ***
Capitolo 67: *** Capitolo LXVI ***
Capitolo 68: *** Capitolo LXVII ***
Capitolo 69: *** Capitolo LXVIII ***
Capitolo 70: *** Capitolo LXIX ***
Capitolo 71: *** Capitolo LXX ***
Capitolo 72: *** Capitolo LXXI ***
Capitolo 73: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



 
 


Tutto quel che accade una volta potrebbe non accadere mai più.
Ma tutto quel che accade due volte, accadrà certamente una terza.
(L’Alchimista, Coelho)
 
 
15 Giugno 2028
America.
 
Milo Meinster.
Ogni giorno, appena cadeva dal letto il suo stupido cervello scandiva quel nome. Come se avesse bisogno di ricordarsi chi era!
Lo so benissimo chi sono da più di dieci anni, grazie tante…
Sbadigliò e aprì le imposte della finestra su una gloriosa giornata di sole; merce rara nel buco piovoso dove era finito ad abitare.
Non doveva esser però pretenzioso: Lubecca con il suo clima da congelarsi le palle era stato un soggiorno di gran lunga peggiore. Per non parlare di un certo castello.
Aveva viaggiato per quella che si poteva definire una vita – almeno in termini di esperienze – e se aveva deciso di metter radici da quattro anni un motivo c’era.
Motivo che quella mattina non gli andava di ricordare, visto che il motivatore l’aveva fatto dormire poco o niente.
Rompicoglioni. Quelli della sua schiatta son tutti dei gran rompicoglioni.
Scavalcò la finestra con un salto e finì sul balcone che faceva il giro di tutta l’appartamento. Lì, con la schiena e le gambe nude scaldate dal sole, si buttò su una vecchia sedia di vimini lasciata dai precedenti proprietari – Babbanofili o Babbani, direttamente – e lì dimenticata.
Nella sua visuale entrò l’ansa di uno dei due fiumi che bagnavano la città, il Charles. Scorreva placido nel riverbero solare e sembrava che nulla al mondo potesse disturbare il suo corso. Passò un dito sulle mille scaglie che vi si riflettevano e lo invidiò.
Dormito un cazzo.
Dalla finestra alle sue spalle afferrò a tentoni il porta tabacco, le cartine e l’erba. Per certe cose l’erbologia magica non riusciva ad eguagliare quella Babbana. O forse era lui che di tutte quelle piante strane di cui era pieno il Mondo Magico proprio non si fidava.
Chiamatemi scemo. Alcune son capaci di bruciarti il cervello, altre di fartene crescere uno sotto le ascelle.
Sbriciolò, scaldò, mischiò con il tabacco e leccò. Poi accese e finalmente si concesse un sorriso.
Ecco. Buongiorno, adesso.
Non aveva sul serio dormito, ma non aveva importanza: non aveva impegni durante la giornata e per quanto riguardava Il Principino, quest’ultimo sarebbe stato via fino a sera. Per cena si sarebbe riscaldato qualcosa.
Sempre che non dia fuoco alla casa nel tentativo di usare il microonde.  
Quattro anni prima non avrebbe mai pensato di finire a fare quella vita, ma tutto sommato non poteva lamentarsi. Aveva un tetto sopra la testa, la pancia sempre piena e tutto il tempo del mondo per curare i suoi affari e il Suo Amore – la sua arte, ma era così trito chiamarla a quel modo. Quello che gli veniva chiesto, rispetto ai lavori che aveva avuto in precedenza, era niente.
Per non parlare del penultimo lavoro … È un miracolo se non mi ci son giocato le chiappe.
La vita era un continuo mutamento, precisamente come l’acqua del Charles, che non aveva forma e che dunque non poteva essere irreggimentata.
Cioè, sì, teoricamente può, ma alla prima pioggia… Un disastro. La vita è così. L’essere umano, magico o no, è così. Costringilo in un sentiero che non è il suo e prima o poi esonda.
Quel giorno si sentiva piuttosto filosofico. O forse era l’erba. L’erba, decise. Soffiò il fumo sulla brace dello spinello e lo fece riaccendere con un guizzo. Ne fumò metà però, per non inficiare i suoi esercizi mattutini. Dopo pochi minuti di raccoglimento interiore per ritrovare un minimo di concentrazione, con lo stesso movimento all’indietro prese la custodia di cuoio lucida che faceva ben mostra di sé sul davanzale alle sue spalle. Ci passò un dito e poi fece scattare la chiusura svegliando il violino dal suo letto di cuoio e materiale isolante. L’archetto passò con piacere sulle corde e da esse ne trasse le prime note della giornata. Si alzò in piedi, perché suonare a sedere era una bestemmia.
Buongiorno America. Paganini, Capriccio numero 13, la risata del diavolo.
Ridacchiò. Che fosse sotto l’effetto dell’erba o meno, gli piaceva annunciare i suoi pezzi ad un pubblico immaginario o, nel migliore dei casi, ignaro.
Al violino Milo Meinster. Magonò, strafatto e nel tempo libero, babysitter. Un’esecutore, Signore e Signori, d’eccezione.
Godetevelo.
 
****
 
Inghilterra, Londra, Center London. Charing Cross Road.
Paiolo Magico.
 
Erano giorni che l’ospite della diciannove non usciva di camera; nessuno aveva il coraggio di dirlo ad alta voce, ma tutti pensavano fosse morto.
Deirdre Santini era una delle tante cameriere che si occupava del piano superiore della locanda. Ogni giorno entrava nelle stanze, le puliva, rifaceva i letti ed arieggiava. Anche sua madre aveva fatto quel lavoro, e la madre di sua madre, sebbene fosse stata Babbana e avesse dovuto usare le mani invece che la bacchetta.
Deirdre era stata assegnata all’ala ovest – dava prestigio, secondo Tom, chiamarla a quel modo – e quindi le camere dalla dieci alla venti erano di sua competenza. Sua e di una ragazzina Maganò che avrebbe dovuto esser un aiuto, ma nei fatti era imbranata come poche.
“Signora, io lì dentro non ci voglio entrare, signora…” Balbettò questa con forte accento gallese. “Quel tipo io l’ho visto e faceva paura si…”
“Ho capito Daisy, ci andrò io!” Sbuffò esasperata, dandole il carrello fornito di stracci e spazzolone. “Almeno prendi questo!”
Arrivata di fronte alla diciannove si sentì però molto meno coraggiosa di quanto avesse dato a vedere. Daisy aveva ragione; quel tipo, dal primo giorno che aveva alloggiato lì, aveva messo a tutti una gran inquietudine addosso. Si faceva portare i pasti in camera, ma i vassoi non tornavano mai indietro. Quando Tom aveva provato ad entrare per reclamarli era stato aggredito da rauche parole e una borsa piena di Galeoni sonanti. Dopo essersi consultato con la moglie aveva detto loro di non chieder più indietro un bel niente.

Però adesso eran giorni che i vassoi restavano intoccati di fronte alla porta e Deirdre non era una stupida. Qualcosa era successo e anche se Tom assicurava loro che il non gradito ospite se ne sarebbe andato presto, non sembrava che quel presto fosse destinato ad arrivare.
“Signore?” Bussò alla porta. “Signore, pulizie in camera! È lì dentro? Mi risponda!” Bussò un altro paio di volte e poi, scambiandosi un’occhiata con la sguattera, fece un sospiro pescato direttamente dal robusto petto scozzese. “Bene Daisy, va’ a chiamare Tom. Io entro.” Decise su due piedi. Per quanto sinistro le fosse sembrato quel mago poteva comunque essersi sentito male o essere in difficoltà.
Ci manca solo un morto nella locanda. Come fa colare a picco gli affari un cadavere in una stanza…
Aveva due ragazzini che andavano ad Hogwarts, una piccola che la aspettava a casa e un marito sfaccendato. Non poteva permettersi di vedersi decurtato lo stipendio o peggio. Prese quindi una chiave dal grosso mazzo appeso al carrello delle pulizie e fece scattare la serratura; quando vide che la stanza era immersa nell’oscurità più completa, accese subito un Lumos vivace.
Quella faccenda cominciava a puzzare. Puzzare di pozioni bruciate, resti stantii di cibo e un odore che le sue narici, seppur allenate alla selva di odori presenti in una locanda, non riuscirono ad identificare.
“Signore…?”
Vide qualcosa muoversi nel buio, simile ad un ratto, simile ad un serpente, simile a … niente, niente che avesse mai visto in vita sua.
Allora gridò.
 
****
 
Londra, Farringdon, West Smithfield.
Mattina.
 
Tim Colvile era un tipo metodico.
Ogni mattina si svegliava alle prime luci dell’alba, abbandonava l’umido appartamento che condivideva con almeno una mezza dozzina di coinquilini dalle parti di Camden Town e si recava di buona lena a prender la metro per raggiungere l’università che aveva scelto di frequentare non appena aveva avuto abbastanza senno in zucca da capire che il paesino da cui proveniva era troppo stretto per le sue ambizioni.
Ramanujan – coinquilino numero sei - gli aveva consigliato di allentare quella sua presa puntigliosa su orari e riti, così da potersi trovare finalmente una ragazza.
Lui dissentiva. Perché non era il solo al mondo ad apprezzare la metodicità. Non era l’unico che ogni mattina che Dio metteva in terra prendeva la colazione da asporto e la consumava seduto su una delle caratteristiche panchine di legno del West Smithfield Garden¹, nome pomposo che designava una piccola isola erbosa in mezzo al caos della metropoli.
Non era solo perché ogni giorno alle otto in punto una ragazza si sedeva sulla panchina accanto alla sua. Era il genere che entrava subito nell’occhio anche se eri preso dai tuoi casini.
I capelli rossi, tanto per iniziare. Erano di un rosso violento persino alla luce diretta del sole, ma non era una tinta – Tim lo sapeva bene, con una sorella minore che aveva la testa di un camaleonte.  
La ragazza era sempre allegra, come se non avesse un problema al mondo. Era un piacere guardarla mangiare con appetito e sentirla ridere alle battute che ogni tanto si scambiava con i suoi improvvisati vicini di panca. Era piccoletta, ma sprizzava energia concentrata come una supernova.
Si era anche chiesto se non fosse da stalker fissarla tutti i giorni senza tentare un approccio, ma del resto la Ragazza della Colazione – l’aveva ribattezzata così - non aveva mai dato segno di aver fatto caso alle sue occhiate.
Sperava fosse single. Certo, almeno una volta a settimana faceva colazione con un ragazzo, ma questo non lo preoccupava: prima di tutto, da come si vestiva e comportava, il tipo sembrava dell’altra sponda. Dopo un accurato origliare, aveva inoltro dedotto con minimo margine di incertezza che fosse il fratello maggiore. Sentendoli chiacchierare di cene di famiglia e amici comuni aveva scoperto parlassero con l’accento del Devon, a lui tanto familiare. Ecco, quello avrebbe potuto essere un argomento di conversazione: la difficoltà di vivere nella Capitale venendo da un posto che aveva più campagna che centri urbani.
Oggi vado lì e mi presento. Sicuro. Ci vado.
Lo diceva tutte le mattine, ma mai una volta che avesse trovato abbastanza coraggio per farlo.
 
Quel giorno Tim, dopo essersi seduto e aver posato la colazione accanto a sé, si accorse che la sua compagna di spuntino non c’era. Deluso si guardò attorno, scandagliando le panchine e occhieggiando le gradinate che portavano alla fontana. Nessuna traccia.
Dovrebbe già essere qui…
Ma non c’era. Che avesse deciso che quel parco non le piaceva più? O se si fosse accorta delle sue occhiate e ne fosse rimasta turbata? O forse aveva preferito abbandonare Londra per prepararsi alla sessione di esami estiva?
Le possibilità erano molteplici e una più deprimente dell’altra.
Hai perso la tua occasione bello mio. Un anno che sei qui ed un anno che non manca un giorno. Hai mai fatto qualcosa? Ben ti sta, coglione.
Sospirò profondamente abbandonando la colazione e preferendo accendersi una sigaretta.
 
“Ciao, questo posto è occupato?”
 
Quasi gli cadde la sigaretta dalle labbra quando si rese conto che la Ragazza della Colazione non era seduta da nessuna parte perché era dietro di lui.  
“Io … oh, sì, certo!” Balbettò quasi gettando a terra lo zaino per farle spazio. “Prego!”
Tim aspirò il suo buon profumo floreale e pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa per rompere il ghiaccio, che l’occasione era troppo buona per esser buttata al vento.
Ovviamente non riuscì a spiccicar parola.
La ragazza diede un morso alla ciambella – che era sempre la stessa, integrale e con i frutti di bosco – e bevve un sorso dal suo bicchiere di cartone. Poi parlò. “Tu vieni qui tutti i giorni, vero? Per colazione.”
Mi ha notato!
Si sentì ghignare come un idiota. “Sì, tutti i giorni! Come … cioè, come te.”
L’altra annuì. Guardava la fontana che si ergeva in mezzo allo spiazzo erboso con aria meditabonda. “Sei del Devonshire?” Forse l’aveva capito dalle poche frasi che le aveva balbettato contro? “Ti ho sentito rispondere al cellulare una volta, l’accento di casa si riconosce sempre.” Gli spiegò quasi gli avesse letto nel pensiero.

“Già, sì … Sono di Ilfracombe.” Fece un sorrisetto. “Devonshire², è tanto che non lo sentivo chiamar così!” Si accorse di aver detto qualcosa di sbagliato quando la vide guardarlo stranita.
“Perché, tu come lo chiami?”
“ … Devon?” Suggerì. Doveva aver detto qualcosa di decisamente idiota se l’altra lo fissava così.
Per fortuna il suo imbarazzo durò poco perché l’altra gli sorrise con aria di scuse. “Giusto. È che nella mia famiglia abbiano questa fissa di chiamarlo col nome…” Esitò.
“Arcaico?” Offrì volenteroso. “Cioè, credo lo chiamassero così nell’ottocento o giù di lì.”

La ragazza annuì facendo un sorriso proprio carino, del genere che faceva venire il desiderio impellente di chiederle il numero. Si controllò piuttosto bene. “Mi chiamo Timothy.” Disse porgendole la mano dopo essersi premurato di pulirla doverosamente sui jeans. “Ma tutti mi chiamano Tim.”
“Lilian.” Non poteva che avere un nome adorabile. “Ma tutti mi chiamano Lily.” Lo imitò scherzosamente.
Sentendosi insolitamente disinvolto si arrischiò a rivolgerle qualche domanda. “È il tuo primo anno qui a Londra?”
“No, il terzo. Studio solo da un anno però.”

“… cioè?”
“Mi sono presa un paio d’anni … come si dice? Sabbatici?” Tim si stupì. Non aveva affatto l’aria di una ventenne. Aveva pensato sul serio andasse a scuola finché un giorno non l’aveva vista tirar fuori dalla borsa libri di testo che nulla c’entravano con l’istruzione superiore. A dirla tutta quei libri non avevano l’aria di centrare con niente. Vecchi e persino rilegati in cuoio – nell’epoca dei tablet esistevano ancora esemplari simili in commercio?

Comunque sia la notizia che fosse più grande di lui di ben due anni lo smontò un po’. L’avrebbe considerato uno sbarbatello adesso?
Lily, forse notando la sua espressione, lo guardò divertita. “Pensavi andassi ancora a scuola?”
“Beh…” Borbottò preso in contropiede. Era già la seconda volta che anticipava i suoi pensieri. “No, è solo che … Dove studi?” Preferì glissare.
“Qui vicino.” Un breve attimo di incertezza poi indicò di fronte a sé. Tim collegò quell’indicazione approssimativa con il Barts³, l’ospedale del quartiere, la cui università di riferimento era anche la sua.
“Ah, ma allora studi alla Queen Mary, come me!”
“Sì, Mag…” Si bloccò e fece un altro sorriso iper-carino. “Studio Psicologia.”
“Forte.” Forse era per questo che i suoi vestiti avevano un taglio un po’ stravagante, dal vintage evidente delle cose che indossava alle svolazzanti stole colorate con cui si era coperta per tutto l’inverno. Dopotutto era risaputo che chi studiava i matti era un po’ eccentrico. “Non ti ho mai visto in giro per il campus però…” Di certo l’avrebbe notata. L’altra non ribatté, così decise di cambiar discorso prima che sopravvenisse un silenzio disagiante. “Quale parte del Devon?”
Lily inclinò la testa da un lato, in una buffa posa interrogativa. “Ottery St. Catchpole. Normale se non l’hai mai sentito…” E infatti era così. “… è un villaggio, poche case, tante fattorie, una chiesa e un fiume.” Snocciolò. “Dev’essere bello vivere vicino al mare invece.”

“Non se comunque vivi vicino a poche case, tante fattorie ed una chiesa.” Non era troppo bravo nel dire spiritosaggini ma l’altra ridacchiò e quindi era un punto andato a segno, giusto?
Non credeva alla propria fortuna comunque. La Ragazza della Colazione gli si era seduta accanto e stava parlando con lui, in una versione decisamente più soddisfacente delle simulazioni che aveva fatto nella sua testa. Doveva dunque tirare fuori le palle e farle la fatidica domanda. “Senti … stai spesso da queste parti? Intendo, hai un appartamento qui?”
“No, torno a casa tutte le sere.”
“… Tutte le sere?” Forse non aveva capito bene. “Ma da qui al Devon sono un milione di ore in treno!”
La ragazza per un attimo sembrò non sapere che pesci prendere. Poi sorrise di nuovo e scosse la testa. “Abito vicino a Charing Cross, questo intendevo.” E diede un consistente sorso al suo caffè. “Più o meno vicino.” Soggiunse.

Tim si trovò nella scomoda posizione di non sapere cos’altro dire. Dietro l’aria amichevole l’altra non sembrava disposta ad intavolare una reale conversazione, anzi. Forse era il genere di tipa che si aspettava che fosse il ragazzo a fare la prima mossa.
Coraggio, vecchio mio. Ora o mai più.
“Te lo chiedevo perché … cioè, io sto qui da un anno e abito a Camden che non è proprio a due passi, no? Mi piacerebbe conoscere qualche altro posto che non sia il quartiere in cui vivo e…” Non stava andando tanto male se Lily lo guardava con interesse. In realtà lo guardava come lui avrebbe studiato un esperimento al microscopio, ma decise di soprassedere. “… e mi chiedevo se ti andasse di prendere un caffè.” Concluse pregando di non essersi mangiato le parole. “Con me.” Puntualizzò.
Lily batté le palpebre e poi fece un sorriso, quel genere di sorriso che il povero Tim conosceva bene dato che gli era stato propinato in più declinazioni da ragazze che si credevano troppo per lui.
“Mi dispiace, ma mi vedo già con qualcuno.”
Per l’appunto.
Curiosamente però l’altra non aveva ventilato l’ipotesi che potesse essere un’uscita amichevole. Tentò dunque quella carta perché imbranato sì, ma non sprovveduto. “Guarda che non parlavo di un appuntamento.” Riuscì persino a suonare ironico. “Solo…”
“Sì invece.” Lo congelò sul posto. Poi gli strinse leggermente la mano. “Sei carino Tim, ma credi a me, non potrebbe funzionare. Siamo troppo diversi.”

“Ma se non mi conosci neanche!” Era questo che non andava, con le ragazze. Non potevano fare a meno di rifilare palle elaborate perché non avevano il coraggio di dire la verità alla persona che avevano di fronte. Non avrebbe potuto semplicemente dirgli che non era il suo tipo?  
“Vero.” Convenne con l’aria di non convenire affatto. “Allora facciamo così, fidati sulla parola.” Si alzò in piedi e recuperò la borsa di tela. Era stracolma e doveva pesare tantissimo ma la portava con leggerezza, quasi fosse imbottita di nulla. “Grazie per la compagnia!”

Non gli diede il tempo di aprire bocca che era già scomparsa oltre le siepi che recintavano il parco. Proprio così, scomparsa come se fino a cinque secondi prima non fosse stata seduta accanto a lui. Solo un po’ di briciole e la busta appallottolata della ciambella testimoniavano che la Ragazza della Colazione gli avesse davvero rivolto la parola.
 
****
 
Ministero della Magia, Secondo Piano, Dipartimento Applicazione della Legge sulla Magia.
Ufficio Auror. Mattina.
 
Una palla di carta, debitamente pressata per avere il peso specifico e la massa di un proiettile, sfrecciò tra le scrivanie dell’ufficio Auror puntando verso la nuca dell’Auror Malfoy, numero distintivo duemilaottocentoquarantacinque.
“Pre…” Si sentì esclamare dalle retrovie. La voce sfumò presto in delusione quando la vittima si girò di colpo e fece Evanescere la pallottola. “… so? Ah, andiamo!”
“Potty, dovrà ancora nascere l’uomo capace di prendere alle spalle Scorpius Malfoy!” Ghignò il ragazzo, dondolandosi sulla sedia girevole. “Comunque ho vinto io.” Si indicò. “Oggi la scrivania è mia.”
“Non vale, è facile per te arrivar prima, a casa hai il camino collegato direttamente con il Ministero!” Si lagnò l’Auror Potter, numero distintivo … non riusciva mai a ricordarselo, aveva poi importanza?

“Non capisco questa smania di condividere le scrivanie! Vabbeh, che non abbiamo spazio, però…” Continuò, sedendosi sull’angolo del tavolo e mettendo un broncio da decenne. “… e poi, sei tu il pivello!”
“Oh, oh. Ben tre anni di servizio effettivo contro i miei miseri due!” Replicò l’altro sgranchendosi voluttuosamente sulla sedia. “Sono intimorito.”
“Va’ a farti divorare dagli Inferi, Malfuretto.” Fu l’affettuosa risposta, corredata da un tentativo di pugno sulla spalla che l’altro eluse finendo di stiracchiarsi all’indietro.

 
Scorpius sorrise. Ogni mattina che Merlino metteva in terra era sempre la stessa storia. Non se la prendeva mai perché sapeva che dietro le lagne del suo migliore amico c’era sincero piacere di averlo a fianco. 
Era persino più contento di me quando ha saputo che sarei venuto ufficialmente a lavorare qui.
L’Accademia non era stata una passeggiata. Gli Auror erano una forza di polizia magica speciale, e avevano criteri di selezione trai più duri del mondo Magico. Per quanto fosse passato al primo colpo, aveva poi trascorso tre anni a sputare sangue e sudore sotto un istruttore che ce l’aveva avuta a morte con lui per motivi che non gli erano mai stati chiari.
Anche se scommetto venti Galeoni che mi ha odiato dal momento che ha letto il mio cognome nella lista degli ammessi.
Oppure perché sono biondo e bellissimo.
Alla fine tutte le palate di cacca patite erano state ripagate da un superbo risultato al test finale, che doveva aver fatto mangiare il distintivo a quel trippone dell’Istruttore Auror Anderson.
E visto che la commissione era composta da Auror veri, non ha potuto proprio farci niente.
Passato con punteggio massimo. Attaccati al mio manico di scopa.
L’unica nota dolente di tutta la faccenda era suo padre: continuava a mal digerire il fatto che avesse preferito una rude carriera fatta di incantesimi e distintivo a quella ben più elegante e soprattutto, politica nell’Ufficio Cooperazione Magica Internazionale.
Credo che mi butterò dalla finestra se alla prossima cena in famiglia mi parlerà ancora di quanto si trovi bene Mike a lavorar là…
“Ohi, Malfuretto, ti sei incantato?” Vide la mano dell’altro ondeggiargli davanti e scosse la testa, rientrando nella caotica realtà che lo circondava: promemoria ministeriali che svolazzavano ovunque, gente che parlava ad alta voce, odore di caffè tostato e sudore.
Ah … Delizia.
“Stavo pensando. So che il verbo ti sfugge…” Schivò un nuovo tentativo di pugno, ridendo.
Il fatto è che adorava essere un Auror. C’era azione, c’era pericolo, c’erano uniformi fighissime e cameratismo. E quando veniva pronunciato il suo cognome aveva sempre quel meraviglioso suffisso.
Auror. Auror Malfoy.
Nessuno in ufficio lo diceva con sospetto o disgusto, ma con simpatia e stima. Era la sensazione più meravigliosa del mondo.
Vorrei solo che papà lo capisse … Ma temo che per certe cose saremo sempre distanti continenti.
“Ohi, concentrati!” Lo riscosse di nuovo James. “Prima che arrivi il Sergente e ci trascini verso l’ignoto mi devi dire cos’hai intenzione di fare per il tuo addio al celibato!”
“Eh?” Gli uscì piuttosto intelligentemente. “Celi che…?”
“Secondo me ti ci diverti, a fare il Purosangue scemo.” Sbuffò l’altro. “Sbaglio o qualcuno si sposa con mia cugina questo Agosto?”

“Io!” Esclamò compiaciuto. “Io con Rosie!”
“Sì, forse c’è ancora qualcuno nell’emisfero australe che non lo sa…” Motteggiò James, ma con divertito affetto più che con sarcasmo. “Dobbiamo fare una festa prima, tra uomini, così dirai addio alla tua condizione di uomo libero come si deve. Ci arrivi?”
“Sono fidanzato ufficialmente, non credo di potermi considerare libero da anni.” Gli fece notare, scoccando un’occhiata ad una foto appiccicata con lo scotch magico alle pareti del box. Tra i miliardi di cianfrusaglie con cui l’aveva intasato James, spiccava, almeno a parer suo, l’enorme sorriso di Rose e il bacio da film che si erano dati alla cerimonia dei Diplomi cinque anni prima. L’altro aveva tentato di scoraggiare le effusioni dei due avatar, ma aveva ottenuto solo di intensificarle di più.

Sono ganzo anche in foto.
“Non fare il guastafeste!” Lo riprese, dandogli uno scappellotto. Chiunque li vedesse temeva sempre che quelle schermaglie finissero in rissa. Erano pochi quelli che li conoscevano e sapevano che non si sarebbe mai verificato.
A meno che non  ci sia di mezzo una bottiglia di Ogden Gran Riserva e il Campionato di Quidditch.
“Dai, che ti va di fare? Prenoto qualche Incantatrice? Una bella danza dei sette veli?” Lo incalzò. “Mio cugino Freddie dice che quella roba dei sette veli è una figata.”
“Rosie finirebbe per pugnalarmi sette volte se me ne facessi fare una, lo sai.”
James fece una smorfia. “Beh, allora fatti venire qualche idea che non preveda la tua morte. In quanto tuo testimone…” Ogni volta gonfiava il petto d’orgoglio, era uno spettacolo esilarante. “… sarà io ad occuparmi di ‘sta roba. Quindi vedi di dirmelo per tempo!”
Scorpius sorrise. “Promesso.” Gli diede una pacca sulla gamba. “E tu, a quanto il lieto evento con Lupin?”
L’altro fece una smorfia sbalordita. “Malfoy, gli uomini non si sposano tra di loro!”
“Sai, per essere in parte gay sei proprio omofobo.” Schivò il conseguente lancio di un tagliacarte “Ti farei anche da damigella!”
“Per essere quello etero sei una femminuccia!”

“Dirò a Rosie di lanciarti il bouquet, vedrai che poi mi ringrazierai. Ti vedo benissimo, in bianco.”
“Fottiti!”

 
“Avrò mai il piacere di non vedervi litigare, Matter?”
Il sergente Liam Flannery guardò i suoi due sottoposti con un misto di esasperazione e divertimento. Aveva coniato per loro quel nomignolo – fatto dall’unione dei due cognomi – quando aveva realizzato che sarebbero sempre stati inseparabili come una chiappa con un pantalone. Si narrava che persino il Capo avesse apostrofato Malfoy – per una volta da solo - con il nome di battesimo del figlio, assolutamente certo che l’altro fosse nei paraggi.

“Dubito!” Esclamò Malfoy con uno dei suoi sorrisi spigliati, alzandosi in piedi e facendo scattare il taglio della mano sulla fronte, nel classico saluto formale. Per certe cose era terribilmente legato alla forma. “Sergente, Bobby.” Apostrofò il terzo e ultimo auror della loro squadra che li guardava con la rassegnazione tipica di chi subiva quei diverbi dall’adolescenza. “Buongiorno!”
Al di là di tutto, erano una buona squadra. La calma del giovane Jordan controbilanciava gli eccessi di Potter e le polemiche di Malfoy. Era una buona cosa quando ci si stimava tra compagni e quei tre ne erano la prova.

“È che Malfuretto è un coglione.” Replicò serenamente Potter, tirandogli un ceffone sulla spalla. “E non sa rispettare la gerarchia.”
“Ma se siamo entrambi Auror Semplici!”

“Gerarchia d’età.”
Anni di onorato servizio avevano insegnato a Liam Flannery che era meglio non assecondare le teste calde, quindi si limitò a scuotere la testa. Dopotutto non facevano neanche mezzo secolo in due ed erano stati grifondoro: non poteva pretende maturità dove doveva ancora arrivare.
Malfoy non sarebbe così matto se non si alimentasse dell’energia di Potter. Ma va bene così … Sanno salvarsi la pelle a vicenda e pensare con un mago solo. Non si può chiedere di meglio ad un giovane Auror.
Batté le mani per richiamarli all’ordine. “Fatevi belli, oggi iniziamo col botto.”
Vide una scintilla di eccitazione percorrere lo sguardo di entrambi. Potter quasi saltò dalla scrivania. “Sì?” Chiese infatti. “Abbiamo ricevuto una chiamata? Quindi niente scartoffie stamattina!”
“Evvai!” Gli fece eco il biondo dandogli il cinque. “Giorno glorioso!”
“Dal Paiolo Magico.” Convenne fingendo di non aver notato il palese lassismo burocratico di entrambi. “È arrivato un Gufo Espresso dal vecchio Tom. Abbiamo una segnalazione per Arti Oscure.”
“Arti Oscure?” Chiese Malfoy tornando serio. Per quanto la loro fosse la divisione ministeriale dedicata, era raro dovessero affrontare maghi davvero Oscuri. Più che altro si trattava di assicurare alla giustizia gente che aveva provato a passare al lato sbagliato della Magia, ma con più danni per sé stessi che per gli altri.
Grazie a Merlino il mondo sta diventando un posto migliore. Meno malvagi, più idioti.
Ad ogni buon conto per i tre giovani Auror sarebbe stato il primo vero caso, quindi poteva capire l’eccitazione che trapelava dalle loro espressioni.
“Segnalazione, non certezza.” Replicò per non farli surriscaldare nel caso si fosse dimostrato un buco nell’acqua. “Mettetevi i Mantelli, assicuratevi che la fondina non sia slacciata e andiamo.” Fece un sorriso. “Si va’ a far un po’ di luce!”
 
****
 
Farringdon, Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.
 
“Albus, ehi! Aspetti tua sorella?”
Il ragazzo ormai ventiduenne che rispondeva a quel nome alzò lo sguardo dalla contemplazione dei propri zoccoli ortopedici. Comodi ma orrendi, questo riusciva a capirlo persino lui.
Ho dovuto spiegare dieci volte a Mike che dobbiamo portarli tutti, senza nessuna eccezione …
 Fece un mezzo sorriso all’interlocutore, allungando le gambe sotto il tavolo.
“Ciao Seamus.” Sospirò appena. “Caffè con zenzero?” Occhieggiò la tazza fumante dell’altro Guaritore, decano ed eroe di guerra, nonché amico del padre. “Un giorno ti esploderà lo stomaco.”
“Lo dici ad un irlandese? Deve ancora arrivare bevanda capace di mettermi al tappeto!” Esclamò l’uomo, passandosi una mano tra la folta zazzera color sabbia che si stava progressivamente imbiancando ai lati. “Guarda che rischi di arrivare in ritardo, Smethwyck ti farà a pezzi.” Soggiunse canzonatorio.

Il ventenne deglutì, e a ragion veduta, pensò l’uomo. Il Guaritore in carica nel reparto Lesioni da Incantesimo era un tipo arcigno, incapace della minima empatia, come capitava spesso a chi esercitava quella professione da tanto tempo. Il figlio di mezzo di Harry era uno dei suoi tirocinanti e, a detta delle voci di corridoio, una delle sue vittime predilette.
“Ho ancora tre minuti … e una manciata di secondi, credo.” Si dondolò sulla sedia per occhieggiare l’orologio a pendolo accanto al tavolo delle bevande. “… Okay, due minuti.” Si corresse.
“Non l’ho mai vista saltare una lezione.” Gli fece notare con un sorriso. “Non serve che controlli tutti i giorni, sai.”

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. “Non dirlo ad alta voce … se sapesse che la aspetto per questo motivo mi ucciderebbe. Anche se oggi ho una scusa da favola. Deve portarmi i biscotti di nonna.” 
Seamus vuotò la sua tazza e diede una pacca sulla spalla dell’ex serpeverde. Gli pareva incredibile che un ragazzo tanto mite e disponibile come Al fosse stato appartenuto a quella Casa. “Tempo di andare.” Lo informò. “Alza il sedere, Guaritore Tirocinante Potter.” Imitò il tono di voce del Professor Smethwyck con gran divertimento dell’altro. “Ho promesso a tuo padre che ti avrei tenuto fuori dai guai … ed incorrere nelle ire di Smeth è finirci a testa bassa!”
Albus ridacchiò, ma scosse la testa. “Come se avessi accettato.”

“Come vuoi, ma nel caso avessi bisogno di un posto in cui nasconderti…” Ghignò. “Il mio ufficio è sempre aperto.”
 
Al si congedò con un cenno della testa dal Guaritore più anziano, rilasciando un lungo sospiro subito dopo. Sua sorella era in ritardo e stava facendo far ritardo anche a lui. Un classico che si ripeteva ormai da un anno, ovvero da quando Lily Luna aveva deciso che il suo futuro lavorativo apparteneva alla Psicomagia.
Il primo a rimanere di stucco era stato proprio lui. L’altra non aveva mai mostrato durante la scuola una predilezione verso la magia curativa, per quanto avesse avuto un discreto talento in Pozioni e non fosse stata una completa incompetente nel resto delle materie necessarie per iscriversi al corso.
Oltre a questo aveva sempre detto di non voler continuare a studiare, tanto che persino i loro genitori si erano rassegnati a vederla ammazzare il tempo tra lavoretti saltuari, feste e vacanze in giro per il mondo.
Lily aveva vissuto di fiore in fiore – espressione eufemistica utilizzata da nonna Molly – per i due anni successivi al diploma. Poi l’estate prima aveva sganciato la bomba, innescando una serie di reazioni che erano variate dalla sorpresa allo sbigottimento.
Vuoi continuare a studiare? Psicomagia, sul serio? Ma intendi lavorare al San Mungo poi? Non avevi detto che non avresti più preso in mano un libro in vita tua? Perché Psicomagia?
Ricordava l’aria disinvolta con cui l’altra aveva risposto all’ondata di domande, come ricordava l’urlo di trionfo che era conseguito alla consegna della lettera di ammissione all’Accademia di Medimagia.
Ricordava soprattutto di aver pensato una cosa.
Sul serio? Ma soprattutto, perché?
Forse era questo a farlo rimanere in caffetteria tutti i giorni. Era certo che prima o poi Lily si sarebbe stufata della mole di lavoro, dell’odore perenne di pozioni che impregnava tutto, e delle ore di lezione tediose. Senza contare quelle in reparto. Sua sorella aveva molti pregi, ma tra questi non vi era la costanza, né la pazienza. Non vi era mai stata, e con l’età questo suo difetto si era solo ingigantito.
E invece. Continua a frequentare. Ha quasi finito il primo anno. Fa esami, viene a lezione.
Certo, non fosse sempre in ritardo…
Sentì una pacca sulla testa che lo fece sobbalzare sulla sedia.
“Ciao pelatino!” 
Sua sorella aveva la disagiante abilità di arrivare alle spalle senza far rumore, neppure fosse stata un Auror con la licenza di maledire. “Lils!” Esclamò passandosi una mano trai capelli. Perché non era vero, non era pelato. “Sei in ritardo!”
Tu sei in ritardo. Nessun professore mi aspetta per iniziare la lezione … è te che aspettano per il giro di visite mattutino.” Ritorse frugando nella borsa ed estraendo un pacchetto legato in più giri da spago. “Direttamente da nonna Molly.” Ghignò occhieggiando la sua povera testa. “Ti serviranno per consolarti del fatto che sei…”
Rasato.” La anticipò afferrando l’involto e lasciandolo scivolare nella propria tracolla. “E ti sarei grato se la piantassi, non è come se avessi avuto scelta.” Borbottò ricordando l’orrore provato quando gli era stata diagnosticata un’infestazione di Chizpuffle⁴ … in testa.

Era uno dei lati negativi di lavorare in ospedale; bisognava mettere in conto lo scoppio di qualche epidemia che, anche se immediatamente contenuta, a volte finiva per colpire anche il personale curante.
Anche se in questo caso sono l’unico ad essermi ammalato … Gli altri hanno avuto problemi solo con le bacchette perché gli altri non hanno i capelli pieni di magia che hanno i Potter.
O semplicemente, non ne hanno la sfiga.
“Tom ti fa ancora dormire sul divano, eh?” Lily quel giorno sembrava propensa all’ironia stronza, quindi preferì non offrirle ulteriori spunti, scrollando le spalle evasivo.
Certo che mi fa ancora dormire sul divano, il bastardo. Non riesce proprio a capirlo che non mi sono preso la versione magica dei pidocchi. E che comunque mi è passata.
La sorella dovette leggere qualcosa nella sua espressione perché gli diede una pacchetta consolatoria sul braccio. “Ci vediamo a pranzo?” Offrì in segno di pace.
“A pranzo.” Confermò. “Ah, ricordati che stasera è il compleanno di Fergus e Abigail!” Soggiunse vedendola in procinto di correre via, verso le aule di lezione.
“Sì, lo so, alle nove al pub. Vorrei ricordarti che Gail è mia amica da dodici anni, ma non lo farò.”
“Perfetto, così non dovrò ricordarti che hai la memoria del Signor Allock.” Rintuzzò sapendo che l’altra avrebbe colto la presa in giro, dato che il paziente in questione lo conoscevano entrambi. Un signore distinto, di facile parlantina e, a causa di un Incantesimo di Memoria finito male, incapace di ricordarsi dal giorno alla notte e per questo lungo degente nel reparto Thickley⁵.
L’altra ridacchiò. “Povero Gilderoy, non esser cattivo … e non esserlo con me.” Gli mostrò la lingua.
“Lo sono troppo poco.” Replicò dandole un colpetto affettuoso sulla fronte. “Fa’ la brava.” Quella raccomandazione ormai era un marchio di fabbrica del loro rapporto.
E cos’altro potrebbe essere visto di chi stiamo parlando?
Lily roteò gli occhi al cielo. “Aye aye sir!” Esclamò abbozzando un saluto militaresco.
Albus osservò la figura della sorella finché non uscì dalla caffetteria. Non avrebbe mai smesso di controllare, per quanto la razionalità gli intimasse di smettere da anni.
Sono passati cinque anni … Smettila di fare la chioccia. Ormai ha smesso anche papà.
Con Lily era più facile a dirsi che a farsi.
 
****

Londra, Charing Cross Road.

Paiolo Magico.
 
“Eccovi!” Li accolse Tom, unico e fiero proprietario della porta per eccellenza tra il Mondo Babbano e quello magico. “Signor Flannery, finalmente! Posso offrirvi qualcosa?”
James e Scorpius si scambiarono un’occhiata divertita; l’anima da locandiere del mago era talmente radicata che persino di fronte ad una situazione d’emergenza non poteva fare a meno di cercare di raggranellare qualche zellino; infatti chiunque conoscesse il corpulento sergente irlandese sapeva che al primo giro offerto dalla casa ne sarebbe seguito presto un altro, pagato.
“Siamo in servizio amico.” Lo apostrofò l’uomo dandogli una pacca sonora sulla spalla. “Dov’è la camera?”
“Al piano di sopra Signore. Nell’ala ovest.” Si inserì una panciuta strega con capelli rosso fiamma acconciati nella crocchia tipica di chi non voleva sporcarli o perderli in giro. Nascosta dietro di lei c’era una ragazzina di massimo tredici anni, con enormi occhi sgranati e una cuffietta troppo grande. Una delle cameriere della mattina e una sguattera Maganò, stimò Scorpius. Sorrise all’adolescente che diventò rapidamente dello stesso colore dei capelli della strega.
“Ala?” Stralunò l’irlandese. “Di che diavolo stiamo parlando?”
“A sinistra Sergente.” Chiarificò Bobby. “La scala che porta alle camere sulla sinistra.” Tradusse.
“Per tutte le Banshee Tom, da quand’è che hai ‘ste pretese da grande albergo?”

“Ai clienti piace…” Si giustificò l’uomo stringendosi nelle spalle. “Deirde, accompagnali su.”
“Io?” La donna perse rapidamente colore. “Nossignore, non ci metto piede in quel posto indiavolato!” Sbottò di cuore. “Non ci andrei manco sotto Imperio!”

“Cos’è successo?” Si informò Flannery, adottando il tono professionale che richiedeva l’occasione. Dietro l’espressione cordiale di Tom e quella anodina della donna traspariva evidente nervosismo. Paura. 
I due si lanciarono un’occhiata, poi fu il proprietario. “L’ospite della diciannove …”
“Nome?” Bobby, chiamato anche il Registratore Vivente, era già pronto con il suo fedele taccuino. Si narrava lo tenesse anche sotto il cuscino e sopra il gabinetto. “Generalità?”

“Sam Howe e… non so altro. Davvero!” Esclamò vedendoli scettici. “L’ho visto solo il primo giorno, quando si è presentato. Ha sempre voluto i pasti in camera e non è mai sceso. Ha pagato in anticipo però e quindi non ho potuto chiedergli, insomma… Non abbiamo pensato che fosse corretto dirgli di andarsene solo perché non metteva mai fuori il naso dalla porta.”
“Avremo dovuto farlo invece!” Replicò la cameriera in un tono e  modo che sia a James che a Scorpius ricordò Molly Weasley. “Quel tipo puzzava di guai lontano un miglio!”

“Ora che la bacchetta è rotta è inutile aggiustarla.” Replicò il locandiere spiccio, anche se era chiaro che la pensasse come la dipendente. Si rivolse di nuovo a loro. “Il fatto, agenti, è che da qualche giorno il Signor Howe lascia i piatti a freddare fuori dalla porta. Così ci siamo preoccupati, e…”
“Ed io sono andata a controllare, e per poco non son morta!” Si inserì la cameriera.
“Deirdre! Chiudi quella ciabatta, pensa se ti sentissero i nostri ospiti!” La redarguì l’uomo, ma la strega tirò avanti come se nulla fosse.

“Morgana mi protegga, quell’uomo…” Il poco colore che le era tornato per ribattere sparì di nuovo, e un nuovo sospiro uscì dal petto robusto. “… quell’uomo non è più una creatura di questo mondo!”
“Sarebbe a dire?” Il Sergente Flannery era un tipo concreto, per quanto potesse esserlo un mago. Scorpius non poteva che sposare la sua confusione: un uomo rimaneva uomo, a meno che, certo, non si verificassero circostanze particolari.  
La licantropia? È l’unica che mi viene in mente, ma … che c’entra? Il plenilunio è lontano.

“Se è un caso di Licantropia se ne occupa la Divisione Bestie.” Suggerì comunque.  
“Non è un licantropo!” Ribatté la cameriera, quasi ritenesse quell’ipotesi un affronto personale. “Nossignore, niente occhi gialli e zanne, e comunque quelli si trasformano una volta al mese, no?” Affermò sicura “Manco li  aveva gli occhi, quello. La pupilla era tutta bianca e… insomma, sì. Brillava.” Si torse uno straccio – come da copione – tra le mani. “Mi ha urlato qualcosa in una lingua che non conoscevo … e a me son sembrate tanto … ecco, tanto formule di Magia Oscura.”
“Una possessione spiritica?” Suggerì Bobby con aria meditabonda. “Parlare in altre lingue, un mago incosciente… Potrebbe essere, no?”

“E da quando chi viene posseduto ha gli occhi bianchi?” Replicò pescando dai ricordi dell’Accademia e quelli ancora più remoti di Hogwarts. Non era facile; di solito era piuttosto svelto nei collegamenti quanto nei rimandi bibliografici – anche se in questi il primato sarebbe sempre stato della sua Rosie. Ne andava fiero, ma stavolta gli indizi forniti erano … assurdi.
Non gli restò che sospirare, vinto. “Delle possessioni comunque se ne occupano quelli la Sezione Spiriti.” Si limitò a dire. “Mi pare di ricordare che tengano un Catalogo delle Apparizioni …”
Jordan fece una smorfia perplessa. “Se ci fosse qualche Entità Extracorporea aggressiva a Diagon Alley lo saprebbero prima di noi, anzi, sarebbero già qui.”

“Sì, svegli come sono!” Lo apostrofò James sbuffando. “Secondo me se c’è qualche fantasma incazzato in giro per Londra sono gli ultimi a saperlo!”
“Ragazzi, non date il via alla scopa prima di esserci saliti.” Li riportò all’ordine Flannery. “Credo che una possessione sia improbabile, la locanda non è infestata. La cosa migliore è verificare di persona senza abbassare la guardia.” Sorrise all’aria imbarazzata dei tre. “Forza, stanza diciannove? Conosciamo la strada.” Fece cenno a Tom e alle due donne di servizio di rimanere dov’erano e salì le scale, presto imitato dai tre giovani Auror.

 
“Se non è una possessione cosa può essere?” Scorpius fu così apostrofato da Bobby, tra di loro il più propenso a mettersi in discussione. Non gliene sarebbe mai stato grato abbastanza.
Tra me e Potty facciamo a gara per chi è più Primadonna … Lui, per inciso.
“Sempre che sia vero quel che ci ha detto quella là.” Sbuffò James tamburellando con le dita sul fodero, l’impazienza fatta Auror. “Lo sai come son fatte le donne. Suggestionabili.”
“Se ti sentissero quelle valchirie delle tue cugine ti toglierebbero la pelle dal sedere a furia di maledizioni, Jimmy. Per non parlare di tua sorella.” Ghignò il ragazzo di colore, dandogli una spallata. “Non ci diventare misogino, eh!”
“Miso … che?”

“È strano…” Meditò Scorpius osservando la schiena enorme e silenziosa del Sergente. Nonostante avesse mostrato calma e sicurezza di fronte agli spaventati locandieri, alla fine della storia gli era sembrato persino più confuso di loro. “… ma se è Magia Oscura è roba brutta. Ve lo ricordate no, a lezione, quando dicevano che se un Mago perde le caratteristiche umane vuol dire che ormai è andato oltre il punto di non ritorno?”
“Sei tu il secchione, mica io.” Replicò James scrocchiandosi il collo, ma si rabbuiò leggermente. “Però questa lezione me la ricordo. Roba da brividi.”
“Io direi che stasera una bevuta al Finnigan’s non ce la toglie nessuno.” Borbottò Jordan controllando per l’ennesima volta che la fondina fosse al posto giusto e debitamente pronta ad estrarre la bacchetta.

“Cazzo, mi son scordato il regalo per i gemelli!” James abbassò la voce, dato che erano ormai vicini alla stanza incriminata. “Vabbeh, mi aggrego a Albie o Lils.”
“Al non te lo lascerà fare e Lily potrebbe regalar loro qualcosa di osceno. Ti conviene sul serio?” Ridacchiò Bobby. “Dai, nessun problema Jimmy, lo fai con me e Janet.”

“Sei un amico!”
“Ragazzi, silenzio.” Li richiamò Flannery. A volte sembrava che il buon’uomo li considerasse come una cucciolata di labrador festosa ed agitata. Perlomeno, era quello il modo in cui li trattava.
Non posso dargli tutti i torti…
“Bacchette alla mano.” Li istruì e poi fece cenno a James, il più rapido in attacco, di nascondersi dietro uno dei due stipiti della porta, mentre lui faceva lo stesso. “Malfoy, Jordan, copriteci le spalle.” Si schiarì la voce e poi esplose nel tono stentoreo per cui era famoso in tutto l’ufficio. “Sam Howe!” Esclamò. “Sono l’Auror Liam Flannery, apra questa porta!” Non vi fu risposta. “Howe, in nome del Ministero della Magia Inglese sono autorizzato ad aprirla anche senza il suo consenso. Se non è intenzionato si faccia indietro e getti a terra la bacchetta!”
Stavolta qualcosa cambiò: vi fu un forte tramestio, come se l’occupante della stanza tentasse di nascondersi … o fuggire.
“Potter, ora!” Sbottò il sergente, forse pensando la stessa cosa. James non se lo fece ripete: lanciò un Confringo – ormai quell’incantesimo era diventato il suo marchio di fabbrica – che fece esplodere la porta con precisione netta, tanto che cadde dai cardini senza seminare una sola scheggia. “Dentro!
Scorpius si lanciò dietro i mantelli svolazzanti dei due e tossì all’odore acre che lo investì. “Ma cos’è morto…” Non fece in tempo a formulare la domanda che vide cosa, o meglio chi emetteva quell’odore nauseabondo di decomposizione.

Era Sam Howe. Alla luce lasciata entrare dalla porta era ben visibile, riparato dietro il letto.
“Porca Morgana…” Sussurrò Bobby, che non era incline ad imprecare. Di solito.
La pelle chiazzata da un reticolo di vene gonfie, gli occhi bianchi – non erano rovesciati all’indietro come aveva supposto la cameriera, la pupilla proprio non c’era! - e l’odore di cadavere.
È un Infero? 
Scorpius si trovò nella scomoda posizione di volersela dare a gambe, e non credeva di essere l’unico a giudicare da come tutti gli altri si erano congelati nelle loro posizioni, fissando la creatura che fissava loro di rimando.
Cosa … che diavolo è?
La stasi fu rotta proprio da quest’ultimo. Con un sibilo si lanciò oltre il letto, verso James. Questo rinculò immediatamente, lanciando uno Schiantesimo dei suoi, potenti e precisi come un colpo di pistola.
Non servì a nulla.
O meglio, il colpo lo prese in pieno ma una sorta di scudo si materializzò direttamente dalla pelle dell’uomo, come  un bolla gassosa priva di una forma definita.
Merda!
Scorpius lo pensava solo quando la situazione lo richiedeva, che ricordava bene l’educazione ricevuta.
Lo pensò moltissimo.
Howe, o quel che rimaneva di lui, aveva ormai puntato James con una tenacia che aveva del sovrannaturale e Scorpius si trovò a colpirlo più volte insieme agli altri, sebbene questo non si difendesse, non tentava neppure di levare la bacchetta, sempre che ne avesse una. Avanzava soltanto, e e verso James con quella che sembrava proprio bava alla bocca.
Potty manicaretto?
Li fece arrivare alla porta prima che il Sergente spintonasse il moro a lato e tentasse l’ennesimo Stupeficium. Stavolta funzionò perché finalmente la Cosa – chiamarlo mago era assurdo – fermò la sua corsa. Si bloccò e poi, sotto i loro sguardi si sgretolò.
Si sgretolò come avrebbe fatto una statua di gesso, dapprima crepandosi, poi crollando in una cascata di cenere.
Rimasero in silenzio un paio di attimi buoni, prima che James parlasse. “Cosa diavolo era?!” Sussurrò pallido come la morte. “Cazzo, sembrava avercela solo con me!” Fece una pausa. “Perché sempre a me?”
Scorpius capì che era giunto il momento di sdrammatizzare. Con il lavoro che facevano c’era sempre bisogno di una sana dose di coglionaggine – almeno così la chiamava Rosie – per non avere gli incubi ogni notte. Gli si avvicinò tirandogli un consolatorio ma virile schiaffo sulla nuca. “Piantala di fare l’egocentrico!” Esordì. “Sarà stato per via della tua Magia incasinata. Com’è che ti chiama Dursley?” Lo vide riprendere colore e indignazione alla menzione dell’insopportabile cugino acquisito. “Luminaria pacchiana del Mondo Magico? Sei la vittima perfetta per i mostri assurdi!”
Perché diavolo, sembrava proprio volerti mangiare…
“Ma vaffanculo.” Masticò malmostoso, mentre Jordan tentava una risatina, sebbene non distogliesse lo sguardo dal mucchio di cenere, quasi dovesse rianimarsi per attaccarli di nuovo.
Il Sergente Flannery si avvicinò alla cenere che era stata Sam Howe. Dalla poltiglia grigiastra di vestiti e residui organici tirò fuori un orologio da tasca e un portafoglio. Effetti personali veri, appartenuti ad una persona che si supponeva fosse stata normale. Da quest’ultimo oggetto estrasse un foglietto, che lesse. Poi sospirò.
“Non so cosa diavolo fosse, ma sappiamo da dove veniva.” Aggrottò le sopracciglia. “America.”
 
 
 
 
****
 
 
Note:

Più che un prologo, è un capitolo!

Ci siamo quindi. Siamo ufficialmente nella terza (e ultima, giuro!) parte.
La canzone del capitolo è questa perché se arriva il nuovo album dei Mumford&Sons, non si può non utilizzarlo. Punto.
La cover del capitolo e del profilo autore è stata fatta dalla bravissima Daphne Kerouac.

E ora, le note.
 
1. West Smithfield Garden: una rotonda al centro delle direttrici viarie principali di Smithfield, nella parte nord-ovest di Londra, zona famosa per ospitare l’ultimo mercato della carne ancora presente in città. Si trova nel distretto (o quartiere?) di Farringdon. Il giardino, una volta sito di esecuzioni pubbliche (dov’è la statua adesso c’era il patibolo) è pubblico, con panchine, alberi. Qui una foto.
2. Devonshire: una delle tante incongruenze temporali del Mondo Magico. Devonshire è il modo in cui veniva chiamato il Devon secoli fa (ovvero ‘Contea di Devon’).
3. Barts: contrazione dell’ospedale di San Bartolomeo, famoso per aver avuto trai suoi alunni un certo John Amish Watson, almeno, secondo Sherlock Holmes di Doyle. ;)
4. Chizpuffle: parassiti minuscoli dall’aspetto di un granchio. Si nutrono di magia, ed è quindi frequente trovarli nelle bacchette o nella pelliccia di creature magiche come i Crup. Solitamente sono eliminabili tramite pozioni, ma quando si nutrono troppo diventano pervicaci. Motivo onde per cui Albus ha dovuto rasarsi. Con i capelli che si ritrova – ereditati dal padre, capace di farseli ricrescere in una notte – gli animaletti sono andati in overdose.
5. Reparto Thickley: si riferisce al reparto Janus Thickley per i lungodegenti di Lesioni da Incantesimo. Annovera trai pazienti, oltre ad Allock, anche Frank e Alice Paciock.
 
Infine, alcune precisazioni doverose.
 
Precisazioni: Molte delle immagini usate, linkate e manipolate non appartengono a me, ma le ho trovate sul web. Chiunque le rivendicasse, è pregato di inviarmi un pm, sia se voglia che le ritiri, sia che voglia essere creditato. Thanks!
Le canzoni, frasi e varie citazioni non appartengono a me, ma a chi le ha ideate.
E per finire, l'impianto dell'intera storia, luoghi, personaggi etc appartengono a J.K. Rowling, Dio l'abbia in Gloria.

Considero questa storia una sorta di ‘tributo’ alla sua opera, niente più che il lavoro di una fan.
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I






So when you look in the mirror
Reflecting back at you someone that you don't know
Oh, that's just made your head spin around
(Same Jeans, The View)
 
 
Inghilterra, Londra, Ministero della Magia, Secondo Piano.
Dipartimento Applicazione della Legge sulla Magia, Ufficio Auror
Pomeriggio.
 
“Davvero dobbiamo fare rapporto a quei rompipalle di Cooperazione? Maddai!”
Scorpius alzò gli occhi al cielo suggendo la dose quotidiana, quanto necessaria, di Prince of Wales. Dato che gli era precluso il caffè da quando aveva ricordo – ti rende troppo eccitabile, non pensarci neppure – la chiusura di una giornata lavorativa almeno per lui si concretizzava con lo scolarsi mezzo litro di the mentre Bobby e James si ingozzavano di malvagia caffeina.
Secondo me dovrebbero proibirlo anche a Potty. Lo rende nevrotico.
“È la procedura, ragazzo.” Replicò Flannery mentre riguardava il rapporto stilato da quest’ultimo. Erano tre anni che il buon irlandese affidava quel compito a James, nel tentativo di insegnarglielo. Fallendo miseramente ogni volta. Tirò l’ennesimo frego su una frase sballata e lasciò che l’inchiostro magico la cancellasse prima di riscriverla da capo. “Ogni morte riguardante un mago non-inglese va segnalata all’Ufficio Internazionale della Legge Magica.” Spiegò paziente. “Spediamo loro un rapporto e aspettiamo che dall’altra parte dell’Oceano mandino un agente che ci starà trai piedi per qualche giorno, si prenderà una copia di tutto e alla fine si porterà via la salma. Procedura, come vi ho detto.” Ripeté.
“Sì, però quel che è successo non era la solita procedura.” Si inserì Bobby fissando il fondo scuro della propria tazza. “Quel tipo, Howe … insomma sembrava … Non abbiamo ancora capito cosa diavolo avesse, no?”
“Prima aspettiamo il referto dal San Mungo, poi vedremo come muoverci.” Consigliò saggiamente il sergente, firmando il rapporto e passandolo a James che lo chiuse in una cartellina su cui colò ceralacca e impresse il sigillo del Dipartimento.

“Fatto!” Esclamò con aria palesemente sollevata. Era rimasto in silenzio per tutto il tragitto verso il Ministero e Scorpius non aveva potuto biasimarlo. Rischiare la vita era qualcosa che si doveva mettere in conto quando si prendeva quell’uniforme, ma constatarlo era sempre poco piacevole. “Comunque secondo me al San Mungo lo troveranno pieno di schifezze oscure fino ai capelli e buonanotte. È morto, certo non può più far danno a nessuno!”
Scorpius non disse nulla; aveva pensato e ripensato all’episodio di quella mattina, a pranzo come durante un sopralluogo di rito a Notturn Alley.
Come diavolo ha fatto a rimanere in piedi per tutto quel tempo? Gli abbiamo scaricato addosso qualcosa come una cinquantina di schiantesimi! Senza contare gli occhi … e la faccia. E la puzza di morto.
Che diavolo aveva fatto per combinarsi in quel modo?
“Jordan, porta le prove in archivio.” L’irlandese si stiracchiò con uno sbadiglio. “E controlla che le cataloghino nel modo giusto. Alle volte fan fatica a trovarsi il sedere con le mani, là dentro.”
“Un orologio da tasca, un portamonete con soldi di taglio misto e una ricevuta per una passaporta da Phoenix, Arizona per Inghilterra, Londra. Ricevuto, sergente.” Snocciolò questo con un sorriso. Era famosa la puntualità con cui riusciva a elencare, prendere appunti e fare interrogatori. A detta di James era una cosa che aveva fin dai tempi di Hogwarts.

Quest’ultimo si dondolò sulla sedia che Scorpius aveva avuto la magnanimità di ridargli a fine giornata. “Viene con noi al Finnigan’s stasera?” Chiese all’auror più anziano. “È il compleanno di due nostri amici, ci facciamo un paio di Whiskey incendiari!”
Il mago ridacchiò. “No, ragazzi … bevetene uno anche per me, io torno a casa, sono a pezzi.” Sospirò, alzandosi in piedi. “Comincio a non avere più l’età per l’azione.”
“Ma se ha solo quarant’anni!” Rise James. “Non  vorrà finire a fare il timbracarte come mio padre spero!”
Flannery gli rifilò uno scappellotto sulla nuca. “Il capo ha avuto più cervello di me e te messi assieme, Potter. Dietro una scrivania ci si annoierà pure, ma almeno si rimane interi.” Si voltò poi nella sua direzione. “Mi raccomando Malfoy, quel rapporto dev’essere giù alla Cooperazione entro stasera, mi affido a te.”
“Sissignore!” Proclamò allegramente, strappandolo di mano all’amico. “Lo difenderò con il mio corpo dalle zampe sgrammaticate di Potter!”

 
****
 
 
Ministero della magia, Quinto Piano
Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio Internazionale della Legge Magica

Ora di cena.

Michel Zabini si massaggiò le tempie, notando come la mole di carte ufficiali, relazioni e promemoria non fosse calato che di pochi centimetri dall’inizio della giornata.

Certo, perché per quanto smaltivo, inevitabilmente arrivava altro.
Non era stata una buona giornata.
Occhieggiò la pendola di fronte alla sua scrivania e constatò sconfortato come anche quel giorno avesse accumulato ore di lavoro in più. Non che avesse importanza nel dedalo dipinto di bianco che era diventato la sua seconda casa. Gli orari erano flessibili, quanto erano inflessibili coloro che li redigevano.
E che importanza ha se Michel Zabini, funzionario di terzo livello, rimane oltre l’orario d’ufficio?
Nessuna.
Avere quel posto di lavoro era stato facile, certo. Era bastato avere la raccomandazione giusta, nel suo caso incarnata nella persona di suo padre, Blaise Zabini, vice-direttore, a pari livello con Lord Draco.
Il problema era un altro: salire di grado. Per farlo si doveva sgomitare e calpestare e in generale, combattere con la sottigliezza delle parole.
Non che questo per me abbia mai rappresentato un problema. Non è questo il punto.
Alla sua entrata aveva progettato di compiere quel cursum honorum in cinque anni, ma quei cinque erano arrivati e stavano passando senza che nulla fosse cambiato.  
Non cambierà nulla finché mio padre si rifiuterà di perorare una mia promozione.
I motivi erano sempre i soliti.
‘Non sei ancora pronto, Michel. Abbi pazienza, fa’ esperienza. Sei giovane, hai tempo.’
Non sarò giovane per sempre … e comunque l’esperienza è solo una scusa.
Come se non l’avessi capito. Come se non sapessi perché ritieni sia giusto abbia una posizione di rilievo ma non abbastanza in alto da farmi notare.
È lo stesso, identico motivo per cui ho sempre e solo partecipato ai ricevimenti ufficiali al Ministero, gli unici in cui non potevi non portarmi.
Chiuse gli occhi, sentendo un principio di emicrania mandargli fitte lungo le tempie e la fronte; non vedeva l’ora di salire in superficie e respirare un po’ di aria fresca.
È giovedì. Giovedì vuol dire Londra babbana, Soho, discoteche. Ragazzi.
L’unica nota stonata di quella serata era il compleanno dei gemelli Finnigan, amici di Al, a cui avrebbe dovuto fare una comparsata. Per fortuna solo un paio d’ore, quelle sufficienti a prendere l’amico e portarlo verso una serata più stimolante.
Devo ricordarmi di avvertire Mael per dirgli che faremo tardi … Anche se troverà il modo di lamentarsi comunque.
Fece l’ennesimo sospiro e allungò la mano verso l’ennesima pratica.
“Ehilà!” 
La sua collega di stanza sfarfallò le ciglia chilometriche – dannato mascara magico, faceva più danni della grandine – quando Scorpius ‘Esaltato’ Malfoy entrò fornito di uniforme e sorriso abbagliante.
“Sy.” Lo salutò neutro. “Anche se hai un aspetto splendido devi comunque pulirti le scarpe dal fango della strada. Nessuna eccezione. Questo è un ufficio, non la stalla in cui lavori.”
“Sempre delizioso!” Sghignazzò, salutando poi con un cenno allegro e del tutto disinteressato la strega. “Salve Hilary.” Come riuscisse a ricordare il nome di ogni singola creatura incrociasse sul suo cammino per Michel sarebbe sempre rimasto un mistero. “Come sta tuo marito? Clint?”

Anche il marito. Notevole.
“Bene, caro, bene … Una tazza di the?”
Una sveltina? Morgana, donna, abbi un po’ di decenza.
“No, sono solo di passaggio, ti ringrazio.” Si sedette di fronte alla sua scrivania slacciandosi i primi bottoni dell’uniforme, ignorando del tutto l’occhiata lasciva che gli venne lanciata.
E non da me.
Era sconfortante notare come l’altro non calcolasse minimamente l’universo femminile da quando aveva avuto la disgraziata idea di accoppiarsi con la Weasley.
Sul serio? Eri un dongiovanni notevole, mio Sy, e ti sei trasformato in un devoto cagnolino…
“Con le tue doti da investigatore sopraffino avrai sicuramente dedotto che ho da fare.” Con la piuma indicò la mole minacciosa di carta pergamenata tra di loro. “Perché non vai a disturbare tuo padre? È a solo due uffici da qui.”
“Oh, lo sai com’è fatto, odia vedermi in uniforme. Gli ricorda che lavoro faccio.” Sorrise svagato afferrando la targa con il suo nome e facendola levitare con la bacchetta. “Che fai di bello? Andiamo a farci una birra? In questa bara bianca avete una caffetteria? E una mensa? Vendono Burrobirre?” Sparò in rapida successione.  

Scorpius.” Interagire con l’amico di infanzia era sempre stato come tentare di sedare un bambino strafatto di Piume di Zucchero. Ci voleva polso. Afferrò la targa e la rimise al suo posto. “Posso sapere il motivo della tua visita?”
L’altro fece una smorfietta. “Non sei mai contento quando ti vengo a trovare … Scommetto che se fossi il mini-Potter saresti molto più gentile.”
Michel provò il fortissimo impulso di conficcargli la punta della piuma nel bulbo oculare, ma si contenne egregiamente. “Scorpius.” Ripeté con un sorriso urbano lisciandosi il risvolto dei polsini. Odiava quando per l’irritazione finiva per sgualcirsi la giacca. “Ti posso assicurare che i miei anni come Capitano del Club dei Duellanti non sono finiti nel dimenticatoio quindi, a meno che tu non voglia uscire di qui privo di testicoli, ti consiglio di venire al sodo.”
L’altro gli lanciò un’occhiata attenta. “Oggi siamo di cattivo umore…”
“Felice che tu te ne sia reso conto.”
“Bastava dirlo subito!” Roteò gli occhi al cielo, tirando fuori dal mantello un plico di carta bollata. “Per te!”
Un altro.

Fantastico. Davvero fantastico.
“Dall’ufficio Auror. Mago americano, mago stecchito.” Snocciolò con disinvoltura, ma con un lampo nello sguardo che Michel registrò con curiosità. Era preoccupazione? Non dispiacere, Scorpius riusciva piuttosto bene a separare il lavoro dalle sue emozioni. 
Come tutti i Malfoy del resto. Lui è solo più rumoroso, tutto qui.
Sfogliò il rapporto sommariamente. Era scritto da cani, sia per via della grafia che per le tante cancellature da piuma correttiva. Fece una smorfia doverosamente disgustata prima di posarlo in cima alla pila. “Fammi indovinare, l’ha scritto Potter.”
“È già tanto che non ci si sia soffiato il naso!” Esclamò tutto allegro. “Vabbeh, facci sapere quando arriva l’agente americano per ficcanasare okay?”
“Procedure di cooperazione delicatissime riassunte in una sola, rozza frase. Complimenti Malfoy, sei diventato una testa di bacchetta a tutti gli effetti.”
“Grazie!” Si alzò in piedi, battendo le nocche sulla scrivania. “Mi raccomando Mike, è prioritario.” Soggiunse mentre la sfumatura del sorriso cambiava. Vi lesse un’implicita raccomandazione e maledì la facilità con cui quella ridicola accozzaglia di bestioni in mantello rosso si muoveva tra le maglie della giustizia magica.

Il loro occhialuto capo in primis. Lord Malfoy ha ragione ad odiarlo a morte.
Calpestano le regole come una mandria di Centauri, e noi della Cooperazione dobbiamo aggiustare i cocci. O, preventivamente, cercare di non farglieli rompere.  
“So benissimo come funziona.” Replicò acido con l’emicrania che ormai pulsava a ritmo della sua irritazione.
Era in giorni come quello che Hogwarts gli mancava terribilmente: la spensieratezza, le lezioni semplici, e la lontananza da qualsivoglia decisione o responsabilità.
Incredibile come in un posto che esigeva l’uniforme e l’uniformità di pensiero mi sentissi più libero che qui, come adulto.
“Ehi Mike…” L’espressione di Scorpius si era fatta seria. Era sempre strano vederlo senza uno sciocco sorriso stampato in faccia. “Va tutto bene? Hai una faccia…”
“Sì, certo.” Solo uno come Malfoy poteva fare domande del genere sul posto di lavoro e pensare di ottenere una risposta sincera. “Andrebbe ancor meglio se mi lasciassi tornare ai miei compiti.”
L’altro fece una smorfia. “Okay, umore pessimo, ricevuto.” Sorrise di nuovo, perché era Sy e non poteva farne a meno. “Ti vediamo stasera al Finnigan’s?”
“Certo.” Sorrise suo malgrado. Nonostante si stesse trasformando in un cavernicolo privo di cervello il ragazzo di fronte a lui rimaneva comunque la prima persona che gli era stata amica, per quanto imposta dal volere genitoriale.

Ma nessuno mi ha imposto di essergli amico sul serio.
“Vedi di non sparire subito però!” Soggiunse. “Violet non ti vede da mesi, mi ha detto, e stasera ci sarà. Abitare tutti e due a Londra, com’è possibile che non riusciate mai a beccarvi per un drink?”
Perchè dovremo? Non credo gli manchi qualcuno con cui trascorrere del tempo.  

Non manca a lei, come non manca a te, ad Albus o chiunque altro delle persone che conosco a parte Loki.
Non che Loki sia un tipo da relazione stabile … e non che lo sia io.
“Va bene, ora va’ o rischi di non vedermi davvero stasera.” Lo scacciò con un cenno della mano. L’altro ridacchiò, guardandolo con aperto affetto. Si sentiva meschino quando lo guardava così, perché era in momenti come quello che lo detestava.
Ha un lavoro che ama, è felice della posizione che ricopre e sta per sposarsi. E vuole sposarsi.
Come ci riesce?
Era quel genere di domanda a cui uno come lui non avrebbe mai avuto risposta.
 
****
 
Londra, Diagon Alley
Appartamento di Albus Severus Potter e Thomas Dursley
 
“Ah, sei qui!”
Non pervenne risposta, ma Al sapeva benissimo che la testa nera che spuntava dal divano Chesterfield era quella di Thomas Dursley, al secolo Tom, suo ragazzo e divoratore estremo di libri vista la pila nutrita posizionata pericolosamente sul bracciolo.
Varcò il piccolo ingresso che faceva ambiente unico con il salotto, liberandosi della tracolla e del mantello. Era stata una giornata relativamente buona. Pochi pazienti e Smeth si era limitato a cercare di metterlo in difficoltà con una raffica di domande su un caso anomalo di Nausea da Smaterializzazione.

Certo potrebbe anche cominciare a realizzare che non sono un raccomandato… Sono due anni che lavoro sotto di lui!
Diede una carezza distratta a Zorba, il gatto di casa, che oltre ad esibire un muso schiacciato – secondo la strega che glielo aveva venduto, una certa Figg, era un mezzo Kneazle – aveva una fedeltà devota al suo coinquilino che si manifestava nel stargli sempre nelle immediate vicinanze. Quasi a sposare quel suo pensiero il felino saltò in grembo al suddetto che si limitò ad una carezza distratta in cambio di fusa appassionate.
L’altro gatto di casa. Il capobranco.
“Hai staccato prima?” Tentò di nuovo, ottenendo stavolta una specie di brontolio. Vista che la conversazione non partiva Albus si spostò in cucina e mise il bollitore per il the, togliendo dalla dispensa pane e roast-beef per un pasto leggero in previsione dell’abbuffata alcolica al Finnigan’s. Tornò poi in salotto, controllando che il lucernario che dava luminosità all’intero ambiente fosse chiuso: sia lui che Tom lo dimenticavano sempre aperto, con il rischio di allagare la casa negli infiniti giorni di pioggia che bagnavano la gloriosa terra d’Albione.
E ora vediamo di farsi dar udienza.
Gli si piazzò di fronte e notò che la sopracciglia dell’altro si aggrottarono di colpo.
“Che leggi?”
“Studio.” Fu l’irritata precisazione. “Ciao.” Aggiunse vinto.
Al sorrise, calciando via le scarpe e aggirando il divano. Si chinò sullo schienale e baciò la testa ordinata dell’altro, inspirando odore di cera per bacchette e shampoo. “Guarda che finirai per diventare cieco.”
Questo alzò la testa, rivolgendogli un’occhiata spassionata. “Ti sono passati i pidocchi?”
Al frenò l’impulso di tirargli uno schiaffo sulla nuca. “Se sei steso sul divano, teoricamente infestato dato che ci ho dormito per una settimana, deduco che non te ne importi granché.”
“Ho letto qualcosa in merito.” Stese un sorrisetto deliziosamente stronzo. “A quanto pare è rarissimo che si attacchino ai maghi. La tua solita sfortuna, Potter?”

“Stronzo.” Trovò giusto notificare, anche se accettò di buon grado lo strattone che diede alla sua maglietta e il bacio lento e languido con cui finalmente gli diede il benvenuto a casa. Sentiva il pizzetto dell’altro – geometrico, non poteva esser diversamente – pungergli il mento ma era piuttosto piacevole – almeno sul viso.
Mmh. Si però in questa posizione rischio di slogarmi una vertebra…
Si tirò indietro, ignorando l’occhiata scontenta che gli venne rivolta. “Dai, chiudi quel libro e vieni a mangiare. Tra mezz’ora dobbiamo essere al Finnigan’s!”
Tom si adombrò, mettendo su una smorfia che poteva essere solo classificata come broncio. Davvero non capiva come Rose e gli altri la considerassero inquietante. “Ti ho già detto che non ci vengo.”
“Ed io ti ho già detto che non hai scelta. È il compleanno dei gemelli e ti hanno invitato. E poi stasera suona il gruppo di Meike, non vuoi farla rimaner male, vero?”
“Meike e Louis hanno in programma di fare almeno altri dieci concerti entro la fine dell’estate. Non posso partecipare a tutti e lei lo sa.” Fu la preparatissima risposta. Avrebbe dovuto immaginare che si fosse già messo d’accordo con l’altra per mettersi al riparo da eventuali recriminazioni. Dopotutto la piccola tedesca, ormai quasi sedicenne, passava la maggior parte delle sue vacanze estive nella loro camera per gli ospiti, tranne Luglio, mese dedicato a Putgarten e a sua nonna Cordula.

Mi hanno battuto sul tempo… Del resto, che dovevo aspettarmi da due serpeverde?
“Abitiamo a due case di distanza dal locale.” Tentò di nuovo.
“E quindi?” Si sistemò meglio sul divano, con calcolata indolenza. “Tu comunque lascerai la festa a metà serata per andar dietro a Zabini.”
“Non vado dietro…” Sospirò, arrendendosi all’evidenza che la gelosia del suo ragazzo sarebbe sempre stata parte integrante del loro rapporto. Doveva ammettere che si conteneva, per quanto poteva.

Ma sulle uscite serali con Mike proprio non riesce a frenarsi…
“Guarda che vado solo a fargli compagnia e a ballare. E poi c’è anche Mael.”
“Ovvero il suo amichetto.” Ritorse con un sorrisetto sarcastico. “Uno dei tanti, per giunta.”
“Tom…”
“Dovrei esser contento che ogni giovedì torni a casa ad orari impossibili perché vai in giro con lui e i suoi compagni di letto?” Si tirò a sedere di scatto cacciando così il gatto che si lamentò con un miagolio ugualmente infastidito. Andavano in risonanza, quei due.

Al guardò il proprio ragazzo; non riusciva a capire come  potesse esser geloso – e quindi insicuro - e al tempo stesso estremamente consapevole del proprio fascino.  Persino con un maglione di un colore smorto e in pantaloni scuri riusciva ad essere più affascinante di un modello di StregaOggi.
E non si sforza nemmeno, lo stronzo. Di mattina già è fighissimo, mentre io sembro una specie di ameba con gli occhi gonfi e i capelli a covone di paglia…
Sua attestazione questa.
“Prima di tutto, Mael è anche amico mio.” Si sedette sul ciglio del divano, passandogli una mano sul fianco e subendo paziente lo schiaffo con cui venne allontanata. “… secondo, mi piace ballare e tu lo detesti. Con chi altro potrei andare?”
“Con Lily, per esempio.”
“Con Lily non posso andare per locali gay.” Inarcò le sopracciglia. “Cioè potrei, ma sai quanto è ingestibile. Sarebbe proprio un bel divertimento passare la serata starle dietro!”

“Almeno non dovresti preoccuparti di vederla sparire in bagno in compagnia di qualcuno.” Replicò evitando una cuscinata con un movimento allenato della testa. “Va bene.” Concesse infine. “Verrò alla festa. Ma torni a casa con me.”
“Non posso … lo sai che mi sono già impegnato con Mike.” Gli prese la mano, intrecciandola forzosamente alla sua visto che veniva divincolata come un’anguilla. “Ascolta, sta passando un periodaccio al Ministero e il lavoro lo stressa molto. Ha bisogno di qualcuno con cui parlare.”

“Compagni di letto?” Suggerì ironico. “Servono a questo, no?”
“Servono ad altro.” Replicò con un sorriso stanco. Per Mike i ragazzi con cui faceva sesso erano poco più di una valvola di sfogo di natura idraulica. Era esasperante e allo stesso tempo tenero l’incapacità di Tom di considerare l’intimità con qualcuno inscindibile dalla confidenza.
Non è affatto così nella maggior parte dei casi. Noi siamo fortunati.
L’altro fece una smorfia. “Se non gli piace la vita che fa, la cambi.”
Al sospirò: Tom non poteva capire visto che aveva scelto senza interferenze come entrare nell’età adulta, diventando l’Apprendista di Rupert Stevens, uno dei pochi Fabbricanti di Bacchette ancora operante in Gran Bretagna.
Ha scelto, ecco il verbo. Mike ha sempre saputo che avrebbe lavorato con suo padre, fin da quando era un bambino. È quello che ha sempre voluto, ma credo che la realtà attuale sia un po’ diversa da come se l’era immaginata.
Molto.
“Come sta Rupert?” Cambiò discorso e alla faccia scocciata dell’altro scoppiò a ridere. “Dai, si chiama così. Sei stato tu a non chiederglielo mai, poverino!”
“È evidente che preferisca esser chiamato per cognome.” Replicò pieno di sussiego e quindi imbarazzato. “Sta bene, comunque. Abbiamo in pendenza un ordine da cinquanta bacchette per Brooke.” Comunicò con una punta di sadismo dato che il povero negoziante era perennemente alla loro porta in attesa di ordini che nel migliore dei casi arrivavano in ritardo di mesi.

Poveraccio, avrà pensato che con un Apprendista la bottega avrebbe migliorato la velocità del servizio … Invece da quando c’è Tom è addirittura peggiorata. È già tanto se da là esce fuori una bacchetta al mese.
Gli accarezzò il fianco sotto il maglione. C’era pelle nuda dato che l’estate stava cominciando finalmente a scaldare Londra. Stavolta non si beccò neppure uno schiaffo o un pizzicotto. “Siete due irresponsabili.” Ridacchiò. “Un giorno o l’altro Brooke deciderà di rivolgersi a qualcun altro.”
“Già lo fa, ma le nostre bacchette sono le migliori. Le vende a peso d’oro e ci guadagna il doppio.” Fu la risposta. “Per legni dozzinali sa che deve rivolgersi a Kiddell¹.”

Albus non ribatté perché sotto sotto era felicissimo che il suo ragazzo avesse trovato un mentore – checché ne dicesse, questo Rupert Stevens era per lui. I gemelli Finnigan gli avevano raccontato di averli visti più volte passeggiare per Diagon Alley immersi in conversazioni di cui si evinceva a stento qualche parola.
Almeno un mago adulto, oltre a papà e zia Hermione, che ha la sua stima e fiducia… Non male.
Si chinò su di lui. “Allora, vieni? Per favore?” Gli chiese schioccandogli un lieve bacio sull’angolo delle labbra. Si era di nuovo abbuffato di marmellata di mirtilli, a giudicare dal sapore.
Ah, ecco perché non ha fame… Lui e la sua dieta sballata a base di marmellata, caffè, the e qualche biscotto.
“Solo se posso andarmene prima del tempo.” Rispose passandogli un braccio attorno alla vita e premendoselo contro. “E solo se saltiamo la cena per fare qualcosa di più interessante.” Ad Al non ci volle molto per capire cosa intendesse, non stretto a quel modo.
Sei un Guaritore … devi evitare che l’idiota svenga per aver saltato i pasti principali.

Certo che però se ha tanta vitalità da certe parti, tanto debole non dev’essere…
“Smettila di fare l’educanda coscienziosa.” Gli venne sussurrato all’orecchio, in un tono basso e vibrante che gli mandava scariche di eccitazione dalla colonna vertebrale fino all’inguine.
Sempre, da sempre e per sempre.
“Accidenti a te… Non so neanche cosa sia un’educanda, ma so che è un insulto.” Mugugnò facendolo ridacchiare. “È colpa delle tue fobie da igienista se è una settimana che…”
“Posso rimediare?” Gli passò le dita lungo il fondoschiena e lo fece scivolare a cavalcioni. Al non si lamentò della posizione, come non avrebbe fatto nessun ragazzo gay sano di mente.

“Vedi di rimediare come si deve.” Ci pensò. “Se svieni dalla fame però ti ammazzo.”
“Prendo nota.”


****
 
Londra, Diagon Alley.
Pub dei gemelli. Sera.

 
Lily adorava il Finnigan’s Wake.
Era un pub irlandese e per quanto magico,c’era molto delle radici babbane dei due proprietari. Dalla tv a schermo piatto che trasmetteva partite di calci e rugby – sport amatissimi da Fergus – alle selezioni di alcolici, che variavano da birre stout a Burrobirre aromatizzate.
Era un buon posto in cui passare la sera. Un posto dove eri sempre certa di trovare un viso amico e una consumazione gratis, dove la musica non si fermava neppure con l’avvicinarsi dell’orario di chiusura.
In parole povere, era diventato il ritrovo ufficiale della gioventù magica londinese. Una gioventù nata dopo la guerra, che aveva voglia di divertirsi ed era curiosa del limitrofo mondo Babbano.
Oscillare tra moda babbana e tradizioni magiche come faceva il Finnigan’s era diventato quindi un must, e non era quindi strano trovare chi rispondeva al cellulare mentre scriveva un messaggio sul proprio Specchio Comunicante. Le tuniche erano sparite, in favore di jeans, tacchi e scarpe da ginnastica ed era ormai raro trovare qualcuno che non conoscesse gli Stones o le ultime tendenze in fatto di London look.
A Lily quel mondo fuori dall’universo ristretto di Hogwarts piaceva; a volte le mancava l’aria pulita delle montagne scozzesi, ma certo non ne rimpiangeva l’isolamento e la mancanza di divertimenti.
Sedendosi su uno degli sgabelli del bancone salutò con un sorriso Gail, affaccendata a preparare un cocktail. “Gail!” La salutò. “Sono la prima ad arrivare?”
“Sono tutti nell’altra sala … Lou e il suo gruppo stanno montando gli strumenti.” Le rispose sporgendosi per baciarle la guancia. “Ti faccio il solito?”
“Stasera voglio stare leggera, una Burrobirra.” Stornò facendo scattare la borsetta e tirando fuori lo specchietto per darsi un’occhiata sommaria. Gli incantesimo di Trucco Ventiquattrore erano una manna dal Cielo. “Comunque non dovresti essere a festeggiare?”  

L’amica si raccolse i voluminosi capelli ricci con un elastico che portava al polso in caso d’emergenza. “Sì, certo, ora lascio tutto a Stella.” Una delle cameriere. “È che ci tengo a servire almeno…”
“Guarda che vengo là dietro!” La minacciò facendola ridere. “Dico sul serio!”
“Arrivo!” Le assicurò senza tuttavia smettere di rimestare in zona preparazione drink. “Tu va’ avanti … Tra parentesi tuo fratello ha già chiesto due volte di te.”
“Scommetto Al.” Alzò gli occhi al cielo. “Ce l’ha nel sangue questa cosa di fare la chioccia.”

“Vorrei avere io due fratelli come i tuoi.” Sbuffò occhieggiando verso la sala con aria tra il rassegnato e l’esasperato. “Invece mi ritrovo quello scansafatiche di Gus. E devo pure festeggiare con lui!”
“Meglio scansafatiche che stalker.” Scrollò le spalle. “Ci manca solo che Jamie cominci a pedinarmi e poi siamo a posto.”
“Ora che sei una donna impegnata non si sono un po’ rasserenati?” La prese in giro.

Lily sorrise, scuotendo la testa e prendendo la Burrobirra che l’altra le porgeva. “Penso che rimarrò sempre una cinquenne incapace ai loro occhi. Persino papà si fa meno fisime!”
“Il dramma dei fratelli maggiori…” Scosse la testa. “Comunque pensavo venissi con Scott.”
“Difficile quando lui vive nel Somerset ed io nel Devon. È già arrivato?”
“Certo, sei l’ultima, come al solito.” Le strizzò l’occhio divertita. “Stavolta ti sei contenuta però, solo mezz’ora di ritardo!”
“Ah, la Metropolvere!” Replicò con la disinvoltura di anni di menzogne innocue. “Comunque ricevuto, scappo di là, ma non senza di te.”
“Finito!” Aprì il bancone e la prese confidenzialmente a braccetto. Poteva, perché era davvero una delle poche depositarie delle sue confidenze. Un’amica vera, per capirsi. Sentiva ancora Aimee e Jane, le due corvonero con cui aveva trascorso gli anni scolastici, ma i rapporti si erano molto raffreddati dopo il suo personalissimo e apocalittico Quinto Anno.

Si sono legate al dito il fatto che non abbia voluto raccontar loro per filo e per segno cosa mi era successo. Carino da parte loro.
Abigail al contrario non aveva mai preteso, né fatto una singola domanda. Si era solo assicurata di starle vicino quando ce n’era bisogno e dal suo punto di vista questo l’aveva resa più preziosa del milione di attestazioni di accorata amicizia che le eran state rivolte dalle due.
“Buon compleanno, Galway girl.” Le sorrise stringendo appena la presa. “Stasera Lou te la canterà come se non ci fosse un domani!”
“È un ragazzino.” Sbuffò l’altra arrossendo però sulle guance. Il fascino Veela dell’appena diciottenne era un dato di fatto che nessuna strega poteva negare. “E poi lo sai come se la prende Hugo.”
“Oh, lo so … il ramo geloso di zio Ron è tutto suo. Ma a ben pensarci anche Rosie… Voglio dire, ti ricordi la festa di Natale dell’anno scorso? Quando è venuta alle mani con quella ragazza di Manchester che pretendeva un bacio sotto il vischio da Malfoy?”
Gail convenne con una risatina. “Abbiamo dovuto separarle io e Hugo. Poverino, si è anche preso una fattura!”

“Oh, ma ha avuto un’infermiera sollecita…”
“Ma smettila!” Esclamò non riuscendo a nascondere un sorriso complice. Dopo cinque anni di tira e molla estenuanti alla fine quel tordo di suo cugino aveva imbroccato la strada giusta per il cuore dell’amica e Lily doveva ammettere che formavano una coppia carina, per quanto inusuale.

Lei così concreta e lui sempre con la testa tra le nuvole … Però funzionano.
Immerse nella conversazione, lei e Gail entrarono così nella seconda e ultima sala del locale; era più grande e illuminata rispetto alla prima grazie all’illuminazione elettrica – l’impianto l’aveva montato Hugo. In fondo, davanti ad una parete coperta di vetrate colorate, c’era il palco, una semplice e spartana pedana rialzata.
La sala era già piena, constatò Lily, intravedendo tra la selva di teste multicolore la sagoma familiare dei fratelli e quella alta e allampanata di Tom, l’uomo capace di vestirsi solo in colori cimiteriali. In fondo Louis, Meike e il loro batterista stavano facendo il sound-check. I Banshees, ufficialmente fondati dall’anglo-francese erano stati invece ufficiosamente portati alla ribalta dalla tedesca che da brava serpeverde – ricordava ancora il trionfo dipinto sul volto di Tom alla notizia dello Smistamento, anni prima – era riuscita a toglierli dalla massa di gruppetti amatoriali e fin troppo legati al wrock per farli approdare fino alle frequenze di Radio Strega Network.
È venuto fuori che fare canzoni che parlano d’amore invece che di pozioni e calderoni paga molto di più.
Del resto chi meglio di una ragazza nata e cresciuta con i Babbani può saperlo?
Senza contare tutta l’influenza di quell’autistico musicale di Tommy…
“Scott dovrebbe essere qui in giro.” La avvertì Gail prima di fare un sorriso luminoso ad Hugo venuto ad accoglierle come al solito spettinatissimo e dall’aria imbronciata.
“Ohi, stavo per venire a prenderti, stanno per iniziare.” Borbottò facendo un cenno anche a lei.
“Ci ho pensato io a portartela Gogo, contento?” Ghignò facendolo arrossire mentre scoccava un bacio impacciato alla propria ragazza. “Falla divertire stasera e soprattutto tienila lontana dal bancone, a meno che non sia per versarsi da bere!”
“Lils!” Rise questa dandole una spintarella. “Va’ a cercare il tuo ragazzo prima di combinare qualche guaio!”
“Oh, come se cambiasse la solfa!”

 
“Beh, spero proprio che la cambi!”

Lily si voltò in direzione della voce maschile che l’aveva richiamata all’ordine. Sorrise al giovane uomo in maglione e camicia che le sorrideva di rimando.

“Chi è questo esempio fulgido di bravo ragazzo?” Replicò scherzosa. “Aspetta, mi è familiare…”
Questo inarcò le sopracciglia. “Ti do un indizio, è il ragazzo che ti chiederà di ballare stasera.” Replicò avvicinandolesi e passandole le mani attorno alla vita.

Scott Ross. Il mio ragazzo.
Si alzò in punta di piedi per baciarlo languidamente. Le piaceva come ogni volta l’altro facesse del suo meglio per chinarsi data la differenza d’altezza.
Oh, ci sono molte cose che mi piacciono di lui…  
“Buonasera.” Lo salutò passandogli le mani lungo le spalle. “Mi hai aspettato molto?”
“Il tempo di un paio di birre e un po’ di minacce da parte di tuo fratello. James ovviamente.” Fu la replica pacata. “Il solito direi.”
Lily alzò gli occhi al cielo: per quanto Scott incarnasse le qualità più nobili di un mago (era stato persino un tassorosso come Teddy!) suo fratello maggiore non perdeva l’occasione per investirlo di frecciatine.

Lo frequento da sei mesi e son sei mesi che porta sfiga perché ci molliamo.
“Ho preso un tavolo e spero non ti dispiacerà se è lontano da quello dei tuoi fratelli.” La prese per mano e la riparò da un’orda di amici di Gus in cerca di sistemazione. “Senza offesa, ma mi danno angoscia.”
“Nessuna intesa ed hai fatto benissimo. Andrò a salutarli dopo.”
Scott era il suo ragazzo. Lo era sul serio anche se era la prima a trovare quella situazione sorprendente. Aveva passato cinque anni senza un solo legame e nessuna delle sue storielle era sopravvissuta a qualche settimana. Poi era arrivato Scott. Scott che, come urlavano nome e cognome, era scozzese dalla punta delle scarpe fino a quella dei capelli castano-rossicci. Scott che aveva un accento adorabile e che le ricordava terribilmente la professoressa McGrannitt, di cui peraltro era nipote alla lontana.

“Burrobirra?” Le chiese strappandola ai suoi pensieri. “Zenzero, cannella?”
“Zenzero.” Decise distratta. “È questo il punto in cui dovrei chiederti com’è andata al lavoro?”

L’altro ridacchiò facendo guizzare gli occhi chiari. Aveva sempre l’aria di un bambino quando era divertito. “Immagino che dovrei risponderti nulla di nuovo. La vita di un archivista del Ministero non è piena d’emozioni, il massimo che può accadermi è che mi cada in testa una scansia.”
“Molto sexy.” Gli assicurò con aria serissima, facendolo ridere di nuovo. “Zenzero comunque.”
“Arriva!” Replicò alzandosi in piedi e inserendosi nella calca.

L’aveva conosciuto proprio grazie alla vecchia professoressa. Minerva – ehi, aveva il suo consenso a chiamarla per nome – aveva concluso l’anno scolastico come promesso ma poi era tornata a casa, nella sua sperduta Caithness.
Lei non l’aveva dimenticata. Non aveva potuto quando la donna aveva passato il suo anno di supplenza a vigilare su di lei nel pre e sopratutto nel post.  

Ero proprio incasinata in quel periodo…
Ritornare ad Hogwarts dopo gli eventi trascorsi era stato tremendo. Si era sentita smarrita, confusa e soprattutto arrabbiata perché tutti sembravano vivere una vita aliena alla sua – Tom aveva fatto del suo meglio per starle vicino come promesso, ma era Tom. Minerva l’aveva aiutata, anche solo chiamandola nel suo ufficio per offrirle una tazza di the e dei biscotti di tanto in tanto.
Però sempre quando la notte prima l’avevo passata a fissare il soffitto per paura di addormentarmi.
Quando se n’era andata per far posto ad una nuova, giovane insegnante di Trasfigurazione, Lily non aveva fatto trascorrere molto tempo prima di scriverle e ancor meno per andare a trovarla.
Se le prime volte l’anziana strega si era lamentata delle sue improvvisate, alla fine si era rassegnata ad averla per casa nel fine settimana dedicato ad Hogsmeade.
E sotto sotto son convinta che sia stata felice di ricevermi … Checché brontolasse.
Era durante una delle visite a Minerva che aveva incontrato Scott, allora appena entrato al Ministero dopo un periodo trascorso da parenti in Australia. 
Non era stato amore a prima vista, né alla seconda. In effetti la loro storia aveva avuto una progressione piuttosto classica: partita con un caffè era proseguita con un paio di cene e la visione di una rassegna cinematografica sull’Asia – il cinema era una passione che condividevano entrambi.
Scott aveva tentato la prima mossa solo dopo aver chiarito le sue intenzioni, con una decisione così serafica che Lily non aveva semplicemente potuto dire di no.
Se gli avessi detto di no l’avrebbe accettato. Avrebbe continuato tranquillamente ad essere mio amico.
Niente complicazioni. Me l’ha solo chiesto per sapere se era possibile.
Era stato questo a conquistarla.
Scott era pulito. Non aveva mai dovuto usare il suo essere LeNa con lui, perché le bastava guardarlo per capire cosa gli passava per la testa.  
E poi ha un gran bel sedere.
Per questo quella storia si declinava in mesi e non in settimane.
Sentì il ragazzo tornare e baciarle la sommità della testa. “Ecco qua.” Le porse la Burrobirra bollente. “A te invece com’è andata?”
“Sono stata da Frank e Alice, per quanto Gilderoy mi permettesse di parlar con loro…” Sbuffò divertita. Una visita al reparto Thickley era parte integrante della sua routine universitaria, studiando Psicomagia.
“Non ha tutti i torti ad esser geloso delle attenzioni di una bella ragazza.” Le strizzò l’occhio. “Sei o non sei la sua preferita, tra le studentesse?”
“È ovvio, sarà pure senza memoria, ma ha buon gusto!” Risero insieme prima di scambiarsi un doveroso e gustoso bacio.

Scott si staccò, occhieggiando il palco quando udì le prime note. Era un fan piuttosto accanito della nuova corrente musicale magica che andava sotto il nome di Brock – banalmente, Rock Babbano – rappresentata dai Banshees e altri gruppi sui generis.  
 
When we were younger we thought everyone was on our side
Then we grew a little bit and romanticized the time I saw flowers in your hair

 
Lily si perse con piacere nelle melodie semplici ma accattivanti– nonostante il nome minaccioso, facevano musica essenzialmente romantica. Louis aveva una bella voce e quando cantava quel suo buffo accento francese spariva del tutto. Ricambiò l’occhiolino di Meike, che data la versione acustica del brano suonava il violoncello, e poi si guardò attorno. Riconobbe nella folla un paio di visi conosciuti e rise dell’aria palesemente frustrata di Tom, costretto a dividere il tavolo con Al e Zabini.
Era una buona, tranquilla serata.
 
“Jamie, potresti smetterla di guardare male Scott? Lo metti a disagio!”
Il suo ragazzo fece una smorfia maledettamente incline al broncio, incrociando le braccia al petto. “Tanto mica mi vede … si è nascosto tra la folla, quel furbo!”
“Non si è nascosto, sta cercando di evitare il conflitto.” Sospirò con uno dei suoi sospiri più pazienti. “Più che furbo lo definirei ragionevole.”
“Voi di Tassorosso fate sempre comunella!”
Il quasi-ormai-trentenne Ted Lupin fece un lieve sorriso, ormai vinto all’evidenza che la persona con cui divideva casa e vita era irragionevole come un mulo, e come tale andava dunque trattato.

Carota, più che bastone…
Gli accarezzò una gamba, conciliante. “Non è questione di essere stato un tassorosso.” Anche se certo, era un’incidenza curiosa. “Il punto è che fa bene a Lily e non puoi negarlo. Da quando si frequenta con lui si è molto tranquillizzata.”
James sbuffò, limitandosi a bere un sorso consistente della sua Tennent’s, birra babbana recentemente eletta nell’Olimpo delle preferite.

Non può negarlo perché l’evidenza è sotto gli occhi, sollevati, di tutti.
Lily aveva trascorso quattro anni e mezzo piuttosto turbolenti. Per eufemizzare.
I ragazzi, le feste, il letto perennemente vuoto durante le vacanze estive … Quel viaggio folle in Brasile per i suoi diciassette anni … quanto si sono preoccupati Harry e Ginny!
La più piccola dei Potter era sempre stata affascinata dall’infrangere la routine, ma dopo quel Quinto anno la sua vena ribelle era deflagrata, e solo grazie alle pressioni congiunte degli amici e genitori era riuscita a prendere i MAGO.
Meno male, perché altrimenti avrebbe seguito quel tipo italiano conosciuto ad Hogsmeade. Un pittore di dieci anni più grande di lei del tutto intenzionato a portarla a Roma e farne la sua Musa.
Zio Harry stava per avere un infarto.
Poi nella sua vita era entrato Scott, poco più grande, dalla nutrita cultura e equilibrato. Un Perfetto Bravo Ragazzo che sembrava non avere un solo scheletro nell’armadio.
Nessuno avrebbe scommesso uno zellino su di lui. Troppo tranquillo per i gusti di Lily, e invece…
Non solo si erano messi assieme, ma la ragazza l’aveva addirittura portato in famiglia. Lentamente, ma con costanza, la compagnia del giovane scozzese la stava facendo tornare ad essere la persona spensierata che era stata prima del suo rapimento.
Noi bravi ragazzi siamo terapeutici.
“Cos’hai da sorridere?” Lo scrollò James che a quanto pareva non stava ascoltando la musica come sembrava. “Tutto soddisfatto poi!”
“Niente, niente… Pensieri tranquillizzanti.” Bevve la sua tazza di the con totale dignità nonostante attorno a lui scorressero fiumi di alcool.

Sono troppo grande per continuare a sentirmi inadeguato. Decisamente.
“Giornata buona ad Hogwarts, eh?” Replicò l’altro, fraintendendo. Non se la sentì di smentirlo e si limitò quindi ad annuire. “Beato te, io oggi ho avuto una giornata di merda!”
“Ho saputo da Scorpius di quel mago oscuro…” Convenne ricordando il motivo per cui aveva supplicato il Professor Finch-Fletchley di sostituirlo quella sera. “Ero preoccupato. Perché non mi hai mandato un Gufo?”
James fece una smorfia insofferente. “Per dirti cosa? Piuttosto Malfuretto dovrebbe imparare a tener chiuso quel calderone che ha al posto della bocca…” Borbottò lanciando un’occhiata di fuoco al suddetto seduto al tavolo a fianco. Era preso a cantare a gola spiegata sotto lo sguardo divertito della propria fidanzata e di Dominique e di Violet, ma quando James si voltò squadernò fulmineo una linguaccia e Ted dovette frenarsi dal sorridere.

“Sì, però…” Tentò recuperando contegno.
“Dai, Teddy, è la roba per cui mi danno la paga a fine mese! Si è trattato di un mago che ha pisciato fuori dal vaso e che per questo è morto. Tutto qua. Non si è fatto male nessuno!”
Ted si mordicchiò appena il labbro ma lasciò perdere. James non aveva tutti i torti, tuttavia la facilità con cui parlava di morte lo metteva a disagio.

Io non sono diventato Auror proprio per questo … Non sarei riuscito a veder morto nessuno, neppure per salvarmi la vita.
“Capisco.” Si limitò a dire. “Verrà aperta un’indagine? Il mago era americano, no?”
James si strinse nelle spalle. “Già, ed è un casino perché ci troveremo sia quei rompipalle di Cooperazione sia gli americani trai piedi.” Vuotò la propria birra e si dedicò a strapparne l’etichetta lanciandogli un’occhiata imbarazzata. “Però sai che non te ne dovrei parlare … Sono indagini ufficiali.”
“Lo so, è solo che…”

Mi preoccupo. Da morire. Specie perché so di cosa preoccuparmi.
Ed ho anche l’impressione che Scorpius non mi abbia raccontato tutto.
L’altro si sporse nella sua direzione, sia per sentirlo meglio – sapeva di aver borbottato – sia per cingergli le spalle con un braccio. “Qual è il problema mio Teddy?” Gli sorrise. “Hai fatto anche tu questo lavoro … beh, quasi. Sai come funziona.”
“Certo, lo so.” Convenne. “Sta’ attento, okay?” Si risolse a raccomandargli un po’ inutilmente.
“Quello sempre!” James si sporse a baciarlo e Ted sentì la lingua allapparsi al gusto del malto della bocca dell’altro. Prolungò il bacio finché non si sentì risarcito dello spavento che si era preso.

James si staccò ridacchiando. “Ripensandoci, Malfuretto può raccontarti tutto quel che vuole, se il risultato è questo!” 
 
My minds not perfect but it's sincere
You'd be amazed at what you can achieve in some years
And I know you try so hard but your hearts on a switch

 
 
****
 
America, Massachusetts, Boston.
Sera.

 
Jay Massari era sempre stato il genere di mago non in regola. Non in regola con la famiglia, con la scuola, con gli affari. Soprattutto con gli affari.
Per questo quando si era ritrovato un cadavere in casa per colpa di quello psicopatico del suo socio aveva pensato bene di darsela a gambe con la sacrosanta intenzione di non far più ritorno.
Sfortunatamente non aveva messo in conto che i vicini avevano occhi e orecchie e lui non era esattamente quello che poteva essere definito un tipo sottile.
Quindi correre, correre verso il più vicino punto di materializzazione e lì urlare il nome di una qualsiasi città oltre il confine messicano.  Il piano era questo. Rozzo, ma efficace.
Il punto di materializzazione a West End² – qualsiasi bostoniano lo conosceva, era dietro il Garden, lo stadio dei Celtics – era ormai vicino e Jay già pregustava il sole e il sapore acidulo della cerveza che avrebbe trovato in Messico quando impattò a muso duro sull’asfalto. Le gambe avevano smesso di funzionargli, prese in un dannato incantesimo di Pastoia.
Solo le teste di latta lo usano! Merda!
Facendosi forza dei suoi riflessi diede un colpo di reni, si voltò e scaricò la maledizione peggiore che riuscì a pensare contro la figura scura che era apparsa sulla strada.
Lo stronzo mi si è Materializzato dietro!
Il lampo viola andò ad infrangersi in una miriade di schegge senza che sfiorasse neppure il suo aggressore.
“Arrenditi.” Per un attimo Jay rimase instupidito, notando come non ci fosse un solo punto di colore nei vestiti dell’altro. Ecco perché non l’aveva visto. Aveva lo stesso colore delle ombre del vicolo da cui era spuntato.
Oppure, semplicemente, è vestito di nero ed ha i capelli neri.
“Ehi stronzo!” Cercò di mantenere contegno, tentando di sciogliere l’incantesimo. Inutile, sembrava che le sue gambe fossero state prese nella morsa più stretta del mondo. “Se non sei della polizia molla il colpo!”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Sono della polizia.” Attestò, scoprendo un lato del trench per mostrargli il distintivo. Jay impallidì. Un’aquila che reggeva una bacchetta su uno sfondo pieno di frecce.

La SAGITTA? Questi tizi si occupano di maghi Oscuri. Oscuri sul serio! In che cazzo di casino mi ha infilato quel figlio di puttana?
“Ehi, ehi! Io non ne so niente di quel cada…”
“Ogni parola potrà essere usata contro di lei in sede di giudizio.” Lo interruppe il tizio, facendo scaturire dalla propria bacchetta una lama di luce che gli serrò i polsi. Manette magiche, quanto le odiava! “Le consiglio quindi di aspettare l’arrivo di un…” Si fermò, guardandolo con espressione vuota.

“Legale?” Gli suggerì, pensando fosse un completo idiota. Idiota sì, ma sufficientemente forte da tirarlo in piedi come se non pesasse nulla – e non era così. Gli sciolse la Pastoia alla gambe e lo afferrò sotto il gomito, nella classica presa da pulotto. 
“Legale, sì.” Convenne. “La prego di seguirmi.”
Sono stato fottuto da questo fesso?

Era umiliante. Però, se fosse stato abbastanza svelto di testa – che era evidente l’altro non lo fosse - forse sarebbe riuscito a seminarlo, manette o meno. A quelle avrebbe pensato dopo.
Fece qualche passo per convincerlo delle sue buone intenzioni e poi si voltò, tirandogli un calcio nello stomaco con tutte le proprie forze. L’agente, non aspettandoselo, si piegò in due con un lamento.
Grande Jay!
Scattò in direzione dell’agognata Passaporta, ma non fece che pochi centimetri prima di sentire una fortissima scarica di dolore alla schiena. Con orrore si accorse che adesso non solo aveva le gambe immobilizzate, ma anche il resto del corpo.
“Non mi piace ripetere le cose.” Lo informò la voce dell’agente, di colpo gelida come un bagno nel Charles a Capodanno. Jay sentì il sudore congelarglisi sulla schiena e pregò di non averlo fatto incazzare troppo, perché gli aveva arpionato il collo con una mano scaricandogli magia direttamente lungo la spina dorsale.
Magia senza bacchetta. Pulotti di merda, da quando la sanno usare?
Comunque. Qui finisce che passo il resto della mia vita a sbavarmi addosso!
“Mi … arrendo?” Biascicò. “Okay? Mi arrendo amico, sono tutto a tua disposizione!”
“Bene.” Gli lasciò il collo e si voltò in direzione di un repentino stridio di freni. Dalla sua posizione da statua greca Jay intuì soltanto che si era accostata un’auto. A giudicare dalle fusa del motore modificato sia magicamente che meccanicamente nel vicolo era appena entrata una Ford Crown Victoria. Usata sia dalla polizia Babbana che da quella magica – sebbene quest’ultima la usasse senza lampeggianti o colori riconoscibili – era il segnale universale che eri fottuto, ti avevano beccato.

E addio Messico.
Jay vide entrare nella sua visuale un giovane ispanico dall’aria agitata. Questo lo guardò e poi schioccò le labbra soddisfatto. “L’hai beccato, grande! Scusami guey³, ti avevo proprio perso per questi cazzo di vicoli!”
L’agente dalla presa mortale scosse la testa. “Agente Estevez.” Lo salutò formale. “Mi sono materializzato. Supponevo che il sospetto sarebbe venuto qui, era il punto di Materializzazione più vicino.”

Ma come minchia parla? Sembra un libro stampato!
“Già, ma ad arrivarci in macchina con il traffico che c’è a quest’ora … stasera giocano i Celtics, questa zona è un macello.” L’ispanico si rivolse poi a lui, lanciandogli un’occhiata sardonica. “Andiamo bello, si va a fare una chiacchierata in centrale. Gli hai letto i suoi diritti?” Non aspettò la risposta. “Certo che l’hai fatto … muoviamoci che non voglio perdermi la fine!”
Presa Mortale aggrottò le sopracciglia verso lo stadio. “I Celtics sono quelli che giocano con quel pallone arancione?”
Cosa?!
L’altro agente alzò gli occhi al cielo, quasi fosse abituato a sentirsi rivolgere domande simili.
“Prince, basket. Si chiama basket. Per tutte le streghe di Salem, voi europei!”
 
****
 
Note:

Dai, ci ho messo praticamente tutti!
(Credo)
Quindi, insomma, si entra ufficialmente nel primo capitolo di spero non moltissimi (meno di AUL, dai)
La canzone all’inizio del capitolo e alla fine della scena al Finnigan’s è questa, che volevo utilizzare da tipo un anno. Incarna l’Inghilterra magica e cazzara che mi immagino, ecco.
La canzone cantata dai Banshees ovviamente è una canzone vera e non inventata da me, ma di uno splendido piccolo gruppo chiamato The Lumineers. Eccola (tra l’altro rispecchia la formazione dei Banshees. Tra l’altro.)

Per chi vuole vedere il distintivo del SAGITTA (tutto sarà spiegato, promesso) è questo qua.
 
1.Kiddell: Altro fabbricante di bacchette, quest’ultimo, si suppone meno capace rispetto a Olivander in quanto nel libro nessuno dei personaggi ha una sua bacchetta. Tom la pensa allo stesso modo, pare.
2.West End: è un quartiere di Boston, delimitata da Cambridge Street a sud e dal fiume Charles a nord. La zona è molto conosciuta per lo stadio Boston Madison Square Garden (detto anche Garden) dove giocano le partite le squadre di hockey e basket locale.
2. Guey: letteralmente la versione di ‘dude’ (amico, fratello, tipo) in spagnolo/sudamericano.
 
Riguardo al cast dei volti, mi son fatta furba ed ho creato una cartella ad hoc su facebook. Questo link dovrebbe funzionare dopo avermi chiesto l’amicizia (specificate tramite messaggio privato chi siete!)
Altra curiosità: ho fatto una piccola mappa dei “luoghi magici”, un po’ curiosando sul Lexicon un po’ inventandomeli di sana pianta (nel caso dei miei, di sicuro). Volta per volta aggiungerò posti e strade che uso nella mia storia. Sì, sono idiota. Enjoy!

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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II

 
 

Some nights, I stay up cashing in my bad luck

Some nights, I call it a draw
Some nights, I wish that my lips could build a castle
Some nights I wish they'd just fall off
(Some Nights, Fun.)
 
 
16 Giugno 2028
America, Boston. Ufficio operativo del SAGITTA. Celle detentive.
Due del mattino.
 
 
“Ehi, aspettate! Ehi! Ho diritto ad un legale!”
La cella si richiuse con un clangore metallico dietro il sospetto del caso Ushowitz.

Enrique Estevez, al secolo semplicemente Rico e nonostante questo chiamato tenacemente Agente Estevez dal proprio partner e collega, fece una smorfia derisoria in direzione del mago al di là delle sbarre. “Non prima di domattina, gringo. Non vorrai tirar giù un onesto cittadino americano come un Magi-avvocato a quest’ora di notte? Fatti una bella dormita … e attento ai topi! Qua sotto ne siamo pieni!” Sghignazzò allegro all’aria orripilata di quest’ultimo.
“Agente Estevez.” Lo richiamò all’ordine la figura sullo stipite della porta. “Andiamo?”
“Subito da te, guey.” Gli diede una pacca sulla spalla e si avviarono verso il vecchio ascensore cigolante che li avrebbe portato alla sezione operativi della Centrale – così chiamato per brevità il centro operativo del SAGITTA.
Il SAGITTA… Veloci come un dardo, silenziosi come lo scoccare di un arco.
Metà della sua numerosa famiglia non sapeva neanche pronunciarlo e l’altra metà non era certa di cosa facesse per contribuire all’ordine e alla sicurezza delle comunità magica nord-americana. Pure lui ne aveva sentito parlare per la prima volta all’Accademia di Polizia. Ma era normale: il SAGITTA era un ufficio giovane, formatosi solo cinque anni prima sotto il comando del loro attuale Capitano Eleanor Gillespie, una strega del Sud dai sani principi e la mano di ferro. Era nato sulle ceneri di una precedente task-force interamente dedicata ad una setta magica internazionale, tale Thule, che era stata smantellata proprio da quest’ultima e un pugno stretto di agenti oltre-Oceano.
Mentre prima qualsiasi crimine veniva seguito dalle forze ordinarie di polizia magica, adesso era la SAGITTA ad occuparsi specificatamente della feccia che si annidava nei lati più oscuri della Magia.
Ovviamente i casi complessi erano pochi, e non certo affidati ad agenti dalla bacchetta ancora fresca. A lui e Prince infatti rifilavano pendejos con un capo di accusa che oscillava dalla Maledizione all’uso improprio di manufatti oscuri.
Robetta come quella di oggi, insomma.
Tuttavia era orgoglioso di portare il distintivo della loro task-force, come di essere apostrofato, anche se in maniera ironica, come ‘arcere’.
E poi, poco da fare, era un lavoro figo: permetteva di girare tutta l’America senza aver bisogno di bolle speciali per Materializzarsi, per non parlare del budget per le spese di equipaggiamento, molto più alto che in altre unità.
Ehi, siamo il baluardo contro il male o qualcosa del genere. Dateci più Taler¹!
Perso nei suoi pensieri non si accorse che il collega fissava ostinatamente un punto di fronte a sé senza spiccicare parola. “Ohi, voi europei siete malinconici per natura o è solo il clima?”
“… Prego?”
“Sta’ allegro!” Gli diede una gomitata mentre l’ascensore si apriva di colpo con uno scossone. “Abbiamo appena arrestato se non un sospetto, almeno un uccellino che cantando ci porterà al vero colpevole!”
“Stavo pensando.”
Rico lasciò perdere. C’era troppo del suo partner che non capiva e molto che non aveva intenzione di approfondire.

Sören Prince. Un nome assurdo, un cognome piuttosto banale e un armadio pieno di scheletri.
Un cimitero, ad essere onesti.
Erano partner solo da un anno e doveva ancora inquadrarlo. Non era facile visto che già di suo era un tipo di pochissime parole, molte delle quali andavano cercate in un dizionario. Oltre a questo, la sua storia personale era avvolta in un alone di mistero che nessuno fino a quel momento era riuscito a penetrare.
Chi è stato Prince prima di venire a lavorare qui?
Che avesse fatto i due anni d’Accademia preparatoria era ovvio, e che quello era il terzo da fare sul campo anche, ma prima?
Veniva dal vecchio Continente, ma questo era facile. Era lui stesso a spiegarlo senza problemi. Germania, aggiungeva sempre, anche se poi diventava fumosissimo quando si trattava di localizzare la città.
Non che abbia importanza. Metà di noi manco sa dove sta la Germania. Me compreso.
Era un novellino, ma anagraficamente i conti non tornavano dato che gli aveva detto di aver ventiquattro anni.
Non ha fatto direttamente il passaggio scuola-lavoro oppure è stato bocciato. Ma visto il tipo, dubito. Uno come lui sarà stato il cocco dei professori!  
Era un Purosangue. Questa era stata difficile, e c’era voluta Ama, loro sergente e figlia del capo, per capire che l’anello che portava al medio della mano destra raffigurava nientemeno che il blasone – sì, era una parola vera! – della sua famiglia.
E per finire, c’era la forza. La magia sembrava scorrergli addosso come una seconda pelle, e persino chi come l’agente Murphy  non era dotato di particolari doti percettive se ne rendeva conto.  
Magie senza bacchetta e con la bacchetta non sbaglia un colpo. Dovunque abbia vissuto prima di venire in America, in quel posto l’hanno addestrato come un cazzo di marines.
Tutta l’unità era incuriosita da Prince, dalla sua storia e dal perché fosse venuto in America. Oltre la curiosità c’era però anche la diffidenza. Specialmente  i più anziani, quelli che con il Capitano Gillespie avevano fondato la squadra, gente tosta e d’esperienza come l’agente Murphy, non perdevano occasione per infastidirlo con domande e provocazioni.
Persino lui, all’inizio, aveva fatto fatica ad entrarci in confidenza.
 
Rico Estevez era sempre stato un lupo solitario, sin da ragazzino. Socievole per natura, certo, ma quando si trattava di diventare operativo non voleva persone trai piedi. Lavorava meglio. Che fosse troppo zelante o troppo poco, un partner gli avrebbe comunque pestato i piedi. Quindi era stato felicissimo quando il Capitano gli aveva comunicato che, a causa del poco organico ancora in formazione, avrebbe lavorato senza un partner.
Poi era arrivato il primo novellino fresco d’Accademia per conseguire l’anno di specializzazione. E l’avevano appioppato  a lui.
“Agente Estevez, non poteva pensare di lavorare da solo per sempre.” Aveva tagliato corto il Capitano Gillespie.
Rico aveva lanciato un’occhiata al Novellino, seduto nella sedia accanto alla sua. L’aspetto era okay, anche se un po’ gracile, ma forse era la testa rasata. La moda dell’Accademia di rasare chiunque faceva sembrare una buona fetta dei cadetti dei completi cretini.
E non sei scampato neppure tu, bello. Sembri appena uscito da una lunga malattia.
Il problema non era l’aspetto. Il problema era l’attitudine. Sembrava essersi seduto su un cactus a giudicare dalla postura e fissava di fronte a sé senza emettere suono.
Forse neppure respirava.
“Sul serio? Ho dato una media d’arresti da favola questo trimestre! Non ho bisogno di … di…” Si era sentito fissato e si era voltato. Il tizio lo guardava senza una sola espressione in volto.
 “Cosa?” Aveva detto a brutto muso; se si fossero azzuffati di fronte al Capitano, magari quest’ultima avrebbe desistito. Magari.
L’altro aveva aggrottato le sopracciglia, squadrandolo come se si trovasse di fronte una creatura completamente incomprensibile. “Sono ordini.” Aveva scandito con un accento che neppure lui, portoricano cresciuto nel quartiere multietnico di China Town, aveva mai sentito.  
Rico aveva visto qualcosa di terribilmente simile ad un sorriso sulle labbra di solito sigillate della creola. “L’agente Prince ha ragione. Sono ordini, Estevez. Mostragli dove sarà la sua scrivania e fagli fare un giro dell’ufficio. Lo affido a te.”
Rico si era alzato di scatto per protestare e l’altro l’aveva imitato. Per un secondo aveva pensato che volesse attaccarlo ma poi aveva semplicemente teso la mano.
“Spero lavoreremo bene assieme, Agente Estevez.”  
“Seh…”
Rico gliel’aveva stretta di rimando dato che non poteva far altro di fronte al Capitano. Ma aveva pensato.

Sto cazzo.
 
Invece…
Era quasi dodici mesi tondi che lui e Prince lavoravano assieme e si era dovuto ricredere.
Come nel più scadente dei polizieschi babbani l’aveva fatto quando l’altro, durante un appostamento che si era rivelato essere una trappola, aveva fatto fuori un tipo intenzionato a fargli esplodere la testa con una Maledizione. Non aveva ceduto sulle sue posizioni perché gli aveva salvato la vita però. Tra agenti era doveroso quell’assioma. Aveva ceduto per l’espressione sorpresa e genuinamente contenta che era seguita al suo ringraziamento.
 Era stato in quel momento che aveva realizzato che era la prima volta in tre mesi che lo vedeva sorridere. Così aveva capito che Prince sì, era strano un botto, ma non era un cattivo diavolo e se l’intero ufficio diffidava di lui, lui non poteva farlo.
Siamo Partner. Se lui para il culo a me, io lo paro a lui.
Che ne ha un gran bisogno.
 
Rico si buttò sulla sedia della propria scrivania, stiracchiandosi. “Dios, non vedo l’ora di tornare a casa … e fare colazione, vista l’ora!” Sbuffò, occhieggiando il collega che, sedutosi alla scrivania gemella aveva preso carta e un rotolo nuovo di inchiostro. “Non avvicinarti a quella macchina da scrivere!” Lo minacciò.
Prince alzò lo sguardo perplesso. “Dovremo redigere il rapporto.” Gli fece notare.
“Sì, ma dovrei farlo io e non sono hombre che se lo fa scrivere.” Squadernò un dito e poi un secondo. “In secundos, bello mio, ce ne andiamo a letto e lo scriviamo domani. Il nostro turno è finito sei ore fa.”
In secundis.” Lo corresse con l’ombra di un sorriso nello sguardo. La bocca no, quella stava sempre ferma in una linea retta. “Ma hai ragione…” Ammise, rilassando le spalle e concendendosi persino di abbandonarsi sul comodo cuoio della propria sedia girevole. “… sto accusando lo scontro.”
“Il bastardo era tosto, eh?” Intrecciò le mani dietro la nuca. “Forse dovresti andare a farti dare un’occhiata in infermeria. Forse c’è ancora qualcuno.”

L’altro scrollò le spalle. “Non serve. A casa posso chiedere a Milo.”
“Uh, già, il tuo servitore…” Ghignò, perché sapeva quanto gli desse fastidio. “… principino.”
Preciso come un orologio, si adombrò. Rico ovviamente non era contento della reazione, ma del fatto che ne avesse una.

Per i primi mesi sembrava avesse la faccia scolpita nella pietra. Adesso, no. Per niente. Gli si legge tutto in faccia. Mi sa che significa che si fida di me.
“Non chiamarlo e non chiamarmi così.” Replicò secco. “Milo ed io condividiamo la casa.”
“Ecco.” Gli puntò il dito contro, perché essere partner era pararsi le spalle in qualsivoglia situazione. “… a proposito di questo. Smettila di dirlo.”
“Perché?”
“Perché così sembra che condividiate anche altro!” Alzò gli occhi al cielo. “Prince, ma che devo fare con te?”

L’altro lo fisso meditabondo. “Temo di non capire.”
“Il letto!”
“Perché dovremo …” Fece una pausa, poi scosse la testa. “Non siamo amanti. È Milo a preferire gli uomini, non io.”

“Ecco, non dire neanche che il tuo coinquilino è gay, specialmente ad una donna. Voglio dire, evita.” Quando vide che l’altro lo fissava come se non capisse neanche la lingua in cui si stava esprimendo aggiunse. “Ti ricordi con la ragazza del bar qualche settimana fa?”
Incrociò le braccia al petto, quasi infastidito al ricordo, ma poi annuì. “Sì. Mi aveva chiesto chi fosse Milo ed io gli ho risposto. Poi se n’è andata.”
“Ci credo che se n’è andata!” Scoppiò a ridere. “Gli hai detto che vivevate assieme e poi quel cretino ha cominciato a palpare il sedere del tizio di fronte a voi!”
Prince inarcò il sopracciglio. Era la tipica espressione che faceva quando pensava che la persona  di fronte a lui fosse un idiota. Di solito mandava chiunque in bestia, soprattutto gli indagati. “Milo non è in una relazione stabile. Forse è eccessivamente esplicito, ma non giudico i metodi di approccio di nessuno.”
Rico provò il forte impulso di seppellire la testa tra le mani, sia per ridere, sia per disperarsi un po’. L’altro si fidava abbastanza di lui da parlare in maniera totalmente onesta, e questo gli faceva piacere.

Però capisco perché con gli altri sta sempre zitto. Non è che sia idiota, è solo … che non capisce un sottointeso che sia uno. E credo lo sappia. Se se ne esce con frasi del genere con uno come Murphy… Essere preso per omosessuale sarebbe la meno.
Si alzò quindi dalla sua comodissima seduta e gli mise una mano sulla spalla. Lo sentì irrigidirsi, ma lo faceva sempre e aveva imparato a non badarci. Anche se certo, dava da pensare.
Come taaaante altre cose …
“Senti, dà retta a tìo Rico.” Gli sorrise incoraggiante. “Non  parlare del tuo coinquilino gay quando sei con una ragazza che vuole finirti nel letto. O, almeno, non portartelo dietro!”
Sören fece una lieve smorfia e assunse un’aria imbarazzata. Lo si capiva solo dal rossore sulle guance.

“Farò tesoro del consiglio.” Si limitò a dire.
Rico gli diede una pacca sulla spalla e poi Appellò la giacca. “Andiamo europeo. Si torna a casa.”
L’altro fece un mezzo sorriso ed annuì, seguendolo.

 
****
 
 
Boston, Freedom Trail
Ministero della Magia Americano.
 
“Cosa significa questo?”
Ethan Scott inarcò le sopracciglia all’entrare irruento e poco cerimonioso del Capitano del SAGITTA nel suo ufficio. Con un sorriso accomiatò la sua segretaria e quella, intuendo l’aria che tirava, si dileguò velocemente.

“Posso fare qualcosa per te, Nora?” Le fece cenno di accomodarsi in una delle due poltrone di fronte alla scrivania. “Ti chiederei di esser celere però … Il nostro Presidente ha un incontro con il Primo Ministro del Bangladesh tra una ventina di minuti e…”
“Sei una carogna, Ethan. E non serve che dica altro.” Lo apostrofò mentre dagli occhi chiari – così particolari sulla pelle mulatta – sprizzavano scintille di rabbia mal contenuta. Era una bella donna, la vedova Gillespie. Peccato per il carattere. 

“Ah, il fascicolo verde.” In gergo così era chiamata qualunque pratica venisse da altri continenti, sia che riguardasse un invito ad un ricevimento o un caso che necessitava della supervisione americana.
Quest’ultimo, direi.
“A chi altri potevo rivolgermi? Forse all’Ufficio Interno? Quei poveri ragazzi non credo abbiano mai preso una Passaporta Continentale in vita loro. Siete voi della SAGITTA, quelli internazionali. E poi a te piace viaggiare, no?”
La strega non replicò alla frecciatina evidente. Si limitò a gettargli di fronte la cartellina senza troppe cerimonie. “Sai benissimo che ho l’intera squadra mobilitata per il caso Norton. Ho quindici uomini, Scott. Quindici. Tre sergenti e dodici agenti semplici.” Sottolineò con forza. “Devono coprire l’intero territorio interfederale e occuparsi di altri casi. Dimmi, dove trovo il sedicesimo che vada in Inghilterra?”
“Ti suggerirei una riorganizzazione delle risorse.” Replicò tamburellando con le dita sul cartone morbido della copertina per poi spingerla indietro con le dita lungo il ripiano liscio del tavolo. “Sono certo che non sarà un problema privarti di un semplice agente.”

“Lo è!” Sbottò, e a Scott ricordò una fiera leonessa di montagna in procinto di divorare una preda. Per un momento si prese a libertà di esserne persino un po’ impressionato. Questo, prima di ricordarsi che posto ricopriva lui e che posto invece ricopriva lei.
Sarai pure un Capitano, avrai pure il tuo piccolo ufficio speciale. Ma sei una semplice testa di latta, mia cara.
Oh, se non ti fossi mischiata a quelle teste calde inglesi … Forse avresti potuto avere questa poltrona.
E invece.
“Nora…” Intrecciò le dita e vi appoggiò il mento. “… Capisco, credimi. Ma supponi ci rifiutassimo di collaborare. Cosa penserebbero di noi in Inghilterra? Che lasciamo che i nostri maghi oscuri varchino i loro confini senza muovere un dito? Che non ci importi?”
La strega serrò le labbra. “Immagino sarebbe una pessima immagine da dare per l’Ufficio Cooperazione.” Commentò sardonica.
“Per l’intero Ministero Americano.” La corresse gentilmente. “Fa’ la tua scelta. Puoi mandare anche un semplice agente, non c’è certo bisogno di un graduato per un indagine di routine.”
La donna giunse all’illuminazione piuttosto in fretta dall’occhiata che gli lanciò. “Non vorrai che mandi…”
“Io non voglio nulla.” La anticipò. “Però lui e il suo partner non stanno lavorando al vostro grande Caso Norton, mi sembra.” Finse di pensarci. “Enrique Estevez. Dicono sia poco propenso alla diplomazia. Ti suggerirei di non pensarci neppure … Sai quanto gli Auror poco apprezzino le teste calde. Ne hanno fin troppe nelle loro fila.”
“Non posso mandare lui.” Nora non era una donna stupida, ed era questo che l’aveva fatta restare a galla dopo il disastro diplomatico che aveva combinato durante il caso Von Hohenheim. Ma per quanto fosse brillante, rimaneva pur sempre una strega dietro un distintivo.

E come tale, non sa parare certi colpi di scherma …
“Perché vuoi mandarlo in Inghilterra?” Soggiunse con tono da interrogatorio.
Scott si limitò ad una scrollata di spalle. “Io non voglio nulla, te l’ho già detto. È una decisione che devi prender tu, come Capitano.”
Vedendo l’espressione dell’altra per un momento temette davvero che l’avrebbe Schiantato senza colpo ferire. Invece si limitò a riprendersi la cartellina e scoccargli un’occhiata di fuoco.
“Qualunque siano i tuoi piani, Scott, conosci l’accordo.”
“Prince è tuo, lo so.” Fece un sorrisetto. “Non affezionarti troppo però. Sai come funziona con i randagi. Un giorno scodinzolano, quello dopo mordono.”


 
 
****
 
Fermata metro di Boylston² Street.
Ora di pranzo.
 
C’erano molte cose che Sören non capiva dell’America. Talmente tante che se avesse dovuto scrivere una lista gli sarebbe servito perlomeno un mese.
Tuttavia, per quanto al di fuori dei suoi schemi di ragionamento, l’America gli piaceva.
Erano ormai quattro anni che vi abitava ed aveva cominciato ad abituarsi al modo di parlare schietto e senza peli sulla lingua dei suoi nativi, come della loro assoluta mancanza di classi sociali.
Essere un Purosangue, qui, è come essere una creatura mitologica. 
I maghi americani erano molto più integrati dei loro corrispettivi europei. Vivevano in case dotate di tecnologia babbana, si confondevano ai party di quartiere, guidavano macchine ed utilizzavano cellulari. Anche nel vestirsi: non aveva mai visto un mantello od una tunica.
Vivere con gli armadi chiusi, lo chiamavano. Vivere una doppia vita.  
Non è lo Statuto di Segretezza, ma funziona.
Osservò con sospetto il sacchetto di carta marrone che conteneva il pranzo suo e del collega; questo gli aveva praticamente ordinato di andare a prendere qualcosa al Four Burgers, una tavola calda vicino all’ufficio che era spesso meta doverosa per il portoricano.
Dice che la mensa è terribile. Io non trovo, ma …
Avevano chiuso un caso che si trascinavano dietro da quasi due mesi quella mattina. Per questo non aveva protestato quando il collega l’aveva supplicato di festeggiare in quel modo.
Sospirò, imboccando le scale dell’entrata metro e superando una fila di suore dall’aria sovra-eccitata.
Babbani …
Ormai riusciva a mischiarsi a loro senza destare occhiate stranite. Forse era merito dei vestiti – era Milo ad occuparsi del suo guardaroba – oppure del taglio di capelli. Non ne aveva idea, ma sentirsi parte di quella folla gli dava tranquillità.
Nessuno qui sa chi sono. Cosa faccio. Cosa ho fatto. Neppure se lo chiedono.
L’America in fondo gli piaceva proprio per quello.
Raggiunse la banchina dei treni, ma invece di attendere la prossima corsa si diresse verso il muro, tra un manifesto di un concerto rock e una pubblicità di una nota marca di dentifricio. Aspettò il momento esatto in cui l’attenzione della folla di pendolari fu calamitata dall’arrivo del treno e si tuffò trai due cartelloni. Sentì l’impatto colloso e denso del passaggio magico stringerglisi addosso e poi lasciarlo andare.
Quando riaprì gli occhi era all’interno dell’ufficio SAGITTA, comodamente ubicato in un ramo in disuso della metropolitana di Boston. Estevez gli aveva spiegato che il municipio sapeva della loro esistenza, almeno a livello di sindaco e di giunta stretta, e c’era un accordo che si rinnovava ad ogni elezione riguardante la locazione di uffici magici all’interno della città. Una clausola recente del suddetto specificava di non aprire i due binari morti della fermata Boylston.
Perché sono occupati. Da noi.
L’ufficio era stato quindi costruito nel vecchio tunnel di transito e ne aveva la caratteristica forma allungata. Chiuso alle due estremità da colonne di cemento era spoglio, ma spaziosamente diviso in una serie di cubicoli di legno che potevano ospitare le scrivanie di due agenti. Al piano superiore, nel locale che un tempo ospitava i meccanismi di scambio, c’era l’ufficio del Capitano, e i vecchi magazzini ospitavano le celle detentive provvisorie. Per l’illuminazione e l’aereazione era sfruttato invece l’impianto stesso della stazione.
Organizzazione perfetta.
Sören l’aveva pensato appena entrato e continuava a pensarlo. Si diresse verso la sua scrivania, dirimpettaia a quella del collega e vi posò il pranzo, sorridendo all’aria famelica dell’altro.
“Alla buon’ora! Stavo digerendomi lo stomaco!” Esclamò scartando e pescando all’interno. “Ti sei ricordato i sott’aceti?”
Confermò con un cenno della testa e si sedette al suo posto, prendendo l’insalata e la bottiglietta d’acqua che aveva scelto per sé. Ignorò forzosamente lo sguardo allibito dell’altro.
Ci risiamo.
“Un’insalata?” Esclamò quasi gli avesse appena insultato la madre. “Prince, finirai per diventare anoressico, già sei un mucchio d’ossa! Questa storia deve finire!” Afferrò un cartoccio dall’aria unta e glielo agitò davanti al naso. “Prendi le mie patatine!”
“Non digerisco questo genere di cucina, lo sai.” Replicò cauto. Sul cibo il portoricano era estremamente permaloso: era riuscito a non parlargli per giorni quando aveva rifiutato dei polvorones fatti da sua nonna. Milo gli aveva spiegato che era una questione di identità culturale e da allora non si era più azzardato a tentare di contraddirlo apertamente.  
“Sono solo patatine!”
“Davvero, come se avessi accettato…”
“Non hai accettato!”

“Agente Prince.”

Estevez ironizzava spesso dicendo che la voce del Sergente Ama Gillespie era come seta su un coltello. Forse non ironizzava, forse era un complimento dato che la strega era universalmente riconosciuta come attraente. Comunque fosse, non aveva mai compreso la metafora. Scattò comunque sull’attenti, grato per l’interruzione. “Comandi.”
La giovane donna di colore lo squadrò da capo a piedi. Anche se in generale aveva un atteggiamento piuttosto freddo con chiunque, nei suoi confronti era platealmente ostile.

Lei sa.
“Il Capitano ti vuole nel suo ufficio.” Si voltò verso il portoricano, che si incuneò nella sedia quasi volesse sparire. O far sparire l’hamburger gigante e il milk-shake al cioccolato che si stava divorando. “Estevez, niente macchie di grasso sui rapporti.”
“Sissignora!” Annuì guardandosi attorno freneticamente, sperando forse di non aver già effettuato il danno. “Ma…” Lanciò un’occhiata nella sua direzione. “… solo Prince?”

“Solo Prince.” Confermò, prima di dar loro le spalle ed incedere in direzione delle scale.
“Buona fortuna guey.” Gli venne sussurrato con un conseguente morso al panino.
 
Il Sergente lo detestava e c’era poco che potesse fare, a parte eseguire pedissequamente i suoi ordini ed evitarla durante le occasioni di socializzazione organizzate dagli altri colleghi.
Sa. Sa benissimo da dove vengo, chi sono e cos’ho fatto. Sa di Nurmengard, di mio zio, della Thule.
Sa che ero lì quando suo padre è morto.  
Il Capitano aveva fatto segretare il suo file, come dettato da accordi bilaterali tra governo tedesco e quello americano, ma aveva chiesto che sua figlia, che militava nella task-force e si era candidata anche per lavorare nella SAGITTA, venisse a conoscenza della storia.
Mi ha chiesto se ero d’accordo … ma cos’avrei potuto dire? Non era questione di poter scegliere. Ama Gillespie aveva il diritto di sapere.
Quando si erano presentati la giovane donna era stata professionale e gli aveva stretto la mano immediatamente, senza esitazioni.
Ma gli occhi…
Le aveva letto nello sguardo la rabbia di saperlo a lavorare con loro e specificatamente sotto di lei. Sperava solo che un giorno sarebbe stato capace di dimostrarle che era ormai molto distante da quella vecchia, orribile persona.
Si arrestò di fronte alle scale, scostandosi. “Prima lei sergente.” Disse, in osservanza della regola generale di condotta secondo cui ad una donna si doveva sempre cedere il passo.
Gli venne lanciata un’occhiata raggelante. “Ti piacerebbe, Prince.”
“… Prego?” Doveva essere una di quelle regole che nel mondo moderno, e specialmente in America non venivano apprezzate, pensò sconfortato. “Non era mia intenzione…”
“Non fare il finto tonto. Sali e muoviti.”
Obbedì, chiedendosi che razza di gaffe aveva fatto per meritarsi un’occhiata da castrazione – così l’avrebbe chiamata Milo perlomeno.

Ricordati di chiederglielo. E di sopportare le sue sicure, conseguenti risate.
L’ufficio del Capitano Gillespie era aperto e vi entrò, scattando sull’attenti quando la donna posò lo sguardo su di lui.
Eleanor Gillespie. Avrebbe potuto usare un intero panegirico di frasi per descriverla, ma ciò che la rappresentava al meglio, almeno per lui, erano solo due parole.
Seconda possibilità.
“Sedetevi.” Sorrise. Aveva l’aria stanca, e doveva esser per via del caso Norton, un’efferata serie di omicidi ad opera di un mago oscuro con il pallino di usare le sue vittime come carne da esperimenti. Sapeva che sia lei che i decani della task-force vi lavoravano giorno e notte, anche se su fronti diversi.
“Sören … spero di non averti strappato al tuo pranzo.” Esordì.
Scosse la testa, ignorando i primi crampi della fame. “Nossignora. Sono a sua completa disposizione.”
La strega annuì con aria meditabonda. Di fronte a lei c’era un fascicolo di carta verde bottiglia, ben diverso da quelli che di solito stazionavano sulle loro scrivanie. Sören cercò di leggere il sigillo impresso sopra, ma fallì dato che era coperto dalla mano di quest’ultima. Incrociò il suo sguardo ed esitò.

Che sta succedendo?
Il Capitano lo guardava come se lo stesse soppesando, e questo non gli piacque. Affatto.
“Capitano.” La riscosse la figlia. “Io e l’agente Prince abbiamo del lavoro da fare, e…”
“Hai ragione.” La fermò prima che potesse continuare. “Sören, quello che sto per chiederti è qualcosa che puoi rifiutarti di fare. Vorrei che questo ti fosse ben chiaro.”
Annuì. La strega spinse così la cartellina verso di lui e quando finalmente poté vedere la serigrafia del sigillo sentì il respiro fermarglisi in gola.

“Il Ministero britannico? È un fascicolo degli inglesi?” Fu il sergente a parlare per lui e gliene fu grato, dato che si sentiva la bocca secca come il deserto del Nevada. “Un’altra consulenza?”
“Un cittadino americano è morto a Londra, con l’accusa di aver utilizzato Magia Oscura. Uno di noi deve recarsi sul posto, identificare il corpo e possibilmente chiudere il caso senza troppo clamore. Come potete ben immaginare questo genere di pubblicità non aiuta le relazioni anglo-americane.”
Perché io? Siamo una dozzina di agenti. Perché proprio io, considerando ciò che ho fatto?

Agli auror. Alle loro famiglie.
A… lei.
“Perché lui?” Lo anticipò il sergente. “Deve ancora sostenere l’esame di qualificazione!”
“È comunque un agente di polizia. Deve semplicemente concludere il suo anno di specializzazione.” Replicò l’altra strega con calma. “Si tratta di un’indagine condivisa di livello uno, Sören è perfettamente in grado di occuparsene.”
La donna più giovane serrò le labbra, mentre un lampo di rabbia le attraversò le iridi chiare, gemelle con quelle della madre. “Prince non è pronto a lavorare da solo. È nella mia squadra ed uno dei miei compiti è giudicare i miei uomini. Non è pronto.” Ripeté.
Sören non disse nulla. Persino lui intuiva che in quello scontro di volontà non c’era spazio per un suo intervento.  

Anche se in fin dei conti sono io quello che vogliono mandare in Inghilterra…
Sentiva il sudore scorrergli gelido lungo la nuca e si concentrò quindi nel fissarsi le mani ed ignorare il resto del mondo. Da sempre quella tecnica lo aiutava a gestire l’angoscia, nonché ciò che comportava a livello fisico. Sentì quella mano formicolare e la nascose prontamente nella tasca dei pantaloni prima che cominciasse a seminar scintille di magia.
“Non possiamo sprecare risorse già convogliate nel caso Norton.” Gli venne lanciato uno sguardo penetrante che non riuscì a decifrare. “Ma come ho detto, Sören può rifiutarsi.”
“Posso avere un paio di giorni per pensarci?” Si sentì dire, e gli parve quasi che la voce non fosse la sua. Diversa, lontana.

“Naturalmente. Dovrò dare una risposta entro questo lunedì. Hai tempo.”
“Signore…” Tentò di nuovo il sergente, ma l’altra donna la tacitò con una mano. Capitolò, anche se l’espressione tempestosa parlava di tutt’altro.
Teme forse che metta in cattiva luce la nostra squadra.
Non aveva tutti i torti. L’ufficio gemello al loro, in Gran Bretagna, era quello Auror. Un ufficio guidato dal Salvatore del Mondo Magico e in cui vi lavoravano anche il figlio maggiore e il cognato. Persone che aveva conosciuto, persone che aveva ingannato e contro cui aveva combattuto.
In parole povere, la famiglia Potter.
“Prendi pure il fascicolo. Studialo con calma, fatti un’idea. Poi dammi una risposta.” Era una sua impressione o il tono di voce del Capitano si era ammorbidito?
Fu con lo stesso tono che gli chiese poi di restare quando l’altra strega lasciò l’ufficio.
“Non avrei voluto chiedertelo, credimi.” Esordì quando furono soli.
Sören scosse la testa. Tatticamente la scelta del Capitano Gillespie era perfettamente sensata. Era dal lato umano che sentiva come se la strega gli avesse appena lanciato uno Schiantesimo in pieno petto. 
“La mia assenza è quella che darà meno problemi. L’agente Estevez potrà lavorare ai nostri casi anche senza di me. Il contrario invece sarebbe più difficile … ho ancora molto da imparare.” Attestò pacato.
La strega sembrò voler dire qualcosa, poi lasciò perdere limitandosi ad un sospiro. “Ascolta. Capisco che tu non voglia. Visti la tua storia personale con il Ministero britannico una soluzione alternativa si può trovare.”
Sören era a conoscenza del fatto di essere, agli occhi di molti, una sorta di alieno precipitato da un altro secolo. Un pivello fuori dal mondo, avrebbe commentato Murphy. Ma non era uno stupido.

Sono stato cresciuto da un uomo che usava la menzogna e la mistificazione come pane quotidiano.
“Non mi menta. Non c’è un’alternativa.” Replicò pacato. “Il SAGITTA è giovane e dipende dall’approvazione dell’ufficio Cooperazione, almeno per quanto riguarda la giurisdizione interfederale. Se ci rifiutassimo di andare…”
Il Capitano annuì con aria grave. “Già. Qualcuno coglierebbe la Pluffa al rimbalzo.”

“Sta parlando di Ethan Scott, suppongo.”
Non gli venne risposto apertamente, ma non servì. Sören conosceva il mellifluo burocrate dietro quel nome; partito come agente operativo si era buttato in politica, collezionando discreti successi – spesso non suoi, secondo le voci di dipartimento. Al momento collaborava gomito a gomito con il Gabinetto del Presidente Interfederale, ed era purtroppo la loro unica via di comunicazione con il potere costitutivo.
Per farla semplice, se lui parla male di noi … la SAGITTA non avrà vita lunga.
Era nauseante, ma era così che andavano le cose.
Se non ci fosse stata il Capitano sarei finito nelle sue mani. E non credo avrei potuto avere un distintivo. Né la mia libertà.
Il Capitano Gillespie l’aveva voluto per il SAGITTA, e questo l’aveva messo a riparo da qualsiasi mira avesse l’altro mago.
Fino ad ora. Sapeva che avrebbe scelto me?
No. Era molto più probabile che il burocrate avesse invece tentato di giocare un tiro mancino al loro ufficio. La rivalità tra lui e la strega risaliva dai tempi dell’anti-Thule e non perdeva occasione per deflagrare.
 “La politica è qualcosa che va al di sopra delle necessità personali. Specialmente quelle di noi agenti interfederali.” Lo riscosse la donna tornando dietro la scrivania. Aveva il viso tirato e Sören provò il subitaneo istinto di rispondere affermativamente alla sua richiesta. Si fermò appena in tempo.
… Riflettere. Devo riflettere. Non è una scelta che posso prendere a cuor leggero. Affatto.
“All’ufficio Auror lo sanno? Che potrei essere io?”
“Solo se accetterai l’incarico.”
Non c’era molto altro da dire a quel punto. “Le farò avere una mia risposta entro domani.”
“Non è necessario…”
“Mi prendo la  libertà di interromperla, Capitano. Non sono avvezzo a procrastinare nelle mie decisioni.” Riflettere sì, ma tentennare, quello mai. “Non più.”

 
****

North End, Commercial Street
Appartamento di Milo e Sören. Notte.

 
Se c’era una cosa che Milo adorava dell’America era che ogni città,  ogni singola città, aveva il suo quartiere gay dedicato, e se non il quartiere, perlomeno una via di riferimento. Non che in Europa fosse diverso, ma in America era talmente manifesto che era difficile non individuarlo subito a colpo d’occhio.
Boston non faceva eccezione. Da quando era arrivato, Tremont Street era diventato il suo territorio di caccia. Si era fatto una strategia dei posti da frequentare e di cosa indossare in ciascuno di essi per impersonare l’avventore perfetto: quella sera era toccato al Hot Mess! e alla sua folla colorata di drag e di ragazzi da confraternita. Per l’occasione si era quindi messo in camicia, sfoderando l’aria di un’affascinante, giovane professore della Berklee³. Era così finito a divorare le labbra di un promettente kicker di Harvard prima nel retro del bar e al momento contro la porta del suo appartamento.
“Wow amico … vivi proprio in una zona da urlo.” Mormorò quello, slacciandosi i jeans già troppo stretti. A giudicare da quanto poco nascondevano, quella era la sua sera fortunata. “Ci vivi solo in questo schianto d’appartamento?”
“Sì, sicuro. Te l’ho detto, sono un musicista pieno di soldi.” Mentì afferrandogli una manciata di capelli e leccandogli la curva muscolosa del collo. A giudicare da come gli si strusciava e miagolava contro gli sarebbe toccata la parte del conduttore.
Non che mi spiaccia, beninteso, ma preferisco la democrazia delle parti.
Evvabbeh. Non si può avere tutto dalla vita.
Infilò la chiave nella toppa e la fece girare. Il ragazzo quasi crollò nell’ingresso, ma lo riacchiappò piuttosto agevolmente, tirandolo per la maglietta in direzione della sua stanza. Poi lo sentì irrigidirsi e guardare alle sue spalle.
Oh, no. No. No. No.
Perché?
“Chi cazzo è quello?” Esclamò oltre i fumi delle pinte di birra che si era scolato alla salute del suo portafoglio.
Sören sostava nell’ingresso di cucina con quella sua odiosa espressione priva di espressione.
“Dobbiamo parlare.” Esordì come se non stesse parlando ad un tipo con le mani infilate nelle mutande di un altro e le camicia in prossimità di esser lanciata via.
Adesso?
“Scusa.” Si premurò di dirgli. “Ti aspetto in cucina.” Aggiunse prima di sparire in direzione della suddetta.
Aaaaaaargh!
L’urlo lancinante dei suoi lombi per un attimo sovrastò qualsiasi altro rumore.

“Ehi, avevi detto di viver da solo!” Sbottò il kicker, togliendosi dalle sue mani e guardandolo storto. “Chi cazzo è quello?” Ripeté.
“Praticamente un fidanzato.” Borbottò arruffandosi i capelli. “Scusa, ma te ne devi andare.”
Il conseguente ‘vaffanculo’ e la porta sbattuta furono solchi indelebili lasciati nella sua anima di povero artista romantico.

E che voleva farsi una grandiosa scopata.
Entrò in cucina tirandosi su la zip dei pantaloni stretti e neri da artistoide, decretando così la fine di una serata gloriosa. Trovò il principino seduto al tavolo della colazione intento a guardarsi le mani con l’aria patibolare che precedeva i grandi guai.
E di solito io ci finisco in mezzo senza neanche sapere come. Grandioso.
Posso picchiarlo?
“Estevez dice che devi smetterla di fare certe allusioni sul nostro rapporto.” Esordì in tedesco. Parlava sempre nella loro lingua madre quando aveva l’umore sotto le scarpe. “Non sono il tuo fidanzato.”
“Sei impegnativo uguale.” Replicò a tono. “Solo, senza scopate ad addolcire il carico. Lasciami il piacere di farci ironia sopra almeno.” Recuperò tabacco, cartine ed erba dal cassetto a fondo doppio della credenza. Aveva idea che ne avrebbe avuto un gran bisogno.

“Non mi interessano gli uomini.”
“Grazie per aver notificato l’ovvio. Hai visto che razza di bestia da letto mi ero portato a casa?” Sospirò di fronte all’espressione minimamente colpita dell’altro. “Neanche un’occhiata gli hai dato. Io sì però. E avevo delle aspettative. Soffiate via, nel vento…” Canticchiò, afferrando uno sgabello e accomodandosi di fronte a lui. Poi gli fece cenno di parlare.

“Devo prendere una decisione.”
“Se mi hai interrotto perché non sai cosa mangiare domani a pranzo giuro che ti castro con un cucchiaio.”
Sören ebbe il buongusto di sorridere appena alla sua battuta. Era pallido però, e grosse occhiaie violacee gli contornavano il viso. Sarebbe stato un tipo carino, se non fosse sembrato mediamente un malato di tisi in stadio avanzato.

Il carcere non si scrolla di dosso così facilmente, Milo.
Sospirò, imponendosi di non impietosirsi. “Qual è la decisione da prendere, coraggio.” Sbriciolò i fiori di canapa e li mischiò al tabacco prima di chiudere la cartina. “Sono tutto orecchi.”
“Il SAGITTA vuole che vada in Inghilterra ad identificare il corpo di un mago americano.” Lo sputò fuori quasi fosse un boccone amaro, serrando le dita così forte che le nocche sbiancarono a lasciar intravedere le ossa.
“In Inghilterra? Quella Inghilterra? Quella dove piove sempre, si vestono di merda e bevono the dalla mattina alla sera?”
“Ti prego di non ironizzare.”
“E chi ironizza. Nora si è bevuta il cervello?” Si accese lo spinello e ne tirò un paio di energiche boccate. “Se attraversi le bianche scogliere di Dover c’è gente che potrebbe appenderti per le palle alla torre più alta di Londra!”

E con quanto energie e tempo ho speso per rimetterti in sesto lo prendo come affronto personale.
“Sono stato prosciolto da tutte le accuse, sono un mago libero. Non mi farebbero niente.” Fraintese passandosi una mano trai capelli già tirati indietro dal gel. Lo facevano sembrare un idiota anni ’50 del vecchio secolo, e non era mai riuscito a farglieli lasciare liberi, come il taglio originale che gli aveva fatto prevedeva.
“Stiamo parlando di gente che cinque anni fa hai…”
Lo so.” Sbottò con forza, serrando la mascella. “Ma il Capitano Gillespie mi ha dato ad intendere che non ho possibilità di scelta. Non possono mandare altri agenti, sono già tutti impegnati in casi in corso.”
“E Rico?”
“L’agente Estevez ha più esperienza di me e deve quindi esser lasciato a gestire le emergenze. Non sono io quello che può esser lasciato qui.” Fece una pausa, poi abbassò il tono di voce. “Il Capitano mi ha detto che devo dargli una risposta entro lunedì, ma ho idea che la risposta fosse già allegata alla richiesta.”

Vedi il principino. Sembra un fesso, ma poi sotto sotto…  
Non trovò null’altro da ribattere e Sören smise di parlare. I rumori delle auto e della notte fecero così da sottofondo al loro silenzio. Milo osservò la brace del suo spinello baluginare un paio di volte, poi lo prese tra indice e pollice e, girandola nella direzione dell’altro, gliela passò.
“No.” Mormorò continuando a fissarsi le mani come se da esse potesse provenire una soluzione. “Non fumo droga.”
“È perché sei così palloso che ti si infinocchia facilmente, principino…” Ghignò usando l’inglese pastoso di quelle parti per sottolineare il concetto.

Non vi fu la minima risposta, o accenno di incazzatura.
Merda, sta proprio sotto.
“Cosa vuoi che faccia?” Propose, con un po’ di morte nel cuore ma neppure molta. Era quello il lato più deprimente e insieme affascinante del suo lavoro.
Il fatto che non è un lavoro. Non ho idea di cosa sia … forse una specie di volontariato.
“Non ti sto chiedendo di venire con me.” Fu la replica. “So che ti piace stare qui, e comunque non credo sarà un soggiorno lungo.”
Non sto chiedendo … Lo stai facendo invece!
Fece un profondo sospiro, commiserando se stesso. “Ho sempre voluto andare a Londra. Dicono che gli immigrati africani di là ce l’abbiano…”
“Milo.”
“Cosa?” Allargò le braccia. “Qualcuno deve pur trovare il lato luminoso della faccenda!”
Sören abbozzò una mezza risata, passandosi la mano sul viso. Poi lo guardò, con quel suo assurdo e disagiante sguardo intenso. “Sei sicuro?”

La gente non si guarda così se non la si vuole picchiare o portare a letto, principino.
E poi sono io quello insinuante.
No, cioè, sono io, ma tu dovresti davvero controllarti con quegli occhioni neri.
“Certo, va’ pure da solo. Non sai neanche stirarti una camicia, e sei un mago.” Scrollò le spalle. “E poi un viaggetto fuori continente non mi spiace. La bistecca americana sta cominciando a venirmi a noia.”
L’altro stavolta riuscì quasi ad esibirsi in un’imitazione di sorriso convincente. “Grazie.”
“Non ringraziarmi, la Passaporta Continentale e il resto delle spese me le paghi tu.”

Sören si limitò ad annuire, alzandosi e andando a prepararsi un the. Milo non aveva mai capito quella sua passione, dato che il the non era bevanda che sembrava gli si addicesse granché.
Lo faccio più tipo da vodka incendiaria, o whisky. Roba alcolica, roba per stordire i ricordi.
C’è da dire che la varietà di the che beve lui è molto apprezzata dai maghi e dalle streghe inglesi.
Mmh.
Fu riallacciandosi a quel pensiero che glielo chiese, poco prima che uscisse dalla cucina.
“E con lei cosa intendi fare?”
Sören si immobilizzò, tazza fumante e incedere compreso.  “Il caso non mi impegnerà più di qualche giorno.” Esordì con un tono così piatto che non avrebbe sfigurato come messaggio registrato in una segreteria telefonica. “Non credo avrò occasione di incontrarla. È impegnata, e lo sarò anche io.”
“Quindi non le dirai che sei a Londra?”

La risposta fu il lasciarlo senza risposta.
Indovinate chi passerà la notte a fissare il soffitto?
Si stiracchiò e prese un’altra boccata dallo spinello.
Un indizio. Non io.
 
 
****

Inghilterra, Londra
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.

Padiglione Autopsie.
 
“Ehi, io stacco! Ci vediamo domani!”
“Grazie a Merlino domani è venerdì! Una pinta al pub?”
“No gente, stasera dritto a casa! O chi la sente mia moglie!”

Risate, rumore di passi, porte chiuse e luci spente.

Lo scambio di convenevoli tra i Mortuari – chiamati così quei Guaritori che si occupavano di indagare le cause della morte di un mago o una strega – era il segnale ufficiale che la giornata lavorativa era appena finita. La sala operatoria veniva chiusa, gli uffici spenti e in tutto il padiglione veniva attivato un incantesimo antifurto.

Non che questo potesse fermare chi era dotato di mezzi superiori.
C’erano delle cose da sapere, prima di poter procedere. Prima di tutto, che non doveva cercare un corpo, ma le sue ceneri. Tutti le salme di maghi o streghe sospettati di Magia Oscura, dopo gli esami di rito e lo stilare del rapporto conseguente, venivano fatti cremare e chiusi in piccole urne di pietra. Era una procedura inaugurata dopo la Seconda Guerra Magica e da lì portata avanti.
In secondo luogo, si doveva trovare l’ufficio degli schedari e lì cercare la sezione delle urne. Non fu difficile trovarla.
 
Samuel Howe
 
Il ladro fece un sorriso, afferrò l’urna, e la nascose dentro il mantello.
Ora toccava al cartaceo.

 
 
****
 
Note:
 
Capitolo Ren-centric. Comunque il perché e il percome sia finito a fare il bravo ragazzo col distintivo verrà spiegato. Con calma. Suuspance!
Questa la canzone del capitolo. Come ho detto su effebbì, era tanto che volevo usarla, specificatamente per Sören. Ha un ritmo da soldatini. xD

 
GRAZIE per le meravigliose recensioni che mi lasciate. Le leggo tutte una per una (soprattutto al lavoro, quando non dovrei, con effetti che potete immaginarvi. Mi licenzieranno in tronco prima o poi) e non so dirvi quanto vi sono grata per la risposta che sta avendo OAN!
Per le risposte ci sto lavorando. Se le volete subito, magari perché avete delle domande, specificatelo nella recensione … giuro che farò di tutto per rispondere!

 
1. Taler: moneta magica usata in America. Mia invenzione, naturalmente, deriva proprio dalla parola ‘dollaro’. So che il Tallero esisteva. Il dollaro è chiamato così proprio per quel motivo. :P
2. Boylston: la fermata della metro si riferisce ad una strada che è forse una delle vie più conosciute di Boston, nel cuore della città e nei pressi del parco cittadino. Una Charing Cross americana, se si vuole.

Per capire come vedono l’ufficio SAGITTA i Babbani, fatevi un giro qui. Dio benedica internet.
3. Berklee College of Music: fondata nel 1945, è una scuola di musica indipendente, a Boston. La missione originale di Berklee fu quella di fornire un insegnamento formale sul jazz, sul rock e su altre musiche popolari non disponibili in altre scuole di musica.Tra i suoi studenti più famosi annovera Keith Jarrett, i Dream Theater (formazione attuale) e John Mayer.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III
 
 
 
La rosa rossa grida: “ È qui vicina, vicina!”
e quella bianca piange: “no, è in ritardo”;
la consolida ascolta: “io la sento, la sento”;
ed il giglio sussurra: “io l’aspetto"
(Da "Maud", Alfred Tennyson)
 
 
17 Giugno 2028
Inghilterra, Londra. San Mungo. Reparto J. Thickley.
Mattina.

 
Grazie a Merlino era venerdì.
Lily non poteva riassumere meglio l’umore di quella giornata.
Svegliarsi ogni giorno prestissimo per arrivare in tempo utile al camino nascosto nella stazione di Farrindgon cominciava a diventare seccante, specie da quando non poteva più fermarsi al solito giardinetto per la colazione.
Spero che quel ragazzo non continui ad aspettarmi…
Fortunatamente quella sera non sarebbe dovuta tornare nel Devon, ma avrebbe potuto comodamente appoggiarsi a casa di Al e Thomas e passare poi il resto del fine settimana con Scott, nel suo piccolo cottage rustico nel Somerset.
Dopo una settimana di Londra ci vuole una fuga in campagna …
Tralasciando che ogni sera in campagna ci torno. Ma comunque.
Vivere ancora a casa con i suoi non era esattamente rilassarsi. C’era sempre qualcosa da fare, sempre qualcuno da accontentare, che si trattasse del milione di faccende di casa che pendevano sulla testa di tutti, essendo giustamente sua madre una lavoratrice o le visite di nonna Molly che portavano torte, chiacchiere e ore e ore di frecciatine sul fatto che ‘nessuno di voi ragazzi si è ancora sistemato, tranne beh …  sì, Jamie a modo suo’.
Convive con Teddy e prima o poi si troverà sposato alla Babbana, parola mia.
Tom e Al invece … beh, loro continueranno a farsi i fattacci loro fino alla tomba, con la compiacenza di tutti. Papà specialmente.
Le speranza di sua nonna di veder un mucchio di pro-nipotini a sgambettarle intorno erano quindi tutte concentrate su di lei, almeno da quel ramo della famiglia.
Ansia. Ho solo vent’anni miseriaccia … evvabbeh che mamma ne aveva più o meno altrettanti quando è rimasta incinta di Jamie. Ma no, grazie. Evolviamoci un po’.
A pensare a figli improbabili e impegni certi le stava venendo l’emicrania, quindi fu con un sorriso grato che prese il caffè forte e tostato dalla signora del carrello, una versione in veste medica di quella del treno per Hogwarts.
“Mia cara, la caffeina fa venir le rughe, non le è mai stato detto?” La informò la voce squillante di Gilderoy Allock, paziente lungodegente del reparto.
“Ma sveglia anche.” Replicò voltandosi per un galante baciamano, un piccolo rito che il mago adorava e che nessuna delle studentesse di Psicomagia si sentiva di negargli; era stato votato come il mago più affascinante per anni in gioventù e se ne intravedevano ancora i motivi.
“Buongiorno Gilderoy, come si sente oggi?”
“Benissimo ora che posso vedere il suo incantevole visino!” Sfoderò il sorriso per cui era stato tanto famoso. “La vedo un po’ sciupata però. Sta mangiando correttamente? Una buona dieta è la base per una salute di ferro. Me lo diceva sempre mia madre …” Fece una pausa rivolgendole una smorfia di scuse. “Almeno credo. Non ricordo. Forse l’ho letto da qualche parte.”
“È comunque un ottimo consiglio. Anche se credo che il mio esser sciupata derivi dal fatto che ho una settimana di lavoro sulle spalle” Replicò scherzosa. “Che ne dice, andiamo a compilare la cartella di oggi?”
Il mago fece una lieve smorfia insofferente. “Gradirei una passeggiata invece. Londra è incantevole d’autunno!” Abbassò il tono di voce in un tono garbato ma cospiratorio. “Potremo uscire io e lei, mia cara, le giuro che sarei una tomba!”
Lily sorrise. Con quei modi affettati e le parole galanti era inevitabilmente il suo paziente preferito anche se sapeva come non fosse stato esattamente un modello di virtù e correttezza morale. “Ne sono sicura, ma siamo a Giugno.” Replicò prendendolo a braccetto e portandolo verso la sua stanza. “Abbiamo voltato il calendario su quel bel quadro impressionista giusto qualche settimana fa. Mi ha raccontato di come abbia aiutato l’attuale proprietario del museo a recuperarlo, si ricorda?”

L’espressione dell’uomo si fece per un attimo vuota e Lily ne approfittò per condurlo verso il letto e farlo sedere.  “No, non ho…” Annaspò, poi scosse la testa rassegnato. “Naturalmente è Giugno, è tutto in fiore. Che sciocco.”
“È tutto a posto.” Replicò tranquilla; mai mostrarsi preoccupata dalla poca lucidità di un paziente, era la prima regola da imparare se si voleva lavorare serenamente nell’ala Thickley. “Vogliamo iniziare?”

“Naturalmente cara, non si faccia scrupolo. Sono a sua disposizione.” Si sistemò la vestaglia e fece cenno di procedere. Gli rivolse quindi le domande di rito e si occupò di lanciare gli incantesimi diagnostici di routine. Quella era il genere di procedura che più detestava, perché ancora legata alle vecchie modalità di cura. Per i degenti della Thickley poi, la parola cura per lungo tempo era stata un eufemismo che significava l’aggirarsi in vestaglia e ciabatte per il reparto e farsi coccolare da Medistreghe corpulente.
Per troppo tempo c’è stata l’idea che i danni alla mente siano incurabili. Irrisolvibili. Una volta che la Magia ti ha sconvolto la mente sei fregato.
E invece no.
Questo era ciò che sosteneva la sua professoressa, la direttrice del corso di Psicomagia e fonte principale di ispirazione per tutti gli aspiranti Psicomaghi della Gran Bretagna.
La Guaritrice Padma Patil.
Ex-corvonero, studentessa brillante e studiosa capace, aveva trascorso gli anni successivi alla Battaglia di Hogwarts nel Mondo Babbano. Tornata indietro era riuscita prima a diventare assistente, e poi collega della vecchia guaritrice Strout, una donna adorabile, ma assolutamente convinta che l’unico metodo di cura per ‘quei poveri cari’ fosse un ambiente neutro e privo di ogni stimolo.
La Patil invece nel giro di una quindicina d’anni aveva rivoluzionato la Psicomagia per come la si intendeva. Aveva istituito un corso specializzato per la materia – prima veniva trattata come una specializzazione per chi aveva voglia di fare ‘da babysitter ai matti’.
Il risultato più importante era stato però aver dato il via ad una terapia sperimentale per trattare i casi come Gilderoy o i genitori di Neville.
Una terapia vera.

Quando durante il suo ultimo anno ad Hogwarts le era capitato di leggere una sua intervista ne era rimasta irrimediabilmente affascinata. Era stata la capacità di quella strega di capire la mente umana a farle leggere il lungo e prolisso articolo fino in fondo. Quella ed un paragrafo.
 
“Cercare di riportare queste persone alla condizione originaria è come cercare di dissotterrare uno splendido castello immerso nella sabbia. Si deve fare attenzione, consolidando punto per punto, perché ogni cosa disvelata potrebbe nel giro di poche ore esser sommersa di nuovo se non si usa un’architettura di scavo solida. Dobbiamo essere archeologi della mente, per dirla con parole semplici.”

Non era poi così diverso da quello che faceva lei con i suoi non richiesti poteri. O meglio, era diverso ma era il risultato finale ad essere lo stesso.

Non siamo Guaritori, e non si può guarire la follia con una pozione … ma si può farli tornare indietro.
O almeno, provarci.
C’erano però voluti anni prima che realizzasse che era quella la strada che voleva percorrere.
Ho avuto i miei motivi per aspettare e i miei motivi per decidere.
In fondo noi Potter siamo un po’ tutti paladini in cerca di una causa. Ecco la mia.
“Devo lasciarla adesso.” Gli strinse le mani all’espressione delusa che gli vide apparire sul volto. Tralasciando i Gufi che ogni tanto qualche vecchia fan dalla lunga memoria gli mandava, il mago non aveva contatti esterni con nessuno. “Tornerò verso le undici con la guaritrice Patil per la terapia. Okay?”
“Certo, certo. Può ricordarsi di prendermi la Gazze… oh, grazie!” Esclamò quando gliela porse, dato che il quotidiano era esattamente sopra il suo comodino, insieme al romanzo autobiografico che aveva scritto dopo l’incidente che l’aveva portato lì. Le Medistreghe del reparto le avevano raccontato che la maggior parte delle copie giaceva nel magazzino dell’editore.
Uno dice la verità su chi è, o più o meno ricorda di essere, ed ecco che nessuno è più interessato.
È un po’ triste.
Infilò la cartella nell’apposito contenitore ai piedi del letto e lasciò la stanza, stirando con le dita il camice verde in dotazione a tutto il San Mungo, studenti come lei compresi.
Il giro delle visite del venerdì era di sua competenza, e dopo la stanza di Allock – il primo in ordine alfabetico – sarebbe toccato ad un’altra decina di pazienti. Dopo questo, sarebbero iniziate le terapie e la sequela infinita di domande a cui avrebbe dovuto rispondere per dimostrare alla psicomaga Patil che non era una rossa senza cervello – o semplicemente, una studentessa preparata.
Si stiracchiò.
Oggi è una giornata da due tazze di caffè.
Fece comunque un mezzo sorriso vedendo che la pioggia mattutina era stata portata via da un sole robusto che faceva scintillare i tetti delle case vicine. Si avvicinava il finesettimana ed anche il giorno che avrebbe dedicato alla posta – durante la settimana non aveva mai tempo per leggere o rispondere.
Non era tanto male, il venerdì.
 
****
 
 
North End, Commercial Street.
Appartamento di Sören Prince e Milo Meinster. Mattina.
 
Ogni mattina che Dio – o chi per lui – metteva in terra, Milo si svegliava sapendo di avere tre compiti a cui assolvere prima di dedicarsi agli affari suoi.
Il primo, svuotare la vescica. Mica roba da poco se la sera prima l’avevi passata a scolarti bicchieri che variavano dalla grandezza di due nocche a quella di un boccale.
Secondo, arieggiare l’intero appartamento, che un certo principino aveva l’ansia se appena alzato trovava tutto sbarrato. Quello però non gliel’aveva mai contestato, visto che poteva comprendere la claustrofobia di una persona che aveva vissuto in una cella non più grande del loro attuale gabinetto.
Terzo, doveva preparare la colazione.
Tre compiti molto semplici, ma che risultavano complicati quando si aveva un post-sbornia da record.
Fu quando notò che le omelette che avrebbe dovuto servire erano decorate con i gusci che avrebbe dovuto buttare che capì che Sören, per una volta, avrebbe dovuto accontentarsi di integrare liquidi per cominciare la giornata.
“È pronto!” Esclamò facendo una smorfia alla fitta alla nuca che l’esclamazione gli aveva provocato. “Cioè, più o meno…” Bofonchiò puntellandosi al ripiano della cucina e accendendosi doverosa nicotina.
Sentì rumore di passi provenire dal balcone e sospirò.
Un'altra notte insonne passata sul balcone? Grandioso.
Se qualcuno gli avesse giurato sulla testa di sua madre che avrebbe finito per occuparsi del nipote dello stregone pazzo che l’aveva quasi fatto morire tra le fiamme, avrebbe riso di gusto.
Questo, quattro anni prima.
Poi una donna insopportabile di nome Eleanor Gillespie si era impicciata in fatti non suoi e lui era finito incastrato.
La storia della mia vita … È perché sono un bravo ragazzo. In fondo.
Certo, in cambio viveva in America, aveva un loft nella zona più trendy di Boston – aveva chiesto e aveva ottenuto -  e veniva persino pagato, ma…
Ma. Eggià.
Guardò l’aria smunta e pallida del suo coinquilino e allargò le braccia. “Ciao. Hai la faccia di un dipinto cubista. Cioè stai di merda.” Chiarificò. “Comunque rispetto a quando ti ho visto a Nurmengard sei un fiore.” Lo consolò perché Milo Meinster aveva sempre una buona parola per tutti.
Per tutta risposta si beccò un’occhiataccia dall’ingrato, che si sedette poi allo sgabello del ripiano cucina. Occhieggiò l’omelette funghi e formaggio – una sua specialità – in silenzio. “Ci sono i gusci.” Decretò con voce arrochita.

Qui qualcuno ha fumato tutta la notte. Media di due-tre pacchetti. Miei, probabilmente. Avrei dovuto evitare di portarne in casa.
Tossico.
“Dovresti ringraziare che non ci ho messo dei pezzi di vetro dentro.” Schiacciò la sigaretta nel posacenere e si arruffò i capelli. “Per colpa tua ieri notte ho usato il letto per dormire. È inammissibile il giovedì sera!” Gli lanciò un’occhiata sommaria; non che ce ne fosse bisogno. “Tu invece il letto neppure lo hai toccato, vedo. Con tutto l’amore che ci metto per rifartelo potresti almeno tentare di usarlo!”
“Me lo rifaccio da solo.” Puntualizzò cominciando a spulciare le uova alla ricerca del boccone sano. “Ho dormito.” Sospirò. “Un paio d’ore.”
“E sei giunto ad una soluzione? Andrai in Inghilterra?”

La risposta fu un’eloquente occhiata torva persa nel vuoto. Non che si aspettasse confessioni a cuore aperto da quel piccoletto pieno di segreti e problemi. Non che non avrebbe provato ad estorcergliele.
“Dovrei saperlo per preparare i bagagli, sai.” Esordì rompendo due uova in un bicchiere e mischiandole alla salsa Worcester che trovò in frigo. Ignorò lo sguardo disgustato dell’altro e trangugiò il suo perfetto rimedio anti-sbronza con gusto.
Non ho scopato ma ho il post-sbronza. La mattinata peggiore di sempre.
“Io ci andrei.” Tentò infine, anche se la strada dell’amico comprensivo lo metteva sempre un po’ a disagio. Metteva in gioco un’intimità che non ci teneva ad avere con Sören, per una serie di motivi che andavano dall’auto-preservazione al fatto che si era imposto di concedersi solo contatti intimi che iniziavano e si concludevano con una scopata.
Sören alzò lo sguardo e lo fissò. “Perché?”
“Perché hai tutta quella situazione assurda laggiù.” Si strinse nelle spalle. “Dovresti mettere un punto, soprattutto con lei.”  
L’altro si irrigidì in un fascio di nervi, tanto che Milo avrebbe potuto tirargli un pugno, ne era certo, e farsi male come se avesse sbattuto contro una putrella d’acciaio. “Ti pago per badare alla casa, cucinarmi i pasti e fare la spesa.” Fece una pausa. “Non per darmi pareri.”
“Sto cazzo, principino.” Replicò spassionato. Era precisamente per quello che in realtà era lì.
Per farti da coscienza, visto che la tua è ancora, tipo, neonata.
Sören non disse niente, limitandosi a bere un sorso di caffè. Ci mise altri dieci minuti e una tonnellata di sicuri pensieri tetri prima di parlare. “Non ci voglio andare.” Emise infine. “L’Inghilterra non è posto per me.” Fece una pausa, contemplandosi le mani e stringendole l’una sull’altra. “Non lo è.” Ribadì.
Milo acconsentì con un cenno della testa. “Però l’hai detto tu che sostanzialmente non hai scelta.” Gli ricordò. “Sarà uno schifo, specie se incontrerai i Potter, o quel tuo cugino …”
“Thomas.”
“Sì, Thomas … ma in fondo sono solo un paio di giorni, no?”

“Già.”
“Ed è probabile che avrai a che fare, almeno direttamente, solo con gli Auror. Gli altri, a meno che non li incroci per strada non li vedrai.”
“È corretto.”

“Perché non vuoi vederli.” Attestò.
Ci fu un lieve esitare, ma poi un’inevitabile assenso. “È così.”

“Allora non farti problemi. Fai il tuo lavoro, pulito, e ce ne torniamo qua.”
Sei un pessimo bugiardo, principino. Magari non vuoi vedere i Potter. Comprensibile. L’ultima volta avevi un paio di manette ai polsi e loro erano appena scampati alla follia di Von Hohenheim. Magari sono ancora un po’ incazzati.
Ma la Potter … tutt’altra storia, ah?
Sospirò afferrando il piatto di dell’altro e buttandolo nel cestino. “Te la rifaccio.” Agitò la spatola nella sua direzione. “Basta che la pianti di mangiare con quella faccia disgustata, o giuro che un giorno di questi ti ci metto il topicida!”
Sören inarcò le sopracciglia. “Non lo faresti. Altrimenti dovresti abbandonare la casa e questo tenore di vita. Ti servo vivo.”

Ed ecco a voi l’uomo che crede che semplice ironia siano vere minacce di morte.
E non batte ciglio.
“Oh, va’ al diavolo.” Ignorò l’emicrania del post-sbronza addizionata all’appena arrivata emicrania Sören – un particolarissimo tipo di mal di testa che si concentrava sulle tempie – e ricominciò da capo nella preparazione della colazione. “Oggi sei di turno?”
“Sì, stamattina io ed Estevez dobbiamo interrogare un probabile testimone chiave e ho un paio d’ispezioni congiunte con l’agente Murphy a China Town.” Snocciolò passandosi una mano sulla barba ancora da rasare. “E poi voglio dare la risposta al Capitano Gillespie. Non posso procrastinare.”
Milo girò l’omelette e gliela lasciò scivolare nel piatto, stavolta perfettamente soddisfatto del risultato, specie perché lo schizzinoso principino l’attaccò con gusto. “Una perfetta giornata da bravo ragazzo quindi.” Attestò con un tono da presa in giro, perché ci voleva ironia in certe situazioni. “Ricordatelo che sei uno di quelli.”
“Di quelli chi?”

“Bravi ragazzi.” Sogghignò “Mica come me.”
L’altro fece un accenno di sorriso e diede un boccone al piatto. Aggrottò le sopracciglia, come preso da un pensiero repentino. “Puoi annotarti di spedire la mia corrispondenza?”
Milo roteò gli occhi al cielo. “Lo faccio ogni mese, pensi che non me lo ricordi?” Ovviamente lo pensava a giudicare dall’espressione scettica. “Piuttosto, hai bisogno di carta, inchiostro? Tanto, visto che vado al Ufficio Postale Continentale…”

“Non mi serve nulla. Ricordati. È sul mio comodino.”
“Sia mai!”

 
 
****
 
 
Inghilterra, Londra.
Ospedale San Mungo. Reparto Lesioni da Incantesimo. Ora di pranzo.

 
“Come si tratta una lesione da incantesimo Elettro, allievo guaritore Potter?”
“Dipende. Nel caso della vittima andrà evitato un Innerva per scongiurare uno shock fisiologico. Dovrà invece esser trattato con un’opportuna terapia farmacologica. Nel caso di chi ha scagliato l’incantesimo, è da raccomandarsi un impacco di Cardamono per curare l’ustione a polso e metacar…”
“Nel caso del ricevente, Potter, la terapia farmacologica. Non mi dia risposta a metà!”
“Nel caso del ricevente, la terapia farmacologica sarà da concordare con il Pozionista del reparto, considerato età, peso e storia medica del soggetto. Una base dovuta sarà data dalla Densa Pozione Dorata, seguita da un numero variabile di gocce di Essenza di dittamo sulle ustioni, a seconda del peso e dell’età del soggetto.”
Accanto a lui sentiva gli altri allievi trattenere il respiro, mentre il volto arcigno di Smethwyck lo scrutava come a volergli trapassare la scatola cranica. Albus si chiese se volesse farlo davvero, per poter così capire se al suo interno ci fosse qualche trucco che lo rendeva un allievo valido e non il bamboccio raccomandato che credeva fosse.

Potrebbe chiedere a mia sorella. È una LeNa, saprebbe dirglielo.
Peccato che sia mia sorella, suppongo.
“Mh.” Fu il commento finale del Guaritore, dandogli le spalle e riprendendo ad incedere trai pazienti allettati.  
“Ottima parata, Potter.” Gli sorrise Achille Light, un massiccio ragazzone di colore con cui condivideva il corso. Era stato a Serpeverde un paio di anni avanti a lui e tentava l’esame da Guaritore da altrettanti. “Smeth poteva darti un po’ di soddisfazione però.”
“Dovrebbe congelare l’inferno prima che accada.” Replicò con un sospiro.

“È così ingiusto con te…” Mormorò con tono di autentico dispiacere Sofia Chang, ex-Corvonero, una delle campionesse in lizza per l’ultimo Tremaghi e Meretrice per vocazione a sentire Tom.
Credo che non sia mai andato oltre ai cioccolatini di San Valentino e l’invito ad uscire che mi ha fatto due anni fa.
“Noi Potter non siamo nuovi alle ingiustizie da parte dell’autorità costituita.” Scherzò, ma neppure troppo. “Dai, non rimaniamo indietro, o passeremo la pausa pranzo a svuotare i vasi da notte dei pazienti. Senza magia, come l’ultima volta.”
Gli altri due, gli unici allievi assieme a lui che Smeth avesse ammesso al suo cospetto, si affrettarono di fronte alla disgustosa prospettiva.

Sempre un grosso incentivo …
La visita giornaliera continuò senza scossoni, tranne qualche occasionale frecciatina del Guaritore più anziano alle loro risposte, secondo lui perennemente incomplete. Al si era ormai abituato al modo di fare dell’uomo e sapeva come arginarlo, ovvero con un bel sorriso e la risposta pronta sulla lingua. Essere stato un serpeverde gli aveva insegnato a tenere a bada personalità simili.
Non devo piacergli, e non mi deve piacere.  
Ad ogni buon conto, alla fine dell’anno accademico avrebbe sostenuto l’esame di qualificazione per la professione Medimagica; non vedeva l’ora.
Diventerò un collega e non un allievo. E poi ha una certa età … Ritirarsi a vita privata potrebbe essere un’opzione molto presto.
Fece un sorriso distratto a Sofia dato che gli stava chiedendo di pranzare assieme. “Mi dispiace, non posso. Ho già un appuntamento per pranzar fuori con mia sorella.”
“Ma se la mensa è buonissima!” Esclamò Achille, che da bravo Purosangue poco apprezzava il mondo Babbano per quanto non vi fosse particolarmente ostile. “Che bisogno c’è di uscire?”
“Vallo a dire a Lily.” Si strinse nelle spalle. “Comunque devo dire che Hyde Park in questo periodo è stupendo per passarci la pausa pranzo. Un giorno venite anche voi…” Vedendo il viso di Sofia accendersi d’entusiasmo si affrettò a eludere elegantemente. “… quando non sarò motorizzato.” Assaporò la parola perché la trovava incredibilmente buffa.
“Davvero Potter, proprio non ti capisco.” Sospirò Achille scrollando le grosse spalle. “Uno di quei cosi babbani con le ruote … Non è meglio una scopa?”
“Certo che è meglio.” Riconobbe. “Ma la scopa dovrei disilluderla, e ci vorrebbe un sacco di burocrazia per farle sorvolare Londra. E poi non potrei portarci nessuno. Il suo corrispettivo Babbano non è così male, sai?”
“L’ho visto, sai.” Gli fece il verso. “Quel tuo coso è rosso. Quale serpeverde cavalca rosso?”

“È un gran bel colore!”
“Sei sicuro di essere stato un nostro Caposcuola?” Achille fece una smorfia esagerata, facendo ridere persino Sofia, che da corvonero non poteva cogliere a pieno certe loro frecciatine. “Come ti pare comunque. Ci vediamo dopo.”
“A dopo Albus.” Sorrise la ragazza. “Però uno di questi giorni organizziamo per mangiare fuori con te e Lily, va bene?”
Se non vuoi essere aggredita in un vicolo scuro da quello psicopatico geloso del mio ragazzo credo di no.

“Sicuro.” Sorrise dismissivo. “Buon pranzo ragazzi.”
 
Se c’era una cosa che adorava quando capitava che lei ed Albus pranzassero assieme era la modalità di viaggio. Per arrivare ad Hyde Park dal San Mungo il percorso più rapido era con la metro ma il fratello non aveva particolarmente in simpatia quel mezzo di locomozione; la trovava claustrofobica.
Per quanto trovo assurdo che a dirlo sia una persona che ha vissuto per sette anni in un sotterraneo.
Per lo stesso motivo non la usava per nessun tipo di spostamento all’interno di Londra. Usava invece Sally, il favoloso motorino italiano che si era comprato poco dopo il suo arrivo ufficiale in città. Lily lo adorava, perché oltre ad avere una forma buffa era di un rosso accesso, il suo colore preferito.
L’altro le aveva anche spiegato come fosse un’edizione aggiornata di un modello che andava in voga durante gli anni ’70 del vecchio secolo e che fosse una rarità trovarla al buon prezzo a cui l’aveva trovato, grazie alla mediazione della sorella di Tom, Alicia.
Ha detto anche un mucchio di altre cose ma ho smesso di ascoltarlo … Che tu sia un mago o un babbano o che usi una scopa o un motocoso … Beh, sempre noioso sei dal mio punto di vista.
Maschi.
Comunque Sally le piaceva. Le piaceva sentire il vento sul viso e, anche se non apprezzava le condizioni dei suoi capelli dopo aver indossato un casco, le piaceva la velocità come la possibilità di non ingoiare insetti di varia taglia come quando si cavalcava una scopa.
Anche in quel momento, con le braccia strette attorno alla vita dell’altro, si vedeva sfrecciare la città ai lati e pensava che era proprio una buona giornata.  
Le cose mi vanno bene. Voglio dire, bene sul serio. Faccio qualcosa che mi piace, qualcosa di utile, hanno tutti smesso di guardarmi come se fossi una povera ragazzina traumatizzata ed ho persino un ragazzo presentabile.
E non ho infranto quella promessa.
Sto diventando un membro propositivo della società e mi fa meno orrore di quanto pensassi!
Appoggiò il mento sulla spalla dell’altro. “Stasera mangiamo giapponese?” Gli urlò per farsi sentire oltre la selva di motori, smog e clacson. Al aveva una guida piuttosto spericolata e spesso e volentieri si faceva inseguire da una cacofonia di automobilisti infuriati.
“Te l’ha chiesto Tom?” Replicò sterzando bruscamente per evitare di investire una serie di operai nei pressi di un tombino. “Perché sta diventando una specie di ossessione quel dannato pesce crudo!”
“È raffinato e buonissimo. Raffinati!” Replicò punzecchiandogli un fianco e facendolo quasi sbandare. Da fuori potevano sembrare due folli su due ruote, specialmente considerando che Al obbligava chiunque salisse su Sally ad indossare degli enormi occhiali protettivi, gli stessi che usavano i giocatori di Quidditch e gli aviatori babbani. Forse era questo il motivo per cui Tom non ci era mai salito.

Questo e il metodo di guida tipico di noi maghi: credo che violi circa una cinquantina di norme sulla sicurezza stradale.
“Va bene, va bene! Viene anche Scott?” Quasi inchiodò per evitare una coppia di anziani che li guardò spaurita prima di essere lasciata alle spalle con un gran stridio di gomme.
“No, non credo, avrà da fare fino a ta … Camion!” Gridò indicando l’enorme tir il cui muso puntava nella loro direzione. Al sterzò di nuovo e quasi finirono sul marciapiede seminando terrore trai poveri pedoni. “Ehi, evitiamo la polizia come l’ultima volta magari!” Si sentì in dovere di fargli notare.
“Ah, già!” Convenne mettendo il broncio, poteva vederlo dallo specchietto sul manubrio. “Non che non potrei seminarla…” Soggiunse con un sorrisetto inquietantemente sereno.
In qualche modo, è un Potter-Weasley anche lui.
“Sì, ma anche no.” Replicò mettendo le frecce dato che l’altro se ne dimenticava puntualmente. “A proposito, ho lasciato detto a mamma di mandarmi la posta di oggi a casa tua visto che ieri ero da Roxie e Dion. Stamattina è arrivato niente?”
“No, non mi sembra!”
“Dall’America?”

Lo sentì irrigidirsi come un ciocco di legno sotto la sua presa. Sospirò appena, perché conosceva il motivo.
Tra lui e Jamie sarei diventata miliardaria se solo avessi ricevuto uno Zellino per ogni volta che hanno tentato di farmi una ramanzina in merito.
“Aspetti una sua lettera?” Solo Al riusciva a suonare calmo e cortese e al tempo stesso farti capire quanto male considerasse la persona di cui parlava.
“Come tutti i venerdì. Ma probabilmente arriverà domani mattina.” Replicò tranquilla, per quanto potesse esserlo urlandogli nel timpano. “Non fare quella faccia!” Non poté trattenersi.

“Quale faccia?” Fu l’ovvia risposta. “Non faccio nessuna faccia. Sono concentrato, sto guidando!”
“Concentrazione e guida non sono due cose che metterei assieme quando parlo di te.” Ironizzò. “Dai, son solo lettere. Non è come…”
“Non ti sento bene. Me lo dici quando arriviamo, okay?” Tagliò corto, cocciuto come il mulo che era. Lily sospirò e lasciò cadere l’argomento. Anche perché fu più occupata a strillare di togliersi dalla corsia in senso inverso che avevano appena invaso.

 
****
 
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.
Padiglione Autopsie.
 
“Ehi, speriamo che l’agente americano sia almeno una bella ragazza!”
“Potty, davvero? Sei un giovanotto impegnato, io certe uscite le eviterei.”
“Ah, andiamo! Teddy sa che ho gli occhi, diversamente da Rose.”
“Lo sa anche lei, per questo me li caverebbe nel caso facessi pensieri del genere. Sai, per sicurezza.”
“Malfoy, sei uno zerbino.”
“Uno zerbino che fa un sacco di sesso, ergo…”
“Ah, Merlino! Non azzardarti ad affiancare quella parola a mia cugina! È disgustoso!”

“Sesso!” 
 
James si premurò di rifilare una gomitata al costato di Scorpius, il quale evitò il colpo ed aprì le porte a molla del reparto autopsie del San Mungo per lasciar passare sia lui che l’altro. Era la prima volta che Potter lo accompagnava a prelevare il referto di un autopsia e poteva esser ovvio per chiunque a giudicare dalla faccia disgustata che aveva.
Dev’essere l’odore di formaldeide.

“Non vomitare, Potty. Qualcuno qui ha il nasino delicato?”
“Fottiti.”
“Con molto piacere.” Ghignò allegro. “Comunque su una cosa hai ragione … Anch’io spero che ci mandino una donna. Se capita una tipa dritta come quella che ha curato le indagini durante il Tremaghi siamo sulla scopa. Non dovremo neanche parlare lentamente per farci capire!”
James annuì solidale. “Il sergente … no, adesso credo sia capitano … Gillespie è in gamba. È riuscita persino a far cambiare idea a mio zio Ron riguardo agli americani e alle streghe nelle forze dell’ordine!”
“Sì, avevo notato che era un tipetto pieno di pregiudizi infondati.” Frecciò stiracchiandosi. “Quando dovrebbe arrivare la nostro controparte yankee?”
“Mercoledì della prossima settimana, a sentire il sergente Flannery.” Replicò distratto, occhieggiando la serie di teche lungo il corridoio che avevano macabramente esposte parti anatomiche sotto spirito. “Questo posto mi mette i brividi. Cioè, credi siano vere?”

“No, sono fedeli riproduzioni in scala. Certo che sono vere.” Inarcò le sopracciglia. “Se questo posto ti mette i brividi dovresti vedere il laboratorio di pozioni privato al Manor.” Sfoderò un sorriso sfavillante. “Abbiamo anche delle teste.”
“Voi Malfoy siete degli squilibrati…” Borbottò incrociando le braccia e serrandole al petto protettivo. “Con quale psicopatico dobbiamo parlare per farci dare il referto?”
“Lascia fare a me.” Lo rassicurò dandogli una pacca sul braccio. “Vuoi che ti tenga la manina?”
“Ci sono momenti in cui mi chiedo perché te l’ho stretta in primo luogo Malfuretto…”
“Semplice, avevo appena consolato il tuo povero cuoricino infranto. È stato amore, non negarlo.” Gli strizzò l’occhio rimediandosi un gestaccio. “Ah, ecco là! È l’ufficio del Capo Mortuario. Gravestone.”
“Si chiama davvero così?” James spalancò la bocca avendone conferma dal nome impresso a lettere dorate sul vetro della porta. “Dai, non ci credo! L’hai modificato tu adesso!”

Nomen omen.” Ghignò bussando. Cercò di non ridere quando sentì il respiro brusco e la risata trattenuta alle sue spalle quando venne loro aperto. Il capo mortuario Gravestone sembrava uno dei cadaveri che esaminava per professione; pallido, altissimo e ossuto aveva radi capelli bianchi e enormi occhiali che rendevano le pupille capocchie di spillo. Aveva sentito dire che era stato soprannominato amichevolmente Infero dai suoi colleghi.
Come non dargli ragione?
“Buongiorno Miles.” Sorrise affabile, stringendogli la mano con moderata forza dato che aveva sempre paura di sbriciolargliela in un nugolo di polvere. “Come va la sciatica?”
“Sempre tremenda. Temo che ormai l’ora che finisca su uno dei miei lettini sia giunta.” Sospirò l’uomo la cui voce gli ricordava incredibilmente quella del professor Rüf.
“Via, via, sei ancora un giovanotto!” Lo rassicurò ignorando il rumore nasale proveniente dal compagno, che sicuramente aveva cercato di mascherare una risata tirandosela su per il naso. “Allora, siamo qui per quel mago americano, Sam Howe. Referto e tue considerazioni personali, come al solito.”
Il mago sospirò, quasi gli costasse un enorme fatica voltarsi verso gli schedari. Prima di farlo però puntò gli occhi miopi su James e lo sguardo gli si accese di colpo. “È nuovo?”
“Chi, lui?” Scosse la testa. “No, non è un allievo. È uno dei miei compagni di squadra.”

“James Sirius Potter al suo servizio!” Si annunciò l’altro tutto tronfio. Era impossibile non notare come calcasse sempre sul cognome e come godesse nel vederne le reazioni. Scorpius gli voleva troppo bene per farci ironia feroce come faceva invece suo padre appena ne aveva l’occasione. 
Gravestone fece un sorrisetto sottile, simile ad uno strappo su una pergamena. “Potter, eh? Non ha un colorito che definirei sano.” Esordì con gli occhietti che scintillavano. “È andato a farsi il check-up annuale ai piani superiori? Perché con tutte le maledizioni che affrontate per lavoro… Ti ho mai raccontato di quell’auror che sembrava godere di una salute di ferro fino a quando non è caduto stecchito durante un appostamento?”
Prima che Potter si credesse definitivamente ammalato di un orribile morbo letale, Scorpius scosse la testa. “Su, smettila di spaventarmi il collega. Ne ho solo due e lui è il mio preferito.” Indicò verso gli schedari. “Referto.”
Mentre l’uomo si allontanava con il passo di una lumaca James gli fu subito addosso. “Ohi, ma ho davvero una brutta cera? Cioè…”
“La prima volta che Miles mi ha visto ha predetto che sarei finito su uno dei tavoli operatori entro la fine dell’anno. Son due anni che vengo qui. Adesso capisci perché il Sergente è stato ben lieto di lasciarmi il compito e così Bobby?”

James lasciò scivolare la mano tra le gambe con aperta disinvoltura. “Totalmente.”
“Come sei volgare Potty.”
“Mi preservo!”

“Nel punto massimo del tuo sviluppo, capisco.” Ghignò facendogli riprendere colore, almeno quello bastevole per sembrare in dirittura di placcarlo in una morsa stritolante. Fece due preventivi passi indietro. “Dai, sta’ allegro, ho quasi scelto cosa voglio fare per il mio addio al celibato!”
“Era ora!” Sorrise sollevato abbandonando l’idea di pestarlo. “Pensavo di doverti mettere sotto Imperio. Vuoi le Incantatrici, vero?”
“Voglio vivere per arrivare alla prima notte di nozze, quindi no.” Replicò ignorando il suo sguardo esasperato. “Poker.”

Tanto ho in progetto di chiedere a Rosie di indossare uno di quei completini… Se non mi ammazza al primo colpo, è fatta.
“Poker, sul serio?” Esibì una smorfia delusa. “Ti facevo meno tradizionalista.”
“Sigari, whiskey incendiario e gioco d’azzardo. Non fare quella faccia solo perché all’addio al celibato di Dion, mini-Potter ti ha lasciato in mutande.”

“Mio fratello bara!”
“È un Serpeverde, sarebbe strano non lo facesse.” Ridacchiò. “Sul serio, devi considerare il fatto che almeno tre delle persone che conosciamo si annoierebbero a morte di fronte a dei seni nudi danzanti. Al, Mael e Michel, per non parlare di Lupin … potrebbe implodere dall’imbarazzo, temo. Quasi non ci si crede che abbia avuto uno schianto di fidanzata per anni.”
James gli lanciò un’occhiata prevedibilmente raggelante. “Infatti si è trattato di un’allucinazione collettiva. In realtà mia cugina Vitro non esiste.” Poi sbuffò, annuendo suo malgrado. “Comunque hai ragione, non ci avevo pensato. Però dobbiamo avere delle cameriere procaci che ci riempiano i bicchieri. Altrimenti non è un vero addio al celibato!”
“Perché pensi che abbia scelto il poker?” Ghignò e fu naturale darsi un cinque soddisfatto. Il sorriso gli si spense sulle labbra quando il Capo Mortuario tornò lentamente verso di loro a mani vuote.

Quando si è a mani vuote di fronte ad una richiesta ufficiale della polizia non è mai un buon segno.
“Non capisco…” Mormorò l’uomo togliendosi gli occhiali e tamponandosi la fronte con un fazzoletto per togliersi la polvere di anni ed anni di materiale cartaceo che aveva spulciato. “… non riesco a trovarlo.”
“Che significa?” Esclamò James, abbandonando l’espressione gioviale per sostituirla con quella da battaglia. “Cosa non riesce a trovare?”
“Il referto.” Esplicitò il mago. “Non è dove dovrebbe essere. Cataloghiamo ogni sera le cartelle e chiudiamo gli schedari a chiave. Senza contare le protezioni magiche che mettiamo alle porte del reparto. Non c’è. E quando ho provato a vedere se qualcuno dei tirocinanti l’aveva lasciato assieme all’urna delle ceneri …” Fece una pausa, poi scosse la testa, quasi non credesse a quello che stava per dire. “Non ci sono neanche le ceneri. Né i suoi effetti personali. È come se il vostro cadavere non fosse mai esistito.”

“Sto cazzo!” Tuonò James. “Altro che non esistito. Vi siete persi la sua roba!”
Il mago si erse in tutta la sua altezza, lanciandogli un’occhiata indignata insolitamente vitale. “È impossibile che perdiamo qualcosa. Ogni referto ha un incantesimo Tracciante, se fosse stato lasciato da qualche parte mi sarebbe bastato appellarlo. Lo stesso vale per l’urna e gli effetti personali. Siamo professionisti.”  

Scorpius inspirò; quello decisamente non era un buon segno.
Perché rubare il referto autoptico e le ceneri di un mago? 
Evidentemente parlava troppo anche da morto.
“Non stiamo mettendo in discussione le vostre capacità, Miles.” Intervenne conciliante. “Comunque, per favore, ribaltate l’intero padiglione, se necessario.” Ed era un ordine mascherato da richiesta. Dopotutto, avevano un distintivo. “Se trovate il referto, l’urna o anche solo il suo portafoglio mandateci subito un Gufo. Noi torniamo in ufficio.” Diede un colpetto al gomito dell’altro  e dopo essersi accomiatati uscirono dalla stanza.
“Perché diavolo qualcuno dovrebbe rubare un mucchietto di polvere e una cartella?” Sbottò James aggrottando le sopracciglia. “Cosa ci poteva esser mai scritto a parte che era morto ed era sicuramente pieno di magia oscura?”
“Altro.” Sospirò passandosi una mano trai capelli. “Indubbiamente, Potty, ben altro.”
 
****
 
America, Boston.
Ufficio SAGITTA. Pomeriggio.

 
“Così te ne vai una settimana in Inghilterra! Ti darei del fortunato, ma dicono che le bellezze locali non siano ‘sto granché e che piova sempre!”
“Non è una settimana, sono appena tre giorni.” Parve rifletterci. “In merito alle bellezze locali non saprei dirti. Non ho mai visitato musei o siti archeologici britannici.”
Rico guardò con autentico dolore il proprio partner. “Dimmi che non sei serio …”
“Prego?”
Sospirò, sedendosi meglio sullo scampolo di scrivania che si era scelto per fare il terzo grado a Prince, che dal canto suo stava finendo di scrivere il rapporto senza degnarlo di un’occhiata; dalle borse sotto gli occhi e il viso tirato era un miracolo gli rispondesse persino.

“Comunque si vede che sprizzi entusiasmo!” Poi chiarificò. “Sono ironico.”
“L’avevo intuito.” Replicò sfilando dalla macchina da scrivere l’ultima pagina del corposo rapporto sul caso Ushowitz. “Non mi piace lasciare a metà i casi a cui sto lavorando. È questo il motivo del mio malcontento.”

Ceeerto. E dovrei anche crederci!
“Non abbiamo casi pendenti, questo l’abbiamo appena chiuso con l’arresto del sospetto.” Aggrottò le sopracciglia. “Non è che hai fifa da Passaporta?”
“No.” Compattò la massa di fogli e la spillò con tanta forza da far risuonare il rumore metallico per buona parte dell’ufficio. Rico osservò meditabondo l’operazione.
Cattivo umore da record.
Non lo disse ad alta voce però, limitandosi a schioccare le labbra. “Vista la tua imminente partenza, dobbiamo fare una serata con i ragazzi.” Gergo virile per intendere un giro di bevute al pub. “Se parti mercoledì potremo farla martedì sera. O questo fine settimana, che dici?”
“Starò via solo per pochi giorni, non c’è nulla di rilevante da festeggiare.” Tese le labbra in un sorrisetto tutto fuorché allegro. “Anche se sono certo che Murphy e gli altri saranno ben lieti di celebrare la mia assenza.”
“Dai guey, ora non vedere tutto storto … Non è che ce l’abbiano con te, devono solo giocare a fare i duri poliziotti di quartiere.” Stornò anche se non se la sentiva di dargli tutti i torti: Sören non era particolarmente bravo ad ingraziarsi le persone, sia per il suo passato misterioso sia, soprattutto, per l’atteggiamento rigido con cui si interfacciava all’universo mondo. Più che vederci riservatezza la maggior parte delle persone ci vedeva arroganza.

Che sì, secondo me è pure un po’ vero che guarda dall’alto in basso, ma dai … Chissà come l’han cresciuto! È un Purosangue, no?
Come i cavalli!
“Senti, possiamo anche andare solo io, te e Milo.” Lo incoraggiò dandogli una pacca sulla spalla. “Non lascio partire il mio compagno senza averlo salutato con un paio di birre, está claro?”
Sören sorrise appena, stavolta sincero. “Claro.” Non si vedeva dalle labbra, ma dagli occhi. Non aveva mai visto nessuno averli tanto espressivi.
Ed è un maschio. Insomma, è un po’ imbarazzante, ma dopotutto con uno così è difficile esser maliziosi.
La sua abuela l’aveva conosciuto, quando lo scorso Natale era finalmente riuscito ad invitarlo al cenone familiare. La donna aveva parlato con Sören a lungo durante la cena, o meglio, gli aveva fatto un sacco di domande a cui l’altro aveva risposto a monosillabi, ma sempre impeccabilmente cortese, come si trovasse di fronte la regina d’Inghilterra e non una vecchietta in sedia a rotelle.
Poi mi ha preso da parte e mi ha detto che era contenta che avessi un amico del genere a pararmi le spalle. Lei, che odia il lavoro che faccio.
Gli aveva anche detto che Sören aveva gli occhi di un niño ed era per questo che si fidava a lasciarlo nelle sue mani.
Non ho capito il nesso, ma diavolo se è vero. Ha gli occhi di un bambino.
Non li avuti sempre così però… Non quando era appena arrivato qui.
Non si vergognava ad ammettere che si sentiva un po’ come se gli stesse partendo un fratellino minore.
Specie perché è ovvio che non ha nessuna voglia di tornare nel Vecchio Continente.  
Chissà se ci sono ancora i suoi fantasmi, laggiù…
“Però niente locale gay come l’ultima volta! Il posto lo scelgo io!” Esclamò, per affrancarsi da quella serie di pensieri troppo melensi.
“Non sapevo fosse un locale gay, Milo non me l’aveva detto.” Fece una smorfia irritata. “Ti ho già chiesto scusa.”
“Era pieno di uomini vestiti di pelle! Solo di pelle! Con le chiappe al vento! Avrei voluto bruciarmi i globi oculari…” 

“Avrai visto uomini nudi in vita tua, suppongo.” Inarcò le sopracciglia e non c’erano storie, adesso lo stava prendendo in giro. Non che non fosse un tipo ironico, Prince. Bastava conoscerlo meglio per capire che di umorismo ne aveva, solo talmente sottile da esser frainteso il più delle volte. “Trovo eccessivo il tuo turbamento.”
“Ammiccavano! Ho ricevuto delle proposte oscene!”  
 
“Finalmente avete deciso di dichiararvi, colombelle?”

Sören non aveva mai capito perché l’agente Murphy ce l’avesse con lui. O meglio, sapeva il motivo per cui lo disprezzava.

Deve aver capito che il mio cursus honorum ha ben poco di onorevole.
Il motivo per cui lo omaggiasse continuamente con frecciatine e battute volgari degne della peggiore bettola nell’irrisolto tentativo di scontrarsi fisicamente con lui invece proprio non lo comprendeva. Non gli sembrava di aver mai fatto nulla per inimicarselo, anzi; era sempre stato corretto nei suoi confronti.
Dopo i loro primi approcci aveva semplicemente imparato a non badarci troppo e a limitarsi ad ignorarlo.
Non voglio esser costretto a fargli male se si scalda troppo.  
“Dai, non fare il coglione Eoin…” Sbuffò Estevez. “Che poi le voci girano ed io e Prince ci troviamo con una lista nozze entro la fine dell’anno.” Soggiunse evidentemente per ingraziarselo.
L’altro agente, la cui testa rasata brillava alla luce dell’illuminazione artificiale dell’ufficio, fece un verso sarcastico. “Beh, ma mi pare steste organizzando qualcosa di soppiatto … Il vostro primo appuntamento?” Cercò approvazione dai colleghi nelle scrivanie dietro di lui che ridacchiarono in risposta.
Ottica del branco. La conosco bene. Mai appoggiata.
“Prince se ne va in Inghilterra per seguire un caso come agente di collegamento.” Spiegò il portoricano stringendosi le spalle. “Volevo offrirgli un giro di bevute prima della traversata, tutto qua.”
“Ah, già … Ti fai un viaggetto a spese dei contribuenti, Prince?” Lo apostrofò piazzandosi le mani sui fianchi e tirando fuori il petto. Non si accorgeva di farlo ovviamente, era piuttosto un movimento inconscio che parlava di aggressività.
Non è ancora arrivato allo stadio successivo, in cui diventa platealmente aggressivo. Potrebbe però.
Meglio non dargliene motivo.
“Qualcuno sarebbe comunque dovuto andare.” Replicò neutro.
“Inghilterra … Mai stato?”

Sören si frenò dal rispondere a tono, ignorando la serie di occhiate che gli vennero lanciate sia dal suo partner che dagli altri agenti. “Sì, ci sono stato.” Aveva fatto una promessa cinque anni prima. Mai mentire. A volte era dura da rispettare.
“Sempre loquace, ah?” Schioccò la lingua squadrandolo dal basso all’alto. “Saresti un osso duro, da interrogare…”
Sören sentì la mano formicolare e l’ansia crescere. C’erano ombre che non si erano ancora diradate nel suo animo, avrebbe detto con un’ampia metafora Milo. Era vero. Sapeva di essere un mago libero e che avrebbe continuato ad esserlo se si comportava secondo coscienza.

Questo non toglie che non sia sempre stato così. Te li ricordi sì, gli interrogatori?
“Falla finita, Murphy.” Lo apostrofò duro il collega, con un tono che usava raramente e solo per i sospettati più recalcitranti. L’aveva guardato un bel po’ prima di usarlo. Chissà cosa aveva letto nella sua espressione.
Credevo di essermi Occluso. Credevo.
“Oh, via, non fare Mamma Oca!” Tuonò l’altro, aggressivo nel tono ma non nell’atteggiamento. Si ripresentava quindi l’ipotesi che ce l’avesse solo con lui. Con Estevez era guascone e sardonico, ma mai ostile. “Stavo solo scherzando!” Gli lanciò un’occhiata sarcastica. “Il principino non se l’è presa, vero?”
Sören nascose il pugno serrato nella tasca dell’uniforme. Lo sentiva bollente.
C’era una sola persona che poteva chiamarlo così, e quando lo faceva comunque non aveva lo stesso, maledetto tono di John Doe. Milo se n’era sempre guardato bene.
“Ehi, sto parlando con te!” Perché tipi massicci come Murphy, nonostante fossero dotati di bacchetta e magia, avevano sempre l’istinto primario di gonfiare i muscoli?
Ti potrei spezzare il braccio all’altezza del gomito e farti usare la bacchetta coi denti per il resto della tua vita.
Se volessi.
“Sei diventato muto?” Lo incalzò. Doveva essere stata una brutta giornata, rifletté Sören vedendo la vena della fronte dell’altro mago pulsare. Magari un mancato arresto o un litigio con la moglie.
Temo quindi di essere il suo perfetto capro espiatorio.
Non che la cosa gli arridesse. Non che non potesse reagire, date le premesse.
Non cerco la rissa. Ma sono un Prince. Non mi faccio umiliare.
“Non sono muto.” Replicò cercando di controllare l’irritazione che provava. Murphy era un buon agente, ma non un essere umano degno di nota. “Ti prego però di indirizzare la tua rabbia in modi più costruttivi che cercare di litigare con me.” Sapeva che non avrebbe dovuto aggiungere altro, che già così rischiava, ma … “Mi hanno detto che i corsi di gestione controllo della rabbia organizzati dal Ministero fanno miracoli.”
Pessima idea.
Perché si sentì afferrare per il risvolto della giacca dell’uniforme e tirare su di peso. Concentrò quindi ogni sua singola energia nello strenuo tentativo di non far scattare i riflessi.
Anni. Anni in cui mi hanno insegnato che neutralizzare l’avversario era l’unica via.
Non è facile non farlo. Forse quei corsi servirebbero anche a me.
“Murphy, piantala!” Sentì la voce di Estevez e il suo conseguente scattare in piedi come l’agitarsi degli altri agenti, pronti a separarli in caso di rissa.
Fortunatamente, non servì.
“Che diavolo state facendo?”
Era leggendaria la poca pazienza del sergente Ama Gillespie. Difatti Sören si sentì mollare di colpo, mentre Murphy faceva un rapido passo indietro.

“Niente Sergente.” Borbottò, quasi fosse uno scolaro colto sul fatto e non un armadio pieno di tatuaggi di fronte ad una ragazza che era esattamente la sua metà. “Io e l’agente Prince stavamo facendo due chiacchiere.”
Sören di fronte all’aria scettica della strega emise un lieve sospiro.
Ha mai funzionato una scusa così patetica? Dubito.
“Dev’esser così…” Lo stupì invece. “Dato che due agenti come voi sanno benissimo che porterebbe ad una sospensione disciplinare comprensiva di sequestro della bacchetta.” Inarcò le sopracciglia. “È giusto?”
“Giustissimo.” Deglutì l’uomo, dandogli una forte pacca sulla spalla per nascondere forse il desiderio di lussargliela. “Vero Prince?”
Si scambiò un’occhiata con Estevez e poi annuì. “Sì.”

Ci sono dei casi in cui dire la verità è semplicemente stupido.
“Lo immaginavo.” La strega incrociò le braccia al petto e Sören si sentì trafiggere dal suo sguardo. “Posso sapere anche di cosa stavate parlando? Vi si sentiva per tutto l’ufficio.”
Ama Gillespie aveva gli occhi chiari, esattamente come sua madre. Una rarità nelle donne creole e in generale in quelle di colore. Solo che invece di averli celesti come il Capitano li aveva verdi.
E Sören aveva un conclamato problema con quel colore.
“Io…” Aprì la bocca ma uscì suono. Preferì abbassare lo sguardo, sentendosi perso e infuriato in egual misura. C’era un motivo per cui evitava di confrontarsi con il Sergente, a meno che non fosse strettamente necessario; primo, l’evidente ostilità dell’altra e secondo quei maledetti occhi, troppo simili a quelli che gli avevano stravolto l’esistenza.
Sono un idiota.
“Prince voleva dare una festicciola di commiato senza invitarci.” Intervenne Murphy. Avrebbe voluto Schiantarlo, ma supponeva fosse il genere di cosa che gli avrebbe strappato la bacchetta di mano in direttissima.
E anche se potrei teoricamente farne a meno, meglio mantenere le apparenze.
“Non è vero che non voleva invitarvi!” Si intromise a sua volta Estevez. “Stavamo solo decidendo il posto!” L’espressione di pietra della giovane donna era indecifrabile, e come tale portava inevitabilmente al fraintendimento. “Siamo tutti invitati, lei compresa Sergente!”
Cosa?

Prima che potesse lanciargli un’occhiata linciante che molto avrebbe esplicitato senza dir nulla la strega inaspettatamente parlò.
“Bene. Ci saremo tutti allora. Quando?”
… Cosa?

Non era il solo ad essere sconcertato, a giudicare dalle espressioni gemelle di Murphy e Estevez.
“Ma … martedì.” Balbettò il suo partner, prima di riprendersi. “Martedì sera, appena smontato dal turno. Pensavamo al Connor’s sulla Columbus, il solito.”
“Perfetto.” Lanciò loro un’occhiata riassuntiva. “Ora che avete preso una decisione, smettete di far salotto e tornare a lavorare.”
Ci fu un coro mite di ‘sissignora’ e poi la strega se ne andò. Murphy seguì velocemente il suo esempio non prima di avergli sussurrato all’orecchio ‘mi aspetto due giri di bevute, pivello’.
Finalmente soli, Estevez crollò sulla sedia scuotendo mestamente la testa. “Giuro sulla testa dei miei futuri hijos che quella strega proprio non la capisco!”
Sören annuì, troppo stupefatto per avercela con l’altro. “Credevo non volesse avere nulla a che fare con me fuori dall’ufficio…” Tentò di rifletterci, ma senza esito. “Cosa le ha fatto cambiare idea?”
“A saperlo!” Esclamò l’altro alzando significativamente le braccia al cielo. Gli scoccò poi un’occhiata valutativa. “Non è che … sai, chi disprezza compra?”

Sören fece una smorfia: era uno di quegli irritanti modi di dire che non riusciva mai a decifrare.
Perché nessuno si ricorda che la mia lingua natale è il tedesco e che l’inglese è pieno di metafore che per me non significano assolutamente nulla?
Non proprio nessuno. Lilian se n’è sempre ricordata.
“Potrebbe essere.” Replicò tanto per dir qualcosa e mettere a tacere la deriva dei suoi pensieri. “Ad ogni buon conto festeggiare non era nelle mie intenzioni e mi ritrovo ad organizzare una festa con tutto l’ufficio.” Trovò del tutto legittimo scoccargli un’occhiata densa di sottotesto. Sapeva che era più svelto di lui a carpire quel genere di cinestetica. “Com’è successo?”
Estevez si mosse a disagio sulla sedia. “Sfiga?” Tentò. “Dai, alla fine sarà una bella serata ne son sicuro.” Fece un’oculata pausa poi assunse un’aria imbarazzata. “Beh, sempre che Murphy non faccia il coglione.”
Il silenzio che ne conseguì fu più che eloquente.




****
 
 
Londra, Diagon Alley. Appartamento di Al Potter e Thomas Dursley.
Ora di cena.
 
“Questo sashimi è delizioso Tom. L’hai preso al Tokyo Diner?”
“Precisamente.”
Delizioso? È pesce crudo!”
“Pensa al tuo disgustoso kebab, Al. Ah, e lavati i denti prima di venire a letto. Non ho intenzione di tollerarti con quell’odore addosso…”
“Cosa? E tu, che avrai l’odore di una pescheria?!”

Lily scoppiò a ridere; assistere all’ennesimo battibecco tra Tom e suo fratello era sempre uno spasso, specie perché raggiungevano picchi di creatività notevole.  

Meike, ormai una presenza fissa a casa dei due ragazzi, le scoccò un’occhiata divertita: quando arrivava l’estate spostava i suoi effetti personali da Hogwarts direttamente a Londra ed era la prima ad ironizzare sul fatto che la coppia l’avesse sostanzialmente adottata.  
“Che dici, li lasciamo soli?” Chiese leccandosi le labbra su cui campeggiava un piercing che Tom non gli aveva ancora perdonato.
Dice che è tutta influenza di Lou. Ma l’ha visto Lou, con il suo look da contadino folk? Ed ha visto quanto invece Meike aborra camicette e vestitini in favore di calze rotte e magliette oversize di gruppi punk?
Che tra l’altro mi risulta gli freghi.
“Prima che si strappino i vestiti di dosso a vicenda?” Replicò facendola ridere di nuovo, specie alla faccia paonazza di Al. “Forse dovremo.”
“Non stiamo sempre… oh, andate al diavolo anche voi! Se vi ricoverano per un intossicazione alimentare riderò. Tanto.” Specificò dando un morso alla sua cena e innaffiandola con una generosa dose di Diet-Coke, bevanda per cui andava sfrenatamente pazzo da quando era venuto a conoscenza della sua chimica esistenza.
Mutti, ma lo sai come lo fanno il kebab?” La quindicenne si scambiò un ghigno con Tom. “Non è che il posto in cui vai a prenderlo brilli per norme igieniche.”
Tom assunse un’aria deliziata. Lo si capiva dallo sguardo visto che il resto del viso era anodino come al solito. “Ho sentito che quando finiscono l’agnello usano i ratti.”
“Okay, saputelli, lasciatemi mangiare in pace ed affogatevi nel vostro dannato salmone!” Sbuffò Al, lanciando comunque un’occhiata preoccupata al suo pasto. Il morso conseguente fu assai meno convinto.

“Dai Albie, ti prendono in giro.” Si sentì in dovere di rassicurarlo. “Se fin’ora non sei morto…”
“È Al, e comunque grazie per avermi appena fatto passare l’appetito.”

Lo sguardo di Tom si fece quasi dolce. Poi gli passò la sua vaschetta assumendo un’aria che poteva essere definita solo come mefistofelica. “Sashimi?”
“Ti odio!”  
“Lo so.” Lily lo vide occhieggiare alle sue spalle e ritornare privo di espressione. “C’è posta per te.” Le comunicò con la verve di un morto vivente.
“Eh?” Si voltò e vide una civetta fornita di coccarda dell’Ufficio Postale Gufico di Londra che teneva tra il becco una lettera.
Era decisamente per lei.
“Scusate!” Si erse dalla marea di cuscini disseminata sul tappeto del salottino e andò ad aprire la finestra. Quando si voltò con la lettera in mano si scontrò con lo sguardo arrabbiato di suo fratello.
Ci risiamo.
Si risedette in silenzio e allontanò la sua cena dagli occhi bramosi di Zorba, appostata poco distante. Quando vide che gli occhi di Al non si staccavano dalla lettera che si era messa in grembo trovò del tutto sensato farla scivolare nella tasca posteriore dei jeans.
Occhio non vede…
“Cosa?” Gli chiese con un sorriso conciliante. “Rispondo dopo e finisco di cenare, da brava bambina.”
“Vorrei vedere.” Fu la replica prossima allo zero assoluto.

Il silenzio che ne conseguì fu più pesante di un troll svenuto e Lily sentì l’impulso di abbracciare Meike quando saltò su dicendo che voleva far loro ascoltare un nuovo gruppo che Lou le aveva passato.
Mentre le prime note si diffondevano nella stanza e Meike costringeva Al a prendere metà di una serie di involtini thai stordendolo di chiacchiere, Tom si chinò per parlarle all’orecchio.
“Potresti evitare di farle recapitare qui, visto come reagisce.” Non era un’aperta accusa eppure provò comunque una punta di fastidio.
“Sono solo lettere. Non è come se avessi a che farci di persona, no?” Sospirò. “Gliel’ho spiegato cento volte che si tratta solo di una promessa che sto mantenendo. Se lui mi scrive, non posso non rispondere!”
“Perché no?”
Lily si morse le labbra. Spiegare un concetto del genere ad una persona che deficitava in empatia sarebbe stato come insegnare la cerimonia del the giapponese ad un Troll di Montagna.

Irrealizzabile.
“Sono maggiorenne e so a chi sto scrivendo.” Tagliò corto. “Una lettera al mese non lo rende un rapporto pericoloso. Non lo rende niente.”
Tom aggrottò le sopracciglia, poi si strinse le spalle. “Come dici tu.”
È come dico io.”

La conversazione si chiuse lì e Lily si limitò quindi ad ascoltare la serie di canzoni selezionate da Meike senza un solo pensiero in testa.
Era il modo in cui era riuscita ad andar oltre, ed era un gran bel modo.
 
You were never supposed to leave
Now my head's splitting at the seams …

 
 
****
 
Inghilterra, Devon. Il Mulino.
Dopocena.
 
Harry alla fine si era convertito al televisore.
Più che convertito era tornato alle origini, anche se i ricordi dai Dursley non glielo avevano mai fatto prendere in simpatia. Ricordava bene come gli fosse proibito guardarlo e come fosse costretto a sbirciare il telegiornale estivo dal giardino curato di Petunia.
Non è che abbia bei ricordi in merito, ecco.
Non ne aveva quindi mai sentito la mancanza. Poi Lily si era diplomata, era tornata a casa in pianta stabile e pochi mesi dopo gliene aveva regalato uno per Natale – ovviamente per poterne usufruire.
Sua moglie aveva accolto quella novità con la consueta dose di curiosità mista a scetticismo con cui si interfacciava alla tecnologia Babbana, e dopo un’attenta analisi della faccenda aveva decretato che era piacevole guardare un film sul divano di tanto in tanto. Si era così scoperta a prediligere i film d’azione e ad apprezzare il calcio, tifando i Saints di Southampton per prossimità geografica.
Quella era una delle sere deputate ed Harry avrebbe voluto davvero seguire la trama del film, che si prometteva interessante dai commenti fuori campo di sua moglie…
Il problema è che ogni volta che mi metto davanti alla tv … Beh, mi addormento.
“Harry, guardare un film con te è meno stimolante di avere una pila di cuscini accanto!” Commentò questa con un sospiro.
“Mh.” Emise allo strenuo delle sue forze. Non era colpa sua se aveva passato la mattina a timbrare carte e ricevere rapporti dai suoi sottoposti.
È più sfiancata che esser sul campo.
Sprofondò in un appagato dormiveglia e fu solo dopo il quinto squillo del telefono che capì che stavano ricevendo una chiamata vera.
“Harry!” Ginny indicò lo schermo. “Vai tu.”
“Agli ordini…” Bofonchiò togliendosi gli occhiali e massaggiandosi gli occhi appannati. Afferrò maldestramente la cornetta e ci mise qualche secondo per ricordare la parola di rito.

Non che la usi granché.
“Pronto?”
“Harry, sono Eleanor.”
Batté le palpebre recuperando un minimo di lucidità. “Nora, che piacere sentirti!” Sorrise: avrebbe dovuto ricordarsi che l’americana era una delle poche ad utilizzare quel mezzo di comunicazione con lui.

I maghi americani probabilmente hanno cominciato ad usare il telefono nell’anno in cui è stato inventato.
La sentiva ogni tanto, soprattutto a compleanni e feste comandate. Con quel che avevano passato assieme non poteva non considerarla un’amica a cui avrebbe affidato la sua stessa vita. Sapeva che per l’altra era lo stesso.
“Spero di non aver chiamato ad un orario scomodo. Faccio sempre fatica a calcolare il fusorario … Dovrebbero essere le nove da te, giusto?”
“Corretto.” Convenne stiracchiandosi. “Sono io che ho la brutta abitudine di addormentarmi davanti al televisore. Come stai?”

“Impegnata, come sempre.” Fu la risposta del tutto comprensibile visto il ruolo che entrambi ricoprivano. “Ah, salutami Ginevra.”
Occhieggiò la moglie che distratta sillabò la stessa frase. “Ricambia. È molto presa da un film d’azione … credo l’Ultimo dei qualcosa?”
“Moicani.” Replicò divertita l’americana. “È una gran bella pellicola.” Fece un’oculata pausa e Harry percepì distintamente esitazione. Se ne preoccupò. “Se hai tempo, ti dovrei parlare.”
Ah, ecco.

Non potevano essere problemi personali; lui e Nora non avevano quel genere di rapporto, vuoi la lontananza vuoi il fatto fosse comunque un uomo sposato e l’altra una vedova attraente. Non se l’era mai sentita di approfondire la conoscenza a quel livello, né la strega l’aveva mai pretesa.
Quindi possono solo essere grane di lavoro…

“Sono a disposizione.” Rispose. “Tanto temo di essere pessimo, come compagno di film…” Sorrise all’annuire conseguente di Ginny. “A proposito di cosa?”
“Ho preferito contattarti per telefono, piuttosto che mandarti un Gufo Continentale. Con il week-end di mezzo sarebbe arrivato lunedì e se c’è una cosa che detesto è quando le notizie mi arrivano troppo tardi. Mi pare di ricordare sia lo stesso per te.”
“Ricordi bene.” Convenne dando le spalle alla moglie con un movimento che sperò fosse percepito come casuale. “Riguarda il lavoro?”

“Il lavoro e non solo.” Fece un profondo respiro. “Penso ti sia arrivata sulla scrivania una nostra richiesta di accesso ad uno dei vostri casi.”
“Sì, dovevo autorizzare un vostro agente di collegamento e l’ho fatto. Ieri mi pare. Credo sia un caso di giurisdizione congiunta … un mago Oscuro americano, forse?” Tentò di ricollegare. Ogni giorno che Merlino metteva in terra gli arrivavano tonnellate di pergamene; quella la ricordava solo perché trattava di un caso assegnato alla squadra di James.

Diciamo che rispetto agli altri i suoi casi mi rimangono più impressi…
“Esatto.” Fu la risposta. Eleanor non era tipa che amava girare attorno ad un concetto e gli sembrava quindi strano fosse così riluttante a parlar chiaro. “Quello che ti sto dicendo non te lo sto dicendo come Capitano della mia task-force, ma come amica. Vorrei che questo ti fosse chiaro.”
Non una buona premessa…
Per via dell’ufficiosità dei loro rapporti lavorativi durante il caso Von Hohenheim l’altra era quasi stata spedita alla sotto-sezione Centauri.

Un modo di dire ovviamente. Non credo in America abbiano un ufficio del genere … Ma di certo ha rischiato di far da timbra carte per il resto della sua vita.
Dev’esser qualcosa di grosso.
“Allora non ascolterò come Capo dell’Ufficio Auror.” Replicò fingendo una tranquillità che era ben lungi da provare. Era in momenti come quello che la pensione gli sembrava un’allettante traguardo. “Avanti Nora, qual è il problema?”
“Chi è, piuttosto.” Avendo avuto modo di lavorarci gomito a gomito anni prima ricordava bene il vezzo della donna ti passarsi una mano tra la criniera leonina che sfoggiava orgogliosa. Ci avrebbe scommesso la sua camera blindata che era ciò che stava facendo in quel momento. “L’agente di collegamento che vi manderò lo conoscete bene.”
E per Harry non ci fu bisogno di dire il nome dato che era l’unico motivo di screzio tra lui e la persona al di là del filo.

Lui?” Poteva quasi percepire la moglie voltare la testa di scatto e irrigidirsi.
Non poteva darle tutti i torti.

“Sì, Harry. Sören.”
 
****
 
Note:

Capitolo abbastanza di passaggio, ma necessario per definire rapporti di forza e personaggi.

Questa la canzone del capitolo. Un ringraziamento a Blankette_Girl per avermela fatta conoscere!
La seconda canzone, quella che ascoltano i ragazzi su consiglio di Meike è questa
 
Un chiarimento. Per quanto riguarda le professioni mediche nella Rowling si capisce poco o niente  quindi ho fatto una mia classificazione estrapolando informazioni e non-detti dall’HP Wiki e il Lexicon.
Guaritore/Guaritrice: equivalente di un dottore Babbano.
Medimago/Medistrega: equivalente di un infermiere o un paramedico.
Psicomago/Psicomaga: equivalente di uno psichiatra. È sempre un dottore, ma segue un corso di studi più specifico sin dal primo anno.
Accademia di Megimagia: dura cinque anni. I primi tre sono di Medimagia generale, gli ultimi due di specializzazione, il cui ultimo è interamente sul campo (ovvero nel reparto in cui si è deciso di lavorare e specializzarsi. Per Al è lesioni da incantesimi e anche per Lily, sebbene lei andrà a lavorare specificatamente nell’ala Thickley). Alla fine dei cinque anni viene sostenuto un esame di abilitazione che, se passato, ti iscrive automaticamente all’albo dei Guaritori.

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV






Ho anestetizzato i miei sentimenti a lungo
e ora ho il desiderio di provare qualcosa e non ci riesco.
E sai perchè?
Perché dovunque vada, qualsiasi cosa mi inventi,
gira e rigira è sempre con te che mi trovo a fare i conti.
(Invisible monster, C. Palahniuk)
 
 
20 Giugno 2028
America, Boston. Ufficio del SAGITTA,
Mattina.

 
“Questi sono i permessi di indagine, i biglietti per la Passaporta Continentale e il rimborso per i tre giorni di spese.”
“Il rimborso …”
“So che puoi pagarti il tuo soggiorno a Londra, Sören, ma sono le regole. La tua presenza lì sarà spesata dal Ministero.”

Il ragazzo rilassò i lineamenti, accennando ad un assenso prima di prendere quanto riepilogato, Ridurlo e farlo scivolare in tasca.
“Sissignore.”
Nora ricambiò con un sorriso che in realtà era quanto di più lontano dal suo stato mentale; quella situazione era ridicola e frustrante. Ridicola perché era chiaro che trai coinvolti non ci fosse una sola persona che non provasse disagio. Frustrante perché nonostante questo, non si poteva evitare.
Chiamare Harry la sera prima era stato doveroso, ma non facile. L’uomo non aveva preso bene la notizia e aveva cercato di fare ostruzione in ogni modo, cadendo nel suo forse principale difetto, ovvero quello di considerare se stesso e il suo ufficio fuori dalle regole del diritto internazionale magico.
 
“È impossibile che tu non possa mandarci qualcun’altro!”
“Ti ho già detto che ci ho provato, Harry. Purtroppo non ho grande capacità decisionale, non ancora. Il SAGITTA è molto più giovane dell’Ufficio Auror e proprio per questo siamo ancora dipendenti dall’approvazione del Ministero. Quando qualche ramo non funziona, qui viene tagliato.”
“E questo cosa c’entra con quel bastardo di Scott? Perché ti ha fatto scegliere proprio
lui?”
“Sören.” Era comprensibile che l’inglese avesse sentimenti ostili verso Prince, ma il ragazzo era pur sempre un agente. Un suo agente. “Scott sta cercando di sabotare sia me che lui. Non ha mai digerito il fatto che sia riuscito a toglierglielo dalle mani.”
C’era stato un lungo silenzio al di là del filo, ma Nora era una tipa paziente e aveva ormai capito come ragionava l’Eroe dei Due Mondi.

Come un padre preoccupato. Principalmente, Harry è questo ed è ciò che lo rende l’ottimo mago che è.
“In che senso?” Aveva chiesto infine in tono più mite.
“Spera che portando Sören in Inghilterra e inserendolo nella vostra squadra la pressione sia talmente forte da fargli fare un passo falso, uno qualsiasi.” Aveva spiegato. “Considerando il suo passato, basta poco. Se sbaglia lui, io sbaglio come Capitano. Se sbaglio a giudicarlo, a dargli le responsabilità che ha, non è dunque sotto la mia supervisione che deve stare. Capisci che intendo?” 
Aveva sentito un profondo sospiro. “Sì, ma sarò franco con te … Non ho mai capito perché tu l’abbia tirato fuori da Nurmengard.” Era riuscito a inserirsi prima che potesse ribattere. “Non che non dovesse avere una seconda possibilità, non fraintendermi. Tutti ne abbiamo il diritto, se c’è volontà di cambiare. E secondo mia figlia, c’è.”
Era stato il suo turno di rimanere in silenzio. Era a conoscenza della corrispondenza tra Sören e Lily Luna Potter, ma non aveva mai espresso giudizi in merito. Non l’avrebbe fatto neppure quella volta.

In un certo senso, l’ho favorita. E credo che questo Harry non me l’abbia mai perdonato.
“Quello che non ho mai capito è stata la tua decisione di farlo diventare un agente di polizia. Quel ragazzo ha combattuto dal lato opposto dello schieramento fino a qualche anno fa. Se fosse diventato un collaboratore di giustizia avrebbe avuto senso, ma…”
“Harry, Sören non potrà mai essere un civile” L’aveva fermato. “Von Hohenheim l’ha formato per avere capacità magiche, militari e tattiche che difficilmente si trovano persino tra noi professionisti. Imporgli di vivere una vita normale sarebbe stato non capire il suo valore.” Non ci furono obiezioni; Harry era un uomo testardo, ma possedeva un’empatia fuori dal comune e doveva dunque aver colto i rimandi al suo passato.

Anche lui è cresciuto sotto un mago che l’ha preparato per essere un guerriero.
In fondo lui e Sören non sono diversi, hanno servito solo cause opposte.

“Il problema, Nora, è che il caso lo segue mio figlio James.” Aveva tagliato corto. “Non posso toglierglielo, né tantomeno posso pretendere che accolga Sören a braccia aperte. La posizione in cui mi metti non è facile.”
“Non mi aspetto che siate cordiali. Pretendo però che venga trattato con rispetto. È un agente delle forze di polizia magiche americane e un dipendente del Ministero. Rappresenterà l’America.”

“Questo mi sembra ovvio.” Era stata la replica ferrea. “Non vogliamo dare motivi ad uno dei vostri burocrati, Ethan Scott specialmente, di avere la meglio.” C’era stato un sorriso dietro quella frase e Nora l’aveva ricambiato. Su certe cose lei e il Capo dell’Ufficio Auror avrebbero potuto esser gemelli separati alla nascita.
“Ho la tua assicurazione che Sören sarà trattato con correttezza?”
“La hai. Ma non sarà facile, Nora …” Una lieve esitazione. “Posso ordinare a James di comportarsi bene come Auror, ma non posso bacchettarlo perché prova dei sentimenti.”
“E non lo pretendo. Mi dispiace solo di avervi incastrato in questa situazione.”
“Non pensarci.” Era stata la replica tra l’ironia e la rassegnazione. “Da quando sono nato, credimi, questa è un po’ la mia situazione tipo.”  

Avevano riso, forse più per allentare la tensione che per reale spontaneità. Il tono di Harry era tornato poi serio. “Riguardo a mia figlia…”
“Sören non ne ha parlato, e lo conosco abbastanza per sapere che sarebbe venuto a chiedere l’approvazione di entrambi nel caso avesse voluto…”
“Non vuole incontrarla quindi?” L’aveva interrotta. Era più che evidente il sollievo nella voce del mago.

“Così sembra.” Non si era sbilanciata. Da quei frangenti familiari ed emotivi preferiva tenersi fuori. “Hai intenzione di informarla?”
“No.” Il tono era stato categorico. “Non voglio entrare nel merito dei loro rapporti. Né per ostacolarli, dato che l’ho promesso … ma neppure per favorirli.”
E come madre, Nora non aveva potuto obbiettare.

 
“Ha già chiamato l’ufficio Auror per avvisarlo del mio arrivo?” La domanda di Sören, ancora di fronte a lei, la riscosse dalla deriva che avevano preso i suoi pensieri.
“Sì, ho avvertito il Capo-ufficio e mandato i documenti necessari.” Annuì e lo vide irrigidirsi appena.
Conosceva da quattro anni, quello strano, imperfetto ragazzo e aveva imparato a conoscere i suoi silenzi ed apprezzare la sua quieta intelligenza, come a salutare ogni piccolo progresso che faceva nella sfera emotiva.
Non esagerava a dire che era stato come veder crescere un bambino: Sören Prince era capace di esser vecchio cent’anni su certe emozioni e poco più che decenne in altre, di possedere una conoscenza tematica della Magia vasta quanto quella di un erudito e di ignorare al tempo stesso le basi del vivere sociale.
Com’è che l’ha chiamato Meinster? Un controsenso di se stesso?
Era più che palese che Von Hohenheim non si era mai preso cura del suo sviluppo emotivo, relegandolo come secondario, se non addirittura inutile.
Un’arma. Perché aver cura dei sentimenti di un’arma?
Un trattamento simile avrebbe fatto inaridire il cuore di chiunque; invece Sören era riuscito a mantenere intatta la sua umanità, nascondendola persino agli occhi di suo zio. Nora non aveva alcun dubbio sul fatto che Von Hohenheim non avesse mai capito che razza di mago fosse il nipote ed era stata quella la causa principale della sua rovina.
Tuttavia nonostante avesse raggiunto un equilibrio psichico piuttosto stabile non era assolutamente pronto per l’Inghilterra e soprattutto per i suoi abitanti. 
Non ci vuole un genio per intuire che questo potrebbe riflettersi anche sul suo operato. Scott è un bastardo, ma un bastardo furbo.   
“Non c’è altro, puoi andare.” Lo accomiatò. Presa da un pensiero forse frivolo, ma perlomeno allegro, soggiunse. “Ho sentito dire che stasera festeggi con i ragazzi dell’ufficio…”
“È stata un’idea dell’agente Estevez.” Si affrettò a dire con un’ombra di palese disagio dipinta in volto. “Io non…”
“Non c’è niente di male a bersi una birra in occasione di una partenza. In America è quasi un rito imprescindibile, temo.” Lo rassicurò divertita. “Mi raccomando però, domattina voglio vedervi tutti qui alle otto e in punto.”
“Sissignora.”
Osservò le schiena fasciata di blu chiudersi la porta dietro e pensò per l’ennesima volta che Ethan Scott era un grandissimo bastardo.

 
****
 
Inghilterra, Londra. Diagon Alley.
Ora di colazione.

 
“Indovina chi sono!”
Rose sospirò alle mani che andarono poco intelligentemente a coprirle gli occhi.
“Se non riuscissi a riconoscere la tua voce dopo anni che ne ho le orecchie piene sarebbe un problema, Scorpius.”
Il ragazzo ridacchiò, appoggiandole le mani sulle spalle e dandole un bacio sulla testa. “Era solo per fare un’entrata ad effetto, lo ammetto!” Fece il giro del tavolo e le si sedette di fronte, chiamando con un cenno da piccolo Lord spocchioso il cameriere della tavola calda a cui avevano deciso di darsi appuntamento per un veloce brunch tra un caso da Auror e un’udienza al Wizengamot.

“Ciao, mia bella!”
“Ciao, mio scemo.” Replicò con un sorriso, sporgendosi per rispondere al bacio che le venne consegnato affettuoso sulle labbra. Scorpius Hyperion Malfoy: capelli biondissimi, sorriso enorme e tatuaggio truce a spuntargli dal colletto dell’uniforme impeccabile.

Non l’avrebbe cambiato con nessun altro.
Specie alla vigilia del matrimonio. Sarebbe comunque un po’ tardi…
Lo vide stiracchiarsi e guardarsi attorno, quasi fosse compiaciuto della folla rumorosa, della giornata accesa di un sole ormai estivo e persino delle piante di fiori che separavano i tavolini dalla trafficata e tortuosa strada principale di Diagon Alley.
Ammirava sinceramente la capacità dell’altro di gioire di ogni insignificante particolare che la vita gli metteva davanti.
Capisco il valore di qualcosa che non ho.
Per lei era stata una mattinata di udienze serrate, e non aiutava il fatto che nell’ufficio di MagiAvvocati in cui faceva da praticante venisse perennemente apostrofata come ‘la figlia di Hermione Granger’. 
“So che sono stupendo baciato da sole, caramellina, ma fissarmi e non aprire bocca alle mie interessate domande mi ferisce…”
Si riscosse, facendo una smorfia imbarazzata. “Scusami, ero sovrappensiero.”
“Lavoro?”
“Cos’altro?” Poi si ricordò dell’appuntamento con il fiorista che aveva dovuto rimandare per l’ennesima volta, visti i gli impegni. “E ah, credo che dovremo rivolgerci a qualcun altro per i fiori della cerimonia. Oggi il Signor Brown mi ha praticamente mandata all’inferno quando ho tentato di spostare di nuovo l’appuntamento.”
“E fuori il terzo!” Fu il commento allegro. All’arrivo del cameriere indicò con un paio di cenni sul menù le loro ordinazioni, dato che erano sempre le stesse. “Ma vuoi che ci vada io?” Propose quando quest’ultimo si fu allontanato.
“No, ho promesso a tua madre che avremo fatto questa cosa assieme.” Sospirò. “Non serve spiegarle che io di fiori non ne capisco nulla, vero?”

“Per questo suggerisco di scambiarci i ruoli. Tu pensi alla mia festa di addio al celibato, io ai fiori!”
Rose fu indecisa se baciarlo o colpirlo con il primo oggetto contundente che aveva a portata di mano. “Certo, perché no?” Interloquì sardonica. “Potrei chiedere a qualcuno dei miei colleghi sposati di suggerirmi qualche buona Incantatrice… Pare facciano un gran bene alla salute di un futuro matrimonio.”
“Tra tu e Potty siete fissati con queste Incantatrici!” Esclamò l’altro roteando gli occhi al cielo. “Tranquillizzati. Io e i ragazzi faremo una partita a poker in cui ci giocheremo quasi tutti i nostri stipendi, berremo come ippopotami e finiremo per correre nudi in strada.”    

Rose scoppiò a ridere, sentendo che non era solo il sole a scaldarla in quel momento. “Fate pure allora. Se tu devi occuparti di imbrigliare la fantasia perversa di James, io dovrò farlo con Violet. A proposito, dovrei ucciderti solo per averle messo in testa l’idea di farmi da damigella d’onore.”
“Potevi rifiutarti!”
“Con Violet?” Inarcò le sopracciglia. “Conosciamo la stessa persona?”
Scorpius sbuffò. “Andiamo, ti conviene che te l’organizzi una donna che ha poca simpatia per i muscoli guizzanti. Pensa se ti fossi trovata in uno di quegli spettacolini con maghi che si vestono da Babbani e poi si svestono ed agitano i loro cosi al vento…” Rose tentò di non ridere all’espressione minacciosa che assunse. “Non è che ne vuoi uno, vero? Perché il mio coso è tipo l’unico coso che dovrai vedere per il resto della tua vita.”
“Sei un idiota.” Replicò perché era l’unica risposta sensata che poteva dare ai suoi deliri. “È solo che Violet…” Erano amiche, incredibilmente, e colleghe – questo era più credibile dato che avevano frequentato entrambe Magisprudenza. Stimava l’altra professionalmente ma umanamente oscillava tra l’irritazione e la comprensione per i suoi difetti– sin troppo simili ai suoi a volte.

Il fatto è che è più schizzata di me sulla questione matrimonio. Sarà la forma mentis Purosangue?
“Mettiamola così.” Tagliò corto Scorpius. “Preferivi che te l’organizzasse la piccola Lilian?”
Si scambiarono un’occhiata significativa e poi decisero di comune e silenzioso accordo per un cambio d’argomento.

Rose, per quanto fosse assalita quasi ogni notte dall’ansia pre-matrimonio, non vedeva l’ora. La sola idea di potersi svegliare tutti i giorni con quel casinista che saltava fuori dal letto cantando, chiacchierando o cercando le sue mutande in giro la riempiva di felicità.
Perché finalmente potrò evitare di svegliarmi al Manor. E di farlo svegliare con mio padre che canta sotto la doccia che sciaguratamente è attaccata alla camera per gli ospiti.
Scorpius infatti aveva fatto un accordo con suo padre, accordo che era stato approvato con autentica gioia dal suo e che quindi anche lei aveva dovuto accettare per buona pace comune.
Finché non ci sposiamo, ognuno a casa propria. E letti separati.
Argh.
Le visite erano autorizzate, ma il disagio di dover far colazione con i rispettivi suoceri era terrificante.
Sia per me che per lui.
Per questo invece di mangiare in un disagiante clima di cortesia imposta e con gli occhi puntati addosso preferivano vedersi direttamente per il brunch.
“Ti immagini quando finalmente potremo fare colazione da soli? In una casa abitata solo da noi due? E potremo fare sesso mattutino?” Mormorò Scorpius con tono sognante, quasi le avesse letto nel pensiero. Essendo un Occlumante eccellente e un Legimante non male poteva essere un’opzione. “Sarà bellissimo!”
“Sperando che tuo padre o il mio non si nascondano dietro le tende.” Replicò sorseggiando il suo cappuccino e sorridendo alla risata incredula dell’altro.

“È divertente perché è vero, potrebbero farlo.” Fece per avventarsi sul cumulo enorme di salsicce ed uova che aveva nel piatto ma poi si bloccò, lanciandole un’occhiata allarmata. “Non potrebbero farlo davvero, vero?”
“No, perché penseremo a delle barriere magiche potenti, tipo quelle a casa di Jam e Teddy.” Replicò sullo stesso tono. “Piuttosto, ho parlato con Al e sto valutando seriamente l’idea di sedarli per la cerimonia.”
“Geniale!”
“Lo so.” Ridacchiò. Scherzarci su era l’unico modo in cui potevano affrontare la tensione che intercorreva tra le loro famiglie. Era stato Scorpius ad iniziare, quando avevano annunciato il loro fidanzamento. Alla lunga, era stato l’atteggiamento vincente.

Ha anche aiutato che le nostre madri ci abbiano dato subito il loro assenso. Non credevo che Lady Astoria fosse capace di gridare, battere le mani ed abbracciarsi con mia madre, e invece…
Certo, i Corvonero son sempre stati un po’ gente strana.
“Io te l’ho detto che dobbiamo offrire un rinfresco prima, e drogarli con la Bevanda della Pace…” Si grattò una guancia. “Comunque…” Si bloccò di nuovo, sgranando gli occhi. “Dai, Rosie, non è possibile!” Sbottò. “Tuo padre ci pedina!”
“Cosa?” Si voltò, salvo per veder entrare il genitore in questione seguito da suo zio Harry. Collegò i discorsi che aveva fatto quella mattina in cucina e capì. “No, è che gli ho parlato io di questo locale, gli ho detto del bacon favoloso che fanno e sai che ne va matto…” Si sarebbe morsa la lingua di fronte all’aria indignata dell’altro. “Scusa?”
“Era il nostro locale!” Borbottò, allontanando il piatto con un gesto innervosito. “Non potrò più guardare la pancetta con gli stessi occhi, sapendo che è stata lei il pomo della discordia!”
Rose gli prese la mano, intrecciandola con la sua. “Scusami, dai … Ne troveremo un altro.”
“Non con il brunch così buono!”  

Morgana … la pazienza.
In compenso suo padre non sembrava minimamente averli notati, del tutto preso a confabulare con l’altro mago. Rose notò anche come sembrassero entrambi tesi e come suo zio tentasse di portare a miti consigli l’altro mettendogli una mano sul braccio per invitarlo ad abbassare il tono di voce.
“Ma stanno litigando?” Occhieggiò Scorpius succhiando rumorosamente il suo succo di zucca con la cannuccia. Gli diede una botta sul braccio, perché sapeva che lo faceva solo per irritarla.
“No, credo che zio Harry stia cercando di convincere papà a far qualcosa. O a non farla.” Aggrottò le sopracciglia, cercando di distinguere nella cacofonia di voci quelle dei due. “Penso si tratti di lavoro … e credo che abbiano fatto anche il nome tuo e di Jam.” Si sarebbe morsa la lingua quando vide l’espressione del proprio fidanzato, ma ormai aveva parlato.
“Oh, sul serio?” Chiese con un preoccupante tono spigliato. “Beh, è un buon motivo per sapere cosa dicono.”

“Non origlieremo! Se stanno parlando di lavoro…”
“E di me.”
No!
“Ti amo anch’io.” Si alzò con disinvoltura mettendo la quantità necessaria di Zellini sul tavolo e aggiungendo una generosa mancia. A Rose non restò che seguirlo.

 
Visto che il locale si era riempito non fu difficile nascondersi tra un tavolo e l’altro. Fu altrettanto facile considerando il fatto che i due maghi sembravano non essersi minimamente accorti di chi gli stava attorno.   
“Devi rifiutarti! Harry, non puoi permettere che quel moccioso disgustoso entri nel nostro ufficio!”
“Se avessi potuto farlo l’avrei fatto, Ron.” Il tono di suo zio Harry era pacato, ma l’espressione tempestosa dietro gli occhiali parlava di tutt’altro. “Se rifiutassi metterei in una posizione difficile Nora. Ethan Scott non aspetta che l’imbeccata … Sai quanto ha lavorato duramente per uscire dai guai in cui l’avevamo cacciata durante il Tremaghi, non possiamo farle questo.”
“Non l’abbiamo obbligata però…” Borbottò suo padre, con una smorfia insofferente. “Voglio dire, abbiamo ricevuto tutti sanzioni disciplinari.”
“Noi non abbiamo rischiato di vedere le nostre carriere gettate alle ortiche.” Rimbeccò l’altro strofinandosi la fronte. Un tempo, Rose lo sapeva bene, lì c’era stata la cicatrice.

Lo fa sempre quando è sotto pressione.
“Nora si è bevuta il cervello!” Fu la veemente replica e Rose sentì una spiacevole sensazione chiuderle la bocca dello stomaco. Suo padre era un tipo testardo, ma anche un uomo leale e un Auror ligio alle regole. Normalmente non contestava le decisioni di suo zio, non in modo così violento.
Cosa l’ha fatto scaldare così?
“È lei la persona costretta, Ron.” Fu la replica non più tanto pacata. “Perché noi, come Auror, possiamo rifiutarci di collaborare. Farlo però significherebbe questionare il giudizio di Nora.”
Nora … ma si tratta di quell’americana?
“Non è l’agente americano che ha aiutato durante le indagini del Tremaghi?” Chiese a Scorpius, il quale schioccò le labbra.
“Sì, James mi ha detto che in America dirige una specie di ufficio Auror versione yankee.” Le spiegò. “Aspetta. È per noi.” Realizzò battendo le palpebre sorpreso. “Per questo hai sentito i nostri nomi, prima! L’agente verrà per un caso di giurisdizione congiunta che stiamo seguendo io e Potty!”
“Si tratta solo di tre giorni. È il tempo canonico per un indagine congiunta di routine” Spiegava intanto suo zio in tono conciliante. “Dopo il caso resterà a noi e il SAGITTA lo seguirà a distanza.”
“E James e Scorpius?” Eccoli che suo padre li citava di nuovo. Rose lanciò un’occhiata al fidanzato che la ricambiò altrettanto confuso. “Quei ragazzi lo hanno affrontato cinque anni fa, Harry.”
Ma di chi diamine stanno parlando?

“È una situazione spiacevole per tutti.” Suo zio sembrava ad un passo dal perdere la pazienza a giudicare da come si era incupito. Davvero l’altro voleva rischiare di fargli perdere le staffe? “Te l’ho detto per avere il tuo appoggio, non per contribuire ad esasperare gli animi. Già l’idea di parlarne a Jamie non mi fa
dormire la notte.”
“Okay, chi diavolo è l’agente di collegamento che ci assegneranno?” Sussurrò Scorpius al suo orecchio. “Diavolo, è come se ci stessero per mandare Von Hohenheim in persona! Solo che è mort…”
Si guardarono negli occhi e capirono in una frazione di secondo di chi si trattava. C’era una sola persona che corrispondeva ai pochi indizi che eran stati loro forniti.

Ed è un Von Hohenheim. Un Von Hohenheim vivo e vegeto.
“Non può essere Sören Von Hohenheim!” Sussurrò incredula. “Dovrebbe essere in prigione, in America!” Vedendo che l’altro non sapeva che rispondere, stupidamente lo incalzò. “Da quando lavora per il DALM?”
Il ragazzo scosse la testa. “Non ne ho idea … Io pensavo fosse ancora a Nurmengard. Lo pensavamo tutti, credo.” La guardò perplesso. “Aspetta, tu sapevi che era in America?”
“Sì, me l’ha detto Lily non so quando. Non so neanche come ho fatto a fargliene parlare, lo sai com’è lei con quella faccenda. Forse è stata alla festa del nostro diploma… Aveva bevuto un bel po’.”
Non se ne parla, non è mai successo.” Recitò l’altro. “Però si scrivono, no?”

“Sì, ma non pensavo stesse scrivendo ad un mago libero.” Disse sbalordita. Albus si lamentava puntualmente una volta al mese in merito a quella faccenda, quindi Von Hohenheim e la cugina dovevano scriversi con quella cadenza. Possibile che il mago tedesco non l’avesse informata del fatto fosse un membro attivo della comunità magica oltre Oceano? Talmente attivo che era un agente?
No. Lily deve saperlo. Solo non l’ha detto a nessuno. A parte zio Harry, ma forse lui lo sa per altri motivi evidentemente…
Merda, ma non doveva esser chiusa questa storia?  

Purtroppo così non era; la faccenda dei Von Hohenheim non si era conclusa con la morte del capofamiglia e lo smantellamento della sua orribile setta, né tantomeno con la damnatio memoriae ad opera del loro intero clan.
Non è perché abbiamo deciso tutti di non parlarne più che la faccenda si sia conclusa. Anzi.
Basta vedere Lils.  
E poi c’era quella faccenda della corrispondenza; non era una cosa sana, da nessun punto di vista.
Due tavoli più in là, suo padre continuava a parlare ignaro di essere ascoltato.
“E come hai intenzione di informare i ragazzi che quel mostriciattolo non è più in prigione ma è un attivo membro della comunità magica?” Chiese, usando le sue stesse parole senza volerlo. “Come pensi reagirà Jamie?”
“È un mago adulto quindi mi aspetto, anche come mio sottoposto, che sappia comportarsi civilmente.” Più facile a dirsi che a farsi, pensò Rose; James dopo il rapimento di Lily era diventato ancora più protettivo e territoriale nei suoi confronti.  
Non si fida manco di Scott, che è la rettitudine morale fatta ragazzo. Figuriamoci di un tipo che incarna la causa di tutti i mali!
Suo padre fece un profondo sospiro, il suo modo per arrendersi all’inevitabile – di solito una discussione con sua madre. “Tre giorni, eh? Si può fare…”
“Si deve.”

“Va bene, va bene…” Levò le mani in segno di estrema resa. “Ma cosa intendi fare? Obbligare Jamie e Scorpius al silenzio stampa?”
“Precisamente.” Lo sguardo era talmente freddo che Rose sentì un brivido attraversarla. A volte dimenticava che il mite ed occhialuto uomo che l’aveva fatta giocare da bambina era a capo di un ufficio di maghi addestrati per combattere il Male, oltre ad essere la rappresentazione stessa di quel concetto.
A volte mi scordo che zio Harry è un guerriero. Cioè, nel vero senso della parola.
“Lily, Albus, Tom … non dovranno sapere della venuta di Sören. Specialmente Lily.” Rose sentì il fidanzato muoversi a disagio accanto a lei. Poteva capirlo: aveva imparato a considerare il clan Potter-Weasley come una seconda famiglia, e dietro i suoi lazzi e i nomignoli era leale a tutti loro.  
“Ma… non pensi che glielo scriverà?” Si informò suo padre formulando una domanda che lei stessa aveva sulla punta della lingua. “Voglio dire …”
“No, non è intenzionato ad incontrarla. E francamente, approvo.”
Rose a quel punto ritenne che avevano ascoltato abbastanza; esser scoperti dai due Auror sarebbe stata solo la ciliegina della torta. “Andiamo.”
Aspettarono di esser ben mischiati nella folla affaccendata di Diagon Alley prima di commentare, anche perché Scorpius era piuttosto pallido e ci mise un po’ prima di tradurre i suoi pensieri in parole. “Okay.” Mormorò. “Mi stai dicendo che dovremo tenere un segreto del genere? Passi mini-Potter e Dursley, ma Lily.” Inspirò. “La piccola Potter è una Legimante Naturale, per tutte le sottane di Merlino!”
“Basta evitarla per quel lasso di tempo … Dopotutto son solo pochi giorni, no?” Tentò con il sorriso più convincente che le riuscì. Probabilmente era una smorfia poco credibile.

Scorpius infatti non rispose al sorriso, ma sospirò. “Non saranno solo tre giorni.”  
“Come?”
“A meno che non riusciamo a ritrovare il referto dell’autopsia, le cenere e gli effetti personali dell’americano.” Fece una pausa e si passò una mano sul viso con un lamento. Teatrale, forse, ma incredibilmente d’effetto. “Sono state rubate. Non sappiamo da chi, non sappiamo perché. Dovremo fare indagini ulteriori e, al momento attuale, non abbiamo niente da dare in mano agli americani.” Aprì uno spiraglio dalla mano con cui si copriva gli occhi e la guardò. “Pensi saranno solo tre giorni?”
Merda.

C’era modo migliore per riassumere quella situazione?
 
 
****
 
Somerset, casa di Scott Ross.
Ora di cena.

 
“Ehi, sei già tornata?”
Lily fece un sorriso in direzione della voce che si stava avvicinando dall’ingresso. Sentì Scott chiudere la porta, appoggiare le chiavi e togliersi la leggera giacca estiva. Erano movimenti che ormai si era abituata a sentire, che la tranquillizzavano quanto l’ovvio sorgere del sole ogni mattina. Voltò appena il viso per ricevere il bacio di saluto e indicò la cucina.
“Sento odore di cibo. Miraggio?” Motteggiò l’altro.
“Affatto Scotty … Qualcosa sta cucinando in forno e l’ho fatto io. Non è fantastico? Meriterebbe una bottiglia di vino, credimi.”
L’altro fece un lieve sorriso sorpreso. “Dobbiamo festeggiare qualcosa o ti sei solo alzata bene stamattina?”
“Mi sono alzata con te ed abbiamo folleggiato tra le lenzuola.” Proclamò tranquilla facendolo ridacchiare. “È già un buon motivo per festeggiare, ma no. Sono solo tornata presto e mentre rispondo alle mie lettere posso anche seguite un arrosto con patate. Sono una ragazza multi-funzionale, sai.”

“Lo so, lo so.”
Scott fece una capatina in cucina, salvo per tornare con due bicchieri e la bottiglia in questione che gli levitava dietro. “Intendi questa bottiglia di vino?” La indicò con un cenno divertito della testa. “Oggi hai davvero finito presto.”
“Ehi, sono ancora una studentessa, dammi del tempo libero prima di esser trascinata nel vortice del mondo del lavoro!” Gli prese uno dei bicchieri guardandolo accomodarsi sullo stipite dello scrittoio. “Ma se vuoi continuare a nutrirti di cibi da microonde fa’ pure.” Soggiunse. “So che i Babbani che seguono questa dieta muoiono grassi ed infelici.”
“Tremenda prospettiva.” Replicò minimamente turbato. “Preferisco la cucina in salsa magica, non preoccuparti. Non vedo l’ora di assaggiare la tua prodezza.” 

“Se non moriremo di un intossicazione alimentare potrei anche ripetere la sconvolgente esperienza di fare la brava streghetta di casa.” Replicò sorseggiando il fresco vino bianco che aveva comprato un po’ a caso ad un supermercato vicino al San Mungo. Non era male.
Era stata una buona, tranquilla giornata di routine, e poter finire le lezioni e filare spedita dal suo ragazzo l’aveva messa di buon’umore.
Papà non si è neppure lamentato quando gli ho detto che a casa sarei tornata domani, non prima.
Di solito dopo un week-end in cui non ci vediamo diventa nostalgico.
Scott approfittò del suo sorseggiare per sbirciare tra la mole composita della sua corrispondenza. “Sai, sei l’unica strega di vent’anni che conosco che ancora scrive Gufi su base regolare…”
“È che ho un sacco di amici sparsi per i quattro angoli del mondo.” Si strinse nelle spalle. “Guarda, questa è dei gemelli Scamandro.” Gli mostrò una cartolina magica raffigurante una lussureggiante isola tropicale dove le onde si muovevano su una spiaggia battuta dal sole. “E poi lo ammetto, per certe cose sono vintage.”
“Vedo…” Replicò  picchiettando sulla cartolina per far levare uno stormo di uccelli variopinti.

Come lei, il giovane scozzese aveva frequentato prevalente il Mondo Magico, almeno fino al diploma. Poi però aveva deciso di conoscere l’altra faccia del mondo – così la chiamava – passando diversi anni a lavorare in Australia da certi suoi parenti babbani. Anche tornato in Gran Bretagna non aveva mai rinnegato il suo amore per la tecnologia, per il cibo spazzatura e per l’elettricità.
“Guarda che scrivere lettere e soprattutto, riceverne, è bello.” Gli accarezzò una gamba divertita dalla sua espressione scettica. “Fa parte della nostra tradizione, ed è bello mantenerla. Per esempio so per certo che in America è rarissimo che scrivano, anche se hanno ancora degli uffici Magici Postali nelle città principali, come Boston o San Francisco.”
“Ah-ah.” Ribatté l’altro con aria distratta dato che aveva appena Appellato il telecomando per scorrere i canali alla ricerca di qualcosa su cui focalizzare l’attenzione in previsione della cena.
Maschi…
“Ehi, ti sto raccontando una cosa interessantissima!”
Scott fece un sorrisetto senza distogliere lo sguardo dallo schermo illuminato. “Lo so, infatti me lo ricordo, me l’hai già raccontato. Te l’hanno detto gli Scamandro, no?”

Lily sentì una fitta di disagio passarle lungo la spina dorsale come una scossa. La ignorò. “Sì, esatto.” Senza volerlo fece scivolare quella lettera sotto le altre. Non che il suo ragazzo l’avrebbe mai notata.   
Perché non sa a chi corrisponde al nome Sören Prince.
Non gli aveva mai raccontato del suo Quinto Anno. Sapeva ciò che sapevano tutti, ovvero del mago oscuro che aveva fatto quasi esplodere il Tremaghi dall’interno nel tentativo di riprendersi Thomas e di come lei ci fosse finita in mezzo. Sapeva cos’aveva comportato per lei; ma nel post.
Non gli ho mai raccontato chi c’era nel mentre. Se sa di Sören, sa solo quello che sanno tutti.
Che era uno dei cattivi, uno del mucchio.
Guardò il profilo gentile dell’altro e il modo in cui sorrise soddisfatto quando trovò il programma che cercava. Sapeva che se gli avesse parlato di Sören avrebbe avuto udienza, come sapeva che avrebbe fatto di tutto per comprendere i motivi per cui gli scriveva. Perché la amava e non l’aveva mai giudicata una volta da che lo conosceva. Poteva dirlo con cognizione di causa: era una LeNa.
Ma riuscirei a spiegargli lui?
“Vado a controllare la nostra cena prima che bruci.” Gli accarezzò una spalla e lo vide annuire, completamente preso dall’inizio di una partita di rugby, sport per cui andava matto e che aveva praticato a livello dilettantistico nei suoi anni australiani. “Apparecchi?”
“Sissignora!” Replicò abbozzando un saluto militare. “Ti ho parlato del Sei Nazioni¹? Dovremo andarci il prossimo anno, ti piacerebbe.”
“Maschi in provocanti calzoncini corti che si rotolano nel fango? Andata!” Ribatté facendolo ridere.

Quando fu nella piccola cucina fissò lo sguardo sul forno elettrico che stava rosolando diligentemente il loro pasto e finalmente si poté permettere un sospiro.
Riuscirei a spiegargli Sören se ho fallito nel farlo con tutto l’universo mondo?
Nessuno dei suoi amici, né tantomeno dei suoi parenti era stato mai d’accordo con la sua decisione; dai suoi fratelli maggiori, che si erano lamentati e opposti in più modalità, a persone come Gail e Roxie che non si erano risparmiate in commenti e raccomandazioni. Non l’aveva neppure detto a tutti.
Che seccatura … come se fossi ancora una quindicenne.
Non c’era niente di preoccupante o controverso nello scambiarsi lettere con Sören Prince. Il contenuto, se letto, avrebbe rilevato l’innocenza più totale.
Ci raccontiamo il mese, ci scambiamo consigli sui libri, cerco di fargli capire che la musica non finisce nel 1700 … È una semplice corrispondenza di Piuma.
Sì, peccato però non sia un amico di Piuma qualsiasi.
Serrò gli occhi castigando mentalmente quella vocetta nella sua testa che altri non era che la sua coscienza. Sentendo che Scott stava commentando la partita ed era dunque distratto, Appellò la bottiglia e si riempì di nuovo il bicchiere, sorseggiandone il sapore acidulo e rinfrancante.
Non è che son subito partita con l’idea di riallacciare i contatti, dai …  
Finita tutta quella storia l’ultima cosa che aveva voluto fare era stata avere a che fare con Sören, il vero Sören e non la sua imitazione a beneficio del piano di Von Hohenheim. Aveva deciso così di cancellarlo dalla sua testa eliminando sistematicamente ogni oggetto che glielo ricordasse: molto era bruciato nel camino della sala opportunamente vuota di Grifondoro.
Anche se aveva fatto una promessa a sua nonna Lily, o più probabilmente ad una sua allucinazione, aveva deciso con freddezza liberatoria di ignorarla. Del resto neppure l’altro si era fatto vivo sebbene gli avesse chiesto il permesso di scriverle. Aveva pensato fosse una delle sue ennesime menzogne, forse atta a pulirsi malamente la coscienza.
E invece no. Non è che non voleva. Non poteva. Era rinchiuso a Nurmengard e lo è stato finchè gli americani non l’hanno portato via per farlo diventare uno dei loro.
A Nurmengard non hanno in simpatia la corrispondenza dei carcerati…
Represse un brivido.
Per eufemizzare.
Ad ogni buon conto un solo motivo l’aveva riportata su quel rapporto disastroso, ed era lo stesso motivo per cui aveva cominciato a toglier macerie per cercare di ricostruire qualcosa, sebbene con sentimenti diversi.
Perché se tenti di spezzare un legame così, quello sanguina come un braccio tagliato.
Lei e Sören aveva un legame. Senza aggettivi, senza compromessi o descrizioni. Era un legame, punto.
Ignorare quel fatto era insensato. Sören era un Prince, e lei era una Potter. Sören era stata la prima persona di cui si era fidata ciecamente, il primo ragazzo a cui aveva regalato il cuore. L’aveva ferita talmente a fondo che non avrebbe potuto dimenticare il suo viso neppure in un milione di anni.
Per questo non posso fingere che non sia mai esistito e andare avanti con la mia vita. Quando l’ho fatto è stato persino peggio.
Sören e lei avevano adesso un rapporto fatto solo di pergamena e inchiostro; l’unico rapporto che potessero avere senza distruggersi a vicenda, probabilmente. Scrivergli era avere la certezza che fosse vivo, che si era ripreso e stava diventando una persona decente, mentre rispondergli era assicurargli che fosse lo stesso per lei.
Sapere che entrambi stiamo bene, per questo ci scriviamo. Cosa c’è di così difficile?
Spense il forno con un colpo della bacchetta, vedendo che la cottura era ormai ultimata. “Scott! Hai apparecchiato?” Gridò al suo ragazzo.
“ … Quasi!” Arrivò la risposta e l’immediato trambusto causato dall’alzarsi di scatto per eseguire il compito nel più breve tempo possibile.

Lily sorrise.
Sì, Ren. Senza di te sto bene.



****
 
America, Boston.
Connor’s pub, Columbus Avenue. Sera.

 
La serata stava andando meno peggio di quanto avesse pensato.
Ovviamente doveva ringraziare Milo e Estevez: i due avevano fatto gli onori di casa, accogliendo gli altri all’entrata del pub, e indirizzando le persone a sedersi in modo tale che Murphy fosse ben lontano da lui. Estevez aveva poi stordito tutti con un fiume di chiacchiere e battute allegre, approfittando del clima rilassato per prendere le ordinazioni e consegnargliele.
“Primo giro paghi tu, collega.” Gli aveva sorriso con una supportiva pacca sulla spalla. “Tranquillo, non ti manderemo in rovina.”
“Dubito potreste.”  

“Non lo sai Rico? Il nostro è un principino ricco!” Spiegò Milo, espanso per metà divanetto e occhieggiante Allison, un nuovo acquisto della squadra che aveva puntato non appena si erano stretti la mano. Sembrava fosse il periodo degli uomini afroamericani, a giudicare dalle sue ultime conquiste.
Meglio del periodo ispanici … Era impossibile tenerli allo stesso tavolo senza che Estevez avesse una crisi isterica.
“Certo, i principi mica posson essere poveri!” Gli fece eco il portoricano.
Sören intuì che lo stavano canzonando e preferì quindi andare a depositare le ordinazioni presso il barista.
Non mi definirei ricco, secondo i criteri di ricchezza di un mago. Benestante, piuttosto.
Milo argomentava sempre che non gli sarebbe servivo lavorare per poter mantenere un tenore di vita dignitoso. Era vero; quando gli era stata riconsegnata la sua libertà, al tempo stesso era stato informato che le fortune di suo padre, Elias Prince, erano state sbloccate in suo favore. Quando aveva chiesto il perché non ne fosse venuto in possesso prima, gli era stato spiegato che la decisione di assumere il cognome di suo padre aveva innescato il Principio di Eredità, cavillo della Legge Magica Inglese.
Io prima non ero un Prince, ma un Von Hohenheim. Almeno sulla carta.
Visionando i documenti ufficiali speditigli dalla Gringott aveva anche scoperto di esser proprietario di un maniero sperduto nel Nord dell’Inghilterra, Prince Manor.  
Anche se dubito che dopo decenni di incuria sia rimasto qualcosa in piedi, protezioni magiche o meno.
Comunque, non ho intenzione di andarci.
Con un vitalizio del genere avrebbe potuto viver di rendita. Ma non voleva: non sarebbe riuscito a vivere una vita di contemplazione, non con l’educazione che gli era stata imposta e soprattutto, non con gli obbiettivi che si era posto quando finalmente Nurmengard aveva chiuso le porte dietro di lui.
‘Diventa una persona decente…’
Lanciò un’occhiata verso il tavolo di agenti lì riunito. Erano tutti in borghese e si amalgamavano in maniera naturale all’ambiente babbano del pub. Milo stesso, vissuto per la maggior parte della sua vita nei bassifondi della società magica – per sua stessa ammissione – sembrava perfettamente a suo agio.
Interazione umana…
Era consapevole del fatto ci fosse una sorta di schermo tra lui e il resto del mondo. Era una carenza, qualcosa che avrebbe dovuto svilupparsi durante la sua infanzia e che invece era mancata.
Aveva ragione Johannes. Se cresci come un’arma, non puoi morir mago.  
Per questo l’idea di andare in Inghilterra lo gettava nello sconforto; non aveva idea di come affrontare la situazione dal punto di vista interpersonale.
Nella migliore delle ipotesi dovrò avere a che fare con persone che non si fidano di me.  
Nella peggiore la sua autorità sarebbe stata screditata, rendendogli impossibile fare il suo lavoro.
Perché proprio la squadra di James Potter?
Quando il Capitano gliel’aveva comunicato aveva dovuto frenarsi per non chiederle di mandare qualcun altro al suo posto.
Come posso guardare in faccia una persona a cui ho quasi ucciso metà famiglia?
E poi c’era Lilian. Era improbabile che Potter sarebbe corso ad avvertire la sorella della sua presenza; se era protettivo la metà di quel che pensava, non gli sarebbe neanche passato per la mente. 
Ma potrei incontrarla senza volerlo … il Mondo Magico britannico non è così grande.
Ne aveva il terrore, perché vederla avrebbe significato infrangere una promessa che le aveva fatto, sebbene mai esplicitata.
Possiamo scriverci, ma solo questo. In fondo cinque anni fa le ho detto addio.
Lei non vuole vedermi.
Le lettere erano l’unico contatto che gli era rimasto con la prima persona amica della sua vita, e si sarebbe maledetto con le sue mani piuttosto che rovinare tutto.
Non posso perderla. Non posso perché…
“Ehi!” La pacca sulla spalla lo fece quasi sobbalzare. Estevez aggrottò le sopracciglia perplesso. “Guey, ma t’ho spaventato?”
“Ero sovrappensiero.” Replicò. “Sto aspettando le ordinazioni.”
“E infatti son venuto a darti una mano a portarle al tavolo.” Gli sorrise. “Sai cosa? Pensi troppo. Stasera dovresti solo scolare birra e parlare di cazzate!”
“Due cose per cui non sono esattamente tagliato.” Replicò ironico. “Farò del mio meglio.”
“Bravo!” Lo lodò lanciandogli un’occhiata complessiva. “Sembri anche meno ingessato … Hai fatto qualcosa ai capelli?”
“Milo.” Riassunse.

Il portoricano sghignazzò. “Ah, vorrei avere io un consulente di moda … pare funzioni. Un paio di tipe ti hanno fatto la radiografia quando sei entrato!”
“Se non mi vesto come vuole lui, non mi fa uscire.” Replicò con un sospiro sebbene fosse grato per le attenzioni che il coinquilino rivolgeva al suo armadio e alla sua vita in generale. Inizialmente l’aveva preso a viver con sé perché era stata una richiesta del Capitano Gillespie; non aveva capito il perché finché non aveva realizzato quanto poco sapesse del mondo.
Milo era il suo ponte di collegamento con la vita reale, quella che non aveva mai vissuto sotto la Thule e suo zio. Senza di lui l’America sarebbe stata un puzzle impossibile da decifrare. Certo, era irritante ed invadeva senza remore i suoi spazi, pretendendo peraltro di esser pagato profumatamente. Portava uomini in casa e suonava ad ogni ora del giorno e della notte, incurante delle sue necessità. Era un Magonò e nonostante avessero differenze di classi palpabili era la persona più strafottente che conoscesse.
Però non ha paura di me. Sa di cosa sono capace, e non ha paura.
Estevez prese uno dei due vassoi in precario equilibrio, dandosi un piccolo aiuto con la magia. “Sicuro che tu e lui…” Prese un’aria imbarazzata al suo sguardo esasperato. “Sì, lo so che non ti piacciono gli hombres, ma andiamo! Praticamente vivete come una coppia sposata. E ti sceglie i vestiti!”
Sören prese la sua parte usando quella mano per stabilizzare l’equilibrio incerto del vassoio di metallo. “Nella nostra relazione manca l’elemento di attrattiva fisica. Non mi attrae e non lo attraggo. Oltre a questo, non sono emotivamente coinvolto in quel senso.” Spiegò paziente.

Credo smetterebbe di chiedertelo se gli dicessi da chi sei emotivamente coinvolto, principino…
“Come sai spiegarle le cose tu, Prince! Riesci a ridurre la poesia del sentimento in un tomo di anatomia.” L’altro, ignaro dei suoi pensieri, sbuffò sconsolato. “Povera la ragazza che si innamorerà di te!”
Sören sapeva che erano esternazioni prive di vero livore, quindi ghignò. “Curioso. Non è la stessa cosa che dicono della tua?”
“Ah!” Rise l’altro. “Fai tanto l’innocentino e poi sei uno stronzo!”
“Si chiama usare il sarcasmo, agente Estevez.”
“Ehi, le nostre ordinazioni!” Berciò Murphy, interrompendoli con la sua voce da baritono. Il portoricano gli lanciò uno sguardo di scuse.
Sì, sono doverose.
“Facciamo che il prossimo giro lo pago io?” Offrì. “Eddai, Eoin, non essere così impaziente!” Esclamò rivolgendosi al corpulento agente. “Il tuo fegato mi sta ringraziando!”
“Non se vi mettete a tubare come due innamoratini!” Gli rivolse un ghigno sarcastico. “Ti ricordi la nostra promessa, Prince?”
“Non ricordo di aver promesso niente.”

“Senti un po’…”
“Birra!” Si intromise Milo gettandosi sulle ordinazioni. “Okay, di chi è la Lager?”
Sören mentre distribuiva pinte e shots di tequila, notò con la coda dell’occhio che il gruppo aveva subito una nuova aggiunta, nientemento che Ama Gillespie. Deglutì disagio.

Questa serata sta andando di male in peggio.
“Sergente, buonasera.” Mormorò ignorando la precisione maligna con cui Murphy si allungò per prendere una birra urtando il suo bicchiere e facendone tracimare almeno la metà.
“Siamo in borghese, chiamami Ama.” Fu la fredda replica.
Saremo anche in borghese, ma come diavolo può pretendere una cosa simile? Con quel tono?
“Come preferisce.” Le obbedì comunque. “Posso offrirle qualcosa, Ama?” Si riparò dietro la cortesia vecchio stampo che gli era stata insegnata; Milo diceva sempre era una carta assicurata per il letto di una donna, ma a lui più che altro serviva per non sprofondare in un abisso di disagio.
Con Lily ha sempre aiutato.
“Un Jack on the Rock.” Forse fu una sua impressione, ma i lineamenti ferrei della giovane strega si rilassarono leggermente. “Posso andare a prenderlo da sola, comunque. Sta’ seduto, è la tua festa.”
“È mia ospite, mi permetta quindi di insistere.”  
Stavolta non fu un’impressione, il Sergente sembrò davvero preso in contropiede. Per la prima volta da che la conosceva, distolse lo sguardo dal suo. “Va bene.” Si limitò a dire. A Sören non restò quindi che tornare verso il bancone, non prima però di aver notato come gli sguardi di tutti si fossero calamitati nella loro direzione. Era forse la sorpresa di sentirlo ribattere?

Probabile. Di solito evito con il Sergente, ma ha detto lei che siamo in borghese.
Ergo, le regole del SAGITTA qui non valgono.
Ad ogni buon conto, era davvero curioso di sapere perché Milo gli avesse appena strizzato l’occhio.
 
****
 
Scozia, Highlands, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.

 
Ted guardò con impazienza l’orologio da muro che faceva bella mostra di sé sul camino.
Il fatto che James facesse tardi era da mettere in conto; chi meglio di lui, che aveva provato le gioie dell’Accademia, poteva capire quanto i turni lavorativi di quella particolare categoria di agenti fossero elastici?
Per fortuna ho gettato un Incantesimo di Riscaldamento sulla cena…
Finì di correggere l’ennesimo sciocco errore dall’ennesimo compito giornaliero; l’estate si stava avvicinando e così la fine della scuola. Amava il suo lavoro e adorava i suoi alunni, ma non dover avere a che fare con l’ignoranza galoppante di certi soggetti per due mesi sarebbe stato un sollievo senza pari.
Osservò il sole tuffarsi tra le cime fitte e scure della Foresta Nera con un sorriso rapito; spostare la sua scrivania di fronte alla finestra, come aveva suggerito il compagno agli inizi della loro convivenza, era stata un’idea brillante.
Mi conosce meglio di quanto non mi conosca, alle volte, io stesso.
Dopo aver chiuso la finestra per evitare i primi insetti della sera, mise via la pila di pergamene scarabocchiate in più gradi e afferrò la Gazzetta del Profeta, che quel giorno, tra lezioni e incontri con gli altri docenti, non aveva avuto tempo di leggere.
Lesse distratto un articolo della sezione ‘cronaca locale’ di Hogsmeade; Mister Langdon, loro vicino di casa, lamentava la perdita di una nutrita parte del suo pollame. Lo stesso un certo Signor Benson. Si chiese pigramente se non sarebbe stato all’ordine del giorno del prossimo consiglio cittadino.  
Stavolta ci mando Jamie. La volta scorsa si è finto ammalato, ma stavolta va’ lui ad ascoltare ore e ore di lamentele su come dovrebbe esser smaltita la spazzatura nella High Street.
Sorrise quando sentì lo schiocco vivace della Materializzazione all’ingresso; avevano deciso di comune accordo di mettere degli incantesimi Anti-Smaterializzazione all’interno della casa pochi mesi dopo che ci si erano ufficialmente trasferiti.
Dopo che Harry è piombato in salotto mentre beh … È sembrata la soluzione più logica.
Non se n’è lamentato nessuno, anche se Lily ne ha riso per mesi.
Quando però non sentì le chiavi girare nella toppa della porta, né il tono chiassoso del suo compagno annunciare la sua presenza, si alzò dalla sedia confuso. Si stava avvicinando quel periodo del mese e i suoi sensi erano più sviluppati del solito, quindi tese le orecchie in ascolto di ulteriori rumori rivelatori.
James era fuori, sentiva i passi.
Perché non entra?
Preoccupato si diresse verso l’ingresso ed aprì la porta. “Jamie?” Lo chiamò. Lo individuò subito, anche perché era impossibile non notarlo dato che stava letteralmente arando il giardino avanti e indietro, talmente teso da sembrare prossimo ad uno scontro fisico su un ring.
“James!” Lo chiamò con più forza. L’altro si voltò di scatto, sgranando gli occhi come se gli avesse tirato un colpo. Si riscosse subito però, schioccando le labbra e passandosi le dita trai capelli. Erano arruffati e completamente sparati in tutte le direzioni. Non doveva essere la prima volta che faceva quel gesto.
Lo raggiunse in due falcate. “Che succede?” Sembrava furioso, con l’intero corpo in tensione sotto l’uniforme. Gli mise una mano sulla spalla e la fece poi scivolare sul collo, in una carezza che sapeva esser calmante per l’altro. Sotto le sue dita le pulsazioni dell’altro erano accelerate, forti.
“Ehi…” James era famoso per esplodere, urlare le sue ragioni ed imporle fisicamente quando le parole non bastavano. Vederlo così contratto e taciturno era uno spettacolo inquietante. “…per favore, parlami. Mi sto preoccupando.”
Questo batté le palpebre sorpreso, quasi si fosse reso conto solo in quel momento del suo comportamento e soprattutto della sua presenza. “Mio Teddy… non fare quella faccia.” Mugugnò scoccandogli un’occhiata di sottecchi. Gli prese la mano e ne baciò il palmo. “Non è successo niente di grave. Non è morto nessuno, okay?”

Ted sentì l’ansia diminuire in maniera consistente. “Sei arrivato qui e non sei entrato in casa…” Tentò, sentendosi un po’ sciocco. Non aveva il coraggio di guardarsi i capelli per scoprire di che colore erano diventati. “… Entriamo?” Propose. “Metti qualcosa sotto i denti e poi mi spieghi. Se puoi farlo, natural…”
“Anche se non posso, chi se ne fotte! Ho bisogno di dirlo a qualcuno o esplodo!” Sbottò superandolo ed entrando in casa. Ted lanciò un’occhiata al giardino, pieno di solchi lasciati dagli stivali di James. Erano state calpestate anche delle povere, innocenti begonie che aveva piantato quella primavera. Sospirò e lo seguì.
 
Dopo che James divorò letteralmente la cena con la furia di un Crup a digiuno da giorni, Ted venne finalmente a conoscenza della causa del suo incredibile malumore.
“Non ci credo…” Riuscì soltanto a commentare.
James si passò la lingua trai denti in cerca di rimasugli della cena, un gesto che l’intera famiglia Potter aveva sempre cercato di correggergli senza successo. “Già, la stessa cosa che ho detto io quando papà ha chiamato me e i ragazzi per darci la lieta fottuta novella.” Motteggiò feroce. “Ma dobbiamo far atto di fede, mio Teddy. Perché quello è un agente e verrà da noi con questa qualifica.”

Ted passò le dita lungo la tovaglia del tavolo, raggruppando le briciole per tenere le mani occupate. Lo aiutava a pensare. “Sapevo che il DALM americano l’aveva preso sotto la sua ala visto che ha accettato di collaborare per lo smantellamento della Thule … ma pensavo collaborasse con loro, non che lavorasse per loro.”
“Sorpresa!”

Ted guardò gli occhi nocciola di James. Solitamente caldi come l’autunno adesso erano una tempesta, come era in tempesta il suo proprietario; ovvio considerando che si stava parlando di un mago oscuro che aveva fatto del male alla loro famiglia.
E in special modo, ne ha fatto a Lils. James e Al vanno d’accordo solo su una cosa. Sull’adorare e proteggere Lily come cavalieri serventi. Che lei lo voglia o meno.
Si alzò in piedi cominciando a riordinare mentre l’altro, con le braccia incrociate al petto, guardava quel che restava dello spezzatino di cacciagione come se fosse la causa di tutti i mali. “Lily lo sa?” Gli chiese.
“No, ovviamente.” Sottolineò l’ultima parola con forza. “Papà ci ha detto di non far parola con nessuno della venuta dell’unto bastardo crucco, specialmente con lei, ma non ce n’era bisogno.” Lo sentì di nuovo schioccare la lingua. Non se la sentì però di riprenderlo, non con il rischio di vedersi lanciata addosso qualche suppellettile. “Piuttosto mi strappo la lingua con i denti.”
“Non esagerare adesso.” Lo riprese blandamente, spedendo piatti e bicchieri a lavarsi e appoggiandosi al ripiano della cucina mentre ne osservava dispiaciuto la schiena rigida. “Immagino non ci fosse modo per evitare questo incontro.”
“Secondo papà no.” E la questione si chiuse lì. James poteva essere una testa calda – anzi, bollente – ma aveva un rispetto per l’autorità di Harry, sia come padre che come capo, che sfiorava la devozione. Poteva borbottare, lamentarsi, ma non l’aveva mai visto eludere un ordine o non approvare una scelta. Né come Auror, né come figlio.

Non potendo offrire altro alla conversazione, trovò più proficuo eliminare la distanza tra di loro per passargli le mani sulle spalle contratte, in un massaggio. Quando percepì la gratitudine scorrere sottopelle, si mise all’opera.
“Merlino, come farò a non ammazzarlo non appena me lo troverò davanti?” Mormorò. “L’unica cosa che mi ha impedito di andare a cercarlo anni fa è stato sapere che era già a marcire in prigione, ma adesso…”
“Non credo che gli americani abbiano deciso di dargli il ruolo che ha a cuor leggero.” Premette il pollice su un muscolo particolarmente nodoso e sentì l’altro mugolare di piacere. Anche se non si riteneva un esperto nella disciplina dei massaggi, James aveva sempre gradito enormemente, e questo bastava.

E pensare che con Vic credevo di aver le mani pesanti… Forse le ho, ma su una capretta del genere non faccio gran danni.
“Sì, vabbeh … cazzo me ne frega degli yankee?” Borbottò, il tono di voce notevolmente meno acceso. “Ti rendi conto? Cinque anni fa scodinzolava dietro un bastardo di prima categoria ed ora è uno dei buoni.”
“Non esistono confini così definiti nelle persone.” Obbiettò ragionevole, anche se non era del tutto convinto che quel principio si applicasse tout court.

Vedesi Voldemort. O il padre di Tom. O tutti gli psicopatici, pazzi assassini che popolano il mondo, sia Magico che non.
James reclinò la testa per guardarlo e inarcò le sopracciglia con aria sardonica. “No?”
Dovrei chiedergli se non ha cominciato a prendere lezioni di Legimanzia da Scorpius, perché quando fa così sembra proprio di sì.
“Non sempre.” Ammise passandogli un dito sull’accenno di barba che gli ombreggiava il mento. “Non credo che Sören appartenesse alla categoria degli irrecuperabili, era succube di Alberich Von Hohenheim, ma da solo non credo rappresenti un pericolo. ”
Lo sentì irrigidirsi. “Quindi sei…”
“Non sono favorevole al fatto che venga in Inghilterra.” Lo fermò prima che potesse partire per una crociata immotivata nei suoi confronti, dato che era preoccupato quanto lui dell’arrivo del mago tedesco su suolo britannico; perché Harry aveva dato il permesso? “Dico solo che, visto che dovrete comunque lavorare assieme, avere un atteggiamento meno ostile porterà benefici anche a te. In termini di resa lavorativa e serenità personale.”

James lo fissò meditabondo. “Sei così razionale…”
Ted sorrise lievemente al complimento mascherato da insulto, o viceversa. Si chinò e gli baciò la punta del naso per poi passare alla fronte: scottava della magia che gli ribolliva nelle vene. “Non darmi del professorino.” Lo anticipò.

“Però lo sei. Sei un cazzo di professorino.”
“James…”  

Per tutta risposta si sentì afferrare per il colletto della camicia e tirare giù di nuovo, stavolta per un bacio che, sebbene rovesciato, fu totalmente travolgente. Dovette aggrapparsi allo schienale della sedia per darsi contegno.
James poi si leccò le labbra come il provocante bastardello che era. “Allora mi sa che te ne ruberò un po’, di ‘sta razionalità, perché ora sento di non averne addosso neanche una goccia.”
Ted ridacchiò. “Sono a tua disposizione.”


****
 
America, Boston.  Notte.
 
Sören non aveva la minima idea di come fosse finito ad accompagnare il sergente Gillespie, al secolo Ama, a casa.
Sapeva solo che in suo onore erano stati fatti molti giri di birra, altrettanti di whisky e svariati di shots dai nomi improbabili e vagamente insinuanti. Al contrario dei colleghi, lui si era limitato a bere sempre la stessa quantità e qualità di liquore, proprio per evitare scene come Murphy che intonava vecchie canzoni country o Milo che trascinava il bagno il povero Allison, ormai convinto che il biondo fosse l’uomo della sua vita.

Sì, per una notte.
Anche il Sergente aveva bevutoe per questo quando l’aveva vista alzarsi con la cautela tipica di una sbronza sostanziosa, l’aveva afferrata pronto. Gli era venuto istintivo, e per tutta risposta si era quasi beccato un malrovescio.
 
“Ah, sei tu Prince!” Aveva esclamato mettendolo a fuoco. “Che stai facendo?”
“Evito che lei cada?” Gli era uscito poco felicemente, ma stranamente era stata la frase giusta, perché la strega gli aveva sorriso.
“Allora è vero quel che dicono di te le ragazze dell’ufficio…”
“Come?”

Non gli aveva risposto, limitandosi a guardarlo. Sören non ci aveva messo che qualche attimo per abbassare lo sguardo.
Se ti fanno effetto occhi verdi che non sono quegli occhi verdi … Se te li trovassi di nuovo davanti?
Ah, ragazzo mio.
Il Bourbon – una sorta di whisky Babbano – doveva aver un tempo di assimilazione lento, perché quando Estevez gli aveva consegnato la giacca ordinandogli di scortare il Sergente a casa, non aveva mosso obiezione. Non si era neppure stupito quando aveva visto Milo ghignare, prima di tuffarsi nuovamente in una fitta ed esplicita conversazione con il povero Allison.
 
Così torniamo al momento attuale…
Ama – bene, aveva imparato – aveva insistito per andare a piedi, dacché un taxi le avrebbe messo lo stomaco in subbuglio, per non parlare di una Materializzazione. Si erano così trovati a camminare fianco a fianco lungo un marciapiede anonimo in direzione del quartiere di quest’ultima.
Sören conto circa la centesima crepa nel marciapiede, non avendo la minima idea di come rompere il ghiaccio, dato che la ragazza – a ben vederla, senza uniforme e con i capelli sciolti si vedeva che era sua coetanea – non apriva bocca. Avrebbe dovuto di qualcosa? Oppure era più saggio rimanere in silenzio?
Ma non siamo in servizio…
Trovare un argomento di conversazione dato quelle premesse era pressoché impossibile, quindi si risolse a prendere una sigaretta e ad accendersela con un gesto di quella mano.
“Lo fai sempre senza bacchetta?” Lo stupì la voce dell’altra. “Dico, accendere le sigarette … ho visto che lo fai anche per altre cose.” Spiegò, forse alla sua espressione perplessa.
“Sono piccole magie … Mi è più facile non estrarre sempre la bacchetta” Spiegò stringendosi nelle spalle: non poteva certo spiegarle che usare la bacchetta per magie così elementari avrebbe solo moltiplicato l’effetto della magia, rischiando di bruciare non solo la punta della sigaretta, ma anche metà della sua faccia. “Vecchia abitudine.”
Capì troppo tardi che quella frase li avrebbe condotti in un terreno in cui nessuno dei due si sentiva a suo agio. Per eufemizzare.

Vecchie abitudini significano Thule e Johannes. Merda.
Ama infatti si morse le labbra, stringendosi le braccia al petto, in una posa di difesa così palese che si sentì in dovere di scusarsi.
“Smettila.” Lo freddò con il consueto tono glaciale. “Smettila di scusarti. Dio!” Sbottò di colpo. “È così irritante!”
Sören deglutì un grumo di disagio ed espirò fumo; gli sembrava un buon metodo per non sembrare un perfetto idiota. “Temo di non capire. È irritante il fatto che mi scusi?” Tentò.
Sì!” Fu la risposta, prima che si voltasse per fronteggiarlo. Smorzò un po’ l’effetto il fatto che si dovette puntellare su di lui per non perdere l’equilibrio.

“Ama…” Tentò. “Non mi pare il momento per affrontare questo genere di…”
Lo ignorò. “Devi piantarla di comportarti come se dovessi scusarti solo per il fatto di esistere!”
“Io…” Era così che si comportava con lei? Possibile.  

Ho causato la morte di suo padre, dopotutto.
“Non era mia intenzione farla arrabbiare.” Iniziò, anche se sapeva che con le donne la ragionevolezza spesso era un concetto piuttosto astratto. Non che avesse avuto particolari esperienze con l’universo muliebre, ma ne aveva conosciuta una che forse riassumeva alla perfezione quell’immagine.
Lily.
Quando si arrabbiava con me … Quando si arrabbia ancora con me per lettera…
“Dammi del tu. E smettila di essere così spaventato.” Gli ordinò. Sören ebbe l’impressione di camminare su una lastra di ghiaccio sottilissimo, ma del resto non poteva neppure lasciarla in quelle condizioni in mezzo ad una strada.
“Va bene.” Acconsentì. Era chiaro fossero arrivati ad una sorta di momento della verità, e dato che voleva evitare di girarci attorno – odiava i lunghi giri di parole, specie perché puntualmente ci si perdeva dentro – andò dritto al punto. “Non sono spaventato. Mi sento a disagio.” Esordì tentando disperatamente di suonare convincente senza guardarla in viso. Non era facile.
“A disagio?”
“Conosci il mio passato, sai cos’ho fatto alla tua famiglia.” Ci volle tutto il suo coraggio per continuare, perché si sentiva lo stomaco annodato e aveva voglia di vomitare. E non era il Bourbon; erano ricordi. “Non sono mai riuscito a chiederti scusa per la morte di tuo padre, perché non me l’hai mai permesso. Per questo non posso fare a meno di chiedertelo sempre, anche se può sembrar sciocco.”
Ama lo fissò con espressione indecifrabile e per un attimo Sören temette di dover evitare una maledizione. Poi la vide mordersi le labbra e stringersi di nuovo le braccia al petto. “Non sei stato tu ad aver ucciso mio padre, ma Il Camaleonte.” Mormorò.
“È vero, ma ero suo complice. Se non mi avesse incontrato e non l’avessi…”
“Va bene, è vero.” Eruppe vinta. “Per un periodo non sopportavo di vederti indossare la nostra uniforme. Detestavo il fatto che ad una persona come te venisse dato il compito di proteggere e servire questo paese.”
Lo sapevo.

Si impose di non lasciar trasparire la ferita che l’altra gli aveva appena inferto. Se la meritava, del resto.
“Però non ti odio.” Lo stupì. “Odio il Camaleonte, Von Hohenheim e tutti quelli della loro risma, è il motivo per cui sono entrata all’Accademia.” Il viso prese un’espressione che la rese fotocopia di sua madre. “Ma sei un mio sottoposto, e tale ti considero. Io…” Inspirò. “Senti, non sono nelle condizioni adatte per parlarne adesso.”
L’avevo notato.
Ma non disse nulla, preferendo rimanere in compito silenzio.

“Però fammi un favore.” Aggiunse. “Piantala di chiedermi scusa. Non voglio più sentirlo. Sei scusato.”
Sören sentì un notevole peso cadergli dalle spalle. Fino a quel momento non aveva capito fino a che punto fosse stato doloroso averlo addosso. “Va bene.” Sorrise appena. “Grazie Ama.”

Ama ricambiò inaspettatamente il sorriso. A ben vedere, Estevez aveva ragione: quando sorrideva sembrava molto più giovane. “Beh, sempre meglio di scusa.”
Sören sapeva che dietro quel sorriso doveva esserci altro. Milo gli aveva spiegato come dietro i sorrisi delle ragazze ci fosse tutto un mondo di sottotesti. Sfortunatamente non era mai riuscito a capirne neppure uno.  
Quando arrivarono a destinazione tirò un respiro di sollievo; quella serata era stata emotivamente stressante e non vedeva l’ora di tornare a casa per poter esser solo.
Chi ha detto che l’essere umano è per sua natura sociale dovrebbe conoscere me.
Ama – ormai padroneggiava anche quel nome – dopo aver girato le chiavi nella toppa del portone si girò a guardarlo. “Vuoi salire a prendere un caffè?”  
No. È già stato abbastanza sconcertante quel che ci siamo detti in venti minuti di camminata, grazie.  
“Non bevo caffè la sera, ma come se avessi accettato, ti ringrazio.” Le sorrise con la massima cortesia atta a deflettere un’offerta.
L’altra assunse un’aria incredibilmente seccata, che non comprese. Questo prima che l’afferrasse per il bavero della giacca. “Il tuo amico biondo ha ragione, mi sa che devo esser esplicita.”
“Prego?”
La risposta fu baciarlo.  

La sorpresa fu tale che ci mise più di qualche attimo a realizzare che il suo Sergente, la donna che lo comandava in ufficio e che fino a quella sera sera sembrava averlo detestato cordialmente, lo stava baciando con trasporto alcolico ma non per questo meno autentico.
Non dovrebbe esserci un codice di condotta atto ad evitare relazioni tra colleghi?
Era una domanda idiota, gli urlò Milo nella sua coscienza. Gli consigliò anche di rispondere, perché le forme dell’altra sembravano perfettamente incastrarsi con le sue, il Bourbon era davvero un alcolico notevole e dopotutto quel codice di condotta non era mai veramente rispettato.
Sarebbe stata solo una notte, era il sottotesto che prima aveva mancato. Una notte di compagnia reciproca e soddisfacente. Da quando era in America non era nuovo a quel genere di rapporto, anzi, era l’unico che intraprendesse con il sesso opposto, ma non era quello il punto.
Non è una ragazza qualunque incontrata in un bar. Tu questa strega la rispetti. La vedrai anche domattina, e se tutto va bene, per il resto della tua vita.
Ah, tra l’altro ha gli occhi verdi. Non è il caso di stimolare quel lato della tua fantastia, vero?
Sentì un maglio freddo artigliargli lo stomaco e fu quello a dargli la forza di prendere i polsi dell’altra e staccarla gentilmente da sé.  “No.” Si impose, perché il desiderio era qualcosa di difficile da disciplinare quando arrivava la notte. “Non è una buona idea.”
La sentì gelarsi sotto il suo tocco e staccarsi bruscamente, inspirando. “Sì… io. Hai ragione.” Sussurrò ravviandosi i capelli con una mano. “Non so cosa…”
“L’alcool.” Suggerì volenteroso.

“Esatto, l’alcool.” Confermò rapida, anche se un guizzo di orgoglio femminile le balenò nello sguardo. “È per via del codice di condotta? Perché…”
“Non è per quello, non solo almeno.” La verità, sempre la verità. Decisamente era una promessa scomoda.
“… C’è un’altra?” Indovinò. Le donne in quanto a sesto senso avrebbero potuto esser tutte Legimanti.
“Sì.” Confermò, sentendo un sapore spiacevole sulle labbra. “Sì, è così.”
Ama annuì, passandosi una mano sul viso. “Di quello che è appena successo…”
“Non deve preoccuparsi Sergente.” La anticipò. “Non ne farò parola.”

Erano stati di nuovo messi i paletti e Sören vi si sentì meravigliosamente a suo agio. Si lasciò sbattere la porta in faccia e poi si affrettò a Smaterializzarsi.
Quando riaprì gli occhi nel suo appartamento tirò dritto verso il balcone; era la parte che preferiva della casa, essendo spazioso, completamente aperto e con una vista notevole sulla città. Da lì poteva respirare l’aria di mare che, anche se più rarefatta rispetto a quella della sua infanzia, aveva comunque il pregio di ricordargliela.
Alla brace della sua sigaretta presto se ne aggiunse un’altra.
“Beh?” Lo apostrofò Milo, a torso nudo e presumibilmente solo in intimo. Altrettanto presumibile era il fatto che qualcuno in quel momento occupasse il suo letto. Il povero Allison, forse. “Cazzo ci fai qua?”
“Tu ed Estevez avete complottato perché andassi a casa con il Sergente, vero?” Ritorse.
“Più che altro, perché entrassi nel suo letto. Lei sarebbe stata meno acida e tu meno depresso. Due piccioni con una fava!” La brace illuminò un paio di sopracciglia inarcate in piena incredulità. “Si può sapere quale scrupolo imbecille t’ha assalito? Alla tipa piaci! Fare l’algida stronza era solo una tecnica!”

Non rispose e non ce ne fu bisogno perché infatti dopo qualche attimo l’altro fece un profondo sospiro. “Se è per il motivo che penso, sei un coglione.”
“Milo, non pretendo obbedienza, ma almeno risp…”
“Vaffanculo maghetto.” Fu la replica serena. “Votarti ad una persona in ‘sto modo è da coglioni.”
“Non mi sono votato. Quello lo fanno i sacerdoti Babbani, ed io non lo sono.”
“Quanto sei poco romantico.” Gli picchiettò il petto, all’altezza del cuore. “Parlo di questo.”

Sören si scostò, mettendo anche distanza fisica tra sé e l’altro. Era il suo coinquilino e la cosa più simile ad un amico che avesse in quella terra che a volte gli sembrava ancora straniera, ma non era abbastanza.
Non è lei.

“Quando ti troverai nella mia situazione, allora potrai giudicarmi. Prima, non ascolterò.”
Milo sbuffò, schiacciando la sigaretta sulla ringhiera e facendo così baluginare tanti fiocchi di cenere incandescente nell’aria. “Mica sono così coglione.” Fu l’ultima cosa che gli disse prima di rientrare.

Sören fece evanescere il suo mozzicone e premette i palmi delle mani sulla ringhiera fredda finché non la sentì incandescente.




She said, I'm okay

I'm alright, thought you have gone from my life,
You said that it would, now everything should be alright...
 
 


****

 
 
Note:


Altro capitolo di passaggio? Forse. Ma serve ai fini della storia! ;D
È un capitolo che spero renda esattamente come voglio, visto che c’è tanta carne al fuoco e tante spiegazioni. Spero siano sensate. :)
Questa la canzone del capitolo.

 
1.Sei Nazioni: è il più importante torneo internazionale di rugby a quindici dell'emisfero settentrionale. Vi Partecipano Scozia, Irlanda, Inghilterra, Francia e Italia.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V

 



Se è scritto che due pesci nel mare debbano incontrarsi,
non servirà al mare essere cento volte più grande.
(Stefano Benni)
 
21 Giugno 2028
Inghilterra, Diagon Alley.
Casa di Thomas Dursley e Al Potter. Mattina.
 
Albus non era tipo da sensazioni.
Non si riteneva neanche un tipo materiale, però. Sapeva che il cosiddetto sesto senso era cosa vera, tanto più nel Mondo Magico dove c’erano persone, maghi e streghe, capaci di avere percezioni talmente nitide da tramutarsi in realtà. Non era Divinazione – materia che peraltro aveva sempre velatamente snobbato – quanto piuttosto la capacità di intuire quando c’era qualcosa che increspava il tessuto solitamente liscio della propria esistenza.
Quella mattina infatti si era svegliato con la sensazione che avrebbe fatto meglio a spalancare immediatamente gli occhi e ricapitolare i compiti che avrebbe dovuto svolgere durante la giornata. L’aveva fatto e non vi aveva trovato nulla di insolito: il quotidiano giro di visite, i pazienti, un pranzo veloce con i colleghi e poi andare a prelevare Tom dalla bottega di Stevens prima che vi trascorresse la notte, tra alambicchi beccheggianti e tomi giganteschi. Infine, la cena in famiglia settimanale.
Niente di fuori dall’ordinario.
Eppure c’era qualcosa che non gli tornava, come se avesse dovuto far qualcosa, chiamare qualcuno, assolvere ad un compito.
Ma no, direi proprio di no.
Insonnolito, si trascinò in bagno dopo aver rifatto con un colpo di bacchetta il proprio letto; non un compito difficile dato che la parte del proprio compagno era già fatta, con il cuscino stirato e il pigiama ordinatamente piegato sopra le lenzuola.
Maniaco compulsivo…
Continuando a rimuginare in direzione della cucina quasi inciampò su Zorba, che soffiò indispettito lanciandogli un’occhiata che non sarebbe sfigurata sul viso di Tom, al momento al tavolo della colazione, ma non consumante; era invece preso a spulciare uno dei suoi libri con espressione morbosa. “Buongiorno.” Disse e fu ricompensato dal silenzio di colui-che-non-l’aveva-minimamente-notato.
Buongiorno anche a te, amore. Come stai? Dormito bene? Lascerò subito questo stupido libro per sorriderti e ringraziare Merlino di avermi concesso la tua compagnia.
… Proprio.
Meike, loro ospite per l’estate e faccendiera per natura, girò con un colpo sapiente di polso un pancake – cucinava alla Babbana per via di Cordula – salutandolo con un sorriso che gli riscaldò il cuore. “Mutti, güten morgen! Diresti a Tom di mangiare prima che svenga d’inedia?”
Al annuì, strappando il libro dalle dita dell’altro e facendoselo arrivare in mano con un Accio ben riuscito. Ignorò l’occhiata furente che gli venne scoccata. “Tom, il tavolo di cucina serve per mangiare, non per leggere.”
“Ridammelo.”

“Non appena avrai mangiato la colazione che ti è stata gentilmente cucinata.” Lanciò il tomo alla suddetta e Tom sbiancò come se stessero lanciandosi un neonato emofiliaco e non un semplice agglomerato di colla e carta. Dovette trattenere una risata. “Mei, è tuo ostaggio.”
“Ricevuto!” Ghignò senza remore la sedicenne serrandoselo al petto. “Dai, Tom, li ho fatti per te! Dopo potrai leggere quanto vuoi, promesso.”
L’altro li fissò come se fosse indeciso se cavar loro il cuore a mani nude o decapitarli; nulla di nuovo sotto il sole dacchè quello era il suo umore medio quando si alzava la mattina. Dopo una sorta di brontolio che probabilmente conteneva qualche maledizione, obbedì.
“Ogni giorno la stessa storia, guarda che diventi anoressico!”
“Il cibo non mi interessa.” Fu la gelida risposta. Lanciò un’occhiata di sottecchi all’espressione delusa che ne conseguì e sospirò. “Comunque sono buoni, Meike. Grazie.”
Al sorrise alla piccola tedesca, in realtà minimamente scalfita da come gli strizzò l’occhio non vista; Tom, anni prima, aveva avuto perfettamente ragione ad inquadrarla nelle loro file.  
Ha una bella testa, ma non la usa per speculare come un Corvonero. La usa per ottenere ciò che vuole con il minimo sforzo consentito.
Ditemi se questo non è Serpeverde…
Era questo che gliela rendeva tanto cara; Meike, con i suoi piercing, le maglie oversize, le calze strappate e la passione bulimica per la musica, palesava un cervello indipendente e ben fisso sui propri obbiettivi.
E non ha neanche sedici anni …
È un sollievo aver qualcuno di maturo che ti gira per casa, ogni tanto.
La guardò mentre serviva una seconda porzione di Pancake all’altro inquilino, spiegandogli le proprietà nutritive dello sciroppo d’acero.
E poi, è riuscita ad addomesticare Tom. Non è un primato che chiunque detiene.
“Sono anche per me?” Chiese pescandone uno dalla pila.
“Quanti ne vuoi, visto che Mister Musone si ostina ad affamarsi. Un giorno passerà dalle porte senza doverle aprire.” Motteggiò, prima di stiracchiarsi. “Comunque sono tutti per voi, io devo scappare alle prove.”
“Di mattina?” Interloquì Tom aggrottando le sopracciglia. “Tu e Louis non avete niente di meglio da fare? Come studiare?”
“Che noioso che sei!”

“Sono il tuo tutore, secondo la legge magica e tua nonna.” Replicò grave, guardando poi nella direzione dell’altro. “A dirla tutta, lo siamo entrambi.” Sottolineò, come a cercare appoggio.
Al, certo che dietro il Mutti che la piccola tedesca gli aveva affibbiato anni prima si nascondesse una maledizione, si sentì deplorevolmente intenerito dagli occhioni supplici di quest’ultima. Era vero, Cordula li aveva nominati tutori ad interim, ma forse per via del poco divario di età, non si era mai sentito a suo agio in quel ruolo.

Tom invece l’ha preso terribilmente sul serio. Vai a capirlo, con sua sorella è la persona più condiscendente del mondo.
“Beh, l’importante che abbia i compiti fatti entro la fine dell’estate, no?”
Meike si illuminò a quell’attesa breccia. “Esatto! E così sarà! E comunque è inutile che fai quella faccia Tom, so che ti piace la musica che faccio!” Gli scoccò un bacio sulla guancia, a cui l’altro si ribellò con una smorfia che forse avrebbe voluto esser indignata, ma che risultò simile a quella di un cinquenne schifato. Al a volte si soffermava a pensare che finita Hogwarts – e soprattutto l’orribile storia di Von Hohenheim – Tom aveva cominciato progressivamente a mostrare più emozioni. Era come se molto del grumo che gli opprimeva lo spirito si fosse sciolto con la morte di suo padre.

E poi ci sono giorni come questo, in cui è il solito gatto stronzo.
“Dovrebbe studiare.” Borbottò  in un’imitazione piuttosto smaccata di un bollitore quando la ragazza se fu andata. “Altrimenti la declasseranno ad una tassorosso. E Cordula mi ucciderà.”
“Perché diventerà una tassorosso?” Non poté fare a meno di stuzzicarlo. Vedendolo rabbuiarsi, si affrettò a tornar serio. “Dai, ha comunque buoni voti! E poi, cucina divinamente…” Quasi a sostenere l’affermazione, inondò la sua colazione di un effluvio di panna liquida e marmellata ai mirtilli: Tom poteva ridursi alla fame, ma lui aveva un’intera giornata di lavoro davanti e una brutta sensazione da combattere.
Devo fare il pieno di zuccheri.
“Imbroglia. Si fa passare le risposte dei test dai ragazzi dell’anno prima.”
Al chiuse gli occhi all’esplosione zuccherina di cui furono investite le sue papille gustative: la capacità di Meike ai fornelli era inestimabile in quella casa, dove i pasti principali erano composti da conserve e cibo da asporto. “Immagino dovremmo essere indignati.” Sospirò, leccando la forchetta e catturando una goccia di panna con la lingua. Finse di non notare lo sguardo da camera da letto che gli lanciò l’altro dato che sì, era invitante, ma la mattina non era foriera di sesso; non nei giorni lavorativi almeno.

No.” Rese manifesto beccandosi una smorfia densa di disappunto. “Niente sesso, maniaco.”
“Allora evita di leccare lascivamente la forchetta.”
“Sto mangiando.”
“Mi stai provocando.” Fu la replica stizzita e Al suo malgrado sorrise alzando le mani in segno di resa e prendendo a sorseggiare onestamente il suo the. A posteriori dovette ammettere che non fece granché resistenza quando l’altro aggirò il tavolo, lo afferrò per un polso e lo trascinò verso il divano, ovvero la prima superficie comoda disponibile.

Dai, mi sono alzato presto oggi …  posso anche permettermi di perder tempo. Decisamente.
Fu con il sudore ancora sulla pelle e le labbra di Tom che gli baciavano piano la nuca che quel dannatissimo pensiero fisso tornò.
Cosa devo fare? C’è qualcosa che devo fare, solo…
“Che c’è?” Tom doveva aver registrato il suo irrigidirsi. “Hai un pensiero in testa.” Soggiunse.
Okay, questo non doveva saperlo. Non mi sta neanche guardando in faccia!
“Ti prego, dimmi che non stai diventando un Legimante.” Borbotto affondando la faccia in uno del milione di cuscini che infestavano il salotto.
“Credo di esserlo stato.” Replicò pacato, poi scosse la testa quando si voltò per guardarlo sconvolto. “Non ho detto di esserlo ancora. Sei leggibile anche senza magia, Potter. Nella tua famiglia indossate i vostri sentimenti come giacche vistose.”

Al sospirò, riconoscendo il punto. “Non lo so … è una sensazione più che altro.” Ammise mentre con le dita tracciava percorsi casuali sul petto dell’altro: troppo magro, l’avrebbe definito qualcuno. Non lui. “Mi ci sono svegliato … è come se dovessi impedire qualcosa. Un evento, una decisione…” Sospirò alle sopracciglia inarcate che gli vennero rivolte. “Lo so, non ha senso spiegata così.”
Tom lo guardò a lungo senza dir niente, con quel suo singolare sguardo fisso che metteva a disagio buona parte dell’universo creato, oggetti inanimati compresi. Lui ci era abituato sin dall’infanzia – e gli era sempre piaciuto, perché presupponeva il fatto che qualcuno finalmente lo notasse nella moltitudine berciante della sua famiglia - quindi aspettò sereno il verdetto.
“No, non ha il minimo senso.” Si risolse a dire.
“Grazie tante, ci arrivavo da solo!” Tuffò di nuovo la faccia nel primo cuscino disponibile. “Non riesco a togliermelo dalla testa!”
“Va tutto be…”

Albus sentì un brivido freddo ficcarglisi su per la nuca come uno spillo, quindi trovò del tutto sensato bloccare le parole del compagno mettendogli una mano sulla bocca. “Non lo dire.” Sussurrò terrificato.
Tom aggrottò le sopracciglia e schiaffeggiò via la mano. “Cosa?” Un lampo di comprensione gli illuminò il viso. “Ah, naturalmente.” Alzò gli occhi al cielo. “Non credi sia ora di finirla con questa tua fissazione?”
“Sto parlando con la stessa persona che di secondo nome fa paranoia?” Fissò il sole feroce che esplodeva sopra le loro teste e oltre il lucernario prima di distogliere lo sguardo abbacinato. Chissà perché, quella vista lo rassicurò meno di quanto non facesse di solito; ma del resto, molti dei casini a cui aveva assistito o che aveva vissuto in prima persona erano accaduti in giorni meteorologicamente gloriosi.
“Lascia perdere.” Si risolse a dire. “Solo, non dire che va tutto bene, perché lo sai come funziona … Smette di esser così nel preciso istante in cui lo dici.”
Tom lo guardò con espressione platealmente divertita. Gli prese la mano e ne baciò il palmo, quasi a ringraziarlo del momento esilarante che gli stava per regalare.

Eh?
“Al, cos’hai appena detto?”
“Di non dire che va tutt…” Si bloccò, spalancando la bocca in muto grido d’orrore, cosa che fece scoppiare l’altro in una risata davvero inappropriata e stronza viste le contingenze.
Dannazione!
 
Press my nose up to the glass around your heart
I should’ve known I was weaker from the start…
 
 
****
 
Diagon Alley, Paiolo Magico.
Mattina.

 
“Non capisco perché abbiamo preso la camera con vista sulla strada. Costa il doppio.”
Un’altra lamentela e lo uccido.

Milo Meinster si considerava un tipo estremamente paziente; tale doveva essere per sopportare il proprio coinquilino, assistito e sciagura personale ovvero il nanerottolo dall’aria deperita che rispondeva al nome di Sören Prince.
Da quando erano stati Materializzati al Centro Smistamento Passaporte del Ministero inglese quest’ultimo aveva infatti alternato fasi cupamente taciturne a fasi altamente iperattive, in cui si guardava attorno come un falco strafatto argomentando e criticando tutte le sue scelte, dalla decisione di prendere un taxi babbano invece della Metropolvere – Milo aveva una camicia che gli era costata metà stipendio dell’ultimo mese, col cazzo che se la sarebbe fatta riempire di fuliggine – a quella di scegliere una stanza che non sembrasse il set di un film dell’orrore.
La taverna caldamente consigliata dal Capitano Gillespie, il Paiolo Magico, era risultata essere una specie di agglomerato di assi fatiscente, con un personale che oscillava tra l’esser pietoso e il semplicemente inquietante. Il solo fatto che la ragazzina che li aveva accompagnati alla stanza fosse Maganò e avesse l’aria di non lavarsi da giorni gli aveva fatto salire il nervoso.
Qua non starei neanche a smaltire una sbronza!
“L’abbiamo presa perché mi rifiuto di aprire la finestra e trovarmi di fronte un muro di mattoni che puzza di piscio. E tu?” Lo apostrofò salacemente, vedendolo rabbuiarsi.
Ricordi lieti da Nurmengard? Ci avrei scommesso.
“Sì, ma dà sulla via principale.” Borbottò Sören osservando i propri bagagli come se da essi potesse trarne conforto. Erano solo due borsoni purtroppo. “Se aprissimo la finestra…”
“Potrebbero vederci?” Suggerì prima di andare alla suddetta e spalancarla con un colpo secco.

Per tutta risposta lo vide quasi rinculare verso al porta. “Milo.” Ringhiò con tono d’avvertimento.
Sì, sì … non tirare troppo la corda e blablabla. Ma si sa, can che abbaia…
“Tranquillo, se vuoi puoi comodamente rintanarti nell’angolo più buio. Io ho bisogno di luce per la mia Arte e genericamente per non ammuffire.”
L’altro fece un profondo sospiro, poi si tolse il mantello da viaggio e prese a sfare accuratamente la propria valigia. “Non eri costretto ad accompagnarmi.” Non riuscì a trattenersi mentre riponeva i suoi pochi effetti personali nell’unico armadio della stanza.
“Sei proprio stronzo.” Ribattè spassionato. “Se ti avessi lasciato andare da solo ti saresti lasciato rifilare un pulcioso sottoscala.”
Sören piegò le labbra in una smorfia che riusciva a stravolgergli i lineamenti in un pesante sarcasmo. Era raro vedergliela fare, ma dimostrava che dietro la sua cronica insicurezza a volte baluginava qualcosa che parlava di orgoglio e pretesa superiorità. Dopotutto, era un Purosangue.“Questa stanza non mi sembra una reggia, Milo.”
“È la loro suite.” Si stiracchiò, sedendosi sul davanzale e frugando nelle tasche dei jeans per trovare cartine e accendino. Una sigaretta per iniziare, uno spinello se la situazione fosse peggiorata nel corso della giornata.

Probabile accadrà quando andrò in cucina per parlare della dieta che deve seguire il principino…
Chissà se conoscono la parola ‘cibo fresco’ da queste parti?
Si infilò la sigaretta dalle labbra, sfilandola con una certa classe ed accendendola con un fiammifero – non era tipo da accendino, lui. Se c’era una cosa che lo tranquillizzava, era misurare i movimenti e compiere azioni banali senza sbavature. Era un metodo che aveva imparato dal violino.
La precisione delle battute trasposta anche per soffiarsi il naso. Ehi, funziona.
Sören intanto fissava un punto qualsiasi del pavimento consunto ed era uno spettacolo talmente desolante che quasi si sentì dispiaciuto dell’ironia spiccia con cui l’aveva liquidato poco prima. “A che ore devi andare al Ministero?”
“Tra due ore.”
“Non dirmi che hai anche contato i minuti!”
Un vago rossore gli si diffuse sulle guance. “Ventisette minuti.” Borbottò fissando con astio il baldacchino di uno dei due letti singoli.

Milo sapeva di non poterlo accompagnare; la sua ingerenza si fermava sulla soglia del loro appartamento; era un tacito accorto che avevano stipulato agli inizi della loro convivenza e non vi erano mai venuti meno.
Te la devi cavare da solo, principino. E speriamo che tu non faccia troppi danni.
“Nervoso?”
Sören serrò le labbra. “Mi prendi in giro?” Si passò una mano trai capelli. “Sarà assolutamente sgradevole, senza contare che anche se sono stati avvertiti potrebbero comunque fare ostruzione.”
“Intendi dire i Potter?” Milo scrollò la cenere della sigaretta fuori dalla finestra. Il davanzale non aveva bisogno di sembrare ancora più miserabile. “Devono collaborare con te, no? Altrimenti son guai per il loro Ministero. Hai la legge dalla tua.”
“Ma non la ragione.”
“Che palle!” Sbottò, perché qualcuno doveva farlo. “Ti stai piagnucolando addosso.” Impostò la voce in un tono lagnoso d’eccellenza. “Merlino come mi sento derelitto, i cattivi inglesi mi inseguiranno con i forconi e mi picchieranno perché sono brutto e cattivo!
Un lampo oltraggiato passò nelle iridi del mago, che alzò la testa di scatto e cambiò postura. Benedetto il giorno in cui aveva scoperto che possedeva una coda di paglia che neppure dodici mesi di prigione avevano potuto spezzare. “Piantala di ironizzare su qualcosa che non capisci.” Stavolta al posto del borbottio c’era un sibilo e andava molto meglio.

“Non sto ironizzando, sto dicendo la verità.” Replicò serenamente, sorvolando sul fatto che l’altro avesse ragione. Non ne capiva niente e neanche ci teneva: ma il punto era un altro. “Devi tirare fuori le palle.” Allargò le braccia significativamente. “Perché credimi, mostrarti tremolante non aiuterà a farti prendere sul serio.”
“Io non sono…” Inspirò bruscamente. “Non ho intenzione di mettere in una posizione scomoda il nostro Ministero. Farò il mio lavoro e non mi serve la tua faciloneria.”
“Favoloso.” Replicò. “Passando ad argomenti più frivoli, chi utilizza la doccia per primo?” Si indicò e lo indicò. “Tu, decisamente. Nel caso piovessero ratti dal diffusore fammi un fischio.”
Sören fece una smorfia, ma non ribatté, prendendo la borsa in cui gli aveva radunato le sue cose per il bagno e marciando via come il maledetto, piccolo soldatino che era.

Milo sospirò, soffiando in alto il fumo della sigaretta; sarebbero state cinquantasei ore estremamente spiacevoli, ma per fortuna destinate a finire a breve.
L’Inghilterra me l’immaginavo diversa … un po’ bohémien, una specie di Parigi con più pioggia, ecco.
Invece fino a quel momento Londra gli era sembrata ben poco invitante, con il suo caos grigio, puzzolente e umidiccio.  
Ma non disperiamo. Devo ancora vederla in versione notturna. Quella che poi mi interessa.
Si sporse per occhieggiare la folla che percorreva la cosiddetta Diagon Alley – in effetti, era una strada tortuosa quanto un sentiero alpino. Lo facevano sempre ridere i mantelli in appropriatamente colorati che sfoggiava il Mondo Magico europeo, in fantasie che non sarebbero sfigurate su un tendone da circo Babbano; fu quindi naturale che gli cascasse l’occhio su un ragazzo vestito sobriamente, abbastanza perlomeno da mostrare almeno un’infarinatura su come accostare una giacca e un paio di pantaloni dal taglio formale. Lavori di sartoria magica, sicuramente a giudicare dal taglio quasi vittoriano, ma comunque confezionati per esaltarne la figura alta e slanciata.
Ed è pure di colore. Pancia mia fatti capanna … peccato sia tipo a venti metri in linea d’aria e non ci si possa rompere l’osso del collo per un bel faccino.
Trovò però del tutto sensato ficcarsi le dita in bocca e fare un gran bel fischio d’apprezzamento.
 
Michel voltò la testa di scatto, avendo la netta impressione che qualcuno avesse fischiato al suo passaggio. Con un certo disappunto, tra un paio di vecchiette e una fila di Folletti dall’aria arcigna, non riuscì a trovare il cafone, probabilmente dileguatosi nella folla dopo la bravata.
Peccato. Umiliare pubblicamente un idiota sarebbe stato rinfrancante.
Rinfrancante perché in modo irritante era iniziata quella giornata. Per cominciare il suo amante della notte non era uscito alle prime luci dell’alba come etichetta imponeva, imponendosi invece a colazione, e Loki, che si era ormai installato a casa sua come la muffa in bagno, gli aveva chiesto l’ennesimo prestito per l’ennesima assurda impresa finanziaria ai limiti della legalità.
Che non importa che mi porti i guadagni duplicati, sono certo che li centuplica e a me lascia solo le briciole. Razza di gazza ladra.
Dulcis in fundo, mentre indulgeva in una doccia bollente era stato interrotto dallo sparviero di suo padre che, fastidioso come il genitore, aveva picchiato nei vetri smerigliati del vano doccia finché non gli aveva aperto.
Li ha rigati tutti, con quel dannato becco.
Aveva un appuntamento con Lord Zabini tra una ventina di minuti e sperava solo non fosse per affibbiargli l’ingrato compito di supervisionare l’agente di collegamento americano al caso di Potter e Scorpius. 
Con la fortuna che mi bacia nell’ultimo periodo, sarà precisamente per questo.
 
You’ll build your walls and I will play my bloody part
To tear, tear them down…



****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter. Mattina.

 
Ted era seriamente preoccupato per l’intera faccenda dell’arrivo di Von Hohenheim.
James quella mattina era stato più elettrico del solito; aveva a malapena toccato la colazione, si era ingozzato di caffè e aveva spiccicato sì e no qualche parola prima di baciarlo frettolosamente e infilarsi nel camino, direzione Londra. Per chiunque lo conoscesse, quello voleva dire avvisaglia di tempesta.

Speriamo Scorpius e Bobby sappiamo tenerlo a bada. Anche il sergente Flannery dovrebbe aiutare … Perché se fossero solo lui e Von Hohenheim…
Non riusciva neanche ad immaginare l’esito di un incontro a due; James aveva un carattere limpido e onesto, ma prono alle esplosioni di collera se l’oggetto che gli stava davanti veniva identificato come nemico.
E di certo Von Hohenheim lo sarà.
Sistemò quello che restava delle povere begonie, detergendosi il sudore dalla fronte con la manica della vecchia camicia che usava per far quel poco di giardinaggio che serviva a mantenere il loro giardino presentabile. Era una mattinata già rovente e non vedeva l’ora di fare una pausa all’ombra della cucina e riprendere la lettura di un saggio che aveva iniziato qualche giorno prima.
Prima però finiamo qui vecchio mio… e magari mettiamo qualche incantesimo di protezione stavolta, casomai alla capretta venisse in mente di replicare la scena di qualche giorno fa.
Era così preso a sistemare il terriccio attorno alle piantine che quasi non si accorse del gufo che planò dolcemente nella sua direzione. Asciugandosi le mani sporche su uno strofinaccio lanciò un’occhiata al volatile: non sembrava un Famiglio, quanto piuttosto uno di quelli in dotazione all’Ufficio Postale locale data l’aria efficiente e particolarmente stressata. Prese dalla terra un paio di vermi e glieli porse, strappando poi la ceralacca della missiva.
Una convocazione per un consiglio cittadino d’emergenza per questo pomeriggio?
Hogsmeade era una comunità tranquilla, quale avvenimento repentino aveva scosso la prevedibile routine del villaggio?
“Che strano…” Ragionò ad alta voce e in quel momento, quasi un deux ex machina, Neville spuntò dal viottolo che passava davanti al suo giardino con al guinzaglio il cane di famiglia, un gigantesco San Bernardo chiamato ironicamente Little John. “Ehi Nev!” Lo salutò avvicinandosi alla staccionata. Il primo accorgersi di lui fu il cane e dovette indirizzare bene le carezze per non finire con una mano ricoperta di bava. “Passeggiata mattutina?”
“Inevitabile, visto che Cedric adora Johnny ma molto meno occuparsi dei suoi bisogni primari.” Sorrise l’uomo stringendogli la mano. “Che è successo al giardino?”
“Non sei l’unico ad avere un animaletto particolarmente vivace in casa.” Replicò facendogli aggrottare le sopracciglia, prima che capisse e scoppiasse a ridere. “Hai sentito della convocazione di stasera?”
L’uomo tornò serio, strattonando appena il guinzaglio per evitare che Little John gli saltasse in braccio con venti chili di adorazione pelosa. “Sì, ho letto il Gufo giusto prima di uscire… È strano, vero?”
“Molto.” Convenne. “Il Sindaco non è tipo da riunioni all’ultimo minuto.”

Neville si strinse nelle spalle. “Credo che sia per gli attacchi ai pollai e alle conigliere di Langdon e MacTaggart. Giù ai Tre Manici non fanno altro che parlarne, si son convinti che…” Fece una smorfia, grattandosi la nuca, un movimento che lasciava intravedere il vecchio adolescente insicuro che Teddy aveva sempre fatto fatica ad immaginare. Per lui Neville era stato prima un mentore poi, in quegli anni accademici, un amico solido come una roccia.
Non credo avrei preso a cuor sereno certe decisioni, senza aver prima parlato con lui. Mi ha sostenuto e consigliato quando ho definito il mio orientamento sessuale … e quando ho deciso di andare a convivere con Jamie.
Mica cose da poco.
“Di cosa sono convinti?” Era proprio perché lo conosceva sin da bambino che quella titubanza lo metteva in allarme; il buon’uomo era solito parlargli schiettamente. “Nev?”
Questo sospirò, grattando il testone di Little John, evitando una lappata bavosa a tradimento. Poi gli lanciò un’occhiata in tralice. “Pensano che ci sia di mezzo un branco di Mannari.”
Ah. Adesso capisco.
Ted sentì una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco, ma sorrise nel modo più rassicurante che riuscì. “Beh, allora è una riunione che non vogliamo perdere, giusto?”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror. Mattina.

 
Harry aveva pensato che trovandosi davanti Sören avrebbe fatto fatica a tenere la bacchetta nel fodero e in un certo senso così era stato; quando Grace lo aveva fatto accomodare aveva davvero dovuto frenarsi per non far scivolare la mano dentro la giacca.
Il problema, supponeva, era come comportarsi ora che ce l’aveva davvero davanti.
Sören Von Hohenheim non era una figura astratta verso cui indirizzare astio e recriminazioni, ma un giovane che, pallido e silenzioso, era in piedi davanti alla sua scrivania, indossando peraltro la stessa uniforme di Nora, un’uniforme che aveva imparato a riconoscere come amica. Quell’uniforme sembrava sfidarlo a ribattere, a trovare un motivo per allontanarlo come la persona sgradita che era.
Non puoi. È un agente, caro il mio Salvatore, uno dei ragazzi di Nora. Semplicemente, vecchio mio, non puoi.
“Agente Von…” Iniziò, ma una lieve contrazione nella mascella del ragazzo lo fece fermare. Capì dopo qualche attimo che non avrebbe spiccicato parola senza il suo esplicito permesso. “C’è qualche problema?”  
“Prince, Signore.” Disse e Harry notò come l’accento tedesco fosse quasi scomparso in favore dell’inglese pastoso d’Oltre Oceano. Lo stesso di Nora. “Ho assunto il nome della famiglia di mio padre. Non sono più un Von Hohenheim.”
Non credo proprio.
Schioccò le labbra ma si mangiò accuratamente la frase. Meglio limitarsi a pensarla. “Molto bene.” Disse invece, sfogliando la documentazione che l’altro gli aveva consegnato non appena entrato.
“Agente Prince dunque…” Tamburellò le dita sull’incartamento. In qualche modo doveva sfogare la tensione e togliersi gli occhiali gli sembrava un gesto troppo distensivo. “Hai familiarità con la procedura che comporta questo genere di indagini?” Andò dritto al punto: approntare dei convenevoli di rito sarebbe stato ridicolo per entrambi.
“Ho studiato gli incartamenti, ma no, non ho mai partecipato ad un’indagine condivisa.” Fu la risposta pacata. Gli occhi, scuri come due maledetti pozzi, non riflettevano nulla, esattamente come la prima volta che si erano incontrati.   

“Le procedure amministrative verranno svolte dalla nostro ufficio e dal tuo.” Iniziò a spiegare; dopotutto era Capo dell’Ufficio Auror e come tale doveva comportarsi. “Non sarà del lavoro di scrivania che dovrai occuparti.” Si rese conto di non avergli ancora chiesto di accomodarsi. “Siediti.”
Per tutta risposta i lineamenti anodini del tedesco tremarono di qualcosa di indefinito, molto simile all’incertezza. Era a disagio, realizzò di colpo: a ben guardarlo si potevano intravedere le tempie bagnate di sudore e il tendine del collo scattare ad ogni sua minima replica.

Come quando l’ho chiamato con il cognome di suo zio. Non è così tranquillo come vuole dimostrare.
In un certo senso fu un sollievo constatarlo.
Significa che posso esercitare più controllo di quanto non credessi.
Quando si fu seduto, continuò. “Quello che dovrai fare sarà farti spiegare il caso dalla squadra che sta seguendo le indagini, farti dare una copia del loro rapporto e dei referti autoptici. Poi prenderai in consegna gli effetti personali della vittima e li porterai alla famiglia. Questo, a grandi linee. Il Capitano Gillespie mi ha detto che avete avviato una ricerca sulla sua storia familiare…” Lo imbeccò, vedendo che non aveva la minima reazione.
“Sì, è così.” Si riscosse di colpo e poi, quasi avesse premuto un pulsante, snocciolò una serie di informazioni senza quasi prendere fiato. “Sam Howe risulta essere privo di famiglia, nessun congiunto stretto, né ascendente né discendente. È stato sposato, ma ha divorziato dalla moglie sette anni fa. Non hanno mantenuto i contatti e non hanno avuto figli. Lavorava…”
Cerca di impressionarmi?
Harry detestava le persone troppo zelanti. O meglio: apprezzava il duro lavoro e stimava chi riusciva a farne la sua primaria ragione di vita – dopotutto era amico di Hermione da tempi ormai immemori.
Ma odio chi cerca di ingraziarsi le mie simpatie …
“Se è scritto sul rapporto tanto mi basta.” Lo fermò gelido. “Per ragguagli più approfonditi non devi parlare con me, ma con il sergente Flannery.” 
Che oggi si è dato malato. Tanto per aggiungere carburante all’incendio.
“Sissignore.”
“Oggi il Sergente non sarà presente. Ha preso un paio di giorni per malattia, e dovrebbe tornare domani.” Aggiunse e Prince parve capire al volo cosa avrebbe comportato da come serrò appena le dita sul cuoio della sedia.

Già. Nella squadra rimangono solo gli Auror più giovani, e James è quello con più anzianità di servizio, se tale si può chiamare esser entrato dodici mesi prima. Sarà a lui che dovrà riferire oggi.
… e per fortuna che Ron ha il giorno libero.
“Penserò io a portarti dalla squadra e fare le presentazioni, vista la delicatezza della situazione.”
Prince si limitò ad un lieve cenno della testa. Dopo la debacle di poco prima, era tornato composto come un feretro. La sensazione di disagio che aveva percepito al suo ingresso si riacutizzò, mettendolo di nuovo in guardia.
Nora si fida di lui, e Von Hohenheim è morto. Ma meglio mettere le cose in chiaro.

Doveva pensare a proteggere la sua famiglia, anche quando il pericolo non sembrava poi pericoloso.
Ho fatto lo sbaglio di sottovalutarlo una volta. Non accadrà ancora.
“Un’ultima cosa…” Lo fermò prima di aprire la porta. “Il capitano Gillespie te l’avrà già detto, ma preferisco ripetermi.” Si assicurò che lo guardasse negli occhi prima di continuare. “Non dovrai avere altri contatti, tranne me e la squadra investigativa. La tua presenza qui è un favore che faccio al tuo Capitano.”
“Sissignore.” Fu l’ovvia risposta. Senza emozioni, senza anima.
Si sta Occludendo.
Come poteva fidarsi di un ragazzo che usava una tecnica simile con la stessa naturalezza con cui respirava? Afferrò il pomello della porta in un muto gesto di ostacolo. “Hai capito ciò che ti ho detto? Non voglio che tu abbia niente a che fare con Al, Tom o Lily.” Mormorò senza distogliere lo sguardo, anche se quegli occhi gli ricordavano altri, forieri di ricordi che probabilmente mai avrebbe digerito. “Nessuno di noi ha dimenticato.”
Gli occhi di Severus Piton. Dannazione, se gli somiglia.
Non era tanto la somiglianza fisica, comunque presente, quanto piuttosto una somiglianza spirituale: come Severus Piton, il giovane Prince riusciva a chiudere le sue emozioni dietro un castello inespugnabile.  “È nel mio stesso interesse, Signore.” Fece una pausa, poi aggiunse. “Non contatterò nessuno di loro.”  
Non si fidava delle promesse di un ragazzo che era stato cresciuto da uno psicopatico del calibro di Alberich Von Hohenheim, ma per il momento, decise, non poteva far altro. Aprì la porta e gli fece cenno di seguirlo.

 
 
Doveva cercare di controllare la respirazione. Doveva impedire al cuore di battere come una grancassa, perché era impossibile che Harry Potter non lo sentisse. Lui perlomeno lo percepiva come un maledetto frastuono.
Era all’interno del Ministero Inglese. Era nell’ufficio Auror. Era nell’ufficio comandato dall’uomo a cui aveva minacciato la famiglia. Metaforicamente, era nella fossa dei leoni, ferito e disarmato.
Sei un agente. Te ne sei scordato? Sei uno di loro, servi la Giustizia. Stai pagando i tuoi debiti. Stai cercando di diventare una brava persona. Sei uno dei loro. Calmati.
Se lo ripeteva come un mantra da quella mattina, ma non stava funzionando granché perché quando era entrato nell’ufficio dell’uomo per un momento aveva dimenticato il suo distintivo, la SAGITTA e persino il faldone di documenti che aveva con sé. Per un attimo, quando aveva incrociato lo sguardo del Salvatore, era tornato ad essere Sören Von Hohenheim; la spia, il giovane mago oscuro, il bugiardo.
Era stato orribile.
Ad ogni buon conto, dopo quello sguardo raggelante, Harry Potter gli aveva stretto la mano, senza lasciar trapelare una sola recriminazione, una parola astiosa o una battuta: era anzi stato perfettamente educato. Il problema non era stato ciò che gli era uscito dalla bocca in effetti: ma gli occhi. Se uno sguardo avesse potuto uccidere come un Avada, quello del Salvatore dei Due Mondi ne sarebbe stato fulgido esempio.
Incedendo dietro di lui aveva solo voglia di fuggire il più lontano possibile. Di tornare in America, dove la sua vita era cominciata solo pochi anni prima.
L’Europa conosce il vecchio me. L’Europa sa.
Ma non poteva; poteva invece mettere un passo dietro l’altro e continuare a controllare ogni singola reazione fisiologica del proprio corpo, disciplinandola, ingabbiandola.
Incontrerai le persone che hai rischiato di uccidere seguendo gli ordini di tuo zio. Come ti senti?
Serrò le mani, nascondendole dentro le tasche e chinando la testa; sapeva che era un atteggiamento sconfitto in partenza e naturalmente l’avrebbe abbandonato non appena arrivato nel fitto dedalo di cubicoli che era l’ufficio operativo…
Solo un po’. Posso crollare solo un po’?
Harry Potter lo aspettò, passando poi tra la decina di separé di legno che nascondevano scrivanie e sedie occupate da Auror con le tipiche uniformi cremisi. Erano molti di più rispetto a quando era entrato e l’ufficio adesso sembrava immerso nel caos, tra promemoria viola svolazzanti e sbuffi di Camini Portatili. Sören si sentì numerosi sguardi addosso, ma li ignorò; molto probabilmente i maghi presenti erano incuriositi dal colore e la foggia della sua uniforme, più che dalla sua persona.
“Non capitano spesso indagini condivise, suppongo.” Osservò neutro.
L’uomo si voltò, quasi stupito dal fatto di sentirlo parlare. “È vero.” Confermò. “Credo siano anni che non indaghiamo su un Mago Oscuro straniero. L’ultimo…” Si bloccò e a Sören fu chiaro che l’ultima persona non inglese su cui gli Auror avevano indagato era proprio lui.
“Andiamo, la squadra ti sta aspettando.” Si risolse a dire, dandogli nuovamente le spalle. Sören ne fu sollevato. Perché guardarlo in faccia era vedere Lily. Guardarlo era sapere che respirava la stessa aria della ragazza che per lui incarnava l’idea di redenzione – e che Milo ne ridesse pure. Guardarlo significava realizzare che era tornato in Inghilterra e che, nonostante questo, non avrebbe potuto vederla.
Era frustrante; aveva saputo sin da principio che sperare in un incontro, anche solo fortuito, sarebbe stato come maneggiare una lama a doppio taglio, perché incontrarla avrebbe significato strappar via tutte le barriere che la giovane Potter gli aveva imposto per tentare di recuperare la loro amicizia.
O costruirla da capo.
Anni prima, agli esordi della loro neonata corrispondenza, aveva letto tra le righe il bisogno dell’altra di mettere dei paletti: aveva compreso e accettato.
Ma adesso sono in Inghilterra… e vorrei vederla.
È così sbagliato?
Quella deriva di pensieri fu bruscamente arrestata quando entrarono in uno dei cubicoli. Sören si fece scivolare via dalla faccia ogni emozione e tirò fuori le mani dalle tasche: era arrivato il momento.
Rivedere James Sirius Potter e Scorpius Malfoy fu duro esattamente come si aspettava; i due ragazzi non erano cambiati molto in quei cinque anni. Potter aveva sempre la stessa espressione di calcolata strafottenza con cui l’aveva brevemente conosciuto e il rampollo dei Malfoy era ugualmente alto, biondo e dall’aria brillante. Entrambi non sembrarono particolarmente sorpresi dalla sua apparizione, anzi, a giudicare da come erano già in piedi, dovevano esser stati avvertiti del suo immediato arrivo. Rivederli fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida addosso – e aveva provato quel genere d’esperienza; rivederli fu come essere immerso a pieni polmoni in ciò che aveva fatto e ciò che era stato.
Dannazione.
“Ragazzi…” Harry Potter sembrava a corto di parole, il che doveva esser sconcertante da come vide il ragazzo di colore – il terzo della squadra – fissarlo smarrito. “… credo che le presentazioni formali non siano necessarie. L’agente Prince è qui per collaborare all’indagine. In questi tre giorni…”
Sören percepì distintamente l’atmosfera cambiare. Fu James Potter il primo a parlare e non ne fu granché stupito. Era ovvio che non fosse solo una questione di anzianità; la presenza del fratello maggiore di Lily sembrava irradiarsi ed ingombrare l’intero cubicolo, schiacciando o rendendo marginali quelle altrui. Ricordava ancora il modo in cui l’aveva aggredito, il naso rotto e il sapore del sangue. Indubbiamente, era lui la persona con cui sarebbe stato più difficile avere a che fare.

“Non saranno solo tre giorni.” Disse; non tentò un approccio canonico, neppure fece il suo nome o commentò la frase del padre, semplicemente gli piantò lo sguardo addosso e parlò. Fu abbastanza. Un disgusto così plateale e spudorato lo aveva visto solo negli occhi delle guardie carcerarie Magonò di Nurmengard.
Non sopporta di vedermi indossare un uniforme. Non sopporta di vedermi qui. Non sopporta di dover lavorare con me. Vorrebbe ammazzarmi, ma non può.
C’era un intero mondo condensato nello sguardo di James Sirius Potter.  
Harry Potter, forse inconsapevolmente, interruppe il loro silenzioso confrontarsi, dando segno di sorpresa. “Che significa che non saranno solo tre giorni?”
“Oggi abbiamo ricevuto la conferma dai Mortuari. Gli effetti personali di Sam Howe sono spariti, qualcuno li ha trafugati dal Padiglione Autopsie.” Intervenne Malfoy con il tono professionale e pacato di chi voleva solo svolgere al meglio il suo lavoro; non percepiva ostilità da parte sua, ma sapeva da Lily come fosse un Occlumante di talento.  Poi registrò il significato di quella frase e delle precedenti.
Che significa che gli effetti personali sono stati trafugati?
… Significa che non saranno solo tre giorni, principino.
Sören sapeva di non poter lasciar trapelare nulla di ciò che pensava, eppure, per la prima volta in vita sua, capì perché Estevez salutava eventuali complicazioni in un caso con robuste imprecazioni da taverna.
 

****

 
Hogsmeade, Scozia.
Pub ai Tre Manici di Scopa, Pomeriggio.

 
Se c’era una cosa che Ted odiava erano le assemblee del villaggio.
Certo, era un buon esercizio per la democrazia, ed era giusto che chiunque avesse qualcosa da dire avesse la possibilità di esprimerlo, che fosse una lamentela, una perplessità o un’iniziativa. Lui stesso trai suoi Tassorosso incoraggiava quel genere di aggregazione e infatti i Prefetti erano sempre stati scelti all’unanimità dai suoi studenti, non da lui.

Pur vero che se vieni Smistato da noi, una certa capacità democratica ce l’hai per indole.
Qui invece…
Hogsmeade, per quanto fosse una comunità piccola, racchiudeva un microcosmo di indoli e interessi molto diversi ed era per questo che al momento la sala dei Tre Manici era stracolma di gente che gridava per farsi ascoltare, mentre il sindaco batteva inutilmente il martello su una sorta di podio improvvisato.
“Dovremo prendere le bacchette e ricacciarli dall’inferno in cui sono venuti!” Tuonava MacTaggart, un corpulento omone dal naso rubizzo, nelle cui mani il legno sopracitato sembrava svanire come uno stuzzicadenti. “Quanto ci vorrà prima che scendano in città ed entrino nelle nostre case!?”
“I bambini!” Singhiozzò Mary Landers, la proprietaria dello Scrivenshaft, stropicciandosi un fazzoletto tra le mani in una posa da eroina vittoriana. “Pensati ai bambini! Quei mostri li mordono!”
“Come diavolo fate a sapere che si tratta proprio di Mannari? Qualcuno di voi occhi d’aquila li ha visti?” Sbottò salace Aberforth Silente, con un ghigno che lasciava trasparire cosa pensasse dell’intera faccenda. Ted, nonostante la frase avesse innescato una nuova ondata di proteste e grida, provò un moto di istintiva simpatia per quell’anziano testardo, ma dalla mente lucida.
Anche perché, per quel che ho sentito, non credo si tratti di Lupi Mannari.
Aveva ascoltato con attenzione e privo di pregiudizi i racconti di MacTaggart e Langdon. Entrambe le storie avevano punti in comune, certo: molte galline e conigli spariti, sangue nelle gabbie, animali terrorizzati e tracce che sparivano nel folto della Foresta Proibita. Ma mancavano altri elementi.
Prima di tutto, il fatto che quando rubano i Mannari distruggono. Le loro staccionate, come le gabbie ancora piene invece sono intatte, le ho viste passando. Sono palizzate robuste, da cui né una persona, né un animale di grossa taglia potrebbero passare, se non fossero rotte.
E poi hanno preso troppi pochi animali. Se sono un branco dovrebbero aver bisogno di più cibo.
Sentì Neville, seduto accanto a lui con la moglie, dargli di gomito. “Ted, che ne pensi?” Sembrò quasi leggergli nel pensiero. “Qui gli animi si stanno scaldando, e non vorrei partisse una spedizione punitiva.”
“Ci mancherebbe!” Esclamò Hannah scuotendo la testa. “La Foresta Proibita è già pericolosa da sola … Vi immaginate un gruppetto di queste teste d’uovo là in mezzo?”
“Credo che debba esser fatta un’indagine più approfondita.” Si lasciò sfuggire, realizzando solo dopo il significato intrinseco di ciò che aveva detto. Impallidì all’aria folgorata di consapevolezza del vecchio amico. “Io parlavo della Divisione Bestie del Ministero…” Tentò debolmente.
“Sciocchezze, quelli non hanno mai tempo per spostare i loro sederoni dalle sedie!” Sbottò Hannah che aveva un cugino che detestava proprio in quell’ufficio. “Tu saresti perfetto per capire che sta succedendo!”

“È vero!” Confermò Neville attirando l’attenzione – ahimè – anche dei vicini. “Sei un professore di Difesa, e ti intendi anche di Magizoologia o mi sbaglio?”
“Sì, ma …” Si sarebbe mangiato le mani, vedendo come tutti intorno a lui si giravano e prendevano a fissarlo con curiosità.
Queste sono le mie vacanze! 
Oltretutto, aveva già una situazione abbastanza rovente in casa, con James e tutta la disagiante faccenda della seconda venuta di Von Hohenheim. L’idea di impelagarsi in una caccia ai Mannari non gli arrideva particolarmente.
Per eufemizzare.
Con orrore si accorse che anche Aberforth aveva sentito la conversazione. “Ah, il figlio del Mannaro!” Esclamò come uno sparo in mezzo alla folla. Come in un film, le voci scemarono di colpo. Non era difficile che tutti l’avessero sentito dato che il tono di voce di Silente si diceva rivaleggiasse con quello del defunto fratello. “Tu che ne pensi, ragazzo?”
Dannazione.
Se avesse potuto, si sarebbe Smaterializzato nelle viscere stesse dell’Inferno, ma non aveva scelta con centinaio di occhi piantati addosso. Facendo strusciare rumorosamente la sedia sul pavimento si alzò, schiarendosi la voce. “Penso che sia troppo presto per giungere alla conclusione che si tratti di un branco di Lupi Mannari.” Esordì con il suo tono più pacato, lo stesso che usava a lezione e che per fortuna sembrava funzionare anche sugli studenti più disattenti.
Non che qui ce ne siano. Non ho mai visto interlocutori più attenti.
Merlino, almeno mi avesse chiamato per nome…
Non si vergognava di suo padre, non l’aveva e non l’avrebbe mai fatto. Per lui non era mai stato una vittima, né un carnefice, ma un uomo coraggioso con un peso enorme da portare sulle spalle. Non odiava la parte di patrimonio genetico che lo rendeva irritabile durante la luna piena, ma ne ringraziava invece la resistenza e l’istintività naturale.
Io sono fiero di essere figlio di un Mannaro.
Il problema, supponeva, era spiegarlo alla folla morbosamente attratta da quel particolare. “I Mannari, il Signor MacTaggart ha ragione, si muovono in branco.” Continuò. “Proprio per questo mi sembra improbabile che abbiano attaccato, ci sono troppi pochi danni… Se fosse stato un branco non avremo trovato neppure le gabbie.”
“Ma il sangue?” Argomentò Langdon, meno agguerrito ma comunque ben deciso a far valere quella teoria. “Solo i Mannari mangiano sul posto la propria cena! E poi c’era odore di lupo, nessuna storia. Io li ho visti i Mannari, c’erano durante la Battaglia di Hogwarts … la loro puzza non si scorda!”

Ah … certo, il branco di Greyback.
Inspirò leggermente, approntando il miglior sorriso remissivo che gli riuscì: gli animi erano surriscaldati, se lo sentiva sulla pelle come una scarica elettrica.
Non credo lo percepirei, se non fosse stato per i geni di papà…
“Infatti ho detto è improbabile, non impossibile. Credo che la cosa migliore da fare sia contattare la Divisione Bestie del Ministero.”
“Quegli idioti non sanno trovarsi il sedere con le mani!” Sbottò Aberforth, subito seguito da un coro di lamentele non dissimili. “Ragazzo, non verranno mai per una segnalazione. Quelli arriverebbero solo se avessi un Mannaro morto in giardino!”

Ted serrò appena le labbra; non avevano tutti i torti. La Divisione Bestie era forse l’ufficio più inefficiente del Ministero. Sotto-sezione del Dipartimento Regolazione e Controllo delle Creature magiche, il secondo in quanto a grandezza del Ministero, difficilmente mandava i suoi funzionari su richiesta di un cittadino.
I Mannari continuano ad essere un po’ terra di nessuno.
C’era sì un’unità appositamente istituita per la loro cattura, ma i membri erano spesso ri-allocati per pattugliare i cosiddetti ‘punti caldi’ della Gran Bretagna.
Vedesi territori di caccia dei draghi. Quelli sono un problema … Dopotutto, i Mannari lo sono solo una notte ogni trenta.
“Per il Ministero un Mannaro non è mai una priorità!” Ruggì infatti MacTaggart. “E se arrivassero fino in città? La Luna Piena è tra pochi giorni, potrebbero ucciderci tutti nel sonno!”
“L’unico branco conosciuto dimora stabilmente nel Galles meridionale, quindi non credo…”  

“Possono esser migrati!” L’omone sembrava ormai averlo designato come suo principale opponente. “E poi tu che ne sai, ragazzetto? Ne hai mai visto uno? Qui noi vecchi ce li ricordiamo tutti quelli della Battaglia di Hogwarts! Solo perché ne hai visti dipinti su qualche libro…”
Ted serrò la mascella, combattendo il fiotto di irritazione che l’aveva scosso quasi glielo avessero iniettato in vena. Se c’era una cosa capace di fargli saltare i nervi era proprio l’arroganza sciorinata come verità assoluta.  Quando a questa si aggiungeva l’ignoranza tronfia, davvero cominciavano a prudergli le mani.
I Mannari non sono dannati uccelli. Non migrano, sono stanziali.
Con gli anni – e i ripetuti battibecchi con James avevano aiutato – era diventato forse più insofferente verso le sparate altrui, ma non riusciva a trovarlo un difetto.
Qualcuno direbbe che ho imparato finalmente a tirar fuori le palle.
Lo stesso James, probabilmente.
“Li studio, come c’è gente che li ha studiati prima di me. L’unico branco esistente, come ho detto, è stanziale e si trova in Galles. Troppo distante da qui, non si spostano su grandi distanze. E forse non è chiaro quel che ho detto, ma gli attacchi non seguono il modus operandi del branco.” Sentiva accanto a sé Neville muoversi inquieto; doveva essere per i suoi capelli visto le occhiate che gli lanciava. Essendoseli accorciato all’inizio dell’estate non poteva sapere di che colore fossero diventati, ma optava per un rosso fiammante come la carrozzeria di una Ferrari.
“Potrebbe invece essere un singolo? Un solo Mannaro?” Interloquì Hannah, l’unica che fino a quel momento avesse fatto una domanda sensata. L’avrebbe abbracciata.
“Potrebbe.” Ammise. “Se il problema è avere delle prove per la Divisione Bestie, possiamo chiedere aiuto alle Creature della Foresta Proibita.” Sentendo levarsi una serie di proteste sgomente si affrettò a specificare. “Parlavo dei Centauri. Non c’è foglia che si muova nella Foresta senza che loro lo sappiano. Il Professor Fiorenzo potrebbe avere le risposte che cerchiamo dato che al momento si trova con il suo branco.”
Quella serie di frasi provocò, come si aspettava, un’ondata di mormorii e perplessità, ma nessuna reale obiezione.

Nessuno ha il coraggio di contestare apertamente la richiesta d’aiuto ad un Centauro, che peraltro insegna ad Hogwarts. Farebbe troppo razzismo magico e grazie a Merlino, non va’ più di moda.
“È una buona idea.” Gli diede manforte Neville. “La cosa migliore è chiedere a chi già ci abita, senza andare a disturbare gli equilibri della Foresta con delle ronde cittadine.” Con uno sguardo abbracciò la platea. “Siamo tutti d’accordo?”  
 
 
Alla fine c’era voluta un’altra ora e mezza prima che fossero tutti davvero d’accordo.
Ted, nella via verso casa, sentiva un’emicrania pulsare violenta e aveva solo l’immenso desiderio di riempire una vasca d’acqua bollente ed immergercisi sino alla punta dei capelli. Era stata dura rimanere gomito a gomito con gente sovra-eccitata per tutto quel tempo, specialmente considerando il fatto che il plenilunio si stava avvicinando.
Calma e serenità. È quello di cui ho bisogno quando arriva quel periodo del mese…
… ha ragione Jamie, sembro una donna mestruata.
Svoltando per il viottolo tortuoso che collegava le ultime case della città, la loro compresa, alle montagne, vide il compagno; era già arrivato e stava fumando seduto sul portico. Sospirò, dato che  indulgeva in quel vizio solo quando era in una situazione di allegra compagnia o in uno stato di forte stress.
E direi che questa è la seconda ipotesi…
Si chiuse dietro il cancello, salutando con il suo miglior sorriso senza chiedergli come fosse andata la giornata dato che poteva intuirlo dai capelli arruffati e l’aria temporalesca. James rispose con un cenno della testa, gettando il mozzicone; doveva esser tornato da un po’ a giudicare dal fatto si fosse cambiato, indossando un paio di jeans e una sdrucita maglietta dei Chudleys che aveva subito tanti lavaggi da esser diventata color salmone.  
Forse un bagno caldo e una tazza di the serviranno anche a lui.
Gli si sedette accanto, attendendo paziente. James aveva i suoi tempi e forzarlo a parlare sarebbe stato uno spreco di energie inutile.
E sono già abbastanza stanco di mio, grazie.
“Che giornata di merda.” Esordì qualche minuto dopo. “Comunque non è successo niente. Se ti aspettavi che gli saltassi alla gola … Non che non volessi farlo, ma c’erano troppi testimoni. Papà non si è scollato un attimo da noi, oggi. Il Sergente è malato e mi sa che non si fidava a lasciarci soli con quello…”
Era una serie di frasi scollegate ma davano un quadro tinteggiato del primo incontro con il giovane Von Hohenheim. Qualche domanda però a quel punto era doverosa. “Il Sergente Flannery è malato?” Iniziò prendendola alla larga.

“Si è preso un paio di giorni di permesso. Un tempismo del cazzo …” Aggrottò le sopracciglia. “Deve star davvero di merda per averci lasciati soli visto che conosce la situazione.”
“Lo immaginavo.” Annuì, riflettendo ancora un po’. Ci voleva un tatto estremo in quel caso. “Quanto avete lavorato oggi?”

“Quasi niente. Quello è subito dovuto andare via per regolarizzare non so che roba giù a Cooperazione Internazionale.” Si passò una mano sul mento e quasi trovasse il principio di barba fastidioso fece una smorfia. “Ah, gli abbiamo detto che non saranno solo tre giorni.”
“Perché sono stati rubati…”
“Già.”
Sospirò; non c’era mai fine al peggio, era proprio vero. Non solo Von Hohenheim era lì, ma finché non avessero fatto luce sulla sparizione dei referti autoptici della vittima non se ne sarebbe potuto andare. James gliel’aveva comunicato in via del tutto confidenziale la sera prima, in un momento di particolare scoramento, e Ted non aveva potuto fare a meno di pensare che una sorta di nuvola nera aleggiasse sulla loro famiglia.

Sfiga Potter-Weasley. Proprio vero.
“Harry come l’ha presa?”
“Era più incazzato di noi, ma che vuoi farci? Non m’è piaciuto dirgli che ce lo troveremo trai piedi fino a data da destinarsi davanti a quello … ma dirglielo prima senza avere il rapporto dei Mortuari non sarebbe stato da procedura.” Fece l’ennesima smorfia. Non aveva altre espressioni da giorni. “L’unica cosa da fare adesso, è indagare su questo casino e risolverlo il più in fretta possibile.”
Ted non poté far altro che annuire. In confronto, tutta la faccenda del branco di Mannari che-forse-tale-non-era risultava una bazzecola. “E Von Hohenheim? Come si è comportato?” Chiese fermandogli la mano prima che prendesse un’altra sigaretta dal pacchetto. James gliela scacciò infastidito, ma rinunciò anche ad accendersela.
“Adesso si fa chiamare Prince.”
“Prince?”
“Te lo ricordi, no? Quel bastardo è imparentato con Piton da parte di padre, tanto per aggiungere assurdità all’assurdo. Principe Mezzosangue?” Suggerì e alla sua espressione consapevole, scrollò le spalle. “Beh, lui principe lo è tutto anche se un viscido, piccolo stronzo. Vuole affrancarsi dal suo passato schifoso, e cambiar cognome dev’essere stato il primo passo.” Replicò con un sorriso che proprio non gli piaceva. Era sarcastico, cattivo e gli storceva i lineamenti. Non gli piaceva perché dietro sapeva ci fosse dolore.
James non è mai riuscito a digerire il fatto che Lily e Al siano stati feriti e che lui non abbia potuto farci niente e adesso che Von Hohenheim è tornato è come se potesse rivivere tutto da capo. Stavolta però in prima linea.
Non era una situazione facile e Harry doveva averlo intuito se aveva lasciato la sua scrivania per seguirli da vicino durante il primo contatto.
Solo che non potrà esserci sempre…
Rimasero in silenzio mentre il tramonto si tuffava oltre la linea delle montagne, ognuno perso nei propri pensieri. Alla fine, come sempre, fu James a rompere la quiete. “E tu? Pensavo di trovarti a casa, e non c’eri … Dove sei stato?”
“Il Sindaco ha indetto un consiglio cittadino straordinario.” Esordì e poi spiegò l’intera faccenda per sommi capi, risparmiandogli i suoi stati d’animo dopo e durante dato che se li poteva benissimo immaginare. Infatti alla fine James aveva l’aria più divertita che preoccupata.
Sicuro si starà immaginando quante volte mi sono andati a fuoco i capelli. Lo ha sempre fatto ridere, sin da quando era bambino.
Infatti con una mezza risata gli passò un braccio attorno alle spalle, stringendo appena. “Merda, mio Teddy, manco a casa si può star tranquilli … Mannari, ti pare?”
“No, non mi pare, ma vallo a dire agli altri.” Sospirò, socchiudendo gli occhi quando l’altro, pur con tutto il suo malumore, gli passò le dita trai capelli in una carezza affettuosa.
“Abbiamo avuto cinque anni di tregua…” Sogghignò James tirandolo a sé per mordicchiargli l’orecchio. Il suo cattivo umore, se ben indirizzato, portava anche a conseguenze non del tutto spiacevoli. “Era ovvio che prima o poi i casini sarebbero arrivati.”
“Ingenuo da parte mia desiderare che le cose continuassero così, immagino.”

James sorrise con un fondo di amarezza che poteva comprendere solo chi era nato e cresciuto portando uno dei loro famosi e scomodi cognomi.
“Sai come si dice, mio Teddy. Attento a quel che desideri …”
 
 
****
 
 
Note:


Lo so. Due settimane non sono un tempo accettabile per 12 misere pagine. Ma complice l’arrivo di un nuovo lavoro, che si somma a quello che già facevo ha causato il ritardo. Però ho messo un sacco di Jeddy!
Questa la canzone. No, non c’entra niente il fatto che mi sia già aggiudicata i biglietti per questi omini meravigliosi, quando verranno nel 2013. Per niente. Leggetevi il testo. Solo, leggetelo.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 
 
 
 
Please let me take you out of the darkness and into the light
There's no need to go and blow the candle out
I'm reaching out to let you know that you're not alone
(Lullaby, Nickelback)
 
Inghilterra. Da qualche parte nel Lancashire.
Sera.
 
“Mia Regina…”
“Ah, ecco il mio giullare. Sei tornato presto, non ti aspettavo prima di sabato.”
“Non per usare facile ironia, ma Londra è un po’ troppo grigia per i miei gusti.”

“Mi porti buone notizie?”
“Ho fatto ciò che dovevo, di Howe non esiste più traccia.”
“Eccellente!”
“Certo, non  è stato facile … al Ministero Inglese sanno il significato della parola proteggersi, nessun dubbio su questo.”
“E per i tuoi sforzi sarai ricompensato, non preoccuparti. C’è altro?”

“Sì, un’altra buona notizia. Ha tutto funzionato come previsto … È arrivato.”


 
****
 
America, Boston.
Ufficio SAGITTA, 10:30 PM.

 
“… e quindi, per questo motivo, non si tratterà solo di tre giorni.”
“Capisco.”
Nora Gillespie aveva molto su cui riflettere in pochissimo tempo. Prima di tutto doveva mantenere la calma, perché era evidente che il Capo Auror Harry Potter fosse un passo da perderla. Come genitore poteva capirlo, ma come ufficiale del Ministero non poteva scusarlo; Harry era un uomo retto e giusto, dalla forte fibra morale e dalla grande empatia, ma tutte queste sue nobili caratteristiche venivano offuscate quando la sua famiglia veniva tirata in ballo.

“Harry, Sören resterà il tempo necessario a chiudere le fasi preliminari dell’indagine. Per potersene andare ha bisogno della salma, o delle sue ceneri e dei referti autoptici. Se manca uno solo di questi elementi…”
Lo so.” Fu la replica serrata, mentre le fiamme del Fuoco Portatile beccheggiarono come scosse da un forte vento. Persino ad un Oceano di distanza la potenza magica del Salvatore riusciva a farsi sentire. “Ma la situazione qui potrebbe diventare ingestibile. Devi capire che mio figlio…”
Nora frenò l’istinto di rispondergli per le rime. “Ti ho detto che comprendo la situazione alla perfezione, Harry.” Il tono fu forse eccessivamente duro, ma non poteva permettersi di farsi schiacciare dall’ego dell’altro. “Tuttavia la risposta non cambia, il mio agente rimarrà il tempo necessario.” Fece un profondo sospiro. “Se non sai gestire l’esuberanza dei tuoi uomini non devono essere i miei a rimetterci.”
Il silenzio denso che conseguì alla sua frase le fece capire che Harry aveva accusato il colpo. Forse si stava preparando a sferrarne un altro – per certe cose era terribilmente settato su una mentalità da battaglia, oltre che naturalmente testardo – quindi si affrettò a continuare. “Dato il ruolo che ha giocato nella sicurezza della tua famiglia, cinque anni fa, è naturale che non vi fidiate di lui.” Era più un attestazione che un riassunto, e l’Auror non poteva ribattere. Era vero. “Però mi rifiuto di credere che il motore di questi sentimenti sia semplice pregiudizio.” Fece una pausa calcolata. “Non sei forse stato tu a dire che il pregiudizio è il cancro più radicato, nella società magica?”

Dopo un secondo attimo di silenzio profondo, sentì un sospiro. Harry era appena capitolato di fronte alla logica. Poteva quasi immaginarselo passarsi una mano trai capelli mai domi e togliersi gli occhiali per massaggiarsi la sella del naso.
“Sei sempre stata brava con le parole.” Mormorò con un’ombra di sconfitta nella voce. “Hai mai pensato di buttarti in politica?”
“Preferisco agire.” Rispose quieta. “Quello che ti chiedo è fidarti della mia capacità di giudizio. L’hai già fatto quando ti ho chiesto il permesso di far corrispondere Sören con tua figlia Lily…”
“Più che permesso, sembrò una questione di vita e di morte.” Rintuzzò senza troppa acrimonia. Sapevano entrambi che era vero: lo era stato. “Non odio Sören. Rispetto ciò che ha fatto per cambiare.” Ma non rispetti lui – pensò Nora, ma non lo disse. “Sono soltanto preoccupato per le conseguenze che la sua presenza porterà qui. Devo proteggere la mia famiglia, Nora. Ho già sbagliato, non lo farò ancora.”

“Temo sia persino più spaventato di te dall’eventualità di ferire uno solo dei tuoi figli.” Sospirò. “È un bravo ragazzo, Harry. Merita che tu lo conosca, che tu capisca che può essere un acquisto per noi tutori della Legge Magica, e non una sottrazione.”
“L’hai sempre pensato…”
“E credimi, sto avendo riprove concrete.” Prese un respiro per lanciare il colpo basso per eccellenza; ma a volte, come in un match di boxe, bisognava usare anche quelli. “Ti chiedo di dargli una seconda possibilità. È una cosa per cui sei famoso, no?”

Lo sentì respirare forte con la bocca ed immaginò la sua aria annichilita con una certa dose di divertimento.
Non serve esser Legimanti o aver davanti una persona ogni giorno per capirla. Basta somigliargli.
“Sei una vera strega…” Si lamentò con un borbottio che glielo fece quasi immaginare adolescente e ombroso. “… e intendo nel senso Babbano del termine.”
Nora fece una breve risata, ringraziando quella pausa distensiva. Non lo avrebbe mai ammesso che a se stessa, ma ricevere quella chiamata via Fuoco Magico era stato stressante quanto una riunione inter-Dipartimento con Scott. Anzi, forse di più.

“Gli amici servono anche a far notare gli errori.” Replicò ignorando il borbottio incoerente che ne seguì. “E so che Sören potrà far affidamento su di te. Dovevo solo ricordarti…”
“… che posso essere una persona migliore di un padre infuriato che serba rancore?”

“L’avrei detto meglio, ma sì.” Trattenne una risata all’ennesimo sbuffo sconfortato dell’altro, intuendo che non doveva troppo tirare la situazione per i capelli. “Ti ringrazio Harry.”
“Non sarà facile, ma cercherò di …” Esitò. “… di farmi un’idea onesta su Sören. Te lo prometto.”
“Bene.” Al momento non poteva chieder di più, quindi preferì cambiare argomento, tornando su un territorio più fattuale. “Piuttosto, come intendete procedere con le indagini?”
“Non lo stai chiedendo alla persona giusta. Non mi occupo dei casi singoli delle mie squadre … Non ultimamente almeno.” Aggiunse con una nota divertita che registrò e condivise con un sorriso. “Il Sergente Flannery avrebbe dovuto prendere in mano il caso, ma ha preso un paio di giorni per malattia. Domani mattina i ragazzi faranno il punto della situazione e vedranno il da farsi. Ti arriverà comunque un rapporto esplicativo a giorni.”
“Sören è una risorsa utile, dovreste…”
“Lo utilizzeremo.” Tagliò corto. “Non sono stato ragguagliato approfonditamente, ma i ragazzi per ora mi hanno detto di non avere indizi. Non avendo visionato il referto autoptico non sanno neppure di cosa sia morta la vittima.”

“Il Capo Mortuario?”
“Sempre domattina. Non è un caso coinvolgente persone vive, quindi da procedura non ha la precedenza.” Le spiegò un po’ inutilmente dato che facevano lo stesso lavoro, ma Nora glissò per buona pace comune. Dopo aver parlato qualche altro minuto di nulla in particolare si salutarono.
Bene. È almeno questa è fatta.
Essendo sola in ufficio a quell’ora antelucana, si permise un lungo sospiro, reclinando la testa sullo schienale della poltrona.
Questa non ci voleva …
Avrebbe dovuto considerare quel caso esattamente come tutti gli altri e preoccuparsi quindi il minimo sindacale. Dopotutto Sören era solo uno dei suoi agenti.
Sì, certo.
La realtà è che non riusciva ad esser imparziale; quel ragazzo magro e solitario era qualcosa di più di un semplice sottoposto. Era una preoccupazione, ma non nel senso negativo del termine.
Adesso capisco cosa Harry prova per Thomas.
Inconsciamente fece ruotare al dito entrambe le fedi: la più grande era tenuta ferma dalla più piccola, la sua.  
L’ultima persona che ha visto Jeremiah vivo…
Subito dopo la morte di Alberich Von Hohenheim, Sören era diventato la sua ossessione. Tale perché gli era stato strappato via nel momento stesso in cui gli agenti tedeschi gli avevano chiuso le manette ai polsi. Il giovane mago era stato infatti portato al DALM di Berlino e lei era stata fatta rimpatriare piuttosto forzosamente nel giro di una notte. Poi erano arrivate le richieste di spiegazioni, la rabbia del suo Dipartimento per le sue continue e plateali ingerenze nei Ministeri altrui, altre richieste di spiegazioni, il quasi licenziamento da cui si era salvata solo grazie al fatto che aveva effettivamente portato alla caduta della Thule. Se l’era cavata con una robusta sanzione disciplinare che aveva finito per ornare abbastanza sterilmente la sua scheda-agente e l’interdizione alla carriera politica; non aveva rimpianto le scelte fatte neppure per un secondo. Aveva calcolato con estrema precisione la conseguenza dei suoi gesti.
Se vuoi avere giustizia, devi anche esser risposto a rischiare. Calcolando, ma rischiando.
Durante la costituzione del SAGITTA – la sua impresa poteva averla messo in una posizione scomoda con i palazzi del potere, ma le aveva fatto guadagnare la stima di molti, nel Dipartimento – non aveva mai dimenticato il giovane mago tedesco. Non tanto perché avrebbe potuto esser utile per chiudere le indagini. Sua obbiettivo principale era stato un altro.
Sapere dalle sue labbra le ultime parole di Jeremiah.
Sören nell’anno dopo la morte di Von Hohenheim era stato – e se ne vergognava ancora – un oggetto a cui aspirare, un qualcosa da cui pretendere delle risposte in qualità di agente, ma prima di tutto, in qualità di vedova. Si era detta che solo così avrebbe potuto chiudere con i demoni del suo passato una volta per tutte. Ma come per tutte le cose, quello che aveva desiderato si era rivelato proprio ciò che non aveva ottenuto.
Stranamente, però, è andata bene lo stesso …
Non era stato facile arrivare al ragazzo; i tedeschi, dopo aver capito che Sören era stato nient’altro che uno strumento cieco nelle mani dello zio, avevano realizzato che non sapevano cosa fare di lui. Non potevano lasciarlo a piede libero, ma neppure consegnarlo alla sua Task-force; troppo era stato fatto sotto il loro naso e per orgoglio avrebbero preferito gettarlo in mare che metterlo su una Passaporta Continentale.
Poteva quasi immaginare i pensieri dei funzionari incaricati di interrogarlo e scrivere il rapporto conseguente, come poteva immaginare i pensieri che avevano preceduto la sentenza dei giudici dello Zaubergamot¹: il giovane Von Hohenheim non solo era inutile persino come informatore, ma anche presumibilmente pericoloso, avendo il nucleo di una bacchetta impiantata nel braccio ed essendo quindi impossibile privarlo della capacità di usare la magia.
Quel particolare, quando l’aveva scoperto tramite i suoi contatti tedeschi, per la prima volta gli aveva fatto provare pena invece che rabbia.  Oltre al desiderio di poterlo interrogare, per la prima volta, la sua indignazione di madre aveva surclassato la rabbia di vedova.
Sören è stato usato né più né meno che una bacchetta. E si sa che fine fanno le bacchette dei Maghi Oscuri.
Un ragazzo-bacchetta. Un giovane mago addestrato per uccidere, rubare e non avere remore morali. Molto meglio buttarlo, che cercare di riutilizzarlo. 
Era con quello spirito che doveva esser stata presa la decisione di spedirlo a Nurmengard con una sentenza vita natural durante; come si nascondeva lo sporco sotto un tappeto, così il Ministero tedesco aveva nascosto il frutto della follia magica di Von Hohenheim nel luogo più buio e impenetrabile che conoscesse.
Sören era rimasto tredici mesi a Nurmengard con la certezza che avrebbe dovuto trascorrerci tutta la vita e ancora, negli occhi, gli si poteva leggere quella condanna.
Solo nell’ultimo anno ha smesso di sembrare sorpreso di essere libero.
Doveva comunque ammettere, in tutta onestà e nel silenzio del suo ufficio, che il suo primo pensiero non era stato tirarlo fuori di lì, quanto piuttosto riuscire ad avere le sue risposte. Niente di più.
Pensavo anche io che non valesse la pena … Dopotutto, rimaneva sempre il nipote di Alberich Von Hohenheim.
Era stato solo dopo aver visto quello che Nurmengard stava rischiando di fare ad un ragazzo la cui unica colpa era stata aver avuto un’educazione sbagliata, che aveva capito che era suo dovere in quanto essere umano dargli la possibilità di riscattarsi. Come aveva detto ad Harry, stava avendo riprova ogni giorno della giustezza della sua decisione; Sören, tolta la presenza asfissiante di Alberich Von Hohenheim le stava provando di essere un giovane dall’animo retto.
Si potrebbe dire che l’ho scoperto io … Anche se, ammettiamolo, non sono stata io a salvarlo.
Metaforicamente, era stata niente più che una mano tesa verso una possibilità, perché chi l’aveva spinto a stringerla non era certo stata lei, ma bensì una lettera firmata.
I salvatori, dopotutto, pare abbiano sempre lo stesso cognome.
 
****
 
Quello che lo faceva impazzire era il continuo fischio del vento.
Era come avere un punteruolo di ghiaccio a grattargli i timpani tutto il giorno, senza che potesse far nulla per potersene liberare. A volte il vento smetteva, ma non sempre. A Nurmengard si doveva comunque accogliere con sollievo quei giorni di quiete e fare il pieno per quanto il vento avrebbe ripreso.
Una prigione era una prigione. Esistevano molte declinazioni di quel concetto, certo, ma la sua ne era sicuro, era la più orribile di tutte.
Era Nurmengard.
Il vento, il freddo. C’era tanto freddo, ma mai abbastanza per causare danni. Quello che bastava per non riuscire mai a prendere sonno senza rabbrividire e continuare a sentirlo. Quel freddo.
Una cella, pasti consumati insieme ad una torma di disperati incattiviti e il braccio, quel braccio che non smetteva mai di far male, stretto in una morsa fatta di acciaio e rune magiche. Alla fine erano riusciti a neutralizzarlo: cosa importava se la pelle suppurava, se il dolore a volte era così forte da tenerlo sveglio la notte?
Sören Von Hohenheim, prigioniero numero ottantatre. Ottantatreesimo in un centinaio. Un numero, una divisa e una cella grande quanto un armadio per le scope.
Dovevi aspettartelo, principino. I cattivi non meritano perdono. Mai.
Meritavano Nurmengard.
Aveva già detto che era il vento a farlo impazzire? E il buio in cui era perennemente immerso quando non mangiava in refettorio anche. La chiamavano deprivazione sensoriale, gli sembrava di ricordare…
Nurmengard per tutta la vita; così diceva la sua sentenza ed era inutile segnare i giorni e tenerne il conto, perché lo avrebbe perso prima o poi. Che senso aveva contare quella che sembrava l’eternità?
Nessun senso.
Avevano paura di lui.
Sì, avevano paura di lui. Non solo gli altri prigionieri, ma anche le stesse guardie. Non era mai stato bravo a decifrare i sentimenti altrui, certo, ma la paura, il sentimento che ti faceva storcere le labbra e ti rendeva lo sguardo di pietra, quello lo conosceva bene. Erano un vecchio amico, dopotutto.
Le guardie ogni sera, quando controllavano i braccialetti metallici che avevano salutato il suo arrivo, lo facevano con rabbia, strattonando il braccio fino a farlo quasi urlare.
(Non urlava mai. Aveva provato a protestare una sola volta e gli era arrivato un pugno in bocca che gli aveva spaccato le labbra. C’era voluto un mese prima che guarisse.)
Il problema con le guardie, aveva capito, era proprio a sua magia; a volte la notte la sentiva incendiargli le vene, gridare per essere liberata dalla costrizione a cui le manette runiche la costringeva. Allora lo stomaco gli si rovesciava e doveva trattenere i conati per non sporcare la branda.
(Nessuno l’avrebbe pulita).

Le guardie Magonò avevano paura di lui, ma al tempo stesso sapevano che era innocuo. Non c’era bisogno di dire altro per terminare l’equazione.  
Era quella la sua realtà, quindi aveva imparato a stringere i denti e far passare le ore, i giorni, le settimane come se fossero tutto un lungo incubo. Dagli incubi ci si svegliava prima o poi, no?
Era così che ricordava quei mesi. Come un lungo, allucinato incubo e dunque era normale che alle volte i ricordi e il sogno si mischiassero assieme. Quando succedeva non era mai sicuro se stesse ricordando, sognando, o se fosse ancora là dentro…
 
“Ecco il nostro mago preferito… Avanti, carogna! Ti credi migliore degli altri prigionieri? Di noi? Nossignore, carogna di un mago, qua comandiamo noi. Se ti diciamo di tenere gli occhi bassi e farti i fatti tuoi, tu che fai?”
 
Non rispondeva mai. Rispondere gli era costato tre giorni di sangue in bocca e le costole ammaccate.
Johannes gli aveva detto che la prigione tirava fuori il peggio da un mago, ed era vero.
Se solo fossi libero … Se solo… Li ammazzerei tutti.
Lo stava tirando fuori anche da lui.
 
“Hai voluto prendere le difese della tua amichetta in refettorio, vero? Com’è che si chiama? Lily?”


Lily? Lilian? No, non era possibile.
Il carceriere aveva detto proprio il suo nome però. E non aveva volto, solo un taglio enorme sulla faccia che ghignava. Ghignava. A ben guardarlo, sembrava quello di Johannes.  
Il guardiano era Johannes?
 
“Mi sono proprio divertito con la tua gallinella…”

No, non poteva essere che Poliakoff. Non era morto? Se era morto, forse era morto anche lui.

Poliakoff e Johannes erano proprio il genere di persone che avrebbe potuto fare male a lei.
Ma Lily che ci faceva a Nurmengard?
Doveva esser colpa sua.
 
“Strillava e piangeva, sai? Chiedeva aiuto e tu dov’eri, principino?”
 
Aveva provato ad alzarsi, a gettarglisi contro, ma le manette ai suoi polsi sembravano incatenate alle viscere stesse della Terra. Allora aveva capito che doveva supplicarlo, ma sentiva la bocca piena di sangue, come se gli avessero di nuovo tirato un pugno.
Non era proprio in grado di aiutare nessuno.
 
“Sei sicuro di non averla ammazzata tu?”
 
Quello era davvero un buon momento per gridare.
 
****
 
Inghilterra, il Paiolo Magico.
Notte.

 
“Ehi! Svegliati, è un incubo, è tutto a posto! Calmati!”
Cosa c’era di meglio che esser tirati giù dal letto da qualcuno che urlava allucinato? Milo se lo chiedeva con scoramento totale mentre tentava di svegliare Sören, in preda a quello che era un robusto incubo terrorizzante a giudicare da come si agitava e tentava di liberarsi delle coperte che gli si erano attorcigliate ai piedi.
“Svegliati!”
Sören, finalmente libero dalle costrizioni del letto, invece che ringraziarlo sbarrò gli occhi come un completo psicopatico e con un ringhio gli tirò un potente spintone in mezzo al plesso solare. Milo crollò tirandosi dietro coperte e un paio di cuscini, impattando duramente contro il pavimento.

Ma vaffanculo!
Il suo grido oltraggiato sembrò però servire. L’altro batté le palpebre e lo mise finalmente a fuoco. “… Milo?” Chiese con voce stentata. “Cosa…”
“Stavi sognando, imbecille!” Esclamò massaggiandosi la nuca, dato che cadendo aveva tirato una craniata non indifferente contro il comodino che divideva i loro letti. “E per svegliarti mi son quasi rotto la testa!”
Doveva però ammettere che un po’ se l’era cercata; con i riflessi da soldato traumatizzato che l’altro aveva avrebbe dovuto ricordarsi che quando aveva un incubo doveva esser tenuto a distanza.  

E mi è andata bene che mi sono beccato solo uno spintone.  
Gli lanciò un’occhiata valutativa: Sören lo stava fissando con occhi enormi di paura e con il respiro corto, quasi si stesse chiedendo se classificarlo come nemico o come amico; era di nuovo cosciente, ma fosse dannato se era in sé.
“Okay, hai bisogno di una pozione Soporifera” Stimò pratico, alzandosi in piedi ed infilandosi i pantaloni. “Vado a chiedere se nei dintorni c’è una Medimago di guardia. Ce li hanno qua in Inghilterra?”
No.” Il tono era roco, ma stabile. “Non voglio prendere pozioni. Sto bene.”
Sì, come no.   
Merda, pensavo che gli incubi se ne fossero andati.
Non ci aveva mai sperato troppo; il mago durante il loro primo, ridente anno di convivenza aveva avuto il sonno completamente devastato da incubi che variavano dalla sua morte a quella delle persone a cui aveva voluto bene o a cui stava imparando a volerne – non che glielo avesse detto, lo aveva dedotto dalle sue grida.
Dopo i primi tentativi di calmarlo finiti in un buco nell’acqua, ne aveva parlato con Eleanor Gillespie, la mammina putativa del matto e questa, senza il minimo tentennamento – era americana - l’aveva spedito da uno Psicomago che per tutta risposta gli aveva rifilato una lista di Pozioni lunga sessanta centimetri.
Americani … pensano che le Pozioni risolvano tutto.  
Sören aveva stretto i denti per sei mesi prima scaricare tutto nel gabinetto e cominciare a mentire persino al suo adorato Capitano inventandosi di notti serene come uno specchio d’acqua.
Non che non funzionassero. Funzionavano. Peccato che nelle ore diurne lo facessero sembrare vitale come un Infero. Ah sì, e poi danno assuefazione.
Alla fine, un po’ con l’aiuto della medicina Magonò, un po’ per testardaggine, gli incubi se n’erano andati, anche se più lentamente di quanto non fosse stato millantato. Se n’erano andati, forse, perché Sören aveva realizzato che non sarebbe più tornato nel posto che glieli generava.
Solo che mi sa che anche l’Inghilterra genera mostri.
Per questo Milo se li era aspettati, per questo si era coricato ancora vestito e per questo aveva rimandato la sua prima uscita nella Londra notturna.
E poi mi si dà del cattivo ragazzo…
“Hai l’aspetto di un topo caduto nel fiume.” Disse spassionato, incrociando le braccia al petto. “Ti servirebbe proprio, una Pozione.”
“Ti ho detto che non la voglio. E poi, non mi faccio dare consigli da un drogato.” Digrignò i denti passandosi una mano trai capelli appiccicati alle tempie. Sören era spesso la rappresentazione vivente di quello che gli strizzacervelli babbani chiamavano sbalzi d’umore: quando era sotto pressione era capace di passare in pochi attimi dall’apatia all’aggressività, e se preso per il verso sbagliato poteva diventare piuttosto problematico da gestire.

Beh, l’han represso da quando era in culla. Tutto sommato, se ogni tanto tenta di mordere, è quasi normale.
“Ci diamo al sarcasmo?” Replicò tranquillamente. “Comunque, se non vuoi i miei consigli, almeno fatti portare una tisana.” Sbuffò raccogliendo coperte e cuscini caduti per terra.
Londra gli sta davvero avvelenando il sangue. Grandioso.
“Va bene…” Capitolò con una piccola smorfia. “Una tisana va bene. Va’ a prendermela.”
Milo obbedì: avrebbe voluto coprirlo di insulti per averlo svegliato, avergli quasi rotto la testa e soprattutto per avere quel tono da padroncino odioso, ma sarebbe servito?

La risposta è no.
Si infilò un maglione e scese fino alle cucine, sperando di trovare qualcuno ancora alzato. Fortunatamente la locanda era aperta fino a tardi e riuscì quindi a trovare una delle sguattere Magonò ancora alzata. Si fece quindi scaldare un po’ d’acqua e chiacchierando con lei il tempo sufficiente per farle capire che remavano sulla stessa barca dei senza-bacchetta riuscì a farsi dare una mistura di erbe sufficientemente potente da stendere un bisonte.
Noi Maghinò non avremo le pozioni o le bacchette, ma in compenso in quanto a metodi alternativi siamo dei re. Un po’ la differenza tra la roba da farmacia e quella da erboristeria.
Quando tornò in camera reggendo una tazza fumigante trovò Sören nella stessa posizione, sebbene con un pigiama pulito e l’aria meno malsana: doveva essersi fatto una doccia. “Vuoi parlarne?” Gli venne spontaneo chiedergli.  
“Di cosa?” Accettò la tazza con un cenno della testa e ne bevve un piccolo sorso, facendo una smorfia schifata quando si rese conto che era amara come il fiele.

“Lo so, potevo zuccherarla, ma mi hai svegliato quindi devi soffrire.” Gli comunicò sereno, ignorando l’ennesima occhiataccia e tornando sul binario del discorso precedente. “Dell’incubo intendo. Pare che parlarne faccia bene.”
Sören fece un sorrisetto stiracchiato. “Abbiamo già affrontato questa discussione … Tu parli mai dei tuoi? Non dico a me, ma in generale.”
Touché.” Si stiracchiò, togliendosi il maglione dato che con il camino acceso dal pomeriggio quella camera era un discreto inferno di calore. Sören odiava il freddo. “C’è altro che posso fare per te, mio Signore e unico padrone?”
Maaai chiamarlo principino dopo gli incubi. Mai.
“No.” Gli concesse dall’alto della sua magnanimità, poi esitò leggermente, scoccandogli un’occhiata di sottecchi. “Suoneresti? Per me?”
“Ed ecco che con questa frase abbiamo raggiunto un livello di ambiguità oltre il tollerabile.”
Sören lo fissò neutramente; per certe cose sembrava totalmente privo di malizia o retropensieri. “Ti ho solo chiesto di suonare qualcosa per me.” Obbiettò infastidito. “La musica è stata provata avere un effetto calmante e oltre a questo sei un pregevole esecutore.”
“Sono un fantastico esecutore.” Scrollò le spalle divertito andando a recuperare la custodia del violino e gettandola sul letto per aprirla con uno scatto allenato. “Sai che probabilmente verranno ad ucciderci per il rumore?”
“Ho lanciato un Mufflatio alla stanza, non ci sentirà nessuno.”
“E ora anche con le allusioni sessuali!”
Milo.”
Rise, perché vedere la faccia infastidita dell’altro era molto meglio che vederlo rattrappito nel letto. “Allora, padrone, che pezzo desiderate per conciliarvi il sonno?”

Sören riuscì quasi a prodursi in un’ombra di un sorriso. “Al momento non mi viene in mente nulla, scegli pure tu.” Togliendo la malizia, le allusioni sessuali e il suo essere un cinico convinto, era il sorriso più triste e fragile che avesse mai visto.
Ah, altro che cinico. Sono un romantico. Incompreso, ma tale.
“Debussy? Sì, direi che è un momento da Debussy, Sonata in Sol minore.” Stimò e quando l’altro aggrottò le sopracciglia confuso scosse la testa con riprovazione. “Ignorante, componeva anche per violino, sai?”
“Ora lo so.” Si riadagiò sui cuscini chiudendo gli occhi. “Comincia pure.”
Quel mago si fidava di lui, pensò imbracciando il violino e sfiorando le corde con l’archetto; di certo non avrebbe abbassato la guardia in quel modo di fronte a chiunque. Era una strana sensazione, quasi disagiante per certi versi.

Nessuno si è mai fidato del sottoscritto. Nemmeno dei miei. E non che avessero tutti i torti.
Non è che vien fuori che siamo amici? Cielo, che orrore. No, eh!
Accantonò quel pensiero veramente disagiante concentrandosi sulla musica che gli scivolava tra le dita e, come ogni volta, si trovò a sorridere; il principino non aveva avuto tutti i torti a dire che aveva un effetto calmante. Era come acqua fresca, capace di lavare via lo sporco appiccicoso della vita reale. Almeno per lui era sempre stato così; suonare non era solo tenere le dita elastiche e bearsi della propria bravura tecnica. Suonare era ricordarsi che, persino quando era nel suo momento più basso, più miserevole, poteva innalzarsi ed essere di nuovo umano.
Quando finì di suonare il terzo ed ultimo movimento l’altro era ancora sveglio, sebbene l’espressione rilassata indicasse come fosse ormai prossimo a scivolare nelle maglie del sonno.
Grazie musica e grazie tisana …
“Molto bello.” Disse battendo le palpebre per tenerle aperte. “Posso farti una domanda?”
Sospirò, sedendosi sul proprio letto. “Non puoi semplicemente entrare in coma come fai di solito?”
Sören lo ignorò. Non faceva altro da che lo conosceva. “Perché rimani?” La domanda era seria, una di quelle domande che non dovevano essere fatte alle due di notte pena la defenestrazione.

Ma figuriamoci se questo lo capisce…  
“Con te?” Scrollò le spalle, mettendosi il violino sulle ginocchia e versando qualche goccia di trielina su un panno morbido per pulire le corde dalla pece² della quale si erano impregnate sfregando con l’archetto.
Posso pur fare manutenzione, tanto ormai son sveglio…
“Perché mi paghi uno stipendio niente male, se paragonato alle paghe da fame che voi maghetti date solitamente a noi Maghinò.” Disse spassionato. “E perché mi lasci usare la tua ricca eredità. A proposito, per questa bella gitarella nel regno dello squallore voglio una macchina. Una Cadillac potrebbe andar bene.”
Sören sospirò, nascondendo poi uno sbadiglio in una mano. “Sono certo che avresti potuto servire persone meno … complicate.”
“Sicuramente.” Confermò. “Il fatto è che mi piacciono i tuoi soldi.” Fece un mezzo sorriso, riponendo lo strumento e i suoi accessori con attenzione nella custodia. “Ma vuoi una risposta seria?”

Non vi fu risposta; si era addormentato e Milo finalmente si permise di tirare un sospiro di sollievo.
Perché rimango?
 
Perché Eleanor Gillespie era un’impicciona, prima di tutto: la strega americana era irrotta nella sua tranquillissima vita post-castello-degli-orrori chiedendogli un favore in cambio di una sacca di monete tintinnanti. Fin lì, nulla di eccezionale: non era la prima persona con cui concludeva affari del genere.
Sono sempre stato un tipo socievole…
Il problema era l’entità del favore.
Caro Milo, aiutami a convincere le guardie carcerarie di Nurmengard a farmi entrare a Nurmengard. Del resto voi Maghinò vi conoscete tutti…
Non aveva detto proprio così; aveva usato un sacco di belle parole e giri semantici da professionista della favella, ma il significato era quello.
Che poi è vero. Siamo tutti una grande, disgraziata e derelitta famiglia del cazzo.
Credo che se lo sapessero gli zingari Babbani ci chiederebbero i diritti per l’idea…
 
“Momento. Prima domanda. Come mi avete trovato?”
Era un quesito legittimo, aveva pensato Milo considerando che era riuscito a scappare in modo piuttosto epico dalla corte di poliziotti e adolescenti problematici riunita di fronte al castello dei Von Hohenheim. Ad un anno dall’accaduto pensava di essersi lasciato quella storia allucinante alle spalle, e invece
Io ti ho trovato. Non c’è nessun altro, nessun Ministero. Solo io, Nora.” Aveva specificato fastidiosa fino alla punta dei capelli leonini, a giudicare da come si era accomodata al suo tavolo perfettamente a suo agio, nonostante fossero in una bettola che vantava un pubblico di avventori che oscillava trai semi-umani e i tagliagole.
No, non me la sto passando bene. Ma quando la borsa diventa vuota, è qui che finiscono quelli come me.
“Favoloso Nora, ma non ha risposto alla mia domanda.” Si era acceso una sigaretta, un po’ per darsi un tono – non si faceva la barba da giorni e si sentiva puzzare - un po’ perché gliel’avrebbe potuta spegnere addosso e crearsi una vita di fuga se le cose si fossero messe male.
“Ho chiesto alla coppia di Maghinò che ha servito con te di dirmi dov’eri finito.”
“Etzel e Hilda.” Aveva realizzato. “Avrei dovuto lasciarli tra le fiamme…” Aveva borbottato e stranamente l’americana aveva sorriso.

“Non credo l’avresti fatto. Parlano di te come il loro angelo custode. Mi hanno raccontato che gli hai dato una mano a sistemarsi qui a Berlino.”
“Sì, beh, tutti fanno errori.” Aveva replicato dando un consistente sorso al suo boccale di birra. “… Senta, dobbiamo tirarla ancora per le lunghe? Mi arresti, altrimenti mi lasci tornare alla mia birra.” Aveva indicato con un cenno della testa la custodia logora del suo violino, sperando che fosse mossa a pietà per il suo nuovo lavoro di giullare da osteria. “Ho suonato un’ora e mezzo per guadagnarmela.”

“Non voglio arrestarti.” L’aveva preso in contropiede. “Non mi interessa quello che hai fatto o non hai fatto per Alberich Von Hohenheim.”
Non vuole arrestarmi?
Milo aveva cercato di nascondere la curiosità spegnendola con l’ennesimo sorso. “Allora cosa vuole da me?”
“Un favore.”
“Io non faccio favori.” Aveva allargato le braccia. “Non se la prenda, ma non sono nella posizione di permettermi gesti gratuiti.”
“Allora diciamo che ti chiedo di lavorare per me.”  Non gli aveva dato la possibilità di ribattere perché aveva continuato. “So che sei ben inserito nella comunità Magonò.”
Sono un Magonò … In Germania saremo un centinaio di anime, ci conosciamo tutti.” Aveva replicato cauto. Giocare al ribasso era una tecnica che non gli aveva mai dato un grattacapo; invece di gente in delirio di onnipotenza ne aveva vista finir sottoterra fin troppa.
“Etzel e Hilda mi hanno detto che li hai aiutati a trovare un alloggio ed un lavoro in una taverna qui vicino … Non penso ci sarebbero riusciti da soli.”
“Quindi?”

“Quindi voglio sapere se conosci qualcuno a Nurmengard che potrebbe aiutarmi.”
Milo aveva aggrottato le sopracciglia. “Prigionieri?”
“No, agenti di guardia. Come sai, tutto il personale tranne il Direttore è Magonò.” Aveva fatto una pausa ed aveva osservato con curiosità la custodia del violino quasi fosse foriera di spunti per la loro conversazione. “Voglio entrare a Nurmengard.”
“Non è un agente del DALM?” Aveva chiesto, ricordando nebulosamente di averla vista in mezzo alla selva di uniformi al castello. “Chieda al suo Ministero!”
“Non posso usare vie ufficiali.” Aveva replicato con una schiettezza che l’aveva sorpreso. “Non mi è possibile, quindi devo trovare vie alternative.”

“Illegali?”
“Alternative.” Aveva ripetuto calma. “Puoi aiutarmi?”
“Chi c’è lì dentro di così importante?” Era la prima volta che una strega che sembrava mangiare magia a colazione si degnava di considerare uno come lui, quindi significava che la posta in gioco era alta.

E posso tirar su il prezzo.
Vedendola esitare, aveva sbuffato. “Se vuole che la aiuti devo saperlo. Niente mezze informazioni.”
“Sören Von Hohenheim. Devo parlargli.”
… il principino? Quindi l’hanno sbattuto al gabbio. Comunque, gallina dalle uova d’oro.
Si era accomodato meglio sulla sedia con un largo sorriso. Era ufficialmente diventata la sua buona giornata. 
“Okay. Andata. Ora però parliamo del prezzo…”
 
Milo aprì la finestra quanto bastava per poter fumare senza creare una cappa spiacevole all’interno della stanza. Ormai si sentiva sveglio come un grillo e quell’ora notturna gli stimolava i ricordi.
Quindi, ricordiamo.
Alla fine Nora non gli aveva mai pagato quanto pattuito; solo la prima tranche di pagamento era stata incamerata e spesa per un passaggio dal barbiere e un mese d’affitto in una appartamento decente a Berlino.
Peccato poi non ci abbia mai trascorso un solo giorno dato che son venuto in America con La Piaga.
Quindi si torna alla domanda. Perché rimango?
 
Aveva schiacciato l’ennesima sigaretta sotto il tacco della scarpa, guardando senza particolari motivi uno stormo – si chiamava stormo poi? – di corvi compiere larghi giri attorno al perimetro dell’unica torre che componeva Nurmengard. Seduto ad uno dei tavoli all’aperto della locanda magica del piccolo agglomerato urbano ai piedi della prigione, ammazzava il tempo.
Trovare un vecchio compagno di bevute berlinesi che indossasse l’uniforme della polizia carceraria di Nurmengard non era stato difficile. Neppure particolarmente complicato era stato corromperlo con una manciata di galeoni.
Magari un’evasione sarebbe stata una sfida, ma una semplice intrusione per un colloquio?
Per niente.
Un po’ ostico era stato convincere Bert – l’amico di bevute in questione – ad introdurre l’americana all’interno della struttura. Aveva dovuto spergiurargli sul loro sangue Magonò che la strega non avrebbe dato problemi e che, soprattutto, non avrebbe menato la bacchetta per liberare qualcuno.
Se dovessimo fare una stima, qua c’è un campionario di Magonò più incattivito della media.
Venivano selezionati, aveva sentito dire; Bert stesso aveva fatto carte false per esser preso a lavorare là dentro.
E quando mai ti capita un’occasione di rivalsa così? Conosco persone che accoltellerebbero il proprio fratello per poter prendere a calci legalmente qualche deretano magico.
Si era stiracchiato sulla sedia. Nora non aveva richiesto la sua presenza e alla fine Bert si era convinto a portarsela via da sola; sollevato da ogni incarico, aveva quindi dato a lei il paniere di cibarie che Etzel e Hilda gli avevano affibbiato quando avevano saputo – presumibilmente dalla maledetta yankee – che sarebbero andati a trovare il principino.
Figuriamoci se quella roba arriverà mai a destinazione … Sicuro se la intascherà Bertie.
Non se l’era sentita però di dirglielo, dato che i vecchi lo avevano tenuto mezz’ora a spiegargli ogni singolo alimento o capo di vestiario per il povero padroncino.
Sono finalmente liberi e ancora lo chiamano in quel modo del cazzo…
Beh dopotutto non era male. Ha preso le tue difese, ha provato a curarti … e poi ha preso a calci quei Mercemaghi che volevano pestarti come un tappeto.
Aveva fatto una smorfia scontenta, chiedendosi se il clima cupo di quel posto lo stesse facendo impazzire.
Non hai imparato come, se potessero, i maghi vi cancellerebbero tutti?
Non te lo ricordi tuo padre? Tuo fratello? Pensi che Von Hohenheim junior sia meglio di loro?
Vista quella china di pensieri, era stato ben felice quando aveva intravisto l’americana sulla via del ritorno.  
“Allora, com’è anda…” Si era bloccato, vedendo l’espressione della strega. Era talmente livida da far spavento. “Che è successo?” Non aveva potuto fare a meno di chiedere. “Qualcosa è andato storto?”
“No!” Aveva esclamato Bert, serrando istintivamente le dita sul borsello agganciato alla cintura. “Io ho fatto quel che dovevo Milo, l’ho portata dal prigioniero ottantatre! I patti erano questi, niente scherzi!”
“Sì, lo so, tranquillo Bertie…” Lo aveva placato, scrutando l’espressione della donna ancora in silenzio. “Non ha ottenuto ciò che voleva?”
“Precisamente ciò che volevo.” Aveva replicato stupendolo. “Devo mandare una serie di Gufi.” Aveva detto poi riscuotendosi di colpo e sorpassandoli con brevi ma efficaci falcate.
Era il momento giusto per mollare il colpo. Aveva fatto quel che doveva e quindi doveva andare per la sua strada, che a Berlino lo aspettava un appartamento lindo, pulito e…
… e dannazione.
Aveva seguito la strega che incedeva verso l’Ufficio Postale Gufico e si era dato dell’idiota circa ottanta volte prima di afferrarla per un braccio. Questa l’aveva fissato sorpresa quando l’aveva riconosciuto.
“Che è successo là dentro?” Si era umettato le labbra, sentendo l’impulso di sbattere la testa contro il tronco di un albero. “Come sta il principino?”
Ti ha salvato la vita. Si è preoccupato per te quando stavi agonizzando per le frustate di suo zio.
Suona come un debito, vero?
“Il princi … intendi Sören.” Aveva intuito. Si era rabbuiata. “Non sopravvivrà un’altra settimana.”
“L’hanno…” Bert stesso, per chiunque dei loro avesse voglia di ascoltare, raccontava sempre della volta in cui si era divertito come una ‘strega puttana che aveva osato dargli dello sporco Magonò’.

Milo non era mai riuscito ad ascoltare quella roba, neppure con diversi boccali in corpo. Odiava la Magia, detestava i maghi, ma…
“La scorsa settimana in refettorio ha preso le difese di una prigioniera che un paio di guardie avevano preso di mira. Ne ha spedite tre in infermeria prima che lo fermassero… Ti lascio immaginare la reazione delle altre.” Aveva spiegato con gli occhi che se avessero potuto avrebbero sprizzato scintille.
“Ah.” Non aveva saputo cosa ribattere, troppo meravigliato.
È un prigioniero, probabilmente vive nel suo stesso piscio e fa anche il cavalier servente?
Ma che cazzo di problema ha?
“Lo hanno pestato a sangue.” Aveva continuato la donna in tono grave. “Non gli hanno prestato cure adeguate, se gliele hanno prestate.” Aveva fatto una pausa maledettamente d’effetto. “Lo stanno lasciando morire dentro la sua cella.”
“No, un momento. Non lo possono fare, è un reato!” Aveva esclamato sentendo un nodo stringergli lo stomaco.

Cioè, vien fuori che è lui quello che si è comportato bene?
L’americana aveva scosso la testa. “Pensi che qualcuno aprirebbe un’inchiesta per la morte del nipote di Alberich Von Hohenheim?” Aveva fatto una faccia strana, quasi si sentisse in colpa per questo. “Credo che sia la soluzione che molti al Ministero si auspichino. Che segua suo zio anche nella morte, intendo.”
Milo aveva deglutito: da che parte si supponeva dovesse stare in quel caso? Da quella dei suoi, o dei maghi?
Da quella di nessuno. Da quella degli esseri umani.
“Cosa intende fare?”  
“Portarlo via.” Aveva tagliato corto. Poi, quasi si fosse resta conto lei stessa di averla sparata grossa, aveva sospirato. “Tenterò di sollecitare un intervento del mio Ministero. Sören Von Hohenheim potrebbe essere un prezioso informatore per lo smantellamento della Thule, e oltre a questo, c’è quel suo braccio…”
“Potrebbe tenermi informato degli sviluppi?” L’aveva interrotta, ignorando l’espressione meravigliata che ne era conseguita. 
“Lo conosci bene?” Gli aveva chiesto infatti.
“Per niente, ho lavorato per la sua famiglia per poco tempo. Però…” Aveva scrollato le spalle, senza sapere come spiegarglielo senza farsi tirar dentro. Che era ovvio fosse quello l’obbiettivo finale della maledetta yankee. “… Me lo faccia sapere e basta.”
La strega gli aveva sorriso, prima di annuire. “Certo, ti spedirò un Gufo.” Aveva fatto una pausa. “Potrei aver ancora bisogno di te, Milo.”

“Per cosa? Quello che potevo fare l’ho già fatto e dopotutto, sono solo un Magonò.” Sempre giocare in ribasso: era quello il modo giusto di vivere.
“Si ha sempre bisogno di alleati.”
Alleati … Io che mi alleo con dei maghi tutti distintivo e buone intenzioni. Bello. Davvero bello.
Milo aveva sospirato, sentendosi ormai in trappola. “Sa dove trovarmi.”  
 
Perché rimango?
In fondo era semplice, pensò stendendosi a letto e cercando di prendere sonno.
Perché come te non riesco, dopotutto, a non restare umano.
 
****
 
Inghilterra, Somerset.
Casa di Scott Ross, Mattina.

 
A Lily piaceva guardare la gente dormire.
Okay, detta così suona un po’ da maniaca…
Il fatto è che le piaceva guardare qualcuno respirare piano ed essere completamente indifeso; in qualche modo le dava la misura della tranquillità in cui era immersa.
Passò un dito sul profilo del suo ragazzo che occupava la stragrande maggioranza del letto. Come compagno di sonno era piuttosto rumoroso, ma tutto sommato non poteva lamentarsi perché di notte poteva rannicchiarglisi contro e bearsi del suo calore di essere umano.
Certo che è quasi una settimana che dormo qui… Credo di non ricordarmi neanche dove ho messo la biancheria sporca.
Fece una smorfia perplessa allo specchio di fronte a sé che le restituì un immagine infagottata nella t-shirt di Grifondoro celebrante dell’unica vittoria della Case a cui aveva assistito, con i capelli arruffati e metà del contenuto del borsone da fine settimana sparso per la stanza.
Sì, direi che si vede che son qui da un po’.
Il che era strano: suo padre di solito cominciava a lanciar frecciatine sulla sua assenza lunedì e arrivati a martedì già arrivava la chiamata via Specchio Comunicante di James, puntuale come una tassa, a chiederle se lo Scozzese Gigante non l’avesse per caso rapita.
Almeno Albie, anche se fa la chioccia psicotica, se ne frega di dove dormo.
Invece siamo già a giovedì e silenzio stampa totale. Ripeto, strano.
Infilandosi i calzini e una felpa sportiva dell’altro si diresse in cucina per preparare la colazione; Scott si sarebbe alzato tardi, ma non lei.
Nossignore, la Psicomagia non aspetta. Oppure la Guaritrice Patil, che sa farti sentire minuscola e inadeguata in maniera deliziosamente crudele …

Osservando il sole baciare il pratino all’inglese fuori dalla finestra pensò che nonostante tutto gridasse pace e serenità, lei non si sentiva affatto dello stesso avviso.
Se avesse dovuto definirsi con una parola, avrebbe detto insofferente. C’era qualcosa che non le tornava e il fatto di non riuscire ad inquadrarlo la innervosiva.
Poi, mentre beveva un sorso di caffè amarissimo – si scordava sempre dov’era lo zucchero in quella casa – un fulmine di consapevolezza la investì.
Sören non aveva ancora risposto alla sua lettera.
Diavolo!
Era quello a non tornarle; le lettere arrivavano sempre entro il martedì sera dell’ultima settimana del mese, cascasse il mondo.  
Tranne quella settimana.
Lily, non sapendo come reagire né esattamente cosa pensare, si limitò a continuare a bere caffè ascoltando le notizie giornaliere alla radio.
Gli sarà successo qualcosa?
Era la prima cosa che le veniva in mente; Sören lavorava per una sorta di ufficio gemello a quello Auror, e non come timbra-pergamene, ma come agente operativo e non c’era certo bisogno che qualcuno le spiegasse quant’era pericoloso.
Ho metà della mia famiglia che rischia la vita in prima linea, grazie tante.  
Era un’ipotesi probabile, e per questo posò il caffè ed ispirò, interrompendo con un colpo di bacchetta il vuoto ciarlare della WWN. Se fosse successo però, Nora Gillespie l’avrebbe avvertita.
Già, Nora…  
La strega americana era la persona a cui il Ministero Tedesco aveva affidato Sören dopo aver tramutato la sua condanna a vita in un anno di ‘servizi alla comunità’ americana; servizi che poi, per quanto ne sapeva, non erano mai stati fatti dato che il tedesco dopo pochi mesi di permanenza nel Nuovo Continente si era iscritto all’Accademia di Polizia Magica.
Non ho mai capito com’è avvenuto il passaggio … Ma meglio così. Quello che gli hanno fatto a Nurmengard non se lo meritava. Per niente.
Se fosse successo qualcosa, Nora avrebbe fatto in modo di farglielo sapere, era una specie di accordo non scritto, dato che in un certo senso era stata proprio la strega americana a dare il La alla loro seconda – ma stavolta reale – corrispondenza.
Si ricordava ancora giorno, ora e luogo della conversazione. E come avrebbe potuto essere altrimenti?
 
La Burrobirra allo zenzero si era ormai freddata, ma a lei non importava, anzi, l’idea di berla calda le stava quasi dando la nausea.
Accanto a sé suo padre si stava pulendo gli occhiali da cinque minuti e sembrava aver voglia di menare incantesimi a destra e a manca. Sua madre sembrava tranquilla, ma batteva il piede impaziente, come sempre faceva quando voleva nascondere la preoccupazione. Per finire, l’agente americano  di fronte a loro sembrava studiarla come una pozione. 
Lei invece si sentiva confusa; i suoi genitori quella mattina l’avevano prelevata da scuola con aria mortalmente seria e senza neanche darle il tempo di togliersi l’uniforme l’aveva portata al Paiolo dove si era trovata di fronte ad un’allucinante richiesta.
“Se ho capito bene … mi state chiedendo di rispondere alle lettere di Sören?” Aveva detto molto lentamente, perché era certa di aver capito male. Si era arrischiata a lanciare un’occhiata a suo padre, ma l’aveva visto di umore talmente nero che aveva lasciato subito perdere, preferendo cercare gli occhi di sua madre, che le aveva invece sorriso meravigliosamente quieta.
Grazie mamma.
“Sì, è così.” L’americana non ci aveva girato attorno, e di questo le era stata grata. “Hai ricevuto le sue lettere, immagino. Sören mi ha detto di avertele spedite.”
“No, un momento … Dov’è adesso, da voi in America?” Le mancava un intero anno di vita dell’altro e fino a quel momento la cosa non le aveva dato il minimo fastidio. Aveva cercato di dimenticarlo, in ogni modo possibile. Non parlandone, non citandolo, gettando tutto ciò che aveva a che fare con lui, il suo braccialetto, gli appunti che aveva redatto con lui, i libri e persino i vestiti.

Fino a quel momento aveva funzionato a meraviglia.
Diavolo.
Aveva una voglia infinita di mandare al diavolo la strega di fronte a sé, ma la curiosità era più forte di tutto.
Quindi non l’hanno messo in prigione. Scorpius aveva ragione, è riuscito a patteggiare?
“È in America perché il nostro Ministero l’ha preso in custodia. Dove era prima la sua incolumità era fortemente a rischio.”
“Dove …” Aveva aggrottato le sopracciglia. “Non è sempre stato da voi?”
“No, Lily. L’arresto è stato fatto dalle autorità DALM del Ministero tedesco, e fino a un mese fa era detenuto a Nurmengard.” La donna le aveva sorriso e in quel sorriso vi aveva intravisto, a chiare lettere, senso di colpa. L’americana si sentiva in colpa, ma morisse se riusciva a capire perché.
“Però adesso l’avete preso voi … È in prigione?” Sentiva lo sguardo di suo padre su di sé, ma non se la sentì di ricambiarlo. Aveva paura di cosa avrebbe potuto trovarci dentro, leggendolo da brava LeNa.
“No, al momento è in ospedale.”
“... Sta male?”
“Si sta riprendendo.”
“Riprendendo da cosa?” 
“Nora.” Era intervenuto con forza. “Le hai fatto la tua proposta, ora sta a Lily decidere.”
“Ho solo risposto alle sue domande, Harry.” Aveva ribattuto la strega con calma. “Per decidere bisogna aver chiara la situazione.”

“Proposta?” Aveva sentito la rabbia esploderle dentro come una specie di fuoco. Le succedeva troppo spesso ultimamente e anche se Tom le aveva detto che era una reazione normale, che era successo anche lui… niente, non riusciva a controllarla. “La proposta è chiedermi di rispondergli? Perché?”
“Sören ti aveva fatto una promessa Lily, è corretto?” Certo che lo era come era ovvio che la maledetta yankee avesse origliato la loro conversazione un anno prima.
Dopotutto era vicinissima … brutta stronza.
 “Beh, non l’ha mantenuta!” Era sbottata, ignorando gli sguardi allarmati dei suoi genitori. Che andassero al diavolo anche loro. Perché l’avevano portata lì? “Quindi a cosa cavolo dovrei rispondere?”
“Lily … è vero?” Le aveva chiesto suo padre ed improvvisamente aveva capito il motivo per cui si era rifiutato di interfacciarsi con lei fino a quel momento.
“Pensavi gli stessi scrivendo di nascosto?!” A quel grido metà degli avventori della locanda si erano voltati e persino Hannah, al bancone, aveva lanciato loro un’occhiata preoccupata.
“Tesoro, calmati.” Sua madre le aveva preso una mano e stretto forte finché non l’aveva ricambiata. Aiutava, almeno un po’, il contatto fisico. Anche di questo Tom l’aveva avvertita. 
“Ve l’ho detto, non ho mai ricevuto niente!” Aveva afferrato la Burrobirra e ne aveva dato un sorso dato che si sentiva la gola in fiamme. “Le avrei bruciata tutte!”
“Davvero?” Il tono dell’americana non era stato scortese, quanto piuttosto rassegnato. Come se si aspettasse quella reazione, ma non l’avesse sperata.
Perché a questa donna importa di Sören?
… Perché, a te non importa?
E in quel momento si era resa conto che no, per quanto fosse infuriata quelle dannate lettere non le avrebbe bruciate. Perché non sarebbero state come i regali, gli appunti o il braccialetto che le aveva regalato prima del Ballo del Ceppo.
Quelli me li ha dati Sören Luzhin. Le lettere invece … sarebbero di Sören.
Si era leccata le labbra, sentendole secche come il deserto del Sahara. “Non … no.” Era capitolata, stringendo la stoffa della gonna tra le dita. “In effetti non l’avrei fatto.” Aveva sospirato, ma poi non era riuscita a trattenersi. “Sta … sta bene?”  
“Starà meglio. Il Ministero tedesco non l’ha trattato con giustizia.” Aveva fatto una pausa, prima di addolcire il tono. “Non ti sto chiedendo di perdonarlo. Solo di rispondere alle sue lettere. Significherebbe molto per lui. È pentito per quello che ti ha fatto.”
Lo so. È proprio questo il problema.
“Per quanto riguarda il fatto tu non le abbia ricevute…”
“Spesso i carcerati non hanno il diritto alla corrispondenza, Nora.” Era intervenuto suo padre, pratico e senza particolari emozioni. “È probabile che non siano mai state spedite, dovresti controllare a Nurmengard. Se non se ne sono sbarazzati, ce le hanno ancora loro.”

“Controllerò.” Replicò la donna. “Posso fartele arrivare allora?”
Lily aveva guardato entrambi i genitori e dalle loro espressioni aveva capito che quella decisione era stata rimessa interamente nelle sue mani. Nonostante il carico emotivo di quel gesto, li aveva ringraziati con un sorriso muto.
Credo che mamma abbia fatto una lunga conversazione con papà. Lunga giorni e forse pure settimane.
Comunque, è vero, sta a me decidere.  
Sören l’aveva ferita e a distanza di mesi la stava ancora ferendo. Dentro di lei qualcosa si era spezzato e ci sarebbero voluti forse anni per riuscire a ad incollarlo di nuovo.
Però sapeva di non essere l’unica ad esserne uscita male. L’americana aveva cercato di eludere i fatti con le parole, ma lei era una LeNa e sfortunatamente certe cose la gente gliele sbatteva in faccia proprio quando tentava di nasconderle.
Sören starà meglio perché adesso sta malissimo. In prigione devono avergli fatto qualcosa. E se gli americani se lo son preso perché la Germania ‘non è stata giusta’ vuol dire che quel qualcosa è stato terribile. Un mese d’ospedale. Un mago con una capacità di recupero come la sua che si fa un mese d’ospedale…
 “Gli ho detto che gli avrei risposto se mi fosse stato possibile.” Aveva sospirato. “Lo farò.”
 
Nelle sue intenzioni di sedicenne avrebbero dovuto essere un paio di Gufi non impegnativi.
Invece ho continuato a rispondergli. Inizialmente perché mi dispiaceva per lui, ma poi … Poi beh, mi sono resa conto che volevo farlo.
Voleva farlo per sapere che si stava riprendendo, per aver conferma che non fosse la persona orribile che sembrava avergli ventilato quel mostro di suo zio. Che fosse stata una vittima, come lei.
Perché se è riuscito a voltare pagina lui, mi sono detta, perché non posso farlo anche io?
Okay, io ho proprio cambiato libro. Un paio di volte. Ma alla fine ha funzionato. Ora sono sulla pagina giusta.
Solo … Perché diavolo non mi ha risposto?
Il rumore della doccia la strappò alle sue tortuose riflessioni; Scott doveva essersi alzato per fare colazione con lei. Quasi volesse sancire la fine di quella deriva di pensieri, si passò una mano trai capelli mettendo a scaldare l’acqua per il the e riaccendendo la radio sugli ascolti di Martin Miggs. Sorrise notando come stessero trasmettendo niente meno che i Banshees di Lou e Meike.
E bravi ragazzi.
 
If you could only see me 'cause I want you to know
It's a long way, out of my own town into your own town¹…

 
Che importanza ha se non ti ha scritto? Avrà avuto da fare.
… Anche se è un maledetto tedesco precisino. È persino riuscito a scrivermi quando era in missione in mezzo al deserto Messicano!
“Ehi, sbaglio o sento profumo di pancetta?!” Fu l’urlo proveniente dal bagno.
“Sei peggio di un cane da tartufo!” Lo prese in giro. “Oggi colazione completa e incrocia le dita!”
“Lo dici sempre, ma poi cucini benissimo.” Fu la replica. “Falla finita!”
“Vedrai! Moriremo tra atroci spasmi!”  
“Bugiarda!”
Non sapere il motivo della mancata lettera la rendeva nervosa; non era una reazione razionale, anzi, e se l’avessero saputo i suoi fratelli le avrebbero rotto l’anima da morire.
Lo vedi Lily? Questo vostro rapporto è nocivo!
… Okay,
non ho una seconda voce nella mia testa, e non ha il tono di quel rompipalle di Al.
Sören era diventato suo amico; il verbo era importante dacché la loro corrispondenza era iniziata fredda e forzata da parte sua, per poi sciogliersi progressivamente fino a diventare amichevole e a volte persino complice.
Perché, per quanto le facesse effetto ammetterlo, Sören Prince era il Ren che gli era stato amico prima che la realtà rovinasse tutto. Era sempre ugualmente riservato, amava la musica classica, idolatrava la letteratura norrena e quando gli aveva consigliato Tolkien se l’era letto in tre notti e aveva passato i tre mesi successivi a citarlo. Non capiva i doppi sensi e si risentiva quando capiva di non averli capiti. Poteva scrivere venti righe di particolari assolutamente incomprensibili su chissà quale procedura d’indagine per poi scusarsi profusamente e riprendere al rigo successivo. Al tempo stesso però leggeva tutto quello che gli scriveva e non c’era una volta in cui non analizzasse i suoi sciocchi problemi da studentessa con assoluta serietà e ne venisse fuori con una soluzione che – ehi! – finiva sempre per essere quella giusta.
E ora che le cose si sono sistemate, che finalmente sono riuscita a perdonarlo …  
Sicuramente c’era una motivazione del tutto sensata, una che l’avrebbe fatta sentire incredibilmente meschina una volta esposta.
Ma intanto. Nessuna lettera. Non pensa che possa preoccuparmi? Le lettere sono l’unico contatto che abbiamo!
Quando sentì le mani di Scott cingerle la vita fece uno schizzo istintivo, del tutto idiota, che la portò quasi a spalmarsi contro la parete. Si rifletté nello sguardo sbalordito del suo ragazzo, e si sentì, tanto per cambiare, stupida.
“Ehi, ti ho spaventata?” Scott la guardò con apprensione. “Scusa, avrei dovuto ricordarmi che non ti piace esser presa alle spalle…”
No, non mi piace. Sì, mi terrorizza ma non è colpa tua. Sei un bisonte, tesoro, di solito ti sento arrivare anche con la radio a tutto volume. 
“È tutto a posto.” Lo fermò con il sorriso più sicuro che le riuscì di fare, andando a cingergli la vita con le braccia: era la sua posizione preferita, la faceva sentire protetta. “Ero solo sovrappensiero. Mi hai colto di sorpresa, tutto qui.”
“Sì, ma…”
“Davvero Scotty, tutto regolare.” Lo rassicurò stampandogli un bacio sulle labbra. Sperava funzionasse dirlo ad alta voce, perché no, non c’era nulla di regolare al momento. “Colazione?”

 
****
 
Londra, Paiolo Magico.
Mattina
 
“Come hai potuto dimenticartene?!”
“Cavolo, datti una calmata, ti ho detto che mi dispiace!”

“Non me ne faccio niente delle tue scuse!”
“Allora frustami e vaffanculo!”

Sören si bloccò nell’atto di incedere di fronte al camino, inspirando ed espirando la furia mischiata al panico che si sentiva divampare nello stomaco. Milo, reo confesso, lo fissava dal davanzale della finestra con espressione altrettanto ostile.
Sì, probabilmente suo zio avrebbe reputato la punizione corretta.
Ma io non sono lui.
“Non essere stupido, sai che non farei mai una cosa del genere.” Replicò freddamente, sentendo un brivido spiacevole attraversargli quel braccio; avrebbe preferito amputarselo che usarlo per uno scopo tanto vile. Milo era forte fisicamente ed aveva nervi allenati, ma di fronte ad un mago dotato di bacchetta era poco più che un bambino inerme. “Ti rendi almeno conto del disastro che hai combinato?”
Gli venne rivolta una smorfia insofferente. “Tu lo chiami disastro, io la chiamo opportunità.”
“In che modo può essere considerata un’opportunità il fatto che ti sei dimenticato di spedire la lettera per Lily?!” Sentiva di nuovo salirgli il fuoco al viso e dopotutto, se non poteva usare la bacchetta, almeno tirargli un pugno…

“Beh…”
“Non ho mai mancato un mese, potrebbe insospettirsi!”
“Non puoi spedirgliela ade … oh, già. Avrebbe il timbro postale di Londra.” Fece un sorrisetto divertito, assolutamente inadeguato alla situazione. “Opportunità in questo senso. Perché non gliela consegni di persona?”

“Ti ha colpito un Incantesimo di Memoria? Non deve sapere che sono qui!”
Quella mattina Milo doveva esser di pessimo umore, perché non stava neanche tentando di mettersi nei suoi panni … o fornirgli una soluzione, per quel che valevano le sue alzate di ingegno quando fumava quella sua orribile droga.

“Secondo me la fai troppo lunga … Insomma, è una lettera. Avrà di meglio da pensare che al fatto che non le hai scritto.”
Se gli avesse infilato una lama nello stomaco avrebbe fatto probabilmente meno male.

Eh … non è che abbia tutti i torti, caro il mio Sören. Ha una vita, un fidanzato e degli amici. Non si sarà neanche accorta che la lettera non è arrivata. O se l’ha fatto non se ne sarà preoccupata.
L’altro dovette accorgersi della sua faccia, perché per una frazione di secondo sembrò quasi dispiaciuto di essersi lasciato sfuggire una frase tanto infelice. “Senti…”
Ha ragione. La fai troppo lunga. Sì, tu aspetti le sue lettere con trepidazione ogni mese, ma puoi dire che sia lo stesso per lei?
“Scendo a fare colazione.” Lo interruppe gettandosi il mantello sulle spalle; odorava di naftalina e lo sentiva pesante sulle spalle, non essendovi più abituato.
Saranno anni che non lo indosso.
Non degnò Milo di una seconda occhiata, scendendo le scale velocemente. La taverna era praticamente vuota di clienti, ad eccezione di qualche sparuto ed insonnolito ospite; era ancora presto e a quanto gli era stato dato di capire molti degli avventori abituali non si facevano vedere prima di pranzo. Si accomodò quindi con relativa tranquillità ad uno dei tavolini ed ordinò la propria colazione, aprendo il giornale locale nel tentativo di distrarsi; senza successo, non riusciva ad andare oltre la terza riga del primo articolo. Tentò allora di ascoltare la radio, tenuta ad un volume piuttosto alto da una delle cameriere che intonava il motivetto della canzone trasmessa; fallì anche stavolta.
 
Well it was just too much for me, I found no help in talking
Who can show me where to go, I have to keep on walking  

And you're the only one in my mind

Perché non gliela consegni di persona?
Lily stava respirando la sua stessa aria in quel momento. Data l’ora, doveva essere appena arrivata alla stazione di Farringdon: poteva quasi immaginarla camminare per le vie babbane con la musica nelle orecchie, diretta verso il San Mungo. Gli aveva spedito sufficienti foto per poter ricostruire fotogramma per fotogramma la scena.
Camminiamo lo stesso asfalto … e non possiamo vederci.
Io non posso, lei non vuole. Sono sicuro che non vuole. Perché vorrebbe vedermi?
Cercò di sorridere alla piccola cameriera che gli servì la colazione, ma ottenne solo di farla scappare terrorizzata; Milo diceva sempre che la sua faccia era arcigna quando era troppo pensieroso.
Grazie tante. È la mia espressione, non posso controllarla.
 
“Ehi … non ci posso credere. Ma sei tu Sören?”
 
Si ghiacciò sul posto,sentendo una voce maschile, giovane e con un forte accento straniero, chiamarlo. Perché era ovvio che chiamasse lui; a Londra quante persone ci potevano essere che rispondevano a quel nome?
Serrò le dita sulle gambe, ispirando appena e alzando lo sguardo. Sgranò gli occhi quando collegò di colpo la voce ad un viso. Un viso che conosceva bene.
“ … Radescu?”
 
****
 
Note:

Yep, finisco così perché sono stronza, e perché vi avevo detto che il buon Dionis sarebbe tornato alla ribalta. ;D
Capitolo dove sostanzialmente non succede una mazza, ma ci sono taaaanti flashback. Non sono proprio convinta della successione delle scene, ma spero di aver fatto un buon lavoro – più che altro, che sia riuscita a spiegarvi i missing years.


ATTENZIONE: La bravissima Agnes Dayle ha dedicato un fan video alla mia saga. Godetene tutti (se non l'avete già fatto su effebbì).
Qui la canzone del capitolo, e qua quella che sentono sia Lily che Ren (che ovviamente non è dei Banshees né di mia invenzione, ma degli adorabili 77 Bombay Street).
 
Per l’esecuzione di Milo, invece, proprio una parentesi. Vi passo l’interpretazione che ne ha dato l’immenso David Oistrakh. La meraviglia. È l’ultima sonata che Debussy ha composto ed eseguito (nella parte del pianista) ed è nota per la sua brevità – tutti e tre i movimenti eseguiti assieme non durano più di un quarto d’ora.
 
1.Zaubergamot: traduzione in tedesco di Wizengamot.
2. Pece: non la pece che ci si può immaginare. In realtà è una resina ricavata dalla distillazione delle trementine, nota anche con il nome di colofonia. Viene utilizzata per ottenere l'attrito dell'archetto sulle corde degli strumenti ad arco. Il violinista la sfrega sui crini prima di suonare ed è buona regola, secondo alcune scuole di pensiero, toglierla dalle corde del violino dopo che si è finito, visto che ne rimangono impregnate. Milo è di quella scuola. ;)
 

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII
 

 
 
All these years later and it's killing me
Your broken records and words
Don't need convincing at all
I love this place enough to have no doubt
(Take Back the City, Snow Patrol)
 
22 Giugno 2028
Inghilterra, Bambury.
Casa Flannery. Mattina.
 
Megan Reilly in Flannery era una donna di buon senso; non si era mai lamentata del lavoro del marito, mai una volta che avesse fatto rimostranze per i mancati compleanni o i ritorni ad ore antelucane, come mai si era permessa di suggerirgli di lasciare un lavoro che dava l’inquietante diritto ad un letto prenotato al San Mungo. Sapeva che William amava stare in prima linea, e che stare ancorato ad una scrivania l’avrebbe fatto soffrire più che ogni altra cosa al mondo.
Detto questo, era ben felice quando aveva la possibilità di tenerselo a casa, anche per malattia.
Detto questo, era maledettamente preoccupata. Aveva passato due giorni a cambiare lenzuola zuppe di sudore, a sentirlo respirare male, come se avesse qualcosa che gli ostruiva la gola. Una banale febbre non faceva questo. Una banale febbre non alzava la temperatura come se dovesse bollire il corpo, più che estirpare un virus, e non faceva delirare come se si vedessero mostri invisibili.
Non era una Guaritrice, e mai lo sarebbe stata, ma se c’era una cosa che aveva, quella era il buonsenso. Quindi quando quella mattina non aveva visto miglioramenti aveva spedito un Gufo al San Mungo chiedendo l’intervento di un Guaritore a domicilio.
“È da ieri notte che non riesco a fargli dire una parola sensata … La febbre è molto salita, e sembra che gli Incantesimi Decongestionanti non gli facciano nulla, anzi! Credo sia peggiorato.” Spiegò al mago in camice che le era appena spuntato dal camino.
“Va bene, Signora, capisco. Il paziente?” Replicò quello con aria efficiente.
“Da questa parte.” Replicò sollecita, ben grata che anche quel servizio fosse coperto dal contratto del marito; far venire un camice verde fin casa costava molto.
E non voglio chiedere certo ai ragazzi un prestito … Se solo Liam avesse accettato quella promozione. Certo, sarebbe stato un lavoro da scrivania, ma anche Galeoni in più.
Aprì la porta della camera e attese fuori; il medico aveva bisogno del suo tempo per fare una diagnosi e lei certo non avrebbe contribuito alla faccenda.
Se avrà domande verrà a farmele, io ho una casa da mandare avanti.
Fece per tornare al piano di sotto quando il Guaritore uscì fuori dalla porta e la chiuse rapidamente alle sue spalle.
“Che succede?” Chiese allarmata.
L’uomo aveva un cipiglio confuso, ma indubbiamente preoccupato. “Signora, credo sia il caso di chiamare l’Unità Trasporto Medimagico. Non sono in grado di curare qui suo marito. Dobbiamo portarlo subito al San Mungo.”

 
****
 
 
Londra, Diagon Alley
Il Paiolo Magico, mattina.
 
“Ehi, non ci posso credere, ma sei tu Sören?”

Di tutte le persone al mondo che avrebbe creduto di poter incontrare a Londra, Dionis Radescu era decisamente una delle ultime. Eppure eccolo lì, in carne e bacchetta, esattamente come ricordava di averlo lasciato cinque anni prima in una sala gelida di Durmstrang.

Aveva un atteggiamento rilassato e genuinamente sorpreso ed era piuttosto ovvio che non fosse più l’allievo inquadrato e marziale di un tempo, eppure dietro i cambiamenti fisici vedeva ancora la cortesia decisa di un tempo.
Cortesia che gli si stava palesando ma a cui lui non aveva ancora risposto. Si alzò quindi in piedi per stringergli la mano cercando al tempo stesso di sorridere senza sembrare afflitto da paresi. “Dionis, quanto tempo.” Lasciò scivolare la lingua nei suoni familiari della sua lingua madre, sperando che l’altro non l’avesse abbandonata assieme all’uniforme e al taglio di capelli. “Non sapevo fossi a Londra.”
“Nemmeno io sapevo lo fossi tu.” Replicò in un perfetto, confortante tedesco, prima di lasciargli la mano – la stretta era ancora risoluta come un tempo.

Poi Sören registrò la frase ed andò letteralmente nel panico.
No che non lo sa. Perché non lo sa nessuno tranne gli Auror. Perchè non deve saperlo nessuno.
L’altro dovette accorgersi del suo pallore – perché era impallidito, se lo sentiva – e assunse un’aria imbarazzata. “Sei qui in incognito? Indagini?”
Battè le palpebre sbalordito; come sapeva che stava svolgendo delle indagini?
… razza di idiota, è ovvio che lo sappia. Lilian sa che sei un agente, quindi molte sue cugine sanno che sei un agente. La sua cugina preferita è Roxanne.
Con chi si è sposata Roxanne l’anno scorso?
Con il ragazzo che gli stava di fronte, ecco con chi. Non ricordava le circostanze in cui Radescu aveva incontrato la cugina prediletta di Lily – anche se gli sembrava c’entrassero i Mondiali di Quidditch tenutisi in Romania qualche anno prima e un colpo di fulmine repentino - ma ricordava sin troppo bene le infinite lettere di Lily pre-matrimonio; avendo ricoperto il ruolo di damigella d’onore aveva quasi rischiato un tracollo nervoso a causa dei molteplici impegni che si era dovuta e soprattutto voluta assumere. 
“Sì, è per un caso di giurisdizione congiunta con il Ministero britannico.” Sorrise cercando di rilassare i lineamenti per non sembrare un completo manichino, o peggio, colpevole di qualcosa. Assumere un atteggiamento sfuggente non avrebbe aiutato. “Temo però di non aver usato accortezza scendendo a colazione in un luogo pubblico.”
“A quest’ora non viene quasi nessuno qui.” Si strinse nelle spalle l’altro mago. “Io sono di passaggio per mangiare un boccone prima di andare in Accademia. Lily ti ha detto che insegno all’Accademia Nazionale dei Duellanti? Vi scrivete, no?”

Confermò con un cenno della testa, facendogli cenno di sedersi. “Ho appena ordinato la mia colazione, vuoi unirti a me?” Chiese come se fosse cosa che facevano abitualmente.
E non è così.
Dionis anche se sembrò stupito dalla sua proposta, si sedette comunque, togliendosi il mantello e consegnandolo alla cameriera apparsa dietro di loro. Sören notò che portava tracce di polvere volante sulle spalle.
Ha usato una Passaporta, forse per questo non ha fatto colazione a casa … È appena tornato da qualche altro posto.
Forse era sciocco dedurre una cosa tanto banale, ma lo aiutava a tenere la mente occupata.
“Sai, non avrei mai pensato di vederti ancora.” Disse il rumeno interrompendo il silenzio creatosi. “So più o meno cosa ti è successo dopo la morte di tuo zio, dato che Lily ha raccontato a Roxie molto della tua storia. Non tutto, ma molto.”
Sören non seppe cosa rispondere, quindi pensò ad una frase di circostanza; aiutavano quando si supponeva dovesse dir qualcosa. “Tra marito e moglie immagino non ci siano segreti.”
Dionis lo guardò perplesso, prima di sorridere. “Tra me e Roxanne non ci sono segreti, è vero, ma le tue vicende non sono state esattamente materiale da tener nascosto. Mi ha fatto molte domande su di te, quando ha scoperto che ti avevo conosciuto … Credo fosse per sincerarsi che la corrispondenza tra te e Lily non fosse…” Esitò, assumendo un’aria imbarazzata.

“Dannosa?” Lo anticipò non particolarmente turbato; immaginava fosse quello che si erano chiesti tutti quando era cominciata. Non che gli fosse mai importato.
Mi importa solo dell’opinione di Lilian. Non è quella che conta?
“Sì.” Annuì il rumeno. “Comunque l’ho rassicurata delle tue intenzioni.” Gli fece un sorriso incomprensibilmente amichevole.
Come fai a sapere che sono oneste? Come fai a dedurlo data la mia storia personale? Ti ricordi cos’ho fatto? Perché mi sorridi?
“Ti ringrazio.” Si risolse a dire, prima che arrivasse la cameriera con le loro ordinazioni a risparmiarlo dall’imbarazzo di cercar di articolare qualcosa di più significativo.
Cerca di capire se può tener il becco chiuso con Lily. È questo che ti interessa!
Non era solo quello in realtà; Radescu era stata una singolare presenza nella sua vicenda personale durante il Torneo Tremaghi. Diversamente dagli altri allievi non era mai stato ostile, né l’aveva ignorato come se fosse aria. Aveva anzi cercato di stabilire un contatto, di capire le sue motivazioni dietro gli ordini di suo zio e infine era stato un prezioso alleato – in altro modo davvero non poteva definirlo.
Non l’ho mai ringraziato per avermi aiutato …
“Sei ancora di poche parole, vedo.” Ridacchiò il rumeno strappandolo alle sue riflessioni. “Devo dirlo, non mi sembra passato che un giorno da quando ci siamo visti l’ultima volta.” Aggrottò le sopracciglia, poi scosse la testa. “O meglio, sei cambiato, si vede. Sei più sereno. Ma parli sempre poco.”
“Tu invece sei diverso.” Replicò di getto, sentendosi fuori luogo subito dopo. Forse non era la cosa giusta da dire, forse poteva esser vista come un insulto. Come si supponeva dovesse approcciarsi a situazioni simili? Non gli era ancora capitato di rivedere qualcuno del suo passato in quei cinque anni.

Non ci sono poi molte persone del mio passato che avrei piacere di rivedere. Comunque la maggior parte sono morte, o in fuga o in prigione.
Radescu in compenso annuì, sempre con quell’aria divertita che non ricordava di avergli mai visto addosso; ma forse, riflettè, era la situazione in cui l’aveva conosciuto a non esser stata particolarmente divertente. “Sì, è naturale che lo sia.” Diede un sorso al suo caffè. “Mi sono diplomato, mi sono sposato e vivo e lavoro sotto un Ministero diverso…” L’espressione si addolcì e Sören pensò che nonostante tutto, quella cinestetica gli si addiceva. “… e poi sto per diventare padre.”
Forse è questo il vero Dionis?
Registrò la frase e se ne stupì prima di ricordare che Lily gli aveva accennato al fatto che sua cugina fosse incinta. Era difficile ricordare tutti gli input che l’altra gli dava in ogni lettera. “Sì, ricordo.” Mormorò tentando disperatamente di richiamare alla memoria la frase adeguata da pronunciare in quell’occasione. “Congratulazioni?” Tentò speranzoso.
“Grazie.” Doveva andar bene a giudicare dall’espressione compiaciuta dell’altro e quindi si permise di tirare un sospiro di sollievo. “Comunque a proposito di cambiamenti… Lo ribadisco, ne hai fatti anche tu.” Sembrò esitare di nuovo passando ad una postura un po’ rigida, che glielo ricordò adolescente e impettito. “Sono contento che tu sia uscito fuori da quella situazione e tu abbia avuto modo di riscattarti.” Sembrava in imbarazzo, ma parlava con fermezza. “Ho sempre pensato che fossi migliore delle persone per cui lavoravi, e sono felice di non essermi sbagliato.”
Onesto e schietto. Decisamente due aggettivi che gli si addicono. Non è questo che Lily dice abbia conquistato sua cugina?
Sören si concentrò sulla propria colazione per evitare che la piccola bolla di calore che gli era esplosa nel petto raggiungesse il viso e lo palesasse come commosso. Non era il genere di esternazione da fare di fronte ad altri uomini, a parer suo. “Ti ringrazio.” Replicò nel suo miglior tono cortese. “Ne sono felice anch’io.”
“Bene, lo siamo entrambi.” Ironizzò il rumeno prima di dare qualche forchettata al suo piatto. “Quanto rimani?” Chiese poi. “Perché potresti venire a cena da me e Roxanne una sera di queste.”
No, assolutamente no.

Aspettò di bere prima di parlare, dato che si sentiva la bocca desertificata dall’ansia. “Ti ringrazio, ma temo di esser costretto a declinare. Non resterò molto…” Almeno nelle sue intenzioni. “… ed a questo proposito, la mia presenza qui non è stata…” C’era un modo per dirlo senza che suonasse malissimo? “… segnalata.”
No, non c’è.
“Vuoi dire che Lily non lo sa?” Ricordava fosse un tipo pronto di mente, ma non fino a quel punto. Con terrore si accorse peraltro che l’aria cordiale di cui l’aveva graziato fino a quel momento era stata sostituita dal vecchio cipiglio da allievo.   
“Il mio Capitano ha fatto un accordo con il Capo-ufficio Auror affinchè la mia presenza rimanga nascosta agli occhi della popolazione magica britannica…” La prese alla larga, sperando di dissimulare senza dover apertamente mentire.
“Dell’intera popolazione magica o solo della famiglia del Capo-ufficio Auror?”
Roxanne, a quanto gli aveva detto Lily, era una persona piuttosto critica dell’autorità costituita. Era quindi probabile che avesse raccontato al neo-marito di una certa tendenza del Salvatore dei Due Mondi a dettar legge.
Che è quello che ha fatto, alla fine. Ha dato il permesso di farmi venir qui solo a condizione di non entrare in contatto con Albus Severus, Thomas e Lily.
Poteva capire quella decisione, e in linea di massima la appoggiava dato che non si sentiva assolutamente pronto a rivedere il fratello maggiore dell’amica e soprattutto suo cugino.
Però… preferirei morire che far loro del male. Lo ha capito questo?
“Sì, Lily non lo sa.” Tagliò corto. “Ed è meglio così. Visti i nostri trascorsi è meglio evitare contatti.”
“Scusa se ti interrompo.” Lo fermò perplesso. “Ma voi avete già dei contatti. Vi scrivete.” Si passò una mano trai capelli. “Sinceramente non capisco.”

Sören non seppe cosa ribattergli; una parte di sé sposava in pieno le parole del mago che faceva colazione accanto a lui, e urlava oltraggiata che non era giusto.
Ho fatto tanto per diventare la persona decente che avrei dovuto essere. Che tu  e solo tu credevi potessi essere. Perché non posso mostrartela Lily?
Un’altra parte invece aveva il terrore che l’altra, sapendolo a Londra, non volesse vederlo. Che non si sentisse pronta come invece lo era lui, o semplicemente che non ne avesse voglia.
Era tutto lì infondo; non c’era nient’altro capace di dargli tanta ansia.
Dionis fraintendendo la sua espressione assunse un’aria imbarazzata. “Perdonami.” Scosse la testa. “Non sono affari miei.”
“È complicato.”
“Lo capisco.”   
“Lo hai sempre fatto.” Replicò alzando la testa dalla contemplazione delle sue personali miserie. “E non ho mai capito perché.”

Il rumeno lo fissò attentamente, poi sorrise. “Te lo dissi, no? So riconoscere un guerriero quando ne vedo uno e tu lo sei sempre stato.”
“Cosa significa?” Doveva chiederglielo dato che era sempre stato un tarlo nello strano rapporto che si era creato tra loro durante il Tremaghi.
Radescu assunse un’aria sorpresa, poi ridacchiò. “Sì, immagino di dovermi spiegare meglio … allora mi era difficile, anch’io avevo i miei limiti. Non era facile essere un allievo a Durmstrang.” Si girò la fede attorno all’anulare con aria meditabonda, quasi fosse al momento il centro dei suoi pensieri. “Quello che non potevo dirti, forse perché non ero sicuro che fosse vero, è che ti vedevo, in un certo senso, come un mio pari ed era questo che intendevo per guerriero. Una persona che combatte, come combattevo io.” Fece una pausa continuando a rimirare l’anello. “Ero un ragazzo molto solo. Le persone che mi stavano affianco miravano a tirare acqua al proprio mulino, o nelle ipotesi peggiori, a tentare di distruggere il mio per alimentare il loro. Il mio unico desiderio era uscire il più presto possibile da lì, con la testa alta e il mio codice morale intatto.”

“L’hai fatto.” Gli uscì di getto. “Sono certo che l’hai fatto.”
Simile … Mi considerava un suo simile?
Il rumeno annuì con aria perfettamente seria. “Ed è stata dura. Non compromettermi mai, essere il primo senza per questo dover calpestare una pila di corpi sotto di me. Non avevo amici, e pensavo che oltre a me, nessuno capisse quant’era difficile mantenere il proprio spirito quando tutto cospirava per piegarlo.” Lo guardò dritto negli occhi e Sören fu felice di non sentire più l’impulso di doverli abbassare come un tempo. “Tu eri come me. Oltre ciò che si diceva, oltre ciò che ti ordinavano di fare, lottavi. Per questo, un guerriero.”
Il mio codice morale … L’ha visto. Mi ha visto, come Lily.

“Ho risposto alla tua domanda?” Gli chiese e stavolta Sören trovò perfettamente inutile tentare di nascondere la commozione.
“Sì.” Ci doveva essere una formula per ringraziare che non fosse sterile come quella che si usava di solito, anche se ovviamente lui non la conosceva e non aveva mai pensato di chiederla a Milo o a Estevez. Tentò. “Anch’io ho pensato cose simili di te e… mi sarebbe piaciuto esserti amico.”   
Radescu non sembrò troppo perplesso dalle sue parole, anzi annuì tranquillamente. “Siamo ancora in tempo. Sarebbe un’onore per me esserti amico, Sören.” Gli tese la mano, in una gestualità che era incredibilmente simile alla sua.

Allora i miei modi di fare non sono alieni come Milo millanta sempre che siano. Dovrò farglielo notare.
Gliela strinse, sentendosi sorridere. Chissà se era normale, per gli altri, avere la percezione di farlo o era per loro una contrazione automatica della muscolatura che corrispondeva ad un’emozione?
Questa sarebbe una domanda per Lily. Se poi non dovessi raccontagli come hai incontrato Radescu.
Vedendo la sua espressione rabbuiarsi, l’altro sciolse la presa e lo scrutò perplesso. “C’è qualche problema?”
“Lily.” Non c’era molto che potesse nascondere a chi praticamente sapeva già molto della situazione. E poi, forse, avrebbe potuto aiutarlo.
Milo di certo non aiuta, dimenticandosi di imbucare le lettere e facendo inadeguata ironia.
“Già, Lily.” Replicò l’altro con un sospiro. “Non credo che se scoprisse che sei qui ne sarebbe contenta.”
Era quello che immaginava, ma sentirselo dire in faccia fu come essere preso a pugni quando era già malconcio. “Lo penso anche io.” Inspirò. “Scrivermi è una cosa, vedermi dal vivo…”
Radescu sgranò gli occhi, fermandolo con una mano. “No, mi hai frainteso.” Scosse la testa. “Non intendevo dire che non vuole vederti. Certo, non sono nella sua testa, ma sono sicuro che il problema non sia quello, quanto piuttosto il fatto che glielo stai tenendo nascosto.”   

“Sì, immagino potrebbe non piacerle…”
Potrebbe non piacerle?” Ripetè inarcando le sopracciglia sbalordito. Per un attimo lo guardò con quello che sembrava proprio compatimento, e poi fece un grosso sospiro strofinandosi al tempo stesso il pollice sulla fede nuziale. “Non mi ritengo un’esperto dell’universo femminile, ma ho sposato una donna che viene definita Weasley, prima che con il suo nome di battesimo. E credimi.” Lo sguardo di compatimento tornò in tutto il suo disagiante splendore. “Il problema, con loro, non è aver fatto qualcosa di sbagliato. Ma non averglielo detto.”

 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Foresta Proibita. Mattina.

 
Sembrava che la Foresta Proibita non considerasse l’estate come una stagione degna della sua attenzione.
Ted si strinse alla leggera giacca che aveva incautamente deciso di indossare per addentrarsi fino al territorio dei Centauri, e lanciò un’occhiata empatica a Nevile, altrettanto poco vestito e altrettanto infreddolito.

“Avremo dovuto aspettarcelo … Con tutti questi alberi, quando mai qui batte il sole?” Sospirò l’uomo serrandosi le braccia al petto. “Sono in momenti come questo che vorrei prendere una casa in Italia, o non so, nel Sud della Francia!”
“Non so dirti molto sull’Italia, ma il Sud della Francia non è così mite come si pensa.” Replicò osservando le macchie di luce illuminare scarsamente il sottobosco di fronte a loro. “Caraibi. Albus c’è stato per studio ed ha detto che è tutto baciato sole.”
“Che meraviglia!” Sospirò Neville alzando gli occhi al cielo. “Qua invece siamo sempre preda della pioggia. Spero solo che il tempo regga fino alla festa di Frankie.”
Ted sorrise; Frank Junior era l’ultimogenito dell’amico e compiendo a Luglio il suo primo anno di vita, la famiglia Paciock stava organizzando per lui una festa che si prometteva grandiosa. “Sono certo che reggerà, Nev.” Lo rassicurò. “E anche se fosse, sarà bello festeggiare anche al chiuso.”
“Non sai come sono i miei figli, Ted.” Ridacchiò l’uomo. “D’estate non deve piovere, e se piove in qualche modo è un’ingiustizia insanabile.” Si ficcò le mani in tasca, evitando per un pelo di calpestare una radice, in cui lui invece platealmente inciampò. “Essere padre ti fa sentire colpevole anche dei fenomeni metereologici, credimi.”
“Ci credo.” Ridacchiò occhieggiandosi attorno. A giudicare dalle orme di zoccoli sul sentiero che si snodava in mezzo all’incolta vegetazione e alle frecce piantate a mo’ di avvertimento su alcuni tronchi dovevano essere ormai entrati nel territorio dei Centauri; Fiorenzo sarebbe venuti a prenderli in un punto convenuto che stavano rapidamente raggiungendo.

Speriamo sappia dirci qualcosa di risolutivo, così la smetteremo con questa ridicola faccenda dei Mannari.
“Hai mai pensato di diventare padre?”
Ted inarcò le sopracciglia, sorpreso dalla domanda, che per quanto non fosse fuori contesto – avevano parlato di figli fino a poco prima – era comunque bizzarra. L’amico stava guardando assorto un Billiwig volteggiare nell’aria coloratissimo e sembrava averlo detto tanto per far conversazione.
“Beh, non saprei.” Ammise senza rifletterci molto. “Certo, quando stavo con Vic avevo anche considerato la cosa … Sposarmi, avere una famiglia era ciò che avevamo deciso di costruire.” Scosse la testa. “Naturalmente adesso la situazione è cambiata.”
Neville aggrottò le sopracciglia. “Beh, quello con James è comunque un rapporto stabile, no?”

Ted inarcò le sopracciglia, sempre più sbalordito. “Sì … ma siamo due uomini.” Sottolineò il concetto. “Per quanto la magia abbatta molte barriere fisiche non credo possa farci avere figli. Non ho mai letto niente in merito.”
E non penso neanche di voler sapere se esiste un metodo e come funziona.   

Neville si strinse nelle spalle. “È vero, ma si può sempre adottare. Ti ricordi Ernie, vero?”
“Certo.” Ricordava soprattutto l’imbarazzantissima conversazione avuta con l’uomo in merito alla propria sessualità anche se mascherata da innocenti consigli pedagogici.
Tranne quando alla fine mi ha detto apertamente che il professor Fetchley mi trovava attraente.
Non sono più riuscito a guardarlo in faccia da allora.
“Beh, lui e il marito hanno adottato una bambina, Sarah. Nel Mondo Babbano purtroppo credo si stia ancora combattendo per permettere alle coppie gay di avere figli, ma nel Mondo Magico il problema non si è mai posto … Si racconta che Tosca Tassorosso fosse stata cresciuta da due donne druido.”
“Sì, lo so, ma…” Certo, avere una famiglia era sempre stato un suo desiderio, però…

“Tu e James siete ancora giovani, è normale che non vi sia ancora venuto in mente.” Gli venne in soccorso il vecchio amico, con la consueta espressione pacifica. “Non volevo turbarti.”
“Non l’hai fatto.” Non era turbamento quello che provava, decise, quanto piuttosto sorpresa. Aveva davvero dimenticato quel desiderio?  
Eppure era una priorità tirarlo fuori quando io e Vic parlavamo di futuro…

Forse era quello; lasciandola lo aveva sepolto una volta per tutte, perché non aveva mai creduto di poter trovare un’altra donna con cui desiderare una famiglia.
Infatti ho trovato un uomo.
“Teddy, senti, lascia perdere quel che ho detto.” Neville lo strappò alle sue riflessioni con aria dispiaciuta. “È stata una domanda importante fatta con leggerezza.”
Lo era stata, ma supponeva che prima o poi se la sarebbe fatta da solo; non desiderava più dei figli dunque?
No, non è questo.
Ted non si considerava un tipo dalle decisioni fulminee; non era un idiota, ma aveva bisogno di tempo per affrontare argomenti di quella portata e tirare le somme per raggiungere una conclusione.
Ho davvero smesso di volere figli? 
Un rumore di rami spezzati cancellò le sue riflessioni facendolo voltare in allerta; Fiorenzo era in mezzo alla radura che avevano appena sorpassato e presi dalla conversazione né lui né l’altro mago l’avevano sentito arrivare.
“Neville, Ted.” Li salutò con la consueta calma serafica. “Benvenuti. Spero non sia stato troppo difficoltoso arrivare fin qui.”
“No, affatto.” Gli sorrise reprimendo un brivido di freddo. “Ti ringrazio per averci ricevuto.”
“Vi ringrazio per aver rispettato il mio desiderio di non allontanarmi dal branco.” Replicò guardando un punto distante tra di loro e Ted immaginò che altri Centauri li sorvegliassero dal folto del bosco; che fossero colleghi con il compagno probabilmente aveva poca importanza.

Non è affatto inquietante. Proprio per niente.
“Nessun problema.” Scrollò le spalle Neville. “Ti abbiamo spiegato la situazione tramite Gufo, vero? Qualcuno di voi ha visto o sentito qualcosa che possa far pensare che un branco di Mannari si sia stabilito da queste parti?”
“L’unico branco esistente in Gran Bretagna mi è stato detto sia ben lontano dalla Scozia.” Replicò il Centauro e Ted trattenne l’impulso di esclamare un liberatorio ‘te l’avevo detto’. “Tuttavia…”
Tuttavia?

“Tuttavia?” Ripetè ad alta voce.
“Abbiamo interrogato gli altri residenti della Foresta. C’è una presenza, qui che prima non c’era.” Spiegò la creatura fissandoli con gli enormi occhi zaffiro. Non sembrava particolarmente preoccupato, ma era difficile leggere nella testa di un Centauro. “Non sappiamo dirvi però se sia un Mannaro. Si muove di notte, e si sposta verso Hogsmeade. Si nasconde ben lontano dal nostro territorio … Credo che abbia vissuto a contatto con alcuni di noi, perché sa come rendersi invisibile persino ai nostri occhi.”
“Quindi è dotato di raziocinio.” Realizzò Ted. “Potrebbe essere un Mannaro.” Ammise suo malgrado, scoccandosi un’occhiata con l’altro mago.” Perdono la ragione soltanto durante il Plenilunio.”
“Potrebbe.” Concesse Fiorenzo con un sospiro. “Quello che è certo è che ha disturbato gli equilibri della Foresta, e questo al branco non piace.”

“Ma se fosse un essere umano…” Ted inspirò leggermente, cercando di radunare le idee il più velocemente possibile. “Sono state trovate delle orme?”
“No, come ho detto, è abile a nasconderle. È qualcuno che ha già vissuto in una foresta.”
“Le foreste del Galles sono simili a queste.” Intervenne Neville meditabondo. “Potrebbe davvero trattarsi di un Mannaro. Perché è uno, Fiorenzo?”

“Questo è molto probabile.” Il che, nel linguaggio dei Centauri, era praticamente una certezza.
Okay, prendiamo per buono il fatto che lo sia. Una sola volta al mese però. Il resto del tempo è umano, e solo.
Se lo trovassero i Centauri…
Non tutti nel branco di Fiorenzo avevano un atteggiamento aperto verso gli esseri umani, specialmente dotati di poteri magici. Certo, con gli anni e la mediazione del docente di Divinazione erano diventati più tolleranti, e lo dimostrava il fatto che avessero avuto il permesso di entrare nel loro territorio, ma…
Ma un invasione in  quella che considerano la loro foresta … No, potrebbe non finir bene. Tra i Mannari e i Centauri poi non è mai corso buon sangue.
“Il Plenilunio sarà tra una settimana.” Esordì nel silenzio che si era creato. “Quella notte sarà più difficile che passi inosservato.”
“Immagino di sì.” Convenne Fiorenzo scutandolo attentamente. “Tuttavia devo sconsigliare l’intervento del Ministero. Come sapete il nostro territorio è auto-amministrato.”
I nostri problemi ce li risolviamo da soli. Chiarissimo.

“Non parlavo di chiamare il Ministero, ma se potessi chiedere al tuo capobranco di aiutarmi a trovare il Mannaro per portarlo via dalla Foresta te ne sarei grato. Sarò solo io, nessun ministeriale.” Ignorò l’occhiata sbalordita di Nev dato che non poteva pretendere che capisse al volo il repentino cambiamento di programma.
Avevo detto che non volevo aver nulla a che fare con questa storia, è vero, ma non si sta parlando un branco. Si sta parlando di un individuo solo e forse spaventato. 
Era suo dovere in quanto docente di Hogwarts, Magizoologo dilettante e soprattutto, di figlio fare tutto il possibile per aiutare la persona che quella creatura era per la maggior parte del tempo.
Fiorenzo rimase a lungo in silenzio – il che non era precisamente una novità – prima di annuire, facendo balugginare i lunghissimi capelli bianchi alla poca luce che filtrava dalle fronde. “Ne parlerò con Magnus.” Ovvero il Capobranco. “Vi farò arrivare la risposta via Gufo.”
“È quello che speravo, grazie Fiorenzo.” Si strinsero la mano e poi non restò loro che accomiatarsi.

Quando furono ben addentrati nella via del ritorno, Neville finalmente parlò. “Non vorrai affrontare un Licantropo da solo, vero?”
“Se Magnus mi concede il suo aiuto non sarò solo, ma circondato da Centauri armati. Sono le creature più letali che si possano trovare in una foresta magica, persino più delle Acromantule, quindi non correrò grossi rischi.” Sospirò. “Non posso chiederti di venire con me, Nev … non sarebbe sensato.”
“Sì, ma sarebbe amichevolemente corretto.” Replicò con un sorriso. “Avanti, lasciami fare il Grifondoro.”

Ted rise. “Questo dovrebbe convincermi?”
“Se dici pericolo, dici Grifondoro!” Replicò con un guizzo divertito negli occhi. “Avanti, regala un po’ di brivido a questo monotono padre di famiglia!”
Avendone uno in casa e conoscendo la testardaggine insita nel dna di chi aveva indossato rosso-oro, non potè far altro che allungargli una pacca sulla spalla e annuire.

“Però lo dici tu ad Hannah.”



****
 
Ministero della Magia. Ufficio Auror.
 
Sören tirò un profondo respiro prima di varcare le grosse porte dell’Ufficio Auror. Anche quella mattina, sarebbe stato solo ad affrontare una torma di demoni dal passato, con il solo aiuto del suo buonsenso e della sua capacità di controllare le proprie emozioni.
Ho affrontato ben di peggio. Posso farcela.
Passò le dita sull’uniforme, stirandola con un leggero strattone e poi scivolò tra la fila di cubicoli, più o meno occupati da insonnoliti Auror che tra la lettura dei propri rapporti e il bere caffè si stavano preparando ad una giornata di attività. Quando finalmente individuò una testa biondissima capì di aver trovato il box giusto e vi si avvicinò.
Scorpius Malfoy era seduto all’unica sedia presente e stava terminando di scrivere qualcosa, dandogli le spalle. Sentendolo canticchiare a bassa voce e non sapendo come approcciarsi dato che sembrava non aver notato la sua presenza, si schiarì la voce.
“Ehi, Prince.” Sorrise voltandosi e palesando il fatto che invece l’avesse sentito arrivare. “Buongiorno!”
“Buongiorno.” Replicò ringraziando silenziosamente Merlino in persona di non averlo fatto accogliere da James Potter; Malfoy sembrava meno indisposto nei suoi confronti.

Forse lo disgusto in ugual misura, ma quantomeno è civile.
Non per usar razzismo, ma secondo me una certa forma mentis Purosangue aiuta.
“James e Bobby devono ancora arrivare. Nel frattempo posso offrirti qualcosa da bere? Un caffè?” Chiese il ragazzo, arrotolando la pergamena e facendovi colare sopra della ceralacca prima di imprimervi il sigillo del Ministero che trovò frugando tra la marea di ciarpame che infestava la scrivania. Sören osservò quelle operazioni tra il curioso e il sottilmente divertito.
Anche Estevez ha la stessa incapacità di tenere in ordine la postazione…
Poi si ricordò di rispondere, dato che l’altro lo guardava in aspettativa. “No, ti ringrazio. Non bevo caffè.”
“The allora?” Sembrava studiarlo, ma senza l’aperta acrimonia di cui l’avevano omaggiato i Potter durante la visita del giorno prima.

“Non disturbarti…”
“Nessun disturbo, lo faccio anche per me.”

“The allora.” Convenne non sapendo bene cosa fare di se stesso. Non c’era sedia su cui si potesse sedere così si limitò a rimanere accanto ad uno degli stipiti mentre l’altro spariva, probabilmente diretto verso la piccola cucina dell’ufficio – ne avevano una anche a Boston.
Per ingannare il tempo alzò lo sguardo verso il soffitto, ammirando come fosse incantato per riflettere una cartina luminosa dell’Inghilterra. I punti con più attività magica erano contrassegnati da piccole fiamme viola.
“Ecco qui.” Lo sorprese Malfoy scivolandogli accanto senza far rumore. Ne fu sconcertato, dato che non era facile coglierlo in fallo in quel modo. Quasi gli avesse letto il pensiero, l’altro mago fece un sorrisetto allungandogli la tazza bollente. “Spero di non averti spaventato!”
“No.” Replicò cercando di non suonar stizzito, anche se l’impulso fu forte. “Stavo guardando il vostro soffitto.”

“Forte, vero?” Annuì sorseggiando il suo the e alzando lo sguardo. “La prima settima che ero qui l’ho passata con il naso per aria. Devo ammettere, distrae persino di più di quello di Hogwarts.”
“Quello di Hogwarts ha una magia più complessa dietro, specialmente alla luce del fatto che sia stato incantato secoli fa.” Replicò.
Malfoy parve sorpreso. “Anche tu hai letto Storia di Hogwarts? Pensavo fosse un flagello riservato solo agli studenti inglesi.”
Sören annuì. “È stata una lettura interessante, e poi mi è …” Si bloccò realizzando la frase infelice che stava per pronunciare. “… servito.” Terminò rassegnato, sentendo un maglio artigliargli le viscere.
Per il mio compito. Per non essere impreparato ad interpretare Sören Luzhin.
“Io l’ho sempre trovato un libro noiosissimo.” Gli venne incredibilmente in soccorso l’altro. “Penso di non esser mai andato oltre le prime venti pagine, per quanto la mia ragazza non me l’abbia mai perdonato.”
Stavano parlando del più e del meno, realizzò sgomento. Scorpius Malfoy si stava sforzando di avere una conversazione con lui. La sorpresa gli fece quasi scottare la lingua quando prese un secondo sorso.
“So che vi state per sposare.” Era un argomento lieto, quindi supponeva non particolarmente spinoso. “Congratulazioni.”
L’inglese a quella frase si illuminò letteralmente; era sbalorditivo vedere come non avesse problemi a manifestare le proprie emozioni.

Questo non significa che non le controlli. È un Occlumante, lo sento. Lascia trapelare solo ciò che vuole, anche se più che trapelare le fa esplodere.
“Grazie.” Si passò una mano trai capelli corti. “Tra qualche mese sarò un uomo sposato, oltre che innamorato.”
Sorrise appena, pescando nella poca varietà delle frasi fatte che conosceva. “Sei un mago fortunato.”
Gli venne sorriso di rimando. “Sì, lo sono. E tu?”

“Prego?” Gli uscì rigidamente, prima di realizzare che doveva essere una frase fatta quanto la sua. “No, non ho un rapporto stabile al momento.”
“Avuto?”
Sören battè le palpebre, pregando che il rossore non si stesse diffondendo sul suo viso come gli sembrava invece stesse succedendo. “No. Suppongo che si possa dire che il lavoro per me venga prima di tutto il resto.”

Immaginava di doversi aprire per poter instaurare un rapporto quantomeno decente con quelle persone, e comunque Malfoy non sembrava tipo da usare le informazioni dategli come arma. 
Non che lo conosca in alcun modo, ma Lily dice che è una persona corretta.
L’altro mago scosse la testa. “Fai male. Ci vuole un po’ d’amore nella propria vita oltre al distintivo.”
Lo so. Ma non penso di poterlo pretendere.

Non lo disse però, limitandosi a finire il the in silenzio. Quasi a dare uno stop a quella tutto sommato piacevole conversazione, James Potter irruppe nel cubicolo seguito a ruota dal ragazzo di colore che rispondeva al nome di Bobby Jordan.
“Ah, è già qua.” Esclamò come se fosse invisibile o una creatura priva di coscienza. “E tu?” Chiese a Malfoy che si limitò a sorridere urbanamente.
“Arrivo in orario, a vostra differenza. Comunque buongiorno, com’era la colazione da Fortebraccio?”

“Potevi venire anche tu, il Gufo te l’ho mandato.” Replicò l’altro con una scrollata di spalle; Sören riflettè e giunse alla rapida conclusione che quest’ultimo aveva organizzato una colazione doverosamente lunga proprio per farlo aspettare come un idiota, solo, in ufficio.
Era infantile ed irritante, ma la cosa a lasciarlo sorpreso era il fatto che Malfoy avesse boicottato l’intera faccenda.
Lilian te l’aveva detto che è una persona corretta, no?  
Era troppo presto per tirare le somme sul ragazzo accanto a lui, ma non saperlo completamente ostile era comunque un sollievo. “Aspettiamo il Sergente?” Chiese quest’ultimo, grattandosi il tatuaggio sul collo con aria svagata. A differenza di Potter, che ne esibiva due paralleli sul collo e uno che spuntava dalla manica dell’uniforme, sembrava essersi fermato al riprodurre lo stemma di famiglia – lo ricordava perché durante l’infanzia aveva dovuto memorizzare lezioni intere di araldica magica europea.
“No, è ancora in malattia.” Sospirò il moro afferrando una cartella apparentemente a caso dalla pila accanto a sé. Doveva esserci una sorta di metodo in quella follia, perché si rivelò essere quella del caso Howe. “Ci muoviamo da soli anche oggi. Andiamo prima di tutto a parlare con i Mortuari, Gravestone e quelli del turno serale, l’ultimo prima del furto. Vediamo se qualcuno ricorda qualcosa…”
“Perfetto!” Esclamò Malfoy afferrando il mantello e drappeggiandoselo addosso. Di loro, sembrava l’unico a non percepire la tensione dell’ambiente.
E dire che si potrebbe tagliare con un Recido
“Bene.” Fece eco Potter continuando ad ignorarlo come se fosse fatto d’aria. Supponeva fosse il comportamento più disponibile a cui potesse aspirare quindi non se ne lamentò. “Ci muoviamo.”
 
 
****
 
San Mungo, Ultimo piano.
Pausa caffè di metà mattina.

 
“Credo che papà e Jam si siano rassegnati al fatto che ho un ragazzo.”
La frase ci mise un po’ a raggiungere Albus, dato che durante la pausa caffè il fratello scivolava in una sorta di torpore post-adrenalinico; con il Guaritore in carica che si trovava per mentore era sempre sul filo del rasoio e quella mezz’ora era l’unica isola felice della sua mattinata lavorativa.

Povero, povero Albie. Comunque si difende bene … Credo che trami per spodestarlo non appena la vecchiaia darà le prime avvisaglie.
“Davvero?” Esclamò rimediandosi un’occhiata perplessa da Sophia e Achille che con loro stavano dividendo il tavolo della caffetteria. “Perchè?”
“Non sono venuti a rompere i boccini perché dormo ancora da Scott.” Replicò stringendosi nelle spalle e appoggiandosi alla poltroncina per stiracchiarsi a dovere. “O si sono rassegnati, o mi stanno nascondendo qualcosa.”
Al aggrottò le sopracciglia. “Cosa dovrebbero nasconderti?” Sembrava genuinamente confuso, quindi probabilmente non era coinvolto nell’intera strana faccenda del silenzio omertoso del resto della sua famiglia.

Ho provato anche a sondare mamma ieri sera, nella nostra chiamata serale. Niente. Pur vero che mamma ha una faccia di bronzo da paura. Son quelle come lei che rendono inutile il mio dono.
“Non ne ho idea, ma non ti sembra strano? Voglio dire, passi papà che comunque so che pensa che in fondo Scott sia adatto a me, ma Jamie? Sai quant’è rompiscatole…”
Albus scrollò le spalle. “Credo che siano tutti e due oberati dal lavoro. Rosie mi ha detto che la squadra di Jam e Scorpius sta seguendo un caso di un tizio che si è polverizzato in una stanza del Paiolo Magico.”
Polverizzato?” Si inserì Achille. “Merlino, la Magia Oscura è spaventosa!”

Al annuì con aria piuttosto seria; se non lo sapeva lui…  “Sì, per questo penso che non abbiano tempo per indagare su dove dormi.” Finì il suo caffè inondato di panna e altre schifezze dolciastre. “Non è una buona notizia comunque?”
“Lo è, certo!” Ma non le tornavano comunque i conti; forse era troppo paranoica, ovvio effetto collaterale di esserlo stata poco o nulla durante il suo Quinto anno.
Morgana, diventerò come Tom?
C’era poi la faccenda di Sören ad aumentare il suo nervosismo: anche quella mattina aveva atteso inutilmente una sua lettera e aveva quindi finito per scrivere a Nora.
E speriamo che lei sappia dirmi qualcosa.
Rosicchiarono via quel che restava della pausa chiacchierando del più e del meno e, nel caso di Albus, tentando di non farsi coinvolgere nella avances piuttosto palesi quanto inutili della Chang. Saliti in ascensore, Lily rimase in disparte, troppo presa dall’affastellarsi di pensieri per poter serenamente scherzare con gli altri.
E se gli fosse successo qualcosa? Dev’esser per forza successo qualcosa che esula dalla sua routine. E il Gufo non può esser andato perso, se ne sarebbe accorto, paga sempre per la ricevuta di ritorno!
Ecco, sono ufficialmente preoccupata.
Non era un sentimeno nuovo peraltro; da che lo conosceva, sin da quando si era finto Luzhin, Sören l’aveva fatta preoccupare, per quanto in gradi e forme diverse.
Immersa nelle sue riflessioni neppure si accorse dell’ascensore che si aprì in fretta e della barella che entrò come un Bolide all’interno; fu Albus a tirarla indietro e a salutare con un cenno della testa il Guaritore Finnigan. “Sam.” Aggiunse brevemente visto che l’uomo era impegnato nel lanciare incantesimi diagnostici sul paziente che giaceva esanime di fronte a loro.
“Oh, ragazzi!” Sorrise loro distratto. “Come va?”
“È metà mattina … potrebbe andare peggio.” Sorrise Al, prima di abbassare lo sguardo e impallidire di colpo. Lily lo guardò confusa prima di notare quale fosse la causa del suo pallore.
Oh, Merlino.
Disteso di fronte a loro non c’era un paziente qualunque, ma nientemeno che il Sergente Flannery, capo-squadra di James.
“Cosa…” Esalò suo fratello sempre più pallido. “… cosa gli è successo?”
“Non era in servizio.” Lo anticipò l’altro guaritore, intuendo il motivo della sua reazione. “È arrivato da casa.”
Lily sentì un peso sparirle dallo stomaco, sciolto come neve al sole. Strinse brevemente la mano di Al; erano cresciuti in una famiglia di servitori della legge magica, ed erano ovviamente preparati all’eventualità di vedere qualcuno che conoscevano o peggio, con cui dividevano lo stesso sangue, disteso su una delle tante barelle che levitavano per l’ospedale.

Questo non significa che riusciremo mai ad abituarci all’idea.
“Che cos’ha?” Si informò mentre il fratello era occupato a riprendere la capacità di respirare. “Malattia?” Indovinò, considerando che Seamus era il guaritore in carica del reparto Malattie Magiche.
“Stiamo cercando di scoprirlo.” Replicò il mago con il solito tono pratico e rassicurante. “Lo portiamo ai laboratori per delle analisi.” Le mascelle dell’ascensore si aprirono al piano terra e la barella veleggiò sicura verso l’uscita. “Vi tengo informati?”
“Sì, grazie.” Convenne Al tornato al solito, collaudato, tono tranquillo. Aspettò però che i due colleghi fossero distanti prima di parlarle. “Puoi fare una chiamata via Specchio Comunicante a Scorpius? Giusto per…”
“Certo che lo faccio.” Era esattamente la sua intenzione. “Ti trovo al tuo piano?”
“E dove altro vuoi che sia?” Sbuffò. “Segui le urla di Smeth, io sarò lì.”

Lily annuì, prima di abbracciarlo stretto e assicurarsi che l’altro ricambiasse. “Bello spavento, eh?”
“Salazar, se odio il mestiere di Auror…” Borbottò prima di lasciarla andare. “Fammi sapere.”
“Contaci!” Lo salutò con la mano e si assicurò che prendesse l’ascensore prima di lasciare andare un lungo sospiro.

Era un po’ che non avevo preoccupazioni per la testa, eh Merlino? Carico doppio quindi, mi sembra giusto.


****
 
Londra, Diagon Alley.
Laboratorio di Bacchette Stevens. Mattina.

 
“Che significa che non sarà pronta prima della prossima settimana?”
“Quello che ho detto. E considera che ti sto facendo un favore.”
Michel schioccò le labbra, cercando nella memoria un’incantesimo non-verbale capace di incendiare la testa di un uomo. Perché sentiva il fortissimo impulso di incendiare quella di Thomas Dursley.

“Come pensi che possa andare in giro senza bacchetta?” Lo apostrofò con il tono più calmo del suo al momento risicato repertorio, strofinando al contempo il pollice sull’anello di famiglia per tenere le mani occupate.
L’altro non alzò lo sguardo dalla bacchetta di cui stava dissezionando il nucleo; a vederlo seduto in un angolo angustissimo dell’enorme stanza piena di alambicchi e scaffali, ad un tavolo pieno di trucioli e serpentine che sobbollivano, era la raffigurazione perfetta del topo da biblioteca che in fondo era sempre stato.
O meglio, topo da bottega.
“Puoi chiedere a Stevens se te ne può dare una in comodato d’uso.” Prese un paio di pinzette lunghe e sottili come le gambe di un ragno e cominciò a sfilare i crini dal corpo cavo del legno.
Probabilmente l’intero mondo magico dovrebbe esser grato del fatto che disseziona bacchette e non persone … vive.
Roteò gli occhi al cielo. “È appartenuta a mia nonna, e da quando ho undici anni non ne ho utilizzate altre quindi non ho piacere ad impugnarne una di seconda mano. Conosci benissimo la storia.”
Te l’ho raccontata quando ancora eravamo in rapporti civili.
Se solo la sera prima non avesse fatto l’errore di portarsi in casa un ragazzo il cui unico pregio era un notevole fisico e l’incapacità di tenersi i vestiti addosso, forse la sua povera bacchetta sarebbe stata ancora integra.
Invece nella foga di scoparmi quel bisonte idiota ci si è seduto sopra.
Credo che trovarsi steso, nudo, ad Hyde Park stamattina sia stata una brutta sorpresa.

“Ah, certo.” L’altro si tolse gli occhiali da lavoro – che avevano più lenti montate in sequenza e lo facevano sembrare un insetto gigante – e gli rivolse un sorrisetto inequivocabilmente stronzo. “Mi ricordi come si è spaccata in due?”
“Non te lo posso ricordare perché non è un informazione di cui ti ho messo a parte.” Replicò salace. “Potete farmela avere riparata entro stasera o no?”
“No.” Fu la serena risposta. “Se non vuoi una bacchetta di cortesia, puoi sempre acquistarne una nuova.”
“Sei proprio diventato un bottegaio.” Ritorse facendolo adombrare. Fu una soddisfazione di breve durata, perché poi l’altro scrollò le spalle e tornò al suo dissezionamento inquietante.  

“Come preferisci.” Replicò suonando estremamente soddisfatto della sua disperazione. “Se hai finito con le lamentele, puoi andare … ti manderò un Gufo quando sarà pronta.”
Odioso bastardo…
“Può essere riparata?” Spiò preso da un’improvviso ma comunque atroce dubbio.
“Da me certamente.” Fu la replica boriosa. Sfortunatamente, la sparata corrispondeva anche alla verità; per quanto si tollerassero come fumo negli occhi ormai da anni, doveva riconoscere che l’altro aveva un vero talento con le bacchette.
Al mi ha detto che ci sono pochi Fabbricanti che si specializzano nella riparazione … Si è creato una nicchia di mercato ancor prima di essere ufficialmente entrato nel club.
Non lo ripeterò mai a sufficienza. Odioso. Bastardo.
Anche se dopotutto doveva ammettere, era un modus operandi degno di un serpeverde.
“Non più di una settimana.” Lo minacciò un po’ sterilmente prima di lasciarlo ai suoi legnetti e uscire dal laboratorio; l’odore pungente della cera per bacchette e dei trucioli gli dava la nausea e aveva bisogno di respirare un po’ d’aria fresca.
Fuori si immise nella via principale, lasciandosi fagocitare dalla calca bollente. Fece una smorfia, passandosi un fazzoletto sul collo, sentendosi già sudaticcio; l’estate era iniziata e lui si sentiva più stanco e frustrato che mai. Come se non bastasse, il caso che gli aveva rifilato Scorpius si era rivelato un calderone sul fuoco. Bruciato.
L’agente di collegamento che dovrò supervisionare è nientemeno che Sören Von Hohenheim, quel Sören Von Hohenheim. Quello che a seminato caos, lacrime e distruzione cinque anni fa. 
A quanto sembrava l’America aveva voluto dargli una possibilità di riscatto, cosa a cui avrebbe disinteressatamente plaudito, se non fosse stato per il fatto che adesso se lo ritrovava trai piedi per un’operazione congiunta coperta da segreto cooperativo internazionale.
Quindi non posso parlarne con nessuno. Soprattutto con Albus e la sua famiglia, forse le uniche persone che dovrebbero sapere.
Avrebbe tenuto la bocca chiusa naturalmente; era ciò che ci si aspettava dovesse fare, e ciò che avrebbe fatto.
Non posso certo rischiare di perdere il favore dei miei superiori … Al capirebbe. Forse.
No, sicuramente no. È così onesto.
Non potè fare a meno di sentire un peso in fondo allo stomaco e dunque strinse i denti.
Da quando sono diventato questo genere di persona?
Forse lo era sempre stato, riflettè accendendosi una sigaretta e lasciando che la nicotina Babbana gli riempisse i polmoni e gli schiarisse la mente. Gli Zabini avevano una naturale propensione a metter da parte i sentimenti personali per raggiungere gli obbietti prefissati.
Effettivamente … C’è stato un tempo in cui agivo mosso solo dai miei sentimenti?
Se c’era stato, risaliva a molto tempo prima.
Poi sono cresciuto.
Immerso nei suoi pensieri fu quasi spintonato al muro dalla spallata vigorosa di un passante. Si voltò inviperito ma quello, un ragazzo con un cappello calato sugli occhi, gli rivolse un sorriso fulmineo e beffardo. “Scusa tanto!” Esclamò prima di sparire tra la folla. Michel si infilò immediatamente una mano nel mantello e con sollievo vi ritrovò il proprio portamonete.
Sembrava proprio volesse derubarmi … no, troppo benvestito per essere feccia.
Lo colse a svoltare l’angolo e si permise un apprezzamento al fondoschiena, reso sodo da un paio di jeans, prima di tornare ai suoi pensieri.
 
Milo si tolse la vecchia coppola frusta dei suoi tempi da girovago – era un monito, non l’avrebbe mai buttata, anche perché gli donava - e si passò una mano dietro la nuca, occhieggiando l’orologio della Gringott, la banca dei maghi. Aveva passato una mattina piuttosto proficua esplorando la Londra Babbana, ma era tempo di tornare al lavoro.  
Il principino dovrebbe finire presto con gli Auror brutti e cattivi. Sarebbe capace di perdersi per stada se non vado a prenderlo a quel cavolo di ospedale.
Non era del tutto vero, dovette ammettere; poteva essere drammaticamente incapace nei lavori domestici, ma fuori dal perimetro di una casa era più sveglio della maggior parte della gente che conosceva.
Oh, ammettilo vecchio mio. Sei preoccupato.
Fece una smorfia prendendo una sigaretta dal pacchetto che aveva appena sfilato al moretto affascinante che gli era passato affianco.
Davidoff? Gusti altalocati!
Che poi, non l’aveva già visto da qualche parte?
Ah, ma sì … È quello a cui ho fischiato dalla finestra!
Certo era proprio vero; il mondo Magico era una noce.
 
****
 
San Mungo. Padiglione Autopsie.
Ora di pranzo. 
 
“Questo schifo di interrogatorio è stato un buco nell’acqua!”
James Potter era un tipo che amava evidentemente lamentarsi ad alta voce per smaltire lo stress. Sören, sempre a due passi di distanza dagli Auror lungo l’asettico corridoio del padiglione autopsie, gli lanciò un’occhiata in tralice, limitandosi a quella dato che qualsiasi sua esternazione sarebbe stata ignorata, o ancor peggio, travisata.

“Vero.” Sospirò l’Auror Jordan con gli occhi incollati al proprio taccuino, quasi che rileggendo potesse giungere ad una soluzione. “Nessuno ha visto o sentito niente di anomalo quella sera. I Mortuari hanno chiuso come sempre e messo gli incantesimi di protezione. Com’è possibile che qualcuno sia riuscito ad entrare e non farli scattare?”.
“Evidentemente è stato qualcuno che sapeva come disincantarli.” Si strinse le spalle Malfoy stiracchiandosi. “È proprio un bello Kneazle da pelare, eh?”
Lo era. Sören aveva assistito in qualità di osservatore – come da accordi– e doveva ammettere che tutte le domande erano state fatte e tutte le proposte vagliate. Non vi erano testimoni oculari dell’accaduto e questo, nel Mondo Magico, era un guaio persino peggiore che in quello Babbano.

“Secondo me, la vera domanda è … Cos’aveva di particolare quell’Howe?” Soggiunse il biondo; aveva una bella testa, pronta ai collegamenti logici. Dietro quell’aria da lord in vacanza era decisamente intelligente.
“A parte essersi ridotto in cenere dici?” Fece una smorfia Potter premendo il pulsante di chiamata dell’ascensore. “O il fatto che sembrasse completamente strafatto di Magia Oscura?”

“In che senso strafatto?” Non potè fare a meno di trattenersi; quel caso, oltre che spinoso da un punto di vista personale, era anche oggettivamente interessante. Un mago con una fedina penale praticamente intonsa che da un giorno all’altro decideva di cambiare Continente e di passare al lato oscuro della Magia.
Non cosa che si vede tutti i giorni.
Potter aggrottò le sopracciglia. “Non hai letto il rapporto?” Lo apostrofò seccato.
“Naturalmente l’ho fatto.” Replicò. “Solo che trovo il caso singolare. Certi cambiamenti non avvengono con un’escalation così rapida. Non si tratta di premere il grilletto di un’arma Babbana, ma di imparare a praticare incantesimi oscuri… e Sam Howe non ha mai dato problemi al Ministero della Magia americano in quel senso o sarebbe stato documentato. Secondo le nostre informazioni era un cittadino modello.”
“Sì, ho letto il vostro rapporto.” Rintuzzò l’altro premendo di nuovo il pulsante di chiamata; un gesto inutile dato che non l’avrebbe fatto scendere più in fretta, ma Sören intuì che era un modo di incanalare il nervosismo.
Io lo rendo nervoso.
La cosa è reciproca.
Fortunatamente fino a quel momento i rapporti tra di loro erano stati tesi, ma comunque civili; supponeva che persino una testa calda di quel calibro sapesse comportarsi in maniera professionale.
Malfoy si appoggiò alla parete accanto alle mascelle meccaniche dell’ascensore, infilandosi le mani in tasca come se stesse aspettando la propria fidanzata. “Okay, visto che l’ascensore ha deciso di aprirsi a tutti i piani tranne il nostro cerchiamo di tirar fuori qualcosa di concreto da stamattina.” Esordì. “Bobby, abbiamo interrogato il Mortuario che ha fatto l’autopsia, no? Punti essenziali.”
Il ragazzo di colore sembrò ben lieto di aprire per l’ennesima volta il proprio taccuino. “L’autopsia …” Aggrottò le sopracciglia e fece un sorrisetto ironico “… se così si può chiamare visto che erano solo ceneri è stata fatta dal Mortuario Gates. Ha detto di non averci messo molto perché effettivamente c’era ben poco da esaminare. Ricorda però di aver rilevato una concentrazione anomala di Magia Oscura passando i resti allo MagiSpettrometro di massa.”
Potter sembrava seriamente intenzionato a prendere a calci le porte dell’ascensore da quanto lo guardava male, ma sembrò ripensarci perché di colpo si voltò e prese a parlare. “Okay, questo lo sappiamo … È roba oscura, ce ne dobbiamo occupare noi. È tutto il resto che manca. La causa del decesso tanto per cominciare!”
“Non avete detto di avergli lanciato uno Stupeficium?” Si inserì nuovamente; il suo buonsenso gli diceva di rimanere in silenzio e lasciarli alle loro speculazioni.

Ma prima ritrovo le ceneri di Howe, prima me ne vado di qua. E per trovare le ceneri, si suppone si debba trovare il ladro.
Potter serrò la mascella; era evidente lo sforzo che stava compiendo per non voltarsi e guardarlo in faccia. “Gli Stupeficium non disintegrano una persona.”
“Può aver accellerato la causa del decesso però.” Replicò nel tono più neutro e professionale che gli riuscì; sentiva gli sguardi di Malfoy e di Jordan puntati su di loro e avrebbe dato un braccio – quel braccio – per essere da tutt’altra parte.
Specie perché Lilian potrebbe essere qui, e così Albus Severus. Soprattutto Lilian.
Considerando che era il momento della mattinata che la ragazza dedicava alle visite dei, non si sentiva particolarmente preoccupato dalla possibilità di incontrarla per sbaglio.
Il reparto Thickley è ai piani alti. Io devo soltanto arrivare al piano terra per poi uscire.
Allora perché l’ansia sembrava aver preso posto d’onore in ogni fibra del suo essere?
Perché la vuoi incontrare, ecco perché. Perché adesso le sei vicino pochissimi metri in linea d’aria. Qualche piano, niente di più.
Potter fece per ribattergli quando finalmente l’ascensore arrivò, risparmiando a tutti l’ennesimo scoppio di tensione. Sören si infilò nell’ascensore per ultimo, mettendosi nel punto più lontano possibile dagli altri.
Meglio non rischiare.
Era maledettamente avvilente, ma nulla che non avesse previsto; non poteva pretendere, neppure nella più rosea delle previsioni, che gli inglesi si fidassero di lui e accogliessero i suoi suggerimenti come validi in meno di quarantotto ore dal suo arrivo.
Non quando ho mentito loro per un anno intero, suppongo.  
La cosa che lo irritava di più era in realtà la smaccata mancanza di rispetto di Potter, ma anche lì doveva stringere i denti.
Voglio evitare guai. Guai significa mettere in cattiva luce il SAGITTA e il Capitano.
“Il problema è che senza un referto o le ceneri abbiamo le mani legate.” Esordì Malfoy con un lungo sospiro. “Voi in America come fate quando accade qualcosa e non ci sono testimoni?”
“Ci appoggiamo ai Babbani.” Replicò rimediando una collettiva aria sbalordita. “O meglio, ci serviamo dei loro sistemi di sorveglianza. Quasi tutte le grandi città sono costellate da telecamere, che siano di banche, uffici, quindi privati oppure del Dipartimento di Polizia cittadino. Scarichiamo le registrazioni dei luoghi ripresi che ci interessano.”
“E i Babbani lo sanno?” Spiò Malfoy sorpreso. “Oppure non se ne accorgono?”
“Lo sanno. Abbiamo alcuni accordi con la Polizia locale … Ovviamente non sanno chi richiede veramente le registrazioni. Nell’America Babbana ci sono innumerevoli agenzie governative e private che hanno la possibilità di aver accesso a questo genere di informazioni. Ci spacciamo per una di esse.”
Il silenzio che ne conseguì fu piuttosto soddisfacente; era evidente che i meriti americani erano un terreno in cui neppure Potter poteva metter becco. Anzi, dall’aria malcelatamente incuriosita sembrava proprio ne volesse saper di più.

Persino da me.
“E per gli edifici magici?” Chiese Jordan. “Voglio dire … Lì come fate? Ci sono le telecamere? Non si friggono con tutta la magia che emaniamo?”
“Ci sono delle protezioni adatte, non dissimili da quelle che usate qui per i cellulari e gli apparecchi tecnologici di svago, anche se più potenti.” Sören sospirò; se l’Europa avesse fatto gli stessi passi verso il mondo Babbano che aveva fatto l’America forse non si sarebbero trovati in quella situazione.
“Se qui ci fossero state delle telecamere di sorveglianza sapremo chi ha trafugato il referto e le ceneri di Sam Howe.” Mormorò. “Non saremo ad un punto morto.”
“Beh, non le abbiamo.” Replicò il figlio del Salvatore con una smorfia. “Dobbiamo arrangiarci, quindi adesso ce ne andiamo all’accettazione e mettiamo sotto torchio chiunque era di turno quella sera. Il ladro non può essersi direttamente Materializzato nel Padiglione Autopsie, ci sono delle…” Lo sguardo si fece vuoto prima che esplodesse in un’imprecazione. “… Può aver eluso anche quelle!”
Qualcuno ha scoperto da che parte si tiene una bacchetta…
“Punto morto, come avevo detto.” Mugugnò Scorpius. “Credo proprio che questo diventerà quello che voi yankee chiamate un cold case.”
Sören serrò le labbra; un fallimento, ecco cosa sarebbe diventato. Non imputabile direttamente a lui, ma supponeva non importasse granchè a gente come Ethan Scott.
No. Non posso permetterlo.
“Le barriere … Erano potenti immagino.” Meditò. “Difficili da spezzare.”
“Ovvio!” Sbuffò Potter. “Va bene che siamo arretrati, ma sappiamo ancora come produrre incantesimi di qualità!”

“Non ho detto che non ne siete in grado…” Esser paziente sì, ma forse complice lo spazio ristretto dove erano rinchiusi, sentiva le sue capacità di controllo erodersi molto velocemente.
“Cosa intendevi dire?” Si inserì Malfoy.
“E’ solo una riflessione.” Mise le mani avanti, comunque grato per avergli almeno concesso udienza. “Non credo che esistano molti maghi in Inghilterra capaci di eluderle tutte, mi sbaglio?”
“Vero, incantesimi del genere hanno formule estremamente complesse.” Replicò l’Auror. “Per proteggere il Manor abbiamo ingaggiato una ditta specializzata … Credo che sia l’unica del suo genere, approvata dal Ministero e tutto quanto.”
“È la stessa ditta che si è occupata della sicurezza del San Mungo?” Si informò cercando di non sperare troppo su quella nuova, inattesa pista.

Jordan battè la piuma sul proprio taccuino. “Questo è facile da controllare!”
Potter fu l’unico a non sembrare entusiasta della sua idea. “Fermi tutti … e quando abbiamo trovato la ditta a cui hanno commissionato le barriere protettive?”
“Questo genere di formule sono protette da segreto industriale Potty … Non è che le scrivono sull’inserto domenicale del Profeta.” Replicò Scorpius con gli occhi che brillavano; a quanto sembrava, sapeva apprezzare una buona pista. “Chiunque le abbia disattivate, evidentemente l’ha fatto con o senza il consenso della dita in questione. Se hanno rubato i contro-incantesimi, c’è un precedente su cui lavorare. Se non c’è stato, qualcuno glieli ha venduti. È una pista!”
L’altro Auror esitò, poi annuì. “Sì, ha senso. Bobby, contatta il proprietario della ditta, senti se ha lavorato qui e se sa qualcosa. Comunque un giro all’accettazione merita farlo.” Si mise davanti alle porte dell’ascensore in dirittura di arrivo e sbuffò. “Questa storia è uno schifoso …”
Non riuscì a terminare la frase che improvvisamente le luci dell’ascensore lampeggiarono violentemente e poi si spensero di colpo. Con esse, anche la cabina diede un forte strattone e si arrestò.

“Che diavolo!” Esclamò, premendo la pulsantiera, morta come tutto il resto. “Che succede adesso?”
“L’ascensore ha perso potenza.” Replicò sbigottito Scorpius. “Credo? Si è fermato, no?”
Castarono immediatamente una serie di Lumos, guardandosi in faccia in più gradi di stupore. Sören rifletté velocemente: che gli ascensori si bloccassero non era esattamente un avvenimento fuori dal comune, forse c’era stato un guasto all’impianto elettrico o addirittura un blackout.
No … un momento. Il San Mungo non ha un impianto elettrico.
“Con cosa è alimentato quest’ascensore?” Chiese rimediandosi una serie di occhiate sconcertate.
“Con cosa vuoi che funzioni?” Sbottò Potter perplesso. “Con la magia, no?”
Sören sentì la bocca secca; ci potevano essere innumerevoli spiegazioni innocue a ciò che era successo. Peccato che nessuna di esse lo convinceva a pieno.
Non c’era un modo giusto per dirlo, quindi lo disse e basta. “Dov’è finita la magia allora?”
 
****
 
 
Note:

E si entra nel vivo dell’azione!
Scusate, al solito, per il ritardo, ma la vita reale rompe le scatole.

Questa la canzone del capitolo.

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Capitolo LVIII



 
Camminavamo senza cercarci/
pur sapendo che camminavamo per incontrarci.
(J. Cortàzar)




San Mungo. Ala Thickley.
Ora di pranzo.
 
Quando la luce saltò Lily pensò ad uno scherzo di James.
Questo prima di realizzare che era al San Mungo, suo fratello era presumibilmente al lavoro e non c’era nessun motivo per pensare ad una goliardata, dacché togliere la luce in un ospedale poteva solo essere classificato come un tentativo di far rischiare l’incolumità a moltissime persone tra pazienti e staff.
Rimase inebetita a guardare la stanza improvvisamente precipitata nel buio; subito un lamento la fece voltare in direzione di Alice Paciock, una delle lungodegenti del reparto e madre di Nev.
Intuendo il motivo del grido accese la bacchetta e le si avvicinò, sentendola fremere spaventata. Le prese le mani dalle sue per evitare che se le serrasse forte tra di loro rischiando di farsi male. “Va tutto bene Alice.” Le mormorò cercando di imprimere un sorriso nel tono. “È solo andata via …”
La luce? A dirla tutta, se va’ via la luce vuol dire che sono stati tolti gli incantesimi che mantengono accese le lampade.

È andata via … la magia?
Le sembrava un’ipotesi talmente assurda da non essere neppure vagliabile. Fece di nuovo sedere la strega, voltandosi verso il marito che fissava la finestra vuota con intensità; vuota e sbarrata perché ogni singola apertura del reparto era stata sigillata da quando uno dei pazienti si era gettato da una delle finestre.
Di solito le finestre sono incantate per simulare il paesaggio fuori. Ma adesso…
Adesso erano solo tanti occhi chiusi. E c’era buio ovunque.
“Frank, vieni qui da me e Alice, vuoi?” Lo chiamò. L’uomo con passo strascicato obbedì, forse più interessato alle caramelle che gli porgeva che ad eseguire l’ordine.
“Mia cara Lilian, finalmente l’ho trovata!” La voce squillante di Allock ebbe il potere di farla sobbalzare come se qualcuno l’avesse colpita alle spalle.
Calmati.  
“In tutto il mio splendore.” Gli rispose a tono. “Lo sa però che non deve uscire dalla tua camera a quest’ora, no? Poteva farsi male, non si vede ad un palmo dal naso.”
“Non c’è luce, il fenomeno è quantomeno singolare!” Replicò l’uomo come se non l’avesse sentita, guardandosi attorno quasi se trovasse quella faccenda esaltante. “Ma non si preoccupi, mia cara, andrò immediatamente ad investigare!”
Eh no! Ci manca solo che me lo perda!
“Perché invece non resta qui a fare compagnia a Frank ed Alice?” Alla sua espressione scontenta, tirò un sospiro teatrale, avvicinandoglisi e sporgendosi al suo orecchio. “Temo che la povera Alice sia molto spaventata … la presenza di un mago del suo calibro sicuramente la rasserenerebbe.”
Gli occhi dell’uomo si illuminarono compiaciuti. “Ma certo, capisco benissimo.” Convenne in tono cospiratorio. “Signora Paciock!” Sorrise alla strega che gli restituì un’espressione che persino nella suo essere inespressiva riusciva ad esser perplessa. “Le ho mai raccontato di quando ho rubato a quel crudele stregone indiano la fiamma di Isildur?”

Che è in un romanzo di Tolkien, quello scrittore Babbano dalla logorrea infinita. Come lo conosco? Ren.
Merlino, lui saprebbe cosa fare … Certo, sì. Peccato che non c’è. Quindi falla finita e attivati.
Non trovò di meglio quindi che Evocare un paio di grosse candele che accese e posizionò attorno ai tre pazienti per non lasciarli al buio completo.
Si affacciò poi sul corridoio con un Lumos spianato di fronte a sé e come immaginava lo trovò deserto; a quell’ora, quella che precedeva il pranzo e l’arrivo della Guaritrice Patil, l’ala Thickley era affidata nelle mani di una sola magi-infermiera e di una studentessa.
Che poi sarei io. Dove diavolo è Becca?
Ricordò improvvisamente di aver visto l’infermiera uscire dalla stanza in direzione degli ascensori; doveva esser scesa ai piani inferiori per ritirare le pozioni giornaliere dei pazienti.
Se è così sono sola… Favoloso. Davvero favoloso.
Si mordicchiò le labbra, incerta. Poteva lasciare Frank e Alice con Allock e andare a controllare gli altri pazienti.
Se la mancanza di luce ha spaventato Alice, potrebbe spaventare qualcun altro. Non avranno la bacchetta, ma hanno ancora la magia. Magia che reagisce all’istinto.
Non poteva rischiare che uno dei loro assistiti diventasse pericoloso per sé stesso o ancor peggio per gli altri. Anche se era solo una studentessa e il suo camice era più una posta che una vera qualificazione, aveva il dovere di piantarla di esser così spaventata e cominciare a preoccuparsi piuttosto per chi era sotto le sue momentanee cure.
Fosse facile.
“Gilderoy, fa’ attenzione alle candele e fa’ in modo che Frank e Alice rimangano nella stanza, va bene? Mi affido a te.”
“Naturalmente mia cara!” Replicò distratto il mago, ormai assorto nel suo racconto. “Va’ pure, ho tutto sotto controllo!”
Beh, felice che qualcuno lo abbia.

Tirò un ennesimo profondo sospiro e si incamminò per il corridoio buio; il San Mungo non era quello che poteva essere definito un edificio arioso. Era pulito, efficiente e aveva un buon odore, ma i corridoi erano piuttosto stretti e completamente rivestiti di legno scuro.
Che senza le lampade … Dovrei coniare una nuova, scintillante definizione di inquietante.
Non riusciva a calmarsi, per quanto ci provasse con tutte le sue forze e con tutta la sua razionalità; sapeva di starsi autosuggestionando, ma quel buio spesso e quell’assenza di rumori, tranne qualche occasionale lamento dei degenti, la catapultava nei propri ricordi, in una cella umida e dall’odore di mare e le faceva di nuovo sentire in gola il terrore dei momenti passati al castello dei Von Hohenheim.
No. No! Un flashback è l’ultima cosa di cui ho bisogno adesso!
Serrò tra le dita la bacchetta, sentendola piacevolmente tiepida, a differenza delle sue mani, gelide.
Ho una bacchetta e sono in un ospedale pieno di persone. Probabilmente qualcuno verrà subito, la Patil o Becca. Sempre che prima la manutenzione magica non risolva il problema.  
Fece qualche passo incerto, prima di tirarsi un volontario schiaffo sulla guancia per riprendere lucidità; sarebbero arrivate, certo, ma non erano lì in quel momento.
Adesso ci sei solo tu … quindi piantala. Forte e sicura di te. Forte e…
Quando una mano le si posò sulla spalla cacciò un grido che la spaventò più del tocco stesso.
Lils!” Esclamò la voce di suo fratello Albus, voltandola di scatto e prendendola saldamente per le spalle. “Calmati, sono io!”
Fu consequenziale gettargli le braccia al collo e stringerlo come se fosse sull’orlo del precipizio. “Brutto deficiente, mi hai spaventato!” Bofonchiò contro la stoffa grezza del suo camice.
Al ricambiò l’abbraccio saldamente. “Scusami, ho provato a chiamarti … Non mi hai sentito?”

“Ero presa a fare training autogeno per evitare una crisi isterica.” Replicò alzando il viso e stiracchiando un sorriso. Al indossava il suo ormai famigerato – per lei – cipiglio delle Grandi Preoccupazioni.
“Sto bene. È solo…” Cercò le parole. “È il buio, Al. Non ho un buon rapporto con il buio, lo sai.”
Suo fratello le mise una mano sulla spalla, limitandosi ad un lieve cenno della testa. “Sei sola? Dov’è la Patil?”

“Deve ancora arrivare e la maginfermiera del turno non è ancora tornata … Ma che sta succedendo?”
L’altro si passò una mano dietro la nuca. “Non c’è luce su nessun piano e gli ascensori non funzionano.”
“Non c’è magia allora?”

Al le scoccò un’occhiata indecifrabile. Una volta tanto, era evidente che non sapesse che Snaso pescare. “Non lo so…” Ammise. “Non ho mai visto una cosa simile. Per fortuna non siamo in un ospedale Babbano e non è mancata la corrente elettrica, altrimenti avremo avuto un sacco di problemi. Anche se forse i Babbani hanno misure di emergenza in quei casi…”
“Gli incantesimi sui pazienti hanno retto?” Lo interruppe.

“Non sono gestiti dalla manutenzione magica.” Sorrise divertito, facendola arrossire. “La dinamica è diversa.” Le prese la mano stringendola appena. “Tu stai bene? Davvero?”
No, per niente.
“Certo.” Mentì. “Ma Frank, Alice e gli altri sono confusi e spaventati … Sai che non è una bella combinazione per chi non controlla la magia. Pensavo di riunirli tutti in una stanza e accendere un bel po’ di candele. Credo li tranquillizzerebbe molto.”
“Ottima idea, ti do una mano.”

Lily sorrise sollevata; per una volta lo spirito da chioccia di Al era stato provvidenziale. “Allora io prendo le stanze a destra, tu quelle a sinistra. Cerca di non mettere loro fretta, specialmente a…”
“No, andiamo assieme.” Fu la replica netta.
“Ma così ci metteremo il doppio del tempo!”
“Ci metteremo più tempo se lo perdiamo per discuterne.” Al sapeva essere testardo come un Crup quando ci si metteva, e non poteva davvero stare minuti interi a cercare di convincerlo che era perfettamente in grado di controllare i pazienti persino in quella situazione sfavorevole. Pensò di rinunciare, ma l’irritazione mischiata alla paura che stava provando equivalsero a benzina sul fuoco.

“Non riesci proprio a fidarti della mia capacità di giudizio?” Sbottò liberando la mano dalla presa dell’altro. “Sono perfettamente in grado di …”
“Non sto dicendo che non lo sei.” La fermò quieto. “Solo che mi sento più sicuro a saperti vicina a me. Specie perché non stai bene affatto. Non con quelle pupille dilatate.”

Touché. Guaritore del cavolo.
Ispirò bruscamente, cercando di regolarizzare il respiro. “Questo è un colpo basso.”
Al sorrise appena, con un’aria così triste che quasi non se la sentì di colpirlo con il manico della bacchetta. Dopotutto era vero; dopo la sua prigionia aveva avuto problemi a dormire a luci spente. Dopo le prime volte in cui aveva cercato di convincere chiunque che poteva farcela, aveva dovuto arrendersi all’evidenza; ogni volta che le luci si spegnavano si sentiva come se qualcuno le togliesse il terreno da sotto i piedi.
Sto migliorando, sicuro, adesso almeno dormo tranquilla … ma in questi casi…

Al le strinse di nuovo la spalla. “Non devi mostrarti coraggiosa per nessuno, tantomeno per il sottoscritto.”
Infatti lo faccio per me. Per dimostrare a quella ragazzina di quindici anni che dalla paura di morire in una cella scura e che sa di mare si può guarire.

Più o meno.
“Okay, hai vinto tu.” Si arrese. “Rimarrò attaccate alle tue vesti, mammina. Ma sbrighiamoci!”
 
****
 
“Dov’è finita la magia?”
 
Essere chiusi in un ascensore con Sören VonQualcosa o Prince o come diavolo si chiamava doveva essere una punizione per crimini commessi in una vita passata, di questo James era assolutamente convinto.
“Dove vuoi che sia finita?” Replicò con una smorfia. “Sarà saltato l’incantesimo che fa funzionare questi affari!” Tentò di nuovo di premere i pulsanti dell’ascensore. “Ci mancava solo questa! Come diavolo usciamo di qui?”
Scorpius, già seduto a terra come il pigro che era, fece girare la bacchetta trai pollici con aria rassegnata. “Potty, datti tregua. Violentare dei pulsanti che non funzionano non risolverà la situazione. A proposito di questo, qualcuno ha mai visto fermarsi un ascensore?” Chiese come se fosse un simpatico aneddoto da pub. “Perché per me è la prima volta!”
James ci rifletté e con un certo grado di sgomento realizzò che non ricordava di esser mai rimasto chiuso in una di quella scatole infernali. “In effetti è la prima volta anche per me. Si sarà rotto?”

“La magia si è rotta?” Replicò il biondo lanciandogli un’occhiata di sufficienza che avrebbe meritato un calcio nel sedere.
“E basta con ‘sta storia della magia! È l’incantesimo che ha smesso di funzionare!”
“È la stessa cosa.” Gli fece notare Scorpius perplesso. “Comunque gli ascensori Babbani si fermano?”

“Se non la pianti ti do un pugno.” Lo minacciò, rimediandosi un gestaccio. L’avrebbe preso a schiaffi su quella zucca ossigenata, ma rinunciò.
Ringrazia che ti voglio bene, Malfuretto.
“Può succedere quando c’è un calo di potenza nella rete elettrica o un blackout.” Rispose Prince per lui aggrottando le sopracciglia.  “O un guasto, naturalmente.”
James si frenò dal chiedergli cosa mai ne potesse sapere; in America, a sentir Lily, i maghi avevano un rapporto stretto con la tecnologia babbana quindi era probabile che gli fosse capitato di doverne prendere uno.

Inspirò, intimandosi di raffreddare i bollenti spiriti; per quanto quella situazione fosse sostanzialmente merdosa era pur sempre l’agente con più anzianità e sbraitare non avrebbe migliorato la situazione.
Anche se miseriaccia, mi calmerebbe i nervi!
“C’è un pulsante di chiamata per ricevere assistenza?” Chiese Prince guardandosi attorno. Non sembrava particolarmente seccato da quell’intoppo, come del resto non sembrava esprimere nessuna emozione in particolare. Era questo a dargli ai nervi.
Ha la faccia espressiva come un cazzo di muro. Scommetto che dentro di sé non fa che pensare a quanto siamo idioti ad agitarci per una cosa così!
“Un interfono dici?” Scorpius annuì, indicando pigramente uno sportellino vicino alla pulsantiera ed aprendolo con un colpo ben mirato della bacchetta. Tentarono di azionarlo senza successo; il microfono rimase inequivocabilmente morto.
“Beh, ovvio … Se non funziona l’intero ascensore, perché dovrebbe funzionare un suo pezzo?” Sospirò Bobby scivolando accanto a Scorpius. “Non ci resta che aspettare la manutenzione … Non appena si accorgeranno del guasto verranno a prenderci.”
James scosse la testa e si appoggiò alla parete dietro di sé ficcando le mani in tasca; Bobby aveva ragione, non c’era molto che potessero fare in quelle condizioni, anche se era profondamente frustante che un auror rimanesse bloccato in una dannata scatola di legno e metallo sospesa nel vuoto. Tentò qualche vuoto incantesimo contro la pulsantiera, sentendo lo sguardo del dannato Ragazzo Pipistrello – si era decisamente un buon nomignolo – su di sé come una coperta umidiccia.

La sensazione di fastidio è la stessa.
Alzò lo sguardo. “Beh?” Lo apostrofò senza riuscire a trattenersi; aveva promesso a suo padre di cercare di mantenersi distaccato, ma come poteva quando l’altro non faceva che piantargli quei maledetti sguardi da psicopatico addosso?
“Sto solo pensando che potremo aprire la botola sul soffitto ed uscire da lì.” Disse con la solita faccia-non-faccia. Sul serio, sembrava gliel’avessero saldata con un Incantesimo di Pastoia.
“E perché dovremo arrampicarci come scimmie?” Non poté impedire alla sua lingua di far scivolare via un pensiero. “Datti una calmata, non sappiamo che farcene qui in Inghilterra della tua voglia di riscatto.”
Seppe di aver esagerato quando vide l’espressione fiacca del tedesco accendersi di colpo di pura rabbia. Fu una frazione di secondo, ma James sentì la colpa e la paura mischiarsi in un’unica sensazione di allarme. Istintivamente fece scivolare la mano vicino al fodero della bacchetta legato alla coscia, ma poi un improvviso, violento scossone della cabina lo mandò a gambe all’aria.

“Per tutti gli Inferi brulicanti!” Esclamò Bobby che essendo già seduto riuscì a mantenere più o meno l’equilibrio. “Che cazzo è successo?!”
Scorpius lo afferrò per un braccio per impedirgli di alzarsi. “Credo che …”
Un secondo scossone rese chiaro a tutti che alzarsi non era più una priorità a meno di non voler finire con un osso rotto.
Dannazione, che sta succedendo?
Prince, l’unico che non fosse rovinato scompostamente limitandosi ad accovacciarsi a terra, serrò le labbra e guardò verso il soffitto. “Sono sbalzi d’energia magica.” Si massaggiò il braccio con una smorfia. “Qualcosa sta interferendo con il campo magico dell’ascensore.”  

James rifletté velocemente; qualunque cosa volesse dire, rimanere chiusi in quella bara rischiava di farli diventare sul serio delle salme pronte per esser seppellite.
Non voglio scommettere sulla mia capacità di sopravvivere ad un volo nel vuoto se questo affare precipita.
Prince gli rivolse un sorrisetto inequivocabilmente borioso. “Credo che adesso la mia precedente idea non sia da scartare.”
Argh!
“Sono d’accordo.” Si inserì Bobby. “Non possiamo restar qui e aspettare che questo affare ci shakeri come un frullato!”
James intercettò un’occhiata di Scorpius ed ad un suo cenno della testa capitolò di fronte all’evidenza. “Va bene, usciamo da questo buco.”
La botola non fu difficile da forzare, e venne infatti scardinata con un veloce e miratissimo incantesimo Esplosivo. Il vero problema fu infilarsi nello strettissimo passaggio che serviva ai maghi della manutenzione per salire sul tetto dell’ascensore: dovettero stringersi per non precipitare negli interstizi.
“Qualcuno soffre di vertigini?” Chiocciò querulo Scorpius, stiracchiandosi come se fosse sulla cima di una salubre montagna alpina. Un po’ lo detestò e un po’ lo adorò; senza quel biondastro cretino quella situazione sarebbe stata solo al sapor d’angoscia.
Invece mi vien voglia di ridere. Siamo tre auror e uno stronzo e siamo bloccati sul tetto di un fottuto ascensore!
Prince passò una mano su una delle spesse corde metalliche che tenevano la cabina sospesa nel vuoto. “Dovremo trovarci vicini al piano terra, è corretto?” Chiese a nessuno in particolare; aveva notato che non si rivolgeva mai direttamente a lui o agli altri.
Un’altra delle sue stranezze?
“Una cinquantina di metri più in basso in realtà.” Bobby era l’uomo dalla risposta pronta, e James non gliene fu mai tanto grato; a lui sembrava di essere semplicemente sospeso nel nulla. “Il Padiglione dei Mortuari, da cui siamo venuti, si trova sotto i laboratori di pozioni che sono circa all’altezza della metropolitana.” Emise poi un lamento. “Arrampicarmi era la cosa che mi riusciva peggio quando ero in Accademia!”
“Perché dobbiamo arrampicarci? Usiamo la magia!”   
Prince scosse la testa. “Se l’ascensore è danneggiato è preferibile evitare incantesimi finché siamo in sua prossimità.” Parve leggergli nello sguardo la sua obiezione perché aggiunse: “Naturalmente se qualcuno di voi vuol provare, è libero di farlo a suo rischio e pericolo.”
Ma vaffanculo!
Avrebbe voluto dirglielo in faccia, ma doveva arrendersi al fatto che l’altro non era un pivello appena uscito dall’Accademia; o meglio, lo era sulla carta, ma non in quanto ad esperienze di vita vissuta.

Quando io ricevevo una scopa giocattolo, ‘sto tipo andava a menar la bacchetta per conto di quello psicopatico di suo zio.
Era quindi probabile che non stesse dando aria alla bocca per farsi bello. Si strofinò le mani, si tolse il mantello che gli avrebbe impacciato soltanto i movimenti e sospirò.
“Forza gente. Si sale!”
 
Scorpius era certo che Sören avesse capito cosa stava accadendo, ma che preferisse tenere il becco chiuso.
Inspirò una breve e secca boccata d’aria, continuando ad arrampicarsi lungo le funi dell’ascensore senza una parola.
Beh, adesso è meglio risparmiare il fiato, lo capisco.
La faccia che aveva fatto dopo che l’ascensore aveva preso a ballare era stata però piuttosto indicativa. Non ci voleva un Legimante per capire che si era spaventato; non avrebbe altrimenti stuzzicato la coda di paglia di James per tirarli fuori di lì.
Mi sa che fa solo finta di fare la Testa di Bacchetta. Mi sa che non è scemo per niente.
“Merlino, ho voglia di vomitare…” Mugugnò dietro di lui Bobby, l’ultimo a chiudere la fila. “Sicuri che non si può usare la magia?”
“Io non ci proverei.” Gli suggerì sentendo il sudore scivolargli lungo le tempie e finirgli sgradevolmente sul collo. Tornò quindi alle sue riflessioni; quelle almeno non gli toglievano il fiato dalla gola.
Qualcosa di anomalo stava accadendo nell’ospedale e l’istinto gli diceva fosse qualcosa di assolutamente sinistro.
Stupito istinto.
Arrivare a destinazione fu un sollievo senza pari e Scorpius fu ben felice di poter estrarre la bacchetta e forzare le porte metalliche del piano. Posati però i piedi a terra si resero subito conto che il buio era anche lì.
Ancora?” Esclamò tirando lunghi e densi sospiri d’ossigeno. “La luce è svanita ovunque?”
“A quanto sembra.” Commentò Prince senza una sola goccia di sudore sulla camicia dell’uniforme e per questo, supponeva, del tutto inviso ad un boccheggiante James. “Dov’è l’accettazione? Lì forse sapranno dirci qualcosa.”
“’Fanculo.” Sbuffò quest’ultimo, inspirando forte con il naso. “Cerchiamo di capire che cazzo sta succedendo.” Sentendosi probabilmente fissato dal tedesco alzò gli occhi al cielo e lo sorpassò senza degnarlo di uno sguardo.
“L’accettazione è da quella parte.” Si sentì in dovere di spiegargli. “Dove sta andando James e stiamo andando tutti.”
Prince gli restituì un mezzo sorriso. “Ti ringrazio.” Si limitò a dire prima di seguirlo.
Se fossi al posto suo avrei già preso a calci in culo Potty. E se lo dico io…
“Che tipo.” Commentò Bobby finendo di asciugarsi il viso con il fazzoletto. “È inquietante in maniera strana.”
“Inquietante non presuppone già il concetto di stranezza?” Chiese perplesso, accendendo la bacchetta in Lumos e seguendo la scia degli altri due maghi.

“No, non direi.” Considerò il ragazzo di colore pensieroso. “Mi inquieta, ma non è che mi mette ansia, come se dovesse tirar fuori qualche roba oscura dal Mantello. Capisci che intendo? È che non riesco a collocarlo in un concetto. Era cattivo, ma adesso è uno dei nostri. Una roba del genere, no?”
“Una roba del genere, sì.” Convenne; non era così semplice, ed era forse questo ad incuriosirlo, in Prince.

Si riempiono tutti la bocca della parola ‘scelte sbagliate’. Ma un poveraccio che ha vissuto come un mago oscuro e tendenzialmente psicopatico come figura di riferimento, che scelte mai potrà aver avuto?
Poche, ho idea.
Arrivare all’accettazione fu una specie di percorso ad ostacoli; i pazienti e il personale dell’ospedale si erano riuniti al primo piano e in via del tutto eccezionale erano state accese lanterne e candele, il che oltre a dare un’aria un tantino spettrale all’ambiente faceva inciampare ad ogni piè sospinto.
James si diresse con sicurezza verso la strega dietro il bancone e Scorpius lo vide scambiarci qualche parola prima di tirare fuori il distintivo e spiegargli stizzito chi era, considerando l’aria scettica di quest’ultima.
Ma le scelgono apposta antipatiche da morire o cosa?
Prince d’altro canto si guardava attorno con aria nervosa e ad un certo punto prese anche a mangiarsi le unghie.
Chissà … Oh, ah. Eh, già.
Lily e Al, le persone-con-cui-non-doveva-assolutamente-interagire, dovevano essere lì in mezzo. Lo vide infatti scivolare in un cono d’ombra e lì rimanere.
Certo che tutta questa segretezza … Alla fine che potrebbe mai succedere? Che lo riconoscano e lo salutino? La piccola Potter poi gli scrive pure.
A volte i Potter proprio non li capisco.
James tornò indietro con un’espressione poco invitante. “La stro…” Iniziò, prima di ricordare che erano comunque in servizio e tornare a più miti pareri. “… l’infermiera all’accettazione dice che è partito tutto dal Secondo Piano.”
“Da Malattie Infettive?” Interloquì Bobby. “Cioè?”
“Cioè pare che il black-out sia partito da lì.” Ribatté guardando verso il soffitto. “Quindi andiamo a dare un’occhiata. È vero che di questa roba non ce ne occupiamo, ma siamo anche la squadra di polizia magica più vicina a disposizione.”

Bobby annuì, lanciando un’occhiata in direzione di Prince. “E con lui che facciamo?”
“Può andare a farsi una passeggiata, per quanto mi riguarda.” Replicò pronto stringendosi nelle spalle. “Tanto non è il suo ca…”
“Vengo con voi.” Lo fermò l’interpellato, affiancandoglisi. “Sono anch’io un agente.”

Scorpius vide James frenare la lingua in una frazione di secondo; era evidente stesse trattenendo una  frecciatina. “Fa’ come ti pare, l’importante è muoversi … Qua stanno andando tutti nel panico.”  
“Stavolta però prendiamo le scale.” Borbottò Bobby.
 
Scorpius aspettò che gli altri due auror fossero distanti qualche passo per toccare con un colpetto delle dita la spalla del tedesco. Quello sussultò, evidentemente talmente perso nei suoi pensieri da esservi stato strappato a forza. “Hai bisogno di qualcosa?” Era sempre cortese però.
E per me questo è un punto a suo favore.
“Lo sai che non sei tenuto a venire con noi, vero?”
“Quando ho preso il distintivo ho giurato di proteggere e servire la popolazione magica.” Gli rispose fissandolo sorpreso. “Che sia quella americana o quella britannica, non fa differenza. È un mio dovere.”
“Ah beh, certo.” Lasciò vagare lo sguardo attorno a sé con intenzione, scandagliò ed ebbe la conferma che cercava. “Non c’entra quindi il fatto che Albus e Lily Potter non si vedano da nessuna parte, vero?”

Ma avrei potuto nominare solo la Piccola Potter e avrei ottenuto lo stesso effetto.
Per essere un tipo poco espressivo, quando esprimeva era abbastanza divertente, rifletté vedendolo deglutire nervosamente. “Guarda che non sei il solo ad averlo notato … Cerchiamo magari di non dirlo a James però. O di non ribadirgli il concetto se già lo sa. Si agita  quando si parla dei fratelli … L’avrai notato.” Non poté fare a meno di aggiungere.
Prince si limitò ad una leggera smorfia. “Sì.” Fu l’unico commento che riuscì a strappargli. “È meglio muoversi.”
Non poté che dargli ragione.
 
****
 
“Grazie.”
Al si voltò stupefatto quando si rese conto che quelle parole erano state pronunciate nientemeno che da sua sorella.

Erano seduti a terra, con la schiena che aderiva scomodamente al muro; l’unico posto più o meno confortevole in realtà, dato che tutti i letti della stanza in cui avevano radunato i pazienti dell’Ala Thickley erano già occupati.
“Di cosa?” Chiese passandosi tra le mani una delle candele che stavano utilizzando per illuminare l’ambiente. Lanciò un’occhiata ai degenti, ma per fortuna erano completamente assorbiti dalle chiacchiere roboanti di Allock.
E chi l’avrebbe mai detto che un tipo del genere sarebbe potuto tornar utile. Per distrarre sicuramente.
“Di esser venuto qui.” Lily si strinse nelle spalle. “Anche se non sono sicura di voler sapere perché.”
“Perché ero preoccupato per te, mi sembra ovvio.”
L’altra alzò gli occhi al cielo. “Per l’appunto. Sai quando ti dico che so cavarmela perfettamente da sola?”

“Sì, ma…”
“È anche a questo genere di situazioni che mi riferisco, però…” Lasciò la frase in sospeso prima di rivolgergli un sorrisetto divertito. “… però devo ammettere che stavolta non ho motivo per esserne seccata.”
“Perché ti sono servito?” Sospirò. “Magnanimo da parte tua!”
Lily ridacchiò, toccandogli la spalla con la sua. “Comunque … pensi che tornerà presto? Dico, la luce.”
“Certo!” Replicò con una sicurezza che era ben lungi dal provare; in realtà non riusciva a capire perché nono fosse ancora venuto nessuno a controllare la situazione.

Dopotutto questo piano è pieno di maghi instabili, e là sotto devono sapere che a guardarli è rimasta solo una studentessa del primo anno.
Si tenne però quel genere di considerazioni per sé; far preoccupare sua sorella era l’ultima cosa che voleva.
“A che stai pensando?” Lo riscosse quest’ultima con il classico tono che presupponeva lo stesse scandagliando a fondo.
Eh, no.
“Al fatto che ho la dispensa vuota.” Mentì serenamente. “Dubito che oggi Tom si sia ricordato di far la spesa anche se gli avrò lasciato qualcosa come trenta promemoria sparsi per casa.” Concluse e l’idea del suo ragazzo gliene fece venire nostalgia; al momento doveva trovarsi sepolto nel laboratorio di Stevens, con il cervello che lavorava a pieno regime e lo stomaco quasi del tutto vuoto.
Speriamo che Rupert gli abbia fatto far pranzo.
Avrebbe voluto averlo lì; Tom avrebbe saputo dare una spiegazione logica alla mancanza di luce. Lo avrebbe fatto sentire stupido, ma sarebbe stato meglio che sentirsi strisciare addosso l’ansia.
“Io sto pensando a Sören.” Lo riscosse la sorella, evidentemente  solo per farlo irritare.
“Non dovresti pensare a Scott?” Replicò sullo stesso tono. “Non è carino pensare ad un altro ragazzo.”
“Scott non c’entra niente.” Fu la replica neutra, ma la sentì cambiare posizione accanto a sé, e in Lily nulla era lasciato al caso. Neppure le reazioni fisiche. “Sören non ha ancora risposto alla mia lettera.”
“E quindi?” Premette la cera sul bordo della candela, per evitare che gli sgocciolasse sui pantaloni del camice.

“Quindi è strano.” Anche senza vederla aveva la certezza che l’altra si stesse attorcigliando una ciocca di capelli tra le dita. Era il suo modo di gestire il disagio. “Mi ha sempre risposto.”
Davvero vuoi parlare di Von Hohenheim con me Lils?
“Avrà da fare.” Si strinse nelle spalle, suo malgrado trascinato in quella conversazione; ma del resto, meglio parlare del tedesco che riflettere sul fatto fossero soli e tagliati fuori dal mondo. “Sarà in qualche missione fuori sede.”
“Sì, ci avevo pensato … ma no. Troverebbe comunque il modo di rispondermi. È come è fatto, sai.” Soggiunse con un lieve sospiro che poteva voler dir tutto o niente. Non poteva saperlo, non era un Legimante, lui.  

“Non mi preoccuperei se fossi in te, penso sia perfettamente in grado di badare a se stesso.” Ribatté neutramente dato che non aveva idea di cosa dirle; da parte sua non aveva mai amato quella strampalata corrispondenza. La trovava sbagliata su un sacco di livelli.
È vero, può essere che Von Hohenheim, o Prince … insomma, Sören, sia diventato una persona a posto, ora che il padre di Tom è morto. Sicuramente lo è se gli hanno dato un distintivo.
Ma solo io penso che sia malato che continuino ad avere contatti?
No, era certo di non essere il solo. Il problema era la volontà di Lily. Non aveva mai visto sua sorella intestardirsi tanto su qualcosa o, ancor peggio, qualcuno.
Quando gli abbiamo chiesto perché volesse scrivergli ha risposto che glielo aveva promesso.
Questo e basta?
Dubitava. Ma a parte fare silenziosa ostruzione non poteva far molto.
Per quanto poco mi piaccia … sono l’ultima persona che può parlare . Di decisioni cretine ne ho prese parecchie.  
La sua unica consolazione era il fatto che il tedesco vivesse ad un oceano di distanza da lì; lontano in fondo non poteva fare molti danni.
“Sören non sa badare a se stesso.” Replicò sua sorella serrando la ciocca di capelli tra le dita. “Te lo posso assicurare.”
“Credo che Von Hohenheim l’abbia cresciuto per sapersela cavare…”
“Non parlo di cose fattuali come sopravvivere alla giornata.” Lo interruppe scuotendo la testa. “Parlo di altr-

Un improvviso lampo seguito da un tremendo rumore che non riuscì ad identificare, ma che sembrava quello di una porta violentemente sbattuta, troncò la frase a metà. Al si alzò in piedi di scatto, controllando con un’occhiata la reazione dei degenti, potenzialmente una bomba più pericolosa di quella che sembrava essere esplosa in corridoio.  
“Che cavolo…” Mormorò Lily, in piedi anche lei e con la bacchetta pronta alla mano.
Brava sorellina.
“Resta qui Lils, io vado a vedere.”
“Scherzi?”

Beh…
In realtà non aveva la minima voglia di farlo, ma non era quello il punto; se uno di loro aveva il dovere di restare con i pazienti e tranquillizzarli visto che sembravano piuttosto scossi e innervositi, l’altro doveva necessariamente controllare che non stesse andando a fuoco il piano o amenità simili.
“Tu studi Psicomagia, non io. Se uno dei pazienti perdesse il controllo io non saprei cosa fare.” Obbiettò sentendosi molto razionale. E terrorizzato. “Vado a controllare, magari è arrivato qualcuno della manutenzione … Controllo e torno, va bene?”
Lily gli lanciò un’occhiata linciante che sentì di meritarsi appieno. “Mi sembra l’idea più cretina del secolo.”

Lo era, ma rimanere fermi in attesa di qualunque cosa lo sarebbe stata ancora di più. “Torno subito.” Le strinse appena la spalla e poi uscì senza darle tempo di ribatterlo o fermarlo.
Il corridoio era ancora immerso nel buio e fin lì, nulla di strano. Al mise la bacchetta ben tesa di fronte a sé, per illuminare quanto più pavimento poteva. “C’è nessuno?” Gli pareva una frase cretina da dire, tuttavia necessaria.
Se ci fosse davvero qualcuno …  magari non malintenzionato. Merlino, se odio il buio. Mi fa pensare cose ridicole.
Continuò ad avanzare e fu un sollievo notare come nulla stesse andando a fuoco; l’esperienza al castello dei Von Hohenheim gli aveva lasciato un brutto ricordo in merito. Pensò quasi di tornare sui suoi passi, imputando quel bagliore alla rottura di una grosse lampade tonde che costellavano il soffitto, quando  qualcosa attirò la sua attenzione, o meglio, qualcuno. C’era una persona all’imbocco del corridoio; non l’aveva vista subito semplicemente perché non aveva la bacchetta accesa in un Lumos.
Un paziente?
Era l’ipotesi più probabile, anche se non doveva essere uno della Thickley, considerando che erano tutti con sua sorella. Forse qualcuno venuto a chiedere aiuto dai piani superiori? “Ehi.” Disse avvicinandosi e abbassando l’intensità del Lumos per non accecarlo. “Ehi, va tutto bene?”
Quando la luce illuminò il mago – perché era alto e piazzato come solo un uomo poteva essere – Al inspirò bruscamente. “Sergente Flannery!” Esclamò sconcertato . “Cosa ci fa qui?”
Già, cosa ci fa qui? Era esanime!
Oltre a quello il reparto Lesioni da Incantesimo era più in alto rispetto a quello di Malattie Infettive.
Perché è salito? Se la luce manca in tutti i piani, la prima cosa da fare è cercare di scendere all’accettazione.
Il mago non gli rispose. Respirava faticosamente e sembrava reggersi in piedi a stento. “Sergente…” Lo chiamò di nuovo eliminando la distanza che li separava; qualunque fosse il motivo della sua presenza lì, era tenuto ad aiutarlo. Prima di farlo però si lanciò un incantesimo sterilizzante addosso; una leggera patina magica che gli avrebbe impedito di respirare la stessa aria dell’uomo.
Se viene da malattie infettive  … Beh. È sensato.
Gli sorrise, usando il suo tono più calmo. “Venga con me, deve stender…” Si bloccò, quando l’uomo, forse finalmente accortosi della sua presenza, alzò il viso.
I suoi occhi!  
Fece un immediato ed istintivo passo indietro ma fu troppo tardi. Con un ringhio che ben poco aveva di umano, il sergente Flannery, un mago che conosceva da una vita, gli si avventò contro.
No!
Non c’era altro da pensare, e solo i suoi vecchi riflessi da Cercatore gli permisero di scivolare via dalle mani protese dell’altro e indietreggiare. “Fermo!” Gli intimò levando la bacchetta. “La prego, si calmi! Non mi costringa a Schiantarla!”
Che gli prende?
Non capiva come potesse muoversi con quella rapidità e sicurezza nonostante il buio e l’evidente fatica con cui si teneva in piedi.
E che diavolo ha agli occhi?
Erano bianchi, completamente privi di pupilla, quasi li avesse rovesciati indietro dopo aver perso i sensi mentre la pelle attorno all’orbita era solcata da vene bluastre in rilievo.
“Sergente Flannery! Liam!” Lo chiamò di nuovo tentando disperatamente di attirare la sua attenzione. Il problema, suppose, era che quell’attenzione l’aveva già.
È me che punta!
Non gli restò quindi che levare la bacchetta e pronunciare uno Schiantesimo. La luce rossa si abbatté sulla figura dell’uomo … e si dissolse.
… Cosa?
L’incantesimo diventò fumo di fronte ad una sorta di barriera biancastra emanata proprio dal sergente che non vacillò di un centimetro.
Cosa?!
 
“Al!”

Come nel peggiore dei mondi possibili, sentì la voce di sua sorella chiamarlo allarmata. Si voltò e vide che Lily era uscita dalla stanza, uscita esattamente come non avrebbe dovuto fare.

Tu non avresti fatto lo stesso sentendo tutto questo chiasso?
“Lily, torna dentro!” Riuscì a dire prima che un lampo violento esplodesse al lato della sua visuale.
Mai dare le spalle al pericolo. Mai. – Sentì la voce di suo padre nelle orecchie.
Sentì il terreno scollarglisi da sotto i piedi e poi più niente.
 
 
****
 
“Che cazzo è successo qui?”
Quello che stavano vedendo era il risultato di un Incantesimo Esplosivo, non c’era altra spiegazione che potesse giustificare lo stato del corridoio in cui erano entrati; il reparto Malattie Magiche sembrava aver affrontato quello o una mandria di Centauri incazzati.

Una delle due. Comunque vada, la faccenda si fa pericolosa.
James schioccò la lingua, facendo cenno a Scorpius, che chiudeva la fila, di tenere gli occhi aperti. L’aspetto più spettrale della faccenda in realtà non era il caos, le sedie rovesciate e i quadri che foderavano le pareti vuoti e a terra. No, quello che metteva più inquietudine addosso era il fatto che le grosse lampade a forma di Pluffa sopra le loro teste baluginassero come vecchi neon scassati della più fetida delle stazioni metropolitane.
Peccato che non vadano ad elettricità, ma a magia.
Se la sentiva crepitare addosso, quella magia, come energia statica prodotta dallo sfregare di qualche fibra sintetica sulla propria pelle. Deglutì sentendosi la gola secca. “Occhi aperti.” Ripeté per la ventesima volta in quei pochi minuti.
“E vigilanza costante!” Gli fece eco Scorpius con tono giulivo. Lo conosceva abbastanza bene per sapere che nascondesse tutt’altro stato d’animo.
Se la sta facendo sotto. E come biasimarlo, cazzo.
Avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì; non c’era traccia di anima vivente ma era ovvio che qualcosa fosse accaduto prima del loro arrivo.
Qualcosa di anormale. E qui nel Mondo Magico quando qualcosa è anormale lo è alla grande.
Sentiva il respiro quieto e regolatissimo del tedesco dietro di sé e ebbe quasi l’istinto di voltarsi e intimargli una doverosa distanza. Lasciò perdere, pensando che in effetti l’altro stava solo seguendo la procedura.
Ranghi serrati, pivelli.  
Era l’unica frase che il Sergente Flannery aveva detto loro quando erano usciti per la prima volta in missione. Ne aveva fatto tesoro, perché alla fine molto di quello che facevano era tutto lì.
“Pensate ci sia ancora qualcuno qui in giro?” Chiese Bobby facendo saettare lo sguardo da un lato all’altro del lungo corridoio. “Forse dovremo controllare nelle stanze … O nelle sale operatorie.”
“Buona idea.” Convenne. “Tu e Malfoy andate a controllare le sale operatorie, io e Prince ci occuperemo delle stanze.” Non ci aveva riflettuto molto prima di prendere la decisione di mettersi sul groppone il tedesco, dato che non aveva la minima intenzione di lasciarlo gironzolare da solo per il San Mungo.

Se questo fu stupito dalla sua decisione non lo diede a vedere. Si limitò a salutare con un cenno della testa gli altri due, ed affiancarglisi.
“Okay, seguimi.” Gli ordinò e fu quasi contento della situazione di tensione; il desiderio di azione era più forte delle loro reciproche divergenze.
E non può fare lo stronzo quando potenzialmente la sua vita dipende dalla mia.
… E viceversa?
Ignorò quella vocetta irritante nella sua testa, raddrizzando la schiena e dirigendosi verso la prima delle stanze. Spalancò con una manata le porte a molla e poi inspirò bruscamente.
Qualsiasi cosa fosse successa nel corridoio sembrava che fosse partita da lì; i letti erano stati divelti, i materassi erano stati rotti in un nugolo di piume, mentre il carrello delle pozioni – era l’ora delle medicazioni quella, lo ricordava – era stato rovesciato a terra in una maleodorante confusione. Prince si coprì il naso e la bocca con la manica della camicia, distogliendo il viso. “Non respirare.” Gli intimò. “Deve essersi rotta una grossa quantità di Pozione Soporifera.”
Come ha fatto a riconoscerla a colpo sicuro dall’odore?

A quanto pare dall’Untuoso Piton non ha preso solo i capelli.
Si lanciò un incantesimo Testabolla e scandagliò l’ambiente umbratile con lo sguardo in cerca di feriti.
Okay, ad un paziente magari è partita la brocca. Ma ci sono delle misure di sicurezza per questi casi …
Notò poi qualcosa che si muoveva vicino alla finestra, sepolto tra un materasso e un comodino. Serrò quindi la presa sulla bacchetta, scavalcò la pozza di pozioni e lo raggiunse; smise di farsi problemi quando vide che indossava il camice del Guaritori. “Fermo, stia fermo. Ci pensiamo noi. Prince!” Chiamò l’altro. “Dammi una mano a sollevare questa roba!”
Il tedesco gli fu subito a fianco, e senza usare magia – non sembrava stranamente opportuno a nessuno dei due – riuscirono a liberare l’altro. James appena riuscì a prenderlo per un braccio per aiutarlo a tirarsi su lo riconobbe. “Sam?” Era Seamus Finnigan, amico di famiglia da una vita e Capo Guaritore del reparto. “Che diavolo…”
“Oh, Jamie.” Lo riconobbe battendo le palpebre stordito. “Grazie a Merlino … voi Auror siete dei lampi ad intervenire.”
“Vorrei vantarmene, ma eravamo qui da prima.” Ribatté controllando che non fosse ferito. Sembrava solo stordito dalla caduta, tanto che riuscì a tirarsi in piedi da solo. “Che è successo?”
L’uomo si guardò attorno come se non credesse a ciò che vedeva. “Per tutte le Banshee d’Irlanda…” Mormorò sgomento. “Io … è stato…” Si umettò le labbra guardandolo in modo strano. “… Credo sia stato…” Esitò.

“È stato chi?” Lo incalzò. “Sam, l’intero San Mungo è senza magia!”
“… Cosa?”
Sì, era assurdo, concordava. “Senti, fai prima a dirci chi ha combinato questo casino.”

L’irlandese scosse la testa, appoggiandosi al davanzale della finestra come se non riuscisse a mantenere l’equilibrio. E forse era così a giudicare dal repentino pallore del suo volto. “È stato uno dei vostri, ragazzo.”
“Cosa?!”
“William Flannery è stato portato qui stamattina… in questo reparto. Avevamo finito gli esami preliminari, e non essendo venuti a capo di un accidente abbiamo deciso di assegnargli una camera in attesa dei risultati delle analisi. Gli ho portato io stesso una Pozione Decongestionante e…” Tacque, scuotendo di nuovo la testa. “Non ricordo altro.”
“Il sergente?” Si sentiva come se qualcuno l’avesse colpito forte in testa e stesse ancora cercando di capire da che parte era arrivato il colpo; il Sergente Flannery doveva essere a casa a smaltire una febbriciattola.

Non qui. Non accusato…
“Quali erano i suoi sintomi?” Prince prese la parola e  per la prima volta in quella giornata non se la sentì di togliergliela.  
“Febbre alta, delirio … Non ha ripreso coscienza per tutta la mattina.” Rispose il Guaritore. “Abbiamo pensato anche a qualcosa di Babbano, ma…”
“Potrebbe essere pericoloso? Aveva con sé la bacchetta?”
“No, niente bacchetta e …” Ci fu una lieve esitazione e un nuovo sguardo sommario alla stanza. “… credo che sia stato lui a combinare questo casino, quindi sì, direi che è pericoloso.”
“In che direzione è andato?” Le domande di Prince erano corrette anche se troppo brusche per un uomo che aveva appena ripreso i sensi. James avrebbe dovuto intervenire ma si sentiva ancora stordito: il sergente era per lui una sorta di gigante buono perennemente in controllo della situazione.

Che sta succedendo?
Scorpius e Bobby entrarono in quel momento. “Il resto delle stanze è vuoto … Devono essere tutti scappati.” Spiegò quest’ultimo. “Ci sono però tracce di qualcuno che ha preso l’ascensore.”
L’ascensore?

“Ma non era fuori uso?” Il tedesco stava mantenendo la lucidità mentre James se la sentiva scivolare dalle dita.
Forse perché è la prima volta che una figura di riferimento fa cilecca, eh ragazzone?
Si passò una mano trai capelli, imponendosi di rientrare nella sua pelle, ovvero quella del Caposquadra in interim. “Sì, non c’è magia, che cavolo state blaterando?”
Bobby e Scorpius si scambiarono un’occhiata densa di un sottotesto che non colse. “Cosa, cazzoni?” Li apostrofò nervoso. “Qual è il problema adesso?”

A parte il fatto che stiamo dando la caccia alla persona che di solito ci guida e al fatto che non ho la minima idea del perché.
Fu Malfoy a parlare, con un tono calmo e composto che in realtà nascondeva l’agitazione più totale; assomigliava a suo padre in maniera impressionante in quei frangenti. “Quello che ti abbiamo appena detto. L’ascensore, quello che prima abbiamo usato e abbandonato vicino al piano terra, adesso è al Quarto.”
A Lesioni da Incantesimo?” Non fece in tempo a farsi venir in mente che Albus e Lily bazzicavano quel piano, né tantomeno a ricordarsi che non li aveva visti prima al piano terra, che vide il tedesco irrigidirsi come se qualcuno l’avesse appena pugnalato in pieno petto. Per una frazione di secondo sembrò quasi stesse per vomitare o svenire ma poi l’adrenalina ebbe la meglio: Sören Prince perse la sua irritante compostezza di granito e corse via come se avesse un drago alle calcagna.
Non gli restò che imitarlo.
 
****
 
 
Sören pensò che se gli fossero esplosi i polmoni neppure se ne sarebbe accorto.
Tutto le sue funzioni vitali erano concentrate su unico obbiettivo, quello di arrivare il più velocemente possibile al quarto piano, il piano in cui Lily passava buona parte delle sue giornate come studentessa di Psicomagia. Sentiva il sangue rombargli nelle orecchie e quando sbatté violentemente la spalla contro il corrimano delle scale antincendio provò a malapena fastidio.
Potrei anche essermela rotta, per quanto ne so.
L’ascensore funzionante poteva non necessariamente portare a conseguenze nefaste; una parte del suo cervello, quella razionale, argomentava vivacemente come potesse essere stato azionato da un mago della manutenzione.
No, non è così.
Se lo sentiva nelle ossa che c’era qualcosa di sbagliato là dentro. Nelle ossa e nel braccio che non aveva smesso di lanciargli fitte dolorose da quando era andata via la luce.
È la magia. C’è Magia Oscura.
Era come se quel braccio fosse l’ago di una bussola puntato strenuamente verso un Nord che lui non conosceva.  
Prince!” Si sentì chiamare. “Dannato bastardo, aspettaci!” Era la voce di Potter, ma la udiva come un eco insignificante. Fisicamente però gli era vicino, dato che sentiva il suo respiro affannato contro la schiena. Si sentì poi afferrare per la cintura, e strattonare indietro. “Fermati, cazzo!”
Lasciami!” Ruggì in tedesco, scordandosi che l’altro non poteva capirlo. “Toglimi le mani di dosso!

Doveva arrivare da Lily prima che il responsabile di quello scempio la trovasse sulla sua strada. Perché lo sapeva, se lo sentiva; Lily Potter non poteva essere da nessuna parte se non al quarto piano.
“Cazzo hai detto?” Fu l’ovvia, sconcertata replica. “Non parlo la tua lingua barbara!”
“Ha detto di lasciarlo andare, credo.” Sentì la voce di Malfoy e vide poi la sua testa bionda spuntare dal resto delle scale. “Prince, calmati, stiamo andando tutti al quarto piano. Non fare l’eroe, che non hai la minima idea di quel che ti aspetta là sopra.”

Cosa mi aspetta…
Vedere l’aria tesa di Potter, così diversa dall’espressione strafottente che aveva avuto fino a poco prima, fu come esser colpiti da uno schiaffo d’acqua gelida. “Che vuol dire?” Mormorò sentendo il costato dargli delle fitte. Era urgenza.
Devo andare. Fatemi andare.
“Il Sergente Flannery è un auror addestrato.” Soffiò a denti stretti quest’ultimo, quasi gli costasse togliersi ciascuna parola di bocca; poteva capirlo, era un suo diretto superiore e adesso era diventato ufficialmente un nemico. Lo capiva, ma non gli importava. “Fottutamente svelto e forte … Qualsiasi cosa gli sia successa, non sarà facile da…”
“… da neutralizzare.” Gli venne in soccorso Scorpius. “E molto probabilmente non è in sé. Anzi, di sicuro.” Soggiunse e Sören lesse smarrimento nella sua espressione. Si riprese subito però, da bravo Occlumante. “Ci serve un piano, o rischiamo di far saltare in aria metà San Mungo.”

“Lily…” Gli uscì dalle labbra senza che potesse fermarsi. “Lei…”
“Lo sappiamo.” Tagliò corto Potter indurendo la mascella ma non facendo ulteriori commenti. “Pensi che non sappia che i miei fratelli sono rimasti lassù? Lils era di turno stamattina all’ala Thickley e Al non sarebbe mai sceso senza di lei o i lungo degenti.”  

“Ci sono però delle procedure mediche quando un mago perde il controllo di sé.” Intervenne Jordan piegato sulle ginocchia e con il fiatone, ma non per questo meno disposto a dir la sua. “I guaritori tirocinanti e anche gli studenti le conoscono … Sapranno come calmarlo.”
Come, se non c’è riuscito neppure un Guaritore fatto come quello che abbiamo soccorso prima?
Se hanno incontrato il sergente e se non sono riusciti a calmarlo, dobbiamo avere un buon piano o finiamo nella loro stessa situazione.” Argomentò Malfoy e Sören si rese conto che stavano tutti cercando di farlo ragionare. Si accorse anche che la sua mano formicolava come se l’avessero coperta di Polvere Urticante e vedendo le prime scintille scaturire dalla punta delle dita e non dalla bacchetta fu costretto a serrare il pugno e infilarselo in tasca.
“Avete ragione.” Si sentì dire come da una caverna profondissima. Ma la avevano; non poteva lanciarsi in un salvataggio scriteriato quando la posta era così alta in gioco.  
Malfoy tese il braccio e poi sentì una stretta alla spalla, un gesto distensivo che non capì, ma comunque apprezzò. “Dì un po’ cowboy.” Lo apostrofò con calma surreale e  un nomignolo improbabile. “Qualche suggerimento?”
 
****
 
Albus era svenuto a terra, il sergente di suo fratello pareva essersi tramutato in una belva fuori di testa e lei era rimasta sola ad affrontare l’intera faccenda.
Che gradevole sensazione di deja-vu.
Ironizzare su quel momento era fuori luogo, se ne rendeva conto, ma lasciarsi andare alla paura sarebbe stato persino peggio.
Lily sentiva l’immediata urgenza di darsela a gambe senza voltarsi più indietro e l’avrebbe fatto, davvero, perché il Sergente Flannery sembrava guardare proprio verso di lei.
Ma non posso abbandonare i pazienti!
Non Frank e Alice, né quel chiacchierone di Gilderoy. Non poteva abbandonare suo fratello, che era venuto a cercarla quando avrebbe potuto benissimo essere al sicuro in quel momento. “Al!” Tentò di nuovo.
Dannazione!
Decise di passare alle maniere forti. Prese quindi la bacchetta e … lo Appellò. Non gli fece fare che pochi metri come se fosse trainato da una fune invisibile, ma le bastò per fare qualche passo e afferrarlo da sotto le braccia, per tirarlo in direzione della porta.
Dai! Dai, accidenti! Dannazione, se pesa!
Aveva imparato proprio al San Mungo che una persona, a corpo morto, era praticamente inamovibile. Sentì le gambe lamentarsi ma non poteva perdere tempo; il sergente si era fermato, ma per esperienza sapeva che la stasi delle persone fuori di sé non durava molto.
Non sono io, che lavoro in una gabbia di matti?
Fece appena in tempo a sentire un ringhio gutturale partire dalla gola dell’uomo che spalancò la porta della stanza da cui era uscita e se la richiuse alle spalle. Lasciò Albus a terra mentre si occupava di chiuderla con un Colloportus.
Non basterà … è un auror, sono addestrati per entrare ovunque! Non basterà!
“Mia cara!” Esclamò Allock trotterellandole accanto. “Che sta succedendo?”
“Gilderoy, devi darmi una mano a bloccare la porta con … con qualcosa!” Esclamò sentendo il panico placcarla come un Bolide tenace. “Non basterà un Colloportus!” Vedendo le espressioni spaventate e agitate dei degenti si rese conto di che razza di situazione fosse.

Una situazione di merda. Di nuovo!
“Mia cara…” Farfugliò l’uomo più agitato di lei. “…Con … con cosa?”
“ … letto…” Il lamento di Al fu come un coro di angeli discesi dal paradiso. Suo fratello aveva gli occhi spalancati alla luce tremolante delle candele e sebbene fosse ancora steso e con l’aria smarrita, era cosciente. E soprattutto pensante. “Dobbiamo usare un letto.”
Tutte le botte in testa che ha preso a Quidditch devono avergliela resa dura. O forse tutte le volte che è stato sbattuto come un calzino da qualche mago cattivo?
“Letto! Spostiamo un letto a contrasto con la porta!” Ripeté a beneficio dell’uomo. “Gilderoy, muoviti!”
Con l’aiuto del mago riuscirono a metterlo a contrasto, mentre Al si tirava su e si passava una mano trai capelli con una smorfia stordita.

“Ho preso botte peggiori.” Disse indovinando la sua espressione. “Sembra uno schema che si ripete quando finisco nei guai … la mia testa è la prima cosa che rischia di rompersi.” Sorrise debolmente prima di tornar serio. “Avresti dovuto lasciarmi lì.”
“Non sei l’unico con la sindrome della chioccia, sai.” Frecciò facendolo sorridere divertito.

“A quanto pare.” Convenne guardando verso la porta e facendole poi cenno di tener bassa la voce. “Credo di essermi perso la parte in cui ti lasciava entrare qui dentro…”
“Non si è mosso quando l’ho fatto. Credo … Merlino, Al, che gli è preso? E cos’ha agli…”
“Non lo so.” La fermò scuotendo la testa e indicando non visto Allock, che sembrava bersi ogni loro parola. “Non ha importanza comunque. Quello che dobbiamo fare è-”
Non riuscì a finire la frase perché la porta tremò come squassata da un tifone. I degenti gridarono e si rannicchiarono gli uni sugli altri, Gilderoy compreso visto che lo vide sparire sotto uno dei letti.

Non che si sentisse di biasimarlo; le sarebbe tanto piaciuto imitarlo. Purtroppo quel trucchetto aveva smesso di funzionare quando aveva cinque anni. “Al, che facciamo?!” Disse invece con urgenza.
Suo fratello deglutì. “Non prendere la bacchetta.”
“Cosa?”
“Prima ho tentato di schiantarlo ma non ha funzionato.” Parlava velocemente, con gli occhi incollati alla porta e Lily realizzò che era nel panico quanto lei. “Ho come l’impressione che lo Schiantesimo se lo sia…” Tentennò. “… se lo sia mangiato.”
Cosa?
Al gli restituì un’occhiata vuota prima che la porta vibrasse di nuovo violentemente nei cardini, spostando il letto di qualche centimetro. Altre urla, un altro spaventoso colpo e i cardini cedettero.

Come in una sorta di incubo a rallentatore – e lei di incubi se ne intendeva – lei e il fratello indietreggiarono per far scudo ai pazienti. Erano Potter, non c’era altro che potessero fare se non gli eroi, persino in una situazione che non prevedeva altro che una bruttissima fine.
Serrò forte gli occhi pregando, implorando che qualcuno venisse a salvarli, perché no, non era giusto, doveva essere tutto finito, quindi perché ancora?
Un urlo, un lampo, il rumore di qualcosa di pesante che veniva scaraventato via. Poi, niente.
Niente?
 
“Lily…”

Ho le allucinazioni.

Non c’era altra spiegazione perché la voce che l’aveva chiamata apparteneva a qualcuno che aveva parlato con lei molto tempo prima.
Cinque anni.
Spalancò gli occhi e vide capelli neri, spalle magre quanto forti e una bacchetta. E quando il suo salvatore si voltò, il taglio degli occhi scurissimi, inconfondibili.
Ah, Ren – Pensò con la tranquillità dello shock – ecco dov’eri finito.
 
****
 
 
Note:

L’avevo detto che arrivava l’azione! ;D

Ormai sono incorreggibile. Perdonatemi, ma qui tra lavoretti e ore extra, sto perdendo la capacità di avere del tempo libero che non preveda collassare su un letto.
Un grazie infinito e continuo a chi mi recensisce: so di essere una merdaccia ingrata, e di non rispondere bene e celermente come vorrei … il problema è sempre il solito: Real Life. :(
Questa la canzone del capitolo.

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX




 
 
"They never tell you truth is subjective. They only tell you not to lie"
(Something Else, Gary Jules)




San Mungo.

Quarto Piano. Lesioni da Incantesimo.
 
Non c’era motivo per cui Lily dovesse credere ai propri occhi.
Sören avrebbe dovuto essere ad un oceano intero di distanza, con un impermeabile nero e il compito di vegliare su degli onesti cittadini magici americani.
Invece.
Invece si trovava a pochi centimetri da lei, senza impermeabile e con le spalle scosse da respiri profondi.
“Lily…” Mormorò, e anche dopo cinque anni riconobbe quella voce come la sua. Meno accento, molto meno, e più roca di quanto se la ricordasse – fumava troppo, lo aveva capito dall’odore di sigarette sulle lettere che fumava troppe sigarette babbane.  
“Io…” Avrebbe dovuto dire qualcosa?
Fortunatamente la risposta le fu risparmiata perché suo fratello James irruppe nella stanza come un Bolide, seguito a breve distanza da Malfoy e Bobby Jordan.
Auror? Sì, c’è decisamente bisogno di Auror.
Lils!” La apostrofò, prima di cercare con lo sguardo anche l’altro fratello che ricordò solo in quel momento di avere. “Al!” Sul serio, il mondo aveva improvvisamente perso assetto, non ci si poteva aspettare ricordasse cose simili. “Ehi, siete … state bene?”
“Stati meglio.” Rispose quest’ultimo alzandosi in piedi e raggiungendola. Stava guardando Sören assorto in pensieri che neppure lei, provandoci, sarebbe riuscita ad intellegire. Ad Al non serviva essere un Occlumante per chiudersi nel suo mondo riflessivo. “Siete stati veloci. Vi hanno avvertiti?”
“Cosa?” James aggrottò le sopracciglia in piena confusione. “No, noi … eravamo già qua. Per un altro caso. Sicuri di stare bene?”
“Sì.” Ripeté Al irritato, massaggiandosi il punto della testa che aveva sbattuto prima. “Che sta succedendo?” Si risolse infine a dire e sì, era l’unica domanda sensata da fare.
James ebbe il buongusto di mordersi un labbro e scuotere la testa. “È una storia lunga. Molto lunga. Voi…”
“Il Sergente Flannery.” Lo interruppe Al. “Cos’ha?”
Dov’è? Perché Sören è qui e sembra che stia lavorando con voi?

Che sta succedendo?
Sören tentennò ma alla fine fu lui ad aprire bocca nel silenzio totale. “Non lo sappiamo. È stato messo in sicurezza.”
“L’abbiamo immobilizzato.” Tradusse Scorpius lanciando un’occhiata fuori dalla porta, dove Jordan stava facendo la posta a quello che doveva essere il corpo esanime del mago; riluceva di una strana patina traslucida che Lily identificò come un Incantesimo molto potente di Pastoia, probabilmente lanciato da più bacchette. “È l’unica cosa che ci è venuta in mente…” Aggrottò le sopracciglia. “E che stranamente ha funzionato.”

James scrollò le spalle. “Ve l’ho detto, non eravamo qui per questo e non…” Il tono di voce fermo si perse in un’espressione confusa. “… Quando è andata via la luce siamo venuti su per vedere chi non era sceso e aveva bisogno di aiuto. Abbiamo trovato Same un gran casino giù a Malattie Infettive. Abbiamo fatto due più due e …”
“E? Lo incalzò Al.

“E non ci abbiamo capito un cazzo.” Concluse con uno sbuffo scorato. “Piuttosto, perché eravate qui da soli?”
“Facevamo il nostro lavoro.” Ribatté Al con naturalezza ed era davvero tutto lì. “Questa tipologia di pazienti non può esser fatta muovere con leggerezza. Ci sono persone catatoniche … e persone pericolose se messe in mezzo ad una folla.” Quelle cose avrebbe dovuto spiegarle lei, riflettè distratta. Non lo fece. “Qualcuno doveva occuparsene e quel qualcuno siamo risultati essere noi.” Suo fratello ebbe l’accortezza di voltarsi verso di lei. “Vero Lils?”
Annuì meccanicamente. Ogni sua funzione mentale era concentrata sulla figura magra e a disagio che cercava di rintanarsi nella tanta ombra della stanza.
“Che ci fai qui?” Mormorò, ma le sembrò di gridare. “Che sta succedendo?”
Fu come se la sua voce avesse fatto spegnere tutti i suoni nella stanza. Sören si morse le labbra quasi a trattenere le parole che volevano uscirgli dalla bocca ed era proprio da lui quel gesto.  
Non è cambiato affatto. È qui.
Se avesse teso una mano avrebbe potuto afferrarlo; era una sensazione così assurda che si sentiva più frastornata di quando era mancata di colpo la luce. Sapeva che avrebbe dovuto reagire in maniera più composta che quella di un cervo prima di essere investito da un tir, ma non riusciva a far altro che guardarlo. E a farsi guardare di rimando.
Poteva essere diverso, lei stessa si sentiva diversa dalla quindicenne che lo aveva cercato con lo sguardo nella fila degli allievi di Durmstrang secoli prima … ma gli occhi. Quei maledetti occhi scuri erano gli stessi che l’avevano inchiodata ad una panca della Sala Grande.
Per lettera è facile dimenticarli, eh?
C’era un fuoco nudo che vi bruciava dentro, qualcosa che i suoi poteri potevano percepire; sarebbe stato semplice in quel momento toccarlo e avere le risposte che cercava.
No.
Autoconservazione vinceva su tutto; distolse lo sguardo. Il tempo riprese così a scorrere normalmente perché sentì James sbuffare. “Te l’ho detto Lils, è una storia lunga e neanche avreste dovuto saperne niente…”
“Del suo arrivo?” Lo incalzò Al e dal tono era sul punto di perdere la calma. “Del Sergente Flannery? Perché scusa la franchezza Jamie, ma sembra che ci siamo cascati con tutte le scarpe. Gradirei delle spiegazioni visto che abbiamo appena rischiato la vita. Ancora.” Soggiunse con un tono che solo un Potter poteva padroneggiare con disinvoltura.  

L’altro fece una smorfia sconfortata, ma non ribatté. “Dopo, okay? Adesso cerchiamo di far funzionare le cose … O di dargli un senso almeno.” Si guardò attorno. “Vi serve una mano con i pazienti?”
“Ci servirebbe più luce, sì.” Convenne Al ed era una resa momentanea, ma pur sempre una tregua. “E magari controllare che nessuno si sia fatto male quando Liam è entrato.”

Scorpius fece un passo avanti con un meraviglioso sorriso, tale perché appunto, un sorriso. Nessuno lì aveva qualcosa di diverso da un’espressione tesa dipinta in volto. “Okay, che dobbiamo fare?”
“Vado a sorvegliare il sergente Flannery.” Disse Sören e prima che qualcuno avesse il tempo di ribattere, uscì dalla stanza sorpassando un esitante Bobby.
Lily non reagì; qualsiasi cosa avesse detto tanto non avrebbe avuto il minimo senso. Si limitò piuttosto ad affiancare James. “Mi dai una mano con Alice? La signora Paciock?” Lo apostrofò. “Quando è spaventata non riesce a muoversi e dovremo alzarla di peso.”
Normalità. Razionalità. A volte sono le uniche cose che contano.
“Sicuro!” Convenne l’altro con una strana espressione sollevata. Strana per chi non era lei.
Ci sono momenti in cui odio essere me. Tipo, adesso.
Chi ha detto che l’ignoranza è un difetto?
“Non mi dirai perché Sören è qui.” Stimò chinandosi su Alice per sorriderle e separarle le mani che si stringevano convulsamente tra di loro. “Non vuoi dirmelo.”
“Lils…” Esitò suo fratello spostando il peso da un piede all’altro. Lo faceva sin da quando era bambino quando qualcosa lo metteva in una posizione scomoda. Quando qualcosa lo frenava dall’assecondare i propri istinti.

“Non potevi dirmelo.” Ci rifletté e giunse all’ovvia soluzione. “Allora è stato papà.”
“Lils, per favore…”
“Avrò le mie spiegazioni.” Sapeva che era una mossa vile, e che suo fratello non si meritava la sua rabbia. Non le importava.

Perché Sören è qui e perché nessuno me lo ha detto, lui per primo?
“Le avrò comunque James. Quindi comincia a parlare.”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror.
 
Era un giorno come un altro all’ufficio Auror.
Quel genere di frase non suonava mai bene nella testa del Sergente Ron Weasley.
Era forse una sorta di scaramanzia di fondo che si portava dietro dalla prima adolescenza, o forse semplicemente il fatto che al secondo piano nessun giorno era mai uguale all’altro se indossavi la fodera della bacchetta con la certezza di usarla.
Le scartoffie, certo, quelle erano sempre le stesse ed erano insopportabili. 
Quindi quando sul ciglio della porta apparve il Capitano dei Tiratori Scelti Zacharias Smith non finse sorpresa; quello voleva dire vivere un giorno come un altro.
“Capitano Smith.” Sospirò notando come l’altro avanzava verso di lui con falcate furiose; c’era sempre quella sorta di inadeguatezza di fondo ad animare la rivalità dei Tiratori…
E certo nessuno di noi ci tiene a migliorare le cose. O le opinioni.
L’altro fece un sorrisetto storto. “Buongiorno a te, Weasley. Mi chiedevo quanto ci avrebbe messo un membro del tuo ramificato clan a combinare l’ennesimo casino…”
“Non ti seguo.” Replicò con aria annoiata, incrociando le braccia al petto e fingendo che la sua squadra non stesse origliando a poche scrivanie di distanza.

“La squadra di tuo nipote James…”
“Ah, la squadra del Sergente Flannery.” Rettificò tranquillo, sentendo comunque una punta di soddisfazione all’idea che quella testa arruffata di Jamie si fosse già fatto un nome nel Dipartimento.

Non mi aspettavo di meno da lui, che diavolo!
“C’è stato un black-out al San Mungo, e tutta la squadra è lì. Abbiamo cercato di contattarli e non abbiamo avuto risposta.” Inarcò le sopracciglia. “Andate a dir loro che casi del genere non sono di vo…”
“Nostra competenza, lo so. Sono lì per un altro caso, credo.” Sbuffò annoiato. Poi registrò il primo termine usato dall’altro mago. “Black-out?” Chiese perplesso.

“È quel che mi è stato detto. Mettetevi in contatto con loro e ditegli che sta arrivando una nostra squadra e che devono levarsi dai piedi.” Ripeté irritato dalla sua costruita ottusità; lavorando gomito a gomito per anni, volente o nolente, era naturale che il Tiratore conoscesse tutte le sue tecniche interrogatorie.
Solo che stavolta è vero, non ci sto capendo niente!
“Ma che vuol dire?” Insistette e dall’espressione stizzita e confusa dell’altro capì che non avrebbe avuto risposta. “Sembra una parola Babbana…” Si voltò verso Marchwell, uno della sua squadra che vantava orgogliosamente origini Babbane da ben sette generazioni.  Non finse neanche di non essersi accorto che li stava ascoltando. “Ehi March … idee al riguardo?”
“Se è riferito ad un impianto elettrico vuol dire che salta la luce.” Spiegò pronto il ragazzo senza la minima traccia di imbarazzo; erano agenti, origliare era un po’ una deformazione professionale. “Ha presente quei grandi edifici che mandano energia nelle case attraverso dei fili? Beh, quando il collegamento si interrompe per qualche motivo e i Babbani di una certa casa, o area o palazzo rimangono senza elettricità … ecco, quello è un black-out!” Concluse.
Ron si voltò verso il Tiratore Scelto. “E questo che cavolo c’entra con il San Mungo? Siamo maghi, non usiamo l’elettricità!”
Smith scrollò le spalle. “È questo il termine che è stato usato per inoltrare la segnalazione. Che vuoi che ti dica? Il San Mungo sarà rimasto senza magia!”
La portata dell’affermazione li investì in ugual misura; Ron se ne rese conto perché vide l’altro agente sgranare gli occhi. “Ma non è una cosa possibile.” Soggiunse scoccandogli un’occhiata.

Ron non era un tipo che amava riflettere troppo sulle cose; solo gli scacchi si meritavano lunghe e articolate riflessioni. Ma lì non erano di fronte ad una scacchiera, ma piuttosto ad un fenomeno che poteva essere un errore di comprensione di un Telegramma Gufico oppure…
Beh. Non che abbia molto da fare, al momento, a parte mettere mettere ordine tra i miei rapporti.
E ogni Auror scopriva, non appena prendeva il distintivo, che ogni scusa era buona per abbandonare la pergamena in favore dell’azione.
Harry è forse l’esempio più fulgido.
Smith dovette indovinare la sua risoluzione dallo sguardo, perché roteò gli occhi esasperato. “Fammi indovinare Weasley. Stai per dirmi che potrebbe servirci una squadra di Auror in più?”
“Non sono così sadico, Smith.” Sogghignò. “Pensavo di limitare la faccenda alla mia sola presenza.”


 
****

Diagon Alley, Laboratorio di Stevens.
 
Al era in ritardo.
Tom aggrottò le sopracciglia, osservando con odio la porta del laboratorio, chiusa e silente come quella di una chiesa di lunedì mattina.
Albus non era mai in ritardo; per quanto fosse capace di dimenticarsi di zuccherare il caffè la mattina o di allacciarsi le scarpe dopo che per tre volte gli era stato detto di farlo, sugli orari era puntuale come uno svizzero. Di solito.
Quello era il giorno in cui veniva a prenderlo per andare poi a fare la spesa settimanale nella Londra Babbana dato che costava meno comprare da Marks¹ che a Diagon Alley. Era quello il giorno, nessuno sbaglio o incomprensione.
Eppure.
Sentì alle sue spalle Stevens muoversi ed uscire dal magazzino. “Sei ancora qui?” Lo apostrofò, girando involontariamente il dito nella piega del suo cattivo umore “Dov’è…”
“È in ritardo.” Ripeté a parole. “Allo Specchio Comunicante non risponde.” Soggiunse immaginando sarebbe stata quella la prima obiezione.

Il mago passò le dita sulla superficie del suo tavolo da lavoro per misurare lo spazio. “Arriverà. Non c’è motivo di agitarsi, Thomas.”
Stevens era l’unica persona che conoscesse a chiamarlo con il suo nome completo, senza far nessuno sconto; la cosa non gli dispiaceva. “Non sono agitato.” Disse sentendosi irritato come un bambino colto con le mani nella marmellata.

Perché lo sei. Agitato.  
Detestava quando qualcuno gli scombinava la routine e l’insofferenza raggiungeva picchi altissimi quando a farlo era la persona con cui condivideva tutto – soprattutto sé stesso. Erano quelli i momenti in cui rimpiangeva Hogwarts e i suoi orari ferrei.
Era un atteggiamento indisponente? Da bambino viziato? Certo. Non cambiava i fatti.
Potrebbe essergli successo qualcosa. Potrebbe.
Sentì la mano nodosa dell’artigiano sulla spalla. “Una tazza di the mentre aspetti?”
Annuì, incrociando le braccia al petto e sperando che la porta non avesse la brillante idea di prendere fuoco mentre la fissava.
Per noi maghi è un’eventualità che si può presentare. E per me.
… e se gli fosse successo qualcosa?
Era auto-suggestione, ovviamente; Al era al San Mungo e probabilmente si era fermato a chiacchierare con i colleghi. Non correva nessun rischio, se non quello di inciampare sui suoi piedi.
Eppure … ammettilo. È il suo discorso di stamattina. Ti è entrato in testa, che tu volessi o meno.
Albus era sembrato sinceramente convinto che qualcosa nel tessuto della loro quotidianità stesse mutando, e per quanto fosse per indole impermeabile a sciocchezze quali Divinazioni e Profezie, era comunque dotato di un certo grado di intuito, ereditato nientemeno che da Harry in persona.
L’antenna per le grane dell’Inghilterra Magica.  
… Se avesse ragione?
Nel flusso rutilante dei suoi pensieri entrò una tazza fumigante che accettò con un cenno della testa.
“La bacchetta per quello Zabini …” Gli chiese Stevens, forse per distrarlo. “Ricordami per quando deve essere pronta.”
“Mai.” Sogghignò di rimando. “Il più tardi possibile.” Concesse.
“Quel giovanotto deve averti fatto uno sgarbo non indifferente.”
“Ha toccato le mie cose.” Replicò senza impegno, pensando divertito alla reazione di Al se l’avesse sentito.

Probabilmente un pugno.
“Una metafora?”
“Una metafora.” Convenne con gli occhi ormai incollati alla porta senza soluzione di continuità. Sentendosi fissato si voltò in direzione dell’altro mago. Essendo cieco così non era, ma era capace di dargliene la completa impressione. “Cosa?”

“Oggi hai dei pensieri. E prima che tu mi fermi … è la tua intera persona che lo grida.”
“Non credo di esser così leggibile.”
“Non lo sei.” Sorrise. “La tua bacchetta lo è.”
Tom ne sfiorò l’impugnatura: aveva imparato a lasciarla allacciata ai passanti della cintura con un fodero dato che non voleva lasciarla in giro con il rischio di vedersela agguantare dai clienti.

È in vendita questa? No. Assolutamente no.
“Le bacchette parlano e solo tu riesci a sentirle.” Replicò sentendo una punta di irritazione all’idea che non stesse scherzando; Rupert Stevens riusciva davvero a sentirle sussurrare.
“Quando avrai i miei anni sarà lo stesso per te, Thomas.” Ribatté con il tono del maestro di fronte ad uno scolaro impaziente. L’avrebbe permesso solo a lui. “La genialità non può sopperire all’esperienza. Mai.”
“Grazie per il geniale.”
“Non fare il modesto.” Sorrise quieto. “Non essere ciò che non sei.”
Tom non poté fare a meno di ricambiare il sorriso, sentendosi un po’ meno propenso a dar fuoco alla porta. Dopo una pausa generosamente innaffiata da Russian Caravan² bevuto dalle tazze sbeccate che aveva cercato più volte di sostituire senza successo – Stevens riusciva ad essere più attaccato di lui alle cose -  non poté fare a meno di vuotare il sacco. Forse era non esser mai visto a stimolargli le parole, in quel posto.

“Credi nelle sensazioni?”
“Intendi dire quelle sciocchezze divinatorie?”
“Se volessi insultare la tua intelligenza troverei altri argomenti.”
L’uomo ridacchiò, finendo poi per annuire. “Penso…” Si passò una mano sul mento. “…Penso che la realtà sia molto di più di ciò che i nostri sensi percepiscono.” Decretò. “Noi maghi, rispetto ai Babbani, conosciamo certamente una parte del mondo che a loro sarà sempre preclusa … Conosciamo di più, ma non conosciamo tutto. Certe sensazioni, anche se non hanno una base logica, ci sono … ed è da sciocchi ignorarle.”
“Quindi ci credi.”
“Non lo escludo a priori, è differente.” Sorrise l’artigiano usando le sue stesse parole. “Perché questa domanda?”

“Al stamattina si è svegliato con una delle sue brutte sensazioni.” Fece una smorfia. “Ho cercato di minimizzarla, ma so che ci avrà pensato tutta la giornata.”
“E questa brutta sensazione di cosa parlava?”

“Cambiamenti. E non del genere buono.”
“Capisco.” L’uomo si alzò, riponendo tazze e teiera e facendole levitare fino alla piccola cucina al piano di sopra, dove viveva. “E tu ne sei rimasto influenzato.” Stabilì con certezza granitica.
Tom pensava che fosse un filino irritante che il suo datore di lavoro riuscisse a sondarlo in modo così preciso. Irritante e straordinario. E in qualche modo, consolante.

A volte non è male essere compresi.
“Sì.” Convenne. “E adesso non è qui.” Borbottò. “Potrebbe…”
“Come non potrebbe.”
Tom fece una smorfia. “A volte penso che avere qualcuno da aspettare sia uno svantaggio … emotivamente parlando.”
Stevens ridacchiò sfiorandogli la spalla con la punta delle dita, un gesto che era persino più condiscendente che se gli avesse arruffato i capelli. Ma molto più elegante, doveva ammetterlo.
“Non lo è affatto, e non lo pensi.”

“ … No.” Convenne: ci aveva messo anni per realizzarlo, ma ogni tanto non gli dispiaceva lamentarsi sapendo di non esser preso sul serio. Era una cosa insopportabile, sosteneva Al, ma sorrideva sempre quando lo diceva, quindi supponeva in realtà fosse l’esatto contrario. “Vado.” Soggiunse alzandosi e slegandosi la fondina per infilarla nella propria tracolla; usando la metro avrebbe suscitato non poche occhiate.
“Torni a casa?” La cosa che più lo divertiva di Stevens era la sua continua ed incessante curiosità; normale, sosteneva Al, dato che viveva la sua vita dentro il laboratorio.
Eccezionale, considerando che neppure la guerra e i lutti gli hanno tolto la voglia di farsi gli affari degli altri.
“Al San Mungo.” Replicò con un sospiro vinto. “Odio aspettare.”
 
****
 
Farrindgon, Magazzino Purge&Dowse.
 
Milo si tolse la coppola dalla testa passandosi le dita trai capelli sudati; se qualcuno gli avesse detto che le estati inglesi potevano essere tali, gli avrebbe riso in faccia.
Invece possono diventare persino roventi. Diavolo.
Si asciugò il sudore con il bordo inferiore della maglietta, dando una panoramica dei propri addominali ad un paio di ragazzette che ciondolavano sedute sugli scalini della vicina metro. Ricambiò i loro sorrisi con un ghignetto e una strizzatina d’occhi.
Senza offesa, ma non siete la mia area. Non con almeno qualche litro di birra in corpo, poi beh … ogni buco è trincea.
Comunque faceva davvero caldo. Fortuna voleva fosse arrivato a destinazione; non c’era dubbio, quel grosso magazzino in disuso, con le grandi finestre sbarrate e rotte dal primo all’ultimo piano fosse il San Mungo.
Era un po’ preoccupato, poteva ammetterlo senza sentirsi la versione bionda e maschile di una mamma apprensiva; il principino era un tipo che amava farsi macerare le cose dentro, ma quella mattina era sembrato insolitamente comunicativo, nell’essere livido e con l’aria di uno che voleva suicidarsi.
Forse avrei dovuto spedirgliela, quella stupida lettera… Ed io che pensavo di fargli un favore!
Lo conosceva da più di tempo di quanto e avesse passato con chiunque, ad eccezione della sua famiglia – secoli prima – e si era francamente stufato di vederlo struggersi dietro una ragazza che viveva ad un oceano di distanza.
Lui e quella rossa… Che okay, caruccia è caruccia, e poi si sa che dicono delle rosse … 
Ma deve metterci un punto. O passerà la vita a sognare una persona che forse non esiste fuori dalla sua testa.
Per questo aveva volontariamente evitato di spedire la lettera, proprio in virtù del fatto stessero salpando per la Terra d’Albione.
Ed oggi dividono pure la stessa aria. Chissà se la becca. Chissà se andrà a cercarla.
No, dovrebbe sbattergli contro perché il miracolo avvenga. È troppo onesto, il coglione.
Sospirò, grattandosi la nuca e incamminandosi lentamente verso quella che gli era stata detta fosse l’entrata, ovvero una vetrina corredata da manichini in avanzato stato di decomposizione.
Ma com’è che nessun Babbano si è mai chiesto perché quest’edificio non vengs fatto saltare in aria? Sembra che stia per crollare da un momento all’altro … Sarà dovuto alla magia?
Ma soprattutto, perché ogni cosa magica in Inghilterra sembra cadere a pezzi?
Si ficcò il cappello nella tasca posteriore dei jeans e cercò di ricordare la modalità d’entrata.
Okay, devo parlare con uno dei manichini … quello vestito peggio. Per Faust, la fanno facile … gli inglesi non sanno vestirsi per default.
Doveva sembrare un idiota agli occhi della folla che gli sfilava accanto sul marciapiede, accaldata e ingurgitante gelati o bevande provenienti dai vicini e refrigerati negozi: ci si sentiva anche lui. Poi lo trovò.
Indossi una blusa marrone su toni di nero? Sei definitivamente tu, bellezza.
Si avvicinò al manichino prescelto. “Devo entrare … err, all’accettazione.” Proclamò un po’ a caso, già pregustandosi gli Incantesimi Refrigeranti all’interno della struttura.
Non accadde niente.
Okay, devo aver sbagliato qualcosa.
Fece la stessa domanda a tutti i manichini presenti. Cambiò la richiesta. Tentò un linguaggio più formale. Alla fine, disperato e anche imbarazzato dalle occhiate divertite e perplesse che gli venivano lanciate dalle persone che gli camminavano affianco, bussò al vetro scheggiato.
Niente. Un cazzo di niente.
Poteva essere per via del suo essere Magonò? Scacciò l’idea esasperato; per quanto la sua mancanza di poteri gli aveva chiuso molte porte in faccia, mai quella di un ospedale.
I maghi non sono razzisti fino a questo punto. Non di questi tempi almeno. E non nella benpensante Inghilterra.
Tirò fuori il cellulare e fece una smorfia; c’era pochissima probabilità che Sören rispondesse dato che definiva il suddetto ‘un attrezzo incomprensibile’ nonostante all’Accademia gli fossero stati forniti rudimenti sulla tecnologia moderna e in seguito corsi di aggiornamento periodici al Distretto.
Per quanto l’impianto stereo di casa schifo non gli faccia. Quello no, eh.
Schiacciò il tasto di chiamata rapida – oh, aveva il cuore pieno della speranza che un giorno quell’idiota anacronistico quando un quadro da museo imparasse ad usarlo – e aspettò.
 
 
Ci volle almeno mezzo minuto prima che Sören capisse che la musica che proveniva dai suoi pantaloni in realtà usciva dal cellulare che aveva riposto accuratamente nella tasca quella mattina – e lì dimenticato.
Nel frattempo riuscì a far uscire in corridoio Malfoy, che gli rivolse una strana occhiata esilarata.
Hot Stuff? Come suoneria?” Ghignò. “Inaspettato.”
“Non l’ho scelta io.”
Cercando di non implodere dall’imbarazzo premette sullo schermo a caso, nel vano tentativo di zittirla; la situazione era orrenda e quell’affare infernale e berciante stava contribuendo a renderla anche umiliante.
Non dovrei essere qui. Sarei dovuto rimanere all’accettazione. Avrei dovuto andarmene.
Come si chiude questo affare?!
Non dovrei essere qui.
Invece c’era perché la sola idea che Lily si potesse trovare nei guai gli aveva reso bianco il cervello dal panico.  
Hai fatto esattamente quello che ti era stato ordinato di non fare.
Complimenti.
Malfoy allungò la mano impietosito. “Da qua.” Stava palesemente trattenendo una risata epocale. “Il fratello della mia fidanzata ne ha uno e mi ha insegnato un po’ ad usarlo.”
“Devo rispondere, potrebbe essere l’ufficio.” Borbottò allungandoglielo e non potendo fare a meno di lanciare un’occhiata verso la porta della stanza; Lily non era uscita e non l’avrebbe fatto, l’aveva capito nel momento stesso in cui aveva distolto lo sguardo dal suo.
Avevo ragione, non vuole avere niente a che fare con me. Possiamo avere un rapporto solo se è per lettera. Solo così.
Realizzarlo era stato peggio di prendere un pugno in faccia.
Malfoy premette qualcosa sullo schermo e poi glielo passò finalmente silenzioso. Con un cenno grato della testa se lo portò all’orecchio. “Qui Sören Prince.”
T’è piaciuta la suoneria?” Era la voce di Milo e per un attimo Sören dovette reprimere l’impulso di lanciare l’aggeggio infernale lungo il corridoio o progettare l’omicidio di quello che a regola avrebbe dovuto essere un suo dipendente. “Credo ti si addica!
“Sei un idiota.” Ribatté in tedesco, preferendo tagliar fuori dalla conversazione l’Auror occhieggiante. “Cosa vuoi?”

Sono fuori dal San Mungo, ma non riesco ad entrare!
Sören inspirò, sentendo un principio di emicrania piantarglisi nella nuca come un punteruolo. “Che ci fai fuori dal San Mungo?”
Dieci punti per la simpatia, principino. Ero venuto a prenderti! O a raccattare quel che resta di te visto che hai incontrato la rossa.”
“Come sai…”

È il karma, maghetto. Ci hai sbattuto contro, non è vero? Come in una commedia romantica!” Sembrava immensamente soddisfatto dalla cosa e Sören ringraziò Merlino di non averlo a portata di mano in quel momento dato difficilmente si sarebbe trattenuto dal torcergli il collo. “E comunque si capisce dal tono di voce. Com’è andata?
Sören si voltò verso la stanza e nonostante le candele disposte illuminassero poco o niente colse un riflesso ramato. Capelli. Lily. Serrò gli occhi, massaggiandosi la sella del naso. “Ci sono problemi … di natura magica. Penso che la barriera all’entrata non sia attiva, è per questo che non riesci ad entrare. Torna alla locanda, ci vediamo là.” Ripeté.
Non è quello che ti ho chiesto!
“Milo.” Il tono dovette fare effetto, perché lo sentì sospirare.

Okay, okay. Ma toglimi una curiosità … se io non entro, tu riesci ad uscire?
… Ah.

La realizzazione lo investì come uno Schiantesimo lanciato in pieno petto; era bloccato lì dentro finché il problema – qualunque esso fosse – non sarebbe stato risolto.
Mi sa che non l’avevi realizzato…” La voce di Milo era un’eco distante e non solo per via del mezzo da cui proveniva. Ci fu una breve pausa. “Lei è lì?
“Sì.”
Okay…” Un’altra pausa. “Stai bene?

“No.” Chiuse la chiamata e poi si voltò verso Malfoy che stava guardando il proprio Sergente con espressione assorta. L’uomo era esanime ed immobilizzato e Merlino solo sapeva come doveva sentirsi il giovane auror all’idea di averlo dovuto mettere violetemente fuori gioco.
Un uomo che ha perso il controllo di sé e della sua magia. Ha rischiato di uccidere delle persone innocenti … Perché?
“Dobbiamo spostarlo.” Esordì, perché darsi degli obbiettivi era l’unica cosa che avesse senso in quel momento.
Il ragazzo si riscosse, annuendo. “Ah… sì, hai ragione.” Aveva l’espressione smarrita, ma Sören finse di non notarlo. Al suo posto non avrebbe voluto che qualcuno glielo dicesse. “Okay. Dove?”
“Andrà bene una stanza qualunque … L’incantesimo dovrebbe durare abbastanza a lungo da riuscire a trovare un Guaritore di Malattie Infettive che venga quassù a prendersene cura. Uno di noi rimarrà con lui … per motivi di sicurezza.”
“Il Sergente…” Si umettò le labbra, passandosi poi una mano trai capelli. “Il Sergente è un pezzo di pane … Voglio dire, se non per lavoro, non ha mai fatto male ad una mosca. È un uomo pacifico, non capisco…”
“Riusciremo ad avere delle spiegazioni.” Cercò di rassicurarlo, non sapendo neppure da dove cominciare. Non era quello che di solito ci si aspettava da lui; in America era Estevez quello deputato ai rapporti interpersonali.
Io sono il braccio armato. Da sempre.
Malfoy gli rivolse un mezzo sorriso, poco convinto ma almeno tale. Era un tipo che non mancava mai di esternare quel genere di mimica; chissà perché. “Lo so.” Disse. “Tu…” Guardò verso la stanza e a Sören fu immediatamente chiaro verso chi fossero diretti i suoi pensieri. “Andrà bene.” Disse un po’ goffamente. “Cioè, sai … La cosa tra e te e la Piccola Potter. È solo che non se l’aspettava.”
Solo?
“Già.” Non voleva pensarci. Doveva rimanere focalizzato su qualcosa di diverso; la situazione in cui si erano involontariamente ficcati, per esempio. “Mi ha chiamato la persona che mi ha accompagnato qui. Dice che il San Mungo è bloccato dall’esterno, e temo che all’interno sia lo stesso.”
L’auror lo squadrò incredulo, prima di ragionare ed esplodere in un’imprecazione a mezza bocca. “È vero … per entrare c’è una barriera magica, tipo quella ai binari di King’s Cross! Se la magia è andata…”
“… è andata anche l’entrata.” Fece loro eco James Potter, uscendo dalla stanza con le mani ficcate nelle tasche e l’espressione tempestosa. “Quindi siamo bloccati qui finché non rimettono a posto le cose?”

“Così pare.” Sbuffò Malfoy scrollando le spalle. “È solo questione di tempo però … ormai fuori se ne saranno accorti che qualcosa non va, qualcuno avrà mandato un Gufo.”
“Bah, speriamo.” Masticò a mezza bocca. Lanciò un’occhiata al proprio sergente e inspirò bruscamente. “Dobbiamo spostarlo di qui, non può stare in mezzo al corridoio.”
Era quello che aveva detto anche lui, ma non trovò proficuo notificarlo dato che gli animi erano già abbastanza esacerbati. Si limitò quindi ad annuire e a suggerire semplicemente di farlo senza magia.
La magia non è sicura. Per Faust, non credevo l’avrei mai detto.
Lo afferrarono in tre e Sören si trovò così spalla contro spalle con Potter. Il ragazzo aveva i lineamenti tesi, e non per la fatica di spostare un corpo esanime. “Gliel’ho dovuto dire.” Mormorò e gli fu subito chiaro cosa e a chi. “Ho dovuto farlo … cazzo, stai qua, non aveva più senso stare zitti.”
Sören non rispose, sentendo un maglio artigliargli le viscere, come il sudore scorrergli gelato lungo la schiena. Avrebbe davvero voluto che qualcuno, chiunque, gli dicesse cosa fare; avrebbe dovuto andare a parlare con Lily? Avrebbe dovuto cercare di spiegarle? O era meglio il contrario?

Cosa devo fare?
“Cosa devo fare?” Anche se stava rivolgendo la domanda forse alla persona meno indicata, non gli importava. Aveva bisogno che qualcuno gli desse un ordine.
È così che sono vissuto, sempre. Ha ragione Milo, sono una testa di latta.
“E io che diavolo ne so?” Sbottò Potter con una smorfia. “Merda, non mi ha piazzato un pugno in faccia solo perché aveva le mani occupate! Stesso vale per Al … cavolo.”
“È arrabbiata?”

“Mia sorella? Tu che dici, crucco?” Schioccò le labbra e lasciò andare un sospiro quando scaricarono il peso del sergente Flannery sul primo letto in cui si imbatterono. “Sai cosa? Avrebbero dovuto saperlo.” Non era un’accusa dal tono dolente più che rabbioso: era un’attestazione.
“Sì.” Lo realizzò in quel momento nella sua interezza; dirlo a Albus Severus in nessuna ipotesi sarebbe stato tra le sue priorità, ma Dionis aveva ragione, Lilian avrebbe dovuto essere avvertita, anche disobbedendo agli ordini di Harry Potter e del Capitano Gillespie.
Avrei dovuto. È mia amica. Ci scriviamo. Le avevo promesso di comportarmi in modo diverso, stavolta.
Uscirono dalla stanza e Lily era in corridoio; doveva aver finito di occuparsi dei pazienti, oppure era uscita proprio per prendere una boccata d’aria dai suoi doveri.
Oltre i suoi doveri. È solo una studentessa…
Era appoggiata al muro, le braccia conserte e i capelli tirati indietro in un’acconciatura improvvisata che prima non aveva; doveva averla approntata per evitare di tenere le dita perennemente impegnate a strattonare via le ciocche dal viso.
Vorrebbe tagliarseli ma non trova mai il tempo… Quando è nervosa ci passa le dita. Detesta farlo, le fa perdere la piega. Le dà fastidio avere i capelli in disordine.
Sapeva tanto di lei, ma quel tanto era infinitesimale avendola davanti in carne ed ossa; era niente guardandola respirare, passarsi la lingua tra le labbra e serrare le dita sulla stoffa del camice. Gli piantò di colpo gli occhi nei suoi e Sören sentì come se tutta l’aria gli fosse stata d’improvviso risucchiata fuori dai polmoni. Quello sguardo chiaro esprimeva una sola cosa … e non gli sarebbe piaciuto averci a che fare.
“Io e te dobbiamo parlare.”
 
****
 
 
Milo si stava gustando un frullato gelido al cioccolato osservando l’andirivieni di maghi e streghe di fronte al San Mungo. Aspettare stava quasi diventando divertente.
Nonostante gli inglesi si fossero ormai arresi al fatto di cercare di confondersi con i loro Babbani, era inevitabile mancassero sempre in qualcosa. O un cappello invernale quando facevano cinquanta gradi all’ombra, oppure un costume da bagno indossato con disinvoltura. Si riconoscevano lontano un chilometro.
Ma la parte più esilarante erano i tentativi di passare la barriere del San Mungo: c’era chi tentava di rivolgere la parola a un qualsiasi manichino nel raggio di due strade, convinto di aver sbagliato edificio, chi invece perseverava gridando contro quelli della vetrina e infine c’era chi si guardava attorno sperduto e chiedeva aiuto ai passanti facendosi conseguentemente squadrare come un pazzo furioso.
Maghi … avere la magia ti rende un po’ idiota.
Mordicchiò la cannuccia con voluttà, comodamente stravaccato su una poltroncina in vimini del caffè dirimpettaio al vecchio magazzino. Avrebbe potuto passare ore a godersi maghi dare testate metaforiche contro la mancanza del centro stesso della loro esistenza.
Sono un po’ stronzo?  
No, considerando che non era una situazione grave; probabilmente sarebbe stata risolta nel giro di una mezza giornata, e l’unico fastidio percepito sarebbe stato dover attendere che qualcuno della manutenzione magica  ci capisse qualcosa. Il problema era che stavano cominciando ad assieparsi lungo la stradina e persino i Babbani, solitamente ciechi come talpe, iniziavano a farsi delle domande.
Certo, vedere tutta questa gente vestita con colbacchi e bikini dev’essere singolare, è ovvio che ti fai delle domande.
Un lavoraccio per … come si chiamano … quelli degli Incantesimi di Memoria…
Tra la piccola folla spuntò poi un volto conosciuto, tale da fargli sentire il familiare brivido del fuggiasco lungo la schiena. La testa rossa che aveva individuato era  stato uno degli agenti inglesi presente al palazzo di Von Hohenheim.
Auror? Sì, Auror. Non ha l’uniforme e niente mantello, ma è definitivamente uno di loro.
Riscuotendosi dai suoi pensieri, si accorse che adesso i volti conosciuti erano due. L’altro apparteneva ad un moretto alto, vestito come se dovesse far sapere a tutti che era intriso di cultura dalla punta dei capelli tagliati all’ultima moda a quella delle scarpe sciupate ad arte – seriamente, detestava i radical-chic.
Guarda un po’ … Thomas Dursley, il cugino-non-cugino del principino. Diavolo, hanno la stessa aria da poeta tisico e tormentato, dev’essere un marchio di famiglia…  
La faccenda si stava facendo interessante, così Milo inforcò gli occhiali da sole, abbandonò la frescura del caffè e si incamminò di buona lena verso il grande magazzino.
Non ci volle che qualche metro per cspire che Dursley si stava dirigendo con decisione verso l’auror fulvo. “Che sta succedendo?” Gli si rivolse senza mezzi termini.
“Oh, Tom.” Non sembrava affatto contendo di vederlo. “Stiamo cercando di capirlo. La manutenzione magica è al lavoro, ma finché non verrà riattivata la barriera non si può entrare … Torna a casa, ti farò chiamare da Albie, okay? C’è già troppa folla … vattene almeno tu.”
“No.” Il tono era petulante come quello di un moccioso di cinque anni. “Aspetterò.”

“Merlino, senti …” Si bloccò e fece un grugnito esasperato. “Okay, fa’ come ti pare, basta che non mi stai trai piedi.” Concluse allontanandosi per andare a parlare con un tizio spelacchiato che teneva il proprio mantello goffamente occultato sotto il braccio.
Il cipiglio sprezzante di Dursley si sgretolò nel momento stesso in cui il parente gli diede le spalle; lanciò infatti uno sguardo angosciato al fabbricato di mattoni rovinati, quasi sperasse di vedervi uscire la persona che evidentemente era venuto a cercare. Lo vide poi frugare nella tracolla e tirar fuori uno Specchio Comunicante, ma quando la chiamata non andò a buon fine si morse le labbra con forza e mormorò un’imprecazione a bassa voce.
Sören mi ha detto qualcosa sul fatto che si impalma uno dei cugini acquisiti. Mai prestato attenzione. Forse il fratello della rossa? Sarà mica il tipo che mi ha quasi fatto bruciare vivo? Occhi da Cerbiatto? Lavora qui? Sì, certo che lavora qui. È Albus Qualcosa con la S Potter.
Milo così pensando si nascose con naturalezza dietro un folto gruppetto di giapponesi che gesticolavano attorno ad una cartina: a quanto pareva gli altarini sarebbero stati presto scoperti.
Tutte le persone che non devono sapere del principino sono nello stesso chilometro quadrato. Divertente. Se non fosse che è sfigato di suo, direi che qualcuno ha orchestrato la cosa…
Non c’era molto che potesse fare a quel punto ed essendosi già stufato di tutta quell’agitazione maghesca, diede le spalle al folto gruppetto pensando di fare un veloce giro in zona Soho.
Beh, si anima di notte, ma non è che non possa trovare qualcosa da fare mentre aspetto che il principino si sia tolto dai casini.
Fu un attimo; voltandosi i suoi occhi agganciarono una figura che stava discosta dagli altri, ma di certo magica visto che i suoi neuroni la riconobbero come tale. Non si scordava mai un viso, lui.
Oh merda.
I suoi ricordi parlavano di un castello battuto dal vento e dalla salsedine, di un ghigno e del terrore di trovarsi con un personaggio simile nella stessa stanza.
Oh. Merda.
Il mago dopo un’occhiata al San Mungo – e un sorriso – venne inglobato dalla folla accaldata ed estiva. Milo tentò qualche passo nella sua direzione, ma fu costretto a fermarsi dal suono violento di un clacson.
“Attento a dove guardi idiota!”
Fece un rapido passo indietro, ma quando alzò di nuovo lo sguardo nel punto in cui l’aveva visto, l’uomo che assomigliava drammaticamente a Johannes era già scomparso.

 
****
 
 
Note:

La canzone è questa, che riutilizzerò anche (e soprattutto) nel prossimo capitolo.

So che è un capitolo più piccolino rispetto al solito, ma voglio dividerlo in due parti visto che la scena secondo me si arresta meglio qui.
Nel prossimo capitolo: chiarimenti e drama a manetta!
(*trollface*)


1. Mark’s: l’abbreviazione con cui gli inglesi chiamano Marks&Spencer, una catena di grandi magazzini famosa per la merce di livello medio-alto (e per i costi).
2. Russian Caravan: miscela intensa di the indiani e cinesi. Il nome è un omaggio alle antiche vie carovaniere che giungevano dalla Cina fino a Mosca. Si beve di pomeriggio.
 
Per quanto riguarda la suoneria di Ren, voglio ringraziare Zia Cissa from NA, che con il suo suggerimento ha causato un’ondata di imbarazzo nel povero crucco e un’ondata di ilarità nella sottoscritta. Questa la canzone. Ovviamente la suoneria inizia dalla prima strofa. Il testo gente, il testo. 

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


Capitolo X
 
 
 
 
You are the silence in between what I thought and what I said
I never knew daylight could be so violent, a revelation in the light of day
 (No Light, No Light, Florence & The Machine)


Londra, San Mungo.

 
Lily avrebbe davvero voluto sapere cosa dire.
Sarebbe stato bello, rifletté sentendo la presenza di Sören dietro di lei, avere ben chiaro in mente il discorso da fare all’altro, senza che ci si mettessero di mezzo i sentimenti, o più in generale, il grumo di rabbia incandescente che le scavava lo stomaco.

Dovevano parlare, questo era incontrovertibilmente vero; Sören era lì e non solo calcava i piedi su suolo inglese, ma lo faceva in compagnia di metà della sua famiglia.
E io non ne sapevo niente. Niente!
Più James le aveva spiegato, più si era sentita presa in giro, tagliata fuori e trattata come una ragazzina traumatizzata.
Non sono più quella ragazzina. Cosa pensavano facessi? Scappassi in un altro Ministero?
Si diresse con decisione dentro la stanza che le magi-infermiere del piano utilizzavano come sala relax e quando l’altro l’ebbe seguita si chiude la porta alle spalle ed Evocò una mezza dozzina di candele per illuminare l’ambiente. Mentre lo faceva Sören si limitò ad avvicinarsi al divanetto, rimanendovi però accanto, in piedi e dritto come se pensasse fosse irto di chiodi arrugginiti.
Lily accese l’ultima candela e poi alzò lo sguardo; erano cinque anni che non lo vedeva, fatta eccezione per qualche foto, e un’analisi era doverosa.
Era sempre magro e non aveva guadagnato molti centimetri, ma aveva un’aria più solida. La camicia dell’uniforme gli si tendeva infatti sulle spalle sottolineando i muscoli e non gli stava abbondante come quella di durmstranghiana memoria. Sapeva che era Milo a tagliargli i capelli – Sören le aveva confessato di sentirsi a disagio quando qualcuno gli agitava la bacchetta attorno alla testa, pur che fosse un innocuo parrucchiere – e doveva ammettere che quel taglio gli donava, anche se tirato indietro dall’intramontabile balsamo per capelli Purosangue.
È diverso, sì.
L’espressione d’altro canto … Si stava Occludendo esattamente come faceva un tempo: per una che faceva il suo lavoro e aveva il suo potere era palese come osservare la pioggia bagnare il prato di casa.
Lily si sedette su una delle poltroncine e rilasciò un sospiro.  
Ci sono momenti in cui vorrei essere un sasso. Sasso, nessuna emozione. Dev’essere bello.
Avrebbe potuto toccarlo, rifletté vedendolo guardarla in aspettativa; avrebbe potuto toccarlo e sapere tutto ciò che le serviva, oltre le informazioni che le aveva fornito un riluttante James.
Era come funzionava il suo potere; le sarebbe bastato sfiorargli la punta delle dita per percepire le emozioni che si nascondevano oltre il muro di Occlumanzia che aveva eretto.
Cinque anni fa non ci riuscivo. Ora sì. Beh, almeno in linea teorica.
La Guaritrice Patil aveva premuto molto affinché non lasciasse ineducata quella parte di sé. Le aveva spiegato, una delle prima volte in cui ci aveva avuto a che fare in via privata, che ignorare il suo potere sarebbe stato come pretendere di andare a piedi quando si aveva un vero talento per stare in sella ad una scopa. Ci erano voluti però due mesi di lezione e di occhiate dense di significato prima che si piegasse a delle lezioni extra-curriculari che si tenevano ogni primo giovedì del mese a casa della donna – impegni di quest’ultima permettendo.
Mi ha insegnato a non avere più paura del mio potere. Mica male.
C’erano comunque delle cose che poteva intuire anche senza usarlo, semplicemente avendo un buono spirito di osservazione. Sören si stava girando l’anello col blasone della sua famiglia tra le dita, ossessivamente. Nervoso.
Aspetta che io chieda. Non pensa di avere il diritto di iniziare la conversazione.
Decisamente da lui.
“Dai, siediti.” Gli ordinò e l’altro fu veloce ad obbedire con un’espressione quasi sollevata.
Ovvio. Visto come è stato cresciuto e l’ambiente in cui è inserito adesso si sente sempre più a suo agio quando qualcuno gli dice chiaramente che deve fare. O glielo ordina.
Si rifiutò di sentirsi dispiaciuta: non era quello il sentimento che doveva predominare.
“Ho parlato con James.” Iniziò in tono neutro. Gridare e richiedere generici perché non sarebbe servito a nulla. “Mi ha spiegato per sommi capi il motivo per cui ti hanno chiamato qui.”
“Per lavoro.” Mormorò passando le dita sul bracciolo del divanetto. “Sono qui per una missione.”
Si stava palesemente costringendo a non guardarla negli occhi. Lily si chiese perché, poi decise che doveva essere disagio, o senso di colpa. “Lily, io …” Si morse l’angolo del labbro. “… io avrei voluto dirtelo.”
“Però non l’hai fatto.”
“Mi è stato ordinato di non farlo.”
“E tu esegui sempre gli ordini.” Non era un’accusa, se ne stupì lei stessa, ma oltre la rabbia che provava sapeva che era vero. Sören prima di essere una persona si sentiva un soldato. Si era sentito così ancor prima di diventarlo a tutti gli effetti servendo il Ministero Americano.

E se ti senti prima un soldato, i rapporti che hai come persona sono secondari.
“Quando non è arrivata la tua lettera mi sono preoccupata.” Ribatté e poteva ben compiacersi del suo tono distaccato: era esattamente quello che avrebbe dovuto usare. Allora perché le sembrava così inadeguato? Curioso. “Avevo capito che eri in missione, e pensavo che qualcosa ti avesse impedito di avvertirmi, ma non avrei mai immaginato che sarebbe stato essere qui.”
“Lily.” Sören aveva un tono di urgenza nella voce e quando lo guardò – le sue mani erano molto più interessanti, visto che le si era scheggiato lo smalto – vide che stavolta la fissava apertamente. “Non era mia intenzione mancare di risponderti. C’è stato un disguido con la posta, lo avrei fatto…”
“… non appena fossi tornato in America?” Concluse per lui con asprezza. C’era una piccola parte di sé che cercava di avvertirla del fatto che Sören, dopotutto, non aveva granché colpa in quella storia di stupide macchinazioni.

Ha solo obbedito agli ordini. Dovresti prendertela con tuo padre e Nora, non con lui.
Era una parte piccola però, e debole. Tutto il resto invece premeva perché tirasse un pugno a quello stupido, sporco bugiardo.
Avevi promesso. Avevi promesso che non mi avresti più nascosto niente! Questo allora cos’è?
Sören inspirò bruscamente e l’espressione si ruppe in qualcosa che fece fare una capriola al suo stomaco. Non guardarmi così, dannazione! Non guardarmi come se ti avessi appena preso a calci!
Chiunque pensasse che Alberich Von Hohenheim avesse cresciuto un’arma anodina probabilmente non si era mai preso la briga di spendere qualche attimo in compagnia della ‘suddetta’: l’emotività di Sören era sviluppata come quella di chiunque altro ed anzi, persino più nuda.
Ed io lo so.
“Lilian…” Si era dimenticata come il suo nomignolo suonasse nella bocca dell’altro. Stranamente con esso l’accento tornava in tutta la sua forza, facendolo suonare molto più dolce che nelle armoniche anglosassoni.
Le era sempre piaciuto come pronunciava il suo nome.
Per questo mi fa tanto incazzare che lo stia facendo proprio adesso.
“Smettila di ripetere il mio nome!” Sbottò alzandosi in piedi. “Ero preoccupata per te, lo capisci?” Certo che lo capiva, ma non era quello il punto purtroppo. “Non ti sei trovato un lavoro tranquillo come smistare i Gufi, pensavo ti fosse successo qualcosa, ero pronta a chiamare Nora!” La stanza improvvisamente le sembrò troppo piccola e soffocante. Voleva davvero evitare una crisi isterica, ma ci si stava avvicinando ad ampi balzi. “Invece eri qui, a Londra, a pochi passi da me … a lavorare gomito a gomito con mio fratello e miei amici!”
“Mi dispiace.”
Pessima scelta di termini, pensò la parte razionale di sé. L’altra trovò del tutto appropriato tirare un calcio al basso tavolino trai divani che sbatté violentemente sull’angolo del divano su cui era seduto l’altro. Sören si irrigidì e le lanciò un’occhiata di cauto allarme, ma non mosse un muscolo.

Oh, sa benissimo che non costituisci il minimo pericolo per lui. Lo sa perché ti conosce, no?
“Non azzardarti a dirlo.” Sussurrò sentendo che la palla bollente di rabbia le stava risalendo fino in gola. “Ti riesce troppo facile.”
Sören aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. “Però è la verità.” Mormorò dopo un attimo di silenzio. “Non volevo farti preoccupare … o arrabbiare. Non volevo…”
“Troppo tardi.” Le uscì dalla bocca prima che potesse davvero vagliare se era la cosa giusta da dire. Non lo era per niente dall’espressione di dolore che vide trapelare dai lineamenti dell’altro, come un’onda in un mare liscio come una tavola. “Come cavolo pensavi reagissi?” Aveva un gran mal di te sta: era tutto troppo. Avrebbe voluto tanto dar retta alla parte di sé che le diceva di andarsene, lasciare quella stanza, prendersi una vacanza, ma l’aveva fatto per anni e alla fine dei giochi non era servito a molto.

I problemi rimangono ad aspettarti comunque.
“E mio padre! Perché non mi ha voluto dir niente?!”
La bocca di Sören si serrò appena in una smorfia. Non aveva mai alzato la voce una volta, né tentato frettolosamente di giustificarsi. Di questo doveva dargliene atto ed era proprio questo che rendeva più difficile incanalare la sua rabbia per farla diventare giusta.

“Pensava di fare la cosa giusta, credo…” Disse infine lisciando con le dita il copri-divano a fiori senza prestarvi davvero attenzione. “È tuo padre, vuole solo proteggerti.”
“Non ho bisogno di essere protetta. Da chi, poi? Da te? Non dire sciocchezze!” Obbiettò sentendo la voce ammorbidirsi, che volesse o meno. La rabbia non smetteva ma la razionalità stava guadagnando punti.

È così calmo. È sempre stato più razionale e maturo di te, no?
Sören la guardò dritta negli occhi e Lily dovette far appello a tutta la sua forza di volontà per non essere lei, stavolta, ad abbassare lo sguardo; si era dimenticata di come l’altro riuscisse a dare l’impressione di vederti davvero, e di non limitarsi ad un’occhiata di forma.
“Sono felice.” Disse infine. “Non della situazione. Di vedere te.”
Bingo.

E adesso? Cosa rispondi?
Era felice di vederlo? Naturalmente no. Ma erano le condizioni del cavolo in cui si erano ritrovati, o la faccenda in sé?
Condizioni. Condizioni, mia cara. Condizioni.
“Ci saremo visti prima o poi.” Obbiettò debolmente. “Voglio dire…”
“Sai che non è vero.” Replicò con un’ombra di sorriso sulle labbra. “Un oceano è la misura che ci siamo dati e che tuo padre ci ha concesso per interagire.”
Touché Rossa. Come potevi pensare di essere l’unica ad aver dedotto la natura del vostro rapporto?

Lily sentì l’improvviso, violentissimo, impulso di eliminare la distanza fisica tra di loro e prendergli la mano. Era ancora infuriata a morte e aveva solo voglia di tornare a casa e infilarsi a letto… ma la persona che gli stava davanti era Ren.  
E vuoi toccarlo. Più di quanto vuoi tirargli un pugno, in effetti.
Voleva sapere cosa l’altro provasse oltre i sorrisi educati e il nervosismo, realizzò, voleva sapere se toccandolo il grumo di sensazioni che le si aggrovigliava dentro avrebbe avuto finalmente un senso, perché a volte capire cosa pensavano gli altri la aiutava a capire sé stessa.  
Perché davvero, onestamente, non so che diavolo fare.
“Lily?” L’altro la riscosse dai pensieri in cui si era immersa senza rendersene conto. Avrebbe dovuto rispondere qualcosa?
“Credo…” Inspirò. “Non so cosa pensare. Del fatto che sei qui, intendo. È stato così … inaspettato, che…” Le parole le morirono sulle labbra e tacque.
Cavolo.
“Capisco.” Era un’ombra di delusione quella che gli aveva visto passare nello sguardo? Sembrava, ma non poteva averne la certezza – tra l’altro con tutta quella penombra. Se solo l’avesse toccato … perché i suoi poteri funzionavano solo in quel modo? Era maledettamente scomodo.
Non poteva far altro: si avvicinò quindi al divano e Sören si congelò di colpo. Era ovvio che non sapesse che Snaso pescare vedendola venirgli vicino senza una parola e per un momento Lily pensò che avesse anche smesso di respirare.
Non era una situazione normale, quella della loro ‘seconda’ amicizia sviluppata su carta … era dunque ovvio che le reazioni tra di loro fossero fuori scala, goffe, assurde.
Beh, che hai intenzione di fare?
Non fece in tempo a trovare una soluzione che la luce pensò di tornare in tutta la sua gloria; esplose sia dalle finestre, incantate in una perenne giornata assolata, sia dalle lampade.
Urgh!
Sören stesso emise un lamento, schermandosi il viso con una mano. “È tornata.” Disse poi, battendo le palpebre come un gufo. Lei non si sentiva dissimile dato che vedeva danzare lampi dolorosi. “È tornata la magia.”
“Che tempismo…” Replicò facendo un passo indietro quando sentì un rumore concitato di passi fuori dalla porta. Prima che Sören potesse rispondere però, James e gli altri entrarono.
“Ehi! Quelli della manutenzione hanno fatto il miracolo!” Esclamò con tono che grondava sollievo e solida allegria. Lily, anche se non riusciva a vederlo con chiarezza capì che li stava squadrando. “Ma non vi siete coperti gli occhi?”
“Se qualcuno ci avesse avvertito, magari.” Replicò stizzita. “Tu che dici?”
“Noi scendiamo a vedere se l’uscita è di nuovo attiva.” Disse la voce di Scorpius da qualche parte, paciere come sempre. “Mini Potter è con i pazienti, Piccola Potter. Vuoi che chiami qualcuno?”
“La Guaritrice Patil. Falla venire qui … se non sta già salendo.” Rispose pronta.  
Sentì Sören muoversi accanto a lei. “Vado anche io.” Si risolse a dire, con un tono che esprimeva una robusta dose di sollievo.
Non vede l’ora di andarsene di qui. Lo capisco. Se potessi …
Sorrise appena quando sentì suo fratello avvicinarsi. “Tu resta qui e non andare in giro, che rischi di romperti il collo.” Le disse con il tipico tono da capobranco, così ridicolo eppure strambamente consolante. “Di che avete parlato?” Soggiunse stirando le ultime sillabe, mormorandole imbarazzato.
È questo che volevi chiedermi da quando sei entrato, eh? Ah, Jamie …
Leggere suo fratello era come leggere un libro per bambini, corredato di illustrazioni semplici e intuitive.
Non ci sono sorprese da lui. Mai. Che meraviglia.
“Mi ha detto più o meno le stesse cose che mi hai detto tu.” Replicò pacata, perché fingere a volte era la strategia migliore. “Dovevo parlargli, non credi?”
L’altro sbuffò. “Sì, forse.” Concesse. “Scendiamo allora, e ti mandiamo su la Guaritrice Patil.” Riassunse dandole una pacca sulla spalla. “Ci sentiamo dopo, okay?”

“Okay.” Sören doveva essere da qualche parte vicino alla porta, a giudicare dalle ombre sfuocate che i suoi poveri occhi stavano cercando di mettere a fuoco. “Sören.” Lo chiamò e lo vide fare un passo in avanti, come se fosse stato appena chiamato durante un’adunata.
Era da lui. Così tanto che dovette intrappolare trai denti un sorriso. Non voleva sorridere. Non poteva. Non finché non identificava decentemente ciò che provava in merito alla sua presenza. “Ne riparleremo.” Si risolse a dire.
Parlare. Non scrivere. È strano. Merlino, è strano.
“Sì.” Fu la risposta netta, senza esitazioni. Quella promessa sarebbe stata mantenuta, almeno da parte dell’altro.
Ora devo solo capire cosa voglio fare io.
 
 
****
 
Al aveva un buon rapporto con la paura, la teneva in grandissima considerazione.
Era la paura che ti salvava la vita, e questa era una massima che gli era stata chiara sin da bambino; mentre i suoi cugini avevano passato l’infanzia a rischiare la pelle in più declinazioni lui si era sempre fatto una domanda di fronte a qualsiasi esperienza foriera di guai.
Devo aver paura?
Se la risposta era affermativa, correre via o rifiutarsi di farsi trascinare dentro l’esperienza in questione era sempre stata la decisione più saggia. Si era preso del fifone da James, si era visto guardare con pena e compatimento da Dominique e Freddy, ma non gli era mai importato.
La paura è una buona amica.
C’erano però dei momenti in cui la suddetta falliva nel suo compito di angelo custode; erano i momenti che Tom chiamava, con una buona dose di ragione, momenti-Potter. Erano attimi di totale mancanza di lucidità in cui faceva cose totalmente idiote come prendere la Bacchetta di Sambuco, sfidare le fiamme in un castello spaventoso o…
… O dimenticarmi della botta che ho preso e sanguinare in giro per il San Mungo.
Si era accorto del camice sporco quando Achille, che aveva incrociato all’accettazione, glielo aveva indicato spaventato.
È solo un taglietto! Dovevate vedere che mi succedeva quando giocavo a Quidditch!
Aveva cercato di spiegarglielo, ma la sua mancanza di convinzione aveva portato Sofia ad andare a chiamare nientemeno che Smethwyck.
Certo, è vero che è il Guaritore Capo di Lesioni ed è anche il nostro supervisore, ma … proprio lui?
“Avevi intenzione di svenire come un povero idiota in mezzo alle corsie?!” Sbottò l’uomo torreggiando sopra di lui come un avvoltoio di fronte alla carcassa mentre se ne stava a bocconi su un lettino del Pronto Soccorso Magico. “Voi Potter pensate di essere refrattari alla caducità umana?”
“No signore.” Mugugnò lanciando un’occhiataccia ai colleghi, che osservavano la lieta scena dal separé mal chiuso: probabilmente il mago voleva usarlo come cattivo esempio. “Mi scusi signore.”
“E dove diavolo eri finito?! Avevamo bisogno del tuo aiuto a spostare i pazienti!”

“Stavo aiutando mia sorella nell’ala Thickley…” Soffocò un lamento quando l’uomo gli passò la bacchetta sul taglio fresco. “… nessuno era salito a controllare i loro pazienti, era rimasta sola ed è una studentessa…”
“Tu sei un Guaritore di Lesioni, non una balia per gli sciroccati!” Ringhiò il mago. “La tua presenza era richiesta al mio fianco, non altrove!”
Dissento. La mia famiglia verrà sempre prima di qualsiasi altra cosa.

Rilasciò un minuscolo sospiro, estraniandosi dai borbottii per fissare i pensieri su ciò che era appena accaduto: la magia era tornata al San Mungo e la maggior parte degli incantesimi era stata di nuovo lanciata. Tutto sembrava esser tornato alla normalità.
Un cavolo.
Il Sergente Flannery si era svegliato e li aveva violentemente attaccati. Suo fratello James e la sua squadra erano venuti in loro soccorso ed erano sembrati davvero scossi dall’intera faccenda, ma scossi in maniera consapevole, quasi sapessero i motivi di quel gesto estremo. Sören, il cugino di Thomas, l’ex-braccio destro di Von Hohenheim, era lì e collaborava con gli l’ufficio Auror.
E nessuno ha pensato di avvertire me e Lily. O Tom.
Erano successe troppe cose, e si sentiva la testa scoppiare. Serrò gli occhi e poi li riaprì sulla punta della bacchetta di Smeth. Si immobilizzò sgranando gli occhi e l’uomo lanciò uno sbuffo scocciato.
“Potter, alzati. A quanto pare hai la testa sufficientemente dura per non doverti preoccupare di una commozione cerebrale.” Quando lo vide saltar giù dal lettino scosse la testa. “Evita di sbatterla da qualche parte nei prossimi giorni.”
“Significa che domani posso avere un giorno libero?”

“Assolutamente no.”
Ecco, mi sembrava.

“Sissignore.” Convenne ubbidiente, sorridendo all’aria dispiaciuta dei due colleghi. Li raggiunse e si guardò attorno; James non era in vista e Lily era rimasta al quarto piano.
A quanto pare non ho altro da fare qui … Posso andare. Chissà che ore sono.
Con orrore stimò che il suo orologio interno gli segnalava un clamoroso ritardo nella sua solita tabella di marcia.
Oggi dovevo andare a prendere Tom da Rupert! 
“Achille, che ore sono?” Chiese all’altro Tirocinante, quasi placcandolo. “Dimmi che non è già sera!”
“Beh, dipende.” Replicò quello lanciando un’occhiata al suo orologio da taschino. “Sono le sei.”

Le sei. Porca Morgana. Le sei!
“Devo scappare!” Esclamò quasi travolgendo la povera Sophia – un po’ era colpa sua, doveva sempre stargli tanto vicina quando parlavano?
Ignorò il richiamo dei suoi effetti personali al piano di sopra e vestito di uniforme e zoccoli si diresse verso l’uscita schivando pazienti, Guaritori, infermiere sollecite e gente che gli stava trai piedi.
Il mio turno è finito un milione di ore fa, fatemi tornare a casa! Da Tom!
Tom, di per sé, non era una persona apprensiva; detestava i cambiamenti di routine, da sempre, ma se una persona spariva dal suo radar erano più le volte in cui non vi faceva caso che quelle in cui mostrava qualche segno di interesse.
Non con me.
Era inutile usare falsa modestia; Tom aveva processato l’intera faccenda di cinque anni prima risolvendola in una costante preoccupazione per le persone che gli erano care. Aveva smesso di contare le volte in cui l’aveva trovato ad aspettarlo vicino all’ingresso dopo che Smeth l’aveva tenuto oltre l’orario di lavoro con gli occhi inquieti, come aveva fatto finta di non notare come diventasse di pessimo umore ogni qual volta qualcuno della sua cerchia di affetti elettissimi si rendeva irraggiungibile.
Credo che papà abbia ripreso ad usare lo Specchio Comunicante proprio per lui.
Abbrancò un ragazzetto della Manutenzione Magica, riconoscibile dall’uniforme color blu scuro. “Ehi, la barriera funziona?”
“Sì, ma solo per uscire.” Replicò quello con l’aria di averlo ripetuto un centinaio di volte negli ultimi minuti.  
“Grazie!” Esclamò oltrepassandola e soffocando un’imprecazione quando la sentì stringerglisi addosso con più violenza del solito, quasi il muro non avesse ancora ritrovato l’elasticità della magia.
Ahi!
Uscì fuori incespicando e quasi centrando un bidone della spazzatura con la faccia.
Tutto normale.
Si guardò attorno e vide una piccola folla attendere ordinatamente al lato opposto del muro. Trotterellò via prima che qualcuno, forse attirato dal suo camice, lo bloccasse con domande o richieste di spiegazioni. Ebbe un’esitazione solo quando vide suo zio Ron occhieggiare attorno a sé, in compagnia dell’orribile e pelato Capitano dei Tiratori Scelti.
È qui per tutto il casino, di sicuro.
L’istinto del Clan gli diceva di avvicinarsi e mettersi a disposizione, ma un’altra parte di sé, quella che ormai veniva riconosciuta come Serpeverde, lo fece tirare dritto.
C’è pur sempre James. È lui quello che fa l’auror, per oggi ho fatto abbastanza il Potter-Weasley!
Svoltato il vicolo per fortuna vide esattamente quello che sperava di vedere; Tom, la metà insopportabile e indispensabile della sua vita, se ne stava appoggiato ad una saracinesca di un negozio a fissare l’entrata del San Mungo come se non esistesse altro punto focale al mondo.
Non mi ha visto uscire? No, certo che no. C’è tutta quella gente di mezzo.  
Si ficcò le mani in tasca e attraversò la strada. Non appena entrò nella sua visuale alzò la mano e mosse le labbra in un ‘ehi’ che gli sembrava del tutto sensato date le contingenze.
L’espressione di Tom non mutò di una virgola. Si limitò a staccarsi dalla saracinesca e andargli incontro con un unico, fluido movimento che terminò in un abbraccio che lo strinse con una forza capace di togliergli il respiro.
Ma va benissimo. Davvero, davvero benissimo.
“Ciao anche a te.” Mormorò sentendo che gli ultimi scampoli di quell’orribile giornata si dissipavano come neve al sole. L’odore di cera per bacchette, legno e deodorante babbano di Tom era più reale di qualsiasi altra cosa al mondo e il cotone sottile della sua maglietta era più consolante di un letto morbido dopo una giornata passata a pelare radici nei laboratori. “Sto bene.” Gli accarezzò la schiena sudata: a giudicare dal fatto che l’altro solitamente non percepisse gli sbalzi di temperatura era chiaro fosse lì da un po’.
Da un po’ troppo.
“Hai sentito quel che è successo, vero?” Continuò sentendolo respirargli nei capelli e muovere le dita lungo la garza imbevuta di pozione che Smeth gli aveva applicato dietro la testa. “È solo un graffio. Sono caduto ed ho sbattuto la testa. Niente che non mi sia già successo, no?”
Deve aver sentito della magia. Avrà saputo del sergente Flannery?
“Scusami se ti ho fatto aspettare.” Trovò che fosse il momento buono per staccarsi dall’abbraccio per guardarlo. Lo sguardo dell’altro era ancora privo di espressione e le labbra erano ancora serrate in una linea tesa come la corda di un pianoforte . Gli passò quindi le mani sulle guance e spianò gentilmente la ruga delle sopracciglia. Tom chiuse finalmente gli occhi e rilasciò un sospiro intrecciando le dita alle sue e stringendo con la presumibile intenzione di non lasciarle andare per le prossime ore.
“Torniamo a casa.”
 
 
****
 
Scorpius sentiva l’impellente bisogno di farsi una doccia, cambiarsi d’abito e seppellire il viso nella morbida cascata di capelli castagna della sua fidanzata.
Non necessariamente in quest’ordine.
Sfortunatamente il mondo delle intenzioni non era quello reale, così reclinò la testa sul duro rivestimento del corridoio e si sistemò sulla scomodissima poltroncina della saletta d’attesa dei pazienti del secondo piano, Malattie Magiche Infettive.
Erano lì da almeno … beh, da ore, e i primi crampi della fame, come della stanchezza si facevano sentire.
Lanciò un’occhiata ai propri compagni di ventura; Bobby scarabocchiava un disegno piuttosto pregevole sul proprio imprescindibile taccuino mentre James era seduto accanto a lui, con la spalla premuta contro la sua e addormentato come sempre gli succedeva dopo un grosso rush d’adrenalina. Era crollato dopo aver fissato per venti minuti filati la porta in cui era sparito il Sergente Flannery.
Sergente … Andiamo, qualcuno esca da quella porta e ci dica come sta il Sergente!
Si leccò le labbra nervoso, lanciando infine un’occhiata all’ultimo membro della loro compagnia; Prince era seduto nella poltrona più distante da loro e fissava il tappeto con l’aria di qualcuno che avrebbe trovato sollievo dall’esservi inghiottito in un sol boccone.
Poveraccio. La chiacchierata con la Piccola Potter non dev’essere andata tanto bene.
Si sentiva un po’ in colpa all’idea di non aver fatto nulla per impedire quella riunione inaspettata; lui e Rose avevano saputo prima di tutti – origliando, certo, ma rimaneva il fatto – ma avevano deciso di comune accordo di far orecchie da mercante.
Avremo dovuto dire qualcosa?
Non era il caso di piangere sulla pozione versata, ormai. L’unica cosa che poteva fare era cercare di tirar su di morale il tedesco, approfittando del fatto che Potter gli stesse sbavando incosciente su una spalla. “Ehi.” Lo apostrofò e l’altro si riscosse bruscamente, quasi fosse stato colpito da uno schiaffo. “Scusa, non volevo spaventarti!”
“Non l’hai fatto.” Replicò con una certa stizza. “Solo … ero perso nei miei pensieri.”
“Già. Che giornata, eh?” Sospirò contento del fatto che Bobby li stesse beatamente ignorando; adorava la capacità dell’altro di farsi i fatti propri.

È una dote troppo spesso sottovalutata.
Prince si tolse l’anello col blasone che portava al dito e prese a giocherellarci. “Sì.” Disse. “Spero che il vostro sergente si rimetta.”
Scorpius non rispose; per quanto volesse credere alla forte tempra irlandese aveva gli occhi.

Sembrava … sembrava avere la stessa cosa di quel tipo americano.
No, non sembrava. Ce l’aveva. Si è comportato nello stesso modo. Aveva la stessa roba in faccia. Sparava gli stessi incantesimi ed è stato difficile buttarlo giù.
“Auror Malfoy.” Lo richiamò: stavolta era il suo turno di avere la testa per aria. “C’è qualcosa che non va?”
“Potresti chiamarmi semplicemente Scorpius, sai.” Replicò con un sorriso disimpegnato. “E poi … sì, c’è.” Lanciò un’occhiata in direzione di Bobby che gliene restituì una altrettanto attenta. “Riguarda il Sergente, e credo debba saperlo anche tu.”
“Ma James…” Iniziò quest’ultimo occhieggiando il suddetto esitante. “Dovremo…”
“Non dovremo svegliarlo, no.” Replicò tranquillo; conosceva la testa matta che gli riposava comodamente addosso e sapeva che avrebbe complicato una situazione che in realtà era semplice.

Prince è incaricato di indagare sulla morte dell’americano. L’americano è morto nello stesso modo in cui il sergente sta male. Prince deve sapere.
Separare i sentimenti personali dal loro lavoro era la prima cosa da fare se ogni sera si voleva tornare a casa interi, sia di corpo che di testa.
Speriamo che un giorno anche Potty lo impari. Magari velocemente. Magari con Prince.
Quando finì di esporre le sue idee al tedesco, quello aveva il cipiglio tipico di chi stava riflettendo a velocità della luce.
“Quindi qualsiasi cosa avesse Sam Howe adesso ce l’ha anche il Sergente Flannery.” Riassunse.
“Non mi spingerei fino a questa conclusione … ma è un’ipotesi, sì.” Replicò per non ammettere platealmente che una malattia sconosciuta aveva attecchito su uno della loro squadra. Non era carino.

È spaventoso.
Prince annuì. “Sì. E credo anche un’altra cosa … l’assenza di magia nel palazzo è collegata al fatto che si è svegliato ed ha attaccato.”
“In che modo?” Bobby aveva definitivamente messo via il suo taccuino. “Voglio dire, cosa c’entra … Hanno detto che è stato un malfunzionamento, no?”

“Così dicono quando le cause non sono spiegabili.” Sorrise l’altro con l’aria di chi sapeva molto e non era del tutto contento della cosa. Era per via di ciò che gli era stato detto e insegnato prima che diventasse uno dei buoni? Forse, rifletté Scorpius.
“L’aura magica del vostro sergente era sballata, fuori scala. Non ho mai sentito nessuno emettere tanta magia.”
Sentito?” Lanciò un’occhiata verso la porta della sala operatoria in cui Seamus e il resto dei Guaritori del piano erano entrati accompagnando il mago esanime. “Tu riesci a sentire la magia?”
Prince si passò una mano sul braccio e Scorpius si accorse in quel momento che sotto la manica della giacca si delineava qualcosa di rigido, simile ad un bracciale ma più ingombrante. “Ho la possibilità di farlo.” Disse semplicemente e dal tono non avrebbe aggiunto altro. “Anche voi siete in grado di sentire quando un posto è magico, no?”
“Sì, beh … ma non una persona.” Replicò Bobby sconcertato. “Voglio dire, non c’è abbastanza magia in una persona perchè… Non riesco a credere che sia stato il Sergente a combinare questo casino!”
Prince scosse la testa: c’era qualcosa in lui, rifletté, che dava l’impressione dicesse sempre e solo cose sensate. Una serietà d’animo che non doveva certo renderlo un tipo da portare ad una festa, ma sicuramente a cui affidarsi in una situazione come quella.
“C’era comunque qualcosa che non andava in lui.” Replicò. “E anche Sam Howe … riusciva ad usare la magia senza bacchetta con facilità,  non è vero? Non è una tecnica che tutti possono acquisire.”
“È vero.” Convenne suo malgrado Scorpius. “Eravamo in quattro e non siamo riusciti a schiantarlo. Credi sia la malattia?”

“Credo che questo non sia un semplice caso di magia oscura.” 
Allora cosa credi?” Scorpius si irrigidì quando si rese conto che la voce proveniva dalla sua spalla.
E la mia spalla non parla, di solito.
James aveva gli occhi aperti e stava fissando in direzione del tedesco con un’espressione indecifrabile. “Cosa credi?” Ripeté.
Questo ricambiò l’occhiata per una manciata di secondi, poi parlò. “Credo che se la magia oscura è coinvolta, è a livello molto più profondo di qualche semplice incantesimo o pozione. La resistenza dimostrata da Sam Howe e il sergente Flannery non era naturale, neppure per i canoni di un mago.”
James si stiracchiò, occhieggiando la porta e poi scuotendo la testa. “Non credi nient’altro?”

Non sai nient’altro? Pensa che ci stia nascondendo qualcosa?
Il sottotesto dovette intuirlo anche Prince, perché aggrottò le sopracciglia. “Non so altro.” Replicò pacato. “Questa è un’indagine condivisa. Quello che sapete voi, devo sapere io … ma è anche vero il contrario.”
James non disse nulla, limitandosi ad alzarsi e fare qualche passo distratto. “Allora non ci resta che aspettare il responso dei Guaritori, no?” 
 
“Ehi!”
 
L’arrivo di Ron Weasley fu quasi un sollievo, e se a dirlo era lui, significava che era vero. L’uomo andò a stringere la mano di James e lanciò loro un’occhiata complessiva. “Ragazzi, ho saputo del casino. Siete stati grandiosi!”  Abbassò il tono di voce con un’aria di complicità che a Scorpius sembrava sempre un po’ inadeguata data la sua posizione, ma che in effetti non gli dispiaceva. “Non date retta a quell’idiota di Smith … Di là ci sono i Tiratori ad indagare sulla faccenda e quando verrà a farvi storie sulla vostra presenza e sul fatto che non dovevate intervenire voi, in quanto Auror e blablaba…”
“L’hai seminato, eh zio? Grande!” Ghignò James dandogli una pacca sulla spalla e a volte Scorpius si fermava oziosamente a pensare come i difetti peggiori del suo migliore amico fossero l’esatta fotocopia di quelli del suo futuro suocero.

Sono un tipo ben strano.
Il sergente Weasley lanciò poi un’occhiata in direzione di Prince. “Oh, sei ancora qui?” Chiese perplesso e, non poi molto velatamente, infastidito. “Sai che hanno ripristinato l’uscita? Dovresti andare, visto che…”
“Già, a proposito di questo.” Si intromise James a disagio. “Lils e Albie ci hanno beccati.”

Cosa?
James deglutì a disagio, ma poi prese il coraggio a quattro mani e spiegò. Alla fine dell’intero racconto le orecchie dell’uomo erano rosse.

Se do retta alle orecchie della mia fidanzata, quando un Weasley le ha così, non è un buon segno.
“Non avrebbero dovuto saperlo.” Borbottò lanciando un’occhiata astiosa in direzione di Prince. “Che diavolo ti è saltato in mente di andare al quarto piano?”
L’espressione di questo si fece sorpresa per poi trasformarsi in una di rabbia. “Avrei dovuto lasciarli in balia del sergente Flannery? Il motivo per cui ho preso il distintivo è proteggere la popolazione magica…”
Americana.” Lo fermò. “Non britannica! Avevi degli ordini! Con il casino che hai appena combinato dovremo rispedirti da dove sei venuto!” Il che era assurdo, come era assurdo sottolineare ordini e doveri quando era chiaro che nessuno avrebbe mai pensato a roba del genere in una situazione come quella. “Hai già fatto abbastanza, vedi di levarti dai piedi!”
Salazar, a volte capisco perché mio padre ha sempre trovato gli Weasley degli idioti.
Un po’, quando si scaldano, lo sono.
Prince serrò le mani in un pugno e Scorpius capì che stava per crollare, per sbottare e mandare al diavolo la compostezza che si era imposto da quando doveva aver messo piede in Gran Bretagna. Fortunatamente – allora c’era qualcuno lassù – la porta della sala operatoria si aprì e lasciò uscire il Guaritore Finnigan.
“Sam!” Esclamò il sergente Weasley, l’attenzione improvvisamente calamitata altrove. “Come sta Liam?”
Scorpius vide con la coda dell’occhio il tedesco andarsene senza una parola, e francamente non lo biasimò.
Credo abbia preso abbastanza mota per oggi.
 
Milo vide uscire Sören dall’ospedale come una specie di uragano. Quasi gli sbatté contro dato che stava tentando di entrare proprio per cercarlo.
“Ehi, principino!” Lo stoppò piazzandogli una mano sul petto per arrestare la sua corsa. Sören per tutta risposta afferrò la fondina tra le dita e la slacciò con un movimento allenato. I suoi sensi da Magonò cominciarono a strillare come ossessi.  
Pericolo! Mago incazzato a ore dodici!
“Ehi!” Lo richiamò deglutendo nervosamente e astenendosi da fare movimenti bruschi; con Prince si doveva usare l’accortezza dei domatori di leoni. “Ehi, sono io, piantala di fare il soldato pazzo.”
L’altro batté le palpebre e finalmente lo riconobbe. “Milo?” Ebbe il buongusto di sembrare imbarazzato mentre abbandonava le mani lungo i fianchi. “Non pensavo fossi ancora qui.”
“Avevo degli affari in zona.” Mentì con disinvoltura. “Allora, com’è andata?”

Gli lanciò un’occhiata totalmente incolore. Brutto, brutto segno. “Forse mi rimanderanno indietro perché ho fatto esattamente l’opposto di quel che dovevo fare.”
“Cioè?”
“Salvare la vita a qualcuno.”
“Scherzi?”    
Sören chiuse gli occhi ed era il suo modo per recuperare la calma. Non sembrava averne addosso neppure un’oncia. “Ho visto Albus Severus e … Lily.” E quest’ultimo nome, aveva tutta un’altra intonazione.

“E ti rimanderanno indietro per questo?”
“Non lo so.” Scosse la testa. “Credo di no. Forse.”
Ah, beh.
Milo era un tipo dalle gioie semplici e dalle soluzione altrettanto terra terra. “Birra?” Propose.
“No.” Fu l’immediata risposta. “Voglio qualcosa di più forte.”
Non c’era molto da obbiettare.  

 
****
 
 
Inghilterra, Somerset.
Casa di Scott Ross.
 
Non le aveva neanche sfiorato la mente l’idea di tornare a casa, quella sera.
Lily sapeva che a casa avrebbe trovato suo padre e una litigata sicura. Suo padre che le aveva nascosto volontariamente la presenza di Sören in Inghilterra. Suo padre che continuava a considerarla una bambina incapace di affrontare le difficoltà. Suo padre che decideva per lei.

Dannato manipolatore!
Aveva voglia di prendere a calci qualcosa, ma non sarebbe servito a molto, se non a rovinarle il nuovo paio di tacchi che indossava. Così, dopo una Materializzazione fatta talmente male che dovette reprimere un conato di vomito, aprì gli occhi sul cottage di Scott, osservando con una certa dose di sollievo il giardino  ben ordinato e  le siepi curate.
Quiete. Quiete, ho bisogno di quiete. Devo pensare.
Doveva pensare e casa del suo ragazzo era il posto perfetto, immersa in un meraviglioso e ordinato nulla. Prese la chiave da sotto lo zerbino e fece scattare la serratura con un movimento ormai allenato.
Mi verso un bicchiere di vino, mi metto in salotto, metto uno dei suoi cd e spengo il cervello.
Quando lo riaccenderò si spera funzioni a dovere.
“Lily!”
La voce di Scott la sorprese come un fulmine a ciel sereno, il che era stupido visto che quella era casa sua. “Oh, ehi.” Sorrise debolmente alla figura in corridoio, in tuta e capelli arruffati. “Ciao ragazzone.”

Ah, giusto. È il suo giorno libero, che idiota. Me ne ero completamente dimenticata.
Le si avvicinò con espressione preoccupata. “Come stai? Ho saputo del casino al San Mungo.” Le passò una mano calda sulla guancia. “Stavo pensando di venire a prenderti, ma poi ho chiamato in ospedale e mi han detto che eri già uscita. Pensavo tornassi a casa dei …”
“No.” Lo bloccò. “Ti dà fastidio sia qui?”
“Scherzi? Certo che no!”
“Ah…” Premette le dita sulla mano dell’altro. Era tiepida, forte e presente. Scott era lì e in quel momento incarnava quanto di più reale e normale ci fosse sul pianeta terra. Gliene era così grata che faceva quasi male. “Sto bene. È stato piuttosto strano e spaventoso, ma sto bene.”

Scott non era un Legimante, ma neppure uno stupido. Aggrottò le sopracciglia. “Sicura?”
No, per un cavolo.
Lo afferrò per la maglietta e gli fece cenno di tirarsi giù. Baciarlo fu come trovarsi sulla terra ferma dopo un mese di naufragio. Si aggrappò a quel bacio e, esattamente come un naufrago, l’avrebbe tirato giù disperata se l’altro non fosse stato la roccia che era.
“Ehi, ehi… piccola.” Si staccò con il fiato corto, guardandola con l’aria di chi aveva apprezzato ma non fosse certo dovesse farlo. “Ma che è successo? È per il buio?”
Scott sapeva molto, ma non sapeva tutto.
Non sa di Sören. Non gliel’ho mai detto. Non avrei mai voluto dirglielo, ma… Morgana, devo parlarne con qualcuno. E non con la mia famiglia. Decisamente non con la mia famiglia.
“No, cioè … forse sì, ma non solo.” Sospirò, desiderando sparire tra le braccia dell’altro. Era piuttosto consolante come prospettiva. “Senti, hai del vino in casa?”
“È rimasto quello che hai portato tu, sai che sono più un tipo da birra. Ti prendo un bicchiere?”

Scott, con la sua lager, le partite di rugby e il suo solido lavoro da archivista: represse l’impulso di coinvolgerlo in un altro bacio e schiacciarlo sulla prima superficie orizzontale disponibile. Il sesso era una buona risposta, ma non in quel momento.
“Solo se ne prendi un altro per te.” Suonava male tracannare alcolici in solitudine dopo una giornata come quella.
Puzza di crisi. Troppo.
“Okay.” Le lanciò un’occhiata, ma poi dovette decidere di darle spazio e tempo. “Torno subito.”
Lily andò in salotto e lasciò che il grosso divano comodo la inglobasse a sé senza darle la minima possibilità di alzarsi; non che ne avesse voglia. Chiuse gli occhi e ascoltò Scott muoversi in cucina e aprire e chiudere ante alla ricerca di vino e bicchieri.
Come diavolo affronto questa faccenda? Anche volendola fare facile … Sören è qui e devo decidere cosa fare. Non posso far finta che non ci sia. Beh, una cosa è sicura. Devo far fuori papà.
Che razza di casino…
Sentì i passi di Scott avvicinarsi e il suo peso scivolare accanto a lei. Quando aprì gli occhi accettò grata il bicchiere di vino. “Allora…” Esordì il ragazzo, con quel mite sguardo intelligente che le aveva fatto capire che poteva essere altro, oltre a qualche settimana di divertimento tra le lenzuola. “Cos’è successo?”
“Un disastro.” Era un buon modo per tirare le somme, ma non abbastanza dall’espressione perplessa dell’altro. “È una storia che inizia da lontano…”
Scott sospirò paziente. “Lils, parlamene e basta, okay?”

Okay.
 
****
 
Londra, Mayfair.
Casa Weasley – Granger.

 
Rose sapeva che le uniche persone a poter bussare alla porta della sua camera, che si trovava al quarto piano di un grazioso palazzo bianco e rosso a Mayfair, erano maghi. Probabilmente maghi dai capelli biondi, la parlantina facile e con generazioni alle spalle.
Lasciò quindi il libro che stava leggendo e gli appunti che stava compilando e andò a tirar su il vetro, trovando esattamente ciò che si aspettava: Scorpius galleggiante nel vuoto grazie alla fedele scopa da corsa, con i capelli scompigliati dal vento estivo e gli occhi brillanti alla luce dei lampioni.
“Ciao fiorellino!” Sorrise abbozzando un saluto militare che aveva cominciato ad usare con urbi et orbi dopo averlo visto in un film di guerra, di quelli che piacevano ad Hugo. “Fai entrare il tuo promesso sposo?”
“Sto studiando.” Replicò incrociando le braccia al petto. “Ti avevo detto che stasera dovevo studiare.”
“L’avevo dedotto dall’uso degli occhiali da vista.” Si sporse per spingerglieli delicatamente sul naso. “Però ho davvero bisogno di farti perdere un po’ di tempo.”

Rose notò in quel momento l’espressione dietro il sempiterno sorriso dell’altro. Notò e registrò e non le restò altro che scostarsi e fargli spazio.
Scorpius appoggiò la scopa vicino alla finestra, pronta all’uso nel caso qualcuno li avesse sorpresi e si buttò sul letto con un gemito di soddisfazione.
“Giornataccia? Ho saputo del black-out al San Mungo…”
“C’è qualcuno che non lo sa?” Mugugnò passandosi le dita trai capelli. “Cos’è, hanno fatto un’edizione speciale del Profeta?”

“Già.” La indicò sulla scrivania con un cenno del mento. “Piuttosto … Voi come ci siete finiti in mezzo?”
“Un caso e un pizzico di sfiga Potter. Metti tre persone con quel cognome nello stesso posto e come minimo ci scappa un’esplosione.” Ghignò ad occhi chiusi, ma senza reale divertimento. “La situazione è un pochino più seria di un malfunzionamento però.”
“È il genere di notizia che non dovrebbe uscire dall’ufficio Auror?” Chiese per sicurezza, sedendoglisi accanto e tirandosi le gambe al petto.

“Decisamente, ma tu non hai quella roba del segreto professionale?”
“Non sono ancora un MagiAvvocato, Malfoy. E comunque non c’entra niente.” Sospirò divertita osservando come le dita magre dell’altro risalissero lungo la china della sua caviglia nuda, sfiorandola appena in una carezza. “Dai, cosa?”
“Il sergente Flannery.” Inspirò. “È malato … e nessuno riesce a capire cos’abbia, ma qualsiasi cosa sia l’ha presa dal tizio morto del caso che stiamo seguendo.”
Rose sentì come se le avessero appena tirato uno schiaffo. La sensazione era quella, ma mantenere la calma era doveroso. “Vuol dire che è qualcosa di infettivo?”

“Non si sa … a Malattie Infettive non ci hanno  ancora capito niente. È in stasi magica, sai, quando ti mettono a nanna per sicurezza. Per ora la sue condizioni sono stabili, ma non si sveglia.” Scorpius non riapriva gli occhi e adesso Rose sapeva il perché. “Ci hanno controllato, ovviamente, tutta la squadra. Sembra che siamo apposto.”
Sembra?

“Lo siamo.” Aprì gli occhi e si tirò su per portare il viso all’altezza del suo. “È solo che … abbiamo bisogno di risposte. E non sarà facile averle.”
Rose aveva bene in mente cosa dire e cosa no. Certo, a volte era difficile reprimere l’impulso di preoccuparsi mostruosamente, ma la palestra fatta con suo padre aiutava molto.

Tutti auror in famiglia. Che fortuna.
“Sono sicura che ci riuscirete.” Tentò il suo sorriso migliore. “E sono sicura che il Sergente Flannery si rimetterà.”
Scorpius la fissò indecifrabile, poi le baciò il naso, appoggiando la fronte contro la sua. “I fratellini Potter ora sanno tutti della presenza di Prince.” Mormorò dolcemente.
Cosa?
“Te l’avevo detto che era stata una giornataccia.”
“Una giornata di merda.”
“Rosellina, che scurrilità!” Scoppiò a ridere e poi scosse la testa, trasformando l’allegria in un sorriso mesto, più reale di tutto il resto. “Sì, penso anch’io che ce la caveremo … ma sarà una partita dura.”

Rose guardò fuori dalla finestra, fuori dalla strada, i lampioni disegnare forme intricate sui palazzi di fronte. Londra era avvolta in una calda serata estiva, di quelle che ti facevano pensare che niente di terribile potesse accadere al mondo.
Col cavolo.
“Stasera dormi qui.” Proclamò brutalmente, tirando fuori dall’armadio il cambio e gli effetti personali da bagno dell’altro, stipati al sicuro dagli occhi genitoriali. “Dì al Manor di non aspettarti.”
Scorpius sorrise, schiacciandosi il cuscino dietro la nuca. “Già fatto.” Sospirò beato. “Me lo merito, no, il riposo del guerriero?”

 
****
 
Diagon Alley. Casa di Al Potter e Tom Dursley.
Dopocena.
 
Albus si lasciò scivolare nel tepore dell’acqua, stando ben attento a non bagnare la nuca.
Era una vera seccatura essersi ferito proprio lì e l’unica nota positiva era poter usare la vasca senza sentir Tom lamentarsi per lo spreco d’acqua.

Sì, perché trai suoi molti lati positivi c’è il fatto sia un totale spilorcio.
Lui dice che è per via delle riserve idriche limitate che esistono al mondo, ma … Maddai. Come se gliene fregasse qualcosa.
Quella giornata orribile era finita e non vedeva l’ora di scivolare sotto le coperte e svenire, letteralmente. Tom non sembrava del suo stesso avviso però, a giudicare da come non riusciva a fermarsi un attimo, al di là della porta; lo sentiva muoversi per la stanza, mettere a posto oggetti e cambiare ogni tanto musica dall’impianto stereo.
“Tom?” Lo chiamò con un sospiro, rinunciando alla quiete meravigliosa che si meritava. “Vieni qui.”
L’altro aprì la porta, aggrottando le sopracciglia alla quantità smodata di vapore che lo investì. “È una sauna.” Rintuzzò infastidito. “Era necessario? Fuori fa caldo.”
“Siamo in Inghilterra, non fa mai caldo e se vuoi rilassarti il bagno non te lo fai certo freddo.” Replicò. “Mi fai compagnia?”

Gli venne restituita un’occhiata infastidita quanto quella di un gatto a cui si prospettava una lavata fuori programma. “No.”
“Ah, già, con quelle gambe da fenicottero non ci entri…”
“Ci entro.” Sottolineò fissandolo con astio e dunque nascondendo mortale imbarazzo. “Sei tu che l’hai voluta prendere piccola perché avevi paura di affogarci, mingherlino come sei.”
Io?” Scosse la testa. “Parla quello che ha carenze vitaminiche!”
Si fissarono imbronciati prima che l’altro rilasciasse un lungo e – nei suoi piani – magnanimo sospiro, finendo poi per sedersi sull’angolo dell’oggetto della contesa. “La testa?” Gli sfiorò la fronte con le dita fredde e quindi estremamente piacevoli visto che se la sentiva scottare.

“Meglio.” Mentì perché non smetteva di pulsare e la sola idea di dover mettere assieme una pozione per alleviare il fastidio gli sembrava un’impresa impossibile.
Sonno. Sonno ristoratore.
“Sei un pessimo bugiardo.”
Al sorrise, abbandonandosi alle inaspettate carezze. “Mh, forse … Cosa stai ascoltando?” Voleva parlare di nulla, di sciocchezze, perché la normalità era una cosa ampiamente sottovalutata da chi non viveva con un eterna spada di Damocle che portava il suo cognome sulla testa.
E ogni tanto la spada cade. Tipo oggi.
Non gli aveva raccontato con dovizia di particolari quanto accaduto al San Mungo; Tom aveva già carpito molto solo ascoltando le persone fuori e per parte sua non aveva trovato sensato raccontargli del tentato omicidio ad opera del Sergente Flannery. Si era limitato a dirgli che era diventato un po’ aggressivo quando lui e Lily avevano tentato di riportarlo al suo piano.
Smashing Pumpkins.” Gli rispose intanto.  
“Perché tutti i gruppi che ascolti contengono nel loro nome parole come distruzione, suicidio, morte e disperazione?”

“Pensavo apprezzassi il mio umorismo nero.” Ghignò l’altro. “Questa canzone per esempio si chiama il mio amore è inverno.”
“Bello. Pieno di speranza.” Lo prese in giro baciandogli la punta delle dita e facendone scivolare una tra le labbra, mordendone piano il polpastrello. Era divertente vedere come ogni volta Tom gli scoccasse uno sguardo che prevedeva inevitabilmente delle lenzuola, un letto e il non rispondere a Specchi Comunicanti, Gufi o telefono per molto tempo.

Suonerà da centenario … ma Salazar, è bello essere giovani. E fare sesso.
… quest’ultima parte suona da Lily in realtà.
“Pensavo stessi male…” Deglutì l’altro cercando di mantenere un tono discorsivo. “O stai cercando di punirmi per qualcosa?” Soggiunse aggrottando le sopracciglia.
“Nessuna delle due.” Gli sorrise affettuosamente, perché non riusciva a togliersi la sensazione che l’altro stesse rimuginando troppo e non volesse darlo a vedere, soprattutto a lui. “Sai, a proposito l’arrivo di Prince…”
Tom ritirò subito la mano, mettendola a riposare in grembo, al sicuro. Aveva scommesso giusto, quindi. 

“Te l’ho detto prima …” O meglio, aveva borbottato qualcosa prima di infilarsi in cucina a dar la cena a Zorba. “Sono sorpreso che Harry abbia acconsentito, ma il fatto che sia qui non cambia niente per me.”
“È tuo cugino.” Osservò tirandosi su e prendendo la bacchetta per riscaldare l’acqua dato che stava diventando fredda. “È parte…”
“Non è parte della mia famiglia.” Concluse per lui, raddrizzando la schiena e serrando la mascella, in una posa di chiusura così evidente che non sarebbe neppure servito chiedersi se l’avesse presa male. “Voi siete la mia famiglia.”
Albus sentì un groppo alla gola, come sempre gli capitava quando Tom se ne usciva con frasi che nessuno oltre la sua cerchia familiare pensava potesse pronunciare di sua sponte.

Appunto. La riprova più evidente che ci considera le sue persone è dirlo senza tentennamenti.
Certo, ci ha messo un po’, però meglio tardi che mai.
“Lo so.” Gli prese la mano, che teneva serrata sull’altra e vi intrecciò un po’ forzosamente le dita. Non la tirò via. “Volevo solo essere sicuro di cosa pensassi di tutta la faccenda.”
“Mi è indifferente.” Replicò scuotendo la testa. “È vero, Sören Prince condivide parte del mio corredo genetico…”
“Eh?”

“Sangue, Al.” Sospirò alzando gli occhi al cielo mentre sulla faccia gli si formava chiaramente la frase All’ignoranza dei Maghi non c’è mai fine “… Ha parte del mio sangue esattamente come Von Hohenheim. In che modo può essere considerata una cosa positiva?”
“Penso sia un po’ diverso.” Osservò suo malgrado: Prince non gli piaceva tutt’ora, ma non poteva dimenticare come fosse passato dal minare la sicurezza della società magica a diventarne parte integrante. Lily perlomeno era disposta a spiegare a chiunque le desse udienza per più di cinque minuti cosa e quanto avesse fatto per cambiare.

La madrina della cause perse …
“Non avresti voglia di rivederlo?” E forse lo era un po’ anche lui, madrina. Le poche manciate di minuti che aveva passato in compagnia di Prince gli avevano lasciato uno spiacevole senso di colpa addosso.
Si è comportato … bene. A dirla tutta, ci ha salvato la pelle. Non è facile avercela con qualcuno che fa l’eroe della situazione. Non nella mia famiglia, almeno.
“Credo che Harry non sarebbe d’accordo.”
“E da quando dai retta a papà?”

Tom fece una smorfia, accettando il punto e passandogli l’accappatoio quando glielo indicò con un cenno. “Non trovo l’utilità di un nostro incontro.”
“Non è questione di utilità.” Uscì dalla vasca e si frizionò oculatamente la testa. Stupida ferita. “Ma è … come hai detto tu, parte del tuo sangue. Credo che al posto tuo cercherei di conoscerlo per il mago che è adesso.”
“Mi sembra di sentir Lily…”
Quello era un colpo basso e Al  non si premurò dunque di dargli risposta, infilando la porta di camera per evitare di tirargli in testa una scarpa o la schiuma da barba. Tom fu lesto a seguirlo e lo afferrò per la cinta dell’accappatoio. “Al.”
“Sei uno stronzo.”
“Non è una novità.” Sospirò. “È che…” Eccola, stava per arrivare la confessione e dunque l’aspettò in religioso silenzio, ma comunque a braccia incrociate e cipiglio giudicante.

“Le uniche persone di cui mi importi al mondo siete voi.” Disse con una tale serietà che sembrava gli stesse annunciando la partecipazione al funerale di un congiunto stretto. “Con voi so come comportarmi, so cosa aspettarmi. Non con Prince.”
“Forse è questo il punto focale dei rapporti interpersonali?” Lo prese blandamente in giro. “Per costruirne di nuovi bisogna lavorarci sopra? Sforzarsi?”

Si rese conto che voleva davvero che Tom cercasse un contatto con Prince: non tanto per quest’ultimo, quanto per lui. Sin da quando aveva memoria aveva sempre disperatamente cercato risposte sulle sue origini, sulla sua famiglia e sul suo passato. Prince forse non era un modello di virtù, e Merlino solo sapeva come volesse tenerlo il più lontano possibile da sua sorella …
Però è l’unico parente di Tom. Nel senso, ancora in vita e presentabile. E che non cerchi di ucciderlo.
Forse era per via della sua famiglia enorme, ingombrante, ma calda e sempre presente che voleva che Tom non abbandonasse quella flebile traccia della sua.
Nel frattempo il centro dei suoi pensieri lo stava fissando senza una parola e Al si chiese se non fossero arrivati ad un punto della loro relazione in cui l’altro riusciva a leggergli i pensieri solo fissando la forma della sua testa.
Sperava di no.
“Beh?” Chiese con un mezzo sorriso. “Uno zellino per i tuoi pensieri.”
Tom sorrise appena. “Non è che vuoi liberarti di me e mandarmi in America con Prince?”
Ha indovinato almeno i soggetti. Inquietante.
Ridacchiò, allacciandogli le braccia alla vita magra e baciandogli il petto. Era imbarazzante, ma era lì che arrivava e sarebbe sempre arrivato. “Se bastasse così poco…”
Al.”
“Se bastasse così poco ti prenderei a calci nel sedere.” Terminò tirandolo giù per schioccargli un bacio a labbra chiuse. Stava cominciando a non aver la forza neanche per tenere gli occhi aperti, figuriamoci per qualcosa di più complesso di un’effusione da terza elementare. “Prometti che ci penserai?”

“Ci penserò.” Acconsentì con un sospiro. “Ora vattene a letto. Devo studiare e tu devi riposare.”
“Con questa priorità, eh?”
“Esattamente.” 
Albus non si sentì particolarmente disposto a disquisire dato che si sentiva più o meno vitale come uno straccio usato. Gettò l’accappatoio alle sue spalle – sentì il conseguente lamento indignato di Tom e ghignò – e strisciò sotto le coperte. L’ultima cosa che vide fu l’altro accomodarsi alla scrivania e infilarsi le cuffie per poi prendere uno dei mostruosi tomi che gli prestava Stevens e cominciare a sfogliarlo.
Sorrise e si addormentò.
Credete a me. Quando si è Potter si apprezza la normalità più di ogni altra cosa.
 
 
There is love enough for the both of us
There is more than prayers made to be with you
 
 
****
 
Diagon Alley, Il Paiolo Magico.
Notte.
 
“Lo sai? È seccante.”
“Cosa?”
Milo si buttò sul letto senza neanche preoccuparsi di togliersi le scarpe. Aveva il corpo zuppo d’alcool e l’ultima cosa che gli interessava era togliersi i vestiti.

Tanto, non che servirebbe a molto vista la compagnia.
“È seccante…” Si frugò nelle tasche finché non trovò il pacchetto di sigarette. “… che tu abbia bevuto quasi il doppio di me e sia ancora sobrio!”
“Infatti non lo sono.”
“Mi prendi per il culo!” Sbuffò osservando la figura scura del mago sedersi sul davanzale della finestra; forse aveva ragione. Da sobrio non si sarebbe seduto in modo così rilassato. “Se cadi di sotto giuro che mi piscio addosso dalle risate.”
“Soprattutto la parte sul fartela sotto, suppongo.” Sì, doveva essere sbronzo a giudicare dal redivivo umorismo nero che gli dipingeva i lineamenti.

Prince aveva letteralmente svuotato il portafogli quella sera, non aprendo bocca per protestare neppure quando l’aveva trascinato in un posto che vantava una fauna piuttosto querula di drag-queen. Si era limitato a tracannare bicchieri su bicchieri e non aveva smesso finché non era stato proprio lui – di tutti – a sequestrargli l’arma impropria che era diventata la carta di credito magico-babbana del Dipartimento.
Non che non fosse in grado di essere autosufficiente. Solo avevano uno sguardo che faceva paura.
“È una roba magica?” Chiese guardando afflitto il pacchetto vuoto prima di lanciarlo da qualche parte nel buio della camera. “Dico, la tua resistenza.”
“No, è sempre stato così.” Fece una pausa tirando fuori un pacchetto nuovo da chissà dove. Era uno dei suoi, ne era certo: il principino non si abbassava mai a comprare da lerci drugstore. “Comunque semplicemente riesco a mantenere il contegno, a tua differenza.”
“Sì, comincio a capire come funzionano le tue sbronze…” Argomentò con spirito, reclinando la testa sul cuscino e godendosi il lento fluttuare delle sue sinapsi. “Diventi più stronzo e basta.”

Non avevano parlato granché. Anzi, a ben vedere non avevano parlato affatto di quello che era successo all’altro, tranne uno sterile resoconto che non sarebbe sfigurato su un rapporto di polizia. Concluso quello Sören si era limitato a fissare un punto nel vuoto per il resto della serata.
Ehi, non mi paga per fare da confessionale.
… Certo, però, un po’ di curiosità…
“L’hai vista quindi.” Esordì e dal sussulto che l’altro fece era chiaro che l’avesse già dato per profondamente addormentato. “La tua principessina.”
Non vi fu risposta, ma Milo non era tipo che amava arrendersi, specie se aveva passato la serata a cercare di animare un tipo brioso come un cadavere. “È stato tanto brutto?”
“Era arrabbiata.” Una pausa. “Non è felice che io sia qui.”
Ah, ecco. Ci siamo.

“E come fai a dirlo?”
“Me l’ha fatto capire.”
“Perché tu sei così bravo a leggere le intenzioni altrui!” Sospirò quando vide che l’altro non aveva reazioni percepibili, solo l’orrenda faccia malaticcia che si era tenuto su tutta la sera. “Okay. Te l’ha detto chiaro e tondo?”

“… No.”
“Allora non puoi saperlo!” Ne stavano parlando, e Faust solo sapeva quanto non ne avesse voglia, dato che forse era l’ultima persona al mondo a poter dar consigli sulle relazioni interpersonali. Però era lì, ed era chiaro che il mago avesse bisogno di buttar fuori l’amaro, checché ne dicesse lui. “Voglio dire … non ti è passato per la testa che fosse arrabbiata per tutto il fatto della segretezza, più per il fatto che tu sia qui?” Non lo lasciò interloquire, anche se dubitava l’avrebbe fatto. “Le donne sono fatte strane, principino, hanno un sacco di sub-strati. La tua, poi, per quanto ne ho capito, è stratificata come una torta.”

“Non è mia.”
Sempre a puntualizzare. Puntualizza troppo spesso. E quando si puntualizza troppo spesso…
“Non lo è, okay.” Convenne con un’aria che sperava fosse saggia e propositiva. “Però vorresti che lo fosse.”
“È fidanzata. Siamo solo amici.” Esalò con il sentimento di una segreteria telefonica. Faceva tenerezza ed era decisamente triste.
Tirò un profondo sospiro, aggiustandosi il cuscino sotto la nuca. “Senti, poche seghe. Vuoi rivederla?”

Ci fu un lieve bagliore dalla sigaretta dell’altro. Aspirava coraggio assieme alla nicotina? Probabile. Era un buon metodo. “Sì.” Disse talmente piano che dovette sforzarsi per sentirlo. “Voglio rivederla.”
“Allora manda a fanculo i parenti-serpenti e fa’ quel che ti senti. Credo sia ora di smettere di essere carino con quella gente … Non hanno più diritto di tirarti merda addosso. Oggi hai pure salvato loro la pelle, no?”
“Non…”
“Fatti rispettare e trova il modo di rivederla, perché un altro giro come stasera il mio fegato non lo regge.” Sentiva arrivare il sonno, quindi sbadigliò sonoramente. “Buonanotte.” Disse con tono che sperava fosse definitivo.

“Buonanotte.” Gli fu fortunatamente risposto. Una lieve esitazione. “Milo?”
“Se stai per ringraziarmi non farlo.” Proclamò brusco, perché bisognava metter certi paletti. Sempre. “Mi paghi per badare a te, ed è quello che sto facendo.”
Un altro lungo silenzio e Milo stava quasi per scivolare nel sonno quando sentì l’altro alzarsi e accendere la lampada dello scrittoio.

“Le scrivi una lettera?” Borbottò con un ghigno premuto sulle labbra. “Sei un romantico senza speranza.”
“Non è una malattia.”
“Fidati, lo è.”

Non aggiunse altro, pensando che davvero, tutta quella faccenda dei sentimenti e più in generale, dell’amore, fosse largamente sopravvalutata.
Non credo proprio ne valga la pena. No?
 
****

Inghilterra. Da qualche parte nel Lancashire.
 
“Così c’è un altro infetto…”
“Sì, mia Regina. Pare si tratti di un membro della squadra Auror che ha incontrato Howe, William Flannery.”
“Questa non è una buona notizia.”
“Non è del tutto vero, mia Regina…”
“Spiegati.”
“Non siamo riusciti a recuperare molto di Howe, e non abbiamo potuto scoprire niente dalle sue ceneri. Perché, appunto, sono una manciata di cenere.”
“Risparmiami i giochi di parole e vieni al punto.”
“C’è un nuovo Infetto e a quanto ho avuto modo di vedere, per quanto la sua magia fosse fuori controllo … la capacità magica era beh. Mettiamola così. Oltre Ogni Previsione.”

“Implementare questo aspetto era il nostro obbiettivo primario. Trasformare un mago in una belva fuori controllo decisamente no.”
“Ed è questo il punto. Con il nuovo infetto abbiamo la possibilità di studiare cos’è andato storto prima che succeda agli altri.”
“Sì, capisco.” Una pausa. “Bene. Occupatene tu.”
“Come sempre, mia Regina, uno è lieto di poter servire.”

 
****
 
 
Note:

Capitolo farcito per farmi perdonare del ritardo!
Tra lavoro, nuovi fandom che mi prendono come uno spogliarellista brasiliano su una spiaggia di Cuba, ho davvero faticato a far prendere la forma che volevo a questo capitolo. Spero il risultato sia di comune gradimento! ;D
Questa la canzone del capitolo, la stessa dell’altra volta visto che l’ho spezzato praticamente in due parti. La canzone invece che ascolta Tom è questa ed è adorabilmente tetra.

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Capitolo 12
*** Capitolo XI ***


Capitolo XI


 
 


If love is just a game then how come it's no fun?
If love is just a game how come I've never won?
(2 Atoms in a Molecule, Noah & The Whale)




23 Giugno 2028
Londra, Ministero della magia, Quinto Piano
Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio Internazionale della Legge Magica

Mattina.
 
Michel Zabini rivolse un’occhiata esasperata in direzione dell’Agente americano che stazionava di fronte alla sua scrivania senza avere le minima intenzione di sedersi, rendendosi quindi simile ad un avvoltoio in attesa.
Che poi ne aveva anche un po’ l’aspetto.
Non gliel’ha detto nessuno che i capelli in quel modo non si tengono più da prima della Seconda Guerra?
Sfogliò il rapporto che Sören Prince – l’avvoltoio in questione – gli aveva fatto recapitare quella mattina via Gufo. Riguardava quant’era successo al San Mungo e descriveva piuttosto efficacemente la mole di casini che era esplosa in un posto che mai avrebbe dovuto vedere esplosioni e maghi-zombie.
“È tutto?” Chiese chiudendo il fascicolo con un colpetto delle dita. “C’è niente che vuole aggiungere, agente?”
“Non c’è altro.” Ed era ovvio che non fosse così da come occhieggiava nervoso e senza vera intenzione gli oggetti sulla sua scrivania.
“Se ha qualche domanda…” Iniziò sentendo l’emicrania cominciare a dare le prime avvisaglie. Aveva scordato com’era svegliarsi tutte le mattine senza sentire un cerchio alla testa. Era stress, secondo i Guaritori del San Mungo. Era una grossa seccatura, secondo lui.
Seccatura che nasce dalle seccature … Stasera Soho. Tassativo, Soho.
Prince intanto si leccò le labbra, prima di sospirare. “Riguarda al mio intervento.”
Ah, per quello? Penso che dovrei ringraziarti. Se non fosse stato per te ad Al sarebbe successo qualcosa di brutto.

Lo pensò, ma non lo disse, limitandosi a guardarlo con neutra aspettativa.
“So che è stato un errore di valutazione, e che non avrei dovuto interferire.” Lo stupì. “Avrà delle conseguenze?”
Michel inarcò le sopracciglia perplesso. “Lei è un agente di polizia magica sotto mandato internazionale. Ha fatto ciò che doveva, ha protetto dei civili.”
Fatemi indovinare. James Potter o qualcuno del suo clan deve aver avuto una crisi isterica quando l’ha visto prendere l’iniziativa.
Quanto odiano quando le cose non vanno come vogliono loro…
“Non ci saranno ripercussioni disciplinari. Ha fatto solo il suo dovere.” Soggiunse, perché l’altro sembrava non aver capito l’antifona. “Nessun provvedimento disciplinare verrà posto in atto, Prince.” Sottolineò un po’ scocciato. Fino a che punto avevano terrorizzato quel poveraccio?
Gli venne finalmente rivolta un’occhiata di sconfinato sollievo, prima che l’americano tornasse alla solita espressione da soldatino impettito. “È quello che pensavo.” Si lasciò sfuggire.
Michel si trovò suo malgrado a sorridere. “Pensato o suggerito da un Potter-Weasley?”
L’espressione che gli restituì valeva più di mille parole. Trovò dunque giusto ricompensarlo con una piccola concessione amichevole. “Se posso permettermi un consiglio in qualità di referente…”
“Prego.”
“È meglio non dare troppo ascolto alle attestazioni dei membri di quella particolare famiglia. Tendono ad essere spesso guidati dalle proprie emozioni, più che dalla riflessività … o professionalità.” Aggiunse con la leggerezza che gli permetteva di insultare urbi et orbi senza troppe conseguenze.

Specialmente gli ex-grifondoro. Il Cappello deve sceglierli in base all’incapacità di captare insulti che non siano triviali o plateali.
Prince non disse nulla, ma il lampo divertito nello sguardo fu esplicativo. Non era un tipo di molte parole e per questo gli andava piuttosto a genio, anche se inizialmente l’aveva visto solo come foriero di grane infinite. Certo, continuava ad essere una bomba che, se maneggiata con incuria, poteva esplodergli in faccia...
Sono il referente di un mago che Harry Potter vorrebbe lontanissimo dai confini britannici.
Sì, è un Incantesimo Esplosivo innescato.
… tuttavia era anche il suo biglietto di sola andata per uscire da quell’ufficietto angusto.
L’America fa sempre una bella impressione sul proprio curriculum vitae.  
“Mi aspetto un altro ragguaglio alla fine della prossima settimana.” Raccomandò, ma era piuttosto inutile dato che a guardare l’uniforme, stirata e con ogni singola asola al suo posto, pareva che l’altro si fosse ingoiato il manuale del perfetto servitore della legge.
Almeno lui.
Quando Prince si fu accomiatato, Michel poté concedersi un lungo sospiro. Quella mattina la sua amabile collega era rimasta a casa e poteva quindi fumare in santa pace, senza sentire la voce dell’altra rimproverarlo come se fosse un ragazzino capriccioso.
Dopo essersi acceso una ben meritata sigaretta, tolse lo Specchio Comunicante dalla tasca interna della giacca, misurando a passi lenti l’ufficio. Chiamò Albus: non l’aveva ancora contattato e il pungolo d’ansia che l’aveva colto quando aveva letto il rapporto di Prince non l’aveva abbandonato per tutta la mattina.
Possibile si metta sempre nei guai?
Il nome dell’altro galleggiò in una bruma verdastra prima di sfumare nel viso pulito che conosceva da più di dieci anni.
“Mike!” Fu l’esclamazione allegra e piena di salute. “Ciao!”

Grazie a Merlino…
Sentì la tensione scivolargli via dalle spalle in maniera alquanto imbarazzante. “Buongiorno a te dolcezza.” Salutò di rimando. “Ho saputo della tua piccola avventura mortale di ieri sera.”
“Oh, è già di pubblico dominio? Favoloso…” Borbottò. Da quel che vedeva dietro di lui doveva trovarsi nella caffetteria dell’ospedale e quindi in pausa. “Mi avevano assicurato che sulla Gazzetta non era uscito niente su me e Lils!”
“No, in effetti.” Replicò per tranquillizzarlo, ben sapendo quanto detestasse dover gestire la pubblicità che proveniva dal suo cognome. “Sono il referente ministeriale dell’agente Prince.”
“Ah!” Esclamò sorpreso. “Sul serio?” Pareva poco interessato, ma era solo una dell’ennesime difese che metteva di fronte a sé quando un argomento poteva essere foriero di guai.

Ditemi se questo non è un serpeverde…
“È un favore che viene dritto dal Piccolo Lord Malfoy.” Replicò. “Un caso oltre-oceano, come puoi immaginare, è un buon incentivo per la carriera.”
“Questi accordi sottobanco …” Sorrise divertito. “Davvero increscioso.”
“Fammi causa.” Ghignò tornando dietro la scrivania e lasciandosi scivolare sulla sedia di pelle. “Come stai? Davvero.” Soggiunse cercando di non mostrarsi troppo apprensivo e fallendo miseramente.

L’altro sorrise, di quei suoi sorrisi perfettamente sani e pieni d’affetto. Dovevano avere a che fare con l’aver ricevuto una famiglia funzionale e un’educazione all’insegna di sani valori campagnoli. “Sto bene Mike, tranquillo. Ho passato momenti migliori, certo, ma poteva andarmi molto peggio.”
“Dubito, conoscendo la tua sfortuna.” Sospirò. Voleva vederlo e sincerarsene, e sapeva che suonava patetico in qualunque modo lo si mettesse, ma non poté fare a meno di notificarlo riuscendo persino a suonare ansioso. “Possiamo vederci stasera? Niente di eccezionale, solo un drink in un posto tranquillo.”

L’altro sorrise apertamente all'idea, dato che adorava uscire nella Londra notturna, esattamente come qualunque ragazzo con una capacità sociale nella norma, che fosse Babbano o magico. Non che fosse un tipo particolarmente festaiolo: persino nei locali più affollati e densi di conoscenze interessanti si limitava a sorseggiare qualche cocktail fruttato e sorridere disimpegnato, ascoltando più che esternando.
Apprezzava però l’atmosfera di libertà e disimpegno che si respirava a Soho quanto lui.
Nel Mondo Magico dev’essere il perfetto figlio del Salvatore, quello che studia come Guaritore ed esce solo con una compagnia selezionata di cugini e amici. Nel mondo Babbano no, nessuno lo conosce.
E poi a Soho, Dursley non veniva. Per quanto Al non l’avesse mai ammesso apertamente, era chiaro come ogni tanto avesse bisogno di prendere una boccata d’aria dal proprio compagno di vita. 
Io sono la sua boccata d’aria.
Era un pensiero meschino, ma inequivocabilmente vero.
“Mi piacerebbe, ma stasera preferisco restare a casa.” Lo sorprese stringendosi nelle spalle. “Tom…”
Ecco, appunto.

“Cos’è, devi restare dove può vederti?”
“Dai, non fare lo stronzo!” Sbuffò senza traccia di vero fastidio nella voce. “Ieri sera si è preoccupato a morte. È rimasto ore di fronte all’ospedale perché non ero venuto a prenderlo. ”
“E questo non è minimamente inquietante perché…”
Mike.” Stavolta il tono di voce era definitivo e ad un passo dalla reprimenda. “Vediamoci domani, vuoi?”

“Domani lavoro in ufficio fino a tardi.” Replicò con fastidio. “Lo sai, ho il tempo libero centellinato.”
“Lo so.” Sembrava dispiaciuto, ma non disposto a compromettere. “Senti … mi farò perdonare, okay?”
“Per la preoccupazioni che dai dovresti.” Ritorse cercando di non suonare troppo deluso o – Merlino ne volesse – ferito. “Va bene, ci aggiorniamo. Prenditi cura di te.”
Patetico. Sei patetico.
Al fece un altro di quei suoi sorrisi da persona fottutamente – sì, l’imprecazione era appropriata - felice e lo salutò, chiudendo così la comunicazione. Michel rimase un po’ a guardare il nome dell’altro galleggiare sul vetro dello Specchio prima di chiuderlo con uno scatto secco.
Non era l’unico posto dove quel maledetto nome continuava a stare, purtroppo.
 
****
 
Diagon Alley. Mattina.

Hugo le chiamava le ‘quattro dell’Apocalisse’ tirando fuori una citazione biblica che solo Rose, tra loro, aveva colto.

Forse suo cugino aveva ragione, rifletté Lily guardando Dominique, Rosie e Roxanne schierate di fronte a lei. A ben vederle, erano diversa dall’altra a livello così profondo da non sembrar condividere neppure una goccia di sangue.
Eppure.
La colazione mensile tra di loro era diventata una specie di istituzione da quando Dominique era tornata a vivere in Inghilterra. Non era stata esattamente decisa, piuttosto capitata dato che Roxanne viveva a poche strade di distanza dall’anglo-francese, mentre Rose aveva piacere a bersi un caffè senza doverselo combattere con la madre, caffeinomane quanto lei.
Lily quando non aveva lezioni al mattino si accodava ben volentieri. Ultimamente poi gli argomenti ruotavano tutti attorno al matrimonio di Rose, il genere di atmosfera che preferiva, quella che precedeva un grande evento corredato da massicci festeggiamenti. Era grata che fosse capitata il giorno dopo il gran casino con Sören.
“Insomma, per farla breve quel tuo crucco t’ha fatto una sorpresa del cazzo.” Esordì dal nulla Dominique sorseggiando un abominevole miscuglio di panna, zucchero e una tonnellata di biscotti sbriciolati – a volte supponeva che la sua presenza fosse dovuta al fatto che Violet la spedisse fuori per non doverla vedere compiere quegli orrori a colazione.
“Eh?” Le uscì acutamente; fino a dieci secondi prima avevano parlato di bouquet e vestiti – con gran noia di quest’ultima – e di colpo era lei l’argomento di conversazione principale?
Okay, forse non è un caso che la colazione sia oggi. Sembra tanto una riunione di emergenza. Per me. Forse volevano girarci attorno … ma si sa che Domi non è tipa.
Notando come tutte la stavano fissando in attesa, cercò di mettere assieme qualche parola. “Sì … cioè… Se vogliamo chiamarla così.” Balbettò maledicendo l’incapacità familiare di farsi i fatti propri.
“Avrei voluto esserci.” Sospirò la guardiana di draghi, guardando un punto distante da sé e grattandosi il piercing al sopracciglio. “Dev’essere stata una botta di adrenalina pazzesca!”
“Come se tu ne avessi bisogno con il lavoro che fai.” Ritorse Rose con un grugnito. “Drogata.”

“È meglio di una scopata!” Declamò allegra facendo girare un paio di avventori e facendo implodere Rose in una bolla di imbarazzo. “Quasi.” Soggiunse massaggiandosi la testa schiaffeggiata dalla suddetta.
Roxanne fissò la sua tazza di deteinato – era diventata una specie di nazista della salute – con aria assorta, prima di piantarle gli occhi nei suoi. Diversamente dalle altre aveva ascoltato in completo silenzio il suo racconto.

“Quanto rimarrà qui?” Che era un’ottima domanda, ma di cui non aveva la risposta.
“Finché le indagini degli auror non saranno finite, penso.” Replicò scuotendo la testa. “Non che abbia chiesto. Non ho intenzione di parlare a papà per i prossimi sei mesi considerando che ha pensato di non dirmi neppure una parola su Ren.”
“Non esagerare adesso.” Si inserì Rose con una punta di disagio che le tingeva la voce.

E ora, questo da dove viene?
“Pensi che abbia fatto bene a nascondermelo?”
“No, è che…” Fece una comica faccia desolata, prima di scuotere la testa. “Okay. Io e Scorpius lo sapevamo. Abbiamo origliato zio e papà parlarne qualche giorno fa proprio qui.” Notando la sua espressione arrossì, distogliendo lo sguardo. “Mi dispiace…”
“Sei una stronza.” Disse spassionata, sentendosi troppo stanca per arrabbiarsi di nuovo. Era logorante rimanere in quello stato per troppo tempo. E poi non riusciva ad avercela con sua cugina sapendo che ciò che la muoveva era il suo goffo e ingombrante senso di lealtà.

Rose ebbe il buonsenso di non ribattere, limitandosi a giocherellare con la stanghetta degli occhiali da vista che portava quando era in periodo particolarmente denso di letture. Doveva star preparando una causa o qualcosa del genere.  
“’Sta faccenda sa un po’ di cazzata in effetti.” Riprese Dominique infilandosi in bocca l’ennesimo biscotto rubato da un piatto altrui. “Comunque ormai è qui.” Scrollò le spalle, da meravigliosa anima semplice qual’era. “Mi piacerebbe rivederlo, è stato tosto al Tre Maghi. Quand’è che lo inviti per una bevuta al Finnigan’s?”
“Io … non lo so.” Ammise a disagio.

Dominique aggrottò le sopracciglia in piena e palese confusione. “Come non lo sai?”
Tacque, perché sapeva che se avesse aperto bocca avrebbe finito per boccheggiare come una trota appena pescata.
Non aveva ancora fatto chiarezza dentro di sé; aveva passato tutta la notte con gli occhi incollati al soffitto della stanza di Scott ma non era arrivata a nessuna conclusione.

Scott, già…
C’era anche la faccenda del suo ragazzo; gli aveva raccontato tutto, dal principio alla fine, senza risparmiare niente.
A parte il fatto che mi fossi presa una cotta per Ren. Regola numero uno. Mai parlare agli attuali degli ex.
Scott l’aveva ascoltata facendo domande e non dando giudizi. Avevano finito per concludere la conversazione a letto ed era stata una delle poche volte in cui ci erano arrivati vestiti.
 
 “È stata la prima persona con cui mi sono davvero aperta, a parte la mia famiglia. È venuto fuori che non è stata un’idea poi così brillante.”
Scott era seduto con la schiena contro i cuscini e fissava l’armadio come se fosse la pellicola di un film interessantissimo. “Allora perché hai continuato a tenerti in contatto con lui?”
Lily sapeva che sarebbe arrivata quella domanda. Scott poteva essere una persona comprensiva, ma era pur sempre un ragazzo, il
suo ragazzo e dunque perfettamente legittimato a chiedere delucidazioni. “All’inizio perché la prigione l’aveva lasciato uno schifo, e sembrava che le mie lettere lo facessero stare bene…”
“In che senso?”
“Era solo al mondo.” Aveva inspirato sentendo il familiare nodo allo stomaco. “Non aveva più nessuno, né famiglia né amici. L’unica persona che si preoccupava per lui era un agente di polizia che voleva delle risposte. Per quanto Nora sia una bravissima persona non poteva essere un gran sostegno emotivo, ti pare? E Milo è arrivato dopo…”
“Sì, ma perché proprio tu?”
Lily si era sporta per accarezzargli i capelli dietro la nuca e per riposare la guancia sulla sua spalla.

“Perché se lui mi ha sconvolto la vita, io l’ho sconvolta a lui. È per salvare me che ha deciso di allontanarsi da suo zio. Non me la sentivo di abbandonarlo.”
La mascella dell’altro si era irrigidita. “Lo sai che non gli devi niente, vero?”
“Certo che lo so.” Aveva convenuto, mentendo.  
 
“Entrare nella vita di qualcuno, anche per una serie di circostanze che non dipendono da noi, significa prendersi delle responsabilità. Non vale solo per chi è in torto, in un’amicizia… ”
“Di cosa sarei responsabile?”
“Sei responsabile di essergli diventata amica. Di avergli teso la mano quando credimi, nessun altro l’aveva mai fatto.”
 
L’incontro con sua nonna Lily cinque anni prima era stato certamente un’allucinazione dovuta allo shock e al colpo alla testa che si era presa. Ma fin troppo lucida, e veritiera. 
Scott aveva voltato la testa per posargli le labbra sui capelli. “E adesso?”

“Adesso cosa?”
“Hai detto che inizialmente gli scrivevi perché era solo al mondo. Adesso?”

“Adesso perché siamo amici.” Si era stretta nelle spalle, sciogliendosi dall’abbraccio. “Per questo ci sono rimasta male … Voglio dire, mi aveva promesso che non avrebbe avuto più segreti per me!”
Scott aveva abbozzato un sorriso. “Dai Lils, lo sai anche tu che è una promessa impossibile da mantenere.”
E questa era stata una frecciatina bella e buona. Non aveva avuto il coraggio di ribattere.

Lily inspirò, finendo il suo the con un sorso, ringraziando Merlino che l’argomento di conversazione si fosse spostato sulle nozze imminenti di Rose.

Lo so che le persone hanno dei segreti e che Ren ha solo eseguito degli ordini. Lo so bene.
Allora perché non riesco a trovare il coraggio di mandargli un Gufo per chiedergli di vederci?
Sentì la mano di Roxanne coprire la sua. La sua fiera cugina aveva finalmente pronto il verdetto.
“Allora?” Le chiese stancamente. “Che dovrei fare con tutta questa faccenda?”
“Ciò che vuoi.” Replicò con la solita onestà a bruciapelo. “Non importa cosa ne pensino gli altri … Sai tu che genere di rapporto hai con Sören.” Lily l’avrebbe abbracciata; supponeva che tutta la faccenda di aver salvato la vita a lei e Albus cambiasse un po’ le cose per Roxanne.

È sempre stata una tipa che fa caso a queste cose. Tipo, salvi le persone a cui tengo e ti meriti perlomeno una possibilità.
… Morgana, a volte mi chiedo se funzioni così per tutti, o è un privilegio solo Potter-Weasley.
“È un gran casino.” Ammise a malincuore passandosi le dita trai capelli. Era frustrante. “Sono arrabbiata, ma…”
“Io non credo tu sia arrabbiata.” La sorprese.  

“E cosa sarei?”
“Sei spaventata.” E fu come beccarsi uno schiaffo in faccia. Perché era vero oltre il suo desiderio che non lo fosse. “Ci ho preso Rossa?”
Lily serrò le dita sulla tazza vuota. “Eccome.” Ammise. Ora che Sören era a Londra non c’era più la barriera della carta e dell’oceano a separarli.
Ora potrò finalmente sapere se vale la pena portarla su un piano ulteriore o lasciarla così … Per quanto potrà durare poi, visto che non s’è mai sentito di un’amicizia di Piuma durata una vita. 
Era spaventata quanto era eccitata e sapeva per esperienza che quelle due sensazioni, mischiate assieme, non portavano mai a niente di buono.
“Perché non la pianti?” La voce di Dominique la colse di sorpresa, e si accorse con orrore che non era vero che le altre due cugine avevano lasciato cadere l’argomento.
Hanno solo lasciato a Roxie lo spazio per intervenire. Maledette!
Ma del resto, il sangue non era acqua.
“Scusa?”
Dominique sbuffò sonoramente. “Massì, ti fai troppi problemi. Mandagli un cavolo di Gufo, fatevi una cena, o una passeggiata e vedi che tipo è.”
“So che tipo è, gli scri…”
“Come se scrivere a qualcuno te lo facesse conoscere!” Esclamò incredula. “È parlando con qualcuno, vedendo come gli si muove la bocca, che profumo ha o come gesticola che lo capisci, mica leggendo due righe del cazzo su una pergamena!”

“Quello che voleva dire Domi è che il banco di prova del vostro…” Rose esitò ma quando vide che non voleva ucciderla per aver osato dare un parere nonostante il suo tiro mancino, continuò. “… rapporto è vedervi dal vivo.” Il viso le si contorse in una smorfia sofferente. “Così magari ci metti una pietra sopra.” Tentò di rimediare per non tradire il suo disaccordo nell’intera faccenda.
“Sentito? È d’accordo pure Mamma Oca!” Disse invece Dominique accarezzando la testa della cugina castana come ad un cagnetto che si era esibito in un’acrobazia di un certo livello.  
“Non sono d’accordo!” Scosse la testa. “È solo che ormai il latte è versato.”
“Che cavolo c’entra il latte?”
“È un modo di dire!”

“Ma non ha senso!”
Roxanne ignorò il bisticcio appena sorto e inarcò invece le sopracciglia in una smorfia che faceva di rado, ma la faceva assomigliare in modo incredibile a suo padre George. Stessa malizia. “Non dirci che non sei un po’ curiosa.”
E quello era definitivamente un touchè.



****
 
Ministero della Magia. Ufficio Auror.
Ora di pranzo.

 
L’ufficio Auror era pervaso da una tensione inscalfibile persino da un Recido. Sören mostrò il proprio distintivo alla ragazza all’accettazione e notò come avesse gli occhi rossi e le dita aggrappate ad un fazzoletto.
Dev’essere per via del Sergente Flannery …
Gli Auror non erano molti, al massimo una ventina di elementi ed era piuttosto palese che il cameratismo tra di loro fosse forte. I visi che incontrò erano tirati, cupi e non c’era nessun accenno di risata o battuta che rimbalzava tra le pareti dei cubicoli. 
Era dispiaciuto per ciò che era accaduto, ma non particolarmente colpito. Durante gli anni della Thule aveva visto molti uomini al suo fianco esser feriti o perdere la vita.
Ma li hai mai considerati tuoi commilitoni? Quindi cosa puoi saperne?
Pensa se succedesse una cosa simile all’agente Estevez …
Non doveva farsi distrarre: quella mattina si era svegliato memore del discorso fatto con Milo, memore di tutto quello che era successo con Lily.
È ora che le cose cambino.
Quando arrivò alla scrivania di Malfoy e Potter notò la presenza di Ron Weasley. Trattenne con tutte le proprie forze una smorfia, lasciandosi scivolare dal viso ogni espressione. L’uomo gli dava le spalle ed era concentrato a ragguagliare i sottoposti: Potter era seduto sulla sedia, mentre Malfoy era appoggiato alla scrivania, sorseggiando svogliato una tazza di the. Fu Jordan a notare la sua presenza ed ebbe il buonsenso di sembrare imbarazzato.
Un briefing sul caso iniziato prima del mio arrivo. Naturalmente.
Sentiva l’acidità corrodergli lo bocca dello stomaco e risalirgli fino alla bocca. Quando era di quell’umore – che Milo chiamava da grandioso bastardo – doveva mettersi di impegno per tenere i propri pensieri per sé.
Perché di solito finisce con un tentativo di rissa da parte del mio interlocutore. Murphy ne è l’esempio più eclatante.
Sapeva di non avere quella che veniva chiamata, a suo parere impropriamente, diplomazia; giostrarsi con le parole e fingere di trovare interessante le uscite di chi non lo interessava o peggio, provocava, non era mai stato uno dei suoi punti di forza.
“Signori.” Comunicò la sua presenza, facendo sobbalzare l’auror più anziano. “Buongiorno.”
Questo gli rivolse un’occhiata sorpresa, chiaro come il sole che non l’avesse sentito arrivare. “Prince.” Disse cercando di recuperare compostezza. “Non dovresti essere a Cooperazione Magica?”
“Ci sono stato, Signore.” Replicò quieto. “Ho consegnato il rapporto al mio referente e adesso sono a disposizione.”
“Non…” Si schiarì la voce. “La tua presenza qui non è necessaria.”
Non credo proprio.

“Mi permetta di dissentire.” Replicò visualizzando una spiaggia assolata. Milo gli aveva consigliato di usare quel genere di immagini mentali quando rischiava di perdere il controllo sulle sue emozioni e neppure l’Occlumanzia sembrava aiutare. A volte funzionava. “Il caso Howe è di mia competenza.”
“Non stiamo discutendo di quello.” Fu la replica sostenuta. Ron Weasley gli era stato descritto dal Capitano Gillespie come un uomo retto e un auror eccellente. Sfortunatamente a questi ovvi meriti si dovevano aggiungere le stesse tare caratteriali di James Potter.

È una testa calda. Un’irrazionale, impulsiva e cocciuta testa calda. Gli si legge nello sguardo, nel tono  e nella postura. Proprio il genere di persona con cui vado d’accordo …
“Stiamo discutendo riguardo a ciò che ha fatto il Sergente Flannery, sai, il black-out.” Si inserì Scorpius, ignorando con nonchalance le occhiatacce combinate di Potter e di Weasley. “Sono arrivati i risultati degli esami fatti sul sergente … Hanno settato un’allerta per l’ufficio perché pare che abbia usato Magia Oscura.”
“Malfoy, Prince non segue questo caso, ma quello di Sam Howe, queste informazioni sono strettamente confidenziali!” Ringhiò l’auror più anziano. “Non è tenuto ad essere informato. Finiamo la riunione e poi potrete tornare a lavorare al caso Howe.”
“Se non fosse che il caso Howe e ciò che è accaduto al Sergente Flannery sono collegati.” Replicò Sören aggiungendo qualche dettaglio alla spiaggia immaginaria. Delle palme, una sdraio … poi ricordò che su una spiaggia lui non c’era mai stato e la cosa smise di aver senso.

Il Sergente Weasley gli scoccò un’occhiata che si poteva riassumere solo come sospettosa.  
“Come fai a dirlo?”
Perché ho un cervello?
“Il Sergente Flannery ha attaccato Lily e Albus Severus con la stessa modalità in cui Howe ha attaccato voi.” Disse invece, e notò come persino Potter lanciò un’occhiata un po’ interdetta al superiore.
Forse non è completamente irrecuperabile.
Stava scivolando inesorabilmente nella modalità grandioso bastardo, ma francamente aveva smesso di importargli non appena aveva realizzato di aver davanti l’ennesimo, ottuso ostacolo che gli impediva di compiere il suo dovere. “Ho letto il rapporto, ho visto il secondo attacco con i miei occhi. Qualsiasi cosa avesse Howe, adesso ce l’ha il Sergente Flannery.”
L’uomo impallidì di colpo, serrando la mascella. La paura che lesse nel suo sguardo valeva più di mille parole. “Le prove, ragazzo.” Disse secco. “Non costruiamo casi su supposizio…”
“Per questo sto parlando di fatti.” Lo interruppe. “Avete detto che gli esami hanno evidenziato la presenza di Magia Oscura nel corpo del Sergente, è corretto?” Si rivolse a Malfoy, che fu lesto ad annuire.

“Sì, una concentrazione anomala per un solo mago, tra l’altro.” Soggiunse aggrottando le sopracciglia. “Abbiamo mandato a far analizzare la bacchetta e stiamo aspettando i risultati.”
“La troverete pulita. Non ci ha attaccato con quella perché non l’aveva addosso. Non sarei stupito se la Magia Oscura presente nel corpo del Sergente avesse causato il black-out al San Mungo interferendo con gli incantesimi di manutenzione. Sono i più potenti, ma anche quelli più facili da spezzare.”

L’auror più anziano aprì la bocca prima di richiuderla. Era chiaro fosse combattuto tra l’ascoltarlo o decidere a priori che il suo aiuto non valeva la pena venisse usato. Alla fine il risentimento personale parve prevalere, perché storse la bocca. “Se, e dico se il caso Howe e quello che è accaduto al Sergente avranno qualcosa da spartire, sarai il primo ad esserne informato. Fino a prova contraria quello che devi far qui è occuparti dell’americano.”
Sören sentì il controllo cedere. Non era niente di eclatante, non sentiva rumori nella testa, né particolari avvisaglie come capitava a chi aveva problemi come lui a passare fluidamente da uno stato emotivo all’altro. Semplicemente smetteva di importargli.

“Mi permette una parola in privato?” Tentò, davvero l’ultima spiaggia per non far diventare le lievi scintille che si sentiva formicolare sulla punta delle dita qualcosa di molto più evidente. Infilò la mano in tasca ma notò come gli occhi di Malfoy e di Potter fossero puntati in quella direzione.
Il mago più anziano parve captare qualcosa nel suo tono perché fece un cenno della testa, scostandosi dal gruppetto e dandogli voce di seguirlo. Non si allontanarono di molto, giusto un paio di cubicoli vuoti e in direzione di una finestra che rifletteva un panorama boschivo – magico ovviamente. “Avanti, parla.”
“Posso farlo liberamente?”
L’uomo alzò gli occhi al cielo. “Parla, ragazzo.”
“Lei è un imbecille.” Attestò. La faccia dell’altro era talmente sbalordita che probabilmente ci avrebbe messo qualche momento prima di riprendersi. Decise quindi di approfittarne. “Lei e chiunque pensa che la mia presenza qui sia un peso, o un favore che state facendo al Ministero Americano per evitare di avere grane.”

“Come…” Le orecchie del Sergente Weasley erano paonazze, ma ammirò il fatto che non avesse già tirato fuori la bacchetta. Forse aveva sbagliato a giudicarlo impulsivo come Murphy. “Cosa diavolo ti salta in mente per rivolgerti così ad un tuo superiore?!”
“Lei non è un mio superiore.” Chiarificò e davvero, era una bella sensazione poter essere dalla parte della ragione e vantarsene. Quando lavorava per Von Hohenheim non era mai successo. Meglio, non gli era mai stato permesso. “Io riferisco al Ministero Americano e quando sono in trasferta estera all’ufficio Cooperazione. In quanto agente di collegamento mi si può considerare un consulente con capacità di intervenire quando è opportuno, e questa decisione spetta comunque a me, e non a voi.”
Il viso dell'altro mago si contorse in una smorfia di rabbia. “E quindi?”
“Quindi sono stanco di essere trattato come un ospite sgradito.” Milo aveva ragione: doveva piantarla di nascondersi dietro i suoi sensi di colpa per ciò che aveva fatto e cominciare a lavorare seriamente. Non solo perché ne andava del prestigio del Ministero che gli aveva dato una seconda possibilità, e perché lo doveva al Capitano Gillespie e alla fiducia che gli aveva accordato.
Ma perché Lily è stata coinvolta. E' personale, adesso.
Sören leggeva negli occhi del superiore una diffidenza infinita, e fu come veder concentrate tutte le sue paure più grandi.
Non importa quello che stai facendo. Quello che hai fatto basta e avanza per una vita.
Non era vero. O meglio, lo era, ma rimanere ancorato a quel fatto non gli avrebbe dato la possibilità di essere nient’altro che una vecchia arma arrugginita, senza un padrone e dunque senza uno scopo.
Io sono il capitano della mia anima …
Era il verso di una poesia che gli aveva fatto conoscere Lily e ne aveva tratto grande conforto nei momenti più neri di quei cinque anni.
A volte i poeti Babbani la sanno più lunga di qualsiasi mago.
“Non puoi aspettarti un comitato di benvenuto, ragazzo, la fiducia va guadagnata.”
“Voglio che mi sia data la possibilità di guadagnarmela allora, non la devo elemosinare. Non sono un cane.” Non lo era, non lo sarebbe più stato finché avesse avuto fiato nei polmoni e magia nelle vene. Non aveva paura di fronteggiare il pregiudizio che vedeva riflesso negli occhi dell’uomo, non più. Alla fine, doveva solo combattere e in questo era sempre stato bravo.
Non so far altro, forse. Ma so farlo bene.
“Questo è il mio caso quanto è il vostro.” Fece scivolare le dita sulle linee del distintivo e vi trasse forza prima di continuare. “Oltre a questo…” Ed era un azzardo, ma come aveva detto, aveva smesso di importargli. “…è stata coinvolta una persona a cui tengo. A cui tengo molto.” E l’auror, a giudicare dal modo in cui si era teso, aveva capito a chi si stava riferendo. “Spero che la faccenda adesso sia chiara a lei e al suo capo-ufficio, o preferisce che a spiegargliela sia una lettera bollata del mio Ministero?”
Che poi era un bluff, ma era palese che l’uomo non fosse avvezzo alle procedure di collaborazione internazionale.
Il silenzio che cadde tra di loro poteva voler dir due cose: o che il Sergente Weasley stava riflettendo su quel che gli aveva detto o che non gliene importava nulla e si preparava a Schiantarlo.
Potrebbe trovare difficoltà a fare l’ultima cosa.
“Bene.” Disse asciutto come il deserto, ma vinto. “Spero tu non abbia preso impegni per la giornata.”
Sören si frenò dal qualsiasi esternazione emotiva o cinestetica. Il trionfo poteva esser goduto anche internamente.

“Sono qui per servire.”
 
****
 
Ministero della Magia. Ufficio Auror.
Ora di cena.
 
“Mi ha minacciato, te ne rendi conto?”
Harry osservò svogliato l’ennesimo faldone di carte bollate che doveva firmare. Era il trentesimo della giornata e stava processando un principio di emicrania niente male.
Si aggiustò gli occhiali sul naso e lanciò uno sguardo all’amico di una vita, troppo nervoso per sedersi di fronte alla sua scrivania e dunque marciante dalla porta fino a lui in larghi giri infuriati.
“Me ne rendo perfettamente conto.” Convenne. “Anche se minacciare non credo sia il termine corretto.”
“Intimidire allora, come ti pare!” Sbuffò mentre le orecchie stazionavano in un rosso paonazzo piuttosto vistoso. “Quel moccioso … non ha che un anno di esperienza sul campo e si mette a fare la voce grossa?”
“Forse non ha esperienza sul piano lavorativo, ma sul campo…” Harry vedendo l’espressione confusa dell’altro si rese conto che non poteva continuare a lasciarlo parlare a ruota libera, per quanto sapesse che era quello il modo in cui riusciva a sfogare le proprie preoccupazioni.

E lo siamo tutti, preoccupati. Con la faccenda di Liam … Con il fatto che un auror ha attaccato dei civili, al San Mungo. Trenta pratiche e quindici erano solo su questo. Senza contare i Gufi dai giornalisti …
Dovrei organizzare una conferenza stampa?
Sören Prince al momento era l’ultimo dei suoi problemi; certo, avrebbe voluto fosse il primo dato che sua figlia si rifiutava di tornare a casa o rispondere ai suoi Gufi proprio a causa dell’intera faccenda che lo coinvolgeva … ma, da sempre, aveva un lavoro che non si piegava facilmente alla sua vita privata.
Proverò a chiamarla anche stasera.  
“Ron, Prince, che ci piaccia o meno, è un agente di collegamento. Se c’è una pista che collega Howe a Liam, ha tutto il diritto di essere informato.”
“Non abbiamo certezze che ce ne sia una!”
“Ma come ha detto lui stesso, Liam sembra essersi ammalato della stessa cosa che aveva l’americano.” Ragionò sentendo la spiacevole sensazione che la faccenda non si sarebbe risolta in pochi giorni. “È una pista. Va seguita, e non possiamo permetterci di perdere tempo a decidere chi ha il diritto di farlo o meno.”

L’amico inspirò, scoccandogli un’occhiataccia più per posa che per reale intenzione. Si sedette infatti sulla sedia e incrociò le braccia al petto. “Sì, hai ragione.” Convenne infatti con un borbottio. “Ma vedila dal punto di vista dei ragazzi … Se lo troveranno trai piedi anche per un altro caso!”
“James e gli altri sono auror.” Sottolineò riponendo la Piuma nel proprio calamaio e tirando un sospiro. “Hanno il compito di difendere il Mondo Magico e non importa se non gli piace chi lo fa con loro. E poi ho sentito Albus … Prince ha agito per il meglio, li ha messi in sicurezza.” Si massaggiò una tempia, pensando con ardore alla Pozione Alleviante che Ginny gli avrebbe preparato una volta tornato a casa. “Abbiamo reso ben chiaro che la sua presenza qui non è gradita. È ora di lasciarlo lavorare in pace, anche per correttezza verso Nora.”
L’altro emise una smorfia, ma alla menzione dell’amica comune non replicò. “È solo … Non m’è piaciuto come mi si è rivoltato contro, ecco tutto.” Ammise. “So che sembra assurdo, ma m’è sembrato di esser ripreso da un fottuto professore! Potrei essere suo padre!”
Harry alzò gli occhi dalle pratiche, inarcando le sopracciglia. “Da un professore.” Constatò lentamente senza riuscire a trattenere un sorriso divertito. “È stato così verboso?”

“Sembrava Piton.” Sbottò l’altro, tra l’esasperato e l’incredulo. “Mi ha dato dell’imbecille e ti giuro, sembrava di ascoltare il vecchio pipistrello!”
Harry non poté fare a meno di lasciare andare una breve risata: era un modo per scaricare la tensione di quelle ore come per ignorare quanto quell’affermazione lo colpisse.

Ho sotto il mio comando il cugino di Piton … E tanto per cambiare, tra di noi non corre buon sangue.
… Forse qualcosa dovrebbe cambiare.
“Domattina lo chiamerò nel mio ufficio. Questo detto, per favore…” E qui lasciò andare gli occhiali per massaggiarsi le palpebre pesanti. “… cerchiamo di rendere le cose più semplici per tutti, specie alla luce di quanto è successo al San Mungo, okay?”
L’amico ebbe un lampo consapevole nello sguardo. “Va bene. I ragazzi però adesso sono senza un Sergente e avranno bisogno di un superiore per continuare le indagini.”
“Pensi di potertene occupare?” Non aveva tempo per scegliere un sostituto e l’altro era la persona più affidabile che conoscesse, oltre ad essere già informato dei fatti. “Questo oppure … sto pensando di passare il caso nelle mani di un’altra squadra, considerando il coinvolgimento emotivo.”
Ron scosse la testa. “Mi sembra una pessima idea, Harry. Jamie e gli altri sono coinvolti, è vero … Ma proprio per questo non puoi tagliarli fuori. Era il loro sergente, e Howe il loro caso.”

Harry sospirò, con un breve cenno affermativo. “Domani mattina prenderai servizio sul caso. Pensi che la tua squadra possa andar avanti in autonomia?”
“Senza di me? Sì, al momento non abbiamo nulla di grosso tra le mani.” Convenne. “Non di così grosso, almeno.” Soggiunse con una smorfia.
Dovette dargli ragione.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Ora di cena.

 
Ted mise piede in casa e rese grazie a uno svariato numero di maghi leggendari  per l’odore delizioso che sentiva provenire dalla cucina.
James aveva preso molti difetti dei Weasley: l’impulsività, la facilità di giudizio e l’incapacità di controllare i propri scoppi emotivi, ma un solo grande pregio oscurava tutto.
Sa cucinare.
Era stata una scoperta, dato che l’aveva sempre visto solo in veste di assaggiatore entusiasta della cucina della nonna, della madre e di quella ad Hogwarts. Una scoperta recente ma piacevole, dacché il suo ragazzino era capace di non rovinare quasi nulla di quello che metteva a cuocere in pentola.
Nessuno vuole ricordarsi il disastro del Christmas Pudding, ma ehi … anche dopo esploso era commestibile.
“Sono a casa!” Proclamò scrollando il leggero mantello estivo dalla pioggia che l’aveva sorpreso sulla via di ritorno.
Ed io che pensavo ad una bella passeggiata … Mi scordo sempre quanto il tempo riesca a far schifo in Scozia.
“Ed io in cucina!” Gli fu annunciato. Bene, sorrise, James sembrava di buon’umore o se non altro non particolarmente incazzato dalla giornata.
Beh, certo, peggio di ieri non poteva andare…  
Vederselo tornare tutto intero dopo aver ricevuto una serie di inquietantissime notizie da Londra era stato un sollievo senza pari e aveva passato tutta la sera a tenerselo stretto sul divano con scuse patetiche che non avevano convinto nessuno, lui per primo; James non si era però lamentato, limitandosi a godersi le carezze e i baci e sghignazzare dandogli della ‘mogliettina apprensiva’.
Ero troppo contento per mandarlo al diavolo come meritava.
Entrando in cucina Ted si prese un momento per ammirare la testa arruffata del compagno, le spalle toniche coperte da una semplice canotta sdrucita e i pantaloni di una vecchia tuta che gli cadevano sui fianchi, lasciando scoperta abbastanza pelle da essere platealmente allusivi.
Credo sia per questo che non li ha buttati.
“Cosa si mangia?” Si informò neutramente, avvicinandosi per dargli un bacio sulla nuca ed aspirare l’odore di bagnoschiuma in cui doveva essersi affogato.
Shampoo, questo sconosciuto…
“Italiano!” Esclamò l’altro mulinando il cucchiaio in qualcosa che sembrava salsa o marmellata: Ted non si era mai fatto troppe domande circa gli esperimenti a cui veniva sottoposto quotidianamente. Di solito finivano con la sua pancia piena e James che ghignava tronfio e ben disposto a passare sul divano per smaltire, quindi perché preoccuparsi? “Cioè pasta … con … qualcosa.”
“Commestibile?” Non poté fare a meno di stuzzicarlo.

“Scassapalle.” Fu il ghigno di risposta, mentre gli scaricava il peso addosso con intenzione. Era più un crollare, ma Ted vi era abituato e dopotutto, esser stato graziato dalla Natura di una certa resistenza doveva pur servire a qualcosa. Gli passò un braccio attorno alla vita e lo sostenne, non prima comunque di avergli allungato un pizzicotto che gli costò un pugno giocoso e un bacio a in ugual misura.
“Dai, cos’è?” Chiese annusando. Non registrò nessun odore preoccupante, anzi.
Nonna Molly e i suoi geni … grazie.
“È tipo quella ricetta di quella vecchietta … in quel posto in cui siamo stati in vacanza.” Fece una pausa. “Ricordi?”
“Intendi dire la ricetta della pasta alla sorrentina, che hai ottenuto intrufolandoti nella cucina di quel ristorante a Minori, in Italia, dove siamo stati in vacanza un anno fa?” Tradusse a beneficio di entrambi, sentendolo ridacchiare.

“Non mi sono intrufolato.” Gli diede uno schiaffetto sulla guancia. “Bugiardo Teddy. La proprietaria era pazza di me!”
“Dopo che hai chiesto il bis. Due volte. Di tutte le portate? Sfido qualsiasi ristoratore a non adorarti.” Gli ricordò passandogli le braccia attorno alla vita; sapeva di essere una stramaledetta chioccia, ma sentirlo vicino, caldo e presente era un sollievo.

Specialmente quando rischia la vita due volte nel giro di due settimane.
James parve intuire dalla stretta i suoi pensieri, perché voltò il viso di tre quarti per lasciargli un lieve bacio sull’angolo della bocca per poi guardarlo con occhi caldi, e vivi. “Abbiamo consumato un sacco in quella vacanza, mio Teddy, e non mi sembra che tu ti sia mai lamentato della mia scorta d’energia.”
“Sono meno stupido di quanto sembri, sai.” Replicò facendolo ridere. “Com’è andata oggi? Come sta Liam?”
Lo sentì irrigidirsi e maledisse la sua appena ritrovata stupidità. “Non si sa ancora niente di certo … Prima di tornare a casa sono passato a vedere come stava, e ho parlato un po’ con Meg, sua moglie. Non si è più svegliato da quando…” Tacque, chiudendo con un colpo della bacchetta il fuoco sul grosso pentolone in cui bolliva la pasta. “… cazzo, è un vero casino.”
Ted gli posò un bacio sulla nuca, senza sapere cosa dire. In certi casi qualsiasi rassicurazione suonava sterile e chi meglio poteva saperlo di persone come loro? “Mi dispiace.” Si risolse a dire. “Il caso?”

James stavolta non  tentò di metter su la commedia del io-auror-tu-civile. Parlò veloce, svolgendo i pensieri come gli venivano e facendo forse chiarezza nella sua testa in prima istanza. “Fase preliminare. Abbiamo esaminato tutto quello che abbiamo fatto al San Mungo, dall’inizio alla fine e abbiamo ascoltato le testimonianze dei Guaritori, però finché non arrivano i referti medici del Sergente non possiamo capire su cosa stiamo lavorando. Si tratta quasi di sicuro di magia oscura, ma finché non abbiamo la certezza dai laboratori…” Si massaggiò la nuca con una smorfia, e riprese. “Per quanto riguarda il caso Howe, invece … Beh, abbiamo una mezza pista su chi possa aver disattivato le barriere nel Padiglione dei Mortuari. Domani facciamo un salto alla ditta che ha realizzato il sistema di sicurezza interno al San Mungo.”
“Quello che è stato disattivato per rubare le spoglie dell’americano?” Intuì mentre prendeva un paio di piatti e la tovaglia. James poteva esser un fedele adepto al sacro principio dell’Entropia, ma quando mangiava era nipote di Molly in tutto e per tutto; una tavola apparecchiata a dovere era imprescindibile.
James mandò la pasta a scolare e annuì. “Prince crede che qualcuno della ditta possa aver fornito i contro-incantesimi per disattivarle. È una pista, ed è sempre meglio di niente.”
Ted sorrise: già solo il fatto che l’altro ammettesse che un’idea del tedesco era buona era un buon passo verso l’armonia di quella nuova, traballante squadra.
“A proposito di Prince, hai sentito Lily?”
L’altro fece una smorfia, continuando ad armeggiare tra padella e pasta. “Silenzio radio. Oggi non aveva lezione né tirocinio, quindi manco Albie l’ha vista … Spero solo non sia troppo incazzata.”
Stavolta si astenne da qualsivoglia commento.

“È sicuramente incazzata come una biscia, eh Teddy?” Mugugnò sconfortato, lasciandosi cadere sulla sedia accanto a lui mentre la padella colma di pasta levitava sopra le loro teste e li serviva copiosamente.
“Le passerà.” Replicò diplomatico, dando una forchettata al proprio piatto. Non era come essere a Sorrento, ma ci si avvicinava. James cucinava soprattutto per distrarsi, per scrollarsi di dosso i brutti pensieri e doveva ammettere che apprezzava quella sua nuova abitudine, essendo assai meno distruttiva che lanciarsi come un pazzo in sella ad una scopa.
Morgana, grazie per i geni di nonna Molly. Grazie.
“Buona eh?” ghignò l’altro compiaciuto, strofinandogli il piede nudo contro la caviglia. “Sono un ragazzo da tenere fuori e dentro ad un letto, ah?”
“Per tutte le stanze. Ed è fantastica, Jamie, sul serio.” Convenne divertito, gradendo quel cambio di argomento. Parlare dei casi era un modo per l’altro di tirare le somme della giornata e non glielo avrebbe mai negato, ma in generale a tavola preferiva argomenti … più frivoli.

“Domani andrò nel bosco con Nev.” Disse. “Sai, per quella faccenda del supposto lupo mannaro…”
“Uh-uh.” Convenne l’altro mentre trangugiava succo di zucca. “Me lo ricordo … riunione cittadina, tu che mandi a fare in culo gente a caso…”
“Jamie…”
“No, dai, me lo ricordo sul serio!” Ghignò. “Quando è? Di notte? Con la luna piena?”

“Andare a cercare un Lupo Mannaro durante il Plenilunio può essere chiamato solo tentativo di suicidio assistito.” Replicò scuotendo la testa. “No, il Plenilunio è tra tre giorni. Ma se c’è un Mannaro in forma umana in giro per la Foresta Proibita … beh, diciamo solo che sarà più facile vedergli i segni della licantropia addosso adesso che lontani dal Plenilunio.”
“Vuoi che venga anch’io?” Lo stupì. “Possono sempre servire un paio di occhi in più, no?”
Ted ci rifletté: una caccia al Mannaro non era quella che poteva esser definita una tranquilla serata post-lavorativa ma James non era il genere di persona da camino e pantofola, non importava quanto stressante fosse stata la giornata. E l’idea di averlo vicino in quei frangenti lo rassicurava, oltre a dargli la piacevole sensazione di fare qualcosa per cui entrambi, seppur in modi diversi, erano naturalmente portati.
“Mi piacerebbe, ma sicuro di non esser troppo stanco?”
James ghignò, servendosi un’altra generosa dose di pasta. “Mio Teddy, mi conosci! Mi perderei mai l’occasione di vederti versione cacciatore sexy?”
 
 
 
****
 
Londra, Charing Cross.
Notte.
 
Alla fine Soho era servito solo come base. Il che, a dire il vero, era la norma.
Michel aveva raggiunto Mael e i suoi amici dell’Accademia Beery per un veloce cocktail al The Edge, locale adorato dal francese per via della concentrazione di Babbani modaioli e di tendenza, salvo poi spostarsi oltre il fiume per farsi fagocitare dentro l’Heaven, night-club dalla musica sufficientemente alta per soffocare conversazioni di facciata e soprattutto brutti pensieri.

Di solito…
Michel era appoggiato al bancone e stava sorseggiando la sua ordinazione svogliato, ignorando forzosamente i tentativi di attaccare bottone di un tizio in maglietta a rete e troppo kajal.  
Provvidenziale, Mael gli si appoggiò contro, passandogli un braccio attorno alla vita. “Ehi splendore.” Gli mormorò all’orecchio per farsi sentire oltre la musica. “Cos’è quel muso lungo?”
Michel sospirò, passandogli le dita trai capelli corti e sudati. “Se te lo dico adesso mi daresti retta?”
“Proprio no!” Rise schioccandogli un lieve bacio sulle labbra. “Dai, vieni a ballare!”
Michel sorrise, accettando la mano: Mael non era il genere di persona da cui andare per fare grandi discorsi o chieder consiglio. Da lui si poteva avere solo fatti, che fossero su un letto o su una pista da ballo. Non che non la ritenesse una qualità: era sinceramente affezionato a quel piccoletto pieno di energia e capricci e la loro amicizia funzionava proprio perché non aveva pretese di esser profonda.
Il problema è che non è abbastanza. Specialmente stasera.
Qualcuno qui si sta avvicinando all’auto-commiserazione?
No, decretò con una smorfia scontenta, non andava bene. Non andava bene affatto.
Tirò a sé Mael per la cintura dei jeans stretti come un guanto e lasciò che la musica, forte e ritmata, avesse la meglio su di lui. In fondo, era il motivo per cui era venuto.
Dopo un paio di canzoni e la perdita della maglietta giunse ad una grama conclusione.
… Definitivamente non va.
Aveva bevuto per lasciarsi andare, il corpo flessuoso e caldo di Mael era invitante, la musica era perfettamente stordente e l’odore di sudore, profumo e testosterone avrebbe dovuto fargli azzerare ogni capacità cognitiva … tutto cospirava perché quella fosse la solita serata senza pensieri. Invece no.
Stava ancora pensando: al lavoro, a suo padre, a come le pareti di casa sembravano schiacciarglisi addosso ogni volta che vi rientrava, ad Albus e al fatto che la relazione più duratura che avesse fosse quella con la sua bacchetta. Che si era rotta.
Quando sentì le labbra dell’amico lambirgli il collo scattò all’indietro, come bruciato.
Merlino, non ti trovi un po’ patetico? Il grande Michel Zabini. Mmh?
Mael gli scoccò un’occhiata preoccupata, oltre i fumi della propria sbronza. “Che succede?” Gli sillabò muto dato il frastuono. Michel scosse la testa, infilandosi la maglietta e facendo cenno verso l’uscita: prendere una boccata d’aria fresca gli avrebbe schiarito le idee. Almeno sperava.
L’uscita di sicurezza del locale era fortunatamente a portata di mano e ben visibile con una popolazione Babbana piuttosto prona al fumo. Scivolò fuori con facilità, respirando l’aria fresca della quieta serata estiva. Attorno a lui c’erano persone chiacchieranti o impegnate a far altro, ma benché ne conoscesse più di un paio, tirò dritto verso la fine del grosso terrazzo che finiva con la scala-antincendio. Si appoggiò alla balaustra di metallo, osservando il Tamigi brillare di mille luci elettriche e luminosissime.
Uno dei motivi per venire in questo posto, a parte scopare, è anche la vista…
Si accorse quasi subito però che la sua scelta misantropa era stata piuttosto stupida: aveva dimenticato l’accendino.
E, tanto per girare il dito nella piaga, niente bacchetta.
Quasi il Fato avesse deciso di dargli tregua, una mano comparve dal nulla tendendo l’agognato accendino. “Serve?” Chiese una voce densa di un accento che non riconobbe.
Michel alzò lo sguardo per squadrare l’interlocutore. Era un bel tipo, classificò con sicurezza. Alto, spalle larghe e allenate, ma non pompate da ore di inutile palestra, e con una zazzera di capelli biondi non flagellati dai coloranti chimici. Anche l’abbigliamento non era particolarmente appariscente per i canoni dell’Heaven: un paio di jeans slavati ma dall’aria costosa e una maglietta sportiva. Il genere di stile fatto a posta per non sembrare impegnativo quando in realtà calzava come un guanto.
“Grazie.” Sorrise chinandosi per dare un tiro alla propria sigaretta e lasciarsi riempire la bocca di fumo.
“Uno è qui per servire.” Tedesco, stimò, doveva esser tedesco per come pronunciava in modo nasale alcune sillabe. Michel sorrise al cliché involontario che rappresentava: alto, dall’aria sana e biondo. Anche le guance erano accese di un rosa piuttosto intenso, dovuto alla calura della sala da cui doveva esser appena uscito. Era niente male. Anche portarselo a casa lo sarebbe stato altrettanto.
“Servire … Non  mi sembri far parte dello staff. Neanche del paese, se è per questo.” Obbiettò senza particolare voglia. Ma era la sua educazione Purosangue: bisognava riempire i silenzi quando la persona davanti a te non dava cenno di volersene andare.
“America.” Disse stupendolo. “Vengo da Boston quindi non faccio parte del Continente.”
“Avrei detto fossi tedesco.”
Un lampo di sincero piacere si accese nel sorriso disimpegnato dell’altro. “Abbiamo un esperto di accenti, ah?”

“Di tedeschi, forse.” Motteggiò facendolo ridere. “E poi, spero tu non ti offenda, ma rappresenti il prototipo in modo eccellente. Sono solo stupito dalla mancanza di bretelle e calzoni alla zuava.”
L’altro scoppiò a ridere più forte e Michel plaudì silenziosamente alla risata franca e sincera. Era raro che qualcuno prendesse nel verso giusto il suo umorismo, specie quando i cocktail erano troppi per apprezzarne le sfumature. “Mi dispiace deluderti, ma non ne ho mai indossati in vita mia.” Ghignò, arricciando le labbra e squadrandolo per intero. “E poi, come rimorchierei conciato in quel modo?”

“Giusta osservazione.” Convenne. “Ed io che pensavo che si venisse qui per la buona musica.”
“Dio, ma se è una schifezza!” Esclamò spalancando gli occhi. Niente cliché lì: li aveva scuri alle luci di Londra. “A volte mi chiedo se qualcuno la ascolti fuori da posti come questo. Senza avere l’impulso di prendere a calci l’impianto che la spara, intendo.”
“Palestre, saune…” Elencò divertito. “… è settoriale.” Si stupì della facilità con cui stava rompendo il suo fioretto serale. Non era uscito per avere una conversazione sterile eppure …

Stasera ti devi sentire proprio solo, mio buon Mike.
“Puoi dirlo forte.” Scrollò le spalle l’altro. “A te piace?”
“Non è questione di piacere, è questione di … colonna sonora, suppongo. Non puoi certo mettere musica classica in posti come questo.”
“Sì, vero.” Disse avvicinandoglisi di qualche passo. Era poco più alto di lui, ma aveva una corporatura più massiccia. Immaginò il peso dei muscoli schiacciarlo contro le lenzuola e un fuoco gli divampò dentro. Finalmente. “Hai finito qui?” Gli venne chiesto. “Con la sigaretta, dico.”

“Mi stai chiedendo di ballare?” Ribatté abbandonando la suddetta alla consunzione spontanea.
“Non con quella merda di sottofondo.”
Michel sentì la mano dell’altro passargli lungo il basso schiena, calda e presente, ma non sudata. Piacevole, stimò. “Un valzer allora?” Mormorò sentendo che finalmente il cervello cominciava a puntare in unica, disimpegnata direzione.
Il biondo ghignò chinandosi nella sua direzione. “Una specie.”
 
 
****
 
 
Note:

Di tutto e un po’!

Questa la canzone del capitolo. Tanto per andare su robina allegra. Ce ne servirà come scorta per l’inverno! ;D

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Capitolo 13
*** Capitolo XII ***


Capitolo XII

 
 


I look around, but I can't find you  If only I could see your face 
Instead of rushing towards the skyline
I wish that I could just be brave
(Rabbit Heart, Florence & The Machine)
 
 
24 Giugno 2028
Victoria Embankment. Casa di Michel Zabini.
Mattina.
 
La vita era fatta di alti e bassi. Dove c’era una giornata di merda, c’era sempre la possibilità che arrivasse una notte niente male.
E così era stato per Michel, che si svegliò sentendo il piacevole languore che testimoniava lenzuola sgualcite, sudore a raffreddarsi sulla pelle e un uomo che sapeva come muoversi e soprattutto cosa toccare.
Inspirò seppellendo il viso contro il cuscino, seta fresca contro il suo viso ancora accaldato; la barba pungeva ma non riusciva a trovarla fastidiosa come al solito.
Era la prima volta da … mesi … che non si svegliava con il malditesta. Certo, svuotarsi dava sempre i suoi buoni effetti, ma quella notte era stata come se finalmente il mazziere della sua partita personale gli avesse allungato una mano sublime. O un antidolorifico potente.
Merlino, che meraviglia.
Con la coda dell’occhio vide la luce del bagno accesa e dall’acqua intuì che il tedesco – o americano? – si stesse facendo una doccia prima di togliere le tende; doveva essere l’alba.
Ottimo, sa quando andarsene.
Dovrei chiedergli il numero comunque. È un’esperienza che va ripetuta, questa.
Si stese sulla schiena, osservando i vestiti del tipo gettati su una delle sedie ultra sottili che decoravano il suo appartamento uscito dalla testa hi-tech di un’architetto Babbano. Suo padre quando vi era entrato la prima volta aveva storto la bocca e aveva passato la successiva mezz’ora a criticare tutto ciò che gli si era parato davanti.
A ben pensarci, è stato questo il motivo per cui l’ho fatto arredare così… Per fargli dispetto.
Stese una mano sul comodino per cercare le proprie sigarette, e quando non le trovò cercò la bacchetta per Appellarle. Gli ci volle più di qualche secondo di nebbia post-coitale per rendersi conto che non c’erano nessuna delle due.
Cosa diavolo…
Si alzò di scatto a sedere mentre scandagliava la stanza con lo sguardo; ricordava di aver lasciato la bacchetta sul comodino, come faceva ogni notte, oculatamente nascosta dalla sveglia digitale.
Dov’è finita?
La sola idea che il suo ospite potesse averla vista gli dava l’ansia; un Babbano poteva farsi sospettoso vedendo un legno istoriato e dalla forma strana in un appartamento come il suo.
Come se non bastasse la mia bacchetta di riserva è una vecchia bacchetta di papà. Merlino, penso anche abbia delle protezioni anti-Babbano sopra …
Protezioni del genere aggredivano chiunque non fosse il proprietario con effetti terrificanti quali fuoco, scariche di magia e amenità simili.
Ci manca solo che debba chiamare una squadra di Obliviatori … o un carro funebre perché ha toccato la mia bacchetta.
Sono un idiota. Un errore da novellino.
Cercò di ricordare dove l’avesse lasciata prima di uscire con Mael e la sua compagnia, ma tra l’alcool e il fatto che avesse passato tutta la notte a spegnere il cervello nel modo migliore che conosceva non gli sovvenne nulla.
“Ehi, cos’è quella faccia?” Lo sorprese una voce. “Tanto devastato all’idea che me ne vada?”
Milo – erano riusciti a presentarsi prima di mettersi gloriosamente le mani addosso nel taxi di ritorno – se ne stava sullo stipite della porta del bagno ed era una visione, tra il vapore della doccia, l’assoluta mancanza di vestiti e i capelli biondi arruffati come un’aureola. Per un attimo ogni suo senso fu investito dai ricordi delle mani e dalla bocca del ragazzo di fronte a sé.
“No, io…” Inspirò, realizzando di essere al centro della stanza, coperto solo dalla propria vestaglia e con un’espressione di puro terrore. Non andava affatto bene. Ne andava della sua reputazione.
“Buongiorno.” Riuscì a dire lasciandosi scivolare un sorriso languido sul viso. “Devo ammetterlo, mi sarei offeso se tu fossi sgattaiolato via come un ladro…”
L’altro ridacchiò, staccandosi dalla porta e afferrandogli i lembi della vestaglia, quasi volesse chiuderli. Finì invece per tirarselo contro. “Non sono così stronzo.” Ghignò. “Non con chi ha un culo come il tuo.”
“Sempre così diretto?” Passandogli le braccia attorno al collo cercò di occhieggiare all’interno del bagno. Niente, non ve n’era traccia.

Dannazione. L’ha vista? Non l’avrà presa? Se solo non avesse il manico intarsiato d’argento… Potrebbe balzare all’occhio, potrebbe pensare di venderla ad un robivecchi.
Era un’ipotesi assurda, ma non così tanto se si considerava il fatto che avesse fatto entrare in casa un perfetto sconosciuto.
Quante volte Albus ti ha detto che potresti metterti nel letto uno psicopatico? O svegliarti senza mobili?
Milo intanto pareva più occupato a lasciargli una calda scia di baci sul collo e Michel dovette appellarsi a tutto il suo autocontrollo per mantenere la lucidità. “Senti … hai …” Come poteva chiedere una cosa assurda come quella? Forse avrebbe dovuto trovare una scusa per frugare trai suoi vestiti?
Di certo non l’ha addosso…
“Hai visto…”
“Vedo te, e lo spettacolo mi piace Michel…” Il modo in cui arrotolava il suo nome sulle lingua lo faceva impazzire, perché per la prima volta dopo anni veniva pronunciato correttamente. 

Non mi chiamo Michael, mi chiamo Michel. Grazie.
No, aspetta. La bacchetta.
Con il cuore ricolmo di dolore si staccò dalla massa di muscoli, pelle e ossa bollenti del ragazzo di fronte a sé. “Hai visto … sto cercando la mia…”
Sarebbe più semplice se glielo potessi spiegare senza essere guardato come un pazzo.

Non ebbe il tempo di dire una parola che l’altro lo schiacciò letteralmente sopra il letto, in un movimento fluido e allenato, di chi sapeva come rendere maledettamente eccitante persino quello che alla fine era un placcaggio.
Era sconcertante; si riteneva una persona con un’esperienza tra le lenzuola, ma il tedesco stava premendo tutti gli interruttori giusti, e senza troppi sforzi dal ghigno beato e dalle mani che sembravano conoscere la mappa esatta del suo corpo.
Oh, Merlino … Un animale da letto. È un animale da letto.
Chiuse gli occhi esalando un respiro breve e secco quando sentì i palmi ruvidi passargli sulle gambe e stringere, con fermezza e senza fare male.
“La mia bacchetta…” Mugolò mentre una parte del suo cervello urlava sconcertata e l’altra osservava placida lo svolgersi degli eventi.
“È una metafora?” Chiese l’altro, alzando il viso minimamente turbato. “O intendi l’altra?”
… Come?
“Perché è a terra, vicino alla scrivania e visto che non volevo farmi saltare in aria una mano l’ho lasciata dov’era. Mi sembrava protetta da qualcosa.”
Michel ritrovò di colpo la lucidità. Sbattè le palpebre cercando di ritrovare contegno e soprattutto, cervello, perché si sentiva ridotto a deliziosa gelatina. “Sei un mago?” Fu la prima cosa che gli venne in mente.
Milo inarcò le sopracciglia. “Ti pare mi porti dietro legnetti che fanno scintille?”  
“Non sei un mago…” Quella mattina si sentitiva deplorevolmente ritardato perché gli stava sfuggendo l’intero quadro della situazione. A sua differenza il tedesco lo guardava con un sorrisetto beffardo, simile a quello di un bambino pestifero.
“Non sono un mago.” Confermò. “Ma tu sì, vero dolcezza? Dovresti aver più cura delle tue cose.” Si chinò fino a far toccare il naso con il suo. Aveva gli occhi castano chiarissimo, un castano che gli sembrava di aver già visto, secoli prima.
Dove?
No, non distrarti.
“Non sei neppure un Babbano però…”
“Ti sembro così sprovveduto?” Ghignò. “E no, prima che tu me lo chieda, non ho parenti che menano bacchetta.”

Michel sentì il cervello incepparsi come una vecchia macchina che aveva fatto troppi chilometri in poco tempo. Incepparsi e poi riavviarsi di colpo con un gran sferragliare.
Magari non l’avesse fatto.
“Sei un Magonò.” Realizzò sentendo il corpo congelarsi come se l’avessero appena gettato in una fontana di Hyde Park.
L’altro scrutò per un attimo la sua espressione, poi fece una risatina, staccandosi. “Dalla velocità con cui ti s’è ammosciato direi che non sei un fan della categoria.”
“Sei un Magonò.” Ripetè come un disco rotto; com’era possibile? I Magonò erano poveri, cenciosi e si nascondevano agli angoli delle strade per aggrapparsi ai cordoni della borsa con patetici sguardi acquosi. I Magonò erano Mastro Gazza, il bidello di Hogwarts dallo sguardo arcigno e dall’igiene dubbia.

I Magonò non erano un dio fatto di muscoli, sorriso irriverente e capelli biondi come il grano.
L’altro gli rivolse un’occhiata orribilmente divertita, togliendosi da lui e dirigendosi verso i propri vestiti e dandogli una visuale panoramica del suo fondoschiena.
I Maghinò non hanno un culo perfetto.
“Quando ti sarai ripreso dal trauma trovi il mio numero di cellulare sullo specchio del bagno.” Lo informò.
Specchio del bagno?

Era talmente agghiacciato che neanche si chiese con cosa ce l’avesse scritto. Nel frattempo l’altro si ravviò i capelli arruffati e umidi con una mano – la stessa mano che aveva fatto cose innominabili ad ogni singolo muscolo del suo corpo la sera prima – e gli sorrise come se fosse la cosa più esilarante del mondo.  “Sta’ allegro, maghetto, non ti ho scopato via la magia.”
“Lo so…” Riuscì ad esalare. Si sentiva paralizzato e nella sua testa c’era solo un coro di voci che urlava di lavare l’offesa nel sangue. “Mi hai ingannato.” Tirò fuori cercando di recuperare dignità, perché era Michel Zabini e nessun dannato Magonò si prendeva gioco di lui.
“Io?” Chiese con la voce più innocente del mondo. “Ci siamo presentati, ti ho offerto da accendere e mi hai portato a casa tua per fare sesso. Quando ti avrei ingannato? Mi sembra abbiamo ottenuto tutti e due ciò che volevamo.”
“Non mi hai detto cosa sei!”
Un’ombra passò sul viso dell’altro e per un attimo Michel pensò di aver esagerato. Anche se ovviamente non l’aveva fatto: l’altro era un Magonò, aveva solo detto la verità.

L’ombra passò comunque, e tornò il sogghigno. “Alla faccia del razzismo!” Esclamò. “Fammi indovinare, sei Purosangue?”
“Non è affare che ti riguardi.”  
“Curioso, è la stessa cosa che avrei detto io.” Scosse la testa e Michel finse di non sentirsi in qualche modo oggetto della delusione dell’altro. Come se gli importasse, poi. “Ero pronto a non avere pregiudizi.”
“Forse perché non hai diritto ad averne.” Ritorse.

Il Magonò gli rivolse un’occhiata di scherno e poi si avvicinò. Tentò di mettersi in piedi ma venne risbattuto contro il materasso con un movimento fulmineo. Voleva aggredirlo? Non fece in tempo a chiederselo che sentì una mano premergli sul petto, con decisione ma non violenza. Gli occhi dell’altro erano davvero chiari, ambra. Era assurdo, specialmente in quel momento, pensare che li avesse già visti altrove.
No, impossibile. Io non frequento la feccia.
“Sei proprio uno di quegli stronzi, ah?” Sospirò a pochi centimetri dalle sue labbra e Michel si impose di non far tornare l’eccitazione. Non che fosse esattamente facile: il suo corpo non pareva turbato dalla nuova scoperta. “Peccato. Ti avrei offerto volentieri la colazione.”
Come l’aveva sbattuto sul letto si rialzò lasciando la stanza senza un’altra parola.
Michel rimase a lungo steso, finendo per trovare la bacchetta, a terra esattamente dove il Magonò aveva detto fosse. Dopo qualche attimo rilasciò un’imprecazione trai denti.

L’emicrania era tornata.
 
****
 
 
Inghilterra, Devon, Il Mulino.
Mattina.
 
Non poteva trasferirsi a casa del suo ragazzo.
Lily l’aveva pensato quella mattina e così, più o meno alle prime luci dell’alba, aveva infilato la sua roba nel borsone che si era portata dal Mulino e ci era tornata, al Mulino. Scott, svegliatosi per il trambusto, aveva cercato di farla rimanere, assicurandole che per lui non c’era il minimo problema, che sarebbe potuta rimanere lì anche un mese, che la casa era grande e tutto il resto…
Magari. Ma da certe beghe non si può scappar per sempre.
 
“Non è questo il problema, Scotty.” Gli aveva sorriso, baciandogli la testa arruffata dal sonno. “È che devo tornare a casa per … questioni familiari, mettiamola così.”
“Tuo padre, eh?” Aveva indovinato nascondendo uno sbadiglio dentro una mano. “Cerca di non esser troppo dura con lui, alla fine pensava di farlo per il tuo…”
“Non ho bisogno che qualcuno prenda decisioni per me.” L’aveva interrotto, perché non aveva voglia di litigare con chi l’aveva ospitata beccandosi pure un pacco di paturnie che non avrebbero neppure dovuto sfiorarlo.  

L’altro aveva sospirato, ma aveva avuto più cervello che tentare di infilarsi in un argomento simile. “Okay. Colazione?”
Si era chinata per baciarlo a fior di labbra, cercando di infondere in quel breve contatto tutta la gratitudine che provava. “No, hai già fatto più che abbastanza … grazie. Ci sentiamo stasera, okay?”

Aveva abbandonato il porto sicuro che era casa Ross per tornare al Mulino e facendo scattare le chiavi di casa pensò che forse non era stata una buona idea; avrebbe sempre potuto riparare a casa di uno dei fratelli per ancora qualche giorno mentre aspettava che la bufera del suo cattivo umore si mitigasse.

Non mi va di litigare con papà e so che appena lo vedrò finirò per farlo.
Era il suo eroe, lo era sempre stato e non avrebbe smesso di esserlo, tuttavia dovergli spiegare per l’ennesima volta i limiti che non doveva oltrepassare le dava ai nervi.
È un maniaco del controllo. Deve sapere che siamo in un luogo sicuro, che facciamo qualcosa che non ci mette in pericolo e che non siamo, soprattutto, con gente pericolosa.
E se c’è il solo sospetto che una di queste condizioni venga meno…
Entrò in cucina e, dato il sonno che sentiva, fu inevitabilmente attratta dalla caffettiera bollente che emanava fragrante odore di colazione.
Meravigliosa caffettiera americana … Lasciati amare.
“Lily.”
Era una trappola!
Si voltò verso la voce di suo padre e lo trovò appoggiato allo stipite della porta, senza occhiali, con i capelli fuori controllo e ancora in pigiama. Era il suo giorno libero?

O forse è presto sul serio. Quando passi la notte insonne la sfasatura temporale si fa sentire.
“Era una trappola?” Chiese puntando sullo scoprire subito le proprie carte
L’uomo sospirò passandosi una mano dietro la nuca. “Cosa?”
“Il caffè … era per attirarmi in trappola?”
Suo padre le rivolse uno sguardo confuso. “No, l’ha preparato tua madre prima di uscire … Ci sono le selezioni dei Portieri del Puddlemere oggi, e le fanno all’alba.”
Lily strinse la tazza tra le dita, sentendosi piuttosto sciocca. “Vado a mettere le mie cose in camera…” Iniziò.
“Aspetta.” Rovinò tutto l’altro. “Dobbiamo parla…”
“Assolutamente no.” Lo bloccò sentendo il familiare nodo di rabbia serrarle lo stomaco. “Non c’è niente da dire. Niente che non mi farebbe litigare con te.”
“Lily, per favore.” Sembrava stanco, e non della stanchezza dovuta a una sveglia troppo mattiniera. Riconobbe le familiari occhiaie sotto gli occhi e capì che all’ufficio Auror doveva essere uno di quei periodi.

Non farti impietosire. Non osare! Mantieni la posizione, soldato.
“Mi hai nascosto delle cose.” Si appoggiò al frigorifero, cosciente ormai del fatto che quella conversazione non si poteva evitare. “Hai preso decisioni al posto mio.
“Lo so, l’Agente Prince…”
Sören.” Lo corresse. “Gli hai fatto promettere di tenere la bocca chiusa, e me lo sono trovato di fronte comunque. Londra è una città piccola, pensavi sul serio che non ci saremo imbattuti l’uno nell’altra?”

“Era proprio quello che volevo evitare. A te e ai ragazzi.” Ribattè gettando un paio di bustine di the in una tazza come se tutta quella faccenda fosse colpa loro.
“Perché?”
Suo padre si passò una mano trai capelli, tentando senza successo di dargli un ordine. Era un tic, come mordersi le unghie o aggiustarsi gli occhiali. “Perché non voglio che le vostre vite vengano di nuovo…”
“Cosa, sconvolte?” Non lo lasciò finire, abbandonando la tazza di caffè nel lavello, casomai avesse la brillante idea di rovesciarsela addosso: non si fidava a tenere liquido bollente tra le mani, non in quel momento. “Non sarebbe successo niente del genere! A Tom non sarebbe fregato nulla, Al neppure … ed io al massimo l’avrei visto per un caffè!”

Sei sicura? Allora perché continui a tentennare? Codarda.
Decise di accantonare quella voce nella sua testa per l’ennesima volta. Quella voce che le diceva che forse suo padre aveva ragione, forse l’arrivo di Sören in Inghilterra, nella sua Inghilterra, la stava mandando fuori fase più di quanto avrebbe dovuto.
Non ho bisogno di dargli ragioni per credere che abbia fatto bene.
“Ho vent’anni, sono abbastanza grande per sapere cosa voglio!”
L’uomo le lanciò un’occhiata che era un misto di incertezza, senso di colpa e qualcosa di più ferreo, di più interiore, una cocciutaggine da padre di famiglia detentore di ogni certezza.
Morgana, quanto odio quando fa così.
“Bene.” Disse calmo. “Allora voglio che tu mi assicuri che rivederlo non ti ha dato il minimo pensiero.”
“Mi ha sorpreso, tutto qui.” Mentì. “Questo non significa che mi devi proteggere come una cavolo di ragazzina traumatizzata!”
“È quello che sei stata e Merlino solo sa se non darei un braccio, o tutta la mia magia, perché non succeda di nuovo.” C’era sincero dolore nel tono di voce e Lily sentì la rabbia cominciare a defluire come una marea. Chiuse gli occhi e sospirò.

“Sören non ha colpa dei miei incubi…”
“Ma ne è stato parte.” Lo percepì avvicinarsi e poi sentì la sua mano, forte e salda, sulla spalla. Avrebbe voluto scrollarla, ma la realtà e che ne aveva bisogno. “Non sto dicendo che ho fatto bene a nasconderti delle cose, tesoro.” Aggiunse. “Ho solo cercato di evitarti dei pensieri … Nei piani originali sarebbe dovuto rimanere non più di trentasei ore.”
“Adesso non è più così?”
“Complicazioni con il caso.” Non si sbottonò, ma non lo pretese. Quelli davvero non erano affar suoi. “Resterà più di quanto previsto, non era pianificato, ma…”
“Se l’avessi saputo prima sarebbe stato diverso?”

“Non lo so.” Ammise e questo lo apprezzò. “Voglio solo che tu, Al e Tom viviate sereni.” Ripetè. “Ma hai ragione, era tuo diritto sapere.” Scosse la testa. “Non interferirò più, qualunque cosa tu decida di fare d’ora in poi, te lo prometto.”
Lily lo abbracciò d’impulso, perché sì, la rabbia non era passata, non del tutto, ma le intenzioni, quelle le poteva capire e scusare. Non era più una quindicenne arrabbiata con il mondo.

Dovevo solo ricordarmelo, credo.
La stretta di suo padre era calda, presente e aveva l’odore del sonno e di casa. Non aveva realizzato fino a quel momento quanto le fosse mancata; sentì la tensione scivolare via come una coperta troppo larga e finalmente potè permettersi di essere stanca.
“Mi dispiace tesoro.” Le mormorò trai capelli. “A volte non tutto quello che faccio risulta essere la soluzione perfetta.”
“Decisamente.” Convenne con una risatina che sperò non fosse troppo acquosa. “Non offederti, ma davvero, stavolta no.”
“Nessun offesa intesa.” Si staccò per accarezzarle la guancia. “Colazione?”
“Merlino, sì, sto morendo di fame.” Sorrise perché non riusciva a restar arrabbiata con nessuno dei suoi familiari troppo a lungo, specialmente suo padre, con quell’aria perennemente arruffata da ragazzo imbranato.  

“Voglio una vera colazione.” Pretese mettendosi a tracolla il borsone, precedentemente abbandonato su una sedia nella sua ricerca di caffè. “Tanta, vera colazione.”
“Agli ordini!” Ridacchiò prima di mettersi docilmente ai fornelli. Ma c’era ancora qualcosa di indeciso nella linea delle sue spalle e Lily si prese un momento in più. “Lils…” Disse infatti, e c’era esitazione, ma anche una strana rassegnazione nel tono di voce. “Ti è arrivata una lettera.”
“Un Gufo?”  
“Te l’ho lasciata sulla scrivania, in camera tua.” Si limitò a dire prima di voltarsi a prendere il necessario per cucinare.

Lily non fece altre domande, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta dalla persona che gli stava di fronte – quando voleva suo padre riusciva ad esser persino meno comunicativo di Tom; corse invece al piano di sopra, lanciando la borsa sul letto. Sulla scrivania faceva ben mostra di sé una busta pergamenata.
 
Sören E.Prince,
Diagon Alley, Paiolo Magico, Londra.
 
 
****
 
 
Londra, Diagon Alley.
 
“Odio quando scappano!”
Sören non era propenso, in linea di massima, a dar retta a James Potter ma in quel momento assolutamente sì.
Fermo!” Urlò accanto a lui Malfoy, cercando di lanciare un incantesimo in direzione del loro sospetto fresco di interrogatorio; nientemeno che il figlio del proprietario della ditta degli incantesimi Protettivi. Erano bastate un paio di domande incalzanti e la richiesta di vedere dove venivano archiviati i contro-incantesimi, perché il ragazzo, nervoso sin da quando erano entrati nel piccolo ufficio sopra la fabbrica, saltasse in piedi e si gettasse fuori dalla finestra come se avesse le ali ai piedi.
(In realtà un Incantesimo Levitante piuttosto ben riuscito. Il tipo non doveva esser nuovo alle fughe precipitose.)

Sören si infilò nella tortuosa via principale di Diagon Alley, masticando un’imprecazione a mezza bocca, quando si accorse che il sospetto aveva scelto quella soluzione di fuga proprio per la calca che premeva da ogni lato, rendendo difficoltoso il passaggio di quattro agenti armati.
“Levatevi dai piedi!” Gridava inutilmente Potter, cercando di evitare anziani e tirando energici spintoni a chi gli sembrava in grado di spostarsi ma non sembrava averne l’intenzione.
“Potty, non uccidere nessuno! Ricordati i richiami disciplinari!”
“In culo i richiami!”  

Sören cercò di concentrarsi sull’azione e sul regolare il respiro, dato che altro non poteva fare che seguire pedissequamente le mosse degli auror.
Non conosco il terreno d’azione. Non so come muovermi.
Non aveva neppure fatto in tempo a lanciare un Incantesimo Localizzante sul sospetto; Londra e le sue strade, così come la sua popolazione magica, gli era nuova e si sentiva ancora sbalestrato.
Non ha importanza. Hai un compito, eseguilo.
Razionalmente sapeva cosa fare: seguì Jordan che gli scoccò un’occhiata stupita ma non fece rimostranze. “Seguimi!” Disse invece. “Sbucheremo a Notturn Alley, lì dovrà fermarsi, oggi c’è il mercato, sarà pieno di banchetti!”
Si limitò ad annuire stringendo con forza la bacchetta in pugno e riparandola dalla gente che gli sfrecciava accanto.
C’è una pista. Finalmente. Qualcuno ha pagato o minacciato il sospetto per farsi dare i contro-incantesimi per le barriere del Padiglione Mortuari. Qualcuno che ha trafugato tutto ciò che era Sam Howe.
È una pista. Finalmente.
Jordan lo guidò con sicurezza tra vicoletti angusti e ingombri di cianfrusaglie, quanto di maghi che gli ricordavano sin troppo bene la sua infanzia in Germania.
Il tempo si è fermato in Europa.
Fu un pensiero fugace prima che il vicolo si aprisse su una piazzetta ingombra di bancarelle e teli stesi per ospitare merce di molteplice provenienza, da cibo ad artefatti magici. Sören non si lasciò distrarre; in un lampo vide il mantello del ragazzo sparire dietro un banchetto traboccante libri . “Lì!” Esclamò. Scattarono e con la coda dell’occhio vide Potter e Malfoy sbucare da un altro vicolo.
Non deve Smaterializzarsi. Sta correndo troppo veloce ed è terrorizzato, non si è ancora smaterializzato, ma appena troverà un buco in cui infilarsi…
Realizzò che quella piazzetta, per la sua confermazione, era un buco perfetto. Occultato dalla merce e dalle bancarelle il giovane mago aveva tutto il tempo per lanciare un incantesimo; lo vide tirar fuori la bacchetta, puntarsela addosso …
… e poi l’intero banchetto di libri gli franò addosso.
Sören si bloccò appena in tempo per non essere travolto e lo stesso fecero gli auror dietro di lui.
Che diavolo…
Dai lamenti che si udivano provenire sotto i chili di carta il sospetto non era stato altrettanto fortunato.
“Woah!” Esclamò Potter affiancandoglisi con un ghigno. “Che culo! Viva i banchetti marci di Diagon Alley!”
 
“… Perché la fortuna bacia sempre gli idioti, vero James?”

Sören sentì un brivido lungo la nuca: quella voce l’avrebbe riconosciuta tra milioni di altre dato che era fatta della stessa materia dei suoi incubi peggiori, quelli che gli ricordavano quanto e come avesse sbagliato a seguire quell’uomo.

No, non è…
Non era Alberich Von Hohenheim, perché era morto, certo. Era invece l’unica traccia rimasta sulla terra. Era suo cugino Thomas.
“Dursley!” Esclamò Malfoy sorpreso. “Sei stato tu?”
“Sembrava avere troppo fretta per essere in cerca di una lettura.” Replicò questo infilando la bacchetta nel fodero attaccato ai jeans. “È vostro?”
“Già, sempre che tu non ce l’abbia spappolato!” Esclamò Potter con una smorfia che malcelava il fastidio di non esser stato lui ad aver avuto quella pensata. Fece cenno a Bobby e Malfoy e i due si misero all’opera nel liberare il sospetto. “Che ci fai qui?”
“A Notturn Alley? Sono alla ricerca di manifatti oscuri, mi sembra ovvio.”

Cosa?
“Ironia, questa sconosciuta…” Sogghignò scuotendo la testa come se avesse di fronte quattro bambini tardi. Poi si voltò nella sua direzione, scoccandogli un’occhiata che non riuscì o forse non volle premurarsi di decifrare.
Era dura, pensò sentendo la bocca diventare asciutta come il deserto; rivedere Dursley era dura perché era rivedere suo zio, gli stessi occhi gelidi e gli stessi lineamenti scolpiti nella pietra. Distolse lo sguardo, non riuscendo a far altro.
Patetico…
“Vedo che avete una nuova aggiunta.” Osservò lentamente, chinandosi a raccogliere un libro da terra e spazzolandolo con cura prima di metterlo nella propria tracolla. Era babbana, di tela e Sören ne fu stupidamente sollevato; più punti di differenza trovava trai due più si sentiva in grado di respirare.
“Sì, è un agente di collegamento, Albie te l’avrà detto.” Tagliò corto Potter. “Dai, levati dai piedi, dobbiamo lavorare.”
“Se per lavorare intendi travolgere metà Diagon Alley e vandalizzare un mercato…”
“Ma vaffanculo!”
Non è mio zio. Non è lui, è solo … suo figlio. È mio cugino.

C’era un modo corretto di comportarsi in quei casi? Perché sembrava che Londra stesse cospirando per fargli incontrare le persone più scomode con cui interagire.
Lui, Lilian… Lilian avrà ricevuto il mio Gufo?
“Dai, abbi pietà di noi povere teste di latta!” Sorrise Scorpius raddrizzando il sospetto semi-incosciente e ciondolante. “Grazie per l’aiuto, comunque.”
Thomas spianò l’espressione in un’ombra di sorriso, sebbene avesse ancora con ampie tracce di scherno a tingerlo. “Sempre a disposizione per le forze del Bene.” Mormorò: era il genere di persona che non doveva evidentemente alzare la voce per essere ascoltato.
“Dannazione, riesci ad essere un rompipalle anche quando sei d’aiuto… Levati dai piedi o ti portiamo in ufficio!” Esclamò Potter con un grugnito che sapeva di esasperazione ma anche di uno strano, contorto rispetto.

“Agli ordini.” Replicò placido, prima di rivolgergli un’altra occhiata. Sören avrebbe davvero voluto trovare qualcosa di utile o sensato da dire, ma si limitò a ricambiare lo sguardo e ad un cenno della testa. Non che l’altro sembrasse aver voglia di rimanere per conversare dato che non impiegò che pochi attimi per sparire nell’oscurità del vicolo.
“Idiota… tutta questa segretezza e poi sarà venuto qui per ficcare il naso in qualche libro muffito.” Borbottò Potter scuotendo la testa. “Si diverte a fare il coglione inquietante!”
“Il solito, no?” Replicò Malfoy stringendosi nelle spalle con un sorriso rassegnato. Era strano, considerò, ma provava invidia per la facilità con cui i due si rapportavano all’altro, apparentemente al lato opposto del loro carattere.

Lo conosco da una vita, è normale. Fa parte della loro cerchia di amici, della loro famiglia e per questo non lo giudicano.
I rapporti umani erano complicati, pensò con un sospiro interiore: ne sarebbe mai venuto a capo?
“Portiamo il nostro amico in centrale e gli diamo un paio di colpi di Innerva?” Suggerì Jordan rompendo il silenzio creatosi.
“Buona idea.” Convenne Potter. “Ci deve ancora delle risposte.”
 
****
 
America, Boston.
Ufficio SAGITTA. Mattina.

 
“… e per questo motivo l’Agente Prince prolungherà il suo soggiorno in Inghilterra.”
Eleanor sapeva di aver dato una notizia piuttosto sconcertante e per questo aspettò con calma che sua figlia e l’Agente Estevez ne assimilassero tutte le implicazioni.

“Diavolo!” Esclamò il portoricano. “Certo mi lascia un bel po’ di scartoffie da sistemare e che sia dannato se non gliele spedirò tutte!” Ghignò. “Che non pensi di potersi rifugiare in Europa!” Detta la battuta tornò subito serio e le scoccò un’occhiata indagatrice. “Ma è solo perché le indagini si sono complicate che non torna, vero?”
“Quali altri motivi potrebbero esserci, Agente Estevez?” Replicò pacata, studiando nel frattempo il viso serio e contratto della figlia. Era una sua sottoposta, ma anche la sua principale ragione di vita e conosceva le sue reazioni a fuoco lento a menadito.
“Non so, forse il fatto che gli inglesi vorrebbero mettergli il più possibile i fermi alla scopa?” Replicò quest’ultima salace. “Prince non dev’essere nella lista delle persone preferite di molti di loro, Harry Potter in testa. Non mi stupirei se stessero cercando di sabotarci.”
“È questo genere di pregiudizio che non rende facili i rapporti oltre-oceano, Agente Gillespie.” Doveva mantenere il tono di comando così come la giusta distanza emotiva dalla figlia. Non era semplice. “Il Capo Potter è un uomo corretto, e così lo sono i suoi auror. È opportuno che l’agente Prince rimanga perché le indagini hanno preso una piega complessa. È suo dovere prestare le proprie competenze per risolvere il caso, specie considerando che la risoluzione dello stesso porterà a riavere indietro le ceneri e gli effetti personali di Samuel Howe.”

Sua figlia le scoccò un’occhiata talmente scettica che fu costretta ad ignorarla per non doverla riprendere di fronte ad Estevez.
“Agente Estevez, al momento dovrà fare a meno del suo compagno … Sergente Gillespie, voglio che riorganizzi i prossimi turni calcolando l’assenza dell’agente Prince. Per qualsiasi ulteriore cambiamento della situazione sarete informati.” Fece una pausa, sorridendo appena all’aria sconsolata del portoricano. “È tutto, potete andare.”
Chi avrebbe mai pensato che Estevez avrebbe sentito la mancanza del proprio partner?
I due si diressero verso la porta dopo aver ricevuto la consegna, ma sua figlia all’ultimo momento si attardò, facendo cenno imperioso all’altro agente di scendere senza di lei.
C’era da aspettarselo.
“C’è qualcos’altro che vuoi dirmi Ama?”
La ragazza serrò le labbra. Era chiaramente combattuta tra il lasciar perdere e parlare. Alla fine si decise per la seconda opzione, perché chiuse la porta dietro di sé e vi si appoggiò per buona misura, quasi volesse rendere, con quel gesto, la conversazione privata.
“Cos’è successo? Perché Prince non vuole tornare?” Chiese. “Quando è partito sembrava avviarsi verso il patibolo… Cosa gli ha fatto cambiare idea?”
Nora esitò; aveva notato come sua figlia, dopo un lungo anno di lavoro gomito a gomito, avesse cominciato a considerare Sören sotto un’altra luce.

Non è più il complice dell’assassino di Jeremiah.
Non sapeva fino a che punto Ama avesse preso a cuore il tedesco, ma non aveva nessuna intenzione di scoprirlo: come madre e soprattutto, come Capitano, era quasi costretta a chiudere un occhio.
“Si tratta di quella ragazza, vero? Di Lily Potter.” Ama sapeva la storia di Sören ed era veloce nei collegamenti, quindi Nora non si stupì della sua perspicacia. “Pensavo gli fosse stato proibito di contattarla.”
“Sono successe alcune cose per cui è stato inevitabile il contrario.”
“C’entra con il caso?” Lanciò un’occhiata al fascicolo che le era stato dato. “È quello che troverò scritto qui? Che il caso di cui si sta occupando uno dei miei agenti è appena diventato personale?” Non vedendola negare le scoccò un’occhiata incredula. “Come puoi lasciarglielo fare?” Sbottò.
“Ama, è diventato personale non appena ha messo piede in Inghilterra. Avremo dovuto fermarlo prima, ma sai che non era possibile. Dobbiamo solo sperare che sappia prendere le decisioni giuste.”
Sperare? I casi non si risolvono con la speranza!” Fece una smorfia. “Forse qualcuno potrebbe…”
“Nessun’altro andrà in Inghilterra.” La fermò. “L’ufficio non può permettersi altre defezioni. So che sei preoccupata per lui … lo siamo tutti.” Sorrise dell’aria imbarazzata ma colta sul fatto della figlia. “Ma penso che questo sia il caso per Prince, quello che dimostrerà al Dipartimento, a noi e soprattutto a lui che è meritevole di vestire l’uniforme.”
“È una scommessa quindi.”

“No, è dargli fiducia.”
La ragazza rilasciò un lungo sospiro, prima di aprire la porta. “Noi possiamo anche dargliela, ma lo faranno gli inglesi?”

“Possiamo solo sperarlo.”
La figlia a questo non rispose, limitandosi ad uscire e chiudersi la porta dietro con veemenza. Nora inspirò: si sentiva a disagio perché sapeva di aver contribuito al formarsi del legame tra Prince e la figlia di Harry; era stata la sua fame di risposte sulla morte di Jeremiah a dare la possibilità ai due di riallacciare i rapporti. Era stata lei, con un colpo mirato delle dita, ad innescare una reazione a catena.
Non era stata una richiesta partita dal giovane tedesco, tutt’altro. Quando l’aveva trovato a Nurmengard difficilmente sarebbe stata capace di esprimere un desiderio simile; ne ricordava con rabbia il corpo esanime ridotto ad un fagotto di ossa squassate dalla febbre, incapace persino di rispondere al proprio nome.
Chiuse gli occhi, sentendo un nodo allo stomaco.
È stato quello il momento in cui ho deciso che Sören Prince sarebbe stato un mio affare.  
Per questo, persino a cinque anni di distanza, non riusciva a scacciare l’inquietudine di saperlo dove non aveva piena capacità di intervento.
Anche se si trova proprio nel paese che mi ha permesso di salvarlo. In molti sensi.
Il Ministero Inglese finita la guerra era stato il principale promotore della nuova legislazione internazionale sui prigionieri: era quel pugno di leggi che le avevano permesso di pretendere la scarcerazione di Sören.
Un prigioniero deve essere detenuto, non ucciso o spinto al suicidio.
Occhieggiò il rapporto del ragazzo, le linee pulite della sua scrittura e la fermezza con cui vergava la sua firma. Quando l’aveva visto la seconda volta, in una stanza pulita e areosa dell’Ospedale Magico Generale di Berlino, c’era voluto tutto il suo ottimismo per credere che sarebbe potuto tornare ad essere una persona.
 
“Hai poi scritto a Lily Potter?”
Aveva lasciato andare quel nome quasi senza pensarci. Era stato un tentativo dettato dall’esasperazione di averlo interrogato per quasi una settimana senza riuscire a cavargli di bocca una parola.

La reazione era stata immediata; Sören Von Hohenheim aveva staccato gli occhi dalla finestra schizzata di pioggia, guardandola come se la vedesse per la prima volta. E forse era così: per giorni aveva parlato ad un guscio vuoto. Gli Psicomaghi e i Guaritori le avevano detto che chiudersi nella propria testa per allontanare il dolore fisico fosse una reazione naturale alle privazioni patite, ma lei aveva solo pensato, cinicamente, che non sarebbe stata una spiegazione sufficiente per il suo Ministero.
Un informatore deve parlare. E se non parla …
 “Hai mai provato a scriverle?” Aveva ripetuto cercando di non lasciar trasparire sorpresa o sollievo. Sören aveva schiuso le labbra e poi aveva semplicemente scosso la testa.
“Non ti hanno dato carta e piuma, immagino.” Aveva supposto prima di fare una pausa per valutarle le reazioni; gli occhi del ragazzo non avevano dato segno di perdere lucidità. Continuava a fissarla come se fosse l’esatto centro del mondo.
Anche se non è me che guarda.
Era ad una possibilità che guardava e Nora era disposta a concedergliela, se questo significava avere finalmente le sue risposte e che Morgana la perdonasse, la figlia di Potter era forse la chiave di volta. “Vuoi ancora metterti in contatto con lei?” 
Le aveva rivolto uno sguardo indecifrabile prima di aprire bocca e schiarirsi la voce. Quando aveva parlato era stato come sentire carta vetrata sul legno. Un suono che le aveva spezzato il cuore.
Da quanto questo ragazzo non parla con qualcuno?
“Sì.” Aveva mormorato. “Può farlo?”
“Posso tentare.” Non si era sbilanciata: prima di dare assicurazioni doveva parlare con Harry, quello era insindacabile. “Risponderai alle mie domande?”
Un semplice cenno affermativo della testa e l’accordo era stato sancito.

 
Con il senno di poi Nora sperava davvero di aver fatto la cosa giusta e di non essersi lasciata trasportare dalle emozioni; al tempo aveva creduto che dare un po’ di conforto a quel povero, rovinato ragazzo non avrebbe arrecato danno a nessuno, ed Harry stesso alla fine si era convinto, forse mosso a compassione anch’esso.
Anche se immagino non pensasse che sua figlia continuasse a scrivere a Sören.
Chiuse il fascicolo verde sulla sua scrivania e girò la sedia per osservare il panorama di fattura magica fuori dalla sua finestra; il Charles scorreva placido, perfetta antitesi del suo stato d’animo.
La sua paura più grande era che sua figlia avesse ragione e che le priorità dell’agente Prince, dopo aver visto Lily Potter, si fossero settate in modo completamente diverso rispetto a prima.
Avrò fatto bene?
 
 
****
 
 
Londra, Paiolo Magico.
Ora di pranzo.

 
Cercare di tirar fuori dalle corde del proprio violino una Ronde des Lutins² dallo staccato perfetto era un ottimo modo per farsi passare il nervoso, perché Faust solo sapeva quanti diavoli si sentisse in corpo da quella mattina.
Milo sentì una goccia di sudore scivolargli lungo la guancia e interruppe solo per asciugarsela sulla spalla. Le dita scivolavano veloci ma continuava a mancare la precisione esatta per fermare le corde a dovere.
Maghi del cazzo. Maghi. Purosangue. Del. Cazzo.
Non riusciva a credere che una sontuosa scopata potesse esser finita in modo così schifoso.
Michel. Che nome del cazzo per un inglese.
Aveva avuto tra le mani un uomo, uno vero e non una checca gemente che indossava un paio di pantaloni per puro caso. Aveva avuto tra le dita pelle scura, bollente e due occhi che gli avevano tolto il respiro più di un paio di volte.
Peccato che tutta ‘sta roba sia attaccata ad un cervello da stronzo.
Aveva passato tutta la notte a baciare, leccare e succhiare ogni centimetro di quella pelle color caffellatte e Merlino, era stato grandioso. Stringendosi contro quel perfetto sconosciuto – anche se gli sembrava di averlo visto a Diagon Alley - era stato come eseguire un pezzo per la prima volta ed azzeccarlo tutto; intese del genere erano merce rara.
Per questo quella mattina, svegliandosi con la pelle premuta contro quella dell’altro aveva pensato.
Ancora.
Per questo gli aveva lasciato il suo numero scritto sullo specchio con la schiuma da barba. E com’era stato ripagato? Con un patema d’animo per il suo piccolo problema di non-magia.
Sembrava volesse gettarsi nella lava solo perchè aveva ancora il mio odore addosso.
Vaffanculo coglione.
Avrebbe dovuto aspettarselo, rimorchiando nel Vecchio Continente; se in America il fatto di non avere la magia tra le lenzuola era ininfluente ai fini del rapporto – e lui l’aveva sempre fatto influire zero – in Europa …
… in Europa un mago non se lo può far venire duro per uno sporco Magonò.   
L’archetto scivolò male sulle corde lanciando uno stridio acuto che lo fece brontolare infastidito. Inspirò, abbassando le braccia indolenzite da ore e ore di esercizi.
… Ti ha umiliato. La sua espressione, il modo in cui s’è smontato. Ti ha umiliato, eh?
Premette il mento sul fazzoletto di lino che separava la pelle dal legno laccato: c’era voluta tutta la sua buona volontà per impedirgli di spaccare la faccia del tipo.  
T’ho fatto passare una notte da urla ma probabilmente sarai ancora sotto la doccia a pulirti.
Vaffanculo.
Avrebbe voluto fargliela pagare, ma a che pro? Uno come quello doveva avere il culo parato da centinaia di Galeoni e conoscenze opportune. L’unico modo per vendicarsi sarebbe stato contattare un paio di gente fidata, svaligiargli casa e pisciargli sui mobili. 
Ma non faccio più quella roba.
Chiuse gli occhi e attaccò l’ultima parte del brano con furia, infischiandosene dei muscoli doloranti e del sudore che gli colava sulla faccia.
Fu fermato da un lieve bussare alla porta. Masticando un’imprecazione a mezza bocca andò ad aprire; si trattava della piccola servetta Magonò della locanda, che a quanto gli era stato detto era un po’ una tuttofare che non sapeva in realtà far granché.
L’avranno presa per pietà. Che anime nobili, questi maghetti britannici.
“Ciao scricciolo.” Disse, cercando di stamparsi un sorriso addosso. Dall’espressione intimidita della piccola non doveva essergli riuscito granché. “Che ti serve?”
“C’è una visita per Sören Prince.” Disse occhieggiando alle sue spalle e puntellandosi sui piedi. “C’è il tuo …” Esitò, senza sapere come qualificarlo.

“Il mio datore di lavoro?” Replicò con un sospiro. “No, non c’è. Chi lo cerca?”
La ragazzina si strinse nelle spalle, arricciando una ciocca di capelli tra le dita. Sul serio, nessuno le intimava di farsi una doccia almeno una volta a settimana?
Pare che i Magonò da queste parti abbiano problemi con l’acqua corrente.
Puoi biasimare il Purosangue adesso?
Ignorò quella vocetta fastidiosa nella sua testa perché . “Non ti ha lasciato detto il nome?”
“No.”
“Okay, descrivimelo.” Non aveva la minima intenzione di fare da Pr al principino, non in quello stato mentale e soprattutto non se il visitatore era un pezzo grosso di qualche Ministero.

Ho fatto il pieno con i maghi, oggi.
“È una ragazza.” 
… Ah?
“Niente nome, sicura?”
“Mica serve, la conoscono tutti.” Sgranò gli occhi incredula che lui non potesse saperne nulla “È la figlia di Harry Potter!”
Milo battè le palpebre; quella era una sorpresa che rivedeva i suoi piani. “Okay … sai che ti dico? Scendo io.” Si passò una mano trai capelli per dargli una piega sommaria e la seguì. Non gli ci volle molto per notare una testa rossa in mezzo alla folla di avventori: Lily Potter era seduta al bancone con una tazza di caffè freddo tra le mani, vestita e truccata con una cura che meritava perlomeno un applauso, dato l’orrore dilagante della moda magica europea.
Si avvicinò. “Ehi.” Esordì. “Cerchi Sören?”
La ragazza si voltò senza mostrare particolare sorpresa. Strano. “Sei …” Lo indicò senza troppe cerimonie. “Milo, mi ricordo bene?”
“Memoria di ferro.” Abbozzò un leggero inchino, il più ironico che gli riuscì. “Lily Luna … Ti trovo bene rispetto all’ultima volta che ci siamo visti.”
Okay, pessima battuta. L’ultima volta era dentro una cella, legata e terrorizzata a morte.
“Già, anche tu.” Fu la replica giustamente asciutta, poi  guardò alle sue spalle all’evidente ricerca di qualcuno che non era lui. “Sören …”
“ … non è qui, sta lavorando al Ministero.” Terminò per lei. “Vuoi che gli faccia sapere che sei qui? Forse può sganciarsi, è ora di pranzo.”

E fargli prendere una sincope quando ti troverà ad aspettarlo? Oh, sarebbe fantastico.
“No, non fa niente, ero solo venuta …” Esitò di nuovo e sembrava agitata sebbene tentasse di dissimularlo con un sorriso che doveva esserle valso più di un complimento. Persino chi, come lui, era ben poco interessato all’universo femminile riusciva a trovarlo attraente.
Il genere di sorriso che vorresti vedere addosso alla tua ragazza.
“Solo venuta a fare cosa?” La incalzò divertito. “A farti dire che non c’è?”
Gli venne lanciata un’improvvisa occhiata valutativa, e Milo si sentì piuttosto analizzato. “Una specie.” Replicò frugando nella borsa. “Puoi dargli questa?” E gli porse una lettera.

“Sapete, sarebbe tutto molto più semplice se realizzaste che adesso potete parlarvi, visto che siete nella stessa città.” Sospirò prendendola e ficcandosela in tasca.
L’altra inarcò le sopracciglia sorpresa, prima di ridacchiare. “Hai ragione.” Ammise. “Ma temo che ci voglia quello che chiamerei un periodo di assestamento.”
“Ed è finito?”

Gli venne rivolto un sorriso che addosso ad un uomo gli sarebbe valso due drink offerti e una porta aperta in direzione del suo letto. Il Principino sapeva in che guaio si stava andando a ficcare?
“Sören mi aveva detto che eri impiccione.”
“Ti ha anche detto che sono la sua balia, Zenzero?” Ghignò di rimando e registrò come il nomignolo fosse stato apprezzato: sembrava il genere di ragazza che amava i vezzeggiativi. “Farmi gli affari suoi è il motivo per cui mi paga.” Battè la mano sulla tasca dei jeans. “Sarà recapitata, non preoccuparti.”

“Bene.” Prese la propria borsa e lasciò scivolare qualche moneta vicino alla tazza di caffè, intonsa: saggia decisione a giudicare dallo stato della suddetta. “Stavolta cerca di non dimenticartela per strada, okay?”
Milo ci mise più di qualche attimo a registrare il sottotesto. “Sören ti ha detto che mi sono dimenticato di spedire il suo Gufo?” Chiese con l’aria che sperava fosse più disinteressata del mondo.
“Andiamo, non te lo sei dimenticato.” Replicò quietamente e Milo si trovò nella scomoda posizione di guardare due occhi enormi, verdi e consapevoli.

Ah, già. Legimante Naturale. Cazzo.
Lily ridacchiò. “Guarda che non mi serve essere una LeNa per capirlo, l’hai detto tu che ti occupi dei suoi affari.” Inclinò la testa da un lato, simile ad un cagnetto adorabile, ma maledettamente pericoloso; sapeva che non era davvero capace di leggergli i pensieri, più le emozioni, ma rimaneva comunque disagiante rimanere sotto quello sguardo chiaro.
“Non so di cosa tu stia parlando.” Replicò scrollando le spalle. Sì, decisamente Sören si stava ficcando in un ginepraio. “Ma se così fosse … forse finirete per ringraziarmi.”
“Magari.” Non si sbilanciò.

“Sicura di non voler restare?”
“Sono in pausa pranzo, devo tornare in Accademia.” Scosse la testa. “Ci vediamo.” E com’era arrivata se ne andò, portandosi via una ventata di profumo leggero.
Gigli. Davvero?   
Oh, principino … quanto sei nei guai.
 
 
****
 
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Ora di pranzo.

 
Harry non fu sorpreso quando vide Sören Prince chino sulla scrivania di Scorpius e di suo figlio, completamente assorto nel redarre un rapporto e completamente da solo; a giudicare dall’ufficio semi-deserto doveva esser ora di pranzo e né lui né il tedesco dovevano essersene accorti.
Io perché ho passato la mattinata a rispondere a Gufi di giornalisti, ministeriali e generici idioti che mi chiedevano di rilasciare una dichiarazione su quanto successo al San Mungo …
Ma lui?
Si avvicinò in silenzio, ma dalla postura improvvisamente rigida dell’altro, capì che la sua presenza era stata registrata; Prince infatti si voltò, lanciandogli un’occhiata sorpresa prima di scattare in piedi in posizione di attenti.
“Riposo.” Disse con un cenno imbarazzato della mano: sarebbero potuti passare decenni e non si sarebbe mai abituato a quegli ossequi; gli sembrava assurdo gli fossero dovuti. “Resta pure seduto, non volevo disturbarti.”
Alla luce di quanto successo in quelle ultime quarantotto ore non sapeva come comportarsi; sapeva di dover almeno tentare di istaurare un rapporto con il giovane agente di collegamento.

Ma francamente? Non so da dove iniziare…
“Ho quasi finito, Signore. Il rapporto per…”
“Il tuo Ministero immagino.” Occhieggiò il fascicolo verde senza vero interesse. “Ci sono novità?”
“Abbiamo interrogato Mason Wolpert, figlio del proprietario della Wolpert Incantesimi.”
“Vendono Incantesimi di Antifurto?” Ricordò sommariamente.

Annuì, chiudendo il fascicolo e passandoci le dita sopra per evitare angoli arricciati. “Il ladro lo ha pagato per fornirgli i contro-incantesimi. È così che è penetrato nel Padiglione Mortuari ed ha trafugato gli effetti personali di Sam Howe.” Vedendo che lo ascoltava, continuò. “Wolpert figlio è un forte scommettitore, gare abusive di scope…”
“E fammi indovinare, non del genere fortunato.”

“Esatto. Grossi debiti, di quelli che contrai dalle persone sbagliate.”
“Questo compratore … Ha un nome?”
“Luther Blissett¹.” Scosse la testa con un sospiro, ma quando vide che da parte sua non c’era il minimo segno di aver capito assunse un’aria imbarazzata. “Non è un nome vero. Nel Mondo Babbano è utilizzato come pseudonimo di Signor Nessuno.”

“Quindi il ladro ha origini Babbane?”
“Non è una domanda a cui posso rispondere a questo punto delle indagini.” Non si sbilanciò. “Abbiamo chiamato un MagiSketchista, Mason Wolpert si è detto disposto a darci un identikit del ladro… Se tutto va bene dovremo avere un volto per domani mattina.”  

“Bene.” Convenne, poi memore del discorso con Nora e soprattutto con sua figlia, sospirò. “Hai mangiato?”
Il tedesco parve cadere dalle nuvole, quasi si fosse scordato di trovarsi in una fascia oraria in cui avrebbe dovuto percepire i morsi della fame. Scosse la testa. “Gli altri sono andati a mensa, io dovevo finire il rapporto.”

“In questo caso credo che abbiamo entrambi bisogno di una pausa.” Proclamò con una naturalezza che era ben lungi dal provare. “Non ho tempo di scendere in mensa, e temo neppure tu … Credo però che nell’angolo caffè ci sia qualcosa da mettere sotto i denti. Mi fai compagnia?”
Gli venne scocchiata un’occhiata incredula e in buona dose scettica e Harry non potè biasimarlo.

Non abbiamo fatto altro che trattarlo come spazzatura indesiderata da quando è qui. Comprensibile pensi ad un tiro mancino…
“Sissignore.” Gli rispose però, anche se con la stessa verve con cui avrebbe probabilmente acconsentito a lucidare il pavimento dell’ufficio con il solo ausilio di uno spazzolino da denti.
“Non è un ordine Sören.” Tentò di usare il suo nome di battesimo con quanta più affabilità gli riuscì; gli ricordava sin troppo un se stesso adolescente e poco convinto della buona fede della maggior parte degli adulti. Era straniante.
“No?” Ed ecco il sarcasmo; Ron aveva avuto ragione, lo faceva assomigliare a Piton in maniera allarmante. Lo stesso inarcarsi delle sopracciglia, lo stesso lieve arricciarsi scettico delle labbra.  
Il sangue non è acqua.
“No.” Confermò tranquillo. “Non mi offenderò se rimarrai a finire il rapporto. Credo però che si lavori meglio a stomaco pieno.”
Il tedesco gli lanciò un’occhiata valutativa, poi senza un’altra parola lo seguì nel piccolo cucinino attrezzato. Evidentemente già istruito da qualcuno – forse Malfoy – mise su del the e mentre Harry rovistava nella dispensa alla ricerca di qualcosa che non fosse lì dalla fondanzione dell’ufficio, parlò.
“Ho scritto una lettera a Lily.”  
Harry non rispose, preferendo estrarre dalla dispensa un pacchetto di gallette che sembrava non aver sorpassato il mese di permanenza. Quando si voltò riuscì anche a sorridergli. “Non vi ho mai impedito di scrivervi, mi sembra.”
“Le ho scritto per chiederle di vederci.”

Harry si trovò nella scomoda posizione di non sapere se arrabbiarsi o ammirarlo, perché era palese che il ragazzo non fosse più disposto a sottostare alle condizioni poste dopo la sua scarcerazione.
“Se hai già deciso, perché me lo dici?” Si informò scartando il pacco di gallette e verificandone lo stato: non sembravano muffite, il che non si poteva dire del resto del contenuto della dispensa.
Dovrei fare quattro chiacchiere con i ragazzi … Ci sono forme di vita aliene qua dentro.
“Perché lei è suo padre.” Fu la risposta concisa.
Doveva dare un merito a quel ragazzo: non diceva mai una parola in più o una in meno di quanto fosse necessario. Decise quindi di giocare a carte scoperte. “Perché vuoi vederla?”
Prince spense il fuoco passandovi sopra la mano e fece poi Levitare il bollitore per riempere le due tazze di fronte a loro. Harry finse di non notare come il liquido tracimò.
È nervoso.
“Sono a Londra per una sfortunata serie di eventi … e questa forse sarà la mia unica possibilità di parlarle. Quando me ne andrò, alla chiusura del caso … Dubito che potrò tornare.”
“Nessuno te lo vieta.”

“Ma nessuno lo desidera.” Fece un mezzo sorriso, ben lontano dall’allegria. “Lily tuttavia merita delle spiegazioni e delle scuse appropriate. Voglio poter avere l’occasione di fargliele di persona.”
Harry bevve un sorso di the e si tolse gli occhiali per massaggiarsi le palpebre. “Lo capisco.” Ammise e poi prendendo il coraggio a quattro mani, aggiunse. “Anche se la persona a cui tutti dobbiamo delle scuse sei tu, Sören.”
Il silenzio che ne conseguì avrebbe potuto tagliarsi con un coltello, ma Harry non si fece scoraggiare. “Sei venuto qui per fare il tuo lavoro, e non abbiamo fatto altro che metterti in difficoltà. Ti prego di accettare le mie scuse.” Ingoiare l’orgoglio e il senso di allarme che gli ispirava era dura, tuttavia doveva; lo doveva a Nora, che era forse un giudice migliore di quanto lo fosse lui, lo doveva a sua figlia, che per prima si era fidata nonostante fosse stata la persona più ferita, lo doveva a Piton, in uno strano contorto modo che non era certo di voler sviscerare e infine, lo doveva al giovane di fronte a lui per la dignità con cui aveva affrontato quelle lunghe giornate di indagini.  

È inutile nasconderlo. Abbiamo cercato di vendicarci di Von Hohenheim tramite lui. 
Il ragazzo non diede cenno di particolari emozioni e Harry indovinò che si era Occluso; stavolta non per diffidenza, ma per mantenere il controllo. “Accetto le sue scuse.” Asserì un po’ bruscamente. “Se lei accetta le mie.” Lo vide inspirare ed espirare velocemente. “Per quello che ho fatto alla sua famiglia e per il dolore che le ho causato.”
“Scuse accettate.” Lo imitò prima di lasciare la presa e tornare al suo the. “Ti chiedo solo una cosa e lo faccio come padre.” Nora l’avrebbe preso a calci, ma in fondo il più grande merito dopo aver sconfitto Voldemort era aver contribuito a mettere al mondo quei tre splendidi individui che aveva per figli. “Non ferire Lily. Mai più.” Qualcosa nell’espressione controllata dell’altro si incrinò e Harry ne fu sia sollevato che impensierito. “Ha già sofferto abbastanza, non credi?”
“Sissignore.” Il modo in cui esitò pareva nascondere centinaia di parole non dette, ma quello che gli uscì fuori fu stringato come al solito. “Preferirei morire.”
“Sono certo che non arriveremo a questo punto.” Cercò di alleggerire la tensione, dandogli una lieve pacca sulla spalla. “Avanti, metti qualcosa sotto i denti. Il tuo Capitano non mi perdonerebbe mai se ti lasciassi affamare.”

Sören gli rivolse un cenno con la testa, accettando le gallette che gli porgeva. Erano ben lontani dall’aver fiducia l’uno nell’altro ma Harry sentì che perlomeno avevano messo un punto di inizio.
Ora si poteva costruire.
 
****
 
Diagon Alley, Paiolo Magico.
Ora di cena.
 
“Da quanto provi quello staccato?”
“Da tutto il giorno. E il fatto che tu lo sappia riconoscere mi riempe il cuore di genuina gioia!”
“Hai passato cinque anni a pretendere che capissi la differenza tra quello e il legato. Ho imparato.”
Milo sorrise, accennando ad un motivetto disimpegnato per accordare il violino mentre Sören abbandonava il mantello sull’attaccappanni ed entrava ufficialmente in camera.

“C’è posta per me?” Chiese sbottonandosi la giacca dell’uniforme e rimanendo in maniche di camicia: doveva cominciare anche lui a malsopportare la calura appiccicosa che aveva investito la città.
“L’ho messa sulla scrivania.” Rispose cercando di frenare il ghigno selvaggio che si sentiva affiorare sulle labbra.

È un po’ patetico che sia così su di giri per la vita sentimentale di Mister Emotività Danneggiata. Ma ehi, sempre meglio che piangere sulla mia vita sessuale.
L’improvviso silenzio da Troll svenuto rischiò quasi di farlo voltare e rovinare così la recita.
“… Questa quand’è arrivata?” Chiese lentamente l’altro, quasi si stesse riprendendo da una grossa botta in testa. Aveva una sigaretta tra le labbra ma non l’aveva ancora accesa.
E dubito che si accorgerà di averla lì per le prossime … Diciamo tre ore? Il tempo di riprendersi.
“A pranzo, assieme a chi l’ha scritta.”
“Lilian è stata qui?” Lo poteva quasi sentire andare in apnea. O iperventilare. Si voltò e lo vide impalato di fronte al tavolo e fissante la busta come se fosse stata Maledetta.

“È quello che ho detto.” Convenne roteando l’archetto tra le dita. “Me la ricordavo un bel tipetto, ma è migliorata …” Abbozzò un’appropriata introduzione del Clair De Lune e Sören lo fulminò con lo sguardo. “È proprio una rossa di testa e di pensiero.” Non pago, fischiettò il motivetto, accennando le parole della canzone. “Au clair de la lune, mon ami Pierrot prête-moi ta plume pour écrire un mot… Che c’è, il mio francese è arrugginito?” Lo canzonò.
Piantala.” Si umettò le labbra. “Che c’è scritto?”

“Dimmelo tu, la lettera è indirizzata a te!”
So che l’hai aperta.” Ritorse con una smorfia. “Hai fatto un lavoro maldestro nel reincollare la busta.”
“Piantala di fare il cacasotto e leggila.”

Gli venne rivolta l’ennesima occhiata linciante, ma poi Sören obbedì. Lo vide scorrere febbrile le righe per poi aprirsi in quella che poteva essere classificata solo come un’espressione da vittoria alla Coppa del Mondo di Quidditch; non era un tipo da sorridere o fare grandi esternazioni, ma quando era davvero felice qualcosa lo illuminava dall’interno, rendendo i lineamenti austeri … beh, felici.
Okay, fa ufficialmente tenerezza.
“Anche lei vuole vedermi.” Mormorò. “Stasera, alle dieci.”
“Ottimo!” Replicò cercando di non mettersi a ridere perché gli sembrava di avere a che fare con due bambini pre-scolari e non con un mago letalmente addestrato e una tipa che sembrava respirare malizia assieme all’ossigeno.  

Sören annuì distratto, riponendo la lettera nello scrittoio e continuando a fissarlo assorto nei propri pensieri. Dovevano sfrecciare a velocità della luce, ci avrebbe scommesso una borsa di galeoni.
Prima che diventasse materiale per ragnatele posò il violino e gli si avvicinò. “Beh?” Inquisì. “È quello che volevi!” Gli diede una pacca sulla spalla, perché anche se tra di loro era richiesto contatto minimo, quello era uno dei casi in cui era doveroso. “Non fartela sotto!”
“Va’ al diavolo.” Fu l’ovvia replica. Un’altra densa pausa. “Credo di dover cominciare a prepararmi.”
Sì, sei ore prima.

“Verissimo.” Convenne comunque. “Che ne dici di iniziare dal darti una sistemata ai capelli? Sono orrendi.”
 
****
 
 
Note:
Pare che la colonna sonora ufficiosa di ‘sta storia stia diventando Florence + The Machine.
Ecco la canzone.

1. Luther Blissett: qui per maggiori info.
2. Ronde des Lutins: scherzo fantastico per violino di Antonio Bazzini, compositore e musicista italiano, una delizia che ho scoperto cercando di capire esattamente come funziona un violino e soprattutto, lo staccato. (Che è una figata) Qui l’esecuzione che mi ha ispirato quella di Milo.

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Capitolo 14
*** Capitolo XIII ***


Capitolo XIII

 


 
Oh these little earthquakes
Here we go again…
(Little Earthquakes, Tori Amos.)
 





 
Londra, Farringdon, magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San Mungo, Ora di cena.
 
Ad Albus piaceva l’odore di erba medica del San Mungo; sin da quando era bambino aveva adorato quel misto pungente e fresco che molti, persino trai Guaritori, trovavano stomachevole. Con gli anni l’aveva solo apprezzato, dovendo spesso ficcare la testa in pentoloni di pozioni ribollenti dall’odore poco invitante. Per questo al San Mungo si sentiva a casa; i pannelli di legno scuro, le luci regolate sempre in un alone basso e avvolgente, gli odori, le parole a bassa voce e i tappeti imbevuti di Pozioni Sterili che ricoprivano l’intera superficie lo facevano sentire al sicuro.
È un ambiente che capisco, è mio.
Non era posto per tutti, se ne rendeva conto: molte persone, dovendo a che fare con le malattie e con la morte – anche se statisticamente meno ricorrente che negli ospedali Babbani – si intimorivano, e affibbiavano al posto sentimenti negativi.
Noi qui salviamo le persone. Certo, non tutte e non sempre. Ma ehi, magie non miracoli.
Per questo si era sentito personalmente invaso quando la Magia era venuta a mancare e Liam Flannery li aveva attaccati. Era stato un attacco che l’aveva colpito nelle fibre più intime del suo essere, quelle che probabilmente condivideva con suo padre e James perché in quei giorni si era sentito arrabbiato e piuttosto agguerrito.
“Stasera Finnigan’s?” Lo apostrofò Achille, riscuotendolo dai suoi pensieri. Tornò sulla terra e chiuse con un colpo leggero l’armadietto dove riponeva ogni sera il camice e gli attrezzi del mestiere. Lo fece con cura, controllando di non essersi lasciato scivolare nulla in borsa per sbaglio; quando Smeth aveva scoperto che la sera del black-out era uscito dall’ospedale vestito come se dovesse operare per poco non gli aveva staccato la testa con una Maledizione.
Ehi, fuori c’era Tom, non è che esattamente abbia capacità di pensiero razionale quando quel cretino è nei paraggi e si ammazza di pare mentali.
“Altro impegno.” Sorrise dismissivo. “Londra Babbana.”
Michel e i suoi Gufi depressi. Chissà che diavolo gli è successo per chiamare un meeting di emergenza.

“Babbanofilo.” Ghignò l’altro dandogli una spallata giocosa. “Dì un po’, non è che un giorno ti ritroviamo con un coltello in mano a squartare senza-magia in nome della loro scienza?”
“Non sarò mai un chirurgo Babbano, mi fa troppa impressione il sangue.” Ridacchiò di rimando.
“Sofia sarà molto delusa.” Osservò Achille mettendosi la borsa a tracolla e seguendolo fuori dagli spogliatoi. “Sono mesi che cerca di vederti seduto al suo stesso tavolo con qualcosa di alcolico in mano.”
“È dall’Accademia che cerco di spiegarle che sono gay. Nessuno ha mai ciò che vuole, pare.” Sospirò alzando gli occhi al cielo.

“Beh, non è che tu glielo abbia mai detto chiaro e tondo.”
“E l’ultimo party di San Valentino?”
“Vuole convertiti al culto delle Sacre Tette. Non disprezzarlo, ha tradizioni millenarie.” Gli assicurò  con gli occhi che brillavano di divertimento.

Sì, scommetto sia stato esilarante vedermi giostrare impazzito tra Sofia e il mio ragazzo che voleva trasfigurarla in una gallina.
“Non è che lo disprezzi, non lo comprendo, tutto qui.”
“E di questo noi adepti al Sacro Culto ti saremo sempre grati!” Ghignò passandogli un braccio attorno alle spalle con fare cameratesco. “Senza offesa, Potter, ma tra te e tuo fratello … beh, è un sollievo avervi fuori dal mercato.”  

“Come sei serpeverde, Light.”
“Orgogliosamente tale!”
Ridacchiarono, scendendo le scale e parlando del più e del meno. Era grato al collega; erano le persone come lui, con pensieri ordinari e vite comuni, che gli ricordavano cos’era la normalità e quanto fosse dannatamente importante che non lo dimenticasse mai.

Eroi, figli di eroi, maghi incredibili e complotti internazionali … È dura essere un Potter.
Entrando nell’ascensore rifletté e tentennò un po’ prima di schiacciare il pulsante del piano Malattie Infettive. “Faccio uno stop a vedere come sta il Sergente Flannery.” Spiegò all’occhiata inquisitoria dell’altro. “Ci vediamo domattina.”
 
Vedere il Sergente Flannery, che nei suoi ricordi di ragazzino era sempre stato un gigante dalla risata tonante e le braccia salde come querce, ridotto ad un corpo esanime dentro una teca di vetro era … terrificante.
Albus si morse un labbro, distogliendo lo sguardo e appoggiandosi alla parete dietro di sé; sin dall’infanzia avere qualcosa di solido a cui sostenersi era sempre stata una grande consolazione.
Miei amati muri.
Uno dei privilegi di lavorare in quel posto era non dover badare all’orario delle visite e potersi muovere a suo piacimento.
E soprattutto, capire che cavolo c’è scritto nelle cartelle mediche.
La prese dal fondo del letto a cui era agganciata e la scorse con lo sguardo; confermava le sue paure. Non c’erano stati miglioranti nelle condizioni dell’auror e l’Incantesimo di Stasi che lo teneva sospeso in un limbo di sonno forzato non aveva vacillato o aveva dato segno di allerta.
Non si sveglia. Non si sveglia ed era nella squadra di Jamie e di Sy …
Sentendo una mano sulla spalla sobbalzò violentemente; si tranquillizzò solo quando vide a chi apparteneva. “Ciao Sam.” Salutò con aria imbarazzata il Capo Guaritore, ricordando che la sua presenza lì non fosse esattamente autorizzata, sebbene neppure vietata.
Di certo però non dovrei sbirciare in cartelle mediche che non seguo … Se lo sapesse Smeth.
“Non lo dirò a Smethwyck Al, non fare quella faccia spaventata!” Ridacchiò il mago indovinando il corso dei suoi pensieri. “Anche se potevi avvertirmi che eri qui. Gli Allievi non dovrebbero visitare non accompagnati…”
“Ho avvertito l’auror di guardia.” Borbottò stringendosi nelle spalle.

“Come se una recluta fresca di Accademia potrebbe mai fermare il figlio del proprio capo.” Ghignò senza cattiveria l’uomo. “Siamo a Malattie Infettive Al, ci sono procedure da seguire.”
“Se intendi l’Incantesimo Disinfettante…”
“So che te lo sei lanciato addosso, non sto dicendo che sei un idiota.” Lo fermò lanciando uno sguardo al paziente di fronte a loro. “Solo che … qualunque cosa abbia il Sergente Flannery non è niente che conosciamo.” Aggrottò le sopracciglia. “E da quel che non si conosce è sempre meglio stare all’erta, lo sai meglio di me.”
“Certo.” Convenne. “Quindi … le analisi?”

“A parte una concentrazione anomala di magia del sangue non abbiamo riscontrato nulla di insolito.”
“E gli occhi bianchi? Sembra essere sintomo di un virus… Cambiamenti somatici, come per la Spruzzolosi.”

“Infatti.” Convenne. “Si comporta come un virus, ed è chiaramente trasmissibile se l’ha contratto da quell’americano, ma non sappiamo come e non sappiamo, soprattutto, cos’è.” Si passò una mano trai capelli con aria stanca. “Abbiamo mandato dei Gufi all’Archivio Infettivo Generale.”
“L’Archivio Centrale delle Malattie Infettive Magiche? Quello a Bruxelles?” Indovinò anche se non conosceva bene la materia. “Pensate che ci siano dei precedenti?”

“Vale almeno un tentativo.” Si strinse nelle spalle. “L’unico sintomo importante che abbiamo è l’aumento del livello di magia del sangue. Quello di Howe conteneva la magia di almeno cinque maghi, quello del Sergente Flannery … beh. Dieci.”
“Esponenziale?” Quella non era una bella notizia. Per niente. 

“Forse è dovuto anche al fatto che è un auror.” Fu la replica razionale. “Come sai la capacità magica di un mago è come un muscolo. Più viene utilizzata più si rafforza, ha resistenza e potenza. Sam Howe era un mago normale, Liam Flannery un agente addestrato, sono differenze sostanziali da cui partire.”
Al annuì. “Qual è la virulenza¹?”
L’irlandese ci rifletté, scorrendo la cartella che aveva preso in mano con lo sguardo. “Non abbiamo ancora dati certi … Ma non credo ci sia da preoccuparsi di un contagio diffuso, non finché il Sergente rimane confinato qui.”
“Periodo di incubazione?”
“L’abbiamo stimato dai tre ai cinque giorni. Certo, senza altri casi e con il fatto che hanno rubato le ceneri di Sam Howe…”
“È difficile fare una statistica.” Concluse per lui. “Ho capito. Grazie per le informazioni.” Sorrise. “So che non mi sono esattamente dovute.”
“Non credere, sai.” Lo stupì. “Sto pensando di chiedere un consulto a Smeth. Questa malattia si comporta in modo anomalo, e intacca le capacità magiche, più che un organo in particolare. Sembra quasi il risultato di un incantesimo.” Scosse la testa. “Se vogliamo venire a capo di qualcosa è il caso che mettiamo le teste assieme per farle funzionare.”

 
 
Tom sapeva esattamente quando ad Albus frullava qualcosa in testa; e non cosa ordinare per cena o cosa chiedere a Meike di mettere assieme per non farli morire di carenze vitaminiche. Qualcosa di grosso, come un pensiero tenace che cancellava tutto il resto.
Me compreso.
Il che era un po’ seccante, ma nulla che non potesse comprendere, quindi non fece particolari rimostranze quando l’altro varcò l’ingresso del laboratorio per salutarlo a malapena, rivolgendo un cenno distratto a Stevens. L’artigiano, cieco e forse per questo sensibile alle atmosfere che una persona poteva portarsi dietro, fece un sorrisetto consapevole e si eclissò.
Sì, le grandi menti pensano in modo simile.  
“Sei pronto ad andare?” Venne apostrofato con uno sguardo a tutto e niente in particolare. “Stasera cucina Mei e sai com’è sugli orari.”
“Tedesca?” Ironizzò. “Sto finendo e non me ne vado con un lavoro fatto a metà.”
Al batté le palpebre, riconoscendola. “Allora stai lavorando sulla bacchetta di Mike.”
“Per quanto la frase suoni inappropriata, sì. È il mio lavoro.”
“Cretino.” Replicò con un sospiro, sedendosi sul ciglio del tavolo e ignorando di essersi appena riempito i pantaloni di trucioli di segatura. “Bravo, comunque … credo che la bacchetta che usi adesso non gli piaccia un granché.”
“Ovvio, è di suo padre.” Replicò sistemandosi due lenti progressive per poter ingrandire una sezione del nucleo della suddetta. Ripararlo invece di sostituirlo era un grattacapo, considerando l’entità del danno, ma Zabini era stato estremamente puntiglioso su quello e dopotutto non poteva non dire di capirlo.

Se cambi il nucleo ad una bacchetta è come farla morire e usarne le spoglie per crearne un’altra.
“Già … non che quei due vadano molto d’accordo.” Considerò distrattamente Al, passando un dito sul ripiano da lavoro per raccogliere i trucioli. “Specie da quando si è risposato ed ha avuto un figlio.”
“Lo si evince dal fatto che nessuno di noi sa il nome del fratellastro.” Replicò non particolarmente prono a far conversazione, ma solo per capire quanto l’altro fosse immerso nei suoi pensieri.

“Già…”
Appunto. Tu il nome lo sai.

“Stavo pensando di auto-proclamarmi Signor dell’Universo Conosciuto entro il finesettimana.” Disse con tono discorsivo. “E magari schiavizzare l’intera popolazione magica.”
“Sarebbe carino…”

“Sì, infatti. Aspetta cos’ho da dire sui Babbani, sono idee innovative e sicuramente destinate al successo.”
“Oh, ce … cosa?” Si riscosse di colpo squadrandolo sconcertato. “Quanto sei imbecille.” Brontolò. “Sul serio, questo tuo umorismo nero…”
“Non mi stavi ascoltando.” Il che era semplicemente seccante. “Cosa c’è?” Gli premette un dito sul fianco facendolo sobbalzare. “Quale delle ventimila cosa che non dovrebbero riguardarti ma di cui non puoi fare a meno di impicciarti ti preoccupa?” 

“Stai rischiando di esser Schiantato, ti avverto.” Sbuffò irritato, ma il lampo di sollievo che gli attraversò lo sguardo c’era e doveva voler dir qualcosa.
Qualcosa che non mi piacerà.
Lo prese per il polso e lo tirò a sé, facendolo docilmente scivolare sulle sue ginocchia; l’unico lato positivo di averlo in quello stato d’animo era poterlo maneggiare agevolmente. Infilandogli infatti una mano sotto la maglietta per accarezzargli la pelle del fianco gli valse solo uno schiaffetto ininfluente. “Al.” Lo richiamò all’ordine. “Cosa succede?”
“Potrei occuparmi di Liam … dico, come Guaritore. Allievo Guaritore … assieme a Smeth, potrei chiederglielo, perché sono un Allievo, no?” Snocciolò in fretta. “Sam vuole chiedere un parere a Lesioni, e…”
No.” Lo fermò prima che potesse continuare. “Non pensarci neppure.”
“Sarebbe un’esperienza altamente professionalizzante!”  Esclamò con un luccichio pericoloso negli occhi.

Ambizione. Ci ha messo anni a venir fuori, ma è sempre stata lì …
Il che lo rendeva immensamente attraente ai suoi occhi, ma non era quello il punto. “Lo fai solo per quello?”
L’espressione che gli venne restituita fu quella di una volpe presa dentro una gabbia delle galline. Identica. “Beh…” Borbottò. “… è davvero un caso medico senza precedenti e un virus di cui non si sa niente, e…”
“Non lo fai quindi per essere informato del caso in cui è accidentalmente coinvolta metà della tua famiglia.”
“Beh…”

“Non so neppure da dove iniziare per definire l’idiozia della cosa.”
“Tom!” Gli diede uno schiaffetto sulla spalla, ma c’era più senso di colpa che reprimenda. “Liam è un amico di famiglia, e … sì, è vero, sono preoccupato per Jamie, ma al di là di tutto è un’occasione notevole, e Achille e Sophia sono ottimi Allievi, ma…”
“Non sono alla tua altezza.” Ghignò accarezzandogli le vertebre con la punta delle dita e facendolo rabbrividire. C’era qualcosa di eccitante nel modo in cui Al si sentiva palesemente superiore agli altri senza mai darlo a vedere.

È un bel passo da quando da bambino pensava di essere l’esatto contrario. Finalmente se n’è reso conto.
Del resto non l’avrebbe mai scelto come compagno se non l’avesse pensato suo pari.
“Non ho detto questo.” Fu la replica come al solito diplomatica. “È che non sono stimolati quanto lo sono io e sì, anche perché ci sono persone a cui voglio bene coinvolte.”
Tom glissò sulla propensione Potter-Weasley a mettersi di traverso quando c’era qualche familiare coinvolto. Non aveva voglia di litigarci sopra.“Cosa ti dà la certezza che Smethwyck vorrà un Allievo trai piedi?”
“Niente.” Convenne con un sospiro. “Ciò non toglie che possa comunque propormi.”
“Ti darà dell’esaltato.”
“Dove sarebbe la novità?” Gli passò le braccia attorno al collo. “Pensi che non dovrei farlo?”

Non era una vera domanda. Al aveva già deciso, esattamente come aveva fatto anni prima quando aveva deciso di seguirlo nella faccenda di Von Hohenheim.  La cosa lo spaventava e faceva infuriare al tempo stesso e fu per questo che lo sciolse dall’abbraccio facendolo alzare. Al lo guardò esitante, forse intuendo il suo brusco cambiamento d’umore.
“Tom?”
“Penso che non ti interessi davvero il mio parere.” Rispose infine con una smorfia.
“Non è vero!”  

“Che io non sia d’accordo, che io pensi tu sia troppo coinvolto, influenzerà la tua decisione?” Chiese allora guardandolo dritto negli occhi e Al finì inevitabilmente per distogliere lo sguardo, troppo trasparente per riuscire a dissimulare con lui. “Come immaginavo.”  
L’altro rimase perso nella contemplazione delle sue scarpe per una manciata di secondi, prima di chiudere gli occhi. “Hai ragione.” Ammise piano. “Ma non riesco a togliermi dalla testa … Se succedesse…” Inspirò bruscamente e si passò una mano sul viso. “… se si ammalasse James? O uno della loro squadra? Io … io ho bisogno di sapere che sta succedendo. Voglio poter essere in prima linea … per fare qualcosa, e non rimanere a guardare.”
Hai bisogno di controllare la situazione. Ecco l’eredità che ti ha lasciato Harry. Quello in cui ti ho trascinato cinque anni fa l’ha solo esacerbata.

Al mosse qualche passo verso di lui. “Sei arrabbiato?” Chiese con un’espressione che gli sarebbe valsa un Oscar come capacità persuasiva. Era quella dannata faccia contrita ad averlo fregato sin da bambino e l’avrebbe probabilmente messo nel sacco fino alla demenza senile.
“Tu al posto mio lo saresti?” Ritorse.
“Furioso.” Convenne con un sorriso leggero. “Non ti parlerei per giorni.”
“Non tentarmi.” Lo minacciò sentendosi assolutamente poco credibile. “Ciò non  toglie che possa comprendere le tue motivazioni.” Ammise, sebbene a malincuore, passandogli un pollice sulle labbra: avrebbe voluto rinchiuderlo in una torre altissima e essere l’unico essere al mondo ad avere la chiave; la parte oscura di sé non faceva che plaudire a quei pensieri.

Se solo potessi tenerti fuori da tutto …
È quando impari a tenere a qualcuno, che cominci ad avere paura.
Naturalmente non poteva e non era giusto, questo lo sapeva. Gli baciò quindi le labbra e ricambiò la stretta in cui lo serrò l’altro. “Promettimi che starai attento.”
“Non è come se dovessi andare in un campo di battaglia.”
Sospirò. “Per voi Potter è sempre questione di un campo di battaglia.”



****
 
Scozia, Hogsmeade, Foresta Proibita.
Dopocena.
 
La Luna mostrava il suo quarto più rotondo quella sera e James si trovò ad ammirarla e ringraziarla silenziosamente per rischiarare la cupa foresta in cui camminava da una buona oretta.
Luce nelle tenebre. Ehi, è un bel messaggio.
Ted a sua differenza sembrava guardare solo di fronte sé;  da bambino invece lo aveva spesso colto in giardino, seduto sull’erba e con il naso per aria, quasi volesse cercare di capirla, più che limitarsi alla mera contemplazione.
È la Luna che faceva trasformare Remus. Penso che sia sempre stata un po’ speciale anche per lui.
Accanto a sé Neville inciampò su una radice con un lamento soffocato. “Ehi, tutto okay?” Lo apostrofò afferrandolo per un gomito.
“Sì, sì…” Assicurò con un sorriso imbarazzato. “È che non ci vedo ad un palmo dal naso, a differenza di qualcun altro.” Sospirò divertito guardando la schiena coperta da un neutro maglione color bosco di Ted che aveva una vista notturna superiore a chiunque altro conoscessero, uno dei tanti lasciti paterni.
Di notte è meno goffo che di giorno.
Questo, sentendosi osservato, si voltò. “Mi dispiace.” Disse in tono di scuse. “Ma un Lumos qua attorno sarebbe come avere un faro in una notte di bonaccia.”
Neville assentì. “Dove dobbiamo incontrare Fiorenzo e gli altri?”
“Ci siamo quasi.”
E c’erano davvero. Fatte poche decine di metri si inoltrarono in un ampio spazio erboso, delimitato da rocce posizionate in modo troppo ordinato per essere casuale. Era un luogo di incontro e poco dopo infatti vennero circondati da un compatto rumore di zoccoli. “Magorian.” Ted salutò con deferenza il più grosso dei Centauri, dotato di una lunga criniera corvina e la faccia pitturata di bianco; dai segni distintivi James intuì fosse il capobranco.

Mai visto in vita mia, manco quando ero studente … Beh, neppure io ero tanto cretino da andare a disturbare tipi così.
“Mezzolupo.” Lo apostrofò, più constatazione che insulto, anche se a James non piacque comunque il tono. “Sono questi gli umani che hai portato con te?”
Ted aveva l’espressione calma delle grande occasioni ma James registrò come l’attaccatura dei capelli stesse sfumando rapidamente nel viola. “Ne avevamo parlato.”
“Lo ricordo.” Confermò il Centauro. “Abbiamo acconsentito alla loro presenza solo a patto non ostacolassero la caccia. Spero lo ricordino.” Concluse scoccando loro un’occhiata tagliente e James si sentì particolarmente preso in esame.

Puzzo di auror?
“Non è una caccia, Magorian. Siamo qui per aiutarvi a riportare equilibrio nella foresta.” Fu la risposta.
“Il Mannaro uscirà vivo di qui solo se non tenterà di attaccare uno di noi. Cosa che credo sia destinata a succedere, Mezzolupo.”  
James si scambiò un’occhiata nervosa con Neville. Ted aveva genericamente un buon rapporto con le creature della Foresta, avendo passato i suoi anni di studente a leggere sotto l’ombra di qualche suo albero.
Ma i Centauri … beh, non è che siano le creature più diplomatiche del pianeta.
“Sono certo che non dovremo arrivare a dover prendere decisioni in merito all’una o l’altra opzione.” Il tono di Ted era quieto e le parole non particolarmente dure, ma il messaggio sottopelle era chiaro.
Niente caccia, niente vittime sacrificali.
James si sentì piuttosto pieno d’orgoglio; c’era un sacco di gente che era disposta a classificare sbrigativamente Ted come un tipo poco pronto a farsi valere e invece amante del quieto vivere.
È tutto il contrario, cazzo. Tira su la testa quando è il caso di farlo.
Un lungo silenzio seguì quella frase e James sentì Neville muoversi nervosamente al suo fianco; poteva capirlo, l’idea di far incavolare il capobranco era abbastanza terrificante.
Vorrei evitare di menare la bacchetta contro dei Centauri. Siamo pure svantaggiati numericamente, e di brutto.
Chi risolse la situazione di stallo fu Fiorenzo: si staccò dal gruppo di arcieri per sussurrare qualcosa alle orecchie di Magorian. Qualunque cosa fosse funzionò, perché il Centauro più imponente, anche se sembrò inizialmente infastidito dall’intrusione, finì per annuire seccamente. “Venite.” Disse. “Vi mostreremo dov’è la tana.”
James scivolò accanto a Ted, posandogli una mano sulla spalla. La sentì incredibilmente contratta e premette piano le dita in un massaggio poco funzionale, ma presente. Gli venne restituito un breve e grato sorriso. “Tutto a posto?”
“Sì … prima troviamo il Mannaro e lo convinciamo a seguirci, meglio sarà.”
“E se non volesse?” Intervenne Neville ed era una buona obiezione.

“Dobbiamo solo sperare che sia ragionevole allora.”
Questo tizio non è Remus … se è vissuto nel branco del Galles sarà abbastanza selvaggio. E di sicuro poco collaborativo.
Non lo disse però, perché aveva la netta impressione che il compagno fosse già abbastanza teso di suo, senza aggiungere ulteriori pensieri a quelli che già stava macinando tra le sinapsi.
 
La Foresta Proibita non era mai un bel posto in cui essere quando calava il sole e solo la luna che quella sera splendeva, seppur incompleta, riusciva a non far sprofondare Ted nel nervosismo.
Aver coinvolto i centuari,  in quel momento rappresentati da una compatta mezza dozzina armata fino ai denti, stava cominciando a sembrargli un’idea balorda; Magorian era un capobranco giusto, ma maledettamente tenace nei suoi pregiudizi verso chiunque non fosse una creatura di quella foresta da secoli.
Credo non abbia accettato neanche le Acromantule, e perché sono qui solo da cinque generazioni…
Fiorenzo aveva fatto un ottimo lavoro di mediazione, tuttavia era ovvio che l’altro Centauro e i suoi fedelissimi non fossero assolutamente disposti a scendere a patti su un loro intervento armato nel caso le cose gli fossero sfuggite fuori controllo.
Devo assicurarmi che chiunque abiti nella tana esca vivo di qui. Devo.
“Non ci sentirà arrivare?” Chiese James che gli camminava affianco. “Voglio dire, tutto questo rumore di zoccoli… e poi i Mannari non hanno tipo il fiuto…” Fece una lieve smorfia. “Non mi ricordo bene.”
Ted sospirò. “Siamo sottovento, ma a parte questo il rumore degli zoccoli coprirà quello dei nostri passi.”

“Stile specchietto per le allodole?”
“Esatto.”
Magorian alzò il braccio in maniera inequivocabile e la piccola comitiva, loro compresi, si arrestò. “Oltre quella fila di massi.” Spiegò indicando di fronte a sé. “C’è il greto secco di un torrente e poi una serie di grotte. Il Mannaro ha trovato rifugio lì.”

Ted si scambiò un’occhiata con James e Neville: era ovvio e sottointeso che i Centauri non avrebbero sceso il letto ripido di un fiume e lasciavano quindi a loro il compito di andare in avanscoperta.
Meglio così.
“Bene.” Replicò. “Andremo avanti noi.”
“Vi copriremo le spalle.” Disse Fiorenzo con un lieve sorriso. “Cercate di spingerlo nella nostra direzione … faremo in modo di catturarlo.” Fece una breve pausa e poi forse, indovinando i suoi pensieri, soggiunse. “Cercheremo di evitare l’uso della forza per quanto ci sarà possibile.”
“È umano adesso, non sarà difficile immobilizzarlo.” Trovò proficuo puntualizzare, prima di incamminarsi verso il folto della vegetazione.
“Alla fine c’era davvero…” Borbottò James passandosi una mano trai capelli. “Teddy, senti … ma com’è possibile che un Mannaro si sia spinto fin qui?”
Bella domanda.
“Fino alla Scozia dici?” Aggrottò le sopracciglia scuotendo la testa. “Non ne ho idea … L’unica cosa che mi viene in mente è che sia stato cacciato dal proprio branco.”
“È una cosa che accade spesso?” Chiese Neville scostando una fronda ed occhieggiando il declinare accidentato di fronte a sé.

“Meno spesso di quanto non si pensi.” Spiegò incastrando la bacchetta tra la fibbia della cintura e i pantaloni, per aver presa sicura nel caso si fosse palesato un pericolo. Sperava davvero di non doverla usare. “… in realtà un Mannaro viene bandito per pochi motivi. Perché ha sfidato il capo per prenderne il posto ed è stato sconfitto o perché ha detto chiaramente che non vuole più far parte del branco.”
“E succede spesso? Che un membro si allontani spontaneamente?”
“Il senso di coesione interna è molto forte Nev, quindi no.” Scosse la testa, glissando sul far loro notare che un Mannaro, specie se cresciuto nel branco del Galles, aveva pochi posti in cui riparare e che quindi era poco incline a certe decisioni. “Glielo potremo chiedere quando lo vedremo.”

Vide l’uomo e James lanciarsi occhiate incerte e sospirò; non era così ingenuo da credere che la persona che si sarebbero trovati di fronte avrebbe acconsentito docilmente a seguirli, tuttavia a loro differenza sapeva che non avrebbero avuto a che fare con una creatura irrazionale.
Adesso è un essere umano.  
Inoltre non c’erano stati più attacchi, il che significava che aveva rinunciato a spingersi fino ad Hogsmeade, forse allertato dalle chiassose ronde cittadine che erano state organizzate.
Non mangerà qualcosa di consistente da giorni. Qua attorno ci sono solo muschi e licheni.
Scesero lungo la parete del fiume aggrappandosi a sassi e arbusti per non cadere e Ted capì che era quello il motivo per cui il Mannaro aveva scelto quel posto per farne il suo rifugio; le caverne di fronte a loro erano inaccessibili agli zoccoli dei Centauri.
“Come ci muoviamo?” Chiese James passandosi la bacchetta tra le dita con fare nervoso; era chiaro mordesse il freno per mettersi in azione, ma al tempo stesso fosse consapevole del fatto che quello non fosse un terreno di sua competenza.
“Tu cosa suggeriresti?” Le sue nozioni tattiche erano comunque più aggiornate di quelle che ricordava dei suoi anni d’Accademia.
“È una persona, quindi proverei a convincerlo ad uscire con le buone, più che stanarlo come suggerivano i nostri amici lassù.” Osservò meditabondo, guardando verso l’agglomerato di rocce di fronte a loro. “Anche se è meglio non far parlare me, l’auror. Certa gente salta subito alle conclusioni sbagliate.” Ghignò facendolo ridacchiare di rimando.
“Provo io allora…” Si schiarì la voce e poi puntandosi la bacchetta al collo lanciò un Sonorus. “So che sai della nostra presenza.” Iniziò con voce pacata. “Mi chiamo Ted Remus Lupin e sono un insegnante di Hogwarts, ma non sono qui per conto della scuola, né tantomeno del Ministero. Sappiamo anche che non mangi da giorni e che ti stai nascondendo dai Centauri … vogliamo aiutarti, dacci la possibilità di farlo. Se uscirai fuori ti prometto che non ti verrà fatto alcun male.”
Non vi fu ovviamente risposta; Ted se l’era aspettato e passò le dita sul manico della bacchetta. “Okay.” Pronunciò dopo ancora qualche attimo d’attesa. “Dividiamoci e cerchiamolo. Non può essere andato troppo lontano.”
“Sicuro che non sia fuori a caccia?” Interloquì Neville.

Ted sorrise appena picchiettandosi il naso e James alzò gli occhi al cielo mentre l’altro lo guardò senza capire.
“L’odore, Nev.” Spiegò un po’ imbarazzato. “Lo sentono i Centauri, ma lo sento anche io. È qui vicino.”
“Non sai quanto diventa rompiballe in questo periodo.” Gli fece eco James. “Come una fottuta donna incinta.”
“Jamie!”

“Dì che non è vero, dai!”
Neville ridacchiò. “Io prendo la sinistra.” Propose conciliante prima di prendere ad arrampicarsi di buona lena.
Rimasero soli e Ted si sentì piuttosto sciocco di fronte all’aria divertita di James, sicuramente più preparato di lui in quei frangenti.  “Se senti o vedi qualcosa non … insomma. Non fare niente di avventato.” Non poté trattenersi.
“Mio Teddy, ti ricordo che caccio maghi oscuri. Se fossi avventato la metà di quanto credi che sia non sarei arrivato alla fine del mio primo caso!” Rise prima di prendergli il viso tra le mani e stampargli sulle labbra un bacio veloce. “Mi prendo il centro, tu va’ a destra. Fidati dell’auror qui presente, okay?”

Touché.
Non gli restò che obbedire di buon grado. Salire sul lato opposto del greto non era facile, tra la roccia liscia tipica della zona e il fatto che il terreno fosse coperto per la maggior parte da muschio scivoloso e radici umide. Scivolò un paio di volte e solo i riflessi gli impedirono di ruzzolare giù. Quando riuscì a risalire si ritrovò di fronte ad un apertura buia ed umida, abbastanza grande per far passare una persona accovacciata. Poteva essere l’entrata usata dal Mannaro.
Non fece in tempo a chiederselo che vide qualcosa muoversi nell’ombra, qualcosa di piccolo e molto svelto. “Ehi!” Chiamò cercando di addentrarsi senza sbattere contro qualcosa. Senza un Lumos, con quell’oscurità, era difficile vedere anche per lui.
Capì troppo tardi di aver abbassato la guardia proprio nel momento in cui non doveva; qualcosa lo strattonò prendendolo per il retro della camicia e perse l’equilibrio, cadendo all’indietro.
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Dopocena.
 
In five years time I might not know you
In five years time we might not speak
In five years time we might not get along
In five years time you might just prove me wrong

 
Tom sosteneva che a volte la musica era incapace di capire lo stato d’animo del proprio ascoltatore. A volte invece la capiva sin troppo bene.
Lily stoppò l’incedere digitare del proprio lettore mp3 – regalo tra l’altro di quest’ultimo – mordicchiandosi le labbra.
Cinque anni.
Erano tanti. Un’eternità dal suo punto di vista, un lasso di tempo in cui le era successo di tutto, in cui era cambiata e diventata una persona diversa dalla piccola Lils, con la testa piena di idee assurde sulla vita che avrebbe dovuto vivere in quanto figlia del Salvatore, piena di avventure e incontri emozionanti. Cinque anni prima era più spensierata, felice e più sciocca. Cinque anni erano un sacco di tempo.
Aprì gli occhi sull’angolo di strada che poteva osservare appoggiata al muro di mattoni che divideva l’ingresso di Diagon Alley con Londra: la via era quasi deserta, tranne occasionali bande di ragazzi che facevano spola trai pochi locali notturni della zona. Un gatto nero le passò affianco e le rivolse un’occhiata di sufficienza prima di saltare dentro un vicolo buio come la pece e Lily vi perse lo sguardo per un po’ prima di specchiarsi ad una vetrina illuminata dal lampione sopra di sé: aveva un vestito delizioso, i capelli avevano una piega perfetta e i tacchi nuovi la facevano sentire una regina.
Stato d’animo giusto per incontrare i ricordi. Per incontrare Ren.
Tuttavia aveva smesso di ascoltare la musica per ammazzare il tempo perché aveva paura e anche se era un sentimento che detestava sentirsi addosso, il punto restava: aveva paura che quell’incontro non andasse per il verso giusto.
 E se non sappiamo cosa dirci una volta l’uno davanti all’altro? Se siamo troppo condizionati da chi eravamo? Se le lettere ci avessero ingannato? Se la nostra amicizia non avesse senso e se fosse sbagliata come dicono tutti?
Se, se, se …
Odiava quella particella perché aveva paura di restare delusa. Sören poteva non essere all’altezza dell’idea che si era fatta di lui in quegli anni e lei poteva non rispondere alle aspettative di un ragazzo che le aveva chiaramente detto più volte di esserle grato per averle indicato la giusta via.
Che poi non ho fatto un accidente. Sono solo dal lato giusto per nascita, tutto qui.
Inspirò ed espirò lentamente; esser arrivata un quarto d’ora prima non era stata un’idea brillante. Si stava innervosendo fuori misura.
È solo Sören, solo una chiacchierata e una passeggiata per Diagon Alley. Niente di cui esser preoccupati.
Davvero.
Se lo ripeté circa una ventina di volte ma non funzionò neppure una.
Quando stava quasi per andare a fare una passeggiata per scrollarsi di dosso l’ansia sentì dei passi avvicinarsi e poi la presenza di Sören la investì come una corrente d’aria calda dopo una doccia fredda.
“Lilian.”
Sei l’unica persona che ancora mi chiama così. Non ti ho mai corretto … e non è che non ne avessi avuto la possibilità, credo.
Sorrise al ragazzo di fronte a lei e rimase stupita dall’aria assolutamente normale che aveva; con i capelli liberi dal gel e vestito di un paio di pantaloni scuri e una maglietta su cui era stato buttato un giubbotto di pelle sembrava un banalissimo ventenne, forse solo un po’ troppo magro e dagli occhi un po’ troppo penetranti.
Ciao ragazzo normale.
… sì, i vestiti deve averglieli scelti Milo. Gli stanno troppo bene.
Non seppe come reagire alla cosa, quindi si limitò a scivolare nell’abitudine. “Buonasera Ren.” Salutò con il migliore dei suoi sorrisi. “Mi avevi detto che eri passato al lato Babbano della moda, ma non ci avrei mai creduto!”
L’altro la fissò spaesato per un attimo. “Ah, i vestiti.” Intuì. “In America risulterei un po’ ridicolo abbigliato altrimenti. Sono stato informato che i mantelli e le tuniche non vanno più di moda, oltre ad essere poco pratici per la mia professione.”
“Milo?” Indovinò; al San Mungo aveva notato come l’accento tedesco fosse meno forte di una volta, ma non si era accorta che avesse adottato quello americano: amalgamandosi con i suoni duri della sua lingua madre dava alla voce un tono più profondo. Era piacevole.

Ha sempre avuto una bella voce.
“Già.” Lily si sentì scomodamente nuda di fronte allo sguardo dell’altro. Sapeva che non lo faceva apposta, che era il suo modo di rapportarsi con la persona che gli stava davanti – anni prima a quegli sguardi si era addirittura abituata – ma non poté impedirsi un nodo allo stomaco e una vaga sensazione di allarme.
“Ho qualcosa fuori posto?” Chiese forse un po’ troppo bruscamente.
Certo che no, ho passato tre ore barricata in bagno. Papà credo abbia dovuto andare a farla nel bosco.
L’altro avvampò come ricordava solo lui sapesse fare. Era un colorarsi violento delle guance e niente da fare, lo trovava ancora maledettamente carino. “No … stai benissimo.” Mormorò. “È solo che non pensavo ti avrei rivista.”
Eh, no, non cominciamo con frasi del genere!

“Invece eccomi qua!” Sorrise smagliante perché era ciò in cui era più brava. “Allora … facciamo quattro passi? Scommetto che non hai ancora visto Diagon Alley come si deve!”
Sören le restituì un sorriso quieto, di quelli che avrebbe approntato per chiunque e Lily registrò il fatto con una punta di fastidio.
“No, infatti.” Convenne. “Vuoi fare gli onori di casa?”
Parla ancora come un libro stampato quando è in imbarazzo.
Quel fatto invece era consolante. “Assolutamente!”
 
 
****
 
Scozia, Foresta Proibita.
 
La forza che l’aveva spinto all’esterno della grotta aveva mantenuto la presa anche durante la caduta.
Ted impattò con dolore contro il declivio del fiume e la botta che sentì alla spalla destra e al gomito lo fece quasi svenire. Non ebbe il tempo per realizzarlo però, che rotolò in un intreccio di gambe e pugni serrati con il suo aggressore. Sbattendo con forza contro il letto asciutto del fiume cercò immediatamente di rialzarsi, mentre le narici gli si riempivano dell’odore di sudore selvatico che solo un essere umano che non era avvezzo al sapone poteva emanare.
Odore di Mannaro.
La persona che torreggiava di lui, tenendolo fermo aveva una corporatura magra, ma forte e i tendini dei muscoli sembravano corde d’acciaio coperte di stracci.
“Fe…” Tentò con la voce ridotta ad un sussurro sfiatato, tanto forte era stata la botta. L’altro respirava a tratti secchi, ma sembrava in migliori condizioni di lui che aveva fatto da cuscino ad entrambi. La luce della luna che filtrava tra le fronde illuminò lineamenti scavati dalla fame e una barba secca e stopposa, forse chiara. “… per favore!” Tentò levando una mano e cercando a tentoni la bacchetta con l’altra; non era naïve fino al punto di non rendersi conto che il suo aggressore non si sarebbe fermato ad un semplice richiamo verbale.
L’altro parve intuire le sue intenzioni perché con un ringhio che molto aveva di animale e poco di civilizzato gli afferrò il polso e strinse. Il dolore esplose in mille schegge dal polso fino al cervello e Ted urlò sentendolo spezzarsi. Cercò di scrollarselo di dosso, ma il tipo sembrava fatto di piombo o forse era lui che per il colpo riusciva a malapena a muoversi.
Doveva chiamare aiuto, doveva chiamare James e Neville, anche se dovevano essersi addentrati come lui all’interno dei cunicoli e non l’avrebbero comunque sentito. I Centauri? Erano al di là del greto, e sperava che si fossero accorti dei rumori, sperava…
Tentò di gridare dato che non poteva lanciare l’allarme con la bacchetta ma la mano grande e callosa del Mannaro gli tappò la bocca. Aveva occhi selvaggi, scuri come tizzoni e pieni di paura.
Uccidere per non essere ucciso. Crede che voglia ucciderlo. La legge della Giungla, vecchia e vera come il cielo.
Con il naso e la bocca schiacciati contro il palmo dell’altro non respirava ed era orribile, la morte peggiore che potesse capitare ad un essere umano. Con un ultimo guizzo disperato morse la pelle del palmo fino a sentire il sapore del sangue e l’aggressore con un urlo scattò indietro, quanto bastava per fargli gridare due sole sillabe, le prime che la sua mente sconvolta gli suggerirono.
James!
Il Mannaro era di nuovo sopra di lui; la forza animalesca e la crudeltà umana erano un mix letale. Questo levò il braccio, in mano un sasso capace di spaccargli la testa come una noce e Ted capì che stava per morire, lì, a pochi passi dall’uomo che amava e da casa loro.
No!
Poi qualcosa saettò al lato del suo orecchio destro. Qualcosa di sottile, rapidissimo e non un incantesimo. Lo sentì e poi vide il Mannaro irrigidirsi e lanciare un guaito simile a quello di un cane crollando a terra per la forza d’impatto della freccia che lo trafisse in pieno petto.
Teddy!
Libero, udì come sott’acqua la voce di James arrivare dall’alto, seguito dal rumore concitato di qualcuno che scendeva nell’alveo del fiume senza badare alla propria sicurezza.
Jamie.
Si voltò e di colpo le sue braccia furono piene di James. Lo strinse con forza, sentendo il tranquillizzante profumo del compagno, di casa. Strinse di rimando, ignorando le fitte che mandava ogni singolo osso o muscolo del suo corpo. “Sto bene.” Mormorò con la bocca impastata. “Sto bene, amore, sto bene…” Che era anche un rassicurarsi.
L’altro gli prese il viso tra le mani, controllandolo con occhi attenti e spaventati. “Non ti ho sentito, cazzo … eravamo dentro alle grotte, ho sentito solo quando hai urlato … È davvero tutto a posto? Sei caduto e…” Esitò lanciando un’occhiata spaventata alla strana angolazione che aveva preso il suo polso.
“È rotto, tutto qui.” Minimizzò. Udendo un secondo guaito provenire dove il Mannaro era caduto si liberò gentilmente della presa dell’altro. L’uomo – perché era un uomo – aveva gli occhi spalancati, vitrei e il respiro affrettato di chi cercava di non perdere conoscenza. E sangue, sangue ovunque. “James, la bacchetta!”  
Centauri. È una freccia dei Centauri.
Guardò verso l’alto e vide il branco di Magorian sul ciglio del ripido declinare; era proprio il capobranco a reggere l’arco che sembrava ancora vibrare del colpo.
“È qui!” Gli fece eco Neville porgendogliela. “Teddy…”
“Sta perdendo troppo sangue!” Tentò di lanciare un incantesimo Emostatico ma non ebbe che un effetto palliativo. Il pallore del volto del Mannaro era inequivocabile.

Neville gli si affiancò. “Teddy, le frecce dei Centauri sono avvelenate, serve l’antidoto.” 
“L’antidoto … dobbiamo portarlo ad Hogwarts allora!”
“Teddy.” Neville aveva un’espressione strana, che non riusciva a decifrare. Era calmo, troppo calmo considerando che un uomo stava morendo davanti a loro. E poi perché continuava a ripetere il suo nome? “Non faremo mai in tempo.”
“Possiamo Materializzarci lì! L’infermeria…”
“Non sopravvivrebbe al trasporto.”
“Allora…” Notò lo sguardo dell’ex grifondoro e improvvisamente capì. “Non possiamo lasciarlo morire!” 

“Possiamo fare in modo che non soffra.”
“Non è un animale!” Ruggì spintonandolo via – senza trovare resistenza tra l’altro. Si affiancò al Mannaro e gli lesse negli occhi un terrore infinito.

No, no … non morirai.
Si trovò a premere sulla ferita a mani nude, come un Babbano, come un Babbano che non aveva la minima idea di quel che stava facendo mentre sussurrava rassicurazioni assolutamente vuote.
Il Mannaro non distolse lo sguardo da ciò che stava facendo – aveva capito che stava tentando di salvargli la vita? Poi mormorò qualcosa. James gli scivolò a fianco. “Sta tentando di parlare.” Lo riscosse, chinandosi per ascoltare. Lo imitò perché doveva essere la cosa giusta da fare.
“Ben…” Sussurrò con un sibilo. Polmoni lacerati, pensò. La freccia lo aveva trafitto lacerandogli i polmoni e riempendoglieli di sangue mentre il veleno doveva aver fatto il resto. “… Ben.” Ripeté prima di essere scosso da un lungo brivido. Poi più niente.
Era il suo nome. Mi ha detto il suo nome?
Ted, a posteriori, giustificò la serie di azioni che intraprese come il risultato dello shock, perché solo lo shock poteva avere il potere di farlo scattare in piedi e risalire il greto del fiume per dirigersi verso il branco di Centauri come se fossero il nemico.
“Non c’era bisogno di ammazzarlo! Stava solo difendendosi!” Urlò in faccia a Magorian la bacchetta stretta nella mano sana fino a vederla sprizzare scintille. “L’avete ammazzato come un cane!” 
Il Centauro gli scoccò un’occhiata di fuoco. “Ti ho salvato la vita, mezzolupo. Dovresti essermi grato.”
Lo avete ammazzato!” Sentiva il sangue bagnargli la mano e gli veniva da vomitare. Vide Fiorenzo staccarsi dal gruppo.
“Professor Lupin, lei era in pericolo e non c’era altro che potessimo…”
“Non dovevate fare niente!”

“Ted.” La mano di James si posò sulla sua spalla con forza. Da quanto era accanto a lui? “Ted, basta così.” Era forse la prima volta, da che ricordava, che l’altro lo chiamava con il suo nome di battesimo e non il nomignolo per cui era conosciuto in famiglia. Fu talmente straniante da farlo voltare. Gli occhi di James erano tristi, ma pieni di una calma che lui non sentiva di avere.
E che forse dovrei avere.
Tornando di colpo in sé si rese conto che aveva appena minacciato con la bacchetta un branco di Centauri. Dall’espressione furiosa di Magorian e quella seria di Fiorenzo dovevano essere sull’orlo di un incidente diplomatico.
“Io…” Si umettò le labbra. “… il corpo. Non possiamo lasciarlo…”
“Me ne occupo io.” Esordì Neville alle sue spalle. “Non preoccuparti.”
Annuì, perché non restava altro da fare dato che aveva probabilmente minato dalle fondamenta i rapporti con il branco di Centauri ed era ad un passo dall’essere cacciato dalla foresta; buffo era il fatto che non gliene fregava nulla.

Accettò la mano di James e chiuse gli occhi quando sentì la familiare stretta della Materializzazione. Quando li aprì si ritrovò nel centro del salotto, ed era una sensazione dannatamente straniante essere lì, in mezzo alle tranquille cose di tutti i giorni, quando fino a pochi secondi prima aveva tenuto tra le mani la vita di un uomo e sentito il calore del suo sangue sulle mani. Si guardò la mano ancora sana e strinse la presa finché James non la chiuse tra le sue.
“Ted…” Iniziò.
“Teddy.” Mormorò con un sorriso stanco. “Per te solo Teddy.”
James fece una risata che aveva poco d’allegro. “Fammi vedere il polso, avanti.” Alla sua espressione sconcertata sbuffò. “Ti ricordo che ho giocato a Quidditch in maniera agonista per anni. Ne so più io di ossa rotte che chiunque altro nel raggio di miglia!”

Era un buon punto. Si lasciò quindi medicare senza un lamento anche se lo schiocco del polso che tornava al suo polso fu doloroso; davanti agli occhi non aveva altro che l’espressione spaventata di quell’uomo.
Ben. Si chiamava … Ben?
James lo spinse poi su per le scale e in camera e Ted non trovò nessun motivo valido per protestare o per restare in alcun altro posto. Si sedette sul letto e si guardò di nuovo le mani; l’altro gli aveva steccato il polso con un Ferula ben fatto e aveva ripulito ogni millimetro dal sangue del Mannaro.
“Avevi ragione. Sei bravo.” Commentò neutramente.
“Ehi…” James gli si inginocchiò davanti e gli passò una mano bollente dietro la nuca per poi premere senza un’altra sillaba le labbra sulle sue, senza approfondire, ma facendogli sentire che c’era.
Il mio splendido uomo.
“Andiamo a letto, okay?” Disse senza chiedere spiegazioni, senza tentare paralleli, senza cercare di dare un senso a quello che gli aveva visto fare.
“Grazie.” Mormorò scivolando sotto le coperte mentre l’altro gli passava un braccio attorno alla vita e stringeva. “So di aver combinato un casino…”
“Sta’ zitto.” Borbottò contro la sua tempia. “Se apri bocca per dire stronzate, giuro che ti Silenzio.”

“Jamie…”
“È la prima persona che ti sei visto morire davanti.” Tagliò corto passandogli una mano sotto il cotone della maglietta e accarezzandogli la schiena. Se fosse stata un’altra situazione, Ted avrebbe finito per fare quelle che l’altro definiva scorrettamente ‘fusa’.

Purtroppo non era quella situazione.
“Ti ricordi quando il mio terzo caso?” Disse dopo un po’. “Quello stregone che tentò di impalarmi con una fottuta spada?” Le labbra si muovevano contro la sua tempia e il respiro caldo era maledettamente reale. Gli era così grato … “Fa schifo veder morire qualcuno per la prima volta e continua a fare schifo. Ho avuto dei cazzo di incubi per mesi, e quel tipo voleva tipo usarmi come spiedino. Idem per il Mannaro.”
“Era solo spaventato…”
“Lo spavento non giustifica il volerti ammazzare.” Non avrebbe compromesso su quello e Ted non tentò di levare obiezioni. Non ne sarebbe stato comunque in grado. “Quello che voglio dire è che nessuno si aspettava te ne stessi tranquillo dopo essertelo visto morire tra le mani. Manco Magorian … o non se ne sarebbe stato buono.”
“È stato Fiorenzo a calmarlo…”
“Rimane il punto. Non hai incasinato nulla. Ti sei solo comportato come un essere umano decente, Teddy, e va bene così.”

Ted sentì l’adrenalina scemare di colpo e finita quella, lo sapeva, sarebbe arrivato il sonno. Ne era felice: non sarebbe stato riposante, ma avrebbe comunque spento i pensieri.
E Merlino solo sa quanto ne ho bisogno.  
 
****
 
Diagon Alley. Notte.
 
Lily gli aveva mostrato ogni singolo locale, negozio, finestra di amici o lampione di Diagon Alley; diversamente da come si era immaginato al suo arrivo non era un quartiere magico vero e proprio, solo una via principale con un paio di laterali strette come vicoli. Le case vi si affastellavano una addosso all’altra in un concatenarsi di balconi, torrette e finestre, quasi la metropoli Babbana che lo conteneva le avesse lasciato poco spazio in cui svilupparsi. Era un posto bizzarro, ben diverso da quello bostoniano di North End, dove ormai Babbani e maghi convivevano gomito a gomito tra appartamenti di due piani in mattoni e ristoranti italiani.
“Non mi ero mai accorto che in Europa fossimo così isolati.” Osservò mentre concludevano il tour per l’ennesima volta sulla piazzetta in cui terminava la strada. Avevano camminato molto e Lily non aveva smesso un attimo di parlare.
Allora perché ho l’impressione che non ci siamo detti niente?
“Statuto di Segretezza Ren!” Si strinse le spalle; era deliziosa quella sera, con i capelli acconciati in tante morbide onde ramate e un vestito di leggera stoffa estiva, con fiorellini bianchi su sfondo blu. Ricordava nebulosamente di averglielo visto spesse volte in foto; doveva essere il suo preferito.
Bellissima. Un dato di fatto. Un dato di fatto oggettivo.
Chiunque dotato di un paio d’occhi l’avrebbe detto, persino Milo, indifferente alle grazie muliebri.
“C’è anche in America.” Ribatté. “È uno stato firmatario, anche se con una clausola di opting-out che  permette di non dover tenere separate le case private magiche da quelle Babbane. Per questo i quartieri magici non necessitano di essere nascosti. Io abito in uno stabile Babbano.”
Ma che bella lezioncina…
Arrossì alla voce malevola della sua coscienza.
Lily gli rivolse un sorriso divertito, apparentemente non infastidita dal tono cattedratico che aveva usato. “Penso tu sia l’unica persona al mondo che studia Cooperazione Internazionale Magica per divertimento.” Disse chinandosi per immergere la mano nell’acqua illuminata da riverberi di un azzurro elettrico della fontana; doveva essere incantata.

“Sono un agente con mandato internazionale, fa parte del bagaglio di conoscenze che si suppone debba avere.”
“Sì, vallo a dire a persone come Jamie o zio Ron!” Sbuffò. “Penso che non si ricordino neppure quando è stata scritto, lo Statuto.”
“Nel…”
“Ren.” Inarcò le sopracciglia. “Io lo so.”
“Sì, naturalmente, scusami.” Deglutì sentendo un peso in fondo allo stomaco; il disagio andava ad ondate. Finché Lilian parlava riusciva a dimenticarlo, occupato ad ascoltare il suono della sua voce cristallina e dell’accento che così tanto gli ricordava le loro lunghe passeggiate nel prato immenso di Hogwarts.

Ma quando lo guardava o rimanevano in silenzio – anche se solo per pochi attimi, l’altra trovava subito un nuovo argomento di conversazione – eccolo che tornava potente.
Cinque anni. Scriverci non è la stessa cosa. Mi riesce più facile, quando scrivo.
Si rendeva conto di essere manchevole sul piano relazionale; glielo aveva reso ben manifesto maghi come Johannes e Murphy e anche se in modo meno crudele anche Milo e il Capitano.
Sì, ma non sei neppure irrimediabile. Tira fuori il coraggio. Parla.
Si impose dunque di prender la parola per la prima volta in quella serata. “Come … come sta il tuo ragazzo? Scott?”
Sul serio? Chiedergli del suo ragazzo? Di tutti gli argomenti che potevi scegliere e ti avrebbe fatto piacere ascoltare … Il suo ragazzo?

Sei un idiota.
 
Lily fissò il ragazzo di fronte a sé presa in contropiede: onestamente non si sarebbe aspettata che prendesse la parola. Era stata un’ora e mezzo di dialogo unilaterale e anche se se l’era aspettato – Sören non era un chiacchierone, mai stato – aveva dovuto attingere a tutte le sue doti di conversatrice di nulla per non far cadere il silenzio.
Non è semplice.
C’era una barriera tra di loro, dovuta al reciproco imbarazzo, al loro passato e al fatto che non si vedevano comunque da cinque anni.
Non sta andando totalmente da schifo … ma speravo andasse meglio.
L’aveva pensato e poi Sören se ne era uscito con quella frase.
“Bene.” Disse senza rifletterci troppo dato che comunque era la verità. “Lavora, fa un mucchio di sport selvaggiamente Babbano e si comporta da perfetto, bravo ragazzo.”
“Sono contento, sembra una brava persona.” Si schiarì la voce ed era … Ren. Fino alla punta dei capelli corvini, con la schiena dritta come un bastone e lo sguardo troppo serio e il vizio di mordersi l’unghia del pollice destro – sempre il destro - quand’era nervoso.
Non ha mai finto, neppure quando si supponeva dovesse farlo. Non con me, non ci riesce.
Come aveva potuto pensare di rimanere arrabbiata con lui?
“Lo è.” Assentì e si trovò nella curiosa posizione di non sapere cosa dire.
“Lui … sa …”
“Di te?” Indovinò. “Sì, gliel’ho detto due giorni fa.”
“Due giorni fa?” Il tono si tinse di incredulità e Lily provò un inspiegabile senso in colpa. “Non gli avevi…”
“Non ho mai parlato di te a nessuno dei miei ragazzi. Devi ammetterlo, non sei un argomento facile da trattare.” Cercò di suonare tranquilla ma lo sguardo ferito la colpì come uno schiaffo – Merlino per essere un Occlumante l’altro neppure tentava di nasconderle le sue emozioni. O forse era il suo potere?  

Non guardarmi così!
“Non intendevo dire…” Si umettò le labbra ignorando l’impulso di abbracciarlo; non erano neanche lontanamente vicini a quel punto della loro amicizia e no, non era comunque il caso.  “… Ren.” Sospirò, e si sedette su una delle panchine che chiudevano circolarmente la fontana. Le sembrava una buona idea, ma l’altro rimase in piedi, fermo come un palo.  “Siediti.” Dovette ordinargli perché lo facesse. “Sei mio amico, e mi piace parlare di te, okay? Solo non con chiunque.”
Non con il mio ragazzo. Merlino, suona male, eh?
“Non devi giustificarti, Lilian.”  
“Non lo sto facendo.” Morgana glielo risparmiasse. Stava solo puntualizzando. “Sono…” Si voltò verso di lui e gli prese una mano, di scatto, repentina. Era impulsivo? Forse. Ma in fondo era solo prendergli una mano, e non era come se volesse leggerlo con il suo potere. “Sono fiera di ciò che sei diventato. Te l’ho scritto per lettera e lo penso. Lo sai, vero?”
Davvero, Ren. Se solo molti idioti tirassero fuori la testa dal sedere capirebbero quanta strada hai fatto.
Erano le parole giuste perché l’intero viso si rischiarò. Si era scordata di quanto riuscisse a cambiare faccia quando degnava l’universo mondo del suo sorriso.  “Certo.”
“Bene.” La pelle dell’altro era bollente. Si era scordata anche di quello.
Fatti un bel recap, Rossa.
“È solo che con Scott … Beh, non eravamo ancora a quel punto del rapporto. A dirla tutta a quel punto ci sono arrivata solo con lui.”
Sören fece una smorfia impercettibile, forse infastidito dalla cripticità della frase. “Quale punto?”
Lily ridacchiò. “Sai, dove tiri fuori un po’ di Mollicci dall’armadio e speri che l’altro non dia di matto e fugga a Waikiki?” 
Stai dicendo che sono un Molliccio?”
“Cosa? No, ma che ti viene in men…” Poi capì da come stava inarcando il sopracciglio – marchio di fabbrica che lo accomunava a Piton ed era davvero sconcertante come riuscissero a somigliarsi somaticamente avendo solo una manciata di geni in comune – che la stava prendendo in giro. “Quanto sei scemo.” Sbuffò. “Parlavo della mia adolescenza scervellata.”
Sören si limitò ad un sorriso. “Niente Passaporta sola andata per Waikiki dunque?”  
Gli diede un colpetto sul fianco. “Già, pare che sia abbastanza testardo.”
 
“Sono contento per te.” E lo era, perché Lily meritava un ragazzo che non scappasse in nessuna dannata località remota; che la amasse alla luce del sole e non fosse intimidito dalla fama della sua famiglia o dalla corazza da ragazza frivola che indossava per chi non aveva la pazienza di volerla conoscere.
Lo sono.
“Grazie.” Gli passò una mano sul braccio ed era bello. Il contatto fisico non lo saziava mai abbastanza e probabilmente era una delle cose che prima o poi avrebbe dovuto tirare fuori con la sua Psicomaga. Non che lo volesse da chiunque, ad ogni buon conto.
Certo non da Murphy. O da Potter.
Lily si abbandonò poi sulla panchina. “Ci siamo riusciti finalmente.” Disse con un mezzo sorriso.
“A far cosa?”
“A parlare di qualcosa di serio e non di aria fritta.” Ghignò appena e Sören capì che la stessa sensazione che aveva avuto lui per tutta la sera l’aveva avuta anche l’altra.
Sorrise di rimando. “Sì.” Assentì. “È … difficile.” Azzardò.
“Diavolo, lo è!” Esclamò l’altra con un’aria di buffo sollievo. “E giusto per la cronaca, sono ancora arrabbiata.”
“Ne hai il diritto.”

“Non assecondarmi!”
Gli venne da sorridere ancora più spontaneamente quando capì che lo stava prendendo in giro.

È una cosa buona. Quando mi prendeva in giro, ad Hogwarts, era un buon segno.
Doveva esserlo ancora. “Pensavo che farlo garantisse la chiave per entrare nelle tue grazie.” La stuzzicò ottenendo una risata franca, pulita e vera.
“Oh, certo che sì!” Gli occhi presero una sfumatura calda e Sören sentì la pietra che aveva nello stomaco sgretolarsi come se un fiume l’avesse erosa per mille anni. Ed erano passati solo pochi minuti.
Le parole hanno tutt’altra forza quando sono dette, e non scritte.  
“So che non mi sono comportato bene. Mi dispiace.” Disse dopo un po’, mentre entrambi contemplavano lo zampillare quieto dell’acqua. Non era più un silenzio pieno di pesantezza. Certo, era sempre un po’ disagiante ma andava bene così. “Ti avevo fatto una promessa, e non l’ho mantenuta.”
Ci sono margini di miglioramento.
“Non è stata colpa tua. Hai solo eseguito gli ordini … E non preoccuparti, mi sono lamentata con chi di dovere.” Scosse la testa, passandosi le dita trai capelli. “Non succederà più.” Attestò e Sören non poté far altro che annuire.
Suo padre. Forse è per questo che ha voluto parlarmi questo pomeriggio?
“Non eri tenuta ad incontrarmi.” Obbiettò perché se avevano cominciato a parlare come due amici e non come due estranei dentro un ascensore bloccato, dovevano farlo fino in fondo.
Lilian gli scoccò un’occhiata perplessa. “Tenuta? Siamo amici, non sei un obbligo!” Se solo fosse stato così semplice, pensò, ma non lo disse. Era stato edotto del fatto che c’erano momenti per parlare e momenti per stare in silenzio. Era bravo soprattutto in quest’ultimi. “Solo che … beh, l’hai detto tu, non era facile.”
“Non siamo più davanti ad una lettera.” Commentò e dovette essere la cosa giusta da dire perché l’altra assentì.
“Infatti.” Fece poi un movimento con le mani per abbracciare un palco immaginario; aveva dimenticato quanto gesticolasse. La rendeva molto buffa e decisamente meno irraggiungibile. “Dal vivo, caro il mio Ren. Niente prove, pura improvvisazione.”
“Non sono bravo nell’improvvisare.”
“Te la stai cavando alla grande.” Gli strizzò l’occhio dandogli un colpetto alla spalla. “Sai già quanto rimarrai?”

Si strinse nelle spalle. “Abbiamo delle piste da seguire, ma in questi casi è difficile dare una tempistica esatta.”
“Qualche settimana?”
“Forse.” Non si sbilanciò. “Perché?”
Venne guardato con sufficienza. Cos’aveva detto di sbagliato? “Perché forse vorrei farti vedere la Gran Bretagna!” Sören si impose di non registrare la capriola che fece il suo stomaco. “Per metà sei inglese … Hai mai visto le scogliere di Dover?”
Finse un quieto interesse. “Lo sai, no.”
“Appunto.” Gli diede un altro colpetto sulla spalla e stavolta fu più sicuro, meno sperimentale. “Certo, sei qui per lavoro, ma nulla toglie che tu possa fare il turista, no?”

Ci stiamo provando. Stiamo provando ad essere amici davvero.
Si sentiva come quando il Capitano Gillespie gli aveva consegnato distintivo e bacchetta; provava la stessa ebbrezza. “Suppongo tu abbia ragione.”
“Certo, ce l’ho sempre!” Scrollò le spalle alzandosi in piedi. Una lieve esitazione le tremò nei lineamenti che sì, erano così diverso dal vederli in foto. Erano vivi, e vibranti. Poi gli tese la mano. “Bentornato in Gran Bretagna, Sören.”

La prese e la strinse e si scordò anche che era quella mano perché, incredibilmente, con Lily non aveva mai avuto importanza.
“Felice di essere qui.”
 
But you and I now, we can be alright
Just hold on to what we know is true
You and I now, 'though it's cold inside
Can feel the tide turning…
 
 
****
 
Note:


In fandomese questo capitolo può essere considerato solo come fluffangst. Decisamente.
Capitolo abbastanza musicale visto che questa è la canzone ad inizio capitolo, questa quella che si ascolta Lily aspettando Sören e infine questa quella alla fine.
1. Virulenza: capacità di un agente patogeno (anche virus) di diffondersi in un organismo. Quanto si attacca insomma. Il raffreddore per dirsi è molto virulento. Info qui

 
Ringrazio Marta Nalesso per le dritte che mi ha dato sulle patologie, virus e roba varia. È stato un discorso abbastanza traumatico, ma cavolo, se mi ha aiutato nel plotting! XD
Grazie MOSTRUOSAMENTE anche a chi mi recensisce; purtroppo come al solito riesco a malapena a scrivere, tra il lavoro e i mille casini che mi trovo a gestire in questo periodo. Credetemi, le vostre recensioni sono uno dei momenti più belli della giornata! <3  

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Capitolo 15
*** Capitoli XIV ***


Capitolo XIV
 
 
 
It's hard to compromise when I see through your eyes
It's just a common view, I guess it's lost on you
(I Can Talk, Two Doors Cinema Club)
 
 
27 Giugno 2028
Londra, Diagon Alley
 
“Perché stiamo entrando in un negozio di giocattoli?”
James Potter non si riteneva un tipo paziente; certo, riusciva a simularlo con gente come Malfoy, perennemente agitata come un ragazzino strafatto di Piume da Zucchero, ma in toni generali non sopportava domande che riteneva stupide e quella di Prince era appena schizzata in cima alla sua personale top - ten.
Il suddetto in compenso si era bloccato a braccia incrociate a pochi metri da loro. Spiccava, non c’era nulla da fare: era sia l’uniforme blu, dalla foggia diversa,  sia il fatto che urlasse straniero da ogni poro della pelle. Aveva un bel dire suo padre che dovevano cominciare ad andarci d’accordo.
Non ci riuscirò mai. Mi sta troppo sul cazzo, scusate tanto.
“Perché prima di tutto non è un negozio di giocattoli.” Puntualizzò seccato. “Ma di scherzi magici.”
“La differenza?”

Ora lo Schianto.
“La differenza è nella merce.” Gli venne in soccorso Scorpius con una scrollata di spalle. “Comunque non siamo qui per quella parte del negozio. Ce n’è un’altra … Il laboratorio di Hugo, e lui potrà darci una mano.”
“Con le telecamere di sicurezza da montare al San Mungo?” La voce del tedesco suonava scettica e fu di nuovo Malfoy a parlare perché era un tipo dannatamente diplomatico.

“Hugo ha avviato un’attività un po’ particolare…” Spiegò. “Si occupa di rendere funzionanti gli oggetti Babbani nel Mondo Magico. Fa in modo che la tecnologia riesca a sopravvivere ai campi magici emanati dai palazzi, dalle nostre case, da noi.”
“Lo facciamo anche in America.”
Ah, la perfetta America!
“Sì, ma qui è una cosa piuttosto nuova.” Fu l’obiezione pacata; davvero, come riusciva Malfoy a non aver voglia di prenderlo a calci? Doveva essere tutto l’allenamento che aveva fatto con tizi sgradevoli come suo padre, forse. “Se vogliamo far funzionare delle telecamere di sicurezza al San Mungo senza farcele spedire dall’America e perdere tempo ad aspettarle, è lui la persona giusta.”

Prince rimase in silenzio, quasi avesse bisogno di pensarci, quando era chiaro che era l’unica soluzione praticabile sia per proteggere il sergente Flannery, sia per non continuare a girare a vuoto; l’identikit redatto da Mason Wolpert era infatti stato un glorioso buco nell’acqua, dato che all’atto di descrivere il tipo era venuto fuori che Wolpert era stato nientemeno che affatturato.
Una roba potente. Quando ha provato a parlare gli si è annodata la lingua. Letteralmente. A Lesioni da Incantesimo ci stanno lavorando da quanto, quattro giorni?
Era frustrante. Sembrava che quel caso non avesse neanche uno spiraglio a cui affacciarsi, né una pista su cui svoltare. Come se non bastasse la stampa aveva fiutato il sangue ed era solo questione di tempo prima che i segugi della Gazzetta collegassero il black-out all’intera faccenda dell’americano e del Sergente.
Lanciò un’occhiata al proprio Specchio Comunicante; allo scioglimento della fattura sarebbe stato immediatamente contattato.
Nessuna notizia fin’ora.
“Capisco.” Disse il tedesco distogliendolo dai suoi pensieri. “Va bene, entriamo.” Disse passandogli accanto e ignorandolo come se fosse fatto d’aria.
Coglione.
Fece una smorfia scontenta: sapeva che avrebbe dovuto trovare il modo per andarci d’accordo; suo padre glielo aveva fatto promettere qualche giorno prima con un discorsetto durato tutto un dopocena.
Sicuramente gliel’avrà imboccato quella scema di Lils.
Solo che quella raccomandazione non lo prendeva in un momento tranquillo: era stata una settimana schifosa, piena dei problemi che più odiava al mondo, ovvero quelli senza soluzione.
Tipo, il mio ragazzo si è rintanato in mezzo ad una pila di libri alta quanto un pony e non vuole parlare di quanto successo nella Foresta Proibita. E oggi andrà a seppellire quel Mannaro. E non posso farci niente.
Intercettò un’occhiata preoccupata da Malfoy e gli allungò una pacca sulla spalla. “Tutto a posto, Malfuretto.” Mentì.
“Con questa faccia? Non prendermi in giro.” Lo sgamò subito. “Ne vuoi parlare? Birra dopo il lavoro?”

“Preferisco tornare a casa.” Scrollò le spalle, per quanto quella frase suonasse stonata per le sue corde. “Sai, Teddy.”
L’altro, già a conoscenza di tutto dato che quella birra se l’erano presa più volte in quei quattro giorni, annuì. “Okay, ma domenica ci sei per il mio compleanno al Finnigan’s, vero? Trascinaci anche lui.” Gli suggerì con un sorriso cordiale. “Vedere un po’ di gente lo tirerà su di morale!”
“Ci provo.” Concesse spingendo la porta ed entrando nel caotico ambiente dei Tiri Vispi; furono così assaliti da un tripudio di colori, suoni e luci. James sorrise divertito ai fuochi di artificio che sfrecciavano ovunque e alle torme di ragazzini che si asserragliavano attorno agli scaffali, chiedendo a gran voce ai commessi, vestiti di tutti i colori dell’arcobaleno, di provare la merce. Ne schivò un paio, tirando uno scappellotto distratto ad un moretto che tentò di aggrapparsi alla sua cintura, troppo in prossimità del fodero della bacchetta.
“Questo posto è un casino come al solito. Un giorno salterà in aria dalle fondamenta.” Sghignazzò l’amico con gli occhi che gli brillavano. “Lo adoro. Da bambino mamma mi parcheggiava qui e Calzino poi ci metteva ore per trovarmi.”
“I miei una volta mi hanno perso sul serio … Sono stato ritrovato nel retro dopo un paio giorni, abbracciato ad una cassa di Detonazioni Deluxe!” Rise Bobby, che come loro aveva passato l’infanzia tra quegli scaffali.
A metà tra il negozio e una ludoteca, i Tiri Vispi Weasley erano la summa perfetta del negozio a misura di piccolo mago e James aveva sempre ammirato la capacità dello zio di non arrabbiarsi mai quando, alla chiusura del negozio, dentro sembrava esserci passato un uragano.
Ma dopotutto il casino pare divertirlo a morte.
Avanzando in mezzo a Fuochi ad Innesco ad acqua che esplodevano ad ogni piè sospinto in cascate multicolori ci misero più di qualche secondo a notare che Prince era sparito. James si voltò e, per la prima volta dall’arrivo dell’altro, provò qualcosa di simile alla compassione; il poveretto non si era mosso dall’entrata, con gli occhi sgranati in piena e terrificata confusione.
“Sembra che non abbia mai visto un negozio di scherzi magico!” Ironizzò Bobby.
“Di certo non così. Questo posto è un simbolo fulgido della follia umana. Vado a prenderlo.” Esordì Scorpius risalendo il fiume di pre-puberi. Raggiuntolo gli parlò qualche breve istante in un tripudio di sorrisi rassicuranti che avrebbero convinto un Mangiamorte ad adottare gattini; Prince cominciò a riprendere colore.
“L’ha preso in simpatia, eh?” Considerò Bobby incuriosito.
“Probabilmente gli ricorda suo padre o roba del genere.” Scrollò le spalle facendo un cenno di saluto a suo zio George, occupatissimo a mostrare uno dei nuovi scherzi ad un capannello di bambini entusiasti.
“Beh, però è meglio di Lord Malfoy.” Alla sua occhiata si strinse nelle spalle, a disagio. “Avrà fatto degli errori in passato, ma non così grossi.”
“Dillo alla mia famiglia.” Masticò malmostoso, trovandosi nella scomoda posizione di non sentirsi più così legittimato.
Papà, Al, Lils e mamma non me la rendono facile. Merlino, me lo troverò davvero a tavola alla Tana, una di queste domeniche.
Scorpius lo raggiunse con l’altro, che si guardava attorno come se avesse paura che qualcosa potesse saltare in aria da un momento all’altro.
Paura legittima bello.
“È qui il laboratorio?” Chiese riuscendo comunque ad approntare un tono fermo, gliene dovette rendere atto.
“No, dietro.” Fece un cenno alle sue spalle. “Diamoci una mossa.”
 
Alla follia degli inglesi non c’era mai fine.
Respira.
Occhieggiò la fila di scaffali da cui stava passando, dalla quale esplodevano cose emettendo rumori raccapriccianti tra la pernacchia irriverente e il fischio acutissimo.
Lilian gli aveva raccontato del negozio di scherzi di suo zio George, una vera e propria peculiarità di Diagon Alley che attirava curiosi e clienti anche dai Ministeri vicini, tuttavia non avrebbe mai immaginato si trattasse di una specie di parco giochi per strafatti di Pozione Stimolante.

O per bambini… - gli suggerì la voce della sua coscienza; bambini iper-stimolati e chiassosi a giudicare dalle squadriglie di ragazzini che rischiavano di farlo inciampare ad ogni passo, brandendo bacchette di gommapiuma che si trasformavano ad ogni piè sospinto in ombrelli o merluzzi, dolciumi e fuochi d’artificio.
“Questo posto non dovrebbe vendere scherzi? Perché lascia che i clienti saccheggino gli scaffali?”
“Sono i campioni di prova, credo.” Gli rispose Malfoy, che esibiva un’espressione curiosamente simile ai piccoli avventori. “E se prendi qualcosa che non è in prova, paghi all’uscita. È un metodo che funziona, George Weasley ci ha fondato una specie di piccolo impero!” Si strinse nelle spalle. “Ci sono sedi dei Tiri Vispi sparse un po’ per tutta Europa.”
Sören fece una smorfia; non capiva tutto quel chiasso e ne era maledettamente frastornato.

“Non hai mai comprato una Caccabomba da ragazzino?” Gli venne chiesto con divertimento.
“Avevo il Piccolo Pozionista … Lo ricevetti da mio padre quando avevo sei anni.”      
“Anche io. Feci saltare in aria il letto di camera mia e per punizione il mio mi fece dormire sul tappeto per una settimana!” Sghignazzò allegramente. “Tu cosa hai distrutto invece?”
“Niente.” Aggrottò le sopracciglia. “Seguivo le istruzioni.”
“Oh, ci credo.” Sorrise di rimando indicandogli poi con un cenno della testa una porticina rossa, alla fine dell’enorme stanzone su più piani. “Eccola là. La porta per il regno di Hugo.”
“Cugino di Lily?”  

“Gli Weasley sono più o meno tutti cugini tra di loro. Sono una specie di enorme conigliera rosso-crinita.”
“Guarda che ti sento, cazzone!” Lo riprese Potter facendogli un gestaccio e bussando al battente della porta rossa. “Speriamo che Hugo non si spari quella sua roba in cuffia o non ci sentirà mai.” Borbottò scrocchiandosi il collo.
Fortunatamente il ragazzo in questione aprì subito; Sören lo riconobbe al volo, perché a parte l’altezza e i lineamenti più maturi era lo stesso ragazzino arruffato che aveva conosciuto ad Hogwarts. Questo abbassò le grosse cuffie Babbane sul collo e li squadrò uno per uno. “Ohi. Che ci fate qui?” Esordì con il tono di chi era appena stato strappato dal sonno.
Riesce a dormire con quello che succede dietro la sua porta?
“Consulenza, Hughie!” Esclamò Potter battendogli una pacca consistente sulla spalla magra. “Ci serve una mano con una roba tecnologica.”
“Ah, okay.” Esalò lanciandogli un’occhiata piuttosto truce, ma doveva essere la sua espressione usuale perché non la cambiò neppure per salutare Jordan e Malfoy. Sören da un mondo caotico fu trascinato in un altro, completamente diverso eppure regolato dagli stessi principi dell’entropia. Era un retro-bottega, spazioso ma completamente invaso di ciarpame, tra computer, televisori al plasma e stereo. Weasley non era solo, dacché nel laboratorio si affaccendavano una mezza dozzina tra ragazzi e ragazze che chini su tavoli da lavoro erano per la maggioranza presi a dissezionare plastica e microchip. I tre auror salutarono una ragazzina bionda ancora in piena adolescenza e vestita come se dovesse presenziare ad un concerto punk, tra piercing e abbigliamento ribelle.

Più che un laboratorio magico sembra una sala giochi Babbana.
Lo stesso proprietario sembrava uno di quei giovani geni della Silicon Valley californiana, in t-shirt dal motto ironico e Converse bucate.
“Che posto è questo?” Chiese.
Malfoy fece un sorrisetto svagato. “Il Grande Sogno di Hugo.” Gli rispose. “Tutti i ragazzi inglesi vengono da lui per far funzionare cellulari e impianti stereo ad Hogwarts o a casa della nonna che vive solo di bacchette e incantesimi. Ha anche lavorato alla messaggistica degli Specchi Comunicanti, anni fa, quando era ancora a scuola.” Gli lanciò un’occhiata perplessa. “Non hai detto che esistono posti così anche in America?”
“Sì, ma sono meno … sperimentali.” Si risolse a dire, suo malgrado affascinato. Non capiva un negozio di scherzi, ma un laboratorio dove venivano sviluppate nuove idee per rendere due mondi tanto diversi capaci di comunicare … quello sì, poteva capirlo. “È stupefacente.” Ammise.
Hugo dovette averlo sentito perché si voltò per scoccargli un sorriso tutto denti che lo rese definitivamente cugino di Lilian. “Sicuro che lo è!” Esclamò. “È il primo laboratorio di conversione Tecno-Magica in Europa!” Spiegò gonfiando il petto d’orgoglio. “La WizardTech!” Esitò solo un attimo, prima di lanciare un’occhiata guardinga a Potter. “Vuoi farti un giro?” Propose.
A quanto pare lodare gli Weasley ripaga sempre.
Era disposto a continuare su quella china, se significava portarne un altro dalla sua parte. “Volentie…”
“Magari un’altra volta, Hughie, stiamo lavorando.” Li mise in riga Potter. “Ci serve sapere se puoi fare un lavoretto su delle…” Tentennò cercando chiaramente di ricordarsi il termine.
“Telecamere di sicurezza.” Gli venne in aiuto Malfoy. “Una roba del genere.”
“Di video-sorveglianza cioè?” Intuì subito il tecnico. “Dove volete piazzarle?” 

“San Mungo.”
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, pizzicandosi il mento. “Okay. Non dovrebbe essere difficile, anche se dipende da che risoluzione volete che abbiano. I campi magici potenti come quello del San Mungo smarmellano un sacco la qualità video.” Spiegò senza spiegare nulla, tra colloquialismo e termini tecnici.
“Come ti pare.” Sbuffò Potter a disagio: doveva essere difficile per lui non essere padrone di un argomento. “Basta che si veda la faccia di chi entra ed esce da una stanza ventiquattro ore su ventiquattro. Pensi di poterlo fare?”
“Sicuro.” Convenne l’altro con un cenno evasivo della mano. “Per quando le volete pronte?”
“Il prima possibile.”
“Per stanotte le avrete funzionanti.” Promise con una tranquillità incoraggiante.

Almeno non dovremo preoccuparci anche di questo.
“Bella pensata comunque.” Aggiunse. “È la prima volta che sento che l’ufficio Auror le usa. Di chi è stata l’idea?”
“Di Prince.” Rispose Malfoy. “In America le usano da anni.”
Il ragazzo gli rivolse un’occhiata valutativa e poi azzardò un sorriso. “State un sacco avanti là, eh? Mi piacerebbe venire a vedere quanta roba ci stiamo perdendo nella vecchia Inghilterra.”
“Idee come le tue sarebbero le benvenute.” Sperò che la lode non risultasse troppo smaccata – e a giudicare dalla smorfia di Potter forse lo era. A sua differenza però il cugino avvampò di autentico piacere.

Tutti gli Weasley arrossiscono sulle orecchie?
“Bene, le avrete per stasera.” Ripeté stropicciandosi il viso con le dita. “Mi ci metto subito.”
“Da quant’è che non ti fai una dormita ad orari decenti, Hugh?” Ghignò Potter arruffandogli i capelli con il piglio di un fratello maggiore. Doveva avercelo nel sangue. “Non vogliamo esser responsabili se poi Gail ti sgrida!”
Ci fu un nuovo arrossamento in zona orecchie. “Gail ce l’ha già con me per qualche diavolo di motivo.” Borbottò “Devo chiedere a Lils che le è preso stavolta. Con le donne a volte serve un dannato traduttore!”
Lily.
Si erano sentiti in quei giorni, anche se solo tramite messaggi su cellulare – non era mai stato tanto grato a Milo per avergli insegnato ad usare quell’aggeggio dallo schermo sin troppo sensibile. Non erano ancora riusciti a vedersi, ma non si sentiva inquieto; se c’era un lato positivo di quella lunga indagine tortuosa era avere un buon margine di permanenza su suolo inglese.

La rivedrò. Posso vederla adesso. Vuole vedermi.
Sapeva di non dover tirare la corda ma al tempo stesso non aveva voglia di attendere un invito da parte dell’altra: la conosceva abbastanza bene da sapere che prendere l’iniziativa non era nelle sue corde.
Il suo invito di domenica è stata un’eccezione.
Un caffè. Suppongo che un caffè vada bene.
Milo aveva suggerito una cena, ma gli sembrava troppo. Doveva fare piccoli passi ed un invito per una consumazione veloce e un po’ di chiacchiere era un buon compromesso.
Ha detto che vuole farmi vedere l’Inghilterra, ma …
Lilian era una ragazza dalle iperboli facili; per quanto fosse stato felice di sentirglielo dire non era sicuro che avrebbero davvero finito per Materializzarsi assieme nei principali luoghi storici o di interesse della Terra d’Albione.
Ha una vita, degli impegni, degli amici e un ragazzo. Goditi i momenti che ti dedica, ma non illuderti.
Mai.  
Sì, un caffè era un’opzione appropriata; nessuno avrebbe potuto muovere obiezioni.
Tranne Potter. Ma che vada francamente al diavolo.
Uscendo dai Tiri Vispi Weasley lo sentì parlottare a bassa voce con Malfoy; udì il suo nome nella frase e finse di non averlo fatto. Era la strategia migliore da seguire.
Io ignoro lui e lui ignora me.
Fu Malfoy alla fine a girarsi e fargli un sorriso amichevole a cui ritenne doveroso rispondere. “Ehi, hai piani per questo venerdì sera?”  
Confuso, scosse la testa. “No, non direi. Perché lo chiedi?”
“Perché è il mio compleanno e faccio una festicciola al Finnigan’s Wake, il pub…”
“… dei gemelli Finnigan, Lily me ne ha parlato.” Concluse per lui, non credendo a quello che stava implicando. Una cosa era esser civili in orario di lavoro, un'altra includerlo nel proprio tempo libero. “Lo conosco.” Concluse non impegnativo.

“Fantastico, allora ti sarà facile trovarlo.” Vedendo la sua espressione chiarificò tranquillo. “Sei invitato, e porta pure chi vuoi. Più siamo, meglio è!”
Non sapendo cosa rispondere senza mostrare le sue deficienze relazionali, si limitò ad un rigido cenno della testa. “Molto volentieri.”
Dopotutto, forse, non gli serviva una scusa per rivedere Lilian.

 
****
 
Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale, Ufficio Internazionale della Legge Magica
Mattina.
 
“Signor Zabini, c’è una chiamata via Fuoco Magico per lei.”
Michel alzò lo sguardo, squadrando perplesso il giovane Fuochista – mestiere che nel Mondo Babbano prendeva il nome di centralinista – affacciato alla porta dell’ufficio.
“Arrivo subito.” Disse abbandonando volentieri la scrivania per sgranchirsi le gambe. Il ragazzo gli fece spazio facendolo passare e Michel si godette l’occhiata al fondoschiena che gli venne lanciata. Quel nuovo completo, uscito fresco dalle mani capaci di George McClan era stato un acquisto decisamente oculato a giudicare dallo sguardo affamato dell’altro.

Abbiamo già avuto il nostro tempo Kyle, e dato che non è stato niente di che, nessun bis, spiacente.
“Se si tratta di Nott ho già detto di non farmi passare le sue chiamate.”
Non gli spedirò denaro, né favorirò la sua estradizione nel caso gli spagnoli avessero finalmente realizzato che sta mettendo su una delle sue baracconate illecite a casa loro.

“No, è dall’America.” Replicò il fuochista. “Michel…” Tentò di raggiungerlo. “Hai un momento…”
“America, Kyle.” Inarcò le sopracciglia. “Scusami, temo sia importante.”

Chi diavolo mi chiama da là?
Fu con quella domanda in testa che si posizionò nella nicchia dedicata al focolare da cui era arrivata la chiamata, sedendosi sullo sgabello basso e scomodo.
Scomodissimo se hai passato una notte a folleggiare per poi tentare di scordartela con le successive, tra le braccia di tizi che non valevano neanche una sveltina nei gabinetti.
Scacciò quel pensiero come sporco sotto un tappeto, chinandosi all’altezza del focolare baluginante. “Parla Michel Zabini.” Esordì.
“Buongiorno Signor Zabini, spero di non averla disturbata.” Gli rispose una voce dal forte accento americano. “Mi chiamo Ethan Scott e la chiamo dall’ufficio Cooperazione del Ministero Americano.”

“Buongiorno.” Salutò perplesso; era la prima volta che si occupava di un caso di giurisdizione congiunta, ma non gli risultava cosa abituale che i colleghi americani si facessero vivi. “Come posso esserle utile?”
“Sì, mi può essere utile.” Convenne l’altro con un tono sciolto, di chi era abituato a parlare con tante persone di diversa estrazione sociale e per questo approntava un tono neutro e genericamente amichevole. “È lei ad occuparsi del caso congiunto Howe, è corretto?”

“Corretto.” Confermò, ed era un po’ sterile visto che era l’unico caso che supervisionava al momento. Che diavolo voleva quel tipo da lui? Non che non apprezzasse una diversione dalla pila si scartoffie che lo aspettava, ma quella chiamata era strana.
“Si occupa di monitorare le indagini del nostro agente di collegamento, Sören Prince, giusto?” Sembrava voler ribadire cose ovvie, ma Michel decise di assecondarlo mentre cercava di capire il sottotesto.
La mia professione è fatta tutta di sottotesto.  
“Mi occupo di questo al momento, sì.” Ripeté diligente. “Avete ricevuto i rapporti con le mie note, spero.”
“Certo.” Assentì. “Un lavoro eccellente. La professionalità è una dote che viene molto apprezzata nel nostro ufficio.”

“Lei mi lusinga.” Non si sbilanciò, cominciando a capire che l’altro stava facendo ampi giri attorno ad un argomento. “Ethan … posso darti del tu?” Chiese scivolando in un tono accattivante, quello che riservava per i pezzi grossi o per amanti degni di nota.
“Stavo per proportelo io, Michel.” Abboccò l’uomo con un sorriso che poteva essere percepito anche oltre le fiamme verdognole. “Ho letto la tua scheda. Giovane ed intraprendente. Ragazzi come te sono linfa vitale per la nostra professione.”
Sì, vallo a dire a mio padre o a Lord Malfoy.
“Riguarda il caso Howe, Ethan?” Chiese pacato, cercando di capire dove voleva andare a parare l’americano. Se aveva chiamato lui e non l’ufficio Auror era evidente che avesse bisogno di un favore.
E chiunque frequenti i corridoi del Ministero sa che favori e Ufficio Auror non stanno nella stessa frase.
A meno che tu non appartenga al grande Clan Potter-Weasley, ovvio.
“Riguarda Sören Prince.”
“Prince?” Inarcò le sopracciglia preso in contropiede. “È un vostro agente.” Sottolineò. “Cosa posso dirvi che già non sapete?”

“Molto.” Michel aggrottò le sopracciglia tentando di riflettere il più velocemente possibile. “Come ho detto, in America sappiamo valutare le persone che ci sono davanti, Michel … e anche quelle che non possono esserlo per motivi geografici. E una buona opinione è cosa ben spendibile nei nostri ambienti.” Fece una breve pausa. “Spero di essere stato chiaro.”  
Ah.
Un favore per una buona parola. Chiarissimo.
“Prince non è un agente qualunque, Michel, se conosci la sua storia non potrai che convenire.” Continuò l’americano in tono discorsivo, amichevole. Doveva essere pericoloso avere a che fare con un uomo così, se ti trovavi dalla parte sbagliata della sua bacchetta.
O se gli dai le spalle.
Chissà cosa aveva fatto Prince per finirci. Non che gli interessasse; non era affar suo dopotutto.
Non sono certo la sua balia.
“Quello che vogliamo sapere da te è un’opinione sul suo operato, niente di più. Che tu lo tenga d’occhio e che ci riferisca i suoi movimenti.”
“E le mie impressioni devo inviarvele assieme alle mie note sul caso?” Domandò ironico; non c’era bisogno che notificasse il suo assenso: quella era la sua occasione per avere un biglietto di sola andata per uno scatto di carriera prima dei venticinque anni e non se la sarebbe lasciata sfuggire per nulla al mondo. Ethan Scott doveva aver studiato la sua storia professionale prima di contattarlo.

Vuole usarmi. Benissimo. Io userò lui.
L’americano ridacchiò. “Ti chiamerò io. Una chiacchierata una volta a settimana, non sarà nulla di impegnativo. Avere buoni amici in questo mestiere è il metodo migliore per fare strada.”
“Mi è stato detto.” Sorrise di rimando anche se non poteva vederlo. “Puoi contare su di me, Ethan.”

 
“Pausa pranzo, mio buon Mike?”
Michel fece una smorfia, entrando in ufficio e notando come la sedia di fronte alla sua scrivania fosse occupata da una giacca a strisce stravaganti e dagli occhi bicolori di Loki Nott.
“Pensavo ti fossi definitivamente stabilito in Spagna.” Sbuffò aggirando l’amico e sedendosi. “Se non altro per sfuggire alla giustizia.”

“Sentivo nostalgia dell’umida estate londinese, che vuoi farci. Sono un tipo abitudinario.” Replicò con un mezzo sorriso indolente, di quelli che si accoppiavano ad uno stiracchiarsi dopo una lunga dormita. “Non ti sono mancato?”
“In questa settimana? Affatto.” Ironizzò afferrando una cartellina spessa e aprendola con un tocco delle dita. “Non posso venire a pranzo, ho da fare.”
“E salti un pasto principale? Sai, credo che in qualche nazione sia considerabile un delitto capitale. Andiamo, l’affare è andato in porto. Offro io.”
Michel era piuttosto certo che la maggior parte dei funzionari del Ministero non aveva amici fastidiosi come i suoi. Tra Nott e Malfoy era difficile decidere chi era il più pronto a trascinarlo via dai suoi compiti.

Non oggi che è una giornata che sembra finalmente fuori dalla mia solita, avvilente routine.
“Grazie, come se avessi accettato.”
“Stiamo diventando maniaci del lavoro?” Lo stuzzicò come era solito fare, ma quel giorno Michel era poco incline ad indulgere nei loro soliti battibecchi.

“Diversamente da persone di mia conoscenza ho un lavoro che richiede la mia completa dedizione.” Buttò fuori forse con eccessiva stizza, tanto che la sua collega alzò la testa per controllare la situazione – e probabilmente sparlarne durante la maledetta pausa pranzo.
Nott d’altro canto non diede segno di aver notato lo sfogo, passando un dito sulla targa lucida che informava l’intero piano del suo nome, cognome e grado ministeriale. “Ti ricordi quando al Quinto anno giurammo che fuori da quell’isolamento barbaro tra le montagne saremo vissuti per diventare i re della Londra Magica?” Chiese invece.
Michel inarcò le sopracciglia, non capendo dove  volesse andare a parare; era piuttosto raro che Loki si perdesse in discorsi nostalgici. “Ne abbiamo fatte molti, di discorsi del genere. Pensi che me ne ricordi uno in particolare?”

“Non è quello il punto.” Inclinò la testa per guardarlo e Michel si sentì investire da qualcosa di simile all’inadeguatezza. Il che era ridicolo, perché Loki, diplomatosi con il minimo dei voti, viveva alla giornata e del frutto dei proprio imbrogli – il patrimonio di famiglia non era mai stata un’opzione, sperperato da Nott Senior in una serie di investimenti scriteriati prima che figlio e nipote nascessero.
Io sto costruendo il mio futuro. Prestigio, importanza, far combaciare il mio nome con le aspettative che porta il mio cognome.
Lui passa il suo tempo in bettole con Goblin strozzini e scommettitori.
Perché dovrei essere io quello a sentirsi inferiore?
“E quale sarebbe, di grazia?” Ritorse serrando le dita sulla pratica, quasi fosse una maledetta coperta confortante dopo un tuffo gelido nel Lago Nero.
“Vivere.” Tagliò corto l’amico. “Ultimamente pare tu ti sia scordato come si fa.”
Michel si rifiutò di sentire lo stomaco contrarsi in una morsa. Si rifiutò di provare angoscia, e dunque provò rabbia. “Non dire sciocchezze.” Sibilò. “Oggi ho ricevuto un’ottima opportunità e non permetterò che tu mi rovini il buon’umore con discorsi insensati.”
“Ah, perché adesso sei di buon’umore? Ti ricordavo diverso.” 

Michel represse l’impulso di rispondergli per le rime. Non aveva davvero tempo, né tantomeno voglia. “Se hai tempo per scocciarmi perché non ne fai buon uso e ti occupi del regalo di Scorpius?”
Loki si passò una mano trai lunghi ricci scomposti e Michel intuì il gesto distensivo; si conoscevano da troppo tempo per infilarsi in una discussione sui rispettivi sentimenti offesi. “Come preferisci.” Fu infatti la replica quieta. “Solo, pensavo volessi esserci anche tu.”
“Non ho…”
“… tempo, avevo afferrato il concetto a due lamentele fa.” Si alzò in piedi, recuperando l’estroso bastone da passeggio che portava ovunque – era un ottimo posto dove nascondervi la bacchetta quando doveva condurre affari ai limiti del lecito. “Lasci dunque nelle mie mani il regalo per il nostro festoso amico, arbiter elegantiae?” Motteggiò con eleganza, ed era una delle cose che più apprezzava di lui.

E che lo lascia libero di vivere in casa mia senza spendere uno zellino né una sterlina.
“Mi fido del tuo buon gusto, una delle poche doti che hai, Mastro Zabini.” Replicò accettando l’offerta di pace con un sorriso che sperò risultasse sincero. 
“È la stessa che mi permetterà di avere la tua auto sportiva per questo fine settimana?” Interloquì impenitente.
“Scordatelo.” Ribatté sapendo che avrebbe finito per capitolare; differentemente da un certo Dursley, non era poi così attaccato alle sue cose. “Specie se usi il bagagliaio come hai fatto l’ultima volta.”
“Era solo una fornitura di pozioni!” Protestò con tono falsamente offeso. “Passare il confine le Asturie è stato un gioco da ragazzi e te l’ho riportata sana e salva, o mi sbaglio?”

Alzò gli occhi al cielo. “Levati dai piedi, Nott.”
“Ai tuoi ordini.” Sogghignò disimpegnato, prima di fare un cenno di congedo sia a lui che alla collega e Smaterializzarsi con un sonoro crack.

Michel con un sospiro si apprestò ad ignorare il vuoto che la presenza dell’amico e dell’ennesima rinuncia avevano appena lasciato.
 
****
 
Notturn Alley, Black Goose.
Ora di pranzo.

 
L’universo Magonò era largamente sottovalutato da chi aveva la magia e questo era un dato di fatto per chiunque si prendesse la briga di controllare.
Cioè nessuno.
Milo si calcò il vecchio berretto in testa e aprì la porta del Black Goose, pub decrepito a Notturn Alley, segnalatogli come il ritrovo per eccellenza degli scarti della società magica. Al suo ingresso si voltarono in simultanea una dozzina di teste. Milo ignorò le occhiate che gli vennero lanciate e si diresse verso l’unica persona con cui voleva parlare lì dentro, ovvero il suo nuovo, scintillante contatto londinese.
“Figgins?” Apostrofò un ragazzo dai capelli rossi a cui mancava solo il kilt per essere la perfetta rappresentazione dell’anglosassone. Quando abbassò lo sguardo mascherò una risata: il kilt il tipo lo aveva davvero. “Sei Figgins, giusto? Mi manda Kreutzer.”
“Figg per gli amici, e tu devi essere Meinster.” Replicò quello in forte accento londinese, tanto che capì solo il suo cognome. “Kreutzer mi aveva detto che eri grosso … Cazzo, quanto sei, due metri?” Esclamò stringendogli la mano. “Cos’è, in Germania vi fanno bere Pozione Ingozzante dalla nascita?”
Milo si sedette ed ordinò subito due birre al bancone; l’entrata in scena era importante, così come l’immediata offerta di un dono, in quel caso alcool. “Uno e novanta.” Sorrise amichevole. “Ti offro il primo giro se dici ai tuoi amici di piantarla di guardarmi come se volessero ficcarmi un coltello nella schiena.” Non appena ebbe terminato la frase, come voleva il codice del perfetto malvivente, i più corpulenti della schiera fecero il gesto di alzarsi, mani dentro le tasche, ma il ragazzo fece un brusco cenno e tornarono in un batter d’occhio alle loro consumazioni.
Guardaspalle.
“Siete nervosetti da queste parti.” Osservò prendendo la propria pinta e dandone un sorso; trattenne una smorfia.
Tra americani e inglesi non so chi ha il peggior piscio caldo.
“Solo prudenti.” Gli fu risposto. “Kreutzer mi ha detto che volevi parlarmi. Di cosa?”
Dritto al punto. E andiamo.
“Non posso cercare di conoscere altri Maghinò?” Interloquì con noncuranza. “Sono in città da una settimana e volevo stare in famiglia.”
Quello diede un vigoroso sorso alla sua Stout. “Non raccontarmi palle, biondo. Le uniche cose che bevo sono whiskey e birra.” Replicò asciugandosi la bocca con il dorso della mano. Sorrise, ma era un sorriso affilato come un rasoio; Milo conosceva abbastanza la logica della strada per sapere che chi esternava in quel modo e aveva la stazza di un adolescente aveva buone probabilità di essere un bastardo più pericoloso dei troll armati di prima.
“Kreutzer mi ha detto che sei un lupo solitario.” Continuò in tono discorsivo. “E che è un po’ che sei fuori dal giro.” Lanciò uno sguardo al suo abbigliamento. “E ti dirò, sembra abbia ragione, sembri un Babbano.”  
Milo prese una manciata di secondi per riflettere: quel Figgins, a dispetto dell’età, doveva essere una specie di capoccia dei Magonò londinesi ed era dunque un contatto da farsi. Il problema, supponeva, era evitare che l’altro si facesse lui.
E non in senso buono. In senso farmi a filo di lama.
“Vivo in America adesso … là le cose funzionano in modo diverso.” Spiegò con tutta la nonchalance che possedeva. “Bisogna adattarsi.”
L’inglese appoggiò il gomito sul bancone per sporgersi nella sua direzione e Milo rilassò la postura per non mostrarsi troppo guardingo. “Adattarsi è una cosa furba da fare, garantito …” Iniziò vago. “Kreutzer dice però che ti sei adattato talmente tanto da esserti scordato chi sei.” Ghignò. “Dì un po’, Meinster, è vero?”
“Falso come la moneta di un Leprecauno.” Rispose pronto. “Non ci si può scordare di essere Maghinò.” Scrollò le spalle. “E se fossi in te, non darei retta quello che esce dalla bocca di Kreutzer. Ce l’ha con me perché ho sempre scopato più di lui.”
Figgins scoppiò in una risata sgangherata e questo fece visibilmente rilassare le persone attorno a loro. Milo, che aveva tenuto d’occhio l’atmosfera, si trovò molto sollevato.

Se finisco con un coltello ficcato in pancia perché sono troppo poco cencioso poi chi lo spiega al principino?
Quello è capace di farmi lavorare anche con un’emorragia interna in corso.
“Sei simpatico. Mi piacciono i tipi simpatici.” Stabilì sciogliendosi in un sorrisone che lo fece sembrare un monello troppo cresciuto. “Avanti, crucco, dillo a Figg. Cosa ti serve?”
“Un’informazione.” Ammise, ora che i paletti erano stati messi e il rapporto avviato. Aveva bisogno di una conferma molto specifica e l’unica soluzione che gli si era affacciata alla mente era stato chiedere a chi in strada ci stava tutti i giorni.
Non si era scordato quanto visto al San Mungo, il giorno del cosiddetto black-out. Non aveva dimenticato neppure un secondo la faccia che aveva visto.
Fottuto Johannes. O come diavolo si fa chiamare qui.
L’unico motivo per cui non era corso a gridarlo ai quattro venti – specialmente al principino, che aveva incubi abitati dal tizio in questione – era perché prima doveva esser certo di non aver preso un abbaglio. Aprire quel vaso di Pandora sarebbe stato un suicidio senza avere certezze.
“Quindi vediamo se ho afferrato … Mi stai chiedendo di guardare in giro e trovare un mago che cambia faccia a seconda di come gli gira?” Riassunse Figg con un’espressione scettica dipinta sulla faccia lentigginosa. “Amico, non faccio magie né miracoli!”
“Ha una faccia sola quando non lavora, la sua.”

L’altro Magonò fece un sospiro. “Okay, ho afferrato. Sulla trentina, testa rasata, accento come il tuo e un gran chiacchierone. Mago, ma tiene un profilo basso e veste da Babbano.” Si strinse nelle spalle. “Io e miei ragazzi terremo gli occhi aperti e faremo domande… Ma dì un po’, che problema hai con il tipo?”  
Milo schioccò la lingua e ordinò un’altra birra. Come si era abituato alle bottiglie di vetro americane, poteva abituarsi alla robaccia tiepida britannica. “Io? Nessuno. Diciamo solo che se quello sta in giro per Londra, i casini possono arrivare per tutti.”



****
 
Inghilterra Sud-occidentale, Godric’s Hollow, Cimitero.
 
C’è sempre qualcosa di beffardo quando il sole splende ad un funerale…
Ted l’aveva sempre pensato.
Con la bacchetta calò la bara di semplice legno sotto terra, aiutato da Neville e il sacerdote; non era stato facile trovare un posto dove seppellire Ben – aveva deciso che quello, in mancanza di certezze, sarebbe stato il suo nome.
Nel nascondiglio del Mannaro non erano infatti stati rinvenuti né una bacchetta nè documenti che potessero testimoniare la sua appartenenza al mondo magico. Era stato il buon Neville, efficiente come sempre, a trovare il modo di farlo seppellire al cimitero di Godric’s Hollow.
Il cimitero dei maghi per eccellenza.
Ascoltò con metà orecchio il salmodiare trito e impersonale del sacerdote; del resto, cosa avrebbe mai potuto dire di un uomo che nessuno di loro conosceva?
Non ho fatto abbastanza.
Era questo il pensiero che lo tormentava, togliendogli ogni capacità di concentrazione.  Razionalmente sapeva che i suoi margini di manovra erano stati minimi dato che il Mannaro l’aveva attaccato con l’intenzione di ucciderlo. Tuttavia la conclusione a cui giungevano le sue riflessioni era sempre la stessa.
Non ho fatto abbastanza.
Sentì dei passi affrettati lungo il selciato ghiaioso del piccolo cimitero di campagna e con la coda dell’occhio vide James avvicinarsi e inspirare, arruffato da una Materializzazione forse troppo veloce. “Ehi.” Sussurrò senza fiato. “Scusa il ritardo.”
Scosse la testa. “Non fa niente.” Ed era vero perché gli bastò vedere tutta quella vivacità repressa per sentirsi meno anestetizzato dall’ambiente

Odio i cimiteri.
Avendoci passato buona parte delle feste comandate della sua infanzia, con la mano stretta a quella di sua nonna o a quella del padrino, sentiva di avere le sue buone ragioni. Percepì le dita di James insinuarsi tra le sue; sorrise. Quella stretta era ben diversa.
Grazie.
Glielo disse con gli occhi ma l’altro parve capire perché gli restituì il sorriso e gli sfiorò le labbra con un bacio leggero.
Era davvero beffardo quel dannato sole che gli scaldava la schiena mentre si dirigeva verso le tombe dei suoi genitori. Rimase a fissare le due lapidi ben curate per un tempo infinito, non pensando a nulla di particolare; con gli anni aveva imparato che quello era il modo migliore per affrontare quel genere di visita.
Rimugino già abbastanza quando sono fuori di qui.
James gli si affiancò, la giacca dell’uniforme buttata indolentemente su una spalla. “Sono passato a salutare Sirius.” Disse passandosi una mano trai capelli. “Papà dev’esserci stato di recente. Ci sono fiori diversi rispetto all’ultima volta.”
“Ci passa ogni settimana.” Gli fece eco con un sospiro. “Dovrei farlo anch’io. Vengo troppo di rado.”
“Non credo.” Fece una smorfia. “In posti del genere ci devi venire solo quando ne hai voglia.”

“Non funziona proprio così…”
“Invece sì.” Ritorse con la decisione tranciante che lo contraddistingueva. “Non penso che ai tuoi farebbe piacere che tu venga a trovarli per dovere.”

Ted ci rifletté poi non poté trattenere un sorriso. “Non hai tutti i torti.”
“Come ti senti?” Gli chiese. A James non poteva mentire o dissimulare la verità; con l’esperienza aveva capito che era solitamente un’idea imbecille.

Visto che sa leggermi come un libro.
“Non riesco a togliermi dalla testa la sua espressione quando ha capito che doveva morire.” Serrò le labbra. “È stato … orribile.”
L’altro annuì ma non disse niente e gliene fu immensamente grato. Per quanto James dimostrasse spesso una mancanza di tatto degna di nota, negli argomenti seri era capace di misurare le parole come pochi, sceglierle e farle valere. Era una dote che aveva ereditato da Harry e Ted non l’aveva tanto apprezzata come in quel momento.

“C’era qualcosa … che non mi dà pace.” Confessò.
“Cosa?”
“Avermi attaccato … non aveva senso, Jamie.” Si voltò verso di lui, non riuscendo più a tenerselo dentro. “Ci ho pensato e ripensato, avrebbe potuto scappare, o nascondersi.”

“C’eravamo noi che cercavamo nelle grotte e i Centauri dall’altra parte del greto … Era un po’ difficile passare inosservato.” Gli fece notare aggrottando le sopracciglia. “Nascondersi non era un’opzione.”
“Lo era però scappare. Invece è rimasto. I Mannari non trasformati non si comportano così, evitano il confronto diretto se possono. Non hanno la bacchetta e molti di loro non hanno mai imparato a sviluppare le proprie capacità magiche. Contro un mago o una creatura come un Centauro è partita persa e lo sanno bene.” Spiegò cercando di esprimersi nel modo più chiaro possibile. Il guizzo negli occhi castani dell’altro gli fece capire che l’analogia era andata a segno.

“Sì, me lo ricordo.” Sogghignò. “Sono le tue vecchie lezioni, Teddy. Ce le ho stampate a fuoco nella memoria.”
“Esagerato.” Sbuffò sentendosi suo malgrado lusingato. “Quindi, cosa ne pensi?”

“Penso che la tua idea non sia poi così assurda.” Ammise. “È stato un comportamento anomalo in effetti. Attaccarti è stato come dipingersi un bersaglio sulla schiena.”
Un’idea illuminante arrivava in molte forme e spesso tramite commenti del tutto casuali, Ted non ne fu convinto tanto come in quel momento, quando capì perché l’uomo di nome Ben gli si era gettato addosso come se non avesse nulla da perdere.
“Voleva l’attenzione su di sé!” Esclamò. “Mi ha attaccato per portarvi via dalla grotta!”
L’altro batté le palpebre stupito, assimilando l’informazione. “Cazzo, ha senso.” Convenne. “Questo spiegherebbe anche perché non è scappato quando ci ha sentiti arrivare.” Gli scoccò un’occhiata perplessa. “Ma cosa doveva difendere?”

“Non ne ho idea.” Scosse la testa. “Ma qualunque cosa sia, è ancora lì.”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia. Refettorio.


“Lo devo dire … Tutta questa storia non ha il minimo senso. E sta diventando inquietante.”
James sperò ardentemente che Scorpius non stesse tirando fuori il dannato caso Howe proprio mentre si apprestava a gustarsi il proprio pranzo, momentanea isola felice tra le preoccupazioni del lavoro e quelle che aveva a casa, con un Teddy che aveva deciso di imbarcarsi in un’indagine al sapore di Mannaro, Foreste Proibite e Centauri incazzati.

Ma sono troppo ottimista, vero?
Prince, ignaro dei suoi pensieri e dunque inopportuno come un Babbano ad un raduno di Mangiamorte,  smise di massacrare la propria insalata. “Stai parlando del caso Howe?” Chiese abbandonando il suo patetico tentativo di pranzo.
Troppo ottimista, già.
Scorpius annuì, abbandonandosi sullo schienale delle scomode sedie che costellavano il refettorio ministeriale. “Pensateci.” Esordì squadernando il dito teatrale. “Arriva un mago dall’America, malato e prima di crepare riesce ad infettare uno dei nostri di qualcosa che neppure il San Mungo e tutti i suoi Guaritori riuniti riescono a classificare. Come se non bastasse, tutto quello che avevamo sulla prima vittima, vittima compresa, è sparito, rubato da un tipo che non ha lasciato la minima traccia ed ha legato la lingua all’unico testimone con una maledizione da Ordine di Merlino di Prima Classe.” Fece un cenno a Prince. “Come hai detto giustamente, il passo successivo sarebbe occuparsi del sergente.”
“Ma a questo ci abbiamo già pensato … Non facciamo montare quelle cavolo di telecamere di sorveglianza apposta? Per vedere se riusciamo a beccarlo con le mani nel calderone?” Si inserì, dato che ormai il discorso era inesorabilmente avviato.

“Sì.” Convenne il tedesco. “Questo però significa che c’è qualcosa di più grande dietro.”
“Un esperimento di Magia Oscura andato male, forse?” Ipotizzò Scorpius dondolandosi sulla sedia con pericolosi scricchiolii che sembrava ignorare con un certo compiacimento. “Voglio dire … Howe era forte come un Centauro, e anche duellare con il Sergente è stato come duellare con tre di lui.” Sospirò. “Mi sa tanto di potenziamento magico o roba del genere. Esistono incantesimi simili in America?”

“Non che io sia a conoscenza.” Non si sbilanciò ma James notò come si mosse a disagio sulla sedia e tentò di inforchettare per l’ennesima volta l’insalata praticamente intonsa.
Ma mangia o di solito si nutre d’aria?
Non che avesse importanza in quel momento. “Non ne conosci?” Ritorse fissandolo negli occhi. Non vi leggeva mai nulla e Scorpius gli aveva dato una spiegazione complicata in cui entrava l’Occlumanzia, cosa che l’aveva reso ancora più sospettoso.
Che bisogno c’è di Occludersi con gente che sta dalla tua parte?
Prince si morse l’angolo delle labbra. “Esistono.” Ammise. “Non so però se il Ministero americano abbia mai condotto studi sull’incremento delle capacità magiche.”
“La Thule però l’ha fatto, eh?” Fu come aver trascinato un troll svenuto per i piedi ed averlo piazzato sul tavolo con un tonfo e un gran lavoro di muscoli. James non se ne pentì: quel caso andava risolto alla svelta se si voleva tornare alla normalità, al diavolo i riguardi.
Così te ne torni in America.
“Sì, la Thule ha condotto alcuni studi in merito.” Rispose con la pacatezza di chi avrebbe esposto un quadro ad una torma di turisti tardi. “Io stesso ne facevo parte.”
Cosa?” Notò con la coda dell’occhio Malfoy lanciargli un’occhiata d’ammonimento, ma la ignorò. “E quando pensavi di dirci che hai studiato questa roba?”
“Non facevo parte del progetto come studioso, ero una cavia.”
Il silenzio che ne scaturì risultò piuttosto opprimente e una parte di sé si sentì piuttosto idiota. La tacitò. “Non cambia il fatto che hai già sentito parlare di maghi che vanno fuori di testa e diventano delle macchine da guerra fuori controllo!”
“La cambia invece, perché il modus operandi di Howe e del sergente Flannery non c’entrano nulla con quello che mi è stato fatto.” James capì che l’Occlumanzia stava cedendo quando lo vide serrare la mascella.

“Cosa riesci a fare?” Il tono gentile di Scorpius suonava fuori posto eppure in qualche strano modo funzionò, perché dopo avergli lanciato una lunga occhiata indecifrabile, il tedesco si slacciò il polsino dell’uniforme e tirò su la manica. James occhieggiò e non trovò nulla di strano nel braccio pallido dell’altro; era solo ornato da un bizzarro bracciale metallico. Vi contò tredici rune dall’aria complicata che neppure tentò di decifrare.
Rune Antiche mi ha sempre fatto schifo.
“Cosa?” Chiese perplesso. “Che c’entra il tuo braccio?”
“La Thule mi ha impiantato il nucleo di una bacchetta nell’arteria radiale.” Non gli diede il tempo di fare domande, che continuò, con la freddezza di un’esposizione clinica. “Se uso il braccio gli incantesimi che lancio hanno una potenza di fuoco superiore a quelli che lancerei con una normale bacchetta. Il nucleo attinge direttamente al sangue arterioso, e dunque alla magia.”

James provò disagio; aveva sentito mezze voci sulla sua capacità di non usare la bacchetta, certo…
Ma da qui a pensare che ce l’avesse nel braccio!
“E il bracciale?” Chiese Scorpius sporgendosi e occhieggiandolo. “Sembra Magia Runica.”
Prince fece un pallido sorriso, tirato ma comunque genuino. Sembrava che la quantità di domande non lo infastidisse.

Forse ha preso Malfuretto in simpatia.
“Controlla le fuoriuscite di magia accidentale. È stato ideato e costruito all’Istituto Magico Sperimentale di Boston.” Lo osservò con espressione assorta. “Neppure io so bene come funzioni, credo sia simile alle valvole di controllo che vengono inserite nelle bacchette.”
James non aveva idea di come fossero finiti a parlare della triste storia del crucco ma si trovò nella posizione di non poter aver voce in capitolo.
Dai, ammettilo. Sei curioso.
Fece una smorfia preferendo addentare con noncuranza il proprio sandwich mentre Scorpius si informava per entrambi.
“Come facevi prima di arrivare in America?”
“So controllarmi.”
Pure troppo, Ragazzo-Occlumanzia.
“Quanti anni avevi quando ti hanno…” Scorpius esitò.
“Avevo nove anni.”
“Eri solo un cazzo di ragazzino!” Esclamò di getto. L’espressione che gli restituì il tedesco era sorpresa quanto la sua, anche se immaginava per motivi diversi.

Ehi, non sono un totale pezzo di merda insensibile, sai?
“La mia giovane età era una variabile a favore della riuscita dell’operazione, non il contrario. Certi esperimenti hanno più probabilità di successo se condotti su soggetti che non hanno ancora sviluppato a pieno la propria capacità magica.” Spiegò con tono simile a quello di uno scolaro costretto a recitare un brano delle guerre dei Troll a memoria. James però non si fece imbrogliare.
Basta guardargli gli occhi. Dissimula di merda.
La qual cosa era stranamente rasserenante.
Non è psicopatico quanto pensavo fosse. Ce le ha delle cose che lo mettono fuori fase. Buono a sapersi.
“Mi dispiace.” Mormorò Scorpius spoglio di ogni sorriso e lo intendeva al cento per cento perché persino Prince se ne accorse, restituendogli un sorriso.
“Grazie.” Disse. “Vorrei che capiste questo … Le sperimentazioni tramite Magia Oscura non conoscono regole morali, o paletti. Qualsiasi cosa abbiano fatto ad Howe potrebbe essere … estremamente sgradevole da molteplici punti di vista. Quello morale è solo il principio.”
A James passò l’appetito; il crucco aveva ragione, stavano avendo a che fare con un caso che era come un maledetto salto nel vuoto, e non aver fatto il minimo progresso cominciava ad essere un problema.
E non solo perché non c’è lui. Poche seghe, la sua presenza è il minore dei nostri problemi. 
“Inquietante, come avevo detto.” Sospirò Scorpius grattandosi la fronte. “Quello che mi chiedo…” Si umettò le labbra pensieroso. “Questa roba che ha infettato il Sergente e Howe … che cos’è? Al San Mungo pensano sia una malattia, ma voglio dire, aumenta la capacità magica di un mago, giusto?”
“Questo è l’unico dato di fatto che abbiamo.” Convenne il tedesco.
“Allora non torna! I virus non dovrebbero indebolirla?”
Prince intrecciò le dita sotto il mento e fissò un punto oltre le loro teste con aria assorta. “È chiaro che chiunque abbia trafugato gli effetti personali di Howe voglia tenere la faccenda lontana dagli occhi e dalle orecchie della popolazione magica. Forse è un esperimento andato storto e il virus è un effetto collaterale.” Prince non era un idiota. Aveva una bacchetta infilata su per il sedere ed era antipatico da morire, ma sebbene fosse seccante ammetterlo, sapeva usare la testa meglio di molti idioti che indossavano la loro stessa uniforme.
Dovette ricordarsi con tutte le forze che lo detestava. “E come può un virus nascere da incantesimi e pozioni?”  
“Non lo so.” Ammise l’altro. “Non mi intendo di questo genere di cose.”
“Al San Mungo ci capiranno sicuramente di più.” Si inserì Scorpius speranzoso. “Dobbiamo solo dargli tempo, il Capo Guaritore Finnigan e gli altri di Malattie Infettive ci stanno lavorando. Quando sapremo come funziona il virus … o quel che è … sicuramente sapremo anche qualcosa di chi l’ha creato!”

“Ehi!” La voce di Bobby li sorprese, facendoli voltare in direzione del ragazzo di colore. “Siete qua!”
“Hai già mangiato?” Chiese vedendo che l’altro aveva l’aria di uno che avrebbe potuto divorare ciò che restava dei loro pasti con un solo boccone. “Siediti, avanti.”
“Dopo magari.” Rifiutò. “È arrivato un Gufo Espresso dal San Mungo. A Lesioni sono riusciti a liberare Wolpert dalla maledizione. Abbiamo l’identikit.” Tolse dalla tasca interna della giacca un foglio e James fu lesto a prenderglielo, sbattendolo senza troppe cerimonie tra di loro.
“Grandioso!” Poi però aggrottò le sopracciglia quando riuscì a dargli un’occhiata completa. “Così questo è il tizio che ha pagato Wolpert per vendergli i contro-incantesimi delle barriere?” Aveva un viso anonimo, le sopracciglia folte e una testa piena di capelli. Un tipo come ce n’erano tanti, che chiunque avrebbe potuto trovarsi di fronte mentre faceva la fila alla Gringott o al mercato.  

“Abbiamo già fatto un riscontro con l’archivio?” Chiese Scorpius grattandosi la nuca, probabilmente pensando la stessa cosa.
“Cosa pensi che abbia fatto invece di fare la pausa pranzo Sy? L’ho passato a setaccio.” Sospirò Bobby. “Nessun riscontro comunque, risulta incensurato per il nostro Ministero.”

“Tocca farlo girare al San Mungo allora. Magari qualcuno l’ha visto.” Si voltò verso Prince. “Spediscilo ai tuoi per vedere se è americano come Howe e…” Si bloccò quando vide che il suddetto era diventato pallido come un lenzuolo – più di quanto non fosse già di suo; fissava il disegno come se avesse appena visto un Infero.
“Che c’è Sören?” Chiese Scorpius. “Lo conosci?” Indovinò.
Questo fece per parlare ma le parole dovettero morirgli in gola più di un paio di volte prima che riuscisse a formulare una frase compiuta. “Sì.” Si risolse a dire ed era un caso o il suo accento era più marcato? “Non è necessario che chieda un riscontro al mio Ministero, posso dirvi io chi è.”
James non era assolutamente tipo da apprezzare la suspense. “Tira fuori il nome avanti!”
Prince gli restituì uno sguardo vuoto e Merlino, non doveva essere un buon segno.

“John Doe.”
 
 
****
 
 
Note:
Se qualcuno mi tira una pietra … beh, me lo merito.

Questa la canzone del capitolo. Prometto che il prossimo sarà più cazzaro!
(È anche il compleanno di Sy, quindi…)

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Capitolo 16
*** Capitolo XV ***


Capitolo XV

 
 


 
And the walls kept tumbling down in the city that we love
Great clouds roll over the hills bringing darkness from above
But if you close your eyes, does it almost feels like
Nothing changed at all?
(Pompeii, Bastille)
 
 
30 Giugno 2028
Farringdon, Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.
 
Il buio l’aveva fatta svegliare con un urlo bloccato in gola.
Con il cuore che le batteva come una grancassa, il respiro irregolare e brividi freddi come se fosse stata gettata nell’acqua gelida, Lily si svegliò dai propri incubi.
Ci mise più di qualche attimo a realizzare che erano tali, dato che prima dovette mettere a fuoco la stanzetta degli allievi guaritori in cui si era addormentata alle prime luci dell’alba, dopo un lungo e noiosissimo turno di notte.
È tutto a posto. È tutto a posto, sei al San Mungo, è giorno. È tutto a posto.
Si alzò a sedere sulla brandina, togliendosi ciocche fradice di sudore dal viso, pregando che nessuno oltre a lei fosse presente; ebbe fortuna, gli altri letti a castello erano vuoti come era vuoto quello sotto di lei.
Okay. Vatti a sciacquare il viso, ora.
Scese con gambe malferme e si diresse verso i bagni al lato opposto del corridoio tenendo gli occhi bassi ed ignorando l’ambiente circostante. Fu solo con il viso rinfrescato e la bacchetta sicura nella sua presa che riuscì finalmente a respirare e a non aver voglia di rimettere la colazione che aveva fatto prima di addormentarsi.
Sapeva benissimo cos’era accaduto ed era una paura totalizzante, che per quanto irrazionale le faceva venir voglia di scappare il più lontano possibile.
Incubi. Incubi di quel che è successo cinque anni fa … di quel che è successo con il Sergente Flannery.

Pensava di averli superati. Pensava che con il tempo, la terapia e la certezza di vivere in un mondo tranquillo e ovattato non sarebbe più tornato niente di quello che aveva vissuto dopo il rapimento.
Sbagliato.
Era probabile che fosse stato l’episodio al San Mungo ad averle innescato quella reazione dato che il cocktail delle sue peggiori paure si era realizzato alla perfezione.
Buio, incantesimi e un’aggressione. Non ci siamo fatti mancare niente, eh Rossa?
Chiuse gli occhi e li riaprì cercando di tornare alla realtà, una realtà di una luminosa mattina estiva in un ospedale sorvegliato e sicuro.
Non funzionava.
Non lo è. Nessun posto è sicuro.
Per un attimo sentì il respiro bloccarsi in gola e desiderò con tutta se stessa Smaterializzarsi in un posto aperto, più luminoso, persino accecante.
Il buio. Odio il buio, lo odio … lo…
Quasi saltò in aria quando sentì la porta del bagno aprirsi. Si ricompose al meglio, voltandosi per incontrare le iridi d’ossidiana della Psicomaga Patil.
“Potter.” La apostrofò con aria sorpresa. “Va tutto bene?”
Ti sei ricomposta una meraviglia, direi.

“Sì … io. Sì.” Balbettò con un’incoerenza che avrebbe rivaleggiato con quella della povera Alice Paciock. “Cioè … no.” Buttò fuori riluttante. “… per niente.”
“Vedo.” La strega le si avvicinò con la stessa accortezza che avrebbe usato per un paziente e questo la rasserenò e inquietò al tempo stesso. Le mise poi una mano sulla spalla stringendo, facendole sentire che c’era e che il tocco era reale. “Hai fatto il turno di notte.” Ricordò pensierosa. “Ti sei svegliata adesso?”
“Se svegliarsi è il termine giusto…” Mormorò. “… avere un infarto e quasi cadere dal letto direi che è più adeguato.”
“Incubo?”
“Peggio.”
“Uno dei tuoi.” Stimò la Psicomaga scandagliandole il viso con l’espressione acuta con cui l’aveva conosciuta e imparata a stimare. Era stata proprio lei a curarla, quando al Sesto anno aveva cominciato a temere il sonno come il suo peggior nemico. 

E quando sono collassata a colazione perché erano giorni che bevevo Pozione Stimolante mischiata al succo di zucca per non addormentarmi mamma e papà mi hanno spedito da lei.  
Certo, mi era piaciuto il suo articolo, ma non avrei mai pensato che mi avrebbe aiutata davvero.
E invece…
“Credo sia per quel che è successo la settimana scorsa… il black-out.” Si passò una mano trai capelli sentendosi un pochino più stabile. Parlarne con qualcuno che trattava quei problemi di mestiere la faceva sentire meglio.
La strega annuì, guardando il suo orologio da polso. “Ho una lectio magistralis a Madrid tra venti minuti, ma tornerò con la Passaporta di mezzogiorno. Ad ora di pranzo vieni nel mio ufficio.”

“Non è…”  
“Non voglio sentire scuse, Potter.” La redarguì, prima di concederle uno dei suoi rari sorrisi. “Non devo fare la ramanzina ad una mia allieva sull’importanza di non sottovalutare un disturbo da stress post-traumatico, spero.” A volte le ricordava sua cugina Roxanne ed era questo ad averle sempre reso facile parlare con lei.
Vado d’accordo con chi parla poco e ascolta tanto.
“Adesso però mi sta parlando come ad una paziente.” Osservò ricambiando debolmente il sorriso.
“Allora sai che non ha senso obbiettare. Sciacquati il viso e prenditi il tuo tempo. Se ti fai vedere dai nostri pazienti con quella faccia si preoccuperanno per te.”
Lily annuì, cercando di sorridere finché l’altra non fu uscita dal bagno, poi tornò al lavabo e si schiaffeggiò di nuovo con l’acqua gelata del rubinetto.

 
****
 
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Mattina.
 
Harry aveva pensato ad uno scherzo di cattivo gusto.
Ci aveva pensato, poi aveva realizzato che Ron, per quanto fosse un tipo facile all’ironia, non avrebbe mai portato alla ribalta quell’argomento in una battuta.
John Doe.
Il braccio destro di Von Hohenheim non solo era vivo e vegeto – ancora – ma era coinvolto in un caso sotto la giurisdizione dell’ufficio Auror, in collaborazione con niente meno che la nuova versione della task-force Anti-Thule.
Solo una coincidenza?
La materia era la stessa; Magia Oscura, della più disgustosa e moralmente raccapricciante.
Perché cambiare settore quando passi una vita sempre nello stesso?  
Ron di fronte a lui, a braccia incrociate e cipiglio d’occasione, aspettava una sua reazione. Nonostante gli anni, l’esperienza e il suo ruolo, Harry si trovò nella posizione di non sapere cosa dire.
“Cosa facciamo?” Lo incalzò; aveva ragione. Non c’era tempo da perdere.
“Informiamo la SAGITTA.” Rispose; Nora doveva essere la prima a sapere, sempre che Prince non avesse già pensato a spedire un Gufo Transcontinentale.
Già. Come se non bastasse è stato lui a riconoscerlo.
Ordinò alla propria segretaria un Camino Portatile e aspettò che la chiamata si connettesse, osservando le fiamme verdognole senza vederle veramente.
“Miseriaccia, come diavolo fa ad essere ancora vivo?” Sbottò l’amico dopo qualche attimo. “Ha nove vite come i gatti?!”
“Gli agenti tedeschi non hanno mai trovato il corpo.” Gli fece eco senza distogliere lo sguardo dal focolare in miniatura. “Hanno pensato fosse bruciato e sepolto sotto le rovine del castello dei Von Hohenheim e Sören stesso ha giurato di averlo lasciato esamine nelle segrete…”
“Ha mentito?” Scattò subito con sguardo allarmato.

Scosse la testa. “No, penso abbia detto la verità. Ma ci hai parlato tu, sembrava sorpreso dall’averlo riconosciuto?”
Ron ci rifletté, poi sospirò. “Sembrava essersi trovato un infero nel gabinetto. Era così pallido che pensavo stesse per sentirsi male.” Fece una pausa e poi aggiunse a voce più bassa. “Era sorpreso quanto noi. Non si può fingere fino a ‘sto punto.”
John Doe. Johannes. Il Camaleonte. Un mercenario e poi il braccio destro di Von Hohenheim … Per chi sta lavorando adesso?
Erano domande che non avevano ancora una risposta, ma ne suggerivano diverse, tutte con conseguenze  nefaste.
Un virus che modifica la capacità magica, John Doe, l’America coinvolta…
Avrebbe dovuto passare il caso ad una squadra più esperta, rifletté. Suo figlio e gli altri ragazzi erano in gamba, ma alle prime armi ad eccezione di Prince. Avrebbe dovuto e tuttavia c’era una parte di lui che non era convinta. Dare un caso simile a chi non conosceva il Camaleonte e non aveva vissuto sulla propria pelle i piani della Thule non sarebbe stata una mossa saggia.
Perché lasciarlo nelle mani di quattro ventenni sì?
Non si sentì affatto pronto quando la voce di Nora attraversò la cortina verdognola di fiamme.
“Ci sono novità…” Esordì e poi lasciò che fosse Ron a parlare e aggiornare la strega sulla situazione. In certi frangenti non era mai stato un bravo comunicatore. Quando il breve dialogo si concluse la voce di Nora era prossima allo zero assoluto, in completo assetto da battaglia. Fu stranamente consolante.

Non essere soli genericamente lo è.
“Potreste farmi parlare con il mio agente?”
“Certamente.” Convenne. Scrisse un Promemoria Ministeriale e lo fece librare con la bacchetta; il ragazzo doveva essere al piano di sotto con la squadra perché non ci mise che una manciata di attimi per bussare alla porta.

“Avanti.”
Prince entrò ed ogni espressione sembrava essergli sparita dal volto pallido; era la copia del Luzhin che era stato cinque anni prima, ma stavolta Harry non ne fu inquietato. Ne fu amareggiato.

John Doe è il suo molliccio personale. E come potrebbe essere diversamente? Incarna tutto ciò da cui è scappato.
“Sören.” Il tono di voce di Nora era formale, ma comunque tinto di un affetto che non voleva nascondersi e Harry, per la prima volta da quando conosceva il ragazzo, fu felice che la strega lo avesse preso a cuore.  
“Comandi, Capitano.”  Rispose questo, il tono di voce controllato e propositivo; quanto doveva Occludersi per avere ragione delle sue paure?
“Sei assolutamente certo di aver riconosciuto il Camaleonte?” Andrò dritta al punto.
“Sissignore.” Fu la replica priva di incertezza. “L’identikit è fedele, si tratta di Johannes.”

“Un tuo parere sulla questione?”  
Il ragazzo serrò le labbra come se non fosse sicuro di poter davvero dar voce ai suoi pensieri. Harry immaginò fosse una cosa a cui doveva ancora abituarsi. “Johannes è nato come Mercemago.” Disse infine. “È cresciuto in seno alla Thule, ma privo di un ruolo definito. Si occupava degli affari sporchi di mio zio … È diventato col tempo il suo principale sodale, ma questo perché mio zio gli assicurava grosse entrate finanziarie e libertà di azione.” 
“Pensi quindi che adesso si sia legato ad un’altra organizzazione? O un altro mago?” Chiese Harry.
“Non lo escludo.”

“Avevi detto che era morto.” Esordì Ron, rimasto in silenzio fino a quel momento. “L’hai detto agli agenti tedeschi, no?”
C’era un’accusa dietro, e neppure troppo velata. Prince dovette coglierla perché il tendine della mascella scattò violento.

Ron, dannazione.
“Lo pensavo.”
“Non hai controllato?”
“Ero più occupato a salvare la vita di sua nipote.” Ribatté con uno scatto rabbioso che Harry si era aspettato, ma non Ron che lo squadrò come se gli avesse appena rivolto un affronto personale.
“E di chissà…” Iniziò. 
No, non riusciremo mai ad andare avanti così…
“Il punto è che è vivo.” Lo interruppe lanciandogli un’occhiata ammonitrice. “Per qualsiasi lavoro sia stato ingaggiato, chi l’ha fatto non dev’essere un mago da pochi galeoni, è corretto?”
Prince annuì. “Pochi maghi possono permettersi i suoi servizi.”
“Quindi chiunque lo abbia assoldato ha mezzi finanziari notevoli.”
“Se posso…” Aspettò un suo cenno prima di continuare. “Stilerò una lista degli alias usati da Johannes. Per i pagamenti potrebbe aver usato una banca magica.”
“Faremo controlli anche noi.” Gli fece eco Nora. “È una buona idea Sören, mettiti subito al lavoro.”
“Sissignore.” Rispose pronto il ragazzo. Sembrava che l’idea gli avesse dato forza perché uscì dalla stanza con un po’ più di colore addosso e l’aria meno stravolta. Quando si fu congedato, Harry si massaggiò la fronte, sentendo il lieve rilievo della cicatrice. Non avrebbe mai pensato che quella gestualità potesse diventare confortante.

“Questa non ci voleva.” Ron diede voce ai suoi pensieri. “Se è coinvolto quello psicopatico … Quant’è grave la situazione?”
La risposta di Nora non si fece attendere.

“Molto.”
 
 
Era come se qualcuno gli avesse costretto la testa sott’acqua. I rumori, le voci, i suoni tutti attorno a lui rimanevano un rumore sfuocato.
Johannes era ancora vivo; il braccio armato di suo zio, il mago con cui aveva lavorato per anni, rubando e uccidendo in nome della Thule, l’uomo che più di tutti aveva capito e sfruttato i suoi punti deboli … era vivo.
Se scoprono che mi crea problemi … il Capitano, Harry Potter … Mi considererebbero ancora una persona affidabile?
Dubitava che la risposta sarebbe stata affermativa.
“Ehi!” La voce di Malfoy che lo chiamava dallo stipite della porta lo riscosse bruscamente. “Sei qui allora.”
“Mi sto preparando del the. Ne vuoi?” Ottimo, il tono era fermo come avrebbe dovuto.

“No, grazie. Se ne bevo più di due tazze mi agito e comincio a diventare molesto, secondo l’opinione comune.” Gli sorrise avvicinandosi e saltando sul ripiano accanto a lui con l’agilità di un gatto.
Rimasero brevemente in silenzio, ma alla fine l’altro lo ruppe per chiedergli quello che voleva evidentemente sapere da quando era entrato nella stanza. “I Capi ti hanno fatto il terzo grado?”
“Mi hanno chiesto di confermare l’identità del ladro.” Replicò ma poi vedendo che l’altro non era soddisfatto dalla sua risposta, soggiunse. “Devo stilare una lista di tutti gli alias di John Doe, può aver aperto un conto a nome di uno di essi per farsi pagare la … prestazione.”
“Cioè il furto?”
“Il furto.” Confermò.
“Pensi abbia aperto un conto alla Gringott?” Malfoy aveva tutte le ragioni a fare domande, tuttavia dovette reprimere l’irritazione.

Non può aspettare che lo dica davanti agli altri?
Ignorarlo sarebbe però stato scortese, e non gli sembrava il caso dato che era l’unico che si fosse sempre comportato in modo corretto ed amichevole con lui. Non voleva rischiare di rovinare tutto con uno scatto di nervi. “Forse una banca straniera …” Ipotizzò. “Forse addirittura Babbana.”
“Mai cose semplici.” Commentò l’altro schioccando la lingua. Gli lanciò poi un’occhiata di traverso. “Tu … stai bene?”

La domanda lo spiazzò. Era sincera però e gli doveva dunque una risposta. “No.” Tolse il bollitore dal fuoco e si versò una generosa tazza di Earl Grey, unico the presente nella dispensa. Non gli piaceva granché. “Johannes … o come lo chiamate voi, John Doe … è un mago che avrei preferito saper morto.”
“Come non darti ragione.” Sospirò. “Hai … lavorato …” Apprezzò il tentativo di farla sembrare una cosa normale. “… con lui, vero?”

“Da quando ero bambino.” C’era un modo per non provare quella nausea feroce all’idea di aver aiutato Johannes a compiere la triste serie di atti per cui era famoso in tutto il Mondo Magico?
Temo di no.
“Lo conosci bene allora.”
“Come si può conoscere un uomo che finge di esserne dieci.” Replicò con un sorrisetto amaro; nessuno sapeva davvero chi era Johannes, neppure la famiglia che gli aveva dato i natali. “Non abbiamo nessun vantaggio su di lui, se è questo che speri. Saprà già che stiamo conducendo le indagini.”

“Intendi proprio noi?” Soffocò un’imprecazione. “Ne sei sicuro?”
“Conosco il suo modus operandi. Sa sempre chi è il suo antagonista.”
Malfoy gli lanciò una lunga occhiata valutativa. “Sei pallido come uno straccio.” Stimò estemporaneo ma neppure troppo; sembrava che la sua capacità di osservazione andasse oltre i suoi doveri di auror. “Dovresti prenderti la giornata libera.”

Ha capito come mi sento?
Era un Occlumante come lui dopotutto. “È quel che mi è stato detto di fare.” Posò la tazza sul ripiano ancora piena di the bollente. Davvero, non gli piaceva quell’Earl Grey. “Sai dove posso trovare un Accademia di Duello?”
“C’è quella a Diagon Alley, e come agente di Polizia Magica puoi entrare senza bisogno di iscriverti, perché?”
Provò sollievo a quella notizia; svuotarsi la testa dai brutti pensieri attraverso la bacchetta era ciò di cui aveva bisogno in quel momento. “Voglio andarci. Puoi darmi l’indirizzo?”

L’auror parve capire al volo, perché non commentò. “Non serve è proprio accanto al Paiolo Magico. Però stasera ci vediamo alla mia festa?”
Non era affatto dell’umore, ma Milo gli aveva detto che certe manifestazioni sociali non potevano essere accantonate, neppure quando si aveva il profondo desiderio di rimanere soli. “Certo.”
Il biondo gli diede una pacca sulla spalla che si impose di non vanificare spostandosi o irrigidendosi.
È un gesto amichevole, idiota. Non vuole farti del male.
“Sta’ tranquillo Sören.” Disse con un tono che doveva essergli valso l’appellativo di persona affidabile. “Prenderemo quel bastardo.”
Non credo.

Non espresse parere, limitandosi a lasciare la stanza: l’Occlumanzia non bastava più.
 
****
 
San Mungo. Ora di pranzo.
 
“Pensavo fossero passati.”
Esordire con un tono lamentoso e debole era l’ultima cosa che voleva, tuttavia l’unica che le riusciva di fare; aveva passato la mattinata a rifugiarsi sul terrazzo – il punto più luminoso dell’ospedale - senza riuscire ad avere un solo pensiero sensato in testa.

Non possono ricominciare. Non adesso. Non adesso che sto bene.
La Guaritrice Patil si limitò a lanciarle un’occhiata da dietro la sua scrivania. “Sai bene quanto me che non esiste cura, per quanto efficace, che dia effetti definitivi. Non la abbiamo noi maghi, non la hanno i Babbani.”
“Lo so.” Serrò appena le labbra. “Ma avevo fatto progressi. Ne ero fuori!”
“E lo sei.” Convenne pacata. “Sei una persona molto diversa dalla ragazza che ho incontrato nel mio studio quattro anni fa… Spero che tu ne sia cosciente.”

“… Certo.” Guardò fuori dalla vetrata; era un ufficio arioso, quello della Guaritrice Patil, pieno di luce e mobili chiari. L’aveva fatta sentire a suo agio sin dalla loro prima seduta. “È solo … è trascorsa una settimana e pensavo …”
“La mente umana non ha scadenze. Ha tempi di reazione che variano da persona a persona.” Le fece notare passandosi le dita sul vezzo di perle che aveva al collo, l’unico gioiello che la natura austera della sua personalità le aveva concesso. “Parlami di quello che è successo.”
“Lo sa cos’è successo. A Londra non si parla d’altro!” Ritorse bruscamente. Arrossì quando capì che non era un resoconto giornalistico quello che le chiedeva, ma quello che era successo a lei.  

“Quando c’è stato il black-out … Mi sono controllata.” Esordì. “C’era … mio fratello, c’era Al. Stavo per andare nel panico quando è arrivato. E poi dovevo badare ai pazienti. Mi sono tenuta occupata, in quel momento non pensavo … Non pensavo a me.” Spiegò precipitosamente, mangiandosi le parole, ma non importava. Con una Psicomaga per fortuna non importava mai.
“Pensavi ai pazienti e a tuo fratello.” Ripeté la donna. “E poi?”
“Poi sono arrivati gli auror e…” Si bloccò. L’altra sapeva di Sören, ne avevano parlato a lungo dato che era stato spesso parte dei suoi incubi e inevitabile personaggio recitante dei suoi traumi.

Solo che non le ho dato l’ultimo aggiornamento.
“… e Sören.” Mormorò.
“Sören Prince?” L’espressione di sorpresa fu comprensibile ma non vide nient’altro. Una delle cose che più apprezzava della sua mentore era il non gettarle mai addosso i suoi sentimenti. Riusciva a tenerli per sé non con l’Occlumanzia, ma con una predisposizione naturale a non lasciar trapelare niente di ciò pensava: era un pregio nel loro lavoro.
Un’Occlumante Naturale, in un certo senso. Se esistessero, sarebbe una di loro.
“Adesso collabora con l’ufficio Auror per un'indagine.” Spiegò stringendosi nelle spalle. “Non sapevo fosse qui finché non me lo sono trovato di fronte, in pratica, ma…”
“E come ti senti?”

Lily esitò, poi scosse la testa optando per la brutale verità. Non aveva mai avuto paura di offendere o turbare i sentimenti di nessuno in quell’ufficio. Neppure i suoi. “Confusa. Preoccupata e … spaventata, anche.” Si passò le dita trai capelli, chiudendo gli occhi e sentendoli bruciare. Nei suoi piani avrebbe dovuto passare la mattinata a dormire, ma così non era stato. “Sono contenta di vederlo, certo, ma non so come comportarmi. Abbiamo mantenuto i rapporti, ma finché erano su carta era … semplice.”
“Era una giusta distanza?”

“Era l’unica che pensavo di poter sopportare.” Confessò. “Adesso non posso permettermi il lusso di scegliere. È qui e mi ha chiesto di vederci ancora.”
“Vuoi vederlo?” Erano le stesse domande che si era fatta e che le erano state fatte. La differenza era che nel tono della Guaritrice non c’era pregiudizio o morbosa curiosità.

Sono solo domande.
“Sì. Ma non è solo questione di volontà, credo…” Aggrottò le sopracciglia, mentre un pensiero orribile, sbagliato le si affacciava alla mente. Non era la prima volta che usciva fuori, durante quella lunga mattinata, ma stavolta aveva qualcuno con cui affrontarlo quindi lo tirò fuori, all’impietosa luce del sole. “Pensa che Sören possa essere la causa scatenante?”

La strega inarcò le sopracciglia. “Tu cosa pensi?”
“Lo sto chiedendo a lei!”
“Ed io non ho risposte a questa domanda.” Fu la replica inevitabile. Lily lo sapeva, studiava la Psicomagia e conosceva la strega di fronte a lei, eppure fu comunque frustrante.
Sarebbe bello se qualcuno avesse sempre la risposta che cerchi.
Quella giusta però.
“Beh, neanche io.” Mormorò guardando il London Eye stagliarsi nel familiare profilo della città. “O forse non voglio cercarla…” Dire certe cose ad alta voce faceva più male che Maledirsi con la propria bacchetta.
“Hai paura di Sören?”
La domanda la colpì come un pugno allo stomaco. Una parte di sé le imponeva di protestare e gridare con tutte le forze che no, non avrebbe mai avuto paura di quel ragazzo dagli occhi intensi e il cuore gentile, perché conosceva la sua anima e la apprezzava come poche. Un’altra parte di sé, la patetica ragazzina spaventata che era stata, non riusciva invece a chiarirsi le idee in merito senza aver voglia di raggomitolarsi da qualche parte e piangere.
“Ho paura … di quello che mi ricorda.” Mormorò infine, perché era un buon compromesso ed in fondo era vero.  
“Hai paura che Sören possa farti del male?”
“Non fisicamente, ma lo ha già fatto.” Abbassò lo sguardo, vergognandosi dei suoi stessi pensieri. “Voglio solo sbagliarmi.”
 
****
 
Diagon Alley, Appartamento Thomas Dursley e Albus Potter.
Sera.

 
Tom non apprezzava l’atmosfera che precedeva una festa.
Che la festa in questione si tenesse a casa sua – mai successo per fortuna – o che dovesse presenziare la sostanza non cambiava; detestava la prospettiva di passare un’intera serata lontano dai suoi libri e dalla sua musica in favore di un ipersocialità che non sarebbe mai stata nelle sue corde.
“Ma Mutti non è ancora pronto? Sono ore che è barricato in bagno!” Si lamentò Meike, in tenuta da concerto e dunque con troppa pelle esposta e troppo trucco. “Non è che ci è morto lì dentro?”
“L’unica cosa morta ce l’ha in testa.” Replicò facendola sghignazzare. Si sistemò la sottile cravatta nera allo specchio e considerò meditabondo l’idea di cambiare la camicia grigio fumo di Londra in una ancora più scura, per dimostrare cromaticamente il suo stato d’animo.

Il compleanno di Malfoy … Esploderanno cose e la gente finirà per togliersi i vestiti di dosso.
Se c’è una cosa che odio più dei grifondoro sono gli ex-grifondoro. Non c’è cura.
Meike lo distolse dalla tragica deriva dei suoi pensieri voltandolo e allentandogli senza troppe cerimonie la cravatta. “Guarda che non è mica un funerale, Ian Curtis.” Lo prese in giro ricordando ad entrambi il falso nome con cui si era presentato a lei e Cordula. “Lo sanno tutti che alla fine non ti fa poi schifo.”
Tutti si sbagliano.” Non vacillò, tirandole uno schiaffetto per liberarsi dalla sua presa spiegazzante. Si sistemò la camicia e chiuse i polsini che gli aveva dispettosamente sganciato. “E smettila di starmi attorno.”
“Ingrato… Cercavo di non farti sembrare un manichino.” Roteò gli occhi al cielo. “Ma dimentico sempre che solo Mutti può osare sfiorare la tua nobile pelle.”
“E anche altro.” Sogghignò facendola avvampare orripilata.

“Troppe informazioni!” Sbuffò buttandosi sul letto e dondolando le gambe. Sospirò: il suo folletto di Rügen era cresciuto per diventare una teppistella linguacciuta e con troppo kajal.
Poteva andare peggio. Poteva diventare come Lily.
“Anche se …” Esitò aggrottando le sopracciglia su cui brillavano i più lustri dei suoi piercing. “Lo sei più del solito.” Osservò.  
“Non direi, mi sento disgustato dall’umanità come sempre.” Motteggiò sedendosi sul davanzale per godere della poca brezza che quella serata aveva loro concesso.
Da quando fa così disgustosamente caldo in Inghilterra?
“Ed è affascinante, davvero.” Celiò Meike arricciando il naso. “Non è che tu e Al avete litigato? Devo preoccuparmi che i miei mutti e vati divorzino?” Sgranò gli occhi in un’imitazione passabile di cerbiatto ferito, sebbene in quella casa fosse Al il campione. “Mi farete passare un’adolescenza tormentata!”
“Mi pare tu faccia un’eccellente lavoro già da sola.”
“Quello che tu chiami periodo turbolento io lo chiamo avere una vita sociale.” Ritorse con una boccaccia, prima di tornare seria. “Va tutto bene, vero? Cioè … Al sta bene, no? Perché anche lui mi è sembrato un po’ fuori fase in questi giorni. È per quel che è successo al San Mungo?” 
Tom guardò fuori dalla finestra; da lì si vedeva un angolo di strada e persino il Finnigan’s: nei pochi secondi che lo fissò la porta dipinta di un acceso color verde questa si aprì per lasciar entrare almeno una mezza dozzina di persone.
Grandioso.
“Al sta bene. È abituato a rompersi la testa per mano di maghi psicotici.”
Sono io che non mi abituerò mai.
“Non pagherò per le tue consumazioni selvagge stasera.” Stornò il discorso. “Quindi vedi di non dimenticarti il portafoglio.”
“Ci pensa Scorpius a pagarci, bacchettone! Noi suoniamo, lui sgancia. Accordo vecchio come il mondo.”

Il campanello della porta le evitò per un soffio uno scappellotto, dato che si precipitò ad afferrare chiodo di pelle e custodia del basso per raggiungere Louis e il resto degli amici venuti a prenderla. “Ci vediamo dopo, Signor Misantropia!” Gli gridò prima di sbattersi rumorosamente la porta di casa dietro.
Quindicenni.
Tom tornò alla finestra, lasciando che Zorba gli saltasse in grembo e pretendesse la sua quotidiana dose di vezzeggiamenti.
Al sta benissimo, sì. Ha un obbiettivo. Sono io che vorrei Maledirlo per le sue idee imbecilli.
Non poteva mostrarsi però apertamente contrario; cinque anni prima aveva imparato che scontrarsi in campo aperto con l’altro era una partita persa in partenza.
Come ogni Potter che si rispetti odia sentirsi dire che sta sbagliando.
Se Al avesse fiutato il suo opporsi avrebbe finito per nascondergli delle cose e cercare di minimizzarne altre. La sola idea era sufficiente a farlo infuriare.
Non fasciarti la testa prima di essertela rotta. Non ha trovato ancora il momento giusto per parlare il Capo Guaritore ma quando lo farà, dovrai solo lasciare che l’antipatia di quell’uomo faccia il suo corso.
La porta del bagno si aprì e Albus, neppure i suoi pensieri l’avessero richiamato, uscì.
Due ore e mezzo. Neppure Alicia ci mette tanto.
Sentì però un sorriso premere sulle labbra, perché il ragazzo stupendo che gli sorrideva di rimando era suo ed era una considerazione capace di soddisfarlo ogni singola volta, non importava quanto pessimo fosse il suo umore.
È mio.
“Due ore e mezzo.” Trovò giusto notificare.
“Colpa dei capelli corti.” Fu la spiegazione serena. “È sempre un inferno cercare di dargli un senso!” Gli si avvicinò e gli mise le mani sulle ginocchia, chinandosi per un bacio languido e spodestando così il gatto che miagolò infastidito. “Non è personale, Zorba. A giudicare dalla faccia del tuo padrone devo farmi perdonare.” Scherzò.
“Tu e il gatto conversate abitualmente?”

“Solo quando devo sottolineare chi appartiene a chi.” Tom gli passò una mano sulla stoffa sottile della maglietta che si tendeva su un fisico armonioso e asciutto. Mal sopportava il Quidditch che l’altro si ostinava a praticare nei fine settimana con i vecchi compagni di squadra, ma ne apprezzava gli effetti.
Al sospirò deliziato quando gli baciò la curva del collo. “Ehi, se è arrivato Lou a prendere Mei siamo davvero in ritardo.”
“Nessuno noterà la nostra assenza in quella bolgia dantesca. Abbiamo del margine ed io ti ho aspettato.” Mormorò tirandoselo contro per avere un accesso migliore a tutta quella pelle morbida e profumata di doccia.  

“Come se potessi affrontare da solo la temibile folla …” Sogghignò l’altro passandogli le dita trai capelli e serrando appena la presa, tra il fastidio e il piacere. Tom dovette ingoiare quelle che sarebbero sembrate impropriamente fusa.  
“Infatti eviterei. È un favore che faccio a te … e mi aspetto sia ripagato.” Sussurrò contro la pelle della sua clavicola nuda.
Tom sapeva bene di essere sistematicamente manovrato, con uno sguardo, un tocco o un
incresparsi malizioso delle labbra; Al non era mai troppo manifesto nei suoi desideri, per un irrisolto desiderio di essere studiato, investigato e infine scoperto – crescere in nel clan Weasley ti dava la malata idea di essere parte di un gruppo a scapito della tua unicità.
E Al è un individualista. Come me.
“Cos’è che vuoi?” Gli chiese infatti con un desiderio vorace annidato negli occhi verdi.
Indovina.
“Te.” Disse semplicemente tirandolo contro di sé. “Da sempre.”
Se doveva farlo desistere nell’insana idea di seguire il caso Flannery doveva iniziare colpendo i punti deboli. Sarebbe stato un compagno supportivo, sì. Ma alle sue condizioni.
 
 
****
 
 
Diagon Alley, Finnigan’s Wake.
Sera.
 
And this is me trying to be kind I want you to know
You seem to pardon all my favours now
Sometimes!


Le feste magiche inglesi ci provavano, bisognava dar loro credito di questo; si sforzavano di assomigliare a quelle Babbane, sia nella musica che nelle bevande dai nomi estrosi, ma mancavano sempre di qualcosa. Di stile, solitamente.
Milo dovette ammettere però che il compleanno a cui il principino era stato invitato – trascinandoci di riflesso anche lui – prometteva di esser decente. Se eri un tipo che amava scolarsi pinte su pinte ululando il ritornello di qualche canzone in compagnia di gente ubriaca quanto te, era la festa perfetta.
Posso essere quel tipo stasera.  
Il principino d’altro canto non sembrava pensarla come lui; era vestito e pettinato a dovere, ma aveva il viso grigiastro tipico dei suoi peggiori umori umbratili. Quel pomeriggio era tornato alla locanda sudaticcio e con gli occhi vuoti e non gli ci era voluto molto per capire che qualcosa era andato terribilmente storto.
Solo che quando sono riuscito a cavarglielo finalmente di bocca…
 
“Allora avevo visto bene.” Aveva commentato quando Sören, dopo essere tornato da una doccia gelida vista la pelle illividita, aveva vuota il sacco.
L’altro ci aveva messo qualche attimo per capire il significato della frase. “Sapevi di Johannes?”
“Non ne ero sicuro!” Aveva messo le mani avanti vedendo i lineamenti dell’altro accendersi di rabbia. “Ho fatto un paio di domande in giro e nessuno sembrava aver notato gente strana girare per i bassifondi, e quel tipo è un tipo da bassifondi, quindi…”
“Perché non me l’hai detto? Lavori per me, devi dirmi tutto!”

Tutto?” Aveva inarcato le sopracciglia. “Anche chi mi porto a letto?”
Con orrore aveva visto il braccio dell’altro emettere inquietanti scintille rosse. “
Non prendermi in giro.” Aveva ringhiato. “Rispondi. Perché non me l’hai detto?”

Merda. Okay. Momento verità. 
“Perché avevo paura di questa reazione!” Aveva sbuffato cercando di ignorare i campanelli d’allarme. Se fossero stati spaventati in due non sarebbe finita bene. “Avevo paura che tu perdessi la testa … e per qualcosa che non ero certo di aver visto. Volevo avere delle certezze prima di far rapporto, fammi causa!”
Il mago aveva serrato le labbra, prima di afferrare l’asciugamano che gli porgeva e strofinarselo violentemente sui capelli ancora stillanti acqua. Era una resa e Milo aveva tratto un sospiro di sollievo.
“Non ho perso la testa.”
Sì, certo.
Infrangendo una delle sue regole d’oro che recitava di non iniziare mai contatti fisici con gente che non voleva scoparsi, afferrò l’asciugamano e glielo strattonò via di mano. “Calmati.” Aveva detto. “Johannes è ancora vivo, e allora? L’hai preso a calci in culo una volta. Puoi farlo ancora.”
La linea tesa delle spalle di Sören era sembrata cedere leggermente. “Cosa ci fa qui?” Aveva sussurrato. “Perché è in Inghilterra?”

“Che ne so.” Si era stretto le spalle. “Lo scoprirete. Non è il vostro lavoro?”
“Sì.” Gli aveva scoccato un’occhiata valutativa. “Hai detto che hai chiesto in giro … A chi?”
“Gente.” Non si era sbilanciato. “Ho qualche contatto. Ce l’ho sempre, lo sai.”
“Continua a farlo.” Gli aveva ordinato prima di indossare i vestiti che gli aveva accuratamente preparato sul letto. Li aveva messi con furia, quasi fossero una punizione contro un crimine. “Continua a chiedere. Chiedi anche ai morti, se necessario. Devo sapere perché è qui.”
Non gli era restato che annuire.   

 
Poteva capire l’ansia, ma rompersi la testa in quel modo non gli avrebbe giovato.
Pensare ad altro invece sì.
Non era riuscito però a farsi dar retta e mentre entravano nel locale, Milo si chiese se non fosse il caso di riportarlo a casa.
Con un umore così è pronto per un funerale. E poi chi la regge la sua sbronza triste?
“Chi è il festeggiato?” Chiese lanciando un’occhiata complessiva; erano nel classico pub inglese, legno appiccicoso ovunque, musica assordante e bicchieri pieni di birra in dirittura di rovesciarsi. La fauna maschile però era passabile.
Abbastanza jeans stretti e bei sederi … Sì, c’è un buon margine di manovra anche per me.
“Scorpius Hyperion Malfoy.” Gli fu risposto con tono assente. “È l’ultimo erede dei Malfoy … una delle famiglie magiche più influenti d’Inghilterra.”
“Purosangue?” Indovinò. “Com’è allora che tutto qua grida Amiamo i Babbani?”

“È un tipo particolare.” Riassunse cominciando finalmente a guardarsi intorno. Era ovvio chi cercasse, dato che quel genere di evento attirava sempre un tipo particolare di ragazza.
E la sua Rossa è un animaletto da party tanto quanto me.
Lasciò quindi perdere la sua caccia per aiutare quella dell’altro, perché era un bravo ragazzo e perché soprattutto non vedeva l’ora di potersi sganciare. Non ci misero molto a trovarla; Lily Potter era in mezzo alla pista da ballo con un vestito che avrebbe seccato le ghiandole salivari a qualsiasi maschio eterosessuale dotato di occhi.
 
I'm a sober boy, you're a lonely girl
So let's give it up and stay out of each other's worlds!

 
Milo cercò di non ridere quando vide ogni tragicità eroica cancellarsi dalla faccia del mago, rimpiazzata dalla classica espressione ebete del ragazzo a cui era partito l’ormone.
Potrà dire a destra e a manca che la considera solo un amica, ma qui si tratta di chimica, di desiderio sessuale. E quella ragazzina è una calamita per la bava.
Grazie Rossa.
La ragazzina in questione ballava però allacciata ad una montagna di muscoli.
Mmh … dev’essere il ragazzo.
La cosa doveva averla notata anche Sören da come si irrigidì distogliendo lo sguardo.  “Ah, ecco Zenzero.” Indicò girando il dito nella piaga.
Ma ehi, è divertente.
“Zenzero?” Il tono di voce uscì strozzato, prima che si ricomponesse. “Di chi stai parlando?”
“Di Lily Potter.” Ghignò. “Trovo sia un nomignolo appropriato. Ragazze come quella … beh, pizzicano.”
“Non dire cose insensate.” Lo redarguì brusco mentre le guance sembravano prendergli fuoco. “Cercami piuttosto un tavolo.”
“La fai facile tu!” Sbuffò guardandosi attorno. “Non so se hai notato, ma sarà un miracolo se riusciremo ad arrivare al bancone per prendere da bere.” Si passò le dita trai capelli e sospirò. “Non possiamo aggregarci a qualcuno?”

“No.” Fu la risposta immediata, prima che facesse una smorfia rendendosi conto esser stato forse troppo tranciante. “Malfoy mi ha invitato, ma non sono in buoni termini con nessuno qui, lo sai bene.”
“E con Lily?”

Lo sguardo dell’altro scivolò di nuovo sulla pista da ballo, dove l’inglesina sembrava divertirsi un mondo a volteggiare tra le braccia del suo cavaliere. “Sta ballando, non voglio disturbarla…”
“Sei scemo?” Gli uscì naturale. “Dobbiamo passare l’intera serata a fare da tappezzeria perché non hai il coraggio di andarla a salutare e chiederle se possiamo sederci con lei e i suoi amici?”

Sören aggrottò le sopracciglia, serrando le labbra. “Tu non capisci.”
“Non rifilarmi lo sguardo da adolescente incompreso, perché hai venticinque anni, principino. Sei un po’ fuori fascia.”

“Ne ho ventitré.” Lo corresse sostenuto, come se dovesse passare i suoi giorni a contare quelli dell’altro.
“Quello che è. Vai a salutarla.”
“No.”
Dodici anni. Lavoro per un ragazzino di dodici anni che pensa che le ragazze abbiano appena smesso di avere i pidocchi per diventare santuari irraggiungibili. A meno che non gli si buttino addosso, ma non è il caso della Potter.

… quanto mi manchi, Boston.
“Allora sei da solo, bello.” Comunicò. “No…” Lo bloccò prima che potesse partire con la storiella che era compito suo occuparsi di quelle cose. “… non posso sempre pararti il culo. Mi paghi per lavarti le mutande, non per farti fare amicizia.” Ignorò l’espressione sconvolta dell’altro e si tuffò tra la calca.
Un giorno mi ringrazierai principino. Una statua. Davvero, sarò materiale da statua di bronzo.
 
Cause if I take your words in the song I sing,
Like the rock the paper, the scissors that sort of thing
The question is how long has it been since you've fell in love with a boy like me?


“Katy Perry.”
“Come scusa?”

“Prima … hanno messo Katy Perry. Oltre il tollerabile, me ne torno a casa.”
“Non ho idea di chi diavolo sia, Tom. Falla finita e dammi una mano a trovare Scorpius.”

A volte portarlo alla feste equivale a trascinarci un ippogrifo morto. Stessa verve.
“Ehiii!” Sentirono una voce squillante alle loro spalle, e Al dovette reprimere una risata quando vide l’espressione del proprio ragazzo mutare da morente a morente patibolare. A quanto sembrava Scorpius aveva trovato loro. “Ci sono i miei Serpeverde preferiti!”
Albus venne così strizzato in un abbraccio che lo staccò di qualche centimetro da terra. Si sarebbe arrabbiato per essere maneggiato come un pupazzo, se non fosse provenuto da quel ragazzone innocuo come un labrador. Lo ricambiò affettuosamente. “Buon compleanno Sy.” Lo salutò dandogli una pacchetta sulla testa. “Grazie per i preferiti.”

“Oh, in realtà lo siete tutti, voi verde-argento. Genetica!” Sogghignò mollando la presa e mostrando così la maglietta che indossava, recitante un ovvio ‘baciate il festeggiato’. Meno ovvia era la frase aggiunta sotto a pennarello ‘e sfidate l’ira della mia promessa sposa.
“Carino.” Commentò divertito. “È stata un’aggiunta tua o di Rosie?”
“Comune accordo!” Replicò  con un gran sorriso; Al ricordava come non avesse festeggiato fino al Sesto anno quindi non trovava esagerata quell’euforia alcolica.
Per anni ha avuto solo una cena formale con i suoi, Mike e Lo. È in debito.
“Rendi utili le tue feste imbarazzanti e trovaci un tavolo, Malfoy.” Lo apostrofò Tom, tenendolo fisicamente a distanza con una mano dato che l’altro sembrava intenzionato ad abbracciarlo. “E non toccarmi.”
“Un tavolo?” Ridacchiò l’altro scuotendo la testa. “Chiedi troppo, Dursley. Continua ad entrare gente e credo anche di aver calpestato qualche quindicenne mentre andavo in bagno. Sul serio, non è tutto meravigliosamente fuori controllo?” Cinguettò con gli occhi che gli brillavano.
“E non sono ancora le dieci. Meriti la palma per sobillatore dell’ordine comune.” Si inserì la voce di sua cugina, già sgocciolante via pazienza. “Violet ti sta cercando per darti il suo regalo da mezz’ora. Tra poco te lo lancerà in testa e considerando che è dall’altra parte della sala potrebbe uccidere qualcuno. Vieni?”
L’altro le passò un braccio attorno alla vita e le baciò la fronte. “Ricevuto, non vogliamo morti stasera.”
“Non li vogliamo.” Confermò sorridendo loro con aria falsamente esasperata; come tutti gli Weasley era cresciuta nel caos e quel genere di eventi non la sconvolgevano più di tanto.
Lo fa solo per farsi coccolare da Sy.
“È troppo chiedere un posto a sedere?” Le chiese vedendo che Tom cominciava a spazientirsi, e lui purtroppo non fingeva.
“Direi.” Convenne la cugina con aria dispiaciuta. “Credo che finirò io per sedermi sul registratore di cassa se continua con questo ritmo. Quanta gente hai invitato, demente?” Si rivolse al fidanzato che comunicava ad ampi gesti di prendergli da bere a qualcuno nei pressi del bancone; a giudicare dall’aggiunta di gesti osceni doveva trattarsi di James.
“Mah, chiunque.” Scrollò le spalle disinteressato, allungando una pacca ad un tizio che nessuno di loro aveva mai visto. “Ehi, non so chi sei, ma penso che tu voglia sapere che sono il festeggiato!”
“Tanti auguri amico!”
“Oh mio Dio…” Sussurrò Tom ormai sull’orlo di una crisi di nervi.

Rose dovette intuire lo stato d’animo di quest’ultimo, perché sbuffò indicando con un cenno verso il fondo della sala, dove i Banshees stavano finendo di cenare prima di montare la propria attrezzatura. “Provate a chiedere a Lily, ha un tavolo enorme vicino al palco.” Gli si rivolse. “Ha sempre la capacità di trovarsi uno scranno da cui fare la regina, quella stronzetta.” 
“Ricevuto.” Intrecciò le dita a quelle gelate del suo misantropo e gli sorrise incoraggiante. “Andiamo a vedere?”
“E chiuderci così ogni via di fuga? Un piano brillante.” Borbottò malmostoso. Quando però strinse la presa sulle dita fece una smorfia ed annuì.
Da quando è così accomodante? È sospetto.
Ignorò quel pensiero: al momento la cosa più sensata da fare era approfittarne senza farsi troppe domande.
Stasera voglio rilassarmi. Me lo merito. Ce lo meritiamo tutti.
“Ancora buon compleanno Malfoy!”
 
Take me with you when you go, I don't want to stay here alone
Remember when we were golden? Well, that was a long time ago…

 
“Stasera non ti fermi un attimo, eh?”
Lily rivolse un sorriso al suo ragazzo, che era dovuto rimanere in canottiera per evitare di avere un colpo di calore in mezzo alla pista da ballo.

Sapeva di esserne la responsabile, ma perché avrebbe dovuto sentirsi in colpa? Gli allacciò le mani dietro la nuca, puntellandosi sugli stiletto per baciarlo. “È quello che si fa di solito ad una festa, Scotty!”
L’ex-tassorosso sbuffò divertito, stringendosela contro. “È difficile starti dietro quando salti come un grillo, Lils.”
“Sei stanco?” Lei non lo era; si sentiva elettrica, come sempre le succedeva quando era in mezzo ad un caos di luci, suoni, colori e persone. Se non era il suo ambiente naturale quello, beh, ci andava maledettamente vicino.

Ne avevo bisogno. Bel tempismo, Sy.
“Non sono mai stanco di averti tra le braccia.” Rispose preparato. Era un ragazzo sveglio. “E devo ammetterlo…” Si guardò attorno. “… Malfoy sa come organizzare una festa. Di questa se ne parlerà per settimane.”
“Oh, ha imparato dai migliori. E con migliori intendo la mia famiglia.” Gli strizzò l’occhio. “Vuoi tornare al tavolo e bere qualcosa? Reintegrare liquidi?” Lo punzecchiò.

“Idea meravigliosa.” Convenne passandole un braccio attorno alla vita per allontanarla gentilmente dall’ennesima canzone trascinante. “Speriamo di averlo ancora, il tavolo…”
“Ho messo a presidio Hughie, morderà chiunque si avvicini … Andiamo al bancone ad ordinare!” Lo rassicurò, guardandosi attorno per trovare il passaggio migliore per arrivare a destinazione.
E poi il mondo diede una brusca frenata.

Sören era appoggiato alla balaustra del piano superiore, quello dell’ingresso e del bancone. Era lui, nessun dubbio persino in mezzo a tutti quei volti; fumava una sigaretta assorto nei suoi pensieri e sembrava impermeabile all’atmosfera che lo circondava, come un ritaglio incollato in un quadro che non gli apparteneva.
Ren? Cosa ci fa … oh, certo. Malfoy ha invitato tutta l’Inghilterra magica e non. Perché non lui?
Ciao Ren.
A quel punto i loro sguardi si incrociarono, perché lo facevano sempre, indipendentemente da quante persone ci fossero tra loro a far muro. L’altro fece un cenno impacciato con la mano e tentò un sorriso. Ricambiò automaticamente. “Scott?” Chiamò il suo ragazzo. “Ci vediamo al tavolo, devo andare a salutare una persona.”
“Mh?” L’altro parve cogliere qualcosa nella sua espressione perché aggrottò le sopracciglia. “Chi?”

“Sören.” Disse semplicemente perché era semplice, non importava l’espressione che aveva appena messo su l’altro.
“È qui?”
“Sy l’avrà invitato, lavorano assieme.” Rispose stringendosi nelle spalle. Vedendo che non dava segno di allontanarsi capì. “Vuoi che te lo presenti?”
“Sì, mi piacerebbe.” Il tono dell’altro era gentile come sempre ma era anche macchiato di evidente desiderio di fare l’uomo della situazione.

Gli diede un bacio sulla guancia. “È tutto a posto ragazzone. Ren è uno dei buoni adesso.” Inarcò le sopracciglia. “Te lo presento, ma tu devi fare il bravo… Ha ricevuto già troppi pesci in faccia.”
“Sarò bravissimo.” Confermò poco convincente ma era comprensibile, quindi non protestò e lo portò verso l’argomento di conversazione in persona.  Si incontrarono a metà strada dato che Sören si mosse verso di loro.

“Ciao Lilian.” La salutò, trincerato dietro il muro di Occlumanzia più massiccio che avesse mai visto.
Come mai adesso? È per la festa, la gente? Ho capito solo che il vestito ha fatto colpo, ma grazie tante, è fatto apposta.
“Ehi.” Salutò sentendo la presenza massiccia di Scott alle sue spalle mentre le posava le mani sui fianchi. Era come avere una specie di orso bruno che la considerava una delle sua cucciolata. Sarebbe stato esilarante se non si fosse sentita così stupidamente nervosa. “Precettato per la festa anche tu?”
“Malfoy mi ha invitato, quindi sì.” Convenne lanciando un’occhiata alle sua spalle e dunque allo scozzese. “Scott Ross immagino.” Gli tese la mano con la cortesia un po’ fuori moda che Lily ricordava usasse quando si sentiva a disagio. Più era convincente più era sulle spine.

Occlumanzia … cortesia … Molto a disagio.
“Sì, il suo ragazzo.” Sottolineò e forse non era necessario, ma Lily glissò. Erano rivendicazioni testosteroniche e la sapeva più lunga che defletterle. “E tu devi essere Sören. Lily mi ha parlato di te.” L’aspetto che più apprezzava del suo ragazzo era la capacità di essere cordiale con chiunque, indipendentemente dai suoi sentimenti personali. Scott rispose infatti alla stretta di mano come se fosse un autentico piacere aver a che fare con lui e Sören, che vi credesse o meno, si rilassò visibilmente. “Stavamo andando a prenderci qualcosa da bere … Com’è al bancone?”
… Troppo dialetto, troppe metafore.
“Come scusa?” Sören lo guardò perplesso prima di lanciarle un’occhiata confusa e desiderosa di spiegazioni.
“Si riesce ad ordinare al bancone o c’è troppa gente?” Tradusse divertita. “Scotty, non lasciarti ingannare dal suo ottimo inglese, il ragazzo è tedesco fino alla punta dei capelli!”
“Non si direbbe, non dai capelli. I tedeschi non sono tutti biondi?” Replicò ironico. “Scusa comunque, mi scordo sempre che il mio inglese non è esattamente quello della Regina.”
Sören tentò un mezzo sorriso nervoso. “Non è un problema. Vivo in America, ho sentito di peggio.” Si voltò verso il bancone, tornando alla domanda che gli era stata posta. “Ho mandato Milo a prendermi da bere quindi non saprei.”
“C’è anche Milo?” Fu contenta che non fosse venuto lì da solo. Non aveva mai capito con esattezza la natura dei rapporti trai due, ma sapeva che il Magonò si occupava dell’altro abbastanza per essere un punto di riferimento.

“Potevo portare una persona … La scelta non poteva cadere molto lontana.” Si strinse nelle spalle. Calò quindi il silenzio, fortunatamente ovattato dalla musica e dal rumore delle chiacchiere altrui. “Vi lascio alla vostra serata. È stato un piacere, Scott.” E prima che potesse avere il tempo di dire o fare qualcosa, l’amico si accomiatò e sparì tra la calca di persone.
Ma che cavolo …
Inspirò quando sentì le labbra del suo ragazzo sulla fronte. Dovette frenarsi per non scostarsi. “Va tutto bene?” Le chiese con aria preoccupata.
“Sì, certo. È stato … strano, tutto qui.” Sospirò. “Devo ancora abituarmi a trovarmelo davanti.”
“Ti ha dato fastidio?”
“No!” Lo guardò confusa prima di realizzare il motivo della domanda. “Perchè, ho dato quest’impressione?”
Scott si strinse nelle spalle. “Sei stata un po’ fredda.”
… ecco perché se n’è andato. Come riesce a sentirsi indesiderato lui…

Dannazione.
 
Excuse me if I spoke too soon
My eyes have already followed you around the room
I'm holding on and waiting for the moment to find me

 
La faccenda aveva del ridicolo. Se era stata fredda, non era stato perché la presenza del vecchio amico l’aveva infastidita, tutt’altro. Era stato perché, per l’ennesima volta, non aveva saputo cosa fare di tutte le sensazioni che l’avevano travolta come un Centauro infuriato.
“Scotty?” Richiamò l’altro. “Ti secca se vado a cercarlo?”
L’altro fece un mezzo sorriso e scosse la testa. “No che non mi dispiace … Solo non passare tutta la serata a preoccuparti di averlo fatto restar male.” Fermò le sue proteste. “È un mago adulto e a quanto mi hai detto ti conosce. Capirà.”
No che non capirà. Non ti sei reso conto che era solo? È sempre così, e io l’ho mandato via.
Non lo disse però perché a dare spiegazioni quando aveva l’urgenza di far altro non era mai stata brava.
Preferì invece ringraziarlo con un bacio. “Ci vediamo dopo.”
 
I know you didn’t realize that the city was gone
You thought there would be advertisements
To give you something to go on

 
“Ho finito le sigarette.”
Dirlo a Loki era come parlare ad un muro. L’altro ragazzo infatti si voltò a malapena, ridacchiando di qualcosa che la tizia sulle sue ginocchia gli aveva detto. “Mio buon Mike, vuoi il mio tabacco?” Chiese togliendosi la pipa di corno dalle labbra.
“Il tuo tabacco ha un gusto atroce.” Sbuffò Michel. “No, vado a comprarle. Non mi va di elemosinarle in giro.”
“Bel problema quando a fumare quella roba orribile siete solo tu e i Nati Babbani, non è vero?” Ghignò Violet sorseggiando il suo Melatini con una certa, femminea perfidia. Era questo il lato che più apprezzava di lei, oltre all’occhio che aveva per la moda; dubitava che esistessero altre Purosangue educate come tali capaci di indossare un mini-abito di Alexander MacQueen come se fosse una cosa che facevano da tutta la vita.

Mi fa quasi dimenticare il suo cattivo gusto in fatto di donne, cioè la … cosa … che tiene nel letto.
La suddetta Cosa, che aveva invaso il tavolo di boccali di birra dozzinale, gli rivolse un ghigno. “Sei assurdo, lo sai cioccolatino?” Disse. “Fai tanto il sang-pur e poi ti incatrami i polmoni con roba Babbana!”
“Nicky, tais-toi…” La riprese blandamente Violet. “Lascialo nei suoi controsensi ipocriti.”
Michel roteò gli occhi  al cielo, rifiutandosi di registrare il commento come un’offesa.
Però ha ragione. Fumi sigarette Babbane e ti porti a letto Magonò.
… Sì, ma quest’ultimo non era previsto.
“Tenetemi il posto.” Raccomandò sperando che il messaggio fosse chiaro alle due, se non a Nott.
Scivolò in mezzo alle persone, registrando visi sconosciuti e poi, perché una serata al Finnigan’s non poteva esser altro che foriera di malessere, vide Albus nei pressi del bancone, ridacchiare con la fronte reclinata sulla spalla ossuta di Dursley: da come lo tirava sembrava cercare di portarlo a ballare.
Dieci Galeoni che alla fine ci riesce.
 
We can’t escape the basic facts how cold it can get
There’s nothing to protect ourselves  when the rain gets us wet

 
Per quanto non avesse mai smesso di pensare che Albus era sprecato con Thomas, non poteva non notare la spontaneità con la quale si toccavano e come il viso torvo di quest’ultimo si addolcisse quando posava lo sguardo sul compagno. Sin da quando erano bambini si erano ronzati attorno, cercati e ancor prima che lo sapessero, amati. Chi meglio di lui, che era stato spettatore della loro storia, poteva saperlo?
Qualcuno ti ha mai guardato così? Non con lussuria, desiderio o passione … ma con amore.
Fece una smorfia, scacciando quella deriva di pensieri. Sarebbe stato più semplice se i suoi sentimenti verso Albus si fossero spenti anni prima, di fronte all’evidenza che non avrebbe mai potuto averlo.
Non come lo ha Dursley almeno.
Era innamorato di Al? Naturalmente lo era, lo era sempre stato. Gli era chiaro di non avere speranze? Certo, dallo stesso lasso di tempo, da quando aveva capito che dove c’era il secondogenito dei Potter c’era inevitabilmente anche un ragazzino torvo che gli stava dietro come un’ombra.
C’erano teorie secondo cui per ogni persona al mondo ne esisteva un'altra, sua esatto complemento.
Ed io non sono quella di Albus Severus Potter.
Si infilò le mani in tasca ed uscì dal locale prendendo un grosso e grato respiro, dato che l’aria calda della sera estiva era un venticello fresco rispetto al magma bollente all’interno del pub.
Sigarette.
Gli era stato detto come ci fosse una sorta di emporio Babbano a Notturn Alley, messo su dal niente ma con una vasta selezione di vizi, dall’alcool ai tabacchi.
Meglio che mi sbrighi. Se mi perdo il taglio della torta Scorpius sarebbe capace di mettersi a piangere.
È talmente sentimentale…
Ci mise una manciata di minuti irritanti per trovare il posto, incuneato tra una taverna e un palazzo in rovina. Entrando si coprì il viso con un fazzoletto; il tanfo di miseria aleggiava su tutto dandogli la nausea, anche a causa della massaccia dose di shots che si era fatto in compagnia di Violet e la Weasley.
“Buonasera.” Apostrofò il ragazzetto brufoloso a presidio del posto. “Un pacchetto di Davidoff Light.”
“Come?” Chiese quello squadrandolo con grossi occhi bovini. Notò anche l’occhiata che lanciò al suo abbigliamento ma decise di ignorarla. “Che hai detto?”

“Sigarette.” Indicò lo scaffale. Vedendo che non recepiva sospirò. “Un pacchetto di B&H allora, sono quelle col pacchetto color oro.” Specificò vedendolo rovistare dietro al bancone senza speranza di trovarle.
Quando finalmente uscì la prima cosa che fece fu cercare l’accendino per accendersene una. Con sconforto si accorse di non averlo.
Deve avermelo sfilato Loki mentre ero seduto. Lo fa sempre.
Considerò di tornare dentro il negozio per acquistarne uno quando accanto a lui apparve un tipo coperto da un mantello estivo che sembrava però servire per ogni stagione a giudicare dall’usura. “Serve da accendere amico?” Indovinò, anche se il balletto di cercarselo nelle tasche doveva essere stato abbastanza esplicativo.
“No, grazie.” Non era così sciocco da fermarsi in quel genere di posto, specialmente con chi si prendeva troppa confidenza. Non era mai un buon segno. Fece per allontanarsi quando la strada venne sbarrata da un altro tipo, altrettanto cencioso.
Oh, fantastico.
“Non ho denaro con me.” Doveva trovare un modo per cavarsi d’impaccio da quella situazione senza tirare fuori la bacchetta; se suo padre avesse saputo che aveva duellato con gli amabili residenti di Notturn Alley non gli avrebbe dato pace per settimane.
Pensa al buon nome della nostra famiglia, Michel. Che diavolo ci facevi a Notturn Alley poi?
Il cencioso numero uno fece una smorfia derisoria mostrando carenze igenico-dentarie preoccupanti. “Ci prendi per il culo? Sei appena uscito dalla bottega di Swill!”
“E lasciatemi indovinare, vi ha avvertito il vostro amico Swill che sono pieno di grana?” Replicò sarcastico scimmiottando il cockney strascicato dell’altro. “Potrei far chiudere quella bettola fetida con un Gufo entro domani. Lasciatemi passare.”

Il cencioso numero due tirò fuori la bacchetta, puntandogliela contro e rendendo la cosa immediatamente più preoccupante. “Tira fuori la borsa frocetto, o l’ultima cosa che potrai fare domani sarà scrivere un Gufo.”
Michel lanciò uno sguardo dietro di sé e vide che anche l’altro mago aveva tirato fuori la sua. L’idea di perdere tempo  con quei due lo riempiva di rabbia, ma supponeva di non avere scelta. Fece per infilare la mano dentro la giacca, quando sentì un dolore lancinante ai reni. Si piegò in due, realizzando che il cencioso numero uno l’aveva colpito con un pugno ben piazzato, un colpo che non si era aspettato.
“Voi Nati Babbani del cazzo siete tutti uguali, sembrate cascarci tra le braccia! Non te l’hanno detto che Notturn Alley è un postaccio per quelli come voi?”
Come?!
L’equivoco doveva esser stato dato dai suoi vestiti, Babbani fino all’ultima fibra di cotone costoso. Non fece in tempo a protestare che il cencioso numero due gettò la bacchetta a terra; con sorpresa Michel si rese conto che era falsa come l’oro dei Leprecauni; era un prodotto dei Tiri Vispi, riconoscibile dal marchio sull’impugnatura.
Una bacchetta giocattolo? Ma allora sono Magonò!
Era caduto nel trucco come un idiota. I due lo afferrarono di malagrazia, trascinandolo nell’ombra di un vicoletto parallelo. Si divincolò cercando di sferrare pugni alla cieca, ma il risultato fu di farsi bloccare da quello più corpulento dei due. “Sta’ fermo stronzo!” Lo apostrofò rudemente mentre qualcosa di freddo, metallico e appuntito gli si appoggiò sulla guancia. Si immobilizzò, agghiacciato: quello di fronte a lui gli stava puntando addosso un maledetto coltello. “Scommetto che ci tieni ad avere la faccia che non sembra una grata metallica, ah?” Indovinò questo, forse il cervello del duo.
“Vi farò pentire di avermi toccato, feccia!” Gli sputò addosso, umiliato perché terrorizzato. Capì subito di aver fatto un grosso errore quando il coltello dalla guancia si sposto sul collo, premendo talmente forte che sentì il dolore del taglio in prossimità della giugulare.
“Mi sa che ti sgozzo come un maiale.” Ringhiò questo furioso e la puzza di whiskey incendiario nel fiato lo identificò come piuttosto sbronzo. “Le lingue lunghe non mi sono mai…”
Non riuscì a terminare la frase che qualcosa lo colpì alla testa, facendolo chinare con un’imprecazione roboante. Michel vide con la coda dell’occhio qualcuno entrare nelle vicolo; capelli biondi e fisico ben piazzato. Ci mise più di qualche attimo a riconoscerlo.

E lui che diavolo ci fa qui?
“Ehi.” Sogghignò la sua ex-conquista di una sera, nonché Magonò. Lanciava e riprendeva quello che sembrava un ciottolo di ghiaia sottile e appuntita. Doveva averla presa dalla piazza poco distante. “Perché non lo lasciate in pace, eh?” Si rivolse al Cencioso Capo che non ci mise molto per decidere che la cosa migliora da fare era neutralizzarlo, caricandolo furiosamente a coltello spianato. L’altro però doveva esserselo aspettato perché schivò con facilità il fendente diretto orribilmente allo stomaco. Michel vide poi brillare un lampo argentato e il Cencioso soffocò un grido crollando in ginocchio, tenendosi la coscia.
È armato anche lui. Certo, ovvio, quale Magonò non lo è? Loro non possono usare la magia come arma di offesa.
Il tedesco si allontanò di qualche passo, con la lama in pugno, prima di farla rientrare nel manico con uno scatto. Gli lanciò un’occhiata spazientita. “Devo salvarti per caso, signorina?”
Come?
Realizzò di colpo che la presa sulle sue braccia si era allentata perché il Cencioso numero due aveva abbassato la guardia quando il primo si era accasciato a terra. Doveva approfittarne, subito. Sfilò quindi la bacchetta dalla giacca e si voltò quel tanto che bastava per puntargliela al petto.
Stupeficium!
Un lampo rosso dopo c’erano due corpi accasciati nel vicolo.
“Figlio di puttana!” Gridò l’accoltellato, ancora cosciente, in direzione del tedesco. “Sei uno di noi! Da che parte-”
Michel lo schiantò con autentica soddisfazione.
Il Magonò in compenso inarcò le sopracciglia. “Wow.” Commentò. “Ti eri accorto che non poteva muoversi, sì?”
“Sì.” Replicò rinfoderando la bacchetta. “E quindi?” Prese da terra il suo borsello, spazzolandolo dalla sporcizia. L’avrebbe potuto fare anche con la magia ma non si fidava delle sue mani in quel momento: tremavano troppo.
Dannazione. Potevo morire.
Realizzarlo gli fece girare la testa e dovette appoggiarsi al muro dietro di sé per non crollare vergognosamente con il sedere a terra. “Ehi.” Si sentì apostrofare e poi la mano dell’altro fu sotto il suo braccio a sorreggerlo. “Va tutto…”
Svicolò dalla presa. “Non ho bisogno d’aiuto!” Sibilò sentendo il viso accendersi di vergogna. 

Lo fissò perplesso, prima di fare una smorfia. “Non hai bisogno d’aiuto … da me?” Indovinò con un tono di voce che grondava sarcasmo. “Certo che sei proprio stronzo. Avrei dovuto farti riempire di legnate da quei due, sarebbe stata giustizia karmica!”
Michel si morse le labbra. “Avrei potuto cavarmela da solo.” Replicò sostenuto ma rimpiangendo al tempo stesso il tocco gentile di poco prima. Aveva paura di staccarsi da quel muro in autonomia.
Credo non mi reggerebbero le gambe.
L’altro si strinse nelle spalle, mentre l’espressione sarcastica non mutava di una virgola. Doveva in effetti offrire un ben misero spettacolo, pallido e tremante com’era. “Se lo dici tu.”
“Cosa…” Si passò la lingua tra le labbra, sentendole aride. “… cosa ti ha fatto cambiare idea?”
Perché mi hai aiutato se ti ho trattato come spazzatura?
“A differenza loro e tua, io sono un essere umano decente.” Persino alla luce malaticcia e lattiginosa delle lampade all’acetilene il biondo dei capelli dell’altro sembrava brillare, enfatizzato dalla t-shirt scura e dai pantaloni dello stesso colore.

“Io…” Era la prima volta si trovava in una posizione di debolezza così smaccata di fronte ad uno sconosciuto ed era frustrante; la sua solita sicurezza elegante sembrava essere stata sovrastata dalla sensazione orribile di un coltello alla gola. “ … volevo ringraziarti.” Terminò, perché andava detto. C’era un codice preciso quando qualcuno rischiava la vita per salvare la tua, ed intendeva rispettarlo.
Il biondo batté le palpebre sorpreso, prima di ghignare. “Allora quella bocca non serve solo per sparare stronzate razziste!” Gli si avvicinò di nuovo, fino a che non furono a pochi centimetri di distanza. Profumava di colonia costosa e di bucato pulito. La sua pelle aveva un odore inebriante.
Non ha senso. Lo ha?
“Che ci facevi qui?” Gli uscì poco intelligentemente, ma era l’unica cosa sensata a cui era riuscito a pensare, avendo quel corpo vibrante e caldo premuto contro il suo.  
 “La stessa cosa che ci facevi tu, avevo finito le sigarette.” Si voltò verso l’emporio. “Se è per questo ero anche alla festa di quel tizio matto.”
“Non ti ho visto.” Deglutì quando si specchiò nelle iridi dell’altro; erano castane, ma c’era qualcosa di dorato all’interno, qualcosa che aveva già visto, e non in un letto.

Com’è possibile? Prima di portarmelo a letto non lo conoscevo, ne sono sicuro.
Dove l’ho visto?
“Io però ho visto te.” Ignaro dei suoi pensieri, il Magonò piegò le labbra in un sorrisetto indolente. “Sei un pezzo di merda, ma sei uno schianto. Avrei voluto metterti le mani addosso, sai…” Si chinò per lambirgli l’orecchio con le labbra. Bruciavano. “… anche là in mezzo, con tutta quella gente.”
Michel percepì un principio d’erezione premergli lungo i pantaloni e soffocò un sospiro. Non era un ragazzino alle prime esperienze eppure di fronte a quel tipo vi regrediva inesorabilmente. Avrebbe dovuto scostarsi, ringraziarlo formalmente e andarsene con una dolorosa erezione tra le gambe.
Proprio no.
Afferrò una manciata di stoffa dalla sua maglietta e lo tirò giù per un bacio violento e senza garbo. L’adrenalina, lo sapeva come sportivo, giocava brutti scherzi. L’altro soffocò un ghigno sulla sua bocca, prima di ricordargli quando fosse dolorosamente bravo a mandargli il cervello in panne con la lingua, con le labbra e con le mani che gli afferrarono il basso schiena premendoselo contro.
Come esplose quel bacio però finì. Di colpo il biondo si staccò da lui, tenendogli una mano sul petto. “Scusa.” Disse con il tono di voce di un ragazzino che stava combinando una marachella e se la godeva fino all’ultima goccia. “Non mi scopo i Purosangue.”
Cosa?
Non fece in tempo a capire che diavolo stava succedendo che l’altro gli aveva già dato le spalle, incamminandosi tranquillo in direzione di Diagon Alley. “Tu!” Gli uscì strozzato. “Fermati!” Il tono imperioso suonò ridicolo alle sue stesse orecchie.  
Il Magonò si voltò quanto bastava per fargli vedere che se la stava ridendo. “Ce l’ho un nome, sai?”

“Milo.” Ricordò. Come avrebbe potuto dimenticarselo? La sua erezione aveva una memoria fotografica. “Non puoi lasciarmi così!” Poteva eccome, quindi cercò di essere razionale. “Sei … lo vuoi anche tu!”
“Certo che lo voglio, sono un ragazzo di sana costituzione e tu sei provocante come l’inferno.” Fece spallucce. “Non è questo il problema.”

“Allora qual è, di grazia?!” Nessuno l’aveva rifiutato con quella tranquillità. Mai.
Beh, tranne Albus. Ma Albus non è mai venuto a letto con me.
“Il problema non è il tuo corpo, maghetto.” Milo si picchiettò la tempia. “È la tua testa che non mi tira neanche un po’. Buona erezione!” Soggiunse allegro prima di voltarsi e tirare dritto. 
Michel non credeva nelle voci interiori e, in generale, nella coscienza; ma per la prima volta in vita sua ebbe la distinta sensazione che la suddetta gli avesse dato del coglione.
 
****
 
“Tra poco dovremo usare una scacciacani.”
“Eddai, Rosie! Che festa è, se non si rischia il collasso della struttura che la ospita!”
“Tu hai passato troppo tempo con i miei cugini.”
Scorpius ridacchiò, perché sapeva che dietro il cipiglio sconfortato della sua fidanzata si nascondeva divertimento perché Rose Weasley amava le feste rumorose esattamente quanto lui. La strinse a sé, mentre i Banshees facevano ballare e cantare l’intero pub.

 
Would you write? Would you call back baby if I wrote you a song?
I been gone but you're still my lady and I need you at home

 
“Mia amata rosellina… Ho passato tanto tempo anche con te.” Le baciò la punta del naso facendola ridacchiare, cullandola e sentendola sua tra le braccia: sul serio, come diavolo potevano i novelli sposi aver paura dell’avvicinarsi della data del proprio matrimonio?
Okay, quel giorno vomiterò e vorrò morire, ma ehi, quella è ansia da prestazione, non c’entra niente.
L’altra fece un sorrisetto, posandogli la testa sul petto. “Mh, anche questo è vero. A sentire tuo padre ti ho irrimediabilmente rovinato.”
“Oh, sono sempre stato favoloso di mio.” Scrollò le spalle. “Ci voleva però, no?” Soggiunse. “Questa festa dico … Son successe cose un po’ orribili e destabilizzanti.”

Rose alzò il viso e fece una piccola smorfia. “È vero.” Confermò. “Anche Teddy … con tutta quella faccenda del Mannaro.” Guardarono verso quest’ultimo che chiacchierava con Bobby Jordan e fidanzata. I capelli erano settati su un tranquillo celeste pastello, ma forse era dovuto al fatto che James ci stava passando oziosamente le dita. “Perché ho l’impressione che si stiano profilando casini all’orizzonte?” Mugugnò stringendosi a lui.
Le appoggiò una guancia sulla testa, sapendo che l’altra aveva una capacità tutta particolare di fiutare i guai. “Ssh, fingiamo che non stia accadendo. Carpe diem, no? Godiamoci l’attimo o roba del genere.”
“Molto Grifondoro, ma poco pratico.” Scosse la testa.

“Aspettiamo il matrimonio e scappiamo a Honolulu?” Suggerì.
“Ancora, poco fattibile.” Sospirò alzando gli occhi al cielo con una tragicità assolutamente comica. “Sai che finiremo sempre per preoccuparci, io e te. E rimanere a raccogliere i cocci di questo branco di pazzi.”
“Siamo le uniche persone sane qui attorno.” Confermò. “Il che la dice lunga.”
“Lunghissima.”
Scorpius le diede un bacio grato e innamorato, perché era la festa dei suoi ventidue anni e stringeva tra le braccia la strega più favolosa della sala, anche se aveva una famiglia che attirava guai come una calamita gigante e sfigata. Quando si staccò vide con la coda dell’occhio un paio d’occhi bastonati e capelli neri.

Tho, parli di guai e spunta Prince.
Il ragazzo era a bordo della pista e beveva la sua consumazione come se non la sentisse neanche, immerso nei suoi pensieri. Sembrava esser lì più per dovere che per vero piacere.
Certo che come non sa godersi la vita lui…
“Rosie, ti abbandono un attimo.” Avvertì l’altra. “Vado a fare i miei doveri di padrone di casa.”
“Tralasciando che non è casa tua ma un pub…” Aggrottò le sopracciglia e seguì la direzione del suo sguardo. “Hai invitato Sören?” Inarcò le sopracciglia, mentre il pregiudizio le esplodeva nello sguardo. “Perché?” Preferì però chiedere invece di accusare.

Ah, la mia bambina sta imparando. Non la cambierei per niente al mondo … ma certe sue eredità paterne, per Merlino, sì.
“Perché c’è, ed ignorarlo mi sembra brutto tanto quanto avercela con lui.” Spiegò stringendosi nelle spalle. “Se ci perdi tempo due minuti capisci che è un bravo diavolo. Ha solo frequentati cattive compagnie, tutto qui.”
Rose esitò, avvertendo il pesante sottotesto che le aveva appena sbattuto addosso. Fece un sospiro, alzando le mani in segno di resa. “Vado a controllare che nessuno si spogli o spogli qualcuno. Lily potrebbe fare entrambi.” Sbuffò facendolo ridacchiare. “Mi devi ancora molti balli Malfoy! Ricordatelo!” Lo accusò puntandogli il dito addosso.

Scorpius non poté fare a meno di sorridere. “Tutta una vita di balli, mia Rosey.” Quando fu certo di averla fatta letteralmente sciogliere se ne trotterellò via.
Prince se parve sorpreso di trovarselo davanti fece del suo meglio per non mostrarlo. “Malfoy.” Sorrise alzando il bicchiere. “Buon compleanno.”
“Grazie!” Come faceva qualcuno ad essere la rappresentazione stessa della mestizia quando c’era alcool gratis e musica dal vivo, per lui rimaneva un mistero.

Ma del resto io sono un tipo che si fa trascinare dalle cose. Anche troppo.
“Dov’è la tua dama?” Chiese scherzoso. “Ti avevo detto che ne potevi portare una, ma ehi, tu hai esagerato!”
L’altro lo guardò preso in contropiede, prima di capire lo scherzo ed arrossire come avrebbe fatto un dodicenne ritroso. C’era qualcosa di dolorosamente tenero in quel tipo dall’aria rigorosa. “Ho portato il mio servi…” Si bloccò, scuotendo la testa. “… il mio assistente personale. Ma adesso non so dove sia.”
Scorpius a quel punto ritenne inevitabile passargli un braccio attorno alle spalle. Era un po’ brillo, quindi lo si poteva perdonare per la confidenza eccessiva, no? “Non si passa una serata del genere da soli! Hai preferenze?”
“Prego?”
“Sulla ragazza!” Squadernò un ghigno, sperando con ardore che nessuno del Clan Potter Weasley fosse in ascolto. Rose odiava che qualcuno le ricordasse che non gli si era votato sin da tenera età e che c’erano state altre prima di lei. “Ci sono un sacco di tipe che conosco che farebbero follie per il tuo sguardo che conquista! Te le faccio conoscere, ed ehi, nessuna pressione!”
“Il mio cosa…?” Mormorò il tedesco sconcertato. “Malfoy…” Tentò.
“Dai, è un momento di maschia condivisione, dammi retta!” Chiocciò querulo trascinandolo via dalla sua triste posizione di stasi. “Che tipo di ragazza ti piace? Bruna, Bionda, Castana, lentiggini, senza … alta, bassa?” Snocciolò cercando di non ridere all’aria disorientata dell’altro. “Dai, qual è il tuo ideale? Tutti ne abbiamo uno!”

Prince aggrottò le sopracciglia, come se ci stesse riflettendo. “Tu ce l’hai?”
“La mia fidanzata, mi pare ovvio.” Rispose a colpo sicuro. “Beh?”
“Ce l’ho, certo.” Alla sua espressione incalzante capitolò con un sospiro. “È …” Si immobilizzò e Scorpius sentì tutti i muscoli tendersi di colpo per poi rilassarsi. “… Lilian.”
Lilian? È la piccola Potter?
Poi realizzò che la suddetta ce l’avevano davanti, sorridente e con gli occhi brillanti e accaldati. Avendo passato la serata a saltellare sulla pista da ballo era uno spettacolo piuttosto ovvio, ma comunque notevole.
Non. Guardarle. Le. Tette.
“Ehi.” Sorrise loro, sfumando un ghigno nella sua direzione. Beccato. “Buonasera splendori. Festa da sballo Sy, i miei complimenti.”
“Sempre a disposizione del divertimento Piccola Potter.” Le diede il cinque. “Dove hai lasciato il tuo gigante delle Highlands?”
“A tenermi il posto, la borsa e da bere.” Replicò con nonchalance, prima di occhieggiare Sören con qualcosa che sembrava, incredibilmente data la persona, timidezza. “Hai un momento Ren?”

“Sì.” Fu svelto a rispondere l’altro. Era sollievo quello che sentiva nel suo tono di voce? “Malfoy, ti dispiace…”
“No, per niente!” Scosse la testa. “Devo comunque andare a sedare la mia ragazza. Credo di averla sentita urlare contro Dom a proposito di non lanciarsi da palco o qualcosa del genere.” 

Lily gli rivolse un sorriso radioso. “Grazie, a dopo!”
Vide i due andarsene e si grattò la nuca, perplesso.
Ma ha salutato la Piccola Potter o ha ammesso che è il suo ideale di ragazza?
O entrambi?
 
Romeo, Juliet, balcony in silhouette
Makin o's with her cigarette, it's Juliet

 
Non riusciva a capire perché Lily fosse venuta a cercarlo.
Non che non gli facesse piacere, tuttavia pensava che dopo il mortificante incontro di poco prima non l’avrebbe più rivista per l’intera serata, se non di sfuggita, un lampo di fiamme in un nugolo di volti senza importanza.
Una cosa è vedersi da soli. Un’altra è farmi interagire con i suoi amici. Forse non vuole.
Lily si chiuse la porta del locale alle spalle, appoggiandosi ad una delle vetrate coloratissime con la schiena. Si voltò nella sua direzione e gli sorrise. “Ehi.” Esordì. “Mi sa che ti devo delle scuse.” 
 
She'll lie and steal and cheat, and beg you from her knees
Make you thinks she means it this time

 
Batté le palpebre, confuso, mentre pescava una sigaretta dal pacchetto. Dentro il locale la musica suonata dalla band stava sfumando in un’atmosfera intima, fatta per le coppie e per i discorsi a bassa voce.
“Per cosa?”
“Per … prima.” Esitò lanciandogli un’occhiata incerta. Stava tentando di leggerlo, riusciva a percepirlo anche senza tenere le difese dell’Occlumanzia alzate. “Scott mi ha fatto notare che sono stata un po’ fredda.”
Scott. Scott Ross, il tuo ragazzo.

Si sforzò di fare un sorriso disimpegnato, mentre sentiva i polmoni gonfiarsi di fumo. “Non mi è sembrato. A proposito, mi ha fatto piacere conoscerlo, state bene assieme.”
Scott Ross.
Era un uomo fortunato e sperava che se ne rendesse conto; perché riuscire ad arrivare alla confidenza di Lily, poterla tenere tra le braccia e farsi ammettere nel suo cuore doveva essere meraviglioso.
È meglio per lui che se ne renda conto.  
 
She'll tear a hole in you, the one you can't repair
But I still love her, I don't really care

 
“Grazie, ce lo dicono tutti. Anche se la differenza d’altezza secondo me è un po’ buffa.”
“Non ci ho fatto caso.” Aveva fatto caso ad altro; al modo in cui lo scozzese cingeva la vita morbida dell’altra, come le dita si posassero con sicurezza sullo stomaco piatto di lei.

Basta. Smettila.
Strizzò gli occhi, incolpando il fumo che l’aveva infastidito. “Lily, non devi preoccuparti … So che ci vorrà un po’ prima che tu ti senta a tuo agio con me. Lo accetto.” Fece una pausa, sforzandosi mantenere un tono neutro. “Se la mia presenza qui, stasera, ti ha in qualche modo turbato…”
“Ren, falla finita.” Tagliò corto brusca. “Hai il diritto di divertirti alla festa di Scorpius come ce l’ho io e mi fa piacere che tu sia qui, non è questo il punto.” Si passò una mano trai capelli, scoprendo il collo. Sören sentì la salivazione azzerarsi e si diede dell’imbecille. Quante volte l’aveva vista fare quel gesto cinque anni prima?

Cinque anni fa lei era una bambina e tu un disadattato. Non sapevi neanche cosa volesse dire approcciarti ad una donna. Starci assieme. Adesso è diverso. Adesso puoi immaginare come sarebbe chinarti e…
Inspirò, pregando Merlino che l’altra fosse troppo concentrata su di sé per badare a lui. Per fortuna sembrava di sì, perché si morse un labbro e lo guardò di traverso. “Tu soffri di incubi, vero?”
La domanda fu come una doccia fredda. “Sì.” Mormorò confuso. “Sì, ne soffro da anni purtroppo. Perché me lo chiedi?” Seppe la risposta non appena ebbe formulato la domanda. “Lily…”
“Sono tornati.” Buttò fuori stringendosi le braccia attorno al corpo, quasi l’aria tiepida della sera si fosse fatta gelida. “Stamattina … sono stata poco bene, mettiamola così.”

Fu come se qualcuno gli avesse tirato un pugno allo stomaco. “Per via del black-out?”
“Penso di sì.” Fece un sorriso nervoso. “Il buio … e poi come se non bastasse sono anche stata aggredita.” Si morse un labbro. “Scusa.” Scosse la testa, allontanandosi di qualche passo. “Merlino, scusa … Non so neanche perché te l’ho detto. Non sono affari tuoi, lo capisco e…” Cominciò a parlare come un fiume e persino dopo cinque anni ricordava come fosse il suo modo di mettere una barriera contro il mondo che le si stringeva addosso.
“Lilian.” Eliminò la distanza fisica tra di loro abbastanza per non essere invadente, ma neppure distante e gettò la sigaretta a terra perché forse l’odore poteva infastidirla. Quando fu certo che non sarebbe schizzata via, le posò una mano sulla spalla coperta dal leggero tessuto luccicante del suo abito. “Lily, guardami.”

 
It's better to feel pain, than nothing at all
The opposite of love's indifference


Altro pugno nello stomaco. Gli occhi della sua piccola amica erano grandi e spaventati. La sola idea di aver contribuito alla sostanza di quegli incubi gli faceva venir voglia di spaccare qualcosa a mani nude. “Stai dicendo delle sciocchezze.” Bisbigliò, perché certe cose andavano dette a bassa voce. “Sono affari miei. Sei mia amica, sei la prima amica che ho avuto al mondo.” Ed era vero, ed era una cosa che poteva dire, giusto? “Quello che ti fa star male sarà sempre una mia preoccupazione. Puoi dirmi tutto.”
Lily piegò le labbra in un sorriso piccolo e delicato, niente a che vedere con quelli che squadernava a beneficio delle masse. Amava quel sorriso, e pensava di averlo perso. “Ren il cavaliere…” Sospirò divertita. “È così che incanti le ragazze?”
Se dipendesse da me? Soltanto te. Ci sei sempre stata solo tu.
Era come avere un ferro incandescente ficcato nel cuore. Essere innamorati, per quanto ne sapeva lui, era tutto lì.
Per te, mio caro, sarà sempre tutto qui.
Perché l’amava. Cinque anni prima non l’aveva capito, non era arrivato a pensare che il grumo di sentimenti che gli si era incollato addosso come una febbre fosse amore. L’aveva realizzato quando aveva capito che nessuna donna, per quanto bella, intelligente e amorevole avrebbe mai potuto battere l’immagine di Lily che aveva scolpita nel cuore. L’aveva cercata nelle braccia di altre, le prime volte, prima di realizzare quanto non servisse a niente.
Nessuna è lei. E tu puoi avere chiunque … tranne lei.
Lily dovette leggere qualcosa nella sua espressione perché gli mise una mano sul braccio. “Scusa, dico un mucchio di sciocchezze quando sono nervosa. C’è qualcosa, vero? Anche tu stasera mi sembri un po’ fuori fase.” Per fortuna con i suoi poteri di LeNa non poteva arrivare fino a quel luogo nella sua testa. Quel posto segreto che aveva custodito per anni l’affetto di suo padre e che ora proteggeva anche lei. “È per il lavoro?”
“Non posso dirti come stanno andando le indagini, lo sai.”   
L’amica fece una smorfia amara. “Stanno diventando pericolose, vero?”  
“Lilian, non…”
“Io ti ho raccontato dei miei incubi, tu dimmi i tuoi.” Il tono era acciaio adesso, come lo era la sua espressione. “È questo che fanno gli amici, Ren.”

Vuotò il sacco. Non riuscì a frenare la corsa delle parole, del terrore che provava all’idea che la strada di Johannes fosse tornata ad incrociare la sua. Della paura che aveva di dover vedere il viso di un uomo che era il simbolo stesso dei suoi sbagli.
Se ne pentì nel momento stesso in cui finì di parlare; Lily era stata una vittima, e dai soprusi di quell’uomo orribile e di suo zio non si era ancora ripresa.
Te l’ha appena detto idiota. Perché le hai vomitato addosso i tuoi problemi?
Non ne ha abbastanza per colpa tua?
“Sören.” Si rese conto di aver abbassato lo sguardo solo quando mise di nuovo a fuoco il mondo. Lily gli aveva circondato il viso con le mani e premeva le dita fresche sulla sua pelle accaldata. “Va tutto bene.”
“Non va tutto bene.” Come poteva?
“No, è vero, va da schifo, ma ora sei tu che devi guardare me.” Obbedì e vide che non sembrava arrabbiata, paventata o tradita. Lo guardava … era compresione quella? Lo capiva?
Era sempre stata la più forte tra loro due.
 
Era uno schifo. Lily sentiva il cuore minacciarle di esploderle nel petto.
John Doe. 
Era spaventata, negarlo sarebbe stato stupido. Spaventata per James, Scorpius e Bobby … per Sören e chiunque avrebbe dovuto avere a che fare con quel mostro.  Ma non importava quello che provava lei, nella solitudine dei suoi pensieri.
“Siamo proprio messi male, io e te.” Sospirò passandogli le dita trai capelli: quando non erano imprigionati in un litro di brillantina Purosangue erano morbidi e lisci. L’altro socchiuse gli occhi, gradendo il contatto. Quando sembrava che il mondo ti crollasse addosso era un modo per stare meglio.“Se facciamo una prova, forse abbiamo paura anche delle nostre stesse ombre.”
“Lily…”
“Ma non importa.” Inspirò. “Non importa, perché siamo più forti di Johannes e di quello che ci succede quando ci addormentiamo, giusto? Abbiamo più coraggio di così.”
Aveva imparato in quei cinque anni che chiedere aiuto era sensato, mai stupido. Lasciare Sören a gestire da solo quel carico emotivo sarebbe stato crudele, insensato, quando l’altro pronto a farsi carico del suo.

Non ho paura di te. Non ho mai avuto paura di te. Ho paura delle stesse cose di cui hai paura tu.
Ho paura con te.
Realizzarlo faceva tutta la differenza del mondo. “Non … non lo so.” Le confessò. “Credo invece di essere un coda…”
“Non dirlo.” Lo fermò perché quella parola era orribile, era un insulto a tutto ciò che avevano passato. “Non azzarti a darti del codardo davanti a me. Non con quello che hai fatto.”
“Cos’ho fatto?” Fece una smorfia amara. “Cose orribili.”
“Mi hai salvata.” Sospirò. “Alla fine, Ren, mi ha salvata.”
Lasciò che le parole si depositassero tra di loro, che prendessero forma e importanza. Poi gli mise le mani sulle spalle, stringendo la presa. “Adesso ho bisogno di un abbraccio.” Lo avvertì perché era una cosa di cui in realtà avevano bisogno entrambi. Il modo in cui la strinse di rimando fu una risposta piuttosto ovvia.

“Grazie.” Lo sentì mormorare trai suoi capelli. Il respiro caldo le diede qualche brivido che classificò con certezza come logico. Era un abbraccio bello, saldo e Lily si trovò a inspirare l’odore della pelle dell’altro. Era assurdamente confortante.
“Siamo migliorati nel contatto fisico.” Lo prese in giro per stemperare l’atmosfera. “Una volta mi abbracciavi con le braccia ad un miglio di distanza l’una dall’altra!”
Sören riuscì persino a sorriderle quando si staccarono. “Non volevo fare brutta figura per quando ti avrei rivista.”
Morgana, è adorabile.

Stemperò il desiderio di abbracciarlo di nuovo – piccoli passi, era importante – con una scrollata di spalle. “Ti meriti un Oltre Ogni Previsione.” Si voltò verso l’entrata. “Per farmi perdonare di essere stata un’amica terrificante posso rimediare offrendoti una sedia, un drink e un po’ di chiacchiere assolutamente vuote?”
Sören stavolta sorrise sul serio e diavolo, se gli si illuminava lo sguardo.
 
So keep your head up, keep your love
Keep your head up, my love…

 
****
 
Note:

Non mi sembra vero, ho finito ‘sto capitolo! XD Devo ammettere che ci voleva, credo sia un buon punto di relax e anche di svolta.

La canzone che fa da apripista è questa.
Ho creato una playlist con le canzoni della festa, che comunque sono le seguenti.
Grace, The View
How Long, The View
Square Peg Round Hole, Wakey!Wakey!
If I Had a Gun, Noel Callagher’s High Flying Birds

Only The Horses, Scissors Sisters
Flapper Girl, The Lumineers
Stubborn Love, The Lumineers.

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Capitolo 17
*** Capitolo XVI ***


Capitolo XVI





It doesn't matter what you did, who you were hanging with
We could stick around and see this night through
(Young Folks, Peter Bjorn & John)
 
 
Londra, Mattina.
Casa di Roxanne e Dionis Radescu.
 
Svegliarsi il giorno dopo una festa come quella di Scorpius era sempre piuttosto orribile.
Lily si svegliò infatti con un’emicrania formato famiglia che le rimbalzava da sinapsi a sinapsi e con il braccio pesante del proprio ragazzo che le bloccava la respirazione. Scalza, sgusciò fuori dal letto tentando di non svegliare l’altro – anche se a giudicare da come era inerte avrebbe potuto innescare uno degli scherzi di suo zio George senza avere reazioni. Fu dunque in pieno stordimento che scivolò lungo il corridoio della gigantesca casa di Roxanne e Dionis alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti.
Salato. Ho bisogno di cibo salato e succo di arancia. Litri. Morgana, la mia testa…
Non ricordava quanto avesse bevuto, ma per dormire della grossa dati i suoi recenti incubi…
… molto. Limitiamoci al molto. Al locale e poi qui. Lily, cattiva cattiva ragazza.
Ricordava che la festa, come tutte quelle che coinvolgevano il suo multiforme clan, era finita a casa di Roxanne, quella tra di loro con più metri quadrati a disposizione e pochi problemi ad ospitare gente alticcia e schiamazzante.
Ehi, stiamo parlando della figlia di George Weasley, il magnate dello scherzo.
Aveva anche vaghi ricordi del fatto che Sören li avesse seguiti di buon grado dopo aver ritrovato Dionis, con il quale si era salutato amichevolmente.
Dion è sempre stato dalla mia parte se facevo il suo nome. In effetti, a ben pensarci, un po’ si somigliano. Rigorosi, bravi ragazzi.
Avevano quindi passato il post-festa sul grande divano del salotto a parlare e dare fondo al carrello della spesa – sul serio, un carrello – di bevande Babbane che Dominique aveva Materializzato dal 24/7 più vicino. A dirla tutta Sören aveva cercato del whisky e si era versato solo quello, ma non l’aveva giudicato nonostante fosse un alcolico da vecchietto: ognuno aveva i suoi modi per concludere la serata.
Era stato strano, ma bello; complice forse l’atmosfera rilassata e la notte fonda, nessuno della cerchia ristretta dei sopravvissuti al party era sembrato a disagio o infastidito dalla presenza del tedesco.  
È stata un bel fine serata … Sul serio.
Solo che non aveva memoria di come fosse veramente finita. L’ultima cosa che ricordava era di essersi accoccolata sul divano, cullata dalla voce dell’amico e di Scott, quest’ultimo seduto a terra, che discutevano di chissà quale libro complicato che entrambi avevano apprezzato. Aveva poi sprazzi di immagini dove qualcuno la prendeva in braccio e la portava a letto, sfilandole le stilettos con cura: a giudicare da chi si era ritrovata affianco quella mattina doveva essere stato Scott.  
Entrata in cucina fu graziata dal profumo di pancetta croccante e pane tostato. Roxanne in vestaglia, capelli raccolti e soprattutto cucinante era una visione paradisiaca.
“Meravigliosa cugina.” Borbottò tendendo le mani. “Ti amo.”
“Buongiorno Rossa.” Rispose senza distogliere gli occhi dalla cottura. “Sei la prima.”

“Ad amarti? Dion dissentirebbe.”
“Scema.” Sbuffò. “Intendevo a venir qui … Se non conti Malfoy.” Indicò qualcosa a terra e Lily, con una risatina, notò il biondo addormentato; stava russando della grossa, abbracciato a quello che sembrava un enorme cane di peluche.
Da dove diavolo l’ha preso? Meglio non chiedere.  
“Se sono la prima cosa vinco?” Chiese invece dirigendosi verso lo scaffale della dispensa dove era posto un perenne Incanto Refregerante – era come avere una versione magica di un frigo. Vi tolse la caraffa di succo d’arancia e meditò se scolarsela senza la mediazione di un bicchiere.  
“La possibilità di fare colazione in pace prima che i miei ormoni di donna incinta abbiano la meglio e vi cacci tutti fuori di casa.” Replicò l’altra con una serietà preoccupante, prima di stemperarla nel famigerato ghigno paterno. “Hai una faccia orribile.”
“Pozioni per alleviare le conseguenze del mio comportamento dissoluto?”
“Prima colazione, poi pozione.” Recitò automaticamente  e si scambiarono un sorriso; la citazione era tutta di nonna Weasley.
“Dovresti vedere Scotty comunque.” Esordì dopo qualche attimo di silenzio passato a bere salvifico succo. “Credo rimarrà clinicamente morto fino all’ora di pranzo. Per essere così grosso è un peso piuma, lo immagineresti mai?” Scivolò su una sedia, dando un calcetto leggero a Scorpius che grugnì, rigirandosi con uno sbuffo. “Bella festa comunque.”
Roxanne confermò con un cenno della testa. “Avrei voluto godermela di più.” Chiuse il fornello con un colpo della bacchetta e spedì la padella a servirle la colazione.  “Essere l’unica strega sobria della serata mentre persino tuo marito ormai risponde nella sua lingua madre?” Scosse la testa con una smorfia. “Non è divertente.”
“Sì, mi ricordo che ad un certo punto lo capiva solo Ren. Ha dovuto fare da traduttore.” Aggrottò le sopracciglia. “A proposito, è ancora qui? È rimasto a dormire?”  

“È stato l’ultimo ad andarsene, prima ci ha dato una mano a mettere ordine nel caos che avevate seminato.” Rispose puntellando le mani sul ripiano dei fornelli. “È un bravo ragazzo.” Osservò.
Lily sorrise, sentendo un piccolo, interno moto di trionfo.  
L’altra notando la sua espressione sbuffò. “Okay, avevi ragione.” Concesse. “Dion lo adora. Finalmente qualcuno che sembra esser piombato come lui da un romanzo di cappa e bacchetta.”
“Questi cavalieri senza paura. C’è da cadere fulminate, vero?”
Roxanne fece un mezzo sorriso schivo, il suo modo per mostrarsi innamorata senza venir meno alla sua fama di strega tutta di un pezzo. “Tu ne sai qualcosa.” Ritorse, ma lo fece senza troppi pensieri quindi Lily scrollò le spalle e le rispose con lo stesso sentimento.
“Già.” Diede una forchettata di pancetta e la masticò con voluttà perché era ciò di cui aveva bisogno.
“Scott ha dormito con te?” Le chiese poi con uno strano tono di voce che Lily non riuscì ad inquadrare.
Poteri di LeNa e post-sbronza non vanno d’accordo.
“Dove vuoi che abbia dormito?” Si strinse le spalle. “ È stato lui a portarmi a letto.”
“Veramente no, non ti ricordi? È stato Sören, Scott ti ha seguita dopo.”
Lily ricollegò di colpo le braccia salde, ma non massicce che l’avevano cinta nel dormiveglia, come le mani bollenti che le avevano sfilato le scarpe per metterle ordinatamente accanto al letto – Scott le avrebbe lasciate sparse per la stanza senza preoccuparsene troppo, disordinato come e quanto lei.
“Oh.” Non trovò di meglio da dire. “Gentile da parte sua.”
“Gli sei finita sulle gambe mugolando che avevi sonno, che avrebbe dovuto fare?”

Lily pregò un pantheon di divinità magico-babbane di non star arrossendo, perché il calore delle sue guance e l’espressione sbigottita di sua cugina non erano un buon segno. “Che altro ho fatto?” Chiese con tutta la nonchalance che poteva simulare.
Oddio, Scotty mi ucciderà. Cioè, non è geloso, e lo sa che divento espansiva quando bevo, però …
No, chi prendo in giro, non è per Scott. È per Sören. Chissà cosa avrà pensato!
Roxanne indossava un’espressione ilare che pochi erano in grado di farle fare: lei e le sue cavolate ne avevano la palma. “Niente di tremendo.” La consolò. “Era solo la tua solita sbronza con carenze affettive.”
“Che avrei dovuto evitare con un ragazzo che non è il mio ragazzo.” Borbottò trai denti finendo quello che rimaneva del suo succo. “Morgana, che imbecille!”
Roxanne si strinse nelle spalle, mettendo poi a cuocere uno sterminato esercito di uova: avendo vissuto per un periodo della sua vita con quel goliarda di Freddy Junior aveva imparato a gestire l’alba del giorno dopo meglio di chiunque altro e dai rumori che si sentivavano per la casa – imprecazioni e lamenti - il resto della truppa si stava svegliando. “Da quando ti fai problemi?” Le chiese. “Perché mi ricordo che la leggendaria pazienza del tuo scozzese emerge soprattutto in questi contesti.”

“Ne parli come se mi ubriacassi e mi buttassi addosso a sconosciuti tutti i fine settimana!”
“C’è stato un periodo in cui succedeva.” Fu la replica impietosa. E veritiera. “Da quando stai con Ross no, è vero, ma Prince non è uno sconosciuto.”

“No.” Seppellì la testa tra le braccia in cerca di sollievo. “Certo che non lo è. È proprio questo il punto.”  
Siamo amici … E dovrà accettare anche questo lato di me, credo.
… Dovrei mandargli un Gufo per spiegarglielo?
Era straniante fare quel genere di pensieri; aveva amici maschi, ma non aveva mai dovuto preoccuparsi del fatto che il suo comportamento avrebbe potuto esser visto come sconveniente da uno di loro. 
Forse perché la metà sono tuoi parenti mentre gli altri hanno un rapporto blindato con le loro ragazze. O ragazzi.
Il tedesco non si ascriveva a nessuna di quelle categorie; era un amico, puro e semplice.
E questo rende tutto più complicato? Forse. Anzi, mi sa di sì.  
“Non dire niente.” La avvertì percependo che stava per arrivare una delle ramanzine per cui la cugina era famosa. “Perché so che non mi piacerà.”
“Stai facendo tutto da sola.” Fu la perfida replica. “Dico solo … Scott deve preoccuparsi?”
Eh?
“Eh?” Ripetè acutamente. La risposta le fu risparmiata dall’ingresso scaglionato del resto degli ospiti, una piccola armata di zombie barcollanti e poco comunicativi.
Scott, l’ultimo a chiudere la fila, le si sedette accanto, con un’aria così terminale che non ebbe cuore di farci ironia. Gli versò piuttosto una dose massiccia di caffè per passargli poi le dita trai capelli schiacciati dal cuscino. “Buongiorno bellissimo.” Non potè fare a meno di motteggiare. “Come ci sentiamo?”
“Domanda di riserva?” Borbottò strofinandosi le mani sul viso. “La prossima volta toglimi la birra di mano, sul serio piccola. Costringimi fisicamente a non bere.”
Rise sollevata perché sembrava che l’altro non avesse registrato nulla di sconveniente la sera prima.

O mi terrebbe il muso.
Potere in post-sbronza o meno, Scott era sempre meravigliosamente semplice da leggere; era una delle cose più amava di lui. “Promesso ragazzone.”
“Tu non dovresti neanche essere qui e in ‘ste condizioni, c’hai dieci anni. Gail e Gus dovrebbero mettere un Incanto della linea dell’età all’ingresso del pub … Che diavolo.” Diceva intanto Hugo rivolto a Meike, la quale esibiva degli strategici e preoccupanti occhiali da sole.
“Ma falla finita, sto messa meglio di voi vecchiacci.”
“E gli occhiali da sole?”
“Sono fotosensibile.” Replicò con un sussiego che sembrava aver copiato da Tom, mentre si sedeva afferrando pezzi di toast a manciate. “E se lo dici a vati ti tolgo il saluto.”
“Dai cugino, abbiamo bevuto succo di zucca fino a quando non ha schiodato assieme a Sissy. Non rovinare tutto!” Le fece eco Louis sprofondando le dita nella massa incolta dei propri lunghi ricci prima di reclinare la testa sullo schienale della sedia. “Sono troppo bello per morire Maledetto da quel paz-ahia!” Piagnucolò quando la serpeverde gli tirò uno schiaffò velenoso sulla nuca.
“Sta’ al tuo posto, tassoscemo.”
“Sei perfida Serpico, mi fa male la testa!”
“Perché, ne hai una?”    
“Meike è minorenne e Tom, che Morgana abbia pietà delle nostre anime, è il suo tutore legale quindi dovrebbe saperlo.” Sospirò Rose tenendosi una mano sulla fronte ed ignorando il bisticciare dei due adolescenti.
“Non è già abbastanza brutto svegliarsi così?” Sbuffò Hugo. “Possiamo evitare?”
“Infatti. Meike non è mai stata qui.” Borbottò mentre la quindicenne annuiva allegramente. “Sul serio, parliamo piano, mangiamo, prendiamo le dovute pozioni e fingiamo di non stare morendo, okay?” Si guardò attorno e poi localizzò Scorpius con un lamento scornato. “Fatemi capire, il mio promesso sposo è l’unico demente che dorme per terra?”
La risposta di Dionis fu in rumeno e nessuno si prese la briga di tradurla.
La colazione si svolse in un ruminare di mascelle e qualche commento o battuta smorzata dando così la possibilità a Lily di distrarsi dalla conversazione avuta mentre la WWN trasmetteva a basso volume un successo piuttosto azzeccato.
 
Sunday morning and I'm falling
I've got a feeling I don't want to know

 
Perché la mattina del giorno dopo si doveva declinare solo così.
Non pensando.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, mattina.

 
James rotolò sul fianco e scoprì che tutto quello che rimaneva di Teddy nel loro letto era la forma sul cuscino. Aprendo gli occhi realizzò che il tatto non l’aveva ingannato: si era svegliato da solo.
Ma che cazzo…
Perplesso si rese anche conto che la sveglia digitale che aveva comprato al professorino per buttarsi giù dal letto durante l’anno scolastico segnava le nove di mattina.
Da quando Teddy si sveglia prima delle undici? Siamo in estate!
Era una faccenda bizzarra e in quanto tale, da auror, era suo dovere investigarla. Si alzò e beatamente senza vestiti cominciò a girare per la casa alla ricerca del proprio compagno; c’era qualcosa di glorioso nel poter stare con le chiappe al vento senza doversi per questo beccare reprimende materne o battutacce fraterne.
Adoro avere una casa mia.
La sera prima era stata … rilassante. Aveva evitato di ingozzarsi di alcolici come Malfoy e i cugini e si era dedicato completamente all’altro, ignorando i richiami alla goliardia sfrenata che provenivano da ogni dove; aveva avuto i suoi momenti pazzi e sapeva quando rinunciarvi quando era il caso.
I suoi sforzi erano stati ripagati, dato che l’altro era riuscito finalmente a togliersi le ombre dallo sguardo e persino a ridere e divertirsi.  
Trovò Ted in salotto, di fronte allo specchio vicino all’ingresso, preso ad allacciarsi la cravatta, accessorio che metteva solo in rarissime occasioni.
Okay. Eh?
L’intera storia stava assumendo contorni inverosimili.
È in vacanza! Che sta succedendo?
 “Teddy!” Lo richiamò all’ordine. “Stai uscendo?”
L’altro si voltò e per un secondo, mentre lo guardava in tutta la sua ovvia bellezza statuaria, i capelli sfumarono nel rosso. Poi si schiarì la voce. “Vestirti immagino non sia contemplato…” Osservò. “Buongiorno Jamie.”
“Buongiorno.” Replicò urbanamente. “Fa troppo caldo e non abbiamo ospiti che possa traumatizzare con la mia vigorosa virilezza.”
Virilità.” Lo corresse reprimendo un sorrisetto da professorino stronzo. “Ti ho lasciato la colazione in caldo, uomo virile.”
“Sarà il caso … Dove stai andando?” Si avvicinò e gli afferrò la cravatta, sia per stuzzicarlo sia per impedirgli seriamente di mettere piede nel camino, visto come lo occhieggiava irrequieto. “Odio svegliarmi e non fare sesso la domenica. È una bestialità!”
“Lo dici trecentosessantacinque giorni l’anno.” Gli fece notare passandogli un braccio attorno alla vita e baciandogli la testa affettuosamente. Il modo in cui gli passò un dito sul tatuaggio lungo il collo fu invece molto meno innocente. “Non volevo tirarti giù dal letto, so che è presto.” Alla sua occhiata perplessa, aggiunse. “Ho un appuntamento al Ministero.”

“Di domenica? Chi è l’idiota che lavora di domenica?”
“È un favore che ho chiesto ad un mio ex-compagno di Casa.” Gli spiegò. “Malcolm Whitby, ti ricordi?”

“L’ex di Lenny?” Aggrottò le sopracciglia ma non espresse commenti, anche se per colpa di quel coglione dalla mascella enorme cinque anni prima avevano quasi mandato al diavolo ogni ipotesi di convivenza; era amico dell’altro ma morisse se riusciva a farselo piacere. “A proposito di cosa?”
Ted lo guardò impaziente, ma la sua incapacità di eludere una domanda ebbe la meglio ancora una volta. “Devo parlare con un funzionario della Divisione Bestie per la faccenda di Ben. Voglio scoprire qualcosa in più … Sai che ogni Mannaro è registrato al Ministero, no?”
James si dovette mordere la lingua per non fare una smorfia scontenta; Ted aveva passato una bella serata grazie a lui, sì, ma non si era affatto tolto quel peso dalle spalle.

Lo ha solo posato per un momento. Cavolo.
“Vuoi che ti accompagni?” Tentò perché anche se tutto quello che voleva fare era divorare la colazione e strisciare di nuovo a letto non poteva sottrarsi ai suoi doveri di compagno suppportivo.
L’altro scosse la testa. “No, fa’ colazione e torna a letto … Potrei dover aspettare un bel po’ senza fare niente. So che odi le sale d’attesa.”
“Con tutta la mia dannata anima.” Convenne sollevato che l’altro avesse capito l’antifona. “Sicuro?”

“Sicuro.” Gli diede un leggero pizzicotto sul sedere che lo fece sobbalzare infastidito e gli piacque in egual misura. Il dannato Tassorosso lo sapeva. “Cercherò di sbrigarmi, te lo prometto.”
“Ti conviene, perché questo …” Si indicò in basso in maniera impertinente “… non resterà in vetrina a lungo.”
L’altro inarcò le sopracciglia, mentre gli occhi sfumavano – letteralmente dato che era un Metamorfomago – in una sfumatura nera e densa. “La tua propensione al nudismo non è cosa di oggi però.” Constatò. “Problemi?”
“Non di quelli spiacevoli.” Ridacchiò prima di baciarlo. James sapeva che tutta quella tranquillità d’animo apparente nascondeva in realtà un lavorio interiore da paura, ma preferì glissare.
Se gli rompessi l’anima non sarei tanto diverso da una fidanzatina rompicoglioni. E se c’è qualcuno che lo è, qua, nossignore, non sono io.
… Non mi facesse preoccupare ci crederei di più, cazzo.
Lo lasciò andare dandogli un pugno giocoso sulla spalla. “Tempo contato, Teddy. Torna a casa presto.” 
Che razza di domenica era, altrimenti?
 
****
 
Diagon Alley, Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Mattina.
 
Albus sorrise quando sentì le labbra di Tom sfiorargli la nuca in un bacio leggero. Nel stato di dormiveglia in cui si trovava al mattino si scopriva spesso ad apprezzare quanto ormai fosse naturale levare la mano e sentire la guancia liscia di rasatura dell’altro.
“Se è l’alba ti ammazzo…” Bofonchiò comunque, inarcandosi in un delizioso sfregamento contro il tessuto spugnoso dell’asciugamano che l’altro indossava. “È domenica, è il mio giorno libero.”
“L’unico giorno in cui puoi celebrare la tua accidia.” Replicò con un mormorio di una significativa ottava più bassa. Quel tono era capace di mettere sull’attenti ogni suoi singolo ormone. E altro. “Svegliati e renditi utile. Sono già le nove e mezzo.”

Le nove e mezzo? Di domenica non esistono le nove e mezzo.
“Non sono la sua geisha, Signor Dursley.” Sbuffò schiacciando il viso contro il cuscino. “Dico sul serio, dovrai far meglio di così per convincermi ad alzarmi.”

La risposta – e dovette ammettere che se l’era cercata – fu una mano congelata che gli si piazzò sul suo povero e sensibile interno coscia. Con uno schizzo fu a sedere. “Tom! Come diavolo fai ad avere le mani gelate a Luglio?” Piagnucolò tirandosi le coperte al petto come una scolaretta pudica e traumatizzata.
Il bastardo, in tutto il suo splendore di pelle pallida ed espressione malvagia, sogghignò con la pigrizia di un gatto assopito sul davanzale. “Cattiva circolazione?”
“Spero tu muoia d’infarto allora.” Grugnì tirandogli un cuscino fiaccamente. “Di solito la gente sveglia la propria dolce metà con una colazione a letto! Non con una mano da cadavere tra le gambe!”
L’altro inarcò le sopracciglia. “Io non sono la gente.” Osservò. “Comunque hai ragione. Ho fame.”
“Dov’è Mei? Non ti ha preparato qualcosa?”

“Ieri sera è rimasta a intossicarsi a casa di tua cugina Roxanne in compagnia di quel debosciato di Louis.” Spiegò contrariato, come se la quindicenne gli avesse fatto un torto personale a non essersi presentata padella alla mano al suo risveglio.
Chioccia pretenziosa.
Albus sospirò, liberandosi delle coperte e dirigendosi verso il bagno. “Metti su almeno il the, vuoi?” Lo apostrofò. Aprì poi l’acqua calda della doccia, liberandosi con un paio di lanci mirati della maglietta e dei boxer. Sogghignò quando sentì un ringhio provenire dalla stanza, la cui porta era stata lasciata aperta; Tom odiava che seminasse roba in giro quanto odiava che gli finisse in testa.
Centro.
Non fece in tempo ad entrare nel vano doccia che si sentì voltare e schiacciare contro il muro opposto. Con una risata trai denti intrecciò le dita trai capelli lisci dell’altro, di nuovo bagnati dal getto d’acqua che scorreva su di loro.
“Non avevi già fatto la doccia?” Chiese tirandoselo contro. “Non ti senti mai un po’ maniaco ad insidiarmi così?”
“No.” Fu la risposta immediata come immediato fu il passargli le mani lungo il basso schiena, esplorando e causandogli un gemito di intenso apprezzamento. “Non quando sei così consenziente.”
Touché.

Non era sciocco, né si riteneva tale; aveva capito che il comportamento di Tom in quei giorni era sintomo di qualcosa.
L’attacco al San Mungo. Sì, certo, anche. Ma non solo.
La testa della metà della sua anima era un susseguirsi rutilante di piani, congetture e modi per volgere a favore ogni situazione: era fatto così sin da bambino.
Calcolatore come un politico di professione …
Non si sarebbe stupito se al momento si fosse trovato nel bel mezzo di una delle sue macchinazioni, se non  il suo centro.
Ma finché questi sono gli effetti, perché lamentarsene?
Aveva imparato che cercare di indagare nelle intenzioni dell’altro fosse spesso sterile, oltre che nocivo dato che Tom, se pressato in richieste di spiegazioni, finiva sempre per giocare in difesa.
Me lo dirà. O se lo lascerà sfuggire ed io lo capirò. Stessa cosa.
“Perfetto, moriremo di fame…” Mormorò soffocando un ansito quando la lingua dell’altro scivolò lungo il collo, sulla clavicola e sempre più in basso. “Questo o un giorno finiremo per divorarci a vicenda.”
Lo sentì sorridere. “Come adesso?”

 
Il rumore di qualcosa che sbatteva contro la finestra del bagno attirò la sua attenzione mentre era preso a cercare di dare una forma passabile ai suoi capelli dopo che l’altro ci aveva passato le dita innumerevoli volte.
Sesso mattutino. Grandioso, ma tremendo per i miei capelli.
Tom, ora impeccabilmente vestito, gli lanciò un’occhiata mentre asciugava meticoloso la doccia, onde evitare che rimanessero aloni sul vetro. “Apri, o quel dannato Gufo la sfonderà.”
“Questa tua malattia ha un nome, sai?” Indicò il vetro della doccia e il modo in cui l’altro ripiegò millimetricamente il panno che usava esclusivamente per quello scopo.

“Avere una mente organizzata? So che il concetto ti è estraneo.”  
“No, essere ossessivo - compulsivi.” Ritorse andando ad aprire la finestra: il volatile, non appena sciolta la lettera dalla sua zampa, volò via. Doveva essere una raccomandata ufficiale se non aveva tentato di cavargli un occhio per avere un croccantino.
Aveva l’aria affamata quanto e più di me.
Lesse il contenuto e di colpo essersi svegliato a quell’ora disgraziatamente mattiniera ebbe un senso. “Esco.” Comunicò. “Ti faccio arrivare la colazione a casa, se vuoi. La prendo da Fortebraccio?”
Tom aggrottò le sopracciglia, spiando sopra la sua spalla. “Da dove viene?” Si informò con noncuranza, salvo prendergliela di mano per leggerla. “Dal San Mungo.” Realizzò e il conseguente tono di voce sembrò provenire dagli abissi. “A quanto pare ci sei riuscito, il Sergente Flannery è tuo paziente.”
“Non è mio, è di Sam e del Guaritore Smethwyck.” Replicò aggiustando alla bell’è meglio i capelli. “Io sono solo un tirocinante, mi limiterò ad assistere. Ci sono degli sviluppi … è positivo che me lo abbiano fatto sapere!”

“Congratulazioni.”
Albus si morse la lingua, perché ad un tono del genere non si poteva rispondere che con un insulto o un silenzio offeso. Per buona pace comune non fece nessuna delle due cose. “Tornerò per pranzo, okay?” Cercò il suo sguardo e non si arrese finché non l’ebbe trovato. “Non vorrei perdermi le polpette di zia Robbie per niente al mondo!”

La risposta fu lasciarlo senza risposta, mentre marciava in direzione della sua scrivania.
Prima di uscire si fermò a salutarlo e lo trovò irrigidito e piuttosto ostile tra tomi di libri e una tazza di caffè fumante. “Ci vediamo a pranzo.” Ribadì. “Avverti i tuoi che arriverò per via camino … L’ultima volta ho sbattuto la faccia contro il parafuoco e mi sono quasi rotto il naso.”
La risposta un borbottio non impegnativo. Gli baciò la testa asciutta, a differenza della sua, e scappò via.

 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Mattina.

 
“È permesso?”
“Se riesci ad entrare!”
La frase che gli venne rivolta era assurda, ma dato che era evidente che dietro la targa di vernice scrostata che indicava “l’ufficio relazioni con i Mannari” ci fosse qualcuno, Ted obbedì. Se ne pentì immediatamente, dato che gli finì addosso un quintale buono di pergamene di vario genere e taglia. Abituato alla sua stessa goffaggine riuscì a rinculare ed evitare quindi la commozione cerebrale, spalmandosi contro la porta.

Che diavolo!
Gli sembrava di essere appena capitato nell’occhio di un ciclone, a giudicare dalla quantità di carta, foto e referti sparsi per la stanzetta angusta. A questo si aggiungevano un vecchio divano sfondato e scatole di cibo take-away disseminate ovunque. Sorvegliava tutto dall’alto un ventilatore attaccato al soffitto.
Merlino, questo posto sembra una discarica…
Neppure nei suoi momenti peggiori di disordine aveva mai visto niente del genere.
“C’è nessuno?”  Chiese facendo qualche passo incerto trai detriti.
“Ehi!” Emerse la stessa voce di prima, stavolta alle sue spalle, facendolo sobbalzare. “Tu devi essere Lupin!”
Si voltò e si trovò di fronte una ragazza asiatica sulla trentina, viso tondo e ispidi capelli da porcospino incorniciati da un paio di occhiali dalla montatura squadrata. Sembrava spuntata dal nulla, ma probabilmente era emersa da uno degli scaffali strabordanti in cui era diviso l’ambiente. “Io sono Flynn Lin.” Si presentò tendendogli la mano e stringendogliela con una forza degno di nota per una persona tanto minuta. “Non ti ricordi di me, vero?”
“Hogwarts?” Tentò per andare sul sicuro.
“Mai andata, educata a casa.” Inarcò le sopracciglia quasi trovasse sconcertante che non avesse memoria della sua persona. “Conferenza sui diritti dei lupi mannari, a Brighton, nel 2004. Eri un ragazzino in uniforme scolastica e con i capelli blu, come quelli che hai adesso.” Indicò la sua testa. “Più brillanti però.”
Ted sorrise imbarazzato. “Mi dispiace, non sono famoso per avere una memoria di ferro.”
“Si vede!” Esclamò  senza nessun riguardo. Gli ricordò un po’ le sparate del suo James e questo lo rilassò: non era bravo con gli estranei che non fossero studenti.  

Se parlano tanto e senza filtri un po’ aiuta.
“Malcolm ha detto che sarei passato?” Preferì stornare. “Spero di non averti disturbato.”
“Sì, sì.” Si grattò la testa con la piuma che teneva in mano dalla parte del pennino. I capelli neri come inchiostro probabilmente lo mascheravano, l’inchiostro. “E no, non hai interrotto niente, siediti!” Lo invitò e Ted si trovò nella disagiante posizione di non sapere dove.

“Sto bene così.” Non trovò di meglio da dire. “Ti ha detto perché sarei venuto?
“No, per niente ma non importa …” Lo stupì. “Mi ricordo le tue domande a quella conferenza. Facesti nero il relatore.” Ghignò allegramente. “Quando ho capito chi eri, ehi, mi casa es tu casa.”
Ted esitò a quella dimostrazione di simpatia. “Mi dispiace, proprio non mi ricordo di averti conosciuta…”
“Ah, ma quello perché non ci parlammo neanche, schizzasti fuori appena finita la conferenza, penso per tornare a scuola. Riuscii a capire solo che eri uno schianto.” Gli lanciò una panoramica sfrontata, anche se meno invasiva di quelle che subiva da alcune alunne intraprendenti o dalle loro – ahimè – madri. “Lo sei ancora, per inciso. Da come ti vesti però mi sa che sei uno di quelli che non se ne rende conto, eh?”
“Io…” Si schiarì la voce, tentando miseramente di non arrossire; quando aveva chiesto all’ex compagno di Casa di fargli parlare con il funzionario capo dell’ufficio Licantropi aveva pensato ad un vecchio e accidioso ministeriale con cui avrebbe dovuto accapigliarsi, non una ragazza dalla parlantina sconcertante.
Il mondo è pieno di sorprese.
Doveva fare in modo di volgere quella situazione in positivo però, perché al di là delle battute, Flynn Lin sembrava bendisposta verso di lui. “Mi ricordo che anni fa in questo ufficio c’era un certo Morrison.”  Cominciò alla lontana.
“È andato in pensione cinque anni fa.” Scrollò le spalle voltandosi per cercare qualcosa nel mucchio selvaggio che la circondava. “Adesso sono io a capo dell’ufficio … l’unica dipendente di me stessa!” Si voltò per strizzargli l’occhio. “Non è un lavoro che la gente smania di avere, come puoi immaginare.” Fece un sorrisetto amaro e Ted si trovò a condividerlo; conosceva bene il poco interesse che la Comunità magica nutriva per i Mannari.
Solo una cinquantina di elementi, un unico branco e per giunta confinato in una zona sperduta del Galles.
Niente di cui preoccuparsi, niente di cui interessarsi.
“Come mai ti sei interessata alla materia?”  
La ragazza, dopo aver saltato un basso tavolinetto ingombro di confezioni vuote di asporto thai, si stravaccò sull’unica poltrona della stanzetta che non fosse invasa da qualcosa. “Mio nonno.” Esordì. “Morso quando aveva diciassette anni.” Fece una risatina alla sua espressione sorpresa. “Non hai mai conosciuto un altro figlio d’arte come te?”
“No.” Ammise. “Pensavo…”
“Di essere il solo mago con dei parenti Mannari?” Scrollò le spalle. “Non siamo abbastanza neanche per una squadra di Quidditch, è vero, ma lo siamo per essere annotati su questi quadernoni qua.” Indicò con un cenno della mano una serie di registri impilati su una mensola sopra la sua testa. Ted li ricordò con una certa amarezza; la prima e l’unica volta che era stato in quell’ufficio era stato prima del suo ingresso ad Hogwarts. Sua nonna aveva dovuto portarlo lì per dimostrare che non era affetto dalla Licantropia.

Con tanto di certificato del San Mungo alla mano… Nonna sprizzava scintille dalla bacchetta.
“Ibridi…” Fece una smorfia: era quello il modo in cui quelli come loro venivano registrati al Ministero, per via di una legge che neppure l’illuminata guida di Shacklebolt era riuscita ad abrogare, non con un’opinione pubblica ancora ostile a quel morbo spaventoso.
Anche se sei portatore sano e non ululi alla luna, anche se nessuno ha mai chiesto di consultare questi registri … Per essere ammesso ad Hogwarts come studente devi presentare un certificato di sana costituzione.
Certo, compiuta la maggiore età c’era la possibilità di richiedere la cancellazione del titolo nei propri documenti ufficiali, ma lui non l’aveva mai fatto.
È un monito. Un monito a quanto può diventare orribile la tua realtà quando ti credono tutti un diverso.
“Tu … sei…” Sondare quell’argomento era difficile: molti figli di Mannari erano portatori sani di Licantropia come lui…
Altri non sono stati così fortunati. Altri sono nati malati.
La strega intuendo il suo pensiero gli sorrise. “Sono portatrice sana, come te. Ma…”  Prese la bacchetta e se la puntò al viso: le iridi scure sfumarono in un oro inconfondibile. “Atavismo.” Spiegò. “Li Trasfiguro quasi sempre … Certi colori danno alla gente idee sbagliate.” Fece una pausa, quasi si fosse ricordata di qualcosa. Del filo del discorso, forse. “Comunque per rispondere alla tua domanda, i Mannari sono letteralmente la mia famiglia. Mio nonno ha vissuto con loro fino a quando ha conosciuto mia nonna. Storia avvincente, un giorno te la racconto.” Inclinò la testa da un lato. “Ma anche tu hai belle storie, no? Il figlio di Remus Lupin, eroe di guerra!”
“Magari un’altra volta.”
Non adesso.
L’altra capì l’antifona perché cambiò discorso. “Allora, il buon vecchio Whit è il mio imbrattacarte preferito, e visto che gli devo riportare metà di questa roba da … parecchie lune, sono piuttosto propensa a farmi corrompere per aiutare un suo amico.” Lo indicò con un cenno della mano. “Specie se poi è uno come te.”
“Come me?”
“Morgana, sei tonto!” Sbottò incredula. “Hai idea di quanto sia difficile parlare con un ragazzo carino da queste parti? Vecchi in gonnella, ne siamo pieni!” Scosse  drammaticamente la testa. “Dopo ti prendi un caffè con la sottoscritta.”
Alla faccia dell’essere diretti!
Ted non sapeva se mettersi a ridere o spaventarsi di quell’atteggiamento senza peli sulla lingua. Era propenso verso la prima ipotesi: essendo stato cresciuto dal clan Weasley era abituato a certe sparate. “Se è solo un caffè volentieri, altrimenti devo avvertirti che sono già felicemente impegnato.” Non ci girò attorno. “Con un meraviglioso ragazzo di nome James.” 
La strega roteò gli occhi al cielo, come se gli avesse appena detto di avere una moglie e due gemelli in arrivo. Apprezzava persone del genere: non ce n’erano mai abbastanza, neppure nel Mondo Magico. “Grandioso.” Fece un sospiro profondo. “Grazie per la chiarezza comunque. Non avrei potuto parlar di cose serie pensando di spogliarti sulla scrivania.” Non aspettò di vederlo recepire la frase che tornò di colpo seria. “Parliamo d’affari?”
Frastornato da quel repentino cambio di discorso si limitò ad annuire; doveva essere un’impresa star dietro ad una strega come quella, etero o meno. “Sono qui per chiederti un favore…” Esordì prendendo un grosso respiro.
“Oh, non sei il primo, sai.” Lo fermò divertita. “Che tu ci creda o no, persino in questo buco dimenticato dal Ministero la gente viene a scocciare.”   

“Di solito i favori di che genere sono?”  
La strega scrollò le spalle. “Il più delle volte è gente che vuole che confermi che c’è un Mannaro nella sua zona per poter avere la possibilità di sparare incantesimi al primo bersaglio mobile quando si fa notte. Non hanno la licenza di caccia e sperano di cavarsela mascherandosi da vigilanti dell’ordine comune.”
“Ma l’unico branco…”
“È stanziale in Galles, lo dici a me?” Rise, ma poi le pupille, che erano rimaste dorate, si posarono rapidamente su di lui, taglienti e dirette come quelle di un lupo. “Però Whitby mi ha detto che tu un Mannaro te lo sei davvero trovato dietro casa.”
“Sì, ma è morto.” Strinse i pugni per impedire ai ricordi e ai sensi di colpa di togliergli le parole di bocca.

La strega lo scrutò con quelle disagianti iridi gialle. “Sono sicura che hai fatto tutto il possibile per aiutarlo.” Disse alla fine.
“Come fai a saperlo?” Gli uscì fuori più stizzito di quanto avesse voluto. Era il retrogusto amato della speranza.
Di poter essere perdonato. Da chiunque.
“Istinto?” Suggerì scuotendo la testa. “Sembri un bravo ragazzo e Malcolm mi ha parlato bene di te. Poi voi Tassorosso non lo siete tutti?”
Ted suo malgrado distese le labbra in un sorriso. “Così dicono.”
“Avanti, Lupin, togliti il peso dallo stomaco. Di cosa hai bisogno?”
“Voglio poter parlare con qualcuno del branco.” Inspirò. “Voglio sapere chi era il Mannaro che mi è morto tra le braccia, sapere se c’era qualcosa da cui è scappato, o con cui stava scappando.”
Flynn batté le palpebre. “Credo di non seguirti … qualcosa con cui stava scappando?”

Ted le espose così i fatti, nudi e crudi, senza mediare o cercare giustificazioni. Aveva bisogno di chiudere quella storia, non soltanto per Ben – se quello era il suo nome – ma soprattutto per sé stesso.
Non posso più tornare indietro, quindi devo andare avanti.
“… per riassumere, non sai cosa Ben ha lasciato nella grotta perché i Centauri non ti fanno entrare nella foresta dopo che te la sei presa con loro. Se sapessi cos’è pensi che riusciresti a convincerli a farti passare.” Flynn concluse per lui. “Sempre stati permalosetti, quelli là.”  Si grattò di nuovo la testa con la piuma, meditabonda. “Certo, posso organizzare qualcosa se mi dai un paio di giorni … ma penso che sia meglio se sono io a far da tramite. Sono abituati a me, conoscono il mio odore.”
“Voglio esserci anch’io.” Su questo sarebbe stato irremovibile. “Per favore.”
La strega sospirò. “Se è importante … potrei far venire qui Moscardo. È il vice di Vulneraria, l’attuale capobranco. Non dovrebbe fare troppe storie, è un tipo alla mano … Ben hai detto?”

Credo si chiamasse Ben.” Ammise. “È l’ultima cosa che mi ha detto prima di morire, il suo nome … ho pensato si trattasse del suo nome.” Riflettè su un pensiero che l’aveva colto più di una volta in quei giorni. “Pensi che si riferisse a qualcun altro?”  
“Beh, un Mannaro dopo La Rinascita perde la sua identità di mago e di essere umano.” Osservò Flynn grattandosi il mento. “Via il nome, via la bacchetta, via la tua vecchia vita. Credimi, dovendo tenere i loro registri anagrafici lo so bene … È davvero come se nascessero una seconda volta.” Si voltò e prese un paio di grossi faldoni polverosi da sotto quello che sembrava un ficus malcurato. Evidentemente c’era un metodo in quel caos. “Queste sono le anagrafiche. Ci sono le foto, dagli uno sguardo e vedi se lo trovi.”
Ted non dovette penare molto per trovare ciò che cercava. Dopo una ventina di pagine e fotografie isolò Ben; in foto sembrava meno patito e privo di barba, ma indubbiamente era il Mannaro che l’aveva attaccato. “È lui.” Disse indicando la scheda. “Sono sicuro.” Lesse poi il nome vergato in inchiostro sbiadito, vecchio di decenni. Lesse  e sbatté le palpebre stranito. “Lunastorta?” Chiese. “Si chiamava Lunastorta?”

Era il soprannome di mio padre.
Era una coincidenza così curiosa che lo fece rimanere senza parole.
Flynn si sporse oltre la sua spalla per guardare. “Ah, sì … te l’ho detto, si ribattezzano. Nel suo caso non ne ha neppure avuto bisogno.” Scorse con lo sguardo la scheda e poi annuì. “Come pensavo, è nato nel branco e non ha mai avuto un nome da essere umano.” Aggrottò le sopracciglia. “Non mi ricordo di averci mai parlato, doveva amare starsene sulle sue.”
“Non li conosci tutti?”

“In teoria. Nella pratica no.” Si strinse nelle spalle. “Ho buoni rapporti con Moscardo, e i cuccioli sono quelli più curiosi, ma il resto del branco quando vado a fare le ispezioni mensili neanche si fa vedere.”
Ted rimase in silenzio, assimilando le informazioni sconcertanti che gli erano appena state date.
Ben ha conosciuto mio padre? Sembrava avere poco più della mia età, all’epoca doveva essere un bambino di massimo uno, due anni.
Perché ha il suo nome?
Lo sguardo della strega andò alla foto e poi a lui. “Qual è il problema?” Indovinò.
Glielo disse e l’espressione dell’altra sembrò più confusa di lui. “Se tuo padre ha vissuto con il branco all’epoca di Greyback…” Si fermò di colpo con un’espressione nello sguardo che non riuscì a decifrare.  “Beh, può essere che Moscardo se lo ricordi … è una specie di vecchio saggio della comunità. Potrebbe sapere perché quel Mannaro si chiamava come il tuo vecchio.”
Ted annuì, e mentre guardava la foto di Ben – o meglio, Lunastorta - sentì lo stomaco stringersi in una morsa. Aveva come l’impressione di essere incappato in qualcosa di più grosso di un Mannaro morto.

 
 
****

Surrey, Little Whining.
Privet Drive n°4, Dopo pranzo.
 
“Cos’è quel muso?”
Tom alzò la testa per incontrare gli occhi scuri e sempre troppo truccati – secondo i suoi gusti – di sua sorella Alicia. La ragazza era appoggiata al tronco dell’albero su cui una volta era appesa l’altalena della sua infanzia e adesso un più classico dondolo su cui si era sdraiato per leggere.
“Non capisco a cosa tu ti riferisca.” Le fece eco tornando al suo libro. L’altra non si fece impressionare e gli si sedette senza troppe cerimonie sulle gambe.
Alicia.”
“Invasione degli spazi personali? Oh, povero bimbo!” Ghignò beffarda. “Senti, hai a malapena spiccicato due parole in croce per tutto il pranzo. Non che di solito tu sia un chiacchierone…” Inarcò le sopracciglia spingendo il dondolo in un irritante movimento ondulatorio. “… ma visto che ci degni della tua augusta presenza potresti almeno essere socievole.” Fece una smorfia espressiva. “Per mamma, sai.”

Tom serrò le labbra tra di loro; sua sorella non aveva tutti i torti. Il suo umore era talmente pessimo che era dovuto scappare dal salotto per non esplodere in qualche commento acido all’ennesima battuta stupida di Vern o alle domande piene di buone intenzioni ma troppo pressanti di Robin. L’unico che sembrava aver capito che vento tirava era stato suo padre.
Alicia si accese una sigaretta e reclinò la testa sul legno dipinto dello schienale. “Momento confessione?” Spiò dandogli una pacchetta sul ginocchio. “Non dirmi che è per via di Albume.”
“Non chiamarlo così.” Sbuffò al nomignolo infantile, prima di ricordarsi che ce l’aveva con lui e che quindi non avrebbe dovuto aver voglia di difenderlo. “E non pretendere di sondare i miei umori.”
“Oh, qui lo facciamo tutti da una vita, è diventato lo sport di casa, piccolo principe viziato.” Alzò gli occhi al cielo. “È perché non è riuscito a farcela per pranzo?”
La domanda non valeva neppure una risposta.

No, perché è un bugiardo.
“Sai fratellino, sei adorabile.” Se ne uscì fuori e fu piuttosto insultante. Adorabile lui? “Metti il broncio perché perdi di vista il tuo preziosissimo Al per qualche ora?” Ignorò la sua occhiata linciante e continuò. “Non doveva lavorare? È una specie di medico magico, no?”
“Un Guaritore, ed è solo un assistente.” Avrebbe davvero voluto addentrarsi nel nuovo romanzo che l’altra gli aveva prestato: aveva a che fare con troni, spade e personaggi deliziosamente perfidi, proprio il suo genere, ma sembrava ci fosse modo per liberarsi delle attenzioni non richieste di quest’ultima. “Sto leggendo.” Tentò.
“Se non mi dai retta ti dico come finisce.” Vedendo che non cedeva ghignò malvagia. “Muore uno Stark.”
“Ti ammazzo.”
Gnègnè.” Fu la replica significativa. “Avanti, che è successo? Non me ne andrò finché non me lo dirai!”

Se Meike fosse qui sarebbero in due. Non pensavo l’avrei mai detto, ma … grazie a Dio deve ancora smaltire la sbornia.
“Al aveva promesso di venire a pranzo e non è venuto.” Buttò fuori malmostoso.
La ragazza fece una risatina che le sarebbe valso un calcio se solo fossero stati ancora bambini; come sua madre, era a conoscenza del fatto che la sua convivenza con Al poco aveva a che fare con la virile amicizia e molto con il mettersi le mani addosso, ed esattamente come l’altra aveva accolto la notizia come se l’avesse sempre saputo.

Perché uscire fuori dall’armadio se non ci siamo apparentemente mai stati?
“Confermo, sei adorabile.” Ghignò.
“Lasciami in pace.” La apostrofò sentendosi ridicolo e pienamente scontroso. “Va’ a postare foto di dubbio gusto sui venti social network che infesti.”
Sopportò stoicamente lo schiaffo che gli arrivò sulla gamba. “Sei il solito stronzo, Dio solo sa come fa Al a sopportarti tutto il giorno!” Esclamò esasperata per poi alzarsi di colpo. Era un record che, con il temperamento che aveva, fosse rimasta a cercare di farlo parlare tanto a lungo.
Dovrei ringraziarla?
La lasciò comunque andar via, perché il suo malumore non poteva essere scalfito neppure da quello.
Al adesso è al San Mungo, in mezzo ai camici verdi, a Flannery e qualsiasi diavolo di cosa abbia contratto.
Ad impicciarsi di cose da cui dovrebbe star lontano.
Chiuse gli occhi passandosi una mano trai capelli e non fu sorpreso quando sentì qualcuno avvicinarsi. La sorpresa fu constatare che si trattava di suo padre che reggeva un piatto con la sua porzione di dolce. “Tua madre ci si è impegnata” Borbottò con l’aria di stare sui carboni ardenti. “Potresti almeno provarci.”
L’accusa era ben formulata, quindi fu costretto a subirla. Prese il piatto e ne diede una forchettata. “È delizioso.” Sospirò, tirando via le gambe per far sedere l’uomo.

Se è venuto a parlarmi lui quanto sono stato sgradevole?
“Com’è che riesci sempre a far saltare i nervi a tua sorella?” Considerò l’altro dopo qualche momento passato a guardare le siepi perfettamente curate del giardino.
“È una dote che si acquista con l’esperienza.” Ironizzò godendosi il sapore fresco della menta nell’impasto; era il suo dolce preferito e questo lo fece sentire ancora peggio. “Oggi non sono dell’umore.”
“L’abbiamo notato.” Convenne con piglio brusco, salvo lanciargli un’occhiata impacciata. “Tua madre mi ha spedito a vedere se avevi bisogno di qualcosa…”
“Di parlare?” Fece una smorfia. “Di quello ne ho sempre poca voglia.”
Suo padre fece un sorrisetto divertito, annuendo, quasi comprendesse il suo stato d’animo.

Da ragazzino viziato a ragazzino viziato…
Era seccante che la sua voce interiore, quella della supposta ragione, avesse il tono di Albus.
“Va tutto bene? Al lavoro, a casa?”
“Sì. Per adesso.” Il che era ancora più frustrante. Sapeva che stava arrivando un pacco di problemi delle dimensioni di una casa, se lo sentiva nelle ossa e non poter far nulla per ovviare a quel problema lo faceva infuriare. “È solo…” Esitò ma aveva bisogno di buttarlo fuori e ammetterlo era forse più difficile che farlo. “… Al sta lavorando a qualcosa che mi spaventa.”
“Qualcosa di pericoloso?” Indovinò al volo l’uomo, che Babbano era e sarebbe rimasto, ma sapeva troppo della storia familiare per non avere la capacità innata di capire quando un Potter si buttava nei guai con il piglio di un treno in corsa.

“Potenzialmente.” Convenne stuzzicando quel che restava del suo tortino alla menta.  
Suo padre fece uno sbuffo empatico. “Diavolo, non ne ha avuto abbastanza?”
“Sembra di no.” Ritorse sarcastico. “Deve sapere tutto ed essere invischiato in tutto.”
Ed è colpa mia. Ho mentito e sono sparito. Abbastanza per far sviluppare una paranoia.

… La cosa peggiore è che è colpa mia.
“Figlio di suo padre…” Considerò l’uomo con un sospiro, ignaro dei suoi pensieri, dandogli una pacca sul ginocchio. Fu breve e impacciata, ma non fastidiosa. “Riporta il piatto in cucina quando hai finito.”
Il momento di condivisione padre-figlio era stato spossante per entrambi e suo padre sembrava pronto ad infossarsi nella sua poltrona per una maratona di spazzatura televisiva domenicale; non era stato male però essere compreso da chi, prima di lui, aveva avuto a che fare con la follia Potter. Questo non significava che l’interrogatorio fosse finito però, pensò rientrando e chiudendosi la porta della veranda alle spalle.
Ora è il turno di mia madre.
 
“E tu non sei d’accordo …”
Come aveva immaginato, Robin Castellario in Dursley non aveva aspettato che di vederlo posare il piatto nel lavello per aprire le danze.   
Dovrei cominciare a riconsiderare Vern. Ci ignoriamo meravigliosamente.
“Sono preoccupato.” Incrociò le braccia al petto e guardò verso il camino che si intravedeva dal salotto; ciò che era spuntato da lì durante gli antipasti non era stata la testa arruffata di Albus, bensì una lettera di scuse.
Imperdonabile.
“Glielo hai detto?”
“Non gli importa.”
Gli diede uno  schiaffo sulla spalla, quasi trovasse riprovevole quel pensiero. “Non dire sciocchezze.” Lo apostrofò infatti. “Albus non ha fatto altro che ascoltarti da quando eravate bambini …  mi sbaglio?”

No. 
“Non lo ritiene comunque un motivo per rinunciare.” Non avrebbe voluto parlare di quello; avrebbe voluto essere in giardino a lasciarsi distrarre da un tomo cartaceo, non in una cucina tirata a lucido, con sua madre che lo guardava come se fosse un enorme infante cresciute e capriccioso.
Bello e irrealizzabile, questo tuo mondo delle intenzioni…
“Che la ritenga importante o meno … a conti fatti, che differenza fa?”
“La fa eccome.” Sua madre gli rivolse un sorriso, quasi non credesse a quanto sciocco potesse essere. Nei rapporti interpersonali forse lo era; era stata questa la sua croce e la sua salvezza. “Thomas in un rapporto non è questione di convincere l’altro che sta sbagliando, non sempre. Siete due teste dure, vi arroccate sui vostri obbiettivi … Se lo ostacolassi non ne verrebbe fuori nulla di buono.”
Fece una smorfia. “E quindi cosa mi suggerisci di fare? Assecondarlo?” Odiava sentire la campana della ragione quando non era la sua. Odiava sentirsi nell’infinita schiera di coloro che non avevano diritto di replica perché avevano fatto di peggio. “Stai dicendo che devo star zitto perché anch’io ho commesso la mia dose di sbagli?”
Sua madre non parve turbata dal suo sarcasmo. Era una dote rara. “Non è la prima volta che succede … Stavolta è lui a far qualcosa che preoccupa te e non viceversa. Avete già affrontato questo genere di problema … Come l’avete risolto?”
Assieme. Lo abbiamo affrontato e risolto assieme.

Sospirò, mentre il sorriso dell’altra diventava consapevole e si ampliava. “Vorrei solo esser lasciato in pace.” Confessò perché era la donna che l’aveva cresciuto e non avrebbe approfittato delle sue debolezze. Era una certezza che gli lasciava uno strano calore allo stomaco. “Non me lo merito, ma lo voglio comunque.”
“Sul merito non mi trovi d’accordo, ma su una cosa sì … con la famiglia di tuo zio non l’avrai mai.” Gli passò un braccio attorno alla vita e strinse appena. Aveva capito e non servivano parole: non ne servivano nella sua famiglia e per questo si riteneva immensamente fortunato.
Harry mi ha dato a loro forse con leggerezza.
Nemmeno riflettendoci avrebbe potuto far cosa migliore.
 
****
 
Londra, Farrindgon, magazzino Purge&Dowse, ovvero…
San Mungo. Pomeriggio.
 
Al guardò l’orologio da polso che Tom gli aveva regalato per il suo ventunesimo compleanno e pensò che sarebbe stato ucciso dall’altro non appena avesse messo piede in casa.
Ho saltato il pranzo con la sua famiglia quando gli avevo promesso che ci sarei stato.
Odia quando non mantengo le promesse.
Guardò demoralizzato l’enorme mole di fascicoli che erano stato spediti dall’Archivio Centrale delle Malattie Infettive Magiche di Bruxelles e calcolò mentalmente quando gli ci sarebbe voluto per spulciarli tutti alla ricerca di una casistica che avrebbe potuti aiutarli con il sergente Flannery; non aiutava il fatto che Sam e il Guaritore Smethwyck lo avessero lasciato da solo in quel compito.
Sono Guaritori di ruolo … non hanno tempo. O voglia. E indovinate chi viene chiamato?
Secoli. Ci metterò secoli.
Gli sarebbe stato benissimo se solo non fosse stata domenica e non avesse sentito lo stomaco come una caverna profonda e vuota.

“Ehi!” La voce di Sam fu celestiale quanto l’odore di sandwich al tacchino che vi era associato. “Ho pensato di venire a sfamare il povero ricercatore.”
“Ottima pensata.” Sorrise alzando la testa dai fogli e facendo fatica a mettere a fuoco la figura dell’altro mago nella penombra della biblioteca del reparto; se avesse continuato così fino alla specializzazione avrebbe rischiato gli occhiali da vista.

Come papà … e come Lils anche se si ostina a dimenticarseli ovunque.
L’uomo si sedette al tavolo con lui, allungandogli anche una tazza di fumigante cioccolata calda. L’avrebbe baciato. “Allora … trovato qualcosa?”
“Nulla, per ora.” Scosse la testa addentando il panino con gusto. “Ci hanno mandato di tutto … Forse avremo dovuto essere un po’ più selettivi con le chiavi di ricerca.
“Aumento
di magia e Cambiamenti somatici è un po’ troppo generalistico, eh?” Fece una smorfia l’irlandese reclinando la schiena sulla sedia. “Ma purtroppo sono gli unici sintomi che hanno un senso, dal punto di vista medico.”
“Già.” Sospirò. “E se fosse qualcosa di nuovo?” La sola idea lo gettava nel panico, ma ignorare quel pensiero sarebbe stato più deleterio che dirlo ad alta voce. “Qualcosa che nessuno ha mai visto o sentito?”

Il Guaritore di Infettive fece una smorfia. “È raro che una malattia magica esca fuori dal nulla, Al. I virus, come sai, sia che siano magici o Babbani esistono dalla notte dei tempi e dallo stesso tempo creano malattie legandosi a batteri o alle cellule del corpo umano… Però le nostre malattie nascono molto più lentamente di quelle Babbane… I nostri virus sono pochi.” Scosse la testa. “Ci devono essere dei precedenti. Forse semplicemente non in Inghilterra.”  
“Lo so, è solo … ci sono di mezzo gli auror.” Si morse le labbra e addentò di nuovo il proprio pranzo, anche se gli era passata la fame. “Uno dei sintomi è l’aumento di capacità magica e gli auror si occupano di magia oscura … Se fosse un virus creato attraverso di essa, questo cambierebbe le carte in tavola.”
Un virus creato con la magia oscura … Significa modificare qualcosa che è già nocivo, che è già portatore di malattie per renderlo … Ancora più letale?
“Non fasciamoci la testa prima che il Bolide ci abbia colpito, okay?” Gli sorrise l’uomo più anziano stringendogli appena il polso. “Al momento le condizioni del Sergente sono stabili. Abbiamo tempo per trovare la cura e restituirlo alla sua famiglia.”
Al sorrise, capendo che non avrebbe spuntato quella discussione; l’indole positiva del Guaritore Finnigan era stata temprata dalla guerra, e non sarebbe stato una malattia sconosciuta a scalfirla. Gliene fu grato, ma non poté fare a meno di pensare che tra una Maledizione e un virus, decisamente avrebbe scelto di passare per la prima.
 
****
 
Diagon Alley. Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Sera.
 
Zorba fu il primo ad accorgersi che Al era tornato a casa. Drizzò le orecchie e con un miagolio lieto saltò giù dal grembo di Tom per dirigersi verso l’ingresso.
 
I due umani con cui condivideva l’esistenza da quando era stato preso dal rifugio erano particolari. Erano giovani, sempre presi a litigare su tutto, ma in quella casa non c’era mai l’uno senza l’altro e dal punto di vista di un animale da appartamento era una buona cosa.
Significa che almeno uno dei due prima o poi si ricorda di darmi da mangiare.
Erano divertenti, i suoi umani: c’era l’Umano Alto e dall’espressione torva – aveva un nome ma a Zorba non piaceva – il più raggirabile, nonostante sembrasse sempre in conflitto con il mondo. Era il suo preferito.
Poi c’era Albus, che dei due si occupava di non mandare in malora la casa e di non farli morire tutti di fame. Gli piaceva, ma aveva un po’ troppe regole, come quelle di non farsi le unghie sui mobili o non masticare i lacci delle scarpe.
Strusciandosi contro le gambe di quest’ultimo percepì stanchezza, soprattutto per il fatto che si rifiutò di prenderlo in braccio come di solito amava fare. “Ciao Zorba.” Lo salutò chinandosi per un grattino comunque dovuto. Era il pegno per entrare. “Dove sono Tom e Mei?”

La ragazzina bionda non c’era– e gli stava benissimo dato che era fastidiosa come una batteria di coperchi, lei e il rumore che si portava sempre dietro, musica la chiamava – ma l’Umano Alto era nello studio e trovò quindi giusto guidarci l’altro.
Albus lo seguì sbadigliando e stirandosi come se fosse un gatto – non con la stessa grazia, ovvio – e sorrise quando vide la schiena dell’altro. Cosa trovasse di bello in quella schiena ossuta Zorba non lo capiva, ma doveva avere a che fare con il fatto che vi passava spesso le mani o la abbracciava.
“Ehi.”
“Sei tornato.” Il tono era simile al soffio di un gatto, ma Zorba aveva capito da tempo che era tutta scena. Poteva vederlo balzando sulla scrivania; l’Umano Alto era contento quando Albus tornava a casa, gli sorridevano gli occhi.  “Pensavo ci saresti morto là dentro.”
“Lo pensavo anch’io.” Albus si avvicinò e gli baciò la testa, serrando la presa in un abbraccio che non venne però ricambiato. “Sei ancora arrabbiato?”

“Dovrei?”
“Non rispondermi con un’altra domanda … Lo so che ti avevo promesso che sarei venuto, ma sono stato bloccato fin’ora.” Sospirò. “Dimmi che hai dato da mangiare al gatto … o a te stesso.”
Non avendo risposta Albus alzò gli occhi al cielo, e la piega nervosa delle labbra la diceva lunga su quanto si stesse frenando per non arrabbiarsi. “Non ho la forza neanche per scaldare una pizza, Tom, dimmi che riesci ad alzarti, prendere il telefono e…”
“Ho lasciato la cena in caldo.”  

Dovendo condividere la propria esistenza di Famiglio con un corvo sociopatico – chiunque avesse a che fare per più di cinque minuti con Kafka sapeva che doveva stargli lontano se aveva cara la vita – e un Gufo, Cleto, stupido come un mucchio di sassi, Zorba provava determinato affetto per i suoi umani e fu dunque felice di vedere che la piccola sorpresa dell’uno era andata a segno nello sguardo dell’altro.
“Hai cucinato?”
“Ho scaldato gli avanzi del pranzo, mia madre ci ha sommersi.”
“Merlino la grazi!” Esclamò chinandosi per baciarlo – un gesto antigenico che dalla sua infinita saggezza felina non avrebbe mai capito. “Ti amo.”
“Immagino la tua giornata sia stato un incubo.”

“Mi sanguinano gli occhi … mi hanno messo a controllare qualcosa come un milione di referti medici, non scherzo.” Fece una pausa. “Mi dispiace essermi perso il pranzo dagli zii, sul serio.”
L’Umano Alto scrollò le spalle; non sembrava del tutto convinto ma prese la mano dell’altro e lo condusse in cucina come avrebbe fatto con un bambino insonnolito. Zorba non li seguì, preferendo andare in camera da letto – gli umani la chiamavano loro, ma in realtà era una sua dependance, quella che usava quando voleva rilassarsi dopo una lunga giornata di niente.

Fu svegliato dal peso di Albus sul letto, o meglio, dal fatto che gli franò vicinissimo. Protestò con un miagolio e per tutta risposta si beccò un colpetto irrispettoso sotto la pancia. “Dai Zorba, fammi posto … Devo riuscire a dormire almeno quattro ore stanotte.”
“Ti sei portato delle cartelle a casa.” Osservò l’Umano Alto, già in direzione della sua scrivania. “Pensavi di continuare?”
“Essere assuefatti al lavoro è una malattia, non serve che tu me lo dica…” Bofonchiò con la bocca sui cuscini, ormai prossimo al sonno. Zorba fu magnanimo; gli concesse di farlo anche se era il suo posto preferito. “Volevo avvantaggiarmi ma non ce la faccio. Le leggerò domani mattina.”
Fu l’ultima cosa che disse prima di cominciare a dormire della grossa. L’Umano Alto, che era tornato alla scrivania che usava quando voleva star vicino all’altro, si alzò e andò a frugare nella borsa di tela di quest’ultimo, estraendo fogli spillati assieme. Dovevano essere i cosiddetti referti.
Li portò alla scrivania e Zorba, che gli saltò in grembo sia per avere attenzioni, sia per controllare che non fossero pericolosi, lo vide consultarli con attenzione.
“Gli esseri umani sono stupidi.” Gli venne confessato a mezza bocca. Fare da cassa di risonanza silenziosa a quei due era un altro dei suoi compiti e lo svolgeva ovviamente al meglio. “Facciamo cose assolutamente idiote per chi amiamo.”
Zorba si acciambellò su quelle gambe magre e fece le fusa; era un buon modo per assentire.

 
 
****
 
Note:
 
Non ho potuto fare l’alba del giorno dopo di tutti i ragazzi, ma non preoccupatevi, avrete pensieri e seghe mentali anche di due tedeschi e di un Mike. Tutto a suo tempo. ;)
I nomi dei Mannari: sono stata a lungo indecisa se metterli in inglese o usare la traduzione italiana. Ho deciso per la seconda ipotesi perché alla fine ho usato sempre la terminologia italiana per le Case, i cognomi e gli incantesimi.
Per quanto riguarda il secondo battesimo, e ‘i nomi’ degli OC … beh, tutta farina del mio sacco.
(Anche se i nomi Moscardo e Vulneraria sono tratti da un libro. Un cioccolatino a chi lo riconosce. :P)
Qui la canzone del capitolo.
Per chi volesse vedere Zorba qui

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Capitolo 18
*** Capitolo XVII ***


Capitolo XVIII


 
 
Oh and if there's any love in me, Don't let it show.
Oh and if there's any love in me, Don't let it grow.
(Shape of my heart, Noah & The Whale)
 
 
2 Luglio 2028
Londra, Diagon Alley.
Il Paiolo Magico. Mattina.
 
Era un grigio lunedì mattina, umidiccio e piovoso come poteva essere solo in un’isola flagellata da un clima orrendo.
Milo, che in un’isola ben più grande e variegata adesso viveva, si stiracchiò, varcando l’ingresso fumoso del Paiolo Magico.
Cosa c’è di meglio dell’odore di uova e birra stantia la mattina? Ti rimette a posto con il mondo.
Se vivi in un cassonetto.
Con una lieve smorfia alzò gli occhiali da sole per non vagare nella penombra del locale – erano scomodi anche fuori, con quel tempo, ma era una questione di immagine -  e andò alla ricerca del motivo per cui era tornato in quella bettola sudicia; il principino, che consumava la colazione con la solita aria da eroe tragico, ma con il tovagliolo sulle ginocchia e ogni singola posata disposta.
“Ti manca una cappa che ti nasconde il viso e una candela e sei un perfetto cospiratore.” Lo salutò stravaccandosi sulla sedia di fronte a lui. “Buon lunedì, padrone.”
Sören alzò appena lo sguardo dal suo piatto di porridge – Merlino, davvero? “Dov’eri finito?”
“Dici sabato sera o tutta questa domenica? A prendermi il mio giorno libero.”
“Non hai giorni liberi.”
“Curioso, mi sembrava di sì.” Ghignò agganciandosi i Ray-Ban al taschino e tirando una sigaretta fuori dal pacchetto sgualcito. “Sentito la mia mancanza?” Lo guardò attentamente e registrò i cerchi attorno agli occhi e l’aria tirata. “Delle mie pozioni post-sbronza?” Suggerì ignorando l’occhiata luciferina che gli venne scoccata. “Qualcuno ha passato un’alba del giorno dopo niente male, vedo.”
“Non pensavo di aver bevuto così tanto.” Mormorò rimestando nella poltiglia grigiastra che aveva di fronte con aria assente. “Non penso di aver mai bevuto così tanto.” Si corresse. “Perché ne sento ancora gli effetti?”

“Perché è la tua prima vera ciucca!” Ridacchiò accendendosi la sigaretta e passandogliela magnanimo; era certo che non fosse strisciato a comprarsele in quei due giorni. L’altro la prese con un guizzo grato negli occhi arrossati. “Complimenti, sei diventato un ometto!”
“Ti prego di evitare inadeguata ironia.” Borbottò con il tono di un bambino con il mal di pancia. “Penso di aver contratto un virus. La promiscuità a quella festa…” Avvampò quando notò come lo stava guardando. “… intendevo lo scambio di bicchieri.”
“Sì, certo.” Convenne facendo aderire la schiena contro la sedia; con un guizzo schifato si accorse che vi aderiva fin troppo. “Non ti sei ammalato, è che non sei abituato alle bombe che confezionano i tuoi amici maghetti durante le feste. Alcool magico con quello babbano? Senza una Pozione Anti-Sbronza ti senti un cadavere per le trentasei ore successive.”
“Te ne intendi.”
“Ehi, io so divertirmi.”
Sören fece una smorfia infilandosi una coraggiosa cucchiaiata di quella sbobba in bocca. Inghiottì con la fermezza di un soldato con il proprio rancio. “Mi servirebbe quella pozione.” Mormorò con un sospiro.

“Sì, sì ricevuto.” Convenne godendosi il semplice fatto che si sentiva da urlo mentre il maghetto si sentiva uno straccio.
Per una volta, lunedì i ruoli sono invertiti. Ah!
Aveva passato una domenica niente male, in giro per una città che si era dimostrata piuttosto interessante. Aveva dormito nel letto di un architetto Babbano che si era poi offerto di accompagnarlo in giro e di pagargli ogni singolo pasto, commosso dalla sua storia strappalacrime di modello la cui fortuna aveva smesso di baciarlo. Era stata una buona domenica sì, ma soprattutto era stato un grandioso sabato sera.
Ho smerdato quel coglione di Purosangue. Ho chiuso la storia, garantito.
Meglio di una scopata!
Ora però era il momento di rientrare nei panni della balia. Batté le mani, facendo sobbalzare l’altro con una smorfia di dolore. “Allora, raccontami com’è andata.”
Sören distolse prontamente lo sguardo, in una ritrosia adorabile se non fosse stato per il tono da piccolo dittatore che ne seguì. “Non sono affari che ti riguardino.”
Per favore.” Alzò gli occhi al cielo. “Parliamoci chiaro, principino … Mi hai trascinato a quella stupida festa di bambocci magici. Il minimo è dirmi se sei riuscito finalmente a mettere le mani addosso…”
“Ti avverto.” Ringhiò, ed era talmente teso che sembrava una frusta pronta a schioccare. “Se osi mettere in mezzo…”
“… Insomma, hai scopato o no?” Stornò perché aveva capito l’antifona e non aveva intenzione di farsi Maledire, non di lunedì mattina. Meglio dunque tenersi sul generale.

Sören si rilassò visibilmente. “No.” Scosse la testa, imbarazzato ma non più aggressivo. “Come ho detto, non ero in me e preferisco essere nel pieno possesso delle mie facoltà mentali…”
“… e fisiche…” Lo stuzzicò e per un momento pensò che gli avrebbe tirato un calcio.

Questa faccenda londinese ci sta avvicinando? Ugh. No.
“… delle mie facoltà mentali quando mi approccio ad una donna.” Concluse pieno di sussiego. “E comunque ho passato la serata a chiacchierare con Lily e il suo ragazzo.”
… Merlino, che fesso.

“Ah, sì?” Interloquì diplomatico. Fare battute sarebbe stato come sparare sulla croce rossa. “Beh, che tipo è? A parte avere un culo da sogno ma molto etero, si intende.”
“Ha una cultura notevole.” Non si sbilanciò ed era chiaro non volesse parlare di quello. Diede infatti un sorso al proprio caffè – un po’ inquietantemente color inchiostro – e serrò le labbra. “Ad ogni buon conto questo ho fatto. Poi sono tornato alla locanda.”
“Ti sei divertito?” Un’ombra di sorriso passò negli occhi dell’altro e Milo si trovò a sorridergli di rimando. “Che t’avevo detto? Questi britannici non sono poi tanto male.”

“Non ho mai sostenuto il contrario. Non di tutti, almeno.” Ammise con un sorrisetto che gli cancellava dalla faccia almeno dieci anni. Quando si ricordava di fare battute sembrava finalmente avere vent’anni e non cinquanta. “Scorpius è stato un ospite eccellente.”
Ah, ora lo chiama per nome. Buon segno.

Si sentiva tremendamente una bambinaia apprensiva. “E Zenzero?”
Sören sbuffò al nomignolo, ma non lo corresse. “Lilian è stata meravigliosa.” Ed era una constatazione che veniva così naturale da far tenerezza.

“Ci mancherebbe.” Si passò una mano trai capelli, che li sentiva già appiccicarsi sgradevolmente sulle tempie.
Questo posto fa schifo. Se dobbiamo star qui più di una settimana conviene trasferirsi.
“E tu invece?”
Milo batté le palpebre sorpreso; era raro che l’altro si informasse circa i suoi spostamenti, informasse sul serio, e non per dar aria alla bocca o colmare un silenzio. Dallo sguardo però sembrava sinceramente incuriosito. “Non ti ho visto tornare, sei andato via con qualcuno?”
“Sì e no.” Si strinse nelle spalle. “Diciamo che ho fatto un po’ di guai a Notturn Alley e poi sono andato a fare il bravo nel letto di qualche Babbano non impegnativo.”
Sören inarcò le sopracciglia con aria divertita. “Come al solito insomma.”
“Ho anche fatto il turista.” Aggiunse sulla difensiva, perché  di fronte allo sguardo dell’altro realizzò che la sua domenica non era stata poi tanto esaltante.

Al diavolo, lui l’ha passata sulla tazza del cesso. Almeno io ho scopato.
Sören annuì. “Ho capito.” Dietro l’aria stordita sembrava diverso dal solito, lo registrò incuriosito. Meno ombre nello sguardo, più vita.
Qualcuno finalmente ha avuto un sabato sera autentico.
Ne era contento, il che fu un po’ spiazzante. Accantonò quell’anelito filantropo e lo classificò come l’opportunità di potersi fare i fatti propri.
Se non rimane chiuso in se stesso a rimuginare io ho più giornate libere. Semplice.
“Allora … pozione!” Si alzò in piedi. “Vado a preparartela. Per quando ti serve?”
“Subito.” Tornò in modalità padroncino pretenzioso. “Io lavoro.”
Fece schioccare la lingua, trattenendosi per non mandarlo al diavolo. Ecco, quello era il botta-e-risposta che ricordava e che lo metteva a suo agio. “Stessa situazione qui, Prince. E credimi, non è un lavoro part-time.”

 
Quando Milo l’ebbe lasciato solo, Sören si permise di emettere un basso lamento, passandosi una mano sul viso; l’emicrania non gli dava tregua da ormai quarantotto ore e non aveva la minima idea di come sarebbe riuscito a presentarsi all’ufficio Auror in quelle condizioni.
Se non mi riprendo sarò facile vittima per Potter.
Non era pentito però; per quanto male si sentisse, quello che aveva vissuto e provato era qualcosa di annoverabile trai suoi pochi, buoni ricordi.
Lily mi ha accettato. Perdonato forse non ancora. Ma mi ha accettato.
Normalmente non si sarebbe spinto in considerazioni così audaci, ma l’amica aveva passato un’intera serata con lui e non c’era stato momento in cui, alzando lo sguardo, non l’aveva vista sorridergli. Non si era sentito lasciato a sé stesso o alle sue paure neppure una volta. Lily era una LeNa: aveva avuto modo di mostrargli la sua vicinanza anche senza parlare.
E poi…
Ficcò il cucchiaio nella zuppa di avena ormai fredda: poi c’era stato un episodio che non sapeva come classificare e che aveva semplicemente accantonato come effetto dell’alcool.
 
La vista aveva cominciato a sfuocarglisi ed aveva dunque lasciato il bicchiere ancora colmo di whisky al suo destino, preferendo concentrarsi sulle parole di Scott Ross. Non aveva idea di come fosse finito a parlare di linguistica indoeuropea con il fidanzato di Lily, ma era una conversazione interessante e gli dispiaceva intenderne che pochi sprazzi.
“Amico, sei cotto.” Gli aveva detto ad un certo punto lo scozzese di fronte a lui, con un sorriso storto. “Mi segui?”
“Temo di no.” Aveva confessato, sentendo il peso di Lily appoggiarglisi alla spalla; quel contatto aveva smesso di turbarlo almeno un paio di bicchieri prima. La ragazza si era fatta insolitamente silenziosa, limitandosi ad ascoltarli con un pigro sorriso dipinto sulle labbra rosse.

“Vado a prenderti un bicchiere d’acqua.” Lo scozzese si era alzato un po’ scoordinato, appoggiandosi alle sua spalla per tirarsi dritto. “Oops!”
“Nessun problema.” Aveva trovato giusto notificare, che il contatto fisico davvero non gli stava dando problemi, ed era fantastico, meraviglioso. Non gli era mai successo. “Sei sicuro?”

“Credo di averne bisogno anch’io.” Aveva scrollato le spalle. “Tienila d’occhio, okay?” Aveva indicato Lily che profumava di gigli esattamente come quando aveva quindici anni.
Non ha mai cambiato profumo… Perché dovrebbe? Le sta bene.
Quando Scott se n’era andato aveva abbassato lo sguardo sull’altra. “Come ti senti?” Aveva chiesto, perché era il genere di cose che si supponeva si dovesse chiedere.  Aveva sentito Scorpius domandarlo alla propria fidanzata mentre la suddetta aveva la testa ficcata fuori dalla finestra ‘per prendere aria’. “Hai bisogno di un bicchier d’acqua?”
Lily per tutta risposta gli era scivolata addosso: non c’era stato termine migliore per descrivere l’evento, dato che un momento prima gli era accanto e quello dopo sulle sue ginocchia a cingergli il collo con le braccia mentre nascondeva il viso contro il suo petto.
Un lontano, lontanissimo campanello d’allarme era risuonato nella sua testa. Avrebbe dovuto preoccuparsene? Forse no. “Ho sonno.” Aveva bofonchiato. “Ho bisogno di dormire.”
“Credo non sia opportuno che tu ti addormenti…”
“Ren, chi era la ragazza da party di noi due? Chi se ne intende?” Aveva argomentato con un sospiro che gli aveva solleticato il collo, caldo come il vento del Messico. Da ubriachi – perché lo erano, nessun dubbio su questo – i paragoni venivano così facili…

Da qualche parte l’impianto stereo suonava imperterrito ed era tutto perfetto.
 
Memories fade, like looking through a fogged mirror
Decisions too, decisions are made and not bought…

 
“Tu. Sei tu l’esperta.” Aveva convenuto. Il campanello continuava a trillare, e doveva dargli un senso. Andò a tentativi. “Vuoi che chiami Scott?”
“Perché? È conciato peggio di noi due messi assieme, starà con la testa sotto il rubinetto adesso, lascialo perdere.”

“Allora…” C’era sicuramente una risposta alla domanda che aleggiava tra di loro, ma non l’aveva e quindi aveva aspettato che fosse l’altra a trovarla: era sempre stata più brava di lui in quelle cose.
Come un tempo, Lily non l’aveva deluso. “Portami a letto.”
Il campanello aveva cominciato trillare insistentemente ma l’aveva ignorato, perché aveva un ordine ed era un agente e quello che facevano gli agenti era obbedire. “Ce la fai a stare in piedi?”

“Domanda stupida, Ren. Se fossi in grado, credi che te l’avrei chiesto?”
C’era un metodo nell’ebbrezza di Lilian, molto più che nella sua, quindi vi si era affidato, passandole un braccio sotto le gambe e tirandola su. L’aveva sentita ridacchiare, deserto del Messico contro la sua pelle. “Come una principessa, eh Ren? Un principe e una principessa!”
“Nessuno di noi due è di sangue reale.”
“Non mi freghi, con il cognome che ti ritrovi.”

Era parsa ad entrambi una battuta molto divertente, perché avevano ridacchiato salendo le scale. Avevano così incrociato la ex-Campionessa di Beaux Batons nonché una delle innumerevoli cugine che aveva ghignato loro facendoli passare mentre cercava di aiutare una brunetta a tirarsi in piedi. “Ehi Rossa, ti sei trovata un altro cavalier servente?”
“Sono una principessa, vero Ren?” Aveva ribadito l’altra con una felicità così alcolica, ma tenera che Sören si era trovato ad annuire.
“Sì, lo sei.”
“Ed eccone un altro. Convinci proprio tutti i maschietti a stendere il mantello per farti saltare la pozzanghera, ah?” Aveva ribattuto la francese strizzandogli l’occhio. “Buona fortuna mangiapatate!”
Lo sono. Sono fortunato.
L’aveva poi portata nella prima camera indicatagli e Lily si era lasciata posare sul letto per poi rannicchiarsi tra le coperte. “Lilian?” L’aveva chiamata. “Non puoi dormire con i vestiti addosso, devi cambiarti.”

Non vi era stata risposta e dubitava che l’avrebbe avuta a giudicare dal respiro denso e regolare dell’altra. Aveva quindi sospirato, sedendosi sul ciglio del letto sia per far smettere la testa di vorticare impazzita sia per …
Per guardarla.
Non aveva ancora avuto modo di farlo adeguatamente, sempre preso a non esagerare, a non mostrare, a non far capire quanto e come gli fosse mancata in quei cinque anni.
Ti può mancare una cosa che non dovresti avere?
Forse persino più di quanto dovrebbe.
Era bella Lily. E non era solo il suo aspetto a renderla tale, ma l’aura luminosa che emanava, il raggio di luce che aveva bucato l’oscurità in cui era stato immerso dalla morte di suo padre.
Era molto ubriaco per fare considerazioni simili, se ne rendeva conto. Era molto ubriaco o non le avrebbe mai tolto una ciocca di capelli dalla fronte per sfiorarle lo zigomo, sentendo le lacrime pungergli gli occhi per il semplice fatto che l’altra fosse lì, con lui. Che fosse venuta al mondo.
Grazie.
Si riscosse quando la vide battere le palpebre. “Ehi, soldatino…” Gli sorrise cercandogli la mano per stringergliela. “Mi fai la guardia?”
“Pensavo più che altro a come farti stare comoda.” Aveva risposto, schiarendosi la voce e ringraziando le luci soffuse della camera.

“Sto benissimo.” Aveva sbadigliato, cercando di calciare via i tacchi elaborati e dall’aria scomoda che indossava. “È più semplice di quel che sembra.” Motteggiò scoccando loro un’occhiata frustrata, prima di premere di nuovo il viso sul cuscino. “Puoi andare Ren, non devo essere uno spettacolo esaltante…”
Non c’è altro posto in cui vorrei stare.
Non lo disse però, limitandosi a sfilarle quelle che ormai avevano assunto le dimensioni di trappole per piedi, cercando di non rimanere turbato dal gesto. Non aveva calcolato quanto potesse essere intimo sfiorarle le caviglie e la pelle morbida delle gambe nude, quasi …
Erotico?
Le posò a terra, dove la mattina dopo l’altra avrebbe potuto trovarle e si passò una mano sul viso.
Alzati e vattene. Hai assolto al tuo compito soldato, adesso va’.
Non voleva.
 
“Ah, siete qui!”


La voce di Scott Ross era stata una vera e propria doccia fredda. Sören aveva alzato la testa di scatto e aveva visto il ragazzo stagliarsi sulla porta con un bicchier d’acqua in mano.
È per me.
Si era sentito una carogna, e si era affrettato ad alzarsi. “L’ho portata a letto, aveva sonno.” Aveva accettato il bicchiere e ne aveva dato un grosso sorso. “Spero di non aver fatto male.”
“No, per niente. Quand’è così è l’unica cosa da fare…” Gli aveva sorriso: era un bravo ragazzo. Molti altri uomini l’avrebbero antagonizzato, trovando facile odiarlo per aver fatto soffrire la ragazza che amavano. Ross aveva voluto conoscerlo.

E tu hai desiderato rimanere con la sua donna.
Che razza di mago sei? Vergognati.
“È il caso che vada.” Si era scollato dal palato. “Se si sveglia dille che…”
“… che la saluti.” Lo aveva interrotto, dandogli una pacca sulla spalla.  “Grazie per esserti preso cura della mia ragazza.”
… Ah, ecco.
Era giusto. “Nessun problema, siamo amici.” Aveva chinato la testa in un saluto. Perché tutto quello aveva il sapore di una resa? Era ridicolo. “Buonanotte.”
Scendendo le scale aveva sentito uno schianto e un freddo dolore alla mano; era dovuto arrivare in cucina per rendersi conto che aveva spaccato il bicchiere tra le dita.
 
Il moto di invidia che aveva provato nei confronti dello scozzese era stupido, se ne rendeva conto. Doveva essere felice che Lily avesse trovato un ragazzo capace di amarla e rispettarla; sembrava serena ed era questo che doveva importargli, nient’altro.
Strinse la mano che aveva curato non appena era riuscito ad utilizzare la magia senza aver voglia di vomitarsi sulle scarpe.
Ti può mancare una cosa che non puoi avere?
Persino più di quanto dovrebbe.
 
 
****
 
Chelsea Embankment, Old Church Street.
Mattina.
 
Michel non riusciva a togliersi dalla mente il Magonò. Il che era umiliante.
Scacciò via per l’ennesima volta quel pensiero, arrotolando la Gazzetta del Profeta e mettendosela sottobraccio mentre entrava nel suo caffè preferito il quale, oltre avere il pregio di un proprietario che non mancava mai di offrirgli la colazione, era a due passi da casa sua. Fece scivolare il quotidiano magico nella borsa di pelle e individuò a colpo sicuro la massa di ricci mollemente acconciati del suo inquilino abusivo. Sorrise quando vide un’altrettanto familiare testa scura e spettinata.
È riuscito a farcela.
“Al, questo taglio sta andando fuori controllo…”  
Lo so!” Mugugnò l’interpellato riavviandosi i capelli corti con un delizioso rossore sulle guance. “È quella mezza lunghezza impossibile. Mi raserei se non dovessi affrontare gli sfottò di metà della mia famiglia!”
“Con che faccia osano? Metà di loro ha roba assolutamente riprovevole in testa.” Replicò facendolo sorridere con affetto. “I capelli rossi sono volgari.”

“No, sono deliziosi. Sapete cosa si dice delle donne coi capelli rossi, no? Rosse di capelli, rosse di pensieri.” Si intromise Loki con un sorriso lascivo, schivando un calcio dall’amico, la cui sorella era baluardo di quell’affermazione.
Credo anche che siano stati a letto assieme, lei e Loki. Ma francamente, chi non è stato a letto con la Potter? 
Al si spostò per fargli posto. “Abbiamo ordinato anche per te. Cappuccino di soia, giusto?”
“Sai come prendo il caffè, pulcino, sono commosso.” Ironizzò contento; la giornata, nonostante il tempo metifico, si prospettava rilassante. Al lavoro lo aspettava la solita pila di scartoffie ma la sua vicina di scrivania era ancora malata.

Potrò fumare come e quanto voglio. Accontentiamoci delle piccole cose.
“Abbiamo fatto colazione assieme per sette anni, avrei la memoria fallata se non fosse così.” Rispose Al scrollando le spalle. “Posso restar poco però … Ho da fare al San Mungo.”
“Il nostro scricciolo ambizioso!” Sogghignò Loki mettendosi una mano sul petto. “Ti ricordo timido e buono a nulla … Con la nostra paziente guida sei diventato un vero arrampicatore sociale.”

“Voglio solo fare bene il mio lavoro!”
“Non essere modesto. Dillo a zio Loki, quante persone hai calpestato fin’ora? Rendimi fiero di te.”
Lo!
Michel ridacchiò ascoltando il battibecco giocoso trai due e mentre consumavano le loro flagranti ordinazioni – il proprietario non si era smentito e aveva dato loro una dose extra di cornetti a testa, con gran gioia di Albus – il pensiero scivolò di nuovo nei lidi in cui era stazionato per tutto il finesettimana.
Il Magonò. Chi diavolo è? A parte … un Magonò, certo.

Al diavolo, sono sicuro, l’ho già incontrato.    
Non riusciva però a ricordare dove: non aveva mai frequentato senza-magia, neppure nelle sue spedizioni più sordide appena uscito dalla claustrofobia di Hogwarts.
Ho degli standard, grazie tante.
“Mike?” La voce di Al lo riscosse bruscamente. “Son dieci minuti che parliamo con te e non ci rispondi. Va tutto bene?”
“Sì, ero solo perso nei miei pensieri.”
“Voli pindarici dal mago più materialista di Londra? È sorprendente.” Gli diede manforte Loki sorseggiando il suo the con un piglio che gli stava valendo occhiate lussuriose da  tutta la popolazione femminile presente nel locale. Sarebbe probabilmente uscito di lì con almeno cinque o sei numeri scritti sul complicato smartphone Babbano che usava per andare a caccia di gonnelle.

“Hai conosciuto qualcuno?” Sorrise Al e normalmente sarebbe stato un fraintendimento grossolano.
“Forse.” Non si sbilanciò staccando un pezzo dal proprio croissant: l’idea di confidarsi con quelli che riteneva i suoi più cari amici doveva venirgli naturale, supponeva, ma Loki aveva la deprecabile tendenza alla presa in giro.
Ti chiederebbe sotto quale Pozione Stordente sei. Penserebbe ad uno scherzo.
E lo avrebbe pensato anche lui a ruoli invertiti. Al tempo stesso non poteva però smettere di pensare a quel corpo bollente, alle dita che tracciavano la sua pelle come se ne conoscessero la mappa e…
“Mike?” Albus sembrava estremamente divertito dalla situazione e ne aveva ben donde.
Ti stai comportando come un idiota.
“Nessuno di interessante, pensavo al lavoro.” Allungò un paio di sterline sul tavolo per chiudere la conversazione. Sperava non sembrasse una ritirata. “A questo proposito temo di dover scappare, sono in ritardo.”
“Lo sono anche io.” Fu lesto a ribattere il moretto, gettando alla rinfusa un paio di monete che valevano il doppio della sua consumazione. “Ti accompagno!”
No, non è finita qui per Albus Severus Potter.

Salutato Loki, già preso ad ammiccare fascinosamente ad un gruppo di studentesse del vicino Chelsea College, si incamminarono di buona lena in direzione della City; Albus avrebbe poi preso la metropolitana e proseguito per Farrindgon.
“Non ti Smaterializzi vicino alla fermata di South Kensington?”

“No, preferisco camminare con te.” Fu la risposta allegra, nonostante il piccolo diluvio che si stava scatenando sopra le loro teste.  Michel non poté frenare un moto di sciocca contentezza; passare del tempo con l’amico era sempre più difficile trai rispettivi impegni e passarlo da soli, senza l’ingerenza di Dursley, Mael e Nott era merce ancora più rara.
Fu Al a riprendere la conversazione. “Insomma, lui chi è?”
“Lui chi?” Tentò senza troppa convinzione. Aveva bisogno di parlarne con qualcuno, realizzò, e l’amico era la persona più indicata dato che aveva l’innata capacità di non giudicare mai le scelte di cuore altrui.
Con le sue non può permettersi giudizi.
“Si chiama Milo.”  
“È un nome carino.” Osservò dandogli di gomito. “È carino anche lui?”
“Non carino. Bollente.” Ammise suo malgrado facendolo ridacchiare di rimando. “Il genere che non ti fa venir voglia di alzarti dal letto.”
“Già mi piace!” Ammiccò. “L’hai conosciuto all’Heaven?”

“Sì, ma non è un Babbano…” Lì veniva la parte difficile e decise dunque di prenderla alla lontana. “Credo di averlo già incontrato.”
“Beh, noi maghi inglesi non siamo quella che definirei una popolazione numerosa.”
“È straniero, ma non è questo il punto. Non riesco a capire dove l’ho conosciuto, e di certo non l’ho fatto di recente … Mi sarei ricordato di un tipo simile, ho buona memoria tra le lenzuola.”
Al alzò gli occhi al cielo. “Magari non te lo sei portato a letto. Forse l’hai semplicemente visto in giro.”
“No.” Scosse la testa. “Non frequentiamo gli stessi ambienti.”
L’altro gli restituì un’occhiata confusa, tentando di schivare una pozzanghera e finendoci comunque dall’imprecazione che mormorò a mezza voce. “Ma scusa … se vi siete incontrati al club…”
“Pensavo fosse un Babbano.” Inspirò mentre la necessità di sfogarsi faceva a pugni con l’umiliazione e lo sconcerto. “È un Magonò.”
“Oh.” Se Albus era rimasto shockato non lo mostrò, limitandosi ad una blanda espressione sorpresa.

“Non assomiglia ad un Magonò.” Si ritenne in dovere di spiegare. “Non ne ha l’aria, o il linguaggio … Il cockney è il rifugio degli illetterati.”
“Michel…”  
“Avanti, dimmi che non è così.” Sbuffò. “Comunque neanche lui pensa bene dei Purosangue.”
“Allora…” Al si grattò una guancia. “… come diavolo siete finiti assieme?”
“La prima volta perché nessuno dei due aveva capito cos’era l’altro.” Dovette ammettere, perché riflettendoci era ovvio che il Magonò non l’aveva rimorchiato credendolo un mago. Gli aveva reso ben manifesto il fastidio che provava per la sua categoria. “La seconda…”
“C’è stata una seconda?” Gli occhi enormi di Al diventavano tali quando era sbalordito e Michel si chiese cosa ci fosse di così sorprendente prima di realizzare che probabilmente aveva frainteso.

“Non tra le lenzuola. L’ho incontrato a Notturn Alley, la sera della festa di Sy, mentre andavo a comprare le sigarette. Mi ha … salvato.”
Salvato?” Al fece quasi un saltello per evitare la seconda pozzanghera e stavolta si inzaccherò fino alle caviglie. Ignorò la cosa e lo strattonò leggermente. “Cavolo, racconta!”
Capitolò, un po’ per l’espressione avida sul volto dell’altro – era raro vederlo davvero interessato a qualcosa che non fosse il suo lavoro o Dursley – un po’ perché aveva ancora bisogno di metabolizzare.

Sai com’è, ti ha salvato il borsello … e la vita.
“Wow.” Commentò alla fine quando erano ormai nei pressi della fermata metro. “È stato una specie di principe azzurro!”
“Hai saltato la parte in cui mi ha insultato?” Ritorse sentendosi un po’ preso in giro, specie dall’occhiata paziente che gli venne rivolta.
Se solo sapesse l’erezione che ti ha lasciato per un’intera serata…

“Beh, tu hai fatto un po’ lo stronzo.”
Io?
“Dai, sei sei stato piuttosto sgradevole, e sono certo che non mi hai racconta tutto…” Inarcò le sopracciglia con un sorrisetto malizioso. “Comunque sembra un sacco sexy.”
“È un Magonò.” Ribatté fiacco perché lui, primo tra tutti, si era stufato di sottolinearlo. “Vorrei solo sapere perché mi sembra così familiare.”
“Beh, ma non tutti i Magonò nascono tali!”

Michel batté le palpebre, chiudendo l’ombrello e appendendoselo al braccio dato che si era affacciato un pallido sole. In estate era bene approfittarne. “Ovvero?”
Albus lo guardò come se fosse un po’ tardo. “Non tutti i Magonò nascono da Magonò! Molti nascono in famiglie interamente magiche … Anzi, l’incidenza statistica è maggiore.” Lo guardò pensieroso, prima di schioccare le dita. “Ehi, senti se ha senso … Puoi averlo incontrato prima degli undici anni. So per certo che, anche per legge, prima degli undici anni non puoi essere considerato Magonò.”
“Prima degli undici anni?” Aggrottò le sopracciglia; sì, aveva più senso di tante altre teorie che aveva vagliato in quelle quarantotto ore. “Ma prima di Hogwarts ho frequentato solo famiglie come i Nott o i Malfoy.”

“Appunto!”
“Pensi che sia un Purosangue?” In effetti c’era stato qualcosa nel tedesco che gli aveva fatto pensare ad un’infanzia agiata; il modo di parlare, farcito di colloquialismi ma comunque corretto, la postura dominante, il corpo curato e i vestiti impeccabili. Poteva essere cresciuto nel suo ambiente e dunque la sua avversione per i maghi poteva essere stata scatenata dal rifiuto per un mondo a cui era appartenuto.
Terribilmente romanzesco, ma aveva senso.
“Quindi vi siete incontrati da bambini?”  
“Se è successo non me lo ricordo.”
Ma a quel punto della faccenda era sua intenzione farlo.
 
****
 
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Metà mattina.
 
Scorpius sapeva che la chimica in un gruppo era cosa precaria. Certo, per anni era stato il paria di Grifondoro, ma nella primavera della sua età adulta poteva dire di avere amici veri e compagni a cui avrebbe affidato la vita – e visto che non voleva rendere Rose vedova ancor prima del matrimonio non era cosa da poco.
Erano riflessioni che l’avevano colto mentre consumava il primo the della sua giornata lavorativa seduto alla scrivania e, a giudicare dallo sguardo assorto di Jordan accanto a lui, erano condivise.
La mancanza del Sergente Flannery si faceva sentire; con il suo carisma innato e la capacità di trattarli tutti come cuccioli entusiasti era sempre riuscito a far funzionare le cose.
Il sergente Weasley era invece tutt’altro paio di maniche: non lo diceva solo perché sarebbe diventato suo suocero e perché era Ronald Weasley, ma perché non era il coordinatore giusto, non per loro almeno.
Vedendolo entrare in quel momento, scherzando con James come il nipote che era e non come l’auror che avrebbe dovuto essere, fu avere l’ennesima riprova. L’uomo non aveva capito che per tenere buono il figlio del capo bisognava tenerlo emotivamente a distanza.
Diavolo, James è un dannato maschio alfa. Come potrà pensare di tenerlo buono quando avrà uno dei suoi momenti di stronzaggine acuta?
Sul serio.
“Buongiorno.” Salutò comunque di buon grado. “Potty, devo comprarti una spazzola per vestiti? Sei pieno di cenere come un camino!”
“Oh, va’ al diavolo Malfuretto.” Scrollò le spalle questo dandosi comunque una veloce spazzolata al mantello. “Sono comunque uno schianto.”
“Seminando nugoli di cenere sulla nostra scrivania, certo.” Ribatté facendo un cenno di saluto all’auror più anziano. “Jordan è rimasto bloccato nel traffico.” Notificò. “Mi ha mandato un messaggio allo Specchio Comunicante qualche minuto fa.”
“Lui e quella sua macchina su strada … Gli ho detto mille volte che quelle volanti sono migliori!”
“Costano anche il triplo, Potty.”  

James si strinse nelle spalle. “Che ne sai tu, piccolo ereditiere?”
“Tra poco diventerò un capofamiglia, dovrò economizzare sulle mie enormi fortune.” Ghignò notando come le orecchie del futuro suocero fossero diventate paonazze.
Coprirò la mia rosellina di Galeoni e gioielli. Fammi causa.
“Qualcuno vuole un caffè?” Sorrise sentendosi molto ipocrita e molto soddisfatto.
“No, meglio iniziare subito.” Borbottò il mago quasi avesse letto nel suo empio cuore Malfoy. “Voglio fare il punto della situazione prima di lasciarvi. Ho un sopralluogo a Birmingham alle dieci, non voglio Smaterializzarmi all’ultimo momento.” Fece un cenno a Bobby che con il fiatone si stava dirigendo verso di loro, schivando sedie e auror.  “Dov’è Prince?”
Era un po’ la domanda che aleggiava tra di loro ma che nessuno, neppure James, aveva ancora formulato.
Si apra il vaso di Pandora.
“Non lo so, avrà avuto un contrattempo.” Suggerì notando la smorfia soddisfatta sul volto del migliore amico; anche se aveva tagliato sensibilmente le esternazioni rabbiosa e recriminatorie, nei confronti del tedesco continuava a tener vivo il ridicolo nonnismo da Accademia.
Ma non gli si può chieder di più, però. Potty è un bullo. Se la prende solo con quelli della sua stazza e con chi crede che se lo meriti …
Ma quello rimane.    
“Magari è stato bloccato a Cooperazione.” Gli diede manforte il buon Jordan. “Come agente di collegamento non deve fare un rapporto settimanale ogni lunedì?”
“Macché, secondo me non s’è svegliato. Del resto questo sabato ci ha dentro coi festeggiamenti.”
“In che senso?” Si informò il sergente e Scorpius sospirò interiormente; era ovvio che entrambi non vedessero l’ora di trovare una macchia nella perfetta corazza del poveretto.

“Nel senso ha fatto meno brindisi di quanti whiskey s’è scolato.”
“Non è stato l’unico. Era una festa in un pub irlandese.” Osservò blandamente. “Per esempio, domenica mattina io mi sono svegliato abbracciato ad un cane di peluche.” Quando vide che aveva l’attenzione di entrambi fece il suo miglior sorriso brillante. “Nessuna idea di come sia potuto succedere!”
L’espressione di James si ammorbidì, perché non riusciva a non capitolare quando si metteva in ridicolo a suo beneficio. “Coglione.” Ghignò divertito. “C’avrei scommesso.”
“Malfoy, non è il genere di cose che dovrei sapere.” Sbuffò l’uomo più anziano con aria scocciata. “Non farmi pentire di averti dato la mia benedizione.”
“Mai Signore, preferirei la morte.”  

“Va bene, adesso falla finita…” Scosse la testa rassegnato prima di arricciare le labbra in un evidente moto di insofferenza. “Ah, alla buon’ora!”
“Mi dispiace, ho avuto un contrattempo.” La voce del tedesco era spossata mentre compariva alle loro spalle; aveva l’aria di uno che aveva passato tutta la domenica con la testa dentro il gabinetto, al di là dell’uniforme impeccabile e i capelli in ordine.

Qualcuno non ha preso la pozione Anti-sbronza quando doveva…
Il Sergente Weasley gli scoccò un’occhiataccia ma per fortuna non infierì, preferendo schiarirsi la voce. “Ora che siete tutti, facciamo il  punto della situazione.” Esordì. “Se c’è un autorizzazione che va firmata per un sopralluogo è il momento di metterla sul banco.” Si voltò poi verso l’agente di collegamento. “A che punto siamo con la lista degli alias di John Doe?”
“Bastardo immortale…” Borbottò James riassumendo il sentimento comune. “Roba da pazzi, avrà un miliardo di pseudonimi!”
“Sono quarantadue.” Corresse l’interpellato. “Sto facendo un controllo incrociato con il mio ufficio. Abbiamo richiesto i movimenti  bancari di tutti i conti aperti a suo nome e tramite pseudonimo. Per ora nessun riscontro, non c’è attività.”
James inarcò le sopracciglia. “Quel tipo ha ancora delle camere blindate a suo nome? È un ricercato internazionale, come diavolo è possibile?”

“Una volta aperta è impossibile chiuderla.” Spiegò Scorpius, che sulle camere blindate e impossibilità di disfarsene si era fatto una discreta cultura sin dall’infanzia.
La camera della biszia Bella. Sono anni che papà cerca di liberarsene, anche solo per quanto ci tocca sborsare di manutenzione. Un giorno o l’altro la farà saltare in aria.
“Sono una specie di deposito per l’eternità. Scomodo, se non sei interessato.” Concluse mentre Prince annuiva a conferma.
“Usa un nuovo pseudonimo quindi.” Intuì il sergente Weasley aggrottando le sopracciglia. “Idee su quale potrebbero essere?”
“Posso lavorarci, dobbiamo comunque finire di controllare i movimenti bancari.” Il tedesco non si sbilanciò, ma a Scorpius non sfuggì la contrazione nervosa che gli attraversò le labbra; non pareva molto sicuro di poter venire a capo di quella pista.  
E come dargli torto. Quel tizio ha avuto quarantadue identità diverse. Inventarne di nuove dev’essere un gioco da ragazzi per lui.
“Fallo… A questo proposito, è uscito niente su Sam Howe, la prima vittima?” Il mago più anziano scorse con lo sguardo il taccuino che teneva tra le mani e Scorpius provò un moto di simpatia: seguire due squadre, la sua e la loro, non doveva essere facile, specie visto che il caso che avevano tra le mani era criptico, per eufemizzare. Dell’uomo poteva non piacergli l’attitudine a giudicare e il nepotismo smaccato di cui omaggiava James, ma non poteva dire che non si facesse in quattro per supervisionarli. 
Prince scosse la testa “Incensurato per il nostro Ministero, ma il SAGITTA sta scavando a fondo. Se c’è qualcosa, uscirà fuori.”
“Le registrazioni della video…video…”
“La videocamera montata di fronte alla stanza del Sergente Flannery?” Venne in soccorso Bobby che a giudicare dalla prontezza della risposta doveva essersi ingoiato il libretto delle istruzioni. “Le ho visionate io ieri sera, lo faccio giornalmente. Nulla di sospetto, Signore.”

Già, nulla di sospetto. Perché diavolo John Doe non ha ancora cercato di attaccare il Sergente Flannery?
Se lavora per qualcuno che vuole mettere a tacere tutta la faccenda del morbo, perché aspettare?
O forse sta solo studiando la situazione…
“Aggiornamenti dal San Mungo?”
Scorpius che era la persona preposta a quello scosse la testa. “Nessuno. Le condizioni del Sergente sono immutate. Stanno facendo una ricerca storica del morbo per poter risalire alle cause scatenanti. Pare che non ci sia storia medica, quindi è buona l’ipotesi secondo cui sia stata creata in laboratorio.”
“Il fatto che ci sia un tizio della Thule di mezzo lo rende quasi certo.” Sbuffò James. 
“Bene.” Concluse l’uomo con l’aria di non trovarsi affatto d’accordo con la sua affermazione; comprensibile dato che anche quel giorno era iniziato con un nulla di fatto. “Aggiornatemi se ci sono novità.” Fece un cenno al nipote. “Jamie, a te il comando.”  

Quando l’uomo se ne fu andato quest’ultimo si scrocchiò il collo, cercando di non dare a vedere quanto lo esaltasse essere stato considerato l’agente più anziano e dunque meritevole di comando ad interim; in sua difesa ci stava provando e si vedeva, ma il luccichio soddisfatto negli occhi era altrettanto evidente. “Mettiamoci al lavoro, abbiamo altri casi che ci aspettano.” Esordì afferrando un fascicolo dietro la scrivania su cui si era seduto. “Ci hanno affibbiato un’ispezione ad un ex burro birrificio a Reading. Da soffiata certa sappiamo che un paio di stronzi stanno usando i vecchi impianti per raffinare Pozione Corroborante di contrabbando.”
“Partiamo subito?”

“Subito.” Gli rispose lanciando un’occhiata di sbieco al tedesco per poi sfoderare un ghigno perfido. “Crucco, per te scartoffie!” Indicò una pila di fascicoli su cui fino a quel momento aveva posato il gomito per puntellarsi. Era mostruosa. “Dal tuo Ministero.”
“Le aspettavo. Sono i movimenti bancari delle camere blindate di Johannes.” Rispose questo senza tradire il minimo scoramento all’idea di dover seppellire il naso in quel mare di carta polverosa. Forse gli piaceva. “Ho pensato che potevo dare una mano nella ricerca anche da qui.”

Meglio che girarsi i pollici finché non torniamo, suppongo…
Scorpius trovò giusto fare la parte del poliziotto buono anche in quel caso. “Puoi usare la nostra scrivania.” Ignorò l’occhiata oltraggiata del partner e sorrise all’altro. “Per qualsiasi cosa puoi trovarci agli Specchi Comunicanti.”
“Ti ringrazio.”
“Non è la prima volta che lo lasciamo solo, non fare la chioccia!” Grugnì James con espressione tradita: c’erano momenti in cui, nonostante tutto l’affetto che provava per quella testa di Potter, la tentazione di tirargli un calcio negli stinchi era fortissima.

“Siamo una squadra, mi preoccupo dei miei compagni, che c’è di strano?” Replicò con un sorriso al tedesco che ricambiò con aria rassegnata.
Solo a me vien voglia di abbracciarlo? Mi ricorda papà, solo meno incazzato col mondo. Proiezione. Psicologicamente interessante.
James roteò gli occhi al cielo, ma si astenne da qualsiasi commento; per gli equilibri di una squadra, lo sapeva persino con tutta la sua tracotanza, sapere quando tacere era cosa importantissima.
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Primo pomeriggio.
 
“Questo è perfetto.”
“No, è osceno.”
“Non è osceno, ti lascia intravedere un po’ la scollatura, non fare l’esagerata!”
“Se intravedere vuol dire mostrare le mie tette al mondo…”
“Ora la ammazzo.”
“Violet, porta pazienza, è una bigotta. Hai un bel seno, mostralo!”

“Non sono te, razza di donna scarlatta!”
“Di capelli e di fatto, cocca.”
“Ragazze…”
“Mamma, dì loro qualcosa!”


Avrebbe dovuto sapere che farsi accompagnare da Lily e Violet nella boutique da spose di Madame Yvette – dove tutte le streghe per bene andavano a cercare l’abito del Grande Giorno -  avrebbe significato uno stillicidio senza fine. Avrebbe dovuto saperlo, pensò Rose fissando scornata le sue tette balzare fuori dal corpetto, eppure anche sapendolo … avrebbe potuto fare qualcosa?
No, non se la prima è la mia damigella d’onore e la seconda è la rappresentanza sboccacciata di tutte le mie cugine. Oltre che un’impicciona.
Gli arbitri di quella disputa ad armi impari erano sua madre, che sorvegliava tutto con un sorriso divertito lanciando solo fugaci occhiate ad una cartellina di un caso che stava seguendo e Lady Astoria che per l’occasione aveva un inquietante brillio negli occhi, quasi fosse una bambina di fronte all’insegna di Mielandia.
“È già il ventesimo vestito da sposa che mi provo … A me piaceva…” Annaspò sotto lo sguardo di ben quattro donne. “… Boh.” Sussurrò affranta mentre Violet alzava gli occhi al cielo.
“Sei un disastro Weasley. Ma come scegli di solito nel tuo armadio, ad occhi chiusi?”
“Nel suo armadio trovi solo jeans, magliette a tinta unita e maglioni monocolore. Una precauzione visto la sua totale mancanza di senso estetico. Qui però è difficile, le sembreranno tutti uguali…” Ghignò Lily passando le dita su uno degli abiti accatastati tutti attorno a lei.
“Tesoro, l’abito nuziale è un passo importantissimo.” Rincarò la dose sua madre, mentre Lady Astoria annuiva con aria distratta; era l’unica che non l’aveva ancora subissata di pareri e le era molto grata per quello, se non fosse che sembrava una silenziosa sfinge ieratica.
Che tutti giudica dall’alto della sua eleganza.
“Non posso proprio mettermi il tuo, di vestito? Non è tipo una tradizione passarlo di madre in figlia?” Tentò per l’ennesima volta, cullandosi nell’idea di poter mettere fine a quel supplizio.
“Te l’ho già detto tesoro, non abbiamo la stessa altezza e proporzioni.”
Stupida spilungaggine Weasley!

Stava per avere un crollo di nervi, se lo sentiva. Voleva sposare il suo Malfoy, non vedeva l’ora, ma tutta la follia precedente al matrimonio se la sarebbe volentieri risparmiata. Non riusciva a capire come persone come Violet e Lily ne fossero così estasiate; per lei saltare da un negozio all’altro, scegliere il colore di fiori che non aveva mai sentito o indossare abiti che le prudevano da tutte le parti era un motivo di ansia non di gaudio.
Era ansia da prestazione sopratutto: al matrimonio avrebbero presenziato tutti i suoi parenti, sopportabili quando una mandria di Quintaped, più i Malfoy al gran completo – quelli non linciati dalla guerra o dalle loro scellerate scelte di vita. Riunire due famiglie del genere sotto lo stesso tendone continuava a sembrarle una follia.
Solo perché hanno accettato il fatto che mi sposerò Scorpius non vuol dire che ne siano contenti.
E sto parlando dei miei. 
La data si avvicinava e forse per questo le sue paranoie aumentavano in maniera esponenziale. Sospirò mentre Violet la volgeva bruscamente verso i camerini.
Scorpius, aiuto…
Il suo fidanzato, con quella sua meravigliosa capacità di sorvolare sui problemi e di aver sempre un sorriso in bocca, riusciva a calmarla. Ma non era lì; c’erano piuttosto quattro arpie pronte a farle provare l’intero assortimento del negozio, se necessario.
“Ho bisogno di una pausa.” Sussurrò terrificata quando la commessa entrò nell’area camerini con l’ennesima bracciata di vestiti.

“Ne hai fatta una mezz’ora fa!” Esclamò Violet, che aveva assunto egregiamente il ruolo di poliziotto cattivo. “Piantala di lamentarti tanto, devi solo entrare e uscire da dei vestiti!”
Solo?”
Lily sorrise scioccamente al suo cellulare raggomitolata su uno dei lezioso divanetti color crema. “Ti guarderanno tutti Rosie, non vuoi apparire al meglio? Penso di sì.”
Stronza.  

 
“Ehi, siete qua?”
 
Non c’era ma adesso c’è.
La voce del suo fidanzato era un balsamo per le orecchie, per quanto in realtà fosse una voce come un’altra. Rose fece appena in tempo a allentare la smorfia in un sorriso che fu schermata da Violet che si frappose tra lei e l’ingresso del ragazzo.
“Scorpius, levati dai piedi!” Sbottò. “Non devi vedere l’abito del matrimonio!”
“Vergogna Malfoy.” Replicò Lily, che dietro il tono serio certo se la stava sghignazzando perché non faceva altro da che era nata. Continuava a guardare quel dannato cellulare come se ne andasse della sua vita e Rose ricordò che Scott era più un tipo da chiamate, che da messaggi.

Non voglio sapere. Non. Voglio.
Alzò lo sguardo il tempo sufficiente per dire la cosa sbagliata. “Vuoi portare sfortuna alla tua promessa sposa?”
Gli occhi grigi di Scorpius si fece enormi, mentre faceva un passo indietro e se li copriva rapido con una mano. “No, mai!” Esclamò e Rose non capì se stesse scherzando o fosse serio. In ogni caso, era adorabile. “Volevo solo godermela un po’ dopo una lunga giornata di lavoro.” Fece una pausa. “Mi è uscita male … Non mi è parso di aver visto mia madre e la Signora Weasley all’ingresso, quando mi sono Materializzato, vero?”
“Invece sì, Scorpius.” Sospirò da qualche parte della stanza principale sua madre mentre il ragazzo diventava pallido come un lenzuolo. “Farò finta di non aver sentito.”
“Le sono mostruosamente grato!” Si era cambiato dall’uniforme da auror, indossando come al solito un accozzaglia di roba Babbana, da un gilet ad una camicia elegante ma manchevole di qualche bottone. Rose adorava quello stile sofisticatamente trasandato  perché Scorpius indossava ciò che si sentiva di essere, dai suoi sentimenti a roba recuperata da una bancarella. Era uno dei molti motivi per cui lo amava: riusciva ad infischiarsene dell’opinione altrui come mai lei sarebbe riuscita a fare.

Lo dimostra il fatto che mi sto facendo fare mobbing.
“Rosie?”
“Aiuto.” Si limitò a dire: una volta tanto fare la principessa in attesa di essere salvata non le pesava affatto. “Fammi uscire di qui.”
“Ma il vestito…”
“All’inferno il vestito.”
Scorpius allargò le dita per lanciarle un’occhiata valutativa. Dovette annusare disperazione perché fece un sorrisetto furbo. “Chiedo scusa in anticipo per rovinare questo momento di muliebre condivisione.” Esordì prima di Smaterializzarsi alle sue spalle. “Torniamo tra un po’, fate una pausa anche voi al caffè qui accanto, offro io!”
Prima che le due ragazze potessero protestare, Rose sentì la familiare compressione della Materializzazione e di colpo la boutique fu ben lontana. Quando riaprì gli occhi si trovò nel bel mezzo la campagna inglese, in un meraviglioso nulla geografico disseminato di enormi prati verdi, staccionate e alberi ombrosi.

“Dove siamo?”
Libertà!
“Da qualche parte vicino alla casa in campagna di Bobby. Oxford forse? Siamo ad un’ora di scopa da Londra, so solo questo.” Rispose l’altro sciogliendola dalla sua presa e stiracchiandosi con un lamento soddisfatto.  
Rose sorrise, assaporando a pieno l’odore d’erba e d’estate che le riempiva i polmoni. Era bello respirare dopo una giornata passata a strizzarsi in corpetti dalle dubbie capacità ortopediche.
Scorpius si guardò attorno. “Ombra?” Suggerì strizzando gli occhi al sole. “Mi sono dimenticato i tuoi occhiali da sole a casa.”
Rose guardò il voluminoso vestito che ancora indossava e le venne da ridere. “Forse avrei dovuto cambiarmi prima di farmi rapire.” Osservò. “Dici che si sporcherà da qui al primo albero?”
“Con quanto ha piovuto puoi giurarci rosellina, ma non ti giudicherò.” Fece un sorrisetto. “L’intera  Sorellanza del Perfetto Abito lo farà.”
Rose lasciò andare un lamento, prima di soffocare un’esclamazione sorpresa quando l’altro si chinò e la prese tra le braccia, come un perfetto, scoppiato gentiluomo di altri tempi. “Scorpius!
“Cosa?” La guardò con aria innocente. “Ti soccorro come mi hai chiesto.” Inarcò le sopracciglia incredulo. “Dovresti ringraziarmi.”
Rose alzò gli occhi al cielo. “E come pensi di portarmi fin laggiù?” Indicò la grossa quercia che distava ad almeno cinquanta metri da dov’erano.

“Con i miei possenti muscoli?”
“Se mi fai cadere nel fango ti ammazzo.”
La camminata fu più agevole di quanto non avesse previsto: spesso dimenticava che l’altro fosse, a conti fatti, un Auror e dunque prendesse parte settimanalmente ad un programma di esercitazioni fisiche non indifferente.
Senza contare il regime da soldato pazzo che ha avuto durante l’Accademia.
“Suppongo di doverti dare più fiducia.” Concesse quando la posò su una coperta che aveva Materializzato con un colpo di bacchetta. “Non sei inciampato nei tuoi piedi neppure una volta.”
“Mica faccio Weasley o Potter di cogno-ahu!” Si lamentò quando trovò giusto rifilargli un pugno sulla spalla. “Sono aggraziato, fammene una colpa!”

“Se prendi in giro la mia famiglia di certo.”
“Solo la sua scarsa coordinazione motoria. Sai che vi adoro.” Ribatté stendendosi accanto a lei e facendosi aria con il cappello di feltro leggero che indossava d’estate per atteggiarsi, secondo James.

Assolutamente sì.
“Grazie per avermi salvato, non ne potevo più.”
Scorpius le sorrise disimpegnato, infilando una mano sotto la spessa gonna di tulle e ricevendone uno schiaffo. La guardò imbronciato. “Mi merito questo per essere stato un cavaliere?”

“Se lo sgualcisco lo pago, e vorrei evitare visto che è orrendo.” Guardò un paio di pecore che curiose brucavano nella loro direzione dietro la loro robusta staccionata di legno inglese. “Oggi sei uscito presto dal lavoro … Come mai?”
“Uscita premio, visto che abbiamo passato tutta la mattina ad inseguire due idioti che si erano asserragliati in un ex birro burrificio. Ci siamo dovuti cambiare perché finito l’arresto puzzavamo come … beh, come una burro birreria. Tuo padre quando ci ha visti ci ha dato il resto del pomeriggio libero. Credo gli facessimo pena.” Si puntellò su un gomito e Rose notò che nell’incavo del collo, poco discosta dal tatuaggio, aveva una scottatura da incantesimo piuttosto grossa.
Si morse le labbra, preoccupata. “Non vi siete fatti male, vero?”
Scorpius le accarezzò un fianco. “Nulla di grave fiorellino. Avevano una mira schifosa.” Rotolò con la testa sulle sue ginocchia. “Ma sono molto traumatizzato e voglio conforto.”
Rose represse una risata, passandogli le dita tra le ciocche sottili e sentendosi in pace con il mondo: non avrebbe potuto essere così ogni giorno prima del matrimonio?

Perché devo passare le mie giornate ad angosciarmi del fatto che le petunie non sono dei centrotavola adeguati?
Sul serio.
“Possiamo sposarci a Las Vegas?” Le uscì fuori prima che riuscisse a frenarsi, facendo sgranare gli occhi all’altro.
“Rosie? È una cosa che direi io!” La guardò divertito prima di leggere le intenzioni dietro la sparata. Aggrottò quindi le sopracciglia. “Va tutto bene?”
“Penso di non essere tagliata per i preparativi.” Sospirò scornata ed ammettere quella manchevolezza era un po’ umiliante.  
Non posso essere la sposa meno eccitata dal vestito e dai fiori della storia.
Scorpius fece spallucce. “L’importante è essere tagliati per il grande giorno, no?”
“E se combinassi un casino? O se uno dei nostri parenti decidesse che è una splendida occasione per lanciare una nuova faida familiare?”
“Ci penseremo a tempo debito.” Le passò una mano sulla guancia ed era fresca e confortante. “Ehi, non avrai dato retta alle frecciatine di quelle due streghette! Violet sbava su questa roba da quando era una nanerottola e Lily è una specie di organizzatrice di eventi mancata … Per loro è divertente, tu sei fatta diversa.”
Troppo diversa.”

“Ed è questo il motivo per cui mi sposo te, e non loro.”
Rose si chinò e nonostante il corpetto si stesse lamentando – quella stronza di Violet le aveva rifilato tutti abiti di una taglia inferiore, con un messaggio neanche troppo velato – baciò Scorpius a lungo e con soddisfazione. Probabilmente al dannato affare erano saltate delle cuciture ma se ne fregò.
“Comunque sai, sono stato un po’ egoista.” Riprese Scorpius dopo un paio di minuti di rinfrancante silenzioso interrotto solo dallo stormire delle fronde sopra di loro. “Anche io oggi ho avuto la mia buona dose di Puzzalinfa da ingoiare.”
“Sarebbe? Burrobirra sui vestiti?”

Scorpius sbuffò, scuotendo la testa. “James.” E il fatto che lo chiamasse per nome era indicativo. “Ha avuto una scopa piantata nel sedere per tutta l’ispezione.”
Era il momento di ricambiare il favore e farsi confidente. “Come mai?”
“Per Prince.” Si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia. “Sto cercando solo di essere umano con il ragazzo, e lui non lo sopporta.” Emise un verso esasperato, strofinandosi le mani sul viso. “A volte capisco mio padre quando dice che i Potter sono le creature più irritanti dell’universo. Diamine, lo sono!”
Rimase in silenzio perché codice familiare le imponeva di non esprimere giudizi negativi su nessuno portante quel cognome. Era una specie di riflesso pavloviano.
Se lo faccio mi vien voglia di sbattere la testa contro uno spigolo come un Elfo.
Cattiva Rosie, cattiva.
“Prince ti piace?” Chiese invece, prendendola da un altro verso.
Scorpius ci rifletté, poi annuì. “È un tipo in gamba. È umile, lavora sodo e porta a casa la giornata senza un lamento, e t’assicuro che a volte James è una spina nel fianco. M’ero scordato quanto potesse esserlo…” Sospirò. “Rimane il fatto comunque. Mi vien voglia di picchiarlo con il manico della scopa.”
“Jam sa essere un vero stronzo.” Convenne perché quella era una verità condivisa. “E la sai la situazione con Prince … Fa fatica a venire a patti con il fatto che è dalla parte dei buoni adesso.”

Non è l’unico.
“Buoni, cattivi…” L’altro si alzò a sedere con una smorfia. “Il mondo non si divide così! C’è gente che fa scelte sbagliate e gente che cerca di rimediare. Prince è nella seconda categoria, e non riesco a capire perché quella capra non ci arrivi. Avremo tutti una situazione lavorativa migliore se lo facesse!”
“Lo farà.” Non ne era del tutto convinta, ma del resto suo cugino aveva cambiato idea su Scorpius al punto di farne il suo migliore amico: poteva farlo anche con il tedesco.
Certo, con quello che ha combinato con Lily non ne farà magari il suo testimone di nozze …  
“La situazione in squadra è tesa. Il Sergente Flannery è ancora al San Mungo e le indagini sul tizio americano sono in stallo.” L’altro si distese sulla coperta strizzando gli occhi. “È dura essere quello che vede sempre tutto positivo … specie quando non si ha granché materiale su cui lavorare.”
“Stanco di essere RaggioDiSole Malfoy?”   

L’altro fece un pallido sorriso. “Te l’ho detto, oggi non sei stata l’unica ad aver avuto voglia di scappare.”
Rose si stese accanto a lui, posandogli la testa sulla spalla. “L’ipotesi Vegas è sempre aperta.”

 
 
****
 
Diagon Alley, Accademia Magica di Duello.
Pomeriggio.
 
Finire le sue giornate all’Accademia Magica di Duelli stava diventando una routine.
Sören chinò la testa verso il ragazzo che si era offerto di fargli da compagno di allenamento in quelle due ore, stringendogli la mano. “Buon movimento della bacchetta.” Offrì anche se le barriere e i contro-incantesimi che gli erano stati lanciati non l’avevavano mai messo in seria difficoltà.

Ma almeno mi sono sfogato.
Il ragazzo fece un breve sorriso stanco e dopo aver eseguito l’inchino di commiato si slacciò il corpetto scarlatto che tutti gli allievi indossavano e si allontanò verso gli spogliatoi lasciandolo solo. 
Sören tornò quindi alla pedana, stirandosi il collo e le spalle per scacciare gli ultimi rimasugli di tensione rimasta. Era ancora presto; poteva spostarsi nella sala attigua dove, grazie ad una serie di manichini incantati da un Locomotor, avrebbe potuto allenarsi senza dover chiedere assistenza di nessuno.

Di solito preferisco avere qualcuno di vivo a parare i miei colpi…
Non gli andava però di disturbare uno dei maestri per chiedergli un incontro, dato che molti erano impegnati ad insegnare. Quello e il fatto che non gli andava di attirare troppo l’attenzione su di sé. Si rendeva infatti conto da solo che le sue tecniche di duello erano un po’ troppo avanzate, se non violente – come aveva sentito sussurrare ad uno dei ragazzi che aveva sfidato in quei giorni.
Non puoi biasimarli. Queste persone si allenano per diletto o per migliorare le proprie capacità magiche. Tu ti allenavi per uccidere.
Serrò le labbra: aveva bisogno di scaricare la tensione accumulata al lavoro e quello era l’unico modo che conosceva.
Per quanto possa spaventare gli allievi.
Venire a sapere che Johannes era ancora vivo e che le loro strade si erano di nuovo incrociate … no, non era ancora riuscito a metabolizzare la cosa; non avere punti fissi su cui indagare peggiorava solo la situazione.
“Sören!” Lo sorprese una voce accentata che conosceva bene. Voltandosi si trovò infatti di fronte al sorriso franco e sincero di Dionis che lo spinse a ricambiare; era raro essere accolto da un’espressione simile.
Per il lavoro che faccio e per chi sono, nessuno è mai troppo contento di vedermi.
“Dionis.” Gli strinse la mano. “Lieto di vederti.”
“Mi hanno detto che c’era un tedesco dalla bacchetta veloce e dalla tecnica impressionante che sfidava tutti i nostri allievi migliori … Ho subito pensato a te.” Inarcò le sopracciglia con aria di rimprovero. “Perché non mi hai detto che venivi ad allenarti qui?”
“Non volevo disturbarti, so che segui molte classi di pomeriggio.”
“Si trova sempre tempo per un amico.” Rispose l’altro con serietà facendogli sentire un discreto calore al petto. Doveva essere questa la sensazione di essere apprezzato da qualcuno che stimavi. “Ti sei battuto con Cooper, ho visto. È uno dei miei, che te ne sembra?”

“Rapido negli attacchi, ma le sue barriere contro-incantesimo sono piene di sbavature, deboli. Si distrae quando pensa di aver messo a segno un punto.” Osservò, prima di registrare l’ultima frase. “Non intendevo dire…” Annaspò a disagio.
Dionis lo guardò divertito. “Hai perfettamente ragione. Si culla troppo del successo a breve termine e non capisce che ciò che conta è il risultato finale. Capita spesso, con questi inglesi …” Si strinse nelle spalle con una lieve smorfia. “Vengono da club di Duellanti dove insegnano che l’importante è partecipare e mettere a segno quanti più punti possibile. E sono delle vere teste dure, non riescono a capire che il principio su cui si basa il Duello magico è completamente diverso.”
Sören aggrottò le sopracciglia. “La vittoria dell’uno, la sconfitta e probabile morte dell’altro?”
Dionis annuì come se avesse detto una profonda verità sconosciuta ai più. “Purtroppo qui hanno smesso di duellare seriamente da così tanto tempo che se lo sono dimenticato.” Gli rivolse un nuovo sorriso. “Volevo offrirti un caffè, ma credo tu preferisca allenarti ancora. Mi sbaglio?”
Sören sorrise di rimando. “Non sbagli.” 

 
Battersi con Dionis era stato rinfrancante.
Con il fiato corto, i polmoni in fiamme e le ossa doloranti Sören si sentiva più vivo che mai. Si era già battuto con il rumeno, durante il suo soggiorno infausto ad Hogwarts, ma era felice di constatare che per l’altro quei cinque anni non erano stati d’ozio; aveva anzi lavorato su suoi punti deboli, migliorando i suoi talenti, soprattutto la capacità di attacco – quella che probabilmente insegnava come prima cosa ai suoi allievi. Lo aveva messo in serie difficoltà più di una volta e l’incontro si era concluso con un punteggio pari.
Sören si inchinò in un saluto rispettoso, per poi andare a stringere la mano dell’altro, sperando di trasmettere con quel gesto la gratitudine che sentiva.
Erano … giorni … che non mi sentivo così.
“Mi avevi promesso uno scontro ad armi pari.” Esordì. “Ti ringrazio.”
“Felice di non aver deluso le tue aspettative.” Rispose l’altro con aria soddisfatta. “Una birra?” Ridacchiò alla sua esitazione. “Non Burrobirra. Vicino a dove abito c’è un piccolo emporio che importa pilsner ceca artigianale, ne ho qualche bottiglia in fresco nel mio ufficio. Davvero pensavi ti avrei offerto quella roba dolciastra?”

“Confido che tu abbia gusti migliori.” Ironizzò accettando la pacca che gli venne data sulla spalla. Si sentiva meglio, indubbiamente.  
Ma almeno l’ho finita in compagnia di un amico.
Fu dopo una doccia e con un boccale di birra meravigliosamente gelata in mano che, seduto su una comoda poltrona di cuoio nell’ufficio del rumeno, sentì il proprio cellulare trillare allegramente. Tirandolo fuori dalla tasca ci mise più di qualche attimo a capire che aveva ricevuto un messaggio.  
Da Lily.
Si affrettò a leggerne il contenuto.

‘Buongiorno Ren! Sopravvissuto al fine settimana?’
Sorrise, ignorando l’espressione incuriosita del rumeno. “Scusa, un messaggio.” Borbottò cercando di premere sui tasti inesistenti per comporre una risposta.
‘Sì, ti ringrazio, e tu?’
Non sarebbe mai venuto a capo di quel genere di comunicazione, sarebbe sembrato sempre un ritardato,
ormai se ne era fatto una ragione. 
‘Direi di sì, visto che sto guardando Rose avere una crisi isterica sul proprio abito da sposa. La promessa sposa più divertente di Diagon Alley!’
Lanciò un’occhiata di scuse a Dionis. “È Lily.” Spiegò. “Una crisi familiare, credo.”
“Ah, sì … ce ne sono di continuo, ti ci abituerai.” Scrollò le spalle l’altro, dando un sorso al suo boccale. “Nulla di grave, spero.”
“Dal tono del messaggio non direi.”

‘Ho sentito parlare dell’agitazione tipica delle promesse spose. Sei lì per consigliarla?’
‘Ridere di lei, in realtà, ma la scusa ufficiale è che sono qui in veste di consulente, sì.’
‘Chissà perché, non lo mettevo in dubbio.’
‘Il mio vero ruolo o quello supposto?’
‘Entrambi.’
‘Cattivo Ren! Sono molto, molto offesa!’
“Le cose stanno andando bene tra di voi, mi sembra di capire.”
Sören oscurò lo schermo sentendosi stupidamente imbarazzato dalle parole dell’altro. Non c’era nessun motivo di temere un giudizio, tuttavia sentiva che proteggere quella neonata amicizia era suo dovere. “Sì, alla fine ha perdonato le mie … omissioni.” Non si sbilanciò. “Come hai visto alla festa, stiamo cercando di essere amici.”

Dionis annuì. “Sono contento, Lily Luna è una brava ragazza. A volte penso che molti degli atteggiamenti che ha servano per mascherare quelle che ritiene debolezze e che in realtà, a mio avviso, sono pregi.” Sorrise alla sua aria stupita. “Lei e Roxanne si somigliano molto.” Guardò una delle fotografie che teneva sulla scrivania, quella del suo matrimonio, a giudicare dalla preponderanza di bianco e gente coi capelli rossi presente nell’inquadratura. “Sono donne che vanno scoperte.” Gli lanciò un’occhiata strana. “Sono il genere di sfida di cui un mago ha bisogno.”
Sören non sapendo come rispondere senza rivelarsi drammaticamente, scrollò le spalle. “È una visione romantica.”
“Non la condividi?”

Sperò di non essersi messo a boccheggiare, perché sarebbe stato fin troppo palese.  
Non fece in tempo ad indagare che qualcuno bussò con forza alla porta. “Avanti.” Rispose l’altro guardando perplesso il ragazzo affannato che vi si affacciò. Era l’allievo con cui si era battuto prima, Cooper. “Dionis, mi chiedevo se … oh, perfetto!” Esclamò individuandolo. “Lei è un auror, vero?” Gli si rivolse.
“Non esattamente, in America non esistono…” Vedendo che non era il caso di lanciarsi in spiegazioni data l’aria agitata del mago, si alzò in piedi. “Cosa succede?”
“Uno degli allievi, Signore. È impazzito. Si stava battendo quando è crollato a terra, credevamo si stesse sentendo male, ma poi ha aggredito il suo compagno di allenamento e…” Si fermò, squadrandoli con aria confusa. “Non riusciamo a farlo ragionare, né a fermarlo.”
“Avete chiamato i Tiratori Scelti?” Che erano gli agenti che lì, in Inghilterra, gli sembrava di ricordase si occupassero dell’ordine e la sicurezza dei cittadini.
La polizia Babbana.
“Stanno arrivando.” Confermò. “Ma …”
“Ho capito.” Si lanciò uno sguardo di intesa con Dionis che gli si affiancò immediatamente, quasi gli avesse letto nel pensiero. “Fa’ strada.”
La situazione si prospettò grave nel momento stesso in cui mise piede nella sala che aveva lasciato solo mezz’ora prima; l’ambiente fortunatamente deserto era stato messo a soqquadro, come se un Incantesimo Esplosivo fosse stato scagliato dove ora era fermo il mago aggressore.

A Sören ci volle una semplice occhiata per capire cosa stava succedendo. Un’occhiata e con lo stomaco contratto e la bacchetta a portata di mano si voltò verso Dionis, alle sue spalle. “Chiama gli auror.” Disse. “Il caso è loro.”
E mio.

Perché l’allievo che stava in mezzo alla sala distrutta aveva la stessa, identica cosa di Howe e Flannery.
 
****
 
Note:

Capitolo un po’ di passaggio, ma dal prossimo si entra di nuovo nel vivo dell’azione.
La canzone della festa è questa mentre questa la canzone ad inizio capitolo.

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Capitolo 19
*** Capitolo XVIII ***


Capitolo XVIII

 



 
All my fear is coming home, And it’s ripped out for the show.
You can’t be me, I will become you.
(Crush, Pendulum)
 
 
Londra, Diagon Alley. Laboratorio di Rupert Stevens.
Pomeriggio.
 
 
Those who came before me lived through their vocations
From the past until completion they will turn away no more¹…

 
“Non dovresti essere a casa a quest’ora, Thomas?”
Tom si impose di non sobbalzare quando sentì la voce del proprio datore di lavoro invadere il suo spazio personale; doveva essere un po’ che tentava di attirare la sua attenzione, perché di solito l’uomo si guardava bene dal fare quell’errore.

“Perdonami.” Disse infatti quando abbassò di malavoglia le cuffie con cui aveva cercato di isolarsi dai clienti; non si era accorto che se ne fossero andati. “Ti ho chiamato tre volte.”
“Stavo leggendo.” Chiuse il plico di fogli spillati, copia delle cartelle mediche che Albus ormai si portava in giro come se fossero un’estensione di sé stesso. “Non volevo essere interrotto.”
“L’avevo capito.” Sorrise l’altro sfiorando con dita leggere la carta sparsa sul tavolo. “Non mi sembra una bacchetta.”
Perché non lo è.” Convenne per niente turbato dall’essere stato scoperto a non lavorare.

Se sono qui, non è per guadagnarmi un salario. Sono qui perché amo l’Arte delle Bacchette. 
Che al momento non è una mia priorità.
“Stai battendo la fiacca?” Ironizzò infatti senza acrimonia. “Di cosa si tratta? Non è un libro, sembrano documenti.”
“Sono referti medici.” Alla sua espressione sorpresa si strinse nelle spalle. “Sto dando una mano ad Albus con un caso.”
L’artigiano aggrottò le sopracciglia. “Questo tipo di documenti non è coperto da segreto professionale?”
La domanda non meritava neanche una risposta e quello dovette intuirlo, perché fece un mezzo sorriso. “Cosa ha attirato la tua attenzione, Thomas?”

Quello che gli piaceva di Rupert Stevens era la curiosità: se gli interessava qualcosa non c’era niente che potesse frenarlo: in questo erano maledettamente simili.
“In teoria, nulla.” Fece una smorfia tirata, aprendo il blocco degli appunti su cui aveva annotato i suoi pensieri. “Il sergente auror dell’unità di James è stato contagiato da una malattia apparentemente mai vista né sentita … e ovviamente, neppure curata.”
“Albus non si occupa di Lesioni da Incantesimo?” L’artigiano Appellò una sedia e vi si sedette sopra, avvicinandola al suo tavolo da lavoro. Tom non poté nascondere un sorriso: era un miracolo che riuscissero a finire le proprie consegne con solo qualche mese di ritardo data la reciproca propensione a distrarsi.

“Sì, ma hanno chiesto un consulto al suo Capo Guaritore e lui ha colto l’occasione … Sai com’è con la sua famiglia.”
“Niente viene prima, niente viene dopo .” Convenne divertito. “E tu come rientri nell’equazione? Albus ti ha chiesto di aiutarlo a smaltire del lavoro? Non sembra da lui.”

“Non sa che ho copiato le sue cartelle.”
“L’ha fatto di nascosto, mentre dormiva?” Non si scompose. Era per questo che aveva deciso di bussare a quella porta e mettersi al suo servizio: Stevens non faceva mai domande sui mezzi a volte opinabili che adoperava, solo sui risultati che raggiungeva. Non era stato affatto sorpreso – piuttosto rinfrancato – quando aveva scoperto che aveva militato nelle file gloriose dei verdi-argento.  

“Pensavo la Medimagia non ti interessasse.”
“Infatti, la trovo noiosa.” Confermò. “È tutto un distillare pozioni, ascoltare idioti convinti di avere morbi incurabili e sopportare le loro lamentele. Non è come voglio impiegare il mio tempo e la mia intelligenza. Però … questo caso è diverso.” Serrò le labbra, perché in quel rompicapo vi era caduto con tutte le scarpe: aveva sempre amato le sfide mentali e Medimagia o meno, quei referti urlavano battaglia di ingegni ad ogni riga.
Capisco perché Al si sia convinto che è un’opportunità d’oro per il suo curriculum.
“Di solito una malattia altera o indebolisce le capacità magiche di un mago … questa no, le aumenta al punto che la persona perde coscienza di sé e diventa un agglomerato di potere fuori controllo.” Spiegò riassumendo quando aveva appreso in quei giorni di letture e riflessioni. “Il periodo di incubazione è breve e i sintomi non sono stati riscontrati in nessun altra malattia conosciuta fin’ora … Quelle che ho copiato sono cartelle di casi provenienti da tutti i Ministeri del Mondo che presentano casistiche simili.”
“Ma non uguali, quindi sono state un buco nell’acqua.”
“Esatto.” Guardò la propria bacchetta posata sul tavolo, silente e fedele compagna da quando era diventato un mago. “La cosa più sconcertante è l’uso di magia senza bacchetta … Né Samuel Howe, il primo paziente, né il Sergente Flannery, l’auror che è stato contagiato, erano capaci di usarla eppure hanno fatto magie che hanno messo in difficoltà degli agenti armati.”
“Non sembrerebbe una malattia se non facesse ammalare.” Ironizzò l’artigiano.

Tom ricambiò il sorriso, pensando a cosa si doveva provare a padroneggiare il proprio dono senza il bisogno di avere un ausilio.
Non esistono molti maghi al mondo capaci di esser tali senza una bacchetta.
Sia Harry che Hermione, rispettivamente il mago e la strega più potenti e precisi nei loro incantesimi che conoscesse, non vi riuscivano e lui stesso, con tutto ciò che era stato in un’altra vita, a meno che non fosse in preda alla rabbia sapeva a malapena scaldarsi una tazza di the.
“È stato ipotizzato che si tratti di un esperimento di Magia Oscura andato storto …” Aggiunse per radunare i pensieri. Avere un interlocutore, aveva scoperto, aiutava. “Ma non si riesce a capire come si sia passati da un esperimento Oscuro ad una malattia.”
“Pensi di riuscirci tu?”
Era una domanda neutra e non vi era sarcasmo, tuttavia Tom si sentì a disagio: non era un guaritore né un auror e non aveva le competenze né il diritto di mettersi in mezzo.

Solo che lo stai già facendo, vero? E ti piace.
Hai tanto criticato Albus perché si è immischiato rinunciando alla vostra serenità… Ma tu? 
Ipocrita. Questa faccenda ti affascina, non negarlo.
“Penso di aver affrontato misteri e problemi peggiori.” Si limitò a dire.
Stevens non commentò, limitandosi ad un cenno della testa simpatetico; quell’uomo dai sensi offuscati ma dalla mente brillante era la perfetta spalla per pensare. Tom non l’avrebbe mai ammesso apertamente – non era nelle sue corde né mai lo sarebbe stato – ma tornare a casa dopo una giornata in laboratorio e realizzare di aver fatto un discorso più lungo di qualche frase con qualcuno che non fosse Albus o Meike era … gradevole.
“E come la si contrae?” Gli chiese. “Perché è il punto della faccenda, non credi? Una malattia sconosciuta e per ora senza cura … C’è da chiedersi se il mago della strada debba preoccuparsi.”
“Non hanno ancora scoperto la modalità di contagio.” Fece una smorfia. “L’unico ad essersi ammalato della squadra auror è stato Flannery.” Scosse la testa. “Cos’aveva di diverso?
Era una frase che aveva sentito borbottare ad Albus durante quei giorni ed era la stessa che gli era rimbalzata tra le sinapsi, in gran segreto, per lo stesso lasso di tempo.
Perché Flannery e non James … o Malfoy?
Stevens si strinse nelle spalle. “Una predisposizione?” Suggerì. “A costo di sembrare razzista, differenza tra Purosangue e Mezzosangue? È cosa nota che alcune malattie, come il Vaiolo di Drago, colpiscono i Purosangue con maggiore incidenza.”
“Perché vi è una predisposizione ereditaria.” Obbiettò. “È per via degli incroci tra consanguinei, non accade solo ai maghi. Non è questo. Non riesco…” E gli costava dirlo. “… a capire.”  

“Perché non sei un guaritore, Thomas, né lo sono io. Siamo artigiani.” Sospirò l’altro alzandosi in piedi e orientandosi per tornare al proprio tavolo da lavoro. “Capisco la curiosità e la tua voglia di aiutare Albus, ma temo che non riusciremo a venirne a capo con il solo aiuto dei nostri, seppur notevoli, cervelli.” Concluse con un sorriso che sfumò in una palese frecciatina.
Tom non la contestò, per quanto trovasse frustrante esser finito di fronte ad un muro che non era capace di superare. “Con le bacchette non mi è mai successo.” Sbottò sentendosi piuttosto ridicolo e non riuscendo comunque a frenarsi.
Stevens inarcò le sopracciglia. “Questo perché, se permetti, hai avuto chi ti ha guidato e ti ha introdotto all’arte. Molto rimane inavvicinabile da autodidatti  senza qualcuno che si prenda sulle spalle la responsabilità di introdurti ad uno studio o ad una professione.”
Se l’accendersi della famosa lampadina – o Lumos – non fosse stata solo una figura retorica, Tom se la sarebbe vista apparire davanti. “La responsabilità.” Mormorò. “Il Sergente Flannery aveva la responsabilità della squadra.”
Ricordò di colpo quanto James aveva raccontato durante il compleanno di Malfoy; Al lo aveva obbligato a sedersi allo stesso tavolo del fratello e Lupin (‘Perché non possiamo passare tutta la serata a ignorare gli altri, sì, anche se li consideri capre indegne della tua regale attenzione, razza di misantropo’) e aveva così finito per ascoltare l’intero resoconto della battuta di caccia all’americano.
“Liam Flannery è stato l’ultima persona a colpire Samuel Howe.” Si alzò in piedi e fece levitare i fogli fin dentro la la sua tracolla, passandosela su una spalla. “So qual è il veicolo di contagio.”
Stevens batté le palpebre in piena confusione, ma quando lo sentì muoversi verso di lui e in direzione dell’uscita si scostò per lasciarlo passare. “Temo che il filo logico mi stia sfuggendo completamente …”
“È stata davanti al nostro naso e a quello dei guaritori per tutto il tempo. Naturalmente era invisibile.” Prese la bacchetta per Smaterializzarsi, perché aveva fretta di condividere la scoperta con Albus: se fosse stata corretta - e lo era – sarebbe stata un’informazione da pestare nella zucca degli auror il prima possibile.

O rischiamo di avere una maledetta epidemia.
“È la magia.”
 
 
“È la magia.”
Chiunque conosceva Tom quanto lui sapeva quanto adorasse le entrate ad effetto; annunciarsi e far capire ad un’intera platea che era lui l’evento era una delle sue gioie segrete. Al lo aveva sempre saputo, come aveva sempre saputo di essere mago.
Una di quelle certezze della vita.
Alzò lo sguardo dalla cartella medica del paziente che stava seguendo, un brutto caso di Spaccamento che aveva lasciato il poveretto di fronte a lui privo delle orecchie e di due dita della mano.
“Sto visitando un paziente…” Tentò indicando l’uomo che ad onor del vero non sentiva assolutamente nulla e fissava Tom come se fosse un’allampanata apparizione.

Sospetto trauma cranico? Bene … quello o trova il mio ragazzo interessante.
Propendeva per la prima ipotesi considerando che Tom non era molto attraente nella sua tipica, sebbene ormai rara, aria allucinata.
“Il tuo paziente può aspettare!”
“No, non direi.” Incrociò le braccia al petto. “Cosa succederebbe se entrassi nel laboratorio di Rupert gridando così quando lavori?” Non aspettò la risposta. “Mi trasformeresti in un pollo o mi sbaglio?”
L’altro ebbe il buongusto di non ribattere. “È importante.” Ripeté cocciuto, passandosi la tracolla da una spalla all’altra: era così piena che le cuciture erano sotto sforzo ed era strano, visto che padroneggiava con disinvoltura l’incantesimo di Estensione Irriconoscibile.

Era così di fretta da non lanciarlo sulla roba che ci ha messo dentro?
Forse la faccenda era meritevole di qualche domanda in più. Sospirò, agganciando la cartella al lettino del paziente e mimando che sarebbe tornato tra qualche minuto.
“Non provare mai a prendere la patente per la Materializzazione per corrispondenza … Questi sono i risultati.” Disse. L’altro per tutta risposta lo tirò nell’angolo più buio del corridoio guardandosi attorno con fare sfuggente.
“Che hai combinato?” La domanda era inevitabile e venne ricompensato da uno sguardo da gatto che si era fatto le unghie sui mobili.
“Premetto che ho preso le cartelle mediche che hai portato a casa e le ho copiate con un Gemino.”
Cosa?” Si impose di non urlare né di mettersi le mani nei capelli, perché il reparto Lesioni aveva occhi e orecchie ovunque. “È un reato!”

“Solo se viene scoperto.” Fu la sconfortante replica. “E prima che tu decida che debba dormire sul divano per il prossimo mese…”
“Troppo tardi.”
Tom fece una smorfia irritata ma continuò come se non l’avesse ascoltato. “… forse ti interesserà sapere cos’ho scoperto.”

Oh.
Non sciolse però le braccia che aveva serrato al petto, in un’imitazione che avrebbe reso fiera nonna Molly. “Hai fatto una scoperta dall’alto della tua profonda conoscenza della Medimagia?”
“Si tratta di ragionare.” Ritorse e non fu una sua impressione, benché le luci del piano fossero soffuse, arrossì. “E se permetti…”
“Taglia corto, ho un paziente senza orecchie che mi aspetta e Morgana solo sa come farò a mimargli di prendere le pozioni senza infilarsele dalla parte sbagliata.” Poi fece mente locale sulla frase con cui il disgraziato era entrato in scena. “Cosa c’entra la magia?”

Il suddetto si stampò in faccia un sorrisetto soddisfatto che gli sarebbe valso un pugno, se non fosse stato tremendamente affascinante.
Ho un debole per il suo cervello. Un tremendo debole.
“È il veicolo del contagio. Il virus si è trasmesso attraverso di essa.” Spiegò come se fosse ovvio e lui fosse scemo: erano in momenti come quello che gli prudevano le mani dalla voglia di pestargli in zucca un po’ di diplomazia.
O almeno insegnargli come non far sentir cretino l’umano creato. Un giorno qualcuno gli farà saltare le chiappe con una Maledizione.
E sarebbe un peccato.
“In che senso?”
“Liam Flannery è stata l’ultima persona a scagliare uno Schiantesimo su Samuel Howe, giusto?” Gli chiese ed era retorico dato che sapevano entrambi com’era andata grazie al resoconto cruento di James la sera della festa di Malfoy.
“E con questo?”
“Uno dei sintomi è l’aumento abnorme di capacità magica … Come se il sergente fosse una pila e fosse stato caricato oltre la sua capacità di tolleranza. Albus, immagina un fulmine che colpisce una centralina elettrica!” Si stava spazientendo e avrebbe tanto voluto dirgli che nessuno di quei paragoni aveva senso per lui, ma cercò invece di ricordare qualcosa della massa di nozioni Babbane che l’altro gli vomitava a getto continuo a casa, pretendendo anche che se le ricordasse.
Ah. Già. La faccenda dell’elettricità…
La realizzazione lo colpì come un Bolide. “Vuoi dire che la magia dell’americano è entrata dentro Liam facendo impazzire la sua?”
“Non è quello che succede quando un mago si scontra con un altro?” Gli chiese, afferrandogli una mano e premendosela sul petto, quasi volesse simulare l’atto. “Attraverso le bacchette si scontrano i flussi magici, e una parte della magia dell’uno finisce addosso all’altro … Pensa a quello che è successo a tuo padre, alla sua cicatrice e al motivo per cui ha imparato il Serpentese.”
Al boccheggiò perché quelli erano paragoni che poteva capire, finalmente. “Ma … Liam ha poi attaccato la sua squadra, e nessuno si è ammalato.” Obbiettò perché qualcuno doveva fare la parte dell’avvocato del diavolo. “La persona che lo ha fermato alla fine è stato Prince, ma i suoi livelli di magia sono stati testati ed erano nella norma. Sta bene.”
Tom scosse la testa. “Prince non è un mago normale.”
“Non spiega tuttavia perché non si è ammalato.” Replicò, ma quella teoria aveva senso, più senso di qualsiasi altra vagliata fino a quel momento. “A meno che, certo, non siano cambiate le tempistiche … Il Sergente Flannery si è ammalato nel giro di pochi giorni mentre Sam Howe era in Inghilterra da settimane. Non è arrivato qui con qualcosa di conclamato.”
“Non con i controlli del Ministero all’entrata di ogni mago straniero tramite Passaporta Continentale.” Convenne Tom: entrambi conoscevano quelle procedure dato che Meike prima di prendere la cittadinanza ufficiale del Ministero Inglese aveva passato anni a fare da spola tra Londra e la Germania.
“Quindi Prince dovrebbe esser già malato, se il periodo di incubazione si è ridotto. Non lo è, quindi è sano.” Tom non concluse la frase e Al vide un guizzo di sollievo affacciarglisi nello sguardo.
Non hanno rapporti e non si sono considerati alla festa di Sy … Però è pur sempre suo cugino.
Abbandonò ogni proposito di fare il suo lavoro per quel giorno e sospirò. “Vieni con me.”
Scesero fino a Malattie Infettive e non trovarono nessun ostacolo nell’oltrepassare l’auror di guardia alla stanza del sergente Flannery.
Perché non c’è?
Capì il motivo della defezione quando vide che James era seduto al capezzale dell’uomo. “Ehi.” Lo salutò disimpegnato, sperando che l’altro non si ricordasse che quella stanza era accessibile solo agli auror e agli addetti ai lavori: voleva evitare di veder lui e Tom arruffare le penne.
“Che ci fate voi qui?”
Dannata memoria da elefante.
“Il mio reparto segue questo caso in congiunzione con Malattie Infettive.” Gli rammentò pazientemente. “Sono venuto a visitarlo.”
James sbuffò, stringendosi nelle spalle. “Non me lo ricordavo.” Indicò con un cenno della testa Tom dietro di lui. “E Tommy?”
“Ha una teoria.” Si limitò a dire. Si avvicinò al capezzale del sergente e gli prese il braccio destro esaminandolo con attenzione.
Al!” Lo richiamò l’altro affiancandoglisi, ricordandosi improvvisamente che il suo compito era far rispettare le regole. “Non dovreste stare qui! Tu dovresti essere accompagnato da Sam e lui è un aggiusta - bacchette, non un medico!”
È meno scemo di quanto uno pensi … me ne dimentico sempre.
“Come, prego?”
“Chiudete il becco. Entrambi.” Li fermò esasperato prima che potessero mettersi a misurare la lunghezza delle rispettive bacchette. Quando ebbe trovato ciò che cercava non poté frenare un’imprecazione. “Tom, hai ragione. È la magia.”
L’altro si avvicinò, ignorando lo sguardo di fuoco che gli venne lanciato da James. “Cosa ti ha convinto?”

Per tutta risposta gli mostrò una bruciatura che ricalcava le vene che dall’incavo del braccio si diramavano fino all’attaccatura del polso. “Avevamo pensato che si trattasse di una semplice bruciatura da contraccolpo di incantesimo.” Spiegò. “Ne vediamo di continuo sulle braccia degli auror e in quelle dei Tiratori Scelti…”
James aggrottò le sopracciglia, chinandosi per studiarla. “E non è così? Perché a me sembra quello!”
“Liam è stata l’ultima persona ad aver lanciato un incantesimo a Samuel Howe prima che si riducesse in cenere, giusto?”
Suo fratello spalancò gli occhi. “È per questo che si è ammalato?”
Al si scambiò uno sguardo con Tom e poi riassunse quello che l’altro gli aveva detto, spiegando e approfondendo il discorso quando vide che James era un osso assai più duro da convincere. Ma il ragionamento era corretto e alla fine suo fratello si risedette sulla sedia accanto al capezzale del sergente Flannery, fissandolo inespressivo. “Merda.” Commentò passandosi una mano trai capelli. “Questo non facilita le cose.”
Non c’era una risposta che non rendesse la situazione ancora più angosciante. “Ne devo parlare con Finnigan e Smethwyck.” Si risolse a dire. “Per ora sono solo speculazioni.”
James annuì. “C’è sempre più puzza di Magia Oscura, eh?” Non aspettò risposta, forse perché la poteva indovinare dalle loro espressioni. “Quante malattie magiche nascono dagli intrugli Oscuri?”
“Non molte. Le poche che sono state documentate sono state create centinaia di anni fa, da stregoni che volevano sottomettere villaggi o farla pagare a re che avevano fatto loro un torto. Storie… Il problema è uno solo.” Si strinse nelle spalle ma non poté impedirsi un leggero brivido. “Tutte le malattie attuali derivano da quelle.”
“Quindi si può guarire!”
Fece un sorriso dolente. “Da quelle attuali.” Sottolineò. “Dopo anni di studio per trovarne la cura.”

Suo fratello sgranò gli occhi, mentre il peso delle sue parole lo investiva a pieno. Poi masticò un’imprecazione tra i denti. “Perché creare una roba del genere? Prince dice…” Si fermò, stupito lui stesso dal voler quotare quello che riteneva il depositario ultimo di tutti i suoi malumori. Con un grosso sospiro si fece forza e continuò. “Prince dice che potrebbe essere stato un incidente, qualcosa venuto fuori per sbaglio cercando di creare qualcos’altro.”
“Non sarebbe la prima volta che il Mondo Magico deve affrontare un problema per via di uno sbaglio di laboratorio. O di chi usa la Magia oscura come se fosse il Piccolo Pozionista” Osservò Tom con una smorfia ironica che Al capì fin troppo bene e lo spinse a stringergli appena la mano nella sua.
Prima che potessero però esplorare ulteriormente quel pensiero un Gufo batté violentemente il becco contro la finestra, agitando le ali per farsi dare udienza.
James slegò la pergamena che l’animale aveva tra le zampe. “È dall’ufficio.” Sbuffò rompendo il sigillo con l’unghia. “A volte vorrei che si ricordassero che abbiamo degli Specchi Comunicanti e i cellulari, e tutti e due sono molto più veloci!”
“Il Ministero è un’istituzione reazionaria per principio, dubito che cambieranno certe modalità in tempi brevi.” Osservò Tom.
“Reache?”
“Lascia perdere, Jamie.” Al dovette frenarsi per non ridere, perché conosceva fin troppo bene la coda di paglia del fratello e la sua propensione a diventare fisico quando questa gli veniva pestata.

Ci manca si mettano a litigare per concludere in gloria questo siparietto orrendo.
James scorse le righe della lettera e sbiancò di colpo. “Merda.” Ripeté. “Ne abbiamo un altro!”
“Cosa?!”
Com’è possibile? Non torna con le tempistiche, Howe è morto da troppo tempo e il Sergente si è scontrato solo con …
“È qualcuno che conosciamo?” Mormorò sentendo il cuore battere come un tamburo.
“No.” James afferrò la giacca e se la infilò, controllando con un movimento oliato di avere la bacchetta e il distintivo, da come premette le dita sulle tasche. “È partita una segnalazione dall’Accademia di Duello, pare sia uno degli allievi.” Fece una smorfia. “La chiamata è stata fatta in via prioritaria, tramite un numero di distintivo, c’è un agente lì. Ci ha chiamati Prince.”
Tom fallì miseramente nel sembrare disinteressato. “Prince è all’Accademia?”

James prese la bacchetta e fece un sorriso storto, indecifrabile se non nella sua rassegnazione.“E dove diavolo non è, quel tipo, ultimamente?”
Albus lo afferrò per un braccio prima che si Smaterializzasse. “Cercate di non fermarlo usando la bacchetta.” Gli raccomandò: se il loro ragionamento era corretto, era la prima cosa da non fare.
James lo guardò stralunato. “E come dovremo fare secondo te? Siamo maghi!”

“Potreste rischiare di venire contagiati!” Tenne duro. “Trovate un modo, James … per favore.”
L’altro esitò, ma finì per annuire perché si fidava del suo cervello quanto lui si fidava dei suoi muscoli. Era sempre stato uno scambio equo. “Va bene.” Sospirò. “Tu cerca conferma dal tuo capo … o da Sam, da chiunque possa darci delle risposte concrete e non speculazioni da cervelloni.” Rivolse a Tom l’occhiata che gli riservava quando era colpito dalle sue intuizioni ma troppo infastidito per volerlo ammettere.
Cioè come lo guarda sempre.
“Va bene. State attenti Jam.” Lo pregò. “Tornate tutti interi.”
“Sei un po’ naïve se lo dici ad un auror, sai.” Ghignò l’altro. “Piuttosto, voi due … vedere di non cacciarvi nei guai.” Sbuffò. “Anche se dirvelo pare che non serva mai ad un cavolo.”

Detto questo si Smaterializzò con uno schiocco potente, lasciandoli soli.
“Naïve … Non pensavo avesse un vocabolario che sorpassasse le quindici parole.” Esordì Tom dopo uno scomodo silenzio fatto di pensieri poco felici, almeno da parte sua.
Suo malgrado sorrise. “L’avrà sentita dire da Teddy.” Guardò il sergente Flannery, manifesto stesso della situazione orribile che si stava delineando. “Usciamo.” Decise. “Ho bisogno di prendere una boccata d’aria.”


Il tetto del San Mungo, nascosto dalla giungla di palazzi della City, ma comunque sufficientemente assolato per esser gradevole, era il rifugio di tutti gli assistenti e studenti stressati  e normalmente Al, sedendosi su una delle panchine, vi avrebbe trovato sollievo.
Non stavolta. Un altro ammalato. Un altro ammalato che non riusciremo a curare e che potrebbe mettere in uno dei nostri letti la squadra di James. O James.
Tom gli si sedette a fianco senza dire niente e gliene fu grato, perché in quel momento qualsiasi tentativo di conforto sarebbe suonata stupido.
Fu lui alla fine a prendere la parola, perché gli era rimasto un quesito che doveva esser soddisfatto. “Pensavo non volessi essere coinvolto…”
L’altro si strinse nelle spalle. “Mi conosci. Ho un debole per i rompicapo.”
Tom.”

L’interpellato distese le gambe, fissandosi la punta delle scarpe con profondo interesse. “Vorrei dire che l’ho fatto per te, per aiutarti.” Aggrottò le sopracciglia. “Ed è così. È il motivo per cui ho…”
“Rubato.”
“Copiato…” Corresse con un borbottio. “… quelle cartelle in prima istanza.”

Gli fece scivolare la mano lungo la gamba. “Lo so.” Mormorò sporgendosi per baciargli la linea della mascella, perché in fondo se lo meritava. “Le intenzioni le avevo capite.”
“Immagino quindi dormirò sul divano per i mezzi.”
“Ci puoi giurare.” Sorrise. “E cosa ti ha fatto continuare invece?” Lo vide mordersi le labbra, in bilico tra la confessione e il riottoso desiderio di tenersi tutto per sé. “Ti era mancato, vero?” Indovinò perché era quello il segreto inconfessabile. “Essere nel bel mezzo della tempesta.”

La tranquillità è meravigliosa. Ma … tranquilla. E non è una parola che alla lunga, per chi siamo, rimane totalmente positiva. Dovrebbe essere così … ma non lo è.
Questa faccenda mi toglie il sonno, ma l’adrenalina …
“Morgana, abbiamo dei problemi.” Mugugnò. “Seri.”
“Non mi manca la parte in cui uno di noi due rischia la vita.” Replicò l’altro tentando di dare una parvenza di sanità mentale all’intera rivelazione. “La parte…”
“… in cui scopri l’inghippo e fai scacco matto al nemico, qualunque esso sia?”
“Smettila di finire le mie frasi.” Inarcò le sopracciglia sardonico. “Ci fa sembrare una vecchia coppia sposata.”
“Solo sembrare?” Gli posò una testa sulla spalla, perché per quanto magra e spigolosa, era la spalla di Tom e seppellirci senza ritegno il naso era molto più consolante del sole che gli scaldava il viso. “La qual cosa, per inciso, rende ridicola la nostra propensione a finire nei guai.” Gli borbottò contro il collo.
“Non farlo sembrare come se ci inciampassi sopra … Tu li attiri.” Ghignò passandogli le dita trai capelli corti che gli si arruffavano sulla nuca. “E in questo caso, li hai addirittura cercati.”

Touché.” Si scostò per guardarlo in viso e doveva ammetterlo, per quanto quella situazione fosse brutta, averlo a fianco la rendeva meno spaventosa. “Grazie.”
L’altro sorrise passandogli un dito lungo la linea della sopracciglia, spianandogli la ruga di preoccupazione che doveva essergli di sicuro spuntata. “Per aver evidenziato la demenza che contraddistingue voi Potter?”
“Lo sai per cosa, vanesio rompiscatole.” Replicò sporgendosi a sfiorargli le labbra con le sue per ringraziarlo, ma non abbastanza per dargli ad intendere che aveva già scusato i suoi metodi ambigui. “E comunque dovresti piantarla visto che coinvolge anche te. O vuoi essere definito un Potter?”
Tom fece una smorfia che avrebbe potuto commentarsi tranquillamente da sola. Specie perché era piuttosto rassegnata.
 
 
****
 
Diagon Alley. Accademia Nazionale di Duello.
 
James si Materializzò di fronte all’imponente edificio vittoriano che ospitava l’Accademia Magica di Duello, controllò di avere la bacchetta a portata di mano, ma non in mano ed inspirò.
E come faccio a non usare la magia per fermare un mago?

Tuttavia non se la sentiva di ignorare le raccomandazioni della coppia d’oro di Serpeverde; per quanto fosse un insopportabile saccente, la Medimagia era il suo campo e la secchionaggine quello di Tom, quindi prendere sottogamba le loro intuizioni sarebbe stato da stupidi.
Rompipalle…
Sorpassò l’ingresso dove erano custodite bacchette appartenute a Duellanti leggendari e trofei vinti dagli stessi: da bambino aveva sognando di vincerli come aveva sognato di avere tra le mani qualsiasi cosa luccicasse e potesse portare il suo nome sopra.
A volte penso che avrei dovuto buttarmi sul Quidditch. Diamine, sarebbe stato una perdita per il Ministero, ma mi sarei risparmiato una tonnellata di schifezze!
“Jimmy!” Si sentì chiamare, e si voltò per trovare la testa ricciuta e gli occhi intelligenti di Bobby. Si salutarono con una pacca vicendevole, troppo tesi per sorridersi ma comunque rassicurati dalla presenza dell’altro. Si guardò attorno, cercando l’ultima e familiare testa bionda che componeva il loro terzetto.
“Dov’è Malfoy? Se è rimasto tra le sottane di mia cugina…”
“Quanto sei irrispettoso, Potty, dovrei Schiantarti! Sono arrivato prima di voi e ho efficacemente diretto la folla terrorizzata.”Gli rispose la chiacchiera querula dell’interpellato mentre li accoglieva in fondo alla scala dell’ingresso, quasi fosse un padrone di casa venuto a fare gli onori della sua magione. “Sono tutti in una sala al piano terra.”

Sbuffò per darsi un tono di comando, togliendogli con una manata lo stupido cappello di feltro che si ostinava ad indossare anche quando non era opportuno. “Perché non hai fatto evacuare l’edificio?”
Scorpius inarcò le sopracciglia. “Con un aggressore che può aver infettato chiunque?”
James schioccò la lingua, rendendosi subito conto della sciocchezza pronunciata.
Siamo in un Accademia di Duelli … qui la gente si lancia incantesimi addosso in continuazione.
Merda. Potrebbero essere stati tutti contagiati.
“Già, la situazione è piuttosto incasinata.” Gli fece eco Scorpius giocherellando con la bacchetta per mettere freno al movimento nervoso delle mani. “L’aggressore si è asserragliato in una delle sale … Prince è con lui.”
E ti pareva.
“La situazione dentro com’è? Siete riusciti a contattarlo?”
Scorpius scosse la testa tradendo un’espressione inquieta. “Dionis mi ha detto che Sören ha fatto allontanare tutti e poi si è chiuso la porta alle spalle.”
Cosa?
“Ha senso, se si vuole limitare il contagio. Il Sergente Flannery si è ammalato proprio così.” Osservò Bobby con tono grave, ma realista come sempre. “Ha meno senso se si pensa che è da solo e che la persona che sta affrontando non riesce a controllare la propria magia.”
“Quel coglione!”  

Potrebbe rimetterci la pelle. Dannazione!
Soffocò un’imprecazione, mentre la necessità di trovare un piano in tempi brevi si faceva improrogabile. Fece cenno a Scorpius di far loro strada e quando, sfilandogli affianco, lo vide tirar fuori la bacchetta capì che doveva mettere tutte le carte in tavola.
“Quell’impiastro di mio fratello se n’è uscito con una teoria…” Esordì.
“Mini - Potter sta curando il Sergente, giusto?” Scorpius emise un lamento, salendo due a due la scala che portava al piano superiore e alle sale d’allenamento. “Perché so che non mi piacerà?”

“Cervello fino, Malfuretto.” Ghignò amaro. “Albie crede che il contagio avvenga scaricandosi addosso incantesimi. Se incroci la bacchetta con un malato, c’è rischio che ti ammali.”
Bobby boccheggiò, prima di porre La domanda. “E come facciamo a fermarlo se non possiamo usare la magia?”

“Bella domanda.” Fermò l’ennesima corsa verso il fodero della bacchetta; prenderla ed afferrarla era un movimento talmente rassicurante che non poterlo compiere gli stringeva lo stomaco in una morsa. “Fatevi venire in mente una risposta.”
 
 
Sören impattò per l’ennesima volta contro il muro cercando di frenare la caduta senza rompersi le ossa. Cercò anche di ricordare come si respirava mentre sentiva il dolore irradiarglisi lungo la schiena e le costole.
Dannazione.
Affrontare da solo l’Infetto non era stata un’idea poi così brillante.
Il mondo smise di danzargli attorno e mentre la vista gli tornava a fuoco vide il suddetto avvicinarsi a lui con la cadenza di un ubriaco ma la tenacia di un maledetto Infero.
Diede un colpo di reni e si rimise in piedi, ignorando il lampo di dolore alla testa che lo lasciò quasi senza fiato.
Commozione cerebrale, qualche costola ammaccata…
Non era il momento di fare il conto dei danni, lo capì in tempo per erigere una barriera quando un lampo violaceo gli saettò a fianco, puntando verso il lato sinistro del suo corpo, verso la bacchetta.
Vuole disarmarmi. E poi?
Non riusciva a capire la logica delle azioni del suo opponente, perché non ve n’era alcuna; l’allievo Duellante non era in sé, immerso in una sorta di trance in cui la magia che gli scorreva nelle vene faceva da padrona. Ogni volta che tentava un incantesimo offensivo la barriera attorno alla pelle dell’altro mago crepitava, inglobando il suo attacco come una Chimera che veniva nutrita dopo giorni di digiuno.
Si nutre della mia magia.
Arrivare a quella realizzazione era stato spaventoso, perché significava che per quanto spingesse la leva sulla sue capacità e sulla potenza dei suoi incantesimi non avrebbe mai potuto farcela con le sue sole forze: Flannery doveva essere caduto perché sotto il fuoco di ben quattro agenti.  
Non importa. Non puoi farlo uscire di qui. Fuori di qui ci sono civili, civili che potrebbero essere attaccati, uccisi … o contagiati.
Con l’aiuto di Radescu era riuscito ad entrare nella sala e a farla sgomberare, ma non sapeva cosa stava succedendo fuori; sperava che gli auror fossero arrivati, anche se non aveva idea di come farli entrare, avendo chiuso la porta con un Colloportus tenace.
Falla finita, hai sempre lavorato da solo, anche quando c’era Johannes. Hai sempre combattuto e vinto le tue battaglie senza l’aiuto di nessuno.
Perché adesso dovrebbe essere diverso?
Perché lo era, pensò in una frazione di secondo, schivando l’ennesimo fiotto di magia incontrollata e letale del Duellante, rispondendo con uno Schiantesimo che si infranse in un centinaio di scintille rosse che colpendo un paio di vetrine le fecero esplodere in una miriade di schegge.
Prince!” La voce di Potter era fastidiosa quanto la sua persona, roboante e impossibile da ignorare. Fu un sollievo sentirla. “Prince, sei lì dentro?”
“Affermativo!” Rispose. “L’infetto è con me!”
“Lo so, razza di idiota! Che ti è saltato in testa di entrare da solo?!” Insultarlo pareva un esercizio quotidiano per l’auror, ma stavolta si trovò nella posizione di non poterlo biasimare. “Hai qualche malattia mentale?!”

Sören serrò un’ingiuria trai denti, allontanandosi con passi misurati dal mago di fronte a lui. Respirava come una belva braccata, gli occhi bianchi rivolti verso nessun punto in particolare: uno spettacolo inquietante persino per i suoi standard.
Che non sono quelli di una persona normale, suppongo.
“Dovevo mettere in sicurezza i civili!” Urlare non era il suo metodo preferito di comunicazione, ma la pesante porta in noce che lo separava dalla squadra era una barriera non indifferente. “La priorità…”
“La priorità era non farsi ammazzare o beccarsi quella schifezza, coglione!” Ci fu una pausa, poi il testimone della conversazione passò a Malfoy.

“Sören, ci sono brutte notizie.” Esordì la voce pacata del biondo. “Pare che il veicolo del contagio sia la magia … Più rispondi ai suoi attacchi e incroci i flussi magici, più rischi!”
Cosa?
Guardò la bacchetta e realizzò di colpo la portata dell’informazione.  
Come faccio ad uscirne vivo?
“Facci entrare!” Il tono di Potter aveva senso nella sua urgenza. “Non ti vogliamo rispedire in America in una scatola da scarpe!”
Sören guardò la pesante porta alle sue spalle, a troppi metri di distanza perché potesse tentare una corsa per andare ad aprirla. Se avesse tentato un Alohomora invece avrebbe lasciato il fianco scoperto per un attacco.
“Prince, non fare l’idiota! Apri!”
Non posso!” Gridò di rimando, alzando la voce come raramente gli capitava. Era frustrazione e una buona dose di panico. “Non sono abbastanza vicino e mi avete appena detto che non posso usare la bacchetta!” 
Potter non doveva aver aspettato che quella frase perché il portone venne fatto esplodere in un nugolo di schegge e segatura. Vide poi tre figure entrare nella foschia causata dall’esplosione, ma come le notò lui lo fece anche l’Infetto che con un ringhio si avventò sui tre. Sören non ci pensò due volte prima di puntare un grosso armadio e spedirlo a schiantarsi tra di loro, in una sorta di barriera improvvisata.

“Ti avevo detto niente magia!” Sbottò Potter quando lo ebbero raggiunto sani e salvi, anche se impolverati fino alla punta dei capelli. “Sei sordo o cosa?!”
“Avevi idee migliori?” Ritorse. “Come non la posso usare io, non la potete usare voi.”

L’inglese lo guardò storto, ma non ribatté. Guardò poi verso il cumulo di macerie che ostacolava l’Infetto dal raggiungerli. “Non reggerà per molto … Dobbiamo trovare un modo per stenderlo!”
“A mani nude?” Sbottò con forse troppa acredine. Si sentiva sbilanciato, nudo con quella sconcertante consegna.

Perché, diciamocelo, cosa sei senza magia?
“Beh, i Babbani catturano criminali dall’alba dei tempi e se la sono sempre cavata alla grande.” Osservò Malfoy inarcando le sopracciglia come a voler sottolineare la loro scarsa capacità di riflessione. “Cosa farebbe un Babbano al nostro posto?”
“Scapperebbe a gambe levate perché un tizio lancia lampi dalle mani?” Replicò Potter alzando gli occhi al cielo. “Dai, sii serio Malfuretto, che cazzo…”
La frase fu interrotta da un lampo violento che spedì la carcassa dell’enorme armadio che fino a quel momento li aveva protetti sopra le loro teste. Sören si sentì afferrare per il retro della camicia e trascinare via. Quando fu sbattuto sotto una serie di panche, in compagnia degli altri, al sicuro, capì che James Potter lo aveva appena salvato dall’essere schiacciato vivo da una quintale di legno, vetro e ferro. Si scambiarono uno sguardo.
“Vedi di non crepare.” Sbottò questo con evidente malavoglia. “C’è fin troppa gente che mi farebbe il culo se succedesse.”
“Ragazzi, ci serve un piano.” Si inserì Jordan rimasto in silenzio fino a quel momento. “Non ci vorrà molto prima che ci trovi.”
Che ci trovi?” Potter si voltò verso il compagno. “Gli serve una mappa? Siamo proprio qui sotto! Se non è cieco…”
“Appunto. Credo che lo sia, guardate i suoi occhi.” Osservò il ragazzo di colore. “Credo che ci localizzi tramite il rumore. L’avevo notato anche con il Sergente, ma pensavo fosse disorientato per via del black-out.”

“Questo gioca a nostro favore!” Si inserì Malfoy con gli occhi che saettavano da un lato all’altro della stanza. “Finché rimaniamo immobili per lui siamo invisibili, giusto?”
“Non possiamo rimanere sotto una panchina in eterno però.” Borbottò Jordan. “Può sentirci se ci muoviamo o lanciamo incantesimi … Che facciamo?”
Sören cercò di analizzare la situazione; non era semplice perché ai suoi calcoli doveva aggiungere adesso la variabile di altri agenti.
Con Estevez ci siamo sempre divisi, anche quando dovevamo inseguire qualcuno o arrestarlo.
Gli inglesi si erano invece settati su muoversi come un sol mago e così doveva far lui per quanto gli riuscisse difficile riflettere in quei termini.
“Serve un’esca.” Disse infine calamitando l’attenzione dei tre. “Scontrandomi con lui ho notato un punto cieco, dietro al testa. Se riusciamo a distrarlo per un tempo sufficiente ad avvicinarlo…”
“E come pensi di colpirlo se non puoi usare gli incantesimi?” Replicò Potter, scettico. “È come se fossimo disarmati!”

Sören a questo poteva ribattere. Poteva essere manchevole in molte cose, inadatto per natura in altre, ma non in quello; l’adrenalina, il dolore, la magia e un obbiettivo da abbattere erano stati per tanto tempo tutto il suo mondo.
“Ho un piano.”
 
 
Luce. Cercava disperatamente la luce e non la trovava.
Il buio era pieno di dolore, desiderio e fame. Non c’era luce, ovunque guardasse, solo brevi lucciole impazzite verso cui barcollava come un assetato.
Erano in quattro. Due lucciole che non l’avrebbero sfamato e poi due lampi, due lampi che erano pieni di luce ed era ciò che voleva, bramava e desiderava.
L’infetto che era stato Henry Price sentiva la magia mugghiargli nelle vene come vento in tempesta, domandare, pretendere quella luce.
E poi.
Erano sparite. Di colpo, non c’erano più … sapeva che erano lì con lui, ma non riusciva a vederle.
E questo lo faceva infuriare.
Come un pazzo, come un animale – se avesse avuto coscienza tale si sarebbe definito – ringhiò il suo bisogno.
E poi la vide. Una delle luci più grandi, bucare il buio e avvicinarglisi.
“Ehi, sono qui! Cos’è, ti hanno legato le gambe con una Pastoia!?”
Era lì, proprio davanti a lui e quindi vi si scagliò contro con la speranza e la disperazione di chi sapeva che non avrebbe avuto altre possibilità.
Si sentiva divorare, aveva fame.
Si sentiva bruciare, voleva sollievo.
Quindi lasciò ancora una volta che la sua magia avesse la meglio. Del resto era lei sua signora e padrona, lei che comandava.
Era vicino, così vicino alla luce … che non si accorse quando qualcuno spense l’interruttore.
 
 
“Prince!”
James non sapeva se mettersi a ridere o … in effetti, far solo quello. Guardò sbigottito l’uomo a terra, esanime, mentre tutto attorno erano sparsi i cocci di quello che era stato uno dei cimeli decorativi che disseminavano la stanza.

Scorpius che si precipitò assieme a Bobby a controllare che il mago svenuto fosse tale, alzò la testa trattenendo una risata trai denti. “Gli hai spaccato un vaso in testa amico!” Constatò allegro. “Sei un genio.”
Il tedesco parve perplesso dalle loro esternazioni. “Usare l’ambiente che ti circonda e gli oggetti in esso contenuti per difenderti è una delle lezioni base di qualsiasi disciplina marziale. Non ve l’hanno insegnato?”

“Un vaso!” Sottolineò incredulo; non avrebbe mai pensato che un tipo del genere, che sembrava essere nato con un manuale per le istruzioni incorporato, avrebbe mai potuto utilizzare un escamotage creativo. Era quasi disturbante.
Diavolo, lo è.
Bobby, che aveva Materializzato un paio di manette dall’aria Babbana – idea brillante non agitar la bacchetta in prossimità del tipo, per quanto privo di sensi – le serrò con forza. “Beh, ha funzionato … È decisamente nel mondo dei sogni.” Sorrise con aperta approvazione. “Bel colpo Sören!”
Sören?
James si trovò nella scomoda posizione di considerare che in effetti quello era il nome del ragazzo che aveva appena risolto la situazione senza causare ulteriore spargimento di sangue … o di magia. “Sì, già. Bella pensata.” Sbuffò trovandosi tre paia d’occhi puntati nella sua direzione. Era una sua impressione o il bastardo stava gongolando?
È parente del Pipistrello. Ovvio che lo sta facendo.
“Ti ringrazio.” Gli rispose con un sorrisetto che avrebbe voluto cancellargli dalla faccia a suon di calci. Si voltò poi verso gli altri due agenti, dismettendolo per un’espressione seria. “… e vi ringrazio. Senza di voi non sarei uscito vivo da questa sala.”
“Non dirlo neanche!” Esclamò Scorpius alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla, gesto che dispensava con oculatezza nonostante la sua natura cordiale. “Siamo una squadra.”
No che non lo siamo!
L’atmosfera cameratesca era però innegabile e James si sentì indeciso: essere indignato per quel cambio di trincea o sentirsi stupido perché era ormai rimasto da solo? Optò per la soluzione meno umiliante, ovvero ignorare l’intera faccenda. “A questo punto direi di chiamare il San Mungo e farlo portare via.” Disse barricandosi dietro al suo ruolo. “A proposito, che diavolo è successo?”
Il tedesco osservò il caos di oggetti distrutti e vetri sparsi tutto attorno a loro. “Ero nell’ufficio di Radescu, non so com’è iniziata.” Spiegò. “Mi è stato detto che ha perso i sensi mentre duellava e quando li ha ripresi… Era fuori di sé.”
“Come il Sergente.” Osservò Bobby. “Ma per essersi ammalato deve aver avuto contatti con lui o con Samuel Howe, no?”
“Howe è morto da più di una settimana e il sergente non frequentava l’Accademia.” Si inserì Scorpius liberando con la punta delle scarpe una porzione di pavimento. Indicò con un cenno della testa la a terra trai detriti. “… Anche se sembra la stessa roba. Niente bacchetta.”
“Le tempistiche non coincidono.” Replicò Prince suonando confuso quanto loro. “Dobbiamo chiamare il San Mungo.”
James annuì, facendo cenno a Bobby che fu lesto a tirar fuori di tasca lo Specchio Comunicante per una chiamata prioritaria all’ospedale. “C’è un altro problema…” Esordì e per una volta non provò nessun piacere maligno a dare una cattiva notizia al tedesco. “… Hai duellato con lui?”
Gli venne rivolta un’occhiata perplessa. “Sì, l’ho…” La consapevolezza parve investirlo come un treno. “Potrebbe avermi contagiato?” Chiese con un tono di voce che gli fece onore, nella sua tranquillità.
Non è un codardo, questo devi riconosceglierlo.
Gli doveva almeno una risposta concisa. “Sì. E come te, possono essere stati contagiati tutti quelli che si sono battuti con lui in questa Accademia.” Si voltò verso Bobby, che aveva sentito la conversazione e restava in attesa, mentre all’altro capo dello specchio una magi-infermiera gli stava chiedendo per la seconda volta generalità e motivo della chiamata.
“Che gli dico?” Chiese lanciando un’occhiata preoccupata verso il tedesco; era ufficiale, che gli piacesse o meno, Jordan e Malfoy lo consideravano della squadra.
E per quanto sei preoccupato? Qualche dubbio lo sollevi anche tu.
Sospirò vinto. “Che ci servirà più di un’ambulanza.”
 
****
 
Giardini di Victoria Embankment,
Pomeriggio.
 
I giardini di Victoria Embankment erano un buon posto per passare il tempo se l’ansia ti rodeva lo stomaco: erano dotati di panchine, fiori e statue di poeti morti da secoli ma cosa ancora più importante di un ameno chioschetto dove fingere che bere the e mangiare pasticcini era tutto ciò che si desiderava dalla vita. Per questo Lily aveva accettato di accompagnarvi Violet ad aspettare l’arrivo di Dominique, che come ogni giorno sarebbe scesa dal traghetto che collegava la comunità magica dell’isola di Skye con la sua gemella londinese.
Gettò qualche briciola ai passerotti accorsi ai suoi piedi non appena aveva deciso che non era abbastanza affamata per voler finire il suo crumble di mele.
Neanche per iniziarlo se è per questo …   
Accanto a lei Rose sembrava ancor meno convinta di ciò che le era stato servito, sorseggiando la sua tisana calmante con le sopracciglia corrugate e lo sguardo sprofondato negli abissi del portatovaglioli.
“Che voi siate silenziose è quasi un’oscenità.” Osservò Violet in quel particolare modo che voleva ostentare disprezzo e gridava invece apprensione da chioccia. “Non è la prima volta che la squadra di Scorpius viene chiamata fuori dal turno ordinario!”  
“Sì, ma quando mi ha riaccompagnato al negozio c’era qualcosa che non andava.” Rose pronunciò le ultime parole con tono drammatico. “Mi stava nascondendo qualcosa!”
“È un auror, Weasley. In teoria stava facendo il suo lavoro.”
L’altra scosse la testa. “Scorpius è una radio rotta, non tace neanche quando dorme. Quando ha letto il Gufo invece ha perso il sorriso e…” Diede un vigoroso sorso della sua tisana ormai fredda. “… e non è che lo perda tanto spesso, ecco. Succede per cose gravi.”
Violet tradì un’espressione compartecipe, prima di serrare le labbra e agitare la mano dismissiva. “Siete esagerate! Capisco che il melodramma sia nei vostri geni, ma non vi ho invitate per annoiarmi di fronte ai vostri musi lunghi!”
“L’hai fatto per preoccuparti assieme  a noi infatti.” Le fece eco Lily, godendosi la sua espressione imbarazzata. “Ti dimentichi sempre che sono una Legimante.” Sorrise. “Sei carina.”
La ragazza arricciò il naso infastidita. “E tu fastidiosa.” Inarcò le sopracciglia. “Per chi sei preoccupata tu piuttosto? Ho sempre pensato che avessi la testa troppo vuota per emozioni simili.”
Lily ridacchiò. “Oh, questa è solo l’eccezione che conferma la regola.” Tentò un morso al suo dolce, dal sapore un po’ troppo artificiale per i suoi gusti. La produzione industriale dolciaria dei Babbani non l’aveva mai entusiasmata. “Quella squadra è parte della mia famiglia. Letteralmente.”
E adesso c’è anche Sören. Peggio di così.

“Almeno voi non convivete con una tizia che si coccola bestioni dall’indole sanguinaria.” Borbottò la francese di rimando. “Mai che resti un giorno a compilare scartoffie, sempre in prima linea a sfidare la morte!”
“Suona un sacco sexy.” Sorrise. “Ma Domi lo è, Merlino la benedica.” 
“Con certe uscite, Potter, rischi l’ambiguità.”
“Tesoro, io la anelo.”

Rose le guardò male, quasi fosse un delitto capitale cercare di alleggerire la situazione e godersi la frescura di quel pomeriggio senza nuvole. Lily le mise una mano sulla sua, sentendo di capirla più del solito.
Mio fratello e quello che considero uno dei miei più cari amici sono stati chiamati per un’emergenza di Magia Oscura.
Che. Ansia.
Fino a qualche settimana prima avrebbe dovuto preoccuparsi solo di James; ora si era aggiunto Sören, che non era più un pugno di lettere, ma una persona vera, che rischiava la vita a neppure un miglio di distanza da dove lavorava e viveva lei.
Voi sponde e margini del bel fiume Doon, Come riuscite a fiorire così fresche e belle? Come riuscite a cantare, voi uccelli, mentre io sono qui, stanca e piena di preoccupazioni²?” Canticchiò, un po’ per scuotere sua cugina dal torpore ansiogeno in cui era sprofondata un po’ per farsi coraggio. “Dai, Rosie, è del Bardo scozzese!” Indicò la statua di Robert Burns che scintillava alla luce del sole proprio alle loro spalle. “Faccio una citazione colta per una volta e non me la cogli?”
“Credo sia sconvolta proprio perché è uscita dalle tue labbra.” Motteggiò Violet con un guizzo grato nello sguardo. Per quanto prendesse in giro Rose le era affezionata ed era protettiva nei suoi confronti; lo testimoniava il fatto le avesse invitate lì. “Il tuo scozzese a letto ti seduce con terzine gaeliche?”
Lily rise senza rispondere, perché in realtà non ricordava se a parlargli del popolare componimento trasformato poi in canzone fosse stato Scott, da bravo abitante della Caledonia … o Sören.
Scotty non è tipo da poesie però, mentre Ren sì, le adora. È un romanticone.
Mi sa che è stato lui.
“I mezzi di seduzione di Domi invece quali sono?” Celiò inarcando le sopracciglia perché sentiva che era meglio spostare l’attenzione da sé. “Ti porta in dono pelli di animali morti e artigli di drago?”
“Non scherzare.” Sbuffò Violet con aria esasperata. “Non sai che ansia prima di ogni San Valentino.”
“Ehi.” La voce di Dominique le fece sobbalzare come uno scoppio di incantesimo, mostrando al mondo intero quanto in realtà fossero tese.
“Tu e questa mania di arrivare alle spalle!” La sgridò la compagna, mentre l’altra pareva orgogliosa come uno scolaro appena lodato dalla propria maestra preferita.
“Ehi, colpa mia se siete tutte nervose come lepri?” Ghignò in un tripudio di  lentiggini, pelle dorata dal sole e pantaloni attillati di pelle di drago; a giudicare dalle occhiate che stava ricevendo metà del caffè doveva chiedersi quale servizio fotografico stesse per esser messo in atto.
Dannati Weasley Delacour, slanciati e affascinanti come ninfe dei boschi. Vi odio.
Lo pensò però con affetto, mentre Violet attirava a sé la guardiana di draghi per un bacio che gridava territorialità ai quattro venti. “Woh, Piggie!” Esclamò l’altra compiaciuta. “Per cinque minuti di ritardo già ti manco così?”
Lily vide l’espressione di Violet aprirsi in un sorriso che conteneva un sacco di parole non dette. “Ma sta’ zitta squilibrata, è un’ora che ti aspetto.” Sbuffò.
Ciò che stava provando Violet le vibrava addosso – quando era agitata le sue capacità si intensificavano – ed era quasi violento nella sua intensità. Le sembrò di entrare in un’intimità che non capiva e questo la mise a disagio. 
Io non so amare così. Non credo neppure vorrei. È … troppo.
Dominique pareva comunque di fretta. “Avete sentito del casino successo all’Accademia di Duello?” Chiese a nessuno in particolare. “Degli auror?”
“Eh?” Cadde dalle nuvole, scambiandosi un’occhiata con Rose. “Con auror intendi Scorpius…”
“La squadra di Jam, sì.” Confermò giocherellando con le chiavi della macchina, quasi fremesse per infilarle nel quadro d’accensione. “Loro stanno bene, sono tornati in ufficio.” Anticipò a Rose, dandole una pacchetta sulla spalla perché in pochi secondi quella aveva perso due toni di colore dal viso. “Mi ha chiamato Rox però … dice che Dionis è stato portato al San Mungo e con lui un’altra decina di perso…”
“Sören dov’è?” La interruppe senza riuscire a frenarsi. E perché poi avrebbe dovuto? “È con mio fratello?”

“Non lo so.” Si strinse le spalle l’altra. “Rox mi ha parlato solo di Dion. Sto andando a prenderla in macchina, non può Smaterializzarsi né usare la Polvere Volante incinta com’è.”
“Vengo con te.” Prese la sua borsa e ignorò le occhiate perplesse e congiunte di Violet e Rose. “Roxie avrà bisogno di me.” Si affrettò a spiegare, anche se non era solo quello che muoveva i suoi gesti; per l’agitazione quasi dimenticò il portafoglio sul tavolo.
Perché diavolo, se era agitata.  
Se Sören non è con la squadra di Jamie … È in ospedale?
 
****
 
Farrindgon, Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.


Avevano chiuso metà intera del reparto Malattie Infettive per non stiparli in una delle stanzette dove di solito alloggiavano i lungo-degenti. Erano troppi, rifletté Sören osservando le persone sedute sui lettini o in piedi a scrutare oltre la barriera di liquida magia impenetrabile che serviva a precauzione sanitaria.
Si sentivano in trappola e non ci voleva una Legimante Naturale come Lilian per capirlo; la situazione era stata spiegata e le famiglie contattate, ma lo spettro dell’epidemia ormai era cosa concreta.
Chissà quanto ci vorrà prima che i giornalisti prendano d’assalto l’ospedale e l’Ufficio Auror…
Non era cosa che sarebbe toccata a lui gestire, e di questo ne era contento.
Devi solo aspettare.
Aveva passato l’infanzia e tutta l’adolescenza a disciplinare la propria impazienza, quindi non gli era difficile; lo stesso valeva per Dionis, attorno a cui gli altri si erano istintivamente radunati cercando di trovare rassicurazioni nell’atteggiamento pacato e propositivo del ragazzo.
Dionis è una persona che dà tranquillità. Io no, temo.
Incrociò le braccia al petto per tenerle da qualche parte, che le sentiva inutili come pezzi di legno e poi alzando lo sguardo incrociò quello del rumeno che gli restituì un sorriso empatico.
Ha una moglie e un figlio in arrivo … Se qualcuno deve ammalarsi, è meglio che sia io.
L’altro, dopo essersi scusato con le persone con cui parlava, si sedette sul lettino vuoto accanto al suo e rilasciò un sospiro che doveva aver imparato ad imbottigliare grazie alla disciplina dell’Istituto. “A quest’ora avranno avvertito Roxie.” Mormorò strofinandosi la fede nuziale con il pollice. “Non le fa bene agitarsi nelle sue condizioni e la conosco …  Sarà già qui con l’intenzione di rivoltare l’ospedale.”
La preoccupazione dell’altro pareva genuina e doveva averla evidentemente occultata a beneficio degli altri.
Si confessa con te perché ti ritiene un amico. Sii supportivo.
Sören si sforzò quindi di trovare le parole giuste anche se pensava a tutt’altro. “Mi hai detto che Lilian è con lei … è brava a tranquillizzare le persone.” Tentò. “Con me ha sempre fatto un lavoro eccellente, anche quando ero ad un passo dal perdere il controllo.”
Gli venne rivolto uno sguardo di amaro divertimento, quasi fosse un ragazzino un po’ tardo. “Sören, Lily non è la persona più indicata da cui cercare rassicurazioni quando è preoccupata per qualcuno.”  
“Né lei né Roxanne hanno motivo per preoccuparsi, starai bene.”
“Ti ringrazio.” Gli sorrise. “Ma per quanto Lily mi consideri un amico, non è per me che sarà sicuramente preoccupata.”

Di chi allo … Ah. Per me?
Il rumeno dovette intuire i suoi pensieri, perché fece un mezzo sorriso indulgente.
Non hai la minima idea dell’effetto che le fai, vero?”
Cosa…
Non fece in tempo a trovare una reazione adeguata a quella frase che sentirono chiamare il nome dell’altro. Dionis scattò in piedi perché oltre la barriera magico - sanitaria c’era nientemeno che sua moglie, accompagnata da Albus Severus Potter in camice verde acido dei Medimaghi  e …
E Lily.
Dragostæ!” Esclamò nella sua lingua madre, in un vezzeggiativo che trovò riscontro nello sguardo sollevato della compagna mentre si fermava ad un passo dalla barriera. Da come serrava i pugni era palese che volesse oltrepassarla per stringerla a sé. “Non saresti dovuta venire …”
“Non dire sciocchezze, come potevo restare a casa mentre tu aspettavi qui da solo? Per che razza di moglie mi hai preso, una che ti è arrivata per piuma?” Sbottò con le lacrime impigliate nelle lunghe ciglia scure. Era bella, considerò Sören, ma mai quanto l’insolitamente silenziosa chioma rossa che le stava affianco.

Non hai la minima idea dell’effetto che le fai, vero?
 
 
Ad onor del vero, aveva provato a mantenere la calma.
Da quando Dominique le aveva scaricate di fronte al grande magazzino in disuso con la raccomandazione ‘di non fare cazzate’ – lei, poi – aveva fatto di tutto per essere d’aiuto: aveva evitato che sua cugina si mangiasse viva la magi-infermiera all’accettazione e aveva suggerito di andare in cerca di Albus, l’unica persona con un camicie che le avrebbe assecondate in tutto, scavalcando la ridicola regola per cui non si poteva visitare un congiunto nel reparto Malattie Infettive a meno che un Guaritore non desse il permesso.
Suo fratello, da bravo parziale ex-Serpeverde, non le aveva deluse: non solo non aveva battuto ciglio, scortandole a destinazione ma aveva anche intercesso per loro con il Capo Guaritore Finnigan – che neanche a dirlo, aveva un debole per lui.
Lily, nella sua posizione di persona non direttamente coinvolta, avrebbe potuto fare effettivamente di più.  
Come far aspettare Roxanne con tutti gli altri familiari dei pazienti invece che far valere le nostre conoscenze, che è sbagliato …
Al diavolo, non potevo. Sören.
Era stato quello il suo unico pensiero da quando Dominique aveva aperto bocca.
Sören deve stare bene.
E vedendo adesso di fronte a lei, con qualche livido e la fronte fasciata, ma in piedi e con un colorito migliore del suo, tirò un sospiro di sollievo.
Bene, favoloso, perché deve stare bene.
Deve stare bene perché dobbiamo vivere tutti e due.
Aveva sempre saputo che se all’altro fosse mai successo qualcosa lei si sarebbe sentita come una sopravvissuta, perché avevano attraversato un inferno assieme e vivi e in salute dovevano rimanere entrambi per la fine dei loro lunghi giorni da maghi. Era un maledetto legame a doppio filo e quando era teso in quel modo repentino faceva male.
Adesso che è qui è ancora più forte, niente da fare …
Se l’era aspettato: ora doveva solo abituarcisi.
Sentiva lo sguardo di Albus su di sé, come sentiva la conversazione tra Dion e sua cugina ma erano rumori di fondo.
Fu Sören ad iniziare la conversazione. “Ciao Lilian.” Era un tentativo incerto, come insicura era la sua espressione. Sembrava non saper che Snaso pescare. “Come stai?”
Le venne da ridere, ma si trattenne perché aveva la sensazione che avrebbe finito per farsi venire gli occhi lucidi. “Tu lo chiedi a me?”
L’altro fece un mezzo sorriso. “Sto bene, non preoccuparti.”

Come no!
Sören ruppe la stasi che si era creata distogliendo lo sguardo dal suo e rivolgendo un cenno formale a suo fratello, che le stava dietro le spalle come un maledetto avvoltoio impiccione. “Albus Severus.”
“Sören.” Al ebbe il buongusto di esser cortese. “C’è qualcosa che possiamo fare? Avete bisogno di qualcosa?” Almeno riusciva a fingere di essere una persona educata. Era un sollievo. “Faremo il possibile per mettervi a vostro agio.”
Lode a lui e alla suo distacco emotivo da guaritore …  

“ … Nulla che mi venga in mente, ma ti ringrazio.” Aveva esitato e non doveva esser stata la sola ad averlo notato, perché Al inarcò le sopracciglia.
“Non farti problemi, so per esperienza che aspettare è logorante.”  Ed era una frecciatina bella e buona.
Distacco emotivo un corno.
Sören la colse quanto lei dalla faccia che fece e Lily dovette frenarsi per non tirare uno schiaffo a cinque dita alla serpe in seno che aveva per fratello.
Sta aspettando di sapere se è ammalato di una cosa orribile, potevi risparmiartelo!
Albie, perché non vai a sentire a che punto sono con le analisi di laboratorio?” Chiese a voce sufficientemente alta perché anche Roxanne e Dionis sentissero.
“Puoi sapere qualcosa?” Si riscosse la cugina, con un cipiglio che prometteva orribili ritorsioni nel caso avesse tentando di mentire o eludere. “Puoi dirgli di dare la precedenza alle loro analisi?”
Al deglutì facendo un passo indietro. “Conosco i pozionisti, sì … potrei…” Aggrottò le sopracciglia. “E comunque è Al.”
No, è Albie se ti comporti da coglione.
Roxanne era ad un passo dall’afferrarlo per il bavero del camice e scuoterlo come un pupazzo, ma Lily finse di ignorarlo. Dionis invece si schiarì la voce, pacifico e solido come sempre. “Roxanne, non metterlo in difficoltà, sono certo che stanno tutti facendo il possibile.”

“Possono farlo anche facendolo in fretta!” Sottolineò l’altra con un borbottio. Poi sbiancò di colpo ed emise un lamento totalmente dal nulla, posandosi una mano sulla pancia.
“Roxie!” Le fu subito accanto, sorreggendola perché le stavano crollando le ginocchia. Cercò con lo sguardo suo fratello e, serpe o meno, lo trovò esattamente dove doveva essere, ovvero dall’altro lato ad afferrare il braccio libero della cugina. “Ehi, che c’è?”
“Credo… È solo una contrazione, non è niente, sono giorni che le ho.” Non guardava loro, ma Dionis, trattenuto per un braccio da Sören; Lily non ne capì il motivo finché non vide la barriera addensarsi e tremare per lo sforzo di bloccare il rumeno.
Sta cercando di uscire e neanche se n’è accorto. È normale, Roxie ha gridato…
Fece un sorriso grato all’amico, che le rispose con un lieve assenso.
Bravo Ren, ha più riguardo e riflessi di tutti noi messi assieme.
“Da quanto hai queste contrazioni?” Chiese Al con il tono attento del medico di professione: sarebbe stato più rasserenante se non fosse apparso terrorizzato.
Ad Al han sempre fatto paura le donne in dolce attesa. Pare che sia un trauma risalente alla mia nascita.
“Sta scadendo il periodo, è normale. Non preoccupatevi, so quando deve nascere mio fi…” Sua cugina si bloccò per lanciare un mezzo grido sorpreso. “Non sono mai state così forti!” Disse con chiaro panico consapevole nella voce.
Perché panico consapevole? Stupido potere. Mi dici che cos’è e non mi dici mai perché!
Si sarebbe date dell’idiota da sola nel momento stesso in cui formulò quel pensiero. Perché era ovvio da come sua cugina le stritolava la mano.
A Roxanne si erano rotte le acque.
 
****
 
 
Note:


Nel prossimo capitolo il mistero di Teddy e di Lunastorta svelato e altre amenità! ;D
Qui la canzone del capitolo.

Così è come immagino l’Accademia.
 
1. La canzone che ascolta Tom qui
2. Le strofe che canticchia Lily sono in realtà di una poesia di Robert Burns ‘Ye Banks and Braes o' Bonnie Doon’. È stata musicata e resa una ballad tipica della tradizione scozzese. Qui per maggior info e questa la versione della canzone che canticchia Lily. Una curiosità: la statua di Burns, considerato Il poeta scozzese, tanto da esser chiamato ‘il bardo di Scozia’, è davvero nei giardini di Victoria Embankment.   Qui una foto.

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Capitolo 20
*** Capitolo XIX ***


 
 


You only need the light when it's burning low
Only miss the sun when it starts to snow
Only know you love her when you let her go
(Let her go, Passenger)
 
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Ora di cena.

 
Doveva trattarsi di un incubo.
Quello oppure la situazione che gli si era presentata davanti, a pochi minuti dal finire quell’ennesima giornata lavorativa, era reale e lui si trovava a dover gestire una crisi in piena regola.
Lanciò un’occhiata a Ron, l’amico di sempre, che sostava grave di fronte alla sua scrivania. Accanto aveva James che esibiva una ferita al sopracciglio curata malamente e l’aria tesa di chi avrebbe preferito trovarsi a faccia a faccia con un Troll di montagna che dover affrontare le conseguenze di un attacco con almeno una trentina di testimoni, tutti al San Mungo ad attendere di sapere se erano stati contagiati dalla stessa malattia dell’uomo che aveva attentato alla loro vita.
“Cosa sapete dirmi di questo…” Merlino, non ricordava neppure il nome del mago ammalato.
“Price. Henry Price.” Borbottò suo figlio tamburellando le dita sulle gambe, guardandosi attorno con l’evidente speranza che un meteorite si schiantasse su di loro.
Poteva capirlo.
“Non molto.” Aggiunse. “Bobby ha interrogato i testimoni ed è venuto fuori che si è iscritto all’Accademia qualche mese fa. Non viene da nessuna scuola di Duello locale, ma è entrato comunque nella rosa dei favoriti per il Torneo Inter-Ministeriale che si terrà a Settembre.”
“Però!” Osservò Ron. “Non succede spesso ai Signor Nessuno.”
“No, infatti… Però Dionis mi ha detto che capitano, alle volte, i talenti naturali e che quel tipo gli aveva detto che si era allenato in privato per anni. Ah, ha frequentato Hogwarts più di dieci anni fa. Niente di eccezionale però, non è stato né Prefetto né Caposcuola, nessuna menzione d’onore. Grifondoro.”
“Non l’hai incrociato?”  

James scosse la testa. “Si è diplomato prima che entrassi. Chi lo conosce dice che è un tipo che sta sulle sue, non è sposato, né ha figli.”
“Qualche collegamento con Howe? Con Liam?”
Le spalle di James sprofondarono impercettibilmente, ma l’espressione smarrita era tutta lì per gli occhi allenati di un padre. “Nessuno … per ora.” Ripeté. “Malfoy e Bobby stanno aspettando i permessi per perquisire casa sua. Ma, almeno per ora, sembra non abbia avuto nessun contatto con il sergente e l’americano.”
Harry si strofinò la fronte ignorando la compressione alle tempie che minacciava un’emicrania di tutto rispetto. “Le persone che erano all’Accademia … Si sa qualcosa dei risultati delle analisi?”

“È un sacco di gente, papà.” Sospirò. “Ho sentito Albus via Specchio Magico … Hanno dato massima priorità ma ci vuole tempo.” Prima che potesse chiedere, aggiunse la risposta. “Non si sa quanto.”
“Sören?” Avrebbe dovuto chiamare Nora ed informarla della situazione, perché non solo il caso aveva avuto una svolta drammaticamente repentina, ma quella svolta coinvolgeva in prima persona il suo agente.
Altra cosa da aggiungere a quest’agenda da incubo.
Si sporse dalla porta e cercò lo sguardo della sua segretaria. “Grace, programma una chiamata via Camino per l’America tra cinque minuti.”
“Subito Signore.”
“È con gli altri.” Gli rispose James quando richiuse la porta. “Prince, dico. Sta bene per ora … insomma, così mi ha detto Al. Papà…” Esitò. “Credi che … Credi che possa essere stato contagiato?”

“Non lo so.” Ammise sentendosi impotente di fronte all’atteggiamento smarrito del suo ragazzo; Ron gli aveva detto come avesse organizzato i soccorsi e fatto del suo meglio per contenere la situazione, ma ora, nell’intimità dell’ufficio era chiaro fosse frastornato e spaventato. Gli mise una mano sulla spalla e tentò il suo miglior sorriso. “Avete fatto un ottimo lavoro, laggiù. Liam sarebbe fiero di voi.”
James ricambiò il sorriso e si scostò quando sentì bussare la porta. Quando venne aperta senza chiedere il consueto permesso, inarcò le sopracciglia. “Mamma?” Domandò confuso all’apparire della suddetta.
“Ginny.” Salutò con un cenno la moglie. “Vieni, stavo aspettando te. Com’è la situazione al San Mungo?”
Sua moglie, che amava anche per la sua mancanza di peli sulla lingua, scosse la testa. “Pessima. C’è un asserragliamento di giornalisti all’accettazione e sono sicura che quello Snaso di Hawkins è riuscito a oltrepassare la barriera di infermiere per ficcare il naso un po’ ovunque.”

“Stampa? Stiamo parlando della stampa?” Ron sgranò gli occhi, impallidendo data la portata dell’informazione. “Vuol dire che il Profeta sa già tutto?”
“Tutti i quotidiani magici del paese, da quelli a tiratura di cento copie a quelli di diecimila, lo sanno Ron.” Replicò la sorella con un sospiro impaziente. “Trentacinque persone, tra staff dell’Accademia e Duellanti sono sia testimoni oculari che probabili vittime. Queste persone hanno dovuto chiamare i propri cari per spiegare la situazione … Non c’era modo per mettere a tacere la cosa come nel caso di Liam.”
“C’eravamo solo noi auror quand’è successo, Lils e Al … e i pazienti dell’ala Thickley.” Convenne James facendosi scuro in volto. “Ma adesso…”

Harry si staccò dalla scrivania ed inspirò. Se c’era qualcosa da evitare, era il panico di massa che sarebbe conseguito a qualsiasi intervista, articolo o servizio fosse venuto fuori da quella giornata. “Adesso faremo una conferenza stampa.” Proferì con una calma che era ben lontano dal provare; ma non era quello il punto. Non lo era mai stato da che aveva undici anni. “Ron, contatta la Direttrice Jones. Ginny, voglio che contatti tutti i direttori dei quotidiani e che tu predisponga la cosa. Credi di poterlo fare? Non gli daremo in pasto dei civili spaventati.”
“Gli daremo in pasto te quindi?” Mugugnò l’amico, che aveva sempre avuto la straordinaria capacità di capire le sue reali intenzioni.

Sorrise appena, stringendo la mano della moglie, che supportiva come sempre si era limitata ad un silenzioso cenno di assenso. “Beh, se non altro sono un piatto che conoscono bene.”
 
****
 
San Mungo. Reparto Malattia Infettive.
 
Sören non aveva la minima idea di come confortare quello che era diventato il suo primo amico su suolo britannico dopo Lilian; Dionis marciava come un soldato di fronte alla barriera, con le spalle ridotte ad una fune serrata di muscoli; poteva vederlo anche senza toccarlo.
“Roxanne starà bene.” Esordì, sentendosi piuttosto temerario dato che il resto degli astanti aveva preferito allontanarsi intuendo l’aria di tempesta.
È un padre, ed è la nascita del suo primo figlio … e non può assistervi. Immagino sia frustrante.
L’altro diede appena cenno di averlo ascoltato. “Dovrei essere accanto a lei. Sono il suo compagno.” Serrò i pugni come se volesse aggredire fisicamente la barriera che li separava dal resto del reparto. “Invece sono qui, trattenuto come una cavia da laboratorio!”
“È per la sicurezza stessa di tua moglie e di tuo figlio.” 

Lo so!” Gli venne rivolta un’occhiata di rabbia bruciante, ma sapeva che non era indirizzata a lui, quanto piuttosto alla situazione, quindi non arretrò. Lily non l’aveva mai abbandonato nel momento del bisogno, neppure a Durmstrang, e così avrebbe fatto lui con Dionis.
Questa è l’amicizia, credo.
“Dovrei essere con lei.” Ripeté passandosi una mano trai capelli e serrando la presa sulle ciocche corte. “So che c’è la sua famiglia … ma ha bisogno di me.” E c’era una sicurezza così adamantina in quel tono che a dispetto della situazione lo invidiò.
Dev’essere bello esser desiderati a tal punto…
“Capisco la tua frustra…”
“No che non capisci! Come potresti?!” Sbottò voltandosi per fronteggiarlo e Sören fu certo che l’avrebbe fatto se non avesse trovato le parole giuste.

“Hai ragione, non lo capisco.” Replicò quieto. “Ma questo non mi impedisce di dirti che non c’è nulla che possiamo fare finché non arriveranno i risultati dei test. Arrabbiarti non la aiuterà in alcun modo.”
Il discorso con sua sorpresa fece immediato effetto, dato che la rabbia dell’altro parve sciogliersi come neve al sole. “Hai … hai ragione.” Mormorò con imbarazzo. “Mi sto comportando come un idiota. Non volevo prendermela con te. Io …” Esitò. “Ho usato parole meschine. Perdonami.”
Cosa… Ah.
Scosse la testa, facendogli cenno di sedersi su una delle poltrone che erano state fatte Apparire per rendere più confortevole quel soggiorno forzato, e gli versò un bicchier d’acqua.

“Hai solo detto la verità.” Osservò sedendoglisi accanto. “Dubito che diventerò mai un padre di famiglia.”
Dionis vuotò il bicchier d’acqua in due brevi, ma grati, sorsi. “Perché?” Chiese sorpreso.
“Il mio lavoro. È rischioso, il tasso di mortalità o di ferite invalidanti è alto. Con queste premesse non è facile stringere legami duraturi … Una strega non vorrebbe mai firmare un contratto per trovarsi vedova.”
“Dovrebbe valere per ogni agente di Polizia Magica, no?” Replicò aggrottando le sopracciglia. “Ma non siete tutti scapoli, anzi.”

Palesemente colto in flagrante, Sören sentì che si stavano avventurando in un territorio troppo personale. L’amico però aveva chiaramente bisogno di distrarsi, ed era certo che ogni sua confessione sarebbe stata vista come tale e dunque custodita. “Non sono un tipo da … famiglia.” Cominciò, perché certe cose andavano spiegate. “Non ne ho mai avuta una, non veramente, dato che i miei genitori sono morti quando ero bambino. Mio zio, come puoi immaginare, non era propriamente una figura paterna.” Apprezzò il lieve cenno d’assenso dell’altro. Non voleva esser compatito.
È come sono andate le cose.
“Non penso che sarei in grado di gestirne una. Non saprei da dove iniziare.” Concluse il braccio, teatro degli esperimenti della Thule. Strinse la presa e sentì il calore irradiarsi quieto ma sempre presente. “Sarei un pessimo padre e un pessimo marito.”
“Questo non puoi saperlo!” Ribatté Dionis senza dismettere quell’aria sorpresa; gli faceva piacere, ma dimostrava anche la sua ingenuità. Nessuna persona che lo conoscesse a fondo gli avrebbe mai affidato la sicurezza affettiva di altre persone. “Non puoi saperlo senza…”

“Chi mai mi vorrebbe?”
Gli uscì prima che potesse frenare la lingua e avrebbe voluto Maledirsi; non voleva certo farsi compatire per qualcosa che aveva accettato come  una certezza, senza rattristarsi, molto tempo prima.
“No, ti sottovaluti.” Fu la replica seria corredata da una pacca sulla spalla: il rumeno era una persona che amava il contatto, con tocchi sulle spalle o strette di mano, ma la sua fisicità non era mai invasiva. Gli aveva sempre ricordato un po’ quella di Lilian. “Conosco persone che non dovrebbero neppure avvicinarsi ad un impegno simile, eppure lo fanno e le conseguenze sono pessime. Ma tu, amico mio, renderesti una donna felice ne sono certo!”
Sorrise, accettando il discorso come un attestato di amicizia parziale, perché quello era. “Ti ringrazio.”

“Non ringraziarmi, dico la verità!” Sbuffò. “E comunque una candidata già ci sarebbe.”
… Cosa?

La sua espressione fu abbastanza esaustiva da far ridere l’altro. “Sappiamo entrambi di chi stiamo parlando, no?”
“Veramente no.” Disse troppo in fretta, dandosi del perfetto cretino. Di certo Dionis non intendeva…
“Non facciamo finta che il Troll non sia nella stanza, Ren.” Sentire quel nomignolo da labbra che non erano quelle della sua piccola amica inglese lo stranì a tal punto che non riuscì a mettere due parole in fila per negare.  
Dannazione.
Quello era un ottimo momento perché le analisi arrivassero. Sören aspettò speranzoso prima di realizzare che certe svolte di trama accadevano solo nei film che Milo si ostinava a fargli vedere ogni venerdì sera.
“Credo tu abbia frainteso la natura dei rapporti tra me e Lily…” Iniziò animato dalle più nobili intenzioni di diniego.
“Oh no, non credo!” Replicò il rumeno con sguardo divertito: aveva il rigore di un soldato, ma era pur sempre un ragazzo di vent’anni ed era naturale fosse stuzzicato da quegli argomenti.

Non come te, che sei un soldato fino all’ultima, dannata, imbranata fibra del tuo essere.
Tu ne sei agghiacciato, eh?
“Ascolta…” Tentò.
“Ho visto come la guardi, non è amicizia quella che provi.” Ghignò. “Lei ti piace.”

Avrebbe dovuto esser contento di averlo finalmente distratto.  
… Se non fossi io l’argomento di conversazione.
“Certo che mi piace. Provo gratitudine, rispetto, fiducia…” Cercò di mantenere il tono più distaccato che poté. Una volta ne era perfettamente in grado.
Già, una volta. Poi sei diventato una persona vera, caro il mio Ren. Con pro e contro.
“… e le devo la vita.” Tentò un’ultima volta, dato che l’altro non sembrava minimamente intenzionato a mangiarsi la foglia. “Senza di lei non sarei mai stato in grado di scrollarmi di dosso il giogo di mio zio. Non avrei mai potuto essere l’uomo che sono adesso.”
Dionis annuì, roteando la poca acqua rimasta nel bicchiere. “Sì, ma tutto questo non esclude altri sentimenti, no?” 
No. Anzi.
Negare era inutile, e dopo quella giornata allucinante tutto ciò che voleva era poter abbandonare un po’ della tensione che gli si era accumulata sulle spalle. Se non poteva avere i risultati, allora …
“No, non li esclude.”
Fu liberatorio. Così tanto che dovette inghiottire alla svelta il groppo che gli era salito alla gola.
Aveva davvero bisogno di quei risultati.
Si alzò, passandosi una mano trai capelli, chinando la testa per osservare le profondità del pavimento. “Come hai fatto a capirlo?”
“Non è difficile.” Vedendo la sua espressione, Dionis si affrettò a spiegare. “Voglio dire, si capisce che le vuoi bene, ma … Forse è una cosa mia, forse sia io che te siamo stati abituati sin da bambini a leggere oltre le parole della gente che ci circonda per non essere sopraffatti, ma …” Gli si avvicinò. “È che quando sei con lei hai tutta un’altra espressione. Ti si legge negli occhi, sei felice… come lo sono io quando sto con la mia Roxanne.” Scrollò le spalle. “Mi sbaglio?”
“No.”  

Dionis sorrise. “E comunque credo che il sentimento sia reciproco.”
No.” Questa era una cosa che il suo interlocutore doveva capire. “Lily vuole essere mia amica. Tutto qui. Ed è mio preciso dovere rispettare questo suo desiderio.”
“Ma come fai a…”
“È una Legimante Naturale.” Lo fermò. “È brava … lo era quando i suoi poteri erano ancora grezzi e li usava senza averne cognizione e lo è adesso che è perfettamente in grado di captare e tradurre le emozioni altrui, tuttavia non ha mai capito ciò che provo per lei. Pensi che sia perché non ci riesce, o perché non vuole?”

Sapeva di avere ragione; conosceva abbastanza della Legimanzia per rendersi conto che, se solo avesse voluto, Lily sarebbe riuscita a penetrare le sue difese come un coltello nel burro.
Perché per lei provo qualcosa e l’Occlumanzia è una magia che si indebolisce con l’emotività.
“Non vi siete rivisti da molto, dal vivo intendo. Magari ha bisogno di tempo.” Ipotizzò il rumeno strappandolo dai suoi pensieri. “Magari se fossi più chiaro…”
“Ha un ragazzo che ama e la sua tranquillità. Non ho alcun diritto di turbarla con i miei sentimenti.” E per quanto lo riguarda il discorso era chiuso.
Vide poi – ringraziando Merlino - una figura avvicinarsi, brumosa a causa della magia liquida che li separava. Neanche l’avessero chiamata, era Lilian. Dionis, notandola, scattò in direzione della barriera. “Lily!” La chiamò. “Roxanne…”
“Sta bene, sta bene.” Fu lesta a rassicurarlo la ragazza. “Ha fatto saltare i timpani a tutte le Levatrici.” Aggiunse con un sorriso, adesso ben visibile per via delle vicinanza. Teneva qualcosa tra le braccia, avvolto in una coperta rosa e a Sören bastò vedere il sorriso enorme che si dipinse sul volto dell’amico per realizzare cosa, o meglio chi, nascondesse.

“È…” Mormorò il ragazzo levando la mano per avvicinarla quanto più possibile alla barriera senza toccarla.
“ … una bambina, caro il mio papà.” Gli fece eco Lily con un sorriso gemello. “Roxie non ha voluto sentir ragioni … Ha detto che dovevi vederla, subito.” Il sorriso sfumò in un ghignetto mentre alzava la copertina per lasciar intravedere un visetto rosso e minuto. “Ha protestato tanto che gli altri mi hanno scongiurato di levarmi dai piedi.”
Sören vedendo come l’amico avesse gli occhi lucidi fece un passo indietro,  lasciandogli un momento. Si sentiva un intruso in una scena tanto intima.
Quindi è così che nasce una famiglia.
Non poté fare a meno di osservare Lily però, che pareva del tutto a suo agio nel ruolo di ambasciatrice; teneva la neonata come se non avesse fatto altro per tutta la vita. 
Ha delle cuginette … Si sarà abituata con loro.
I loro sguardi si incrociarono – naturale, se fissava una LeNa con quella persistenza – e gli venne rivolta un’espressione confusa. “Non ho la più pallida idea di quel che sta dicendo.” Sillabò muta in direzione del giovane padre che sembrava aver perso la capacità di parlare inglese in favore di un fiume di parole nella sua lingua madre.
Sbuffò divertito. “Si sta presentando.” Riassunse.
Lily annuì. “E tu, invece … come stai?” Gli chiese cullando la bambina che si agitava, forse infastidita dalla quantità di magia che percepiva vicino a sé.
Ha già le percezioni di una strega … è straordinario.
Per un momento la deriva dei suoi pensieri notò la naturalezza con cui Lily teneva stretta al petto la neonata, in una rappresentazione involontaria della madre che sarebbe diventata un giorno.
Pensa se quella bambina fosse sua … fosse vostra.
Serrò le labbra, abbassando lo sguardo sentendo un maglio artigliargli le viscere.
Sei un cretino.
“Sto bene.” Mentì con disinvoltura. “Aspetto. Sai se ci sono novità?”
“Albie è andato a controllare … Credo abbia il terrore che la nostra dolce cugina si alzi dal letto e lo strangoli con la cintura della vestaglia.” Ridacchiò. “È stata un incubo per tutta la durata del travaglio e mi ha quasi fratturato le dita della mano destra. Fortuna è durato poco, noi Weasley siamo gente spiccia.”
“Avrei dovuto esserci.” Mormorò Dionis con tono dolente. “Se solo…”
“Beh, mica vi fermerete alla prima, no?” Lo prese in giro, per poi addolcire l’espressione. “E Roxie lo sa, non preoccuparti. Rimarrai comunque il suo cavaliere dall’armatura lucente.”

Il ragazzo parve sollevato da quell’affermazione a quanto pare solo in apparenza scherzosa. “Grazie. Per averla portata qui … e per tutto.”
“Se mi lasciate decidere il nome siamo pari.” Replicò scrollando le spalle. “E che non vi venga in mente di chiamarla come me … non voglio concorrenza, ci sono già troppe Lily a questo mondo!”
Ma nessuna come te.
Lo pensò e poi l’amica, con suo sommo orrore, voltò la testa di scatto nella sua direzione.

Mi ha sentito!
Il che era impossibile; tuttavia era una LeNa, dare per scontato che non potesse decifrare i suoi pensieri come decifrava le sue emozioni era … incauto.
Non è che adesso sa leggere anche quelli?
La domanda rimase insoluta, dato che Albus Severus arrivò accompagnato dal Capo Guaritore del reparto, tale Seamus Finnigan.
“Buone notizie.” Il mago più anziano non ci girò attorno e rivolse un sorriso agli astanti, facendo risuonare la voce con un Sonorus. “Potete tornare a casa, gli esami sono risultati negativi.”
Le espressioni di sollievo e le chiamate via Specchio Magico ai propri cari si sprecarono mentre la barriera igienico - magica veniva fatta scomparire con un paio di colpi di bacchetta. Dionis quasi si gettò su Lily e l’altra fu lesta, con una risata, ad affidargli la figlia.
“Siamo arrivate proprio al momento giusto!” Esclamò facendogli l’occhiolino.
“Già.” Mosse un passo in direzione dell’altra, ma la strada gli fu sbarrata da Albus.
Cosa…
“Dobbiamo parlarti.” Esordì il ragazzo.
Perché?” Si intromise Lily con un tono che spinse il fratello a fare un istintivo passo indietro. La collera della sua piccola amica era leggendaria. “Gli esami non sono risultati negativi?”
“È così.” Rispose il Capo Guaritore. “Tuttavia abbiamo riscontrato delle anomalie in alcune misurazioni… e speravamo, signor Prince, che potesse aiutarci a capirle.”
È il mio braccio. E la mia magia.

“Va bene.” Annuì prendendo la giacca che aveva lasciato stesa su un lettino ed infilandosela. Diede una pacca sulla spalla a Dionis che, per quanto stringesse la figlia tra le braccia con un’espressione di pura felicità era riuscito a tornare sulla terra per lanciargli un’occhiata preoccupata.
“Ren.” Lily si mordeva le labbra ed odiava vederle quell’espressione addosso; le si addicevano i sorrisi luminosi e i lazzi innocui, non labbra tirate e sguardo cupo. “Vuoi che venga con te?”
“No. Ti ringrazio, ma non credo sia necessario.” La giusta distanza era doverosa. Dionis adesso condivideva il suo segreto ma non cambiava nulla.

Lei non deve sapere. Ti sei quasi tradito prima … ha visto come si è voltata? Non devi tradirti.
Era troppo stanco e troppo deconcentrato per usare l’Occlumanzia e senza di essa non avrebbe potuto rivolgerlesi con la giusta serenità d’animo.
La giusta distanza.
“Ti chiamo.” Fece un cenno e seguì i due Guaritori, ignorando lo sguardo deluso che sentì sulla schiena.
La maledetta, giusta distanza.
 
****
 
Ministero della Magia.
Ora di cena.

 
La conferenza stampa era stata organizzata in fretta e furia in una delle salette del Ministero, una di quelle in cui si poteva arrivare solo se guidati da un funzionario esperto. Harry stesso aveva dovuto memorizzare più di un paio volte la piantina per arrivare sano e salvo. Andò a stringere la mano alla Direttrice del Dipartimento Hestia Jones, soprannominata da molti M, per via della somiglianza notevole con il capo dei servizi segreti dei film di James Bond.
“Direttore.”
“Potter.” Lo salutò con un cenno energico della testa, poi il viso sfumò in un’espressione tra il divertito e il rassegnato. “C’è da chiedersi perché mi stupisco ancora quando succede qualche disastro con portata mediatica e ti vedo apparire.” Fece poi un cenno di saluto a Ron, al suo fianco. “I giornalisti sono già arrivati. Siete gli ospiti d’onore.”
“E quindi ci facciamo attendere.” Sorrise stringendosi le spalle minimamente turbato; se la sua fama gli era mai servita a qualcosa, era stato come trattare con quella particolare categoria lavorativa.

Ironico che abbia finito per sposarmene una. Anche se una cronista sportiva forse è un, fortunatissimo, caso a parte.
Notò poi  la figura slanciata e chiusa in un completo di sartoria di Michel Zabini, e ne rimase sorpreso. Il ragazzo, vedendolo, si avvicinò per stringergli la mano. “Capo-Auror Potter, buonasera.” Lo salutò deferente. “Sono qui per rappresentare il Ministero Americano come funzionario di riferimento assegnato all’agente Prince.” Soggiunse forse captando la sua confusione.
“Ah, ma certo.” Ricordò stringendogli la mano di rimando. “Notizie da Sören?”

“È ancora al San Mungo.” Rispose senza particolari emozioni dipinte in volto; ma del resto, da che lo conosceva come amico di Al, lo aveva sempre visto indossare una maschera di indifferenza.
Albie dice che in contesti privati non è così … ma bisogna ammetterlo. Certi Serpeverde sembrano fatti con lo stampo.
La sua presenza gli ricordò però la breve ma intensa chiamata avuta con Nora.
 
“Mi fido del tuo giudizio Harry. Purtroppo al momento Sören non può rappresentarci, manderanno il funzionario assegnatogli dalla Cooperazione Internazionale …” E il tono di voce era carico di apprensione, sebbene non l’avesse lasciata trapelare con domande o richieste. Erano in servizio, i sentimenti personali dovevano essere accantonati. “Date le nuove informazioni sulla modalità del contagio, ci metteremo subito all’opera. Se non altro, qualcosa di buono è uscito da questo disastro … Potremo fare ricerche più precise.”
 
Addizionato a quello, l’amica gli aveva spedito la biografia di Samuel Howe messa assieme dalle mani capaci dei giovani agenti della SAGITTA. Al momento riposava sulla sua scrivania, ma non appena James, Bobby e Scorpius fossero tornati dalla perquisizione dell’appartamento di Price gliel’avrebbe affidata.
Dobbiamo arrivare, se non ad una soluzione, almeno a qualche risposta, altrimenti la stampa non ci lascerà vivere…
Entrò dentro la saletta e fu immediatamente aggredito da una selva di flash. Distolse lo sguardo e si diresse con tutta la naturalezza che poté impostare verso il tavolo delle autorità, già rifornito di acqua e cartelline contenenti i comunicati stampa dell’intera faccenda.
L’ufficio stampa del Ministero ha fatto i salti mortali. Chissà quanta gente non ha cenato stasera…
Si sedette e approntò il suo miglior sorriso da prima pagina, mentre accanto a lui prendevano posto la Direttrice e Ron.
“Buonasera.” Esordì la strega dopo essersi lanciata un Sonorus. “Il Dipartimento desidera ringraziarvi per essere riusciti ad essere qui, dato il poco preavviso…”
Harry si scambiò un’occhiata con Ron, ed entrambi nascosero una smorfia sarcastica, forse più adatta ai due studenti ribelli che erano stati che a due uomini adulti, ma non per questo fu meno soddisfacente.

Come se non avessimo organizzato tutto questo teatrino proprio per evitare che rimanessero a casa a scrivere spropositi…
Mentre la strega predisponeva una serie di frasi generiche per spiegare la situazione che si era venuta a creare, usando termini quali “indagini approfondite”, “piste promettenti”, “dispiegamento di forze e di mezzi” e “sicurezza dei nostri cittadini”, la mente di Harry si concentrò sulla preoccupazione di sapere i suoi ragazzi di nuovo in mezzo a pericoli tangibili.
James li investiga, Albus si è fatto assegnare alle persone malate, e Lils …
Non riusciva a capire perché sua figlia si fosse infilata in quella faccenda, dato che a rigor di logica né per il lavoro che faceva, né per sua espressa volontà avrebbe dovuto esser coinvolta.
È per via di Prince?
Non era sicuro di volersi rispondere.
“Una domanda per il Capo Auror Potter!” Doveva immaginare che Richie Hawkins, la punta di diamante della sezione Cronaca del Profeta, nonché allievo della famigerata Skeeter, avrebbe approfittato della sua presenza per sputare domande come Schiantesimi. “… il primo caso è stato riscontrato in un turista americano, ospite dei Tre Manici, Samuel Howe. Dobbiamo quindi supporre che la malattia venga dall’America?”
Piccolo, viscido ratto…
Avrebbe dovuto immaginarsi che la cosa sarebbe trapelata, specie alla luce del fatto che al Paiolo vi erano stati testimoni, per quanto avvertiti di non parlare con nessuno.
Ma si sa, Tom di fronte a consumazioni ripetute al suo bancone diventa una bocca larga …
Pensò rapido ad una risposta; l’ultima cosa di cui avevano bisogno è che l’opinione pubblica pensasse ad una malattia ‘americana’.
Se si comincia a pensare che sono gli americani ad averci fatto ammalare …
Non voleva neanche immaginare le conseguenze, sia a livello ministeriale, sia a livello del mago della strada.
Ci manca solo una caccia a stelle e strisce.
“Non abbiamo certezze del fatto che il defunto Signor Howe avesse contratto la malattia in America.” Iniziò. “Ogni turista in entrata e in uscita dal nostro Ministero viene controllato e dunque…”
“Quindi i controlli non sono stati così accurati?” Incalzò l’uomo mentre attorno a lui Penne Prendi Appunti scrivevano furiose.

“Il protocollo è stato seguito.”
“Beh, non pare …”
Ora gli spacco la faccia.
C’erano momenti in cui capiva il fiotto d’adrenalina che spesso oscurava il giudizio di suo figlio James: l’aveva ereditato da lui.
Incredibilmente fu il giovane Zabini a venirgli in aiuto. “I controlli alle frontiere vengono presi sul serio da entrambi i nostri gloriosi Ministeri.” Osservò con un sorriso accattivante e un tono misurato che lo facevano sembrare più maturo della sua età. Al gli aveva detto fosse in gamba, e fu sollevato dal constatarlo di persona. Se non altro, Malfoy non gli aveva messo trai piedi un figlio di papà incapace. “Naturalmente di fronte a quella che sembra essere una nuova malattia tali controlli possono diminuire la loro efficacia.” Soggiunse. “Il Dipartimento di Medimagia americano tuttavia è stato allertato e Oltreoceano sono state prese le dovute misure. C’è piena collaborazione e fiducia da entrambe le parti, come è sempre stato.”
La Direttrice a quel punto trovò opportuno intervenire e da come gli venne lanciata un’occhiata ammonitrice che gli intimava di non azzardarsi ad aprire bocca per vanificare l’intervento del giovane funzionario, lui non aveva più voce in capitolo. “Ci troviamo di fronte ad una malattia nuova, i normali protocolli di sicurezza saranno intensificati, sia in entrata che in uscita.” Spiegò. “Ci teniamo però a specificare che il mezzo di trasmissione non avviene per via aerea, ma tramite lo scambio di flussi magici. Non vi è alcun rischio concreto, a meno che non si ingaggi uno scontro diretto con la persona ammalata.”
Le domande e risposte continuarono, ma Harry si guardò bene dall’intervenire; come gli aveva ricordato lo sguardo di M, la sua presenza lì era esclusivamente a beneficio dei riflettori.
Non era un problema essere il riferimento verso cui la stampa avrebbe indirizzato teorie e eventuali invettive. Se avessero perso tempo con lui, avrebbero lasciato liberi di lavorare James, Scorpius, Bobby e Sören.
Sempre che il ragazzo non sia stato contagiato …
Avrebbe distrutto il morale della squadra, dopo il contagio di Liam.
C’era una certa amara ironia nel constatare che il tedesco, che aveva collaborato gomito a gomito con il redivivo John Doe, adesso rischiava di esserne vittima.
Ironico eppure già visto.
Passare dalla parte giusta dopo aver commesso errori pareva, per chi aveva sangue Prince, una caratteristica di famiglia.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.
 
Ted sobbalzò quando il camino diede un lampo improvviso seminando una buona quantità di cenere sul pavimento; dato che cercava di ammazzare il tempo leggendo un libro nell’attesa che James tornasse a casa tutto intero era un miracolo avesse scampato l’infarto.
“Ehi bellezza!” Sul momento non riconobbe la voce prima di realizzare che era quella del funzionario dell’Ufficio Relazioni con i Mannari. “Troppo tardi?”

Sì, poteva essere solo la bislacca ragazza che rispondeva al nome di Flynn Lin. “Flynn, buonasera.” Sorrise sporgendosi dal divano per guardarla apparire tra le fiamme. “Non mi aspettavo una chiamata via Camino … di solito non lo usiamo.”
“Si vede, il collegamento fa schifo.” Replicò quella senza troppi giri di parole. “Comunque, ripeto. Troppo tardi?”

“Sto aspettando che James torni dal lavoro, quindi no, ero sveglio.” Realizzò il motivo della chiamata e si raddrizzò, posando il libro che stava leggendo accanto alla tazza di the ormai vuota; era la sua ricetta per avere la meglio sulle lunghe attese. “Ci sono novità su Lunastorta?”
Merlino, non mi abituerò mai a chiamarlo così.
“In un certo senso.” Replicò sibillina. “Ti avevo parlato, no, di Moscardo?”
“Il vice dell’attuale Capobranco?” Ricordò. “Sei riuscita a spiegargli la situazione?”
“Sì, ed ha accettato di incontrarti … ma ad una condizione.”
Non mi piacciono le condizioni.
Tuttavia non era nella posizione di contrattare. “Sono tutto orecchi.”
“Ha detto che parlerà con te solo se accetterai di farlo alla Riserva.”

Ted aggrottò le sopracciglia perplesso. “Non c’è problema.” Non aveva certo paura di mettervi quando per mestiere aveva dovuto avere a che fare con Creature pericolose, se non più, comunque alla pari con i Mannari. “Pensi che sia un problema?” Si corresse.
La ragazza si morse un labbro, e nonostante la pessima resa delle fiamme, riuscì a sembrargli incerta. “Il fatto è che al momento Moscardo è a caccia con i giovani, e tornerà domani mattina … Vuole che passi stanotte alla Riserva.”

“Ah.” La richiesta era strana, non c’era dubbio. “E perché?”
“Lo sa Morgana!” Sbuffò scuotendo la testa. “Te l’ho detto no, che è una specie di guru spirituale e palle varie … Ha queste alzate di ingegno, alle volte. Mi ha bombardato di domande su di te, è parso interessato.” Si grattò il naso speculativa. “La mia opinione? Credo voglia vedere se riesci a sopportare una notte con il branco. Se vali la pena.”
“Ho capito.” In realtà per niente, ma supponeva non fosse quello il punto. I Mannari che vivevano nel branco del Galles avevano, a dispetto di quel che si pensava, un rigido codice di comportamento: forse quella era una sorta di prova. “Dammi una mezz’ora per prepararmi e poi…”
“… e poi vieni da me, ti ci porto io.” Finì per lui. “Ho una Passaporta nella capanna di Moscardo, la incanto e sei là. Siamo intesi?”
Lo erano. Flynn gli diede’indirizzo di casa sua, perché vi arrivasse via camino e si salutarono. Ted salì così al piano di sopra, preparando uno zaino con le cose necessarie per una notte all’addiaccio; fu rapido dato che gli era già capitato di dormire fuori nelle occasionali esplorazioni dei dintorni che lui e James facevano quando il tempo volubile delle Highlands decideva di essere clemente.

Jamie…
Doveva chiamarlo e spiegargli la situazione prima che tornasse a casa e la trovasse vuota.
Dopo la giornata che ha avuto un biglietto e qualcosa in caldo da mangiare non sono un benvenuto adeguato.
Prese lo Specchio Magico e scrisse il nome del ragazzo, sperando che avesse la possibilità di rispondergli. Odiava davvero lasciare biglietti.
 
Inghilterra, Londra.
 
James sentì la tasca interna della giacca scaldarsi mentre parcheggiava l’auto di servizio, data in dotazione agli agenti che dovevano spostarsi in aree densamente popolate da Babbani senza dare nell’occhio.
È un peccato che non ce le diano più spesso. Sono fighe!
“Il tuo bel chiodo da ragazzo cattivo si sta illuminando, Potty, chiamata in arrivo!” Gli fece notare Scorpius sedutogli accanto, tutto preso a girare le manopole della radio come se fosse in gita ad Hogsmeade.
Lo prenderei a calci se non avessi bisogno di sentirlo ciarlare dopo la merda che ci è toccato ingoiare oggi.
Se blatera è ancora tutto okay.
Estrasse lo Specchio Comunicante e vide il nome del compagno galleggiare sul vetro. Lo sfiorò con la punta della bacchetta. “Ehi, Teddy. Sai che sono in servizio, vero?”
“Sì, scusami.” Il tono di voce non era dei migliori, registrò. Suonava agitato, per quanto potesse esserlo una persona che considerava il the l’unico stimolante di cui avesse bisogno per alzarsi la mattina. “Come stai?”
“Meravigliosamente di merda, grazie. La giornata lavorativa più lunga di sempre.”
“Hai un momento?”

“Per te sempre.” Scrollò le spalle, mentre gli altri due auror scendevano dalla macchina. “Che succede?”
Dimmi che è tutto okay o prendo a testate il volante, cazzo.
“Nulla … È solo che stasera non sarò a casa.”
Eh?
“Eh?” Ripeté a voce alta sbattendo la portiera, prima di rendersi conto che doveva esserci un motivo ben preciso se l’abitudinario Ted Lupin decideva di allontanarsi dal focolare a notte fonda. “È successo qualcosa? Tua nonna, i miei?” Snocciolò preoccupato.
“No, no … Ti ricordi la faccenda del Mannaro? Sono stato invitato alla Riserva dal vice-capo branco. Vuole parlarmi, e vuole che lo faccia alle sue condizioni. Lo vedrò domani mattina.”
“E stasera devi dormire lì?” Quella storia non gli piaceva, ma lontano miglia poteva far poco per convincere l’altro a dargli retta.
Tra l’altro, quando vuole è una gran testa di Bolide e su questa storia si è impuntato di brutto.
Ted sorrise oltre lo schermo, forse intuendo i suoi rivolgimenti interiori. “Non c’è da preoccuparsi … il funzionario dell’ufficio intercederà per me, e comunque non è certo la prima volta che ho a che fare con dei Mannari.”
“Una cosa è andare ad una conferenza e stringere le mani a gente come tuo padre, una cosa è avere a che fare con un branco libero.” Gli fece notare, facendo cenno a Scorpius e Bobby di andare avanti. La villetta a due piani dove abitava Price era simbolo perfetto del quartiere in cui si trovavano, Brixton¹, dato che accanto aveva un sexy shop e un pub dall’aria sinistra. Fortuna voleva avessero deciso di non indossare le uniformi per il sopralluogo, dato che vennero squadrati da un gruppetto di ragazzi afroamericani che ciondolavano fuori dal pub, da cui usciva musica reggae a volume sostenuto.  
“Lo so, Jamie, ma voglio chiudere questa storia una volta per tutte.” Soggiunse l’altro. “Ho bisogno di risposte…”

“Sul fatto che quel tizio si chiamava Lunastorta?”
“Anche, e poi…” Non finì e James ricordò la foresta, i Centauri e il dannato sangue sulla mani dell’altro.
Okay. Fanculo, non fare quella faccia. Okay.
“Va bene.” Sbuffò. “Solo … Vigilanza costante, ah?”  
Ted ridacchiò. “Contaci.” Guardò oltre le sue spalle, inarcando le sopracciglia. “Sento della musica … dove siete?”
“Nel buco del culo di Brixton.” Scrollò le spalle raggiungendo Malfoy che con un solo colpo sapiente di bacchetta aprì il portoncino del palazzo, facendo poi elegante cenno di precederlo. “E Malfuretto è uno scassinatore.”
“Potty mi insulta, non ho nessun passato nella malavita! È solo che quando devo forzare la porta dell’appartamento della mia rosellina perché il Signor Weasley mi ha chiuso fuori…”
“Okay, non sto ascoltando coglione.” Lo fermò, tirandolo dentro l’ingresso buio e dal forte odore di spezie. “Stiamo per fare un’ispezione.”
“Ti lascio allora.” Non poteva vedere il viso dell’altro a causa del buio, ma poteva sentirne la voce ed era un po’ imbarazzante esserne così rassicurato. “State attenti.”
“Al massimo dovremo preoccuparci di essere morsi da qualche topo.” Gli fece eco. “Sta’ attento tu piuttosto e chiamami se succede qualcosa. Ho una macchina favolosa che macina miglia.”
“Certo.” Ci fu una breve pausa. “Ti amo James.”
Ringraziò in ginocchio – metaforicamente perché ci teneva ai suoi jeans – la scarsa illuminazione delle scale perché era certo di avere stampato in faccia  il sorriso più imbecille della storia. Non si sarebbe mai abituato al fatto che il suo cacasotto preferito avesse smesso di esserlo, almeno dal punto di vista emotivo.

“Anch’io.” Sorrise prima di salutarlo e chiudere la comunicazione. Ovviamente trovò Scorpius ad aspettarlo in cima alle scale con un ghigno saputo.
“Fatti i cazzi tuoi.” Offrì diplomaticamente, sperando che il calore sul suo volto fosse imputabile al cambio di temperatura con l’esterno. Là dentro si bolliva.
“Siete così carini quando vi scambiate tenerezze.” Sogghignò il biondo rimediandosi un doveroso pugno. “Vi vedo già vecchietti a raccogliere conchiglie a forma di cuore sulla spiaggia di Tinworth…”
“Tu hai problemi al cervello.” Brontolò ignorando l’immagine inquietantemente suggestiva mentre Bobby si occupava di lanciare incantesimi Silenzianti al pianerottolo, onde evitare guai con i vicini Babbani.
“Vi immagino anche io così.” Replicò il ragazzo di colore senza battere ciglio. “O in una foto da rivista, con un cane e un paio di ragazzini.”
“Quanto siete stronzi.” Sbuffò incrociando le braccia al petto. “Chi diavolo dovrebbe partorire poi?”

“Punto dieci Galeoni su di te, mio Potty. Tanto ti è già venuta la panzetta alcolica.”
“Ma vaffanculo, non è vero!” Ridere non era male quando le contingenze erano tutto fuorché allegre. Ringraziò comunque Merlino che il crucco non fosse presente.
Siamo più rilassati quando non c’è.
… o forse solo io e gli altri si adeguano di conseguenza?
Mentre Scorpius si occupava della serratura guardò fuori dalla finestra, dove i lampioni lanciavano ombre sulla strada lavata dall’ennesima pioggia estiva. Era incredibile pensare che un tipo che aveva quasi fatto saltare in aria un’Accademia di Duello, e dato filo da torcere a ben quattro agenti altamente addestrati, vivesse in un quartiere così poco magico. “Questo Price deve essere Nato Babbano.” Osservò distratto.
“Sì, ma sa mettere barriere anti-ladro come se lo facesse dalla nascita…” Borbottò Scorpius chino sulla serratura e già in maniche di maglietta. “Per Salazar, si muore di caldo!”
“I Babbani hanno condizionatori solo nei loro appartamenti … Non usa il buon vicinato, pare.” Replicò Bobby appoggiandosi al muro antistante e nascondendo uno sbadiglio dentro una mano. “Ma che ore sono?”
Scorpius, con la bacchetta in pugno e con una forcina per capelli trai denti, grugnì un lamento. “Dieci minuti a Mostruosamente Tardi?”
Con un rumore secco di rottura, le barriere magiche finalmente furono spezzate e quest’ultimo, con un’esclamazione di trionfo passò a forzare la serratura. Fu un attimo: un’ombra nera balzò fuori dalla porta aperta e lo placcò in pieno petto.
Scorpius!” Gridò bacchetta alla mano, mentre Bobby lo imitava imprecando.
“Fermi!” Esclamò l’aggredito, cercando di districarsi dalla massa a quattro zampe che gli era piombata addosso. “Fermi, è solo…” Una risata li congelò sul posto. “… è solo un cane!”
Il suddetto, beatamente scodinzolante, si stava adoprando per lavargli la faccia a suon di leccate e abbaiò entusiasta quando notò la loro presenza.
Ma porc…
“Beh, se non altro non è un’Acromantula…” Mormorò Bobby con un sorriso nervoso. “Accidenti, gente, abbiamo i nervi tesi, eh?”
“Puoi dirlo.” Sospirò grattando la testa del grosso Golden Retriever che lo guardò con canina adorazione. “Non mangerà da stamattina, troviamogli qualcosa da mettere sotto i denti prima che decida che Malfuretto è gustoso.”
“Ci penso io!” Esclamò questo, in piena simbiosi con quello che evidentemente riconosceva come suo simile. “Ciao bello, mi dici dov’è la tua ciotola? Chi è un bel cagnone?”

James alzò gli occhi al cielo, mentre Bobby ridacchiava e lo precedeva all’interno dell’appartamento. Inarcò poi le sopracciglia quando riuscì a dare un’occhiata sommaria al soggiorno, la prima stanza che si incontrava dopo l’ingresso.
“Un bel po’ monotematico l’amico …” Considerò Bobby fischiando impressionato.
L’intero ambiente era tappezzato da poster raffiguranti Duellanti, Duelli, momenti salienti dei suddetti e premiazioni. Vi erano bandiere delle principali scuole dell’Europa Continentale e teche contenenti foto e pezzi di uniforme.
“A questo tipo piace proprio tanto menare la bacchetta!” Osservò Malfoy uscendo dalla cucina dove doveva aver lasciato il cane a giudicare dal rumore di mascelle ruminanti. “E dovete vedere la tabella di allenamenti pazzesca che tiene attaccata al frigofero.”
“Frigorifero, scemo.” Lo corresse dirigendosi verso una serie di foto che raffiguravano Price assieme agli altri allievi dell’Accademia; riconobbe Dionis in seconda fila e anche qualche auror. “Sono tutte foto recenti.” Notò scorrendole con lo sguardo. 
“Stessa cosa per quelle in camera! Non sembra si vada più in là di un anno…” Gridò Bobby dalla suddetta, prima di uscirne. “L’unica cosa che sembra essere datata è la sua sciarpa di Grifondoro.”
James aggrottò le sopracciglia. “Assurdo. Questo tipo ha cominciato a vivere meno di un anno fa?”
“Forse si è trasferito da un altro posto e ha buttato la roba vecchia.” Ipotizzò l’altro facendo spallucce. “C’è gente che lo fa.”
“Sì, ma le foto dei genitori? Amici? Non è roba che inscatoli o butti!”
“Questo posto è un culto alla prestanza fisica.” Osservò Scorpius sedendosi sulla poltrona e agitandosi un po’ per trovare la posizione giusta. “E al presente.” Aggiunse meditabondo. “Credo proprio che abbia sempre vissuto qui … Almeno, sia prima che dopo.”
“Prima e dopo cosa?”

“Questa è una poltrona su cui si è seduto per un sacco di tempo una persona robusta. Più grassa che robusta.” Si dimenò ancora un po’. “Sento ancora la forma, e credetemi, non è quella del tipo che abbiamo affrontato oggi.”
Bobby lo guardò stranito, perché in effetti certe uscite di Scorpius a volte potevano esser viste come il volo di un fantasia troppo fervida. “Potrebbe essere un parente … un fratello?”

L’altro scosse la testa, intrecciando le mani dietro la nuca e reclinandosi sul sedile. “Ho visto il contenuto del frigo. Un sacco di roba dietetica, proteica … il genere di cose che comprano i Babbani quando non vogliono ingrassare. E poi la tabella di marcia, e la bilancia sotto il lavello? Fate due più due.”
“Quindi era forma, e con questo? Dobbiamo cercare indizi che sia venuto a contatto con Howe o il Sergente, non quanti chili ha perso in un anno!” Gli fece notare per riportarlo sul pezzo. L’espressione di Scorpius però era troppo consapevole per essere stata una sparata fatta tanto per dimostrare le sue doti investigative.
Si strinse infatti le spalle. “Era solo per rispondere alla tua domanda … sul perché non ci sia niente che faccia pensare ad una vita passata. Price ha voluto disfarsene assieme ai chili di troppo. Ha senso, no?”
In effetti.
Bobby passò davanti ai vari poster, dove Duellanti famosi si mettevano in posa o lanciavano incantesimi a beneficio dei fotografi. “Per poter iscriversi all’Accademia serve un certificato di sana costituzione dal San Mungo. Devi essere allenato…”
“Non è solo questione di peso, ma anche di capacità magica!” Obbiettò. “Se sei una mezza sega con gli incantesimi puoi anche diventare tutto muscoli, ma se non aumenti…”
Scorpius squadernò un sorriso tutto denti, trionfante. “… la tua capacità magica, dici? Scusa, mi ricordi qual è il sintomo principale?”

“Merda.” Sussurrò mentre accanto a lui Bobby giungeva alla stessa, silenziosa conclusione data l’espressione con cui si voltò. “Prince aveva detto che la malattia poteva essere un effetto collaterale successo durante un incantesimo Oscuro andato storto!”
“Ma come ha fatto Price a lanciarselo e a lanciarlo anche su Howe?” Bobby scosse la testa. 
“Possono aver lavorato assieme!” James guardò Scorpius mentre questo si aggirava per la stanza, preso da un pensiero da come prendeva libri dall’esigua libreria o sfogliava una nutrita pila de Il Maschio Mago – rivista che Lily aveva ribattezzato brillantemente Manifesto della iper-Compensazione Maschile.
Ritornò al punto della faccenda. “Malfuretto, Howe secondo le nostre indagini non è mai uscito dalla sua stanza al Paiolo. Come diavolo avrebbero fatto ad incontrarsi?”
“Partite dal presupposto che si siano incontrati di recente. E se non fosse così?”
“Ma se si sono ammalati nelle ultime due settimane!”
Scorpius inarcò un sopracciglio come solo suo padre avrebbe saputo fare. “Scusa, ma tuo fratello non ha detto che il virus è capace di mutare? Che la roba che ha il Sergente non è la stessa che ha Price? Quindi i tempi di contagio di Howe e Price potrebbero non essere quelli che pensiamo.”
Bobby schioccò le dita. “Ehi, questo spiegherebbe perché Howe era a Londra! Si è ammalato, quindi ha cercato di tornare dove è stato contagiato la prima volta. Abbiamo supposto che viaggiasse spesso da Londra all’America per lavoro, ma se non fosse stato per lavoro?”
Oh, merda.
Era stufo di pensare quella parola. “Che diavolo stai cercando?” Gli chiese affiancandoglisi e dando un colpetto al giornale. “Quella roba è spazzatura!”
“Price è un patito dei Duelli, ma non è come fare un po’ di palestra, ci vuole concentrazione, sforzo e una certa predisposizione naturale. Cerco quello che ha cercato lui.” Cominciò sfogliando le pagine febbrile.
Bobby prese una delle riviste, sfogliandola confuso. “Cosa stiamo cercando?”
La rivelazione arrivò come un Avada a ciel sereno. “Sia Howe che Price non hanno pasticciato con la Magia Oscura come pensavamo … Hanno rintracciato chi lo facesse per loro.”
Scorpius lo graziò di un enorme sorriso soddisfatto e squadernò di fronte a loro una pagina segnata da una grossa piegatura, fatta evidentemente per non perdere il segno. Vi era cerchiato un trafiletto corredato da un profluvio di lettere colorate ed immagini di maghi dall’aria prestate. “Quello che stiamo cercando, signori. La versione magica di allungati il pene!”
 
****
 
Inghilterra, Londra.
Residenza cittadina degli Zabini. Notte.

 
Dal punto di vista di Dirk Zabini la venuta del fratello maggiore era un evento assimilabile solo alle festività. Era raro che Miki – troppo difficile da pronunciare altrimenti – si facesse vedere fuori dalle feste comandate, e se succedeva spariva subito dentro l’ufficio del comune genitore per poi prendere il camino una volta finito il colloquio.
Raro, occasionale, inusuale.
Erano parole difficili, ma che nella testa ricciuta di Dirk, cinque anni e due denti in meno, erano sempre state naturalmente associate al fratellastro. Parole affascinanti.
Così, quando sentì dei rumori provenire dalle stanze assegnate all’altro, saltò fuori dal letto e ignorando i richiami accorati di Tinkie, la sua Elfa domestica, corse a controllare.
E se è un ladro?!
Era suo dovere scacciarlo: era l’assoluto padrone di casa quella sera, dato che i genitori erano a teatro e sarebbero tornati molto tardi tesoro, non devi aspettarci alzato.
Salendo le scale che portavano allo studio e alla stanza da letto di Michel gli passò però il coraggio e quando arrivò all’ingresso dello studio non ne aveva più una goccia.
“Padroncino, torni a letto, Tinkie le porterà un po’ di latte caldo, sì?” Lo blandì l’Elfa.
“No!” Proclamò con fierezza, e fu più per un punto di principio che reale voglia che spinse la maniglia ed entrò nella stanza. “Miki?” Chiamò.
“Dirk?” Era la voce di suo fratello e poté dunque tirare un sospiro di sollievo: era vicino alla libreria, vestito come se dovesse andare a far compagnia ai genitori da un momento all’altro. Era chiaramente il vestito bello che usava per andare al Ministero.
Lavoro?
“Sei stato al lavoro?” Sua madre diceva che ci voleva sempre una buona domanda per iniziare una conversazione o si rischiava di passare per maleducati – massima onta concepibile per persone del loro lignaggio.
Quando Michel lo guardava però aveva sempre l’impressione di non azzeccarla mai, quella domanda; non che lo trattasse male come diceva la mamma alle sue amiche quando pensava che non stesse ascoltando. A Dirk pareva che l’altro non sapesse bene come comportarsi in sua presenza, come succedeva a lui quando capitava che gli regalassero un gioco di cui non conosceva le istruzioni.
Gli piaceva, Miki.
“Perché non sei a letto? È tardi.” Aveva un grosso libro di pelle tra le mani, ma lo chiuse con uno scatto secco quando vide che lo stava occhieggiando. “Tinkie, non era a letto?” Chiese rivolgendosi alla sua Elfa che emise un lamento impercettibile tappandosi gli occhi con le mani.
C’ero a letto, ma poi ho sentito i rumori … E ho pensato che era un ladro!” Rispose in vece della creaturina, sapendo bene che era un po’ colpa sua se sarebbe stata punita al ritorno dei suoi. Poteva cercare di evitarlo però. “Invece eri tu!”
“Evidentemente.” Convenne con un sospiro. “Torna a letto, se i tuoi genitori ti trovano alzato…”
“Ma loro tornano molto tardi!” Considerò sentendosi molto furbo perché tra le coperte non ci voleva tornare e doveva dunque giocare d’astuzia. Aveva scoperto che se cercava di parlare come i grandi Miki era più propenso a starlo ad ascoltare. “Ed io adesso non ho sonno! Che fai?”

“Dirk…” Non voleva farlo arrabbiare, ma c’era ancora un buon margine di manovra dato che diversamente dagli altri occupanti della casa, Michel era più tollerante verso i suoi capricci. Non quanto Tinkie, ma poteva comunque essere corrotto con qualche lacrima ben spremuta. “Dirk.” Tentò ancora ma un suo scenico singhiozzo lo fece sbuffare. “Smettila, ormai sei troppo grande per fare i capricci.”
Questo lo dici tu.
Completò la sua opera sbattendogli contro le gambe, per abbracciarne una. “Mi fai restare un pochino?” Doveva stare bene attento a non sgualcirgli i vestiti, perché era una cosa che faceva arrabbiare tutti – i suoi genitori soprattutto. “Poco!”


Michel roteò gli occhi al cielo, stringendo trai denti un’imprecazione perché primo non era elegante, secondo era di fronte ad un bambino di cinque anni che aveva orecchie capaci di captare la minima esclamazione e spiattellarla di fronte al consesso meno adatto nel momento meno opportuno.
Ci manca solo mi accusino di insegnargli volgarità.
“Cinque minuti e siediti vicino al fuoco, fa freddo.” Lo istruì dandogli un colpetto sulla testa ricciuta per spingerlo verso la poltrona. L’altro non parve minimamente aver sentito il comando perché strinse la stoffa dei suoi poveri pantaloni tra le dita e gli rivolse un sorriso a cui mancava un dente.
“Hai perso un dente.” Attestò a disagio, tanto per dire qualcosa: non sapeva mai che dire ad una creaturina incomprensibile come quella, che faceva le domande più strane e assumeva gli atteggiamenti più spiazzanti.
Ovvero un normalissimo bambino?
“Sì, la settimana scorsa! Vuoi vedere il buco?” Tirò su la gengiva, afferrandogli poi di nuovo i pantaloni con le dita sporche di saliva. “Hai visto?”
Inspirò. “Ho visto.” Confermò rinunciando al proposito di posarlo su una poltrona e lì dimenticarlo. Lanciò un’occhiata alla lacrimosa Tinkie. “Puoi andare, ti chiamo quando abbiamo finito.” Quando l’Elfa sparì con uno schiocco fu perplesso dal constatare che l’altro sembrava essersi illuminato. “Cosa c’è?”
Abbiamo.” Attestò sottolineando la parola. “Facciamo qualcosa insieme? Giochiamo?”
“No.” Si affrettò a dire, ma di fronte all’espressione delusa che ne conseguì, si rassegnò a condividere il motivo della sua venuta. “Devo cercare un album di fotografie … Dovrebbe essere qui, dove sono stati catalogati gli altri.” Indicò la sezione della libreria che era stata deputata ai suoi ricordi infantili: relegati dietro una teca di vetro nel punto meno accessibile c’erano una ventina di album che sua nonna aveva personalmente composto per lui. Era anni che non li sfogliava.
A che pro?
“Ti aiuto!” Cinguettò dirigendosi verso la teca e abbassandosi per passare le dita tra le costole con una certa grazia – aveva pur sempre sangue Zabini. “Com’è fatto?”
“L’album che cerco? Sono tutti uguali, dovrebbe esserci scritto…” Gli sovvenne un pensiero. “Sei in grado di leggere i numeri?”

Gli venne rivolta un’occhiata oltraggiata, buffa perché una perfetta, piccola copia di quella che approntava lui a quell’età quando Scorpius o Loki gli proponevano un gioco sgradito. “Tinkie mi ha insegnato!” 
“Allora prendimi il numero nove.” Dato che il dieci già lo aveva in mano e l’aveva sfogliato senza trovare niente che facesse pensare che lui e il Magonò si fossero incontrati. Aveva ritrovato foto di lui, Scorpius e Loki immortalati nei giochi più spericolati e foto con la bellissima Amara Zabini che gli avevano stretto il cuore in una morsa che aveva subito ignorato; foto naturali, ben diverse da quelle che ornavano lo studio di suo padre e il suo ufficio, dove tutto ovviamente doveva rasentare la perfezione Purosangue.
Aveva quindi sperato di vedervi la zazzera bionda di un ragazzino di circa la sua età per collocare finalmente quello che era diventato, a conti fatti, una sorta di ossessione.
Niente.
Dirk lo riscosse porgendogli l’album. “Ecco Miki!” Proclamò con l’aria di aver compiuto un’impresa. Sul serio, i bambini erano incomprensibili. “Che cerchiamo?”
“Una persona.” 
Se il tedesco fosse appartenuto alla sua cerchia sociale avrebbe potuto giustificare quell’attrazione scomoda. Un terreno una volta comune avrebbe potuto rendere tollerabili le reazioni inconsulte del proprio corpo come della testa.
E spiegherebbe inoltre perché mi è sempre sembrato familiare.
Quando si sedette sulla poltrona per poterlo sfogliare agevolmente Dirk fu lesto ad arrampicarsi sul bracciolo. Ad una sua occhiata sorpresa si esibì in un’espressione noncurante. “Lo guardiamo assieme! Chi cerchi?”
“ … Un bambino. Biondo, un po’ più grande di te.” Si rassegnò a vederlo invadergli lo spazio personale per aggrapparglisi alla giacca nell’intento di avere un migliore accesso visivo.
Sarebbe più semplice se fossero foto Babbane. Lì gli immortalati non rischiano di scomparire e non si nascondono.
“Allora se lo vedo te lo dico!” Annuì compito.
Ennesima carrellata di foto dunque…
Sfogliò pagine e pagine, cercando di notare tutte le facce infantili, purtroppo non molte; gli unici bambini con cui aveva avuto a che fare direttamente erano stati  quelli che erano tutt’ora i suoi più cari amici e quelli che invece aveva solo incrociato erano persone che adesso evitava con piacere.
Buona famiglia non significa necessariamente persona decente.
“Miki!” La voce di Dirk rischiò di fargli saltare un timpano. “Miki guarda, l’ho trovato!”
Era pronto a negare, dato che probabilmente l’altro aveva di nuovo indicato quel platinato di Scorpius, ma sgranò gli occhi quando vide che il fratellino gli indicava tutta un’altra persona; un bambino biondo che sorrideva impertinente all’obbiettivo, capelli color del grano e occhi castani.
Gli somiglia. Sembra lui.
Il ragazzino si muoveva all’interno di un salotto dall’aria ricercata, in uno stile che ricordava il Roccocò Babbano. Ricordava dov’era stata scattata: era il salotto di un conte francese che sua nonna aveva frequentato durante l’ultima estate che avevano passato assieme, quella dei suoi dieci anni. 
“Sì, sembra di sì.” Rispose sfiorando con la punta delle dita la fotografia, che sollecitata parve animarsi di colpo; i vari maghi e streghe in mantelli sgargianti presero vita, parlando, e ridendo mentre prendeva posto su sedie distribuite in varie file attorno ad uno spazio vuoto occupato da un pianoforte e un leggio.
Un concerto. Un concerto da camera, certo. Nonna amava portarmici, e quel tipo ne organizzava continuamente per farci piacere.
Come se un Bolide l’avesse colpito in testa realizzò chi era il ragazzino, primo a muoversi nella fotografia rimasta inerte per anni.
Il violinista.
Era Emil Von Houten Meinster, il piccolo prodigio che gli aveva rubato un bacio. Non aveva scordato il nome, e guardandolo entrare in scena e posare il violino sulla spalla ricordò anche i suoi occhi da gatto – castano chiaro – e l’espressione irriverente – con qualche anno in più sul viso sarebbe diventata un ghigno eccellente.
“Miki, che c’è?” La voce di Dirk suonava sorpresa e poteva ben immaginare perché: doveva sembrare un idiota colpito da un fulmine.
Milo il Magonò e Emil il violinista erano la stessa persona. 
 
****
 
San Mungo.
 
“Vuoi un bicchier d’acqua, un caffè?”
Vorrei poter tornare alla locanda e dormire.

Sören lo pensò con robusta frustrazione, ma scosse la testa alla richiesta; del resto non era colpa di Albus Severus se era ancora bloccato al San Mungo dopo quella giornata da incubo.
Voglio solo poter tornare alla locanda e morire, grazie.
Lanciò uno sguardo ai due Guaritori presenti nell’ufficio oltre al fratello di Lily; il primo era Finnigan, il Capo Reparto di Malattie Magiche, il secondo, anziano e dall’aria infastidita, invece gli era invece nuovo. Gli venne presentato come Tiberius Smethwyck, Capo Reparto di Lesioni da Incantesimo.
Un altro?
“Di quale chiarimento avete bisogno?” Decise di andar subito dritto al punto. Era evidente che qualcosa nei suoi esami aveva attirato l’attenzione.
E di ben due luminari. Non è un buon segno.
Fu il Guaritore Finnigan a parlare, con uno di quei sorrisi rassicuranti che doveva aver imparato non appena diplomatosi. Ne aveva visti molti, durante la sua degenza post-Nurmengard.
Non gli piacevano.
“Albus ci ha detto del nucleo di bacchetta che hai nel braccio. Puoi spiegarci come funziona?”
Sören batté le palpebre confuso; l’avevano trattenuto per una lezioncina sulla sua particolarità?

A domanda diretta doveva però rispondere. “Ho un nucleo di bacchetta, compatibile con la mia aura magica, collegato all’arteria radiale e brachiale. Questo mi permette di non usare una bacchetta … esterna, per così dire. La potenza dei miei incantesimi è maggiore inoltre, ma è più difficile controllarli. Per questo il Centro di Sperimentazione Magica di Boston ha studiato il mio caso …” Alzò la manica della camicia per mostrare il bracciale runico che non si toglieva neppure quando andava a dormire. Soprattutto quando andava a dormire. “ … Sono stati loro a darmi il congegno di contenimento che indosso. Tuttavia, se volete spiegazioni più tecniche, è a loro che dovete chiedere.”
“Stai dicendo che hai addosso qualcosa di cui non conosci il funzionamento, ragazzo?” Il tono del Capo Guaritore di Lesioni non gli piacque. Era aspro e sputava giudizi affrettati che non aveva né pazienza né voglia di ascoltare.
Al diavolo.
“Ne ho una conoscenza strumentale. A lei serve sapere come sta in aria una scopa per cavalcarla?” Ritorse e non fu una sua impressione, Albus Severus voltò la testa di scatto e represse una risatina.
Persino l’altro Guaritore trattenne una smorfia divertita, tornando subito serio quando incrociò lo sguardo oltraggiato del collega prima di rivolgerglisi. “Scusaci Sören, immagino che tu stia chiedendo il perché di queste domande…” Si alzò in piedi, abbandonando la poltrona dietro la scrivania per sedersi sulla stessa in un gesto di distensione che non lo distese affatto. “ … Ti parlerò chiaramente.”
“La ringrazio per la franchezza.” Stavolta non tentò neanche di frenare il sarcasmo che gli solleticava invitante la gola.

Non sono un ragazzino traumatizzato. Non trattatemi come tale.
L’uomo sospirò, alzando le mani in segno di resa. “Hai ragione, ci stiamo girando attorno e tu vuoi solo levarti dai piedi … Il fatto è questo.” Incrociò le braccia al petto e sospirò. “Per come si sviluppa la malattia, per il metodo di contagio e per l’esposizione a cui sei stato sottoposto scontrandoti sia con il sergente Flannery che con Henry Price, dovresti esserti ammalato.”
“Ma non è così.” Gli fece eco sentendo un brivido spiacevole ghiacciargli la nuca. “Avete detto che le mie analisi…”
“Sono negative.” Confermò il Guaritore. “Il fatto è che non ci spieghiamo perché lo siano. Sei stato esposto per ben due volte, eppure i tuoi livelli di magia sono nella norma.”
“Fin troppo perfetti.” Soggiunse il decano di Lesioni. “Quel tuo bracciale deve funzionare davvero a meraviglia.”
Sören passò le dita sul metallo brunito, gelido al tatto grazie alla magia con cui era stato incantato. “Così pare.” Confermò.  

Visto che la bacchetta che ho nel braccio è come una miccia vicino ad una scatola di Fuochi Magici.
“Quello che ci chiediamo è se sia stato il tuo bracciale a proteggerti, il nucleo di bacchetta che hai dentro di te…” Si inserì il Guaritore Finnigan. “ … o altro. Perché, fino a prova contraria, tu sei l’unico mago fin’ora immune.”
Capì di colpo dove voleva andare a parare quella conversazione. “Pensate che possa aiutarvi a sviluppare una cura?”
“È ancora troppo presto per sperare in questa direzione, ma…” Finnigan si passò una mano trai capelli, accennando un lieve sorriso. “Il tuo non-contagio è la prima notizia buona da settimane.” 
Sören ricambiò il sorriso perché sì, era davvero una buona notizia. Una notizia che lo faceva respirare di nuovo. “In questo caso mi metto a completa disposizione del San Mungo.”
“Per stasera ti lasciamo tornare a casa…” Scosse la testa l’uomo dandogli una pacca sulla spalla. “Fatti una doccia, una dormita e ci vediamo quando sarai fresco e riposato. Quando lo saremo tutti.”
“Domani mattina.” Aggiunse il Guaritore Smethwyck. “Avremo bisogno di un campione del nucleo della bacchetta e di studiare quel bracciale.”
“In questo non credo di potervi aiutare…” Quando vide la confusione e il vago sospetto nel volto di praticamente tutti e tre i Guaritori, si apprestò a spiegare. “Non sono di mia proprietà, ma del Ministero Americano, dunque non è a me che dovete chiedere l’autorizzazione.”
“Il nucleo di bacchetta nel tuo braccio non è di tua proprietà?” Ripeté Albus Severus incredulo.

“Era una delle condizioni della mia libertà.” Spiegò sentendo il disagio strisciargli addosso come una brutta febbre. Se c’era una cosa che odiava era spiegare la sua posizione nel Mondo Magico. “Ogni oggetto magico presente sul mio corpo, o che utilizzo, è di proprietà del Ministero della Magia americano. Io ne ho solo il possesso.”
“Anche della bacchetta?”
“Esatto.”
Ero stato condannato al carcere duro a vita. Se sono fuori, è ovvio che lo sia a patto di avere delle limitazioni.
Pensava che mi avessero graziato?
Il livore di James Potter d’un tratto acquistava tutt’altra prospettiva.  
“Chiederemo al tuo Ministero.” Tagliò corto il Guaritore di Malattie Infettive. “Grazie per la pazienza … ti lasciamo tornare a casa.” Fece un cenno a Potter. “Albus, accompagnalo.”
Fu lesto ad alzarsi. “Vi ringrazio, ma conosco l’uscita.”
L’altro scosse la testa. “Lo faccio con piacere.”  

Non gli restò che seguirlo; Albus ad ogni buon conto non ci mise più di qualche passo fuori dall’ufficio per voltarsi a guardarlo. “Credo di doverti delle scuse.” Esordì.
“Prego?” Era troppo stanco per ricordarsi come e quando il fratello di Lily l’avesse offeso.

“Pensavo … beh.” Arrossì mordicchiandosi un labbro; i Potter quando erano in imbarazzo assumevano tutti la stessa espressione di confuso disagio, quasi gli sembrasse assurdo aver sbagliato. “Pensavamo … pensavo che ti avessero trattato come una specie di testimone privilegiato.”
“In un certo senso è così.” Ammise seguendolo verso gli ascensori. A quell’ora di notte l’intero edificio appariva deserto e silenzioso. “Ho avuto accesso ai capitali della mia famiglia … dei Prince, non dei Von Hohenheim.” Chiarì. “Ho una casa ed uno stipendio, ma la mia posizione giuridica è quella di un minorenne.”
L’altro lo guardò stralunato. “Mi stai dicendo che hai la Traccia?”  

“Ovviamente. I miei spostamenti devono essere individuabili.”
Dopo quel breve scambio di battute scese il silenzio finché l’ascensore non si fermò al piano terra. A quel punto Albus si voltò di nuovo verso di lui. “Sono contento che tu non sia stato contagiato.” Disse, e poi gli porse la mano. “Buonanotte Sören.”
Cercando di non fargli notare la sua sorpresa, gliela strinse. “Anche a te, Albus.”

“Non sono ancora così vecchio da essere chiamato Il Bianco.” Lo corresse con una smorfia. “Al. Chiami Al e basta, okay?”
Sören si accomiatò sentendosi un po’ meno stanco e amareggiato da quella giornata; lui e Albus – no, Al – non erano certo diventati amici, ma perlomeno sembrava che l’altro avesse cambiato opinione su di lui.
Un passo per volta.
Appena uscito dal perimetro dell’ospedale, mentre respirava l’aria fresca della sera, sentì la tasca della giacca trillare insistentemente di mille suoni argentini. Come sempre, ci mise più di qualche attimo per capire che quella sinfonia proveniva dal suo telefonino.
Scorse le icone colorate e trovò un messaggio. Da Lily.
‘Tutto okay? Sono preoccupata, fammi sapere!’
Sospirò. Avrebbe avuto bisogno di qualcosa da bere prima di poter rispondere.
Possibilmente, forte.
 
 
‘Sto bene, non c’è bisogno che ti preoccupi. Ti spiego quando ci vediamo. Buonanotte, Lily.’
E questo sarebbe un messaggio tranquillizzante?!
Lily represse l’impulso di scagliare il suo smartphone – perché lì chiamavano intelligenti, se erano ambasciatori di risposte stupide? – contro il muro della stanza da letto, e si trattenne solo perché Scott si stava infilando sotto le lenzuola di fianco a lei e non sarebbe stato carino colpirlo in piena fronte.
“Piccola, cos’è quel muso?” Aggrottò le sopracciglia preoccupato. “Brutte notizie?”
“No, pessimo il modo in cui mi vengono date.” Borbottò accoccolandosi contro l’altro, che ligio al dovere la circondò con le braccia e la attirò a sé. Quando le passò una mano lungo la schiena, in una carezza rilassante, si sforzò davvero di sciogliere i muscoli contratti.
Scott non meritava il suo malumore.

“Sören sta bene?”
“Okay, siamo sicuri che non sia tu il LeNa?” Mormorò contro la sua clavicola, trovandola interessantissima. “Sono inquietata.”
Scott ridacchiò. “Beh, non ci vuole un potere particolare per fare due più due … Ne abbiamo parlato per tutta la cena, e controllavi ossessivamente lo Specchio e il cellulare. Ha risposto?”

Lily si mordicchiò un labbro. “Scusa, ho monopolizzato gli argomenti stasera…”
Scott si strinse nelle spalle. “Un tuo amico è finito al San Mungo, è ovvio che fossi preoccupata. E poi, è meglio parlarne che tenersi tutto dentro. L’ha detto la Patil, giusto?”

Lily captò il sottotesto e la lieve frecciatina. Sorrise appena. “Giusto.”  
Ci stava davvero provando a farlo, e per quanto amasse quel serio ragazzone, aveva ancora delle difficoltà spaventose. Non a fidarsi…
… quanto piuttosto a lasciarmi andare.
Aveva il terrore che affidandogli le proprie fragilità avrebbe finito per rimetterci, in qualche modo.
E non un'altra volta. La prima ha fatto davvero un male cane.
Continuava, in un certo senso. Ancora adesso Sören era capace di premere i punti giusti e farli dolere.
Non come allora, ma comunque…

Non voleva che con Scott fosse lo stesso.
È solo essere prudenti, tutto qui.
“Il messaggio di risposta … è praticamente una comunicazione amministrativa.” Spiegò, passandogli il cellulare per farglielo leggere. “Penso mi stia mentendo.”
Scott scorse lo schermo con lo sguardo e poi, razionale come sempre, sospirò. “È solo un messaggio, Lils. Non tutti sono bravi a mettere i propri sentimenti dentro un paio di frasi scritte.”
Non Ren. Ren sa scrivere. Quando vuole scrive cose meravigliose. Mi ha scritto per dovere, non perché ne aveva voglia.

“ … non hai tutti i torti.” Disse invece.
Non è solo il messaggio comunque.
All’ospedale l’amico gli era sembrato distante, come se avesse tentato di mettere una barriera tra di loro – oltre quella già presente. Certo, ricordava che quando si sentiva messo all’angolo dalle contingenze la sua difesa migliore era prendere le distanze emotive …
È comprensibile. Ma non è quello. Non mi voleva lì, ne sono sicura.
Scott posò l’aggeggio malefico sul comodino, voltandosi verso di lei con un sorriso che non nascondeva una certa impazienza. “Vogliamo parlare d’altro adesso?”
Eh, mi sa di sì.
Qualcosa le diceva che era meglio non continuare a parlare di un altro ragazzo quando era a letto con il suo fidanzato.
Il mio senso di donna sta pizzicando…
“Assolutamente d’accordo, ragazzone.” Gli allacciò le braccia attorno al collo e lo tirò a sé per lambirgli le labbra con un bacio appena accennato, sottolineando come fosse un preludio a ben altro. “Vogliamo parlare di quanto tu sia un perfetto fidanzato comprensivo?”
 
 
Milo si accorse che Sören era tornato al Paiolo Magico quando percepì una nuvola nera investire l’ambiente altrimenti festoso, dato che si stava tenendo un’energica open session² di musica tradizionale in cui si era lasciato ben volentieri coinvolgere.
Come musicista si rimedia sempre da bere gratis.
Concluse il set e poi salutò gli altri musicisti, finendo con un sorso l’unica birra che al momento riusciva a tollerare senza che le sue robuste papille tedesche si ribellassero.
Questa Belhaven scozzese è la meno pisciosa.
Poi si diresse con la calma atta ad aggirare una belva ferita verso il proprio datore di lavoro, che seduto al bancone, si era fatto portare una bottiglia di Ogden Stravecchio e un bicchiere.
“Giornata da lascia pure la bottiglia?” Iniziò affiancandoglisi e appoggiando il violino sulla porzione meno lercia.
Sören sobbalzò, lanciandogli uno sguardo sorpreso. “Non stavi suonando?”
“Non se l’hai notato, ma non c’è musica al momento.” Replicò divertito, notando come l’altro avesse fatto scivolare il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni come un ladro colto sul fatto. “Mandi messaggi a Zenzero?”
“Solo per dirgli che sto bene.” Borbottò vuotando il bicchiere con un allenato colpo di polso.
Milo si sporse sullo sgabello e tirò a sé la bottiglia, ignorando l’occhiataccia che gli venne lanciata. “La requisisco per il tuo bene.” Lo informò. “Sei un peso morto da riportare a letto e questo è il mio giorno libero.”

“Di nuovo, non lo è.”
“Di nuovo, devo essermene dimenticato.”
L’altro non ribattè contemplando un punto indefinito di fronte a sé. “Prima … non eri male.” Mormorò dopo un po’. “È la prima volta che suoni musica tradizionale?”

“Irlandese? No, te l’ho detto, ho suonato ovunque e per chiunque. È un po’ ripetitiva, ma di impatto.” Si strinse nelle spalle. “È divertente suonarla assieme e qui c’è una grossa tradizione in tal senso.” Lo guardò di sottecchi e poi chiese. “Stiamo parlando di questo per non parlare d’altro?”
“Forse.” Gli concesse sorprendentemente. Doveva essere davvero uno straccio se si lasciava andare a simili confessioni. “È troppo.” Se ne uscì fissandosi le mani come se vi potesse trovare una soluzione pratica. “Non ce la faccio, devo allontanarmi da Lilian.” Appena lo ebbe detto assunse la faccia tipica di chi si era appena accoltellato all’addome. “ … Non abbandonarla, solo…”
“Sì, lo so.” Lo fermò per poi ripassargli la bottiglia, perché adesso ne capiva la presenza. “E perché, di grazia? L’unica cosa buona della tua venuta qui, mi pare, era vederla…”

“Sono innamorato di lei.”
Grandi confessioni stasera!

“Gliel’hai detto?”
“Non essere ridicolo.”
Ci mancherebbe. Solo amori tragici e mai confessati per Sören Prince.

Gli riempì il bicchiere fino all’orlo e subito venne vuotato di nuovo come se fosse acqua. Sören si voltò poi nella sua direzione, con un’espressione che gli sarebbe valsa un abbraccio se fosse stato meno duro di cuore.
Sono un cuore di pietra, io.
“Suona qualcosa per me.”
Milo si alzò in piedi, annuendo. “Agli ordini.” Tornò alla musica, perché non c’era modo migliore per aiutare un cuore malandato a non sentirsi tale. Almeno fino alla fine della canzone.
 
 
I’m killing and I’m drinking my blue heart to black
But I swear, oh Lord, I’ll never sin again if you bring her back
 
 
 
 
****
 
 
 
Note:

Direi basta. XD
Capitolo enorme, ma dovevo finire la giornata. Spero non sia troppo pesante!

Per quanto riguarda la faccenda del violinista e di Michel, per chi non l’avesse chiara, si ricollega a questa shot, nella parte dedicata a Michel. ; )
Ci sono un po’ di canzoni che mi hanno aiutato nella stesura. La prima è questa perché anche se avevo deciso per i Bastille, l’ho sentita e bam! canzone capitolo.
Il brano della session è questa e quella per Sören è questa bella robetta allegra qua.
Qui per chi vuole vedere il piccolo Dirk. Penso proprio che nella storyline di Milo e Mike avrà una sua parte.
 
1. Brixton: è uno dei quartieri più conosciuti di Londra, nel bene e nel male. Situato nell'immediato sud, nel quartiere di Lambeth, è caratterizzato da un'alta migrazione di origine caraibica (soprattutto giamaicana) e africana. Negli anni ’80 è stato teatro di tensioni sociali e scontri con la polizia e tutt’ora, nonostante la progressiva gentrificazione, è considerato uno dei quartieri meno sicuri della capitale.
 
2. Session: sono degli incontri informali in cui delle persone suonano musica irlandese tradizionale. Normalmente in una session un musicista comincia un brano e chi lo conosce gli va dietro. Una buona regola è che non si dovrebbe suonare se non si conosce il brano; piuttosto si aspetta o si comincia un brano che si conosce. L’obiettivo di una session non è quello di divertire un pubblico passivo di ascoltatori, principalmente la musica è per i musicisti stessi. Qui per info.

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Capitolo 21
*** Capitolo XX ***


Capitolo XX





 
I want to come close, I want to come closer
I held your name inside my mouth
Through all the days out wandering
(Animal Life, Shearwater)


3 Luglio 2028
Galles, Denbighshire. Mattina.
 
Ted si svegliò sentendo i rumori della foresta
Mise a fuoco il mondo, ricordandosi che aveva passato la notte nel bel mezzo della foresta di Clocaenog¹, nel profondo nord del Galles ed ad un’ora di scopa da Stoke-on-Trent.
Era stato fortunato comunque; invece di passare la notte a combattere il freddo umidiccio delle conifere, aveva dormito sul pavimento duro ma di legno asciutto della capanna di Moscardo.
Voltò la testa e vide che Flynn si era già alzata, lasciando il proprio sacco a pelo arruffato vicino al pagliericcio dove il Mannaro doveva dormire abitualmente. Ted piegò e ripose sia il suo che quello della ragazza, decidendo poi che era il caso di alzarsi e andare a sgranchirsi le gambe.
È la prima volta che visito la riserva dei Mannari …
Da ragazzo aveva chiesto più volte il permesso al Ministero, ma gli era sempre stato negato sia per la minore età, sia per la rarità con cui quella richiesta veniva fatta.
Si saranno chiesti se non fossi matto…
Dunque era un’occasione che doveva cogliere. Non aveva visto molto la sera prima, arrivando a notte fonda e con il fuoco dell’accampamento ridotto a braci sorvegliate da due figure insonnolite che avevano a malapena rivolto loro un’occhiata. Aveva però notato come quello occhiata, data con gli occhi dorati dei Mannari, fosse stata indagatrice.  
Sapranno il motivo della mia visita? Quello che è successo?
Decise di smettere di arrovellarsi e uscì; l’accampamento era nient’altro che una serie di capanne di legno, pietra e paglia radunate attorno ad un grande focolare delimitato da un cerchio di ciottoli regolari inscuriti dalla fuliggine; ricordava dai suoi studi come fosse l’unico focolare sia per ragioni di sicurezza che di aggregazione sociale. Una mezza dozzina di donne vi stavano infatti cucinando la colazione: due rimestavano un pentolone che sobbolliva quieto mentre altre pulivano radici con dita esperte. Individuò anche Flynn che seduta con la schiena rivolta ad un tronco d’albero, fumava una pipa di corno e parlava con un anziano imbacuccato in una serie di coperte che dovevano difenderlo dal freddo umido del mattino.
L’atmosfera era rilassata, con gli uccelli che cinguettavano di ramo in ramo, l’odore pulito delle conifere e le donne che sgranavano parole nel loro cantilenato accento gallese. Cambiò di colpo quando si accorsero di lui.
Okay.
Tentò un sorriso finendo di scendere la collinetta su cui era abbarbicata la capanna di Moscardo.  
“Ehi, splendore!” Lo salutò con disinvoltura Flynn. “Ben svegliato! Dormito bene?”
“Molto, grazie.” Rispose costringendosi ad un tono sereno, per quanto tutte quelle occhiate ai suoi capelli e alle sue mani lo stessero allarmando.

Beh, di certo hanno capito che sono un mago…
La ragazza asiatica non pareva turbata dal silenzio caduto nella radura. “Vieni a mettere qualcosa sotto i denti!” Lo spronò. “Le ragazze stanno giusto preparando per tutti.”  Ted acconsentì, impacciato di fronte a tutte quelle iridi dorate che lo scrutavano diffidenti – quelle di Flynn, a ben vedere, viravano più sul marrone.
Jamie aveva ragione…
Non aveva mai avuto veri contatti con i Mannari; quelli che aveva conosciuto alle conferenze erano inseriti nel Mondo Magico, mentre quelli che aveva di fronte avevano un’aria … più selvatica: indossavano vecchie tuniche e mantelli logori dei colori del bosco e le donne avevano collane di selce avvolte in più giri attorno al collo e i capelli intrecciati di piume colorate. Non avevano neppure l’aria pallida e poco salubre che aveva sempre pensato fosse cifra stessa della loro malattia.

Sembrava che le sue certezze in materia in realtà non fossero poi così certe.
La funzionaria parve intuire il suo imbarazzo perché si alzò e gli passò un braccio sulle spalle con fare protettivo: a sentire James, faceva spesso quest’effetto alle donne.
Fai quella faccia da cucciolo bastonato e bam! Hai ufficialmente una balia.
Il suo ragazzino era sempre stato uno stronzetto linguacciuto.
“Questo è Ted Lupin.” Esordì come se stesse presentando un bambino brillante ad una serie di adulti compiacenti. “È ospite di Moscardo.”
L’atmosfera cambiò di nuovo. Sembrava che le decisioni del vice fossero indiscutibili perché le donne si rilassarono visibilmente e persino il vecchio imbacuccato accennò ad un brontolio d’assenso.
“Buongiorno.” Salutò sedendosi su una delle rocce, sedili di fortuna; ringraziò Merlino di essersi svegliato presto. Se quelle poche persone riuscivano a farlo sentire indesiderato, Morgana solo sapeva come si sarebbe sentito di fronte all’intero branco.
“Dov’è Moscardo?” Chiese alla ragazza dopo aver accettato da una delle donne un piatto contenente una zuppa di carne e radici, a giudicare dall’odore.  
“L’umano non mangia?” Chiese quella più anziana ricordandogli immediatamente Molly Weasley.
“Si chiama Ted, non umano.” Corresse Flynn ficcandosi in bocca una cucchiaiata di stufato come se lo trovasse delizioso. 
E lo era, constatò stupefatto, imitandola.
Non giudicare un libro dalla sua copertina…
“È lepre. Le hanno cacciate i nostri uomini.” Gli venne spiegato con orgoglio.
Una delle giovani, forse incoraggiata dal sorriso con cui le ringraziò, si accoccolò vicino a lui. Non doveva avere più di sedici anni, dato che aveva le proporzioni e la goffaggine tipica delle sue studentesse. “I tuoi capelli sono buffi!” Constatò sporgendosi per toccarli.
Ted la lasciò fare, ricordando di aver letto come un contatto fisico iniziato spontaneamente fosse un buon segno per i Mannari; la fisicità era il linguaggio più immediato e naturale per loro. “Posso cambiargli colore e lunghezza.” Spiegò gentilmente e poi si concentrò per farli diventare di un viola acceso che fece gettare gridolini sorpresi e divertiti da parte delle più giovani.
“Quindi sei un mago.” Stimò l’anziana scoccandogli un’occhiata di nuovo sospettosa. “Sei qui per fare magie?”
“No.” Fu lesto a rispondere, interrompendo con una mano la protesta di Flynn. Le era grato per l’aiuto, ma poteva cavarsela da solo. “Mia madre era una Metamorfomaga, ma mio padre era un Mannaro.”
Ho a che fare quotidianamente con adolescenti diffidenti e in pieno contrasto con il mondo intero.
Questo è il mio campo.  
“Un mezzo-lupo.” La donna sembrò sorpresa. “Adesso capisco il tuo odore.”
“Il mio odore?”

“Sei un mago e non porti la pelliccia, ma hai il nostro odore!” Chiarì la ragazza allargando le narici per annusarlo. “Buffo!” Ripeté.
Dopo un’iniziale ritrosia, vedendo che non aveva cattive intenzioni e che mangiava con gusto, anche le altre donne si avvicinarono per toccargli i capelli o rivolgergli qualche domanda.
Vivono segregati in una foresta da meno di duecento acri per tutta la loro vita, vedendo le stesse facce ogni giorno … È naturale che quando arriva un forestiero siano curiosi.
“Come si chiamava tuo padre?” Gli venne chiesto dall’anziana che si era poi presentata con il nome di Mira.
“Remus, ma quando viveva qui si faceva chiamare Lunastorta.”
Forse l’ha conosciuto.
“Non l’ho conosciuto.” Sembrò indovinare, voltandogli di colpo le spalle per tornare al pentolone dello stufato.
Flynn gli si sedette accanto, finendo la sua ciotola con un rumore soddisfatto. “Non far caso a Mira.” Esordì. “Se ha conosciuto tuo padre, non te lo dirà.”
“Perché?”

“Non farà rivelazioni con Moscardo che ti deve parlare … C’è una gerarchia anche nelle chiacchiere, sai.”
“Non c’è problema.” Sospirò. “Quando…”
“Sì, non ti ho risposto … Dovrebbe tornare a momenti. Cacciano nei punti meno battuti della foresta, ma stanno diventando sempre meno.” Si grattò la nuca, stiracchiandosi. “Il Ministero ha un bel da fare a tener Intracciabile questo posto.”

Un improvviso rumore di fronte lo mise in allerta. “Ah, eccoli!” Lo avvertì voltandosi nella direzione del rumore; una decina di uomini, il più giovane poteva avere tredici anni, il più anziano una sessantina, emersero dal sottobosco. A differenza delle loro donne, indossavano pantaloni di stoffa grezza ed erano a torso nudo, nonostante l’aria frizzante del mattino. Avevano archi e frecce e lance rudimentali, molto simili alle armi usate dai Centauri, anche se più rozze e di certo meno precise. Uno di loro, il più anziano, si staccò dal gruppo che invece si diresse compatto verso la colazione.  
Dev’essere lui.
“Moscardo, ehi!” Lo salutò infatti Flynn andando a dargli una pacca sulla spalla. “Ti ho portato Ted. Ho passato la notte a dormire nella tua scomodissima capanna, contento?”
L’uomo gli lanciò una lunga occhiata senza dir nulla; aveva una lunga serie di cicatrici che gli coprivano parte della gola.
Segni di unghie. Auto-inflitti o…
“È il motivo per cui sono il braccio destro di Vulneraria.” Spiegò quasi gli avesse letto nel pensiero, o forse l’aveva capito dalla direzione del suo sguardo. Più probabile la seconda. “Sei il figlio di Lunastorta, vero?”
“Io…”
Quale dei due?

“Sto parlando del Mannaro che rispondeva al nome umano di Remus.” Chiarì. “Non serve che tu risponda. Hai il suo odore.”
Ted sentì un groppo alla gola, come sempre gli succedeva quando qualcuno lo comparava a suo padre.

Anche se è la prima volta che è una questione … di naso.
“Lo ha conosciuto?”
“Sì.” Non aggiunse altro. Si rivolse poi a Flynn. “Vulneraria è andato al fiume con il gruppo di pesca, tornerà questo pomeriggio. Dovrete aver lasciato il branco per allora.”
“Ricevuto.” Annuì la ragazza con una scrollata di spalle. “Grazie per il tempo che ci concedi, Moscardo.”
Il Mannaro fece un cenno evasivo della mano. “Non posso rifiutare un favore alla nipote di Quintilio. Lo sai, il tuo vecchio era mio fratello di latte.” Si rivolse poi a lui. “È la tua prima volta nel branco?”

 “Sì.” Rispose un po’ impacciato. “Non ho mai … i miei genitori sono morti quando ero bambino, e mio padre…”
“Non ci ha fatto compagnia per molto.” Concluse per lui. “Mi ricordo. Indossava una pelle da agnello, come molti di noi.” Vedendo la sua espressione, scosse la testa. “Non fraintendermi, capisco che per chi è stato allevato dagli umani sia difficile prendere la decisione di venire a vivere qui. Tuo padre era un Trasformato, vero?”

“Greyback lo morse da bambino.” Convenne pacato, senza livore o recriminazioni; sapeva che per persone come Moscardo, nato da genitori Mannari, la Licantropia non era una malattia da curare e tenere a bada, ma una condizione da vivere con orgoglio.
E non posso dire che sia un punto di vista sbagliato … Di certo ha una vita meno infelice di quella che ha avuto papà.
“Ricordavo bene allora.” Annuì. “Per i Trasformati è più difficile. Né carne, né pesce. È dura.”
Ted non rispose; non era lì per un tuffo nel passato, ma per dirimere un mistero che non gli dava pace. “Flynn le ha detto il motivo della mia visita?”
“Sì, si tratta di Lunastorta …”
Okay, non ci sto più capendo niente.

“Mi scusi, ma … di che Lunastorta sta parlando? Di mio padre? O del Mannaro che è stato ritrovato vicino a casa mia? Perché sta chiamando tutti nello stesso modo.”
“Lo so.” Fu la replica sconcertante. “Per il branco i nomi sono importanti.” Non gli diede il tempo di ribattere, perché si incamminò verso la sua capanna. “Vieni con me.” Soggiunse. “Dobbiamo parlare.”

Ted lanciò uno sguardo a Flynn, che si limitò a stringersi nelle spalle e fargli cenno di seguirlo.
Obbedì.
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Mattina.
 
Sveglia all’alba, una doccia gelida per smaltire i postumi del whisky ingerito la sera prima e una corsa
lungo Charing Cross Road fino a Leicester Square. Questo era l’unico metodo che Sören conosceva per riuscire ad arrivare puntuale al lavoro senza sembrare un Infero appena uscito dalla propria tana.
Così, fresco di una seconda doccia e con l’uniforme stirata dalle riluttanti ma capaci mani di Milo, varcò l’ingresso dell’ufficio Auror, schivando come al solito un nugolo di Promemoria Ministeriali che sfrecciarono fuori con la velocità dei proiettili.
La scrivania di Potter e Malfoy era già al completo con i due che si litigavano la sedia, Jordan seduto diplomaticamente alla sua e …
Un cane?
“Di chi è quel cane?” Chiese incrociando lo sguardo adorante del suddetto, che pensò bene di ficcargli il muso umido nella giuntura del ginocchio, chiedendo attenzioni che non era disposto a dargli. Fece un rapido passo indietro. “Può stare qua?”
“No, per niente.” Fu l’allegra risposta proveniente da Malfoy. “Per questo lo nascondiamo! Si chiama Donnola.”
“Non si chiama Donnola, testa d’uovo!” Sbuffò Potter come al solito ignorando la sua presenza. “Avrà un nome ma non è un insulto indiretto a mio zio!”
“Non so di cosa tu stia parlando, Donnola è un nome perfetto per un cane.” Replicò l’altro con un sorriso zen, afferrando per il collare il cane e strattonandolo gentilmente indietro, evitando così che gli lavasse l’uniforme nella bava. “Non ti piacciono i cani Sören?”

“Non sono abituato ad averci a che fare…” Gli unici con cui aveva interagito in effetti erano stati i cani da guardia che aveva dovuto neutralizzare durante le sue missioni con Johannes.
Per me non sono certo paragonabili al miglior amico dell’uomo.
“Lo abbiamo trovato a casa di Price.” Spiegò Malfoy grattando dietro le orecchie dell’animale che guaì guardandolo con canina adorazione. “Non potevamo lasciarlo lì, stava morendo di fame!”
“Non c’era nessuno che se ne potesse occupare.” Aggiunse Jordan che ormai nella sua testa incarnava la voce della ragione. “Lo porteremo ad un rifugio per animali Babbano non appena avremo un momento libero.”
“Ma sono posti orribili!” Malfoy scosse la testa come se stessero teorizzando qualcosa di estremamente stupido. “Lo tengo io come ieri sera, non c’è problema!”
Potter roteò gli occhi al cielo, ma sembrava ben disposto verso l’animale da come si era chinato per grattargli la pancia. “Sì, perché nasconderlo in camera tua al Manor è un piano perfetto sulle lunghe distanze. Tuo padre ti ucciderà.”
“Papà alleva dei pavoni. Albini. Come può avere voce in capitolo?”

“Ci sono novità sul caso?” Li interruppe, perché quella scena per lui non aveva il minimo senso e gli stava tornando il mal di testa. Intuiva che il tono giocoso della conversazione era voluto per distendere i nervi dopo le ventiquattro ore appena passate…
Ma io le ho passate a rischiare la vita, non sapere se ero stato contagiato e infine ho realizzato che dovrò tenermi alla larga da Lilian.
Non ho voglia di scherzare.
Gli altri agenti si scambiarono un’occhiata, ma fu Malfoy a parlare. “Ce ne sono, sì.” Esitò, poi assunse un’aria colpevole che proprio non capì. “Ma tu come stai?”
Batté le palpebre confuso. “Sono stato dimesso ieri sera, vi avranno informato del fatto che non sono stato contagia…”
“Lo sappiamo, Prince, è ovvio.” Grugnì Potter che pareva stare sui carboni ardenti. “Ma tu come stai?”

Li fissò ad uno ad uno tentando di leggere tra le righe, perché doveva essere uno quei casi in cui le parole non esprimevano affatto le intenzioni.
“Sto bene?” Tentò.
Malfoy gli diede una pacca sulla spalla come se fosse un caso senza speranza. “Eravamo preoccupati per te.” Chiarì e persino Potter riuscì a lanciargli un’occhiata che non prometteva una rissa immediata. “Siamo contenti che tu non ti sia ammalato.”
“Già, non possiamo permetterci altra gente su un lettino.” Borbottò quest’ultimo incrociando le braccia al petto e fissando ovunque tranne che nella sua direzione.
È in imbarazzo?
“Potty era roso dall’ansia …” Gli sussurrò Malfoy con aria cospiratoria, mentre l’altro gli allungava un calcio che schivò con disinvoltura consumata. “Se non c’è qualcuno con cui può fare il bullo si intristisce. È nei suoi geni, sai.”
“Vaffanculo Malfuretto!” Lanciò un’occhiataccia ad entrambi come se l’esternazione del collega fosse anche colpa sua. “Vogliamo lavorare o no?”

“Tutto lavoro e niente svago rendono Scorpius un ragazzo noioso²!” Cantilenò questo con tono petulante, ma poi afferrò una cartellina dal caos che riposava in precario equilibro alle sue spalle e gliela porse. “Questa è arrivata ieri sera dal tuo Ministero.”
Sören non poté fare a meno di sorridere quando vide il logo della SAGITTA stampato sulla copertina.

Devono averci lavorato Rico e gli altri…
Non avrebbe mai pensato di dirlo un anno prima, ma gli mancavano le chiacchiere del partner e persino l’imbarazzo che era capace di scatenargli Ama o le battute irritanti di Murphy. Erano la sua gente e quel rapporto gli trasmetteva la stessa familiarità. Andarsene oltre mare gliel’aveva solo fatto realizzare. “Si tratta del materiale raccolto su Howe?” Chiese sfogliandola e leggendone qualche paragrafo.
“Già!” Convenne Malfoy. “Per riassumerla, dice più o meno quello che già sapevamo … Incensurato, neppure una multa per non aver disilluso la scopa mentre volava. Viaggiava spesso per lavoro, era un commesso viaggiatore, commercio in aggeggi da giardinaggio, roba del genere … Divorziato con una Babbana, senza figli.”

“Nessun collegamento con John Doe?” Prima o poi avrebbe smesso di sentirsi la bocca secca e le mani sudate, a quel nome.
“Nessuno.”  
Sospirò, chiudendo la cartellina e appuntandosi di visionarla dopo. “Stavate però parlando di sviluppi …”
Datemi qualcosa da fare. Datemi qualcosa da pensare che non sia … lei.
Concentrarsi sul caso al momento era la cosa migliore. 
Potter interruppe il flusso dei suoi pensieri. “Ieri sera abbiamo perquisito l’appartamento di Henry Price e Malfoy, spremendo quei due neuroni ossigenati che si ritrova, se n’è uscito con una teoria…”
“Una fantastica teoria!” Fece eco il suddetto. “Ti ricordi quando ci hai detto che il virus poteva essere un effetto collaterale? Qualcosa venuto fuori cercando di creare qualcos’altro con la Magia Oscura?”

“Sì, mi ricordo.” Convenne. “Ma era una considerazione, tutto qui. Avete trovato delle prove a conferma?”
Malfoy frugò di nuovo tra la pila di carte e estrasse una busta di plastica che conteneva un ritaglio di giornale. “Dovremo fare ordine, prima o poi.” Considerò meditabondo, poi gliela girò. “Abbiamo trovato questo, assieme ad un inquietantissima collezione di gadget sui Duelli Magici.”
Sören lesse il trafiletto sotto l’immagine di un mago dal fisico prestante e atteggiato in una posa da modello.
 
Ti senti un mezzo Mago? Un Magonò? Non è la bacchetta, ma pensi di essere tu?
Prendi in mano la tua vita!
 
Seguiva un indirizzo postale e nient’altro. “È un annuncio pubblicitario … abbastanza oscuro.” Osservò confuso. “Pensate che Price possa aver risposto? E Howe?”
“Per Howe non lo sappiamo, ma di sicuro Price voleva diventare un Duellante più di qualsiasi altra cosa al mondo, a giudicare da quello che gli abbiamo trovato in casa.” Rispose Malfoy stringendosi le spalle. “Il problema è che le sue capacità non erano all’altezza dei suoi sogni.”
“Storia vecchia come la bacchetta di Merlino.” Sbuffò Potter. “Non è il primo che casca in una truffa magica. All’epoca dei nostri genitori c’era quel corso per corrispondenza…”
“SpeedyMagic.” Suggerì Jordan. “Una mia zia Maganò ha speso una fortuna per imparare a scaldarsi il the. E non ha mai imparato, per la cronaca.” Aggiunse con una smorfia. “È il brutto della faccenda. Puoi allenarti quanto vuoi, ma se non nasci con la magia nel sangue …”

“Price non era un Magonò però.” Osservò. “Ha frequentato Hogwarts.”
Jordan lo squadrò perplesso. “Non è che ci dividiamo così. C’è anche gente che ha magia, ma non ne ha abbastanza.”
Si sarebbe sentito in imbarazzo, se Scorpius non avesse dimostrato la sua stessa confusione. “Mentre i Magonò non ne hanno per niente, giusto? Sono tipo rotti.”
Rotti?” Potter lo guardo indignato. “Che cazzo, Malfuretto, non fare il Purosangue!”

Sono un Purosangue.” Ribattè  stringendosi nelle spalle. “All’epoca di mio padre o nascevi con la bacchetta in pugno o finivi come una toppa bruciata sull’arazzo di famiglia. Nessuno mi ha mai spiegato un accidente di questa roba. Si suppone che non ne abbia bisogno.”   
A quanto sembrava, per una volta la sua ignoranza era questione di educazione Purosangue e non una personale deficienza: ne fu sollevato.   
Jordan per l’ennesima volta si assunse il compito di spiegare; era strano pensare che avesse frequentato la stessa Casa di Potter; sembrava più adatto a Corvonero. “Molta gente fa confusione." Esordì diplomatico. "Il motivo per cui i Purosangue di solito non sono scarsi è perché nascono da famiglie con grandi capacità magiche. Spesso discendono da persone come i Quattro Fondatori  … o gente come i Peverell. Oltretutto fino ad una generazione fa non si mischiavano con Nati Babbani o Mezzosangue …” Fece una smorfia. “Gli ideali che propugnavano i Mangiamorte erano deliranti dal punto di vista etico, ma la genetica darebbe loro ragione. Se immetti nel tuo corredo genetico geni Babbani, il ceppo magico viene indebolito. Ci vogliono parecchie generazioni, si capisce, e basta una nuova unione con un ceppo magico forte per scongiurare il pericolo, ma comunque…”
“Sì, peccato che se sposi la teoria Mangiamorte ti aspetta un futuro di malattie orrende! Non è che ti puoi portare a letto tuo cugino e non avere conseguenze!” Si inserì Potter con l’aria di aver già scelto l’opzione che più gli aggradava.

“Io preferirei diventare un Babbano.” Borbottò Scorpius. “Non avete idea di che diavolo ci sia nel mio albero genealogico.” Represse un brivido. “Una su tutte, zia Bella.”
“Però un Purosangue può essere Magonò.” Obbiettò Sören incuriosito. Si rendeva conto che c’era tanto che non sapeva del Mondo Magico, ora che era fuori dalla bolla in cui la Thule e suo zio l’avevano tenuto.
Jordan confermò. “Sì, quello è in discorso diverso. Non è che siano rotti.” Fece un sorrisetto indulgente a Scorpius, che abbozzò un sorrisetto imbarazzato. “ … È che il loro sangue produce qualcosa che, come dire, annulla la magia. È una malattia, non c’entra niente con ipotetiche scale magiche.” 
Quindi per Milo è così?
Sören ricordò come cinque anni prima l’altro non avesse tratto giovamento dai suoi incantesimi curativi e come fosse poi sembrato stranamente resistente alle Maledizioni scagliategli dai Mercemaghi.
Aveva detto che la magia su di lui funzionava in modo diverso, che era per via del suo sangue.
Ecco perché.
“Comunque, dai documenti scolastici è venuto fuori che Price era ricettivo quanto una Scopalinda.” Si inserì Potter per riportare su di sé il centro dell’attenzione. Sembrava tipo che non riusciva a delegarla per lungo tempo. “Poi, sei mesi fa, è diventato il re del Duello Magico. La cosa puzza di Magia Oscura, non vi pare?”
“Pensate che tutto sia partito dal rispondere all’annuncio?” Lesse l’indirizzo postale. “È qui a Londra.”

“Ci stavamo andando.” Potter si alzò della sedia che era riuscito a guadagnarsi a rischio di azzoppare il partner. Passandogli vicino gli diede un colpo con la propria spalla, ma leggero e che non sapeva di astio o violenza come quelli di Murphy. Sembrava quasi … cameratesco.
“Aspettavamo te, pipistrello.”
Non sapeva se sentirsi offeso o chiedere spiegazioni. Nel dubbio, guardò Malfoy che dava spesso mostra di capire il primogenito del Salvatore meglio di chiunque altro.
Questo gli fece un sorrisetto, e quando gli si affiancò,gli diede lo stesso lieve colpo sulla spalla. “Potty ha un soprannome per tutti.” Spiegò di buon grado. “Specie quando cominci a piacergli. Forse tra un paio d’anni si ricorderà anche come ti chiami. Non è adorabile?”
Quando penso a James Potter, adorabile è l’ultima parola che mi viene in mente.
“Quindi è un buon segno?” Chiese invece.
“Cavolo, sì!” Malfoy agganciò il collare del cane al guinzaglio e lo Disilluse con un gesto della bacchetta. 
Era ironico, considerò seguendo il biondo mentre questo incespicava fuori dall’ufficio come trascinato da una forza invisibile che in realtà aveva quattro zampe ed era canina; era entrato nel radar di James Potter proprio quando tentava di uscire da quello di sua sorella.
 
****
 
Chelsea Embankment, Old Church Street.
Casa di Michel Zabini, Mattina.
 
Loki Nott trovava che la stanza degli ospiti di Michel fosse la cosa più simile alla definizione di casa che avesse.
Non che indugiasse spesso in pensieri del genere appena sveglio, specie se in piacevole compagnia, tuttavia l’emotività era una faccenda che doveva mettere in conto ogni tanto.
Cogito ergo sum.
Districandosi dalle braccia morbide della ragazza che gli dormiva affianco si alzò in piedi e dopo una doccia scelse con cura i vestiti: l’amico diventava infatti di cattivo umore se solo osava essere meno che distinto in sua presenza. Non possedendo al momento fissa dimora - la villa in Spagna era stata sequestrata dalle autorità locali per un increscioso incidente che coinvolgeva una partita di Radici di Belladonna cilene  – doveva tenerselo buono  onde evitare di finire in mezzo ad una strada.
O da Sy.
Credo che Lord Malfoy non abbia mai preso bene l’innocente corte fatta a sua moglie…
Si sistemò i suoi gemelli migliori al polso mentre percorreva il lungo e bianchissimo corridoio che portava da camera sua fino alla cucina, un tripudio di acciaio, marmo e non-colore.
Sembra il catalogo di un architetto.
La mancanza di personalità dell’arredamento era il modo in cui Michel scoraggiava tutti dal considerare la sua magione un posto accogliente.
Basta vedere camera sua per capire che non ci vuole nessuno in pianta stabile.
Lui però non era il mondo intero. 
“Buongiorno!” Si annunciò al ragazzo che gli dava le spalle, assorto nella lettura di qualcosa che non riusciva a vedere. “Dormito il sonno dei giusti?”
Michel sobbalzò, chiudendo con un tonfo secco ciò che stava leggendo. “Ah, sei qui.” Esordì in un tono che nascondeva evidente allarme. “Non ti ho sentito rientrare ieri sera.”
“Perché mi sono Materializzato in camera da letto. Sai, non avendo le chiavi di casa…”
“ … dato che questa non è casa tua…” Gli fece eco con una smorfia appoggiandosi sull’isola di marmo bianco che fungeva da tavolo della colazione. “Bella camicia.” Osservò ironico.

“Grazie.” Lisciò il tessuto con una mano. “È una delle tue.”
Michel roteò gli occhi al cielo, Appellando dal frigo il necessario per la colazione, ovvero una serie di piatti già cucinati dalle mani talentuose – anche a far altro - di una Babbana che veniva settimanalmente ad occuparsi della casa.
Qui un Elfo sarebbe incongruo. Oltre al fatto che non ci metterebbe piede.
“Devi farti la barba comunque.” Osservò facendogli cenno di servirsi. “O hai bisogno che lo faccia io per te?”
“Mi raso, l’effetto di lieve incuria è voluto. Dà quell’idea di dissolutezza elegante che piace, mio caro.” Si versò una tazza di caffè bollente e lo sorseggiò grato: Michel non sapeva cucinare, ma il suo caffè era sempre eccellente. “Cosa stavi guardando prima che arrivassi?”
Perché sì, mi sono accorto che stai nascondendo qualcosa dietro la schiena.
“La Gazzetta.” Dissimulò con perfetta noncuranza. “Hai saputo del disastro mediatico avvenuto all’Accademia di Duello?”
“Certo … a quanto pare dovremo evitare singolari tenzoni per un po’.” Scrollò le spalle. “Solo è strano…”
“Da quando è strano il panico da epidemia?”

“Non quello. Da quando il Profeta è rilegato in cuoio verniciato?” 
E prima che l’altro potesse far Evanescere l’oggetto della discussione lo Appellò con un colpo di bacchetta e se lo fece arrivare in mano.
Loki!
“Via, via … sai che i segreti sono la mia droga.” Lo tenne fuori dalla porta dell’altro con una certa difficoltà, dato che debitamente innervosito sapeva essere piuttosto pronto alla violenza. “Mi correggo, non un libro ma un album di foto!” Riconobbe sfogliando le prime pagine e frapponendo tra di loro il ripiano di cottura. “Nostalgia dei bei tempi andati?”

“Ti ricordo che sei un ospite, e che in qualsiasi momento posso sbatterti fuori e far mettere barriere in grado di polverizzarti il culo.”
“Diventare scurrile di prima mattina, Lord Zabini, mi delude.” Schioccò la lingua continuando a stuzzicarlo; quando l’amico d’infanzia la piantava con la manfrina dell’algido ministeriale mostrava una vitalità.

A volte penso che suo padre abbia fatto un lavoro eccellente nel renderlo simile a lui.
E non è un complimento.
Che se si doveva parlar di nostalgia, ricordava bene la persona che Michel era stato prima che Lord Zabini si interessasse della sua educazione, strappandolo dall’orbita dell’amata nonna. La persona che nonostante tutto era continuato ad essere durante la loro adolescenza.
Solo che adesso non c’è più Hogwarts a proteggerlo.  
Era come se una fiamma si stesse spegnendo negli occhi del suo amico d’infanzia, soppiantata da qualcosa che non parlava di maturità, ma di inaridimento.
Si scrollò dalle spalle quei pensieri fin troppo seri e gli servì un sorriso beato. “Su, non prendertela … Sto solo cercando di interessarmi alla vita privata del mio amato padrone di casa.”
“Chiama le cose col suo nome. Ti stai impicciando.”
“Ti confidi con il dolce Albus e non con me? L’altro ieri mi avete lasciato solo in quel caffè Babbano per spettegolare dei vostri piccoli segreti gay. Mi ritengo offeso.”

“Non sei credibile.”
“Dici? Perché oggi potrei aver voglia di pranzare con Scorpius e dirgli che ti sei commosso su un vecchio album di foto.” Ghignò. “Sai come diventa quando pensa che un amico sta passando un brutto periodo…”
Gli scoccò un’occhiata orripilata. “Non oseresti.”

“Potrebbe stabilirsi qui per prendersi cura di te.”
“Va bene!” Sbuffò crollando su uno degli sgabelli scomodissimi che fungevano da sedie. “Si tratta … beh.” Aggrottò le sopracciglia. “In realtà potresti tornarmi utile.”
“Sempre lieto di esser sfruttato. Al giusto prezzo, si capisce. Dicevamo di quella tua decappottabile…”
“Piuttosto mi prendo a balia Scorpius.”
Loki ridacchiò, battendo sul taschino della vestaglia dell’altro, percependo a tatto il porta-sigarette e sfilandoglielo. “Scherzavo. In realtà mi accontento di poco.”

“Si tratta di trovare una persona.” Disse infine, e da come nicchiava l’argomento si prometteva interessante.
Ed io adoro le cose interessanti.
Si accese la sigaretta, spedendo il fumo a volteggiare trai faretti bianchi che illuminavano l’ambiente con l’eleganza di un tavolo da obitorio. “E questa persona appartiene al nostro polveroso passato?”
Michel si risedette, togliendosi ed infilandosi distratto l’anello col blasone di famiglia. Era un vezzo nervoso che aveva quando veniva roso dall’indecisione. “Non al tuo, al mio…” Sospirò vinto. “La persona che cerco ha qualcosa che mi appartiene. La rivoglio indietro.”
Loki studiò l’espressione dell’altro: non si diventava il mago d’affari che era senza saper leggere nel comportamento altrui. Non era un Legimante, né gli interessava diventarlo, ma dalla postura rigida mal dissimulata, Michel gli stava mentendo.

Decise di stare al gioco. “Perché lo cerchi in un album di fotografie e non in strada allora?”
“Dovevo essere sicuro fosse lui. L’ho incontrato di recente dopo … anni. Solo non ho idea di come rintracciarlo a meno che non ci sbatta di nuovo contro.” Fece una smorfia pescando una fragola dal proprio piatto e mordendola pensieroso. Gli lanciò un’altra occhiata. “O meglio, potrei, solo … non appartengo a quel mondo.”

“Fammi indovinare, io invece sì.” Si puntellò sul ripiano con le mani, inarcando le sopracciglia e godendosi il delizioso disagio che si dipinse sul volto del dirimpettaio.
Che razza di persona sta cercando?
“Lo, mi serve un favore.” Ammise riluttante massaggiandosi il retro del collo come se il solo pensiero gli provocasse dolore. “Ma devi promettermi di non farne parola con nessuno, perché la situazione è … imbarazzante.”
Oh, bene. Benissimo.

Cercò di non gongolare, perché tornare a Londra non per svago, ma per evitare la galera era noioso come contemplare lo scorrere del Tamigi e Merlino solo sapeva se aveva bisogno di distrazioni. “Non preoccuparti.” Lo rassicurò. “C’è una categoria di persone per cui sono una tomba e quelli sono i miei amici.”
Un lieve sorriso gli increspò le labbra. “Lo so, mio buon Nott.” Si riscosse, schiarendosi la voce perché era pur sempre Michel Zabini, e Morgana stessa non sarebbe riuscita a fargli mostrare un’emozione che non fosse calcolata al millimetro. “La persona che voglio trovare è un Magonò.”
“Oh.” Non mascherò il suo stupore; mettere nella stessa frase, nonché nello stesso ambiente un senza-magia e quel bastione Purosangue che era il suo migliore amico suonava … strano. “E cos’ha che ti appartiene, di grazia?”

“Niente che ti interessi.” Fu svelto a rispondere. “Tu fai affari con loro, vero?”
“Capita.” Convenne dando gli ultimi tiri alla sigaretta e facendola Evanescere con uno schiocco di dita. “Se posso però preferisco evitare. Non sei mai dalla parte giusta dell’accordo con gente come quella.”
“Me ne sono accorto.” Si tolse l’anello e lo posò sul tavolo, contemplandolo assorto per qualche attimo prima di parlare. “Dove … dove passano la giornata di solito?”

“Un po’ ovunque.” Si strinse nelle spalle. “Dipende. Per esempio il Black Goose a Notturn Alley è un buon punto di partenza. È un po’ il loro pub di elezione. C’è un tipo che conosco …”
“No, niente tipi.” Lo fermò, un fascio di nervi: era raro vederlo così, e Loki per un momento si chiese se non fosse il caso di smettere di dissuaderlo.

Mike che cerca un Magonò… Sembra una barzelletta. O un disastro.
Voleva divertirsi alle spalle dell’altro, ma non a spese della sua incolumità. “Mike…”
“Lascia perdere.” Fece un cenno evasivo. “Non vale la pena discuterne.”
“Allora perché hai tirato fuori l’argomento?” Poteva esser serio se necessario, e il suo istinto gli diceva che era il caso di esserlo. “Se hai bisogno di trovare questo tizio posso aiutarti.”
“No.” Si alzò e spedì il piatto dentro il lavello. “Comunque adesso non ho tempo, devo essere al Ministero tra venti minuti, sono in ritardo.”
Non gli diede tempo di ribattere perché se la diede elegantemente a gambe. Loki sospirò, dirigendosi verso il lato della casa che l’altro gli aveva concesso, dritto tra le braccia delle sua conquista che, a giudicare dai rumori che provenivano dalla stanza, doveva essersi appena alzata.

Lasciare perdere? Come no.
Ti ho appena dato un posto in cui cercare.
 
 
****


Galles, Denbighshire. Mattina.
 
La capanna di Moscardo era nient’altro che assi solide e un tetto di paglia; nulla di eccezionale, ma più resistente di quanto non avesse immaginato quando vi aveva varcato la soglia la notte prima. Il Mannaro si sedette sul ciglio del letto, massaggiandosi il ginocchio con una smorfia. “Ogni volta che deve piovere vedo l’intero firmamento.” Spiegò ironico alla sua occhiata.
“Di cos’aveva bisogno di parlarmi?” Decise di andare dritto al punto. Aveva aspettato fin troppo per avere le sue risposte-
Anche la pazienza ha un limite. Già superato.
Moscardo lanciò un’occhiata a Flynn, che si era appoggiata alla parete osservando distratta nessun punto in particolare. “Ho conosciuto tuo padre, Signor Lupin.”
“Quando ha vissuto qui, immagino.”
“Quando era un agente mandato da Albus Silente, sì.” Alla sua espressione sorpresa, sorrise divertito. “Noi Mannari potremo esser tagliati fuori dal mondo, ma non siamo degli sprovveduti. Molti di noi avevano capito sin da subito che non si era unito al branco per spirito di aggregazione. Un Trasformato adulto che arriva nel branco? Succede raramente. Di solito i Trasformati arrivano da cuccioli, portati da chi li ha morsi.”
Fenrir Greyback, mangiamorte e Mannaro. Ha morso mio padre e ucciso il nonno di Scorpius…
Serrò le labbra, ma non commentò. “Eppure ha vissuto per mesi con voi … Greyback non se n’è mai reso conto?”
“Se l’ha fatto, probabilmente era convinto di riuscire a portarlo dalla sua parte, alla fine.” Osservò Moscardo stringendosi nelle spalle. “Oltretutto, Lunastorta poteva giustificare quel genere di pensieri … Era diventato uno di noi. Non mi arrischio a dire che Greyback si fidasse di lui, ma certo credeva di averlo convinto che questa era la sua vera e sola famiglia.”
“In ogni caso, nessuno dei due alla fine ha vinto …” Ribatté perché sentiva che doveva farlo. Greyback e famiglia era un concetto osceno, se associato al genitore. “Mio padre non è riuscito a portar via Mannari dalla sfera di influenza di Greyback, e Greyback non l’ha avuto.” Scosse la testa. “Non mi fraintenda, ma queste cose già le so.”

“Non credo proprio.” Lo redarguì l’altro con un certo fastidio. “Cosa sai del periodo che ha trascorso qui?”
Ted scoccò un’occhiata a Flynn e fu sorpreso di vederle distogliere lo sguardo a disagio. “Cosa c’è da sapere? È venuto qui per … ma non ne abbiamo già parlato?”  

“Lo fai sembra semplice, come fai sembrar noi dei sempliciotti.” Sbottò l’altro. “Pensi che basti essere un Licantropo per essere accolto a braccia aperte?” Lo incalzò con una certa durezza che lo confuse.
“Non intendevo…”
“Moscardo.” Si inserì Flynn. “Ted non conosce il branco come lo conosciamo noi, dagli tregua.”
Il Mannaro sbuffò, scuotendo la testa ma tornando a più miti consigli da come alzò le mani in segno di resa. “Non mi aspetto che lo faccia, ma neppure che ci veda come un circolo di Scacchi Magici a libera entrata!” Fissò le iridi dorate nelle sue, con serietà. “Il branco è tutto. È la tua famiglia, è la tua casa … È l’unico posto in cui puoi essere al sicuro. Un estraneo può essere più pericoloso di un’epidemia. Lunastorta quando è stato qui non si è finto uno di noi. Era uno di noi.”
Ted non sapeva cosa pensare, ma sentiva che il magone che gli chiudeva lo stomaco non era un buon segno; era vero, sapeva poco o niente del periodo in cui suo padre aveva vissuto lì. Sua nonna non gliene aveva mai parlato e anche Harry non aveva potuto essergli molto d’aiuto data la segretezza della missione.

“Non intendevo offenderla, mi creda …” Tentò di rabbonirlo. “Solo che non capisco cosa c’entri mio padre con il motivo per cui sono venuto qui.”
Il Mannaro schioccò la lingua, alzandosi in piedi e misurando il pavimento in un paio di passi. “Sei venuto qui per sapere chi era il Mannaro morto nella tua foresta, no?”
Non è proprio la mia foresta…
Ma non era il caso di impuntarsi sui dettagli. “Sì, beh…”
“Perché?”
La domanda lo spiazzò, anche se in fondo non avrebbe dovuto.

Me la sono fatta da solo non so quante volte…
“Perché mi sento responsabile. Avevo il compito di aiutarlo, ed ho fallito.” Si passò una mano trai capelli, sentendosi stanco di colpo; tutto quel parlare non stava portando da nessuna parte, se non ad una strana inquietudine che sentiva scorrere sottopelle. Avrebbe voluto avere la capacità Potter di tagliar corto.
Mai avuta.
“E poi, non riesco a togliermi dalla testa che abbia voluto dirmi qualcosa prima di morire. Credevo fosse il suo nome, Ben…”
Ben?” Da come il Mannaro si irrigidì capì che quelle tre lettere avevano fatto scattare più di un allarme.
“… Non è il suo nome?” Tentò.
“Lunastorta è nato e cresciuto nel branco, ragazzo. Non ha mai avuto un nome da umano.” Borbottò sfuggendo il suo sguardo come aveva fatto e stava facendo Flynn.

Che sta succedendo? Cosa mi stanno nascondendo?
“Chi era Lunastorta?” La domanda gli salì alle labbra prima che potesse mediarla. Ma doveva farlo, poi? Era quello che aveva sempre voluto sapere.  
Moscardo e Flynn si scambiarono un’occhiata e di colpo fu come se qualcuno gli avesse piazzato un pugno secco nello stomaco. Secondo James le realizzazioni peggiori arrivavano così.
Tutto questo parlare di papà … del fatto che fosse parte del branco, che i nomi di battesimo sono importanti…
Oh, no.
No.

Come aveva fatto a non arrivarci prima?
“Moscardo, la prego.” Mormorò al Mannaro, tentando disperatamente di non farsi sopraffare dalla nausea. “Mio padre e il Mannaro della foresta … Che rapporto avevano? Ho bisogno … me lo dica e basta.”
Moscardo si scambiò l’ennesima occhiata con Flynn. “Mi dispiace, ragazzo. Pensavo che lo sapessi.”

Era tutto quello che aveva bisogno di sentire. Il Mannaro della foresta non era solo un uomo che gli era morto tra le braccia senza che avesse potuto fare niente.
Era mio fratello.
Avevo un fratello.
L’istinto di correre via da quella capanna, le cui pareti minacciavano di soffocarlo, era forte, ma chiuse gli occhi e si prese un momento per tornare in sé; c’era un ultimo punto che doveva chiarire e gli premeva più di sapere perché suo padre si fosse portato un segreto simile nella tomba.
Ben.” Doveva avere un’espressione spaventosa a giudicare dalla faccia preoccupata degli altri due. “Chi è?”  
Moscardo scosse la testa. “Tuo fratello ha abbandonato il branco anni fa … Era tornato, ma non per rimanere. Vulneraria non gliel’ha permesso.”
Era davvero così difficile dirgli tutto in una volta sola?
Avrà paura che tu perda la testa. A giudicare da come ti guarda, sembra proprio temerlo.

Fratello … avevo un fratello.
“Cos’aveva fatto per essere bandito?” Incalzò.
Il Mannaro sembrava in difficoltà, diviso dalla lealtà verso il branco e la consapevolezza di dovergli delle spiegazioni.  Non gli importava: gli si avvicinò e ignorò il guizzo di allarme ferino che gli vide nello sguardo, come il richiamo inutile di Flynn. “Chi è Ben?”
“Suo figlio.” Buttò fuori rassegnato. “È questo il motivo per cui Vulneraria non lo voleva. È venuto qui con un bambino.”

“Oddio…” Mormorò Flynn. “Perché diavolo non me l’hai detto? Dovrebbe essere nei registri!”
“È stato una sorpresa anche per noi!” Replicò il Mannaro sulla difensiva. “È arrivato qui con un cucciolo, dicendo che era suo e pretendendo che ce ne prendessimo cura … ma aveva la magia, gliel’abbiamo sentita addosso!” Fece una smorfia. “Non poteva rimanere.” 

“Vuoi dire che il bambino non è un Mannaro?”
“È un mezzo lupo. Come voi.”
“Dannazione Moscardo!” 

Ted stava ascoltando a malapena l’alterco tra gli altri due. Era come se qualcuno gli stesse insistentemente prendendo a calci il cervello.
Torna in te. Si sta parlando di un bambino. Ragiona.
“So dov’è.” Si sentì dire come se fosse stato qualcun altro a pronunciare quelle parole. “So cosa stava cercando di dirmi prima di morire … Il bambino è ancora nella Foresta Proibita.”
 
****
 
Londra, East End.


“L’indirizzo è questo.”
James lanciò un’occhiata distratta al pezzo di carta tra le mani di Scorpius, recitante la pubblicità che aveva attirato Price in quella che, a conti fatti, si era rivelata una trappola a scoppio ritardato.

Si trovavano nell’East End, in una zona industriale piena di magazzini dismessi e occupati abusivamente oppure talmente cadenti da aver attorno un cordone di avvisi di pericolo e transenne.
Quest’ultimo era il loro caso; la loro meta finale era nient’altro che un enorme agglomerato di lamiere e cemento che sembrava reggersi in piedi per puro miracolo. Agli occhi di un Babbano sembrava un semplice orrore architettonico, con scritte oscene e vetri rotti.
Agli occhi di un mago invece…
Con un cenno agli altri tirò fuori la bacchetta e salì le scale arrugginite che portavano all’ingresso di servizio. Bobby fu il primo ad arrivare alla porta e prese in mano il pesante catenaccio con cui era stata chiusa in più giri. “Sembra proprio roba Babbana, eh?”
Sembra. Sono stati lanciati un Repello Babbanum, un Salvo Hexia e Clausurum Totalum.” Esordì Prince, fino a quel momento in totale silenzio. “Più un incantesimo di Intracciabilità di classe uno.”
“Roba potente!” Ribatté Scorpius massaggiandosi la nuca con una smorfia dolorante. “E si sente, per Merlino.”
James finse di non notare la cosa, nonostante la compressione alle tempie e il senso di oppressione al petto parlassero chiaro. “Bobby, chiama gli Spezza Incantesimi. Voglio evitare che mi schizzi il cervello fuori dalle orecchie.”
“Non serve.” Replicò il tedesco, chiedendo con un chiaro movimento della mano di fargli spazio. “Posso pensarci io.”
“Sul serio?” Non poté frenare l’incredulità e a giudicare dall’occhiataccia che la nuova balia del pipistrello – ovvero Scorpius – gli lanciò doveva aver esagerato anche con il sarcasmo.

Oh, dai. Non posso proprio dir niente adesso!
Prince non si scompose. “Sul serio.” Rispose invece. “Sono stato addestrato anche come Spezza Incantesimi.”
“Certo che questi Americani ne sanno una più del diavolo…”
“Non è stata la SAGITTA ad addestrarmi.” 

James si morse la lingua per evitare una battuta che persino lui avrebbe considerato infelice.
Visto? Sono stato bravo stavolta!
Scorpius invece di lodarlo alzò gli occhi al cielo. “Le barriere sono tutte tue Sören!” Disse al tedesco dandogli una pacca sulla spalla.
“Vi fare anche le treccine nel tempo libero?” Non poté fare a meno di soffiare quando l’amico gli fu accanto. “Le barriere sono tutte tue…” Lo imitò sentendosi solo leggermente infantile. “La tua cotta è imbarazzante.”

“Lo so. È così rigoroso e tedesco, non posso resistergli.” Ghignò l’altro. “Ma non preoccuparti, Potty. Rimani tu il mio preferito.”
James si rifiutò di farsi lusingare dalla cosa e si concentrò invece sull’osservare l’operato di Prince: questo armeggiò con il bracciale che aveva al polso e poi se lo tolse, infilandolo nella tasca dello spolverino di pelle che gli aveva suggerito il suo nuovo soprannome.
Dai, è l’uomo pipistrello. Punto.
Poi l’altro mise la mano sulla porta e di colpo la magia attorno a loro fu scossa come da una potente ondata di vento. Dalla strada nessuno si accorse di niente, ma James sentì l’intero corpo vibrare come una corda.
Woah!
Il rumore di uno strappo violento qualche momento dopo sottolineò come le barriere erano appena state tranciate di netto e senza troppe cerimonie.
“Per tutte le sottane di Salazar!” Esclamò Scorpius. “Come diavolo hai fatto?”
Prince non tentò neanche di nascondere il compiacimento da come sorrise. Era piuttosto pallido e sudato, ma non sembrava scosso. Una vocetta interiore, che aveva il tono di voce petulante di Malfoy, gli suggerì di rivedere l’idea di trascinarlo su una pedana e sfidarlo a duello non appena si fosse presentata l’occasione.
Perché siamo proprio sicuri che saresti tu a fare il culo a lui e non viceversa?
“Anni di pratica.” Rispose intanto quello tagliando il catenaccio della porta con Recido. “Era uno dei miei compiti quando lavoravo per mio zio.”   
Bobby si voltò inarcando le sopracciglia. “È una fortuna che adesso lavori per noi, eh?”

“Come no.” Borbottò entrando dentro e accendendo un Lumos per rischiarare l’ingresso avvolto nella penombra.
L’ambiente, come c’era da aspettarsi, era enorme. Non si sentivano i rumori, e l’odore di pioggia, muffa e in generale abbandono era ovunque.
“Facciamo un po’ di luce.” Esordì e quattro Lumos Maxima andarono a galleggiare tra le architravi metalliche del tetto. Tra vecchi scaffali, bidoni e scatole da imballaggio non sembrava esserci nulla, tuttavia, quando gli occhi si furono abituati, James scorse sul pavimento tracce di suole da scarpe. “Qualcuno è stato qui di recente.” Si chinò per osservarle. “Le tracce non sono state coperte dalla polvere.”
“Questo posto puzza.” Borbottò Scorpius. “E sembra voler crollare da un momento all’altro. Come  ha fatto Price a considerare attendibile l’intera faccenda?”
“A giudicare dalla quantità di magia che è percepibile tutt’ora, questo posto è stato Illuso.” Replicò Prince passando le dita sulle colonne di cemento mangiate dall’umidità. “Forse quello che ha visto Price non è quello che stiamo vedendo noi.”
Bobby si guardò attorno circospetto. “Quindi è stato incantato. Come un ufficio … un laboratorio, cosa?”  
“Forse entrambi.” Ipotizzò James. “Qualunque cosa sia stato comunque ora non lo è più. È chiaro che chiunque lo abbia usato se n’è andato da un bel pezzo.” Fece una smorfia. “Questo posto è stato ripulito da tutto ciò che era magico, barriere a parte.”
“Potrebbero esserci degli indizi invece.” Obbiettò Prince, con la faccia di chi l’aveva presa sul personale.
“Non sto dicendo di non controllare.” Replicò esasperato. “Solo che…”
“Gente, qua!” Scorpius li interruppe, indicando di fronte a sé. “C’è un’altra porta!”
Non mi piacciono le porte.

Indipendentemente dalla sua antipatia, la porta c’era e faceva chiaramente accedere ad un altro ambiente, l’ufficio del proprietario a giudicare da quel che diceva la targa a fianco. Stavolta bastò un Alohomora per farla aprire.
Entrati dentro capirono subito che quello era l’ambiente che era servito da base: non vi era una sola cianfrusaglia, era pulito dalle ragnatele e arieggiato, mentre un Incantesimo Climatico teneva bassa la temperatura e asciutta l’atmosfera.
“È qui che hanno fatto tutto.” Mormorò Bobby chinandosi sul pavimento e passandovi le dita. “Neanche una traccia di polvere … e ci sono dei segni. Qualcosa è stato posato qui, pesante e metallico.”
“Attrezzature?” Congetturò guardandosi attorno. “Non sentite …” Allargò le narici. “ … non sentite un odore familiare?”
“Sicuro.” Sbuffò Scorpius con un sorrisetto. “Questo è l’odore che c’è al San Mungo. Erbe mediche e disinfettante. Scommetto dieci Galeoni che è qui che hanno sperimentato la super-cura su Price e Howe!”

James annuì, facendo cenno a Bobby che, recettivo come sempre, prese lo Specchio Comunicante dalla tasca. “Chiama i Tracciatori … Devono setacciare questo posto e inscatolare tutto l’inscatolabile. Dobbiamo sapere chi e cosa conteneva. Per quanto ne sappiamo potrebbero anche averci distillato un decotto per la tosse. Dobbiamo essere sicuri che sia la pista giusta.”
Con la coda dell’occhio notò che il tedesco non si era mosso dopo i primi cinque passi che aveva fatto: stava invece fissando qualcosa ai suoi piedi rigido come una statua.
“Ohi.” Lo apostrofò e questo sobbalzò come se gli avesse lanciato un incantesimo Elettro. “Che c’è?”
Gli lanciò un’occhiata indecifrabile, pallido come un cadavere. “Johannes è stato qui.”
“John Doe?” Aggrottò le sopracciglia. “Come lo sai?”
Per tutta risposta si spostò per mostrargli la porzione di pavimento che aveva osservato fino a quel momento; c’erano dei mozziconi di sigarette schiacciati dalla suola di una scarpa. “Sono quelle che fumava abitualmente.” Deglutì e poi il viso prese di colpo una sfumatura decisamente sudaticcia e malsana. “Scusate…” Mormorò con un filo di voce prima di girare le spalle e andarsene a grandi passi.
“Crucco, ehi!” Lo richiamò solo per farsi ignorare. “Torna qui dannazione!”
“James.” Malfoy gli fu subito accanto, e il fatto che avesse usato il suo nome di battesimo doveva essere indicativo. Forse. “Meglio di no.”
“Meglio di no cosa?” Sbuffò. “Non può andarsene in giro come gli pare, è…”
L’altro lo guardò come se fosse idiota. “Stava praticamente avendo un attacco di panico, dagli tregua.”

Okay, sono un idiota.  
“John Doe è stato il suo partner per anni … Lavorare dall’altra parte dev’essere, non so, strano?” Considerò Bobby riponendo lo Specchio dopo aver chiuso la comunicazione con la Divisione Tracciatori. “Sapete che tipo di rapporto avevano?”
“Del genere sono la tua cattiva influenza.” Rispose Scorpius con un sospiro. “Credo che John Doe fosse il modo in cui suo zio lo controllava a distanza … Mi ha anche detto che molto di quello che sa gliel’ha insegnato lui. Sapete, duelli, incantesimi … roba così. Una specie di mentore del crimine.”
“Brutta storia.” Convenne Bobby. “Ritrovarselo tra capo e collo, dico … Anch’io andrei fuori di testa.”

A quel punto la sua stupida lingua si mosse da sola. “Qualcuno dovrebbe andare a controllare che non si sia impiccato o roba del genere allora.” Fece del suo meglio per suonare noncurante, ma dal sorrisetto che gli venne servito dagli altri due doveva aver fallito miseramente. Ci rinunciò. “Muovi le chiappe Malfuretto e va a recuperarlo.”
 
L’acqua gelida che si spruzzò in faccia con la bacchetta servì poco e niente, ma perlomeno gli rinfrescò il viso, dato che lo sentiva bollire come se l’avesse tenuto troppo vicino ad una fiamma.
“Ehi.”
Malfoy sembrava avere l’innata capacità di arrivare proprio quando aveva uno dei suoi momenti bui. Non che fosse colpa sua, era solo preoccupato, se ne rendeva conto, tuttavia…

“Sören … ehi amico, stai bene?”
Lasciami in pace. Lasciatemi tutti in pace.
Johannes era a Londra. Certo, lo sapeva, aveva visto l’identikit, ma una cosa era vedere un ritratto, una cosa era realizzarne la presenza fisica, tangibile. Per questo non era potuto rimanere in quella stanza e il panico che lo aveva assalito faticava ancora a dissolversi.
Inspirò, appoggiando la fronte alla ringhiera di metallo dell’uscita di servizio. “Sto bene.” Masticò. “Torna dentro, non è niente.”
“Senti, se vuoi parlarne… Ti farebbe bene.”
Non voglio parlarne.” Avrebbe voluto colpirlo, allontanarlo.

Quello che ha fatto Johannes là dentro … qualunque cosa sia, l’ho fatta anch’io. Cinque anni fa quelle impronte, quei mozziconi di sigaretta sarebbero state le mie.
Avreste indagato su di me.
Gli sembrava quasi di udire la risata di Johannes soffiargli sulla pelle.
Con che diritto mi dai la caccia, principino?
Non poteva vedere Malfoy dalla sua posizione, ma lo sentì sospirare. “Vuoi rientrare?”
“Potete fare a meno di me?” L’idea di metter di nuovo piede in quel posto chiuso da lamiere, buio come Nurmengard gli dava la nausea.
“Penso di sì … Devono arrivare i Tracciatori, ma non è che serviamo al completo.” Fece una pausa. “Vuoi che ti accompagniamo alla locanda?”
“Non ho bisogno della vostra pietà!” Non riuscì a trattenersi.
Si scontrò così con l’espressione dapprima sorpresa, poi leggermente seccata dell’Auror. “Nessuno ha pietà di te.” Obbiettò pacato. “Sono stati giorni duri per te … e siamo preoccupato. È quello che fanno i compagni di squadra.” Sospirò. “Quelli veri.”

Non capiva e neppure ne aveva voglia. Certo, Scorpius aveva ragione, avrebbe dovuto parlarne; era quello che la sua Psicomaga gli aveva sempre consigliato di fare quando i pensieri diventavano troppi e rischiavano di farlo esplodere.
Ma quando ne avrò parlato? Non cambierà niente. Johannes continuerà ad essere qui, come i suoi mozziconi, come i miei incubi…
Mi spiace Lily, non sono coraggioso. Sono un codardo. Lo sono sempre stato.
 “Se non avete bisogno di me…” Si staccò dalla ringhiera e si passò una mano trai capelli. “Vado a pranzo.” Non diede tempo all’altro di ribattere. Si Smaterializzò.
 
 
****
 
Diagon Alley, Tavola Calda Fortebraccio.
Ora di pranzo.
 
“Avevo in mente tutt’altro quando ho detto che volevo trascorrere il mio giorno libero all’aperto.”
Siamo all’aperto.”
Albus avrebbe alzato le mani al cielo, chiedendo l’intercessione di Morgana stessa se non fosse stato in un caffè affollato, data l’ora e il sole cocente che spingeva chiunque in strada a godersi l’estate al suo pieno.

Chiunque tranne me.
“Intendevo una gita fuori Londra, non trafugare rapporti medici per sottoporli all’attenzione del mio ragazzo!”
Tom gli servì un sorrisetto irritante, alzando gli occhi da quel che stava leggendo. “Come ho detto, siamo all’aperto, stiamo per pranzare fuori e indossi una di quelle tue orribili canottiere da tempo libero che, per inciso, mi fanno sanguinare gli occhi.” Alzò un sopracciglio. “Mi pare un compromesso tutto a tuo favore.”
“Solo perché a te non piacciono le cose colorate, Beccamorto, non significa che sia brutta!” Puntualizzò per il puro gusto di protestare, allungando le braccia sul tavolino e seppellendoci il viso. “Ho già detto che ti odio?”

“Cinque volte.” Tom girò la pagina. “Come si legge questo valore?” Gli chiese girando la cartellina.
Al suo malgrado alzò la testa e mise a fuoco la serie di dati numerici espressi in alfabeto runico, usato in ambito medico per risparmiare inchiostro e tempo.

Sì, Rune Antiche serve a qualcosa.
“Significa che tuo cugino ha una capacità magica superiore a quella del mago della strada del … doppio, circa.” Si pettinò i capelli e dall’aria esilarata dell’altro probabilmente senza successo. “Meglio che non si sia ammalato.”
“Ma non sapete perché non è successo.”  
“No, e finché il suo Ministero non ci dà il nulla osta non possiamo fargli altri esami, a parte quelli del sangue che vedi qui.” Picchiettò sulla pergamena. “Ci pensi? Non dispone del suo corpo! È assurdo!”
“In teoria ha una condanna vita natural durante sulla testa…”
“Okay, ma a te non darebbe fastidio sapere che non appartieni a te stesso?”

“Se capitasse a me non lo chiamerei fastidio.” Tom gli lanciò un’occhiata che riassumeva bene cosa avrebbe fatto lui, se si fosse trovato al posto di Sören.
Trema, Mondo Magico.
Si appoggiò poi allo schienale della sedia per guardare assorto il via vai di maghi e streghe sulla via. “È il braccio.” Affermò senza mezzi termini. “È il nucleo di bacchetta che ha nel braccio ad averlo protetto.”
“Sì, ci avevamo pensato. Solo bisogna capire come. Idee?” Domandò e fu sollevato dal vederlo scuotere la testa.

Per fortuna. Se risolve un altro pezzo del puzzle poi chi lo regge…
Si riprese subito, comunque. “Ma lo saprò. Del resto, cosa ne sapete voi Guaritori di bacchette?” Interloquì con l’aria di un gatto a cui era stato presentata una fetta di lardo succulenta. “Potrebbe servirvi una consulenza esterna.”
“Che dovrà prima essere approvata dall’Ufficio Auror. Scommetto che papà non vede l’ora di vederti saltare dentro la fossa dei leoni. Ne sarà estasiato.”
“Non stavo parlando di me, ma di Stevens. Non sono così auto-referenziale.”
Al sorrise, sporgendosi per avvicinare il volto a quello dell’altro. “No?” Mormorò spostando la mano sotto il tavolo ad accarezzargli la gamba. L’altro inspirò, tendendosi istintivamente nella sua direzione. “Siamo sicuri che non useresti Rupert come ponte?”

“Come ho detto, non stiamo parlando di me … io sono solo un Apprendista.” Coprì la mano con la sua e si chinò per sfiorargli l’orecchio con le labbra. “Mi rimetto alle decisioni del mio mentore con umiltà. Come del resto hai fatto tu con Smethwyck, non è vero?”
Al era certo che la cameriera, venuta a ritirare il suo bicchiere, stesse cercando disperatamente di non guardare nella loro direzione. Preso dalla pietà cercò di raddrizzarsi, ma Tom gli strinse il polso e lo costrinse a rimanere in quella posizione, coinvolgendolo in un bacio che era una palese punizione per averlo stuzzicato.
Ah sì?
Gli tirò un pizzicotto violento nell’interno coscia e mentre l’altro si piegava discretamente in due, sorrise alla povera ragazza. “Me ne puoi portare un’altra?” Indicò il bicchiere. “E controllare i nostri ordini? Sono un po’ in ritardo…”
“Hai la vescica di un cammello.” Mormorò Tom con un lamento soffocato, dardeggiando la cameriera e facendola scappare a gambe levate.

“Fa caldo, devo integrare liquidi.” Stornò con una scrollata di spalle. “Comunque l’idea del consulto è buona … La accennerò ai miei capi.” Si stiracchiò, esponendo le spalle nude al sole. “Così almeno la pianterò di rischiare d’essere radiato dall’albo dei Guaritori ancor prima di entrarci.”
“Sì, sembri atterrito dalla prospettiva.”
“Sono spaventato dalla prospettiva che un’epidemia si diffonda nell’intero Mondo Magico su larga scala.” Gli fece eco occhieggiando la Gazzetta del profeta che una loro vicina di tavolo stava leggendo; in prima pagina, a caratteri cubitali, c’era una foto di suo padre fatta alla conferenza stampa. La notizia era stata trattata con prudenza, e si era quindi evitato fughe di informazione al sapor d’Apocalisse, tuttavia l’allerta era stata settata e se ci fossero stati altri casi, sarebbe stata solo questione di tempo prima che il panico dilagasse.

“C’è rischio di contagio solo tramite scontro diretto.” Gli fece notare. “Non sarebbe classificabile come epidemia.”
Al si mordicchiò le labbra. “Hanno detto scontro diretto per non allertare i cittadini, ma quello che devi leggere tra le righe è scambio di magia.”

“Ovvero?”
“Non dev’esserci per forza un duello nel senso classico del termine … Se il veicolo di trasmissione è la magia, il contagio può avvenire, per dire, anche quando un MagiParrucchiere usa un Recido per tagliarti i capelli.”  
Tom sgranò gli occhi e rimase in silenzio per qualche secondo, assimilando l’informazione. “Dannazione.” Mormorò. “È un’epidemia.”
“Già.”

Non ebbero tempo di approfondire il discorso che qualcosa o qualcuno entrò nella visuale di Tom che si raddrizzò e perse espressione, come sempre faceva quando qualcuno che non sapeva come gestire entrava nel suo territorio.
Al voltandosi capì subito chi l’aveva scatenata: Sören si stava facendo largo trai tavolini, scortato dal Magonò che aveva alle sue dipendenze, tal Milo. Dovette percepire l’occhiata insistente del cugino, perché dopo una lieve esitazione si avvicinò, facendo un cenno di saluto.
“Buongiorno Al, Thomas.” Salutò mentre l’altro tedesco era impegnato ad accendersi quello che aveva tutta l’aria di essere uno spinello.
… Okay. Sì, dall’odore lo è.
“Oh, ehi Sören!” Lo salutò con un sorriso, tirando un calcio al compagno perché desse un qualsivoglia segno di vita. “Come va?”  
“Bene.” Rispose con l’aria di non aver capito la domanda prima di voltarsi verso il Magonò. “Ricordate Milo?”
“No.” Replicò Tom in piena sgradevolezza, prima di accorgersi della sua occhiata e schiarirsi la voce. “Ma so chi è.”
“Ed è difficile non sapere chi siete voi!” Gli fece eco il biondo in un inglese fluido che non ricordava avesse avuto al castello dei Von Hohenheim. “Il cugino prodigo e …” Gli rivolse un’occhiata di apprezzamento che lo lusingò e mise in imbarazzo al tempo stesso. “… il ragazzino che mi ha quasi fatto bruciare vivo cinque anni fa. Bella canottiera a proposito. La vendono anche per adulti?”

Pure lui!
“Milo.” Lo redarguì Sören senza troppa convinzione. Era pallido alla luce diretta del sole, e faceva saettare lo sguardo da un lato all’altro del patio come se si aspettasse l’attacco di un Dissennatore da un momento all’altro. Inevitabilmente il suo istinto da Guaritore fece capolino. “Hai una brutta cera, stai…”
“Siete soli?” Lo interruppe brusco.

Scusa tanto se mi preoccupo! Merlino, se sei cugino di Tom…  
Decise che non aveva le forze né era dell’umore per mostrarsi offeso. “Sì, ci siamo presi un giorno libero e…” Si fermò quando vide che non sembrava neppure ascoltarlo. “Cerchi qualcuno?”
Perché da come ti stai guardando attorno, sembra tanto.
“No.” Fu veloce a rispondere. “Vi lascio al vostro pranzo. Buona giornata.”
“Beh, gli siamo proprio simpatici…” Considerò con una punta di dispiacere quando i due si furono allontanati; per quanto si fosse sentito a disagio, Sören era pur sempre cugino di Tom.

Vorrei che facessero amicizia. Invece si guardano come se nessuno dei due capisse la lingua in cui sta parlando l’altro.
È … triste.
“Ci ha a malapena notati.” Replicò Tom osservando il cugino prendere posto ad uno dei tavolini. Non sembrava turbato dalla freddezza dell’incontro ma, come al solito, era Tom: non bastava un’occhiata per decifrare quello che gli passava per la testa. 
“Sì, stava cercando qualcuno, ma…”
“Pensava fossimo in compagnia.” Ed era vero, realizzò Albus. Non cercava qualcuno in giro per il locale, lo cercava vicino a loro. “Di solito con chi pranzi durante la settimana?”

“Lily.” Realizzò. “Credeva che fosse con noi?” Fece una pausa. “E non vederla. Perché?”
“Non ne ho idea e non mi interessa.” Si scostò quando la cameriera arrivò con le ordinazioni, radunando i fascicoli e passandoglieli. “Ma se tua sorella scopre che il suo adorato Ren la sta evitando…”
Li fece scivolare nella borsa e sospirò. “Non è questione di sé, è una stramaledetta LeNa. È questione di quando.”
Tom ebbe l’accortezza di non commentare.  
 
“Potevamo unirci a loro.”
Milo lanciò l’idea aspettandosi una reazione che non arrivò; Sören infatti si limitò a scivolare sulla sedia e fissarsi le mani.

“Lo spilungone è tuo cugino, no?” Tentò ancora. Stavolta l’altro tese le labbra in una smorfia, ma non lasciò scappare una parola. “Non ti somiglia, è un figo da paura. Mi farei proprio una cosetta a tre con il suo ragazzo, quegli occhioni da Bambi mi arrapano un sacco … Peccato per il guardaroba, sembra abbia svaligiato l’armadio di una bambina di due anni.”
Sören continuò a fissarsi le mani con aria assente e no, per quanto apprezzasse la mancanza di reprimende o minacce, non era un buon segno.
Pure peggio del solito. Sembra di esser tornati ai primi tempi, quando cavargli una parola era grazia ricevuta.
Per questo quando se l’era visto arrivare alla locanda in quelle condizioni lo aveva subito trascinato fuori, sperando che il sole e la bella giornata potessero aiutare, ma così non era stato.
Quando arrivarono le loro ordinazioni fu quindi sorpreso di sentirlo parlare.
“Hai notizie su Johannes?”
“Dai miei contatti? No, ancora nulla …” Esitò: leggere tra le righe mentre si era fatti come cocuzze non era la cosa più semplice del mondo. “Vuoi che vada a sollecitare?”
“Sarebbe opportuno.” Allontanò il piatto. “Abbiamo prove certe che sia coinvolto nel caso. C’erano mozziconi delle sue sigarette sulla scena del crimine.”
Ah, ecco. Mistero risolto.

Senza offesa Camaleonte, ma ho passato quattro anni ad accudirlo per renderlo un essere umano funzionale. Me lo riduci così lasciando delle cicche?
Vaffanculo.
“Ci vado.” Convenne dando un grosso morso al suo panino. Cercò di essere positivo, perché uno dei due doveva non sembrare la rappresentazione vivente del Tristo Mietitore. “Ti sentirai meglio quando lo sbatterete al gabbio, vedrai.”
Sören finalmente lo guardò, ma a Milo parve di non avere più davanti quell’imbranato del suo datore di lavoro, ma qualcun altro, e quel qualcun altro lo stava fissando come se ogni emozione gli fosse stata lavata via dalla faccia. Dava i brividi.

“Ehm.” Pronunciò acutamente. “Sì?”
Sono troppo fatto per un remake dei dolori del giovane Werther!
“A quanto pare non sono in grado di vincere le mie paure.” Bevve un sorso della sua birra e fece un mezzo sorriso. Tremava negli angoli, e puzzava di crollo lontano un chilometro. “Non mi resta che eliminarle.”
Milo percepì tutto lo stordimento dato dalla droga evaporare, rimpiazzato da una lucidissima realizzazione.
Cazzo. Vuole ucciderlo.
 
****
 
Note:

Andrà tutto bene! Più o meno. Prima o poi. ;)

Ho notato un calo nelle recensioni, quindi spero davvero che questo capitolo sia migliore dei precedenti. Mi spiacerebbe dare capitoli loffi a gente che mi segue!
Qui la canzone che fa da apertura al capitolo. Era una vita che volevo utilizzarla.Qua invece quella che la chiude. Non mi ricordo chi me l’ha fatta conoscere, ma nel caso, grazie!
 
1. Clocaenog, Foresta: è una foresta di cento chilometri quadrati, soprattutto di conifere, piantata ai primi del novecento nel Galles. Qui per info (in inglese).
2. Scorpius usa un vecchio proverbio inglese ‘All work an no play makes Jack a dull boy’ che può essere tradotto sia come ‘noioso’ che ‘cattivo’. Da noi è famoso soprattutto per essere apparso in Shining di Kubrick. Qui per info.

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Capitolo 22
*** Capitolo XXI ***


Capitolo XXI




 
 
And that's how the story goes,
The story of the beast with those four dirty paws.
(Dirty Paws, Of Monster and Men)


Londra, Ufficio Auror.
Ora di Pranzo.
 
Scorpius si gettò sulla sedia della scrivania prima che James riuscisse anche solo a pensare di arrivarci; saltò il conseguente sgambetto che ne conseguì e atterrò con le braccia alzate. “Vittoria!” Proclamò, mentre sotto di lui la mole canina di Donnola – era un nome bellissimo – si accomodava con un guaito altrettanto trionfante.
“Quel cane è una tua estensione o cosa? Cazzo!” Grugnì James appoggiandosi al bordo della scrivania ingollando quello che restava del suo cartoccio di Fish&Chips.
“Se vuoi ti lascio sedere sulle mie ginocchia.” Offrì magnanimo rimediandosi un gestaccio ingrato.
Succhiò distratto dal grosso contenitore di plastica colorato che secerneva una deliziosa bibita zuccherosissima, colorata e Babbana. “Mi piace questa Cherry Cola.” Decretò.
“Non dovresti neanche berla Sy, contiene caffeina.” Lo redarguì blandamente Bobby. “Non finirla tutta.”
“Ma è buona!”
“Piantatela di cazzeggiare.” Sbuffò James che si stava leccando le dita in pieno godimento alimentare. “Tra poco arriverà mio zio.”
“Parli dell’Infero…” Mormorò ignorando l’occhiataccia che gli venne rifilata mentre il Sergente Weasley si avvicinava. “Buongiorno!” Esclamò sedendosi in modo tale che Donnola non potesse sbucar fuori e lasciare bava invisibile, ma umida, sui pantaloni dell’uomo. Lo strano balletto destò qualche sicuro sospetto da come venne guardato, ma cercò di far finta di niente con il suo sorriso migliore. “Giorno delizioso, nevvero Signore?”

“Hai di nuovo bevuto caffè Malfoy?” Lo salutò con una smorfia assolutamente inadeguata data la sua sentita manifestazione d’affetto. “Cosa vi ho detto sul dargli da bere caffè?”
James fu lesto ad afferrare il bicchiere e cestinarlo, ignorando le sue accorate proteste. “Non pensavamo fosse anche nelle bibite gassate!” Si giustificò pronto.
“Sono perfettamente in me, grazie.” Replicò un po’ irritato. “A tal punto che posso far completo rapporto sul sopralluogo di stamattina!”

Il suo futuro suocero inarcò le sopracciglia ma si astenne da ulteriori commenti. “Fa’ rapporto Malfoy.”
Prima o poi ce la farà a chiamarmi Scorpius?
Chissà se lo chiamassi papà …
Nah, non se lo merita. Io ho un solo papà. Il mio.

“Il sopralluogo ha confermato l’idea che ci eravamo fatti su come Howe e Price siano venuti in contatto.” Esordì tornando serio. “All’indirizzo sull’annuncio pubblicitario corrisponde un vecchio magazzino, e secondo le rilevazioni preliminari dei Tracciatori è stato usato come laboratorio. Analizzeranno la magia ancora presente nell’aria per scoprire gli incantesimi che sono stati usati, ma possiamo già dire con certezza che sono state usate alcune barriere di livello uno per sigillare il posto.”
“Livello uno?” L’uomo li fissò perplesso. “E chi le ha spezzate?”

… ehm, già. Per quanto siamo fighi non siamo così fighi da saper rompere barriere con un livello di sicurezza simile. Son le stesse che mettono alla Gringott.
“L’agente Prince.” Si inserì Bobby. “Ha detto di aver ricevuto un addestramento da Spezza incantesimi.”
Fortunatamente il sergente Weasley non chiese ulteriori spiegazioni, limitandosi ad un cenno di assenso. “Tracce della presenza di Howe o Price?”
“Stiamo aspettando i risultati delle analisi dei Tracciatori.” Si strinse nelle spalle. “Ci han già detto che ci vorrà probabilmente tutta la giornata.”
“Bene.” Si guardò attorno. “Ma Prince?”
Eh.

Scorpius si scambiò un’occhiata con gli altri: per quanto avesse cercato di alleggerire l’atmosfera dopo la scomparsa di quest’ultimo, la reazione che aveva avuto dentro il magazzino aveva fatto preoccupare tutti. Persino James se n’era rimasto pensieroso per un bel pezzo, prima di blaterare che stava morendo di fame e che era giunto il momento di riempirsi lo stomaco di junk food.  
“È andato a pranzo.” Vedendo che la perplessità nello sguardo del mago più anziano non accennava a sfumare, anzi, si faceva diffidente, si affrettò a spiegare. “È che …”
“ … non aveva voglia di mischiarsi a noi pezzenti.” Si intromise James. “Se n’è andato a mangiare con posate d’argento in qualche ristorante sciccoso o roba del genere.” Quando tentò di protestare lo seccò con un’occhiata singolarmente seria.

Ma pensa anche di aver ragione?
Rimase comunque in silenzio, dato che non gli andava di parlare degli e sugli assenti.
Ha già problemi per conto suo, senza che la gente che pianti casini in sua assenza.
Quando l’uomo se ne fu andato però si sentì in dovere di difenderlo. “Si può sapere che problema hai? Già sono ai ferri corti, non c’è bisogno…”
“… che sappia che Prince ha avuto un attacco di panico durante un’ispezione? Hai proprio ragione.” Lo interruppe di nuovo l’altro e di colpo Scorpius capì.

Ma dai.
“Lo hai…”
“Gli ho parato il culo, assurdo, ah?” Sbuffò incrociando le braccia al petto come se dovesse difendersi da un’accusa. “Riflettici, testa vuota, cosa credi che avrebbe fatto mio zio sapendo che il crucco ha dato di matto?”  

“Se ai piani alti lo ritenessero troppo coinvolto potrebbero togliergli il caso.” Gli diede manforte Bobby. “Anzi, a dirla tutta dovrebbero.”
“Non starete esagerando? Si tratta di John Doe, è ovvio che fosse scosso!”
James sospirò. “Il pipistrello, per quanto mi sembri ancora una bestemmia, è un agente. Deve essere capace di mettere da parte le sue emozioni. Quello o che si ricordi l’Occlumanzia, perché altrimenti lo rispediranno a casa con la prima Passaporta.” Contemplò con enorme interesse i lacci delle proprie scarpe. “E non ho proprio voglia di rifare tutto da capo con un altro americano.”

Scorpius si trovò a sorridere, dandogli un lieve colpo sulla spalla con la propria. “No, neanche io.”  
“Ci credo, tu sei innamorato di quello sfigato.”
“Sei tu il mio unico amore gaio Potty.”
“Fottiti.”

“Quotidianamente.”
“Sul serio però…” Li riportò all’ordine Bobby senza riuscire a nascondere una risata. “Pensate che dovremo andare a vedere come sta? Alloggia al Paiolo Magico, potremo andarci prima che finisca la pausa pranzo!”

James, finito evidentemente il suo momento di empatia, roteò gli occhi al cielo. “Sì, e magari fargli un brodino e dargli un bell’abbraccio. È un mago adulto, Bobby, non un moccioso di cinque anni.” Sbuffò esasperato di fronte alle loro espressioni poco convinte. “Comunque a quanto mi ha detto Lils ce l’ha già una babysitter, un tizio, Michael o un nome così.”
“Milo.” Lo corresse. “L’idea di Bobby però non è sbagliata … dovremo cercare di farlo uscire, di distrarlo un po’. Questa storia di John Doe l’ha davvero messo a terra.” All’espressione riottosa che ne conseguì decise di giocar d’astuzia: solo perché un Cappello aveva deciso che la sua qualità principale era la cavalleria non significava non ne avesse altre. “E poi … l’hai detto anche tu, ci conviene che rimanga. È molto più utile di un normale agente di collegamento.”
“Grazie tante, quelli sono utili come un Bolide sulle palle!”
“Appunto. Non è una zavorra, ma una carta vincente.”
“Sì, di un Mazzo Esplosivo.” Gli fece eco riluttante, ma sospirò. “Fate come volete, io non vado a coccolarlo. Ho i miei buoni motivi.”

“Il tuo malriposto istinto protettivo verso una sorella che non vuole esser protetta?” Ghignò schivando il pugno che rischiò di arrivargli troppo vicino al naso. Fu salvato dallo Specchio Comunicante che l’altro tolse dalla tasca.
“Non finisce qui, coglione di un Malfuretto.” Grugnì James da bravo maschio alfa prima di tornare a toni umani e rispondere. “Zio Nev?” Esordì perplesso. “Ehi, bello sentirti… Che succede?” Dall’espressione che fece non sembrò essere nulla di buono. Lanciò loro un’occhiata e poi si allontanò abbastanza da non farsi sentire.
Uh? E ora cosa?
Quando ritornò aveva il cipiglio delle grandi preoccupazioni che gli solcava la fronte. “Gente, mi sa che devo allungare la pausa pranzo. Copritemi con mio zio, okay?” Disse infilandosi il giubbotto e ficcandosi senza troppe cerimonie la bacchetta nel retro della tasca.
Quindi non è una cosa del clan, se il Signor Donnola non dev’essere informato.
“Cosa c’è di tanto urgente da rischiare di farti saltare una chiappa?”   
“Teddy.” Tagliò corto scuotendo la testa ma sfilando il legno dalla tasca. “Non lo so con precisione. Poi vi dico.” Gli diede una pacca sulla spalla. “Inventatevi una scusa decente, stavolta.” Lo ammonì.
“Ehi, una diarrea fulminante è un’ottima scusa!”

L’insulto che ne conseguì fu chiaramente meritato.
 
****
 
Se zio Nev chiamava dicendo di tornare subito a casa, ci dovevano essere almeno dieci ottimi motivi per cui doveva muovere il culo.
James schivò una fila di folletti dall’aria arrabbiata, diretto verso i Camini dell’Atrio come se dovesse correre una maratona.
Teddy.
Era ovvio che fosse per lui anche se l’amico di famiglia non aveva dato molte spiegazioni.
 
“Jam, stai lavorando?”
“Paura pranzo, zio. Dimmi tutto!”
“È Ted.”

Aveva sentito un cazzotto discreto d’ansia allo stomaco mentre ricordava che l’altro aveva trascorso la notte prima nella riserva dei Mannari. “Gli è successo qualcosa?”
“No, sta bene, però…” C’era stata una pausa in cui il viso solitamente quieto dell’uomo si era infiammato di preoccupata determinazione. “Non posso dirtelo via Specchio, è meglio se torni a casa.”

“Ma sta bene?” Aveva incalzato adesso seriamente terrorizzato. “Che gli hanno fatto?”
“Niente, ti dico.” Aveva ripetuto paziente. “Davvero preferirei se…”
“Arrivo.”

Fortuna voleva che il suo lavoro non avesse orari, sia nel bene che nel male. Una mezza giornata libera, con tutti gli straordinari che aveva accumulato, non era poi pretendere molto.

Varcò quindi l’ingresso del Camino e scandì con decisione l’indirizzo di casa: era il metodo più rapido per viaggiare, benché la Metropolvere non fosse il suo metodo preferito, dato che da lì alla Scozia i collegamenti via camino si facevano piuttosto sporchi e fuligginosi.
Ci metto meno che in moto però. Chiederò a Sy di riportarmela stasera.
Quando, sputando cenere, si trovò nel salotto di casa sua girò lo sguardo per trovare il centro dei suoi pensieri. Sospirò di sollievo quando vide che era lì, incolume e in compagnia di Neville, Hannah e una tizia asiatica con degli occhialetti dalla montatura squadrata e la generale aria di chi vorrebbe trovarsi da tutt’altra parte.
“Teddy!” Esclamò, facendogli alzare la testa di scatto.
Dall’espressione che gli rivolse, e dal colore dei capelli capì immediatamente che la situazione era uno schifo.
Cristo, dov’è il colore? Dov’è il mio blu?
“Jamie, dovresti essere al lavoro…” Mormorò prima di voltarsi verso Neville e realizzare il motivo della sua venuta. “Non avreste dovuto chiamarlo.”
“Col cazzo!” Esclamò rispondendo al posto dell’altro mago. “Sono il tuo compagno, qualsiasi cosa è successa … e ti è successa … devo saperla. Ora.”
Ted aprì la bocca, ma la richiuse subito, distogliendo lo sguardo. “Hai ragione.” Ammise piano ed era orribile sentirgli un tono così sottomesso quando aveva l’intero corpo in tensione e la mascella serrata. “Ma poi dovrete lasciarmi andare.”
“Andare dove?” Guardò i due coniugi che scossero la testa.
“Parlate.” Disse Neville con il consueto piglio pratico e saldo. “Se James ti appoggerà allora organizzeremo la cosa, altrimenti dovrai lasciar fare al Ministero.”
Ministero? Di che diavolo state parlando? Che sta succedendo?” Si voltò verso l’asiatica. “E tu chi cavolo sei?”

“James.” Lo riprese senza convinzione il compagno; era seduto sul divano come se un Incantesimo di pastoia ce l’avesse incollato ed era orrendo non sentirlo ammonire come il maestrino che era.
“Flynn Lin.” Si presentò tendendogli la mano. “Tu saresti la nostra soluzione?”
Gliela strinse. “Tanto piacere e pare di sì.” Sospirò; era il momento di prendere le redini di quella situazione se Neville non ne aveva l’intenzione.
Il che, dai, è strano. Voglio dire … è zio Nev.
Forse c’entrava qualcosa con l’aria stravolta di Ted. Decise di non arrovellarcisi troppo. “Okay, posso avere un momento da solo con il mio ragazzo?” Da come si alzarono rapidamente pareva proprio di sì e persino il suo ex Direttore, per quanto gli diede una pacca sulla spalla e lo avvertì che li avrebbero attesi ai Tre Manici, seguì la moglie con aria sollevata.
Wow.  
A quanto pareva non se l’erano sentita di gestire un Teddy in pieno rivolgimento emotivo e non poteva biasimarli dato che di solito l’altro era la quintessenza del tipo che reprimeva tutto con  un gran sorriso pacifico.
Quando si stappa è roba da maneggiare con cura.
“Ehi.” Gli sorrise avvicinandosi e accovacciandosi davanti a lui, preferendo avere una visuale completa della sua faccia piuttosto che sederglisi accanto e vederne solo il profilo. “Mi spieghi che è successo? Perché sembra un gran casino…”
“Devo andare nella Foresta.” Fu l’unica cosa che uscì dalla bocca dell’altro: doveva averlo ripetuto più di un paio di volte da come lo buttò fuori impaziente.
Uhm.
“Okay.” Annuì. “Però che i Centauri ce l’hanno ancora su con te e che potrebbero riempirti il culo di frecce  … Ronzini insopportabili, ma resta il fatto, non puoi rischiare. Se devi fare qualcosa là, posso farlo io per te.”

No.” Lo seccò con rabbia, prima di esitare forse vedendo la sua espressione sorpresa. “James, non è …” Si umettò le labbra. “Ho scoperto delle cose e…” 
“Su quel Mannaro?”
Il silenzio fu eloquente.
“Sono cose che dovrei sapere?” Gli chiese aggrottando le sopracciglia. “Non so, visto che sono il tuo compagno e che abbiano deciso di dirci tutto.”  
L’espressione anodina di Ted crollò come un castello di carte; si passò una mano sul viso e James per un momento si sentì un discreto verme ad aver spinto proprio sulla principale debolezza dell’altro.
Come sa sentirsi in colpa lui…
“Mi dispiace.” Mormorò infatti. “Non so … Non so cosa fare, ho scoperto … mi sta esplodendo la testa. Non so cosa fare.” Ripeté.
James invece lo aveva perfettamente chiaro; Ted Lupin, l’uomo che rimaneva sempre in sella alla propria razionalità senza tentennare, lo stava guardando come se avesse bisogno di sapere cosa fare e questo lo spaventava, ma non era quello il punto.
Non conta cosa provo io adesso.
Si sporse e lo abbracciò, serrando la presa finché non lo sentì ricambiare. “Ehi, la risolveremo.” Disse con convinzione. “Qualsiasi cosa sia. Però me la devi dire, altrimenti non posso sbrogliare questo casino.”
“Non può sbrogliarlo nessuno… Devo…”
“Ho capito.” Lo fermò passandogli una mano dietro il collo per appoggiargli la fronte contro la sua: era un gesto che aveva scoperto lo calmasse molto. Notò infatti un affacciarsi timido di azzurro sulle radici dei capelli. Era già qualcosa.

“Andremo nella Foresta, dovessi mettere le briglie a Magorian, te lo prometto.” Disse. “Ma parlami.”
E Ted parlò.
 
Buttare fuori tutto quello che aveva scoperto fu terrificante quanto liberatorio, specialmente perché gli occhi scuri di James seguirono il discorso bevendosi ogni sua parola senza tradire neppure un momento di incertezza o confusione.
Per un folle momento, pensò quasi che l’altro già lo sapesse. Poi lo vide passarsi una mano trai capelli e crollare seduto di fronte a lui.
“Cazzo.” Disse lentamente come in preda ad una serie di pensieri in rapida successione. Inspirò. “Okay, quindi pensi che il ragazzino si stia ancora nascondendo nella Foresta Proibita.” Riassunse.
“Non penso, lo so.” Ribatté. “Non può essere andato molto lontano, non conosce il posto ed è da solo.” Cercò di avere la meglio sul fiotto di panico e pena che lo investì. “ … se è ancora vivo.”

“Ha vissuto nei boschi con suo padre sin da bambino, no? Quindi saprà cacciare, accendere un fuoco … sfamarsi.” James scosse la testa e la sua convinzione fu un balsamo dolcissimo.
Perché diavolo non l’ho chiamato prima?
“Che sappiamo del padre?”
“Non molto. Moscardo l’ha visto di sfuggita una sola volta e ha detto che…” Forse un giorno avrebbe smesso di fare male come una pugnalata nel costato. Forse. “… che Lunastorta non aveva fissa dimora. Da quando se n’era andato dal branco viveva alla giornata, al limitare della società magica, facendo lavoretti saltuari e vivendo nei boschi quando non trovava nulla.”
“La madre?”
Ted scosse la testa. “Non ne sapeva nulla, ma Flynn mi ha detto che si informerà. Non dovrebbe essere difficile … Quante streghe farebbero un figlio con un Mannaro?” Sorrise dolente. “A parte mia madre.”
“Quindi la tizia era umana …” Schioccò le labbra. “Il bambino?”

“Pare che sia un mago, ma non dà certezza che non abbia contratto la Licantropia.” Si alzò in piedi, non riuscendo più a restar seduto. “James, devo andare.”
L’altro lo imitò. “E allora andiamo. Ma non da soli.” Ad un suo accenno di protesta lo fermò con una mano. “Più siamo, meglio è. Non è più il momento di andarci piano e usare la diplomazia … non con un ragazzino a rischio.”
“Hai ragione, ma … il branco di Magorian lo vedrà come un’invasione. Sai quanto sono territoriali…”
“Magorian potrà anche far storie, ma Centauri come Fiorenzo capiranno e se non lo faranno, problemi loro. Fammi chiamare i ragazzi.”
“James…” Si vergognava a realizzare che l’operatività di James lo sorprendeva.

Come se non sapessi che l’azione è il suo ambiente naturale.
L’istinto gli gridava di lasciare tutto nelle mani del compagno più giovane ed era certo che fosse piuttosto sbagliato averne un bisogno così disperato.
Ma non ce la faccio…
Non aveva esagerato prima, quando aveva detto che si sentiva la testa scoppiare: c’erano troppe informazioni e rivelazioni troppo dure da digerire in un solo colpo. Doveva accantonarle, almeno per il momento.
Trovare Ben è la priorità.
James intanto, ignaro dei suoi pensieri, tirò fuori lo Specchio Comunicante dalla tasca del giubbotto. “Bobby e Malfuretto sono addestrati anche per questo tipo di casino e non faranno domande.” Gli mise le mani sulle spalle, e non seppe se fu per il sorriso calmo o per la presa salda che sentì molta della tensione scivolare via. “Fidati, okay? Questa roba è il mio lavoro.”
“Mi fido.” Si chinò per premergli le labbra sulle sue, in un ringraziamento che sperò fosse intuibile. “Avrei dovuto chiamarti io, non Neville. Sono stato un idiota.” Confessò.
James scosse la testa con aria rassegnata ma doveva aver captato il riconoscimento, perché gli brillarono gli occhi. “Certo che lo sei. Per fortuna ci sono io!”
Ted sorrise. “È la mia fortuna più grande.”
 
****
 
Inghilterra, Londra
Diagon Alley, Ora di pranzo.
 
La Biblioteca Magica Centrale Bathilda Bath era uno dei posti più polverosi che avesse mai visto – e per anni Hogwarts era stata la sua casa. Situata in un vecchio palazzo vittoriano come tutti gli edifici pubblici di Diagon Alley, al suo interno si snodavano dedali tortuosi di scale a chiocciola e ballatoi con file infinite di libri e pergamene. Era la prima volta che Michel vi entrava dato che neppure da bambino ne aveva varcato la soglia.
La biblioteca di famiglia ha sempre soddisfatto senza problemi ogni mia richiesta…
Non era quello il caso però: volendo consultare gli arretrati del Profeta quello era l’unico posto dove avrebbe potuto trovarli sistematicamente catalogati per anno, mese e giorno. Con passo svelto superò una fila di tavolini, dove streghe e maghi avevano il naso seppellito tra tomi e calamai; Dursley non sarebbe sfigurato in quella ingobbita schiera, pensò con un sorrisetto ironico.
Ne consegue che qui io sono fuori luogo come un Troll in un negozio di porcellane.
Si avvicinò al banco accettazione e resi, salutando la ragazza che vi lavorava che, ad onor del vero, gli lanciò un’occhiata poco impressionata. “Desidera?” Chiese con voce antipatica.
Fece la sua richiesta e quella gli squadernò davanti un modulo pinzato su una cartellina a molla. “Compili con i suoi dati e specifichi che periodo di tempo le serve consultare.” Recitò senza alzare gli occhi dal libro che stava leggendo.
Michel obbedì, un po’ seccato dal totale disinteresse che stava suscitando; a ben guardare, nessuno degli astanti lo aveva degnato d’attenzione, neppure per un’occhiata fugace al modo perfetto con cui la giacca gli ricadeva sulle spalle.
Decisamente un posto da Dursley. Mi irrita oltre misura.
Gli toccava sopportare però, dato che era l’unico luogo dove avrebbe potuto scoprire qualcosa in più su Emil Von Houten adesso conosciuto come Milo il Magonò.
Nonna me lo presentò come un piccolo prodigio … E la Gazzetta ha sempre tenuto una rubrica sulla cultura di respiro internazionale. Un articolo, un’intervista … qualcosa.
Era un’idea forse sciocca, ma l’unica che gli fosse venuta che non coinvolgeva lui, il Black Goose e una serie di incontri spiacevoli o redivivi tentativi di rapina.
Devo venirne a capo in qualche modo …
Così, qualora lui e Von Houten si fossero rivisti, non sarebbe stato in una posizione di smaccata debolezza.
Informazione è potere.
Passò la cartellina alla bibliotecaria che lesse e annuì. “Si scelga pure una postazione. Le verrà tutto Materializzato sul tavolo.”
Una manciata di minuti dopo il suo tavolino venne letteralmente invaso da qualcosa come una decina di chili di carta ingiallita. Lanciò un’occhiata alla ragazza malignamente soddisfatta. “Buona consultazione.” Flautò prima di abbandonarlo al suo triste destino.

… Bene.
Si slacciò i bottoni della giacca e si mise comodo; aveva l’intera pausa pranzo per trovare ciò che cercava.
 
Fu al decimo quotidiano che riuscì finalmente a trovare qualcosa: un trafiletto di non più di cento parole, corredato da una foto talmente minuscola da aver bisogno di una lente di ingrandimento; ma non c’era dubbio, il ragazzino che suonava, vestito nel dress-code tipico dei musicisti, camicia immacolata e gilet nero, era lui.  
La pendola sopra al banco dell’accettazione ticchettava via la sua pausa, ma Michel non alzò lo sguardo neppure una volta mentre cercava, trovava e radunava altri articoli. Alcuni ricordava persino di averli letti, nella sua innocente cotta infantile, e di averli ritagliati con cura: dovevano ancora essere a casa di sua nonna.
 
Era il 1782 quando il maestro Niccolò Paganini compose col legno e con il fuoco melodie per violino. C’è chi dice che la magia sprigionata dalle sue dita fisse risultato di sangue magico. Quel che sia, trecento anni dopo, tale magia ha graziato il giovanissimo Emil Von Houten Meinster …
[…]

Emil ha nove anni e suona abitualmente nei migliori anfiteatri delle capitali mittle-europee; prima di lui, grandi artisti si succedono sul palco, ma nessuno con il permesso dei genitori ben stretto in pugno.

«Non so bene cosa voglia dire essere un musicista prodigio … non me lo sono mai chiesto. » Dichiara, ma poi sorride come un vero monello.  «Ma se tutti dicono che lo sono, forse sarà vero.»
[…]
 
Una vita, la sua, all’insegna del violino: a quattro anni è stato ammesso col massimo dei voti al conservatorio di Lubecca, sua città natale. Emil è il più giovane violinista nella storia delle istituzioni musicali del Ministero tedesco, ma la corona non sembra appesantirlo. «Dopo mangiare e dormire, suonare è la cosa che mi viene più naturale. »
[…]
 
[…] … Questa stirpe di maghi musicisti di “sangue blu”, famosi sia per essersi esibiti di fronte a Ministri, regnanti, maghi e Babbani è rappresentata al meglio da Kuno Von Houten, padre di Emil e suo manager. «Emil è destinato alla grandezza, ad essere conosciuto in entrambi i Mondi. Non è qualcosa che ti permette di avere una vita normale? Forse,  ma mio figlio non aspira alla normalità. Nessun Von Houten l’ha mai fatto. »
 
E attorno a lui, un mondo che non si stanca di ascoltarlo ammaliato. Perché adesso Emil è in gara anche per il Premio Vitalij Vonobirsk …
 
Michel ne lesse un altro paio prima di realizzare che erano all’incirca tutti uguali: ne lodavano il talento precoce, davano informazioni piuttosto vaghe sulla sua famiglia e si lanciavano in panegirici sulle sue capacità di esecuzione.
Il Profeta ha sempre avuto un debole per i golden-boy. Basti pensare ad Harry Potter…
Passò le dita sulla carta ruvida, sospirando: come gli aveva detto sua nonna, Emil aveva avuto una carriera brillante nel piccolo mondo della musica magica.
Almeno finché non l’hanno dichiarato un Magonò.
Gli articoli infatti non andavano oltre il duemilaquattordici, anno in cui doveva aver compiuto i fatidici undici anni.
Sapeva per sentito dire – certe cose venivano sussurrate nei salotti, mai dette ad alta voce – che i Magonò di origine Purosangue venivano spesso esiliati dalle proprie famiglie, mandati a vivere in tenute remote di campagna ed eliminati dalla società come se non fossero mai esistiti.
È ciò che gli è successo?
Quel che sapeva dell’Emil attuale non era molto: gli aveva detto di chiamarsi Milo – un nome falso, evidentemente. Gli aveva anche raccontato di vivere a Boston, e poteva essere una bugia come poteva esser vero.
Lo hanno mandato a vivere in America?
Se così era, perché adesso era in Inghilterra e sembrava frequentare il sottobosco Magonò di Notturn Alley?
Era confuso. Gli articoli appena letti gli avevano confermato alcune idee che si era fatto, ma gliene avevano fatte venire in mente altrettante.
Non so ancora niente di lui.
Era frustrante. Si massaggiò le palpebre, reclinando la schiena sulla sedia e incrociando le braccia al petto mentre radunava i pensieri.
Devi farlo, non c’è scelta.
Doveva andare al Black Goose e cercare informazioni di prima mano.
 
****

Scozia, Hogsmeade.
Pomeriggio.
 
Neville non avrebbe mai pensato di vedere un Lupin crollare.
Un po’ se ne vergognava; aveva assimilato la figura di Ted, un giovane professore brillante e un caro amico, a quella di Remus, figura di cui aveva cercato di seguire le orme nell’esercizio della sua professione. E non era giusto.
Ted non era suo padre. Certo, c’erano in lui lati che potevano ricordarlo a chi l’aveva conosciuto e amato: la gentilezza d’animo, la lealtà, la naturalezza con cui riusciva a stabilire un contatto con i propri allievi …
Ma c’era una forte differenza di fondo: Ted era capace di fidarsi degli altri.
Remus ha sempre avuto troppi muri per farlo.
Una particolare conversazione che aveva avuto con Harry, dopo la guerra, era stata illuminante.
 
“… Quello che ha sofferto giustifica in gran parte le scelte che ha fatto, ma rimane il fatto. Non mi scorderò mai come fosse pronto a voltare le spalle a Tonks quando ha scoperto di Teddy. Nev, Remus era un egoista.”
“Sì, forse … Ma cosa c’entra con la fiducia?”
“Non si fidava di sé stesso, dell’amore che provava per Tonks e Teddy … Li ha amati, lo credo davvero, ma non penso li abbia mai fatti veramente entrare
nella sua vita. Dopo mio padre, Sirius e Peter, non credo abbia lasciato più entrare nessuno.”
 
E forse anche in un’altra cosa Ted era diverso da suo padre.
Ted non ha bisogno che un adolescente arrabbiato gli ricordi che deve prendersi le sue responsabilità…
Hannah gli si avvicinò, distogliendolo dai pensieri per porgergli una tazza di the. “Pensi che lo troveranno?” Gli chiese. “Quel povero bambino…”
“Penso che se c’è qualcuno che possa riuscirci, sono questi ragazzi.” Replicò stringendole una spalla affettuoso. “Hanno buoni geni.”

Incredibile a dirlo, ma anche Malfoy.
Che aveva appena squadernato una grossa cartina geografica della zona spiegandola sul tavolino con aria pratica: erano arrivati da solo pochi minuti, il tempo di un saluto veloce e si erano subito messi al lavoro senza fare domande o chiedere spiegazioni.
Sempre parlando di fiducia … È chiaro che ne hanno in James.
“Okay, la zona delle caverne è questa.” Disse Scorpius cerchiando la suddetta con un colpo di bacchetta.
James scosse la testa. “È enorme, quanto saranno? Venti ettari? Dobbiamo restringere il campo. Le caverne erano vicine al vecchio letto di un fiume…”
“Qui allora.” Indicò Robert Jordan pronto. “Se vedete la conformazione morfologica…”
“Eh?”
“Potty, la traccia del letto del fiume.”
“Ah!” 

Ted aveva le braccia conserte e contemplava la cartina come se potesse parlargli ma fosse troppo maleducata per farlo. “C’era una macchia di querce secolari.” Mormorò. “Gli siamo passati affianco.”
“Okay, grande.” Bobby tracciò un altro paio di righe colorate con la bacchetta ed isolò un’area. “Allora possiamo restringere ancora …” Fece un rapido calcolo. “Sì, direi che ci rimangono circa tre ettari da controllare.”
James tentò di dire qualcosa ma si morse la lingua non appena intercettò lo sguardo del compagno. “Dai, è una passeggiata!” Scrollò le spalle riuscendo persino a suonare credibile. “Potremmo tutti tornare a casa per cena. E poi mi ricordo com’erano fatte quelle grotte, quindi, come ho detto, una passeggiata.”

Era incredibile, stimò Neville con affetto. Da quando si era Materializzato non aveva lasciato un momento il fianco di Ted, e qualsiasi cosa gli avesse detto quando erano rimasti soli era stata risolutoria, perché dopo l’altro era sembrato di nuovo pronto a ragionare.
Se all’inizio della relazione trai due aveva avuto dubbi su come si sarebbe potuta sviluppare a causa del divario di età e soprattutto di maturità, ora capiva quanto quella preoccupazione fosse stata sterile.
Jamie è maturato tanto in questi cinque anni. Sarà anche quello che ha passato con i suoi fratelli, ma credo l’abbia fatto anche per e con Ted.
“Bene.” Esclamò l’ex-grifondoro battendo le mani. “Che stiamo aspettando?”
“E i Centauri? Non per fare le pulci all’Ippogrifo, ma stiamo parlando di creature armate, veloci e un tantino territoriali.” Si inserì la giovane asiatica presentatasi come funzionario dell’Ufficio Mannari: a parte quell’intervento, comunque sensato, c’era da lodarla per non aver mai cercato di far valere la sua carica o la propria opinione. A quanto sembrava, era rimasta molto impressionata dalla reazione di Ted.

Lo siamo stati tutti … È un tipo così tranquillo. Vederlo perdere la calma è stato impressionante.
“Per questo motivo li aggireremo.” Gli rispose Bobby con la prontezza con cui si era sempre distinto anche da studente. “Potrebbero esserci sentinelle di pattuglia, ma abbiamo in tasca un paio di incantesimi di Disillusione che ovvieranno al problema.”
“Siamo Auror!” Esclamò Malfoy strizzando l’occhio a beneficio di tutti. “Siamo gente in gamba.”

I preparativi furono fatti velocemente; i tre giovani agenti erano praticamente pronti all’azione e sia lui che Ted sapevano come muoversi in un bosco.
Viviamo a due passi, non c’è neanche bisogno di cambiarsi le scarpe.
Salutò Hannah rassicurandola circa il successo della loro spedizione – l’istinto materno della sua dolce metà aveva già preso a cuore l’intera faccenda – e si avviò verso la porta, seguendo la scia energica di Malfoy e di Jordan. Passò così di fianco ai due padroni di casa.
“Lo troveremo.” Sentì dire al più giovane. “Ma promettimi che mi lascerai gestire la cosa.” Al silenzio che ne conseguì, aggiunse. “Ti fidi, no?”
“Certo che mi fido di te!” Fu la replica immediata. “È solo …”
“Solo cosa? Parla o ti prendo a calci.” Dall’espressione che fece l’altro non doveva essere una promessa a vuoto, e Neville, dovette mascherare una risata con un colpo di tosse. Decise che era il momento di lasciarli soli.

Se la caveranno. Sono insieme.
 
“… È solo che non voglio che vi succeda qualcosa.”
James roteò gli occhi al cielo. A volte era dura essere il più maturo della coppia.

Oh, Teddy, come fai ad esserlo quasi sempre? È palloso da morire.
Gli prese il viso tra le mani e lo portò alla sua altezza. Pochi centimetri più in basso, solo pochissimi centimetri, rammentò a sé stesso.
Piantala.” Scandì con decisione. “Cinque anni fa sei stato disposto a rischiare le penne per quegli idioti dei miei fratellini … Adesso lascia che ricambi il favore, okay?”
Teddy gli restituì un sorriso spoglio della patina da bravo ragazzo saldo che approntava per rassicurare il mondo di non aver bisogno d’aiuto. Lo faceva sembrare un bambino, e gli faceva venir voglia di prendere a pugni chiunque avesse osato tentare di cancellarglielo.
“ Andiamo a conoscere tuo nipote, Teddy.”
 
****

Londra, Nocturn Alley.
Pomeriggio.
 
Milo sapeva di aver fatto una stronzata quando aveva preso a calci due Magonò per salvare il maghetto stronzo, ma lo realizzò a pieno solo quel pomeriggio, quando al posto dell’entrata del Black Goose vide pararglisi di fronte un muro compatto di muscoli e tatuaggi.
L’hanno saputo.
“Posso passare?” Chiese con tutta la cortesia di cui disponeva, glissando sul fatto lo stesse chiedendo ad un energumeno che aveva nocche della grandezza di Boccino.
“Non sei il benvenuto, tedesco.” Grugnì quello in un accento così pastoso che non fu del tutto certo che non gli avesse invece detto invece tutto il contrario.
“Devo parlare con Figgins.” Non si fece spaventare: l’atteggiamento in quel genere di ambiente era tutto. Ampliò il sorriso. “Andiamo, posso sapere qual è il problema? Siamo tutti amici qui…”
“Non credo proprio.” Ringhiò l’orango. “Quello che hai mandato al San Mungo due sere fa era mio fratello.”
Oh, ops.

Principino, anche tu … tempismo perfetto nel fare richieste. Sul serio.
Ti odio.
Allargò le braccia, e non reagì quando gli strapparono di mano la custodia del violino.
Non avrei dovuto portarmelo dietro … ma mi servivano delle corde nuove!
“Cos’hai in mano?”
“Non un fucile a canne mozze.” Spiegò quando l’aprirono con tozze mani sudice. “È solo il mio violino, sono un musicista.”
Il primate fece un sorriso storto. “Questo lo teniamo noi. Magari per risarcimento.”
Fottiti, sei morto.

Piuttosto che lasciare il suo primo e unico amore a quei bruti si sarebbe fatto tagliare un piede. Doveva però giocare d’astuzia. “Tuo fratello rischiava di farsi vent’anni di prigione per aver preso a calci il culo di un Sanguepurissimo…” Inarcò le sopracciglia quando vide l’altro aggrottarle perplesso. “Non te l’ha detto? Volevano ripulire un damerino che discende in linea dalla regina di Saba.” Inventò un po’ a caso.
Ma neanche tanto. Quel tipo ha la stessa puzza sotto il naso.
“Fallo passare, Shad.” Disse una voce dall’interno del locale, sufficientemente forte e d’impatto da far ripiegare il muro umano come se fosse stato Mosè col Mar Rosso.
Figgins.
Milo entrò senza troppe cerimonie: se a quel punto avesse fatto marcia indietro avrebbe sul serio rischiato una lama nel costato. O di non rivedere il suo violino.
Più o meno la stessa cosa.
Mister!” Annunciò Figgins dal bancone, agitando una pinta a mo’ di saluto. Milo tentò di nascondere il fremito d’orrore alla versione anglofona – e sbagliata – del suo cognome. “Come andiamo, biondo?”
“Bene.” Scrollò le spalle avvicinandosi. “Passavo da queste parti … ho pensato di fare un saluto.”
L’altro gli rivolse un sorriso che lo fece sembrare simile ad uno squalo: se lo immaginava, quel rosso, ad addentare la gamba di qualcuno e staccargliela di netto. “E vedere di far incazzare il povero Shad? Non l’ha proprio digerito quel tuo numero alla bottega di Swill … Prendere le difese di un Nato Babbano…” Schioccò la lingua con riprovazione. “C’è da chiedersi dove tu tenga il cuore.” Fece un cenno alla barista che gli mise davanti una pinta cremosa e scura. “Bevi, Mister … e poi rispondi.” Soggiunse con il tono tranquillo di chi ti teneva per le palle senza sforzo.

Diede un’occhiata ai tizi di prima, che ovviamente l’avevano seguito dentro. Shad aveva tutta l’aria di aspettare solo l’imbeccata del proprio capo per venire a fargli le feste.
Sorseggiò quindi obbediente. “Ho il cuore dove deve stare. Qui.” Si indicò il petto e fu sollevato di vedere l’altro sogghignare divertito. “Ma ho anche un cervello. I tuoi ragazzi hanno aggredito un rampollo Purosangue, non un Nato Babbano. Gli ho fatto un favore.”
L’informazione venne registrata dalla sorpresa che vide negli occhi dell’altro. “Hai uno strano modo di far favori, tedesco…” Osservò pacato.
“E tu hai uno strano modo di insegnare ai tuoi a distinguere i polli dalle trappole. Ma ehi, non giudico.” Replicò senza scomporsi, pregando di non aver passato il segno.

Per tutta risposta il capoccia scoppiò a ridere, esattamente come al loro primo incontro: pareva trovare la sua mancanza di peli sulla lingua esilarante.  
“Mi piaci Mister, dico sul serio.” Proferì infatti. “Se solo avessi sotto di me cervelli come il tuo non dovrei preoccuparmi di far da balia a idioti come Shad.” Gli strizzò l’occhio.  
“Grazie.” Ricambiò il sorriso. Vide poi con la coda dell’occhio l’orango alzarsi con il suo violino tra le mani. Quando, ad un cenno del proprio capo, glielo restituì, Milo tentò disperatamente di combattere il desiderio di serrarselo al petto e cullarlo.

Lo so, tesoro, è stato orribile, ma ora papà è qui.
“Sei un musicista… Violino?” Chiese Figgins con tono interessato che glielo rese immediatamente meno temibile: nessuno poteva esser veramente un pezzo di merda se amava la musica.
Beh, tranne mio padre. Ma le eccezioni esistono sempre.
“Violino.” Confermò. “Ti piace la musica?”
Questo roteò gli occhi al cielo, scuotendo la testa come se avesse appena detto una bestialità. “Non si fanno domande del genere ad un figlio d’Albione, biondo. A noi la musica scorre nel sangue!”
Non era ancora il momento di parlare di Johannes, lo capì da come l’atmosfera era ancora tesa: doveva lasciare che si rilassasse, e le chiacchiere dell’altro Magonò sembravano suggerirglielo implicitamente.
“Suonaci qualcosa!” Soggiunse infatti. “Una buona canzone e una pinta di birra perdonano quasi tutto.”
 
 
Michel inspirò per forse la ventesima volta, notando con immutato disgusto un nuovo particolare del sudicio pub di cui avrebbe dovuto varcare la soglia.
Da quant’è che non lavano le vetrate?
Sicuramente da qualche decennio a giudicare dalla patina scura causata dalla pioggia fuori e dal fumo. Dall’odore che ne veniva fuori pareva avessero anche problemi con il tiraggio del camino.
Fantastico. Dovrò bruciare i vestiti, dopo.
Era ormai in palese e plateale ritardo al lavoro e quindi poteva accendersi l’ennesima sigaretta senza sentire l’ansia di avere i minuti contati.
Piantala di fare l’idiota. Vattene, che sei venuto a fare?
Non era neppure certo che vi avrebbe trovato Von Houten. Non era certo di niente, ma stare lì non avrebbe risolto nulla.
Al diavolo …
Si mosse, perché davvero, quella faccenda stava diventando ridicola e doveva metterci una pietra sopra una volta per tutte, quando sentì una mano posarglisi sulla spalla.
Mi hanno scoperto a spiarli!
Si sentì un autentico idiota quando vide gli occhi bicolori di Nott guardarlo con aria divertita.
“Qualcuno qui ha i nervi a fior di pelle!” Esordì con l’aria di chi stava trattenendosi dallo scivolare in prese in giro ben peggiori. “Beccato.” Sillabò con gli occhi che gli ridevano.
“Va’ al diavolo!” Sbottò inelegante, dato che per l’improvvisata si era anche bruciato con la sigaretta. Tentò di riprendersi. “Apparire alle spalle della gente solitamente rende nervosi.” Soggiunse con tono più calmo.

Loki non parve particolarmente impressionato dal suo ritrovato controllo. “Ero qui da almeno due minuti, ma eri così preso dai tuoi pensieri che mi sembrava brutto interromperli …” Scrollò le spalle. “Però visto che sarei altrove richiesto…”
“Appunto.” Lo interruppe “Si può sapere cosa ci fai qui?”

Loki si posò una mano sul cuore con aria drammatica. “Pensavo fosse ovvio!” Vedendo che non recepiva, scosse la testa dolente. “Vegliare su di te come il perfetto amico che sono, no?”
“Sei una comare e sei qui solo per divertirti alle mie spalle.”
“Anche.” Convenne. “Ma pensi sul serio di riuscire ad entrare lì dentro come se fossi in un ufficio del Ministero?” Occhieggiò il suo completo in tre pezzi e la catena d’orologio che spuntava dal panciotto e scosse di nuovo la testa come se avesse a che fare con un bambino tardo. “Mike, sei un ragazzo sveglio … Per ogni porta ci vuole una chiave.”
“E tu saresti il mio lasciapassare?”

Loki non rispose subito, approntando uno dei suoi sorrisi da sfinge. “Giusto perché tu abbia un quadro della situazione … Il posto è di proprietà di Danny Figgins. È l’ultimo erede di una dinastia di Maghinò da qualcosa come sette generazioni … Ma non è perché è un figlio d’arte che controlla Notturn Alley come se fosse il suo parcogiochi …” Sospirò. “È un tipo pericoloso, persone che non gli sono andate a genio sono finite nel Tamigi … e dubito che abbiano ritrovato i corpi.”
“E perché una persona del genere non è ad Azkaban?”

“Ad uno come quello non serve una bacchetta per evitare il Wizengamot.” Sospirò. “Mio buon Mike, credimi se ti dico che dietro quelle decrepite porte c’è un mondo di cui non sai niente. Non puoi entrarci e basta.”
Si morse le labbra: l’amico aveva ragione, si stava comportando in modo avventato.
Che diavolo mi prende? Tutto per un ragazzo…
Forse Al ha ragione, dovrei prendermi una vacanza.
Decise di tentare di mantenere almeno una facciata di credibilità. “Cosa mi consigli di fare allora?”
Loki, per una volta, sembrò piuttosto serio. “Se vuoi avere informazioni su quel tuo Magonò, lascia che sia io a parlare. Ho fatto affari con Figgins e siamo più o meno in buoni termini. Mi rispetta per quanto uno come lui può rispettare un mago.” Si strinse nelle spalle. “Ma se vuoi far da solo…”
“No.” Sapeva quando fare un passo indietro ed era quello il caso: Nott conosceva quel mondo come mai lui avrebbe fatto e rifiutare il suo aiuto per orgoglio sarebbe stato stupido. “Va bene. Proviamo a modo tuo.”
 
****
 
Scozia, Foresta Proibita.
Pomeriggio.
 
La foresta poteva anche essere luminosa.
James se ne rese conto quando dovette schermarsi gli occhi con una mano per l’ennesima volta, dato che le fronde mosse dal vento lasciavano filtrare lame di luce dall’alto, abbacinandoli.
“Almeno non piove.” Commentò Scorpius. “Ma in questo posto non c’è segnale manco a morire, né per il cellulare…”
“Ovvio, eh.” Gli fece notare Bobby. “Siamo in mezzo al nulla tecnologico.”
“ … né lo Specchio Comunicante.” Concluse. Alle loro espressioni sgomente si strinse nelle spalle. “Siamo anche nel bel mezzo del nulla magico. Credo che siamo i primi maghi a metter piede in questa parte del bosco da … uh, secoli?”

James non rispose, guardando il profilo del viso di Ted che camminava accanto a lui: era silenzioso come una tomba e con un’espressione così determinata che probabilmente se gli si fosse parato davanti un Centauro se lo sarebbe mangiato vivo e ne avrebbe sputato le ossa.
Non che non potesse capirlo: l’istinto naturale di protezione che si poteva avere verso un bambino si era adesso mischiato a quello del sangue.
Perché Ben è suo nipote.  Per le mutande di Merlino … è suo nipote davvero.
Teddy aveva cercato, sin dall’infanzia e neppure troppo segretamente, una propria famiglia. Nessuno gli toglieva dalla testa – per quanto fosse un pensiero un po’ meschino – che l’interesse tenace che aveva sviluppato per Victoire fosse stato dovuto al fatto che sua cugina avrebbe potuto dargli dei figli.
Cosa che tu non potrai mai fare, manco volendo. E non vuoi. Urgh.
C’era però una parte di sé, microscopica ma presente, che gli ricordava quando quello fosse comunque un difetto.
Perché sei sexy e tutto quanto, ma non potrai mai dargli quella roba che desidera da quando ha capito che non era la norma non avere mamma e papà.
Grande. Momento depressione.  
Inspirò, e sforzò una smorfia amichevole quando Scorpius gli allungò una pacca sulla spalla.
“Come stai?” Gli chiese stupendolo.
“Bene. Non sono io l’ospite d’onore oggi.”
“Lo so.” Si strinse nelle spalle. “Ma Potty, sei quello che viene subito dopo.”
Eh?
Non ebbe il tempo di pensare alla frase dell’altro che notò come il terreno stesse cominciando a diventare familiare: ricordava infatti una serie di radici dalla forma strana, come un paio di massi che formavano una sorta di cavità naturale nella roccia.

Ted gli si affiancò, guardandosi attorno e annuendo. “Sì, è qui.” Parve leggergli nel pensiero.
La giovane funzionaria del Ministero, che era rimasta in fondo con Neville, li raggiunse allargò le narici come se annusasse un odore sgradevole. “Si sente ancora odore di Centauri…”

“Odore?” Le sopracciglia di Bobby rischiavano di sparire tra l’attaccatura dei capelli. “Stai … annusando?”
“Problemi, dolcezza?”
“No, no!”
Ted di nuovo non replicò, ma le labbra strette in una fessura parlavano per lui e James realizzò che non sarebbe riuscito a ricucire i rapporti con il branco di Magorian, Fiorenzo compreso, non in tempi brevi almeno.

Hanno ucciso il suo fratellastro …
Non se la sentiva però di condannare completamente le azioni dei Centauri: al posto loro di frecce ne avrebbe scoccate due, per esser sicuro di aver messo a terra il tipo.
Fratello o meno, voleva farlo fuori.
L’equazione dal punto di vista del compagno non doveva essere così semplice.
Che poi…
Remus aveva avuto un figlio da una donna del branco di Greyback: questo bastava ed avanzava per far casino nella sua testa. Non riusciva ad immaginarsi in che stato fosse quella dell’altro.
Non era però il momento per far domande o vagliare ipotesi.
È il momento di agire, cazzo.
“Andiamo.” Disse facendo cenno a Scorpius e Bobby. “Ci dividiamo. Adesso che c’è luce dovrebbe essere più semplice muoversi.” Si voltò verso Neville e la ragazza. “Io, Teddy e Malfuretto prenderemo la sponda destra del greto, voi con Bobby la sinistra. Per iniziare cerchiamo nelle vicinanze … poi espanderemo il raggio di ricerca.”
Neville approvò con un cenno della testa. “Nel caso uno di noi veda una sentinella Centauro lanci tre scintille rosse dalla bacchetta. Dobbiamo evitare lo scontro diretto ad ogni costo.” Ed era maledettamente serio. A James dispiacque dato che era ovvio che la situazione tesa con il branco lo amareggiasse: lui e Fiorenzo erano colleghi e amici e non doveva essere semplice bilanciare quello con l’affetto che provava per Ted.
A volte si devono fare scelte … e qualunque prendi, fa schifo comunque.
Che cazzo di situazione.
Era suo dovere, quindi, tirarne fuori il meglio possibile.
 
 
****


Londra, Notturn Alley.
The Black Goose.

 
Suonare il tema di Smooth Criminal – successo Babbano passato alla storia – e arrangiarlo per un gruppo di ceffi pieni di birra gli era costato una grossa prova di coraggio, ma a quanto sembrava la sua temerarietà era stata ripagata da una selva di grugniti e battiti di mani allegri.
Beh, almeno un po’ di orecchio musicale lo hanno.
“Complimenti, Mister.” Esordì Figgins con un sorrisetto molto più umano e meno disposto a far seguire un balenare di lama. “Ci sai fare con quel violino!”
“Uno dei pochi pregi che ho, oltre ad un bel visino.” Rispose a tono, strizzando l’occhio ad un paio di tipiche ragazze da bar, visto che questo imponeva la recita. Fece scorrere le dita sulle corde dello strumento. “Ma sono aperto anche a qualcosa di più tradizionale, se volete.”

“Suona Dacw 'Nghariad!” Esclamò il tipo di nome Shad, eccitato come un bambino. Se si evitava di guardare la dimensione dei suoi pugni faceva quasi tenerezza. “È la mia preferita!”
“Non dar retta allo scozzese, suona Greensleves!” Tuonò un altro seguito da un coro di assensi.
“Vincono gli inglesi.” Constatò placido Figgins dando una pacca al grosso Shad che esibì uno stupefacente broncio da bambino di cinque anni.
Milo chiese quindi che gli accennassero il motivetto e quando l’ebbe ascoltato un paio di volte, in più gradi di stonature, si fece un’idea generale e le dita presero a suonare la melodia.
Certe canzonette mi hanno permesso di riempirmi la pancia per anni…
Non è la prima volta che mi salvano anche il sedere.
Preso a godersi le espressioni mesmerizzate del suo pubblico – ah, la musica -  si accorse troppo tardi che due uomini erano entrati nel locale e si erano diretti verso il bancone. Fu quando identificò uno dei due che per poco non sbagliò nota.
Il maghetto stronzo?!
Lineamenti esotici intrappolati nel rigore britannico di un completo tagliato su misura: era Michel, non c’era dubbio.
Che cazzo ci fa qui?
Era in compagnia di un belloccio alla sono-stravagante-quanto-irresistibile, dai lunghi capelli ricci e l’aria compiaciuta di un gatto che si era mangiato la cena de padrone e nessuno dei due aveva l’aria di esser lì per bersi una birra. Maghetto Stronzo poi lo notò, e dall’occhiata che gli lanciò sembrava quasi che fosse lui il motivo della sua comparsata.
Eh, no. Non osare avvicinarti!
Se Figgins o Shad avessero fatto due più due le cose avrebbero potuto farsi imbarazzanti. Molto.
Per fortuna, occhiata o meno, l’altro decise di rimanere alle costole del suo accompagnatore mentre questi ordinava da bere con la disinvoltura del cliente abituale.  
“Ehi Figg, vecchio mio!” Si rivolse infatti al capoccia con familiarità.
“Nott.” Lo salutò il rosso stringendogli la mano. “Un po’ che non ti si vede in giro … Ho sentito dire che eri in Spagna.”
“Che devo dirti, volevo sapere se le scogliere di Dover erano ancora bianche¹…”

Figgins lo fissò perplesso. “E di che cavolo di colore dovrebbero essere, scusa?”
È una poesia.
La sua condizione diventava pesante sopratutto quando notava la mancanza di conversatori stimolanti. Nessuna battuta da taverna, per quanto arguta, avrebbe mai potuto rivaleggiare una poesia citata nel giusto contesto.

Il ragazzo di nome Nott non parve irritato quanto lui dalla mancanza di ricettività del suo interlocutore, perché scrollò le spalle. “Giusta osservazione.” Fece una pausa e non fu una sua impressione, lo sguardo scivolò con malizia da lui all’amico.
Che cavolo…
“Mio buon rosso, son qui per l’eccellente birra che spillate ma anche per proporti un affare che, sono certo, non potrai rifiutare.”
Ma questo tizio parla solo per citazioni?

Che fosse così o meno, sparì nel retrobottega portandosi via metà della banda di Figgins.
Milo si trovò così a pochi passi in linea d’aria dal tipo che gli aveva quasi inimicato la sua stessa gente.
E dannazione, è sexy come l’inferno.
La soluzione migliore era fingere che non ci fosse; si diresse quindi verso il tavolo doveva aveva posato quello che rimaneva della sua pinta, ma fu fermato senza troppe cerimonie; non doveva essere abituato ad essere ignorato.
“Suoni il violino.” Iniziò con il tono di una constatazione.  
Si strinse nelle spalle. “No, gli faccio prendere aria.”
Il mago serrò le labbra, ma non colse la provocazione. “Da quanto lo suoni?”
Ma che domanda è?
La sua sorpresa dovette essere evidente, perché Michel – già, era quello il suo nome – incrociò le braccia al petto con imbarazzo. Il che lo rendeva molto meno mago e molto più umano.
Sì, ma rimane Maghetto Stronzo. Ricordatelo.
“Hai intenzione di rispondere?” Lo incalzò con tono antipatico. Ma era nervoso.
Evvabbeh.
“Da quando so tenermi in piedi.” Rispose togliendo con un gesto leggero un batuffolo di polvere che si era depositato sulla ghiera. “Perché?”
“Perché mi ricordo di te, Emil.”
Se gli avesse tirato un pugno in faccia sarebbe stato meno sorpreso. E avrebbe sentito anche meno dolore. I tempi di reazione però erano gli stessi perché fu certo di essere rimasto a bocca aperta come un cretino per almeno una manciata di secondi.

Riprenditi, testa di cazzo.
Il panico lo rimise in carreggiata. “Cavolo, va bene che abbiamo scopato solo una volta… ma addirittura sbagliarmi il nome…”
“Emil Von Houten Meinster.” Ripeté come se non l’avesse sentito. “Eri il piccolo prodigio musicale del Ministero tedesco, ed io ho avuto il privilegio di ascoltarti in Francia, anni fa.”
Milo vuotò quello che rimaneva della sua pinta: aveva un sapore schifoso.

E non perché è diventata tiepida. Era già piscio.
“Mi sa che mi hai confuso con qualcun altro. Sai quanti tedeschi studiano il violino?” Fece una smorfia. “È praticamente lo strumento nazionale … Ed io non sono mai stato un prodigio. Certo, a meno che suonare canzonette sconce per gente ubriaca non sia da considerarsi prodigioso, nel qual caso sono un re.”
“Non prendermi in giro.” Gli rivolse un sorrisetto saputo. “Hai troppo controllo sul tuo strumento per essere un suonatore da bettola. Oltre al fatto … ” Indicò il violino. “ … che ciò che suoni vale da solo la proprietà di questo posto.”  

E dovevi vedere su cosa potevo mettere le dita prima.
Chi l’avrebbe mai detto comunque … Chiappe d’oro ne capisce di musica.
Non che avesse importanza.
Deve comunque farsi i cazzi suoi.  
Fece un fischio per attirare l’attenzione degli altri avventori. “Signori e gentili damigelle … Avete sentito. Il Signor mago gradisce la mia musica! Ne facciamo altra?” Ricevuti i doverosi e sguaiati plausi, si rivolse poi all’altro, scimmiottando un tono lamentoso. “Se il signor mago vuole sentire qualcosa, il povero suonatore sarà felice di accontentarlo.”
Intonò quindi un motivetto tzigano allegro quanto fastidioso, con rabbia e senza precisione, perché no, non era un maledetto genio, il passato era passato e nessun figlio di puttana aveva il diritto di scavare nel suo.
A posteriori si chiese sempre cosa gli fece cambiare idea: forse fu l’espressione di delusione sul viso del mago che diede un potente calcio al suo orgoglio o forse furono gli incitamenti che sentì per una canzone che non valeva uno zellino e che detestava suonare …
Fatto sta che stoppò il maldestro motivetto da festa di campagna e attaccò Paganini.  
Di colpo gli parve quasi di sentire le corde del suo violino ringraziare mentre sentiva il corpo più leggero e le dita più spedite. Le variazioni, le armoniche, la diteggiatura funambolica …
È questa la mia musica. È questa.
Quando concluse si rese conto che l’intero locale era piombato nel silenzio e che Michel era rimasto di stucco.
Sì, la voce di un violino fa quest’effetto. Specie se suonato come se dovesse costarmi la vita.
Ops.
Scrollò le spalle. “L’ho capito dalla faccia … sei un tipo da classica, vero?” Chiese più che altro per salvare la faccia.
… Ne valeva la pena?
Forse. O forse no. Ad ogni buon conto il suo orgoglio di artista era stato salvaguardato e a questo doveva plaudire.
Il mago non gli rispose, ma sorrise e per la prima volta da che lo conosceva sembrò sincero. “Lo sapevo.” Mormorò. “Sei tu.”
Non poteva più negare, non di fronte all’evidenza. “Sì, wow, fantastico, mi hai scoperto. Notizia dell’ultima ora … a nessuno frega un cazzo.” Ripose il violino e chiuse la custodia con uno scatto secco. “Aver scoperto che fine ho fatto non è una notizia da prima pagina. Forse un trafiletto nella pagina di cultura del vostro Profeta, se ti va bene … Non sono stato certo un Harry Potter.”
“Non sono un giornalista, sono…” Si umettò le labbra e per Faust, se erano piene, morbide e del tutto peccaminose. Ricordava bene quanto erano state a sud del suo personale equatore.
Ehi, no, a cuccia laggiù!

C’era qualcosa di karmico nell’aver voglia di sbatterlo sul primo tavolo disponibile quando non era il momento né il luogo adatto.
Almeno, a differenza di quanto è successo la sera della festa di quel tizio, lui non s’è accorto di tenermi per le palle.
Dall’espressione cauta e sincera che aveva dipinta in volto dubitava lo stesse ripagando con la stessa moneta. Pareva piuttosto concentrato sulla scoperta appena fatta.
“Immagino non ti ricordi di avermi conosciuto …”
“No, dovrei?” Si rendeva conto di comportarsi da perfetto stronzo con un ragazzo che, almeno fino a quel momento, era stato gentile.
Ma ehi, chi semina vento…
L’inglese lo guardò storto ma mantenne, glielo doveva riconoscere, una certa cortesia. “Non capisco perché tu debba essere così sgradevole.”
Perché prima che scoprissi che ero il Meraviglioso Emil tu lo sei stato con me, anche quando ti ho salvato le chiappe rischiando di esser etichettato come un traditore.
Per esempio.
“Perché .” Richiamò l’attenzione del barista scuotendo la pinta vuota. Aveva bisogno di un altro buon litro se voleva continuare quella conversazione. “E comunque, neanche tu sei stato uno zuccherino con il sottoscritto.” Si stampò in faccia un’espressione di puro panico. “Oh mia Morgana, ho toccato uno sporco Magonò con il mio pisello!”
“Mi dispiace.” Si stava davvero scusando con lui? Ne fu stupito perché stavolta il tono della frase era intriso di autentico dispiacere. “Mi sono comportato …” Esitò e dovette ingoiare un discreto quantitativo di orgoglio maghesco dall’espressione che fece. “… in maniera riprovevole. Come mi sembra di averti già detto, non reagisco bene quando vengo preso di sorpresa.”
“Immagino che esserti scopato un Magonò sia stato sorprendente, sì.”

“Potresti smetterla?” Ribatté con rabbia. Non si poteva dire che non avesse un bel caratterino: l’educazione da damerino doveva di solito tenerlo a bada, ma premendo i tasti giusti non c’era strumento che non cantasse con le sue reali tonalità.
“No.”
Emise un verso spazientito. “Vorrei solo avere la possibilità…”
Era stufo. Era stata una giornata stancante e a casa – sempre che una stanza ammuffita si potesse considerare tale – lo aspettava un altro mago pieno di paturnie e problemi. Non aveva quindi voglia di immergersi in una parte della sua vita che aveva seppellito a fondo per la sua stessa sanità mentale. Neppure per il ragazzo stupendo che aveva di fronte.

“Di fare cosa?” Scosse la testa. “Se ti eri preso una cotta per me, come un altro milione di maghetti felici di avermi tra le loro fila, ti devo deludere … Quella persona non esiste. Tanto piacere, sono Milo, un Magonò.” Gli tese la mano quasi sbattendogliela addosso e Merlino, se avrebbe voluto picchiarlo. Che diritto aveva di venire lì e parlare del suo passato? 
Il mago lo guardò confuso, quasi non si fosse aspettato quella reazione: pareva esserci rimasto male.
Ma cosa sperava?  
Il momento patetico fu per fortuna interrotto da Figgins che rientrò con un gran vociare, chiedendo che la sua sete venisse spenta con una parola in slang che non capì ma che significava probabilmente birra.
Questo parve riscuotere l’altro, che distolse lo sguardo dandosela a gambe senza un’altra parola.
Ah, ho vinto!
Era frustrante non sentirsi un vincente.
Quando se ne fu andato assieme al tipo ricciuto, quest’ultimo gli si affiancò, passandogli un braccio sulle spalle. “Beh, cos’è quel muso lungo?” Chiese. “Un maghetto t’ha fatto la bua?”
Storse il suo miglior sorriso storto. “Non direi. Ho la pelle più dura di così.”
Ciao, sono Milo, un Magonò.
 
****
 
Scozia, Foresta Proibita.
 
Ted non riusciva a dar retta alle persone attorno a sé; sapeva che doveva ascoltare James e i suggerimenti accorti di Neville, che in quei boschi aveva camminato e imparato ben prima di lui. In coscienza, si rendeva conto che il suo modo di reagire non era funzionale a ciò che stava per fare.
Non riusciva a importargli.
La ricerca di Ben era l’unica cosa che lo teneva lontano dalle rivelazioni che erano conseguite alla conversazione con Moscardo. E funzionava, quindi non gli interessava esser razionale in materia.
James accanto a lui balzò su uno sperone di roccia, indicando una fenditura dove una persona sarebbe potuta passare agilmente. “Non è una delle entrate che abbiamo controllato?”
“Sì.” Convenne mentre Scorpius sbuffava e li raggiungeva pulendosi le mani sporche per l’arrampicata.
“Ci dividiamo?” Propose questo guardandosi attorno. “Perché di posti in cui nascondersi ne ho visti parecchi salendo.” Si grattò la nuca. “E non è che rischiamo molto, a star da soli, credo … Si tratta di un bambino, no?”
“Potrebbe essere un Mannaro.” Gli fece notare, perché al di là dei suoi personali sentimenti in materia rimaneva pur sempre suo compito avvertirli del pericolo. “Anche se non è Plenilunio, il suo morso avrebbe comunque degli effetti.”
“Sì, ma non mi farebbe trasformare, vero?” Si informò con aria inquieta e Ted ricordò di colpo come Lucius Malfoy fosse morto.

Ucciso da Greyback. Un Greyback trasformato.
La presenza di Scorpius era di colpo molto meno scontata e per questo cercò di sorridergli: una prova simile di lealtà poteva e doveva accantonare i suoi problemi. “Hai presente Bill, il padre di Louis?” Ad un cenno di assenso continuò. “Fu morso da Greyback quando era ancora in forma umana, e non si è Trasformato. Il morso porta ad una forma completa di Licantropia solo durante la luna piena…”
“In compenso ti viene una gran voglia di carne al sangue!” Gli strizzò l’occhio James, dandogli una pacca sulla spalla. “Non dirmi che te la fai sotto, Malfuretto.”
“Molto, ma fingerò di non voler strillare come una ragazzina.” Replicò l’altro tentando un tono scherzoso. Gli riuscì piuttosto bene. “Comunque, è un bambino. Dobbiamo trovarlo.” Concluse con tono definitivo.

“Grazie Scorpius.” Lo disse perché quel ragazzone non aveva mai avuto tutti i riconoscimenti che si meritava.
Meno della metà se si considera che si è infilato volontariamente nei casini di questa famiglia…
Scorpius ricambiò con  un cenno della testa e un vago rossore compiaciuto sulle guance. “Beh, io vado a destra!”
James, quando fu il momento di separarsi, lo afferrò per un braccio. “Andrà tutto bene.” Gli mormorò serio e fu quasi tentato di crederci; quando abbandonava l’attegigamento da bulletto di periferia mostrava al mondo intero come fosse in realtà una delle persone più affidabili che conoscesse.
“Lo so.” Lo baciò perché anche se non era appropriato data la sua situazione – tra l’altro, erano in bilico tra rocce friabili – ne aveva un disperato bisogno. James parve intuirlo da come afferrò un pugno di stoffa della sua camicia per tirarselo contro.
“Preferisco questo grazie a quello di Malfuretto.” Ghignò sulle sue labbra prima di lasciarlo andare. “È più personale. Che non ti salti in mente di darlo ad altri!”
Non poté fare a meno di sorridere e tirargli uno scappellotto.
Si separarono e Ted accese la propria bacchetta in Lumos mentre l’oscurità della caverna lo avvolgeva. Non ricordava di esserci entrato, ma era pur vero che la morfologia del posto non era degna di nota. Si spinse a fondo e contò di aver percorso almeno un centinaio di metri prima di notare, sulla parete, un segno che non pareva fatto dalla natura: pareva esser stato fatto con un sasso sfregato con forza.

Qualcuno voleva esser certo di non perdersi in mezzo a questi cunicoli…
L’istinto gli diceva che doveva trattarsi di Lunastorta: difficilmente i Centauri avrebbero potuto inerpicarsi fin lì, ed erano gli unici altri esseri della foresta a poter maneggiare degli utensili.
“Ben?” Chiamò, sperando che il bambino fosse nei dintorni e si fosse semplicemente nascosto sentendolo arrivare. “Mi chiamo Ted, sono …” C’era un modo per presentarsi che fosse adeguato? Dubitava. “ … un amico.” Si risolse a dire. “Non devi avere paura, vengo …” Ignorò la fitta che sentì calciargli lo stomaco. “… vengo da parte di papà.”
Prima di morire ha detto il nome di suo figlio. Ha cercato di dirmi che non era solo, e che il suo bambino aveva bisogno di aiuto.

Ed io non l’ho capito.
Un rumore lo allertò, ma invece di alzare la bacchetta, come istinto gli suggeriva, la ripose; la prima cosa di cui un bambino Licantropo avrebbe avuto paura avrebbe potuto esser proprio quella.
Fece un paio di passi verso l’origine del suono. “Ben?” Chiamò di nuovo e svoltato l’angolo si trovò di fronte a quello che aveva tutta l’aria di essere un accampamento di fortuna, ricavato in una rientranza tra due pareti di roccia. Contemplò quindi i rimasugli di un falò, ormai braci fredde che sorreggevano un calderone pieghevole per una persona, uno zaino di montagna che giaceva in un angolo e due pagliericci di foglie dall’aria umida.  
Il cuore perse un battito quando vide che uno dei due era occupato.
Si accovacciò a terra, e anche se l’istinto lo portava a cercare il contatto con il corpicino esanime, controllò prima il battito del polso. Un’ondata di sollievo lo investì quando lo sentì pulsare, forte e presente. Ben – era così che si chiamava l’ultima parte della sua famiglia – al tocco emise un lieve lamento, più simile ad un uggiolio che al pianto di un bambino.
Merlino, non può avere più di cinque anni…
Controllando che non avesse ferite che sconsigliassero uno spostamento, lo prese tra le braccia e tentò di non crollare rovinosamente quando sentì le manine cingergli il collo istintivamente. “Ehi Ben.” Mormorò ignorando le lacrime. Erano ore che premevano per uscire e le lasciò finalmente libere. “Sta’ tranquillo … ora sei al sicuro.”

 

****
 

Note:

Angst, lo so. Ma date tempo al tempo. Se non altro, adesso Milo è stato stuzzicato nei punti giusti.
(E anche l’orgoglio di Mike)

E c’è di mezzo un cucciolo di Licantropo! :D 
(Che starà bene, promesso.)
Prossimo capitolo, avverto, molti feels Lily/Ren. Mi prendo una pausa da loro e subito mi mancano. Sono i miei bimbi disfunzionali.

La cover del capitolo stavolta non è opera mia (e si vede): è stata fatta dalla meravigliosa Gaea. Grazie girl! :D

Questa la canzone del capitolo. La trovavo adatta ai pezzi nella foresta e poi, ohi, è figa.

Ho scoperto un doppelgaenger di Milo: David Garrett. È pure tedesco. Se non sapete chi è, vergognatevi mentre ascoltate la sua versione di Smooth Criminal.
La scena del cambio tra musica tzigana e Paganini è presa spudoratamente dal film Le Concert. Anche qui, rimediate se non l’avete ancora visto. Dico sul serio.

Per quanto riguarda le canzoni richieste dai Maghinò, ecco Dacw 'Nghariad (There is my sweetheart) e Greenslevees. Mentre la prima è una canzone tradizionale scozzese (come scozzesi sono Shad e Figgins) la seconda è una famosissima ballata inglese di cui sono state fatte zilioni di versioni. Quella linkata è quella che suona Milo.
 
1. Loki cita una famosa poesia di Rudyard Kipling, chiamata ‘The Broken Men’, e le strofe finali a cui fa riferimento son queste (tradotte malamente dalla sottoscritta): “Oh, Dio! Uno scampolo di Inghilterra — per accogliere la nostra carne e sangue — per udire il traffico roboare | Ancora una volta lungo il fango di Londra! | Le nostre città di onor sprecato  —Le nostre strade di piacere perduto! | Come sta il vecchio Lord Warden? | Le scogliere di Dover son ancora bianche?”

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Capitolo 23
*** Capitolo XXII ***




 
 




Say it's true
Or everything that matters breaks in two
(Another Hearts Call, The All American Rejects)
 
8 Luglio 2028
Devonshire, Il Mulino.
Mattina.

 
Svegliarsi stordita, quasi un Battitore avesse deciso nottetempo che la sua testa era un ottimo Bolide, non era mai un modo glorioso per salutare il nuovo giorno e Lily lo sapeva, ma cosa poteva farci?
Togliendosi le coperte estive di dosso ciabattò fino in bagno senza avere il coraggio di guardarsi allo specchio, non prima di essersi gettata una manata piena di acqua gelida sul viso.
Ugh. No, sembro ancora un orchetto tolkeniano.
Dal piano di sotto sentì i genitori muoversi, far colazione e chiacchierare nel modo rilassato e complice di sempre e questo la rimise un po’ in pace con l’universo.
Un altro incubo. Come diavolo si fa ad avere due incubi in due giorni? Cos’è, un trend?
Per questo aveva ripreso a vedere la Patil non solo per motivi strettamente professionali. La strega le aveva fatto sviscerare il problema, ne avevano parlato ed erano giunte ad una serie di conclusioni.
È l’effetto rimbalzo dell’attacco al San Mungo. È il periodo di stress che sto attraversando nella mia vita personale. È anche l’arrivo di Ren. Per farla semplice.
La materia era sempre la stessa: lei che veniva immobilizzata da John Doe, afferrata e gettata attraverso lo specchio. Razionalmente sapeva che era improbabile che l’uomo, per quanto redivivo e calcante il suolo britannico, si interessasse di nuovo a lei …
Ma questo non mi impedisce di avere i nervi a fior di pelle ogni volta che sono sola e qualcuno mi arriva alle spalle. Yay.
Non se la sentiva però di biasimare Ren per averglielo confidato la sera del compleanno di Sy.
Aveva bisogno di parlarne … e quel bastardo ha fatto più danni a lui che a me. In confronto con la sottoscritta è stato un simpaticone, tentativo di omicidio a parte.
“Buongiorno tesoro.” La salutò sua madre quando entrò in cucina. “Dormito bene?”
“Sissignora.” Mentì con disinvoltura, scivolando sulla sedia e rubando l’ultima frittella di mele al padre che le zuccherò il caffè per poi passarglielo: quando non doveva trangugiare la colazione per scappare in ufficio era un piccolo rito che non le faceva mancare. Lo ringraziò con un sorriso, perché quel giorno le era più necessario che mai.
“Hai sentito Jamie?” Le chiese quest’ultimo. “Come se la stanno cavando lui e Teddy con la faccenda di Ben?”
Si strinse nelle spalle: quasi a voler dimostrare come le disgrazie non arrivavano mai sole, in quei giorni avevano scoperto che Ted, tramite una serie improbabile di circostanze coinvolgenti Mannari e Centauri, si era trovato ad avere una famiglia … salvo per poi perderla quasi tutta.
Ed io che mi lamento per due incubi…
Scosse la testa. “Non ne ho idea. Jam mi ha chiesto di girare a largo per il momento … Teddy è ancora piuttosto fuori fase e non vuole gente attorno.”
“Sì, lo ha detto anche a me.” Suo padre annuì con aria dispiaciuta, ma non aggiunse altro, riprendendo a fissare pensieroso le siepi oltre la finestra: se c’era qualcuno che poteva capire Teddy era proprio lui.

“Se avranno bisogno di noi sapranno dove trovarci.” Argomentò tranquilla sua madre, stringendo la mano del marito oltre la tavola. Lily li vide scambiarsi uno sguardo e subito dopo la linea tesa delle spalle di suo padre si sciolse visibilmente.
Eccolo qua, l’amore.
Lo pensò con un sorriso e fu quel pensiero positivo che le diede la forza di fare una domanda la cui risposta, era certa, non le sarebbe piaciuta. “Come va il caso dei ragazzi?”
Suo padre esitò un momento prima di rispondere ma poi, sotto lo sguardo congiunto suo e di sua madre, fu costretto a capitolare. “Sono ad un punto di stallo, di nuovo. Hanno trovato un posto dove sembra essere stato John Doe … ma era pulito come una sala chirurgica.”
Ah. E allora Ren perché mi ha detto di essere occupatissimo? Non lo è!

Le aveva mentito. “Capito.” Si controllò, salvo poi scappare in bagno e sbattersi la porta dietro per scrollarsi il nervoso di dosso.
Brutto deficiente!
Era ufficiale: la stava evitando.
Ma perché? Che gli ho fatto?  
Era dalla serata del San Mungo che qualcosa non andava.  
Quale diavolo è il problema? Viene qui e dice che vuole vedermi, che vuole portare la nostra amicizia ad un nuovo livello e poi … mi molla?
L’unico modo per avere delle risposte, decise, era lanciare un sasso e vedere cosa colpiva. Digitò un messaggio sul cellulare mentre metteva piede nel camino masticando a mezza bocca un saluto ai genitori. “Stasera non ci sono per cena.” Li avvertì.
“Esci con Scott?” Chiese sua madre mentre obbligava il marito a rimaner per cucirgli un bottone dell’uniforme.
Li perde sempre. Come diavolo fa?
“No, stasera ha la sua uscita settimanale con i ragazzi della squadra di rugby. Adora fare il Babbano.” Scrollò le spalle. “Esco con Ren.”
Anche se ancora il suddetto non lo sa.

 
‘Buongiorno Ren! Stasera sono libera … ti va di goderti un po’ di Londra notturna?’
 
****
 
Londra, Diagon Alley. Il Paiolo Magico.
 
“Buongiorno principino, c’è posta per te!”
Sören fu accolto dalla voce strascicata del proprio compagno di stanza, straordinariamente in piedi vista l’ora. Stava giocherellando con il suo smartphone – chissà perché poi li chiamavano intelligenti, se erano complicati in maniera infernale – mentre fumava droga altrettanto poco magica.

Son giorni che questo posto puzza di quella roba.
“Ridammelo. La posta è privata per antonomasia.” Argomentò asciugandosi il sudore con l’asciugamano che l’altro gli lanciò dopo averlo recuperato da un cassetto. L’attività fisica, come sempre, era il rifugio perfetto per i pensieri nefasti e infatti, ogni mattina che Merlino metteva in terra, indossava una maglietta lisa dei tempi dell’Accademia e si gettava sull’asfalto londinese.
Così riesco a dormire.
La crisi non era rientrata, ma poteva esser gestita. Stancarsi, dormire e concentrarsi sul lavoro era il metodo migliore di allontanare ogni fonte di stress. Non il più efficace, ma l’unico che al momento a cui riuscisse a pensare.
Notò poi come l’altro si aggirasse per la stanza a piedi nudi e con addosso solo un paio di pantaloni slacciati. “Sai bene che non gradisco che tu porti persone qua dentro…”
“Non mi sono scopato nessuno sul tuo letto, rilassati.” Gli rispose lanciandoglielo. “Ho solo caldo e ah … sì, sono fatto.”
“Anche sulla droga…”
“Ehi, io ti dico come devi rilassarti? No, non mi pare.” Ribatté con insolita asprezza. “Non sei l’unico ad avere problemi al mondo.”
“ … Lo so.” Convenne sentendosi improvvisamente di troppo in una stanza che, ad onor del vero, pagava lui. L’altro aveva serrato le braccia al petto tendendo le labbra in una linea dura, ostile.  

Che cos’ha?
In quei giorni l’aveva incrociato a malapena, con il caso che continuava a girare a vuoto e la sua routine di allenamenti massacranti.
E l’unica volta in cui abbiamo parlato gli ho chiesto di Johannes e me la sono presa perché non ha saputo darmi informazioni utili.
“Milo…” Iniziò incerto. Non si era mai interessato dei problemi delle persone alle sue dipendenze, e anche con il Magonò che aveva davanti si era sempre limitato a dare più che ricevere confessioni.
Però Milo era tutto fuorché dipendente qualunque; non gli obbediva mai, faceva di testa sua e continuava ad impicciarsi della sua vita privata, specialmente quando non era richiesto.
Come fa Lily. Come fa Dionis, ed Estevez. Come farebbe un amico.
“Va tutto…”
“Non vuoi leggere il messaggio?” Lo interruppe mentre l’espressione tesa veniva cancellata dal consueto sogghigno sornione. “Perché credo dovresti.”
Sören, troppo sorpreso per quel repentino cambio d’umore, obbedì schiacciando l’icona colorata che gli ricordava la busta di una lettera sullo schermo. Ed inspirò. “È Lily.” Fece una pausa mentre l’altro spegneva lo spinello strisciandolo lungo il davanzale della finestra. “Vuole uscire, stasera.”
“Grandioso!”
“No, non direi.” Mormorò posando il cellulare sul comodino. “Vado a farmi una doccia. Devo passare al San Mungo.”

“Perché?”
“Indagini.” Mentì. I Guaritori inglesi avevano avuto il via libera da parte del Ministero Americano a prelevare campioni di sangue e tessuto dal suo braccio: cercare di non sentirsi una cavia da laboratorio era stato piuttosto difficile.

“Allora potresti approfittarne per far colazione con Zenzero! Non studia là?”
“Non è il ca…”

Ehi.” Lo bloccò spazientito. “Ti rendi conto, sì, che prima o poi realizzerà che la stai evitando?” Fece una pausa drammatica e mimò l’uso di un paio di forbici. “Ti taglierà le palle. Zac zac.”
Suo malgrado deglutì. “Le ho detto che sono occupato.”
“Lavori con suo fratello, genio, e l’orario di ufficio è uguale per tutti. Comunque, il tempo per un caffè si trova sempre. Se le rifili un bidone devi avere una scusa valida.”  

Non posso uscire con lei.” Perché diavolo l’altro non capiva? Eppure credeva di esser stato chiaro quando una settimana prima si erano ritrovati a dividere una bottiglia alla locanda.  
“Non farla tanto lunga.” Milo lo guardò quasi con simpatia. O divertimento sadico. Non riusciva a mai a distinguere le due emozioni se erano dipinte sulla sua faccia. “Non sei il primo caso di due di picche della storia.”

“Non usare parole incomprensibili.”
“Sto solo dicendo che se vuoi rimanergli amico…”
“Lo voglio.”
Almeno questo.

“ … ecco, se vuoi continuare ad averla attorno, sai … devi permetterle di starti attorno.”
Aveva ragione. Era questa, forse, la cosa peggiore.
Voglio vederla, ma non in queste condizioni. Non con il rischio di aggrapparmi a lei perché non so dove altro andare.   
Lily, con la sua amicizia pura e disinteressata, lo aveva liberato dalla schiavitù mentale che gli aveva imposto suo zio ed era proprio quello il problema; se c’era qualcosa che la terapia magica gli aveva insegnato, era che scivolare da una dipendenza emotiva all’altra era facilissimo nella sua condizione, specie quando il terreno gli cedeva sotto i piedi come in quel momento. Non poteva rischiare di trasformare l’amore che provava per Lily nel desiderio di renderla la sua personale Salvatrice.
Assolutamente no.
Si sedette sul letto, guardandosi le mani e sentendosi come al solito lento, confuso e arrabbiato. Perché per gli altri era tutto così naturale, semplice mentre per lui assumeva le dimensioni di una montagna insormontabile?
Sei sempre in difetto. Sempre.
Si strofinò le palpebre mentre sentiva l’altro muoversi per la stanza e dal rumore intuì che gli stava preparando il the. Doveva tenere le mani occupate, perché sentiva il braccio formicolargli e non era mai un buon segno. Prese quindi a giocherellare con l’anello di famiglia, passandoselo tra le dita e pulendolo con un veloce incantesimo dalla patina dovuta all’ossidazione.
“Non è scomodo portarlo sempre al dito?” Lo sorprese Milo, accovacciato davanti al fuoco mentre gettava una manciata di foglie di the nel bollitore. “Io lo detestavo, non lo portavo mai.”
Sören non fu sorpreso alla notizia che l’altro proveniva da una famiglia nobile. Lo aveva sempre sospettato. “È una tradizione…” Rispose, grato per quella interruzione. “Come tutte le tradizioni, finisce per diventare un’abitudine. E l’abitudine spesso è fonte di conforto.” Strinse tra le dita l’argento caldo, familiare. “A chi altri l’hai visto fare?”

Non credo frequenti altri maghi in possesso di un sigillo nobiliare, a parte me.
Milo scosse la testa. “A nessuno.” Si alzò, stiracchiandosi. “Allora … Zenzero.” Tornò in riga, spietato. “Cosa le risponderai?”
“È complicato.” Mormorò. “Non so cosa fare…”
“Già.” Gli porse la tazza fumante con un sorriso storto. Aveva imparato come quello fosse il suo sorriso più autentico e in qualche modo lo faceva sempre sembrare … rassegnato.  “Benvenuto nel magico mondo delle persone normali.”


****
 
Londra, San Mungo. Mattina.
 
Ted varcò l’ingresso del San Mungo per la quinta volta in quei cinque giorni e come ogni volta venne aggredito dal forte odore di erba medica e Pozioni Disinfettanti.
Mentre le porte dell’ascensore si chiudeva dietro di lui non poté fare a meno di controllare lo Specchio Magico: nessun messaggio. Flynn non era ancora riuscita a trovare notizie sulla famiglia di Lunastorta.
(Faceva meno male se non ricordava come l’uomo che gli era morto tra le braccia avesse diritto al titolo di ‘fratello’. Solo un po’.)
Si staccò dalla parete dell’ascensore quando le porte si aprirono sul Reparto Ferite da Creature Magiche.
Che ipocrisia …
Era il reparto in cui avevano ritenuto opportuno portare Ben e Ted, in quella notte febbrile, non aveva avuto la forza di combattere contro quell’ennesimo, sciocco pregiudizio magico.
Se è un Mannaro, va’ dove vengono trattati i Mannari.
Arrivò alla stanza che per quei cinque giorni era diventata una seconda casa e salutò con cenno della testa la magi-infermiera che vi era stata assegnata; a giudicare da come stava uscendo con un carrello ricco di bricchi e da cui si spandeva un delizioso odore di pane caldo doveva aver appena consegnato la colazione.
Ted sperò che quel giorno fosse partito con un piede diverso.
“Ha mangiato qualcosa?”  
Quella scosse la testa dispiaciuta. “Mi dispiace Signor Lupin, non che non abbia provato, ma temo … temo che non capisca neppure ciò che dico.”
“Lo capisce.” Le assicurò d’istinto, anche se da quel che ne sapeva poteva benissimo esser vero il contrario. “È solo…”

“Spaventata.” Terminò per lui con un sorriso simpatetico e Ted, ancora una volta, si trovò nell’imbarazzante posizione di doversi ricordare che Ben era sì un nome da maschietto, ma apparentemente era stato dato …
Ad una bambina.
Scoprirlo era stata un fulmine a ciel sereno: quando l’aveva presa in braccio nella grotta, sentendo tra le dita i capelli corti, sporchi e arruffati aveva fatto due più due … deducendo tre.
Solo dopo un viaggio a rotta di collo verso il San Mungo e dopo una mezz’ora angosciante in sala d’attesa, dove James aveva dovuto minacciarlo un paio di volte di Impastoiarlo se non si fosse seduto, avevano scoperto la sconcertante verità.
 
“ … con le dovute cure si riprenderà nel giro di una settimana. La luna piena non ha reso le cose semplici … è stata una fortuna, siete arrivati in tempo.” Aveva spiegato il Guaritore.
“Completamente?” Aveva chiesto sentendo la mano di James posarsi sulla spalla. Avrebbe dovuto fargli una statua d’oro come cianciava nei suoi deliri d’onnipotenza, finita quella storia. Sul serio. “Completamente.” Gli era stato assicurato. “Al di là della Licantropia è una bambina sana.”
… eh?
James aveva fatto un suono a metà tra l’esclamazione e il pronunciare un’oscenità. Poi aveva parlato lentamente, come faceva quando pensava di non afferrar bene un concetto. “Non abbiamo capito bene … cioè, io non ho capito bene … Ha detto bambina?”
Il Guaritore era sembrato confuso. “Sì…?”
“Ne è sicuro?” Gli aveva dato manforte e agli occhi dell’uomo erano dovuti sembrare due idioti, tutti occhi, bocche spalancate e nel suo caso, anche capelli arancioni. “Si chiama … si
chiamerebbe Ben.”
Il mago aveva realizzato di colpo il punto della faccenda, perché aveva sorriso divertito. “Sarà anche … ma ragazzi, sono sicuro, quella che ho curato è una bambina.”
 
Sorpresa…
I Mannari erano una società a base patriarcale, dove la nascita di un maschio era tenuta in maggiore considerazione rispetto a quella di una femmina; forse Lunastorta le aveva tagliato i capelli e l’aveva vestita da maschietto nel tentativo di farla accettare dal branco.
Qualunque fosse il motivo per cui l’uomo aveva camuffato sua figlia ormai non aveva più importanza.
L’importante è cercare di farla parlare, di aiutarla a farci capire da dove viene e se ha un posto in cui tornare.
… È proprio questo il problema.
Perché Ben non parlava.
Sentì un nodo allo stomaco quando entrò nella stanza, vuota di persone ad eccezione del fagottino di coperte nell’ultimo letto.  
“Ciao Ben.” Salutò gentilmente avvicinandosi e prendendo la sedia su cui ormai aveva messo radici. “Ho incrociato l’infermiera e mi ha detto che non hai voluto far colazione. È vero?”
Nessuna risposta, ma non si diede per vinto. Posò invece  i gomiti sulle ginocchia per avvicinarsi al letto. “Quella colazione aveva un ottimo profumo e scommetto anche un buon sapore … Sei proprio sicura di non volerne mangiare un boccone?”
Niente.
Sospirò, passandosi una mano trai capelli: la bambina, oltre lo shock e lo spaesamento, non si fidava di loro.
Non si fida di me.
Faceva male, ma poteva capirlo. Ben doveva aver vissuto sin dall’infanzia ai margini di una società che la discriminava, e che doveva aver trattato con disprezzo il padre o entrambi i genitori. Per quanto fosse piccola non poteva non essersi già fatta un’idea di come girava il mondo.
E quell’idea non depone a favore di noi maghi…
“Lo so che questo posto non ti piace… ma ancora non stai bene e dovrai star qui per un po’.” Le spiegò perché sapeva che lo stava ascoltando e lo capiva. Doveva. “C’è qualcuno che vorresti con te? La tua mamma?”
Ormai ripeteva sempre le stesse cose. Levò la mano per toccarle i capelli, un ammasso arruffato che nessuno era riuscito a toccare: l’unica volta in cui la magi-infermiera aveva provato a portarla a fare il bagno c’erano stati strilli e pianti talmente acuti che a detta della povera donna si erano sentiti fino al Quinto Piano.
Hanno dovuto farla addormentare per le spugnature…
Vedendo le spalle della bambina irrigidirsi si ritrasse; come tutti i Mannari, percepiva l’ambiente attorno a sé con estrema precisione.
E non vuole che la tocchi.
Si sentiva frustrato e impotente. Neppure tutta la sua gentilezza e le sue parole rassicuranti servivano a penetrare il bozzolo in cui si era rinchiusa la creaturina che gli stava affianco.
Si alzò in piedi non riuscendo a rimanere oltre senza aver voglia di prendere a calci qualcosa. Qualcuno. Chiunque. Se stesso. “Facciamo così… Vado a prenderti un po’ di latte e biscotti.” Propose. “Deciderai tu quando mangiarli, okay?”
Allontanandosi lungo il corridoio quasi non si accorse che qualcuno lo stava chiamando. Poi si sentì afferrare per il retro della camicia senza troppe cerimonie.
Ma che…
“Buongiorno! Perso nei tuoi pensieri?”
Vedere la piccola e pestifera Lily, che aveva passato sette anni a sopportare l’uniforme, indossare un camice e un paio di zoccoli ortopedici come se fossero una seconda pelle era sempre un po’ straniante. “Ciao.” Salutò impacciato. “Non ti avevo sentita arrivare.”
La ragazza, che teneva per mano una donna che realizzò essere la madre di Neville, scosse la testa con aria dolente. “Fa sempre piacere essere invisibile ai propri amici d’infanzia ed ex-babysitter.”
“Scusami.” Sorrise capendo che la battuta voleva esser distensiva. “Come mai al Primo piano?”

“Io e Alice ci stiamo facendo una passeggiata.” Spiegò sorridendo alla donna, occupatissima a giocherellare con i lacci della propria vestaglia. “Siamo andate a prenderci una fetta di torta al quinto piano, ma poi non avevamo voglia di tornare subito, vero?” Si rivolse alla strega, che con sua sorpresa fissò lo sguardo in quello della ragazza e annuì.
Credevo fosse catatonica …
“Sì, quando la Gazzetta parla di progressi nella Psicomagia per una volta non esagera.” Lo lesse Lily, sorridendo del suo palpabile impaccio. “Mi ritengo offesa, professore … dovrebbe interessarsi della carriera di una tua vecchia studentessa!”
“Lo sai che sono bravo solo con cose che strisciano negli anfratti più oscuri della foresta.”

“Mmh … sexy.” Chiocciò allegra. Poi occhieggiò alle sue spalle, verso la stanza di Ben. “Come sta?”
“Stabile…”
“ … sì, molto chiaro. Sarebbe?”
Ovviamente, una volta calmate le acque, era stato doveroso mettere a parte Il Clan degli sviluppi di quella faccenda.
In realtà è bastato che James dicesse a Ron il motivo per cui si era assentato dal lavoro.
Dopo l’iniziale chiasso dovuto alla notizia, li aveva pregati di aspettare dato che la situazione familiare della bambina non era ancora chiara: l’ultima cosa che voleva per Ben, al momento, era una massa di teste più o meno rosse pronta ad intervenire con pareri, consigli, idee e cibo.
E fin’ora son stati bravissimi…
Ma data la presenza di Lily e il fatto che si fosse inventata una bugia poco credibile sulla sua presenza al piano, sembrava che la tregua fosse finita.
“Sarebbe che non ci sono novità.”
“Sai… potrei darti una mano.”

Ecco, appunto.
Non che non apprezzasse l’offerta, ma si sentiva in dovere di proteggere Ben dalla curiosità altrui; persino da quella ben intenzionata del clan che gli aveva fatto da seconda famiglia.
“Grazie, ma…”
Teddy.” Lo fermò guardandolo come un ragazzino un po’ tardo. Era stranamente convincente. “Non mi voglio impicciare nei tuoi affari … cioè, in realtà sì.” Si corresse allegramente. “Ma lo faccio perché sono … o diventerò, comunque … una Psicomaga. Posso aiutarti sul serio.”

Capitolò perché aveva davvero bisogno di una mano. Come zio di Ben poteva tener lontani i servizi sociali del Ministero, ma non a lungo, e se non si fossero trovati altri congiunti le cose si sarebbe complicate.
“Non so cosa fare.” Confessò passandosi le dita trai capelli. “Non parla … Ci vuole un incantesimo che la sedi per farla mangiare.” Doveva evitare assolutamente che il groppo alla gola avesse la meglio, soprattutto davanti ad una ragazza che considerava come una sorellina minore. “Non si fida di nessuno, e non riusciamo a trovare sua madre.”
“Wow.” Mormorò Lily, e le fu grato per non cercare di rassicurarlo. “Okay. Devo chiedere un parere, ma …” Parve riflettere per qualche instante poi annuì. “Penso di poterti aiutare.”
 
****
 
America, Boston. Ufficio SAGITTA.
 
Gli mancava Sören.
Non era una cosa virile da ammettere, Rico se ne rendeva conto, tuttavia pensarlo non era piagnucolarlo di fronte ad birra, quindi supponeva andasse bene.
La scrivania di fronte a lui era vuota e non vedere il collega riordinarla ogni giorno e guardare la sua con indignazione era straniante. Sì, gli mancava quel rigoroso rompiscatole che mangiava solo insalata e non capiva una battuta di spirito manco se gli ballava nuda davanti.
Era preoccupato; Prince gli aveva scritto solo una volta da quando era partito, una cartolina, e solo perché gli aveva fatto promettere di spedirla.
Il giorno della partenza sembrava aver voglia di vomitarsi la colazione sulle scarpe.
Non era l’unico a chiedersi come se la stesse passando, però. Era accaduto più di una volta che il Sergente Gillespie – che sembrava detestare il crucco più di chiunque altro in ufficio, eccetto forse Murphy – venisse alla sua scrivania a chiedergli notizie con la scusa di strigliarlo per qualche infrazione.
Secondo Milo, Ama lo detesta come una bambina di cinque anni spingerebbe giù dall’altalena il ragazzino che le piace.
Pensavo fosse una cavolata, ma…
Dalla sera in cui aveva visto il collega riaccompagnare la ragazza a casa aveva cominciato a chiedersi se il biondo non avesse invece ragione.
Quando udì dei passi avvicinarsi si chinò rapido sulla macchina da scrivere, dove stava finendo di redigere un rapporto. Con sua enorme sorpresa vide il Capitano Gillespie incedere tra le scrivanie, seguita da nientemeno che Ethan Scott.
Non è il bastardo che ha incastrato Prince nell’intera faccenda inglese?
Era lui e aveva la solita, insopportabile, aria compiaciuta stampata in faccia.
Perché è qui?
… Ovvio. Per parlare di Prince.  
E a giudicare dall’aria tempestosa del proprio capo le notizie non dovevano essere buone.
Rico non ci mise che qualche attimo per decidere il da farsi. Fu così che due minuti d’orologio dopo aveva l’orecchio incollato alla porta dell’ufficio del proprio capitano con un incantesimo SuperSensore in corso. Non poteva vedere attraverso le veneziane tirate ma poteva ascoltare. Tentò di concentrarsi e per poco non strozzò quando sentì una mano afferrarlo per il retro dell’uniforme.
“Cosa diavolo credi di fare, Estevez?” Lo apostrofò la voce polare di Ama Gillespie.

Rico si sarebbe Maledetto da solo: avrebbe dovuto controllare di non esser stato seguito prima di attuare il suo proposito. “Ehm…” Cercò di radunare le idee e alla fine optò per la brutale verità, sperando che Milo non si fosse sbagliato. “Origlio il Capitano mentre parla con l’uomo che ha spedito l’agente Prince in Inghilterra?”
La ragazza lo fissò anodina, prima di spintonarlo di lato senza troppe cerimonie. Rico nascose un sorriso e si mise in ascolto.

 
“… autorizzare un mio agente ad essere trattato come una cavia!”
“Calmati Nora, non è quello che faranno al San Mungo.”
“Leggo oltre i giri di parole sulla carta stampata, Ethan. Sei stato tu ad autorizzare la ‘messa a disposizione della bacchetta in possesso dell’agente Prince’. La bacchetta è parte di lui. Dovranno operarlo. Sarà invasivo, e non gli è stato neppure chiesto …”
“Cosa, il permesso? Sembra che tu sia scordata che Sören è proprietà del Ministero americano.”

Cosa?

Rico sgranò gli occhi ed intercettò lo sguardo di Ama che a sua differenza non appariva sorpresa dalla rivelazione.
Lo sa? Beh, è il nostro sergente, ma…
“Che significa?” Chiese sottovoce, ma l’altra gli fece cenno di far silenzio.
 
“L’agente Prince è una persona, non un oggetto!”
“Certo.” La voce del funzionario ricordò a Rico un serpente che danzava attorno alla preda prima di colpirla a morte. “Peccato che ai fini della sua riabilitazione non faccia testo. Conosci gli accordi … non può disporre di se stesso come ogni onesto mago americano.”
“Non ancora.” Il tono del Capitano era sferzante e Rico, oltre la confusione, si trovò orgoglioso di servire una strega che non si tirava indietro quando doveva difendere i propri sottoposti. “Questo caso proverà al Dipartimento che ha il diritto ad esser considerato un membro della nostra società.”
“Mi sembra ovvio, dunque … è nel suo interesse assecondare le richieste del San Mungo.” Il tono prese una sfumatura divertita. “Eseguiranno una banale biopsia e un prelievo del sangue … Non lasciare che il tuo istinto materno abbia la meglio sulla ragione.”

Rico sentì un tonfo provenire dalla stanza ed immaginò che la strega si fosse alzata di scatto dalla sedia. Si scambiò un’occhiata sorpresa con il sergente; il Capitano poteva essere una donna  passionale, ma non impulsiva.
L’ha fatta proprio uscire fuori dai gangheri!
“Scoprirò cos’hai in mente, Scott.” Stava mormorando ma Rico percepì quelle parole come il ruggito di una fiera. “Ma sappi questo. Se stai cercando di infangare uno dei miei ragazzi dovrai prima passare sul mio cadavere.”
“Nora, stai esagerando. Al di là delle nostre schermaglie dovrai riconoscere che  serviamo la stessa causa e gli stessi ideali.”
“No, non credo.” Si sentì scostare una sedia. “Fuori di qui.”

 
Credo di essermi un po’ innamorato.
Si sentì di nuovo afferrare per il colletto dell’uniforme e tirare indietro; Ama lo fece nascondere appena in tempo, perché Ethan Scott aprì la porta e uscì fuori. Neppure un momento dopo udirono la voce della donna. “Sergente Gillespie, agente Estevez … una parola.”
Ma come cavolo ha fatto?!

Ama assunse un’aria tra l’irritato e il bastonato che fece ricordare a Rico come, in effetti, fossero coetanei. Sembrava una bambina colta a divorare una torta di mele non destinata a lei.
Entrarono dentro con il passo di due scolari indisciplinati e furono accolti da un’aria esasperata, ma non furiosa.
Buon segno?
“Prima che possiate chiedermelo, non occupo questo posto solo perché ho quasi il doppio dei vostri anni. I vostri incantesimi sono rumorosi come spari.”
“Capitano…” Doveva chiederlo. Sapeva che non erano affari suoi – anche se certo, si stava parlando del ragazzo che divideva la scrivania con lui - ma doveva togliersi quella pulce dall’orecchio. “… che significa che l’agente Prince non è un mago libero?”
La strega fece un sospiro, accomodandosi di nuovo dietro la scrivania. “È un’informazione riservata, agente … no, Rico.” L’uso del suo nome di battesimo lo stralunò. Gli venne sorriso. “Ma immagino che questo non vi fermerebbe dal farvi ulteriori domande.”
“Perché quel funzionario ce l’ha con l’agente Prince?” Domandò Ama. “È evidente che ha un risentimento personale nei suoi confronti.”
“Non verso Sören, ma verso di me. Si può dire che glielo abbia soffiato sotto il naso. Ed Ethan Scott non ha mai saputo perdere.”
“Prince è stato incriminato?” La cosa era sconcertante su un sacco di livelli ma aveva senso: la riservatezza che lo contraddistingueva, il non parlare mai della sua vita nel vecchio continente e la mancanza totale di informazioni o di spiragli sul suo passato. Sören aveva fatto qualcosa in Europa per cui ne pagava tutt’ora le conseguenze.

Come restrizioni alla libertà … Non può manco decidere cosa fare del proprio corpo e della propria bacchetta. Gente come Scott decide per lui.
Il capitano gli scoccò un’occhiata. “Finito questo caso l’agente Prince tornerà.” Esordì pacata. “E tornerete a lavorare assieme. Siete una buona squadra e mi rincrescerebbe se le cose dovessero cambiare…” Lo fermò prima che potesse obbiettare. “Voglio solo essere sicura che tu sia in grado di giudicarlo per chi è adesso, e non per chi è stato in passato. Perché, come avete potuto ascoltare, non tutti ci riescono.”
Rico notò come Ama si era tesa alla frase, ma decise di glissare. Del resto gli era appena stata fatta una domanda. “Per me non cambia niente Capitano. Sören è e rimane il mio partner.” Rispose senza esitazioni.  

Il capitano gli sorrise. “Bene. Perché nel SAGITTA non abbandoniamo i nostri compagni.”
“Mai.” Le fece eco Ama e fu certo di non esserselo immaginato; negli occhi del sergente si era appena formata una decisione.
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Laboratorio di Bacchette Stevens.

 
“Campione di nucleo di bacchetta per voi, Signor Apprendista!”
La voce di Albus lo sorprese quanto la manata leggera che diede al filo delle sue cuffie. Tom alzò lo sguardo e si trovò davanti una boccetta delle dimensioni di un mignolo con dentro un filo argentato che si avvolgeva a spirale attorno a sé stesso.

Eccola.
“Proviene dalla bacchetta…”
“ … di Sören, sì.” Confermò Al, che a quanto pare quel giorno provava diletto nel finire le frasi al posto suo.
Stevens, che doveva averlo fatto entrare, abbandonò il lavoro per avvicinarsi. “È il ragazzo la cui bacchetta dobbiamo studiare, giusto?”

“Prince, sì.” Confermò: qualche giorno prima lui e l’Artigiano erano andati al San Mungo di persona, per quanto l’uomo poco gradisse avventurarsi fuori dal suo laboratorio. La curiosità verso quella faccenda era stata però maggiore.
Quello Smethwyck è sgradevole come racconta Al. Pareva quasi ci facesse un favore, a chiederci un consulto.
Al passò la provetta all’artigiano e poi si sedette sul ciglio del tavolo da lavoro, mordicchiandosi il labbro. “Le analisi del sangue non hanno evidenziato nulla …  Così stamattina l’abbiamo fatto tornare per una biopsia al braccio. Bisogna capire in cosa è diversa la sua bacchetta. Perché le altre non hanno protetto i loro padroni.” Ricordò qualcosa di colpo. “Ah, e poi nei prossimi giorni dovrebbe arrivarvi un bel po’ di pergamena dall’America…” Si voltò verso di lui. “Riguarda il braccialetto di controllo magico che ha al polso.”  
Fantastico. Nuove invenzioni che avrò tutto il tempo di studiare senza ficcanaso a chiedermi cosa sto facendo e perché ritardo nelle consegne.
È per il bene comune, dopotutto.
Il suo entusiasmo si rifletteva sul volto di Stevens. “Faremo il possibile.”
E non vediamo l’ora.
“Ricordatevi anche di lavorare, tra una ricerca ed un’altra … Non vorrei davvero che Brooke vi soffiasse tutti i clienti.” Sospirò Al lanciando loro un’occhiata paziente.

Stevens, come lui, non parve turbato dalla prospettiva. Non a caso era il suo mentore. “Vado a prepararti un the, Al.”
“Ti ringrazio Rupert, ma sto andando via.” Lo fermò alzandosi. “Sono passato solo per fare la consegna.”

Quando l’uomo se ne fu andato però non diede cenno di voler prendere la porta, scivolandogli invece sulle ginocchia e passandogli le braccia attorno al collo. “Cosa?” Gli chiese perplesso. “Avevi detto che dovevi andartene.”
“Sempre carino.” Mugugnò strofinandogli il naso sulla guancia. “Forse ho cinque minuti di margine e li voglio passare con te?” Quando Al cercava il contatto fisico a quell’ora, di fronte ad altri e senza dar avvisaglie, di solito era sintomo di qualche malessere interiore. Chiederglielo però senza un’adeguata mediazione l’avrebbe solo fatto irritare.

Non posso non aver secondo fini Tom?
No.
Se lo strinse contro per baciarlo a lungo, disciplinando la libido per non far sfociare la cosa in altro, che comunque avevano spettatori, per quanto con sensi offuscati.
Ed io ho del lavoro da fare.
Lottando contro l’impazienza si sforzò di essere gentile. “Al, che succede?”
L’altro fece un mugugno poco contento. “È Sören … L’ho incrociato quando hanno terminato gli esami. Non ti preoccupa?”
“Dovrebbe?” Strinse la presa passandogli le dita lungo la spina dorsale finché non lo sentì sciogliersi contro rilassato. “Cos’ha fatto?”
“Niente in realtà. È solo che ha l’aria di una persona … beh, che non sta bene. Credo che tutta questa faccenda lo stia logorando.” Fece una pausa. “E Lils non sapeva che sarebbe venuto in ospedale.”
“O ve la sareste trovata trai piedi.”
“Già. Mi sa che hai ragione, la sta evitando.”

E questi sono affari nostri perché …?
Non lo disse però. L’ultima cosa di cui aveva voglia era di litigare con l’altro per via di Prince. Avrebbe avuto del ridicolo. “Avresti dato un braccio per questa eventualità … e adesso vuoi che interagiscano?” Obbiettò razionale. “Non capisco.”
“Non voglio che interagiscano.” Lo corresse poco convinto. “È che mi dispiace.”
“Per lui?” Domandò sorpreso. Albus era una persona empatica, capace di soffrire terribilmente se le persone che amava avevano qualche cruccio.
Ma per le persone che non considera non perde notti di sonno. Da quanto si è affezionato a Prince?
“È che siete più simili di quanto pensi.” Disse staccandosi per guardarlo speculativo. Non c’era niente da fare, quando gli piantava addosso quei suoi enormi occhi verdi si sentiva sempre in dovere di provargli qualcosa.
Che me lo merito, forse.
Patetico.
“In che senso?” Capitolò. “A parte avere i capelli neri.”
“Scemo…” Sorrise. Gli premette un dito sullo sterno, nel punto che molti dei suoi detrattori pensavano avesse vuoto. “Vi tenete dentro tutto quello e pensate che non si noti. Invece si nota, eccome.”
Tu lo noti. Non presupporre che l’intero universo sia in grado di decifrarmi.” Borbottò infastidito. “Altro?”

“Non avete un briciolo di auto-ironia e vi credete culturalmente migliori di metà della popolazione magica.”
“Ma io lo sono. E si dice culturalmente superiori.
Al roteò gli occhi al cielo. “Giusto. Anche lui ha il tuo stesso brutto vizio … corregge le persone. Ha quasi mandato ai pazzi Jamie.”

“James è una capra. Il desiderio di correggere le bestialità che gli escono dalla bocca è comprensibile.”
Al gli rifilò uno schiaffo sulla spalla. “Sören rimane comunque più educato e gentile di te.” Soggiunse tentando di non ridere.
“Questa rivelazione non mi farà dormire la notte.” Lo pizzicò di rimando sul fianco, facendolo sussultare oltraggiato. “Non mi ami perché sono educato e gentile.”
“No, proprio per niente.” Convenne massaggiandosi il punto dolorante. “Lo so, abbiamo già fatto questo discorso … ma vorrei che ci provassi sul serio, a parlargli. A parte Lily, che evita, e quel Magonò, non credo abbia degli amici qui.”
Tom non poté fare a meno di guardarlo perplesso. “E dovrebbe considerare me suo amico? Solo perché siamo cugini?” Sospirò. “Al, renditi conto che…”
“Va bene.” Lo fermò spazientito alzandosi dalle sue ginocchia. Era ridicolo, stavano litigando per Sören Prince. “Sto solo dicendo che ormai questa faccenda ci ha collegati tutti … nel bene e nel male. Forse … forse ho pensato che fosse un’opportunità per avvicinarvi. Nessuno di voi due brilla per avere una cerchia sociale ampia.”
“E quindi? A me va benissimo così.” Replicò stizzito. Non riusciva a capire perché Al si fosse tanto impuntato sul far diventare lui e Prince amici per la pelle.

Non quando non vuole che si avvicini a sua sorella.
Perché due pesi e due misure?
Al si morse un labbro, afferrando la tracolla e passandosela sopra la testa. “Ti ricordi quando mi hai detto che avresti potuto essere tu?” Chiosò sibillino.
No, non se lo ricordava. “Essere io cosa?”
“Sören. Avresti potuto essere come lui. Se Coleridge non ti avesse rapito e portato qui in Inghilterra … se papà non ti avesse trovato…” Buttò fuori e quella rivelazione sembrava nuova anche alle sue stesse orecchie perché lo guardò incerto. “Avresti…”
“Sarei stato io il suo braccio destro.” Realizzò e la rivelazione lo colpì come uno Schiantesimo infuriato.

Prince ha preso il posto che avrebbe dovuto essere mio. Von Hohenheim ha ripiegato su di lui perché credeva di avermi perso. La bacchetta avrebbe potuto essere nel mio braccio.
Al esitò, forse intuendo cosa gli passava per la mente. “Non sto dicendo…”
“Lo so che non è colpa mia quello che mio padre gli ha fatto.” Tagliò corto, frustrato. Non lo era, ma ormai una serie di obblighi irritanti si stavano formando nella sua testa. Non sarebbe servito a niente scacciarli o tentare di razionalizzarli. Sarebbero rimasti. “Comunque io non sarei stato così manipolabile … A ruoli invertiti, Lily non avrebbe potuto fare granché per tirarmi dalla parte giusta.”
“Che c’entra Lily?” Sorrise l’altro, dandogli un calcetto sulla gamba. “Ci avrei pensato io.”  

Tom gli passò un braccio attorno alla vita e premette il viso contro la stoffa della sua discutibile maglietta dei Chudleys. “Certo che ci avresti pensato tu…”
Il cuore di Al batteva calmo e regolare, metronomo stesso di ogni sua notte, mentre gli passava le dita trai capelli.

Metronomo della mia vita.
“Ti ricordi dove alloggia?” Se ne sarebbe pentito, ne era sicuro. Non avrebbe saputo cosa dire e avrebbe finito per rinunciarvi.
Ciononostante, doveva almeno provare.
 
We'd never know what's wrong without the pain
Sometimes the hardest thing and the right thing are just the same
 
 
****
 
San Mungo, Pomeriggio.
 
James entrò nel padiglione Thickey con la speranza di trovarci sua sorella, ma a dirla tutta fu sorpreso quando ce la trovò davvero.
Non dovrebbe avere delle vacanze?
Albie quando era una matricola a Luglio se ne stava in giro per il mondo a studiare robe puzzolenti, non certo qui.

La sorella minore invece stava chiacchierando amabile con un tizio biondo con una vezzosa vestaglia a fiori e non sembrava aver voglia di partire per nessun luogo esotico. Avvicinandosi notò come stessero passandosi delle carte della grandezza di tarocchi per Divinazione, solo con figure come fiori o oggetti.
Lily sentendolo arrivare si voltò e gli sorrise. “Ehi Jamie!” Si rivolse poi al paziente. “Gilderoy, questo è mio fratello James … mi pare di avertene parlato qualche volta.”
Qualche volta?

“Ohi, guarda che hai solo due frate…” Iniziò ma fu tacitato da un’occhiataccia dell’altra.
Cosa?
Capì il sottointeso quando il mago aggrottò la fronte pensieroso. “Temo, mia cara … di non rico…” Balbettò incerto, una persona opposta a quella che gli era sembrato all’entrata.
“Rosso.” Disse apparentemente senza senso Lily, ma l’uomo parve trovarci qualcosa di sensato perché si illuminò.
Rosso, leone, Pluffa e alba!” Recitò come una filastrocca. “Tuo fratello James, è stato a Grifondoro, giocava come Cercatore ed è un Auror!”  Concluse trionfante.
Lily applaudì. “Ottimo Gilderoy!” Gli comunicò allegra, tendendosi oltre il tavolo per stringergli le mani. “Oltre Ogni Previsione!”
“Uh … interrompo qualcosa?” Si sentì in dovere di inserirsi. Dopotutto stavano parlando di lui!
“No, abbiamo finito … Gilderoy, ti dispiace mettere a posto le carte e aspettarmi? James deve parlarmi.”
Aagh, odio quando fa la LeNa!

Dopo che si furono congedati, Lily gli rifilò un sorrisetto saputello: era la sua adorata sorellina, ma quando faceva quella faccetta si sarebbe meritata uno scappellotto. “Guarda che non sto usando i miei poteri …” Cinguettò compiaciuta. “Ti fai vedere qua, dopo orario di lavoro e hai l’aria di uno che ha un gran bisogno di una chiacchierata. È semplice buonsenso.”
“Sei insopportabile lo stesso.” Sbuffò facendola ridacchiare. Era la prima volta che metteva piede nella sala ricreativa del padiglione e doveva ammettere che era accogliente, con tutti quei disegni infantili, fiori disposti ovunque e arredamento allegro e colorato. “C’è un macello di roba.” Osservò prendendo in mano quello che aveva tutta l’aria di essere un’innaffiatoio, infilato in uno scaffale insieme ad una serie di bambole e un vecchio giradischi.
“Beh, è un po’ il punto della faccenda. Dovevi vedere com’era prima che arrivasse la Patil, era tutto bianco. Queste persone hanno bisogno di stimoli, non di una specie di limbo.” Lily gli fece cenno di seguirla, accomodandosi su un divano giallo canarino dall’aria sfondata e comodissima. “Hanno tutti aiutato a decorare.”
“I disegni li hanno fatti loro?” James staccò dal muro un foglio con una buona dose di tempere e dita. “Non dei bambini?”

Lily scosse la testa. “Alcuni di loro praticamente lo sono.”
“Tipo i genitori di Nev?”
“Tipo.” Il volto si aprì in un sorriso entusiasta, come capitava quando parlava dei suoi pazienti. “C’è questa terapia, che viene usata interpretando delle terapie neuro-cognitive Babbane … e funziona. Sai, il cervello è diviso in aree, e incantesimi come la Cruciatus nella maggior parte dei casi danneggiano solo il lobo frontale, ma lasciano intatti i restanti. Se si esercita…”
“Lils, non ci capisco un accidente … ma sembra grandioso, sul serio.” Replicò divertito: era strano sentirla parlare con tanta competenza di qualcosa che non fossero vestiti o scarpe.

Sarebbe stato strano cinque anni fa.
Cioè, è sempre stata un sacco sveglia, ma della roba da cervelloni se n’è sempre fregata.
Sua sorella era una persona diversa adesso. Era bello e insieme un po’ triste constatarlo.
“Certo che è grandioso.” Constatò calciando via gli zoccoli ortopedici e raggomitolandosi sul bracciolo; quel posto la metteva a suo agio, lo si capiva da come ci si muoveva dentro.
Come se si sentisse … al sicuro. 
Forse è per questo che non vuole andare in vacanza?
Qualunque fosse il motivo purtroppo non aveva il tempo di indagare. “Volevo parlarti di quel che hai detto a Teddy oggi…”
Lily annuì. “Che posso darvi una mano con Ben, sì.” Prese una pausa, afferrando un cuscino dietro la schiena e cominciando a sgranarne le frange. Gli lanciò un’occhiata e sbuffò. “Non io, ovvio … sono una studentessa. Pensavo alla Patil.”
“Ma lei si occupa…” Si morse il labbro appena in tempo. “… di persone con danni al cervello, no?”

“Non si occupa solo dei matti.” Lo freddò irritata. Assieme alla McGrannit, la tizia era l’unica strega con cui Lily non andasse in conflitto, guai quindi ad insultarla. “È una Psicomaga, e gli Psicomaghi lavorano anche con chi ha subito traumi emotivi.”
“Okay, scusa.” Borbottò velocemente. “È vero, non parla e non mangia.”

Ed era la cosa peggiore di tutte, forse, perché significava che non voleva neanche provare a stabilire un contatto con loro.
Teddy ci sta da cani. Tonto com’è, penserà che è colpa sua …  
“Pensi che non abbia mai imparato? Dico, a parlare.” Chiese, perché voleva disperatamente avere qualcosa su cui intervenire, da combattere invece che fissare impotente un piccolo bozzolo di coperte ostile.
Lily esitò, poi scosse la testa. “Non lo so, Jamie … Però presupponiamo che sia vissuta nella società magica, anche se ai suoi margini. E suo padre sapeva parlare. I bambini imparano dall’ambiente che li circonda … a meno che non sia stata davvero cresciuta dai lupi, credo proprio ne sia capace.”
James tirò un sospiro di sollievo. Quella era una buona notizia. “Quando pensi che la Patil possa venire a darle un’occhiata?”
“Le parlerò domani.” Rispose. “Tiene un ciclo di seminari in Svizzera in questo periodo e oggi non era a Londra…” Fece un gesto vago della mano. “Ha lasciato a noi studenti il solito giro di visite.”
“Anche le terapie?” Spiò con naturalezza e l’altra ci cascò con tutte le scarpe.
“No, le terapie oggi non erano previ…” Si bloccò, guardandolo male. “… Cosa?”
“Perché sei qui Lils? Il giro di visite è la mattina.” Indicò Gilderoy che stava finendo di mettere via le carte. “Scommetto che stasera non dovevi aiutarlo.”

L’altra si strinse le braccia al petto, in  posa difensiva. “E quindi? Sono comunque cose che devo tenermi a mente anche se sono finiti gli esami. La Patil mi riempie di domande ogni giorno che Merlino mette in terra!”
“Ehi, stavo solo chiedendo!” Si difese. “È carino qui, non fraintendermi … ma passare tutto il giorno a lavorare?” Le tirò una ciocca di capelli dispettoso. “Che ne hai fatto di mia sorella?”

Lily ridacchiò, schiaffeggiandogli via la mano. “Mi piace stare qui.” Gli assicurò. “Non è lo stesso per te quando indossi l’uniforme?”
“Quando non devo seguire dei casi del cazzo come quello di adesso, sicuro.”  

Ma io non ci pianto le tende nell’ufficio Auror.
Non glielo fece notare però: sua sorella sapeva che se avesse avuto bisogno di un orecchio avrebbe sempre avuto il suo.  Si alzò in piedi. “Okay.” Disse in tono definitivo. “È tutto … grazie per avermi fatto approfittare di te.”
“Ehi, sfruttare le rispettive conoscenze è retaggio Potter.” Ghignò facendolo ridere. “Senti…” Il sorriso le si spense sulle labbra intuì che era una domanda seria. “ … come sta Ren?”

Eccerto. Non è una vera chiacchierata con Lils se quel Prince non spunta fuori.
“Come vuoi che stia? È il solito rompicoglioni.” Mentì con una scrollata di spalle. Il pipistrello poteva non andargli a genio, ma non avrebbe spifferato i suoi problemi. “Non siete culo e camicia? Perché non glielo chiedi di persona?”
Lily lo guardò a lungo, sembrò accorgersi di qualcosa – che aveva mentito? Diavolo, era sicuro – e sospirò. “Sì.” Aveva l’aria un filino inquietante quando serrò le labbra e fissò il cuscino che aveva in grembo. Con uno sguardo simile avrebbe potuto tranquillamente fargli prendere fuoco. Erano maghi: non era scontato che non succedesse. “Lo farò.”
 
****
 
Diagon Alley, Paiolo Magico.
Ora di Cena.

 
Prendere in prestito Sally da Albus, indossare uno dei suoi vestiti più carini e appuntarsi i capelli per non farli svolazzare ovunque erano tre cose in apparenza banali, ma sommate assieme davano il piano perfetto; Lily parcheggiò il motorino di fronte all’entrata del Paiolo Magico e dopo essersi sfilata il casco senza che i capelli accusassero il colpo – adorava l’incantesimo PiegaPerfetta – premette i giusti mattoni ed aspettò che l’entrata le si palesasse davanti.
Vengo a prenderti, Ren.
All’interno intercettò Milo, seduto al bancone mentre chiacchierava con il proprietario. “Zenzero!” La salutò. Da come stava mettendo dell’arrosto e un boccale di birra su un vassoio doveva stare per servire la cena a Sören. “Qual buon vento ti porta in questo angusto quarto di mondo?”
“Indovina.” Ironizzò. “Il tuo amico si è scordato come si usa un cellulare Babbano?”
“Non ha mai imparato, è negato.” Si strinse nelle spalle. “Dai, che ha combinato?”
“A parte inventarsi scuse patetiche su improbabili impegni serali?” Replicò facendolo ridacchiare: come si aspettava, il biondo era perfettamente a conoscenza dell’intera faccenda.
E a quanto pare, tifa per me.
“È di sopra. La cena gliela porti tu?” Chiese infatti porgendogliela. “Sei una cameriera molto più carina del sottoscritto.” Si guardò e sbuffò. “Nah, scherzavo. Sono più bello io.”
“No, non credo.” Gli rispose per le rime e si sorrisero.

Tra simili ci si riconosce.
“Sicuro che non disturbo?” Chiese, perché un intervento forzato come quello aveva comunque bisogno di qualche rassicurazione.
Milo alzò le spalle. “Disturbi solo l’eterno rimuginare di un Goethe con la bacchetta. Ti prego, salvami dal trascorrerci una serata assieme!”
Lily sbuffò divertita, dandogli una pacchetta sul braccio solido. “Grazie.” Alla sua aria perplessa aggiunse. “Per prenderti cura di lui. Stai facendo un gran lavoro.”
Qualcuno dovrebbe riconoscerglielo.
Poté quasi calcolare la testardaggine con cui l’altro si impose di non arrossire. “È solo un lavoro.” Ribatté un po’ fiaccamente. Prima che potesse andarsene però la richiamò. “Zenzero, ehi.” E il tono era serio, come l’accento più denso segnalava disagio. “Vacci piano con lui, okay?”
Si sentì in dovere di rispondere con altrettanta serietà. “Sto facendo del mio meglio.”
Salì le scale sentendosi il cuore in gola e quando bussò era ormai convinta di aver fatto mortale cazzata.
Ma ehi, altrimenti non sarei io.
Non ebbe neanche il tempo di ripensarci, che Sören aprì la porta. Senza maglietta.
Oh, addominali.
Distogliendo riluttante lo sguardo dal fisico asciutto e definito che aveva davanti – e chiedendo perdono a Scott un paio di volte – gli rivolse un sorriso a trentadue denti. “Servizio in camera!” Trillò con tutta l’allegria di cui era capace. “Anche se lasciatelo dire, la cucina qui lascia piuttosto a desiderare.”
“Lilian…” Non stava aiutando il fatto che la stesse squadrando come un Babbano avrebbe guardato ad un fantasma.
Decise di andarci già pesante per scuoterlo dal torpore. “Apri sempre senza maglietta? Perché adesso capisco perché ho dovuto fare a botte con tre cameriere per prendere questo vassoio.”
Prevedibilmente, timido com’era, Sören avvampò fino alla radice dei capelli e incrociò le braccia al petto.

Come se avesse qualcosa da nascondere … Certo, dovrebbe mettere un po’ di carne, oltre che muscoli su quelle ossa, direbbe nonna…
Ma io
non sono mia nonna.
Non riusciva a prenderlo in giro quando aveva quell’aria così sconvolta. “Ren, rilassati, stavo scherzando.” Gli mise il vassoio in mano. “Volevo farti una sorpresa.”
“Ci sei riuscita.” Disse brusco, contemplando l’arrosto come se potesse contenervi la formula per l’Elisir di lunga vita. “Che ci fai qui?”

Wow. Complimenti per il tatto.
Si rifiutò di sentirsi ferita, perché sapeva che quando veniva preso all’angolo, si irrigidiva e diventava piuttosto antipatico. “Avevo voglia di vederti.” Si strinse nelle spalle. “E per inciso, sei un bugiardo.”
“Lily, non…”
“Straordinari al lavoro? Per favore.” Tenere la collera a bada non era facile quando molte delle ferite che l’altro gli aveva inflitto erano ancora in via di guarigione. “Se non ti va di vedermi basta dirlo.”
“Mi va di vederti!” Esclamò e sembrava arrabbiato quanto lei. “Non è questo!”

“Allora cos’è?”
Un muro di silenzio accolse la sua risposta. Poi Sören sospirò, facendole cenno di aspettare mentre andava a mettere via la cena. Quando ritornò aveva indossato una camicia ma sembrava ancora sulle spine. “Vuoi entrare?” Le chiese.
“No, voglio farti uscire.” Replicò. “Sei a Londra da quanto, un mese? Quanto hai visto della città … dell’Inghilterra? Quest’estate pare quasi vera, il tempo è decente! E tu non esci.” Non aspettò che ribattesse. “Rinchiuderti dentro una stanza polverosa non ti aiuterà a star meglio.”
“Non sto male.”
“Raccontalo a qualcun altro.” Magari stava calcando troppo la mano e stava esagerando. Ma non era la sua terapeuta.

Sono sua amica. Non sono tenuta ad attenermi alle regole.
“Mi hai detto che volevi che diventassimo amici non solo su carta.” Cercò il suo sguardo, ma non riuscì a trovarlo dato che lo teneva piantato a terra. “Lo intendevi sul serio o…” Cercò di mantenere il tono fermo, ma le uscì tremolante. “… o stavi soltanto cercando di spegnere i sensi di colpa?”
L’altro alzò gli occhi di scatto e fu il solito, discreto, pugno allo stomaco. Non si sarebbe mai abituata. “Non è senso di colpa, non è mai stato un senso di colpa.” C’erano così tante emozioni che stava trattenendo che per lei sarebbe stato semplicissimo entrare.
Non si sta neanche Occludendo.
… No.
Il suo potere non era qualcosa a cui potesse ricorrere ogni qual volta le cose si facevano confuse.  
“Parlami.” Gli afferrò una mano e gliela strinse. “Non posso e non voglio frugarti dentro la testa.” Alla sua espressione sorpresa, sorrise. “Non è così che funziona quando ci si fida di qualcuno. Ed io mi fido di te. Non tagliarmi fuori, per favore.”
Gioca la carta dell’onestà, Lily. Vediamo se non torna indietro a morderti il sedere.
Sören le strinse di colpo la mano, con forza, senza dosare. Le fece un po’ male, ma lo ignorò perché era una risposta. Era un .“Non usi il tuo potere su di me … per questo?”
Lo guardò sorpresa. “Per cos’altro? Non voglio scoprire cose di te che non vuoi dirmi. Di nessuno in realtà. Hai idea di che disastro sarebbe? È un po’ la regola aurea di ogni Legimante Naturale.”
Sören le sorrise. Avrebbe dovuto farlo di più, perché era la sua espressione migliore. “Non accetterai un no come risposta, immagino.”
“Immagini bene.”
“Mi dai un paio di minuti? Non credo di essere presentabile.”

“Con quest’aria stropicciata sei sexy, ma lungi da me darti consigli sul look.” Motteggiò godendosi l’ennesimo, tenerissimo, rossore. Forse era sbagliato, ma imbarazzarlo era terribilmente divertente. “Anche se quella giacca di pelle da cattivo ragazzo che hai indossato al compleanno di Sy…”
“Lily, vai.” E il fatto che stesse sbuffando era un segno distensivo. Lily si sarebbe battuta un cinque da sola, ma non aveva più quindici anni.

Però ho vinto. Ah!
“Ti aspetto giù!”
Scese le scale molto più leggera di quando le aveva salite.
 
Non aveva potuto dire di no. Non era riuscito a dire di no perché Lily era Lilian, la sua Lilian e non aveva mai tentato di leggerlo perché si fidava di lui. Si era fatto delle paranoie inutili: Lily non aveva scoperto niente su cosa provasse davvero perché voleva comportarsi semplicemente come una persona normale, una persona che a domanda riceveva risposta. Non lo aveva letto per riguardo, non perché non voleva saperne niente di lui.
Sei un idiota.
Un idiota perdutamente innamorato, gli ricordò la sua sadica coscienza mentre scendeva le scale con lo stupido giubbotto di pelle e con i capelli che gli finivano sugli occhi.
“Oh, guarda un po’ chi ha un appuntamento stasera.” Gli fece Milo, seduto al bancone con la consueta pinta di birra da un lato e uno spinello acceso tra le dita. “E mi hai dato finalmente retta su quella tua orrida leccata di mucca! Alziamo dunque i lieti calici e libiamo!”   
“Non ho un appuntamento.” Dovette ricordargli per ricordarsene lui stesso. “Lilian vuole solo farmi vedere Londra di notte.”  
“I capelli ti stanno bene, smettila di torturarli con le dita.” Fu la risposta. “Vedi amico mio?” Fece un cenno al barista che annuì comprensivo, come il ruolo imponeva. “Il bambino diventa grande.”
“Sei un idiota.” Lo salutò prima di imboccare l’uscita.

Lily lo stava aspettando ed era bellissima, con i capelli raccolti e le gambe affusolate racchiuse nella stoffa colorata di un vestito estivo. Era seduta sopra quello che riconobbe come essere il motorino di Albus: se lo ricordava da una foto. “Ren, ci metto meno tempo io a prepararmi!” Motteggiò porgendogli il casco. “Andiamo, che la notte è giovane!”
Lo indossò, scavalcando il sellino e sedendosi dietro obbediente quando gli venne fatto cenno.

“Hai la patente?”
“Mago di poca fede.” Replicò voltandosi per abbassargli la visiera. “Noi Potter abbiamo la guida sicura e spericolata nel sangue!”
“Sicura e spericolata non dovrebbero stare nella stessa frase, in teoria…”
“Tu dici?” Il sorriso maniacale con Lily lo inquietò un poco. Molto. Ma allo stesso tempo la testa leggera gli impediva di preoccuparsi.

Era proprio un cretino. Ma aveva sentito dire che gli stupidi vivevano felici e per ora gli bastava questo: non erano briciole quelle che gli dava Lily, mai. Era la sua amicizia. E bastava.
Almeno per una sera.
 
 
Aveva fatto bene a portar fuori Sören.
Il motorino di Al era sfrecciato ligio sull’asfalto della City, in un caos multicolore di suoni, luci e notte e l’amico vi si era rilassato: occhieggiando lo specchietto retrovisore l’aveva visto bersi ogni sua spiegazione sui luoghi che aveva visto, vissuto e visitato appena uscita da Hogwarts con la libertà che le scorreva nelle vene.

Goditela un po’ anche tu, Ren.
La prova era il fatto che dall’afferrare distaccato le maniglie ai lati del sellino, aveva finito per tenerle le mani sui fianchi. Le aveva sempre calde.  
“Ehi, qua. Qui è perfetto!” Lily si sedette sul pontile di cemento e sassi del Camden’s Lock; da sotto il grande salice accanto alla chiusa si aveva una visuale suggestiva delle luci sul canale, mentre la marea vitale e rigurgitante del quartiere si muoveva senza per questo disturbare i pensieri. “Tagliava la vita come una lama e al tempo stesso ne rimaneva al di fuori, spettatrice.” Recitò indicando l’ambiente attorno a loro. “Camden mi fa sempre venire in mente questa frase, ma morissi se mi ricordo di chi è…”
“È di Virgina Woolf.” Le rispose pronto.
“Giusto! La Signora Dalloway!”
La Signora Dalloway disse che i fiori sarebbe andati a comprarli lei…” Recitò Sören divertito. Lui e Scott erano gli unici con cui potesse parlare di libri senza sentirsi un cagnetto che compiva un gioco di prestigio.    

Le si sedette poi accanto, stringendo tra le dita il bicchiere di plastica pieno di lager che aveva preso ad un vicino chiosco per non lasciarle bere da sola. In quel momento sembrava un ventenne qualunque, con la frangia spettinata dal vento e la sigaretta accesa tra le labbra.
Ho vinto. Di nuovo.
Era una bella vittoria, perché faceva vincere anche l’altro. “Allora … Londra di notte.” Esordì giocherellando con l’ombrellino che ornava il suo bicchiere. “Cosa ne pensi?”
“È bella.” Si voltò per guardarla. “Ti si addice.”
Immaginava che essere lusingata fosse del tutto naturale. Cercò di non darlo troppo a vedere. Quello, e il rossore che le era salito al viso. “Stupido perdersela per un mese, eh?”

“Molto.”
Lily avrebbe voluto fermarsi lì. Quella era la serata di Sören, non la sua o dei suoi problemi. Ma non ci riusciva. L’atmosfera rilassata le fece uscire le parole di bocca senza che potesse frenarle.
“Continuo ad avere quegli incubi.” 
L’amico distolse lo sguardo da una coppia al di là del fiume, intenta a chiacchierare e seduta sulle sponde come loro. “Quanto spesso?” Il tono era tranquillo, ma da come fece Evanescere la sigaretta capì che il momento distensivo era appena finito.
Scusami. Scusami tanto.
“Tutti i giorni? No, in realtà non sempre … ma spesso.” Si girò il bicchiere tra le dita, ascoltando distratta le note di una canzone provenire dalle porte aperte di un pub poco distante. “Sto vedendo la Patil, di nuovo … aiuta, però … non lo so.”
 
Well I woke up to the sound of silence and cries were cutting like knives in a fist fight
And I found you with a bottle of wine
Your head in the curtains and heart like the Fourth of July
 
 
Sono una stupida … Perché ho rovinato le cose?
Quella serata avrebbe dovuto essere priva di problemi, solo risate e compagnia, ma se Sören aveva bisogno di lei per staccare la spina …
Io ho bisogno di lui. Solo lui può capirmi.
“Pensavo di essere andata oltre.” Rivolse lo sguardo sotto di sé, alle acque scure e piene di riflessi di luci del Regent’s Canal. Sentendo freddo – era un estate quasi mediterranea ma erano comunque in Inghilterra – si strinse le braccia al petto.“A quanto pare mi sbagliavo.”
Sören non disse niente per un bel pezzo, poi lo sentì muoversi accanto a lei. Non fu sorpresa – era così da Ren - quando le fece scivolare il suo giubbotto sulle spalle. Conservava parte del suo calore e dovette frenare i lucciconi.
Queste cose mi commuovono a morte.
“Lilian, mi occuperò di questo. Te lo prometto.”
Aveva un’espressione determinata, come un soldato con un obbiettivo. La stessa espressione di suo padre nelle foto che lo ritraevano adolescente, quando ancora Voldemort era una minaccia.
Sorrise appena. “Lo so che lo farai … Sei un tipo tosto.”
“Non credo.”
“Lo sei.” Ribadì. “Guardati … Cinque anni fa ti saresti mai immaginato così?”

Qualcosa di indecifrabile – argh, lei e la sua stupida promessa di non guardargli dentro! – passò negli occhi dell’altro. “No.” Rispose piano. “No, non direi.”
Si stava chiudendo di nuovo in sé stesso. Era quindi il momento di mettere in atto l’ultima parte del suo piano. Magari era un’idea stupida, ingenua, ma se avesse funzionato…
Se funziona, se mi dà retta … Potremo davvero aiutarci a vicenda. Non saranno solo chiacchiere.
“Come fai a non avere paura?” Gli chiese. “Come fai a controllare questa cosa?”
Sören si strinse nelle spalle con un sorrisetto amaro. “Mi alleno. Mi stanco finché non ho più un filo di energia in corpo. Tengo la mente occupata.”

“Potresti insegnarmelo?”
Se un Ippogrifo si fosse messo a danzare il tip-tap di fronte a loro l’altro non sarebbe sembrato così sconvolto. “Cosa, ad allenarti?”
Lily frenò una risatina trai denti. “Non quella roba massacrante che fai tu … Penso non arriverei viva al giorno dopo. Vai spesso all’Accademia di Duello però. Me l’ha detto Dion.”
Aggrottò le sopracciglia. “Vuoi che ti insegni a duellare?”
Lily si strinse nelle spalle. “Forse.” Ammise. “A difendermi. Perché se qualcuno mi prendesse alle spalle…”
Come ha fatto John Doe.
“…  non saprei da che parte iniziare per salvarmi la vita. Anche con una bacchetta in mano. E ci ho pensato … questo mi spaventa.” Inspirò perché non era mai semplice dire la verità. “Quando ero al San Mungo e l’agente Flannery è entrato … se non foste arrivati voi ragazzi, se tu non l’avessi Schiantato via da me … Ero paralizzata, Ren. Avevo una bacchetta e potevo…”
“Avresti potuto esser contagiata.”
“Non è questo il punto, e lo sai.”
Sören annuì e gli fu grata quando non chiese altre spiegazioni. Era quello che avrebbero fatto molti, forse tutti. Non Ren, che rimase in silenzio per quasi un minuto intero, prima di parlare. “Va bene.” Sembrava essersi convinto perché l’intera postura si rilassò. “Posso insegnartelo.”

Lily sorrise: come aveva immaginato quello era il metodo migliore per prendere la Pluffa e trovarsi anche il Boccino tra le mani.
Se mi fossi offerta di aiutarlo non avrei risolto nulla. Deve essere lui ad aiutare me.  È questo che lo fa stare meglio. Non essere aiutato … ma aiutare.
Non era la prima ad averlo capito; Nora Gillespie le aveva dato l’idea. L’aveva reso un agente perché aveva capito il desiderio più intimo, profondo di un ragazzo che dopo aver visto e fatto tanto male voleva disperatamente fare del bene.
È com’è fatto Ren.
Gli posò la testa sulla spalla. “Grazie.”
Le lanciò un’occhiata di traverso e un lieve sorriso ironico gli increspò le labbra. “Aspetta a ringraziarmi. Sarò un insegnante inflessibile.”
“Persino con un’allieva carina come me?”
“Soprattutto.”
Finirono quello che restava delle loro consumazioni guardando in silenzio lo scorrere tumultuoso di vita e risate attorno a loro. Ma era un silenzio buono, di quelli che non andavano riempiti con le parole.
Non aveva mai avuto nessuno come Sören nella sua vita, e ora che stavano ingranando di nuovo non ci sarebbe voluto molto prima che qualcuno le chiedesse la definizione di quel rapporto. La sua famiglia, Scott, i suoi amici…
Io stessa finirò per chiederlo.
Ma per il momento andava bene così.
 
If you're lost and alone or you're sinking like a stone
May your past be the sound of your feet upon the ground
Carry on…
 
 
****
 
 
Note:

Devo far qualcosa per ridurre i capitoli. Me ne rendo conto. Argh.

(No, sul serio, diecimila parole a botta NO.)
Ren e Lily … beh, si muoveranno. Baby steps. Anche se nel loro caso sono i passi di una giraffa ubriaca.
Questa la canzone capitolo. Trovo questo gruppo esageratamente tenero.
Questa invece è tutta colpa della scena Al e Tom, perché i The Fray sono la loro colonna sonora – no, Tom, non metterò nessun gruppo deprimente e non i Joy Division, capisci i bisogni del tuo ragazzo.
Questa invece non può che essere la canzone finale. La volevo usare da eoni. Chiunque abbia tirato fino a tardi con un buon gruppo di amici sa che colonna sonora perfetta è.
 
Camden: si intende Camden Town, zona situata nel Nord di Londra. Spesso viene chiamata semplicemente "Camden", ma non per questo va confusa con l'intero quartiere. Camden Town famosa per l'affollato mercato e come centro di vita degli alternativi. L'area è popolare tra gli studenti, inclusi quelli che vengono da oltremare.
Camden Lock (foto)è una tradizionale doppia chiusa attivabile manualmente, che opera fra due livelli ben separati. Un buon numero di mercati del fine settimana si sono insediati lì attorno fin dagli anni '70. Il Regent’s Canal è invece una via d'acqua che origina dal Paddington Basin e si fa strada attraverso Regent’s Park e verso Camden, prima di piegare a sud per unirsi al Tamigi.

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Capitolo 24
*** Capitolo XXIII ***






 
You said the past won't rest until we jump the fence
And leave it all behind
(Suburban War, Arcade Fire)

9 Luglio 2028

Inghilterra. Mattina.
 
Philippa Davos doveva fuggire.
Il fatto che la sua vita fosse precipitata da finalmente degna di esser vissuta ad un incubo era qualcosa che avrebbe dovuto aspettarsi. Del resto non era nata sotto una buona stella, e non aveva mai preso una decisione giusta che fosse una da quando aveva lasciato Hogwarts.

Forse era stato il mai risolto desiderio di farla, quella scelta giusta, che l’aveva spinta a rispondere all’annuncio sul Profeta, a recarsi in un posto dove non c’era un solo mago inglese e farsi iniettare una schifezza sotto pelle come una Babbana qualsiasi.
Philippa Davos aveva paura.
Mentre fino a una settimana prima aveva ringraziato con tutte le sue forze il progetto Demiurgo, e i maghi e le streghe che le avevano permesso di prendere in mano la sua vita, la sua bacchetta, senza avere il timore di combinare un disastro, adesso si trovava nella posizione di dover rispondere a dei messaggi che le arrivavano tramite un congegno Babbano chiamato cellulare.
L’ultimo era quello che le stava facendo fare le valige adesso.
Quando aveva letto sul Profeta di cosa era accaduto al San Mungo – ad un auror! – e poi cosa aveva fatto quel ragazzo all’Accademia di Duello – ricordava di averlo incrociato per i corridoi, un tipo così energico! – il primo istinto era stato quello di recarsi al Ministero, il Ministero che aiutava, accoglieva e proteggeva, ma mentre stava per infilarsi nella cabina che ce l’avrebbe portata, un mago che non conosceva l’aveva presa sottobraccio. Un uomo alto, biondo e piuttosto piacente.
Le aveva detto di chiamarsi Johan.
 
“Buongiorno Philippa.”
“Lei … lei chi…”
“Calmati. Sono un amico. Non ci siamo conosciuti, credo, né incrociati. Progetto Demiurgo?”

“Oh … lei…”
“Dammi pure del tu.” Un flash di sorriso bianco e Philippa si era sentita scioccamente arrossire. L’accento esotico dell’uomo era piacevole, quasi una carezza. “È perché sono un amico che ti dico che stai commettendo un errore.”
“Le persone si sono … le persone si sono ammalate. Quelle che come me…”
“Philippa, hai paura?”

“Co … come?”
“Hai paura.” Un attestazione. La presa sul suo braccio era gentile e da lontano sembravano proprio una di quelle coppie da fotografia. “Ma il Ministero ne ha più di te. Quello che è successo al San Mungo … uno spiacevole errore non ricollegabile al nostro progetto.”
“Ma quell’Henry Price … mi ricordo di lui! L’ho…”
“Vi stanno cercando Philippa.” L’uomo si era scostato per accendersi una sigaretta, facendole un cenno di scuse quando aveva mandato un po’ di fumo nella sua direzione. “Il Ministero inglese … beh, in realtà qualunque Ministero, non è d’accordo con quello che abbiamo fatto. Il progresso ha sempre un prezzo.”

“E il prezzo sarei io?!”
L’uomo aveva sorriso. “No.” Aveva risposto gentile. “Non lo sarai se ti fiderai di me. Non vi abbiamo dato la cura per poi disinteressarci di voi.” Aveva battuto le nocche contro la cabina telefonica del Ministero. “Se scenderai là sotto non saremo più in grado di proteggerti, lo capisci?”
“Proteggermi … da cosa?”
“Dalla paura.” Si strinse nelle spalle. “Philippa, voi siete il principio di una scoperta sensazionale. Voi siete rinati, letteralmente.” Ricordava quella retorica, era quella che aveva ascoltato quando aveva preso la decisione di prendere in mano la sua vita. “Le novità non sono mai viste come opportunità dal potere, ma come minacce.” Il tono si era fatto serio. “Ti rinchiuderanno, ti renderanno una cavia. Tutto quello che vedrai sarà il sotterraneo del Ministero. Posso assicurarti che chi non ci ha dato retta adesso è lì.”
“ … allora cosa … Che faccio?”

L’uomo chiamato Johan le aveva sorriso di nuovo, chinandosi per farle scivolare qualcosa tra le mani. Era piccolo, rettangolare e molto lucido. “Sai come si usa un cellulare, Philippa?”
 
Philippa Davos sentì suonare il campanello tre volte. Era quello il segnale convenuto. Prese la valigia facendola levitare e riducendosela per ficcarla in borsetta: questo il progetto Demiurgo era stato in grado di fare, e quindi perché non fidarsi di Johan? L’alternativa sarebbe stata finire nelle braccia di un Ministero che l’aveva sempre relegata ad una vita da invalida.
Non sono una Maganò. Io ho la magia.
Aprì la porta e il sorriso di Johan fu la prima cosa che vide. “Buongiorno Philippa.” La salutò. “Pronta ad andare?”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Mattina.
 
Harry si rese conto di non essere il primo a varcare le porte dell’ufficio quella mattina quando notò qualcuno nel cubicolo di James e Scorpius. Con il Profeta sottobraccio – che non aveva ancora avuto il coraggio di aprire, nonostante avesse fatto atto di masochismo nel non lasciarlo a Ginny – si apprestò ad andare a salutare uno dei due, ma si trovò invece di fronte Prince con il viso seppellito in una cartellina piena di cifre e numeri.
Perché dovrei stupirmi, poi. Sembra il genere di persona che non dorme fino al suono della sveglia.
Il ragazzo si accorse di lui, perché si alzò in piedi. “Buongiorno Signore.” Salutò deferente.
“A te.” Sorrise con le sue migliori intenzioni dato che l’altro pareva un fascio di nervi; per quanto avesse cercato di dimostrargli benevolenza, Sören non era ancora a suo agio in sua presenza. “Mattiniero oggi?” Tentò, ricordando con un certo imbarazzo come quel genere di chiacchiere vuote non fosse il suo forte.

“Sissignore.” Fu la risposta rigida e calò subito il silenzio.
Ecco, appunto.
“Sto …” Esordì Sören dando cenno agli incartamenti. “… sto visionando i movimenti bancari degli pseudonimi di Johannes.”
“John Doe.” Annuì. “Qualche risultato?”

“Alcuni.” Ammise e non doveva essere la prima mattina che si faceva aprire l’ufficio dagli addetti delle pulizie. Aveva l’aria stanca, e la tazza di caffè scuro posata sulla scrivania era un’ulteriore conferma.
“Fammi vedere.”  
Sören fece un cenno rapido della testa, mostrandogli il taccuino su cui stava prendendo appunti. “Ho fatto controlli incrociati negli ultimi cinque anni di movimenti bancari.”
Harry sgranò gli occhi alla cifra. “Sono più di cinquanta conti!”
Sören gli restituì un sorrisetto amaro. “E ce ne sono alcuni che sono certo ci siano sfuggiti.”
“Johannes è il suo vero nome, almeno?” Sbuffò scorrendo le annotazioni senza riuscire a capirci nulla. Con un certo grado di sorpresa – e nostalgia – notò come la grafia del ragazzo gli ricordasse quella di Piton. I due cugini non si erano mai conosciuti, ma di certo avevano la stessa propensione a scrivere in maniera illeggibile.

Sören ha una grafia un po’ più curata, ma credo gli sia stata insegnata …
“Io l’ho conosciuto con quel nome. Difficile stabilire se sia quello con cui è nato.” Rispose il ragazzo, poi vedendo la sua confusione si avvicinò e cerchiò con le dita passaggi che per lui erano solo affastellarsi di cifre e numeri. “Ha usato undici conti legati a diversi alias in questi cinque anni. Movimenti minimi … ha prelevato piccole somme di denaro. Sempre sotto la soglia dei mille Galeoni annui.”
“Piccole somme o meno, questo dimostra che è ancora vivo.” Sospirò. “Si sa anche per cosa li ha spesi?”

Sören scosse la testa. “Diversamente dal mondo Babbano non c’è la possibilità di sapere per cosa il denaro magico venga usato. Certo, per i grossi prelievi bisogna fornire una causale alla maggior parte delle banche magiche ma … con prelievi così bassi…”
“Capisco.” John Doe era un avversario furbo. Lo era sempre stato, e lo dimostrava il fatto che non fossero mai riusciti a catturarlo.

Né ad eliminarlo. È sembrato morto per ben due volte. Nove vite, come i gatti.
“L’ultima banca in cui è stato?” Chiese invece. “Lasciami indovinare, qui in Inghilterra?”
“Quella d’Irlanda in realtà. Pensavo di proporre alla squadra di farvi visita … Il prelievo è stato recente, forse qualcuno dei Folletti ricorda di averlo visto.”
“Sì, buona idea.” Concordò e poi notando come l’ufficio cominciasse a popolarsi delle prime facce insonnolite decise che era il momento di tornare alle sue scartoffie. “Ottimo lavoro, agente Prince.” Si sentì in dovere di dirgli e fu piacevolmente colpito quando il ragazzo gli sorrise di rimando.
Ha ragione Lily … Non è una persona naturalmente austera.
Non somigliava poi così tanto a Piton, in fondo.
“Ho saputo che darai lezioni di Duello a mia figlia.”
Sua figlia di certo non aveva reso la notizia segreta. L’aveva detto a chiunque avesse orecchie per ascoltare.
 
“Duello…? E perché?”
Lily l’aveva guardato da sopra la sua cena, con un’espressione altrettanto perplessa. “Beh, perché con tutto quel che sta succedendo … con gli attacchi al San Mungo e all’Accademia di Duello ho pensato fosse una buona idea.” Non aveva dato il tempo né a lui né a Ginny di ribattere, che aveva continuato. “Non so neanche lanciare uno Schiantesimo decente. Non ho mai imparato … cioè, a scuola con Teddy abbiamo studiato i movimenti della bacchetta, ma …” Aveva fatto una smorfia, e Ginny aveva sbuffato di rimando.

“Sì, il Duello vero è tutt’altra cosa. Non li lasciano neanche fare pratica, Harry, ti ricordi? Teddy non fa che dirci quanto sia ridicolo.”
“Mi ricordo, è stata una risoluzione del consiglio scolastico, no?”
Sua moglie si era battuta per ribaltare quella decisione assieme ad altri genitori, salvo per poi lasciar perdere quando la maggioranza era rimasta arroccata nelle proprie posizioni.
Non si può neanche non capirli … Abbiamo tutti vissuto la guerra, e sappiamo cosa uno Schiantesimo può fare, se le cose vanno storte.
Comunque l’idea che la sua bambina fosse in grado di badare a se stessa non gli dispiaceva. Non aveva mai spinto nessuno dei suoi ragazzi ad imparare incantesimi offensivi…
… ma lungi da me ostacolarli.
“Sì, è una buona idea. Sono sicuro che Dionis non avrà problemi a prenderti in una delle sue classi.”
“Veramente l’ho chiesto a Sören.”
C’era stato un momento di silenzio sgomento. “Perché?” Gli era uscito di getto.
Lily si era stretta le spalle, ma Harry aveva registrato comunque una certe rigidità. “Perché è un Duellante esperto. Non è un insegnante, okay … ma mi potrebbe seguire molto più di Dion. Adesso i corsi stanno finendo, non ha senso che mi iscriva all’Accademia.”
“Puoi comunque chiedere a Dionis, non penso rifiuterebbe di farti lezioni private.”
“Ha una bambina adesso … Ha la testa e il tempo libero da tutt’altra parte.”

Harry si era trovato nella scomoda posizione di non essere per niente d’accordo, ma di non riuscire a trovare una motivazione valida né tantomeno logica. Si era scambiato un’occhiata con la moglie, chiedendo aiuto e appoggio.
“Sei sicura tesoro?” Aveva chiesto Ginny con tono tranquillo, quasi non stessero parlando di affidare la loro unica, preziosa figlia ad un ragazzo che aveva usato la bacchetta per uccidere. “Le cose tra di voi…” Aveva fatto una pausa. “Le cose tra di voi sono sufficientemente tranquille in questo senso?”
Lily aveva fatto per rispondere di getto, ma poi si era morsa la lingua, riflettendoci. Stava crescendo, aveva pensato Harry con un pizzico di orgoglio. Un tempo avrebbe gridato le sue ragioni pretendendo di esser capita.“Sì, sono sicura.” Aveva detto. “Mi fido di lui.”
 
Ritornando al presente, Sören lo stava guardando come se lo avesse appena accusato di un efferato delitto.
“Io…” Era addirittura impallidito. “… me l’ha chiesto e non ho pensato di rifiutare.”
Data la reazione, Harry realizzò di aver usato il tono da Capo Auror.

O da padre.
“Non ho detto che non sono d’accordo.” 
Quanto male l’ho guardato?
Sospirò. “Sören … mia figlia ti ha dato fiducia per ben due volte.” Gli mise una mano sulla spalla. “Questa volta la differenza è che te la meriti.” Fece una pausa. “Prenditi cura di lei.”
Il ragazzo inspirò appena e ad Harry sembrò quasi che si mettesse sull’attenti. Era davvero un soldato nell’anima, Lily aveva ragione a piene mani. “Sissignore.” Mormorò. “Lo farò. Grazie.”
“A te.” Replicò un po’ impacciato, facendo un passo indietro. “E mi raccomando, vacci piano con lei o…”
“Non le darei mai motivo di preoccuparsi di questo, Signore.” Lo fermò indignato. “Userò ogni riguardo.”
“Ne sono sicuro.” Fece un sorrisetto divertito. “Ma non mi preoccupo per Lily.” Prima di andarsene non poteva non prendersi una piccola soddisfazione. “È figlia di sua madre. Io mi preoccupo per te.”

Dai una bacchetta ad una Weasley e insegnale le basi. Sbatterà il tuo sedere a terra prima che tu possa capire come.
 
****
 
Da qualche parte a Londra…
 
Svegliarsi con il fastidioso trillo di qualcosa che ti vibrava a due centimetri dalla guancia era forse peggio che svegliarsi con la voce fastidiosa del principino che chiedeva cibo e attenzioni come un dannato pulcino avrebbe fatto con la propria chioccia.
Milo emise un grugnito e rotolò sul fianco, schiacciando qualcosa o qualcuno accanto a sé. Attorno a lui sentiva odore di sigarette spente, alcool e succhi gastrici.
Ugh. Una festa, okay.
Alzandosi a sedere in un letto a due piazze non suo, in compagnia di un paio di teste arruffate – e ovviamente non sue – accettò la chiamata.
“Milo.”
E buongiorno anche a te, principino.

“No, ha sbagliato numero.” Biascicò passandosi una mano trai capelli e togliendone una molletta a forma di farfalla. “Sta parlando con l’anticamera dell’inferno.”
Il silenzio perplesso che sentì dall’altro capo del filo gli fece capire che l’altro non aveva capito la battuta.
“Mi scusi.” Iniziò pieno di riguardo. “Avrei bisogno di parlare…”
“Maddai, sono io. Ti stavo prendendo in giro!” Lo fermò trattenendo una risata, che aveva paura che il cervello finisse per esplodergli. “Non potevi mandarmi un messaggio?”

“L’ho fatto.” Fu la risposta seccata. Sören detestava quando qualcuno gli faceva notare la sua mancanza di prontezza di spirito. “Non hai risposto.”
Milo lanciò un’occhiata al display dolorosamente brillante e colorato su cui campeggiavano una serie di avvisi. “Ah, ma guarda, è vero.” Sospirò. “Di cosa hai bisogno?”

“Devi recapitare dei documenti qui al Ministero al posto mio.”
“Se è qui al Ministero, perché non ci vai tu?” Si guardò attorno cercando di capire dove si trovasse. La stanza era una camera da letto, ma il fatto che ci fosse gente stesa ovunque e una gigantesca papera gonfiabile gialla che lo guardava non gli dava alcun indizio risolutore.

Forse una residenza universitaria? Diamine, ho un black-out.
E a giudicare dal dolore al culo, non di quelli piacevoli.
“Sono lontano dal centro…” Buttò fuori un po’ a caso.
“Ed io non ho tempo. Oltretutto devo andare a prenotare la sala da duello per venerdì.”
“Ah, giusto.” Non potè fare a meno di fare un po’ lo stronzo, perché quando veniva svegliato in maniera così crudele, ne sentiva il bisogno fisico. “Certo che il tuo piano di prendere le distanze da Zenzero sta proprio funzionando alla grande.”
“Me l’ha chiesto.” Quando utilizzava il tono raggelante da Von Hohenheim era il caso di mollare il colpo. “Okay, ci vado.” Sbuffò alzandosi in piedi e chiudendo gli occhi quando sentì la stanza girare come una trottola. Stabilizzatosi si dedicò alla ricerca dei propri vestiti incastrando il cellulare tra spalla e orecchio, unico movimento sicuro che avesse al momento.
Lo faccio tutti i giorni con il violino. Sono il re dell’incastro.
E a quanto pare era ancora robustamente sbronzo.
Colazione robustamente britannica per me.
“Dove devo andare?” Chiese indossando i jeans e controllando che non avessero macchie disgustose o sospette; se doveva andare nel cuore magico di Londra non poteva esser fuori posto.
“All’ufficio Cooperazione Magica Internazionale. Devo consegnare il rapporto settimanale al mio agente di riferimento.”
“Non puoi spedirglielo via Gufo?”

“È una questione di protocollo. Deve essere consegnato a mano, e se data da terzi c’è bisogno di  una mia delega, che ti ho spedito un’ora fa. L’hai ricevuta?”
Milo si infilò la maglietta e trattenne un gemito quando vide che era strappata sulla spalla.

Era la mia preferita! Calvin Klein, non scontata! E mi fasciava le spalle da paura!
Non aveva idea di come fosse successo, ma il proprietario di quel posto – chiunque fosse – l’avrebbe pagata. Si fece quindi scivolare al polso un orologio dall’aria costosa che vide sul comò.
“Certo che sei proprio un genio.” Sbuffò. “Come fa un gufo a trovarmi se non ho una bacchetta che emette magia? È così che rintracciano voi maghi.” Sospirò esasperato. “Noi Magonò dobbiamo avere un indirizzo fisico e soprattutto, fisso.”
“ … Ah.” Il tono mortificato dell’altro riuscì quasi a spegnere l’irritazione continua che si sentiva bollire sottopelle.
Non è colpa sua se è un disadattato.
Ammirò il gingillo nuovo che gli scintillava al polso si sentì un po’ più a posto con il mondo. “Non preoccuparti, il gufo andrà al Paiolo Magico. Passo di là prima di andare al Ministero.” Così avrebbe potuto farsi una doccia e prendere un cambio di vestiti. “A chi devo consegnare questa roba?”
“Michel Zabini.”
Milo quasi scivolò su una pozza di liquido non ben identificato di fronte all’ingresso e dovette aggrapparsi allo stipite della porta per non battere una solenne craniata. L’imprecazione che ne conseguì fu dunque del tutto giustificata.

“ … che cazzo hai detto?”
La vocetta soffocata da idiota invece no.
“Michel Zabini.” Ripeté con precisione crudele Sören. “Vuoi che te lo descriva?”
No, grazie. Conosco di lui più di quanto ne sappia tu. O sua madre.
Si schiarì la voce. “Non … non serve, basta il nome.”  
Certo che però il caso è davvero una puttana.
L’idea di rivedere l’unico mago su suolo inglese che conosceva la sua identità – e quel che era peggio, ne era incuriosito – gli faceva venir voglia di prendere il primo treno diretto verso il nulla e sparire all’orizzonte.  Peccato non potesse.
Scapperei, sì. E per andare dove?
“Ti aspetto per pranzo?” Chiese per darsi un contegno. “Te lo faccio preparare?”
“No, sarò fuori città.” Ci fu una pausa. “Milo, per te è un problema?”
“Cosa, che pranzi fuori? Sì, principino, mi struggerò nell’attesa come una sposina trepidante.”
“Parlavo della commissione.” Lo fulminò. “È un problema?”

Per Faust, se n’è accorto. E se se ne accorge lui…
Era imbarazzante. Molto. “Sono reduce da una serata che a quanto pare ha coinvolto una papera gonfiabile, tre manichini e fiumi di vodka … sempre che il saporaccio che ho in bocca non mi inganni. Al momento è un problema anche allacciarmi le scarpe.” Contemplò lo stabile di mattoni a tre piani da cui era uscito. “Aspetta che chiedo dove sono.”
Quando chiese al primo passante disponibile indicazioni e gli venne risposto un enigmatico Battersea gli venne da ridere. “Okay, è ufficiale, non so come arrivare a Diagon Alley.”
“Milo…”
“Ehi, ehi. Mi arrangerò.”

Il sospiro che sentì all’altro capo del filo era piuttosto inopportuno, considerando che stava parlando con una persona che non aveva ancora preso la famigerata tube perché credeva che sprofondasse nelle viscere della terra. “Recapita quei documenti prima di pranzo, se ci riesci.”
Chiuse la chiamata e si stiracchiò. Nell’operazione, mostrare un dito al cielo – al Destino, o a un dio minore o chi per lui – fu doveroso.

 
****
 
Irlanda, Dublino.
Quartiere Magico.
 
“Tutto a posto?”
Scorpius lo chiese a Prince, che sembrava doversi ancora riprendere dalla Passaporta per arrivare in Irlanda. Più precisamente a Dublino, dato il proliferare di verde nel quartiere magico dove erano appena atterrati. Era sul serio tutto verde: dalle insegne dei negozi alle decorazioni nelle vetrine. Persino sui muri crescevano grappoli di trifogli rigogliosi e, manco a dirlo, molto verdi.
“Non hai aperto bocca da quando siamo usciti dal Ministero.” Aggiunse.

“È tutto a posto.” Gli mentì con disinvoltura.
Si strinse nelle spalle. “Senti, lo so che non siamo amiconi o altro … ma sei uno della squadra, e se c’è qualche problema … So che ti sembro un’idiota, ma…”
Sören lo guardò serio. “Non penso tu sia un idiota. Tutt’altro.”  

Wow, è vero quello che dice la piccola Potter … Quando parla intende al cento per cento ciò che dice.
“Sei stata l’unica persona, assieme a Lilian, che mi abbia sempre trattato con rispetto.” Continuò. “Te ne sono molto grato.”
“Per così poco!”
“Non è poco. Non per me.” Esitò. “È che … non sono molto bravo ad aprirmi.”

Sì, per eufemizzare.
Scorpius però non insistette, preferendo un’altra strategia. Si era fatto le ossa, con amici riluttanti a confessare i propri crucci. “Sappi che sei hai bisogno però sto qua, okay? Figurativamente parlando.”
Sören gli sorrise. “Avevo capito.” Fece un’espressione che sembrava nascondere un mal di pancia e poi gli allungò un’esitante pacca sulla spalla. “Grazie.”
Mi ha toccato! Spontaneamente! Sono tutto emozionato! Quanto lo saprà Rosie!  
Non disse nulla però, limitandosi ad un gran sorriso ed ad entrare nell’edificio che ospitava la banca centrale irlandese. Notò subito il Folletto giusto. “Quello lì. Ci guarda malissimo, è perfetto.”  

Quando arrivarono al banco la creatura li squadrò come se fossero cacca di Doxy. “I Signori desiderano?”
Scorpius, che c’era abituato date le visite alla camera di famiglia annuali, prese la bolla di indagine assieme al proprio distintivo e glieli mise sotto il naso adunco senza troppe cerimonie. “Auror Malfoy e Agente Prince. Veniamo dal Ministero inglese. Questa bolla ci garantisce l’accesso alla camera blindata di Ryan Connor. Abbiamo bisogno di vederla e di parlare con il Folletto assegnato.”
Il Folletto passò quello che sembrò un secolo ad esaminare i documenti e i loro distintivi. Scorpius sentì infatti Sören muoversi innervosito al suo fianco. Il modo di fare sospettoso del banchiere non doveva metterlo a suo agio. “Torno subito.” Proclamò prima di chiudere con un gesto secco la grata che li separava dal bancone.
“Qual è il problema?” Sbottò quando la creaturina se ne fu andata.
“Nessuno.” Lo tranquillizzò. “I Folletti, da che mondo e mondo, son tutti fatti così. C’è un motivo per cui non hanno negozi ma possono fare solo i banchieri. Non sanno proprio cosa sia il rapporto con i clienti.”
“Quindi?”
“Aspettiamo che quella bolla passi di mano in mano … o per farla semplice, che si stufino di averci trai piedi.” Si appoggiò al bancone, scrocchiandosi il collo e sbadigliando. Quando aveva deciso di fare domanda per l’Accademia si era immaginato che fare l’auror sarebbe stato un lavoraccio, ma non fino a quel punto. Ogni sera crollava sul letto con la testa leggera, e neppure quando il letto era della sua fidanzata trovava la forza di far cose più creative di una robusta dormita.
Quella mattina ad esempio si era svegliato solo perché Rose, nella fretta di prepararsi per uscire, gli aveva rovesciato addosso la pila di libri che teneva sul comodino.
 
“Merlino, scusa!”
“… tanto non avrei avuto reazioni neanche se mi avessi tirato addosso uno scaffale.” Aveva bofonchiato con la bocca seppellita nel cuscino. Aveva aperto un occhio e aveva avuto una visione della ragazza che saltellava su una gamba sola tentando di infilarsi una scarpa. L’aveva trovata bellissima.

“Sei bella anche se hai le calze rotte.” L’aveva informata. “Ti amo molto.”
“Porca Morgana!” Era stata la soave risposta mentre si era precipitata a frugare nel cassetto della biancheria per trovarne un paio nuove. “Ma tu non sei in ritardo?” L’aveva apostrofato con vaga accusa.

“Non stamattina. La Passaporta che devo prendere con Sören parte alle dieci.” Aveva sbadigliato, e rotolando su un fianco aveva ficcato la testa sotto il letto, per estrarre un paio di calze che le aveva poi porto. “Metti queste.”
Rose gli aveva sorriso sollevata, chinandosi per baciarlo a lungo. “Sei meglio di un segugio.”
“Se ti piacciono i segugi, Donnola sarebbe un perfetto animaletto per la nostra nuova casa.”

Rose aveva alzato gli occhi al cielo, finendo di indossare le calze e scacciando con una manata leggera il suo tentativo di cingerle la vita e riportarla a letto. “Quindi oggi fai coppia con Prince?” Non aveva aspettato la sua risposta alzandosi in piedi e Appellando la borsa. “Ricordati di chiedergli se pensa di rimanere in Inghilterra fino ad Agosto.”
“Perché?”

L’aveva guardato come se fosse tonto. “Perché devo sapere se verrà al matrimonio.”
Eh?
“Lo vuoi al nostro matrimonio?”
“Ieri stavo scrivendo gli inviti con Lily e Violet e quando non l’ha visto sulla lista ha chiesto spiegazioni.” Aveva fatto una smorfia. “In fondo ha ragione, è un tuo collega. È dalla nostra parte adesso.”
Scorpius aveva sorriso, sporgendosi per tirarla a sé. “La mia brava ragazza…” Le aveva baciato il punto più profumato del collo, dove metteva sempre due gocce di profumo. “Prince è un tipo fortunato ad avere un’amica come quella rossa.” Le aveva appoggiato il mento sulla spalla e aveva contemplato l’espressione incerta sul viso. “Cosa, Rosellina?”

L’altra aveva scosso la testa, baciandolo leggera prima di alzarsi. “Chiediglielo, okay?”
 
“… quindi ci saresti per il mio matrimonio?”
“Se le indagini continuano di questo passo non credo tornerò a Boston in tempi brevi…”  
“Ottimo! Cioè, non delle indagini.” Si corresse. “La parte divertente sarà l’addio al celibato, vedrai. Sarà bello avere qualcun’altro che apprezza le grazie femminili. Perché le apprezzi, mi ricordo bene?”
Sören sorrise divertito. “Non è un po’ il punto della festa?”
“Sì, ma il problema è che nella nostra generazione c’è stata una specie di epidemia gay … o forse sono io che faccio amicizia solo con gente che potrebbe potenzialmente concupirmi. Chissà. Dici che mi rende un narcisista?”
L’altro sembrava ad un passo dal mettersi a ridere, ma tra il luogo e il fatto che erano in servizio dovette sembrargli doveroso controllarsi. “Sei assurdo.” Disse comunque. “Tu e Milo andreste d’accordo.”
“Fammi indovinare, è gay.” Ad un cenno affermativo spalancò le braccia. “Vedi?”
Sören strozzò una risata quando la grata si alzò e il Folletto li avvertì che potevano seguirlo; a quanto sembrava era proprio lui ad occuparsi della camera blindata di John Doe.
Il viaggio verso la suddetta fu breve e non dissimile da quello che Scorpius doveva sorbirsi ogni qual volta accompagnava i genitori alle camere delle rispettive famiglie. Quando il Folletto di nome Onci aprì la gigantesca porta circolare, si trovarono di fronte al … niente.

“È stata ripulita.” Sentenziò Sören mettendovi piede. “Come il laboratorio.” Aggiunse con una nota cupa nella voce. “Johannes sta eliminando ogni sua traccia.”
“Comprensibile se i suoi datori di lavoro stanno rischiando di scatenare un’epidemia in Inghilterra … Come hai detto tu, sa che noi sappiamo che è coinvolto. Vorrà farsi terra bruciata attorno.” Commentò di rimando, passandosi le mani trai capelli in piena frustrazione. Si voltò verso il Folletto. “Cosa c’era dentro prima che venisse svuotata?”
“Varie cose.” Fu la risposta lapidaria e Scorpius si morse la guancia per non rispondergli a tono.
Non fare il Potty della situazione.
“Potrebbe essere più specifico?”
“Monete, artefatti magici … non arte dei Folletti.” Ci tenne a precisare. “Le solite cose che sono in tutte le nostre camere.” Gli rivolse un sorrisetto sgradevole. “Ma forse i Signori vogliono vedere l’inventario.”
E perché diavolo non ce l’hai mostrato subito?

“Sì, grazie.” Rispose a denti stretti.
Odio i Folletti.
Scorrendo il documento con lo sguardo mentre Sören gli si affiancava per imitarlo, fischiò. “Era piena. Von Hohenheim lo pagava bene … e anche questo nuovo lavoro sembra fruttargli un bel po’.”
Troppo bene.” Osservò confuso il collega. “Vi sono registrati anche manufatti di valore. Che io sappia non ne ha mai posseduti, ha sempre preferito denaro contante e dubito che venga attualmente pagato con quelli.”
“È possibile che li abbia rubati?”

“A mio zio? Forse.” Convenne. “Non sarebbe da escludere che in qualche modo abbia avuto accesso alle fortune della famiglia e se ne sia appropriato… Non credo che il Ministero tedesco sia riuscito a recuperarle tutte. Però non avrebbe tenuto niente, li avrebbe venduti. Non è mai stato un collezionista.” Gli occhi si fermarono su una foto che documentava una serie di gioielli in particolare e Scorpius lo sentì trattenere il respiro. “Questi gioielli … me li ricordo.” Passò le dita sul riquadro lucido della foto in bianco e nero. Scorpius vi diede un’occhiata: si trattava di due braccialetti di pietre dure e una collana di perle. Monili da donna. “Li ho già visti.”
“Dove?”
Sören distolse lo sguardo e lo posò su un punto fisso di fronte a sé.
“Addosso a mia madre.”
Ah…

Certo, non era una cosa carina da scoprire.
“Beh, allora li ha rubati.”
“Non è possibile.” Scosse la testa e se la confusione aveva un volto, era quello di Sören Prince. “Mio zio li fece seppellire con lei.”

 
****
 
Ministero della Magia. Dipartimento Applicazione Legge sulla Magia.
Ufficio Cooperazione Magica Internazionale. Ora di pranzo.

 
Michel firmò con un movimento preciso e ormai automatico l’ennesima fila di fogli tutti uguali, facendoli levitare nell’apposita cartellina che timbrò poi con un sapiente colpo di polso.
Un timbra carte. Loki non ha tutti i torti a chiamarmi così.
A malapena sentì bussare alla porta, e fu la sua collega di stanza che dovette andare ad aprire, non prima di avergli lanciato un’occhiata oltraggiata.
No, me ne frego dell’anzianità.
Appena la megera se ne fosse andata in pausa pranzo ne avrebbe approfittato per chiamare Ethan Scott e ragguagliarlo su Prince; non aveva molto da dirgli, ma gli aveva promesso una chiacchierata informale di tanto in tanto.
E comunque voglio lavorarmelo. Non ho la minima intenzione di passare i miei giorni qua dentro.
“Michel, è per te.” Lo riscosse la collega.
Giusto. È il giorno di report dell’agente Pri…
Il pensiero rimase bloccato a mezz’aria quando si accorse che il mago che aveva di fronte non era quello che si aspettava.
Non è un mago.
Emil Von Houten era a due passi dalla sua scrivania, con le braccia incrociate e un broncio da bambino davanti ad un Decotto Tiramisù. Paragone migliore non poteva trovarlo. Rimasero a fissarsi prima che il tedesco si schiarisse la voce e gli porgesse una cartellina. “Per te. Da Prince.”
“… Come?” Era certo di sembrare un ritardato, ma non riusciva a riprendersi dalla sorpresa.

Pensavo non l’avrei più rivisto…
Non che fosse contento di averlo lì, affatto: l’umiliazione era stata troppo cocente, persino per poter essere dimenticata con un whiskey incendiario, per quanto insolitamente offerto da Loki.
Von Houten si era preso gioco del suo tentativo di stabilire un contatto che sì, era stato forse patetico, ma certo non aveva meritato tanta acrimonia.
Era furioso, ovviamente.
“Per te. Da Sören Prince.” Ripeté con tono annoiato, porgendogli la cartellina.  
Ma va’ al diavolo.
Consapevole della collega a pochi passi di distanza che li stava occhieggiando fingendo di lavorare alla scrivania, si riscosse e approntò la sua migliore smorfia professionale. Albus diceva che lo faceva sempre sembrare snob. Al momento era la sua unica difesa. “Avrebbe dovuto venire di persona…”
E tu come lo conosci? Va bene, sono entrambi tedeschi, ma…

“Per questo ho una delega. Apri la cartellina, è il primo foglio.” Si strinse nelle spalle. “Ho bisogno che tu mi lasci una ricevuta.” Aggiunse.
“Ovviamente.” Fece il giro della scrivania, cercando di racimolare idee e contegno. “Prendo il modulo. Si accomodi.”
Un lampo divertito passò negli occhi dell’altro. “Addirittura del lei…” Mormorò, abbastanza basso da poter essere udito solo da lui. Michel si rifiutò di sentire un nodo allo stomaco e la pelle d’oca.

Inutile che fingi. Sei attratto. È l’unica cosa di cui sei sicuro, no?
Compilò il modulo seguendo i dati contenuti nella delega.
“Milo Meinster.” Lesse lanciandogli un’occhiata. “Meinster era parte del tuo cognome…” Non poté fare a meno di osservare.  
“Meinster è comunissimo da dove vengo. È il vostro Johnson.”
“Continui a negare l’evidenza?” Frecciò e fu soddisfatto nel vedere come l’altro serrò la mascella. “Mi sembra di averti già detto che non sono un giornalista a caccia di scoop.”
“Questo lo vedo.” Si guardò attorno. “Sei un topo da Ministero.”

“Un diplomatico.” Lo corresse cercando di tenere il tono basso. L’ultima cosa che voleva era che la megera in ascolto lo usasse come argomento per spettegolare in mensa. “Perché sei qui?”
“Un favore ad un amico.” Non si sbilanciò. Si ficcò le mani in tasca e fece un passo in direzione della scrivania. Da quella posizione torreggiava sopra di lui, e l’impressione era bizzarra. Lo metteva a disagio quanto lo intrigava.

Nessun Magonò ha tanto carisma.
“Prince è tuo amico?”
Emil non rispose, passando invece un dito lungo la sua targa. “Sei un ficcanaso di natura o il privilegio è tutto mio?” Chiese e Michel dovette inghiottire un grumo di saliva mentre vergava la propria firma sul documento. La memoria giocava brutti scherzi quando gli segnalava a chiare lettere cosa quell’indice aveva percorso per tutta la sua lunghezza.
Dannazione.
Tuttavia non era un verginello eccitabile e poteva mantenere il controllo, almeno in superficie. “Mi scuserai se sono curioso…” Esordì colando la ceralacca sulla pergamena e premendo il sigillo del Ministero sulla bolla calda. “ … ma vorrei sapere come una persona del tuo talento sia finita a fare da assistente personale ad un ex carcerato.”
Non sei l’unico ad avere delle carte nel proprio mazzo.

Il tedesco per tutta risposta si sporse sulla scrivania e Michel sentì distintamente quella stramaledetta cretina della sua collega trattenere il respiro. Non poteva biasimarla dato che lo stava trattenendo anche lui.
Dicevi del timido verginello?
“Una buona paga.” Gli sorrise pigramente. “E comunque ci sono lavori peggiori.” Soggiunse. “Tipo il tuo.”
Non ebbe il tempo di indignarsi che Emil si tirò su di scatto, sfilandogli la cartellina da sotto mano. “Bene, se è tutto le auguro giornata Signor Zabini. Signora.” Salutò con un cenno deferente della testa la sua collega e poi si incamminò fuori.
Michel si morse le labbra, sentendosi patetico. Perché era patetico.
Dannazione.
Non gli avrebbe lasciato quella chiusura, non gli avrebbe permesso di avere l’ultima parola. Oltre l’orgoglio c’era l’irrefrenabile desiderio di rivalsa.
O di essere notato?
Si alzò e gli andò dietro, premurandosi comunque di mantenere un’andatura naturale, anche se spedita.
Non gli sto correndo dietro. Affatto.
“Emil.” Lo chiamò quando lo raggiunse abbastanza da ricordare che spalle notevole avesse. “Aspetta.”

Il maghetto stronzo l’aveva seguito. Inseguito a dirla tutta ed era un fatto talmente sorprendete che Milo dimenticò la prudenza e si voltò.

Era dannatamente Purosangue, con quel suo completo inamidato e le movenze da casta privilegiata. Eppure negli occhi da orientale vi leggeva qualcos’altro, qualcosa che non sapeva di ricordi amari e vedute ristrette, ma di…
Sì, vabbeh. È stata una grandiosa scopata. Non fartici castelli in aria, sì?
“Cosa maghetto?” Allargò le braccia. “Dimenticato qualcosa?”
L’altro esitò ed era così evidente che non sapesse cosa dirgli, ora che era riuscito ad attirare la sua attenzione, che gli fece quasi tenerezza. “Io…” Lo guardò stizzito, come se la momentanea afasia fosse colpa sua. “A dire la verità, sì.” Prese una decisione da come fece un mezzo sorriso. “Ti intendi di strumenti antichi?”
… Eh?
Qualsiasi cosa avesse in mente, valeva la pena indagare. “È così che di solito rimorchi? Perché chapeau per l’originalità…”
Il sorriso dell’altro sfumò in un ghignetto divertito. “Non mi serve trovare argomenti di conversazione, di solito …  sono gli altri che lo fanno per me. O mi sbaglio?”
Touché.

Bisognava dunque dimostrargli che sapeva perdere con classe. “Dipende da che strumento intendi.”
“Diversi in realtà.” Si strinse nelle spalle. “Mia nonna, Amara Zabini … è sempre stata appassionata di musica. Una passione che gli ha trasmesso il suo quinto marito che, alla sua morte, le ha lasciato una collezione di strumenti antichi. Era un italiano. Camillo Guallazzi, forse ne hai sentito parlare.”
Milo inarcò le sopracciglia, ripescando quel nome tra le  sue memorie infantili. “Guallazzi il collezionista di…” Tacque, ammutolito, realizzando la portata dell’informazione che l’altro gli aveva così graziosamente scaricato.

“Per il mio dodicesimo compleanno me l’ha regalata.”
“La collezione Guallazzi.” Deglutì cercando di azzerare la salivazione per non sbavare come un molosso. “Non l’ho vista a casa tua.” Ritorse.

Michel si strinse nelle spalle. “Questo perché non sei andato oltre la mia camera da letto.”
Ma vaffanculo.

C’era una parte di lui che però plaudiva al modo in cui gli aveva servito quella trappola, corredandola tra l’altro di frecciatine intelligenti e non volgari.
Andiamo, apprezzi lo stile, ammettilo.
“Quindi?” Tagliò corto, che non aveva intenzione di restare un’eternità in quel corridoio bianco come un incubo, seppellito metri e metri sotto terra.
“Posso mostrartela.” E dietro l’aria condiscendente da grazioso sovrano, Milo lesse aspettativa, e una buona dose di speranza.
Guarda tu … era davvero mio fan allora.
Non sapeva se esserne inquietato o lusingato. Per buona misura decise di essere comunque prudente: era la prudenza che l’aveva fatto rimanere fuori dal radar per tutti quegli anni e non aveva la minima intenzione di cambiare le cose, neppure per un bel faccino o una collezione di strumenti antichi.
“E se non me ne fregasse niente?”
“Ho un Guarnieri¹ del Gesù del 1719.” Incrociò le braccia al petto e dovette gustarsi ogni parola che pronunciò. “Condizioni perfette. Posso fartelo suonare, se vuoi.”
Milo percepì il suono della sua disfatta; prevedibilmente, era la voce di un violino.

 
****
 
Diagon Alley, Archivio Ministeriale.
Caffetteria. Ora di pranzo.
 
Scott Ross si riteneva un bravo ragazzo.
E non se ne vergognava mentre sorseggiava the freddo aspettando che arrivasse la sua dolce metà per pranzare.
C’era questa sotto-cultura secondo cui le donne desideravano il tipo tormentato, quello che faceva loro piangere fiumi di lacrime di fronte ad un chilo di gelato… ma aveva sempre pensato fosse una cavolata; una donna sognava l’amore appassionato ed epico, certo. Quello che molti non capivano – e modestamente, lui sì – e che non era disposta a tenerselo nel lungo periodo.
Lo insegnavano i libri: i grandi amori romantici, la totale mancanza di freno e le passioni travolgenti si evolvevano, di solito, in finali tragici e morti premature.
E nessuno vuole morire per amore. Non davvero. 
Per questo motivo aveva sempre rivendicato il suo essere un tipo coi piedi per terra: le ragazze normali sognavano il bello e impossibile, ma poi sposavano quello capace di dar loro una casa e dei figli.
Questa sua teoria non aveva fatto altro che consolidarsi negli anni, tra amori importanti e storielle passeggere e poi, nell’inverno dei suoi ventisei anni, era arrivata Lily Luna.
Lily, minuta, dai capelli color delle fiamme, il sorriso contagioso e l’intelligenza vivace. Lily Luna, consapevole del suo effetto sugli uomini e che gridava guai lontano un miglio. Lily Luna, la sua ragazza ideale. L’aveva capito nel momento stesso in cui sua zia Minnie gliel’aveva presentata.
 
“Arrivi giusto in tempo per il the, Scott.”
Far visita a zia Minnie era un po’ la corvee doverosa di ogni nipote McGrannit-Ross, ma Scott non l’aveva mai vista come un’imposizione. Per questo, di contraccambio, si era meritato la palma di nipote preferito.

“ … ti presento Lily.” E quando la ragazza si era alzata, sorridendogli, Scott si era trovato automaticamente a stendere la mano.
“Piacere, ma tu sei…”  
“Lily Luna Potter.” Aveva terminato per lui, stringendogli la mano con la forza che si addiceva alla figlia del Salvatore. Le dita morbide gli avevano accarezzato il palmo quando l’aveva sciolta. Aveva dovuto ricordarsi di lasciarla andare. “Tu sei il ragazzo d’oro di Minerva, invece. Mi ha parlato di te.”
“Beh, allora siamo pari.”
“Come se già ci conoscessimo.” Gli aveva sorriso suggestiva: era ufficiale, non se l’era immaginata la stretta, Lily stava flirtando con lui. Non ne era infastidito – sarebbe stato un’idiota, dato che la ragazza era attraente: era solo un po’ perplesso dal contesto.  

Tra gatti e tartan…
“Spero ti piaccia la Dundee Cake.” Si era trovato a dire impacciato.
Lily non era parsa infastidita dalla sua uscita imbranata, non da come gli aveva sorriso gentile. “È la mia preferita. Vado a tagliarla, Minerva?”
“No, ci penso io. Voi ragazzi siete ospiti … sedetevi e versate il the.”

E di colpo Scott si era reso conto di essere stato più o meno incastrato in un appuntamento al buio.
Quando si erano seduti, lui e Lily si erano scambiati un’occhiata consapevole per poi scoppiare a ridere. “Giuro, neanche in mille anni avrei pensato che mia zia … beh, si impicciasse della mia vita sentimentale!”    
“Mi sento lusingata di esser ritenuta degna del famoso e perfetto Scotty allora.” Aveva replicato l’altra versandogli il the. “Devo proprio essere un’eccezione.”

Si era stretto le spalle, capendo che aveva davanti la tipologia di strega fin troppo sicura di sé e che la doveva tenere sul pezzo per non farsi sopraffare. “Ex studentessa?”
“Prevedibile, vero? Ero terribile con tua zia, penso di averla fatta impazzire. E l’ho avuta solo per un anno.” Si era riempita la tazza e poi l’aveva presa tra le mani, senza bere. Per un attimo era tornata seria contemplandola. “Mi ha aiutato un sacco, in realtà. Lo sta ancora facendo.”
“È sempre stata una buona ascoltatrice.” Non si era sbilanciato, ma zia Minnie sarebbe tornata in pochi attimi, e doveva calare le sue carte in fretta. Non aveva intenzione di fare la figura del tipo bisognoso di aiuto esterno per combinare con una ragazza. “Se te lo chiedi, lo sono anche io.”

Lily gli aveva lanciato un’occhiata complessiva e doveva esserle piaciuto quel che vedeva perché aveva sorriso di nuovo. “È una buona qualità.”
“E si esprime al suo meglio davanti ad un caffè. E di pomeriggio.”

“Qua non c’è caffè però.”
“Beh, allora dovremo rimediare.”

 
Lily non si era fidata subito. L’aveva capito da come, nonostante gli appuntamenti si fossero susseguiti e che la camera da letto fosse stata quasi subito un’opzione, la sua interiorità fosse rimasta ben protetta. C’era una bella differenza tra il togliersi i vestiti e scherzare su un film e sapere di essere importanti l’uno per l’altro.
All’inizio aveva supposto che il problema fosse come la gente di solito reagisse al fatto che era la figlia di Harry Potter. Non aveva sbagliato del tutto: quel problema però era stato affrontato e risolto dopo il primo mese, quando le aveva fatto capire che non era interessato a lei e non a suo padre.
Era stato venire a conoscenza dell’anno buio il vero giro di boa. L’anno in cui la sua ragazza aveva perso fiducia nel genere umano.
Non che gliel’avesse mai messa in quei termini, ma aveva fatto due più due dopo un paio di allusioni da parte di amici e fratelli, atteggiamenti sfuggenti e il fatto che fosse una paziente di una Psicomaga.
Lily era stata ferita a fondo, ed era una sfida continua convincerla che non sarebbe capitato con lui.
Ma la sto vincendo. O meglio, la stavo vincendo finché
Finché Sören Prince non aveva fatto la sua comparsa.
Scoprire chi era il tedesco, cosa aveva fatto e cosa aveva intenzione di fare non gli era piaciuto: sembrava un tipo a posto – passato inquietante a parte – ma non era quello il punto.

Il punto è che si è messo in mezzo.
Da quando era tornato in Inghilterra Lily aveva perso la bussola: aveva fatto un sforzo eroico nel non farglielo notare e le credeva quando diceva che non c’erano motivi di esser geloso, tuttavia il legame trai due era innegabile. Lily non l’aveva mai visto – checché ne dicesse lei – come uno dei colpevoli. Ma una vittima, come lei.
E non c’è modo di fargliela pensare diversamente.
Per questo doveva pensare ad una strategia per non esser tagliato fuori da quella nuova svolta di trama.
Perché amava Lily, anche con le sue paure e la sua ossessione per un ragazzo sbagliato.  
“Ehi, ragazzone.” Sentì un bacio sulla nuca e si trovò di fronte il sorriso luminoso della sua ragazza. “Pensi a me?”
“No, ad un’altra rossa con gli occhi chiari e l’abitudine di sorprendermi alle spalle.” Scherzò tirandosela contro per un bacio. “Sei in ritardo.”
Lily gli passò un dito sulla guancia. “Elegante ritardo, prego. Wilkins …”
“Un paziente.” Convenne. “Va bene, perdonata. Il lavoro è la scusa valida universale.” Mentre gli si sedeva di fronte spinse il the ghiacciato nella sua direzione. “Anche perché hai corso per venir qui.”
“E una Materializzazione.” Convenne sfilandosi gli occhiali da sole e bevendo un sorso grato con un sorrisetto di scuse. “Me lo offri comunque il pranzo?”

“Sei più ricca di me, un povero e spiantato archivista. Parità dei ruoli?” Propose facendola ridere perché sapevano entrambi che avrebbero finito per pagare a metà. Passarono qualche minuto a chiacchierare del più e del meno e confrontare le rispettive giornate lavorative, poi Scott decise che era ora di mettere in atto il suo piano.
“Questo Weekend, Glasgow, che ne dici? Patrick e Rita ci potrebbero ospitare.”
L’esitazione di Lily fu praticamente una risposta.

“Questo venerdì dovrei iniziare quella cosa del duello con Ren…”
“Ah.” Era importante, e lungi da lui l’idea di togliere a Lily la possibilità di sentirsi più sicura; si era accorto di quanto la faccenda al San Mungo l’avesse spaventata e non la facesse dormir bene, per quanto  avesse tentato di tenerglielo nascosto.
Non sei sottile come pensi di essere, piccola…
Sarebbe stato il primo a supportarla se l’intera faccenda non fosse ruotata, prevedibilmente, attorno al dannatissimo Sören. “Beh, dai, non fa niente.” Disse con il suo miglior tono ferito, convincente perché sincero.
Farla sentire in colpa non sarà tanto giusto … ma qui bisogna combattere con quel che si ha.
Lily infatti gli prese subito la mano, stringendola. “Senti…” Iniziò. “Se partiamo sabato potremo restare fino a lunedì mattina. Posso prendermi una mezza giornata visto che sto facendo ore extra.”
“Sicura?”
Lily si sporse per baciarlo. “Sicura.” Mormorò. “Fare una pausa da Londra mi farà bene.”
“Sono d’accordo … Hai bisogno di staccare un po’, piccola. Questa città riesce a divorarti il buon’umore.” L’avrebbe portata anche all’altro capo del mondo se fosse stato necessario a farle ritrovare la tranquillità. Per il momento, Glasgow era un buon compromesso.
Lily gli sorrise. “Allora è deciso!”
“Non ci portiamo dietro Ren?” Non poté fare a meno della frecciatina, comunque attento a mantenersi su un tono scanzonato. Si rimediò uno schiaffo sulla spalla ed un’occhiataccia.
Ops, LeNa.
“Non fare lo scemo.” Borbottò. “Posso avere degli amici maschi, sai?”
“Sarò sempre geloso di un ragazzo che passa del tempo con la mia ragazza.” Ammise con franchezza intrecciando la mano alla sua. “Spiacente, è nei miei geni.”   

“Nel tuo testosterone vorrai dire.” Sbuffò, ma non era arrabbiata da come ricambiò la stretta.
Era questo essere un bravo ragazzo, per Scott: supportare, comprendere … e giocare d’astuzia.
Senza offesa, Ren. Ma no, a Glasgow non vieni. Il posto è già occupato.
 
 
****
 
Piccadilly Circus, Pomeriggio.
 
Non avrebbe dovuto accettare l’offerta del maghetto stronzo di rivedersi appena avesse staccato dal lavoro.
Milo ne era consapevole ma un Guarnieri del Gesù era un’offerta troppo ghiotta.  
Stai facendo una stronzata. Vattene.
Emil Von Houten risultava morto per il Mondo Magico, e l’idea di riesumarlo a beneficio della curiosità di un inglesino era una pessima, pessima idea.
Guardò le lancette del suo nuovo orologio e buttò la sigaretta.
Vattene adesso.
Lo stava per fare quando sentì dei passi avvicinarsi.
Troppo tardi.
Voltandosi se lo trovò di fronte, in un trench scuro che doveva servire a nascondere gli abiti magici e da solo doveva valere due mesi del suo stipendio. Fece per formulare una battuta salace al riguardo, quando il ragazzo gli sorrise apertamente. C’era sorpresa e sollievo nella sua espressione e non doveva mostrarli troppo spesso da come si spense subito, imbarazzato.
Oh, la vecchia e sana educazione Purosangue … Sii un costipato bastardo.
“Sei in ritardo, me ne stavo andando.” Disse invece.
Il mago inarcò le sopracciglia. “Non sono in ritardo.” Da lontano, quasi a conferma, suonarono le campane di qualche chiesa segnalando le sei in punto. “Dì piuttosto che volevi trovare una scusa per dartela a gambe.”
“Se stai cercando di renderti simpatico ti avverto che stai facendo un lavoro di merda.”
Zabini – meglio chiamarlo per cognome – gli rivolse un sorrisetto urtante. “Non sei la prima persona che me lo dice.” Ammise tranquillo e prima che potesse ribattere gli fece cenno con la testa. “Troviamo un posto riparato.”
“Guarda, sarò sincero, sono in post sbronza … non ce la faccio proprio ad offrirti una sveltina.” Motteggiò rimediandosi un’occhiataccia.

“Per Smaterializzarmi.”
“Non credo proprio.” Replicò. “Io quella roba non la faccio. Casa tua, se non ricordo male, non è molto distante da qua.”

“È ad un’ora a piedi!” Ribatté sconcertato.
“Beh, possiamo sempre prendere la vostra tube.”
L’occhiata che gli venne rivolta sarebbe stata adeguata ad una minaccia di morte. “Io non uso mezzi di trasporto Babbani.” Gli venne sibilato.

“Che peccato. A me comunque non dispiace camminare.” E prima di dargli tempo di rispondere attraversò le strisce. Dopo una sentita imprecazione l’altro lo seguì scuro in volto.
Vuoi conoscermi? Mai detto che ti avrei reso le cose semplici.
Dopo un paio di minuti di marcia ostile, Milo realizzò che il maghetto non era abituato al traffico del centro di Londra, per quanto vi vivesse a lato; alla seconda volta che quasi rischiò di essere falciato da una selva di macchine impazzite, ebbe pietà di lui e lo afferrò per la cintura del trench.
“Vuoi che ti tenga la mano?” Lo prese in giro. “Andiamo, vivi in un quartiere Babbano … non dirmi che non ti sei mai fatto un giretto a piedi.”
“Non di un’ora a mezzo e non nell’ora di punta.” Soffiò come un gatto a cui era stata pestata la coda.  Che caratterino.

Prevedibilmente, come tutti i ragazzini ricchi e viziati detestava essere contraddetto e le novità fin nelle profonde fibre del suo essere.
Una volta anch’io ero così.  
Fu per quella sorta di malmessa empatia che decise di allentare un po’ la corda. “Dai, stammi a fianco invece di camminare tre passi davanti a me. La strada la conosco.”
“Ti ricordi dove abito?”
Ti prego, non dirgli che ci sei rimasto tanto scottato da esserti mappato quel fottuto quartiere per evitare di incrociarlo per sbaglio.

“Ho una buona memoria.” Tagliò corto afferrandolo per l’incavo del gomito quando tentò per l’ennesima volta di suicidarsi ad un attraversamento pedonale. Si maledì quando lo vide sorridere tra sé e sé.
Beh, non è un cretino e la tua diversione faceva pena.
“Come hai conosciuto Prince?” Gli venne chiesto all’altezza del Tamigi, quando il traffico si era un po’ diradato tra viali alberati e palazzi vittoriani.
“L’ho rimorchiato in un bar.”
Scusa principino.

“Fammi il favore.” Sbuffò l’altro roteando gli occhi al cielo. “È tragicamente etero.”
Sì, in effetti non c’è neanche una goccia di sangue arcobaleno in quel povero ragazzo. Quei capelli … e quei vestiti. Soprattutto i capelli.
“Sei il suo agente di controllo, sai la sua storia, no? Gli serviva una balia che lo aiutasse a non inciampare nei suoi stessi piedi quand’è uscito, ed io ero disponibile. Non c’è molto da dire.”
“No, immagino di no.” Acconsentì tranquillo, dato che era evidente avesse tirato fuori l’argomento solo per non rimanere in silenzio. In quel momento il cielo, già di un grigio plumbeo inquietante, decise di graziarli di uno scroscio d’acqua gelato.
“Voi inglesi avete fatto incazzare madre natura o cosa?” Sbottò stringendosi le braccia al petto e maledicendo il suo post-sbronza che gli aveva fatto dimenticare l’ombrello alla locanda.

Michel gli rivolse un’occhiata divertita, prima di far Apparire un ombrello che aprì sopra le loro teste. “Sei stato tu a voler camminare.”
Gli avrebbe tirato un pugno. Il mago, forse intuendo i suoi pensieri, alzò gli occhi al cielo. “Di solito sei così charmant o è un privilegio che riservi solo al sottoscritto?”
“Non sei così speciale, maghetto, tranquillo.”
Si chiusero entrambi in un silenzio maldisposto, e Milo si chiese se i postumi della sera prima non gli avessero fatto davvero andare il cervello in pappa.

Che cazzo, è ufficiale, fuori da un letto non ci sopportiamo. Chi te l’ha fatto fare?
Va bene il Guarnieri, ma…
Quando entrarono nell’appartamento Zabini sembrò voler dire qualcosa, ma ci rinunciò preferendo fargli cenno di seguirlo. “Di qua.”
Si fermarono di fronte ad una libreria in acciaio, con dentro abbastanza volumi da non sembrare di facciata, ma non tanti da far disordine.
Mi ci scommetto le palle … Non sono mai stati sfogliati.
L’altro estrasse la bacchetta e dopo un complicato movimento gli scaffali si dissolsero per lasciar spazio ad una porta. “Tengo la collezione qui.” Gli spiegò. “Ragioni di sicurezza.”
Questa casa ha visto un bel po’ di ospiti di cui il padrone non conosceva neanche il nome, ricevuto.
Milo si preparò ad un ambiente impostato e senz’anima come quello che aveva appena passato; rimase invece di stucco quando entrò in una stanza in cui il legno scuro faceva da padrone, così come tappeti morbidi e mobili d’antiquariato, restaurati a tal punto che sembravano usciti dalle mani di un artigiano solo pochi giorni prima. Dietro due poltrone Chesterfield di cuoio rubino, l’intera scena era dominata da un pianoforte a coda e un’elegante giradischi con la classica tromba d’ottone. Non sembrava esser stato messo lì come mero pezzo d’arredamento a giudicare dai casellari ricolmi di dischi che vedeva dietro di esso.
Okay. È un appassionato.
“Adesso capisco perché la nascondi.” Formulò riprendendosi dalla sorpresa. “Fa a pugni con il resto.”
Il mago sorrise, togliendosi l’impermeabile e gettandolo su una delle poltrone. “È la vecchia sala da musica di mia nonna … Oltre alla collezione mi ha regalato tutta la stanza.”

“Generosa.”
Un lampo di dolore passò nelle iridi scure dell’inglese e Milo per evitare l’imbarazzo di doversi scusare si guardò attorno; da piccoli oggetti personali, come una tazza di the ancora mezza piena, un libro aperto di faccia sul tavolino accanto alle poltrone e un disco ancora sul piatto era chiaro che quello non fosse solo un museo di strumenti grandiosi …

Qui ci passa del tempo.
Si schiarì la voce, sentendosi osservato. “Beh, questo Guarnieri?”
L’altro annuì e si avvicinò ad una delle vetrinette smerigliate. Con un colpo di bacchetta la aprì e a Milo si sentì azzerare la saliva. Accuratamente posati su supporti in legno stavano un set parziale di archi.
E se non sono tutti Guarnieri …
Quella è una viola d’amore?
Michel gli lanciò un’occhiata sopra alla spalla e doveva avere una faccia spettacolare se abbozzò una risatina. “Stai sbavando.” Gli fece notare.
“Non dovrei?” Borbottò. Erano anni che non vedeva strumenti di quel livello e gli prudevano le mani dalla voglia di metterci le mani sopra. Michel parve intuire, perché prese uno dei violini e glielo porse.
“Il Guarnieri.”  
Uno strumento non era mai solo uno strumento; quando toccavi un violino di quel pregio era come respirare la stessa aria degli esecutori che per generazioni l’avevano preso in mano e vi avevano tratto note. Era come tornare indietro nel tempo.
E diavolo, era la sensazione più simile ad un orgasmo che ci fosse.
“Ottima conservazione.” Mugugnò tanto per dire qualcosa, che lo stava guardando come se si stesse godendo un film avvincente.
Vuoi dei popcorn?
“È stato messo sotto incantesimo.” Rispose. “Molto meglio che conservarlo in una teca climatizzata. È come il giorno che è uscito dalla bottega …”
“È sempre stato in mano ai maghi quindi.” Il che, al di là delle sue idiosincrasie personali, era il destino migliore che potesse capitare ad uno strumento del genere.

Niente da fare, i Babbani non sanno gestire l’usura del tempo.
“Che io sappia sì.” Michel lo guardò di sottecchi. “È accordato.”
“Questo lo vedo.” Alzò gli occhi al cielo, capendo dove voleva andare a parare. “Vuoi che lo provi?”

“Perché, ti basta tenerlo in mano? Non vuoi giocarci?” Milo, che aveva la testa da tutt’altra parte, non registrò subito il doppio senso, arrivandoci confuso come un verginello alle prime armi.  
… oh. Ah!
Sbuffò. “Hai anche un archetto o ti aspetti che lo suoni coi denti?”
“Non ti azzardare.” Motteggiò. L’atmosfera si era distesa e mentre Michel – non Zabini – si chinava per cercarglielo, Milo si trovò nella scomoda posizione di non guardargli solo il sedere, ma di sentirlo affine.
Ama la musica come te, bello mio. Quanto te.
E questo poteva essere un problema.
 
Per quanto fosse un arrogante pieno di sé, Emil Von Houten era un professionista o almeno, una parte di lui lo era ancora.
Perché quando prese l’archetto e appoggiò il violino sulla spalla, chiedendogli un fazzoletto per non rovinarlo, trasfigurò nel ragazzino che ricordava. “Cosa vuoi che suoni?” Gli chiese, ma doveva essere un riflesso più che una vera domanda.
Suonava nelle taverne per guadagnarsi da vivere.
Ma lui non era un avventore da taverna. “Quello che vuoi tu.” Replicò registrando soddisfatto la conseguente occhiata sorpresa. “Mi piacciono molto i tedeschi, ma non ho particolari preferenze.”
“Farsi piacere i compositori tedeschi è avere una preferenza.” Gli fece notare e Michel registrò come non avesse colto l’allusione servitagli su un piatto d’argento.

Quindi l’aria da idiota strafottente è una maschera.
“Tu quali preferisci?”
“Gli italiani. Sono più divertenti da suonare.”
“Potresti suonare Vivaldi…”
“Prevedibile.” Sogghignò. “Le quattro stagioni, ci scommetto.”
“Non vedo perché dovrei vergognarmi di amare musica prevedibilmente stupenda.”

Per Michel era una sensazione inebriante poter chiacchierare di qualcosa che di solito, tra amici troppo contemporanei e salotti Purosangue, doveva tenere chiuso dietro una porta Disillusa.
E lo stai facendo con Emil Von Houten.
“Vero.” Ammise quest’ultimo con un mezzo sorriso. Poi attaccò quello che riconobbe come il primo movimento dell’Inverno di Vivaldi: un’esecuzione energica, perfetta sin dalle prime note nonostante non si fosse scaldato con degli esercizi preparatori.
I giornali non sbagliavano, né mi ricordavo male io … Era ed è ancora quel prodigio.
Lo lasciò fare, sedendosi ed accendendosi una sigaretta. Non contò i minuti che passò ad ascoltarlo, ma di certo furono molti perché quando Emil staccò l’archetto dalle corde fuori era buio.
Non dovette essere il solo ad accorgersene, perché il tedesco sembrò a disagio. “Bello strumento.” Lo posò sul tavolino accanto a lui con premura. “Un Guarnieri, nessun dubbio.” Fece una pausa. “Dovrei andare…”
Gi stava di nuovo sfuggendo dalle mani: e dopo quello che aveva sentito, dopo il talento di cui era stato omaggiato, non poteva accadere. “Puoi tornare a suonarlo quando vuoi.”  

Emil gli lanciò un’occhiata diffidente, ma non era rivolta a lui, quanto a ciò che rappresentava: Purosangue, mago e pieno di pregiudizi. “Che ci guadagni?” Buttò fuori ficcandosi quelle mani straordinarie in tasca, a fondo, quasi a volerle proteggere.
Decise di giocare a carte scoperte. “L’ascoltarti. E prima che tu dica che non sei una scimmietta ammaestrata…” Aveva indovinato a giudicare dall’espressione oltraggiata che gli venne restituita. “Non organizzerò eventi né informerò i giornali. Sei la prima persona che porto in questa stanza e rimarrai l’unica, hai la mia parola.”
Non ci siamo scoperti un po’ troppo?
Il tedesco per tutta risposta si chinò sulla sedia, mettendo le mani a lato di ciascun bracciolo e finendo così per intrappolarlo. “La tua parola?”
Non distolse lo sguardo anche se la posizione lo metteva a disagio. “Dal tuo punto di vista l’offerta mi sembra vantaggiosa.”

Non c’erano dubbi che il tedesco sottintendesse anche altro da gli stava divorando le labbra con gli occhi. “Dì un po’, maghetto … Sei proprio sicuro di quel che stai facendo?” Mormorò.
Michel aveva passato troppo tempo a farsi domande del genere ed era stufo di cercarne le risposte. Lo afferrò quindi per la maglietta e se lo spinse contro, facendo collidere quella boccaccia irritante con la sua. Come risposta doveva bastargli.
Bastò.
 
****
 
Il giardino sembrava essere stato preso d’assalto dalla natura, in maniera violenta e trionfante; i sentieri di ciottoli erano stati inglobati dalla flora tipica della brughiera, gli alberi si attorcigliavano carichi di foglie, intrecciandosi a siepi lasciate incolte da decenni.
Johannes immaginava che quel genere di paesaggio contorto fosse perfetto per essere ammirato dagli occhi della sua regina. La vide infatti passeggiarvi in mezzo, incurante della lieve pioggia che graziava quotidiana quelle lande aspre.
Si affrettò a raggiungerla Materializzando un ombrello. “Il mio Giullare.” Lo salutò porgendogli la mano guantata per un baciamano. “Un ombrello, davvero?”
Johannes, che rispondeva a molti nomi e che non si era mai preoccupato di vedersene aggiungere un altro, scrollò le spalle. “Pensavo vi steste bagnando, mia signora.”
“Un pensiero premuroso.” Gli sorrise passandogli un braccio attorno al suo. Gli occhi chiari vagarono per l’immensa proprietà senza soffermarsi. “L’Inghilterra è una terra selvaggia … È buffo come la sua gente si affanni tanto a dimostrare il contrario. Questo paesaggio, ad esempio.” Considerò. “Non ha visto mano umana per quanto, decenni? Ed ecco che torna alla sua bellezza originaria. Gli inglesi mancano di romanticismo.”
“Sì mia signora.” Convenne senza trovare particolari meriti a quel che vedeva, né particolari difetti. Per chi aveva viaggiato come lui a cavallo di due mondi per tanto tempo i paesaggi finivano per somigliarsi tutti.

La strega gli lanciò un’occhiata valutativa, prima di sorridergli di nuovo. “Sediamoci. Sono stanca.”
Johannes pulì per lei una vecchia panchina infestata di erbacce e rimase in piedi ad osservarla; non vi era dubbio che avesse preso la bellezza della sua casata, occhi chiari e incarnato pallido, movenze aggraziate ed un’androgina grazia.

Chiunque avesse conosciuto Sofia Von Hohenheim avrebbe convenuto con lui che superava in bellezza persino una Veela.
“Ragguagliami.” Chiese tornando pratica, ed era quella la parte che preferiva; non riusciva mai a comprendere del tutto i voli pindarici che la mente della sua padrona faceva.
“Sto prendendomi cura dei nostri ex-ospiti.” Spiegò. “Li sto portando qui … La buona notizia è che sono venuto quasi tutti di loro spontanea volontà. Succede, quando l’opinione pubblica li chiama infetti.
“Molto bene.” Colse un mazzo di giunchiglie selvatiche che si intrecciava al metallo della panchina e lo mondò dalle foglie in eccesso. “Il nostro committente non deve sapere che ci sono stati degli errori. Soprattutto, non deve collegare a noi quello che è successo a Londra.” Fece un sospiro. “Se Elias fosse stato ancora vivo non avremo dovuto andare a tentativi.”  

Johannes strinse la mascella, ma come sempre, rispose con un sorriso. La sua regina non amava persone rancorose accanto a sé. Forse era per questo che non aveva mai amato il fratello.
O il marito.
“Non avverrà. Abbiamo le attrezzature e le persone necessarie. Con le cavie qui, studiando le loro reazioni, sarà più semplice trovare un modo per stabilizzare il siero. Capendo gli errori, potremo lavorare alla soluzione.”
“Lo spero.” Gli tese la mano per alzarsi e inarcò appena le sopracciglia divertita, forse intuendo il suo stato d’animo. “Oh, Johan …” Rise chiamandolo con il suo nome attuale. “Siamo gelosi di un morto?”

“Ne avrei motivo?”
“Elias era un mago eccellente.” Lo stuzzicò. “Peccato quella sua scomoda propensione a fare la cosa giusta.”
“Come Sören. Il sangue non è acqua.” Frecciò di rimando e sentì le unghie della sua donna premere con forza contro la pelle del braccio. Si godette il dolore assieme alla soddisfazione.

“Sei davvero un uomo terribile.” Non c’era nulla di più bello che un ghigno su quel volto di porcellana, Johannes lo pensò prendendole il mento tra le dita per baciarla.  
“Faccio del mio peggio, mia regina.”  
 
****
 
 
Note:

Prima che qualcuno se lo possa chiedere … no, Ren non è figlio di Johannes. Ugh. Ha già abbastanza sfighe, povero amore.
Qui la canzone del capitolo.

Stavolta mi sono limitata ad una, se non si conta il primo movimento dell’Inverno delle Quattro Stagioni di Vivaldi. ;) Ovviamente si parla sempre di David Garrett, ma a chi piace, consiglio anche la versione di Perlman.  
Infine, ma stra-importante, la piccola meraviglia che mi ha regalato la favolosa Gaea. Non è la sola a volere questa scena, prima o poi. (Sempre che non la consideriate riferita al primo, disastroso, bacio al ballo del Ceppo.)
 
1. Guarnieri Del Gesù: chiamato anche solo Guarnieri, prende il nome dal liutaio che lo ha creato, detto Del Gesù perché aveva l’abitudine di scrivere all’interno della cassa armonica la sigla IHS. Assieme allo Stradivari è uno dei violini più conosciuti – e costosi - al mondo. A differenza di quest’ultimo ha un timbro più scuro e potente e non a caso è stato chiamato Cannone da Paganini che lo usò quale strumento personale. Per maggiori infoqui.

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Capitolo 25
*** Capitolo XXIV ***


Capitolo XXIV

 
 


I am softly watching you
Oh boy, your eyes betray what burns inside you
(Woodkid, I Love You)
 
 
10 Luglio 2028
Londra, Casa di Michel Zabini.
Mattina.
 
Michel rotolando su un fianco contemplò lo splendido fondoschiena che gli aveva tenuto compagnia per una notte intera … mentre se ne andava.
Altro non poteva essere dato che Emil si stava infilando i boxer e i pantaloni di soppiatto mentre fuori baluginava il sempiterno lattiginoso sole londinese.
Combattendo con la voglia incipiente di tirargli qualcosa – istintivo forse, ma non certo virile – si schiarì la voce arrochita dal sonno. “Non era mia intenzione incatenarti al letto.” Esordì. “Potevi tranquillamente svegliarmi e andartene.”
Stronzo.

Appena sveglio non riusciva ad essere elegante nel manifestare il proprio disappunto.
Emil si voltò per guardarlo: sembrava stupito più che colpevole e Michel realizzò di aver frainteso grossolanamente. Anche perché gli venne restituita un’occhiataccia.
“Ansia da abbandono?” Replicò. “Stavo soltanto scendendo a prendere qualcosa da mangiare. Non so tu, ma quando salto la cena per stare tra le lenzuola tutta la notte la mattina dopo muoio di fame.”
Michel, che a quel punto doveva rimediare la sua pessima propensione a giudicare prima di chiedere, si alzò a sedere sul letto. “Ho fame anch’io.” Offrì.  
Abbiamo un talento naturale per litigare, pare.
E comunque è troppo permaloso.
“Ho il frigo pieno.” Aggiunse.
Il tedesco lo guardò divertito, ma domato da come lanciò la maglietta su una delle sedie. “Perché, sai far altro oltre a scaldare l’acqua per il the?”
Quello era farsi cadere il calderone sui piedi. “Forse ho qualcosa di pronto…” Ipotizzò mentre l’idea di tirargli la sveglia addosso, o una scarpa, cominciava ad essere sensata. Emil aveva una faccia da schiaffi notevole, e il sorrisetto supponente era solo la summa dell’irritazione che riusciva a provocargli.
Il problema, supponeva, era vederlo con i capelli arruffati da una doccia, il sorriso di un monello di strada e pensare a quanto fosse l’incarnazione fisica del sesso.
“Questi Purosangue…” Sospirò l’altro crollando a sedere sul letto e sporgendosi nella sua direzione, mentre gli passava una mano sulla gamba coperta solo dal lenzuolo. Michel inspirò, sentendo che non era il solo ad essere sveglio adesso; la notte prima era stata un’esatta ed appagante copia di quello che era successo al loro primo incontro. Lui ed Emil potevano beccarsi a morte fuori dalle lenzuola, ma tra di esse funzionavano con una naturalezza che non aveva ancora cessato di stupirlo.
Affinità elettive?
Qualunque cosa fosse, anche l’altro doveva averla notata se era ancora lì.
“Lo sei anche tu.” Ribatté bloccando la mano nella corsa al suo inguine. Fare la perenne figura del ragazzino arrapato non era nelle sue intenzioni.
Anche se lo è nelle mie voglie. Ma comunque…
“Sì, ma a differenza di qualcuno io mi sono tolto il palo dal culo.” Ghignò il tedesco prima di tirarselo contro in modo rudemente delizioso. Emil era consapevole della sua fisicità, con riflessi naturali e morbidi. Dubitava fosse mai inciampato in vita sua.
Michel ruppe quasi subito il bacio languido in cui l’aveva coinvolto l’altro: non doveva dargliela vinta. “Non avevi fame?” Domandò cercando di mostrarsi distaccato: se il suo corpo aveva deciso di gestirsi in ribelle autonomia ormonale, questo non significava che lui fosse d’accordo. “Perché posso offrirti la mia cucina o una colazione fuori, ma al momento non mi sembri orientato su nessuna delle due.”
Emil per tutta risposta si chinò a baciargli il collo, dando un discreto scossone alla sua lucidità mentale. “Vada per la cucina.” Mormorò contro la sua pelle.
Cucinerai per me?”

L’altro alzò gli occhi al cielo. “La chiudi mai quella bocca?”
“Non è quello che mi hai detto ieri notte.”
“Ehi, se è impegnata con me, perché dovrei lamentarmi?”
Touché.  
A Milo piaceva baciare, era piuttosto chiaro dalla frequenza con cui aveva cercato le sue labbra quella notte e in quel momento. Michel, che non apprezza molto quell’effusione, si trovò a non lamentarsene. Quella battaglia, dopotutto, poteva concedergliela. Baciava in maniera straordinaria. 
 
Un rapido remake della sessione notturna e una doccia dopo, Michel era pronto a godersi quello che era, nei fatti, il suo giorno libero. Questo finché non sentì la voce di Nott arrivare dalla cucina.
Quel dannato idiota non si alza mai prima di mezzogiorno. Perché proprio oggi?!
Cercare di evitare l’incontro tra Loki ed Emil era ormai inutile e se inoltre avesse fatto capire al suo ospite che non desiderava annunciarlo avrebbe rischiato di rompere il fragile equilibrio che si era creato tra di loro.
Finì di indossare il suo completo da casa – che suo padre giudicava oltraggiosamente Babbano perché non prevedeva asole e bottoni, ma una maglietta e pantaloni di lino – e si diresse con calma verso la cucina. Aveva ben un corridoio per pensare a come comportarsi.
Il punto non era Emil, naturalmente: il punto era la propensione al pettegolezzo del suo migliore amico e il fatto che già sapesse troppo.  
Chissà cosa dovrò scucire o concedergli perché tenga la bocca chiusa …
Arrivò alla porta senza avere uno straccio di strategia.
Al diavolo. Sei Michel Zabini. Non ti serve una strategia, ma eleganza.
Entrò e  non fu sorpreso di trovare i due intenti a chiacchierare; Loki era una lingua lunga di natura ed Emil sembrava la tipologia di persona capace di trovare un argomento di conversazione con chiunque, quando voleva.
Non che con me si sia mai sforzato…
Il suo ingresso fu subito notato. “Mio buon Zabini!” Lo salutò Nott seduto ad uno degli sgabelli con l’immancabile pipa trai denti. “Buongiorno a te.”
“Nott.” Lo salutò. “Com’è che non sei a letto a riprenderti dai bagordi?”

Emil era ai fornelli come aveva promesso; l’immagine, che avrebbe dovuto sembrargli inverosimile – da quando si era trasferito non se ne era mai servito nessuno se non per scaldare liquidi – era in realtà … piacevole. Lo sguardo che si scambiarono gli fece realizzare che l’altro era in attesa.
Ma certo. Si aspetta che giustifichi la sua presenza.
Non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Soprattutto, non avrebbe perso la poca fiducia che si era guadagnata.
Non scherzavo quando ti ho detto che eri il primo a vedere la mia stanza della musica.
Non sacrifico qualcosa di mio per perdere, ma per guadagnarci.
“Sono stato svegliato dal profumo di fornelli in funzione.” Rispose nel frattempo Loki. “Ero talmente sorpreso che sono dovuto venire a controllare … Casomai qualche malintenzionato si fosse introdotto nella tua dimora.”  
“Sì, per cucinarci la colazione.” Ironizzò sedendosi; gli sgabelli erano più scomodi del solito. Del resto, una notte di sesso folle rendeva qualsiasi superficie diversa da un divano sfondato … fastidiosa. “Che ci fai qui?”
“Ci vivo?”
Emil, che sorvegliava la cottura di qualcosa, si voltò di tre quarti. “Penso che intenda in mia compagnia, Loki.”
“Oh.” L’amico ebbe anche la faccia tosta di sembrare confuso. “Intrattengo gli ospiti, naturalmente. Non avrei dovuto?”

“ … Non ho detto questo.”
Complimenti, Mike. Un asso nei rapporti interpersonali con gli estranei e quando c’è Nott e un ragazzo che ti piace allo stesso tavolo diventi un imbecille.
… Beh, è la prima volta che accade. E Albus non è mai contato.
“Mangi qualcosa maghetto?” La voce di Emil lo riscosse dal perfetto bozzolo in cui aveva cercato di rinchiudersi mentre metteva sul ripiano di marmo che fungeva da tavolo una serie di piatti ricolmi di cibo. “Oppure hai bisogno che ti imbocchi?”
“Quello non succede da quando aveva sei anni.” Gli fece eco Nott.  
Stronzo.
Ed era già la seconda scurrilità che pensava quella mattina. Promise mentalmente una morte atroce e dolorosa al coinquilino prima di voltarsi verso il tedesco. “Prendo solo the e del pane tostato, grazie.”
Non fu la risposta giusta da come gli venne riempito il piatto fino all’orlo. Contò le immancabili salsicce e uova, ma anche della verdura saltata e qualcosa che aveva l’aria di essere  una quiche di spinaci.

“Avevo detto…” Tentò ma si mangiò la lingua quando vide che lo sguardo Emil.
Ha detto a me che ho un carattere orribile, ma anche lui non scherza.
“Mi sa che ti sei sbagliato, non hai ordinato niente. Non sono il tuo cameriere.”
Un silenzio orribile invase la stanza. “Non ho detto…” Ricominciò sentendo che doveva comunque mantenere il punto, perché non gli aveva certo chiesto di cucinare tutta quella roba e…

“Devi perdonare il mio povero amico. È un idiota che non sa dire grazie.” Lo interruppe Loki con brio inappropriato data l’atmosfera tesa. Non gli diede il tempo di ribattere o difendersi che aggiunse. “E poi, quando è in imbarazzo e posso assicurarti che adesso lo è perché sa di essersi comportato da cafone, tende a diventare antipatico.”
Michel non riuscì a trovare motivo di dissentire, anche se l’impulso di lanciare una fattura Mollelingua alla massa di ricci ghignante che gli stava di fronte fu forte.

Anche se ti ha appena salvato da una ben misera figura.
Emil sembrò accettare la diversione, perché scrollò le spalle e ghignò. “Averlo trai piedi dev’essere una bella rottura di palle.”
“Non sai quanto.”

“Prego?”
“Vedi? Come ti dicevo … del tutto sgradevole!” Loki sospirò teatrale, inforchettando una salsiccia e divorandola con gusto. “È anche un po’ fuori assetto perché è la prima volta che mi presenta qualcuno. Ma come ti ho detto, mi ha tanto parlato di te.” Fece una pausa, in cui si godette il suo imbarazzo. “È tutto squisito, Emil.”
Questo è incubo.

E come tale, sperava di svegliarsi al più presto. Ma dato che non si era ancora presentata quell’eventualità, non gli restava che dare tutte le sue attenzioni al piatto davanti a sé.
… è delizioso.
Era evidente che trai meriti dell’ex violinista prodigio c’era anche saper cucinare. “È vero … è molto buono.” Offrì mentre l’altro si accomodava accanto a lui e prendeva a divorare la sua parte.
Per alimentare un fisico del genere di certo non è un tipo da dieta.
Emil alzò le spalle con noncuranza, ma Michel registrò comunque una certa sorpresa compiaciuta nella sua espressione. Era sensibile ai complimenti. “Cucino per un rompipalle di prima categoria.” Spiegò loro. “Se non è roba da cinque bacchette sarebbe capace di morirmi di fame per dispetto.”
Parla di Prince.

Quel rapporto non l’aveva ancora inquadrato ma al momento non era importante: era necessario invece controllare le esternazioni di Nott, che li stava studiando dall’altra parte del ripiano come un gatto avrebbe fatto con un gomitolo.
“Vi lascio alla vostra colazione, dato che anch’io ho ospiti.” Flautò di colpo, alzandosi in piedi con un secondo piatto ricolmo. “Milo, grazie mille per la colazione e per l’interessante chiacchierata.”
Interessante chiacchierata?

La sua espressione doveva parlare da sola perché l’amico sembrava ad un passo dal mettersi a ridere. Lo stronzo. “È stato un piacere.” Aggiunse porgendo la mano all’altro.
“Lo stesso per me bello.” Fu la replica con tanto di stretta e sorriso sincero. “Ci si vede in giro.”
Ci si vede in giro?
“Dovevo lasciarvi soli?” Chiese quando se ne fu andato.
Complimenti vivissimi, Zabini. Ora sembri pure geloso.
 
Come volevasi dimostrare, il maghetto voleva essere sempre al centro dell’attenzione.
Viziatello …
Avendo a che fare su base quotidiana con il principe dei viziati, era preparato a tenergli testa. “Non mi sarebbe spiaciuto, è un bel tipo.”
“È etero.”

“E quindi?”
Venne ricompensato da una smorfia. “Mi spiace deluderti, ma Loki è un incorruttibile.”
“Se lo dici tu…”
Era sorpreso: si sarebbe aspettato di vedere panico, diversioni, tentativi di nasconderlo sotto il tappeto invece … niente, a parte comportarsi da spina nel culo.
Pur vero che il riccetto mi aveva già visto al Black Goose è negare l’evidenza sarebbe stato inutile.
Bevendo un sorso di caffè gli venne spontaneo mettere le carte sul tavolo. Non era mai stato tipo da sotterfugi o parole non dette. “Pensavo avresti panicato a vedermi chiacchierare con il tuo amichetto.”
Michel non negò di averci pensato e questo gli piacque. La falsa apertura mentale era una delle cose che più gli dava ai nervi. “Loki ti ha già visto al Black Goose.” Esordì prevedibile. “Inoltre gli avevo già detto chi sei. Non è stupido, non avrebbe avuto senso negare.”
“Niente panico quindi?”

L’altro fece un mezzo sorriso, sorseggiando il the come l’inglese che era. “Forse, un po’.” Ammise quieto. “Ma Loki non ha quel genere di pregiudizi. Non tutti i Purosangue europei sono come li ricordi tu.”
“A parte te?” Se ne pentì quasi subito dalla smorfia sul viso dell’inglese. Non era divertente fare lo stronzo se non c’era una reazione adeguata. Alzò le mani in segno di resa. “Okay, questa potevo risparmiarmela.”
Le scuse vennero accettate da come l’altro rilassò le spalle. “Non è facile.” Replicò stupendolo di nuovo. Era tutta una sorpresa quella mattina. “Conosci i criteri con cui sono stato educato. È difficile lasciarseli alle spalle.”

Sembrava che stavolta le premesse fossero diverse . Come reagire? Non sapeva come Michel si sarebbe mosso. Lo stava prendendo in contropiede perché aveva sempre pensato di conoscere quella tipologia di maghi.
Mi sbagliavo?
“E perché vorresti farlo con me?” Non era un fan delle chiacchierate a cuore aperto ma doveva capire che diavolo lui e Maghetto Stronzo stavano facendo. Se non definire tutto, almeno l’ossatura generale.
Scopiamo alla grande assieme, ma se fosse solo questo cercherei qualcuno che scopa ancora meglio.
Michel esitò, poi scosse la testa. “Perché mi interessi. È la risposta più onesta che al momento posso darti.”
Milo annuì. Non amava le chiacchierate a cuore aperto, ma non sembrava essere il solo. Afferrò la base dello sgabello dell’altro e se lo avvicinò senza troppe cerimonie. “Mi basta.” Lo fermò prima che potesse protestare di avergli rigato il pavimento di marmo o stronzate del genere. “E mangia le verdure che hai nel piatto, ragazzino viziato.”
Non si stupì quando realizzò che la risata divertita di Michel era molto più naturale che le sue moine snob.

 
****
 
Londra, San Mungo.
Mattina.
 
Lily chiuse furiosa il proprio cellulare, il metodo migliore per scaricare la frustrazione dopo aver parlato per mezz’ora al telefono ed aver ricevuto solo brutte notizie.
Chiamare la Patil in merito a Ben era stato doveroso, ma la risposta era stata peggiore di quanto si sarebbe aspettata. La Psicomaga non sarebbe tornata prima di due settimane avendo una serie di conferenze serrate per tutta l’Europa e per quanto si fosse dimostrata dispiaciuta, era stata irremovibile circa la possibilità di tornare.
Impegni accademici, per qualcuno sono peggio di Incanti Fidelio.
 
“Non sono l’unica a cui puoi chiedere. Ci sono altri due Psicomaghi di ruolo oltre a me.”
Lily aveva cercato di trattenere l’irritazione alle menzione delle due streghe: naturalmente aveva chiesto loro aiuto quando aveva capito che la Patil non sarebbe tornata nel giro di una manciata di giorni.

Il punto non era quello.
“Ho già chiesto, ma si sono rifiutate.” Prima che la donna potesse chiedergli perché, aveva aggiunto asciutta. “Ben è affetta da Licantropia, e non se la sentono di …” Non era riuscita a finire, mentre un fiotto di rabbia le aveva chiuso la gola.
“Capisco.” Era stata grata alla donna per non aver commentato. “Mi dispiace ma non posso esserti d’aiuto, non dall’oggi al domani.” Aveva fatto una pausa e perché la conosceva aveva aggiunto in tono serio. “Non prendere iniziative. Sei solo una studentessa, e non c’è nessuno che possa prendersi la responsabilità di tuoi eventuali errori di diagnosi o di applicazione di una terapia.”
“Perché dovrei sbagliare?” Le era venuto spontaneo e anche al di là della Manica aveva
percepito il suo mentore alzare gli occhi al cielo.
“Non sto scherzando. Saresti da sola dato che non c’è un responsabile a seguirti. Nessuna iniziativa. Sono stata chiara?”

 
Mi sa che non le darò retta.  
Perché, e lo pensò mentre scendeva per incontrare Ted, non poteva dire all’amico qualcosa come ‘arrangiati e aspetta due settimane’.
Quella bambina non può aspettare due settimane per far sentire la sua voce.
I servizi sociali magici sarebbero arrivati lunedì, e se Ben non fosse stata in grado di comunicare il suo disagio sarebbe stata portata in una ‘struttura idonea’ in attesa che fosse dichiarata ‘non pericolosa per la comunità’ data ‘la sua natura’.
Virgolette del cazzo.
… e quando ci vuole, ci vuole.
Teddy era sull’orlo di una crisi di nervi e secondo Jamie alternava stadi di rabbia verso il mondo intero con momenti di cupa auto-commiserazione.
L’idea di aver proposto e guidato la ricerca che ha portato alla morte del padre, nonché suo fratellastro, deve mangiarlo vivo. 
Quando le porte dell’ascensore si aprirono con un cigolio legnoso, Lily impostò l’aria più professionale che aveva – sul serio! – dirigendosi verso la stanza assegnata a Ben. Come si aspettava trovò Ted appoggiato al muro di fronte, con i capelli color fango di palude e la barba di due giorni.
Qualcuno qui non riesce a farsela sparire...
“Ehi, bellissimo.” Fu soddisfatta quando lo sentì rilassarsi appena nella sua morsa stritolante. Gli abbracci – era provato scientificamente! – facevano sempre un gran bene. “Hai un aspetto terribile. Devo chiamare i rinforzi e farti ingozzare da nonna Molly?”
Cerchiamo di rimandare le brutte notizie il più possibile…
“Ci sono novità?”
… come non detto.
Lily si morse un labbro ma vedendo l’urgenza, la speranza e l’ansia trapelare dallo sguardo dell’altro come un fiume in piena non riuscì proprio a dar retta ai saggi consigli della Patil.
“Me ne occuperò io.” Disse impostando il piglio più deciso che gli riuscì.
“Non la Psicomaga Patil?”
Era ovvio che non la considerasse materiale a cui consegnare Ben; del resto era stato spettatore in prima linea quando cinque anni prima si era comportata come una cretina senza un grammo di cervello.
Non penso che se dovesse usare una parola per descrivermi userebbe affidabilità…
“Non riesce a tornare prima di due settimane. Ma ehi…” Soggiunse quando lo vide passarsi una mano trai capelli in un gesto che puzzava disperazione lontano due miglia. “… ho un’idea!”
“Lily, non fraintendermi, non penso che tu non sia brava in quello che fai … ma sei una studentessa.” E per un professore nell’anima come Teddy, era chiaro che quello fosse il segnale di non serietà per eccellenza.

“Sì, ma Ben non è un caso complicato, non è come Frank e Alice.” Ribatté. “Si tratta, in parole povere, di farla mangiare e farla smettere di urlare quando qualcuno tenta di toccarla, giusto?”
“Lily…”
“Teddy, dobbiamo comunicare con lei.”

“È quello che sto cercando di fare!” Doveva davvero essere allo stremo se diventava sgarbato.
“Non sto dicendo il contrario.” Obbiettò tranquilla. “È questo il problema, forse … Ci stai provando troppo. Ti ci stai consumando! Da quanto non ti fa una dormita come si deve?”
“Non ha importanza.” Si morse le labbra. “La prossima settimana potrebbero…”
Potrebbero portartela via, lo so.
“Non pensarci.” Gli intimò pur sapendo che non sarebbe stata ascoltata. “Dobbiamo parlarle e lei ci deve rispondere, giusto?” Lanciò un’occhiata alla porta chiusa alle loro spalle: non avrebbe lasciato che una bambina continuasse ad aver paura di chi entrava da una porta.
Altrimenti tutto quello che ho passato non avrebbe senso. Le cose brutte servono ad insegnarti qualcosa.
Questo è il mio qualcosa.
Sören non era l’unico che trovava nell’aiutare gli altri il suo scopo primario. Decise allora di mettere tutte le carte in tavola. “Non c’è nessuno nel mio reparto che vuole lavorare con lei. Credimi, ho chiesto a tutti gli Psicomaghi di ruolo.”
La mascella di Ted si serrò in una linea tesa e preoccupante. “Immagino il perché.”
Okay, spaventoso. Teddy sa essere spaventoso. Wow.  
“Io però voglio provarci.” Ripeté testarda. “Lasciamelo fare.”
L’altro le lanciò un’occhiata che non esprimeva certo convinzione, ma capitolò. “Va bene… del resto non credo che la situazione possa peggiorare più di così.” Scosse la testa. “Cosa ti serve?”
“Un giocattolo.”
Lo doveva ammettere, la faccia stralunata dell’amico valeva da sola l’intera idea. “Non credo basti questo per…”
“Lo so.” Lo interruppe,  mettendosi le mani nelle tasche del camice e facendosi forza di quell’uniforme, come ogni volta che qualcuno pensava di metterla in discussione solo perché non aveva raggiunto un età in cui i suoi pareri potevano essere considerati rispettabili.

Succederà mai?
Teddy però non era chiunque, ma uno dei suoi più cari amici di infanzia. Era anche un insegnante e sapeva che le idee migliori potevano arrivare da suggerimenti improbabili. “Hai un piano?” Chiese infatti.
“Certo che ho un piano. Ce l’ho sempre.”  
L’altro non commentò. “All’ultimo piano ne vendono?” Chiese soltanto.
Gli sorrise. “Prendine uno carino. È una bambina, niente bacchette esplosive o scope giocattolo.”
Teddy annuì, riprendendo un po’ colore – letteralmente dato che i capelli presero una sfumatura un po’ più vitale – per poi allontanarsi deciso.
Date ad un uomo una missione ed ecco che ritroverà le forze.
Lily aspettò che girasse l’angolo, poi trasfigurò la sua uniforme da Medimago in una maglietta e un paio di pantaloni di cotone a tinta unita – cose facilmente ri-trasfigurabili in caso di necessità – e si accostò alla porta della stanza, stando ben attenta che nessuno fosse di passaggio.
Se devo disobbedire, non posso farlo come Psicomaga. Oltre al fatto che quella povera bambina ha visto fin troppe uniformi…
Aveva una mezz’oretta di pura indecisione Lupin per operare la sua magia.
Entrando notò subito come il letto fosse vuoto: Ben doveva essere di nuovo sotto il letto.
“Oh, una stanza vuota.” Esordì tranquilla guardandosi attorno come se cercasse di capire se lo era sul serio. “Ottimo! Finalmente da sola!” Si sedette a terra, perché se Ben era raggomitolata ad altezza pavimento torreggiarle sopra non era una buona idea.
E fin qui … Semplice buonsenso.
Il respiro della bambina era accelerato e Lily si sentì stringere il cuore: per quanto Ted e James avessero provato, per Ben quello continuava a rimanere un ambiente ostile, dove chiunque poteva essere un potenziale nemico venuto a farle del male.
È piccola, non ha i suoi genitori e l’ultima cosa che ricorda è che suo padre l’ha lasciata per non tornare.
Cavolo.
Non era più così sicura di poter avere la meglio su una situazione tanto complicata; tuttavia doveva provare. Per Ben e per Teddy.
Si appoggiò quindi con la schiena al piccolo comodino accanto a letto, senza far nulla, dandole il tempo di abituarsi al suo odore; se era un licantropo ed era nascosta doveva filtrare il mondo attorno a sé con l’olfatto. Dopo qualche attimo pescò dalle tasche dei pantaloni un Zuccotto.
E ringraziamo la mia brutta abitudine di fare uno spuntino a metà mattinata.
Quando l’odore mantenuto fragrante dalla magia si diffuse per la stanza, Ben annusò.  
Ai dolci di Mielandia non si resiste.
Lily ne diede un piccolo morso, facendo ben attenzione a goderselo rumorosamente.
Devo farla avvicinare. Se non la tocco, non funziono.
La Legimanzia Naturale funzionava in due modi: il primo, era ciò che avrebbe fatto un Legimante normale con la propria bacchetta. L’altro era convogliare i propri pensieri nella mente di qualcun’altro.
Cioè quello che serve a me adesso. Devo farla calmare.
… più semplice a dirsi, che a farsi.
Era molto più difficile far entrare un’idea, che farla uscire: ogni mese la Patil la faceva venire a casa sua per esercitarsi proprio su quella tecnica, ma era ben lontana dal padroneggiarla …
… ma un tentativo. Solo uno.
Presa da quei pensieri quasi mancò di vedere quando la bambina fece capolino da sotto il letto.  
Oh, eccola qui.
Era davvero piccola, magrolina come gliel’avevano descritta. Dietro una frangia di capelli che non vedevano un paio di forbici da tempo c’erano gli occhioni più grandi e spaventati che avesse mai visto.
Come si fa a non volerla aiutare? Teste di cazzo.
Lily lasciò cadere un pezzo di Zuccotto, fingendo poi di non notare quando la bambina lo afferrò per tornare gattoni al suo rifugio sicuro. Fece cadere così il secondo pezzo vicino a lei e via di seguito fino a che Ben uscì fuori senza prestarle attenzione.
“Ah, ecco chi rubava tutte le mie briciole. Pensavo ci fosse un topolino!”
La bambina sussultò, pronta a rintanarsi, ma l’apparizione di un secondo dolcetto, ancora incartato, la fece fermare. “Facciamo a metà?” Propose. Venne fissata in piena confusione.
… ma non capisce quel che dico? Jamie aveva ragione?
Le sembrava assurdo.
Spezzò il dolcetto in due metà e mentre ne metteva in bocca una porse l’altra alla bambina. Non guardò nella sua direzione e si concentrò piuttosto su un brutto vaso a fiori vicino all’ingresso.
Cercò di non sospirare di sollievo quando sentì le dita di Ben chiudersi attorno all’involucro della merendina.
Eccoci qua.
Per un bambino schermarsi era impossibile e così Lily si concentrò. Una serie di immagini – immagini che la Patil le aveva fatto imparare a memoria e che parlavano di posti meravigliosi, abitazioni confortevoli, affetto, amicizia e in generale di cose belle – scivolarono via dai suoi pensieri come acqua di fiume, per confluire nella testolina arruffata accanto a lei.
Forse è più semplice perché è una bambina. Non ha ancora muri attorno a sé.
Lei.
Nel frattempo, perché la Legimanzia Naturale funzionava per azione-reazione, e non era possibile mandare pensieri senza riceverne in cambio, vide Ben.
 
Colline verdi, una casa in mezzo ai cipressi, piccola ma confortevole, mamma e papà, una ninna-nanna cantata ogni notte, coperte rimboccate, e poi …
Tristezza. La mamma è morta e papà non può più restare.
Un treno, in mezzo a ceste e bagagli perché papà ha detto che non devono scoprirci, un posto strano, persone che parlano ma che emettono suoni incomprensibili, visi cattivi, è meglio la foresta Benedetta, meglio la foresta, e poi …
Freddo. Non ci sono città, né dolcetti, né il letto e i pupazzi. Solo boschi.
Papà che ha detto di aspettare, di non muoversi, che tornerà subito, papà che però non torna.
Non torna, e poi delle braccia che sollevano e portano via.
 
Lily ruppe il contatto con un lamento, mentre una fitta di dolore alla nuca le fece vedere tutto nero.
Ahia.
Ogni magia aveva un prezzo, e il suo era il rischio di un collasso se non si fosse data una calmata.
Accanto a lei, Ben, che non si era accorta di nulla, era alle prese con la carte del dolcetto. Per quanto fosse stato fisicamente logorante, aveva funzionato; nella sua testolina adesso non c’era che un vago segnale di allarme da come riprese ad occuparsi dello zuccotto, ficcandoselo tutto in bocca con soddisfazione.
C’era altro di cui occuparsi adesso. “Tu non mi capisci, vero?” Mormorò. “Accidenti… siamo stati degli idioti.”


“Perché degli idioti?”
 
Ted ci aveva messo meno del previsto, e da come la stava guardando non sembrava contento di vederla lì. Poi registrò la presenza della bambina e il cipiglio si sciolse in un’espressione sbalordita. “Ben…”
Lily occhieggiò il pupazzo a forma d’orso – un classico sempreverde – e si sentì un po’ in colpa. “Ben ed io abbiamo fatto una chiacchierata tra ragazze.” Spiegò mentre la bambina occhieggiava insistente le tasche dei suoi pantaloni, ancora troppo guardinga per verificare di persona non ci fossero dolcetti.
Ma ci sta pensando.
“Stai bene?” Nonostante fosse incavolato per la sua iniziativa a base di inganno, Teddy non riusciva a venir meno alla sua indole di bravo ragazzo.
“Certo, perché… Oh.” Si accorse solo in quel momento di avere le guance bagnate. “No, tranquillo. Non sono mie.” Spiegò tirando su con il naso ed asciugandosele. “Sono…”
“Ha parlato?” La interruppe. “Ha…” Guardò verso la bambina con l’aria di qualcuno che sperava in un miracolo.

Non era male dare buone notizie. “No, ma ora so perché non lo fa. Non risponde perché non capisce una parola. Non è cresciuta qui.” Fece un mezzo sorrisetto, cercando lo sguardo della bambina. “Vero Benedetta?”
La bambina spalancò la bocca e la guardò come se il mondo avesse ripreso ad avere senso.
Eureka!
E grazie Rodolfo e alla tua villa in Costa Smeralda. Le vacanze post diploma più pazze di sempre.
Si voltò verso Ted, e fece un mezzo sorriso.
“Ehi, come te la cavi con l’italiano?”
                                                                                                 
 
****
 
Diagon Alley, appartamento di Albus e Thomas.
Mattina.
 
 
Albus fu svegliato da una chiamata e dato che la suoneria assegnata a Tom era piuttosto rumorosa –gliela cambiava ogni mese per far sì che non si abituasse – saltò sul letto, inciampò tra le lenzuola e crollò rovinosamente a terra.
 
I'm your lover, I'm your zero
I'm the face in your dreams of glass!

 
Ma che roba è?!  
“Perché ci hai messo tanto a rispondere?” Fu la domanda che gli venne rivolta quando strisciò fino al cellulare per rispondere.
“Va’ all’inferno.” Ed era stato educato. “Non potevi chiamarmi con lo Specchio comunicante?!”
Tom non parve turbato da quel buongiorno. “Non ti saresti svegliato.” Il che, in effetti, era vero dato che l’unico segnale di quest’ultimo era diventare caldo, del tutto inutile se non lo avevi addosso. “Riesci ad essere al San Mungo nei prossimi venti minuti?”
Albus si tirò a sedere sul duro pavimento della camera. Da qualche parte sentiva l’eco di una risata, sintomo del fatto che Meike doveva averlo sentito cadere. “Perché dovrei venire in ospedale? Sei lì?” L’ipotesi che vi fosse come paziente era da scartare dato il tono vitale e il fatto che l’avesse chiamato: se mai si fosse fatto male avrebbe preferito staccarsi un braccio piuttosto che notificargli la cosa. “Che ci fai nel mio ospedale?”
“Possessivo senza ragioni, vedo.” Anche senza vederlo poteva immaginarlo ghignante, seduto su una sedia mentre sorseggiava del the e si beava di avergli fatto prendere un infarto con la sua chiamata.  
Perché mi circondo di gente deprecabile?
Io ci lavoro e tu no.” Sospirò alzandosi in piedi e andando allo specchio per notare lo stato dei suoi capelli. Vi passò una mano in mezzo e mascherò un lamento quando vi rimase incastrata. “Non dovresti essere dai tuoi oggi?”
“Mi sono svegliato presto.”
“Dì piuttosto che non hai dormito affatto.”
“Dormire è sopravvalutato.”
“Sì, come nutrirsi. Un giorno avrai un collasso ed io riderò.”
“No, morirai di preoccupazione.”
“Ti odio.”
Quel breve scambio di battute riuscì comunque a fargli ritrovare il buonumore e dopo aver lasciato lo specchio e il suo riflesso umiliante si diresse in cucina, dove trovò Meike che apparentemente faceva i compiti.
La quindicenne lo accolse con un’immensa faccia da schiaffi. “Tom?” Indovinò, poi cominciò a canticchiare. “Ti odio, ti odio così tanto che credo sia vero amore…” Avendo però pietà della sua faccia fece levitare la caraffa di succo d’arancia, mandando in orbita al contempo una serie di biscotti dal profumo paradisiaco. “Posso corromperti?”  
Al cercò di non ridere mentre si versava un bicchiere di spremuta incastrandosi il ricevitore tra orecchio e spalla. “Ripetimelo, Tom, perché dovrei essere al San Mungo quando ho venduto l’anima per incastrare i turni in modo da avere il giovedì libero?”

“Non te l’ho ancora detto.” Puntualizzò. “Comunque è perché ho scoperto qualcosa.” Fece una pausa per dare la giusta enfasi alla frase successiva. Era una regina del maledetto dramma quando ci si metteva. “Ho delle novità riguardo al virus. Ora so perché Sören non si è ammalato.”
Ho già detto che lo odio?
La curiosità lo investì come un Centauro incazzato e dovette posare il bicchiere per non rovesciarselo addosso: Meike non aspettava altro da come lo fissava piena di aspettativa. “Dammi un’ora.”
“Mezz’ora.” E Tom chiuse la comunicazione. Al sospirò per l’ennesima volta – a volte gli sembrava di essere uno sfiatatoio – e afferrò un biscotto che gli ballava sinuosamente vicino al naso: doveva processare un po’ di zuccheri se doveva passare una mattinata a spremersi le meningi.

“Roba da cervelloni?” Indovinò Meike masticandone pensosa uno con più gocce di cioccolato che farina. “Sul serio … a voi Luglio non fa pensare alle vacanze?”
Albus guardò fuori dalla finestra, notò che era spuntato il sole e cancellò l’eventualità di andare a rilassarsi a Hyde Park come aveva pianificato la sera prima.
“No, Mei. A quanto pare no.”
 
Il laboratorio di pozioni del San Mungo, chiamato anche semplicemente ‘Il Laboratorio’, era cinque volte più grande quello di Hogwarts ed in Inghilterra era considerato il luogo per eccellenza dove esercitare la complessa arte delle Pozioni.  
La prima volta che Albus vi era entrato aveva quasi baciato il pavimento; attrezzato con i calderoni più resistenti, provette infinite, una dispensa di ingredienti che veniva rifornita quotidianamente da tutti gli angoli della Gran Bretagna con materie sempre fresche e di primissima qualità … Praticamente era il suo sogno erotico.
Entrando salutò con un cenno della testa i pozionisti, una dozzina compatta come una setta, che conosceva per nome e aveva imparato a rispettare come a temere, per via di una certa propensione agli scherzi macabri.
Fortuna vuole che sono tutti ex-Serpeverde.
“Ehi, Albus.” Lo apostrofò Bole, il Capo Pozionista, uomo che aveva sempre trovato affascinante rientrando a pieno nella tipologia alti, scuri e con la tendenza al sarcasmo mordace. “Il tuo ragazzo è nel tavolo in fondo.” Inarcò le sopracciglia. “È uno stronzetto odioso … Deve ringraziare di esser un ex Serpeverde, o l’avrei sbattuto fuori a calci.”
“Lo so, fa quest’effetto a tutti.” Sorrise con un cenno di scuse.  

Raggiunse Tom all’ultimo tavolo, imbronciato e con l’attenzione ostinatamente rivolta al microscopio magico sotto di lui. “Buongiorno.” Lo salutò sapendo che fingeva di non aver origliato la conversazione appena svolta. “I ragazzi sono stati antipatici?”
Il ragazzetto di Albus.” Sillabò guardandolo male. “Ti sei dimenticato di dir loro come mi chiamo?”
“Oh no, l’ho fatto.” Scrollò le spalle. “È solo che sei un esterno. Non hai diritto ad un nome.”
“Mentre tu sì.”
Beh. Questo è il mio regno.

Non lo disse però, limitandosi a prendere uno sgabello e portarlo accanto a quello dell’altro. “Come sei entrato?”
“Mi ha fatto entrare uno degli apprendisti.” Mostrò l’anello con il simbolo di Serpeverde che avevano dato loro al diploma. “Pare che qui sia visto come lasciapassare.”
Si sorrisero, concordato una tregua silenziosa. Al poi gli si sedette accanto e inspirò. Era il momento di parlare del motivo per cui era stato tirato giù dal letto. “Allora, cos’hai scoperto?”
Tom non ci girò intorno, battendo un dito su una pila di cartelle di fianco a sé. “Queste sono arrivate dall’America … riguardano il bracciale magico di Prince. Ci sono anche gli esami medici che gli sono stati fatti prima che glielo facessero indossare per calibrare il dosaggio magico dell’apparecchio.”
Al lo aprì e saltò la parte che non gli competeva – che riguardava calibrature dei nuclei magici, per lui valori illeggibili – per andare alla parte medica. Non diceva nulla di nuovo: i valori magici di Sören erano gli stessi rilevati dai loro laboratori. “Cosa dovrei notare?” Chiese.
“Nulla, perché sei un Guaritore.” Gli rispose con un sorrisetto urtante. Era chiaramente una ritorsione per essere stato apostrofato come ragazzo-giocattolo dai suoi colleghi. “Le analisi sul nucleo di bacchetta di Prince invece mi hanno fatto capire una cosa…”
Al si frenò dall’alzare gli occhi al cielo. Troppa era la curiosità. “E cosa?”

“Non è il nucleo di bacchetta che aumenta la sua capacità magica come suppongono gli americani.”
“Come supponiamo tutti.” Gli fece eco aggrottando le sopracciglia. “Allora cos’è?”

Tom scosse la testa. “È lui. Il nucleo non potenzia nulla … è fatto di corda di cuore di drago, niente che non si possa trovare in commercio. Stevens ne ha in bottega almeno una mezza dozzina.” Fece una pausa e poi aggiunse. “Ed è d’accordo con me.” 
Al incrociò le braccia al petto, perplesso: aveva sempre pensato che l’unicità di Sören fosse dovuta a cosa conteneva il suo braccio; credeva però a Tom.

Se c’è qualcuno che può dire se una bacchetta è speciale o no, sono proprio lui e Stevens.
“E che mi dici del braccialetto di controllo?”
“È stato costruito per controllare la magia in uscita, non in entrata. Non avrebbe potuto bloccare nulla di esterno. Non è come funziona.”
“Quindi se non è stato il nucleo ad evitare il contagio, né il bracciale …”
“È stato il suo sangue.” Concluse per lui.

“Ma questo è…” Si alzò dallo sgabello, pronto ad un largo sorriso entusiasta, ma l’espressione di Tom non si era fatta trionfante, come avrebbe dovuto essere nel caso avesse scoperto la cura. Tutt’altro: guardava il microscopio con la mascella tesa in una linea dura. “ … non è una buona notizia?” Chiese. “Mi hai praticamente detto che è immune! Potremo ricavare una cura dal suo sangue!”
“Non ne sarei così sicuro.” Replicò con un sorrisetto amaro quanto sibillino. Ma non era per posa stavolta, Al poteva leggere insicurezza nella postura dell’altro: di certo doveva aver passato l’intera notte tra fascicoli e suoi vecchi tomi di Medimagia senza arrivare ad una conclusione.
Beh, almeno so perché da un po’ mi sembra che sparissero fagocitati dalla casa … Me li ha fregati.
“Non sono un Guaritore, Al … Ho delle teorie, ma devi essere tu a confermarmele.”
“Per questo sei venuto qui in laboratorio?” Indovinò, ignorando il piccolo trionfo: era raro – quasi un evento – che l’altro ammettesse di essere secondo in qualcosa, specie con lui.
Concentrati su cose serie e non sul tuo ego.
“Perché non possiamo usare il sangue di Sören?”
Tom si scostò, lasciandogli il posto libero al microscopio magico, che non di distingueva da quello Babbano se non per il fatto che analizzava ciò che gli veniva sottoposto secondo criteri … magici. “Ho richiesto un campione.” Iniziò misterioso.
Al si avvicinò, inarcando suo malgrado le sopracciglia. “E te lo hanno dato?”

“L’apprendista di prima. Era due anni dietro di noi.” Scrollò le spalle. “La sicurezza in questo posto fa schifo.”
“Dice quello che l’ha violata.”

“Ho solo manipolato una mente debole.”
Al si premurò di rifilargli una gomitata punitiva prima di chinarsi per guardare attraverso le lenti. “Cosa dovrei vedere?”

Tom sfilò la bacchetta dal fodero legato alla gamba; era l’unico articolo magico che indossava, e lo faceva solo perché gridava al mondo quanto fosse Fabbricante. Evitò di farglielo notare per l’ennesima volta, perché era più concentrato a vedere dove la punta della suddetta stesse mirando. “Non vorrai colpire il vetrino?!” Sussurrò terrificato. “Aggiungi danneggiamento di materiale medico al banco d’accusa?”
“Falla finita.” Si abbassò alla sua altezza e fece un sorriso complice. “Non dirmi che non vuoi vedere cos’ho in mente di fare.”
Dannazione.

Al guardò oltre la sua spalla, controllando che nessuno stesse badando a loro. “Fa’ in fretta e ti prego, cerca di non far esplodere il microscopio.”
“Non mi chiamo James Potter.” Sbuffò prima di toccare il campione, da cui sprizzò una serie di scintille verdi. “Adesso guarda e dimmi cosa vedi.”
Al obbedì e quello che vide lo fece rinculare con il rischio che si rovesciasse lo sgabello, tanta fu la sorpresa. Tom afferrò la base del suddetto al volo, stabilizzandolo.

“Allora?” Chiese con aria impaziente.
“… Il sangue…” Deglutì. “Ha la stessa distribuzione magico - enzimatica di quello di un infetto! Ha lo stesso aspetto adesso.”
Tom annuì, e l’espressione di compiaciuto trionfo che aveva poco prima scivolò via in favore di autentica preoccupazione. “Ho guardato nei tuoi libri di testo per vedere che aspetto avesse il sangue di un mago … sano, e poi ho guardato nella cartelle di Flannery e del duellante.”
“Quando gli abbiamo fatto il prelievo però non … non era così. Era sano.” Si voltò verso di lui. “Perché hai pensato di colpirlo con un incantesimo?”

Tom scosse la testa. “Non ho lanciato un incantesimo. Il sangue ha reagito alla mia bacchetta. Ho pensato al nucleo nel suo braccio e mi sono accorto che il quadro non era completo. Mancava quello.”
“Certo.” Non avevano considerato la peculiarità di Sören, trattandolo come un mago qualunque ed era stato questo l’errore suo e degli altri Guaritori. “Quindi è questo il vero aspetto del sangue di Sören…”
Non ci capiva più niente. Si passò un’altra volta la mano trai capelli, ma neppure stavolta ne trasse beneficio. Chiuse gli occhi, radunando le idee. “Questo spiegherebbe la sua immunità. Non si può contrarre un virus se si ha già la malattia.”

Tom incrociò le braccia al petto. “Allora perché non ha mostrato nessuno dei sintomi?”
Ci rifletté. “Un sintomo in realtà c’è … Solo non lo avevamo considerato tale. La sua capacità magica. Ha valori molto alti.” Sfogliò le cartelle sparse sul tavolo e tornò a leggere i valori. “Il punto è che sono stabili, quelli di Flannery e di Henry Price hanno dei picchi, sono incontrollabili.” Chiuse la cartellina e la buttò nel mucchio. “Abbiamo pensato che fosse come Jamie.”
“L’insegna a neon magica.”
“Già.” Sorrise appena. “Ma forse Sören non ci è nato così.” Si morse l’interno della guancia, colpito da un pensiero. “La malattia è il risultato di un tentativo di creare un siero di incremento magico. E se ci avessero già provato? Dico, a creare il siero con lui.”

“Quando?”
L’implicazione di quella domanda li investì come una Bolide.

“Quando era piccolo.” Mormorò Al. “Questo spiegherebbe perché con lui la malattia si è comportata in modo diverso. Il corpo di un bambino ha una fisiologia diversa da quella di un adulto…” 
Non c’era bisogno che Tom dicesse niente, da come lo guardava: sapevano entrambi chi aveva usato Sören come parco esperimenti. “Von Hohenheim è morto!” Saltò su, abbassando la voce subito dopo quando notò come più di un pozionista si fosse voltato nella loro direzione.
E Merlino se sono pettegoli!
Tom aspettò che fosse di nuovo seduto accanto a lui prima di parlare. “Mio padre non era solo, ce n’erano altri, gente che non è mai stata identificata.” Replicò. “Non sarebbe un’idea assurda pensare che abbiano continuato a lavorare, magari sotto altro nome. La Thule non era soltanto lui.”
Al fu sollevato dal sentirglielo constatare: lo spettro di quell’uomo infernale non li avrebbe mai abbandonati completamente. “Pensi che gli Auror sappiano che c’entri la Thule?”  
Tom fece una smorfia ironica. “Se lo sanno, pensi andrebbero a dirlo a me?” Fissò un punto del tavolo da lavoro come se volesse fargli prendere fuoco: era la sua faccia da decisione rapida. “Devo parlargli.” Decise, alzandosi in piedi e afferrando la tracolla ai suoi piedi per passarsela su una spalla: Al era certo che contenesse almeno una trentina di cose che non sarebbero mai dovute uscire di lì, ma decise di glissare.
“Con Sören?” Chiese invece.
L’altro annuì. “Non era quello che volevi? Adesso abbiamo perfino un argomento con cui rompere il ghiaccio.” Gli fece cenno. “Devo andare.”
“Tom…” All’altro, per quanto empatico come un fondo di calderone, bastò guardarlo in faccia per piegarsi sul tavolo e baciarlo.

Ho bisogno di essere rassicurato quando mi vengono date notizie emotivamente destabilizzanti, okay?
Okay.
Al lo trattenne qualche secondo di più, perché al di là dei mezzi agghiaccianti che usava, la sua capacità di pensare fuori dagli schemi si era riconfermata preziosa.
Il problema è che va a braccetto con un ego ipertrofico. Meglio non farglielo notare.
Tom gli servì infatti un ghigno compiaciuto che gli sarebbe valso un pugno in faccia.  
“Non provocarmi.” Lo avvertì, approfittando della vicinanza per tirargli uno schiaffo sulla spalla. “E mi raccomando non accennargli a niente, non ancora.” Aggiunse. “Voglio avere la certezza che non stiamo facendo il passo più lungo della gamba, che quello che abbiamo scoperto sia vero.”
Tom fece una smorfia. “Ti piace quando hai il comando, Signor Guaritore.”
Sì, ci sono abituato. La vera finezza è non fartelo notare.
Gli sorrise. “Già.” Lo fermò prendendo per un braccio. “Dico sul serio … Se vuoi fargli domande sulla Thule va bene, ma rimani sul generico. Digli soltanto che abbiamo motivo di pensare che sia stato qualcosa che gli hanno fatto da bambino che l’ha salvato dal contagio.”
“So come ottenere informazioni senza rilasciarne.” Fu la replica indignata: l’importante era che lo ascoltasse, ed era certo che il messaggio era permeato, da quanto sembrava poco contento. “Pensa piuttosto ad avere delle conferme. Perché ho ragione.”

 
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Pomeriggio.

 
Sören tornando dalla sua corsa serale era stato sorpreso da una chiamata di Lily. Non era mai stato così grato a Milo e alla sua fissazione di fargli portar dietro il cellulare.
“… sai che non posso dirti che hai fatto bene.”
“Sì, ma ha parlato! Ed erano giorni che provavano a cavarle fuori una parola di bocca!”
Sören, continuando a regolarizzare il respiro dopo la corsa di quasi un’ora dentro lo smog londinese alzò gli occhi al cielo, felice che l’amica non fosse lì per notarlo. “Avevi degli ordini.”
“Lo so, soldatino, ma gli ordini a volte vanno … interpretati.”
“Interpretati.” Cercò di non scuotere la testa. Non era sicuro, dopotutto, che Lily non potesse trovare il modo di vederlo. La tecnologia Babbana aveva funzioni di cui era per la maggior parte ignaro. “Davvero, mi stai dicendo che bisogna essere creativi?”

“Sì! Che ne sai che la Patil non voleva spronarmi? Non fa che dirmi che non mi esercito abbastanza e non ci metto impegno!”
“Non è che ti stai arrampicando sugli specchi?”
“Oh, dai, Ren!” Una pausa. “Cavolo. Si nota tanto?”  
Sören sorrise: Lilian l’aveva chiamato per chiedergli un parere, dietro l’apparente richiesta di conoscere gli orari per la loro prima lezione di autodifesa. E non era la prima volta; capitava parlassero spesso, senza contare i messaggi o le improvvisate.
Un mese fa non avrei mai immaginato potesse accadere.
“Stai sorridendo adesso, vero?” Sören si guardò alle spalle e la sentì ridere. “Tonto, ti conosco, non ti sto spiando.” La voce era allegra, e ne era felice: per quanto Lily si fosse probabilmente messa nei guai fino al collo con la sua referente – non sarebbe stata Lily altrimenti – aveva comunque ottenuto un risultato, e questo la faceva stare bene.
Conosco la sensazione.
“Sono contento che tu sia riuscito a capire il problema di quella bambina.” Replicò mentre entrava nel vicolo che ospitava l’entrata per Diagon Alley. “Forse adesso Potter si rilasserà.”
“Non contarci. Mio fratello ha il ciclo come una donna. Solo, perenne.” Ridacchiarono entrambi poi la voce dell’amica sfumò in un tono più serio. “Senti … a parte gli scherzi, pensi che abbia sbagliato?”

Capiva che la domanda non conteneva più le tracce dell’ironia giocosa di prima. Glielo stava chiedendo sul serio adesso. “Penso che tu abbia preso una decisione.” Esordì dopo averci riflettuto. “Volevi aiutare Ted e la bambina. Il punto non è che tu abbia sbagliato o meno, ma prendersi la responsabilità di quello che hai fatto ed essere disposta a sopportare le conseguenze… oppure no.”
“Non è che possa evitare che la Patil venga a saperlo. Ha occhi e orecchie ovunque, quella Corvonero.”

“E ne valeva la pena?”
“Sì.” Nessuna incertezza; era questo che amava di Lily. La sicurezza con cui seguiva il suo cuore, indipendentemente da quello che dicevano o facevano gli altri per dissuaderla. Se da un certo punto di vista poteva essere considerato un difetto – e lo era se l’aveva portata a Nurmengard cinque anni prima – dall’altra era il suo maggiore punto di forza.
Non sarà mai piegata dalla volontà o dall’influenza altrui. Farà sempre la cosa che riterrà giusta.
Dal suo punto di vista era una qualità. “Allora hai la tua risposta.” Concluse passando la mano sul mattone che attivava l’incantesimo di Rivelamento di Diagon Alley. La magia si piegò docilmente e fece un passo indietro quando il muro si aprì per lasciare intravedere la porta del Paiolo Magico. “Non ti servono scuse e giustificazioni se pensavi di agire nel giusto.” Soggiunse.
“Per alcuni sì.”
“Non per me.”

Ci fu una lieve esitazione al di là dell’apparecchio e Sören trattenne il respiro: si era spinto troppo in là?
“Grazie Ren.” Il tono era caldo e sincero e Sören dovette ricordarsi per l’ennesima volta che quel fine settimana Lily sarebbe andata in Scozia con Scott, il suo ragazzo.
Ma io l’avrò venerdì.
… no, tu non avrai proprio niente.
Si schiarì la voce e varcò l’ingresso della locanda, lasciando che gli occhi si abituassero alla penombra del locale. “Ci vediamo domani.”
“Alle sei e mezzo in punto all’Accademia di Duello!” Convenne l’altra. “Non tardare!”
“Io?”
La risata di Lily chiuse la comunicazione e Sören si impose di togliersi il sorrisetto da idiota che gli era spuntato in faccia. Non dovette faticare molto: gli bastò vedere chi era seduto ad uno dei tavoli in fondo alla locanda.
Thomas.
Suo cugino era lì, e stava leggendo un libro con accanto una tazza di the e un piatto di biscotti intonso.  A giudicare dall’ordinazione singola doveva essere solo.
Che ci fa qui?
Era ovvio, stava aspettando lui; del resto per quale motivo avrebbe dovuto star lì quando aveva una casa a neppure una strada di distanza?
Si sentì a disagio con la sua tenuta da corsa, il sudore che gli si stava raffreddando addosso e il viso congestionato dal caldo. Suo cugino in confronto sembrava l’epitome dell’eleganza; un po’ erano i vestiti scuri, ma il resto era dovuto al fascino carismatico della loro famiglia.
Che non è passato a me.
Tom alzò lo sguardo come se l’avesse sentito arrivare da un bel pezzo e stesse solo aspettando il momento giusto per farglielo notare. “Sören.” Lo salutò chiudendo il libro con uno scatto secco.
Sören non riuscì a trattenere i muscoli dal farlo sobbalzare come un idiota; suo cugino non aveva che l’aspetto fisico di Von Hohenheim, ma…
“Buonasera Thomas.” Si sforzò, perché a giudicare dall’espressione sconcertata dell’altro il suo malessere doveva essere palese.
“Un brutto momento?” Gli chiese infatti.
“No.” Si affrettò a rispondere. “Sono andato a correre.”
“Lo vedo.”

Non aveva mai parlato con suo cugino cinque anni prima, se non si contava le volte in cui aveva cercato di fargli saltare la copertura.
Non credo valgano.
Da allora non avevano avuto rapporti, anche se tramite Lily aveva saputo del suo brillante diploma, del lavoro come apprendista di bacchette e del fatto che vivesse con Albus. Non erano cose che aveva mai chiesto, ma non gli era dispiaciuto venirne a conoscenza.
Pare che non sia riuscito a rovinargli la vita, dopotutto.
“Hai bisogno di qualcosa?” Ruppe il ghiaccio, perché fissarsi senza spiccicare una parola oltre a dargli angoscia era anche stupido, immaginava: quasi gli sembrava di sentire la risata di Lily seguita da un ‘oh Merlino, come diavolo fate ad essere così imbranati?’
L’altro dopo una lunga occhiata inquietante – altro non poteva esser definita – annuì. “Devo parlarti. Hai un momento?”
Non aveva alcun motivo per rifiutare, se non il proprio disagio. Supponeva non fosse abbastanza. “Certo. Vado a farmi una doccia e rendermi presentabile.”
“Fa’ pure con comodo, ti aspetto qui.” Non gli diede il tempo di aggiungere altro che riaprì la copertina del suo libro in un gesto di indiscutibile commiato.

… scortese.
Lily lo aveva avvertito che era quella l’impressione che chiunque aveva al suo primo incontro con Tom. Sospirò e salì le scale: non sarebbe stata una conversazione semplice.
 
Tom era nervoso e questo non era accettabile.
Lui non perdeva la calma di fronte a nessuno; non era come era fatto, non era come voleva essere fatto.
Tuttavia con Sören il discorso era diverso; il cugino era un memento in carne ed ossa di quello che era accaduto durante la sua adolescenza, un segnale luminoso sugli incubi che ogni tanto si affacciavano tra sogno e veglia.
Non che fosse colpa sua; a differenza di James e il lato ottuso della sua famiglia, si rendeva conto che non poteva serbargli rancore solo perché era stato il braccio armato di uno squilibrato.
Non avercela con lui non significava però che volesse stringerci una salda e affettuosa amicizia come sperava Albus; avrebbe preferito continuare ad ignorarlo come aveva sempre fatto, e come continuava a fare riguardo a tante cose.
Per vivere tranquillo.
Ma non poteva; con le scoperte che lui e Al avevano appena fatto non poteva continuare a tenere dentro l’armadio suo cugino e sperare che non gli venisse voglia di uscire.
Devo tirarlo fuori io.
“Tom.” Sören lo raggiunse, fresco di doccia e cambiato. Era bizzarro constatare che a differenza di molti maghi Purosangue era in grado di vestirsi alla Babbana senza sembrare un idiota o affetto da daltonismo. Poi rifletté sul fatto che quei vestiti doveva prepararglieli il Magonò, che sembrava un tipo modaiolo.  Accantonò il pensiero frivolo e gli fece cenno di sedersi, chiudendo il libro. “Posso offrirti qualcosa?”
“No, grazie.” L’altro aveva l’espressività di un manichino; si stava Occludendo e non doveva neppure accorgersene. “Di cosa avevi bisogno di parlarmi? Sembrava importante.”
“Lo è.” Convenne; era lì per avere delle informazioni, oltre che a darne. Le avrebbe ottenute barriere occlumantiche o meno.

Bene.
Doveva solo capire come.
Il silenzio che si era stabilito tra di loro non gli dava buoni spunti, e fu infine Sören a prendere la parola. “Se è importante…” Iniziò perplesso.
Qualcuno qui ha problemi ad ottenere informazioni?
La voce di Al, se non era seguita dalla sua persona, era la cosa più fastidiosa al mondo.
“Sto collaborando con il San Mungo per sviluppare una cura per il morbo.” Esordì. “Non per quanto riguarda il lato medico, non sono un Guaritore. L’Arte delle Bacchette studia anche l’incremento della magia e…”
“Sei stato tu a studiare il campione del nucleo della mia bacchetta, quindi.”  

“Sì.” Convenne. “Io e il mio mentore, Rupert Stevens. È una collaborazione esterna.”
“Non mi sono ammalato, e sono stato l’unico … Pensare che sia stata la mia bacchetta è sensato.” Soggiunse Sören. “È così? O è stato il bracciale di controllo?”

Tom scosse la testa. “Nessuno dei due. Né il bracciale né il nucleo hanno niente a che vedere con la tua immunità al contagio. Funzionano sulla tua magia, non su quella degli altri. E come sai, il contagio avviene attraverso gli scambi di flussi magici.”
Sören annuì. “Quindi avete scoperto la causa?”
Tom fece per aprire bocca, quando si rese conto che non era tenuto a farlo; il motivo della sua venuta era fare domande, capire se la Thule fosse coinvolta e quanto suo cugino sapesse della sua particolarità.

Sta succedendo il contrario. È lui che sta interrogando me.
Sören aveva rigirato la frittata, avrebbe detto sua madre Robin; non solo non aveva scucito una sola informazione, ma era riuscito ad ottenerne alcune senza che lui se ne accorgesse.
Ti sei dimenticato che è un investigatore?
“Non sono qui per essere interrogato.” Disse brusco, incrociando le braccia al petto e avendo la sensazione di comportarsi come un bambino.
Specialmente perché Sören sorrise ed era un sorriso condiscendente.
“Allora perché sei qui?” Gli chiese perfettamente in controllo e, dannazione, in vantaggio. Non era una vera domanda, perché continuò. “Spesso mi si accusa di esser troppo diretto. Mi scuserai, quindi, se non ci giro attorno e ti chiedo perché sei qui quando fin’ora non hai mai espresso il desiderio di avere a che fare con me.”
Tom sentì una fitta di colpa colpirlo al fianco. Era come sentire un pugno di Al sul costato, stessa impressione. “Mi pare che il desiderio fosse reciproco.” Ritorse.

Sören gli lanciò un’occhiata confusa. “Non ti sto accusando, era una semplice constatazione.”
“Suonava come un’accusa.”
“Non lo era.”  

Rimasero di nuovo in silenzio; Tom avrebbe voluto avere qualcosa di sagace da dire, ma si trovò a corto di parole. Sören non era ostile, ma non era semplice da sondare: come cinque anni prima, era un libro scritto in caratteri incomprensibili. “Stai usando l’Occlumanzia.” Non trovò di meglio da dire. “Non è cortese quando parli con qualcuno.”
 
Non si era accorto di usare l’Occlumanzia.
Il nervosismo a volte faceva scattare in lui dei meccanismi di difesa che andavano oltre la coscienza, e pescavano diretti nei mille muri che aveva eretto durante la sua dipendenza da Von Hohenheim.
“Non lo faccio coscientemente.” Confessò. “Mi viene naturale quando sono nervoso.”
Aveva avuto abbastanza confronti con i suoi colleghi, con il Capitano e con la sua terapeuta per sapere che se una conversazione era difficile, era perché c’era un muro.
E da qualche parte qualcuno deve cominciare ad abbatterlo.
Aveva sempre pensato che suo cugino fosse un tipo difficile – o così gli avevano detto – ma constatarlo di persona era stato meno … traumatico del previsto.
Perché Thomas non era Alberich; poteva averne i suoi occhi, la voce e certe espressioni, ma era un ragazzo. Un ragazzo con un brutto carattere e privo di tatto …
Ma è tutto qui.
Non poteva neppure quantificare il sollievo che provava in quel momento.
L’altro sembrò sorpreso dalla sua inattesa confessione. “Sei nervoso. Perché?” Attestò più che chiedere.
Lily mi aveva detto che si comporta come un piccolo dittatore. Adesso capisco che intende.
“Non lo immagini?” Rispose con una domanda, sapendo che era irritante. Aveva visto Rico far crollare i sospetti in quel modo. Funzionava.
Tom infatti lo guardò male, ma decise di lasciar perdere. “Se sono qui è perché ho pensato che volessi essere informato sui progressi medici, visto che ti riguardano. Purtroppo il fatto che tu sia immune non significa che siamo più vicini a trovare una cura.”
Sören intuì il sottotesto. “Significa che il motivo per cui non mi sono ammalato non può essere usato per aiutare nessuno. È così?”
Tom sfuggì il suo sguardo e, come aveva imparato nelle centinaia di interrogatori che aveva fatto o a cui aveva assistito, quello era un segnale di tensione peggiore dell’Occlumanzia conclamata. “Per adesso abbiamo soltanto delle teorie. Non fatti.” Si risolse a dire, scegliendo con cura le parole. Era un tratto da apprezzare, in un mondo in cui le persone erano rubinetti rotti. “Abbiamo ipotizzato che gli esperimenti che ti abbiano fatto da bambino possano essere una delle cause. La magia presente nel tuo sangue non reagisce come quella del mago della strada. In sostanza, è per questo che non ti sei ammalato.”
Ah.

Sören sentì di colpo la bocca asciutta come il deserto e si pentì di non aver accettato l’offerta di prendere qualcosa da bere. Avrebbe davvero voluto qualcosa di forte in quel momento. “Capisco.”
Capisco fin troppo bene.
Significava che il progetto Demiurgo lo coinvolgeva più di quanto avesse pensato, e non solo perché Johannes ne faceva parte.
“Ne siete sicuri?”
Thomas scosse la testa “Come ho detto, per ora sono solo speculazioni.” Non si sarebbe lasciato andare ad altre confessioni, era evidente. “Se te ne ho messo a parte è solo perché speravo tu potessi…”
“ … dirvi quale momento della mia vita da cavia mi ha reso immune? Spiacente, ero un bambino, non avevo coscienza di ciò che mi facevano .” Ritorse con rabbia, senza riuscire a frenarla. Si sentiva sudare i palmi della mani e non avrebbe voluto perdere il controllo, non di fronte a suo cugino.

Eppure.
Non era ancora pronto a parlare di quel periodo buio e dubitava lo sarebbe stato mai.
Tom alzò lo sguardo, e per un momento non disse nulla. Poi lo stupì. “Scusami.” E sembrava sincero. “Ho esagerato.”
Già.
“Immagino che nei prossimi giorni mi aspettino domande di questo genere … solo meno informali.”
Tom ebbe il buon gusto di non mentire. “Finché non avremo delle certezze, no. Poi ti verranno chieste delle spiegazioni.” Fece una pausa. Sembrava improvvisamente molto meno disposto all’inquisizione. “Non vi saranno accuse.”
Fece un sorrisetto amaro: Thomas aveva sempre militato dalla parte dei giusti, non poteva sapere come funzionava nel mondo dove il bianco e il nero diventavano grigio. “Per quelli come me ci sono sempre accuse.” Aveva una domanda però. “Perché sei venuto ad avvertirmi? Non credo fosse tuo compito farlo.”

 
Non era solo per sapere se la Thule fosse coinvolta o meno.
Tom lo realizzò con un certo grado di sgomento; non era solo per avere delle risposte che aveva detto quelle cose a Sören.
Gliele hai dette perché doveva saperle. Perché era suo diritto. Perché altri hanno nascosto cose a te … e perché sai cosa si prova. Conosci quella rabbia.
Al aveva detto che lui e Prince si somigliavano, ma non aveva colto il perché. Quello profondo, almeno: si somigliavano perché entrambi era nati con lo scopo di servire una scacchiera, un gioco giocato da altri. Si somigliavano perché entrambi si erano ribellati e ne portavano le cicatrici.
Scoprirlo era irritante quanto rivelatore: alla fine lui e il cugino non erano estranei come aveva sempre pensato. “Perché volevo delle risposte.” Ammise. “E perché avresti avuto delle domande.”
Sören non disse nulla, ma doveva aver capito da come fece un cenno di assenso impercettibile. “Cosa avevi bisogno di sapere?”
Avrebbe potuto chiederglielo a quel punto. Aveva abbassato le difese, forse per stanchezza o forse perché gli aveva chiesto scusa attirando così le sue simpatie: sarebbe stato da idioti non approfittarne.
Era un idiota.
“Non ha importanza.” Scosse la testa, prendendo il libro e infilandoselo in borsa. Da che era lì non aveva letto una pagina. “È meglio che vada.”
Fu quando gli diede le spalle che lo sentì parlare di nuovo. “Tom.” Lo richiamò. “Grazie.”
Non ringraziarmi. Dieci a uno non me lo merito.
“Di cosa?” Mormorò a mezza bocca, e non fu certo che l’altro l’avesse sentito finché non sentì la risposta.
“Per non essere come tuo padre.”
Tom non rispose, anche perché non ce n’era bisogno. Fece solo un cenno d’assenso e un saluto.
Approfittarsi magari era stato da idioti. Ma a sentire Al lui era un idiota: per fortuna.
 
 
Tornato a casa a turno concluso, Albus trovò Tom a guardare fuori dalla finestra di camera loro, con l’immancabile tazza di the scuro come inchiostro che faceva da base alla sua dieta e lo sguardo perso nel vuoto siderale.
“Ehi.” Lo salutò, sfilandosi lo zaino con cui aveva cominciato ad andare al San Mungo.
Con tutti i referti e i fascicoli che fanno avanti e indietro da casa, meglio evitare che mi sloghi una spalla.
“Com’è andata con Sören?”
Perché no, non sto affatto morendo dalla curiosità. Per niente!
Non avendo risposta gli si avvicinò, occhieggiando la via gremita sotto di loro. “Beh?” Lo incalzò. “È andata così male?”
Non si saranno lanciati addosso incantesimi, spero!
“Alla fine non gli ho chiesto ciò che volevo sapere.” Fu tutto quello che disse, dando un sorso alla tazza. Non si era neanche tolto le scarpe. Di certo era entrato in casa, si era preparato il the e si era rifugiato nel suo angolo preferito dell’appartamento, ovvero il bovindo che fungeva da finestra – e da pensatoio – in camera loro.
“In che senso?”
“Volevo sapere se la Thule era coinvolta.” Gli passò la tazza ormai fredda, e si diresse verso il guardaroba cominciando a spogliarsi. “Ma non gliel’ho chiesto.” Ripeté.
Al mollò la tazza sul comodino, ignorando l’occhiata seccata dell’altro. “E perché?”

Bizzarro. Pensavo che avrebbe finito per beccarsi uno Stupeficium per aver esagerato con le domande.
Tom era chino sui lacci delle proprie scarpe e ci mise più di qualche attimo a rispondere: era ufficiale, era nel pieno di un rimuginamento mentale. “Non mi è sembrato il caso.”
Eh?

“In che senso?”
Tom sbuffò irritato; quanto e come odiava che qualcuno interrompesse il suo lugubre elucubrare!
“Se non mi rispondi, vado in cucina, prendo un paio di coperchi e te li suono nelle orecchie inseguendoti per tutta casa.” Gli propose. “Dico sul serio.”
Tom aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse, con aria offesa. “Non mi sembra che ci sia molto da capire … Non voglio essere io a dargli brutte notizie.”
“Brutte notizie?”
“In che altro modo chiameresti quello che abbiamo scoperto, se lo guardi dal suo punto di vista?”

Beh. In effetti.
Ormai comunicativo, l’altro si passò una mano trai capelli. “Non ho voluto.” Ripeté, e aveva il suono di una rivelazione. “Lo scoprirà comunque, se le nostre ipotesi sono corrette … e per quanto riguarda le mie domande, avrò comunque le mie risposte. Solo, non da lui.”
“L’hai lasciato in pace…” Realizzò, perché quello era il succo del discorso ingarbugliato dell’altro. Sorrise, gattonando sul letto fino a raggiungerlo ed abbracciargli la schiena. “Hai capito le sue difficoltà.”
“Piantala.” Fu il borbottio cupo. “Non mi piace dare brutte notizie, tutto qui.”
“Hai empatizzato.”
“Non l’ho fatto!”

Al ridacchiò, strofinando la guancia contro la stoffa sottile della camicia dell’altro: si era messo in tiro per incontrare il cugino, da bravo snob qual’era.
“Sono fiero di te.” Gli mormorò all’orecchio. “Sei stato bravo.”
Sentirlo sciogliersi, anche se di poco, era sempre una bella soddisfazione. “Non ho bisogno che tu mi rabbuffi come un ragazzino…”
“Certo che no.” Lo stritolò in un abbraccio perché era vero, era fiero di lui: e si sentiva anche un po’ in colpa ad aver pensato il peggio. Tom poteva avere mille difetti, ma quello che aveva passato l’aveva reso una persona migliore. Non la migliore, ma una persona capace di capire il dolore altrui e rispettarlo.

Quindi, vergogna per esserti stupito.
Tom gli lanciò un’occhiata da sopra alla spalla. “Non pensavi mi sarei comportato decentemente.” Attestò con un sorrisetto.
“Beh, lo … speravo?”
“Dannato Potter. Sconterai la tua malafede.” Soffiò prima di ribaltarlo sul letto e schiacciarlo sotto di sé.
Al accettò il suo destino con doverosa abnegazione.
 
****
 
 
Note:

Qui la canzone del capitolo. La canzone della sveglia è questa perchè Tom è una carogna.
Per quanto riguarda il prossimo capitolo, dubito di riuscire a postarlo prima di partire per la Croazia (VACANZE). Nel caso, le notizie arrivano fresche su effebì! :D

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Capitolo 26
*** Capitolo XXV ***


Capitolo XXV
 
 
 
With you nothing seems impossible / It all seems to fit the frame
So when I'm crying alone, when I'm cold as a dying stone
Grow me a garden of roses
(Roses, Poets of the Fall)
 
11 Luglio 2028
Somerset, casa di Scott Ross. Mattina.
 
Scott si svegliò perché Lily stava cercando di non urlare al telefono.
La sentiva persino da dove si era rifugiata – in bagno – perché quando cercava di non alzare la voce la aveva comunque bisogno di compensare; per questo sbatteva ogni oggetto avesse a portata di mano, che fosse il dentifricio o l’anta del mobiletto delle pozioni.
Con un sospiro si alzò dal letto, ciabattando fino alla cucina per preparare la colazione; aveva imparato che la cosa che più la calmava era mettere qualcosa sotto i denti.
Dev’essere un retaggio familiare.  
Mentre metteva a preparare il caffè e a tostare qualche fetta di pane guardò fuori dalla finestra; era una bella giornata, e quel weekend dava una Scozia sgombra di nubi.
Un miracolo che non si ripete spesso.
Erano quindi le giornate perfette per far distrarre la sua ragazza e riportarla sui giusti binari.
I miei.
Non si riteneva un tipo possessivo; non lo era  stato nemmeno da bambino con la sua scopa giocattolo – il suo primo amore. Ma Lily … beh, gli faceva pensare ad una casa e a qualche bambino. Aveva vinto il suo cuore e la sua fiducia con una pianificazione da bacio accademico, e lasciarla andare ad allenarsi con Sören senza contrattaccare … no.
Semplicemente, no.
Fece in tempo a far uscire i toast che l’altra marciò in cucina, ovviamente attirata dall’odore del caffè. Scott pensò che non avrebbe mai lasciato che Sören la vedesse con i capelli arruffati, una maglia da uomo a coprirle le gambe e l’espressione di chi avrebbe ucciso per un po’ di zuccheri nello stomaco.
“Brutto risveglio?” Indovinò versandole il caffè.
“Alla grande.” Sospirò bevendone un grosso sorso. Era una fortuna glielo avesse zuccherato prima. “Ero al telefono con la Patil.”
“Ha scoperto di Ben?”   

Lily scrollò le spalle. “Non l’ha scoperto. L’ho chiamata io per dirglielo.”
“Ah.” Emise sorpreso. A quanto aveva capito l’operazione era stata non autorizzata. “Beh, forse l’avrebbe scoperto lo stesso una volta tornata…”
“Non è per quello.” Lily gli lanciò un’occhiata perplessa. “Dovevo dirglielo. Nascondermi sotto un tappeto sarebbe stata la ciliegina finale per giocarmi il suo rispetto.”
Scott rifletté su quanto appena detto, e ancora una volta non riuscì a capire come funzionava la testolina della sua fidanzata. “E non si è arrabbiata?”

“Eccome!” Sbuffò. “Mi ha fatto una lavata di capo terrificante!” Vedendolo confuso, fece un sorriso dolente. “Vedi, la tecnica che ho usato, quella della Legimanzia Inversa, è … beh, pericolosa. Non solo per il paziente, ma anche per lo Psicomago che la compie. Più per lui, in realtà. Scambiarsi i pensieri è un procedimento invasivo e gli effetti collaterali, se la procedura non viene fatta correttamente, sono piuttosto seri.”
Scott annuì, sentendosi improvvisamente molto meno contento che la sua ragazza avesse deciso di aiutare Ben, per quanto la cosa fosse stata nobile e da lei. “Se la metti così, capisco perché era arrabbiata.”
“Penso che dovrò rimettere a posto la sala comune del reparto Thickley per i prossimi tre mesi. Senza magia.” Sbuffò, ma non sembrava troppo abbattuta dalla cosa.  Era fiera di se stessa, realizzò.
“Spero che almeno ne valesse la pena…” Gli sfuggì, e si sarebbe mangiato la lingua quando vide gli occhi brillanti di Lily dardeggiargli addosso.
Non è per quello che ho detto, ma per come l’ho detto.
“Pensi che abbia fatto una cavolata?” Gli chiese infatti, con il tono che urlava allarme lontano due miglia. Scott avrebbe potuto trovare un modo per riparare la cosa se non avesse avuto una ragazza capace di capirlo solo guardandolo in faccia.
A volte era snervante.
“Penso che potevano esserci altre soluzioni che non coinvolgessero direttamente te.” Si limitò a dire, sincero il più possibile. “Potevi insistere con le altre Psicomaghe, potevi chiedere alla Patil di insistere al posto tuo. È il capo-reparto, ha influenza anche in queste cose credo.”
“Non è questo il punto!”
“No, il punto è che volevi provare che eri in grado di farlo, a dispetto dei rischi.” Gli uscì fuori e non riuscì a frenarsi, perché era vero. Lily aveva una perenne ansia da prestazione che le scorreva sotto pelle; un po’ era per via del suo cognome, che portava dietro di sé un bagaglio di eroi e eroine, bastevole per far sentir inadeguato chiunque.

Un po’ è proprio lei. Si crede migliore di parecchie persone, solo non vuole ammetterlo.
L’altra serrò le labbra, ma non ribatté; non era una stupida, e si rendeva conto quando qualcuno gli diceva la verità, per quanto poco piacevole potesse essere.
“Forse.” Ammise. “Forse l’ho fatto, ma mi sono assunta le mie responsabilità perché sono pronta a pagare le conseguenze. Sören…” E si bloccò di colpo.
Sören. Dovevo immaginarmelo. Ha parlato con lui e se n’è uscita con questa storia assurda.
Fu più per rabbia che per reale desiderio di aiutarla, che parlò. “Sören la pensa così anche nel caso fosse successo qualcosa a Ben?”
Era un colpo basso e se ne pentì nel secondo stesso in cui lo pronunciò.
Complimenti Ross. In queste cinquantasei ore dovevi essere il ragazzo perfetto, quello che nessuna ragazza sana di mente pianterebbe … e rischi di farti piantare a colazione.
Lily serrò le dita sul tovagliolo e si alzò di scatto. Sembrava volergli urlare qualcosa, ma si morse di nuovo le labbra, così forte che di certo si fece male. “È meglio che vada.” Borbottò.
“Lily.” Si alzò in piedi anche lui, preoccupato. La sua gelosia si era messa in mezzo, ma non avrebbe permesso che vanificasse tutto il discorso. Perché aveva ragione. “Mi dispiace, è stata una frase proprio da stronzo…”
“Abbastanza.” Il fatto che gli rispondesse era positivo, sperava.

“È che sono preoccupato. Il discorso che ti ha fatto Sören è giusto, non fraintendermi. È solo che mi chiedo se fossi preparata ad affrontare le vere conseguenze.”
Lui di certo non se l’è chiesto. Non sembra il tipo che si fa troppi problemi quando ci sono danni collaterali. Basta vedere quello che ti ha fatto.
Lily si fermò sullo stipite della porta. Non sembrava arrabbiata, ma neppure particolarmente illuminata dalla consapevolezza. “Non mi sono cucita il suo parere addosso, Scott. Sören non c’era quando ho preso quella decisione.” Gli rispose seria. Era in quei momenti che si intravedeva la sua vera ragazza, dietro i sorrisetti e le battute. Una volontà di ferro, come un diamante incastonato in mezzo a tanti pezzetti di vetro. “Sapevo che avrei potuto fare male a Ben, ma sapevo anche che nessuno la stava ascoltando. Io potevo farlo, e l’ho fatto. Non mi pento di questo.”
Non c’era molto altro da aggiungere a quel punto. Di fronte a quell’asserzione, che niente aveva di ribelle o di ‘sono migliore di voi’, capitolò. “Scusami … è solo che mi è sembrato che il parere di Sören fosse più importante del mio, per te.” Confessò, perché la sincerità era l’unica cosa che pagava di fronte ad una Legimante Naturale.
Tanto lo scoprirebbe comunque, in un modo o nell’altro. E altro che brutte conseguenze.
Lily sciolse le braccia – le aveva tenute serrate per tutto il tempo – e gli si avvicinò. “Non dire cavolate.” Mormorò. “Sören è mio amico e tu sei il mio ragazzo.” Fece un sorrisetto. “Ascolto quello che mi dite, ma alla fine faccio come mi pare.”
Scott ridacchiò, perché se era ritornata quella Lily, voleva dire che forse non aveva mandato tutto al diavolo. “Non ne dubito.”

Lily gli sorrise, tirandoselo contro per la maglietta. “Non essere geloso, ragazzone.” Lo apostrofò mettendosi in punta di piedi per posargli il mento sul petto. “Qui è il punto dove lo ammetti e mi giuri amore eterno.”
Scott rise di nuovo, sentendosi un autentico idiota. “Sono geloso e ti amo.” Ripeté diligente. “Non mi piace che altri ragazzi ti stiano attorno.”

“Sören è diverso.” Scrollò le spalle, sedendosi sul tavolo per continuare a sorseggiare caffè. “Vuoi la sconcertante verità? Non mi vede come una ragazza, sono una specie di … buon esempio per lui. Una bussola delle buone intenzioni.” Fece una smorfietta. “Poverino, eh? Penso di far schifo ad indicare il Nord.”
“Sì, in effetti qualche volte hai avuto problemi a trovarlo…” Scherzò, anche se una parte di sé trovava ancora più inquietante quella definizione; una cosa era avvicinarsi a Lily perché era una bella ragazza, una cosa era farlo perché…
È il suo Nord?
Evitò di commentare però, preferendo chinarsi per un bacio e per sentire le gambe esili allacciarsi alla vita per tirarselo contro. “Non preoccuparti.” Le mormorò baciandole il collo. “Per la Scozia abbiamo il navigatore.”
 
****
 
Londra, Mayfair.
Mattina.
 
Oh, oh-oh I got a love that keeps me waiting
I’m a lonely boy

 
“Cos’è sta roba?”
“Si chiama musica rock, Potty.”
“Lo so che cos’è, mi sto chiedendo perché siamo sintonizzati su una stazione Babbana e non sulla frequenza delle radio auror!”
“Me la sono dimenticata.”
“Malfuretto!”

Era in momenti come quello che Sören sentiva la mancanza dell’agente Estevez; il cameratismo robusto che intercorreva trai tre auror riusciva a metterlo a disagio persino se l’agente Jordan non contribuiva alla conversazione.

Scacciò quel pensiero, perché stava diventando sempre più facile piangersi addosso ed era una cosa che lo disgustava. Guardò invece i tanti palazzi in mattoni rossi che sfrecciavano ai lati della loro visuale, mentre Babbani ignari venivano sorpassati dall’auto di servizio abilmente Disillusa.
“Non cambiarla! Mi piace!” Protestò Scorpius scacciando con uno schiaffo la mano di Potter, intento a guidare come a cercare di cambiare stazione.
“È questo il punto! Sei stonato come una campana, se t’azzardi a cantare…” Lo minacciò ottenendo l’effetto opposto. Ormai anche Sören sapeva che Malfoy era un bastian contrario per natura e non c’era cosa che più lo deliziava che far andare fuori dai gangheri chi gli dava ordini.
Ma io sono qui per amarti, sono invece nato per sanguinare? Ogni volta mi fai aspettare, aspettare, aspettare!” Gridò senza troppe cerimonie, scansando il pugno dell’altro. “Ho un amore che mi fa aspettare, sono un ragazzo solitario!
Jordan fece un mezzo sorriso, distogliendo lo sguardo dal finestrino. “Non la smetterà finché non lascerai in pace quella radio, Jimmy. Fagli finire la canzone, tanto le comunicazioni ci arrivano anche via Specchio Magico.”   
“Proprio così!” Confermò Scorpius con un sorriso beato, servendo un esplicativo segno di vittoria allo sguardo fosco dell’amico. “Siamo stati buttati giù dal letto ad un’ora scandalosa … Pretendo di comportarmi come un deficiente poco professionale.”
“Non è che ti comporti, ci sei proprio.” Grugnì l’altro svoltando su una stradina residenziale; a quell’ora del mattino la città era ancora immersa nel torpore e la fila di macchine parcheggiate e la mancanza totale di esseri umani nei paraggi ne era la prova.
“A me la canzone piace.”
Non fu certo di averlo detto ad alta voce finché tutti si girarono a guardarlo. Tentò pateticamente di non arrossire, perché alla sua età e con il suo passato era ridicolo.  In compenso quando uscirono dalla macchina per poco Scorpius non lo abbracciò. Di certo minacciava di farlo da come gli slogò una spalla con una pacca. “Visto?” Gongolò in direzione di Potter. “Sören ha ottimi gusti in fatto di musica!”
“E chi lo dice?”

“Tua sorella.” Ghignò il biondo, mentre Potter sembrava aver voglia di strangolarli a mani nude.
Sören dovette ammettere che era divertente vederlo perdere le staffe.
“Stronzi.” Sbuffò, gonfiando i muscoli come gli orango che si vedevano nei programmi Babbani alla televisione. Sören dovette trattenere un sorriso mascherandolo da crampo alla mascella. “A proposito di Lils …” Esordì, ignaro della deriva dei suoi pensieri. “Mi hanno detto che ti ha chiesto di insegnarle un po’ di auto-difesa.”
“Sì, stase…” Non lo fece neanche finire.

“Se le torci un capello ti ammazzo.”
Ovviamente.
Inarcò le sopracciglia, e registrò con sorpresa sia Jordan che Scorpius guardarlo in aspettativa. A quanto sembrava i loro alterchi non avevano più parti schierate in un'unica direzione.“Il punto di insegnarle a difendersi è mostrarle come può essere aggredita.” Osservò. “Quindi di cosa stiamo parlando?”
“Pipistrello, sai benissimo di cosa stiamo parlando … mia sorella è una ragazza!” Lo sguardo di puro terrore nel volto dell’altro lo mosse quasi a compassione.
Non puoi volerla proteggere più di me. Quanto me, forse, ma non di più.
“E quindi?” Sì, era piuttosto divertente punzecchiarlo. “Lily è una strega. Ha una bacchetta ed ha una buona capacità magica. Trattarla come se fosse di vetro non la aiuterebbe.” Vedendolo diventare terreo e temendo che avrebbe finito per irrompere nella sala duelli con l’intento di salvare la fanciulla minacciata dal crudele stregone, sospirò. “Potter, la sua incolumità è mia priorità assoluta. Non le succederà niente.”
L’altro sembrò ancor meno convinto, ma sorprendentemente fece una smorfia e chiuse la conversazione incamminandosi verso il palazzo da cui era partita la segnalazione.

Pensavo avrebbe reagito molto peggio.
Scorpius gli si affiancò, battendogli una pacca sulla spalla: sembrava trovare particolare piacere ad usargli quel gesto. “Non farci caso, è una chioccia apprensiva. Tutti i maschi Potter lo sono.”
“Me ne sono accorto.”
“Meglio tardi che mai!” Gli strizzò l’occhio. “Allora … ripetetemi la situazione, perché quando Potty l’ha spiegata stavo cercando di inalare teina e farla funzionare come caffè. Perché siamo qui?”
“Ci è arrivata una segnalazione da parte di …” Jordan, la memoria comune della squadra, estrasse il taccuino e lesse. “Katy Reynard. Pare che si tratti del fratello. È diventato aggressivo, si è chiuso nella sua stanza rifiutando di farsi portare al San Mungo e pare che nei giorni scorsi abbia manifestato episodi di magia incontrollata.”
“Classici sintomi del morbo, insomma…” Scorpius schioccò la lingua. “Oggi proprio una sveglia coi fiocchi.”
“Abita nel secondo palazzo alla fine della strada.” Sospirò Jordan, passandosi una mano sulla nuca e dandogli implicitamente ragione. “Al Camino la donna sembrava agitata. La chiamata è stata fatta venti minuti fa, ed è stata tagliata a metà.”
“Pensate che il fratello l’abbia attaccata?” Intervenne Sören: le casualità di quel genere lo mettevano sempre a disagio. Quando c’era di mezzo un ostaggio era la cosa peggiore.

“Non possiamo escluderlo.” Confermò Potter alzando il cappuccio del giubbotto per ripararsi dalla pioggerella sottile che aveva cominciato a cadere. “Bacchette alla mano e cerchiamo di evitare di svegliare tutto il vicinato. Gli Obliviatori sono dei veri rompipalle quando li fai lavorar di mattina.”
Entrarono così nell’edificio, lanciandosi incantesimi Silenzianti e forzando con facilità la serratura elettronica del posto; lo stabile era signorile e chiaramente Babbano.
“L’appartamento è il numero 12, è al piano terra.” Illustrò Jordan guardandosi attorno, prima di indicare con un cenno della testa la fine del corridoio tinteggiato da poco a giudicare dall’odore. “Là. La porta è aperta.” Aggiunse.
“Okay.” Potter si mise davanti, facendo loro cenno di aspettare. Pescò dalle tasche del proprio giubbotto, incantate con un Incanto di Estensione Irriconoscibile, quello che Sören riconobbe come un Avversaspecchio: erano anni che non ne vedeva uno. Lo spedì a levitare proprio sopra lo stipite della porta.
Una buona idea.
Da lì poterono vedere come lo specchio fosse sgombro di ombre di persone: l’appartamento era vuoto.
“Entriamo.”
L’ingresso era solo l’anticamera di quello che doveva essere successo nel resto della casa. Era stato messo a soqquadro e bruciature di incantesimi striavano la carta da parati di colore vivace.
“Siamo arrivati in venti minuti … Che diavolo è successo?” Mormorò Potter, lanciandolo loro uno sguardo confuso. “E se c’è tutto questo casino, perché nessuno ha sentito niente?”
“Un Mufflatio.” Ipotizzò passando le dita sui segni delle bruciature. “Solo che non capisco chi possa averlo lanciato … non certo la signora Reynard, né tantomeno il fratello, se non era in sé.”
“Ragazzi, venite in cucina.” Li richiamò la voce di Jordan, e Sören aveva sentito quel tono già altre volte; non lasciava spazio a dubbi circa quello che avrebbero visto di lì a poco.

L’imprecazione soffocata di Potter fu infatti il sottolineare lo spettacolo che si trovarono davanti; la signora Reynard era distesa a terra, morta. La bacchetta, che doveva aver cercato di raggiungere, giaceva spezzata sotto il tavolo della colazione ancora imbandita.
Scorpius distolse lo sguardo, pallido in volto. “Per tutti gli Inferi…” Mormorò a mezza bocca. “Siamo arrivati troppo tardi.”
“Non c’era modo di arrivare prima.” Si sentì in dovere di far notare, chinandosi sul corpo della strega e voltandolo. “Una Maledizione Senza Perdono.” Classificò quando vide il volto rigido e contorto in una smorfia sorpresa. Le chiuse le palpebre con una mano. “Un’esecuzione pulita.”

“È stato il fratello?” La supposizione di Jordan era legittima, eppure qualcosa gli diceva che non era quella la pista giusta da seguire. Si alzò, sorpassando i tre e si diresse verso le due camere da letto; scartò quella con l’arredamento femminile, in favore di quella che doveva essere del mago. Qualche minuto dopo uscì con una teoria.
Lo sapevo.

“Gli effetti personali del Signor Reynard sono spariti. Mancano la sua bacchetta, dei vestiti dall’armadio e dietro la porta c’è lo spazio della dimensione di una valigia compatta. La valigia non c’è.”
Scorpius capì subito dove voleva andare a parare. “Se aveva perso il controllo come ha fatto ad avere la lucidità necessaria a prendere le sue cose, uccidere la sorella … e andarsene?”
Annuì. “C’era una terza persona qui. Qualcuno che ha portato via Reynard … E che è arrivato poco prima di noi.” E non c’era bisogno che spiegasse chi aveva ucciso una donna a sangue freddo senza lasciare traccia alcuna.
John Doe era la risposta più ovvia.

 
****

Londra, San Mungo.
Ora di colazione.

 
Ted arrivò con la colazione di Benedetta.
Per la prima volta in quei giorni non sentì il bisogno di mettersi le mani nei capelli quando vide la bambina, perché fu accolto da due paia d’occhi guardinghi, ma non spaventati.

“Ciao Benedetta.” La salutò in italiano grazie ad un Incanto Traduttore che sperava di aver eseguito a dovere. “Come ti senti oggi?”
La bambina non rispose ma lo capì da come gli diede attenzione; notò anche che aveva con sé il pupazzo che le aveva regalato. Se lo teneva a lato, tenendolo per una delle zampe anteriori e la cosa gli diede uno sconcertante senso di soddisfazione e dolorosa tenerezza.
Forse non ho motivo per arrabbiarmi con Lily e con le sue trovate. Forse proprio no.
Si sedette sulla solita sedia, occhieggiando la ciotola di porridge e il succo di arancia sul tavolo della bambina. “Non mangi? È buono.”  
L’occhiata scettica che gli venne servita gli fece capire che neppure una bambina cresciuta con una cucina diversa e dunque poco esperta delle colazioni britanniche era facilmente raggirabile. “Neanche a me piace molto.” Confessò. “Ma se ci metti un po’ di miele diventa buonissimo.” Inarcò le sopracciglia. “Vogliamo provare?”
Benedetta si morse le labbra, scoccandogli un’occhiata valutativa; al di là della paura che ancora provava – gliela leggeva nella postura e nel fatto fosse ancora schiacciata trai cuscini – era incuriosita. 
“Sì.”
Sentirla parlare, anche se con una semplice sillaba, ebbe il potere di fargli venire gli occhi lucidi. Deglutì, frugandosi nella tasca della giacca e tirandone fuori un barattolo di miele.

Non ti interfacci con un bambino se non sei preparato e con tutte le volte che ho visto Jamie sputare la zuppa d’avena in faccia ad Harry…
Stappò il barattolo e lasciò colare la densa sostanza dorata dentro la ciotola, osservando divertito la bambina leccarsi le labbra. Girò poi il cucchiaio e se lo infilò in bocca. “Delizioso!” Esclamò con l’espressione più convincente del suo repertorio.
Benedetta fu lesta a dare una vigorosa cucchiaiata quando posò l’utensile sul tavolino.
Jamie e Lily me lo strappavano di mano … È educata.
C’era tutto un mondo di informazioni che doveva imparare su sua nipote, e scoprirle così non gli dispiaceva.
Anzi, forse è il metodo migliore…
“Ti piace?”
Dopo una lieve esitazione Benedetta annuì. “Sa di biscotti al miele.” Sentenziò, ed aveva una vocetta chiara e tranquilla. Ne fu sollevato.
Significa che non ha vissuto allo stato brado come avevamo pensato …
Quando si vide porgere il cucchiaio la guardò sorpreso. “No piccola, è tutto per te.”
“Tu non hai fame?” Era confusa quanto lui. “Non mangi?”
Ted realizzò di colpo il motivo per cui la bambina esitava nel gettarsi sul pasto.
Pensa che non ce ne sia abbastanza per entrambi … Con suo padre doveva dividere tutto, razionare il cibo.
Inspirò, sorridendole al suo meglio. “Ho già fatto colazione a casa, non preoccuparti. Mangia tranquilla.”
Benedetta non se lo fece ripetere, spazzolando la ciotola e bevendo tutto di un fiato l’aranciata che aveva fatto zuccherare dalla magi-infermiera.
Non credo ci sia niente di male a viziarla. Merlino solo sa come non lo sia da tempo … o forse non lo è stata mai.
Quando tolse il vassoio dal letto per posarlo sul comodino, la domanda della bambina – legittima, assolutamente tale, ma che aveva sperato di rimandare – lo bloccò sul posto.
“Dov’è il mio papà?”
Avrebbe preferito dover affrontare un Ungaro Spinato con una brutta giornata che dover rispondere. Si voltò sentendosi il cuore in gola perché i grandi occhi dorati della bambina volevano delle risposte.
Ed io non so se riuscirò a dargliele…
 
“Ehi Lupin, stai qua?”


Essere salvato dal gong doveva esser quello; sentire la voce di Flynn Linn e sapere di potersela dare a gambe per un motivo del tutto legittimo.
“Flynn, ehi.” Salutò la strega, mentre Ben si rintanava fulminea sotto le coperte. L’inglese era davvero una lingua così spaventosa alle orecchie di quella bambina? “Stavamo facendo colazione.”
“Spero di non disturbare allora!”
Merlino, no.

“Hai bisogno di parlarmi?” Chiese rapido, avvicinandolesi.
La ragazza lo scrutò, forse perplessa dal suo atteggiamento, ma per fortuna si astenne dal commentare. “Sicuro. Ho notizie su…” Guardò Benedetta. “… quindi non capisce una parola?”
“Non sa l’inglese, no.”
“Strano, suo padre lo era.” Obbiettò l’altra, e dovette ammettere che un’obiezione sensata.

Ma non credo capirò mai cosa passasse nella testa di Lunastorta…
“Andiamo di là.” La guidò, perché anche se Benedetta non li capiva non era giusto tagliarla fuori dalla conversazione ed agire come se non fosse presente nella stanza. “Torno subito. Vado a parlare con questa signorina … Sarò qui fuori, va bene?” Disse in italiano, e fu felice di vedere la bambina annuire e rilassarsi appena.
“Beh, abbiamo fatto progressi!” Esclamò Flynn dandogli una pacca sulla spalla. “È grandioso!”
“Lo è.” Confermò con un sorriso. “Anche se il merito non va a me, ma ad un’amica.”

“Di chiunque sia, è una buona cosa che lo scricciolo sia finalmente tra noi … Lunedì ci servirà tutta la sua collaborazione.”
“Già.” Non aveva scordato come trascorso quel fine settimana, un paio di funzionari del Ministero assieme ad uno Psicomago sarebbero venuti a valutare Benedetta. La sola parola gli dava la nausea.

“Hai notizie sulla famiglia?” Doveva esser quello il motivo per cui Flynn era venuta fin lì, lasciando il disordine esplosivo del  suo ufficio.
La strega annuì con espressione soddisfatta; sperò fosse un buon segno. “Ci ho messo del tempo, ma ho dovuto smuovere la macchina burocratica di ben due paesi … e  credimi, quella italiana è persino peggio della nostra.” Sbuffò. “Comunque. La dritta sulla sua nazionalità mi ha aiutata parecchio … ho contattato direttamente l’ufficio Mannari di Roma.”
“Lo hanno anche loro?”

“Pare che abbiano avuto a che fare con tribù di Mannari da ben prima di noi inglesi … dalla Roma Antica o giù di lì. Pensa che ai tempi dei romani non era neppure così terribile essere affetto da Licantropia. Erano…” Vedendo che la guardava con impazienza tagliò corto. “… vabbeh, per farla breve mi sono messa in contatto con il loro ufficio. Ben risulta registrata da loro. Benedetta Vanni, nata a San Quirico d’Orcia il primo Giugno di sei anni fa…”
“Quindi ha sei anni.” L’aveva fatta più piccola di quello che era. “Ed ha preso il cognome della madre.”
“Già … Se non avessimo saputo il nome per intero sarebbe stato un bel casino rintracciare le sue origini.”
Doveva decisamente offrire una cena a cinque stelle a Lily. “Sei riuscita a trovare sua madre?”

Flynn fece una smorfia che gli rese chiaro il motivo per cui stava scuotendo la testa. “È morta quando aveva pochi mesi … Incidente stradale.”
Dannazione.
“Era un Mannaro anche lei? Una strega…?”
“No, Babbana.” Sospirò. “Mi secca dirlo, ma c’era da aspettarselo, no?”
I maghi difficilmente fanno figli con i Mannari.
Non rispose, preferendo girargli un’altra domanda. “E il resto della famiglia? Hai detto che è nata a … beh, in quel posto.” Che non sapeva pronunciare né sapeva dove si trovasse. “… Non ha nessuno lì? Nonni, zii?”
Flynn si strinse nelle spalle. “Vacci piano, segugio, non sono arrivata così lontano … L’unica cosa che so è che l’unico contatto per le emergenze di Benedetta erano i suoi genitori.” Fece una smorfia. “Non un granché d’aiuto allo stato attuale delle cose.”
Ted si passò una mano trai capelli, sbirciando nella stanza lasciata socchiusa, per dare modo alla bambina di sapere che era rimasto davanti alla porta. “Come possiamo scoprire se c’è qualcun altro?”
La ragazza lo guardò con aria impotente. “Non ne ho idea, dato che la madre era Babbana … Non vengono presi i dati familiari dei Babbani che si sposano con i Mannari. Basta un nome e so che è assurdo, ma…”
“Si erano sposati?” Una lampadina accesa sopra la sua testa sarebbe stata una perfetta rappresentazione di quel che provava al momento. “Con rito Babbano, suppongo.”
“Beh, visto che la tipa era Babbana e Lunastorta non era un mago …”
“Allora ci deve essere traccia nei registri matrimoniali del Comune in cui si sono sposati!” L’avrebbe abbracciata, ma supponeva non fosse il genere di gesto da farsi con una donna che conosceva a malapena, per quanto sua principale alleata in quella battaglia. “Basta andare a controllare … Si possono trovare i parenti Babbani di Benedetta!”
“Sì, beh…” Concordò perplessa l’altra. “Ma chi se lo fa un giro in Toscana?”

Ah, è in Toscana. Centro Italia, mi pare.
Le sue conoscenze geografiche erano patetiche, esattamente come quelle della stragrande maggioranza dei maghi. Era una lacuna che l’aveva sempre imbarazzato moltissimo.
Specie perché Thomas non vede l’ora di sottolinearla ad ogni festa comandata.
“Io. Ci andrò io, non c’è problema.” Sarebbe andato anche in capo al mondo pur di trovare una flebile traccia di famiglia per quella bambina.
La sua famiglia sei tu.
Lo era, certo, ma non poteva farcela da solo; non doveva farcela da solo, perché la sola idea di avere tra le mani la vita di Benedetta gli faceva mancare il respiro.
Flynn gli lanciò un’occhiata indecifrabile. “Ti servono rinforzi? I miei incantesimi traduttori fanno schifo, ma non credo dovresti andare da solo.”    
Concordando, la mente andò subito a James; il compagno avrebbe fatto sembrare quella storia un’allegra scampagnata, facendolo così sentire più sereno e pronto ad affrontare spiacevoli sorprese. Era lui che avrebbe voluto al suo fianco, nessun altro.
… ma Jamie lavora. Ha un caso terribile tra le mani, non ha tempo per Passaporte e viaggi nel Vecchio Continente.
“Devo organizzarmi, ti farò sapere…” Le sorrise. “Grazie.”
Dopo essersi accomiatato da Flynn rientrò, ma non ebbe la forza di riprendere la conversazione con Ben.
Se solo riuscissi a trovare la famiglia della tua mamma …
Glielo dirò. Ma non adesso.
Sorrise alla bambina, sedendosi sul ciglio del letto. “La signorina di prima è un’amica.” Le spiegò. “Sta cercando la tua famiglia…” Non era una bugia dopotutto. Era la verità ed era anche una risposta alla domanda precedente. “Mi ha detto che sei nata in Toscana. Non ci sono mai stato, è un bel posto?”
Da come Benedetta si illuminò intuì di aver appena trovato un argomento di conversazione.
Non era mentire: era solo allontanare lo spettro di Lunastorta da quella stanza … e non riusciva a sentirsi in colpa quanto avrebbe voluto.



****

Boston, ufficio SAGITTA.
Ora di pranzo.

 
Rico sentì a malapena aprirsi la porta della sala audio-video del SAGITTA, e fu solo quando sentì il familiare profumo costoso di Ama Gillespie avvolgerlo che si rese conto di avercela alle spalle.
“Sergente!” Esclamò togliendo i  piedi dalla postazione e travolgendo così un paio di bicchieri di caffè vuoti. “Err, stavo…”
“Guardando le registrazioni a circuito chiuso delle banche in cui sono stati scoperti i conti di John Doe.” Terminò per lui quasi a dargli una giustificazione del momento di sonnolenza. “Lo so. Mi stavo chiedendo se non avessi bisogno di un secondo paio d’occhi.”
Eh?
Per la sorpresa rischiò di non rispondere. “Io … sì, sicuro!” Si stropicciò gli occhi arrossati. “Non faccio altro da ore, avrei proprio bisogno di un secondo parere … Stanco come sono potrei vedere Johannes sbracciarsi sul monitor e non accorgermene.”
La ragazza annuì, sedendosi e portando la sua attenzione sul monitor sofisticato su cui stavano scorrendo immagini che a lui sembravano uguali da ore. La tecnologia Babbana era una manna dal cielo per certi versi, ma per altri era maledettamente noiosa.

Non  potremo evolverci ancora un po’ e implementare uno di quei programmi di riconoscimento facciale che hanno i poliziotti Babbani?
Forse è chiedere troppo. Magari neanche esistono. Magari solo nelle serie tv.
Sbadigliò ma non arrivò nessuna reprimenda sul contegno da tenere quando si indossava un’uniforme: l’altra era completamente concentrata sul video.
Ha preso a cuore questa storia… È per Prince?
Tiene a lui più di quanto pensassi.
Non erano in rapporti tali perché potesse farle domande però. Si limitarono quindi a restare gomito a gomito, in silenzio, cercando di dare una mano al collega oltre-oceano.
Fu dopo un’oretta che Ama quasi saltò dalla sedia, un movimento così poco da lei che gli fece prendere un colpo. “Eccolo!” Esclamò indicando una figura in trench che si dirigeva con tranquillità verso uno dei cassieri appena liberatisi.
Rico, sfogliando i fascicoli con tutti gli identikit dell’uomo, riuscì a trovare la faccia corrispondente. Era sorprendente che Ama l’avesse riconosciuto al primo colpo.
Neppure tanto se consideriamo che è l’uomo che ha ucciso suo padre…
Si avvicinò allo schermo. “E non è solo.” Osservò indicando una donna poco discosta.
“Mi sembra di averla già vista…” Mormorò Ama guardandola di profilo; a Rico non ricordava nessuna sospetta, né volto noto della Thule. Era una strega piuttosto bella, sulla quarantina, dai capelli color inchiostro e l’incarnato pallido – si capiva persino con la bassa risoluzione della videocamera. I vestiti erano di foggia magica, così come il mantello.
Strega. Ed europea … nessuna strega americana si veste così.
Ama si morse il labbro. “Chiama mia madre.” Disse. “Se non la ricorda, ha comunque accesso a tutti gli ex fascicoli della Anti-Thule … ci metteremo meno a trovare un collegamento, se c’è.”
 
****
 
 
Diagon Alley, Accademia Magica di Duello.
Pomeriggio.

 
Sören controllò per quella che forse era la centesima volta la saletta privata che aveva affittato all’Accademia di Duello: doveva essere perfettamente sicura, perfettamente attrezzata e perfettamente…
“Sören, amico mio, l’abbiamo allestita assieme e controllata due volte.” La voce paziente di Dionis interruppe la sue riflessioni. “Lily avrà un allenamento sicuro.”
“Lo so.” Rispose imbarazzato, voltandosi verso il maestro duellante che gli sorrideva divertito dallo stipite della porta. “Voglio solo essere…”
“Sicuro.” Gli fece eco. “Non credi che questa parola sia stata fin troppo abusata?”

“Forse.” Concesse passandosi una mano trai capelli, che non si sarebbero comunque mossi di un millimetro. Milo poteva lagnarsi quanto voleva, ma durante un Duello avere ciocche di capelli ad oscurare la visuale era un errore che poteva costare caro.
A parte il fatto che nessuno rischierà la vita qui, stasera.
“Sei nervoso.” Attestò il rumeno avvicinandoglisi. “Lo capisco … ma Lily è in buone mani.”
“È un parere di parte, temo.” 
Si sentiva nervoso, e non solo perché di lì a pochi momenti Lily avrebbe varcato la porta pretendendo che le insegnasse come difendersi da tutto quello che di orribile c’era al mondo – perché era quella la sua missione, nessun dubbio.

Le persone che hanno aderito al progetto delirante a cui partecipa Johannes ci stanno sparendo da sotto il naso…
Ed era l’ennesima cattiva notizia.
“Tutto a posto?” Dionis gli posò una mano sulla spalla, guardandolo con gli occhi di un amico e fu per riguardo a lui che accantonò quella serie di pensieri.
“Sì, non preoccuparti … piuttosto, come sta Alexandra?” Riuscire a ricordarsi il nome della figlia dell’amico era notevole dato che aveva la testa da tutt’altra parte.
Dionis si aprì in un sorriso entusiasta da padre al settimo cielo. Come da copione si tolse una foto dal portafoglio che ritraeva la creaturina più minuscola e strillante che avesse mai visto.“È una meraviglia, vero? È perfetta!” Soggiunse accarezzando il riquadro lucido con un pollice. “Lo so, lo dicono tutti i padri, ma lei lo è davvero.”
Gli sorrise di rimando. “Lily mi ha detto che è diventata la principessina di famiglia.”
L’altro ridacchiò. “La famiglia di Roxie prende le nascite estremamente sul serio. Credo di aver partecipato a qualcosa come venti cene celebrative nell’ultimo periodo.” Si batté lo stomaco con un sorrisetto. “È una fortuna che il mio lavoro sia un esercizio fisico continuo.”

Sören gli sorrise di rimando. “Sono contento per te.” E lo era davvero; la felicità di Dionis Radescu gli dimostrava che il mondo non era un posto buio come aveva pensato per la maggior parte della sua vita.
Possono accadere anche cose belle.
“Solo che adesso dobbiamo scegliere il padrino e la madrina. In Romania non è così importante, ma in Inghilterra pare che sia una questione di vita o di morte. Abbiamo già ricevuto venti candidature …” Fece una smorfia. “Penso che faremo un padrino e una madrina. Così, secondo Roxie, eviteremo incidenti diplomatici … Certo, mi piacerebbe che almeno il padrino fosse rumeno…”
“È cosa così impossibile?” Lo stuzzicò, perché parlare di sciocchezze era molto più sano che ricontrollare per l’ennesima volta che la pedana da allenamento non fosse scivolosa o accidentata.
Dionis gli lanciò un’occhiata eloquente. “Diciamo solo che i miei fratelli, vedendo il vento che tira, si sono tirati indietro.”
“Capisco.” Non capiva, ma era quello che si doveva dire in certi casi. “Buona fortuna?”
“Me ne servirà.”


“Ehi duellanti, sono nel posto giusto?”
 
Sören fu felice di avere la schiena rivolta alla porta, perché data l’espressione divertita dell’amico doveva esser come minimo trasalito. La voce di Lily era abbastanza squillante per prendere di sorpresa anche un estraneo.
Figuriamoci te, che l’aspettavi da tutta la giornata.
Si voltò, notando che aveva sostituito i tacchi vertiginosi con cui di solito si muoveva fuori dal San Mungo con un vecchio paio di scarpe da ginnastica dall’aria comoda. Anche il resto dei vestiti era dimesso e fatto per adattarsi al corpetto d’allenamento.
Mi ha dato retta.
“Ciao Lily.” Le sorrise. “Ti vedo diversa.” La prese in giro.
“Vuoi dire nana.” Stette al gioco rivolgendogli un sorriso d’apprezzamento. “Niente tacchi, niente minigonne. Sono stata brava?”

“Bravissima.” Replicò con la stessa serietà, prendendole la borsa con il ricambio; la sentì pesante e le rivolse un’occhiata perplessa.
“Ah, dopo Scott viene a prendermi. Non passiamo da casa, andiamo dritti in Scozia con la sua auto.” Spiegò. Si guardò attorno con aria incuriosita, prima di voltarsi verso di lui. “Che dici, cominciamo?”
Sì, prima che Scott ti venga a prendere.
Scacciò con sconcerto e imbarazzo quel moto di gelosia – formulato peraltro come una lagna infantile – schiarendosi la voce. “Certo, Dionis ti mostrerà dove puoi cambiarti…”
L’altro sorrise con l’aria di chi aveva appena dato una sbirciata ai suoi pensieri e li aveva giudicati esilaranti. Fece poi cenno di seguirlo. “Vieni Lily, ti faccio scegliere un corpetto della tua misura.”

“C’è rosa?” Alle loro espressioni scoppiò a ridere. “Dai, ragazzi, scherzavo! Lo sanno tutti che il rosa è un’atrocità con i miei colori.” Gli mostrò la lingua, ma Sören registrò anche la conseguente occhiata pensierosa.
Sto bene. Non pensare altrimenti. Ti prego.
“Ti aspetto qui.” Fece cenno verso la pedana. “Ci sono alcune cose che devo finire di mettere a posto…”
Dall’espressione esasperata di Dionis intuì che sarebbe stata una lunga lezione; e, temeva, per colpa sua.
 
Sören le era sembrato un fascio di nervi; del resto, quando era entrata nella sala Duelli l’aveva quasi visto saltare in aria, come se qualcuno gli avesse messo uno dei fuochi d’artificio di zio George sotto il sedere.
Sorrise a Dionis, che le passò un corpetto di cuoio morbido indicandole con un cenno della testa gli spogliatoi femminili. “Questo dovrebbe essere della tua misura. Se ci sono problemi fammelo sapere, te ne prendo un altro.”
“Grazie e…” Esitò, poi decise che l'amico comune quale era un buon terreno comune su cui indagare. “Ren sta bene? Mi è parso un po’…”
“Nervoso? Sta mordendo il freno.” Sogghignò l’altro. “È per te, sai. Vuole aiutarti, ma è in ansia da prestazione.”
“Andiamo bene!” Alzò gli occhi al cielo, comunque lusingata. Sören l’aveva sempre trattata come una principessa, persino durante i suoi peggiori malumori o le sue crisi di impulsività dannosa. La faceva sentire coccolata anche se non si erano scambiati che pochi gesti d’affetto.“Però…” Considerò il corpetto tra le mani e l’onestà di Dionis; erano entrambi affidabili. “Pensi che abbia fatto male a chiedere a lui?”
Dionis rifletté per alcuni momenti, prima di scuotere la testa. “No, penso tu abbia fatto bene. Sören è un duellante di alto livello, ma è in grado di ricordarsi le basi … quelle che poi serviranno a te. E tiene a te. Farebbe di tutto per farti sentire al sicuro.”
Lily sorrise di rimando, cercando di non mostrare troppo disagio: dietro l’espressione amichevole dell’altro vi leggeva una sorta di reprimenda, e non era certa di voler sapere di cos’era colpevole secondo il codice dei Cavalier Serventi.

“Lo so.” Disse. “E credimi, gli sono riconoscente.” Aggiunse sullo stesso tono. Dovette funzionare perché l’espressione dell’altro si addolcì.
“Sii paziente con lui.” Le consigliò. “Se ha ricevuto la mia stessa formazione si trasformerà in un insegnante insopportabile.”
Lily sbuffò. “Non ce lo vedo a minacciarmi di fare venti flessioni.”
Dionis le servì un sorrisetto divertito. “Aspetta a vedrai.”

Quando torno nella saletta Sören la stava aspettando; era molto più nel suo elemento lì, in uniforme e con la bacchetta sguainata, che vestito alla moda e in mezzo alla confusione di un pub. Era un dato di fatto che non sarebbe mai cambiato e che non doveva cambiare.
O non sarebbe Ren.
 “È della tua misura?” Le chiese indicando il corpetto. “Ti ci senti a tuo agio?”
“Direi di sì.” Mosse le braccia per mostrargli la mancanza di impaccio. “È normale che mi senta come se avessi una coperta di piombo addosso?”
“È il materiale di cui è fatto.” Confermò controllando che gli allacci fossero stretti. Quell’improvvisa vicinanza – Sören non era mai il primo ad iniziare il contatto – la sbalestrò un po’, ma cercò di ignorare la cosa.

Dopotutto sta solo controllando che non mi cada di dosso.
“Serve per respingere gli incantesimi?” Ipotizzò per dire qualcosa. Sören, con i capelli tirati all’indietro e l’espressione seria sembrava sempre più grande della sua età.
Mi fa sentire una bambina…
“Solo quelli minori. È la tua bacchetta che deve fermarne la maggior parte.” Le spiegò pratico stringendo l’ultima cinghia sul fianco fino a quasi toglierle il respiro.
“Sarebbe un po’ strettina…”
“Deve esserlo.” Tagliò corto, poi vedendo la sua espressione sospirò. “Il corpetto è la tua protezione principale, almeno finché non riuscirai a deflettere completamente i colpi. Se lo allenti rischi che l’incantesimo penetri attraverso il tessuto e raggiunga la pelle. La magia non si ferma ai tessuti, cerca la carne viva.”
“… fa piacere saperlo.” Deglutì. “Credo che non correrò il rischio.”
Sören le rivolse un mezzo sorriso. “Sei pronta?”
No, per niente. Sto per prenderne come un ciocco di legno.

“Assolutamente sì!”
“Prima di tutto la posizione.” Iniziò l’altro. “Fammi vedere come tieni la bacchetta.”
“Sai come tengo la bacchetta!”
“No, non lo so.” Inarcò le sopracciglia. “A meno che tu non usi sempre gli stessi movimenti per tutti i tipi di incantesimo, cosa che dubito tu faccia. Ogni incantesimo inconsciamente porta ad assumere una posizione diversa, a seconda dei movimenti della bacchetta usati.”
Lily si morse le labbra, capendo il punto della faccenda. “Ma non ho mai lanciato un incantesimo da Duello…”
Sören la guardò ironico. “Non dirmi che non ha mai provato a Schiantare uno dei tuoi parenti.”
Lily arrossì, e rispose al sorriso. “Veramente era una Fattura Orcovolante…” Lo corresse, lusingata dal fatto che l’altro ricordasse l’episodio felice in cui aveva messo in riga suo fratello James e quel cretino del cugino Freddy. “Devo lanciartene una?”

“Non credo ne saresti in grado.” Il sorrisetto di Sören era quello di chi la considerava una specie di cagnetto buffo che provava a mordergli l’orlo dei pantaloni. Per quanto volesse tirargli uno schiaffo in testa, doveva ammettere che non era così fuori luogo. “Per ora limitiamoci alle posizioni. Posizione e movimento della bacchetta. Non pronunciare la formula magica.”
Lily obbedì, tirando fuori la bacchetta e ricordando i movimenti della bacchetta che servivano per la Fattura. Durante l’azione qualche scintilla rossa uscì dalla bacchetta e Lily pregò intensamente che l’altro non intuisse quanto la presa in giro l’aveva stuzzicata.

“Va bene, ferma.” La stoppò abbassandole il braccio. Aveva smesso di sorridere e questo di certo non era un buon segno.
Okay, quanto ho fatto schifo?
“Ho sbagliato qualcosa?”
Sören fece un mezzo sospiro non molto incoraggiante. “No, se quello che volevi fare era evocare una nuvola di fumo.”
Ho fatto decisamente schifo.

“Ma anni fa ci sono riuscita!”
“Eri arrabbiata perché ti avevano nascosto i regali di Natale.” Sì, se lo ricordava. “Lì sono state le tue emozioni a prendere il sopravvento.”
“Ma la magia funziona con le emozioni!”
“Sì, anche.” Concesse. “Ma durante uno scontro l’ultima cosa che devi fare è usarle. Non sono affidabili e non ti fanno rimanere lucida.” La guardò. “Con queste premesse forse puoi prendere di sorpresa un avversario, ma non avere la meglio.”

… okay, ha senso.
“Quindi devo partire dal punto zero. Wow.”  
“Devi imparare come hai imparato altre tipologie di incantesimi. Non credo che aspetti di sentirti arrabbiata per lanciare un Wingardium Leviosa.”
“No.” Ridacchiò. “Ma mi spiace dirtelo Ren … il nucleo della magia offensiva di un Potter è perdere le staffe.”
“E tu sei soltanto una Potter?”
Lily aprì la bocca e la richiuse, presa in contropiede: erano quelli i momenti in cui si rendeva conto quanto l’amico sapesse di lei, di come riuscisse a capirla e seccarla con una sola frase.
Non aspettò la sua risposta, prendendole il polso e abbassando il braccio di qualche centimetro. Come insegnante  era molto più naturale nel contatto fisico, meno in impaccio.
Non le dispiaceva.
“Iniziamo dalla posizione. È troppo alta,  devi essere bilanciata quando lanci un incantesimo dell’intensità di una Fattura, o rischi di perdere l’equilibrio per il contraccolpo.”
“In effetti quella volta sono finita a gambe all’aria!”
Sören annuì. “Oltretutto questa posizione ti aiuterà a tenere la guardia all’altezza dei tuoi punti vitali.”
Lily diede un’occhiata al suo braccio; non lo aveva mai tenuto così basso. “Ma sono abituata…”
“L’abitudine si può correggere.” La fermò con tono deciso. Questo Dionis doveva aver inteso quando parlava di inflessibilità. “La proveremo finché non la farai tua.”

“Potrebbe volerci un bel po’ … sono una testa dura.” Lo avvertì e non seppe se disperarsi o sentirsi rassicurata quando le venne restituito uno sguardo tranquillo ma irremovibile.
“Non me ne vado da nessuna parte.” Le riposizionò il braccio che intanto, ovviamente, aveva alzato. “Dal principio.”


****
 
Ufficio Auror. Ora di Cena.
 
Harry stava per varcare la soglia del proprio ufficio ed iniziare così il suo fine settimana quando Grace lo richiamò indietro.
“Capo, c’è una chiamata via Fuoco Magico per lei.”
Harry strinse tra le labbra un’imprecazione, voltandosi verso la ragazza, la cui unica colpa era essere latrice di cattive notizie. Per sopportare i suoi malumori avrebbe avuto diritto ad un cesto di frutta ad ogni fine mese. “Dì che sono già uscito.” Sentenziò senza mezzi termini; non vedeva l’ora di togliersi la divisa di dosso e dividere il divano con le battute salaci e la presenza di sua moglie.

Chiedo troppo?
La ragazza esitò. “Capo … è una chiamata dall’America, e mi ha detto che qualsiasi…”
“Vado subito.” Tagliò corto, ringraziandola con un sorriso per non essersi lasciata intimidire.  

Il camino portatile sopra la sua scrivania – non aveva più l’età né la posizione per accovacciarsi di fronte al focolare, a meno che non fosse a casa – perdeva fumo e quando lo aprì una serie di fiamme baluginarono violente.
“Buonasera Nora.” Salutò l’amica. “Mi hai trovato appena in tempo, stavo per andarmene.”
“Meno male.” Tagliò corto quella. Sembrava scossa e questo lo mise in allarme.

“Che succede?”
“Sören è lì? Vorrei che lo chiamassi nel tuo ufficio.”
“Oggi è andato via prima … aveva degli impegni con Lily, non c’è.” Non si prodigò in spiegazioni, certo che non fosse il momento. “Perché?”
“Abbiamo delle notizie … notizie che lo riguardano in prima persona.”
Harry si grattò la fronte, incerto su come muoversi e cosa chiedere. Se era una questione personale, a regola non avrebbe dovuto far domande, limitandosi a contattare il ragazzo.
Ma Sören non è un agente qualunque…
“Spero non si tratti di brutte notizie.” Iniziò prudente. “Posso essere d’aiuto?”
La strega fece un sospiro. “Sai che vi stiamo aiutando a controllare i conti bancari che John Doe ha aperto qui in America. A differenza delle banche europee, le nostre hanno delle telecamere a circuito chiuso. E imbattendoci nel nastro di una banca di Baltimora abbiamo scoperto uno dei collaboratori di John Doe … Se non direttamente il mandante. Ha prelevato da uno dei conti in sua compagnia.”
Non era un buon segno che la cosa riguardasse direttamente Sören. “Si tratta della Thule?” Indovinò, perché era la prima opzione che gli veniva in mente.

Del resto, Von Hohenheim era solo la punta dell’iceberg.
“No.” Lo stupì. “O almeno, non credo che quella persona lavori sotto l’egida della setta. Non l’ha mai fatto, come non è mai stata affiliata.”
Quella persona…

“Di chi si tratta?”
“Abbiamo confrontato delle vecchie foto segnaletiche di quando ero nell’anti-Thule.” Si vedeva come la donna fosse stanca di portare solo cattive notizie. Il problema era che quel particolare compito non si sceglieva mai, ma ti veniva imposto. “Credimi, ho controllato per esserne sicura mille volte … ma il confronto tra le segnaletiche e i nastri di sorveglianza della Banca non lasciano scampo a dubbi.”
“Di chi si tratta?”
“Di Sophia Von Hohenheim.” Fece una pausa, ed Harry vi lesse tutto ciò che doveva, perché la frase seguente non lo prese di sorpresa. “La madre di Sören, Harry.”
 
****
 
Sören porse a Lily un bicchiere d’acqua e sperò che non glielo tirasse in testa. Da come lo afferrò e trangugiò grata doveva aver scampato l’attacco, ma non era sicuro di esser fuori pericolo.
Forse aveva un po’ esagerato.
Al momento l’amica era seduta al lato della pedana e aveva la smorfia sofferente di chi sentiva ogni singolo muscolo dolere. Era rimasta zitta per tutto il tempo, dandogli retta e correggendo per almeno due ore ogni singola posizione sbagliata.
È sempre stata testarda. In questo caso depone a suo favore.
“Come ti senti?” Le chiese, incerto se sedersi accanto a lei o meno. “Vuoi un altro bicchier d’acqua?”
“Quante ossa ha il corpo umano?” Gli venne chiesto per tutta risposta.
“Circa duecento.”
“Bene, mi fanno male tutte e duecento.” Mugugnò stendendosi sulla pedana. Aprì gli occhi. “Sei cattivo.”
Il tono non era arrabbiato e Sören realizzò che anche se aveva esagerato, trattandola come se fosse una specie di soldato, Lily non ce l’aveva con lui. Era un sollievo. Le si sedette accanto, slacciandosi il corpetto per permettere all’aria fresca di farlo finalmente respirare. Aveva tenuto il respiro sospeso per tutta la durata dell’allenamento.

È stato difficile anche per me.
Lily rotolò su un fianco, come se fosse un comodo letto di piume e non una pedana di legno. “Sono così senza speranza?” Chiese a bruciapelo.
“No.” Rispose con altrettanta rapidità. “Sei partita da zero, e l’arte del Duello non è tra le più semplici … ma hai buoni riflessi ed una forte intesa con la tua bacchetta. Migliorerai.”
“Mah!” Sbuffò soffiandosi via una ciocca di capelli: anche sudata e con l’aria distrutta gli sembrava la donna più bella del mondo. Era un problema, rifletté distogliendo lo sguardo. “È la tua parola di maestro o una speranza da amico?”

“Tutte e due.” Si strinse nelle spalle. “Riposati questo fine settimana. Se sei d’accordo riprenderemo lunedì.”
“Riposarmi…” Mormorò distratta, servendogli poi un sorrisetto. “Definisci riposo.”
Una fastidiosissima fitta di gelosia e di rabbia gli scaldò lo stomaco: non era un bambino, sapeva benissimo che Lily era in intimità con Scott.

È normale, dato che è il suo ragazzo.
Tuttavia realizzarlo lo faceva sentire … arrabbiato. Doveva aver fatto una faccia infastidita, perché Lily lo guardò perplessa. “Tranquillo, non intendo scalare le Highlands … Me ne starò buona, anche perché davvero, sono distrutta.”
Ha frainteso.
“Spero di non avervi rovinato il weekend.” Gli uscì fuori e si sarebbe preso a pugni – sì, sul serio – quando realizzò l’idiozia che aveva appena detto.
“Perché dovresti averci rovinato … Oh.” Realizzò orribilmente e fu altrettanto terribile notare come adesso Lily fosse divertita. “Non preoccuparti, io e Scott non siamo per il sesso sfrena…”
“Preferirei non parlare di questo argomento.” Sbottò alzandosi in piedi come se qualcuno l’avesse messo sotto Imperio. “Se non ti dispiace.”  

“No, figurati… cioè, se sei a disagio lo capisco.”  
Il sesso non mi mette a disagio!
“Non è l’argomento il problema.” Chiarì sperando che Dionis, o qualunque altra persona sulla faccia della terra venisse lì e mettesse fine ai suoi tormenti. “È che non voglio parlarne con te.”
Per Faust. Complimenti. Ribadiscilo, tanto per non lasciare dubbi.
Lily adesso lo stava guardando come se gli fossero spuntate due teste e dannazione, era una LeNa; se avesse forzato un po’ la mano avrebbe capito il vero motivo delle sue difficoltà.
Non voglio pensare a te e Scott che fate sesso. Non voglio pensare a ciò che non potrò mai avere.
Per fortuna sembrò accontentarsi della sua spiegazione. “Okay.” Replicò alzandosi a sedere e spazzolandosi i pantaloni. “Hai tracciato una linea, sei stato chiaro. Scusa.”  
A terminare quel momento penoso fu la suoneria di un cellulare – ormai le sapeva riconoscere. L’amica doveva esserselo portato dietro dagli spogliatoi, forse in attesa della chiamata dello scozzese.
“Ciao ragazzone!”
Appunto.

Faceva male aver avuto Lily per tutto un pomeriggio, una Lily che gli aveva dato completa e totale attenzione, e vedersela portare via per un weekend romantico.
Beh, potrai sempre passare il tuo fine settimana a lavorare su Johannes e la sua brutta abitudine di uccidere e rapire.
Ad ognuno il suo.
L’irritazione, Milo lo diceva sempre, lo faceva diventare acido.
“Sì, arrivo subito … dieci minuti, okay?” Lily, ignara dei suoi pensieri – grazie a Merlino – staccò l’orecchio dal ricevitore per guardarlo. “Gli dico di salire ed aspettarmi?”
“No, abbiamo finito.” L’ultima cosa che voleva era doversi rapportare a Scott Ross. Era certo che non sarebbe stato in grado di usargli la solita cortesia. Per eufemizzare.
Lily ripeté la frase al suddetto. “Dice di salutarti.” E poi chiuse la chiamata. “Allora vado a cambiarmi.”
“Buon fine settimana.”

“Ren, sei sicuro che vada tutto…”
“È tutto a posto.” Avrebbe preferito trapassarsi con una delle alabarde che decoravano la sala che darle un’impressione diversa. “Buon fine settimana.” Ripeté con tono definitivo, e Lily finalmente parve capire l’antifona perché annuì e gli sfiorò la spalla con una mano.

“Anche a te.”
Almeno non si è accorta di niente.  Meglio passare per bacchettone che farle capire cosa vorresti farne del saluto del suo ragazzo.
 
“Ehi piccola!”
Lily sorrise a Scott, scoccandogli un bacio mentre scivolava nel sedile anteriore della decappottabile dell’altro. Adorava quella macchina, l’impianto stereo potente e sentire il vento trai capelli. “Com’è andata?”

“Dolorante e con il morale sotto i tacchi.” Rispose mitigando la frase con un sorrisetto. “Una prima lezione da manuale!”
“Sono … contento?” Chiese incerto facendola ridacchiare; ce la stava mettendo tutta per non mostrarsi preoccupato o troppo ansioso, gliene doveva dare atto. La discussione di quella mattina era servita. Lo ricompensò  così con un secondo bacio, stavolta più lungo.
“Devi esserlo. È andata bene.” Lo rassicurò. “Pronto per la Scozia?”
“Sempre!”
Mentre Scott guidava esperto tra le strette strade di Londra, Lily non riuscì a condividere il suo stato d’animo rilassato e pronto al weekend. Gli strinse la mano al di sopra del cambio ma aveva la testa da tutt’altra parte. Con la mente era rimasta a quella sala da Duelli e alla reazione di Sören.
Era solo una battuta … Forse ho un po’ esagerato, e lui è sempre così serio …
Solo che non era quello il punto.
 
Spero di non avervi rovinato il weekend.
Non è l’argomento che mi mette a disagio. È che non voglio parlarne con te.
 
Non le era servito essere una LeNa per decifrare il comportamento dell’amico. Aveva messo un muro tra di loro, e non per pudore. Lo aveva messo perché si era arrabbiato.
È geloso.
La sua poteva essere un’intuizione femminile; era l’essere LeNa che però glielo aveva confermato.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin & James Potter. Ora di cena.
 
“Ho ordinato la pizza!”
Ted fu accolto da quel proclama allegro e anche se era un fan della cucina di James, dovette ammettere che quella sera era una sera che preludeva a cucina da asporto e birra.

Il suo ragazzo era infatti stravaccato sul divano, in pantaloncini da corsa e canottiera logorata dai troppi lavaggi, mentre fuori la brezza serale rinfrescava l’ambiente. Lo salutò con un cenno della testa. “Non mi reggo in piedi … e cucinare fa venir caldo.” Fece un gesto vago, girando ‘Quidditch Oggi’ del mese. “Giornata di merda.” Aggiunse.
“Come mai?” Chiese calciando via le scarpe e sprofondando nel divano accanto a lui. “Lavoro?”

“Oh, sai, il solito … pare che qualcuno ci freghi da sotto il naso le persone che si sono fatte coinvolgere nel progetto Demiurgo.”
“Che sarebbe?”

“Quella stronzata dove tutti hanno finito per ammalarsi della roba del sergente Flannery.” Riassunse sommariamente, sospirando subito dopo. “Il pipistrello è convinto si tratti di John Doe … è ossessionato, ma non riesco a dargli torto. Quando c’è un cadavere di mezzo, la firma sembra sempre la sua.”
Ted gli accarezzò la gamba, sapendo che non c’era molto che si potesse commentare. “Ben sta molto meglio.” Disse invece. “Parla, ed oggi ha mangiato tutta la sua zuppa d’avena.”
“Grande! Ehi, le ho preso un libro da colorare giù a Diagon Alley … Credi che le possa piacere? Potrei portarglielo domani!” Gli sorrise, e la sua felicità era sincera e così consolante che avrebbe voluto rifugiarvisi. Preferì invece crollare definitivamente e posargli la testa sulle ginocchia.

“Sì, le piacerà di certo…” Mormorò. “Domani glielo portiamo assieme.”
“Woah Teddy!” Esclamò l’altro, compiaciuto quanto sorpreso; era infatti raro si lasciasse andare a quei gesti. Di solito accadeva il contrario. “Dove sono le cattive notizie?”
Bestiolina intuitiva.
Decise di vuotare il sacco. “Benedetta sta bene, e sappiamo anche da dove viene. Italia, Toscana … un paesino. Il problema è che l’unico modo che ho di rintracciare i suoi parenti è cercarli … nel Mondo Babbano. Sarà come cercare un boccino in un reparto di decorazioni natalizie.”
Le dita di James gli passarono trai capelli e un moto di colore, ben più allegro di quello con cui era entrato, le seguì. “Mi rimangio la palma di giornata di merda.” Sbuffò. “Quindi devi andare in Italia?”

“Nei prossimi giorni, sì. Prima di lunedì, possibilmente … sai, arriveranno…”
“I ministeriali, lo so.” Terminò per lui. “Non dovrei essere io a dirlo, visto che sono uno di loro, ma quelli della Divisione Bestie mi stanno sull’anima che non ti dico.”
“Figurati a me.” Borbottò: avrebbe finito per addormentarsi se l’altro non avesse smesso di coccolargli la testa in quel modo. Non riusciva però ad avere la forza di farglielo notare. “Mi muoverò domani.”
“Vengo con te.”
Se l’era aspettato e ne era felice, tuttavia James era forse stressato quanto e più di lui. “Hai bisogno di goderti il weekend, lascia perdere.” Doveva essere maturo e piantarla di comportarsi come un ragazzino bisognoso.

Visto che sei tu quello più adulto dei due.
Uno strattone improvviso al suo povero cuoio capelluto lo fece quasi sobbalzare dal dolore. Guardare dal basso il suo ragazzo e vederlo contemplare l’ipotesi di tirargli uno ceffone in testa fu un po’ inquietante.
“ … sì?” Gli uscì poco intelligentemente.
“Rimanere a casa come una mogliettina ansiosa? Vaffanculo Teddy, proprio una gran pensata.”
“Jamie…”
“Di sto cazzo.” Concluse. “Vengo con te, non era una proposta.”

L’aumentare delle imprecazioni voleva solo dire che l’altro era in dirittura di una crisi di collera delle sue, quindi capitolò. Non aveva voglia di mantenere una posizione in cui non credeva per primo. “Scusa.” Emise con il suo tono più mite. “Sto cercando di tenere sotto controllo la situazione dando meno incomodo…”
“Di che diavolo stai parlando?” Sbuffò esasperato. “Senti, quella ragazzina ha bisogno di una mano e ne hai bisogno tu. Fine della storia.”

“Fine della storia…” Ted passò un braccio attorno alla vita dell’altro e strinse. Se aveva imparato qualcosa nei primi anni di burrascoso assestamento tra di loro, era che James Sirius Potter sapeva sempre prenderlo di sorpresa. E in positivo.
“È meglio che mi alzi…” Disse dopo un po’, quando la tensione della giornata era scivolata via per far posto al torpore. “Sto per addormentarmi.”
James lo tirò di nuovo giù. “La pizza è buona anche fredda.”  

A quello proprio non poteva ribattere.
 
****
 
Il Paiolo Magico, dopocena.
 
Milo notò prima la bottiglia accanto al principino e poi il principino.
Sören se ne stava al bancone della locanda, a fissare i meandri del suo vuoto personale, ma per fortuna la bottiglia sembrava appena iniziata.
L’ho beccato al preludio di una sbronza?
“Ohi, hai mangiato qualcosa?” Gli chiese, sedendoglisi accanto.
Non si voltò nella sua direzione, ma parve riconoscerlo da come non si mise in allerta com’era suo solito quando qualcuno entrava nel suo spazio vitale. “Haggins.” Fece una pausa. “Disgustoso.”
“È stomaco di pecora bollito che t’aspettavi?” Diede un colpetto alla bottiglia. “Sai, dovresti passare all’erba. Il tuo fegato ringrazierebbe e sciacqua via i pensieri che è una meraviglia.”

“Funziona anche con quelli persistenti?”
Ahi.  
Milo era molte cose: un Magonò, un violinista, una lama veloce e un tipo che era entrato nel radar di un mago sexy come l’inferno e c’era rimasto per motivi che esulavano dalla sua comprensione.
Ma la cosa per cui era più portato in quel periodo, sembrava, era ascoltare gli sproloqui del suo datore di lavoro.
Lo mollo a sé stesso per quarantotto ore e lo ritrovo al bancone.
“Dovremo cambiare albergo. Questa bettola sta diventando stretta.” Disse riempiendo il bicchiere e vuotandolo tutto di un fiato.
Perlomeno il whisky sa sceglierselo.
“È un posto come un altro.” Replicò impietoso. “Se vuoi puoi cercarti una sistemazione migliore. La pagherò.”
Non è questo il punto, coglione. Tu mi devi venir dietro!

“E certo, se poi ti prendi qualche schifezza continuando a star qui, chi è che dovrà preoccuparsi che tu non muoia?”
“Il San Mungo.”
L’Associazione Mondiale delle Balie mi autorizza a prenderlo a calci in culo?

“Non vorresti ricevere Zenzero in un ambiente che non contenga scarafaggi?” Lo punzecchiò, perché non poteva sbattergli la testa contro il legno del bancone. Non avendo reazioni percepibili continuò. “Oggi era la vostra prima lezione, com’è andata?”
Un silenzioso fragoroso accolse la sua domanda.
“Benissimo vedo.” Si frugò nelle tasche e si concentrò nel compito di preparare il perfetto spinello. Era un buon modo per fingere di non aver notato come l’altro volesse strangolarlo. “Dai, che è successo?”
Sören fece una smorfia, contemplando il bicchiere vuoto, prima di rabboccarlo con un cenno di quella sua straordinaria – e inquietante – mano. “Le ho detto che non voglio sentir parlare di sesso tra lei e Scott Ross.”
Dovette trattenersi con tutte le forze per leccare la cartina e non scoppiargli invece a ridere in faccia. “Okay. E come ci siete arrivati a parlare di lenzuola?”

“Non ne ho idea.”
Ecco, mi sembrava.

“Beh, fare la figura del fidanzatino geloso di certo avrà aiutato a farle capire l’antifona.”
Sören gli scoccò di colpo un’occhiata allarmata. “Non può aver capito che sono geloso.”
Mio Dio. Un moccioso.
Accese lo spinello e ne diede un vigoroso tiro, sentendo il sapore dolciastro scivolargli sulla lingua e pizzicargliela con gentilezza. Era sempre un buon modo per iniziare in fine settimana. “Principino, mi rincresce distruggere la tua reputazione da stoico … ma se le hai abbaiato che non vuoi sentir parlare di lei e del suo ragazzo che ci danno dentro come conigli, cosa che sono certo facciano visto il tipino…”
Era così divertente sentirlo ringhiare. Era probabile che neanche si rendesse conto di farlo. “ … beh, sei stato sgamato.”
“No.” Scosse la testa, quasi a sottolineare il concetto. “Non la conosci, penserà che mi sono imbarazzato per via dell’argomento.”

Non è una rincoglionita della tua risma, principino, quindi no, se hai fatto il ragazzino offeso e tradito se ne sarà accorta eccome.
Decise però di non infierire. Era magnanimo, lui. “Ed è meglio fare la figura del verginello che farle capire quello che provi per lei?”
Magnanimo a modo mio.
Sören gli scoccò un’occhiataccia, ma vuotò il bicchiere e annuì. “Sì, è meglio.”
Scosse la testa, perché il mondo andava a rotoli per colpa di gente del genere.

Sarebbe tutto molto più semplice se si scopasse un po’ di più e si pensasse un po’ di meno.
“Sarebbe così assurdo entrare in gioco?” Lo incalzò, perché era curioso; com’era possibile amare qualcuno al punto da non volerlo?
Non è un controsenso? Cazzo se lo è.
“Sì, se non conosco le regole.” Scosse la testa, spingendo la bottiglia nella sua direzione ed alzandosi in piedi. Quella sera non era da sbronza triste: l’avrebbe quindi passata a rimuginare da solo, e cupamente, come l’eroe tragico che era. “Buona notte.” Gli augurò prima di allontanarsi.
Milo sbuffò, e una piccola parte di sé, quella buona parte di solito silenziosa, non riuscì a star zitta.
“Le regole non contano un cazzo, Sören. Non in questa roba.” Chiamarlo per nome gli faceva sempre un po’ strano. Era abbattere una barriera che non era sicuro dovesse esser abbattuta.
Ma fanculo.
L’altro si voltò, guardandolo tra il sorpreso e qualcosa di vagamente simile allo speranzoso. Non sapeva perché, ma faceva male a guardarsi.
Tutti vorremmo essere amati da far schifo, è tutto lì.
“E allora cosa conta?”
Allargò le braccia. “Quando lo scopri, fammelo sapere.”
Perché servirebbe anche a me saperlo.
 
****
 
 
Note:

Chiedo ancora mille scuse per il ritardo, ma vacanze di mezzo!

Comunque qualcosina (ina ina) si sta smuovendo sul lato Lily/Ren … più la solita barcata di notiziacce generale.
Qui la canzone del capitolo. Questa la canzone ascoltata e amata da Sy.

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Capitolo 27
*** Capitolo XXVI ***


Capitolo XXVI
 
 


 
Accadono cose che sono come domande, passa un minuto oppure anni,
E poi la vita risponde.
(Castelli di Rabbia, A. Baricco)
 
 
12 Luglio 2028
Londra, Ospedale San Mungo.
Mattina.

 
“Albus, hai un momento?”
Al alzò gli occhi dalla ferita che stava curando: erano le ultime ore del suo turno di notte e non vedeva l’ora di tornare a casa e schiantarsi sul letto, indipendentemente dal fatto che fosse occupato o meno.
Che ore sono? Le sette, le otto?
Sorrise comunque di buon grado al Capo Guaritore Finnigan, perché era un amico e perché aveva sempre notizie fresche sull’unico argomento capace di spazzargli via stanchezza e voglia di scappare dall’ospedale.
“Per te sempre, Sam.” Fasciò con un Ferula il braccio del paziente e gli diede il bicchiere regolamentare di Pozione RimpolpaSangue. “Lo beva tutto.” Ordinò prima di lasciarlo nelle mani delle magi-infermiere del reparto per seguire l’altro Guaritore. “Che succede?”
Sam gli diede per tutta risposta una pacca sulla spalla. “Hai le occhiaie fino alle ginocchia ragazzo. Turno serale?”
“Stacco tra cinque minuti … e spero la manciata più breve di secondi della storia.” Rispose facendolo ridacchiare. “Ci sono novità?” Chiese di nuovo, perché per quale altro motivo il Capo Guaritore poteva esser venuto a cercarlo?
“Abbiamo una buona notizia ed una cattiva.” Esordì facendogli cenno di entrare nella saletta ristoro riservata ai medici del suo reparto. Si sedettero e l’altro mandò a preparare due tazze di caffè stretto. “La buona notizia è che abbiamo ricevuto i risultati delle analisi su Henry Price. Il fatto di averlo preso proprio mentre il morbo si manifestava ci ha permesso di avere accesso ha una quantità maggiore di informazioni sul metodo di contagio.”
“Bene!” Accettò grato la tazza fumigante e dandone un rinfrancante sorso. “Che novità?”

“La buona notizia è che il contagio avviene solo dal momento della perdita di controllo della persona infettata.”
Era una buona notizia. Al si permise un respiro di sollievo: questo significava escludere il pericolo di contagio nelle prime fasi della malattia, dove i sintomi erano minimi e facilmente equivocabili per quelli di una banale influenza magica.
Qualsiasi idiota è capace di tenersi alla larga da un pazzo dagli occhi bianchi e la magia fuori controllo. Ma da un influenza … questo significa tra l’altro che la signora Flannery e le persone che hanno avuto a che fare con Price e Howe prima che si ammalassero non sono a rischio.
Era un sollievo. “Dobbiamo mandare un comunicato alla Gazzetta.” Suggerì; questo avrebbe abbassato molto il senso di allarme che serpeggiava tra la popolazione magica.
E ci faciliterà anche il lavoro. Niente più infornate di persone isteriche perché un familiare ed un amico ha starnutito ed ha fatto saltare il pomello della porta del bagno.
“Puoi scrivergli un Gufo?” Convenne l’uomo. “Una cosa chiara e alla portata dei giornalisti, così eviteremo fraintendimenti.”
“Nessun problema. Appena torno a casa butto giù qualcosa.” Ma non era finita lì. C’era altro che doveva sapere. “E la cattiva notizia?”

“Riguarda il tuo amico Prince.” Non ci girò attorno l’uomo. “E riguarda quello che mi hai detto sulle capacità magiche del suo sangue e su quello che avete scoperto con Thomas.” Incrociò le braccia al petto e fece una smorfia. “Abbiamo fatto le analisi di laboratorio necessarie … avete ragione. Il suo sangue è positivo ai marker della malattia.”
“Quindi è malato.” Si passò una mano trai capelli, inspirando: aveva sperato fino all’ultimo che le supposizioni sue e di Tom fossero sbagliate, che in realtà vi fosse una spiegazione migliore, meno spaventosa ed avvilente.  

“Sam aggrottò le sopracciglia. “La questione è più complessa di così. Da un certo punto di vista, Prince non è una persona malata. È un portatore sano.”
“Portatore sano?”

“Riflettici. La sua salute è ottima, i suoi valori magici sono stabili … la malattia non lo limita né lo mette in pericolo. Aumenta la sua capacità magica, tutto qui.” Inarcò le sopracciglia. “Quello che sembra avrebbe dovuto fare con Howe e Price, no?”
“E com’è possibile? Cosa la tiene sotto controllo?”
“Come avevate supposto voi, il suo sangue. O meglio, facendo analisi più approfondite e comparate, abbiamo capito che ciò che combatte gli scompensi di magia sono degli anticorpi.”
“Anticorpi?” Quei concetti facevano sì parte dei suoi studi all’Accademia, ma nella vita di un Guaritore capitava di rado che la Medimagia Comparata – una branca della Medimagia che attingeva dalla medicina Babbana – fosse usata in corsia. “Hanno la funzione di combattere i virus e batteri … li isolano dalle cellule umane a cui si legano per sopravvivere e li combattono, giusto?”  

“Esatto.” Confermò con un sorriso. “Qualcuno stava attento alle lezioni di Comparata vedo.” Aggiunse.
Al sorrise. “Tom è cresciuto con i Babbani … mi ha fatto una testa così sull’importanza della loro medicina. Devo dirlo, è uno dei rari casi in cui mi trovo completamente d’accordo con lui.”    

Suo malgrado era affascinato da quella scoperta: il corpo di Sören era stato teatro di esperimenti da parte della Thule e questo era orrendo e imperdonabile. Dal punto di vista di uno scienziato però, era fonte di meraviglie continue.  
La capacità di adattarsi e cambiare del corpo umano, che sia quello di un mago o di un Babbano, non smetterà mai di stupirmi.
Cavolo.
Finnigan annuì. “Questi anticorpi sono prodotti in autonomia dal corpo di Prince. Dai suoi linfociti B, per la precisione. Ti ricordi cosa sono?”
Cavolo, sembra un’interrogazione.
Non lo disse però, perché per fortuna ricordava la risposta. “ Cellule che quando certe altre cellule vengono infettate si trasformano e producono la cura.” Fece una smorfia. “Grossomodo.”
Ehi, io sono un ragazzo del reparto Lesioni, non di Malattie Infettive!
“I Linfociti B si trasformano in Plasmacellule e producono anticorpi. Un processo naturale. Va da sé quindi che non glieli hanno iniettati per controllare il virus presente nel serio di potenziamento, è stata una reazione spontanea.” Seamus intrecciò le dita dietro la testa, con aria speculativa. “Se gli è stato iniettato il siero da piccolo è probabile che il suo corpo abbia reagito meglio di quello di un adulto. Come se avesse contratto la Spruzzolosi. Qualche macchietta, un paio di giorni di Febbre e un Decotto Tiramisù ed è bello che nuovo. Per gli adulti invece…”
L’ironia. Essere stato usato come cavia da bambino gli ha salvato la vita.

“Chiunque stia lavorando dietro le quinte di questo casino deve aver supposto che il virus all’interno del siero si sarebbe comportato con gli adulti come ha fatto anni fa con Prince.” Continuò il Capo Guaritore. “Secondo me, all’epoca neppure si resero conto che il ragazzo si era, a conti fatti, salvato.” Scosse la testa. “Ha sviluppato la cura dentro di sé.”
“E questa cura … non possiamo usarla?”

L’altro Guaritore fece un sorriso dolente. “Gli anticorpi sono specifici per ognuno di noi … Il suo sangue e la magia in esso sono così modificati, non solo dal virus, ma anche da tutti gli esperimenti che gli hanno fatto, che il rischio di rigetto sarebbe altissimo. Invece di curare i pazienti potremmo ucciderli.”
Albus sospirò, chiudendo gli occhi, perché si sentiva stanco e sconfitto. Era una cattiva notizia su più piani – come lo erano tutte le cattive notizie. “Sören.” Posò la tazza di caffè finita sul tavolino. “Ha il diritto di saperlo.”

Sam annuì. “L’ho detto al suo agente di controllo.”
A Mike?

“Procedure, Al.” Spiegò l’uomo alla sua espressione sbalordita. “Prince, a quanto ho capito, è in una posizione giuridica un po’ particolare.”
Già, me l’aveva detto. È come un minorenne. E il suo tutore inglese, in effetti, è Mike.
“Gli ha già parlato?” Per quanto volesse bene a Michel sapeva che non era in grado di sganciare certe notizie con la giusta … umanità.
Di Sören non gli importa. Non sprecherà tempo a cercare di capire la sua posizione.
… cavolo.
“Questo non lo so.” Ammise stringendosi le spalle. “So solo che siamo stati bacchettati dagli americani quando abbiamo preso Sören da parte per dirgli che ci era sembrato strano non fosse stato contagiato. Non è con lui che dobbiamo parlare, evidentemente. Smethwyck ha spedito il Gufo con tutte le informazioni appena arrivati i risultati.”
Quel gran bastardo.
“Capito.” Sorrise appena. “Grazie per le informazioni.”
“Ehi, non dirlo neanche!” Gli fece un sorriso d’approvazione: a volte avrebbe voluto fosse lui il suo Capo Guaritore e non quella iena di Smeth. “Senza te e Thomas non saremo arrivati così presto a risolvere il mistero dell’immunità di Prince. Non era il risultato che volevamo,  ma…”

“Già.” Si alzò in piedi, dando una pacca sulla spalla dell’uomo. “Ma è un risultato.”
“I problemi di essere un Guaritore!” Lo guardò con aperta simpatia e comprensione. “Va’ a casa Al, e fatti una bella dormita.”

Una volta fuori dalla stanzetta Al non pensò neanche lontanamente al proprio letto, nè alla stanchezza che l’aveva bistrattato fino a pochi momenti prima. Si infilò negli spogliatoi e cercò il suo Specchio Magico, perché una chiamata al Ministero, ben lontano dall’avere una ricezione telefonica, era doverosa.
Sapeva di non avere la minima autorità nei grandi giochi di potere inter-Ministeriali, ma era un Serpeverde: avere amici significava anche avere voce in capitolo su cose che non avrebbero dovuto competergli.
“Al!” La sorpresa contenta sul volto di Michel lo fece sentire un po’ in colpa, dato che non lo chiamava per farsi gli affari suoi da quasi due settimane.
“Ti disturbo?” Chiese. “Come stai?” Aggiunse perché era un amico orribile e già sentiva il peso della condanna su di sé.
“Impegnato come sempre.” Sembrava però molto più rilassato da come era pronto al sorriso sincero piuttosto che a quello nervoso. Si chiese se le cose con quel Milo fossero andate avanti e si ripromise di chiederglielo davanti ad un cocktail in una discoteca rumorosa. Glielo doveva. “Tu invece hai un’aria sciupata pulcino, dormi abbastanza?”
“Domanda inutile da fare ad un Guaritore. Lavoriamo quando il resto del mondo dorme il sonno dei giusti.” Si sedette su una delle panche. “Mike, mi sento già orribile, ma devo chiederti un favore.”
L’altro non parve turbato all’idea. “Dimmi tutto.”
“Si tratta di Prince. Ho saputo che stamattina ti hanno mandato un Gufo dal San Mungo.”
“Sì, è vero.” Il viso dell’altro si fece di colpo guardingo, e Al si maledisse mentalmente. Sapeva che entrare nel territorio ‘lavoro’ con Michel equivaleva a pestargli i piedi. L’amico divideva la sua vita in scomparti e detestava quando qualcuno cercava di aggirare quella classificazione.

“Quindi sai tutto?”
“So quello che c’era scritto nel Gufo, l’ho letto.”
“Gli hai già parlato?”

“Al, qual è il punto?”
Decise di essere breve ed indolore, perché non voleva ricordare quanto una parte di quel suo buon amico sarebbe stata sempre impermeabile all’affetto che c’era tra di loro.
L’ambizione sopra a tutto.
“Quando lo informerai… senti, cerca di andarci piano. Non ti sto chiedendo di far niente, solo di … è un bravo ragazzo.” Balbettò a disagio: non era ancora del tutto convinto che Sören fosse diventato uno dei loro, ma era comunque una persona che aveva sofferto troppo per colpe non sue.
Devo aiutarlo. In qualche modo, lo devo fare.
Il lungo silenzio di Michel non era incoraggiante. “È un amico, Mike.” Si risolse a dire. “Per favore, vacci piano.”
L’altro fece una smorfia. “Per quanto tu mi consideri una persona incapace di empatia…” Iniziò, ed era offeso, lo sentiva dal tono. “… non devi preoccuparti. Sono stato informato come mero ponte per l’America. Non ho alcun dovere di informare Prince, ma solo di riferire a Eleanor Gillespie, il suo Capitano nonché sua tutrice legale. Immagino sarà lei a parlargli.”
“Nora è la sua tutrice?” Cadde dalle nuvole; ma aveva senso considerando che l’aveva aiutato da quando era uscito da Nurmengard. “Non lo sapevo.”
“Ora lo sai. C’è altro?” Sì, l’aveva proprio fatto incavolare.

“Mike, non penso che tu sia privo di empatia.”
“Per fortuna, o mi scambieresti per il tuo ragazzo.” La frecciatina c’era tutta e la accettò senza lamentarsi. Se la meritava. “Comunque, nel caso fosse toccato a me informarlo, sarei stato professionale.”

“Lo so.” Si affrettò a convenire. “È solo che a volte la professionalità non è quello che serve, ecco tutto.”
Michel al di là dello specchio inarcò le sopracciglia. “Perché tenete tanto a quel tizio?” Chiese, ed era curioso quanto infastidito adesso. Era un progresso. “Con quello che ha fatto e con quello che avrebbe potuto fare alla vostra famiglia dovresti detestarlo.”

Al ci riflettè, perché la domanda era legittima e se l’era fatta lui stesso. “Credo perché … beh, parlo a titolo personale, ma perché credo che dimostri che il mondo non si divide in buoni e cattivi. Credo di volerlo aiutare perché mi dà speranza.” Concluse ed era una buona risposta.
È la verità.
Michel aggrottò le sopracciglia, non evidentemente preparato alla piega profonda che aveva preso la conversazione. “Speranza in che senso?”
“Che le persone possano cambiare in meglio, che lo vogliano sul serio e che continuino a farlo a dispetto di quello che gli capita.” Sorrise imbarazzato, perché non era il genere di discorsi che amava fare a quell’ora del mattino. In generale, a dirla tutta. “Mi fa stare bene pensare che esistano persone così.”
L’espressione di Michel si ammorbidì. “Sei il solito sentimentale.” Sbuffò. “Prendo nota comunque, d’ora in poi lo tratterò con i guanti bianchi.” Fece un ghignetto. “A proposito, Tom sa di questa tua cotta?”
“Piace anche a lui veramente.” Replicò divertito dell’aria stralunata dell’altro. “Non che lo ammetterà mai.”
“Se avete in mente una cosa a tre fatemelo sapere, potrei essere interessato.”
Mike!
“Me ne devi una, pulcino. Le informazioni hanno un costo.” Non aspettò che protestasse. “Metti in conto.”

Si salutarono in buoni termini e Al ne fu sollevato: qualcosa era cambiata nella routine nevrotica di Michel o non avrebbe preso così di buon grado quella conversazione.
Spero davvero sia un ragazzo. Se lo meriterebbe.
Dopo essersi velocemente cambiato uscì dall’ospedale, accendendo il cellulare e chiamando l’unica altra persona che doveva essere informata in direttissima.
“Sto lavorando.”
“Non è vero, stai spulciando uno di quei tuoi tomi polverosi.” Ritorse, perché dal tono di voce Tom doveva essersi già alzato dal letto, ma solo per posare le chiappe davanti alla scrivania. “Ho delle novità su Sören. Grosse novità.” Fece una pausa, pensando che non avrebbe mai voluto essere nei panni di Nora Gillespie: dover essere ambasciatore di quelle notizie doveva esser tremendo.

“Di che si tratta?”
“Tuo padre era un gran bastardo.” Non ci girò attorno, né uso gentilezza. Non aveva intenzione di usarne neppure una goccia per quell’uomo.
Dopo un lungo attimo di silenzio, Tom sospirò. “Preparo il the. Torna a casa.”
Era tutto quello che aveva bisogno di sentire.
 
****
 
Diagon Alley, Il Paiolo Magico.
 
Un trillio acuto rischiò di forargli i timpani.
Sören rotolò fino al comodino, cercando il proprio cellulare, salvo per trovarlo silenzioso come doveva essere. Ci mise più di qualche attimo a capire che era Milo, dalla finestra, che si stava esercitando al violino nel modo più fastidioso possibile.
“ … Perché?” Gli uscì impastato, alzando la testa dal cuscino per vederlo sveglio e sogghignante. “Perché hai sentito il bisogno di svegliarmi?” Concluse strofinandosi una mano sul viso.
“Perché il mattino ha l’oro in bocca, principino!” Replicò e sembrava di ottimo umore da come ripose il violino e gli fece tremare il materasso sedendocisi sopra senza troppe cerimonie. “A proposito, dobbiamo cambiare locanda. Stamattina ho visto come cucina la cuoca e credimi, non è roba per stomaci deboli.”
“Come ti ho detto ieri sera questa locanda copre le nostre neces…”
“Le tue, vorrai dire.” Rimbeccò passandogli un bicchier d’acqua che bevve grato. Dopo i whisky che si era bevuto la sera prima si sentiva la bocca arida come il deserto del Messico. “Dico sul serio, vuoi che mi prenda i pidocchi? Hai idea di che disastro farebbero ai miei meravigliosi capelli?”

Sbadigliò, uscendo fuori dal letto e iniziando la prima routine di esercizi fisici della giornata. Fare flessioni dava di nuovo lucidità al suo mondo e ne contò dieci prima che Milo si accovacciasse alla sua altezza.
“Sei fastidioso.” Gli comunicò. “Cosa vuoi?”
“È appena iniziato il fine settimana e sono pieno d’energie!”
“Buon per te.”
“Andiamo a far colazione fuori!”

Lo guardò storto, capendo il neppure troppo sottile intento dell’altro; voleva distrarlo dal pensiero di Lily in Scozia e dal … resto. “Vacci tu.”
“Il solito temperamento delizioso, vedo…” Arricciò le labbra in un sorrisetto. “Sei fortunato, principino, oggi sono di buon’umore. Quindi scrollati quella nuvola da Goethe di dosso prima che lo faccia io!”

“Provaci.”
Fu soddisfatto dal constatare che l’altro rinunciò con un grugnito e un insulto a mezza bocca. Dopo la cinquantesima flessione si alzò in piedi, afferrando l’asciugamano che gli venne lanciato, tamponandosi il viso e il collo. Quella giornata, lo si capiva dall’aria che entrava dalle finestre aperte, si preannunciava rovente. “Come mai di buon’umore?” Si informò, anche per distrarlo dal proposito di impicciarsi dei suoi problemi.

Sarebbe coerente se tu non andassi a piagnucolare da lui ogni volta che qualcosa va storto.
Milo era una stampella di cui non riusciva più a fare a meno. Se ne vergognava un po’, ma immaginava non fosse così tremendo se l’altro non aveva ancora preso il volo – gli era sempre sembrato il tipo da non rimanere in un posto o con una persona, se questa non gli aggradava.
Milo scrollò le spalle, e non fu una sua impressione, sembrò a disagio. “Diciamo che ho qualcosa che stuzzica il mio interesse, e sai quanto la noia mi faccia rodere il sedere. Non sono annoiato, ecco tutto.”
“Questo interesse ha un nome?” Fu sorpreso dall’aver indovinato quando l’altro distolse velocemente lo sguardo.
Curioso. Quindi ha un nome e un volto.
“Uhm.” Esordì suonando stranamente guardingo. “Mettiamola così … potresti non approvarlo.”
Approvarlo?

“Come scusa?” Da quando la faccia da schiaffi che stipendiava si preoccupava di cosa poteva pensare lui della sua vita sentimentale e sessuale?
Considerato le orge di cui omaggiava il mio appartamento?
La cosa assunse una piega ancora più insensata quando Milo si grattò la nuca e lo guardò di sottecchi. “Diciamo che è un mago.”
“Sai che non mi interessa sapere con chi ti intrattieni.”
“Sì, beh, forse stavolta sì perché è il tuo agente di controllo.”
Zabini?  Si dovette schiarire la voce per togliersi di torno quel tono acuto, che lo faceva sembrare un ragazzino che beccava uno dei suoi genitori con la sua insegnante. Lily lo avrebbe definito un paragone perfetto. “Stai andando a letto con Michel Zabini?”

Milo fece una smorfia. “È una storia lunga. È un problema?”
Lo era? Ci riflettè seriamente, perché la domanda non era campata in aria, affatto. Notandolo però letteralmente sulle spine – Milo Meinster, che faceva fatica a ricordare il nome di chi aveva nel letto – non potè che stringersi nelle spalle. “No, non lo è. In fondo il lavoro che fate, dal mio punto di vista, non è così diverso … Sapete di me le stesse cose.”
Milo inarcò un sopracciglio, il sollievo così evidente che Sören pensò fosse giusto non farglielo notare. “Sa anche che tendi a sbavare sul cuscino quando ti addormenti ubriaco?”
“… non in quel senso.”
Gli venne sorriso, e non c’era traccia di ironia o sberleffo. “Okay.” Imbarazzato forse dalla piega che aveva preso la colazione, l’altro gli diede le spalle. “Vado a prendere la colazione o scendi giù?”

“Scendo.” Esitò, poi infine lo disse anche con il rischio di essere preso in giro come unico risultato. “Ti tratta bene?”
Milo lo guardò confuso, prima di registrare il significato della frase. Più che offeso o divertito sembrò sorpreso. “Beh… sì, uh, direi di sì.” Iniziò con un tono di voce che glielo fece sembrare più giovane del solito.
Mi scordo sempre che ha due o tre anni meno di me.
Un improvviso frullare d’ali bloccò la conversazione. Il gufo posatosi sul davanzale della finestra veniva dal Ministero della Magia inglese, considerando che era quello il loro unico modo di comunicazione. Prese quindi la lettera e strappò la ceralacca.“Sono richiesto entro un’ora all’Ufficio Auror.” Lesse. “Prepara la mia uniforme.”
Cos’hanno da dirmi che devono usare le vie ufficiali?
Gliel’aveva insegnato l’esperienza. Non era un buon segno.
 
Quando arrivò all’interno dell’ufficio Auror lo trovò deserto. Fu sorpreso anche dal constatare che la squadra di Potter non era lì; non c’era infatti traccia di Scorpius, né di Jordan né tantomeno del fastidioso fratello di Lily. Incrociò lo sguardo di un paio di auror e li salutò con un cenno della testa sulla via dell’ufficio del Capo.
“Si accomodi agente Prince.” Fu la risposta solerte dopo che si fu presentato alla segretaria spiegando il motivo della sua presenza. “La stanno aspettando.”
Mi sta aspettando chi?

Quando varcò la porta dovette trattenersi per non sobbalzare o dare voce al suo sgomento: assieme al Capo Auror Potter e l’inseparabile Sergente Weasley c’erano due streghe che conosceva bene.
“Capitan Gillespie, Sergente Gillespie.” Mormorò confuso, guardando dall’una all’altra; mentre il suo Capitano gli stava sorridendo con la consueta, solida empatia, Ama sembrava sul piede di guerra.
Che ho fatto?
Anche se a dirla tutta è la sua espressione standard da che la conosco…
“Ciao Sören.” Salutò la donna più anziana. “Ti trovo bene.”
Annuì, non sapendo come reagire a quell’improvvisata fuori programma. Guardò il Capo Auror Potter e si vide restuire uno sguardo … dispiaciuto?
Perché?
“Cos’è successo?” Andò dritto al punto. “Non che non sia felice di rivederla, Capitano, ma non capisco il motivo della sua venuta. C’è qualche problema?”
Per quale altro motivo sarebbe qui?
La strega fece sorriso pallido e stanco. Ancora, non era un buon segno. Quello e il sentirsi le mani sudare e il cuore in gola.
Che ho fatto?
Non gli sembrava di aver sbagliato nulla, ma qualcosa di sbagliato c’era, se lo sentiva nelle ossa.
“Siediti ragazzo.” Lo invitò Harry Potter con la stessa voce con cui doveva aver comandato schiere contro Voldemort. “Nora è qui perché ho ritenuto opportuna la sua presenza, in quanto tua tutrice legale e Capitano.”
Che diavolo sta succedendo?
Il Sergente Gillespie – Ama? In che veste era lì? Ufficiale o meno? – sciolse le braccia dal petto e lanciò un’occhiataccia direttamente al Capo Potter. “Diteglielo e basta!” Esclamò rimediandosi occhiate sorprese. La sua compresa. “Ha il diritto di saperlo!”
“Sapere cosa?”
L’uomo inspirò. “Dobbiamo chiederti di lasciare il caso del Demiurgo.”
Cosa?
Era quello il nome con cui la stampa e lo stesso ufficio Auror aveva chiamato il caso del morbo.
Fu come se una mano gli avesse artigliato le viscere, per strizzargliele senza pietà alcuna. Si impose di mantenere un tono di voce pacato. “E posso sapere perché?”
“Sei coinvolto a troppi livelli ragazzo…” Si inserì il Sergente Weasley e doveva immaginarselo che l’avrebbe fatto.
Non mi ha mai voluto qui.  
“So che il mio passato con Johannes potrebbe causare problemi, ma fin’ora mi sembra non ce ne siano stati.” Obbiettò perché non poteva finire così. Era assurdo. Era umiliante. “Potete chiedere conferma alla squadra, sono stato…”
“Non si tratta di John Doe, Sören, né di qualcosa che hai fatto tu. Stai svolgendo senza ombra di dubbio un ottimo lavoro, non è questo il problema.” Il Capitano lo stava guardando in modo strano, nello stesso modo in cui si erano parlati per la prima volta, nell’ospedale vicino a Nurmengard dove era stato portato.

“Posso sapere qual è?”
Il Capitano si avvicinò alla sua sedia e gli posò una mano sul braccio. Avrebbe voluto scacciarla, ma non poteva. Non era come si comportava un agente in servizio. “Si tratta di tua madre.”
In un lampo ricordò i gioielli nella camera blindata di Johannes, la sua perplessità e il discorso con Scorpius.
“Mia madre è morta quando ero bambino. Cosa c’entra con il caso?”
Il Capitano si morse le labbra ed era un gesto così poco da lei che lo spaventò più dell’intero schieramento di Capitani e Sergenti di fronte a lui. “Sophia Von Hohehnheim è viva, Sören … e collabora con John Doe. Abbiamo motivo di pensare che siano loro le menti dietro il progetto Demiurgo.”
“Mia madre è morta.” Immaginava fosse ottuso continuare a ripetere la stessa frase, ma c’era solo vuoto nella sua testa, e pensare a qualcos’altro da dire non era semplice. “Ho assistito al suo funerale … ho visto la sua tomba.”
Il Capitano si scambiò uno sguardo con il Capo Potter, prima di farsi passare dal Sergente Gillespie una cartellina. “Era la nostra stessa riserva. Per questo dobbiamo chiederti di guardare alcune instantanee…”
“Sono state prese dalla telecamera di sicurezza di una banca dove il Camaleonte ha uno dei suoi conti.” Ama gliela porse, aprendola con un tocco della bacchetta. “Abbiamo fatto un confronto con altre foto, e per noi non ci sono dubbi.”
Sören osservò la fotografia; c’era una donna matura, alta e non poteva essere sua madre.

È morta?
Non la ricordava bene; solo a volte, solo frammenti di parole e di espressioni.
Non mentire a te stesso.
Pechè era lei; la foto poteva essere sgranata, presa da un angolazione infelice, ma una parte di sé aveva dato la risposta nel momento stesso in cui l’aveva guardata.
Sua madre era viva.
 
Nora Gillespie avrebbe preferito spalare letame piuttosto che osservare uno dei suoi agenti – Sören – essere fatto a pezzi dal suo passato.
Non solo: aveva anche dovuto dirgli cosa il San Mungo aveva scoperto sulla sua immunità. La cosa che però l’aveva stupita era stato intuire che Sören già lo sapeva. Poi aveva pensato a chi aveva lavorato alla scoperta medica.
Albus Severus Potter. Il fratello di Lily.  
Sören ad ogni buon conto l’aveva ascoltata senza dire una parola, seduto come se fosse stato Impastoiato alla propria sedia, l’espressione illeggibile; da quando gli aveva detto di sua madre non aveva aperto bocca.
“Mi dispiace Sören…” Mormorò in conclusione, sentendosi il cuore gonfio d’amarezza. “Dato l’evolversi delle cose non posso, in coscienza, far continuare la tua collaborazione con l’ufficio Auror. Sei troppo coinvolto, su troppi livelli come ha detto il Sergente Weasley … Il mio compito non è proteggere solo i civili, ma proteggere anche te, uno dei miei agenti. Capisci ciò che ti sto dicendo?”
Ti prego, cerca di capire.
Si sentiva presa tra due fuochi: se da una parte credeva di agire correttamente nell’allontanarlo dall’Inghilterra, diventata troppo pericolosa, dall’altra sapeva che l’intera cosa sarebbe stata vista come un attestato di sfiducia da parte sua.
Non è così.
Sören battè le palpebre, come se solo in quel momento fosse riemerso dai suoi pensieri. “Sì, lo capisco.” Disse. “Se mia madre è coinvolta io, come familiare diretto, rischio di essere offuscato dai sentimenti personali e di compromettere l’esito del caso.”
“Sono felice di saperti d’accordo.” Sentiva lo sguardo di Harry addosso e avrebbe voluto voltarsi per chiedergli consiglio, o un intervento. Ma non spettava al Capo Auror mettersi in mezzo.

“Posso chiedere chi mi sostituirà?”
Quello che la preoccupava era la totale mancanza di reazioni. Si sarebbe aspettata rabbia, richieste di spiegazioni, indignazione per esser stato messo da parte senza neanche avere il diritto di replica. Si sarebbe aspettata di dovergli spiegare che non era stato tradito, ma solo protetto.
Invece … l’ha presa fin troppo bene.
“Io.” Si inserì Ama e gliene fu grata. Era stanca di parlare. “Abbiamo pensato che un agente semplice non fosse attrezzato, vista la complessità del caso.”
Nora non commentò, anche se la decisione non si era svolta con tanta semplicità; Ama aveva instistito per essere la sostituta fino allo sfinimento, nonostante le sue molte riserve.  
Ama è coinvolta per via di suo padre … ma non quanto Sören.   
Sören la guardò per qualche attimo, prima di annuire. “Le farò avere le mie note.” Si alzò in piedi. “Entro quanto devo lasciare il confine britannico?”
“Non c’è fretta.” Rispose Harry. “Puoi prenderti tutto il tempo che ti serve, il tuo visto è stato rinnovato per un altro mese.” Fece un sorriso. “Non ti stiamo cacciando.”
“Bene. Se non c’è altro, devo avvertire Milo perché si prepari alla partenza.” No, non andava bene per niente e non ci voleva uno Psicomago per capirlo. Sören si stava comportando come al loro primo incontro.
L’unica differenza è che parla. Ma non dice niente.  
“Sören…” Richiamò il ragazzo, già in piedi e in direzione della porta. “Puoi rimanere fino alla fine del mese se vuoi. So che hai degli amici qui, e se ti serve tempo per salutarli…”
“Non mi serve.” La battuta fu sferzante e per quanto densa di sentimenti non esattamente positivi, almeno mostrava delle emozioni. Tornò subito nei ranghi però. “Partirò lunedì, e se è d’accordo riprenderò servizio attivo al SAGITTA il giorno stesso.”
Non restava altro da dire. “Naturalmente.”

“Grazie.” Li guardò ad uno ad uno e fu certa di vedere con la coda dell’occhio Ron abbassare lo sguardo. “Sono congedato?”
“Lo sei.”
Dopo che la porta fu richiusa, Ama fu lesta a scattare in piedi. “Chiedo congedo.” Non aspettò la sua risposta e si precipitò dietro l’altro ragazzo.
Poi cadde un lungo silenzio. Fu Ron il primo a romperlo. “Andiamo!” Sbottò. “Era la cosa giusta da fare. Ha praticamente metà parentela coinvolta … Non sarebbe stato legittimo farlo continuare.”
Nora sospirò. “Spero solo che capirà, col tempo, che l’abbiamo fatto per proteggerlo. Il Camaleonte sa già della sua presenza, e quindi anche Sophia Von Hohenheim. Non è questione di sapere se avrebbero usato la cosa a loro vantaggio, ma quando.”

Harry non disse niente per un po’, seduto dietro la sua scrivania e a Nora parve improvvisamente più vecchio dei suoi anni, come se quella conversazione gliene avesse aggiunti parecchi.
Capiva la sensazione.
“Abbiamo fatto la cosa giusta, è vero.” Esordì togliendosi gli occhiali e massaggiandosi le palpebre. “Ma anche quella più conveniente.”
Già…
Il suo buon amico alla fine aveva empatizzato con Sören; molto del loro passato si somigliava per certi versi. “Sören non è in grado di affrontare il carico emotivo di questo caso.” Gli obbiettò. “Stava già avendo problemi a gestire il fatto che John Doe fosse coinvolto, ed ora sua madre…”
“Merlino, è troppo per chiunque!” Concordò Ron. “Abbiamo fatto bene a fargli fare un passo indietro. Se ne tornerà in America e ritroverà la sua tranquillità come noi la nostra.” Alla sua occhiata si strinse nelle spalle. “Sentite, mi spiace dirlo, ma la sua presenza qui dava più grattacapi che altro … ha quasi messo in crisi la squadra di James. Non si stava adattando!”
“Ci stava provando, Ronald.” Si sentì in dovere di difenderlo; Ethan Scott ironizzava sempre che, quando si trattava dei suoi agenti, diventava come una leonessa con i propri cuccioli. Era una delle poche cose sensate che avesse mai detto in vita sua. “Del resto non gli avete reso le cose se…”
“Basta così.” Li fermò Harry. Anche se non aveva alzato la voce ebbe il potere di farli sentire entrambi sciocchi, da come anche l’altro inglese fece una smorfia imbarazzata. “Sören ha accettato la nostra decisione e tornerà a Boston, non mi pare ci sia altro da dire.” Le si rivolse con un sorriso. “Sono certo che Ama farà un ottimo lavoro.”

“Lo sono anch’io.” Si alzò in piedi, stringendogli la mano. “Grazie per il tuo tempo Harry.”
“Non dirlo neanche.” Scosse la testa. “Ron, accompagna Nora all’uscita. Se mi date un’ora vi raggiungo per pranzo.”
Si salutarono, ma prima di andarsene non riuscì a trattenersi. “Harry … pensi che abbiamo fatto bene?”
L’amico le sorrise di nuovo, scuotendo la testa. “Lo spero, Nora.”

 
“Sören!”
Chiamare per nome un proprio agente quando si era in servizio non era un’idea brillante, ma ad Ama in quel momento non riusciva ad importare. La scena che si era svolta sotto i suoi occhi solo pochi attimi prima le aveva dato la nausea.  

Non è giusto!
Se fosse stata al posto dell’altro avrebbe difeso con le unghie e coi denti il suo diritto di partecipare a quel caso.
Perché lui non l’ha fatto?
Sören sentendosi chiamare si voltò, già sul ciglio dell’entrata dell’ufficio. “Sergente Gillespie, ha bisogno di qualcosa?”
Quello era un buon modo per farla sentire un’idiota.
Gridare come una ragazzina per attirare la sua attenzione … Datti una regolata. Sei un suo superiore.
“Volevo solo…” Prese fiato, perché stava cominciando a mancarle il coraggio. “… volevo solo dirti che non sto cercando di soffiarti l’incarico. Mi sono offerta perché…”
“Non c’è bisogno che mi dia spiegazioni.” La fermò tranquillo. “Sono contento che sia lei a sostituirmi. Sono certo che troverà la squadra di James Potter preparata e all’altezza.”
Okay. Che cos’ha?

Va bene che è Mister Educazione e Calma, ma …
C’era qualcosa che le diceva che non era tutto lì. L’illuminazione la colpì quando vide che aveva le mani seppellite nelle tasche dell’uniforme.
La sua mano … Estevez mi ha detto che quando è nervoso fa scintille come una bacchetta!
“Sören, non ti sto parlando come tuo sergente.” Sbuffò, perché non era mai stata capace di essere sottile, solo diretta fino alla brutalità. “So come ti senti e volevo solo dirti che ti capisco, e che mi dispiace.”
Le venne restituito uno sguardo privo della minima emozione. “La ringrazio.”

Alzare la voce e dare in escandescenze dove c’era gente che poteva vederla e commentare era una cosa che la disgustava ma era troppo preoccupata perché gliene fregasse qualcosa. Lo afferrò per un braccio. “Smettila di fare così, hai bisogno…”
Non terminò la frase che Sören si strattonò violentemente via da lei. Il volto tranquillo si ruppe in mille scheggie di una rabbia densa e scura, come lo era la magia che sentiva emanare da lui.

“Ho bisogno di essere lasciato in pace.” Disse lentamente e Ama fece un passo indietro; non si riteneva una persona impressionabile, eppure in quel momento si sentiva il cuore in gola.
Col tempo si era dimenticata di chi aveva davanti; Sören Prince era stato il pupillo del Camaleonte, ed aveva passato l’infanzia immerso nella violenza e nella Magia Oscura. Non era soltanto il ragazzo più riservato e socialmente imbranato della sua unità.
L’altro dovette rendersi conto del suo scatto perché chinò la testa, in quella maniera un po’ antiquata e solenne che lo contraddistingueva. Fu un sollievo vederglielo fare perché era un gesto da Prince, e non da Von Hohenheim. “ Mi scusi … non volevo spaventarla.”
“Non mi hai…”
“Ho bisogno di restare da solo, Ama.” Usare il nome proprio dopo averle dato del lei per tutta la conversazione era una carognata bella e buona. “Per favore.”

Cosa poteva fare a quel punto? “Certo. Io … mi dispiace. Non volevo che le cose prendessero questa piega.” Ripetè per quanto fosse inutile reiterarlo. Sören dovette indovinarlo perché le sorrise.
Aveva il sorriso più bello e più triste che avesse mai visto; come due termini simili potessero andare a braccetto rimaneva per lei un mistero.

“Smettila di dirlo.” Replicò usando le stesse parole che gli aveva rivolto la sera del suo party di commiato. “Non ce n’è bisogno. Farai un buon lavoro, e mi basta questo.” Fece un cenno con la testa. “Arriverci Sergente.”
Vedendolo andare via con le mani sepolte nelle tasche, per quanto fosse stupito, sperò che qualcuno riuscisse a tirargliele fuori di lì. E stringerle.
 
****
 
Diagon Alley, Casa di Al Potter e Tom Dursley.
 
Quando Tom metteva la musica a tutto volume significava o che era di buon’umore, oppure che stava dando battaglia a Meike a colpi di gusti musicali.
Appena aprì la porta dell’appartamento fu infatti investito da un muro di suoni, mentre Zorba, con un miagolio disperato uscì come un Boccino appena liberato.
“Già.” Concordò trascinandosi fino al salotto ed ignorando Tom e Meike che stavano discutendo di fronte allo stereo in maniera piuttosto accesa. Sprofondò a faccia in giù nel divano e si rifiutò di rispondere a qualsiasi tipo di stimolo, che fosse acustico o fisico.
Mutti, ehi … Mutti? Al? Tom, che gli hai fatto?”
“Ha varcato la soglia di casa in questo esatto momento. Spiegami come posso aver fatto qualcosa.”

“Non lo so! Sei bravissimo a fare casini anche rintanandoti in casa!”
Ignorali.
L’abbassarsi della musica fu comunque un piacevole risvolto di quella sua tecnica passivo-aggressiva.
Funziona sempre.
“Vado a metter su la teiera, eh? Ho fatto i biscotti!”
“Al.”
“È colpa tua, razza di spaventapasseri! Lo sai che non gli piacciono i Joy Division!”
Al.
Mutti!”
Al sorrise, togliendo la faccia dal cuscino quanto bastava per vedere i suoi due tormenti personali – nonché suoi inquilini – guardarlo con un misto di apprensione (Meike) e irritazione (Tom, che era forse più preoccupato della ragazzina). “Sono solo stanco ed affamato.” Disse. “E davvero, possiamo mettere qualcosa di un pochino più allegro?”

Nel giro di una manciata di minuti Meike tornò con la sua colazione e Tom riuscì persino a ricordarsi uno dei suoi gruppi Babbani preferiti e a mettere la canzone che preferiva quando era reduce da un turno sfiancante.
 
If you wanna be my friend and you want us to get along
Please do not expect me to wrap it up and keep it there

 
“Si tratta di lavoro.” Spiegò Tom a Meike, la quale sembrava chiedersi se avesse dovuto misurargli la febbre invece di servirgli il the. “Lasciaci soli.”
“C’è qualcosa nella progressione logica di questa frase che mi lascia perplessa … ma okay, siete due tipi strani e vi voglio bene anche così.” Si chinò a baciargli la guancia per poi tirare un pizzicotto sul braccio di Tom, che scartò di lato cercando di afferrarle la coda di capelli.

Al, ignorando il bisticcio trai due, sorseggiò la propria tazza, ritraendo i piedi per poi lasciare che Tom si accomodasse accanto a lui mentre si massaggiava il braccio con aria offesa. “Posso finire la colazione prima di aprire il vaso di Pandora e far uscire tutte le schifezze di questa terra?” Chiese.
“Erano sciagure.” Gli fece notare prima di annuire. “Mangia i biscotti.”
Obbedì di buon grado, mentre l’altro gli toglieva le scarpe e le mandava ad allinearsi ordinatamente nella scarpiera all’ingresso. Appena ebbe mangiato l’ultima briciola Tom diede fuoco alle polveri.
“Hai letto i giornali di oggi?”
“Fammi indovinare … il Profeta teorizza che il Ministero e nello specifico l’ufficio Auror stia tenendo i cittadini all’oscuro di cosa sta realmente succedendo con il caso Demiurgo e l’epidemia e così il resto delle testate a lui affiliate. Per quanto riguarda il Cavillo invece…”
“Non leggo quella spazzatura.”
“Io sì, e c’è una teoria interessantissima sulle cause della malattia … Pare la portino i Sgorgobozzi Antelucani.” Vedendolo tentare di non scoppiare a ridere – mai che potesse abbassarsi a trovare divertenti gli articoli del giornale di Luna - continuò. “Cosa? Io la trovo una teoria alternativa, ma valida.”

Tom mascherò l’inevitabile risata con un colpo di tosse. “La stampa sta diventando irrequieta. Harry avrà un bel da fare per tenere in riga penne come quella di Hawkins.”
“Richie Hawkins è uno scarafaggio … No, sul serio, credo sia un Animagus.” Aggiunse all’espressione sorpresa del compagno. “Avresti dovuto tramortilo quella volta che tentò di circuirci da bambini.”
Qualcuno pensò fosse una cattiva idea…”

“Ero giovane e stupido.” Scrollò le spalle. “Comunque … la buona notizia, l’unica a dirla tutta, è che possiamo buttare un po’ di acqua sul fuoco. La malattia è contagiosa solo da conclamata.” Spostò la propria attenzione verso la porta di camera loro ed Appellò il necessario per scrivere dallo scrittoio. Era stanco, ma appena avesse ripreso le forze avrebbe svolto il compito lasciatogli di Seamus.“A questo proposito devo scrivere una lettera al profeta piena di paroloni rassicuranti.”
“Poi te la correggo. Da uno che non riesce a fare lo spelling di geografia…”
“È successo una volta!” 

Cercare di tirargli un calcio ed essere bloccato fu irritante quanto bello; non ringraziava mai abbastanza Merlino di avere un posto in cui tornare e la possibilità di scrollarsi di dosso le brutte cose tra le braccia del suo sociofobico preferito.
Sören non è altrettanto fortunato.
Accocolandosi contro l’altro spiegò quindi la sua mattinata, le scoperte e le realizzazioni. Tom ascoltò tutto in silenzio prima di fare una smorfia che riassumeva cosa doveva pensare della faccenda.
Che è ingiusta e che fa schifo. Yep.
“A quanto pare il Karma ha deciso di prendere a calci mio cugino.”
Quella frase, in sé non di particolare rilievo, era in realtà un bel punto di svolta. Si guardò bene dal notarlo ad alta voce però; l’altro avrebbe negato con tutte le sue forze.

L’ha chiamato cugino. È la prima volta che lo fa da che sa che sono parenti.
“A quanto pare sì.” Lo guardò con la coda dell’occhio. “Tom, che facciamo?”
“Niente.” Prima che potesse protestare gli mise una mano sulla bocca senza troppe cerimonie. “Una cosa è lavorare al caso Demiurgo una cosa è pestargli i piedi con aiuto che probabilmente non vuole.”
Al si morse le labbra, colpito che per una volta Tom avesse ragionato considerando il punto di vista di un’altra persona.
No, non è vero … non è la prima volta che lo fa. Quando c’è di mezzo Sören pare che ne sia capace.
Dopotutto, è la sua famiglia.
“Ma avrà bisogno di parlare con qualcuno!”
“E non parlerà di certo con me o con te.” Gli fece notare. “Da quando siamo stati promossi al rango di confidenti di Sören Prince? Devo aver mancato di leggere l’appunto.”

Touché.
“Vero. Beh, c’è sempre Milo, quel Magonò…” Considerò appoggiandogli la testa sul petto ed ascoltando o il ritmo del cuore dell’altro. Era persino più rilassante di quello che usciva dallo stereo. “E Lily.” Aggiunse suo malgrado. “Mi preoccupo troppo, vero?”
“Vero.” Lo imitò passandogli le dita trai capelli, i quali non accennavano a tornare della lunghezza originaria; non era così grave però, si stava abituando a quel taglio. “E senza motivo. Sören non è privo di amici e connessioni come pensi. Pare che riesca a farsi apprezzare.”
Al chiuse gli occhi, nascondendo uno sbadiglio in una mano; i ritmi invertiti di sonno e veglia erano un prezzo inevitabile da pagare nella sua professione. “Mi ricorda qualcuno…”
“Non so a chi tu ti riferisca.”
“Mh-mmh…”
“Non addormentarti su di me. Ho del lavoro in arretrato.”
Sorrise e – era una dote, senza dubbio – spense l’interruttore senza troppi rimorsi.

“Al!”
 
****
 
Casa di Michel Zabini.
Pomeriggio.

 
“Sai che casa tua sembra una cella frigorifera?”


Michel per poco non rovesciò il drink che si era portato dalla cucina sul tappeto del salotto.
Voltandosi vide con la coda dell’occhio una testa bionda e un corpo atletico; in parole povere, Emil.
“Ciao maghetto.” Sogghignò questo, stravaccato su una delle sue poltrone Van Der Rohe, costate uno stipendio medio ministeriale. Se lo ricordò perché l’altro, oltre ad usarne una per il motivo per cui era stata fatta, usava l’altra come poggia-piedi. Ed avendo delle Vans consunte – e con un dito di fango nella suola – non era cosa che fosse disposto a tollerare.
“Metti giù i piedi.” Replicò. “Come sei entrato?”
“Come sei carino…” Ribatté l’altro, stiracchiandosi. “Mi ha aperto Loki prima di andar via. Lui sì che sa essere un padrone di casa! Quello cui sto davanti adesso neanche mi offre da bere.”
Michel inspirò, ricordandosi che in effetti aveva invitato il ragazzo che gli stava davanti a presentarsi a casa sua ogni volta che gli girava.
“Scusami.” Offrì porgendogli il drink. “Ho avuto una brutta giornata.”
“Non mi dire.” Lo accettò con un cenno della testa. Era già qualcosa. “Ti ho sentito sbattere ante e bicchieri da qui.”
Già…

Albus, con la sua richiesta, lo aveva irritato oltre ogni misura.
Non deve impicciarsi del mio lavoro. Lo sa benissimo! Perché l’ha fatto? A parte per mettere a tacere quel suo senso di abnegazione verso il clan allargato di amici e familiari che si ritrova…
“Spostiamoci di là.” Disse, perché aveva davvero bisogno di scrollarsi di dosso l’irritazione e gettarla addosso a chi tentava di corteggiare non era, in nessun modo, una mossa vincente.
Emil lo seguì di buon grado senza far domande o cercare di sondare il suo umore e questo gli piacque; avere amici impiccioni a volte gli faceva dimenticare che la gente poteva anche essere perspicace.
Quando fu tra il buon odore di legno e cuoio della stanza della musica si permise di allentare un po’ la presa, slacciandosi i bottoni della giacca e sedendosi sul divano. Emil lo imitò, appoggiandosi ad uno dei braccioli e studiandolo divertito.

Perlomeno non cerca più di farmi saltare i nervi per puro spirito di Bastian Contrario…
“Il cambiamento che hai quando entri qui dentro è pazzesco.” Gli fece notare dando un sorso al drink. “Se ti piace tanto l’arredamento, perché non l’hai espanso al resto della casa?”
“Non è l’arredamento.” Sospirò chiudendo gli occhi e reclinando la testa sullo schienale imbottito. “È l’atmosfera.”
“Mh.” Fu tutto quello che disse prima di scivolare accanto a lui. Lo sentì posare il bicchiere sul tavolino del grammofono e poi percepì le dita arricciarsi attorno al risvolto della sua camicia e tirare. Docilmente si lasciò attrarre in un bacio, serrandogli una mano attorno alla spalla. Era solida, calda e chi aveva pensato che il contatto fisico fosse superfluo nella vita doveva avere dei problemi mentali.
Emil lo lasciò andare, non prima di avergli mordicchiato un labbro ed avergli spedito un fiotto di eccitazione direttamente al cervello. “La musica te lo fa drizzare?” Domandò ghignante.
Gli tirò una spinta, perché era eccitante quant’era idiota. “Non ridurre tutto ad una scopata.”
“Tutto si riduce ad una scopata, Michel.” Rise l’altro cadendo trai cuscini. “Dall’alba dei tempi, o io e te non saremo qui.”

Non che avesse tutti i torti. “Interessante … Dietro le tue sparate sembra che si nasconda una persona profonda.”
“Scopri l’acqua calda, maghetto!” Si tirò su per poi reclinarglisi addosso. Per quanto l’avesse preso in giro era eccitato quanto lui. “Vuoi sapere cos’altro ho di profondo?”
Lo stoppò mettendogli una mano sul petto, divertendosi all’espressione da bambino imbronciato che gli vide balenare nello sguardo.
Io non sarò abituato a sentirmi dir no … ma neppure tu scherzi.
“Non sei venuto qui per suonare?” Chiese fingendo perplessità. “Credevo fossi pazzo della mia collezione di archi.”
Emil lo guardò confuso ed era delizioso quando abbandonava quell’aria da delinquente di strada. Gli ricordava terribilmente il ragazzino compito che aveva visto esibirsi in Francia.
Anche se è passata acqua sotto i ponti, è ancora lì.
Era quello ad averlo convinto a rendere le armi in prima istanza. Non era però sicuro fosse più soltanto quello.
Non gli diede tempo di replicare comunque; lo tirò giù per un bacio, facendogli capire coi fatti, se non a parole, che sì, gli archi potevano aspettare.
 
“Rachmaninoff, opera 42, variazione del Tema di Corelli.”
“Un minuto intero per capirlo, maghetto. Troppo!”
“Essando un pezzo pensato per il piano, non credo proprio.”  

 
Michel sapeva il fatto suo, doveva ammetterlo. Non sapeva bene come fossero finiti a giocare a ‘indovina il pezzo’, ma dopo un sontuoso uno-contro-uno sul divano gli era sembrato doveroso usare il resto del tempo per suonare.
E infatti.
Michel, che pareva trovarsi perfettamente a suo agio con assolutamente niente addosso se non un sorriso irritante, scrollò le spalle. “Ho vinto.”
“Che problema hai con la competizione?”

“Nessuno.” Prese  una sigaretta dal suo pacchetto, pegno della gara e la accese con un guizzo della bacchetta. “Mi piace vincere.”
Milo sbuffò, riponendo il violino e poi buttandoglisi accanto. “Ancora non riesco a capacitarmi di come tu possa avere una collezione simile …” Disse per cambiare discorso. Lui aveva problemi con la competizione. Detestava perdere. “Pensavo che la Guallazzi fosse finita nelle mani di qualche ricco ciccione russo a prender polvere.”
“Prima che arrivassi tu faceva proprio questo, riccone russo a parte.” Gli fece un sorrisetto e Milo si trovò nella scomoda posizione di guardare verso le vetrinette con improvviso interesse.

Non casco come un coglione alle prime armi, bello.
“Tua nonna l’ha avuta sposandosi con uno della famiglia?”
Dirlo e sentirlo tendersi accanto a lui fu tutt’uno. “Sì.” Disse dopo aver preso un tiro dalla sigaretta. “Fu uno dei regali di nozze.”
Milo aveva imparato a leggere le intenzioni dietro la fisicità di una persona; era utile, data la vita che aveva vissuto prima di imbattersi nel principino. Michel era chiuso dove prima era aperto e rilassato, semplice da percepire.

E il motivo è sua nonna. Amara Zabini.
“Qual è la storia?” Era curioso: dietro l’essere un gigantesco stronzo snob, Michel nascondeva molto e non solo una stanza piena di strumenti prodigiosi.
Tutti i Purosangue hanno scheletri nell’armadio delle scope … Pare però che lui ne abbia una soffitta.
L’altro scosse la testa, spegnendo la sigaretta con un movimento brusco. “Non c’è nessuna storia. Da bambino spesso mio padre mi lasciava a lei. Quando sono cresciuto abbastanza per non poter più essere un peso nei salotti e alle riunioni di amici mi ha ripreso con sé.”
Alla faccia del nessuna storia.  
Non lo disse però, perché era una ferita che doveva ancora bruciare. Di quel genere di piaghe era praticamente un esperto. “Io parlavo della collezione.” Indicò con un cenno delle dita l’intero ambiente. “Regalo di nozze anche per te?”
Michel riuscì a fargli un mezzo sorriso. Si rifiutò di esserne orgoglioso. “Mia nonna viaggia molto. Voleva che la collezione restasse in un luogo fisso e ben protetto.” Fece spallucce. “O almeno penso sia questo il motivo principale per cui me l’ha affidata.”

“Una fortuna che io ti abbia rimorchiato allora. Serendipità¹!”
“Cosa?”
“Mai visto il film?”
Michel gli scoccò un’occhiata confusa quanto divertita. “No, ma sembra tanto una cosa da commedia romantica da quattro soldi.”
“Esatto. Le mie preferite.”

L’occhiata obliqua che gli venne lanciata era il preludio di una serie di domande che non tardò ad arrivare. “E invece tu? La tua storia?”
“Io non ho una collezione, maghetto. A malapena posso permettermi un violino che suoni come dico io.”
“Parlavo proprio di questo.” Occhio per occhio, pensò Milo meno in allarme di quanto avrebbe pensato. “Milo.”
Usare il suo nome era chiedere del suo passato senza dirlo ad alta voce. Doveva perlomeno plaudire alla finezza. “Nessuna storia.” Lo imitò. “Solo una considerazione… Un Magonò non riempie i teatri per farsi ascoltare.”

Sperò di aver usato la giusta dose di sarcasmo, ma non dovette venirgli tanto bene perché Michel non disse nulla, limitandosi a guardarlo. Era pronto a tirargli un pugno alla prima parola di conforto, quando realizzò che non lo stava fissando con la carità pelosa di cui spesso era stato omaggiato nei primi tempi della sua investitura da senza-bacchetta. Lo stava guardando e basta.
Era straniante.
“Ero molto legato a mia nonna.” Disse qualche momento di silenzio, cominciando a separare le frange di un cuscino con estrema precisione. “La adoravo. Mi sono avvicinato alla musica per condividerla con lei, che la amava tanto … Ma ero un bambino, e andare ai concerti a dirla tutta era piuttosto noioso, non fosse per la fauna che li frequentava.”
Milo ridacchiò, ricordando come aveva passato la sua infanzia a sgattaiolare via dalla buca dell’orchestra per scansare ammiratori impettiti e insopportabili cicisbei. Con i fratelli si era divertito molto a prendere in giro quella nobiltà che poco ascoltava e molto sfoggiava.

“È stato quando ti ho ascoltato che ho realizzato che non mi importava con chi la condividevo. Per la prima volta l’ho sentita mia. Penso sia stato il momento in cui ho realizzato che la musica mi piaceva al di là di mia nonna.”
Milo si riteneva il tipo dalla battuta più pronta che conoscesse, ma capitava a volte che gli mancassero le parole.
Tipo stavolta, eh?
 
Forse aveva esagerato.  A ben pensarci, aveva decisamente esagerato.
Michel si sentì un autentico idiota ad essersi scoperto così con un ragazzo che era ancora guardingo nei suoi confronti, almeno a livello emotivo. Non aveva idea del perché avesse detto quelle cose. Avrebbe potuto imputarle al luogo dove si trovava o al fatto che fosse in un piacevole torpore post-coitale, ma…
Ma non è solo questo.
C’era una parte di lui che voleva confidarsi con Emil. Aveva passato la sua intera vita ad erigere muri e far passare solo una clientela selezionatissima e solo fino ad un certo punto. Era stanco.
Ed Emil era lì: misterioso, sfrontato, stimolante e appassionato fino nelle fibre del suo essere a qualcosa, a tal punto da esserne trasfigurato. Una bella tentazione.
L’altro stava continuando a fissarlo in modo strano, come se dovesse decidere se alzarsi e levarsi dai piedi o rimanere lì. Poi eliminò distanza fisica e lo baciò: fu così inaspettato che Michel fu certo che gli uscì una risposta goffa.
Credo di averlo morso.
“Ti nomino mio fan numero uno.” Gli mormorò sulle labbra. “Sei anche l’unico attualmente, pensa che fortuna.”
Sì, se posso tenerti tutto per me.

Questo però si guardò bene dal dirlo, preferendo passargli le dita trai capelli corti per approfondire un secondo bacio. Fu con le mani dell’altro addosso che sentì squillare violentemente un cellulare, da qualche parte.
Da come Emil si staccò era chiaro appartenesse a lui. “Suoneria da lavoro.” Spiegò con un sorrisetto di scuse alzandosi in piedi. “Il mio lavoro a volte fa schifo.” Aggiunse, strisciando il pollice sullo schermo per rispondere. Da come aggrottò le sopracciglia era chiaro l’identità dell’interlocutore all’altro capo del filo lo avesse sorpreso. “Ehi, Ama Gillespie! A cosa devo l’onore?”
Gillespie … non è il cognome del capo della SAGITTA? Ama però non è il nome…

Non riusciva a mettere in pausa quel lato del suo cervello, purtroppo. Albus aveva ragione a dirgli che era una malattia. Lo era di certo, dato che sentì la realtà piompargli addosso quando fu costretto, suo malgrado, a sentire la conversazione. “Che vuol dire che Prince è sparito?”
Sparito?
“Ve lo siete perso? No, non so se sta alla locanda, adesso sto fuori…” Emil, al di là dei lazzi, doveva prendere molto sul serio il suo compito da come stava raccogliendo in fretta i propri vestiti. “Non ho idea di dove sia! Che diavolo è successo? No, carina.” Se era una Gillespie, possibile fosse parte dell’unità di Prince? Ed Emil le si rivolgeva così?
Evidentemente…
“ … non rifilarmi stronzate come informazioni riservate e roba del genere, perché se volete che vi dia una mano allora ditemi che cavolo avete combinato.”
… Ah. Certo. La faccenda del San Mungo. E della madre. E della destituzione.
Come agente di riferimento sapeva tutto. Aveva scritto, timbrato e approvato tutte le carte del caso, e avrebbe anche dovuto congedare ufficialmente Prince in capo alla prossima settimana – gli era arrivata una nota ministeriale appena prima di staccare.
A quanto pare Prince non ha reagito bene.
Così doveva essere dall’espressione che man mano si faceva strada sulla faccia di Emil. Ascoltò senza dire una parola la Gillespie, e poi dopo una pausa dovuta ad una domanda che riuscì a sentire – puoi aiutarci? – fece il sorrisetto che aveva imparato a riconoscere come stronzo.
“No, e andatevene a fare in culo.” E riattaccò.
Michel, che non si riteneva una persona stupida, intuì immediatamente da che parte della faccenda pendeva l’altro e si guardò bene dal fare domande. Non servì, dall’occhiata che gli venne lanciata. “Tu sei il suo agente di controllo. Sapevi di questa inculata a secco?”
Sì, e vorrei anche tirarmene fuori.
Non poteva mentire però. “Sì, ma non ero presente quando gliel’hanno detto. Cos’è successo?”
L’altro non rispose, infilandosi la maglietta e le scarpe al tempo stesso, con una certa abilità dovette ammettere.
“Prince deve sempre segnalare nel caso si allontani dalle zone geografiche concordate con il nostro e il suo Ministero. Se sai dove si trova credo che dovresti dirglielo.” Tentò.
“Per farglielo ritrovare come un animaletto smarrito?” Michel non aveva idea di che rapporto intercorresse tra Prince e Emil, ma di certo non era solo professionale. La rabbia che vedeva nell’altro era genuina, e preoccupata.

C’è qualcosa tra loro?
Non era il momento giusto per chiederglielo per quanto fosse qualcosa che voleva chiarire. “È per il suo bene.” Gli fece notare pacato. “Se dovessero arrivare ad usare la Traccia per trovarlo scatterebbe il provvedimento disciplinare.”
L’altro si morse un labbro e dovette capire la portata dell’informazione da come fece una smorfia. “Non ho la minima idea di dove possa essere andato. Conosce Londra poco e niente, può anche essersi perso in mezzo ai Babbani per quanto ne so.”
Michel prese a rivestirsi, dato che a quel punto la festa era finita e toccava anche a lui fare qualche chiamata Via Camino. “Non c’è nessuno da cui possa essere andato?”
Un Lumos dovette accendersi in testa all’altro, perché si bloccò con la mano sul pomello della porta. Mormorò un’imprecazione a mezza bocca e poi uscì.
Michel, rimasto solo, sospirò. Poteva avere una stanza tutta per sé, ma il mondo fuori non ci metteva mai molto per aprirne la porta e farsi spazio.

 
****
 
Inghilterra. Da qualche parte nel Lancashire.
 
Johannes la trovò esattamente dove pensava fosse: sotto l’ombra di un albero, seduta su una panchina ad osservare distratta il panorama attorno a sé. lesse la costola del libro che teneva in grembo e scartò il titolo, non conoscendolo.
Mitologia. Fiabe per ragazzini…
“Mia Regina.” La salutò chinando la testa e prendendo la mano che gli venne porta. “Una giornata ideale per star fuori.” Commentò. “Il giardino sta di nuovo prendendo vita sotto le vostre direzioni.”
“Sei in ritardo, avevamo un appuntamento.” Osservò con una lieve smorfia ad incresparle le labbra rosse. Johannes si era sempre chiesto se fosse solo la tinta per labbra a renderle simili ad un frutto maturo. “Spero tu abbia un buon motivo.”
“Affari mi hanno tenuto impegnato a Londra. Porto notizie però.” La blandì e si sedette quando la strega gli fece cenno di farlo; una Von Hohenheim non avrebbe mai chiesto, ma solo preteso.

Era parte dell’irritante fascino che aveva condiviso con il fratello.
“Sono certo che le interesseranno…”



****
 
Note:

Il prossimo giuro che sarà fluff a manetta! Ma sul serio!
1. Serendipità: neologismo che indica la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra. In realtà la parola pesca dalla lingua persiana, ma è cultura Babbana e ovviamente Michel non la conosce. C'è da chiedersi se non la conosca Milo. Qui per info

Qui la canzone del capitolo. La trovo particolarmente adatta!
Questa la canzone voluta da Al. Lo trovo molto un tipo da King of Convenience.

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Capitolo 28
*** Capitolo XXVII ***



 
 


And when I’ve hit the ground, neither lost nor found,
If you believe in me I’ll still believe.
(Holland Road, Mumford&Sons)
 
 
Cornovaglia, Newquay
Spiaggia di Fistral, Mattina.
 
“E quindi devo salire su questa tavola di legno, nuotare e poi tirarmi su e cavalcare un’onda  stando in equilibrio?”
Yup!
“No, col cavolo.”
“Ehi, i Babbani hanno fatto di questo sport un’arte, dagli credito!”

Scorpius fissò scettico la tavola da surf – questo era il nome - di fronte a lui, dipinta di colori sgargianti e per questo piuttosto rassicurante per il gusto cromatico di un mago. Si passò una mano trai capelli e lanciò un’occhiata a Dominique, inguainata nella stessa tuta di materiale tecnico e super-Babbano in cui anche lui aveva dovuto strizzarsi.
Tutta la faccenda era stata un’idea dell’anglofrancese: non quella di passare un finesettimana sulle spiagge della Cornovaglia ovviamente. Quella era stata sua, per staccare e passare quarantotto ore di ottime mangiate di pesce e sesso a non finire.
Il surf, quello è stata un’idea sua.
… forse ha ragione Violet. Domi non ha un cervello, ma un calderone scoppiato.
“I Babbani sono pazzi! Quale persona sana di mente cavalcherebbe un’onda?” Chiese occhieggiando le onde gonfiare la baia; da lontano, al sicuro, vedeva sia Rose che Violet leggere riviste e probabilmente sghignazzare. Ai loro piedi stava Donnola, tutto preso a masticare quella che sembrava una vecchia camera d’aria o le sue nuove scarpe da ginnastica. 
Dominique si strinse le spalle. “Ti ricordo che noi abbiamo il Quidditch. Figata quanto ti pare, ma ci spenzoliamo a decina di metri d’altezza su un bastone di legno.”
“Ma noi abbiamo la magia.” Sottolineò lanciando un’occhiata struggente alla sua fidanzata, che per tutta risposta si aggiustò gli occhiali da sole e lo salutò con la mano.
O non sa che mi sta per accadere, o forse non le importa di diventar vedova.
Saltellando per evitare che le onde gelate gli investissero i piedi tirò un lungo respiro. “E tu dici che è divertente.”
Non era una domanda, ma Dominique la prese come tale. “Sicuro che lo è!” Gli assicurò con un ghigno che faceva pensare un sacco di cose, nessuna delle quali faceva rima con ‘sanità mentale’. “Coraggio RaggioDiSole, mi diventi un cacasotto?”

“No, più che altro tengo a vedere l’alba di domani…”
 
Scorpius ti vogliono al telefono!

Sposava Rose non solo perché era la donna che amava, ma anche perché aveva il meraviglioso dono di sapere quando salvargli le chiappe.

“Arrivo!” Trillò baldanzoso raggiungendo l’ombrellone. Si chinò sull’asciugamano, dove Rose, sdraiata tra un libro e una pila di carta alta due pollici stava tenendo il suo cellulare tra due dita.
“È James. Davvero vuoi fare surf?” Chiese inarcando un sopracciglio. “Perché stai sudando freddo.”
“È la tuta, soffoca le gemme Malfoy.” Replicò, che comunque il suo orgoglio non poteva esser scalfito da una cosa triviale come il terrore di morire. Prese il telefono mentre Violet alzava gli occhi al cielo e lo fissava con l’aria di chi aveva capito benissimo il suo gioco.
“Malfuretto, chiami i tuoi testicoli gemme?” La voce di James aveva il tono incredulo di chi era incerto se scoppiare a ridere o segnalarlo al reparto Thickley.
“Sono di inestimabile valore, porteranno avanti la dinastia Malfoy.” Replicò con sussiego mentre Rose sillabava svogliata ‘Weasley’ e ‘Scordatelo’. “Che succede mio bel Potty, senti già la mia mancanza? Non preoccuparti, lunedì potrai di nuovo stringermi tra le tue braccia virili!”
“Come no coglione.” Sbuffò e dietro di lui sentiva il rumore di qualcosa di trascinato. “Senti, ho ricevuto ora un Gufo dal Ministero.”
“Non dirmi che intendono riportare il nostro povero sedere da funzionari fino a Londra per lavorare anche questo fine settimana…” Gemette buttandosi sulla sabbia con l’intenzione di scavare una buca e seppellircisi. Forse questo l’avrebbe salvato. “Ti prego.”
“Non io, bello, me ne vado in Italia a star dietro le faccende di Teddy e Ben.” Replicò e doveva essere un borsone quello che stava trascinando allora. “Ho una Passaporta Continentale per Roma tra dieci minuti.”
“Come sta la piccoletta?”

“Chiacchiera come una radio rotta.” Disse l’altro con un tono così sollevato che Scorpius dovette sorridere. Era questo che facevano gli amici. “Sta bene, per fortuna. Andiamo a Roma per cercare di sbrogliare la sua cacchio di situazione familiare.”
“Sicuro che non vuoi una mano? Perché mio padre conosce un bel po’ di gente al Ministero Italiano…”
Il grugnito imbizzarrito che ne conseguì se lo sarebbe dovuto aspettare. “Non mi servono gli agganci Malfoy per dar battaglia a un po’ di burocrazia del cazzo!”
“Non venire a piangere quando ne verrete fagocitati però.” Replicò abbracciandosi le ginocchia e scuotendo la testa quando Dominique gli mimò di chiudere la telefonata e raggiungerla: la sua scusa faceva schifo, ma non vi avrebbe comunque rinunciato. “Dai, tranquillo. Che devo fare a Londra?”

“Si tratta del Pipistrello. È successo un casino e pare che gli abbiano tolto il caso.”
“Il nostro caso? Ma come cavolo è successo?”  

“C’è di mezzo la madre. Pare che faccia comunella con John Doe e che sia viva e vegeta. Una bella botta … va da sé che gli hanno tolto il caso.” James sospirò. “Secondo papà Prince l’ha presa parecchio male. Ha lasciato il Ministero stamattina e da allora nessuno ha avuto più sue notizie. Hanno provato a contattarlo, ma zero, non risponde manco al cellulare.”
“Lo Specchio?”

“Non ha uno Specchio, è uno yankee.” Ironizzò ma essendo il libro aperto che era si capiva lontano due miglia che era preoccupato. Scorpius ricordò la conversazione avuta con Sören a Dublino; quello che avevano visto nella camera blindata lo aveva turbato.
E adesso questo. Che cazzo.
“Hanno provato a chiedere a Milo? Sono come veste e sottana quei due.”
“Prima cosa che è stata fatta … manco il Magonò sa dov’è.”

Scorpius si morse le labbra. “Okay, mi coordino con Bobby e poi ti faccio sapere.”
James fece un suono a metà tra un verso esasperato e un ennesimo sospiro. “Bobby m’ha detto di dirti che puoi goderti il fine settimana. Basta uno di voi due, prima o poi salterà fuori.”
“Siamo suoi amici, Potty, non è questo il punto e lo sai benissimo.” Replicò alzandosi in piedi e spazzolandosi via la sabbia. “Dobbiamo trovarlo.”
James fece di nuovo quel suono curioso e poté immaginarselo a passarsi una mano trai capelli. “Fa’ come ti pare, io te l’ho detto.” Borbottò. Fece una pausa poi sputò fuori. “Fammi sapere se scoprite dove cazzo è finito.” E riattaccò.
Oh, mio Potty … che coglione adorabile che sei.
Sghignazzò e poi marciò di nuovo verso le tre ragazze, ora che Dominique si era aggiunta dopo un tuffo che l’aveva lasciata bagnata come un salmone, con gran scorno di Violet che tentava di allontanarla.
“Sei piena di sabbia, sparisci!” Le gridò brandendo uno degli zoccoli di legno di Rose.
“Devi andare, vero?” Chiese quest’ultima ed era incantevole quando tentava di mettere su un’aria comprensiva per nascondere un broncio da bambina. Si accovacciò alla sua altezza per scoccarle un bacio. Nel mentre sentì il rumore del legno che colpiva qualcosa di solido, un urletto e una serie di insulti.
“Lasciami troglodita!”
Sghignazzò quando vide che Violet era stata presa senza troppe cerimonie di peso e trascinata via. “Ci vediamo quando torni RaggioDiSole!” Gridò Dominique scansando i calci della propria ragazza. “Mi devi cinque onde!”
Rose guardò con pigro interesse Violet essere buttata in acqua, poi si voltò verso di lui. “È per il caso?”

“Per Sören, glielo hanno tolto. Devo andare a controllare come sta, è della squadra.” Non si sbilanciò, perché l’argomento ‘genitori bastardi’ era sempre piuttosto delicato e poco comprensibile.
Specie per chi ha una famiglia funzionale come noi.
Rose infatti non commentò, limitandosi a togliergli con un colpetto delle dita un po’ di sabbia rimasta sulla spalla. “Va’.” Disse semplicemente.
“Non sei arrabbiata?”
L’altra scosse la testa, dandogli un colpetto sulla fronte come se fosse un cane poco sveglio. “Perché sei un buon amico? Malfoy, non sposi un’isterica.” Inarcò un sopracciglio. “Sacro vincolo Potter-Weasley ti dice qualcosa?”
Ridacchiò, dandole un secondo bacio. Rose lo trattenne appena di più accarezzandogli piano la nuca in quel modo particolare che lo faceva impazzire, e poi gli sorrise con il mare e il cielo che le coloravano gli occhi di pagliuzze dorate. Non gli era mai sembrata così sposabile. “Sei molto sposabile.” Le comunicò, perché bisognava, per esperienza, era meglio esprimere che star zitti.
“Lo spero.” Replicò divertita. “Va’ a fare il segugio.”  
Prima che se ne andasse, libero dalla guaina infernale e di nuovo con i suoi vestiti – aveva dovuto lottare fieramente con Donnola per farsi ridare la scarpa destra - l’altra lo richiamò indietro. “Chiama Lily.” Disse e alla sua espressione sorpresa fece spallucce. “Se c’è qualcuno che può trovarlo, quella è lei.”
“Ma è in Scozia con Scott, no?”
“Ti ricordo che ha attraversato un oceano nascosta nel vano bagagli di un treno per assicurarsi che stesse bene.” Assunse un’espressione rassegnata. “E da quel che ho visto le cose non sono cambiate.”
A questo proprio non poteva ribattere e una piccola parte di sé – che sarebbe sicuramente stata presa a zoccolate se Rose l’avesse saputo – ne era proprio contenta.
 
****


Scozia, Glasgow.
Ashton Lane, Ora di Pranzo.

 
A Lily Glasgow piaceva.
No, sul serio.
Non c’era niente di quella città che non apprezzasse: era ospitale e l’accento della sua gente la faceva sentire sempre di buon’umore, ricordandole Hogsmeade e Hogwarts. Le piaceva perdersi per i vicoli o passare una serata ad una delle tante rappresentazioni teatrali come cenare in un pub ascoltando musica tradizionale. Era come essere a Londra, solo senza la congestione e la dinamicità continua della capitale.
Il problema non era la città; non era neppure la compagnia di Scott, dato era il ragazzo più delizioso del mondo.   
“Insomma, vecchio mio, prima o poi qua bisogna sistemarsi!”
Il problema erano gli amici di Scott; la coppia che li ospitava, Patrick e Rita, erano cresciuti assieme al suo ragazzo e avevano frequentato Hogwarts nello stesso periodo e nella stessa Casa.

Ed erano piacevoli come un calcolo renale.
Scott si mosse accanto a lei, sul divanetto del pub nel centro di Ashton Lane a cui gli altri due li avevano invitati tenendoci ad offrirle un “vero pasto scozzese” e poi sorrise all’amico, come se non avesse appena fatto un’allusione al matrimonio pesante quanto un troll svenuto. Notando la sua faccia però fu lesto a cambiar musica. “Ehi, Pads, avevi promesso!”
“Era una battuta!” Si scusò l’altro, ma spedì un’occhiata complice alla moglie che per tutta risposta la deflesse a lei.

“ È che siete così carini assieme!”
Argh.
Tuffandosi nelle profondità della sua birra, Lily pensò che avrebbe presto chiesto una pausa gabinetto.
Un vero peccato che ho smesso di fumare due anni fa. Diamine.
Non che Patrick e Rita fossero cattive persone, tutt’altro. Erano la pubblicità manifesto della loro ex-Casa: sposati dopo un fidanzamento benedetto da chiunque, innamorati fedeli l’uno dell’altra, avevano una casa di proprietà nei sobborghi e un bambino di due anni di nome Scott di cui il suo ragazzo era il padrino.
Il tutto le faceva venir voglia di sbattere la testa contro un muro.
“Beh, risultiamo bene in foto in effetti.” Scherzò. La prima volta che li aveva presentati Scott era stato così ansioso che andassero d’accordo che aveva bruciato ogni sua possibilità di critica.
Del resto si sciroppa il mio serraglio, dove la persona più normale quando si deve ubriacare indossa mutande rosso-oro per poi potersele mettere in testa.
Merlino ti benedica, Scorpius.
“Qualcuno ha letto un buon libro di recente?” Se ne uscì, perché il tono della conversazione doveva cambiare prima che avesse un attacco di panico da responsabilità emotive – lei e Scotty stavano assieme da sei mesi, che problema avevano quei due?  
Quest’ultimo le strinse la mano sotto il tavolo intuendo il suo disagio. “Avete letto l’ultimo di Ken Follet? Cavolo se quel Babbano sa inventare!”  
Si sentiva in colpa: il suo ragazzone era sempre entusiasta e propositivo quando si trattava dei suoi amici, ma lei non riusciva a reciprocare.
Morgana, sono una mocciosa viziata. E pretenziosa. Sono brave persone!
E sono noiose come l’inferno …

Era il problema di vivere in una famiglia come la sua, con degli amici come i suoi e dove ogni cinque anni ‘qualcosa di orribile stava per accadere ai nostri eroi’. Non era abituata a sostenere conversazioni con maghi che vivevano una vita tranquilla e fatta di argomenti normali. Si sentiva tagliata fuori.
Scott riesce ad adattarsi ai miei ritmi, perché io non riesco ad adattarmi ai suoi?
Aveva chiesto all’altro un weekend di stacco totale, e ora che l’aveva non vedeva l’ora di gettarsi di nuovo nei casini.
Forse sono io, quella con un problema…
“Lily, mi accompagni a fumare?” La voce di Rita la riscosse dai suoi pensieri. “Vorrei fare quattro passi prima che arrivino le ordinazioni e dato che gli uomini si sono messi a parlare di sport…” Aggiunse ammiccando in direzione dei due ragazzi.
Non avendo un motivo per rifiutare la seguì fuori, immergendosi nella strada di casette basse e bianche, e ascoltando le mezze conversazioni che le passavano accanto.
Uff! Respiro.   
Il sollievo fu però di breve durata. “Sai, a volte penso che mi piacerebbe trasferirmi a Londra.” Iniziò Rita, che pareva non riuscire a godersi un attimo di silenzio. “Rispetto a Glasgow sembra sempre così piena di vita … e anche il quartiere magico dicono lo sia! Il nostro invece è così sonnolento, sembra qualcuno ci abbia gettato un Confundus sopra!”
“Beh, Diagon Alley ha i suoi pregi, ma alla fine sono sempre i soliti tre locali. La vostra comunità è molto più ampia. Avete un intero quartiere, noi solo due strade che si incrociano, e una non è neppure questo granché.”

È la gente che fa la differenza.
“Vero, ma sai, il fascino della City… È comprensibile che Scotty ne sia rimasto folgorato, anche se è un peccato non averlo qui.” Soggiunse accendendosi la sigaretta. “Quando è tornato da Sidney io e Paddy abbiamo pensato che tornasse a casa, invece è voluto andare a Londra. Che sapesse cosa ci avrebbe trovato?” La stuzzicò.
“Dubito, visto che ci siamo conosciuti a casa di sua zia.” Replicò sperando di risultare amichevole: capiva le intenzioni dell’altra e avrebbe dovuto sentirsi lusingata dall’esser considerata materiale da voto nuziale.
Allora perché ho solo voglia di scappare?
Sapeva che Scott rischiava di essere quello giusto; erano innamorati, si piacevano fisicamente e avevano gusti ed umorismo speculari. Forse era proprio quello il problema.
Se è quello giusto quanto ci vorrà prima che tutti comincino a comportarsi come questi due?
Io non voglio sposarmi!
“Come hai saputo che Pad era quello giusto?” Tentò per stornare di nuovo l’attenzione da sé.
“Non lo so, siamo sempre stati assime fin da bambini … un giorno l’ho guardato ed ho capito che era lui.” Si strinse le spalle, dando un tiro di sigaretta. “Non era solo il ridere e scherzare, quello l’ho sempre fatto bene anche con Scotty, era … averlo accanto in silenzio e pensare ‘questa persona è fantastica, esiste e la conosco ed è il mio migliore amico. Wow’. Non ho mai avuto quel genere di legame con nessun altro ragazzo con cui sono stata.” Le sorrise. “Ma penso che ogni ragazza prima o poi sappia che intendo.”
Lily deglutì, sentendo come se qualcosa le chiudesse la gola, partendo dal petto. Le parole di Rita erano sincere … e non le capiva. Non aveva provato niente del genere per nessuno dei suoi ragazzi.
Neppure per Scott.
“Certo.” Mormorò. “Sicuro.” Guardò la sigaretta e ringraziò Numi sparsi che fosse in dirittura di finire. “Sto morendo di fame, pensi che i nostri piatti siano già arrivati?”
Quando rientrarono scivolò accanto all’altro e non le importò dei sorrisetti sornioni dei suoi amici: lo coinvolse in un bacio più adatto ad una camera da letto che ad un pub affollato. Scott si staccò guardandola sorpreso ma compiaciuto. “Ed ecco la mia rossa ragazza inglese!” Esclamò facendoli ridere.
Solo perché non provi quello che i colombelli scozzesi provano l’un per l’altra non significa che non lo ami. Ogni rapporto è differente. Guarda Tom e Al. Si saltano alla gola ad ogni piè sospinto e …
… e sono migliori amici da quando hanno realizzato di essere al mondo. Esempio sbagliato.
Dom e Violet!
Rassicurata dall’esempio discordante riuscì a gustarsi il pranzo. Cercando poi lo specchio per controllare che la smodata quantità di prezzemolo che era nelle patate non le fosse finita tutta nei denti, trovò il cellulare e con sorpresa lesse una decina di chiamate: tre erano di Scorpius – Scorpius? – ma le altre provenivano da un numero sconosciuto.
Non è quello di Ren.
“Ragazzi, uno di voi mi ha chiamato prima, quando non riuscivamo a beccarci?” Chiese. Quando ebbe ricevuto rispose negative si preoccupò.
È successo qualcosa a Londra.
Si scusò ed uscì fuori, sorridendo rassicurante all’espressione preoccupata di Scott. Richiamò il numero e prima che potesse chiedere chi c’era all’altro capo del filo, l’interlocutore si presentò. “Zenzero, sono Milo.”
Milo? Cos’è successo a Sören?
“Ehi!” Non doveva pensare subito al peggio, magari …
Magari un corno.
“È tutto il giorno che provo a chiamarti!” E Lily ricordò di colpo di aver lasciato che Scott le silenziasse la suoneria.
“Scusami, non ho sentito, ero … lascia perdere.” Tagliò corto. “Sören sta bene?”
“Sveglia ma sbadata.” Ironizzò l’altro. “Ti pare che se stesse bene ti disturberei durante la tua piccola fuga d’amore?”
Qualcosa nel tono del ragazzo le fece capire che ce l’aveva con lei, anche se non ne capiva il motivo. “Devo tirare ad indovinare? Perché potrebbe durare molto, al telefono non sono la persona più perspicace del pianeta. Niente poteri LeNa da qua.” Ritorse perché ora era seriamente nel panico.
“Sören è scappato.”  
“Di che diavolo stai parlando? Scappato da cosa?”
Ci fu un breve silenzio, poi Milo sospirò. “La buona notizia è che non sei oca come molti pensano.” Non le diede il tempo di ribattere o offendersi che continuò. “Spero solo che l’opinione che Sören ha di te non sia offuscata dai suoi pantaloni.”

Oh, dannazione.
Decise di prendere in mano la situazione, perché un ragazzo incavolato per motivi che non conosceva si stava mettendo in mezzo tra lei e il suo migliore amico e non era una cosa tollerabile.
Spiacente cocco, ma neppure un mare, una scuola lugubre e un mago pazzoide mi hanno fatto desistere.
Figurati tu.
“La fai troppo lunga.” Sbottò. “O mi dici cos’ha Ren e come posso aiutarlo o giuro che la prossima volta che ti siederai sarà con il mio nome inciso su quelle tue chiappette d’oro.”
Ci fu una pausa, poi l’altro ridacchiò; in quel momento realizzò che la telefonata era stata pilotata fin dal principio. Milo aveva puntato a farle avere quella reazione da Mamma Orsa.
Oh, al diavolo!
“Hai finito?” Sbottò sentendosi le guance scottare.
“Zenzero, lascia fare, non ho neanche cominciato.” Le rispose prima di schiarirsi la voce. “Senti, a parte le stronzate…” Continuò tornando serio perchè era chiaro che l’argomento fosse grave. “Mi serve davvero una mano qui. Il cretino è scappato e due Ministeri lo cercano per tutta Londra. Se la cosa va avanti e diventa ufficiale non serve dirti quanto sarebbe nella merda, no?”
Sören è scappato …
No, è assurdo. Sören è un guerriero, non scappa. Mai.
Sospirò, perché non era il momento di fare quel genere di considerazioni sterili. C’era un dato di fatto e una sola domanda da fare.
“Perché è scappato?”  
 
****

Italia, Roma.
Pomeriggio.
 
L’Italia era esattamente l’incubo burocratico che Flynn Lin gli aveva prospettato. Forse pure peggio.
Ted accomodò il peso sull’ennesima scomodissima sedia dell’ennesimo scomodissimo ufficio del Ministero Italiano, situato a Roma e con più precisione sotto le Terme di Caracalla, niente meno che un imponente ex-bagno pubblico dell’epoca romana.
Proprio come il Ministero inglese. Stessa cosa…
La struttura da fuori era antica e monumentale; era infatti un museo archeologico a cielo aperto e mentre i Babbani usufruivano della parte esterna ed immediatamente interna per visite e concerti, i maghi italiani utilizzavano invece una buona porzione dei sotterranei come centro nevralgico del proprio potere.
Ted lesse per l’ennesima volta la brochure che recitava quella serie di informazioni mentre James, al suo fianco, aveva trasformato la sua in una palla informe che si divertiva a lanciare e riprendere.
“Se ci rimpallano in un altro ufficio pidocchioso urlo.” Borbottò dopo averla cestinata con una precisione da ex-Cacciatore. “È tutta la mattina che siamo qui e chissà dov’è la mensa!”
Comprendeva lo stato d’animo del compagno; appena arrivati al Centro Smistamento Passaporte – che si trovava vicino al Campidoglio, qualsiasi cosa fosse un Campidoglio – si erano diretti al Ministero, sezione Ufficio Relazioni con i Mannari. Flynn Lin aveva detto loro che lì avrebbero trovato il fascicolo di Lunastorta, il visto turistico per arrivare in Toscana e le informazioni necessarie a trovare la famiglia della bambina.

Certo, beh, pensare di andare sul posto e chiedere è stata un po’ un ingenuità da parte mia.
A che titolo avrei potuto richiedere informazioni su Lunastorta e sua moglie? Non ho neanche un documento di identità Babbano con cui farmi riconoscere.
Ad ogni buon conto, arrivati avevano avuto la brutta sorpresa di non trovare nessuna di quelle cose, bensì uno svogliato funzionario che aveva loro comunicato che per ottenerle sarebbero dovuti andare all’Ufficio Relazioni con i Babbani.
Venti svolte di corridoio dopo – e la visione di qualche fantasma che parlava solo latino e che per questo non era di alcuna utilità – si erano sentiti rispondere che il fascicolo non era lì, ma piuttosto a Cooperazione Internazionale, ovviamente, dato che si trattava di un documento che doveva esser rilasciato a due maghi stranieri.
Ma non è finita qui…
Dopo essersi arrampicati per un numero infinito di scale a chiocciola erano di nuovo stati rimpallati e nientemeno che ad una sottosezione; James, che aveva cominciato a dar segni di irrequietezza al primo rimando, per poco non aveva Schiantato il funzionario occhialuto che aveva dato loro la ferale notizia.
“Italiani … m’avevano detto che erano disorganizzati, ma così!” Brontolò quest’ultimo a denti stretti e per fortuna in inglese. “Vogliono farci crepare di vecchiaia?”
“Te l’avevo detto che ci sarebbe stato da aspettare.” Ribatté reclinando la testa sull’imbottitura durissima della sedia. “Purtroppo qui siamo dei perfetti sconosciuti con una richiesta poco urgente … Potrebbe volerci l’intera giornata. Se ci va bene.”
James fece una smorfia insofferente anche se cercò, suo malgrado, di nasconderla con uno sbadiglio: conoscendolo stava facendo i salti mortali per non dare in escandescenze.

“Jamie … perché non vai a fare quattro passi e prenderti qualcosa da mangiare?”
“No, non ti mollo qui da solo.”
Ted gli accarezzò la gamba che si muoveva convulsa da un’ora. “Non credo di correre rischi, se non quello di addormentarmi sulla sedia meno ergonomica del pianeta. Esci fuori e prendi qualcosa anche per me, dai.”

James fu lesto ad alzarsi in piedi e stiracchiandosi con un gemito soddisfatto. “Pizza?”
“Pizza sia.” Gli sorrise.
Almeno mi fossi portato un libro … O il piano studi da compilare per quelli del Settimo.
James si voltò, già pronto a sparire, quando quasi si scontrò con una donna appena uscita dalla porta dell’ufficio a cui stavano facendo la posta da un’ora: gli arrivava a malapena al petto e James fece un passo indietro forse preoccupato di travolgerla.
“Signor Lupin?” Chiese in perfetto guardando dall’uno all’altro; possedeva la stessa cadenza annoiata di tutti gli altri funzionari, ma il fatto che si fosse alzata per chiamarli era incoraggiante.  
“Sono io.”  
“Mi segua allora.” Disse spiccia sparendo dietro la porta da cui era uscita. Furono così fatti entrare dentro un ufficio spoglio, funzionale e distintamente umido – come lo era del resto tutto il Ministero. La strega, che esibiva dei notevoli capelli corti e color platino, si mise a sedere dietro la propria scrivania e Ted vi lesse il nome ‘Carlotta Tenace’.
“Si accomodi.” Lo invitò, per poi scoccare un’occhiata a James subito dietro. “Un altro parente?”
“Il mio compagno, James Potter.” Chiarì e vide un lampo di comprensione affacciarsi negli occhi della donna: forse aveva riconosciuto il cognome – anche nel Continente il nome di Harry era materiale da libro di storia, anche se in misura minore che nei paesi anglofoni.
“È qui per avere informazioni su una piccola Licantropa attualmente domiciliata in Inghilterra?” Andò subito dritta al punto. A giudicare dal pranzo lasciato a metà accanto alla scrivania pareva essersi interrotta per loro.
Chissà cos’è successo … So che per gli italiani la pausa pranzo è sacra.
“Sì.” Confermò. “Sono lo zio. Vi saranno arrivati i documenti dal San Mungo che attestano…”
“Ci sono arrivati.” Confermò. “Firmi qui per il rilascio dei documenti richiesti che, le ricordo, sono…” E li snocciolò mentre gli porgeva un plico di fogli dalla ragguardevole altezza di almeno mezzo pollice. Sentì James imprecare piano alle sue spalle.
Per fortuna sono abituato a firmare centinaia e centinaia di pergamene l’anno… I vantaggi di essere un professore.

“Ha con sé un documento di riconoscimento?”
Ted assentì tirando fuori la copia del suo certificato di nascita, l’unico documento rilasciato dal Ministero Inglese a ciascun mago.
Ho dovuto passare un intero pomeriggio in soffitta con nonna per trovarlo. E chi lo usa mai?
La strega lo prese e inforcando gli occhiali cominciò a copiare diligentemente i dati su un grosso registro di fianco a lei. Poi rilesse. “Edward John Lupin, nato a Londra il 4 aprile 1998, attualmente residente in Scozia, Hogsmeade…”
 James lo occhieggiò e fece un sogghignetto. “Eeedward.” Sillabò divertito.

Sì, grazie tante.
Scoprire alla veneranda età di diciassette anni, anno del rilascio del documento, che era stato registrato all’anagrafe sotto altro nome era stato uno degli shock più forti della sua vita; a quanto sembrava i suoi genitori non avevano calcolato che chiamandolo sempre e solo Ted avrebbero finito per far credere a tutti che quello fosse il suo vero nome. Lui compreso.
James conosceva i suoi pensieri in merito e il ghigno che gli rivolse gli fece quasi venir voglia di tirargli un calcio in un tardivo eccesso adolescenziale.  
“Sì, è tutto corretto.” Borbottò. “Ha bisogno d’altro o…”
“Che firmi.” Rispose la donna spingendo nella sua direzione penna e calamaio. Diede un’occhiata all’orologio a pendolo dietro di lei per stimare l’ora e fece un sorriso un po’ troppo largo e compiaciuto – doveva essere la punizione per averle interrotto il pranzo. “Penso dovrebbe accettare il consiglio del suo amico e farsi prendere qualcosa da mangiare. Ci metterà un po’.”

 
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.


La prima cosa che Lily notò quando atterrò nel Centro Smistamento Passaporte di Londra fu che la persona che la aspettava indossava la maglietta al contrario.
Bizzarro.
Lo era perché Milo sembrava il genere di persona che sapeva sempre cosa indossava e come gli stava.
La situazione è davvero grave allora.
Districandosi dalla tonnellata di cuscini che avevano reso più agevole il suo atterraggio si diresse verso il ragazzo. “Ehi.” La salutò dandole una mano a salire sulla piattaforma d’attesa. “Com’è andato il viaggio?”
“Schifoso come sempre.” Scrollò le spalle. “Solo perché è veloce non significa che debba essere anche piacevole. Anzi, credo che il contrario sia una condizione sine qua non.”
L’altro fece un cenno distratto con la testa, dando segno di non averla ascoltata. “Andiamo?”

Sembrava ansioso di mettersi in moto, quindi lo seguì senza troppe storie.
Ren, accidenti a te …
Era preoccupata a morte perché si rendeva conto che, dal punto di vista dell’amico, la notizia che aveva ricevuto doveva esser stata simile ad uno Schiantesimo lanciato su un costone di roccia. Soggetto a frane.
Gli hanno tolto il caso e risolvere casi è la sua terapia.
Gli hanno tolto il caso per colpa di sua madre, della sua famiglia, il nucleo duro di ogni suo problema.

Doveva essere devastato e lei non sapeva chi prendere a calci per questo.
“Hai avuto problemi a venir via?” La riscosse la voce di Milo. Lily scosse la testa. Quando aveva spiegato la situazione a Scott aveva avuto ovviamente il nulla osta; un amico in difficoltà era una maledetta buona ragione per piantare baracca e burattini e tornare a Londra. C’era solo una frase che l’aveva messa in difficoltà anche se era stata detta con le migliori intenzioni.
 
“E se non vuole essere trovato?”
Scott era la voce della razionalità ed era una cosa che aveva sempre apprezzato in lui, essendo lei una specie di Bolide traboccante impulsività e colpi di testa.

In quel momento avrebbe voluto scrollarlo forte.
“Scott, il punto non è cosa vuole lui … È chiaro che in questo momento non sa neanche cosa sta facendo!”
L’altro si era passato una mano trai capelli ed era sembrato di colpo piuttosto stanco stagliato contro la vetrina colorata del pub. “Sì, hai ragione.” Le aveva sorriso. “Spero che tu riesca a trovarlo … anche se conoscendoti non ho grossi dubbi.”

Si erano baciati e si erano salutati per il giorno dopo. Scott non aveva gradito l’esser stato messo di nuovo da parte, ma non poteva farci niente.

Certo, altra gente può cercarlo al posto mio … e può pure trovarlo. Ma è Ren. È uno dei miei più cari amici ed ha bisogno di me.
Quando Scott aveva deciso di stare con lei aveva preso tutto il pacchetto ergo doveva accettare che famiglia e amici, in certe contingenze, avevano la precedenza su qualsiasi altra cosa.
“L’ho cercato nei posti che mi ricordavo conoscesse.” Disse Milo infilandosi nell’ascensore che li avrebbe portati all’Atrio del Ministero e quindi alle uscite. “La locanda, un paio di posti in cui abbiamo bevuto o mangiato un boccone … L’ho cercato anche per quella vostra Hyde Park, perché mi ha detto che gli era piaciuta. Tra parentesi, è enorme, porco cazzo, i vostri parchi sono riserve naturali!”
Milo era stanco, sudato e con i vestiti indossati di fretta; Lily pensò che se c’era una rappresentazione di amico vero, era quella. “Non manderà a puttane niente. Ha noi.” Gli ricordò stringendo la presa sul braccio con gentilezza. “Hai la maglietta a rovescio.” Aggiunse per distrarlo. “L’etichetta è fuori.”
L’altro abbassò lo sguardo e soffocò un’imprecazione prima di togliersela e mettersela per il verso giusto.
Ah, addominali…  
“Voi tedeschi siete tutti così prestanti o tu e Sören avete un abbonamento comune in palestra?”
Io vado in palestra, il cretino ha quel suo regime folle di allenamenti … Credi che altrimenti avrebbe quel fisico?” Sbuffò riuscendo persino a sogghignare. “Non so se te lo ricordi, ma cinque anni fa era una specie di ranocchia emofiliaca.”

Lily trattenne una risatina. “Non saprei, non l’ho mai visto senza vestiti.”
Milo le scoccò un’occhiata maliziosa. “Ah no? Avrei scommesso di sì.”
Lily capì il sottointeso e mentre usciva dall’ascensore si sentì un po’ a disagio. Un po’ tanto, anche se era una conversazione che si era aspettata di dover affrontare prima o poi.
“Tra me e Sören non c’è mai stato niente in quel senso.” Chiarì. “Cioè, ho avuto una cotta mostruosa per lui, ma lo scemo era preso dal suo ruolo di anti-eroe tragico, perciò…”
Milo si bloccò in mezzo all’Atrio. “Avevi una cotta per lui?”

Lily si sentì scottare le guance: essere guardata come un unicorno che ballava la quadriglia era un po’ disagiante. “Uh, sì … una ragazza di quindici anni non fa le cose che ho fatto io se non è mossa da quel genere di pensieri … Certo, a parte il fatto che ho la tendenza a fare cretinate da sempre, quindi forse sono un caso a parte ma… ” Si accorse di star blaterando e ci diede un taglio. “Comunque non mi sembra questo il momento per parlarne.”
“E lui lo sapeva?” La ignorò.
“Beh, l’ho baciato alla festa di Natale, all’epoca fui abbastanza chiara.” Era davvero necessario tirare fuori quei ricordi?
Non è che abbiano smesso di essere umilianti.
“Per Faust …” La guardò incredulo e fece una mezza risata. “Dass ruck!” Aggiunse in tedesco rendendosi così incomprensibile. “E adesso?” Le chiese di nuovo in inglese.
“Adesso cosa?” Faceva caldo all’interno del Ministero e non vedeva l’ora di prendere uno dei Camini ed esser risputata fuori – anche se da un gabinetto, il che non era fatto piacevole.
“Adesso cosa provi per lui?”
“Tengo molto a lui.” Le venne fuori con una naturalezza. Era facile come recitare una filastrocca. “Ma non ho più quindici anni.” Aggiunse. Non voleva fare un discorso simile in dirittura di essere risputata da un gabinetto, ma Milo pareva non possedere il senso dell’opportunità. Sospirò. “Sono successe cose ed è passato del tempo … Ora sono innamorata di una persona meravigliosa e Ren è un buon amico.”
Milo la guardò in un silenzio piuttosto scomodo prima di scrollare le spalle. “Okay.” Guardò verso i camini. “Dobbiamo prendere quei cosi? Perché so che spuntano in un cesso. Io ho preso una di quelle vostre belle cabine telefoniche l’altra volta, non possiamo fare il bis?”
Lily ridacchiò. “Mi dispiace, ma è il mezzo più veloce … Vista l’ora alla cabine dei visitatori  ci sarà di sicuro una fila pazzesca e visto che sono la figlia di Harry Potter, beh, pare brutto non approfittare del canale ministeriale. Dovrai stringerti a me, okay?”

Fece appena in tempo a mettersi in fila di fronte ad un camino che in quello accanto individuò una familiare testa bionda. “Sy!” Questo si voltò sorpreso e Lily vide che era in compagnia di Bobby e di una ragazza che non conosceva ma indossava la stessa uniforme di Sören.
“Lils!” Il ragazzo ruppe la fila per andarle incontro. “Ho provato a chiamarti tutta la mattina!”
“Lo so, ed io ho provato a richiamarti, ma avevi il cellulare spento… ”
“Quando si entra qui non prende. Hai saputo?”
Allora è per Ren che ha provato a chiamarmi.
“Sì, me l’ha detto Milo.” Fece cenno verso l’altro ragazzo che replicò con un saluto generale. Lily lo vide anche scambiarsi un’occhiata con la ragazza. Doveva conoscerla.  

“E tu saresti?” Il tono sgarbato con cui la tipa le si rivolse meritò tutta la sua attenzione. Anche solo per guardarla bene: era molto attraente e molto americana. C’era qualcosa di familiare in lei e lo capì un secondo esatto prima che Scorpius le presentasse. “Ama, lei è Lily Luna … Lils, lei è…”
“Il Sergente Gillespie.” Lo anticipò; Sören gliene aveva parlato di sfuggita nelle sue lettere.

Adesso ricordo cos’ha di familiare … ha gli occhi di sua madre, Nora.
“Certo. La migliore amica dell’agente Prince.”
Quel titolo le scaldò il cuore: se la Gillespie l’aveva chiamata in quel modo significava che era Sören a chiamarcela in prima istanza. “Sono io.” Confermò. “Tranquilli, ve lo troverò in un batter d’occhio.”

L’americana la guardò come se avesse detto qualcosa di molto stupido. “Sai dove si trova in questo momento?”
Beh, ho un paio di idee in merito.
Ma l’istinto le diceva che non era il caso di sciorinarle. “No, ma conosco Londra ed è un vantaggio, non credi?”
“Se sai dove si trova devi dircelo.”
Lily si rendeva conto di avere un grosso problema con chiunque incarnasse l’autorità, che fosse un insegnante, un datore di lavoro o un arrogante agente americano.
Non gliene fregava nulla. “Non sarebbe meglio se lo trovasse un amico rispetto ad un agente incaricato di riportarlo indietro?”  

Ama Gillespie per un momento parve presa in contropiede, poi la guardò male. “Siamo tutti amici di Sören.”   
“Sono certa che sarà la prima cosa a cui penserà quando vedrà le vostre uniformi.”
Scorpius si mise in mezzo prima che l’americana potesse replicare, e bruciava dalla voglia da come era avvampata di rabbia. “Lils, vogliamo tutti la stessa cosa.” Le fece notare. “Puoi aiutarci? C’è un posto in cui pensi possa essere andato per schiarirsi le idee?”
Inspirò, cercando di calmarsi: aveva ragione, farsi la guerra non aveva il minimo senso. “Sì, c’è … o almeno, credo che sia andato lì.” Si morse le labbra. “Datemi un’ora. Se entro un’ora non riesco a farlo tornare a casa giuro che mi faccio da parte. Ma datemi un’ora per parlarci da sola.”
“Non credo proprio.” Conosceva l’americana da una manciata di minuti e già le stava sull’anima – e non pensava fosse solo per l’autoritarismo che emanava – però doveva ammettere che l’altra non sapeva un accidenti del rapporto che intercorreva tra lei e Sören. Non poteva darle fiducia se non gliene dava motivo.
E quindi diamoglielo.
Sospirò. “Sentite … parliamoci chiaro. Gli avete appena tolto un caso a cui si era dedicato con tutto se stesso. È la procedura immagino, ma dal suo punto di vista voi, che siete il suo punto di riferimento, l’avete appena rifiutato. Per giunta per colpa di una madre che neanche sapeva fosse viva. Se qualcuno deve parlargli, è meglio che non sia un uniforme.”
Quasi si sentì in colpa quando il dispiacere dell’altra ragazza la colpì come un Bolide. Era sinceramente preoccupata per Sören al di là degli ordini che dovevano averle dato.
Forse non ha tutte le cattive intenzioni che le ho attribuito.
“Non potevamo fare altrimenti.” Mormorò mordendosi le labbra e tradendo per la prima volta un’espressione facciale. “Sören lo sa.”
“Una cosa è saperlo, un’altra è accettarlo.” Replicò con tutta la gentilezza che poté. Non si sparava sulla croce rossa, come diceva sempre Tom, qualsiasi cosa volesse dire. “Datemi un’ora, okay?”

“Un’ora Potter. Ti chiamerò personalmente tra un’ora.”
“Grazie.” Fece un cenno a Milo e quello fu lesto a salutare tutti e venirle dietro.
“Wow.” Commentò quando non furono più a portata di orecchio. “Non pensavo Ama si sarebbe tirata indietro! È un osso duro.”
“Un amico è meglio di un agente, l’avrà capito anche lei.”
“Sì, ma guarda che sono amici… Lascia perdere la messinscena del pulotto incazzato.” Milo si strinse le spalle. “Se devo dirla tutta, credo che Ama provi anche qualcosa di più.”
Quasi inciampò sul ferro battuto all’ingresso del camino magico. “Hanno una storia?”

Ren non me l’aveva detto.  
Milo sbuffò. “Nah, sono due imbranati, si riparano dietro venti miliardi di scuse perché non sanno come finire a letto assieme.” Si sporse dietro la sua spalla. “Che facciamo, saliamo?”
“Sì, sì … subito.”
Hai proprio buon gusto Ren. Peccato per il carattere.
Usciti fuori estrasse la bacchetta e si voltò verso l’altro. “La reggi la Smaterializzazione?”
Milo impallidì come se gli avesse prospettato un’amputazione senza anestesia – che poi, a dirla tutta, era un rischio abbastanza concreto. “Per niente, ma immagino che sia il metodo più veloce per andare dove dobbiamo andare, ah? Non abbiamo molto tempo…”
Aveva ragione; un’ora era un lasso di tempo ridicolo per trovare un ragazzo che doveva esser stato un maestro nello sparire ai tempi della Thule.
Come al solito ti sei ficcata in una situazione più grande di te, eh Rossa?
… la storia della mia vita.
Non era il momento di farsi prendere dall’incertezza. Sören aveva bisogno di lei ed un’ora sarebbe avanzata.
“Aggrappati a me e chiudi gli occhi.”
 
****

Italia, Toscana.
Pomeriggio.

 
Avevano noleggiato una macchina ed era stato comunque il viaggio di tre ore più lungo della sua vita.
James, alla guida, si sporse per guardare fuori dal finestrino. “Ehi, non si può dire che a ‘sta Toscana manchino gli scorci panoramici, eh?” Disse indicando le colline che si susseguivano come onde e in particolare una dove si stagliava un piccolo cerchio di pittoreschi cipressi. “Sembra l’Irlanda, solo senza il clima schifoso.”
“Già.” Commentò a mezza voce guardandolo distratto, più preso a ripassare le cose che avrebbe dovuto dire agli unici parenti ancora vivi di Benedetta; Babbani, italiani e genitori della madre. I nonni.

Due persone anziane …
Non era la notizia che si era aspettato; aveva sperato in uno zio, in qualcuno di giovane e con cui sarebbe riuscito a rapportarsi meglio. Parlare a due persone che avevano già perso una figlia di come avessero rischiato di perdere la nipote non era la sua tazza di the. Per eufemizzare.
“Teddy.” La mano di James si strinse alla sua. “Andrà bene, in fondo si tratta della loro nipotina. Saranno felici di sapere che sta bene!”
“E che suo padre è morto?” Ritorse sentendosi una carogna subito dopo; James gli scoccò un’occhiata silenziosa e lasciò perdere, concentrandosi sulla strada.

Sei un idiota.
“Scusami…” Inspirò massaggiandosi la nuca, perché si sentiva un malditesta incipiente da ore. Stava per scoppiare, ne era certo. “ … questa storia mi sta facendo a pezzi.”
“Lo so.” Gli rispose abbassando la musica che usciva dalla radio; doveva averla messa per coprire il silenzio durato tutto il tragitto.

Avete passato tre ore con lui che cercava di farti parlare e te che gli borbottavi contro.
“Jamie…”
“Credo che ci siamo.” Lo interruppe indicando con un cenno della testa un gruppo di case inerpicate su una collina più imponente delle altre, quasi un altura. Anche da lontano si vedeva, tra le piccole abitazioni in muratura dai tetti rossi, un campanile; era un delizioso paesino italiano e in un’altra occasione avrebbe fatto fermare la macchina al compagno per poter fare delle foto; in quel momento voleva solo arrivarci il più in fretta possibile.  

 
James si sentiva frustrato e arrabbiato perché Ted pareva immune ad ogni tentativo di rassicurarlo: l’unica cosa che riusciva a fare era seguirlo e parlare al vuoto.
E cazzo, non è abbastanza.
Dopo aver parcheggiato fuori dalle mura della città si diressero verso il luogo dell’appuntamento e dovevano essere arrivati in anticipo perché a parte qualche turista e un paio di vecchietti che giocavano a carte, di fronte allo spiazzo della chiesa non c’era nessuno. Si sedettero così sul basso muretto che la recintava ed aspettarono.
“È bello qui.” Mormorò Ted guardandosi attorno. “C’è così tanta pace…”
“Non è un posto brutto dove crescere.” Convenne, felice di sentirlo parlare. Si accese una sigaretta e fu piuttosto deluso – e preoccupato – quando l’altro non cercò di dissuaderlo dal fumarla. “Sembra Ottery … solo, beh, senza la pioggia continua e il fango. Gli italiani sono fortunati, hanno sempre il sole!”
“Non so quanto sia vero…” Ted si interruppe e si irrigidì quando vide un uomo venir loro incontro; quando arrivò a portata d’orecchio questo li salutò con un sorriso tirato. “Salve ragazzi.” Disse e l’Incanto Traduttore non fece nessuna fatica ad operare su quella lingua. Non aveva accento o che? “Sei Ted?” Chiese poi.

Mi sa proprio che è la persona che cerchiamo.
Cercò di vedere qualche somiglianza con Benedetta, ma non ne trovò nessuna; era un uomo minuto, con pochi capelli grigi e miti occhi chiari.
No, niente … Anche perché, a dirla tutta, la piccoletta assomiglia una cifra a Teddy. Avrà preso dalla parte Lupin…
Ted si alzò, andando a stringergli la mano. “Sì, buongiorno … Lui è James.”
“Beppe.” Si presentò con semplicità. “Venite, vi porto in casa, mia moglie sta preparando la cena. Vi fermate vero?”
“Veramente non pensavamo …” Iniziò Ted, ma James fu lesto a tirargli una leggera gomitata per farlo tacere.
“Sicuro, grazie! Sarebbe un incubo farsi altre tre ore di viaggio a pancia vuota!”
Non se lo ricorda proprio come funzionano gli italiani?
Evitare la gaffe lo fece sentire un pochino più utile e per rafforzare quella sensazione  intavolò un discorso con l’anziano Babbano; Ted aveva bisogno di un attimo di respiro e diavolo, lavorando con Malfoy aveva imparato alla perfezione come dar aria alla bocca.
Dopo aver attraversato una serie di stradine talmente strette da poter essere fotografate da cima a fondo e un paio di cortili che sembravano cartoline arrivarono alla casa dell’uomo e furono accolti da una donna ancora più minuscola, nascosta dentro in un vestito che gli ricordava tremendamente quello che nonna Molly metteva ad ogni festa estiva.
“Giovanna, t’ho portato i ragazzi … questo è Ted e l’altro è James.”
Questa non disse niente e con gli occhi umidi si limitò ad abbracciarli entrambi come se li conoscesse da anni. James l’avrebbe anche baciata; Ted trovava conforto nel contatto fisico più di qualunque cosa al mondo ed essere toccato affettuosamente da qualcuno a cui credeva di aver fatto un torto era la cosa migliore che potesse capitare. Lo vide infatti rilassarsi di colpo e fu una fortuna che avesse Incantato i capelli a dovere perché la cima della testa ebbe un bagliore arancione piuttosto vitale.
“Venite a sedervi, ragazzi, sarete stanchi morti per il viaggio. Lo volete un goccio di vino?” Li accolse, manovrandoli a sedere e mettendo davanti a loro due bicchieri colmi di un denso vino rubino.
Nonna Molly italiana.
Data l’accoglienza fu più semplice per Ted schiarirsi la voce. “Mi dispiace essere piombato da voi senza preavviso … ma la situazione è stata inaspettata anche per me.” Iniziò accettando il bicchiere e dandone un sorso. “Io e il mio fratellastro … beh, non eravamo molto vicini.” Eufemizzò; ma era una buona mossa, visto che  l’ultima cosa di cui avevano bisogno quelle povere persone era sapere che la loro nipotina era nelle mani di un sostanziale sconosciuto. “Non siamo cresciuti assieme, ma … era mio fratello.” Inspirò e diede un secondo sorso che gli mandò colore alle guance.
Non regge un cazzo…
Lo pensò con affetto e fu lesto ad allontanare il bicchiere quando lo posò sul tavolo.
“Com’è morto?” Chiese l’uomo, accarezzando con dolcezza le spalle della moglie seduta. “Hai detto che è stato un incidente…”
“Incidente stradale.” Era la scusa più usata dai maghi quando si trattava di spiegare una morte ad un Babbano; in pratica era l’unica che potesse adattarsi alla rapidità con cui la magia riusciva ad ucciderti.

Anche se in questo caso si è trattata di una freccia avvelenata dei Centauri.
“Come Adriana.” Mormorò la donna. “Povero figliolo … era bravo, sai.” Sorrise appena. “Non era un chiacchierone, ma era serio e si ammazzava di lavoro. Ma era malato … una cosa …” Esitò. “Una volta ce lo spiegò, vero Beppe?” Si rivolse al marito che assunse un’espressione pensierosa. “Un malanno che si portava dietro fin da bambino mi pare.”
“Sì.” Non aggiunse altro Ted, che spiegare la Licantropia a due Babbani non era certo cose semplice. “Aveva un lavoro quindi?”

“Lavorava con me. Ho un piccolo alimentari giù in paese.” Spiegò Beppe. “Stava al bancone, mi dava una mano con le consegne.” Fece una smorfia. “Certo, lavorava quando stava bene … C’erano giorni in cui non si alzava dal letto.”
I giorni dopo il Plenilunio. Chissà come cavolo faceva con la Pozione Antilupo. Chi gliela preparava?
Non erano domande a cui avrebbero avuto risposta, non in quel contesto perlomeno. Ted inspirò e poi disse quello che aleggiava nell’aria da quando si erano presentati. “Benedetta sta bene.”  
“Mangia?” Fu l’ovvia domanda della nonna: tutte le nonne al mondo erano incaricate di chiederlo durante una conversazione sui nipoti. “È sempre stata una buona forchetta! Si sarebbe mangiata il buio!”
“Sì, anche se devo dire che la nostra cucina non è come la vostra…” Sorrise Ted.  “Purtroppo ancora non sa di suo padre … ho preferito parlare con voi prima di decidere il da farsi.”
I due anziani si guardarono, poi fu il marito a prendere la parola. “Lunastorta ci disse che tornava in Inghilterra perché c’erano delle persone che avrebbero potuto aiutarlo a rifarsi una vita là, a tirare su Benedetta …” Esitò. “Vedi, quando c’era nostra figlia le cose erano diverse. Soltanto con l’alimentari… non ci si tira avanti in quattro.” Strinse la spalla della moglie. “Veder partire Benedetta è stata dura, ma almeno sapevamo che era con il suo babbo e che stava bene.”
James guardò di sottecchi il compagno e fu certo che stessero pensando alla stessa cosa.

Le persone che dovevano aiutarlo non erano poi così affidabili se è finito a morire in una foresta.
La donna si asciugò le lacrime con un sorriso triste e prese la mano di Ted tra le sue. “Meno male che ha trovato te.” Gli sorrise con calore. “Lunastorta non ci aveva detto di avere dei parenti. Siamo stati così sollevati quando ci hai chiamato! Non ricevevamo lettere da un mese ed eravamo preoccupati, pensavamo…”
“Pensavamo giusto purtroppo.” La interruppe Beppe scuotendo la testa. “Ted, immagino perché tu sia qui.” Si passò una mano dietro la nuca e guardò fuori dalla finestra. “Ma non possiamo.”

… merda.
James capì dove il discorso voleva andare a parare; i nonni di Benedetta erano brave persone, e lo dimostrava la sincera commozione che provavano a parlare di lei come alla naturalezza con cui li avevano accolti a casa loro, due perfetti sconosciuti. Volevano bene alla nipote …
… ma non sono in grado di occuparsene. Non vogliono occuparsene.
“Siamo troppo vecchi, troppo stanchi e troppo malandati per poterci prendere cura di Benedetta.”
 
Due ore esatte dopo, con un tramonto che infuocava le colline di fronte a loro tingendole di rosa e oro, Ted guardava il panorama mozzafiato che aveva davanti e non vedeva niente.
Era un peccato, pensò assente mentre sentiva la terra umida su cui si era seduto bagnargli i pantaloni; doveva essere piovuto di recente.
L’Italia non è la terra di sole che tutti pensano che sia. Piove anche qui.
James era seduto sul cofano della macchina e lo guardava come se avesse paura di vederlo dare di matto.
Beh, in effetti è il motivo per cui ci siamo fermati. Perché ho dato di matto.
Avevano passato un’intera cena a parlare con i nonni di Benedetta; brave persone, oneste e affezionate alla nipote … ma anche Babbani e troppo anziani per occuparsi di una bambina di cinque anni.
Licantropo per giunta.
Ted sapeva di essersi comportato in maniera corretta; non aveva provato a convincerli a riprendersela facendo leva sui sensi di colpa, promettendo piuttosto di mantenere continui contatti, come di venirli a trovare. In fondo aveva sempre saputo che Ben non sarebbe tornata in Italia.
Perché non ha nessuno, qui, che può occuparsi di lei.
Una cosa era saperlo, una cosa era realizzarlo. Così, dopo un’ottima cena – che non aveva quasi toccato, ma che era stato contento di veder divorata dal compagno – si erano rimessi in strada con la certezza che nessuno lo avrebbe ostacolato nell’adozione di Benedetta.
Perché devi adottarla. Non c’è nessun altro. Tu o l’orfanotrofio.
Fatti neanche due chilometri aveva dovuto pregare James di accostare e farlo scendere. A dirla tutta, glielo aveva gridato addosso.
Se non mi molla stavolta, non mi molla più.
Nella sua visuale entrò una bottiglietta d’acqua. “Bevi qualcosa, ti farà bene.” Gli disse accovacciandosi davanti a lui e oscurando così la vista delle colline. Ma andava bene perché il viso preoccupato e bellissimo del suo ragazzino era una vista di gran lunga migliore. “Credo anche tu sia sbronzo.” Aggiunse suo malgrado divertito.
“Il vino era buono…” Mormorò vuotando la bottiglietta tiepida in poche sorsate. “… e visto che non ho mangiato niente…”
“È proprio questo il punto, scemo!” Sbuffò. “Senti…”
“Scusa.” Lo bloccò. “Scusa, mi rendo conto di comportarmi …” C’era una parola per descrivere il comportamento abominevole che aveva tenuto nei confronti dell’altro per tutta la giornata?

“Teddy, nessuno si aspetta che tu la prenda bene!”
Ted accartocciò la bottiglietta tra le mani. “Non sono pronto a fare il padre.” Sussurrò perché era quello, era tutto lì e se ne vergognava così tanto che avrebbe voluto scavarsi una fossa e nascondercisi dentro. “Non so neanche come si fa il padre, il mio non l’ho neppure conosciuto!” Doveva smetterla, perché buttare addosso le sue ansie a qualcuno che stava cercando di tranquillizzarlo era da veri egoisti. Doveva ma non ci riusciva. “Ben ha bisogno di una persona che sappia prendersi cura di lei e della sua Licantropia. Tutti i miei libri, i miei studi e le mie belle idee sui lupi mannari … A che servono con una persona vera?”  
Quando sentì uno schiaffo al lato della testa seppe di esserselo meritato. Non fu preparato però a quello che ne seguì.
“È chiaro che non sei pronto a fare il padre.” Replicò James con una calma che gli invidiò. Non c’era da stupirsi comunque: era la persona più in controllo che conoscesse, a parte le occasionali sparate testosteroniche. “Non hai avuto nove mesi per abituarti all’idea e non avrai a che fare con roba graduale tipo pappe e biberon.” Gli sorrise. “Ma sarai grandioso lo stesso.”
“Io non credo…”
Teddy.” Replicò sullo stesso tono. “Hai fatto da babysitter a me e a quei fenomeni dei miei fratellini, ed eravamo materiale incandescente. Ti occupi di mocciosi in piena crisi ormonali nove mesi l’anno … e sai più tu di Licantropia che un’intera monografia dedicata. Sei la persona giusta per Benedetta.” Gli prese il viso tra le mani e appoggiò la fronte contro la sua. Sentirne il respiro caldo lo fece sentire meglio. Molto meglio. “Andrà tutto bene.”

“Davvero?”
“Davvero. Perché ehi, non sei solo.” Inarcò le sopracciglia. “Farti fare il padre single? Scordatelo, attireresti streghe e maghi come fottuto miele!” E gli ghignò in faccia, come se potesse essere sul serio tutto semplice. Era quello il vero potere di James: semplificargli la vita.

Ed è un potere maledettamente meraviglioso.
Gli sembrava di averne abusato fin troppo in quei giorni. Lasciò andare una mezza risata. “Come farei senza di te?”
James si strinse nelle spalle. “Lo so, sono indispensabile.”
Ted ridacchiò, passandogli  una mano sulla guancia ombreggiata dalla lieve barba che non riusciva mai a togliersi del tutto perché trovava l’incantesimo di rasatura fastidioso. “Ti amo.” Era tutt’ora strano dirlo ad alta voce – neanche con Vic aveva detto quelle due parole tanto spesso intendendole davvero – ma l’imbarazzo era ripagato ogni volta dal bacio in cui veniva coinvolto. Uno di quei baci che rendevano il posto in cui erano una scenografia perfetta.
“Ti amo anch’io, sega mentale ambulante.” Borbottò dandogliene un’altro. “Forza, alza il sedere, abbiamo già perso la Passaporta delle nove, meglio trovarne un'altra prima di domattina!”
Ted obbedì guardando verso il paese che avevano appena lasciato. “Appena le cose si saranno sistemate mi piacerebbe davvero tornarci con Benedetta…” Considerò. “È così bello qui.”
James gli sorrise e non disse niente, salendo di nuovo in macchina; non ce n’era bisogno.
Era ora di tornare a casa.
 
****

Inghilterra, Londra
Camden Lock, Ora di cena.
 
Lily si Materializzò in uno dei vicoli meno frequentati di Camden; ispirò per calmare il giramento di testa e poi guardò Milo per controllare fosse ancora tutto intero. Lo era, ma si era anche accovacciato a terra con la testa tra le braccia. “Ehi, tutto bene?”
Uuugh!” Mugolò. “Quanto odio voi maghi!” Alzò la testa, pallido come gesso. “Non potevate aver inventato un incantesimo di locomozione meno schifoso?”

“Siamo delle persone orribili, lo so.” Lo consolò. “Ce la fai ad alzarti?”
“Non sono così mezza sega!” Borbottò, facendo qualche passo malfermo lungo il vicolo; a quanto pareva per un Magonò la Smaterializzazione era più dura che per un mago.
In effetti non ha magia. Viene portato più o meno come un sacco di patate…
Uscirono nel caos del quartiere, che di domenica sera era forse più movimentato e compatto che nel resto dei giorni; oppure era l’estate che faceva quell’effetto ai londinesi, chissà. Si mischiarono così alla folla multicolore di turisti, punk, artisti e gente che semplicemente ammazzava il tempo, guardandosi attorno; data la calca, trovare Sören era un obbiettivo ambizioso.
“Sei sicura che sia venuto qui?” Chiese infatti Milo con aria un po’ sconfortata. “Perché la confusione non è di certo la prima cosa che cerca quando vuole starsene per i fatti suoi.”
“Sì, lo so, ma … l’ho portato qui sabato scorso e gli era piaciuto.” Spiegò sempre meno convinta della sua scelta; dopotutto Sören le aveva detto che aveva gradito, ma ne aveva la certezza? Poteva anche averlo detto per farla contenta.
Sarebbe da lui.
No. Si era rilassato sul serio e non aveva ancora connesso con la città al punto di trovare il suo angolo in autonomia … quindi quello doveva essere il posto.
Oppure ho fatto una cretinata.
Si passò una mano trai capelli. “Assieme non riusciremo a combinare niente. Dividiamoci.”
“Sono d’accordo. Chi prima lo trova manda un messaggio all’altro, okay?”
Deciso, si divisero: Milo si infilò nello stretto tunnel che una volta ospitava l’ospedale per cavalli del quartiere, mentre Lily tirò dritto fino alla chiusa. Sporgendosi dalla balaustra del ponticello di legno passò in rassegna con attenzione ogni singolo bar e panchina. Alla fine, proprio sotto il salice piangente che li aveva ospitati una manciata di giorni prima, notò un vuoto. Il genere di vuoto causato da persone che evitavano accuratamente di passare da lì.

O è chiuso o c’è qualcosa che nessuno vuole aver vicino … oppure un incantesimo. Repello Babbanum.
Scese di corsa il ponte e scansò le persone che venivano in senso opposto.
Ren, dimmi che sei lì accidenti a te!
Era lì. Era seduto su una delle sponde e nonostante fosse ancora vestito con l’uniforme della sua unità la gente che gli passava vicino senza notarlo, rafforzando l’idea che avesse incantato il suo intero spazio vitale per non far entrare nessuno di sgradito.
Beh, peccato io sia una strega e sia immune.
Non era però immune dal dubbio; era giusto cercare di tirarlo fuori dalla sua bolla di sicurezza?
Cretina. Sai meglio di chiunque altro quanto rimanere soli con i propri casini sia … un casino.
Mandò subito un messaggio a Milo.
‘L’ho trovato, ed è da solo. Che faccio?”
‘Non fare la scema Zenzero. Va’ a parlarci.’
È una parola…
Ormai era a due passi di distanza, ma non pareva che Sören se ne fosse accorto da come continuava a fissare le acque di fronte a sé. Si sentiva stupida a restare impalata senza sapere cosa fare così prese una decisione; a volte bisognava aver coraggio anche se non ci se ne sentiva addosso neppure un’oncia.
“Lily, guarda che ti ho sentito.”
Evvabbeh però!
Fece una smorfia, affiancandoglisi. “Ciao.” Disse impacciata. “Passavo di qui…”
Ma sei cretina?!

Sören distolse lo sguardo dal canale per guardarla. Sembrava la calma incarnata, nascosto dietro tutti i bei muri che quel gran cane di Von Hohenheim l’aveva costretto a costruirsi. “È la scusa più sciocca che abbia mai sentito.”
Sciocca … dì pure demente.

Okay, sono venuta a cercarti.” Ammise e si sedette, perché ora che il Boccino era stato liberato bisognava giocare. “Ti stanno cercando tutti.”
“Lo immaginavo.” Convenne riportando lo sguardo di fronte a sé. “E già scaduta il tempo massimo per l’attivazione della Traccia?”

Lo sapevo che lo sapeva!
“No … credo manchino un paio d’ore.” Era a disagio perché anche se non la stava cacciando non le stava neanche dicendo di restare.
È come se non gliene importasse niente.
Ignaro del suo disagio Sören fece un sospiro. “Mi dispiace aver causato dei disagi.” Si puntellò su una mano facendo per alzarsi. “Suppongo ti abbiano mandato a prendermi, quindi è meglio se…”
Lo afferrò per un braccio e lo tirò giù con forza. “Uhm.” Esordì ignorando il suo sguardo sbalordito. “No.”
“No?”

“No, non ce ne dobbiamo andare per forza.” Spiegò. “Che quelli del Ministero si fottano!”
Sören la guardò quasi stesse chiedendosi a che grado di follia fosse arrivata. “Lily, perché sei qui?”  
“Perché sono tua amica e sono preoccupata per te. Milo mi ha chiamata dalla Scozia e…”
“Non saresti dovuta venire.” La fermò brusco. “Avevi degli impegni.”

“Sì, beh, non sono mai più importanti dei miei amici!”
Doveva essere stata la cosa sbagliata da dire perché l’altro si irrigidì come se gli avesse tirato uno schiaffo. “Non voglio la tua pietà.”
Razza di scemo orgoglioso!
Gli avrebbe dato un pugno in testa se fosse servito a qualcosa, ma purtroppo quando era in quelle condizioni parlarci era come tentare di sfondare un muro di gomma a testate. Così provò un approccio diverso. “Pensavo sapessi la mia lingua.” Ad un’occhiata risentita – ah! Poteva volgere a suo favore i difetti dell’altro! – sogghignò. “Ho detto amicizia, non pietà. Sono due parole diverse.”
Sören fece una smorfia. “Lo so che sono due parole diverse.”
“Bene, perché il concetto deve esserti chiaro.” Si voltò a guardarlo e come lo fece l’altro distolse lo sguardo; aveva paura che tentasse di leggerlo? Non era quello che voleva fare, gliel’aveva promesso!
“Non sono qui per farti il terzo grado…” Addolcì il tono, perché alla fine non riusciva a fare la stronza quando il suo interlocutore sembrava un cagnolino lasciato sotto la pioggia.
Come fa la gente a trovarlo minaccioso e lugubre? Voglio dire, Tom lo è. Lui è … beh, lui no.
“Sono qui perché ho pensato potessi aver voglia di parlare.” Fece un tentativo di mettergli una mano sul braccio e andò a buon fine dato che non si scostò.
Doveva saperlo però. Doveva essere certa di non stare peggiorare la situazione emotiva dell’altro. Fare di mestiere la Psicomaga non ti impediva di ferire le persone in quel modo comunque. “Se non mi vuoi attorno però me ne vado.”
Silenzio. Ed era una risposta anche se non era quella che si era aspettata; era stata una sciocca.
Non sei così speciale e indispensabile come pensi, Rossa.
“Okay.” Fece un sorriso forzato, tirando fuori il cellulare. “Allora chiamo Milo … È venuto con me e devo riportarlo indiet…” Sören non gli fece finire la frase: le prese il cellulare di mano e lo spense.
“Resta.” Mormorò passandoglielo. “Resta per favore.”
 
Aveva passato tutto il giorno ad osservare come le acque del canale fossero limacciose e quanto la gente fosse rumorosa senza un solo pensiero in testa.
Era come esser immersi nella nebbia: ricordava cos’era accaduto, cosa gli era stato detto e il risultato finale della conversazione di quella mattina, eppure non riusciva a trovarvi un senso. Non voleva. Era come se tutta quella storia fosse stato un grande, orribile scherzo dal principio.
Questo caso riconferma solo quanto non si possa nascondere il passato come sporco sotto il tappeto. Perché torna, sempre.
Lily si mosse accanto a lui, infilando il cellulare nella borsa da viaggio. “Resto, ma tra poco dobbiamo andare.” Gli fece notare. “La Traccia…”
“Non mi importa.”

Che differenza faceva se alla fine della storia avrebbe finito per consegnare il distintivo? Perché sarebbe successo, era solo questione di quanto a lungo il Capitano Gillespie avrebbe esitato prima di chiederglielo.
“Non ti importa?” La voce di Lily era incredula. “Che cavolo stai dicendo? Ti cacceresti in un mucchio di guai!”
“Non lo sono già?”
“Secondo te perché ti stanno cercando tutti? Proprio per evitarteli!” Se gli occhi avessero potuto sputare fiamme, quelli di Lily avrebbero lanciato scintille. “Quel poveraccio di Milo ha rivoltato Londra come un calzino! Io ho preso una Passaporta saltando il pranzo e…”
“Non eravate tenuti a farlo.”
Lily gli tirò un pugno sulla spalla.

 “Se dici una cosa del genere un’altra volta giuro che ti Schianto!” Sbottò. “Qui, davanti ad un trilione di Babbani!”
“Lily…” Non voleva pensare a quel che stava succedendo, ma l’amica ce lo stava trascinando. Prendersela con lei però non aveva senso dato che le aveva chiesto di rimanere. “Immagino non ti sia chiara la situazione. Ho perso il caso perché mia madre è coinvolta. Mia madre.” Sottolineò sentendo un groppo di sentimenti che aveva represso affiorare in superficie; sua madre era morta e lui non era riuscito a piangere al suo funerale.
A quanto sembrava non ce n’era bisogno.
“Sono compromesso, e non ci vorrà molto perché venga messa in discussione la mia posizione all’interno della SAGITTA.” L’uniforme gli pesava addosso e non era bastato togliersi la giacca per posarla accanto a sé. Ogni singolo bottone, alamare, cucitura, era un macigno.
Lily scosse la testa. “Eri un bambino quando ti hanno costretto a fare quelle cose … Pensavo l’avessi capito ormai, quello che hanno fatto e fanno i tuoi parenti non si ripercuote sulla tua vita!”
Era quello che amava di lei; l’incapacità di pensar male di una persona quando guardava al suo passato. Era riuscita a perdonargli cose imperdonabili e stava continuando a farlo.
Ma tu sei tu, mia Lilian. Il resto del mondo è ben diverso.
“Siamo le famiglie da cui proveniamo.” Le rispose. “Sei la persona che sei perché tuo padre è un uomo di valore, fai il lavoro che fai perché le persone che ti stanno accanto ti hanno sempre spronata ad aiutare gli altri … Non si può cancellare il sangue che ci scorre nelle vene. Io rimarrò sempre un Von Hohenheim.”
L’altra fece una smorfia esasperata; ma aveva ragione, sapeva di averla. “E Tom? Lo è anche lui, eppure è riuscito a farsi una vita!”
Sören sorrise amaramente. C’era una parte di sé che beveva le parole della sua piccola amica, sperando che fossero vere. Era quella parte che aveva sempre avuto fiducia nel futuro. Forse troppa.
“Thomas è stato adottato da una famiglia Babbana ed ha vissuto una vita normale … Difficilmente si può considerarlo altro che una vittima della follia di suo padre.” Fermò il suo tentativo di protesta. “Per me è diverso. Ho lavorato per la Thule, ho creduto nella Thule … Per la maggior parte della mia vita sono stato uno di loro e questo è una cosa che niente può cancellare. La gente non dimentica, e ora che la donna che mi ha dato alla luce è coinvolta, non lo farà di certo.”
L’altra si passò una mano trai capelli; aveva imparato che era una cosa che faceva quando era frustrata. “Credo che ti sfugga il punto dell’intera situazione.” Replicò con tono esasperato, come se stesse parlando ad un bambino testardo. “Non ti hanno tolto il caso perché non si fidano di te data la tua famiglia, te l’hanno tolto perché non si fidano della tua famiglia. Punto. L’hanno fatto per proteggerti!”
“Non è così semplice.”
Si scostò in tempo per evitare un secondo pugno. “Sta’ fermo lì!” Esclamò, quasi fosse offesa dal fatto che non fosse rimasto immobile a farsi picchiare con un sacco di stracci.

“Mi stavi per picchiare!” Obbiettò sbalordito. “Perché dovrei rimanere…”
“A subire? Già, perché?” Gli fece eco.

Ma cosa…
Capì di colpo il sottotesto. “Non sto facendo la vittima.”
“A me invece sembra di sì!”

Rimasero in silenzio per qualche minuto, sbollendo l’irritazione. Quando Lily parlò era più calma e lo era anche lui.
“Non sto dicendo che non hai ragione a stare male.” Esordì. “Quello che ti hanno fatto è orribile e ingiusto.” Gli prese una mano tra le sue, intrecciandole con una naturalezza che non avrebbe mai cessato di stupirlo; per lui il contatto fisico non sarebbe mai stato così spontaneo, tolto durante uno scontro fisico. “Ed è per questo che la gente capisce. Gli americani, Sy e Bobby non ti stanno cercando ovunque perché hanno paura che tu scappi da tua madre … ma perché sono preoccupati per te. Nora non ti ha tagliato fuori perché pensa che tu possa essere influenzato, ma perché non vuole né lei né John Doe ti prendano di mira. Ne sono sicura.”
“So badare a me stesso.” Tenere la voce ferma stava cominciando a diventare difficile perché Lily diceva cose a cui voleva credere disperatamente. E stava cominciando a farlo.
Era sempre stata brava a dargli speranza.  
“Devi capire che ti vogliamo bene e che ci fidiamo di te.” Era un po’ difficile evitare lo sguardo di Lily quando l’altra lo cercava con tanta ostinazione. Fu costretto a cedere. “Ren, sei una delle persone migliori che conosco, e ti sforzi così tanto ogni giorno per diventarlo … e lo vediamo, chiunque dotato di un grammo di cervello riesce a vederlo! Persino James!” Fece un sorrisetto. “Finge di non accorgersene solo perché è stronzo.”
Non ribatté perché ne era certo, in quel momento non avrebbe avuto controllo su qualsiasi cosa gli fosse uscita dalla bocca. Aveva passato un’intera giornata ad intorpidire ogni suo pensiero e ora facevano male. 
Ti prego, basta … non farmi crollare … Non con te.
Supponeva fosse un po’ ipocrita avere pensieri del genere e supplicare che l’altra non smettesse.
 
Sören la stava guardando: ed era quel suo sguardo da fine del mondo, quello che la faceva sentire la prima persona che l’altro incontrava dopo una vita di solitudine.
La sto imbroccando, vero? Non sto peggiorando le cose.
Perché tutta la sicurezza che dimostrava era nient’altro che paura di far danno, paura che l’altro non riuscisse a convincersi di quello che le stava dicendo e che se tornasse in America.
Non te ne puoi andare!
Era quindi il momento di tirare fuori l’artiglieria pesante. “Ren, sei la persona che mi hai promesso che sei diventata, e…”
Non riuscì a finire la frase che Sören la strinse in un abbraccio. Quando lo ricambiò sentì qualcosa di umido bagnarle la spalla, dove l’altro aveva premuto il viso. Erano lacrime. Come aveva sempre immaginato, l’amico non era tipo da pianti a dirotto o scenate isteriche; le stava semplicemente piangendo quieto sulla spalla.

Lo strinse con più forza, ispirando per evitare di seguirlo a breve distanza. “Ti voglio tanto bene, okay?” Le tremava la voce ma supponeva facesse parte del contratto. “Io, Milo, il Capitano Gillespie, Scorpius … Chiunque ti conosca finisce per volerti un gran bene. E questo dice tanto di una persona, no?”
Doveva aver passato una giornata d’inferno, chiuso nella sua testa in compagnia solo dei fantasmi del suo passato. L’avrebbe tenuto stretto finché ne avesse avuto bisogno.
Non c’era nessun altro posto, al mondo, in cui volesse stare in quel momento.
 
Supponeva che piangere addosso alla ragazza dei propri sogni non fosse il metodo migliore per dimostrarsi un uomo capace di aver cura di lei, anche se solo in veste d’amico.
Tornando lentamente alla ragione – perché era sicuro di averla persa nel momento in cui l’altra gli si era seduta accanto – la sciolse anche dall’abbraccio, cercando il proprio fazzoletto per tentare di ricomporsi.
Anche Lily aveva gli occhi rossi e questo gli diede una sensazione dolce amara alla bocca dello stomaco; non gli faceva piacere vederla piangere, ma al tempo stesso si sentiva meno stupido perché non era solo.
Le porse il fazzoletto e Lily lo accettò con un sorriso ancora un po’ lacrimoso. “Se provi a chiedermi scusa ti picchio di nuovo.” Lo avvertì, quasi avesse capito ancor prima di lui le sue intenzioni. “E poi credo di averti sbavato tutta la spalla di mascara quindi siamo pari.”
Si sorrisero e rimasero in un silenzio confortevole, di quelli che non avevano bisogno di esser riempiti con parole imbarazzate. Gli capitava di rado di averne. Lily poi gli passò un braccio attorno alla vita e gli posò la testa sulla spalla; era una persona fisica e doveva smetterla di vedere cose che non c’erano.

Le piace prendere per mano tutti i suoi amici probabilmente.
“Cosa c’è?” Chiese però quando vide con la coda dell’occhio che si stava mordendo le labbra.
“Non te ne vai adesso, vero?” C’erano momenti in cui sembrava ancora la quindicenne che aveva conosciuto. Era uno di quelli.
La strinse di rimando, preferendo riflettere prima di prometterle cose che avrebbe potuto finire per non mantenere. Decise di essere onesto. “Non c’è più motivo per cui io rimanga. Escluso dal caso devo tornare in America. Comunque vadano le cose, è la che devo tornare.”
“Ma io ho bisogno di te!”

“Se si tratta delle lezioni di auto-difesa suppongo che Dionis…”
Lily lo guardò male, quasi l’avesse offesa. “Non si tratta solo di quello! Ho bisogno del mio migliore amico qui, non ad un oceano di distanza!”
Deglutì sperando che non si notasse quanto la cosa l’avesse colpito. Forte. “Migliore…”
“Di solito la cosa è reciproca.” Lily non era poi così brava a sembrare disinvolta quando era in imbarazzo. Non se n’era mai accorto. “Io sono la tua, no?”

“Lo sei.” Una parte di sé si rendeva conto che alla loro età forse quel genere di termini erano un po’ infantile. Ma Lily li usava, quindi immaginava andasse bene. Era lei quella ad intendersi di quel genere di cose. “Ma il fatto non cambia … non posso restare qui senza lavorare ad un caso. Sono le regole.”
“Fanculo le regole!” Non c’era alcun dubbio che lei e Potter fossero fratelli.

Anche se i problemi con l’autorità credo li abbiano presi dal padre.
“Dico sul serio … non è giusto che ti taglino fuori da un caso su cui ti sei spaccato la schiena! Devi riprendertelo!”
“Sono stanco.” Era stanco di dover combattere i pregiudizi, le occhiate scoraggianti e le continue, scomode scoperte sul suo passato. “Forse dovrei davvero fare un passo indietro.”
“Sì, ma vuoi farlo?”

 
Sören era un guerriero e non perché suo zio l’aveva cresciuto per esserlo, ma perché non si arrendeva mai, neppure di fronte all’inevitabile.
Dopotutto è venuto a salvarmi con un castello in fiamme. Mica roba da tutti!
Non ci mise molto a risponderle quindi. “No.” Scosse la testa. “Voglio restare.”
Era egoista essere felice di sentirglielo dire? Forse, dato che si rendeva conto che Sören sarebbe stato più al sicuro ad un oceano di distanza da tutto quel casino.
Ma non starebbe bene. E a dirla tutta, non starei bene neanche io.
“Allora resta.” Si voltò verso di lui, sciogliendo così l’abbraccio: non fu una sensazione piacevole dato che l’altro era sempre piacevolmente caldo alla brezza della sera. “Hai ancora un po’ prima che scada il tuo visto, no? Troveremo un modo per convincere mio padre e il tuo Capitano a farti tornare a lavorare sul caso, te lo prometto!”
“Troveremo?” Inarcò le sopracciglia ed era tornato ad essere il solito saputello. Finalmente. “Lily, non serve che ti dica che non dovresti essere coinvolta…”
Blah Blah Blah. Ren, mi conosci da cinque anni. Pensi sul serio che sia capace di non impicciarmi?”

“No.” Convenne. “Sei la persona con meno senso del limite che conosco.”
“Ehi, grazie tante!” Rise tirandosi in piedi e tendendogli la mano. Quando lo vide esitare cercò di infondere fiducia nel proprio sorriso. “Dai … è ora di tornare.” Non che ne avesse voglia: fuori dalla bolla che aveva creato Ren avrebbe dovuto avvertire Milo, la Gillespie, telefonare a sua madre per dirle che avrebbe cenato a casa e chiamare Scott e scusarsi, di nuovo.

Non aveva voglia di fare nessuna di quelle cose.
Sören la prese e si tirò in piedi, prendendo la giacca. “Devi però permettermi di scusarmi per averti rovinato il weekend.”
Fece spallucce. “A dire la verità non hai rovinato granché … solo un pranzo molto imbarazzante con gente pesante come Troll svenuti.” Lo prese a braccetto. “Devo esser sincera? Mi hai tolto dalle grane!”

“Ne sono lieto.” E lo sembrava davvero da come si era illuminato.
Già, beh, dopo la scenata di gelosia che ha fatto, è ovvio che sia contento se preferisci stare con lui invece che con Scott.
Scacciò quel pensiero come una mosca fastidiosa: era comprensibile che Sören fosse geloso. Era un amico maschio e le voleva bene.
Anche James è geloso di Scott. Sarò come una sorellina o giù di lì per lui.
“Se proprio ti vuoi scusare, puoi offrirmi la cena. Ho saltato il pranzo e sto morendo di fame.” Suggerì, perché lasciarlo solo quando aveva cominciato a riprendersi sarebbe stato … beh, poco professionale. E da pessima amica. “Io scelgo il posto, tu paghi, che ne dici?”
“Dico che va bene.” Era tanto sbagliato provare orgoglio sapendo che era in grado di farlo sorridere dopo una serie di brutte notizie? Forse solo un pochino.

 
Quando andarono a riprendere Milo, che trovarono prevedibilmente fuori da un locale con una birra e uno spinello in mano, furono accolti da un largo sogghigno.
“Il bambino ha finito di fare il broncio?” Chiese come se la crisi di Sören fosse stata solo un capriccio. Forse era il metodo migliore di affrontarla perché questo parve più occupato a guardarlo male che a sentirsi a disagio all’idea che l’altro si fosse preoccupato a morte.
“Sei un idiota.” Gli disse infatti.
“Mi ferisci.” Scrollò le spalle. “Beh, torniamo alla catapecchia e tranquillizziamo il resto dei maghetti?”
“Pensavamo di andare a cena prima.” Obbiettò, ricordando come trai maghetti sopra citati ci fosse anche Ama Gillespie. Non aveva nessuna voglia di essere sgridata per non aver immediatamente segnalato la presenza dell’agente Prince alle autorità competenti.
E poi mi sta antipatica.
Milo guardò Sören e poi annuì. “Okay, andate. Me la vedo io con il carrozzone.”
“Sei sicuro?” Sören sembrava lottare tra l’esser ligio alle regole e il desiderio di starsene ben lontano.
L’altro gli diede una pacca sulla spalla. “Hai dato la tua parola alla principessina, principino. Andate a godervi il resto della serata.” Ed aggiunse qualcosa in tedesco che fece avvampare l’altro e tirarla via con una certa urgenza.
“Che ha detto?” Si informò curiosa. Che Milo stesse cercando di metterli assieme ormai l’aveva capito. Era stato un po’ difficile non notare quanto fosse sembrato esaltato all’idea che una volta avesse avuto una cotta per l’altro.
Io me ne sono accorta. Ma Sören?
“Niente.” Borbottò. “Una stupidaggine.”
Okay, se n’è accorto anche lui.
“Sta per caso cercando di metterci assieme?” Non era la prima volta che si sarebbe trovata in una situazione simile, dove un ragazzo le sponsorizzava un altro.
Certo, anche se sarebbe la prima volta che il ragazzo in questione è Ren. 

Per tutta risposa venne guardata con un orrore pari solo a quello che si poteva vedere negli occhi delle vittime di un Dissennatore. “No!” Sbottò l'altro. “Come ti viene in mente?”
“Okay, come non detto! Mi è sembrato, tutto qui.” Alzò le mani, confusa da quell’improvviso scoppio e anche un po’ irritata dall'essere considerata assolutamente raccapricciante come interesse amoroso.  
Sören scosse la testa, borbottando qualcosa di molto tedesco trai denti.
Ci volle un’intera cena e una pinta di birra per farlo tornare ad una fluente conversazione in inglese.
 
****
 
Note:

Ci ho messo di tutto, lo so. Ed ho ridotto anche, e questa la cosa terrificante. Dedico questo capitolo a Claudia, augurandole un felice, prossimo matrimonio! ;D (Lei sa chi è)

Lily sta friend-zonando Ren? Yup, lo sta facendo e no, non se ne sta rendendo conto. Credetemi, è più tonta di quanto non pensi di essere. Ma ho un’intera pletora di personaggi pronti ad aprirle gli occhi.
(Milo, metti giù la mano, grazie, ha capito il punto.)
Questa la canzone del capitolo e questa la canzone ispiratrice della scena Lily/Ren.
Nota per chi è interessato: ho ceduto al lato oscuro del fandom e mi sono fatta Tumblr. Per chi vuole e lo ha, può seguirmi qui. Non serve essere iscritti per guardare le minchiate che posto, tranquilli! ;D
 
 

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Capitolo 29
*** Capitolo XXVIII ***


Capitolo XXVIII
 
 
 
When you have a connection with someone, it really never goes away
You snap back to being important to each other because you still are.
(Orange is the New Black)
 
 
13 Luglio 2028
Ministero della Magia, Ufficio Auror. Mattina.
 
Ama non era ancora riuscita a capire se l’Inghilterra le piacesse o meno. Nel dubbio, pensava fosse una gran seccatura.
Non era interessata a scatti di carriera, né credeva nel grande sogno della cooperazione magica internazionale, per cui non trovava che aver preso una stanza in un albergo Babbano vicino al Ministero per poter aprire tutti i giorni gli occhi sul clima uggioso locale fosse poi così emozionante.
Tuttavia l’ufficio Auror era interessante: a partire dalla persona che lo dirigeva, il famoso Harry Potter, l’uomo che aveva sconfitto la morte per ben due volte, fino al fatto che fosse l’eccellenza delle forze di polizia magiche di tutta Europa.  
Dopotutto detengono la percentuale di maghi oscuri arrestati più alta del continente.
“Spero che ti troverai bene qui, Ama” La apostrofò il Sergente Weasley dopo esser venuto ad accoglierla all’entrata. “Siamo gente alla mano e la squadra di mio nipote James è composta da ragazzi in gamba.”
“Mi è stato detto.” Rispose cercando di mostrarsi cordiale mentre lo seguiva lungo gli stretti cubicoli che dividevano la sala operativa; essendo amico di sua madre non voleva essere scortese, ma la infastidiva essere considerata una ragazza prima che un agente.

E so riconoscere il tono di chi mi considera così.
“Se hai qualche dubbio o preoccupazione vieni pure da me.” Disse infatti il mago con tono paterno. Probabilmente gli ricordava sua figlia.
“Non credo ce ne sarà bisogno.” Lo seccò senza troppi sensi di colpa. Non riusciva a non ricordare come gli fosse sembrato sin troppo contento di vederla sostituire Sören.
Prince …
Era preoccupata per lui, ovviamente, anche se aveva cercato di tenere un comportamento professionale durante la sua sparizione.  
Quando l’aveva chiamatoa suo ritrovamento, le era sembrato molto più sereno rispetto a come l’aveva lasciato ed era stata contenta di scoprire che sarebbe rimasto a Londra fino alla scadenza del suo visto.
Lily Potter ha mantenuto la sua promessa. L’ha rimesso in piedi.
Non ci voleva un genio per capire che era lei la misteriosa ragazza di cui Prince si era innamorato.
È bella, intelligente senza però essere aggressiva … Il genere di ragazza per cui gli uomini perdono la testa, mia cara Ama.
Accantonò quel pensiero quando arrivò al cubicolo della squadra.
“Ragazzi, l’avete già conosciuta, comunque lei è Ama Gillespie e sarà il vostro nuovo agente di collegamento.” Venne presentata. Ama riconobbe e salutò con un cenno della testa Scorpius Malfoy e Robert Jordan mentre si presentò con un sorriso al moro in maniche di camicia rimboccate – immaginava che avendo tutti quei tatuaggi sentisse il bisogno di mostrarli – che doveva essere James Potter.
Non assomiglia molto a suo padre. Deve aver preso dal lato Weasley della famiglia.
Il ragazzo non ricambiò il sorriso. “Zio, quanti ancora ne dovremo cambiare?” Si lamentò senza degnarla di uno sguardo. “Senza offesa bella, ma dover spiegare tutto da capo…”
Il sergente aprì bocca per rispondere, ma Ama lo interruppe: sua doveva essere la mossa. “Mi permette?” Poi si rivolse al ragazzo. “Forse sei stato male informato, sono stato il vostro contatto su suolo americano. Seguo il caso sin dagli inizi. E il mio nome non è bella, ma Ama o ancora meglio Sergente Gillespie.” Sottolineò e non fu una sua impressione, vide Malfoy soffocare un ghigno.

Potter arrossì e abbasso lo sguardo. Conosceva ragazzi simili; era un ridimensionarsi fisico che iniziava dal crollo delle spalle. C’era sempre un margine di miglioramento in quelli come loro.
Non sono cattivi … solo pieni di testosterone.
“Mi scusi Sergente.” Borbottò lanciando un’occhiata all’occhiata severa dello zio. “Non era mia intenzione mancarle di rispetto.”
“L’agente Potter è giù di morale perché gli manca Sören.” Interloquì Malfoy. C’era sempre un pacificatore in una squadra e il biondo dai lineamenti sottili doveva essersi guadagnato quel ruolo.
“Che cavolo dici?!” Sbottò l’altro con aria orripilata. “Chiudi quella ciabatta Malfoy!”
“Capisco che la sua estromissione dal caso non vi abbia reso felici.” Rispose tranquilla. “Tuttavia le contingenze lo hanno reso necessario. Spero potremo lavorare bene assieme.”

Il Sergente Weasley le scoccò un’occhiata d’approvazione di cui avrebbe volentieri fatto a meno. “Bene ragazzi, conoscete la consegna. Voglio un rapporto sulla mia scrivania per il fine settimana, okay Jamie?”
“Sissignore!”   
Quando il mago più anziano se ne fu andato, Ama seppe di avere l’attenzione e la curiosità dei tre auror completamente su di sé. Era ora di entrare in scena. “Ho letto l’ultimo rapporto…”
“L’ho scritto io!” La interruppe Malfoy con l’aria di chi voleva ricevere dei complimenti. “Sai, Potty è analfabeta.”
“Ma vaffanculo.” Fu la risposta poco offesa. Potter le rivolse un’occhiata e poi parve decidere di tenderle una mano. “Sergente, qualsiasi cosa esca dalla bocca di questo cretino, a meno che non riguardi un caso, non è da prendere in considerazione.”

“Lo terrò a mente.” Rispose a tono rimediando una serie di sorrisi. Sapeva come stimolare il cameratismo se voleva.
E qui è il caso che lo faccia. Sono un’intrusa e vado a scombinare degli equilibri già formati.
“Penso che, dati gli ultimi sviuluppi, dovremo concentrarci su Sophia Von Hohenheim.” Osservò tirando fuori dalla propria borsa una serie di fascicoli ridotti, che poi distribuì ai tre. “Io e l’agente Estevez abbiamo scavato a fondo nel suo passato … sfortunatamente non abbiamo trovato molto.” Esordì con una smorfia; c’era da aspettarsi che la strega fosse un fantasma come lo era stato il fratello.  
Quella famiglia è uno scrigno di cui si è persa la chiave.
A conti fatti, Thomas Dursley e Sören erano gli unici a vivere alla luce del sole.
Malfoy aprì il fascicolo e gli occhi saltarono rapidi da una riga all’altra. “Ehi, è giovane!” Esclamò. “Quarantadue anni … e Sören quanti ne ha? Venticinque, ventiquattro?”
“Ventiquattro.” Corresse Jordan. “Quindi lo ha avuto a quanto? A diciotto anni?” Fischiò colpito. “Appena diplomata!”
“Non ha mai frequentato un Istituto magico.” Spiegò. “È stata educata in casa e non ha frequentato circoli Purosangue fino a che non si è sposata.”
“Con Elias Prince, il padre di Sören.” Le fece eco Malfoy. “Però … Potty, non mi hai raccontato tutta quella storia pazzesca sul fatto che il tizio fosse lo zio del Preside Piton?” Si rivolse a lei. “Sai, Severus Piton … uno degli eroi della battaglia di Hogwarts. Non era uno studente però. Il padre di Sören quanti anni aveva?”

“Era un vecchio.” Disse senza mezzi termini Potter, girando la sua cartellina così che potessero vederla – un po’ inutilmente – tutti. C’era una foto ritagliata da un quotidiano, che lei e Rico avevano scovato dopo aver passato un pomeriggio a spulciare tra le principali testate giornalistiche tedesce. Ritraeva una giovanissima Sophia Von Hohenheim in abito da sposa, al braccio di un mago segaligno e dall’espressione austera. “Questo tizio deve avere tipo cento anni più di lei! Ugh.” Lanciò un’occhiataccia a Malfoy. “I matrimoni tra Purosangue sono folli.”
“Ehi, non guardare me, i miei genitori hanno due anni di differenza!” Si difese l’altro un po’ seccato.
“Elias Prince era un alchimista noto in certi ambienti, ma in disgrazia a causa di vicissitudini familiari.” Li riportò in argomento. Aveva la netta impressione che per quei due fosse facile uscire dal seminato. “Von Hohenheim deve aver combinato il matrimonio con sua sorella per tenerselo al fianco. Non mi stupirei se avesse collaborato al progetto Demiurgo originario.”
Malfoy annuì e lanciò un’occhiata alla foto nel suo fascicolo. “Sören assomiglia un sacco a suo padre, eh? Stessa faccia e stessi occhi.”
“È vero.” Commentò sentendosi un po’ a disagio.

Stiamo pur sempre parlando dei suoi genitori.
Non doveva essere l’unica a pensarlo perché Jordan si schiarì la voce. “Era coinvolta in quello che facevano marito e fratello?” Chiese. “Qua non vedo nessun capo d’accusa o imputazione.”
“Perché è incensurata. Secondo le nostre indagini e fonti non ha mai partecipato né all’attività della Thule né a quelle del fratello. Ad oggi risultava morta da dodici anni.”

“Dodici anni nel nulla…” Considerò meditabondo Malfoy. Sembrava aver qualcosa in mente e a sentire i i suoi superiori – si era informata, sì - era il creativo del gruppo, quello con le idee. “Ci dev’essere un motivo per cui dopo dodici anni è voluta uscire allo scoperto. Voglio dire, è stata beccata da una telecamera di sicurezza di una banca … Per una persona che ha fatto di tutto per far perdere le proprie tracce mi sembra un errore grossolano, no?”
“Secondo me la stiamo vedendo da un’ottica sbagliata.” Interloquì Jordan. Le sue valutazioni psicologiche – sì, aveva guardato anche quelle, e quindi? – parlavano di un’intelligenza riflessiva come della capacità di saper intervenire al momento giusto mediando trai caratteri esplosivi di Potter e Malfoy. Sarebbe stato un alleato prezioso.
“Cioè?” Chiese dandogli la sua completa attenzione.
“La vera domanda è … da quanto non si sta nascondendo? Il fatto è che l’abbiamo trovata solo per via di John Doe. Nessuno l’ha mai cercata.”
“Da quando è morto Von Hohenheim, no?” Si inserì Potter. “Da quel che ci ha detto controllava la vita della sorella a tal punto da darla in sposa ad un tizio che voleva lavorasse per lui. Morto perché continuare a nascondersi?” 
Ama considerò la cosa e si trovò d’accordo. “Rimane allora da chiarire come sia venuta in contatto con il Camaleonte e l’intera faccenda del Demiurgo. Secondo la sua biografia si è sempre disinteressata dell’attività di famiglia … Cos’è cambiato?”
Potter schioccò le labbra con aria saputa. “Motivo più vecchio del mondo. Soldi. Se l’intero progetto non fosse andato in vacca … beh, pensate a quante camere blindate ci si possono riempire con gli introiti di una simile roba messa in commercio!”
“Sempre che il fine ultimo fosse la messa in commercio.” Replicò Malfoy poco convinto. “Ragazzi, stiamo parlando di qualcosa che rende un mago una specie di Bolide assassino … Nessun Ministero sano di mente autorizzerebbe la vendita o la somministrazione di una roba del genere. E non sto parlando solo del nostro, super-conservatore.” Si voltò verso di lei. “In America  siete aperti, ma così tanto?”
“No, non direi.” Confermò. “Anche se non avesse gli effetti collaterali che sta dando, una simile innovazione sarebbe accolta con enorme cautela.” Scosse la testa. “Ottenere un brevetto alla luce del sole e in tempi brevi sarebbe difficile.”
“Facciamo due calcoli.” Esordì Malfoy. “Sono anni che ci lavorano, dato che Sören era il paziente zero. Adesso però hanno dato una bella accelerata visto tutta la gente che si è ammalata … Stanno facendo le cose in grande. Credo abbiano, e scusate l’espressione, il pepe al sedere. Perché?”

Non si era sbagliata, il biondo era la mente del gruppo anche se il comando operativo era nelle mani di Potter.  
“Qualcuno ha comprato il siero.” Realizzò di colpo, ispirata dalle parole dell’altro. “O meglio, qualcuno ha comprato la ricerca sul siero.”
Malfoy schioccò le dita, con un sorriso trionfante. “Per questo hanno potuto fare le cose in grande … sperimentazioni, strumenti e l’affitto di un capannone con tanto di incantesimi protettivi. Adesso hanno i soldi. E credo ne servano un sacco per questo genere di roba, no?”

“I beni dei Von Hohenheim sono stati devoluti al Ministero tedesco. Lei non avrà niente, se non quello che è riuscita a portar via dodici anni fa … e il Camaleonte non può avere simili fondi, anche se ha camera blindate sparse ovunque. Sì, qualcuno ha finanziato il progetto Demiurgo. Si aspetterà dei risultati.”
“Già, ma non avrà un granchè, no?” Ribattè Potter confuso. “Il siero si è rivelato una schifezza … fa esplodere le persone!”

Ama esitò, mordendosi un labbro. “Staranno di certo cercando un modo per contrastarne gli effetti collaterali come stiamo facendo noi. Ci sono state altre visite di John Doe al San Mungo?”
“Non sotto i nostri occhi.” Fu pronto ad assicurare Potter. “Abbiamo messo delle telecamere di sorveglianza nelle camere delle persone malate e ci sono agenti a piantonarle giorno e notte. Stesso discorso vale per gli ingressi e il laboratorio di analisi e pozioni.”
Riflettè velocemente. “Quante persone si sono ammalate fin’ora e quante sono state portate al San Mungo?”
“Tutte quelle che si sono presentate dopo l’annuncio della Gazzetta e sono state scoperte con i sintomi sono state ricoverate. Sono circa una ventina.” Contò Jordan. “Più Henry Price e il nostro sergente, Liam Flannery. Ventidue quindi.”
“A cosa stai pensando Ama?” Chiese Malfoy mentre una ruga di preoccupazione gli solcava la fronte. Quando smetteva di sorridere il viso gli si trasformava facendolo sembrare quasi duro.
“Sto pensando che non vorranno chi si è ammalato … Hanno di certo i loro pazienti. Quel Reynard per esempio … Tutti quelli che non abbiamo noi, li hanno loro. Per questo non hanno tentato di rapire nessuno al San Mungo. Non gli servono. Sto pensando che invece potrebbero volere chi ha sviluppato un decorso della malattia diverso.”
“Il pipistrello!” Esclamà Potter prima di correggersi ad una sua occhiata perplessa. “Cioè, Prince … Prince è il paziente zero e l’unico tutt’ora immune.” Aggrottò le sopracciglia. “Significa che è in pericolo?”

Malfoy fece una smorfia. “Non necessariamente … Il fatto è che non sappiamo quanto del progetto originario conoscano. Non sono alchimisti, qualcun altro lavorerà alla parte scientifica della faccenda. Potrebbero aver trafugato la ricerca ed averla usata senza sapere del primo esperimento. Dopotutto è stato il San Mungo a scoprire che Sören era coinvolto e solo perché ha rischiato di essere infettato da Price.”
“Sì, ma stiamo parlando di sua madre … Come fa a non saperlo?” Obbiettò James incredulo.

Ama si scambiò un’occhiata con gli altri due, capendo che nutrivano gli stessi dubbi. “Non ha mai parlato di lei.”
“Non è che si ammazzi di chiacchiere.” Considerò Potter con una smorfia. “ Dobbiamo interrogarlo.” Alle occhiate che ricevette – quella di Malfoy prometteva anche il lancio di un oggetto contundente – alzò le mani in segno di difesa. “Cazzo, neanche a me piace l’idea, okay? Mi sembra di fare il bullo o roba del genere … ma che alternative abbiamo? È l’unica persona al mondo che conosce i colpevoli!” 

Ama ci mise poco a decidere il da farsi. “Gli parlerò io, ma non qui e non come agente. Interrogarlo come un civile o peggio … un sospetto … non sarebbe opportuno.”
“Sarebbe uno schifo.” Concordò Potter prima di dare una gomitata a Malfoy che lo fissava con un ghigno divertito per Dio sa quale motivo. Sembravano una vecchia coppia sposata. “Cerca di farti dire quel che sa sulla tizia. Più inquadriamo il personaggio meglio è.”

Malfoy annuì. “Intanto noi cerchiamo di capire se questo finanziatore esista e chi diavolo sia.”
 
****
 
Il Paiolo Magico. Mattina.
 
Sören si svegliò con un peso sul petto. Preoccupato che si potesse trattare di un malore fece scivolare la mano in direzione della cassa toracica, salvo trovarvi … capelli. Lunghi. E rossi.
Abbassando lo sguardo quasi lo rischiò, quell’infarto, quando notò che abbracciata a lui, dormiente, c’era nientemeno che Lily.

Cosa …
Erano entrambi vestiti, e quella era la notizia migliore che il suo povero cervello, sovraccarico di confusione e di sonno, potesse dargli.
Erano vestiti ma erano entrambi nel suo letto, alla locanda; con fatica ricordò come la sera prima l’amica avesse insistito per accompagnarlo, salvo finire per fermarsi per un the. Si erano messi a parlare sul letto dopo che Lily si era lamentata della scomodità delle poltrone e ricordava di aver chiacchierato con lei fino a tardi, di cose importanti come di nulla. Ad un certo punto, quando le tazze erano vuote e la notte ormai inoltrata, aveva cominciato a sentire le parole pesanti, così come le palpebre.
E poi mi sono addormentato. Quindi è rimasta con me?
A quanto sembrava sì: Lily indossava ancora il vestito estivo della sera prima, mentre le scarpe erano abbandonate ai piedi del letto.
Deve essersi addormentata anche lei …
Infastidita dal suo muoversi, o forse dal cambiamento del ritmo del suo respiro – ora era sveglio e piuttosto agitato – l’altra mandò un mugugno e gli si incollò addosso con più tenacia.
Per tutti gli Inferi.
Per fortuna Milo non si vedeva da nessuna parte e, a giudicare dal letto intoccato, non si era neppure preso il disturbo di tornare. Sospirò, aggiustando il peso dell’altra in modo che entrambi fossero comodi.
Cerchiamo di rimandare il momento imbarazzante principino?
Quello e il fatto che in effetti stesse bene con il corpo morbido e caldo dell’amica accanto; gli era capitato di rado di svegliarsi con una donna nel proprio letto, avendo sempre preferito incontri occasionali con ragazze il cui unico scopo della serata era divertirsi.
Senza contare che non sono materiale a cui dormire accanto. Ho incubi e grido.
Quella notte invece era trascorsa tranquilla nonostante la giornata orrenda; aveva dormito come un bambino.
Perché c’era Lilian.
Sorrise, permettendosi di sfiorarle i capelli profumati di fiori e di sole con le labbra. Lily emise un secondo mormorio incoerente facendo scivolare la propria gamba nuda tra le sue.
Era ora di alzarsi.
“Lily.” La chiamò scuotendola piano per la spalla. “Lily, svegliati.”
Tutto quello che ottenne fu uno sbuffo che gli spedì una scarica di solletico e altro in svariate, scomode, parti del corpo. Da quant’è che non entrava in intimità con una donna?
Troppo.
“Lilian.” Ripetè con fermezza. “Ho bisogno di alzarmi.”
L’altra finalmente aprì gli occhi, squadrandolo assonnata. “Che buffo.” Sentenziò. “Dormi con il balsamo per capelli addosso?”
Indeciso se scuotere la testa, alzare gli occhi al cielo o rassegnarsi al fatto di doverla spostare di peso preferì rispondere. “No. Ieri sera mi sono addormentato senza aver tempo di prepararmi per la notte.”
“Ah, già! Un momento parlavi con me di poesia provenzale e quello dopo russavi.” Sbadigliò districandolo finalmente dalla presa – piuttosto ferrea c’era da dire – in cui l’aveva avvolto. Sembrava perfettamente a suo agio nel suo letto, anche a piedi nudi, arruffata e assonnata. Era bellissima ed evidentemente irraggiungibile.
Non prova il minimo imbarazzo. Mi considera una specie di fratello putativo.
La cosa lo sconfortava quanto confortava. Era possibile? “Io non russo.” Trovò comunque giusto puntualizzare.
Lily gli servì un sorrisetto adorabile che gridava ‘a cinque anni se venivo ignorata davo fuoco alle cose’. “Sbavi sul cuscino però, lo sai?”
“No, non lo faccio.” Si passò una mano dietro la nuca, trovandola fastidiosamente appiccicosa. Aveva bisogno delle proprie abluzioni mattutine in maniera disperata, ma lo stesso doveva valere per Lily. “Hai bisogno di farti la doccia? Abbiamo il bagno privato, se vuoi.”
“No, me la faccio a casa.” Sbadigliò di nuovo. “Scusa se ti ho occupato il letto. Ho pensato di chiudere gli occhi per cinque minuti e racimolare le forze per Smaterializzarmi, ma poi… bam! Crollata.” Fece un gesto vago, mettendosi a sedere e stiracchiandosi. “È comodo però.”
“Sì, lo è e comunque non c’è problema, non sei una compagna fastidiosa.”
Si sarebbe mangiato la lingua non appena ebbe pronunciato la frase, essendo l’epitome della fraintendibilità. Da come Lily lo guardò divertita doveva essere arrossito. “Anche tu sei un ottimo compagno di letto!” Trillò allegra.

Mi sta prendendo in giro. Grandioso.
Ma quella mattina, forse per la sveglia da infarto, forse il desiderio di non fare sempre la figura dell’idiota alle prime armi, non era disposto a cedere. “Scommetto lo dici a tutti gli uomini con cui dormi assieme.”
Lily spalancò gli occhi e per un momento ebbe paura di aver esagerato prima che scoppiasse a ridere. “Ren!” Esclamò portandosi una mano al cuore nella maniera un po’ teatrale che la contraddistingueva. “Mi sento offesa nella mia fragile e ingenua femminilità!”
“Ingenua non è un termine che ti attribuirei.” Sorrise di rimando, parando con un braccio il cuscino che gli arrivò addosso. “E non sei fragile.” Aggiunse. “Non lo sei mai stata.”
Lily gli diede un colpetto sulla spalla, scuotendo la testa. “Come fai a dire cose tanto carine e tremende nel giro di due frasi?” Ma gli occhi le ridevano, quindi andava bene.

“Faccio del mio meglio.” Replicò alzandosi in piedi perché stava diventando difficile rimanere nello stesso spazio dell’altra senza volerla toccare. L’abbraccio della sera prima aveva sbloccato qualcosa e adesso gli riusciva difficile gestire il desiderio di stringerla di nuovo a sé.
È fidanzata. Con Scott Ross. Ti vede come un amico, come un fratello. Falla finita.
Lily lo imitò, raccogliendo le scarpe e saltellando per infilarsele. “Meglio che vada, i miei pensano che sia ancora in Scozia, ma ho davvero bisogno della mia doccia e di un paio di vestiti puliti.”
Sören annuì, cercando di stirare la povera camicia dell’uniforme con le dita, ma senza successo: Milo l’avrebbe ucciso per averci dormito dentro. “Allora ti accompagno…”
Un Gufo interruppe le sue parole e scusandosi con un cenno della testa andò ad accoglierlo alla finestra; portava con sé un grosso pacco che aveva l’aria di aver attraversato notevoli distanze e anche un paio di temporali. Capì subito di cosa si trattava.
È arrivato.
“Ti lascio alla posta.” Gli comunicò Lily già sul ciglio della porta. “Ci sentiamo stasera?”
“No, aspetta.” La fermò liberando il gufo dalla consegna e pagandolo con un paio di falci. “Il pacco è per te.”
L’altra battè le palpebre confusa. “Per me? Ma non aspetto niente!” Lesse qualcosa nella sua espressione perché si illuminò. “È un regalo per me?” Non gli lasciò il tempo di aprire bocca. “È da parte tua? Grazie!”
“Sì, è per te, sì è da parte mia.” Ripetè paziente, non riuscendo a reprimere il divertimento quando cominciò a girargli attorno eccitata come una bambina. “Dovresti evitare la Legimanzia con un Occlumante. Rischi un’emicrania.”
“Sciocchezze, non stavi neanche tentando di nasconderlo, sei troppo compiaciuto!” Ribattè mostrandogli la lingua. “Che cos’è?” Gli prese la scatola dalle mani e cominciò a disfarla con efficace decisione. “Il mio compleanno non è adesso, lo sai sì?”

“Non ho bisogno di un compleanno per farti un regalo spero.” Rispose senza pensarci troppo e fu sorpreso quando Lily lo guardò di sbieco ed arrossì.
… perché?
“Naturalmente non ti serve. Amo essere ricoperta di regali!” Replicò e Sören pensò di esserselo sognato.
 
Un ragazzo che ti faceva un regalo era sempre una cosa carina. Un ragazzo come Sören, che era capace di dormire con una ragazza tutta la notte senza per questo metterle neanche troppo accidentalmente le mani addosso era da sposare.
Il mio cavaliere. Beata chi se lo prende.
Non quella Gillespie però, eh.
Oltretutto quella mattina  non aveva i suoi soliti muri addosso; forse perché era sveglio da poco, forse perché la sera prima si era sfogato dopo settimane di repressione emotiva e calci nel sedere.
Qualsiasi cosa fosse, Lily gli leggeva nello sguardo quanto fosse felice di averla lì. E le piaceva, la cosa. Anche troppo, Rossa.
Diede uno strattone alla ceralacca della scatola e fece quasi saltar fuori il regalo; lo prese tra le dita, incuriosita. Era un cerchio fatto di fili intrecciati, contornato di piume di quella che sembrava un’aquila e pezzi di legno e perline. Era particolare e aveva un’aria … magica.
Sören parve intuire la sua confusione. “È un acchiappa-sogni.” Le si affiancò. “Ha una storia curiosa … è di origine indiana, forse di una delle tribù del nord-america. Gli indiani hanno tentato di convincere i Babbani che sia poco più che un insegna o una decorazione, ma nella cultura americana ha preso tutt’altro ruolo.”
“Acchiappa i sogni?” Intuì.

“Secondo i Babbani sì. La rete all’interno del cerchio di legno serve ad intrappolarli e se buoni, a mandarli verso il filo di perline.” Lo seguì con un dito, mostrandogli la fila di pietruzze colorati e lucenti.
“E quelli cattivi?”
“Nelle piume di aquila. Non li fanno uscire e scompaiono alla luce del giorno.” Fece un mezzo sorriso. “Magari è una leggenda sciocca, ma non trovi sia simile a quello che succede quando estraiamo i ricordi per vederli in un Pensatoio? Ho pensato che un guardiano simile potesse esserti utile.”
Lily sentì qualcosa pungerle negli occhi e potevano benissimo essere lucciconi; Sören non aveva preso sottogamba quello che gli aveva detto. Sören non gli aveva fatto un regalo carino che poteva sfoggiare.

Sören le aveva fatto un regalo per proteggerla.  
Cavolo, se è da lui.
Ripose l’acchiappasogni nella scatola e si voltò per abbracciarlo stretto. Era bello sentirlo subito ricambiare senza esitazioni. Non ci fu comunque bisogno di ringraziarlo, perché Sören non era uno scemo, capiva. La capiva.
“Si intona alla perfezione con i colori della mia stanza.” Ridacchiò per darsi un tono, anche se non servì a granchè dato che l’altro gli passò il proprio fazzoletto con l’aria di chi non se l’era bevuta. “Comunque non è una scusa per mollare i nostri allenamenti, vero?”
Sören scosse la testa. “No.”  Inarcò un sopracciglio in una maniera che segnalava piuttosto chiaramente quanto dietro la cortesia e gentilezza da cavalier servente ci fosse anche altro. “Sei talmente testarda che non avrei il coraggio di lasciarti nelle mani di Dionis.”
“Sono testarda con chi è più testardo di me!” Replicò, serrandosi poi la scatola al petto. “Ma grazie. Davvero.”

Sören le sorrise. “Non c’è di che.”
Lily abbassò lo sguardo per prima, intuendo che non era il caso di rimanere fermi a guardarsi in silenzio. “Allora … ci vediamo.” Si schiarì la voce. “E non andartene da nessuna parte.”
“No, resto qui.” Rispose tranquillo. “Almeno fino alla scadenza del mio visto.”
“Troveremo il modo per farti riavere quell’indagine.” E di questo era sicura, inequivocabilmente tale.

In fondo servirà a qualcosa che sia la figlia del capo dell’Ufficio Auror, no? Pressioni, ricatti emotivi?
Morgana, come mi sento Serpeverde.
Tom e Al sarebbero stati fieri di lei. Sören in compenso fece una smorfia. “Lily, non voglio che tu vada da tuo padre e gli chieda di farmi di nuovo entrare in squadra.”
“Ma…”
“Non è così che voglio lavorare.” La fermò. “Voglio lavorare al caso perché i miei superiori pensano che sia la persona adatta, non perché qualcuno ha fatto delle pressioni.” Scosse la testa. “Apprezzo l’idea, ma preferirei tu non lo facessi. Troverò un altro modo per riprendermelo.”
Onesto e retto Ren …

C’era qualcosa di adorabile, irritante e insieme affascinante nel modo in cui l’altro non era disposto a scendere a compromessi. In ogni caso, era una cosa che rispettava. “Va bene.” Annuì. “Ad Hogwarts saresti stato un perfetto Tassorosso, sai?”  
L’altro aggrottò le sopracciglia, ma si rasserenò al cambio d’argomento. “Mi risulta che la tradizione vuole che certe famiglie finiscano tutte nella stessa casa, e i Prince erano tutti a Serpeverde.”
“Beh, mica detto, guarda mio fratello Al! Tutti Grifondoro e lui il ragazzo immagine di Serpeverde!” Scosse la testa. “Fidati, sei un Tasso.”
Sören scosse la testa, facendo per dire qualcosa, ma fu interrotto dallo squillo secco del proprio cellulare. Lo prese dallo scrittoio e gli lanciò un’occhiata che non riuscì a decifrare.

Ed ecco tornati i muri.
“Devo rispondere, è Ama.”
Ama. La chiama per nome ed è una sua superiore?

Milo quindi aveva ragione: c’era del tenero e forse non era unilaterale.“Niente di preoccupante, vero?”
Scosse la testa con un lieve sorriso. Era contento della chiamata? “No, credo voglia solo assicurarsi che stia bene. Il messaggio di ieri non deve averla convinta.”
Era contento della chiamata.
“Fa’ pure!” Esclamò con entusiasmo. “Devo andare comunque, sul serio, prima che mi diano per dispersa e non è proprio il caso che accada, ti pare? Ti chiamo questo pomeriggio per decidere un piano d’azione e anche il prossimo allenamento. Salutamela!” Non gli diede il tempo di rispondere che infilò la porta e tirò dritto per le scale.
Wow, non avevo mai detto tante parole senza respirare. Imbarazzante. L’ho praticamente aggredito.
Riflettendoci, avrebbe dovuto essere grata all’agente americana di averle dato modo di congedarsi senza indugiare troppo nello strano imbarazzo che si era insinuato nelle ultime battute della conversazione.
Non le era grata per niente.
 
Sören rispose al telefono con la distinta sensazione che qualcosa di poco piacevole fosse accaduto. Certe sensazioni facevano parte del suo lavoro.
Anche quando non sono in servizio.
“Ama.” Salutò comunque cercando di suonare cordiale. “Buongiorno.”
L’altra fu veloce a sospirare segnalandogli come non si fosse sbagliato. “Ehi. Come stai?”

“Bene … meglio.” Si corresse. “Va meglio.”
“Hai già fatto colazione? Perché sto uscendo adesso dal Ministero ed avrei bisogno di parlarti.”
“A proposito del caso?” Non ci girò attorno. Lui e Ama non avevano il tipo di rapporto che portava ad offrire inviti a colazione tanto naturalmente.

Specie visto ciò che è successo alla festa per la tua partenza.
“Sören, mi dispiace … so che hai bisogno…”
“Ama, non c’è problema, se posso collaborare lo faccio volentieri.” La fermò perché era stanco di esser trattato con la delicatezza riservata ad un malato terminale. Lily era l’unica che non l’avesse fatto.

Mi ha picchiato.
Sorrise al ricordo. Concordarono così un punto di ritrovo e di trovarsi sul posto di lì a mezz’ora. Chiusa la chiamata sospirò; aveva bisogno di una doccia, vestiti puliti e di tutta la calma che Lily gli aveva lasciato.
 
****

Diagon Alley, mattina.
 
Ama aveva sempre adorato sua madre; nonostante la morte di suo padre e il dolore che ne era conseguito era riuscita a tirarla su da sola, lavorando al tempo stesso per farsi un nome all’interno del Dipartimento che non fosse la vedova Gillespie. Ama era fiera di essere la figlia di Eleanor Gillespie e non avrebbe cambiato quel titolo per nulla al mondo.
Per questo non riusciva a non provare disagio all’idea di interrogare Sören a proposito di Sophia Von Hohenheim.
Si tratta di sua madre, dannazione.
Lo vide arrivare alla caffetteria a cui avevano deciso di darsi appuntamento in perfetto orario; era sempre strano vederlo in borghese. Lo faceva sembrare più giovane.
E vulnerabile.
“Ciao.” Salutò impacciata, maledendosi per essere rimasta in uniforme. Ricordava ancora le parole di Lily Potter e per quanto fossero state seccanti, contenevano verità.
Non vorrà vedere un’uniforme.
Nonostante le sue supposizioni, Sören le sorrise tranquillo. “Vogliamo sederci?”
Scelsero così uno dei tavoli fuori e l’altro le scostò la sedia con un gesto naturale.

“Ti hanno mai detto che sei l’unico mago della nostra età a farlo?” Ironizzò e fu contenta di vedere un lampo divertito nello sguardo dell’altro.
“Sì, più volte, ma non mi importa … Mi è stato insegnato che una donna merita certe attenzioni.” Replicò prima di sedersi accanto a lei. Non guardò il menù e tirò invece fuori le sigarette, accendendosene una.
Ama capì che non aveva intenzione di aspettare così andò dritta al punto. “Abbiamo fatto delle indagini su tua madre …” Non vi furono reazioni particolari e sperò che fosse un buon segno.
“ … ho bisogno di farti delle domande. Se non ti senti a tuo agio, lo capisco e…”
“Come ti ho detto, voglio collaborare.” La stupì. La stupiva sempre notare quanto l’altro fosse in controllo della propria emotività, ma in quel momento sembrava davvero tranquillo. Rassegnato, in parte, ma non gli si agitava nulla nello sguardo, nulla che parlasse di sofferenza.

Cos’è riuscita a fare Lily Potter?
Era invidiosa: chiunque riuscisse a dare serenità ad un uomo in quel modo doveva essere una strega ambita.
“Temo però di non poterti essere di grande aiuto.” Soggiunse dando un tiro alla sigaretta e buttando il fumo dal lato opposto al suo. “Io e mia madre abbiamo vissuto vite parallele finchè non è …” Si fermò e fece una smorfia. “… finchè non ha finto la sua morte.”
“Avevi dodici anni, vero?”
“Sì, ero studente a Durmstrang.” Annuì. “La notizia della sua morte non mi colse impreparato … era ammalata da tempo. Mio zio diceva che la mia nascita aveva indebolito la sua salute.”
Quel figlio di puttana gli dava la colpa della malattia di sua madre?!

Si controllò a stento mentre l’altro continuava. “Certo, adesso mi chiedo se fosse vero o fosse solo una messinscena per preparare la sua sparizione.” Girò un paio di volte l’anello che aveva al dito; glielo aveva visto far spesso durante i casi più ostici e doveva essere il suo modo di tenere le mani occupate. “Dopotutto l’unico modo per sfuggire al controllo di mio zio e ai tentacoli della Thule era la morte.”
“Frequentava John Doe quando eri bambino?”
Sören aggrottò le sopracciglia. “Johannes era sempre in casa nostra, ma mia madre aveva un’intera ala del castello dedicata solo a lei e non usciva mai. Era raro che avesse contatti ad eccezione dei Guaritori e delle sue cameriere.”
“Adesso però stanno lavorando assieme.” Gli fece notare, indicando con un cenno la propria ordinazione alla cameriera. Sören ordinò un caffè allo stesso modo e ripresero a parlare non appena la ragazza se ne fu andata. “Collaborando, almeno.”
“Sì, ma non so quali siano i rapporti tra loro due … non li ho mai visti assieme.”

Ama si morse un labbro: doveva immaginare che Sören non avesse molte informazioni.
Non pensavo però così poche.
“Tua madre è mai sembrata interessata alle attività di tuo zio?”
“No. Come ho detto, usciva di rado dai suoi appartamenti.” Schiacciò la sigaretta nel posacenere quando arrivò la colazione e attaccò il bricco del caffè senza toccare il resto. “Mio zio non permetteva scendesse quando avevamo ospiti.”
“Perché?”

La guardò preso in contropiede prima di realizzare qualcosa e sorridere amaro. “Odiava non avere controllo sulle persone che lo circondavano e mia madre…” Si lasciò andare sulla sedia, fissando assorto la tazza di caffè scuro. “Aveva un’indole drammatica. La mettevano in crisi le piccole cose … mio zio sosteneva che la malattia avesse minato anche la sua psiche.” Scosse la testa. “Anche questa poteva però essere benissimo una recita. Comunque, non voleva averla attorno.”
“Ma tu potevi visitarla, vero?” Quella non era una domanda pertinente al caso ma non era riuscita a frenarsi dal farla.  

“Potevo, sì.” E non aggiunse altro. Ama capì che non era il caso di scavare in quella direzione e cambiò strada.
“Pensi che sappia che sei il paziente zero?”
“Dubito. Immagino sappia degli esperimenti che mi sono stati fatti, ma non credo sappia quali.”
“E il Camaleonte?”
“Era un tirapiedi. Alto nella scala gerarchica perché era alle dirette dipendenze della mia famiglia, ma un tirapiedi, nient’altro. Non ha mai capito nulla di Alchimia o Magia Oscura.”
“Quindi come hanno trovato le ricerche del siero?”
“Non ne ho idea.” Rimase pensieroso per poco prima di rispondere; era evidente che quella domanda se la fosse già fatta. “Immagino che abbia avuto accesso a parte di esse quando mio zio era ancora vivo e le abbia trafugate.” Fece un sorriso sarcastico. “Sarebbe da lui.”
“Quindi credi che ci sia qualcuno ad aiutarli?”

“È probabile. Johannes non è un leader, è un gregario. Ha bisogno di qualcuno da seguire e se mia madre non ha le conoscenze operative va da sé che le hanno cercate altrove.”
“Dove?”
“Non lo so.”

Ama rimase in silenzio assorbendo le informazioni che aveva appena ricevuto. Alla fine sospirò. “Dovremo metterti sotto sorveglianza … per la tua stessa incolumità.” Aggiunse quando lo vide adombrarsi.  
Sören la guardò poi così lungo che fu costretta a frenare la lingua per non chiedergli di piantarla. Riusciva a metterla in imbarazzo come pochi maghi al mondo. “Sì, lo capisco.” Disse infine bevendo un altro sorso di caffè. “Vi comunicherò i miei spostamenti giornalieri ogni mattina.”
“Perfetto.” Convenne passandogli il taccuino; aveva capito che prima diceva le cose all’altro meglio era. “Intanto inizia da quelli di questo pomeriggio.”

Sören battè le palpebre, poi fece un mezzo sorriso. “Grazie.”
“ … per cosa?”
“Per preoccuparti.” Sembrò imbarazzato quanto lei mentre prendeva la penna cominciando a scrivere. “So che ieri facevi parte delle ricerche, me l’ha detto Lily.”
“Non volevo ti mettessi nei guai.” Rispose brusca. Ancora quella ragazzina di mezzo. Decise di giocare in attacco, perché era ciò che era più brava a fare. “È lei, vero? La strega di cui sei innamorato.”
Sören alzò lo sguardo di scatto, con un’espressione di puro panico dipinta in volto. “Chi te l’ha detto?”
Mio Dio, è così trasparente.

“È chiaro da come ne parli.” Scrollò le spalle. “E dal fatto che ieri mi ha quasi Schiantata quando le ho detto di farsi da parte.”
Vederlo avvampare fu la capitale conferma. A volte le sembrava di avere a che fare con un ragazzino ai primi anni di scuola e non con un ex-sicario di un’organizzazione spietata. Forse, da un lato, era così.

“È fidanzata con un ragazzo di Glasgow.”
Oh.

Quella era la prima buona notizia della giornata. “Mi dispiace.” Dissimulò. “Non hai mai provato a dirle cosa provi?”
Sören sembrava stare sui carboni ardenti, ma doveva essere ancora in modalità interrogatorio dato che le rispose automaticamente. “C’è troppa storia tra di noi … A volte le persone che desideri non sono quelle giuste per te. E viceversa, tu non sei giusto per loro.”

“Sì, conosco la sensazione.” Era la prima volta che parlavano così apertamente e Ama pensò che non era male. Erano entrambi persone chiuse, non c’era dubbio, ma Milo aveva ragione: si somigliavano. “Quindi progetti di rimanerle fedele fino alla fine dei tuoi giorni?” Sapeva di non aver peli sulla lingua ma sembrava che quel tipo di approccio funzionasse con la ritrosia naturale dell’altro.
“In che senso?”

“Non parlo di rapporti occasionali … parlo di una relazione vera, con qualcun altro. Non dirmi che non ci hai mai pensato!”
Sören la guardò esitante. “Per essere in una relazione bisogna essere innamorati della persona con cui la si ha ed io…”
“Sì, questo l’ho capito.” Lo bloccò. “Ma le relazioni si costruiscono giorno per giorno. Anche iniziando da un primo appuntamento.”

Forse non era il momento adatto per tirar fuori quel genere di idee. O forse sì; distrarlo dalla sua situazione era la cosa migliore da fare, quello che avrebbe dovuto fare un’amica.
Ed io non sarò la tua Lily, ma non sono poi da buttare.
Quando vide che il messaggio non era giunto a destinazione, sbuffò. “Prince, ti sto chiedendo di uscire.” Un ennesimo rifiuto sarebbe stato umiliante, ma non era mai stata tipa da arrendersi alla prima difficoltà.
L’altro la guardò come se fosse appena sceso da un albero dopo una piena durata anni. “Ma la sera della mia partenza hai detto …”
Uomini.
“La sera della tua partenza ero ubriaca e mi avevi appena rifiutata. Avevi colpito il mio amor proprio.” Gli fece notare pragmatica. “Pensi che a qualcuno del Dipartimento importerebbe se uscissimo assieme? Basta che non lo sbandieriamo ai quattro venti.” Inarcò le sopracciglia sentendo il cuore battere spiacevolmente. “Certo, sempre che tu ne abbia voglia.”
Sören le piantò di nuovo addosso quei maledetti occhi scuri; forse in certi contesti era pure piacevole, ma al momento la facevano sentire una cretina. “Posso pensarci?” Le chiese. “Al momento non sono in grado di prendere decisioni sulla mia vita personale.”
Quello poteva capirlo. Annuì. “Non metterci troppo però. Non tutti hanno la tua tenacia nelle relazioni.”  

Sören le sorrise, alzandosi in piedi e scostandole la sedia per farla passare. “Te lo prometto.”
Era già qualcosa.
 
****
 
Londra, San Mungo.
Mattina.

 
“Dovrei essere lì dentro.”
Ted si rendeva conto di aver ripetuto quella frase almeno una ventina di volte negli ultimi dieci minuti, ma non riusciva ad impedirsi di farlo. Fortunatamente con lui, fuori dalla porta e in attesa che i servizi sociali finissero di parlare con Benedetta, c’era una persona che sembravano capir bene la sua ansia, e per questo lo lasciava giustamente cuocere nel suo brodo. Sua nonna.

Lanciò quindi un’occhiata alla strega, che pareva persa nei suoi pensieri. “Nonna, quanto pensi che ci metteranno?” Mugugnò regredendo definitivamente allo stadio di un cinquenne fastidioso.  
“La valutazione psicologica di un bambino può essere lunga, specialmente se riguarda una bambina timida come Ben. Non mi è sembrata una chiacchierona.” Osservò pacata. “E no ragazzo, per la ventesima volta, non potevi entrare lì dentro. Devono valutare come ha reagito a quello che ha passato e come sta affrontando le novità e devono farlo senza una persona che possa influenzarla.”
“Ha solo sei anni.”
“Quindi sa parlare.” Gli fece notare stringendogli il polso con affetto; era grato che fosse venuta a tenergli metaforicamente la mano. Si rendeva conto di non farcela da solo, e lo realizzava ogni volta che James andava al lavoro.

Sono davvero così debole?
Non aveva mai reagito bene alle situazioni inaspettate e tutta quella faccenda l’aveva colpito come un fulmine a ciel sereno. Cercare aiuto negli altri non gli sembrava sbagliato ma, ancora, le sue percezioni erano completamente fuori assetto.
“Dovrai pensare a costruirle qualcosa di simile alla Stamberga Strillante.” Lo riscosse. “Per i giorni di Plenilunio.”
“È ancora piccola … la sua forza e resistenza non sono quelle di un Mannaro adulto.” Obbiettò. “Per adesso basterà una porta molto robusta e sbarre alle finestre.” Fece una smorfia. Non gli piaceva l’idea di rinchiudere una bambina così piccola in un luogo simile ad una prigione, per quanto avrebbe fatto di tutto per non farlo sembrar tale. “Con James abbiamo pensato di usare delle barriere magiche, ma i Mannari sono piuttosto resistenti alla magia e c’è il rischio che non reggano.”

Sua nonna annuì. “In quella casa enorme avete abbastanza stanze per darle sia una camera sia un rifugio.”
“Sì, non è il caso che sia lo stesso posto. Non voglio che pensi che …” Scosse la testa, passandosi una mano trai capelli. “… non so neanche come Lunastorta gestiva il Plenilunio con lei.”
“Le stava vicino, probabilmente.” Fece un sorriso breve, dandogli un’altra stretta al braccio. “Alla fine è tutto qui, ragazzo. Ben ha bisogno di qualcuno che le voglia bene.”
“Lo so.” E già gliene voleva. Era terrorizzato dall’intera faccenda, ma non riusciva a non sentire una piccola stilla di felicità all’idea di non essere più l’unico Lupin rimasto al mondo. Ben condivideva con lui parte dei geni di suo padre.  

Riuscirò a farlo bastare per esserle utile?
Guardò lo Specchio Comunicante per vedere se dall’ultimo messaggio che si era scambiato con il compagno era arrivato altro.
Starà lavorando, piantala di fare la mogliettina ansiosa.
James era una roccia in mezzo ad un mare in tempesta e non riusciva a farne a meno.
Ed ha il suo lavoro e i suoi doveri. Falla finita.
Sua nonna, non volendo, indovinò il percorso dei suoi pensieri. “Jamie passa?”
“Se riesce … a quanto pare hanno cambiato l’agente di collegamento americano, sai, per il caso congiunto a cui stanno lavorando.”
“Quello che occupa perennemente la prima pagina del Profeta? Il Demiurgo? Il caso dell’anno.” Rispose con un sorrisetto. “C’è da non crederci … non avrei mai pensato che quella zucca vuota avrebbe finito per diventare un membro responsabile della nostra comunità.”
“James è sempre stato una persona responsabile.” Ritorse protettivo. “Per le cose importanti.”
Sua nonna sbuffò, dandogli una pacca sulla spalla quasi volesse concordare senza dirlo ad alta voce. “Sono contenta che ci sia lui.” Disse poi. “Vi fate del bene a vicenda, Teddy, ed è questa la cosa più importante … è quello di cui ha bisogno quella ragazzina.”

Ted le sorrise di rimando, stringendole la mano che gli aveva porto; sua nonna era un’eremita per indole e storia familiare, ma quando era il momento c’era sempre.
La porta della stanza di Ben si aprì e quando ne uscì fuori l’assistente sociale e Flynn Linn – presente come funzionario dell’ufficio Mannari – scattò in piedi e non se ne vergognò affatto.

“Professor Lupin.” Lo apostrofò l’uomo con un sorriso cordiale. Non riuscì comunque a tranquillizzarlo: non aveva mai visto di buon occhio quella figure, avendoci avuto a che fare un paio di volte ad Hogwarts a causa di qualche studente con una situazione familiare difficile. Quello di Assistenza Sociale era un ufficio sorto dopo la caduta di Voldemort e anche se in linea teorica era uno sportello per la gioventù in difficoltà, in pratica era spesso una spina nel fianco di Hogwarts e dei genitori. 
“Ben come sta?”
“Sta bene, Lupin, stai sereno.” Rispose Flynn con un sorrisetto. “È diventata una chiacchierona, eh?”
Ted sospirò di sollievo, felice che la bambina non si fosse bloccata di fronte ad uno sconosciuto, specie considerando che il suddetto doveva valutarne le capacità sociali.
“Benedetta è una bambina molto intelligente.” Disse l’uomo facendo sparire dentro la borsa una serie di pergamene. “Sono certo che imparerà in fretta la nostra lingua.”
“Significa…” Non voleva dirlo ad alta voce, diviso tra la speranza e il terrore che la portassero via.

“Voglio dire che, valutando il caso, il vostro grado di parentela, la situazione familiare che ha in Italia e il fatto che le si sia già affezionata, la scelta sensata è affidarla alle sue cure.” L’uomo fermò il suo tentativo di ringraziarlo alzando una mano. “Questo non significa che la procedura d’adozione sarà immediata. Ci sarà un mese di prova, dove vi visiteremo settimanalmente, concordando un giorno e con la possibilità di visite a sorpresa. Nei prossimi giorni, con l’aiuto della Dottoressa Flynn, eseguiremo una perizia sulla vostra casa e i dintorni, per essere sicuri che sia l’ambiente ottimale per far crescere Benedetta.”
“Certo, non c’è problema.” Fu veloce ad assentire. Avrebbe tollerato persino uno di quei funzionari insopportabili perennemente in soggiorno pur di portarla a casa. “Significa che … posso portarla con me?”

“Non appena il San Mungo deciderà per le sue dimissioni.” Convenne il mago. “Si ricordi di concordare l’appuntamento con il nostro ufficio per questa settimana.”
Si salutarono e Flynn, prima di andarsene lo prese da una parte. “Splendore, lo sai che adesso devi spiegare alla piccoletta perché viene a casa con te, vero?”
“Sì, ovvio e…”
“Devi dirgli di suo padre.”
Non c’era accusa nel tono della strega ma era chiaro che si era aspettata di vedere Benedetta già informata. Inspirò, annuendo. “Sì, avrei dovuto dirglielo, ma ho passato tutto ieri a venire a patti con il fatto che la avrò nella mia vita da oggi in poi.” Fece un sorriso mesto. “Mi sto comportando come un idiota, me ne rendo conto.”
“Nah, come un padre novello.” Gli strizzò l’occhio. “Ricordati solo che non devi mirare a sostituire tuo fratello, okay?”

“Okay.”
Ora viene la parte più difficile.

Avrebbe voluto essere miglia da lì, ma l’istinto di correre via non poteva fermarlo dal fare quel che era giusto. Non più. Sua nonna gli si avvicinò una volta che entrambi i ministeriali furono andati via. “Vuoi che venga dentro con te?”
Scosse la testa. “No, è una cosa che devo fare da solo. Ho tergiversato troppo a lungo … è ora che Benedetta abbia le sue risposte.”

 
****
 
Londra, Ministero della magia, Dipartimento di Cooperazione Magica Internazionale
Ufficio Internazionale della Legge Magica, Ora di pranzo.
 
Michel sobbalzò quando sentì un discreto bussare alla porta. Considerando che i suoi nervi erano di nuovo  in uno stato pietoso, avrebbe dovuto aspettarselo.
“Avanti.” Disse la sua collega senza preoccuparsi dell’occhiata linciante che le lanciò; ormai aveva imparato ad ignorarlo come un ragazzino fastidioso ed umorale.
E non ha tutti i torti, mio buon Mike.
“Permesso!” Salutò Albus. Lo sorprese: non si sarebbe aspettato una sua visita a breve, considerando che l’aveva ignorato doverosamente dopo l’ultima chiamata ricevuta. “Buongiorno Hilary!” Salutò con un gran sorriso la megera, che come al solito pareva felicissima di potersi rifare gli occhi su uno dei suoi amici.
Loki, Sy e Al … Le piacciono giovani.
“Ciao Mike.” Lo salutò infilandosi le mani nelle tasche con aria imbarazzata. Doveva aver intuito che la chiamata fatta per Prince era il pomo della discordia, ma sapeva alla perfezione come ammorbidirlo; lo dimostrava il fatto che per una volta si fosse vestito in maniera coordinata e fosse entrato con l’espressione più adorabile del suo repertorio.
Piccola serpe manipolatrice …
“Sono occupato, hai qualcosa da dirmi?” Replicò sostenuto, che un minimo di dignità doveva mantenerla.  
“Sì, chiederti scusa.” Andò subito dritto al punto, sedendosi di fronte alla scrivania. “Mi rendo conto di aver oltrepassato una linea con la chiamata per Sören e … scusa?” Si morse appena un labbro. “Lo sai come divento quando viene messa in mezzo la mia famiglia.”
“Da quando Prince è parte della tua famiglia?”

Si strinse le spalle. “È parte di quella di Tom.”
Già. Dovevo immaginarlo.
“È vero, sono cugini.” Asserì distratto, fingendo che i documenti sulla sua scrivania avessero tutta la sua attenzione. Era improbabile che l’amico ci credesse, ma tanto valeva mantenere la facciata.
Beh, visto che ci sei e Al sembra tanto informato su Prince … Sfrutta la cosa, dopo pranzo deve chiamarti Ethan Scott.
“Tom finalmente lo ha riconosciuto come tale?” Chiese quindi.
“Dice di no, ma secondo me sì.” Fece un mezzo sorriso. “Si preoccupa per lui … a modo suo, ovvio, però ne è incuriosito. E sai com’è Tom quando diventa curioso…”
“Di solito qualcuno rischia la propria incolumità…”

“Piantala!” Ridacchiò, rilassandosi sullo schienale della sedia. “Anche Sören comunque … beh, lo pensavo una persona un po’ diversa. È più portato al contatto con le persone di quanto credessi. Si è fatto amico Scorpius…”
“E di chi non è amico Scorpius?”
Al fece spallucce. “Sì, ma anche il resto della squadra lo ha preso a benvolere, così come mio padre. Persino Jamie pare esserci rimasto male quando è stato estromesso dal caso.” 

Michel alzò lo sguardo dalle carte. “A questo proposito, come sta reagendo alle notizie?”
“A parte il fatto che è scappato per quasi dodici ore? Lily dice che è scosso, ma che ha deciso di rimanere e riprendersi il caso.”
“Davvero?”

Al annuì. “Pare che l’abbia presa molto sul personale.” Si strinse nelle spalle, giocherellando con i lacci della felpa monocromatica che indossava – un po’ larga, quindi certamente di Tom. “È comprensibile … del resto è coinvolta sua madre che si è finta morta per anni.”
“Per questo motivo dovrebbe starsene lontano.”

Al scosse la testa. “Per questo vuole rimanere.” Inarcò le sopracciglia. “Ma tu queste cose, come suo collegamento ministeriale, non le sai?”
“Io e Prince abbiamo rapporti strettamente professionali.” Replicò tranquillo. “Non siamo amici … di certo non si confida con me come può farlo con tua sorella.”
Al fece una smorfia, grattandosi la nuca con aria pensosa. “Sono tornati ad essere fodero e bacchetta, quei due …”
“Sviluppi romantici in vista?”

Certo che Prince è monotematico … e a quanto pare, anche la piccola Potter.
“Nah, Lils è pazza di Scott.” Lo liquidò per poi alzarsi in piedi e battere leggermente le nocche sul tavolo. “Dai, basta chiacchiere … ti porto a pranzo fuori!”
“Ho da…”
Al si esibì in uno di quei suoi sorrisi radiosi, da dipinto preraffaellita a cui era assolutamente impossibile resistere, almeno per quanto lo riguardava. “Non accetto un no come risposta.”
“Sei fastidioso.” Riuscì a borbottare prendendo la giacca e facendo cenno alla propria collega che usciva. “Perché mi circondo di gente fastidiosa?”

Lo prese a braccetto e gli mostrò la lingua. “Mi pare ovvio. Perché adori essere infastidito.”
 
Albus sapeva come ammorbidirlo. Portarlo nel suo bistrot preferito nella Londra Babbana e ottenere il tavolo migliore grazie ad una serie combinata di sorrisi e occhiate incantevoli al proprietario per poi annunciare che il pranzo era offerto da lui … beh, era avere in mano la chiave del suo cuore.  
“Sai come viziarmi pulcino.” Dichiarò vinto mentre spiegava il fazzoletto sulle ginocchia. “Sei perdonato.”
Al non nascose la sua soddisfazione. “Sono stato bravo, eh?”

“Sei un manipolatore nato e ne rivendico la paternità.”
“E ne hai tutto il diritto” Gli sorrise squadernando il menù. “Dai, ordina tutto quello che vuoi!”
“Posso ordinare te?” Lo stuzzicò ed era divertente vederlo avvampare nonostante tutti gli anni di indefesso e infruttuoso corteggiamento.

Quando si dice avere il cuore da un’altra parte … Dursley lo tiene ben stretto nelle sue grinfie.
Ma era una cosa con cui era venuto a patti da tempo, e non faceva più così male. Al si schiarì la voce, lanciandogli poi un’occhiata di sottecchi. “Come va con Milo?”
Fare una smorfia fu automatico. “Non ne ho idea …” Non gli andava di parlare di quello, ma non poteva biasimare Albus per essere curioso.
Gli hai fatto capire che sei preso da quel dannato idiota. E da quanto non eri preso così da qualcuno?
“… pensavo ci fossimo avvicinati ieri. Abbiamo passato il pomeriggio assieme e … abbiamo parlato.” Sfogliò distratto le pagine del menù. “Gli ho raccontato di mia nonna.”
“Non racconti a nessuno di tua nonna!” Aggrottò le sopracciglia. “Neanche a me.”
Michel sbuffò. “La tua gelosia è deliziosa quanto sospetta pulcino, ma sì, è vero.” Si sentiva uno sciocco ad essersi lasciato andare; Milo non aveva neanche pensato di ricambiarlo, preferendo scappare per andare a cercare quella spina nel fianco che era Prince. “Ho seguito quel tuo stupido consiglio… sull’aprirmi quando sentivo che avevo davanti la persona giusta. Non ha funzionato.”  

Al lo sguardò con aria stupita. “Sì, sembra proprio una cosa che direi … ma quando te l’ho detto?”  
“Quando pensavi che fossi innamorato di Mael.”
“Ma è stato anni fa!”
“Ho una buona memoria.” Ritorse imbarazzato.

Sì, mi ricordo dei consigli che mi dai anche se sembra che non ti ascolti. Stupido Potter.
Al gli sorrise, per fortuna senza dir niente. Apprezzava la sua capacità di esser discreto talvolta.
Raramente.
“E quindi?” Lo incalzò sorseggiando il vino poco convinto: non l’avrebbe mai portato nel meraviglioso mondo dell’alcool Babbano, purtroppo. Al era nato e sarebbe morto mago. “Lui che ha fatto?”
“Mi ha ascoltato, non ha ricambiato.”  
Al rimase in silenzio per qualche attimo e quando arrivarono le portate fissò la propria ordinazione con ancora più concentrazione. Non si rendeva conto di aver ormai assunto la stessa capacità di Dursley di sembrare inquietante quando era assorto. “Devi insistere.” Se ne uscì infine. “Deve aver avuto una storia personale assurda, se è finito a fare da assistente a Sören. E prima ancora era uno dei servitori di Von Hohenheim … voglio dire, non so cosa facesse prima, ma penso abbia imparato a tenersi stretti i suoi segreti. Non deve aver avuto una vita facile.”
Da stella dei teatri a sguattero … Direi proprio di sì.

Bevve un sorso di vino. “Per questo non vuole parlarmene. Non crede ne valga la pena, forse.”
“Le decisioni altrui non sono mai definitive … è una questione di ammorbidire la sua volontà, no?” Fece un sorrisetto furbo. “E tu sei un corteggiatore straordinario, mio buon Mike.”
“Se si tratta di portare qualcuno tra le lenzuola.” Ammise sentendosi carente ed odiando la sensazione. “L’unica persona che ho tentato di corteggiare seriamente è finita nelle braccia di un sociopatico.” Frecciò. Al per tutta risposta gli mise una mano sulla sua e strinse la presa, guardandolo con occhi pieni di affetto e facendolo sentire ridicolo e vulnerabile al tempo stesso. “Mike, sei una persona meravigliosa. Milo si deve ritenere un uomo fortunato ad avere la tua attenzione … e se ancora non lo capisce, lo capirà. Dimostragli che può fidarsi di te.” Gli lasciò una mano e dedicò la sua attenzione al piatto. “Corteggialo sul serio.” Inarcò un sopracciglio. “Michel Zabini è o non è la definizione vivente di charmant?”

 
Albus aveva ragione. Michel, tornato dal pranzo e dalle chiacchiere che si erano fatte poi più frivole, rifletteva su quanto gli era stato detto. Doveva corteggiare quel maledetto tedesco cocciuto. Non avrebbe ottenuto niente, neppure nel lungo periodo, se non gli avesse dato ad intendere che le sue intenzioni erano serie.
Lo sono davvero? Con un Magonò?
Era quello che gli avrebbe detto suo padre. O meglio, era quello che gli avrebbe ordinato di non fare Blaise Zabini per non gettare imbarazzo sulla loro famiglia.
Perché i matrimoni continui, i tradimenti e i figli illegittimi invece danno prestigio, vero?
Fece una smorfia sedendosi alla scrivania; no, non avrebbe lasciato che la sua sin troppo spesso ipocrita educazione avesse la meglio su quello che voleva.
Ed io voglio Emil. Emil e i suoi segreti.
“Zabini, c’è una chiamata via fuoco magico per lei.” Lo avvertì uno dei Fuochisti. Doveva aver bussato ma era talmente assorto da non averlo sentito. “Dall’America.” Aggiunse. 
Ethan Scott. Puntuale.
A volte se ne dimenticava; varcata la soglia di quell’ufficio quello che voleva doveva esser messo da parte. Momentaneamente.
 
****
 
San Mungo. Pomeriggio.
 
James non aveva mai capito se era lui ad esser bravo coi ragazzini, o erano i ragazzi a riconoscerlo come suo pari – secondo Lily la seconda opzione era quella valida. Ad ogni buon conto Benedetta era una bambina, e non aveva quindi trovato difficile connettere con lei quando finalmente erano riusciti a parlare la stessa lingua; un paio di giocattoli e svariate marche di dolciumi avevano portato ad un bel po’ di chiacchiere e sorrisi nelle ore che era riuscito a ritagliarsi dal lavoro per venirla a trovare.
Ma una cosa era rimpinzarla di dolci e farla ridere facendo esplodere apposta un Mazzo Bum, un’altra era arrivare al San Mungo e scoprire che Ted le aveva detto di suo padre.
E che cazzo si fa in questi casi?
“Non riuscivo a farla smettere di piangere… alla fine si è addormentata.” Sussurrò il compagno, pallido ed esausto di fronte alla stanza, in attesa che l’infermiera del piano finisse la visita quotidiana.
James lo abbracciò d’istinto, sperando di non bagnarlo con il giubbotto fradicio di pioggia. Non che poi avesse così importanza visto come l’altro lo ricambiò con forza. “Ehi, nessuno si aspetta che tu possa consolarla su questa cosa, okay?” Borbottò contro la sua spalla. “L’importante è che non la porteranno via chissà dove. Che starà con noi e … tutto il resto. Si riprenderà.”
La sto imbroccando? Cazzo, sto dicendo cose che hanno un senso?
Perché era dalla sera in cui era morto il dannato Lunastorta che pregava Merlino di non dire cazzate.
“Non sono riuscito a dirle che verrà a vivere con noi, Jamie … Mi sembra assurdo dirglielo in questo momento. Ma devo.” Inspirò  staccandosi e guardandolo come se fosse il centro del suo mondo. Faceva un po’ girare la testa, ma non l’avrebbe deluso. “Mi daresti una mano? Con te parla volentieri.”
Certo, perché le racconto cavolate.

Il suo mestiere non era parlare ai ragazzini, era combattere maghi oscuri. Ma avrebbe improvvisato, decise. “C’è un modo giusto per dirglielo?”
Ted scosse la testa. “Se c’è vorrei tanto conoscerlo…”  
In quel modo non sarebbero andati da nessuna parte. Gli diede così una pacca sulla spalla ed inspirò coraggio assieme all’ossigeno. “Andiamo lì dentro e basta, okay? Qualcosa da dire ci verrà in mente … e guarda!” Mostrò una scatola di gelatine Tuttigusti più uno. “Ho i rinforzi!”
Tutta la sua convinzione si sciolse quando vide Benedetta, raggomitolata tra le lenzuola come la prima volta che l’aveva vista. Sperò di non essere tornati al punto di partenza, perché Ted non avrebbe retto, non una seconda volta. Si schiarì quindi la voce e si sedette sulla sedia accanto al letto. “Ciao pulce.” La apostrofòò con il nomignolo che le aveva dato durante la loro prima, vera conversazione. La bambina aveva gli occhi chiusi, ma a giudicare da come era sobbalzata appena non stava dormendo. “Ehi, mi dispiace per il tuo papà e … beh, so che non hai una gran voglia di chiacchierare…” Lanciò un’occhiata incerta al compagno e quello gli fece cenno di andare avanti. “… ma va bene, perché siamo noi a doverti dire una cosa. Basta che ascolti, okay?”
Un piccolo cenno di assenso lo rincuorò abbastanza da provare le prime parole che gli vennero in mente. Andar dritto al punto del resto era la sua specialità. “Il ragazzo, qui, ti ha detto che è tuo zio, giusto? Beh, indovina un po’ … verrai a vivere con lui e con me.”
Ben aprì gli occhi, avendo evidentemente assorbito l’informazione. “A casa vostra?”

“Ti aspetta una cameretta nuova di pacca, pulce.” Confermò prima di rilanciare. “Spero che ti piaccia il rosso, perché l’ho dipinta come piaceva a me.”  
“Il rosso è okay.” Quello che adorava dei ragazzini era la capacità straordinaria di riprendersi. Benedetta infatti si tirò a sedere squadrandoli con gli occhi spalancati. “E ce l’avete il giardino?”
Lui e Ted ridacchiarono, scambiandosi un’occhiata che praticamente urlava sollievo. Non si era reso conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento, e probabilmente lo stesso doveva esser per l’altro. “Abbiamo una  foresta, pulce.” Sogghignò. “Tutta da esplorare!”
“Non tutta.” Ribattè Ted scoccandogli un’occhiata ammonitrice. “Solo una piccola, sicura, parte.”
Ben non parve dargli retta. “Adesso?” Chiese invece suonando eccitata. “Possiamo andare adesso?”

“Non appena i Guaritori ci diranno che puoi uscire.” Vedendola rabbuiarsi Ted le passò una mano trai capelli. Era un gesto in cui era bravissimo e Ben parve goderselo tutto. “Solo un paio di giorni … promesso.”
“Okay.” Annuì, sembrando scivolare di nuovo nella malinconia. James però aveva ancora una carta da giocare per distrarla e quando tirò fuori la scatola di gelatine, ridotta in tasca fino a quel momento, Ben fu lesta a sgranare di nuovo quei suoi grandi, meravigliosi, occhioni. “Le gelatine!”

Non deve essere stata un granchè viziata. Beh, si può sempre rimediare.
“Sì nanetta, sono le gelatine di cui ti ho parlato.” Replicò mettendole la scatola in grembo e godendosi il modo in cui la fece a pezzi. “Pronta a provarle? Guarda che hanno davvero tutti i gusti.”
Benedetta scrutò la scatola con aria pensierosa e poi, coraggiosamente, prese una gelatina verde ficcandosela tutta in bocca. “Menta!” Annunciò e non c’era da sbagliarsi, era aria di sfida quella che aveva assunto. “Ora voi.”
… mi sa che non è la brava e educatissima bambina che Teddy pensa.
“Hai sentito Lupin? A te l’onore!” Ghignò tirandolo a sedere sul letto; non sapeva assolutamente nulla di stadi del dolore e come farli superare ad una bambina di sei anni – avrebbe chiesto a Lily - ma non stavano andando tanto male se Benedetta si era distratta a sufficienza dal riuscire a sorridere, no?
Ted doveva pensare la stessa cosa perché gli strinse la mano in mezzo alle lenzuola, in un grazie silenzioso. Poi prese una gelatina e se la ficcò in bocca rapido. La smorfia che fece fu eloquente. “ Il giallo avrebbe dovuto mettermi in allerta…” Mormorò. “… è cerume.”
James non aveva la minima idea se stessero agendo nel modo giusto, ma diversamente da Teddy, non passava tutte le notti a chiederselo. In fondo, Benedetta aveva bisogno di una famiglia.
E lo diventeremo, cazzo.
Era certo che fossero già sulla buona strada.
 
****
 
Da qualche parte nel Lancashire…
 
A volte capitava che la sua regina rimanesse troppo tempo chiusa in casa e questo esacerbava la sua naturale irrequietezza; vederla infatti con lo sguardo perso nella brughiera selvaggia che si stendeva al di là della proprietà era palese sintomo di quanto il suo animo fosse in tempesta.
Non aveva mai capito Sophia, nonostante l’avesse desiderata dalla prima volta che aveva posato lo sguardo sulla sua bellezza acerba e insofferente. Non capire i suoi desideri però non significava dover trattenere i suoi.
Saggiò quindi con le mani la vita esile, baciandole il collo e tastandone le pulsazioni con la lingua. Subito le dita sottili della donna gli strinsero una manciata di capelli, dandogli una scarica di delizioso dolore.
“Johannes, oggi non sono dell’umore.” Sibilò con un tono che era lo specchio di quello del defunto fratello: velluto sopra un maglio d’acciaio. “Non toccarmi.”
Per tutta risposta la voltò bruscamente, facendo collidere le labbra con le sue. Si aspettò il morso e rispose con altrettanta passione. Fu allontanato da una spinta e da uno sguardo che sprizzava irritazione come quello di un gatto feroce. “Ho capito.” Sogghignò facendo un passo indietro. “Chiedo scusa.”
L’altra fece una smorfia. “Hai notizie o sei venuto solo ad infastidirmi?”

“Vi ho portato notizie.” Confermò. “Siete dell’umore per ascoltarle?”
“Ti ascolto.” Ribattè allungandosi su una poltrona e facendo cenno verso il servizio da the. Obbediente le versò una tazza e gliela portò, sedendosi poi su uno sgabello vicino.
“Non tutte le cavie in nostro possesso hanno conclamato il virus.” Esordì. “Tuttavia, mi duole informarvi  che sono tutti positive ai marker della malattia. Sono i tempi di incubazione che variano … I Pozionisti pensano che sia dovuto alle capacità magiche che, come sapete, variano da persona a persona. Quello che è certo è che diventano contagiosi non appena la malattia si conclama.”
“Non mi porti nulla di risolutorio, quindi.” Riassunse per lui, sorseggiando la bevanda. “Non abbiamo ancora un modo per rendere il Demiurgo stabile.”   
“No, mia signora.” Confermò con un sospiro impaziente; aveva lavorato giorno e notte per recuperare le cavie e portarle in quel buco perso nella campagna inglese. Il tutto con i dannati auror alle calcagna.

E con il fiato dei nostri benefattori sul collo…
Non avrebbe mai pensato che avrebbe finito per rimpiangere Von Hohenheim e le sue manie di segretezza e controllo: agire in prima linea era ben più faticoso.
E pericoloso.
Sentì la mano della sua donna sfiorargli il viso. “Povero il mio giullare… Non sorridi più?” Lo vezzeggiò con un sorriso sarcastico. “Lasci il mio letto freddo, la notte. Quanti pensieri devi avere…”
“Se non riusciamo a stabilizzare il siero in tempi brevi finiremo le scuse con cui tener buoni i nostri clienti … Stanno diventando impazienti.” Sbottò alzandosi in piedi e prendendo a marciare per il salotto. “… e non sono maghi che amano veder le proprie camere blindate alleggerirsi.”
“Hai sentito il nostro caro amico americano?”

“Non ancora.” Fece una smorfia. “Si fa attendere.”
“Come sempre…” Quel giorno sembrava che volesse farlo innervosire a bella posta ed era una cosa che faceva solo quando era di umore orribile.

E a nessuno piace un Von Hohenheim di cattivo umore. Può solo peggiorarti la giornata.
Dominò quindi la propria irritazione e tornò a sedersi, prendendole la mano tra le sue, ed esibendo il suo sorriso migliore. “Mia Regina, qualcosa vi infastidisce … Ogni vostro desiderio non è un ordine per me? Non ve l’ho forse dimostrato? Ditemi…”
“Voglio uscire.” Lo interruppe. “Ho passato la mia intera gioventù dietro una finestra. Non mi sono liberata di Alberich per questo.”
Sorrise divertito; così era semplicemente innervosita dall’immobilità forzata di quelle lande desolate. A quello, per fortuna, poteva porre rimedio. “Perché non me l’avete detto subito? A pochi chilometri da qui c’è una città dal pittoresco nome di Cokeworth che…”
“Voglio andare a Londra.”

“A Londra?” Non potè trattenersi dal suonare sorpreso. “Non trovate sia pericoloso per la vostra…”
“Prima o poi gli auror e Sören scopriranno che sono ancora viva, sempre che non l’abbiano già fatto.” Tagliò corto liberandosi dalla sua stretta ed alzandosi in piedi. “Voglio vedere Londra e tu mi ci porterai.”
Non gli restò che annuire. “Come desiderate.”

Il bussare lieve alla porta li fece voltare entrambi. “Signor Doe, Signore … c’è una chiamata per lei via fuoco Magico, Signore!” Esclamò l’Elfo domestico, che avevano trovato ad attenderli assieme ad un’altra decina una volta preso possesso del maniero. Sophia li detestava, disgustata dal loro aspetto, ma avevano il pregio di essere discreti e leali fino all’ottusità.
Molto meglio della feccia Magonò.
“Mia Signora, credo che il nostro amico abbia appena deciso di farsi vivo. Vi devo lasciare.” Le baciò la mano e si accomiatò seguendo l’Elfo.
Londra.
Se lo sentiva nelle ossa: sarebbe stata una sgradevolissima rottura di palle.
 
****
 
Note:

E i due cattivi entrano un po’ più nell’azione. Che ne pensate? :D
Qua la canzone del capitolo.

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Capitolo 30
*** Capitolo XXIX ***


Capitolo XXIX






Young and naïve I never believed that love could be so well hid
It gets under your shirt like a dagger at work
The first cut is the deepest but the rest still flipping hurt
(The Wrong Direction, Passenger)
 
15 Luglio 2028
Londra, Whitehall
Vicino al Ministero della Magia, Mattina.

 
“… stavolta tu che scusa hai usato?”
“Ho detto che sarei andata da Violet per una serata pizza e film e che poi sarei rimasta a dormire visto che siamo in piena stagione d’amore dei draghi e Domi è barricata alla riserva.”
“Violet non sa neanche cosa sia una pizza!”
“Certo, ma papà non può saperlo … E mamma, beh… finge. E tu?”

“Pigiama party con Loki e Mike. Mio padre c’ha creduto. Li faccio davvero dopotutto!”
Rose ridacchiò, baciando la testa arruffata e violentemente bionda del suo ragazzo, mentre un prepotente raggio di sole filtrava dalle finestre prive di tende del loro appartamento; o meglio, quello che avrebbe dovuto essere il loro appartamento una volta sposati.

Un materasso Materializzato direttamente a terra, cartoni di cibo d’asporto e libri in pile precarie ovunque componevano attualmente la loro camera da letto e Rose la trovava bella così, anche senza mobili e con le pareti ancora piene di muffa.
Più o meno.
“Dovremo ritinteggiare.” Osservò facendogli un grattino in corrispondenza del tatuaggio che aveva sul collo e facendolo mugolare compiaciuto. “Scorpius?” Per tutta risposta l’altro la fece rotolare sotto di sé, pelle nuda e lenzuola che diventarono un tutt’uno. “Davvero, questo posto è ancora come l’abbiamo comprato un anno fa! E c’è una macchia di muffa che sembra un Lethifold!”
“Forse è un Lethifold.”
“Scorpius!”
“Pallocchetta, abbiamo la magia.” Osservò tranquillo. “Basta un finesettimana, il maschio aiuto di un paio d’altri ragazzi e il gioco è fatto. Tornati dalla Luna di miele avremo un tetto sotto la testa, non crucciarti!”
“Io non mi cruccio, è solo…” Si mordicchiò un labbro, poi fece spallucce, cedendo alla meravigliosa noncuranza che irradiava l’altro: era un pregio. “Vabbeh. Che colore vorresti?”
Non verde marcio.”
“Traumi infantili, eh?”
Scorpius le servì una smorfia eloquente. “È il colore dello stemma di famiglia, ma  uh … no. Sbatte terribilmente con la mia carnagione da eroina vittoriana.” Scattò a sedere sul materasso e fissò persistente le pareti, al momento di un giallo smorto. “Rosso fenice infuocata!” Decretò con un ghigno allegro. “Oh, voglio troppo vedere la faccia di papà.”
“Farai venire un infarto a quel pover’uomo…” Sospirò; negli anni, sebbene non fosse arrivata a trovar simpatico Lord Malfoy, aveva capito perlomeno quanto doveva esser stato difficile gestire quotidianamente quel terremoto di Scorpius.

Il suddetto intanto si alzò in piedi, stiracchiandosi e camminando fino alle finestre. “Ehi, credi che qualcuno possa vedermi nudo da qui?”
“Probabilmente.” Convenne Appellando la propria camicetta ed infilandosela assieme al resto dell’intimo che come al solito trovò nei posti più impensabili della stanza. Scorpius si divertiva a lanciarlo. “Non traumatizzare poveri Babbani indifesi.”
“Darei loro un buongiorno meraviglioso!” Ribatté offeso, allontanandosi però dalla finestra. Si accovacciò quindi accanto a lei con un sorrisetto monello. “Ehi, perché non saltiamo i rispettivi pranzi familiari e rimaniamo qui a rotolarci tra le lenzuola e mangiare schifezze?” Assunse un’aria da cagnolino bastonato che aveva ormai perfezionato negli anni. “Per una volta?”

“L’ennesima vorrai dire.” Replicò tirandogli un colpetto sulla spalla e sbilanciandolo, facendolo cadere così sedere sul materasso. “Dobbiamo essere cauti! Vuoi che scoprano che stiamo utilizzando la nostra futura casa come luogo di incontro segreto?” Scosse la testa alle sue stesse parole: c’era qualcosa di molto patetico nell’essere fidanzati ufficialmente e dover comunque sgattaiolare alle spalle delle proprie famiglie per poter passare del tempo assieme.
Stupide famiglie conservatrici. Papà fa tanto il progressista su un sacco di roba ma quando si tratta di farmi convivere con il mio fidanzato diventa peggio di zia Muriel …
E non che Lord Malfoy e Lady Narcissa siano meglio. Se potessero me la sigillerebbero.
L’altro sbuffò insofferente ma annuì. “Ci manca solo ci affibbino uno chaperon. Tipo, tuo fratello. Quel povero ragazzo non riesce più a guardarmi negli occhi…”
“Se solo evitassi di palpeggiarmi davanti a lui… Sai che Hugo è sensibile.”

“Manca solo un mese e mezzo Rosellina.” La consolò. “Poi avremo un anello al dito e potremo folleggiare con l’approvazione familiare!”
Rose annuì. “Il prossimo fine settimana potremo organizzare per la ritinteggiatura. Con una dozzina di persone qua dentro non dovrebbero fare storie.”
Scorpius si mordicchiò un labbro, sembrando di colpo un grosso bambino che voleva chiedere ai propri genitori di portarlo ad Hogsmeade. “Rosellina, senti … io per il prossimo fine settimana avrei un’idea, ma mi sa che la troverai stupida.”
Rose inarcò un sopracciglio, tentata dall’essere del tutto smontata dall’aria adorabile del ventenne che le occupava il letto e il cuore e picchiarlo con una delle scarpe che teneva in mano. “Cosa?”

“Vorrei fare l’addio al celibato.” Sputò fuori.  
“Un mese e mezzo prima?” Scorpius, alle volte, aveva quelle che venivano chiamate nella loro cerchia di amici ‘meteore’ : idee improbabili, potenzialmente pericolose e dal grado persuasivo altissimo. Poteva essere una di quelle? Ne aveva tutta l’aria.
Come fare un bel tuffo nel Tamigi a Capodanno. È riuscito a convincere persino Dionis!
“Sarebbe per allentare la tensione generale.” Obbiettò con l’aria di essersi preparato alle sue obiezioni. “In ufficio stiamo tutti passando delle giornatacce visto il cambio della guardia americana, Potty ha casini in casa e … beh, poi c’è tutto il resto.” Gesticolò vago, ma entrambi sapevano bene che tutto il resto era tanta roba. Esitò. “Pensi che sia stupido?”
Rose ci rifletté: era una cosa che aveva imparato a fare con il tempo, faticosamente, soprattutto grazie alle ‘meteore’ del suo fidanzato e alla sua capacità di farle capire che spesso aprire la bocca e lasciar andare non era la strategia migliore da seguire.
Dopotutto le sue meteore saranno inaspettate … ma sempre ponderate. Non gli escono dal nulla come molti pensano.   
“Penso che sia una buona idea.” Concluse. “Dopotutto il tuo compleanno ha fatto un gran bene a tutti, quindi un’altra festa forse ci vuole.” C’era però un punto da chiarire assolutamente. “Ma niente di estremo. Non dare retta a Jam e non farti trascinare in nulla che possa mettervi nei guai per i giorni successivi … Metti in mezzo almeno Bobby, okay?” 
Scorpius le rivolse un gran sorriso, chinandosi a prenderle il viso tra le mani per baciarla. “Promesso! Sei la fidanzata migliore del mondo!”
“Beh, è il tuo addio al celibato.” Gli fece notare dandogli un colpetto sul naso, divertita. “È la tua ultima occasione di libertà … usala come ti pare. Non avrei comunque voce in capitolo.”
L’altro scrollò le spalle. “La libertà è sopravvalutata. A me piacciono queste catene!” Canticchiò alzandosi in piedi. “Tu che fai con la tua? Vuoi aspettare?”

“Beh…”
Era una domanda sensata: organizzare un fine settimana privo di maschi, fuori da Londra con le sue cugine e le sue amiche più strette sarebbe stato l’ideale per prendersi una pausa dalla pressante vita di tutti i giorni.

E poi siamo in estate, e nessuna di noi è ancora veramente andata in vacanza…
Farlo un mese prima invece che a fine Agosto, con il rischio di scontrarsi con l’ingombrante compleanno di zio Harry, poteva in effetti essere l’idea geniale della settimana.
“Ne parlerò con le ragazze a pranzo.” Decise. “Roxie porterà Alexandra ed è la prima volta che la vediamo da quando è uscita dal San Mungo … è l’argomento adatto.”
Scorpius annuì infilandosi la maglietta e andando ad aprire a Donnola che uggiolava e grattava alla porta chiusa come se ne andasse della sua vita – doveva rassegnarsi, quel cane era diventato la guida spirituale del suo ragazzo. “Perfetto! Rilasseremo i nervi a tutti, scorreranno fiumi di alcolici e finirà tutto con una bella catarsi da ubriachi.” Esclamò facendo scattare il guinzaglio al collare dell’animale e regalandole un sorriso soddisfatto. “Dì un po’ mia Rosie, siamo o non siamo l’ancora emotiva della tribù?”

Non poté che concordare.
 
****
 
Diagon Alley, Accademia di Duello.
Mattina.

 
Dionis si riteneva un uomo appagato.  
Diventare padre ed essere un buon marito era sempre stato uno dei suoi sogni da quando aveva dismesso le spoglie di un adolescenza dura e spigolosa.  
Era un sogno modesto, forse, ma non gli interessava: non aveva mai desiderato una vita alle luci della ribalta come suo fratello Alin, cacciatore di punta nei Voltures. Sin da ragazzino aveva sempre saputo che il suo futuro sarebbe stato solido come una roccia.  
Certo, essere padre di una bambina meravigliosa e marito di una strega straordinaria aveva i suoi pro e i suoi contro: la mancanza di sonno era forse il principale.
Per questo, quando Sören gli lanciò un Everte Statim finì a gambe all’aria senza riuscire a tirar su una barriera decente. Ignorando il grido lacerante della sua dignità lesa accettò la mano rapidamente tesa dell’amico. “Grazie.” Sorrise. “Mi hai preso di sorpresa.”
“È stato facile.” Replicò l’altro aggrottando le sopracciglia; trovava sempre piuttosto divertente la totale mancanza di tatto di Sören, perché non era sintomo di un cattivo carattere quanto piuttosto della sua incapacità nei rapporti sociali. “Sei distratto.”
“Dormo poco.” Rispose spazzolandosi i pantaloni dell’uniforme e azzerando con un colpo di bacchetta il tabellone segnapunti, che proclamava una netta vittoria del tedesco. “Alexandra ci tiene svegli…”
L’amico assunse un’aria imbarazzata. “Non immaginavo. Sta bene?”

“Sta benissimo, ma i neonati hanno ritmi tutti loro … Roxie non può far tutto da sola, quindi siamo in due a dormir poco.” Gli spiegò facendo cenno ad uno dei suoi allievi di mettere in ordine la pedana appena lasciata. “Mi avevano detto che sarebbe stata dura, ma in confronto il Tremaghi sembra una passeggiata, ti assicuro!”
“Un bambino può essere così tremendo?”
“Incredibile, vero? Senza contare che ha già i primi scoppi di Magia Accidentale … due giorni fa abbiamo trovato tutti i libri nel salotto Trasfigurati in peluche. Pare che nella famiglia di Rox inizino presto…” “Sembra spaventoso.” Sören sembrava trattenere un sogghigno e ritenne quindi doveroso dargli una spinta. “Ogni felicità ha un prezzo, Dionis.” Replicò ridacchiando. “Questo è il tuo.”
“Niente di più vero.” Convenne sorridendogli di rimando: era bello vederlo tutto sommato tranquillo  nonostante la perdita del caso. Secondo Roxanne era tutto merito di Lily.

Se una donna riesce a calmare un mago … Beh. Non c’è bisogno di commentare. I fatti parlano da soli.
Ma lungi da lui l’idea di intromettersi.
“Stasera hai un allenamento con la Rossa?”  
Magari curiosare un po’, questo sì.
“Questo pomeriggio.” Spogliandosi e spostandosi nelle docce Sören sembrò esser preso da un pensiero tenace, perché passarono minuti prima che riprendesse a parlare. “Ho bisogno di un parere. Su una strega.”
“Lily?” 
“No.”
Oh.
Sorpreso e terribilmente curioso, si schiarì la voce e cercò di suonare il più tranquillo possibile: dal tono di voce era palese che l’altro fosse in un abisso di imbarazzo. “Certo, dimmi pure.”

“Una mia … collega … mi ha chiesto di uscire.” Il modo in cui stava letteralmente soppesando le parole dava la misura di quanto ci si fosse arrovellato. “È una persona di cui ho molta stima e…”
“Ti fermo qui perché ho già la mia risposta.” Perché andava fatto. “Esci con lei.”
Il silenzio sgomento dell’altro durò il tempo di sciacquarsi via lo shampoo dalla testa. “Non ti ho neppure detto chi è.”
“Non ha importanza. L’unica vera domanda è … ti interessa?”

Poteva quasi immaginarlo boccheggiare. “Sì … penso …” Fece una pausa. “Penso di sì. È molto bella e … ritengo che abbiamo cose in comune. Però…”
Dionis aveva ben chiaro in mente il però dell’altro. “Sören, amico mio, perdonami la brutalità. Lily sta con Scott Ross. Non puoi fossilizzarti su di lei se c’è la possibilità che un’altra ragazza, libera, possa avere il tuo affetto.”

“Ma non sono innamorato di Ama.”
Dionis uscì dal vano doccia e Appellò un asciugamano, imitato dall’altro. Dirigendosi verso gli armadietti gli lanciò un’occhiata di sbieco; Sören sembrava autenticamente confuso e una pacca sulla spalla fu quindi indispensabile. “Non tutte le storie d’amore iniziano con … beh, l’amore.”
“La tua sì però.”
Dionis fece un sorrisetto, scrollando le spalle. “Io mi sono innamorato all’istante, non appena l’ho vista scendere dalla scopa, ma Roxanne mi ha fatto patire le pene dell’inferno prima di ammettere che era stato lo stesso per lei …” Scosse la testa. “Vedi, il punto è che ogni storia è diversa. A volte scatta all’instante, a volte è una cosa che si costruisce col tempo.” Capiva le ansie dell’amico ma non era disposto a scusarle. A volte era davvero troppo melodrammatico. “E comunque, non devi sposartela, ma solo uscirci assieme.”

Sören fece una smorfia, asciugandosi con un colpo di bacchetta e prendendo a vestirsi con rapidi movimenti energici. Dionis suppose fosse il suo modo per gestire l’imbarazzo della conversazione. “Mi sembra di tradirla.” Buttò fuori. “So che non abbiamo quel tipo di rapporto, ma è ciò che sento.”
Dionis sospirò. “Ti capisco.” Convenne. “Però non puoi rimanere legato a qualcosa che non…” Esitò, perché quando si trattava di streghe e amore, non c’era modo per metterla giù leggera.

“… che non esiste.” Terminò per lui con una smorfia amara. “Ne sono consapevole. Ed Ama è … una strega formidabile. E gli interesso.” Fece un’espressione incredula. “Faust solo sa perché.”
“Continui a sottovalutarti.” Decretò finendo di vestirsi; lo spogliatoio si stava riempiendo dato che erano appena finite le lezioni mattutine e da come si stava irrigidendo l’altro era ovvio che la conversazione dovesse finire in fretta. “Sören, se vuoi un parere da amico, eccotelo. Esci con questa ragazza. Divertiti, rilassati e non pensare a Lily. Non hai il dovere di farlo.”
Sören rimase in silenzio, ma stava rielaborando l’informazione dentro di sé. “Lo farò.” Decise infine, con l’aria di chi stava per compiere un’impresa titanica. Forse dal suo punto di vista era così. “Grazie per il consiglio.”

 
Dionis aveva ragione.
Aveva ragione perché era un mago sensato, perché aveva più esperienza di lui in quelle faccende – chiunque ne aveva più di lui – e perché … aveva ragione. Punto.
Nonostante questo la sensazione di fare qualcosa di stupido era ancora lì.
Perché dovresti uscire con qualcuno quando è chiaro che non sei fatto per avere rapporti sentimentali?
Tra l’altro, Ama non ha smesso di metterti a disagio. Di cosa potreste mai parlare?
Sarebbe un fallimento.
Avrebbe voluto chiedere consiglio a Lily, ma l’idea di raccontarle tutto e domandare un parere lo faceva di nuovo sentire un traditore.
Sei proprio un idiota, principino.
“Pensi che dovrei parlarne a Lily?” Gli uscì fuori quando erano ormai lontani dagli spogliatoi e, per fortuna, soli. Fuori dall’edificio c’erano due auror in borghese, di guardia alla sua incolumità, ma finché rimaneva lì dentro poteva avere privacy.
Relativamente parlando.
Dionis gli lanciò un’occhiata stupita e poi, inaspettatamente, fece un sorriso. “Sì, dovresti farlo. Se non fosse stato per lei, io e Roxanne saremo ancora al via. Può essere un po’ invadente… e imbarazzante …” Si scambiarono un sorriso sottintendendo di esser perfettamente d’accordo su quel punto. “ … ma sa dare buoni consigli.”
“Bene.” In fondo, perché non avrebbe dovuto?
Al di là della mia stupida fedeltà, Lily è mia amica. E mi ha spesso detto che vorrebbe vedermi con qualcuno. Dovrebbe, a regola, essere contenta.
Si sentiva stranamente soddisfatto a pensarlo. Lily aveva il suo scozzese e lui sarebbe uscito con Ama; sulla carta, era precisamente ciò che era giusto accadesse.
“Glielo chiederò.”
 
****
 
Diagon Alley, Mezzogiorno.
 
Come Rose aveva immaginato, l’idea di anticipare l’addio al nubilato era stata presa in più gradi di perplessità; sedute al solito cafè che, da quando avevano tutte abbandonato Hogwarts, era diventato meta fissa dei loro pasti, Violet, Roxanne e Lily stavano dando la loro opinione. Molto rumorosamente.
“Non se ne parla! Così, dal nulla… con una settimana di preavviso! Scorpius e le sue idee folli! E tu che gli dai retta, Weasley!”
“Dai, non mi sembra così tragica … a trovare un posto carino dove divertirci e far perdere i vestiti a qualche bel ragazzone ci mettiamo un attimo.” Una pausa in cui Lily l’aveva guardata lasciva da sopra la tazza fumigante di caffè. “Sottolineo la necessità di bei ragazzoni. Nu-di.”
“Sta’ zitta sciagurata.” Rose si massaggiò le tempie, sentendosele dolere: voleva bene a sua cugina, ma c’erano momenti in cui avrebbe desiderato lanciarle un Silencio più di ogni altra cosa al mondo. Possibilmente perenne. “Non avremo uno spogliarello come Scorpius non avrà delle Incantatrici.”

Lily la guardò come se l’avesse schiaffeggiata. “Ma che addio al nubilato è altrimenti?”
“Uno con del buongusto.” Si inserì Violet.
La cugina parve ignorarla rivolgendo invece un sorriso amorevole ad Alexandra, che pareva del tutto mesmerizzata dai riflessi della sua collana da come tentava di afferrarla per mettersela in bocca. “Tu che dici streghetta?” La apostrofò. “Lo affittiamo un bel maschione unto per l’addio al nubilato di zia Ro…”
A quel punto trovò necessario lanciarle un pezzo di croissant attraverso la tavola imbandita.

“Non parlare di quella roba con una bambina in braccio! Roxanne, dille qualcosa!”
L’altra cugina inarcò un sopracciglio, apparentemente più interessata a spalmare marmellata su un bagel che a preservare l’innocenza di sua figlia. “Lexie ha poche settimane.” Sbadigliò. “Non capisce una parola di quel che le dici. Fidati, o dormirei molto di più.”
Lily sogghignò soddisfatta. “Infatti. Ha tutto il tempo del  mondo per ascoltare i saggi precetti di zia Lily.”
Ormai certa del disinteresse di Roxanne, Rose decise di lavarsene le mani per concentrare le sue attenzioni su Violet, la quale sembrava sul piede di guerra da come infilzava la pancetta che aveva nel piatto. “Letty, Lily ha ragione … non credo sarà difficile prenotare un paio di camere da letto in un resort carino, magari con una Spa, no?”
“Andiamo in mezzo ai Babbani?” Violet arricciò le labbra, prima di alzare gli occhi al cielo quando si vide fissata con disapprovazione da ben tre paia d’occhi. “Scusate tanto se non mi fido dei loro metodi per rilassarsi … Usano vasche piene di sale e piscine di acqua bollente!”

“Esattamente che idee hai dei centri benessere Babbani?” Interloquì Lily divertita. “Le fai sembrare case dell’orrore.”
“Perché, non lo sono?” Replicò l’anglo-francese, inarcando un sopracciglio da perfetta aristocratica Purosangue. A volte Rose si chiedeva se lo facesse più per posa che per reale convinzione. Per quanto ne sapeva Dominique andava pazza per il Mondo Babbano e vi trascinava l’altra di continuo.

Lily prese un biscotto e lo porse ad Alexandra, con una naturalezza materna che faceva a botte con la sua espressione lussuriosa. “Ne ho frequentato uno, a Marrakesh … Interessante, specie per la mancanza assoluta di vestiti e per la promiscui…”
No.” Ripeté con forza mentre l’altra se la sghignazzava beata, spalleggiata dal sorrisetto perfido dell’altra cugina. “Niente saune promiscue camuffate da Spa. Pensavo ad un fine settimana tra di noi, con la campagna inglese e trattamenti rilassanti. Ne abbiamo tutte bisogno.” Fece notare. “Roxie, hai due occhiaie che fanno paura…”
“Se dormissi tre ore a notte le avresti anche tu.” Mugugnò questa pulendo il visetto sporco della propria  bambina. “Stamattina pensavo di aver visto una Pluffa in soggiorno invece stavo solo avendo le allucinazioni. Dion ci ha messo mezz’ora a convincermi che non mi stava puntando.”

“E Letty, ultimamente in ufficio ci stanno facendo a pezzi…”
Violet annuì con una smorfia eloquente. “Sono dei dannati Dissennatori.”
“E per me ogni scusa è buona per scappare dal grigiore della quotidianità!” Concluse Lily. “Comunque sul serio, che sia ora o tra un mese è lo stesso … ci divertiremo!”
“Niente spogliarellisti però.”
La cugina alzò gli occhi al cielo. “Ma dai…” Sbuffò lanciando un’occhiata supplice a Roxanne, che per fortuna scosse lentamente la testa. “… oh, va bene, come volete.” Borbottò.

“I ragazzi cosa fanno?” Si informò Roxanne.
Rose scrollò le spalle finendo quello che restava della sua colazione, visto che Violet stava guardando l’orologio con una certa urgenza: il lavoro di MagiAvvocati non aveva giorni di riposo fissi e infatti avevano un’udienza congiunta per quel pomeriggio. “Credo una bevuta al pub e una partita a carte con tanto di scommesse forti e perdita di indumenti. Conosci i modi di divertirsi di Scorpius…”
Lily inarcò le sopracciglia. “Posso andare alla loro, di festa?”

Tentò di rifilarle un calcio sotto il tavolo, ma era difficile prendere una persona tanto minuta attraverso un intero tavolino. “Eddai! Lo faccio solo per salvare il pudore dei più timidi!” Si difese. “Se c’è una ragazza forse non finiranno tutti a lanciarsi le mutande da un lato all’altro del locale.”
Rose scosse la testa. “Ci sarà Domi con loro, pensi che si fermeranno? Vuoi davvero vedere gente come Prince che insegue le proprie mutande perché Jamie gliele ha fatte volare via?”
Lily arrossì. “No, no. Forse è meglio se rimango con voi…”
Eh?

Non doveva essere l’unica ad aver registrato il bizzarro comportamento della cugina, perché lo sguardo di Roxanne, perso fino a quel momento in allucinazioni da mancato sonno, tornò lucido e attento. Lily in compenso non sembrava essersi accorta di nulla perché districò le piccole dita di Alexandra dalla sua collana e continuò. “A parte gli scherzi, credo che il fratello della madre dei gemelli Finnigan lavori in uno di quei posti di lusso vicino a Bath. Mi informo?”
“Sì, informati.” Tagliò corto Violet prendendo la valigetta e facendole cenno di fare lo stesso con la sua. “Weasley, dobbiamo andare … Ho ricevuto un messaggio su Specchio proprio adesso. Pare che il nostro assistito stia avendo una crisi di nervi.”
“Di nuovo?” Sbuffò, scusandosi con un’occhiata. “Sì, fallo. Se ha un indirizzo web poi mandamelo.”
Rose si allontanò con Violet, chiedendosi se non avesse per caso mancato un’opportunità ad indagare sulla strana reazione di Lily.

Lily che arrossisce quando si parla della nudità di un ragazzo. E guarda caso, tho, è il solito Prince.
… la imbarazza pensare a Prince nudo?
Scosse la testa: forse Roxanne non era l’unica ad avere le allucinazioni.
E se non lo erano, non erano comunque fatti suoi. Per fortuna.
 
 
Lily sapeva di avere gli occhi di Roxanne puntati sulla nuca ma non aveva idea del perché. Essere una LeNa non la risparmiava dalle facce di bronzo, e la sua amata cugina rientrava alla perfezione nella categoria. Non aveva bisogno dell’Occlumanzia per rendersi incomprensibile.
Quindi, aspettando che l’altra cominciasse a parlare – perché era solo questione di tempo – finì quello che restava del proprio brunch.
“Come va con Scott?”
Inarcò le sopracciglia, appoggiando la tazza al tavolino. “Bene.” Fece spallucce. “Cioè, il solito direi.”
“È andato bene il vostro fine settimana scozzese? Non me ne hai parlato per niente…”
“Beh, sai, c’è stato altro da raccontare.” Obbiettò. “Comunque sì, è stato carino… Cioè, lo sai che non sopporto i suoi amici, ma lui è un tesoro e Edimburgo è meravigliosa.” Stava cominciando a intuire dove voleva andare a parare l’alta ma non capiva il motivo per cui lo stesse facendo.

Ho dato qualche segnale per cui si può pensare che sia insoddisfatta del ragazzone? Non mi pare.
“Hanno continuato con la storia che siete perfetto materiale da matrimonio?”
Roteò gli occhi al cielo, calmando la stilla di forte disagio che le suscitò il ricordo. “Sì, lo sai … Scotty ci prova a farli star zitti, ma quei due paiono non voler altro dalla vita che vederlo nel club dei felicemente accasati.”
“Devi proprio piacergli.” Osservò mentre cullava Alexandra, ormai per fortuna prossima ad uno dei suoi sonnellini. “A quei due, intendo.”
“Non lo so…” Scrollò le spalle. “Certo, sono adorabile e bellissima, ma credo che più che altro lo vogliano veder sposato. Con chiunque.”

“E tu?”
“Io cosa?” Quella conversazione non le stava piacendo, ma purtroppo non c’era mai un modo semplice ed efficace di scappare alle domande trancianti di Roxanne Weasley-Radescu.
A dirlo così, sembra una marcia militare.
“Stai assieme a Scott da un bel po’ di mesi ormai, un record personale … L’hai presentato in famiglia e ormai neppure James si fa partire un embolo quando sa che dormi da lui.” Inarcò un sopracciglio. “La pensi sul lungo periodo o aspetti solo il prossimo?”
“Non aspetto…” Aprì la bocca per protestare, ma poi la richiuse quando vide lo sguardo dell’altra. Roxanne non era una LeNa ma era sempre stata capace di leggerle dentro con la facilità con cui Nonna Molly avrebbe sfogliato un libro di ricette.  

Perché le sa tutte a memoria. Mi sa, tutta a memoria.
“Scott non è uno qualunque.” Borbottò incrociando le braccia al petto, in una stupidissima posa difensiva. “È … Scotty. Gli voglio bene, ci tengo a lui … ed è seria. Lo sai che è seria!”
“Sì.” Concordò tranquilla, alzandosi per posare la figlia nella carrozzina e lanciandovi sopra un incantesimo per farla muovere appena quando la bambina prese a piagnucolare, insoddisfatta dalla nuova posizione. “Il fatto è che ultimamente parli poco di lui. Di solito eri una radio rotta su quel che aveva fatto, su quel che ti aveva consigliato di leggere e su quanto fosse un dio del sesso.”
“Non è che abbia chissà quale vita avventurosa, ti racconterei sempre le solite cose … e comunque è ancora un dio del sesso.” Puntualizzò sentendo il bisogno di difendere la propria regolarità sessuale. “Ci siamo ammazzati di sesso a Glasgow.”  Anche se da allora non si erano ancora visti, né tantomeno avevano passato la notte assieme.

È che non abbiamo tempo.
Bugiarda. La tua giornata lavorativa finisce di venerdì. Perché ieri notte non sei andata da lui? La verità è che non hai neanche pensato di dormire nel suo letto in questi giorni.
… in compenso c’è un altro letto in cui hai dormito.
Dormito! Dormito e basta!
La sua smorfia colpevole – di cosa poi? – dovette essere eloquente perché Roxanne smise di rivolgere le proprie attenzioni alla figlia e le lanciò un’occhiata storta. “Che hai combinato?”
“Niente!” Buttò fuori rapida, suonando falsa alle sue stesse orecchie. Afferrò il tovagliolo e trovò del tutto proficuo stritolarlo tra le mani. “Okay, premetto che non ho tradito Scott.”
La cugina si massaggiò la sella del naso chiudendo gli occhi: lo faceva ogni volta che stava per confessarle un’alzata di ingegno.  
Che cavolo, stavolta non ho fatto niente di male!
“Sai che Ren ha perso il caso, no, per … per problemi personali.” Non scese in dettagli, che era roba da auror e comunque non era il punto della storia. “Ha passato un brutto quarto d’ora dopo … Un quarto d’ora durato una giornata e … beh, morale della storia l’ho portato fuori a cena per consolarlo.”
“Ci hai fatto sesso da ubriaca.”
“No!” Strillò facendo voltare praticamente tutti gli avventori del caffè, compresi i camerieri. Si schiarì la voce, facendo finta di niente. Era la strategia migliore. “No, non l’ho fatto…” Disse più calma. “Mi sono solo addormentata nel suo letto. Ci ho dormito assieme, come dormirei con Al o Jamie, tutto qui.”

Roxanne crederle da come rilassò le spalle. “E poi?”
“E poi niente. Ci siamo svegliati, salutati e … beh, Ren mi ha fatto un regalo, ma è tutto qui.” Ribatté un po’ piccata. Va bene, aveva avuto un’adolescenza burrascosa dal punto di vista sentimentale, ma si era calmata. Era maturata.
Non sono più la diciottenne che rischia di sposarsi a Las Vegas! Non è che ogni volta che divido un letto con qualcuno l’esito è uno solo!
Nonostante le sue idee in merito, le sopracciglia dell’altra scattarono all’insù come parentesi imbizzarrite. “Sören ti ha fatto un regalo dopo che avete dormito assieme?”
… okay, questo suona male.
Scosse quindi la testa con decisione. “Era un regalo che aveva già deciso di farmi. È solo mentre ero lì.” Alzò gli occhi al cielo. “Puoi piantarla di guardarmi come se ti avessi appena detto che ho partecipato ad un’orgia?”
“Forse sarebbe stato meglio.” Replicò lasciandola di stucco. “Lily, hai un ragazzo … perché diavolo dormi nel letto di un altro?”
“È stato un caso, non…”
“Sören Prince non è tuo fratello.” La interruppe con il cipiglio delle grandi occasioni. “Tralasciando il passato che avete condiviso assieme…” E dal tono lo stava tralasciando solo per non aprire una parentesi enorme. “… non è la persona con cui si suppone dovresti condividere il letto. Scott lo sa?”

“Perché dovrebbe saperlo?” Replicò con una nonchalance che era ben lungi dal provare: si rendeva conto che, a vederla da un occhio esterno, quella situazione non era proprio priva di malizia. “Ren è il mio migliore amico, non c’è stato niente di sconveniente.”
Roxanne rimase in silenzio; quello che apprezzava della cugina era che non partiva subito a razzo con le congetture e i giudizi, come per esempio faceva Rose. Ma era solo questione di tempo prima che le dicesse la sua.
Roxie è inevitabile. Come le tasse Babbane … e la morte.
“Già solo il non averglielo detto non è una bella cosa, Rossa. Se dormisse con una sua amica senza dirtelo, a te farebbe piacere?”
“Dipende dall’amica.” Non si sarebbe fatta mettere sotto; non aveva fatto niente di male e il solo sospetto di Roxanne gettava una luce squallida sul rapporto tra lei e Ren. E questo la faceva infuriare. “Sören non si approfitterebbe mai di una situazione del genere!”
A questo l’espressione della cugina si ammorbidì. “Non sto dicendo che avete fatto qualcosa alle spalle di Scott … So quant’è corretto lui, e quanto sei onesta tu quando ti impegni.” Sentendo Alexandra piagnucolare mise la mano dentro la carrozzina per sistemarle la coperta. “Ma ti conosco da una vita Lily, e mi rendo conto quando le tue attenzioni cambiano binario.”
Si sentiva la bocca secca e la singolare urgenza di darsela a gambe lasciando il conto impagato: e visto che toccava a lei offrire non sarebbe stato carino. “Che intendi dire?”

Roxanne, sospirando all’ormai incipiente pianto della figlia, la prese e cominciò a cullarla. Nonostante il gesto materno, gli occhi erano feroci depositari di verità. “Che da quando è arrivato Prince, Scott è passato in secondo piano.”
“Non è…”
“Tu non ragioni quando c’è di mezzo quel ragazzo.” La interruppe per l’ennesima volta. “Quando c’è lui il resto degli uomini per te scompare. Scott non l’ha fatto, è vero, ma…” Ammise e per Lily fu la scialuppa di salvataggio. Perché si sentiva affogare.

“Perché sono innamorata di Scott.” Sottolineò con forza. Sperò di non averlo urlato, anche se dalle occhiate che si sentiva addosso era piuttosto probabile. “Lo amo, e voglio davvero costruire qualcosa di duraturo con lui! Ren ed io abbiamo un rapporto complicato, okay, ma non c’entra niente con quello che c’è tra me e Scott! È lui che voglio!”
Roxanne accolse la sua confessione accorata con la solita, placida tranquillità con cui aveva sempre accolto ogni suo tracollo nervoso. “Allora devi metterlo in primo piano, Rossa.” Replicò. “Perché credimi, in quest’ultimo periodo non lo stai facendo.”

“Okay, l’ho un po’ trascurato…” Ammise perché continuare su quella strada ormai era inutile: era stata scoperta in flagranza di reato. “Ma Ren aveva davvero bisogno di me, e non me la sentivo di lasciarlo solo… Non posso ancora dividermi in due.”
La cugina non disse niente per qualche attimo, in apparenza più occupata ad accarezzare i riccioli ribelli della figlia e mormorarle sciocchezze a bassa voce. “Lily.” Esordì poi ed era il tono delle grandi rivelazioni, quindi si irrigidì. “Sei sicura che sia Prince ad aver bisogno di te?”
“Che…”
“Non è che sei tu che hai bisogno di lui? La storia degli allenamenti, per esempio…”
“Certo che ho bisogno di lui.” Non era poi questo gran mistero. “Ci aiutiamo a vicenda! Io lo aiuto con i casini che ha … e lui mi aiuta con i miei.”
“E perché non può essere Scott ad aiutarti?”

Non c’era cattiveria, né desiderio di metterla in difficoltà dietro quell’ultima frase, eppure fu come se l’altra le avesse tirato uno schiaffo.
La verità è sempre un ceffone a cinque dita.
“Il tuo mestiere è capire cosa c’è dentro la testa delle persone.” Continuò quieta e spietata. “Forse è ora che ti concentri su quello che c’è nella tua.”
Adorava Roxanne, ma diavolo, se la odiava quando aveva ragione.



****
 
Giardini di Kensington, Ora di pranzo.
 
Godersi il sole quando si degnava di uscire era una sorta di imperativo categorico quando eri in terra d’Albione perciò Milo quella mattina aveva afferrato il giubbotto e si era diretto ai giardini di Kensington, girando senza meta finché non era arrivato per puro caso in un delizioso giardino italiano dotato di fontane e panchine dirette verso la sua stella gigante preferita. Allungato quindi su una di esse, con gli occhiali da sole si godeva il dolce far niente.
Grazie al cielo il principino è andato a smaltire la sua Sehnsucht all’Accademia di duello.
Giorno libero. Ah.
Quando un’ombra gli oscurò la luce aggrottò le sopracciglia. “Mi stai facendo ombra.” Stimò senza aprire gli occhi. “Chiunque tu sia.”
“È così che passi il fine settimana? Ad oziare in un parco cittadino?”

Ormai avrebbe riconosciuto la voce di Maghetto Stronzo anche in mezzo ad una folla di Babbani. “Il parco cittadino in questione è un giardino italiano costruito dai vostri illuminati regnanti, ignorantone.” Ritorse con il piacere di sapere che l’offesa sarebbe andata a segno. “Anzi, c’è una bella storia d’amore dietro … pensa che è stato costruito dal principe Alberto per la Regina Vittoria. Ho visto il film un paio d’anni fa, ho pianto come un bambino.”
Sentì l’altro sbuffare e poi accomodarglisi a fianco. Girando la testa lo vide con la schiena dritta e neppure un asola della giacca sportiva fuoriposto. La tenuta domenicale di Michel consisteva in qualcosa che sembrava uscita dalla settimana della moda di qualche Capitale chic, ovviamente.  

La qual cosa gli faceva venir voglia di prenderlo sull’erba. “Non ti avrei mai fatto un tipo da film romantici.” Rispose infine distogliendolo dai suoi pensieri.
“Ehi, il romanticismo lo abbiamo inventato noi tedeschi.” Gli strizzò l’occhio, facendosi scivolare gli occhiali sopra la testa. “Come mi hai trovato?”

“Ti ho messo addosso un incantesimo di Localizzazione.”
Cosa?
Michel gli lanciò un’occhiata perplessa. “Ti pare? Sono andato al Paiolo Magico ed ho chiesto di te. Hai lasciato detto dov’eri.”

“Sì, per il principino.” Convenne rilassandosi: okay, era stato un’idiota e quel suo scatto meritava delle spiegazioni.
Ma devo proprio?
“Stavo solo scherzando…” Dall’espressione ferita dell’altro doveva; non aveva idea della direzione di quel rapporto, ma di certo non voleva rovinarsi la giornata per dell’ironia travisata.
“Sono un po’ paranoico su quegli incantesimi là…” Spiegò ficcandosi le mani in tasca per avere un posto in cui tenerle. Adorava i jeans, sembravano fatti apposta per ospitarle vita natural durante. “… La Traccia e palle varie. Sono un po’ paranoico sul farmi rintracciare in generale.” Ammise a mezza bocca.
“Perché?”
Non poteva biasimare la curiosità del maghetto; specie perché aveva messo in chiaro fin da subito che voleva sapere tutto di lui. Scrollò le spalle, sentendo il solito legaccio attorno al petto. “Diciamo che c’è gente che non voglio sappia dove sono.” Si limitò a dire. “Niente di pericoloso, né debiti da, eh…” Soggiunse perché si poteva pensar male. “Solo … gente che non mi va di vedere.”
“La prossima volta ti chiamo.” Fu la replica quieta e quando alzò gli occhi – detestava abbassarli in quelle circostanze, ma gli veniva naturale – trovò solo un sorriso.

Il maghetto bastardo stava giocando bene le sue carte.
“È okay.” Borbottò avendo l’orrenda sensazione di comportarsi come un adolescente riottoso. Quel giorno era l’altro in controllo della situazione. Se lo scambiavano a vicenda. “Ma tu non hai roba da burocrate da burocratizzare?”
“Oggi è sabato, anche a noi colletti bianchi danno un giorno di buonuscita.” Ironizzò. “E volevo vederti.”
Bene davvero.

Perché non stava dicendo niente di che, ma era come lo stava dicendo. Con la naturalezza di una persona che voleva sul serio passare del tempo con lui.
E non con Milo, bello. Con Emil.
“Guarda che il mio sabato è meno entusiasmante di quanto pensi.” Ribatté con una scrollata di spalle. “La prima parte, almeno … Mi addormento al sole e poi torno a casa, o in questo caso in quel fetido buco che osano chiamare locanda, e mi esercito un po’. È la sera che divento divertente.”
“Allora se non hai niente da fare posso invitarti a pranzo.”
Si era fregato con le sue mani. Non che fosse una sconfitta così tremenda. “Sì, beh … perché no?” Cercò di suonare più scazzato che poté, ma non stava facendo un gran bel lavoro.

Oh, come se fosse il primo tizio che ti invita a pranzo!
… beh, di solito il pranzo lo scrocchi post-scopata.
Questo la diceva lunga su quanto fallimentare fossero le sue capacità relazionali.
E poi il principino viene chieder consiglio a me per le sue pene d’amore. Poveraccio.
“Cos’è, un appuntamento?” Gli uscì brusco quando si furono alzati in piedi e Michel si fu acceso una sigaretta. Ora suonava ufficialmente come un adolescente riottoso.
L’altro gli passò il pacchetto e lo guardò stupito. “Certo che lo è.”
“Ah. Okay…” Annuì perché non aveva idea di come reagire a quella spudorata sincerità. Era di certo una nuova tecnica per farlo capitolare.
E cazzo, stava funzionando.
 
Gli sembrava di addomesticare un gatto randagio.
Il paragone era particolarmente azzeccato considerando che Emil l’aveva seguito all’interno del ristorante che aveva scelto – non distante da là e con una meravigliosa vista su Hyde Park – con la prudenza di chi si aspettava una fregatura da un momento all’altro.
Quell’atteggiamento sfuggente avrebbe forse smontato qualcun altro, ma lui aveva passato anni a morir dietro ad un ragazzo che non voleva saperne di lui.
Ho esperienza nei rifiuti. E qui non mi si sta rifiutando.
Chiese quindi al maitre di sala il tavolo migliore e quello dovette intuire la capienza della sua borsa da come lo pilotò proprio di fronte alle vetrate nonostante il posto fosse affollato.
Ottimo.
“Cos’è, gli hai lanciato un Imperius?” Borbottò l’altro, ma non gli sfuggì come si guardò attorno impressionato: al di là dell’aria trasandata e l’eloquio di strada, era evidente che  apprezzasse quanto lui i tavoli con vista, l’eleganza di posate scintillanti e le tovaglie immacolate.
È cresciuto nel mio stesso ambiente. Certe cose non possono non mancarti.
“No, non serve. Ha guardato come sono vestito ed ha capito cosa volevo.” Replicò sciogliendo il tovagliolo e mettendoselo sulle ginocchia. “Il guardaroba è il miglior biglietto da visita di un uomo.”
Emil inarcò le sopracciglia, incrociando le braccia al petto e scivolando un po’ sulla sedia. “E il mio allora cosa dice?”   

Accolse la sfida ed intrecciò le dita sotto il mento: scansionò i jeans slavati ad arte e la maglietta tesa alla perfezione sulle spalle e sui bicipiti. “Sembra che non ti importi di quello che indossi, purché riesca a farti rimorchiare in un club pieno di bei ragazzi.”
L’altro mise su la solita faccia da schiaffi. “Magari è così. Non sono uno che sta un’ora a mezzo ad analizzare il proprio armadio come te, maghetto.”
“Invece credo di sì.” Ribatté. “Quei jeans e quella maglietta probabilmente costano quanto quello che indosso io. La differenza sta solo in cosa esprimono.”

Emil spalancò la bocca, ma la richiuse mentre un delizioso rossore gli tinse le guance.
Sì. Ho vinto io.
Fu un peccato essere interrotti dall’arrivo del cameriere con i menù. Dopo avergli consegnato però le proprie ordinazioni, l’altro riprese la conversazione di sua sponte. “Stai dicendo che la mia è tutta scena?”
Se lui era permaloso, anche Emil non era da meno. “Sto dicendo che metti un grande sforzo nel far passare il messaggio che sei un tipo frivolo e a cui piace divertirsi.”
“Anche tu ti ci impegni a sembrare uno stronzo pieno di pregiudizi.”
La frecciatina se l’era aspettata, quindi non se la prese. Aveva intuito che Emil mordeva solo quando sentiva dolere. “Perché è quello che ci si aspetta da me e non nego di esserlo, in parte. Qual è il tuo motivo?”

L’altro bevve un sorso d’acqua. “È un appuntamento o un terzo grado?”
“Di solito agli appuntamenti ci si scambia confidenze.”
“Beh, non mi va di scambiare questa confidenza.” Sbottò brusco. Non fece in tempo a chiedersi se avesse esagerato che Emil fece una seconda smorfia. “Scusa … te l’ho detto, non sono tipo da chiacchierate a cuore aperto. Mi mettono ansia.”

Quella confessione era una vittoria, anche se piccola. Michel ne gioì in silenzio e fece scivolare la mano sopra quella dell’altro. Emil si irrigidì, ma era più sorpresa che fastidio, perché non lo scacciò anche se ritrasse appena le dita. “Non mi aspetto che mi sciorini tutta la tua vita in tempi brevi … ma ho detto che voglio conoscerti e non ho cambiato idea.”
“Sei testardo, inglese.” Sbuffò e in quel momento sembrava proprio un gatto randagio che tentava di capire se la mano che gli veniva tesa era per strangolarlo o per fargli una carezza.
Non era difficile immaginare quante volte fosse capitata la prima opzione.
Strinse la presa e fu contento quando sentì che lo ricambiava. Poco, ma era qualcosa.
“Non immagini quanto.”
 
****
 
Diagon Alley, Accademia Nazionale di Duello.
Pomeriggio.
 
Lily avrebbe voluto lanciarsi un Oblivio; aveva accarezzato a lungo quell’idea, praticamente per tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Purtroppo aveva una cosa chiamata spirito di conservazione, e il maledetto le impediva di sciacquarsi via di dosso la conversazione con Roxanne.
Inspirò, stringendo con convinzione la borsa mentre entrava nella mole vittoriana ed elegante dell’Accademia Nazionale di Duello. Quel posto gli era sempre piaciuto – pieno di bei ragazzi – ma in quel momento le sembrava l’anticamera dell’inferno.
Dopo quello che Roxie mi ha detto … Come faccio ad allenarmi con Ren?
Si sentiva confusa, e vedere l’amico non avrebbe certo aiutato.  
Roxie dice un sacco di cavolate! Non è perché se trascuro un po’ il mio ragazzo automaticamente penso a qualcun altro! Ho solo avuto tanto da fare.
… Con Ren.
Cavolo!
Entrando negli spogliatoi rilesse il messaggio che aveva mandato a Scott e la sua risposta: quella sera si sarebbero visti per una semplice cena e un film a casa sua, il genere di serata che entrambi preferivano.
Non può essere sempre tutto piste da ballo e tacchi vertiginosi.
Aveva bisogno di un po’ della serena routine che era riuscita a creare con il suo scozzese.
Passerà. È che sei abituata a bere le parole di Roxie come oro colato, ma neanche lei può sempre aver ragione su tutto. Diamine, non è l’Oracolo di Delfi!
Dopo essersi cambiata si diresse verso uno degli specchi che le restituì un’aria piuttosto graziosa per una che aveva passato le ultime ore a sbattere la testa.
Forse avrei dovuto rimandare …
La verità è che non se l’era sentita di farlo: quegli allenamenti, per quanto sfiancanti, le lasciavano addosso la sensazione di aver fatto qualcosa di concreto per combattere le proprie paure e nonostante l’approccio abbastanza dittatoriale di Sören, per la prima volta in vita sua aveva controllo completo della sua magia.
Sarebbe un buon professore. Dev’essere di famiglia.
Per non interrompere il corso di quei pensieri positivi entrò nella saletta con un sorriso stampato in viso. “Ehi Ren!” Lo salutò vedendolo armeggiare con il tabellone segnapunti. “Eccomi qui!”
“Ehi. Ben’arrivata.” Sembrava così contento di vederla che si sentì in colpa ad aver pensato di bidonarlo.
Per le mie pare mentali poi!
“Fammi controllare il corpetto.” Le chiese aggirandola per controllarle le chiusure dietro la schiena; era un gesto che faceva ogni volta quindi non c’era alcun motivo per sentirsi a disagio.
Si sentì a disagio.
Non si era mai accorta di quanto il respiro dell’altro fosse caldo e di come le mani fossero salde; cioè, se n’era accorta ma non l’aveva mai notato. La fisicità tra di loro era sempre stata strana, con momenti in cui abbracciarsi e toccarsi pareva inevitabile come altri in cui anche il solo sfiorarsi delle dita faceva rinculare l’altro come se l’avesse ustionato.
È evidente che ormai si è abituato a toccarti anche in situazioni normali. 
Non sapeva però se fosse un bene o un male. Al momento era troppo occupata a tenere i suoi pensieri in una direzione che non implicasse una fuga verso il primo drink disponibile. “Troppo stretto?” Le chiese facendo capolino dalla sua spalla. Lily si rifiutò di sobbalzare e scosse la testa.
“No, va alla grande. Non vogliamo che mi restino brutti lividi e bruciature, no?” Scherzò. “Voglio dire, con la pelle meravigliosa che mi ritrovo…”
Sören non  parve percepire il suo imbarazzo. “No, non lo vogliamo.” Replicò divertito. “Sei pronta?”

“Nata pronta!”
Oh Merlino, nata pronta. Nata pronta: l’ho detto sul serio?

Era una fortuna che Sören non fosse capace di capire quando una battuta era incredibilmente ridicola; perché ne avrebbe fatte altre, ne era sicura.
Almeno non si è accorto che sono un fascio di nervi…
 
Lily era un fascio di nervi.
Non bisognava essere esperti dell’universo muliebre per capire che aveva la testa in un posto poco piacevole. E questo ovviamente, facendole sbagliare un movimento di bacchetta che era riuscita a compiere senza sforzi la volta precedente, la faceva diventare sempre più irritata e confusa.
“Lily.” La fermò quando la barriera che tentava di lanciare tremolò e si dissolse in uno sbuffo argentato per l’ennesima volta. “Facciamo una pausa.”
“No, ce la faccio!” Protestò testarda. “L’altra volta ci sono riuscita … è una cosa così stupida!”
“Creare un incantesimo scudo di quarto livello non è mai una cosa stupida.” La corresse gentile, eliminando la distanza tra di loro e abbassandole il braccio. Dopo una lieve resistenza l’altra cedette. “Non sei concentrata, così non ha senso continuare.”
Sono concentrata!” Sbottò guardandolo con rabbia. “Mi sto spaccando la schiena da un’ora!”

Sören batté le palpebre confuso: non si era aspettato quello scoppio ma ancor meno si aspettò le lacrime che le riempirono gli occhi. “Lily…” Mormorò sconcertato. “Cosa c’è?”  
L’altra per tutta risposta tirò su con il naso, girò le spalle e tentò di darsela a gambe allontanandosi a grandi passi verso l’uscita. “Lily, torna qui!”  
Ma che ho fatto di male?
Forse era stato troppo severo, ma parve funzionare, perché l’altra si bloccò, voltandosi per guardarlo con occhi lacrimosi. “Forse è meglio se per oggi la smettiamo qui, hai ragione.” Pigolò con una voce così fragile che si sentì immediatamente un orco ad averle urlato addosso. “Non… non mi sento tanto in forma.”
Sören sospirò: qualsiasi cosa fosse successa era suo dovere indagare e risolvere, se possibile.
“Lilian…” La chiamò con quello che era diventato ormai un vezzeggiativo alla stregua del sempiterno ‘Ren’. “C’è qualcosa che ti turba, è palese. Puoi dirmi cos’è?”
 
Sicuro! Potresti spiegarmi come mi levo dalla testa l’idea di preferire te al mio ragazzo?
Era questo che avrebbe voluto dirgli, ma ovviamente non era un’idea brillante se non voleva incasinare le cose in maniera definitiva, trascinandovi il suo povero, ignaro amico.
Aveva bisogno di riflettere su quello che le aveva detto Roxanne, invece di soffiarci contro ed evitarlo, tutto lì. Ma non era semplice farlo con lo sguardo preoccupato di Sören piantato addosso.
“Ho … ho avuto una brutta giornata. Una discussione.” Riassunse. “Con Roxie e … beh, come riesce ad entrarmi sotto la pelle lei, nessuno mai.”
“Spero niente di grave.”
“No, no … una sciocchezza.” Stornò agitando la mano e sperando di essere convincente a gesti, se non con il tono. “Cose da cugine.” 
“Capisco.” Sören si passò la bacchetta tra le mani nella tipica maniera impacciata dei ragazzi quando cercavano di gestire una crisi isterica femminile.
Tanta buona volontà, sostanzialmente inutili.
“Posso fare qualcosa?”
Oh, Merlino.
L’impulso di abbracciarlo fu talmente forte che fu quasi come prendere uno schiaffo in faccia. Non era una buona idea, comunque. Non se ne aveva una voglia così terribile.
A quanto pare si può sviluppare una dipendenza dagli abbracci. Graaande.
“No, guarda … penso che la cosa migliore è che vada a casa e mi faccia un bel bagno caldo.” Gli strizzò l’occhio. “Non preoccuparti, sto bene.”
Non posso scappare da una lezione dopo che gli ho chiesto espressamente di rimanere per farmi lezione!

Sören sembrò rilassarsi e annuì. “Ti accompagno.” Esitò, poi assunse un’aria decisa ed aggiunse. “Ma prima che tu te ne vada … posso parlarti di una cosa?”
Okay. E questa?
“Certo!” Rispose comunque dandogli una sana e fraterna pacca sulla spalla. “A disposizione.”
 
Di fronte a due bicchieri di the freddo Sören aveva perso tutto il coraggio.
Una cosa era parlare di Ama a Dionis, un ragazzo, una persona capace di capire la sua visione del mondo una cosa era parlarne a … Lily.
Senza sentirti come un traditore.
L’amica in compenso sembrava essersi ripresa dalla crisi perché bevve un sorso dal proprio bicchiere e squadernò uno dei suoi sorrisi incoraggianti, tali da far riuscire a confessare persino un criminale recidivo.
Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale.
“Beh?” Esordì. “Di che volevi parlarmi?”
Sören giocherellò distrattamente con l’anello. Decise di averci girato attorno si troppo, ed era ridicolo alla sua età e con la sua storia personale, veramente. “Vorrei chiederti un consiglio sentimentale.”
L’altra lo guardò come se non avesse capito, la qual cosa lo fece sentire un autentico idiota. “Sentimentale?” Gli ripeté, ma prima che potesse anche solo aver il tempo di rimangiarsi la frase, aggiunse. “Un consiglio su una ragazza?”

Ormai sei in gioco.
“Sì.” Convenne. “Ama mi ha chiesto di uscire … per un appuntamento. Romantico.” Aggiunse un po’ inutilmente. Ma forse no, dopotutto lavoravano assieme, bisognava esser precisi.
Quest’intera faccenda è troppo complicata. Torna sotto il tuo sasso, principino.
Lily in compenso continuava a guardarlo con quella buffa espressione di sorpresa dipinta in viso, quasi avesse appena visto entrare un Ippogrifo su due zampe.
Non ti considera neanche capace di avere un appuntamento.
“Sì, sono rimasto sorpreso anch’io.” Ammise irritato: certo, era un disastro relazionale ambulante, come sosteneva Milo…
Ma crede davvero tanto incredibile che una donna possa ritenermi desiderabile?
 
Reagisci cretina!
C’era una vocetta, lieve ma persistente, che le urlava di piantarla di fissare Sören come se fosse una specie rarissima di Mandragola. Quella vocetta aveva ragione, naturalmente, perché l’amico le aveva appena detto una cosa importante, chiedendole un parere, e sarebbe stato carino avere almeno una reazione.
Ama gli ha chiesto di uscire.
Ovvero la ragazza che era sembrata così preoccupata dalla sua sparizione da essere antipatica, la strega che si era inalberata quando le aveva chiesto di farsi da parte. La tizia che aveva una cotta per lui, a quanto le aveva detto Milo.
… quella grandissima stronza!
Con il cervello inceppato tentò quindi la prima cosa che le venne in mente. “È grandioso!” Esclamò con la stessa convinzione che avrebbe messo nel convincere Gilderoy che le sue Pozioni non avevano un sapore orrendo. Che tra l’altro si trovava al momento curiosamente in bocca. “Uhm … ben fatto.”
Che cavolo sto dicendo?
Sören le scoccò un’occhiata perplessa. “Grazie.” Rispose. “Quindi pensi che debba uscirci?”
No!
… non fare la cretina.
“Sì … certo.” Al di là della sua tempesta emotiva doveva essere una buona amica per Sören, come lui lo era stato per lei. E poi rispondere ‘no’ avrebbe portato a richieste di chiarimenti troppo scomode. “Voglio dire … quando una ragazza ti piace e lei fa la prima mossa, di solito è una buona idea dirle di sì. Perché … ti piace, giusto?”
Sören si mosse sulla sedia quasi fosse irta di aculei, e non rispose.
“Ren, sì o no?” Chiese con un tono che doveva urlare interrogatorio e uso illegale del Veritaserum. Non riusciva ad importarle. Era troppo arrabbiata.
“Sì.”
Era ovvio. Avrebbe dovuto immaginarsi che prima o poi sarebbe uscito dal bozzolo di introversione e timidezza che l’aveva avviluppato per la maggior parte della sua esistenza disastrata per diventare un mago con una vita sentimentale normale. E ne doveva gioire, perché finalmente aveva trovato una strega capace di ignorare il suo passato per concentrarsi sulla persona meravigliosa che era nel presente.
Perché non gioisco?
Perché sono gelosa.
Realizzarlo fu come esser traditi dal suo stesso cervello. E non era una bella sensazione.
Inspirò, tentando di calmarsi e comportarsi come la Lily di cui l’altro aveva bisogno. “Allora esci con lei.” Gli mise una mano sul braccio e lasciò che fosse l’affetto che provava a parlare. “Il primo appuntamento fa paura, lo capisco. Pensi che farai un disastro, ma non è così, okay? Io sono uscita con te un sacco di volte, e sei una compagnia adorabile, posso assicurartelo.”
“Non è la stessa cosa.”
No, non lo è.

Strinse la presa sul braccio dell’altro. Era un gesto che serviva a lei a dirla tutta. “Andrà bene.” Lo rassicurò con il suo sorriso migliore. “Hai il diritto di essere terrorizzato, hai il diritto di preoccuparti per cosa ti metterai e di cosa parlerai … hai il diritto di essere felice con una ragazza. Quindi fallo se è quello che vuoi.”
Sören, che l’aveva guardata con quei suoi stramaledetti occhi neri per tutto il tempo, le sorrise. “Grazie, lo farò.”
Ora sì che aveva voglia di sbattere la testa contro un muro.
 
 
Roxanne accoglieva il sonno della figlia come un miracolo. Per questo, quando la bambina finalmente scivolò senza scossoni nel mondo dei sogni, si diresse verso il divano e lì vi franò dentro, godendosi il silenzio della casa e persino della mancanza di Dionis, che per quanto fosse un tesoro, aveva la malaugurata abitudine di riuscire a svegliare la piccola ogni volta che metteva piede in casa.
Quindi, quando sentì il cellulare vibrare nella tasca della felpa fu tentata di liquefarlo con un Incendio.
Diede un’occhiata al display e ci andò maledettamente vicino.
Lily.  
Non aveva bisogno di usare falsa cortesia con la cugina, quindi andò dritta al punto della faccenda. “Rossa, sto cercando di ricordarmi come si fa a dormire e tu mi hai interrotto. Spero che sia importante.”
“Sono nella merda.”
Lo era.

Si tirò a sedere e si abbracciò rassegnata le gambe. “Che hai combinato?”
“Un casino…” La voce di Lily era vicino alla rottura e questo non era un buon segno: sua cugina poteva essere emotiva, ma quasi mai arrivava al punto da chiamare qualcuno sull’orlo delle lacrime. Era troppo orgogliosa. “Avevi ragione. Come al solito, hai ragione tu.”
Capì subito il cuore del problema. E la persona a cui era associato. “Cos’è successo con Prince?”

“Mi ha chiesto se dovesse uscire con una sua collega.”
Alla faccia del tempismo.
“E tu che gli hai detto?” Non aveva bisogno di dare pareri o dispensare consigli quando Lily era in quello stato d’animo. Solo di fare le domande giuste.
“Quello che gli avrebbe detto ogni buona amica. Che deve uscirci e che sono felice per lui.” Un’altra incrinatura più vicina al pianto. Se la immaginava raggomitolata da qualche parte, in camera propria o chiusa in bagno con l’acqua che scorreva.
La seconda, sento il rumore.
“E invece cosa sei?”
Lily di fronte a domanda diretta capitolava sempre. “Sono gelosa.” Mormorò e poté immaginarsela chiudere gli occhi e stringere i pugni: realizzare era un po’ come irrigidirsi quando si veniva colpiti da una Pluffa. “Non voglio che esca con Ama.”
“Perché?”
“Perché è perfetta per lui. Finirà per innamorarsene, me lo sento.”
“E non vuoi che accada.”
“No.”
Ci fu una lunghissima pausa in cui Roxanne si controllò lo smalto delle unghie e sperò che finalmente Lily potesse mettersi il cuore in pace. Che fosse con Scott o con Sören o con chiunque altro non le interessava.

Rimane ferma in un punto, Rossa. Smetti di scappare.
“Amo Scott…”
“Lo so.”
“Ma non voglio che Ren stia con nessuno.”

“Già.”
“Roxie…” Mormorò infine ed era piuttosto certa che avesse sbattuto la nuca contro il muro dietro di sé: tendeva a farlo quando voleva punirsi. “… dì la verità, sono una persona orribile?” 
“No, Rossa.” Sospirò. “È che sei un casino ambulante.”
Lily ridacchiò, tirando su con il naso in maniera sospetta. “Rimani un po’ al telefono con me?” Chiese con un tono definitivamente lacrimoso. “Puoi anche addormentarti.”
… e arrivederci sonno.
“È proprio quello che ho intenzione di fare.” Commentò mettendosi il telefono nell’incavo della spalla e preparandosi a passare un intero pomeriggio a parlare.
 
****
 
Note:

Dal punto di vista emotivo, le cose si danno una svegliata! ;D
Questa la canzone del capitolo. L’ho cambiata all’ultimo perché praticamente parla di quel che succede. L’altra, che fa comunque da sfondo al capitolo è questa Enjoy!

Poi potrei aver fatto un fanmix Al/Tom su 8Tracks. Quei due mi mancano quando non ne scrivo per un po’.
Per chi volesse vedere gli Italian Garden dove si sono ritrovati Milo e Michel ecco qui

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Capitolo 31
*** Capitolo XXX ***


Capitolo XXX

 
 


But it’s just the price I pay / Destiny is calling me
Open up my eager eyes ‘cause I’m Mr Brightside
(Mr. Brightside, The Killers.)
 
 
18 Luglio 2028
Somerset, Casa di Scott Ross.
Mattina.
 
Scott non aveva mai avuto intenzione di restare a Londra per sempre.
Quando era tornato  non avrebbe mai immaginato che avrebbe finito per abitare in pianta stabile in un cottage nel Somerset, né tantomeno di accettare il lavoro all’Archivio Ministeriale, inizialmente un semplice passatempo in attesa di tornare in Australia.
Se era rimasto, era stato principalmente a causa di Lily. Era stato con gli occhi della sua ragazza che aveva visto Londra e se ne era innamorato, era stato con il suo entusiasmo contagioso che era stato inserito nella cerchia dei figli del Salvatore. E non se ne lamentava, perché aveva passato un periodo divertente, anche se un po’ troppo sopra le righe per i suoi gusti.
Ora però le cose erano cambiate e quella mattina vi rifletteva mentre preparava la colazione per entrambi, imburrando scones e mettendo sul fuoco il bollitore.
Si sta allontanando.
Non che lo stesse tradendo; non aveva pensato neppure per un momento a quell’eventualità, perché Lily Luna poteva avere un carattere leggero, ma era corretta.
Se volesse un altro, me lo direbbe. Non si è mai fatta problemi a lasciare un ragazzo quando non le interessava più.
Lily lo voleva ancora, ma si stava allontanando e la colpa era di Sören Prince.  
Altre persone avrebbero confrontato l’americano, ma Scott non era sicuro che avrebbe funzionato. Gonfiare il petto ed intimargli di lasciare in pace Lily sarebbe servito? Dubitava.
Anzi, se Lils venisse a sapere che ho detto al suo migliore amico di levarsi dai piedi …  
Quindi, dopo la debacle della loro mini-fuga in Scozia, aveva preso l’irrevocabile decisione di riconquistare il posto che gli spettava nel cuore della sua ragazza. Aveva già un piano.
Certo, avrebbe semplicemente potuto aspettare che Prince tornasse in America, ma non bastava; attendere che le cose si risolvessero da sole non era mai stato il suo forte.
“Ehi, non senti odore di bruciato?”
La voce di Lily, appena arrivata in cucina, lo prese di sorpresa. Specie quando si accorse che aveva ragione: il fumo che si levava dal tostapane era inequivocabile. “I toast li volevi ben carbonizzati, vero?” Chiese recuperando quello che rimaneva dei suddetti.
L’altra per tutta risposta lo guardò divertita e li fece Evanescere con un colpo di bacchetta. “Ma dì un po’, la testa l’abbiamo ancora attaccata al collo?”
“Perfettamente stabile.” Replicò sullo stesso tono. “È che mi sono distratto un attimo a guardare la tv.” La indicò, benedetta complice della sua messinscena.
Lily parve accettare la bugia, perché si sedette a tavola e si servì il the. “Mangio leggero oggi.” Esordì.
“Ho il terrore di chiederti se sei a dieta … cosa a cui non dovresti neanche pensare.” Suggerì rimediandosi un sorriso compiaciuto. Sapeva come lusingarla.
È anche semplice con l’ego che si ritrova, eh.
Lily scosse la testa. “Oggi la punizione è finita e rientro ufficialmente nelle grazie della Patil, e quindi mi toccherà sgobbare il doppio. Meglio se non mi appesantisco … e poi questo pomeriggio vado a dare una mano a Teddy, sai, per la camera di Benedetta.”
Annuì, con la testa ancora settata sui pensieri di poco prima. Era il momento di metterli in azione.

“Stasera pensavo di andare a cena fuori…”
Lily alzò lo sguardo dal Profeta che stava sfogliando distrattamente. “Oh!” Sorrise. “Dobbiamo festeggiare qualcosa?”

“No, mi va di portarti in un posto carino, tutto qui. Giuro che mi metto persino una cravatta.”
“Ed io cercherò di non essere troppo sexy.” Gli strizzò l’occhio di rimando prima di sporgersi a baciarlo, ma dovette percepire qualcosa con quei suoi straordinari e scomodissimi poteri perché si staccò subito. “Non è che c’è una fregatura?” Chiese tra il divertimento e il sospetto. “Tipo che mi porti a conoscere i tuoi?”
“Li hai già conosciuti.” Le fece notare tranquillo
Lily parve convinta. “Stasera voglio mangiare pesce!”
“Ricevuto!”

La fiamma c’era ancora, nessun dubbio; avrebbe quindi lottato per tenerla accesa.
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Mattina.
 
“Come va la preparazione dell’arrivo di Ben?”
“Bene. Cioè, non che io e Ted ci capiamo granché di arredamento e di camere per bambine … ma dobbiamo sbrigarci, domani la dimettono. Oggi viene Lils a darci una mano. O a prenderci per il culo, non ho ancora capito.”
“Io direi entrambe le cose.” James Potter era una continua scoperta, pensava Scorpius. Da quando lo conosceva, e non contava il periodo in cui si erano scazzottati per i corridoi di Hogwarts, non aveva mai smesso di stupirlo. Era capace di essere il più testardo degli idioti, di masticare pregiudizi e idee preconcette a colazione, e poi accogliere nella sua vita una novità grossa come avere una bambina senza battere ciglio.

Un idiota sorprendente!
“Quindi adozione?” Chiese mentre passavano le porte dell’ufficio auror. Quella mattina erano arrivati nello stesso momento, quasi scontrandosi una volta usciti dai camini dell’Atrio. Gli era parso esausto – i suoi soliti capelli impazziti avevano una piega quasi umana. A sua domanda gli aveva spiegato di aver passato tutto il fine settimana a rendere la casa prova di piccolo Mannaro.
James, quasi a sottolineare quella sua linea di pensieri, sbadigliò. “Già!” Fece una smorfia. “O meglio, ci vorrà un po’ prima che le cose diventino ufficiali … C’è un periodo di prova o che so io. Per vedere se possiamo essere bravi tutori.”
“Niente feste folli quindi?” Chiese un po’ preoccupato; se si fosse trovato senza il suo principale braccio destro festaiolo sarebbe stato un bel problema.
Sabato c’è la festa!
James gli scoccò un’occhiata orripilata. “Scherzi Malfuretto? Non sto mica andando a farmi monaco. Dovrò solo … sai … evitare di farle a casa mia.” Si strinse nelle spalle. “Ma non le facevamo comunque. Chi ha voglia di andare ad infognarsi ad Hogsmeade quando c’è Londra?”
“Parole sagge.” Convenne rasserenato. “A questo proposito, ne ho parlato con Rosie … niente Incantatrici, neanche se sembra che tu abbia deciso alle mie spalle.”
“Gli hai detto del nostro piano segreto!”
“Non ho segreti per la mia dolce gattina.”
“Dolce gattina un cazzo, è uno Kneazle rabbioso!” Grugnì scornato. “Ti fai già mettere il giogo prima ancora di averlo al collo!”

“L’ho sempre fatto.” Gli fece notare tranquillo, divertendosi all’occhiata schifata che gli venne rivolta.
Senti chi parla … Stai per diventare un padre di famiglia!
James lasciò cadere l’idea da come scrollò rassegnato le spalle. “Allora mi ingegnerò con quel Nott per far avere un po’ di roba seria. Se non abbiamo le Incantatrici, almeno l’alcool!”
“Guarda che ti ho fatto un favore. Sei l’unico, assieme ad Al, che ha la sua metà presente.”
“Teddy non è geloso.” Alla sua occhiata poco convinta fece spallucce. “Delle donne.” Aggiunse. “Sa che preferisco ben altro, anche se continuo ad apprezzare un paio di tette.” Si buttò sulla sedia della scrivania e fece cenno a Bobby, che stava entrando in quel momento. “È la tua Rosie che è paranoica.”
“Mi chiedo da che lato della famiglia abbia preso…”
“Non dal mio!”
“Ehi ragazzi!” Sorrise Jordan dando loro una rispettiva pacca sulla spalla, fresco e riposato come una rosa: era una cosa che gli aveva sempre invidiato a morte. “Gran festa di addio alla libertà questo sabato?”

“Sicuro! Vogliamo fare o no le condoglianze al nostro furetto biondo preferito?” James per sottolineare il concetto fu lesto ad arruffargli i capelli, cosa che lo divertiva immensamente da quando aveva avuto la sciagurata idea di dirgli che era un gesto che detestava. “Deve perdere i pantaloni e la dignità questo fine settimana, non c’è storia che tenga!”
“Preferirei che mi rimanesse almeno la seconda…”
“Scordatelo!” Fu la corale quanto inevitabile risposta.
I ranghi furono ripristinati quando videro arrivare il Sergente Gillespie; per quanto fosse amichevole con loro, Scorpius aveva l’impressione che poco apprezzasse il machismo che veniva spesso e volentieri sciorinato all’interno del loro ufficio.
Siamo quasi tutti maschi … è inevitabile il clima da camerata.
“Buongiorno Sergente.” La salutò cortese, subito imitato dagli altri due. James, che era stato cresciuto in un contesto di donne forti, sembrava temere di oltrepassare il limite ogni volta che la strega era tra di loro.
Prince potrà anche avergli fatto girare l’anima, ma la Gillespie gli mette ansia. E si vede.
“Buongiorno ragazzi.” Li salutò di rimando. “Piani per una festa?” Doveva averli ascoltati, o forse semplicemente era stata investita dal loro chiacchierare; erano famosi in tutto il Dipartimento per tenere alti i volumi dei loro discorsi.
“Sì, il mio addio al celibato! Il prossimo mese mi sposo con la mia fidanzata.” Spiegò trovandovi soddisfazione come ogni volta. “La inviterei, ma è una cosa uhm … molto maschia. Comunque la quota americana ci sarà, ho invitato Prince!”
Venne guardato con sorpresa. “L’agente Prince?” Alla sua faccia confusa scosse fece spallucce. “Di solito non è tipo che va a questo genere di feste … o feste in generale.”

Lo aveva immaginato e si sentì quindi in dovere di sentirsi speciale. “Io e Sören abbiamo fatto amicizia … Credo venga più perché l’ho supplicato che altro.” Ammise. “E poi, è anche un modo per distrarlo.”
“Sono d’accordo. Iniziamo?” Gli sorrise voltandosi poi a prendere qualcosa dalla borsa a tracolla che portava sempre con sé. Ai tempi della scuola doveva essere stata una di quelle ragazze con troppi chili di libri addosso. Gli sarebbe piaciuta. “Come vi avevo anticipato, la mia squadra ha fatto una ricerca sui possibili finanziatori del Demiurgo.”

“È uscito fuori qualcosa?” Lavorando a stretto contatto con gli americani era impossibile non rendersi conto della qualità superiore delle informazioni di cui disponevano, nonché dei mezzi con cui operavano.
A volte qua sembriamo rimasti a lanciarci incantesimi e setacciare Notturn Alley finché non troviamo qualcosa…  
Deprimente. Ma guai a dirlo ad alta voce!
“Delle piste promettenti.” Rispose l’americana. “La mia squadra ha fatto una ricerca nella Pergamena Nera ed ha ristretto la rosa a cinque possibili candidati.”
Cinque!” Esclamò James sgranando gli occhi. “Cavolo, sono pochi! Siamo in sella alla scopa!”
“Magari.” Ama scosse la testa, mentre Bobby arrivava sospingendo una lavagna di sughero che veniva usata nei casi di più ampio respiro, dove non bastavano le pareti dei propri cubicoli per appendere foto e informazioni. “Finché non abbiamo prove che colleghino queste persone al Demiurgo rimangono solo maghi che corrispondono ad un profilo.”
“Che cos’è la pergamena nera?” Chiese curioso.  
“Una lista di maghi e streghe che sono stati segnalati dai rispettivi Ministeri per attività illecite.” Gli rispose. “In realtà non è una vera e propria pergamena, ma un archivio cartaceo presso la sede centrale dell’Ufficio Interfederale di Giustizia. È piuttosto utile quando cerchi nomi fuori dai confini americani … ”
Avere un archivio del genere avrebbe reso le cose infinitamente più semplici dalle loro parti. “Che criterio avete usato per individuarli?”
“Abbiamo fatto una ricerca incrociata su quello che avete scoperto qui. Interesse nelle Arti Oscure, contatti precedenti con la Thule e una causa a cui servono maghi e streghe da usare come soldati.” 
“Quindi questi cinque sono tutte persone che potrebbero volere il Demiurgo per creare una sorta di esercito di super-maghi?” Si inserì Bobby parcheggiando la lavagna di fronte a loro. “Allora sono già troppi.”
“È quello che intendevo.” Convenne la strega con un sospiro, appendendo la prima foto al pannello. “Il primo è Abdul Faiz Katib, ventisei anni, cittadino del Ministero Afghano, figlio di un capotribù Hazara. In Afghanistan il territorio magico è diviso in tribù. Non è un estremista Purosangue, ma la morte del padre ha portato alla spartizione del suo territorio ad opera di altri capotribù, causando la morte di molte persone, molte delle quali suoi familiari.”
“Okay, ma quella gente non vive tra le capre?” Replicò James. “Come sono venuti in contatto con Von Hohenheim?”
Ama gli rivolse un’occhiata che a Scorpius ricordò terribilmente quelle che Prince tentava di tener nascoste quando pensava che fossero un mucchio di idioti rumorosi. “Katib è istruito, ha frequentato Durmstrang grazie ad un anonimo benefattore… È intelligente, carismatico e vuole vendetta.”
“Materiale perfetto per Von Hohenheim.” Le venne in aiuto perché non erano tutti idioti rumorosi. “Il Signor Thule aveva un pallino per far istruire giovani maghi di talento, mi pare, no?”

Ama annuì. “Il padre era uno dei Pozionisti più conosciuti del Medio Oriente ed ha aiutato la Thule a sviluppare una serie di veleni le cui formule per fortuna sono adesso in nostro possesso.” La foto ritraeva un ragazzo dall’aria anonima, ma con un’espressione feroce annidata negli occhi a mandorla tipici del proprio popolo, tanto che a Scorpius vennero i brividi.
Potrebbe essere il genere di persona che crea un esercito, sì …
Ama però non aveva finito. “C’è da dire però che Katib ha tagliato i ponti con la Thule non appena il padre è morto. Ci sono forti sospetti che fu proprio Von Hohenheim ad ordinarne l’assassinio.”
Scorpius incrociò le braccia al petto. “Quindi è difficile che si sia rivolto ad uno dei suoi ex-scagnozzi per farsi aiutare a vendicare la propria gente. Okay, il prossimo?”

Ama appese la foto di un tizio di mezz’età dall’aria pasciuta e vestito con coloratissime vesti africane nonostante fosse di etnia europea.“Renard Thierry, cinquantadue anni, cittadino del Ministero Belga, trafficante di Pozioni e Incantesimi tra il Mozambico e lo Zimbabwe. La situazione tra le due comunità magiche è molto tesa, specie da quando lo Zimbabwe ha dato il via ad una politica razzista nei confronti dei maghi bianchi presenti nel suo territorio. Potrebbe volere il Demiurgo per venderlo ad una delle due fazioni. È un uomo molto influente nell’Africa Orientale, ed ha a disposizioni mezzi e capitali tali da finanziare una ricerca simile per anni.”
“Sulla carta sembra perfetto.” Interloquì Bobby consultando il fascicolo con le informazioni sull’uomo. “Ma qui dice che si è ritirato a vita privata una decina d’anni fa.”
Ama confermò con un cenno della testa. “Si vocifera sia sul letto di morte.”
“Perché fare un colpo grosso quando si ha un piede nella fossa?” Si inserì James scrollando le spalle. “No, a meno che non voglia farlo per lasciare un bel gruzzolo alla famiglia, direi che non è il nostro uomo.”

“Non ha famiglia.” Replicò Ama con un sospiro. “Devo ammetterlo, ognuno di essi ha qualcosa che non mi convince, che mi fa pensare che non sia lui il finanziatore.”
Scorpius sentendo la descrizione degli altri tre sospetti non poté che darle retta; due erano trafficanti di Pozioni come Thierry, con i quali la Thule aveva collaborato per piazzare i suoi ‘prodotti’ e l’ultima era una terrorista cecena che lottava per affermare la supremazia della propria corrente politica – neanche a dirlo, Purosangue – su quella dell’attuale Ministero liberale del suo paese.

Era spaventoso realizzare come, nel mondo, esistessero tanti maghi pronti a fare quello che aveva fatto Voldemort decenni prima. Dava una prospettiva tutta diversa alle cose.
Noi abbiamo pensato che il Signor Faccia da Serpente fosse la minaccia dell’intero Mondo Magico … ma forse non abbiamo mai messo il naso fuori dalla porta di casa. Al mondo i pazzi sanguinari sono ovunque.
“Non c’è modo di di parlare con queste persone faccia a faccia, ah?” James sembrava a disagio all’idea di non poter diventare operativo e non poteva biasimarlo. 
Ma qui si tratta di cooperazione internazionale. Papà lo dice sempre, è come andare a dare un bell’abbraccio ad un Tranello del Diavolo.
“A meno che non abbiamo prove solide del fatto che abbiano avuto contatti con John Doe non possiamo pretendere di interrogarli né tantomeno di mettere piede in un altro Ministero con queste premesse.” Rispose paziente Ama, che sotto sotto pareva inquieta come loro. “Dobbiamo continuare a lavorare sulle prove che abbiamo in Inghilterra e trovare un collegamento che non sia solo una speculazione.”
“A questo proposito sono arrivati i risultati delle analisi fatte nella fabbrica usata per testare il Demiurgo. Nei mozziconi di sigaretta fumati da John Doe e trovati da Prince sono state rinvenute tracce di terriccio inglese.”
James scrollò le spalle. “E quindi? Sappiamo che è in Inghilterra!”

“Non ne avevamo la certezza però.” Obbiettò Ama. “Fin’ora sapevamo solo che la base operativa era qui. Adesso sappiamo che John Doe è qui fisicamente.” Fece una pausa. “Sono riusciti a circoscrivere l’aria da cui proviene?”
Bobby scosse la testa. “Non abbiamo strumenti così precisi, ma l’analisi ha circoscritto l’aria ad Ovest dell’Inghilterra.”
“È già qualcosa.” Sospirò l’americana. “Se non altro sappiamo che Il Camaleonte è stato lì e c’è stato più volte se non è riuscito a pulire del tutto i suoi stivali.”
“Stilo una lista dei luoghi magici in quella zona?” Suggerì. “Forse è da quelle parti che alloggia. Se hanno problemi con il Demiurgo e stanno usando cavie inglesi, lui e la madre di Prince saranno rimasti a supervisionare, no?”
Ama annuì. “Non sarà facile trovare due maghi che hanno passato la vita a nascondersi … ma vale la pena provare.”

 
****
 
Lincoln Inn Park, Mattina.
 
Sören non aveva ancora trovato il modo per riavere l’indagine e aveva l’impressione di aver promesso a Lily qualcosa che non sarebbe stato in grado di fare.
Era infatti impossibile per uno come lui, abituato sin dall’infanzia ad obbedire agli ordini senza fare domande, disobbedire o ancor peggio far cambiare idea ad un suo superiore facendo valere la propria.

Che poi qual è la tua idea? Ridatemi il caso perché voglio vendicarmi della mia famiglia?
Anche se non era solo quello a muoverlo; c’era tutto un grumo di sentimenti che non riusciva a sbrogliare quando pensava al Demiurgo ed erano così confusi da rendere la sua mente tutt’altro che focalizzata sull’obbiettivo.
Non promette bene.
Doveva trovare una soluzione e l’unico modo che conosceva per schiarirsi le idee era l’esercizio fisico, quindi quella mattina, visto che Dionis non era in Accademia, aveva ripiegato sul correre in un parco vicino, scoperto per caso nei suoi vagabondaggi serali, quando non bastavano i suoi classici due bicchieri di whisky incendiario per farlo dormir tranquillo.
Il parco era piccolo, ma ben curato e piuttosto affollato vista la bella giornata estiva. Le persone oziavano sull’erba che delimitava il sentiero principale e Sören si perse a seguire una partita di tennis giocato da un gruppo di ragazzi, preferendo far finta di non notare la sua scorta auror, due tizi in giacca e cravatta seduti su una panchina vicina. Cominciava a rimpiangere il quieto vivere di Boston.
Però là non avresti Lily. Faresti davvero a cambio? Tranquillità per Lilian?
La risposta che si diede lo spinse ad accelerare; anche la sua piccola amica era un problema che non riusciva – o non voleva - affrontare.  
Ti stai appoggiando troppo a lei. Anche se, in effetti, te lo lascia fare. Addirittura ti cerca.
Avrebbe voluto che qualcuno gli spiegasse come interpretare quell’atteggiamento di Lily, ma dubitava che Milo avrebbe potuto essergli d’aiuto.
Lui è convinto che lei mi voglia. Ma non mi vuole. Non può volermi in quel senso. Ha Scott Ross.  
L’unica persona che al momento pareva desiderarlo era Ama, e per questo, vincendo le sue ritrosie, si era deciso a chiederle un appuntamento per quel venerdì.
Certo, avresti anche potuto chiamarla invece di inviarle un messaggio … Ma il punto rimane, no? Ha detto di sì. Uscirai con lei.
Se non altro, non ti farà pensare a Lily per un po’.
Perso nei suoi pensieri non si accorse dell’avvicinarsi di un altro corridore, che invece di sorpassarlo gli si affiancò. Voltandosi fu sorpreso dal riconoscerne gli occhi chiari e il sorriso mite: era Albus Potter.
“Ciao!” Lo salutò. “Jogging?”
“Buongiorno.” Non era così sorprendente trovarlo lì dopotutto; era il primo parco nelle vicinanze di Diagon Alley, dove entrambi alloggiavano “Sì.” Non trovò di meglio da dire.
L’altro gli rivolse il sorriso luminoso per cui era famoso. Sembrava davvero contento di essersi imbattuto in lui. Il che era improbabile: Lily gli aveva detto quanto fosse bravo a fingere il contrario di ciò che provava. “Bel posto, eh?” Interloquì. “Ti secca se faccio un pezzo con te? Mi si è scaricato l’Ipod, se corro da solo e senza musica mi annoio!”
Non poteva negarsi senza sembrare scortese, così annuì; quel gesto gli diede una sensazione di deja-vu.
Non è la prima volta che correte assieme. È successo anche a Durmstrang.
La situazione si prospettava imbarazzante.
Albus Severus Potter era un’ottima persona, ed era questo il problema: emanava un’aura di correttezza tale dal fargli realizzare di non essere al suo stesso livello morale ogni volta che lo incontrava. 
Almeno James Potter è insopportabile.
Un’improvvisa fitta al polpaccio fu l’ennesimo deja-vu di quello scomodo incontro, anche se non era la prima volta che un crampo lo sorprendeva durante un allenamento. Era il modo in cui il suo corpo rifiutava il carico di lavoro a cui lo sottoponeva durante periodi di stress. Rallentò, zoppicando e beccandosi un’ovvia occhiata preoccupata.
“Crampo?” Indovinò l’inglese fermandosi con lui. “Ti successe anche a…”
“… a Durmstrang, me lo ricordo.” Replicò più brusco di quanto fosse necessario. Non riusciva ad importargli mentre claudicava verso la prima panchina libera. “Mi succede spesso, non è nulla di grave.”

“Lo so.” Gli sorrise con aria paziente, sembrando precisamente il Guaritore che era. “Però non sono da sottovalutare. Sono dolorosi e nei casi peggiori invalidanti per giorni …” Fece una pausa. “Posso darci un’occhiata? Sai, adesso sono davvero un Guaritore.”
Sarebbe stato stupido non approfittarne. Annuì e lasciò che l’altro si inginocchiasse per toccargli la gamba. Alzò lo sguardo. “Il muscolo è molto contratto.” Gli comunicò. “Ti succede spesso di avere crampi?”
“È quello che ti ho appena detto.” Odiava ripetersi.
“Ho sentito.” Lo liquidò con un tono che pareva avvezzo alle rispostacce. “Ma con quale frequenza?”

“Non saprei, spesso…” Si trovò a borbottare, tentando di non sussultare quando l’altro premette le dita sul muscolo dolorante. “… alla fine passa.”
Albus – gli aveva detto di chiamarlo Al, ma non si sarebbe mai abituato – scosse la testa con l’aria di considerarlo un bambino recalcitrante. “Certo che passa, ma questo non significa che tu debba zoppicare fino ad allora.” Si alzò in piedi, spazzolandosi le mani sui pantaloncini da corsa. “Dai, ti porto a casa.”
“Come scusa?” Gli uscì sconcertato; non era certo un gatto randagio da accogliere nella propria dimora con una ciotola di latte!

Per chi mi ha preso?!
L’inglese parve di colpo in imbarazzo, almeno a giudicare da come arrossì. Arrossiva come Lily: partiva tutto dalle orecchie per finire a incendiargli le guance. “Scusa sai … l’abitudine.”
“L’abitudine?”
“Tom.” Sbuffò impacciato. “Non prenderla per il verso sbagliato, ma fate il broncio nello stesso modo.”
“Io non faccio il broncio!”

“Beh, veramente sì.”
Non sapeva se essere sconcertato o oltraggiato dalla condiscendenza con cui veniva trattato. Nel dubbio preferì alzarsi in piedi. “Ho chi si occupa di me alla locanda, non ho bisogno del tuo aiuto, ti ringrazio.” Sarebbe stato più convincente se non avesse frenato un gemito di dolore trai denti, probabilmente.
“Ti ho già detto che sono un Guaritore?” Gli trotterellò dietro e Merlino, era insistente come Lily nei suoi momenti peggiori. Doveva essere un tratto comune a tutti i Potter.
A quanto pare ne hai uno anche tu. Con Thomas.
Accantonò quel pensiero non sapendo cosa pensarne, continuando a arrancare verso l’uscita del parco, testardo. Albus Severus non fu da meno; lo sorpassò agevolmente e gli si piazzò davanti. “Meinster non può rimetterti in piedi con la velocità con cui lo farei io.” Dichiarò.
A quanto pare un semplice e cortese rifiuto non bastava. “Sei insopportabile.” Decretò, e non si sentì in colpa. Ogni tanto poteva anche sfogarsi, no?
L’altro ebbe cura di arrossire di nuovo, ma era troppo compiaciuto per essere sul serio in imbarazzo. “Solo quando si tratta di lavoro. Dai, fatti dare una mano.” Replicò sfoderando un’aria supplice che lo fece immediatamente sentire un ingrato.

“Cos’è, il vostro motto di famiglia? Aiuta uno sfortunato?” Gli uscì salace.
Vuole solo aiutarti, smettila di essere così arrabbiato!
Albus lo guardò sorpreso e poi, dal nulla, si mise a ridere come se gli avesse appena raccontato una barzelletta.
Gli piace quando viene trattato male?
Forse era il sarcasmo ciò che aveva apprezzato; da come lo stava squadrando divertito e sorpreso, pareva di sì.
“Ci hai scoperti. Se non aiutiamo una povera anima disperata al giorno ci sciogliamo al sole.” Replicò sullo stesso tono, porgendogli la mano. “Materializzazione congiunta? E ti avverto, faccio abbastanza schifo quindi reggiti forte.”
Non c’era molto altro che potesse fare se non afferrarla e pregare che fosse solo un modo di dire.
 
La compressione da Materializzazione fu terribile e ci volle più di qualche attimo perché non avesse voglia di rimettere la colazione. “Avevi ragione.” Gli uscì soffocato. “Fai schifo.”
L’educazione, principino, l’educazione!
Al diavolo, è stato tremendo. Chi gli ha dato la licenza?
“Già.” Aveva la vista ancora offuscata, ma gli sembrava di essere in un salotto. Gli venne poi intimato di sedersi con una lieve pressione della mano sulla spalla. “Resta qui, vado a prendere il kit medi magico.” Si sentì dire. “Torno subito.”
Lasciato solo, Sören si guardò attorno; era indubitabilmente un salotto, dotato di ampio camino in mattoni cotti e con sopra una mensola ingombra di foto e ricordi scolastici. L’intero ambiente era pieno zeppo di oggetti e suppellettili di svariate forme e funzioni, dal vecchio giradischi all’impianto cd, dalla miriade di cuscini colorati sparsi persino a terra.

I libri erano ovunque, tanto che ne fece cadere alcuni non appena poggiò il gomito sul bracciolo. Ci doveva essere metodo in quella confusione però, perché l’impressione generale era confortevole, calda sebbene il colore dominante fosse il verde della moquette e delle tende. Ma era un verde smeraldo, che gli ricordava un brillante sottobosco primaverile.
Questa è una casa. Il tuo appartamento in confronto sembra a malapena abitato.
“Ehi, e tu chi sei?”
La voce apparteneva ad una ragazzina bionda che gli sembrò Babbana, dato l’abbigliamento, il troppo trucco e la quantità di piercing che aveva addosso. Notò poi la bacchetta.
Nata Babbana?
“Sören Prince.” Rispose, perché gli era stata fatta una domanda. “Albus mi ha portato qui.”  
… ti ha portato qui? Come un cane randagio?  
La ragazza non parve curarsi della risposta cretina perché gli si sedette affianco. “Sì, tende a farlo… È una specie di chioccia alla ricerca di pulcini da proteggere.” Disse svagata. “Ha fatto lo stesso con me. Sono Meike.” Gli tese la mano. “Ce l’hai la ragazza?”
“ … Come?”
Mei!” La voce di Albus fece sobbalzare l’adolescente come se si fosse seduta su un puntaspilli. “Lascia in pace Sören.”
“Via Mutti, non puoi portare a casa tizi carini e poi pretendere che io me ne stia buona. Ho degli ormoni, sai?” Rintuzzò con aria di sfida. Dall’accento si rese conto che era tedesca. E realizzazione doveva essere reciproca perché quando gli si rivolse per la seconda volta lo fece nella loro lingua madre. “Non capita mica tutti i giorni di trovare un conterraneo che non abbia la pancia da birra!”   

“Io…”
“Sören si è fatto male, non ha bisogno di una quindicenne fastidiosa che gli ronza attorno.” Le fece un cenno imperioso, ma doveva esser tutta scena perché pareva piuttosto divertito dal suo imbarazzo. “Sciò!”

Eccheppalle … per una volta che un ragazzo etero varca la soglia di questa casa e non è Malfoy…” Mugugnò, ma obbedì lasciando la stanza con passi pesanti dovuti ad anfibi che pensava potessero portare solo uomini fatti. Poco dopo in tutto l’appartamento risuonò musica rock a tutto volume.
Decisamente un adolescente.
“E quella era Meike, il nostro angelo del focolare.” Esordì prendendo un poggiapiedi e sedendosi davanti a lui con la cassetta medica in grembo. “Anche se sembra tutt’altro che angelica, me ne rendo conto.”
“Perché ti chiama mamma?”
Albus si strinse le spalle, ma non gli sfuggì il rossore che gli incendiò il viso. “Lunga storia … imbarazzante, anche.” L’espressione si addolcì. “Per farla breve … Mei è orfana. Ha una nonna in Germania, ma io e Tom siamo i suoi tutori quando è qui in Inghilterra. Io sono quello più severo e per questo il nomignolo.”
“Le madri di solito sono più severe?”
Venne guardato in modo strano, ma c’era abituato; quando faceva domande del genere succedeva sempre.
“Quelle che conosco io sì.” Gli sorrise. “Togliti la scarpa, vediamo di rimetterti in piedi.”
Non apprezzava quel tono condiscendente, ma avrebbe apprezzato ancor meno dover zoppicare per tutta la giornata quindi ubbidì. Albus gli fece quindi posare la caviglia sulla sua gamba per passargli una densa pomata scura e dal forte odore di erbe. Dopo l’iniziale sensazione di caldo intenso sentì il muscolo rilassarsi lentamente. Alla sua espressione sorpresa, l’altro ghignò soddisfatto. “Noi inglesi non avremo tutta la scienza innovativa che hanno gli americani, ma sulla pozioni e gli unguenti sappiamo il fatto nostro.”  

“Lo so, per anni sono stato curato con metodi tradizionali.” Dopotutto l’America e la sua medicina comparata erano arrivate tardi nella sua vita.  
“Conoscevi questo balsamo? Il principio attivo sono le bacche di Strychnos Ignatia.”
“Pensavo si usasse come tranquillante. Non sapevo si potesse usare anche per curare le contrazioni muscolari…”
“Sì, è una scoperta che è venuta fuori qualche anno fa!”

Non seppe come ma cominciarono a parlare di ingredienti e pozioni come se non avessero fatto altro da tutta la vita; Lily gli aveva detto che il fratello era un pregevole pozionista, ma non gli aveva detto quanto fosse innamorato della materia. Un amore che poteva capire dato che aveva passato la sua infanzia – la parte migliore – nel laboratorio del padre.
“Dovresti riprendere a fare pozioni, sai. Comprarle è comodo, non lo nego, ma farsele da soli …” Albus sospirò mentre gli occhi gli brillavano. “… è tutta un’altra cosa. E poi puoi aggiustare le dosi a tuo piacimento!”
“Cosa piuttosto pericolosa.” Replicò divertito. “Ma immagino che questo per te non sia un deterrente.”
“Tutto il contrario!” Albus cominciò a coprire con una garza la parte ormai non più dolorante. “Aiuterà ad assorbire quello che è rimasto del balsamo. Tienila fino a stasera, okay?”

 
“Che ci fa lui qui?”
 
Il tono di suo cugino non cambiava neppure quando era infuriato. E lo era, a giudicare dal fatto avesse varcato la soglia del salotto e stesse guardando da lui al compagno con l’intero corpo in tensione, un chiaro messaggio di quanto si sentisse pronto ad estrarre la bacchetta. Fece per alzarsi ma Albus glielo rese impossibile, bloccandogli la gamba con un braccio.
“Secondo te che ci fa qui?” Ribatté con un’espressione che avrebbe fatto sentir un patetico idiota
Merlino in persona. “Sentiamo.”
Il cugino, con sua enorme sorpresa visto che ricordava bene il suo temperamento, non perse le staffe, stringendo piuttosto quella che sembrava una borsa della spesa fino a farsi diventare le nocche bianche. Sperò che non volesse tirargliela addosso. “Perché hai la sua caviglia sulle tue gambe?”
L’altro inglese abbassò lo sguardo sulla cassetta medica. “Che lavoro faccio Tom?”
La risposta fu borbottata. “Il Guaritore.”
“E quindi cosa pensi che stia facendo?”

“Quello.” Non avrebbe mai pensato di vedere l’erede di Von Hohenheim comportarsi come un bambino sorpreso a rubare dalla famigerata scatola dei biscotti, testa china e sguardo fisso sui propri piedi compresi. “Ho…”
“Se mi dici che hai frainteso la tua prossima tappa sarà il divano. Per due settimane.” Il tono era leggero, ma era palese che la bacchetta, in quella casa, la impugnasse Albus Severus. “Va’ a mettere a posto la spesa.”

Quando Thomas batté in ritirata – perché altro non poteva essere - si voltò verso di lui. “Scusalo.” Disse liberando la sua povera gamba da una presa che era stata a dir poco ferrea. “A volte crede di essere il protagonista di un melodramma.”
Otello probabilmente.
“Credeva che stessimo …”
“Già, è un idiota.” Gli diede una pacca sulla spalla. “Rimani a pranzo, vero? Tom avrà comprato solo metà delle cose che gli ho segnato, quelle che piacciono a lui, ma Mei dovrebbe riuscire a tirarne fuori un pasto decente.”
“Avrei da fare…”

“Oh. Cosa?”
Con orrore si accorse che non sarebbe riuscito ad inventare una scusa sensata neanche se ne fosse andato della sua vita; gli occhi di Albus Potter sembravano ordinargli di dire la verità, e nient’altro che quella. E non era mai stato bravo a disobbedire. “… niente in realtà.” Ammise. “Ma non vorrei disturbare.” Tentò come ultima spiaggia.
L’altro scosse la testa, facendo Levitare via la cassetta. “Sciocchezze! Sei il benvenuto.” Gli assicurò con un gran sorriso. “Oggi cuciniamo tedesco!”
 
****
 
Hogsmeade, Casa di Ted Lupin e James Potter.
 
“Sei proprio sicura? Luci natalizie?”
“Fanno tanto effetto cielo stellato, vedrai, le adorerà!”
Ted, per quanto volesse bene a Lily, si fidava delle sue idee quanto si sarebbe fidato a cavalcare la scopa da corsa modificata di James, chiamata affettuosamente Il Vessillo Della Morte. Tuttavia c’erano momenti in cui doveva fare un passo indietro in quanto bipede maschio. Ed era quello il caso.
“Vedrai, le piacerà!” Ripeté la ragazza appendendole con piccoli colpi della bacchetta, mentre tutti attorno a loro si affastellavano scatoloni già parzialmente svuotati di oggetti e biancheria; avere una famiglia adottiva come gli Weasley portava inevitabilmente ad avere quintali di cose da riportare a nuova vita ed utilizzo. “Mi passi le tende? Quelle da appendere al letto dovrebbero essere nello scatolone rosso.”
“Arrivano.” Si chinò a cercarle, lanciandole un’occhiata meditabonda; non aveva ancora avuto modo di ringraziarla per quanto aveva fatto e stava continuando a fare per Benedetta.

Certo, si è impicciata nonostante le avessi chiesto il contrario, ma è Lily … Le dici di fare una cosa e fa l’esatto opposto.
“Grazie.” Disse passandole la montagna di stoffa ripiegata e dal profumo acuto di canfora. “Per oggi, e…”
“Non c’è problema. Siamo una famiglia, no?” Lo bloccò, come se far parlare Benedetta fosse stata una cosa da niente: era un atteggiamento che le faceva onore quanto era irritante. Ma ancora, era Lily.

“Ben è una bambina fortunata, ha trovato te e Jamie.” Aggiunse appendendo le tende del baldacchino con una maestria che gli ricordò come  fosse la designata erede di nonna Molly. “Molte persone sono sole al mondo e lei non lo è.”
Ted si chiese se stesse pensando a qualcuno in particolare, ma era un po’ un esercizio sterile, perché Lily aveva tanti segreti chiusi in quella sua buffa testolina rossa. Si sedette sul materasso e tirò un sospiro. “Hai ragione … ma mi chiedo se, nonostante tutto, potrò essere abbastanza.”
“Per Ben?” Lily finì la sua opera, la ammirò da un paio di angolazioni e poi gli si sedette accanto; nessuno dei due era mai stato un fan del lavoro continuativo. “Devi volerle bene e … non fare troppe cretinate quando comincerà ad uscire con i ragazzi.” Sogghignò dandogli di gomito. “Tra tu e Jamie … parlo per esperienza … poverina.”
“Soprattutto Jamie.”
Soprattutto.”

Si sorrisero e rimasero in confortevole silenzio a guardare le centinaia di piccole luci natalizie che galleggiavano sul soffitto. “Hai ragione, sono deliziose.” Ammise.
“Te l’avevo detto!”

Ted si era accorto di come l’altra fosse pensierosa – certo, nei suoi limiti, quindi pareva comunque il manifesto della gioia di vivere. “Come va?” Offrì quindi diplomatico.
“In generale o in particolare?”  
“Tutt’e due?”
“Così…” Non si sbilanciò e non era un buon segno. Lily era un’entusiasta di natura: qualsiasi sua piccola gioia diventava trionfale, come, al contrario, qualsiasi problema diventava teatro di una possibile tragedia. La quiete emotiva, in lei, era preoccupante.
“Problemi in ospedale?”
“No, no, là va tutto bene. Adoro i pazienti.” Gli sorrise. E sì, c’era qualcosa che la turbava.
E allora andiamo per esclusione.
“Con Scott?”
Ed eccolo lì il nocciolo del problema; lo capì da come raddrizzò le spalle ed assunse la tipica aria colpevole di quando, da bambina, combinava una marachella. In questo lei e i fratelli erano identici. “Il solito…” Mugugnò. “Cioè, uhm.” E si bloccò. “Se ti dico che non ne voglio parlare per mettermi al lavoro sono credibile?”
“Direi proprio di no.”
“Cavolo.” Borbottò buttandosi stesa sul letto. “Cavolo.” Ripeté lentamente, quasi stesse assaporando la parola. “Ti è mai capitato di sentirti in stallo?”
“In un rapporto?” Annuì: aveva una certa esperienza in materia, per quanto preferisse non pensare al fallimento che era stato il suo rapporto con Victoire. Erano tornati in buoni termini, ma non sarebbe mai più stata la stessa cosa ed era un rimpianto che si sarebbe portato nella tomba.
Ho rovinato l’amicizia con la mia prima e migliore amica.
“Scotty è perfetto, no?” Fece una smorfia, soffiandosi via una ciocca di capelli che le era scivolata sulla fronte. “Riesce a gestirmi e credo che sia la prima persona in tutta la mia vita in grado di farlo.”
“È un bel primato.” Convenne. “Del resto, noi Tassorosso…” Non poté fare a meno di frecciare per allentare un po’ l’atmosfera. Lily ridacchiò, dandogli un calcetto con il piede. “Allora cosa c’è che non va?”
“C’è Sören.”
Oh.

Non era esattamente un fulmine a ciel sereno; il rapporto con il giovane Von Hohenheim era stato un punto fisso, una pietra miliare nella crescita emotiva di Lily. L’aveva resa più cinica verso l’universo delle relazioni e, in generale, meno disposta ad aprirsi, ma al tempo stesso non era riuscito nel suo obbiettivo principale.
Allontanarla da lui.
“Credo … beh, credo di provare ancora qualcosa per lui.” Mormorò premendosi un cuscino sul viso; sin da bambina era quello il suo modo di reagire quando doveva confessare qualche tremendo segreto. “Morgana, sono un idiota, vero?”
Ted rifletté; non si era mai trovato ad avere il cuore diviso tra due persone. Quando si era innamorato di James, Vic era già ben lontana dai suoi pensieri. “Non sai se scegliere tra Scott e Sören?”
No!” Esclamò saltando a sedere e stritolando il cuscino come se fosse un salvagente. “Voglio dire, razionalmente è ovvio che Scott sia l’unica scelta. Sören ed io … Merlino, siamo troppo incasinati anche solo per pensare … e poi non gli interesso in quel senso. Scott è la mia scelta. È solo … che vorrei smettere di pensare che ne ho anche un’altra. Perché non … decisamente non la ho.” Balbettò e vederla impappinarsi era uno spettacolo inusuale. E un po’ inquietante.
Ted non si riteneva un esperto in relazioni interpersonali. Era un miracolo fosse riuscito avere James – e a riconoscerlo per quel che era, ovvero l’amore della sua vita.
Per questo si riteneva poco qualificato a dar consigli. Però doveva provarci: era richiesto dal suo contratto di fratello maggiore collettivo degli Weasley.
“Mia nonna una volta mi ha detto che razionalità e amore non dovrebbero stare nella stessa frase.” Esordì. “E vista la mia storia personale, tendo a darle ragione.”
Lily fece una smorfia. “Forse, ma…”
“Non posso dirti se sia meglio rimanere con Scott o cercare di capire se quello che provi per Sören possa avere un seguito.” La interruppe. “Però credo che dovresti scegliere ciò che ti rende felice … chi ti rende felice.”
“Scott mi rende felice.” Sbottò quasi con rabbia. “Solo che non posso mollare Sören per lui. È il mio migliore amico e c’è tutta questa … roba … che provo per lui, solo che adesso sta uscendo con una tizia e non sono mai stata così gelosa di Scott e … ed è un casino.” Concluse la tirata soffocando di nuovo il viso nel cuscino. 

Ted le accarezzò i capelli perché se qualcuno gliel’avesse chiesto, avrebbe detto che se l’era aspettato. Aveva visto crescere Lily, l’aveva vista sognare il principe azzurro, l’aveva vista innamorarsi dell’esatto contrario e poi venirne ferita e nonostante questo, non serbare rancore. Aveva combattuto per quel suo principe, che tutti avevano pensato cattivo e irrecuperabile. Quindi sì, da divoratore di romanzi e romantico incallito, non era sorpreso da quella svolta di trama. Per niente.
Io sono un casino.” Soggiunse ad un palese passo dalle lacrime. “Perché sono un casino, Teddy? Che c’è che non va in me?”
“Niente. Lo siamo tutti.” Perché era vero: potevi essere mago o strega, Babbano o magico, ma alla fine della storia era quella l’unica verità scritta nella storia dell’umanità tutta. “Cioccolata?”
 
****
 
Diagon Alley. Casa di Al Potter e Thomas Dursley.
Ora di pranzo.
 
Non era difficile capire di che pasta fosse fatto suo cugino, una volta avuto tempo e modo di averlo attorno.
Non che lo volesse trai piedi, beninteso. Aveva poca simpatia per chi entrava in casa sua e vi rimaneva più tempo di quanto fosse opportuno; tipo, per pranzo.

Albus però la pensava in tutt’altro modo, visto e considerato che aveva costretto Prince ad accettare e lo stava servendo di liquore alle erbe dopo un pasto a tre portate.
“Ti piace? Lo fa mia nonna!”
“È molto buono…”

Cos’ha in mente?
Tom si mosse sulla sedia, incrociando le braccia mentre considerava la situazione per quella che era: qualsiasi cosa stesse complottando Al, Sören, forse per via della sua educazione, forse per i traumi lasciati da Von Hohenheim, aveva un istinto tutto improntato a dargli retta.
Adora farsi dire quel che deve fare, è evidente. Del resto, non è forse diventato una testa di latta al soldo di un Ministero? È un gregario. Ce l’ha nel dna.
“Prendine ancora!”
E Albus, dietro la sua faccetta da bravo ragazzo e i suoi grandi occhioni da cerbiatto adorava dare ordini e disporre le truppe. Non che lo facesse vedere in giro, preferendo atteggiarsi a mite ragazzo di campagna, ma lui conosceva la verità.

Visto e considerato che ti comanda a bacchetta.  
Fece una smorfia, mentre Sören si lasciava riempire il bicchiere con una docilità che confermava a pieno le sue ipotesi. Meike, una volta realizzato che il compatriota non era pane per i suoi denti, era uscita lasciandolo così unico spettatore di quell’irritante teatrino. Decise quindi di prenderne il comando.
“Così ti hanno tolto il caso…”  
Al lo fulminò con un’occhiata che prometteva divani e ritorsioni silenziose, ma la ignorò, concentrandosi invece sulla reazione del cugino. Quest’ultimo a suo favore raccolse le idee prima di parlare. “Sì.” Confermò. “E i motivi immagino tu li conosca.”
Li conosceva, ovvio, dato che Albus si era premurato di andar a cercare risposte sia da James che da Lily. “Dovrei?” Dissimulò.

Sören parve quasi annoiato da quella messinscena. “Se c’è una cosa che ho imparato stando qui è che nessun segreto o dato confidenziale rimane tale se è coinvolto un membro della vostra famiglia.”  
Se vuoi avere a che fare con i Potter Weasley … abituatici.
Al si mosse a disagio. “Ci hanno detto di tua madre … Mi dispiace Sören … Sappiamo che non sono affari nostri, ma…”
“Nel mio caso lo sono. La testa del progetto Demiurgo è, apparentemente, mia zia.” Obbiettò. Non era sua intenzione indagare nella vita del cugino. Era il coinvolgimento della famiglia Von Hohenheim in un ennesimo piano di ‘conquista del mondo’ che lo preoccupava. “Cosa conti di fare per rientrare nei giochi?”
“Sto vagliando varie ipotesi.”
“Quindi non stai facendo niente.”

Tom.” Al sembrava ad un passo dal tirargli la bottiglia del cordiale di nonna Molly. “Non è così semplice rientrare in un’indagine!”
“Andare a far jogging in un parco cittadino non aiuta di certo.”
Tu cosa faresti?”
Sören, da come lo stava guardando, aveva realizzato qualcosa. E Tom sapeva cosa: ovvero che il sangue che condividevano non era l’unico legame che avevano. Avevano anche un obbiettivo, in comune.
La casata Von Hohenheim. Entrambi vogliamo vederla estinguersi più di ogni altra cosa al mondo.
Entrambi vogliamo che sparisca e smetta di inquinare il nostro futuro.
“Non cercherei  di far cambiare idea ai tuoi capi … È ovvio che pensano di averti estromesso per il tuo bene.” Fece un sorrisetto sarcastico che fu ricambiato. Pareva che il cugino non fosse poi così pronto a crogiolarsi nella pietà altrui.
Buono a sapersi.
Giocando a carte scoperte, Sören pareva più a suo agio. “Se stai suggendo che continui a lavorare al caso per conto mio c’è un problema di fondo, e non è l’illegalità in sé.”
Al si morse un labbro. “È la tua permanenza qui, vero? Se non lavori, devi tornare in America.”
“Ho un visto che non verrà rinnovato a fine mese.” Confermò. “Tra dodici giorni dovrò prendere una Passaporta e andarmene.”
“Se non aiuti, diventi un ospite sgradito.” Riassunse. Era un ragionamento corretto alla luce del rischio che la madre o John Doe tentassero di approcciarlo, rapirlo o ancor peggio sfruttarlo per ottenere informazioni.
Corretto, ma sbagliato nella sua premessa. Lo stanno accusando di qualcosa che non ha ancora fatto.
Era una situazione a lui familiare. “Come pensi di convincerli a farti rientrare?”
Sören fece una smorfia, quasi avesse ingoiato qualcosa di disgustoso. L’impotenza, in effetti, aveva un brutto sapore. “Non ne ho la minima idea.” Mormorò.
Ovvio che non ce l’ha…
Sören, come Al aveva teorizzato brillantemente cinque anni prima, in un’immaginaria scacchiera sarebbe stato un alfiere, non il Re. Le sue capacità strategiche non si attivavano senza una direttiva superiore.
Persino quando ha salvato Lily ha avuto degli ordini. Salva la ragazza, non importa se muori.
Li aveva avuti dalla sua coscienza, certo, ma una cosa era una missione suicida, semplice da attuare una volta inquadrato l’obbiettivo…
Un’altra è far cambiare idea a qualcuno. Ben più difficile.
 Si scambiò un’occhiata con Albus e nel mentre si chiese se il suo ragazzo non avesse organizzato tutta quella manfrina del pranzo proprio per portarli a quel punto.
Ovvero ad aiutarlo.
Non poteva escluderlo.
E sono settimane che vuole trovare il modo di aiutare Prince.
“Devi portar loro dei risultati.” Disse decidendo di trattare un problema per volta. “Devi dimostrargli che senza di te le indagini non possono andare avanti.”
“Ma andranno avanti.” Obbiettò l’altro scuotendo la testa. “Sono sostituibile.”
“Devi fargli credere che non è così allora!” Replicò Al.

Eccolo qui, il mio piccolo manipolatore …
Gli rivolse un sorriso che non passò inosservato da come le orecchie dell’altro presero fuoco in maniera vivace.
“E poi sei indispensabile, Sören.” Aggiunse perché non era Albus se non ci metteva una parentesi automotivazionale. “Conosci la Thule e John Doe meglio di chiunque altro, sei stato coinvolto nel Demiurgo ancor prima che tua madre ci mettesse le mani sopra … Tagliarti fuori non è stata una scelta lungimirante!”
“Ma è quella giusta.”
“Spesso fare la cosa giusta non ti porta ad avere ciò che vuoi.” Al abbozzò un sorriso e lo guardò. E c’erano un bel po’ di ricordi e scelte scriteriate dietro quell’espressione. “E penso che fermare il progetto Demiurgo sia quello che vogliamo tutti, no?”
Sören guardò dall’uno all’altro ed era chiaro che nella sua testa, settata sul comando ‘obbedire e servire e non fare domande’, si stesse lentamente profilando un’opzione.
Dimostrami che sei mio cugino, avanti.  
“Volete aiutarmi a riavere l’indagine…” Era così genuinamente sorpreso che Tom percepì il momento in cui gli occhi del compagno di inumidirono di commozione.
Dannati Potter. Se non raccolgono un cagnolino bagnato o uno stramaledetto passerotto con un’ala ferita almeno una volta all’anno non si sentono a posto con la loro egomaniaca coscienza.
“Sì, vogliamo aiutarti se ce lo permetterai.”
“Perché?”

Bella domanda.
Per quanto lo riguardava di motivi ce n’erano abbastanza per non farlo riposar la notte, ma uno spiccava sopra a tutti: i Von Hohenheim avevano rischiato di rovinargli la vita talmente tante volte che vederli tornare, anche se sotto forme diverse, lo portava a desiderare di schiacciar loro la testa come avrebbero fatto con una vipera velenosa.
E non posso farlo se non aiuto qualcun altro. O te, o Albus.
Non era il protagonista stavolta, ma poteva comunque entrare in gioco.

“Perché ne hai bisogno.” Riassunse Al con uno di quei suoi sorrisi omni-comprensivi, che spingevano streghe e maghi ad affidarsi fiduciosi alle sue cure. “E perché non sappiamo farci i fatti nostri.” Aggiunse allegro.
“L’avevo notato.”
“Abbiamo già avuto a che fare con la Thule e le sue macchinazioni.” Gli fece notare. “Inoltre, siamo già coinvolti. Chi pensi che abbia scoperto che tu sei il paziente zero?”  
Sören strinse le labbra, incerto, ma stava cedendo. Voleva troppo quel caso. E infatti, parlò. “Se accetto … come intendete aiutarmi?”
Al gli sorrise. “Iniziamo dalle basi. A che punto sei rimasto con le indagini?”
 
 
“Hai ottenuto quello che volevi?”
Aveva calcolato che Tom sarebbe rimasto arrabbiato con lui per tutta la sera dopo che aveva dato sfogo all’idea che si teneva dentro per giorni senza consultarlo.
Dare una mano a Sören. Sapere come stanno andando le indagini. È quello che volevo … ho solo colto la Pluffa al volo.
Le sue previsioni si erano però rivelate sbagliate: Tom non solo era venuto a cercarlo mentre stava dando da mangiare a Fanny – la quale aveva sempre un posto nel suo cuore e nella sua voliera - ma addirittura gli si era avvicinato mentre l’aveva posata sul braccio, cosa che non faceva mai a meno che non venisse costretto.
“Più o meno.” Non ci girò attorno, intuendo che quel momento di grazia poteva passare com’era arrivato.
“Vuoi davvero aiutarlo? O vuoi solo essere aggiornato sullo stato delle indagini?”
“Entrambe le cose.” Mise in libertà la fenice, che con un trillo soddisfatto mangiò gli ultimi semi dalla sua mano e poi si librò oltre i tetti, dove avrebbe fatto un lungo giro prima di tornare a casa, nella Foresta Proibita. Al si voltò. “Non dirmi che non vuoi essere della partita! Ti ricordo che sei stato tu quello a trafugare le cartelle mediche degli infetti.”
“Infatti è questo il motivo per cui ho tollerato la presenza di Prince.”
Tollerato.” Fece una smorfietta, tramutandola in linguaccia quando l’altro assunse un’aria di stoica convinzione. “Sören ti piace.”
“Piace a te.”
“Forse.” Ammise divertendosi quando arrossì di rabbia. Era un fenomeno così raro, e tenero, che era ben felice di essere il solo a riuscire a scatenarlo. Gli passò comunque le dita dietro la nuca, con gentilezza.“L’ho rivalutato che male c’è? Un mago può cambiare opinione. Cinque anni fa Lils era l’unica a vederci qualcosa di buono. Adesso è diverso … e merita di combattere i suoi demoni come noi abbiamo combattuto i nostri.”

“Lo dici solo perché riesci a convincerlo a darti retta.”  
Vivere con una persona da tutta una vita era come avere uno specchio sempre puntato addosso; spesso non era piacevole, a volte era liberatorio. “Touché.” Confessò. “Sono una cattiva persona se voglio aiutarlo e usarlo un po’ al tempo stesso?”
“Lo chiedi al mago sbagliato.” Tom gli tirò una spintarella che lo fece finire docilmente schiena sulla moquette. Il bacio possessivo sul collo che ne conseguì se l’era aspettato … e l’aveva voluto. “Tom, sto facendo una cosa sbagliata?” Ripeté passandogli le mani sulle spalle e lungo il petto.
Si rendeva conto che il Demiurgo era tutto fuorché affar suo. Cinque anni prima aveva ordinato a Lily di farsi da parte e adesso avrebbe fatto lo stesso, se l’avesse scoperta ad entrare in quella faccenda. Ma se per fortuna sua sorella aveva imparato la lezione …
… io no. Al San Mungo la situazione è stazionaria, i pazienti non migliorano né peggiorano.
Ho bisogno di sapere che succede. E Sören potrebbe essere il mio alfiere.

“Prince non è in grado di rientrare nell’indagine da solo e non chiederà aiuto a Lily, se è quello che temi.”
“No, io…”
“Forse lo stai usando per rimanere informato, ma lui ci userà per riavere indietro l’indagine. Non sentirti in colpa per qualcosa che sarà vicendevole.”

… ci sarà un motivo per cui sei nella mia vita, no?
Lo tirò a sé facendoselo crollare a dosso e, ignorando le sue proteste indignate per la posizione indecorosa, lo strinse forte. “Dici cose terribili m mi fai sentire bene … ti amo.” Gli mormorò, ridacchiando quando lo sentì bloccarsi e rassegnarsi ad essere abbracciato come un ossuto e scomodo pupazzo. “… tu che intendi fare?”
Tom sbuffò, puntellandosi per tirarsi su. Glielo concesse e lo guardò stringersi nelle spalle. “Non è coinvolto mio padre, ma come ho detto, si tratta pur sempre dei Von Hohenheim.” Fece un sorriso amaro. “Capisco il desiderio di Prince di far sparire quel nome dalla faccia del Mondo Magico. E capisco perché vuol essere lui a farlo.” Sospirò. “Quindi lo aiuterò.”
 
****
 
Da qualche parte nel Lancashire …
 
Per Johan c’erano un paio di motivi per gioire nonostante stesse preparando l’incursione della sua Regina in un posto dove il rischio di essere messi in manette era fortissimo.
(Si riteneva il tipo di persona che guardava sempre al lato luminoso delle cose.)
Il primo, era che il suo contatto americano gli aveva dato un’ottima notizia, non solo per quanto riguardava il Demiurgo, ma anche personale.
Sören era il paziente zero: il marmocchio, a quanto sembrava, era stata la prima cavia in assoluto di quel progetto, anche se all’epoca aveva un altro nome ed era sotto il controllo dirtto di Von Hohenheim e del suo capo-Pozioni, Elias Prince.
Il marmocchio non solo era il paziente zero, ma non si era ammalato. Era stato l’unico paziente in grado di adattarsi al virus, permettendogli così di fare il proprio lavoro, ovvero aumentargli la capacità magica.
Quel piccolo ingrato è la soluzione ai nostri guai.
Certo, dovevano ancora averne la certezza, e per questo aveva passato le cartelle mediche del ragazzo ai suoi topi da laboratorio.
Ma quando la avrò …

Rapirlo tuttavia, anche se sembrava la soluzione più ovvia, era quella meno praticabile; non tanto per le ridicole misure di protezione messe in atto dagli inglesi…
Due auror a piantonarlo giorno e notte. Non imparano proprio mai.
Quanto piuttosto per via della Traccia che gli avevano piantato addosso gli americani; con quella era una sorta di punto luccicante in un campo buio, rintracciabile in ogni luogo della terra.
Se lo rapiamo con la Traccia addosso sarà come disegnarci un bersaglio rosso sulla schiena.
Ci troveranno prima che possiamo Smaterializzare anche solo un mignolo.
Il suo contatto gli aveva assicurato che se ne sarebbe occupato, ma che ci sarebbe voluto del tempo.
Proprio ciò di cui siamo poveri.
Preso da quei pensieri quasi non si accorse di essere arrivato al laboratorio; si fece così aprire la grossa porta di ferro da due Mercemaghi che la sorvegliavano.
Era stata un’idea di Sophia usare il vecchio castello della famiglia Prince come base operativa.
Nessuno verrà a cercarci proprio nel cuore dell’Inghilterra e tantomeno in quello che viene considerato un vecchio rudere inagibile. Anche dal proprietario.
Il proprietario era infatti, per linea diretta di sangue, proprio il marmocchio; ma come tutti i Purosangue cresciuti nella bambagia non aveva interesse per i propri immobili. Dubitava persino sapesse di averlo, quel grosso e imponente maniero grigio e dalle torrette di foggia medievale.
Certo, non era una reggia, e buona parte era inagibile a causa di crolli e dell’umidità, ma le segrete e l’ala padronale erano ancora in buone condizioni, e con robusti incantesimi di consolidamento quel posto era diventato il centro operativo del Demiurgo.
Si vide venir incontro il capo ricerca, Helmut Loer, un ometto che aveva lavorato al soldo di Von Hohenheim e che non era riuscito a fare nient’altro nella vita, tanto che era stato ben felice di salire sul carro. “Signor Doe.” Lo apostrofò. “Se è qui per le analisi del ragazzo…”
“Per quale altro motivo dovrei venire qua sotto?” Replicò di rimando, osservando distratto le celle che una volta dovevano aver ospitato i nemici della famiglia, ma che adesso alloggiavano le cavie debitamente sedate. “Allora?”

“Le analisi fatte dal San Mungo non sbagliano …”
“Quindi? Potete usarlo per creare un nuovo siero?”

“Il problema è proprio questo. Creare una versione modificata del Demiurgo partendo da Sören è … difficile. È come partire dal prodotto finito per creare gli ingredienti iniziali.”
“È il motivo per cui la mia Regina ti paga, Loher. Per renderlo possibile.” Inarcò le sopracciglia. “Ti ricordi, spero, cosa succedeva a chi non portava risultati con il nostro vecchio padrone.” Sorrise dandogli una pacca sulla spalla. “…indovina un po’. La canzone non è cambiata. Vuoi fare la fine di Elias Prince? No, vero?”

Questo scosse la testa, mentre diventava pallido alla luce delle torce magiche. “Mi serve un campione del sangue del ragazzo allora … Non lavorare solo su delle analisi di ospedale.”
Doe analizzò la richiesta, vagliò le ipotesi e poi, alla luce dei capricci della sua donna, trovò la soluzione. E sorrise. “Penso che si possa fare.”


****
 
Vicolo che porta a Diagon Alley.
Dopocena.

 
Era così arrabbiata che avrebbe preso a calci il mondo. O lo avrebbe fatto collassare con un qualche incantesimo potentissimo che al momento non conosceva. Ma l’avrebbe imparato.
Lily espirò ed ispirò, si drappeggiò lo scialle color crema che andava a paio con il suo vestito più carino ed entrò nel vicolo che ospitava il Paiolo Magico. Toccò con la punta della bacchetta i mattoni umidicci e aspettò che l’ingresso si rivelasse.
Lei e Scott avevano litigato, e di brutto.
Non avevano mai litigato. A volte era un po’ frustrante non potersi arrabbiare con tutte le ragioni del caso, ma se l’avesse detto a qualcuno probabilmente sarebbe stata considerata fuori di zucca.
Chi non vuole un rapporto privo di scontri? Rossa, sei ubriaca?
Quella mattina aveva avuto sentore che qualcosa era fuori assetto nella loro solita routine, ma non vi aveva dato peso. Si era sbagliata.
La sera era iniziata nel migliore dei modi: una cena squisita, il suo vestito più carino e lo sguardo di Scott a mostrarle quando fosse stato un acquisto azzeccato. Avevano scelto il vino, avevano cominciato a parlare e tutto quello di cui avevano parlato era stata l’Australia.
Per un po’ aveva semplicemente pensato che il suo ragazzo avesse un banale attacco di nostalgia. Un po’ monotematico, ma nulla che non potesse sopportare per una manciata d’ore.
Come da copione, era stato al dolce che aveva capito il motivo di quella cena.
 
“Allora, vuoi dirmi come mai hai deciso di alleggerirti il portafoglio stasera?”
Scott aveva ridacchiato, prendendole una mano con la sua e intrecciandovi le dita. “Potresti leggermi e scoprirlo…” Le aveva suggerito.
Lily aveva fatto una piccola smorfia. “Lo sai che non mi piace farlo fuori dal lavoro.” Non che biasimasse Scott per ventilare ogni tanto quell’idea. Da un certo punto di vista poteva essere liberatorio non dover cercare le parole.
Sì, ma così il lavoro lo faccia tutto io.
“Vero, hai ragione…” Aveva fatto spallucce. “In realtà ho una sorpresa.” E aveva tirato fuori una busta spingendola nella sua direzione. “Aprila.”
Lily aveva obbedito ma quando aveva tirato fuori il contenuto le si era gelato il sangue nelle vene. Il contenuto era nientemeno che due biglietti per una Passaporta Continentale. Per l’Australia. “Sono due biglietti per l’Australia.” Aveva mormorato.
Scott aveva annuito. “Mi avevi detto che un giorno ti sarebbe piaciuto vederla ed ho pensato … perché no?”
Adesso?”
Si era passato una mano trai capelli, realizzando che forse non era sorpresa quella che l’aveva congelata sul posto. “Non stasera, ovvio. Ma è un biglietto aperto, possiamo decidere di partire anche domani.” E poi, quasi a peggiorare le cose. “Ho preso due settimane di ferie che posso gestirmi come voglio.”
“Già, ma io no!” Aveva esclamato, mordendosi la lingua quando un paio di persone del tavolo accanto li avevano guardati. “Sai che al San Mungo ho dei pazienti che devo seguire!”

Scott aveva aggrottato le sopracciglia. “Lily, le lezioni all’Accademia sono finite da settimane, quello che stai facendo adesso è anticiparti le ore di reparto che farai il prossimo anno, no?”
Era vero. La Patil non l’avrebbe certo incatenata all’entrata del Thickley se fosse partita. “Sì, ma … non è … insomma, lo sai, non è il momento.” Aveva balbettato infilando i due biglietti nella busta, quasi bruciassero.
Una piccola parte di sé si rendeva conto, da come Scott la stava guardando confuso e ferito, che la sua reazione era inaspettata. Era sempre stata una fan sfegatata delle partenze istintive, fatte con la valigia semi vuota e una gran voglia di perdersi in qualche paese esotico.
Ma non posso. Non posso andarmene.
Erano rimasti in silenzio mentre il cameriere aveva portato via i piatti vuoti. Poi Scott aveva continuato. “Perché no? Entrambi possiamo andare in ferie senza problemi, e abbiamo sempre detto che sarebbe stato bello andarci assieme.”
“Sì, ma non… C’è il matrimonio di Scorpius e mia cugina!” Aveva sbottato alla cieca.  
“Il matrimonio di Scorpius e Rose c’è tra un mese.” Aveva ribattuto l’altro spazientito. “Dimmi piuttosto che non vuoi venire. Almeno saresti sincera.”
Si era morsa le labbra, sentendo la rabbia incendiarle lo stomaco. “Possiamo anche evitare di parlare di sincerità, visto che non hai neanche pensato di chiedermi cosa ne pensassi.”
“Hai sempre detto…”
“Una cosa è dire, una cosa è prendere due biglietti e impormi di seguirti!”
“Non ti sto imponendo niente e non urlare.” Se c’era una cosa che Scott sapeva far bene era trattarla come una bambina piccola e irragionevole. Non aveva mai detestato quel suo difetto tanto come in quel momento.

Si era comunque calmata, perché al di là di tutto non era un’idea brillante mettersi a litigare in mezzo ad un ristorante Babbano. “A casa mia quando qualcuno prende una decisione e ti mette davanti alle conseguenze è imporre.” Aveva detto.
L’altro aveva guardato la busta e poi aveva scosso la testa, rimettendosela nella giacca. “Va bene, è stata un’idea stupida… Pensavo di farti piacere.”

No che non lo pensavi!
“Non è … Scott, non è questo il punto.” E non lo era, non davvero; l’idea di andare in Australia per due settimane poteva anche essere carina, ma era il tagliarla fuori e presentargliela come sorpresa che non andava bene. Perché era ovvio che nascondeva un’insicurezza che aveva un’origine ben precisa. “Non posso allontanarmi da Londra, non adesso.”

“Per Sören. Non puoi lasciare Londra perché c’è Sören.”
Gli avrebbe tirato un piatto in testa. Perché lo sentiva
vibrare di irritazione, gelosia, ma anche compiacimento. Compiacimento nell’avere conferma che sì, aveva fatto bene a dubitare di lei.  
“Non metterlo in mezzo.”
Scott aveva fatto una smorfia. “Non dovrei?”
“No, non dovresti. Merlino Benedetto, abbiamo già fatto questo discorso!” Aveva risposto esasperata. “Non ti mollerò per lui, non stiamo avendo una tresca alle tue spalle!”
“Lo so!” Era sbottato, mordendosi le labbra quando si era accorto di aver alzato la voce quanto e più di lei. “Okay, senti, mi fido di te.” Aveva aggiunto più calmo. “È che non capisco cosa hai paura di lasciare indietro. Perché non lasci niente.” Gli aveva messo una mano sulla sua e l’aveva stretta. Lily si era frenata dal non ritrarla: non era giusto, anche se si era sentita come presa da un laccio. “Sei stressata Lily, lo vedo ogni giorno che passa … E preferisci andare ad allenarti con lui che parlarne con me.”
… questo non depone bene, eh Rossa?
“Sören ci è passato, per questo…”
“Va bene.” L’aveva fermata. “Ma rimane il fatto. Hai bisogno di staccare, e non basta un fine settimana in Scozia. Dimmi che mi sto sbagliando.”

Non si stava sbagliando, purtroppo. E sarebbe stato così semplice dire di sì … andar via per giorni, spegnere il cervello e lasciare che l’Australia le facesse dimenticare Sören, Londra e tutti i problemi in essa contenuti. Aveva chiuso gli occhi, passandosi una mano trai capelli.
Sarebbe così semplice, Rossa. Scappare. Sei sempre stata un asso in questo.
“Lily, voglio solo proteggerti.”
E quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Scott poteva avere tutte le buone intenzioni del mondo – e le aveva, al di là dei metodi discutibili – ma proteggere non era la parola giusta. “No, vuoi portarmi via. Come un oggetto.”
L’altro aveva fatto per ribattere, poi aveva semplicemente sospirato. Non amava litigare, non era come lei. “No, Lily … ma immagino che adesso qualsiasi cosa dica mi verrà ritorta contro.”
“Quindi?”

“Quindi niente, lascia perdere. È stata un’idea stupida.”
Erano rimasti in silenzio, uno di quelli pesanti e troppo dolorosi per essere lasciati com’erano. “Faccio portare il conto.” Aveva aggiunto facendo un cenno al cameriere. “Ti accompagno a casa.”
Avrebbe preferito amputarsi un piede che mantenere quel silenzio orribile anche nel viaggio verso Il Mulino. “Preferisco fare una passeggiata.” Aveva preso la borsetta e la stola che fungeva da cappotto, stringendola come se ne andasse della sua vita. “Poi prendo una Passaporta.”

 
Scott non aveva obbiettato; non che gli avesse dato i margini per farlo, dato che era uscita dal ristorante senza voltarsi indietro.
Erano quelli i momenti in cui malediceva di essere una Legimante: il suo maledetto potere aveva piazzato un gigantesco cartello al collo di Scott, spiegandole per filo e per segno perché se ne fosse uscito con quell’idea dell’Australia.
Vuole allontanarmi da Sören.
Era furiosa … furiosa nella stessa misura in cui si sentiva in colpa. Perché Scott non era il tipo di ragazzo da clava, capace di rinchiudere in una torre la propria bella perché geloso.
Gli hai dato motivo di pensare che dovesse comportarsi come un cretino.
Quindi … scappare con Scott o rimanere a Londra ed affrontare quello che provo per Ren?
Aprì la porta del Paiolo Magico; non era quella la sera in cui avrebbe preso una decisione. Tutto ciò che voleva era togliersi i tacchi, struccarsi ed infilarsi a letto.
Ora di tornare a casa.
Sperava solo di non incrociare Sören alla taverna, anche se era probabile fosse sceso per ammazzare la serata con un bicchiere di whisky …
… e infatti era lì; solo non era seduto ad un tavolo, era in piedi, aveva un borsone a tracolla ed era scortato da due auror in uniforme.
… cosa?
“Lily!” Sorrise, sorpreso di vederla. “Cosa ci fai…”
“ … te ne stai andando.”

 
****
 
Note:

:D
Cliff-hanger sentimentale!
Per Milo e Mike temo dovrete aspettare il prossimo capitolo!
Qui la canzone ad inizio capitolo, e qua un’altra che mi ha ispirato nella stesura del resto. Per chi volesse vedere il castello della famiglia Prince, ho preso a modello il Lowther Castle. Qui una foto esemplificativa. Ebbene sì, Ren è proprio un principino. E dedico questo capitolo ad Ale, complimenti per la laurea!

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Capitolo 32
*** Capitolo XXXI ***






Little soul the world is a cold, cold place to be
Want a little warmth
But who’s gonna save a little warmth for me?
(Unbelievers, Vampire Weekend)



19 Luglio 2028

Londra, Piccadilly Circus.
Mattina.
 
Cambiare posto in cui stare era stata, ovviamente, un’idea di Milo.
Altro non avrebbe potuto essere visto che  si era lamentato fino al fastidio estremo che il Paiolo Magico – per lui una locanda del tutto rispettabile – fosse dotato di scarso igiene, personale poco qualificato e odori sgradevoli.
Alla fine gliel’aveva data vinta, soprattutto perché la locanda non era un luogo sicuro, essendo trafficata come un porto di mare; la scelta era quindi ricaduta sull’hotel in cui alloggiava anche Ama.  
Sören, alla luce di una nottata trascorsa, doveva ammettere che il Royal Inn era un posto piacevole; centrale, proprio su Piccadilly Circus, dalle grandi stanze di stucco chiaro e con uno scorcio trai palazzi vittoriani che dava direttamente sulla piazza. Il posto inoltre era gestito da due Nati Babbani, una coppia che aveva rilevato l’attività e l’aveva resa accessibile sia per i Babbani che per i maghi, con tanto di barriere ed incantesimi atti ad evitare spiacevoli incidenti diplomatici. Ama aveva consigliato loro bene.
Sì, tutto questo per non parlare del problema principale …
Sentendo bussare alla porta si accostò e guardò dallo spioncino, bacchetta alla mano; aspettava il servizio in camera e il piano era piantonato dalla scorta, ma meglio esser prudenti. Con sua sorpresa riconobbe la testa bionda di Milo. Aprì perplesso e questo spinse il carrello all’interno guardandosi attorno. “Beh, dov’è la nostra piccola ospite?”
“Dov’è il cameriere?” Replicò facendo per infilarsi le cinque sterline di mancia in tasca. “Perché ci sei tu?”
L’altro gli sfilò la banconota tra le dita. Prevedibile. “L’ho incrociato mentre ero agli ascensori. Ho pensato di venire a portartela io … dopotutto, chi è il tuo paggio?”
“Va’ via.”
“No.” Gli spinse il carrello praticamente addosso. “Si può sapere che è successo ieri sera?”

Già, ieri sera.
La sera prima, mentre stava uscendo dal Paiolo Magico si era scontrato con Lily. Ben poco gli era occorso per intuire che stava cercando proprio lui.
 
“Cosa ci fai qui?” Le aveva sorriso, stupito di vederla. Sapeva che quella sera aveva una cena con Scott e per questo si era ben guardato da contattarla per la solita chiacchierata serale, un’abitudine che avevano preso dopo la loro prima uscita a Camden. A volte si scambiavano giusto qualche parola tramite messaggio, altre restavano a chiacchierare per un’ora. Era la parte preferita della sua giornata.
Lily per tutta risposta non solo non aveva ricambiato il sorriso, ma era impallidita come se l’avesse visto reggere una testa mozzata.  
“… te ne stai andando.”
“Come?” Negli occhi dell’amica si erano affacciati due grossi, enormi e pericolosi lacrimoni. “Lily!” Aveva mollato la borsa a Milo, improvvisamente apparso al suo fianco, e l’aveva presa per le spalle, anche perché sembrava intenzionata a darsela a gambe.  
Perché non è con Ross?
“Cos’è successo?” Le aveva chiesto ignorando le occhiate curiose non solo di Milo, ma anche dei due auror di scorta. Poi aveva interiorizzato la frase dell’altra.
Crede che me ne stia andando. In America.
“Non sto tornando a Boston.”
“No? Ma la borsa…” Si era morsa un labbro lanciandogli un’occhiata che gli aveva fatto venir voglia di stringersela al petto e Smaterializzarsi in un posto tranquillo. Da soli.

Pessima idea.
“Mi trasferisco in un albergo a Piccadilly Circus. Ha misure di sicurezza migliori rispetto ad una taverna, e visto gli ultimi sviluppi…”
“… ed è pulito. Più che altro è quello.” Si era intromesso Milo. “Zenzero, cos’è quel faccino lacrimoso? Chi ti ha rubato i trucchi?”

“Milo!” Aveva ringhiato tirandola a sé. Quando aveva sentito la risatina dell’altra vicino al collo aveva realizzato di averla abbracciata sul serio.
Sei un idiota.
L’aveva lasciata con tutta la nonchalance che era stato in grado di fingere. Per fortuna era bastata, perché Lily aveva fatto un corrispettivo passo indietro. “Possiamo parlare …” Aveva iniziato. “… magari domani?” Aveva fatto una smorfietta imbarazzata. “Adesso hai da fare, è meglio se torno a casa.”
“No.” Aveva deciso su due piedi. Lily era scossa, e non aveva la minima intenzione di farla Smaterializzare fino al Devonshire in quelle condizioni. “Posso aspettare.”
“Prince, noi non possiamo.” Gli aveva subito fatto notare Langerman, uno dei due auror. “Lo spostamento è già stato notificato all’ufficio Auror. Se resti qui dovremo…”

“Fate ciò che dovete.” L’aveva fermato. “Non ho bisogno di un permesso per parlare con un’amica.”
“Dai, Ren, non fa niente.” Lily aveva scosso la testa, facendogli una carezza sulla spalla. Doveva essere stato piuttosto brusco con i due agenti se si era sentita in dovere di calmarlo.“Ci sentiamo non appena arrivo a casa?”

“Non ti lascio da sola.” Aveva poi riflettuto, cercando una soluzione. “Se non ti secca, puoi seguirci.”  
“Oh. Ah … certo!” Lily aveva annuito, guardando ai due auror. “È un problema se vengo anch’io?”
“No, non … direi.” Aveva esitato Langerman. Era chiaro stesse pesando la problematicità di includere nella loro piccola scorta la figlia del Salvatore. “Cioè, forse dovrei chiedere…”  
Lily, invece di dare in escandescenze come lui, aveva esibito il suo sorriso più incantevole. “Dai, Lucas, chiudi un occhio! Diciamo che Ren mi porta a far vedere la sua nuova stanza?” 

Ovviamente l’aveva spuntata; erano arrivati in hotel, fatto il check-in, e non appena la sua scorta aveva dato il via libera per la camera avevano finalmente potuto parlare.

E non abbiamo parlato affatto.
Almeno, non del motivo per cui non ha passato la serata con il suo ragazzo.
Avevano parlato dell’offerta di Albus invece. Lily si era mostrata sorpresa, ma aveva accolto positivamente la notizia. A quanto sembrava l’impicciarsi del fratello negli affari altrui non era cosa nuova per lei.
“È ancora nel tuo letto?” Chiese Milo distogliendolo dai suoi pensieri.
“Teoricamente, visto che non ci ho ancora dormito, non è mio.”  

Venne guardato con quella che poteva essere solo pena. “Non dirmi che hai dormito sul divano…”
E dove avrei dovuto dormire?
Lily gli aveva raccontato di utilizzare come cuscino le persone che gli dormivano accanto – l’aveva notato - e questo, al mattino, avrebbe potuto farle notare palesi irrigidimenti.

L’altra volta l’ho scampata solo perché ero troppo stanco.
Milo alzò gli occhi al cielo. “È fantastico che ti finisca sempre nel letto, ma la prossima volta magari cerca di esserci anche tu. Magari senza vestiti.”
“Falla finita.” Ribatté senza veemenza; aveva smesso di arrabbiarsi per le frecciatine dell’altro. Del resto non erano smesse neanche quando lo aveva minacciato. Andò quindi allo scrittoio e finì di scrivere i suoi spostamenti della settimana per poi passarglieli. “Portali al Ministero in mattinata.”
“Non sono un Gufo!”
“Per fortuna, dato che la lettera potrebbe essere intercettata da Johannes. Non fermarti in nessun posto, va’ dritto all’ufficio Auror.”

Milo sbuffò  ficcandosela in tasca con la solita, collaudata malagrazia. “Altro principino?”
“No, puoi andare.” Poi preso da un pensiero improvviso, più simile al panico che alla curiosità, lo fermò. “Se ha litigato con Ross, come pensi mi debba comportare?” Perché a parte offrirle un letto dove riposare, non aveva la minima idea di come comportarsi. “Una lite tra fidanzati non è cosa in cui sia mai entrato.”
“E non devi, prima regola!” Replicò squadernando un dito. “Seconda regola, ascoltala. Falla parlare, fatti raccontare tutto e ignorala se si ripete. Terza e ultima, dalle ragione qualsiasi cosa dica.”
“E se non la ha?” E Lily, per quanto fosse la più fantastica strega che gli fosse mai capitato di incontrare, sovente non la aveva, specie quando c’era un litigio di mezzo.

“Non è questo il punto, Ren.” Inarcò le sopracciglia. “Le donne come la tua rossa hanno sempre ragione. Anche quando hanno torto.”
Si passò una mano dietro la nuca, cercando di carpire la logica di quel ragionamento e fallendo. “Ti rendi conto che non ha senso?”

“Vuoi godertela alle spalle di Ross o no?”
“No!”
Sì.

Milo fece spallucce aprendo la porta. “La strategia rimane comunque valida. Buona fortuna!” Aggiunse salutandolo con la mano prima di tirarsi la porta dietro. 
Inspirò e si fece coraggio. “Lily.” Chiamò. “La colazione è pronta.”
Essere un migliore amico era una faccenda complessa.
 
Aprire le palpebre e trovarle incollate dal mascara era sempre una sensazione schifosa. Lily mugolò qualcosa, rotolando nell’enorme letto che non era evidentemente suo, perché le lenzuola non profumavano di casa ed era enorme. Spalancò gli occhi e lasciò andare un’imprecazione mentre la realtà dei fatti la centrava come un Bolide: aveva discusso con Scott ed era finita nel letto di Sören.
Di nuovo. No, Rossa, non ci siamo proprio.
Alla luce di una notte passata a dormire e di una lieve emicrania dovuta al troppo vino che non aveva smaltito con del sano sesso, si rendeva conto di essersi comportata come una scema.  
Rotolò di nuovo tra le lenzuola inamidate e controllò la sveglia digitale sul comodino: erano le dieci ed era una fortuna che quel giorno il suo turno fosse di pomeriggio.
Guardando fuori dalla finestra vide Londra, in un eccezionale scorcio sul Circus, e sorrise: di certo Milo era riuscito a farsi valere. Quel posto era favoloso.
Sören. Ren.
Era un problema da affrontare subito; avrebbe dovuto chiedergli scusa. Si era spaventata all’idea che se ne andasse ma questo non giustificava il fatto di avergli rubato il letto.
Lasciamo perdere a livello freudiano cosa significa.
Era stato bello però addormentarsi cullata dall’odore del tabacco aromatico che fumava l’altro. Si era sentita tranquilla con le luci di Londra che coloravano le tende e il profilo magro dell’amico affacciato al balcone.
Mi sono sentita nel posto giusto.
Stare in compagnia di Sören era la cosa che le riusciva meglio, negarlo era inutile.
Tornata dal bagno, sentì la voce dell’altro chiamarla. Forte di una riaggiustatina veloce al trucco – benedetta la magia cosmetica – si sentì pronta per affrontare la prima prova della giornata.
“Ehi!” Lo salutò entrando nel salottino che divideva con la camera di Milo. Di quest’ultimo nessuna traccia, e ne fu contenta.
Non potrei sopportare i suoi ghignetti saputi. Che sanno, eccome se sanno.
Sören in compenso era inappuntabile come al solito, camicia stirata e capelli tirati all’indietro dal gel che aveva per fortuna sostituito l’orrido balsamo per capelli con cui era arrivato a Londra.
Una mia piccola vittoria. Chissà se gli capita mai di ciabattare per casa in tuta e barba di tre giorni…

“Buongiorno Lilian.” Le sorrise finendo di versare quello che sembrava proprio salvifico caffè. “Ho pensato di far colazione qui.”
“Hai pensato benissimo!” Lo lodò sedendosi al tavolo e ringraziandolo quando gli scostò la sedia. Ormai si era abituata a quei piccoli gesti antiquati: erano parte di lui come gli occhi scuri e l’odore di colonia.

“Due zollette e un goccio di latte, giusto?”
“Sei un tesoro.” Doveva farsi coraggio e smettere di girare attorno all’argomento come l’altro le stava permettendo galantemente di fare. “Ti ho di nuovo occupato il letto … scusa.”
Sören non parve molto turbato mentre le si sedeva davanti. “Sta diventando un’abitudine.” Fece un sorrisetto. “Per fortuna il divano era comodo.”
“Per fortuna…” Ridacchiò suo malgrado, rilassata dal suo essere rilassato. “Comunque sto cominciando a pensare che tu intinga le tue federe di Pozione Sonnifera.”
“Di certo aiuterebbero la mia insonnia.” Replicò sullo stesso tono. “Ma no, temo piuttosto che sia la mia compagnia ad essere soporifera.”

“Scemo!” Sbuffò perché sminuirsi era la cosa che gli riusciva più facile e quella che meno avrebbe dovuto fare. “È che ho avuto una serata orrenda, e non appena mi sono rilassata sono crollata. Mi succede da quando sono bambina. Dovevi vedermi dopo i MAGO. Sembravo narcolettica, mi addormentavo ovunque.”
“Lo so, me l’hai raccontato …” Prese un biscotto e ci giocherellò con nessuna intenzione di mangiarlo. “… sono contento che la mia compagnia ti rilassi.” Ed era sincero da come stava evitando di guardarla in faccia. “Vuoi raccontarmi qualcosa anche … adesso?”
Era arrivato il momento di parlarne. Non ne aveva la minima voglia; non tanto perché era Sören il suo interlocutore, ma perché si vergognava. Non voleva sembrare un’isterica.
Che Scott avrà anche sbagliato, ma io mi sono agitata troppo.
“Non c’è molto da dire …” Iniziò prendendo un sorso di meravigliosa e robusta caffeina. “Abbiamo litigato per una sciocchezza … tutte le coppie lo fanno.”
Sören dovette intuire qualcosa perché scosse la testa. “Non era una sciocchezza. Ieri sera eri sconvolta.”
Sì, ma non per Scott, o almeno non solo. Pensavo di stare per perdervi entrambi nel giro di una serata.

… Quanto mi faccio schifo da uno a dieci?
“Mi conosci, sono un dramma ambulante, non…” Si bloccò perché Sören non se la stava bevendo neanche un po’. Aveva un modo tutto suo per mostrarsi scettico, ma basilarmente era guardarla come se gli stesse raccontando che la luna era fatta di cartapesta. “… okay. È stato piuttosto grosso come litigio.” Capitolò. “Non a livello di piatti tirati da un capo all’altro della stanza, ma…”
Sören spalancò gli occhi. “Ci sono persone che fanno cose del genere? Nella realtà?”

Lily ricordò un litigio tra sua zia Hermione e consorte che era finito nella distruzione totale del servizio da the del loro matrimonio. “A volte …” Non si sbilanciò. “Ma Scotty non è il tipo di persona che dà in escandescenze, ed io ho bisogno di una miccia per … beh.”
“Tirare i piatti?”

“Già.” Si sorrisero, bevendo in contemporanea dalle proprie tazze. “Abbiamo discusso per … è iperprotettivo.” Si risolse a dire. “Dall’attacco al San Mungo è diventato come un grosso cane da pastore!”
“Ha paura per te.” Osservò. “È comprensibile. Sei stata aggredita da una persona infetta di un morbo di cui non si è ancora scoperta la cura … e la cosa ti ha turbata.”
“Sì, ma ci sto lavorando, no? Le lezioni con te, le sedute con la Patil. Gli incubi vanno molto meglio e per il resto sono fuori dai giochi ed ho intenzione di restarci. Lo sa!”

“Allora cos’è che vi ha fatto litigare?”
Tu.
Dirlo però sarebbe stato piazzare una pozione esplosiva sul tavolo e aspettarsi che non facesse reazione. Non le piaceva mentire a Sören, quando gli aveva chiesto di dirle sempre e comunque la verità.
Ma non posso neanche esser sincera.
“Ha preso due biglietti per l’Australia.” Che non era poi una bugia. “Senza dirmi niente. Li ha comprati, ha preso due settimane di ferie e poi mi ha presentato il tutto come una bella sorpresa!”
“ … e dal tuo tono mi sembra di capire che non lo sia.”
No!” Si alzò in piedi, perché sentiva il fuoco della rabbia risorgere dalle ceneri di quella serata assurda. Fece qualche passo avanti e indietro, sapendo di sembrare una specie di leone in gabbia. “Doveva chiedermi prima cosa ne pensavo, se ero disponibile, se ero d’accordo! È come … Ren, è come obbligarmi a scegliere se mandare a monte tutto o assecondarlo! Non è una vera scelta … è una manipolazione! Ha parlato di proteggermi, ma è come se volesse rinchiudermi in una gabbia e portarmi oltre mare!”

 
Sören non sapeva come pensare.
La sola idea di veder andar via Lily prima di lui lo gettava nel panico quanto lo faceva arrabbiare – cosa stava cercando di fare Ross, allontanarli? - non capiva però perché l’altra fosse nel suo stesso stato mentale.
Sembra impaurita. E arrabbiata. Perché?
Il fastidio poteva capirlo: a nessuno doveva piacere esser messi di fronte ad una decisione mascherata da regalo. Ma non capiva gli altri due sentimenti. E doveva, perché era sicuramente un passo importante per decifrare il comportamento di Lily nell’ultimo periodo. E l’unico modus operandi che gli portava sempre risposte era far domande dirette, come l’agente che era.
“Ho capito che non ti piace che gli altri prendano decisioni per te.” Attestò. “Ma vuoi andare in Australia?”
“Non a queste condizioni!”
“Se te l’avesse proposto diversamente avresti accettato?”

Lily gli lanciò un’occhiata confusa. Eppure gli sembrava di esser stato chiaro. “ … non … non lo so!” Esclamò. “Non è questo il punto!”
“Qual è allora?” Fare le domande giuste non era semplice. Era un vero e proprio talento, e nel suo lavoro era una carta vincente. Speculare era altrettanto difficile – quella era la specialità di Estevez – ma poteva provare. “La modalità potrà non esserti piaciuta, ma trovi sensato il motivo per cui ti ha chiesto di andare?”
Dovette aver detto qualcosa di sbagliato, perché l’amica lo fulminò con lo sguardo. “Ma da che parte stai?”
Era una domanda stupida. Troppo stupida per non essere un trabocchetto dettato dall’evidente irritazione dell’altra. E se aveva imparato una cosa su Lilian era che, quando era in quello stato d’animo, era davvero bravissima a far degenerare la cosa in lite.
“Sto dalla tua parte.” Rispose con tono fermo. “Per questo sto cercando di capire se sei arrabbiata per l’idea in sé o per il modo in cui te l’ha proposta.” Fece una pausa e quando il concetto sembrò permeare aggiunse. “È quello che dovresti fare anche tu.”
Ross comunque aveva fatto un errore da principiante ad agire alle spalle di Lily.
Ha stuzzicato un nervo scoperto.
Aveva fatto un errore, ma le motivazioni di fondo erano buone.
Hai sentito, no? Vuole proteggerla. Vuole essere il suo cavaliere.
Vuole rubarti il posto.
Era sbagliato aver voglia di lasciar da parte la bacchetta per spaccargli la faccia a mani nude?
Lily si morse le labbra, incrociando le braccia e serrandosele al petto. “Non ci ho pensato…” Ammise con un borbottio ridimensionato. “Ero più occupata a dirgli quanto si era comportato da maschio dominante.” Scosse la testa. “Ma no, non voglio partire.”
“Perché? Che hai bisogno di una pausa lo dici tu stessa.” Se doveva essere un buon amico, doveva far tacere quella parte di sé che stava gridando di assecondare il suo malumore – come gli aveva consigliato di fare Milo, tra l’altro.  

Vuoi vederla felice? Ross la rende felice. Fa’ il tuo dovere.
“Sì, ma … qui ho delle cose in ballo, ho la terapia, i pazienti, te…” Esitò, chiuse gli occhi. “… te.” Ripeté piano e Sören, suo malgrado, sentì quella piccola parte di è – che raffigurava come un mostriciattolo verde – esultare. “Ti ho fatto una promessa, Ren. Ti ho promesso che ci sarei stata. Non intendo infrangerla per l’Australia.”
Non vuole partire perché è preoccupata per me.
Aveva sempre immaginato che sentir dire una cosa del genere da Lily lo avrebbe reso felice. Si era sbagliato: perché non era quello il modo in cui voleva che l’altra lo trattasse.
Come un amico, certo … ma anche come un paziente.

Si alzò in piedi, raggiungendola. “Lilian…” Ne cercò gli occhi con lo sguardo. “Non devi.”
“Non è che rimango solo per te, ma…”
“Che mi riprenda o meno il caso me ne andrò comunque.” Aveva una voglia terribile di toccarla. Supponeva che prenderla per le spalle come la sera prima andasse bene. Abbracciarla no, e dunque si astenne. “Tornerò in America. Ci sentiremo per lettera, come abbiamo sempre fatto.” Lì ci voleva un sorriso, e dunque lo esibì. “Non serve che siamo nello stesso paese per essere amici.”
Lily sembrava molto interessata al suo anello da come lo fissava ostinata. “Però non fa neanche male.”

“No, ma … non devi precluderti un viaggio perché credi di doverti occupare di me. Non ne ho bisogno.” Tolse le mani dalle spalle per ficcarle in tasca. Era una buona idea dato quello che stava per dire. “Non ho bisogno di te qui.”
Non è vero. Ma suppongo di poterne fare a meno. Per te.
 
Uno schiaffo in faccia le avrebbe fatto meno male.
Certo, Sören non era contento di vederla partire alle volte dell’emisfero australe, ma…

Non ha bisogno di me.
Roxanne aveva ragione: aveva bisogno che Sören avesse bisogno di lei. E la ragione era dolorosamente chiara a quel punto.
Sono ancora innamorata di lui.
Per questo ogni volta che aveva un problema correva da lui e non da Scott. Era ancora una quindicenne cretina, innamorata di un principe che esisteva solo nella sua testa.
Il problema è che esiste sul serio. Questo qui è Ren. Cento per cento.
Avevi visto lungo. È diventato davvero la persona di cui ti eri innamorata.
Solo che la cosa era tutt’ora unilaterale. Sören le voleva bene, un bene che forse non provava per nessuno, lo sentiva irradiarsi dal suo sguardo gentile – perché era un meraviglioso ragazzo gentile. Ma non la voleva.
Visto e considerato che ti consiglia di andartene in Australia con Scott. E che esce con Ama.
 
L’aveva ferita. Dalla faccia era così palese che si chiese perché non l’avesse ancora mandato al diavolo.
“Non è che non ti voglio qui…” Tentò di rimediare. “È che penso che dovresti prenderti cura di te, prima di preoccuparti per me. So che posso comunque contare su di te, anche ad un oceano di distanza.”
Perché era la vocazione di Lily fare la crocerossina di tutti i derelitti; e sapeva di essere il suo preferito, ma supponeva fosse ora di mettersi in piedi e lasciare la clinica.

L’Australia non è solo la sua occasione. Ma anche la mia.
Lily ispirò facendo un sorrisetto forzato. “Non hai tutti i torti. A volte perdo di vista il quadro generale.” Sospirò. “Grazie. Per il letto, la colazione e …” Fece un gesto vago. “… per avermi fatto ragionare.”
“Figurati. È quello che deve fare un amico.”
Vero? Ho fatto bene?
Trovò del tutto sensato accendersi una sigaretta e chiudere gli occhi finché non la sentì tornare dalla camera da letto, dove aveva lasciato scarpe e borsetta. “Meglio che vada.” Gli disse finendo di infilarsi i tacchi e ravviarsi i capelli con una mano. C’erano buone probabilità che quella sarebbe stata l’ultima volta che gliel’avrebbe visto fare quindi bevve con lo sguardo ogni movimento.  
Non partire. Non partire troppo presto almeno.
Nessuno gli aveva mai detto che le buone azioni lasciavano la bocca arida come il deserto. “Pensi di partire…”
“Non stasera di sicuro. Questo fine settimana c’è l’addio al nubilato. Forse lunedì … vediamo se Scott non ha riportato indietro i biglietti dopo il mio numero di ieri sera.”
“Non l’ha fatto.” Le aprì la porta perché era chiaro come il sole che aveva voglia di andarsene da come stava giocando nervosa con la chiusura della sua borsa.  

“Speriamo…”
“Ne sono sicuro. Vuole essere il tuo cavaliere dopotutto.”

Lily, che si stava drappeggiando lo scialle sulle spalle, si irrigidì di colpo, serrando le labbra. “Scott non è il mio cavaliere.” Quasi sbottò. “È il mio ragazzo.”
“Stavo solo usando una figura…”
“Ascolta, devo proprio andare, mi sta chiamando.” Gli mostrò il cellulare dove stava lampeggiando un segnale di chiamata. ‘Scott Ross’ vi lesse: prevedibile. “Ci sentiamo okay? Non è che ci salutiamo così.”
“Certo…” 

Prima che potesse chiedersi se doveva salutarla con un abbraccio o meno, fu l’altra a stringerlo, talmente forte da fargli credere volesse strozzarlo. “Mi mancherai.” Mormorò. “So che ti riprenderai il caso e che ci rivedremo, ma …”  
La strinse di rimando, attento a dosare la forza, ma aspirando il profumo dei suoi capelli e della sua pelle. Sarebbe stata una delle ultime volte, pareva. “Mi mancherai anche tu.”
Fu una fortuna essere abbastanza pronto a rilasciarla senza trattenerlo in maniera sospetta. “Ciao Lily.”
L’altra abbozzò un sorriso. “Ciao Ren.”

Sören si chiuse la porta dietro e vi appoggiò la fronte, inspirando: quanto sarebbe stato peggio doverla salutare sul serio?
 
 
 “Ti ho chiamato ieri sera, ma non mi hai risposto.”
“Avevo bisogno di sbollire.” Lily si strinse nelle spalle, anche se Scott non poteva vederla, presa ad attraversare il Circus con l’inquietante speranza che qualche macchina la mettesse sotto.

Almeno la botta dovrebbe schiarirmi il cervello.
“L’avevo immaginato.” Rispose, poi un’esitazione. Anche senza vederlo, poteva percepire il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle. Il tono di voce con cui l’aveva salutata era stato abbastanza indicativo: Scott non amava le liti e preferiva seppellirle sotto il tappeto. “Piccola, so che ho sbagliato a non coinvolgerti, ma…”
“Va tutto bene, Scotty.” Suo malgrado sorrise: era più bravo di lei ad ammettere gli errori. Lo era sempre stato. “Ho sbagliato anche io a reagire in quel modo. Avrei potuto essere più comprensiva. Cerchi solo di aiutarmi.”

L’altro sospirò. “Questo pomeriggio vado a riportare i biglietti … All’Australia penseremo quando avremo la mente più sgombra, okay?”
“No.” Lo fermò. “No, sai, ci ho pensato … è una buona idea.” Fece una pausa, permettendogli di assorbire il concetto. “Però non posso partire domani … devo esserci per l’addio al nubilato di Rosie.”
“Okay.” Stava sorridendo adesso. E sentirsi una carogna ingrata non era mai stato così facile. “Hai ragione, in effetti anche io sono precettato per la festa di Scorpius. Lunedì?”

Se ne vuole proprio andare…
“Vediamo.” Non si sbilanciò. “Potrebbe andare bene, ma devo comunque avvertire un po’ di gente che me ne vado e lasciare delle cose in consegna alle altre Apprendiste.”
“Sei sicura? Perché se lo fai solo per me…”

“No!”
“Lily, sembra ti stia chiedendo di andare ad un funerale.”

Ha ragione. Cavolo se ha ragione. Mettici più impegno!
Inspirò, concentrandosi sul fatto che avrebbe potuto dir addio per due settimane – o forse anche di più, chissà – alla maggior parte dei suoi casini. E forse, dire addio a Ren sarebbe stato più semplice.
… se sono io la prima ad andarmene.
“Non dire sciocchezze!” Sbuffò. “Scotty, è una vacanza. Io adoro andare in vacanza. Sono ancora un po’ arrabbiata, ma non certo con le spiagge australiane!”
“Okay.” Ripeté. Non sembrava convito ma ci avrebbe lavorato su. Avrebbe aiutato fare sesso, magari, vista la mancanza del suddetto da più di una settimana. A letto si potevano risolvere tanti problemi senza parlarne. Più o meno.
“Ehi, Scotty … sarà grandioso.” Lo rassicurò cercando di infondere nel tono di voce tutto l’affetto che provava. Perché doveva andare bene. Perdere Sören sarebbe stata dura, ma avrebbe potuto superarla con il tempo. Perdere Scott sarebbe stato troppo. “Non sono stata una brava ragazza in queste ultime settimane, me ne rendo conto … ma rimedieremo. Australia, giusto?”
“Australia.” Confermò con un sorriso pallido nella voce. Ma era già qualcosa. “Ti amo piccola.”
Lily chiuse gli occhi e aspettò speranzosa che una macchina invadesse il suo lato di marciapiede. Non accadde nulla, quindi rispose. “Ti amo anch’io.”

Avrebbe voluto crederci come un mese prima.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
 
“Sei sicuro che puoi prendere tutte queste ore libere di permesso?”
“Ma sì, vai tranquillo!”
Ted era tutto fuorché tranquillo, ma non gli pareva il caso di annunciarlo, con Benedetta nel sedile posteriore della macchina. Sorvolavano in quel momento la brughiera spoglia delle Highlands, e la bambina aveva il naso schiacciato al finestrino e gli occhi dorati colmi di meraviglia. Non aveva parlato granché da quando erano usciti dal San Mungo, limitandosi a seguirli tutta occhi.

Sembra che veda tutto per la prima volta.
Forse era così, rifletté lanciandole un’occhiata: Benedetta non aveva avuto molti contatti con il Mondo Magico da quando era nata, vivendo in una famiglia di Babbani e con un padre che non era stato inserito nel tessuto sociale di nessuno dei due mondi.
Ohi Ben!” La chiamò James, che faceva sempre più fatica a mantenere l’Incanto Traduttore, non essendo mai stato bravo negli incantesimi linguistici. Per fortuna la bambina sembrava cominciare a capire qualche parola di inglese. “La vedi quella roba scura laggiù, vicino alle montagne? È la Foresta Proibita, e subito accanto c’è casa!”
Casa.” Ripeté in inglese guardandolo interrogativa. “Casa?”
“Dove abitiamo.” Le spiegò in italiano. “Dove abiterai anche tu.”
Casa.” Annuì tornando alla contemplazione sotto di lei. Ripeté la parola più volte, facendosela rotolare in bocca e a Ted venne da sorridere.

Le deve sembrare una lingua così assurda …  
Dopo una ventina di minuti atterrarono nel piccolo spiazzo di fronte alla rimessa degli attrezzi. “Arrivati pulce!” Proclamò James rivolgendole un sorriso che venne ricambiato a trentadue denti.
Ci sa fare con lei.
Era un sollievo. Era preoccupato che l’altro stesse facendo troppe assenze, ma al tempo stesso era meraviglioso fosse lì e facesse ridere Benedetta.
Quando scesero, la bambina trotterellò nel giardino in percorsi tutti suoi, da come andò a controllare le aiuole, ammirò il vecchio dondolo – ma non ci salì sopra come si sarebbe aspettato – e annusò l’aria.

“Sa di bosco!” Dichiarò.
Ted annuì affiancandolesi. “In realtà è una foresta.” Usò volutamente il termine inglese. Era ora che imparasse; d’ora in poi sarebbe stata quella la sua lingua. “È molto più grande e si estende per chilometri. Sai quanto è lungo un chilometro?”

La bambina arricciò il naso. “Tanto?”
Ridacchiò, mentre James finiva di scaricare gli effetti personali che si erano accumulati nella stanza di ospedale, tutti provenienti dall’esteso clan Weasley.
Con tutta la roba che le hanno regalato potevamo tappezzarci l’intero reparto…
“Un chilometro è lungo mille metri. Un metro sono quasi tre dei tuoi passi.”
“E uno di Teddy, che è grande e grosso!” Replicò James carico di buste e pacchetti.
Ben li guardò speculativa. “Insomma, è grandissima.” Disse guadagnandosi un’arruffata di capelli da James. Avevano dovuto tagliarglieli corti dato lo stato in cui li avevano trovati.
“Esatto pulce … Questo sì che è un modo per riassumere la lezione del Professor Teddy!” Gli mostrò la lingua. “Avanti, portiamo tutti i tuoi regali nella tua nuova cameretta!”
“Sì!” Esclamò con convinzione. “La mia!”
Non è troppo piccola per reclamare già i suoi spazi?

James dovette leggergli nel pensiero, perché sogghignò. “E aspetta che arrivi all’età in cui Lily ha preteso un lucchetto alla porta…”
“Prima arriviamoci.” Borbottò seguendoli dentro; era nervoso, anche se ormai era uno stato d’animo a cui s’era abituato. Avevano reso la casa a prova di Mannaro, con incantesimi e barriere, ma non era quello a preoccuparlo. E se non le fosse piaciuta?

Se Lily mi ha raccontato giusto, viveva in un piccolo podere sulle colline toscane …
Pieno di sole, luce e colori; per quanto adorasse il loro covo delle Highlands, come lo chiamava Jamie, si rendeva conto che anche se poteva essere colorata, per colpa del clima non era né assolata né luminosa.
Salì le scale verso il piano superiore, seguendo le voci di James e Ben, un miscuglio di italiano e inglese che lasciava confusi ma comunque volenterosi entrambi. Trovò James sullo stipite della porta della camera, con un sorriso divertito dipinto in volto. Gli fece cenno di avvicinarsi. “Penso che le piaccia.”
A giudicare da come stava saltando sul materasso in grandi balzi pareva proprio di sì. “Le stelle!” Gridò entusiasta indicando le lucette che Lily aveva appeso sopra al letto. “Ci sono le stelle!” Tradusse in inglese.

Okay, sta imparando. Solo gradirei non lo facesse distruggendo suppellettili…
“Abbiamo un problema di disciplina…” Canticchiò l’altro al suo orecchio. “… che dici Teddy?”
“Dico che hai ragione…” Sospirò, ricordando bene quanto avesse combattuto proprio su quel fronte e proprio con lui. “Benedetta.” La richiamò usando il suo tono più fermo, cosa non facile perché Ben non era Jamie, e aveva sempre il terrore di spaventarla se parlava troppo forte. Ben lo ignorò.
“Uh, Teddy, non penso basti chiamarla…” Osservò l’altro, con un’espressione assolutamente compiaciuta stampata in viso. “Ci vuole il tono delle grandi occasioni.”
“Temo di sì.”

Ted era nervoso e spaventato, ma ricordava bene come funzionasse con un bambino di quell’età; era tutta una questione di autorità e limiti che venivano testati. Se le avesse lasciato fare ciò che voleva solo per paura di traumatizzarla non avrebbe assolto al suo compito.
Che mi terrorizzi o meno, sono il suo tutore.
“Benedetta, basta.” La bambina si immobilizzò, guardandolo tra il sorpreso e il riottoso. “Un letto è fatto per dormici, non per saltarci sopra. E non con le scarpe sporche.”
La bambina tentennò, ma se non l’aveva ancora accettato come autorità, era comunque tenuta buona dal suo tono. “Okay.” Bofonchiò con un intonazione che gli ricordò curiosamente James. Lanciò un’occhiata al compagno e quello soffocò una risatina.

Dejà vu immagino.
La prese in braccio per farla scendere e quando la mise a terra diede un’occhiata alle scarpe.
Okay, le lenzuola sono da cambiare …
“Sono sporche?” Le chiese indicandole. Aspettò di vederla annuire poi continuò. “Quando sono così voglio che tu te le tolga e le lasci davanti alla porta, va bene?”
Ben aggrottò le sopracciglia. “Così posso giocare sul letto bello?”

“Sei sveglia, pulce…” Commentò James divertito. “Non vuoi mica dormire nel fango, ah?” Usò il termine in inglese, e dovette funzionare perché la bambina scosse la testa e se le tolse, porgendogliele.
James gli lanciò un’occhiata perplessa e Teddy intuì che Benedetta si aspettava che gliele mettessero apposto. “Benedetta, puoi farlo da sola.” La istruì pacato. “Mettile davanti alla camera.”
La bambina ubbidì anche se l’espressione confusa e un po’ scocciata era indicativa.

“Mi sa tanto che ci siamo sbagliati sul fatto che fosse viziata.” Commentò James grattandosi la nuca. “Non c’è quella storia che i bambini italiani sono serviti e riveriti dalle proprie famiglie?”
“Non ne ho idea.” Ammise. “Ma è vissuta con i nonni per un periodo…”
Per anni è stata tirata su in una casa normale, circondata dai genitori e dai nonni. Forse è stata viziata.

“Oh, che importa … ti sei fatto rispettare!” Ghignò dandogli un colpo sulla spalla con la sua. “Hai visto come ti ha dato retta?”
“Ho fatto esperienza con bambini molto più testardi…” Commentò ricambiando il colpo. “E isterici.”
“Non ero isterico!”

“Eri un piccolo despota. Oltre che il caos incarnato.” Continuò bloccando un pugno diretto al petto e tirandoselo contro. Bloccarlo in un abbraccio era l’unico modo per evitare di essere colpiti, specie dai calci. “Vorrei ricordarti l’incidente della libreria… La mia libreria e la tua scopa, in collisione.”
“Tentavo solo di attirare la tua ottusa attenzione, Teddy.” Rispose con uno di quei sorrisetti monelli che non l’avrebbero mai lasciato, neppure da anziano. “Non è colpa mia se non capivi i miei pegni d’amore.”

“Più pegni di dolore, direi…” Fece per baciarlo, perché Merlino, non poteva non farlo quando aveva quell’espressione dipinta in faccia, che riassumeva alla perfezione tutte le cose che adorava di lui …
Ho messo a posto! Ho fame!
La vocetta di Benedetta per poco non gli fece venire un infarto. Per essere così piccola sapeva muoversi con l’accortezza di un auror in servizio. Con orrore si chiese se non fosse il caso di spiegarle perché stava abbracciando James e soprattutto, perché avesse una mano sul suo sedere.
Gli avranno fatto quel discorso? Cosa saprà dell’omosessualità?
James risolse le cose  nell’unico modo possibile, ovvero facendo finta di niente. Fece un passo indietro, fluido e a suo agio. “Okay pulce, cosa ti va di mangiare?”
“Pasta col pomodoro!”
“Sei fortunata, ho ancora della salsa dall’ultimo tentativo italiano … Avanti, corri di sotto e cerca la cucina.” La istruì, facendola schizzare via subito dopo. Poi gli sorrise. “Beh, non va’ troppo male, no?”

Sorrise di rimando e gli diede finalmente il bacio che voleva; a quando sembrava, d’ora in poi avrebbero dovuto cambiare un po’ di cose. Non sarebbe stato male, no. Solo diverso.
 
****

Ministero della Magia,
Mattina.

 
L’occasione faceva l’uomo ladro, anche se nel caso di Michel non era niente di così disdicevole.
Imbattersi in Emil mentre stava per imbarcarsi nell’ennesima giornata lavorativa era però considerabile una buona occasione. Ottima, visto che aveva in progetto una sorpresa e aveva la sensazione che se gliel’avesse comunicata per telefono avrebbe ricevuto un rifiuto.
Emil.” Lo chiamò tra le frotte di funzionari che correvano spediti verso i propri uffici. L’altro, che veniva dal lato opposto, si bloccò rischiando di farsi travolgere dal flusso. Conoscendo bene la poca pazienza dei suoi colleghi a quell’ora, fu lesto ad afferrarlo per un braccio e pilotarlo in una nicchia tra due camini.
“Per Faust, sono salmoni che risalgono la corrente o cosa?” Sbuffò questo, raddrizzandosi la giacca che portava sopra ad una felpa poco impegnativa. Come ogni volta, rimase piacevolmente colpito da come non sembrasse mai malvestito, persino con cose che sembravano prese da due armadi diversi.
“Paragone azzeccato.” Convenne “Commissioni per Prince?”
“Puoi giurarci … il rompicoglioni mi ha preso per un Gufo.” Replicò guardandosi attorno distratto. “Ho dovuto comunicare all’ufficio auror i suoi spostamenti.”
“Come sta affrontando l’esclusione dal caso?”
“Ronzando attorno a Lily Potter e cercando di trovare l’ispirazione per farsi riprendere…” Focalizzò l’attenzione su di lui per la prima volta. “Non hai da andare al lavoro tu?”
Ormai riusciva a capire quando  diventava aggressivo per mascherare nervosismo. “È il motivo per cui sono qui ed ho una ventiquattro ore in mano.” Confermò. “Va tutto bene?”
Emil fece spallucce ma da come tamburellava le dita sulle gambe la risposta era sottointesa. “Tutta questa gente … tutta assieme e zero finestre. Quanto cazzo siamo sotto poi?” Guardò in alto, quasi stesse tentando di contare i metri che lo separavano dal livello stradale.  Michel si chiese se quella non fosse l’ennesima ferita che il suo essere Magonò gli aveva inflitto.  
“Questa è l’ora in cui tutti i funzionari entrano in ufficio, per questo vedi tanta gente.”  
“Già, beh…”
Non era quello il posto giusto per parlare. “Vuoi venire nel mio ufficio? Cooperazione è scarsamente popolata.” Aggiunse gentile, passandogli una mano sul braccio per poi fargliela scivolare lungo la nuca. L’altro fece scattare gli occhi nella sua direzione, teso, ma non si scostò. 

Ho passato un anno intero a gestire le crisi di panico di Al post-Dursley. Niente che non abbia già visto.
“Voglio uscire.” Fu il mugugno riottoso con cui lo ricompensò. Vista la sua riluttanza a mostrarsi debole era molto. “Ma immagino che questo magma non sia destinato a finire nei prossimi cinque minuti.”
“Più del cinquanta per cento della popolazione magica lavora al Ministero. Fa’ i tuoi conti.”

“… fa’ strada.”
 
Se fosse dipeso da lui di certo non avrebbe seguito Zabini.
O almeno così si ripeteva cocciutamente. Si sedette sulla poltrona di fronte all’enorme scrivania di mogano, imitato dal mago che fece poi Apparire un bicchier d’acqua. Lo trangugiò grato.
“Ti succede spesso?”
“Non era un attacco di panico.” Rispose scocciato; non era semplice spiegare l’ansia che gli attorcigliava le budella ogni volta che vedeva troppa gente stretta in un posto. Troppi maghi soprattutto.
E cazzo, zero finestre. Sembra il Centro.
“Non eri a tuo agio però.”
Non dirmi, Sherlock.

Si strofinò la nuca e alzò lo sguardo. Michel lo stava studiando, tanto per cambiare. “Beh?” Domandò non impegnativo. “Cos’hai intenzione di fare con me adesso?”
“Farti rilassare.” Al suo ghignetto malizioso alzò gli occhi al cielo. “Non in quel senso. Sfortunatamente non mi sono concesse certe attività al lavoro.”
“Noioso.” Argomentò stravaccandosi sulla sedia; era comunque un sacco comoda. “Allora? Ci fissiamo profondamente negli occhi?”

“Volevo invitarti fuori stasera.” Lo sorprese. “Ti avevo accennato qualcosa tramite messaggio…”
“Sì, ed io ti avevo detto che non sapevo se ero impegnato.”

Michel per tutta risposta infilò una mano nella tasca della giacca e tirò fuori una busta. La spinse nella sua direzione. “Non ti sto invitando a cena.” Soggiunse sibillino.
“Stai cercando di comprarmi?” Ironizzò rimediandosi un’occhiataccia. “Okay, okay …” La aprì e la salivazione venne azzerata quando estrasse il contenuto: erano due biglietti.
Royal Opera House.
Questa non se l’era aspettata.
“Ti porto a vedere il Flauto Magico.” Spiegò con un sorriso che era indubitabilmente compiaciuto.
E ne aveva tutte le ragioni, perché adesso stava sbavando.
Razza di bastardo…
Erano anni che non ascoltava quell’opera e, in generale, non metteva piede in un teatro; non che Sören glielo avesse mai proibito, né le sue attuali finanze costituivano un problema.
È solo che è deprimente andarci da solo.
Avrebbe potuto chiedere al principino, ma se n’era sempre vergognato; era scoprire una parte del suo passato che mal si accordava con l’idea che dava di sé.
E non ho mai avuto voglia di spiegarmi.
Con Michel non serviva però. Da che lo conosceva, non era mai servito. “Li avrai pagati un occhio della testa.” Disse per dire qualcosa. “Specie visto il rischio che ti dica di no.”
“Non mi dirai di no.” Obbiettò come se fosse un dato di fatto. Era snervante, ma diavolo se aveva ragione. “Non sarebbe carino farmi andare da solo.”
Fece una smorfia, girandoseli tra le mani. “Non ho neanche il vestito adatto. Come hai detto tu, mi vesto solo come se dovessi rimorchiare in un club.”

“Nei nostri teatri non c’è un vero e proprio dress code … puoi venire come preferisci.”
“Col cavolo.” Sbuffò non riuscendo a trattenere il sorrisetto che finirono per scambiarsi. “Non sono mica uno zotico come voi inglesi. Cravatta nera e abito, è la regola.”
“Allora sono sicuro che troverai una soluzione entro stasera.” Michel si alzò, aggirando la scrivania come un dannatissimo gatto pigro e diavolo, aveva ragione anche stavolta. Lo guardò sedersi sul bordo del bracciolo e chinarsi sopra di lui. “Sei un ragazzo pieno di risorse, no?”
“E tu sei uno stronzo manipolatore…” Soffiò afferrandolo per il bavero della giacca. “Ti piace proprio giocare a quello che mi conosce, eh?” Non gli diede il tempo di rispondere, baciandolo e trattenendosi per il rotto della cuffia dal morderlo. Quelle labbra piene desideravano solo essere assaggiate. Il risultato lasciò senza fiato entrambi per qualche attimo.
“Ed è vero?” Gli chiese, pupille dilatate e respiro corto. “Le conosco?”
Non poteva mentire visto che era una domanda retorica. “Non so quanto ti convenga, maghetto… Non sono il genere di persona che la gente freme di conoscere.”
“Io invece credo proprio di sì.”

Parlare per metafore era quanto di più simile ad una dichiarazione.
È preso da te, bello. Andato, del tutto.
… e la cosa mi sa che è reciproca, eh?
Il bussare alla porta incrinò la bolla in cui si erano rinchiusi. Michel si tirò in piedi, aggiustandosi con due colpi delle dita la giacca. “Avanti.” E c’era una differenza abissale tra quel tono da automa frigido e quello di poco prima.
Da come si irrigidì poi capì che il tizio appena entrato, di colore come lui e altrettanto inamidato, proprio non gli andava giù. “Michel, devo farmi tre corridoi interi per avere una risposta?”
Michel fece una smorfia che parlava da sola. “Sono appena arrivato, avrei risposto…”
“Ti ho fatto recapitare un Promemoria. Io e Draco possiamo contare sulla tua presenza a pranzo oppure no?”

“Sì, padre.”
Ah. È suo padre.

In effetti notava una certa somiglianza; il tizio era più anziano e aveva la pelle più scura, ma di certo da giovane doveva essere stato una bellezza esotica al pari del figlio. Si notava ancora negli occhi scuri da orientale e le labbra disegnate. Poi venne notato.
“Spero di non aver interrotto qualcosa.”
Solo io che mi stavo per scopare tuo figlio sulla scrivania.

Sorrise disimpegnato, alzandosi e tendendo la mano. “Nulla di importante, Signore. Solo un amico in visita. Me ne stavo andando.”
L’uomo gli strinse la mano di rimando, lanciandogli un’occhiata che poteva essere classificata solo come tagliente. “Blaise Zabini. Mi vanto di conoscere tutti gli amici di mio figlio, e mi duole non aver ancora fatto la sua conoscenza, Signor…”
“Meinster.” Non aggiunse altro. Del resto, non aveva voglia di esser carino con un Purosangue affetto da un grave caso di bacchetta infilata nel culo. 

“È un mio vecchio amico d’infanzia.” Tagliò corto Michel con aggressività inaspettata. Si sarebbe aspettato piuttosto nervosismo, visto che il suo essere Magonò poteva notarsi da un momento all’altro.
Nessuna bacchetta, la spilletta che ho appuntata alla giacca che, oh! Recita “Magonò” così non mi chiedono la bacchetta all’accettazione …
Blaise Zabini fece un’impercettibile cenno con la testa, sorridendo nello stesso modo in cui facevano tutti quelli della sua risma. Era un sorriso che non arrivava mai agli occhi. “Capisco.” Si voltò verso il figlio. “Conto di vederti a pranzo allora?”
“Ci sarò.” Confermò. Quando ebbe lasciato la stanza, Michel cacciò un lungo sospiro che la diceva lunga su quanto lo avesse trattenuto.
“Simpatico …” Commentò. “Spero di non averti rovinato il pranzo.”
“Non preoccuparti, dovrebbe esserci prima qualcosa da rovinare.” C’era qualcosa di infinitamente triste nel modo in cui appariva indifferente a ciò che aveva appena detto.  

Fu questo che lo spinse ad avvicinarsi. Non abbastanza da toccarlo, ma abbastanza da vedere come la mascella era tesa in una linea dolorosa. “Tutto bene?”
Michel tentennò solo qualche istante. “No.” Disse pacato. “I rapporti tra me e mio padre sono difficili … da sempre. Non approva molte delle mie scelte di vita.”
“L’omosessualità?” Anche se non era un vero e proprio tabù nella società magica, i Purosangue erano in generale poco contenti di trovarsi un figlio interessato al suo stesso sesso.

Significa un figlio che non procrea … e  che non porta avanti la linea di sangue. Bella rogna.
“Tra le varie.” Annuì tornando dietro la scrivania. “In realtà da quando è nato il mio fratellastro è l’aspetto di me che meno lo infastidisce.”  
Posso vederlo perché vuole farmelo vedere?
“E quali sono gli altri?”
Michel fece un sorrisetto amaro. “Si possono riassumere con un semplice concetto. Non approva me.” Fece un gesto elegante per indicarsi. “In toto.”
Non capiva. “Per gli standard da stronzo Purosangue a me sembri abbastanza perfetto.”

Michel lo guardò senza dire niente per qualche attimo. “Non sei l’unico ad avere degli scheletri nel baule.” Disse poi con tono stanco: era come se quell’incontro l’avesse spento. In quel momento sembrava davvero indifeso.
Sapeva quando non insistere – con Sören aveva fatto una bella palestra – quindi prese i biglietti rimasti sulla scrivania e se li infilò in tasca. “A stasera?”
Sul viso tirato dell’altro apparve un piccolo sorriso. Si rifiutò di realizzare che era a quello che aveva puntato sin dall’inizio.
“Sì, a stasera.”
Doveva decisamente trovarsi un vestito.

 
****

The Royal Inn, Piccadilly Circus.

Pomeriggio.
 
Ama aveva capito dal giorno stesso in cui avevano escluso Sören dal caso che quest’ultimo non avrebbe mai fatto un metaforico passo indietro. Non davvero.
Quindi non si stupì quando incrociò Scorpius Malfoy mentre usciva dal bar dell’albergo.
Questo in compenso strabuzzò gli occhi e impallidì.  “Sergente Gillespie!” Esclamò. “Qual buon vento!”
È qui per aggiornarlo sul caso.

Ci avrebbe scommesso il distintivo. “Non direi.” Replicò glaciale. “Alloggio qui.”  Non gli diede tempo di inventarsi una scusa e andò dritta al punto. “Visita a Prince?”
“… Già.” Ammise stringendosi le spalle. “Volevo solo controllare come se la passava, del resto…”
“Farò finta di non vedere che hai una borsa che probabilmente andrebbe controllata.” Alla sua espressione meravigliata fece un secco cenno della testa, già pentendosi della sua parzialità. “Vattene.”
“Sissignora!” Fu lesto ad obbedire. Ama sospirò: non solo lo aveva ragguagliato sul caso, ma gli aveva portato anche tutta la documentazione.

Ora doveva solo capire cosa farne di quella faccenda. Oggettivamente, lo sapeva: avvertire i suoi superiori e passare a loro la patata bollente.
Soggettivamente …
Era curiosa: Sören era la persona più ligia alle regole che conoscesse, ma del resto, nella vita di ogni agente c’era un caso che rappresentava l’eccezione, sia alle regole che alle proprie convinzioni. Il Demiurgo era quello di Prince.
Entrò nel bar, un profluvio di oro laccato e specchi a parete giganteschi. Si sentì come un pesce fuor d’acqua, ma quando vi trovò l’altro pensò che invece, a lui, quel posto si addiceva. C’era qualcosa nella sua postura, nel modo in cui parlava e ti guardava che ti faceva pensare che venisse da un altro secolo.
Il secolo dentro questa stanza.
Sören era così immerso nella lettura di uno dei fascicoli che non si accorse del suo arrivo finché non gli fu davanti. Quando la riconobbe non tentò di giustificarsi, né di nascondere le prove. Si limitò a guardarla e questo la confuse.
“Cosa stai…”
“Sai benissimo cosa sto facendo, Ama.” Rispose quieto.  

Avrebbe dovuto dirgli chiaro e tondo che era nei guai fino al collo, ma fu più forte la curiosità. “Mi sono scontrata con l’agente Malfoy entrando … Come lo hai convinto?”
Sören esitò, mostrando per la prima volta del sincero rammarico. “Scorpius è un bravo ragazzo. Gli ho chiesto io di prendere le cartelle … Ti prego di non prendertela con lui.”
“Non è una questione di prendersela!” Esclamò incredula. “Malfoy rischia una sanzione disciplinare a passarti informazioni! Se lo denuncio ai suoi superiori…”
“Non lo farai.”
Boccheggiò e stavolta la rabbia la centrò come un arciere. “Non lo farò? Mi stai ordinando…”
“Non ti sto ordinando niente.” Replicò sullo stesso tono. Non smetteva di guardarla e dannazione, non poteva farsi convincere da un paio d’occhi tristi.

È ridicolo!
“Sono il tuo sergente, è mio compito …”
“Perché sei diventata un agente?” La interruppe.

Ama si morse un labbro, lasciandosi cadere sulla sedia accanto a lui. Se il discorso doveva prendere quella piega tanto valeva fosse seduta. “Sai benissimo il motivo per cui l’ho fatto. Non credo non ci sia un solo agente del SAGITTA che non ne sia a conoscenza…”
“Per tuo padre.” Annuì chiudendo la cartella che stava consultando; era quella con i sospetti finanziatori del Demiurgo. Avrebbe strangolato Malfoy. “E per proteggere le persone che non possono farlo da sole.”
“Sì, e quindi?”

“E quindi puoi capire perché sto mettendo a rischio la mia carriera e la mia già compromessa fedina penale. Questo è il mio caso.” Non avrebbe dovuto sembrarle così maledettamente eroico mentre reperiva informazioni e lavorava alle spalle di ben due Dipartimenti di difesa. Eppure …
Ama si passò una mano trai capelli, chiudendo gli occhi. “Non puoi lasciare che ce ne occupiamo noi?”
Sören ignorò la sua domanda. “Thierry non è il vostro mago.” Disse invece.
Era una partita vinta in partenza quella. Del resto, non era mai stata d’accordo con la decisione di sua madre e del Capo Potter. “E perché?”
“Perché è morto sette anni fa.”
“Ma il suo profilo dice…”
“Il profilo non è aggiornato. Ho visto il suo cadavere, fui incaricato di farlo sparire. Al momento i suoi possedimenti sono detenuti da un prestanome, un lontano nipote … Il cui interesse maggiore è la beneficienza. Neppure lui è il vostro uomo.”

Avrebbe voluto prenderlo a pugni. O baciarlo. Chissà se la Potter provava mai l’irritazione che provava lei quando se lo trovava di fronte. Chissà come si comportava con lei, a parte morirle silenziosamente dietro.
Non è questo il momento, Gillespie!
“È questo il tuo piano?” Domandò. “Fare indagini in parallelo e farti giustizia da solo?”
Sören scosse la testa. “Voglio che siate voi ad arrestare mia madre e Johannes. Voglio che siano assicurati alla giustizia e che vengano processati. Non ho vendette in agenda.”

Sei una persona migliore di me, allora.
Ma non lo disse, limitandosi ad una smorfia. “Avresti potuto proporti come consulente.”
“Il Capitano e Harry Potter non me lo lascerebbero mai fare. Non adesso almeno. Devo convincerli che la mia presenza qui è necessaria, ma devo portar loro un motivo.” Batté la punta delle dita sul fascicolo. “Ma ho bisogno di avere informazioni per mostrargli che sono indispensabile.”

“Hai poco tempo.”
“Me ne rendo conto.”

Rimasero in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri: una parte di lei avrebbe voluto denunciare quella che era una palese infrazione. L’altra però capiva le motivazioni di Sören. E le scusava.
“Non dirò niente di quel che ho visto oggi.” Decretò, ma lo fermò prima che potesse ringraziarla. “Ma non ti coprirò se la cosa verrà fuori.” Si alzò in piedi. “Se vedo un altro fascicolo fuori dal Dipartimento o Malfoy che gironzola da queste parti…”
“Sei stata chiara.”
“Lo spero.” E pensare che era venuto a cercarlo per passare un po’ di tempo assieme. “Non sono venuta qui per…” Esordì per poi tacere di fronte all’espressione ancora rigida dell’altro. “… per spiarti.” Terminò miseramente. “Milo mi ha detto dov’eri e volevo …”

Sören aggrottò le sopracciglia in piena confusione. “Volevi?”
Non ci puoi arrivar da solo?! Dio, che nervi!
Aveva avuto fidanzati e fiamme passeggere, aveva flirtato e si era lasciata corteggiare, ma con Prince era come camminare in una terra inesplorata con le armi – di seduzione - spuntate.
Devo cambiare approccio.
“Ho notato che indossava un completo. Andate da qualche parte stasera?” Stornò per darsi il tempo di pensare a qualcosa di intelligente da dire.
“Non io, lui.” Sören scosse la testa, rilassandosi in un tono più amichevole. “Ha un appuntamento … mi ha dato il tormento tutto il pomeriggio perché gli dessi un parere su cosa indossava.” Fece una faccia che la fece ridacchiare. “Per una volta i ruoli si sono rovesciati.”
“Pensavo che conoscesse solo il termine rimorchiare.”
“Sì, l’ho sempre pensato anche io.”

A ben guardare, l’unica cosa che aveva sempre funzionato con l’altro era stata la bruta sincerità. Quindi decise di provarci. “A proposito di appuntamenti… Spero che il nostro rimanga confermato per questo venerdì.”
“Assolutamente.” La guardò di sottecchi, tornando di colpo all’età che avrebbe dovuto avere e non a quella di un vecchio guerriero stanco. Aveva funzionato. “Se non hai cose migliori da fare, potresti farmi compagnia … Il the delle cinque qui è una sorta di rito.”

Ama sorrise e si sedette. “Volentieri.”
 
****
 
Covent Garden, Royal Opera House.
Sera.

 
Milo stava cominciando a pentirsi dell’idea balorda che aveva avuto.
Avrebbe dovuto dire di no, prima di tutto; dire di no perché …
… perché sì.
Controllò l’orologio per fare qualcosa, giocherellando con la sigaretta che avrebbe voluto sostituire con uno spinello, se solo non fosse stato gomito a gomito con almeno un centinaio di persone che affollavano l’entrata del teatro, vestite di tutto punto e in attesa di entrare.
Chiuse gli occhi e contò fino a dieci per tenere la mente occupata e non farla andare nel panico.
Erano più di dieci anni che non metteva piede in un posto del genere. Ogni cosa gli tornava familiare, dalle forme slanciate e neoclassiche dell’Opera House – che gli ricordavano certi teatri del Continente – come il profumo costoso delle donne e il luccicare delle scarpe  degli uomini.
Faceva male; era un dolore sordo, simile a quello di un dente cariato. Era nostalgia.
Gli era mancata quell’atmosfera; le chiacchiere dei melomani, l’attesa, i programmi stropicciati tra dita impazienti. Gli era mancata e dunque non andava bene.
Torna nella tua fogna, ratto di strada. È a quella che appartieni.
Avrebbe dovuto andarsene, togliersi quello stupido abito da sera affittatoe andare al Black Goose. Trai suoi simili, a farsi apprezzare per niente in particolare.
Aveva la bocca secca e le mani sudate, se la stava facendo sotto eppure era ancora lì, ad aspettare lo stronzissimo maghetto. Perché, dietro tutte le sue seghe mentali, lo voleva.
Avrebbe voluto darsi un pugno in faccia da solo.
“Emil.” La voce del suddetto apparve come il famoso diavolo di cui tutti parevano parlare. Si voltò e lo trovò perfetto.
Anche quello era un problema da niente.
“Ehi.” Gracchiò girandosi la sciarpa tra le mani. Il principino l’aveva obbligato a prenderla, considerando che senza di essa la sua mise non sarebbe stata completa.
Michel parve notare il suo nervosismo, ma non commentò. Lo prese invece sottobraccio con una familiarità che avrebbe meritato una frecciatina. Avrebbe dovuto, ma…
Non mi sto aggrappando.
“Paura da palcoscenico?” Gli chiese gentile. “Guarda che stasera sei solo un ospite…”
“Sto benissimo.” Replicò sostenuto, rimediandosi un’occhiata perfettamente consapevole. “Alla grande. Entriamo?”
Mai dimostrare debolezza, neanche di fronte all'evidenza.


Aveva forse fatto il passo più lungo della gamba?
Michel lo considerò brevemente, guardando il viso pallido e teso dell’altro mentre si accomodavano nel palchetto che aveva loro riservato: aveva capito che l’abbandono delle scene aveva costituito per lui un trauma, la chiave di volta che l’aveva portato lontano dalla sua vecchia vita, ma forse non aveva considerato quanto l’avesse segnato.
Se è così nervoso…
Eppure era lì. Aveva accettato l’invito perché gli era piaciuta l’idea. Si era illuminato quando aveva visto i biglietti.
Aveva solo bisogno che qualcuno lo invitasse.
Doveva quindi continuare su quella linea, perché Emil apparteneva alla musica e non ad una bettola o a vicoli sudici. Avvicinò la sedia alla sua passandogli la mano sul braccio. “Abbiamo i posti migliori.” Gli sussurrò all’orecchio. “L’opera ha ricevuto eccellenti recensioni ed è la Prima … C’è ottimo materiale per una serata perfetta, non credi?”
Emil lo graziò di uno dei suoi sorrisetti. “Sì, è chiaro che hai speso un mucchio di soldi.”

Ignorò la frecciatina perché era solo l’ennesima difesa senza senso.“Allora lasciati viziare.”
Non vi fu risposta, ma non ce ne fu bisogno: Emil gli strinse la mano con più forza di quella che ci stava mettendo lui. Ed era un buon segno.

“… Non metto piede in un teatro da dieci anni.” Mormorò guardando oltre il palco, verso la platea e oltre il sipario di pesante drappo rosso. Era sul palcoscenico in quel momento e non lì con lui.
“Ricordi?”
Emil fece un cenno nervoso, passando le dita della mano libera sul parapetto di velluto. “Ne ho tanti. In posti come questo c’ho passato la mia infanzia… L’odore, mi riporta indietro.” Chiuse gli occhi ed inspirò. In quel momento era vulnerabile e bellissimo.  
Si chinò per sfiorargli la guancia con le labbra e lo vide aprire gli occhi per guardarlo sorpreso. Sapeva che baciarlo languidamente non sarebbe stato altrettanto efficace. Mentre le luci calavano e i mormorii si spegnevano aggiunse. “È il momento di tornare nel presente. Goditi lo spettacolo.”
Emil gli sorrise – un sorriso vero stavolta – ed annuì.
 
****
 
Da qualche parte nel Lancashire …
(Vicino Preston)

“Londra, dunque?”

“Spero tu non abbia pronta una scusa per, Johan. Voglio Londra.”
“Tutto quello che comanda la mia Signora.”
Quello che apprezzava di Sophia era la naturalezza con cui si piegava alle continue modifiche del suo aspetto. Non molte streghe avrebbero apprezzato vederlo ringiovanire ed invecchiare più volte nel corso di una giornata.
Le baciò il collo, ispirando l’odore di fiori che l’accompagnava da quando la conosceva. Gigli e gelsomino gli aveva rivelato una volta. Era un profumo che indossava da quand’era ragazza. 
“No, mia Signora, mantengo le mie promesse … quando posso.” Le allacciò la collana che gli porse, accarezzando la schiena nuda. “La situazione non è delle migliori, lo sapete.”
“Immagino non sarà possibile avvicinarsi alla Londra Magica.” Osservò. “Ci cercheranno.”
“È probabile, sì.” Convenne. “Tuttavia la Londra Babbana non è di minor pregio.” La consolò, guardando il riflesso allo specchio. Sembrava immersa in qualche pensiero, lo capiva dalla ruga che le solcava le sottili sopracciglia scure. Era così da più di una settimana: da quando Sören aveva scoperto che era ancora viva per la precisione.“Qualcosa vi turba?”

“No.” Scrollò le spalle, chiedendogli con un cenno di prenderle la vestaglia, e facendosela scivolare addosso quando gliela porse. Fece qualche passo verso la finestra. “L’Inghilterra che fin’ora mi hai mostrato è noiosa.” Stimò. “È tutta paesaggi … nient’altro. Spero davvero che Londra sia all’altezza dei tuoi racconti.”
“Lo è.” Si sedette sullo sgabello della toeletta, tirando fuori una sigaretta ed accendendola. “Dovete aver pazienza.” La blandì per l’ennesima volta. Stava diventando sempre più difficile farsi ascoltare senza far sfociare la cosa in un litigio e quindi, dopotutto, l’idea di visitare la Capitale faceva meno danni di quanto ne procurava la solitudine di quei luoghi. “Non appena avremo trovato una soluzione per il Demiurgo e avremo riscosso i nostri Galeoni potremo salutarlo per sempre. Potremo avere un’isola sperduta nei Caraibi o un palazzo indiano. Quello che desiderate e dove volete.”

Sophia incrociò le braccia al petto e, anche se con riluttanza, annuì. Del resto, pensò con una punta di soddisfazione, con tutti i suoi capricci dove sarebbe potuta andare? La morte di Von Hohenheim l’aveva resa libera, certo, ma anche sola al mondo.
“Ci sono sviluppi?”
“Ci stiamo muovendo nella direzione giusta…” Non si sbilanciò; non aveva certo intenzione di dirle che la chiave dell’intera operazione avrebbe potuto essere il moccioso. Per quanto la strega che gli stava di fronte non avesse mai mostrato un briciolo di istinto materno da che la conosceva, non era detto che avrebbe gioito allo sfruttamento del frutto dei suoi lombi.
Speriamo che quel cagnetto rognoso serva a qualcosa …
Fu con quel pensiero in testa che, qualche ora dopo, accolse il capo-ricerca Loher.  
“Loher, cosa tieni in mano?” Domandò gioviale facendolo accomodare nella libreria, facendosi versare poi dall’Elfo due dita di liquore che offrì all’ometto che lo trangugiò di buona lena.
Facile far lavorare per te chi ha un vizio che puoi controllare.
“La soluzione che mi avete chiesto.” Prese la scatola metallica che gli porgeva e la aprì. Dentro c’erano due siringhe ipodermiche. Una vuota, l’altra piena di un liquido giallastro. “Vedo che hai seguito il mio consiglio…”
L’altro annuì, versandosi da solo un altro bicchiere. “Vi lascerà tempo per prelevare il campione di cui abbiamo bisogno senza danneggiare il soggetto.” Fece una pausa e poi prese coraggio da quel che stava bevendo per continuare. “Ci serve vivo e in salute, Johan. Se lo ricordi.”

“Lo so.” Richiuse la custodia con uno scatto secco. E sorrise.
 
****
 
Note:

Insomma, anche questo capitolo-ciccioso. Si fa quel che si può col tempo che si ha. :P

Buon Lucca Comics a tutti quelli che ci vanno! :D
Questa la canzone del capitolo, assieme a quest’altra.

Per l’hotel di Sören e compagnia mi sono ispirata al Café Royal, che esiste ed una cosa da sbavo. Qui una delle sale su cui ho modellato il bar. Tanto roba.
Nel prossimo: la festa, una chiacchierata Al/James, la mattina dopo di Milo/Michel. Non necessariamente in quest’ordine!

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Capitolo 33
*** Capitolo XXXII ***


Capitolo XXXII





We cling to love like a skidding car clings to a corner
I tried to hold onto what we are
The more I squeeze, the quicker we're over
(The Lovers are Losing, Keane)


21 Luglio 2028
Londra, Victoria Embankment. Casa di Michel Zabini.

Mattina.
 
Michel fu svegliato dall’odore di caffè appena fatto e considerando che la sua camera da letto distava dalla cucina almeno un intero corridoio voleva dire solo una cosa.
“Ci credo che vai al lavoro sempre incazzato. Ci vai in ritardo!”
“Oggi entro un’ora più tardi.” Rispose cercando il pacchetto di sigarette sul comodino a tentoni. Trovatolo se ne accese una e si mise a sedere strofinandosi una mano sul viso per scacciare la sonnolenza. “È in programma una ridicola esercitazione per la sicurezza… La salto sempre.”
Emil posò il vassoio con la loro colazione sulla scrivania dandogli le spalle e Michel notò così che indossava solo i boxer. Sogghignò, buttando fuori il fumo e godendosi lo spettacolo. “Pensandoci, potrei anche darmi malato.”
“Mi piace il tuo modo di pensare.” Replicò l’altro prendendo una delle tazze e sorseggiandola. “Perché lavorare quando si hanno scuse da accampare?”

“Per costruirsi un futuro e una carriera eccellente?”
Venne ricompensato con una smorfia da bambino. “Come sei borghese.”  

“Purosangue, prego.” Ridacchiò, perché quei tempi rilassati cominciavano a piacergli. Un po’ troppo. “Mi passi il caffè?”
Emil era diventato una presenza fissa in casa sua dalla sera dell’Opera; non solo aveva passato la notte con lui, ma anche la mattina dopo. E a quella erano seguite altre mattine, e colazioni preparate a puntino. Emil si era giustificato dicendo che visto che Prince aveva una scorta e uno stuolo di camerieri pronti ad esaudire ogni suo desiderio aveva più tempo libero. Dubitava fosse solo quello. E ne era felice.
“Non hai una bacchetta maghetto? Prenditelo da solo.” Replicò servendogli un sorrisetto beato e prendendo il suo piatto per bilanciarselo sulle ginocchia. “E dovresti davvero comprarti uno di quei vassoi da usare a letto. Sono comodi!”
Michel scrollò le spalle. “Fare colazione a letto non è mai stata mia abitudine.” Esitò poi aggiunse. “Da quando ci sei tu però non mi dispiace.”
Era scoprirsi non sapendo come avrebbe reagito che stava funzionando; era una strategia che prendeva Emil di sorpresa e gli faceva abbassare le difese di rimando. Infatti lo guardò con un mezzo sorriso, prima di fare spallucce.
“Vorrà dire che te ne comprerò uno.”

“Due.”
“Due…” Sbuffò dando una forchettata alla sua pancetta. “Come ti pare.” E gli lanciò un’occhiata di sottecchi a cui rispose con un sorriso.

Aveva cominciato ad interiorizzare Emil; non solo quello che mostrava volontariamente, ma anche le piccole cose che non si rendeva conto di fare, come passarsi le dita dietro una ciocca sfuggente di capelli poco sopra l’orecchio quando si infervorava in un discorso, oppure il fatto che fumasse sigarette tutte schiacciate e a rischio rottura perché si dimenticava i pacchetti nelle tasche posteriori dei pantaloni. E adesso sapeva come gli piacevano le uova: strapazzate e piene di pepe.
Era un buon segno, supponeva.
“Stasera vieni alla festa di addio al celibato di Scorpius?” Chiese finendo le proprie uova. Non aveva invece mai pensato che lo sciroppo d’acero fosse una delle sette meraviglie del Mondo Babbano. “Tu e Prince siete stati invitati, no?”
“Sì, il capo mi ha chiesto di fargli da spalla.” Annuì prendendogli il piatto vuoto e posandolo sul vassoio; non cercava mai di sostituirsi a lui in quei gesti, specie con la bacchetta. Aveva notato che lo infastidiva. “Tu?”

“Penso che se declinassi Scorpius sarebbe capace di venirmi a prendere di peso.” Rispose con un sospiro, ricordando la gioia genuina con cui il vecchio amico gli aveva consegnato personalmente l’invito. ‘E porta chi vuoi!’ aveva aggiunto con fare malizioso, facendogli temere che sapesse qualcosa di lui ed Emil.
Loki potrebbe aver parlato. Anche se dubito si siano visti di recente … È troppo occupato a cercare di non rischiare Azkaban per l’ennesima volta.
La verità era che andare senza compagno era inevitabile, visto che avrebbe sollevato un polverone di spiegazioni e perplessità, ma non gli piaceva.
Certo, ti presenti con Emil e poi? Lo sanno tutti che è un Magonò.
Il problema si era presentato più presto del previsto.
Vuoi nasconderlo? Beh, sicuramente gli farà piacere.
“Allora ci vediamo lì.” Lo riscosse Emil finendo di mettere a posto quello che restava della loro colazione; non sembrava minimamente offeso all’idea che non gli avesse proposto di andarci assieme. Meglio, non sembrava neppure gli fosse passato per la testa.
… se ci pensi è ovvio il perché. Quanti maghi avranno ammesso di frequentarlo? Ci sarà abituato.
“Hai mai avuto un ragazzo mago?” L’espressione perplessa che gli venne restituita gli fece capire quando fosse stato estemporaneo. “È un po’ che me lo chiedo.” Si riparò alla bene e meglio.
“Intendi scopata?”
“No, intendo un rapporto serio.” Come il nostro, gli venne da pensare, prima di realizzare che forse quella classificazione non era corretta.
Cosa siamo noi, alla fine? Ancora non l’abbiamo deciso.
Emil aveva assunto di nuovo quell’aria guardinga che veniva fuori solo quando pensava che gli stessero propinando una fregatura. “No, in quel senso no.” Rispose allungandosi per fregargli la sigaretta. Glielo lasciò fare, anche perché si sedette abbastanza vicino, e il calore di un corpo altrui al mattino era la cosa migliore dopo un caffè ben tostato. Ed Emil era una stufa. “Ho vissuto un sacco di storie assurde, ma non avevo mai tempo per fermarmi e … non lo so, stare.”
“Perché?” Le sue domande lo irritavano quanto intrigavano, si capiva; dovevano essere passati anni da quando qualcuno si era interessato a lui come persona.
“Tu hai mai avuto una storia seria, maghetto?” Ritorse.
“Ho avuto delle storie, ma non ho avuto mai un vero…”
“Amore?” Lo incalzò con un sorrisetto. “Ti facevo romantico, Michel. Non ti sei mai innamorato?”

“Sì.” Ammise piano, perché quel gioco funzionava così. Una confessione per un’altra. “Di un amico.”
“Era etero?” Fece una smorfia esplicativa. “Un classico.”
“No, semplicemente non mi ha mai corrisposto.” Rettificò con un mezzo sorriso; Albus avrebbe avuto sempre posto nel suo cuore, ma non nel ruolo che aveva immaginato negli anni di Hogwarts. Andava bene anche così. “Comunque ti ho fatto una domanda.”
Emil schioccò la lingua, schiacciando la sigaretta nel posacenere sul comodino; così facendo si sporse a sufficienza perché gli potesse passare un braccio attorno alla vita per tirarselo contro. Non protestò, ma quando tentò di baciarlo spostò il viso. “Sei un impiccione.” Borbottò e se voleva apparire astioso suonò più che altro imbronciato.
Michel gli baciò il collo, più accessibile. “Mi piace essere informato. Chiamala pure deformazione professionale.”
“Dai, ci arrivi da solo …” Grugnì accettando la scia di baci come un gatto avrebbe fatto con un grattino sulla pancia. Socchiuse addirittura gli occhi. “Per un mago non sono abbastanza magico, per un Babbano ho troppi segreti strani. E prima che tu me lo chieda, no, non ce l’ho avuto manco Magonò. Siamo già una minoranza di una minoranza … gay dichiarato e Magonò? Una vera rarità.”
Adesso era ovvio perché Emil non avesse mai avuto un ragazzo.

Michel si rendeva conto che per quanto l’altro fosse brillante, intelligente e stupendo, era materiale complesso per una storia d’amore. Ma sopratutto, era chiuso come le sbarre di una prigione.
Non lascia avvicinare nessuno perché pensa che nessuno voglia avvicinarglisi.
Forse era troppo drammatico, ma rimaneva comunque una riflessione che stringeva il cuore. Cercò di non stringerlo in un abbraccio consolatorio – si sarebbe beccato un pugno o una battutaccia – e preferì invece prendergli il viso tra le mani e baciarlo. Baciarlo era il pregio migliore di svegliarsi con lui. “Il mio interesse lo hai suscitato.” Mormorò intendendo anche ad altri tipi di interesse, e dalla vita in giù. Sapeva che l’altro avrebbe colto. Era un maestro nei doppi sensi per quando l’inglese non fosse la sua lingua madre. “Tu che dici?”
Emil sogghignò, rilassandosi. La metteva più a suo agio una frecciatina che la serietà in una conversazione. “Perché sei strano.”
“Lo prendo come un complimento.”
 
****
 
Farringdon, Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche. Mattina.
 
Trovare una cura era come cercare un boccino … in un negozio di boccini.
Tanto per dire. Al si rendeva conto di non avere la formazione necessaria di un Guaritore di Infettive, ma era un Guaritore. E la ricerca della cura usando il sangue di Sören non stava portando a niente; i rospi da laboratorio che erano stati usati come cavie erano tutti morti.

In modo orribile tra l’altro.
Il siero ricavato dagli anticorpi di Sören, come aveva paventato Seamus, invece di isolare l’antigene del virus e combatterlo aveva scatenato la reazione opposta, creando una sorta di cortocircuito magico che aveva letteralmente fatto esplodere i rospi.
Letteralmente. Sono esplosi.
Sospirò, chinandosi a compilare la cartella del primo paziente della giornata; non aveva mai trovato tanto frustante fare il proprio lavoro come in quel periodo.
Sto facendo il mio lavoro … eppure no. E il sergente Flannery sta peggiorando.
Avevano infatti dovuto cambiare di nuovo il cocktail di pozioni che usavano per mantenerlo in stasi magica; se fosse uscito da esso la malattia sarebbe progredita fino allo stadio finale.
Riducendolo in polvere.
Non voleva neanche pensarci, ma purtroppo la realtà dei fatti era dura, e solo una; il progetto Demiurgo aveva creato una malattia capace di adattarsi ai pochi palliativi che cercavano di contenerla.
È portata da un virus magico … ovvio che si adatti, la magia è liquida, è sempre in continuo movimento.
“Ehi!”
Avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, perché era stata la colonna sonora – a volte molto sgradevole – della sua infanzia. Suo fratello James gli stava di fronte, in uniforme e a giudicare dall’aria bellicosa non era lì per chiedergli di far colazione assieme.

“Ehi a te.” Replicò asciugando la piuma con cui aveva firmato la cartella e mettendosela nel taschino del camice. “Hai bisogno di qualcosa?”
“Sì, di parlarti.” Replicò brusco, afferrandolo per un braccio senza mezzi termini. “Seguimi.”
“Non sai orientarti in questo ospedale, forse è meglio se sei tu a seguire me.” Rimbeccò liberandosi dalla stretta e mostrando una calma che era ben lungi da provare. James aveva molti difetti, ma quello di non avere senso dell’opportunità sul luogo di lavoro mancava all’appello; se lo veniva a disturbare durante un turno era perché la faccenda era grave.

Ed è arrabbiato con me.
Lo portò in una saletta per le visite, vuota in quel momento, chiudendosi la porta dietro. “Che succede?”
“E me lo chiedi anche?!” Sbottò torreggiandogli sopra come poteva fare da quando lo sviluppo li aveva distanziati di quasi dieci centimetri. “Prince!”
Ah. Ops.
James doveva aver scoperto del suo accordo con Sören e, da come gonfiava i muscoli e buttava in fuori il petto, e la cosa non doveva essergli piaciuta. “Prince? Gli è successo qualcosa?”
“Non fare il furbo, Albie.” Ritorse puntandogli un indice contro e punzecchiandolo sul petto; James sapeva essere un perfetto bullo quando voleva. “Tu ci hai parlato. Me l’hanno detto i ragazzi della sua scorta. L’hai invitato a pranzo a casa tua un paio di giorni fa.”
Al assunse la sua migliore espressione confusa. Non sarebbe servita con la persona che forse lo conosceva meglio al mondo dopo Tom, ma poteva sempre prendere tempo. Il tempo era sempre utile in certe situazioni. “E da quando è reato invitare qualcuno a pranzo?”

“Non quello, serpe, il fatto che tu ci abbia parlato!” Ribadì. “So cosa combini quando parli!”
“E cosa?” Era sinceramente curioso, tuttavia si premurò di scivolare via dall’angolo in cui l’aveva stretto. Era meglio avere una via di fuga in caso le cose si fossero messe male. “Lily l’ha fatta lunga come un’arringa del Wizengamot sul fatto che fosse sconvolto dall’estromissione dal caso. Ero preoccupato per lui, e lo era anche Tom. Gli abbiamo chiesto come stava.”
“Cazzate.” Al intuì che menzionare Tom non aveva perorato la sua causa. In effetti non lo faceva mai. “Lo avete convinto ad indagare sottobanco!”
Ah, però. Il mio fratellino investigatore.

Incrociò le braccia al petto, perché in una gara di muscoli avrebbe perso miseramente, ma non di ingegno. Mai di ingegno. “E le prove di quanto dici?”
James lo guardò come se volesse lanciargli una fattura, ma dovette fermarlo il camice, o forse il fatto che non erano più due bambini della stessa altezza e capacità magiche. Un auror non poteva attaccar briga con un civile per il puro gusto di farlo, primo per le regole…
… secondo perché mi rivolterebbe come un calzino. Ed è in servizio, non può farlo. Ah!
“Le prove…” Iniziò schioccando la lingua e contraendo i pugni. “Le prove è il fatto che quel cretino di Malfoy ha trafugato le cartelle del caso per portargliele!”
“E pensi che gliel’abbia suggerito io?”
Ero certo che avrebbe funzionato, Scorpius ha un debole per Sören.
“Prince non è in grado di pensare a roba così Serpeverde!”
“È bello vedere che dividi ancora il mondo in dicotomie.”
“Sei stato tu.”

Non c’era molto che potesse fare a quel punto per convincerlo del contrario; James era un mastino quando si convinceva della colpevolezza di qualcuno.
In questo è identico a papà. E non che abbia torto, tra l’altro.
“E se fosse?” Si strinse nelle spalle. “Non l’ho convinto, gli ho suggerito una strategia. Vuole riprendersi il caso, ed è una decisione che ha preso da solo.” Fece una pausa guardando il volto acceso di rabbia dell’altro, preso di colpo da un dubbio. “Non dirmi che hai intenzione di denunciare Malfoy e Prince.”
“Certo che no!” Sbottò guardandolo male anche solo per averlo pensato. “Non sono una schifosa spia!”
Al non poté fare a meno di sorridere, nonostante avesse l’impressione di non essere ancora fuori pericolo. “Certo che no.” Fece una pausa. “Per questo ero sicuro che non avrebbero rischiato niente.”
James fece una smorfia. “Che ti è saltato in mente? Perché ti vuoi impicciare? Prima qui in ospedale, poi…”
“Non mi sto impicciando, sto aiutando.”
“È questo che pensi?” Fece un suono sarcastico che fece vacillare appena la sua convinzione. Solo appena. “Pensi davvero di star aiutando Sören? Perché cazzo credi che l’ufficio gli abbia assegnato una scorta? Perché smaniamo per fargli da babysitter?” Non gli diede il tempo di rispondere. “Perché è in pericolo.”
“Sì, mi rendo conto…”
“No invece!” Sbottò tirandogli una spinta, come quando erano bambini e il loro unico modo di litigare era prendersi a pugni. “Non te ne frega niente della sicurezza di Prince, ti importa solo di aver tutto sotto controllo!”

“Questo non è vero!” Ribatté con la sensazione che suo fratello avesse capito più di quanto volesse ammettere a se stesso. 
“Ah no?”

Dimenticava troppo spesso quanto fosse in grado di investigare e trarre conclusioni. Su un caso … o su qualcuno.
Dopotutto ha capito che Teddy era gay prima di Teddy stesso.
“Ti conosco come l’impugnatura della mia bacchetta.” Scrollò la testa, guardandolo in un misto di rabbia, esasperazione e qualcosa che pareva proprio preoccupazione. “Vai in paranoia se succede qualcosa di cui non hai il controllo.” Lo guardò confuso. “Perché non riesci a farti i fatti tuoi, eh?”
Al inspirò, appoggiandosi allo stipite della porta. “Perché ho paura.” Mormorò piano. Tanto era stato smascherato bellamente: sia lui che Tom erano gli unici a riuscire a vedergli dentro e buttarglielo addosso. Lily era sempre stata così carina da evitare. “Ho paura del contagio, ho paura che vengano di nuovo a cercare Tom … ho paura.” Si passò una mano trai capelli. “Non riusciamo a trovare una cura, il sangue di Sören non funziona. Ed è al momento l’unica pista che abbiamo. Una pista che non porta a niente.”
L’altro aggrottò le sopracciglia, quasi non trovasse senso alle sue parole. “Sì, ma questo cosa c’entra con te? È un intero ospedale che ci lavora!”

“Lo so, ma non mi sembra di fare abbastanza.” Si sfogò. “Il virus sta mutando e stiamo facendo i salti mortali per tenere i pazienti in stasi, per non far progredire la malattia … per non farli morire.” Sentì la bocca secca. “Potrebbero morirci davanti agli occhi … Liam e gli altri. Mi sembra di non stare facendo niente. Lasciami … lasciami almeno fare questo.”
“Impicciarti?”
“Jamie…”
James si strofinò una mano sul viso. “La cosa divertente…” Mormorò con l’aria di non trovarla divertente affatto. “… è che in questo momento altrettanti topi da laboratorio stanno lavorando per rendere innocuo il siero. Forse dovremo chiedere a loro.” Ironizzò. “Peccato che non riusciamo a trovarli.” Poi tornò serio. “State facendo tutto il possibile, Albie. Se qualcuno …” Esitò, ed era evidente stesse pensando al sergente. “Se qualcuno non dovessero farcela … almeno siete riusciti ad isolare il contagio. Avete salvato un intero Ministero evitando una fottuta pandemia.”
Stava cercando di consolarlo, ma non stava funzionando granché. “Delle persone moriranno comunque. E non è detto che non ne escano fuori altre … Hanno delle cavie, vero? Sono riusciti a rapirli. Se facessero dei passi avanti, o se credessero di fare dei passi avanti, potrebbero tentare di nuovo di provare il siero su quelle persone … o su altre. Chiunque.
“Okay.” Lo fermò. “Basta. È roba a cui abbiamo già pensato. Non dovresti essere tu a fartici il sangue amaro!”
“Lo so.” Mormorò. “È solo che … io non sconfiggo i cattivi, Jamie. Non sono bravo in questo.” E la cosa non l’aveva mai turbato più di tanto. Non fino a quel momento. “Però posso usare il cervello. In questo sono bravo.”

“Anche troppo.” Grugnì. “E quindi aiutare Prince a rimanere è usare il cervello?” Non sembrava molto convinto, ma non aveva più voglia di picchiarlo. Era un progresso.
“Te ne rendi conto anche tu o avresti fermato Scorpius.”
James sbuffò, infilandosi le mani in tasca, come quando non voleva dargli ragione per partito preso. “Niente più ficcanasare nel Demiurgo, okay?” Squadernò un dito e glielo picchiettò sulla fronte. “Occupati dei pazienti. Lasciaci fare il nostro lavoro. Siamo bravi.”
“So che lo siete.” Sorrise appena. “Scusami Jamie, non volevo causare fastidi a nessuno.”
“Quanto sei stronzo.” Sogghignò con aria vinta. “Non te ne frega niente dei nostri fastidi … Se vuoi dare un consiglio al pipistrello, fa’ pure. Ma smettila di suggerirgli di infrangere le regole!”

“Pensavo avresti apprezzato, da bravo Grifondoro.”
“Sta’ zitto serpe.” Lo guardò da sotto in su, poi gli rifilò una pacca sulla spalla piuttosto dolorosa. Strinse i denti perché non gliel’avrebbe data vinta facendosi dare della femminuccia. “Ce la caveremo, Albie. Risolveremo questo casino e ne arriverà un altro… Come al solito. Ma è quello per cui siamo tagliati, e lo sai perché?”

Sorrise appena di rimando. Conosceva la risposta, gli scorreva nelle vene.
“Perché siamo Potter.”
 
****
 
Somerset, Contea di Bath.
Lucknam Park Hotel & Spa. Mattina.
 
Alla fine avevano deciso per un resort a poche miglia da Bath e solo due ore di macchina da Londra; persino Violet si era fatta convincere dai duecento acri di parco, dalla piscina coperta a temperatura ambiente e dalle varie amenità tipiche di una Spa di lusso.
Lily si lasciò cadere sul letto della suite che avrebbe diviso con Roxanne, lasciando che la cugina scrutasse con occhio clinico l’intera stanza, puntigliosa com’era e formasse un giudizio.

“Mi piace.” Approvò infine distendendo i lineamenti e palesando quanto avesse bisogno di quello stacco, forse più di tutte loro messe assieme.
Beh, un neonato è impegnativo…
“Certo che ti piace, questo posto costa un occhio della testa a sentire le lamentele di quella spilorcia di Rosie…” Sbadigliò, calciando via i tacchi e spedendoli sulla moquette color crema. “… e dire che siamo le sue damigelle, dovrebbe esserci grata in eterno!”
“Per non aver invitato spogliarellisti?”
“Esatto!”
Roxanne ridacchiò, tirando fuori la bacchetta – precedentemente occultata in presenza dei Babbani della reception – per sfare le valige. “La minaccia è servita però.”
“Prospettargli un addio al nubilato fuori di testa per ottenerne uno da favola. Sono una ragazza intelligente, mi conosci.” Si stiracchiò, guardando affascinata l’enorme giardino all’inglese che si emergeva oltre le finestre: aveva sempre amato la campagna inglese, essendoci nata e vissuta, ma i parchi ben ordinati di proprietà così lussuose avevano un posto speciale nel suo cuore: la facevano sentire coccolata. “Comunque stasera club a Bath. Tassativo. Ne ho trovati un paio che non dovrebbero farle avere un tracollo nervoso. E poi forse ci raggiunge Domi … Non possiamo mica farla stare a mollo nei fanghi di bellezza! Vorrebbe ingaggiare una gara di palle di fango o qualcosa di simile.”

 “No, direi di no. E Rosie avrà comunque un tracollo. Lo sai che sta ad un club e ad un dancefloor come tu stai al ricamo.” Replicò Roxanne sedendosi sul ciglio del letto: delle sue cugine era forse la più bella, rifletté, persino più di Victoire, e proprio perché non lo ostentava. Capiva perché Dionis se ne fosse innamorato all’istante.
Non c’è bellezza più bella di quella inconsapevole, è proprio vero.
… beh, poi c’è quella come la mia, che impegna due ore ogni mattina per rilucere al meglio. Ma ehi.  
“Beh, se ne farà una ragione. E poi alla fine si diverte sempre.” Rotolò per abbracciarle la vita, in un impeto di affetto per quella sua cugina austera e saggia. “Dion è un mago proprio fortunato. La maternità ti ha reso figa!” Aggiunse estemporanea.
Roxanne le diede un buffetto divertito, come faceva sempre da che erano bambine. Adesso c’era però una connotazione molto più … da mamma, ed era bello quanto naturale. “La pensate allo stesso modo, ma a me sembra di essere un’orca spiaggiata.”

“Sciocchezze! Sei longilinea come una silfide!”
“Non so neanche cosa sia.” Sbuffò. “Non è che mi hai dato della balena?”
“Assolutamente no! È uno spirito dei boschi tedesco … Sono stupende, agili e aggraziate e sono delle divinità dell’aria, quindi ci prende con il tuo bel mestiere da folli.”
La cugina le rifilò una cuscinata sulla testa; mai offendere la sacra disciplina del Quidditch in sua presenza. Deflesse il colpo appoggiando poi il mento ad una mano per guardarla da sotto in su. “Sono anche pallide ed esangui però, da come me le ha descritte Ren, quindi forse non ci siamo.”
Roxanne alzò gli occhi al cielo, come sempre faceva quando la riteneva portatrice sana di cavolate. “Visto che ti ho sfatto la valigia, Rossa, che ne dici di smetterla di oziare e raggiungere le altre?”
“Guarda che il punto di tutta la faccenda è proprio questo.” Puntualizzò. “Però okay, piscina!” Si diresse così in bagno, dove trovò un paio di soffici accappatoi bianchi. Già solo indossarne uno le spazzò via una buona dose di brutti pensieri dalla testa.
Questo addio al nubilato non poteva essere più azzeccato.
Mentre aspettava che la cugina si cambiasse controllò il cellulare: aveva detto a tutti che l’avrebbe spento così da non avere seccature, né sul lavoro … né da altro.
Tanto è solo una giornata, Scotty se la saprà cavare anche senza di me. E anche Ren.
Notò un messaggio e lo aprì. Era di Sören, e le augurava un felice soggiorno. Lanciò un’occhiata alla porta del bagno ancora chiusa, e digitò velocemente. ‘Puoi contarci, ho intenzione di soffocare nell’inedia!’
La risposta non tardò ad arrivare. ‘Scommetto ti verrà naturale’
Ridacchiò, perché la stuzzicava da morire quel lato ironico dell’amico, in apparenza sempre attento ad osservare cortesie con chiunque. ‘Stai dicendo che sono pigra?’
‘Non sto dicendo che morderai il freno.’
‘Simpatico! Stasera grande festa alla corte di re Scorpius … Pronto?’
‘Assolutamente no. Qualche consiglio su come affrontare il bagno di socialità?’
‘Sembro tanto sconveniente se ti consiglio la filosofia del drink sempre in mano?’
‘È la stessa conclusione a cui sono giunto io.’
‘Non bere troppo però … Non farmi preoccupare!’
‘Mai Lilian.’ Ci fu una pausa in cui Lily guardò preoccupatissima verso il bagno e si diede dell’idiota perché Roxanne non poteva leggere attraverso le porte e gli schermi dei cellulari. E comunque non stava facendo niente di male … anche se aveva detto che avrebbe spento il cellulare.
‘Ti devo credere?’
‘Sarò ineccepibile. E poi, temo che dovrò occuparmi di portare a casa Milo sulle sue gambe.’
Mascherò prontamente una risatina quando la cugina uscì dotata di accappatoio e capelli raccolti. Lo sguardo le andò subito al cellulare. “Con chi ti stai sentendo?” Non fece in tempo ad inventarsi una scusa che l’altra sbuffò. “No, non serve che mi rifili una palla. Come sta Sören?”
“Bene!” Replicò sullo stesso tono. Quando lesse il messaggio successivo però dovette nascondere una smorfia.
‘Stasera esco con il sergente Gillespie. Consigli?’
Manco morta!
“Stiamo parlando del suo appuntamento con una collega.” Replicò, avendo la magra soddisfazione di vedere l’altra perdere interesse. ‘Prima di tutto chiamala Ama. E secondo, sii te stesso … o è troppo scontato?’
‘Abbastanza.’
‘Ma è così che funziona! Se non le piace chi sei, allora non vale la pena. Se le piace, giochi in casa!’
‘Lily, sei una delle poche persone a cui piaccio quando sono me stesso.’
Quello era un colpo basso, sleale … e tremendamente tenero. Seguì la cugina fuori dalla stanza, sperando di non inciampare dato che aveva il cellulare davanti al naso.
‘Ma io sono di gusti difficili. Quindi vai tranquillo, le piaci adesso e le piacerai dopo. E niente gel sui capelli!’
‘Sarà fatto. Grazie.’
‘Figurati. Dacci dentro, tigre!’
Certo che le piacerai, scemo. Perché se non ti amerà come ti amo io giuro che verrò a Boston a cavarle il cuore. Personalmente.
Stavolta lo spense sul serio, infilandolo nella borsetta di tela con il logo dell’albergo. Sua cugina non aprì bocca finché non furono in ascensore, forse per distrarsi dalla lieve claustrofobia che si portava dietro sin dall’infanzia. “Quindi è tutto risolto? Se lui esce con un’altra ragazza e tu te ne vai in Australia con Scott…”
Lily si guardo allo specchio, che le riflesse l’immagine di una ragazza con troppe occhiaie e persino qualche irritante lentiggine. Chissà perché, le venivano fuori in corrispondenza di periodi di forte stress. Era la magia? “Sì, tutto a posto.” Mentì con disinvoltura. “Crisi rientrata.”
Roxanne era più occupata ad aggiustarsi le forcine che non riuscivano a contenere la sua capigliatura leonina per guardarla, ed annuì. “Bene allora.”
“Benissimo!”
Questa sera mi sbronzo.

 
****

Londra, Hyde Park.
Pomeriggio.

 
L’appuntamento non stava andando male come aveva preventivato.
Sören era arrivato davanti alla statua di un certo Peter Pan, il posto dell’appuntamento, con largo anticipo. Era il metodo migliore che conosceva per evitare lo stress, quello di arrivare prima e studiare il luogo di incontro da ogni angolazione possibile.
Anche se di solito usi questa tecnica con gli informatori.
Si era comunque informato con i passanti che il luogo fosse quello e poi si era seduto su una panchina ad osservare un quadrato d’erba in maniera ossessiva finché non aveva visto arrivare Ama. Non era la prima volta che gli capitava di vederla senza uniforme, ma quel pomeriggio era particolarmente bella, con i capelli freschi di acconciatura e i vestiti colorati, ben diversi dall’uniforme monocroma con cui la vedeva ogni giorno.
Dopo doverosi convenevoli avevano passeggiato lungo i vialetti del parco, ed era stata una fortuna che Lily ce l’avesse portato qualche settimana prima riempendolo di aneddoti sul posto: li aveva ripetuti diligentemente facendo ridere la sua compagna. Da quel punto in poi la conversazione si era fatta scorrevole e Sören si era sentito fiero di sé.
È il tuo primo appuntamento e non sta andando male. Inaspettato.
Adesso erano dalle parti del Marble Arch e Ama gli stava spiegando come le ricordasse un monumento che aveva visto a New York. Sören avvistò un chiosco di gelati e vista la bella giornata lo indicò. “Facciamo una pausa? Abbiamo camminato molto.”
Ama sorrise, con un’inspiegabile sollievo, che gli diede ansia finché non si indicò i piedi. “Questi tacchi mi stanno uccidendo. È un ottima idea.”

“Perché li hai messi se ti fanno male?” Chiese e intuì l’idiozia della sua domanda dall’occhiata dell’altra. “È strano.” Si giustificò. “Io non indosserei mai scarpe scomode.”
“Perché sei un ragazzo.” Sospirò divertita, scrutando la lista di gelati. “Voi ragazzi non avete il dovere sociale di indossare queste trappole per piedi.” Alla sua espressione confusa scrollò le spalle. “Le donne sono considerate più belle ed eleganti con i tacchi. E non dirmi che non lo pensi anche tu, Prince. Saresti un bugiardo.”
“Non faccio caso a queste cose.” Replicò sentendosi punto sul vivo. “Non guardo i piedi di una donna, che interesse potrei avere?”

“Si vede che non sei mai uscito con una ragazza.”
Sören aprì la bocca per protestare, salvo rendersi conto che l’altra aveva ragione.

Avrebbe anche potuto evitare di farmelo notare.
Non disse niente però, perché era chiaro, dal tono leggero con cui l’aveva detto, che non intendesse offenderlo. Pagò i gelati senza una parola e poi si spostarono verso una vicina panchina. Ama dovette percepire il suo malumore. “Scusa.” E sembrava imbarazzata. “Ti sei offeso?”
“No.”
“Invece sì!” Replicò arrabbiata. Poi si morse un labbro. “È che … non sono brava nei primi appuntamenti. Gioco sempre in difesa, se capisci cosa intendo.”
Stava cercando di far pace, quindi le sorrise. “Mai quanto me.” Diede un morso al suo cono e fece finta di non sentire il dolore del freddo. Era un imbranato. “E poi … non hai torto. Questo è il mio primo appuntamento.”
“Da quando?”

“Da sempre. È la prima volta che esco con una ragazza.”
Se si esclude Lily. Ma Lily non conta.
Ama lo guardò sbalordita. “Stai scherzando, vero? Io prima dicevo per dire!”
Ah, per dire. Quindi non pensava … Fantastico. Adesso lo sa.
Verginello.
La definizione se la sentiva marchiata a fuoco sulla fronte.
“Sì, insomma, è vero che voi ragazzi non fate caso a queste cose, che a volte è tutto nella testa di noi donne, ma …” Rimase in silenzio, mangiando un po’ del suo gelato. “… come mai?”
Ignorò la cocente scritta sulla sua fronte. “Come mai cosa?”
“Come mai non sei mai uscito con una ragazza.” Sembrava incredula e Sören non seppe se sentirsi lusingato o in imbarazzo. Nel dubbio, optò per entrambe. “Sei un bel ragazzo, sei gentile e … beh, le ragazze del Dipartimento ti mangiano con gli occhi!”
Sören optò per la bruta verità. Anche perché non sapeva cosa rispondere se non quella. “Nessuna me l’ha mai chiesto.”
“Incredibile. E tu?”

Adesso era più lusingato che in imbarazzo: davvero pensava fosse così assurdo che nessuna gli avesse chiesto un appuntamento? Era una cosa buona, supponeva.  “Per quanto mi riguarda … fino a cinque anni fa credevo che non ci sarebbe stato posto per una donna nella mia vita. Ho semplicemente continuato a crederlo.”
“Sei un idiota.” Disse senza giri di parole ma non era una vera offesa. Era un po’ come quando Lilian gli dava della testa di legno o Milo gli diceva che era uno spocchioso bastardo. Sembravano quasi complimenti contorti. “Sören, potresti avere tutte le ragazze che vuoi!” Fece una smorfia. “Certo, non tiro acqua al mio mulino dicendolo, però è vero … Sei un bel ragazzo … no.” Si corresse. “Sei una bella persona.”
Le sorrise di rimando. “Ci sto arrivando adesso.”
Ama parve capire, perché annuì. “Sì … immagino. Spero solo che questa tua improvvisa realizzazione non mi faccia avere delle rivali.” Fece un sorrisetto imbarazzato ed era davvero bella. Se n’era accorto dalla prima volta che erano stati presentati, ovviamente, ma adesso aveva un’aria più genuina … e più raggiungibile.
“No.” Replicò, e il gelato gli si stava sciogliendo in mano a giudicare dalla roba che si sentiva colare sulla mano. “Non sono il genere di persona che divide la sua attenzione su più soggetti.” Era un po’ freddino. Doveva aggiungere qualcosa. Non ci rifletté molto. Lily diceva sempre che in certe cose non bisognava proprio pensare. “A me interessi tu.”
Ed era vero: Ama era la prima, dopo Lily, che si fosse mai presa la briga di interessarsi a lui come persona che aveva dei sentimenti. Era bello sentirsi desiderato, specie da una ragazza intelligente e bella.
Anche stavolta fu Ama a baciarlo per prima, ma a differenza del post-serata a Boston, le passò un braccio attorno alla vita e rispose. Era bello baciare qualcuno; le poche avventure che aveva avuto grazie all’alcool e alla mediazione di Milo avevano avuto dei baci, ma erano stati più che altro un’espressione di un bisogno sessuale, dati in prossimità di un letto, maldestri ed eccitati. Quello era completamente diverso.
Quando si staccarono le sorrise. Gli pareva la cosa migliore da fare dato che non sapeva cosa dire. Non si era aspettato quella svolta così repentina. Ama invece sembrava perfettamente a suo agio, perché lanciò uno sguardo alla mano e sbuffò. “Da non credersi … persino a Londra i gelati si sciolgono. Con questa falsa estate…”
Sören fece un leggero incantesimo di gratta-e-netta su entrambe le loro mani – la sua non vessava in condizioni migliori, scomodamente appiccicosa. Ama batté le palpebre sorpresa. “Avere una bacchetta che non si vede è comodo!” Commentò.
“Già. Ama, io …” Esitò, perché forse dovevano parlare del bacio o forse no. Se solo ci fosse stata Lily …

… a far cosa, assistere alla scena e consigliarti? Ma che problema hai?
Era una fortuna che Ama, trai suoi molti talenti, non avesse quello della Legimanzia, perché era abbastanza sicuro che non avrebbe gradito quella deriva di pensieri. “Non mi aspetto niente da un semplice bacio.” Rispose tranquilla, divertita dal tono. Sperava disperatamente di non essere arrossito. “Ci stiamo conoscendo come persone e non come agenti, okay? Per ora basta questo.”
Era sensato, ma non poteva limitarsi ad annuire come una marionetta. “Tu mi piaci.” Le disse, e sperò di suonare sincero. “È solo … che … non sono facile.” Concluse con la sensazione di non aver spiegato granché.
Dovette bastare, perché Ama gli passò una mano sulla guancia. Fu così inaspettato che dovette evitare di ritrarsi. Cinque anni e ancora faceva fatica a distinguere una carezza da un tentativo di aggressione. Era ancora materiale per Psicomaghi. Per fortuna Ama non parve accorgersene.
“Le persone facili non sono il mio genere.” Gli sorrise. “E mi piaci anche tu.”
Si alzarono e Sören le porse il braccio. Gli parve sorpresa, ma lo accettò con un sorriso timido che gli diede una buona sensazione. “Sei proprio un cavaliere, eh?” Scherzò.
Sören si strinse nelle spalle, ignorando la fitta di senso di colpa; era la prima volta che offriva il braccio a una ragazza che non fosse Lily. Certo, era un gesto da nulla, eppure…
Non è lei.
Era solo questione di abituarsi.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.
 
“Sei sicuro di non voler venire?”
Ted guardò il profilo di James allo specchio, mentre si sistemava una camicia che da sola, fasciandogli i fianchi alla perfezione, riusciva a distrarlo dal compito che si era prefissato, ovvero non togliere gli occhi di dosso da Benedetta, che giocava sul tappeto della loro camera. “Sì.” Confermò per l’ennesima volta. “Non me la sento di lasciarla.”
“Nev e Hannah non avrebbero problemi, e la nanetta potrebbe giocare con Frankie.” Gli fece notare e una parte di lui era quasi pronta a considerare l’offerta, prima di guardare verso il visetto concentrato della bambina e capire quali erano le sue priorità.
“Lo so, ma … preferisco così. E poi stasera sono un po’ stanco, non sarei di compagnia per una serata à la Scorpius.” Replicò con un sorriso quando lo vide lottare con un ciuffo di capelli particolarmente ribelle. “Serve una mano?”
“Se perdo altri cinque secondi sui miei capelli giuro che mi raso a zero.” Borbottò.  
“Preferisco i tuoi riccioli.” Replicò prendendo il pettine, utensile sconosciuto al compagno. “Sta’ fermo.”
James sbuffò, mettendogli le mani sui fianchi e giocherellando con l’orlo slabbrato del suo miglior maglione da casa. “Non mi diverto se non ci sei tu…”
“Ti diverti soprattutto se non ci sono io.” Corresse gentilmente, lanciando un’occhiata a Benedetta, presa a costruire una torre con le costruzioni. Non sembrava particolarmente curiosa riguardo alle loro manifestazioni d’affetto: quella mattina li aveva quasi sorpresi a baciarsi e l’unica reazione percepita era stata chiedere una seconda tazza di cioccolato.

Avrà già visto altre coppie gay? Dovremo parlargliele o è troppo piccola?
I libri che aveva comprato sulla materia – era sceso fino a Londra per prenderli  - suggerivano di affrontare il problema solo se fosse stata la bambina a sollevarlo e di comportarsi nel modo più naturale possibile, senza nasconderle niente.
Ma se non ce lo chiede? Qualcuno prima o poi glielo farà notare…
Al di là dei suoi galoppanti dubbi, in quei due giorni le cose erano comunque andate bene; Ben era una bambina vivace e un po’ viziata, non apprezzava che le venissero date delle regole o le venisse chiesto di tener in ordine la propria camera, ma era anche incuriosita dalla foresta come dalle montagne e dal paese e la sua natura allegra riusciva a bilanciare i momenti di buio, in cui ricordava il padre. Erano riusciti comunque a controllare la situazione con un paio di giri da Mielandia e James sempre pronto a distrarla con racconti o scherzi.
Non dimenticherà mai quello che ha passato con suo padre. Però possiamo fare in modo che non le faccia così male.
“Come sto?” Lo distrasse il compagno dandogli un colpetto sulla spalla. “Teddy, torna sulla terra e considerami.”
“Eccomi.” Gli sorrise perché bruciava dalla voglia di baciarlo. “Stai benissimo.”

James parve leggergli l’intenzione negli occhi perché si sporse verso di lui con un sogghigno che parlava di carognata. “Sicuro che non vuoi che resti?”
“… sicuro.” Mormorò piano: forse non era stata un’idea così brillante tenere Ben a portata d’occhio. “Benedetta, che ne pensi?” La chiamò ad aiuto, visto che non poteva far altro. “James come sta?”
La bambina alzò lo sguardo e arricciò il naso. “Sta in camera.” Proclamò in italiano, fraintendendo. “Dove vuoi che sta?
James si inginocchiò squadernando il suo sorriso più affascinante. “Sì, ci sto, ma ora vado ad una festa. Sono bello?”
Ben gli lanciò un’occhiata di palese sufficienza. “Devi pettinarti meglio i capelli.” Dichiarò facendolo ridere, mentre James tentava di nascondere una smorfia offesa. Quelle conversazioni in italo-inglese si facevano sempre più miste, ed era una buona cosa: era certo che nel giro di poco tempo Benedetta sarebbe stata in grado di sostenere una conversazione senza che l’interlocutore dovesse lanciarsi addosso un Incanto Traduttore.
Almeno potrà giocare con gli altri bambini.
James si tirò in piedi e gli scoccò un sorriso tutto denti mentre gli occhi gli brillavano di voglia di far festa. Lo amava anche per non essere un pantofolaio come lui. “Bene! Vado a prelevare il festeggiato.”
Annuì. “Fa’ attenzione e non …” Si fermò. “Qualsiasi raccomandazione non avrebbe senso, vero?”
“Esatto!” Ghignò. “Ehi pulce, io vado … fa’ la brava okay?
Ted a posteriori non capì se fu l’italiano usato, o proprio quel che gli disse James a farla scattare, fatto sta che Benedetta lo guardò con due occhi enormi, congelata come un cerbiatto di fronte ai fari di una macchina. Poi gli si gettò addosso, placcandogli la vita e abbracciandolo talmente stretto che James, per quanto piazzato, fece un passo indietro per bilanciarsi.
Non andare!” Strillò con il tono che precedeva una crisi acuta di pianto. “Non andare via!
“Ma che…” James lo guardò con l’aria di non sapere che pesci prendere.

Erano in due. “Ben…” Si chinò per accarezzarle la schiena, cercando di non suonare spaventato, anche se lo era. “Cosa c’è? Perché non vuoi che James vada via?
“Fino a due secondi fa era tutta tranquilla…” Sussurrò l’altro, dandogli delle pacchette sulla testa con l’aria di voler scomparire.  

Okay. Che è successo? Cos’è che l’ha spaventa?
Ben stava tremando e di colpo Ted ricordo la caverna . 
Dev’essere la stessa cosa che Lunastorta le ha detto prima di andarsene.
Dalla faccia che aveva James, seppe che doveva intervenire prima che il suo ragazzo fosse annientato dai sensi di colpa.
James sta andando ad una festa.” Continuò ad accarezzarle la schiena: era una cosa che pareva calmarla. “Ehi, guardami un po’.” Il visetto pallido e in lacrime di Ben era in effetti un buon motivo per chiedere all’altro di restare, ma non era giusto.
Sono io lo zio. Non posso sobbarcare tutto a Jamie.
Jamie torna. Molto tardi, quando sarai già a letto a dormire, ma torna. Controllerò io, va bene? E se non lo vedo tornare, andrò a prenderlo.” L’idea parve piacerle perché le lacrime smisero in favore di qualche singhiozzo isolato.
“Resto?” Mormorò James prevedibilmente.
“No.” Gli sorrise, prendendo in braccio Ben, che gli si accoccolò addosso dandogli la forza di continuare. Poteva gestire la cosa anche senza l’aiuto dell’altro. Doveva. “Organizzi questa festa da mesi … Si è solo spaventata un po’.”
“Ma le ho ricordato…” James era pronto a sbattere una testata contro lo spigolo, come un Elfo indisciplinato, glielo leggeva nell’espressione affranta. “… cazzo, Teddy, pensa che sparirò come suo padre!”
“È normale che lo pensi, credo. Lo farà ancora per un po’…” Traumi del genere non sparivano per una bella casa e due sconosciuti che si occupavano di te. Ted aveva avuto una nonna e una famiglia adottiva piena d’amore, eppure c’erano state notti in cui si era svegliato chiamando genitori che non aveva mai conosciuto. Poteva solo cominciare ad immaginare cosa stava passando Benedetta.
‘Ma non è sola al mondo. Ha voi.’
Le parole di Lily gli davano la forza di spedire James a divertirsi. “Deve abituarsi a non averci sempre a portata di mano. E poi ci sono io, sta’ tranquillo.”
L’altro era poco convinto, si vedeva, ma sospirò. “Se succede qualcosa…”
“… ti chiamo.” Mentì, perché il compagno aveva bisogno di quella serata, forse più di quanto non realizzasse. “Vai, o farai tardi e Scorpius andrà da solo.”
“Ci mancherebbe, quello non sa trovarsi il sedere con le mani.” Sbuffò per poi dare un colpetto alla spalla di Ben. La bambina si voltò appena, più occupata a nascondergli il viso contro la spalla. Lo faceva anche Al da piccolo, quando qualcosa lo spaventava.

Niente di nuovo. Coraggio.
“Ehi, pulce, torno presto … Ma tu fa’ la guardia alla casa e a Teddy in mia assenza. Non è che sia tanto bravo a star da solo. Gli fai compagnia?” Ad un piccolo cenno d’assenso le tese la mano. “Dammi il cinque, coraggio.” La bambina obbedì, con un sorriso finalmente. James le arruffò i capelli e poi gli lanciò un’occhiata determinata delle sue. “Qualsiasi cazzata. Chiami e torno.”
“Vai.” Ripeté. “Ce la caveremo.”

Quando l’altro gli ebbe finalmente obbedito sospirò, cullando Ben che non sembrava intenzionata a scendere. Per essere già grandicella era incredibilmente pronta ad accoccolarsi addosso. A volte era difficile distinguere se fosse un lato del suo carattere o un’insicurezza dovuta all’esperienza nella foresta.
Due Lupin lasciati a se stessi.
Poteva essere una catastrofe, tuttavia non doveva. “Sai cosa mi piace fare quando sono preoccupato? Leggermi una bella storia.” Scese le scale con tutta la calma del mondo perché il respiro tiepido di Ben sul collo faceva sembrare tutto più fragile e incerto. “Se mi concentro posso immaginare di essere nel libro, e mi dimentico di quello che mi fa paura.” Si sedette sul divano del salotto, dove per fortuna aveva lasciato il fuoco acceso. Appellò un libro e lo aprì. Ben non aveva dato segno di gradire l’idea, ma neppure l’aveva respinta da come gli si era raggomitolata in grembo.
Non mi ricordavo che i bambini fossero tanto minuscoli.
Non aveva importanza. Con un libro in mano, anche due Lupin potevano cavarsela.
 
****
 
Londra, Diagon Alley.
Finnigan’s Wake. Sera.
 
Il Finnigan’s Wake aveva ospitato molti lieti eventi: la propria inaugurazione coincidente con i festeggiamenti del diploma dei proprietari, svariati compleanni, un paio di matrimoni e per fortuna nessun funerale. Che fosse il luogo scelto per l’addio al celibato era quindi quasi ovvio.
“A Malfoy, e alla sua sciagurata decisione di sposarsi con quello Kneazle pazzo di mia cugina!” Berciò James, portando in bilico una serie di boccali, cocktail e un giro intero di shots creati dalle estrose mani di Gus. Presi da mani allegre furono distribuiti, alzati e trangugiati.
“A Scorpius!”
Albus prese il proprio drink, un Platano Picchiatore, che la maggior parte dei ragazzi evitava ad inizio serata. Era divertente vedere come tutti, ad eccezione di Tom e Mike, aspettavano di vederlo stramazzare al suolo ubriaco dopo il secondo giro.

Spiacente, ho imparato a bere.
Sorseggiò il suo drink, accarezzando distratto la gamba di Tom che era schiacciato tra lui e il muro ed era quindi già nervosetto. “Fa’ il bravo. Stasera ci tocca.” Gli mormorò all’orecchio, mentre la musica delle potenti casse Babbane risuonava per tutto il locale, pieno da scoppiare tranne per la sezione che Gus aveva chiuso loro.
 
No there ain't no rest for the wicked
Until we close our eyes for good

 
“Ricordami perché dobbiamo…” Replicò l’altro sollevando svogliato il boccale all’ennesima sparata di suo fratello, salvo però trangugiare con gusto metà del suo drink.
Speriamo che si ubriachi. Diventa più silenzioso e tenta di spogliarmi davanti a tutti, ma almeno smette di fare il broncio.
“Perché Jamie ha scoperto che abbiamo parlato con Sören.” Pescò un cubetto dal suo drink e lo succhiò godendosi la frescura. “Mi ha fatto la ramanzina e mi ha detto che devo stare alle regole.”
“Come se potesse permetterselo … Ha piagnucolato da vostro padre finché non gli è stato assegnato il caso.”

“Tom…” Gli diede una pacca sulla gamba. “… non aveva tutti i torti.”
“Quindi siamo fuori dai giochi?”
“Certo che no.” Sorrise a Sören, entrato in quel momento in compagnia del suo biondo e muscoloso amico, Milo. Al si raddrizzò: voleva proprio vedere che combinava Michel,  che era era appoggiato alla ringhiera che separava i loro tavoli dal resto della sala. Quella sera l’amico indossava la sua migliore aria di eleganza aristocratica, con quella punta di sussiego che sembrava prerogativa del suo ambiente, come i completi chiari di alta sartoria e i biglietti da visita. Prima di un paio di bicchieri non c’era mai verso di togliergliela di dosso. Stavolta non servì: quando il tedesco gli passò accanto si lanciarono un’occhiata che avrebbe potuto far prendere fuoco un tavolo.  
… apperò!
Stava venendo caldo a lui. Diede una gomitata a Tom, che stava chiacchierando con Loki, l’unico che avesse avuto voglia di sedersi nel suo raggio di malumore. “Ehi!” Sussurrò. “Ti ricordi che ti ho detto che Mike sta dietro ad un ragazzo? È lui il ragazzo.” Lo indicò con un cenno della testa.
Tom sembrò inquadrare la situazione, ma si limitò ad una smorfia non impegnativa.
“Ah, sì, Emil.” Gli diede invece soddisfazione Loki, entrano nella conversazione e fregando un sorso dal bicchiere di Tom. l’altro lo fissò malissimo, ma prevedibilmente venne ignorato.
“Emil? Non si chiama Milo?”
“Il nostro buon Mike lo chiama così …” Si strinse nelle spalle. “Magari sono già alla fase dei nomignoli.” Sogghignò. “Non li avete anche voi?”
“Il mio nome è già imbarazzante da sé, grazie tante.” Replicò per poi tornare a guardare il biondo teutone che rifilava una pacca allegra a Scorpius come se fossero cresciuti assieme. Aveva la stessa socialità fluida e sorridente. Prince trai due scompariva come una figura di sfondo.
Un ragazzo da parete.
Comunque il pettegolezzo era troppo succoso. “Tu sai in che rapporti sono esattamente? Mike mi pare piuttosto preso.”
Loki si accese la pipa, dando una vigorosa boccata, ma fu abbastanza furbo da non soffiare il fumo in faccia a Tom, che aveva il bicchiere in mano. Era già successo che glielo versasse addosso. “Più che preso direi ancorato … Caro il mio pulcino, il nostro Mike è innamorato cotto!”
Al, ora che era di fronte ad entrambi, e poteva vederli assieme … era perplesso. Non che Milo fosse un brutto ragazzo, tutt’altro. Solo che con i capelli che sembravano appena usciti da una sveltina e quello che sembrava uno spinello tra le labbra…

… non è proprio il classico tipo di Mike. Pensavo gli piacessero più alla Mael … e alla me?
Loki parve capire cosa gli passava per la testa perché si avvicinò col tono di una confessione. “Se chiedi a me … quello finge solo di aver passato la vita nel fango di Diagon Alley.”
“Cioè?”
“Cioè è un ex Purosangue.”
 
Tom si stava annoiando a morte a sentir spettegolare Al e Loki e conoscendo i due la cosa sarebbe andata per le lunghe. Poteva solo sperare che la partita di poker iniziasse presto, ma a giudicare da come Malfoy svolazzava di invitato in invitato – molti dovevano ancora arrivare – avrebbe comunque dovuto aspettare. A quel punto, irritato e già leggermente ubriaco si alzò e si diresse verso il cugino.
Almeno non si mette a ciarlare di Zabini.
“Sören.” Lo salutò e questo quasi sobbalzò, guardandolo sorpreso. Possibile che non riuscisse mai a rilassarsi? “Vieni a sederti.” Concluse con tono spiccio.  
“Sì.” Replicò obbediente, ma forse era sollievo quello che sentiva? Fino a poco prima stava guardando in direzione di Scott Ross con una faccia strana. “Non pensavo di trovarti qui.” Aggiunse quando si furono accomodati nel paio di sedie più lontane dalla ressa.
“Perché?”
Sören si guardò le mani, strofinandosi l’anello che aveva al dito. Continuava a lanciare occhiate in direzione del ragazzo di Lily, ma non pareva aver voglia di andare a salutarlo. Bizzarro. “Mi è stato detto che non sei persona che apprezza questo genere di eventi.”
“Malfoy non capisce i no. Gli unici a cui si sottomette sono quelli della sua fidanzata.” Replicò facendogli spuntare  un sorriso. “Immagino tu abbia avuto lo stesso problema.”
“Già.” Convenne tirando fuori una sigaretta dal pacchetto. “Ti dà fastidio?”

“Con la cappa che aleggia qua attorno non fa differenza.” Rispose facendogli cenno di accendersela. Sören soffiò via il fumo mentre ascoltava i ringraziamenti di Scorpius, appena omaggiato di una maglietta con scritte e disegni al limite dell’osceno. Stavolta sorrise.
“Gli ho detto che non sono un tipo da compagnia, ma non gli importa.” Spiegò. “Gli piace avere persone attorno, anche se non sono sulla sua lunghezza d’onda…” Aggrottò le sopracciglia. “… qualsiasi cosa voglia dire.”
Tom era stupito dalla facilità con cui l’altro aveva aperto la conversazione, e in maniera neppure stupida. Non era … male. Perlomeno con lui per interagire non doveva trangugiare shots e intonare canzonette da taverna.
“Malfoy non ha mai avuto un pensiero cattivo in vita sua.” Rispose vuotando il bicchiere. “E trova divertenti anche persone che non sono considerate l’anima della festa.”
“È una fortuna allora.” Fece un sorrisetto ironico. “O quelli come me non verrebbero invitati da nessuna parte.”
Non preoccuparti, con quell’aria da passerotto ferito ti troveresti comunque attorno un paio di crocerossine del calibro di Al e Lily.
Ma non lo disse, perché aveva bevuto.
A questo proposito.
“Malfoy!” Quando alzava la voce era automatico che venisse ascoltato. Non farlo mai portava dei vantaggi indiscutibili. “Prince non ha niente da bere. E neppure io.”
Questo squadernò un gran sorriso. “Rimedio subito! Whiskey incendiario e un Mangiamorte in arrivo!” E si allontanò verso il bancone trascinandosi dietro la sua ombra a forma di James Potter.
Da lontano vide Al guardarlo con compiaciuto divertimento. Lo ignorò. Si rivolse invece a Sören, che non ghignava e stava ad ascoltarlo. Dopotutto, era un tipo simpatico. “Spero tu sappia giocare a poker.”
L’altro aggrottò le sopracciglia. “Conosco i rudimenti di quello magico, me li ha insegnati un collega. C’è differenza?”

Fece un sorrisetto, pregustandosi l’idea di spennare James o qualche Grifondoro a scelta. Dopotutto era il motivo per cui era lì e non a casa con un nuovo compendio sui legni di bacchetta.
“Solo in termini di perdite.”
 
La serata si stava svolgendo esattamente come Scorpius aveva desiderato, ovvero in più giri di birra e cocktail, condita da battutacce, gioco pesante e la messa in palio di cravatte, qualche orologio e soprattutto della collettiva dignità.
Michel supervisionava abbastanza sobrio il gioco – non era suo costume ubriacarsi indecorosamente come Potter, che aveva perso la camicia ad inizio serata e stava intonando per l’ennesima volta, stonato, un Auld Lang Syne fuori stagione. Il miglior giocatore, quello più lucido e letale, era prevedibilmente Loki, che ne aveva fatto quasi una professione, anche se in termini di vincite era seguito a stretta misura da Emil.
Che sta barando magnificamente.
Il tedesco prese infatti le sue ultime vincite, godendosi i mugugni scornati dei propri compagni di gioco. “E con questo, signori, io mi ritiro. Un buon giocatore deve evitare di far perdere la pazienza alla dea bendata!” Schiacciò la sigaretta ad uno dei posacenere stracolmi e si alzò in piedi. “Il prossimo giro lo offro io!”
“Sarà meglio.” Soffiò Dursley passandosi una mano sul viso, ubriaco e di cattivo umore per le continue perdite. Fu per fortuna distratto da un bacio di Al, che sapeva perdere con più classe di tutti loro messi assieme.
Anche perché è lo scommettitore più parsimonioso.
Era infatti l’unico con ancora tutti i vestiti addosso.
C’è anche da dire che le sue camice non sono una posta appetibile.
Prince che in compenso si era giocato la giacca di pelle americana con cui era arrivato e buona parte del contenuto del suo portafoglio aggrottò le sopracciglia come se stesse riflettendo su qualcosa di molto importante. “Io … credo che sia opportuno … che ti dia una mano Milo.” Disse staccando con cura le parole. Visto quanti whisky si era scolato e quanti shots di Tequila aveva accettato quello che aveva detto aveva un che di eroico.
Siamo nel vivo della festa…
L’alcool scorreva liquido nelle gole e la musica da taverna faceva da sottofondo a brindisi e canzoni intonate a squarciagola. Persino persone normalmente ingessate come Dursley si lasciavano andare, arrivando a posare la testa sul tavolo per farsela accarezzare dal compagno che, seppur premurosamente, se la rideva come non mai.
Vide Emil sorridere quasi affettuoso a Prince. “Resta dove sei principino … Non vorrei che mi crollassi culo a terra. Dionis, me lo guardi?”
Il rumeno, senza scarpe e con la fede attaccata saldamente al collo con una catenella – per non indursi in tentazione dato che aveva cattivi geni, aveva spiegato ad inizio serata – borbottò qualcosa di altrettanto rumeno, ma fece anche un cenno d’assenso. “Fantastico!” Poi Emil si voltò verso di lui. “Zabini, ci pensi tu a darmi una mano?” Gli chiese stupendolo: a parte guardarlo non aveva fatto altro per tutta la serata.
Non che dovesse far altro, ma comunque… 
“Certo.” Rispose, notando come tutti erano troppo presi dal gioco, dal proprio bicchiere o dalla canzone che stava passando per notarli. Scesero così in mezzo alla calca ben pressata.
“Questo posto è pieno da scoppiare … ma voi maghi venite tutti qui?” Osservò Emil passandogli una mano sul fianco per dirglielo all’orecchio.  
 
On the train feel insane.
What the fuck? Just bad luck

 
“È l’unico pub decente di tutta Diagon Alley…” Rispose facendo scivolare la mano su quella dell’altro, dato che stava infilandosi tra la seta della camicia e la pelle nuda. Represse un brivido. “… e questo la dice lunga.”
“A me piace.” Lo pilotò contro il bancone, spingendo i fianchi contro i suoi. Da quella posizione poteva sentire che era eccitato. Inspirò: non era il solo.
“Malfoy mi perdonerà se mollo la sua festa etero, ma ho una gran voglia di scoparti.” Gli sussurrò con tono discorsivo. Michel dovette trattenere di nuovo il respiro: erano in mezzo alla ressa del bancone e nessuno badava a loro.
La sua razionalità gli stava facendo notare che non era il luogo adatto per dare sfogo ai loro ormoni…
… la sua razionalità poteva andare all’inferno.
“È tutta la sera che faccio il virtuoso a beneficio di nessuno …” Continuò l’altro. “Credo di meritare un premio per non averti strappato la camicia di dosso.” Gli morse leggero la base del collo e si godette il suo imbarazzante mezzo gemito per poi attirare l’attenzione di una delle bariste per chiedere l’ennesimo giro di Tequila, il liquore prediletto dal loro comune amico biondo.
“Vuoi davvero offrirgli il giro?” Tentò di ricomporsi, anche se era un po’ difficile farlo con il calore dell’altro addosso. “Perché avrei idee migliori.”
“Pazienza maghetto …” Replicò, staccandosi per raggiungere il vassoio che la ragazza aveva preparato sul bancone. Nel farlo si scontrò con le mano di un altro, miranti allo stesso bottino.

“Ehi bello, l’ordine è mio!” Michel si irrigidì quando riconobbe la voce: il pesante accento scozzese gli ricordava quello di Terrance Montague. Voltandosi ne ebbe la conferma.
Oh, meraviglioso
Avendo condiviso per sette anni la stessa uniforme sapeva che razza di seccatura ambulante fosse il mago di fronte a loro e negli anni in cui si erano persi di vista – per fortuna – non era cambiato di una virgola: alto, allampanato e con un gran bisogno di un parrucchiere.
E in generale, di una faccia nuova.
“No bello, l’ordine è nostro.” Rispose a tono Emil. Doveva aver notato anche lui che Montague era ubriaco fradicio e in compagnia di due tizi in condizioni non dissimili, ma non poteva conoscere la facilità con cui il suddetto attaccava briga quando aveva bevuto un bicchiere di troppo.
“Stai dicendo che sto aspettando da mezz’ora il mio giro di Whisky per farmi passare davanti?” Grugnì questo con fare sgarbato.
E pensare che appartiene ad una delle più antiche famiglie della nobiltà magica scozzese …
… che vergogna.
Milo ad onor del vero non perse il sorriso. “Questa è Tequila.”
“È la stessa cosa con ‘sti liquori Babbani!”

Michel a quel punto si sentì in dovere di intervenire. “Terrance, quanto tempo.” Lo apostrofò. L’altro aggrottò le sopracciglia con l’aria di un Troll confuso, poi lo riconobbe.
“Zabini!” Ghignò rifilandogli una pacca assolutamente non necessaria. “Cazzo ci fai in questo posto da Sanguesporco?”
Perché, tu? Fammi indovinare, poco presentabile per i circoli Purosangue? Temo di sì.
Ma non lo disse, limitandosi ad un sorriso tirato. Accanto a lui vedeva Emil cominciare ad incastrare i pezzi e farsi un’idea del loro interlocutore.
Fa’ che non capisca quanto è razzista e non ci attacchi briga …
“È l’addio al celibato di Malfoy.” Spiegò con la cautela con cui avrebbe parlato ad un pezzo grosso. O ad un ubriaco instabile. “A settembre si sposa con Rose Weasley, ne avrai sentito parlare.”
“Come no! Il matrimonio del secolo!” Annuì con l’aria di non pensarlo affatto. “Certo che va’ a capirlo Malfoy… con tutte le belle fighe della nostra Casa si va a prendere quella morta di fame.” Si voltò verso i due amici che Michel non riconobbe come ex-compagni. Sembravano parecchio più vecchi. “È sempre stato un tipo strano … Uno che va’ a finire in mezzo a Sanguesporco e Babbanofili non è che ci sta tanto con la testa, no?”

Evitare la lite era la sua priorità. Dovette ricordarselo. “È meglio se portiamo questi agli altri.” Prese il vassoio, facendo cenno ad Emil di seguirlo. Non gli piaceva affatto il modo in cui si era rabbuiato. “È stato un piacere Terrance, buona serata.”
Non fece in tempo a fare un passo che l’altro gli sbarrò la strada: i due amici ridacchiavano senza intervenire, evidentemente divertiti dalla situazione. “Ehi, ehi…” Sbuffò questo. “Dai, ci rivediamo dopo secoli e mi molli così? Un brindisi ai vecchi tempi Zabini! C’è in giro anche Nott? Fallo venire qui!”
Stava cominciando a perdere la pazienza. “Magari dopo, ho un vassoio pieno, preferirei prima posarlo.”
Terrance non diede il minimo segno di aver capito l’antifona perché afferrò uno dei bicchierini. “E allora alleggeriamolo, no? Chiama Nott, cazzo! Mica mi vorrai mollare per un gruppo di pezze…” Non poté finire la frase perché Emil gli bloccò la mano.
“Scusa stronzo, questi sono per i pezzenti.” Disse con una pacatezza che stonava con la sua espressione.
Per un attimo rimasero tutti come Impastoiati, poi Montague si riscosse, scrollando via la mano. “E tu chi cazzo sei?” Chiese con l’aria di essersi ricordato della sua presenza solo in quel momento. “Nessuno t’ha chiesto niente!”
“Emil, lascia perdere, me la sbrigo io…” Lo pregò a bassa voce, ma quello parve non averlo neanche sentito.

“Questi drink li ho pagati io, e non mi capita mai di voler offrire a degli stronzi. Quindi giù le zampe.” E sottolineò il concetto con una manata sul petto dell’altro.
Dannazione.
Successe tutto in una frazione di secondo, perché ci voleva davvero poco ad estrarre una bacchetta. Montague la puntò sotto il naso di Emil. “Queste zampe? Tira fuori il legno, ti sfido!” Esclamò ringalluzzito. La folla si doveva esser resa conto del degenerare della discussione perché si nel giro di pochi attimi si creò il vuoto attorno a loro e la barista che li aveva serviti sparì dietro il bancone, forse a cercare l’aiuto del proprietario.
Spero sia più sveglia e vada a chiamare l’assemblea di Auror oltre la pista da ballo.
“Terrance, abbassa la bacchetta, non renderti ridicolo.” Gli sibilò e per un attimo pensò di aver catturato la sua attenzione da come il vecchio compagno lo guardò incerto. Era un idiota, ma aveva un cognome a cui rendere conto e un padre forse persino più intransigente del suo.
Notando però come Emil non reagiva – e come poteva? – decise che umiliarlo e uscirne bene con gli amici era più importante. “Stanne fuori Zabini, non ce l’ho con te!” Si rivolse all’altro. “Tira fuori il legno ho detto!”
Emil serrò le labbra. “Vaffanculo.” Fu l’unica, idiotica risposta.
Non ci posso credere!
“Non può! È un Magonò, va bene? Lascialo stare.” Sbottò, ben attento però a non intervenire fisicamente: Terrance era famoso per non avere il minimo controllo sul suo legno. Un sacco di duelli erano finiti con un viaggio urgente in infermeria perché l’idiota non era riuscito a controllarsi.
Montague batté le palpebre come un grosso cane stupido. “… E che ci fai tu con un Magonò?”
Non seppe mai se fu peggio vedere la faccia che fece Emil alla frase o la frase in sé. O la sua totale mancanza di risposta.
Fu salvato dall’entrata in scena di un’ombra nera che piombò su Montague, gli torse il polso, gli fece cadere la bacchetta e lo sbatté faccia contro il bancone.
“Ohi Prince, vacci piano!” Esclamò la voce di Potter, in canottiera e con la cravatta annodata in testa. Nonostante questo riusciva comunque ad incutere un certo timore. “Rovini il bancone a Gus e Gail.”
“Montague, sempre un dispiacere!” Esclamò Scorpius con le mani in tasca e l’aria di aspettare solo l’imbeccata per tirarle fuori ed usarle. Accanto a lui c’era anche Bobby Jordan, l’unico che poteva passare davvero per un agente delle forze di polizia. Non che fosse quello il punto.
Scorpius si voltò poi verso i due ceffi: avevano le bacchette in mano ma la faccia era quella di chi stava calcolando se una prova d’amicizia era doverosa o superflua. “Ciao, mi chiamo Scorpius e siamo tutti auror.” Gli sorrise smagliante. “E il tizio che sta soffocando il vostro amico ha avuto una brutta settimana, vero Sören?”
“Bruttissima.” Ringhiò Prince stringendo la presa su Montague che emise un lamento da animale schiacciato da una pressa.
Scorpius tirò fuori il suo sorriso più folle. “Vi prego, quindi, rimanete.”
Non rimasero.
Michel si permise un sospiro di sollievo, mentre Jordan gli toglieva il dannato vassoio di mano e Potter lo scortava con il prezioso carico oltre la pista da ballo. Scorpius a quel punto gli passò un braccio sulle spalle. Era sudaticcio e caldissimo ma il contatto solido non gli spiacque. “Loki e mini-Potter hanno visto il trambusto e ci hanno spediti a far servizio d’ordine.” Spiegò. “Cos’è successo?”
“È successo Montague. Te lo ricordi com’era a scuola… Non è cambiato.” Sbuffò cercando Emil con lo sguardo per controllare che fosse tutto a posto.
Non lo era, perché Emil era sparito. “Dov’è Em … Milo?” Chiese stupidamente.
“Se n’è andato non appena siamo arrivati.” Fu Prince a rispondergli, continuando a tenere stretto Montague che doveva aver perso i sensi. Nessuno sentì il bisogno di farglielo notare.
“Io…” Esordì cercando di pensare rapidamente ad una scusa. Fu ancora Prince a parlare: l’alcool lo rendeva loquace.
“Va’ a cercarlo.”
Non apprezzava che gli venissero dati ordini, ma in quel caso fu disposto a fare un’eccezione.
 
****
 
Era ormai notte inoltrata e il volume di persone non accennava a diminuire; sembrava che trascorrere l’intera notte al Finnigan’s Wake fosse un must do di tutti i giovani maghi e streghe inglesi.  
Sören chiese due carte al mazziere della mano, Albus, che giocava da ore con un sorriso imperscrutabile che gli aveva fatto meritare il soprannome di Monna Lisa. Aveva da sorridere, visto che era uno dei pochi che non si era giocato l’intero contenuto del borsello più un paio di oggetti personali, finiti nelle mani di Loki Nott e di Milo, prima che questo sparisse inseguito da Zabini.
A quanto pare tiene a lui. Abbastanza da seguirlo fuori e farci capire tutto.
Era il primo mago che conosceva che fosse così apertamente preso dal suo inquilino-barra-babysitter. Ne era felice.
Almeno qualcuno ha avuto un bel fine serata.
Non che non si stesse divertendo: giocare a carte era un’attività di strategia, quindi lo rilassava, e poter stare in compagnia di altre persone senza aver voglia di accampare una scusa ed andarsene non era cosa che gli capitava tutti i giorni.
Solo Scott Ross.
Che era ancora lì, a lato della sua visuale, anche se non stava giocando.
In verità non erano rimasti molti al tavolo, solo quelli che non riuscivano a fermarsi, come Scorpius – avevano dovuto impedirgli di giocarsi le mutande e il maniero di famiglia – o quelli che continuavano a vincere quasi tutte le mani, come Nott.  
Guardando le sue carte gli sembrò una buona idea puntare. “Vedo.” Nel frattempo Scott, che era appoggiato con Bobby e Dionis alla balaustra che divideva il loro “privè” dal resto del locale, continuava a dar aria alla bocca. Altro non si poteva definire dato che aveva quella che Milo chiamava ‘una sbronza divulgativa’. L’argomento principale era l’Australia.
“E mi manca … dico sul serio, quei paesaggi, quei colori, la gente! Non avete idea del numero di maghi che c’è laggiù!”
Alto. Le colonie hanno sempre attirato la nostra gente. Un mondo nuovo, terreno a perdita d’occhio in cui costruire una casa lontano dai Babbani…

“Non fraintendetemi, amo la Gran Bretagna, e rimarrò sempre uno scozzese fino alla punta dei capelli, ma parte del mio cuore è là … Per questo penso che alla fine ci tornerò.”
Come?

Perse completamente interesse nel gioco, e finse di lasciare il giro per poter ascoltare meglio.
Sta parlando di andarsene?
Jordan, uno degli interlocutori, dovette pensare la stessa cosa. “Ma andartene … andartene? Trasferirti?”
“Sì, perché … beh, là ho certe opportunità lavorative che … Ce l’ho anche qui, ma fare l’archivista … Cioè, la paga è buona, ma il lavoro è monotono.”
“Già, vorresti fare il cronista sportivo no?” Gli fece eco Jordan. “Ma non puoi farlo qui?”

Scott scosse la testa, e al di là delle birre che si era scolato, non stava straparlando. Si ingarbugliava come un ubriaco, ma il ragionamento che c’era dietro era stato fatto da sobrio. “Non c’è lavoro … Come potrei competere con piume del calibro di Ginny Weasley Potter? Invece in Australia … beh, mio zio gestisce il quotidiano sportivo magico di Sidney. Una testata tutta sportiva! Mi ha già detto che sarebbe disposto ad ospitare una rubrica sugli sport Babbani ed io…” Si strinse nelle spalle. “ … Non è che parto domani, ma è qualcosa … qualcosa di grosso per me, capite?”
“E come intendi fare con Lily?” Dionis era suo amico, e per questo faceva le domande giuste. Le stesse domande che avrebbe dovuto farsi quel dannato scozzese.
Lily. La tua ragazza, la donna che ami e che ama te. Te ne vai? La lasci?
Strinse i denti quando vide un paio di scintille balenare dalle parti della sua tasca.
Scott perlomeno sembrò considerare seriamente la domanda, dall’esitazione che gli vide sui lineamenti. “Vorrei che Lily venisse con me.”
Cosa?

Quello era forse peggio che lasciarla. Fu Jordan a tornare alla carica: doveva essere grato a quei due ragazzi, stavano facendo tutte domande che avrebbe voluto fargli lui. Dopo avergli lanciato qualche maledizione. “Gliene hai parlato?”
“No, non ancora … Abbiamo organizzato una vacanza di due settimane laggiù, contavo prima di farle vedere il posto, farle conoscere i miei amici, farla … okay, suona brutto, acclimatare?”
Suona orrendo.
“Sentite, la conosco, se ne innamorerà … E il genere di ambiente giovane, aperto e stimolante che adorerebbe!” Scott sembrava cercare appoggio dai due e Sören fu felice di constatare che non ne trovò granché “… e poi ci sono delle ottime scuole post-diploma, quella di Medimagia è conosciuta in tutto il mondo, ed ha un corso di Psicomagia sperimentale, perciò…”
“Penso che dovresti parlargliene già da adesso.” Osservò Dionis. “Non avete litigato proprio perché le hai progettato la vacanza senza avvertirla?”

Scott sospirò, grattandosi la nuca. “Voglio proporglielo … non obbligarla. Insomma, io voglio tornare laggiù e penso che le farebbe bene cambiare aria. Non penso di sbagliare a proporglielo, no?”
Se te ne vai e la metti di fronte ad una scelta non glielo proponi. La obblighi.
Persino lui riusciva a capirlo.
“Stai facendo sul serio, eh?” Interloquì Jordan perplesso. “Attento che questa roba per le ragazze prelude al Grande Passo, quello che sta per fare il nostro amico biondo e seminudo laggiù.” Indicò con il bicchiere Scorpius che stava cercando di trascinare Potter sulla pista da ballo.
Scott doveva essere molto ubriaco da come fece fatica a raddrizzarsi sulla sedia. “Ehi…” Disse con tono cospiratorio. “… io la amo e farei tutti i grandi passi necessari.” Buttò giù quello che restava della sua birra e continuò. “L’Inghilterra le succhia via l’energia, e non ditemi che è vero. La sua famiglia, i casini che succedono in continuazione in cui viene sempre tirata dentro … Le fanno male. E cambiare aria, andarsene … non è fuggire, okay? È … cambiare aria, ecco tutto. E la renderebbe più serena.”
La sbronza adesso era virata sul sentimentale, ma Sören non aveva più voglia di prenderlo a pugni.
Ha ragione. Può sbagliare a metterle ansia, ma vuole renderla felice. Come vuoi tu.
L’unica differenza è che lui può riuscirci.
Aveva bisogno di prendere aria. “Lascio la mano.” Comunicò agli altri giocatori, alzandosi in piedi.
“Ehi Prince, non ti allontanare!” Gli fece eco uno dei due auror della scorta, che Scorpius aveva magnanimamente invitato a festeggiare con loro.  
“Vado a fumarmi una sigaretta fuori dalla porta.” Sbottò, scappando come il carcerato che in fondo ancora era.
Uscì fuori e ispirò l’aria umidiccia e ancora calda della sera. Ne prese ampie boccate, senza riuscire a smettere di aver voglia di prendere a pugni qualcuno, qualcosa, qualsiasi cosa. Il bersaglio fu il muro fuori dall’entrata, una, più volte, finché non sentì male e non si accorse di aver sbriciolato parte dei mattoni. Li aveva colpiti con quella mano.
Sei un idiota.
Inspirò, osservando con sconforto le nocche abrase e il sangue.
Può riuscirci, e sai perché? Perché non è un ex tirapiedi di uno stregone, perché non è un galeotto fuori per via della pietà di una strega … Avrà dei difetti, ma è comunque migliore di te.
Se Ross avesse avuto abbastanza accortezza e cervello dal proporglielo nel mondo giusto Lily avrebbe potuto accettare.
L’Inghilterra le sta stretta e ama la sua famiglia ma non sopporta di averla come biglietto da visita.
E poi ci sono gli incubi.
È abbastanza per farti venir voglia di andare via.
Se lo scozzese giocava bene le sue carte avrebbe potuto avere l’Australia, il suo bel lavoro … e Lily.  
Perché ai bravi ragazzi come Scott le cose andavano sempre bene.
Appoggiò la nuca contro il muro e si accese la sigaretta per cui ero uscito, realizzando che la cosa peggiore di quella notizia era stata capire cosa davvero significava per lui.
Non è l'Australia il problema …
Dopotutto poteva scrivere a Lily comunque: gli uffici postali magici c'erano anche là.
… Il problema è che non vuoi che stia con lui. Qui o in Australia.
Vuoi che stia con te.
Aveva bisogno di camminare, muoversi. Non si allontanò molto, giusto una decina di passi  nell’ancora abbastanza trafficata via centrale: c’erano soprattutto capannelli di ragazzi o nottambuli che si stavano facendo passare la sbronza. Passò accanto ad una coppia che passeggiava abbracciata, si ricordò il pomeriggio con Ama ed ebbe voglia di trovare un nuovo muro su cui sfogare la frustrazione.
“Ehi, principino, qualche spicciolo?” Chiese un mendicante su cui quasi inciampò, troppo preso ad invidiare la coppia di fronte a sé.
Gliene gettò un paio, tirando dritto. Fu solo venti metri dopo che realizzò. Venti metri dopo e si rese conto cdi come lo aveva chiamato il mendicante. Tranne Milo c'era un unica persona che lo chiamava così.
Quando si voltò, Johannes già correva.

Fu un sollievo poterlo inseguire.
 
****
 
Note:

Capitolo medio-lungo per farmi perdonare e il prossimo, che è il seguito diretto di questo, sarà pieno d’azione! ;D Diamo un senso alla tag 'avventura'! Per quanto riguarda le recensioni sono la solita imbarazzante pigrona, arriveranno le risposte e GRAZIE. Come sempre, gente, siete il carburante e motore di questa storia!
Questa la canzone del capitolo. Le altre due utilizzate sono rispettivamente questa e questa.

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Capitolo 34
*** Capitolo XXXIII ***


Capitolo XXXIII
 
 
 
So I bare my skin and I count my sins
And I close my eyes, and I take it in
I’m bleeding out for you
(Bleeding Out, Imagine Dragons)
 
Somerset, Bath
Secondbridge Night Club.
 
“Dovremo essere già a letto! Domani abbiamo alzarci…”
“Oh, zitta e bevi!”
Lily ficcò nelle mani poco coordinate di Rose l’ennesimo shot : aveva scelto il club più frequentato e apprezzato di Bath, aveva prenotato un tavolo e aveva fatto sì che persino la cugina fosse tirata a lucido e con un paio di tacchi degni di esser chiamati tali. Aveva organizzato quella sera a tavolino, non avrebbe lasciato che indugiasse in velleità da Grillo Parlante.

“Divertiti, è una delle tue ultime notti da single!” Le diede manforte Roxanne mentre agitava la mano, in cui campeggiava la fede, all’indirizzo di un gruppo di studentelli che la guardavano ardenti. “E Merlino solo sa quanto ti mancheranno!”
“Ma non sono single!” Protestò confusa. “E non voglio più ballare sul cubo, rischio di rompermi l’osso del collo!”
“Sì, in effetti prima ti sei quasi ammazzata. Quello lascialo a me, okay?” La rassicurò Lily. Le passò poi un braccio attorno alla vita, stabilizzandola, dato che non aveva mai imparato a camminare neanche con i cinque centimetri di tacco che stava indossando.

Principiante. Io se non viaggiassi perennemente sui dieci sembrerei un’Elfa.
L’atmosfera era accaldata, sudaticcia e i neon viola alle pareti confondevano le idee e allontanavano i brutti pensieri; era questo uno dei motivi per cui amava tanto andare per club.
Ed è un bel po’ che non ci vado! Scott non è tipo e dopo un po’ si scoccia a ballare.
“Ehi, a che stai pensando?” Le chiese Roxanne con sguardo troppo acuto visti tutti i Cosmopolitan che si era scolata.  
Fu lesta a sorriderle. “A ballare, ovvio!” E la trascinò sulla pista da ballo, mentre Rose le guardava dal bordo con l’aria di chi aveva l’intero mondo che le girava attorno. “Vieni?” Le chiese.

“Cerco di non vomitare!” Fu l’ovvia risposta.   
Furono così accolte da Domi e Violet, le quali appena si erano viste, all’entrata del club, non si erano più staccate. Ancor meno per respirare tra un bacio e l’altro.
Credo c’entri il tubino nero di Letty e i pantaloni di pelle attillati di Domi … E il fatto che abbiano una vita sessuale che è una bomba.
Fortunelle.
Non avrebbe mai pensato che un rapporto come quello, a distanza e sempre pronto ad esplodere in una litigata potesse funzionare.
Ma forse è quello di cui loro hanno bisogno. Dopotutto ogni coppia è diversa. Voglio dire, anche un rapporto … calmo … come quello tra me e Scott funziona.
… Sì. Cioè. A parte il fatto…
… a parte il fatto che io stasera non ho ancora bevuto abbastanza.
Fortunatamente si era portata il bicchiere dietro, che finì in un sorso meritandosi un cinque da Domi, che poi l’afferrò per farle fare una giravolta. “Per tutte le palle di drago, Rossa, ci stai dando dentro!”
“Anche troppo!” Commentò Roxanne vicino al suo orecchio. “Questo è l’ultimo!” E quasi volesse sancire la sua decisione glielo tolse di mano.

Tanto era vuoto!
Lily comunque capì che non l’avrebbe spuntata: la cugina sarebbe stata capace di intimidire ogni singolo barman del club piuttosto che farla servire ancora. E i suoi migliori occhi da gattamorta non potevano battere, in nessun universo, lo sguardo minaccioso di Roxanne Weasley in Radescu. Fece quindi spallucce aggrappandosi al collo di Domi. “Sei fighissima!” Le gridò, ma premurandosi di assicurare lo stesso a Violet che la guardò tra il compiaciuto e l’irritato. “Domi, se fossi lesbica e non imparentata con te ti…”
“No.” Mimò con le labbra Violet. “Buona, Potter.” Ma sembrava trovarla divertente perché non tentò di cavarle gli occhi con le unghie dipinte di un violento rosso rubino.

Mi sto divertendo!
Era quello il punto della serata, no? Lasciare che la musica troppo alta e troppo Babbana confinasse i pensieri dove non potevano dar fastidio. Il suo potere in quella situazione aiutava: con tutta quell’eccitazione, quella voglia di far casino, ubriacarsi e fare sesso che aleggiava nell’aria … beh, non poteva dire di non subirne gli effetti.
Ecco perché forse Scotty non mi porta mai per club. Furbo.
Ma sapeva di essere al sicuro: era in mezzo alle sue cugine, gente assennata, che non le avrebbero fatto fare niente di cui potesse pentirsi il giorno dopo.
Domi rise dandole una pacchetta sulla testa. “Buona, su … Disperdi meno ormoni o dovrò tirar fuori una mazza da Battitore per evitare che ti circondino!”
Lily rise ma capì l’antifona e lasciò la cugina alla sua legittima dama. “Cubo!” Gridò ed ignorò l’occhiata di Roxanne per dirigersi verso uno di quelli rimasti liberi. Non fu difficile trovare un paio di ragazzotti pronti sia a tirarla su che ad essere intimiditi dall’occhiata combinata tieni-le-mani-a-posto di Domi e Roxie. Strizzò l’occhio a Rose, dall’altra parte della pista da ballo che scosse la testa mimandole qualcosa che assomigliava tremendamente a ‘Donna Scarlatta’. Ma alzò il bicchiere della Coca che aveva preso.

Sì, stasera niente uomini, niente complicazioni.
 
I don't know just how it happened, I let down my guard
Swore I'd never fall in love again but I fell hard.


Forse quell’addio al celibato era servito più a lei che a tutte le cugine messe assieme.
Perché era un ottimo modo per dimenticare cosa la aspettava a Londra: le aspettative sacrosante di Scott, i suoi sentimenti redivi per Sören …

E fu in quel momento che realizzò che ci stava pensando. Non poteva farne a meno.
 
I'm addicted to you, hooked on your love,
Like a powerful drug I can't get enough of…

 
L’alcool, il caos, la gente … Non servivano a niente. Non poteva scappare da sé stessa.
 
I couldn't live without you now,
Oh, I know I'd go insane!


Oh, grazie tante.
Le venne la nausea e una gran voglia di piangere, quindi scese dal cubo e si diresse come un Bolide verso la prima uscita, scansando muri di corpi sudati. Quando sentì lo schiaffo dell’aria fresca della sera respirò ad ampi polmoni.
Cavolo.
Qualche attimo dopo una mano le serrò la spalla. Era Roxanne. “Ehi, tutto a posto?”
“Sì…” Sorrise fiaccamente. Aveva voglia di abbracciarla ma le si era sbavato il trucco e non voleva rovinarle il vestito. “… hai ragione, ho bevuto troppo.”
“Questo era ovvio, Rossa, ma non sei scappata per quello.” Roxie la conosceva troppo bene. “Stai cercando di spegnere il cervello … una volta avremmo dovuto staccarti dal primo deficiente che ti dava un po’ di attenzione, e di quella sgradevole.”
Lily ridacchiò, appoggiandosi al muro e trovandone conforto. Le scarpe, proprio perché splendide Louboutin, la stavano uccidendo. “Già … adesso scappo via in lacrime come un’eroina vittoriana.”

“È un progresso.”
“Non ho rovinato la festa a Rosie, vero?”
“No, non direi.” Sbuffò. “Quando avrà smesso di aver voglia di vomitare, ti ringrazierà per averle tolto le pantofole di dosso.” La guardò di sottecchi. “Ci stavamo divertendo … Cos’è successo?”
“È successo che non riesco a togliermelo dalla testa.” Mormorò.
“Lo so.” Le mise in mano il bicchiere di Coca tiepido di Rose. Dovevano averla notata proprio tutte la sua ritirata ignominiosa. “Cosa intendi fare?”
“Ignorare la cosa finché non se ne va?” Bevve il liquido troppo zuccherato con una smorfia. “C’è Scott e … tutto il resto.”
Roxanne si appoggiò al muro accanto a lei. “Con tutto il resto intendi anche il fatto che Sören non ti ricambia?”
Sì.
Forse era da codardi, anzi, lo era certamente, ma con Scott aveva qualcosa di sicuro, di solido. Forse non era l’amore della sua vita, forse guardarlo non le toglieva il fiato, ma era comunque qualcuno che la amava e accettava con tutte le sue stranezze. Non era poco e visto come si era comportata di recente doveva essergli grata di non averla mandata al diavolo: non voleva ferirlo solo perché non riusciva a dimenticare il suo primo amore.
Non finisci con una persona solo perché la ami. 
“Tra le varie.” Si risolse a dire.
Roxanne rilasciò un lungo sospiro. Doveva aver pensato molto a cosa dirle, perché aveva lo sguardo calmo di chi aveva rimuginato ed era giunto ad una conclusione.
“Rossa, per essere una Legimante Naturale sei cieca come uno Snaso.”
“… scusa?”
“Sören è innamorato di te.”
 
****
 
Londra, Charing Cross Road.
Notte.
 
Non era il tipo di serata che aveva pensato di trascorrere.
Non avrebbe mai pensato che avrebbe finito per inseguire Johannes nella Londra notturna, ma la sua vita era sempre piena di sorprese.
Pessime sorprese. Quelle, e decisioni stupide.
Se c’era una cosa che l’Accademia di Polizia Magica gli aveva insegnato era che non si inseguiva mai qualcuno senza avere le spalle coperte. Cosa che invece lui aveva fatto.
Certo, avrebbe potuto giustificarsi dicendo se fosse tornato al pub a chiedere rinforzi avrebbe finito per perderlo, ma la verità era ben diversa.
Voglio esser solo quando me lo troverò davanti.  
Ad ogni buon conto, Johannes era uscito da Diagon Alley, dirigendosi verso la Londra Babbana. La gigantesca, caotica e notturna metropoli che non dormiva mai. Era corso via dal vicolo, sfociando su Charing Cross Road e ora si stava facendo scudo con i passanti, scivolando tra un gruppo di studenti stranieri in vena di feste e una coppia.
Perché non si Smaterializza?
La risposta gli sovvenne rapida come la domanda.
Non vuole farlo. Vuole che lo raggiunga. Si è messo fuori dal pub aspettando che uscissi.
Forse era addirittura dentro, camuffato.
Sarebbe stato da lui; osservarlo per tutta la sera e trovare il momento in cui era vulnerabile per approfittarne.
Strinse i denti all’ondata di rabbia che lo scosse; non aveva con sé la giacca e non poteva occultare la bacchetta, ma a quell’ora tarda nessuno faceva troppo caso ad un uomo con un legno che sprizzava scintille in mano. Per fortuna.
Johannes continuava a distanziarlo, mettendo tra loro Babbani, persone indifese che avrebbe potuto uccidere o ferire se solo avesse tentato uno scontro in quelle condizioni. Scontrarsi era fuori discussione.
E lui lo sa.
Si rese conto dell’enormità della sciocchezza che aveva commesso quando vide dove l’altro stava puntando; alla fermata metro di Leicester Square, alla fine della strada. Se fosse sceso nelle viscere della città le sue possibilità di contattare Potter e gli altri si sarebbero drasticamente ridotte. Si ficcò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni e imprecò. Aveva lasciato il cellulare al pub.
Non aveva mai avuto troppa simpatia per quel mezzo di comunicazione, e di conseguenza se lo scordava ovunque.
Doveva pensare, e in fretta.
Un Patronus.
Era forse l’incantesimo che più gli dava problemi, ma era anche l’unico che gli avrebbe permesso di contattare Potter e gli altri. Si nascose nel vicolo accanto all’entrata della metro e si concentrò.
Pensa a un ricordo felice …
Ricordava cosa gli aveva detto l’istruttore.
 
“Non perdere tempo a cercare il ricordo giusto, Prince. Ti arriverà come un flash, e sarà quello che farà da vettore al tuo Patronus. Non cercare di capire se è un ricordo felice. Lo sai, e basta.”

Era semi-ubriaco, pieno di rabbia ed adrenalina. Non era difficile come in Accademia, era impossibile.
Doveva provarci comunque.

Pensò al bacio con Ama quel pomeriggio, pensò a quando Estevez gli aveva offerto per la prima volta una birra, pensò a quando aveva ricevuto il distintivo del SAGITTA e a quando il Capitano l’aveva lodato dopo aver chiuso il suo primo caso. Pensò, ed era tutto sbagliato.
Smettila. Non pensare. Trova il ricordo.
Erano due, ma perché gliene servivano due: una mano secca, nodosa che gli accarezzava la testa. Suo padre. E un’altra, più piccola ed esile, che stringeva la sua. Lily.
Avrebbero dovuto dirgli, in Accademia, che la disperazione di non poter aver vicino qualcuno che amavi poteva darti la forza di spedire un Patronus nella notte di Londra.
 
****

Diagon Alley, nei pressi di Notturn Alley.

 
“Emil!”
Chiamarlo con il suo vero nome non stava sortendo nessun effetto, ma neppure chiamarlo con quello d’arte funzionava, quel Milo che gli faceva sempre pensare ad una versione più beffarda e triste del ragazzo che occupava i suoi pensieri.

Michel non ci aveva messo molto per raggiungerlo, nonostante avesse avuto qualche minuto di vantaggio su di lui. Emil era uscito fuori in fretta e furia, ma aveva rallentato vistosamente in direzione dell’entrata di Notturn Alley.
Quando lo raggiunse lo afferrò per un braccio; capiva il motivo per cui se n’era andato, ma non riusciva a trattenere il fastidio.

C’era bisogno che rispondessi a tono a quell’idiota ubriaco di Montague? Era chiaro che cercasse la rissa!
Non potevi ignorarlo?
Emil si strattonò via, lanciandogli un’occhiata velenosa. “Quale parte del fatto che non ti sto rispondendo ti ha fatto pensare che voglia parlarti?”
Parlargli. Era un buon segno; non aveva detto che non voleva più avere a che fare con lui, solo che non voleva parlare con lui. “Perché te ne sei andato?” Chiese, inspirando l’aria malsana che filtrava dal vicolo sudicio. Gli pareva assurdo che il ragazzo che aveva di fronte lo avesse eletto a luogo in cui cercare conforto dopo la scena di prima.
Perché è scosso.
Glielo leggeva dal modo in cui non riusciva a metter su la solita faccia da schiaffi. Gli occhi erano cupi, così come le spalle contratte, pronte ad assorbire un colpo, a contrattaccare. Adesso gli era chiaro perché non aveva ignorato Montague.
Era pronto a far rissa quanto lui.
“Emil.” Lo pregò.
Il tedesco si sottrasse una seconda volta, schioccando la lingua. “Non ero una presenza gradita al tuo amichetto, no?”
“Terrance Montague non è mio amico.” Ribatté senza cadere nella provocazione; stava testando le sue resistenze e l’aveva accettato. Tuttavia era stufo di essere usato come un manichino per Duelli, pronto ad assorbire ogni colpo o malumore dell’altro. “Ho cercato di liberarmi di lui, l’hai visto benissimo.”
Emil serrò le labbra, in una smorfia riottosa. “Voglio andare a bermi una birra.”
“Dove, al Black Goose?” Non poté trattenere il ribrezzo. Come poteva quella bettola attirare l’attenzione di un ragazzo che si meritava i locali più belli di Londra?

Un lampo di collera incomprensibile balenò negli occhi del suddetto. “Sì, al Black Goose.” Sputò fuori, la voce  resa gutturale dall’accento. “Non è il posto dove quelli come me devono stare?”
“Tu non sei…”
“Sono.” Sbottò. “Falla finita! Sei tu che vuoi scordartene!” Stavolta urlò tirandogli una spinta che lo fece sbilanciare di alcuni passi. Un paio di passanti si fermarono a guardare, ma ad una sua occhiata tirarono dritto.

Vi avranno pensato due disperati appena usciti da Notturn Alley.
In quel momento non gli importava; era importante invece quello che aveva appena l’altro. “Pensi che mi sia dimenticato del fatto che sei un Magonò?”   
“Beh, sembravi sorpreso quando il tuo amichetto te l’ha fatto notare!”
“Montague non è mio amico!” Ripeté irritato. Non era da lui dare in escandescenze con la possibilità di aver pubblico, ma non riusciva ad aver ragione della profonda esasperazione che sentiva.
“È solo un ex-compagno di scuola. Gli amici me li scelgo meglio.” Continuò guardandolo dritto in faccia; essere sinceri era scomodo e imbarazzante, ma doveva servire a qualcosa, o quelli come Malfoy erano felici per un puro capriccio del caso. “Di cosa stiamo davvero parlando Emil?”
“Della faccia che hai fatto.”
Sì, aveva fatto una faccia. Ma non l’aveva fatta per le ragioni che l’altro credeva; era stato incapace di ribattere a Montague non perché si vergognava di essere in compagnia di Emil, ma perché si era reso conto che agli occhi di tutti avrebbe dovuto farlo.
Perché sei Michel Zabini, il Purosangue.
Avevano ragione Loki e Scorpius, era davvero diventato come suo padre. E la realizzazione era stata come uno schiaffo, secco e forte in faccia, che gli aveva tolto parole e sentimenti.
Perché non potrò mai essere come lui.
Inspirò. Farlo capire a Emil sarebbe stato un’impresa. “Hai frainteso. È vero, ho dei pregiudizi che sono duri a morire ma non li ho verso di te…”
“E perché sarei diverso dagli altri, ah?” Lo stava canzonando ed era la cosa che forse più lo feriva. “Perché mi lavo? Perché non passò le mie giornate in una taverna? Perché…”

“Anche.” Lo fermò. Non poteva negare di aver vissuto per anni credendo che alcuni cittadini del suo Ministero non valessero uno Zellino scheggiato. In parte lo pensava ancora. “Tu sei diverso dagli altri, Emil … e non solo dai Magonò.” Continuò. “Da chiunque, mago o Babbano che sia. Sei diverso per me. È una valutazione del tutto soggettiva, lo capisco. Ma non dire che io e Montague siamo uguali.”
Milo fece una smorfia e per un attimo Michel pensò che non ce l’avrebbe fatta, che gli anni di odio e diffidenza che l’altro aveva accumulato nel confronti dei maghi non avrebbero potuto esser cancellati solo da qualche invito a cena e da un biglietto del teatro. Al tempo stesso però sapeva che Emil stava solo aspettando il momento in cui avrebbe gettato la spugna. Perché era chiaro, era così che si aspettava che tutti facessero con lui.

Io non sono tutti.
Fu il suo turno di afferrarlo per il bavero della maglietta; se lo spinse contro però, e non lo allontanò. Perché avrebbe dovuto? “Tu non…”
Emil abbassò lo sguardo sulla mano stretta alla stoffa, e Michel intuì di aver fatto uno sbaglio nel momento in cui sentì un pugno colpirlo. Sbatté contro il muro, ma si fermò un momento prima di afferrare la bacchetta. Emil lo fissava ansante e rosso in viso, confuso, ferito e come sempre, bellissimo. “Hai intenzione di startene lì a prenderle?!” Ringhiò ad un passo dal tedesco.

“Non ho intenzione di fare a pugni con te.” Si tirò su, passandosi una mano sulle labbra e sentendo qualcosa di viscido imbrattargli le dita. Sangue.
La mia camicia nuova …
“Odio le risse.” Lasciò che il concetto permeasse nelle zucca fradicia di alcool dell’altro e si avvicinò.
E poi gli sferrò un pugno nello stomaco.
Emil, che non se l’era aspettato – nessuno giocava sul fattore sorpresa meglio di un serpeverde – si piegò in due crollando in ginocchio. Lo sentì tossire e trattenere un conato, ma quando il viso aveva lo sguardo di nuovo a fuoco.

“Stronzo…” Tossì. “… da quando i damerini Purosangue sanno picchiare così?”
Fece un sorriso amaro: una confessione per un’altra, era così che funzionava, e forse era il momento giusto per fare quella più grossa di tutte. Quella che non aveva mai portata alla luce neppure con i suoi amici, neppure con Loki. Quella di certo avrebbe settato i loro rapporti su un altro livello.
In bene o in male. Ma vale la pena provare.
Gli tese la mano ed aspettò che l’altro, orgoglioso ma dolorante, la accettasse.
“Non lo sanno fare infatti … ” Disse. Era così nascosto quel segreto, così tanto al buio che ogni tanto anche lui se ne dimenticava.
Però c’è.
Milo tirò su con il naso e cercò le sigarette nella tasca. Quando gliene porse una delle sue la accettò senza far storie. “Sì, chiaro sei l’eccezione.” Borbottò.
 “No. È che non sono uno di loro.” Gliela accese, ed inspirò coraggio insieme al primo tiro dell’altro. Si sentiva la bocca secca e le mani sudate. Ed odiava sentirsi così debole: ma Al gli aveva detto che ne valeva la pena. Ed Al aveva una persona da amare. Quindi …
“Non sono un Purosangue.”
Emil aggrottò le sopracciglia, come se non avesse capito quello che gli aveva detto. Non poteva dargli torto.
“Come non sei un Purosangue?”
“È quello che ho detto.” Prese il fazzoletto dalla tasca e si tamponò il labbro dolorante. Vedendo che l’altro era incerto se mandarlo di nuovo al diavolo o cedere alla curiosità, aggiunse. “Mio padre … l’hai conosciuto, lo è. Orgogliosamente tale. Dodici generazioni senza una macchia, e considerando la facilità con cui mia nonna si è risposata, negli anni, è un traguardo considerevole.”
“Stai…”
“No, non sto scherzando.” Il tono in cui lo disse chiuse la bocca all’altro. 

“È tua madre?” Emil finalmente afferrò il filo del discorso. Da come aveva rilassato le spalle sembrava più concentrato sulla nuova rivelazione che ad avercela con lui. Era ciò a cui aveva puntato.
Cerca di non farti sfuggire di mano le conseguenze…
Quello che stava per spiegare era la parte oscura della sua infanzia, quello che nessuno sapeva. Affidare un tale segreto al ragazzo che aveva davanti era rischioso quanto giocare ad una roulette russa Babbana: in fondo lo conosceva da appena un mese.
Eppure …
Sapeva di potersi fidare di Emil; forse per i paralleli con la sua situazione, forse perché aveva bisogno di affidare a qualcuno se stesso, per una volta, e il ragazzo del violino gli sembrava la persona giusta.
È così liberatorio…
“Mia madre è Babbana.” Guardò il sangue che imbrattava il fazzoletto.
Qualunque proprietà magica abbia … è sempre rosso.
“Tuo padre ha sposato… No.” Si fermò prima di continuare, intuendo. Era un ragazzo sveglio e aveva vissuto per undici anni nel gotha della società magica. “Una scappatella?”
“Una delle sue amanti di gioventù. A quanto sembra era così bella che il suo stato di sangue passava in secondo piano.” Fece Evanescere il sangue e ripose il fazzoletto, pulito, nella tasca dei pantaloni. “È una lunga storia, e piuttosto banale … ma per farla breve quando si lasciarono non gli disse che era incinta. Quando mio padre lo scoprì mi prese con sé, dandomi il suo cognome.” Fece un sorriso stanco, perché parlare di quello, come aveva immaginato, lo prosciugava di tutte le energie. “Ha invece lasciato che tenessi il nome … avevo già tre anni, difficilmente avrei risposto ad un nuovo battesimo.”
“E tua madre?”
“Non avrebbe potuto occuparsi di me. Non ha mai avuto veri contatti con il mondo magico. E, per quanto ne so, continua a non averne.”
Emil lo guardò senza parlare per un po’; poteva immaginare il valore di quanto gli aveva appena detto.
Per un Purosangue della generazione dei nostri genitori fare figli con una Babbana è quasi peggio che avere un Magonò ad insozzare l’albero genealogico.
Certo, a meno di non chiamarsi Weasley.
“Sei la prima persona a cui lo dico.” Aggiunse. “Mio padre mi ha fatto giurare di non farne parola con nessuno.”
“Dovrei sentirmi onorato?” Ma non c’era cattiveria nel modo in cui lo disse. Si era calmato.
“Dovresti.” Ribatté con un mezzo sorriso che fu quasi ricambiato. Era un progresso.
“Michel Zabini il Purosangue non è un Purosangue.” Ad una sua smorfia si strinse le spalle come per scusarsi. “I tuoi amici lo sanno?”
“Te l’ho detto, non lo sa nessuno.” Ed era strano, spaventoso parlarne fuori dal salotto di suo padre. Emil si accorse del suo turbamento perché gli mise una mano sulla spalla.
“Ehi.” La mano era subito scivolata lungo il collo, in una carezza. Non credeva di averne avuto bisogno fino a quel momento. “Non è che vado a spifferarlo in giro. Un segreto per un segreto, no?”
Michel sorrise appena. “Giusto…”
Certo, era un mago, e in confronto ad Emil poteva considerarsi privilegiato. Nulla poteva far sospettare le sue origini, eppure era una cosa che era marchiata a fondo dentro di lui: poteva nasconderla, poteva convincersi che non fosse vera … ma era lì, un costante di ricordo di quanto sarebbe sempre stato imperfetto agli occhi di suo padre.

Ecco perché non salirò mai la scala gerarchica di nessun Dipartimento come dovrebbe fare un vero figlio degli Zabini.
Non me lo merito.
Ricacciò quel grumo duro di rabbia che provava ogni volta che ci pensava e sorrise. “Se te l’ho detto non è per farmi compatire … Del resto, la mia situazione non è poi così tragica. Fingere è semplice, e credo mi riesca bene.”
“Benissimo.” Ironizzò l’altro. “Non tutti hanno questa fortuna.”
“La consideri davvero tale?”

Emil non rispose, accettando il punto. Scrollò le spalle con un’occhiata indecifrabile. “Ti va di tornare alla festa?”
Era l’offerta di pace peggiore e insieme migliore che gli fosse mai capitato di sentire. “No.” Ammise. “Sono stanco e preferirei tornare a casa.”
Emil si ficcò le mani in tasca come faceva quando non sapeva dove metterle. Cioè sempre, quando non era in un letto o con in mano un violino. La qual cosa faceva tenerezza. “Allora ci becchiamo in gi…”
“In giro? E perché?” Lo fermò perplesso. “Davo per scontato che tu venissi con me.” All’espressione nuda e sorpresa dell’altro – era chiaro che non si fosse aspettato che lo volesse con sé – scrollò le spalle. “Solo perché litighiamo non significa che ti voglia fuori da casa mia. Posso pensare che tu ti sia comportato da idiota … ma non cambia il fatto che mi piacerebbe svegliarmi in tua compagnia domattina.”  

Non ti abbandono.
Emil aprì e chiuse la bocca, fermandosi ad un passo dal dire qualcosa, una battuta forse, per poi scrollare le spalle per l’ennesima volta. Teneva le mani così a fondo nelle tasche da sformarle tutte. “Sei…” Iniziò per poi corrucciarsi.
Non ci crede. 
Dietro la sicurezza in sé stesso e nelle sue capacità, Emil rimaneva il bambino che non sarebbe mai stato abbastanza per far sì che la sua famiglia lo tenesse con sé.
E anche se le loro storie erano diverse, la sensazione gli era familiare.
“Strano.” Concluse per lui. “E adesso sai perché. Andiamo a casa?” Gli tese la mano.
L’altro abbozzò un mezzo sorriso e gliela prese. “Basta che non usiamo la Smaterializzazione.”
Non gliela lasciò neanche quando decisero di prendere un taxi.

****

Leicester Square, Metro.
 
Scendere la metro di Leicester Square era stato come  entrare in una specie di sogno. O incubo, che dir si volesse. Aveva a malapena realizzato di aver sceso le scale mobili, lunghe e che sembravano finire nelle viscere stesse della terra. Di solito erano il genere di marchingegno Babbano capace di mettergli addosso un’inquietudine terribile. Non stavolta: era stato troppo occupato a settare ogni suo singolo pensiero su due parole.
John Doe.
Corse fino ai binari, tenendo la bacchetta in pugno e fregandosene che qualcuno potesse vederla; a quell’ora per fortuna i Babbani erano pochi e talmente insonnoliti o ebbri da non badare a nessuno se non a loro stessi.
Inspirò bruscamente, sentendo l’aria viziata di quel sotterraneo dargli uno schiaffo umido in faccia; c’era riuscito, era riuscito ad intercettare Johannes prima che prendesse un treno.
L’uomo se ne stava a limitare della linea gialla, osservando con curiosità la pubblicità squadernata a grandi lettere di fronte a lui; indossava un vestito di buona fattura, ora che si era liberato degli stracci da mendicante e sembrava appena uscito da una cena elegante: sbarbato, con i capelli biondi rasati sulle tempie, era giovane. Era il Camaleonte, John Doe, Johannes e adesso Johan.
“Johannes…” Lo chiamò con il nome con cui l’aveva conosciuto e si stupì del ringhio basso che gli uscì dalla gola. Riusciva ad esprimere il suo stato d’animo perfettamente però.
L’altro mago si voltò, con uno di quei suoi sorrisi canzonatori per cui era diventato famoso. Li aveva visti tutti i giorni per più di un decennio, li aveva stampati a fuoco nella memoria, un eterno memento di quando la gente pensava che li avessero condivisi.
“Sören. Quanto tempo, eh?” Esordì in tedesco. “Ti vedo bene … Capelli e vestiti da Babbano, come piacciono agli yankees. Ti sei proprio ambientato nel Nuovo Mondo!”
“Metti la bacchetta bene in vista.” Scandì puntandogli contro la sua. Era una fortuna che la banchina fosse deserta o non era sicuro di come sarebbe riuscito a muoversi con dei testimoni. O meglio, sapeva come comportarsi in presenza di Babbani e con una caccia all’uomo in corso, ma quello era John Doe, non un mago qualsiasi.
L’altro, che aveva le mani in tasca, le alzò, mostrando la sua bacchetta. Quante volte l’aveva vista in azione? Bastò il ricordo a fargli scendere un brivido lungo la schiena.
Hai ancora paura. Puoi batterlo, l’hai già fatto una volta, e non sei più quello di un tempo.
Ma ti fa ancora paura.
“È così che saluti un vecchio amico?” Assunse un’espressione ferita. Gli occhi slavati brillavano di divertimento: si divertiva perché annusava cosa gli si agitava dentro. “Non ci vediamo da cinque anni e tutto quello che sai fare è giocare al poliziotto?”
“Io non gioco.” La presa sulla bacchetta si stava facendo bollente e sentiva il sudore colargli sulle tempie. Faceva caldo, in quella Londra maledetta. “E non siamo amici.”
“Lo siamo stati però, no? Un po’ più gentile in memoria del vecchi tempi?”

“Metti la bacchetta a terra e spingila verso di me con il piede.”
Johannes sorrise pigro, ma si chinò come gli aveva ordinato. “Ti hanno insegnato bene dall’altra parte dell’oceano, sei proprio una testa di latta zelante adesso… ma lo sei sempre stato in fondo. Un bravo e ubbidiente soldatino.” Osservò come se stessero scambiandosi parole cordiali; avrebbe pagato oro sonante per cancellargli quel ghigno dalla faccia. Per ucciderlo. Ma si rendeva conto, nella nebbia della rabbia e dell’ansia che gli ingolfavano il cervello, che ucciderlo avrebbe significato perdere la possibilità di trovare dove fabbricavano il siero e di salvare le cavie rapite.

E l’uomo che era diventato non poteva permetterlo.
Fece un passo in avanti. “La bacchetta.” Le scintille che mandarono la sua convinsero l’altro a calciarla nella sua direzione con una certa rapidità. La prese, mettendosela in tasca. “Che ci fai qui?”
Perché era ovvio che avesse un piano, o non lo avrebbe aspettato fuori dal pub per attirare la sua attenzione con la pantomima del mendicante.
Johannes alzò le spalle. “Sono a Londra di passaggio, e mi è venuto voglia di vedere come te la passavi.”
“Menti.”
“No, affatto.” Negò divertito. “Abbiamo passato anni a lavorare gomito a gomito, ragazzo … Sono un nostalgico, mi conosci.”
“Dimmi perché sei qui.” Ripararsi dietro la sua uniforme – che non indossava, ma che sentiva sempre addosso – stava funzionando. Doveva continuare. Doveva essere Prince l’agente, e non Sören il mago che non riusciva ad essere oscuro.

“Perché le nostre strade si sono incrociate per tutta questa storia del Demiurgo, no? A proposito, come stanno andando le vostre ricerche? Le nostre non tanto bene … Brutta faccenda se chiedi a me.”
“Non parlarne come se fossimo dalla stessa parte!” Sbottò senza riuscire a frenarsi. Dal sogghigno che fece l’altro capì di essere scivolato nello schema comportamentale che aveva quando ancora lavoravano assieme. “È colpa vostra se un mago è morto e se altri stanno rischiando la vita! Tua e…” Si bloccò sentendo qualcosa bloccargli la gola. Non era un incantesimo né opera di Johannes.
Era una parola, un nome per chiamare una persona che non sarebbe mai stata tale.
L’altro mago inarcò le sopracciglia. “… di tua madre? Guarda che non ti scotti la bocca a pronunciare il suo nome. Ero a cena con lei, tra l’altro … per questo sono vestito come un pinguino.” Argomentò indicando con un cenno del mento i propri vestiti. “Era stufa di star chiusa in una stanza … l’ho portata a prendere un po’ d’aria, Londra le…”  
Abbassò lo sguardo mentre la mano tremava per lo sforzo di tener alta la guardia e soprattutto tener ferma la bacchetta. Avrebbe finito per spezzarglisi in mano. “Non parlarmi di lei.” Sbottò. “Non osare…”
“Sei arrabbiato.” Considerò con un mezzo sorriso. “Comprensibile. Scoprire da un gruppo di auror perdigiorno che è ancora viva dev’esser stato brutto.”

“Ti ho detto…”
“Sören.” Alzò gli occhi, trattandolo come il bambino che aveva allenato per anni. Con la stessa, inadeguata confidenza. “Tu più di tutti dovresti capire perché l’ha fatto … Hai avuto a che fare con il vecchio Alberich. L’unico modo per sfuggire al vecchio era morire, o fingersi morti. Ha funzionato per quel moccioso di suo figlio, ha funzionato anche per lei.”

“Non mi interessa.” Avrebbe voluto dirlo avendo la coscienza a posto. Intendendolo davvero. La verità era molto più umiliante e complessa e non l’avrebbe certo discussa lì.
“Non ho mai avuto una madre.”
Johannes fece spallucce. “Vero. Ma non esser troppo duro con lei. Anche lei è stata una vittima di Alberich … Puoi negarlo?”

Rimase in silenzio, lasciando che l’altro desse aria alla bocca. Parlare era la cosa che più gli piaceva. E anche quella che finiva per tradirlo. “Tutto sommato, sei venuto fuori a posto per gli standard del mago comune.” Allargò le braccia, teatrale e beffardo come sempre. Non era cambiato di una virgola. “Sei addirittura un difensore della legge! Un po’ ipocrita secondo me, ma hai sempre voluto essere un bravo ragazzo, chissà perché poi  … Non è noioso?”
Riusciva ancora a ferirlo. Riusciva ancora a colpirlo dove faceva più male, distogliendolo da quello che avrebbe dovuto fare.
Ma a differenza di un tempo, non doveva sottostare ai suoi lazzi per non contraddire suo zio. “Faccia a terra.”
Johannes sospirò come se non avesse percepito nulla della rabbia che lo infiammava. “Non finirà con me alla centrale Auror.”
“Saresti pronto a scommetterci?” Aveva la sua bacchetta, lo aveva a distanza di tiro. Sarebbe finita così.

… ma se aveva imparato una cosa di Johannes era che manteneva la parola solo quando si trattava di smentire qualcun altro.
L’altro di colpo guardò verso l’entrata dell’ascensore, che dalla piazza portava diretto fino ai binari. Non l’aveva notato fino a quel momento.
Le porte si aprirono e Sören realizzò troppo tardi che era perché, ovviamente, qualcuno stava uscendo. Una considerazione che Johannes non mancò di fare da come si spostò rapido come il serpente che era. Afferrò chi vi usciva, una ragazza, frapponendolo tra di loro. Qualcosa di argento balenò contro la gola nuda della Babbana, che gridò spaventata.
Un coltello.
Non aveva pensato a controllare se avesse un dannato coltello.
“Quale ti ho sempre detto essere il tuo difetto principale?” Gli chiese serrando la presa sulla poveretta che impallidì e chiuse la bocca, immobile come un cervo di fronte ai fari. “Manchi di creatività!”
Mi ha fatto parlare. Mi ha fatto aspettare non per far arrivare il treno … Ma perché aspettava un ostaggio con cui scappare.
“Lascia la ragazza!” Si sentiva ridicolo a gridare a vuoto, perché questo stava facendo. Johannes non avrebbe lasciato la presa, come lui non avrebbe potuto impedirglielo, non a rischio di uccidere l’ostaggio.
L’altro mago fece un sorrisetto divertito. “No, direi di no.”
E si gettò trai binari.
 
****
 
Diagon Alley, Finnigan’s Wake.
 
James strisciò la sigaretta sul muro del pub, soffiando via l’ultima boccata. “Per le mutande di Merlino, Malfoy … sei ancora vivo?”
Era una domanda legittima visto che l’amico stava vomitando l’anima, prezzo inevitabile da pagare quando non si riusciva a dire di no ai tanti giri offerti in proprio onore.
Scorpius emise un gemito, soffocando l’ultimo conato e rimediandosi così una pacca sloga - vertebre. “Sto … morendo?” Si informò pallido come un cencio e con il viso chiazzato di rosso.

“No, sei solo ubriaco fradicio.” Ridacchiò massaggiandogli amichevole la schiena. Il suo migliore amico era come un bambino in un negozio di caramelle quando si trattava di festeggiare: non riusciva a mettersi un freno, quindi era compito suo fare la persona ragionevole. Con tutta la faccenda di Ben stava quasi cominciando ad abituarsi. “Alza il culo, ti porto a casa.”
“Ma la mia festa non è ancora finita!” Si lagnò aggrappandoglisi ad un braccio. “Voglio ballare!”
“Hai ballato a sufficienza, e con più uomini di quanto un etero dovrebbe fare.” Sbuffò divertito.

“Questo è perché ho promesso a Rosie di non ballare con le donne, non è che avessi scelta!” Si imbronciò. “Comunque tuo fratello è un ballerino migliore di te!”
“Sì, è una fortuna che Tommy si fosse addormentato sul tavolo o non avrebbe gradito tutte le piroette che gli ha fatto fare.” Lo tirò su, rassettandogli la camicia alla bell’e meglio. “Avanti, andiamo dentro e saluti tutti.”
“Non voglio!” Si impuntò. “È la mia festa! Deve continuare sino alle prime luci dell’alba!”
“Non ci arrivi alle prime luci dell’alba Malfuretto …” Decise di giocare pesante. “Non vuoi che chiami Rosie, vero? Guarda che la sveglio e te la passo incazzata.”

L’altro boccheggiò con aria tradita, prima di borbottare qualcosa ed incamminarsi ubbidiente e basculante verso l’entrata.  Si scontrarono così con i due auror della scorta di Prince.
E James realizzò in quel momento che era un po’ che non vedeva il pipistrello. Non che gli avesse dato molta attenzione durante la serata; anche se condividevano una festa, questo non significava dovessero esser costretti a parlare.
E poi è stato tutto il tempo appiccicato al culo di Tommy o quello di Dion.
Aveva la coscienza a posto.
Non che me la debba sentir sporca … Non lavora più con noi e non sono la sua balia!
“Ehi, dov’è Prince?” Chiese comunque ai due, con un tono di comando che risultò ridicolo visto che aveva perso la camicia a carte e sorreggeva a fatica Malfoy, che canticchiava a mezza voce una ballata sentimentale su una Babbana di nome Jolene, rea di avergli soffiato l’uomo.
I due si scambiarono un’occhiata nervosa. Non era un buon segno. “Non è con voi?” Tentò uno dei due, una recluta dell’infornata di quell’anno.
“Ci ha detto che usciva a fumare.” Aggiunse l’altro, più anziano e autorevole. Si chiamava Cutting ed era nella squadra di suo zio Ron. “Non aveva una bella faccia e abbiamo pensato di lasciargli qualche minuto di privacy.”
In sé quello che gli stavano dicendo non era preoccupante, ma lo erano le espressioni ansiose. “Da quant’è che è uscito? Perché noi non l’abbiamo visto.”
Cutting fece una stima veloce a mente. “Una ventina di minuti, non di più.” Dichiarò. “Vi abbiamo visti uscire e abbiamo pensato che fosse con voi.”

“Avete pensato male.” Ma non poteva biasimarli; l’atmosfera del pub era rilassata e quell’angolo di Diagon Alley era famoso per essere tranquillo, tranne qualche occasionale scazzottata tra ubriachi. Oltretutto, Prince era la tipologia di rompipalle che odiava esser seguito quando aveva i cinque minuti.
Non dev’esser stata la prima volta che li ha mandati al diavolo per starsene per conto suo.
“Chiamo l’albergo.” Decise Cutting mentre l’altro stava chiaramente chiamando il tedesco. “Forse si è Smaterializzato direttamente a letto.”
“Ha il cellulare staccato.” Soggiunse il più giovane con l’aria di chi se l’era aspettato. “Parte la segreteria.”
Oh, dannazione.
Appoggiò Malfoy al muro, e gli diede uno schiaffo sulla testa per attirare la sua attenzione. “Malfuretto, Prince se n’è andato. Tornatene dentro, chiama fuori Bobby e fatti portare a casa da qualcuno, okay?”
Scorpius batté le palpebre. “Sören … è cosa?” Cercò di afferrare il concetto, ma scosse la testa. “… Dov’è andato?”
“Va’ a chiamare Bobby.” Ripeté. “Io resto qui e chiamo quel suo assistente … Dentro non c’è  campo manco a crepare.”
Scorpius parve finalmente recepire l’ordine, perché rientrò. Dopo pochi attimi, mentre il cellulare di Meinster squillava a vuoto – ma almeno era acceso -  lo raggiunse Bobby.
“Ehi, Sy mi ha detto che Sören se n’è andato, qual è il …” Diede un’occhiata agli altri due auror ed assunse un’aria consapevole. “ … Se n’è andato senza scorta. Fantastico.”
Finalmente Meinster gli rispose. Aveva un tono di voce roco, da letto e anche abbastanza scazzato. “Chi è?”

“Potter, James.” Si identificò con il tono da auror in servizio. Anche se non lo era. Aveva un gran mal di testa però. “Prince è con te?”
“Non me lo porto dietro quando scopo.” Fu la risposta ovvia.
James provò simpatia verso quel tizio, il cui mestiere era stare dietro alle beghe di un’idiota con la sindrome da anti-eroe. Ma non poteva distrarsi. “Prince se n’è andato senza notificarlo alla sua scorta.”
Ci fu un breve silenzio all’altro capo del filo. “… Se ne sarà dimenticato.” Tentò, ma non aveva più il tono di voce di chi considerava quella telefonata una scocciatura. “Non ha detto a nessuno dove andava?”

“Solo che andava fuori a fumare. Secondo i ragazzi sembrava star male, hanno pensato dovesse prendere un po’ d’aria.” Il tipo gli sembrava abbastanza sveglio da poter essere d’aiuto. “Prince si scorda cose come questa?”
“… no, di solito no. Magari aveva finito le sigarette ed è andato a ricomprarle? Si fotte sempre le mie.”
“È sparito da quasi mezz’ora.”
Un’altra pausa. “Controllate in albergo. Posso farlo anche io, se serve. Serve…”
“No, ci pensiamo noi.” Voleva evitare di coinvolgere civili in una caccia al mago che forse non aveva neanche motivo di essere. “Scusa se ti ho disturbato.”
“Non ha bevuto tanto.” Lo fermò il ragazzo. “Almeno per i suoi standard. Se è uscito non credo sia stato  per prendere una boccata d’aria.” Rimase un attimo in silenzio. “ … per caso ha parlato con Ross?”
“Scott?” Aggrottò le sopracciglia, mentre Cutting chiudeva il telefono e gli faceva cenno di no con la testa.
Merda, non è neanche in albergo.
“Cosa c’entra il ragazzo di mia sorella?”
“… niente.” Disse in fretta l’altro. Troppo in fretta, quasi si pentisse di essersi lasciato andare in quella che doveva aver considerato una confessione. “Probabilmente non c’entra niente. Sentite, mi vesto e vado a cercarlo anch’io. Forse ha deciso di finire la serata da un’altra parte. A volte lo fa. Se lo trovo lo spedisco a letto e vi chiamo.”
“Ti ringrazio.”
Chiuse la comunicazione con l’impressione che quel Meinster non gliel’avesse contata giusta. Ma Ross non poteva essere coinvolto nella sparizione del pipistrello.
Non si sono rivolti la parola per tutta la serata.
La cosa era strana, però, considerando che a sentir sua sorella erano in rapporti cordiali. Certo, non c’era Lily di mezzo a far da banco come suo solito, però …
“Che facciamo?” Lo riscosse Bobby. “Quelli dell’albergo dicono che Prince non è ancora rientrato.”
“Secondo il suo assistente può essere andato a smaltire la sbornia da qualche altra parte. Hai provato a chiamarlo allo Specchio Magico?”

“Non ce l’ha, lo sai.”
James si passò una mano trai capelli. Avrebbe voluto prendere a calci il culo rinsecchito di quel cretino capace solo di mettersi nei guai e farli preoccupare tutti a morte.
Merlino, che spina nel culo!
“Ehi, ma quello non è un Patronus?” Esclamò Bobby attirando la sua attenzione.
Lo era, perché solo un Patronus poteva brillare di luce propria persino in una via illuminata quasi a giorno qual’era Diagon Alley. L’essenza argentata sfrecciò nella loro direzione, i contorni sempre più nitidi. Era un’aquila.
Sbatté le ali e si posò sull’insegna del pub. Quando parlò, aveva la voce di Prince.

John Doe è qui, a Londra. L’ho inseguito fino a Leicester Square. Sta scendendo verso la metro, e temo vorrà prendere un treno. Richiedo assistenza.
Il messaggio si concluse quando l’aquila si dissolse nel nulla in uno sbuffo di fumo argentato.
Richiede assistenza?!
Quel coglione!
James imprecò violentemente e dall’espressione di Bobby fu certo che  era tentato di imitarlo, nonostante fosse una tra le persone più educate che conoscesse. “Chiamate il sergente Weasley!” Disse, perché lì non era il caso di far le cose da soli. John Doe era stato creduto morto per ben due volte. Non c’era da rischiare con un tipo del genere. “Tiratelo giù da letto e ditegli che Prince è sulle tracce di John Doe, e noi sulle sue.” Diede una pacca sulla spalla a Bobby e questo bastò. Si Smaterializzarono, direzione Leicester Square.
 
****
 
Stazione metro di Leicester Square.
 
John Doe si era buttato sui binari della metro.
Ovviamente erano vuoti e a Sören era bastato poco per decidere il da farsi; l’aveva seguito, dando un’occhiata rapida al tabellone dei tempi di attesa: aveva solo due minuti prima che il treno della linea per Piccadilly passasse, rendendo vano ogni suo tentativo di inseguirlo. Se un convoglio di quella lunghezza si fosse messo tra di loro, Johannes avrebbe potuto dileguarsi nel nulla senza problemi.
Johannes!” Gridò nel buio intervallato dagli occasionali neon di sicurezza. “Lascia la ragazza!”
Il rumore di passi concitati a qualche metro da lui, oltre che i singhiozzi terrorizzati della Babbana, non lasciavano dubbi sul fatto che l’avesse presa per usarla come scudo umano.

Non posso lanciargli un incantesimo di Pastoia così. La tiene troppo vicina a sé, rischio di colpire anche lei.
Incantesimi offensivi del genere sui Babbani erano pericolosi; non reagivano come i maghi e c’era un concreto rischio di danneggiarle il sistema nervoso, con ripercussioni addirittura irreversibili.
Non posso rischiare di paralizzarla per sempre. E lui lo sa.
La sua priorità non era più catturare un ricercato, ma mettere in salvo la ragazza prima che l’altro decidesse di disfarsene.
Le basterebbe spingerla sulle rotaie al passaggio del treno. Troppe variabili. Variabili ed un ostaggio.
Per come stavano le cose qualsiasi decisione avesse preso avrebbe potuto essere fatale per la Babbana.
… cosa faccio?
Era da solo: non c’era Estevez con lui ad indicargli la cosa morale da fare, né Ama a dargli ordini. Non c’era neanche quel fastidio continuo di Potter, né i buoni consigli di Scorpius o Jordan.
Doveva decidere, e in fretta.
Di colpo sentì un gran stridio di freni e un bagliore apparve dove il tunnel curvava bruscamente.
Il treno!
Era arrivato prima del previsto. Vide l’ombra di Johannes accelerare il passo trascinandosi dietro l’ostaggio e intuì che stava cercando disperatamente un posto in cui accucciarsi per evitare un frontale dato che senza bacchetta non poteva Smaterializzarsi.  
Cerca di evitarlo …
Osservò l’andamento delle rotaie, lo spazio che c’era tra esse e il muro. Calcolò, stimò e realizzò.
Posso sfruttarlo.
Era una mossa che definire azzardata era dir poco, ma era anche l’unica che poteva funzionare.
Corse, proprio mentre il treno entrava nella galleria. Dieci, nove, otto … cinque metri. I fari del locomotore illuminavano a giorno le rotaie dandogli una visuale perfetta.
Posso Smaterializzarmi.
Ed è quello che fece. Sentì l’aria stringerglisi addosso in una morsa e visualizzò la meta successiva.  
Due secondi dopo Riapparse, usando la forza di impatto sul lato del vagone per gettarsi su Johannes e placcarlo contro il muro. L’uomo ringhiò di dolore e sorpresa e poi rotolarono entrambi a lato delle rotaie. Lanciò uno sguardo verso l’ostaggio: come aveva pianificato era bastato quello spostamento d’aria per gettarla al sicuro, ad un paio di metri da loro. Tenne la bacchetta puntata al collo dell’altro mago, e alzò lo sguardo per controllarla con più attenzione. Era sottoshock, con le calze strappate ma il treno appena passato non l’aveva sfiorata.
Inspirò sollievo e poi le si rivolse. “Va tutto bene.” Ansimò sentendo un dolore acuto alla spalla destra e a gran parte del fianco. L’impatto gli aveva dato la spinta necessaria ma gli effetti collaterali lo avrebbero reso dolorante per giorni. Forse si era rotto anche qualche costola. “Va tutto bene, sono … sono un agente di polizia. Come ti chiami?”
La ragazza guardava da lui alla bacchetta ma rispose. “Olivia…”  
“Olivia, devi andartene. Non posso accompagnarti.” Non avrebbe fatto l’errore di lasciare Johannes privo di sorveglianza. Non più. “Torna indietro, segui le luci di sicurezza e risali i binari. Troverai … troverai la mia squadra.” A quel punto il Patronus doveva essere giunto a destinazione: Potter e gli altri dovevano essere in dirittura d’arrivo. “Si prenderanno cura di te.”
La ragazza, sebbene con le gambe che le tremavano, ubbidì: la paura di rimanere lì, al buio e con due uomini capaci di sparire e riapparire dal nulla, fu più forte dello shock.
Sören la vide scomparire lungo la galleria e finalmente poté dedicarsi a Johannes. L’uomo era schiacciato a terra dal suo peso, con la bacchetta puntata alla nuca e sembrava non aver la minima intenzione di muoversi, ma aveva imparato a non fidarsi.
“Mi ricordo che ami le scommesse.” Esordì voltandolo e puntandogli il legno alla gola. “Ma hai perso.”
Johannes ridacchiò. Fu un suono così strano, così inquietante che gli venne automatico stringere la presa sulla bacchetta. Una scintilla rossa ne scaturì bruciandogli parte della cravatta. Nessuno dei due ci fece caso.
“Cosa c’è da ridere?”
“Niente principino…” Ghignò con espressione beata. “… se fossi in te mi preoccuperei dello stato della mia spalla.”
“La mia spalla sta benissimo.”

“Non vuoi proprio controllare? Non che serva, tanto è già in circolo…”
In circolo cosa?
Sören spostò lo sguardo e poi la  vide. Una siringa, di quelle Babbane, era conficcata nella giuntura della scapola. Il dolore che sentiva non era dovuto alla botta presa.
“Cosa mi hai fatto…?” L’adrenalina aveva mascherato i sintomi, ma adesso sentiva la bocca secca e la testa pesante. La vista cominciò ad appannarglisi e per quanto tentasse di mettere a fuoco, per quanto si fosse strappato la siringa …
… l’aveva drogato.
“Troppo tardi.” Replicò tirandogli una spinta che lo trovò inerme: non riusciva neppure più a stringere la bacchetta, che rotolò a lato. Cadde a terra mentre l’altro si rialzava spazzolandosi i vestiti. “Chi ti ha insegnato tutto quello che sai? Io.” Si accovacciò alla sua altezza. “È come leggere un libro che hai imparato a memoria … Certo, non mi aspettavo quel placcaggio da bruto, ma del resto adesso sono gli yankees a tenerti a guinzaglio, no? Ti devono aver insegnato un paio di cosette.”
Sören provò a dire qualcosa, a parlare, ma il solo tentare gli prosciugò ogni forza. Precipitò nel buio.
 
“Non abbastanza però.”
Guardò il ragazzo perdere i sensi e fece una smorfia; davvero quel placcaggio non se l’era aspettato.
C’è mancato poco che mi ammazzasse.
Si chinò, estraendo dalla tasca della giacca la custodia della siringa. Dopo averla strappata dall’altro ve la inserì ed un veloce incantesimo di pulizia la liberò del narcotico Babbano che aveva usato.
E bravo Loher. Ha funzionato alla perfezione.
Una volta sterilizzata lo voltò di schiena, reclinandogli la testa per scoprirgli la nuca. Fu lì che prelevò il sangue: dove nessuno avrebbe potuto vedere il segno della puntura. Premette con il fazzoletto il punto in modo che non sanguinasse vanificando i suoi sforzi, e poi si alzò: il marmocchio non si sarebbe svegliato prima di qualche ora, con un gran mal di testa e nessuna idea su quello che gli era stato fatto.
“Sogni d’oro, principino.”
Era ora di tornare dalla sua dama e continuare la serata.

 
****
 
Ron Weasley odiava essere svegliato nel cuore della notte. Odiava soprattutto esser buttato giù dal letto da sua moglie, scarmigliata e di pessimo umore. Ma ciò che detestava sopra ad ogni cosa era doversi vestire in fretta e furia e Smaterializzarsi a Londra perché un agente si era cacciato in un guaio.
Solo che stavolta non si tratta di una recluta dell’Accademia …
Ma di Prince. 
Avrebbe dovuto dar retta ad Hermione e al suo buonsenso e accettare quel posto di vice al fianco di Harry che da anni l’amico gli proponeva.
Almeno adesso starei dormendo come lui. Timbracarte, sì, ma con cicli del sonno normali.
“Coprite tutte le uscite, nessun Babbano o mago deve entrare!” Ordinò alla sua squadra. “Hobbs, Wilkins, contattate la sala macchine di questo posto o quel che è. Devono chiudere la fermata, chiaro?”
“Ricevuto Sergente.” Replicarono Trasfigurando l’uniforme in quella dei bobby della Polizia Metropolitana.
“Ehi, zio.” James aveva l’alito che conteneva un’intera distilleria ma era più sveglio e incazzato di tutti loro messi assieme. Non aveva avuto cuore di lasciarlo indietro, né lui né Jordan. “I ragazzi hanno trovato questa a terra…” Gli porse una bacchetta. “Non è di Sören.”
“John Doe?” Intuì rigirandosela tra le mani: era una bacchetta poco lavorata, di quelle che si trovavano nelle botteghe degli Artigiani a poco prezzo. Era il classico legno che potevi comprare per meno di un Galeone.

Probabilmente è quella di scorta.
La porse ad uno degli auror. “Questa la portiamo in ufficio.” Poi si rivolse al nipote dandogli una pacca sulla spalla. “Muoviamoci.”
Scesero le scale mobili e Ron fece cenno a due auror di rimanere sulla banchina; per quanto ne sapevano John Doe poteva essere ovunque, persino sotto le panche addossate al muro.
“Ci beccheremo un treno in fronte…” Borbottò James, la cui poca passione per i cunicoli bui era nota a tutti. Non lo biasimava.
“Non se Hobbs e Wilkins fanno il loro lavoro.”
“Se fermiamo i treni blocchiamo la circolazione … Potremmo rischiare d’attirare troppa attenzione.” Si inserì Jordan. “E comunque c’è spazio sufficiente tra le rotaie e il muro per…”
“Va bene, va bene. Vediamo di fare in fretta allora.” Tagliò corto: tutta quella faccenda gli ricordava sin troppo il suo primo – e fortunatamente – ultimo incontro con le Acromantule. “Andiamo dentro.”

Scesero le scale di emergenza e fu James il primo a mettere piede a terra. Guardò verso l’entrata del tunnel ed aggrottò le sopracciglia. “Ehi, mi sembra…” La sua frase fu bloccata quando una ragazza, del genere molto Babbano e molto terrorizzato, uscì correndo come se avesse degli Inferi alle calcagna.
“Oh, Dio!” Urlò vedendoli e gettandosi tra le braccia di James. “Grazie a Dio … c’è … ci sono delle persone … loro…” Balbettò sconnessa. “Mi crederete pazza!”
“Si calmi.” James se la staccò di dosso senza troppo garbo. “Come si chiama?”

“Olivia… me l’ha chiesto anche quel tipo … Mi ha detto che avrei trovato altri come lui…” Guardò i jeans e la canottiera di James con aperto sollievo. Quando guardò nella sua direzione Ron si sentì incredibilmente inadeguato in mantello ed uniforme. “… è una specie di scherzo? Una candid-camera?! Perché sono stata presa e trascinata…”
Jordan le mise una mano sulla spalla con fare rassicurante. “Va tutto bene Olivia. Puoi descriverci i due uomini?”
Il tono dovette convincerla che, anche se non erano dello Yard, erano comunque agenti di una forza dell’ordine. “Uno era alto, con i capelli rasati e indossava uno smoking  … l’altro era un ragazzo della mia età coi capelli neri.” Fece una pausa. “Quello alto mi ha preso dall’ascensore … mi ha rapito!” Aggiunse e Ron inquadrò la situazione: Doe aveva preso un ostaggio e Prince l’aveva inseguito. “Il ragazzo …” Esitò mordicchiandosi le unghie. “… sembrava un poliziotto perchè ha aggredito il tipo alto e l’ha messo a terra, ma…”
“Olivia, l’agente Jordan qui si prenderà cura di te, okay?” James spinse la ragazza nelle braccia del partner senza troppi complimenti. Ron poteva sentirlo scalpitare in attesa di entrare in azione.  
“Su, è il caso di respirare un po’ d’aria fresca…” Gli fece eco Bobby, e quando gli passò accanto Ron sillabò la parola ‘Obliviatori’. Il ragazzo annuì.  
Pure una Babbana di mezzo … Domani mi cadrà la mano da quante scartoffie dovrò compilare.
Rimasti con il nipote e altri due agenti della sua squadra fece un cenno verso il tunnel. “Muoviamoci. E bacchette alla mano.”
Si incamminarono nel buio del tunnel, inframmezzato dalle fioche luci di emergenza che correvano lungo i muri stillanti umidità.  “Zio…” James si fermò di colpo, indicando qualcosa a ridosso delle rotaie. Era un corpo.
Prince?
Non fermò il nipote quando corse verso il tedesco riverso a terra. Fece poi cenno di avvicinarsi agli altri due agenti per far luce con le proprie bacchette: Prince non aveva graffi o sangue che facessero pensare ad una colluttazione, ma era privo di sensi.
“L’Innerva non funziona!” Mormorò pallido James scuotendolo per le spalle. “Che cavolo ha?”    
Nessuno di loro era un Guaritore, ed era palese che Prince ne avesse un gran bisogno. “L’unica soluzione è portalo al San Mungo. Noi continuiamo … se c’è traccia di quel bastardo dobbiamo stanarlo.”
Si sarebbe aspettato una protesta dal nipote, ma fu sorpreso quando questo si caricò sulle spalle il tedesco senza aprir bocca. “Tenetemi aggiornato.” Disse soltanto, e poi si Smaterializzò.
Scalpitava perché era preoccupato per Prince?
Non se lo sarebbe mai aspettato. Inspirò, guardando di fronte a sé le tenebre che rischiavano di essere squarciate da treni o da maghi assassini.
Odiava davvero essere tirato giù dal letto in piena notte.
 
****

Londra, centro.

 
Il rumore lieve di cristalli, di chiacchiere a bassa voce e della musica jazz suonata da un pianista stava cominciando ad annoiarla.
Era rimasta per ben un’ora ad attendere Johannes, il quale si era allontanato per ricevere una telefonata per poi sparire nel nulla.
“Sophia.” La mano dell’uomo le toccò una spalla, scostandole una ciocca di capelli. Nonostante la serata mite – una vera rarità in Inghilterra, sempre a sentir lui – aveva le dita gelate. “Perdona il ritardo … Ci sono state alcune complicazioni sulla via del ritorno.”
“Questo posto mi ha tediato a sufficienza, voglio andarmene. Non sono venuta a Londra per chiudermi in un’altra stanza.” Rispose, alzandosi e lasciando che l’uomo le scostasse la sedia. Non solo aveva le mani fredde, ma anche un livido vistoso sul lato destro della mascella e un taglio sul sopracciglio. Non era suo costume chiedere spiegazioni, ma il fatto la incuriosì. 

Johannes sorrise, chinando la testa in segno di scuse. “Hai ragione. Il conto è già stato saldato, vogliamo andare?”
Annuì, prendendo il braccio che le venne offerto e drappeggiandosi lo scialle sulle spalle. “Potevi renderti presentabile prima di tornare … Stai sanguinando.”
Questo si toccò la fronte, facendo una lieve smorfia e poi tamponandosi la ferita con il fazzoletto. “Ho perso la bacchetta.” Spiegò senza farlo veramente: di norma avrebbe lasciato correre, non era la sincerità che pretendeva nel loro rapporto.

Tuttavia, Londra.
“Con chi ti sei scontrato per avere un aspetto così tremendo?”
Johannes entrò nell’ascensore, lanciandole un’occhiata calcolatrice. Aveva lo sguardo sempre mobile, e una mente attenta a pesare ciò che gli sarebbe uscito dalle labbra. Solo chi non lo capiva davvero pensava parlasse a vanvera. Quindi quando rimaneva in silenzio non era un buon segno.
“Ho incontrato Sören.” Disse. “Una coincidenza sfortunata.”
Sophia non disse nulla: non avrebbe avuto motivo. Si limitò quindi a inarcare le sopracciglia.  
“Ero a Diagon Alley, nel quartiere magico. C’era anche lui. Mi ha visto e mi ha riconosciuto.” Sospirò. “Non molla l’osso quando ce l’ha davanti … è così da quando era moccioso.” Continuò. “Mi ha inseguito per un bel pezzo prima che riuscissi a seminarlo.”  
“Sa che sono qui?”
“Stasera? No.”
Quando le porte dell’ascensore si aprirono osservò il compagno guardarsi attorno prima di tenderle la mano. La prese. “Torniamo.” Decise. “Sono stanca.”
“Di già? Pensavo…”
“Voglio tornare al castello.” Ripeté.

Johannes, lo intuiva dall’espressione, tentava di indovinare cosa le passasse per la testa. “Come la mia Regina desidera.” Rinunciò infine, facendo cenno ad uno degli uomini della scorta – rimasti nella hall – di andare a prendere la macchina. Le sorrise poi conciliante. “Ho una buona notizia per farmi perdonare dell’assenza … L’incontro era di lavoro. Forse sarò ottimista, ma potrebbe dare buoni frutti.”
“Bene.”
Sophia non aveva mai avuto interesse a capire quando il compagno le nascondeva qualcosa; tuttavia se ne rendeva sempre conto.
C’è qualcosa che non mi dice.
Era fastidioso constatare che stavolta la cosa non la lasciava indifferente.  
 
****
 
Note:

Nota per dirvi che nelle prossime settimane sarò talmente oberata dal lavoro – non scherzo, farò degli orari da ciuco – che avrò poco tempo per scrivere. :/
Ci rifaremo nelle vacanze!
Questa la canzone del capitolo. Quest’altra quella che ballano al club.

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Capitolo 35
*** Capitolo XXXIV ***


Capitolo XXXIV
 


 

And I feel it's going down, ten feet below the ground,

I'm waiting for your healing hand, one touch could bring me round
(Just the Way I’m Feeling, The Feeder)
 
22 Luglio 2028
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter. Mattina.
 
James aveva solo voglia di entrare in casa e andare a schiantarsi sulla prima superficie orizzontale. Anche il pavimento andava bene.
Gettò le chiavi sul tavolino dell’ingresso, ingombro di posta e di un’enorme vaso di terra e erbacce che Benedetta aveva voluto portare in casa nella speranza che vi nascessero dei fiori, e trascinò i piedi fino al salotto.
Passare tutta la notte al San Mungo … Che merda. Ho quasi pensato di usare il letto che mi è stato assegnato come Auror!
Perché quell’idiota di Prince aveva pensato bene di andare all’avventura in solitaria, con il risultato di farsi ritrovare incosciente e incapace di risvegliarsi. C’erano volute ore prima che quelli del reparto di Lesioni capissero che non era stato un incantesimo a sbatterlo a terra quanto piuttosto l’uso di un potente sonnifero Babbano.
E questo solo perché, grazie a Merlino, qualcuno si è fatto venire in mente di fargli delle analisi del sangue.
Era stato Albus, che aveva montato il proprio turno quella mattina, a svegliarlo dalla sua scomoda posizione su una durissima sedia della sala di attesa spiegandogli che Prince ci avrebbe messo un po’ a smaltire la roba che gli era stata rifilata e che nel frattempo lui poteva anche tornarsene a casa.
Tanto c’è la sua scorta a sorvegliarlo e ad evitare che Doe torni a finire il lavoro, no?’ aveva aggiunto prima di afferrarlo per un braccio – si scordava sempre che nonostante fosse un nanerottolo era in grado di sollevare pesi con facilità - ed accompagnarlo all’uscita.
È che non era tranquillo: quell’intera faccenda era strana. Perché Doe, che avrebbe dovuto nascondersi nella fogna più buia per sfuggire agli occhi di ben due forze di polizia – tre, contando quella tedesca – aveva voluto farsi una passeggiatina nel cuore del Mondo Magico?
Con il rischio di farsi arrestare e buttare in cella per il resto della sua vita?
Non torna.
Se aveva capito una cosa del Camaleonte era che ogni sua mossa era studiata al dettaglio e che non lasciava nulla al caso.
Voleva che lo trovassimo? Perché Diagon Alley, di venerdì sera. È come se si fosse messo in mostra!
Si passò una mano dietro la nuca, sbadigliando e calciando via gli anfibi; il salotto era immerso nella tiepida luce del primo mattino e il divano, nelle sue forme comode, lo attirava come il canto di una sirena.
Fu sorpreso quando lo trovò occupato da due forme profondamente addormentate, ma poi sorrise: Benedetta e Teddy erano allungati trai cuscini con un grosso libro che premeva sulla costola di quest’ultimo.
Passerà tutto il giorno con i dolori, come un vecchietto…
La bambina era espansa come una piccola stella marina sul petto del compagno, che la cingeva con un braccio per non farla cadere. Dovevano essersi addormentati mentre leggevano una storia perché le braci del camino, non ancora spente, sembravano supportare la teoria.
Sogghignò quando notò come entrambi dormissero con la bocca aperta e come la camicia dell’uomo fosse quindi zuppa di tenera bava infantile.
Mocciosi…
Entrambi avevano comunque bisogno di un letto vero tanto quanto lui. Districò la bambina dalla presa piuttosto ferrea dell’altro e se la caricò in braccio e quando questa storse il naso nel sonno, probabilmente annusando l’odore di birra e fumo di sigarette che si portava dalla sera prima, ridacchiò. “Eh, lo so che puzzo pulce … E dovrai sentire che mi dirà tuo zio. Jamie sai che non mi piace quando fumi!” Scimmiottò a bassa voce salendo le scale.
Una volta deposta a letto e debitamente coperta – non aveva neanche aperto una palpebra, iniziando a russare sonoramente – tornò di sotto per trovare Ted sveglio e con i capelli tutti schiacciati e verdi da un lato.
“Ehi.” Mugugnò con la voce resa rauca dal sonno. “Che ore sono?”
“Le cinque di mattina.” Rispose stiracchiandosi e buttandosi sul divano accanto a lui. Un ennesimo sbadiglio fu doveroso. “… e prima che tu mi chieda se ho fatto baldoria fino all’alba, magari. Ho visto sorgere l’alba sul tetto del fottuto San Mungo.”
Ted nascose educatamente il suo sbadiglio in una mano. “Quant’è andata fuori controllo la festa?”

“Non è stata la festa.” Borbottò reclinando la testa sullo schienale e chiudendo gli occhi. “È stato quel cretino del Pipistrello.”
“Sören?”
Gli raccontò tutto mentre le palpebre si facevano pesanti, trovando del tutto ragionevole gettargli le gambe in grembo e scivolare fra il quintale di cuscini. Se lo meritava.

“Si rimetterà?”
“Massì … deve solo smaltire gli effetti di quello che gli ha rifilato. Domani tornerà già a rompere i coglioni.”
“Mh.” Replicò Ted non impegnativo, accarezzandogli un ginocchio. “Certo che è strano … John Doe che viene a Londra, mette KO Sören e poi non se lo porta dietro? Se gli avete affidato una scorta è perché temete che lo rapiscano, no?”

“Prince ha la Traccia.” Si stava addormentando e avrebbe dovuto trascinarsi a letto, ma le carezze e la voce quieta del compagno erano una ninna-nanna irresistibile. “Se Doe se lo fosse portato dietro sarebbe stato come attaccarsi una freccia luminosa alla schiena … Li avremo trovati nel giro di mezza giornata.”
“E non poteva Disincantarla?”
“Per togliere una magia di quella complessità ci vuole tempo e uno Spezza-Incantesimi in gamba. In teoria, finché ce l’ha addosso, il Pipistrello è al sicuro… La scorta serve per evitare che si ripetano episodi come lui che se ne va a fare una passeggiatina a Camden Town senza avvertire nessuno.”
“Cioè come ieri sera?” Lo stuzzicò. “ Pare che Sören non dia retta a niente e a nessuno.”
“Quella testa di cazzo.” Confermò.
Ted ridacchiò. “Non l’avrei mai detto, sembra un ragazzo così posato.”
“È un rompicoglioni.” Borbottò. “Fa’ preoccupare tutti … Appena si sveglia dal suo letto di morte lo prendo a calci in culo.”
“Sono sicuro che si rimetterà presto.” Replicò senza senso. Perché non era preoccupato per il crucco o che, era solo stanco. “Avanti, andiamo a letto … ci spettano almeno un paio d’ore di sonno prima che Benedetta si svegli. È mattiniera come lo eri tu da bambino.”
“La gente sveglia lo è sin di prima mattina.” Replicò lasciando che lo accompagnasse su per le scale spingendolo come un mulo poco collaborativo. “Com’è andata ieri sera, a proposito? Si è calmata?”

Ted scrollò le spalle, ma non riuscì a nascondere un sorrisetto compiaciuto. “Le piacciono le storie.”
Gli diede una pacca sulla spalla, contento di essere tornato a casa. “Il sangue non è acqua, Lupin.”

 
****
 
Devonshire, Il Mulino.
Mattina.
 
“Sì, alla fine siamo riuscite a tornare senza incidenti … Da non credersi visto che Domi in dopo-sbronza guida come se fosse ancora ubriaca … No, no Rosie sta bene. Cioè, l’abbiamo scaricata a casa ed ha infilato il portone sbagliato, ma poi è uscito Scorpius e se l’è portata dentro in braccio … Dai Scotty, lo sai che nessuno riesce a rimettersi in piedi come la sottoscritta. Giusto Roxie … E a voi com’è andata?”
Lily ascoltò divertita il racconto della folle festa di Scorpius, che aveva visto mutande rosso grifondoro e la perdita di svariati oggetti personali, e diede un colpetto di saluto al tettuccio della macchina dove Domi gli rivolse un sonnolento cenno di assenso prima di guidare via.  Una scia di gasolio e Mötley Crüe tenuti a basso volume – Violet dormiva profondamente nel sedile posteriore - sparì così nel cielo azzurro pastello.
Bella giornata, ottimo. E chi la reggeva la pioggia con un post-sbronza!
“Quindi c’è anche stata una rissa? Ma è delizioso!” Incastrò il telefono nell’incavo del collo ed infilò le chiavi nella toppa. “Non avrei mai pensato che Zabini fosse tipo da menar le mani, ma è pur vero che all’ultimo anno ha gonfiato di botte Tom…” Entrò in corridoio spingendo con il piede la borsa in cui aveva infilato quarantotto ore di vestiti striminziti e biancheria sexy. “Sono a casa!
Il Mulino quella mattina doveva fervere di attività, con entrambi i genitori a casa eppure quello che sentì non fu sua madre che canticchiava Le Sorelle Stravagarie mentre faceva le pulizie, né suo padre che ciabattava per casa con l’aria di chi si godeva semplicemente il fatto di avere un paio di ciabatte addosso. Udì invece la voce di quest’ultimo, sostenuta, provenire dal salotto.

Uh?
Spedì con un Wingardium Leviosa la borsa su per le scale e andò a controllare, sporgendosi dallo stipite della porta: suo padre era al Fuoco Magico e il tono della conversazione era acceso.
“Nora, capisco che si sia sentita messa da parte, ma ti assicuro…”
Nora. Nora Gillespie. Quindi lavoro. Quindi Auror. Quindi Ren.

Sören, che la sera prima era stato argomento di conversazione tra lei e Roxanne.
O per meglio dire, argomento di discussione …
 
“Sören è innamorato di te.”
“… Eh?”

Roxanne l’aveva guardata come se fosse scema, e per un momento ci si era sentita davvero, prima di realizzare cosa aveva detto l’altra.
“Non è innamorato di me.”
Semmai di quell’americana insopportabile. O lo sarà. Non che faccia differenza.
“No?” Roxanne aveva inarcato le sopracciglia, continuando con quell’espressione di vago compatimento. Le capitava di rado di aver voglia di prendere a schiaffi la cugina.

Erano stato uno di quei momenti.
“No!” Aveva detto in fretta. Troppo in fretta, con troppo panico che le strisciava addosso come un Basilisco. Le dimensioni erano quelle perlomeno. “Non mi vede in quel senso…”
“Gliel’hai chiesto?”

“No, certo che …” Si era bloccata, intuendo dove l’altra volesse andare a parare. “ … Cosa sai?”
“Niente, non è che sia la sua confidente … quella sei tu.” Aveva scrollato le spalle. “Ma Rossa, non posso credere che tu non te ne sia accorta … perché l’hanno fatto tutti. Io, Dionis, gli altri…”
“Altri chi?”

Scott?
Era a lui che aveva pensato in un rush di panico. Scott pensava che Sören fosse innamorato di lei? Era per questo che aveva cominciato a comportarsi come un idiota?
Avrebbe avuto senso.
“Voi non conoscete Sören, non sapete…”
“Non serve conoscere qualcuno per capire una cosa del genere.” L’aveva rimbeccata. “Come non serve essere una Legimante Naturale. Lily…” Aveva sospirato. “… ti guarda come se fossi la stella attorno a cui orbita. E nessun uomo, in nessun mondo o universo ti guarda così con l’intenzione di esserti amico.”

“Ti…”
“Io posso anche sbagliarmi, ma tu di sicuro ti stai raccontando un sacco di palle.” Aveva inarcato un sopracciglio. “E dubito che c’entri Scott, prima che tu lo tiri in mezzo. Si tratta di te e di Sören. Perché hai così tanta paura che sia innamorato di te?”

 
Non le aveva risposto e Roxanne non aveva preteso che lo facesse, limitandosi a rientrare e a non sollevare più l’argomento per il resto della loro permanenza a Bath.
Dannazione, Roxie …
Aveva accantonato il pensiero preferendo chiamare Scott, come gli aveva promesso di fare una volta tornata a casa, ma la chiamata di suo padre aveva riportato tutto a galla. E violentemente.
Ren non è innamorato di me. O l’avrei … L’avrei capito. L’avrei sentito.
Forse.
Perché i suoi poteri avevano un unico limite: quello dato dalla sua emotività. I suoi sentimenti erano l’unica cosa davvero capace di offuscare le sue capacità e farle prendere sonoramente fischi per fiaschi.
In questo, sono semplicemente una tizia incasinata qualunque.  
Lei era innamorato di Sören; questo ormai era stato appurato.
E se Roxie avesse ragione? Cosa faresti?
Che diavolo avrebbe fatto se Sören, il suo cavaliere senza macchia, avesse ricambiato i suoi sentimenti?
… merda.
Non era il momento di pensarci, non con Scott dall’altra parte del cellulare e suo padre che diceva cose interessanti.
“Scusa Scotty, ti richiamo tra cinque minuti, okay? C’è una mezza crisi familiare in corso.” Inventò sul momento per poi riattaccare. Non riusciva a sentire le risposte dell’americana, era troppo lontana dal focolare, però poteva sentire quelle di suo padre ed immaginare il resto.
Lo so che Ama ha ragione.” Sospirò passandosi una mano trai capelli, arruffati come di chi si era appena alzato. Erano le undici inoltrate, quindi la telefonata durava da un po’. “Avrebbero dovuto chiamarla e portarla con loro, ma Ron è stato buttato giù dal letto alle tre del mattino e non era esattamente padrone di sé. Hanno pensato ad avvertirla una volta arrivati al San Mungo anche se capisco…”
La replica fu piuttosto sferzante ma razionale da come suo padre assunse un’aria colpevole. “Fate parte del caso anche voi, Nora, nessuno sta mettendo in dubbio questo, e vorrei che al sergente Gillespie fosse chiaro come a te. Abbiamo sbagliato, ed offrirò le scuse dell’ufficio personalmente.” Fece una pausa. “John Doe è un problema di entrambi i Ministeri, le cose non sono cambiate. L’errore che abbiamo fatto non si ripeterà, ti do la mia parola.”
John Doe? Hanno trovato John Doe?

Inspirò bruscamente, mentre una fitta di panico le scendeva lungo la schiena. Ma era il momento di rimanere, e capire, non di comportarsi come una bimbetta traumatizzata: perché se quel tizio era stato trovato, voleva dire che qualcuno l’aveva affrontato.
Con delle conseguenze se si parla di San Mungo. Jamie? Sy? No, erano alla festa …
… Ren? È fuori dal caso ed era alla festa.
Non ci capiva niente.
“No, Sören sta bene tutto considerato…”
Un milione di campanelli d’allarme le esplosero nella testa, e considerando l’emicrania che la graziava da quando si era svegliata non erano un bel sentire.

Non importava.
Ren? Che è successo a Ren?! È lui che sta al San Mungo?!
L’istinto le diceva di correre in salotto e pretendere spiegazioni, ma poteva non essere un’idea brillante, considerando quanto suo padre fosse insofferente alle sue ingerenze in quella storia e, in generale, al fatto che andasse nel panico ogni qual volta l’amico era coinvolto.
“Sì, al San Mungo si stanno occupando di lui…”
È lui! È finito in ospedale!

… di nuovo. Accidenti a te, Ren!
Non c’era tempo da perdere a quel punto. Sapeva dove andare: tirò fuori la bacchetta e si Smaterializzò.
 
Ginny trovò suo marito con le mani sepolte nei capelli mentre fissava corrucciato il camino spento. “Ehi.” Lo salutò portandogli una tazza di the: il caffè in certe particolari contingenze era poco indicato.
E questa è una di quelle.
“Ehi.” Borbottò abbassando le braccia. “Vorrei appendere tuo fratello per le orecchie. Pensi che causerebbe una crisi familiare?”
“Di risa? Forse…” Considerò sedendosi sul bracciolo della poltrona dove l’altro era sprofondato. Gli accarezzò la nuca, districando con delicatezza i nodi arruffati che vi trovò. “… Che ha combinato Ronnie?”
“Ha solo dimenticato di portare sulla scena di un inseguimento l’agente di collegamento assegnato, lasciando James e Bobby senza referente.”
“Sören?”

Scosse la testa. “No, la figlia di Nora, Ama … Sören non è più coinvolto nel caso Demiurgo.” Fece una pausa, soffocando una smorfia. “Dovrebbe essere così almeno. Perché indovina chi è stato ad identificare e inseguire il sospetto?”
“Si tratta di John Doe?” Preferì chiedere: aveva sentito quel nome dalla cucina, perché Harry alzava il tono di voce quando doveva identificare un nemico. “Lo avete preso?”
“No, è sparito nel nulla mandando in ospedale Sören.” Fece una pausa. “Ma l’aveva quasi in pugno a sentire i testimoni.”
“Sta bene?”
“Chi, Sören? Sì, sì…” Fece un gesto evasivo. “… si rimetterà.”
“Bisogna dire che quel ragazzo non getta mai la spugna.”
“È testardo come un mulo.”
“Mi ricordo che lo dicevano spesso di un ragazzo che, guarda un po’, adesso è un uomo ed è in questa stanza.” Osservò con un sorrisetto che le fece meritare un’occhiataccia.  

“Io sono più simpatico.” Borbottò incassando la testa nelle spalle come un bambino colto sul fatto: a quanto pare non era l’unica ad aver sviluppato un debole per le alzate di ingegno del giovane Prince. “E comunque Ron non l’ha fatto apposta a dimenticarsi di Ama. Lo conosco, si sarà svegliato di cattivo umore e … sai com’è quando si sveglia di cattivo umore.”
“E i ragazzi? Se ne sono dimenticati anche loro?”
“Erano appena usciti dalla festa di addio al celibato di Malfoy. Ti lascio immaginare.”
Ginny scosse la testa divertita. “Con Prince, quando era assegnato al caso, che succedeva?”

“Niente.” Scosse la testa. “Era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene.”
“La squadra funzionava quindi…”
Finalmente Harry capì dove voleva andare a parare. “Ginny.”
“Non è niente a cui tu non abbia già pensato.” Ribatté fregandogli un sorso di the. “Sai meglio di me quant’è raro trovare un equilibrio in un gruppo di persone. Sia che siano giocatori di Quidditch, sia che siano Auror.”
“Sì, ma…” Si strofinò una mano sul viso a cui mancava una buona rasatura e sospirò. “Hai ragione, erano un’ottima squadra … ed è chiaro che si sentano ancora tali.” Alla sua muta richiesta di spiegazioni, aggiunse di malavoglia. “Prince ha trovato Doe e l’ha inseguito fino alla metro, ma prima di scendere ha mandato un Patronus ai ragazzi per avvertirli. James e Bobby non ci hanno pensato due volte prima di andargli dietro. E non hanno chiamato Ama.” Scosse la testa. “E non perché si sono dimenticati delle procedure, sarebbe impossibile per uno come il figlio di Lee … ma perché per loro è Sören l’agente di collegamento.”

Ginny non infierì. Non troppo almeno. “Se ai miei tempi avessi avuto dei giocatori che si comportavano così con una riserva … Beh, li avrei strigliati per essersi messi al mio posto, ma poi avrei ingaggiato la riserva.”
“Lo so, ma Sören ha metà della sua famiglia coinvolta!” Scosse la testa. “Non ci divertiamo a tenerlo fuori dal caso…”
“… ma lui in compenso fa’ di tutto per rientrarci.” Si strinse nelle spalle. “Harry, è una vostra decisione, tua e di Nora, ma sta lottando con le unghie e coi denti per rimanere qui. Se avessi avuto un giocatore tanto dedicato a vincere, beh, ci penserei due volte prima di metterlo in panchina.”

Harry non disse nulla, ma dall’espressione che assunse era chiaro che stesse seriamente riflettendo su quello che gli aveva detto. Gli baciò la tempia, alzandosi per lasciarlo ai suoi pensieri, che era il modo più rapido di farlo giungere ad una decisione. Mentre portava via la tazza vuota, l’altro però la fermò.
“Ho sentito il rumore di una Materializzazione prima, Lily è tornata?”
“La sua borsa è di sopra, ma non lei … Credo che fosse una Smaterializzazione.” Replicò tranquilla: Lily era famosa per non fermarsi un attimo in quel periodo.
Probabilmente sarà andata da Scott.
… a meno che…
L’espressione sconfortata di suo marito era eloquente. “Mi ha sentito parlare al Fuoco Magico.” Disse con un gemito esasperato. “Ho sentito Nora chiedermi notizie sulle condizioni di Sören!”
Ginny si strinse nelle spalle, mascherando un sorrisetto. Harry era in tutto e per tutto l’epitome del padre geloso della figlia. Ma non con Scott e i ragazzi precedenti, che aveva sempre accolto con gentilezza distaccata.
Con Sören.
“È andata a controllare come sta, non ci trovo niente di strano.”
Harry la guardò come gli stesse confessando un indicibile tradimento. “Tifi per Sören.” Realizzò.
“Non tifo proprio per nessuno.” Lo fermò con decisione. “È rientrato nella vita dei nostri figli … tenendo conto della cosa ho voluto ascoltare l’opinione di Lily in merito, dato che lo conosce meglio di noi.”
Non solo, aveva chiesto anche ad Albus, un pomeriggio che avevano passato a fare dolci, una passione comune che permetteva loro di ritagliarsi del tempo da soli: il figlio di mezzo era quello che meglio di tutti riusciva a metter da parte i propri sentimenti personali, il più analitico. Chiedergli un parere sulla situazione era stato quindi doveroso.
 
“Non mi preoccuperei di Sören, mamma, è un tipo … molto trasparente.”
“Cioè?”

“Non riesce a mentire, gli si legge tutto in faccia.”
“Ma non è un Occlumante?”

Albus aveva scrollato le spalle, stendendo uno strato di pasta da zucchero con precisione. “Non se trovi i punti giusti da premere.”
“Oh, Al … non sarai andato a stuzzicarlo…”
C’era stata una breve pausa imbarazzata. “Beh, dipende da cosa intendi per stuzzicare … Forse un pochino.” Si era schiarito la voce, mangiando tagliando via la pasta in eccesso. “A Tom piace, e piace anche a me.” Aveva offerto.
“Che rarità!” Aveva accettato divertita.
“Vero?”
Erano rimasti in silenzio qualche attimo, poi aveva deciso di continuare. “Quello che preoccupa me, ma soprattutto tuo padre, è il rapporto con Lily…”

Al, che si era dedicato a girare l’impasto con lena, alzò lo sguardo perplesso. “Capisco cinque anni fa, ma adesso? La porta in palmo di mano, e viceversa Lily lo adora.”  
“Lo so, ma … abbiamo paura che le faccia del male. Di nuovo. Non intenzionalmente, certo … ma con il passato che hanno condiviso, e con quello che sta succedendo … Lily non ha mai superato del tutto quel che è successo.”
“Pensate che rischi di farsi coinvolgere come è successo con Von Hohenheim?” Aveva scosso la testa. “… non credo. Sören la tiene a distanza dal Demiurgo e tutta la faccenda degli allenamenti è più una scusa per passare del tempo assieme che altro.”
Ginny aveva sorriso. Aveva fatto bene a chiedere al figlio; non c’era cosa che Albus Severus non sapesse quando c’erano in ballo i fratelli, con gran scorno di quest’ultimi. “Quindi la loro vicinanza non ti preoccupa?”

“Mi preoccupava molto di più quando si scrivevano da Oltreoceano. Era come se scrivesse ai suoi traumi, al suo passato… o una cosa simile.” Aveva aggrottato le sopracciglia. “Adesso a che fare con Prince in carne ed ossa, ed è … più se stessa credo. La vecchia Lily, intendo. Quella che ficcava il naso ovunque, si infiammava per un nonnulla  … te la ricordi, no?”
“Sì.” Aveva annuito con un mezzo sorriso: non era stato un cambiamento plateale, ma una madre e un fratello quelle cose le potevano sentire.
“Non ho mai visto nessuno renderla così fragile e forte al tempo stesso.” Si era stretto le spalle. “Non credo sia una brutta cosa.”

 
Cinque anni prima forse non si sarebbe lasciata convincere dai panegirici di Lily su Prince, né dalle teorie di Albus, ma adesso le carte in tavola erano cambiate, ed era disposta a dare una possibilità al ragazzo.
E poi, Lily ha smesso di avere incubi da quando c’è lui.
Cos’altro può interessare ad una madre?
Suo marito scosse la testa. “Ricordami perché abbiamo voluto riprodurci…”
Ginny ridacchiò. “Perché altrimenti la nostra vita sarebbe stata terribilmente noiosa, non credi?” 

 
****
 
Chelsea Embankment, Casa di Michel Zabini.
Mattina.

 
 
“Voglio licenziarmi.”
Michel alzò lo sguardo dai documenti che stava studiando in vista di una fin troppo prossima riunione d’ufficio e notò Milo sullo stipite della porta della camera; non si chiese come fosse entrato dato che Loki gironzolava per casa facendo telefonate e accogliendo Gufi da tutta la mattina.

Ormai gli apre per principio. Non sa che non mi sta facendo un dispetto.
“Come mai?” Chiese abbassando il plico di pergamena e dedicandogli l’attenzione che desiderava vista l’entrata teatrale. “Cos’ha combinato Prince?”
Lo ascoltò anche se non gli interessava granché: ora che l’altro tedesco era fuori dal caso l’agente di collegamento che doveva controllare era Ama Gillespie, non lui. Ed era assai più facile, visto che la ragazza non si lanciava in missioni suicide.

Solo quell’Ethan Scott non ha ancora richiamato per farmi sapere se devo continuare la sorveglianza ufficiosa o meno …
“Insomma, per farla breve ieri sera è sparito e l’han ritrovato solo per portarlo in ospedale!” Concluse con un ringhio, seguito da una sequela di frasi in tedesco di cui non capì una parola.
“Inglese, ti prego … Il mio multiculturalismo si limita al francese.” Gli fece notare battendo il posto sul letto accanto a sé.
Emil lo ignorò, mugugnando di nuovo qualcosa in tedesco. “Ho bisogno di rilassarmi, ma non ho il fumo!” Si lamentò poi in un inglese passabile, sembrando un grosso bambino biondo ed imbronciato.
“Non faccio uso d’erba.” E non gradiva che l’altro invece avesse quel vizio, ma non si permetteva di metter bocca in quel lato della sua vita. Non erano ancora abbastanza intimi perché non si infastidisse, figurarsi dargli retta. “Se vuoi posso chiedere a Loki. Se cerchi qualcosa, di solito tende a trovartelo.”
“Lascia perdere … per come sto mi salirebbe su il nervoso e basta.” Borbottò arruffandosi i capelli già piuttosto maltrattati con una mano. “Posso usare la tua stanza?” Chiese poi guardandolo di sbieco. “Sono giorni che non mi esercito e … beh, anche quello è un modo per farmi passare il giramento di palle.”

Erano però arrivati a quel punto nel loro rapporto, e Michel sorrise. Non avevano trascorso la notte assieme, ma ad Emil era venuto naturale tornare lì per rilassarsi. Non era un buon segno: era ottimo.
“Certo.” Appellò le chiavi del cassetto e gliele lanciò. “Si apre anche con il metodo tradizionale. Tienile tu.” Aggiunse prima di tornare ai suoi documenti, fingendo di non notare lo sguardo sorpreso dell’altro su di sé.
“ … danke shön.”
“Inglese, Emil.”
“T’ho ringraziato, rompiballe.” E poi corse via come se le parole gli avessero scottato la lingua. Poco dopo sentì musica diffondersi per le stanze della casa e chiuse gli occhi, godendosela.
“Ehi, Zabini.” Loki fece capolino dalla porta con la pipa tra le labbra e sorriso furbastro d’ordinanza. “Il tuo musicista è tornato?”

“Non lo senti?” Replicò intrecciando le mani dietro la nuca e lasciando perdere documenti e doveri solo per qualche altro attimo. “E so che sei stato tu ad aprirgli.”
“Mi piace, è così deliziosamente bohèmienne.” Scrollò le spalle. “Possiamo tenerlo?”

“L’intenzione è quella.”
“Fantastico!” Esclamò giulivo tirando una boccata di pipa. “Ti prego di non fare cazzate e fartelo scappare perché potrei piangere se non potessi più assaggiare quelle sue omelette paradisiache.”
Ormai Loki tutto sapeva – ma sapeva sempre tutto, o non sarebbe stato chi millantava di essere – quindi si limitò a scrollare le spalle e fargli cenno di sparire. Quando fu lasciato solo Michel si accorse di aver perso la voglia di lavorare e di farsi stressare dal fatto che suo padre sarebbe stato presente alla riunione che stava preparando. Seguì quindi la voce del violino.

“Bach?” Chiese quando entrò. “Non ti ho mai sentito suonare Bach.”
“Lo faccio solo quando sono incazzato, gli italiani non sono adatti.” Sbuffò Emil con il violino ancora tra spalla e mento. Accarezzò le corde accennando un motivetto senza importanza. “Non voglio davvero licenziarmi.” Aggiunse anche se non gliel’aveva chiesto. Aveva il suono di una confessione però e quindi valeva la pena ascoltarla. “Quel deficiente non si saprebbe allacciarsi le scarpe senza il sottoscritto!”
“Ci credo.” Lo blandì sedendosi sul divano e cercando il portasigarette da tavolo. “Succede spesso che ti rovini le serate?”

“Di continuo!” Sbottò riponendo con cura lo Stradivari nelle propria custodia e buttandoglisi accanto. “Ha l’istinto di conservazione di un fottuto salmone!”
Michel ridacchiò, accarezzandogli la gamba mentre una stilla di gelosia lo pungeva senza che potesse evitarlo, neppure razionalmente. “E nonostante questo, non vuoi licenziarti.”
“Non è che non voglio, non posso.” Tirò un lungo sospiro, fregandogli la sigaretta accesa e dandogli una tirata. “Non finché … beh.” Assunse un’aria infastidita. “… non finché non avrà trovato qualcun altro disposto a fargli da babysitter. Non posso piantarlo, capisci?”

Meglio di quanto tu non creda. Vedesi Al e il periodo senza Tom.   
“Questo sembra più il compito di una ragazza.” Osservò e seppe di aver detto troppo quando l’altro inarcò le sopracciglia perplesso.
“Non me lo farei neanche con un bastone, maghetto.” Ghignò con aria divertita. “Tu te lo faresti un tipo così?”
“Mi è stato detto che alcune persone lo ritengono … interessante.”
“Sì, per chi ama fare la crocerossina.” Continuava a contemplarlo come se lo trovasse estremamente spassoso. “Non me lo sono scopato, se è questo che pensi e soprattutto … non me lo sto scopando adesso.”

Eccellente, hai sbandierato la tua gelosia. Bravo.
“Non intendevo questo.” Replicò stizzito riprendendosi la propria sigaretta e scostandosi con tutta la dignità di cui era capace. “Non puoi negare che abbiate un rapporto molto stretto. Un semplice collaboratore non avrebbe le premure che hai tu.”
Emil si strinse nelle spalle. “Mi ci sono affezionato.” Spiegò. “Non che gli darò mai la soddisfazione di dirglielo … ma è una delle poche persone a cui affiderei la mia vita. È l’unico mago…” Fece una pausa. “… l’unica persona che mi ha dato una chance e che si è fidato di me da … tempo. Forse perché per certe cose pare nato sotto un cavolo … ma il fatto rimane.” Quasi si fosse accorto di aver detto troppo incrociò le braccia al petto in una posa difensiva. “E poi se crepa rimango senza lavoro.”

Il ragionamento aveva senso, ma c’era un punto che doveva chiarire. “Non è più l’unico però, no? Che si fida di te…”
Gli venne rivolto un mezzo sorriso. “No.” Ammise guardando ovunque che dalla sua parte. “Non è più l’unico.”
Di rimando gli sorrise, cercando lo sguardo e trovandolo finalmente nei pressi della vetrina degli strumenti. “Mi fa piacere che la cosa sia stata notata.”

Emil ricambiò con una smorfia ironica della sue. “Già. C’è anche un certo maghetto stronzo…” Lo afferrò per la cintura dei pantaloni e se lo tirò contro, praticamente sulle ginocchia. Non se ne lamentò. “…mi han detto sia pazzo di me.”
“Le chiacchiere della gente spesso son solo chiacchiere.”
“Ed ogni tanto?”

“Ogni tanto sono vere.” Forse fu per gli strascichi della sera prima, della sua confessione, forse perché, di nuovo, aveva azzeccato le parole giusta, ma quel bacio fu diverso. Più lento, quasi Emil volesse assaporarlo più che limitarsi a godere del semplice contatto tra labbra. Quando gli sfilò la maglietta notò per l’ennesima volta, passandoci le dita, le cicatrici sottili lungo al schiena e quella più fibrosa, sul fianco. Erano bianche, ormai, e segni più che solchi, ma trovò che quello fosse il momento giusto per chiedere. Poteva essere rischioso ma poteva anche essere un nuovo tassello da svelare.
Frequento troppi ex-Grifondoro.
“Come te la sei fatta?” Chiese toccando l’ultima, quella che gli sembrava meno recente, e quindi, forse, meno dolorosa.
Emil si irrigidì vistosamente, con le mani bloccate sulla fibbia della sua cintura. Lo sguardo però non gli si indurì, né cercò di divincolarsi. “Vecchia storia…” Si limitò a dire a fior di labbra. “… vecchia e noiosa.”
“Le storie che riguardano le cicatrici raramente lo sono.” Ribatté passandogli le dita sulla guancia con un’ombreggiatura di barba dorata. Non aggiunse altro, ma Emil non era uno stupido e aveva capito che quello che gli aveva raccontato la sera prima valeva un pegno di simil misura.

“Niente di tragico come pensi…” Sbuffò, con gli occhi che non guardavano lui ma un ricordo. “Ero piccolo ed io e i miei fratelli passavamo le estasi a sfidarci a fare la cosa più idiota, quando non eravamo impegnati a studiare. Saltai uno steccato di campagna ma presi male la rincorsa, era una palizzata vecchia e c’erano dei chiodi che sporgevano … il resto te lo puoi immaginare.”
“Dal segno sembrava una ferita grave.”
“Non drammatizzare, ero un marmocchio idiota.” Ghignò. “Ti ho rovinato l’idea che avevi di me, come piccolo e leggiadro angelo della musica?”
Michel scosse la testa, passandogli le dita trai capelli, facendogli inclinare la testa come un gatto soddisfatto; Emil non lo ammetteva, ma le effusioni che non coinvolgevano del sesso diretto gli piacevano quasi quanto il sesso stesso. “Sono stato bambino anch’io, e mi ricordo l’incapacità di valutare i pericoli di quell’età.” Replicò.
“Come, non eri un damerino giudizioso?”

“Lo ero, ma non lo erano i miei amici.” Ora che stavano parlando, non riusciva a limitarsi nelle domande. “Quanti fratelli avevi?”
Emil stavolta non mostrò il minimo fastidio alla domanda, più occupato a godersi le sue carezze. Forse era vero che aveva passato una nottata da incubo a causa di Prince. Forse voleva essere consolato.
“Cinque.” Mugugnò. “Mio padre voleva una famiglia numerosa, tanto non avevamo terre o possedimenti per cui ci saremmo fatti la guerra … Essendo il fratello minore di tre non avrebbe ereditato un accidenti dai miei nonni.” Aprì un occhio. “Da bambini sembravamo i protagonisti di quel musical imbecille … tipo, Tutti Assieme Appassionatamente?”
“Mai visto.”

Gli piacciono i musical?
“Biondi e con nomi del cazzo.” Spiegò succinto. “Dovevi vedere alle feste comandate, con l’assemblea di parenti … Ci ammaestrava come tante scimmiette.” Fece una smorfia. “A ben pensarci, non solo alle feste.”
“Ma a te piaceva suonare.”
“Sì, ma non a tutti i miei fratelli piaceva farlo quanto lo facevo io … Non eravamo tutti enfant prodige.”
“C’eri tu e …”
“Mia sorella, Elise. Lei suonava … suona, credo … il piano.” Da come si adombrò capì che non era il caso di andare a parare proprio lì. Di fratelli non ne aveva mai capito molto, nonostante e soprattutto Dirk.

“Quando hai iniziato a studiare?”
“Non me lo ricordo.” Mormorò guardandolo appena; aveva la testa da tutt’altra parte, persa nella propria memoria. “Nella mia famiglia appena eri abbastanza grande da aver presa sulle dita ti mettevano uno strumento in mano.” Aggrottò le sopracciglia, mentre lo sguardo gli andava di nuovo alla vetrina degli strumenti. Probabilmente neppure si accorgeva di farlo, come quando metteva le mani in tasca.
“Famiglia di musicisti, vero?” Ricordava di aver letto un articolo in merito, quando ancora cercava informazioni su di lui senza averle di prima mano. “Suonavate tutti il violino?”
“Una fottuta dinastia più che altro… E comunque no, vari strumenti. Decideva mio padre.”
“Quindi hai iniziato a studiare violino…”
“… per caso, sì.”
“Un caso fortunato.” E lo era stato davvero. Talmente fortunato che nonostante le sue sfortune, Emil non aveva mai smesso di coltivarlo.

Forse è tutto quello che gli resta della sua infanzia.
“Sì, boh … forse.”
La conversazione stava volgendo al termine dall’impazienza che percepiva nella voce dell’altro, quindi lasciò che gli sfilasse la cintura. Con sua sorpresa, Emil riprese a parlare.
“Non li vedo da un decennio buono … e non so che fine abbiano fatto.”
“I tuoi fratelli?” Intuì premurandosi di mantenere un tono leggero.

“Dei miei fratelli non me ne fotte un cazzo.” Sbottò, la linea della mascella tesa, dura. “Quando sono stato dichiarato Magonò dal Ministero, con tanto di lettera, si sono dimenticati il mio nome insieme alla colazione della mattina.”
… ed è per questo che non risponde più quando lo chiamano Emil.

Gli stava parlando di sé, finalmente. A forza e con l’aria di chi si stava cavando un dente, ma lo stava facendo. Non voleva che smettesse. “Tutti?”
“No, non tutti.” Chiuse la comunicazione con un bacio, che sembrava più intimargli di tacere che altro.
Quando si staccarono, e il fiatone indicava quanto fosse stata una lotta, Emil appoggiò la fronte alla sua e sospirò con l’aria di una persona che si era ormai rassegnata. “Impiccione.” Borbottò a mezza bocca. “Sei soddisfatto dell’interrogatorio?”
Una confessione per un’altra.
“Sì.” Ammise cercando di non suonare troppo compiaciuto. “E grazie.”
Emil rispose con una smorfia, così vicino che la distanza era più simile ad un bacio che al voler parlare. “Mi fido di te, Michel, vedi di non farmi stronzate…” Sussurrò, così piano che se non fossero stati a quella distanza forse non l’avrebbe forse sentito. E non solo: era la prima volta che pronunciava il suo nome senza volerlo sfottere o sdraiare su un letto. Il cuore gli schizzò in gola e maledì Albus per non averlo avvertito di quant’era spaventoso, essere innamorati.
 
****

Londra, San Mungo.
Mattina.
 
Bobby non vedeva l’ora di tornarsene a casa; avendo trascorso tutta la notte a cercare John Doe per i cunicoli bui e umidi della metropolitana aveva un robusto bisogno di una doccia bollente e di un letto morbido in cui riposare le sue stanche membra da auror che-non-avrebbe-dovuto-essere-in-servizio.
Quel piacere tra l’altro gli era stato già brutalmente sottratto, allorché il sergente Gillespie l’aveva intercettato di ritorno dalla ricerca sotterranea in questione.  
Sono stato l’unico a tornare al Dipartimento per il rapporto. Il Sergente Weasley è tornato a casa, Jimmy era al San Mungo, Sy sempre a casa e pure sbronzo … Indovinate con chi se l’è presa.
Non è stato piacevole.
Si era preso una ramanzina coi fiocchi, e non aveva potuto neppure evitarsela dato che, in sostanza, l’americana aveva ragione.
L’abbiamo tagliata fuori.
E cosa c’è di peggio di una strega incavolata?
Aveva quindi dovuto accompagnarla fino al San Mungo, dato che voleva sincerarsi delle condizioni di Prince: se n’era appena andata e lui, finalmente, poteva Smaterializzarsi direzione casa.
“Bobby!”
… le ultime parole famose. Cosa c’è di peggio di una strega incavolata?

Una strega ansiosa.
Lily, perché della sorella di James si trattava, quasi lo placcò contro la vetrina piena di brutti manichini. “Sören!” Gli  gridò come se questo dovesse spiegare tutto.
“È dentro!” Riuscì a dire, indicando vago dietro di sé. “Sta bene!” Aggiunse alzando le mani in segno di resa.
“Ah!” Sbottò ansimando, con il viso pallidissimo forse dato una Materializzazione troppo vivace. Notò che aveva anche gli occhi lucidi. “Ah…” Ripeté assimilando l’informazione. Fece un sospiro di sollievo e poi lo squadrò con sospetto incomprensibile. Sul serio, aveva smesso di cercare di capire l’universo muliebre in generale, ma quelle come Lily Luna erano tutta un’altra categoria. Non erano incomprensibili, erano proprio cifrate.
“Può ricevere visite?”
Riportò l’attenzione sulla conversazione. “Che io sappia, sì … ma non credo sia il caso.” Tentò, ricordando cosa gli avevano detto i Guaritori.  
“Che vuol dire?” Era chiaro che non sapesse nulla di cosa gli era capitato, non nello specifico almeno. “Sta bene o no?”
“No, è …” Si strinse nelle spalle, ed adottò il saggio atteggiamento di lavarsene le mani. “È complicato da spiegare.” Le sorrise perché non si poteva non  sorridere alla sorella carina di Jimmy. Anche se lo stava quasi strangolando dato che lo teneva per il mantello. “Non credo che voglia ricevere visite, capisci?”
“No, per niente.” Aggrottò le sopracciglia. “Ma non è una cosa grave, vero? Perché non sei preoccupato.”
“No, non lo sono.” Confermò cercando di mascherare il divertimento. La sapeva più lunga di così. “John Doe l’ha drogato.”
“… drogato?”

“Gli ha iniettato un narcotico Babbano … una droga.” Spiegò stringendosi nelle spalle. “Ha più senso così?”
Lily inarcò le sopracciglia guardandolo stupefatta. “È … drogato?” Realizzò di colpo. Mascherò una risata in uno spasmo delle labbra, piccolo e involontario. “Sören è strafatto?”
“Mi sa di sì.” Non poté fare a meno di ridacchiare, scusandosi silenziosamente con il tedesco per aver capitolato al codice di riserbo causa lesione della dignità che intercorreva tra agenti. “O almeno così dicono i Guaritori. Dicono che gli passerà nelle prossime dodici ore. A quanto pare le dosi non erano calibrate bene per un mago e poi aveva anche bevuto. Se si mischiano l’alcool e le droghe Babbane…”
“Sì, lo so.” Annuì scuotendo la testa. Sembrava indecisa sul da farsi. “Quindi non corre nessun rischio … di salute intendo.”
“No, pare di no.” Confermò. “L’unico rischio che corre è quello di vedere il suo orgoglio leso. Te l’ho detto, non è molto in sé … chiacchiera un sacco e … uhm. Sorride.
“Oh … ah.” Capì e un sorriso che poteva solo definirsi come monello le dipinse le labbra. “Beh, non sarei una buona amica se non andassi a fargli visita. È su un letto d’ospedale dopotutto!”
Era leggendaria la capacità di stuzzicare della sorellina di Jimmy, e Bobby si sentì dunque in fraterno dovere di dir qualcosa. Di provare a mitigarla, perlomeno, anche se era noto quanto quell'esercizio fosse sterile. “Vacci piano o quando si riprenderà vorrà sotterrarsi.”
“Non preoccuparti!” Gli diede una pacchetta sulla spalla, voltandosi verso i manichini con l’aria di chi non l’aveva ascoltato neanche per sbaglio. “Qual è il reparto?”

 
 
La situazione era diventata da preoccupante a … meno preoccupante.
Avrebbe voluto sorridere di Sören steso da un sedativo Babbano, ma non riusciva a dimenticare chi era stato ad iniettarglielo: John Doe.
Meglio affrontare una preoccupazione per volta.
Prima di tutto doveva andare a controllare che l’amico non avesse bisogno di niente; se l’avevano spostato al terzo piano, nel reparto Avvelenamento da Pozioni e Piante, era matematicamente certo che l’avrebbe trovato in totale balia di sé stesso.
I Guaritori là sono sempre occupatissimi … È incredibile quanta gente sia totalmente incapace a Pozioni e confidi comunque nel fai-da-te!
Arrivata salutò i due Auror della scorta con un sorriso – non c’era bisogno si identificasse, essere la figlia del capo pagava in quei casi - e bussò alla porta della stanza: nessuna risposta.
“Starà dormendo.” Informò i due Auror in tono professionale. “Do un’occhiata per vedere come sta.” E decise di entrare. “Ren?” Lo chiamò varcando la soglia: la penombra della stanza la infastidì. Non c’era abituata dato che al reparto Thickley le finestre erano sempre incantate per riflettere un’assolata giornata primaverile. Faticò infatti a distinguere la sagoma dell’amico, stesa sull’unico letto occupato. “Ehi…” Lo chiamò piano. Stava davvero dormendo?
Non stava dormendo , dato che si voltò ed aprì gli occhi. “… Lily?” Tentò con voce rauca di chi si era svegliato da poco.
“Ehi, Ren…” Salutò sedendosi ai piedi del letto; al di là dell’aria rintronata e le tempie umide di sudore aveva un colorito sano e il respiro regolare. Era un buon segno.
Per avere ulteriori conferme appellò la cartella e vi diede un’occhiata sommaria: non conosceva molti dei termini sopra riportati, non era una Guaritrice, ma in generale sembrava che la prognosi fosse buona. “Come ti senti?”
“Stanco…” Mormorò con la voce impastata mentre gli occhi vagavano da un lato all’altro della stanza, quasi cercasse qualcosa senza trovarlo. “… mi ha drogato.” Attestò con tono stupito che la fece sorridere. “Te l’hanno detto?”
“Mi hanno accennato qualcosa, sì.” Confermò accarezzandogli una mano e trovandola un po’ troppo fredda per i suoi gusti. “A parte la stanchezza, tutto in regola?”
“Mmh, sì…” Sören assunse un’espressione vagamente sognante: quello doveva aver inteso Bobby quando aveva detto che non era in sé. Il sorriso che aveva in bocca non aveva niente a che vedere con le timide contrazioni di labbra con cui di solito omaggiava la gente. “Ho caldo, e sete.”
“Sono gli effetti del sedativo.” Gli versò un bicchier d’acqua, rincuorata dalla loquacità e dal fatto che riuscisse a dire cose tutto sommato sensate. “Su, bevi.”

Sören obbedì docile, lasciandosi tirare a sedere e trangugiando tutto di un fiato, poi sospirò. “Non mi sento tanto bene…”
“Lo so tesoro, devi avere pazienza, presto starai meglio.” Lo aiutò a mettersi comodo trai cuscini accarezzandogli una guancia ombreggiata di barba: quando gli sarebbe ricapitato di poterlo coccolare con tanta leggerezza? Non era onesto, ma neppure così terribile approfittarne.  

E poi è così carino così perso!
… dannato il mio istinto da chioccia!
Sören non le rispose, ma la guardò con improvvisa attenzione. “Lilian…” Scandì lento, come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza. Poi sorrise di nuovo catturando una ciocca dei suoi capelli tra le dita. “Bellissima Lilian… sei qui.”
Ridacchiò, lasciandolo fare perché era evidente che stava facendo un viaggio nella propria testa e che non era destinato a finire a breve. Le aveva risposto in maniera sensata, ma doveva essere stato un caso.

“Sì, mio affascinante Ren, in persona.” Replicò, lasciando che giocherellasse rapito con i suoi capelli. Non era imbarazzata da quell’improvvisa vicinanza,o dal fatto che la guardasse come l’incarnazione di Morgana: del resto non si comportava molto diversamente da alcuni suoi pazienti, tipo Allock.
“Facciamo un po’ di luce in questa stanza?” Gli chiese Appellando un fazzoletto dal comodino e asciugandogli i capelli sudati. “È una bellissima giornata, neppure una nuvola!”
“Sì …” Fu la risposta distratta. “… quando la luce ti colpisce … i tuoi capelli sembrano come fiamme che danzano.” Aggiunse aggrottando le sopracciglia. “Mi piacciono, mi sono sempre piaciuti.”
“Grazie.” Gli ravviò ciocche di capelli con le dita, dato che rischiavano di finirgli negli occhi. “Direi che la droga ti ha reso un poeta, ma so che anche normalmente sei così.”

Aprì quindi le cortine delle finestre e fece filtrare la luce del mattino: non era brillante come nell’ala Thickley ma era molto meglio della penombra in cui erano stati immersi fino a quel momento. “Meglio vero?” Chiese voltandosi verso di lui. Distolse lo sguardo, perché l’altro non stava prestando la minima attenzione alla finestra, ma continuava a contemplarla come se fosse la cosa più interessante al mondo.
Okay, ce l’ha sta cosa di fissare, sempre avuta. Rilassati.
Era profondamente sbagliato pensare a quello che le aveva detto Roxanne la sera prima. In quel momento era molto sbagliato.
È strafatto. Guarderebbe così anche Jamie.
Non è lo sguardo di un uomo innamorato, brutta cretina.
… Morgana, Roxie, ti odio.
“Hai fame?” Chiese con tono fin troppo allegro. “Ti vado a prendere qualcosa in caffetteria?” Fece per alzarsi ma Sören scattò a sedere, la afferrò per le braccia e la bloccò. Non era una presa ferma, dubitava potesse stringere con forza alcunché in quelle condizioni, ma ebbe comunque il potere di inchiodarla sul posto.
“Sören.” Disse in tono di avvertimento: non le piaceva essere afferrata in quel modo e l’amico lo sapeva.
Non lo sa adesso. Non prendertela con lui.
“Scusa.” Bofonchiò lasciandola subito e palesandole il contrario. “Ma non andare via.” Aggiunse smettendo di sorridere. “Là fuori … là fuori non puoi andare. È pericoloso.”
“Fuori dalla stanza?” Chiese rifugiandosi nel suo ruolo di Psicomaga. “C’è la tua scorta, siamo al San Mungo … Sono al sicuro, okay?” Continuò accarezzandogli la nuca: un approccio materno rassicurava i pazienti agitati e questo era Sören adesso. Un paziente. “Tesoro, Doe non può farmi del male qui. Su, stenditi un po’.”
L’altro la ignorò, stingendo la presa angosciato: nonostante tutto continuava a non fare male. Anche non in sé riusciva comunque a toccarla con riguardo. “Non andare dove non posso proteggerti.”
Inspirò appena, ricacciando il magone che le salì prepotente alla gola. “Okay…” Sospirò prendendogli le mani e stringendogliele. Erano un po’ più calde adesso. “… resto.”
Sören parve rassicurato perché le sorrise di nuovo e scivolò steso chiudendo gli occhi. “Bene.” Disse. “Non sono riuscito a fermarlo … scusa. Ma se sei qui …”
“Lo fermeremo assieme.” Gli accarezzò una spalla. Nonostante la confusione, Sören aveva ragione su una cosa. Era quello il posto in cui doveva stare. “Ci copriamo le spalle a vicenda, giusto? Se solo prova a avvicinarsi di nuovo a te gli affatturo il sedere!”

L’amico fece un sorrisetto un po’ più ironico e meno sognante. “Quando ti arrabbi fai paura, mia Lilian…”
“Giuro che lo faccio.” Ridacchiò, ignorando il suffisso possessivo. Era strafatto, era un paziente. Non significava niente.
Chiaro Roxie?
Calciò via le scarpe e incrociò le gambe per ritagliarsi un doveroso spazio sul letto dato che a quanto pare sarebbe stata lì per un po’. Sören osservò tranquillo l’operazione e poi, senza colpo ferire, le passò un braccio attorno alla vita, tirandosela ancora più vicino. “Stai qui.” Ripeté con un sorriso felice.
Paziente. Paziente.
Perché si vedeva lampeggiare disperatamente quella parola davanti? Forse perché non aveva tanto senso.
Da quando permetti ad un paziente di toccarti così? Eddai.
“Dov’è Ama?” Si sentì un idiota non appena ebbe pronunciato quel nome: non voleva che l’altro se la ricordasse nel suo delirio affettuoso. Non voleva che gliene parlasse.
“È passata a trovarmi prima… È stata gentile, sembrava preoccupata.” Disse battendo le palpebre come se cercasse di scacciare il sonno. Per un momento sperò che si addormentasse davvero. Invece continuò. “È bella, è intelligente…”
Ci siamo.
“Ti piace, eh?” Serrò le labbra. Le morse a dirla tutta. Ma se si aggrappò con una mano al camice dell’altro fu invece puro caso.
“Sì, credo … ma non sono innamorato di lei.” Era profondamente sbagliato gioirne selvaggiamente. Di certo. Ingoiò un sorriso e lo osservò annuendo con quieta partecipazione.
“C’è tempo per quello, sai … non è che ci si innamora subito.”
“È quello che dice anche Dionis, ma io gliel’ho detto…” Era la voce di chi stava per sprofondare nel sonno, ma tuttavia si sforzava di tenere gli occhi aperti e Lily si trovò ad ascoltarlo sperando sia di vederlo crollare che di vederlo continuare. “… che non è lei che amo, ma lui dice che devo provare…”

Sören sembrava tormentato adesso, e non sarebbe stato giusto negargli del conforto. Era una brava Psicomaga, lei. O almeno ci provava.
Gli strinse una mano. “A fare cosa?”
“A dimenticarti.”
Realizzare qualcosa di solito veniva dipinto come una lampadina che si accendeva in testa per i Babbani, e un Lumos che appariva per i maghi.

Lei vide tutto bianco. Ma non bianco illuminazione gloriosa. Bianco panico. E poi gioia, terrore, confusione e trionfo.
E paura, di nuovo.
Erano cinque anni che non si sentiva a quel modo e non credeva ci si sarebbe sentita mai più. Ne voleva ancora.
“Dimenticarti di me?” Doveva chiudere il becco, stare zitta, che non era giusto fare domande del genere con la schiacciante probabilità che chi rispondeva non si sarebbe ricordato nulla il giorno dopo.
Ma era una codarda, lo era sempre stata, e non riusciva a fermarsi. “Perché ti vuoi dimenticare di me?”
Avrebbe dovuto ricordarsi che i codardi non ideavano mai a dovere i loro piani: le emozioni si mettevano in mezzo e rovinavano tutto.
Sören aprì gli occhi e la guardò, e Lily, che lo toccava ed era troppo fuori fase per mettere il bavaglio ai propri poteri, vide. Amore, paura, desiderio, gratitudine, gelosia, speranza. Amore. Tutto il pacchetto.
Mi ama.
È innamorato di me.
Sapeva benissimo cosa veniva dopo ma non fece niente per fermare Sören quando si alzò a sedere – da solo stavolta – e le passò il pollice su una guancia. E la baciò.
Oh, se la baciò. La sete non gli aveva reso le labbra secche, né la bocca arida. La baciò perché aveva sete e dubitava c’entrasse qualcosa l’acqua. Sapeva di colonia e d’erba medica e la leggera barba della notte le pizzicò il viso.
Si ricordò troppo tardi che non avrebbe dovuto ricambiare. Quando lo fece, ignorò l’urlo proveniente dal suo intero essere e si staccò di colpo. “Ren, no … Okay? Non … no.” Balbettò come se avesse ricevuto un colpo in testa. Forte.
Ferma. Che diavolo stai facendo?!
Doveva riprendere in mano la situazione, lei, perché l’altro era fatto come una zucchina e non rispondeva di sé.
Però i suoi sentimenti sono veri.
… una cosa alla volta. Dannazione. Una cosa alla volta.
“Non stai bene, non sai cosa stai…”
“Ti sto baciando.” Replicò con calma surreale e non ebbe bisogno di indagare con i suoi poteri, perché aggiunse. “Ti voglio per me.”
Oh, dannazione.

“Sì … io…” Inspirò. “… Ren, ho un ragazzo, te lo ricordi?” Tentò di riportare la conversazione su un piano ragionevole. L’euforia del momento, gli ormoni impazziti erano una cosa, Scott e i suoi doveri verso di lui erano un’altra.
Non l’hai neanche richiamato stamattina. Tu te lo ricordi?
Il senso di colpa fu un secondo colpo, stavolta allo stomaco, e le diede la nausea.
Lui ti ha baciato… ma tu gli hai risposto. E quella mano trai capelli? E la lingua?
Brutta deficiente.
La guardava confuso, ed era chiaro che lo fosse, perché era il risultato di un sedativo. Ragionare con lui era sensato come tentare di ragionare con Gilderoy o con Alice. Le veniva da piangere.
Eri tu che dovevi tener sotto controllo la situazione. E guarda che hai combinato.
“Ne riparliamo…” Mormorò sorridendogli e tentando di non scoppiarci davvero, in lacrime. L’avrebbe spaventato, e non voleva. “Ne riparliamo quando starai meglio. Adesso ti devi riposare, fa’ il bravo…” Gli mise una mano sul petto e lo costrinse a stendersi di nuovo. Era debole come un bambino.
Perché ha utilizzato tutte le sue energie per baciarti. E tu dovevi usare le tue per respingerlo.
Non per ricambiarlo e quasi violentarlo. Imbecille. Idiota.
“Lily…” Tentò. “… scusa.”
Oh, no. No, no, no…
Scosse la testa soffocando un singhiozzo isterico. Non ci capiva più niente e voleva andarsene. “Non è colpa tua, okay? Non sarà mai colpa tua…” Ripeté. “Dormi, va bene? Riposati.”
Mentre io raccolgo con il cucchiaio i resti della mia sanità mentale.

Sören stavolta le obbedì, anche perché tutto quel parlare e muoversi doveva avergli prosciugato ogni forza. Scivolò nel sonno nel giro di pochi attimi e fu così finalmente libera di darsela a gambe.
 
 
****
 
Casa di Roxanne e Dionis Radescu.
Pomeriggio.
 
Roxanne entrata a casa fu accolta dall’odore di cibo cucinato, odore di pulito e ordine.
Stralunata, visto che le cose non erano andate precisamente in quella direzione nell’ultimo periodo, percorse il lungo corridoio che portava fino alla cucina, sperando di trovare il marito ai fornelli, dato che era una delle sue insospettabili passioni dopo i film comici Babbani.
“Dion!” Lo chiamò senza osare mettere piede in cucina per paura che Alexandra fiutasse il suo odore – la piccola bestiolina – e reclamasse attenzioni con un vivace pianto.
Come tutti gli Weasley, ha ottimi polmoni.
Dragoste, sono qua!” Replicò mettendo la testa fuori dalla porta. “Alex non è qui, è di là che dorme.” Disse decifrando la sua espressione.
Batté le palpebre incredula. “A quest’ora?” Un dubbio si fece spazio nella sua meraviglia. “Le hai dato una pozione Sonnifera?”

Il compagno scosse la testa divertito. “C’è Lily.” Disse invece. “È venuta a trovarci.” 
Dionis sembrava riposato, ma al tempo stesso inquieto, come se si aspettasse l’esplosione di un ordigno da un momento all’altro. “E perché?”

Questo si strinse nelle spalle, asciugandosi le mani in uno strofinaccio. “Non gliel’ho chiesto … non aveva la faccia di una persona che voleva domande.” Aggiunse saggio come l’aveva conosciuto e come sarebbe sempre stato.
“Avrà una delle sue paturnie.” Liquidò la faccenda, dato che era sicura che non fosse così semplice e proprio per questo non voleva coinvolgere il marito. “Sei riuscito a preparare qualcosa di caldo per stasera che non sia riscaldare la roba di nonna Molly?”
Dionis annuì con aria soddisfatta. “Ben due portate!” Annunciò con lo zelo di chi sapeva di aver fatto un buon lavoro. “E ho anche fatto la spesa. Per una settimana.”
“Dovremo obbligarla a servirci come un Elfa per i prossimi cinque anni di Alex.”
“Oppure dovremo prendere una babysitter.” Suggerì per circa la milionesima volta, salvo alzare le mani in segno di resa. “Dragoste farsi aiutare non è un delitto!”

“Lo è per le donne della mia famiglia.” Replicò sostenuta. La aborriva l’idea di lasciare nelle mani di estranei la gestione della sua casa, per quanto le loro cospicue finanze familiari potessero permetter loro un esercito di persone al loro servizio.
Sarò un’ereditiera di una fortuna basata sugli scherzi magici, ma qui non scherzo. È il sangue di nonna Weasley che si manifesta.
Nel frattempo l’opzione Lily, quando la sciagurata non spariva nel nulla siderale delle sue pene d’amore, era un buon compromesso.
“Della babysitter ne riparleremo.” Concesse accarezzandogli una spalla e baciandogli l’angolo delle labbra, perché era il suo bravo e solido soldatino e senza di lui si sarebbe già ridotta ad una versione Infero di sé stessa. “Piuttosto, ricordati che Lily non sopporta il piccante.”
Dionis la guardò sorpreso. “Come sai che mangia qui stasera?”

“Come so che il vino che abbiamo in tavola l’ha portato lei. È la Rossa, è prevedibile come un eclissi di sole.”
Dionis annuì con l’aria di chi non aveva capito nulla e di esserne ben felice. “Stappo il vino.”
“Bravo ragazzo.” Lo lodò rubandogli un altro bacio prima di rispedirlo in cucina con una pacca sul sedere che questo accettò con un sogghignetto per niente leso nella sua dignità mascolina.
Dovevo andarmelo a prendere in Romania, ma alla fine l’ho trovato, un uomo vero.
… a proposito di uomini, e maghi…
Era chiaro che l’adorabile cuginetta rosso crinita aveva combinato qualche casino con queste ultime due categorie se si era rifugiata nella stanza di una neonata. Di una neonata dal pianto infernale per giunta.
Che casino ha combinato stavolta?
Lily aveva un gran cuore, ed era proprio quello il problema: ne aveva così tanto che usava solo quello, fregandosene di avere un cervello che, quando voleva, funzionava pure.
La peggiore nemica di Lily era Lily stessa, con la sua impulsività che la trascinava in situazioni improbabili dove non sapeva cosa e chi voleva.
Certo, fin’ora non ha inferto ferite, tranne quelle che si porta addosso. Ma adesso…
C’erano due ragazzi nel mezzo, adesso, due maghi in gamba; la posta si era alzata.
La trovò sulla sedia a dondolo regalata da nonno Arthur mentre cullava una dormiente – o svenuta – neonata. Canticchiava qualcosa a bassa voce, una canzone moderna o una vecchia ninna nanna imparata alla Tana. Non che avesse importanza: cantava per pensare ad altro, era palese come la pioggia leggera che picchiettava sui vetri.
“Beh?” La apostrofò brusca facendola sobbalzare. Alex fece una piccola smorfia di disappunto, ma Lily fu lesta a cullarla e farla tranquillizzare di nuovo.
Poteri da LeNa o meno, ce la incateno qui dentro, giuro.
“Ehi.” Abbozzò un sorriso fiacco. “Sono venuta a vedere mia nipote … o quel che è.” Aggiunse incerta. “È così carina.”
“È un Acromantula Disillusa, altro che.” Replicò senza lasciarsi intenerire dall’aria quieta e disponibile dell’altra. “Che cavolo hai combinato?”

“L’ho fatta addormentare?”
“Non intendevo quello.”
Ultimamente tutte le nostre conversazioni si aprono così.
Lily arrossì, come sempre faceva quando si rendeva conto di essere in terribile errore ma si vergognava troppo per ammetterlo. “Niente … sono … te l’ho detto il motivo per cui sono venuta!” Esclamò sulla difensiva. “Non fai che dirmi quanto tu e Dion dormiate poco e che non riuscite a pulire la casa e…”
“Poche balle.” Tagliò corto. “Mi hanno detto di Sören. Sei andata a trovarlo, cos’è successo?”

 
 
Raccontare i suoi casini a Roxanne era sempre stata un po’ come andare in terapia: non dal punto di vista medico, per quello aveva la Patil.
È che non poteva raccontare alla sua mentore le sue convulsioni sentimentali, mentre dirle a Roxie per lei era naturale come respirare.
L’espressione della cugina però in quel momento era poco invitante, e fece fatica quindi a finire di raccontare cos’era successo.
Anche se non posso certo spiegarti com’è stato baciarlo o come mi sono sentita quando mi ha stretto a sé e quanta fatica ho fatto a staccarmi e dirgli di lasciarmi.
Aveva sempre ritenuto Sören un ragazzo attraente, anche cinque anni prima, quando era troppo magro e aveva i lineamenti spiritati. Non era solo una questione di aspetto…
Era piuttosto una questione di mani, che l’avevano accesa come un fuoco d’artificio, di quella bocca che, diavolo, chi l’avrebbe mai detto che era capace di baciare così … di quegli occhi mozzafiato e dell’odore della sua pelle, che profumava di colonia agrumata e tabacco. Era tutto quello che le aveva fatto perdere la testa nonostante fosse stata quella sobria dei due.
Quei baci non se li sarebbe potuti dimenticare più.
“Quindi vi siete baciati.”
“L’ho baciato … Non puoi considerare quello che ha fatto lui, non era in sé. Non so neanche se si ricorderà qualcosa domattina…”

Roxanne assunse l’espressione di chi stava trattenendo un ceffone, quindi vigliaccamente si fece scudo con Alexandra stringendosela al petto. “Rossa, non fare la scema! Dopo quello che è successo ancora pensi…”
“No, ho capito che Sören è innamorato di me.”

Ed era quella la cosa peggiore, perché essere ricambiata era peggio che essere non corrisposta.
Perché ecco, adesso sono davanti ad una scelta. E stavolta sul serio.
Roxanne era in piedi, come un giudice silenzioso e fin troppo giusto. “Sei pentita?”
La mia buona coscienza…
Scostò una ciocca di capelli dalla testolina quasi glabra di Alex. Adorava i bambini, perché da loro non poteva leggere niente. Ancora troppo piccoli, ancora troppo innocenti. “… No.” Mormorò ma era come urlarlo in mezzo a Trafalgar Square. “No, Merlino Benedetto, no. Lo rifarei altre cento volte.”
“Quindi?”
“Quindi non ne ho idea!” Sbottò, abbassando subito la voce quando sentì piagnucolare la piccola. Avere un bambino in braccio era un buon esercizio per tener sotto controllo i nervi. “Non … c’è Scott, e va bene, devo parlargli visto che ormai c’è tutto questo casino con Sören, ma mi sento uno schifo, lui…”
“Beh, dovresti sentirtici comunque visto che hai baciato un altro.”
Grazie.
Le lanciò un’occhiata velenosa a cui l’altra rispose con un’inarcata muta di sopracciglia che esprimeva esasperazione, disapprovazione e il sempiterno desiderio di prenderla a calci. Roxanne forse era troppo bianco-e-nero nei rapporti interpersonali, per lei un tradimento costituiva un delitto che non si lavava neppure con il sangue…

Però ha ragione. E sì, il suo biasimo me lo merito.
Reclinò la testa contro lo schienale di vimini della sedia. “È che con Sören … come faccio? Siamo così incasinati io e lui, e … c’è … ne abbiamo parlato, avanti!” Sbottò cercando di trovare un parere, un segno di una via di fuga sul volto di pietra della cugina. Non ne trovò, perché non c’era più via di fuga.
“Ho paura.” Ammise buttandolo fuori come se fosse un macigno. Lo era. “Ci abbiamo impiegato così tanto a tornare amici, non …” Si bloccò perché le stava venendo un magone alla gola e mettersi a piangere non avrebbe certo migliorato la situazione. Inspirò e riaprì gli occhi. “Non voglio perderlo. E se mi sbagliassi, se non fosse amore quello che proviamo, ma solo un attaccamento fisico dovuto…”
“Per quanto stai da cani, Rossa, a me pare proprio quello.”

“Devo prendermi un paio di giorni di pausa da Ren.” Decretò. “Devo dedicarmi a Scotty, capire se voglio fare quel viaggio in Australia … se voglio stare ancora con lui.”
Roxanne la omaggiò di uno schiocco di labbra scettico. “Certo, perché ha funzionato così bene la lontananza tra di voi…”
“Puoi non essere disfattista, per favore?” Si scaldò andando avanti e indietro sul tappeto soffice della stanza. Avrebbe finito per scavarci una trincea. “Sto cercando di trovare una soluzione!” Si ravviò per l’ennesima volta i capelli. “L’amore non dovrebbe essere così…”
“L’amore è anche così.” Roxanne scrollò le spalle e le prese Alex dalle braccia per metterla nella culla che poi incantò per dondolarla dolcemente e non farla svegliare. “Anzi, la maggior parte delle volte è tutto fuorché una passeggiata.”  

Le rispose con una smorfia passandosi le mani trai capelli, pensando che avrebbe dovuto lavarli quella sera; che si sarebbe dovuta lavare tutta, reinventarsi, diventare una persona diversa, migliore.
Né Scott né Ren si meritano i casini che sto combinando. Cavolo, devo darmi una regolata.
Doveva parlare con il suo ragazzo, anche se non aveva idea di cosa dirgli.
“Non c’è un solo modo di amare, e nessuna storia è perfetta.” Roxanne guardò il suo anello di matrimonio pensierosa. “Alla fine dei giochi, però, conta la persona per cui decidi di fermarti e smettere di correre.” Fece una pausa, perché era sempre stata una tipa un po’ teatrale dietro i modi burberi. Adorava dir bene le cose. “Qual è la tua persona, Rossa?”
“Non potrei scegliere nessuno?” Si lamento nascondendo il viso tra le mani. “Non potrei, chessò, scegliere me stessa?”
Lo scappellotto che le arrivò non la trovò impreparata, tuttavia non reagì. “Quella è la prima cosa che devi fare, ovviamente.” La rimbeccò. “Ma in questo momento non puoi permetterti di fare solo questo … Quei due poveri ragazzi sono innamorati di te!”
“… lo so.”
“Allora parla con loro prima che la situazione ti sfugga di mano … più di quanto già non lo sia.” Alzò gli occhi al cielo. “Sta praticamente rotolando per le scale.”
“Come faccio?” Non aveva idea di come muoversi, perché per la prima volta in vita sua si sentiva il cuore spaccato a metà: come poteva sapere se Scott era l’uomo giusto per un futuro sereno o meno … e come poteva esser sicura che Sören fosse l’unica persona a poterla rendere completa?

Non ho certezze su nessuno, manco su di me. Messa così, come faccio a prendere una decisione?
Perché cinque anni prima aveva preso delle decisioni, ma non erano state quelle giuste.
Anzi, l’esatto contrario.
Forse aveva una deficienza congenita, un’incapacità cronica di fare la cosa giusta. Non le serviva quindi aiuto, una guida?
Roxanne non le diede il tempo di dir altro, la prese senza troppi complimenti per un braccio e la spinse fuori dalla stanza. “Avanti, fuori di qui prima che svegliamo Alex con i tuoi patemi!”
“Non voglio che …” Si morse un labbro e fece un passo indietro, dato che la cugina non si era ancora tolta gli anfibi e avrebbero fatto male se l’avesse presa a calci come prometteva la sua espressione. “… non voglio che soffrano.”
“Piantala di frignare, qualcuno finirà per soffrire comunque.” La portò fino in cucina, dove Dionis, sollecito ed elegante come un maitre, le offrì un calice di vino. “Puoi salvarne solo uno.”

… già.
Dionis le guardò incuriosito. “Di cosa state parlando?” La guardò preoccupato. “Tutto bene Lily?”
Oh, alla grande. Stiamo solo discutendo di un cavaliere par tuo che mi ha rapito il cuore … e del mio ragazzo che pensa di avere quel cuore al sicuro in valigia.
“Paturnie, ma abbiamo finito.” Tagliò corto Roxanne prendendo il suo bicchiere di vino e sorseggiandolo con gusto. “La Rossa ha bisogno di distrarsi, dalle la bella notizia.”
“Quale bella notizia?” Chiese perché aveva bisogno di ascoltarle una, qualunque fosse stata, persino la ritinteggiatura del salotto.
Dionis le sorrise con il calore di un neopadre e di un uomo che aveva la donna della sua vita accanto, tanto che le cinse la vita con tenerezza e le baciò la guancia. “Abbiamo finalmente deciso il padrino di Alexandra … il giorno del battesimo sarà la prossima settimana.”
“Oh, di già?”
“Più aspettiamo più la cosa diventa imbarazzante. Abbiamo ricevuto dei Gufi minatori da entrambe le famiglie.” Si inserì Roxanne. “Quindi abbiamo messo i nomi dei padrini in un bussolotto e ne abbiamo tirato fuori uno.”
“Ah!”
Dionis ridacchiò. “Ma no, per evitare di offendere i miei fratelli o i vostri cugini abbiamo semplicemente scelto un mago che fosse al di fuori dei circuiti familiari. In fin dei conti era l’unica scelta sensata…” Aggrottò le sopracciglia. “… alcune di quelle lettere erano folli.”

“È geniale!” Si sforzò di congratularsi con entusiasmo, perché se era un disastro con gli uomini non significava che le cose, per qualcun altro, non potessero funzionare meravigliosamente. “Io rimango la madrina, no?”
“Non vedo alternative, sei l’unica capace di ipnotizzarla.” Replicò Roxanne esibendo un vago sorriso indulgente, quasi l’avesse perdonata solo in virtù della sua bravura con gli infanti. “Vuoi sapere chi ti farà compagnia nell’addomesticare la piccola belva?”
Scrollò le spalle svuotando il bicchiere e godendosi la testa leggera. “Basta sia carino.”
Il sorriso di Roxanne si fece improvvisamente strano, quasi perfido.

Uh?
“Dion, tesoro, dille chi abbiamo scelto.”
“Abbiamo pensato a Sören.”
 

 
****
 
Note:

Beh, insomma, era anche ora, no?  Scusate per l'attesa, ma tra il lavoro e le feste, si sa, insomma. Tempo? No data found.
Lily è una deficiente, ma questa, signore e signori, non è esattamente una novità. ;D
Qui la canzone del capitolo. Old but gold. Enjoy!

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Capitolo 36
*** Capitolo XXXV ***


Capitolo XXXV




My war ships are lying off the coast of your delicate heart
And my aim is steady and true as it's been right from the start
(Little Hell, City and Colour)
 
23 Luglio 2028
Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale Magico San Mungo, mattina.

 
Sören si svegliò accecato dal sole che esplodeva fuori dalla finestra. Perché esplodeva, la cosa era fuori dubbio. Frastornato ricordò nebulosamente il motivo per cui era al San Mungo  e perché avesse la testa tanto pesante.
John Doe…
Doveva averlo conciato per le feste se ricordava solo pochi sprazzi di quell’incontro e aveva invece buio completo su tutto quello che era accaduto dopo.
Mi ha colpito con una … siringa? Si chiamano siringhe?
Aveva sete e quindi si voltò dove pensava potesse trovarsi il comodino: fu sorpreso quando vide una figura seduta accanto a lui: alta, con una macchia nerissima al posto dei capelli, era immersa nelle lettura di un libro.
Era Thomas, che si era allungato nella poltrona riservata agli ospiti per leggere e prendere appunti su un piccolo taccuino che teneva in bilico sul bracciolo.
Che ci fa qui?
La sorpresa fu tale che ci mise qualche attimo per trovare le parole adatte da rivolgergli. “Buongiorno.” Disse con la gola che gli pareva carta vetrata. “… acqua?”
Nessuna risposta. Gli ci vollero cinque minuti prima di accorgersi che aveva le cuffie e che non lo stava sentendo, e altri cinque perché riuscisse ad attirare la sua attenzione.
“Thomas!”
Finalmente alzò gli occhi contemplandolo con blanda sorpresa. “Ah, sei sveglio.”
Da quasi un quarto d’ora!

“Ho sete.” I convenevoli li aveva già esauriti prima e non aveva voglia di ripetersi. “Dammi da bere.”
Il cugino in compenso non si lamentò della sua scortesia, versandogli invece un bicchiere che poi fece Levitare fino a lui. Lo afferrò con mano malferma – che diavolo di droga aveva usato Johannes per ridurlo così? – e lo trangugiò come se non bevesse da mesi.  “Sei qui da molto?” Gli chiese brusco: essere ignorato era stato irritante, ma essere notato non era poi tanto meglio.
Non batte neanche le palpebre. Ne sono sicuro.
“Dalle otto di stamattina.”
Era troppo stanco per chiedergli perché diavolo avesse passato tutto quel tempo in sua esanime compagnia, così si sollevò sui cuscini per quel che poteva, dato che sentiva il corpo pesante come un sasso, e andò dritto al punto. “La mia diagnosi?”
“Ti hanno drogato.”
“Sì, questo l’avevo intuito, ma con cosa?”
Non avrebbe chiesto delucidazioni ad un civile qualunque, ma Thomas era il genere di persona che non veniva mai colta di sorpresa: gli avrebbe risposto.
“Le analisi che hanno mandato ad un laboratorio Babbano hanno rilevato benzodiazepine nel tuo sangue.” Disse infatti. “Una concentrazione che avrebbe steso un mago del doppio del tuo peso.”
“Rohypnol?” Ricordò da un corso di aggiornamento sui narcotici Babbani tenuto dal suo Ministero.  
“Potrebbe essere quello, sì.” Annuì. “Sui maghi non ha lo stesso effetto che sui Babbani. Il nostro organismo lo smaltisce più lentamente.”
Maledetto Johannes.
Fece una smorfia, passandosi una mano tra le ciocche dei capelli che gli piovevano sugli occhi. Si fermò, quando ricordò, in un lampo doloroso come qualcuno glieli avesse sistemati.
Ma quando?
“Quanto ho dormito?”  
“Due giorni se conti questo.”
Avrebbe dovuto ricostruire parecchio. Sospirò, bevendo un altro sorso d’acqua e tentando di posarlo poi sul comodino. Quando non ci riuscì, Thomas si alzò e lo fece al suo posto. Poi lo studiò con lo stesso zelo di uno scienziato nei confronti di una cavia. “Hai un aspetto orribile e dovresti farti la barba.” Dichiarò.
Altro che Babbani. È stato cresciuto da un branco di lupi.
“… perché sei qui?”
“Al mi ha chiesto di venire a darti un’occhiata. Oggi ha un giro serrato di visite e forse non riuscirà a passare.”
“Ti ha chiesto di venire a controllarmi?”  
Suo cugino batté le palpebre perplesso, poi annuì tranquillo. “Sì, e poi qui nessuno viene a disturbarmi.” Indicò il libro e il taccuino con un cenno della mano. “Sto scrivendo un saggio per un giornale specializzato sull’Arte delle Bacchette, e non gradisco interruzioni.”
“Lieto di averti fornito una scusa.” Sbuffò rassegnandosi a quella conversazione scoraggiante. Poteva capire il desiderio di star da solo però; la casa in cui abitava il cugino era accogliente, ma anche piena di rumore e distrazioni, con una strega adolescente e un compagno sempre pronto ad invitar persone senza preavviso.
Thomas inaspettatamente gli rivolse un mezzo sorriso, poi parve come ricordarsi qualcosa. “Come ti senti?”
Alla buon ora.
“Meglio.” Mentì perché era ciò che si doveva fare in quei casi. “Ma ho vuoti di memoria.” Nella sua testa al momento c’era una voragine enorme e frammentata. Ricordava John Doe, la metro, un ostaggio e il treno che aveva rischiato di travolgerli. Del tempo passato in ospedale però nulla. 
Thomas ad ogni buon conto aveva terminato i convenevoli da come chiuse libro e gli si rivolse a bruciapelo. “Perché John Doe era a Londra?”  
“Non ne ho idea.” Ammise. “Non credo di aver chiacchierato con lui del più e del meno.” Ironizzò. “Ci sono novità?”
“Sul Demiurgo? Se ci fossero non sarei certo il primo ad essere informato. L’ufficio Auror non ama condividere con noi poveri civili.” Ironizzò reclinandosi sullo schienale e passando le dita sui braccioli; se fosse stato un adolescente insicuro avrebbe pagato per avere il naturale carisma che il cugino emanava. Come adulto pensava fosse un esibizionista, che godesse nel mostrarsi superiore … e che fosse nonostante questo innocuo.
È bello essere adulti.
“Io e Albus però abbiamo delle teorie.”
Ci avrebbe scommesso.“Ovvero?” In certe cose era proprio un Von Hohenheim, si era addirittura adagiato sullo schienale come stesse assaporando la sua curiosità. “Se non è di troppo disturbo espormele.” Aggiunse sperando che la frecciatina arrivasse.
Arrivò da come l’altro serrò le labbra con il broncio di un bambino. “John Doe ha scoperto che sei il paziente zero ed era qui per rapirti.”
Era l’unica motivazione sensata, anche se gli spediva un brivido freddo lungo la schiena. Se così era la scorta adesso aveva una ragione di esistere che non fosse proteggerlo da fantomatici incontri con sua madre.

Non si smette mai di essere una cavia, pare.
“Potrebbe essere, sì.” Disse mostrando una calma che era ben lungi da provare. “Ma da chi l’ha scoperto?”
“Questa è una domanda a cui dovrebbe rispondere l’ufficio Auror.”
Il sottotesto era chiaro. “Stai dicendo che c’è una talpa?”

“Non è improbabile. Questo spiegherebbe perché sembrano sempre un passo avanti a noi.”
“Dobbiamo avvertire Potter e gli altri allora.” Lo avrebbe fatto di persona se non fosse riuscito a scendere dal letto senza strisciare. 
Thomas fece una smorfia. “C’è una cosa che non ha senso però … perché avvicinarti con la Traccia addosso? La talpa deve averlo avvertito che non può rapirti senza che si ritrovi l’intero dipartimento Auror alle calcagna.”
“Può essere che abbia tentato comunque di spezzarla ed abbia rinunciato quando si è accorto che non poteva. Ci vuole tempo e uno spezza - incantesimi addestrato, due elementi che non ricordo possedesse.”

“Se non li aveva, perché ha tentato comunque?”
“Thomas…”
“Non trovi questo blitz assurdo?”  

Sören aveva la testa ancora confusa, e comunque non aveva mai capito la logica dietro i piani dell’ex partner. “Johannes è sempre stato incomprensibile.” Scosse la testa. “Vorrei potere avere una risposta, ma …”
“Potresti sforzarti.”
Si trattenne dall’intimargli di levarsi dai piedi, o da chiamare una Medimaga che lo facesse al posto suo. Capiva le intenzioni, ma il carattere del cugino era intollerabile come sedersi su una sedia irta di chiodi. “Credimi, lo sto facendo.”

Di non Schiantarti sul colpo soprattutto.
Thomas aprì la bocca per ribattere, ma fu fermato. “Tom lascialo stare!” Albus Severus entrò nella stanza rivolgendogli un sorriso che rese la sua somiglianza con Lily fastidiosa come una fitta allo stomaco.
La tua presenza non mi interessa. Dov’è Lily? È venuta a trovarmi?
Aveva tutto il diritto di sperare nel conforto dell’unica persona al mondo capace di rasserenarlo.
Per mantenere le apparenze strinse comunque la mano all’altro ragazzo. “Quanto ci vorrà perché possa tornare in piedi?”  
Praticità. È ciò che si pretende da uno come me.
Voleva Lily.
“Entro domani potrai firmare il foglio di dimissioni.” Gli strizzò l’occhio solidale. “La situazione è fastidiosa, ma passeggera.” Si rivolse poi al compagno. “L’orario delle visite è terminato.”
“Non è vero.”
“È terminato per te.”

“Sta bene.” Borbottò questo con tono offeso. “Lo stavo aiutando a ricostruire la vicenda come mi hai chiesto di fare.”
“Ti ho chiesto di domandargli se avesse bisogno di niente, non di tormentarlo … e non mettermi in bocca parole che non ho detto!”
“Ho letto tra le righe.”

“Hai letto quel che ti pareva!”
Sören, per evitare lo sfociare dell’alterco in una lite, trovò opportuno intervenire spiegando il motivo per cui il cugino era lì, e le teorie che avevano sviluppato. Thomas per tutta risposta lo guardò più indispettito che se avesse preso le parti di Albus.

Non deve piacergli esser difeso…
Quindi aggiunse. “Mi ha anche dato un bicchier d’acqua.”
Così impari.
Albus gli scoccò un’occhiata divertita. “Quindi ha fatto il bravo!”
“Posso confermarlo.”
“Possiamo parlare di cose serie?” Sibilò l’interpellato alzandosi in piedi offeso. Albus gli strizzò l’occhio di nascosto e Sören si trovò nella scomoda posizione di dover mantenere una faccia seria. Non gli capitava spesso ed era piacevole. “C’è la possibilità che Sören recuperi la memoria?”

“Non tutta, per quando era incosciente non possiamo fare niente.” Scosse la testa Albus. “Il resto penso tornerà, ma con i sonniferi Babbani non si può mai sapere … Con tutta quella roba chimica.” Fece una piccola smorfia di disgusto. “Dipende.”
“Non mi interessa cos’è successo dopo … Del resto ero qui, non è nulla che possa aiutare le indagini.” Poi fece mente locale. “Significa che mi sono svegliato prima di oggi?”

“Sì, più volte, ma … non eri proprio in te.”
“Che significa?”  

Si dovette sorbire un sorrisetto del tutto deliziato da parte di Albus e un vero e proprio ghigno da parte di Thomas. “Significa che … beh, come ti prende di solito la sbronza?”
Ti prende triste, principino.
Gli sembrava quasi di sentirlo, Milo. “Non di quelle allegre, se è quello che intendi.”
“Allora diciamo che quando sei…”
“Strafatto.”
“Tom!”
“Cosa?”
“Sì, insomma … sei tutto il contrario.” Albus ce la stava mettendo tutta per non scoppiargli a ridere in faccia, e non avrebbe quindi dovuto prendersela a male.

Se la prese a male comunque.
“Spero di non aver dato spettacolo…”
“Ma no!”
E invece sì.
Era ovvio che doveva aver detto o fatto qualcosa di ridicolo. Era palese che si fosse messo a fare l’idiota, visto che persino suo cugino, che aveva la mobilità facciale di una sfinge, aveva le guance rosee e le labbra strette per non lasciar sfuggire uno sghignazzo.
“Abbracciavi facilmente, ma è una cosa carina!” Esclamò Albus tentando di migliorare la situazione e peggiorandola ineluttabilmente.
Voglio morire.
Non solo era stato catturato da John Doe come un novellino, ma era anche riuscito a trasformarsi in un oggetto di pubblico ludibrio.
Inspirò cercando di assumere un’espressione noncurante e fallendo, probabilmente. “Chi è venuto a farmi visita quando ero in … simili … condizioni?”
“Praticamente tutti.”
La finestra era aperta, se vi si fosse gettato forse la magia non avrebbe fatto in tempo a salvargli la vita. L’avevano visto tutti, il che significava quel cretino di Potter, Malfoy, Ama, colleghi e forse anche amici come Dionis.  
Milo l’avrebbe preso per il sedere vita natural durante. Ma soprattutto, non poteva non esser venuta una persona…

Lilian.
Se era stato inappropriatamente affettuoso con chi considerava semplici amici cosa diavolo aveva potuto fare con Lily?
“Lily è venuta a trovarmi?” Sperava che la naturalezza con cui lo chiese non fosse inficiata dal fatto che si sentisse sul punto di vomitare la poca acqua che aveva bevuto.
“Certo!”
Non mi ricordo niente. Cos’ho fatto? Che cosa le ho detto? Come mi sono comportato?
“Quante volte?”
“Beh, uhm…” Albus aggrottò le sopracciglia, tentando di ricordare. Lui che poteva. “Una volta sola, credo.”
Non  è tornata. Ho fatto qualcosa. Ho sicuramente fatto qualcosa. O le ho detto qualcosa. Cosa le ho detto?
Nel panico chiuse gli occhi e tentò di far riaffiorare la visita, ma come quando John Doe l’aveva punto con quella dannata siringa, gli venne restituito solo il vuoto. E un profumo.
Gigli. Sì, è stata qui. E poi?
Una fitta alla testa lo fece gemere e Albus, in pieno istinto da Guaritore gli fu accanto, posandogli una mano sulla spalla e facendolo stendere trai cuscini.
Devo recuperare la memoria.” Del resto aveva degli ottimi motivi per volerlo, e nulla che potesse far pensare a Lilian. “L’ho incontrato e non riesco a ricordare che sprazzi della nostra conversazione. Potrebbe essere utile per le indagini. Non esiste un incantesimo che possa aiutarmi?”
I due inglesi si scambiarono un’occhiata, poi Albus sospirò. “Ci sarebbe…” Si grattò una guancia pensieroso. “Si chiama Memento, ma a meno che non ce ne sia bisogno si evita di farlo … La mente umana è complessa, e spesso forzarla a ricordare non porta ai risultati sperati.”
Lo ricordava bene. Johannes lo usava per estrarre ricordi dalle menti terrorizzate di maghi e streghe in ostaggio. Represse il ricordo e chiese. “C’è qualcuno in grado di farlo?”

“Al reparto di Psicomagia dovrebbero essere in grado, lo usano nelle terapie dei pazienti con danni cerebrali.” Rispose. “Dovremmo chiedere l’autorizzazione del tuo Ministero però.”
“Arriverà senza problemi.” Perché si trattava di John Doe, e il Capitano non si sarebbe lasciato sfuggire quell’occasione.

Albus pareva poco convinto, tuttavia annuì. “Allora vado a chiedere un consulto alla Psicomaga Patil.” Esitò. “Sei sicuro di sentirtela?”
“Sì, lo sono.” Annuì: la memoria doveva tornargli. E in fretta.

 
****
Londra, Notturn Alley.
Mattina.
 
Una donna incazzata era quanto di peggio ti potesse capitare sul lavoro. Una donna che ti è superiore di grado in quello stato d’animo era praticamente una sciagura, e Bobby Jordan stava quindi respirando il più piano possibile mentre il sergente SAGITTA Ama Gillespie incedeva per lo sporco viottolo di Notturn Alley, facendo scansare persino un paio di vecchi relitti dalla bacchetta facile quasi fossero scolari spaventati.
Merlino Benedetto…
Avrebbe voluto essere con James e Scorpius a guardare per la milionesima volta i filmati delle telecamere di sicurezza della metropolitana piuttosto che dover condividere un sopralluogo con l’americana, ma il sergente Weasley aveva deciso altrimenti, quindi non gli restava che stringere i denti e sperare di non esser usato come capro espiatorio.
“Qual è il pub?” Gli venne abbaiato.
“In fondo al vicolo, quello con l’oca nera nell’insegna.” Rispose sollecito.
“Ragguagliami.”

“È il ritrovo della criminalità magica di Londra, ed è frequentato da una banda di Magonò che spesso ci ha fatto da informatori. John Doe può esser anche passato di lì. Conosce il posto.”
“È quello che pensate abbia fatto o che sperate?” Domandò aggrottando le sopracciglia e squadrando il pub; notò che guardava per le uscite di sicurezza e provò di nuovo la spiacevole sensazione di aver fatto una cavolata a non avvertirla.
Non è passato in mente a nessuno di noi, e ormai è troppo tardi per chiederle scusa.
C’era un codice non scritto tra agenti, e loro la sera dell’addio al celibato l’avevano preso a calci.
“Non abbiamo altre piste, visto che è un mago capace di cambiare volto e sparire nel nulla.” Si strinse nelle spalle. “Vale la pena provare.”
“C’è qualcosa che devo sapere prima di entrare?” Secca, diretta. Tutta la cordialità con cui si era presentata era sparita.  
Rispose con il suo tono più mite. “Quello che vale per qualsiasi locale malfamato del mondo … Non far mai pesare il distintivo e non lamentarsi di avere il bicchiere sporco.” Ci rifletté e poi aggiunse. “L’intero esercizio è in mano ai Magonò … Il loro capo, Danny Figgins, non è la classica feccia ottusa.”
“Di cosa si occupano?”
“Ricettazione di artefatti magici, furti, sfruttamento della prostituzione …”
“Tutto in ottica Magonò?”
“No, offrono i propri servizi, se vuoi chiamarli così, soprattutto ai maghi.” Quelle domande avevano uno scopo, immaginava, quindi aggiunse. “Serve che tu sappia altro?”
“Mi basta.” Ama spinse la porta del locale in un’unica mossa e Bobby la seguì; immediatamente entrati cadde un silenzio denso e ostile, con almeno una ventina di occhiate dirette come frecce nella loro direzione, seguite da qualche insulto a mezza bocca.

Oookay. Un classico intramontabile del Black Goose.
L’unica nota positiva era la non-presenza di James; l’amico era del tutto incapace di diplomazia in quelle situazioni.
Le nostre visite di solito finiscono con una bella rissa con tanto di boccali spaccati in testa. Se poi c’è Sy… Almeno stavolta non ci saranno chiamate al San Mungo.
Ama si limitò a guardarsi intorno con la tranquillità di un avventore, curandosi comunque di lasciare il fodero ben in vista come le sue intenzioni. Poi gli fece cenno di passarle avanti e mostrarle il da farsi.
Per farsi perdonare – era un bravo ragazzo lui! – individuò il capoccia Magonò ad un tavolo dove era in corso una partita a carte, lo raggiunse e lo apostrofò con zelo. “Figgins, molla il gioco, abbiamo bisogno di te.”
Il ragazzo alzò lo sguardo annoiato, quasi una mosca gli avesse sbattuto sul viso. “Avevo sentito puzza di Auror…” Esordì ignorandolo e facendo un tiro dalla sigaretta che aveva indolentemente appiccicata al labbro inferiore. “Il naso mi funziona proprio bene, eh?”
“Ti ho fatto una domanda.”
“… e pure le orecchie mi funzionano…” Gli servì il ghigno per cui era tanto famoso. James l’aveva ribattezzato Jaws con tutte le maledette ragioni. “Non mi risulta che debba rispondere se non voglio. Non ho diritti come cittadino del glorioso Ministero britannico?”

“Diritti che potresti perdere se andassi nel retro di questa bettola a controllare.” Ribatté senza lasciarsi intimorire dalla massa compatta di muscoli pronti a scattare ad un solo cenno del ragazzo magrolino.
Il quale non rispose. “Vedo che oggi sei in dolce compagnia…” Disse invece guardando Ama come se stesse scartando una merendina e la cosa gli fece subito venir voglia di seguire l’esempio violento di James. “È la tua amichetta?”
“Sono il Sergente Ama Gillespie.” Replicò la strega senza battere ciglio. “Hai un buon motivo per mostrarti così ostile a ben due forze di polizia magica?”
Figgins batté le palpebre, quasi sorpreso di sentirla parlare. Parve trovare l’intromissione piacevole però, perché si lasciò andare contro la sedia e la contemplò beato. “E tu chi sei splendore?”
Ama sorrise. “Non avevi detto di avere buone orecchie? Mi sono appena presentata.”
“Ho anche altre parti del corpo che funzionano a meraviglia…”
“Lieta di sentirlo. Ti funziona anche la bocca per dirci quello che abbiamo bisogno di sapere o dobbiamo portarti in ufficio?”
Bobby capì il piano dell’americana, e fu solo per questo che non si fece suo paladino come coscienza gli imponeva. Figgins infatti rise. “Non c’è bisogno di essere così duri…” Alzò le mani in segno di resa. “Non è personale. Non mi piacciono le teste di latta ed io non piaccio a loro, tutto qui.”

“E cosa ne pensi dei parassiti?” Mise la foto di John Doe – quella più recente che avevano e che forse neanche lo rappresentava al momento – sul tavolo, tra boccali, carte bisunte e mucchi di Zellini. “Perché quest’uomo rientra nella categoria, ed è il genere di soggetto che nessuno vuole vedere a piede libero, maghi e non.” Fece una pausa ad effetto. “Avrai sentito parlare del Demiurgo…”
“Come tutti.” Confermò con una scrollata di spalle. “È una malattia nuova che vi beccate voi maghi, che centriamo noi?”
Ama imitò la sua alzata di spalle noncurante. “Il nostro mondo si regge sui maghi come sui non maghi, Danny. È un equilibrio che funziona se entrambe le categorie sono in salute. Non dirmi che i tuoi affari non ne hanno risentito.”
“Non so a che affari tu ti stia riferendo cioccolatino…”
La Gillespie continuò a sorridere, ignorando il nomignolo. “Tiro ad indovinare, ma immagino che le ragazze che lavorano per te abbiano visto diminuire il numero dei clienti, e poi, chi entrerebbe in case di maghi che potrebbero essere infetti per toccare la loro roba?”
Ecco a che servivano tutte quelle domande sui suoi traffici.
Lo scozzese Magonò gli lanciò un’occhiata divertita. “La ragazza mi piace, Auror, ha le palle. Le fanno tutte così in America?” Ridacchiò con quella sfumatura maligna che faceva sempre saltare i nervi al buon Jimmy. “Ve ne servirebbero un paio … Non potete sempre campare della gloria del nostro eroe nazionale.”
Bobby serrò la mascella e fece un cenno verso la foto. “Lo conosci o no?”
Figgins fece tutto il possibile per apparire infastidito mentre la prendeva in mano. “No, mai visto in giro … Come avete detto che si chiama?”
“John Doe.” Vide qualcosa muoversi negli occhi slavati del ragazzo. “Lo conosci?”
“No.” Girò la foto e la spinse verso la strega. “Ne ho sentito parlare da un amico però … Anche lui mi ha chiesto se l’avevo visto.”
“Chi?”

“Per conto di chi volete dire.” Figgins non levava gli occhi di dosso da Ama, ma veniva fieramente guardato di rimando quindi fu costretto, con sorpresa dello stesso Bobby, a distogliere lo sguardo. “Lo cercava per conto di un mago, buona ricompensa se avessi trovato informazioni su di lui.”
“E le hai trovate?” La strega si sporse oltre al tavolo in uno scatto che poteva esser definito solo come felino e infatti un paio di grossi energumeni fecero un sussulto, senza osare però tirare fuori arnesi o lame.
Fa paura anche a loro.
Figgins invece non mosse un muscolo. “No, cioccolatino, silenzio radio … e non che non ci abbia provato. Ho mandato in giro i miei ragazzi, ma se è passato di qui, non ha lasciato traccia.” Schiacciò la sigaretta sul posacenere e se ne accese un’altra. “La cosa non mi piace.” Fece una smorfia. “Ho raccolto un po’ di informazioni però … E nossignore, non è bacchetta che voglio a giro nel mio quartiere.”
Ah però, come chiacchiera con una strega…
Avrebbe dovuto ricordarsi di portare un agente donna la prossima volta che aveva bisogno di informazioni. Ama si scambiò un’occhiata con lui. “Cosa hai scoperto?”
“Che è crucco, che cambia faccia come cambia umore, e che se ti propone un affare è meglio se valuti bene i pro e i contro prima di accettare.”  
Come immaginavano, neppure la teppa di Nocturn Alley aveva visto il Camaleonte.
Un altro buco nell’acqua … ma il tipo che lo cerca per conto di un mago…

“Il mago che ti ha chiesto informazioni, come si chiama?”
Figgins sbuffò infastidito dalla sua intromissione. “Ti vedo informato, Auror. È uno dei vostri.”
È Sören. Sören ha cercato informazioni su Johannes e non ce lo ha detto.

E dalla faccia della Gillespie, doveva esserci arrivata anche lei.
 
Uscirono dal pub senza scambiarsi una parola, e ci vollero dieci minuti ed un paio di ripetute richieste di fermarsi da Fortebraccio per prendere qualcosa per distendere i nervi prima che l’americana gli rivolgesse di nuovo la parola.
Stavolta non è colpa nostra!
“Io non so come fare con Prince!” Sbottò vuotando un sorso di caffè bollente come se nulla fosse. “Ti rendi conto? Indaga alle nostre spalle da … non so, da quando è qui?”
“Non proprio alle spalle…” Tentò conciliante sedendosi su uno dei tavoli della veranda. L’altra lo imitò senza pensarci, troppo infuriata per notare che stavano facendo.

Buon per me.
“E come lo chiami chiedere al suo assistente di cercare informazioni sul Camaleonte senza avvertirci? Perché è Meinster l’amico misterioso, ne sono sicura, quei due sono fodero e bacchetta!”
“Beh…”
“A vederlo si pensa che si sia ingoiato un manuale di regole di buona condotta, sempre così posato, cortese, pronto a mettersi sull’attenti!”
“In effetti…”
“Invece è un bambino di sei anni! Testardo per giunta!” E stavolta il caffè lo vuotò tutto. “Finge di ascoltarti, di darti ragione … e poi parte per le sue stramaledette crociate solitarie, tagliando fuori tutto e tutti!”

Ehm. Di cosa stiamo davvero parlando?
Perché la Gillespie era furibonda, ma non come un superiore lo sarebbe stato con un sottoposto.
Sembra proprio una donna furibonda con … beh.
Secondo Scorpius c’era del tenero tra lei e Prince, ma Bobby sperava proprio di no.
Tutti pazzi per Prince? E insomma…
Comunque non lasciò trasparire nulla della sue riflessioni, sorseggiando invece il suo Earl Grey in britannico e composto silenzio. Fu una buona strategia perché dopo qualche attimo la collera della strega si sgonfiò, lasciandola a fissare la tazza come se fosse la causa di ogni male.
“Non so davvero cosa fare …” Concluse sconsolata.
“Con me sfondi una porta aperta.” Disse e quando fu sicuro di avere la sua attenzione continuò. “Con James è la stessa cosa. È un ottimo auror, e il miglior amico che un mago possa desiderare … ma quando un caso lo prende sembra scordarsi che le regole sono state fatte per essere seguite. Un giorno o l’altro rischierà sul serio il distintivo, e forse lo farà rischiare anche a me.” Fece un mezzo sorriso. “Anche se non credo che succederà finché avremo Harry Potter come Capo ufficio.”
“… favoritismi?”

“Non li chiamerei proprio così … è che in quella famiglia prender le cose di petto ed essere sempre in prima linea è un modo di vivere, non di lavorare.” Scrollò le spalle. “Sören che prende iniziative personali senza dire nulla a nessuno da noi sarebbe un grattacapo di media entità.”
Ama lo guardò sbigottita. “E a te sta bene?”
Sorrise perché non c’era molto da fare. La capiva. “Chiudiamo casi, salviamo delle vite … E che tu ci creda o no, abbiamo dei limiti. Perché lamentarmi? La vita reale è molto diversa da quella che si legge nei regolamenti.”
“Quindi secondo te Prince ha agito bene?”
“No, ma capisco perché l’abbia fatto … Per lui questo caso è personale, vuole prendere Doe e chiudere col suo passato una volta per tutte. Se non può farlo per vie ufficiali, lo farà da solo … rischiando la vita e mettendoci tutti nei guai.” Notò come lo sguardo dell’americana sfuggisse, e di come la piega delle labbra si facesse più stretta: spodestarlo non le era piaciuto più di quanto non fosse piaciuto a loro. C’era stato un cambio di atmosfera e Bobby quindi si azzardò a tirare fuori l’elefante dalla stanza.
“Non vogliamo che nessuno di voi due venga estromesso dal Demiurgo, e parlo sia per me che James e Scorpius. Ammettiamolo, siamo impantanati, ci serve tutto l’aiuto possibile.”
Ama inarcò un sopracciglio, ma un sorriso le covava all’angolo delle labbra. “Quindi cosa suggerite di fare?”
Bobby sorrise di rimando. “Quello che abbiamo sempre fatto. Collaborare.”
Il sorriso che si scambiarono sancì ufficialmente la tregua e la fine della guerra fredda.
E chi dice che sono un personaggio di contorno, non ha proprio capito niente.
 
****
San Mungo, ora di pranzo.
 
Tom era bravo nel capire il comportamento delle persone, ma non il perché reagissero in un dato modo, tassello indispensabile per riuscire a leggere il sottotesto della conversazione con Sören. Infatti mentre stavano entrando nell’ascensore che li avrebbe portati fino al reparto Lesioni, esordì.
“Non ti è parso strano?”
“Sören?” Scrollò le spalle. “Direi. Sta smaltendo gli effetti di un potente so…”
“Parlavo dell’agitazione.” Fermò le mascelle meccaniche per permettere a lui e ad una giovane medimaga di passare, ma quando questa fece per ringraziarlo le mollò di colpo, rischiando di intrappolarla in mezzo. Albus fu lesto ad aiutarla e si scusò con uno sguardo. “Era agitato.”
“Certo che era agitato, è stato aggredito…”
“No.” Lo bloccò, offeso dal fatto che non lo seguisse. “Quando ne parlavamo da soli era calmo. E quando sei arrivato tu che ha cominciato ad innervosirsi.” Aggrottò le sopracciglia. “Come se ti volesse nascondere qualcosa…”
Albus finalmente localizzò il contesto.“Ah, certo.” Ridacchiò all’espressione confusa del compagno. “Non era a causa mia.”
“A causa di chi allora?”

“Lily.” Disse con semplicità. “Gli ho ricordato Lily. Associazione di idee? Non ti sei accorto di quante volte ha fatto il suo nome?”
“Non ci ho fatto caso.” Ovviamente. “Cosa c’entra tua sorella con…” Si bloccò. Lo guardò e poi capì. “Ah.”
Eh, alla buon’ora.

“Cosa sta succedendo tra lui e Lily?”
“Bella domanda.” Si strinse nelle spalle, picchiettando distratto con la punta della bacchetta sul pulsante del proprio piano. “Di certo si è spaventato quando ha realizzato che deve averla incontrata sotto effetto del narcotico. Dà da pensare, non credi?”
“Da da pensare cosa? Perché teme Lily?”
Rise. “Oh Merlino, non teme Lily!”
Venne guardando con irritazione. “Quindi cos’è?”
Albus si strinse nelle spalle, perché di non impicciarsi negli affari di cuore dei fratelli ne aveva sempre fatto un vanto. Non avrebbe iniziato ora.
Cinque anni fa era mio dovere preoccuparmi. Non era una storia d’amore in divenire, era una storia che rischiava di diventare una tragedia shakespeariana. Ora è diverso, Sören è dei nostri.
“Al…” Lo scrollò per attirare la sua attenzione, e si lasciò scrollare, ampliando il sorriso e non aprendo bocca. “Albus, cosa sai che io non so?”
“Comare.” Lo prese in giro mostrandogli la lingua. “Andiamo, l’hanno capito tutti!”
Tom fece una smorfia, facendo qualche rapido calcolo mentale. “Lily sta con lo scozzese.” Dichiarò trionfante. “Non possono avere rapporti in quel senso.”
“Mi spiace deluderti, ma il mondo non si regge su monogamie come la nostra.” Era tenero constatare ogni volta come Tom fosse terribilmente bianco e nero sulla questione. Gli accarezzò il risvolto ordinatamente stirato della camicia, togliendogli granelli di polvere che non vi si sarebbero posati, non finché Tom l’avesse indossata. “Siamo molto fortunati.”

“Lo so.” Replicò infastidito. “Ma tua sorella, per quanto abbia avuto una fase in cui volava di fiore in fiore…”
“Per eufemizzare.”
“Per eufemizzare, sì, adesso fa sul serio. Non fa che dirlo.”

“Intenzione e realtà dei fatti non vanno sempre a braccetto.”
“Se non fosse che i fatti constatano la mia teoria. Tua sorella non è più la ragazza da bar che era una volta. Esce di rado, sempre in compagnia del suo ragazzo, e non sono stati uditi né confermati pettegolezzi sulla sua infedeltà.” Scesero al piano e Tom gli si affiancò, finendo il suo suo ragionamento. “Da questo se ne deduce che, per quanto sia una ragazza frivola e dalla sessualità esuberante…”
“Continuiamo con gli eufemismi, ti ringrazio.”
Tom gli diede una spinta per segnalare quanto poco amasse essere interrotto. “… non sta tradendo Ross con nessuno. In questo è come te. Quando fa sul serio, è seria.”
Al sorrise, sfiorandogli la mano con la sua. “Dimentichi una cosa.” Fece una pausa ad effetto, perché poteva esser teatrale anche lui se voleva. “Sören è il suo primo amore, ed è nei guai fino al collo. Certe cose attirano i Potter come mosche al miele…”

“Quindi ha tradito Ross con Prince?” La sfumatura incredula con cui pronunciò il cognome riassumeva quanto trovasse ridicola l’idea. E non poteva dargli torto.
Sören è un tipo così … corretto. E poi tratta Lily come se dovesse dedicarle un sonetto, non come se volesse portarsela a letto.
Neppure lui li vedeva come amanti fedifraghi.
“Non sono affari nostri.” Finse tutta il disinteresse di cui era capace, perché il compagno era l’equivalente di uno schiacciasassi quando trattava certi argomenti.
Ci manca solo si interessi a quei due. Sarebbe capace di andare da Sören e chiedergli se ha già fatto sesso con Lily o se si è limitato ad avere fantasie erotiche che la coinvolgono.
Gli prese la mano e ne baciò il palmo, con affetto ed esasperazione. Come le cose andassero a braccetto non l’aveva mai capito. Ma funzionava. “Tom, fattelo dire da un impiccione. Stiamone fuori, ci conviene.”
“Non…”
“Di certo il nostro aiuto non è richiesto.” L’altro accettò l’appunto anche se con una certa riluttanza. “Sei preoccupato per tuo cugino, e lo capisco, ma concentriamoci sul lato lavorativo della sua vita.”
“Non sono preoccupato!”
Sì, e io sono la Fata Morgana.

Entrarono nel reparto Thickley che come sempre era un tripudio di luce e colori; gli piaceva passare di lì ogni tanto, perché la Patil aveva fatto un lavoro eccellente nel creare un atmosfera che si discostava quanto più poteva da un’ala di ospedale. Passando per la sala ricreativa alla ricerca della Capo Guaritrice trovò Lily che sorvegliava la signora Paciock, presa a disegnare ad uno dei tavoli con infantile entusiasmo.
“Ehi, guarda chi si vede!” Li salutò allegramente. “Le mie due serpi preferite!”
 “Ehi.” La raggiunse. “Vi vedo impegnate, non vogliamo disturbarvi…”
“Alice sta finendo il suo disegno per la mostra che faremo a fine mese, vero tesoro?” Apostrofò la donna con affetto. “È la nostra artista di punta…” Si alzò poi in piedi, stiracchiandosi. “Avrei bisogno di una pausa però. Caffè?”

“Non abbiamo tempo.” Replicò Tom senza mezzi termini. A differenza sua quel posto lo innervosiva, e non era difficile immaginare il perché.
Tutti i pazienti dell’età della signora Paciock sono qui a causa della guerra…
Lily se notò il nervosismo dell’altro non lo diede a vedere. “Cosa vi porta nell’ala più negletta dell’ospedale?” Chiese curiosa.
“Dobbiamo vedere la Guaritrice Patil. Si tratta di Sören.” Spiegò con la certezza che non avrebbe dovuto farlo.
Oh, beh, comunque lo verrebbe a sapere.
L’espressione della sorella mutò completamente, perse il sorriso e si irrigidì. E non pareva solo preoccupazione quella che le tingeva il viso. “C’è qualche problema? Sta bene?”
“Sì, sì … si è svegliato e domani lo dimettono. Si tratta dei suoi ricordi però, vuole recuperarli per aiutare nelle indagini del Demiurgo … Gli stiamo dando una mano e… beh, praticamente stiamo facendogli da portavoce.” Si strinse nelle spalle. “Dopo contattiamo papà per far dare l’autorizzazione agli americani.”
Sua sorella aveva ufficialmente perso ogni espressione. “Ah, e per cosa?”

“Per il Memento.”
“Non se ne parla!” Buttò fuori. Poi accorgendosi del loro sbigottimento aggiunse. “Voglio dire … è un incantesimo controverso, spesso non funziona ed ha effetti collaterali da non sottovalutare.”
“Si tratta del Demiurgo.” Ripeté Tom come se lo spiegasse ad una bambina tarda. Gli avrebbe dato una gomitata se sua sorella, a conti fatti, non fosse sembrato proprio quello. “Si tratta del caso a cui sta lavorando metà del mondo magico inglese.”

“Sì…” Disse piano guardando ovunque tranne che loro due. Si avvicinò di nuovo ad Alice e le rassettò lo scialle che aveva sulle spalle. “… sì, avete ragione.” Rimase un attimo in silenzio, e quando alzò il viso era di nuovo lei, un concentrato di energia e determinazione. “Vengo anch’io. Avrà bisogno di me.” Dichiarò con intenti bellicosi, da come raddrizzò spalle e postura.
Provate a dirmi di no, vi sfido.
Ah, Lils… Non ho passato quel che ho passato per non accorgermi quando qualcuno è spaventato.
Cos’hai da nascondere sorellina?
“Okay.” Fermò con un colpetto sulla schiena il compagno che era sul punto di protestare e sorrise. “Ci fai strada per l’ufficio della Patil?”
 
 Non andare nel panico. Non. Andare. Nel. Panico.
Se l’era ripetuto come una specie di simpatica, orribile filastrocca mentre portava Tom e Al nell’ufficio della Patil. Continuava a ripeterselo adesso che i due ragazzi, come una macchina perfettamente oliata, chiedevano pareti e sollecitavano l’aiuto della sua mentore.
Sören avrebbe recuperato la memoria. Sören doveva recuperare la memoria, perché questo avrebbe reso forse possibile conoscere i motivi per cui John Doe era riapparso. Perché sarebbe servito a salvare la vita di maghi e streghe.
Però non può scegliere cosa ricordare. Ricorderà tutto.
Compreso quello che era accaduto tra di loro. Il bacio, quello che gli aveva detto, tutto.
Doveva scendere, parlargli prima che la decisione di usare il Memento fosse presa, prima che la Patil lanciasse l’incantesimo.
Eppure sentiva i piedi incollati al suolo e la mente bombardata da una decina di idee, supposizioni e risoluzioni, tutte in contrasto l’una con l’altra.
E se vado giù, cosa gli dico?
Non era solo codardia, era anche avere la certezza che non sarebbe riuscita a dirgli un bel nulla.
Devo dirgli che è stato un errore? Che mi sono lasciata trasportare? Che devo rifletterci? Che ha significato qualcosa?
Era già stata dura parlarne con Scott; perché sì, aveva dato retta a Roxanne e aveva chiarito le cose con il suo ragazzo.
Ragazzo che al momento non era più tale visto che erano in pausa.
Solo a pensarci le saliva il magone; aveva dovuto farlo e per questo aveva scelto un campo neutro, Fortebraccio, ma Scott non era uno scemo e quando si erano visti e poi accomodati al tavolo avevano passato quasi un minuto in completo ed ostile silenzio.
 
“Non vieni in Australia con me, eh?”
Il tono di voce era pacato, e non sentiva provenire da lui rabbia. Rassegnazione forse, delusione, anche.
Scott non si arrabbiava mai. Era molto peggio: era passivo aggressivo.
“Mi dispiace … non è il momento…”
“Non mentirmi, Lily, okay?” L’aveva bloccata con tono fermo. “Tutto, ma non trattarmi come un idiota.”

“Non ti sto…”
“Non mi hai neanche richiamato.”
“Quando?”

“Appunto.”
Lily avrebbe voluto sparire dentro una voragine piena di fuoco e lava in quel momento, o essere attaccata da un Dissennatore. Avrebbe preferito quello e ben altro piuttosto che dover affrontare il cuore ferito del ragazzo che gli stava di fronte. Perché no, non era un idiota, e aveva capito.

“A fine dell’estate vorrei tornare per vedere se riesco a stabilirmici … perché credo che sia là il mio futuro.”
Non ne era rimasta sorpresa: in fondo aveva sempre saputo che Scott non sarebbe rimasto per sempre.
E se non ci fosse stato Sören a farmi capire che sarebbe stato come scappare ti avrei anche seguito.
“Avrei voluto parlartene con calma, chiederti un parere … Chiederti se era un’idea che poteva piacerti. Se volevi seguirmi… Perché credo che sarebbe il posto giusto anche per te.”
Ci risiamo.
L’irritazione le aveva di nuovo serrato la gola. “E quando pensavi di dirmelo?”
“E tu quando pensavi di smetterla di mentirmi su quello che c’è tra te e Sören?” Aveva rimbeccato nello stesso tono. “È questo il motivo per cui siamo qui, no?”

Lily si era morsa un labbro. No, non poteva più nascondersi. “Ci siamo baciati.” E non c’era altro da aggiungere o spiegazione più esaustiva da dare.
È successo.
Scott non aveva fatto scenate, né aveva alzato la voce. Si era limitato a serrare la mascella ed ispirare profondamente. “Quante volte?”
“Solo una!” Non poteva credere davvero che avessero una tresca alle sue spalle!
E perché no? In quest’ultimo periodo non gli hai dato motivo per fidarsi.
“… solo una.” Aveva ripetuto mentre le veniva da vomitare. Era proprio sul punto di farlo, perché non era mai stato così difficile.
Perché è un bravo ragazzo, e tu sei una persona orribile.
“Non è Sören il problema, né tu … Sono io. Ho … bisogno di chiarirmi le idee, di capire cosa sto facendo, perché mi sto comportando in maniera disgustosa, e me ne rendo conto, credimi, vorrei … vorrei aggiustare le cose.” Sussurrò evitando di guardarlo. Un vecchio manifesto di un concerto rock al di là della strada non era mai stato così interessante. “Ma non c’è magia che possa farlo … che sia legale e non immorale almeno. Non … volevo combinare questo casino. Non volevo ferirti.”
“Provi qualcosa per lui?”
Mentire a quel punto sarebbe stato da idioti. “… sì.”
“Beh, hai fatto un gran bel lavoro allora.”
Piangere non serviva ad un bel nulla ma non poté frenare le due lacrime che le rotolarono lungo le guance. “Te l’ho detto quando ci siamo conosciuti … non è una giustificazione, adesso, ma te l’ho detto… che razza di casino sono.”

Scott era sembrato perso in un ragionamento tutto suo, perché non l’aveva neanche ascoltata. “Hai detto tu che volevi partire … che avevi cambiato idea. Pochi giorni fa mi hai detto che mi amavi … e ora è cambiato tutto?”
“Non è cambiato niente!”
“Allora perché Sören?”
Perché lo amo. Perché quando penso a lui mi sento su una voragine, ma non ci sono. Sono a casa.
“Non lo so…” Aveva detto invece, perché dirlo ad alta voce sembrava assurdo, ridicolo e comunque non ci capiva niente neppure lei.  
“Lui mi pare chiaro che voglia te.”
Già, l’avevate capito tutti tranne la sottoscritta. Bella Legimante del cazzo che sono.
“Come facciamo allora?” L’aveva riscossa. “È una pausa che vuoi, giusto?”
“Sì … io … penso di sì.”  
“Allora dovremo trovare una scusa sul fatto che mancherò al battesimo di Alexandra.” Scott era sempre stato un tipo pratico, e ne fu sollevata. Quel livello di conversazione per quanto penoso poteva sostenerlo.
“Sì, mi … mi inventerò qualcosa.”
Scott aveva annuito, bevendo un sorso del the ormai freddo. Aveva tentato di trattenersi, ma alla fine non ce l’aveva fatta. “Sören ci sarà?”
“È il padrino…” Qualcosa che parlava di rabbia era esploso nello sguardo dell’altro, che si era alzato di scatto facendo per andarsene.
In effetti aveva resistito fin troppo.
Scott!” L’aveva afferrato per un braccio, perché non potevano lasciarsi così, era troppo orribile. “Scott … non è stata una mia scelta, non l’ho indicato io!” Gli aveva stretto il braccio e l’aveva ringraziato con lo sguardo quando non si era strattonato via.
“Non è per la faccenda del padrino.”
“Lo so.” Era solo stata la goccia che aveva fatto traboccare un calderone già colmo.“… vorrei che le cose fossero più semplici … come prima.”

L’altro non aveva mosso muscolo, tranne la mascella, tesa in una linea dura. “Non voglio che tu stia con me perché è la cosa semplice. Voglio che tu stia con me perché mi ami.” L’aveva guardata come se non la riconoscesse più. Era stato come esser schiaffeggiata. “Posso vivere anche senza di te, Lily. Forse non bene, forse mi ci vorrà del tempo … ma andrò avanti. Perché sono una persona normale.”
“Stai dicendo che io non lo sono?”
Scott aveva scosso la testa. “Sto dicendo che forse non è quello che cerchi da un mago.”
… eh, già.
 Aveva fatto una smorfia. “Non sto tirando acqua al mio mulino, me ne rendo conto, ma è ciò che ti offro e non ti ho mai mentito su questo.”
No, sono io che ho mentito a te. Credevo di volere qualcosa e non era vero.
Scott aveva ragione, aveva creduto di volere la normalità che le offriva, ma quando si era ripresentato il pericolo, la passione e soprattutto Sören, si era reso conto di quanto le fossero mancati.
Forse ho davvero bisogno di sentirmi nei casini per essere me stessa.
Che cogliona.
Il punto però era un altro: assecondare i suoi desideri, che cinque anni prima avevano messo sia lei che Sören nei guai, o scegliere qualcuno che l’avrebbe messa al sicuro anche da se stessa?
Perché non era detto che lei e Sören avrebbero potuto funzionare. Avrebbe anche potuto essere un disastro totale e completo.
Forse dovrei restar zitella per il resto della mia vita.  
“Allora…” Aveva detto tanto per dire qualcosa. Scusarsi non le sembrava il caso. “… allora che farai con l’Australia?”
“Sono un mago che è disposto ad aspettare che tu faccia chiarezza nel tuo cuore.” Aveva risposto. “Ma non per sempre.”
“Suona come un ultimatum…” Aveva mormorato con un sorriso fiacco, perché non c’era davvero molto su cui scherzare.
“Perché lo è. Prenderò quella passaporta per Sidney, Lily, e per rispetto a tua cugina lo farò dopo il battesimo. Se verrai, ricominceremo da zero … niente recriminazioni, te lo prometto. Nonostante tutto … credo ancora in noi. In caso contrario saprò chi hai scelto.”

Si erano lasciati così, con una decisione che avrebbe dovuto prendere lei.

Tanto per cambiare. Perché diavolo mi date capacità decisionale se non riesco neppure a decidere come prendere le uova la mattina?!
A proposito di decisioni, pareva che la Patil e i due ragazzi avessero raggiunto un’intesa da come i due si accomiatarono spiegando che avrebbero mandato un Gufo all’ufficio Auror per chiedere l’autorizzazione a procedere – Al spiegò a dirla tutta, mentre Tom come al solito si limitò ad un contratto cenno di saluto e sparire in ampie falcate misantrope.
La Patil richiuse la porta dell’ufficio dietro di sé, e solo allora Lily realizzò di esser rimasta sola. “Torno da Alice.” Disse, ma non poteva, doveva fare qualcosa prima che Sören ricordasse.
Merlino, solo qualche altro giorno … ho già avuto la mia dose di schifo oggi. Solo qualche altro giorno è chiedere troppo?
“Sören ricorderà tutto?” Chiese senza troppi giri di parole. “Dico, di quel che è successo da quando è stato drogato…”
La strega inarcò le sopracciglia. “Se cerca informazioni su questo John Doe ricorderà quelle.”
“Ma … ricordi collaterali?”

“È un incantesimo preciso. Gli faremo delle domande, e lui darà delle risposte. Vuoi chiedergli qualcosa forse?”
“No … no, nulla.”
Solo qualche altro giorno era chiedere troppo?

 
****
 
America, Boston.
Ufficio SAGITTA, pomeriggio.

“Non posso autorizzare il re-inserimento di Prince nelle indagini!”
Eleanor Gillespie credeva di aver trovato un alleato in Harry Potter e a quanto pare si era sbagliata.

“Non sto dicendo che il pericolo abbia smesso di esser tale.” Obbiettò l’uomo via Fuoco Magico: l’aveva chiamata proprio mentre stava per andare finalmente a pranzo. Inutile dire che l’avrebbe saltato anche quel giorno. “Sto soltanto dicendo che le informazioni e le sua capacità di analisi si sono dimostrate utili più volte. È il motivo per cui l’avete mandato qui in prima istanza, no?”
“Sì, prima che scoprissimo il suo coinvolgimento diretto nel Demiurgo.” Ribattè. “Senza contare quello che mi hai appena detto!”
“Non abbiamo la certezza che ci sia una talpa.”
“Ma avvierai un’indagine interna.”
“Perché è un legittimo sospetto che non posso ignorare. Da qualche parte prendono le informazioni e il problema potrebbe essere da noi.” Anche se dal tono pareva convinto dell’esatto contrario. Ama poteva capirlo: per un mago come Harry ogni uomo sotto di sé era parte della famiglia.

Ed è dura accettare traditori in famiglia.
“Harry, hanno scoperto che Sören è il paziente zero. Johannes non è capitato per caso nel vostro quartiere magico … cercava lui, e l’ha trovato! La talpa esiste, e le indagini interne non si esauriscono in un paio di giorni … non posso rischiare così la sicurezza di un mio agente!”
E quel benedetto ragazzo gli è andato dietro senza pensarci due volte.
Il mago era rimasto in silenzio per qualche attimo. “Non basterà neppure riportarlo in America temo.”
Intuì il sottotesto. “Pensi che la talpa sia da noi?”
“Non penso niente.” Ribatté quieto. “Quello che farò è agire. Se c’è una talpa nel nostro Dipartimento la troveremo. Ti suggerisco di fare lo stesso però. Sophia Von Hohenheim, se i suoi depositi bancari parlano per lei, ha vissuto in America abbastanza a lungo da crearsi dei contatti.”
“Non devi dirmi come fare il mio lavoro.”

“Non… Okay, ho esagerato.” Si bloccò e poté immaginarlo togliersi gli occhiali. Non riusciva a rimanere arrabbiata con Harry Potter. Era come avere a che fare con un’esuberante ragazzo cresciuto che non potevi non trovare irresistibile.
“Apprezzo chi sa ammetterlo.” Offrì come segno di pace, ricevendo uno sbuffo divertito.
“Nora, parliamoci fuori dai denti, siamo nei guai fino al collo.” Aggiunse con tono stanco. “Il Demiurgo è l’argomento preferito della nostra stampa, ho a che fare quotidianamente con cittadini spaventati che tempestano l’ufficio di Gufi … e le indagini sono in stallo perché John Doe e la Von Hohenheim è come fossero Intracciabili. Ho tutti i miei uomini che setacciano l’intero Ministero alla ricerca di quei due. Vorrei tener fuori Sören da questa storia ma in tutta coscienza non posso.”
Sospirò. “Così lo usiamo come hanno fatto quei bastardi?”
Harry dall’altro capo dell’oceano non rispose per qualche attimo. “No. La differenza stavolta è che ha deciso lui. In autonomia. È talmente convinto di quel che sta facendo che, anche se abbiamo cercato di tagliarlo fuori ci sta ancora lavorando. Ed è persino riuscito ad ottenere l’aiuto di Thomas e di mio figlio Albus.”
“Tuo figlio e…”
“A quanto pare sono i suoi portavoce. Sono loro che mi hanno detto della talpa.” Disse con il tono di chi aveva visto e vissuto di peggio per colpa dei suddetti. “Ma non è finita qui. Ron mi ha detto che ha avuto accesso ai dossier di indagine … ci ha aiutato ad escludere due dei cinque possibili compratori presentandola come un’intuizione geniale di Malfoy. Quel ragazzino è ovunque ed ha convinto chiunque a perorare la sua causa. Persino mia moglie.” Non le diede il tempo di inserirsi o ribattere. “A questo punto temo otterrebbe l’asilo politico dal Shacklebolt in persona se tentassimo di metterlo su una Passaporta.”

Era troppo sbalordita per avere la forza di opporsi.“Ho modi per obbligarlo a tornare.” Tentò piuttosto debolmente.
“Ma vuoi usarli?”
Nora inspirò, guardando oltre la scrivania e non riuscendo a trovare un solo motivo per controbattere alle parole del capo Auror, anche se avrebbe tanto voluto; la realtà è che capiva Prince e il suo desiderio di far parte del gioco perché anni prima aveva fatto lo stesso per poter avere tra le mani Alberich Von Hohenheim e smantellare personalmente,  pezzo per pezzo, la Thule.

Quel ragazzo le ricordava una giovane sé stessa, determinata e con il cuore a pezzi per la morte di Jeremiah.
“Rifletti su quel che ti ho detto.” Disse Harry. “Sei tu la sua tutrice legale e il suo capo. La decisione in ultima istanza sta a te.”
“Lo farò.” Non poteva promettere nient’altro. Avrebbe invece dovuto parlare con Sören.

“Ho la tua autorizzazione a procedere con il Memento?”
“Avrai la copia dell’autorizzazione sulla tua scrivania tra un paio d’ore.”
Si salutarono, ma Nora non aveva ancora finito di palleggiare quella stramaledetta patata bollente. Dispose infatti una seconda chiamata via Fuoco Magico e aspettò che la linea fosse libera.
“Qui Ethan Scott.”
“Scott, sono il Capitano Gillespie.”
“Oh, Eleanor, carissima!” La apostrofò con il solito tono falso come una banconota da tre Taler. “Dammi solo un momento e sono a tua disposizione.”
Dovette aspettare un paio di minuti buoni prima che l’uomo tornasse al fuoco. “Eccomi, dimmi tutto.”
“Ti ringrazio.” Replicò con la stessa intonazione. “Ho bisogno che timbriate e spediate un’autorizzazione per un trattamento medico in Inghilterra.”
“Spero non si tratti di tua figlia…”
“No, il Sergente Gillespie sta bene.” Visto che non c’era modo di nascondere la cosa aggiunse. “Si tratta dell’agente Prince.”
“Avevo intuito … sono gli unici due agenti che abbiamo in Inghilterra del resto. Come sta, si è ripreso?”

“Sì, ma ha vuoti di memoria. Per essere interrogato e fornici informazioni sul Camaleonte ha bisogno di recuperare la memoria tramite magia.”
“Vedo che sta continuando a dare il suo contributo. Mi fa piacere, sono certo che non si sta risparmiando.” Osservò e Morgana, quanto avrebbe voluto averlo davanti per poterlo fulminare a dovere con lo sguardo. “Gli ordini rimangono gli stessi? Lo farete rientrare a fine mese?”
“Non ci sono cambiamenti.”
“Considerando che è stato aggredito dal Camaleonte non posso darti torto… Tuttavia…”
“Il Memento servirà a far luce sulla faccenda.” Lo interruppe brusca: non aveva certo voglia di imbastire una nuova discussione.

Con lui meno di tutti poi.
“Naturalmente.” Rispose docile. Perché tale sembrava: peccato che le serpi in seno come lui fossero maledettamente brave a dissimulare. “Voglio un rapporto completo il prima possibile … Il Ministro è stato informato dell’intera faccenda, e come puoi immaginare questa è una delle molte preoccupazioni a cui rivolge constanti pensieri.”
Nora fece una smorfia. “Lo avrai.”

 
****
 
Inghilterra, Londra.
San Mungo, Pomeriggio.

 
“E non devi combattere i ricordi, nel modo più assoluto. È un processo guidato, sentirai una voce esterna che ti farà delle domande, e come ti ho detto…”
“Albus, ho capito.” Sören rassicurò forse per la terza volta il giovane Guaritore di fronte a lui, quasi i ruoli fossero in realtà capovolti. “Non è la prima volta che lo vedo all’opera.”
“Ah!” L’inglese parve offeso, ma invece di guardare verso lui, guardò verso Thomas che per tutta risposta gli rivolse un’occhiata insofferente. “E perché non me l’hai detto?”

“Non me l’hai chiesto.”
“Merlino se siete uguali voi due!” Sbuffò scuotendo la testa. Si premurò poi di aggiungere. “Ma tu sei più simpatico.”
“Molto divertente. Hai finito di fare la chioccia?” Suo cugino pareva l’indisponenza fatta persona, con le mani incrociate al petto e l’aria di chi voleva trovarsi ovunque tranne lì. Aveva imparato a trovar divertente quel lato del suo carattere, come probabilmente molti prima di lui.

O sarebbe morto di morte violenta anni fa.
“Vi ringrazio per l’aiuto.” Si inserì per evitare un secondo battibecco trai due. “Spero avrò modo di sdebitarmi un giorno.”
Albus fece un cenno dismissivo. “Oh, lo stai già facendo!” Gli rivolse un bel sorriso. “E andrà tutto bene.”

“Hai finito?”
Roteò gli occhi al cielo e si sporge per stringergli il braccio amichevolmente. “Lo porto via prima che uno di noi due lo uccida. Buona fortuna!”
“Grazie.” Rispose osservandoli poi uscire dalla stanza discutendo animatamente sottovoce. Sorrise e reclinò la testa sui cuscini: avrebbe mentito a sé stesso se non avesse ammesso di essere nervoso. Il Memento era un incantesimo che aveva visto fare più volte a Johannes, e contro – perché era stato usato come arma – persone che poi non avevano fatto una bella fine. Non aveva bei ricordi.

Non che possa far niente se non aspettare la Psicomaga che verrà a farmelo e l’auror che l’accompagnerà.
Speriamo non sia Potter.
“Ehilà, bel ragazzo.” Si voltò quando udì la voce di Lily. Era proprio lei, sullo stipite della porta che lo salutava con le mano. “Sono passata per vedere come te la stai cavando.”
“Lily…”
Non comportarti da demente.

Si schiarì la voce e tentò di suonare amichevole. “Sei la Legimante che…”
“No, è un incantesimo troppo complicato, roba da Psicomaghe serie!” Non c’era bisogno di spiegarle niente, aveva già capito tutto. Si permise finalmente di rilassarsi mentre si alzava a sedere sul letto per non sembrare un uomo in punto di morte. Perché non lo era.

“Come ti senti?”
“Bene.” Mentì per l’ennesima volta, ma stavolta felice di farlo. Era felice che fosse lì.
Vuol dire che non ho fatto nulla di inappropriato. O non sarebbe venuta. Giusto?
Però era Lily; il suo buon cuore le permetteva spesso di sorvolare sul comportamento delle persone per aiutarle.
Quante volte l’hai trattata male ed è rimasta?
Non era ancora detto nulla. La guardò, sperando di cogliere nell’espressione o nel modo in cui aveva le mani dentro le tasche del camice un segno di disagio o fastidio. Non ne colse ma, ancora, questo non significava che non ci fossero.
“Mi hanno detto che … sei venuta a trovarmi.” Esordì mentre l’altra andava a tirare le tende, forse intuendo il fastidio che gli procurava la troppa luce solare. In quel modo però non poteva vederla in viso. “… grazie, anche non ne ho ricordo.”
Lily gli rivolse un sorrisetto divertito. “Questo perché eri fatto fino alla punta dei capelli, Ren.”

“Sì, mi hanno detto anche questo…” Si schiarì la voce. “A questo proposito, se ho detto o fatto qualcosa di inopportuno…”
“No, sei stato molto carino, tranquillo.”
Qualcosa non andava. Lily gli sorrideva normalmente, si era addirittura seduta sulla sponda del letto per stiracchiarsi come faceva sempre dopo tanto stare in piedi. Sorrideva ed era a suo agio e…

… qualcosa non andava.
Non aveva passato una vita ad analizzare le espressioni altrui, tentando disperatamente di decifrarle perché nessuno gli aveva insegnato un bel niente dell’interazione umana, per poi non accorgersi quando la strega che amava gli stava nascondendo qualcosa.
“Sei sicura?” Insistette scivolando un po’ troppo nel suo tono da agente, da come l’altra aggrottò le sopracciglia. “Perché mi hanno detto che ho fatto cose abbastanza stupide.”
“Ren, dovresti vedermi quando bevo il famoso cocktail di troppo!” Sbuffò. “Se hai paura di avermi offeso … ti assicuro che no, non l’hai fatto.” Abbozzò un nuovo sorriso e gli prese la mano, stringendola nella sua. “Sei stato un tesoro.”

“Allora perché non sei tornata a trovarmi?” Perché non era sicuro di molte cose, ma dell’amicizia di Lily Luna Potter sì. In quei due mesi gli aveva dimostrato più volte quanto fosse pronta a mollare tutto per occuparsi di lui. Ed era bello doloroso … e parte di un ragionamento logico che non poteva ignorare come agente, perché la logica era l’arma migliore del suo arsenale. “Ti preoccupi sempre per me. Anche troppo. Quindi perché non sei tornata?”
L’espressione cordiale dell’altra si incrinò abbastanza per fargli vedere altro; nervosismo sopratutto.
“Avevo da fare, Ren, io qui ci lavoro … Non ho avuto tempo per tornare, mi dispiace.”
“Non è per qualcosa che ho fatto o che ho…”
“Ti ho detto di no!”
C’era sempre un segnale distintivo, differente per ciascuno sospetto, ma sempre presente, per notare quando questo stesse mentendo. Per Lily era la voce che le tremava di aggressività celata.

“Quindi non devi dirmi niente?” C’era qualcosa, c’era perché glielo diceva il suo istinto. E forse non era un essere umano decente, ma era un ottimo agente. “Perché puoi dirmi tutto.”
“Lo so.” Lily scosse la testa, alzandosi dal letto e prendendo a passeggiare per la stanza come se ne andasse della sua vita.
Ho premuto il punto giusto perché il ghiaccio si rompesse…
Estevez gli aveva sempre detto che era un asso a trovare i punti deboli di un sospetto durante gli interrogatori.
Forse perché John Doe e mio zio hanno passato anni a premere i miei.
“È solo … sì, sono nervosa, ma non c’entri tu. È una cosa mia … nella mia testa, principalmente è quello.” Disse mangiandosi le parole. Era un altro tratto distintivo di una Lily nervosa: i pensieri le andavano più veloci della bocca. “Ma va bene, è tutto sotto controllo.”
“Non sembra.”
“Invece lo è.” Ribatté con forza. Gli lanciò un’occhiata arrabbiata, quasi volesse dirgliene quattro, quasi volesse finalmente sfogarsi … poi si morse un labbro e distolse lo sguardo. “Non è niente di grave. Posso controllarlo.”
Ancora il controllo.

Sembrava fosse la maggiore aspirazione di un Potter.  
Ha detto che non c’entri però. Perché non ti fai da parte? 
Perché non le credeva. E aveva la netta impressione di aver detto o fatto qualcosa che aveva contribuito a quello stato d’animo. “Lily…”
“Dobbiamo concentrarci su di te, adesso.” Disse forzando un sorriso. “Memento, giusto? È tosto. Ti hanno detto come funziona? Devi concentrarti su quella sera. Solo su quella sera.”
“Albus Severus mi ha illustrato con sufficiente chiarezza i principi dell’incantesimo, sì.” Confermò più per darle ragione che altro. A quel punto insistere avrebbe solo fatto peggiorare le cose. E non voleva che se ne andasse. “Lily, andrà tutto bene.” Era preoccupata che potesse accadergli qualcosa? Non capiva, ma sembrava bisognosa di rassicurazioni. Era quindi suo preciso dovere dargliele.

Sentendosi un po’ idiota, ma confidando nella buona volontà dei suoi propositi, le tese la mano. “Vieni qui.”
La vide tentennare, ma poco più di qualche attimo. Con suo enorme sollievo gli obbedì e gli afferrò la mano. Fu del tutto naturale sentirsi poi placcare e stringere in un abbraccio che ricambiò con tutta la sua forza di cui era disponibile – poca, fosse dannato Johannes.

“Scusa…” La sentì bofonchiare. “… scusami.”
Ora era confuso. “Di cosa?”  
Lily alzò il viso e avrebbe voluto avere la sua stramaledetta magia a pieno regime per una Legimanzia veloce per poter decifrare cosa si avvicendava su quel visetto sull’evidente orlo delle lacrime. Poi notò che gli stava guardando le labbra. E notò anche che si stava leccando le sue.
… Lily?
“Ci siamo baciati.”
Lo buttò fuori come un’esclamazione di sorpresa, molto vicina allo stupefatto dolore. Non controllata, non mediata e tanto meno razionalizzata da come poi sgranò gli occhi e lo guardò come se non avesse idea del perché avesse aperto bocca.

“… cosa?” Non poteva neanche pensare di aver capito male, perché Lily aveva precisamente detto tre parole.
Ci siamo baciati.
Ed ecco il motivo per cui non era tornata a trovarlo.  
Il bussare alla porta fu il corrispettivo di uno sparo di fucile Babbano. Lily, che aveva i nervi tesi come una corda, saltò in piedi e guardò con autentica gratitudine la porta aprirsi e far passare una Guaritrice, James Potter … e Ama.
Dannazione.
“Ehi Pipistrello, pronto a farti rimescolare il cervello?” Vociò quel cretino di Potter guardandosi attorno e individuando la sorella. “Ohi, Lils, che ci fai qui?”
“Interpreto la persona che se ne va.” Disse con un acuto brillante e totalmente in preda ai nervi. “Ciao!”

“Lily.” Tentò ma non venne degnato di uno sguardo. Lily infilò la porta, salutando appena e dandosela a gambe. E non poteva seguirla: non con tre persone davanti, di cui una era la strega che attualmente frequentava.
Dannazione.
Era bloccato. Era bloccato e furioso, confuso e spaventato. Era molte cose, ma nessuna di queste lo stava aiutando a chiarirsi le idee.
Ci siamo baciati.
Non ha detto che l’ha baciata. Ha usato il plurale.
Il plurale.
… non mi ricordo niente.
Il suo mondo era appena finito a testa in giù. “Sören.” La voce di Ama lo riscosse e così la sua espressione preoccupata. “Ti senti bene?”
Non si era mai sentito in quel modo, quindi era difficile rispondere. “Sto bene.” Preferì ripetere come un pappagallo.
“Ehi coso, se non te la senti …” Anche quel cretino di Potter si era accorto che non era del tutto in sé.
Frena la scopa principino. Razionalizza e concentrati. Non sei qui per i tuoi problemi sentimentali, né per Lily. Sei qui per catturare John Doe.  
Il compito, principino. Ricordati del compito.
Come sempre la sua voce interiore, che aveva ironia e cantilena simile a quella di Milo, l’aveva riportato sul pezzo. Inspirò ed espirò mentre obbligava forzosamente i suoi pensieri a dare una brusca sterzata su tutt’altro binario. Ma era bravo in questo: non gli si dava continuamente della testa di latta?
Senza contare che otterrai anche ciò che è successo con Lily.
“No, sono a posto.” Annuì e si rivolse alla Psicomaga. “Possiamo cominciare.”
 
****
 
Note:

Il cerchio di seghe mentali emotive si sta stringendo!
Qui la canzone del capitolo. Per chi vuole invece avere un consiglio musicale non richiesto la canzone che si ascoltava Tommy-boy. Sempre roba allegra.

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Capitolo 37
*** Capitolo XXXVI ***


Capitolo XXVI

 
 

I keep on running, building bridges that I know you never wanted
Look for my heart, you stole it away
(Burning Bridges, One Republic)
 
25 Luglio 2028
Londra, Diagon Alley.

Accademia Magica di Duello, Pomeriggio.
 
Non aveva mai visto Sören così incazzato.
Il che non deponeva bene; Milo ne era sempre più convinto e quella mattina era solo la summa dei giorni precedenti.
Non mi piace ammettere la sconfitta, ma se non lo imbustano in una è capace di far saltare l’Inghilterra intera.
Di certo al momento ne aveva tutta l’aria, mentre lanciava incantesimi luccicanti e violenti contro i manichini da allenamento dell’Accademia. Proprio per evitare di esser scambiato per uno di essi si era seduto al davanzale di una delle ampie finestre della sala, cercando al contempo di non respirare la puzza di petardi esplosi provocata dalla magia dell’altro. E aspettava.
Da quando era uscito dall’ospedale il suo maghetto instabile preferito si era chiuso in un mutismo ostile che gli aveva ricordato i primi tempi della loro convivenza.
Due giorni … e mica gli è passata.
Vide Dionis entrare di soppiatto come un ninja, squadrare il comune amico per poi decidere saggiamente di raggiungerlo alla finestra. “Come va?” Gli si rivolse diplomatico.
“Come vuoi che vada, picchia brutalmente quei poveri manichini e cerca di farsela passare.”
Il mago aggrottò le sopracciglia. “Ti ha detto qual è il problema finalmente?”

Nah. Se apre bocca in ‘sti giorni al massimo è per abbaiarmi ordini…”
Poteva essere per via di John Doe e tutto quello che l’incantesimo di memoria gli aveva ricordato; a quanto pareva il bastardo si era fatto vedere solo per sparirgli di nuovo sotto il naso.
Difficile da digerire.
“Ma … Lily?” Suggerì il rumeno, forse temendo che gli venisse distrutto il posto di lavoro. “Con lei parla!”
“Eh.” Gli rispose con una smorfia perché altro non poteva fare. “E questo è un altro problema. Zenzero non vuole parlargli.” Ciccò la cenere della sigaretta fuori dalla finestra e ne diede un’altra boccata. “Mister Simpatia ha cercato di contattarla un sacco di volte. Non gli risponde.”

“Perché?”
“Speravo me lo dicessi tu.”
Dionis spostò il peso da un piede all’altro, incerto se far scattare il naturale riserbo che era cifra del suo essere oppure immischiarsi. Alla fine sospirò come se avesse perso una battaglia terribile. “Non ne ho idea. Lei e Roxanne si confidano tutto, certo … ma mia moglie poi non riferisce certo a me.”
E tu te ne tieni giustamente fuori. Ragazzo saggio.

“Ma Lily è turbata di recente.” Aggiunse. “Forse hanno litigato?”  
“No, mi ha detto di no… ma la ragazzina è sparita, non è manco in ospedale, ho controllato.” Scrollò le spalle. “Francamente non me la sono sentita di chiedere … È nervosetto.”
“Lo vedo.”

“E oggi sta facendo qualcosa di costruttivo. Ieri ha scagliato il telefono al muro dopo l’ennesima chiamata. Quelli delle pulizie ci avranno messo mezza giornata a spazzar via tutti i pezzi.” Dionis lo guardò incredulo, poi lanciò una seconda, fugace occhiata all’altro mago. “Già.” Rispose al posto suo. “Penso che la visita di John Doe sia stata la goccia che abbia fatto traboccare la merda di ‘sto periodo.”
“Almeno è servito alle indagini?”
“Non ne ho idea, te l’ho detto, non parla.”

Perché diavolo Zenzero non sgambetta qui in giro? Perché me lo devo gestire io?
Se ce l’avesse avuta davanti le avrebbe torto il collo come la gallina che era. Sapeva benissimo di essere l’ancora emotiva del disagiato e che era l’unica a cui aprisse il cuore senza remore.
E sparisce. Sparisce dopo l’incontro con John Doe.
Non si molla la barca quando è in tempesta, stronza.
Era preoccupato e temeva che neppure le sue migliori, scazzate intenzioni avrebbero migliorato la situazione.
“Dovrei parlargli?” Chiese Dionis, in un onesto e commovente afflato di amicizia.
No, bello, a meno che tu non abbia una terza di seno e i capelli rossi.  
“No, in questi casi bisogna solo farlo sbollire.” Scrollò le spalle. “Gli passerà, o comincerà a lagnarsene presto.”
Per fortuna ha imparato a frignare quando si fa la bua.

L’altro mago annuì, abbozzando un sorriso imbarazzato che non comprese finché non gli porse una busta da lettere color rosa brillante. “Forse è meglio se questa gliela consegni tu.”
“Cos’è?”
“L’invito per il battesimo. Digli di venire un po’ prima, così gli spieghiamo cosa fare visto che è il padrino.” Esitò. “Certo, se ancora se la sente …”
“Non preoccuparti, se la sentità.” Gli assicurò con una pacca sulle spalle, perché il buon Radescu era nello sparuto gruppo di chi si meritava la sua gentilezza. “Non farà piangere la bambina con il suo brutto muso.”

“Grazie.” Un cenno di commiato e poi Dionis tornò alle sue faccende. Milo in compenso, dopo un’intensa e sofferta manciata di minuti pieni di silenziose imprecazioni, decise che l’altro aveva bisogno di pausa.
Dovrebbero darmi un ordine di Merlino, altro che.
Gli si avvicinò, stando ben attento a non infilarsi in qualche angolo cieco che gliel’avrebbe scatenato addosso come una belva presa in trappola e sventolò la busta per palesare la sua funzione di ambasciatore. “Ehi, c’è posta per te.”
Sören gli lanciò un’occhiata poco rassicurante, ma poi parve ricordarsi che non doveva uccidere ogni cosa nel suo raggio visivo. Fece un respiro profondo e abbassò la bacchetta. “Da parte di chi?”

“Del tuo amichetto slavo che era qui fino ad un attimo fa.” Gliela porse e fece un compostissimo passo indietro quando l’altro si avvicinò per prenderla. “È l’invito per il battesimo.” Spiegò. “Serve che ti stiri l’uniforme?”
Se c’è una cosa che lo mette di buon’umore è sfoggiarla in giro.
“No.” Gliela ridiede senza neanche aprirla. “Digli che non ci vado.”
Milo era fiero della sua ampia riserva di pazienza e di come riuscisse a tirarne fuori sempre una nuova oncia anche nei momenti più disperati.
Certo però non era infinita. “Hai rotto le palle.” Gli comunicò rifiutandosi di riprendere la missiva. “Credo dovresti saperlo.”
Sören rimase con il braccio teso per ancora qualche attimo prima di inspirare come un toro pronto a caricarlo. “Prendila. Ti ho detto che non ci vado.”
“Ed io ti ho detto che hai rotto i coglioni.” Ripeté mentre la vita gli scorreva davanti come un simpatico film muto. Sperava che Michel l’avrebbe ricordato ogni tanto, tra una scopata e l’altra.

“Non tollero che tu…”
“Tolleri un cazzo!” Lo bloccò esasperato, perché era pagato per piegargli le mutande e assicurarsi che mangiasse, non per farsi trattare come un Elfo Domestico. “Si può sapere perché devi gettar merda sulle persone che vogliono aiutarti?”

E poi sono tuo amico, brutto stronzo, trattami meglio!
Sören lo fissò smarrito, ma fu lesto ad assumere un’espressione da lesa maestà. “Un aiuto che non ho chiesto.”
“Perché comportarsi da bacchetta pazza e girare con l’aria di uno che vuole commettere un omicidio non è una richiesta di aiuto stampata a manifesto, proprio no!”

Sören a questo non rispose e Milo aspettò che l’intero senso della conversazione si sedimentasse in quella zucca vuota da porta-bacchetta. Come preventivato, la strigliata fece effetto: lo vide abbassare le spalle, allentare la presa sulla bacchetta e svuotarsi come un sacco.
“Dammi una sigaretta.” Borbottò. Obbedì e gliela accese pure, perché era chiaro che la magia che gli guizzava ancora vivace nelle vene rischiava di fargli saltare in aria le sopracciglia. Gli fece poi spazio sul davanzale ed aspettò.
La mia vita è tutta un’attesa.
Dopo quasi un quarto d’ora di soffertissima contemplazione del panorama circostante Sören esalò un lungo sospiro. “Scusa.” Disse dalle profondità della sua stronzaggine.
Non gli diede la soddisfazione di mostrarsi contento. “Ci vai al battesimo?” Chiese invece saltando sul bordo del davanzale perché si era stancato di stare in piedi.
“Non sono dell’umore adatto.”
“Non sei mai stato un tipo allegro, principino, ma Dionis ti ha nominato il padrino di sua figlia… è roba grossa, non puoi tirarti indietro.”
Sören fece una smorfia, tirandosi indietro ciocche umide di capelli. Era un bagno di sudore e la tentazione di infilarlo in una tinozza e sfregarlo come un ragazzino sporco di fango era forte.

Cazzo, sono diventato sua madre.
“Ci andrò.” Disse infine. “Hai ragione, non posso mancare di rispetto a lui e a sua moglie.”
Certo che ho ragione. Ho sempre ragione!
“Allora ti stiro l’uniforme.” Avrebbe dovuto sentirsi soddisfatto del risultato raggiunto, ma era un essere umano e come tale, era fatto di istinti e curiosità. “È troppo chiederti la ragione per cui mi hai trattato come un sacco da boxe in queste ultime quarantotto ore?”

“Ti ho già chiesto scusa, cos’altro vuoi?”
“Un aumento, mi pare ovvio.” Rispose senza acrimonia e da come l’altro tentò un mezzo sorriso capì che il sottotesto era stato intuito. Meglio, odiava spiegarsi quanto lui.  “Allora?”
Sören fece Evanescere la sigaretta e si staccò dal davanzale. “Il Memento è stato più…” Cercò la parola e quando parve trovarla sembrò più infelice che mai. “… rivelatorio di quanto pensassi. Pare che Johannes e mia madre siano stati informati della mia condizione.”
“Cioè?”

“Che sono il paziente zero.” Si slacciò il corpetto dell’allenamento e glielo passò assieme al resto dell’attrezzatura, ma Milo era troppo preso dal discorso per potersi lamentare di essere usato come un attaccapanni per l’ennesima volta.
“Non è una bella notizia… per un cazzo.” Mormorò preoccupato. “Che significa?”
“Significa che ho la conferma di essere un bersaglio che cammina.” Ma non vi era rabbia, solo rassegnazione.
No, non è stato questo a farlo incazzare. Magari contribuisce, sì, ma non è questo.
“E cos’hanno deciso riguardo al rimpatrio?”
A questo punto direi che è necessario, porca puttana. Mettetelo in una torre come Raperonzolo e metteteci un drago a sorvegliarla!
“Niente, per ora è tutto confermato. Partiremo il trentuno con la passaporta delle cinque per Boston.” E questa poteva essere la ragione della rabbia, tuttavia no, non era quella.
“Certo, ho detto partiremo, ma tu non sei obbligato.” Aggiunse a sorpresa mentre prendeva un asciugamano per asciugarsi il viso e il collo. “Credo che tu abbia ancora tempo per far richiesta di un’estensione del visto.”
“E perché dovrei farlo?”
“Per Zabini.” Lo guardò perplesso. “Sei sempre da lui … pensavo volessi rimanere. Non state assieme?”
Milo esitò: non aveva pensato al rimpatrio di Sören come ad un troncarsi della sua relazione con Michel, per quanto in effetti avrebbe potuto portare a quella conseguenza.
Due continenti diversi … e le Passaporte continentali costano un occhio della testa. Oltre al fatto che non puoi prenderle di continuo se non vuoi finire in ospedale con un’overdose da Materializzazione.
Vivere giorno per giorno e senza fare piani a lunga scadenza era un po’ la sua filosofia di vita, quindi non ci aveva pensato.
Ma forse avrei dovuto. 
“È complicato.” Era partito con l’idea di farlo cantare, ma sembrava che la situazione si fosse rovesciata. “Non so … non so che diavolo stiamo combinando.”
Sören inaspettatamente sorrise e non era un ghigno o un tentativo di presa in giro. “Sei innamorato di lui?”
“Col cazzo, no!”

Mettici anche una bella noticina isterica in fondo, da brava ragazzina coi brufoli, mi raccomando.
Sören ebbe la faccia tosta di sospirare con aria vissuta e consapevole. “Se quello che c’è tra di voi è qualcosa per cui vale la pena lottare non dovresti far finta che non ti interessi.”
“Senti chi parla! Vogliamo parlare di Zenzero?”

Fu precisamente la cosa sbagliata da dire da come l’altro si rabbuiò. Lo piantò anche in asso, dirigendosi verso gli spogliatoi.
Per Faust, che reginetta del melodramma!
Corrergli dietro pieno di roba come un attaccapanni fu abbastanza ridicolo. “Ehi!” Gridò. “Riprenditi la tua roba, porca puttana!”
Era la Potter, di sicuro. Il nucleo dell’incazzatura del principino aveva i capelli rossi e un sorriso stendi-uomini. Imbecille da parte sua scartarla solo perché c’erano di mezzo cose come John Doe e il rischio di finire su un tavolo da laboratorio come carne da macello.
“Si può sapere che cavolo avete combinato stavolta?” Chiese una volta dentro lo spogliatoio  scaricando i panni sudati sopra ad una panca per toglierseli dalle mani. “Dico, a parte girarvi attorno come due collegiali con le fregole.”
“Se non la fai finita ti ammazzo.”
“Avresti dovuto farlo tempo fa eppure respiro ancora.” Replicò sullo stesso tono. “Non sei credibile.”

Sören gli lanciò un’occhiata velenosa ma batté in ritirata dentro le docce. Milo lo seguì implacabile, anche perché nel mentre avrebbe potuto ammirare qualche istruttore o allievo come mamma l’aveva generato e la cosa aveva tendenzialmente aspetti positivi.
“Non avete litigato, okay … ma c’è un motivo per cui è stata inghiottita nel nulla?” Chiese fermandosi ai lavandini, perché era vero non esisteva privacy tra di loro, ma non fino a quel punto.  
Dal box arrivò solo il rumore dell’acqua.
“Posso continuare tutta la sera principino … E prima che mi minacci di strangolarmi prova a pensare cosa sembrerebbe ai tuoi colleghi di bacchetta se ci beccassero avvinghiati con tu tutto nudo che mi metti le mani addosso. Perverso, no?”
“Ci siamo baciati.”
Momento.
Raccolse le idee, ma ci volle più di qualche attimo prima che trovasse la domanda giusta da rivolgergli.
“E perché diamine sei incazzato come una biscia? Che problema hai?”
Ormai la diga era stata rotta. “Perché è scappata.” E calcò sull’ultima la parola con rabbia … ed eccolo lì il motivo di quei giorni di Sturm und Drang. “Ci siamo baciati mentre ero ancora sotto effetto dei narcotici.” Aggiunse come simpatica nota di colore.
“L’hai baciata da sballato, okay.” Annuì sentendosi comprensivo: di cose senza i freni inibitori tirati al massimo se ne facevano tante, e a quanto pareva Sören non era riuscito a tenere le mani a posto. Nulla di cui stupirsi.

È un miracolo che non le sia saltato addosso visto le palle blu che deve ritrovarsi.
La vera sorpresa però era stata Zenzero.
Ma brava … Scommetto che se l’è strapazzato ben bene.
“Mi ha ricambiato, il Memento me l’ha fatto ricordare.” Per un attimo il tono di Sören sfumò nell’incredulità e riuscì persino a suonare felice. Poi si ricordò il resto. “Ma invece di darmi spiegazioni, di parlare … si è resa irrintracciabile.”
Un classico. Le è venuta la strizza.
Non era troppo sorprendente, visto che l’inglesina era un’impulsiva, di quelle che il cervello a volte lo usava solo per tener separate le orecchie. Per quel che aveva capito era anche piuttosto passionale.
“E come sei riuscito a trasformare ‘sta cosa in una tragedia greca?” Era troppo sbalordito per avercela con lui nonostante l’avesse fatto preoccupare a morte per i suoi stramaledetti patemi sentimentali. “No, perché vi siete baciati e lei si è fatta prendere dal panico. Tutto qui. Succede, specie quando uno dei due ha già un ragazzo.”
“Appunto.”
“Cioè?”
“È fidanzata e mi ha baciato. Cosa significa?”
Aah…
Il problema non era il bacio, anche se probabilmente aveva contribuito a renderlo eccitabile; Sören era fuori di testa perché credeva che la persona di cui era innamorato si fosse solo tolta uno sfizio.
E quando ha cercato di parlarle si è visto sbattere la porta in faccia, metaforicamente.
Oh, beh.
“Non sei l’unico al mondo che è incasinato, okay?” Sospirò vinto, perché troppo spesso dimenticava di avere a che fare con un ragazzo le cui esperienze di vita erano iniziate una manciata di anni prima. “Zenzero è umana, fa’ anche lei le sue cazzate. Anzi, a giudicare dalla tipologia, direi che ne fa pure parecchie.”
Sören non dava segno di voler uscire dal box, e probabilmente avrebbe finito per bollire vivo vista tutta l’acqua calda che stava consumando. “Quindi pensi che abbia commesso una leggerezza. Che non abbia significato niente per lei.”
Oh, eccoci qua. Auto commiserazione.

“E che cavolo ne so? È a lei che dovresti chiederlo!”
“Lo farei se riuscissi a rintracciarla. Rifiuta le mie chiamate, non ha risposto al Gufo che le ho spedito … e al lavoro non c’è. Non posso certo andarle sotto casa.” Ritorse rabbioso. “Ha capito. Ha capito che sono innamorato di lei e mi sta ignorando.” Fece una pausa e poi una risata amara. “E sai qual è la cosa peggiore? Che il suo fidanzato la vuole portare in Australia. Le vuole fare una sorpresa e proporglielo … e forse anche sposarla.”
“Ah.”
“Preferivo quando lavoravo per mio zio.” Concluse cupo.

Oookay…
Sentimentalmente è nel panico. E non può buttarsi nel lavoro perché dall’altro lato se non lo rimpatriano, lo rapiscono.
No, non avrebbe voluto essere lui in quel momento. Tra le due però, forse era meglio parlare di affari di cuore. “Non l’hai proprio capito, eh…”
“Cosa?”
“Che anche lei è innamorata di te. È per quello che ti ha baciato di rimando. Perché se tu non sei riuscito a tener le mani a posto, lo stesso è stato per lei.”
Quello fu un buon modo per farlo smettere di piagnucolarsi addosso; non aveva mai sentito silenzio così profondo come quello che usciva assieme all’acqua della doccia.
“È cotta di te da quando ha quindici anni, Casanova.” Aggiunse mettendoci un doveroso carico da dodici. “Le hai acceso quel famoso fuoco dentro e appena sei tornato l’hai attizzato un po’ e l’hai fatta divampare. È roba tosta … quindi ritieniti fortunato che si è limitata a darsela a gambe.” Si strinse le spalle perché forse, solo un pochino, da quel punto di vista lo invidiava. “E poi, ‘fanculo l’Australia. Magari lei non ci vuole manco andare.”
Io mica ce l’ho mai avuto qualcuno che mi ama così.
“Ti lascio alla tua doccia…” Si incamminò verso gli spogliatoi. “E oh, ricordati che comunque la vedi al battesimo!”
Aveva detto abbastanza e con quella chiave di lettura forse l’avrebbe piantata di piangersi addosso come un personaggio di Goethe. Magari sarebbe rimasto incazzato, ma almeno sarebbe stata un’incazzatura sana.
E chissà che finalmente non si strappino i vestiti di dosso. Farebbe loro un gran bene!
Dopo aver infilato l’attrezzatura dell’altro in un borsone e aver calcolato il posto più economico dove andare a farla lavare e pulire, sentì il cellulare trillare allegro. Rispose quando era già fuori dall’Accademia perché dentro la ricezione, come in tutti gli edifici magici, era pessima.
“Emil, sono io.”
“Sì, maghetto, ti stupirà, ma ho memorizzato il tuo numero.” Si morse le labbra per trattenere un sorriso contento. Fosse mai che qualcuno lo stesse spiando.

“Sei libero?”
“Ho mollato Sören alle sue seghe mentali e devo mandare a far lavare della roba, ma a parte questo…”
“Ho bisogno di te.”
“Desiderio nudo e crudo, mi piace.”
“Non…” Esitò, come se non potesse parlare, come se fosse ascoltato. Questo lo preoccupò un po’. “Puoi venire a casa? Subito?”

Controllò l’orologio e fece qualche calcolo mentale. “Venti minuti e sono lì.”
“Non puoi…”
“Non ho una scopa sotto il culo, né una bacchetta, Michel. Meno di venti minuti non posso metterci manco se mi faccio spuntare le ali.”

“… Giusto.” Parve ricordare finalmente. “Sì, scusa … venti minuti sono perfetti.”
“Ma va tutto bene?”
No, perché non ho ancora imparato a sotterrare un cadavere.
E il tono sembrava proprio presagire quello.
“Te lo spiego quando sei qui. A dopo.” E riattaccò senza dargli altre spiegazioni o almeno ringraziarlo per essersi attivato neanche fosse un maledetto soldatino a molla in attesa di mettersi a marciare al suono di un tamburo.
Cazzo, se odio i maghi!
Masticò un’imprecazione a bassa voce ma poi si mise a correre.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Pomeriggio.
 
“Benedetta! Cosa ti ho detto?”
C’erano momenti in cui sospettava che tutta l’esperienza fatta con James e i suoi fratelli non fosse servita a nulla, perché l’arruffata nipotina che era capitombolata nella sua esistenza non dava retta a nessuna delle sue collaudate tecniche educative. “Non correre, ha piovuto e c’è fango … potresti scivolare e farti male.” Ripeté per forse la decima volta da quando erano usciti di casa.
La bambina si voltò, arricciando il naso e tenendo in bilico il grosso ombrello giallo che aveva scelto per camminare sotto la pioggerella estiva con cui si erano svegliati quella mattina. “Non capisco!” Dichiarò saltando dentro una pozzanghera e schizzando fango tutto attorno a discapito dei passanti.
Ted avrebbe dovuto arrabbiarsi, o almeno tentare una reprimenda. Il problema era che non riusciva a rimanere in collera quando quel visetto esprimeva gioiosa soddisfazione all’idea di avergliela fatta.
Questa è tutta colpa di Jamie. Mi ha rovinato.
Non era suo costume però arrendersi: l’afferrò quindi per il retro della salopette rosa che era stata di Lily e se la mise sottobraccio come un pacchetto particolarmente vivace. La risata che ne conseguì non poté che farlo sorridere. Chiuse poi il suo ombrello per usare quello della bambina, grande abbastanza da ripararli entrambi.
“Ormai sai parlare inglese Benedetta, quindi non dire bugie.” Si premurò comunque di farle notare. “Se ti infanghi tutta poi ti aspetta un bagno, lo sai.”
“Bagno brutto!” Esclamò offesa e in inglese. “Non mi piace!”
“Temo che tu non abbia scelta, hai fango fin dentro alle orecchie.”
“Teeddy!” Piagnucolò mostrando un broncio lacrimoso piuttosto convincente se non fosse stato proposto ogni qual volta che i suoi desideri venivano ignorati.
“Niente Teddy, bagno.” Salutò con un cenno della testa un paio di Tassorosso locali che uscivano da Scrivenshaft per una preventiva fornitura per l’anno scolastico: forse avrebbe dovuto farci una puntatina, visto che doveva ricomprare sia piume che pergamene.
“Teeddy!”
Non si lasciò intenerire: Benedetta spesso si lamentava per attirare l’attenzione, non per reale bisogno o perché era turbata. Era quando piangeva zitta zitta che bisognava preoccuparsi.

È stata viziata. Molto. Ma niente che non si possa correggere.
Come neonato zio faceva fatica a farsi prendere sul serio, essendo ancora una figura incerta, che non veniva neppure chiamata con il proprio titolo, ma era fiducioso. Per la prima volta in vita sua sapeva di star facendo qualcosa per l’assoluto bene di un’altra persona.  
Arrivati sotto la tettoia del negozio la mise giù, asciugandole i lacrimoni di stizza che le bagnavano le guance. “Adesso entriamo e compriamo pergamene e piume.” La informò. “Su, basta piangere. Avevi detto che mi avresti accompagnato e avresti fatto la brava bambina, no?”
Ben inspirò con il naso per niente convinta dal ragionamento. “Voglio casa!” Pestò i piedi con rabbia. “Sono stanca!” Aggiunse in italiano.
“Lo sei davvero?”
“Sì! Male … tutto, voglio casa!”
Ted sospirò; non poteva neanche chiamarlo vero capriccio alla fin fine.
La luna piena è domani.
E Benedetta ne era influenzata quanto e più di lui: fino ad un paio di giorni prima il disagio si era manifestato con semplice iperattività ma con l’avvicinarsi del plenilunio l’umore di Benedetta era sprofondato in un’altalena di irritabilità.
Le passò una mano trai capelli che recavano ancora traccia delle mani esperte di Lily, visto che non erano un nido arruffato: capiva il suo disagio ma doveva anche abituarla a controllare gli impulsi.
Vivrà con i maghi per il resto della sua vita, è meglio che inizi da adesso.
“Solo questa bottega e poi torniamo.” Tentò di blandirla. “Cosa vuoi mangiare per pranzo?”
“Casa!”
Come faceva Lunastorta a calmarla? Viveva con i Babbani, e con i nonni che non sospettavano nulla…
Non poteva certo chiederlo al lei: la morte del padre era ancora troppo fresca, e la sola menzione dell’uomo in un discorso era capace di farla rabbuiare e piangere.
Ci vorranno anni. Forse una vita intera.
Era quindi suo dovere dimostrarsi all’altezza della situazione.
Anche se non sarai mai suo padre.
Era suo tutore legale temporaneo, come diceva il documento del Ministero arrivato il giorno prima. Quando l’aveva letto ne aveva gioito con James, perché significava che finalmente la presenza in Inghilterra di Benedetta era legale e che era intitolato da ben due Ministeri ad occuparsi di lei.
Ma da un lato …
Era insoddisfatto. Non l’aveva confessato a James, ma quel foglio di pergamena non era riuscito a placare la sua inquietudine.
Temporaneo. Dovranno trascorrere sei mesi prima che la situazione diventi definitiva.
In sei mesi ne succedono di cose…

Non era comunque il momento di perdersi in ragionamenti, quindi si rivolse di nuovo all’ostinata figurina al suo fianco. “Benedetta, basta fare capricci.”
Il tono sortì il suo effetto da come la bambina smise di piagnucolare, anche se sgusciò dalla sua presa per entrare dentro il negozio in un ultimo afflato di ribellione.
La raggiunse, sia per tenerla d’occhio sia per controllare che non fosse oggetto di sguardi indiscreti visto che non l’aveva ancora formalmente introdotta nella cerchia sociale del villaggio. Non era neppure sicuro di volerlo fare.
Il sindaco è stato informato da Flynn … dubito però che se lo sia tenuto per sé.
… Se ha parlato me ne accorgerò da come la guarderanno.
La bambina intanto si era calmata, rapita tra gli scaffali ricolmi di rotoli polverosi e di scatole in set da dodici piume. La sua gioia più grande fu però trovare lo Kneazle della padrona e chinarsi per accarezzarlo, venendo ricompensata da fusa rumorose.
“Strano, Bertie non è così affettuoso con gli estranei!” Esclamò la Signora Landers uscendo dal retro-bottega e rivolgendo un’occhiata incuriosita ad entrambi. “Buongiorno Ted, e buongiorno bella signorina… Come ti chiami?”
Benedetta la ignorò fieramente, completamente dedita al felino che le si strusciava beato contro le gambe.
“Benedetta, è la figlia del mio fratellastro.” Servì quella notizia con tutta la naturalezza di cui era capace anche se si sentiva sudare la mani: non osava guardare il riflesso dei capelli sulle finestre del negozio. “È venuto a mancare per un incidente qualche mese fa … vive con me e James adesso.”
“Condoglianze caro, è terribile. E quindi adesso ti occupi di lei?” La donna lo guardò con voracità curiosa, palesando il fatto che il sindaco non avesse assolto alla sua funzione di Gazzettino.

Che gli ha detto Flynn per farlo star zitto? Devo ricordarmi di mandarle un cesto di Mielandia…
“Già.” Convenne sorridendo a Benedetta che giocava a rincorrere il suo nuovo, peloso amico. “È stato uno Stupeficium a ciel sereno, ma io e James ci stiamo adattando.”
“Non è inglese, vero?” La domanda lo colse di sorpresa, ma non fece in tempo a rispondere che la strega si spostò da dietro al bancone per raggiungere la bambina. “Cara, non agitare così il povero Bertie, è anziano…” Si voltò verso di lui. “Capisce ciò che dico?”

Di colpo si ricordò che Molly Landers era una pettegola e non gli era mai piaciuta granché.
La risposta di Benedetta lo riempì di orgoglio. “Io capisco! Io e gatto giochiamo, non faccio male!” Replicò con piglio sicuro: portarla a giocare con i figli di Neville, britannici fino alla punta dei capelli, aveva sortito i suoi effetti.

E questa è la riprova che si diverte a far finta di non capire. Potrebbe esser figlia di Jamie.
La reazione della strega però non fu quella che si sarebbe aspettato. Guardò la bambina sbalordita e indietreggiò anche di qualche passo.
Realizzò solo un secondo dopo che il colore degli occhi di Ben, miele brillante, erano un segnale palese della sua condizione.
“È un Mannaro?” Chiese guardandolo sbalordita. “È un Mannaro o…”
Gli si aprivano due possibilità, due storie completamente diverse che davano esiti opposti.
Non ci mise molto a decidere. “No, è frutto di un atavismo. Molti figli o nipoti di Mannari hanno le iridi dorate.” Si indicò il viso con un lieve sorriso distensivo, la sua arma preferita per tranquillizzare torme di adolescenti pieni di magia ed emozioni. “Se non fossi un Metamorfomago le avrei anche io.” 

Non c’è necessità che tutti lo sappiano. No, nessuna legge mi obbliga a dirlo, e Flynn di certo deve aver detto al sindaco di tenere la bocca chiusa.
E così lui avrebbe fatto, per Benedetta.
La donna scoccò un’occhiata a Ben, ma parve trovare nelle sue guance rosee e nella vivacità con cui giocavano con lo Kneazle la conferma di quel che le aveva detto. “Certo, non assomiglia proprio ad un Mannaro … Quelli fanno sempre avanti e indietro dal San Mungo, no?”
Sì, se hanno contratto la malattia con un morso. Quelli che sono nati da genitori Mannari scoppiano di salute.
Annuì. “Benedetta è sana come suo padre e come me.”
 
Sulla via del ritorno non riuscì ad esser partecipe dell’entusiasmo della piccola, che in un inglese inframezzato a un robusto italiano gli spiegava quando Bertie fosse simpatico. Le teneva la mano e sorrideva però; sperava bastasse.
Ho mentito. Certo, è ancora piccola, e possiamo gestire la cosa, tenerla nascosta. Ma quando crescerà …
Fu quasi un sollievo incrociare Neville che usciva di casa in compagnia del più grande dei suoi figli. Benedetta salutò il bambino con entusiasmo e insieme decisero di sfidarsi a correre fino alla fine del villaggio poche case più sopra.
“Bambini!” Li richiamò Neville prima di scuotere la testa rassegnato e rivolgergli un cenno di saluto. “Ormai su Cedric funziona solo la Pastoia.” Scherzò.
“Forse dovrei provarla anch’io…” Mormorò senza riuscire a nascondere il proprio turbamento.
L’altro professore fu lesto a notarlo. “Ted, è successo qualcosa?”
Non aveva voglia di tenerselo dentro, quindi spiegò per sommi capi cos’era successo e la decisione che aveva conseguentemente preso. Alla fine del monologo Neville sospirò.
“Non so se hai fatto bene … Certo, se le persone sapessero che Benedetta è un licantropo potrebbero esserci polemiche, alcuni potrebbero anche non prenderla bene.” Non era mai stato tipo da minimizzare i problemi. “Ci sarebbe da combattere.”
“E ci andrebbe di mezzo Ben.” Replicò serrando la mascella mentre guardava la bambina arrivare prima alla fine del viottolo che delimitava Hogsmeade dalla montagna e fare uno strillo in segno di vittorio. “Non voglio che sia guardata come qualcosa da temere … non voglio che venga tenuta lontana dagli altri bambini perché le madri pensano che solo a respirarne la sua stessa aria i figli possano venire contagiati. Non è giusto.”

Il vicino Plenilunio stimolava la sua rabbia come un fiume sotterraneo, facendogli venir voglia di prendere a pugni qualcosa.
Mio padre ha vissuto una vita di stenti per colpa dei pregiudizi. Non Ben. Non deve succedere a Ben.
L’altro mago annuì con un sorriso empatico. “C’è ancora tanta ignoranza … Quindi pensi di tener nascosta la cosa?”
“Per il momento.” Confermò. “Finché la situazione con Ben non sarà stabile. Sono stato nominato suo tutore legale … ma sono in prova, dovranno trascorrere sei mesi prima che la situazione diventi definitiva.”

“Hai paura che le persone al villaggio possano dare problemi in questo senso?” Intuì Neville. “Che inficino la valutazione del Ministero?”
“Benedetta ha il diritto di vivere in un ambiente sicuro. I pregiudizi della gente non contribuirebbero a farla star bene.” Fece una smorfia. “Non mi piace l’idea di mentire … ma cos’altro posso fare?”
Se il Ministero decidesse che per Ben questo non è l’ambiente giusto potrebbero revocarmi il titolo.
Me la porterebbero via.
Serrò le dita contro la staccionata e ignorò la facilità con cui il legno scricchiolò sotto la sua presa. “Se lo al villaggio lo scoprissero … beh, potremo anche trasferirci. La serenità di Ben viene prima di tutto.”
Perché era certo che James l’avrebbe appoggiato. O almeno lo sperava.

Neville sorrise, dandogli una pacca sulla spalla. “La vuoi proteggere, lo capisco … Se al posto suo ci fossero Frankie o Ced farei la stessa cosa. È quello che deve fare un padre.”
“Non sono suo padre.”

Neville rafforzò la stretta sulla sua spalla. “Ora lo sei.”
Fece per ribattere quando Benedetta gli corse incontro e lo placcò alla vita, tirandogli anche una discreta testata allo stomaco. “Benedetta!” La richiamò ma non riuscì a mantenere la faccia severa quando gli porse una manciata di sassolini fangosi con il sorriso di chi li aveva vinti dopo una dura battaglia.  
“Per te! Poi dividi con Jamie!” Dichiarò prima di correre di nuovo via, tutta presa in chissà quale fantastica avventura.
Ted sentì qualcosa pungergli gli occhi e sperava proprio non fossero lacrime. Tanto comunque ci avrebbero pensato i capelli a sbandierare il suo stato d’animo.
Neville si strinse nelle spalle. “Conosco quello sguardo e ripeto. Lo sei, ragazzo mio. Sei un padre.”
Sì, lo sono.

E avrebbe mentito anche ad un intero villaggio per difendere la sua bambina.
 
****
Victoria Embankment, Casa di Michel Zabini.
Pomeriggio.

 
“Grazie a Merlino sei qui!”
Essere accolti così ogni giorno non sarebbe stato male, pensò Emil guardando il viso ansioso di Michel sciogliersi nel sollievo.

Certo, magari gradirei anche essere sbattuto al muro per turpi motivi, ma…
L’altro non era della stessa idea però, perché si tirò indietro per lasciarlo passare in anticamera. Indossava ancora il completo che usava al lavoro, stirato al millimetro. L’unica traccia di scombussolamento era in effetti sulla sua faccia. “Che succede?” Chiese pratico. Inutile girarci intorno.
Tanto qua non si scopa.
“È successo … Dirk.” Lo guardò smarrito, come se cercasse lui stesso di capirci qualcosa. Prima che potesse chiedergli chi era lo stronzo in questione, aggiunse. “Mio fratello.”
“Hai un fratello?” Non gliene aveva mai parlato, o se l’aveva fatto era stato in maniera talmente marginale dal farglielo dimenticare. “Vuoi dire che c’è un altro schianto esotico come te in giro per Londra?”
Michel lo fulminò con lo sguardo. “Ha sette anni, ed è il figlio di seconde nozze di mio padre. Te ne ho già parlato.”

Okay, gaffe. Marcia indietro, rimedia.
“Gli è successo qualcosa?” Vedendolo così turbato temette per il peggio e gli mise quindi un braccio attorno alle spalle, tirandoselo contro. “Ehi, sono sicuro che si risolverà.”
“Dubito.” Mormorò scuotendo la testa. “È qui.”

“Chi?”
“Dirk! La mia matrigna me l’ha portato in ufficio!” Esclamò prima di lanciare un’occhiata atterrita in direzione del corridoio; doveva averlo parcheggiato in salotto dai rumori che ne uscivano. “La sua Elfa personale si è presa un raffreddore … non pensavo neppure che quei cosi potessero ammalarsi… fatto sta che sua madre doveva uscire per un the da un’amica, così me l’ha portato. In ufficio.” Ripeté come se fosse la peggiore della onte. “Ho dovuto prendere mezza giornata di permesso per portarlo a casa!”
Milo inspirò ed espirò lentamente, visualizzando un paesaggio alpino con tanto di mucche al quieto pascolo perché aveva una gran voglia di prendere rifilargli un pugno.
Mi hai fatto correre qui perché non sai come gestire tuo fratello?!
Avrebbe voluto gridarglielo contro, ma l’espressione scombussolata dell’altro meritava perlomeno qualche domanda in più. “Scusa, ma non ci sono altri Elfi? In Inghilterra ne avete plotoni interi pronti a servirvi.”
“Non voleva altri Elfi … si è messo a gridare e fare le bizze finché sua madre non ha intelegito dalle sue urla che voleva stare con me.”

“E quindi?”
“Non so perché!” Il tono era pericolosamente vicino ad una lagna infantile, così come il broncio. “Io e Dirk non siamo certo vicini … a malapena ci vediamo per le feste comandate! Non ho la minima idea del perché sia voluto venire da me … non l’ha mai fatto!”
Purosangue, tutti uguali. Li metti di fronte ad una situazione che esula dalla loro routine patinata e vanno nel panico.
Per sua sfortuna la sua capacità di adattamento era invece eccellente. “Te la stai facendo sotto perché un bambino di sette anni ha chiesto di te?”
Michel aprì la bocca per protestare, ma per fortuna era meno ostinato di Sören, perché strinse le labbra ma lasciò perdere. “Non sono bravo con i bambini…”
“L’avevo capito.” Si tolse la giacca e la gettò addosso all’altro che la afferrò al volo con una presa  niente male. Ignorò l’occhiata indignata che ne conseguì e si stiracchiò: quella giornata si prometteva lunga. “Quindi quando vengono a prenderlo?”

“Non…”
“… lo sai, ricevuto. Hai detto che si chiama Dirk?” Fece per incamminarsi quando venne fermato per un braccio.

“Che vuoi fare?”
Dio, che melodramma.
“Conoscerlo?” Chiese con tutta la perplessità che era capace di dimostrare. “Mi hai chiamato in preda al panico e mi hai fatto correre qui come se avessi ammazzato qualcuno. È venuto fuori che hai solo bisogno che qualcuno faccia da babysitter a tuo fratello …” Si indicò con un gesto complessivo, un po’ ridicolo ma d’effetto. “Si da il caso che io faccia questo di lavoro. Per un bamboccio più grande e più problematico, ma rimane il fatto.”
Michel batté le palpebre come se avesse realizzato solo in quel momento che si era portato in casa la soluzione. “Sì … in effetti.” La presa sul suo braccio divenne più simile ad una carezza, così come la sua espressione. “Non ci avevo pensato.”
Lo guardò spazientito. “E perché mi hai chiamato allora?”

“Perché avevo bisogno di te.” Disse con semplicità, togliendogli ogni forza di ribattere; quando l’aveva conosciuto per la prima volta l’aveva pensato un algido stronzetto con troppi strati, e che anche a sfogliarli sarebbe venuto fuori solo un cuore rinsecchito. Invece, nonostante avesse avuto un’infanzia arida da manuale, Michel aveva ancora un cuore vivo che gli batteva nel petto. E si vedeva.
E questo ti manda fuori fase. Prima … e pure adesso.
“Beh, sto qua no?” Scrollò le spalle avendo la certezza di avere un cartello al collo che parlava di robe come sentimenti e commozione. Fece per infilare le mani nelle tasche, benedette tasche, quando Michel intercettò la destra e la intrecciò alla sua, sporgendosi per un bacio a stampo che gli fece schizzare il cuore in gola più forte che si fosse messo in ginocchio a far altro.
“Grazie.”
Non era attrezzato per la dolcezza.
Fu quindi con autentico sollievo che entrò nel salotto dove un piccolo mini-me del ragazzo che aveva accanto stava guardando tutto composto un libro di illustrazioni. Riccioli perfetti, incarnato color caffellatte e i lineamenti da putto Pre-Raffaellita; decisamente era di sangue Zabini.
“Ehi, sei Dirk?” Lo apostrofò senza troppi giri di parole o squittii da dementi, certo che il ragazzino fosse già abbastanza grande da esser stufo di essere trattato come un bambolotto.
Dirk alzò la testa, squadrandolo da capo a piedi, da autentico piccolo lord qual’era. Poi però si aprì in un sorriso da moccioso che era una meraviglia: gli mancava pure un dente. “Ciao!” Esclamò. “Sì, sono io! E tu chi sei?”
“Mi chiamo Milo.” Gli tese la mano chinandosi alla sua altezza per farsela stringere. Alle sue spalle sentiva Michel trattenere il respiro. “Sono un amico di Michel … Sei venuto a trovarlo anche tu?”
“Anche io!” Confermò guardando verso il fratello come se fosse un cavaliere con tanto di armatura e testa di drago mozzato in mano. “La mia Elfa è malata, e mamma era impegnata, ed io non volevo stare con gli altri Elfi … così sono venuto da Miki!” 
“È ovvio.” Convenne. “E scommetto che il fratellone non ti ha ancora detto niente della sorpresa.”
Dirk spalancò gli occhioni – di un azzurro pulito che l’avrebbe fatto diventare sogno di ragazzi e ragazze una volta adolescente – e guardò Michel come se adesso oltre alla testa del drago gli stesse anche offrendo di partire in una nuova avventura assieme. “No! Che sorpresa?”

Milo rivolse un ghigno all’espressione palliduccia dell’altro ragazzo; era chiaro che volesse strangolarlo o perlomeno smentirlo, ma non trovava la forza di deludere le speranze del fratellino. “Sono qui per portare te e Miki in gita.” Dichiarò. “È questo il mio mestiere … fabbrico sorprese.”
“Che bello!” Il bambino quasi saltò sulla poltrona come l’età imponeva, ma si bloccò prima di metterci i piedi sopra; era deprimente constatare come la schifosa macchina Purosangue avesse già cominciato a sgranocchiarlo. Si guardò smarrito attorno. “Dov’è l’Elfo con il mio mantello?”
Michel si riscosse dalla statua di sale che era diventato. “Non ho elfi qui, Dirk.” Replicò con un tono più adatto ad un cliente che ad un settenne. “E … dove ci vuole portare non puoi girare con il mantello.” Lo guardò accusatorio.
“Beh, ma Miki sono sicuro te lo trasformerà in un bel cappottino alla moda.” Replicò con un sogghigno e cercò di non ridere quando l’altro prese il piccolo mantello foderato di azzurro e si concentrò scornato per pensare a cosa sarebbe dovuto diventare.
“Fagli una giacca come la mia, sapientone.” Gli venne in soccorso mentre il piccolo andava a rimettere a posto il libro con il garbo di un anziano filatelista. “Niente di troppo pretenzioso, o gli altri bambini penseranno sia uno sfigato e non vorranno giocare con lui.”
“Altri bambini?” Michel perse quel poco di colore che gli era rimasto sulle guance, diventando di tinta livida. “Di cosa stai parlando?”

“Del fatto che tuo fratello ha bisogno di giocare, e non di restare in un salotto a sfogliare un libro non adatto alla sua età. Mi hai chiesto di fargli da babysitter … è quel che sto facendo.” Si stinse nelle spalle, perché forse non era l’uomo migliore del mondo, ma non avrebbe mai negato quello che un bambino chiedeva a gran voce e senza aprire bocca.
“Ma…”
“I ragazzini quando si annoiano diventano molesti.” Lo avvertì. “Vuoi che diventi molesto?”

Non osò ribattere.
 
Michel si rigirò tra le mani il mantello-ora-giubbotto. Non aveva la minima idea del perché avesse accettato di assecondare l’idea assurda di Emil; forse perché non sapeva che Snaso pescare e ne era piuttosto angosciato, o forse perché l’altro pareva terribilmente a suo agio in compagnia di Dirk, come mai lui sarebbe stato.
Dirk in compenso sembrava entusiasta della novità, e si fece consegnare il giubbotto da Babbano senza troppe storie, specie quando Emil si inventò che erano in missione segreta per scoprire moda e usi dei Babbani.
“Ma non sono pericolosi? Non ho paura, eh!” Chiarificò lanciandogli un’occhiata e rivolgendosi incomprensibilmente a lui. “Miki, ma è pericoloso?”
Si schiarì la voce. “No, finché non…” Esitò ma fu incoraggiato da un’occhiata del tedesco. “… non ti fai scoprire.”
Emil annuì con aria comicamente grave. “È una missione segreta.”
“Che bello!”
Ma non potevamo restare a casa? Gli davo da leggere qualcosa e lo tenevamo d’occhio…

Non lo disse però, e prese la mano di Dirk, continuando nella commedia. “Non possiamo Smaterializzarci … useremo…”
Andare a piedi, vero?

“I mezzi Babbani.” Si inserì Emil con squisito sadismo. “Hai mai preso un bus Dirk?”
“Come il Nottetempo? Mamma dice che i bus sono sporchi e hanno le malattie!”
Non che abbia tutti i torti.

Emil si strinse nelle spalle. “Basta lavarsi le mani poi. Pronto ad affrontarli?”
“Sì!”
Michel non poté frenare un mezzo sorriso quando vide Dirk dare la mano anche all’altro, spontaneamente e in totale fiducia, come se lo conoscesse da anni; e non era una cosa da prendere sottogamba considerato che era stato cresciuto per diffidare di tutti, com’era successo a lui.  

Emil però è speciale.
Era naturale che Dirk ne fosse rimasto affascinato all’istante com’era capitato a lui.
 
*****
Lancashire, Preston.
Quartiere magico, Pomeriggio.

 
“Secondo me il lillà non va bene … fa più primavera che tarda estate, no?”
“Malfuretto, ma cosa cazzo ne so io?”
“Non so, pensavo che essendo mezzo gay…”
“Ma vaffanculo.”
“Dai, dammi un parere! Rosie vuole un feedback sui vestiti delle damigelle, e tua sorella non fa che proporle bikini e shorts!”

“… ed è una cosa che non avrei voluto sapere. Sono cazzi tuoi!”
Per favooore!
James fu seriamente tentato di strangolare la ciabatta ambulante che il Destino gli aveva affibbiato come migliore amico. Sfortunatamente erano in servizio, e la suddetta ciabatta bionda era anche suo partner. Lo strattonò quindi per la camicia, visto che stava vagolando senza meta per uno dei vicoli più deprimenti che avesse mai visto come se fosse in mezzo ad un prato alpino, e gli indicò l’insegna che stavano cercando da mezz’ora. “Ci siamo.” Dichiarò. “L’unico pub magico di Preston.”
Scorpius guardò l’insieme e aggrottò le sopracciglia. “Sembra Babbano.” Decretò con un certo grado di ragione visto che sulla lavagnetta affissa fuori, oltre ad un menù che parlava di spezzatino e patate, venivano offerti anche la tv via cavo e un’area wi-fi.
“Pare che il quartiere si sia spopolato durante la guerra.” Spiegò perché aveva letto l’appunto che Bobby gli aveva dato prima di partire, lui. “Il proprietario avrà dovuto arrangiarsi.”
Quando entrarono alla porta tintinnarono una decina di campanelli, segnale di benvenuto di ogni bar magico: all’interno l’arredamento era Babbano Per Sbaglio, come l’avrebbe definito Lily. C’era un grosso televisore al plasma sopra al bancone  e una vetrina di alcolici estrosi illuminati a neon, ma anche un attaccapanni con un paio di vecchi mantelli appesi e un portaombrelli a forma di zampa di troll dietro la porta.

“Benvenuti!” Li salutò il proprietario che esibiva un’improbabile camicia a fiori hawaiani. “Grande il Manchester ieri sera, eh?”
“Non sforzarti.” Replicò James scostando il giubbotto per mostrare il fodero della bacchetta agganciato sotto l’ascella, come regolamento imponeva quando si era in una zona ad alta densità Babbana. “Siamo auror.”
“Allora doppiamente benvenuti!” Il mago, che tale doveva essere da come si illuminò, fece ampi gesti verso il bancone. “Sedetevi ragazzi, offre la casa!”
Accettarono così di buon grado un paio di Burrobirre ghiacciate e degli stuzzichini di formaggio che se serviti a Babbani avrebbero fatto sicuramente chiudere il posto per motivi di igiene. Poi Scorpius, ad un suo cenno, cominciò a cianciare delle ultime partite dei Falmouth Falcons dandogli così il tempo di guardarsi intorno per capire se quel posto dimenticato da Merlino potesse aver visto il passaggio di Doe.
Quartiere magico in decadenza … Pub in culo al mondo. Sì, potrebbe essere.
Era con quello spirito che da molte mattina a quella parte erano alla ricerca del quartier generale del Demiurgo; era un lavoraccio, ma stavano setacciando palmo per palmo tutte le cittadine del Nord con una minima presenza magica.
Le tracce di fango degli stivali del bastardo provenivano da qui… o forse dalla Cumbria.
A volte odio il mio lavoro.
“Da quant’è che non vedi un mago?” Decise di mettersi in azione.
L’oste si pizzicò la barba pensandoci su. “E chi se lo ricorda? Prima della seconda guerra c’erano venti botteghe e tre pub … adesso per fare la spesa o farmi preparare un Decotto Tiramisù devo andare fino a Manchester o addirittura Liverpool!” Scosse la testa con aria rassegnata. “Ormai siamo rimasti in pochi … io ho dovuto cambiare insegna, nome e mettere addirittura quel dannato aggeggio sopra la mia testa per attirar gente.” Scosse la testa. “Ho sempre odiato il calcio.”
Scorpius annuì con aria comprensiva, passandogli la fotografia di John Doe da sopra al bancone che ciascuno di loro si portava dietro ovunque. “Ha mai visto quest’uomo? O qualcuno che gli assomigliava, magari.” Ripeté forse per la centesima volta; la cosa bella di Malfoy è che riusciva ad essere speranzoso ogni volta. A lui non riusciva.
Il barista aggrottò le sopracciglia, prendendo gli occhiali per dargli un’occhiata. “No, direi di no … Una faccia da galera così me la ricorderei.”
Appunto. Minimo ha anche cambiato faccia.

“E l’ultimo mago che ricorda?” Non si arrese Scorpius. “O anche un avventore fisso, magari Babbano…”
“Si tratta di un Metamorfomago?” Intuì per poi allargare le braccia. “Se è così, state cercando un boccino in un campo d’uova ragazzi. Non ho una clientela nutrita, è vero, ma la sera questo posto in qualche modo si riempie. E non sono mai stato bravo a ricordarmi le facce…” Vedendo le loro espressioni esitò, forse mosso a compassione dalla stupida faccia da cane bastonato di Malfoy. “Ma se mi lasciate quella foto posso fare un paio di domande in giro…”
“Ci contatti a questo indirizzo o tramite Gufo.” Scorpius gli scrisse solerte l’indirizzo dell’ufficio su un tovagliolino di carta e poi aggiunse anche il suo numero di cellulare. “E questo è il mio cellulare. Sono sempre reperibile, quindi non si faccia problemi!”
“Vi siete modernizzati anche giù al Ministero, eh?” Ironizzò per poi indicare con un cenno del mento il fondo del locale. “A me è toccato, pure … ormai di magico ho solo del vecchio ciarpame. Laggiù ci sono tutte le insegne dei negozi del quartiere per esempio. Dateci un’occhiata, c’è roba divertente.”
James si era già stufato dell’atmosfera polverosa e tetra di quell’accrocchio di strade ormai morte e pure piuttosto mummificate. “Veramente dovremo…”
“Adoro le vecchie insegne!” Trillò lo squilibrato con cui condivideva la scrivania e gran parte della propria vita tirandolo per un braccio. “Potty, tu no?” E ce lo trascinò davanti.

“Ma che cavolo…”
“È un povero vecchietto che vive di nostalgia, dagli un po’ di soddisfazione, non fare la testa di latta crudele!” Lo tacitò con una gomitata che fu ben felice di ricambiare. “Non hai proprio idea di quanto sia dura essere gli unici maghi in un mondo di Babbani?”

“Perché, tu sì?”
Io ho vissuto per anni vicino a quella calamita attira turisti che è Stonehenge … ma zero maghi. Attorno al Manor ci sono solo stramaledetti campi pieni di pecore. Il Wiltshire è un posto triste come questo.” Replicò con sguardo accusatorio. “Sii empatico.”
“Che palle.” Sbuffò dando un’occhiata annoiata alla decina di vecchie insegne mangiate dall’umidità e dal tempo. Aggrottò le sopracciglia e mise a fuoco una delle insegne più in alto, così mal messa che aveva perso tutto il suo colore originale in favore di un marroncino virante al marcio. Però, sotto gli strati di lerciume, il logo dipinto era ancora visibile e gli era stranamente familiare: due mani intrecciate sormontate da una corona a tre punte.

Dove cavolo l’ho visto?
“Potty, io intendevo un’occhiata educata, non fissartici come un segugio con un fagiano…” Lo riscosse Scorpius perplesso. “Cos’hai visto?”
“Quell’insegna lì … il disegno, mi ricorda qualcosa.” Disse indicandolo. Poi scrollò le spalle: era difficile ricordare uno stemma in un mondo pieno di ex nobili pomposi.
Persino Malfoy ne ha uno!
Avevano già perso troppo tempo.
Dobbiamo ancora finire il Lancashire, che domani ci tocca la Cumbria e sarà tosta.
Fece per voltarsi ma l’altro lo afferrò per un braccio. “Fermo lì.” Disse. “Anche a me sembra di averlo già visto.” Si voltò verso il bancone. “Mi scusi … ricorda a cosa corrisponde quell’insegna?”
“Malfuretto, ma che…”
“Lasciami fare.” Lo interruppe nuovamente, accogliendo con un sorriso tutto denti il vecchio barista. “Quello in cima, sulla sinistra.”
L’uomo si aggiustò gli occhiali sul naso e strizzò gli occhi un paio di volte prima di identificarlo. “Ah, certo … è di una locanda, il Red Crown. Chiuse ben prima della guerra, se la memoria non mi gioca brutti scherzi.” Prese la bacchetta e la staccò, facendola levitare alla loro altezza.

Già visto, già visto … e pure Malfuretto, pare, da come s’è eccitato.
“Cosa ci può raccontare?” Rincarò Scorpius con quell’aria a bravo scolaretto che aveva fatto capitolare anche i loro più granitici professori. Fuori da Hogwarts faceva sciogliere la lingua a chiunque.
“Ah, è una storia lunga e risale a qualche secolo fa.” Iniziò l’uomo e James pestò il piede all’altro, e fu altrettanto silenziosamente ricambiato. “Il Red Crown era una locanda, ma non di qui, di un villaggio magico nella brughiera, a un’ora di scopa. Non era neppure un villaggio a dirla tutta, piuttosto una manciata di case abitate da gente che lavorava nelle terre di una vecchia famiglia nobile, sapete, di quelle importanti …”
“Tipo i Malfoy, certo.” Si gonfiò tutto Scorpius.
L’uomo con suo enorme scorno annuì. “Poi i Babbani scoprirono che sotto quelle case c’era del carbone e beh … sapete come sono, in quattro e quattr’otto ci costruirono sopra una miniera … e poi una città. I proprietari tentarono di protestare, ma per il Ministero era un grattacapo troppo grosso respingere tutti quei Babbani, così offrirono un risarcimento alla famiglia per i terreni perduti e spostarono i fittavoli da un’altra parte. L’unica traccia che rimane di quel villaggio è proprio questa vecchia insegna … e il castello dei padroni, forse, se è ancora in piedi.”

“Interessante, ora dovremo…”
“Come si chiama la città?” Era accanimento terapeutico a quel punto, e avrebbe dovuto mettere fine alle sofferenze mentali di Malfoy. Fece per dire qualcosa quando il vecchio rispose.

“Mi pare si chiami Cokeworth.”
“Ma è dove è nata mia zia di mio padre!” Esclamò sorpreso; ripescando dai suoi ricordi d’infanzia aveva memoria di una cittadina grigia, di una casetta brutta da morire e di un paio di visite noiosissime alla zia di suo padre, tra l’altro antipatica da morire.
“La zia di tuo padre?” Scorpius lo guardò meravigliato. “Ma … quella Babbana del Surrey?”
“Sì, zia Petunia, la sorella di nonna Lily. Quando è rimasta vedova si è ritrasferita a casa dei miei nonni Paterni … erano di Cokeworth.”
Scorpius dovette trarre da quell’informazione qualcosa terribilmente importante perché spalancò la bocca in un’esclamazione muta ed afferrò l’insegna, contemplandola con l’aria di chi aveva appena trovato la Pietra Filosofale.
Malfuretto?
“Possiamo prenderla? Per le indagini!” Quando il proprietario annuì ci mancò poco che l’abbracciasse. “Grazie!” Esclamò e poi lo trascinò fuori.
Quando furono finalmente alla luce del sole, seppur lattiginosa come tempo del Nord prevedeva, si voltò verso di lui con un ghigno entusiasta. “Eureka!” Ebbe una lieve esitazione. “Forse.”
“… ti sei rimbecillito del tutto?”

“Potty di poca fede!” Gli squadernò l’insegna davanti rischiando di sbattergliela sul naso. “Guardala bene … Davvero non ti ricordi dove l’hai vista?”
“Se me lo ricordassi pensi che giocherei ad indovinelli con te?” Sbuffò esasperato. “Cos’hai scoperto?”
“Prima di cantar vittoria devo fare una telefonata e controllare una cosa … reggi!” Gliela scaricò tra le braccia, ma quando fece per protestare l’altro gli mise un dito sulle labbra, tirando fuori il cellulare e componendo velocemente un numero.
Lo ammazzo.
“Ti ammazzo.” Gli parve giusto notificare, ma fu ignorato. “Si può…”
“Zitto!” Poi batté le ciglia ed impostò la voce nel tono da completo demente che usava in presenza di una sola e unica persona. “Mio incommensurabile pasticcino d’amore … sono io, il tuo promesso!”

Mia cugina è una santa.
“So che mi ami anche se mi insulti, sì, la taglio corta … Ho bisogno che tu mi dia un informazione, e che tu me la cerchi negli archivi anagrafici che avete da voi. Giuro che sarò il tuo schiavo per sempre!”
“Già lo sei, Malfuretto.”
“Sì, lo dice anche James.” Annuì con un sospiro. “Beh, diciamo che è per il Demiurgo e … sì, per quello, okay, giusto, avrei dovuto dirtelo subito. Ti ho appena mandato la foto di uno stemma araldico che vorrei controllassi. Devi dirmi a che famiglia magica appartiene. Sì, certo, aspetto!” Coprì il ricevitore con la mano e sorrise. “Mi ama molto.”
“Ti ha mandato a fare in culo, vero?”
“Molla la preparazione di un’udienza solo per me, Potty, questo è amore!” Si sedette su un bidone della spazzatura e si stiracchiò. “Tu dovresti capirmi, con la tua neonata famiglia!”
James sbuffò, sentendo lo strano calore al petto che percepiva ogni volta che non si parlava solo di Teddy, ma anche di quel furetto arruffato e furbo di Benedetta. “Ben ha fatto amicizia con il piccolo Frankie e Cedric, i figli di Neville. Non si fa mettere sotto, però, ha la testa più dura di loro.” Disse, tirando fuori il proprio cellulare e mostrandogli una foto scattata qualche pomeriggio prima: i Babbani avevano inventato una diavoleria infernale, ma non si poteva negare fosse utile.

“Che carini.” Commentò l’amico occhieggiando distratto. “Sei proprio diventato un bravo papà, eh?”
“È Ted il papà, o zio … o quel che è.” Si strinse nelle spalle. “Io sono…” Si bloccò, cercando la parola senza trovarla.

“Cosa?”
Rimase in silenzio, colpito dalla domanda. La verità è che non ci aveva mai pensato, a cosa era per Benedetta: sapeva bene cos’era per Ted, il compagno e l’indubbio amore della sua vita.
Ah, me l’ha detto, mica seghe.
Però Benedetta era una questione tutta diversa: era la nipote di Ted, era una piccola e energica presenza dentro casa, che aveva un po’ rivoluzionato tutto e, ne era sicuro, in meglio. Avere Benedetta a tavola, in giro per il giardino o a cercare genericamente attenzione da loro era bello, ma…
“Non sono, sono tipo lo zio adottivo? Adottato?” Si passò una mano trai capelli. “Legalmente mi sa che non sono niente.”
“Però ti si è affezionata … l’ho visto come ti corre incontro quando torni.” Replicò l’amico riferendosi alla sera in cui era venuto a cena con Rose e altri. Benedetta aveva passato metà della serata a nascondersi dietro le gambe sue o di Ted prima di essere conquistata dalla parlantina di Lily e dagli scherzi di Domi

“Sì, beh, mi vede in continuazione, vivo con lei.”
Scorpius gli rivolse un sorriso divertito. “Non pensavo mi sarebbe mai capitato di assistere ad un evento del genere … tu che ti sottovaluti!”
“Ma di che cazzo…”
Fu di nuovo stoppato. “Fiorellino, allora?” Il ghigno di Scorpius si ampliò e sfiorò pericolosamente la soglia del maniacale. “Come pensavo, è un’ottima notizia, grazie! Poi ti spiego, ci vediamo stasera!” Chiuse la conversazione e saltò giù dal bidone, lanciando un grido di trionfo.

“Malfuretto, per tutte le Mutande sporche di Merlino, mi devo preoccupare?”
No, perché secondo me devo.
Il compagno lo afferrò per le spalle e lo guardò intensamente negli occhi. “Prince.” Sillabò.
“… e adesso cosa c’entra il Pipistre…”
“Lo stemma è dei Prince!” Completò. “Lo stemma sull’insegna appartiene alla famiglia di Sören!” Non gli diede il tempo di replicare, né tantomeno formulare un pensiero che incalzò. “Una delle più antiche famiglie magiche del Nord! Ramo scomparso prima della seconda guerra magica, come ci ha raccontato il tizio! Siamo stati degli idioti, è stato per mezz’ora sotto il nostro naso!”

Prince … famiglia … Pipistrello …
“Perché questa dovrebbe essere una prova del fatto che John Doe è stato qui?”
Scorpius scosse la testa, senza che l’espressione trionfante cedesse di un millimetro. “Non passato, Potty bello, John Doe ha stabilito qui il quartier generale dell’operazione … per la precisione, di cosa ha bisogno? Spazio, solitudine e barriere di occultamento potenti. E dove puoi trovare tutte queste cose?”
“Non certo in una locanda!”
“No, nel castello dei Prince. Quello che John Doe deve conoscere, visto che ha con sé la moglie dell’ultimo Prince che vi è nato, il padre di Sören, Elias.” 
James provò l’improvviso, violento desiderio di baciarlo, perché Scorpius Hyperion Malfoy aveva sì una miriade di boccini che gli ronzavano in testa … ma come tali erano in grado di far loro vincere la partita.
“Fottuto genio!” Gli schioccò quindi un bacio su quella zucca ossigenata dandogli anche uno scappellotto per buona misura. Casomai pensasse male. “Come diavolo ci sei arrivato?”
Sapeva di doverglielo, e quindi aspettò paziente che l’altro finisse di fare la ruota e di guardarlo con superiorità.
“Lo stemma, prima di tutto … sai dove l’abbiamo visto?” Si batté un dito sull’anulare. “Al dito di Sören. L’ha sempre addosso! Ma non è stato quello a farmi accendere il Lumos.”
“È stata Cokeworth.” Si sarebbe dato dell’imbecille da solo. “Il Preside Piton è nato a Cokeworth, come mia nonna, ma sua madre era una Prince … ha conosciuto il marito perché il tizio viveva in quelle che un tempo erano le terre della sua famiglia!”
“Elementare, mio caro Potty!” Schioccò le dita e si appoggiò tronfio al muro. “Scattami una foto, sono l’eroe della giornata!”
Se la fantasia galoppante di Malfoy avesse fatto centro forse avrebbero risolto tutti i loro problemi. Forse avrebbero risolto il Demiurgo.

Non poteva crederci.
“Dobbiamo ancora trovare il castello … il maniero, quel che è.” Disse, perché qualcuno doveva tenere i piedi per terra e non salire sulla scopa per un giro di trionfo. Era strano assumersi quella responsabilità. “Hai sentito il vecchio … non si sa neanche se è ancora in piedi!”
Scorpius assunse un’aria meditabonda. “Se ci sono degli Elfi Domestici ad abitarlo sì.” Replicò. “Quelli resistono a tutto … Ti ricordi Kreacher?”
Fece un mezzo sorriso, ricordando Hogwarts, le sue ricche cucine e i raid in compagnia dei gemelli. “E chi se lo scorda, quel maledetto mostriciattolo cacciava me, Lor e Lys ogni volta … ” Fece una smorfia. “E pensare che ce lo portò mio padre!”
Scorpius annuì. “Già, perché l’aveva trovato a Grimmauld Place, la vecchia casa dei Black che aveva ereditato da Sirius Black. Capito? Gli Elfi rimangono anche dopo che i maghi se ne vanno … se i Prince non se li sono portati dietro, sono ancora là a tenere in piedi la baracca! E avranno accolto a braccia aperte la moglie dell’ultimo erede conosciuto!”
“Non correre troppo.” Doveva frenare quell’ondata di entusiasmo, o avrebbero finito per rimanere con un pugno di mosche.

Non sarebbe la prima volta con questo cazzo di caso.
Scorpius suo malgrado annuì. “Come ci muoviamo?”
“Direi di tornare in ufficio e cercare informazioni sul castello dei Prince. Dove si trova, quali protezioni ha, se c’è ancora …” Fece due calcoli mentali. “Mandiamo Bobby e la Gillespie al Catasto Magico, quelli di sicuro in mezzo a piantine e pergamene si sentono a più agio di noi. E poi…”
Scorpius batté il pugno contro il suo e ghignò. “E poi li andiamo a prendere.”

 
****
Londra, Hyde Park.
Pomeriggio.
 
“Tuo fratello ci sa fare con la palla.”
“Ma se non ha mai giocato ad un gioco Babbano in vita sua…”
“Beh, c’è sempre una prima volta.”

Emil era incredibile: non solo li aveva portati ad Hyde Park portando in spalla Dirk per tutto il tragitto, sia a piedi che in bus, facendolo divertire come un matto. Aveva poi comprato loro due gelati – aveva dovuto mangiarlo, perché Dirk aveva dichiarato che altrimenti l’avrebbe fatto lui al suo posto – e li aveva portati in giro, sorbendosi le chiacchiere a fiume di suo fratello finché non avevano individuato un gruppo di bambini; a quel punto lo aveva introdotto ai suddetti e aveva giocato con loro finché Dirk non si era sentito sufficientemente a suo agio da poter essere lasciato solo.
Emil non era incredibile: era meraviglioso.
“Va bene, ma è comunque eccezionale che mio fratello stia giocando a calcio … con dei Babbani poi!”
“E con chi dovrebbe giocarci?”
“Sai che intendo.” Scosse la testa e si trovò molto meno irritato di quanto avrebbe pensato.  

Emil si stiracchiò, appoggiandosi con la schiena allo schienale della panchina mentre stendeva le gambe. “Tuo fratello è ancora piccolo … non ha ancora la testa ingolfata di stronzate Purosangue.” Ridacchiò quando questo tirò un calcio particolarmente potente al pallone spedendolo vicino alla porta, con conseguenti grida incoraggianti da parte degli altri piccoli giocatori. “È un bambino … quando gioca, gioca.”
“Già.” Diede un morso al proprio cono. “Sei stato bravo con lui. Dove hai imparato?”
“Prince?”
“Non credo che tu prenda sulle spalle Prince per poi comprargli un gelato.”
“Ti stupirebbe sapere quante cose assurde faccio per quell’idiota.” Sospirò con aria melodrammatica. “Ma no … avevo solo un bel po’ di fratelli. E i bambini mi piacciono.” Si infilò una sigaretta tra le labbra e se la accese. “Sono gente in gamba.”
“Ti adora.”
“Dev’esser di famiglia allora, no?”
Michel ridacchiò, godendosi il sole che gli batteva tiepido sul viso. Non avrebbe mai creduto possibile sentirsi così sereno, libero, in un parco pieno di Babbani urlanti con suo fratello che si rotolava con i loro figli. Eppure era lì, con Emil che gli sogghignava sornione accanto.

Diglielo. Diglielo che sei innamorato di lui.
La vocetta interiore di Al era fastidiosa come una mosca, e come tale la trattò. Si passò una mano sulla nuca e sorrise. “Ti ringrazio … Non avrei saputo come gestirlo senza di te.”
“Non è un bambino difficile.”

“No, non lo è… sono io che sono un fratello maggiore improbabile.” Ammise. “È figlio di seconde nozze … e mio padre ha riposto tutte le speranze in lui visto che a mia differenza è un Purosangue. E considerando che non approva molte delle mie scelte di vita…”
“Me l’avevi detto.”
“Già. Considerando anche questo … me l’hanno sempre tenuto lontano, e la cosa mi è sempre andata bene.” Ammise. “Non ho idea di come comportarmi con un bambino … Perché sia voluto venire da me è un mistero.”
“Mica tanto.” Gli diede un colpetto sulla caviglia con la scarpa. “Mentre sua madre lo scarica per andare a giocare con le sue amichette e vostro padre probabilmente non ha manco messo il naso fuori dal suo ufficio … Tu? Molli  il lavoro per portartelo in casa. Dirk si rende conto di chi preoccupa per lui e chi invece se ne frega.” Gli picchiettò sulla fronte “Sei un bravo ragazzo Zabini.”

“Ma se non frequento mai casa … Come può…”
“Mentre tentavi di non farti venire una sincope all’idea di sederti sul bus mi ha detto che lo ascolti e che l’ultima volta avete giocato assieme … A quanto pare non sei un fratello maggiore così terribile.” Si sporse per leccargli il cono guardandolo in un modo tale che Michel si dimenticò di cosa stavano parlando.

Dirk. Fratelli. Giusto.
“Mi ricorda … mi ricorda me stesso.” Tirò via il gelato e lo finì velocemente, onde evitare di farsi venire un’erezione in luogo pubblico. Dal sorrisetto che l’altro gli servì pareva che se ne fosse accorto. “Spero solo che non faccia le mie stesse scelte.”
“In fatto di uomini?”
“Non fare l’idiota.” Sbuffò.
Emil inarcò le sopracciglia. “Perché, sei pentito delle tue?”
“Non tutte … alcune.” Non aveva davvero voglia di parlare di quello in un parco baciato dal sole con uno schianto di ragazzo accanto. Ma si dava il caso che il suddetto ragazzo fosse in grado di capirlo molto bene. “… ho sempre pensato che se avessi scelto il lavoro di mio padre, che se avessi fatto carriera nel suo settore … Beh, sarei stato felice. Sono stato educato a perseguire il successo, come fine ultimo, come tutto. Ad ogni costo.” Fece una piccola smorfia, gettando nel cestino il cono del gelato. “Ultimamente mi sto chiedendo se è ciò che voglio.”
“Se non sei felice nel posto in cui ti trovi adesso, cambia. Sei una persona, non una pila di mattoni. Non crollerà nulla se te ne vai.” Era il genere di cosa che non faceva che dirgli Loki, sebbene con altre parole e atteggiamenti. Ma il tono brusco e perentorio di Emil lo irritò meno che le quiete allusioni dell’amico d’infanzia.
“Non posso.”
“Cosa te lo vieta?”

Scosse la testa, sentendo il familiare senso di panico e di vuoto che provava ogni volta che pensava ad una vita senza il Ministero, senza la scalata al potere o la ricerca dell’approvazione di suo padre. Non ci rifletteva spesso, ma di recente molto di più.
“Potrei crollare io.”
“Ti ricostruiresti da capo. Forse meglio.” Si indicò con un cenno. “Guarda me. Le hanno tentate di tutte per farmi diventare mago … mi hanno pure rinchiuso nel Centro.”

Il centro?
Non era il caso di far domande: ormai aveva imparato a segnarsi mentalmente le allusioni che gli faceva documentarsi in seguito, da solo. “Ho detto vaffanculo … e sono cambiato.”
“Sei Milo.” Intuì. “È per questo che ti sei scelto un nuovo nome?”
“Rinascita dalle ceneri … una roba del genere, sì.” Si strinse nelle spalle, sfregando la sigaretta sul bordo metallico della panchina fino a spegnerla.  “Magari un po’ teatrale, ma ha aiutato.”
“Ti penti mai … delle scelte che hai fatto?”
Emil rimase in silenzio per qualche attimo, poi scosse la testa. “Sono la somma della persona che sono adesso … e ti dirò, mi piaccio abbastanza.” Si passò una mano fra le ciocche di capelli poco sopra l’orecchio. Era un gesto che non sarebbe riuscito più a vedere su nessun altro. “Certo, alcune scelte sono state condizionate … Se c’è una cosa che mi manca, della mia vecchia vita, è suonare su un palco.” Si appoggiò di nuovo indietro e chiuse gli occhi. “L’adrenalina … i suoni delle prove. Quella roba mi manca.” Aprì gli occhi. “Il resto? Per niente.”
Fece un cenno di assenso con la testa, perché altro non poteva fare; prima di conoscerlo non gli era mai passato per la testa di essere infelice perché non era nel posto giusto.
Ero, semplicemente. I giorni mi scorrevano davanti e pensavo che essere il funzionario Zabini che andava per club due volte a settimana fosse tutto.
Non era mai stato niente.
“Vuoi mollare il lavoro?” Intuì guardandolo di sottecchi; aveva smesso di sorridere e sembrava per qualche strana ragione teso.
“Non lo so.” Ammise. “Sarebbe un fulmine a ciel sereno per tutti … compreso me. Non è una decisione che posso prendere su una panchina di Hyde Park.” Aggiunse nervoso, strofinandosi le mani con il fazzoletto per togliersi del gelato che se n’era andato da un pezzo.  “Fino ad adesso non l’avevo neppure mai detta ad alta voce.”
Quindi non era reale.
Emil stava guardando ostinatamente verso la partita dei bambini e per un attimo pensò che gli avrebbe dato dell’idiota per farsi sfuggire un posto sicuro e occasioni di carriera irripetibili.  
“Forse ti servirebbe una vacanza … per svuotarti il cervello e farti riflettere. In un altro Continente o roba del genere.”
“Sì, forse…” Convenne un po’ perplesso. Erano mesi che i suoi amici tentavano di propinargli l’idea, Loki si era addirittura spinto a proporgli di partire assieme per l’America Latina.
Per qualche suo traffico di sicuro…
… ma lì era diverso dal consiglio disinteressato; Emil era teso come la corda del suo violino.  
“Vado a vedere come se la cava Dirk.” Non gli diede il tempo di ribattere, alzandosi in piedi come se qualcuno lo avesse messo sotto Imperio. Corse dritto verso il campetto improvvisato senza più degnarlo di uno sguardo.
Ma che è successo?
 
****
 
Note:

Qui la canzone del capitolo. ;D

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Capitolo 38
*** Capitolo XXXVII ***


Capitolo XXXVII
 
 



Un giorno qualcuno entrerà nella tua vita

e ti farà capire perché non ha mai funzionato con nessun altro.
(Bell Hooks)
 
27 Luglio 2028
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror, Mattina.

 
Prince probabilmente l’aveva scaricata.
Ama Gillespie si riteneva una persona abbastanza sveglia, e di solito era in grado di riconoscere una battaglia persa in partenza.
Con Prince ho creduto che non fosse così.
E forse si era sbagliata, dato che dal giorno del Memento, in cui comunque le aveva a malapena rivolto la parola, non l’aveva più degnata di uno sguardo.
Vuole scaricarmi ma non sa come.
Era infuriata. Avrebbe voluto prenderlo per il collo e scrollarlo finché non ammetteva di essersi comportato come un bastardo, ma si rendeva conto che se non poteva farlo con dei sospetti ancor meno poteva farlo con il ragazzo che le piaceva.
Era frustrante, ma non era il caso di pensarci quando era in servizio e con un caso che era una bomba ad orologeria tra le mani. Un caso che con buona probabilità si stava avviando alla conclusione, avendo trovato il covo di John Doe e compagna. Forse pensare a Sören era un modo per non pensare a quando si sarebbe trovata davanti l’assassino di suo padre.
Forse molto più che forse.
“Quanto credete che ci metterà Prince a scendere giù?” Chiese Potter mentre andava da un lato all’altro del cubicolo come una belva in gabbia. “Le ramanzine di mio padre non durano tanto!”
… sarebbe stato infinitamente più semplice se il soggetto non si fosse trovato però tra le quattro mura dell’ufficio Auror, chiamato dal Capo in persona per un incarico che lo manteneva sì come civile ma comunque impiegato nelle indagini.
“Dai, Jimmy, lo sai che non possiamo muoverci senza di lui.” Cercò di placarlo Jordan. “Per accedere alle mappe del castello serve l’autorizzazione del proprietario … che guarda caso è l’ultimo Prince vivente. Cioè lui.”
“No Sören, no castello.” Riassunse Malfoy mentre, stravaccato sulla sedia della scrivania, tirava palline di carta nel cestino. “Se ci pensate è ovvio … un castello abitato da Purosangue ha decine di incantesimi di Occultamento. Le mappe, la metratura e l’ubicazione non potevano che essere seppellite alla Gringotts, lontano dagli occhi dei comuni mortali. In fondo anche quelle del Manor sono al sicuro nella nostra camera blindata.”  
“E non potevi ricordartelo subito invece che far perdere tempo al Sergente e a Bobby?” Lo apostrofò stizzito Potter, che mordeva il freno da quella mattina. Dopo quasi due mesi di immobilità la svolta era papabile. Poteva capire la sua impazienza.  
“Non importa.” Cercò di stemperare gli animi. “Se io e l’agente Jordan non avessimo fatto un viaggio a vuoto al Catasto non avremo scoperto di dover andare alla Gringotts e di aver bisogno dell’agente Prince. A quanto pare ci sono dei limiti anche per la Legge Magica trans-continentale…”
“Con i Folletti ci sono sempre dei limiti.” Brontolò Potter incrociando le braccia al petto e appoggiandosi alla scrivania più calmo. A volte sembrava che desiderasse esser richiamato all’ordine. “E comunque il Pipistrello è di nuovo trai piedi.” Aggiunse estemporaneo, con una curiosa espressione tra lo sberleffo e il sorriso. “È proprio una testa di cazzo coriacea!”
“L’ho incrociato prima però … non aveva una bella cera. Certo, manco io l’avrei dopo l’incontro con quel bastardo di Doe … l’ha stuzzicato come un gatto col topo.” Osservò di rimando Jordan guardandola con la coda dell’occhio come a cercar conferma.
“Prince ha la scorza dura, come ha fatto notare coloritamente l’agente Potter.” Ironizzò mentre il ragazzo in questione arrossiva. “Si riprenderà.”
“Mh, sì, ma non credo sia solo per il caso.” Si inserì Malfoy tirando l’ultima pallina del suo nutrito arsenale. Girò la sedia con un colpo di tacco e si voltò verso di loro con il luccichio del pettegolezzo che gli brillava negli occhi. “Pare che siano anche faccende di cuore.”
Oh, fantastico.
“Cioè?” Potter guardò il partner con l’aria di cadere da un pero. “Prince ha qualcuno che gli va dietro?! Chi è la pazza?”
Eccomi qui.
Malfoy ridacchiò con gli occhi pieni di divertimento: prendersi gioco del partner pareva una delle sue gioie più grandi. “Ti rendi conto che stai insultando tua sorella, mio Potty, vero?”
“Ma che cazzo dici?” Sbottò questo con foga, saltando addirittura in piedi. “Mia sorella non se la fa con il Pipistrello, ha quel suo scozzese gigante!”
Il biondo dovette percepire pericolo tangibile nell’esplosione dell’altro perché scrollò le spalle dismissivo. “Non credo che abbiano una storia o che vadano a letto assieme, ma Rosie mi ha detto che Roxanne le ha detto che lui e Lily sono in burrasca. Non ha voluto dirle il perché, ma sembrava roba grossa.”
Ah, ecco. Le cose tra di loro si sono complicate.
Ora l’atteggiamento sfuggente dell’altro assumeva senso.
Un senso deprimente.
“Mia sorella sta…”
“Ho capito Potty, sta con Ross.” Convenne paziente Malfoy con il tono di chi dava ragione ad un matto irascibile. “Ma lei e Sören hanno tutto quel loro rapporto alla Ginevra e Lancillotto da anni, e sono inseparabili come fodero e bacchetta. Non credo quindi che i problemi di quel poveraccio si limitino alla sua famiglia psicopatica. Secondo Rosie c’entra anche tua sorella.”

Potter fece per aprire bocca e ribattere, e a giudicare dalle orecchie rosse e dall’espressione alterata ci sarebbero state più imprecazioni che discorsi sensati. Decise quindi di intervenire. “Se l’agente Prince ha problemi personali non credo che questa sia la sede, né la compagnia adatta a discuterne. Sono affari suoi.” Decretò categorica, perché poteva aver voglia di affatturarlo, ma non era giusto che i suoi problemi venissero esposti in pubblica piazza.
“Era solo per far due chiacchiere…” Mugugnò Malfoy avendo comunque il buongusto di sembrar dispiaciuto. “Voglio bene a quel ragazzo, vorrei che trovasse un po’ di pace e una brava ragazza con cui godersela.”
“Che non è mia sorella.” Ribadì Potter definitivo.

Definitivo fu davvero perché in quel momento li raggiunsero Prince e il Sergente Weasley. Il primo era senza uniforme, e come sempre Ama trovò strano vederlo in jeans e camicia come un ragazzo qualsiasi.
Non mi abituerò mai a vederlo in borghese.
… forse quello diceva molto del futuro del loro rapporto.
Il Sergente, dopo averli salutati con un omnicomprensivo cenno del capo, parlò senza troppi preamboli. “Conoscete le consegne. Prince verrà con due di voi alla Gringotts e si farà aprire la camera.” Fece cenno a lei e Bobby. “Andate voi?”
Ama guardò Sören e notò il lieve irrigidimento della schiena, come l’immediato infilarsi le mani in tasca. Non aprì bocca però, né tentò di farsi assegnare qualcun altro con una scusa qualsiasi.
Questo gli fa onore visto che preferirebbe guadare un fiume pieno di Inferi che lavorare con me.
Non che sarebbe stata così gentile dal toglierlo di impaccio. Fu quindi con autentica soddisfazione che rispose. “Comandi Sergente.”  
Se devi darmi un due di picche, almeno fallo guardandomi in faccia.
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Cooperazione Internazionale, ora di pranzo.

 
L’invito a pranzo di suo padre l’aveva colto di sorpresa.
Michel firmò l’ultima pila di scartoffie della mattinata e mise a posto timbro e calamaio per poi prendere il proprio mantello e salutare la collega che ancora arrancava tra i propri compiti.
Ben ti sta.
Lo pensò senza vero motivo se non per via del vago nervosismo che lo assaliva ogni qual volta suo padre si comportava come il genitore che avrebbe dovuto essere.
C’è qualcosa sotto.
Non che non avessero mai pranzato assieme, ma di solito era alla mensa dell’ufficio, mai fuori.
Blaise Zabini non era come Lord Malfoy, che pretendeva le attenzioni di Scorpius almeno due volte a settimana, spesso con la spiacevole conseguenza di dover mangiare in chioschi di hotdog Babbani di cui il figlio andava pazzo.
Forse era per quello che era successo con Dirk: forse voleva assicurarsi che il suo prezioso erede non fosse stato contagiato dai costumi immorali del figlio maggiore.
Forse semplicemente non lo so.
Raggiunse l’uomo nel punto in cui si erano accordati di aspettarsi, davanti alla fontana dei Tre Fratelli, e lo trovò inevitabilmente con l’occhio all’orologio del taschino.
“Sei in ritardo.” Fu il saluto.
“Preferisco prima finire il lavoro che mi sono prefissato.” Rispose misurando il nervosismo, perché se avesse perso subito la calma avrebbero finito per mettersi a discutere in mezzo alla piazza.

E stamattina Emil mi ha preparato la torta di mele. Francamente non ho voglia di avvelenarmi una buona giornata.
L’uomo non rispose, prendendo la propria ventiquattrore e facendogli cenno di seguirlo. “Ho prenotato al Clos Maggiore, spero vada bene.”
“…certo.” Era il suo ristorante preferito nella zona del Ministero, e suo padre non vi aveva mai messo piede. Curioso quindi che lo conoscesse.

Forse si è informato. Un paio di volte ci sono andato anche con Lord Malfoy e Sy…
Rimasero in silenzio finché il maitre non li fece accomodare al tavolo e portò il vino; Michel la sapeva più lunga che cercare di intavolare un discorso quando suo padre evidentemente ne aveva in mente tutto un altro. Rispose quindi alle vaghe domande sul lavoro e ne propose un paio sullo stesso tenore.
Il fuoco fu aperto poco dopo gli antipasti.
“Dirk è stato entusiasta della giornata passata con te.” Esordì.  
È qui per ringraziarmi?
“Mi fa piacere che si sia divertito.” Fece spallucce; una parte di sé si rendeva conto che un rapporto padre-figlio non avrebbe dovuto essere un campo di battaglia. Bastava vedere l’affetto profondo che intercorreva tra Lord Malfoy e Scorpius nonostante le differenze di carattere, o la complicità tra Albus e il Salvatore dei Mondi. Persino Loki era affezionato a quello che chiamava ‘il suo irascibile vecchio’ e non mancava mai di passarlo a trovare quando era a Londra.
La verità è che avrebbe potuto amare suo padre se solo fosse stato corrisposto.
Ma non lo farà mai. Il mio sangue Babbano glielo impedisce.
“Tuttavia…”
Ecco, appunto.

“… gradirei se durante la prossima visita evitassi di portarlo a contatto con i Babbani. La cosa lo ha molto agitato.”
Non poteva proprio lasciar correre, vero?
“Se per agitato intendi divertito sono d’accordo.” Ribatté, perché tenergli testa era l’unico piacere che potesse trarre da quegli incontri. “Ha giocato con altri bambini, dov’è il problema?”
“Dirk è in un’età molto delicata e suscettibile ad influenze, sia nel bene che nel male. Non vorrei si facesse delle idee sbagliate su chi è opportuno frequentare.” Fece una pausa. “Vuole tornare a giocare ad Hyde Park.”
“Non ci vedo nulla di male … Nessuna orribile malattia lo ridurrà in fin di vita. E sa cosa dire o non dire in presenza di persone non magiche, glielo avete insegnato bene.” Frecciò e non se ne pentì neppure quando vide il lampo di collera negli occhi del genitore. “Posso accompagnarlo di nuovo se lo desidera.”
“Non è questo il punto, Michel.” L’uomo si nettò le labbra con un colpo deciso di fazzoletto. “Io e sua madre vogliamo che cresca…”
“Pensando che il mondo è ad uso e beneficio dei maghi? Perché non è così. Le cose sono cambiate da quando eri giovane tu, e imbottirgli la testa di elogi alla superiorità del suo sangue non lo aiuterà quando arriverà ad Hogwarts. Affatto.”

Visto che se non fosse stato per Albus sarei diventato come quell’idiota di Montague.  
Prima di conoscere Emil non avrebbe affrontato così apertamente il problema, nonostante per anni avesse avuto prove schiaccianti che lo stato di nascita non era importante quando si trattava di valutare una persona.
Prima di Emil sapeva quelle cose, ma non riteneva importante dirlo, preferendo adagiarsi nello stereotipo del giovane mago di sangue puro e di vedute strette. Era sempre stato più comodo ripetere la lezione imparata da bambino che farsi vere domande e darsi delle risposte.
Le cose però sono cambiate.
Suo padre non commentò la sua sparata, preferendo guardarlo severo. “L’educazione di Dirk non è affare che ti riguardi.”
“Naturalmente.” Ignorò la rabbia che gli causarono quelle parole, come ogni volta che veniva rimarcato, anche per vie traverse, che non apparteneva al circolo esclusivo che avrebbe dovuto essere la sua famiglia. “Allora dovreste evitare di scaricarmelo in ufficio.”
“Se ti ha dato fastidio eviteremo…”
“Non è questo il punto!” Abbassò subito la voce quando vide il cameriere occhieggiare nella loro direzione. “Il punto è che mio fratello…” Ed era la prima volta che pronunciava quella parola con un po’ di cognizione di causa. “… ha come unica compagnia degli Elfi Domestici tutto il giorno. Si annoia, e quindi è naturale che trovi esilarante la compagnia di un paio di piccoli Babbani. Io almeno avevo Loki e Scorpius.”

Suo padre gli lanciò un’occhiata perplessa. “Questo è vero…” Ammise.
Già, da quando mi frega qualcosa di lui?
“Stiamo cercando bambini della sua età che possano fargli compagnia, ma Geraldine ha degli standard molto alti, e nessuno di noi due ha molto tempo da dedicare alla cosa.” Lo graziò di una spiegazione. Forse era ancora sorpreso dal suo intervento. “Ma prenderemo nota della tua osservazione.”
“Di niente.” Ritorse con un sarcasmo colloquiale che non sarebbe stato male in bocca ad Emil.
Suo padre non diede seguito alla sua frecciatina nonostante la smorfia infastidita di cui lo omaggiò, e ripresero a mangiare nel più completo e scomodo silenzio.
“Non ti ho invitato per parlarti di Dirk comunque.” Soggiunse dopo qualche minuto e l’arrivo del secondo. Estrasse una busta dalla giacca e gliela passò attraverso il tavolo.
Gli restituì un’occhiata perplessa ma la prese e la aprì. “Di cosa si tratta?”

“Di una lettera di raccomandazione per una promozione a funzionario di primo livello.”
Dovette rileggere due volte l’intestazione della suddetta prima che riuscisse a recepire il messaggio.
La promozione. Quella per cui hai lavorato questi ultimi quattro anni e mezzo. E non a funzionario di seconda. Direttamente di prima. Un gradino sotto a tuo padre e Lord Malfoy.
Era nelle sue mani, nero su bianco, in volute di inchiostro che parlavano di lui e dei suoi meriti. E la scrittura era di suo padre.
Ammutolì.
“Sono fiero di te, hai portato onore al buon nome degli Zabini.” Continuò l’uomo riuscendo a produrre anche un vago sorriso. “Non credere che gli sforzi di quest’ultimo periodo non siano stati notati. Stai facendo un lavoro eccellente come funzionario di collegamento e considerando le situazioni delicate che hai dovuto affrontare una promozione era all’ordine del giorno.” Il sorriso prese una sfumatura ironica. “Ti avevo detto che l’attesa di questi anni sarebbe stata ripagata.”
Riuscire a mettere due parole in croce gli sembrava un compito impossibile. “… grazie.” Si limitò a dire con una voce ridicola da ragazzino. “Io … non so cosa dire.”
“Non c’è nulla da dire.” Confermò riprendendosi la lettera. “Mi hai portato dei risultati. Come vedi, mantengo le mie promesse.”

Michel non rispose, sentendo come se un Battitore avesse appena deciso che la sua testa era un ottimo Bolide con cui esercitarsi: aveva tra le mani il risultato al quale aveva puntato per tutti quegli e suo padre gli stava sorridendo. Era orgoglioso di lui.
Che sta succedendo?
“Spedirò la lettera alla Direttrice Jones non appena avrò ottenuto la firma di Draco … è d’accordo con me fino all’ultima riga.” Aggiunse come a rassicurarlo. “… poi le solite formalità burocratiche. Dovrai aspettare la fine dell’estate.”
“Non c’è problema.” Scosse la testa bevendo un forte sorso di vino per stabilizzare i nervi.
Suo padre annuì, chiamando il cameriere per chiedere il conto. “Voglio che sia chiara una cosa però.”
Ecco, c’era un ma.

“Quale?” Chiese comunque con buona disposizione d’animo. Erano belle notizie quelle che gli aveva portato suo padre, non gli sembrava corretto mettersi sulla difensiva. Non subito almeno.
“Essere un funzionario di primo livello porta degli obblighi e dei compiti maggiori rispetto a quello che hai adesso. Fare questo lavoro significa prestigio, ma anche avere una porzione di vita privata molto limitata e sempre sotto il mirino dell’opinione pubblica. Dovrai apparire sui giornali, rilasciare interviste e intrattenere rapporti con Ministri e Diplomatici a volte coronati. Dovrai essere inattaccabile e dedicato al cento per cento.”
“Lo so.” Annuì perché era un patto che aveva stretto quando era entrato al Ministero: si era reso conto delle conseguenze in un secondo momento, certo, ma ora sapeva cosa andava ad affrontare.
È quello che voglio. È quello per cui ho lavorato in questi anni. Ho sacrificato tanto, ho perso tanto dei miei vent’anni. Me lo merito.
In fondo la confessione che aveva fatto ad Emil era solo il risultato della sua frustrazione. Voleva quel posto.
Allora perché non salti di gioia?
Suo padre, che non pareva essersi accorto del suo rimuginare interiore, guardò il conto con un’occhiata distratta, prima di infilarvi accanto il proprio biglietto da visita e ridarlo al cameriere che si inchinò allontanandosi. “Questo significa che non dovrai più indugiare in frequentazioni che possano metterti in cattiva luce.” Aggiunse.
Sospirò perché l’allusione era ovvia. “Al di là delle sue disavventure personali, Loki è di ottima fami…”
“Sto parlando del Magonò che stai frequentando.”
Fu come ricevere una secchiata di acqua gelida in faccia.

Sa di Emil. Sa di voi due.
Realizzarlo e rendersi conto di cosa realmente gli stava dicendo suo padre fu tutt’uno. “Come…” Balbettò senza riuscire ad organizzare una difesa di qualche sorta.
“Come lo so?” Chiese con un sorriso ironico che però non raggiunse gli occhi. “Te lo sei sempre portato ovunque, persino in ufficio o alle feste dei tuoi amici. E il fatto che fosse un Magonò era palese … quando è venuto al Ministero non ha mai dovuto depositare nulla, se non qualche Falce e un serramanico. Ho fatto un paio di domande … ho ricevuto delle risposte.” L’espressione di suo padre era anodina, ed era quindi possibile capire cosa pensasse dell’intera faccenda.
Poteva immaginarselo però.
“Lui…” Tentò, perché doveva spiegargli che Emil non era solo un Magonò. Doveva difenderlo.
Doveva raccontagli della sua dolcezza spigolosa, delle attenzioni che gli dedicava, di quanto fosse intelligente e acuto e del modo meraviglioso in cui suonava. Doveva gridargli che ne era innamorato, e di come, in qualche incredibile e meraviglioso modo, sospettava di essere ricambiato.
Suo padre lo fermò con un cenno della mano. “Non mi interessa.” Disse molto tranquillamente. “È un Magonò. Cos’altro c’è da sapere?” Si alzò facendosi portare il mantello e drappeggiandoselo addosso. “Liberati di lui, e vedi di farlo in fretta prima che vengano a saperlo persone che potrebbero ostacolare o rendere nulla questa lettera. Draco stesso mi ha espresso le sue perplessità, anche se gli ho assicurato che è un capriccio passeggero.”
“Non è un capriccio!” Riuscì finalmente a dire. “Non puoi chiedermi di scegliere tra Emil e la promozione!”
Suo padre lo guardò con blanda sorpresa. “Non lo sto facendo infatti.” Rispose. “La decisione mi sembra già presa. Vuoi quel lavoro o no?”


****
Diagon Alley, Gringotts.
Ora di pranzo.
 
La Gringotts era una banca antica e magica, e come tale era un monumento allo sfarzo, tutta marmo e dettagli in oro, con pietre preziose grosse quanto pugni che ornavano gli occhi delle statue e i tavoli da lavoro dei Folletti. Quel genere di strombazzamento architettonico metteva a disagio, quindi Ama era stata ben contenta quando erano stati fatti accomodare in una saletta interna, più sobria, dove il Folletto-banchiere a loro assegnato li aveva invitati ad aspettare che tutte le formalità fossero espletate. Il problema comunque non era l’ambiente in sé.
Siamo io e Sören.
Jordan si mosse nella sua posizione un paio di volte, prima di tentare l’ennesima conversazione. “Quanto credete che ci metteranno?” Chiese prima di ricordarsi che entrambi erano stranieri e non vi avevano quindi mai messo piede. “… cioè, immagino un bel po’. Sono lenti da morire … infatti si dice lento come un Folletto!” Quando la battuta venne ricompensata con un paio di sorrisi tirati capì l’antifona e chiuse le comunicazioni.
Dopo cinque minuti di nulla, il commesso tornò indietro e li squadrò uno ad uno con aria arcigna. “È tutto in regola.” Dichiarò “Venite.”  
“Oh, adoro andate sotto…” Borbottò di rimando Jordan che aveva assunto un colorito poco invitante.
“Sotto?”
Il Folletto non parve cogliere l’ironia nel tono di voce del ragazzo e rispose invece alla sua domanda.
“I documenti che attestano il possesso e l’ubicazione del castello del Signor Prince si trovano nella camera blindata 720, nel terzo girone.”
Infernale?  
“Da quanto tempo la mia famiglia possiede una camera?” Chiese l’interpellato facendo sentire la propria voce per la prima volta.
“È una delle più antiche. Non avendo mai ritirato la chiave che le spetta, la troverà com’è stata lasciata dall’ultimo erede.”
“Mio padre.” Attestò. “È stato l’ultimo ad aprirla?”

“Così risulta dai nostri registri.” Convenne la creaturina e non aggiunse altro, guidandoli attraverso una porta che si apriva su una galleria in discesa e illuminata da torce. Lanciò poi un fischio di richiamo: dopo pochi attimi arrivò sferragliando un carrello, in tutto e per tutto simile a quelli usati nelle miniere Babbane.
Dal marmo alla nuda pietra. In Inghilterra amano i contrasti.
“Questo intendevi per scendere sotto?” Domandò a Jordan senza riuscire a nascondere la sorpresa.
“La Gringotts si sviluppa in profondità … sotto è tutto un sistema di caverne, cunicoli, gallerie, un paio di strapiombi e curve … di quelle che ne sono proprio tante.” Mormorò mentre si asciugava il sudore con un fazzoletto. “Ogni volta che accompagno mio padre rischio di vomitare l’anima.” Soggiunse palesando il motivo del suo sconforto. “Spero non siate di stomaco debole.”
Ama si sentì in dovere di mettergli una mano sulla schiena e dargli un paio di pacche confortanti. “Forse è meglio se rimani qui, Robert.”
L’altro tentennò, diviso tra il dovere e il malessere. “Sono un auror, certe cose non dovrebbero…”
“Non servono due di noi per accompagnare Sören. Prendiamo le mappe e torniamo indietro.”  

“Beh, in questo caso allora torno in sala d’attesa.” Le sorrise grato.
Il Folletto non parve apprezzare il cambio di piani. “Deve aspettare che uno dei miei colleghi venga a prenderla.”
“Sì, sì, conosco la procedura.” Sbuffò il ragazzo prima di sorriderle di nuovo. “Buon viaggio.”

Quando si affiancò a Sören questo trasalì leggermente, ma si fece indietro per farla passare. “Lascia che ti dia una mano a…”
“Ce la faccio da sola.” Tagliò corto saltando nel carrello: l’ultima cosa che voleva era permettergli di fare il cavaliere per senso di colpa.

Sören fece una smorfia impercettibile, ma la imitò e quando il Folletto si mise al suo posto le lanciò un’occhiata di sottecchi. “Ama, ascolta…”
Fortunatamente non dovette rispondere, dato che partirono a tutta velocità.

 
Ama ce l’aveva con lui e non poteva biasimarla.
Non sarò un esperto in relazioni romantiche … ma per come l’ho trattata, è un miracolo che mi rivolga ancora la parola.
Con tutto quello che era successo con Lily, e con il fatto che non gli stesse tutt’ora rispondendo, aveva completamente messo in secondo piano la strega che aveva accanto.
L’ho dimenticata.
E la cosa era un chiaro campanello d’allarme sulla situazione.
Non posso pensare di stare con lei se non penso mai a lei.
Con un ultimo scossone il viaggio lungo i tunnel della Gringotts si arrestò. Sören scese con un sospiro di sollievo, perché tutte quelle curve gli avevano effettivamente rivoltato lo stomaco come un calzino.
Perché gli inglesi non possono avere banche normali?!
Osservò la porta circolare che lo separava dalla sua camera blindata: era vecchia, di ferro e completamente invasa dalla ruggine che riluceva rossastra alla luce delle torce.
L’ultimo Prince venuto qui è stato mio padre.
Non si era mai occupato dei lasciti di Elias, tornati a lui una volta assunto il cognome Prince, come legge magica prevedeva. Era sempre stato Milo ad amministrare tutto, dai mobili agli immobili.
Se mi fossi interessato di più forse avremmo scoperto molto prima del castello e dei suoi nuovi abitanti.
La cosa lo indignava e lo riempiva di rabbia: non aveva mai conosciuto la sua famiglia da parte di padre, ma il loro sangue gli scorreva nelle vene, era una cosa sua.
E loro sono riusciti ad insozzare anche questa.
“Quante chiavi rilasciate per famiglia?”  Chiese Ama distogliendolo dai suoi pensieri, mentre il Folletto armeggiava con un grosso mazzo di chiavi attorno alla porta, probabilmente cercando quella giusta.
La creatura fece un sospiro spazientito. “Una. Solo il capofamiglia può aprire la camera, anche se può delegare un familiare o una persona fidata. Un’altra copia è tenuta qui, in banca.”
“Ed è quella che sta usando adesso?”
“Esattamente Sergente.”   
“Dov’è la tua?” Gli si rivolse con il tono da poliziotto con cui l’aveva conosciuta.
Era più semplice replicare a quello che ad eventuali recriminazioni sulla sua condotta privata. “Non l’ho mai posseduta.” Rispose. “Milo non l’ha ricevuta, gliel’ho chiesto, ne è sicuro.” Fece spallucce. “Non ne ha comunque mai avuto bisogno … l’eredità di mio padre non è qui, ma alla Banca Federale Tedesca. Mio zio gliela fece trasferire.” Si guardò attorno. “Probabilmente dentro sono rimaste le mappe del castello e poco altro.”
Ama aggrottò le sopracciglia. “Com’è possibile che la chiave sia sparita? Avrebbe dovuto essere assieme ai documenti di successione. Tuo padre non se la sarà di certo portata nella tomba, non ti pare?”
Sören aprì la bocca per rispondere, ma non riuscì a trovare una spiegazione. E capì che se non c’era, qualcosa non tornava. In quel momento il Folletto fece scattare la serratura ed aprì la porta tirando energicamente per farla muovere. Ne fuoriuscì una nube di fumo viola e Sören lesse sorpresa negli occhi di quest’ultimo.
“Cosa?” Chiese brusco, sentendo il cuore schizzare in gola.
“Dovrebbe essere verde.”
Sören fece appena in tempo ad afferrare Ama ed il Folletto e tirarli via. Poi tutto esplose.

 
****
 
San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Dopopranzo.
 
“Dì un po’, ti stai affezionando a questo posto?”
L’atteggiamento migliore da adottare con i pazienti, di ogni età e rango sociale, era quello di una persona che non aveva un’incertezza nella vita e che ignorava la naturale avversione che il mago medio aveva per gli ospedali.
Come Guaritore Albus si era sempre trovato bene con quella filosofia di vita, e quindi non se la prese e quando Sören invece di rispondergli gli restituì un’occhiata raggelante.
Devi far di meglio, tesoro. Vivo con Tom, che la mattina ha sempre la faccia di uno a cui hanno schiacciato le dita contro la porta.
La ragazza fu più gentile, rivolgendogli un sorriso cortese e salutandolo.  
“Buongiorno Ama, sono Al e sarò il tuo Guaritore durante la tua permanenza qui.” La ricambiò presentandosi. Diede poi una scorsa alla cartella: vide che a parte un polso rotto e qualche contusione non vi era nulla che richiedesse la sua attenzione e alzò mentalmente gli occhi al cielo.
Sören ha il melodramma nel sangue. Come suo cugino.
“…nulla di grave vedo.” Aggiunse passandole la bacchetta sul braccio e attorno alla testa. “Parametri stabili, cosciente e un po’ dolorante, vero?”
“Non ha sbagliato nulla.” Confermò con un sospiro che tradiva esasperazione. “Come ho detto ai medimaghi che mi hanno portato qui si tratta solo di qualche graffio. Tutte queste premure non erano necessarie.”
“Sei svenuta.” Si intromise Sören come se volesse dirne quattro ad entrambi. “E sei rimasta incosciente per tutto il tragitto dalla Gringotts a qui.”

“Succede quando vieni investita da un’esplosione.” Fu la replica irritata. “Glielo dica lei, Guaritore.” Aggiunse rivolgendosi a lui quasi fosse colpa sua la testardaggine del collega. “Sta reagendo come se fossi sul letto di morte!”
“Sono semplicemente preoccupa…”
“Beh, non devi.”

Qualsiasi cosa è successa, dubito che siano ai ferri corti perché Sören fa la chioccia.
Ma non si poteva impicciare sempre di tutto, quindi ripose la bacchetta nella tasca interna del camice e fece loro un sorriso rassicurante. “Nulla che un paio di pozioni e un po’ di riposo non possano aggiustare.” Confermò. “Rimani comunque qui in osservazione per la notte, Ama.” Aggiunse per buona misura. “Hai battuto la testa, non è una cosa da prendere sotto gamba.” Sören fece un sorrisetto soddisfatto, quasi avesse vinto una battaglia personale.“Tu piuttosto?” Gli si rivolse cogliendolo di sorpresa. “Tutto a posto?”
A giudicare dalla fuliggine sui vestiti e dal taglio che ti hanno curato sulla fronte eravate assieme quando è esploso quel che è esploso.
“I medimaghi mi hanno visitato sul posto.” Scrollò le spalle. “Sto bene.”
“Anche se ha subito la maggior parte dell’esplosione per proteggere me e il Folletto.” Replicò Ama, quasi stessero giocando a rinfacciarsi qualcosa. L’atmosfera tesa perlomeno era quella.

Per buona misura diede una controllata veloce anche a Sören, che per tutta risposta cercò di rinculare sulla poltrona. “Ho detto che sto…”
“Chi è il Guaritore qui?” Gli chiese retorico. “Su, ci metto solo un secondo.”
Parametri vitali perfetti e si è beccato il contraccolpo di una detonazione … Chissà se è stato il sangue che a rimetterlo in sesto ancor prima che arrivassero i medimaghi.

La sua curiosità era destinata a rimanere insoddisfatta; firmò la cartella della Gillespie e la rimise nel contenitore ai piedi del letto. “L’esplosione è avvenuta alla Gringotts?” Chiese comunque per avere un quadro generale.
La strega gli lanciò di colpo un’occhiata attenta. “Tu sei Albus Potter.” Realizzò e il sorriso garbato le scomparve dalle labbra. “Il figlio di mezzo del Capo Potter … quello che infila sempre il naso dappertutto.”
Sören fece per intromettersi, ma non aveva bisogno di esser difeso. Specie quando era nel giusto. “La mia fama mi precede.” Scherzò mitemente: con certe categorie di persone, come gli agenti di polizia, mostrarsi docile era di solito la strategia vincente. “Do semplicemente una mano agli auror quando posso.”
Ama gli restituì uno sguardo poco impressionato. “Quando potrò uscire di qui?”

Americani, inglesi, tutti uguali … Se hanno un distintivo, quando si spaccano la testa non vedono l’ora di averla a posto per farsela rompere di nuovo!
“Come ti ho detto ti terremo in osservazione per la notte.” Ripeté paziente. “ Domani sarai libera di tornare al lavoro.” Si rivolse poi a Sören, capendo che dalla ragazza avrebbe ottenuto al massimo rimostranze sulla sua permanenza in ospedale. “Cos’è successo?”
“La mia camera blindata è esplosa.”  
Non c’è mai pace sotto il Platano Picchiatore.
“E perché?”
“Qualcuno ha messo una carica esplosiva vicino alla porta, e quando si è aperta…”
“Prince, sono dettagli di indagine.” Strattonò il guinzaglio colei che aveva finalmente assunto il suo vero aspetto: cioè quello di una megera.  

Ci voleva ben altro per farlo rinunciare. “Quindi c’entra con il Demiurgo?”
“Non ho detto questo.” Rispose quella sgarbata.
“Me l’hai appena confermato con il fatto che fa parte dell’indagine.” Osservò con innocenza, registrando l’affacciarsi di un sorriso divertito sulle labbra dell’amico.

In compenso la strega parve seriamente considerare l’idea di torcergli il collo. “Ed è tutto quello che saprai sull’argomento.” Decretò secca. “I semplici cittadini devono stare al loro posto.”
Semplici?! Se non fosse stato per me e Tom non avreste mai scoperto metà delle cose che sapete sul Demiurgo!
Sören gli rivolse una smorfia dispiaciuta, ma sigillò le labbra finché non bussarono alla porta. Fu James il primo ad entrare, notarlo e voltarsi indietro per parlare all’onnipresente Scorpius. “Ve lo dicevo, io, che l’avremo trovato qui a ficcanasare!” Esclamò.
“Sono il Guaritore di turno.” Ribatté gelido trincerandosi dietro il camice: del resto loro non facevano lo stesso con uniformi e distintivi? “E non è orario di visite.”
Scorpius fece capolino da un grosso mazzo di fiori che gli oscurava metà faccia. “Siamo solo qui per controllare che non ci abbiano fatto fuori la quota rosa, Mini Potter, stai sereno!”

Bobby chiuse la fila alzando le mani in segno di resa. “Ho detto loro che c’era già Sören con lei, ma non hanno voluto ascoltarmi.”
Eccerto, quando si tratta di fare i cavalieri chi meglio degli ex-Grifondoro?

James approfittò del suo silenzio per passargli un braccio attorno alle spalle e arruffargli i capelli. “Non prendertela, Sergente … il mio fratellino è un impiccione di professione. Ha una bella testolina, quindi di solito lo lasciamo gironzolare dove vuole … l’abbiamo abituato male, che vuoi farci.”
“Siete voi che siete nel mio territorio.” Ritorse con l’inquietante certezza di suonare come Tom. “E comunque mi informavo come guaritore!”
“Sì, un paio di palle…” Sbuffò James arruffandogli i capelli e andando poi ad accendersi una sigaretta alla finestra. Solo quello diceva molto di quanto la situazione fosse grave: suo fratello non fumava mai in servizio. “Non hai altre visite da fare? Smamma!”

Si sistemò i capelli ormai inevitabilmente impazziti. “Dillo ancora e vi faccio cacciar fuori dal servizio di sicurezza.”   
Posso giocare secondo le regole anche io, se voglio!
James lo ignorò, emettendo un sospiro lamentoso. “Vedi Ama? Questo è un Serpeverde … quando vuole qualcosa, non chiede. Ricatta.”
“Ma collabora anche all’indagine.” Aggiunse Scorpius, che era un bravo ragazzo e stava cercando di sistemare i fiori senza rovesciarli sul comodino. “Quindi possiamo parlare liberamente in sua presenza. È una specie di … consulente.”
La strega parve poco convinta, ma poi scosse la testa in segno di resa. Non doveva esser la prima volta che si scontrava con la modalità creativa con cui i ragazzi seguivano le regole. “Ho smesso di voler capire come funzionano le cose qui da voi.” Disse infatti e poi si voltò verso Jordan. “Che dice il laboratorio?”
Questo si sedette sul ciglio del letto. “Si è trattato di un ordigno esplosivo magico, roba sofisticata, non del genere polvere da sparo e una miccia, ecco.” Tirò fuori il fedele taccuino dalle falde del mantello e lesse. “La camera era piena di gas, e non appena è stata aperta questo si è sprigionato, facendo reazione con l’aria presente fuori e…”
Boom.” Riassunse Scorpius. “…non si è salvato niente.” Esitò per via di Sören, che però pareva del tutto estraniato. Sembrava parlassero di un’altra camera blindata, e non dalla sua, da come non fece una piega.

“Quindi abbiamo perso le mappe.” Si limitò ad attestare, e fu allora che Al si accorse di quanto a fondo teneva le mani seppellite nelle tasche.
Ah, già. La sua mano bacchetta…
“Sono rimasti solo coriandoli. Letteralmente.” Gli rispose James estraendo dalla tasca del giubbotto un sacchetto di plastica e gettandolo sul letto. Era pieno di pezzetti di carta della grandezza massima di un’unghia. “Tutto quello che si è salvato.” Concluse amareggiato.
“Come diavolo hanno fatto a piazzare un ordigno esplosivo là dentro?!” Ama Gillespie era ad un passo dall’alzarsi in piedi e prendere a sberle qualcuno dalla faccia che aveva. Temendo per la sua incolumità si spostò dietro la mole rassicurante di Scorpius.
Il biondo, accortosi della sua strategia, ridacchiò, ma poi tornò serio e disse la sua. “A regola la Gringotts dovrebbe essere la banca più sicura d’Europa. Almeno così dice mio padre…”
“Le carte in tavola cambiando se hai una chiave autentica e la capacità di cambiare aspetto senza usare incantesimi o pozioni.” Il tono di voce di Sören era basso e pacato, ma ebbe il potere di farli tutti ammutolire. “Doe aveva la chiave, ma il Folletto ha detto che mio padre era l’ultimo ad averla usata.”
“Ha preso le sembianze di tuo padre!” Realizzò Ama. “Siamo stati degli idioti … avremo dovuto chiedergli a quando risaliva l’ultima apertura!”
“Non potevamo saperlo … Ma loro sapevano che saremo andati alla Gringotts.” Sören si alzò in piedi e si diresse verso la finestra. Sorpreso, Albus vide James fargli spazio con naturalezza, e senza smorfie da ragazzino scemo. “Sono sempre un passo avanti a noi. A questo punto è ovvio, c’è una talpa in uno dei nostri Dipartimenti.” Concluse con lo sguardo fisso nel vuoto.

“Hanno avviato le indagini, Sören…” Tentò Ama e la vide indugiare nell’idea di toccargli il braccio, salvo poi ritirare la mano quando questo si voltò verso di lei.
“Non basta.” Fu la replica tetra.
“Non perdiamoci d’animo!” Esclamò Scorpius riuscendo a suonare convincente nonostante l’atmosfera avvilita. “Ci saranno altri modi per trovare il castello, no?”
“Di certo meno facili.” Borbottò James, ma ad un’occhiata del compagno si schiarì la voce. “Comunque li troveremo. Non ci arrendiamo di certo, siamo ad un passo da sbatterli al fresco per sempre!”
Sören non rispose, ma parve leggermente rincuorato da come smise di contemplare il suo infinito interiore.
“Posso … averli?” Chiese inserendosi nella conversazione. Era rimasto zitto fino a quel momento, assorbendo informazioni, ma era arrivato il momento di fare la sua mossa. Se le cose si stavano davvero muovendo, voleva esser parte della corsa. Indicò la busta. “I pezzi della mappa intendo.”
“E che te ne fai, Albie? Sono inutilizzabili, non si legge niente!” James scosse la testa. “Pensi di far meglio dei ragazzi del laboratorio?”

Fece due brevi calcoli e aggiunse ad essi la meticolosità al limite della patologia del proprio compagno. “Potrei in effetti, dopotutto ho anche io un laboratorio a disposizione.”
Quello di Tom.
Fu contemplato in vari gradi di incredulità, tranne Sören che lo guardò come se trovasse del tutto ragionevole credergli.
Adorava Sören.
“C’è qualcuno nella vostra famiglia che non è in delirio di onnipotenza?” Rise Scorpius prendendo la busta e tendendogliela con una strizzatina d’occhio. “Cavolo, siete unici.”
Al se la rigirò tra le mani. “Meglio non lasciar niente di intentato, no?”

“Sì, sì. Ora va a fare quello per cui sei pagato però, prima che il Sergente ci denunci alla commissione disciplinare.” James lo prese per le spalle e lo spinse fuori dalla porta, ma a quel punto aveva già ottenuto ciò che voleva.
“Buon lavoro!” Li salutò allontanandosi. Era soddisfatto, ma più gradevole ancora era constatare di aver fatto rimanere la megera con un palmo di naso.
Semplice cittadino un accidenti!
Estrasse il cellulare dalla tasca del camice – al San Mungo ancora non lo consideravano una distrazione sul lavoro, forse perché il consiglio direttivo era composto da vecchietti che lo chiamavano feletono – e richiamò vocalmente il numero che gli serviva.
“Non è un mio problema!” La voce di Tom lo accolse nel suo miglior sibilo irato.
“E non ho ancora detto una parola!”
“Non è…” Lo sentì spostarsi, forse da un lato all’altro del negozio da come sentiva la voce concitata di un uomo di sottofondo e il tono conciliante di Stevens subito dopo. “… ero con un cliente.”
“È un miracolo che il povero Rupert non sia ancora fallito.”
Tom sospirò. “Cosa c’è?”

“Ho un nuovo lavoretto dall’ufficio Auror.”
Poteva sentire il sorriso di Tom anche a quella distanza. “Sta diventando una droga, mh?”
“L’ho ottenuto in maniera legale, me l’hanno commissionato Jamie e gli altri.” Ribatté appoggiandosi al muro e stiracchiandosi: la voce di Tom dopo tante ore di reparto gli faceva l’effetto di un lungo bagno caldo. “Spero tu abbia voglia di fare un puzzle.”
“L’importante è che non mi porti a contatto con James, per il resto sono a tua completa disposizione.”
“Certo che lo sei.” Mormorò e fu certo di sentirlo ispirare e alzarsi dalla sedia dove si era seduto. Sogghignò soddisfatto. “Mi aspetti a casa?”

“Non fermarti a chiacchierare come tuo solito.”
Chiuse la chiamata appena in tempo per vedere Lily apparire in cima al corridoio, guardarlo, guardare la porta da cui era uscito … e poi tornare indietro precipitosamente.
Eh?
“Lils!” La chiamò indietro, e quando questa non diede segno di averla sentito gli andò dietro. “Ehi!
Sua sorella conosceva le sue reazioni come le tasche del suo mantello, perché non appena svoltò l’angolo se la trovò davanti che lo aspettava. “Sei curioso come uno Snaso, fratellino.” Lo apostrofò con un sorrisetto placido. “Questa tua brutta abitudine di inseguire le persone un giorno potrebbe ritorcertisi contro.”
“Già fatto.” Tagliò corto incrociando le braccia al petto. “Cosa ci fai qui?”

E perché mi hai attirato lontano dalla camera della Gillespie?
“Un giro per sgranchirmi le gambe?” Suggerì con aria innocente.
Ma per favore.
“Sören sta bene, non è lui ad esser stato ricoverato.” La seccò sul posto. “Anche se a questo punto dovremo farlo mascotte dell’ospedale visto che è qui almeno una volta a settimana.”
Lily abbandonò la messinscena e si mordicchiò un labbro, cincischiando con i bordi del camice. “Mi hanno detto … che c’è stata un’esplosione e che era là in mezzo…”
“Solo qualche graffio superficiale.” Scrollò le spalle. “Perché non vai a vedere come sta se non ti fidi? È dentro con gli altri, ma dato che non dovrebbero neanche star là a far comunella…”
“No, meglio di no.” Lo interruppe frettolosa. Poi aggrottò le sopracciglia. “E poi è la Gillespie l’altro agente, no?”

“Beh, sì.”
“Comunque ho da fare.”
Non poteva starsene zitto. Cioè, avrebbe potuto … ma non sarebbe stato da lui. “Senti, sono affari tuoi, ci mancherebbe, ma tra te e Sören…”
“Appunto.” Lo bloccò di nuovo, stavolta seccamente. “Sono affari miei.” E detto questo girò i tacchi e lo lasciò con un palmo di naso.

Albus sospirò: non se lo ripeteva mai abbastanza, ma doveva esser grato a Merlino di avere a che fare con le donne solo come sorelle e amiche.
In caso contrario, temo impazzirei.

 
****
 
 “Posso portarti qualcosa? Del the?”
Un’altra domanda su quel tenore e avrebbe schiantato l’idiota che rispondeva al nome di Sören Elias Prince. Ama non si riteneva una tipa paziente, ma se c’era una cosa che la mandava fuori dai gangheri senza possibilità di ritorno era esser trattata con i guanti bianchi.

“Non voglio niente.” Disse valutando seriamente l’opzione violenza fisica. Non ne poteva più, e il dolore al braccio e le contusioni di cui era costellata non miglioravano la situazione. “Anzi, una cosa la vorrei.”
“Cosa?”
“Che ti levassi dai piedi!”
Sören serrò le labbra, come un bambino che era stato sgridato e non capiva il motivo. Da quando gli altri agenti se n’erano andati era rimasto inchiodato alla poltrona degli ospiti con un’ostinazione incomprensibile visto che non mai aperto bocca per parlare della loro situazione: solo per chiederle se poteva essergli d’aiuto.  
“Ama…”  

Cosa?” Lo apostrofò esasperata. “Piantala di fare quella faccia da cane bastonato e sputa il rospo!”
Si rendeva conto di non dover essere così aggressiva, visto che non avevano nulla in ballo, se non due baci e qualche tentativo goffo di rapportarsi fuori dalle loro uniformi.

E che mi piace. Mi piace quanto mi dà il nervoso.
Era frustrante perché non riusciva mai a raggiungerlo: per quanto avesse tentato di dimostrarsi amichevole, disponibile … nulla sembrava scalfire la corazza fatta di educazione e ansia dell’altro. E doveva ammettere che anche durante il loro appuntamento aveva avuto la stessa impressione; come se Sören fosse lì, a sorriderle, pagarle il gelato e baciarla, ma al tempo stesso fosse distante miglia.
Così impari a prenderti una sbandata per un tipo innamorato di un’altra.
Sören, rimasto in silenzio fino a quel momento torcendosi le mani, aprì bocca. La richiuse. Poi finalmente parlò. “Io …” Iniziò facendosi coraggio. “… io non so come comportarmi in queste situazioni.”
“E queste situazioni sarebbero?”
“Io … e te.” Scosse la testa e per un momento Ama ne ebbe quasi pena, a vederlo arrovellarsi con tanta insoddisfazione solo per piantarla. “Non ho mai imparato…”
“Queste sono scuse.” Tagliò corto, perché non potevano continuare in quel modo. Se dovevano lavorare assieme era meglio mettere un punto, visto che già il povero Robert ne aveva sofferto le conseguenze. “Fatti dire come stanno le cose. Abbiamo passato un bel pomeriggio assieme, ci siamo baciati e poi mi hai buttato nel dimenticatoio. Il motivo non lo so, ma la tua inesperienza non c’entra.”

Sören abbassò lo sguardo con aria così avvilita che dovette ricordarsi per l’ennesima volta che ce l’aveva con lui. “Non era mia intenzione illuderti…”
Alzò gli occhi al cielo, perché c’era poco da fare: aveva di fronte il tizio più senza speranza della storia. “L’illusione lasciala ai romanzi d’appendice.” Gli rispose spiccia.” Non avevamo nessun impegno l’uno con l’altra, stavamo solo testando le acque … Abbiamo provato e non è andata. Succede. Non ce l’ho con te per questo.”
Sören si arrischiò ad alzare la testa. “Allora perché sei arrabbiata?”

“Perché non ti sei preso neanche il disturbo di dirmelo!” Esclamò incredula: possibile non avesse neppure capito perché quella conversazione si stava svolgendo ad urla – le sue? “Potevi avvertirmi che non eri più intenzionato ad uscire con me invece di ignorarmi!”
Sören aggrottò le sopracciglia, con una confusione così palese dipinta in faccia che avrebbe voluto prenderlo a sberle. Forse aveva fatto il passo più lungo della gamba a pensare di poterci avere un rapporto funzionale.
Non capisce neanche l’abc di un corteggiamento. Aveva detto di non avere esperienza, ma così…
“Quindi sei arrabbiata solo per quello?”
“E ti pare poco?!”
Deglutì rapidamente. “No, assolutamente no.” Si affrettò a dire. “Mi sono comportato in maniera orrenda e ti chiedo scusa.” Esitò. “Posso chiederti scusa in questo caso, no?”
Ama ricordò la conversazione avuta prima che partissero entrambi per l’Inghilterra e dovette frenare un mezzo sorriso all’idea che avesse avuto significato non solo per lei. “Mi pare il minimo.”  
L’altro annuì un po’ più rincuorato. “Bene … perché mi dispiace, sul serio. Sono successe un sacco di cose, e… non che questa sia una giustificazione…”
“Lo è.”
“Sì, ma ha il pregio di esser la verità.”
Ama sospirò: no, non poteva biasimarlo per aver perso la bussola in quei giorni. Al posto suo di certo avrebbe dimenticato tutto e tutti.

Solo che pare che tu abbia perso la testa anche da un’altra parte.
“Quindi? Vuoi dirlo o te lo devo cavar fuori con le pinze?”
Stavolta Sören cercò il suo sguardo, e diavolo, una volta che si fosse trovato una strega capace di sciropparselo, l’avrebbe fatta diventare matta con quegli occhi scuri e profondi. “Non credo di essere la persona giusta per te, Ama.”
“Ti sei ritirato presto dalla competizione.” Frecciò, ma senza troppo livore. La delusione sarebbe passata, e i suoi sentimenti … beh, avrebbero preso un’altra direzione.

Dopotutto, si porta dietro un po’ troppi guai per una ragazza sola.
C’era una pulce che doveva togliersi dall’orecchio però. “La Potter in che misura c’entra?”
L’espressione dell’altro fu emblematica da come arrossì e si guardò le mani come se contenessero la gemma più preziosa del mondo.
Preferirmi quella sciacquetta prepotente … Bah, perdita sua.
“Abbastanza … molto.” Ammise sincero. “Le cose si sono complicate e … non riesco a smettere di pensare a lei anche se forse non c’è futuro.” Ammise piano, quasi avesse paura di svegliare un drago. 
Penso che continuerò a fargli paura per un bel po’.
E la cosa la divertiva nonostante tutto. Sören non l’aveva mai vista come una femmina troppo aggressiva che si voleva avvalere di un potere che non le spettava.
Ha paura di me perché sono io, punto e basta.
Forse era questo uno dei motivi per cui se ne era invaghita.
“Quindi vi siete messi assieme?”
“Cosa?” La guardò come se fosse l’idea più assurda del mondo. “No, no … non è quello.”
Oh, Cristo santo.
“Senti, normalmente non do consigli a chi mi ha preferito ad un’altra, ma… risolvila. Questa storia con lei. Una volta per tutte.” Lo rimbrottò, perché dopotutto le veniva più naturale trattarlo come un ragazzino che come un possibile amante. “O te la trascinerai dietro per tutta la vita e ti precluderai la possibilità di trovare la ragazza giusta.”
“E se fosse lei? Se fossei lei … la ragazza giusta?”
Premio per la costanza allora.
Incredibile comunque. Do consigli di cuore all’idiota che mi ha appena dato un due di picche.
Alzò gli occhi al cielo, perché anche il suo lato materno aveva dei limiti. “Ti pare il caso di chiederlo a me?”
“ … immagino di aver commesso una gaffe.”
“Più di una!”
Sören si morse ancora un po’ le labbra, poi finalmente decise di alzarsi. “Ti suonerà ipocrita e … puoi benissimo rifiutarti, ma…” Esordì.
Ama lo stoppò prima che ci mettesse cinque minuti e un panegirico per dirlo. “Sì, Sören, possiamo essere amici.” Scosse la testa al sorriso pieno che spuntò sulle labbra dell’altro. Diavolo, se era carino. Ora sì che si meritava una sberla. “Anche perché, diciamocelo, forse alla fine sarei stata io a piantare te. Sei insopportabile.” Concluse, perché doveva uscire con l’amor proprio meno ammaccato possibile.
“Me ne rendo conto.” Convenne tutto tranquillo quasi non l’avesse insultato, poi si mise sottobraccio la giacca e le tese la mano. “Grazie … ho passato davvero dei bei momenti con te, ti prego di non dubitarne.”
Ama gliela strinse e sbuffò al baciamano che ne conseguì, anche se sciolse l’ultimo cubetto di ghiaccio che aveva nell’animo.
Stupido, splendido ragazzo d’altri tempi.
“Levati dai piedi e non farmi più perdere tempo, Prince.” Sbuffo, e fu una vittoria personale restare con gli occhi asciutti finché l’altro non ebbe chiuso la porta.
 
****
 
Diagon Alley, Casa di Al Potter & Tom Dursley.
Pomeriggio.
 
“Stavolta ti sei superato, Potter.”
“In meglio o in peggio?”

“Indovina.”
Albus non rispose, passando le dita lungo la curva del collo del suo compagno di malefatte preferito: collo, clavicola, giuntura, avambraccio … ad occhi chiusi, adorava ripassare le ossa con il suo scheletro personale.

Tom gli baciò la nuca, aspirando profondamente chissà cosa, e trovandone gradimento da come vi premette anche i denti.
“Ahi!”
“Se ti do fastidio alzati.” Gli suggerì senza aver la minima intenzione di liberarlo da quella prigione di gambe e di braccia in cui erano avvolti: dalle finestre filtrava poca luce, la solita del grigiore londinese, ma le tende beccheggiavano ad un vento fresco e leggero che portava odore di lemon curd e dolci appena sfornati dal panificio poche case più sotto.

Questo mi ricorda che ho voglia di scones. Ma chi ha voglia di alzarsi?
Era così raro poter passare un pomeriggio in quel modo. Piacevole, persino con il sudore che si raffreddava sulla pelle, e con l’impianto stereo che diffondeva a basso volume musica che piaceva ad entrambi.
 
I wanted to walk through the empty streets
But all the news reports recommended that I stay indoors

 
Affondò il viso nel materasso e buttò fuori un lamento sentito. “Mi stai sopra, come faccio?”
“Chiedimi di alzarmi.”
“Mh, no.”

Contatemi trai pochi prigionieri che non anelano alla libertà.
Sdraiato a pancia in giù tastò tra le lenzuola finché non trovò la propria bacchetta. Notandolo, Tom gli morse la spalla, premendogli un ghigno sulla pelle.
“Sei insaziabile, Potter.”
“Scemo.” Replicò Appellando la busta di plastica che conteneva le mappe del castello: dentro centinaia di pezzi giallognoli e minuscoli di pergamena. “Tornando al discorso di prima … in peggio.” Decretò. “Mi sono superato in peggio.”
“Come, sei in grado di ricomporre le membra di un mago ma non una pergamena?” Lo prese in giro continuando con l’esplorazione del suo basso schiena.
Ah, quando Meike non c’è, gli ormoni ballano…

“Per questo chiedo l’aiuto del mio ossessivo-compulsivo preferito.” Mandò la busta a ballonzolargli sulla testa, e suo malgrado Tom la afferrò per darvi un’occhiata.
“Rimango del mio parere, è un lavoro inutile.” Gli fece notare infastidito buttandola a lato. “A parte tirarli ad una festa non vedo come possano essere ancora utili.”
“Davvero non vuoi darmi una mano?”
“No.”
Tom era interessato al Demiurgo come e forse più di lui, ma diventava terribilmente svogliato quando una cosa non aveva soluzione immediata, o anche peggio, non lo stimolava intellettualmente.
E in effetti, ricomporre questa roba sarà una noia assurda.
“Pensa al Bene Superiore.” Pronunciò con tono serio e profondo, ridendo quando l’altro fece una smorfia come se avesse masticato qualcosa di cattivo. Si voltò sulla schiena per allacciargli le braccia al collo. “Non lo ammetti ma ti piace fare la parte dell’eroe!”
“Gli eroi sono idioti con un tasso di sopravvivenza ridicolo.” Mormorò avvicinandosi con l’intento di baciarlo. Per tutta risposta spostò la testa finendo per farsi baciare la guancia. “Al.” Lo ammonì con un tono a metà tra la minaccia e la supplica. “Non siamo i galoppini del DALM.”
“No, ma siamo bravi a lavorare dietro le quinte. Molto bravi.” Gli fece notare picchiettandogli sul petto e togliendo la mano appena prima che gliela schiaffeggiasse via irritato. “Mi avevi detto che mi avresti aiutato…”
“Non pensavo mi avresti chiesto di ricostruire pezzo per pezzo una mappa di un posto che non ho mai visto.”
“Abbiamo scoperto una malattia di cui non avevamo mai sentito parlare!”
“Quella è intelligenza.” Fu la replica sostenuta. “Questa è follia. Non so nulla di mappe.”

Non è che abbia tutti i torti.
“Questo non è vero.” Non si diede per vinto: qualcosa gli diceva che tutta quella carta maciullata aveva ancora qualcosa da dirgli . “Mappa del Malandrino?”
“Era di un posto che conoscevamo.”
Hogwarts? Hogwarts che cambia il proprio perimetro a suo piacimento? Sono riuscito a perdermi anche all’ultimo anno!”

“Ti perdi anche quando facciamo la spesa.”
Comunque.

Tom storse le labbra nell’ennesimo tentativo di opporsi, ma in un letto, senza vestiti e con la certezza di non avere Meike trai piedi per le prossime ore era in una posizione di debolezza smaccata.  
“Per favore?”
Per tutta risposta l’altro cercò di afferrare la busta con l’anelito di disfarsene. C’erano indubbi lati positivi nel conoscere una persona profondamente: lo batté sul tempo e l’afferrarono in contemporanea.
“Al.”
Tom.” Mantenne il punto. “Non vuoi catturare i cattivi?” Produsse il suo miglior sguardo deluso, con tanto di ciglio tremulo: sarebbe stato di lacrima facile fino alla tomba, tanto valeva sfruttare la cosa. “Pensavo fossimo insieme in questa faccenda.” 
L’altro aprì bocca per protestare, ma allo stesso tempo mollò la presa sulla busta. Si risolse infine a incenerirlo con un’occhiata. “Una volta ti avrei convinto a lasciar perdere…” Borbottò per mantenere la posizione. Nel frattempo però si alzò anche a sedere e cercò i propri pantaloni.
Fa tanto lo svogliato e poi sarà il primo a lavorarci sopra. Guardalo, già pensa a come trovare una soluzione…
“Ti amo, lo sai?”
“Va’ all’inferno, Potter.”
Capiva la sua poca voglia però. Lavorare dietro le quinte significava, spesso e volentieri, non veder il proprio lavoro riconosciuto. Alla fine dei giochi sarebbero stati gli Auror ad esser portati alla ribalta con corone e allori, e a loro sarebbe stata data qualche pacca sulla spalla.
Era suo dovere quindi coccolarsi e coccolare il compagno. Gli accarezzò la schiena affettuosamente, posandoci un bacio proprio al centro. “Lo sai che senza di noi avrebbero il triplo delle domande e metà delle risposte? Non lo riconosceranno mai, ma…”
Tom sbuffò. “Preferirebbero gettarsi nelle fiamme piuttosto che proclamare la loro pigrizia mentale.”
“Non basto io a proclamare il tuo indiscusso genio?” Lo prese in giro, ma neanche tanto. “Perché, sul serio, a volte sarei perso senza di te.”
“A volte?”
“Raramente.”
Tom borbottò qualcosa trai denti e lo ribaltò, schiacciandolo tra lenzuola, cuscini e se stesso. Rise, perché non sarebbe mai riuscito a capire come il compagno facesse mosse tanto dispotiche e riuscisse comunque a risultare tenero.
Sì, beh, forse solo a me.
“Non sarei stato così sfacciato con Jamie se non avessi avuto la certezza di avere un ragazzo amorevole e capace al mio fianco.” Disse avendo comunque cura di afferrargli il braccio con cui lo teneva fermo per piantarci le unghie. Mai arrendersi. “Vedrai, ne tireremo fuori qualcosa…” Lo blandì. “Lo facciamo sempre.”
“A volte.” Lo imitò.
“Sempre.” Corresse, allentando la presa sul braccio perché Tom aveva fatto lo stesso. “Come ho bisogno di te. Sempre. Me lo volevi proprio far dire, eh?”
Bisognava sapere quando dare la stoccata finale. L’espressione del suo impossibile amore infatti si ammorbidì. “Sì.”  Lo baciò prima di alzarsi. “Vado a mettere il bollitore sul fuoco.” 
Albus lo lasciò andare, sorridendo e chiudendo gli occhi mentre si abbandonava trai cuscini: avrebbe fatto passare qualche altro minuto prima di chiedergli di scendere a comprare degli scones per accompagnare il the.
 
 
****
 
Note:


Lo so, lo so, avevo promesso la svolta in questo capitolo. Ma di mezzo ci s’è messa un bel po’ d’azione. E comunque, alcune cose da chiudere e per questo ho voluto dividerlo in due parti, in due giorni diversi.
Prometto prometto prometto che nel prossimo ci sarà il battesimo e un po’ di roba grossa Lily/Ren. Il confronto, insomma. Da lì è tutto in discesa. O quasi. De-eh.
*fugge*
Questa la canzone del capitolo. Questa quella ascoltano Al e Tom.

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Capitolo 39
*** Capitolo XXXVIII ***


Capitolo XXXVIII



 
 

Mettersi ad amare qualcuno è un’ impresa.

Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento.
C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio:
se si riflette non lo si fa.
(J. P. Sartre)
 
28 Luglio 2028
Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted e James, Mattina.
 
“Sei sicuro di non voler venire al battesimo?”
James si sentiva un po’ scemo a chiedere tante volte la stessa cosa: se lo faceva durante un interrogatorio era un conto, ma farlo con Ted che lo stava guardando con l’aria del professorino detentore di certezze assolute era un po’ umiliante.

“Stanotte è il plenilunio.” Disse mentre Ben fagocitava la colazione in silenziosa concentrazione.  
“Me lo ricordo.” Gli rammentò a sua volta, perché non poteva fare a meno di sentirsi un po’ in colpa ad andare ad una festa, per quanto Weasley e quindi inevitabile come un eclissi di sole. “Ma non credo che finisca tanto tardi…”
“La cerimonia forse, ma il rinfresco?” Gli fece notare il compagno con un sorriso divertito. “Sai com’è nonna Molly quando ha tanta gente invitata … C’è il rischio che tiri su un altro piano di casa solo per ospitarli tutti.”
James ridacchiò, perché anche quello era vero. Oggi constatava tutte cose vere. Diede una forchettata ai suoi pancake e si strinse nelle spalle. “Ho solo pensato che a Ben avrebbe fatto bene distrarsi prima di stanotte, no?”
“Deve riposare.” Scosse la testa. “Agitarla non è una buona idea.”
Le mie non lo sono mai.

Inghiottì la frase, perché non era giusta nei confronti di nessuno, specialmente di Ted, che si stava facendo un culo quadrato per tenere a bada i capricci sempre più repentini e imprevedibili di Ben. “Non sarebbe meglio se rimanessi?”
“Non ce n’è bisogno, Jamie. Anche trasformata rimane uno scricciolo di sei anni, penso di poterla gestire.” Riempì il bicchiere della bambina di succo d’arancia quasi a sottolineare il concetto. “Tu pensa a dare una mano a Molly … con tutti quegli invitati serviranno una gran quantità di braccia e bacchette, no?”
James non rispose, inghiottendo la propria contrarietà. Non era stupito dal comportamento di Teddy, era tipico suo non fare pesare a nessuno i propri problemi: perché sì, configurato la faccenda Benedetta come qualcosa a cui doveva pensare lui soltanto. Avrebbe voluto convincerlo del contrario, ma quella volta non era come fargli ammettere i propri sentimenti.
Per la prima volta in vita sua ha una famiglia che non sia solo sua nonna.
Capiva se voleva godersi Benedetta da solo, anche se questo si traduceva in un lento, ma inesorabile metterlo da parte. Era stato un processo lento, ma costante e acutizzato con l’episodio da Scrivenshaft: al momento Ted aveva testa e cuore dediti alla nipotina e non c’era spazio per lui, né dentro né fuori da un letto.
Da quant’è che non facciamo sesso? 
Si diede subito dell’immensa testa di cazzo per aver dato voce alle proprie parti basse. C’era una trasformazione quella sera, e lui pensava a scopare.
Vaffanculo, è che mi sento inutile.
Non poteva neanche star vicino a Benedetta: era un umano, e puzzava di umano a giudicare da come la piccoletta gli stava alla larga da giorni, sostenendo che doveva farsi una doccia.
Teddy è un Metamorfomago e ha geni da lupo. Da lui non è infastidita.
Era frustrante. La qual cosa, ovviamente, lo faceva incavolare. Ma non era il genere di ingiustizia per cui potesse protestare: era il genere, tutto nuovo, che lo rendeva confuso ed irritabile.  
“Come vuoi.” Finì per dire con tutta la serenità che poté fingere. “Quindi secondo te è meglio se rimango a dormire dai miei stanotte?”
Ted dovette leggere qualcosa nella sua espressione – okay, non era mai stato bravo a mascherare il proprio umore  – perché si sporse sulla tavola per stringergli una mano. “Magari solo per stavolta.” Lo blandì. “Devo vedere come reagisce alla Pozione Antilupo, se rimane aggressiva … si trasformerà per la prima volta senza suo padre. Sarà spaventata.”
James guardò la piccola, che alzò la testa, senza capirli ma sorridendo lo stesso: non riusciva a credere che una pulce di quelle dimensioni potesse essere pericolosa.

Eppure.
“Okay.” Raddrizzò la schiena, perché mettere il broncio era da ragazzini e non deponeva a suo favore. “Hai ragione, a nonna serve una mano … papà ha dato buca dicendo che doveva lavorare e mamma arriverà giusto per la cerimonia visto che deve seguire le qualificazioni dei Magpies. Roxie mi uccide se non compongo il trittico di fratelli.”
“Appunto.” Ted non era sollevato, anche se gli sembrava. Di sicuro. “Comunque ti tengo informato.”
 
****
 
Londra, Casa di Roxanne e Dionis Radescu.
 
Roxanne trovò Lily nella più compromettente delle posizioni, ovvero con una scopa in mano e sporta sul davanzale mentre cercava di scacciare un gufo, reo di voler entrare nella camera degli ospiti.
Sciò!” Gridò agitando la saggina totalmente a caso. “Via!”
Oh, ma per favore.

Aveva mille cose da fare, tra cui preparare Alexandra che al momento le sonnecchiava addosso, assicurarsi che Dionis avesse preso in consegna gli invitati rumeni e che nonna Molly non avesse esagerato con il rinfresco. Però non c’era niente da fare, la Rossa riusciva a monopolizzare la scena anche quando non era al suo centro. Era così da quando erano bambine: se Lily aveva un problema, in automatico diventava un problema di chiunque avesse a che fare con lei.
Un po’ la odiava per questo.
“Stai diventando ridicola.”   
La cugina si voltò, arruffata e con il viso rosso come una mela. Poteva essere per imbarazzo come per rabbia. “Non pensavo mi trovasse a casa tua!” Si giustificò mentre il pennuto atterrava trionfante sul bordo del davanzale recando il suo carico postale.
“Potrebbe fallire solo ti trovassi in un bunker sotto terra. Forse.” Le fece notare mentre Alex lasciava andare il ciuccio per infilarsi una sua ciocca di capelli in bocca con un gorgoglio estasiato. In quel momento era in balia di ben due ragazzine.
E la più problematica non è mia figlia.
Lily non ribatté, prendendo la missiva e rigirandosela tra le mani. “È da parte di Sören.” Borbottò.
“Forse dovresti rispondergli.”
“Lo vedo stasera, ormai non ha molto senso…” La gettò assieme alle altre, una piccola cascata di carta e inchiostro al bordo della scrivania: erano giorni che continuava così. Ogni accenno a Scott o al tedesco finiva nel silenzio o in tentativi di difendere il proprio comportamento.

“Oh, per l’anima di Merlino, Rossa!” Sbottò, perché i suoi nervi erano già ridotti ai minimi termini dato che, oltre al resto, la nutrita famiglia Weasley-Radescu sarebbe stata al gran completo.
Due famiglie gigantesche, chiacchierone e che non parlano la stessa lingua. Se Domi fa ritardo l’ammazzo. A parte lei e Dion non c’è nessun’altro che parli rumeno.
Lily si sedette sul letto con aria svuotata. “Okay, la pianto.” Garantì bugiarda come una moneta da tre Falci. “È che è tutto un gran casino! Penso…”
Pensi. Sono giorni che pensi! Morgana maledetta, prendi una decisione!”
“Se l’avessi presa pensi starei così?!” Esclamò alzandosi in piedi e prendendo a passeggiare nervosa per la stanza. Alex, come ogni neonata sensibile che si rispettava prese a piagnucolare e le toccò quindi dedicarle qualche attimo e moina prima che riprendesse a succhiare volenterosa i suoi poveri capelli. “Ho fatto una lista.” Le comunicò. Lily, non Alex.

Spero che il momento di mia figlia arrivi il più tardi possibile.
“Una lista?”
“Sì, di pro e contro …” La sua espressione dovette essere indicativa perché arrossì. “Senti, è l’idea migliore che mi è venuta e anche se fa schifo, pazienza.”
Non è che elencando le qualità di un ragazzo capisci se è quello giusto per te…  
Non lo disse però, perché anche lei aveva un limite nell’infierire e si vedeva che Lily era davvero armata di buona volontà, per quanto fosse zoppa e claudicante. “Sentiamo, cosa ne è venuto fuori?”
“ … niente di nuovo.” Mugugnò indicando una serie di fogli appallottolati sopra e sotto la scrivania. “Scott mi fa sentire stabile … sicura. Magari niente batticuore…”
Eh, e dici poco. Se non ti batte il cuore, di cosa stiamo parlando?

“Però mi ama ancora e vuole un futuro con me.” Aggiunse con la stessa intonazione che aveva da bambina quando si rendeva conto di aver combinato qualche guaio. “Nonostante tutto quello che gli ho combinato.”
Roxanne destreggiò il peso di Alex su un’anca: a volte era più difficile tenere in braccio lei che una cassa di Bolidi. “Però se ne torna in Australia.”
“Sì, ma … non è quello il punto. Potrei anche andare con lui.”
“Quindi è quello che vuoi?”

“Certe volte penso di sì … altre volte penso che anche cambiare aria non migliorerebbero le cose. Non lo amo come mi ama lui. E non è giusto che gli prometta cose che non posso dargli.”
Non avrebbe voluto essere nei suoi panni: in un certo senso, era una fortuna che Rupert fosse stato l’immensa di cazzo che tutt’ora era. Innamorarsi di Dionis era stato molto più semplice, sapendo quanto tossico era stato il rapporto con l’altro.
Almeno avevo le idee chiare.
Invece Lily aveva a che fare con due bravi ragazzi, che con pregi e difetti le volevano bene e tenevano a lei. Scott si imponeva troppo e Sören era problematico come un’operazione di Aritmazia, ma nessuno dei due meritava di avere il cuore spezzato.
“E Sören?”
Lily guardò verso la scrivania come se da essa potesse arrivargli una risposta, magari sotto forma di comodo elenco. “Sören è tutto quello che ho sempre voluto.”
Ah, eh beh. E questa non è una risposta?
“È solo che … la realtà è diversa.” Continuò. “Non è una fiaba, non c’è un lieto fine da manuale.” Si passò una mano trai capelli e chiuse gli occhi. “La realtà siamo io e lui e questa …forza … che ci spinge sempre l’uno contro l’altro. Ma non so se è qualcosa che può renderci felici.” Assunse un’espressione persa, quasi non si capacitasse della sue stesse parole. “Non ho mai … prima che tornasse non avrei mai pensato di considerarlo…” Esitò. “Non ho mai pensato che lui potesse ricambiarmi.”
“Beh, hai avuto tempo a sufficienza per realizzarlo direi.” Le fece notare.  

Lily si risedette sul letto, dato che proprio non riusciva a star ferma, e prese uno dei cuscini stringendoselo tra le mani e giocherellando con i bordi. “Sì, ma da qui non sono in grado di muovermi.”  
“Forse è una decisione che dovreste prendere assieme.”
“Forse.” Ammise. “Comunque ci sono arrivata. Devo fare un passo avanti e mettere la nostra relazione su un altro piano … Non siamo più semplici amici.” Deglutì, quasi quella realizzazione fosse un macigno che non riusciva a digerire. “È cinque anni che stiamo in questo limbo. Devo farla finita, qualsiasi cosa succeda.”

“Mi pare un buon piano. Anche se attuarlo al battesimo di mia figlia è di un’intempestività unica.”
Lily borbottò qualcosa trai denti che assomigliava vagamente ad una richiesta di scuse.
“Lascia perdere…” Sbuffò di rimando. “Tanto non è che possiate evitarlo.”
Non c’era altro che potesse dire alla cugina a quel punto: una decisione andava presa, e l’altra ne era consapevole anche se tentava goffamente di rimandarla. Aveva paura: glielo leggeva nell’espressione e  nel modo in cui ripeteva sempre gli stessi ragionamenti senza ingranare la soluzione. Il nocciolo del suo esitare con Sören era proprio la paura.
“Magari non risolverete le cose nel giro di una serata … ma metterete un punto. Poi, qualsiasi decisione prenderete, partirete da lì.” Le mise una mano sulla spalla e la strinse, affettuosa, perché più di ogni altra cosa voleva vedere l’altra felice.
Certo, a tutto c’è un limite.
“Ora basta monopolizzare le scene, è il gran giorno di mia figlia!” La sgridò.
Lily rise, annuendo. “Per stasera a che ore dobbiamo essere là?”
“Alle tre per le prove con il sacerdote. Mi raccomando, niente minigonna.” La ammonì scherzosamente, per farle spuntare il sorrisetto che era marchio stesso del suo essere. “Padre Archibald ha una certa età, e al mio matrimonio abbiamo rischiato.”
“Ma se ero vestita da damigella!”
“Sì, ma i vestiti li avevi scelti tu.”
La cugina alzò le mani in segno di scherzosa resa. “Mi farò bella per Alex, quindi niente di eccessivo, promesso.”

 
****
 
Londra, Piccadilly Circus.
Royal Inn, Ora di pranzo circa.

 
“Ti ho fatto stirare l’uniforme.”
Dal terrazzo non arrivò nessuna risposta, ma Milo non se ne ebbe a male; il principino che teneva il broncio non era precisamente una novità, semmai uno stato d’essere costante.

Non si preoccupò quindi di bussare, entrando dentro la stanza e posando la suddetta sul letto, debitamente impacchettata nella plastica della lavanderia. Controllò che non vi fossero pieghe o bottoni fuoriposto, e si tranquillizzò.
Sören riusciva a passare la propria ansia e malumore come nessun altro al mondo.
“Cominci a prepararti?” Cercò di invogliarlo mettendo la testa fuori dalla porta-finestra. Lo trovò con le spalle contro il muro, scaldato dal sole tremebondo dell’isola e con lo sguardo perso nel vuoto.
Mimò con  le dita una camera fotografica. “Andiamo, James Dean, è ora di andare in scena.”
Sören aggrottò le sopracciglia, dandogli finalmente attenzione. “Chi?”

“Un attore il cui ruolo migliore è in Gioventù Bruciata. Dovresti cominciare a farti una cultura che esula dai libri, a volte mi sembra di parlare con un ottuagenario.” Indicò con un cenno della testa l’interno dato che, dallo sguardo, si stava di nuovo perdendo nel nulla siderale delle sue seghe mentali. “Farai tardi.”
Sören piegò le labbra in una smorfia nervosa, ma annuì, rientrando con lui. Ci mise almeno cinque minuti ad ispezionare l’uniforme, che non era la solita ma quella di gala, quindi ancora più adorata e venerata. “Hai fatto un buon lavoro.” Gli concesse, riuscendo persino a produrre in sorriso.
Detto io che farsi bello gli risolleva il morale. E ce n’è bisogno. Un gran bisogno.
“Non per rimarcare l’ovvio, ma è il motivo per cui mi paghi.” Rispose compiaciuto. La tolse dal cellophan e gliela presentò con la mimica di un maggiordomo di alta classe. “Le calzerà come un guanto, signore.”
“Smettila.” Borbottò distendendo appena i lineamenti. “È inquietante quando sei gentile.”

Milo si strinse nelle spalle, perché non c’era molto da dire. La terra d’Albione aveva ridefinito i loro rapporti e non era l’unico ad essersene accorto anche se entrambi facevano finta del contrario per non spezzare l’ultima barriera che c’era tra di loro – roba necessaria, perché altrimenti avrebbero preso a farsi le trecce e raccontarsi intimi segreti. Certo, c’era sempre un contratto e dei soldi che li legavano, ma se avesse dovuto spiegare il vero motivo per cui era lì, non avrebbe pensato ai Galeoni sonanti che gli finivano in tasca ad ogni fine mese.
Tanto tra poco torniamo a Boston.
E quello era un altro motivo per cui nessuno dei due aveva molta voglia di immergersi nel proprio ruolo, il primo di padrone pretenzioso, il secondo in quello del servo impertinente.
Lasciamo parecchio tutti e due su queste bianche coste.
Non  poteva chiedere a Michel di seguirlo: o meglio, poteva e in buonissima parte voleva, ma aveva la netta impressione di rischiare di commettere fatale stronzata.
Ti rendi conto, sì, che se lo inviti sarà seria? Diventerà seria?
Il problema era che l’idea di mollare Maghetto Stronzo a Londra, con il padre, i suoi compiti asfissianti e i suoi completi inamidati lo faceva star male. Un male che gli faceva venir voglia di prendersi a pugni da solo, un male che aveva ridotto il suo repertorio di esercizi a Mozart, tanto che persino Sören, seppur nel bel mezzo delle sue crisi da eroina romantica, una sera era venuto a bussargli per dirgli di farla finita e di suonare qualcosa di più allegro.
Aveva rifuggito per tutta la vita quel genere di coinvolgimento, e c’era sempre riuscito bene, perché non era difficile evitare di provare qualcosa se si voleva.  Se era rimasto fottuto con la sua famiglia, perché avrebbe dovuto esser diverso con una persona singola, con cui peraltro non divideva neanche il sangue?
Non ti sei mai fidato abbastanza. Ma adesso…
Michel gli era entrato nella pelle, nei muscoli, nelle ossa e nel cervello. I suoi occhi erano nelle corde che pizzicava, la sua voce era nel modo in cui l’archetto scivolava. Era lì quando apriva gli occhi la mattina e non si schiodava quando chiudeva gli occhi la sera. Era intossicato. Anche se non dormivano assieme, anche se non erano accanto.
Merda.
Il principino non era l’unico ad avere problemi.
… Come faccio a mollare qualcuno che non voglio mollare?
Si infilò in bocca lo spinello che aveva preparato durante quei rivolgimenti mentali mentre osservava l’altro cambiarsi con la precisione di un orologio svizzero.
“Non sto facendo il guardone.” Disse tanto per dire qualcosa mentre se lo accendeva con un guizzo dell’accendino.  “Tra l’altro non è che ci sia molto da vedere … ma mangi la roba che ti porto o ci sfami i piccioni fuori dalla finestra?”
Sören non gli rispose, chiudendo la cintura alla vita con uno scatto secco. Si guardò allo specchio e Milo vi vide riflessa tutta l’angoscia e la rabbia che doveva aver accumulato in quel periodo. Non che facesse facce strane o che.
Basta conoscerlo.
Ohana, principino. Un giorno ti devo spiegare il concetto.
“Lo sai che Zenzero è una stronza, sì?” Disse quieto, e stavolta non arrivò la solita accorata difesa. Solo un lieve serrarsi della mascella. “È stronza, ma non è cattiva. Capisci la differenza?”
“Sì.”
“Le persone si spaventano quando c’è l’amore di mezzo.” Aggiunse soffiando un bel cerchio di fumo nell’aria. Era proprio ben fatto, e si diede un cinque mentale. “Non c’entra l’esperienza, o che. A volte  fa una paura fottuta. Perché non ti puoi nascondere. Sei lì, nudo e crudo. È difficile reggere una cosa così.”
Sören si drappeggiò il mantello addosso, agganciando gli alamari con un movimento allenato. Poi lo guardò. “Esperienza diretta?”

Ma guarda tu … Il bimbo sta diventando intuivo. Mi sta diventando grande.
Si strinse nelle spalle. “Non fare di me un essere solo istinto e scopate.”
“Non dovresti avere paura di Zabini.”
Eh, no!

“Che c’entra Zabini?”
Sören gli restituì un’espressione di sufficienza. Era bravissimo a sembrare un maestrino rompicoglioni. Chissà a chi l’aveva rubata. O chissà se era sua dalla nascita. “Tu è di Zabini che hai paura.” Decretò come se svelasse il piano di un cattivo. “Ma non devi.”
“Ah, no? E da quando sei diventato un esperto di relazioni umane?” Il tono gli venne più cattivo di quanto avrebbe voluto, ma era colpa dello spinello, non sua.

Sören gli si avvicinò, sempre con quell’aria da oracolo di Delfi, nonostante fosse vestito e leccato come una vera guardia della fottuta regina. “Sei innamorato.” Sentenziò.   
“Ma manco morto.” Replicò, un po’ per fare il bastian contrario, un po’ perché di quella roba lui non parlava. Era allergico: ora si sarebbe ricoperto di bolle. “E non ho paura di Zabini.”
“Sì, invece. Come io ho paura che Lily non mi voglia come io voglio lei.” Tutto quel rimuginare incazzato doveva aver prodotto dei frutti, perché lo disse in tono definitivo. “La differenza è che tu non devi. Zabini ti rende felice.”
Da quando è diventato lui il confessore e il confessato? Fermi tutti? Che cazzo mi sono fumato?
Era troppo sorpreso per poter ribattere qualcosa di arguto. “Sì … beh.” Articolò quindi con fatica. “Sì?”
Oh, cazzo, non chiedergli conferma, idiota patetico!
“Sì.” Sören gli sorrise con un guizzo divertito nello sguardo. Si stava divertendo!

Beh, contento di averti sollevato il morale con i miei problemi, testa di cazzo.
“E da cosa lo avresti dedotto, Sherlock?”
“Dalla selezione musicale.” Lo stava definitivamente prendendo per il culo. E purtroppo, ne aveva tutte le ragioni. “Il diario segreto di un artista è la sua musica.”
Non si conosce un principino, senza che il principino non finisca per conoscere te. ‘Fanculo.
“E questa dove l’hai sentita?”
“Lily.”
Zenzero. Devo farla pagare anche a te!

Soffiò sullo spinello che si era spento, perché nel frattempo era stato troppo preso a fare la faccia da ebete, e ne tirò una boccata. Oh, se ne aveva bisogno. “Voglio … voglio invitarlo a Boston.” Se glielo avessero tirato fuori con un paio di tenaglie roventi sarebbe stato meno traumatico. “Non ho mai preso delle ferie da quando lavoro per te.”
“È un’ottima idea.”
“È un’idea del cazzo.”
Sören ridacchiò. L’avrebbe voluto prendere a pugni se non ci fosse stato il rischio concreto di spaccarsi le nocche su quella faccia di bronzo. “Credo…” Disse completando la vestizione e infilandosi la bacchetta nel fodero agganciato alla cintura. “… credo che entrambi dovremo provarci.”

“… a fare cosa?”
Non gli rispose: lo salutò piuttosto con un cenno del capo dei suoi, di quelli che non aspettavano una risposta, ed uscì dalla camera. Poco dopo sentì il crack! della Smaterializzazione.
Provare a fare cosa?!
 
****
 
Devonshire, Ottery St. Mary
Chiesa di St. Edward The Confessor, Wiggaton.
 
La chiesetta dove Roxanne e Dionis si erano sposati era la classica, deliziosa cappella rurale inglese, immersa nel verde e dominatrice assoluta di una collina da cui si vedevano distese infinite di boschi, brughiera e campi coltivati. Alla fine di tutto, persino la linea azzurra del mare.
Lily adorava quell’altura e a volte da bambina era persino andata a visitarla con i cugini durante le loro coraggiose spedizioni nel mondo Babbano.
In quel momento però avrebbe voluto essere ovunque tranne che lì. Perché era pur vero che era arrivata accompagnando Roxanne e tenendo in braccio un’irritatissima Alex, quindi piena di cose a cui dare attenzione, ma adesso si trovava fuori dalla chiesa, mentre i neo-genitori erano andati in cerca del parroco.
Fuori con Sören.
Lo avevano trovato ad aspettarli sul sagrato, in uniforme e serio come se avesse dovuto far presenza ad un funerale. Da solo, anche se supponeva che la sua scorta fosse poco distante.
Sono una stronza.
Si era sciolto solo quando Dionis l’aveva salutato con un abbraccio e quando Alex aveva smesso di piangere due nanosecondi per piantargli gli occhietti scuri addosso. Il momento sereno era durato poco però, perché la cugina aveva preso il marito e se l’era filata lasciandoli soli.
Grandeee…
Si chinò sulla bambina che aveva infilato nel passeggino sperando di calmarla, dicendole qualche sciocchezza per riempire il silenzio tragico che trafiggeva l’aria. Avrebbe voluto iniziare una conversazione, ma tutto quello che gli veniva in mente cominciava con una profusione di scuse e finiva più o meno nello stesso modo.
Piantala di fartela sotto. Devi almeno provarci!
Non aiutava il fatto che l’amico fosse l’immagine della furia divina. Ormai lo conosceva, se non apriva bocca era o per timidezza o per collera.
E non mi sembra intimidito. Ha tutta l’aria di volermi conciare per le feste.
“Ren, senti…”
“C’è un bel panorama.” Dichiarò con un tono che strideva come unghie sulla lavagna. “È la chiesa di famiglia?”

La domanda era così bizzarra, vista la loro situazione, che non poteva far altro che rispondere. “No … credo che neppure mia nonna sia mai entrata in una chiesa prima del matrimonio di Roxie. I miei genitori e i miei zii si sono tutti sposati in un tendone montato dietro la Tana, sai, la classica cerimonia celtica dei nastri.”
Sören annuì, contemplando con interesse la siepe che delimitava il perimetro della canonica. Lo sentiva emanare ondate di malumore come una radio avrebbe fatto con una canzone. Era strano qui che si fosse messo a chiacchierare.
È troppo educato per ignorarti, Rossa, lo conosci. È una delle cose che ami di lui.
“È Dion che ha voluto fare il battesimo qui.” Continuò disperata, ridando il ciuccio ad Alex dopo che l’aveva lanciato a terra per l’ennesima volta. Finì per Incantarlo in modo che tornasse sempre in mano alla bambina non appena tentava di liberarsele. “La sua famiglia è cristiana o roba del genere…”
“Cattolica.” La corresse, perché era Sören e non avrebbe mai rinunciato a precisare qualcosa. “La famiglia di Dionis è di confessione cattolica.”

“Ah, beh … sì?” Scrollò le spalle, sperando che Alex scoppiasse a piangere per fornirle un diversivo per allontanarsi. Aveva voglia di urlare. “C’è differenza?”
Sören si voltò per guardarla ed era ovvio che la sua capacità di far finta di niente aveva appena deciso di prendersi una vacanza. “Quindi nonostante tutto mi parli.” Disse con un tono così odioso che avrebbe voluto prenderlo a schiaffi. E prendercisi da sola, anche.
“Certo che ti parlo.” Borbottò rivolta alle gambette scalcianti della bambina. “Perché non dovrei?”
“Dimmelo tu.”
È arrabbiato. Cavolo, lo è sul serio.
Era la prima volta che usava quel tono gelido e rabbioso con lei, da quando cinque anni prima l’aveva scovata a Durmstrang. La differenza stavolta è che non era spaventato e preoccupato per la sua incolumità.  
Decise di giocare la carta dell’onestà perché era l’ultima che le rimaneva nel mazzo. “Avevo bisogno di un po’ di tempo per me.”
“Questo l’avevo capito.” Ribatté. “Bastava avvertirmi, avrei smesso di darti il tormento.”
“Non mi hai dato…”
“So benissimo di esser stato pressante, ma avevo bisogno di risposte e tu mi hai ignorato. Ho commesso degli errori, ma non pensavo di meritarmi un trattamento del genere.” Continuavano a non fronteggiarsi, lei preferendo il visino stizzoso di Alex, Sören la stramaledetta siepe. Era orribile. Avrebbe voluto scusarsi, abbracciarlo e dirgli che era un’immensa demente incasinata, ma a cosa sarebbe servito?

Le uova di questa frittata le ho già rotte.
“Hai ragione, non te lo meritavi.” Ammise sperando che il trucco reggesse ai due lacrimoni che le tremavano sulle ciglia. Li asciugò rapida con il fazzoletto senza farsi vedere. “Ho sganciato una bomba e me la sono filata … mi dispiace.”
Sören non disse niente per qualche attimo, ed era talmente silenzioso che dovette girare appena il viso per controllare ci fosse ancora.

C’era. “Non avrei mai voluto che venissi a conoscenza dei miei sentimenti per te … specie in quel modo.” Il tono era neutro e completamente sballato visto la statua di legno in cui si era trasformato.
“Non è stata colpa tua … non me la sono presa per il bacio.” Serrò le dita contro la borsetta, e i brillantini che vi erano incastonati erano piuttosto dolorosi sotto i polpastrelli. “Del resto sarebbe un po’ ipocrita, ti ho baciato anch’io.”
L’espressione dell’altro si ammorbidì appena, un cambiamento così impercettibile che avrebbe potuto notarlo solo chi lo conosceva bene. Faceva male proprio per quello. “Sì, me lo ricordo.” Si infilò le mano nelle tasche e si avvicinò alla stramaledetta siepe. “Spero di non averti causato problemi con Ross.”
Sempre che tu glielo abbia detto, Lily.

Era tra le righe, ma diavolo lei era una LeNa, di righe ci viveva. Si sentì avvampare, ma ingoiò una rispostaccia. “In effetti ci siamo presi una pausa.”
Sören si voltò di colpo verso di lei: era chiaro come il sole che non se lo fosse aspettato.
Sei un po’ stronzo anche tu, eh. Eccheccavolo, per chi mi hai presa?  
“Gliel’ho detto, sì.” Confermò sentendosi per la prima volta un pochino meno criminale. “Di solito non vado in giro a baciare ragazzi quando sto con qualcuno.”
Le carte erano state calate e Sören la stava guardando dritta in faccia. Ma chi voleva prendere in giro, eccome se le erano mancati quei perfetti tizzoni scuri e densi! “Non è mia abitudine andare in giro a baciare pazienti.” Ribadì piano perché le sembrava che l’intero mondo fosse in ascolto. “Eri debole come un bambino, avrei potuto metterti a nanna senza fatica.”
“Perché non l’hai fatto allora?”

Se lo voleva sentir dire e non poteva biasimarlo. Fin’ora l’unico ad essersi scoperto era stato lui.  
“Ne vuoi parlare ora?” Gli chiese però, perché tre paia di passi si stavano avvicinando ed erano quelli degli amici e del parroco visto che provenivano dall’interno della canonica. Senza contare la scorta che doveva essere da qualche parte.
E gli auror son dei gran pettegoli.
Anche Sören dovette accorgersene perché raddrizzò la schiena in una posizione di attenti: lo faceva sempre quando era a disagio. “No, non ora.” Convenne. “Ma dobbiamo parlare.”
“… okay.”
“Bene.”
Era arrabbiato, ma anche deciso: ed era una parte di lui che non le dispiaceva affatto, perché metteva un freno saldo ai suoi tumulti interiori.
Si è stancato anche lui…
Dionis si affacciò per far loro cenno di entrare. “Dobbiamo iniziare, siamo già in ritardo!” Li avvertì.
Sören fece un gesto d’assenso e si incamminò con lei, aiutandola anche a tirar su il passeggino lungo le scale della chiesa: quando furono entrambi sulla porta si fermò pensieroso.
“… che succede?”
“Stai molto bene oggi. Scusa se non te l’ho detto prima.”
Sleale … sleale come mai l’avrebbe creduto capace. Specie con quel tono basso e vibrante che la rimescolava tutta un po’ troppo piacevolmente.
Lo seguì dentro con la certezza che l’intera serata sarebbe stata un continuo camminare sui carboni ardenti.
 
****
 
Devonshire, La Tana.
Pomeriggio.

 
Per Scorpius la Tana nei giorni di festa era uno dei posti più divertenti del mondo. Essendo stato abituato fin dall’infanzia a passare le occasioni speciali ingessato in un rigido codice di condotta, trovava che il caos che era stendardo della famiglia Weasley fosse esilarante.
“Scorpius caro, porteresti le casse di champagne in cucina?”
“Subito nonna Molly!” Si premurò di dire a portata d’orecchio del futuro suocero che si fece paonazzo in tempo record.
“Bravo ragazzo.” Venne lodato dalla strega che poi si rivolse al figlio minore con tutt’altro cipiglio. “Ron, non stare lì come un stoccafisso, siamo pieni di cose da fare! Va a vedere se tuo padre ha bisogno di una mano per distribuire le sedie dentro il gazebo.”
“Mamma, credo abbia già tutto l’aiuto…”
“Fila!”
“Sì, mamma.” Ringhiò l’uomo guardandolo come se fosse tutta colpa sua. Non gli restò che rivolgergli un sorriso brillante e scappare dietro il proprio carico costoso e fluttuante. Nel tragitto, dentro la casa dalla metratura più improbabile del mondo, si scontrò con Dominique che si riempiva la bocca di cibo ed evitava i propri compiti, Hugo che cercava di trovare inutilmente il segnale internet dal suo portatile, un’altra svariata genealogia di Weasley e acquisiti e infine, per fortuna, nella donna della sua vita.

“Smettila di stare trai piedi a papà, finirà per ucciderti!” Gli si rivolse brandendo un mestolo carico di crema che si sporse lesto a leccare. “Ehi!
“Buona. Adoro la crema al limone.” La blandì sbattendo le ciglia. “Ma sentì un po’, quanti invitati ci sono?”

Rose aggrottò le sopracciglia facendo un evidente e complesso calcolo mentale. “Una quarantina credo … la famiglia di Dion è enorme, Rox mi ha detto che ha tipo cinque fratelli e una caterva di cugini … ed è il primo che sforna un erede della nuova generazione, quindi è un evento anche per loro.”
“Però, pensavo che solo voi Weasley vi riproduceste in modo così…”
“Un'altra parola e il mestolo te lo becchi in testa.”
“Dicevo per dire.” La blandì contemplando divertito le gemelle Molly e Lucy sfilare alle spalle di Rose con i maglioncini sospettosamente pieni bozzi a forma di muffin. “Sai che vi adoro, siete pazzi. Pensi che sarà così anche per il nostro matrimonio?” Perché ci sperava moltissimo.

Anche se a papà verrà un infarto.
Rose scosse la testa. “Anche peggio. Te li ricordi il matrimonio di Rox e Dion, no?”
“Allora voglio degli elefanti!”
“Cosa?”
“Chi vuole degli elefanti?” Albus si affacciò alla porta della cucina, in grembiule rosa forse non suo e con una teglia di pasticcini al formaggio fumanti tra le mani.
Dice che non è in grado di cucinare ma poi alle feste è sempre in cucina.  
“Io!” Lo salutò con un cenno della testa.
“Ah, Malfoy, poteva venire in mente solo a te.” Gli sorrise divertito. “Carina come idea!”
“Non assecondarlo!” Esclamò Rose inorridita. “Niente elefanti … e non parlarne alla nonna!”
“Sicuramente…” Aspettò che fosse rientrata con il cugino e terminò. “… sì.”
Voleva un gran bene agli Weasley perché erano più matti di lui.

E molto.
Tolse da dietro la schiena la bottiglia di champagne che aveva preso da una delle casse e la aprì con un colpetto di bacchetta, recuperando anche un paio di bicchieri in una delle vetrine claudicanti che occupavano la sala da pranzo. Aveva lavorato da quando si era Materializzato quella mattina, poteva ben permettersi una pausa.
Tanto non sono l’unico che batte la fiacca.
Trovò James dov’era sempre quando voleva fumarsi una sigaretta senza rischiare di esser rampognato , ovvero nell’aia sul retro appoggiato a delle vecchie gabbie da pollaio, ora vuote. “Ti ho scovato Potterino!” Lo salutò porgendogli il calice. “Bevutina? È francese.”
James sobbalzò come se qualcuno gli avesse tirato un calcio nel sedere, ma quando lo identificò si permise un insulto a mezza bocca piuttosto rilassato. “Malfuretto, è roba della festa, non fare lo stronzo avido.”

“Non farlo tu, l’ho portato io, ho diritto ad una bottiglia da dividere con chi voglio.” Ribatté trangugiando il liquido frizzante e schioccando le labbra. “È Dom Perignon di prima qualità sai, mica una roba da pezzenti.”
“Coglione.” Sbuffò annusandolo ma finendo per berlo in due sorsi. “Mia sorella è già arrivata?”

“Di capigliature rosse ne ho viste, ma non la sua.” Scosse la testa. “Non dovrebbe esser in chiesa a far le prove del battesimo?”
“Ah, già …”
“Certo che è strano.” Osservò riempiendo di nuovo il calice dell’amico. “Pensavo di trovarla immischiata nell’organizzazione, di solito lo adora.”

“È un periodo che sta fuori fase.” Ammise l’altro, sebbene con una smorfia, che sua sorella non poteva che esser perfetta ai suoi occhi. “Pare che non porti manco il suo scozzese oggi.”
“Ah no?”

“No, me l’ha detto Albie, ma fatti i cazzi tuoi.”
Scorpius non ribatté, anche se, a proposito di elefanti, la Rossa ne stava trascinando uno al guinzaglio da più di un mese. Si sedette su una cassa di patate vuota e rovesciata a terra. “La sua non è l’unica defezione comunque. Dursley non è in giro.”
James fece un suono non impegnativo. “E pensi che uno come quello schiodi il culo dai suoi tomi polverosi per un battesimo? È un miracolo che mio fratello riesca a convincerlo a venire a qualche compleanno e ai matrimoni.”

“E il serioso biscugino Ted?”
Il tendine della mascella di James scattò con una prevedibilità tenera. “Con Ben, a casa. Stasera è luna piena, venire per loro era fuori discussione.”
“Son stati giorni difficili?”

“Qualche capriccio.” Tirò una boccata dalla sigaretta e si sedette a terra senza troppi complimenti, nonostante indossasse l’uniforme di gala: era codice non scritto che ogni agente dovesse tirarla fuori dalla naftalina in occasioni del genere. “Non servivamo entrambi, Teddy è capace di gestire la situazione da solo.”
“Ti ha detto così?”

“Sì, beh, non voleva che mi perdessi il battesimo e la festa.”
C’era un altro elefante nella stanza, anche se più piccolo e non troppo ingombrante. Ovvero James che si sentiva tagliato fuori dalla faccenda di Benedetta.
E ‘sta storia non è iniziata da oggi.
Era una cosa che aveva notato dalla sera del suo addio al celibato,  e per aver conferma gli aveva rivolto, centellinate, domande e allusioni velate. Non che fosse stato l’altro a confessarglielo: James Potter era il genere di persona che per amore si teneva tutto dentro, stringendo i denti e riversando il suo malumore in altri campi.  
Tipo il caso Demiurgo.
“Tu che gli hai risposto?” Chiese con il tatto di un diplomatico di professione: l’amico aveva tante qualità, ma era morbosamente geloso della sua emotività.
Nascondere, non dire.
L’altro alzò le spalle per l’ennesima volta. “Gli ho dato ragione, non voglio mica stargli trai piedi.”
“Trai piedi?”
“Sì, dai, hai capito che voglio dire!”
“Veramente no.” Replicò placido riempiendogli il bicchiere per stemperare la sua opera inquisitiva. Conosceva i suoi polli. “Per quanto Ted sia professore di Difesa, dubito che abbia la conoscenza pratica necessaria a gestire un Mannaro con il plenilunio. In questo siete alla pari.”
James gli scoccò un’occhiata adombrata: la sua diversione non aveva funzionato. “Che vuoi dire?”

“Quello che ho detto. Dovresti saltare il battesimo e stare con loro.” Suggerì. “Benedetta non è solo affar suo.”
“Legalmente lo è.”
Ah, ecco. Ci siamo.

Una piccola confessione, fatta a mezza bocca e con aria colpevole. Scorpius scosse la testa. “E pensi che te lo ritorcerà contro se andrai ad aiutarlo?”
James avvampò, incerto se dargli un pugno o rimanerci male. Optò per una via di mezzo, alzandosi in piedi e mollando il bicchiere sui gradini di casa con un tonfo. “Teddy mi ha chiesto di andare. Com’è successo alla tua festa d’addio al celibato.” Incrociò le braccia al petto e fissò con ostinazione una gallina che beccava libera l’aia. “Non ha bisogno di me.”
Ah, la confessione delle confessioni.
“Lo sai che è una cazzata.” Lo informò con la sua espressione più innocente. “Lupin è un idiota, prima di chiedere aiuto si farebbe ammazzare. Probabilmente non si è neanche accorto che ci sei rimasto male, né oggi né l’altra volta.”
“Non ci sono rimasto male!”
“Sicuro.”
“Dico sul …” Diede un’occhiata alla sua espressione. “Oh, vaffanculo!”

“Anch’io ti voglio bene.” Vedendo che tentennava aggiunse. “Potresti rimanere per il battesimo e filartela per la festa … Con più di quaranta persone dubito che qualcuno si accorgerà della tua assenza.”  
“Non conosci la nonna.” Ribatté lanciando un’occhiata verso la casa: dal volume delle chiacchiere e da spezzoni di frasi sembrava fossero arrivati anche il clan Radescu al gran completo. “E comunque è la prima trasformazione di Ben senza suo papà … non si sa come potrebbe reagire se ci fosse un umano di mezzo.”
“Scusa, ma Lupin che cos’è?”

“Qualsiasi cosa voglia in realtà.” Gli fece notare e Scorpius ricordò che era in effetti un Metamorfomago. “Si trasformerà in un animale e le starà vicino così.” Sbuffò. “Davvero, Malfuretto, l’unica cosa che mi importa è che la pulce stia tranquilla. Se rischio di farla agitare allora è meglio che me ne stia qui.”
Era un ragionamento razionale e maturo, e assolutamente inusuale per James. Quindi un po’ preoccupante. Non lo disse però, perché l’altro ne doveva avere abbastanza di quella conversazione da come aveva tirato fuori l’ennesima sigaretta. “Okay.” Replicò non impegnativo. “Credo che il nostro compito di facchini sia terminato, di là stanno allestendo le ultime cose. Ce ne stiamo rintanati qui finché non ci chiamano per andare in chiesa?”
James lo guardò come se fosse scemo. “Mi pare ovvio … chi cazzo ha voglia di fare pubbliche relazioni con un mucchio di gente che non parla la nostra lingua? Poi ho visto le cugine di Dion. Son tutte cesse.” 
Sorrise, perché si sentiva molto fiero di averlo fatto distrarre. “Non abbiamo gli stessi gusti in fatto di streghe, Potty.”
“Sì, infatti i miei sono migliori.” Doveva aver capito che la proposta era fatta proprio a suo uso e consumo perché gli diede un pugno sulla spalla che era il corrispettivo di un abbraccio. “Comunque grazie Malfuretto.”
“Non c’è di che, mio bel Potty.”
 
****
 
Non era stato il battesimo il problema in sé, quanto il rinfresco che era venuto dopo.
Lily gli aveva raccontato di come le feste a casa Weasley fossero lunghe, piene di cibo e persone: gliene aveva fatto un ritratto tale che era venuto preparato e con la consapevolezza che sarebbe stata una sfida per i suoi nervi e per la sua innata introversione.
In fin dei conti era stato meno peggio di quanto credesse: le due famiglie erano molto amichevoli e il vino che scorreva aveva aiutato ad instaurare un clima cordiale e rilassato.
Il problema era proprio quello: nessuno si era infatti chiesto chi fosse o perché fosse stato nominato padrino. Con la stessa semplicità con cui avevano accettato la sua presenza gli avevano affibbiato il compito di traduttore inglese - rumeno.
Quel ruolo l’aveva tenuto lontano da Lily per tutto il tempo: da quando il battesimo, breve e commovente, si era concluso, era stato passato di persona in persona come un vocabolario ambulante. Non aveva avuto un attimo libero.
Con un bicchiere di succo d’edera in mano – bere non gli era sembrato opportuno visto che voleva restar lucido – stava ascoltando una delle numerose cugine di Dionis, Irina forse, parlargli delle meraviglie dell’Est Europa.
“Sì, conosco la Croazia…” Disse con un rumeno che sapeva essere zoppicante per lo scarso uso che ne aveva fatto in quegli anni, ma di certo migliore dei tentativi inglesi.
La famiglia di Lily non si era però arresa alla barriera linguistica da come si arrangiava con Incanti Traduttori se non c’era qualcuno disponibile a tradurre: era volonterosa quanto divertente, considerando che la famosa Nonna Molly tentava dall’inizio del rinfresco di chiacchierare con il suo corrispettivo rumeno, una matrona dai capelli scuri e l’età indefinibile, senza riuscire però ad intendersi da come gesticolavano e scuotevano la testa perplesse.
Gli unici veramente in grado di dominare la conversazione tra gli inglesi erano Dominique – la ricordava dal Tremaghi, difficile scordarsi quella chioma platinata e il tono di voce squillante – Albus Severus, che conversava amabile in un capannello di ragazze che pendevano dalle sue labbra quasi fosse un divo del cinema e Dionis, che saltava da un parente acquisito ad uno reale tenendo in braccio la figlia e sorridendo radioso persino ai porta-tovaglioli.
Era felice per lui: si vedeva che quelle due famiglie erano le persone che più amava al mondo.
Lily ad ogni buon conto era sparita da quasi mezz’ora. L’aveva vista svolazzare per il tendone ad offrire bicchieri di champagne e tartine e fare quello che le riusciva meglio, ovvero stare in mezzo alla gente. Come sempre era bellissima, e gli faceva venir voglia di afferrarla e portarla via come l’ultimo dei cavernicoli.
È troppo pretendere le sue attenzioni?
Viste le contingenze forse lo era.
Era il posto peggiore in cui potevamo incontrarci per chiarire.
“Ehi Sören!” La voce di Scorpius Malfoy non aveva la miglior intonazione del mondo. Era un po’ troppo acuta e tendeva a mangiarsi le parole. In quel momento gli sembrava avesse il suono più dolce del mondo, specialmente perché portava con sé un vassoio carico di calici pieni. “Il mio amabile, futuro, suocero mi ha messo a fare il cameriere come l’ultimo dei Babbani con la scuse che con la magia potrebbero rovesciarsi. Quindi approfittane. Dom Perignon?”
Al diavolo la lucidità, un bicchiere non l'avrebbe fatto ubriacare, ma gli avrebbe dato la scioltezza necessaria per trascorrere quella serata. Lo accettò con un sorriso, e porse un altro calice alla giovane strega accanto a lui. “Irina Dimitrova.” La presentò all’altro ragazzo, che le fece un baciamano compito con la traccia di ironia che lo distingueva da un Purosangue standard.
“Certo che siete tutti belli e in uniforme qui in Inghilterra, per una ragazza single questo posto è il paradiso!” Esclamò la strega in un inglese passabile da come Scorpius le sorrise sollevato: non gli piaceva esser tagliato fuori da una situazione, persino quando era colpa della barriera linguistica.
“Io e Sören siamo un raro esempio di bellezza sassone.” Le rispose. “E il buon Prince è anche un ufficiale diplomato a Durmstrang.” Gli diede una consistente pacca sulla spalla per motivi che non comprese. “E pensa, a mia differenza è single.” Mostrò con orgoglio l’anello che aveva al dito. “Tra meno di un mese convolo a giuste nozze.”
“Auguri! Chi è la fortunata?” Esclamò questa, che sembrava il genere di persona capace di godersi una conversazione senza impegni. Invidiava le persone come lei e Malfoy, lui dopo un paio d’ore di chiacchiere si sentiva spossato come dopo un lungo allenamento. Avrebbe tanto voluto fare una lunga passeggiata nella brughiera con Lily. Questo, prima di ricordarsi che sarebbe stata tutto fuorché una passeggiata rilassante.

Gli stava venendo l’ansia.
“Sono fidanzato con la più bella Weasley che c’è!” Ribatté Malfoy con un sorriso brillante prima di guardare oltre le loro teste. “Che sta giusto adesso reclamando la mia presenza … Ci sarà da riempire nuovi bicchieri. Torno al mio compito Irina, ma ti lascio in buone mani!” E gli strizzò l’occhio, prima di trotterellare via facendo oscillare pericolosamente il vassoio in direzione del Sergente Weasley e rischiando per questo una pedata nel sedere.
“In che anno?” Diede di nuovo attenzione alla ragazza che gli aveva appena detto di aver frequentato Durmstrang come lui.
“Diplomata l’anno scorso, non vedevo l’ora! Dionis è l’unico che si sia goduto quel posto tetro … Se avessi potuto sarei andata nell’Egeo a studiare con i greci e gli italiani. Tutto quel sole!”
“Sì, in effetti il tempo era inclemente…”  
“Ciao Ren.”
Non l’aveva minimamente sentita arrivare, troppo concentrato ad ascoltare quello che gli veniva detto.

Lily non era brava a dissimulare quando qualcosa la infastidiva. Il sorriso con cui si era presentata era gelido come l’alba al Polo Nord. E anche il modo in cui gli afferrò il braccio aveva poco a che fare con l’affetto. “Scusa Irina, devo rubarti il cavaliere per un secondo.”
Che ho fatto adesso?
“Di già?” Replicò allegra l’altra, che doveva conoscerla ma non abbastanza bene da capire di star parlando con una persona al limite della propria pazienza. “Mi rubi l’unico ragazzo single e interessato alle streghe in sala?”
La presa di Lily sul suo braccio si fece simile ad un arpione. “Mi spiace.” Flautò con una gentilezza terrificante prima di trascinarlo via.
“Lily, cosa…” Tentò, perché non doveva esser lui quello arrabbiato?
L’altra allentò la presa, ma la linea delle labbra era tesa in una linea sottile. “Capanno degli attrezzi.” Borbottò. “Sono riuscita a liberarmi, andiamo là.”
Confuso e irritato in ugual misura, non gli restò che seguirla.
 
L’odore di colla di pesce e solvente nel capanno di nonno Arthur era fin troppo pungente e le faceva sempre venir voglia di starnutire. Come posto non le era mai piaciuto granché.
Ma del resto, è l’unico nascondiglio disponibile.
Aveva passato due ore a cercare di smarcarsi dalle richieste di una serie di parenti ed era nervosa, stanca e di pessimo umore.
A quel genere di feste di solito non le importava di essere usata come facchino, perché era così che funzionava nella sua famiglia. Il problema era che quelle infinite corvee l’avevano tenuta lontana da Sören; e quando finalmente era riuscita ad affidare Alexandra al suo legittimo padre e a svicolare l’ennesima richiesta di rifornimento tartine …
L’ho trovato con quell’oca di Irina.
Che era famosa per concupire maschi in età da marito ogni volta che c’era una festa, fosse anche un funerale.
Le era presa una fitta di rabbia che per poco non le aveva fatto rispondere il malo modo al povero Freddy, reo di averla fermata per chiederle dov’era suo padre. Si era talmente incavolata che non aveva trovato neppure una scusa decente con cui sottrarre Sören dalle grinfie dell’oca: l’aveva semplicemente trascinato via.
“Posso sapere perché mi hai portato qui?”
Si voltò verso l’oggetto dei suoi pensieri, che al momento era in mezzo al caos creativo di suo nonno con un’espressione non proprio contenta stampata in faccia.
Non che abbia tutti i torti, eh. Lo ignori e poi lo porti via come un pacco.
“Dovevamo parlare.” Non trovò di meglio da dire. "A proposito puoi chiudere la porta? Con la magia, non si chiude da sola."
Le obbedì ma non era ancora convinto. 
“Per farlo dobbiamo nasconderci in una struttura fatiscente?” Era ancora arrabbiato con lei, e la performance imbarazzante di prima non aveva migliorato la situazione.
Sì, ma sto facendo del mio meglio!
“Se vogliamo restar soli, sì.” Replicò senza riuscire a trattenere il nervoso. “Se vuoi puoi tornare da Irina.”
Sören la guardò come se fosse scema, e in effetti ci si sentì un po’. Ma non era rimbecillita di colpo.
Era solo gelosa.

Che per me non è una novità, ma per te sì. È che son sempre stata brava a non fartelo notare.
Pure troppo.
“Non voglio tornare da Irina.” Le disse infastidito. “Sono giorni che aspetto questa conversazione.”
  eh, beh.

“Scusa.” Doveva piantarla di fare la stronza isterica o rischiava di compromettere la situazione una volta per tutte. “Ero … sembravi piuttosto preso.”
“Si chiama esser cortesi.” Ovviamente, e lei era un idiota mostruosamente gelosa perché mostruosamente insicura. Spiegarlo però non era tanto semplice. “Sei stata proprio tu a rimproverarmi perché non sono particolarmente loquace in questo genere di riunioni.”
“È vero…” Se solo avesse avuto un calice di champagne con sé l’avrebbe vuotato. “… Non sono arrabbiata perché stavi parlando con Irina.”
“E allora perché?”

“Perché stavi parlando con Irina.” Si rendeva conto di dire cose senza senso e che Sören aveva tutte le ragioni del mondo per mandarla al diavolo e tornarsene al rinfresco.
Fu sorpresa quando l’altro invece di darle della pazza e prendere il volo sospirò con l’aria di aver afferrato il bandolo della matassa. “Non mi importa nulla di quella ragazza.”
“No, lo …”
“Non è di lei che sono innamorato.”

L’aveva detto ancora, e stavolta erano entrambi abbastanza sobri e di certo svegli. E vicini, un po’ troppo vicini da come riusciva a contare quante piume avesse l’aquila sui bottoni dell’uniforme dell’altro.
È quella di gala.
E a nessuno fregava niente. Si umettò le labbra perché se le sentiva aride. “Da quanto?”
Sören aggrottò le sopracciglia e distolse lo sguardo. “Da dopo Nurmengard … prima non ero nelle condizioni mentali per farlo.”
“Sono cinque anni…”
“Sì, Lily, sono capace di contare.”
L’aveva amata in silenzio per tutti quegli anni, consigliandola sulla serie di ragazzi sbagliati che aveva incontrato e congratulandosi quando gli aveva detto di aver trovato il ragazzo perfetto in Scott.

Merlino, che stronza son stata…
“Perché non me l’hai mai detto?” Che era una domanda stupida, ma una domanda che doveva esser fatta.
“Perché pensavo fosse inutile.” Fece una pausa. “E non volevo rischiare di rovinare quello che avevamo costruito con fatica.”
Già. La stessa cosa che ho pensato io.
“Lo rovineremo comunque…” Le uscì di getto perché non riusciva più a stare zitta. Se non l’avesse detto, ne era sicura, sarebbe scoppiata. Morta. “… lo rovineremo comunque perché…”
“Lily.”
Perché sono innamorata di te!” Si strofinò gli occhi che non parevano intenzionati a restar asciutti. “Sono innamorata di te da quando ho quindici anni, brutto scemo!” Le salì la collera al viso e così il rossore. Le guance le bollivano. “Non ho mai smesso di essere innamorata di te!” 

“Li…”
Se pensava di fermarla adesso si sbagliava di grosso. “Ed è spaventoso perché non riesco a controllarlo, non posso farne a meno e non c’è fine! Persino quando ti odiavo per avermi preso in giro ero innamorata di te, persino quando ero in quella cella orrenda nelle viscere della terra … persino quando sei venuto a salvarmi e avrei voluto ucciderti! Sempre. Ti rendi conto?”
Sören non rispose, fissandola con un’aria così incredula che le fece salire ancora più la collera.

“Ho continuato ad esserlo persino quando ho trovato un ragazzo adorabile, intelligente e che sembrava fatto apposta per me! Ho tradito Scott nel momento stesso in cui hai messo piede a Londra, e Merlino, mi sento così male, perchè…”
A quel punto, con un certo grado di buon senso, Sören l’afferrò per le mani e bloccò il suo tentativo di tirargli una spinta. Non si era accorta di stare per farlo. “Lily … calmati.” Disse con il tono di una constatazione, e avrebbe voluto schiaffeggiarlo.
“No! Come posso calmarmi?! Ti rendi conto di che persone siamo? Io sono tutto fuorché la ragazza dei sogni di qualcuno, sono un disastro, sono … non idealizzarmi!” Non le piaceva aver le mani bloccate, ma in quel caso doveva ringraziare la presenza di spirito di Sören, perché era l’unico modo per evitare che avesse una semi-crisi isterica. “Perché mi idealizzi! Lo fanno tutti!”
“Non ti idealizzo.” Perché era così calmo? Avrebbe dovuto gridare come lei come minimo. Invece aveva lo sguardo serio, fermo, come se fosse in missione. Come se avesse agganciato un maledetto obiettivo.
Cos’ha capito mentre io ancora annaspo?
“Tu…”
 “Vedo la persona che ho davanti.” La fermò e poi le sorrise. C’era qualcosa di speciale nei sorrisi delle persone austere di natura. Aveva sempre pensato che il sorriso di Sören fosse uno dei più belli al mondo.

Dannazione, concentrati!
“Sei testarda, impulsiva, credi di aver ragione anche quando l’evidenza dimostra il contrario e non rifletti mai prima di aprir bocca. Ne è prova questa conversazione. Quindi, come vedi, so chi sei.” Allentò la presa sui polsi e li lasciò andare. Era libera adesso, e poteva andarsene.
Non mosse un muscolo.
“Stamattina eri convinta che se mi avessi rivolto la parola sarebbe stato per allontanarmi. Forse non volevi neppure rivelarmi i tuoi sentimenti.”
Dannazione.

Da quando era lui che le leggeva in testa e non viceversa?
“Però l’hai fatto. Profusamente.” Ecco cos’era quel luccichio: Sören, la persona più posata che conoscesse, si stava trattenendo dall’esultare. 
E perché gli ho detto che sono innamorata di lui? Cioè, gliel’ho urlato come se fosse una cosa orribile …
Come fa ad esser contento di una dichiarazione così? Fa schifo.
Lily cercò con lo sguardo una chiave inglese tra il ciarpame del nonno: sarebbe stato grandioso darsela in testa e troncare quella conversazione. “Lo trovi tanto divertente?”  
“No, non divertente.” Le tirò gentile una ciocca di capelli costringendola a dargli attenzioni. Che occhi brillanti che aveva. “Sono spaventato anch’io, Lily.” Continuava a ripetere il suo nome, ma per quanto la riguardava poteva farlo all’infinito.
“Non mi sembri tanto spaventato…”
“Ho imparato a nasconderlo. Mi rendo conto che un’evoluzione del nostro rapporto potrebbe avere risvolti positivi come negativi … e mi rendo conto che non sono una persona semplice. Che nessuno di noi due lo è.”  Aveva un tono così carico d’affetto verso di lei, denso e senza barriere che la paura si sciolse come polvere di dittamo in un bicchier d’acqua. Ce n’era ancora un po’ sul fondo, ma poteva gestirla.

“Siamo abbastanza incasinati in effetti…”
“Non è questo che ci rende ciò che siamo?”

“Filosofeggi ora?”
L’altro aggrottò le sopracciglia, un po’ offeso, ma poi sorrise, ancora. Pareva non riuscisse a smettere di farlo. “Vuoi concretezza?”
“Almeno uno di noi due…”  

“Ti voglio per me. La domanda è un’altra…” Fece una pausa per cui avrebbe dovuto strangolarlo. Poi realizzò che Sören non stava facendo il cretino, stava esitando. Per paura, come lei. “… tu mi vuoi?”
Oh, dannazione.
Si era stufata di convogliare le proprie emozioni attraverso le parole. Poteva usare la bocca per altro.
E lo fece, afferrando la povera, perfetta uniforme dell’altro e tirandoselo contro per un bacio che non fu né sexy né passionale alla romanza maniera, quanto piuttosto una quasi - testata.
Non aveva mai baciato così male in vita sua.
Sören però non se ne ebbe a male, da come ridacchiò (ridacchiò!) e si staccò quel che bastava per prenderle il viso tra le mani e baciarla. Sul serio. Come aveva detto lui, profusamente.
(Che bell’aggettivo che era.)  
La forma perfetta di quel bacio durò poco, perché Sören era un piccolo soldatino di stagno solo in apparenza. Dietro quella facciata di cortesia nordica si nascondeva ben altro. Fuoco, per la precisione. In quell’abbraccio, in quella serie di baci in cui era quasi difficile respirare, nelle sue dita che si infilavano trai capelli dell’altro, nel modo in cui quasi ribaltarono il tavolo da lavoro e nel modo in cui ve la fece salire, rovesciando oggetti e un paio di barattoli pieni di roba forse tossica, c’era un’esplosione di sentimenti, sensazioni, scuse e chiarimenti. E desiderio.
In fondo, non avevano mai avuto bisogno di tante parole tra di loro.
“Lily…” Mormorò con un accento così pesante che si sentì rimescolata tutta. Per quello e per il fatto che glielo stesse dicendo con le labbra appoggiate sul collo. Era tutta un brivido caldo-freddo. “Lily, credo…”
Un improvviso, orrido rumore di catenacci e tentativi di forzare la porta li fece saltare in aria come due petardi di zio George.


“Ehi, perché diavolo il capanno del nonno è chiuso?! E che incantesimo ha usato?”

 
Era la voce di Freddy, che stava allegramente tentando di forzare la porta, per fortuna chiusa con un Colloportus di Sören: se fosse stato uno dei suoi di sicuro a quell’ora sarebbero stati in tre in quella stanza.
“L’avrà chiuso per evitare che le gemelle vadano ad ammazzarcisi dentro.”
… quattro.

Era Dominique a parlare. “Dai Freddy bello, schiodiamo. Al laghetto sicuro staremo tranquilli.”
“Cosa non si deve fare per fumarsi una paglia in pace…” Sbuffò il cugino lasciando finalmente la presa e allontanandosi.

“Beh.” Disse con voce arrochita da ben altro che l’erba che quei due sciagurati si sarebbero fumati senza di lei. “C’è mancato poco.”
Sören, che era schizzato ad un paio di passi di distanza al suono della porta, si schiarì la voce ma non le rispose, preferendo controllare lo stato dei suoi capelli. E strabuzzare gli occhi.

Oh, tesoro, posso fare ben di peggio.
Era folle quello che era appena successo, e le tremavano le gambe. Era folle e fantastico.
Ha ragione, non avrei mai pensato che sarebbe finita così.
Era felicissima di essersi sbagliata: o meglio, una parte di sé aveva sperato che le cose potessero finire bene invece che con un addio, ma si era anche aspettata di trovare un Sören chiuso, quasi passivo.
Non è più lo stesso ragazzo di cinque anni fa. Siamo cambiati … e ci ha salvato questo.
Certo, rimaneva pur sempre l’interrogativo degli interrogativi: come procedere da lì in poi?
Si era sempre ritenuta una tipa piena di risorse. Aveva un’idea. “Ehi.” Lo apostrofò. “Vieni qui, ci penso io a quei capelli.”
Sören si avvicinò docile, guardandola di sottecchi e in silenzio. Era chiaro che quell’exploit non avesse sorpreso e scombussolato solo lei. “Volevo…” Iniziò.
“Lo volevamo entrambi.” Lo zittì passandogli le dita attraverso i capelli e ordinandoglieli a dovere. “Mi sarei offesa se ci fossimo dati un semplice bacetto a sancire il discorso.”
“Ah.” Tentò un sorriso e persino un’occhiata.

“Però un capanno per gli attrezzi forse non era il luogo adatto. Un po’ scomodo.” Dichiarò raddrizzandogli il colletto con un colpo di dita e togliendogli una traccia di rossetto dall’angolo delle labbra. Movimenti che aveva compiuto tante volte con altri ragazzi, ma che adesso assumevano tutt’altra proporzione.
Merlino, con Ren. Sto rassettando Ren.
Il suo Ren, che pareva mezzo morto d’imbarazzo e tuttavia non riusciva a toglierle gli occhi di dosso, soprattutto in direzione del vestito ancora sollevato sulle gambe.
Era normale che il suo cuore stesse facendo le capriole come un bambino strafatto di zuccheri.
“Piace lo spettacolo?” Non poté fare a meno di stuzzicarlo, deliziata dall’avvampare violento che ne conseguì.
“Lily.” Borbottò. “Non prenderti gioco di me.”
Tesoro, non ho neanche iniziato.

“Scusa.” Rispose conciliante tirandogli una ciocca di capelli ribelli indietro. “Dobbiamo tornare di là, però … Non per altro, ma siamo il padrino e la madrina della festeggiata, imboscarsi non è un comportamento molto responsabile.”
Sören la aiutò a scendere porgendole la mano. “Tu, responsabile?”
“Ehi!” Erano sempre loro, e questa era la cosa che più la tranquillizzava. Si volevano, erano innamorati (entrambi stavolta) ma Sören non la stava guardando come un premio appena conquistato, e lei non voleva strappargli di dosso i vestiti per dimostrare di avere il controllo della faccenda.

Erano cambiati dai due adolescenti spaventati che erano stati, ma per certe cose erano sempre loro: lui che le offriva il braccio, e lei che lo prendeva.
È proprio da noi.
Uscirono dal capanno e se lo chiusero alle spalle. Fu allora che Sören la fermò toccandole una mano, indugiando a stringerle le dita. Da quando Freddy li aveva interrotti non si era più azzardato a far niente oltre l’amichevole. Era un po’ frustrante ma al tempo stesso terribilmente da lui, il suo cavaliere senza macchia.
“Cosa succederà adesso?”
Glielo chiese non per avere risposte, ma per sentire la sua opinione. Lily quindi decise di essere onesta. “Non lo so … come hai detto, non mi aspettavo che ci dicessimo quelle cose e che … beh, ci saltassimo addosso dentro un capanno.” Evitò di continuare perché l’altro sembrava valutare l’idea di correre fino al laghetto ad affogarsi per la mortificazione. “Comunque non me ne pento.”
Si rilassò un poco. “Neppure io.” E c’era altro che voleva chiederle ma non aveva idea di come fare.

Per fortuna conosco i miei polli.
“Per quanto riguarda Scott…” Lo vide irrigidirsi e gli venne voglia di abbracciarlo stretto. Il suo scemo geloso. “Devo chiuderla. Entrambi abbiamo bisogno di voltare pagina, glielo devo.” Lo guardò male. “E non sorridere!”
“Non lo sto facendo.”
Gli rifilò uno schiaffo sulla spalla. “Sì, invece … e non è una cosa bella.” Sospirò perché non si era mai sentita così da schifo all’idea di rompere con qualcuno. Il problema era come la faccenda fosse controbilanciata da sensazioni che le facevano venir voglia di far promesse e dichiarazioni e, in generale, agire come sotto Rictusempra.
Non era il caso.
Con calma. Qua è tutto andato a ramengo, meglio avere dei punti fissi.

“Mi chiedevo … stasera hai qualcosa da fare?”  La mise giù tranquilla, anche se giocherellare con il cellulare fino a spegnerlo non era considerabile come atteggiamento sereno. “Perché … beh.”
“Anch’io voglio stare con te.” Anche stavolta le strinse poco più che la punta delle dita e Lily si sentì come la quindicenne che era stata, anzi, peggio, ben più fragile e felice. Per togliersi dall’imbarazzo decise di intrecciare la mano alla sua, sperando di non essere diventata dello stesso colore dei propri capelli: quello sarebbe stato imbarazzante.
Lo vide poi esitare, quasi stesse combattendo contro due pensieri opposti. “Vorrei che fosse chiara una cosa però … Finché tu e Scott non avrete chiarito non me la sento di continuare.”
Avrebbe dovuto mostrarsi offesa per la mancanza di fiducia, ma era in grado di leggere dietro le righe. Voleva fare il cavaliere e la voleva tutta per sé.

Da scemo, ma comprensibile.
Quindi sorrise. “Non ti toccherò con un dito, promesso.”
L’ironia era il modo migliore per sciogliere i crucci perché Sören finì per scuotere la testa e sorriderle divertito. “Non è delle tue reazioni che mi preoccupo, ma delle mie.”

“Non vedo l’ora!”
Lily.
Forse non era il caso di esser troppo scherzosa visto che la situazione era ancora precaria, così lo abbracciò di slancio. Quello poteva farlo, no? “Ren, risolverò questa situazione, te lo giuro. Ti fidi?”

Ricambiò l’abbraccio con la stessa intensità. Finivano sempre per stringersi un po’ troppo, forse, ma andava bene. Era nutrirsi della presenza dell’altro. Dovevano affidarsi a quello e sarebbe andato tutto bene. Ne era sicura.
“Sempre.”
 
****
 
Note:

E FINALMENTE. Sì, finalmente. Certo, i guai sono appena iniziati, ma almeno un punto fisso è stato messo e questi due idioti si sono dichiarati.
Roxanne sarebbe fiera di me.

Qui la canzone del capitolo.
Avviso agli utenti e internauti: causa vita reale, un paio di vacanze e altra roba seriosa temo che il prossimo aggiornamento salterà. Non so quanto ci metterò a scrivere il capitolo, spero di riuscire a farlo nei ritagli di tempo, ma fino al 10 Marzo non pensò avrò un momento libero. Have faith!
Almeno, ora, la strada con la coppia più testarda del secolo è in discesa. ;D

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Capitolo 40
*** Capitolo XXXIX ***


Capitolo XXXIX

 





Running through the heat heart beat

You shine like silver in the sunlight
You light up my whole heart
(Love like this, Kodaline)
 
29 Luglio 2028
Londra, Piccadilly Circus.
The Royal Inn, Mattina.
 
Milo sentiva che c’era qualcosa di diverso quella mattina.
Non aveva idea di cosa però, dato che si era svegliato come ogni giorno in una suite superba. Solo dopo aver fumato il primo spinello della mattina ed aver suonato un po’ di Tartini aveva realizzato che più che un cambiamento era accaduta una mancanza.
Sören non si era ancora fatto vivo.
Bizzarro.
Il mago si svegliava sempre prima di lui, a volte buttandolo persino giù dal letto con le sue pretese assurde. Non solo non l’aveva mandato a chiamare, ma non aveva neppure palesato la sua presenza in alcun modo.
Provò a chiamarlo sulla linea interna dell’albergo, ma quando non ebbe risposta decise di agire: con la colazione su un carrello e parecchi interrogativi in testa raggiunse la stanza dell’altro, dove i due soliti Auror svolgevano la funzione di piantoni annoiati.
“Ehi.” Li salutò, scoccando un sorriso suadente al più giovane che lo guardò inorridito. Lo divertivano quei piccoli lazzi. “Il pacchetto è al sicuro nella sua stanza?”
“È tornato ieri sera e non è uscito.” Convenne il più anziano con un cenno della testa e senza tradire particolari emozioni.
Fu il giovane a segnalargli l’anomalia, sorridendo divertito. “Beh, e perché mai dovre…” Si bloccò all’occhiata ammonitrice del superiore. “… cioè, già.” Concluse impacciato.
Mmh.
“Vado a portargli la colazione allora.” Aspettò che il vassoio venisse passato a filo di bacchetta e poi bussò alla porta. Nessuna risposta.
“Siete sicuri che sia in camera?” Domandò un po’ preoccupato, visto che non era la prima volta che l’idiota decideva di andarsene a spasso senza avvertire nessuno. “Perché…”
“Siamo sicuri.” Gli disse il baffo austero del vecchio.
“È in compagnia.” Svelò infine il giovane, perché pareva proprio il tipo che non riusciva a tener la lingua al proprio posto. “È con la signorina Potter.”
Ma va’?

Quella sì che era una notizia capace di gettar luce sul mistero. “Allora meno male che ho ordinato abbondante oggi. Con permesso…” Aprì la porta con il passe-partout che si era fatto fare per poi chiudersela dietro, praticamente in faccia al giovane che occhieggiava curioso all’interno.
Bene, bene, bene…
Scandagliò l’anticamera, ma non c’era alcun capo di vestiario lasciato a morire sul pavimento, né tantomeno qualche segnale di sesso selvaggio come sedie rovesciate o suppellettili infranti.
Si sono Materializzati in camera e si sono fatti Disapparire i vestiti? Ma bravi!
“Buongiorno principino!” Vociò con forza, spalancando le imposte della stanza e cominciando a fischiettare una nota aria da operetta che ricordava l’altro detestasse. “Sorgi e cammina!”
Continuando a non avere risposta sbatté rumorosamente il vassoio della colazione sul tavolo. Fu ricompensato di tutti i suoi sforzi, perché pochi attimi dopo la porta della camera da letto venne aperta e ne uscì un assonnato e piuttosto irritato mago di sua conoscenza.
“C’è bisogno di far tutto questo rumore?” Sibilò con i capelli piegati in angoli irregolari a causa del gel che non si era tolto.  “E poi che ore sono?”
“Le nove e mezzo Signore.” Rispose in farsesco ossequio, disponendo due tazze e riempiendole entrambe di the. A Sören non sfuggì il particolare da come aggrottò le sopracciglia e perse un po’ di colore. “Siete in due, no?” Ghignò con una punta di malvagità del tutto naturale vista la situazione: e poi prenderlo per il sedere era una delle sue più grandi gioie.
“Chi…”
“Posso azzardare la natura del nostro ospite?”

“Te l’avrà detto Carruthers.” Concluse infossando le spalle e incrociando le braccia al petto. “E comunque non sono…”
“… se stai per dire che non sono affari miei ti lancio la teiera.” Lo interruppe di nuovo sciaguattandone il contenuto per dimostrargli che era piena.  

Mi hai fatto stare in ansia per tutta la notte, mago idiota!
E la preoccupazione non era stata smorzata neppure dalla presenza di Michel, perché l’altro gli aveva rifilato un picche causa cena di famiglia.
Sto cominciando a volerlo vedere tutti i giorni. Male, molto male.
Ma comunque…
Sören pareva concentrato sulle due tazze, quasi da esse dovesse provenire la risposta a tutti i quesiti dell’universo. Poi di colpo sorrise e non era uno di quei suoi sorrisi da eroina tisica vicina alla morte. Era un sorriso pieno, quasi enorme per i suoi standard.
“Le mie aspettative sono state disattese.” Disse soltanto. 
Tradusse non in linguaggio di fine settecento e interiorizzò. Non c’era che una cosa da dire. “Quindi te la sei sdraiata!”
Sören diventò dello stesso colore delle tende, un corposo rosso cremisi, in un mix di imbarazzo e rabbia deliziosi. “Non essere triviale.” Sibilò. “Non è questo il punto.”
“Certo che lo è. È da anni che vuoi…” Smise perché l’altro poteva non avere una bacchetta a portata di mano ma dalla faccia gli stava assicurando che poteva comunque fargli molto male. “… okay, dai, che è successo? Racconta!”

Sören tornò a quell’espressione tutta illuminata, da albero di Natale. “Mi vuole.”
“Beh, questo mi pare…”
“No, non hai capito.” Ripeté paziente sciogliendo le braccia e prendendo la tazza di the che gli porgeva per darsi un contegno. “Vuole stare con me.”

“Oh.” Le parole per il maghetto erano cose importanti, da pesare con cura. E la loro lingua non era generica come quella inglese. C’era un intero mondo dietro quella frase e il sorriso enorme  era solo un corollario. Non gli restò che ricambiarlo. “Complimenti principino … bel colpo!”
Sören annuì, perché con quel breve scambio di frasi doveva aver esaurito la sua vena dialettica. Lo lasciò stare per qualche minuto limitandosi a servirgli la colazione.
Dopotutto s’è appena svegliato. Oops.
La curiosità non riuscì però a tenerlo zitto per molto. “Senti, te lo devo chiedere … ma quindi…”
“Cosa?”
“Come te l’ha detto? Dichiarazione con tanto di violino e tramonto d’insieme?”
Sören inarcò le sopracciglia. “Sei un ficcanaso.”
“È nel sangue di ogni ragazzo gay.” Tagliò corto sedendosi sul bracciolo della sedia opposta. “Racconta.”

Con tutto quello che ho patito per i tuoi stupidi patemi, principino, me lo devi!
Sören si rigirò la tazza di the tra le mani, ritroso come solo lui poteva essere. Durò poco però, perché era evidente volesse raccontare la faccenda a qualcuno. E quel qualcuno doveva essere lui.
“Dovevamo chiarire la questione del bacio in ospedale … l’abbiamo fatto dopo il battesimo, nel capanno degli attrezzi di suo nonno.”
Schioccò la lingua. “Torbido, mi piace. E come vi siete chiariti? A colpi di lingua?”

Con suo enorme divertimento l’altro non saltò su per protestare e difendere l’innocenza di quella chiacchierata, anzi, diede un vigoroso sorso al the e finse che non fosse bollente, nonostante le lacrime all’angolo degli occhi.
Ridacchiò incredulo, ma neppure troppo: quei due avevano sempre mostrato una vigorosa quanto irrisolta tensione sessuale a chiunque avesse la sfortuna di incrociarli assieme. O separatamente, se era per quello. Ci avevano messo anche troppo a scoppiare.
“Fammi capire, vi siete ravanati?”
“Milo!” Ringhiò. 
“Cosa?” Era comico vedere come l’altro fosse combattuto tra l’incazzarsi per l’invasione triviale della sua privacy o assentire con maschio gongolamento.
Sei proprio un piccolo etero prevedibile, principino. 
“Ci siamo lasciati un po’ andare…” Ammise a mezza bocca, lanciando occhiate nervose verso la porta della camera quasi avesse paura di veder spuntare la sua preziosa ospite.
Se Zenzero fosse qui non solo confermerebbe tutto, ma mi darebbe man forte.
Mica l’ho chiamata Zenzero per niente…
“Quindi avete fatto sesso?”
Sören fece una smorfia sdegnata. “Perché per te gira tutto attorno a quello?”
“Perché è così?” Allargò le braccia, chiedendo agli dei perché avesse avuto la sfortuna di avere un padrone tanto fesso. “E poi scusami se notifico l’ovvio, ma te la sei portata in camera! Cosa dovrei pensare?”
“Che abbiamo solo dormito assieme.” Borbottò, forse per la prima volta mostrando doveroso rimorso all’idea di non averne approfittato.
Anche perché francamente Zenzero non mi pare ami negarsi. Anzi.   
“Sicuro che funzioni tutto là sotto?”  
Per tutta risposta Sören, rosso come un peperone maturo, contemplò distratto la pila di piccoli sandwich ma non ne prese neppure uno.  
“Piuttosto sicuro, sì.” Mugugnò. “E poi con una strega si può anche parlare.”
“Sì, lo so, con loro non faccio altro, ma tu?”

“Ci sono delle cose che devono esser sistemate, deve ancora lasciare il suo ragazzo.” Vedendo che quella spiegazione non lo soddisfaceva sospirò. “Non è stata una decisione che abbiamo preso a cuor leggero. È stato inaspettato. Non pensavo che sarebbe finita così, non immaginavo che…” Esitò, e apparve di nuovo quell’aria di incredulità felice, tipica dei vincitori delle lotterie o degli innamorati. “… non immaginavo che ricambiasse i miei sentimenti.”
Sbuffò, perché quella storia d’amore e di esaurimento mentale finalmente aveva avuto una svolta: aveva anche fatto girare le palle a mezzo mondo magico, ma quella era un’altra storia. “Posso dirti te l’avevo detto?” 

Sören cedette alla frecciatina con un mezzo sorriso. “Sì.”
Rubò uno dei sandwich e se lo ficcò golosamente in bocca. “Quindi aspetti che Ross sia uscito dalla fotografia?” Al posto suo avrebbe spinto finché non l’avesse scaraventato di sotto, ma ogni essere umano era diverso.
E sono tendenzialmente tutti più stupidi di me.
Sören si strinse nelle spalle come se non fosse un problema. “Gli parlerà il prima possibile.”
E tu le credi?

Ovvio che sì, glielo leggeva addosso come una pergamena stampata a caratteri cubitali. Sören aveva sempre avuto un doppio standard con Lily Potter e quella faccenda non costituiva un’eccezione.
Fidarsi di nessuno, tranne che di lei. 
Si appuntò mentalmente di fare un bel discorsetto motivazionale a Zenzero, e il prima possibile.  “E lei è nel tuo letto adesso?”
“Sta dormendo, l’hai quasi svegliata prima.” Lo accusò con il piglio di chi denunciava un diritto capitale.
“E allora che cavolo stai a parlare qui con me? Va’ da lei!”
Era la prima volta che vedeva il principino obbedire così rapidamente.  
 
****
 
Lily era sua.
Cioè, non sua. Non di sua proprietà come un orologio o una bacchetta, né come una casa o qualcosa di prezioso. Ovviamente no.
Era sua perché gli aveva permesso di appartenerle. Era sua da toccare e baciare ed era una cosa così strana, così straordinaria che non sapeva cosa farsene e quindi, una volta tornato in camera e controllato che dormisse ancora, si era limitato a sedersi su una delle poltrone per contemplare lo spettacolo di averla nel suo letto.
Milo gli avrebbe di certo dato dell’idiota, e non poteva negare avesse ragione, ma Lily l’aveva scelto, non come amico o povera creatura da salvare ma come uomo e con il tempo, forse, anche come compagno.
C’era tanto da digerire.
Eppure c’era stato un momento in cui aveva sperato. Perché quando l’aveva vista sul sagrato della chiesa, quando gli aveva detto che non si era tenuta per sé quel loro bacio come qualcosa di sporco, da nascondere, ma che l’aveva addirittura detto a Scott causando la rottura del loro rapporto, una minuscola speranza gli si era accesa nel petto.
Non è stato un errore. È stato un segnale.
Era grazie a quella piccola fiamma che le aveva parlato nel capanno, che non si era fermato alle sue paure e non aveva sbagliato. Lily era innamorata di lui come lui lo era di lei. Lily lo voleva.
C’era un caso a cui doveva dedicare i propri pensieri, una famiglia che tormentava la sua coscienza come una lama avrebbe fatto sulla pelle, ma in quel momento, mentre Lei dormiva raggomitolata tra cuscini e lenzuola, non riusciva a preoccuparsene.
Ti ho voluta per così tanto tempo…
Si sporse per contarle le efelidi, poche e tutte vicino al naso come una piccola corona, e il desiderio fortissimo di baciarla lo stordì come uno schiaffo. Non voleva svegliarla però.
“Guarda che sono già sveglia…”
Lily era una LeNa e non era facile passare inosservato in sua presenza. Si schiarì la voce, piantando lo sguardo sulle tende perché sì, erano terribilmente interessanti. “Non me n’ero accorto.”

La padrona incontrastata del suo letto gli sorrise e si stirò come un gatto. “Ren, invece di star lì a guardarmi che ne dici di venire a darmi il buongiorno?” Tese le braccia in un gesto inequivocabile, persino per lui. “Se non è chiaro, voglio un bacio.”
Era una fortuna che Lily fosse per sua natura diretta, perché ci sarebbe voluto un bel po’ prima che trovasse il coraggio di avvicinarla di propria sponte. Con un’autorizzazione invece non era un problema raggiungerla a letto e prenderla tra le braccia. E baciarla, a lungo, con la meravigliosa sensazione di sentirla assonnata e arrendevole contro di sé.
È diverso dal bacio di ieri…
C’erano diversi tipi di baci, era evidente: quello della sera prima era stato violento, confuso e poi appassionato, di una passione che aveva avuto bisogno di tutto il suo controllo mentale per quietarsi. Quello attuale invece era languido, ma non meno pericoloso, perché il modo in cui le mani di Lily vagavano sulla sua schiena, risalivano lungo la nuca solleticandola e poi verso il collo, non gli davano molta stabilità. Soprattutto mentale.
“Lilian…” Borbottò, perché aveva fatto una promessa, ed era suo dovere rispettarla, checché Milo ne dicesse. “… smettila.”
“Di fare cosa?” Gli venne chiesto con un’innocenza falsa come l’oro di un Lepricauno. Gli occhi le brillavano divertiti, ed erano come il canto di una sirena per un povero pescatore.

Di quel passo sarebbe finito affogato.
“Ne sei perfettamente cosciente.” Ribatté cercando di suonare autorevole, nonostante avesse sempre più voglia di gettare alle ortiche il suo codice d’onore e lasciare che l’altra lo ammaliasse senza possibilità di ritorno. L’osservazione dovette fare il suo effetto però, perché Lily lasciò cadere le mani ed annuì, con un piccolo broncio adorabile.
È un problema.
“Hai ragione, abbiamo fatto un patto.” Convenne trasformandolo in un sorriso di scuse. “È che sei così…”
“Così?”
“Delizioso.” Terminò ridendo della sua espressione contrariata. “Andiamo, è un complimento!”
“L’inglese non sarà la mia lingua madre, ma non mi risulta.”
“Molto affascinante allora?” Lo blandì passandogli un dito sulla guancia. “Che deve farsi la barba perché pizzica?”

Quello era un buon suggerimento, perché prima, troppo preso a contenere Milo, si era dimenticato di lanciarsi un incantesimo di rasatura e passarsi la lozione corrispondente. “Vado…”
“Da nessuna parte.” Lo bloccò afferrandolo per le braccia. “Mi piacciono gli uomini barbuti.”

“Ma se hai appena detto…”
“Imparerai che come ragazza solo molto più incostante che come amica, Ren. E adesso ti voglio qui.”

Sospirò: avrebbe voluto farle notare che anche come amica era riuscita comunque a comandarlo a bacchetta sin dal primo giorno, ma la realtà era che non gli era mai dispiaciuto. La sua educazione d’altri tempi era un po’ ingombrante in un mondo dove i costumi Babbani spesso si confondevano con quelli magici e quindi ragazze come Ama, fin troppo autonome, lo rendevano impacciato ed insicuro. Avere a che fare con la sua piccola strega inglese era sempre stato facile invece: viziarla era poco oneroso oltretutto, perché nelle sue pretese c’era spesso più gioco che desiderio reale. Lasciò quindi che gli si accoccolasse contro passandole un braccio attorno alla vita e baciandole la testa. Poteva farlo e quindi lo fece.
“Ho sentito la voce di Milo prima… era di là?” Gli chiese dopo un po’, studiando il suo anello come il resto della sua mano, dito per dito con la minuzia di un Tracciatore.  
“Sì, è venuto a portarmi la colazione come al solito … portarci, a dirla tutta. Ha notato la tua presenza.” Rispose incerto. Forse avrebbe dovuto riflettere prima di spiattellare tutto all’altro.
Lily non diede segno di essersela presa, ma neanche di averlo sentito dato che continuava nella sua analisi, togliendogli l’anello e infilandoselo all’indice, dove ballò fin troppo largo. Sören si chiese se quell’invasione del suo spazio personale, simile a quella di una bambina curiosa, fosse qualcosa che l’altra voleva fare da parecchio. Ne sembrava molto soddisfatta.
“Per te va bene?” Si azzardò a chiederle.
“Che tu gli abbia detto di noi? Ma guarda che già lo sapeva, cerca di metterci assieme da quando sei tornato!” Esclamò dandogli un bacio a fior di labbra che non aveva contesto, ma gradì moltissimo proprio per quello. “E poi ti vuole bene e tu ne vuoi a lui. Se Roxie è stata la mia confidente Milo dev’essere stato il tuo. Era inevitabile che facesse due più due!”
Non le sfuggiva niente. Forse avrebbe dovuto far lavorare lei al Demiurgo al posto suo. “Quindi non è un problema?” Ripeté, perché non avevano ancora definito nulla, sebbene la notte prima avessero parlato a lungo prima di addormentarsi.
Non abbiamo parlato molto del futuro però.
Anche perché da lì a due giorni una Passaporta l’avrebbe riportato a Boston salvo cambiamenti. E non era argomento che avevano voluto affrontare.
Perché di cambiamenti non ce ne sono stati.
Lily dovette indovinare qualcosa dalla sua espressione, perché saltò a sedere sul letto. “Ehi, no … certo che non è un problema.” Mormorò, perché pareva che certe cose andassero mormorate. C’era più enfasi in un sussurro che in un urlo a volte. “Voglio stare con te, Ren. E intendo sul serio. Tenerci per mano, luce del sole e sguardi della gente. Tutto il pacchetto.” Si morse un labbro, perché quando era imbarazzata quello era il segnale. E le orecchie rosse anche, ma aveva i capelli a coprirle adesso. “… hai aspettato fin troppo.”
“Posso aspettare tutto il tempo che serve.” Obbiettò tranquillo. Perché si rendeva conto che non sarebbe stato semplice annunciare al mondo che la figlia di Harry Potter stava con un ex-galeotto ex-mago oscuro e tutt’ora Tracciato. Certo, Lily viveva in una realtà tutelata, grazie ai paletti che suo padre aveva sempre imposto alla società in cui viveva la sua famiglia, ma nell’improbabile caso l’opinione pubblica non avesse messo becco sulla loro storia rimaneva sempre il temibile Clan Weasley.
Scott Ross è un mago che chiunque vorrebbe integrare nel proprio albero genealogico. Io no.
Per tutta risposta e per tanta abnegazione, ricevette uno schiaffo sulla spalla e un’occhiata di fuoco. “Io non voglio aspettare!” Sbottò la leggiadra dama del suo cuore puntellandosi per torreggiargli sopra. “Niente sotterfugi che durano anni come James e Ted, né tantomeno il detto non detto di mio fratello Al … Col cavolo! Io se sto con qualcuno lo voglio sfoggiare!”
Sfoggiare?” Avrebbe dovuto sentirsi leso nel suo orgoglio di mago, ma le sparate di Lily avevano una vena comica imprescindibile. Come faceva ad arrabbiarsi quando la sua interlocutrice gonfiava le guance come una bambina piccola?

“Non intendevo dire come un trofeo …” Borbottò con lo sguardo di chi capiva di averla sparata grossa. “… insomma, hai capito.”
“No, temo di no.”
Potevano giocare a quel gioco in due. Lily inarcò le sopracciglia sorpresa, ma il sorriso non si spense. “Okay.” Si arrese assumendo un’aria ragionevole. “Intendo che voglio render chiaro che sei il mio ragazzo, così nessun altra strega con manie di conquista ti si avvicinerà.”
Cercò di non suonare come un ragazzino eccitato dalla sua prima scopa da corsa quando realizzò che l’altra aveva detto proprio ragazzo, e non amico. “Puoi portarmi degli esempi?”

“La conosci, è americana e molto antipatica.”
“Ama è…”
“Qualcuno di cui non dovrai mai parlare con me.” Terminò per lui, buttandoglisi addosso per stringerlo più come un cuscino che come un essere umano. Non che avesse di che lamentarsi. “Comunque ti ho visto prima io.” Soggiunse picchiettandogli sul petto per sottolineare il concetto. “Hogwarts, Sala Grande … e tu non mi considerasti neanche!”
“Ti ho considerato.” Ribatté perché non si sarebbe mai scordato quell’incontro, anche se adesso era una persona talmente diversa da non riconoscersi più nel ragazzo che aveva conosciuto la quindicenne Lily Potter. “Non ho mai smesso di farlo.”
E questo mi ha salvato la vita in modi che neppure immagini, mia Lilian.

Sembrò rasserenata dalla risposta perché gli lasciò andare i polsi, piuttosto doloranti, e lo osservò con aria meditabonda.
“L’appartenenza è reciproca, lo sai vero?”
“In che senso?”
“Che se tu sei il mio ragazzo … io sono la tua ragazza.” Esitò. “Mi sa che lo sono sempre stata.”
In quelle ultime ventiquattro ore c’erano state troppe cose che avevano mandato al diavolo tutte le sue certezze. Quella era solo l’ennesima. “Sì?”

“Tu che dici?”
Era propenso per un sì ma non lo dimostrò a parole. Poteva baciarla e l’avrebbe fatto finché non gli avesse detto basta. Cosa che per fortuna non sembrava intenzionata a fare.
Fu l’irritante squillo di un cellulare che li fece staccare. “È il mio.” Borbottò Lily con aria contrariata allungandosi a prendere la bacchetta sul comodino per Appellarlo. “Se prendi una pausa dal mondo, il mondo ti viene a cercare.” Sentenziò scorrendo lo schermo con un tocco del pollice. Aggrottò le sopracciglia e da come si irrigidì capì di dover sciogliere l’abbraccio, cosa che fece a malincuore.
“Tutto a posto?”
“Sì … è Scott.” Rispose contraddicendo la frase. Perché non era tutto a posto e si trovò nella scomoda posizione di non sapere cosa fare di sé stesso. Decise di sedersi sul ciglio del letto, mentre Lily rispondeva al messaggio, si alzava e raccoglieva le sue cose.
“Vai a parlargli?” La domanda gli uscì più secca di quanto avesse voluto, ma non poteva evitare di provare fastidio all’idea che Lily fosse pronta a scattare in piedi quando Ross la chiamava.
Sei la mia ragazza adesso. Non la sua.
Lily si infilò le scarpe, evitando accuratamente di guardarlo. “Gli ho detto che ci vediamo stasera.”
“Gli parlerai?”
“Ti ho detto di sì!”
“No, non l’hai fatto. Hai solo detto che dovete vedervi.”
“Dai, era sottointeso!” Data la stizza delle risposta intuì di aver spinto troppo, ma chiedergli scusa era fuori discussione. Era disposto ad aspettare che chiarisse con lo scozzese, ma non era disposto a farlo con il sorriso sulle labbra.

“Non ti fidi di me?”
Alzò lo sguardo e registrò un’espressione di sfida: Lily cercava un pretesto per litigare perché il messaggio di Ross l’aveva fatta sentire in colpa ed aveva quindi bisogno di una valvola di sfogo.
Aver analizzato la situazione lo fece sentire un po’ meglio. “Mi fido di te.” Rispose quindi con onestà. “Ma per quanto necessario, non amo che passi del tempo con lui.”
Lily sbuffò, incerta se rispondergli di nuovo male o arrendersi. “Per lasciarlo del tempo ce lo devo passare per forza.” Si risolse a dire. “Sei irragionevole.”
“Sono geloso.”

L’onesta non pagava sempre, ma a volte sì. Con Lily aiutava, visto che dirle le cose in maniera diretta invece che fargliele capire come LeNa facevano guadagnare punti ai suoi occhi. Si abbassò infatti alla sua altezza, mettendogli le mani sulle ginocchia in un gesto che sperò fosse di distensione. “Lo sei?” Chiese retorica, ma non era quello il punto.
Resa alle armi.
“Scoprirai che come ragazzo sono molto più geloso che come amico.” Rispose interpretando la frase che gli aveva detto prima. “Va’ da Scott … ma poi torna da me.”
“Cavernicolo.”
Le prese la mano e la baciò, trattenendosi un momento di più perché poteva. “Preferisco vecchio stile.”
Lily ridacchiò, scoccandogli un bacio sulla guancia che gradì più che se l’avesse baciato sulle labbra: c’era una richiesta silenziosa di aspettarla e la accettò. Non poteva far altro. 
 
****
 
Scozia, Hogsmeade.
Casa di James Potter e Ted Lupin, Mattina.

 
Non era riuscito a rimanere alla Tana fino all’ora di pranzo, nonostante avesse detto a Ted che sarebbe tornato nel primo pomeriggio. Non c’era riuscito perché era una chioccia, avrebbe detto Malfuretto.
Che poi, in fondo, aveva pure ragione.
Uscendo dal focolare tra sbuffi di fuliggine e fiamme verdi si preoccupò di rinfrescarsi un po’ i vestiti e l’alito, oltre che togliersi la cenere di dosso; non aveva la minima intenzione di farsi bacchettare perché aveva fumato come una ciminiera in quelle ultime dodici ore.
“Sono tornato!” Si annunciò occhieggiando la posta del giorno impilata sul camino. Pubblicità e una lettera dagli Scamandro, tutte buste intonse: Teddy non si era ancora alzato.
Se c’è andato, a letto.
Andò a controllare in camera e come immaginava trovò il letto come l’aveva lasciato la sera prima.
Okay … allora è con Ben.
Benedetta, per la quale avevano adattato una cameretta a piano terra, ricavandola dalla stanza degli ospiti, rinforzandola con sbarre e barriere magiche, ma anche con cuscini e peluche per non farla sembrare una prigione.
Non annunciò il suo arrivo, visto che era molto probabile che i due stessero ancora dormendo. Preferì invece togliere il Colloportus alla maniglia e infilarsi di soppiatto, anche solo per controllare che fosse tutto a posto.
È uno scricciolo … ma non ho idea di che taglia raggiunga quand’è trasformata.
E non l’avrebbe saputo, visto che la individuò subito, raggomitolata tra un mucchio di coperte, un paio di peluche e una forma animale dal manto grigio-bianco che era tutto fuorché un pupazzo visto la stazza in scala uno ad uno. Strinse la bacchetta, prima di ricordarsi a cosa quella sagoma corrispondeva.
Qualcuno si è addormentato trasformato …
Rimise l’arma nel fodero della giacca e si avvicinò con un sorrisetto: Ted aveva usato i suoi poteri per diventare un lupo, la cosa più simile ad un licantropo ci fosse e Ben doveva aver apprezzato la cosa da come le manine cingevano il grosso testone peloso.
Prevedibile, ma ben pensato Lupin.
Si accovacciò alla loro altezza, studiando con attenzione i due profili. Entrambi sembravano stare bene, e Ben esibiva solo un paio di graffietti superficiali sulle mani e sulle braccia, nulla che una pomata non avrebbe potuto far sparire all’istante. Le scompigliò i capelli giù arruffati per conto loro e ridacchiò al brontolio da animaletto che ne conseguì.
Considerò un paio di varianti e poi decise il da farsi. La prese quindi in braccio, aggiustando la coperta in modo che non prendesse freddo. La bambina sbatté le palpebre insonnolita, identificandolo con occhi che mantenevano ancora una traccia di ferinità.
“Jamie, ‘ao.” Sentenziò però in perfetto umanese, afferrandogli una ciocca di capelli alla base della nuca e strattonando, in uno strambo saluto che rischiò seriamente di commuoverlo a morte.  
“Ciao pulce.” Replicò con un orrido tremolio in fondo alla voce che per fortuna non ebbe nessun testimone. “Nottataccia?”
“Sonno.” Gli venne risposto con un sonoro sbadiglio. “C’era lupo.”
Si chiuse la porta alle spalle, perché se Teddy non si era svegliato significava che aveva ancora bisogno di farsi qualche buona ora di sonno. “Un cosa?”
Lupo.” Ripeté in italiano prima di aggrottare le sopracciglia e mimare un ringhio piuttosto efficace.
“Ah, un lupo!” Tradusse per lei. “Era Teddy.”
La bimba si divincolò di colpo sveglia e dovette trattenerla perché non crollasse a terra. “Teddy è un lupo?”

“È un Metamorfomago … significa che è un mago in grado di trasformarsi come gli gira. Cambiare colore di capelli, pelle e anche diventare un lupo se gli va. Hai visto che cose buffe fanno i suoi capelli, no?”
Ben parve molto impressionata. “Sì, visto. Come un superpotere?”
“Preciso come un super-potere.”
“Bello!”

“Vero?” Convenne salendo le scale e occhieggiando che non avesse altre ferite, magari nascoste dalla coperta in cui l’aveva avvolta. Da come si agitava era poco probabile.
Allora è andata bene.
Era un sollievo cento volte più forte che vedere i Chudleys parare una Pluffa.
“Io mi trasformo in un lupo. Solo.” Replicò sorprendendolo. Quindi sapeva cosa le succedeva ad ogni plenilunio.
Lunastorta glielo ha spiegato? Devo dirlo a Teddy.
“Eh, già.” Convenne senza impegno mettendola a letto. “Piuttosto figo anche quello, no?”
Ben fece spallucce. “Mi viene sonno … Dormo ed ho un po’ di fame. È noioso.”
Solo grazie all’Antilupo piccola. Altrimenti sarebbero guai.

“Allora dormi.” Le consigliò portandole il pupazzo che preferiva, l’orsetto con cui era uscita dal San Mungo e che Ted aveva comprato per lei. “Ci vediamo giù quando hai voglia di riempirti la pancia. Se ci sono problemi, fai un fischio.” Mimò il fischio facendola ridacchiare. “Siamo intesi?”  
Ben aggrottò le sopracciglia, ma poi con piglio sicuro gli mostrò il pollice come gli aveva insegnato. “Okay!” Da qualche parte, il suo piccolo Scorpius mentale ridacchiava soddisfatto.
Sì, rompipalle, sono ad un passo da metterle il mio cognome. Già mostro le sue foto a tutto l’ufficio…
Che cazzo.
Le baciò la testolina e poi tirò le tende con un colpo di bacchetta, cosicché potesse riposare nonostante il brillante sole mattutino.
Per quanto mi ricordo da DADA ci metterà tutta la giornata a smaltire l’Antilupo ora che è umana.
A proposito di Difesa contro le Arti Oscure, era ora di far visita al suo vecchio-giovane professore. Tornò quindi nella stanza degli ospiti, dove Ted pareva ancora del tutto intenzionato a rimanere a quattro zampe. Il che era piuttosto divertente.
È davvero così stanco che non riesce a tornare umano?
C’era una cosa che però non poteva esimersi dal fare, vista la situazione; si accoccolò a fianco dell’altro e passò una mano tra la folta pelliccia della schiena.
Aw, morbida! Sembra vera!
Il che era ovvio visto che Ted era un mago piuttosto eccezionale e quello era, a conti fatti, il suo vero super-potere. “Penso che ti chiamerò Fuffi.” Sentenziò ad alta voce svegliandolo. Un paio d’occhi dorati lo fissarono con un’irritazione che era tutta umana. “Ehi, sei tu che hai quattro zampe ed un muso, Signor Metamorfomago, mica io!” Gli fece notare grattandolo dietro le orecchie. Con suo enorme divertimento non gli venne intimato di star buono ma si trovò una testa di lupo sulle ginocchia. “Sì, Fuffi è perfetto.” Ribadì. “Se ci pensi, non è peggio di Teddy.”
Un ringhio basso lo avvertì di farla finita stavolta, mentre Ted perdeva pelo in favore di capelli e pelle e i tratti ferini tornavano umani, in una trasformazione che persino dal punto di vista di un mago era stupefacente per la sua naturalezza. Era uno spettacolo raro a cui assistere, visto e considerato che Ted difficilmente arrivava a compiere trasformazioni complete nella vita di tutti i giorni.
Non che gli servano, fa il professore. Al massimo si fa sparire la barba o si fa venire i capelli normali quando è tra Babbani.
Comunque, ora che lo aveva di nuovo bipede, poteva porgli qualche sacrosanta domanda. “Com’è andata ieri sera?”
Per tutta risposta il compagno si indicò la gola e scosse la testa.
“Non puoi ancora parlare?” Aveva senso, se si pensava che aveva passato tutta la notte in un’altra forma. Era probabile che parte di lui fosse ancora lupo, aspetto esteriore a parte.
Che dev’essere la cosa più facile da recuperare.
“Ho portato a letto Ben…” Ted annuì come ad intendere che se n’era accorto. “… abbiamo anche chiacchierato un po’ anche se era piuttosto stesa dall’Antilupo. Stava bene però, qualche graffietto da poco.” Il modo in cui lo sentì rilassarsi contro di lui gli diede una misura piuttosto efficace di quanto fosse stata dura la notte prima. Non per lo scricciolo, che doveva aver sonnecchiato mansueta per la maggior parte del tempo, ma per il compagno che doveva esser stato un fascio di nervi. Quel pensiero gli diede il coraggio di continuare. “… la prossima volta voglio esserci, intesi?”
Ted batté le palpebre aprendo bocca salvo chiuderla contrariato. Non c’era bisogno che parlasse, poteva immaginarsi benissimo le obiezioni.
“Non se ne parla. Non me ne andrò dai miei o alla Tana al prossimo Plenilunio, è fuori discussione. Userò qualche incantesimo di mascheramento se il problema è il mio odore. Per Ben puoi bastare tu forse… ” Sospirò e decise di farla corta. “… ma tu non basti di certo a te stesso.”
Ted non provò a trovare la voce stavolta. Buon segno, significa che lo stava ascoltando e non stava pensando a fargli cambiare idea.
“Io e te stiamo assieme, e stiamo alla grande. Ci abbiamo messo anni a raggiungere questo punto, ed è un gran punto.” Accarezzargli la testa e fissare un mucchio di cuscini era molto più semplice che guardarlo in faccia. “Ma non siamo arrivati alla fine della strada. Ben ne ha aperta un’altra … ed io non voglio restare a montare le tende.” Che era una metafora del cazzo, ma Teddy era un intelligentone e l’avrebbe colta. “Quello che sto cercando di dire è … Voglio che siamo una famiglia, una vera. Io, te e lo scricciolo. Assieme.”
 
Non era facile tornare a pensare come un essere umano quando per ore eri stato tutt’altro.
Ted era stanco, confuso e tutto quello che voleva era stringere il suo umano … cioè, James, il suo compagno e avere la certezza che tutto andava bene, perché era così quando c’era James. Niente di male succedeva quando era in sua compagnia. E se succedeva, si poteva affrontare.  
Però le parole che l’altro gli stavano dicendo avevano un significato, anche se alle sue sinapsi sembravano stringhe di suoni senza senso.
“Quello che sto cercando di dire è … Voglio che siamo una famiglia, una vera. Io, te e lo scricciolo. Assieme.”
Anche con la testa confusa Ted capì che James voleva dirgli qualcosa e che se glielo diceva con quel tono teso e con quella postura rigida significava che aveva paura di aver detto la cosa sbagliata.
No, Jamie, no.
Quel primato di solito spettava a lui. Si alzò a sedere – perché adesso poteva, visto che aveva due braccia e due gambe, Merlino, non sarebbe rimasto più trasformato per così tanto tempo – e mise a fuoco i lineamenti dell’altro, l’ombreggiatura di barba morbida e gli occhi nocciola che gli sfuggivano. Aveva paura, il suo Jamie, e doveva averla combinata grossa se si sentiva così.
“Se è … cioè, siamo sulla stessa lunghezza d’onda.” Prese il respiro solo per continuare a fiume, tipico modo dei Potter per tener sotto controllo l’ansia. “Chiaro, Benedetta è tua nipote, una Lupin al cento per cento, ma le voglio bene proprio per questo.” Arrischiò un’occhiata di sottecchi. “Non voglio mettermi in mezzo, ma non voglio esserci solo quando vuole giocare o mangiare qualcosa che non siano the e biscotti. Voglio … voglio esserci al cento per cento per voi, nel bene e nel male.”
Oh, dannazione.

Aveva capito. Finalmente l’ultimo sprazzo di lupo era uscito dalla sua testa e aveva un quadro completo del casino epico che aveva combinato senza neanche rendersene conto.
L’ho tagliato fuori. La storia della Trasformazione …
“Jamie…” La gola gli pareva di carta vetrata e dovette anche tossire. Meglio esser brevi e concisi. “… tu sei la nostra famiglia.”
La faccia che fece fu come un pugno nello stomaco, perché rifletteva quanto l’altro avesse temuto di essere un più uno, invece che parte dell’equazione. “Lo sei.” Ripeté, ma anche a costo di rimanere senza fiato era urgente una spiegazione. “Senza di te non riuscirei a prendermi cura di Benedetta come sto facendo adesso… Se non ci fossi tu, saremo persi. Entrambi.”
“E allora perché mi hai mandato via?”

Perché sono un idiota.
Non era il caso di cospargersi il capo di cenere. Non ancora. Meglio una spiegazione seria. “Volevo risparmiarti qualche preoccupazione … hai tanto a cui pensare in questo periodo.”
“Intendi il Demiurgo? È un caso, che si fotta!” Sbottò incredulo. “Tu e Ben siete la roba importante!”
A quel punto cosa restava da fare? Lo abbracciò stretto e sentendolo ricambiare con la stessa intensità  si diede del cretino un altro paio di volte per buona misura.
James profumava di pulito e un vago odore di sigaretta per cui avrebbe dovuto rampognarlo, ma non ne aveva voglia. “Non volevo escluderti, ho solo avuto paura che fosse … troppo. Già avere a che fare con una bambina è complicato, ma la Licantropia…”
“Guarda che lo so.” Lo fermò serio. “E okay, ammetto che mi preoccupa, ma non tagliarmi fuori … non ne capisco molto, ma posso imparare!”
“Va bene.”

“Dico sul serio!” Fece per tirargli un pugno sulla spalla, ma gli afferrò il polso con facilità, bloccandoglielo. Poteva avere la testa piena di nebbia, ma i suoi riflessi erano ancora piuttosto animali. E comodi.
“Anch’io.” Lasciò la presa solo quando l’altro trasformò il pugno in una carezza ai suoi capelli. Ed era una fortuna non si fosse trasformato in qualcosa di appartenente alla famiglia dei felini … o avrebbe fatto le fusa.
“Scusami.” Si decise a dire perché nonostante tutto doveva essere quello che si inginocchiava sui ceci e dichiarava pentimento. Era un po’ la storia della sua vita ed era l’unico modo che conosceva per dimostrare amore a quel meraviglioso ragazzino dalla pazienza infinita.
“Siamo alle solite.” Fu l’esasperata risposta nonostante continuasse a coccolarlo giocando con le ultime ciocche sulla nuca che di sicuro dovevano avere ancora i colori del manto del lupo. “Che ci sto a fare con te?”
Aprì gli occhi per controllare non dicesse sul serio. Non diceva sul serio e la espressione bellicosa lo diffidava da farsi venire idee strane in merito. “Preparo un ottimo the?” Suggerì timido.

James sbuffò. “Fattene venire in mente una migliore, Lupin.” Ma sorrideva, quindi tutto era stato perdonato.
La prossima volta le tue crisi da padre single tienitele per te, coglione.
Doveva essere l’unico idiota, in ben due mondi, a non avere problemi … e riuscire comunque a crearseli e a crearli anche al proprio compagno. “Ti amo e voglio farmi perdonare anche se non ho idea di come?”
Non era proprio nelle condizioni mentali per disquisire sui suoi meriti. Il lupo era ancora acquattato da qualche parte e gli stava facendo notare quando James fosse vicino e delizioso.
Da quanto tempo non avete un momento per voi?
… Benedetta sarà fuori gioco per tutta la giornata.
James doveva pensare le stesse cose perché lo mangiò con lo sguardo, facendogli ricordare che non aveva molto addosso, anzi, in effetti proprio niente.
“Non sforzarti Teddy.” Mormorò afferrandogli una mano e piazzandosela sul petto. “Qui hai tutto quello che ti serve.”
“Puzzo di selvatico …” Gli fece notare, perché era giusto notificare la mancata doccia, perché era da essere umani civili…
“Chi se ne frega.” James gli passò una mano attorno al collo e lo baciò, nello stesso modo in cui lo aveva accarezzato quando era ancora lupo, azzerando così ogni sua capacità di pensiero. E parola.
Tanto per le successive ore a che gli sarebbero servite?
 
****
 
Londra, da qualche parte a SoHo.
Pomeriggio.
 
Rose non andava spesso ad iniziative organizzate dagli amici di Al. Anzi, quasi per niente.
Se vi andava doveva esserci un buon motivo e in quel periodo c’era, visto che per lei ed il cugino era diventato difficilissimo vedersi. Nulla che intaccasse il loro rapporto visto che avevano più cose da dirsi una volta finalmente assieme …
Ma comunque, uno sforzo bisogna farlo.  
Per questo aveva deciso di accompagnarlo ad una delle tante feste organizzate dal gruppo di ragazzi che l’altro aveva cominciato a frequentare al Sesto Anno, capeggiati dall’imprescindibile Zabini.
Non aveva gran simpatia per quel gruppo di maghi quasi tutti Purosangue, fin troppo azzimati e festaioli, ma non poteva non ammettere che sapessero come godersi l’estate.
La festa a cui stava partecipando, ad esempio, era a bordo di una piscina gigante, sita nella terrazza di uno di quegli attici extra-lusso che ogni rampollo magico che si rispettava comprava vendendo l’antico e polveroso maniero di famiglia. Una piscina vera, e non di quelle coperte o ancor peggio, comunali, che abbondavano su suolo inglese. Vera e magica, dato che un incantesimo piuttosto elaborato faceva in modo da potenziare l’effetto dello scarso sole che omaggiava le loro coste facendolo bruciare con l’intensità di un Agosto a Mali. C’era persino la sabbia.

Rose adorava quel posto. E come non poteva? Era stesa su un lettino di paglia, con un cocktail fruttato a fianco, mantenuto gelato da una serie di finissimi incantesimi, e poteva chiacchierare con Al senza esser disturbata da impegni, scadenze, lavoro o fidanzato.
Ammirando tra l’altro gran bei pezzi di mago senza sentirmi in colpa. Tanto sono tutti gay!
“Alla fine abbiamo deciso Grecia come viaggio di nozze. Nell’entroterra ci sono secoli di storia magica, per non parlare di quella Babbana … e la sera possiamo prendere una Passaporta per le isole, così almeno Scorpius può saltellare in mezzo a corpi sudati.” Spiegò all’altro, appoggiato a bordo piscina mentre il resto del corpo era immerso e nuotante.
“E tu vai con lui?” Gli chiese afferrando il suo Mangiamorte e dandogli un vigoroso sorso. “Tutta la notte fino all’alba?”
“Tutta la notte fino all’alba neanche morta, ma non voglio neanche seppellirlo in albergo la sera … Mi si seccherebbe come una pianta da appartamento.”
Al annuì. “Potevi portare anche lui oggi, gli sarebbe piaciuto. Adora togliersi i vestiti di dosso.”
“Deve lavorare. Papà l’ha chiesto come agente di rinforzo per uno dei casi che sta seguendo … forse per fargliela pagare per ieri. Ha finito per rovesciargli un vassoio pieno di calici sui pantaloni.”
“L’ha fatto apposta?”

“Tu che dici?” Sospirò cercando di dimenticare lo sforzo immane che aveva fatto per evitare che Scorpius venisse scuoiato  vivo ‘come il maledetto piccolo furetto maligno che era’.
Al ridacchiò, appoggiando poi una guancia sulla mano “Comunque piacerebbe tanto anche a me andare in vacanza. Quando sarà finita tutta questa storia del Demiurgo, magari in qualche isoletta Atlantica, lontano dalla calca … con tante zone d’ombra, visto Tom.”
“Volendo potreste andarci anche ora.” Gli fece notare, ma rimediò per tutta risposta una scrollata di spalle. Decise quindi di non tirare in ballo quel coinvolgimento dubbio. Fargli la ramanzina non avrebbe comunque funzionato.
Non funzionava neppure quando mi ascoltava…
“Almeno l’opinione pubblica ha cominciato ad annoiarsi dei titoli allarmistici della Gazzetta.” Si guardò attorno: la festa era piena, allegra e rilassata. “Mi pare che l’allerta infezione sia rientrata.”
Al fece una piccola smorfia e si calò gli occhiali sul naso. “Perché tutti gli infetti noti sono al sicuro al San Mungo e non ne sono usciti fuori altri. Papà e il Dipartimento hanno fatto un gran lavoro per rassicurare i cittadini anche se le indagini sono in fase di stallo.”

“Informazione di cui nessuno di voi due dovrebbe essere a conoscenza.” Si intromise la voce di Zabini, steso accanto a loro ma fino a quel momento immobile come una statua.
Speravo si fosse addormentato. Almeno era un bel guardare.
Invece era sveglio, da come si girò su un fianco per fronteggiare l’amico che gli rispose con una linguaccia. “So che il concetto ti riesce difficile da interiorizzare, Potter … ma sono informazioni confidenziali.”
“Dillo all’ufficio Auror, non a me!” Replicò con piglio brillante. “E comunque Scorpius ha contattato anche Rosie per farsi dare una mano.”
“Certo, qui si fa tutto in famiglia.” Ironizzò l’ex-serpeverde – non riusciva a considerarlo altro che quello. Meglio bere un altro sorso di Patronus piuttosto che rispondergli. E così fece.  

Al la vendicò schizzando l’altro con un colpetto della mano. “Oh, non fare il bacchettone Mike! Il Demiurgo ci riguarda tutti. E comunque sono fiducioso, si chiuderà prima dell’estate e potremo tutti tornare alle nostre grigie vite di salariati!”
“Lo spero proprio.” Commentò, ma tese anche le labbra scontento, quasi la previsione l’avesse infastidito. Rose non ebbe tempo di scambiarsi uno sguardo con Al, giusto per controllare non fosse l’unica ad aver notato la cosa, che un’ombra le oscurò la visuale.
Le venne da piangere.
“Violet, sei la sciagura della mia esistenza.” Comunicò at urbi et orbi e non solo all’interessata appena apparsa.
Dal nulla!
“Pensavo che quella fosse tua cugina Lily.” Le rispose con un sogghignetto divertito, nascosto a metà da un enorme cappello da diva del cinema corredato da occhiali costati come tre loro stipendi.
Deve piantarla di farsi fare i regali dal mio fidanzato!
“No, hai sbaragliato la concorrenza.” La considerò speranzosa, perché a ben guardarla non indossava il tailleur ibrido - magico con il quale ormai quasi dormivano: era invece in bikini Babbano e pareo striminzito. Forse si era trattato di un falso allarme. “Non ci hanno chiamato dal Ministero, vero?” Se ne sincerò.
“Sei scema per caso?” La apostrofò con un certo grado di ragione appoggiando borsa e telo sulla sua sdraio senza troppe cerimonie. “Già devo lavorare per vivere, fammi anche sgobbare in un giorno festivo come una Maganò!”
Di nuovo un sussulto nervoso da parte di Zabini. E stavolta talmente forte da farlo quasi scattare a sedere.

Stavolta non fu l’unica ad averlo notato da come Al si issò sul bordo della piscina con l’aria di un falco che aveva puntato la propria preda.
Quant’è pettegolo.
Violet intanto si disfece del suo pareo stiracchiandosi con voluttà. “Grazie per avermi invitato, cheri.” Apostrofò Michel baciandogli la tempia. “Nicky segue la cova di una di quelle sue orrende lucertole giganti e mi annoiavo da morire a casa.”
Pas de problème.” Le rispose con la testa persa in tutt’altri pensieri.
Non volendo assistere alla circonvenzione di incapace ad opera della piccola serpe di famiglia, adoratissima ma comunque tale, Rose si alzò in piedi. “Violet, ti va un tuffo?”
“Perché pensi che sia venuta in un oasi di maghi gay e palestrati?” Fu la replica. “Persino Potter ha una sorta di muscoli!”

“Io vado a correre e gioco a Quidditch tre volte a settimana … è muscolatura sana, non la devo esibire.” Rispose il cugino stiracchiandosi e mostrando a mo’ di scherzo un fisico che dieci anni prima nessuno avrebbe previsto, neppure Fiorenzo con tutte le sue foglie di salvia ed astri.
Credo che Jamie non gli abbia mai perdonato di non essere rimasto rachitico.
“Non impressioni nessuno, Potter. Di certo non la sottoscritta.” Replicò divertita Violet, il cui amore per gli appartenenti alla casa di Salazar era cosa nota. “Weasley, mi sto squagliando, sbrigati.”
“Agli ordini.” Sbuffò disfacendosi degli occhiali e seguendo l’altra lungo il bordo piscina.

 
“Allora?”
Albus era quanto di peggio potesse esserci come amico quando avevi un cruccio che volevi mantenere personale. Perché non solo si incuriosiva, ma non mollava la Pluffa finché non cadevi esausto implorando pietà.

Lo vide quindi saltare in piedi e ravviarsi i capelli che rimasero tutti dritti in angoli imbizzarriti. Finse di godersi la vista, perché al di là di tutto quella pelle pallida ma tonica esposta era un balsamo per gli occhi. “Sì pulcino, sei una visione per gli occhi. Credo che Steven stia avendo un’erezione laggiù.”
Albus neppure si girò a controllare, sedendosi invece sul bordo della sua sdraio e chiedendo spazio con un colpetto di dita. “Sto parlando di te. E di Meinster.”
Si distese dando di nuovo il viso al sole. “Io no.”
“Violet non l’ha fatto apposta, neanche si ricorda che ti stai… ahia!” Esclamò quando gli pizzicò il fianco.
“Non far finta di esser sorpreso!” Continuò sedendosi al sicuro sulla sdraio precedentemente occupata dalla Weasley per poi spalmarsi di gran lena del balsamo protettivo solare. “E, ti ricordo, sei stato tu a parlarmene per primo!”

Lo ignorò. Non voleva parlare di Emil, perché parlarne avrebbe significato ricordarsi della scelta di fronte a cui suo padre l’aveva messo.
Dannato bastardo egoista. Si aspetta che accetti e vada avanti.
Si sentiva morire all’idea di dover affrontare la cosa, ed Emil soprattutto, quindi aveva preferito prendersi un paio di giorni per sé, dato che fortunatamente il loro rapporto non era tale da aver delle scadenze giornaliere da rispettare.
Sì, però adesso ti manca.
“Mike?” La voce di Al lo riscosse e quando aprì gli occhi si specchiò in quelli chiari e affettuosi dell’amico. “Sul serio, va tutto bene con il tuo violinista?”
Quei dannati occhi gli avrebbero fatto effetto sin nella tomba. “No.” Ammise nascondendosi dietro le lenti spesse e riflettenti. “Mio padre è venuto a saperlo.”
E da lì in poi fu un fiume di informazioni, di racconti e di rabbia. Al non aprì bocca finché non ebbe finito. “Tuo padre è così bastardo che potrebbe far venire i complessi di inferiorità a Voldemort.” Commentò alla fine in tono neutro, ma con gli occhi che scintillavano di sacra collera e voglia di giustizia.
Potter fino al midollo. Serpeverde questo non gliel’ha potuto lavar via.
“Mio padre ha agito in maniera prevedibile. Dal suo punto di vista ho un vizio che può svantaggiami. Vuole che lo sradichi e per farlo è stato disposto a concedermi quello che voglio.” Gli venne quasi da ridere se non avesse avuto voglia di affogarsi nel punto più fondo della piscina.  
“Rimane un bastardo.”
“Questo è indubbio.”
“Cos’hai intenzione di fare?” Che era un po’ la domanda che gli frullava nella testa impazzita da quando si era congedato da quel pranzo agghiacciante. Razionalmente sapeva cosa: aveva lavorato troppo duro e aveva ingoiato troppi rospi per lasciarsi sfuggire la sua forse unica possibilità di carriera in un campo dove i treni potevano passare una volta sola.

Significava tra l’altro niente più pratiche sloga-polso, niente più ridicole madri di famiglia pettegole come colleghe o compiti ingrati da scrivano. Significava raggiungere il gotha del potere magico e rimanerci, significava pranzi di lavoro con Ministri e dignitari di corte. Significava prestigio.
Se rinuncio, non credo proprio mio padre mi lascerà tentare di nuovo. O con lui, o senza di lui.
Era innamorato di Emil, certo, tanto che  si sentiva strappare il cuore all’idea di dover rinunciare alla sua compagnia, alla sua musica, alle sue attenzioni … a lui.
Ma l’amore viene come se ne va.
Ne aveva l’esempio davanti: aveva creduto di amare Albus Potter al punto da non poter concedere il suo cuore a nessun altro, eppure era riuscito a farsela passare.  Poteva farlo di nuovo.
“Ci conosciamo soltanto da un paio di mesi … e non ci siamo fatti promesse. Oltretutto, tornerà in America a giorni.”
“Ed è un Magonò.”  
“Anche quello.” Mormorò tenendo gli occhi chiusi e lasciandosi arrostire dal sole.
“Perdere un’occasione simile per un colpo di testa sarebbe stupido, è vero. E poi, se erano solo scopate…”
“Non sono solo scopate.” Replicò forse più asciutto del necessario. Anche se Albus era in grado di essere insensibile come pochi quando voleva.

“Non intendevo dire…”
“Invece sì.” Tagliò corto. “Ma non è solo sesso. Non più almeno. C’è altro. Molto altro. Emil riesce a vedermi per quello che sono. Sai quant’è difficile trovare una persona così?” Perché poteva scegliere di lasciarlo, ma non l’avrebbe mai sminuito. Mai.

Al per tutta risposta alzò gli occhiali e lo squadrò da capo a piedi. “Ma allora di che cavolo stiamo parlando?”
La domanda lo colse di sorpresa. “ … come scusa?”
“Se sei innamorato di lui ti lasci ricattare da tuo padre senza reagire?” Il tono era incredulo e capì di esserci cascato con tutte le scarpe. L’aveva portato ad un’ammissione fatta per rabbia. L’aveva manipolato.
Sta diventando troppo bravo. Ho creato un mostro.
“Non è così semplice.”
“Per come me l’hai raccontata sembra di sì. Tuo padre non vuole che tu lo frequenti, così punta i piedi e ti offre un dolcetto sperando che tu ti distragga e perda il giocattolino.”
“Non è…”
“Sì che lo è. Ha fatto questo ragionamento da sociopatico, te lo garantisco io, che della categoria me ne intendo.” Ribadì con tono adeguatamente cattedratico. “È uno stronzo.”
“Ti intendi anche di quelli?”

“Ovvio, ne amo uno. Sono il massimo esperto.” Si infilò di nuovo gli occhiali e volse il viso al sole tornando alla posizione di prima. “Comunque segui il mio ragionamento. Se di Milo ti fosse importato poco o niente avresti avuto solo da guadagnare. Tuo padre pensa che tu abbia perso la testa e ti dà quello che vuoi da anni? Perfetto! Ma non si è sbagliato … la testa tu l’hai persa davvero.”
Non poteva negarlo quel punto. “Quindi in ogni caso perdo qualcosa.” Mormorò perché non c’erano altre conclusioni da dare.

Al fece spallucce. “Dipende dall’entità della perdita … sempre che tu voglia ragionare come se stessimo parlando di finanza e non di ragazzi.” Lo prese in giro, ma quei termini mettevano entrambi a proprio agio, quindi continuò su quella riga. “La promozione è la tua grande occasione, ma Mike … trovare una persona che ci fa sentire come se valessimo qualcosa è il guadagno più enorme del mondo.” Fece un mezzo sorriso. “Ci rende persone migliori. Tutto il resto passa in secondo piano.”
“Ho lavorato da quando mi sono diplomato per avere quest’occasione…”
“E non ti ho mai visto così felice come quando stai rischiando di perderla. Questo non ti dice niente?” A chiosa si strinse nelle spalle, facendogli desiderare tantissimo strangolarlo.

Perché aveva ragione.
 
****

Devon, Il Mulino.
Ora di cena.

 
Ginny mise l’ultimo segno rosso ad un poco promettente articolo di un altrettanto poco promettente pubblicista appena assunto e ficcato subito sotto la sua riluttante ala … e sorrise. Perché, per quanto correggere bozze zoppicanti non fosse la sua tazza di the, doveva ammettere che nel silenzio della cucina, con il profumo lieve di una torta al limone che stava cucinando nel forno e una buona tisana profumata, si poteva quasi raggiungere il nirvana.
Harry è ancora in ufficio. Potrei mandargli un Gufo e gongolare un po’…
Cosa che le avrebbe assicurato un marito in vena di fargliela pagare quella notte, il che non era necessariamente un male. Valutò con serietà l’ipotesi prima di sentire la porta di casa chiudersi e i passi della sua unica figlia irrompere nel corridoio.
Nirvana interrotto.
“Ciao Lily!” La salutò ad alta voce rimediando un mugugno non impegnativo. “Vuoi un po’ di tisana?”
Perché se sua figlia tornava così presto dalla City potevano significare solo guai.
La suddetta infatti entrò in cucina con gli occhi gonfi e rossi. “Sì, mi farebbe proprio comodo…” Convenne scivolando su una delle sedie e guardandosi le unghie con grande interesse.
Ginny pose una tazza fumigante a portata di figlia e si risedette. “Tutto bene?”
“No … cioè. Boh.” Un sorso vigoroso e un tirar su di naso. “Io e Scott ci siamo lasciati.”
La sorpresa della notizia la fece rimanere in silenzio più di quanto avrebbe dovuto da come venne squadrata dalla figlia.
“Mi dispiace.” Disse sincera perché Ross era il ragazzo che ogni strega voleva vedere accanto alla propria figlia. Aveva sempre pensato fosse un po’ troppo ordinario per la sua, ma del resto nessuna strega si innamorava e soprattutto finiva assieme al principe azzurro dei suoi undici anni.
Beh, tranne me, okay.
“Non avevo capito foste in crisi.” Continuò cauta, perché era la prima volta che la vedeva tanto sconvolta per una rottura.
Vero anche che il resto dei ragazzi non li ha portati in famiglia. Di loro ho sempre e solo saputo i nomi.
“Vuole tornare in Australia.” Fu la risposta con successivo sorso di tisana. “Io non voglio.”
“Per quanto tempo?”
“Una vacanza … però ha anche parlato di trasferirsi.”
Ah sì?
C’era qualcosa che non le stava dicendo. “Non avete neanche parlato di un rapporto a distanza?”
“Non è roba per me.”
Altra bugia, e stavolta talmente grossa che la figlia si perse nelle profondità dei fondi erbacei della sua tazza. “Mi dispiace.” Ripeté mettendole una mano sulla sua. “Scott è un bravo ragazzo e piaceva anche a tuo padre … Ma se hai deciso che non vuoi continuare, è meglio averglielo detto subito invece che aspettare di essere a due continenti di distanza, no?”

“Sì, infatti.” Fu il borbottio sfuggente. Si era un po’ ricomposta adesso, e sembrava aver voglia di fuggire dalla stanza. “Cioè, voglio che sia felice … ma non con me.”
Allora non è colpa dell’Australia. Non è più innamorata.

Un cambiamento repentino, visto che fino ad un mese prima era sicura di aver trovato il mago migliore del mondo.
E Lily non esagera mai ciò che prova. Non puoi cambiare così velocemente idea su una persona …
… Se non ti innamori di un’altra.
“Hai conosciuto qualcun altro?” Le chiese con tono leggero ed ebbe la sua risposta quando questa avvampò come se l’avessero accusata di qualche efferato crimine. Le tornarono anche le lacrime. “Oh, tesoro, non c’è nulla di male ad innamorarsi! Non si può evitare, succede.”
“Ricordati di averlo detto, mi raccomando.” Fu la risposta nervosa, prima che si liberasse dalla sua stretta e si alzasse in piedi.
Perché dovrei… Oh.
Ginny si era sempre ritenuta una persona intuitiva e per questo, quando sua figlia la guardò come a chiedere scusa, con il viso rosso e gli occhi che non le brillavano di lacrime ma di altro, capì.
“Ti sei innamorata di Sören.” Perché chi altro poteva essere? Le tempistiche tornavano, e così l’incertezza a parlargliene quando tra di loro non si erano mai nascoste niente.
“Lo sono sempre stata.” Ammise con un sorriso nervoso. “Mamma … voglio starci assieme.”
“Non devi giustificarti con me.” Le fece notare, anche se l’idea di aver scambiato un papabile genero come Scott con un ragazzo come Prince non le faceva fare i salti di gioia. Per niente.

Per non parlare di come reagirà Harry…
“No?” Domandò per poi schiarirsi la voce un po’ più sicura. “Perché non voglio nasconderlo, cioè, però …” Balbettò. “È Sören, non vi piace.”
“Ti abbiamo sempre insegnato che si deve seguire il proprio cuore e non l’opinione altrui. Sarebbe ipocrita da parte mia dirti di fare il contrario, no?” Fece un ulteriore sforzo, perché anche se non riusciva a rinunciare del tutto ai suoi pregiudizi, fare la madre giudicante non era mai stato il suo ruolo. “E poi non è che non mi piaccia … È solo che è un ragazzo complicato e avete una storia non proprio positiva alle spalle.”

“Sì, ma ora è cambiato!”
“È vero.” Accettò. “Se sei sicura tu, lo saremo anche noi.”
Le venne risposto con una smorfia. “Anche papà?”

“Con papà ci parlerò io … dopo.” Aggiunse. “La notizia devi dargliela tu. Se lo scoprisse per vie traverse … Lo sai come diventa quando pensa che gli si nascondano le cose.”
Lily roteo gli occhi al cielo, scambiandosi un sorriso che parlava di quanto amassero entrambe quel testone impossibile e come fosse necessario, per questo, avere tutta la pazienza del mondo. “Glielo dirò. Prima però devo dirlo a Sören.”
“Cioè?”
Lily scosse la testa con un’espressione così affettuosa che non poté non tifare un po’ quella neonata unione. Se Prince riusciva a far sorridere così sua figlia non doveva esser poi una scelta tanto scriteriata. “Non ha voluto ufficializzare niente finché non avessi chiuso con Scott.” Le spiegò. “È un mago vecchio stampo.”
“Quindi vi siete accordati solo a parole?” 
Lily sbuffò. “Beh, no, quello no.” Esitò. “Quindi … ecco, è questo il motivo per cui tra me e Scott è finita.”
“Non l’avrei mai immaginato.” Ironizzò. “Spero solo che sia una scelta che ti renda felice… perché è tutto quello che desidero per te e i tuoi fratelli.”
“Penso di sì.” Le sorrise. “Penso proprio di sì.”

 
 
Avrebbe voluto esser felice del fatto che si apriva un nuovo capitolo della sua vita, e che sopratutto riguardava lei e Sören. Finalmente.
Avrebbe voluto, ma la realtà è che non riusciva a godersi quel momento perché per farlo aveva dovuto lasciare Scott.
Lily si lasciò cadere sul letto a peso morto e cercò a tentoni la bacchetta nella borsa. Quando l’ebbe trovata sintonizzò la radio su una stazione Babbana sperando che la musica la cullasse senza pensieri.
 
On another love, another love
All my tears have been used up…

 
Sul serio?!
La spense irritata e affondò il viso nel cuscino. Non aveva mai lasciato qualcuno a cui aveva davvero voluto bene, quindi quella sensazione di colpa era nuova. E orrenda. Tale che persino quando Sören l’aveva chiamata dopo l’incontro aveva digitato un veloce messaggio di scuse e poi aveva spento il cellulare.
Non che Scott avesse fatto scenate o le avesse rinfacciato niente. Anzi. Ed era proprio quello il problema.
Lasciandolo si era ricordata del perché si era innamorata di lui.
 
Si erano visti al solito bar, quel Fortebraccio che aveva visto il nascere ed evolversi della loro storia. Lily quando si era seduta aveva ricordato come al loro primo appuntamento avessero scoperto di adorare entambi il cioccolato.
“Com’è andato il battesimo?” Aveva offerto Scott con uno di quei suoi sorrisi miti che non avrebbe mai scordato finché campava.
“Bene … cioè, solita festa Weasley.” Non era riuscita a dire altro, affondando il naso nel bicchiere. “Scott, io…” Doveva liberarsi di quel peso eppure non voleva. Perché non voleva spezzare un cuore quando si era impegnata ad accenderlo. Le sembrava di commettere un omicidio.
“L’ho già capito Lils.” L’aveva fermata l’altro. “Credo che oggi serva solo per salutarci.”
“… quindi parti?” Era troppo facile. Non era giusto. Avrebbe dovuto insultarla, dirle che era un’ingrata, una persona orrenda, una megera.

“Domani.” La corresse. “Ho messo a posto le ultime cose ed ho dato le dimissioni dall’Archivio.”
“Quindi non torni?”
E perché avrebbe dovuto? le disse la voce maligna della sua coscienza. Hai distrutto tutto quello che di bello c’era a Londra per lui. Sei stata tu a portarcelo, e ora sei tu a cacciarlo.
“Non penso, no.” Si strinse nelle spalle. “Almeno per un po’ … Te l’ho detto, voglio diventare un giornalista sportivo, e per ora il mercato inglese è saturo. Magari quando mi sarò fatto un nome.” Le sorrise persino. “Cosa per cui conto di sgobbare duro.”
“Mi dispiace.” Il succo di edera le si stava scaldando tra le mani e avrebbe fatto schifo. Non che avesse voglia di berlo. “Non volevo…”
“Lo so.” La fermò di nuovo. Sembrava voler mettere un punto a tutte le sue frasi prima del tempo. Non che non lo capisse; quello che stava dicendo era prevedibilissimo, il classico necrologio di ogni rapporto. “Neppure io volevo, pensavo che il nostro futuro sarebbe stato assieme … ma è andata così.”

Lily lasciò il succo d’edera al suo caldo destino e inspirò. Non prese le mani di Scott, perché non se lo meritava, ma non voleva neppure star zitta e lasciar che l’altro si assumesse tutto il peso della conversazione. Anche se era proprio da lui. “Non ti ho mai mentito su quel che provavo, Scott. Ero davvero innamorata di te, e anche io ho pensato che potessimo … che potessimo durare.” Si fermò a riprendere fiato, ma non riusciva ancora a guardarlo in faccia. “… poi è successo. Sören è tornato e credimi, l’ultima cosa che volevo era innamorarmi di lui. Ed hai tutto il diritto di odiarmi…”
“Non ti odio.” Fu lui a prenderle la mano e stringerla. Sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero toccati ed era una cosa così strana, sapere che una persona che era stata parte di lei se ne andava per sempre che scoppiare a piangere fu cretino, ma inevitabile.

Scott era e sarebbe sempre rimasto il mago solido e meraviglioso che era, perché si alzò e le si mise accanto, abbracciandola. “Ehi, dai … basta, Lils.” Gli sentì dire. “… va bene così.”
Non andava bene, ma sperava che avrebbe finito per esser così, e per entrambi.
Quando si fu calmata non tornò comunque al suo posto, porgendole un fazzoletto ed aspettando che finisse di singhiozzare a vuoto. “Spero che tu sia felice.” Le disse.
“No che non lo speri.” Borbottò soffiandosi il naso senza troppe cerimonie. Non doveva certo impressionare nessuno. “… come potresti dopo quello che ti ho fatto?”

Scott sbuffò. “Invece sì. Mi pensi tanto patetico da volerti ancora dopo che mi hai detto che non mi ami più? Ho avuto giorni per pensaci, sono sicuro di quel che ti dico.” Le fece una carezza sulla testa, facendola sentire piccola, sciocca e molto confortata. “Terrò sempre a te, piccola inglese pazza. Solo non credo di poterlo fare da qui. Devo mettere un po’ di miglia, capisci?”
Meglio di quanto tu possa credere. Cosa pensi che abbia fatto per togliermi dalla testa Ren?
“Sì.” Tirò su con il naso, porgendogli il fazzoletto dopo averlo pulito sommariamente con un Gratta e Netta.  
Respinse la sua mano. “Tienilo tu, così almeno ti ricorderai di aver pianto per questo povero scozzese.”
“Non mi scorderò di te!” Esclamò incredula, poi intuì che scherzava e sorrise appena di rimando. “Grazie ragazzone.”

Scott annuì con un sospiro. “Spero che tu abbia preso la decisione giusta con Prince.” Vedendo la sua espressione si affrettò a spiegarsi. “Non credo sia capace di prendersi cura di qualcuno, specialmente di una ragazza. Ma magari mi sbaglio.”
“Non lo so.” Ammise perché essere onesta era l’unica cosa che poteva offrirgli a quel punto, e non l’avrebbe lesinata, neppure per difendere il mago che amava. “Ma faremo entrambi del nostro meglio.”
Si salutarono con un abbraccio. Poi Scott le fece un cenno della mano e si Smaterializzò. Fuori dal locale e dalla sua vita.
 
Stava di nuovo piangendo ed era francamente imbarazzante. Sentirsi così sollevata di aver chiuso un rapporto senza urla era l’antitesi di quello che avrebbe dovuto provare. O forse la sintesi.
Faccio schifo nei rapporti umani. Io e Tom dovremo fondare un club.
La radio era silenziosa, e così il resto della casa anche se sua madre era al piano di sotto. Fu quindi naturale sentire con chiarezza una serie di piccoli sassolini lanciati alla sua finestra.
… oookay, ho di nuovo sedici anni e Patrick Collins è venuto a trovarmi di nascosto dalla sua istericissima madre?
Aprì la finestra e si affacciò al balconcino: non era Patrick Collins, ovviamente, ma Sören che cercava di non pestare i tulipani che sua madre aveva piantato selvaggiamente per tutto il giardino.
“Ciao.” La salutò tutto tranquillo. “Stai bene?”
“Che ci fai qui?!”
Venne contemplata con sorpresa. “Sono venuto a controllare che stessi bene. Hai staccato il cellulare ed ai Gufi non rispondi mai.”  
“La scorta è con te?”
Sören aggrottò le sopracciglia come se non si fosse aspettato la domanda, quando era la più logica che potesse fargli. “No. È per questo che sei arrabbiata?”
“Preoccupata!” Rispose di rimando incredula. “Sbaglio o John Doe ti ha aggredito neanche una settimana fa? Hai almeno avvertito Milo che venivi da me?” Non sapeva se baciarlo o dargli un calcio e poi baciarlo. Sören ebbe la decenza di assumere un’aria imbarazzata. “Milo sì, gli ho chiesto di non riferirlo alla scorta. Di coprirmi. Sarebbe stato difficile spiegar loro perché volevo Materializzarmi nel giardino del Capo Auror.”
Beh, in effetti.

“Sto bene.” Rispose appoggiandosi alla ringhiera e sentendosi di colpo molto stanca. E bisognosa di coccole. “È finita con Scott. Ci siamo lasciati.”
Sören assunse l’aria concentrata di chi tentava senza speranza di non esultare. “Non posso dire di essere dispiaciuto data la mia posizione nella faccenda.”
Brutto scemo.
Lo amava così tanto. Ma non quella sera, non poteva. “Ren … non me la sento di festeggiare.”
L’altro con sua sorpresa non sembrò infastidito. Annuì. “Posso immaginarlo. Ma non sono qui in qualità di tuo ragazzo.”
“No?”

“Questa è la mia ultima sera come tuo migliore amico. È per questo che sono venuto. Sei triste, non voglio lasciarti sola.” Si ficcò le mani nelle tasche del giubbotto da cattivo ragazzo che non poteva nascondere il fatto fosse la persona più dolce del mondo. “E … non è una scusa.”
È mio, care streghe e Babbane. Sciò.
Sorrise, perché le stava dicendo la verità: sarebbe stato sul serio capace di dividere un barattolo gigante di gelato e guardarsi un film con lei senza sfiorarla con un dito.
“Sali. Abbiamo un film terribilmente sdolcinato da vedere.”
 
****
 
Lancashire, vicino Preston.
Sera.
 
“Loher, ho bisogno di buone notizie.”
Johannes conosceva la paura. Era quella dipinta sul volto del suo patetico interlocutore.

“Doe, devi darmi tempo di lavorarci.” Ribatté comunque con una certa arroganza, dovuta al suo camice e alla mezza dozzina di assistenti che gli sciamavano attorno come grossi tafani curiosi.
Non era il caso di fargli guadagnar terreno; lo afferrò per il bavero della giacca e gli puntò la bacchetta alla gola, mentre gli altri maghi si affrettavano a tornare ai loro compiti chinando la testa.
“Ripeto. Buone. Notizie.” Scandì con lentezza guardandosi attorno. “Non fate altro che sembrare indaffarati, ma non ho neppure un risultato. Ti ho portato il sangue del mostriciattolo. Perché non mi hai ancora dato l’antidoto?”
Il Pozionista annaspò alla ricerca d’aria e fu costretto a concedergli del respiro. “Perché non è così semplice!” Ansimò tossendo e toccandosi la gola spaventato. “Il sangue di Prince è in equilibrio, ma non è una condizione che può essere riprodotta nelle cavie senza effetti collaterali. Abbiamo estratto gli anticorpi presenti nel campione e li abbiamo iniettati nel loro flusso sanguigno ma ha portato a scompensi tali che due di loro sono morti. Inceneriti … hanno raggiunto il punto di saturazione prima del previsto.”
“Perché?” Dubitava che capire perché la loro cura non stava funzionando avrebbe placato l’impazienza degli acquirenti, specie se parlava di cose astruse e filo-Babbane come anticorpi e sieri, ma doveva pur trovare un modo per prendere tempo.
O saremo fottuti.
Loher si rassettò il camice nervoso e quando fu certo che non l’avrebbe strapazzato ancora si arrischiò a impettirsi un po’. “Gli anticorpi sono personali come una bacchetta. Non può prenderli e darli a qualcun altro ed aspettarti che facciano il loro lavoro.”
“Avevi detto che avrebbe potuto funzionare.”
“Perché nel mondo Babbano c’è stato un precedente positivo a questo procedimento. Alcuni pazienti malati di difterite sono stati curati iniettando loro del siero estratto da topi di laboratorio immunizzati …  e poi, è la stessa strada che stanno percorrendo al San Mungo.” Aggiunse come per giustificarsi. “Il problema è che stiamo parlando di una malattia magica. Stiamo facendo il possibile, ma quando la Spruzzolosi fu scoperta ci vollero anni prima di trovare una cura. Tu mi stai chiedendo giorni!”

“Perché è ciò che abbiamo.” A quanto gli aveva detto il suo contatto americano e da quanto aveva scoperto quando la camera della Gringott era esplosa forse neppure quelli.
Gli auror ci stanno accerchiando.
“Ascoltami bene.” Disse. “Quante delle cavie sono sopravvissute al trattamento?”
“Tre elementi, perché?”
“Puoi renderle operative?”
“Ma se ho appena detto…”
“Non su basi stabili.” Lo fermò. “Puoi farlo?”

“Con bracciali di controllo e sotto Imperium forse ...” La testa glabra di Loher stava lavorando febbrilmente ed era uno dei motivi per cui non si era ancora sbarazzato di lui: a volte un solo cervello servivano più di decine di muscoli. “… ma sarà comunque impossibile presentarli ai compratori senza che notino il problema.”
“Non mi servono per i compratori.” Gli mise una mano sulla spalla e sogghignò: forse dopotutto gli aveva dato delle buone notizie. Ancor meglio, notizie utili. “Mio buon Immanuel, conosci il detto se vis pacem para bellum?”
“Se vuoi la pace prepara la guerra.” Tradusse da diligente ex pupillo di Durmstrang. “Non capisco.”
“Cosa c’è da capire, mio topo da laboratorio? Siamo in guerra. Ed è ora di smettere di difenderci.” Sorrise. “Attacchiamo, ti va?”
 
****

Note:

E non dite che non è enorme! Perché oggettivamente lo è. Ehm. Le cose mi sono sfuggite un po’ di mano.

Manca Tom, come avevo promesso, ma beh, provate a toglierlo dalla stanza in cui mi si è rinchiuso! Sta lavorando per noi! XD
Questa la canzone del capitolo. E questa la canzone che si becca Lily. Insomma, salutiamo Scott come si deve.
Tom Odell farà nuove comparse, perché è bello, biondo e canta roba che posso usare. Yay!
Buona domenica di pioggia gente, e grazie per la pazienza!





 

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Capitolo 41
*** Capitolo XL ***


Capitolo XL





Grow old with me, let us share what we see
And all the best it could be, just you and I
(Grow Old With Me, Tom Odell)


30 Luglio 2028
Devon, Il Mulino. Mattina.
 
Quella mattina toccava a lei fare la stalker del povero dormiente.
Lily si era svegliata all’alba con un sete indicibile e quando era tornata a letto, dopo un paio di minuti di dormiveglia delizioso, la sua testa aveva cominciato ad ingranare e da allora non c’era più stato verso di ritornare tra le braccia di Morfeo.
Sören invece non si era pressoché mosso, e tutt’ora dormiva sulla schiena tutto rigido, quasi fosse pronto a scattare in piedi al minimo segnale di pericolo: nulla di cui preoccuparsi, da che lo conosceva l’aveva sempre visto riposarsi così.
Contento lui. Io morirei di maldischiena.
Era rimasta un po’ a guardarlo, riuscendo persino a rilassarsi al ritmo del suo respiro regolare. Non appena però aveva provato a posare la testa sul cuscino un pensiero l’aveva infilzata come un pollo allo spiedo.
Oh, ehi. Te lo ricordi? Se ne va tra ventiquattro ore. 
La Passaporta maledetta era datata 31 Luglio dato che Sören non era riuscito a riavere il caso e quindi, secondo le ridicole leggi dell’Inghilterra, addizionate alla testa dura di suo padre, doveva andarsene.
Ciao ciao sonno. Benvenuta angoscia.
Aveva passato ore a congetturare idee e cercare soluzioni prima di arrendersi all’evidenza della sua incapacità di pensare ad altro che rapirlo e farsi beccare nel giro di due ore. Si era quindi spostata sul davanzale della stanza e aveva tentato di distrarsi con un libro che prendeva polvere sul comodino da almeno due mesi.
Non era riuscita ad andare oltre la seconda pagina.
Perché Sören era lì, dormiva nel suo letto ma se ne sarebbe andato lasciandola di nuovo sola.
No, beh, non sola. Ma ad un oceano di distanza, che non è poco…
Cinque anni prima sarebbe scesa di un piano per gridare le sue giuste ragioni e pretendere doverose attenzioni da suo padre. Cinque anni dopo aveva accettato che le cose non funzionavano così.
E poi Ren mi spellerebbe viva se mi mettessi in mezzo. Stupido orgoglio maschile!
La razionalità le diceva di non pensarci, di godersi quegli ultimi momenti, e magari pure senza vestiti visto che Sören si era già portato avanti dormendo solo con i propri pantaloni addosso.
Sei una strega libera adesso. Quindi datti da fare. Carpe diem!
E forse doveva darle retta.
“Ren.” Lo chiamò, solo per provare, solo per vedere se poteva.  
Non servì chiamarlo due volte, perché l’altro si alzò a sedere con una fluidità un po’ inquietante visto che fino a due secondi prima sembrava nel mondo dei sogni. “Dimmi.” Disse schiarendosi la voce roca, e molto maschia.
“… Hai il sonno leggero.” Constatò come un idiota.
“Sì.” Le venne risposto con uno sbadiglio tranquillo. “Perché non riesci a dormire?” La faccia era insonnolita, ma gli occhi erano lucidi e attenti e questo la fece sentire in colpa e un po’ stupida.
Lo stai facendo preoccupare. Oltre Ogni Previsione Potter, complimenti. Non potevi infilarti nel letto e svegliarlo in modo più piacevole? Noooo, meglio chiamarlo come una bambina di cinque anni che deve andare in bagno.
“Sonno leggero?” Offrì stringendosi le spalle e maledicendosi per aver indossato il pigiama meno sexy della storia dei pigiami. Era il suo preferito, il più comodo e rosa, ma non era un colpo d’occhio conturbante visto dal letto e da un uomo appena alzato.
Ieri notte è crollato addormentato a metà del film, ero stanca quanto lui e…
E non aveva proprio pensato di pianificare una seduzione mattutina dato il senso di colpa verso Scott.
“Tu non hai il sonno leggero.” Ribatté Sören passandosi una mano trai capelli e facendoseli ripiovere inesorabilmente sul viso. Milo era uno stilista impeccabile, ma non faceva i conti con l’insofferenza per il disordine del proprio assistito. Era comunque adorabile con i capelli arruffati e il broncio infastidito. 
“Certo che c’è l’ho.” Ribatté riflettendo sull’ipotesi di Trasfigurare il coso che indossava con un negligé conturbante non appena l’altro si fosse distratto e avesse smesso di guardarla come se fosse l’unico punto focale della stanza.
“No invece.” La contraddisse. “Hai sempre dormito di gusto quando mi hai rubato il letto.” Le sorrise. “Stavolta temo sia accaduto il contrario. Sono un compagno tanto fastidioso?”
“No, anzi.” Come poteva incedere sensuale quando il suo pigiama aveva i coniglietti? Era una cretina. “Ti dispiace se mi cambio con qualcosa di più comodo?” Suggerì suggestiva.
Per tutta risposta venne guardata in totale perplessità. “Più comodo di quello che già indossi?”
Lo sapevo, è un ammazza-sesso! Per questo Scott non mi ha mai visto con questa roba addosso.  
“Più adatto.” Tentò di nuovo con un sorriso che avrebbe dovuto essere una dichiarazione di intenti piuttosto esplicita. All’altro doveva bastar quello: per togliersi di dosso il pigiama della vergogna – dannazione, la sua bacchetta era sul comodino – avrebbe dovuto infatti sfilarselo dalla testa.
Sören aggrottò le sopracciglia. “Più adatto a cosa?”
“A… dai.”
“Lily, non capisco.”

Oh Santa Morgana.
“Per andare a raccogliere rape! Secondo te?” Sbottò esasperata e presumibilmente dello stesso colore di ciò che avrebbe dovuto cogliere. Era la regina indiscussa della seduzione – autoproclamatasi, ma comunque – e in quel momento si sentiva imbranata come un adolescente al Ballo del Ceppo.
“… ah.” Capì infine.
“Eh!”
Sören non le rispose: si mise a ridere.
Lo ammazzo. Giuro che lo ammazzo.
Fu tentata di tirargli il libro, ma poi trovò del tutto ragionevole impugnarlo come un arma contundente e andare a sbatterglielo sulla testa. Sören, che era uno stramaledetto agente segreto, anticipò la sua mossa da come si coprì la testa parando il fendente.  “Lily, basta!” Esclamò tra le risate. Delizioso: riusciva ad esilarare il tipo più austero del mondo con i suoi tentativi di seduzione.
Come far sprofondare la propria autostima in dieci secondi.
“Sei un idiota!” Trovò giusto comunicargli. “Fuori dal mio letto!”
“Lo farei se smettessi di tirarmi cose in testa!” Ridacchiò e poi afferrò il polso con  una facilità che rese evidente quanto non avesse neanche bisogno di difendersi. “Perché sei arrabbiata?”
“Perché stai ridendo!” Aveva davanti una stupidissima testa di bacchetto quindi era doveroso esplicitare. “Ci hai messo un’ora a capire cosa ti stavo chiedendo e poi ti sei messo a ridere!”
Sören a quel punto assunse un’espressione colpevole. “Non ridevo di te.” Si giustificò sfilandole il libro di mano e posizionandolo al sicuro sul comodino. “Ero divertito dalla situazione … e dalla tua faccia.”
“Della mia faccia?!”
Sören si schiarì la voce, segno internazionale di marcia indietro. “Mi sono espresso male.”
“Riprovaci.” Ringhiò. “Hai una sola possibilità.”
“Ridevo…” Si guardò attorno con un certo panico, che sarebbe stato adorabile se non avesse avuto voglia di appenderlo per gli alluci al segnavento di casa. “… ridevo dell’assurdità di quel che stavi facendo.” Intuendo che non stava affatto tirando acqua al suo mulino si affrettò ad aggiungere. “Perché non serve.”

“Non serve cosa?”
“Che tu ti cambi. O che tu mi … mi seduca.” Si schiarì di nuovo la voce e studiò con interesse la trapunta. Persino appena sveglio riusciva ad arrossire come un semaforo. “Basta che tu mi stia vicina per … per dovermi frenare.”
“Oh.”
Bella giocata, Ren.

Era giusto riconosceglierlo. “Indosso un pigiama orribile.”
“Non l’ho neanche notato.” Lei però notò come l’altro tirò a sé le coperte dalla vita in giù. Dovette ingoiare un ghigno trionfante perché non stava bene in una signorina di buona famiglia. “Per me sei sempre bellissima e … desiderabile.”
Adorava quelle piccole pause imbarazzate, e le occhiate rapide che le lanciava per controllare la sua reazione. “Quindi tutta la fatica che faccio per vestirmi e truccarmi è sprecata?” Lo stuzzicò fingendo un tono seccato.
Sören parve annientato all’idea di essersi cacciato in guai peggiori. “Non volevo dire questo … mi piacciono i tuoi vestiti e quello … le cose che … il trucco?” Sussurrò atterrito. “Temo di essermi spiegato male.” Fece una pausa. “Molto male.”
“Sei stato fin troppo chiaro.” Proclamò severa. Non gli diede il tempo di scongiurare perdono che gli passò le braccia attorno al collo e lo baciò. Perché sia come amico che come ragazzo era lo scemo più adorabile in cui si fosse mai imbattuta. Ma più come ragazzo.

Sei il mio ragazzo. Mio. Ah.
Se Sören era lento a capire i sottotesti verbali non lo era però a capire quelli fisici da come la rovesciò tra le lenzuola, incurante del pigiama a coniglietti e tutto il resto. Ed era una cosa che si sentiva bene.
Però!
“Le parole tra di noi, almeno in questi frangenti, fanno più danni che altro.” Gli fece notare, socchiudendo gli occhi deliziata all’iniziativa presa dall’altro con la scia di baci sul collo. “Dobbiamo essere più fisici.”
“Tutto quello che desideri, mia Lilian.” Le mormorò baciandole la guancia, in un moto di tenerezza misto a passione che la fece sciogliere tutta. Lo voleva, e non gli importava un accidente di scadenze, di ritorni in patria e pareri genitoriali. Se cogliere il momento era tutto quello che avevano, diamine l’avrebbero colto alla grande.
 
“Lily, sveglia! Stai facendo tardi al lavoro!”

Sul serio?!
Era chiaro, viveva in una sit-com Babbana di quarto ordine, perché non era possibile che ogni volta tentasse di passare del tempo di qualità con il suo tedesco qualcuno li interrompeva. Qualcuno che aveva la voce di sua madre che la chiamava dal piano di sotto peraltro ed era dunque in grado di provocare una doccia fredda di forte entità a tutti e due.

Sören inspirò brusco e disse qualcosa in tedesco che assomigliava ad una parolaccia inglese per poi staccarsi da lei. “Lily, ti ho detto che sono disposto ad aspettare…”
“Me lo ricordo.” Rispose abbassandosi il bistrattato pigiama e ravviandosi i capelli. “Ancora della stessa opinione?”

“No.”
“D’accordissimo su tutta la linea.”
Si scambiarono un’occhiata e si sorrisero. “Oggi parlerò con mio padre e lascerò che i pettegolezzi facciano il resto. Non voglio perdermi più un solo giorno.”
Ora. A questo punto, ora. È domani. La partenza è domani. Al diavolo tutto. E tutti.

Sören si alzò e prese la camicia, piegata prussianamente sulla sua scrivania, per infilarsela. “Vuoi che venga con te?”
Ahaahahah, se vuoi vivere, no.

“Meglio di no, da sola riesco a prenderlo per il verso giusto.” Riassunse per non spaventarlo. Suo padre non era geloso alla stregua di zio Ron ma era comunque un po’ prevenuto verso i ragazzi che gli presentava.
Cioè solo Scott. E per farglielo digerire … ma comunque. Pensieri positivi!
“A mamma l’ho detto ieri sera.” Aggiunse spiando la reazione conseguente.
Sören giocherellò con l’anello che aveva al dito – eccoci, era nervoso – e si voltò con un sospiro. “Come l’ha presa?”
Gli sistemò i risvolti del giubbotto per avere una scusa per allacciargli le braccia al collo. “Bene, tranquillo. Insomma, non può mettersi a far l’ipocrita quando si è sposata uno come papà!”
“Tuo padre è un eroe di guerra. L’eroe di guerra.” Puntualizzò confuso. “Un mago ideale.”
“Sulla carta sì. Ma è stato anche un adolescente deficiente che non l’ha notata finché non l’ha vista in sella ad una scopa e dopo la guerra passava più tempo tra uniformi e Auror che con lei. Credimi, come fidanzato deve aver fatto pena.”

Sören le scoccò un’occhiata divertita, rilassandosi. “Quindi sono un termine di paragone positivo?”
“Per una strega Weasley ci puoi giurare.” Gli premette un bacio sulle labbra. “Non essere nervoso. La mia famiglia è un po’ spaventosa, ma hai affrontato di peggio no?”
“Non che io ricordi.” La prese in giro accettando di buon grado lo schiaffo conseguente alla spalla. “Gli voglio parlare anch’io però.” Aggiunse serio.
“Per chiedergli il nulla osta?”
“Una cosa simile.” Fece una lieve smorfia. “In ogni caso, se le cose andassero male, potrò sempre mettere un oceano tra me e lui…”
Ha realizzato anche lui.

Lo abbracciò e si fece abbracciare stretta per tutta risposta. Non c’era molto da dire del resto.
Sören le fece poi una carezza. “Fino a poco tempo fa non sarei tornato in Inghilterra a meno che non vi fossi stato costretto. Lo sono stato, in effetti…”
Strinse la mano che la sfiorava come se da quello dipendesse la permanenza dell’altro. Forse un po’ era così. “Ed ora?”
Sören appoggiò la fronte alla sua come aveva fatto tanto tempo prima, in mezzo ad un mare nordico in tempesta, che era ora metafora della loro situazione. “Che provino a fermarmi.” 
Erano i sentimenti ad esser cambiati, evoluti. Il messaggio però era sempre lo stesso.
Non ti abbandono.
 
****
 
Diagon Alley, Bottega di Rupert Stevens.
Mattina.

 
“Penso che un altro Artigiano al posto mio ti avrebbe già licenziato.”
“Non puoi, ti sono indispensabile.”
“Dici?”
“Dico.”

Tom non alzò la testa per controllare che l’espressione di Stevens non segnalasse fastidio o ben peggio. Era troppo impegnato a scandagliare i maledetti pezzi di mappa. Già gli aveva fatto un favore ad essersi tolto le cuffie quando gliel’aveva chiesto, visto che vi si diffondeva un concerto per pianoforte di Einaudi (alla Royal Albert Hall, nientemeno) che lo aiutava a focalizzarsi sul compito che si era prefisso.
Avrò ragione di questa ridicola mappa prima di stasera.
L’aveva promesso ad Albus e l’ultima cosa che voleva era sbugiardarsi: ne andava del suo orgoglio.
“Sono curioso, cosa ti distoglie dal motivo per cui ti ho preso in bottega?”
Non c’era dubbio che il suo mentore avesse seguito il consiglio di quella piccola vipera del suo compagno: continuare a bombardarlo di domande finchè non capitolava per esasperazione.
Ne approfittò comunque per stiracchiarsi. “Si tratta della piantina del castello dove gli Auror credono si stia nascondendo la base operativa del Demiurgo.”
Stevens batté le palpebre cieche con sorpresa. “Sarebbe una svolta decisiva.”
“Esatto.” Convenne anche se poi fare una smorfia fu inevitabile. “Solo che la mappa in questione è ridotta in coriandoli. È esplosa assieme alla camera blindata in cui era contenuta.”
Stevens sorrise. “Adesso capisco, te l’ha affidato Albus.”

“Non mi ha affidato proprio niente.” Ritorse perché non era a servizio del Potter di mezzo, per quanto l’intero mondo ne fosse convinto. Affatto. “Abbiamo solo pensato che valesse la pena tentare di recuperarla.”
“Lui non ci sta lavorando?”

Si frenò dal rispondergli male o spostargli lo sgabello perché inciampasse. “È in ospedale adesso.” Sibilò infilandosi le cuffie. “Lasciami lavorare.”
L’uomo ridacchiò, battendogli odiosamente una pacca sulla spalla per poi andarsene ad accogliere un fornitore.
Tom, alfine libero da frecciatine e dalla realizzazione che stava seguendo i dettami del compagno, si ributtò sul lavoro: quel genere di compito lo assorbiva completamente facendogli persino dimenticare di mangiare o di bere – infatti non ricordava se avesse fatto colazione o meno. Forse Meike l’aveva obbligato a mangiare qualcosa.
Fu dopo il ripetere in loop il concerto per la terza volta, un paio d’ore dunque, che trovò qualcosa che lo avrebbe fatto saltare sulla sedia se fosse stato un tipo impressionabile: una frase, mangiata in parte dal fuoco, ma tuttavia ancora leggibile.
 
Invenire Ingressum: Dices Nochtann an t-ionchur …
 
Usò le pinze che adoperava per sezionare nuclei di bacchetta per distenderne i lembi accartocciati: sembravano istruzioni per un incantesimo di localizzazione.
Aveva appena trovato il frammetto che permetteva di localizzare il maniero dei Prince.
Scoperta esaltante, se non fosse che non aveva la minima idea di cosa ci fosse scritto.
Non conosco questo incantesimo. Metà di esso non è neppure scritto in latino. E ne manca un pezzo.
Tra l’altro, l’ultima parte leggibile era in una lingua che pareva gaelico.
Io non parlo gaelico.
Poteva chiamare Al e decidere il da farsi, ma la frecciatina di Stevens bruciava ancora e del resto aveva una soluzione che non avrebbe permesso all’altro di rinfacciargli alcunché.
Chiamò Sören che rispose dopo due squilli. “Thomas.” La voce suonava sorpresa, ma si riprese subito. “Ci sono novità?”
Uno dei pregi del cugino era non perdersi mai in chiacchiere inutili. “Sì, ho bisogno che tu venga alla bottega in cui lavoro. Ho scoperto qualcosa.”
“Dammi l’indirizzo.”
Ci fu una breve pausa mentre gli dettava le istruzioni su come raggiungerlo. “Hai avvertito gli auror?” Fu l’aggiunta pedante.
“No, non l’ho fatto. Prima di gridare alla scoperta ho bisogno di aver conferme che sia tale. Conosci il gaelico, vero?”
“Non al punto di parlarlo, ma sono in grado di leggerlo, sì.” Un’altra pausa. “Parte della mia famiglia veniva dall’Irlanda.”
Gaelico irlandese dunque.
Era quello che gli serviva sapere. “Ti aspetto.” E chiuse la chiamata. Ora non gli restava che aspettare.
 
 
“Devo andare.”
Adesso?
Sören alzò la testa e nel farlo rischiò di farsi infilare una forbice ben appuntita in un occhio. Guardò con dispetto Milo e nel farlo gli venne restituita la stessa espressione.

“… perché starei cercando di tagliarti i capelli.” Aggiunse questo facendo scattare le due lame assieme. “Quindi sta’ buono e fammi finire il lavoro. Capo chino!” Lo istruì piazzandogli una mano sul retto della testa e mettendolo in posizione.
“Sei fastidioso.” Borbottò con la coscienza sporca. “E comunque devo andare davvero … Non hai sentito la telefonata?”
“Non origlio.”
“Sì che lo fai.”
“Certo che lo faccio.” Ammise con una scrollatina di spalle mentre sforbiciava in allegria. “Tu e Dursley siete in combutta? È una buona cosa, no?”

“Immagino di sì.” Ci rifletté un po’, perché la telefonata da parte di Thomas non se l’era proprio aspettata. Certo, lui e suo cugino collaboravano ufficiosamente all’indagine, ma il tramite era sempre stato Albus. “Non lo capisco molto bene.”
“È famiglia.” Tagliò corto dandogli una pacca sulla spalla e facendogli così cenno di aver finito. “La famiglia, principino, è importante … quando ne hai una che vale la pena nominare.”

Sören non rispose: nessuno dei due ne aveva mai avuta una per cui valesse la pena perdere tempo ed energie, se non peggio, ma entrambi erano in grado di riconoscerne il valore.
“Non riesco a considerare Thomas come parte del mio sangue.” Considerò asciugandosi i capelli con un colpo di bacchetta e passandovi una buona dose di gel per tenerli fermi. “La famiglia sono persone a cui puoi affidare la tua vita … non siamo ancora a quel livello.”
Se pensava al concetto non gli veniva in mente Dursley, ma il ragazzo che gli aveva appena tagliato i capelli.
Non che glielo avrebbe mai detto: pareva una di quelle cose sottointese, da non dire, previa presa in giro feroce.

Milo infatti sbuffò con la faccia da schiaffi tipica che precedeva una canzonatura. “Si vede che hai fatto centro con Zenzero … mi stai diventando sensibile.”
Sorrise di rimando. “Forse, ma mi puoi biasimare?”
L’altro scosse la testa con una scrollata di spalle indulgente. “Gli innamorati sono come malati … Mi fanno un po’ pena.”
“Hai compassione di te stesso?” L’occhiata che gli arrivò gli fece ingoiare un sorrisetto, perché dopotutto era magnanimo e non era inoltre saggio infierire con chi aveva un oggetto tagliente ancora in mano. “Mi devi coprire con la scorta comunque, è meglio che gli auror non sappiano delle indagini collaterali.”
“No, scordatelo!” Esclamò brandendole come un’arma ed agitandogliele teatralmente davanti al naso. “Sono stufo di restar chiuso qui dentro a far finta di parlare con il muro! È umiliante e strano … a volte ho l’impressione che il muro mi risponda.” Sospirò. “Ma forse quella è l’erba.”  

Alzò gli occhi al cielo, perché la sua famiglia era formata da una prima donna di eccezionale categoria. “Perché, hai impegni?”
“Sì!” Venne guardato con sussiego, ma anche con una certa dose di imbarazzo da come si impegnò a lisciare inutilmente l’asciugamano che gli aveva messo attorno alle spalle. “Devo vedermi con Zabini.” Ammise a mezza bocca.
“Gli chiederai di partire con noi?”
“Frena!” Milo assunse un’aria allarmata, quasi gli avesse appena proposto di prender d’assalto la Gringott. Anzi, forse in quel caso non avrebbe reagito così nervosamente. “Cioè … sì, l’idea c’è ma non credo … oh, ‘fanculo.” Concluse scoraggiato.

“Dovresti chiederglielo.” Suggerì perché era quello che doveva fare un amico. “Il peggio che può capitare è che ti dica di no.”
“Dici poco.” Strinse le labbra. “Come avresti reagito tu, se Zenzero ti avesse dato picche in quel capanno?”

… Ah.
“Capisco.” Due mesi fa l’avrebbe obbligato a restare e fargli da palo, ma c’era tutt’altra posta in gioco adesso. E come mago innamorato non poteva che empatizzare. “Dirò alla scorta che devo andare a trovare Thomas. Non è una cosa che dovrebbe destar sospetti.”
Milo alzò gli occhi dall’asciugamano che stava torcendo con la forza di un rullo compressore. “… non mi ordini di restar qua e non fare tante storie? Cos’è ‘sta novità?”
Sören si infilò il giubbotto e non poté frenarsi. “Come hai detto tu, bisogna aver compassione degli innamorati.”
 
****
Diagon Alley, Finnigan’s Wake Pub.
Ora di pranzo.
 
Lily voleva confessargli qualcosa.
Era talmente ovvio che ad Harry veniva quasi da ridere, ma si tratteneva, perché vederla apparire davanti alle porte dell'ufficio per trascinarlo a pranzo era stato  bello. Interessato, ma bello.
“Grazie per il pranzo.” Disse invece mettendosi il tovagliolo sulle ginocchia e sfogliando con calma il menù giornaliero del Finnigan’s Wake, che data la bella giornata si era dotato di tavoli all’esterno e persino qualche timido ombrellone per ripararsi dal sole.
Lily fece un sorrisetto dei suoi. “Beh, è un bel po’ che non offro un pasto al mio povero papà stressato. Come figlia premurosa, è mio dovere assicurarmi che non lavori troppo.”
“Temo che non ci sia modo per evitarlo.” Motteggiò di rimando togliendosi gli occhiali e massaggiandosi le palpebre. “Ma una pausa è ben gradita.”
“Come procede il Demiurgo?” Non era lì per chiedergli quello, soppesò; Lily stava scrutando il menù e poteva essere un modo per fingere disinteresse, ma sembrava davvero poco interessata. O meglio: gli interessava, ma di certo non per parlare dell’andamento del caso.
Vorrà chiedermi se pensiamo di far restare Prince?
Conosceva sua figlia come il palmo della sua mano, ma non arrivava ancora a capire il fine delle sue piccole strategie femminili, a volte adorabili, a volte piuttosto pericolose.  
Uhm. Domani è il mio compleanno. Forse Al e Jam l’hanno mandata in avanscoperta per capire cosa possono regalarmi?
Anche quella poteva essere una possibilità.
“Pensavamo di avere una pista promettente, ma ci hanno messo di nuovo sotto scacco.” Riassunse per non tediarla e soprattutto perché gli pareva di ricordare ci fosse qualche legge che gli impediva di parlare di certe cose fuori dal luogo di lavoro.
È Ron che se le ricorda, non io.
“Sono sicura che finirete per prenderli.” Gli sorrise incoraggiante, chiamando con un gesto la cameriera. “I buoni vincono sempre.”
“Diciamo che i cattivi tendono a sopravvalutarsi.” La fece sorridere.
Ordinarono e poi continuarono a chiacchierare del più e del meno; Lily era sempre stata una conversatrice brillante, e sentirla parlare dell’ospedale, delle sue amicizie e delle piccole grandi cose che le accadevano era come volgere il viso al sole e godere dei suoi raggi – cosa che tra l’altro stava materialmente facendo. 
Era una buona giornata.

Fu dopo un forte caffè turco che Lily gli consigliò di prendere che la curiosità ebbe la meglio. “Tesoro, non mi fraintendere … adoro passare del tempo con te, e non lo facciamo mai abbastanza, ma hai bisogno di qualcosa?”
Lily si bloccò a metà della sua tazzina, scoccandogli un’occhiata che riassumeva perfettamente quanto avesse fatto centro.
Non sono un capo divisione per niente, piccola.
“No, ehm.” Balbettò schiarendosi la voce. “Non proprio bisogno … cioè, tipo.”
Ora era confuso. La sua bambina aveva perso il sorriso e si era innervosita da come cincischiava con il tovagliolo. “Lils, sai che puoi dirmi tutto.” La incoraggiò con un sorriso che sperò fosse tranquillizzante, perché quando vedeva uno dei suoi figli tentennare così pensava sempre all’ipotesi peggiore.
Le è successo qualcosa? Si è messa nei guai? Si è ammalata? È incinta? No, questo no. Sono troppo giovane per diventare nonno.
“Non è niente di terribile.” Gli lesse nell’espressione. “Sto bene e … va tutto bene, sul serio.” Tirò un grosso sospiro, quasi a inspirare coraggio assieme all’aria. In questo lei e Al sembravano due gemelli. “È che mi è successo una cosa. Bella!” Sottolineò con un’esclamazione. “Ma non credo che ti piacerà sentirla.”
“Hai deciso di partire per l’Australia?” Ginny gli aveva parlato della proposta di Scott sul fare una vacanza con possibilità di prolungarla in una permanenza stabile. Il sapore amaro che sentiva in bocca non era solo dovuto al caffè, ma non poteva opporsi. Come quando Nora gli aveva paventato l’idea che Thomas se ne andasse a studiare in America non poteva che mostrarsi supportivo.
Sono i miei ragazzi, ma devono volare fuori dal nido se ne sentono il bisogno.
“No, resto, l’intera faccenda è andata a monte.” Disse rischiando un abbraccio fuori programma. Non partiva! “Tra l’altro io e Scotty ci siamo lasciati.”
“Oh.” Quella non era una bella notizia. O meglio, una piccola, ridicola parte di sé la considerava tale, perché significava allontanare lo spauracchio di un fidanzamento e conseguente matrimonio.
Ma non è questo il punto.

“Mi dispiace.” Disse sperando di suonare sincero.
Lily gli rivolse un’occhiata di sufficienza. “Col cavolo papà.”
Scoperto.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto starci male.” E questo era vero. “Ma l’ho sempre trovato un po’…” Cercò di trovare la parola adatta per descrivere Ross, e meno offensiva possibile. “… scialbo per te.” Concluse sperando di aver fatto del suo meglio.
“Disse il Prescelto, Salvatore di Due Mondi e Eroe di uno.” L’ironia se la meritava tutta. “Comunque non ti ho offerto il pranzo per parlare di Scott.”
“Ma neanche per passare un po’ di tempo con il tuo vecchio genitore.” Ribatté scherzoso, rimediandosi un calcetto colpevole sotto il tavolo. “Dai Lils, dimmelo e basta.” Perché tolti guai, malattie e matrimoni in vista quanto poteva essere grave?

“Io e Sören ci siamo messi assieme.”
Molto grave.
 
****
 
Diagon Alley, Bottega di Stevens.
Ora di pranzo.

 
“Tom, è per te.”
Così era quello il luogo di lavoro del cugino: un laboratorio di bacchette piccolo e raccolto, ingombro di libri, provette e dal denso odore di cera. Sembrava in disordine, ma non lo era. C’era una sorta di caos funzionale e Tom sembrava amalgamarvisi alla perfezione, seduto ad un tavolo da lavoro con la testa china e il cipiglio assorto.

Sembra l’ambientazione di un dipinto di Van der Bossche.
“Siediti.” Lo salutò indicando con un gesto vago una sedia o forse una pila di libri che sostava poco lontano dal suo tavolo di lavoro. Optò per la sedia. “Sei in ritardo.”
“Non ci siamo dati un orario di massima.” Sorrise impacciato all’anziano che l’aveva fatto entrare e che tutt’ora rimaneva tra di loro con l’aria di un gufo curioso. “Lei … collabora all’indagine?” Chiese incerto.
Del resto Albus non fa che trascinarvi persone dentro.

Finché non si tratta di Lilian…
“Oh, no.” Gli rispose questo con una scrollata di spalle, prima di allontanarsi. “Io lavoro.”
“È Stevens, il mio mentore.” Spiegò Tom con aria scocciata, quasi il suo arrivo e il fatto che stesse interagendo fosse stata una fonte di inatteso fastidio.

E sono stato invitato. Chissà come reagisce alle visite impreviste.
Per avvalersi del suo diritto di ospite si prese quindi del tempo per ripiegare la giacca sulla sedia e trovare un argomento di conversazione che non c’entrasse niente. “Allora è questo quello che fai. Sei un allievo Fabbricante di bacchette.”
“Sì.” Alzò finalmente lo sguardo. “Al non te l’ha detto?”
“Deve averlo tralasciato.”

“Strano.”
“Non sei l’argomento principale delle nostre conversazioni.” Replicò beccandosi un’occhiata arrabbiata. Thomas aveva un indole gelosa e possessiva, non ci voleva un Legimante per capirlo ed era quindi divertente stuzzicarlo.

Albus lo ha educato a dovere se non mi salta alla gola.
“C’è un motivo per cui ti ho chiamato qui, e non è chiacchierare. Traduci.” Sbottò passandogli un pezzo microscopico della marea di carta pergamenata che aveva davanti.  
Sören tornò serio e prese la lente di ingrandimento che l’altro gli porgeva per studiare le volute di inchiostro scolorito. La frase era quasi illeggibile.

Quasi.
Rivela l’ingresso.” Tradusse. “È una versione arcaica di Aholomora suppongo. Curioso. Non usate il latino per gli incantesimi?”
“Sì, come in tutto l’Occidente.” Confermò l’altro pensieroso. “Ma alcuni incantesimi di Occultamento sono ancora in lingua celtica … È un retaggio che risale ai tempi dei druidi, quando con la loro magia  nascondevano intere tribù e villaggi agli occhi dei legionari romani. I Prince sono una famiglia molto antica, no?”
“Così mi è stato detto.” Non che suo padre gli avesse mai raccontato molto, a parte qualche aneddoto e memoria d’infanzia. Elias Prince aveva abbandonato l’Inghilterra per non tornarvi mai più e solo la nostalgia l’aveva spinto, talvolta, a condividere qualche ricordo con lui. “Il gaelico l’ho imparato da solo.” Spiegò: era stato un patto silenzioso con suo padre, già morto da anni.
Sono l’ultimo Prince, dopotutto. Devo conoscere la lingua dei miei avi.
Tom fece una smorfia. “Comunque non ci aiuta.” Dichiarò dopo un breve silenzio. “Abbiamo la formula, ma non dove applicarla. Non sappiamo dov’è l’ingresso.”  
“Ci devono essere delle indicazioni.” Ricordava il modo in cui era stato occultato il castello dei Von Hohenheim, e come aveva dovuto trovarlo nel fitto della foresta di Rügen. Essendoci vissuto per anni aveva individuato il cancello a colpo sicuro, ma per un visitatore qualsiasi la faccenda poteva esser stata ben diversa.
Di certo dovevano avere qualche informazione per trovarlo.
“Indicazioni di che tipo?”
“Non lo so. Non le hai cercate?”
La domanda rischiò seriamente di mandare in collera il cugino da come avvampò e lo fulminò stizzito. “Ho cercato di ricostruire la mappa proprio per questo motivo.”  

“È impossibile.” Gli fece notare con il tono più conciliante del suo repertorio: mettersi a litigare con l’altro era l’ultimo dei suoi desideri. “La cosa che dobbiamo fare è un'altra. Dobbiamo focalizzarci su quel che rimane e restringere il campo di ricerca per gli auror.” Lo aveva colto di sorpresa, quindi ne approfittò per dargli un ordine diretto. “Fammi vedere cos’hai trovato di scritto.”
“Parole?” Sembrava poco convinto e in generale poco contento di esser trattato da subordinato, ma isolò una decina di frammenti facendoli Levitare tra di loro in un moto a trecentosessanta gradi. “Ancora gaelico quindi del tutto inutili per me.”  Aggiunse in una giustificazione scontrosa.
“Non è una nota di demerito ignorare una lingua pressoché morta.” Gli fece notare. “Conosci il tedesco, no?” Scorse con lo sguardo i frammenti. Parole singole, senza significato se non poste in ordine.
“L’ho imparato per necessità. Dopo mesi.”
Ingoiò un sorriso per non esacerbarlo ulteriormente: più aveva a che fare con suo cugino, più si rendeva conto di quanto fosse un Von Hohenheim. Era orgoglioso, testardo e odiava chiedere aiuto.

È come Alberich, eppure non è lui.
Perché a suo zio era mancata la compassione e la capacità di ammettere i suoi limiti che invece, con riluttanza, aveva Thomas.
È proprio vero. Non è il sangue che fa un mago, ma l’esperienze e le persone che incontra sul suo cammino.
Selezionò un paio di pezzi per porli sotto la lente di ingrandimento. “Guarda.” Lo spronò. “Da soli non significano nulla, ma insieme…”
Tom si alzò e gli andò alle spalle, con un unico fluido movimento. “Insieme cosa?” Lo incalzò. “C’è qualche indicazione?”

Direzione sud-Est…” Tradusse un pezzo. “… oltre il fiume … maggiore.” Alzò lo sguardo, colto da un’idea. “Hai un atlante geografico dell’Inghilterra?”
“Qui? No. Possiamo cercarla sul cellulare però.” Alla sua occhiata perplessa aggiunse irritato. “Mai sentito parlare di app geografiche?”
“… più o meno.” A volte dimenticava che i Babbani avevano spesso soluzioni a portata di mano, o meglio, di dita. Consultarono quindi lo smartphone dell’altro circoscrivendo l’area. Tom rese poi la mappa digitale – non aveva idea di come, i movimenti delle dita furono troppo rapidi –in grado di mostrare rilievi e depressioni geografiche.  .
“Cerca il fiume.” Lo istruì occhieggiando lo schermo luminoso con la sensazione che non ne sarebbe mai venuto a capo, neppure con ore e ore di spiegazioni da parte di Milo. “Non un affluente né un ruscello. Un fiume di una certa importanza.”
“Il Ribble.” Rispose l’altro indicando una linea azzurra che doveva identificarlo come tale. “Deve trattarsi del fiume che scorre vicino a Preston.” Serrò le labbra. “Troppo vago … siamo ancora lontani.”
“Aspetta.” Selezionò un pezzo in cui l’inchiostro era ancora visibile. “… bosco.” Gli sembrava di giocare a indovinelli. Per quanto la situazione fosse seria, era piuttosto … divertente. “C’è un bosco vicino.”
Thomas alzò gli occhi al cielo, quasi avesse detto una sciocchezza. “L’intera area è coperta da boschi.”
“È grande.”

“È grande o si chiama grande?” L’espressione di Thomas era quella di chi aveva appena fatto il punto decisivo in una partita. Tratteneva un sorriso solo perché aveva ancora bisogno della conferma finale.
“La seconda. Non è aggettivo, è il nome.”
Bosco Grande!” Esclamò facendo voltare persino l’Artigiano e il cliente con cui stava parlando. Poi gli sorrise e per uno sconcertante momento parve quasi volergli dare una pacca sulla spalla. Probabilmente era abituato così con Albus, il suo compagno di ricerche.
Anche no.

Si schiarirono entrambi la voce, imbarazzati. “Sembra che abbiamo trovato l’ingresso.” Osservò.
“Sembra di sì.” Ribadì l’altro squadernando un ghigno trionfante. “Non è stato difficile.”
Neanche una passeggiata con il tuo atteggiamento.

Non lo disse però, perché a differenza del cugino sapeva apprezzare il valore di un silenzio opportuno. “Dobbiamo andare a riferirlo agli Auror. Vieni con me?” Propose invece.
Vorrà pavoneggiarsi e in fondo glielo devo.
Con sua sorpresa non ricevette un’immediata risposta affermativa. Lo vide invece guardare verso l’anziano Artigiano che stava chiacchierando con animosità con un cliente dall’aria alterata. “No.” Rispose. “Ho da fare qui.”
Sorrise, perché quel suo ombroso parente a volte rivelava sorprese. “Pensavo volessi festeggiare.”
Ha sempre reso piuttosto manifesto quanto poco ami il potere costituito.
Gli venne risposto con uno sbuffo impaziente. “Non voglio lodi, specialmente da quelle teste di bacchetta … ad eccezione di mio zio Harry hanno tutti un cervello inversamente proporzionale alla propria boria. Ciò che mi interessava era trovare la soluzione. L’ho fatto, mi basta.”
“Lo dirai almeno ad Albus spero.”
Tom avvampò e in un attimo rese palese chi aveva voluto impressionare. “Come se potessi evitarlo.” Borbottò sostenuto, afferrandolo per un braccio senza troppi complimenti e spingendolo in direzione della porta: glielo lasciò fare perché era troppo impegnato a non ridere. “Cosa aspetti?” Lo apostrofò in quello che era ormai mortale imbarazzo “Corri dai tuoi amichetti. Avete dei cattivi da prendere.”

“Agli ordini.”


 
****
 
Londra, Casa di Michel Zabini.
Ora di pranzo.
Tornare a casa e sentire il suono di un violino invece che l’assoluto silenzio di un ambiente vuoto era stato un cambiamento notevole, ma Michel vi si era abituato presto.
Troppo presto.
Emil era in casa, e stava suonando fuori dalla stanza della musica dato che appena aveva aperto la porta era stato accolto dal timbro chiaro dello Stradivari che si diffondeva lungo il corridoio. Difficile non riconoscerlo visto che ormai era il suo strumento d’elezione.
Quello più prezioso e che non dovrebbe mai uscire dalla sua teca.
Un tempo si sarebbe innervosito, se non arrabbiato, e avrebbe preteso spiegazioni, buone spiegazioni. Al momento invece doveva frenare sorrisi ed entusiasmo.
Si suppone tu debba lasciarlo.
Ma le parole di Albus gli ronzavano in testa come mosche fastidiose, addizionate al trascurabile fatto che non voleva farlo. Neppure una singola cellula del suo corpo, da quelle celebrali a quelle del suo cuore erano disposte a piegarsi al ricatto di suo padre.
Come direbbe Al … che razza di casino.
Entrò nel salotto che divideva con Loki – o meglio, che l’amico aveva adibito a suo ufficio visto che aveva sparso le sue carabattole ovunque – e fu accolto da questo ed Emil, che impugnava il prezioso violino. La cosa sconcertante non era che Loki fosse riuscito a convincere Emil – Lo sapeva come lusingare un ego, specie quello di un artista.
… è che glielo sta facendo suonare e non se l’è già portato via.
L’insolito spettacolo valeva almeno il suo silenzio. Si sedette così su una delle poltrone e ascoltò, lasciando che la testa per un po’ si riposasse e si facesse semplicemente cullare dalle note.
Anche se è una canzone un po’ troppo moderna per i miei gusti.
Ma non quelli dell’amico d’infanzia, che terminata l’esecuzione si tolse la pipa di bocca e andò battere una pacca sulla spalla di Emil. “Magnifica!” Esclamò con insolito tono energico andando a stringergli la mano per poi depositarvi tre monete sonanti. “L’hai azzeccata al primo colpo … Chapeau carissimo, non è semplice farmi aprire i cordoni della borsa.”
Il tedesco abbozzò un inchino scherzoso infilandosi in tasca il denaro. “Mi lusinghi Loki, ma indovinare i gusti del mio uditorio è quello che facevo per vivere fino a pochi anni fa.” Spiegò. “Hans Zimmer, poi, ha una canzone per tutti.”  

Questo è il ragazzo che amo.
Si era innamorato dell’irriverente teppista di strada, dal coltello pronto e dalla battuta salace e dell’artista dagli occhi dorati che accarezzava il mondo con dita leggere. Emil era Milo e viceversa; se all’inizio vi aveva visto una distinzione adesso non più. Il ragazzo che gli stava davanti, guardandolo di sottecchi come se si aspettasse una reprimenda – ah già, aveva portato fuori lo Stradivari – era l’uomo che amava. Tutto lì.
Quella era una realtà che neppure i diktat di suo padre potevano cambiare.
“Scommesse e trafugazione di oggetti d’arte … Sapevo che vi sareste intesi alla perfezione voi due.” Replicò con aria seria, divertendosi a constatare come Emil fosse davvero sulle spine.
Loki come al solito ghignava e basta.
“Non prendertela con lui, è colpa mia.” Si inserì l’amico in un insolito afflato di sincerità. “L’ho sentito tramite quella tua orrida porta blindata e gli ho chiesto di farmi entrare. Pensa che era così preoccupato che potessi sgridarlo che è uscito lui.”
“Più che altro mi stavi rompendo le palle.” Replicò Emil con una smorfia; se non avesse avuto violino e archetto tra le mani di certo si sarebbe ficcato le mani nelle tasche degli immancabili jeans. “Comunque gli strumenti non sono fatti per prender polvere.” Aggiunse battendo l’archetto sulla coscia con cadenza nervosa.

“Non sono arrabbiato.” Lo rassicurò provando un’ondata di tenerezza che lo spinse a schiarirsi la voce. Loki intanto continuava a ghignare come un dannatissimo satiro. “E poi, conosco i picchi di ostinazione che raggiunge il mio insopportabile amico.”
“Sei avido, ecco cosa.” Loki si alzò in piedi e si accese la pipa con uno sbuffo maleodorante. “Hai un piccolo tesoro e non lo condividi.”
Era una sua impressione o Emil era appena arrossito? Di rabbia però, visto che aveva anche la faccia di chi era stato punto sul vivo, e non da un insetto.

Decise di correre ai ripari prima che l’irriverenza del suo coinquilino creasse un incidente diplomatico.
Dopotutto è il mio mestiere.
“Emil decide da solo per chi suonare.” Molto diplomatico, anche se Nott sembrava sul punto di battere le mani deliziato.
Idiota.
Mai si era pentito come in quel momento di esserselo messo in casa. “Non hai qualche truffa da organizzare?”
Loki mangiò la foglia splendidamente ed era questo uno dei motivi per cui non l’aveva ancora messo alla porta. “Ora che mi ci fai pensare, sì.” Batté una mano sulla spalla di Emil. “Grazie ancora per la colonna sonora. Mi hai proprio motivato!”
Emil ridacchiò. “Non c’è di che, Riccioli d’Oro. Quando vuoi.”

Con suo sommo orrore l’altro sorrise suggestivo. “Potrei prenderti in parola.”
Anche no.
Loki era un fratello, ma doveva piantarla di fare il balordo con il suo uomo. “Evapora, Nott.” Sibilò a denti stretti non riuscendo a trattenersi.
“Vado, vado.” 

Una volta che l’amico se ne fu andato Emil girò il coltello nella piaga regalandogli un meraviglioso sorriso da stronzo. “La prossima volta che vuoi staccargli un braccio con una fattura avvertimi, vi lascio soli, pare una cosa privata.”
C’è qualcuno che non mi ha ancora ridicolizzato qua dentro?
Si sedette di nuovo, stavolta sul divano, tirando fuori il portasigarette e giocherellandoci, troppo arrabbiato, confuso e depresso per aver voglia di fumare.  
Percepì gli occhi di Emil su di sé: ovvio, si stava comportando come un troglodita e un pessimo ospite. “Ti girano le palle?” Chiese retorico, perché poi aggiunse. “Ho sbagliato a portare lo Stradivari fuori, ma…”
“Non è per quello.” Era un codardo, lo era sempre stato dietro i bei completi e le parole ricercate. Non voleva lasciarlo e non voleva affrontare suo padre. “Ho avuto una discussione.”

Per eufemizzare.
Emil posò il violino sul tavolino da caffè e si sedette sul bracciolo con una naturalezza che gli fece solo venir voglia di affondare il viso nella stoffa della sua camicia e dimenticare tutto. “Lavoro?”
“Già.” Fece un sorriso debole e capitolò quando sentì le dita dell’altro accarezzargli la nuca. Gli facevano il solletico dove i capelli avevano cominciato a crescere.
Devo anche andare dal parrucchiere.
E doveva dirglielo. Doveva dirgli del ricatto, dirgli che non voleva lasciarlo, ma anche che era terrorizzato dalle conseguenze e non aveva idea di cosa fare.
Voleva, e aprì anche bocca per iniziare il discorso, ma l’altro lo baciò. E non doveva bastare così poco per farlo desistere … solo che sì, bastava eccome.
Non fanno che dire che la cosa più importante del mondo non è il lavoro, i Galeoni o la magia. Neppure una bacchetta. È essere felici.

Perché non posso esserlo anche io? Senza conseguenze?
“Devo… c’è una cosa che devo dirti…” Riuscì a dire tra un bacio e l’altro. Si erano alzati e si stavano spostando verso la camera da letto; il nudo bisogno di Emil, espresso senza parole, era come il canto di una Veela. E lui era il povero idiota.
“Dopo.” Mormorò mentre apriva la porta della camera, il letto a pochi passi. “Adesso pensa a me.” Fece una pausa e inspirò, appoggiando la fronte contro la sua. “Cazzo, mi sei mancato okay? Pensa a me.”
Ti penso fin troppo.
Questo avrebbe dovuto dirgli, ironizzando e evitando di mettere la cosa su un piano … troppo, semplicemente troppo. Invece se lo tirò contro in qualcosa che era più simile ad un abbraccio che ad un preludio di sesso bollente.
“Anche tu.” Gli baciò la tempia, la linea della mascella e finalmente le labbra. Cento volte le labbra, e anche mille. Emil gli mancava, gli era mancato anche quando non sapeva di essere a metà e di stare aspettandolo. Ora finalmente completo; quanto avrebbe fatto male spezzarsi di nuovo?
 
****
 
Ministero della Magia, Atrio.
Ora di pranzo.

 
Sören non si sarebbe mai abituato alla vibrazione del cellulare. Certo, era utile, ma ogni volta era come ricevere la scossa in parti poco ortodosse.
Occupato a cercare l’aggeggio infernale nelle tasche quasi mancò di prendere l’ascensore che l’avrebbe portato fino all’ufficio Auror, dove non era atteso ma dove sperava di trovare comunque la soluzione al suo rimpatrio forzato.
Oltre a chiudere la faccenda di mia madre e Johannes una volta per tutte. Di persona.
“Ehi Sören!”
Scorpius si infilò tra le porte dell’ascensore con una destrezza che lo rese quasi liquido, finendo praticamente in braccio ad un mago corpulento a cui rivolse un sorriso smagliante. “Scusi!” Cinguettò ottenendo un’occhiata accondiscendente, tipica per chi si scontrava con la sua esuberanza e non riusciva a non trovarla adorabile. “Ehi!” Ripeté afferrandogli un braccio in quello che era un tentativo di salutarlo tarato sulle contingenze. “Qual buon vento!”
“Ciao.” Rispose sperando di suonare naturale; era difficile riuscire a capire quale registro usare con persone come Malfoy.  
“Anche tu al secondo piano?” Gli domandò e non aspettò la risposta. “Ti hanno richiamato?!”
La gioia era genuina e lo fece sorridere: gli Auror non avevano reso la sua permanenza semplice, ma in Malfoy aveva trovato un amico sin da subito.
“Non ancora.” Scosse la testa. “Ho delle informazioni però.” E lì chiuse le comunicazioni, che erano pur sempre in un ascensore pieno di gente e Johannes poteva avere occhi e orecchie ovunque.
E li ha, dato che c’è una talpa.
“Grande!” Approfittò dell’uscita di un paio di persone al primo piano per spostarglisi accanto. “Salvato in corner, eh?”
“Speriamo.” Non si sbilanciò, ma sapeva che Harry Potter gli doveva almeno un’udienza, data la portata di quello che teneva piegato accuratamente nella tasca del giubbotto.
Ulteriori domande da parte dell’altro gli furono risparmiate dacché il telefono, dopo essersi quietato per qualche attimo, riprese a vibrare violento.
Odio i Babbani. Perché sentono il bisogno di essere sempre rintracciabili?
Scrutò lo schermo luminoso.
Lily?
La voglia di sentirla era proporzionale alla quantità di gente che sarebbe stata in ascolto. Scorpius compreso. Poteva deflettere la chiamata e scusarsi via messaggio, tuttavia…
È Lily.
“Buongiorno.” Salutò schiarendosi la voce e sperando che le doti di LeNa dell’altra fossero ben sveglie. “Hai bisogno di qualcosa?”
“Sì, insegnarti a rispondere al telefono come una persona normale.” Replicò con una risata. La cosa che forse più amava di lei era la pazienza con cui affrontava le sue gaffe da asociale.
“Probabilmente.” Ammise. “Va tutto bene?”
“Sì, avevo … beh, voglia di chiamarti.”
Anche io.  

Lanciò un’occhiata nervosa al collega che gli restituì uno sguardo di colpo molto curioso. Voracemente curioso.
Mai incrociare lo sguardo. È una sfida.
Perché si ricordava certe norme sociali, dannatamente utili, sempre in ritardo? “Va bene.” Disse meccanico. “Sono in ascensore.”
“E ti stanno guardando tutti?” La battuta stavolta nascondeva un moto di irritazione che rischiava di sfociare in altro: non poteva tirare troppo la corda dopo il quasi litigio di quella mattina.

“Sono al Ministero … sto andando all’ufficio Auror, ho…”
“Da mio padre?” Lo bloccò. E il tono era di allarme, non c’era dubbio.

“Sì, perché?”
“Ehm.”
“Lily?” Scorpius intanto lo prese per un gomito e lo tirò fuori dall’ascensore segnalandogli che erano arrivati. “C’è qualche problema?”

“Gli avrei parlato … di quello che ci siamo uhm, promessi stamattina. Niente sotterfugi?”
“Gli hai detto di noi.” Constatò.
E non è andata bene.

Non ci voleva un genio per capirlo. Rendersene conto fu comunque spiacevole, perché questo significava che le sue paure avevano avuto ragion d’essere.
“Mi dispiace!” Esclamò Lily e poi continuò a fiume. “Giuro, l’avevo studiata benissimo! L’ho portato a pranzo fuori, l’ho fatto rilassare, ridere, ma poi … beh, mi aspettavo che non sparasse fuori d’artificio, ma…”
Ma non vuole che sua figlia stia con un ex-mago oscuro.

Per quanto la cosa lo facesse star male non poteva farci niente: almeno nel breve periodo non poteva cambiare l’opinione che Harry Potter aveva di lui. In compenso la voce mortificata e abbattuta della sua ragazza – sua, che il Salvatore lo volesse o meno – era qualcosa su cui poteva lavorare. “Va tutto bene.” Disse con una calma che era ben lungi dal provare. “Non sto andando a trovarlo come Sören, ma come l’agente Prince. È un professionista e da tale si comporterà.”
“Ren, senza offesa, ma no.”

Ormai era davanti alle pesanti porte in noce dell’ufficio Auror. Scorpius si fermò, indicando l’interno con un cenno della testa. Non era neppure vicino al concetto di ‘pronto’ quindi gli fece cenno di andare avanti ed aspettò che fosse entrato prima di rispondere. “Non lo conosco bene, ma non mi è sembrato una persona irragionevole.”
“Non lo è ma… non è mai stato molto bravo a separare il mago Auror dal mago privato. Non so se capisci cosa intendo…”
Sì, che sono fottuto. Alla grande.

“Siamo entrambi due uomini adulti.” Ragionevole, era quella la parola chiave. Con la ragione si poteva far molto. In quel caso, poi, era l’unica arma che aveva in arsenale. “Credimi, indipendentemente dai sentimenti che prova nei miei confronti vorrà sentire cos’ho da dire.”
“Oh.” Lily suonò di colpo interessata. “C’entra col Demiurgo?”
La sua piccola inglese era nata e sarebbe morta curiosa. “Segreti d’indagine.” Riassunse con un’inflessione seria e poco credibile.
“Dai! Neanche un piccolo indizio?”
“No.” Non voleva illuderla nel caso il suo apporto non fosse considerato valido per farlo restare in Inghilterra. Se doveva giocarsela, lo avrebbe fatto da solo. “Fidati di me.”
“Sempre, mio cavaliere!” Replicò scherzosa. “E fammi sapere, sul serio …” Fece una pausa. “… almeno se devo venire a percuotermi il petto sulla tua tomba, come una di quelle tue eroine norrene.”
“Mi auguro non servirà.” Non gli arrideva molto l’idea di esser sfidato a singolar tenzone da un padre di famiglia protettivo che, incidentalmente, era il Mago Vissuto Due Volte. “Ti chiamo dopo.”
“A dopo, torna vincitore!”
Intero soprattutto.
Quando entrò in ufficio e per poco non si scontrò con Malfoy. “Scorpius!” Esclamò distanziandolo con una mano perché sì, gli era simpatico, ma non abbastanza da farlo saltellare nel suo spazio vitale come un furetto sovraeccitato.
“Non stavo origliando!” Esclamò palesando che stava facendo proprio quello. L’occhiata successiva fu infatti di scuse. “… mi è scappato.”
L’avrebbe Schiantato se non fosse stato forse il suo unico alleato in un posto pieno di uomini armati e fedeli al proprio capo. E Ama doveva esser là, da qualche parte, pronta a ballare sulla sua carcassa. “Quanto hai sentito?” Chiese invece.

“Uhm … tutto? Parlavi a voce alta.” Borbottò con un sorriso da bimbo scoperto con la bocca piena di gelatine. Approfittando della sua mancanza di reazioni gli rifilò una pacca sulla spalla. “Ma congratulazioni! Siamo cognati!”
“Non credo.”
“Oh, là è tutta una gran conigliera…” Fece un cenno vago. Sembrava così sinceramente contento che per un attimo dimenticò che stava andando a morire e riuscì persino a sorridergli. “La mini-Potter allora, eh?”

“Già.” Si guardò attorno, controllando che parenti e simili non fossero in vista o a portata di orecchio. “Ti chiedo discrezione.”
“Conta su di me!” Non ci contava affatto, ma non lo diede a vedere. Non voleva farlo rimaner male. “Comunque io e Rosie l’avevamo capito dal battesimo, siete spariti per quasi un’ora!”
“Stavamo parlando.”
“Dentro il capanno degli attrezzi chiuso con un Colloportus?” Alla sua espressione disorientata sghignazzò, dandogli una seconda pacca, sempre più simile ad una zampata. Dovevano essere un attestato di virile stima, ma le odiava. “Ehi, non c’è niente di male!”
Sperò ardentemente di non essere arrossito come un ragazzino. “Lo so.” Vinse il disagio e chiese. “Chi altro l’ha scoperto?”
Scorpius esitò,  poi gli passò un braccio cameratesco.“Prima lezione, in quella famiglia chi si imbosca viene sempre sgamato.” Lo squadrò con autentica compassione prima di blaterare a fiume. “Tranquillo comunque, poca gente. Domi, che vi ha sentiti parlare, ma non l’ha detto a Freddie, con cui era, perché gli sei simpatico e Freddy è un pettegolo, ma l’ha detto a Violet, la sua ragazza, che è la mia migliore amica e amica-nemica della mia fidanzata, quindi…”
“Mi è chiaro il concetto, ti ringrazio.” Lo fermò prima che gli venisse voglia non solo di scappare dal Ministero a gambe levate, ma anche di anticipare l’orario della maledetta Passaporta per Boston.   

Scorpius fece spallucce. “È una bella famiglia, non credere.”
Bella?” Non voleva essere sarcastico, ma non riuscì a mordersi la lingua. Amava Lily e trovava Albus una persona interessante.

Ma il resto…
Scorpius scosse di nuovo la testa con energia. “Non sono male una volta che li conosci, lasciatelo dire da uno che ci è già passato.” Lo rassicurò. “Certo, non si capisce un accidente tra cugini, zie e parenti adottati o acquisiti e con alcuni di loro ti verrebbe voglia di comunicare solo a colpi di bacchetta … e a volte succede. Però una volta che ti hanno accettato, è per sempre.”
“Come la mafia.”
“Dai!” Rise. Poi abbozzò un sorriso strano, piccolo e persino un po’ imbarazzato. “Non fraintendermi, adoro la mia famiglia, pavoni compresi … ma è bello essere in mezzo a quella bolgia. Uno del clan. Sono sicuro che la penserai così anche tu, alla fine.”

Sempre che decidano di accettarmi come ragazzo di Lilian, cosa di cui dubito.
Non riuscì a trovare qualcosa con cui ribattere. “Devo andare.” Si decise, rimanendo sul neutro. “Cerca di non dirlo a nessun’altro, ti dispiace?”
“Promesso!” Gli mostrò un pugno con aria combattiva. “Coraggio, faccio il tifo per te!”
“Grazie.” Lo salutò con la verve di chi saliva al patibolo. Ma tenne la testa alta: come avrebbe detto Dionis, un guerriero rimaneva tale anche quando doveva affrontare una prova giudicata impossibile.
Odio i Potter.
 
****


Note:

La mia vita reale è esplosa, e non in senso ludico. Quindi gli aggiornamenti saranno lunghiiiii … Alla fine, per evitare di far finire questo capitolo a Maggio, ecco qua.
Per chi continua a leggere e mi segue, vi chiedo di avere un po’ di pazienza. Tipo, tanta. Vi stradoro.
Questa la canzone capitolo e questo il dipinto a cui Sören si riferisce quando entra nel laboratorio di Stevens.

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Capitolo 42
*** Capitolo XLI ***


Capitolo XLI




 
 
I'd rather go blind than wasting my time without trying
We'll turn the tide using our minds without tumbling
The more we love the less we fight, there is no safer place tonight
(Open Fire, Andead)
 
Ministero, Ufficio Auror.
Ora di pranzo.
 
“Signore, c’è un agente che vuole parlare con lei.”
Harry non alzò gli occhi dagli incartamenti che stava tentando di leggere da almeno … ore, circa, non ricordava quante, ma di certo erano molte ed erano iniziate dopo-pranzo.

“Se non è nulla di urgente, Rachel, digli che sono occupato.”
Chiunque sia, anche Ron in persona.

… specialmente Ron.
Non aveva la minima voglia di farsi leggere come un libro dall’amico di una vita, come non aveva intenzione di spiegare perché era di umore così nero.
La segretaria esitò sul ciglio della porta. “Sembra importante Signore.” Disse. “È l’agente Prince.”
… di male in peggio.
Perché temere Ron quando aveva davanti  – o meglio, dietro la porta – proprio il fulcro del suo malumore?
Ha una bella faccia tosta a venir qui.
“Digli di andare dal Sergente Weasley.” Tagliò corto. Non voleva rischiare di perdere le staffe e dire cose di cui poteva pentirsi quando aveva l’uniforme addosso. In quel momento non era un padre di famiglia amareggiato per le pessima scelte in fatto di uomini della sua unica figlia, ma un funzionario del Ministero in pieno esercizio dei suoi compiti.
Purtroppo.
“Ha detto che vuole parlare solo con lei.” La sua assistente era l’immagine stessa del disagio e ne ebbe compassione. Era ovvio che quella testa di legno di tedesco le aveva imposto un diktat, magari dandole ad intendere che non se ne sarebbe andato finché non avesse ottenuto udienza. Era quindi suo dovere, da adulto e da capo, cedere.
“Va bene, fallo entrare.” Sospirò facendo un cenno e riponendo con un colpo di bacchetta gli incartamenti. Intrecciò le dita sopra al tavolo ed attese che il ragazzo entrasse.

Non si fece attendere, da come scivolò dentro e chiuse la porta. Sì, aveva indubbiamente una bella faccia tosta, nonché una dose una robusta dose di coraggio a presentarsi dopo il pranzo avuto con Lily.
Che di certo quella trappola l’hanno orchestrata assieme. Mia figlia non mi ha mai detto nulla dei suoi ragazzi. Scott l’ho conosciuto dopo mesi che lo frequentava…
L’idea dev’esser partita da lui.
Prince aveva mandato avanti la sua bambina per spianarsi la strada: un atteggiamento codardo.
Non cozza un po’ con la sua presenza qui?
Ignorò la voce interiore della ragione. Perché non aveva ragione. “Agente Prince.” Lo salutò freddo. “Spero sia importante.”
“Sì Signore, lo è.” Lo salutò formalmente con un mettersi sull’attenti, nonostante i loro rapporti, da quel momento in poi, non sarebbero più stati mai più strettamente professionali. “Non è una cosa che può aspettare.” Aggiunse.
“E ti sembra questo il posto adatto per discuterne?”   
Sören aggrottò le sopracciglia. “Non credo ci sia posto migliore.”
Sfacciato.

Eppure una parte di lui apprezzava il fatto che fosse venuto ad affrontarlo a viso aperto. Senza false modestie, si rendeva conto come la fama e le voci che giravano sul suo conto potessero intimidire i giovani maghi che aspiravano all’affetto di sua figlia.
Forse è per questo che Lily non mi ha mai presentato nessuno tranne Ross. Era l’unico contro cui non potevo far niente. Era perfetto.
… non come Prince, che aveva un passato scuro come un pozzo, problemi a non finire e per concludere una famiglia che seminava morte e distruzione in qualsiasi Ministero mettesse piede.
Ma mentre Scott l’aveva sempre evitato – con garbo, ma comunque gli aveva sempre girato alla larga anche durante le rare occasioni in cui avevano condiviso la stessa stanza – il genero più sbagliato del mondo gli stava davanti senza tradire il minimo cenno di paura o malessere, se non un appena accennato contrarsi della mascella.

Nervi saldi di quel genere meritavano perlomeno un punto.
Uno solo comunque.
“Agente Prince, siamo in un luogo di lavoro.”
“Ed è questo il motivo per cui la disturbo.” Ribadì ora con aria smaccatamente confusa. “Ho novità sul Demiurgo, Signore. Da Thomas.”

… ah.
Si sentì un autentico cretino. Aveva pensato che quella visita fosse collegata con il pranzo appena avuto con Lily … sbagliando alla grande da come il ragazzo sembrò in imbarazzo e distolse lo sguardo.
Ha capito cosa non avevo capito.
Meraviglioso.
Se con lui ci fosse stata Ginny avrebbe riso di lui fino alla fine dei loro giorni.
“Signore…” Iniziò questo. “Riguardo…”
“Dov’è Tom?” Domandò sbaragliando alla grande la sua personale top ten di figuracce; non solo si era mostrato prevenuto presumendo una scorrettezza da parte di Prince, ma adesso giocava anche il ruolo del superiore dispotico e capriccioso.

Prince per tutta risposta diede prova di un sangue freddo e di – ahimè – una maturità ben superiore alla sua. Non cambiò espressione e rispose. “È rimasto con il suo mentore al laboratorio, Signore. Avevano una consegna da terminare.” Fece una pausa, poi aggiunse come a voler chiarire. “Non voglio prendermi alcun merito, solo riferirle un messaggio.”
Sei un idiota, Harry Potter.

Ma non l’avrebbe mai ammesso di fronte al nuovo ragazzo di sua figlia. Era una debolezza che non poteva permettersi e poco importava se Ginny, nella sua testa, stava sghignazzando senza soluzione di continuità. Si schiarì quindi la voce. “Molto bene.” Borbottò. “Che messaggio?”
Prince tradì un sorrisetto, mal trattenuto e piuttosto trionfante. Non fece in tempo a rifletterci e a considerarlo un punto di sfavore nella sua personale scheda-genero che parlò.
“Io e Thomas abbiamo trovato dove si nascondono Doe e mia madre.”
Il giudizio, a ben pensarci, poteva essere rimandato.

 
****
 
Ministero della Magia, Ora di pranzo.
Refettorio.

 
“Quella è la tua lista degli invitati?”
“Perché, cos’ha che non va?”
James scoccò un’occhiata orripilata al biondo più scemo del Mondo Magico, a giudicare dai trenta centimetri di pergamena che stava scrutando appoggiato alle porte dell’ascensore che li avrebbe portati dal DALM al refettorio. “È un papiro!”

“Pergamena.” Lo corresse con un cenno vago. “E sono solo un centinaio di nomi…” Aggiunse stringendosi nelle spalle. “Credo. Non l’ho redatta io, è stata mia nonna.” Gliela sventolò davanti al naso. “Secondo te come si legge il ventesimo nome sulla sinistra?”
“Non so neanche trovarlo qua in mezzo!”
“Via, Potty, almeno contare fino a venti…”

“Mi rifiuto!”
“Sei il mio testimone, devi aiutarmi.”
James gli rifilò un calcio che l’altro schivò con fluidità, visto che erano soli dentro il vano. “Ti rendi conto sì, che anche Rosie ha una lista?”

“E scommetto che è lunga il doppio.” Replicò quasi fosse una gara. “Non è colpa mia se la mia famiglia ha connessioni prestigiose!”
“Ma se siete quattro gatti e vi odiano tutti!”
Gli venne risposto con una linguaccia. “Ma ci temono, anche. Nonna vorrà bullarsi con il suo circolo del cucito del mio matrimonio con la figlia di due eroi … Puoi biasimarla?”
“Porca Morgana.” Sbuffò scuotendo la testa perché c’erano momenti in cui capiva lo sconforto che era preso a zio Ron quando la giovane coppia aveva ufficialmente annunciato il matrimonio. “Ed io che credevo che il Demiurgo fosse il nostro problema più grande.”

Scorpius ridacchiò, passandogli un braccio attorno alle spalle. “Stai tranquillo, mio insostituibile testimone.” Lo adulò sapendo, dannazione, di colpirlo nel punto più debole della sua vanità. “Ho accettato la pergamena solo per farla contenta … La sfoltirò. Non voglio gente che non conosco al mio matrimonio. Solo un mucchio di peldicarota che fanno gare di rutti, okay?”
“Sarà meglio.”
Batterono pugno contro pugno in un gesto che lo tranquillizzò sufficientemente per uscire fuori dall’ascensore con un mezzo sorriso. Quel giorno il sole splendeva, Bobby si era portato via quel mastino del Sergente Gillespie per le indagini e alla mensa avrebbero servito polpette.

Un buon giorno.
“Hai risolto le cose con Ted?”
La domanda lo colse di sorpresa ma non fu difficile ampliare il sorriso. “Sì.” Tagliò corto perché non gli andava di ammettere quant’era stata dura mettersi a nudo di fronte al compagno. Ne era valsa la pena, sicuro, ma non era cosa che aveva voglia di ripercorrere ad alta voce.

Non siamo due ragazzine che si fanno le trecce. Quella è roba da Al.
Scorpius, da bravo amico maschio qual’era, non spinse ulteriormente la sua curiosità, limitandosi ad una pacca sulla spalla. “Devo passare uno di questi giorni da voi … Ho un paio di cose da dare a Ben. Ho tanti di quei miei vecchi giocattoli che credo potrei aprire un negozio.”
“Moccioso viziato.” Rispose con gratitudine aprendo le porte della mensa e scansando un paio di colleghi che ne uscivano. “Stanze intere scommetto.”
“Una buona porzione dei miei appartamenti. Ti ho mai detto che mi hanno regalato un unicorno per il mio sesto compleanno? Si chiamava Tempest.” Fu la risposta, prima che si sbracciasse in saluto a qualcuno. Individuò la cugina, seduta al tavolo con la Parkinson-Goyle e un paio di altre colleghe.

Chissà perché i magi-avvocati son tutti donne.
… cavolo, quell’ufficio dev’essere un inferno in terra.
Motivo per cui non aveva nessuna intenzione di passare la sua pausa pranzo in compagnia di quelli squali in gonnella. Scorpius parve però di un’altra idea perché si diresse senza indugio verso Rose e compagnia.
Un altro mago avrebbe avuto qualche riserva di fronte a tutte quelle occhiate muliebri e scandaglianti ma l’amico sorrise a trentadue denti a suo agio come non mai. “Ciao caramellina al rabarbaro del mio cuore!  Letty ed esimi avvocati … buongiorno.” Salutò con un leggero inchino che si meritò espressioni compiaciute e occhiate di apprezzamento.
“Ciao scemo.” Lo salutò sua cugina sporgendosi per baciarlo, per quanto lo facesse brandendo comunque un coltello con cui aveva appena martoriato un pezzo di arrosto. Il completo che indossava e i capelli raccolti in uno chignon ferreo le davano un’aria … crudele.
Quando la beccava al lavoro non era la cugina imbranata e topo di biblioteca che conosceva ma una linguacciuta stronza che passeggiava per le aule del Wizengamot.
I Magi-avvocati non mi piacciono, okay?
Quella categoria dava ben più di un grattacapo agli auror in sede d’udienza e a lui in particolare.
Non saranno i nostri nemici naturali, ma … beh, ci vanno vicino.
“Ciao Scorpius.” Sogghignò la Parkinson, che di quel branco era forse la più sanguinaria; ricordava con particolare dispiacere un’udienza in cui l’aveva fatto sentire l’ultimo dei cretini. “Vi sedete con noi o Potter ha troppa paura?”
Non lasciò che Malfoy rispondesse per lui. “Non ho paura di un paio di streghe in toga.” Disse a denti stretti.
“Strano, avrei pensato il contrario.”
“Oookay…” Scorpius gli mise una mano sulla spalla prima che potesse strangolare la vipera a mani nude. “Ci sediamo solo se istituiamo una tregua tra gli uffici. Siamo d’accordo?”

“D’accordo.” Si affrettò a dire Rose tirando quello che gli sembrò un pizzicotto all’amica. “Succo di zucca?” Offrì in un rimando ovvio ai pasti fatti in Sala Grande.
Accettò l’offerta di pace e si sedette allungando il bicchiere. “Hai visto la lista del tuo promesso, cuginetta?” Non poté fare a meno di stuzzicarla, che anche quello era pur sempre un rito familiare.
Rose con sua sorpresa scrollò le spalle in piena e controllata tranquillità. “Sarà lunga come la mia e altrettanto improponibile.”
“Mia nonna ha un sacco di nemici che deve umiliare e tu un sacco di parenti … Che coppia facciamo mia Rosie!” Convenne Malfoy infilzando un paio di patate dal vassoio che si era appena rifornito magicamente di fronte a loro.

“Già.” Convenne l’interpellata. “L’ipotesi di sposarsi a Las Vegas con un Babbano vestito da Elvis è sempre più concreta.”
“Non t’azzardare.” Si inserì Violet. “Dovessi legarti al palo della tenda di seta cinese che Lady Narcissa mi ha fatto ordinare da Shangai faremo questo matrimonio.”

“Maghi e streghe, la mia damigella d’onore.” Ironizzò Rose. “Tranquilla … penso che ormai siamo condannati alla cerimonia più elefantiaca del Mondo Magico.”
“È troppo tardi per fuggire.” Canticchiò Scorpius con la bocca piena scambiandosi un’occhiata affettuosa con la fidanzata.
James un po’ li invidiò: nonostante l’orrore che si prospettava parevano … contenti.
Beh, suggellerebbe la loro unione e tutte quelle puttanate lì. Anello al dito e certezza di appartenersi davanti al mondo intero.
Era roba forte, importante, un matrimonio. Era una cosa che riconosceva anche lui, cinismo a parte, perché era frutto di una di quelle unioni.
“È questo lo spirito giusto.” Decretò la Parkinson. “Per Morgana, vi ucciderei se mandaste a monte qualcosa.”
“Neanche fosse il tuo matrimonio!” Osservò Rose con aria divertita.  

“Rischia di essere l’esperienza più simile a cui mi avvicinerò.” Rispose l’altra con una smorfia. “Non credo proprio che io e Nicky ci legheremo un nastro al polso a vicenda.”
“È possibile però … magari non con un nastro.” Obbiettò Scorpius, la cui incapacità di vedere ostacoli era irritante quanto commovente. “Vi potreste sposare nel Mondo Babbano!”

“Non è la modalità del rito il problema.” Sospirò l’altra facendo un cenno evasivo. “Mi sono legata ad una sciroccata che cavalca draghi per vivere … In tutta franchezza, non mi vedo in abito bianco nel prossimo futuro. Gli unici anelli che Nicky conosce sono quelli con cui si trafora la faccia.”
“Potrebbe stupirti!” Continuò l’amico con quella sua incrollabile fede nell’assurdo; nessuno sano di mente avrebbe pensato a Dominique di fronte ad un altare.

È strano anche solo vederla con qualcuno, che sia maschio o femmina. Figuriamoci sposata!
Avrebbe fatto prima a sposarsi lui con Teddy piuttosto.
La Parkinson gli diede un buffetto affettuoso sulla spalla non del tutto in linea con l’idea di megera che si era fatto di lei e scosse la testa. “Pensa al tuo matrimonio, Malfoy, e sta’ sereno … alla mia relazione scriteriata penso io.”
James lasciò che la conversazione salpasse per altri lidi dato che non lo riguardava direttamente; quello che aveva detto la Parkinson e soprattutto, quello che le aveva suggerito Scorpius, gli interessava invece molto di più.
Cioè, che lei e Domi si sposino è assurdo, ma io e Teddy…
Lui, Ted e Ben stavano diventando una famiglia. Okay, con scossoni e qualche casino nel mezzo, ma stava succedendo. Non era suo dovere fare in modo che quel germoglio promettente mettesse le radici nel posto giusto?
Metafore del cazzo a parte…
Voleva che Ted e Ben fosse le sue persone, come suo padre aveva scelto sua madre e le aveva messo un anello al dito.
Sarebbe tanto assurdo se mi sposassi anche io?
In fondo nel suo futuro, fin da quando era un moccioso con le idee poco chiare in materia, si era sempre visto sposato: come i suoi genitori, come i suoi nonni e come i suoi zii.
Non sono proprio un tipo che canta fuori dal coro in ‘sto caso.
Il suo rimuginare venne interrotto quando, con la coda dell’occhio, vide qualcosa di viola sfrecciare nella sua direzione; prese così al volo un promemoria Ministeriale, diretto a lui e Malfoy dato il timbro dell’ufficio Auror.  
Lo scorse con lo sguardo e quasi schizzò in piedi: anzi, quasi senza il quasi. “Malfoy, sputa il boccone.” Apostrofò l’amico che aveva la forchetta in dirittura della bocca. “Demiurgo.”
Bastò quella parola a far compiere la stessa azione all’altro; quel caso, per quanto la vita fuori dal lavoro fosse importante e primaria, era capace di rimetterli in riga come nessun altro. “Novità?”

“Chiamata generale alle armi … da mio padre. Muovi il sedere.”
Dev’essere roba grossa o non mi avrebbe chiamato per pranzo. È un dogma: nessun Weasley deve essere disturbato quando mangia.
Scorpius annuì, chinandosi su Rose per baciarla frettolosamente a stampo. “Ci vediamo stasera.”
Sua cugina, che conosceva la scala di priorità della sua famiglia, annuì seria. “Fate attenzione … tutti e due.”
Scorpius, che non poteva fare a meno di minimizzare, era come una sua seconda natura per lui, Merlino lo avesse in gloria, scrollò le spalle come se stesso per partire per una scampagnata. “Come potrei far altro? Devo sposarmi!”
Rose sospirò e guardò lui. “Riportamelo tutto intero.”
Fece un cenno serio di rimando, perché al di là delle battute era una promessa che le aveva fatto quando Malfoy aveva preso il distintivo. Non l’avrebbe disattesa: neppure per il dannato Demiurgo.

 
****


Londra, Victoria Embankment.
Appartamento di Michel Zabini, pomeriggio.
 
Milo a volte avrebbe voluto non avere il sesto senso che aveva.
Perché accorgersi che qualcosa non andava significava, spesso e volentieri, dover chiedere, impicciarsi e avere risposte poco piacevoli.
Nel caso di Michel però, non poteva proprio sottrarsi; qualsiasi cosa fosse il loro rapporto, in qualsiasi direzione fosse diretta, rimanere all’oscuro per evitare grane non era un’opzione.
I rapporti umani sono una scocciatura. Voglio essere un coniglio. Scopo tutto il giorno, mangio e spero di non finire mangiato.
Spense lo spinello sul posacenere del comodino e osservò Michel muoversi per la stanza, togliersi l’accappatoio con cui si era inutilmente coperto per uscire dalla doccia e infine cercare le sigarette.
Gli lanciò il suo pacchetto. “Sei peggio del principino.” Lo apostrofò. “Perdereste la testa se non l’aveste attaccata al collo. La magia vi rimbambisce.”
“È l’Accio che ci impigrisce.” Gli rispose sfilandone una dal pacchetto e accendendosela. Aveva la testa da un’altra parte e lo sguardo sfuggente.
Coniglio. Quanto vorrei essere un coniglio.
“Non che non apprezzi il fatto che, per una volta, tieni la bocca chiusa …” La prese larga. “… ma cos’è sto silenzio?”
Ed ecco l’irrigidirsi della postura. Se avesse infossato la testa nelle spalle avrebbe completato il quadretto del disagio. “Non sono un logorroico.”
“No, ma mi riempi di domande post-coito. Normalmente. Una brutta abitudine che ti dovresti togliere se non vuoi sfinire i tuoi amanti…”
“Lo ripeto, di solito non amo conversazioni da letto.” Ribatté con tono sostenuto. “È con te che…” E le parole si persero in un mormorio intellegibile.

“Sono speciale.” Attestò con tono scanzonato, che però non poté tradire un’orrenda nota di contentezza.
Era speciale, mica seghe.
“Certo che lo sei.” Il tono con cui gli venne risposto però non era saldo come al solito; stanco, piuttosto.
Merda, non posso fare la ragazzina che chiede al suo uomo cos’è che non va.
Siamo ragazzi, chi se ne fotte di…
“Qual è il casino che hai al lavoro?” Sospirò, perché se non si faceva le trecce e si radeva il pube di sicuro faceva da confessionale a tutti i maghi disadattati della sua cerchia. “Quello di cui mi parlavi prima.”
Michel soffiò una boccata di fumo verso l’alto. “Nulla che possa interessarti … È solo, una situazione.” Si risolse a dire. “Una situazione a cui devo dare una risposta.”

“E dalla.”
“È  proprio questo il punto!” Sbottò senza ragione, guardandolo come se fosse la causa di tutti i suoi mali. Non capiva. O meglio, si rendeva conto che c’era una parte della vita del maghetto a cui, volente o nolente, non poteva avere accesso e neanche gli importava, perché certo non voleva essere ovunque e comunque nella vita dell’altro, e viceversa. Però faceva male lo stesso.

Tirò un sospiro, battendo il posto vuoto e piuttosto freddo accanto a sé; la cosa non gli piaceva. “Come ti pare, ma piantala di startene impalato in mezzo alla stanza. Hai un letto, ed hai uno schianto ad occuparlo. Vedi di non sprecare la cosa.”
Michel fece un mezzo sorriso, tirato dentro al loro solito gioco di flirt e parole non dette. Gli si stese accanto, passandogli un braccio attorno alla vita e posando la testa sul cuscino. “Non dirmi che sei già pronto ad un secondo round…” Lo stuzzicò.

Eccome. Sono in lizza per diventare un fottuto coniglio, non lo sai?
“Io sì, ma tu no.” Indicò in basso e ghignò alla smorfia irritata dell’altro. “Ehi, non ti sto dando del moscio, c’è poca gente che ha la mia resistenza.”
“Non sono in vena.” Si difese, tentando di ritrarsi.  
Se lo tirò contro prima che potesse inalberarsi e partire in quarta con quel suo amor proprio mastodontico. “Falla finita, ti stavo prendendo in giro.” Per impedirgli di continuare nella sua sparata gli tappò la bocca con un bacio. Funzionò, perché un bacio con la lingua era sempre la soluzione a molti mali. “Non mi importa, okay?” Poi continuò in apnea. “Possiamo anche star qui e non fare niente.”
E non ci stiamo coccolando o cagate varie. Chiaro? Chiaro.

Michel gli sorrise spontaneo e quello, forse, bastava a lenire il senso di profondo imbarazzo che sentiva. Un po’, almeno. Non era bravo in quella roba, come abbracciarsi o accarezzarsi senza finire in bel altra frizione ed era abbastanza sicuro che avrebbe combinato un casino.
Michel però non parve turbato e si insinuò tutto contento in ogni anfratto o angolo del suo corpo, nascondendo il viso contro il suo collo. “Non ti avrei preso per uno che ama le co…”
“Sta’ zitto.” Sibilò atterrito. “No.”
Lo sentì ridacchiare e non poté fare a meno di seguirlo, anche se nervosamente. Cazzo se era nervoso. Però non era male: la vicinanza, il respiro tiepido, e il fatto che l’altro fosse davvero contento di essere tra le sue braccia e basta.

Era strano, comunque. E forse stava avendo un principio di infarto.
“Che cos’è il Centro?”
Ed eccolo, con le sue domande.
Ma era un buon segno, significava che l’umore era tornato ai livelli di sempre: ovvero inopportuno e dannatamente curioso. Si puntellò con il gomito al cuscino e sbuffò. “Un posto.” Non si sbilanciò, perché una ferita chiusa smetteva di far male solo quando non ci pensava; qualcuno lo chiamava dolore fantasma, e aveva ragione.
Michel lo guardò da sotto in su, con una petulanza che doveva trascinarsi dietro fin dall’infanzia. “Questo era facile da intuire.” Ribatté. “Di cosa si tratta?”
Non c’era possibilità di cambiar argomento, ormai se ne era fatto una ragione. “Hai mai sentita la storiella in cui il vecchio zio rimbambito butta dalla finestra il nipotino e quello rimbalza, facendo così realizzare a tutti che grande mago sarà?” 
Michel scosse la testa. “Dev’essere una cosa tedesca.” Poi si fermò come a ricordare qualcosa, e aggiunse una smorfia sarcastica. “O qualcosa che avrebbe potuto raccontare il mio vecchio professore di Erbologia … Pare che suo zio l’avesse davvero buttato dalla finestra per controllare se aveva poteri.”
“Beh, c’era un posto in cui facevano quella roba dietro pagamento di una laura retta.” Ignorò l’espressione sbalordita dell’altro. “Il Centro.”
“Ti hanno buttato da una finestra?”

Suo malgrado ridacchiò, perché il tono di orrore e il modo in cui l’altro era quasi scattato a sedere era divertente quanto adorabile.
Povero, piccolo, ignaro maghetto. C’è tanta roba brutta fuori dalla porta di casa.
Non poteva incolpare Michel però. Se c’era una cosa che aveva imparato conoscendolo e stando a contatto con Sören era che molti maghi davvero non avevano idea di quanto dura potesse essere la vita per un Magonò. Non se lo immaginavano non perché non avessero problemi, ma perché ne avevano altri.
Avere una bacchetta non ti risolve la vita.
“No, o non sarei qui a raccontartelo. Io non posso e non potrò mai rimbalzare.” Gli fece notare. “Ma altra roba … sì, quella me l’hanno fatta.”
“Era … una scuola?”
“Era un centro di correzione. Ti chiudevano tra quattro mura in mezzo alle Alpi e ti sollecitavano a tirar fuori il tuo mago interiore.”
“Ma i Magonò non hanno magia.” Osservò incredulo. “Non è questione di sollecitare nulla, non la possedete, è come chiedere di farsi spuntare un terzo braccio!”
“Seguivano una scuola di pensiero diversa. C’è gente che è tutt’ora disposta a pagare Galeoni per credere alle loro promesse.”
Michel non disse niente, ma gli vide formarsi in testa un’idea molto precisa, e perdere colore. Era un ragazzo sveglio e probabilmente anche abbastanza edotto su quel genere di coercizione, che nel Mondo Babbano veniva usate dall’alba dei tempi sotto forme e nomi diversi.
In America hanno quei bei centri per insegnarti ad essere eterosessuale…
“Non ne avevo mai sentito parlare…” Mormorò dando ragione alle sue supposizioni. “Quanto sei stato lì dentro?”
“Sei mesi, poi sono scappato.” Non gli piaceva farsi compatire, né guardare come se fosse un sopravvissuto. Anche se in fin dei conti lo era da una vita. Si alzò quindi in piedi e se ne andò alla finestra ad accendersi lo spinello che si era meritato. “La sorveglianza non era così stretta, immagino che pensassero che chilometri di boschi fossero un ottimo deterrente per chiunque. Io sono cresciuto in mezzo nella Schwarzwald  … non è stato poi questo gran problema.”
A parte il freddo.
Era uno dei motivi per cui non aveva mai preso a calci in culo Prince quando, agli albori della loro convivenza, lo aveva quasi fatto impazzire con il bisogno compulsivo di avere la casa bollente e le finestre sempre spalancate, un controsenso in una città come Boston che, in inverno, assomigliava ad un ghiacciolo gigante.
Dolore fantasma.
L’erba fece un buon lavoro nel fargli risalire l’umore, così come l’espressione preoccupata di Michel. Certo, l’altro lato della medaglia era che gli scioglieva la lingua. “Il mio vecchio ha pagato per farmi tornare la magia, come un allocco qualsiasi sarebbe attirato dal gioco delle carte … risultati immediati, guadagni facili. Stessa roba.”
“È stato tuo padre a mandarti là?”
“E chi altri? Pater familias vecchio stampo, ricordi? Un po’ come il tuo. Il caro vecchio genitore avrebbe dato tutto per non avere un figlio storpio.”
Ma la vera ironia non era stata l’inculata a secco che si era preso suo padre, che si era visto alleggerire di mille Galeoni e di un figlio perso nei boschi e così ritenuto morto; era stato constatare come, una volta finito in strada nessuno l’aveva riconosciuto. Il piccolo prodigio musicale di Lubecca, acclamato dall’intera Germania che lanciava scintille da una bacchetta, era diventato uno dei tanti ragazzetti di strada che affollavano i quartieri magici di Berlino.
E in quel momento, bambini, ho capito che Emil non era mai esistito.
Che a nessuno, specialmente alla sua famiglia, era mai importato di lui in quanto persona, ma solo in quanto metafora.
Cambiar nome e identità a quel punto era stato semplice.
Questo non lo disse però a Michel: pareva già abbastanza turbato da quello che gli era uscito dalla bocca. “Me la sono cavata.” Sdrammatizzò con una scrollata di spalle. “La società magica tedesca è abbastanza decente da non lasciare un bambino a morir di fame per strada. Sono stato ospitato in un ricovero per orfani fino a diciassette anni. A quel punto ero in grado di cavarmela da solo … il resto lo conosci.” Vedendo che non reagiva come suo solito, con  un’altra domanda o una considerazione, continuò. “Ora è il tuo turno, maghetto.”
Michel alzò la testa come se fosse stato colto di sorpresa. “ … Di fare cosa?”
“Di condividere uno scomodo segreto?” Lo prese in giro, ma appena vide la faccia che fece cambiò idea. Sembrava sull’orlo delle lacrime.
Cosa…
Michel Zabini non indossava i suoi sentimenti come una giacca, anzi tutt’altro, i loro primi approcci erano stati disastrosi proprio a causa dalla sua incapacità di mostrare qualcosa che non oscillasse tra boria e il disprezzo; ma quel giorno non era partito con il solito piede. Per niente.  
E col cazzo che è il lavoro.
“Ehi … ehi, non fare quella faccia.” Si staccò dalla finestra per raggiungerlo. “Non volevo farti restare di merda con la mia infanzia da piccola fiammiferaia, okay? Me la sono cavata, è passata. Sono un adulto funzionale adesso.”
Michel si ritrasse dal suo tentativo di toccarlo e questo non gli piacque per niente. “Non è questo … o meglio, mi dispiace per quello che ti è accaduto. Davvero. Non … non ti sei meritato niente di quello che ti è accaduto. Non ti meriti quello…” E si bloccò, perché cazzo, la gente doveva sempre bloccarsi sul più bello.

Sul più brutto vuoi dire. Non sta succedendo niente di buono. Affatto.
“Quello cosa?” Aggrottò le sopracciglia, perché una brutta sensazione era una cosa, ma avere conferme era un’altra. E non aveva una palla di cristallo né la magia per farla funzionare. “Qual è il problema oggi? Cos’hai?”
“Mio padre ha scoperto che ci frequentiamo.”
Ah.
E quello spiegava molto. Spiegava tutto. “Qualche uccellino ha cantato?” La prese alla larga perché non voleva andare dritto al punto. Lo spinello non l’aveva rincoglionito abbastanza dato che la bocca secca non era un effetto collaterale, come non lo erano le mani che gli tremavano.
Lo sai come finiscono ‘sti discorsi. Te lo puoi immaginare.
Michel fece una smorfia. “Non ci siamo nascosti … non come avrebbe voluto lui almeno.”
“Non mi era sembrato che ti importasse tanto della sua opinione.”

“Non mi importa infatti!” Sbottò come se fosse colpa sua. Lo era? Forse. Essere arrivati a quel punto senza sapere cosa diavolo stavano facendo era una follia e solo in quel momento lo capiva a pieno.
“Allora cosa sta succedendo?”
“Oltre ad essere mio padre è il mio capo. Mi ha messo di fronte ad un ultimatum … O rinuncio a te o saboterà la mia carriera.” Il tono di voce era basso, quieto. Quasi sollevato; quasi che si fosse tolto finalmente un peso.
Avrebbe voluto spaccargli la faccia.
Michel dovette intuire qualcosa dalla sua faccia, perché lo prese per un braccio un momento prima che si tirasse in piedi. “Non voglio rispondergli Emil.” Disse in fretta, quasi avesse paura che scappasse da un momento all’altro. “Ma devo, perché in caso contrario sarà lui a prendere una decisione per me.”
Gli veniva da vomitare, e considerando che si era appena fumato l’equivalente di sei antiemetici era notevole. Si alzò in piedi di scatto, radunando la sua roba alla rinfusa; una fortuna che fosse estate e non dovesse che cercare tre capi d’abbigliamento e un paio di scarpe.
“Emil?” Non tentò di raggiungerlo o toccarlo di nuovo, perché era un tipo furbo.
Non abbastanza.
“Cosa vuoi che ti dica?” Si infilò la maglietta con la certezza di averlo fatto al contrario. ‘Fanculo, in quel caso avrebbe lanciato una nuova moda. “Buona fortuna con la tua scintillante carriera del cazzo.”
“Non ho … non ho ancora preso una decisione!” Esclamò sconvolto. Perché? Non c’era proprio niente di cui stupirsi. “Volevo parlarne prima con te!”
“Per dirmi cosa?” Adesso era il suo turno di fare il finto - stupito. Stupido. Quel che era. “O meglio, scusa, per farti dire cosa? Vuoi che ti chieda di lasciare il lavoro e scappare verso l’orizzonte?”

Michel stese le labbra in una linea sottile, segno inequivocabile che si stava arrabbiando. Quanto tempo ci aveva messo per leggerlo così bene? Poco, troppo poco. “Forse.” Disse. “Perché lo farei, per te.”
“Sei fuori di testa?” Perché se non voleva tornare sulla terra, nel pianeta delle persone normali, forse era il caso che gli desse una mano. “Non sarò io a prendere decisioni per conto tu!”
“Non te lo sto chiede…”
“Cazzo, sì che lo stai facendo! Se molli il tuo mondo per stare con me come cazzo pensi possa funzionare? Te ne rendi conto sul serio?” Era già la seconda volta che tentava di allacciarsi le scarpe. Rinunciò in favore del nodo più patetico del mondo. Come si sentiva lui del resto. Il groppo che gli era salito alla gola comunque era l’erba, non altro. “Un giorno ti sveglierai e capirai di aver fatto una cazzata colossale e indovina chi sarà sulla linea di fuoco?”

“Non è vero!” La cosa che faceva più male era l’aria incredula e ferita che vedeva riflessa nel viso dell’altro. Perché aveva torto marcio, e non se ne rendeva neanche conto.
E non posso farti cambiare idea anche su questo, maghetto.
Che povero stronzo era stato.
Addirittura pensavi di chiedergli di venire con te in America…
Zabini Senior era stato una carogna, ma anche se con uno schiaffo, gli aveva aperto gli su quanto il figlio fosse ancora un maghetto troppo spaventato per avere la forza di cambiare.
Quindi si affida al sottoscritto. Fanculo.
Era stufo di fare da balia e consigliere quando neppure lui sapeva che fare della sua vita, specialmente in quel momento, specialmente perché era innamorato come un pazzo.
“Invece sì. Qualsiasi cosa ti dicessi tu la prenderesti per buona … e sarebbe una cazzata, lo capisci?” Mormorò fronteggiandolo e sì, non era mai stato desiderabile come in quel momento, un fragilissimo bastardo, incasinato quanto e più di lui. “E comunque, tuo padre non ha tutti i torti. Che futuro ci potrebbe essere per due come noi?”
Non qui. In America, forse. Ma tu non vuoi. Si capisce lontano un chilometro, cazzo, che non vuoi.

Michel serrò le labbra, gli occhi asciutti e l’intero corpo in tensione. Quasi si aspettava un pugno. Quasi sarebbe stato meglio che vederlo piangere.
Perché veniva da piangere anche a lui.
“Non vuoi neanche provarci?” Sussurrò. “Non vuoi neanche che…”
“Ti sto facendo un favore. Io non appartengo a questo… a questa roba qui. Non posso.” Indicò l’intero ambiente, lui, la bacchetta, Londra e il dannato Mondo Magico che frequentava come un bambino avrebbe saggiato l’oceano troppo freddo con la punta del piede. “Comunque me ne torno a Boston con Prince, quindi… in un certo senso la decisione è già presa.”

Non gli veniva in mente nient’altro da dire, quindi si infilò il giubbotto e aprì la porta della camera come se stesse scappando da un inferno fiammeggiante.
Più o meno.
Michel non fece nulla per trattenerlo.
 
****
 
Ufficio Auror, Pomeriggio.
 
L’ufficio Auror era in occulta frenesia, e Sören doveva fingere di non essere il motivo per cui una dozzina di Auror erano scomparsi da quasi due ore dentro la stanza del grande capo.
Dopo aver illustrato le scoperte fatte da lui e Thomas, Harry Potter aveva cambiato del tutto atteggiamento: da irritato dalla sua presenza – ovvio il perché – si era tramutato in quello sperava diventasse, ovvero un leader operativo al cento per cento che aveva dato ordine a due squadre Auror, quella del Sergente Weasley e quella di Malfoy, di prepararsi ad un blitz al finalmente trovato castello dei Prince.
Peccato non ti abbiano incluso.
Almeno aveva la magra consolazione di non essere l’unico, lì dentro, ad essere tenuto fuori dai giochi. Harry Potter doveva aver preso la minaccia della talpa seriamente date le misure prese per assicurarsi che quanti meno Auror possibile venissero a conoscenza di quell’operazione.
Trovarsi però vestito da civile e senza ordini a cui obbedire era frustrante.
Se solo mi avesse dato il permesso…
Il Salvatore non gli aveva neppure dato il tempo di chiedergli se poteva far parte della squadra di irruzione; non appena aveva finito il suo resoconto era schizzato fuori dall’ufficio alla ricerca del Sergente Weasley, lasciandolo ad arrancargli dietro finché non gli era stato chiaro che non gli avrebbe dato udienza.
Avrebbe potuto rivolgersi al suo, di capo: ma il Capitano Gillespie era lontano un oceano e anche solo per stabilire una chiamata via fuoco ci avrebbe messo troppo tempo.
A giudicare dai preparativi si preparano a lasciare il Ministero il prima possibile.
Con la coda dell’occhio notò Malfoy, tornato alla propria scrivania ed armeggiante con il proprio corpetto anti-incantesimo che sembrava non chiudersi a dovere.
“Ehi.” Disse questo con una smorfia imbarazzata. “Mi daresti una mano? Se lo chiedo a James o a qualcun altro sono prese in giro assicurate per almeno un mese.”
“Certo.” Acconsentì dato che tutto era meglio che restare con le mani in mano. Gli si avvicinò e gli strinse la cinghia ribelle che in realtà parve piuttosto cedevole, almeno alla sua presa. “… Come sta andando?” Non poté frenarsi dal chiedere.

“Siamo nel bel mezzo del briefing.” Non si sbottonò, e non poteva biasimarlo. Poi Scorpius abbozzò un mezzo sorriso apologetico. “È un’ingiustizia.” Disse. “Nulla contro Ama … ma avresti dovuto esserci tu. In fondo hai seguito il caso fin dall’inizio, e sei rimasto come consulente.”
“I consulenti vengono consultati, nient’altro.” Rispose riluttante; era grato per la solidarietà, ma era come girare un coltello nella piaga. “Non stanno in prima linea, e di certo non intervengono in queste situazioni.”
“Sì, ma…”
“Scorpius, grazie.” Lo fermò per evitare di avere la tentazione di rispondergli male. “Va bene così.”

Il ragazzo parve capire che insistere non era il modo migliore per confortarlo e gli batté quindi una pacca sulla spalla. “Li prenderemo. Se vuoi restare in ufficio, la nostra scrivania è a tua disposizione … così sarai il primo a saperlo.”
Annuì: meglio che restare in albergo come un civile qualsiasi ad attendere notizie di terza, quarta mano. Addirittura, forse, dai giornali il giorno dopo. “Ti ringrazio.” Gli sorrise di rimando prima di allontanarsi verso la piccola cucina; se doveva rimanere lì tanto valeva che si mettesse comodo.
Fu appena dopo essersi versato la prima di innumerevoli tazze di the che sentì il cellulare vibrare nella tasca, stavolta quella del giubbotto; stava cominciando ad imparare a gestire le chiamate, almeno da quando Lily aveva eletto quell’affare loro principale mezzo di comunicazione.
Sorrise, perché era lei. “Ehi.” La salutò. “Sono ancora vivo.” Aggiunse ricordando la chiamata ricevuta poco prima.
“Ottimo, perché non mi sarei davvero strappata i capelli per la disperazione di averti perso per mano di mio padre.” Lo salutò con un tono così allegro che fece un po’ meno male. Tutto.
“Tuo padre ha ben altro a cui pensare al momento.”
“Cioè?”
Sfogarsi, dato il suo stato d’animo, era quasi obbligatorio. O almeno così gli aveva detto la sua Psicomaga. Chi era quindi lui per trattenersi?
“Si stanno organizzando per un’irruzione al castello dei Prince.”
“Adesso?”
“Adesso.”

“… okay. Avevo capito che c’erano sviluppi, ma wow.” Lily fece una breve pausa prima di continuare. “Quanto devo preoccuparmi da uno a dieci?”
“Per me?”
“No, per il resto della mia famiglia di poliziotti!” Gli rispose a tono. “Cosa che ovviamente faccio, ma ci sono abituata … Per te, scemo, certo!”

Un sapore amaro gli si annidò nel retro della bocca. “Non ce n’è bisogno, non sarò della partita.”
Un’altra pausa. Lily, per quanto avesse una natura impulsiva, non era mai stata così sciocca da non realizzare quando la serietà di un argomento aveva bisogno di un attimo di riflessione in più.

La amava anche per questo.
“Papà che dice?”
“Nulla. Sono stato ignorato, più volte. Stesso per il Sergente Weasley.” Non lanciò giudizi su nessuno dei due, ma la sua irritazione era talmente percepibile che non ce ne fu bisogno. Infatti sentì l’altra sospirare.

“Vorrei suonare stupita … ma non lo sono. Hai provato con la Gillespie?”
“Il Capitano? Non farei in tempo a stabilire una connessione con Boston che…”
“No, non con Nora, con sua figlia.” Lo interruppe. “Non è il tuo Sergente? Non puoi chiedere a lei?”

Non ci aveva pensato. Non solo; era stato così preso a piangersi addosso e a mordere il freno per la frustrazione che aveva completamente ignorato di avere la soluzione a portata di mano.
“Non è detto che funzionerà.” Disse però, che i rapporti tra lui ed Ama non erano ancora rientrati nei ranghi della normalità, anche se forse, con il tempo, sarebbero riuscito a parlarle senza provare la voglia di scappare dalla stanza.
“Per quanto vorrei che non vi rivolgeste mai più la parola … devi provarci, è troppo importante per te. Giusto?”
Sorrise, posando la tazza di the. Non gli serviva più. Forse. “Giusto. E non devi preoccuparti, sarà una conversazione del tutto professionale.”
“Vorrei vedere!”

Controllò che nessuno stesse entrando nella cucina. “È di te che sono innamorato.” Le fece presente, abbassando comunque il tono, perché non sarebbe mai stato il tipo di mago da proclamare certe cose ad alta voce.
“Lo so… ed io amo te.” Il tono di voce di Lily gli fece per un attimo dimenticare l’azione e il desiderio di giustizia. Tutto quanto, in effetti. “È che mi piacere fartelo ripetere in continuazione.”
“Lo avevo immaginato.”

“Quindi…”
“Ti amo Lily.” Ripeté diligente. E gli era grato per aver sbrogliato una situazione che aveva reso inutilmente ingarbugliata. Era quello uno dei meriti della sua piccola inglese: sbrogliava matasse.

Come, in prima istanza, ha sbrogliato me.
Vide Ama passare e seppe che doveva tornare coi piedi per terra. Letteralmente. “Devo andare.”
“Salutala da parte mia.” Intuì da brava LeNa qual’era. “E … lo sai, no?”

“No, cosa?”
“Stasera ti voglio tutto intero nel mio letto.” Disse senza mezzi termini, e fu contento di non aver ancora varcato l’ingresso dell’open-space Auror per fermare Ama; doveva esser diventato dello stesso colore delle uniformi che gli sfilavano davanti.

“ … va bene.” Riuscì a bofonchiare sentendosi uno studentello con la prima fidanzatina.
Che a ben guardare è proprio così.
“Ti ho messo in imbarazzo?” Lily pareva godersela un mondo. “È che non volevo usare le solite raccomandazioni, a casa mia sono pane quotidiano.” La voce sfumò in un tono serio. “Ed è sottointeso comunque. Non fare l’eroe o ti prendo a schiaffi.”
“Ricevuto.” Esitò poi, ma non voleva rischiare niente di troppo sentimentale in quel momento. Non aveva la testa e, soprattutto, aveva paura che potesse essere di malaugurio.
Non è come se dovessi affrontare il tuo passato, no?
“Ci sentiamo dopo, Ren. Chiamami quando hai finito.” La chiuse per lui Lily, perché era vero, era nata e cresciuta in una famiglia di agenti delle forze dell’ordine e doveva esser avvezza a quel genere di saluti.
Ne fu molto sollevato. Uscì quindi dalla cucina e si diresse verso il Sergente Gillespie.
“Sergente.” La chiamò e stavolta non trovò un paio di parole frettolose e uno sguardo sfuggente, ma un’espressione sorpresa.
La interpretò come un buon segno.
“Prince.” Lo salutò con un cenno della testa. “Mi hanno detto della scoperta. Ottimo lavoro.”
“Grazie.” Tagliò corto perché non era lì per farsi lodare. “Ho bisogno di un favore.”
La ragazza gli restituì un’occhiata spazientita, ma era disposta ad ascoltarlo da come non mosse un muscolo o tentò di trovare una scusa. Era tutto quello che gli serviva. “Sören…”
“So cosa vuoi dirmi.” Passò ad un registro informale, dato che era stata lei a scivolarvi per prima. “Ma ho bisogno di esserci. Non mi importa di metter loro le manette ai polsi … ma devo essere lì quando succederà.” Mantenne il contatto visivo anche se era palese che l’altra tentasse di fare tutto il contrario. “Tu puoi capirmi.”

Ama si morse le labbra. “… Sì.” Ammise. “Ma è una decisione che dovrebbe prendere il Capitano, non  io.”
“Sei il mio Sergente. Sei un ufficiale di alto grado e hanno imparato a stimarti, ti ascolteranno.”

Non era nella sua natura far pressione in modo così smaccato, ma quell’arresto era il motivo per cui aveva calcato piede su suolo inglese in prima istanza. Concludendolo avrebbe potuto cominciare a vedere il futuro come qualcosa di concreto. La quadratura del cerchio, avrebbe detto qualcuno. Vedere Doe dietro delle sbarre, e tutto quello che rimaneva della Thule finire all’inferno era la sua Passaporta per poter essere finalmente un mago libero.
E voglio esserlo.
Per sé stesso e per essere l’uomo che Lily meritava di avere al suo fianco.
Ama dovette leggere qualcosa nel suo sguardo, perché tirò un profondo sospiro. “Sarai la mia rovina, Prince.” Borbottò. “Seguimi … abbiamo degli inglesi da convincere.”
 
****
 
Scozia, Hogsmeade,
Casa di Ted Lupin & James Potter. Pomeriggio.

 
 Ted intinse la piuma nel calamaio stando ben attento a non versarsi l’inchiostro sui pantaloni dato che  un ennesimo Gratta e Netta avrebbe sicuramente finito per farli disintegrare.
Era la sua tenuta estiva, e non era mai libero come quando poteva indossare vecchi pantaloni sdruciti e una camicia a cui mancava più di un bottone; Lily e le altre streghe di famiglia lo prendevano in giro per quella sua trascuratezza, ma non gli importava.
Del resto, mi sono messo in casa un ragazzino arruffato anche per evitare continue critiche al mio look.
Si pentì un po’ del giudizio dato a James e controllò che nessuno fosse lì per testimoniarlo.
Paranoico.
Del resto cosa poteva andar storto in una chiara giornata scozzese, dove il vento era leggero e fresco e il sole picchiava su un giardino che appariva come un campo devastato dagli gnomi?
Gnomi che in realtà erano incarnati in una piccola personcina che stava scavando con lena nei pressi del della staccionata, evitando le aiuole ma distruggendo tutto il resto. “Ben, rimani dove posso vederti.” La ammonì per la ventesima volta, per venir puntualmente ignorato.
Con un sospiro più divertito che preoccupato riprese la stesura del programma scolastico, cosa che gli costava sempre giorni di lavoro noioso e ripetitivo. Ma Materializzando la scrivania all’aperto e rifornendosi di limonata poteva essere quasi sopportabile. Quasi.
Dopo qualche minuto sentì una manina colpirgli con forza il ginocchio, richiamando doverosa attenzione. Dopo aver passato un adolescenza a farsi bistrattare dalla triade Potter sapeva riconoscere quel segnale. Abbassò lo sguardo e trovò Ben, che teneva in pugno una manciata di vermi dall’aria sofferente.
Per quanto può essere sofferente un verme.
“Per te!” Dichiarò con orgoglio. James scherzava dicendo che a volte pareva un gattino che portava doni orrendi ai propri umani dopo essersi rifatto le unghie sulle tende buone.
Indubbiamente una captaptio benevolantiae.
“Grazie.” Accettò il regalo con serietà, posandoli sulla scrivania dove disseminarono terriccio ovunque. “Li facciamo fare in padella a Jamie?”
Benedetta ridacchiò. “Jamie li mangia poi?”
“Tu li mangeresti?”
“Noooo!” Rise dandogli un secondo colpo alla gamba, stavolta con la testolina, e lasciandola lì a riposare. Le arruffò i capelli e riprese a scrivere, lasciandola arrampicarglisi in grembo senza reagire. Aveva notato che quanto più qualcuno si mostrava interessato ai suoi gesti, o cercava le sue attenzioni, tanto più, per dispetto, Benedetta lo ignorava.
Non poteva però evitare di sentirsi invincibile all’idea che la nipote fosse ormai talmente a suo agio con lui da usarlo come palestra personale.
“Che fai?” Gli chiese dandogli schiaffetti sull’interno del braccio. 
“Scrivo cose per la scuola in cui insegno. Sono un maestro, te lo ricordi?”
“Sì, della scuola al di là degli alberi con il nome buffo. Hoggorts!” Storpiò facendolo ridere. “Hoggorts!” Ripeté soddisfatta di aver suscitato quella reazione. “Scrivi tanto e leggi tanto.” Aggiunse poi. “Sei un secchione.
Non c’erano dubbi su dove avesse sentito quella parola. “Jamie deve smettere di insegnarti parole del genere.”
“Jamie diceva che lo dicevi!”
Ovvio.
“Se io sono un secchione Jamie è una capra.” Rispose facendola sbellicare dalle risate e non provando neppure un’oncia di colpa per questo. “Vuoi un po’ di limonata?” Le chiese poi per distrarla da questioni caprine.
Ben scosse la testa, perfettamente contenta della sua posizione. Rimase per qualche minuto in silenzio, presa a giocherellare con uno dei poveri vermetti, arrotolandoselo attorno ad un dito. “Babbo non leggeva e non scriveva.” Disse di colpo.
Ted trattenne il respiro: era la prima volta che parlava apertamente del padre paragonandolo a qualcuno di vivo.
E soprattutto usando il passato.
Non aveva idea se fosse una cosa buona o una cattiva: dai libri che aveva letto poteva esser vista come buona … ma a volte i libri e le emozioni umane, quelle reali, erano ad un oceano di distanza.
“Ah sì? Cosa gli piaceva fare?” Chiese incerto: era un campo minato, ma era disposto a camminarci sopra.
“Non molto.” Si strinse nelle spalle. “Lavorava con il nonno e quando tornava a casa dormiva … Quando c’era la mamma giocavamo … a palla, e a … a… quel gioco in cui ti nascondi e lui ti trova.”
“Nascondino.” Tradusse per lei. “E poi non giocavate più?”

“Uscivo in piazza con la nonna, a volte, o a fare la spesa, e giocavo a carte con il nonno.” Continuò come se non l’avesse sentito. Poi aggrottò le sopracciglia. “No, era stanco.” Rispose alla fine. “Sempre, tanto.”
Si impose di non mostrarsi turbato, ma il quadro che Ben stava facendo di Lunastorta era tutt’altro che idilliaco. Comprensibile, certo, che se fosse capitato a lui di perdere James sarebbe stata la fine esatta del suo mondo.
Ma il dolore non ti giustifica a lasciarti andare e fingere di non vedere tua figlia.
Suo fratello doveva esser entrato in depressione dopo la morte della moglie. Questo faceva quadrare anche la decisione di tornare in Inghilterra e portare Benedetta con sé.
Si è trovato da solo, in un paese di persone forse ben intenzionate, ma all'oscuro della sua licantropia e di quella di Ben.
Tornare a casa, dal branco che l’aveva cresciuto, era stata l’unica decisione possibile … e quella che, alla fine, gli si era ritorta contro.
“Teddy?” Lo chiamò riscuotendo dai suoi pensieri. “Secondo te babbo è arrabbiato?”
La guardò sorpreso. Quella domanda da dove usciva? “Perché dovrebbe esserlo?”
Ben si morse un labbro, come se avesse commesso fatale marachella. “Perché adesso gioco con te e con Jamie e … e mi diverto. E lui non può più.”
Il magone rischiò di chiudergli la gola, ma gli diede anche tempo per organizzare una risposta sensata. Spesso dimenticava che anche a cinque anni si poteva processare il dolore in maniera complessa. E farsi domande che rischiavano di toglierti la pace. “Sai, anch’io quando ero piccolo, molto più piccolo di te, ho perso i miei genitori.” Preferì passare all’italiano con un colpo di bacchetta – ormai gli incantesimi di traduzione gli venivano facili come un Wingardium Leviosa. Dalla faccetta concentrata di Ben, era la scelta giusta. “E quando sono diventato più grande … ho chiesto più o meno la stessa cosa a mia nonna. Vuoi sapere cosa mi ha risposto?” Annuì silenziosa. “Che i miei genitori erano contentissimi che potessi divertirmi e giocare.”
Lo guardò poco convinta. “Anche se loro non potevano?”

Annuì. “Proprio per questo. Perché così avrei potuto farlo al posto loro. Così ogni sera, prima di andare a letto, gli raccontavo la mia giornata. Mia nonna mi disse che anche se non li vedevo, loro vedevano me … come il tuo papà continua a stare con te anche se non c’è più.”
“Come la mamma, dal paradiso con gli angeli, sì.” Confermò trovando un parallelo con quanto i nonni Babbani dovevano avergli insegnato. Fece una piccola pausa. “Meno male che babbo non è arrabbiato allora. Perché mi piace stare qui con te e Jamie … tipo, tantissimo.”
Non. Piangere.
Sorrise di rimando, sperando di non suonare troppo lacrimoso. “Anche a noi fa piacere che tu sia qui. Ti vogliamo bene, Benedetta.”
“Okay.” Disse come una piccola regina che graziava di risposta un suddito, prima di divincolarsi e farsi lasciar andare. “Ti prendo altri vermi!” Esclamò prima di correre via.
“… grazie?” Rispose incerto se mettersi a ridere o telefonare a James e scoppiare a piangere al telefono come una neo-mamma. Decise per la risata, che probabilmente l’altro lavorava.
Gli avrebbe comunque chiesto di fare una torta di mele quella sera. E poi, baciandolo, gli avrebbe spiegato il perché.
 
*****
 
Note:

Qualcuno vuole tirarmi un pugno? :D A parte gli scherzi (ma neanche tanto) so che anche questo capitolo è cortino. La buona notizia è che almeno una delle scimmie lavorative che avevo attaccate alla schiena si è dissolta. Da adesso avrò più tempo per curare la storia, yay! \0/
Questa la canzone del capitolo.

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Capitolo 43
*** Capitolo XLII ***


Capitolo XLII



 
 
Many times I've walked the line
I've rolled the dice and questioned my life
And so I know how it feels when you have to start again
(Redlight King, Comeback)
 

San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.

Pomeriggio.
 
Essere un fratello di mezzo spesso significava avere una sorta di sesto senso. Nel caso di Albus era quasi una seconda natura.
E poi mi chiedono perché sia così impiccione. Hanno presente che razza di famiglia ho? È una chiamata alle armi continua!
Lily era infatti affacciata alla porta della stanza dove lui, povero Guaritore oberato di lavoro, stava controllando l’ultimo paziente del giro di visite serale, per fortuna senza la presenza castrante di Smethwyck.
È andato ad appestare di noia Achille, ringraziando Morgana.
“Ehi.” La salutò senza distogliere gli occhi dalla cartella medica. “Oggi non sei di riposo?”
“È tutta l’estate che sono di riposo … se vengo, sono straordinari. Ma sì, in effetti, oggi non ero richiesta.” Convenne indicando il leggero vestito a fiori che indossava. Fuori doveva far caldo. Chissà se sarebbe riuscito a prendersi un gelato da Fortebraccio prima di tornare a casa.
Senza che Mei lo scopra … Mai rovinarsi la cena con un dolce.
“Quindi?” Alzò lo sguardo per trovarla a giocherellare con una ciocca di capelli come se da essa dipendesse le sorti del mondo. Stesso livello di impegno. “È successo qualcosa?” Indagò perché tanto quello gli era richiesto.
Lily si strinse nelle spalle con fare vago. “Un mucchio di cose.”
Non era una risposta soddisfacente, decise, dedicandole l’attenzione che l’altra ovviamente desiderava da come lo graziò di una smorfietta compiaciuta. “Sto lavorando, non ne possiamo parlare dopo?”
“Ce la fai ad aspettare?” Continuò a stuzzicarlo sedendosi sul bordo del letto, dove un povero Signor Myers stava scontando gli effetti di uno Schiantesimo che gli si era ritorto contro durante un litigio con il fratello.

Come ti capisco, vecchio mio. Come.
“È come uno Kneazle che si morde la coda. Mi date del ficcanaso e poi siete sempre qui a raccontarmi le vostre faccende.” Si lamentò un po’ sterile, perché quel ruolo gli era sempre calzato come una divisa di Quidditch fresca di lavaggio.  
Lily aggrottò le sopracciglia. “Perché uno Kneazle dovrebbe fare una cosa così stupida? Mica è un gatto!”
“Hai capito che intendo.”
“Sì, ma mi diverte farti saltare i nervi … Capita così di rado di poterti molestare, Mister Imperturbabilità!” Lo canzonò con una traccia di affetto che non riuscì a non indorargli la pillola.

Lily, fino alla tomba, sarebbe sempre stata in grado di fargli andare giù le pozioni più amare con un semplice sorriso. Ci sapeva fare.
“Non è imperturbabilità, è maturità emotiva. Saresti stata una splendida Serpeverde sorellina, se ne avessi mai posseduta un briciolo.” Replicò sulla stessa linea, firmando la cartella e rimettendola a posto. Godendosi il broncio dell’altra, e il punto segnata – Pluffa al centro – Appellò una sedia e si si sedette.
Niente di meglio che una stanza piena di pazienti esanimi per una chiacchierata.
“Forza, che succede?” La incoraggiò.
“Non lo dico a te perché sei speciale.” La prese alla larga. “Ma perché avrei voglia di dirlo a tutti ma ancora non posso. Sei solo una scelta sensata.”
“Grazie…?” Incrociò le braccia al petto confuso. “Hai deciso di andare in Australia?”
Perché se è così Scott è appena diventato la persona più odiosa del pianeta.

Poteva essere un gran bravo ragazzo, ma non se rapiva sua sorella per portarla in mezzo ai canguri.
Lily scosse la testa. “Con Scott è finita. Io e Sören ci siamo messi assieme.”
Ah!
“Ah.” Ripeté tentando di fingere sorpresa con una punta di preoccupazione, visto che era ciò che ci si aspettava da un fratello maggiore pienamente investito nel ruolo. “Grandi cambiamenti quindi.”
Peccato che Lily fosse una delle poche persone capace di leggerlo come un libro aperto. “Albie falla finita, lo so che sei contento.”
“Devo esserlo?”
Gli venne risposto con un sogghignetto saccente. “Penso di sì visto che hai una cotta per Ren e cerchi di inserirlo nella nostra famiglia da quando è arrivato.”
“Non ho…” Si schiarì la voce. Era una fortuna che lui e Tom non fossero davvero connessi telepaticamente come la maggior parte dei loro amici sosteneva.

O stanotte avrei dormito nel canestrino di Zorba.  
“… mi è simpatico.” Rispose fiaccamente. 
“Tranquillo, non sono mica gelosa, lo divido volentieri!” Ribatté Lily con l’aria di divertirsi un mondo. Poi tornò seria. “Anche perché se c’è una cosa di cui ha bisogno, è avere amici. Ed io non riesco più a ricoprire quella posizione al cento per cento. Ho altri compiti adesso.”
“Risparmiami i dettagli grazie.”
Con sua sorpresa l’altra arrossì. Non era da lei insinuare e poi ritrattare per timidezza. Quel Prince ci sapeva fare. O forse, aveva davvero catturato il cuore della sua incostante sorellina.

Ha giocato sulle lunghe distanze ed ha vinto. Chapeau.
“Sono contento che siate riusciti a risolvere.” Aggiunse dandole un leggero colpetto alla caviglia con la punta del piede. Un po’ per stuzzicarla, un po’ per simulare un abbraccio che al momento era troppo pigro per dare.
Non posso alzarmi … proprio no. Le poltrone per i visitatori del San Mungo sono le più comode del mondo.
“Sì, sono contenta anch’io.” Abbozzò un mezzo sorriso. “Penso che chiunque se lo aspettasse tranne noi due.”
“Più o meno.” Confermò con una scrollata di spalle. “C’era un po’ questo enorme elefante rosa di cui nessuno voleva parlare, ma era difficile non notarlo. Sören poi non fa granché per nascondere quanto sia perso di te. Anzi, mi è sembrato strano che tu non te ne sia resa conto prima.”
“I miei poteri non funzionano quando sono coinvolta anch’io. E poi, non c’è più cieco di chi non vuol vedere … non ammettevo i suoi per non ammettere i miei.” Sospirò continuando a giocherellare con la bistrattata ciocca. Quasi si aspettava di vedergliela infilare in bocca, come quando era piccola. Ma non erano più bambini.

Ma ci comportiamo ancora come tali. Specialmente quando si parla di cuore.
Irragionevoli bambini.
“Bella fregatura.” Replicò tirandole la piuma che usava per scrivere sulle cartelle. “Oppure comoda, a seconda dei punti di vista suppongo. Farsi corteggiare non è male, vero?”
Lily la prese e gliela tirò di nuovo contro. “Se non mi fossi comportata da idiota miope forse le cose non sarebbero andate altrettanto bene.”
“Ah sì?”
Gli venne risposto con una linguaccia. “Sì, e non accetto consigli da chi ha avuto una sola relazione in tutta la sua vita!”
“Non conta la quantità, cara sorellina, ma la qualità.” Le fece notare chiudendole la bocca con soddisfazione. “Ma sono contento. Per te e per Sören. Siete strambi, ma del genere strambo che si compensa. Andrete a gonfie vele.”
Da come gli sorrise sollevata, intuì che era quello che Lily aveva aspettato di sentirgli dire per tutto il tempo. “Credi a quel che dici o sei solo contento di aver vinto una scommessa con Tom?” Gli domandò infatti. “Perché ne avete una in corso, non mentirmi.”

Ridacchiò. “Non posso essere entrambi?” Tornò serio, perché dietro le frecciatine sua sorella gli stava chiedendo un parere vero. E poteva capire le sue riserve: al di là di tutto, Sören Prince non era il ragazzo perfetto, modello Scott Ross, proprio per niente.
Semmai è il suo estremo. Bravo ragazzo, ma non proprio brava persona.
E questo genere di maghi sono un po’ la mia specialità.
“Mettiamola così … Se trovi qualcuno che pensa che qualsiasi cosa dici o fai è degna di nota, e nonostante questo ritiene che tu sia un po’ idiota … beh, è quello giusto. Non sarà facile, sorellina, non ti addolcisco la pozione … ma credo che ne varrà la pena. Faccio il tifo per voi.”
Lily si mordicchiò un labbro con quell’espressione magnifica che a volte avevano le ragazze, e che davano un senso a tutta la faccenda dell’amore eterosessuale. “Sören a volte pensa che sia un po’ idiota.”

Allargò le braccia in un abbraccio che era davvero troppo stanco per elargire. “Congratulazioni allora, hai trovato il tuo principe azzurro. Non lasciartelo scappare.”
Lily a questo si rabbuiò appena. “Quello non dipende da me … Lo sai che papà e compagnia bella vogliono rispedirlo in America.”
“Nessun cambiamento quindi?”

“Forse.” Esitò. “Non ho capito molto, ma pare che lui e Tom abbiano trovato il castello dei Prince e che papà stia per organizzare un attacco in piena pompa magna Auror.”
“Ah. Ma dai.”
Tom è riuscito a ricomporre la mappa? E non mi ha detto niente?!

“Tommy si è scordato di renderti parte della cospirazione di cervelloni eh?” Indovinò Lily, dannata piccola LeNa. “Ops.”
“Ne pagherà le conseguenze.” Replicò sereno, perché poche cose gli davano più gioia di avere un motivo per mostrarsi offeso. “Comunque … Sören è andato con la squadra?”

“Lo spero. Significherebbe che ha più possibilità di rimanere.” Esitò. “… e ovviamente non lo spero, perché si tratta pur sempre di un assalto. E ci sarà John Doe in quel castello.”
Il tono in cui lo disse era leggero, ma non poté evitare di irrigidirsi e impallidire. I brutti ricordi rimanevano tali anche dopo anni, anche se si diventava coraggiosi. Smettevano solo di far paura. Almeno un po’.
Si alzò e gli tese quindi la mano. “Dai, ho finito il mio giro di visite per oggi. Vieni ad aspettare il tuo principe a casa con me.”

Lily la prese tirandosi su. “Hai intenzione di maltrattare Tom e metterlo in imbarazzo?”
“E prepararti il the migliore del mondo. Come puoi rifiutare?”
Gli passò un braccio attorno alla vita e così uscirono dalla stanza. “Hai ragione, non posso proprio.”
 
****
 
Ministero della Magia, Dipartimento Applicazione della Legge sulla Magia.
Ufficio Auror, Pomeriggio.
 
“Ti devo ringraziare.”
“L’hai già fatto tre volte. Basta.”
“Veramente ho soltanto tentato.” Le fece notare quell’insopportabile maghetto continentale che aveva avuto la sfortuna di conoscere, apprezzare e di cui disgraziatamente era ancora un po’ innamorata.

Ama alzò gli occhi al cielo, stringendo le cinghie posteriori del corpetto anti-incantesimo di Sören, un prestito dell’ufficio Auror.
“Fa’ lo stesso.” Tagliò corto. “Se devo esser franca, non pensavo che il Gran Capo ti desse l’okay.” Ammise mentre l’altro si voltava e provava vari movimenti per vedere se fosse aderente al punto giusto. Fece un piccolo cenno  d’approvazione e poi le sorrise. “Lo hai convinto tu.”
“Sì, ma non pensavo di riuscirci.”
“Appunto. Grazie.”
Gli rifilò un pugno sulla spalla, che l’altro non schivò proprio per farle dispetto. Si massaggiò infatti il punto colpito e le restituì una faccia da schiaffi.

Comunque era rimasta sorpresa sul serio quando Harry Potter in persona, arrivato durante l’alterco tra lei e il Sergente Weasley, che caparbiamente aveva deciso che Sören non sarebbe mai stato della partita, era intervenuto.
 
“Sergente Gillespie, c’è qualche problema?” L’aveva richiamata facendola scattare sull’attenti. Quell’ometto mite e non molto alto aveva un tono di voce e un atteggiamento che facevano a pugni con il suo aspetto.
Forse era quello a renderlo il mago leggendario che era.
“No, Signore.” Aveva scosso la testa. “Il Sergente Weasley ed io stiamo discutendo se far partecipare o meno l’agente Prince.”
“Non se ne parla, è un civile su suolo britannico. Non mi prendo questa responsabilità!” Non che avesse avuto tutti i torti; se Sören fosse stato ferito, a passare i guai sarebbero stati i suoi superiori.

Ovvero noi due, in ugual misura.
Harry Potter aveva assunto l’aria di chi stava riflettendo. Aveva guardato verso Sören, che distava da loro la distanza necessaria a fingere, male, di non star ascoltando. “Agente Prince.” L’aveva richiamato e questo era scattato come una molla, palesando quanto in realtà fosse partecipe della conversazione.
Idiota.
“Comandi.” Aveva detto affiancandolesi. In uniforme o meno, bisognava ammetterlo, sembrava più marziale di tutti loro messi assieme.
“Vuoi partecipare all’incursione?” Gli aveva chiesto diretto e senza troppi giri di parole.
“Sissignore.”
“Sarà una vendetta personale?” All’espressione confusa di Prince il mago aveva aggiunto. “Rispondimi in maniera sincera. Devo sapere se sarai un elemento imprevedibile o un supporto valido alla mia squadra.”
Sören aveva avuto una lieve esitazione, chiara a tutti e soprattutto a lei. “Non cerco vendetta, Signore. Ma è personale, sì.” Aveva ammesso senza abbassare lo sguardo.
Idiota. E onesto. Sei davvero migliore di me.
Il Sergente Weasley aveva emesso un profondo sospiro. “Non fraintendermi ragazzo, ti capisco, ma è il motivo per cui non puoi venire.” Si era voltato verso il proprio superiore. “Harry, non possiamo avere in giro un ragazzino dalla bacchetta facile. Sarà un arresto, questo, non un’esecuzione.”
Sören aveva serrato la mascella senza rispondere. A quel punto, era inevitabile, era toccato a lei. “Per l’agente Prince è personale, ma lo è anche per la maggior parte delle persone coinvolte.” Aveva esordito con calma, che lì andava mantenuta sul serio. Sören era un fascio di nervi palpabile e si stava palesemente costringendo a non aprire bocca. “La Thule ha rovinato le vite di molte persone. La vostra … la mia. John Doe ha ucciso mio padre.” E la morte Jeremiah Gillespie era il motivo principe per cui era entrata in polizia. Se non era quella, un’agenda personale. “Ma ciascuno di noi confida nel fatto di mantenere il sangue freddo quando l’occasione di averlo a portata di mano si presenterà. Siamo agenti, non vigilantes.”
Harry Potter le aveva rivolto un’occhiata lunga e scomoda. Era come se gli stesse leggendo dentro, il che poteva pure essere dato che c’era la leggenda metropolitana secondo cui fosse il Legimante più dotato dell’intero Mondo Magico. “Non hai tutti i torti.” Aveva detto. “L’agente Prince sarà sotto la tua responsabilità, Sergente.” Aveva aggiunto tornando ad ordini e forma, cosa che l’aveva tranquillizzata molto. Il piglio familiare con cui veniva condotto quell’ufficio la destabilizzava.  
“Sissignore.” Aveva ribattuto, ignorando l’espressione trionfante del suo assistito. Quello o sarebbe stata costretta a prenderlo a calci.
 
“Siamo pronti ad andare.” La riscosse il tedesco indicando l’assemblamento di Auror, pronti a prendere una Passaporta che li avrebbe portati ad un tiro di distanza dal maniero dei Prince.
Odio le Passaporte.
Forte di quel pensiero lo afferrò per il bavero del corpetto. “Se ti metti nei guai o sparisci dal mio raggio visivo giuro che te la faccio scontare. Con gli interessi.” Sibilò, che terrorizzarlo era una buona strategia per tenerselo incollato al sedere. “Non un passo senza che io lo autorizzi, neanche per andare in bagno, ricevuto?”
“Sissignore.” Prince annuì con l’aria di aver capito la serietà della minaccia. Era anche impallidito.
Eccellente.
“E adesso andiamo a fare quel che sappiamo far meglio.” Gli diede una pacca sulla spalla. “Prendere i cattivi.”
 
Era felice di essere sotto il comando del Sergente Gillespie: forse come civili non sarebbero mai riusciti ad intendersi del tutto – temeva soprattutto per colpa sua – ma come agenti erano da tempo parte dello stesso meccanismo oliato.
Mi fido di lei. E lei si fida di me.
Si avvicinarono così all’assemblamento di agenti britannici e fu immediatamente salutato da un sorridente Scorpius.
“Dei nostri?”
“Dei vostri.” Confermò.
“Grande!” Gli strizzò una spalla. A ciascuna squadra venne assegnata una Passaporta, e così si avvicinò alla ruota di un automobile giocattolo che era toccata alla sua vecchia squadra.

“Prince, sei tornato.” Attestò Potter con una smorfia incomprensibile. Non riusciva a capire se fosse di sorpresa o fastidio. Forse entrambi. “Ti siamo mancati così tanto?”
“Tu no.” Rispose a tono, facendo ridacchiare tutti, compresa Ama che si premurò però di rifilargli una gomitata nelle costole.
“Cerchiamo di evitare i momenti da asilo.” Li ammonì afferrando la Passaporta. “E parlo a tutti.”
“Speranza inutile Sergente, ma una stellina per averci provato.” Commentò allegro Scorpius rimediandosi una serie di occhiate esasperate, ma allentando anche la tensione che circondava tutti come uno spesso guanto di cuoio.

Ci siamo. Stiamo per prenderli.
Sören fu l’ultimo a toccare la Passaporta e poi, al segnale convenzionato, sentì il famigerato e poco apprezzato gancio all’ombelico mentre il mondo prendeva a girare come una trottola impazzita.
Pochi secondi dopo si trovarono in caduta, per fortuna non libera, su quello che era un tipico paesaggio inglese: colline brulle e altre ricche di una fitta vegetazione boschiva, un fiume color piombo (il fiume della mappa) e lontano la silhouette di una città Babbana grigia e sabbia.
Così questa è la casa dei miei avi.
Era un bel posto dove crescere, pensò, e fu un pensiero rapido, come abbastanza rapidamente si stava avvicinando alla terra ferma. Atterrarono in quello che sembrava un pascolo non utilizzato e Sören saltò in piedi solo per cercare con lo sguardo il proprio Sergente, che era a terra e piuttosto dolorante.
“Tutto bene?” Le chiese aiutandola ad alzarsi. Questa rifiutò la mano e lo guardò male. Ricevuto il messaggio, la lasciò alzarsi da sola per non trovarsi la mano amputata.
“Detesto le Passaporte.” Borbottò. “Mai stata brava nella fase di atterraggio.”
“È perché non hai mai cavalcato un Thestral … Allora sì che le apprezzeresti!” Replicò Scorpius spazzolandosi i pantaloni mentre Potter e Jordan scendevano poco distanti con l’aria di chi lo faceva da una vita. “Anche la mia fidanzata le eliminerebbe dalla faccia della terra.”
“Io e la tua fidanzata andremo d’accordo.” Sbuffò Ama facendo un cenno al Sergente Weasley che era spuntato dal retro della collina alla cui base erano finiti. “Ci siamo tutti.” Gli comunicò.

L’uomo diede un’occhiata sommaria al gruppo. “Bene. Raggruppiamoci!”  
Sören si inserì nel folto gruppo di Auror, circa una ventina tra maghi e streghe, mentre il Sergente Weasley, evitando Sonorus di sorta, parlava con voce chiara ma naturale. “Gli Spezza Incantesimi stanno lavorando sulle barriere.” Esordì. “La mia squadra sarà quella di sfondamento, le altre due accerchieranno il perimetro.” Si rivolse all’altro team rimasto a parte il loro. “Sergente Stump il vostro compito, una volta Disilluso il Castello, sarà di cercare i maghi e le streghe tenute in ostaggio … Ricordatevi che sono malati, e se possibile, non vanno avvicinati. Devono essere messi in sicurezza in attesa della squadra medica dal San Mungo. Agente Potter, la vostra squadra sarà di appoggio a quella del Sergente Stump.”

“Ricevuto.” Rispose l’interpellato che tra tutti loro era quello che deteneva più anzianità, ad eccezione di Ama che però rimaneva, gradi a parte, un’osservatrice.
Sören, dato che era una decisione razionale, tentò di non provare delusione all’idea di esser relegato come saggina di scorta;  dopotutto sin dall’inizio la squadra a cui era stato assegnato contava agenti che avevano al massimo un paio di anni di servizio alle spalle. 
E non abbiamo neppure un supervisore.
Ad occhio, parevano anche i più giovani.
Il Sergente Weasley interruppe il suo discorso per controllare lo specchio Comunicante che aveva in tasca. “Gli spezza-incantesimi hanno finito. Conoscete le consegne. Squadre in posizione.”
Sören seguì quindi quella capitanata da Potter, che per l’occasione sfoggiava un atteggiamento professionale, bizzarro su una faccia da schiaffi che sembrava disegnata per farlo sembrare come se stesse sempre per prenderti in giro. Sorpassata la collina poté vedere, infine, il castello.

Era come se l’era immaginato: di pietra grigia, dello stesso colore del cielo, piombo scuro su una distesa di erba che nascondeva parte del primo piano. Decine di torrette, le molte delle quali erano crollate o erano state corrose dal vento e dalle intemperie. Tetti di ardesia sfondati e finestre cieche. Era poco più che un rudere ormai eppure manteneva ancora una traccia dell’antico splendore.
O forse sono io che ce la voglio vedere.
“Bello. Messo male, ma bello.” Commentò Malfoy quasi avesse indovinato il corso dei suoi pensieri. “Medievale … roba normanna, sicuramente.” Gli lanciò un’occhiata. “C’eri mai stato?”
“No.” Rispose sentendosi inspiegabilmente in colpa. Fino a poco tempo prima neppure sapeva di possederlo, eppure si sentiva in parte responsabile di quel decadimento. Una volta doveva esser stata una magione magnifica, una dimora da re. “La generazione di mio padre è stata l’ultima ad averlo abitato.”
“Beh, quando tutto questo sarà finito tornerà in tuo possesso … Cioè, già c’è, ha solo un problema di occupazione abusiva.” Esitò. “Battutaccia?”
Gli sorrise per mostrargli che non se l’era presa, ma non commentò.
Ha ragione.
Quella era la casa natale della parte di famiglia in cui si riconosceva, a cui guardava quando sentiva che l’influenza di suo zio ancora gli corrodeva l’animo.
Guardare quelle rovine era sentirsene parte e sperare che, nonostante tutto, fossero ancora buone a qualcosa.
È casa mia. E Johannes … mia madre … me l’hanno rubata.
Sì, avere un obbiettivo cancellava tutta l’ansia e il malessere che aveva provato fino a quel momento.
È casa mia. Devo riprendermela.
Considerazioni a parte, era arrivato il momento di entrare in azione: seguì in silenzio la squadra costeggiare il perimetro del castello e poi tagliare all’interno della macchia boschiva che si sviluppava selvaggia tutta attorno, chiudendolo in un abbraccio serrato. In molti punti le mura difensive, rese visibili dagli Spezza Incantesimi, erano crollate, inghiottite dalle sterpaglie.
Il Sergente Stump, una donna dall’aria volitiva, un po’ smorzata dai capelli di un brillante color rosa si fermò, facendo il cenno convenzionato per farsi imitare. “Passiamo di qui.” Fece andare avanti un altro auror che con la bacchetta si accertò non fossero rimasti incantesimi che avrebbero allertato gli occupanti del castello. “Agente Malfoy … L’uscita sul retro?”
“Ci dovrebbe essere l’uscita dalle cucine.” Considerò questo facendo un passo avanti. “Di solito si trovano lontane dal maschio centrale … in questo genere di castelli sono vicine alle stalle, cortile esterno.” Fece qualche rapido calcolo mentale e si mise in testa. “Per di qua.”
“Sa dove sta andando?” Gli chiese a bassa voce Ama, che da americana era comprensibilmente confusa e in allerta.

“Sì.” La rassicurò. “Scorpius è Purosangue, ha abitato in castelli simili a questo da quando è  bambino, li conosce bene.”
La strega fece un cenno di assenso e continuò a camminare. Il silenzio in cui erano immersi, e il sole che stava calando illuminando tutto d’oro e d’arancione davano un’atmosfera surreale alla scena, quasi fiabesca avrebbe detto Lily.

Tra poco sarà buio.
Punto positivo se volevano entrare senza esser visti.
Attraversarono in fila serrata l’erba alta che occultava quello che una volta doveva esser stato un giardino, a giudicare dal rudere di una gigantesca fontana circolare ormai secca e piena di rovi, e tagliarono lungo una delle torri arrivando così ad una serie di assi che dovevano mimare una porta, chiusa in più giri di catena.
“È qui Malfoy?” Si informò la strega.
“Mi mangerei il cappello a punta che al momento non ho.” Rispose quello beccandosi uno scappellotto da Potter. “Sì, questa è l’uscita dalle cucine.”
Sören rimase in disparte mentre due Auror della squadra principale cominciarono a lavorare sulla serratura. Il castello era silenzioso e, in apparenza, disabitato.
“Ci siamo.” Disse il Sergente Stump. “Malfoy, rimani vicino a me e bacchette alla mano. Non sappiamo cosa ci aspetta là dentro.”
Io sì.
Per questo si assicurò di avere la presa salda.
 
****
 
Diagon Alley, Casa di Al e Tom.
 
Una volta Loki, in vena di lepidezze causa troppe whiskey incendiari bevuti,  gli aveva chiesto perché lui e Albus non avessero ancora stretto il nodo nuziale.
Tom, oltre a augurargli una morte prematura per cirrosi epatica, non gli aveva risposto, ma in cuor suo conosceva il motivo.
Perché già lo siamo.
Non servivano riti magici o un prete blaterante in salsa Babbana. Lui e Albus erano come una coppia sposata perché solo un appartenente alla suddetta avrebbe capito che la propria metà era infuriata da quel che c’era a cena.
“Bentornato!” Lo salutò con un sorriso, mentre a tavola facevano mostra di sé disgustosi cartocci unti di patatine, pesce fritto e il temibile kebab. Oltre a questo Lily e Meike erano lì, con due sorrisetti identici e famelici, pronte a carpire il minimo segnale di discussione.
“Io questa roba non la mangio.” Offrì diplomatico, scervellandosi sul motivo per cui l’altro si era vendicato in modo così crudele.
“Allora muori di fame.” Replicò sereno il compagno sedendosi e servendosi generosamente di patatine fritte che innaffiò con una quantità imbarazzante di salsa all’aglio. “A proposito, la dispensa è vuota e i biscotti sono finiti.”
È decisamente incazzato con me.
Mantenendo un’espressione neutra – anche se Cagliostro drizzò il pelo al suo passaggio – optò per una dignitosa ritirata in salotto. Lily mise il broncio quasi si fosse aspettata di meglio.
Va’ a teatro se vuoi uno spettacolino.
C’era stato un tempo in cui le persone evitavano i suoi malumori temendoli come tempeste improvvise.
Anche se, a pensarci bene, quel consesso contava gli unici tre che se ne erano sempre abbondantemente fregati.
Oh, fortuna.
Si ritirò quindi nell’unico punto della casa che non puzzasse di fritto, fingendo di voler riordinare la nuova-vecchia collezione di vinili che aveva iniziato qualche anno prima, complice la vicinanza con negozi specializzati nella Londra Babbana. Ovvio a dirsi, neanche cinque minuti dopo Al entrò con le mani sui fianchi, chiara impronta genetica di nonna Molly.
“Beh?” Lo apostrofò.
Non c’è riposo per i malvagi.
“Cosa?” Chiese pulendo con un panno The Queen is Dead dei The Smiths con l’attenzione che riservava ai suoi oggetti più preziosi e complici nell’evitargli di alzare lo sguardo e scontrarsi con le iridi giudicanti del compagno.  
Al sbuffò come se detenesse tutte le ragioni del mondo. E, purtroppo, in quella casa era così. Il più delle volte. “Castello dei Prince.” Scandì.
… ah. Già.
Si era totalmente dimenticato di informarlo di quella insperata svolta di eventi, nonostante Al ne fosse stato il fautore principale, spronandolo a dargli una mano con la mappa dopo averla recuperata con le lusinghe – e circonvenzione di incapace se chiedevano a lui – dalle mani degli auror.
“Mi è passato di mente.” Sì, c’era decisamente un graffio sul lato B. Avrebbe dovuto riportarlo al venditore e pretendere il giusto risarcime…
Gli arrivò un cuscino in testa che sfiorò pericolosamente il disco. Gli lanciò un’occhiataccia che fu fieramente sostenuta.
“Come ha fatto a passarti di mente?! Questa storia occupa ogni angolo del nostro tempo libero da settimane! Idiota!”
“Non insultarmi.”
“Ti descrivo!”  

“C’era bisogno di me in bottega.” E non era una scusa. Non del tutto. “Un tedioso imbecille è entrato accusandoci di avergli danneggiato la bacchetta durante la riparazione e se n’è andato solo quando gli abbiamo promesso di lavorarci ancora.” Soffocò il fiotto di collera che provò al riaffiorare del ricordo. Quel lavoro, Stevens glielo diceva sempre, era una buona palestra sulla tolleranza.  
Un lampo di comprensione passò nello sguardo di Al. Ne approfittò biecamente. “Sono riuscito ad allontanarlo a parole stavolta.” Aggiunse.
“Non l’hai spedito fuori a colpi di fattura? Ammirevole.” Un piccolo sorriso lo ricompensò della velocità con cui aveva colto la debolezza nella sua corazza. “Non riuscirò mai a capire perché Rupert ti lasci parlare con i clienti … Sei un disastro nelle pubbliche relazioni.”

“Ho scelto questo lavoro proprio per non preoccuparmene.” E entrambi sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto essere il contrario. I suoi geni e non ultima, la sua anima, lo avevano dotato di una naturale capacità di persuasione.
Preferisco usarla per portarti a letto e farti dimenticare che vuoi farmi la pelle.
L’adolescenza che aveva passato – e la serie di sfortunati eventi che l’avevano costellata – gli avevano fatto passare ogni delirio di onnipotenza: preferiva di gran lunga una ponderata e serena avversione per il consesso umano.  
“Sì, ma in questo momento non sei in bottega … ma con me, quindi preoccupati.” Lo stuzzicò sedendoglisi accanto. “Sul serio, come ha fatto a passarti di mente?”
“Cercavo di non pensarci.”
Aggrottò le sopracciglia confuso, ma poi capì. Capiva sempre per fortuna. “Sei preoccupato?”
“No.”
“Provaci ancora.” Sbuffò. “Stavolta convincimi però.”
Non gli rispose. Nella vittoria del momento si era esaltato all’idea di aver finalmente scoperto il covo del Demiurgo, certo. Dopotutto era il motivo per cui aveva accettato di aiutare Al in quella faccenda in prima istanza: fare scacco matto ai cattivi e vincerà la partita con la forza del loro ingegno.    

Ma adesso siamo alla resa dei conti. E tanto può andar storto.
“Cosa succede ad un nido di vespe quando vai a stuzzicarlo?”
“Non mi sono mai posto la domanda … era Jamie l’idiota che veniva quasi punto a morte perché pensava di trovarci il miele.” Gli sorrise. “John Doe è un cane sciolto, non ha più la Thule a parargli il sedere. Lo arresteranno e sarà finita.”
Anche l’altra volta pareva fosse finita.  
Preferì non dire niente però, che era una conversazione sterile perché da quel punto di vista lui e Albus la pensavano in modo diverso. Al aveva una perenne, e a volte un po’ irritante, fiducia nella forze del bene, nel concludersi della storia con un ‘e tutti vissero felici e contenti’ …
Io no.
Per quanto lo riguardava, ‘il felici e contenti’ delle fiabe non era che una stortura della realtà, dove le parentesi di serenità erano parentesi, appunto. Non se la sentiva però di obiettare. Del resto quell’intaccabile fede era uno dei lati che più amava di Albus Severus Potter. Lo illuminava da dentro, e Merlino solo sapeva quanto il mondo avesse bisogno di quella luce.
Di quanto io ne abbia bisogno. Mi riesce così facile inciampare nel buio…
“Uno zellino per i tuoi pensieri.” Lo richiamò all’attenzione. “Va tutto bene?”
“Sì.” Scrollò le spalle ma quando l’altro gli passò le dita trai capelli buttò fuori un inevitabile sospiro.
“Sono preoccupato anch’io. C’è pur sempre un pezzo della nostra famiglia là in mezzo.”
Accettò la diversione. “Mai stato così felice di essere adottato, se si parla di James.”

“Già … a volte mi chiedo se i miei non l’abbiano rubato ai Troll di montagna.” Gli passò un braccio attorno alla vita e gli posò la testa su una spalla. Rimasero qualche minuto così, ascoltando le chiacchiere intellegibili di Lily e Meike provenire dalla cucina.
“Sono contento che questa volta siano gli altri a prendersi meriti … e la prima linea.” Disse dopo un po’, strofinandogli il naso contro la stoffa della maglietta. “Ne abbiamo avuta abbastanza per un paio di vite, vero?”
La crisi era rientrata quindi poteva finalmente fare la cosa che più gli piaceva. Prenderlo in giro.
“Ma come, non sei un Potter? Dovresti esser fuori con i tuoi valorosi parenti a combattere le forze del male.”
“Crepa.” Gli morse la spalla con un filo di ragione. Accettò. Anche perché era tutto fuorché spiacevole.

“No.” Gli tirò una ciocca di capelli per allentare la presa della dentatura  sulla sua povera pelle. “Prometto che al prossimo casino ti consegnerò impacchettato a tuo padre con l’assicurazione che ti impiccerai in ogni modo possibile.”
“Ho fatto bene a lasciarti digiuno.” Sbuffò puntellando il mento sulla clavicola, dove faceva più male. “Cambiando discorso, mia sorella si è messa con tuo cugino.” Aggiunse estemporaneo.
Tradusse parentele con nomi. “Lily si è messa con Sören?” Doveva avere un’opinione in merito, supponeva.

Se non fosse che non me ne frega niente.
… tranne di sapere che faccia ha fatto Harry. Sarà stata impagabile.
“Cronaca di un disastro annunciato.” Commentò per fargli piacere. “Non vedo l’ora che diventi il principale argomento di conversazione alla Tana. Ce ne libereremo verso Natale.”
“Lily è al settimo cielo, cerca di essere carino o giuro che ti metto la sabbia nel the.”
“Tenterò.”
 
“Al, possiamo mangiarci il sushi di Tom o sei ancora arrabbiato con lui?”

Tom assaporò l’avvampare dell’altro, che per giustificarsi trovò doveroso tirargli uno spintone. “Non è più arrabbiato.” Rispose ad alta voce schivando un fiacco tentativo di tirargli un pugno. “Meike? Se tocchi la mia cena ti deporto in Germania.”

“Allora sbrigati, che Lily mangia come una donna incinta!”
Mei, non provare a tirarmela!” Perché continuavano ad invitare quella rossa rumorosa come una batteria di coperchi? Era un mistero che non avrebbe mai risolto. “

“Loro due sono parte della punizione immagino.” Sospirò alzandosi e tirandosi dietro un imbronciato Albus.  
“Mei vive da noi e ci sfama quindi non lamentarti. Per quanto riguarda Lils …” Gli lanciò un’occhiata di ammonimento. “Sören fa parte della squadra di incursione, ha i nervi a fior di pelle, aveva bisogno di stare in compagnia.”
Non commentò, preferendo un cenno di generica comprensione che gli fece ottenere un bacio a fior di labbra. Per qualcosa di più serio, era sottointeso, doveva impegnarsi di più.

“Accetto la sua presenza, ma non farò domande sulla loro neonata, ridicola storia d’amore.” Borbottò.
“Dovrai comunque ascoltare le risposte perché ho intenzione di farle il terzo grado.”
Giunse ad una terribile realizzazione. “…hai aspettato me per farlo.”
“È la tua punizione, mio caro.” Gli sorrise dolce come la serpe tramutata da tenero cerbiatto che era.

La cosa deprimente era constatare che, come ogni volta, la mutazione non lo metteva minimamente in allarme.
Ma ci sono due seccatrici che non mi permettono di dimostrarglielo…
“Ehi, Tom, pensieri casti, grazie!” Lo apostrofò la dannata LeNa non appena mise piede in cucina, con ovvio sottofondo sghignazzante del folletto di Rügen. “Ci sono minorenni a tavola!”
“La mia innocenza è volata via molto tempo fa per colpa di questi due.” Ribatté Meike intingendo le proprie patatine in salse orride. “So più di sesso gay che di quello etero … Cosa che un giorno, chissà, potrebbe tornarmi utile.”  
Vi odio tutti.
Avrebbe avuto più senso se fosse stato vero. Si sedette docile, incrociando lo sguardo di Lily. “Harry come ha preso la notizia?” Le chiese a bruciapelo, perché dolce era la vendetta.
Si beccò un calcio nello stinco da parte del compagno, ma era un prezzo che si era preparato a pagare per poter gongolare del disagio di Lily che impallidì, avvampò e in generale parve volergli infilzare la forchetta in un bulbo oculare.
“Come vuoi che l’abbia presa?” Borbottò.  
“Se ne farà una ragione.” Le venne in soccorso Albus.
“Forse tra un milione di anni.” Scosse la testa. “Penso che sia stato un colpo più duro che vedere Jamie infilare un metro e mezzo di lingua nella trachea di Teddy.”
“Grazie per l’immagine terrificante.” Commentò Meike con un moto di disgusto del tutto condivisibile. “Però Mutti ha ragione, gli passerà! In fondo quel tuo Sören…”
“… è solo il ragazzo che mi ha ingannato per mesi facendo comunella con le persone che mi hanno rapito?” Quello che apprezzava di Lily era nonostante la femminilità puerile di cui si ammantava non aveva mai coltivato l’illusione che la persona amata fosse incompresa dal mondo intero tranne lei.

No, ce l’ha avuta a morte con Prince come doveva. Ha capito esattamente che persona era.
Però al tempo stesso era riuscita a perdonarlo quando aveva cambiato rotta.
Doveva ammetterlo, la pasta Weasley tirava fuori donne niente male.
“È ultima persona con cui papà vorrebbe vedermi assieme, ma va bene.” Scrollò le spalle. “Se bastasse questo a scoraggiarmi non avrei neanche ricominciato a scrivergli. Papà può avere le sue opinioni, ma sono le mie quelle che contano.”
“Potere alle streghe!” Esclamò Meike simulando un piccolo applauso. “Lily, sei la mia guru spirituale!”
Per carità, no.
“Ce ne basta una al mondo, Mei.” Gli venne in soccorso Albus prima di tirare fuori dalla tasca lo Specchio Comunicante. Una chiamata da Michel, visto che era l’unico nel loro gruppo che non utilizzava quotidianamente gli smartphone Babbani, gli unici oggetti di telecomunicazione ad avere il pregio di avere segnale in entrambi i Mondi.
Stupidità Purosangue.
“Sì, è Mike, non fare quella faccia.” Gli disse baciandolo frettolosamente sulle labbra e dandogli uno schiaffo sulla spalla quando fece una smorfia all’odore di aglio. “Poi mi lavo i denti rompipalle … no, Mike, non parlavo con te. Che succede?” E si allontanò dalla cucina con l’espressione grave che precedeva una lunga conversazione che l’avrebbe tenuto fuori dai giochi per tutta la serata.  
Non sarebbe meglio se vivessi in una baita isolata nel nulla?
“No, affatto.” Si intromise Lily, pestando i piedi al suo malumore e rischiando così di volar via dalla finestra.
“Non leggermi i pensieri.”
“Non ti leggo quelli, ti leggo la faccia sapientone.” Sarebbe morta piuttosto che togliersi il piacere di avere l’ultima parola. Era una cosa che nonostante tutto rispettava. “Non vivresti meglio lontano dalla razza umana in tutta la sua stupidaggine. Ormai dovresti esserci arrivato da solo … puoi detestare qualcosa solo se ci sei immerso dentro, Tommy.” Aggiunse Lily disinvolta. “Quindi fa’ il padrone di casa sgradevole e distraimi dal pensiero che il mio uomo sia in mezzo ai guai.”
“Posso metterti alla porta.”
“Per favore, provaci.”
Si sorrisero; il suo essere un misantropo era un fatto appurato, ma c’era qualcuno, oltre ad Al, per cui valeva sempre la pena sforzarsi un po’.

 
 
****
Lancashire, Castello dei Prince.
Dopo il tramonto.
 
Il castello era immerso in un buio reso ancora più profondo dal sole appena tramontato. Non era un problema, avendo più di un Lumos a disposizione, ma comunque Sören non si sentiva sicuro.
C’era qualcosa che non andava nella facilità con cui erano penetrati all’interno; le barriere erano state disintegrate nel giro di una manciata di minuti, e Johannes non era mai stato tipo da alzare difese così deboli.
Avrebbe pensato ad una trappola se non avessero tutti contato nell’effetto sorpresa di quell’incursione.
Sentì qualcuno dietro a lui inciampare con conseguente imprecazione a bassa voce.
“Questo posto è una discarica!” Sbottò l’auror ignoto facendogli serrare la mascella in piena indignazione.
Questa discarica è casa dei miei avi, imbecille.
Lo pensò soltanto, perché non aveva tutti i torti: il pavimento pullulava di calcinacci, erba incolta e rifiuti che andavano dagli escrementi di animale a suppellettili abbandonate alla rovina.
Ed era una realizzazione dolorosa, ma che lo teneva distratto dall’idea di incontrare Johannes, ancora.
Voleva ucciderlo, aveva sempre voluto ucciderlo da quando aveva capito che non se ne sarebbe mai liberato, ma non poteva. Non davanti a dei testimoni. Aveva bruciato quella possibilità nella metropolitana, facendosi fregare come un fesso, avrebbe detto Milo.
Una parte di sé sperava che quel silenzio fosse sintomo di una trappola: una parte folle, ma che gli suggeriva che se avessero affrontato un attacco, sarebbe stato più facile avere Johannes tutto per lui.
E ucciderlo. Nessuno potrebbe sollevare obiezioni se lo uccidessi in duello.
Un crollo, qualche metro più avanti, fece arrestare le due squadre: la strada principale era bloccata e da essa di diramavano due corridoi che non erano stati presi in considerazione da come il sergente Stump si voltò verso Malfoy cominciando a discutere a bassa voce.
“Questa catapecchia rischia di crollarci in testa da un momento all’altro…” Borbottò Potter, facendo saettare lo sguardo da un punto all’altro dello stretto corridoio in cui si trovavano: nel silenzio si potevano sentire scricchiolii e cedimenti provenire da lontano, forse dove la squadra principale si stava muovendo. “… E poi dove cavolo ci troviamo?”
“Nei quartieri della servitù.” Almeno così gli pareva, a giudicare dall’arredamento spoglio, le dimensioni ridotte della struttura e la mancanza di arazzi.
Anche se è talmente conciata male che potremo davvero trovarci ovunque.
Questa catapecchia non ha manutenzione da decenni.” Gli rispose senza trattenere l’irritazione. “Cosa ti aspettavi, una villa con piscina?”
“Ehi!” Sbottò indispettito. “Era una considerazione, che te ne …” Poi parve realizzare a chi si era rivolto ed ebbe la decenza di assumere un’aria imbarazzata. 
“Quando sarà tutto finito radila al suolo e costruirci qualcos’altro … un albergo, in America alcuni maghi vanno pazzi per i vecchi castelli inglesi.” Pensò di venirgli in soccorso Ama, da brava americana priva di storia qual’era. “Magari con il riscaldamento e un’illuminazione decente.”
Il suo essere Purosangue forse si misurava anche dall’orrore che provò all’idea. “No.” Disse secco. “Non ho idea di cosa ne farò, ma non certo un parco giochi per maghi annoiati.” 
“Ma ti frutterebbe un sacco di soldi…”
“Ho già un sacco di soldi.” Tagliò corto ignorando gli sguardi dei suoi due interlocutori di fortuna: parlavano per scrollarsi di dosso la tensione, se ne rendeva conto, specie adesso che si erano fermati per decidere il da farsi mentre Malfoy, Bobby e un paio di altri Auror erano andati in avanscoperta nella speranza che i due passaggi fossero liberi e soprattutto li portassero dove dovevano.

Potter attirò la sua attenzione sbuffando, con un’aria di superiorità assolutamente fuori luogo visto che era un idiota. “Si vede che non hai una strega nella tua vita e nel conto cassa, o credi a me, saresti già a scegliere dove piazzare la sauna finlandese.” Si rivolse ad Ama, come a trovar conferma. “Quando è successo a me, di avere una casa e un compagno … è stato tosto.”
Ama confermò con un cenno della testa. “Ho dovuto ristrutturare anche io con il mio ex … se sei indeciso è in incubo. Prince è fortunato, la sua ragazza sembra una tipa decisa.”
L’inglese si voltò con espressione sbalordita. “Hai una ragazza?”
Ama inarcò le sopracciglia e Sören realizzò con orrore che doveva aver capito gli ultimi sviluppi con Lily senza che gliene parlasse apertamente.
“Non la conosci.” Sbottò frettoloso rimediandosi un’occhiata sbalordita dall’americana e una molto sospettosa da Potter. Era da codardi forse, ma non aveva la minima intenzione di far partire una discussione con il fratello della sua ragazza in quella situazione.
Per fortuna fu tolto dall’imbarazzo sentendosi chiamare da Malfoy. La raggiunse e , con sua enorme sorpresa, lo vide tenere per un braccio quello che sembrava…
“… è un Elfo domestico?”
“L’abbiamo trovato che ci osservava da dietro un cumulo di calcinacci.” Spiegò il ragazzo. La creatura non tentava di divincolarsi e, a dirla tutta, aveva l’aria abbastanza denutrita e patetica.
“Non vuole parlare.” Aggiunse il Sergente Stump. “Non con noi almeno. Tu sei un Prince, prova a farti dire dove hanno costruito i laboratori.”
Era la prima volta che aveva a che fare con un Elfo Domestico, dato che la Gran Bretagna era l’unica ad usarli come forza lavoro, e non aveva idea di come rivolgerglisi. Decide di adottare il registro che aveva usato con i servitori di suo zio. “Mi chiamo Sören Prince, e sono il figlio di Elias, uno dei tuoi vecchi padroni. Sono quindi l’ultimo proprietario di questo castello. Sai cosa significa?”

L’Elfo lo guardò con giganti occhi gialli e con un lampo di consapevolezza che parve scuoterlo dal suo stato catatonico. “Padrone…?” Sussurrò incerto. “Tipsy pensa che … Lei è il suo Padrone?”
“Esatto.” Si schiarì la voce perché quello sguardo di adorazione lo metteva a disagio essendosi ormai si era abituato all’insolenza di Milo. “Questo castello ci risulta abitato al momento. È così?”
“Sì, Padroncino Sören!” Confermò eccitato, quasi di colpo gli fossero state inserite nuove batterie. “Dalla moglie del padrone Elias e dal suo compagno! Se Tipsy avesse saputo avrebbe preparato per il suo arrivo, Tipsy va subito ad avvertire …”
“Non devi avvertire nessuno che siamo qui.” Lo interruppe. “Dicci invece dove sono i laboratori.”
“Laboratori?” A questo la creaturina sembrò confusa.

“Dove tengono dei maghi e delle streghe … dove fanno esperimenti.” Gli venne in soccorso Scorpius. “Un posto molto grande, qui dentro, dove tengono tante persone.”
L’Elfo annuì di colpo. “Oh, Tipsy ha capito! Sì! Tipsy vi porterà al laboratorio!” Si arrampicò lungo l’apertura del muro da cui doveva averli spiati. “Venite, seguite Tipsy, padroncino!”
“Beh, è stato più semplice del previsto.” Commentò Malfoy con un sorriso mentre il resto del gruppo si muoveva come un solo uomo dietro all’Elfo.  

“Già.” Quell’improvvisa risoluzione non gli dava una bella sensazione.
È tutto troppo facile.
Ma era anche vero che Milo lo accusava spesso di esser paranoico e nessuno, a parte lui, pareva pensarla allo stesso modo.
Forse perché nessuno conosce Johannes quanto te.
Quindi, nonostante gli fosse stato ordinato di restare nelle ultime file, si affiancò a Scorpius per stare dietro l’Elfo.
“Prince, torna al tuo posto.” Lo riprese il Sergente Stump che non sembrava contenta di averlo trai piedi.
Si metta in fila.
Al diavolo l’esser tacciato di paranoia. “Non mi fido, Sergente. Potrebbe condurci dritti in una trappola.” 
La strega sbuffò spazientita. “È impossibile che faccia una cosa del genere ad uno dei suoi padroni. Non può mentirti o ingannarti, non è nella sua natura.”
“Ha ragione.” Confermò Scorpius dandogli una pacca sulla spalla. “È stata una fortuna averne trovato uno ancora vivo che vagava qua attorno.”
Troppa fortuna.

Per un momento rimpianse la mancanza di Thomas e Albus; sarebbero stati ancor più diffidenti di lui e di certo avrebbero convinto la squadra a considerare i loro dubbi. Sfortunatamente non erano lì e lui non era che un soldato in una missione in cui era stato graziosamente fatto entrare.
L’Elfo li fece camminare per almeno dieci minuti, tra scale e stanze dalle tappezzerie mangiate dall’umidità e dalle tarme. Quando era ad un passo da far sentire la propria voce, e torchiare la creatura se fosse stato necessario, questa aprì una porta e li introdusse in un ambiente che era indubbiamente…
“Il laboratorio!” Esclamò Scorpius voltandosi verso di lui. “Che ti avevo detto, mago di poca fede?”
Non rispose, preferendo esaminare l’ambiente alla ricerca di punti ciechi. Ce n’erano molti, dato che era un enorme open-space organizzato come un laboratorio di pozioni, con tavoli di marmo, scaffali e…
“Sono delle gabbie quelle?” Mormorò Potter a pochi passi di distanza, dato che avevano rotto le file per sparpagliarsi nello stanzone. “Dannazione, li tengono nelle gabbie come animali!?”

“Tenevano.” Lo corresse. “Sono vuote.”
Il laboratorio era deserto, ad eccezione loro.
“Siamo arrivati troppo tardi.” Realizzò l’agente Jordan con una smorfia incredula. “Hanno tolto le tende.”
“Di nuovo?” Esclamò rabbioso Potter. “Non è possibile, come hanno fatto a sapere che stavamo venendo qui?!”

“La talpa.” Mormorò Ama. “Li ha avvertiti.”
Sören non perse tempo in congetture o recriminazioni. Si avvicinò con due falcate all’Elfo. “Dov’è Johannes?” Ringhiò.
La creatura si ritrasse intimorita. “Tipsy non lo sa padroncino, chi è Johannes?”
“L’uomo che è venuto qui con mia madre. John Doe, dov’è?” Lo incalzò afferrandolo per un braccio e facendolo guaire. “Dove si è nascosto?”
“Sören lascialo, gli stai facendo male!” Cercò di allontanarlo Malfoy. “Ti pare che lo abbia detto ad un Elfo?”
Non voleva ascoltarlo. Perché avrebbe significato perdere un’altra volta e non poteva permetterselo. “Dov’è Johannes?!” Stavolta lo gridò ma non fece in tempo ad esser ripreso da chicchessia che un lampo bianco esplose nella stanza. Poi un tuono.
Incantesimo.
L’onda d’urto fece cadere a terra molti Auror compreso lui. Fece appena in tempo a voltarsi che vide delle ombre uscire da dietro gli scaffali. Una mezza dozzina, maghi.
Scorpius si tirò in piedi e tese la bacchetta di fronte a sé. “Non se ne sono andati … sono ancora qui.”
Ed erano sotto Imperius dai movimenti rigidi e le espressioni vuote.

Li fanno attaccare. Li stanno usando come scudi per pararsi la fuga.
John Doe è ancora qui.
In quel momento si accorse che l’Elfo si era liberato dalla sua presa e stava correndo via, verso l’unica porta, e quindi entrata ed uscita dalla stanza.
Era una trappola!
Perché l’Elfo non aveva più la corporatura sgraziata di prima, stava mutando in altezza e proporzioni.
Johannes.
“Merda, è John Doe!” Esclamò Potter. “Ci ha fatto finire in una trappola!”
Ve l’avevo detto.

Non era il momento di recriminare, quindi guardò verso Ama. Aveva un solo desiderio ma aveva anche degli ordini perché era e sarebbe sempre stato un soldato.
“Va’ a prenderlo.” Gli ordinò prima di voltargli le spalle e fronteggiare gli infetti. “Qua ci pensiamo noi.” 
Comandi.
 
****
 
Sophia Von Hohenheim non era una stupida.
Mai si era ritenuta tale, mai lo era stata. Era perfettamente in grado di rendersi conto quando il suo amante, quando l’uomo chiamato in molti modi ma che per lei era solo il Giullare, le mentiva.
Da quando per la prima volta il suo non-compianto fratello glielo aveva presentato, Sophia aveva intuito che quell’uomo dal sorriso storto e la lingua di miele poteva essere la sua salvezza come la sua rovina.
Aveva deciso di giocare quella partita comunque.
Non c’erano stati voli romantici in quel che aveva pensato quando a vent’anni, madre e moglie infelice, si era lasciata baciare vorace all’ombra del castello di famiglia; Johannes, ora Johan, le aveva promesso quello che aveva desiderato per tutta la vita.
Mi ha giurato che mi avrebbe liberato.
E quella promessa l’aveva mantenuta, simulando la sua morte e portandola nel Nuovo Continente. Ma dopo anni di fughe, anonimato e case provvisorie aveva realizzato che quella libertà, così inebriante i primi tempi, sarebbe stata la prima e l’unica che avrebbe mai assaggiato. Si era rassegnata, tuttavia; del resto, non aveva voluto Johan nel suo letto perché era un uomo sincero.
O avrei amato Elias.
Elias Prince era stato suo marito per sette anni, ma era stato come essere sposati ad un’ombra sulla parete. Quell’uomo segaligno, troppo vecchio e amareggiato non era stata che l’ennesima falena soggiogata dalla luce brillante e tremenda che emanava suo fratello … anche se, a voler rendergli giustizia, si era bruciato non per adorazione, ma per salvare Sören da una fine ben peggiore che l’esplosione di un laboratorio.
Sören …
Adesso doveva essere un uomo adulto. Chissà se assomigliava a suo padre o aveva ereditato tratti più gentili, i suoi.
Non che avesse importanza.
No, sapeva che Johan le stava nascondendo delle cose; neppure questo era importante, perché c’era solo lui da quasi vent’anni a quella parte. 
Quindi non le restava che affidarsi. Come quando pochi minuti prima era entrato impetuosamente nelle sue stanze con tre Mercemaghi intimandole di seguirli in un luogo sicuro, in cui poi l’avrebbe raggiunta.
Aveva obbedito docile, lasciando tutto in quella stanza che per mesi le aveva fatto da casa. Dopotutto non era la prima volta.
Si era fatta portar via e poi, ad un certo punto, mentre le sue scarpe si sporcavano di fango e la sua veste da camera non la proteggeva dal freddo dei piani inferiori, si erano imbattuti negli Auror.
Johan l’aveva lasciata in balia di tre idioti.
Erano volati incantesimi e fatture e lei era stata spinta brutalmente a lato, dietro una serie di suppellettili rovesciate da chissà quale crollo. Non si era mossa, perché quella era una lezione che aveva imparato tanto tempo prima, quando Alberich aveva ancora le proporzioni di un dio tremendo e vendicativo.
Sono sempre stata brava a sparire.
E così aveva fatto, allontanandosi dal luogo dello scontro finché le esplosioni non si erano attutite in rumori di fondo.
Si era stretta la vestaglia al petto e aveva realizzato di essere stata lasciata sola.
“Che strana sensazione.” Disse, perché sin da bambina il suono della propria voce le era sempre stato di grande conforto.
Erano anni che non la provava, con Johan che non le lasciava fare un passo fuori dal suo controllo. Era sola e non aveva idea di dove si trovava, né sapeva dove dirigersi.
Il mio Giullare mi troverà.
La trovava sempre, perché amava terribilmente trattarla come una bambina spaventata ed incapace. Lo faceva sentire potente.
In questo i maghi sono tutti uguali.
Sophia Von Hohenheim non era comunque una stupida e sapeva che se fosse rimasta lì avrebbe rischiato un crollo che l’avrebbe seppellita; la struttura del castello era in pessime condizioni.
Così si era avviata; Johannes l’avrebbe di certo trovata.
 
****
 
Note:

Un mese. È trascorso un mese. A dir poco imbarazzante.
Spero, con l’estate e la fine dei corsi che sto seguendo, di avere un po’ di pace – dicesi anche cazzeggio spinto – da poter dedicare a queste faccende qua.
Non manca molto. Manca ancora un po’ però. Per chi vuole l’esimia Sophia, a cui dedicherò un po’ di roba nei prossimo capitoli, che è arrivato il momento, questa è l’idea che ho di lei. Nota di colore, lei e Sören hanno gli occhi scuri, mentre Alberich e Tom li hanno chiari.

Per avere un’idea del castello invece qua quello che lo ha ispirato.
Questa la canzone.

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Capitolo 44
*** Capitolo XLIII ***


Capitolo XLIII




 
Li dovevi vedere quando si ritrovavano dopo le guerre del cuore;
lui l'accarezzava sulla guancia e l'universo non contava più un cazzo
(Charles Bukowski)
 
Lancashire, Castello dei Prince.
Sera.
 
Sören aveva desiderato rimaner solo per poter avere Johannes alla sua mercé. Ci era riuscito, alla fine.
Solo adesso stava cominciando a realizzare quanto quel suo desiderio fosse una lama a doppio taglio.
Poter avere tra le mani Johannes e farsi giustizia era allettante, eppure, mentre percorreva stanze pericolanti di un castello diroccato, si rendeva conto di avere paura.
Per se stesso, per l’eventualità di perdere in uno scontro con il bastardo, per gli altri, che erano rimasti da soli ad affrontare gli Infetti.
L’adrenalina che l’aveva colto nella metropolitana settimane prima c’era ancora eppure non era la stessa.
Non è la stessa perché adesso hai qualcosa da perdere. Da perdere davvero, a parte te stesso.
Un futuro. Per la prima volta in vita sua si rendeva conto di avere un futuro. Con Lily, che lo aspettava e gli aveva fatto promettere di tornare tutto intero.
La posta in gioco si è alzata.
Alzò la bacchetta per illuminare l’ambiente ignoto che stava percorrendo: non vi erano mobili o arredo che potessero fargli capire in che sezione del maniero si trovasse.
Forse una delle sale da pranzo al piano terra?
Intravide i resti di un lampadario schiantati a terra, dove i piedi crepitavano tra frammenti di vetro e quello che pareva cristallo.
Si era perso e aveva perso Johannes.
Strinse le labbra; non poteva esser scappato, non con l’intero perimetro coperto dai Tiratori Scelti
di rinforzo agli Auror. Sarebbe stato un suicidio esporsi tanto e neppure le sue capacità di trasformismo avrebbero potuto evitargli la cattura.
Non puoi scappare stavolta. Neppure tu.
Percepì con la coda dell’occhio un movimento, il frusciare di una veste. Era abbastanza perché avesse un bersaglio a cui puntare.
“Mostrati e getta a terra la bacchetta!”
È un mago, visto che abbiamo appurato che gli Elfi Domestici non sono compresi nell’equazione.
Chiunque fosse dietro quello che appariva come un vecchio piano sfondato non si mosse. Eppure era lì, percepiva una flebile traccia di magia, inconfondibile: era umana.
“Non mi ripeterò una seconda volta.”  
Stavolta l’ombra si alzò, vestita con un mantello che ne celava le forme e sesso. Poteva essere chiunque, poteva essere Johannes. “La bacchetta.” Ripeté calmo, nonostante sentisse sudore gelido scorrergli lungo la schiena.
È lui … non lo è?
Si era appena trasformato in Elfo Domestico, e non sarebbe stato strano vederlo nelle vesti di qualcos’altro.  
La bacchetta venne lanciata a terra, e la prese con un Accio che gliela fece schizzare in mano: non la riconosceva, era intarsiata e impreziosita con pietre che alla luce del Lumos brillarono come di luce propria.    
“Chi sei?”
Era forse un altro infetto, scappato dal laboratorio?

No, impossibile, o mi avrebbe già attaccato.
Il mago o la strega – ma quest’ultima pareva l’ipotesi più probabile giacché quello era senza dubbio un legno forgiato a gusto femminile – fece un passo in avanti, ma non rispose. Come lui, pareva studiarlo. “Chi sei?” Gli domandò una voce di donna che lo gelò sul posto.
Non avrebbe mai potuto dimenticare, nemmeno dopo anni in terra americana i suoni del suo paese.
Questa donna parla tedesco.
… No, è un trucco. È un trucco di Johannes.
Eliminò la distanza che li separava e la afferrò per un polso facendola lamentare sorpresa. La pelle era morbida, e la stoffa che stringeva era sottile, setosa, ricca.
Se pensi di ingannarmi con un trucco da due soldi ti sbagli, Johannes.” Sibilò in tedesco, sentendosi il petto gonfiare di rabbia. Non quello, non avrebbe dovuto permettersi di fingersi sua madre. Le puntò la bacchetta alla gola, ignorando il sussulto che ne conseguì. “Finite Incantatem.” L’avrebbe smascherato, gli avrebbe fatto assumere il suo vero aspetto, quello di un vecchio vizioso e maligno e poi l’avrebbe sradicato dalla faccia del pianeta come meritava.
Non successe nulla.
La donna rimase sempre donna, e alla luce tenue della luna – filtrava tra le finestre rotte  e disegnava ombre e contorni sulle cose, anche sui lineamenti – la riconobbe.
Erano più di dieci anni che non vedeva quel viso e vi erano rughe in più, occhi più grandi e sgomenti.
Ma era impossibile non riconoscere la propria madre.
 
****
 
“Ma sono immortali!?”
La voce di Bobby lo colse di sorpresa, dato che non aveva la minima idea di dove si trovasse l’amico

James si sentiva nel bel mezzo di una guerra, vera e propria, con lampi di incantesimi che facevano baluginare la sala buia, grida e rumore di esplosioni.
“Semmai invincibili!” Puntualizzò Scorpius lanciando un incantesimo che buttò gambe all’aria un paio di Infetti, salvo farli tornare sui loro piedi in pochi attimi.
Era come con il sergente Flannery, tutto da capo.
Solo che sono raddoppiati, triplicati … decupla … al diavolo!
Mandò a schiantarsi uno dei pochi scaffali ancora superstiti su un paio di streghe a cui non avrebbe dato un falcio per la resistenza. Riemersero dalle schegge di vetro mugghiando come Erinni.
“Ci stanno facendo a pezzi!” Ringhiò l’americana, nascosta come lui dietro una serie di mobili rovesciati. Non avevano potuto far altro che ergere barricate contro quelli che, a conti fatti, erano diventati mostri di magia e furia. Riparati, erano riusciti a portare in salvo gli agenti feriti, tra cui il Sergente Stump che aveva perso i sensi per una brutta botta alla testa.
Non riusciamo neanche a curarli … o capire se siano vivi. Merda!
Era un inferno, e la squadra principale non arrivava. Avevano provato a mandare qualcuno ad avvertirli, ma da quando Prince era uscito nessuno era più riuscito ad arrivare alla porta, non con le proprie gambe almeno.
Lanciato contro però sì. Cazzo!  
Si asciugò il sudore che gli colava dal viso e lo trovò mischiato al sangue; chissà da quale ferita proveniva.
Finita questa fottuta baraonda sarò tutto un dolore.
Se ne esco vivo.
Sentì il peso di Malfoy quasi crollargli addosso. Per avvicinarsi a carponi era inciampato nell’ennesimo cumulo di detriti. Era troppo concentrato a non morire per farglielo notare. “Potty, idee?” Ansimò con una faccia che, alla luce della luna, sembrava peggiore della sua.
“Non sei tu quello brillante?” Rispose a denti stretti: la bacchetta gli bolliva tra le dita come legno lasciato troppo tempo sotto le ceneri. Avrebbe avuto delle vesciche pazzesche il giorno dopo.
L’amico scosse la testa, con un sorriso teso. “Non riesco a pensare quando tentano di ammazzarmi così vigorosame…” Le parole furono troncate dall’ennesimo incantesimo che sfrecciò sopra le loro teste, mandando in pezzi parte del muro dietro di loro.
La sua esperienza di ristrutturazione nella casa di Hogsmeade lo fece pregare che non fosse un muro portante.
“In quanti siamo rimasti?” Chiese mentre Bobby e Ama passavano alla controffensiva assieme ad altri Auror. Tre, quattro? Sperava di più.
“Mezza dozzina, forse? Il Sergente Stump è andato, e così metà della sua squadra.” Scorpius si massaggiò la sella del naso come se volesse farsi uscire un’idea.
Sarebbe tutto più semplice se potessimo farli fuori e basta.
Ma quella gente era innocente dietro la malattia e l’Imperius: erano come il sergente Flannery, madri e padri di famiglia, persone oneste che avevano avuto la sfortuna di essere ingannati da John Doe.
Era tutto fottutamente difficile.
Era in quei momenti che capiva quanto ancora dovesse imparare come Auror: l’adrenalina gli permetteva di restare vivo, ma poco altro. La mente vorticava in mille piani, ma nessuno era abbastanza geniale da funzionare.
Non con quei demoni.
“Siamo rimasti noi pivelli. Grandioso.” Vedendo l’espressione spaventata dell’amico, per la prima volta senza l’ombra di un sorriso o una battuta in bocca, si sentì in colpa. E poi ebbe un’idea. “… un Patronus. Malfuretto, possiamo mandare un Patronus alla squadra principale!”
“Ci avevo già pensato, ma non riesco a concentrarmi abbastanza da lanciarne uno.” Serrò le labbra. “E comunque sai che sono una schiappa. Mi hanno quasi rimandato all’esame.”
Gillespie!” Urlò in direzione dell’americana. A quel punto i titoli servivano a poco. Non servivano a nulla quando si era ad un passo dal cadere dietro al Velo. “Come te la cavi con l’Incanto Patronus?”
La strega si voltò a metà di una contro maledizione, i capelli leonini che vorticavano impazziti. Era una furia ed era felicissimo di averla trai piedi. “Perché?”
“Li usiamo come messaggeri per l’altra squadra!”
La strega annuì. “Datemi il tempo di crearne uno.”
“Fuoco di copertura!” Esclamò al resto degli Auror. Dovevano dare il tempo alla ragazza di estraniarsi, di svuotare la mente e di pensare ad un ricordo felice.

Mica facile, cazzo.
Era difficile farlo quando fuori infuriava l’inferno eppure dalla bacchetta della Gillespie nel giro di pochi minuti in cui gli Infetti avanzarono sin troppo – dannazione, anche la mancanza di una bacchetta ormai faceva la differenza – uscì un filo argentato che si trasformò in quello che sembrava un grosso gatto dalle orecchie appuntite. La strega gli sussurrò qualche parola e poi il felino balzò fuori dalle barricate.
Fuori dalle barricate e a portata degli Infetti e dei loro incantesimi.
No!
Ama non fece in tempo a capire l’errore e richiamarlo che una serie di lampi, di un viola cupo che non aveva mai visto, lo fecero a pezzi facendolo dissolvere in una nube di fumo argentato.
“Merda!” Esclamò, perché a quel punto salvare la faccia da bravo ragazzo era inutile. Manco l’aveva mai avuta poi.
“Si nutrono di magia … e un Patronus è la magia più pura e potente che ci sia.” Mormorò Scorpius sempre più pallido. Ormai sembrava un fantasma, uno di quelli che percorrevano le aule di Hogwarts. “… siamo fottuti.”
Non siamo fottuti.” Lo redarguì con una spallata. Per fortuna Bobby e gli altri auror erano troppo presi a contrattaccare per ascoltarli. “Con tutto il casino che stiamo facendo ci troveranno, dobbiamo solo resistere!”

“No. Possiamo ancora neutralizzarli.” La faccia della Gillespie pareva quella di una fiera in procinto di divorare un incauto bracconiere. Anche i suoi incantesimi continuavano ad essere potenti e precisi, senza vacillare per la fatica.
Non avrebbe voluto per niente al mondo trovarsi dal lato sbagliato della sua bacchetta.

Seguì la direzione del suo sguardo e vide le gabbie. “Bella pensata yankee, ma come miseriaccia facciamo a farceli entrare?” Sbottò spedendo l’ennesima fattura che si dissolse come fumo di focolare. Ogni volta che provava a buttarne giù uno o la barriera che li avvolgeva inglobava la magia o quello si rialzava come niente fosse. Era folle. “Non so se hai notato, ma riusciamo a malapena a farli restare dove sono!”
“La magia.” La Gillespie guardò verso Malfoy. “Il Patronus ha attirato la loro attenzione, no? Ci si sono avventati tutti. Dobbiamo distrarli con quelli. Li useremo come esche!”

“Ho capito!” Esclamò il biondo. “Ce li facciamo entrare, come un topo e il forma…”
Non era il momento per chiacchierare, e James se ne accorse troppo tardi. La barricata di mobili e calcinacci che avevano costruito fu fatta esplodere, spedendoli in giro come birilli. Si alzò e quello che vide dietro la foschia delle macerie gli fece gelare il sangue nelle vene.

Scorpius era sulla linea di tiro degli Infetti, senza niente dietro cui nascondersi. Non ci pensò due volte. “Copritemi!” Urlò sperando che in tutto quel casino le sue urla fossero state ascoltate. Fece appena in tempo ad afferrare l’amico e tirarlo dietro di sé che si sentì colpire. Il fuoco di copertura non era arrivato in tempo.
Sì, ora sono proprio fottuto.
Lo pensò con lucidità assoluta, mentre veniva scaraventato dal lato opposto della parete. Sentì le urla dei compagni e poi un dolore atroce a metà del corpo. Non volle guardare: chiuse gli occhi per il terrore di trovarsi spaccato a metà.
Fu solo quando sentì di nuovo miliardi di lame trapassargli la parte destra mentre Scorpius lo afferrava da sotto le braccia e lo portava di nuovo dietro quello che restava delle barricate che tirò un sospiro di sollievo misto ad un ringhio. Stava patendo i dolori dell’inferno, ma voleva dire che era ancora tutto intero.
Vero?
“Gli hanno congelato metà del corpo…” Udì l’altro sussurrare spaventato. “James, ehi, James! Non osare…”
“Non fare il coglione Malfuretto, sono vivo!” Gracchiò con un filo di voce per rassicurarlo e rassicurarsi. “Non pensate a me. Il piano … pensate al piano!”

Il Sergente Gillespie, con lui fuori dai giochi, tirò fuori l’indole dittatoriale che doveva avere in patria. Per fortuna. “Malfoy, Jordan, a noi i Patronus.” Li apostrofò prima di rivolgersi ai restanti Auror. “Voi due, respingete gli attacchi e tu crea una barriera di fronte alle gabbie. Non dobbiamo farglieli distruggere, dobbiamo farglieli desiderare.”
In gamba, la tipa.

Lo pensò con la testa che diventava sempre più leggera. Non poteva schiattare in modo così stupido.
Speravo almeno in combattimento all’ultima fattura.
… anzi, non lo speravo affatto.
Non voleva morire: non quando aveva Teddy che lo aspettava a casa, tra le sue pergamene e tazze di the … non quando aveva Ben a cui aveva promesso di insegnare a giocare a Sparaschiocco.
‘Fanculo.
Non ebbe tempo di spaventarsi sul serio però. Percepì qualcosa di bollente cadergli addosso come una coperta. Era una giacca: la giacca di Malfuretto che non stava eseguendo gli ordini.
“Il Patronus … idiota!” Farfugliò mentre l’altro gliela premeva addosso. Vi aveva apposto qualche incantesimo Riscaldante. L’idiota.

“Non ci riesco con te che stai congelando a morte, demente di un Potty!” Sbottò senza degnarlo di uno sguardo, gli occhi fissi sulla forma argentea che stava tentando di creare. “Sei il mio testimone, non azzardarti a morire!”
“Fa’ il tuo dovere allora e tira fuori il pavone così ce ne torniamo a casa…” Borbottò sforzandosi di restare sveglio. Gli sembrava si dovesse fare così in quei casi. Tremava, e non sapeva se era un buon segno.

Scorpius gli rivolse un sorriso tirato. “Tirar fuori il pavone … È una fantastica battuta sconcia, devo segnarmela.” Fece una pausa. “Ti riporto a casa, James. Te lo giuro.”
Gli sorrise di rimando e chiuse gli occhi: gli credeva, ma era meglio facessero in fretta. Quel posto pareva aver voglia di candidarsi come loro tomba.
 
****
 
“Tracce di John Doe?”
“Nessuna Sergente.”
Ron tirò un profondo sospiro di scoramento non appena l’auror che gli aveva portato l’ennesima, pessima notizia si fu allontanato.

John Doe aveva preso il volo. Di nuovo.
E ora chi lo dice ad Harry? O ad Ama?
Lanciò un’occhiata ai Mercemaghi catturati, legati a doppia fune e messi in sicurezza dai suoi auror: nessun membro di quella teppa aveva la minima idea di dove fosse l’uomo che li aveva pagati. E gli credeva dato che il tipo riusciva a mantenersi perennemente fuori dai radar proprio perché non aveva legami o contatti diretti che potevano tradirlo. Erano solo riusciti a capire che era uscito dal castello.
Neppure i Tiratori Scelti lo hanno visto.  
Non era la prima volta che succedeva e non avrebbe dovuto stupirsene, pensò amaro; se c’era una cosa che quel figlio di Megera riusciva a fare era proprio levarsi dai piedi in fretta e senza lasciare tracce dietro di sé.
Qualcuno deve averlo avvertito che saremo venuti.
Non c’era altra spiegazione per il fallimento dell’operazione: Harry aveva ragione, c’era una talpa nel Dipartimento.
O ancor peggio, nell’ufficio.
Squadrò uno ad uno i suoi uomini: maghi e streghe capaci, che aveva imparato a conoscere e stimare negli anni. Ci avrebbe scommetto la propria bacchetta, nessuno di loro poteva essere il traditore.
Allora chi? Forse dall’ufficio americano?
Si passò una mano trai capelli e raggiunse l’addetto alle comunicazioni. “Peterson, sei riuscito a contattare le squadre di appoggio?”
L’auror in questione scosse la testa, chino a terra ad attizzare con la bacchetta un Focolare Portatile, ben più preciso di uno Specchio Comunicante in quelle situazioni. “Nossignore. Ma devono essere le barriere residue del castello … C’è magia secolare qui, manda in tilt il segnale.” 
Ovviamente quando una cosa andava male, poteva andare peggio: poco dopo l’inizio dell’operazione avevano perso i contatti con la squadra di James e quella di Artemisia.
Non abbiamo idea di dove siano.
Si trovavano di fronte ad un crollo che gli impediva di andare avanti, e gli uomini che aveva mandato a seguire le orme delle due squadre li stavano ancora cercando.
Questo posto è enorme. E pericolante. Ed è notte.
“Dove diavolo sono finiti…” Mormorò a mezza bocca, percorrendo il cortile in cui erano riparati come una   belva in gabbia. Del resto era così che si sentiva.
Perché non hanno mandato un segnale  … un Patronus?
“Da quanto abbiamo perso i contatti?”
Peterson guardò l’orologio da taschino. “Un’ora.”
“Miseriaccia.” Sbottò. “Torno dentro.” Si rivolse ai suoi auror con più esperienza. “Young, Bhatt, voi venite con me. Gli altri rimangono qui con i Mercemaghi.”
“Sergente, se chiama il Capitano Smith dei Tiratori cosa diciamo? Vuole un rapporto ogni dieci minuti.” Gli fece notare Peterson.

Già. Quel coglione paranoico. Ci fosse una volta che fa il suo lavoro senza aprire bocca …
“Se vi contatta prima del mio ritorno ditegli di continuare a mantenere le posizioni attorno al perimetro. Non ce ne andiamo se non tutti assieme.”
Rientrarono nel complesso, bacchette accese in un Lumos e pronte all’uso: non si sarebbe mai perdonato se James o qualcuno dei ragazzi fosse finito in un lettino del San Mungo a combattere la stessa cosa che stava mangiando vivo Liam.
Non avremo dovuto portarli qui.
Anche se era il loro caso e avevano il diritto di effettuare l’arresto più di chiunque altro. Era più forte di lui, non riusciva a considerare James, Bobby e quel cretinetto di Scorpius come uomini fatti e pronti a rischiare la vita per il Ministero.
E non è una colpa.
Immerso nei propri pensieri non dimenticava però ciò che aveva attorno a sé. Fu con i riflessi che aveva sviluppato quando ancora doveva crescergli la barba – che infanzia del cazzo che aveva avuto, a ben pensarci – che percepì un rumore di fronte a sé. Fermò appena in tempo la bacchetta facile di Young afferrandogli un braccio. “Chi c’è?”
“Prince.” Gli rispose la voce ormai nota del mocciosetto lugubre. Pochi attimi dopo il suddetto uscì dall’ombra tenendo per un braccio qualcuno. Sembrava una strega dalla corporatura.
Dannato buio.
“L’hai preso?” Gli domandò, che la speranza era davvero l’ultima a morire.
“No.” Gli rispose. “La squadra ha bisogno d’aiuto, hanno trovato il laboratorio e gli Infetti, ma sono sotto Imperius e fuori controllo. Li hanno attaccati.”
I suoi peggiori sospetti si erano avverati. Non c’era tempo da perdere. “Young, torna indietro a prendere rinforzi. Dov’è il laboratorio?”

“Posso portarvici. Dovete prendere in custodia lei però.” Fece fare un passo avanti alla donna, che non aveva ancora aperto bocca. Doveva essere poco più giovane di lui, e pareva una nobildonna, di quelle con cui presto, purtroppo, si sarebbe imparentato.
Ignorò ulteriori deprimenti pensieri. “Chi è?”
Prince serrò le labbra in un espressione vuota che gli ricordò tremendamente cinque anni prima. O il Professor Piton, a scelta. “Mia madre.”
“… Cosa?”

“È mia madre.” Ripeté piatto. “Sophia Von Hohenheim. Non sa dove sia John Doe.” Lo anticipò. “L’ho interrogata, ma non ha aperto bocca da quando l’ho trovata.”
Troppo sbigottito per trovar qualcosa da dire fece un cenno muto a Bhatt di prenderla in consegna. Fu quando rimasero soli che ritrovò la parola. C’era troppo da chiedere. “Dove l’hai trovata?”
“Si stava nascondendo. Immagino che abbia perso chi doveva condurla fuori dal castello … C’erano tracce di uno scontro.”
“Sì, siamo stati noi.” Confermò. “Perché non sei con il tuo sergente?”
Che era quella la domanda importante. Non era mai stato d’accordo, sin dal principio, con l’inserire il tedesco nella squadra di indagine a farlo curiosare in giro. Era stato un sollievo quando era stato sollevato dall’incarico, guarda un po’, proprio perché troppo coinvolto.
Non era stato affatto contento né d’accordo quando Harry gli aveva ordinato di tirarselo dietro.
E infatti, eccolo da solo, a girare per il castello senza che nessuno lo controlli.
Sono l’unico a ricordarsi che ci ha preso in giro per mesi cinque anni fa?
Il ragazzo non si scompose, anche se era certo di aver usato un tono da interrogatorio. “John Doe ci ha attirati nel laboratorio Trasformandosi in un Folletto. Appena ce ne siamo resi conto gli sono corso dietro … su ordine del Sergente Gillespie.” Aggiunse perché era un piccolo stronzetto furbo e paraculo. Ne era certo, non doveva averci pensato due volte a levarsi dai piedi quando gli Infetti si erano palesati. “Ho perso John Doe, ma ho scovato lei.”
“Sei sicuro non si tratti di un ennesimo travestimento?”

“Ho usato il Finite Incantatem. Sono sicuro.”
“In che direzione è scappato?”

Da come stava serrando le labbra stava cominciando ad innervosirsi. L’aveva sempre sospettato, dietro l’aria da soldatino era un tipetto nervoso. “Non sono riuscito a capirlo.” Rispose. “Il castello è buio, e lo conosce meglio di me. Non sono riuscito a raggiungerlo in tempo per capirlo. Ho seguito un corridoio fino ad una diramazione … poi ho capito di averlo perso.”
“E tua madre non ha detto niente di utile?”
“Come ho detto, non ha aperto bocca.”
“Ritrova suo figlio dopo dieci anni, che la cattura e la disarma e neppure è sorpresa?”  
Prince gli piantò di colpo gli occhi addosso. Bingo. “Mi sta accusando di qualcosa?”
“No.” Rispose con un mezzo sorriso. “Mi stavo solo facendo qualche domanda sulla dinamica con cui ti sei separato dalla squadra … Mi pareva che i tuoi ordini fossero altri.”
Stava trattenendo la collera, glielo leggeva nell’espressione e nella postura contratta. Eppure quando parlò lo fece con tutta la calma del mondo. Quel ragazzino aveva troppo autocontrollo per il suo bene. “Seguo gli ordini che mi vengono dati. Il Sergente mi ha ordinato di inseguire John Doe e così ho fatto. Potrà chiederle conferma quando la troveremo.”
“Lo spero.” Frecciò e per un attimo pensò che il giovane l’avrebbe davvero colpito da come lo guardò. Si tenne la curiosità perché Young tornò con i rinforzi.
“Portaci al laboratorio.”
“Comandi.” Prince chinò la testa, docile come mai sarebbe stato davvero, perché mai Ron Weasley si sarebbe fidato di chi aveva già tradito una volta.
Il Mannaro perde il pelo, ma poi lo ritrova. Sempre.
 
****

Diagon Alley, Casa di Al e Tom.

Thomas era la persona con il sonno più leggero che conoscesse. A dirla tutta i suoi cicli di sonno assomigliavano più ad un coma vigile che non ad un comodo viaggio tra le braccia di Morfeo.

Non era qualcosa che gli aveva mai dato fastidio però; era bello avere qualcuno che riusciva a sentire il minimo cambiamento nel tuo respiro e svegliarti prima di un brutto incubo.
Il rovescio della medaglia era che non riusciva a lasciare la stanza senza che l’altro se ne accorgesse. Aveva davvero cercato di far piano mentre Appellava i vestiti. Aveva addirittura tentato di Insonorizzare la stanza prima di ricordare che non sarebbe servito a nulla, perché erano entrambi dentro.
“Che stai facendo?”
Aveva tentato, sul serio. Al, con il camice infilato per metà e i capelli che avevano ancora la forma del cuscino, sospirò. “Dormi, Tom … non è niente.”
“Ti stai vestendo. È qualcosa. Che succede?” Nella penombra della stanza, fiocamente illuminata dai lampioni della strada, il compagno si alzò a sedere. L’ombra delle tende disegnava forme geometriche sulla sua pelle. A costo di sembrare la solita ragazzina emotiva, il momento in cui era più bello era proprio la notte.

Solo quando dorme però.
“Mi hanno chiamato dal San Mungo.” Ammise. “È arrivato un carico di Infetti e degli auror feriti.”
“Il blitz.”
“Già.”
“Contagiati?”
“Non lo so.”
“John Doe? L’hanno catturato?”
“Non ne ho idea. Non so neanche come stanno Jamie e gli altri.” Tagliò corto perché era stato svegliato da una chiamata via Specchio Comunicante che non gli aveva neanche lasciato tempo di rendersi conto di cosa stava succedendo.  

Comunque scoprirò tutto una volta arrivato.
“Posso esserti d’aiuto?”
Gli sorrise. Tom stava già cercando i vestiti con lo sguardo.
“No, si tratta di lavoro stavolta.”
Il compagno annuì e si fermò, perché in quel caso non c’era molto da aggiungere: quelli erano mondi che avevano separato per scelta voluta.  
“Ci vediamo domattina.” Lo raggiunse e si chinò per baciarlo. Era caldo di coperte e di sonno come mai lo era durante la giornata. Avrebbe dovuto essere appiccicato a lui, non in piedi e con lo stomaco ridotto ad un nodo ansioso.

Agli Inferi me e la mia indole da crocerossina. Non potevo fare il giocatore di Quidditch?
“Ricordati di dare da mangiare a Zorba … e di tollerare il resto della truppa.” Venne ricompensato con un borbottio poco impegnativo. “Ti chiamo se ci sono novità, okay?”
“Ovvio.”
Sospirò prendendo lo zaino e mettendoselo in spalla. Non lo guardò una seconda volta, perché gli sarebbe bastata per chiedergli di aspettarlo sveglio, o ancora peggio, chiedergli di aspettarlo in sala di attesa per confortarlo quando tutto sarebbe finito.
Avrò bisogno di parlare con qualcuno, dopo stanotte.

Uscì fuori dalla camera tenendo le scarpe in mano e per poco non sbatté contro Lily. Lily, che era sveglia, già vestita e con la faccia determinata di chi non si sarebbe fatto dire no.
Agh. Perché i miei genitori non hanno deciso per un figlio solo?
Me ovviamente.
“Non ti porto con me.” Esordì prima che potesse aprire bocca. “Psicomaga.” La indicò. “Guaritore.” Si indicò. “E comunque non ti hanno chiamato.”
“Chi te l’ha detto?”
Si sarebbe messo le mani nei capelli. “Sei al primo anno di Psicomagia! Perché mai dovrebbero chiamare una streghetta ancora sui banchi di scuola?”
Lily boccheggiò per qualche istante, ma non si arrese.

E quando mai.
“Non hai un fiocco rosso in testa, piantala di pavoneggiarti.” Disse con presunzione del tutto insensata.
“Non ho vinto un premio, sciocca, mi hanno chiamato perché sono reperibile ventiquattro ore su ventiquattro!” Non aveva tempo di subire le bizze di sua sorella. La capiva, ma se non metteva una parete divisoria tra Al Il Fratello e Potter il Guaritore rischiava di impazzire di preoccupazione.
Lily dovette intuire qualcosa perché esitò. Solo un secondo però, quello necessario a cambiare strategia d’attacco. “Potreste avere bisogno del mio aiuto. Con gli Infetti, o con gli auror … C’è gente che è stata tenuta prigioniera per settimane!”
“Ci saranno altre Psicomaghe e molto più esperte di te.”
“Sören sarà là.” Si arrese infine. “Non riesco a stare qui ad aspettare che mi faccia sapere se è ancora vivo … Perché lo conosco, sarà in totale assetto da guerra e se ne ricorderà domattina, quando glielo farà notare Milo.” Si morse un labbro con un’ apprensione così sincera che sentì tutte le sue idee sul giusto distacco finire nel gabinetto. “Non ce la faccio ad aspettare, okay?”

Sospirò. Il sottotesto era chiaro: l’avrebbe seguito comunque, a costo di placcarlo all’ultimo momento durante la Smaterializzazione con conseguenze che variavano dal grave al raccapricciante.
“Te ne starai in disparte.” La ammonì ignorando il sorrisone che gli rivolse. Non si sarebbe abbassato a ricambiarlo. “E sia chiaro … se Sören è ferito te ne starai buona ad aspettare in sala d’aspetto che venga curato. Niente scene madri! E soprattutto non ti farai vedere da papà o zio Ron … mi ucciderebbero!”
Alzò gli occhi al cielo. “Ma per chi mi hai preso?”

“Per l’insopportabile strega che sei … avanti, aggrappati a me. Ci Smaterializziamo.”
Lo abbracciò stretto e quanto avrebbe voluta prenderla a coppini. “Grazie Al!”

“Fa’ silenzio.” Sbuffò passandole un braccio attorno alla vita e sfilando la bacchetta dalla tasca del camice. “O vuoi che venga con noi l’altra metà della casa?”
Senso di compressione, stomaco rivoltato come un vecchio calzino e si trovarono nel vicolo male illuminato e in odor di spazzatura decomposta che ospitava l’entrata del San Mungo.
“Bleah.” Lily fece una smorfia. “Allora è passata quella direttiva di cui parlava zio Percy sul rendere il vicolo ancora più schifoso.”
“Se tiene lontano i Babbani tanto meglio … con il casino che è successo con Liam e la mancanza di magia avevamo attirato troppa attenzione.” Si coprì il naso con la manica del camice. “Ma è orrendo, già.”

Entrarono dentro, in un insolitamente quieto triage. Gli Auror e gli infetti dovevano già essere stati portati su. “Io vado.” Le disse. “Se Sören è qui te lo mando, va bene? Se hai domande falle a lui.”
“E se non è qui?”
“Scopro dov’è e vengo a dirtelo. E a informarti di tutto il resto.” Le promise, perché al di là dell’irritazione era una cosa che doveva fare come fratello. E come Potter-Weasley.
Lily gli fece un piccolo sorriso di ringraziamento e finalmente obbedì, allontanandosi in direzione delle poltroncine per le lunghe attese.
“Ci vediamo dopo.” La salutò prima di incamminarsi verso gli ascensori. Attaccò il cartellino che lo identificava come Allievo Guaritore di Lesioni alla tasca del camice ed inspirò; era il suo turno di entrare in azione.
 
*****
 
San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Notte.

 
E pensare che era il giorno del suo compleanno.
Harry si sentiva derubato di qualcosa: erano passati decenni da quando passava quella notte insonne a sognare una vita migliore.
Non sono più abituato a passare il mio compleanno in modo orrendo.
Non sono nel sottoscala dei Dursley, ma comunque…

“C’è una talpa Harry.” Ron stava parlando ed era suo dovere dargli attenzione. Sopratutto perché erano nel bel mezzo di un corridoio del San Mungo e metà dei suoi uomini erano riversi su lettini d’ospedale.
Compreso Jamie.
Serrò le labbra, accennando ad un assenso verso l’amico. “Chi era a conoscenza del blitz?”
“Le tre squadre, i Tiratori Scelti … Ama. Un bel po’ di gente. Ma non tanta.” L’amico scosse la testa, il l’uniforme d’assalto bruciata e strappata in più punti e un brutto taglio alla guancia che aveva bisogno d’attenzioni. Aveva l’aria di reggersi in piedi per pura forza di volontà ma non poteva ancora ordinargli – perché solo in quel modo gli avrebbe dato retta – di tornare a casa.
“Controlleremo i conti bancari di ogni agente, uno per uno. Dobbiamo sapere chi ha fatto cosa in questi ultimi due mesi … e anche quelli precedenti, se possibile. A questo punto non possiamo più permetterci di esitare o temere la stampa. Contatterò gli Indicibili io stesso domani mattina.” Mormorò mentre un paio di Guaritori gli sfilavano davanti con aria indaffarata. Non li fermò solo perché aveva già saputo ciò che gli premeva: James si era beccato una brutta Fattura Congelante ma se la sarebbe cavata.
“Vogliamo davvero farli entrare a casa nostra?” Lo riscosse Ron. “Harry, sono delle spine nel fianco!”
“È quello di cui abbiamo bisogno al momento.” C’era un motivo per cui il mago medio non era a conoscenza del vero lavoro svolto da quella task-force che non rispondeva a nessuno se non al Ministro. L’ufficio Misteri in cui alloggiavano era solo una copertura. Erano gli Affari Interni, coloro che guardavano i guardiani.

La polizia della polizia.
Se c’era una talpa nel Dipartimento, erano gli unici a poterla scoprire.
“C’è stata una fuga di informazioni Ron, l’hai detto tu stesso …” Aggiunse in tono più conciliante vedendo l’amico rabbuiarsi. “John Doe sapeva che sareste arrivati e vi ha fatto trovare il comitato di benvenuto.”
“Ci ha quasi massacrati.” Convenne rabbioso. “Siamo riusciti a neutralizzare gli Infetti a fatica … e tutto quello che abbiamo ottenuto è una strega che non parla.”

“La madre di Sören.” Annuì. Fu stupito nel vederlo fare una nuova smorfia, con l’espressione che aveva quando qualcosa lo angustiava. “… Cosa?”
Ron si guardò attorno e nonostante fossero soli  lo prese per un braccio e lo portò praticamente in un angolo. “Forse non c’è bisogno degli Indicibili.”
“Cioè?”

“Prince.” Disse soltanto. “Si è comportato in modo strano per tutta l’operazione.”
“In che senso?”

“Si è allontanato dalla squadra di James e dal suo Sergente proprio durante l’attacco degli Infetti … se n’è andato a spasso per il castello e poi è ricomparso dal nulla portandosi dietro sua madre. Per almeno un’ora non ha dato traccia di sé.”
Harry scrutò l’espressione dell’amico. Prince non gli era mai piaciuto per ovvi motivi, ma erano passati i tempi in cui il risentimento aveva la meglio sul giudizio di entrambi. Quindi Ron parlava con cognizione di causa. E non sembrava neanche particolarmente felice di farlo. “Pensi che sia la talpa.” Lo disse come un dato di fatto, e non aveva davvero idea di come sentirsi in merito: aveva dato fiducia al ragazzo, perché gli era sembrato meritevole nonostante il suo passato e i suoi errori.

Si era sbagliato?
“Non lo so Harry … ma ha avuto a che fare con John Doe due volte ed entrambe le volte se l’è lasciato sfuggire. Ha fatto carte false per partecipare alle indagini e poi al blitz…”
“Questo è perché vuole catturarlo. È il caso della sua vita, come lo era per Ama abbattere la Thule.” Gli fece notare. Non poteva arrendersi all’impulso spiccio di voler trovare il colpevole ad ogni costo.

Anche se sarebbe stato così facile.
Non l’hai mai davvero perdonato per aver ferito i tuoi ragazzi. 
Oltre a volerlo ontano un Oceano ora che sua figlia aveva deciso di invaghirsi di lui. Di nuovo.
Siamo tornati a cinque anni fa?
“Forse.” Concesse Ron. “Ascolta, non mi piace dubitare del tuo giudizio, okay? Ci hai sempre preso con le persone, è un po’ il tuo talento speciale … ma quel ragazzino ha passato più di metà della sua vita come un Von Hohenheim, è uno della loro razza. Non puoi cancellare la famiglia come non puoi toglierti sangue dalle vene. Può anche volersi vendicare di John Doe … ma sua madre?”
“Quindi anche Ama ha sbagliato a giudicarlo?”
Ron alzò le mani in un gesto di esasperazione. “Non ne ho idea! So solo quello che ho visto … e quello che ho visto, come mi ha risposto, non mi è piaciuto. Tutto qui.”
Tutto qui un corno.
Si passò una mano sul viso, esausto. E non aveva combattuto nessuna battaglia quella notte.
C’è tipo e tipo di battaglia. Avrei preferito combattere quella al castello.
“Parlerò con Ama.” Non poteva far altro del resto, anche legalmente parlando. “Per il momento tieni i sospetti per te, d’accordo?”
“Gli terrò gli occhi addosso.”
“Va bene.” Acconsentì. “Ma non esagerare … non possiamo rischiare di perdere la talpa perché stiamo seguendo la strada sbagliata.”

Ron annuì, dandogli una pacca sulla spalla. “Vado a vedere come stanno i miei ragazzi.”
“Poi vattene a casa.” Tentò di ordinargli salvo vedersi comprensibilmente ignorato: Ron non se ne sarebbe andato finché non fosse stato certo che ogni singolo agente avrebbe passato la notte.  

Fece appena in tempo a sedersi su una delle scomode sedie lungo il corridoio per tentare di raccogliere i pensieri che vide arrivare Albus. Giusto, lavorava lì e doveva esser stato richiamato per dare una mano.
“Buon compleanno papà.” Gli sorrise allungandogli un sacchetto da cui proveniva un paradisiaco odore di caffè e muffin. “Mi hanno detto che eri qua … e che probabilmente non ti eri neanche fermato per prendere un caffè.”

“Grazie figliolo.” Ricambiò con calore: in quei piccoli gesti mai sbandierati Albus gli ricordava Ginny come una goccia d’acqua. “Notizie di James? Scorpius?”
“Nulla di nuovo rispetto a quello che già ti devono aver detto sotto minaccia.” Scherzò. “A Scorpius hanno curato un polso slogato e l’hanno mandato a casa. James dorme, è stabile. Se tutto va bene entro domani lo dimettiamo.” Guardò fuori dalla finestra come a ricordare che c’era un mondo intero dietro quelle stanze e quei lettini. “Hai avvertito Teddy?”
“Gli ho detto di rimanere con Benedetta, sarà più utile domattina quando Jamie si sveglierà a pretenderà di essere dimesso.” Ridacchiarono entrambi. “Sai qualcosa degli … Infetti?” Gli sembrava sempre crudele riferirsi a quei maghi e quelle streghe innocenti con un termine così dispregiativo.
Anche se affidandosi alle mani di John Doe in un certo senso se lo sono meritato.
Il figlio annuì. “Li hanno portati giù a Malattie Infettive. Li hanno messi in stasi, tolto l’Imperius. Almeno saranno al sicuro.” Abbozzò una mezza smorfia. “Devo andare papà, ho Smethwyck sul collo.”
“Non preoccuparti, va’ a fare il tuo lavoro.” Gli fece un cenno di saluto e lo guardò allontanarsi lungo il corridoio, con il passo rapido ed efficiente che contraddistingueva tutti i Guaritori. Ormai i suoi ragazzi erano maghi fatti. Si ferivano, curavano e stavano in piedi nel cuore della notte a reggere sulle spalle l’intero Mondo Magico.

Almeno Lily è a casa a dormire…
 
****
 
Albus trovò Sören seduto nella rientranza di una delle finestre in corridoio. Se non l’avesse conosciuto avrebbe detto che stava tentando di nascondersi – male – da qualcuno.
“Ehi.” Lo salutò chiudendo la cartella con l’anamnesi di un tipo dal cognome difficile, bengalese forse, che faceva parte del carico di Infetti arrivato assieme agli auror e ai Medimaghi¹. La buona notizia è che molti di loro erano ad uno stadio iniziale del morbo.
Forse con loro riusciremo a lavorare ad una cura. Una efficace.
Sören alzò lo sguardo, quasi sorpreso di trovarlo lì. “Sei andato a farti visitare?” Gli domandò senza preamboli dato che aveva intuito la riluttanza che il tedesco provava a passare sotto la bacchetta di un Guaritore.
Odio chi minimizza i propri dolori. Sono peggio degli ipocondriaci.
Almeno i secondi non rischiano la vita.
“Sì.” Gli mostrò una striscia di Pomata Disinfettante sul viso. “Sto bene.”
“Lo vedo.” Gli batté la cartella sulla spalla, in un moto di gentilezza che sperò fosse ben accolto.

Non ebbe nessuna reazione. Forse era peggio “Stanno tutti bene.” Tentò di rassicurarlo allora: il senso di colpa degli illesi era un problema che a volte gli capitava di dover gestire. “Abbiamo rimandato a casa quasi tutti, va’ anche tu.”
“Sì, adesso vado.” Gli rispose con l’ovvia intenzione di non schiodarsi di un millimetro. Non era senso di colpa, indovinò, era prostrazione. Da quel che aveva sentito dagli auror, John Doe era scappato per un soffio, causa spiata di ignoti.

Io e Tom avevamo ragione … c’è una talpa. E grossa anche, ministeriale.
Era comprensibile il tormento e la frustrazione che doveva provare il mago di fronte a lui. Gli si sedette accanto: aveva ancora cinque minuti prima che Smethwyck venisse a pretendere la sua testa “Ne vuoi parlare?”
“C’è qualcosa che non ti hanno già detto?” Ironizzò con una cattiveria che non sentiva, da come gli scoccò un’occhiata di scuse subito dopo. “… no, Al, mi dispiace. Non ne ho voglia.”
“Nessun problema.” Tanto aveva una soluzione a portata di mano. Se l’era dovuta portare dietro.

Tanto vale usarla.
“Lily è venuta con me.” A questo finalmente una reazione arrivò. Rise dell’espressione sbalordita che gli venne rivolta. “Dai, la conosci … Pensavi ti avrebbe atteso per colazione?”
Scosse la testa. “In effetti no.”
“Va’ da lei. Hai bisogno di vedere una faccia amica, non di star qui ad arrovellarti il cervello. Per quello ci sarà tempo.” Ribadì con il suo miglior tono da Guaritore.

“Ti ringrazio.” Sören gli restituì un sorriso poco convinto, ma doveva essere il massimo che riusciva a fare. Era stata una nottataccia, per tutti. “La riporto subito a casa.” Aggiunse.
… e perché? Aaaah, giusto. Non ha idea che Lils mi ha spifferato tutto.
Una piccola soddisfazione come fratello maggiore in fondo se la poteva pure prendere. “Non c’è fretta … dubito che mia sorella ti lascerà andare prima di domani mattina.”
Sören gli restituì un’aria confusa, prima di capire e guardarlo atterrito. Non poté fare a meno di ridere. “Sta’ tranquillo, sono dalla vostra parte.” Lo rassicurò. “Hai visto con chi mi accompagno. Sarebbe un po’ ipocrita da parte mia farvi la morale.” Gli diede una pacca sulla spalla e fu certo che l’altro non saltò in aria solo perché si obbligò a non farlo.

Buoni riflessi. Gli serviranno con Jamie.
“Grazie. Conta molto per me, Albus.” Per un momento parve tornare il ragazzo impacciato che aveva conquistato le sue simpatie e non il soldatino gelido in cui si era rifugiato fino a quel momento.
Al.” Lo corresse. “Non discuto i suoi gusti in fatto di maghi … è reciproco, lei non lo fa con i miei.” Gli strizzò l’occhio a cui rispose con un debole sorriso: era proprio uno straccio.
Per fortuna non era un suo problema. “Dai, sparisci.” Scherzò spingendolo in direzione del corridoio.   
Era stata una lunga notte, ma non c’era da preoccuparsi: come ogni volta, sarebbe arrivata l’alba.
 
****
 
Aveva finito per sonnecchiare su una delle atroci poltrone della sala d’aspetto. Un tempo forse erano state comode, foderate di pelle ed imbottite, ma con il tempo e con l’uso avevano assunto forme improbabili e odori non proprio raccomandabili.
Come se fosse questo il problema…
Il fatto è che detestava dover aspettare come qualunque altro strega o mago che non era personale del San Mungo o, a dirla tutta, che non facesse Potter di cognome.
Non ci sono abituata, okay?
Avrebbe preso a calci Albus per non averla fatta entrare con lui, ma le regole erano regole.
E a volte si applicano anche a me.
Era in attesa quindi, ad occhi chiusi, di un rumore, un passo, una voce.
“Lily.”
Soprattutto se era quella del suo ragazzo. Ragazzo, perché Sören era quello ed era tutto. Punto. Si alzò di scatto a sedere, on il cuore in gola e felice anche solo di sentirlo parlare: voleva dire che stava bene, o che almeno non stava troppo male.

“Ehi.” Rispose dandogli una bella sbirciata complessiva: indossava l’uniforme da assalto degli auror o almeno, il corpetto.
Allora è stato in mezzo al casino.
Ed aveva anche la faccia di uno che ci si era zuppato ben bene. Ciocche di capelli sfuggivano dal solito elmo di brillantina che usava al lavoro e aveva il viso sporco di fuliggine e polvere. A completare il quadro aveva due tagli medicati, uno su un sopracciglio e l’altro sotto il mento.
Però è in piedi su due gambe e sveglio. Grazie Morgana, grazie Merlino.
Il sollievo le fece quasi salire i lacrimoni, ma era una Potter, era abituata a preoccuparsi che metà della propria famiglia fosse in fin di vita. Si riprese subito e si alzò in piedi. “Ciao Ren.” La mancanza di reazioni stava cominciando a farla preoccupare però. Non aveva fatto ancora mezzo passo per andarle incontro. “Albie ti ha detto che ero qui?”
“Sì.” Annuì. “Dovresti essere a …”
“… casa? No, non penso proprio. Sono rimasta a dormire da lui e Tom apposta!”

Sören produsse qualcosa che assomigliava grossomodo ad un sorriso. Meglio di niente. Poi cambiò di nuovo faccia, come se un velo l’avesse oscurata. “Tuo fratello è ricoverato.”
“Jamie?” Mantenne la calma perché questo le era sempre stato detto di fare. O almeno doveva provarci, ecco. “Che gli è successo?”

“Una Fattura Congelante … si rimetterà, lo tengono solo in osservazione. Non ci sono casi gravi … tranne gli Infetti.”
“Scommetto che si è buttato in prima linea come l’idiota che è.” Gli sorrise perché aveva l’impressione che sdrammatizzare non servisse solo a lei. “Non è la prima volta.”

Comunque perché non si era ancora avvicinato?
Oh, al diavolo.
Non gli chiese se stesse bene: era evidente non fosse così. Lo abbracciò stretto e respirò l’odore di fumo, sudore e polvere da sparo di cui era impregnata la sua uniforme.
Odore di auror.
Non le piaceva, perché le ricordava le notti passate insonni nel letto dei genitori e la paura di non vedere tornare a casa suo padre. Però c’era anche una punta di profumo, di quella colonia agrumata che significava solo Ren. Lo strinse ancora più forte e stavolta fu ricambiata. Lo sentì passarle le dita tra i capelli e baciarle la tempia e l’incavo del collo, inspirare ed espirare come aveva fatto lei. Aveva il respiro di troppe sigarette fumate in un’attesa ansiosa. C’era quindi una sola cosa da fare.
“Ti porto fuori di qui.” Decretò con il piglio di una vera donna Weasley.
Ho visto troppe volte mamma trascinare il sedere di papà via da qui per non avere buoni esempi.
“… è una buona idea.” Ammise.  
“Certo che lo è. Io ho solo buone idee.”
Stavolta lo fece proprio sorridere. Se tornava il sopracciglio alzato e l’aria scettica era un buon segno. “Solo buone idee?”
“Okay, idee favolose e qualcuna catastrofica. Ma tu concentrati sulle statistiche positive!” Lo prese per mano e Appellò il cardigan che si era buttata addosso non appena aveva sentito Albus muoversi per casa. Dall’abbondanza di buchi e dal colore non era quello con cui era arrivata.

Chi se ne frega.
Anche se indossava uno degli arredi cimiteriali con cui Meike si addobbava – ed era probabile - né a lei né a Ren importava. “Ce la fai a Smaterializzarti?”
Annuì, passandole un braccio attorno alla vita. “Andiamo in albergo da me?”
“Sì, è meglio, al Mulino mamma starà dormendo con un occhio aperto.” Convenne abbracciandolo un po’ più di quanto fosse necessario per la riuscita dell’incantesimo. Sören non ne fu dispiaciuto da come la strinse di rimando. Era stanco e sembrava portare davvero un macigno sulle spalle.
Ma che cavolo è successo?
Avrebbe voluto fargli un milione di domande, ma stette zitta: aveva tutta la notte per avere delle risposte. E per ingegnarsi a risolverle.
 
****
 
Piccadilly Circus, The Royal Inn.
Notte fonda.

 
 
Sören guardava senza vedere veramente l’acqua scorrere lungo lo scarico della doccia. Dovevano essere passati diversi minuti da quando si era spogliato infilandosi dentro, incoraggiato da Lily che l’aveva spinto dentro il bagno come un ragazzino recalcitrante.
Aveva fatto bene, se non fosse stato per lei sarebbe crollato sul letto senza togliersi neppure i vestiti.
Togliendosi del sapone dal viso chi chiese dove fosse finito Milo: quando si erano Materializzati nel bel mezzo del salotto che collegava la sua camera con quella dell’altro aveva trovato le luci spente e zero odore di erba Babbana.
Chissà dove diavolo è finito.
Era in grado di badare a sé stesso, la cosa non lo preoccupava. Quello che lo preoccupava era uscire dal bagno e trovarsi di fronte Lily e doverle spiegare; tutto, da sua madre al comportamento del Sergente Weasley, che l’aveva trattato come se la fuga di Doe fosse solo colpa sua.
Sospetta di me? 
Non sarebbe stato strano. C’era una talpa in uno dei due Dipartimenti, pensare a lui era la prima opzione per una mente già piena di pregiudizi.  
La voce di Lily lo strappò dalle sue cupe considerazioni. “Ren! Sei affogato?”
Si guardò le mani raggrinzite e il vapore acqueo che alleggiava ovunque come nebbia.
“Arrivo.” Le rispose chiudendo l’acqua e coprendosi con l’unica salvietta che vedeva a disposizione. Milo aveva la brutta abitudine di fregargli l’accappatoio per una delle sue decine di docce giornaliere.
Almeno è passato di qui stamattina.
Lily lo aspettava sul ciglio del letto con in mano un bicchiere di whiskey. “Solo per stavolta.” Spiego alla sua espressione sorpresa: aveva notato come non le piacesse vederlo bere tranne che in occasioni festive. “Ne abbiamo bisogno entrambi.” Aggiunse dando un piccolo sorso al suo bicchiere.
Sören lo afferrò, sedendolesi accanto e vuotandolo invece tutto di un fiato. Il calore e il bruciore che ne conseguì lo fece sentire meglio. Un po’ meno perso e un po’ meno solo.
Questo non dipende dal whiskey però.
Ma dalla ragazza che si era svegliata nel cuore della notte per correre da lui. “Tuo padre mi ucciderà per aver scombinato i tuoi cicli di sonno.”  
Lily fece spallucce. “Credimi, le mie alzatacce sono l’ultimo dei motivi per cui vorrà la tua testa.”
“… Cioè?”

“Aver attentato alla mia virtù.”
“La tua cosa?”
La vide sogghignare e suo malgrado ridacchiò. “Sei davvero scortese Prince, sono una ragazza perbene!” Lo punzecchiò sul fianco nudo, rendendogli manifesto come si fosse dimenticato di rivestirsi.

Forse avrebbe dovuto.
“No, vai benissimo così.” Lo anticipò Lily con una lunga occhiata che lo fece arrossire anche sotto l’asciugamano. “E poi, è mio diritto godermi i tuoi muscoli.”
Sören scosse la testa con un sorriso, perché stavano evitando di parlarle e andava bene, ma non sarebbe durata. “Stai meglio?” Gli chiese infatti accarezzandogli una mano.
“Una doccia rimette al mondo.”
“Del tutto?”

“No, non del tutto.”
“È andata tanto male?” Gli chiese facendo oscillare il liquido ambrato nel proprio bicchiere. Non doveva piacerle molto da come ci giocherellava. Tipico di Lily: gli faceva compagnia per non farlo sentire un beone.

La gratitudine che provava avrebbe potuto esprimerla in molti modi, e ben più piacevoli che sfogarsi con lei, ma sapeva che la sua ragazza – perché era la sua ragazza - non  l’avrebbe lasciato in pace finché non avesse avuto la certezza che era vuoto di cattivi pensieri. Così le raccontò tutto: dalla fuga di John Doe, dal suo inseguimento fino al ritrovamento di sua madre. Lasciò invece fuori i sospetti del Sergente Weasley perché l’ultima cosa che voleva in quel momento era darle un dispiacere o, ancor peggio, imbastire una discussione sull’idiozia o meno del parente.
“Merda.” Commentò quando ebbe finito. Si mise una mano sulle labbra con aria di scuse. “Cioè, volevo dire…”
“No, hai detto bene.” La fermò occhieggiando la bottiglia sul comodino: ne sentiva il richiamo ma di mezzo c’era una ragazza bellissima concentrata su di lui.

Per fortuna. “È stata presa in custodia dagli Auror e credo tradotta nelle celle del Ministero in attesa di essere interrogata. Francamente, non penso aprirà bocca.”
“Perché?”

“Perché non l’ha fatto al castello e non lo farà adesso … o domattina.”
“Useranno il Veritaserum … credo che…”
“Mia madre è stata cresciuta nella paura di mio zio, come me. Se vuole, sa portarsi un segreto nella tomba. E il Veritaserum può essere combattuto da una mente caparbia … E di certo lo è, se è riuscita a sparire dai radar del Mondo Magico e da quelli di mio zio per anni. Se gli auror la sottovalutano rischiano di prendere un granchio.” Si passò una mano trai capelli umidi e la tenne per un po’ lì, a rinfrescarsi. Essendo quella mano se la sentiva bollente. Era la magia a bollirgli nelle vene, quieta ma arrabbiata. Come lui.

“Tutte queste cose gliele hai dette?”
A tuo zio Ron che mi pensa in combutta con lei? O a tuo padre che vuole farmi la pelle?

Soffocò una smorfia sarcastica perché aveva di fronte una LeNa fin troppo abituata ai suoi mascheramenti. “Glielo dirò.”
Magari a Scorpius. Se le cose vengono da lui le accetteranno.
Lily si morse un labbro. Aveva capito che la direzione che il discorso stava prendendo non gli piaceva, ma fosse mai che mollasse l’osso. Battere il ferro finché era caldo era un po’ la sua specialità. E forse il suo maggior difetto. “Forse potresti dar loro una mano …”
“Non prenderò parte agli interrogatori. Non credo me lo lascerebbero fare … e comunque non voglio. Non voglio più vederla.”  
“È tua madre.”
Non è mia madre. Non lo è mai stata, e non lo diventerà adesso!” Era stanco e arrabbiato e non riuscì ad evitare di scostarsi dalle carezze come un cane rabbioso e sbottare.

Lily non diede segno di essersela presa per il suo scatto. Per avere una nomea di testa calda era incredibilmente paziente quando si trattava di moderare le crisi di collera altrui.
Come riusciva a rimanere arrabbiato con una che non gli dava il minimo spago? Si risedette guardando nelle profondità del bicchiere vuoto. “Mi rendo conto che non è morta … ma preferirei che lo fosse.” Si sfogò. “Almeno non dovrei affrontare l’ennesimo parente che attenta al Mondo Magico infangando tutto quello per cui ho lavorato.” Continuava a vedere la faccia diffidente di Weasley come se l’avesse stampata nelle retine. Sei come loro. “Sta rovinando tutto. Lei e John Doe stanno rovinando tutto.” Strinse il vetro tra le dita ed era un passo da farlo crepare. Magari romperlo l’avrebbe fatto sentire meglio. Meglio di avere un groppo alla gola ed aver voglia di piangere dall’umiliazione.
Lily non disse niente, sporgendosi invece a baciargli la guancia. Chiuse gli occhi voltando la testa e facendo collidere un po’ goffamente le labbra sulle sue. Non era importante. Con Lily poteva anche togliere l’uniforme e la voglia di essere perfetto.
Le passò il pollice sulla guancia liscia, lungo il profilo del collo. Il cuore le batteva come quello di un uccellino. Buttò il bicchiere a terra, sulla moquette e quindi al sicuro – di certo più che in mano sua – e le racchiuse il viso tra le mani, perdendosi in quel bacio come il solito, stupido naufrago.
Appoggiò la fronte contro la sua, perché poteva quasi illudersi che il mondo intero fosse sparito e che ci fossero solo loro due.
“Ren… Non lasciare che il tuo passato o la gente ti butti giù.” Mormorò con una sicurezza ferrea che gli sarebbe piaciuto sapere possedere. “Se tua madre è una criminale non significa niente. I nostri genitori ci mettono al mondo, ma poi cosa facciamo delle nostre vite riguarda solo noi. Devi difendere quello che hai fatto, con le unghie e coi denti. Non devi permettere a nessuno di infangarlo.”
Era giusto. Giusto e sensato e lui l’aveva dimenticato per un’intera serata. Non che non lo sapesse, e non che non avrebbe lottato. Solo, aveva lasciato che sua madre e il Sergente Weasley lo soffocassero con i loro sguardi e le loro presenze.
“Hai ragione.” Si staccò quant’era necessario per guardarla. La fece arrossire e non capì perché.
Poi si ricordò cosa aveva pensato quando l’inferno era scoppiato nei laboratori. Cosa aveva continuato a pensare, anche se preso dal suo compito, dall’adrenalina e dal desiderio di vendetta.
“Non è la prima volta che vado in missione … che fosse per la Thule o per il SAGITTA non ho mai avuto la certezza di tornare a casa … Stavolta però dovevo farlo, ad ogni costo.” Disse senza guardarla. Tanto era certo di avere la sua attenzione completa.
“Come mai?” Gli chiese, ma era più un volerselo sentir dir che autentica curiosità.
Conosce la risposta.
“Perché ti avevo promesso di tornare. Non ho mai dovuto prometterlo a nessuno. E quando sono tornato, ho cominciato a … desiderare una cosa.” Non sarebbe mai stato un Casanova, un abile seduttore come Milo. Però lo doveva dire. Lo doveva dire perché sarebbe ammattito se non l’avesse fatto. Lily era bellissima, vicina e … troppo vicina.
Doveva dirlo perché si meritava di sapere quant’era amata.
“Cosa?”
“Che arrivasse domattina per svegliarti e fare l’amore con te. Solo questo. Riuscivo a pensare … solo a questo.”
Lily rise appena, ma non era una risata di scherno, sembrava più per mascherare l’emozione. E le guance rosse e gli occhi lucidi era un buon indicatore. Gli passò le braccia attorno al collo e si avvicinò definitivamente troppo. “Beh, sono sveglia.”
Sorrise di rimando. “Lo vedo.”

“Desiderio soddisfatto allora?” Intrappolò la lingua trai denti in una smorfietta buffa e adorabile, perché grazie a Merlino c’era lei a sdrammatizzare la situazione.
“No, affatto.” E si chinò a baciarla, chiudendo la porta della camera con un gesto della mano ed escludendo il mondo al di fuori.
Almeno fino a domattina.
 
He slept curled against her back,
a dark comma against her pale elegant phrase.
A. S. Byatt 
 
 
****
 
Da qualche parte a Londra…
 
Johan – perché questo il suo nome – guardò la vita scivolare via dalle membra scosse del Mercemago senza trovarne la soddisfazione che aveva sperato.
“Avevate un compito. Uno solo.” Spiegò ai due che, assieme al cadavere, avrebbero dovuto scortare Sophia fino al loro nuovo nascondiglio. I Mercemaghi non aprirono bocca, pallidi e sudici come dovevano essere.
Almeno non tentano di giustificarsi. Come questo qui.
“La mia compagna è adesso nelle mani degli Auror e questo complica la situazione. Molto. E non mi piacciono le cose complicate.” Rinfoderò la bacchetta e percorse lo stanzone grigio di un altrettanto grigio stabile, uno dei tanti che affollava la periferia di Londra. Ignobile, anonimo, disabitato. Perfetto come nuovo quartier generale.
Posso nascondermi per tutta la vita sotto il vostro naso se voglio.
“Dobbiamo prepararci a recuperarla?” Chiese uno dei due, quello che sembrava meno ottuso e a cui forse avrebbe lasciato la possibilità di andarsene sulle sue gambe una volta finita tutta quella faccenda.
“Con la sicurezza del Ministero? Non sono pazzo.” Schioccò la lingua, mentre piani, idee del tutto inconcludenti gli si affollavano nella mente.
Doveva rimanere lucido.
Sophia era in mano dei dannati auror, ma non avrebbe parlato; e anche se l’avesse fatto avrebbe avuto ben poco da dire visto che l’aveva tenuta fuori dall’intera operazione.
No, era al sicuro. Non le avrebbero torto un capello, troppo presi dalla foga di estrarle informazioni e ad usarla come leva per farlo uscire allo scoperto.
Sono loro, i bravi ragazzi.
Per ora doveva mettere il rapimento della sua donna in secondo piano. La rabbia sorda che sentiva era qualcosa che poteva controllare o, perlomeno, decidere di ignorare finché non fossero arrivati alla seconda parte del piano.
Perché c’era sempre un piano.
“Hanno preso le cavie?”
“Sì.” Confermò il Mercemago. “Li abbiamo visti caricarle nelle ambulanze.”
“Bene, allora facciamoli lavorare.” L’alternativa a non trovare soluzioni era delegarle a qualcun altro. La sua fonte gli aveva dato ad intendere che al San Mungo britannico ci fossero eccellenze magiche, e teste pensanti al lavoro.

Snellire il processo.
Ormai nascondere le cavie non aveva più senso, né tenerle con loro con il rischio di doversi occupare dello smaltimento di una decina di cadaveri.  Invece occuparsi degli investitori ne aveva ancora.
Qualcuno bussò alla porta distogliendolo dai suoi pensieri. “Ah, Loher.” Salutò il professore che guardava nervoso verso il soffitto, quasi da esso dovessero spuntare Auror con la bacchetta spianata. “Ti sei ripreso?”
“Non erano questi gli accordi!” Sibilò prima di lanciare un’occhiata orripilata al cadavere. “Questa faccenda sta andando fuori controllo, ci erano addosso!”
“Ma non ci hanno presi.” Obbiettò accendendosi una sigaretta per soffiare via il malumore. O il desiderio, forte, di ammazzare di nuovo qualcuno. La scacchiera della sua vita era fuori posto: la sua regina era stata appena mangiata dagli avversari.

Era scappato, ma aveva dovuto sacrificare qualcosa. Non era abituato a farlo: era una sensazione spiacevole.
“Bevi qualcosa e rilassati.” Gli fece cenno verso una delle poche bottiglie di buon Whiskey Incendiario che era riuscito a trafugare dalla cantina dei Prince. “È andato tutto come mi aspettavo. Il nostro amico americano ci ha avvertiti in tempo.”
“Ma le cavie…”
“Ne avevamo già parlato, le cavie sono dove devono essere.”
“Non tutte.” Il dottore si versò una generosa dose di whiskey trangugiandolo in poche riprese. Alla sua espressione perplessa si pulì con il dorso della mano e si affrettò a spiegare. “Un paio di cavie sono fuggite.”
“Da chi? Dagli Auror?”

“Non le hanno neanche prese. Non le hanno loro, non le abbiamo noi. Sono scappate.”
“Quindi sono uccel di bosco?” Si grattò la fronte, valutando la notizia. Non seminare il panico nella comunità magica era stata una priorità prima che il Ministero inglese scoprisse il loro gioco.

Adesso è diverso. Tutto sommato, può tornare utile.
“È una buona notizia.”
Loher lo guardò come se non avesse capito bene. “C’è il rischio di un’epidemia.”
Si strinse nelle spalle. “Se tutto va bene tra un paio di settimane saremo fuori da questo paese dannato. E detto tra noi, più gli inglesi hanno il fuoco al culo, più si ingegneranno a trovare una cura … Non era quello a cui puntavamo? Farli lavorare al posto nostro? Fino ad ora abbiamo usato le loro ricerche e con un certo profitto. Se le cavie si sono stabilizzate, è merito di quel che hanno scoperto nel loro piccolo ospedale.” Si versò un bicchiere e lo vuotò: sarebbe stato il primo di molti. L’alcohol lavava via splendidamente sentimenti ed emozioni e, nel suo caso, ne aveva bisogno.

“Sì, ma…”
“Crisi di coscienza Dottore?” Motteggiò dandogli una pacca sulla spalla. “È un po’ tardi per questo.” Gli passò la bottiglia, perché l’ultima cosa che voleva era un ripugnante ometto a piangergli sulla spalla. “Portatela nel nuovo laboratorio e tira un respiro di sollievo. Siamo ancora in gioco.”
Anche senza una regina, doveva vincere quella partita.  

 
****
 
Note:

Stavolta non ci ho del tutto messo un mese. Miracolo!
(No, è che sono in vacanza.)
Questa la canzone del capitolo. Come ho detto su effebì, volevo usarla da anni.

E questo apre un inquietante squarcio su quanto e da quando sto plottando tutta ‘sta roba.
Ah, poi, being here, pubblicizzo il mio tumblr. Ci sto spendendo un sacco di tempo inutilmente ed è pieno di Potterverse e Rumbelle. Specialmente nel tag Potteroso, che ci sono anche foto, anteprime e plotting di tutta ‘sta roba.
Dateci un’occhiata e followatemi se vi va. ;)

 
1. Medimago: ribadire è giusto e doveroso. I Medimaghi, per come l’ho capita io e come dà ad intendere il Lexicon sono la versione magica dei paramedici, mentre i Guaritori sono i veri e propri dottori.

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Capitolo 45
*** Capitolo XLIV ***


Capitolo XLIV




“It’s still you.
It’s still you.”
(Margaret Atwood, Shapechangers in Winter)

31 Luglio 2028
Londra, Piccadilly Circus.
The Royal Inn, Mattina.
 
Lily aveva avuto molti risvegli post sesso.
O meglio, non tanti. Abbastanza. Quelli che bastavano a farsi un’idea se la sera appena passata meritava di essere ripetuta o messa nel cassetto delle decisioni pessime.
Questa la ripeterei almeno altre tredicimila volte. Sì.
Perché non aveva la minima, pallida intenzione di muoversi da quel letto prima di duecento anni.
Non era mai semplice raggiungere l’intimità. A folleggiare tra le lenzuola erano bravi tutti, ma svanita la nuvola aurea dell’orgasmo le cose si facevano serie. O, in molti casi, imbarazzanti.
Non sono brava ad aspettare. Non sono brava nei risvegli.
La mattina dopo si sentiva sempre elettrica, desiderosa di alzarsi, calciare via le coperte e, a seconda di com’era andata, ricominciare da capo o filarsela. Scott l’aveva spesso rimproverata di non riuscire a godersi qualche coccola mattutina sotto le lenzuola, le chiacchiere a bassa voce, i sorrisi complici.  
Con Sören non sentiva quell’elettricità scomoda, forse perché non era la prima volta che dormivano assieme. Conosceva il ritmo del respiro dell’altro, la sua tendenza a prendere meno spazio possibile e il fatto che, sì, sbavasse sul cuscino.
Lily sfilò una mano da sotto le coperte e gli scostò una ciocca arruffata dalla fronte.
Non era cambiato niente eppure era cambiato tutto.
Il desiderio che li aveva presi, travolti quella notte era qualcosa che ancora le eccheggiava nelle ossa e nella pelle. Si rifletteva anche nel modo in cui il compagno aveva abbandonato la posizione da rigido soldatino a riposo per adagiarsi tra le lenzuola, vulnerabile e tranquillo.
Il sesso era sesso. Un atto meccanico, un’urgenza chimica e uno scaricare una tensione che raggiungeva un picco e poi si rompeva. Poteva esser fatto male, bene, da persone con esperienza o meno. Non era quello il punto: era solo un atto e potevi davvero farlo con chiunque.
Era farlo con chi era innamorata a renderlo speciale, e al diavolo il concetto trito: non si sarebbe mai dimenticata, finchè respirava, il modo in cui Sören l’aveva guardata quando si era spogliata, né il più potente incantesimo di Memoria avrebbe potuto farle scordare la dolorosa perfezione con cui i loro corpi erano combaciati, come se finalmente avessero trovato la congiunzione che avevano cercato per tutta la vita.
Detto tra noi, è stato piuttosto intenso. Intenso da … ho bisogno di un minuto per ricordarmi come si respira. Quel genere di intenso.
Non si era mai sentita così: aveva amato Scott, certo. Con lo scozzese erano stati un’orchestra ben affiatata, si erano piaciuti e avevano giocato,  ma quello beh.
Wow.
Al diavolo il ripetersi, era stato diverso. Si percepiva diversa, anche se la mano che aveva steso di fronte a sé aveva sempre cinque dita e un gran bisogno di una manicure, anche se, presto o tardi, sarebbe dovuta andare in bagno.
Chissà se c’entrava il suo essere LeNa. Ma dubitava: era sicura che Sören, Occlumante e quanto di più lontano dall’essere empatico alle volte, avesse provato le stesse cose.   
No, Lily, non è una buona idea svegliarlo e chiederglielo. Ieri ha avuto una giornata da incubo.
Si rimise quindi buona ad aspettare. Non aveva fame e non aveva niente da fare quella mattina. Poteva aspettare.
Puoi aspettare che la sua Passaporta si attivi?
Era quello infatti il giorno previsto per il suo ritorno in America.
Lo faranno ritornare adesso che c’è stato quel casino? Con sua madre trattenuta qui?
Una parte di lei sperava che tutto quel male non fosse venuto per nuocere.
L’unico modo che hai di avere risposte è chiederle a papà.
Certo, Sören le aveva fatto chiaramente intendere che non voleva si immischiasse, ma lì non era una pressione vera e propria. Era un’innocente richiesta di informazioni. Che peraltro poteva mascherare da auguri al caro genitore.
Oggi è il suo compleanno o no?
Sgattaiolò furtiva nel salotto attiguo, afferando nell’andare la camicia dell’altro perché non aveva voglia di perder tempo con cerniere e bottoni del vestito.
E poi, è clichè. Amo i clichè. Questi clichè.
Scrisse il nome del genitore sullo Specchio Comunicante: tanto doveva già essere al Ministero a sbrogliare casini e attese. Dopo qualche momento la connesione fu infatti stabilita: fu quindi lesta ad augurargli tanti auguri con tutto l’affetto che provava.
“Grazie tesoro.” Gli venne risposto con calore. “Ne avevo proprio bisogno.”
“Mi spiace non farteli di persona … ma mi rifaccio alla festa di stasera!”
“Non ci sarà nessuna festa.” Sospirò. “Troppo lavoro, magari nei prossimi giorni.”
“Nonna Molly sarà sul piede di guerra.”
“A giudicare dalle Strillettere che mi sono arrivate direi di sì.” La fece ridere. “A proposito … hai dormito a casa stanotte? Sono uscito presto, ma mamma mi ha detto che non eri a colazione.”
Oh, ops.

“Ho cenato da Albie, sono rimasta da lui e Tom.” Mentì con disinvoltura, che era la sua scusa standard quando non aveva voglia di spiegarsi ai genitori. Non che non la sgamassero, ma era un patto tacito, quello di non fare domande.
La sorprese un sospiro. “Sei da Sören?”
“Uh.” Le uscì in contropiede. Da quando suo padre si traeva dall’impaccio primordiale che provava all’idea di saperla con un ragazzo? Si strinse le braccia al petto, affogando nella camicia del suddetto. “Beh, sì.” Perché non poteva mentire, non a domanda diretta.
Ci fu una lunga, scomoda pausa. “Digli che può prendersi il giorno libero. Letteralmente, non voglio vederlo qui in giro.”
“Perché?”
“Arrivano gli Indicibili e l’ultima cosa che voglio è spiegar loro un cittadino americano che si aggira per i nostri cubicoli. Perché è quello che è al momento, Lils, almeno ufficialmente.”  
“Gli Indicibili … per cosa di preciso? Per la faccenda del castello?”
Ma poi che fanno gli Indicibili?
Suo padre non le rispose e decise quindi di cambiare tattica. Più o meno. “Deve rimanere a disposizione?” Conosceva il gergo da poliziotto e non si sarebbe arresa finchè non avesse avuto la sua risposta.
Me lo portate via?
“Sì, almeno finchè l’indagine degli Indicibili non sarà conclusa. Come civile e consulente dovrà comunque essere ascoltato.”
“Quindi è per la faccenda del castello!”
“Lily.” Il tono era di avvertimento e lei non era Al, a cui ogni risposta era concessa in virtù del suo essere una serpe astuta e subdola. Sbuffò: in fondo non le interessava poi molto. C’era altro che voleva sapere.

“Okay, quindi…”
“Quindi non tornerà a Boston, no. Almeno non nei prossimi giorni, ho già parlato con Eleanor.” Le rispose paziente, subendosi anche la sua esclamazione di gioia. Suo padre era una delle persone più pazienti che conoscesse.

Specie perché dal tono pare proprio volerlo il più lontano possibile da qui.
“Devo tornare al lavoro. Ti vedo per cena?”
“Certo!” Perché la corda era già troppo in tensione. “Dovremo affrontare questa cosa papà, però … dico di me e Ren.” Lo avvertì con tutta la dolcezza filiale che possedeva. “Per me è seria.”
“Lo è anche per me.” Le rispose con tono grave, che l’avrebbe messa in allarme se non fosse stato che era in piena modalità Auror. “Ci vediamo dopo.”
“A stasera papà.” Chiuse la chiamata tentando di frenare l’ondata di gioia che la travolse come un’infida marea di Dover. Avrebbe saltellato e cantato la buona notizia ma l’ultima cosa che voleva era allertare gli auror di scorta dall’altra parte della porta.  

Trotterellò quindi fino al letto, salendoci sopra e facendo ben attenzione a farlo con tutto il rumore possibile. Non poteva certo saltare direttamente addosso all’altro come avrebbe voluto: gli avrebbe fatto venire un infarto, sempre all’erta com’era.
Sören infatti si mosse, stirando le braccia sopra la testa e guardandola con una faccia assonnata che non gli aveva mai visto: era davvero esausto. “Lily?” Chiese con voce impastata e molto più vicina alla sua lingua madre che all’inglese. “Che ore sono?”
“Ora di una bella notizia!” Gli si accoccolò felice addosso, lasciandosi accarezzare come un gatto soddisfatto. Gli baciò anche il petto, perché le piaceva vedere come la pelle, pallidissima e senza neppure un’efelide o neo, diventasse rossa alla minima pressione. “La vuoi sentire?”
Nascose uno sbadiglio nella mano. “Ho scelta?”
“No, direi di no. Rimani.” Sorrise della sua confusione. “Rimani qui, non parti oggi. Me l’ha detto papà!”
Ci volle un’altra manciata di secondi perché Sören afferrasse il concetto invece di sbattere le palpebre come un gufo. Poi ricambiò il sorriso con così tanto calore che Lily si sentì ufficialmente legittimata a saltargli addosso.  
Fu quando il sole aveva di nuovo cambiato posizione e stava illuminando l’altra metà del letto, quella in cui non erano avvinghiati tra lenzuola e cuscini, che l’altro parlò, stavolta molto più sveglio e disposto a darle attenzioni.
“Oggi non è il compleanno di tuo padre?” Le chiese lasciandole strofinare i polpastrelli lungo la linea della barba. Nessuno dei due aveva molta voglia di mollare la presa sull’altro e andava bene così. Del resto, anche la notte prima avevano dormito così abbracciati che Lily, appena alzata, ci aveva messo almeno un’ora a riprendere sensibilità al braccio destro; dubitava Sören fosse stato più fortunato.
“Non lo festeggia, c’è troppo da fare. Mi ha detto che vengono gli Indicibili.”
Sören aggrottò le sopracciglia, sistemandosi un cuscino dietro al testa. “Chi sono?”
“Sono agenti del Ministero. Credo che siano una specie di organismo di controllo degli altri Dipartimenti.”
“Ho capito.” Da come si adombrò doveva aver capito più di lei, ma non durò molto, perché le sorrise di nuovo. “Hai fame?”
“Da morire!” Specialmente ora che era sveglio e poteva fare colazione con lei. Lo guardò vestirsi, o almeno, recuperare la biancheria e i pantaloni e lanciare uno sguardo rassegnato alla sua camicia rubata per fini superiori.
“Vado a svegliare Milo per farmela ordinare.” Esitò un attimo prima di chinarsi e baciarla. Dopo che gli ebbe risposto con entusiasmo si vide guardata con un guizzo contento negli occhi, come un bambino che aveva appena avuto il permesso di salire sulla sua prima scopa.
“Puoi baciarmi tutte le volte che vuoi, lo sai sì?”  
Sören le restituì lo stesso sorrisetto da bambino. “Sì.” Le rispose prima di uscire.
Dannazione, è troppo carino.
Rischiava di perdere il suo indiscusso potere di seduzione in favore di un crucco pericolosamente adorabile.
Il suddetto tornò pochi attimi dopo, con un’espressione perplessa. “Non c’è.”
“Sarà uscito?”
Sören fece una smorfia che non potè mascherare preoccupazione. “Sono due giorni che non lo vedo. Di solito avverte.”
“Forse sta smaltendo la sbornia da qualche parte.” Suggerì pratica, che aveva intuito che le notti brave del biondo violinista si protraevano anche per giorni. “Chiamalo se sei preoccupato, ma prima cibo.”
Sören prese il telefono e compose il numero del servizio in camera. “Sia mai. Ho notato che è un tratto comune di voi fratelli Potter. Se non mangiate almeno tre volte al giorno cosa succede?”

“Ci trasformiamo in Gremlins.” Ridacchiò della confusione dell’altro. “È un film, colpa di Hugo. Prendimi una cisterna di caffè per favore.”
“Comandi.” Ironizzò di rimando.
Dieci minuti dopo erano al tavolo del salotto, riccamente imbandito e profumante di scones e caffè fumante. Mangiarono in silenzio, godendosi la giornata luminosa e di alta pressione fuori dalle finestre, dove strombazzavano i caotici rumori del Circus. Parlarono di niente e non ci furono imbarazzi o desideri di analizzare la notte precedente: fu naturale chiacchierare di tutt’altro, come se fosse stata una cosa da nulla.
Proprio perché è stata tutto che non se ne parla.
Non ce n’è bisogno.
Fare l’amore era stata solo l’ennesima realizzazione di un rapporto che durava da anni.
Questo non significava, comunque, che non potesse stuzzicarlo un po’. “Hai avuto altre ragazze prima di me?” L’espressione con cui il compagno salutò quella domanda le fece trattenere un ghigno; non soffocò con il caffè solo perché aveva già posato la tazza.
“No.” Pareva stupito. “O te l’avrei detto.”
Un minuscolo senso di colpa si insinuò nella sua voglia di prenderlo in giro. “Perché io ti ho detto dei miei, è vero.”
La guardò con biasimo. “Ci siamo sempre detti tutto, almeno per lettera.”
“Vero.” Accettò. “Ma … non intendevo proprio ragazze, ma ragazze…” Alluse inarcando le sopracciglia.

Sören distolse lo sguardo come se dovesse confessare un crimine efferato. E non lo confessò, dato che bastava la faccia.
“Non c’è nulla di cui vergognarsi!” Merlino solo sapeva che non ce ne fosse, o lei avrebbe dovuto dipingersi una lettera scarlatta in fronte. “Ero solo curiosa.”
“Non è … non ne vado fiero.” Brontolò sulla difensiva: se ne vergognava sul serio!

“Di aver ceduto alle avventure di una notte?” Non disse sveltine perché aveva paura sarebbe collassato dall’imbarazzo. “Hai ventiquattro anni Ren, sei un mago nel pieno delle tue forze magiche, è normale.” Fece spallucce imburrando uno scone mentre cercava di ignorare l’aria da cane bastonato dell’altro. Non poteva ridergli in faccia, non era carino. Trovava comunque confortante che continuasse ad avere problemi di adattamento in quel settore.
In America non me l’hanno trasformato in un maschietto fallocrate. Sia lodata Morgana!
“Non è quello. Non ne vado fiero perché me ne sono sempre andato prima che si svegliassero.” Confessò riluttante. “Ho sempre avuto l’impressione che i patti fossero questi. Non…” Scrollò le spalle. “Non avrei comunque avuto idea di cosa dir loro poi. Non conoscevo che i nomi di quelle ragazze.” Fece una faccia insofferente che lo rese curiosamente simile a Tom quando era costretto a parlare contro la sua volontà.
Cioè più o meno sempre.
“Ti darei un decalogo su come cavare le gambe dalla temibile mattina dopo ma temo che non ti servirebbe a niente.” Ribattè riuscendo a strappargli un sorriso. “Non con me almeno.”
La guardò serio. “È una cosa completamente diversa.”

Gli strinse una mano. “Certo che lo è.”  
C’era un intera tavolata di vettovaglie tra di loro, quindi si limitarono ad un sorriso che valse come un bacio – quasi – e a concludere la colazione per una doccia veloce.
“Oggi sei tutto mio.” Gli annunciò ravviandosi i capelli e brandendo la bacchetta per dar loro una forma umana. Al e James erano dannatamente fortunati a potersi tagliare corti.
E comunque Jamie li ha ricci, bastardo fortunato.
Sören chiuse gli ultimi bottoni della camicia, seduto sul letto. “Dove ti piacerebbe andare?”
“Dovresti dirmelo tu!”
“Lily, non conosco nulla della tua terra.” Le fece notare gentile. “Inoltre, sei tu la guida.”

“Giusto.” Considerò. “Che ne dici delle scogliere di Dover che non hai ancora visto?” Suggerì con la testa leggera e la voglia di esplorare l’intera Gran Bretagna, isole comprese, se avessero fatto in tempo: ora che ci pensava, era la prima volta che avevano un’intera giornata tutta per loro.
O meglio, le abbiamo avute. Ma non potevamo usufruirne.
C’erano state le indagini, Scott, incomprensioni. Era la prima volta che il futuro si presentava loro davanti sgombro e senza nuvole.
Aveva tutta l’intenzione di godersi quella giornata fino all’ultima goccia.
“Oppure il Galles. È bellissimo d’estate … o l’isola di Mann! Sei mai stato all’isola di Mann? Anche se Skye forse è più bella… certo, stando lontano dalla riserva dei draghi. Magari un salto fino ai grandi laghi?”
Sören sorrise e scosse la testa. “Dubito che in ventiquattro ore potremo vedere l’intera isola.”
“Mettimi alla prova!”

 
Non c’era alcun bisogno che la mettesse alla prova.
Se fosse dipeso da lui, avrebbe trovato il modo di prolungare quella giornata, quella mattina, all’infinito. Una manciata di ore eterne in cui il suo futuro sembrava quello del mago più felice del mondo, appena abbeveratosi alla fontana dell’Eterna Giovinezza.
La sera prima era relegata in un angolo della sua testa, imprigionata in catene ben salde: non avrebbe permesso a sua madre, a Johannes o chicchessia di rovinare l’espressione con cui lo guardava Lily o il calore del sole che sentiva sulla pelle.
Senza alzarsi le tese le mani e la attirò a sé perché poteva e perché Lily voleva. Non era magnifico? “Scegli tu.” Le rispose. “Lasciami solo il tempo di notificarlo alla scorta.”
Lily annuì, ravviandogli i capelli con le dita. “Niente brillantina oggi?”  
“Non sono in servizio.” Rispose sullo stesso tono. “Prima tappa?”
“Scogliere di Dover.” Disse con decisione. “Citi la poesia e poi non le hai mai viste. È criminale!”
Dopo aver dato istruzioni ai due auror di scorta che assorbirono l’informazione senza fare commenti – cosa di cui gli fu grato perché doveva esser ormai evidente che lui e la figlia del capo non erano più in termini amicali – tornò dentro e si diresse verso la stanza di Milo: avrebbe dovuto lasciare perlomeno un messaggio a quel lavativo per informarlo dei suoi spostamenti.

Altrimenti al mio ritorno diventerebbe sgradevole … tutte quelle domande.
Aprì la porta della sua stanza che prima aveva solo bussato. Aprì, guardò … e rimase impietrito.
“Ren?” La voce di Lily alle sue spalle lo riscosse. “Hai detto ai ragazzi dove andiamo?” Si fermò guardando oltre le sue spalle. “Che c’è?”
“Le sue cose.” Disse . “Sono sparite.”
Lily si fece fare spazio guardando la stanza vuota, il letto rifatto alla perfezione e l’assenza di oggetti personali. La vide sbattere le palpebre confusa. “Dov’è andato?”

“Via.” Non riusciva ancora a realizzare pienamente il significato di quel che stava dicendo. Si limitava a constatare l’ovvio, ovvero che il suo assistente, il suo migliore amico era sparito dalla faccia della terra.
Senza avvertirlo.
“Via dove?”
Domande legittime a cui però non aveva la minima idea di come rispondere: conosceva Milo da anni e ricordava gli avesse detto, in una delle sue tante confessioni, che quando abbandonava un posto non ci pensava poi molto, lo faceva e basta.  
Deve essere accaduto anche stavolta.
Lily lo prese per un braccio con aria decisa. “Vieni a sederti.”
“Sto bene.”
“No che non stai bene, sei pallido come un Patronus.” Lo trascinò fino al tavolo della colazione spingendolo su una delle poltroncine. “Non può essersene andato senza avvertirti!”
“È quello che ha fatto.” Ribattè aspro. Non c’era altro da dire.

Lily scosse la testa: perché si ostinava a volergli dimostrare il contrario? “Milo non ti avrebbe mai piantato in asso di punto in bianco. Si è sempre preoccupato per te … Deve essergli successo qualcosa!”
Si riprese dal suo torpore perché quella era una frase che conosceva. Era una frase che gli ricordava il lavoro. E il lavoro l’aveva sempre aiutato ad avere la meglio sulle sue emozioni. “Cosa?”

“Non ne ho idea, ma qualcosa che deve averlo sconvolto e fatto scappare.” Si strinse nelle spalle. “E non sei tu, perché non lo vedi da giorni. Quand’è l’ultima volta che l’hai visto?”
Nella sua improbabile posizione di testimone ci riflettè. “Il giorno del battesimo di Alexandra.”
“E come ti è sembrato?”

“Come al solito, strafottente ed impiccione.” Fece un sorriso amaro. “Mi ha costretto a parlare di te e di quello che era successo in ospedale e…” Di colpo capì cosa, o meglio chi lo aveva fatto scappare e la sua consapevolezza doveva essere come un Lumos sopra la testa perché Lily gli diede un colpetto impaziente sulla spalla.
“Allora?”
“Credo c’entri Zabini.”
Mike Zabini?”

Confermò con un cenno della testa. “Lui e Milo sono amanti.”
La faccia di Lily esprimeva lo sbalordimento più genuino che avesse mai visto, tanto che pensò che le sopracciglia le sarebbero schizzate sopra la fronte. “Ma se è un razzista come pochi?!”

“Anche Milo è nato Purosangue.” Le fece notare sentendosi protettivo in quella piccola rivelazione. “Penso si siano conosciuti da bambini e incontrati di nuovo qui, a Londra.”
“Ma dai…” Si sedette accanto a lui scuotendo la testa. “Beh, è una sorpresa. Credevo fosse ancora innamorato perso di mio fratello.” Gli lanciò un’occhiata di sbieco. “Com’è la storia?”
“Non conosco i dettagli, ma si sono frequentati.” Riassunse succinto, non volendo sbandierare le confidenze che Milo gli aveva fatto.
“Per le mutande di Merlino!” Sbuffò ancora incredula. Ci riflettè qualche attimo, poi battè le mani sui braccioli della poltrona. “Okay. Dove può essersi cacciato?”
“Forse non vuole essere trovato.” Suggerì ed era l’ipotesi più plausibile. Se Milo se n’era andato in quel modo era perché non voleva esser convinto a tornare sui propri passi. Faceva male, più male di quanto si sarebbe aspettato, ma doveva rispettare i suoi desideri.

“Per favore!” Esclamò la sua a ragazza, dandogli anche un calcetto per buona misura. “Se ha il cuore spezzato o è in qualche guaio ha bisogno di essere trovato!”
“Non ho il diritto…”
“Ren, sei il suo migliore amico. Basta vedervi assieme per capire che siete le persone a cui l’altro si affiderebbe in caso di guai. Devi riportarlo indietro.”
“E se non volesse?”

“Allora deve dirtelo in faccia e deve anche convincerti.” Tagliò corto.  
Non c’era altro da dire: aveva ragione. Annuì, prendendo la giacca che l’altra gli porgeva. “Andiamo a parlare con i ragazzi in uniforme.” Gli disse. “Le bianche scogliere non saranno la nostra prima tappa.”
“Hai capito dov’è?” Le chiese stupito.

“Ovvio!” Scrollò le spalle disinvolta. “Milo ha avuto uno screzio con il più mago dei maghi. Vorrà stare lontano da noi il più possibile.”
“Londra Babbana?”

“Troppo vago, iniziamo dal Black Goose, lì i Maghinò bevono a credito.”
Sorrise aprendole la porta. “Dovrebbero farti auror.”
Ad honorem? No grazie! Ce ne sono già abbastanza in famiglia.”



****
 
San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Mattina.

 
James si svegliò sentendo le dita fresche di Teddy passargli trai capelli.
Come aveva azzeccato la previsione? Semplice: con gli anni aveva imparato a distinguere le carezze del compagno da quelle di sua madre o di sua nonna e, sporadicamente, quelle della sorella – del resto non permetteva a nessun altro di arruffargli i capelli come un ragazzino.
In realtà, per lui, le carezze di Ted erano sempre state una cosa a parte.
“Ehi.” Lo salutò il suddetto quando il mondo tornò lentamente a fuoco. “Sei al San Mungo.” Aggiunse notando la sua confusione. “Ti ricordi cos’è successo ieri notte?”
“… un gran casino?” Rispose facendolo sorridere. A ben guardarlo, il compagno aveva le occhiaie e la barba di un giorno. “Non sarai mica rimasto qui tutta la notte a vegliarmi, eh?” Gli domandò.

“No, Harry me l’ha proibito. E poi non potevo svegliare Ben nel cuore della notte e portarla da Neville. Mi avrebbe staccato un braccio. Sono appena arrivato.”
Ridacchiò, sentendo la testa pesante come se gliel’avessero incollata al cuscino anche se rispetto al gelo che l’aveva quasi dilaniato la sera precedente non aveva freddo. Meglio di niente.

“Bugiardo.” Borbottò. “Sarai qui da ore … non ti sei manco rasato e hai due occhiaie da paura.”
Ted sbuffò divertito. “Grazie tante, ricambio il complimento.”
“Beh, io sono uscito fuori da una battaglia coi controcazzi…” Cercò di tirarsi su e fu prontamente aiutato dal compagno che lo manovrò come un bambino inerme. Era frustrante quanto confortante avere qualcuno ad aiutarlo visto che non era in grado di flettere un muscolo senza urlare di dolore. “… la tua scusa qual è?”
“Preoccuparmi per una certa testa di legno?” Ted, con il suo profumo di maglioni infeltriti, inchiostro e the era un toccasana per l’emicrania e l’improvvisa nausea. Forse l’esser stato congelato come un merluzzo non era il problema più immediato che doveva affrontare.

“Ti va di fare colazione?”
“Magari tra cento anni.” Notando l’espressione impensierita dell’altro scosse la testa. Molto piano. “Non ho fame, ma sono ancora tutto intero Teddy, sta’ sereno.”
“Lo vedo.” Gli prese una mano e gliela strinse. “Anche la temperatura è tornata normale.”

Doveva chiederlo, anche se forse non era sicuro di voler ascoltare la risposta. “… mi hanno fatto gli esami?”
“Quali esami?” Capì al volo e gli sorrise rassicurante. Se c’era qualcuno in grado di esser credibile in quel ruolo era proprio lui. “Sì, sei risultato pulito. Non sei stato contagiato.”
“Gli altri?”

Esitò, glielo lesse in faccia che avrebbe preferito schiacciarsi un piede in una porta che parlare, ma alla fine capitolò. “Il Sergente Stump … e Bobby.”
Bobby?” La voce gli venne meno, forse per la collera e la paura che lo assalì, prosciugandolo di ogni forza. “Dov’è, voglio…” Tentò di alzarsi ma Ted lo prese al volo prima che si sfracellasse al suolo, stringendolo tra le sue possenti braccia di bibliofilo.
Avrebbe voluto piantargli un pugno in faccia.
Invece si accontentò di seppellire il viso contro la sua camicia e ingoiare un singhiozzo: Bobby, il suo amico d’infanzia, Bobby il palo riluttante e Bobby il saggio, il suo compagno di bravate, il grillo parlante della squadra e l’uomo che aveva sempre accolto le sue idee più deliranti senza battere ciglio. Ricordava di averlo visto battersi come un leone e salvare la vita di più di un paio di auror quella notte.
Bobby era stato beccato e lui non aveva potuto farci niente.
“L’hanno messo in stasi magica, Jamie, è giù a Malattie Infettive. È stabile. Ha i primi sintomi … la malattia non si è conclamata.” Teddy gli accarezzò i capelli, parlando con la voce calma e pacata che usava con i suoi alunni, per ammaliarli e convincerli che non era una buona idea ignorarlo.
Strinse la presa e affondò il viso in tutta quella stoffa al sapore di the e pagine polverose. Aveva bisogno di stritolarlo, di farsi stringere di rimando per ricordarsi che era tutto intero, vivo. Pezzo per pezzo.
Ieri notte non ne ero mica tanto sicuro.
“Se lo vuoi vedere ti porto da lui, ma sarebbe meglio se riposassi ancora un po’. Sei arrivato con una commozione cerebrale e le pozioni stanno iniziando a fare effetto solo adesso. Prima hanno dovuto riscaldarti.”
Ah, ecco spiegato il piccone nel cervello!
“La sua ragazza … la sua famiglia, sono con lui?” Si informò e a cenno affermativo si permise di rilassarsi. Bobby era guardato a vista dalla sua famiglia e sicuramente anche dai ragazzi dell’ufficio. Non c’era bisogno che si trascinasse come un moribondo a chiedergli perdono per non avergli guardato le spalle.
Almeno non subito.
Teddy gli accarezzò il viso che ancora si sentiva bollire di lacrime trattenute. “Jamie, siete riusciti a catturare gli Infetti e limitare i danni. Non è morto nessuno ieri notte … e per gli standard auror, e per quello che è successo, è un ottimo risultato.”
Quello era l’ex-auror che parlava e non poteva che dargli ragione, anche se una parte di sé urlava che sarebbe potuta andare meglio, che quello non era vincere.

Ma qui non si tratta di vincere o di perdere. La vita vera non funziona così.
Si riadagiò tra i cuscini, mentre Teddy puntò di nuovo alla poltrona degli ospiti. “No.” Lo fermò. “Per favore.” Tanto non c’era nessuno a puntargli il dito e dargli della femminuccia. “Per favore, resta qui.” Poi per giustificare la sua lagna scrollò le spalle. “Ho ancora freddo.”
Ted sorrise, ma si fece spazio nel letto per abbracciarlo come doveva. “Se non fosse stato per Harry e Ben mi sarei precipitato da te ieri sera.”
“Papà ti ha minacciato?” Scherzò, perché aveva bisogno di pensare a tutto tranne che all’amico d’infanzia esanime due piani sotto di lui.

Chissà come stava Scorpius.
Bene, o Teddy me l’avrebbe detto.
“Mi ha detto che mi avrebbe riportato ad Hogsmeade di peso se fosse stato necessario. Non me la sono sentita di contraddirlo, era molto convincente.”
Ridacchiò. “Dov’è la pulce adesso?”

“Con Neville e famiglia. Voleva venire ma gli ho detto che avremmo dovuto guardarti dormire per molto tempo. L’ho convinta in un batter d’occhio … rifugge la noia ad ogni costo. Mi ricorda qualcuno…” Motteggiò sfilando la bacchetta dalla tasca dei pantaloni ed Appellando qualcosa nella tasca del mantello. “Mi ha chiesto di recapitarti un disegno però.”
James lo prese e percepì con orrore gli occhi inumidirsi di fronte alla rappresentazione stilizzata, iper-colorata e poco realistica di una casa e tre persone. “Io sono quello con il cespuglio marrone cacca in testa?”
“Temo di sì.” Gli baciò la fronte. “Non so perché, ma ha voluto aggiungere un drago.”
“Pensavo fosse una lucertola.”
“In ogni caso, ha passato troppo tempo con Dominique.”
Erano chiacchiere semplici, banali, che il James di una volta avrebbe annusato con diffidenza, salvo bollarle come roba da adulti noiosi. Il James di adesso ne aveva bisogno come aria. Mentre era congelato a terra, a pregare che quel masso di sassi e calce non diventasse la sua tomba, aveva pensato a quello: alla sua famiglia, alla sua casa in bocca alle montagne, e a Benedetta e Teddy e a quanto gli sarebbero mancati, atrocemente, se Merlino o chi per lui l’avesse spedito dall’altra parte.

In quel momento aveva realizzato che non gli importava più di celebrazioni, riconoscimenti o onori. Non aspirava più ad essere l’eroe della situazione, né di essere ammirato come lo era stato suo padre alla sua età. Voleva essere il Jamie di Ted e Benedetta, tutto lì. 
Non era bravo con le parole, e lo era ancora meno quando l’emicrania gli martellava il cervello come un Battitore con un Bolide. Quindi si limitò a voltare la testa tanto quanto bastava per baciare il suo uomo.
Non era il suo bacio migliore ma sperava venisse apprezzato lo sforzo.
Così parve perché Teddy lo ricambiò con altrettanto entusiasmo, anche se staccandosi gli chiese il perché con lo sguardo.
“Perché mi andava.” Si giustificò con l’ennesima scrollata di spalle. Perché voglio fare una famiglia con te gli pareva una roba impronunciabile.
“Vedo che le pozioni stanno facendo effetto.” Scherzò l’altro con un bacio a fior di labbra. “Ti è tornata la fame?”
“Sì, ma di altro.” Rispose a tono facendogli alzare gli occhi al cielo. “Lo so che senza di me tutto nudo nel tuo letto non dormi bene, mio Teddy!”
“Mi è mancato soprattutto esser preso a calci nei reni, sì.” Convenne con tono faceto. Furono sorpresi dall’aprirsi della porta.

“Ehi piccioncini arcobaleno!” Li salutò Scorpius con il solito sorriso sconclusionato e l’immancabile mazzo ingombrante di fiori. Accanto a lui stava Rose che guardava l’omaggio floreale come se volesse scusarsi della sua presenza.
“Scusate.” Esordì infatti. “Ho cercato di dirgli che James aveva bisogno di riposo, ma…” Fece un cenno vago che alludeva a sforzi titanici e rese inevitabili.
James fece un cenno di saluto e si scambiò un’occhiata con Malfoy che gli fece capire che era a conoscenza della sorte di Bobby e che se ne sarebbe occupato come poteva.
Sono sicuro che è stato tutta la mattina in giro per il reparto a portare enormi mazzi di fiori e straparlare senza sosta. Il nostro Malfuretto.
“Ancora vivo Potty? Mi hai almeno fatto perdere dieci Galeoni!” Lo apostofò poi con il rude cameratismo di cui aveva disperatamente bisogno.
“Perché sei un cretino.” Rispose a tono. “E porta quella verdura fuori di qui. Non sono mia cugina, non devi corteggiarmi coi fiori.”
“Se non fossi un buzzurro cresciuto nei pollai del Devonshire sapresti che è buona educazione portare doni ai moribondi.”
“Fottiti.”
“Io e Teddy andiamo a prenderci un the.” Li interruppe Rose con tono deciso. Anche lei aveva notato le occhiaie e la barba dell’amico di infanzia ma a sua differenza aveva abbastanza deambulazione per poter fare qualcosa. “Vi portiamo qualcosa oltre a una pozione soporifera?”

“Dei pasticcini!” Esclamò Scorpius. “Quelli alle rose, sono deliziosi!”
“E poi sono io il frocio.”

Ted si lasciò volentieri portar via dal piglio tirannico di Rose. “Ci vediamo dopo James.”
Fece un cenno disinteressato per dimostrargli che la crisi era rientrata.“Sì, sì, ma non mi lasciate troppo solo con l’idiota.”
Quando se ne furono andati il sorriso di Scorpius si spense, per lasciar posto ad un’espressione grave che lo rendeva davvero l’erede di una famiglia di menagrami. Non glielo disse però, perché non era il momento di far battute.
“Quanti?” Chiese soltanto.
“Bobby, il sergente Stump, Hurwit e Kirkwall.”
Serrò la mascella. “Kirwall è solo una ragazzina … è uscita sei mesi fa dall’Accademia.”
Scorpius scosse la testa. “Sono tutti in stasi. Finchè dormono almeno sono al sicuro.”

“Cazzo.”
Rimasero in silenzio quanto bastava per darsi un tono. Poi tirò un sospiro e lo disse. Doveva dirlo. “Grazie per ieri sera, amico.” Calcò l’accento su quella parola. Perché era importante, come era importante che l’altro capisse quanto gli doveva. “Se non fosse stato per te…”
“Falla finita.” Tagliò corto Scorpius, ma gli strinse una mano sul braccio. Capiva. “Avresti fatto lo stesso per me.”
“Ci puoi giurare.” Fece un sorrisetto sghembo. “Avrei salvato quel tuo culo pallido senza battere ciglio.”

“Come sempre, la modestia ti schizza dalle orecchie.” Ricambiò con un ghigno. “Piuttosto, dai a me del sentimentale perché ti porto dei fiori e poi ti trovo accoccolato come una damina del settecento al tuo possente uomo?”
Gli avrebbe tirato un cuscino o il proprio pitale se ne avesse avuto le forze. “Sei un coglione.”
“Vai subito sull’offesa … io ti ho fatto un complimento, madame. A quando il matrimonio?”

Eh.
 “Non scherzarci.” Fu tutto quello che riuscì a dire senza aver l’impressione di incubare un infarto.
Sposarsi era una cosa fotuttamente seria. E non sapeva neanche come la pensava Teddy in merito!
Ha sempre voluto una famiglia. Ma con Vic. Una donna. Che ne so se con me è la stessa cosa?
Scorpius, da bravo entusiasta qual’era, gli sorrise raggiante. “Vi sposate? Quando?”
“Nel giorno del mai se uno dei due non ci pensa neanche. È una considerazione mia, Malfuretto, lascia fare.”
“Vuoi sposarlo?” Al suo borbottio poco impegnativo gli rifilò una pacca sulla spalla pericolosamente vicino a staccargliela. “Devi proporti!”

“Propormi un cazzo.” Scosse la testa. “Non certo adesso, con tutto ‘sto casino e con Ben che si deve ancora adattare alla vita qua.”
Gli fu restituitp uno sbuffo. “Sono scuse!”
“Forse!” Ammise. “Ma cazzo, datti una calmata! Non sono anni che ci penso, okay? È … è poco.” Guardò fuori dalla finestra. Cos’era tutto quel sole? Da quando Londra non era uno schifo piovigginoso e pieno di nebbia? “Non ho idea se Teddy voglia una roba del genere o gli vada bene continuare così.”
“Gliel’hai chiesto?”

“Quando? Ieri sera che ero qua riverso con la testa rotta o quando era ancora in versione cono gelato?”
Malfoy ebbe il buonsenso di annuire. “Beh, nessuno ti vieta di sondare il terreno e poi proporglielo.” Suggerì. “Conoscendolo, il buon professore andrà in brodo di giuggiole. Sposarsi è il massimo del conformismo mezzosangue!”
“Quanto sei coglione.” Ma era una buona idea. Non glielo disse perché non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di farglielo ammettere, ma lo era sul serio. “E comunque se ne riparlerà tra un po’, a guai finiti.”
“Nessuno vi corre dietro, ma … il caso Demiurgo non deve essere un problema. Sono nei momenti più difficili che si ha bisogno di esser felici.” Fece un mezzo sorriso. “E un matrimonio è una cosa felice. Per questo io e la mia Rosie non abbiamo rimandato.”

“Sì, immaginati due matrimoni ravvicinati nella mia famiglia. Nonna Molly avrebbe un infarto.”
Scorpius scimmiottò una risata malvagia. “L’intera famiglia Weasley-Potter imploderebbe! Il mio piano finalmente compiuto! Lode ai Malfoy!”
“Coglione.” Ribadì con un sorriso. Ma forse l’amico aveva ragione: era nei tempi bui che si aveva bisogno di luce.
 
****
 
Notturn Alley, Black Goose.
Mattina.

 
Il Black Goose era il posto più terrificante che avesse mai visto e come per lei, l’impressione doveva valere per qualsiasi persona volesse evitare di esser derubata o privata di un organo interno.
Lily quindi si sentì del tutto in dovere di afferrare il braccio di Sören come una damina spaventata.
Sono una damina spaventata!
L’altro le lanciò un’occhiata preoccupata: si stava pentendo di averla portata con sé.
Me ne sto pentendo anch’io.
“Se vuoi, puoi restar fuori mentre controllo se Milo è dentro.” Le suggerì.
“Non che sia meglio.” Gli fece notare scostandosi al passaggio di una megera che occhieggiò – con suo sommo orrore – le sue povere orecchie. “E comunque non mi fido a lasciarti solo.”
“Non è la prima volta che ho a che fare con una zona malfamata.” La blandì aprendo la porta del pub e facendola passare. “Sono in grado di proteggere me stesso … e anche te.” Aggiunse.

Gli restituì un sorriso. “Molto apprezzato, mio cavaliere.”
Entrata si sentì immediatamente guardata da una ventina di occhiate che andavano dal lascivo, al sorpreso per finire in una generale diffidenza che la spinse ad accostarsi ulteriormente al compagno.

Sì, ho una bacchetta, no, non so come usarla. Agh.
Persino nel suo periodo scriteriato aveva evitato di gironzolare da quelle parti in cerca di avventure: i Maghinò di Notturn Alley detestavano quando un mago entrava nel loro territorio, e il Black Goose era un po’ la loro casa.
Non c’è una bacchetta o un fodero in tutto il locale.
“Un’occhiata e poi ce ne andiamo.” La rassicurò perlustrando il locale ombroso alla ricerca di una testa bionda. Non si vedeva granchè, tra il fumo delle pipe e l’illuminazione insufficiente. All’altro comunque parve bastare; lo sentì scattare in allerta e seguì quindi la direzione del suo sguardo.
Milo era lì, seduto al bancone a bersi una birra. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto e quindi non li aveva visti entrare.

Non si è neanche girato a controllare con gli altri.
Sören fu lesto a raggiungerlo e lei fu altrettanto rapida ad andargli dietro. Ignorò un paio di fischi e commenti triviali detti a bassa voce, sperando che l’altro fosse concentrato sull’amico.
Da come stava serrando la mascella proprio no. “Milo.” Apostrofò il ragazzo che alzò la testa per metterli a fuoco.
Per le trecce di Morgana, è sbronzo marcio.
E aveva peraltro acquisito la patina di squallore di cui era ben lustrato il locale: barba lunga, vestiti che parevano indossati e dormiti da giorni e per finire occhi arrossati e assenti.
“Ehi.” Raschiò da in fondo alla gola. “… chi si vede, i mie due maghetti preferiti.”
È entrato nel mood del locale. Grandioso.

Dovevano portarlo via di lì, decise sbrigativa. E Sören doveva essere della stessa idea anche se non aveva ancora aperto bocca. “Ehi, biondo.” Gli toccò un braccio. “Che ne dici se andiamo a fare due passi?”
Milo inclinò la testa pensieroso. “No, sto bene qui. Ho la mia birra … i miei amici…” Fece una smorfia malsana dando un vigoroso sorso dal boccale. “Sono a casa.”
Qualcosa mi dice che Zabini ha avuto una delle sue esplosioni da Purosangue.
… Sul serio, ma come cavolo sono finiti assieme?
“Hai bisogno d’aria fresca.” Si inserì Sören. “Devi farti passare la sbronza.”
“O forse no.” Gli rispose a tono, con una rabbia trattenuta solo dalla quantità di alcool che gli sciaguattava in corpo. “Andatevene, non è posto per voi.”
“Neanche per te.” Replicò. Usava un tono pacato, ma era ovvio fosse ad un passo dal trascinarlo via. Era arrabbiato per l’atteggiamento degli avventori, per i commenti che le erano stati fatti e soprattutto per l’abbandono di Milo e il suo conseguente menefreghismo dell’intera faccenda.

Pentola a pressione.
“Andiamo via.” Concluse.
Milo, da copione, si voltò di scatto come una vipera che era stata calpestata. “Che palle, non hai capito il velato messaggio in albergo? Non voglio più lavorare per te, mi sono licenziato! Sayonara, trovatene un altro che ti stiri le mutande.”  .  
Sören serrò le labbra ma non vacillò. “Perché?”
“Cazzi miei.” Fu la replica esaustiva.
Quella fu la goccia. Sören non mutò espressione: si limitò ad afferrare Milo per la collottola, come un ragazzino, come un gatto che poteva graffiarlo, per spingerlo fuori dal locale con una perizia tale che nessuno si azzardò a trovare un motivo per venire in soccorso al compare Magonò.
L’espressione da terminatore di mondi scoraggia, eh?
Lily, zitta, divertita e preoccupata nella stessa misura, li seguì dopo aver afferrato lesta la custodia del violino del ragazzo appoggiata sul bancone.
Roba importante.
Uscirono mentre il biondo scaricava su Sören un fiume di insulti nella comune lingua madre. Lily ne approfittò per sedersi su una panca fuori dal locale, in disparte ma con una buona visuale della scena.
Diversamente da suo fratello Albus, sapeva quando non impicciarsi.
E godermi invece lo spettacolo.
 
Non si sarebbe mai liberato del principino.
Doveva essere colpa del karma, ormai ne era certo. Perché solo qualche nefandezza compiuta in una vita passata poteva giustificare la presenza di un rompicoglioni simile nella linea altrimenti perfetta della sua esistenza.
“Ma si può sapere che cazzo di problema hai?!” Sbraitò cercando di tornare in posizione eretta senza vomitarsi sulle scarpe. Non facile dopo aver passato giorni a sbronzarsi e fumare.
“Qual è il tuo piuttosto.” Gli rispose l’idiota impettito. “Ti ho detto che potevi andartene?”
“Ho un contratto, significa che posso andarmene quando me ne pare, pezzo di merda! Non sono il tuo schiavetto!”
“C’è un preavviso.”
“Vaffanculo!”
Questo dovette smuovere qualcosa nello stronzo, perché serrò le labbra in piena costipazione contrita. “… non era questo quello di cui volevo parlare.” Disse dopo qualche attimo.

“Allora?”
“Allora cosa?”
“Allora che diavolo vuoi da me? Mi trascini fuori da un pub a calci in culo, quasi ne andasse della tua vita  … Che diavolo vuoi? Di che hai bisogno adesso?”

Ci riflettè, aggrottando le sopracciglia tutto preso dai suoi stolidi ragionamenti da mago squilibrato.
“Torna in albergo.”
“Va all’inferno!” Infilò le mani nelle tasche dei jeans alla ricerca di sigarette; ne trovò un paio in fondo ad un malconcio pacchetto che non ricordava di aver comprato e se ne accese una. “Non ci torno a lavorare per te, a stirarti i pantaloni e risolverti i problemi di cuore.” Fece una smorfia, accusando la botta ai polmoni già malmessi. Ma quanto aveva fumato poi, in quei giorni?
“Che poi mi pare tu abbia già fatto da solo, visto la presenza di Zenzero. Te la sei scopata, sì?” Che aveva da guardarlo con quella faccia immobile? Mister Perfettino, con una bacchetta attaccata alle chiappe e con tutte le ragioni del mondo cucite sulla giacca.
Perfetto, come lui mai sarebbe stato.
Non abbastanza, bello. Non sei stato abbastanza manco stavolta.
“Te la sei sbattuta come voleva? Perché quella troietta ha una voglia di cazzo che man…”
Non riuscì a finire la frase, perché finalmente il mago si degnò di reagire, rifilandogli un pugno in faccia che lo spedì a terra. Lo shock, il dolore, l’impatto con il suolo, e il fatto che non avesse usato la bacchetta come si era aspettato – ma Sören con lui non l’aveva usata mai - lo mandarono in apnea per qualche attimo.  

 “Milo!” Sören lo afferrò per un braccio tirandolo a sedere. “Io … mi dispiace. Non volevo.” Mormorò sfilando la bacchetta dal fodero e puntandogliela addosso.
Voleva curarlo, o almeno fermare il sangue che si sentiva sciacquare la bocca, ma gliela schiaffeggiò via. “Mettila via.” Ingoiare al momento era piuttosto schifoso. “Mettila via che me lo merito.”
L’altro rimase a guardarlo senza avere idea di cosa fare. Glielo leggeva negli occhi di bambino smarrito, nel modo in cui cercò lo sguardo della sua inglesina, seduta fuori dal locale con l’aria di non volersi immischiare.
Furba.
Quella sventola aveva comunque avuto il merito – o la colpa – di avergli fatto riavviare il cervello. “Non farla una questione personale, avevo bisogno di cambiare aria.” Sospirò perché era un frocetto con un debole per i grandi occhioni neri. Persino di quell’insopportabile stitico del suo ex-padrone. “… tu non c’entri. Me ne voglio andare e basta. I maghi mi hanno stufato.”
Sören annuì. Non aveva capito un accidenti, e scommetteva trenta Galeoni che la sua sparizione l’aveva ferito, ma nonostante questo era venuto a cercarlo.
“Senti, visto che è vero che non ti ho avvertito puoi anche evitare di pagarmi questo me…”
“Smettila. Non mi importa dello stipendio né del preavviso.” Lo fermò con l’aria di volergli tirare un altro pugno.

Ora era lui che non capiva.  “Allora perché sei venuto a cercarmi?”
“Perché dovevo.” E prima che potesse dirgli di chiudere il becco, che non era vero, e che erano solo due tizi che il caso aveva legato da un rapporto di lavoro, aggiunse. “Sei mio amico.”
“Mi paghi per esserlo.” Voleva farlo soffrire. Voleva che ci rimanesse di merda, e lo lasciasse in pace.
Se non era riuscito a spiccicare una parola col maghetto, almeno poteva farsi valere con l’altro portatore di bacchetta della sua vita.
Maledetti maghi bastardi.
Sören per un momento ebbe proprio l’aria di uno che ne aveva avuto abbastanza e che era in dirittura di mandarlo al diavolo e lasciarlo cuocere nella broda di Notturn Alley. “Forse.” Disse invece. “Ma tu non mi paghi per essere il tuo.”
“Che cazzo vuol dire?”
“Che qualsiasi cosa sia successa … qualsiasi…” Era importante che lo ribadisse? Lo era. “… sono qui per te. Non ti abbandono.”
C’era un maledetto motivo per cui aveva messo dei paletti con quel mago disastrato e assurdo. C’era un motivo per cui aveva cercato di respingere Michel e i suoi canti da sirena.
Perché fa male. Fa male, cazzo.

Aveva un groppo alla gola e aveva voglia di picchiare qualcuno. Una bella scazzottata virile l’avrebbe aiutato un sacco.
Peccato il suo fisico provato trovò del tutto ragionevole ignorarlo in favore di una colata di lacrime che gli si riversò sulla faccia: pianse come un poppante.
 
Lily si dovette frenare dal mettersi in mezzo quando Sören sferrò un pugno in faccia a Milo. Non erano affari suoi se quei due si prendevano a cazzotti come i maschietti pieni di testosterone che erano.
Si sentì in dovere di intervenire però quando Milo scoppiò in lacrime e il suo ragazzo si voltò verso di lei con l’aria atterrita di chi avrebbe preferito scavarsi una buca a mani nude che prendere un’iniziativa.
Si avvicinò ai due, con Sören che quasi le scomparì dietro le spalle, come un decenne che aveva paura di averla fatta grossa. “Milo, ehi. Vieni qui, avanti ragazzone.” Gli si rivolse con la classica e rassicurante stretta all’avambraccio compagna di tanti momenti da confortatrice di derelitti.
Fu conseguentemente avvolta in un abbraccio da grizzly che puzzava di alcool ed erba Babbana, ma pazienza. Gli battè una pacca sulla spalla aspettando che lo sfogo terminasse. “Coraggio, torniamo alla civiltà.” Gli disse quando si fu calmato. “E magari ad un bagno.”
“Puzzo da fare schifo.” Ammise con un singhiozzo. Prese il fazzoletto che gli porse e si asciugò sommariamente il viso. “… mi dispiace averti dato della troietta.”

Lily inarcò le sopracciglia e dalla direzione dello sguardo di Sören e dal labbro tumefatto dell’altro non potè che ridacchiare. “A me dispiace per lo stato della tua bocca. Il mio ragazzo è proprio violento.” Lo prese sottobraccio. “Su, andiamo.”
Milo si fece condurre docile in direzione di Diagon Alley. La fila la chiuse Sören.

 
****
 
Ministero della Magia, Ufficio Cooperazione Magica.
Mattina.

 
Michel aveva passato due giorni da incubo.
Molto più semplicemente, era così che si sentiva chi aveva il cuore spezzato: quando Al l’aveva rifiutato non si era sentito così male.

Perché non eri così innamorato.
Ed era tutta colpa sua.
Aveva fatto un errore da ragazzino alla prima cotta, aveva proiettato le sue ansie su un ragazzo che era guardingo come un gatto per quanto riguardava i rapporti interpersonali.
Non solo; gli aveva chiesto di prendere una decisione quando la decisione non spettava a lui. Lo aveva implorato di non lasciarlo mostrandogli al tempo stesso la porta con un dito.
E adesso era chiuso nel suo ufficio a chiedersi come aveva potuto fare un errore così grave e credere di essere nel giusto.
Cos’altro avresti potuto fare? Non potevi continuare a nascondergli l’ultimatum di tuo padre.
Gli aveva confessato di quel compromesso intollerabile non per onestà però. Per togliersi un peso. Era stato un vigliacco e giustamente Emil se n’era andato.
Ha visto nel tuo cuore e nelle tue parole la risposta che non volevi darti. Non puoi abbandonare tutto per amore. No, neppure per amor suo.
Ciò a cui avrebbe dovuto rinunciare era il suo mondo, dove era cresciuto e dove aveva respirato per la prima volta l’aria dell’età adulta. Il Ministero, l’ufficio, la sua famiglia e le sue aspirazioni.
Emil ha ragione … Alla resa dei conti, quando si tratta di decidere davvero, non hai potuto rinunciare a tutto questo.
Perché nonostare l’amore vorace che gli mordeva il cuore per quel ragazzo bellissimo non riusciva a non esser terrorizzato all’idea di perdere per sempre il prestigio, il nome della sua Casata e gli agi in cui era abituato a vivere.
Albus non avrebbe avuto di questi crucci.
Se Thomas fosse stato un Magonò, persino un mago oscuro, l’altro avrebbe fatto in modo di seguirlo in capo al mondo e rendere felici entrambi.
Io non sono così.
Quell’amore metteva a nudo la sua codardia e la sua mediocrità.
Forse era questo a far male più di ogni altra cosa: accorgersi di non avere la forza di abbandonare tutto.
Nonostante tutto aveva provato a cercarlo. Il cellulare era staccato e persino il suo tentativo di telefonare alla stanza di albergo in cui alloggiava con Prince si era rivelato un buco nell’acqua.
Forse è meglio così. Cosa potresti dirgli poi? Scusa? Ti prenderebbe a pugni, e avrebbe ragione.
L’aveva perso: doveva mettersi il cuore in pace.
Quasi a venire in soccorso al suo profondo desiderio di prender da bere e ignorare la mole di lavoro che aveva davanti, la porta venne scossa da un paio di colpi secchi. Conosceva solo un uomo che non si premurava di bussare  e poi aspettare.
“Lord Malfoy.” Lo salutò deferente alzandosi in piedi, imitato dalla sua collega che si sdiliquì in una serie di convenevoli che l’uomo allampanato ignorò.
“Michel, vieni con me.” Gli disse sbrigativo. Annuì prendendo la giacca ed infilandosela, perplesso: era raro che il padre di Scorpius uscisse dal suo ufficio per conferire con un sottoposto, tantomeno scomodandosi fino alla sua scrivania.
Cos’è successo?
Non fece domande però, che era chiaro che avrebbe avuto le sue risposte solo lontano dalla portata di orecchie della collega. L’uomo infatti aspettò che fosse passato qualche metro di corridoio prima di rivolgerglisi.
“C’è una talpa nel Ministero.”
Michel battè le palpebre: aveva sentito girare la voce dai piani bassi, ma non vi aveva dato molto credito, dato che c’era sempre qualche fuga di informazioni nei vari Dipartimenti.

Ma una talpa … Tutt’altra faccenda.
“A proposito del Demiurgo?” Chiese anche se immaginava la risposta.
È l’unico caso serio di cui mi occupo al momento.
Il mago confermò con un cenno della testa. “Pare che gli ultimi blitz Auror siano stati sabotati. L’ultimo è costato al Ministero quattro Auror e dodici civili. Pessima pubblicità.” Aggiunse quasi a temere di poter essere scambiato per qualcuno a cui importava la sorte di altri esseri umani.
È sempre così gelido.
Era incredibile che una persona del genere potesse aver prodotto un tipo come Scorpius. “Pensano che la talpa possa essere qui?” Chiese.
Lord Malfoy fece un mezzo sorriso. “Gli piacerebbe. Almeno potrebbero trovare un colpevole senza dover setacciare le loro fila.” Gli lanciò un’occhiata. “Sono domande di routine. Essendo il responsabile dell’agente di collegamento hanno il dovere di sentirti. Una formalità.”
“Naturalmente.” Confermò senza lasciar trasparire nervosismo: non aveva nulla da temere o da nascondere ma un interrogatorio degli Indicibili era sempre qualcosa che qualunque funzionario ministeriale voleva evitare. Certo, non credeva alle voci secondo cui chi veniva ritenuto colpevole finiva in una delle loro celle a marcirvi per l’eternità, né che bevessero il sangue delle vergini, una teoria che andava fortissima con gli strampalati della Divisione Bestie…

Ma sono pur sempre gli Affari Interni.
Lord Malfoy lo accompagnò in una delle salette che usavano per le riunioni o per ricevere dignitari da altri paesi. Di fronte al tavolo centrale di marmo di Carrara – parte inevitabile dell’arredamento candido dell’intero piano – stavano due uomini, con vesti di un viola violento che faceva a cazzotti con il mobilio. Ciliegina sulla torta, erano pallidi come morti e altrettanto inespressivi.
Forse quelli della Divisione Bestie non sono così strampalati…
“Signor Zabini, buongiorno. Si sieda.” Esordì il più anziano, con due zigomi che sarebbero stati capaci di tagliare un uomo a metà. “Sa perché è stato chiamato qui?”
“Sì.” Disse con semplicità. Si sentiva un fascio di nervi: era proprio la giornata sbagliata per esser passato al setaccio dagli Indicibili.

Dì pure periodo sbagliato.
“Sono a vostra completa disposizione.” Aggiunse comunque con un sorriso cortese, lanciando un’occhiata a Lord Malfoy che lo approvò con un cenno impercettibile della testa: a quanto sembrava sarebbe rimasto per l’intera durata del colloquio.
Era proprio messo male se la sua presenza lo rassicurava.
I convenevoli terminarono, così i due, con una cartella sottomano – riguardava lui? – cominciarono con le domande. Rispose senza problemi, non era nato Zabini per poi ignorare i principi elementari dei colloqui con le autorità. Essere assertivo ma non arrogante e, in generale, mostrarsi pronto a collaborare anche quando non se ne aveva la minima voglia.
Leccare il culo, se necessario.
Stava quasi per rilassarsi quando una domanda lo ghiacciò sul posto. “Ha avuto contatti con l’America oltre quelli convenzionati trai Ministeri?”
Ethan Scott.
Il nome gli affiorò nella mente prima che potesse fermarlo. Per fortuna pareva che i due ispettori non fossero Legimanti. Non aveva percepito vibrazioni in quel senso.
In quel momento capì che avrebbe dovuto mentire. Ethan Scott gli aveva detto chiaro e tondo e in molteplici colloqui via Fuoco Magico che i loro contatti non dovevano esser resi pubblici, per nessuna ragione. Qualsiasi gioco di potere ci fosse dall’altra parte dell’oceano, non era cosa da far conoscere agli inglesi.
Riflettè rapido: non gli sembrava di aver fatto nulla di sbagliato ad informare l’americano degli spostamenti di Prince e delle novità che lo riguardavano. Non gli aveva neppure parlato del blitz. Eppure era sicuro che quel contatto avrebbe potuto gettare una luce poco chiara su di lui e questa era una cosa che doveva evitare ad ogni costo
Cercano un colpevole. Non devono pensare che sia io. Perché non lo sono.
La sua ambizione ancora una volta l’aveva messo di fronte ad una situazione difficile. C’era da stupirsi?
No. No, affatto.
“No.” Rispose. “Non ho avuto altri contatti.”
I due Indicibili si mostrarono soddisfatti dall’interrogatorio, o almeno così gli parve dal tono con cui lo congedarono, chiedendogli comunque di rimanere a disposizione.

“Lo farò.” Rispose prima di seguire Lord Malfoy fuori dalla saletta. L’uomo non gli rivolse la parola per tutto il tragitto di ritorno, e questo non lo stupì. Quello che lo sorprese fu vederlo fermarsi e fronteggiarlo quando furono arrivati davanti al suo ufficio.
“Hai mentito là dentro.” Disse senza mezzi termini. Non gli diede il tempo di ribattere ed aggiunse. “Sono un Legimante esperto Michel, e un ragazzino bugiardo non è una sfida per me. Semmai una seccatura.”
“Non capisco di cosa stia parlando.” Rispose con la voce che non potè trattenere un tremito. Che idiota era stato: avrebbe dovuto immaginare che Lord Malfoy era capace di esercitare quel dono. Molti Occlumanti erano anche ottimi Legimanti, quasi fossero una faccia diversa dello stesso Galeone.

Scorpius avrebbe anche potuto informarmi…
“Non mi interessano i tuoi giochetti … conosco tuo padre, e conosco la sua brama di potere. L’albero non cade mai lontano dalla mela. Non sembra che tu abbia però ereditato la sua intelligenza.”
Si costrinse a non ribattere. Quello era un argomento che rientrava nel grande insieme delle cose da non sfiorare, specialmente in quel periodo. “Si sbaglia.” Ora sì che era il ritratto perfetto di un ragazzino sciocco e troppo arrogante. “… gliel’ho già detto, non ho mentito.”
Non gli credeva. Al contrario, lo squadrò facendogli tremare le gambe. Sin da bambino Lord Malfoy gli aveva messo persino più paura di suo padre. “Se le tue azioni porteranno a screditare questo ufficio agli occhi della Comunità Magica ne risponderai a me.” Per un attimo il cipiglio glaciale si allentò, anche se dubitava fosse impietosito dal suo terrore. “… il peso delle proprie azioni si capisce solo quando sono già compiute, Michel.” Disse con occhi che parevano dissezionargli l’anima come un vermicolo. “Non giocare ad una guerra che non capisci.”

“Cosa intende?” Era un fascio perenne di nervi, era furioso e infelice. Mantenere il controllo a quel punto era pura utopia.
“Che non sei tagliato per questo lavoro.” Fu come se l’avesse colpito nello stomaco con un pugno o una brutta fattura. “Non lo sei mai stato.”
“Si sbaglia!”
Lord Malfoy sorrise, quasi si trovasse di fronte ad un cucciolo arrabbiato che gli mordeva l’orlo del mantello; lo irritava, ma non riusciva a farlo arrabbiare. Di fronte a quella condiscendenza smaccata avrebbe voluto tirar fuori la bacchetta, ma persino con lo stato d’animo alterato capiva che era una sciocchezza. “Mi sta dando del debole?” Chiese invece.

 “È il tuo cuore ad esserlo.” Gli rispose. “E sbagli a prenderla come un’offesa.”
Ancora una volta non gli diede tempo di ribattere, andando via in un frusciare di vesti. Michel serrò le labbra e si appoggiò al muro – bianco, sempre bianco, dava il mal di testa – cercando di reprimere la voglia di urlare.
 
****
 
Piccadilly Circus, The Royal Inn.
Pomeriggio.
 
“Come sta?”
Lily chiuse piano la porta della stanza di Milo. “Si è addormentato come un bambino … ubriaco e drogato come un cavallo.” Si passò una mano trai capelli. “Poverino, era ridotto ad uno straccio.”
“Non lo dà a vedere ma ha le sue fragilità. Zabini evidentemente era una di queste.” Commentò Sören scrollando la cenere oltre il balcone a cui era appoggiato. Aveva l’aria di chi covava tempesta e Lily si chiese se non dovesse preoccuparsi per l’amico di suo fratello.
A ben pensarci, per come l’ha trattato … nah. Brucia all’Inferno, Zabini. Sei proprio uno stronzo.
“Pensi che dicesse la verità? Se ne vuole andare?”
A quella domanda si strinse nelle spalle sedendosi sul bracciolo del divano e battendo la mano per invitarlo a sedersi con lei. “Penso che sia saggio chiederglielo quando avrà smaltito la sbornia.”
Le obbedì senza parlare, tutto perso in pensieri foschi. Fu conseguente quindi scivolargli accanto ed accarezzargli i capelli e la schiena come se fosse un gatto particolarmente irritabile. Sören gradì anche se non aprì bocca.

Oh, noi lavoriamo su tutt’altro livello di comunicazione.
“Anche se non lavorerà più per te non significa che non possiate essere amici. Anzi, avere un rapporto paritario non può che farvi bene.” Suggerì conciliante; aveva seguito il dibattito trai due ed era piuttosto sicura che Milo non avrebbe cambiato idea al risveglio. Pareva il genere di ragazzo che quando prendeva una decisione non si rimangiava la parola.
Sören spense la sigaretta schiacciandola sul posacenere. Era tentato di accendersene un’altra da come occhieggiò il pacchetto sul tavolino da caffè. Poi rinunciò. “È che … mi ero abituato alla sua presenza. Per quanto ingombrante non mi faceva mai sentire…”
“Solo?” Indovinò. “È normale! Ci ho messo mesi ad abituarmi a dormire in una stanza tutta per me, finita Hogwarts. Ad avere dello spazio personale.” Ma non l’altro non intendeva quello, lo vide da come la stava ascoltando a malapena.
Ha paura di rimanere da solo.
A parte Milo, per anni, non ha avuto nessun altro.
In quel momento capì quanto l’abbandono del Magonò l’avesse scombussolato. Sören era stato abituato fin dalla nascita ad avere qualcuno attorno, sia che lo servisse, sia che lo controllasse come una pedina sulla scacchiera.
“Non è detto che voglia licenziarsi. E poi, nel caso, puoi sempre prenderti un altro assiste…”

“Non voglio un altro assistente.” Borbottò cocciuto come un bambino a cui era stato sottratto un giocattolo senza che ne capisse il motivo. Il tono era quello, la ragione era più profonda.
Gli appoggiò la testa sulla spalla. “Una ragazza invece la vuoi?”
Voltò il viso per guardarla e le sorrise. “Pensavo di averla già.”
“Infatti. Ora siamo in due. Dobbiamo abituarci, credo, ma siamo in due.”
“Non intendevo…”
Lo fermò. “Sono seria. Indipendentemente dall’America … non sei più solo.”
Lasciò che quel concetto si sedimentasse nell’aria mentre si alzava per andare a mettere un po’ di musica alla radio. Il silenzio che gli avvolgeva non faceva bene a nessuno dei due: lei perché non era abituata alla mancanza di rumore, che fosse sul posto di lavoro o a causa della sua famiglia, Sören perché non andava lasciato solo con i suoi pensieri troppo a lungo.

 
You think you're quite the wizard, got me under your spell,
But guess what, Mister Wizard, you don't know me so well

 
“Celestina Warbeck, tipico.” Sospirò ricordando i lunghissimi inverni della Tana e le altrettanto lunghe quanto inevitabili rassegne musicali tenute da nonna Molly durante il periodo natalizio. Ricordava ancora con divertimento le fughe di Tom nel pollaio al solo sentire le prima note della celebre strega canterina.
Colpa mia che ho voluto accendere la radio di mattina. È territorio dei nostalgici questo.
Sören aggrottò le sopracciglia. “Conosco questa canzone.” Disse sorpreso da sé stesso. “La sentivo spesso, al castello.”
“A tuo zio piaceva Celestina?” La cosa era così assurda che l’altro ridacchiò, quando parlare del parente di solito gli dava tutt’alto che ilarità.

“No, non credo fosse opera sua, forse dei servitori … È uno di quelli che vengono chiamati classici intramontabili, vero?”
“Puoi dirlo forte!” Accennò qualche passo di danza, solo per vedere l’espressione dell’altro rischiararsi. “Hai rubato il mio calderone, il mio cappello preferito, trafugato il mio Gufo, ma non sei poi così acuto.” Canticchiò imitando la gestualità demodè dell’artista. La guardava divertito, e questo le bastava: quel giorno avrebbero dovuto dedicarlo a lasciarsi alle spalle i problemi.
Invece siamo qui a badare ad un idiota ubriaco.
Tanto valeva arrangiarsi con quello che avevano. Gli tese le mani, e quando le prese lo tirò su. Sören, che a volte pareva uscito dagli anni della Warbeck, la prese tra le braccia, ma invece di baciarla come aveva pensato la coinvolse in pochi passi di danza che ben si adattavano alla musica.
 
Oh, sure, you're quite the dancer, swept me off of my feet
But back here on the ground, I see a liar and cheat


“Prince, lei balla?” Chiese in tono di falso stupore.
“Se ricorda bene, Potter, ne sono perfettamente in grado.” Le rispose a tono facendole fare un lieve giro su se stessa. Quello era un lato di Sören che le piaceva: sicuro di sé, ironico, dolce.
Peccato esca fuori solo quando è rilassato. Cioè quasi mai.
Ma dovevano assaporare quei momenti senza stare troppo a rifletterci sopra. “Sì, mi ricordo di un cavaliere che mi fece ballare divinamente al Ballo del Ceppo. Era lei?” Lo stuzzicò: era un sentiero ancora fragile, quello, ma se lo stavano lasciando alle spalle.
Sören chinò la testa alla sua altezza. “Sì e no.” Abbozzò un mezzo sorriso, un’ombra di rimorso negli occhi che si affrettò a fugare con una carezza. “Ma i miei sentimenti erano sinceri.”
“Non come il mago nella canzone.”
“Non come quel mago, no.” Confermò. Fece una pausa. “Da bambino mi piaceva quando passava alla radio. Credo sia stato il mio primo assaggio di Inghilterra, oltre i racconti di mio padre.”

“Non avevo dubbi, mio antiquato cavaliere, andresti d’accordo con nonna Molly.” Lo prese in giro, appoggiando la tempia contro la guancia dell’altro. Piccoli momenti, pensò, erano importanti. “Beh, potrei anche rivalutare la vecchia Warbeck se continuiamo a ballare.”
“Fino alla fine della canzone?”
“Ed oltre.”
Sören la guardo confuso, poi sorrise. Se aveva capito, aveva capito giusto. “Ed oltre, mia Lilian.”
L’eternità, come aveva scritto qualcuno, in fondo era fatta di piccolo instanti.  
 
****
 
Ministero della Magia, Settimo Piano, Prigioni Ministeriali.
Pomeriggio.

Le prigioni del Ministero non erano come quelle di Azkaban ma non erano neppure luoghi accoglienti.

Harry aveva visitato quelle celle umide e illuminate solo da torce molte volte nella sua carriera da Auror, trovandovi dal ladruncolo di strada al mago di nobile blasonatura. Non aveva mai fatto differenza per lui: se eri lì dentro, perdevi ogni diritto o pretesa e ti trasformarvi qualcuno in attesa di giudizio.
Il giovane carceriere che l’aveva accompagnato nel tragitto tra file uniformi di celle, cinte da sbarre di metallo dei Folletti, refrattario a magie e fatture, sembrava più intimidito della teppa che vedevano sfilarsi davanti, occupata piuttosto a lanciargli sguaiataggini e occhiate velenose.
“È … è qui Signore.” Balbettò indicando con il grosso mazzo di chiavi una cella alla fine del corridoio. Beneficiava di un po’ di luce, sebbene creata magicamente, ed al centro vi era seduta, come in attesa d’esser chiamata da qualcuno, Sophia Von Hohenheim.
“Bene, fammi entrare e poi lasciaci soli.” Lo istruì: Ron si era prodotto in lamentele feroci sulla totale mancanza di collaborazione da parte della strega tedesca, aggiungendo con una certa dose di preoccupazione che si rifiutava anche di mangiare e bere.
Ci manca solo si faccia morire per consunzione.
Era arrivato il momento per lui di scendere in campo: non c’erano certezze che la donna avrebbe parlato in sua presenza, ma doveva provare.
La mia fama a volte ha sciolto più di una lingua.
Per paura o per soggezione della sua fama molti sospettati avevano vuotato il sacco. Al di là di tutto, aver ucciso il mago oscuro più potente dell’epoca dava un incentivo anche al più incallito criminale.
Anche se in questo caso la faccenda è diversa.
Sophia Von Hohenheim lo guardò infatti entrare con disinteresse, lasciando vagare lo sguardo su di lui e dietro di lui, dove il carceriere stava chiudendo la porta a doppia mandata.
Harry ricambiò l’analisi: la strega nel dossier che aveva loro passato Ama era più giovane, ma era la stessa che aveva di fronte, non c’erano dubbi: i lineamenti leggeri, i grandi occhi scuri e il manto di capelli corvini lasciato appoggiare sulle spalle erano gli stessi. Anche se era vestita con una tunica ed un mantello dal taglio semplice era ovvio che facesse parte di quella stretta elitè di maghi che veniva chiamata Purosangue.
Hanno tutti la stessa postura.
“Buongiorno.” La salutò con tono amichevole. Estrarle informazioni con la minaccia di Azkban a vita non aveva funzionato granchè. Forse era il momento di cambiare approccio. “Sono il Capitano Harry Potter.”
Quello di solitò bastava a scatenare reazioni in chiunque. Sophia Von Hohenheim invece si limitò ad inarcare le sopracciglia: l’aveva riconosciuto ma non voleva dargli la soddisfazione di farglielo notare.

“I miei uomini non sono riusciti a capire se parla la nostra lingua. Ha bisogno di un traduttore?” Era una domanda che gli era già stata fatta, come era stato provato già provato a parlarle in tedesco.
Anche stavolta non pervenne risposta. Harry lanciò quindi un’occhiata al vassoio della colazione lasciato intatto. “Vedo che la cucina del Ministero non è di suo gradimento. Ha qualche allergia? Preferirebbe qualcos’altro?”
La donna fece un sorriso sottile, quasi a presa in giro, ma era già più di quanto avesse concesso a Ron e alla sua squadra. Harry lo prese come un segno positivo e si sedette sulla panca dura che fungeva da letto.
Niente comodità per i cattivi.
Intuiva che era incuriosita da lui, anche solo per chi era. Si mise così nei suoi panni: dubitava fosse una semplice vittima delle circostanza e del suo protettore, ma al tempo stesso aveva l’impressione, da come si stava comportando, che avesse accettato la sorte con fin troppa remissività.
O crede che verrà a salvarla o non le importa più di tanto.
“Sophia … posso chiamarla così?” Non aspettò risposta, anche se dal cipiglio irritato che gli venne rivolto l’iniziativa non doveva esser piaciuta. “Immagino capisca in che situazione si trovi. E se non fosse stato così alla sua cattura, credo che i miei uomini glielo abbiano spiegato approfonditamente. Lei è considerata complice del mago conosciuto come John Doe e quindi è connivente di tutto quello che ha compiuto su suolo britannico. Per l’America non mi pronuncio, ma presto temo avrà notizie anche da loro.”
La donna per tutta risposta posò le mani in grembo: aveva uno sguardo intelligente, per nulla spaventato. Ron aveva perso le staffe con tutte le buone ragioni del caso.
Non parlerà. Non con le solite minacce o offerte di patteggiamento.
Doveva tentare qualcos’altro. Doveva scoprire chi era Sophia Von Hohnheim.
“Ho letto di lei.” Disse. “Un fascicolo di polizia non dice molto di una persona, è vero, ma ho abbastanza informazioni per intuire che lei, in questa faccenda del Demiurgo, c’entra poco o nulla. Sa poco o nulla.” 
La strega fece un secondo, piccolo sorriso. Pareva divertita dai suoi tentativi di instaurare un dialogo, ma tuttavia c’era qualcosa che la preoccupava. Forse non si notava dall’espressione, ma dalla postura rigida, dalle mani in grembo sì.
Questa donna non ha paura di niente. Ha vissuto con due uomini crudeli e violenti. Non teme certo la prigione.
Allora cosa la preoccupa?
Immedesimarsi in una strega simile non era facile, ma Harry ci provò. Era una fuggitiva, una persona che si era nascosta per anni all’ombra di un mago che poteva essere il suo amante come il suo aguzzino – durante la visita medica di routine per chi entrava nelle carceri erano stati trovati lividi e morsi in buona parte del suo corpo. Era cresciuta nell’ombra di un fratello megalomane che l’aveva venduta ad un uomo più vecchio di lei. 
C’era solo un punto in comune tra lui e quella strega silenziosa.
Siamo entrambi genitori.
Tanto valeva tentare quella carta. “È stato Sören a trovarla, non è vero?”
Aveva afferrato il Boccino. Il sorriso sulle labbra di Sophia si spense di colpo, mentre l’espressione si fece guardinga.
Una madre rimane una madre fino alla fine dei suoi giorni.
Era Sören a preoccuparla; aver rivisto il figlio ed essersi fatta stringere le manette ai polsi da lui doveva averla perlomento colpita.
Ed era lì che Harry aveva intenzione di insistere. “Dev’esser stata una sorpresa incontrarlo dopo tutti questi anni. Quand’è stata l’ultima volta che l’ha visto? Doveva essere un bambino. Mi ricordo quando il mio primogenito James partì per il suo primo anno di scuola. Fu difficile non averlo più in casa.”
La strega si espresse di nuovo in quel suo sorrisetto ambiguo. “Sta cercando di farmi sentire in colpa?”
Era la prima volta che sentiva la sua voce ed era come se l’era aspettata: bassa, avvolgente e capace di attirare l’attenzione anche in una prigione rumorosa. Parlava inglese alla perfezione: non la tradiva neppure l’accento.
“Sto cercando di scoprire chi è lei, Sophia.” Rispose scrollando le spalle. “Complice o ignara compagna?”
“È terribilmente importante per voi questa distinzione, vedo.” La strega si appoggiò allo schienale incrociando le braccia sottili al petto. Era bella, e nella sua gioventù doveva aver spinto al duello più di un giovane mago. Di certo, ne aveva ancora il potere. “In ogni caso, non posso aiutarvi. Johan non mi ha mai parlato del suo lavoro, ed io non gli ho mai chiesto nulla. Per rispondere alla sua domanda, la seconda, Signor Potter. Non mi intendo che di faccende di letto e d’amore.” Si passò le dita sulla guancia, mimando una carezza d’amante. “Mi hanno educata così.”
“Le amanti possono essere confidenti.”
“Lei non conosce Johan. Il suo migliore amico è il riflesso di uno specchio.” Mise su una piccola smorfia infastidita. “Ho cercato di farlo capire al suo collega dai capelli rossi.”
“Come, rimanendo in silenzio?”

Ridacchiò. “Anche il silenzio è una forma di comunicazione, mi duole che il suo collega non lo abbia compreso. Non volevo essere scortese.” Inclinò la testa da un lato. “Le paio scortese?” Pareva non aver ancora finito nel suo scrutinio. Harry si sentì, per la prima volta, un po’ a disagio.
Questa donna ha il sangue dei Von Hohenheim. Di Alberich e di Thomas. Non devo prenderla sottogamba.
Invece non assomigliava affato al figlio. Forse nella forma degli occhi, in qualche lineamento, ma era una somiglianza distante, remota.
“No, non lo è.” Ammise tranquillo. “Ma non ci può bastare per attestare l’innocenza di qualcuno.”
Sophia annuì. “È comprensibile. Ma la mia presenza qui non vi darà il minimo vantaggio sul mio Giullare.”
Doveva parlare di Doe. “Sarà preoccupato per lei.”
“Sarà furioso.” Giocherellò con un immaginario monile che aveva al collo. Dovevano averglieli tolti tutti al suo ingresso in cella. “Ma questo non lo fermerà da attuare ciò che si è prefisso. Voi non mi farete niente, con tutte le vostre leggi … e potrà sempre venirmi a prendere quando tutto sarà finito.”
“Si fida così tanto di lui?”

“Non si tratta di fiducia, ma di bisogno.”
“Bisogno di cosa?”
“Di me. Sono in grado di aspettare. Sono brava in questo, Signor Potter.”
Harry rimase in silenzio: come aveva previso, non aveva cavato un ragno da un buco. Sophia Von Hohenheim non poteva aiutarli, o non voleva. Ron aveva proposto il Veritaserum e potevano anche richiedere l’autorizzazione ad usarlo, ma Harry non era convinto sarebbe servito.
Funziona solo con le menti deboli. E questa donna non lo è.  
“Se non crede alle mie parole fate del vostro meglio.” Gli disse infatti, quasi gli avesse letto nel pensiero. “Usate il Veritaserum, mi è stato detto sia una vera specialità britannica.”
“Me lo sta proponendo perché è in grado di contrastarne gli effetti?”
Sophia sorrise. “Forse.”
Harry a quel punto scattò in piedi irritato. Quella donna pareva trovare profondamente divertente quella situazione, persino la sua attuale dimora. “Non voglio giocare con lei, Sophia.” Rispose duro. “Delle persone sono morte, e altre stanno soffrendo in un letto d’ospedale per l’avidità del suo compagno. Creare un siero per potenziare la magia di un individuo e sperimentarlo su maghi e streghe ignari degli effetti collaterali. È inumano!”
La donna sospirò. “Sta tentando di appellarsi al mio buon cuore?”

“Sempre che ne abbia uno.”
“Così le han detto? Peccato, si crede a certe menzogne…”
“Quelle sono campo del suo giullare.” Ritorse. “Risponda allora ad un’ultima domanda … Al castello dei Prince … era la prima volta che vedeva Sören dopo anni?”

L’aveva colta in contropiede. “Crede che stia mentendo anche su questo?”
“Perché no?”

La vide aggrottare le sopracciglia inquieta, cosa che le conferì gli anni che doveva avere e non aveva mostrato fino a quel momento. Stava riflettendo sulle sue parole. Poi arrivò all’ovvia conclusione. “Pensa che Sören sia nostro complice?”
“Non penso, mi muovo secondo le prove che ottengo.”
L’espressione della donna si fece distante. “Non ne ho idea.” Disse. “Gliel’ho già detto.”
Harry a quel puntò si alzò in piedi. “Bene, la ringrazio.” Battè sulle sbarre della cella per richiamare il carceriere. “Mangi qualcosa.” Le suggerì. “Non sarà una cucina a cinque bacchette, ma sono le stesse cose che mangiamo ai piani superiori. Non è male.”
Gli venne rivolta un’occhiata ostile. Era una donna intelligente e doveva aver realizzato di avergli suo malgrado mostrato il fianco.
Una madre rimane sempre una madre.
Forse non aveva nessuna intenzione di riconciliarsi con il figlio, ma mentiva quando diceva le fosse indifferente.
Dopotutto è stato il suo nome a farla parlare.
 
****
 
Note:

Quasi un mese. E comunque, capitolo ciccioso!

Per chi vuole sapere da dove ho preso la citazione questa la poesia da cui deriva. La vedo tanto Lily/Ren. In generale, di incredibile ispirazione per una storia. ;)
Questa la canzone del capitolo e che fa un po’ da chiusa, direi.

Questa la canzone di Celestina. Sì, audio originale. Sì, è canon, sia da Pottermore che dal palco di Orlando. A quanto pare, ai vecchi maghi piace lo swing. Va da sè, anche a Ren.

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Capitolo 46
*** Capitolo XLV ***


Cap da Pubblicare
Capitolo XLV





Would it be much better if I knew nothing about you?

(1957, Milo Green)


1 Agosto 2018
Londra, Piccadilly Circus.
The Royal Inn

Milo si svegliò con un mal di testa feroce. Non solo, anche con un male infernale alla bocca, un labbro tumefatto e la voglia di rimettere.
Per Faust, l’ultima volta che sono caduto così in basso … No, non me la ricordo.
Spalancò gli occhi sul soffitto a volta della sua camera d’albergo a Piccadilly Circus, e questo poteva solo significare che qualcuno ce l’aveva portato. Di peso.
Non ci sarei mai tornato da solo. 
Tirandosi in piedi, trovò sul comodino una caraffa d’acqua con una fialetta grigiastra a fianco. E ancora, il proprio violino con la custodia aperta a mostrarlo al sicuro, sul divano accanto alla finestra. Lo raggiunse, un po’ inciampando, un po’ serrando gli occhi al mare dondolante che sostituiva il tappeto e se lo strinse infine al petto. Il legno sincero, le corde fredde gli diedero di nuovo la dimensione giusta del mondo.
Allora ricordò il Black Goose e l’intervento del principino e della sua bella.
… merda.
Con un grugnito si strofinò il viso tra le dita, mugolio che approfondì quando notò lo stato della sua barba. C’erano attaccate cose.
Che schifo. Sono uno schifo.
Doveva farsi una doccia prima di presentarsi al mondo intero e in particolare ai due maghetti odiosi e, soprattutto, coraggiosi, che erano venuto a riprenderlo nel buco di culo in cui si era infilato per soffocare il proprio cuore infranto.
Dieci minuti dopo era pulito, sbarbato e con il grosso bisogno di un ricambio di vestiti.
Già, li ho lasciati nella stanza della locanda.
Fregandosene del pudore si assicurò l’asciugamano alla vita e si avventurò fuori dalla propria stanza. Con sorpresa si accorse che Sören era seduto sul divano del salotto, intento a leggere un libro.
Sono mesi che non lo vedo fermo in un posto a fare qualcosa di rilassante. Curioso.
“Ehi.” Tentò tenendo a freno l’imbarazzo: ricordava a spezzoni la loro conversazione fuori dal pub ma era piuttosto sicuro di avergli singhiozzato contro.
Sören alzò la testa, squadrandolo da capo a piedi. “Buongiorno.” Rispose appoggiando il libro, aperto, su uno dei braccioli: per essere l’incarnazione dell’ordine e precisione militare era singolarmente trascurato se si trattava di libri. “Hai dormito bene?”
“Di merda.” Puntò sulla sincerità, perché neanche la doccia bollente e la fiala di viatico lo avevano risollevato del tutto.
Il fisico si può rimettere in piedi. Il resto, no.
Sören annuì con aria compunta, esilarante se non si fosse sentito ad un passo dal suicidio. “Vuoi mangiare qualcosa?”
“Vorrei spararmi un colpo in testa, ma sul lungo periodo non è una soluzione intelligente.” Borbottò spalmandosi sulla sedia dirimpettaia. “Penso di aver funzionanti solo il cinquanta per cento dei miei organi.”
Sören colse l’occasione offerta su un piatto d’argento. “E il cervello?”
“Quello sta messo peggio di tutti.”
Rimasero in silenzio e Milo capì che doveva esser lui a fare il primo passo. Del resto, quella partita l’aveva aperta lui. “Ho scazzato.” Ammise. “Non avrei dovuto dirti quelle cose e mollarti su due piedi … senza avvertirti o altro. Mi sono comportato da stronzo.”
“Sì.” Confermò senza livore. Chissà cosa gli aveva detto Zenzero per fargliela prendere così bene.
Non che questo tipetto qua accetti tanto facilmente i cambiamenti, eh.
Ma avere una ragazza forse gli aveva messo qualche rotella a posto. “Scusami.” Concluse con semplicità, perché a volte non c’era molto altro da dire se non quelle tre sillabe. “Non ci stavo con la testa.”
“Sì, è chiaro.” Esitò. “Devo accettare le tue dimissioni quindi?”
Aveva preso quella decisione nell’impeto della collera e dell’infelicità, ma questo non significava che avesse meno valore. “Sì.” Sospirò. “Magari non subito, intendo, ti devo almeno un paio di mesi di preavviso, ma … Penso di aver bisogno di cambiare aria.”
“Vuoi andartene dal mondo magico?”
“Non lo so. Forse tornare in America, magari là si respira un po’.” Fece una smorfia, cercando le sigarette dove non le avrebbe trovate, ovvero nelle tasche inesistenti del suo asciugamano. Sören prese il pacchetto delle proprie e glielo lanciò. Se ne fece accendere una grato. 
“Non tutti i maghi sono come Zabini.” Coltellata diretta. In fondo avrebbe dovuto immaginarsi che persino un tardo come Sören avrebbe capito il motivo di tanta sturm und drang.  “Io non sono Zabini.”
Gli sorrise, tirando una boccata di fumo. “No, non sei Zabini.” Convenne. “Avrei dovuto innamorarmi di te.”
Sören, essendo il meraviglioso neonato nato sotto un cavolo che era, lo guardò meditabondo e poi si strinse le spalle. “Un amore non corrisposto è meglio o peggio di quello che ti è accaduto?”
“Tu saresti stato più gentile.”
“Vero.” Asserì con totale tranquillità, tanto che qualcosa gli si sciolse dentro. Non tanto da aver voglia di gettargli le braccia al collo e proclamargli eterna fedeltà e amicizia. Ma qualcosa, comunque. “Cosa ti ha fatto?”
No, non era minimamente pronto per quello. Ma dall’espressione cupa di Sören era chiaro che avesse frainteso appieno. “Non mi ha fatto del male fisico.” Chiarì, casomai l’altro pensasse a torture o violenze gratuite. “Mi ha solo detto di levarmi dalle palle. Scoparsi un Magonò e fare avanzamento di carriera nel Ministero della Magia non sono due cose che vanno d’accordo.”
Sören serrò le labbra e per un attimo temette che gli avrebbe rifilato la solita solfa del ‘è complicato, in una società chiusa come questa’. “Non ti merita.” Dichiarò con la fermezza con cui l’aveva sempre sentito impuntarsi.
“Sì, vabbeh.”
“So quel che dico.” Ribattè. “È lui a non meritarti. È lui la persona meschina.”
Era quello il bello del principino: nonostante fosse cresciuto nell’ambiente più settario e razzista del pianeta, riusciva ancora a considerare le persone come esseri umani e non ricettacoli per etichette. Il suo ridicolo codice d’onore, del tutto fuori moda e ingombrante, l’aveva tenuto al sicuro dalle idee malsane che gli erano fioccate attorno sin da ragazzino.
La testa vuota migliore che conosco.
“Vuoi tornare a Boston?” Gli chiese, riscuotendolo dai suo pensieri. “Perché posso prenotarti una Passaporta Continentale.”
“Quando avrò smesso di aver voglia di vomitarmi l’intestino … sì, grazie.” Incrociò le braccia al petto, perché cominciava ad avere freddo. “Nel frattempo posso…” Si schiarì la voce perché aveva fumato troppo, tutto qui. “… posso restare qui?”
Sören doveva esser decisamente stato addestrato dalla sua nuova, fiammante – letteralmente – ragazza perché sorrise come se se lo fosse aspettato. “Certo. Mi devi ancora un mese di preavviso, giusto?”
Sorrise di rimando. “Giusto.”
Era la prima volta che aveva voglia di abbracciarlo e dirgli grazie. Era un’urgenza scomodissima, che gli dava più ansia che buttarsi da un cavalcavia con il solo ausilio di un ombrello sfondato. Era questa la cosa buffa del cuore: non importa quanto fosse rotto, c’era sempre un pezzo abbastanza integro che mandava avanti la baracca.
E darti la possibilità di considerare qualcuno un amico. Un fratello. Persino se è della stessa razza del codardo figlio di puttana che ci è saltato sopra.
“Devo … uhm, recuperare le mie cose dal Black Goose. Ho affittato una stanza là.” Spiegò in fretta, che quell’atmosfera melensa doveva aver raggiunto anche l’altro da come lo squadrava accigliato. “Mi presti un paio di vestiti che non puzzino di fogna così vado a recuperarla?”
“Sì, ma devo adattarli alla tua taglia. Non sono bravo negli incantesimi di sartoria.”
“E Zenzero? C’era anche lei ieri se non ho avuto un’allucinazione … Ora state assieme, giusto?” Casomai avesse frainteso tutto. Ma dal pugno che l’altro gli aveva rifilato non doveva essere il caso.
Solo un fidanzato incazzato reagisce così. E solo una fidanzata ci ride sopra tutta orgogliosa.
Oddio, non tutte. Ma Zenzero è svitata quanto lui. Due metà di una mela, proprio.
Sören tentò a stento di non illuminarsi come un albero di Natale. “Sì.” Confermò con tono strangolato di chi non voleva esclamare come un ragazzino contento. “Stamattina è al San Mungo per un turno. Ci vediamo a pranzo … mi ha organizzato un picnic sulle scogliere di Dover.”
“Che carina.” Commentò spassionato.
Sören ignorò blatantemente il suo tono, come ogni bravo innamorato perso dietro le sue fantasie che si rispettasse. “Già.”
Non riuscì proprio ad infierire. Quel povero bastardo aveva sofferto abbastanza, in materia. “Dammi la roba più larga che hai.” Cambiò invece discorso. “Mi ci arrangio.” 
Sören si alzò per andare a recuperarla e Milo si permise un conseguente, profondo, lamento.
Almeno uno di noi due è felice.

****

Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Mattina.

Scorpius non si era mai sentito così solo. O meglio, eccome se ci si era sentito, ma all’epoca era ancora un bambino, aveva un uniforme troppo ingombrante e un’intera Casa convinta che il Cappello avesse sbagliato a smistarlo.
Okay, è diverso ora.
Perché comunque nell’ufficio Auror aveva imparato a sentirsi a casa; i colleghi si erano abituati al suo viso aguzzo e ai capelli troppo biondi e riuscivano persino a chiamarlo per cognome senza attaccarci su la faccia di chi aveva morso un limone.
Nonostante questo, quel giorno si sentiva solo e desolato come un bambino, con Bobby al San Mungo e James a casa in convalescenza.
Stupido Potter. Mi si abbandona così! Sono un ragazzo fragile!
Sorseggiò la propria tazza di the, saldamente ancorato nei pressi del bollitore del piccolo cucinino; non gli andava di tornare alla scrivania e dover affrontare gli altri ragazzi.
È stato un fiasco. Il blizt è stato un fiasco perché c’è una talpa.
Non era così egocentrico, sapeva che non riguardava solo lui, che tutti si stavano guardando alle spalle…
Ma sono l’unico con una famiglia con un passato di tattici voltagabbana.
Non gliel’avrebbero mai rinfacciato apertamente, ma non gli andava di doversi misurare con discorsi troncati a metà al suo passaggio o sorrisi costretti. Non senza Bobby e James a fargli da spalla.
Prima la troviamo meglio sarà. Per tutti. Questo clima non fa bene all’ufficio.
Gli Indicibili stavano indagando e avevano chiamato anche lui: era stato il quarto d’ora più sgradevole della sua vita.
E ne ho avuti parecchi, di quelli.
“Ehi ragazzo.” Non gli era mai piaciuto Ron Weasley. Sì, si sforzava di farselo andare a genio per il bene di Rose e della fragile pace che intercorreva tra le loro famiglie, ma se avesse potuto parlare fuori dai denti, avrebbe declamato in rima baciata quanto gli stesse sull’anima.
Quel giorno però era l’unica persona, a parte forse il Capo Potter, che non rischiava di fargli saltare i nervi.
Almeno lui mi ha sempre trattato da Malfoy.
“Signore.” Rispose con il suo miglior tono disinvolto. Mai dargli soddisfazione o peggio, fargli capire che si stava nascondendo dagli altri.
L’uomo gli rivolse un secondo cenno del capo prima di raggiungere l’agognata cisterna di caffè che riforniva tutta la squadra. Se ne versò una tazza e la sorseggiò meditabondo.
“Gli Indicibili sono ancora in giro?” Gli chiese.
“Sì, oggi lavorano con la squadra di Stump.”
Ovvero li torchiano come stracci. Che schifo, essere dall’altra parte.
“Come sta Artemisia?”
“Stamattina è stata dimessa, dovrà farsi un paio di giorni di riposo a casa.”
“Ah, bene! Sarà contenta di stare un po’ con i suoi figli …”
“Già.”
Era stato lo scambio di battute più lungo che avessero avuto in ufficio e, in generale, durante la loro intera conoscenza. A Scorpius trillò un campanello.
Vuoi vedere che non sono il solo a essersi rintanato qui con la scusa della pausa caffè?
Non disse niente però, limitandosi a nascondere un sorrisetto dentro la tazza: era noto il fastidio che il Sergente Weasley provava per ingerenze di qualsiasi tipo nel suo lavoro. Avere tra i piedi gente che faceva domande e chiamava i suoi uomini per lunghi colloqui, intimidendoli e facendoli sentire come la feccia che sbattevano nei sotterranei doveva averlo leggermente esacerbato.
L’altro dovette notare la sua smorfia perché lo fulminò con un’occhiataccia. “La tua pausa da quanto dura?”
Fece spallucce. “Da stamattina. La mia squadra è tutta infortunata, e né Ama né Sören si sono ancora fatti vedere. Non ho molto da fare qui a parte ordinare le scartoffie, ma non mi va di tornare a casa.”
Specie se non c’è Rosie.
Non poteva passare tutto il giorno a portar a spasso Donnola.
Weasley annuì dato che aveva ragione: senza una squadra era bloccato e non poteva assegnarsi arbitrariamente ad un’altra.
“Se vuoi farti qualche ora di lavoro i miei ragazzi stanno partendo per Notturn Alley. C’è stato un po’ di trambusto stamattina, andiamo a controllare.”
“Volentieri.” Accettò l’offerta con un sorriso: era stata tesa ispidamente, ma era pur sempre un’offerta. Uscendo incontrarono Ama che, da come era zuppa, doveva appena aver incontrato uno dei famigerati acquazzoni estivi londinesi.
“Agente Malfoy … Sergente Weasley, buongiorno.” Salutò asciugandosi con un paio di colpi di bacchetta;  Scorpius non potè non registrare la rigidità del saluto quando venne rivolto al più anziano.
Come mai?
“Sergente Gillespie.” Replicò con altrettanta legnosità questo.
Oh, no. Voglio proprio capirla questa!
“Signore, mi dà un attimo per parlare con Ama?” Chiese con il suo miglior tono da bravo bambino.
Il Sergente sbuffò, ma non poteva negargli una chiacchierata con il suo agente di collegamento. Sarebbe stato tra l’altro contro le regole.
Ci dobbiamo coordinare giornalmente.
“Non metterci troppo, Young e Bhatt partono tra cinque minuti.”
“Sissignore.” Quando se ne fu andato sorrise alla ragazza, che ricambiò assente. Era stata dimessa quasi immediatamente la sera prima, ma aveva comunque addosso i segni di chi aveva dormito poco. “Come stai?”
“Bene.” Mentì piuttosto male. “Potter, Jordan?”
“James tornerà alla fine della settimana, credo … suo padre gli ha fatto prendere dei giorni di riposo praticamente legandolo al letto. Bobby …” Si strinse le spalle e l’altra si rabbuiò.
“Avrei dovuto coprirgli le spalle. Era accanto a me.” Come aveva immaginato, l’americana era il genere di persona che prendeva tutta le colpe del mondo sulle proprie spalle.
Lei e Prince sono due gemellini in questo.
Le mise una mano sulla spalla. “Abbiamo fatto quello che potevamo in quell’inferno, non si vedeva un accidente a due palmi dal naso e c’era, beh, appunto, l’inferno … Siamo vivi. Per me è già un bel risultato, non credi?”
Ama annuì con un mezzo sorriso, guardandosi attorno alla ricerca di qualcosa che sembrò non trovare.  “Non c’è molto da fare vedo.” Commentò.
“Vado a farmi un giretto a Notturn Alley a scansare morsi di Megera e separare Magonò ubriachi, ti dico solo questo.” Poi chiese, perché doveva chiedere. “È successo qualcosa tra te e il Sergente?”
La risposta la potè agevolmente leggere sui lineamenti contratti della ragazza. “Tra me e lui niente.” Disse serrando le braccia al petto. “Ce l’ha con Prince però.”
“Con Sören? Ma no, non gli è mai piaciuto fin dal principio … quando si è fatto un’idea su una persona è peggio di un Troll. Non gliela schiodi dalla testa. Ma non credo ce l’abbia con lui per qualche motivo in particolare.”
Ama si guardò attorno, poi abbassò la voce. “Pensa che sia la talpa.”
Cosa?
“Crede che sia stato Sören ad avvertire John Doe del blitz, e lo crede perché ogni volta che l’ha incontrato non è riuscito a catturarlo.” Fece una smorfia. “Come se fosse il primo a fallire.”
“Ma è ridicolo!” Eppure una parte di lui capiva perché Weasley non si fidasse di Sören e lo avesse eletto a suo principale sospetto; non era la prima volta che faceva il doppiogioco.
E questo non si può negare. Ci ha ingannati tutti, cinque anni fa.
… e in teoria, sarebbe in grado di farlo ancora.
Questo, secondo la mente malata di quel peldicarota naturalmente. Scorpius non ci avrebbe creduto neanche in mille anni.
Sören è un bravo ragazzo. Un bravo ragazzo con una famiglia di merda. Come papà.
… che non è un bravo ragazzo né una brava persona, ma quando ha avuto la possibilità di cambiare, l’ha fatto.
E l’aveva fatto anche Sören. 
Ma vallo a spiegare ad uno come Weasley, che indossa lo stesso pigiama da quando ha quindici anni.
“Questo è quello che pensi tu.” Rispose Ama quando perorò la causa dell’amico comune. “E che penso anche io, detto tra noi, ma siamo in pochi. In generale Sören non gode di buona fama, né qui né in America. È una persona complicata.”
“Ma non è una spia! Cioè, non lo è più.”
“Appunto.”
Cavolo.
“Credi … credi che il Sergente l’abbia detto agli Indicibili? Dei suoi sospetti?”
Ama scosse la testa. “Non credo. Secondo mia madre il Capo Potter gli ha messo la museruola … Credo che prima voglia avere altri elementi.”
“Come un investigatore che si rispetti!” Borbottò a mezza bocca. Non che pensasse che il padre di Rose fosse un pessimo detective. Anzi, era forse uno dei migliori del Dipartimento.
Ma quando gli tocchi la famiglia diventa irragionevole come un Crup. Argh, Weasley, tutti uguali!
“Gli Indicibili potranno arrivare alle conclusioni di Weasley anche senza essere imbeccati.” Gli fece notare l’americana. “Sören è l’unico ad aver avuto contatti con il Camaleonte. L’ha anche detto. E poi c’è sua madre.”
Scorpius si passò una mano trai capelli. “Come possiamo aiutarlo?”
“Certo non affrontando a muso duro gli Indicibili, né persone come il Sergente Weasley. Dobbiamo fare il nostro lavoro, tutto qui.”
Scorpius fece una smorfia: era il genere di cosa sensata che evitava di pensare come la peste.
“Malfoy.” Lo richiamò all’attenzione la ragazza con il tono paziente di una professoressa con un alunno un po’ tardo. Gli ricordò Rosie. Questo gli piacque. “Se troviamo John Doe troviamo anche la spia.”
“Sì, ma…”
Gli sorrise. “E se troviamo la spia, troviamo John Doe. È mutuo. È ancora il nostro caso.”
Ah!
Ovviamente aveva ragione, e lui era stato un idiota troppo schiacciato dal clima da inquisizione per realizzarlo. “Allora troviamoli! Io e te!” Non si sarebbe arreso. E se doveva essere onesto, non era solo per aiutare il tedesco a scrollarsi di dosso le accuse.
Ma anche per aiutare me stesso e il mio dannato cognome.
Ama lo prese in contropiede puntandogli un dito al petto. “Io, te … e quale altro civile illegalmente coinvolto?”
Ehm, giusto.
“Devi ammetterlo, abbiamo avuto ottime hint dal mondo civile … Magari anche stavolta ci potrebbero aiutare!”
“No.”
“Sai che non dipende interamente da noi.”
“Vi odio.” Si sorrisero. “Sono seria Malfoy, questo posto è assurdo. Non vedo l’ora di tornare a Boston.”
“Vorremo tutti tornare alla normalità, credimi.” Esitò. “Dovremo dirlo a Sören? Dei sospetti?”
Ama era ancor meno convinta di lui. “Non è stupido, deve averlo capito.” Disse. “Ha già affrontato abbastanza in queste ultime settimane … Lasciamolo in pace. Almeno per ora.”


****


Kent, Scogliere di Dover.
Ora di pranzo.

C’era sempre qualcosa di magico nelle vacanze che duravano una giornata.
Era un’interruzione breve, mirata, eppure, proprio perché durava una manciata di ore, riusciva ad esser più magica che un’intera villeggiatura lontano da casa.
A Lily erano sempre piaciute le fughe da Londra, per quanto amasse quella metropoli che aveva imparato a considerare come casa sua. Al tempo di Hogwarts aveva rischiato di farsi espellere per quella sua mania di volare verso nuovi orizzonti.
Ne andava pazza.
Scappare assieme a Sören era stato quindi doveroso, qualcosa da fare il prima possibile. Quindi, appena era riuscita a liberarsi degli impegni presi al San Mungo avevano preso in prestito la macchina di Roxanne e Dionis – i quali li avevano accolti con l’aria compiaciuta di chi aveva scommesso su di loro e aveva vinto– e si erano diretti verso il Kent, sorvolandolo tra sprazzi di nubi e brevi scrosci di pioggia.
Non un tempo perfetto, forse, ma Lily se l’era goduto comunque, con la musica della radio ad alto volume e l’espressione rilassata del proprio ragazzo a farvi da contrappunto. Soprattutto, si era goduta i baci che si era sporta a dare, facendosi bacchettare per mancare di attenzione alla guida.

This is not the future but I sense it’s right up there
oh, just another hour, another pass, another day anywhere


Si vedeva che Sören non era abituato: non tanto a viaggiare su una macchina volante, quanto piuttosto a prendersi una giornata di pausa, lontano da tutto e tutti.
Non siamo qui per questo?
Non era abituato a fare il turista, e l’espressione che gli si era dipinta in volto quando avevano bucato le nubi per vedere le scogliere era stata impagabile. L’aveva preso in giro, chiedendogli perché non si fosse portato dietro una macchina fotografica se lo spettacolo gli piaceva tanto, ed era stata quasi Schiantata da uno dei suoi sorrisi disarmanti – tali perché pareva non essere in grado di farli.
“Non ne ho bisogno, non mi scorderò questa giornata finchè vivrò.”
E Lily gli credeva: perché le prime volte non si dimenticano mai.
Arrivati, avevano abbandonato la macchina in un parcheggio come due Babbani e come tali si erano comportanti anche durante la passeggiata di quasi un’ora per il faro di South Foreland, punta estrema della scogliera.
Grazie alle gite con Rose, Hugo e i loro nonni, sin da bambina si era abituata ad amare quei panorami da magone e della vegetazione brula, essenziale e coraggiosa, ma mostrarli a Sören e spiegarglieli con la mano intrecciata alla sua era stata tutt’altra cosa.
Il mondo è bello ed io ho l’uomo che voglio accanto. Bacchetta o meno. Questo lo capiscono tutti, vero?
Lo capivano. Tutto l’universo capiva. Era fantastico.
La passeggiata si era conclusa di fronte al faro bianco e tozzo; si erano così seduti sull’erba gialla d’estate, un po’ distanti dal resto dei turisti e il pic-nic era finalmente iniziato.
Sören, che era adesso steso sulla coperta, nascose uno sbadiglio in una mano. “Se avessi dovuto scommettere dei Galeoni sulla tua capacità di cucinare, temo avrei perso tutta la mia fortuna.” Decretò.
Lily gli lanciò uno dei cuscini che aveva fatto emergere dalla sua, apparentemente vuota, borsetta. L’Incantesimo di Estensione Irriconoscibile non gli era mai stato così utile. “Sei proprio carino!”
L’altro parò il colpo con un sorriso divertito e sazio.“Non mi avevi detto che fossi in grado di cucinare, anzi, piuttosto millantavi il contrario.”
Mise il broncio tanto per tenere la posizione. “Infatti non mi piace mettermi ai fornelli … ma questi sono sandwich e poco altro!”
Sören le prese una mano per baciarle la punta delle dita intrecciandola poi alla sua e fu dura non sciogliersi. “Dovresti prenderlo come un complimento, mia Lilian.”
Agh, non chiamarmi in quel modo con quell’accento. Criminale, è criminale! 
Gli restituì una linguaccia perché era una strega tutta di un pezzo. “Non avevo idea di che pozzo senza fondo fossi!”
Sören fece spallucce. “Solo con le cose che mi piacciono. A proposito, come facevi a conoscerle?”
“Segreto!” Finì il suo succo di zucca in un sorso soddisfatto. Nonna Molly chiocciava soddisfatta dentro la sua testa, ma lei era semplicemente contenta di averlo visto mangiare con gusto, quindi al diavolo l’apparire una perfetta donnina di casa. “No, dai, l’ho chiesto a Milo un po’ di tempo fa.” Aggiunse notando la sua confusione. “Era da tanto che volevo organizzare questa cosa.”
Sören smise di strappare dei fili d’erba secchi per guardarla stupito. “Anche come amica?”
“Certo!” Rispose piccata. “Eri tu che trovavi scuse su scuse per non uscire con me! E il lavoro, e il mio ragazzo … e le tue menate mentali…”
Sören aggrottò le sopracciglia come se ci stesse riflettendo sopra. “È vero, non avevo voglia di uscire con te.” La stava prendendo in giro ma era così carino vederlo in quella veste che non aveva proprio la forza di arrabbiarsi. “Perché non avrei potuto comportarmi come volevo.”
“Cioè?”
“Te lo dimostro.”
Soffocò un gridolino misto a risata quando l’altro si voltò, l’afferrò facendola cadere sui cuscini e la baciò appassionatamente.

Se cinque anni prima qualcuno gli avesse raccontato che i suoi vent’anni sarebbero stati anche baciare su una coperta patchwork una strega bellissima mentre alle sue spalle c’era sole, scogliere bianche e mare, quasi fossero in una cartolina idilliaca … avrebbe affatturato l’incosciente messaggero.
Ora invece ci credeva. Perché le labbra che lo baciavano erano vere, ed appartenevano a Lily, così come era reale il vento che gli si infilava sotto la camicia o il profumo di succo di zucca che sentiva sulla lingua.
Era tutto vero. E avrebbe lottato con le unghie e coi denti perché non smettesse di esserlo.
“Stiamo dando spettacolo?” Sussurò Lily al suo orecchio, facendogli alzare la testa imbarazzato. Quando era in sua compagnia si scordava fin troppo spesso che non erano i soli abitanti di quelle isole.
Si tranquillizzò quando vide che non c’era nessuno: i turisti si tenevano ben lontani dal loro nido di cuscini e vettovaglie dopo che Lily vi aveva lanciato un Repello Babbanum.
Io non posso farlo. Potrei … ma meglio non attirare l’attenzione del Ministero con incantesimi ambigui.
Si distesero e Lily gli si accocolò contro come un animaletto soddisfatto. “Ricordami di lasciare qualcosa per i ragazzi della scorta.” Gli disse giocherellando con un bottone della sua camicia. “Sono stati così carini a lasciarci soli!”
“Credo che più della bontà d’animo c’entri la sala da the del faro.” 
“Comunque!” Ribattè Lily. “Sai che ho un debole per gli uomini in uniforme.” Soggiunse con aria sbarazzina. “Mi fanno proprio girare la testa!”
Resse il gioco: essere gelosi delle sparate scherzose di Lily equivaleva ad insultarla. “Spero anche in borghese.”
Sopratutto in borghese.”
Non aveva mai considerato la pigrizia un pregio, tutt’altro; sin da bambino gli era stato insegnato a non indulgervi, mai, per nessun motivo. L’accidia era la tomba del soldato. Eppure, baciandosi con calma, con la pancia piena e la testa leggera, non gli sembrava poi così tremenda. Anzi.
La poteva quasi rivalutare.
Anche grazie a quella deriva di pensieri appoggiare la testa sulle ginocchia di Lily, che voleva alzarsi a sedere per godersi un po’ il panorama, non gli diede alcun problema.
“Che buffo…” La sentì dire dopo un po’ che gli accarezzava i capelli.
“Cosa?” Stava per addormentarsi e non gli importava granchè, ma era cortese fingere interesse.
“Hai una voglia dietro l’orecchio, non l’avevo notata prima.”
“Di solito guardi dietro le orecchie della gente?” Le rispose facendola ridacchiare.
“No, ma dopo ieri notte dovrei conoscerti a menadito. Proprio tutto.” Sören aprì gli occhi per specchiarsi in un ghigno che faceva a pugni con la sua aria da bambolina. Eppure, proprio per questo, era da lei. “Lo sai perché si chiamano voglie?”
Scosse la testa, perché altri cinque minuti e si sarebbe addormentato. Una storia calzava alla perfezione. “Raccontamelo.”
“Non è una storia vera e propria in realtà, ma si dice che appaiono per una voglia insoddisfatta della madre … chessò, vuoi mangiare le fragole mentre sei incinta e non lo fai? Al bambino viene fuori una macchia rosa!”

Sören non era per niente bravo a fingere. Era bravo ad impersonare un ruolo, quello sì, e purtroppo l’aveva dimostrato sia nel bene che nel male, ma quando era se stesso era un pessimo bugiardo.
Cos’ho detto di sbagliato?
Perché gli si irrigidì tra le braccia per poi alzarsi a sedere, lontano dalle sue carezze. “Ah sì?” Disse a bassa voce. “Mi chiedo che voglie non abbia potuto togliersi mia madre.”
Oh, merda.
Si sarebbe data uno schiaffo da sola. “È solo una superstizione, non credo sia vero.” Tentò con un mezzo sorriso. “In realtà sono solo imperfezioni della pelle, come i nei e le lentiggini.”
Sören non le rispose, ma con la mano cercò il pacchetto di sigarette: aveva notato che lo faceva spesso quando si innervosiva, forse per tenere le mani occupate in un gesto meccanico ed innocuo.
Per gli altri, non per lui.
Lo abbracciò da dietro, tenendogli così ferma le braccia. “Vorrei che non fumassi.” Gli diede un bacio su quella voglia e sul collo bollente. Si era arrabbiato ed era tutta colpa sua. “Non mi piace il sapore quando mi baci.” Questo ammorbidì un po’ il pezzo di legno in cui si era trasformato. “Scusami, non volevo farti pensare a cose brutte. Sono una scema.”
“Non sono arrabbiato con te.” Non lo era, ma si era rabbuiato da morire. “È che … non mi piace l’idea che mi abbia lasciato qualcosa addosso.” Fece una smorfia. “Anche se è stupido, visto che è mia madre, e metà di me appartiene comunque a lei e ai Von Hohenheim.”
“Non sei suo perché nelle vene scorre parte del suo sangue.” Sören pareva apprezzare quell’abbraccio, da come vi si era rilassato, quindi non lo sciolse. “Tom è stato adottato dalla famiglia del cugino di mio papà e chiama mamma zia Robin … ed è sua mamma. Dare alla luce qualcuno è … partorire, tutto lì.”
Sören non rispose. “Mi hanno detto che non mangia da quando l’hanno catturata.” Disse dopo un po’. “Me l’hanno detto i ragazzi della scorta … Credevano di farmi un favore ad informarmi, forse perché immaginano che mi interessi.”
Certo che ti interessa, Ren. O non me avresti parlato.
“Per me è un’estranea.” Si girò l’anello attorno al dito, una, due volte. Gli aveva chiesto di non fumare, ma quelle mani non poteva davvero tenerle ferme. “Se vuole lasciarsi morire in attesa di Johannes io non posso farci niente.”
Lily sospirò, affondandogli il viso sulla spalla. Non riusciva ad immaginare cosa si potesse provare ad avere una madre che non faceva la mamma, come Ginny lo era per lei.
Doveva essere orribile.
“Vuoi vederla?”

Sören avrebbe voluto gridare che no, non aveva intenzione di andare a trovare una donna che l’aveva abbandonato nelle mani di un mostro per scappare con l’amante, che non gli interessava la sua fine e che si sarebbe meritata di sprofondare nell’oblio come suo fratello e tutta quella maledetta Casata di pazzi.
Ma Lily, come al solito, aveva centrato il punto.
“Non lo so.” Ammise. “… la odio. Non vorrei averci niente a che fare, ma … è qui. Ed è mia madre, e si sta lasciando morire di fame.”
Lily lo abbracciò ancora più stretto. “Sei un bravo ragazzo.” Mormorò. “Sei buono, sei una bravissima persona. E lei non si merita la tua pietà.”
Sorrise appena. “Questo non cambia la situazione. Devo farlo, vero?”
Scosse la testa, e ciocche libere di capelli rossi gli piovvero sulle spalle. “Devi fare quello che ti fa stare bene.”
Ne prese una e se la arrotolò attorno ad un dito. “Dimenticare tutto mi farebbe stare bene.” Si voltò per accarezzarle la guancia. “Ma significherebbe dimenticarmi anche di te, di Milo e di questi cinque anni. A questo, preferisco mille volte mia madre.”


****

Scozia, Hogsmeade.
Casa di Ted Lupin e James Potter.

James!
James conosceva quel tono di voce: gli ricordava l’infanzia e un certo inflessibile adolescente che doveva badare a lui.
Con la propria Nimbus Thunderbolt - ultima nata della famiglia Whitehorn, suo orgoglio e destriero - planò dolcemente in giardino, evitando accuratamente i fiori piantati un po’ ovunque: non era facile tener dietro alla caotica passione di Ted per la botanica.
Il suddetto marciò fino a lui, la scopa e la piccola Ben che rideva entusiasta per il piccolo volo sopra il villaggio. “Cosa pensavi di fare?” Lo apostrofò come la chioccia che era. Chioccia con capelli color fiamme e l’espressione incazzata, c’era da dire. “Tu sei convalescente e lei non è mai salita su una scopa!”
Io sono anche un ex Cacciatore della squadra scolastica migliore del mondo e so come si vola.” Ribattè mentre faceva scendere la piccolina. “E Benny è stata buonissima lassù. Ti è piaciuto, vero pulce?”
La bambina ebbe il buonsenso di annuire e sfoderare uno dei suoi sorrisi disarmanti. “Sì, Teddy, è bello sù! Voglio imparare io anche!”
Ted non potè fare a meno di rispondere al sorriso, tirandosela contro come se avesse paura che il cielo potesse rapirgliela. “Si dice voglio imparare anch’io, Benedetta.”
Gli abbracciò una gamba fissandoli cocciuta. “Uguale! Io voglio!”
Sospirò e gli si rivolse. “La prossima volta falle almeno mettere un casco.”
James roteò gli occhi al cielo, ma preferì lasciar perdere. In fondo, con Albus e Lily non si era comportato diversamente anni prima.
Con me no. Ero una battaglia persa. Si faceva venire un infarto e basta.
Smontò quindi dalla scopa e se la mise sulla spalla, strappando con le dita qualche filamento di saggina già rotto. “Le viene naturale stare in aria … Secondo me tra un paio d’anni potrebbe far mangiare la polvere a Ced e Frankie.”
Ted lo guardò come se stesse contemplando l’opzione di darlo in pasto ad una creatura della Foresta. Lo amava troppo, ma la tentazione era forte. “Dobbiamo proprio farla salire su una scopa?”
“Andiamo! È tradizione per i membri della famiglia Potter. Meno Lils, a lei volare ha sempre fatto schifo.” Scosse la testa, perché non se ne sarebbe mai capacitato.
Fu sorpreso quando l’altro, invece di inveire contro quella che era una vera e propria mania sportiva si sporse per baciarlo. E bene, anche.
Non era così scemo da rifiutare l’offerta di pace, seppur inspiegabile, e solo il suono schifato di Ben – che come ogni mocciosa che si rispettava aveva in odio quel genere di effusioni – li riportò sulla terra.
Bleah!” Li castigò. “Siete come Nev e Hannah! Sempre baci!”
Ted diventò dello stesso colore dello stendardo di Grifondoro – una gran bella tonalità di rosso –mentre lui le rispose con una linguaccia; abbassarsi al suo livello era la cosa che più lo divertiva fare.
E poi, cavolo, ha detto una bella cosa. Ci ha paragonato ad una coppia sposata, ed etero! 
Avevano tentato piano piano di comportarsi normalmente davanti a lei e i risultati erano stati ottimi: Ben non vedeva la minima differenza tra loro e i Paciock. Li considerava entrambi coppie che si sbaciucchiavano troppo.
Io e Teddy ci siamo fatti troppe seghe mentali. I mocciosi vanno al sodo, Merlino li benedica.
“Quando crescerai non farai che baciare la persona che ti piace, nana. Allora verrò da te e…” Mollò la scopa a terra e la acchiappò da sotto le braccia per farla dondolare in aria. “… verrò a farti le boccacce!”
Ted sorrise dando loro spago. “Guarda che lo farebbe veramente Benedetta, sta’ attenta.”
L’interpellata sghignazzò, afferrando i capelli di James con le manine fin troppo prensili. “Jamie è una peste!” Trillò deliziata, sia dall’insultarlo, sia dalla parola in sé. “Peste!”
“Ci puoi giurare, sempre e comunque!” Se la caricò di traverso sulle spalle, perché lei rideva e Ted lo guardava come se fosse il suo eroe personale. 
“Fai piano, Jamie è convalescente, ti ricordi? Non vogliamo fargli male alla testa.” Le rammentò, districando le ditina dalla sua povera capigliatura. Avrebbe dovuto prendere esempio da Teddy e tosarsi a dovere, almeno per l’estate e finchè Benedetta non avesse imparato a non tirare. 
No-o.” Cantilenò annoiata, smettendo però di colpo di scalciare come un Centauro incazzato. Si bloccò anche, fiutando l’aria. “C’è Flynn!” Esclamò di botto, anche se sul vialetto non si vedeva nessuno. “C’è lei!” Insistè alla loro perplessità.
In effetti qualche attimo dopo dallo stradello apparve la figura dinoccolata della responsabile dell’Ufficio Mannari. “Ehilà!” Salutò con un cenno della testa. “Tutta la famiglia al completo vedo!”
“Cavolo, che fiuto!” Commentò a beneficio di Ted che si strinse nelle spalle. Si era un po’ irrigidito, come ogni volta che la funzionaria veniva a trovarli.
Oggi è il giorno della visita di controllo del Ministero?
Non gli risultava, e non doveva neanche al compagno da come i capelli gli stavano virando verso il verdolino marcio.
Allarme tricotico!
“Buongiorno Flynn.” Rispose quest’ultimo aprendo il cancello per farla passare. “Qual buon vento?”
Già, che ci fai qua?
Non che la tizia gli stesse antipatica. Anzi, per gli standard degli imbrattacarte del Ministero era in gamba, molto più simile a zio Bill e Dominique che a gente come zio Percy. 
Gli poteva pur star simpatica, ma non se si avvicinava a Ted ed esordiva con: “Ti devo parlare.”
“Andiamo dentro.” Rispose il compagno lanciandogli un’occhiata che riassumeva esattamente cosa sperava facesse.
Non sono scemo.
“Ehi pulce, andiamo a mettere a posto la scopa? Ti faccio vedere come si fa manutenzione … Se ne vuoi una, devi imparare anche a curarla!”

“È bravo con lei.”
Ted ci mise qualche attimo a registrare la frase della strega, troppo preso a riempire il bollitore e controllare l’ansia. “James? Sì è … è fantastico.” Confermò con un cenno della testa, accendendo il fornello con un colpo di bacchetta. “Si adorano.”
“Si vede.” Flynn stese i piedi sotto al tavolo. “Ehi bellezza, vuoi rilassarti mezzo secondo e sederti qui con me?”
“Il the…”
“Il the mi fa schifo ed è la quarta volta che te lo dico da quando vengo qui.” Rispose con un sorriso paziente. “Su, forza, non ti mangio.”
“Non sei tu che mi preoccupi.” Ammise. “Ma le notizie che mi porti. Non devono essere buone … Il Ministero ha cambiato idea? Vuole ritirare l’affido?”
Flynn si grattò un sopracciglio con una smorfia. “Certo che tu pensi sempre al peggio, eh? No, niente del genere. L’ufficio Minori non fa che sbrodolare lodi sul vostro ambiente familiare. Probabilmente vi affideranno altri cinquanta marmocchi bisognosi entro la fine dell’anno.”
“Allora cosa?” L’avrebbe strozzata se non avesse parlato.
“Ti ricordi la Riserva? Moscardo, gli altri?” Non aspettò che annuisse, tanto sapevano entrambi che non se la sarebbe scordata finchè avesse avuto vita. Era lì che aveva scoperto di avere un fratello e una nipote dopotutto. “Per farla breve, hanno saputo di Benedetta.”
Aggrottò le sopracciglia. Non capiva dove volesse arrivare. “Non sono tagliati fuori dal mondo? Chi glielo ha detto?”
Flynn si passò una mano trai capelli corti. “Io, l’ultima volta che ci sono stata. Moscardo mi ha chiesto della piccoletta. Era preoccupato potesse esserle successo qualcosa perché l’avevano cacciata via con suo padre … ed io gliel’ho detto. È un brav’uomo, Moscardo.”
“Perdonami.” La fermò senza volersi scusare. Non gliene importava niente: con Ben nella sua vita aveva imparato a esser meno gentile. E non era una cosa poi del tutto negativa. “Non ti seguo.”
La ragazza pareva sedersi su un cuscino irto di spine. Si sentiva in colpa, registrò. Ma per cosa? “Moscardo … beh, ha vuotato il sacco con Vulneraria, il capo-branco. Gli ha anche detto che Benedetta è una Mannara, e che si erano sbagliati a giudicarla, che non l’avevano annusata bene. Credo che l’abbia fatto per aiutarla, però…”
“Però cosa?” Era il suo tono, o forse la sua espressione perché Flynn adesso sembrava quasi spaventata. Oh, faceva bene: se fosse stato uno di quei lupi avrebbe tirato fuori i denti. “Cosa vogliono dalla mia bambina?”
“Vulneraria vuole adottarla.” Disse di colpo. “Vuole che entri nel branco e che viva nella Riserva. Hanno già fatto richiesta al mio ufficio e a quello del Wizengamot. Ted, mi dispiace, non avevo idea che l’avrebbero voluta indietro, ma le bambine hanno un grosso valore per loro, le ultime cucciolate sono state quasi tutte di maschi… Lunastorta non l’aveva capito e l’aveva vestita come un bambino. Se non l’avesse fatto forse li avrebbero accolti.”
Ted si impose di non scattare in piedi o fare gesti inconsulti. Si limitò, molto lentamente, a stringere i pugni sotto il tavolo. “Non può prendersela. Non ha alcun diritto, io sono suo zio e lei non è…”
… non è destinata a aiutare il branco a riprodursi.
La sola idea gli mandava il sangue al cervello e anche se si rendeva conto che Flynn non c’entrava nulla, che aveva solo rassicurato un vecchio impiccione …
Avrebbe voluto prenderla di peso e scaraventarla nel camino, buttarle addosso della Polvere Volante e farla tornare nel suo buco pieno di scartoffie, lontano dalla sua famiglia.
“È la stessa cosa che gli ho detto io, che i legami di sangue, per la legge, valgono sopra a quelli di specie. Però c’è un problema. Vulneraria è il bisnonno.”

****

Londra, Notturn Alley.
Pomeriggio.

Milo si buttò il borsone sulle spalle, chiudendo la porta cigolante della camera che aveva preso in affitto per due giorni di bevute e sghignazzate tristi a Notturn Alley; erano state le quarantotto ore più miserabili della sua vita.
Con le mani ficcate in tasca e il vecchio berretto calcato in testa – come un Magonò qualsiasi, come un poveraccio in cerca di fortuna – riepilogò quanto gli restava nel conto che aveva alla Banca Magica di Boston, e quanto doveva aggiungervi per i mesi che aveva passato a Londra. Aveva abbastanza denaro per poter girare l’America per un paio di mesi, prima di cercare una città in cui fermarsi e tirare i remi in barca. Gli avevano parlato bene di San Francisco.
Pieno di erba e di froci. Il posto ideale!
Era contento di aver saldato i conti con Sören prima di partire, era una roba che gli avrebbe bruciato dentro altrimenti. Ora che le cose erano a posto avrebbe persino potuto pensare di andarlo a trovare a Natale, dato che quello era un periodo dell'anno merdoso per entrambi.
Non quest’anno, bello. Se non fa cagate si troverà con una fidanzata con cui festeggiare. Magari manco a Boston.
Tirò una manata alla portone di ingresso, più per rabbia che per reale necessità. 
Di certo qui a Londra non ci torno manco morto.
Infilandosi per la stretta via che portava a Diagon Alley realizzò che avrebbe anche potuto andarsene subito, dato che non gli andava di rimanere in compagnia della coppietta: augurava loro ogni bene, ma avrebbe fatto troppo male stare a guardarli mentre erano felici.
Ora come ora, sei il terzo incomodo.
Sören non aveva più bisogno di lui.
In effetti me ne posso anche andare seduta stante. Tutto quello che dovrei fare sarebbe aspettare un passaggio. Le Passaporte per l’America ci sono … e i soldi per prenderne una li ho.
Aveva il borsone con sé, la sua toelette, cambio sufficiente per un paio di giorni e un taccuino per appuntare scampoli di musica che ogni tanto gli venivano in mente, composizioni non impegnative, qualche scherzo – anche se dopo che Michel gli aveva dato il benservito dentro la sua testa era arrivato il deserto.
Ingobbì le spalle per ripararsi da quel pensiero schifoso: sì, aveva tutto, sarebbe solo passato dall’albergo per recuperare il violino e poi sarebbe sparito all’orizzonte senza lasciare traccia. Non appena si sarebbe sistemato da qualche parte si sarebbe fatto spedire il resto della roba, quella che aveva lasciato nella sua stanza di Boston.
Potrei anche cambiare nome. L’ho fatto una volta, posso farlo ancora.
Persino Milo Meinster ormai aveva troppo bagaglio con cui confrontarsi.
Meglio farlo morire. Come Emil.
Così preso a rimuginare fece appena in tempo ad accorgersi che Figgins e un paio della sua banda venivano nella direzione opposta della viuzza. Diede loro le spalle, fingendo improvviso interesse nella mercanzia stesa a terra di una vecchia strega: non che si fossero lasciati in cattivi termini, la sua musica aveva sollazzato quella banda di disgraziati a lungo, ma preferiva evitare di essere trascinato nelle loro faccende ora che aveva deciso di partire.
Mister!” La zampa di Figgins lo afferrò senza che potesse evitarlo. Era stato un idiota: nonostante il suo goffo camuffamento l’altro doveva aver riconosciuto il borsone.
“Ehi Figg.” Lo salutò con un mezzo sorriso. “In giro?”
“Ai ragazzi fa bene fare un po’ di moto. Hanno sempre il culo incollato alle sedie del pub!” Lo trascinò via dalla vecchia mentre i ragazzi in questione si guardavano attorno: era strana quella loro passeggiata, assomigliava più ad una ronda.
“Com’è che i due bestioni sono in assetto da guerra?”
Non che volesse davvero saperlo, era solo per prender tempo e cercare una scusa per smarcarsi. L’altro ragazzo però sembrava non aver la minima intenzione di mollare la presa sulla sua spalla.  Gli diede uno schiaffetto sulla guancia. “Niente che la tua preziosa testolina d’artista debba sapere. Vieni a farti un goccio al Goose, oggi è una buona giornata, abbiamo bisogno di musica per festeggiare.” Offrì con uno dei suoi sorrisi da pescecane.
Merda. Non me ne libero.
“Magari un’altra volta … sono un po’ di fretta.”
Figgins lo scrutò da capo a piedi. “Il nostro musicista ci lascia?” Colpì nel segno. 
I due energumeni di scorta gli stavano ancora sbarrando la strada e Diagon Alley era sempre più lontana, così  si apprestò a indulgere in chiacchiere che avrebbe invece voluto evitare. “Cambio aria. Nulla contro la vostra isola, ma sono un girovago … dopo un po’, i posti mi stanno stretti.”
L’inglese schioccò la lingua con riprovazione. “Non capirò mai quelli come te, biondo. Le radici ti fanno restare vivo, cazzo, senza quelle, sei una cartaccia nel vento.” Sembrava sinceramente dispiaciuto. “Tu e il tuo maghetto ve ne andate?”
Maghetto … Ah, parla di Sören.
“No, lui resta.”
Gli diede una pacca sulla spalla, nelle sue intenzioni forse consolatoria. Gli sembrò gli avesse stretto un paio di manette ai polsi. “In rotta, eh? Mi hanno detto che ti ha fatto una bella scenata ieri sera. Che ti avevo detto? Di quelle palle mosce non c’è da fidarsi. Agitatano una bacchetta ma non sanno neanche pulirsi il culo se non ce l’hanno appresso. Bisogna stare in famiglia per stare bene.”
“Hai ragione.” Disse neutro.
“Allora perché non resti con noi? Il vecchio Figg si preoccuperà che nessun mago venga a romperti le palle. Sarai il mio musico o roba del genere, ah?”
Milo sorrise, perché con la sua faccia da criminale incallito, la sua passione per le puttane e la fedina penale sporca come fumo, Danny Figgins gli aveva fatto un’offerta più onesta e concreta di quella di Zabini. Ma no, la sola idea di chiudersi in quel buco con i suoi simili gli levava il respiro.
La triste verità: non vado bene per nessuno dei mondi a cui appartengo e sono appartenuto. A questo punto, vediamo come va con i Babbani.
Scosse la testa. “Grazie per l’offerta, ma è ora che me ne vada.” Disse con tono definitivo.
Figgins si strinse nelle spalle. “Se fossi stato qualcun altro ti avrei fatto restare, Mister, non te lo nascondo. Non è male aver qualcuno con cui parlare senza doversi abbassare al livello delle scimmie. Oltretutto, eri diventato la nostra mascotte. Ma ho come l’impressione che se cercassi di tenerti fermo, mi scapparesti come sabbia tra le mani. Una fatica inutile.”
Milo sogghignò grato. “Non pensavo di piacerti tanto, Danny.”
“Hai l’attrezzatura sbagliata, biondo.” Replicò con lo stesso ghigno. “Non ti fai neanche un ultimo bicchiere di addio con i ragazzi? Shad non ti perdonerebbe mai se non lo salutassi prima di levare le tende.”
Anche se era stato detto con tono amichevole era piuttosto sicuro che quell’offerta non fosse declinabile come le precedenti. E comunque, Londra valeva almeno un brindisi d’addio. “Sicuro.”
“Prendigli il borsone.” Ordinò ad uno dei due energumeni che si erano quietamente messi da parte come un paio d’armi scariche. “Sia mai che ci scappi.”
Si apprestò a rispondergli a tono quando un gran rumore di voci e passi affrettati arrivò loro alle spalle; Figgins lo tirò indietro pochi attimi prima che due auror li travolgessero. “Fanculo!” Disse a denti stretti. “Sempre trai coglioni, con le loro cazzo di retate!”
Milo non rispose, pregando che quegli agenti non cercassero davvero la gente di Figgins, o sarebbe finito in una cella del Ministero a far loro compagnia. 
Non ebbe il tempo di preoccuparsi però che la terra prese a tremare. A tremare sul serio, come se fosse un fottuto terremoto.
Ci sono terremoti a Londra? In Inghilterra?!
Voleva chiederlo all’altro ma anche lì, mancò di tempismo. L’intera strada esplose.

****


Note:

E anche qui, siamo alla fine! E' un capitolo un po' patchwork secondo me, ci ho messo varia roba.
Qui la canzone del capitolo.
Nota di colore; se volete sapere qualcosa sulla scopa di James, me la sono inventata di sana pianta. Esiste però l'azienda che produce le Nimbus, e il proprietario è un tizio di nome Whitehorn. Ho supposto che la Nimbus abbia continuato a produrre modelli. E quello di James, ovviamente, è l'ultimo della gamma. :P
Ho pubblicato dal Mac quindi fatemi sapere se ci sono problemi con la formattazione: NVU non è supportato qui, quindi ho scaricato il suo fratellino KompoZer.

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Capitolo 47
*** Capitolo XLVI ***


Capitolo da Pub
Capitolo XLVI






You keep watching from your picket fence

You say we're not responsible, but we are
(We Are, Ana Johnsonn)


Londra, Notturn Alley.
Pomeriggio.

Era la seconda volta in quella giornata che si risvegliava sperando di essere morto: un vero record.
Milo aprì gli occhi, sentendo la bocca sporca di calce e dolore ovunque e solo per abitudine riuscì ad alzarsi a sedere.
Cosa diavolo è successo?
Si trovava sulla scena della caduta di qualche meteorite galattico o ancor peggio, di un'esplosione, perché non vedeva oltre il proprio naso: la strada era infatti coperta di fitto pulviscolo grigio.
C'era Figgins, degli auror erano appena passati ... il terremoto.
Il terremoto!
C’era stato, nessuno poteva convincerlo del contrario. Si passò la lingua sulle labbra secche e si tirò in piedi. La caduta si fece sentire tutta, di colpo, facendolo ondeggiare come se fosse sul ponte di una nave. Incespicò su qualcosa e questa emise un lamento.
Non una cosa ... una persona!
Che poteva esser riassunta in una fiammata di capelli arancioni, ora sbiaditi dalla polvere e uno scampo di kilt sotto le macerie. "Danny!" Lo chiamò, scavando tra calcinacci e legno. Riuscì ad afferrarlo da sotto le ascelle per tirarlo in piedi mentre questo, ora sveglio, imprecava e tossiva in ugual misura. "Stai bene?"
"Mai stato meglio, cazzo." Ringhiò dandosi generose pacche al kilt impolverato. Si guardò poi attorno, contemplando lo stesso scenario di desolazione incomprensibile; la strada e i palazzi erano ancora in piedi, ma tutto quello che c'era in mezzo era stato spazzato via o mandato gambe all’aria. "Un incantesimo." Decretò smontando la sua teoria. "Questi stronzi di auror..." Soggiunse, mentre attorno a loro si muovevano corpi instupiditi e cominciavano i primi lamenti.
"Sembrava più una bomba." Commentò cercando il suo borsone nel trambusto. Lo trovò qualche metro più in là, per fortuna ancora integro anche se debitamente strapazzato.
Meno male non avevo il violino con me.
"È roba di maghi, te lo dico io! Avranno fatto qualche casino giù al mercato. Il mio vecchio mi raccontava sempre che facevano esplodere la vecchia Notturn almeno una volta a settimana dopo la seconda guerra, quando cacciavano Mangiamorte." Ribadì sputando a terra con aria disgustata. "Merda, sembra abbia masticato un muro. Dammi una sigaretta, va’."  Ottenutala cercò con lo sguardo le due guardie del corpo e fece loro cenno di avvicinarsi. "Andiamo a vedere se il Goose è ancora in piedi." Gli lanciò un'occhiata. "Vieni?"
Andarsene gli sembrava una splendida idea, ma era pur vero che aveva una nausea tremenda e l'impressione di reggersi in piedi a stento. Esser stato shackerato a quel modo non aveva giovato al suo povero fisico, già abbondantemente maltrattato da sbronze e risse con maghi irosi: sedersi su uno sgabello con una birra davanti l'avrebbe aiutato. "Arrivo."
A quel punto, che altro poteva succedere?
Passarono raso muro ignorando le persone stese a terra, e le urla distanti degli auror. A Milo quell’atmosfera non piaceva: c’era qualcosa di strano, di non risolto che aleggiava nell’aria e non doveva essere l’unico a percepirlo. La schiena contratta di Figgins e le facce scure dei suoi scagnozzi erano una buona indicazione. “Dovremo chiamare il San Mungo.” Borbottò, perché c’era gente che palesemente non riusciva ad alzarsi e non era una cosa buona, per niente.
“Ci penseranno gli auror … o qualcun altro.” Scosse la testa l’altro, lanciandogli poi un’occhiata perplessa. “Che ti frega, tanto sono maghi!”
In quel momento capì cosa Sören aveva cercato di dirgli quando quella mattina gli aveva detto di non essere come Zabini. Era stato così preso a piangersi addosso, in quei giorni, che aveva dimenticato cosa aveva imparato in quei cinque anni.
Gli stronzi son di tutte le razze ed estrazioni sociali.
“Se qualcuno di loro crepa, ci fanno solo un favore.” Continuò e stavolta Milo non poté rimanere in silenzio.
“Sono persone anche loro!” Rispose tirando fuori il cellulare e sperando che avesse abbastanza linea da poter chiamare Sören: non poteva certo mandare un Gufo o un Patronus.
L’altro ragazzo lo guardò storto. Doveva immaginarsi che l’avrebbe presa sul personale. “C’è gente al Goose che ha bisogno di noi più di questi stronzi.”
“Allora va’ avanti, ti raggiungo.” Non si fece intimidire, anche se erano uno contro tre.
Mezzo, visto come sto.
Figgins non gli diede il tempo di chiamare che gli afferrò il cellulare lanciandolo alle sue spalle. “Da che parte stai?”
Oh cazzo. Ancora?
Era stufo. Era stufo di dover per forza appartenere ad una categoria. Era stufo perché quel genere di discorsi del cazzo gli avevano fatto perdere Michel.
Perché sì, il maghetto era stato un bastardo, ma lui era del tutto innocente?
Vedendo il viso furioso dell’altro si rivide allo specchio quando Michel, in quella camera da letto che aveva imparato a chiamare loro, gli aveva chiesto di aiutarlo a prendere una decisione.
Ed io ho risposto proprio come avrebbe fatto un Magonò qualunque.
Ma non lo sono. Sono Emil Von Houten. Sono Milo Meinster.  
E cazzo, sono migliore di così.
“Quello me lo ripaghi?” Ribatté. 
“Non fare il coglione!”
Tu non fare il coglione.” Fece un passo indietro, lontano dai tre. “Non mi puoi impedire di aiutare questa gente.”
Figgins sputò a terra. “Lo sapevo che non dovevo fidarmi di te! Cos’è, quel maghetto che ti scopavi ti ha fatto il lavaggio del cervello? Credi che le bacchette adesso siano la tua famiglia?”
Non gli pareva il momento adatto per uno scontro di classe o per precisare che non era Sören quello con cui era andato a letto, ma del resto, quando mai le cose andavano come voleva? “Non credo proprio niente. Non appartengo a nessuno. Né ai maghi, né a te.”
“Sarai un Magonò fino alla tomba, non te lo puoi lavare via di dosso!”
Non aveva proprio capito. Ma quelli come Figgins non capivano mai. Era questo il loro problema … o la loro benedizione.
Di certo, vivono meglio del sottoscritto.
“Vattene al Goose, Danny … e lasciami in pace.”
Avrebbe dovuto immaginarsi che dargli le spalle era un’idea del cazzo, ma non ci pensò. Non subito almeno: quando si sferrare un pugno in piena faccia però sì, eccome.
Fece il suo dovere però. Rispose ad ogni pugno con un colpo altrettanto forte, perché in quel momento il rosso col kilt incarnava tutta la sua voglia di mandare affanculo il suo sangue, quel suo essere un Magonò spaventato che mordeva il mondo per non farsi mordere per primo.
Furono i due scimmioni a separarli in un insperato barlume di intelligenza. “Pensi di essere migliore di me, figlio di puttana?!” Ringhiò Figgins trattenuto da braccia nerborute: niente da fare, ormai era lanciato nella sua crociata zelota.
Che differenza c’è tra lui e un Purosangue razzista? Nessuna.
“Penso di essere me stesso, e questo mi basta!” Rispose e per la prima volta dopo giorni ci credette sul serio.
Rifletté poi se chiedere o meno all’energumeno che lo reggeva come una bambola di pezza di mollarlo fosse saggio – non era sicuro che non sarebbe finito per crollare culo a terra. Poi guardò oltre le spalle di Figgins e notò che non erano soli.
E quello chi cazzo è?
Le loro urla dovevano aver attirato un tizio. Capì subito che era un mago, anche senza vedergli la bacchetta in mano.
Non sarò un granché bravo a percepire campi magici e tutto il resto … ma Tizio ne ha uno blu tutto attorno.
Non era normale. E oltre a non esserlo, stava puntando proprio loro.
Cazzo.
Era un Infetto.

****

Ministero della Magia, Ufficio Auror.
Pomeriggio.

A Scorpius piaceva lavorare con le donne; sin da bambino aveva ammirato la capacità tutta femminile di andare nel dettaglio, di interrogarsi su cose in apparenza banali ma che alla fine della storia portavano alla soluzione.
Lavorare gomito a gomito con Ama, da soli, gli ricordò gli anni di Hogwarts passati a studiare con Rose: gli mancavano i pomeriggi passati in biblioteca, i baci rubati, i maglioncini e il rumore delle piume che grattavano su pergamene intonse.
Sì, a volte gli mancava quel periodo spensierato.
Spensierato tra una crisi intercontinentale e l’altra, specifichiamo.
“Sai, mi piacciono le streghe.” Le confessò mentre sfogliavano pagine e pagine di dati bancari: avevano iniziato dall’ovvio per cercare la talpa.
Le talpe si pagano. Da qualche parte, nei conti di Doe che abbiamo scoperto, quelli attivi, dev’esserne rimasta traccia.
Ama inarcò un sopracciglio. “Felice di saperlo. Proprio tutte?”
Sorrise alla gaffe. “Intendo, lavorare con loro. Avere sempre trai piedi caproni che vogliono essere il re dell’isola è stancante! Voi ragazze siete competitive, ma non vi prendete a cornate.”
L’americana scosse la testa con aria indulgente. “A cornate forse no, ma frequenta un dormitorio femminile per quattro anni e poi dimmi se sei ancora della stessa opinione.”
“Frequenta un dormitorio maschile per sette.” Ribatté. “Grifondoro per giunta!” Emise un sospiro teatrale perché sì, farsi coccolare da una ragazza era quello che più gli mancava sul luogo di lavoro. “Non sono mai stato bravo con gli uomini … non sono abbastanza rude.”
Non parve molto intenerita dai suoi problemi. “A te piace essere viziato, Malfoy.” Gli rispose ironica. “Fammi indovinare, sei cresciuto tra mamme, nonne e zie.”
Scorpius spalancò la bocca offeso, anche se era la verità. “Sembri la mia fidanzata!
“Ma non ho intenzione di coccolarti come lei.” Gli lanciò l’ennesimo faldone. “Lavora, dobbiamo trovare come e quando Doe ha pagato la talpa.”
Mise il broncio, ma obbedì. Del resto, se Rosie fosse stata lì sarebbe stata ancora più inflessibile.
“Tutti questi numeri mi fanno venire il mal di testa…” Si premurò comunque di informarla, che lamentarsi allontanava lo stress.
Ama fece una smorfia, incline nonostante tutto a dargli ragione. “Concordo. È Prince quello che va in brodo di giuggiole quando deve sedersi di fronte a questa roba.”
Scorpius ebbe una mezza idea di chiederle se il tedesco poteva unirsi a loro, come consulente o qualsiasi altra cosa giustificasse la sua presenza, ma poi ricordò che dai piani alti era considerato un sospetto.
Come direbbe Potty … che gigantesca rottura di palle. 
Malmostoso si gettò a capofitto su quelle stringhe di cifre impossibili. Fu dopo una mezz’oretta che l’altra lo chiamò al suo fianco. “Vieni a vedere.”
Fu ben felice di obbedirle: stava cominciando a vederci doppio. “Hai trovato qualcosa?”
“Forse. Nel conto di Sacramento.” Indicò una serie di numeri che aveva cerchiato con la piuma. “Vedi questi versamenti? Si ripetono.”
“Sì, ma non sono versamenti continui … sembrano più casuali, guarda le date.” Le fece notare. “Ogni quindici … poi dieci … poi due mesi. E poi si interrompono due anni fa. Se ha la talpa nel suo libro paga, dovrebbe pagarla soprattutto adesso che è in piena attività, no?” Controllò con uno sguardo il numero di conto a cui erano indirizzati i versamenti. “E il conto ricevente lo conosco, è quello irlandese. Doe stava solo spostando i soldi, da Sacramento a Dublino.”
Ama sospirò. “… quindi un buco nell’acqua, ricevuto.”
Scorpius aggrottò le sopracciglia. “Aspetta…” Le fece cenno, scartabellando nel faldone del conto irlandese. “… sì, ecco qua i versamenti dall’America. Corrispondono!”
“Okay? A cosa ci serve saperlo?”
“Quando li ho controllati un mese fa, pensavo che spostasse denaro per non farsi scoprire con somme troppo grosse in una sola banca, e mettere così il Chizzlypuff nell’orecchio della polizia magica. È una tecnica che i Babbani usano spesso, alla mia ragazza hanno fatto fare un seminario sui reati bancari.” Le illustrò concitato, cercando di trovare un senso all’idea che gli si stava formando in testa. “Ti ricordi la ricerca che abbiamo fatto? Tra i titolari esclusivi salta fuori anche Sophia Von Hohenheim, sempre in America. Quindi pare tutta roba loro, giusto?”
Ama lo squadrò confusa. “Dovrebbe, sì.”
“E se la Von Hoehnheim fosse invece un prestanome per qualcun altro che non è Doe? Guarda!” Gli mostrò le stesse cifre che tornavano buone buone in America due giorni dopo che erano state versate in Irlanda. Ma in un altro conto, stavolta sotto uno degli pseudonimi femminili della madre di Sören. “Che senso ha spostare i soldi così?”
“Stai dicendo che la talpa usa un conto intestato alla madre di Sören? Co-intestato?”
“Potrebbe. Magari con una Pozione Polisucco…”
Ama lo fulminò con lo sguardo, quasi l’avesse personalmente insultata. “Non avremo i Folletti come voi, ma qualche misura di sicurezza la abbiamo.” Esitò. “Certo è che se c’è qualcuno che può giocare con le identità è proprio Doe. E potrebbe sempre averglieli dati sull’unghia.”
“Potrebbe.” Confermò. “O potrebbe averglieli dati lei. Ti ricordi la foto con cui abbiamo scoperto che era ancora viva? Era in banca!”
Ama si rabbuiò. “Significa che avevamo ragione, è coinvolta.” Ma prima che potesse suggerirle una visita alla tedesca, una realizzazione le fece stringere le labbra in una linea dura.
“Cosa?”
“La talpa è in America.” Si alzò in piedi, la mente ormai lanciata come una scopa in corsa. “Ma gli unici che sono a conoscenza del Demiurgo siamo io, mia madre e … il gabinetto del Presidente.”  E perse colore all’idea.
Scorpius cercò di mantenere un'aria disinvolta disinvolta, anche se da suo padre aveva imparato che più salivi in alto nella scala di potere, più rischiavi di pestare le vesti al mago sbagliato. “Togliendo dal conto te e il buon Capitano … Conosci gli altri?”
“Solo Ethan Scott È … era l’agente di collegamento tra il nostro Ministero e quello britannico quando Thomas Dursley fu rapito. Fu lui a maneggiare la patata bollente dopo che l’agente Hardcastle si fece comprare dalla Thule.” Scosse la testa. “Ma non può trattarsi di lui. Venderebbe la propria madre per far carriera, ma è sempre uscito pulito da ogni indagine degli affari interni. E dopo il caso Hardcastle ce ne sono state parecchie.”
Scorpius esitò: vedeva dubbio negli occhi chiari della strega e aveva la netta impressione che non fosse più certa di quel che sosteneva come quando aveva messo piede per la prima volta su suolo britannico.
Nessuno di noi lo è più.
“Ti fidi di lui?” Le chiese invece. 
“Non lo conosco abbastanza, ma non mi piace.” Ammise. “È stato lui ad incastrare Sören in questo caso. O meglio, l’ha raccomandato in modo tale che ci fosse impossibile evitare di mandarlo qui.”
“Come mai lo voleva a Londra?”
“Credo per mettere in cattiva luce la SAGITTA e soprattutto mia madre agli occhi dei pezzi grossi del Dipartimento. Tutti pensavamo che mandare Prince da voi fosse un suicidio per i rapporti tra i nostri uffici … specie alla luce del passato che ha condiviso con i Potter.” Fece una smorfia. “Poi non è andata così, ma l’intenzione era di seminare zizzania. Lui e mia madre non sono in buoni rapporti.”
“Quindi non pensi possa essere la talpa?”
Ama si accasciò sulla sedia, in una posa così vulnerabile che dovette frenarsi dal consolarla: non l’avrebbe gradito. “Se lo è … la situazione è più grave di quanto pensassimo. Ethan Scott è il delfino del gabinetto del Presidente. Conosce per nome ogni membro del Congresso … Ha persino un posto in tribuna d’onore al campionato interfederale di Quodpot!”
Quodpot?” Scorpius schioccò le labbra in piena disapprovazione dato che glielo imponeva il suo essere europeo, tifoso e soprattutto, ex-giocatore di Quidditch. “Come diavolo fate a giocare con una Pluffa che esplo…” Vedendo l’occhiata assassina dell’altra si tappò la bocca.
Okay, tifosa sfegatata, come non detto.
“Comunque.” Continuò schiarendosi la voce. “Se Scott c’entra qualcosa con la fuga di informazioni non dovrebbe essere difficile scoprirlo!”
“Se è lui, sono anni che ha rapporti con i Von Hohenheim, se non con la Thule stessa. Non è difficile, è impossibile!”
“Fin’ora.” Le fece eco. “Sappiamo che i soldi arrivano in America! Questo ci darà una leva per fare le domande giuste alle persone giuste.”
Ama si incupì. “Finirò a dirigere il traffico delle scope a Times Square.”
Scorpius ridacchiò. “Non preoccuparti, prometto che lo dirigeremo assieme. E magari mi spiegherai che ci trovate di bello voi americani in uno sport dove non usate le scope.”   
Si scambiarono un sorriso che serviva più a nascondere l’ansia che a festeggiare la loro scoperta.
Malfoy!” Sentì latrare il sergente Weasley quasi fosse un campanello d’allarme della sua coscienza.
Non sto tradendo sua figlia, che diavolo! Posso avere un idillio lavorativo, no?
… giuro che amo solo te, mia Rosie!
“Comandi?” Rispose interrogativo, premurandosi però di mettere distanza tra lui e l’americana. Fosse mai.
Il sergente Weasley non diede affatto segno di essersi accorto della comunella intercorsa tra lui e l’americana; pareva anzi pensare a tutt’altro, con quell’espressione fosca che aveva imparato a riconoscere in Rose quando qualcosa le andava storto al lavoro. Molto storto. “Vestiti, vai a Notturn Alley.”
“Beh, ehm … starei…” Si bloccò perché era vero che non era la sua persona preferita, ma non gli aveva mai dato ordini per puro gusto di farlo. “Che succede? Pensavo avesse trovato il mio sostituto!”
“Succedono gli Infetti.” Tagliò corto e alla sua espressione smarrita aggiunse. “Sono in giro, forse scappati dal castello dei Prince.”
A quello proprio non aveva pensato.
Di male in peggio.
“Quanti?”
“Tre. Gillespie, non sei tenuta a venire, ma…”
“Ma una mano è apprezzata.” Concluse la ragazza alzandosi in piedi, reattiva. “Consideratemi della partita.”
L’uomo annuì con un sorriso. “Avere già affrontato quelle bestie, sapete come comportarvi.” Il sorriso si spense rapidamente. “Ci sono civili di mezzo.”
“E quando credi che non possa andare peggio…” Borbottò ma stavolta non gli fu intimato di tapparsi la bocca. Pensavano tutti la stessa cosa.
Quando il padre della sua ragazza se ne fu andato si voltò verso Ama. “Chiama Sören.”
La ragazza lo guardò esitante. “Non…”
“È stato l’unico capace di metterne uno fuori gioco. Da solo. Ci serve. Se arrivano fino a Diagon Alley… oggi è il primo venerdì di Agosto, manca un mese al rientro a scuola … sono arrivate le liste dei libri.”
Ama impallidì. “Sarà pieno di famiglie.”
Non ebbero bisogno di dirsi altro. Le lanciò lo Specchio Comunicante e questa si allontanò per fare una chiamata che probabilmente avrebbe salvato un bel po’ di vite.

****

Kent, Scogliere di Dover.

Lily guardò perplessa la superfice dello Specchio Comunicante: perché Scorpius la stava chiamando?
Ben attenta a nascondersi agli occhi dei Babbani – che comunque avevano il meraviglioso dono di essere perennemente avvolti in una nube di indifferenza, almeno, quasi tutti - toccò la punta della cornice con la bacchetta, ma quello che le si presentò davanti non era il viso aguzzo e slavato dell’amico.
Ama Gillespie?
Sören le lanciò un’occhiata incuriosita mentre beveva accanto a lei una tazza di the che si erano concessi tra le mura calde e protette del faro: fuori la bella giornata si era fatta via via più fredda al calar del sole. “Sì?” Chiese rinunciando a raccapezzarcisi.
“Potter, mettimi in contatto con l’agente Prince.”
Ah, ecco.
“E buonasera anche a lei, agente.” Le rispose irritata mentre il suo ragazzo alzava la testa di scatto come un cagnolino ben addestrato. Si frenò dal tirargli un calcio nello stinco. “Come hai il mio contatto?” Aggiunse poi passando ad un ‘tu’ molto meno conciliante.
“Me l’hai dato tu, ricordi?” Ah, giusto, il giorno che l’idiota era sparito facendo preoccupare tutti a morte. “Passamelo. So che è lì con te.” Aggiunse con tono spiccio.
“Lily, credo sia importante…” Era davvero, davvero tentata di gettare lo specchio fuori dalla finestra, ma non poteva: doveva essere una cosa di lavoro.
“Certo tesoro.” Flautò ficcandoglielo in mano e afferrando la propria tazza di the come se dovesse lanciargliela addosso. Gli diede invece un sorso, compiaciuta dal fatto che l’altro sembrasse di colpo seduto su un cactus molto spinoso.
“Torno … torno subito.” Borbottò scappando in direzione dell’uscita.
Che cavolo vuole quella? L’hanno escluso dalle indagini, quindi perché lo chiama? Chiamando me, poi?
Brutta stronza.
Continuò a sorseggiare furibonda finché non lo vide rientrare. La rabbia sfumò non appena lo vide guardare verso la propria scorta con aria tormentata.
Guai. 
Non ci voleva la Legimanzia per capire che l’altro aveva bisogno di una mano. Quindi si alzò e gli si fiondò tra le braccia, scoccandogli un bacio che fece voltare più di qualche testa, facendo di controcanto inabissare quelle dei due agenti, che tentavano in ogni modo di ignorare che la figlia del capo fosse l’amante focosa di colui che dovevano seguire come ombre.
“Lily … cosa?” Sören pareva chiedersi se non le avesse dato di volta il cervello tutto di un colpo.
Oh, mio piccolo e ingenuo tedesco!
“A parte che dovrai abituarti a questi assalti, perché è così che amo, carino …” Gli fece notare. Poi si fece seria. “Hai bisogno per caso di levarti la scorta dai piedi?”
Sören boccheggiò per qualche attimo, ritrovando infine compostezza e forse anche il cervello. Era bello fargli quell’effetto. “Io … sì.” Annuì. “Ama mi ha chiesto di raggiungerla. Della squadra sono rimasti solo lei e Scorpius. Hanno trovato degli Infetti a Notturn Alley,  hanno bisogno di aiuto.”
“Ti dà sempre belle notizie, dev’essere l’anima della festa.” Commentò con una smorfia, perché sì. E perché anche se figlia di Eroi non sarebbe mai stata contenta di vedere il suo uomo partire al salvataggio del Mondo Magico.
Proprio perché so che significa. Sigh, mi trasformerò in una Penelope.
“Va bene, li distraggo. Tu vai in bagno. Riesci a Smaterializzarti diretto fino a Diagon Alley?” Era una bella distanza, quasi ottanta miglia, e un mago comune avrebbe rischiato di Spaccarsi per metà Inghilterra del Sud. Il problema era che, facendo più tappe come capitava a lei o ai fratelli quando dalla capitale dovevano tornare in Devonshire, ci avrebbe messo un sacco di tempo. 
“Certo.”
Ma Sören non era un mago qualunque, e lei non ne era mai stata così orgogliosa. “Allora vai, ai ragazzi penso io. Non potrò ingannarli per tanto, sono Auror, capiranno subito che li sto fregando, quindi fa’ in fretta!”
L’altro non rispose: la coinvolse invece in un bacio che stavolta si meritò anche qualche fischio di apprezzamento. Non era del tutto certa non venissero dall’agente di scorta più giovane. Lily si staccò e stavolta fu lei a doversi ricordare nome, cognome e motivo per cui era lì. “Sì … beh, prego.” Balbettò con dignità. “Vattene, su!”
Le scoccò un sorriso radioso ed obbedì. Lily a quel punto tirò un sospiro, ripassò a mente come si respirava (dentro-fuori-dentro-fuori, diavolo se era difficile!) e si diresse verso il tavolo dei due agenti.


****

Diagon Alley, Sera.

Stevens alzò la testa dalla bacchetta su cui stavano lavorando da quella mattina; cercare di recuperare un nucleo da una bacchetta bruciata dal fuoco era un’operazione che pochi Artigiani al mondo erano in grado di compiere con successo. Loro erano tra questi.
Tom ne era fiero come mai gli era successo, dato che era una sorta di capacità condivisa. Gli occhi erano suoi, ma le mani e la tecnica erano del maestro. Mani che al momento avevano smesso di lavorare. “Che c’è?” Gli chiese, perché l’uomo si era adombrato senza motivi apparenti.
“Sta accadendo qualcosa a Notturn Alley.” Gli rispose alzandosi in piedi e dirigendosi a passo sicuro verso la porta. Lo seguì a breve distanza. “Non senti gli incantesimi?”
“No.” Ribatté seccato, perché poteva essere stato Thomas Ogni Oltre Previsione, ma di fronte al sesto senso – comprovato – dell’altro era un mago qualunque. “Comunque che importanza ha? È un miracolo che quel quartiere non esploda su basi regolari.” Vedendo che non gli dava retta aggiunse spazientito. “Dobbiamo finire, i miei genitori mi aspettano per cena, è il compleanno di mia sorella.”
Esitò e questo gli mise una pulce nell’orecchio: l’altro era un eremita, non avrebbe dovuto essere interessato a ciò che accadevano fuori dalla porta della bottega.
Non era da lui, ma erano soli e non c’era Albus a sogghignare con aria condiscendente. Gli mise quindi una mano sulla spalla. “Se ci sono disordini, non credo arriveranno fin qui … Gli Auror pattugliano la zona quotidianamente.”
Il Fabbricante gli rivolse un cenno di scuse. “Naturalmente, hai ragione. Le mie orecchie mi ingannano, amico mio. A volte mi sembra ancora di sentire suoni di guerra quando non ce ne sono.”
I Mangiamorte. L’assalto al negozio di suo padre. Il giorno in cui ha perso la sua famiglia e la vista.
“Vado a controllare.”
“Non ce n’è…”
“Ti farà stare tranquillo ed io devo comunque passare a ritirare la torta di compleanno di Alicia.” Tagliò corto prendendo le chiavi della bottega: l’avrebbe chiuso dentro, gli venisse mai voglia di seguirlo.
Stevens gli strinse il braccio in un muto segno di ringraziamento che fu apprezzato, soprattutto perché non vocale. Odiava quando le persone lo costringevano a sorbirsi la loro gratitudine. “Non continuare senza di me.” Lo ammonì.
“Me ne guardo bene.” Gli sorrise mettendosi seduto sulla poltrona accanto alla finestra. “Sta’ attento Thomas. Non mi piace l’odore che c’è nell’aria.”
Non gli chiese cosa intendesse, perché conosceva le capacità percettive dell’uomo e aveva imparato a fidarsene come se fossero sue. Si limitò quindi a tirarsi la porta dietro ed incamminarsi verso il posto magico che forse odiava più al mondo: se non fosse stato per i libri che ogni tanto scovava nel vecchio mercato, avrebbe tanto voluto vedere quella manciata di vicoli asfittici eradicato dalla faccia della terra.
Pullula di magia sporca.
Non nera, no, non c’era niente di complesso o oscuro in quel crogiuolo di fattucchiere, maghi in disgrazia e Magonò dal coltello facile. C’era invece la bassezza umana nella sue forme più semplici: l’ignoranza e la cupidigia, le truffe da quattro soldi e il mercato nero. Non aveva mai capito perché Loki lo avesse eletto a suo terreno di caccia.
Forse perché vi si eleva alla statura di un re.
Non era tempo però di pensare al vecchio compagno di stanza, specie perché c’era un’interessante assemblamento di persone all’imbocco dell’entrata. Vi si mischiò, usando la sua altezza per sbirciare sopra la selva di teste: vide fumo, pulviscolo e annusò odore di polvere da sparo.
Incantesimi. Stevens aveva ragione.
Notò con la coda dell’occhio Dorian della tavola calda Fortebraccio. “Che succede?”
“Oh, Tom!” Lo riconobbe. “Non ne ho idea.” Aggiunse serrando le braccia nerborute al petto in una posizione difesa che accomunava maghi e Babbani. “Si è sentita una gran esplosione un paio di minuti fa … e poi un mucchio di mantelli rossi si sono precipitati dentro. Ora non vola una mosca.”
Auror. Quindi si tratta di magia nera.
“Non è ancora uscito nessuno?”
“No.” Interloquì una voce conosciuta accoppiata a capelli color carota; George Weasley, nientemeno. “Il botto dev’esser stato grosso se ha tirato fuori anche te, Tommy.” Lo canzonò perché era George Weasley.
“È Tom.” Corresse stizzito rimediandosi quel ghigno placido che tanto odiava sulla faccia di Al. “C’è qualcuno dei nostri?” Chiese poi.
L'uomo scosse la testa. “No, per fortuna. Jamie è a casa in convalescenza, non c’è da preoccuparsi.”  
Ah, giusto.
Gli Weasley standard non contavano nell’equazione Malfoy … e di certo neppure Sören.
Che, come convocato da forze celesti, gli apparve alle spalle. “Thomas!”
Come se dovesse esser lui a sorprendersi.
Sei tu quello fuori dalle indagini.
“Lavoro qua dietro.” Spiegò comunque. “Sei tornato in servizio?”
“Non proprio.” Aggrottò le sopracciglia contemplando i capelli rossi di George.
Sì, figliano come conigli. Buona fortuna ad entrare nelle grazie di tutta la cucciolata.
Sören distolse lo sguardò puntandolo su di lui. “Sono stato chiamato da Ama. Lei e Scorpius sono già dentro.”
C’era un solo motivo per cui l’americana poteva essere coinvolta. Lo afferrò per un braccio e lo tirò da parte, lontano da orecchie indiscrete e Oblunghe: in quel quartiere ce n’erano fin troppe.
I maghi sono geneticamente fatti per origliare.
Quelli Weasley particolarmente.
“Infetti?” Gli chiese ignorando l’aria oltraggiata: non era la prima persona che maneggiava come una bambola e non sarebbe stata l’ultima. “Non li avevate presi tutti?”
“A quanto pare no.” Si rabbuiò. “Devo andare.”
“A fare cosa? Sei autorizzato ad usare la bacchetta ?” Lo apostrofò con più veemenza di quanto fosse opportuno. Specie perché non era la sua balia, né si preoccupava per la sua incolumità.
Affatto.
“Non è il momento, Thomas. Devo raggiungerli.” Si scrollò insofferente. Come un moccioso: suo cugino era un moccioso ostinato e troppo sicuro delle sue capacità da ex-pedina di uno psicopatico delirante.
Lo avrebbe preso a pugni.
Specialmente perché nessuno lo farebbe al posto mio. Forse Lily.
Ma Lily non c’era. Quella cretina non era mai in vista quando c’era bisogno di lei. “E hai idea di come arrivarci?”
L’altro lo guardò incerto ed era ovvio, oh, così ovvio che si era precipitato al salvataggio di baracca e burattini senza pensarci due volte; senza prepararsi, senza farsi spiegare niente.
“Che Tassorosso eccellente saresti stato.” Non potevano essere cugini. Era troppo stupido per condividere dei geni con lui. “Non hai idea di cosa ci sia oltre quel vicolo, vero?”
“Ci sono stato … una volta. Quando ci siamo incontrati e tu hai seppellito quel ragazzo sotto una pila…” Lo guardò sbalordito; ebbe voglia di urlare.
“Thomas, non vorrai accompagnarmi?”
“Ci sono molte cose che preferire fare, tra cui infilzarmi un bulbo oculare con una forchetta arrugginita, ma temo di non avere scelta.”
“Sei un civile, non posso permetterlo.”
“Notturn Alley non è una via, è un dedalo di stradine e di vicoli ciechi, ergo sono la tua sola speranza di trovare gli auror.” Lo apostrofò spazientito. “Sempre che tu non voglia vagolare tra le macerie finché un Infetto non ti trova, in quel caso prego, l’entrata è da quella parte.” Gliela mostrò con un cenno della testa. “Sarò ben felice di informare chi di dovere del modo imbecille con cui ti sei fatto ammazzare.”
“Ho capito.” Rimase in silenzio. “Puoi aiutarmi?”
Tom si passò una mano trai capelli. Non c’era altro da dire, l’idiota aveva una missione e la sua, pareva, era quella di fargli da guida demente. “Non pensare che farò cose idiote come coprirti le spalle e combattere al tuo fianco. Non ho alcuna intenzione di farmi infettare.”
Sören gli sorrise insensatamente. Era la prima volta che lo vedeva rivolgergli qualcosa diverso da una smorfia diffidente.
Era orribile.
“Non lo farai.” Disse con il tono di una constatazione. “Lily mi ha detto che non sei capace di abbandonare qualcuno quando le cose si fanno difficili.”
“Quella cretina della tua ragazza deve avermi scambiato per qualcun’altro.” Disse a denti stretti avendo la distinta impressione che in quel posto sudicio ci sarebbe morto solo per provare di essere all’altezza delle aspettative di una Potter. E anche di suo cugino.
Sono un idiota.
Sören sbarrò gli occhi. “Ma allora sai…”
Ghignò, felice di vederlo virare sul verdastro ansia da prestazione. “Certo, lo sanno tutti. Lily non tiene chiusa quella ciabatta che ha per bocca neppure se viene Silenziata. Se non muori stasera devi solo aspettare la prossima cena in famiglia. Congratulazioni e figlie femmine. I maschi di quella famiglia sono una sciagura.” Sfoderò poi il suo sorriso migliore, quello che ad Hogwarts terrorizzava frotte di primini. “Vogliamo andare?”
“Sì…” Mormorò ricomponendosi. “Fa’ strada.”
Tom estrasse la bacchetta dal fodero: ora più che mai doveva stargli ben salda in mano.
“Seguimi.”

Non avrebbe mai pensato, neppure in mille anni, che suo cugino Thomas, il ragazzo che cinque anni prima l’aveva affrontato dall’altra parte della barricata gli sarebbe venuto in soccorso. 
“Seguimi.” Gli disse, dirigendosi poi in direzione opposta rispetto all’entrata del quartiere.
“Perché…” Prima che potesse chiedergli il motivo di quella deviazione l’altro glielo spiegò.
“Ci sono due entrate. La prima, è quella che vedi ingombra di ficcanaso.” Fece un sorrisetto. “La secondaria è quella che useremo.”
“E tu come…”
Sembrava aver preso gusto ad interromperlo. “È davanti alla fermata del Nottetempo.”
“Nottetempo?”
“Un bus notturno che gira tutta la Gran Bretagna. A volte mi è utile per tornare a casa dai miei … non mi piacciono le scope e i camini.” Concluse prima che svoltassero per un vicolo così stretto che dovettero mettersi di lato per passare.
I suoi? Ah, certo. La famiglia Babbana che l’ha adottato, i Dursley di Little Whinging.
Thomas ai suoi occhi ormai non aveva nulla di Alberich: non era una persona facile, certo,  ma stava rischiando la propria incolumità solo per aiutarlo a salvarne altre.
Non era cosa da poco.
Il vicoletto si snodava per più di un centinaio di metri; stava quasi per domandargli se fosse sicuro di non aver sbagliato strada, quando si fermarono di fronte ad un arco di pietra. Tom, quasi gli avesse letto il pensiero – e dall’occhiata seccata pareva di sì - indicò l’insegna dove, sebbene fosse sporca di decenni di fumo provocato dai lampioni alimentati ad olio, si leggeva ‘Notturn Alley’.
“Da qui riesce a passare un autobus?” Chiese perplesso.
Tom fece una smorfia tetra che non capì. “Purtroppo sì.” Si sporse oltre l’arco per guardare da entrambi i lati. “Via libera, andiamo.”
“Fammi andare avanti.” Protestò fermandolo con un braccio. “Non mi perdonerei mai se ti accadesse qualcosa.”
“Per quello ritengo sia troppo tardi.” Ribatté. Poi, senza dargli spiegazioni di sorta, staccò un pezzo di intonaco dal muro. E lo lanciò dietro di sé.
Una barriera azzurrina lo fece saltare indietro. Lo guardarono rotolare fino ai loro piedi.
“Barriera magica.” Disse atono. “Puoi entrare, non puoi uscire. Hanno messo l’intera area in sicurezza.”
Non ci voleva un genio per intuire cosa significava.
Una volta che mi ha portato dagli auror non può andarsene.
“Sapevi che ci sarebbe stata.”
Thomas rispose con un sorriso privo di umorismo. “Sono stato cresciuto in mezzo agli Auror, Prince. Ovvio.”
Avrebbe voluto chiedergli perché l’aveva accompagnato se si immaginava sarebbe finito in trappola. Avrebbe voluto ringraziarlo. Non fece niente del genere, perché intuì che l’altro l’avrebbe gradito ancor meno di quando gli aveva riferito quello che Lily pensava di lui.
“Muoviamoci.” Disse invece.
La strada in cui erano sbucati era silenziosa. Nebbia, non insolita per quei luoghi, la ammantava tutta. Pensò che lo fosse prima di tossire: era polvere, bianca e spessa.
“Abbiamo sentito l’esplosione persino dalla bottega.” Commentò l’altro accendendo la bacchetta in un Lumos.
Sören lo imitò, guardandosi attorno alla ricerca di presenze umane. “È normale che non ci sia traccia di anima viva?”
Il cugino si strinse nelle spalle. “È considerato il quartiere malfamato per eccellenza dell’intera Gran Bretagna. Di certo, non è una meta turistica.”
“Non hai risposto alla mia domanda.”
Tom gli scoccò un’occhiataccia, una di quelle che Albus gli aveva raccomandato di ignorare. Passò una mano sulla finestra di un negozio che sembrava disabitato da secoli. La ritirò bianca, mostrandogliela. “Con un’esplosione del genere, se sei così fortunato da uscirne incolume, rimarresti?”
Era una buona osservazione, quindi ripresero a camminare in silenzio. “Quanto dista la piazza principale?”
“Poco, non è l’East End questo.”
“Ovvero?”
Se non avesse usato la bacchetta per vedere dove stava andando era abbastanza sicuro che gliel’avrebbe ficcata in un occhio. “Ti pare il momento di chiacchierare?”
Sören fece suo malgrado un mezzo sorriso. “Cercavo di distrarti. Mi sembri nervoso.”
“Sto camminando verso un rischio mortale. Non sono nervoso, sono consapevole.” Sibilò aggiungendo qualcosa che assomigliava tremendamente a ‘imbecille di un Tassorosso’.
“Perché tutti mi date del Tassorosso?” Non volava una mosca, e l’aria era così ferma, immobile, che sembrava di essere in uno di quei film d’orrore che Rico gli aveva imposto di vedere nei primi tentativi di instaurare un rapporto.
Per inciso, quella tipologia di film gli facevano venire gli incubi.
Thomas scosse la testa rassegnato a sentirlo ciarlare a vuoto: pareva non dispiacergli però.
Non dispiace neanche a me quando lo fa Milo.
“Perché i Tassorosso sono degli idioti.”
Aggrottò le sopracciglia. “Lily mi ha dato del Tassorosso.”
Tom alzò gli occhi al cielo. “Al contrario di me, credo lo intenda come un complimento. Tra i pochi meriti che ha quella Casa, si possono annoverare la lealtà e la forte fibra morale. Ovviamente c’è chi li vede come ottusità e rigidità mentale.”
“Come te.” Fece un sorriso. “E quali sono i meriti di chi è stato Smistato a Serpeverde invece?”
“Saper deflettere idee idiote come queste.”
“Forse allora sei un po’ Tassorosso anche tu.”
Lo fulminò come se gli avesse insultato madre, padre e anche qualche antenato di grandissimo valore. Sören, nonostante la situazione, dovette trattenere una risata. Per fortuna gli fu risparmiata una risposta, perché arrivarono nella piazza: sì, doveva esser quella a giudicare dalla vecchia fontana secca che ricordava. Tutto il resto però sembrava un teatro di battaglia. Si avvicinarono ad un cratere grande quanto le fondamenta di una casa: non c’era dubbio che quello fosse il punto da cui si era generata l’esplosione.
Il fatto che non vi fossero cadaveri però non era un buon segno.
Sono stati disintegrati?
Thomas schioccò la lingua in un gesto di impotenza: risuonò nella piazza come lo sparo di un incantesimo. “Era questo il punto di incontro?”
“Avrebbe dovuto.”
“Questi Infetti…” Thomas guardava assente un banco completamente sfondato, come se un macigno vi fosse atterrato sopra. “… quanto sono potenti?”
“Molto.” Si chinò ad osservare impronte di stivali sulla ghiaia. “Sembrano non stancarsi mai. Gli incantesimi che lanci loro addosso paiono solo rinvigorirli.”
“Fino ad un certo punto.” Osservò. “Poi raggiungono il punto di sovraccarico e...”
“Vengono polverizzati dallo loro stessa magia.” Finì per lui. “Ma non si deve arrivare a questo. Sono persone innocenti.”
“Non così innocenti se hanno consegnato la loro vita nelle mani di John Doe.”
Sören a quello non poté ribattere: la pensava come lui, anche se, amaramente, doveva considerare il fatto che avesse commesso sbagli simili.
Anche io ho affidato la mia vita nelle mani di mio zio e Johannes.
E sono quasi morto per questo.
Il cugino fece una smorfia. “Andiamo a cercare gli auror.”

Avrebbe voluto prendersi a calci da solo. Il che, ne era sicuro, era ciò che gli avrebbe consigliato di fare Albus se ce l’avesse avuto davanti.
Mi sono infilato dentro la versione magica di un campo minato.
E non era mai stato bravo a quel gioco demente. Sören, affianco a lui, era in piena modalità soldato zelota, bacchetta in pugno e piglio da eroe classico.
A lui veniva da vomitare.
Perché non aveva più furia e desiderio di rivalsa ad infiammarlo: quella non era la sua battaglia.
Lo guidò attraverso lo stradicciolo che portava all’entrata principale: se gli Infetti erano attratti dalle auree magiche era molto probabile si fossero spinti fino a quella zona. E con loro, gli auror.
Speriamo, gli auror.
Perché non aveva visto neppure un mantello fino a quel momento.
Videro però quelli che l’altro chiamava civili: riversi a terra, esanimi e quando Sören si chinò a cercarne le pulsazioni capì che non c’era più niente da fare.
“L'esplosione li ha scaraventati fin qui...” Mormorò questo tirandosi in piedi con il viso più pallido della calce che ammantava tutto come neve fuori stagione. “Erano troppo vicini al punto di impatto.”
“La piazza.” Intuì. “Dev’essere stato uno degli Infetti. Non sono riusciti a fermarlo prima che collassasse.”
Sören si voltò per rispondergli, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Prima che potesse chiedergli se doveva cercare riparo, lo vide scattare in avanti come se avesse dovuto correre i cento metri. Si gettò poi su qualcosa che era riverso a terra, appoggiato ad un muro.
Qualcuno: era un qualcuno coi capelli biondi e per un momento terribile Tom pensò a quell’idiota di Malfoy, che doveva sposarsi con Rose e diventare parte della famiglia.
Per fortuna era solo Milo Meinster.
Non per fortuna, razza di stronzo!
La voce di Al lo bacchettò con veemenza e quindi, per metterla a tacere, si avvicinò. L’altro tedesco era ancora vivo: era steso a terra, semi-coperto dalle macerie, ma aveva gli occhi aperti e aveva riconosciuto l’amico da come gli si era aggrappato ad un braccio.
“Milo…” Sören cercò di tirarlo su, ma un urlo da parte del ragazzo lo fece bloccare. Era ferito, notò Thomas vedendo come una chiazza rossa si espandesse lungo l’addome. Era ferito da qualche parte, forse alla schiena.
“Aiutami a liberarlo!” Gli fu ringhiato in tedesco e Tom ringraziò Merlino di continuare ad esercitarlo con Meike: era certo che se non avesse obbedito all’instante l’altro non ci avrebbe pensato due volte a metterlo sotto Imperio.
Liberato dai calcinacci e pezzi di trave caduti o crollati da chissà dove – Dio, sembrava una di quelle scene di guerra che a Vern piacevano tanto – fu chiaro ad entrambi dov’era il problema: contemplarono impotenti uno spuntone di ferro uscire dal fianco del Magonò: era il residuo di una rastrelliera per appoggiarvi le scope.
“Lo passa da parte a parte.” Commentò inespressivo, perché qualcuno doveva mantenere la lucidità ed era certo che nessuno dei due tedeschi ne fosse in grado. “Se cerchiamo di tirarglielo fuori lo uccidiamo.”
Sören soffocò un’imprecazione in lingua madre e Tom pensò che non l’avrebbe sentito parlare inglese per un bel po’.
Decise quindi di prendere in mano le redini della situazione. “Dobbiamo comunque portarlo via di qui.”
Quasi l’universo avesse aspettato quella frase per scaricar loro addosso un quintale di letame, da lontano – ma non così lontano – sentirono un urlo disumano, qualcosa che solo una bestia, o un essere umano ridotto a tale poteva emettere.
L’Infetto.
“Subito.” Aggiunse. “Ma se non lo stabilizziamo in qualche modo…” Non sapeva quasi nulla di Medimagia, ma era abbastanza certo che non si doveva muovere qualcuno quando era infilzato come un pollo allo spiedo.
Sören fece una smorfia tirata. “È un Magonò. Gli incantesimi curativi che conosciamo non funzionano con lui.”
Allora è spacciato. Non arriverà mai al San Mungo in tempo. Ci sta solo rallentando.
Lasciamolo qui.
Questo pensava quella parte oscura e meschina di sé. Che poi, non era una considerazione neppure così sbagliata, almeno dal punto di vista razionale.
Ma abbiamo già appurato il fatto che sei un idiota, no?
“Allora spostiamolo e basta.” Si guardò con Sören e quello capì al volo. Con una premura che non avrebbe creduto possibile da lui, scostò i capelli incrostati di polvere e sudore dalla fronte del ragazzo. “Milo, non ti piacerà.” Gli disse prendendo il fazzoletto che aveva in tasca. “Mordi questo.”
“Cerca di non farlo urlare.”
Se non emette aura magica può comunque strillare la nostra posizione. Evitiamo.
Fortunatamente Milo parve capire l’antifona perché non emesse che un lamento quando con un Recido separò il pezzo dello spuntone dal resto della rastrelliera. Sputò il fazzoletto solo per biascicare qualcosa che non capì.
Non sono bravo nel tedesco dei moribondi.
“Ha detto Figgins.” Tradusse Sören. “Parla di qualcun altro, qualcuno con un kilt? Dice che era con lui.”
“Adesso dobbiamo salvare tutti i maledetti abitanti di Notturn Alley?!”
“È per questo che siamo qui.”
Dannazione.
“Vado io. Cerca di metterlo in piedi.”
E non farlo morire dissanguato.
Per fortuna trovò il suddetto Figgins, con tanto di kilt, a pochi passi di distanza. Era svenuto, ma pareva ancora tutto intero a differenza dei due tipi accanto a lui.
Non importa quanto tu sia grosso, o quanti muscoli tu abbia. La magia vince, sempre.
Per nulla in colpa lo schiaffeggiò facendogli riprendere i sensi. Prima che potesse parlare, e dall’espressione sembrava pronto a vomitargli addosso un fiume di insulti come la feccia che era, lo fermò.
“Alzati, o morirai.” Disse e sortì l’effetto sperato. Il ragazzo si alzò in piedi stordito, facendosi passare un braccio attorno alle spalle. Avrebbe tanto voluto farlo Levitare, anche solo per come puzzava di birra e sigarette scadenti, ma meno usavano le bacchette più erano sicuri di non essere visti dall’Infetto.
Sören indicò un edificio basso e in mattoni dietro l’angolo, rimasto miracolosamente illeso forse perché protetto dagli altri palazzi. Era Magie Sinister.
L’erba cattiva non muore mai.
Entrarono con un classico, molto Babbano, ma pur sempre efficace, calcio che sfondò la porta. Il decrepito proprietario doveva essersela filata poco dopo l’esplosione. Adagiarono i due a terra e si guardarono.
E adesso?
“Resta qui.” Lo apostrofò Sören tornando finalmente all’inglese. “Occupati di loro e cerca di metterti in contatto con Scorpius o il Sergente Gillespie. Hai uno Specchio Magico, no?”
“E tu che hai intenzione di fare?” Anche se già lo immaginava, glielo leggeva nello sguardo.
“Affronterò l’Infetto e lo metterò in condizione di non nuocere più a nessuno. A questo punto, devo fermarlo da solo.”
“Perché?”
“Perché ci troverà prima che possano farlo i rinforzi.” Rispose come se avesse senso. “Ci ha sentiti, ha sentito la nostra magia. È così che si orienta.”
Meraviglioso.
“Mi pare un’idea eccellente se vuoi farti massacrare.”
“Non succederà.” Il cugino non pareva in vena di discussioni e per un momento Tom si chiese se era così che si era sentito Al quando, cinque anni prima, aveva tentato di trattenerlo in ogni modo dall’andare a cercare prima John Doe e poi suo padre.
È un miracolo che non mi abbia ammazzato.
“Trova gli auror.” Lo stava supplicando? Assolutamente no. Era un consiglio razionale che dava ad un folle.
Sören gli sorrise, esitò e poi gli mise una mano sulla spalla. Ad entrambi sembrò un gesto fuori luogo. E ovviamente, giusto. “Prenditi cura di Milo. È la mia famiglia.”
Sì, e sfortunatamente lo sono anche io.
Perché non voleva che Sören Prince morisse. Era una realizzazione che veniva da lontano, da quando aveva compreso che il suo sangue, quel sangue che aveva rinnegato fino a farsi venire gli incubi, non aveva prodotto solo pazzi, megalomani e manipolatori. Non aveva solo generato mostri e persone come lui.
Ha prodotto mio cugino.
“Come se facesse parte della mia.” Rispose sarcastico, perché si rifiutava di farsi coinvolgere in un momento.
Sören fece un sorrisetto. “In un certo senso lo è. Lo siete entrambi, credo.”
… Ah.
Quel momento rischiava davvero di diventare tale, ma poi l’Infetto urlò, ancora più vicino, ancora più assetato e Sören, senza un’altra parola, si lanciò fuori.
Eroi.
Si sedette con la schiena contro il bancone, tra i due Maghinò esanimi, pronto ad intervenire, pronto a fare la sua parte.
Odio gli eroi.
Con il loro esempio rischiavano sempre di farti diventare uno di loro.


****

Scozia, Edimburgo.
Ventiquattresima Conferenza Internazionale dei Maghi.

C’erano poche cose che Harry odiava più delle Conferenze Internazionali dei Maghi. Quel genere di eventi infatti lo lasciavano sempre con un gran mal di testa e la sensazione che la cooperazione magica fosse una  stronzata, oppure, come l’avrebbe descritta Hermione, una metafora altisonante per nobilitare agli occhi della popolazione una masnada di vecchi maghi di tutte le razze che concordavano solo su una cosa: non cavare mai un ragno da un buco e, possibilmente, servirsi per primi al buffet.
Avrebbe potuto evitarsele se solo avesse servito il Ministero in altri tempi: da dopo la seconda guerra magica infatti, non solo le conferenze si tenevano con una cadenza quinquennale, invece che ogni due secoli, ma erano anche nate delle sotto-commissioni, gruppi che riflettevano, per composizione, i vari dipartimenti di ciascun Ministero presente; il che, tradotto in parole povere, significava che i capo-ufficio come lui erano obbligati ad attendere a cicli e cicli di inutilissimi dibattiti, pena sanzioni disciplinari severissime.
Ovvero M mi appenderebbe per i piedi alla statua dei Tre Fratelli.
Invidiava Nora, che essendo a capo di un ufficio appena sorto, non aveva ancora avuto l’onore di essere invitata.
Tempi della burocrazia magica. Tendenti ad infinito.
L’unica consolazione era che quell’anno l’evento si teneva ad Edimburgo; cinque anni prima erano tutti stati spediti in Malesia, e solo a causa del disastro diplomatico che era accaduto con la Norvegia e la Germania era riuscito a scamparsela dando una delega ad un compiaciutissimo Zacharias Smith.
In sede internazionale nessuno voleva vedere la mia faccia.
Ma quell’anno, purtroppo, la crisi che stavano affrontando era interna. Quindi non gli era restato che preparare un borsone di cose e prepararsi psicologicamente a trascorrere il fine settimana tra diatribe sterili e veti a raffica.
Harry sbadigliò corposamente, mentre il delegato brasiliano stava andando avanti da almeno mezz’ora con un soliloquio sull’importanza di qualcosa che gli sfuggiva completamente. Non poteva neanche sfogarsi con qualcuno, dato che le uniche persone che conosceva in quel consesso gli stavano cordialmente antipatiche.
Sono l’unico capo-ufficio che si è fatto più di un mandato.
E ovviamente, tutti a dire che la mia carica è a vita e che sono come un re assoluto.
Qualsiasi cosa voglia dire.
Non voleva essere lì mentre a Londra bolliva qualcosa in pentola con il rischio concreto che prima o poi traboccasse travolgendoli tutti.
Eppure. Doveri da burocrate.
Sperava che Malfoy fosse nei paraggi, anche se impegnato a tesser trame ai piani più alti del centro conferenze; sarebbe andato ad imporgli la sua presenza, decise. Dieci anni prima l’aveva fatto e per poco non si era beccato una Maledizione.
Perfetto. Magari ci buttano fuori!
In filodiffusione venne poi annunciata la pausa caffè, e Harry fu il primo ad avviarsi fuori, tagliando la strada al delegato italiano e sentendosi piuttosto orgoglioso per questo: il tipo aveva uno scatto da centometrista quando si trattava di passare al momento ristoro.
Aprì la porta, e di colpo una selva di flash lo accecò come un Gufo di fronte ad un paio di fari.

“Capo-ufficio Potter, Gazzetta del Profeta, cosa sa dirci dell’esplosione a Notturn Alley?”
“Capo-ufficio Potter, è vero che ci sono state oltre venti vittime?”
“Avete perso i contatti con gli Auror che avete mandato dentro?”
“Capo-ufficio Potter!”

Harry indietreggiò di un paio di passi, sbattendo contro l’italiano.
Cosa? Di che diavolo stanno parlando?!
Era come se un Bolide l’avesse colpito a tradimento: che poi, era proprio quello che facevano i Bolidi.
Notturn Alley? Che è successo a Notturn Alley?
Obbedendo all’istinto più che alla ragione, rinculò rapidamente dentro la sala e chiuse la porta appoggiandovisi contro. Non molto maturo, forse, ma efficace. Dietro di lui, il resto dei delegati lo guardò in più gradi di sbalordimento.
“Cos’è successo?” Chiese il Capitano Zingaretti. “Cos’erano tutti quei giornalisti?”
“Collega, ci faccia passare!” Intimò l’austriaco.
“Ho un problema da risolvere, e la stampa pare ne sia più informata di me.” Spiegò senza girarci attorno. Poteva annoiarsi a morte a quelle riunioni, ma sapeva di parlare a persone che comprendevano i suoi problemi.
L’italiano infatti lo squadrò. “Sì, sono degli avvoltoi.” Convenne con un sospiro comprensivo. “Dovrebbe vedere i nostri, a volte devo disperderli come cani attorno ad un osso!”  
“Usi l’uscita sul retro.” Gli suggerì pratico il Caporal Maggiore Markaris. “Credo sia dietro quelle tende.”
“Ti vedo informato Petros.”
“Come se tu non lo sapessi, Salvo. Ti abbiamo visto tutti sgattaiolare fuori!”
Harry ringraziò e lasciò i due mediterranei al loro alterco, uscendo dalla porticina, che in effetti era dove aveva indicato il greco. Percorrendo un paio di stretti corridoi si trovò infine di fronte all’entrata del piano.
Che diavolo è successo a Notturn Alley?
Doveva andarsene, e subito. Gli avvoltoi della stampa avevano già fiutato la sua ignoranza, e ne avrebbero fatto un titolo da prima pagina. Infilandosi nell’ascensore cercò nella tasca lo Specchio e scrisse il nome di Ron: non ebbe risposta.
Non sarà andato anche lui?
Quanto è grave?
Non c’era tempo per chiederselo. Premette il pulsante che l’avrebbe portato al piano terra; per poco non estrasse la bacchetta quando una mano si inserì tra le porte in via di chiusura e le riaprì.
Era Draco Malfoy. “Potter.” Lo apostrofò come se volesse tirargli un pugno sul naso, come anni prima aveva fatto sull’Espresso per Hogwarts. “Dove diavolo stai andando?”
Onde evitare che i giornalisti li trovassero nel bel mezzo di un teatrino lo afferrò per il bavero della veste e lo tirò dentro.
“Levami le mani di dosso!”
“Non appena saremo in movimento.” Chiuse le porte gli si rivolse. “Draco, me ne devo andare. A Notturn Alley…”
“So benissimo cos’è successo a Notturn Alley, è il motivo per cui sono venuto a cercarti, razza di psicopatico testosteronico!”
“Testosteronico?”
“E psicopatico, Potter, realizza i tuoi problemi!” Concluse raddrizzandosi la veste. “Sono sempre più convinto che ti droghi di Pozioni Corroboranti, o non si spiega tutta l’adrenalina che hai perennemente in circolo.”
“Sono un uomo d’azione.”
“Sei un timbra-carte esattamente come me.” Ritorse acido. “Quindi falla finita di fare l’eroe in missione suicida e ascoltami.”
“Hai fino al piano terra.”
Lo guardò come se volesse fargli saltare la testa con una Maledizione. Forse un po’ se lo meritava. “Stavo venendo a prenderti per portarti a Londra. Il giovane Zabini mi ha allertato che la scorta che hai messo a Prince se l’è perso.”
“Cosa c’entra…”
“C’entra, perché pare che sia andato a Notturn Alley, assieme a due squadre di Auror che hanno perso i contatti con l’esterno mezz’ora fa.”
“Perché sono tutti là?”
“Tre Infetti sono stati trovati a vagare nel quartiere, liberi come ucell di bosco. Uno di essi ha avuto un crollo ed è…” Esitò, con una smorfia poco rassicurante. “… esploso. Ci sono delle vittime, dei feriti … e hanno completamente perso contatto con  chi è rimasto dentro al quartiere.” Ribadì, che pareva esser quello il punto focale per lui.
Harry contemplò la lancetta dell’ascensore fermarsi allo zero. Meglio quello che prenderlo a calci, reo di non essere abbastanza veloce.
“Peggio di quanto pensassi.”
“Già.”
“C’è qualche bella notizia o posso rassegnarmi a dover passare il resto della mia vita a zappare nell’orto dietro casa? Perchè la stampa mi farà a pezzi e il Capo Dipartimento pretenderà la mia testa.” Chiese sentendosi molto calmo e ragionevole.
E provando tutt’altro.
Avrà mai fine?
Malfoy non rispose: lo afferrò per un braccio e per una frazione di secondo parve seriamente intenzionato a picchiarlo come quando erano ragazzi.
Harry di colpo capì.
“Tra gli auror mandati lì c’è tuo figlio, vero?” L’espressione terrea dell’uomo era una risposta sufficiente. 
“Avevate detto che li avevate presi tutti.” Sibilò. “Che erano stati messi in sicurezza.” Uscirono fuori in un frusciare di vesti ed espressioni tese. Draco in quel momento era il suo unico alleato e si trovò, come ogni volta, stranamente contento di averlo a fianco, anche se lo stava graziando di sguardi pieni d’odio e furia.
È l’unica persona che capisce esattamente come mi sento ogni volta che succede uno di questi casini.
Che gli piacesse o meno – e non aveva opinioni chiare in merito – lui e Draco Malfoy erano ancora due facce della stessa medaglia.
“Perché mio figlio non mi risponde?” Lo incalzò. “Cosa sta succedendo a Notturn Alley?”
Harry non lo rassicurò, né tento un gesto distensivo. Era ben conscio del fatto che non era ciò che teneva in piedi la loro alleanza. “Ho intenzione di scoprirlo.” Disse invece. “Quindi procurami una Passaporta per Londra. Adesso.”

****


Note:

Un po' d'azione c'è stata,  non potete negarlo!
E' che con tutti questi ragazzetti innamorati, che vuole farci signora mia, bisogna farli sfogare!
Qui la canzone del capitolo.
 

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Capitolo 48
*** Capitolo XLVII ***





And if you fall, hold my hand
Oh baby, it’s a long way down...
(Bottom of the River, Delta Rae)


Diagon Alley, Sera.

Per Scorpius non c’era cosa più sfibrante che circondare un perimetro. C’erano poche cose, almeno secondo lui, che rendevano il lavoro di un auror tutto fuorchè invidiabile, e una di quelle era aspettare che il criminale di turno decidesse di uscire dal buco in cui si era rintanato.
Il problema stavolta era sopratutto la particolarità dello scenario che avevano tra le mani: i cattivi non avevano coscienza di esserlo – o non ne aveva una, punto – ma era comunque riusciti a prendere degli ostaggi, anche se si trattava probabilmente di sfortuna; due dei tre Infetti infatti si erano rifugiati, incalzati dagli incantesimi e dai tentativi di cattura di ben due squadre, nell’unica drogheria della zona.
C’erano quindi sei persone innocenti dentro con loro, e non se ne conoscevano le condizioni.
Da dietro i bidoni della spazzatura usati come barriere di fortuna si scambiò un’occhiata con Ama, accovacciata gomito a gomito con lui; entrare era impossibile, non a costo di far finire quell’irruzione in tragedia.
Scorpius aveva visto le persone a terra, aveva visto i morti. E aveva capito che non si poteva più tornare indietro; quei maghi andavano catturati, con ogni mezzo.
Sono diventati assassini.
Soffocò un moto di impazienza, ringraziando Merlino di esser stato fornito di una tolleranza superiore a quella di un Potter-Weasley: James avrebbe già fatto irruzione e non era detto che il Sergente Weasley non glielo ordinasse di lì a poco.
Oltretutto aveva cominciato a piovere, grosse gocce pesanti che scivolavano lungo il collo, inzuppando i mantelli e facendoli rabbrividire. Di ripararsi non se ne parlava: se avessero cominciato a usare Incantesimi Impermiabili avrebbero allertato i due Infetti: sarebbe stato come lanciare sassi contro cani addormentati.
E per ora, cerchiamo di farli stare tranquilli.
Starnutì quando un rivolo d’acqua cominciò a gocciolargli dal naso: rimpiangeva di non aver seguito l’altra squadra.
Almeno avrei potuto muovermi. Star qui a fare il gargoyle è molto peggio.
È che aveva il cuore tenero. Se il padre della sua ragazza, che dirigeva le operazioni, ci avesse rimesso le penne Rosie ne avrebbe sofferto.
Non voglio che Rosie soffra. Non voglio che nessun altro muoia.
Non poteva quindi abbandonare l’esponente più seccante e meno amato del clan. Doveva mantenere la posizione.
Mentre considerava cupamente che tutta quella sua abnegazione non sarebbe stata minimamente notata e ancor meno apprezzata, sentì lo Specchio bruciare dentro la tasca della giacca. Lo estrasse e quando vi lesse il nome di Dursley fu quasi tentato di ignorare la chiamata.
Ma se Mister Misantropia mi chiama, dev’esserci un buon motivo!
“Tom, ehi!” Rispose. Ignorò l’occhiataccia di Ron Weasley perché no, non stava facendo salotto. “Qual buon vento?”
Al posto del viso magro dell’ex studente modello di Serpeverde vide un gran nero, e ombre che si muovevano. La fisionomia di un volto? Forse. “Dove cavolo sei?”
Non gli rispose. “Quell’idiota di mio cugino vi sta cercando.” Disse invece.
“Tuo cugino?”
Ci fu una breve pausa. “Prince.” Esplicitò. “È qui, a Notturn Alley.”
Ah, giusto. Sono imparentati.
Se ne era  dimenticato. Poi fece mente locale sull’ultima frase che gli era stata detta. “Qui? Vuoi dire che ci sei anche tu?”
Da quando questo posto è diventato così popolare? Proprio oggi, poi!
“Sono al sicuro.” Gli rispose. “Almeno per adesso. Ma Prince è andato alla ricerca dell’Infetto.”
E ti pareva!
Ama gli dice di raggiungerci e lui va a fare il paladino solitario. Oh, Prince, ti voglio tanto bene…
Però veramente, affogati in un pozzo.
“Dove siete? Cioè … dov’è?”
“Vicino a Magie Sinister. Gli servono rinforzi.” Fece una pausa, tanto che Scorpius si chiese se non fosse successo qualcosa al di là dello specchio. “Si farà ammazzare.” Aggiunse con un tono che lo diffidava da far commenti di qualsivoglia sorta. “Hai capito o devo mandarti un disegno via Gufo?”
“No, no. Ho capito.” Confermò rapido. “Arriviamo. Tu stai bene? C’è qualcuno lì con te?”
“Due Maghinò feriti. Sono in ottima compagnia.” Rispose asciutto. “Mi sono chiuso dentro Sinister.”
“Non credo che un Colloportus…”
“Pensi sia così idiota da usare un incantesimo da primo anno?” Se ce l’avesse avuto davanti ne era certo, gli avrebbe sbattuto la costola di un libro sulla nuca, come faceva quand’era suo assistente al Tremaghi. “Ho usato un Incanto Sigilla-Stanze. Non sono io ad aver bisogno di aiuto, è Prince che si è improvvisato parafulmine.”
“Okay, okay, tutto chiaro.” Inspirò, pensando a quello spilungone da solo, a badare a due persone inermi. Era un’immagine così bizzarra che gli veniva da ridere. “Non prendere altre iniziative, va bene?”
Dursley per tutta risposta gli chiuse la chiamata in faccia.
Sempre delizioso.
Si rivolse quindi al suo superiore meno preferito. “Ha sentito?”
“Sì.” Rispose grave senza distogliere lo sguardo dall’entrata dell’emporio. “Perché diavolo Prince è qui? Chi l’ha chiamato?”
“I guai? Quel ragazzo ha un sesto senso incredi…”
“Malfoy.”
Scorpius non si scompose. Sarebbe stata la sua rovina. “Vuole davvero avere questa conversazione adesso?”
Tanto non ci credo che è la talpa, quindi attaccati Peldicarota. Non diffido dei miei amici.
L’uomo serrò le labbra ma non commentò. Tanto, l’avrebbe fatto con tutti i crismi quando sarebbero tornati in ufficio. Forse l’avrebbe anche riempito di botte. L’espressione pareva paventare proprio quello.
Oh, beh. Nuova.
“Contatta la squadra di ricognizione. Ci andranno loro.”
“Ma…”
“Agente Malfoy, abbiamo bisogno di te qui.” E stressò la prima parola, quasi a fargli capire che gli stava parlando da Sergente. “Oltretutto, non puoi andare solo.”
Non poteva ribattere a quello, perché per quanto gli scocciasse, l’altro aveva ragione.
Per fortuna aveva accanto a sé una strega sveglia e che soprattutto aveva digerito il loro bizzarro sistema di informatori. “Si tratta di un mio agente.” Si inserì. “Andrò io.”
“Vengo con te!”
Weasley li fulminò come due bambini irragionevoli. “Siete in due, cosa credete di fare contro un Infetto quando ci vuole almeno un’intera squadra per averne ragione?”
“Le ricordo che, in quanto suo pari-grado e agente di collegamento, non sono tenuta a seguire i suoi ordini.” Obbiettò l’americana gelida. “Stavo solo notificando.”
Il Sergente Weasley si passò una mano sul viso, masticando a mezza bocca un’imprecazione. “Non ho tempo per mettermi a discutere, né la voglia. Fa’ come ti pare, ma Malfoy rimane con me.”
“Sergente!” Tentò di protestare, che Dursley aveva chiamato lui e poteva averlo fatto per mancanza di opzioni, ma comunque.
“Non ci provare, ragazzino.” Lo apostrofò secco. “Tu resti al mio fianco, dove posso vederti. Pare che ve ne siate tutti dimenticati, ma avete preso il distintivo negli ultimi tre anni. Dopo quello che è successo a Jamie non se ne parla di spedire un altro di voi al San Mungo!”
Scorpius boccheggiò, improvvisamente a corto di parole. Ama sorrise del suo sconcerto: sapeva che tra lui e Ron Weasley non correva buon sangue, e soprattutto conosceva il motivo.
Credo di essermene lagnato anche con lei.
No, anzi, sono sicuro.
“Scorpius, il Sergente ha ragione.” Si inserì conciliante. “Resta, io cercherò di contattare la squadra di ricognizione e di unirmi a loro.”
“Ricevuto.” Rispose, ricordandosi per la prima volta in quei mesi di essere, a conti fatti, un pivello che aveva bisogno di qualcuno che gli parasse il culo.
Dopo che il Sergente Flannery si è ammalato è cambiato tutto.
Non era una brutta sensazione. Fu come sentire un peso scivolargli via dalle spalle.
Nonostante questo fu difficile veder partire Ama senza alzarsi e seguirla: facevano parte della stessa sgangherata squadra ormai. Weasley parve leggergli nel pensiero, perché sospirò con aria comprensiva. Gli diede persino una pacca sulla spalla.
Eh? Cosa?
“Sa cavarsela.” Lo apostrofò. “Non si caccerà nei guai.”
Okay, mentre non guardavo ha battuto la testa da qualche parte?
Forse gli mancava James su cui riversare le sue premure da parente ingombrante, o forse dopo anni si era finalmente accorto che non era solo un Malfoy.
O forse era ubriaco.
Non si lasciò comunque sfuggire l’occasione. “Posso chiamarla papà?”
L’uomo lo graziò di un’aria assolutamente orripilata. “Scordatelo. Stammi attaccato al sedere, intesi? Perché entriamo.”
“Sissignore!” Rispose diligente. “Anche se preferirei essere la sua ombra o una cosa simile. Senza offesa.”
Lo scappellotto se lo meritò tutto.
Scorpius si massaggiò la nuca regalandogli un sorriso brillante, perché quella sera avrebbe raccontato tutto a Rose e con un po’ di fortuna, la sua fidanzata l’avrebbe considerato come un progresso da cui non era possibile tornare indietro, rinfacciandolo così al genitore alla prossima cena tra parenti. “Qual è il piano?”
Weasley era incerto se mollargli un’altra sberla o dirgli di seguire gli ordini e non atteggiarsi a secondo in comando ma poi, come un secondo miracolo, lasciò perdere.
Forse si è ricordato che negli ultimi anni sono sopravvissuto eggreggiamente a catastrofi scatenate dai suoi adorati nipoti. E mi sono salvato il sedere da vero stratega.
Forse.
“Non possiamo attirarli fuori, non quando è chiaro che non hanno la minima intenzione di affrontarci. Hanno capito che avrebbero la peggio. Si sono rintanati là dentro dopotutto.” Gli spiegò. “Dobbiamo essere noi ad entrare.”
“Ma se entriamo rischiamo di mettere in pericolo gli ostaggi!”
L’uomo annuì. “Per questo dobbiamo trovare un modo di metterli fuori gioco … senza ucciderli.” Aggiunse. “La nostra priorità è che lì dentro non scoppi una bomba … due.” Si corresse cupo. “Due bombe.”
Già ne è esplosa una … - Diceva la sua espressione – troppe vittime, non siamo più in guerra, basta.
Scorpius scrollò la testa che ormai ospitava mezzo chilo di alghe fradice – i suoi capelli. Persino con il cappuccio del mantello tirato su la pioggia entrava dappertutto. Non aveva mai detestato tanto essere inglese come in quel momento. Non si era mai sentito così impotente.
“Come entriamo se non possiamo avvicinarci o lanciare incantesimi senza che impazziscano?” Chiese piano. “Come facciamo?”
Il Sergente guardò l’ennesima volta oltre le barricate e Scorpius provò pena per lui: aveva uomini che lo guardavano in attesa di ordini, chiedendosi quando sarebbe finita, quando avrebbero potuto tornare a casa e dire ai loro cari che non ci sarebbero stati più Infetti, niente più malattie da temere o organizzazioni fantasma.
“Non ne ho la più pallida idea, ragazzo.” Ammise.

****

Sören era certo di aver trovato il peggiore tra gli Infetti.
Perché solo quella che Milo chiamava sfiga cosmica poteva avergli fatto trovare un Infetto che non solo possedeva una forza magica mostruosa, ma ne era anche consapevole.
Inspirò, espirò e cercò di farlo nel modo meno rumoroso possibile. Era nascosto dietro un carretto che doveva aver ospitato un fuoco portatile per arrostire le castagne e sperava che il forte odore di legno bruciato e di brace coprisse il suo. Che l'oscurità del quartiere, punteggiato solo da sparute lanterne beccheggianti a causa della pioggia, lo proteggessero. Per celare la propria aura magica aveva invece aumentato al massimo la capacità del suo bracciale; si sentiva il braccio pesante come un sasso ma era abbastanza sicuro di non emetterne alcuna.
Non gli era rimasto che scappare, perché l’Infetto l’aveva trovato prima che potesse vederlo, prima che potesse avvertire la sua presenza. Non appena era uscito dal negozio in cui aveva lasciato Thomas, non appena aveva svoltato l’angolo, si era sentito afferrare. E poi alzare in aria, sbattere al suolo con una forza tale che solo la sua magia, quella primigenia, quella che salvava i piccoli maghi da sé stessi gli aveva evitato di spaccarsi la schiena, le gambe, le ossa.
La magia l’aveva protetto, gli aveva permesso di alzarsi a bocconi mentre quello rideva: si era Materializzato una decina di metri più avanti, nella piazza da cui si era originato tutto, l’unico scampolo di quel quartiere che ricordasse con certezza.
La bacchetta gli era schizzata via durante l’impatto. Forse rotta, comunque persa.
Con un lamento si sbottonò la camicia – niente corpetto a proteggerlo, c’era da mettere in conto anche quello – e guardò impotente le brutte abrasioni che correvano lungo le costole. Non era stato l’impatto con il suolo, lì era dove la magia dell’uomo – mostro? – l’aveva afferrato. Una costola rotta. Dal dolore, due.
No, tre. Direi tre. 
Non poteva andarsene però. Non poteva abbandonare il campo, non con Thomas ad un centinaio di metri da lui, non con Milo, Milo che aveva bisogno di cure immediate, che rischiava di morire dissanguato, senza rivedere la luce del giorno.
Del sole, e non quella pioggia schifosa che rendeva la strada un pantano e i suoi vestiti scivolosi.
Non poteva permettere che Milo morisse in quello schifo. Né Tom.
Né me.
L’Infetto intanto si stava muovendo: lo cercava, mugolando di piacere quando credeva di averlo trovato, ringhiando quando scopriva di aver preso un granchio; cieco e fuori di sé, ma non abbastanza da non godere della caccia.
In cosa aveva trasformato quegli uomini Johannes? Se ne era reso conto? Aveva capito fino a che punto giocare al piccolo dio l’aveva portato?
Dubitava; era sempre stato interessato ad una cosa sola, che la propria cassaforte fosse piena di monete sonanti. Fine della storia. Ignorante, cieco come le sue cavie aveva creato quel disastro 
E adesso sono io a tentare di risolverlo.
Era ironico, doveva ammetterlo: i ruoli si erano rovesciati, un tempo era il braccio destro di suo zio ad occuparsi di sistemare i suoi errori.
Ora toccava a lui.
Quindi trova una soluzione.
Una soluziona c’era. Mentre Thomas lo guidava attraverso il quartiere aveva pensato. Aveva riflettuto e si era reso conto che non c’era un modo per fermare gli Infetti senza ucciderli. Non gli ultimi che avevano affrontato: quelli che aveva visto nel castello erano più forti, più resistenti. C’erano volute tre squadre di Auror, e molti, troppi feriti, per metterli in sicurezza. Gli Infetti di Notturn Alley erano persino peggio.
Che esperimenti gli hanno fatto per farli diventare delle macchine da guerra senza scrupoli?
Percepiva onde di magia simili a tsunami provenire dal suo predatore personale: onde che montavano, che raggiungevano picchi che nessun mago, neppure durante il più sanguinario dei duelli avrebbe raggiunto. Era come osservare un vulcano in procinto di esplodere.
Basterebbe pochissimo per innescare il processo.
E ucciderlo.
Chiuse gli occhi, respirando l’odore della pioggia, quello della notte e riempiendosene le narici perché era molto meglio quello, che l’odore di sangue.
Aveva promesso che non avrebbe più usato la magia per fare del male ad un innocente. E gli Infetti erano quello: resi bestie, forse, ma una volta erano stati streghe e maghi con una famiglia, degli affetti. Persone normali che aveva giurato di proteggere.
Anche da se stesse.
Ma Milo stava morendo e suo cugino poteva fare la stessa fine. L’intera Londra poteva fare quella fine.
Doveva prendere quella decisione.
Prese quella decisione.

Ama era riuscita a trovare la squadra di ricognizione. Stavano cercando nel settore sbagliato.
Non ci aveva messo che qualche attimo a spiegare la situazione, avvalendosi del suo peggior tono di comando, quello che i suoi colleghi malignavano l’avrebbe portata fino al gabinetto del presidente, anche solo scavalcando corpi ancora caldi.
Se funziona, perché non usarlo?
Si era fatta poi dire dove questo Magie Sinister fosse, ma non seguì i due uomini che vennero mandati là. Seguì invece il resto della squadra, diretta verso la più grossa manifestazione magica che avesse mai visto. Persino le nubi sopra la piazza centrale avevano cambiato colore, illuminate quasi a giorno e percorse da lampi bianchi. La vedeva e la provava sulla pelle, d’oca e sui capelli, elettrizzati.
Prince ha trovato quello peggiore. La sua solita fortuna.
Erano corsi fino alla piazza e lì li avevano trovati. O meglio, lì avevano visto Sören alle spalle dell’Infetto, che reso cieco dalla malattia non poteva vederlo.
Poteva annusarlo e percepire la sua aura magica però, ma il tedesco aveva eluso quei due sensi: era sottovento e doveva aver usato quel suo bracciale, quello che controllava l’emissione della sua magia.
Sören era così invisibile. Fece per raggiungerlo, urlargli di togliersi di lì, quando il sergente auror la afferrò per un braccio. Voleva liberarsi ma poi capì perché era stata trattenuta.
L’Infetto non si era ancora reso conto di loro. O erano troppo lontani, o lui era troppo concentrato a cercare di capire dov’era Prince. Benchè i suoi sensi fossero iper-stimolati, Sören era riuscito a trovare il suo angolo cieco.
Cosa vuole fare?
Una frazione di secondo e Sören si Materializzò accanto all’Infetto. Quel rumore, quello scoppio, non poteva non esser percepito, quindi l’altro mago si voltò. In quel momento, il tedesco gli piazzò la mano sul petto, si sganciò il bracciale e liberò tutta la propria magia.
Ama conosceva la storia del nucleo di bacchetta impiantato nel braccio. Sua madre glielo aveva raccontato per chiarezza, perché potesse giudicare il tedesco con tutte le informazioni del caso.
Non ci aveva mai creduto. O meglio, non aveva creduto che quell’operazione assurda facesse poi tanta differenza. Un nucleo era pur sempre un nucleo, ovunque lo mettevi, che avesse un involucro di legno o uno di carne, no?
No: perché nessuna bacchetta, neppure la migliore, neppure la più potente o la più in sintonia col proprio mago poteva deflagrare tutta quella magia.
È questo quello di cui siamo fatti?
Gli occhi le si riempirono di luce e per un momento contemplò la magia di Sören, pura, senza barriere o mezzi mediani. Fu come guardargli l’anima.
Poi realizzò cosa stava facendo. Stava scaricando tutto sé stesso dentro l’Infetto, lo stava caricando come una pila.
Lo vuole portare al punto di rottura. Lo vuole far esplodere!
Perché non c’era nessuno in giro, e perché non ci sarebbero stati danni collaterali.
Perché crede che non ci sia nessuno. Non ci ha visti!
“Via di qui!” Urlò agli auror. “Scappate! Sta per collassare!”
E tu, razza di imbecille? Cos’hai intenzione di fare?!
Smaterializzarsi forse. E doveva essere l’idea, perché l’Infetto stava cominciando ad assumere quell’aria traslucida che era già stata riscontrata, secondo le testimonianze degli abitanti del quartiere che avevano soccorso, nell’uomo che era esploso creando quel massacro. Non si muoveva, accecato, pieno, ricolmo di magia.
Ma Sören, invece che mettersi in salvo, si accasciò sulle ginocchia come un sacco vuoto.
Ha perso le forze. Quel cretino ha perso le forze!
“Prince!” Gli gridò. Lo avvertì, più di quanto si meritasse in effetti. Uno schiocco, occhi chiusi, una Materializzazione. Lo afferrò e lo Smaterializzò via di lì prima che l’intera piazza deflagrasse.
Giuro che quando torniamo in America, lo mando a fare le multe alle scope.

****

Milo Meinster stava morendo.
Non ci voleva un luminare della Medimagia per capire che il Magonò si stava avviando ad ampi balzi Oltre il Velo. E Tom non aveva la minima idea di come fermare la cosa.
Ad intuito aveva usato un ferula per tamponare la ferita, ma l’aveva già usato due volte, mentre le bende continuavano ad inzupparsi.
Non era abbastanza: Meinster aveva smesso di emettere quei lievi lamenti con cui era entrato a Sinister, per poi perdere completamente i sensi. Sembrava morto, con le labbra violacee e la pelle fredda e sudaticcia. Si stava raffreddando, e neppure riscaldarlo con un incantesimo che soffiava constantemente aria calda pareva sortire qualche effetto.
“Sta morendo, fa’ qualcosa!”
E non aiutava nemmeno il Magonò rosso-crinito che, risvegliatosi dal suo stato di shock, aveva cominciato a dargli ordini come se fosse uno dei suoi compagni di merende.
“Se hai idee migliori, prego, fatti avanti.” Sibilò, rassegnandosi al fatto che il tizio non avrebbe abbassato la voce neppure minacciato di morte.
Se Prince non riesce a fermarlo, l’Infetto saprà esattamente dove trovarci.
Il peldicarota si tese come se volesse tirargli un pugno, ma si trattenne: doveva rendersi conto che nessuno di loro due poteva fare veramente qualcosa.
“Sta crepando.” E invece no. “A che cazzo ti serve la bacchetta? Per grattartici le palle?!” 
“A poco altro, idiota di un Magonò!” Sbottò con rabbia, senza riuscire a trattenersi. Ormai non gli restava che dipingersi un bersaglio sulla fronte e uscire dalla porta chiamando a gran voce il Triste Mietitore. “La magia curativa non funziona su di voi, e non ho qui un kit di pronto soccorso! Ma forse lo hai tu?”
“Fottiti, mago!” Gli sputò contro. Non doveva essere molto più grande di lui, forse persino più giovane. Dietro il gonfiare il petto e mostrargli i muscoli era terrorizzato.
E non ha torto. Stiamo guardando morire qualcuno, chiedendoci se saremo i prossimi.
Se solo potessimo uscire di qui…
Ma finchè la barriera era attiva, come procedura auror imponeva, non potevano andarsene. Il resto del quartiere o si era barricato in casa, pregando che il lockdown finisse il prima possibie, o era stato messo in sicurezza dagli auror.
Che almeno ci sono. Esistono. Non sono stati fatti fuori.
Sperava solo si sbrigassero a venirli a prendere.
“In questo negozio di merda non c’è niente che possa aiutarci a farlo stare meglio?” Gli domandò strappandolo dalle sue riflessioni. “Non vende roba di magia nera?”
“Esatto, dimmi come un artefatto oscuro potrebbe aiutarlo?” Ribattè irritato. “Forse una Mano della Gloria? O una collana maledetta? Questo posto vende oggetti la cui funzione è opposta a quello che cerchiamo di fare noi.” Si passò le mani trai capelli, e con orrore si accorse di averli incrostati di sangue. Doveva averli sporcati pettinandoli con le dita, non in condizioni migliori.
Dannazione.
Essere impotenti era la sensazione peggiore del mondo, e con Von Hohenheim pensava di averne avuto abbastanza per una vita intera.
Mi sbagliavo.
Se Albus fosse stato lì probabilmente gli avrebbe fatto notare che non era il caso di fare una scena madre, che non era lui quello che stava dissanguandosi sul pavimento e che avevano vissuto ben di peggio, e sulla propria pelle.
Se Al fosse qui…
Si diede dell’idiota – mentalmente, fosse mai che il Magonò prendesse spunto  - e infilò la mano nella tasca dei pantaloni. Lo Specchio Comunicante non avrebbe mai funzionato al di fuori della barriera magica auror, ma forse il cellulare…
Ingoiò un moto di trionfo quando vide un’esile tacca, utile a malapena per una chiamata disturbata; ma comunque, bastava. Notturn Alley era incastrata nel cuore stesso di Londra, dove la ricezione della sua compagnia telefonica era ottima. Certo, adesso era al minimo, e solo grazia al congegno di Hugo, ma bastava.
Digitò il nome del compagno.
Rispondi.
Se era al lavoro poteva non avere con sé il telefono, non gli era permesso, e solo in rari casi trasgrediva quella regola – Smethwyck lo aveva messo alla gogna più volte quando nel periodo di follie di Lily se lo teneva sempre incollato alle chiappe.
Ti sei preoccupato perché non ti ho chiamato per cena. Devi averlo fatto. Ho almeno cinque chiamate perse.
Devi aver pensato di portartelo dietro, anche solo per rispondermi male se ti avessi chiamato.
Vero?
Vero. “Tom! Si può sapere dove diavolo sei finito?! È tutto il pomeriggio che ti chiamo! Rupert è preoccupato a morte per te, mi ha detto che eri uscito a controllare il casino a Notturn Alley e…”
Ignorò l’occhiata sconcertata del Magonò. Non ci teneva a sapere l’espressione che doveva aver dipinta in faccia. Stava rovinando la sua reputazione, ne era certo. 
“Sono a Notturn Alley.”
“Sei … Oh Merlino.” Dall’altro lato il rumore del traffico era insistente. Doveva essere uscito da poco. “… perché?”
“Non ho tempo per spiegartelo.” E non ne aveva davvero. Nessuno di loro. “C’è una persona ferita davanti a me. Milo Meinster.” Gli spiegò aggiungendo dove e come. “Come evito che muoia?”
“Portandolo in ospedale?” Gli rispose di getto. Ci riflettè. “Ma non potete, perché gli auror hanno chiuso gli accessi a Diagon Alley. È il protocollo Demiurgo, vero?” Fece una pausa. “Entrare, ma non uscire. Forse potrei…”
“Non ti azzardare a raggiungermi. C’è un Infetto a piede libero … forse più di uno.” Lo fermò allarmato. “E comunque avranno messo dei Tiratori a piantonare l’area.”
“ … hai ragione.” Lo tranquillizzò. “Siamo bloccati allora.” 
“Sì.” Convenne. “Sta morendo, Al.”
Davanti ai miei occhi. Nessuno può morirmi davanti.
Non più.
“Va bene.” Lo udì rispondere con calma surreale, in piena modalità Guaritore. “Va bene … l’hai fatto stendere a terra?”
“Sì.”
“Perfetto, stai tamponando la ferita?” Stava parlando con un dottore in quel momento, e non solo con il suo salvatore personale. Realizzarlo fu bizzarro. Confermò. “Bene, allora devi tenerlo idratato, avrà perso molto sangue.”
“Non immagini quanto…”
“Immagino, invece, per questo dovete evitare che vada in stato di shock. E tienilo al caldo.”
“Lo sto facendo. Deve bere?”
“No, non ho idea se l’intestino sia stato lacerato e non c’è tempo per insegnarti un incantesimo diagnostico per appurarlo.” Rimase in silenzio e anche a quella distanza Tom potè percepire gli ingranaggi di quella testa, troppo spesso sottovalutata, girare a pieno ritmo. “C’è un camino lì?”
“Sono dentro Magie Sinister.”
“Perfetto. Ti mando qualcosa via Metropolvere.”
“Il protocollo…”
“Si riferisce alle persone, non agli oggetti.” Gli fece notare. “Sono appena uscito dal San Mungo. Dammi cinque minuti. Dentro la ricezione fa schifo, ti richiamo io.”
“Al.”
“Andrà tutto bene. Ti chiamo io.” La voce si fece più carezzevole e mai come in quel momento avrebbe voluto averlo accanto. Non era un dannatissimo Guaritore, lui. Le persone non le salvava. Era un miracolo se non aveva rovinato quelle a cui teneva di più.
“Sbrigati.”
La chiamata si interruppe e Tom serrò le dita sullo schermo. Avrebbe preferito mille volte affrontare di nuovo suo padre che aspettare che l’idea di Al prendesse forma.
“Chi hai chiamato?” Chiese il Magonò, che per tutta la conversazione era rimasto silenzioso, e con una mano premuta a tamponare la ferita. Non glielo aveva chiesto, ma era stato felice che lo facesse al posto suo. Tutto quel sangue gli aveva dato la nausea.
“Il mio compagno, è un Guaritore.”
Il ragazzo fece una smorfia non proprio in linea con l’atmosfera. “Da quando conosco Milo è il festival della salsiccia. Ci sei andato anche tu o pratichi solo con le bacchette?”
Davvero? Adesso?
Poi si accorse del ghigno tremulo dell’altro, e delle pupille che saettavano verso la porta ad ogni spiffero, ad ogni scricchiolio proveniente dietro di essa.
Perché la gente muore dalla voglia di parlare quando è terrorizzata?
Forse perché non restava molto altro da fare, a parte rannicchiarsi e pregare.
Non era un’alternativa valida.
“Ho un ragazzo.” Chiarì mentre teneva d’occhio il camino. Quanto ci avrebbe messo Albus? “E non ho capito la battuta.”
“Ti ho chiesto se ti scopi solo i maghi.” Gli spiegò magnanimo.
“Che differenza fa?” Che diavolo stava facendo? Stava fabbricando a mano la soluzione?
Il rosso lo squadrò come se si fosse Trasfigurato di colpo in un alce. “Voi maghi non lo fate diverso tra di voi?”
La domanda era genuinamente curiosa, e per un momento valutò cosa rispondergli. Non che avesse di meglio da fare. 
“Certo, facciamo sesso a mezz’aria e spariamo fuochi d’artificio dal pene quando raggiungiamo l’orgasmo.”
“Mi stai prendendo per il culo?” Un ghigno gli stava premendo sulle labbra. Cencioso, ma con il senso dell’umorismo. 
“È una tua impressione.” Lo osservò mentre si concentrava nel mantenere la pressione sulle garze costante, nonostante si tenesse a sedere per pura forza di volontà. “Sei il suo amante?”
Malpelo fece una smorfia schifata, da bravo maschio etero qual’era. “No, a me piace la passera. Ma Meinster è … un amico.” Distolse lo sguardo, da lui e dalla scena. “Non voglio che crepi con in testa le cose che gli ho detto.” Non stava parlando a lui, quanto a sé stesso.
Perfetto, un Magonò con una crisi di coscienza.
Quella storia stava mettendo a nudo fin troppa gente.
Come se mi interessasse.
“A proposito di cosa?”
“Non sono cazzi tuoi.”
Per l'appunto.
L’amena conversazione fu interrotta da uno sbuffo di cenere verde che franò nel camino. Tom si alzò, andando a raccogliere un fagotto accuratamente ripiegato. Nello stesso momento squillò il telefono.
“È una flebo con della soluzione fisiologica.” Gli spiegò Albus. “L’ho presa in Accademia, ne tengono una scorta per le lezioni di Medicina Comparata. È Babbana, quindi dovrebbe funzionare anche per un Magonò.”
“… Albus, non ho idea di come si prenda una vena.”
“Io sì.” Si inserì il Magonò e Tom si chiese dove lo avesse imparato. Ma, appunto, non erano cazzi suoi. “Questa roba lo farà stare bene?”
“Non lo farà peggiorare, che è il massimo che ci possa aspettare data la situazione. Non lo muovete e tenetelo al caldo.” Rispose Al, e a quel punto Tom dovette premere il vivavoce. “Quella flebo durerà per almeno due ore.”
“Lo terrà in vita, per due ore.” Tradusse. “E poi?”
Al, che era il meraviglioso Potter che era, ebbe la risposta pronta. “E poi, se sarà il caso, ci inventeremo qualcos’altro.”

****

Ministero della Magia, Ufficio Auror.

Harry era arrivato da una manciata di minuti al Ministero, e già solo entrando in ufficio aveva percepito la gravità della situazione.  Essendo cinque squadre quel gruppo di maghi e streghe percepiva se stesso come una famiglia allargata e le recenti defezioni in direzione San Mungo avevano scosso l’animo di chiunque, dall’agente più maturo alla recluta appena uscita dall’Accademia.
Appena entrato era stato infatti attorniato dai suoi uomini, rimasti tutti ben oltre il turno, e aveva dovuto chiedere loro più volte di tornare a casa, dalle proprie famiglie, prima di essere ascoltato. Accanto a lui Malfoy era una presenza scura e nervosa.
“Potter.” Lo richiamò all’attenzione: odiava essere trascurato, sin da quando erano ragazzini. “Come intendi procedere?”
Non gli rispose, salendo invece due a due i gradini verso il suo ufficio. Rachel, con l’abnegazione che gliela rendeva tanto preziosa, apparve alla porta senza che ci fosse bisogno di chiedersi se non fosse già andata a casa.
“Chiama il Capitano Tiratore Smith.” Le disse. “Voglio avere una panoramica della situazione a Notturn Alley.”
“Intendi mandare più squadre o rimboccar loro le coperte, ora che li hai congedati tutti?” Lo incalzò Malfoy.
Mentre la strega spariva a fare la chiamata, gli rispose. “Prima di mandare altri ragazzi ad infognarsi là dentro voglio capire cosa sta succedendo. È un problema?”
L’uomo serrò le labbra, sconfitto dalla logica. “Permettimi una domanda.”
Addirittura chiede il permesso. Una novità!
“Dimmi.”
“Perché diavolo avete chiuso le entrate e le uscite dal quartiere? Che razza di strategia delirante è, se condannate tutti quelli che sono dentro a non uscire finchè il problema non è risolto? Quella di un’arena, forse?”
In condizioni normali l’altro mago si sarebbe risposto da solo, ma la preoccupazione per il figlio, che in sole quarantotto ore era riuscito a partecipare a ben due blitz con il rischio concreto di rimetterci le penne, offuscavano la sua capacità di giudizio. Harry lo comprese e rispose quindi con tutta la pazienza che possedeva.
“È la procedura che hanno raccomandato dal San Mungo. Abbiamo a che fare con persone contagiose, se affrontate. La procedura prescrive di chiudere gli accessi, di mettere in sicurezza i civili nelle proprie case e di raccomandar loro di chiudercisi dentro perlomeno con un Colloportus. Dobbiamo evitare di diffondere la malattia, e finchè gli Infetti non sono neutralizzati non possiamo permetterci il lusso che qualcuno entri od esca dal quartiere. Draco, non pensare che prenda questo lockdown sottogamba.” Aggiunse. “Stiamo parlando di Notturn Alley, siamo nel cuore dell’Inghilterra magica. Sono consapevole che abbiamo un assedio sotto casa.”
All’ex serpeverde fu risparmiato di rispondere perché Grace tornò indietro con il fuoco portatile che balugginava verdastro, segno che una connessione era stata stabilita. “Smith.” Chiamò il Tiratore. “Sei lì?”
“Potter.” Rispose. “Mi chiedevo quanto ci avrei messo a sentire la tua voce.”
“Poco, come vedi.” Ribattè. “Com’è la situazione?”
“Da qua fuori non vediamo nulla. C’è stata un’esplosione poco fa però.”
Merda.
“Dove?”
“Nella piazza principale, almeno crediamo. Sinceramente, siamo più occupati a tener calma la gente di Diagon Alley che a fare ipotesi su come stiano andando le cose là dentro.” Persino il solito tono antipatico pareva smorzato dalla preoccupazione. “I tuoi uomini sono dentro da un’ora, e ancora non c’è segno che la caccia all’uomo sia finita. Se fossi in te, manderei altre squadre.”
Ignorò l’occhiata penetrante di Malfoy. A quanto pareva, tutti si stavano assumendo l’onere di consigliargli il da farsi. “Ti ringrazio Zacharias.” Rispose asciutto. “Continua a mantenere il perimetro, e per favore…” Il tonò si caricò di tutto fuorchè una richiesta graziosa. “… evita di lasciare interviste.”
Come nel periodo successivo al rapimento di Thomas.
“Per chi mi hai preso, per un fringuello di Cooperazione?” Ribattè con un’indignazione del tutto ingiustificata. Harry mascherò comunque un sorriso percependo un’ondata di malumore provenire accanto a lui. “Il problema non siamo noi! Ci stiamo ammazzando di no-comment, e non è facile visto che ci sono gli scarafaggi della Gazzetta a svolazzare qua attorno! Ma la gente parla, e non possiamo impedirglielo.”
“Non pretendo che lo facciate.” Sarebbe stato controproducente peraltro: imporre il silenzio al popolo magico era catapultarlo in deja-vu al sapore di Voldemort. La reazione poteva essere imprevedibile e pericolosa. “Fate il vostro lavoro, tutto qui.”
“È il motivo per cui arriviamo a fine mese.” Chiosò sarcastico l’uomo. “Passo e chiudo.”
“Passo e chiudo.” Rispose, perché non c’era altro che potesse estrapolare dai Tiratori.
È il momento di entrare il gioco.
Aveva ragione Malfoy, in senso lato: Notturn Alley si era trasformata in un’arena di gladiatori.
E per quanto ne so, a volte vincono le bestie.
“Draco, riesci a farmi aprire l’accesso di un camino?”
L’uomo capì al volo le sue intenzioni. “Vuoi andare lì dentro da solo?”
“Voglio rendermi conto della situazione, e l’unico modo è farlo di persona.” Rispose facendo un cenno all’assistente di andargli a prendere l’uniforme d’assalto. Ci si sentiva ben più a suo agio che in quella di gala che era stato costretto ad indossare per la Conferenza. “Non rischierò la vita di un altro solo dei miei uomini finchè non avrò le informazioni che mi servono.”
Normalmente avrebbe lasciato carta bianca a Ron, fidandosi della sua esperienza, ma quello non era un caso normale. Al maniero dei Prince aveva perso tre agenti.
Non poteva permettere che nessun altro giacesse in un lettino del San Mungo in attesa di una cura che forse non sarebbe mai arrivata.
Se dovremo neutralizzare … e sul serio, gli Infetti…
L’avrebbero fatto. L’Harry di un tempo avrebbe puntato i piedi all’idea, avrebbe rischiato tutto per salvare capra e cavoli.
Da adulto sapeva che c’era un momento in cui si doveva scegliere.
Il Bene Superiore.
Silente sarebbe stato fiero di lui. Purtroppo.
Malfoy gli lanciò un’occhiata che riassumeva bene cosa pensasse di quella sua iniziativa, ma annuì. “Dammi mezz’ora.”
“Quindici minuti.”
“Dannazione Potter!” Sbottò prima di andarsene in un gran frusciare di mantello e vesti. 

Fu di parola. Dopo quindici minuti esatti tornò, indicando con un cenno della testa il camino all’interno dell’ufficio. “Puoi entrare a Notturn Alley da Magie Sinister, è stato creato un collegamento diretto.”
Harry annuì con un cenno della testa, infilando la propria bacchetta nel fodero. Il corpetto, fratello di tanti scontri, gli aderiva come una seconda, comoda pelle.
Rimarrò e morirò come un uomo d’azione.
Non riusciva a vedersi davvero in nessun altro ruolo, anche se la vita gli aveva messo davanti una scrivania e pile e pile di pergamene. “Mi farò sentire.” 
Malfoy, prima che potesse metter piede nel focolare, lo afferrò per un braccio. “Non serve che ti dica che la tua presenza non dovrà esser notata, vero?” Gli domandò retorico. “Hai sentito Smith. Fuori da Notturn Alley c’è uno schieramento di giornalisti. L’ultima cosa di cui il Ministero ha bisogno è di avere il suo bambino prodigio che si butta a rilasciar interviste senza le mediazioni adeguate.”
“Sono in grado di affrontare un paio di piume.” Replicò liberandosi dalla presa, che farsi trattare come un ragazzino non era nella sua lista di cose da fare. E aveva fretta, comunque. “Lo faccio da una vita.”
Il purosangue storse le labbra in un sorrisetto di sufficienza. “Sì, come eroe e cocco di Inghilterra. Il punto è che stavolta vorranno un capro espiatorio e indovina chi sarà il prescelto? Potter, sono morte delle persone perché vi siete fatti scappare dei pazzi furiosi!” Lo fermò prima che potesse ribattere. “È quello che la stampa darà a bere ai nostri bravi cittadini. Evita di farti linciare vivo quindi, vuoi?”
“Farò il possibile.” Rispose prima di infilarsi dentro il camino e pronunciare, chiaro e ben scandito, il nome del negozio. 

****

Notturn Alley, Magie Sinister.

Avrebbe finito per rimetterci la vita.
Se non per morte violenta, almeno per spavento. Perché quando qualcosa di grosso, pesante e vivo si Materializzò all’interno del camino di Magie Sinister, Tom fu certo di aver perso almeno cinque anni di vita.
Fu quindi con la bacchetta in pugno che scattò in piedi, mentre Peldicarota lo imitava, con un coltello utile come una forchetta davanti ad un piatto di zuppa. Avrebbe quindi dovuto proteggere non solo Meinster, esanime e sempre più debole, ma anche lui.
Io, paladino dei Maghinò. C’è di che farne ironia.
Fortuna volle che la cosa che uscì dal camino scrollandosi la cenere di dosso fosse in realtà un qualcuno.
Un qualcuno che conosceva molto bene. “Harry!” Esclamò frenando l’istinto di corrergli incontro come un bamboccio bisognoso.
L’uomo si tolse gli occhiali coperti da due dita di fuliggine e starnutì. No, non pareva proprio l’entrata di un Salvatore, almeno a giudicare dall’espressione sconcertata del delinquentello accanto a sé.
L’eroe ragioniere.
“Tom?” Uscì dal focolare sbattendo le palpebre come un gufo. “Cosa…”
“Lunga storia.” Lo fermò. “Che ci fai qui?”
L’uomo non parve intenzionato a dargli spiegazioni. “Io lavoro. Tu, invece, dammi la versione breve.”
Decise di vuotare il sacco. Con tutte le bugie che gli aveva rifilato cinque anni prima, ormai il padrino sapeva riconoscere alla perfezione i suoi tentativi di mistificare la verità. 
“Prince ti ha costretto?” Gli venne chiesto a conclusione del suo racconto.
Dovette frenare uno sbuffo ironico. Dall’espressione del padrino non gli pareva il momento.
“No, ma l’avreste ritrovato a Mayfair se non l’avessi guidato fin qui.” Esitò. “Gli ho mostrato un ingresso secondario. Non erano ancora arrivati i Tiratori, quindi abbiamo avuto via libera.”
Harry si astenne dal commentare, anche se l’espressione parlava da sola.
Sei nei guai, ragazzo.
Era una fortuna che ormai fosse troppo grande per un castigo.
Forse.
Tom incrociò quindi le braccia al petto preferendo contemplare una mensola piena di teste di Troll dall’aria particolarmente ributtante piuttosto che affrontare ulteriori recriminazioni in forma verbale. Harry nel frattempo si guardò attorno e prese coscienza della situazione. Si chinò su Meinster ad esaminare le garze stazzonate e il colorito pallido. Lanciò invece un’occhiata confusa alla flebo. “Questo ragazzo ha immediato bisogno di assistenza medica. Non è il Magonò assistente di Prince?”
Confermò con un cenno della testa. “L’abbiamo trovato tra le macerie.”
L’uomo fece un cenno verso il camino. “Il passaggio è aperto. Portalo al San Mungo.” Squadrò con attenzione anche lui, la sua camicia stazzonata, i capelli impastati di sporco e chissà cos’altro. “Credo che abbiate tutti bisogno di attenzioni mediche.”
“Io sto bene.” Ribattè. “Il sangue che ho addosso non è mio. Mi sono sporcato trasportandolo qui.” Aggiunse con una smorfia disgustata: avrebbe dovuto fare almeno cinque docce per togliersi quell’odore di dosso.
Harry a questo gli diede un’inspiegabile pacca sulla spalla, condendola anche con un sorriso affettuoso. “Hai fatto un buon lavoro.”
Oh.
Non era più un ragazzino bisognoso di rassicurazioni ed elogi, eppure dovette di nuovo frenare, per la seconda volta, l’impulso di andargli vicino e chiedergli se tutto sarebbe finito bene.
Perché era Harry Potter, e il suo compito era fare finire gli incubi. Di questo, ne era e sarebbe sempre stato sicuro.
“Non è stato tutto merito mio. Ho chiamato Al.” Si sentì in dovere di aggiungere. “È stato con me al telefono fino a poco fa, per aiutarmi.” Poi la batteria dell’altro si era scaricata e lo aveva lasciato con la promessa di cercare una presa elettrica.
Non serve più, per fortuna. C’è Harry.
“Sei riuscito a comunicare con lui nonostante la barriera?”
Estrasse lo smartphone dalla tasca dei pantaloni. “Con questo. Non ha una ricezione fantastica, ma…”
“Mi serve.” Tagliò corto. “Posso comunicare con chiunque abbia un cellulare fuori da qui?”
“In teoria.” Mise le mani avanti. “Qui dentro prende. Non posso assicurarti che fuori lo faccia però. La magia disturba le celle telefoniche in modo irregolare.”
Harry si rigirò tra le mani il telefono. Nonostante fosse nato nel Mondo Babbano aveva da tempo abbandonato la tecnologia, e se ne aveva qualche lume, era di quella degli anni novanta: sperava riuscisse ad usarlo. “E chi devo ringraziare invece per l’entrata in scena di Prince?”
“Al non c’entra.”
“Non ne sono convinto.” Fu la risposta e sarebbe stato inutile negare: ormai nell’immaginario comune della loro famiglia, lui e Albus erano due menti al servizio di un solo scopo. “Comunque, dov’è? Hai avuto notizie dagli altri auror? Li hai visti?” Snocciolò in rapida successione.
Certo che se vogliono tenerci fuori, non fanno molto per darcelo ad intendere.
Io e Al ormai siamo gli informatori ufficiali dell’ufficio Auror.
Che fortuna.
Erano domande a cui però, nonostante tutto, era in grado di rispondere. “Credo che Prince sia qua attorno. Ho chiamato Malfoy, è con la squadra di Ron, credo dall’altra parte del quartiere. Non so dove si trovino, ma penso che l’obbiettivo sia riunirsi. Da quel che mi ha detto, almeno.”
“Bene.” Si avvicinò ad una delle finestre, spiando oltre le spesse tende damascate. “La strada è sgombra.” Disse più a se stesso che a lui. “Vado.”
“Harry…” Si era stufato di preoccuparsi per gli altri. Davvero. Non era nelle sue corde, e lo faceva sentire … debole.
“Andrà tutto bene, Tom.” Ripetè la stessa frase che gli aveva detto Al, ma il sorriso che gli rivolse lo fece stare peggio. Non era tagliato per quel genere di situazioni ad alta tensione emotiva, dove era lui a doversi preoccupare per gli altri e non viceversa.
“Voi Potter non sapete dire altro?” Borbottò osservando con blando interesse Malpelo fingere di non essere lì, e soprattutto, di non essere in compagnia del capo di una forza di polizia.
Harry ridacchiò. “Sta’ lontano dai guai, intesi? Dritto al San Mungo.” Gli ordinò come un decenne indisciplinato.
Si sentiva precisamente quello. “A stare a contatto con la tua famiglia, Harry, ho ereditato la vostra maledizione.” Rispose a tono. “Sono loro a trovarmi.”

****

Riprese coscienza omaggiato di un getto d’acqua gelida. Un secchio d’acqua? No, decise Sören sputando e tossendo: una bacchetta.
“Alla buon’ora!” Disse Ama. Si ritrovò addossato ad un muro, con la ragazza accovacciata davanti a lui. “Sei vivo?”
“Suppongo.” Borbottò cercando di suonare dignitoso. “Dove…”
“Sempre a Notturn Alley … e sempre nei guai.” Gli rispose, mentre faceva un cenno circostante per comprendere il vicoletto senza sfondo in cui si erano rifugiati con una delle squadre auror. 
“L’Infetto…”
L’espressione di Ama bastava per fargli capire che il suo piano aveva funzionato. E che  non ne era particolarmente contenta.
Per eufemizzare.
“Hai fatto una cosa idiota, te ne rendi conto?!” Gli chiese, ma era retorica, perché continuò. “Avresti potuto rimanere ucciso!”
“Non avevo messo in conto di perdere le forze a quel modo.” Rispose a tono. Nelle sue intenzioni voleva scaricare addosso all’Infetto una quantità di magia sufficiente per portarlo al collasso, ma non aveva immaginato che questo l’avrebbe assorbita come una spugna secca. “Era come … se me la stesse succhiando via di dosso.”
“Cioè?”
“Quello che ho detto. Non appena l’ho toccato ho sentito la magia fluire via da me, senza controllo.” Tentò di tirarsi in piedi e per poco non ripiombò a terra. Per fortuna l’altra fu pronta a mettergli una mano sotto il gomito e sorreggerlo. “Pensi che volessi ridurmi così?”
“No,” Ammise preoccupata. “… Dannazione. Ne rimangono ancora due, barricati in una drogheria a qualche strada da qua.”
“Barricati?”
Prima che Ama potesse rispondergli il sergente della squadra auror li raggiunse. “È arrivata una chiamata dai ragazzi che ho mandato a Magie Sinister. Non c’è più nessuno là dentro.” Intercettando la sua occhiata aggiunse. “C’erano tracce del fatto che il camino sia stato usato di recente però. Forse sono riusciti ad attivare la Metropolvere ed andarsene.”
“Dev’essere il caso.” Convenne Ama mettendogli una mano sulla spalla. “Sono sicura che tuo cugino e Milo stiano bene.”
Annuì. Non poteva far altro in quel momento, se non sperare che gli inglesi avessero ragione e che fossero entrambi in salvo e diretti al San Mungo. “Quale sono gli ordini Sergente?” Chiese.
Ama gli scoccò un’occhiata che valeva esattamente la misura di uno scappellotto. “Niente ordini.” Lo apostrofò. “Con lo spettacolino che ci hai appena offerto sarà un miracolo se non dovrò firmare scartoffie e rapporti per il resto della mia vita!” Prima che potesse obbiettare aggiunse. “Sei sotto la mia responsabilità, te lo sei scordato?”
Sì, se lo era scordato ma evitò di dirglielo preferendo piuttosto un approccio diverso. Lily gli aveva insegnato a parlare quando si voleva qualcosa.
“Sono l’unico immune al contagio.” Abbassò il tono di voce per non farsi udire dagli auror. “E mi avete chiamato voi.”
“Per darci una mano, non per partire per una crociata solitaria!”
“Volevo raggiungervi, ma l’Infetto mi ha trovato prima.”
Ama serrò le labbra in una linea ostinata. “Hai sempre la risposta pronta?”
“Quando è necessario.” 
“Sören…” Sospirò. “Tu non dovresti usarla la bacchetta, figuriamoci fare quello che hai fatto prima.”
Sentì un nodo allo stomaco.
Ho fatto quello che ritenevo giusto per proteggere Milo e Thomas.
Ma la sostanza non cambia. Ho ucciso un cittadino inglese.
“Mi prenderò la responsabilità di ciò che ho fatto.”
“È questo che mi preoccupa.” Il che non aveva senso: non le aveva appena detto che l’avrebbe assolta dalle sue responsabilità di superiore?
“Non mi pento di quello che ho fatto.” Ribadì. “Delle persone sono morte. Dovevo fermarlo.”
“Non mi devi convincere.” Ribattè dura. Ancora più inspiegabile. Se non era arrabbiata per quello, per cosa? “Comunque, ci penseremo a tempo debito. Dov’è la tua bacchetta?”
Mostrò le mani vuote, pensando con una fitta di dolore al proprio legno, ormai un agglomerato di fibre e schegge perso chissà dove. In quelle macerie di certo sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. “È stata distrutta durante la colluttazione. In ogni caso, non sarei granchè utile nell’offesa al momento … la mia magia ha bisogno di riprendersi.”
Ama fece una smorfia di comica esasperazione. Era la prima volta che gliela vedeva fare: doveva davvero averla messa alle corde. “Prince, sei incredibile!” Sbottò. “Come pensi di poterci essere d’aiuto in queste condizioni? Vattene al San Mungo, visto che il camino di quel Sinister è attivo! Basta fare l’eroe!”
Cercò di trovare un motivo per protestare, ma l’altra aveva ragione. Al momento era utile come un ombrello sfondato in un giorno di pioggia. Solo che l’idea di tornare in albergo, o ancor peggio, di andare in ospedale, gli faceva chiudere lo stomaco dall’ansia.
Milo. Non voglio affrontare la faccenda di Milo.
Non era preparato per quello. Era un soldato, in quello era bravo. Ad agganciare un obbiettivo e ad abbatterlo. Ad essere una persona, un amico … meno. Molto meno. Stava imparando, ma non era abbastanza. Non lo era mai.
“Potrei…”
No.” Lo bloccò. “Va’ al San Mungo. Sono stata chiara?”
Già, c’era anche il rovescio della medaglia: come soldato, non poteva disobbedire ad un ordine diretto.
“Sissignore.”


Altro che scartoffie…
Il problema, pensò Ama mentre guardava due auror allontanarsi in compagnia di un claudicante Prince, non era tutto il lavoro che avrebbe dovuto fare per mettere una pezza all’idea geniale dell’altro.
È che questa storia avrà una risonanza pazzesca.
Tutta quella storia. Le due esplosioni, i morti, gli Infetti. Se gli inglesi fino a quel momento erano riusciti a tener buona l’opinione pubblica, dopo quella carneficina difficilmente la stampa sarebbe rimasta in silenzio.
E ci andremo tutti di mezzo.
Prince in testa. E non avrebbero neppure potuto rimpatriarlo: con la faccenda della Talpa né lei né il tedesco potevano lasciare il suolo britannico.
Che razza di casino…
Non avrebbe mai pensato di finire in un vespaio simile, neppure nelle sue più fosche previsioni.
Guardò la schiena fasciata di rosso dell’auror di fronte a lei, mentre compatti si avviavano verso la drogheria: nessuno era al sicuro ormai. E le reciproche fedeltà sarebbero state presto testate.
Un rumore alle loro spalle li fece voltare: l’ultimo auror della fila levò di fronte a sé la bacchetta, subito imitato dagli altri. Lo stato di allerta durò poco però. Da dietro l’angolo spuntò una figura che tutto il Mondo Magico conosceva, anche solo per averla vista ritratta in qualche articolo o libro.
“Signore!” Esclamò il sergente Auror, che sembrava aver appena avvistato il proprio padre venirlo a prendere dopo una lunga giornata di scuola. La mimica del resto del drappello non era molto diversa.
È incredibile pensare che una talpa sia qui in mezzo.
Infatti non c’è, è da noi – le ricordò la propria, odiosa coscienza. Se quello che lei e Malfoy avevano scoperto era vero, era in mezzo ad innocenti. E buoni agenti, da come avevano accolto il proprio capo.
“Sergente Gillespie.” La salutò dopo aver dispensato saluti e rassicurazioni ai propri sottoposti. “Prince è con te?”
“No Signore. L’ho mandato al San Mungo.” Per fortuna. Almeno l’argomento di come avesse neutralizzato l’Infetto non sarebbe subito saltato agli occhi. Ama era a disagio, come molti prima di lei, davanti a quell’uomo dall’aria in apparenza tanto ordinaria: se non avesse saputo delle sue gesta sin da bambina, avrebbe potuto incontrarlo per strada e confonderlo nella folla.
“Come ci è andato?”
“Dal camino con cui lei è arrivato.” 
“Come sai che…” Aggrottò le sopracciglia, poi sorrise. “Domanda stupida, lo sto chiedendo ad una detective.” Si guardò attorno. Se li aveva raggiunti dal negozio, doveva aver visto lo sfacelo del quartiere e aver tratto le somme.
Sono in perdita.
“Aggiornatemi.” Chiese al giovane Sergente auror.
Concluso il briefing rimase in silenzio per qualche attimo. “La situazione per ora è stabile?” Chiese poi.
“Non ci sono arrivati altri aggiornamenti dal Sergente Weasley, Signore. Reputiamo di sì.”

La situazione non era stabile. Era bloccata.
Ron Weasley non si riteneva un uomo d’azione. Vi era stato costretto dalla vita e preferiva quindi mille volte fare uscire l’auror interiore dalle proprie matricole piuttosto che trovarsi in situazioni del genere. Con gli anni, preferiva sempre di più il ruolo di insegnante a quello di esempio.
Forse dovrei davvero farmi trasferire in Accademia come dice Herm.
Quindi, quando Harry arrivò in compagnia della squadra di Auror che era andata a recuperare Prince, fu sinceramente contento.
Rispettava l’amico d’infanzia, ma ancor più, era felice che la patata bollente passasse nelle sue mani.
“Come sta andando?” Gli domandò affiancandoglisi. “Gli ostaggi?”
“Incolumi, almeno a giudicare dalla planimetria.” Disse indicando una pergamena spiegata a terra davanti a loro: riproduceva rozzamente l’interno del negozio, ed era una delle tante invenzioni dei Tiri Vispi riadattata per le forze dell’ordine. Harry aveva dato a George la Mappa del Maladrino anni prima, e copiando gli incantesimi al suo interno, suo fratello era riuscito a creare una serie di pergamene che, debitamente incantate e poste vicino al luogo da disegnare, non solo lo riproducevano, ma vi aggiungevano anche gli esseri viventi al suo interno.
Piuttosto utile.
Impiegava tempo per funzionare ed era inutile se il luogo era Intracciabile, ma rimaneva una delle armi migliore nel loro arsenale.
Specie al momento.
“Dodici persone.” Contò Harry. “Due di loro Infetti. Non è una bella situazione.”
Convenne con un cenno della testa: aveva smesso di piovere, ma lui e gli uomini erano fradici ed infreddoliti. La resistenza si andava sfilacciando e così la lucidità. “Dobbiamo entrare, Harry. Adesso. Ma se ci buttiamo a capofitto, rischiamo una strage.”
“Ama mi ha parlato di alcune tecniche che potremo usare…”
Scorpius, come il piccolo furetto ficcanaso che era, si inserì nella conversazione. Un po’ difficile escluderlo visto che gli stava letteralmente attaccato alle chiappe. “Ne ha parlato anche a me, ma Signore, con tutto il rispetto…”
Quale, quale rispetto?!
“… se facciamo la minima mossa quelli perdono la testa.”
“Potremo usare una diversione.” Suggerì la giovane Gillespie. Era una crociata di mocciosi quella storia. Lo era dal rapimento di Thomas.
Accademia. Voglio lavorare in Accademia. Almeno lì i marmocchi sanno di essere tali.
Harry in compenso non parve particolarmente turbato dalle ingerenze dei due novellini. “Spiegatevi.”
“Potremo usare qualcosa per attirare la loro attenzione e poi buttare una Bomba Stupeficium. Un’esca.”
Scorpius si voltò verso Ama. “Tipo un Detonatore Abbindolante? I Tiratori li usano quando devono entrare nelle bische Magonò per evitare che gli sparino addosso. Sputano una cortina di Buiopesto Peruviana e poi entrano.” Fece una smorfia.  “E' diventato complicato da quando hanno scoperto che le armi da fuoco non gli esplodono in mano.”
Ama aggrottò le sopracciglia. “Forse uno di questi … oggetti … potrebbe essere utile. Una diversione, e poi una Bomba Stupeficium.” Fece una pausa. “Le avete qui in Inghilterra, vero?”
“Uno dei tanti vantaggi di aver lavorato con tua madre, Ama, è che ci ha fatto conoscere i vostri giocattoli migliori.” Gli sorrise Harry. “Le abbiamo. Però rimane il fatto che qualsiasi cosa potrebbe metterli in allarme.”
“Non hanno tempi di reazione così rapidi come pensa. E gli inneschi delle Stupefiucium sono rapidi.” Osservò la ragazza. “Credo che se agiamo in fretta, possiamo metterli fuori gioco senza casualità.”
“Rimane il problema di come far entrare queste cose dentro il negozio.” Osservò Ron rassegnandosi a quella conversazione a quattro. Scorpius, del resto, gli saltellava a fianco come un labrador entusiasta.
O come Hermione durante le ore di lezione…
La sua bambina avrebbe sposato un nerd – Hugo gli aveva spiegato cos’era.
“Forse no.” Disse Harry mettendo mano ad un cellulare. Non aveva mai voluto uno di quegli affari, sebbene i suoi figli tentassero di introdurlo alla cosa da anni. “… forse posso fare arrivare entrambe le cose là dentro.”
“Come?”
“Tramite camino, Ron.” Gli battè una pacca sulla spalla. “Gli oggetti possono passare, non c’è neanche bisogno che riattiviamo il collegamento.”
“Ma non abbiamo né lo Stupeficium né gli Abbindolanti qui!”
Harry gli mostrò il cellulare. “Ma possiamo farli arrivare. Funziona Ron. A quanto pare, la tecnologia Babbana se ne infischia delle nostre barriere.”
Forse avrebbe davvero dovuto dar retta ai suoi ragazzi e acquistarne uno. Dopotutto, pensò senza riuscire a nascondere un mezzo sorriso mentre Scorpius dava il cinque ad una divertita Ama, in famiglia avevano ben di peggio.
Quel peggio, non era poi così male.

****

Note:
Capitolo pieno d’azione! Spero di riuscire ad aggiornare presto, ma al momento la mia vita è abbastanza priva di punti fissi. Such fun! :’D
Questa la canzone del capitolo.








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Capitolo 49
*** Capitolo XLVIII ***






One word from you my world falls
So come on, treat me mean
(Caroline, Kill It Kid)


2 Agosto 2028
Devonshire, il Mulino. Mattina.

Lily si era svegliata in una casa fin troppo quieta. Dopo essersi infilata la vestaglia era quindi scesa in cucina a controllare: l’aveva trovata vuota. Sua madre non stava preparando la colazione come al solito né suo padre era seduto a tavola a sfogliare distratto il Profeta.
Beh? Dove sono finiti tutti?
“Mamma?” Guardò dalla finestra sopra il lavello: niente, non era neppure in giardino.
Era sul punto di fare un giro d’ispezione quando la donna entrò nella stanza. “Oh, tesoro!” La apostrofò. “Già sveglia?”
“Voglio andare al San Mungo.”
Tanto qualcuno di certo ce lo trovo. Dopo quel che è successo ieri sera…
Che poi, cos’era successo la sera prima? Le notizie arrivate al Mulino e rimbalzate alla Tana erano state brevi, confuse e a tratti discordanti. Suo zio George aveva raccontato di una carneficina a Notturn Alley, mentre suo zio Percy aveva vigorosamente negato, asserendo che la situazione era stata sotto controllo sin da subito, e il lockdown che era scattato – sul fatto che ci fosse stato concordavano tutti – era stato ordinato per puro scopo precauzionale. Da suo padre e zio Ron invece silenzio radio.
Sören men che meno, dato che non si faceva vivo dalla sera prima: l’unico contatto che avevano avuto era stato un messaggio, redatto in fretta e furia a giudicare dalla laconicità, in cui le aveva scritto di essere in ospedale ma illeso.
E allora che ci facevi lì? Chi devi vegliare?
Domande senza risposta.
Ora di cercarne qualcuna.
“Prendo solo una tazza di caffè, poi vado.” Disse a sua madre che pareva persa in pensieri tutti suoi. Infatti si riscosse di colpo guardandola perplessa.
“Dove?”
“Come dove? Te l’ho appena detto, al San Mungo! Prima comunque passo in albergo da Sören.”
“Penso sia il caso che resti qui invece.”
Lily aggrottò le sopracciglia. Glielo stava proibendo? No, decise, le stava dicendo che non poteva. Per qualche causa esterna e non per qualche riserva verso il suo ragazzo o ancor più strano, verso l’ospedale. “Perché?”
Sua madre fece un cenno spazientito verso il quotidiano abbandonato sul tavolo. Aveva un’espressione fosca che non le piaceva per niente. “Stamattina il Profeta e le radio hanno aperto il vaso di Pandora. Ci sono stati dei morti a Notturn Alley, almeno una decina … civili.”
Oh, cavolo.
“Allora è vero? Il lockdown non era precauzionale come ha detto zio Percy!”
“No.” Ammise con una smorfia. “Gli Auror comunque sono riusciti a catturare i responsabili…”
“Infetti?”
“Sì, ed uno di loro è stato ucciso durante gli scontri. Così mi ha detto Gwendolyn, ero al focolare con lei prima.” Ovvero Gwendolyn Morgan, editore della rubrica sportiva, sua buona amica ed ex compagna di squadra.  A quanto diceva sua madre, era una delle poche persone all’interno del giornale che scrivesse per informare e non per seminar zizzania. 
“Papà?” Fu la domanda conseguente.
Sospirò. “È tutta la notte che fa spola tra il suo ufficio e quello della Direttrice Jones. Stanno cercando di salvare il salvabile. Sono riusciti ad evitare la prima pagine del Profeta della sera, ma stamattina l’Inghilterra intera sa cos’è successo.”
“Cioè che è finita … Li hanno catturati tutti, no?”
Sua madre scosse la testa. “Ieri notte è stato solo l’inizio.”
Lily capì l’antifona: non aveva vissuto vent’anni della sua vita come figlia del Salvatore senza capire l’importanza che l’opinione pubblica tributava a suo padre. Nel bene e nel male il mago della strada, quello che leggeva il Profeta e criticava il Ministero senza un’alternativa valida, lo vedeva ancora come l’eroe che si batteva contro le forze del male.
E deve trionfare su di esse. Deve.
Se il Ministro Shacklebolt era il parafulmini per gli insoddisfatti di tutti i giorni, Harry Potter era quello da additare quando c’era di mezzo una crisi, indipendentemente dal fatto che avesse un ruolo subordinato persino nel DALM.
“Com’è che non siamo ancora state assalite dai cronisti?” Chiese sedendosi al tavolo della cucina mentre sua madre spediva con un colpo di bacchetta il bollitore sui fornelli.
“Non hanno il coraggio di arrivare fin qui.” La strega ridusse le labbra ad una linea sottile mentre gli occhi dardeggiavano bellicosi; avrebbe voluto essere al fianco del marito in quei frangenti, Lily glielo leggeva nello sguardo. “La sanno più lunga che venire ad infastidire una collega. Sarò anche una ex-testa di Pluffa, ma non mi faccio venire a sporcare lo zerbino da gente come Hawkins o la Skeeter che si contendono l’esclusiva!”
Lily pescò un biscotto dal piatto dove ne trionfavano molteplici e ancora caldi. Sua madre non doveva aver dormito molto quella notte. “Per questo è meglio se non vai in città oggi, tesoro.” Continuò. “Finché tuo padre non avrà fatto almeno una conferenza stampa in cui metterà a tacere quella gentaglia è meglio se rimaniamo a casa e ci teniamo in disparte.” Fece un rumore indefinito. “Merlino solo sa cosa Rita si inventerà stavolta. Forse che mentre Notturn Alley esplodeva tuo padre era a letto con un ippogrifo!”
Mascherò una risata con un colpo di tosse. “Al e Jamie?”
“James è ad Hogsmeade e mi ha detto che ha ben altro per la testa. Non chiedere…” La anticipò. “Ne so quanto te. Albus invece è in ospedale, ma nessuna piuma arriva fino ai reparti, lo sai. L’accesso è interdetto e tutti i piani sorvegliati, ringraziando Morgana.”
“Hai notizie di Sören? Era a Notturn Alley.”
Ginny scosse la testa, versandole the in una tazza che avrebbe preferito veder piena di caffè, ma non se ne lamentò. Avrebbe dovuto invece salire in camera e tempestare il crucco di chiamate finché non le rispondeva. E al diavolo il sembrare una stalker squilibrata!
Non è che lui nel periodo in cui ero sparita, dopo il bacio, si sia comportato tanto meglio. Ah!
“Tuo padre non mi ha detto niente.” Le lanciò un’occhiata significativa. “Non puoi aspettare che torni a casa?”
“Chi, Sören?” Finse di non capire. Ad una seconda occhiata sbuffò. “Non mi muovo da qui, ricevuto. Però ho il diritto di sapere che succede, no?”
“È il disco che si sono messi tutti in bocca stamattina.” Sospirò la donna sedendolesi accanto e giocherellando con il cucchiaino della propria tazza.
“La situazione è tanto grave?” Era una domanda scema, e se ne accorse non appena l’ebbe pronunciata.
“Hanno attaccato il cuore dell’Inghilterra magica Lily … oltretutto, un posto che viene visto male dalla comunità, per via della criminalità e dei Magonò … È complicato.” Le spiegò grave. “Gli abitanti di Notturn Alley si sono sentiti lasciati soli, i soccorsi sono arrivati troppo tardi e il lockdown li ha rallentati ulteriormente.”
“Ma non è la procedura per evitare il diffondersi del contagio?” O così le aveva spiegato Albus.
“Sì, tesoro, ma quando muoiono delle persone non è mai semplice far valere la ragione.”
“Cosa stanno rinfacciando a papà? Di aver portato gli Infetti a Londra e averli sguinzagliati nel quartiere? Se non fosse stato per gli Auror saremo tutti malati adesso! Hanno cercato di contenere un disastro!”
Sua madre le sorrise. “Questo è quello che pensiamo io e te, ma la gente ha paura. Ed è facile trovare un colpevole se non si ragiona.”
“Che possiamo fare?” Chiese un po’ inutilmente, che il suo ruolo nel grande schema delle cose era più o meno influente come quello di un moscerino.
“Far quadrato attorno a tuo padre e farlo star sereno quando è a casa. Più di questo, temo nulla.”
Lily si morse un labbro: indirettamente sua madre le stava chiedendo di mettere freno ai suoi casini personali, e aveva ragione. “Devo smettere di vedere Sören?” Chiese pacata.  “Perché non voglio causare altre preoccupazioni a papà…”
“Bambina mia, no.” Le prese una mano attraverso il tavolo e gliela strinse. “Sören non c’entra niente e non credo che tuo padre lo consideri un problema.”
“Ci hai parlato di recente? Tipo, da sempre?”
Le sorrise divertita. “Qualunque mago gli porterai a far conoscere sarà sempre quello sbagliato.” La fermò con un cenno. “Sì, Sören è Sören, ma non credo che vederti di cattivo umore perché ti sei imposta di non frequentarlo migliorerebbe la situazione, ti pare?”
Le pareva. Sorrise di rimando. “Quindi facciamo gli angeli del focolare?”
Sua madre alzò gli occhi al cielo. “L’alternativa sarebbe io che vado a dirne quattro ai colleghi della cronaca, e non è un’opzione valida se voglio tenermi stretto il posto e non vedermi denunciata per Fatture. Su, alzati.” Le diede una pacchetta volitiva sulla spalla: Ginny Weasley non era una donna che rimaneva a struggersi per il compagno in guerra. Sua figlia non poteva essere da meno.
Anche se potrei, eh. Non è che mi dispiacerebbe. Non ho problemi a fare la Didone della situazione.
“Qual è il piano?” Chiese comunque piena di buone intenzioni.
“Metterci in pari con le faccende di casa.” Proclamò. “Che certo non mancano. Visto che io sono in ferie forzate e tu sei qui e non progetti di dartela a gambe, che ne dici di cominciare dalla soffitta? Nessuno ci entra da mesi e tuo padre pensa che ci si sia installato un Molliccio.”
Lily emise un lamento che venne bellamente ignorato in favore di una spintarella verso le scale. “Posso chiamare il mio ragazzo prima? Per fare testamento, visto non la puliamo da anni.”
“Vai.” Le concesse. “Ma sbrigati.”
Lily preferì brontolare le sue rimostranze al corrimano salendo le scale di corsa, anche perché sua madre era in piena modalità volitiva: dato che non poteva buttarsi nella mischia come quando era ragazza, in qualche modo doveva sublimare.
E indovinate chi ci va’ di mezzo?
Recuperò lo smartphone dagli abissi insondabili delle coperte e richiamò l’ultimo numero digitato. Lo sentì squillare a vuoto un paio di volte. Al terzo tentativo finalmente l’altro rispose.
Era ora!
“Lily.” Si era abituata a quel tono di voce stanco e sfibrato e non andava bene. Affatto.
“Buongiorno!” Rispose con la sua voce più brillante. “Prima che tu possa farmi notare che venti chiamate sono eccessive anche per i miei standard, posso ricordarti che l’ultima immagine che ho di te ti raffigura mentre ti metti nei casini?”
Quello lo fece ridere. Era una risata bassa e priva di divertimento e no, andava ancora meno bene. “… scusami, ma è stata una notte da incubo.”
“Lo immaginavo. Ne ho parlato fino ad adesso con mia madre. Siamo confinate qui, finché l’opinione pubblica la pianterà di considerare mio padre un papabile capro espiatorio e noi certe fonti di informazioni scabrose.”
Sto pensando a te, Skeeter. Quando muori?
“Tuo padre che c’entra?” La domanda era genuinamente confusa, ed era ovvio: Sören non doveva essersi mosso dall’ospedale e quindi non doveva aver avuto accesso alla valanga di fango che aveva inondato il Ministero.
Oltretutto non vive qui. Non ha idea di come possano diventare i maghi inglesi quando annusano il pericolo, specie quando viene sbattuto nelle pagine della cronaca pronto ad essere commentato.
“Storia lunga, quando ci vediamo te la spiego. Quando ci vediamo?”
“Io…” Ci fu una pausa, quasi stesse lottando tra il desiderio di risponderle subito e dirle invece la triste realtà. “Non posso muovermi adesso.”
“Sei in albergo?”
“No, in ospedale.” Ed ecco spiegate le interferenze che crepitavano facendoglielo sentire distante, come in una caverna. La ricezione al Mungo faceva schifo: migliorava solo salendo di piano in piano.
Quindi è agli ultimi se riusciamo a parlarci. Al quarto? A Lesioni?
“Sei ferito?” Se le aveva mentito nel messaggio della sera prima l’avrebbe preso a schiaffi, anche via etere.
“Non io, Milo.”
“Milo?” Aveva capito male?
“Era a Notturn Alley quando è avvenuta l’esplosione … non è riuscito ad uscire, o forse non ha capito la gravità di quanto stava accadendo. È caduto su una rastrelliera per scope rotta.” Fece una pausa. “È stato trafitto.”
“Oh, Morgana.” Mormorò. Avrebbe dovuto spiegargli come dare quel genere di notizie con tatto perché non ne era proprio in grado. “Ren, mi dispiace tanto. È … cioè, come sta?”
“È stato soccorso in tempo, ma …” Ci fu una seconda pausa, brusca, e un respiro forte. Se lo immaginava, a stringere i denti per non far tremare la voce. “… non ha più ripreso coscienza.”
Oh, ragazzone…
Di tutte le persone a cui sarebbe potuto accadere qualcosa, Milo era proprio l’ultimo.
“Vengo lì.” Decise, anche se non doveva e non poteva, anche se … anche se tutto.
“No.” La fermò, e il tono aveva ripreso la forza di sempre. “Se la situazione con tuo padre è così delicata non devi rischiare. Resta a casa, ti aggiornerò io.”
“Non mi interessa aggiornarmi, voglio essere lì con voi!”
Altra pausa. Stavolta se lo raffigurò a sorriderle e questo le fece venire una gran voglia di piangere, va’ a sapere perché. Tanto ormai era universalmente noto avesse la lacrima facile.
“Non sono da solo. Ogni tanto Albus viene a controllare. C’è anche Malfoy, è tornato stamattina. Al momento mi sta battendo ad una cosa chiamata Sparaschiocco.”
Ci fu un fruscio al ricevitore, segno che c’era stato un rapido, e forse non del tutto concordato, passaggio di mano. “Piccola Potter, ma gli hai insegnato qualcosa delle nostre gloriose tradizioni ludiche oppure no?”
Capì l’origine del magone che l’aveva presa: realizzare che Sören non era stato abbandonato in un momento così critico le dava un sollievo incredibile.
Non era più l’unica a preoccuparsi per lui.
“Non quelle a cui possono giocare anche i minori.” Rispose a tono. “Come sta?”
“Non sa perdere.” Fu abbastanza furbo da risponderle. Capì lo stesso.
Quando gli venne ripassato riuscì anche a trovare un briciolo del suo solito smalto. “Insomma, mi ha detto che non accetti le sconfitte!”
“Solo perché sono certo che il mio sfidante bari.” Sbuffò. “Sto bene.” La rassicurò. “Ti tengo informata.”
“Ricevuto.” Capitolò. “Vado a farmi schiavizzare da mia madre. Nel caso, ricordarmi come una ragazza premurosa.”
Era meglio fingere che andasse tutto bene. Il mondo non era ancora esploso dopotutto. Ci stava provando con tutte le sue forze, ma avrebbe avuto pane per i suoi denti.
Ce la caveremo. Tutti quanti.
Non poteva far altro che crederci con tutte le sue forze.
“Non mancherò.” Altra pausa. Un secondo fruscio, rumore di passi: Lily ridacchiò intuendo che l’altro si era allontanato per avere un po’ di privacy, considerando che Malfoy, da lontano, berciava un ‘fate come se fossi un Gargoyle’.
“Mi prometti che resterai a casa dei tuoi e non verrai qui?”
La conosceva troppo bene. Rifletté sulla risposta. “Ti aspetti che sia sincera?” Chiese.
“Preferirei.”
Diciamo che posso prometterti che mia madre mi renderà impossibile andarmene. Impossibile tipo legarmi ad una sedia con una Pastoia.”
Farlo ridere era la cosa che le piaceva di più in assoluto. Sempre, comunque. Al telefono, quando erano assieme, quando erano assieme davvero, in un letto, tra le lenzuola e i baci. Sören non rideva mai abbastanza.
È mio compito assicurarmi che lo faccia. Un po’ come somministrargli una pozione.
“Allora posso star tranquillo, mia Lilian?”
“Oh, amore mio, quello proprio mai.”

****

Ministero della Magia, Ufficio Cooperazione Magica.
Ora di pranzo.

Michel non avrebbe mai pensato di definirsi un misantropo; amava la socialità, essere inserito nei circoli giusti, ascoltare i pettegolezzi più succosi e, in generale, farsi ammirare finché l’inevitabile caducità umana avrebbe finito per farlo somigliare a suo padre, sia nel fisico che nel comportamento. Nel fulgore dei suoi vent’anni però si fregiava del titolo di animale sociale.
In quel momento, avrebbe voluto piazzare una bomba nel bel mezzo della Londra magica e farla esplodere. E poi ritirarsi in una baita sul Ben Nevis.
Perché la faccenda di Notturn Alley aveva letteralmente fatto imbizzarrire la gente – quella grossa bestia composta da più corpi, irragionevole e ottusa – portando inevitabilmente il Ministero nel mirino del mago della strada.
Perché non c’erano misure di sicurezza adeguate? Perché sono morte tutte quelle persone?
Cosa ci state nascondendo? Moriremo tutti!
Quella mattina aveva dovuto camminare a testa bassa fino al proprio ufficio, perché se quello Auror aveva serrato le fila, così aveva fatto quello di Cooperazione, che il Profeta si era premurato di inserire nella schiera di ‘istituzioni che non tutelano il cittadino’.
La stampa non aveva aiutato, affatto: erano passati i tempi in cui il gabinetto del Ministro la muoveva con una manciata di fili fatta di sovvenzioni e velate minacce di chiusura e solo carta straccia come il Cavillo si permetteva di alzare la testa. Adesso la maggior parte dei giornali, dal Profeta a testate più piccole, erano controllati da somme private, provenienti perlopiù da maghi arricchitisi nel boom economico successivo alla caduta di Voldemort, quando le speranze erano alte e le borse ricolme di Galeoni.
Persone come la Skeeter o Hawkins avevano quindi licenza di seminare il panico senza ricevere neppure un blando ammonimento dai loro mecenate, principalmente interessati alle copie vendute e non al prestigio delle istituzioni. I filantropi che riempivano le casse del Profeta poi, erano contrari alle politiche del gabinetto Shacklebolt: da anni tentavano di tirarlo giù dallo scranno e via dal cuore dei cittadini.
Non sarei neppure troppo in disaccordo, visto che sta diventando una sorta di tirannide illuminata …
Se non fosse che quella macchina del fango ora inficiava il suo lavoro; era dalla sera prima che lottava contro Gufi che gli chiedevano interviste e domande scomode. Tutti infatti sapevano che era il referente dei due agenti americani.
Devo contare Prince perché continua ad essere onnipresente.
Bussarono alla porta e diede voce di entrare: per fortuna l’arpia che divideva la stanza con lui era fuori in una delle sue infinite pause caffè.
Entrò Ama Gillespie vestita accortamente in abiti civili. Doveva aver ricevuto il Gufo in cui si consigliava di non essere bersagli mobili per i giornalisti e un uniforme in quei giorni lo era, eccome. “Sono qui per il rapporto settimanale.” Annunciò.
“Bene.” Lo sfogliò; a differenza di Prince la strega non sembrava avere voglia di entrare nelle sue grazie. Lo fissava con impazienza, quasi trovasse quella visita un’inutile seccatura. “Prince è intervenuto?” Le domandò.
“Sì.” Rispose rigida. “È tutto scritto lì.”
Michel sospirò. “Sergente, si rilassi … Le ricordo che siamo entrambi nella stessa barca.” Aggrottò le sopracciglia continuando a leggere. “… è stato lui a mettere fuori gioco l’Infetto?”
La strega fece una smorfia alla sua oculata scelta di parole. “Non dirmi che non te l’hanno detto. Nell’Ufficio Auror non si parla d’altro.”
“Questo non è l’ufficio Auror.” Chiuse il rapporto, intrecciandovi le dita sopra. “E l’improvvisata di Prince potrebbe creare qualche problema.”
“Qualche?” Sembrava aver voglia di sputargli in un occhio. Non aveva trascorso la sua adolescenza a baccagliare con i Grifondoro per non riconoscere quell’espressione in particolare. “Prince si è messo in un guaio che potrebbe costargli molto. Troppo.” Aggiunse cupa.
Almeno si rende conto della fragilità delle relazioni intercontinentali…
Non era stupida, ma era pur sempre una testa di bacchetta, quindi andava circuita più che affrontata direttamente. “Prince non ha agito in qualità di agente, ma da civile.” Convenne pacato. “Al massimo come consulente per gli auror. E considerando che è in giudizio penale sospeso …”
“Non c’è bisogno che mi ripeti la lezioncina.” Si ostinava a dargli del tu. Era inutile correggerla, ci aveva provato: supponeva lo facesse a posta. “Non si è ancora reso conto del peso delle sue azioni, e di certo non ci ha pensato quando ha affrontato quella … cosa.” Inspirò e Michel si chiese quanto dovessero essere spaventosi quei maghi per instillare paura persino nel cuore di un agente scelto. “In tutta franchezza, al posto suo avrei fatto lo stesso.”
“Già, ma lei è autorizzata ad usare la forza in terra straniera, Prince no.”
Lo fulminò con lo sguardo. “Dimmi qualcosa che non so.”
“Non l’ho fatta venire qui per richiamarla all’ordine, né per passare un messaggio intimidatorio.” Spiegò conciliante anche se l’avrebbe volentieri mandata al diavolo. Fuori dalla carica l’avrebbe fatto di certo. “Sono il vostro referente e sono dalla vostra parte.”
Parve poco toccata dalla dimostrazione di lealtà. “Quanto ci vorrà prima che la cosa venga fuori?”
Michel esitò. “In tutta onestà … non ne ho idea. Sul Profeta la morte dell’Infetto viene ancora attribuita a scontri generici. Ed è lo stesso negli altri giornali, che ne prendono le mosse. Ma siamo solo alla mattina dopo.”
La Gillespie strinse le labbra. “Però se qualcuno degli auror che era presente alla scena parla… anche solo in famiglia…”
“L’ottica del passaparola.” Convenne. “In ogni caso, non sta a me né a lei controllare la fuga di notizie in quell’ufficio … è il Capo Potter che dovrebbe fare in modo che i suoi uomini non parlino davanti ad una pinta, magari offerta.”
“E lo farà.” Rispose con convinzione: un’altra fan del mitico ragazzo-meraviglia.
Michel sospirò. “Verrà comunque aperta un’indagine interna al DALM.” Fu suo dovere farle presente. “La cosa potrà passare sotto silenzio sui quotidiani, ma non ufficialmente. È la procedura.”
La strega fece per ribattere – cosa, poi? Era un dato di fatto che Prince avesse commesso una stronzata che poteva essere fatale per la sua carriera o ancor peggio, per la sua libertà – quando venne di nuovo bussato alla porta. Scocciato diede di nuovo voce di entrare. Era uno dei fuochisti. “Michel, c’è la solita chiamata dall’America.”
Registrò con allarme l’aria perplessa della strega; era ovvio, che chiamata dall’America avrebbe mai dovuto ricevere se il suo unico contatto era lei?
Fece quindi finta di niente. “Digli che richiamo, ora sono impegnato.”
Quando il Fuochista se ne fu andato riprese come se niente fosse. “Se fossi in lei, Sergente, avvertirei Prince di tenersi pronto a rispondere ad un bel po’ di domande. E rispondere bene.”
“Lo farò.” Si alzò in piedi continuando a guardarlo con lo stesso piglio che doveva avere durante un interrogatorio. Si premurò di non lasciar trasparire nessuna emozione e di tenere quindi la bocca chiusa. “Credevo che l’unico contatto che avesse con il mio ufficio fossi io.”
“Infatti.” Rispose. “Non era una chiamata di lavoro.”
La Gillespie fece un sorriso che non gli piacque per nulla. “Che fortuna avete qui a Cooperazione … vi passano anche le chiamate personali?”
Razza di arpia.
Sorrise di rimando. “Siamo privilegiati, è indubbio.” La fermò prima che si dirigesse verso la porta. “Un ultimo consiglio … se fossi in lei eviterei posti come Diagon Alley o il San Mungo, almeno per i prossimi giorni. Pullulano di giornalisti e mi creda, hanno un’ottima memoria fotografica. Non le servirà a molto vestirsi in abiti civili.”
La strega fece una smorfia insofferente. “E come faccio a parlare con Prince se è piantonato lì?”
“È stato ricoverato di nuovo?” Albus avrebbe dovuto regalargli un buono sconto o una tessera fedeltà. Da quel che gli avevano detto, era lì dentro un giorno sì e l’altro pure.
“Non lui, un suo amico. È grave, quindi non si muoverà da lì neppure a Schiantarlo.”
Michel sentì il cuore perdere un battito: quanti amici poteva mai fregiarsi di avere il tedesco? Non molti. Per quanto ricordava, solo Scorpius e Lily e Albus Potter potevano esser considerati tali.
Su suolo inglese però.
“Di chi si tratta?”
La donna si infilò il mantello con un movimento irrequieto. Stava attentando alla sua pazienza trattenendola lì quando doveva andare a cavare la castagne dal fuoco a Prince.
Non gliene importava niente.
“Sergente Gille…”
“Milo Meinster.” Sbuffò scocciata. “Non l’avrai mai sentito nominare.”
Stavolta il cuore non perse un battito. Si fermò del tutto, o almeno così gli parve.
Emil…
Com’era successo? Perché era a Notturn Alley?
Perché è l’unico posto per quelli come lui. Te l’ha sempre detto. Non hai cercato ogni volta di convincerlo del contrario, fallendo?
Ecco perché era lì quando il quartiere è stato attaccato.
Ce l’hai spinto tu.
Da come lo stava guardando l’americana la sua faccia doveva aver subito una trasformazione repentina.
Neppure gli importava di nasconderlo, o dissimularlo. Non gliene importava niente. “Devo andare.”
“Da chi?” Batté le palpebre sconcertata. Avrebbe voluto ucciderla.
Dal mio uomo, idiota!
Ma in un barlume di lucidità si rese conto che la sua reazione, così come la richiesta, non avevano il minimo senso ascoltate da chi non era a conoscenza del loro rapporto.
“Da Meinster.”
La strega ebbe il buonsenso di non insistere. “Per quanto mi riguarda abbiamo finito, ma non devi avvertire qualcuno prima di farlo? Siamo ancora in orario di lavoro.”
“No.” Mentì con la consapevolezza che l’altra se ne fosse resa conto. “Andiamo, la scorto all’uscita.”

****

San Mungo, Pomeriggio.

La prima cosa che ti insegnava il San Mungo era a separare il mago dal paziente: non c’erano legami di sangue o affettivi che tenessero, chiunque entrava lì dentro andava trattato come un corpo da restituire alla salute, niente di più. Niente favoritismi, niente trattamenti speciali.
Quel giorno Albus stava infrangendo quel comandamento con tutti i crismi andando nella stanza di Milo e misurargli i parametri vitali a ritmo di una volta all’ora.
Forse perché sei tu che l’hai ricucito. Letteralmente.
Quando Meinster era arrivato aveva subito capito che la situazione era grave. Non perché fosse grave in sé, ma perché aveva davanti un Magonò.
Per un momento aveva quasi pensato di ordinare ai Medimaghi di portarlo in un ospedale Babbano: poi si era reso conto che Milo non sarebbe mai riuscito a sopravvivere ad un secondo spostamento. Era troppo debole.

“Portatelo su.” Aveva ordinato ai barellieri.
“Puoi salvarlo?” La domanda di Tom era da un milione di galeoni. “Anche se è un Magonò?”
“Con la Comparata.”
“Cosa?”
“Con la Medimagia Comparata.” Gli aveva risposto. “Merlino, non so neanche se funzioneranno gli incantesimi diagnostici… E Smeth pianta dei casini assurdi quando comincio a parlargli di Comparata, è della vecchia guardia e…”
Tom gli aveva messo una mano sul braccio. Aveva le unghie delle dita rosse, sporche di sangue incrostato. E aveva stretto, forte. “Te l’ho tenuto in vita.” Aveva mormorato con gli occhi lucidi di fatica e paura. I vestiti spiegazzati, i capelli in disordine lasciavano intuire quanto della sua solita compostezza fosse andata perduta a Notturn Alley. Voleva abbracciarlo, ma non c’era tempo.
“Tom…”
“Non è importante.” Aveva risposto. “Va’ a fare il tuo lavoro.”

In quel momento aveva preso una decisione. Una decisione che a posteriori gli sarebbe costata mesi di padelle e dispetti da parte del suo decano, ma pazienza.
Perché Smethwyck, sfuriata a parte, non gli aveva potuto rifiutare nulla; si era addirittura spinto a fargli preparare una sala operatoria, andando poi a rintracciare per assisterlo l’unica magi-infermiera che avesse, come lui, una conoscenza base di medicina.
Tutto perché sono l’unico Guaritore di Lesioni che ha sostenuto l’esame di Comparata.
Aveva così aperto, suturato e ricucito come aveva fatto centinaia di volte in Accademia tra le prese in giro dei compagni.
Tu e la tua Babbanofilia…
Beh, la mia Babbanofilia ha appena salvato una vita umana!
Era orgoglioso del risultato. Era orgoglioso del fatto che il paziente fosse ancora vivo: e ne era altrettanto terrorizzato perché era un successo basato su tante, troppe variabili.
Le mie capacità di chirurgo magico, la sua capacità di ripresa, quanto sangue ha perso, quanto è rimasto a contatto con quel ferro arrugginito …
Merlino, la setticemia!  
Era stato divertente spiegare ad un irritatissimo Smeth cosa fosse l’antitetanica e perché andasse somministrata via endovenosa.
Entrò quindi nella stanza del tedesco per la quinta volta da quella mattina. Sören era ancora lì, seduto rigido sulla poltrona per gli ospiti.
Non si è mosso di un millimetro.
La sua capacità di concentrazione era ammirabile quanto inquietante. “Vatti a prendere un caffè.” Gli consigliò mentre controllava con la bacchetta i parametri vitali.
Sören si riscosse, sforzandosi di fare un sorriso e fallendo miseramente. Non aveva una di quelle facce che rendevano facile il compito. “Sarebbe il quarto della giornata, non credo sia il caso.”
“Una tisana allora.” Osservò come le dita del ragazzo si fossero chiuse attorno al polso dell’amico. “Guarda che non scappa.”
“Lo so.” Ribatté sulla difensiva. “Ma…” Esitò, poi scosse la testa. “… è ridicolo, me ne rendo conto, ma se mantengo un contatto … Ho l’impressione di farlo rimanere.”
“Rimanere dove?”
“Con noi. Vivo.”
Oh…
Rimise la cartella nel contenitore ai piedi del letto e si sedette sulla sponda. “Sai, ci sono teorie che sostengono che anche in uno stato di incoscienza si percepisca ciò che accade attorno a noi. Le voci, un tocco. Quindi forse hai ragione.” Scrollò le spalle. “Ma da quanto non dormi? Fatti dare il cambio.”
Sören si irrigidì. “Da chi? Non verrà nessuno.” Rispose amaro. “E non posso obbligare Lily o Malfoy a sostituirmi. Hanno altro a cui pensare.” Scosse la testa. “Per tanto tempo siamo stati solo io e lui. Si è preso cura di me.” Strinse di nuovo, appena, il braccio dell’amico. “È il mio turno.”
C’erano persone così, pensò sorridendogli con affetto: uomini o donne che a prima vista parevano sassi, pesanti e scuri, ma che se maneggiati con cura e tagliati con precisione rivelavano essere pieni di cristalli luminosissimi.
“Sono contento che mia sorella non si sia arresa con te.” 
Sören batté le palpebre senza dire niente, ma l’espressione che fece in quel micro-secondo in cui permise alla sorpresa di allentare il controllo glielo rese ancora più caro.
Prima o poi ti verrà regalato un maglione Weasley, credimi.
“… Si sveglierà?”
Non glielo aveva chiesto sino a quel momento, ma era stanco e si vedeva: anche le sue famigerate difese teutoniche stavano crollando. “Vuoi il parere del Guaritore o dell’amico?”
“Quello che ha il pregio di esser sincero.”
Albus annuì. “Ha perso molto sangue e anche se Tom e il Magonò hanno fatto del loro meglio è stato senza cure per ore e con un corpo estraneo che lo passava da parte a parte.”
“Capisco.”
No, non doveva capire cose che gli avrebbero tolto la speranza.
Perché persone che perdono la speranza attorno ad un paziente sono peggio della ferita stessa.
“Il fatto che respiri da solo e che i parametri siano stabili è un buon segno. Lo sto tenendo controllo con antibiotici ad ampio spettro e gli sto somministrando liquidi.” Indicò la flebo che vegliava sul ragazzo come un gufo benigno: doveva fargli capire che non lo stava lasciando a sé stesso sperando in un miracolo. “Questo riduce la possibilità di infezione, che è la cosa di cui al momento dobbiamo avere più paura.”
“Perché non si sveglia allora?”
La Domanda; l’avrebbe probabilmente sentita per il resto della sua carriera.
“Il trauma che ha subito è importante, il suo corpo ha bisogno di riprendersi. Si potrebbe svegliare tra un paio d’ore come tra un paio di giorni.”
“E se non si risveglia?”
Albus scosse la testa. “È troppo presto per allarmarsi.”
“State andando alla cieca, vero?”
Si vede tanto?
“Non è proprio così.” Replicò cauto. “La Medimagia Comparata è una disciplina sperimentale … ma nel caso dei Magonò è forse la loro unica, solida speranza. Del mio corso sono l’unico che ha preso l’abilitazione per chirurgia. Ma l’ho presa. So quel che faccio.”
Anche se i Babbani ci fondano un intero percorso di studi mentre io ho fatto solo un esame teorico e uno abilitativo.
“Perché?”
Si strinse nelle spalle. “Perché sono bravo?”
Suo malgrado parve divertito. “No, volevo dire … Perché l’hai presa?”
Fece un mezzo sorriso. “Tom ha passato anni a parlarmi delle meraviglie delle scienze Babbane, e quando gli ho detto che volevo specializzarmi in Lesioni da Incantesimo ha cominciato a regalarmi tomi di chirurgia. Per curiosità direi. Per non aver magia, i chirurghi riescono a compiere imprese straordinarie con solo un bisturi e del filo di sutura. Chiudono ferite, riattaccano arti, trapiantano organi...”
Aggrottò le sopracciglia. “… Cosa succede ai Magonò che vengono qui a curarsi? Per cose che non riguardano la tua specializzazione intendo.”
“Beh, ci sono altri Guaritori in ospedale che hanno conoscenze di medicina, ma … è raro che si rivolgano a noi. Se è grave di solito vanno negli ospedali Babbani … Non si fidano, e non hanno tutti i torti. Purtroppo la nostra è una società a misura di mago.”
Sören fece una smorfia senza commentare: forse era la prima volta che si rendeva conto di quanto Meinster fosse diverso da loro e quanto questo gli costasse.
“Milo è migliore del più Purosangue dei maghi.” Al capì immediatamente a chi si riferiva.
Michel.
Che avrebbe dovuto chiamare, anche solo per avvertirlo che Meinster era lì.
Qualsiasi cosa sia accaduta tra di loro … Mike tiene a lui. O non starebbe male da giorni.
Sören si sbagliava: c’era qualcuno che avrebbe potuto dargli il cambio.
Solo che non è il caso mi impicci. Non stavolta. 
Quasi avesse richiamato con il pensiero l’amico, Michel entrò nella stanza: irruppe visto che spalancò la porta di botto, ansante e con i vestiti stropicciati dalla Materializzazione.
“Mike!” Esclamò, ma non fu abbastanza svelto da prevedere le reazioni di Prince.
Che si alzò in piedi di scatto, furioso. “Che diavolo ci fai qui?”
Michel ci mise più di un attimo a trovare le parole, lui che ne era maestro. “Sono … sono venuto a vedere come sta.” Mormorò facendo saettare lo sguardo nella stanza. “Mi hanno detto che è stato ferito durante gli scontri di Notturn Alley e…”
Prince si piazzò tra il letto e l’ex-Serpeverde. “Vattene.”
“Senza offesa Prince, ma ho tutto il diritto …”
Sören dovette reputar di aver sopportato abbastanza, perché con un movimento fluido che parlava di decine di anni sui campi da battaglia sbatté Michel al muro.
“Ehi!” Esclamò evitando però di intervenire. Se poteva, voleva evitare di scontrarsi con una massa incazzata e  compatta di magia e muscoli.
“Gli hai spezzato il cuore.” Ringhiò. “Ti sei preso gioco del suoi sentimenti e lo hai scaricato quando è diventato un problema … Come osi pretendere qualcosa?”
Michel non rispose né ebbe reazioni. Si limitò a guardare verso Meinster come se sperasse di raggiungerlo nel suo stato di incoscienza.
Oh, per favore.
Era circondato da regine del melodramma. “Fatela finita!” Li apostrofò con il suo miglior tono da Guaritore In Carica. “Volete spellarvi di Fatture? Fate pure, ma non nel mio ospedale, che vi ricordo è un posto dove la gente viene curata e non fatta a pezzi.” E quest’ultima parte era rivolta a Prince che gli scoccò un’occhiata colpevole mollando l’altro e facendo un passo indietro.
Dato che aveva finalmente un uditorio recettivo fece quello che doveva: diede ordini.
“Sören, va’ a prendere un the, fatti una passeggiata per i corridoi … Non mi interessa, basta che stacchi la spina, ne hai bisogno. Mike ti darà il cambio.”
Il tedesco fece per protestare ma si arrese sotto il peso della sua fulgida aura da guaritore. Scoccò un’occhiata malmostosa a Michel ma lasciò la stanza.
“Wow.” Commentò ad alta voce. “Non pensavo avrebbe funzionato!”
Michel stiracchiò un sorriso. “Sei stato piuttosto minaccioso pulcino.” Fissava il letto dove riposava Meinster come se fosse l’unico punto focale dell’ambiente. “Ha ragione. È tutta colpa mia.”
Merlino, dammi la forza.
Sbuffò. “Milo era a Notturn Alley a bersi una birra, non a tentare il suicidio perché vi siete lasciati. Gli unici colpevoli sono quelli che l’hanno ridotto così. Vuoi un rimedio a come ti senti?”
“Droga?” Domandò con un sorriso tremulo, così diverso dai suoi, così nudo e disperato che gli si strinse il cuore. “Nott me ne ha consigliate alcune dai nomi esotici, ma non credo sia opportuno.”
Alzò gli occhi al cielo. “Non dire idiozie. L’unica cura è essere qui quando aprirà gli occhi, così potrai chiedergli scusa per aver avuto l’attacco d’ansia più stronzo e intempestivo della storia. Perché aprirà gli occhi e tu sarai qui. Te lo prometto.”
Michel non gli rispose: si lasciò invece cadere sulla sedia, nascondendo il viso tra le mani. Non sembrava stesse piangendo, ma Al capì che era un momento privato e lo lasciò solo, chiudendosi dietro la porta con delicatezza.
Non era più tempo di giocare al piccolo investigatore, di suggerire a Prince strategie per rientrare nelle grazie del caso o di trafugare informazioni.
Sospirò: aveva fatto una promessa a due persone. Tre, se si contava Meinster. E da Guaritore, l’avrebbe mantenuta.

****

Ministero della Magia, Ufficio Auror.

“Il Capitano Gillespie è al focolare Signore, come aveva chiesto.”
Harry alzò la testa dall’articolo del Profeta che stava rileggendo per forse la milionesima volta. O almeno così gli sembrava.
“Bene Grace, prendo la chiamata.” Righe su righe di inchiostro continuavano a martellargli la testa come una Fattura mal smaltita.

… l’ufficio Auror ha brancolato nel buio sin dal primo momento …

Harry Potter Colui-che-è-sopravvissuto per insabbiare un caso di portata nazionale…

Possiamo davvero ritenerci sicuri quando il Ministero …

Si tolse gli occhiali e mise a fuoco la figura dell’americana. “Nora.” La salutò con un sorriso stiracchiato.
La strega ricambiò. “Ti abbiamo regalato dei bei guai, vedo.”
“L’Inghilterra è una calamita per psicopatici, se fossi in te non mi sentirei troppo in colpa.” Scherzò.
“Com’è la situazione?”

La conferenza stampa era stato un bagno di sangue. Sin da quando era entrato nella sala allestita ad uopo con la Direttrice Jones aveva capito che lo sarebbe stata: si era stupito però di trovare Zabini Senior e non il figlio.
Non è Michel l'agente di controllo di Sören ed Ama?
Forse Draco non aveva ritenuto opportuno caricare il ragazzo di un compito simile, preferendo il padre. Blaise Zabini, una volta accomodatosi accanto a lui, l’aveva salutato con un cenno rigido della testa.
Se Draco è una biscia, Zabini è una vipera.
Non doveva guardarsi da lui però, piuttosto dal suo uditorio. 
Era stato infatti il solito, odioso, Richie Hawkins ad aprire le danze dopo che la Direttrice ebbe finito di leggere il comunicato stampa.
“Fonti ci hanno informato che l’Ufficio Auror era a conoscenza della sparizione di quattro persone infette durante le operazioni al castello  … Perché Londra non è stata messa in sicurezza?”
Harry si era scambiato un’occhiata con M prima di rispondere. “Sì, eravamo a conoscenza di questa informazione. Per questo abbiamo concordato con i Tiratori pattuglie da dislocare in tutti i nuclei abitati da maghi nel raggio di 50 miglia dal Prince Manor, che, ricordo, non è vicino all’area metropolitana.”
“Ma sono comunque arrivati qui.” Lo interruppe il giornalista. “A Notturn Alley, nel centro nevralgico del nostro Ministero! Ha una spiegazione?”
Harry si era umettato le labbra. “No, non la ho.”
“Neppure una piccola speculazione?” La voce melliflua della Skeeter aveva tagliato la sala come un coltello. “Pare strano, ai nostri lettori, che l’Ufficio Auror non abbia ancora una teoria su come si muovano queste … cose …” 
“Sono persone.” Aveva ribattuto secco. Troppo secco da come i taccuini dei presenti si erano animati. Aveva comunque continuato, ignorando l’occhiataccia scoccatagli da Zabini. Che si fottesse anche lui. “Sono persone malate, che hanno bisogno di aiuto e ne stanno ricevendo di adeguato al San Mungo.”
“Persone, dice bene!” Aveva esclamato una streghetta dall’aria nervosa. Harry aveva letto sul cartellino appuntato alla giacca il nome di una testata che aveva sentito di sfuggita nominare da Ginny: piccola, auto-finanziata ed estremamente critica verso chiunque detenesse un’oncia di potere. Ne aveva vista qualche copia a casa di Hugo, il polemico della famiglia. “Uno di loro, Colin Kay, è rimasta ucciso negli scontri. Gli Auror hanno ricominciato ad usare i loro vecchi privilegi? Colpire prima di far domande?”
“La persona a cui si riferisce si è macchiata dell’omicidio di cinque persone la notte scorsa.” Aveva risposto con tutta la calma che possedeva: quella domanda era forse l’unica che non fosse un attacco gratuito al suo ufficio.
E ha ragione. Lo abbiamo ucciso.
… o meglio, lo ha fatto Prince.
“Abbiamo tentato di fermarlo, ma il morbo era progredito in modo tale che era impossibile farlo senza purtroppo ricorrere a misure drastiche.”
“E che mi dice di Notturn Alley? Siete arrivati sul campo quando ormai il primo Infetto si era lasciato esplodere uccidendo dieci persone. Il lockdown inoltre ha lasciato il quartiere in completa balia di sé stesso!”
“Siamo stati colti di sorpresa, ma i tempi di intervento sono stati perfettamente congruenti con quelli dell’Ufficio Tiratori. Le procedure sono state rispettate.” 
La Skeeter a quel punto aveva fatto balenare un sorriso di un rosso violento. Odiava quel dannato rossetto. L’avrebbe perseguitato anche dopo la pensione, ne era sicuro. “Capo Potter, a proposito di tempistiche …  Ci vuole forse spiegare perché nonostante stiate lavorando su questo caso con piena priorità di tempo e risorse i colpevoli siano ancora là fuori?”
“Roma non è stata costruita in un giorno, e la Seconda Guerra magica non si è disputata in meno.” Era sempre più difficile mostrarsi sicuro quando aveva di fronte visi che esprimevano paura, sconforto e soprattutto sfiducia. “Abbiamo in custodia la compagna dell’uomo dietro il Demiurgo. Stiamo lavorando per ottenere informazioni che ci permettano di localizzarlo.”
Hawkins aveva fatto un sorriso maligno. “E questo ci farà dormire tranquilli la notte?”
“Stiamo facendo tutto il possibile.”
“Sta diventando un discorso trito, Capo Potter.” L’uomo aveva allargato le braccia in direzione della platea, quasi cercasse consenso. “Tutto quello che siete riusciti ad ottenere in due mesi di indagini a spese dei contribuenti è stato regalare al San Mungo venti persone che lottano tra la vita e la morte. E ora Notturn Alley … Forse il Ministro Shacklebolt dovrebbe riconsiderare il suo peso all’interno del Ministero.”
Harry era quasi scattato, ma la Direttrice l’aveva fulminato come una maestra avrebbe fatto con un alunno indisciplinato. Quegli sguardi avevano ancora il potere di inchiodarlo alla sedia.
“Credo che questa conferenza stia uscendo dal seminato.” Aveva detto la strega con tono risoluto. “Non dimentichiamoci chi è il nemico qui. Stiamo combattendo contro un manipolo di maghi spietati, il cui unico obbiettivo è fare soldi . Non stiamo affrontando l’ascesa di un secondo Signore Oscuro, ma la cupidigia umana. Ed è molto più subdola.”
La Skeeter aveva rivolto un sorrisetto supponente alla donna. “Permettimi di incarnare la voce della verità, cara Hestia. In questa sala non stiamo affrontando alcun peccato capitale … se non quello dell’incompetenza.” Aveva fatto una risatina sgradevole. “Ci dipingete come un banco d’accusa, voi Ministeriali. Ci demonizzate, quando tutto quello facciamo è fare domande …” Aveva fatto una scrollatina di spalle. “… le risposte, però, le dovete dare ai cittadini. E per ora, non ne abbiamo ascoltata nessuna che valga la pena trascrivere.”

La Skeeter, dietro tutta la sua malignità, aveva segnato un punto difficile da battere.
Abbiamo permesso una carneficina. Peggio, non l’abbiamo prevista.
“Harry?”
Si era di nuovo immerso nei suoi pensieri.  “Come va? Considerando che sono appena sopravvissuto ad una conferenza stampa dove mancavano solo casse di pomodori marci, direi che abbiamo avuto tempi migliori.”
Era meglio usare l’ironia, l’aveva imparato sin da bambino, che arrendersi ad una situazione che tendeva a peggiorare all’infinito. “Notturn Alley è stato un colpo basso.” 
“Pensi che sia stato Doe a sguinzagliare gli Infetti?”
Penso, è questo il problema.” Convenne con una smorfia amara. “Non ho certezze. Se hai avuto modo di mettere le mani sulla nostra gloriosa stampa, avrai letto di cosa veniamo accusati.”
Della cosa peggiore per un poliziotto. Di mettere a rischio la vita delle persone che ha giurato di proteggere.
Se non avesse risolto il Demiurgo in tempi brevi neppure Shacklebolt avrebbe potuto proteggere la sua posizione; e con essa, il suo intero ufficio: come aveva puntualizzato Hawkins, la percezione che al momento l’opinione pubblica aveva di loro era di ministeriali impegnati a mungere preziose risorse dalla tasche dei cittadini dando in cambio risultati risibili.
Non siamo in grado di proteggerli. La gente muore comunque. Che ci stiamo a fare?
Certo, anche l’ufficio di Smith era stato tirato in ballo, ma in maniera minore: del resto i Tiratori si occupavano della sicurezza in generale, e non erano i ragazzi-poster contro la lotta alle Arti Oscure. Oltretutto la loro media di arresti era superiore.
Va’ a spiegare che è così perché ci sono più criminali comuni che stregoni o ricettatori di Artefatti Oscuri.
Queste sottigliezze erano difficilmente riconosciute dal mago della strada: specie se venivano del tutto ignorate da persone come Hawkins e la Skeeter in favore di lunghi articoli sugli sprechi del Ministero.
Nora ebbe il buonsenso di evitare commenti. “Cosa dice Ron?” Chiese invece.
“Secondo lui Doe non ha nessuna colpa, almeno, non diretta.” Le rispose. “La situazione gli è sfuggita di mano ed ha mollato baracca e burattini per ridersela in qualche atollo caraibico.”
“Dubito.” Meditò la creola. “Non del coinvolgimento, ma del fatto che se ne sia andato. Non è stata ancora trovata una cura al morbo e il suo Siero Magico continua a rimanere una bomba ad orologeria.”
“Non siamo sicuri che non l’abbia trovata.”
Non siamo sicuri di niente.
Avrebbe voluto lanciare qualcosa al muro. L’americana parve intuire il suo stato d’animo. “Non l’ha trovata.” Ripeté con più sicurezza. “O non sarebbe rimasto così a lungo al Prince Manor. L’unico motivo per cui è scappato da lì e perché l’avete rintracciato.” Scosse la testa. “È ancora in Inghilterra e aspetta che il San Mungo gli tolga le castagne dal fuoco.” Fece una pausa. “E poi avete in custodia la sua donna, no?”
“Che si rifiuta di parlare, se non per tentare giochetti a scapito dei miei uomini. Ron ha quasi rischiato di strangolarla.”
“Compagnia piacevole.”
“Molto.” Ironizzò. “È una Von Hohenheim al cento per cento. L’unico momento in cui ha mostrato il fianco è quando ho tirato in ballo Sören.”
Nora annuì. “Nonostante tutto anche lei è una madre.”
Harry esitò. Tirare in ballo Prince significava tirare in ballo anche altre cose. “Nora, riguardo a quello che ci siamo detti l’ultima volta…”
La strega si irrigidì. “Sören non è la talpa.” Come lui, credeva nell’innocenza dei suoi uomini fino a prova contraria. Era uno dei motivi per cui la stimava tanto. “Posso metterci la mano sul fuoco … e non solo. Ama mi ha chiamato stamattina. Lei e l’Agente Malfoy credono di aver individuato un sospetto. Ed è qui in America. Il nome ti è familiare. Ethan Scott.”
Harry aggrottò le sopracciglia. “L’agente di collegamento durante il rapimento di Thomas?”
“Lui.” La strega serrò la mascella, mentre un lampo di collera le attraversò lo sguardo. Le fiamme del focolare beccheggiarono in risposta. “Sono anni che mi scontro con la sua arroganza e le sue smanie di potere … E non è la prima persona, qui, che cede alle lusinghe di una camera blindata piena.”
“Selina Hardcastle.” Ricordò cupamente: la donna che era stata mandata dall’America per tenere Tom al sicuro e che aveva finito per consegnarlo a John Doe per una manciata di Galeoni.
Nora confermò con un cenno della mano. “Ethan non è interessato al denaro in sé, ma a ciò che può fruttargli. Scalare le gerarchie è costoso, e non è di famiglia ricca.”
“Puoi indagare?”
“Lo sto già facendo.” Alzò gli occhi al cielo. “Non che quel bastardo mi renderà le cose facili non appena capirà che sto investigando su di lui, ma ho le mie leve. Come si dice … se c’è da scavare, troverò la cassa.”
Harry le sorrise; Ron era una risorsa insostituibile, ma avere qualcuno che capiva il suo doversi tenere continuamente in equilibrio tra politica, opinione pubblica e dovere era bello.
Lo faceva sentire meno solo.
“La situazione comunque non cambia.” Le rammentò. “Finché non troviamo la talpa Prince rimane sospettato, come chiunque qui.” Si affrettò ad aggiungere vedendola protestare. “Inoltre, c’è la sua ingerenza negli scontri di ieri sera…”
Nora sospirò. “Sì, Ama mi ha ragguagliato. Non doveva essere lì, e…”
“… non c’era infatti.” La fermò. “Non voglio fare del ragazzo un capro espiatorio. Immagino cosa gli sia passato per la testa. Malfoy mi ha detto che lui e tua figlia l’hanno chiamato, non è stata una sua iniziativa.”
“Non si sarebbe mai rifiutato di venir loro in aiuto. Sai quant’è personale per lui.” Fece una pausa, guardandolo preoccupata. “Se la vostra stampa scoprisse che ha…”
“Farò in modo che non accada.” Perché poteva avere delle riserve personali sul ragazzo – Lily – ma non avrebbe permesso che un agente, un agente sotto la sua custodia, venisse fatto a pezzi dai riflettori.
Io so come difendermi. Prince no.
“Qualcuno potrebbe averlo visto?”
“Tranne i miei uomini e tua figlia credo nessuno.”
“E quel credo che mi preoccupa…”
“Lo farò spostare dall’albergo in cui alloggia e manterrò la scorta.” Vedendo che non l’aveva convinta si passò una mano trai capelli. “Non posso rimandartelo indietro, Nora, sarebbe ancora più sospetto, e la stampa è a caccia di sangue.”
“Non potresti tenerlo tu?”
Come, prego?
“Scusa?” Formulò perplesso. Da quando Prince era diventato un oggetto da sorvegliare con cura? 
La strega assunse un’aria imbarazzata. Non era un buon segno, perché quando Eleanor Gillespie andava sul personale le cose si facevano sempre complicate.
Complicate da ‘fa’ scrivere tua figlia al ragazzo, si sta lasciando morire’.
E di colpo capì cosa intendesse. “Vuoi che me lo porti a casa? Come una specie di trovatello?”
“Prince è un trovatello. Forse fuori tempo massimo, ma conosci la sua storia. Ha cominciato a vivere nel mondo reale cinque anni fa. Non è in grado di difendersi.” Argomentò con quell’aria materna che trovava insopportabile. Perché non riusciva mai ad opporvi adeguata resistenza. “A parte me e Milo, che mi risulta finito in ospedale, non ha nessun altro al mondo. Non può farcela da solo … non in questa faccenda almeno. E non posso chiedere ad Ama di occuparsi anche di questo.”
Harry si passò le mani sul viso. Forse avrebbe seguito Doe nella sua fuga in un atollo tropicale. Ne aveva un gran bisogno. “Lui e mia figlia adesso stanno assieme.” Non trovò di meglio da dire. “Ed io non sono d’accordo.”
“Ah.” Nora fu abbastanza intelligente da non commentare. Perché l’avrebbe mangiata viva.
È colpa tua! Tua e di quelle lettere maledette!
“Non credo però che questo cambi i fatti.”
Fu seriamente tentato di chiudere il coperchio del Focolare Portatile con un pugno. “Suppongo di no.” Disse a denti stretti. “Manderò Lily da sua cugina Roxanne.”
L’amica rimase in silenzio. “Scusa se mi permetto …” Disse poi. “Ma non credi che sarebbe solo rimandare l’inevitabile? Dopotutto, come hai detto tu, si frequentano … al Mulino invece potresti controllarli.”
Harry finse di non considerare l’idea come la più geniale sentita in quella giornata. Perché non era quel genere di padre. “Non spierò mia figlia e il suo ragazzo!”
“Chi ha parlato di spiare?” Lo guardò con blando divertimento. “Quando devo conoscere i ragazzi di Ama la prima cosa che faccio è invitarli a cena. Per vedere come si comportano. Con me, con lei. Certo, tenterà in ogni modo di fare bella figura, ma siamo detective … Sappiamo scovare la verità.” Ridacchiò della sua espressione perché sì, aveva capito di averlo convinto. “Conoscilo, Harry. Non come agente, come persona. Chissà, magari potrebbe pure piacerti come genero!”
“Non tirare la corda o te lo rispedisco via mare!” Sbottò facendola ridere. “Prima devo comunque parlarne con Ginny … anche se conoscendola la penserà esattamente come te.”
“Donne, eh?”
“Streghe.” Corresse con un sorriso. Nonostante tutto, l’amica era riuscita a farglielo tornare in bocca, anche durante una giornata orrenda e con la prospettiva di ospitare Prince sotto il suo tetto. “Ti tengo aggiornata, d’accordo?”
“Vale lo stesso.”
Si salutarono. Harry reclinò la testa sullo schienale della sedia chiudendo gli occhi per un momento. Poi li riaprì e gettò una seconda manciata di Polvere Volante nel focolare, scandendo con rassegnazione il nome della moglie.

****

Devonshire, Il Mulino.
Dopocena.

Lily fu riscossa dal suo sonnecchiare davanti ad una vecchia puntata di Firefly – guardare serie tv era una delle tante passioni Babbane in cui Hugo l’aveva coinvolta dalla notte dei tempi– causa rumori in camera di Albus.
… la sua vecchia camera.
Suo fratello la usava solo per le feste comandate del Clan e non vi teneva che pochi effetti personali, perlopiù risalenti all’infanzia.
Tra l’altro non è in programma nessun compleanno. Neanche quello di papà, poverino. Quindi chi c'è là dentro?
Sbadigliando andò quindi a curiosare, trovando sua madre che faceva Levitare coperte e cuscini fuori dalla finestra per dar loro aria. “Tesoro, prendi delle lenzuola pulite dalla cassapanca in corridoio?” La apostrofò.
Le obbedì perplessa. “Al viene a dormire qui stasera? Ha litigato con Tom?”
Sua madre le prese la biancheria dalle braccia con un’espressione indecifrabile, quasi stesse cercando le parole per spiegarle quel cambiamento di programma.
“Hanno di nuovo dato fuoco alla cucina?!”
Sbuffò. “Grazie a Merlino tuo fratello ha imparato a spegnere il fuoco sotto i calderoni e Tom a non lasciare il bollitore sui fornelli mentre studia. No, abbiamo un ospite.” Esitò, poi scrollò le spalle come ad arrendersi all’evidenza di non riuscire a porre adeguatamente la questione. “Sören.”
“Sören? Il mio Sören?” 
Annuì come se fosse la notizia più naturale del mondo. “Tuo padre mi ha chiamato via Focolare venti minuti fa, arriveranno tra poco.”
“Momento.” Si massaggiò le tempie per cacciare via gli ultimi rimasugli di sonno. Era possibile che stesse ancora dormendo. “Mi stai dicendo che papà l’ha invitato a dormire qui?”
“A stare da noi finché le cose con il Demiurgo non si saranno risolte. Non è andato nello specifico, ma credo che lui e Nora abbiano ritenuto opportuno toglierlo dall’albergo per ragioni di sicurezza.”
“… Nora lo ha drogato? Lo ha messo sotto Imperio?”
Sua madre ridacchiò, tirando fuori dall’armadio un set di asciugamani puliti. “Può essere. In ogni caso è quello che mi ha detto.”
Si sedette sul ciglio del letto rinunciando a capirci qualcosa. Le scoccò un’occhiata di traverso: suo padre non doveva aver chiamato solo per annunciare la cosa, ma anche per chiedere il benestare della moglie, autorità suprema della casa. “E tu sei ... d’accordo?”
La strega scrollò le spalle, in un modo che gliela faceva sempre vedere più giovane, simile alla ragazza snella nelle foto sopra al camino. “Perché no? Voglio conoscere il mago di cui la mia bambina si è innamorata.”
“Ma lo conosci!”
“Non lo conosco come tuo ragazzo. È un po’ diverso, no?”
Lily sorrise. “Vero.”
La aiutò quindi a sistemare la stanza, anche se non c’era molto da fare dopo le Grandi Pulizie da Tracollo Nervoso a cui l’aveva costretta per buona parte della giornata.
Fortuna che ci siamo fermate per una visita di nonna...
Scesero poi in cucina a preparare del the, comitato di accoglienza imprescindibile per chiunque varcasse la soglia di casa. Lily si fermò di fronte alla finestra, a spiare il giardino immerso nella tenue penombra serale. C’era una bella luna.
E lei era nervosa.
“Non avrei immaginato di portare il mio ragazzo in casa così… Cioè, più che altro pensavo di portarcelo io.”
Sua madre mise in tavola la crostata portata dalla nonna quel pomeriggio. “Le cose non vanno mai come ci aspettiamo.” Le fece notare. “E poi, forse è una coincidenza fortunata.”
“Papà non l’ha ancora digerita.” Mugugnò incrociando le braccia al petto. “Dubito che lo farà mai, ma …”
Il rumore della porta d’ingresso che si apriva mise fine al momento auto-commiserazione. Lily si scambiò un’occhiata con sua madre e poi decise di giocare in attacco: andò ad accoglierli.
Suo padre fu il primo che vide. Stava appendendo il mantello all’attaccapanni e le rivolse a malapena un’occhiata. “Ehi.” Si costrinse comunque a dire.
Grande sforzo!
Sören, subito dietro di lui – c’era sul serio! Era lì! Con suo padre! – sembrava invece una statua di sale. Aveva a tracolla il bagaglio ed era ancora completamente vestito. La guardò con un misto d’apprensione e contentezza ma non osò aprire bocca.
Non che lei ne sentisse particolarmente il bisogno.
Il momento imbarazzante fu rotto da sua madre, che intervenne con la solita, pratica, energia marchio Weasley. “Ciao Ren.” Lo salutò allegra, quasi fosse una presenza aspettata e graditissima. “Che fai lì impalato? Togliti il mantello … appendilo pure vicino a quello di Harry, c’è posto!” Aggiunse vedendolo esitare.
“Sì …” Borbottò tenendo saldamente lo sguardo piantato a terra. Poi parve riscuotersi di colpo. “Volevo dire … Buonasera Signora Weasley, mi scuso per il disturbo e per … l’improvvisata.” Disse tutto rigido.
Oh, Ren…
Un moto di tenerezza rischiò di placcarla come un Centauro, ma lo stesso dovette accadere a sua madre che se lo rimirò con quell’aria da madrina dei derelitti cifra stessa di una donna Weasley.
Vai, è andata. Se lo prende sotto la sua ala come nonna fece con papà, siamo a posto.
“Nessun disturbo, ci vuole un attimo a preparare una stanza.” Ribatté cordiale. “Ti ho messo nella vecchia camera di Albie. È un po’ piccola rispetto ad una stanza d’albergo, ma spero andrà bene.”
“Assolutamente.” Confermò azzardandosi persino a togliere le mani dalle tasche: segnale tutto suo per segnalare che si stava rilassando. “La ringrazio per l’ospitalità.”
“Ginny, c’è del the?” L’umore di suo padre era palesemente sotto i piedi, ma non a causa di Sören, stimò Lily con sollievo. Lo considerava a malapena.
Con quel che è successo, ha ragione mamma, dev’essere l’ultimo dei suoi problemi.
Il suddetto però non poteva saperlo e pareva quindi l’immagine stessa dell'ansia. “Sì papà, l’abbiamo appena fatto.” Decise di intromettersi. “Porto Sören a vedere la sua stanza, okay? Poi scendiamo, quindi lasciacene un po’.”
Suo padre, come previsto, emise un brontolio indecifrabile e marciò verso la cucina senza aggiungere un’altra parola. Sören, rimasto impettito tutto il tempo, si sgonfiò riuscendo addirittura ad esalare un respiro.
Sua madre gli rivolse un’occhiata divertita. “Non fare caso a mio marito, è un vero Schiopodo dopo giornate come questa. Ed è tanto che non ne capitava una brutta così.” Aggiunse con un sorriso di scuse. “Lils, fagli anche vedere dov’è il bagno e come funziona la doccia. Non l’abbiamo ancora riparata, grazie a tuo zio George … sono mesi che promette di venire a dargli un’occhiata.” Scosse la testa pensando al fratello inaffidabile per eccellenza. “Beh, comunque portalo su.” E con un occhiolino li lasciò soli.
Lily a quel punto ritenne saggio prenderlo per mano e tirarlo per le scale senza perdere altro tempo: se fossero rimasti un attimo in più nel raggio d’azione paterno il tedesco sarebbe probabilmente svenuto.
Credo sia in apnea da un quarto d’ora.
Sören riprese a respirare normalmente nei pressi della sua stanza. “Tua madre mi ha chiamato Ren.” Fu la prima cosa che disse.
“Con tutte le volte che mi ha sentito chiamarti così le dev’esser entrato in testa.” Aprì la porta entrando in camera di Al; era sempre strano non vedere il suo vecchio kit di pozioni, la scopa appesa sopra la scrivania e i maglioni sparsi ovunque. Si voltò per guardare il novello inquilino. “Ti dà fastidio?”
“No.” Tentò un mezzo sorriso, e quando fu certo che nessuna Maledizione l’avrebbe stroncato sul colpo osò anche ampliarlo. “Vi somigliate molto.”
“Abbastanza.” Convenne. “Come ha detto mamma la stanza è un po’ piccola, Al ha sempre preferito i posti raccolti, ma ha la vista sulle colline di Ottery, la migliore.”
“Non importa.” Posò il borsone a terra. “Mi adatto a tutto, a differenza…” Trattenne il nome sulla lingua, rabbuiandosi.
… di Milo.
Gli si avvicinò. “Come sta?”
“Albus dice che le sue condizioni sono stabili, e che ha reagito bene alle cure, ma … non si sveglia.”
“Si sveglierà.” Gli assicurò accarezzandogli un braccio. “Ehi, si sveglierà, okay?” Ripeté e fu naturale stringerlo in un abbraccio che l’altro ricambiò con altrettanta intensità. Odorava di erbe medicinali.
Con tutte le volte che è stato al San Mungo ultimamente, mi stupisco non sappia di nient’altro.
Gli accarezzò la guancia, sospirando deliziata quando l’altro voltò il viso per baciarle il palmo della mano. “Sono felice di essere qui.” La stupì. Notando il suo sconcerto fece un sorriso ironico. “… non di essere sotto lo stesso tetto dei tuoi genitori, ma di poter stare con te. Non avevo idea di quando ti avrei rivisto.”
“In effetti…” Riconobbe passandogli le dita trai capelli corti della nuca. “Se vuoi il the lo beviamo quassù.” Suggerì suggestiva.
Sören a questo si sciolse dal suo abbraccio, rassettandosi la camicia in una parvenza di contegno buffissima: ma quei piccoli gesti da Purosangue lo tranquillizzavano, quindi lungi da lei l’idea di prenderlo in giro. “No.” Disse con coraggio. “Sarebbe da maleducati … Non voglio evitare i tuoi genitori in casa loro.”
“Solo mio padre.” Celiò cercando di non ridere alla sua espressione sconfortata.
“Mi mette a disagio essere suo ospite.” Ammise con un sospiro. “Suppongo sia normale, dato il mio attuale ruolo nella tua vita.”
Molto normale.” Lo rassicurò. “Non preoccuparti, sarà andato a rintanarsi in salotto, quando è di quest’umore se ne sta sempre per conto suo.”
“Allora per stasera sono salvo.” Scherzò ma neppure troppo.
Lo punzecchiò su un fianco. “Vedila come un’opportunità. Ti conosce solo come l’Agente Prince, mostragli la persona fuori dall’uniforme!” 
Non parve molto convinto. Del resto, quello che Harry Potter non amava di lui non era tanto l’agente, quanto l’ombra scura che rappresentava il suo passato, Sören Luzhin.
“Parti dal presupposto che gli piacerò…” Borbottò infatti.
“Ti adorerà!” Ribatté convinta, prendendolo sottobraccio e tirandolo fuori da quello che, era sicura, sarebbe diventato presto il loro rifugio.
Devo farmi dire da Al i vecchi incantesimi che usava per bloccare la porta. Mai riuscita ad entrare senza il suo permesso.
Serpeverde, i migliori nel tenersi stretta la propria privacy.
“… tu credi?”
Non era questione di credere; sarebbe stato così e basta, perché il loro amore non era un capriccio o un attacco di ormoni, e suo padre avrebbe dovuto accettarlo. A quel punto, prima che poi.
“Sicuro come la sconfitta dei Chudley’s  al Campionato di quest’anno. Vai tranquillo, non ne vincono uno da prima che nascessi!”
Sören le rivolse una di quelle sue occhiate speciali, gentili e piene d’amore. Erano sue, e solo sue e lo trasfiguravano completamente cancellandogli ogni traccia di austerità dal viso. Se suo padre l’avesse visto così, l’avrebbe piantata con tutti quei suoi dubbi rancorosi.
Gli batté una pacchetta sul braccio. “Coraggio, vecchio mio. Ormai siamo a metà dell’opera!”
Fu ricompensata con uno sbuffo. “Quella più difficile.”
Non poté dissentire.


****


Note:

Era tanto che non facevo un capitolo ciccioso così. C’era molto da dire. Nel prossimo recupero anche la Jeddy, che anche quei due poveretti hanno casini da sbrogliare niente male.
Questa la canzone del capitolo.

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Capitolo 50
*** Capitolo XLIX ***





Home is where one starts from.
(T.S. Eliot)


3 Agosto, 2028
Devonshire, Il Mulino. Mattina.

Non era mai gradevole svegliarsi e non riconoscere il posto in cui si era. Sören aveva provato quel turbamento innumerevoli volte da quando suo zio aveva deciso che il suo ruolo doveva essere quello di un pedone facilmente cedibile. Negli anni aveva imparato a farsene una ragione, a razionalizzare il fatto che non avrebbe mai avuto una casa. Un luogo, come lo intendevano gli inglesi, sotto cui una famiglia o più in generale gli affetti si riunivano.
Si alzò in piedi, studiando con gli occhi ancora impastati di sonno la stanza di Albus Severus; perché sì, era davvero a casa Potter.
Ti saresti mai immaginato qui, cinque anni fa?
Nel modo più assoluto, si rispose scorrendo con lo sguardo vecchi libri, giocattoli e alcuni alambicchi impolverati. Sorrise ad una foto incorniciata sopra la scrivania che ritraeva i tre fratelli Potter da bambini: Lily era al centro, abbracciata ad Albus e James mentre esibiva un sorriso capace di illuminare il mondo.
Non l’ha perso … È ancora il suo sorriso.
Nonostante tutto quello che aveva passato era riuscita a rimanere la ragazza piena d’amore che aveva conosciuto, e non c’era giorno che non ringraziasse Merlino di non averle portato via quella consapevolezza.
Non piangerti addosso però. 
Il caso lo aveva portato a quell’assurda sistemazione: invece che esserne intimidito doveva lavorare per farlo diventare un punto di partenza.
Perché le avrò fatto del male … Ma non posso lasciarmi inibire da questo.
Perché Lily credeva in lui: non poteva deluderla.
Dopo aver fatto una doccia – e aver lottato fieramente contro il tubo dell’acqua – si era cambiato ed era sceso al piano inferiore: per quel che ricordava ospitava la camera da letto dei coniugi Potter, il salotto e la cucina, punto focale dell’intero ambiente.
Fu sollevato dal constatare che il padrone di casa non c’era; la sera prima, una volta sceso per il the, si era limitato ad augurargli una frettolosa buona notte prima di sparire in camera propria.
Non c’era nessuno a dirla tutta, ed era comprensibile visto che l’orologio sopra al camino segnalava le undici.
Ho dormito troppo.
Non sapendo cosa fare di sé stesso, dato che non gli erano stati dati ordini, decise di uscire in giardino. Era l’unico posto della proprietà che non gli sembrava di invadere con la sua presenza.
E poi aveva un gran bisogno di fumare.
Era un posto gradevole, pensò guardandosi attorno. Un cottage dalle grandi stanze ariose, ma non imponente, tinteggiato in colori chiari e con un appezzamento di terra curata che lo circondava. La staccionata era lustra di pittura e in generale vi regnava un’atmosfera colorata e disordinata, grazie anche ai fiori piantati senza criterio logico e i tanti alberi da frutto. Era chiaro persino a lui: quel posto apparteneva ad una famiglia serena.
Gli sembrava quindi un insulto accendersi una sigaretta quando tutto attorno a lui gridava salute e vita all’aria aperta. Cincischiò con il pacchetto, ricordando di averlo rubato a Milo.
Non sei manco in grado di comprarti un pacchetto di sigarette da solo? Cosa faresti senza di me principino?
Serrò le labbra: era Zabini a tenergli compagnia e non pensava fosse giusto. Avrebbe dovuto esserci lui. Non si fidava a lasciare l’inglese con l’uomo che aveva imparato a considerare il fratello che non aveva mai avuto.
Dovrei proteggerlo. Anche da Zabini.
Ma a Milo non serviva protezione. Quando si sarebbe rimesso in piedi – perché l’avrebbe fatto – avrebbe camminato fuori dalla sua vita in tempi brevi. E sì, Lily l’aveva confortato, gli aveva detto che non sarebbe stato più solo, ed era vero, stare con lei era tutto
Ma come farete quando tu sarai in America e lei in Inghilterra?
Il risultato è lo stesso. Sarai solo, di nuovo.

Ehi Ren!

Per un attimo pensò a Lily nonostante gli si fosse parata davanti Ginny Weasley.
Hanno lo stesso tono di voce. 
Squillante, forte, ma stemperato dall’accento del Devon. Si costrinse ad un sorriso. “Buongiorno Signora Potter.”
“Ginny.” Lo corresse. “Ti sei svegliato finalmente!”
Non avrebbe dovuto dormire tanto. In casa altrui era una scortesia. “Sì, mi dispiace, io…”
“Di cosa?” Lo guardò sorpresa. “Se aspetti un attimo vada a prepararti la colazione.”
“Non ce n’è bisogno.” Si affrettò a negare. “Posso…”
“Morire di fame?” Lo canzonò. Ecco dove Lily aveva preso quel suo vezzo di schernire con gentilezza le persone quando le vedeva in imbarazzo. “Non devi farti problemi, devo comunque andare in cucina a posare quelle.” Indicò con un cenno della testa un paniere colmo di grosse mele rosse. “Con tutto il sole che abbiamo avuto quest’anno sono riuscite a non marcire, per una volta … Ti piace la marmellata?”
“Sì.” Ripose di getto anche se non ne aveva idea. A Milo non piaceva quindi non gliel’aveva mai messa in dispensa. “Posso aiutarla in qualche modo?”
La strega lo squadrò con aria pensierosa. Per un attimo temette di aver detto qualcosa di sbagliato, poi la vide scrollare le spalle. “Perché no? Ma niente magia.” Alla sua espressione perplessa aggiunse. “Se usi un Recido e un Leviosa al tempo stesso c’è sempre il rischio che ti sfuggano dalla bacchetta.”
“Ho capito.”
“Avanti allora. Io porto dentro le altre.”
Non avrebbe mai immaginato di finire a spiccare frutta per la moglie di Harry Potter.
Il futuro non è mai come ce lo si aspetta. Per fortuna.
“Sei bravo!” Lo lodò quando tornò indietro e senza ragione, perché non faceva altro che staccare mele per gettarle nel canestro. “Prima raccolta?”
“Non ho mai avuto alberi da frutto.” Rispose. E se pur li avesse avuti suo zio non gli avrebbe mai permesso di avvicinarvisi. Se lo poteva immaginare a denigrare quell’attività come ‘da servitori’ e ‘indegna per un mago del loro lignaggio’.
A dirla tutta si stava divertendo.
“La mia famiglia ha sempre tenuto qualche albero invece … Personalmente, non sono una grande fan.” Continuò la donna scrollando le spalle. “Se non fosse che Harry e Lily adorano il crumble di mele taglierei tutto.”
“Dov’è Lily?” Non avrebbe voluto chiederlo con quel tono di bisogno, ma non poté frenarsi. Del resto l’altra era il suo filtro con il mondo come lo era Milo.
Senza di loro e in una situazione nuova si sentiva spaesato.
“È andata dai nonni.” Al suo sguardo allarmato spiegò. “Casa loro è giusto dietro la collina, non incontrerà Piume a caccia di scoop. Sarà di ritorno per pranzo.”
Annuì di nuovo, senza avere idea di cosa altro aggiungere. Ginny Weasley, con una vecchia maglietta da uomo e un paio di jeans gli incuteva più timore dell’intero Zabeurgamot.
La strega dovette accorgersene perché lo lasciò al suo compito senza aggiungere altro. Finito la riaccompagnò dentro casa prendendo la cesta sotto braccio.
“Guarda che potevamo anche farla Levitare.” Gli fece notare quando furono in cucina.
 “Sì, ma … avevo paura che si danneggiassero.” Ribatté penosamente guadagnandosi un’occhiata esilarata.
Sei un idiota.
“Cosa hai voglia di mangiare?” Ebbe pietà di lui sviando il discorso.
“Un caffè va bene, se avete caffè, altrimenti … the. Pane.” Che era una cosa che tutti avevano in casa. Almeno credeva. “Qualsiasi cosa. Mangio di tutto.” Balbettò mentre la fossa che si stava scavando diventava sempre più profonda.
Aveva anche cominciato a sudare sotto la camicia.
“Sören.” Lo chiamò con gentilezza. Quando fu sicura che la stesse guardando aggiunse, con tono di blando rimprovero. “Lily mi ha fatto una lista lunga mezzo metro sulle tue allergie e intolleranze. Non ti avvelenerò solo perché sei convinto di essere di troppo.”
Poteva andare peggio? Aveva accumulato una serie di figure talmente misere che poteva semplicemente buttarsi dentro il camino. Sarebbe stata una fine decorosa. “Sono di troppo.” Borbottò a denti stretti, tra il difensivo e il disperato. “Mi rendo conto che avermi ospitato da voi…”
“… era la cosa giusta da fare.” Lo fermò. “Abbiamo due stanze libere. E poi...” E qui le regalò un sorriso furbo. “… se devo essere onesta, volevo conoscerti. Come si dice, l’occasione fa il mago ladro.”
Aggrottò le sopracciglia. “Temo di non capire…”
La donna fece posare sul tavolo una forma di pane e un barattolo di quella che doveva essere la famigerata marmellata. Tagliò una fetta spessa e cominciò a spalmarvi almeno due dita della gelatina scura. Aveva un buon odore. “Sei o non sei il ragazzo di mia figlia?”
Non era tipa da giri di parole. Si rilassò: meglio, a domanda diretta era sempre stato in grado di rispondere.
“Sì, lo sono.”
“Bene. Allora ti tocca.” Gliela porse. Era fragrante e profumata: la morse.
Sì, gli piaceva la marmellata.
“Sei familiare con il concetto di interrogatorio materno?”
Tentò di rispondere a tono. “… con quello di interrogatorio sì, sono un agente di polizia. Il suffisso materno immagino cambi le cose?”
La battuta andò a segno. La donna rise. “Oh, eccome!”
Rispose con un sorriso. Non aveva mai conosciuto la Lily Evans a cui Lilian credeva di assomigliare. Ma di una cosa fu sicuro: tanto aveva preso anche dalla donna che l’aveva messa al mondo.
 

****

Magazzino Purge&Dowse ovvero…
San Mungo, Mattina

Michel si era sempre fregiato di essere una persona che governava il corso della sua vita con piglio deciso – anche se ultimamente la barra del timone aveva oscillato un bel po’.
Questo, prima che Milo finisse al San Mungo. Forse persino prima, da quando il tedesco lo aveva rimorchiato in quella discoteca Babbana.
Se avessi saputo come sarebbe finita ... lo avrei cercato?
Senza ombra di dubbio. Perché in quei due mesi, solo una manciata di settimane a pensarci bene, il biondo violinista aveva scosso tutte le sue certezze mettendo in discussione il fondamento stesso del suo essere Michel Zabini.
Probabilmente gli aveva salvato la vita.
Questo però non toglieva il fatto che non avesse la minima idea di come aiutarlo: stare seduto al suo capezzale gli pareva inutile, e da quando alla sua stanza si erano aggiunti altre due persone, altri feriti di Notturn Alley, si trovava in imbarazzo a parlargli di fronte a loro o agli svariati parenti in visita. La sua naturale riservatezza Purosangue cozzava con gli sguardi curiosi che gli venivano rivolti.
Certo, qui dentro sono una presenza strana. Di solito quelli come me hanno un Guaritore privato che viene a visitare a casa.
Ma non Emil, che non aveva nessuno a visitarlo. Al di là di Prince, ora impossibilitato a lasciare la casa dei Potter, solo Scorpius ogni tanto era venuto a far capolino e ovviamente Albus, che era il suo Guaritore di riferimento.
Non una famiglia, non degli amici…
Era vero che era a Londra da poco tempo, ma dubitava che a Boston le cose sarebbero andate in modo diverso. Nessun Gufo era arrivato a chieder notizie, né fiori erano stati spediti da Oltre Oceano.
Gli strinse una mano oltre le coperte: una mano dalle dita forti, agili, che sapevano creare musica bellissima. Mani che avevano fatto cose meravigliose a lui, e non solo in un’alcova.
Non avrebbe permesso che si risvegliasse in una stanza vuota o piena di estranei che non erano lì per lui. Quando avrebbe aperto gli occhi non sarebbe stato solo.
Anche se poi mi intimerà di andarmene. Non importa.
L’amore trasformava davvero le persone.
Una mano sulla spalla lo fece sobbalzare. “Ehi.” Al, ovviamente. Gli fu grato per non commentare lo stato della sua faccia né la mancanza deplorevole di una rasatura decente.
“Sei rimasto qui tutta la notte?” Abbozzò un sorriso. “Non serve che tu mi risponda. Lo stato della tua barba parla da solo…”
“Me la sento crescere, è disgustoso.” Ammise facendolo ridacchiare. “Come sta?”
“Sono qui per questo.” Fu l’ovvia risposta. L’amico controllò con efficienza polso, un punto del collo che doveva corrispondere all’arteria e le reazioni della pupilla passandovi davanti la bacchetta accesa in Lumos. Occhieggiò le loro mani intrecciate. “Se gli stringi la mano risponde alla stretta?”
“Sì … non molto, ma… ” Esitò. “È una cosa buona?”
“È fuori pericolo. Quello che mi preoccupava era la febbre e l’assenza di stimoli. La temperatura è nella norma.” Gli strizzò l’occhio. “Quindi vattene a casa e lasciami fare il mio lavoro, Capitaine.” Lo apostrofò come quando erano sul campo da Quidditch. Gli sembrava fossero passati secoli. “Hai un’aria orribile.”
“Ti sbagli.” Rispose salace, perché a offesa estetica doveva sempre ribattere. Faceva parte del gioco. “E se mi stai dicendo che si risveglierà a breve, non ho intenzione di muovermi da qui.”
Albus gli sorrise con calore, e questo lo fece sentire stupidamente orgoglioso di sé. Non l’avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura, ma avrebbe cercato l’approvazione morale di quel ragazzino dagli occhi trasparenti per il resto della sua vita.
“Mike, non si sveglierà non appena volterai le spalle.” Gli disse. “Non appena cambia qualcosa, ti chiamo. Devi riposare.” Inarcò le sopracciglia. “Te lo ordino da Guaritore … dovresti darmi retta.”
Ricambiò il sorriso. “Altrimenti? Un ricovero coatto?”
“Non tentarmi." Sospirò. "Se ti fa stare più tranquillo verrò a controllarlo ogni mezz’ora.”
“Non è questo…” Ad una sua occhiata curiosa si arrese. Non aveva davvero la forza per metter su una bugia che l’altro avrebbe smascherato con facilità. “… voglio esserci quando si sveglierà. Forse … forse questo gli proverà che non sono un completo bastardo.”
Al gli mise una mano sulla spalla e strinse appena. “Non sei un bastardo, sei solo…”
“Purosangue.” Terminò amaro per lui.
L’ironia è che non lo sono affatto.
“Stavo per dire confuso e non c’entra con il rango o l’essere un mago.” Fece spallucce. “C’è sempre tempo per rimediare quando si realizza di aver commesso un errore.”
Non gli rispose: l’amico parlava per esperienza personale, avendo per anima gemella un idiota che aveva quasi distrutto il loro rapporto in più di un’occasione. Ma lui non era Thomas, e soprattutto, Emil non era Al. “Posso almeno salutarlo?” Gli chiese invece, perché l’ironia era sempre un rifugio sicuro.
Al roteò gli occhi al cielo ma gli diede privacy andando a controllare gli altri pazienti.
Si sporse a baciare la fronte di Emil: era tiepida.
"Torno presto mon ange." Gli scappò detto, e fu felice di essere il solo ad ascoltarsi. Apostrofare Emil con il nomignolo con cui lo chiamava sua nonna da bambino, l'unica persona che l'avesse forse mai amato davvero, era stato inopportuno. E maledettamente giusto. Si tirò su in fretta prima di lasciarsi andare alle lacrime.
Dignità, Zabini. Non perderla … non ti resta molto altro.
Si infilò il mantello con un movimento brusco. “Chiamami se…”
“Non l’avevo capito le prime cento volte che me l’hai detto.” Lo fermò l’amico spingendolo verso l’uscita. “Se non te ne vai giuro che ti ricovero. Per lesioni da fattura. La mia!”
Se c’era una cosa che aveva imparato come suo compagno di Casa, era che Albus Severus manteneva sempre quel genere di promesse; levò le tende.

Non appena uscito dall’ospedale la stanchezza lo centrò come Bolide. Certo che una Materializzazione in quelle condizioni l’avrebbe di certo privato di un arto decise di prendere un taxi. Il viaggio fu lungo per gli standard di un mago, ma gli permise di chiudere gli occhi e spegnere il cervello, fenomeno che accolse con gratitudine.
Entrato a casa lo accolse il silenzio. Considerata la mancanza di musica di dubbio gusto e indumenti femminili sparsi per il corridoio, Loki doveva aver lasciato l’appartamento per uno dei suoi viaggi lampo chissà dove.
Meglio così, potrai versarti da bere e perdere coscienza senza doverti preoccupare che non ti venda la casa da sotto il sedere.
Fu quando passò davanti alla stanza della musica che dovette fermarsi di colpo: la porta era socchiusa. Peccato si ricordava di averla serrata a doppia mandata in un impeto di commiserazione piuttosto profondo.
Mise mano alla bacchetta e spalancò la porta. “Chi è…” Si mangiò l’ultima parola quando vide chi occupava il posto su cui di solito Emil si lasciava cadere dopo aver suonato: suo padre era seduto lì dentro come se ci fosse sempre stato.
“Buongiorno Michel.” Lo salutò con l’espressione che sin da bambino aveva imparato a temere. Quella che sperava di non fargli avere mai e finiva inevitabilmente per causare: delusione e vago fastidio. “Come mai non sei al lavoro?”
Strinse il manico della bacchetta, premendo sugli intarsi, ricordandoli a memoria, concentrandosi su altro: era troppo stanco e nervoso per preoccuparsi di trovare una risposta immediata. “Ho preso un permesso.” Mentì.
“Non mi risulta.”
“Ho mandato un Gufo, forse non è arrivato a destinazione.” Rinfoderò la bacchetta – mancava solo la spezzasse di nuovo dovendo poi rivolgersi a Dursley – e si diresse verso la vetrina degli alcolici. Emil l’aveva saccheggiata, ma restava ancora il fondo di una vecchia bottiglia di Ogden Gran Riserva. Se ne versò due dita e se le scolò ignorando la regola aurea di offrire sempre qualcosa ad un ospite.
Non è mio ospite.
E il fatto che fosse entrato nella sua stanza più cara glielo rendeva ancora più sgradito.
Suo padre parve leggere i suoi pensieri perché si guardò attorno. “Così è a te che ha lasciato la collezione Guallazzi.” Commentò spassionato. “Non la facevo sentimentale.”
Michel serrò le labbra. “Voleva che rimanesse in Inghilterra.”
“Hai ancora rapporti con lei?”
No, visto che sei stato tu a chiedermi di interromperli. Ed io, come un idiota, ti ho dato retta.
Avrebbe voluto tirargli un pugno. La bacchetta era troppo, rimaneva pur sempre suo padre.
Ma Merlino, un pugno…
“Cosa vuoi papà?” Chiese perché ormai aveva solo la forza di essere onesto.
Il mago lanciò un’occhiata alla pendola della stanza. Tic tac, il tempo scorreva prezioso per Blaise Zabini. “Evitare che tu ti metta nei guai.”
“Sono nei guai? Non ne sono stato informato.”
“Mi pare che Draco te l’avesse accennato invece.”
La Talpa … le indagini degli Indicibili … Ethan Scott.
Desiderò di non essersi scolato in due sorsi quel che restavano whiskey incendiario. Aveva accantonato quei pensieri a causa di Emil, ma adesso aveva bisogno di un secondo, robusto bicchiere. “Non ho niente a che fare con quella storia." Rispose secco. "Se oggi non sono al lavoro non è certo per nascondermi dagli Indicibili.”
“No, eri al San Mungo in visita a quel Magonò.” Lo corresse e Michel non si stupì di vederlo informato: c’era davvero poco che sfuggiva a suo padre. Come uomo e come funzionario di Cooperazione. “Pensavo di esser stato chiaro.”
“Emil è stato ferito negli scontri a Notturn Alley.” Ed era tutto ciò che avrebbe voluto dire in merito, spiegare. Ma a Lord Zabini non sarebbe mai bastato. “Non ho intenzione di ignorare la cosa solo per fare un piacere a te.”
“A me?” Lo guardò stupito. “Michel, non devi smettere di vederlo per me. Ho forse mai interferito nella scelta dei tuoi amici? Su molti di loro ho riserve comprensibili…”
“Qual è il punto?” Sbottò esausto. Voleva solo che se ne andasse.
“Sono preoccupato.” Osava anche sembrare offeso. “Devi smettere di fare stupidaggini come incapricciarti di un Magonò se vuoi diventare qualcuno all’interno del Ministero.”
Michel chiuse gli occhi. “Perché, mi lasceresti far carriera se mi sposassi con una strega Purosangue da sei generazioni? Mi lasceresti essere qualcuno se rinunciassi al mio appartamento Babbano o ad miei amici?” Non aspettò risposta. “No, e sai perché? Perché sarò sempre il Mezzosangue a cui hai messo il tuo cognome. Il bastardo.” Lo guardò negli occhi, infischiandosene del suo tono di voce o delle lacrime che gli chiudevano la gola. Era meglio detestarlo che singhiozzargli addosso e chiedergli aiuto.
Perché non me lo darebbe. Perché non lo vorrei.
Suo padre non era mai stato il tipo di genitore che ti prendeva in braccio dopo una brutta caduta mormorandoti rassicurazioni.
È sempre stato la schiena che si allontanava.
Infatti l’uomo non pareva particolarmente colpito dal suo crollo di nervi. Infastidito, quello sì. “Quel che dici non ha alcun senso.” Gli fece notare. “Sono qui per metterti in avviso di come la tua defezione sia stata mal vista. Come vedi, mi preoccupo della tua carriera…”
“Ma di me?” Serrò i pugni per non afferrare la bacchetta. “Di me, come persona, ti importa?”
Suo padre aggrottò le sopracciglia e per un attimo parve confuso, come se non riuscisse a capire la domanda. “Cosa ti aspetti da me Michel?” Chiese infatti e questo gli fece più male che se l’avesse schiaffeggiato. Se lo aspettava, ma fece male lo stesso.
Non hai la minima idea di come si fa il padre, Blaise.
Gli venne quasi da ridere, ma si asciugò invece le lacrime. Un paio erano sfuggite al suo controllo: pazienza.
Addio dignità. È mai servita poi? Con lui no di certo.
“Niente.”
“Dalle tue reazioni non parrebbe.”
“Forse. Ma non sono felice papà.” Gli uscì una risatina nervosa, perché era la prima volta che parlavano di sentimenti, e suo padre pareva aver morso un limone. Ma doveva spiegarglielo. Fargli capire che era stanco.
Perché lo era sul serio e Emil era in un letto d’ospedale. Solo quello importava.
“La vita che ho condotto fin’ora mi ha reso vuoto. Emil mi ha aiutato a realizzarlo … ma l’ho cacciato perché avevo paura di dargli ragione. È questa la sciocchezza che ho commesso.”
“Vuoi lasciare il lavoro?”
“Non lo so.” Rispose onesto. “Quello che so è che non è più la mia priorità.”
Suo padre si alzò in piedi con un movimento energico. In effetti era una vera novità che fosse rimasto ad ascoltarlo per tutto quel tempo. Lo guardò duro. “Ti stai rovinando con le tue mani e ti rifiuti di ammetterlo… A questo punto non c’è altro che possa fare.”
“Oh no, lo ammetto.” Se impazzire significava quello era meglio di quel che pensasse. Avrebbe dovuto chiedere consiglio a quello sciroccato di Dursley, lui di tracolli psicotici se ne intendeva. “Ma non mi importa. Non più.” Spalancò le braccia per includere la stanza nascosta in cui si trovavano, i suoi vestiti adattati per non urtare i gusti dei suoi colleghi Purosangue, il suo lavoro, sé stesso. “Guarda dove mi ha portato, aver paura di rovinarmi.”
Suo padre si guardò attorno e gliene diede atto, tentava almeno di capire. “Dovrei notare qualcosa?”
“Sì, che sono solo.”
Blaise Zabini non ribatté. Ma forse, per la prima volta in anni, vide un’emozione affacciarsi in quella maschera di garbo e freddo contegno.
Avrebbe voluto chiedere a Scorpius delucidazioni, lui che era così bravo ad interpretare i padri difficili come i loro: perché lui, in quella smorfia, non vi lesse niente.
“Ti accompagno all’uscita?”
“Conosco la strada.”
Ascoltò i passi di suo padre allontanarsi e poi la porta di ingresso chiudersi con uno scatto sommesso. A quel punto si sedette sullo sgabello del pianoforte. Erano anni che non lo suonava, ma averlo contro la schiena gli aveva sempre dato tranquillità. Chiuse gli occhi, gustandosi il sangue rombargli nelle orecchie.
Meglio del silenzio. Dov’è la musica maestro?
“Però …” Quindi Loki non se n’era andato. Era rimasto e, fedele a se stesso, aveva origliato l’intera conversazione. “… è la prima volta che vedo tuo padre con la faccia di qualcuno a contatto con le proprie emozioni. Disturbante!”
“Concordo.” Sospirò aprendo gli occhi. L’amico di una vita era sullo stipite della porta e lo contemplava indecifrabile. Sorrideva, certo, ma Loki Nott sorrideva sempre.
“Credo di essere impazzito.” Trovò corretto notificargli.
“Sì, perché no?” Concesse sedendosi accanto a lui. “La follia è il linguaggio dei saggi, dicono.” Lo guardò di sottecchi. “Stai bene?”
“No.”  
Loki gli passò un braccio attorno alle spalle. “Mi è piaciuto l’intero discorso … misurato, ma col giusto pizzico di melodramma. Ma su una cosa hai sbagliato.”
“Quale?”
“Non sei solo, egocentrico di un dandy.” Sbuffò con blando rimprovero. “Perché non mi hai detto di Emil?”
Frenò un sorriso, perché con quello sarebbero arrivate anche le lacrime. “Pensavo avessi lasciato il paese per evitare l’incarcerazione.”
“Ungere i meccanismi del DALM è più semplice di quanto tu non pensi, caro il mio funzionario in crisi di coscienza.” Fece spallucce, gli occhi bicolore che ridevano. “Piuttosto, parliamo di cose serie. Come sta il nostro angelo della musica?”
“Meglio di me al momento, almeno a sentire Al. Si riprenderà.”
Loki annuì con aria comprensiva. “Non ci resta dunque che libare.”
“A cosa?”
“Serve un motivo per ubriacarsi alle undici del mattino?”
“No. Mi pare una splendida idea, Nott.”
Gli strizzò l’occhio, facendo sembrare il mondo un po’ più simile a com’era una volta. Non gliene fu mai così grato. “Ne ho mai di diverse?”


****


Hogsmeade, primo pomeriggio.
Casa di James Potter & Ted Lupin.

“Ben, ehi, non correre!”
James non avrebbe mai pensato, neppure in un milione di anni, che si sarebbe raccomandato ad un bambino. Di non fare quello per cui poi erano sostanzialmente costruiti, ovvero caraccolare da un posto all’altro alla massima possibilità consentita dalle loro gambette.
Ma questa mi si schianta.
La coordinazione motoria di Benedetta era imprevedibile: un momento prima poteva arrampicarsi con perizia su un albero, quello dopo finire bocconi a terra senza neanche frenare la caduta con le mani.
Come Teddy. 
Credeva c’entrassero i loro geni da lupo intermittenti, o forse il fatto che fossero sostanzialmente due patate lesse.
Fatto stava che doveva evitare che la nana si aprisse la testa in due come un cocomero.
Visto la nuova, merdosa notizia…
Quindi la raggiunse e la afferrò da sotto le ascelle, caricandosela sulla spalla tra un gran strillare e ridere. “Se uno di noi due si fa male Teddy si fa venire una crisi isterica pulce, fa’ la brava.” La ammonì.
“Voglio uscire!” Lo redarguì dandogli una ginocchiata sul plesso solare. James ingoiò un’imprecazione e tirò dritto verso il salotto.
“Guarda che piove.”
“Eh!” Fu la risposta spazientita. “So!”
“Rotolarsi nel fango è divertente.” Annuì comprensivo. “Ma ricordi cosa abbiamo promesso?”
Benedetta si corrucciò ma colse l’appunto perché smise di divincolarsi come una trota appena pescata. “Facciamo i bravi.” Ripetè con tono paziente che gli ricordò curiosamente quello di Teddy. “E torta.” Aggiunse.
“Sicuro, gli facciamo una torta… una roba da cinque bacchette!” Che era la prima cosa che gli era venuta in mente di fare con la bambina quando Ted li aveva salutati, diretto al Ministero per capire di più di quel mucchio di merda che era piovuto loro addosso.
Una richiesta d’adozione dal nonno di Benedetta … quello Mannaro.
Che cazzo. E io che pensavo potessero essere i Babbani a fare storie.
Invece era uscito fuori un parente a caso, come nella peggiore commedia Babbana, di quelle che sua madre negava di vedere quando tornava dal lavoro.
Teddy era andato fuori di testa: finita la sfuriata-conversazione con Flynn si era chiuso in un silenzio da cui nessuno era riuscito a tirarlo fuori e così era rimasto fino a quella mattina, quando all’alba si era lanciato fuori dal letto in direzione Ministero, Ufficio Minori.
Per la prima volta in vita sua James aveva dovuto chiedergli di mantenere la calma.
Io. Che lo chiedo. A lui.
Una roba da rimanerci secchi, ma aveva retto il fortino, preferendo rimanere con Ben piuttosto che andargli dietro e assicurarsene di persona. La bambina aveva infatti annusato la situazione e quando Ted l’aveva salutata si era voltata verso di lui con due occhi grossi come due tazzine da the.
Rimanere a casa non era stata una decisione poi così difficile da prendere.
La trasportò quindi in cucina, mettendola seduta sul tavolo. “Farina e uova prima di tutto!” Declamò, aprendo le ante della dispensa con un colpo di bacchetta e mandando gli ingredienti a danzarle attorno. Ben rise deliziata, afferrando il pacco di farina e facendolo ballonzolare a ritmo delle uova.
Era bravo a fare il buffone, quello era garantito.
Quindi lo faccio. È quello di cui ha bisogno adesso la nana.
Doveva fingere di essere lo scemo più spensierato del mondo ma quando il campanello suonò per poco non mandò le uova a schiantarsi contro la parete. Le afferrò rapido e le sbattè dentro la terrina, facendo Evanescere i gusci prima che Ben potesse trovarli interessanti. “Vado ad aprire, tu non ammazzarti nel frattempo.”
“Sissignore!” Recitò come gli aveva insegnato facendogli venire una stretta al cuore.
Porco Merlino, se ce la portano via ammazzo qualcuno. Sono un auror addestrato, non volete vedermi incazzato!
Nossignore.
Andò ad aprire la porta. Quando si trovò di fronte Andromeda Black ne fu così sorpreso che rimase a contemplarla per una manciata di secondi.
“Beh?” Lo apostrofò spiccia come sempre. “Mi vuoi far inzuppare da capo a piedi?”
James si scostò immediatamente mentre la strega entrava chiudendo l’ombrello, uno dei tanti oggetti Babbani che Ted sosteneva usasse per sempiterno spirito di ribellione.
“Ehm … ‘giorno.” Era sorpreso: di solito Andromeda non veniva a trovarli senza aver prima annunciato la visita tramite Gufo: in questo era rimasta una Purosangue in tutto e per tutto. “Teddy non c’è.” La avvertì. “Adesso è…”
“Al Ministero, lo so.” Confermò con un cenno della testa. “Mi ha detto tutto.”
“Ah.” E quello era ancora più strano. Non che Ted l’avesse chiamata, quello era normale, era sua nonna e una delle sue figure di riferimento, ma che Andromeda avesse comunque deciso di venire ad Hogsmeade.
Non viene mai quando ci sto solo io.
La verità era che lui e Andromeda Black non si piacevano granché.
I rapporti tra lui e la strega erano stati buoni durante la sua infanzia, ma da quando lui e Ted si erano messi assieme tra lui e la strega era calato il gelo artico.
Vitro gli è sempre piaciuta di più.
Non sapeva se fosse perché era un uomo o perché fosse proprio lui, ma rimaneva il fatto che non aveva mai avuto l’impressione di essere diventato un genero. Era rimasto invece il ragazzino che tirava i calzoni a Teddy per attirare la sua attenzione.
La cosa lo faceva abbastanza incazzare, oltre che a ferirlo. Non si sarebbe però mai sognato di dirlo al suo compagno.
Ci rimarrebbe troppo male.
E doveva pensarlo anche Andromeda perché quando Teddy era nei paraggi si comportava da amicona.
Ma cavolo, me ne rendo conto quando sto sull’anima a qualcuno!
“Dov’è Benedetta?” Gli domandò strappandolo alle sue riflessioni.
“In cucina, stiamo facendo una torta…”
“… e la lasci da sola in una stanza piena di cose affilate?”
Ah, già, c’era anche quello. Lo riteneva completamente inaffidabile attorno a Ben.
Roba che mi segue se la porto a giocare in giardino. Per controllarmi. Cazzo.
“Le ho detto di stare buona, mi dà retta.” Borbottò percependosi moccioso agli occhi dell’anziana. Come riusciva a produrre uno sguardo giudice lei … 
La strega inarcò le sopracciglia. “Sarebbe la prima cinquenne che fa una cosa del genere.”
Quasi a confermare l’asserzione si sentì un orrendo rumore di cocci. James corse in cucina sperando che la pulce non avesse scelto proprio quel momento per impalarsi da qualche parte. “Ben!”
“Scusa!” Fu lesta a dire, contemplando la ciotola a terra, in pezzi e uova sparse tutte attorno. “Volevo iniziare!”
Era troppo sollevata dal vederla dove l'aveva lasciata e ancora viva per sgridarla: come se gli sarebbe mai riuscito poi. “Okay, ma la prossima volta chiamami. La ciotola era di vetro, potevi farti male!”
Ben si morse il labbro mentre due grossi lacrimoni presero a tremarle tra le ciglia. “Sei arrabbiato Jamie? Scusa, non c’eri … impegnato?” Tentò di spiegargli.
Merda, sono un mostro.
La prese in braccio baciandole la testolina che esibiva grosse chiazze di farina. E quelle? Decise di glissare. “Sì, ero impegnato ma non fa niente.” La rassicurò. “Se hai bisogno mi devi chiamare. Mollo tutto e vengo da te, okay?”
Percepiva lo sguardo di Andromeda sulla nuca e non si era mai sentito così inadeguato.
Ma che è venuta a fare poi? Per controllare che non faccia fuori la nostra bambina?
“Okay.” Benedetta non si era accorta di nulla ma fece in compenso un gran sorrisone quando registrò la presenza dell’anziana. “Nonna!” Pigolò allegra. “Sei venuta a trovare!”
L’espressione austera di Andromeda si aprì in un sorriso che non avrebbe mai creduto potesse fare se non l’avesse vista interagire con un altro nipote, questo grande e grosso. Quando mise Benedetta a terra la donna si chinò subito alla sua altezza. “Tesoro mio, cosa stavi combinando?”
“Torta per Teddy!” Dichiarò orgogliosa, come se non l’avesse appena mandata ad incontrare il pavimento. “Ti piacciono le torte nonna?”
“Molto.” Convenne accarezzandole le guance e al tempo stesso eliminando tracce di uova e farina. Come aveva fatto a conciarsi così in mezzo minuto?
Domanda idiota. Io facevo di peggio.
“Regalo?” Fu la seconda, speranzosa domanda. Teddy sosteneva che sua nonna mai l’avesse viziato come invece faceva con Benedetta.
La Black si è ammorbidita.
Era difficile non farlo di fronte al sorriso senza denti di Ben, c’era da ammetterlo. Infatti quando la strega tirò fuori un pacchetto fuori dal mantello, con conseguente urletto gioioso della bimba, non si sentì di biasimarla. “Storie!” Dichiarò facendo a pezzi la carta da pacchi e tirando fuori un libro che aperto rivelò una battaglia con tanto di draghi e cavalieri che magicamente si prendevano a mazzate tra le pagine. Si voltò poi verso di lui per mostrarglielo. “Bello Jamie!”
“Da paura pulce, ringrazia la nonna.”
“Grazie!” Gli abbracci di Ben erano del genere stritolante e con placcaggio incorporato e per questo impossibili da non ricambiare. “Vado leggere!” Esitò. “Torta la facciamo dopo?”
“Dopo, sicuro. Diamo tempo alla cucina di riprendersi.” Concordò facendola ridacchiare.
Quando lui e Andromeda furono di nuovo soli si permise un sospiro. Uno solo, perché non era invincibile.
C’ho messo un po’ per arrivarci, ma diavolo, non sono idiota.
Come doveva invece supporre la strega da come lo stava guardando. “Dobbiamo parlare.” Disse infatti.
“Io e te?” Giusto per essere chiari.
“Esatto.” Confermò. “E di mio nipote.”
James inspirò. Beh, non che avesse scelta. “Sicuro. Metto su il bollitore.”

****

Devonshire, Il Mulino.
Dopo pranzo.

Lily amava saltare nelle pozzanghere anche se aveva vent’anni suonati. Non importava l’età, si disse quando con soddisfazione gli stivali da pioggia schizzarono fango tutto attorno al sentiero. L’importante era crederci.
Di ritorno da casa dei nonni, con l’ombrello chiuso perché grazie a Merlino aveva smesso di piovere, non riusciva a considerare quella una brutta giornata. Il sole aveva fatto capolino tra le nubi facendo scintillare l’erba bagnata mentre il vento profumava la brughiera di pioggia. Poteva amare la città ma era e sarebbe sempre rimasta una ragazza di campagna. Si slacciò l’impermiabile facendo ondeggiare il paniere colmo di viveri che, a detta di nonna Molly, erano indispensabili al buon funzionamento della sua famiglia.
Strano che non mi abbia tenuta di più…
Ma forse la presenza di suo zio Percy, accorso dalla città con le ultime notizie, aveva distratto la strega dall’indagare sul loro nuovo, controverso ospite.
Aveva ascoltato sì e no l’uomo raccontare del tumulto di quella mattina a Diagon Alley: non che non le importassero le sorti del Ministero in cui viveva, ma si rendeva anche conto che se avesse dovuto preoccuparsi di ogni minimo sommovimento sociale sarebbe impazzita.
Come rischia di fare papà.
Il disastro di Notturn Alley non aveva potuto esser evitato, e la gente l’avrebbe capito.
O meglio, lo capiranno quando John Doe sarà a Azkaban.
Aveva fiducia in suo padre e i suoi uomini, come era certa che il Ministro Shackebolt avrebbe infuso buonsenso nei suoi concittadini una volta placati gli animi. Non c’erano stati feriti e i Tiratori si erano limitati a disperdere i facinorosi senza tirar fuori le bacchette.
La realtà è che siamo tutti troppo conservatori per fare la rivoluzione.
Una tragedia era una tragedia e delle persone erano morte. Ma erano morte perché fuori c’era un nemico, esterno.
E se c’era una cosa che il popolo magico di Inghilterra riusciva a digerire era paradossalmente quel tipo di minaccia.
Voldemort ci ha resi tutti più uniti.
Nonostante il pessimo lavoro del Profeta persino suo zio Percy era convinto che l’opinione pubblica avrebbe finito per “perdonare” suo padre, una volta catturato il colpevole.
Che poi non c’è proprio niente da perdonare … Non è che papà deve sempre risolvere tutti i guai di Inghilterra!
Scosse la testa, cercando di scrollarsi via quei pensieri cupi, inadatti a quello che si apprestava a fare.
Andiamo a cercare Sören!
Che era al Mulino, ergo a sua completa disposizione.
Sempre che mamma non l’abbia schiavizzato.
Abituata infatti ad un marito del tutto negato coi lavori di casa e due figli maschi che avevano lasciato il nido non appena compiuti gli undici anni, sua madre non si faceva scrupoli a sfruttare un paio di braccia robuste se le aveva sottomano.
Immaginare il suo ragazzo preso a strofinare finestre o spazzare il pavimento la fece ridacchiare. Aprì il cancello della proprietà. “Sono tornata!” Annunciò ad alta voce. “E porto viveri!”
La vera, indiscussa, padrona di casa mise la testa fuori dalla porta d’ingresso.  “Lasciale sulla soglia, sto lavando a terra!”
“Da quant’è che puliamo?” Chiese obbedendole. “Mi pare di non fare altro da mesi.”
“Esagerata.” Sbuffò. “Quando lavoro non ho mai tempo e tuo padre vivrebbe in una discarica se dipendesse da lui. Ne approfitto che non mi sta trai piedi … quando vuole aiutare è persino peggio.”
“E Ren?” Domandò temendo che sua madre l’avesse confinato sul letto senza nemmeno dargli la possibilità di scendere per andare in bagno.
“Nel retro.” Fece un cenno vago ma non poté nascondere l’espressione divertita.
“Mamma?” Si accigliò doverosamente. Era suo dovere proteggere il suo ragazzo dalle grinfie curiose di Ginny Weasley. “Cosa gli hai fatto?”
“Niente, abbiamo chiacchierato.” Si strinse nelle spalle. “Non è un tipo loquace ma basta trovare l’argomento giusto che non lo zitti più …”
“Vi siete messi a parlare di mitologia norrena?” L’unico argomento su cui l’altro diventasse un nerd assoluto.
Sua madre sorrise. “Abbiamo parlato di te.”
Lily si sentì avvampare e preferì quindi alzare le spalle e battere in ritirata. “Vado a vedere dove si è nascosto. Scommetto che me l’hai spaventato!”
“Oh, tesoro, no.” Scosse la testa. “Quell’effetto glielo fa tuo padre.”
Touché.
Fece il giro della casa e lo trovò sotto un melo, talmente immerso nelle lettura che non alzò la testa neanche quando gli si avvicinò.
Ha abbassato le difese o di me avrebbe anche registrato il respiro.
Le poche volte che l’aveva colto così rilassato erano in due e c’era di mezzo un letto.
Era felice di vederlo così al Mulino, senza di lei. Significava che quel posto non lo metteva a disagio come aveva paventato.
Forse c’entra mamma. Grazie mamma.
Notò poi che leggeva uno dei suoi libri di poesie Babbane, regalo di Tom, l’unico in famiglia che capisse qualcosa in merito. Era l’antologia di Keats.
Regalo di compleanno commissionato. A Tom i romantici fanno schifo.
Andarsene, andarsene. E arrivare da te, non portato da Bacco e dai suoi leopardi, ma sulle ali della poesia, invisibili.” Gli si rivolse facendolo sobbalzare sorpreso.“Buh.” Aggiunse per buona misura.
Sören le sorrise imbarazzato. “Ode ad un usignolo” Riconobbe. “È la tua preferita?”
“No, non proprio.” Rispose sedendosi accanto a lui. “Indovina qual è!” Lo sfidò appoggiando la guancia alla sua spalla. Profumava di dopobarba e sulla camicia di solito immacolata aveva una minuscola macchia di marmellata.
Sta cominciando ad abbandonarsi alla routine del Mulino… Eccellente.
“Non devo indovinare.” Gli piaceva che la baciasse sulla fronte. Se fosse stato un altro l’avrebbe considerato un gesto paternalistico, ma come la baciava Sören parlava di riserbo e tenerezza. Una roba da vecchietto che però addosso a lui calzava.
“No?”
“Me l’hai detto per lettera quando mi hai obbligato a comprare la stessa antologia.” Le rispose inarcando un sopracciglio e fingendosi perplesso. “La bella dama sans merci … che considero un po’ preoccupante, visto la fine che riserva ai suoi amanti.”
“Hai frainteso.” Gli mostrò la lingua. “È che il primo verso mi ricorda te. Perché soffri, o cavaliere in armi, e pallido indugi e solo?
Per i prati vagando una donna ho incontrato, bella oltre ogni linguaggio, figlia d'una fata: i capelli aveva lunghi e il passo leggero…” Le rispose a tono prima di voltarsi a baciarla. Lily dovette ricordarsi che sua madre si muoveva per casa per non prenderlo lì, sull’erba.
Un uomo che ti recita poesie. Un mago che ti recita poesie e non ti cita calderoni in fiamme per la lussuria.
… forse doveva appendergli un cartello al collo per segnalare che la proprietà era già stata acquisita. E non sarebbe mai stata ceduta.
“Il bentornato migliore della storia.” Gli notificò accoccolandoglisi contro. “Ne deduco comunque che stamattina mia madre non ti ha tartassato.”
“No, anzi, è stata … gentile.” Cercò la parola con attenzione e un sfuggente impaccio. A Lily venne da ridere.
“Guarda che puoi dire tranquillamente che ti ha messo sotto torchio! È una giornalista, le riesce bene.”
“Bene quanto a te.” Replicò ironico. “Non è stato troppo imbarazzante perché sono abituato ad avere persone dai capelli rossi che si impicciano della mia vita.”
“Ma sentilo!” Gli tirò un colpo sulla spalla che l’altro neppure registrò. “Non vi sarete messi a complottare alle mie spalle!”
Ecco cos’era quell’aria sorniona … Mamma non gli avrà fatto vedere le foto del mio quinto compleanno?
“Delle foto sono state tirate fuori durante il colloquio?” Si azzardò a chiedere.
“Sì, in effetti.”
Meraviglioso...
Il suo mugugno non impegnativo seguito da una serie di borbotii fu accolto da Sören con una risata. Si divertiva, il cretino.
E ne ha ben donde. Quelle foto sono imbarazzanti…
Ma era che il segnale che sua madre lo aveva accettato come suo ragazzo.
“Ginny mi ha detto di tenerti lontana dai guai. È una specie di benedizione, suppongo. Almeno così mi ha detto.” Disse infatti ed era raggiante. Vedergli quella felicità addosso le faceva sempre pensare che il mondo era un bel posto, alla fine. Molto meglio di come tanti lo descrivevano se permetteva ad un ragazzo come Ren di tornare a sorridere.
“Lo è.” Convenne con un sospiro. “Aspettati un maglione Weasley per Natale.”
“ … come?”
“Meno ne sai meglio è, credimi.” Si alzò invitandolo a fare altrettanto. “Ha smesso di piovere, andiamo a fare una passeggiata? Non hai ancora visto i dintorni!”  
Non so quanto durerà questa tregua. Approfittiamone il più possibile.
Sören parve leggerle nel pensiero da come le porse il braccio con un sorriso gentile ma triste. La loro spensieratezza era legata a filo doppio ad un orologio che non smetteva di correre. Suo padre sarebbe tornato quella sera e le notizie da Londra non sarebbero più state solo stralci di conversazione. 
“Lilian.” La chiamò. Doveva essersi incupita da come la stava guardando preoccupato. “Andrà tutto bene.”
Non rispose, stringendogli invece il braccio. Solido, caldo, sotto la stoffa della camicia. Era reale e su quello doveva concentrarsi.
Niente brutti pensieri. Siamo nel Devonshire.
La sua casa, il rifugio della sua infanzia e, pareva, della sua vita adulta. Quei campi infiniti li avrebbero protetti e custoditi. Avrebbero loro permesso di comportarsi come due ragazzi della loro età, e non pedine in una scacchiera spaventosa. 
“Prima tappa, il bosco fatato!” Declamò. “Non che ci sia infestato da vere fate, è solo un boschetto qui vicino con un lago … pozza d’acqua a dirla tutta. È carino però.” Chiarì.
“Molto bene.” Sören annuì compito, come se quella fosse un viaggio istituzionale nei suoi ricordi di bambina. Forse lo era: l’infanzia era un bel posto dove perdersi per un po’.

****

Hogsmeade, Casa di Ted Lupin e James Potter.
Sera.

Ted rientrò a casa solo a tarda sera. Non era riuscito, in tutta coscienza, a tornare nelle braccia della propria famiglia con uno stato d’animo stravolto. Non voleva spaventare Benedetta e far preoccupare James.
Appese la vecchia giacca lisa all’attacapanni, notando distrattamente come un nuovo buco avesse perforato la pelle di camoscio; erano anni che sua nonna tentava di bruciargliela. Ci passò una mano: ricordava ancora quando l’aveva comprata. Aveva appena finito Hogwarts e iniziato da pochi mesi l’Accademia. Era così diverso dal ragazzo ingenuo e confuso di allora che per un momento quel diciottenne gli mancò: vivere una bugia inconsapevole con Victoire, esser convinto di voler diventare un eroe come il padrino…
Era tutto più semplice allora.
Più semplice, forse, ma non certo vero. Quello che aveva con James, quello che era arrivato con Benedetta era complicato, ma così bello che gli stringeva il cuore. Era avere una famiglia. E faceva ancora più male, perché si rendeva conto che non era in grado di proteggerla.
Non c’era di mezzo un malintenzionato, una minaccia oscura come quelle che lui e il compagno avevano affrontato cinque anni prima. C’era piuttosto un pugno di leggi giuste e la presenza di un uomo che rivendicava un diritto.
Vulneraria.
Un Mannaro, come Ben, suo bisnonno in linea diretta, perché padre della donna che Remus Lupin aveva frequentato quando si era infiltrato nel branco di Greyback. Così gli aveva spiegato Flynn e così gli aveva ripetuto il funzionario dell’Ufficio Minori. Non gli avevano fornito altre spiegazioni. Solo che l’uomo si era identificato, portando un certificato di nascita della figlia e accettando di sottoporsi ad un prelievo del sangue. Aveva anche chiesto di vedere Benedetta, ma quello per fortuna gli era stato negato.
Non gli interessa se la spaventa o la confonde. La vuole, perché la ritiene sua.
Parte del branco.
Una parte di sé lo avvertì che era un ragionamento ingiusto, che non conosceva il Mannaro e poteva star benissimo distorcendo la realtà per adattarla alla sua collera. Ma non gli importava.
Sapeva che Benedetta era sua nipote ben prima che Lunastorta morisse. Li ha cacciati via perché non gli interessava, perché la credeva un bambino.
Che razza di uomo doveva essere quello che rifiutava di aiutare un nipote in base al sesso?
Aveva un’opinione ben precisa in merito, ma non dati certi: il funzionario non si era sbottonato alle sue pressanti richieste di spiegazioni anzi, gli aveva caldamente raccomandato di non cercare contatti con Vulneraria se non tramite canali ufficiali o comunque tramite l’intermediazione dell’Ufficio Minori.
Ci faremo risentire.
… quando me la porterete via?
La sua udienza era durata meno di un’ora, ma ci aveva messo un’intera giornata a smaltirne gli effetti. Aveva passeggiato per Londra come un automa rabbioso finché la stanchezza e la fame non avevano sostituito il grumo scuro che gli si era annidato dentro.
Ora era più calmo.
Inoltre la luce della cucina era ancora accesa, segno che almeno James era sveglio. Lo trovò infatti seduto al tavolo da pranzo mentre seguiva distrattamente la radiocronaca di una partita di Quidditch in differita: gli parve Germania-Brasile.
“Ehi.” Esordì come un naufrago appena sbarcato a terra dopo giorni di tempesta.
James si riscosse sorpreso. Se non seguiva la radio era allora perso in pensieri suoi. “Ehi.” Gli sorrise. “Ti pare questa l’ora di tornare a casa Lupin? Non è un albergo!” Lo canzonò.
Ted fu quasi travolto dal desiderio di stringerlo a sé ma non poteva placcarlo come un giocatore di rugby Babbano. Distolse quindi lo sguardo e occhieggiò la forma rotonda coperta da un panno e posata sul tavolo. “Avete fatto una torta?"
"La migliore del mondo!"
"Ed è ancora intera?”
James fece spallucce. “Ben ci teneva a mangiarla con te, ma è crollata prima.”
Fu la goccia che fece traboccare il famoso calderone. Un groppo gli si aggrappò alla gola e si trovò nell’ignominiosa necessità di coprirsi la faccia con le mani per non mettersi a piangere.
Teddy!” Era un vero asso nel far preoccupare il suo ragazzino di recente. “Ohi, ma ho detto … Che è successo?”
“… niente.” Riuscì ad articolare con il tono più fermo che gli riuscì. Gli parve di esser regredito ad un undicenne con poco controllo dei propri dotti lacrimali. “È stata una giornata orribile.”
James gli mise una mano sul braccio. “… cosa hanno detto all’Ufficio Minori? Vogliono … vogliono portarcela via?”
Lo sollevò e insieme lo preoccupò udire lo stesso tono fragile da parte dell’altro. Almeno poteva tentare di racimolare un po’ di coraggio per confortarlo. “No, Benedetta rimane con noi. Per adesso … Vulneraria non può semplicemente portarsela a casa perché ha provato di esser suo bisnonno. Io sono suo zio.”
“Okay.” James tentò un mezzo sorriso, anche se poco convincente. Era ancora pallido come un lenzuolo. “…quindi come funziona?”
“Funziona che faranno un sopralluogo nella riserva dei Mannari, controlleranno che Vulneraria sia una persona in grado di rapportarsi con una bambina, i suoi trascorsi, se ha commesso dei crimini. E se risulterà pulito …” Si strinse nelle spalle, lasciandosi cadere sulla sedia. “… ci faranno sapere.”
James aggrottò le sopracciglia. “Che cazzo significa?”
“Che sia noi che lui avremo il diritto e il dovere di stare con Benedetta. Che dovremo incontrarci per decidere come occuparci di lei.”
“Come una specie di divorzio?”
Ted sorrise. “Una specie, sì. Un po’ come sono cresciuto io … metà a casa di mia nonna e metà al Mulino.”
James si sedette accanto a lui, allungando distrattamente il piede nudo contro la sua caviglia. Quel gesto inconscio lo rassicurò più che se lo avesse abbracciato: era sciocco?
“Non sembra male.”
“Questo nella migliore delle ipotesi.” Fu costretto ad ammettere. “Non abbiamo idea se Vulneraria vorrà una custodia congiunta o separata.”
“Non dovrebbe volere quello che vuole Ben?”
Ted gli prese una mano e la intrecciò alla sua. A quel punto, non gli bastava più un piede e una caviglia. “… dovrebbe, sì. Ma Ben ha cinque anni e raramente i bambini sono ascoltati in faccende del genere.”
James fece una smorfia. “Beh, è una stronzata. Ben vorrebbe restare con noi! Siamo la sua famiglia!”
“Anche Vulneraria lo è.” E anche se gli costava ammetterlo era la verità. “Inoltre … è un Mannaro. Come lei.” Ed era questa la cosa che lo spaventava di più: Vulneraria era in grado di comprendere Ben in modi che né lui né James avrebbero mai potuto uguagliare.
E questo l’Ufficio Minori dovrà prenderlo in considerazione. E Flynn non potrà rifiutarsi di ammettere che Ben vivrebbe meglio con persone con la sua stessa condizione.
Si accorse che James lo stava guardando in silenzio. Aveva una luce singolare negli occhi, che gli aveva visto solo durante i suoi casi più complessi o durante le partite di Quidditch più accanite.
“Come possiamo essere meglio di Vulneraria?”
“Non è esattamente questione di meriti…”
“Okay.” Lo interruppe. “Allora come possiamo convincere quelli del Ministero che potremo essere genitori migliori di quel tizio?”
Ted non riuscì subito a ribattere: James come al solito parlava a cuore aperto e non si era reso conto della portata di quello che aveva detto. O l’aveva fatto ma non metteva manifesti perché per lui era già cosa assodata e digerita.
Genitori…
Si sporse a baciarlo, perché lo amava, anche per la sua incapacità di percepire le stupide sfumature grige che rendevano la vita un po’ più difficile per quelli come loro. “Jamie, io e te siamo una coppia di maghi. Nessuno ci giudica per strada e posso presentarti come il mio compagno come tu puoi presentare me … ma agli occhi del Ministero non siamo una coppia di genitori. Siamo solo un papabile tutore e il suo ragazzo.”
“Non c’è problema.” James gli sorrise, passandogli un braccio attorno al collo per tirarselo vicino. Lo seguì ipnotizzato da quell’improvvisa sicurezza. “Ho io la soluzione.”
“Sì?”
“Sì Teddy.” Confermò. “Sposiamoci.”

****
 

Note:

Eeee … non dite che non ve l’aspettavate!
Capitolo di scelte, questo. O quasi. Insomma, a questo punto sono abbastanza sicura di finirla in una decina di capitoli.
Credo.
Comunque, ecco le due canzoni che mi hanno ispirato: questa e quella

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Capitolo 51
*** Capitolo L ***







I'll taste the devil's tears
Drink from his soul, but I'll never give up you
(Devil’s Tears, Angus & Julia Stones)


4 Agosto 2028
Devonshire, Il Mulino. Mattina


Sören era stato fortunato. Tale perché per un giorno intero aveva potuto evitare di scontrarsi con Harry Potter. Quella mattina il karma aveva però deciso di punirlo facendogli trovare il Salvatore seduto al tavolo della cucina.
Le donne di casa non erano ovviamente presenti: Ginny doveva essere andata al lavoro mentre Lily stava finendo di farsi la doccia.
Grandioso.
“Buongiorno Capo Potter.” Esordì sentendosi mostruosamente inadeguato perché in camicia e jeans invece che in uniforme.
“Sören.” Lo salutò con un cenno della testa. Lui invece lo era, essendo diretto al lavoro. “Siediti, Ginny ha preparato la colazione per tutti.”
Non c’era via di scampo. Obbedì, optando per il the dato che il caffè gli avrebbe dato un non desiderabile nervosismo.
Più di quello che già provo.
Odiava i silenzi pesanti e quello era uno dei più intensi che avesse mai sperimentato. Desiderò ardentemente la presenza di Emil, pronto a stemperare la situazione con qualche battuta, o di Lily.
Ripensandoci forse Lily non era la persona più indicata.
Visto che non ho lasciato il suo letto per tutta la notte.
“Dormito bene?”
“Molto, grazie.”
Forse tre ore. Sua figlia è insaziabile. E a me sta benissimo, a parte il fatto avrei davvero bisogno di una tazza di caffè. Doppio.
“Immagino.”
Dannazione.
La situazione era talmente disagiante che non era possibile potesse peggiorare ulteriormente. Il Capo Potter era un investigatore, uno dei migliori a sentire il Capitano Gillespie, ed era un investigatore che quella notte aveva dormito sotto il suo stesso tetto.
Prese quindi il coraggio a quattro mani perché non vedeva la bacchetta dell’uomo da nessuna parte e poteva sperare che l’avesse lasciata in camera. “Io e sua figlia…”
“State assieme.” Un’attestazione. “Me l’ha detto.”
“La amo.” Disse tutto di un fiato e fu felice che la voce gli fosse rimasta ferma. Anche se era terrorizzato. Gli occhi del mago – verdi, come quelli della sua Lilian – erano pezzi di vetro immobili e gelidi.
L’ultima volta che si era sentito così giudicato era stato davanti aveva una commissione pronta a decidere se rispedirlo a marcire in una prigione o meno.
“La amo moltissimo.” Continuò. “E mi rendo conto di non essere la persona che vorrebbe che le stesse accanto, ma Lily ha scelto me.” Ed era una cosa che andava detta, anche ad un uomo che gli metteva una paura tremenda. “È mia intenzione fare in modo di meritarmelo. Per il resto della mia vita, se sua figlia vorrà.”
Harry Potter sostenne lo sguardo. Un uomo che non aveva indietreggiato di fronte al Signore Oscuro difficilmente avrebbe sentito l’impulso di distoglierlo prima di lui. “Ginny ha ragione.” Disse dopo una pausa orribilmente lunga. “Sei un Tassorosso.”
“… come?”
Ancora? Cos’è quest’ossessione inglese per la propria Alma Mater?
Quei pensieri li tenne per sé però, perché intuiva che dietro la battuta dell’uomo si nascondeva altro. Forse un tentativo di distensione? “Tutta la mia famiglia, almeno da parte di padre, ha frequentato Serpeverde.” Rispose. “Anche il Preside Piton.”
“Ci sono sempre delle eccezioni.” Gli sorrise. Gli sorrise! “Mangia la tua colazione, Sören.”
Fece per obbedire – avrebbe potuto essere avvelenata e l’avrebbe fatto comunque – quando Lily entrò nella stanza, fresca di doccia e con il sorriso più rilassato del mondo.
… grazie a Faust.
Non gli era mai mancata tanto come in quel momento. “Buongiorno!” Esclamò andando a baciare suo padre sulla guancia. “Ciao straniero.” Lo apostrofò cordiale, come se fosse del tutto naturale la sua presenza lì. “Parlavate di cose da uomini? Devo andare a dar da mangiare alle galline come la donna che sono?”
“Non dire sciocchezze.” La rimbrottò affettuoso l'uomo. Quindi era quella la faccia che Harry Potter faceva quando non voleva ucciderti. Era molto paterna. “Mamma ha fatto il crumble.”
“Oh, ottimo!” Gli si sedette accanto e prese a servirsi. “Sto morendo di fame!”
Lily era incredibile: la sua allegria non risultava affatto forzata anche se era ovvio che la usasse a beneficio della situazione. Sembrava sul serio contenta di averli entrambi a tavola con lei.
Forse lo era, pensò sorridendole ricambiato: la sua streghetta inglese era in grado di vedere il lato luminoso anche nelle faccende più difficili. 
Harry Potter poi si nettò la bocca dalle briciole. “C’è una cosa di cui devo parlare con Sören. In privato.”
… tregua conclusa.
“Sissignore.” 
“È roba di lavoro?” Si informò Lily mettendogli una mano sulla gamba come a intimargli di restare seduto dov’era. Ginny l’aveva avvertito che tutte le donne della famiglia Weasley avevano l’istinto di protezione di un grizzly.
La qual cosa lo fece sentire come se l’avessero appena allontanato dal plotone di esecuzione. Anche perché Harry Potter per la prima volta parve preso in contropiede.
“Beh, no … non esattamente.”
“Allora rimango.” Si voltò verso di lui. “Per te va bene?”
“Se non si tratta di lavoro non vedo perché no.” Convenne. “Non ho segreti per Lily.”
Non adesso almeno.
Harry Potter ebbe il buongusto di non farglielo notare. “Si tratta di tua madre.” Disse invece.
“Perservera nel suo sciopero della fame?” Sentì le dita di Lily intrecciarsi alle sue.
“No, ma in compenso non parla.” L’uomo incrociò le braccia al petto. “Potrebbe essere l’unica persona che conosce il nascondiglio di John Doe. Ma si rifiuta di rispondere alle nostre domande.”
Capì dove voleva andare a parare. “Volete che la interroghi? Dubito che parlerà.”
“Sei suo figlio.”
“Solo per nascita.” Sciolse le dita dalla presa di Lily. Non voleva farle male e aveva un bisogno disperato di stringere i pugni. “Non abbiamo mai avuto rapporti se non quelli imposti da mio zio. Da bambino tollerava a malapena la mia presenza.”
Ma quella di Johannes sì, evidentemente.
“Non posso esserle d’aiuto, temo. Non ho alcun ascendente su di lei.”
“Non penso sia vero.” Non lo stava accusando, notò. Non era quello il tono. Lo stava informando. “Le uniche emozioni che le abbiamo tirato fuori sono apparse quando le abbiamo parlato di te. Forse…”
“È inutile.” Non avrebbe voluto sbottare in quel modo. Non riuscì a trovare un motivo valido per chiedere scusa. “ … mia madre sa che sono un agente di polizia. L’ho arrestata io. Non parlerebbe con me come non parla con voi. Dal suo punto di vista sono solo l’ennesimo mago che l’ha messa in gabbia.”
Si sarebbe aspettato un’ulteriore insistenza da parte del Salvatore, o un ordine diretto. Fu sorpreso quando lo vide esitare. “Mi dispiace averti turbato con questa storia, Sören. Ma sarò onesto, non abbiamo idea di dove sbattere la testa. John Doe è scomparso. E ora che sa che lo stiamo cercando, sarà ancora più difficile trovarlo.”
Si morse un labbro: il Capo Potter aveva ragione, se Johannes si era dato alla macchia non c’era modo di trovarlo.
“Pensate che mia madre conosca il suo nuovo nascondiglio?”
“È l’unica pista che abbiamo al momento. Pare inoltre che abbia fatto da prestanome per l’informatore di Doe.”
“La Talpa?”
“Per ora è solo una supposizione. È per questo che deve parlare.” Non si sbottonò. Perché avrebbe dovuto?
Dopotutto si sta rivolgendo a due civili.
Pensò alla propria uniforme e al distintivo. Al momento stavano prendendo la polvere, almeno ufficialmente. “Proverò, se pensate possa servire.” Non che avesse mai avuto scelta.  
“Papà…” Si intromise Lily. “… l’avete fatta interrogare da una Psicomaga?”
“Certo.” Confermò l’uomo. “Le abbiamo provate tutte, ma anche la Psicomagia ha i suoi limiti quando trova un paziente che non si sente tale, suppongo.”
“Chi si è occupata di lei?”
“La Patil in persona.”
“Beh, cavolo! È una tosta allora.” Lily aveva le sopracciglia corrugate. Stava riflettendo, e molto velocemente. “Forse io e Ren potremo studiare gli appunti dell’interrogatorio.” Propose. “Potrebbero dargli uno spunto su come impostare la conversazione. Trovare una breccia nel silenzio di Lady Von Hohenheim, una cosa del genere. Se ha idea di dove andare a parare è meglio, no?”
Sören si scambiò un’occhiata con il Capo Potter: non avrebbe mai pensato di poter concordare silenziosamente con lui su quanto fosse geniale la strega che avevano di fronte.
“Penso sia un’ottima idea Lils.” Convenne l’uomo con un sorriso. “Te li faccio recapitare in mattinata.” Guardò l’orologio a pendolo sul camino. “Devo andare, ho una riunione con le squadre tra … beh, due minuti.”
“Ringraziamo l’assenza di proporzionalità spazio-temporale della magia allora.” Sorrise Lily. “Ci vediamo stasera papà.”
Il mago annuì, squadrandoli. Sembrava volesse dire qualcosa, poi lasciò perdere, infilandosi dentro il camino e sparendo in uno sbuffo di fiamme verdi.
“… tuo padre non mi ha ucciso.” Gli parve giusto notificare.
Lily si mise a ridere, schioccandogli poi un bacio sulle labbra. “Certo che no, gli piaci!”
La aiutò a mettere via i piatti della colazione. “Adesso non esageriamo.”
“Gli piaci, fidati. È che deve mantenere le apparenze di padre geloso.”
Sören non rispose: non condivideva l’ottimismo di Lily ma non voleva rovinarle il buon umore. Le si affiancò invece, osservandola aprire l’acqua per lavare i piatti a mano.
“Non usi la magia?”
“Solo quando sono sicura di non spedire un intero servizio a schiantarsi al muro.” Abbozzò un sorriso. “Ero un po’ nervosa prima … mi deve ancora passare.”
… Vedi? Non eri l’unico sul filo del rasoio.
La abbracciò da dietro, aspirando l’odore di shampoo e bagnoschiuma. Era lo stesso che aveva lui, dato che condividevano il bagno. Aveva scoperto di amare quei piccoli particolari senza importanza. “Sei stata fantastica.”
“Una vera Psicomaga al tavolo delle trattative, la Patil dovrebbe essere orgogliosa di me!” Si voltò di tre quarti. “A proposito, per tua madre…”
“La penso come tuo padre. Hai avuto un’ottima idea.”
“Sicuro? Perché a volte mi impiccio e poi rendo conto che avrei dovuto farmi i fatti miei e…”
Aveva scoperto che l’unico modo per arginare la logorrea irrequieta della sua ragazza era baciarla.  
“Grazie.” Le disse soltanto. Perché affrontare sua madre con Lily affianco sarebbe stata tutta un’altra cosa.
Lily si illuminò. “Prego!” Gli allacciò le braccia dietro la schiena, bagnandogli la camicia. Non gliene importò niente. “Al diavolo i piatti. Andiamo al piano di sopra?”
“Hai sempre idee eccellenti, mia Lily.”


****


Magazzino Purge&Dowse ovvero…
San Mungo, Mattina

“Non ho capito perché mi hai fatto venire qui.”
“Per i tuoi esami, Tom.” Albus alzò a malapena gli occhi dal Profeta che stava scorrendo rapido con gli occhi, alla ricerca di nuove sciagure, perché era ovvio, ormai quel periodo era solo una somma di sfiga una dopo l’altra.
“Non sono stato a contatto con un Infetto, non vedo perché dovrei.”
“È la procedura.” Tagliò corto mentre le mascelle meccaniche dell’ascensore si aprivano sul reparto Infettive. “Ora cerco Sam e te ne starai buono finché non avrà finito.”
Tom schioccò la lingua con irritazione, ma non poteva ribellarsi. Albus aveva ragione, essere stato a Notturn Alley due giorni prima era un motivo sufficiente per farsi vampirizzare dal San Mungo.
Poco c’entrava il fatto avesse in antipatia qualsivoglia prelievo alla sua persona.
Speravo se ne dimenticasse…
Una speranza futile dato che quella mattina il compagno si era districato dal suo abbraccio, l’aveva fissato dritto in faccia e aveva proclamato che aveva bisogno di far il test del Demiurgo.
“Non sono infetto. Me ne sarei accorto.” Borbottò per puro piacere di bastian contrario, mentre Al per tutta risposta lo ignorava. “Si può sapere cosa stai cercando su quella carta straccia?” Lo apostrofò seccato dalla mancanza di attenzioni. “Lo sappiamo benissimo che sta piagnucolando attenzioni dal dipartimento Auror per fargli mettere il piede in fallo.”
Albus notò il tono indispettito – lo faceva sempre – e gli rivolse un sorriso tenero. Aveva il potere di spegnere la sua stizza. “Se vuoi rimango con te durante il prelievo.”
“Non sono un ragazzino.” Replicò lanciandogli un’occhiata velenosa. Doveva mantenere le posizioni. E non gli aveva ancora perdonato averlo trascinato fuori di casa quella mattina. “Va’ a salvare vite, se ci tieni tanto.”
“Il mio giro visite inizia tra cinque minuti … sicuro che…”
“Vai.”
Albus ridacchiò, perché aveva in pugno la sua vita e ci giocava come un gatto avrebbe fatto con un gomitolo di lana. Lo baciò a fior di labbra, e Tom trovò quindi imperativo afferrarlo per il collo di quello stupido camice e tirarselo contro per renderlo serio. Per buona misura gli morse anche il labbro, rimediandosi un pugno nelle costole.
“Stronzo.” Gli sussurrò divertito il Guaritore Potter, passandosi la lingua sul labbro offeso. “Aspettami in caffetteria quando hai finito.”
“Devo aspettarti per ore?”
“Oggi Smethwyck non c’è, vado solo a controllare i lungodegenti, il resto li lascio ad Achille. Ha perso una scommessa.” Gli spiegò accarezzandogli il risvolto della camicia. “Ti ho fatto saltare la colazione, no? Te la offro, è un’offerta di pace!”
“Preferirei una stanza vuota.”
“Questo è perché sei un maniaco. E una cosa non esclude l’altra.” Aggiunse sempre tenendo bassa la voce. Odiava quando faceva così, rischiava seriamente un’erezione in pubblico luogo.
Ti sta distraendo dalla faccenda ingrata che stai per affrontare.
Ne era perfettamente consapevole, e non se ne lamentava.


Albus concluse il giro visite più breve della storia con la stanza di Meinster. Per quanto non fosse classificabile come lungodegente aveva promesso a Michel di visitarlo a ritmi regolari. Da copione, trovò l’amico seduto al capezzale del tedesco.
L’altro appena entrato gli si rivolse. “Tom è qui in giro? Una maginfermiera ha parlato di un ragazzo che sta facendo dannare l’intero reparto di Malattie Infettive.”
“Allora non ha trovato Sam.” Sorrise divertito. “Ma qualche povero, ignaro Guaritore. È un tale bambino quando si parla di prelievi…”
Michel gli sorrise di rimando. Aveva l’aria stanca, ma la barba fatta e vestiti in cui sembrava non aver dormito. A dirla tutta, erano i capi più Babbani che gli avesse mai visto addosso.
Viktor&Rolf?” Chiese indicando la camicia, tanto per distrarlo dalla contemplazione ansiosa del crucco tutt’ora dormiente.
Michel lo guardò stupito. “Mi sorprendi pulcino. Allora qualcosa ti ho insegnato!”
“No, è che il nome degli stilisti assomiglia a quello di due randagi che mio fratello sfamava quando eravamo piccoli.” Rise della sua espressione orripilata. “Lo sai che non capisco niente di moda!”
“Ed è il mio cruccio più grande, credimi.” Sospirò. “Oggi non sono al lavoro.” Spiegò alla sua domanda implicita.
“Ti sei preso un permesso?”
“Una cosa del genere.” Concordò con aria sfuggente. Non indagò oltre. “Come sta?”
Domanda ovvia a cui rispose pronto. “Sta bene. Dovrebbe risvegliarsi a breve … i suoi tracciati cerebrali hanno mostrato segni…” Era inutile spiattellargli la versione complessa così si limitò a scrollare le spalle. “Si sta svegliando. Dopo un trauma del genere ci vuole sempre un po’. È come riavviare una macchina che è stata ferma a lungo.”
Michel annuì, sfiorando le dita del ragazzo con le sue. “Ho parlato con mio padre.”
“Oh. Com’è andata?”
“Come puoi immaginare. La figura meno paterna della storia…” Scherzò con una tristezza negli occhi che gli strinse il cuore. Albus non riusciva a capire come uomini come Blaise Zabini o Alberich Von Hohenheim mettessero al mondo dei figli e poi distorcessero quel legame rendendolo motivo di dolore. “… ma non importa, gli ho detto ciò che pensavo. Mi sento molto più leggero.” Rientrò nel personaggio rivolgendogli un sorriso sardonico. “Come mai il nostro buon Dursley è qui a far dannare un intero reparto?”
“I test per il Demiurgo. Anche se non è stato esposto ad un Infetto deve farli comunque, era a Notturn Alley.” Spiegò. “Con tutto il trambusto di due giorni fa mi ero dimenticato … lui invece faceva finta di averlo fatto. A volte si comporta come se avesse cinque anni, mi ha tenuto il broncio fino a qui.”
Michel gli rivolse un sorriso assente. Aveva intuito che cercava di distrarlo. “Li avete fatti anche ad Emil?”
“È un Magonò, la procedura non lo impone.”
Michel aggrottò le sopracciglia. “Perché?”
“Non è discriminazione.” Esordì, perché aveva intuito dove l’altro voleva andare a parare. Se un anno prima qualcuno gli avesse detto che Michel si sarebbe fatto paladino dei Senza Magia, avrebbe pensato che quel qualcuno aveva bevuto. Troppo. “I Maghinò producono naturalmente un anticorpo che annulla la presenza di magia nel loro sangue. E il Demiurgo infetta quelli come noi proprio perché reagisce alla magia. Emil è immune.”
Nel momento stesso in cui lo disse, fu come esser colpito da un fulmine. Doveva essere più o meno quella la sensazione, positiva, di avere un’epifania.
“… è immune.” Ripeté. “Gli anticorpi!” Esclamò come se stesse delirando, tanto che Michel lo squadrò confuso.
“Al?”
“Devo andare al Laboratorio! Cerchi Tom e me lo mandi giù?”
Michel annuì, perché qualcosa nella sua espressione doveva averlo convinto che ciò che stava succedendo era più importante dell’annosa antipatia che correva tra di loro. “Cos’hai scoperto?”
Michel era un ragazzo intelligente e andava subito al cuore del problema. Gli sorrise. “Forse? La cura!”

****

Devonshire, Il Mulino.
Pomeriggio.

“Tua madre è un osso duro.”
Sören alzò la testa dall’ennesima rilettura di una delle tre sedute a cui Padma Patil, Primario di Psicomagia nonché mentore di Lily, aveva sottoposto Sophia “In che senso?”
“Nel senso che ha opposto una resistenza niente male … e la Patil è la Psicomaga più tosta che conosco.”
Si strinse nelle spalle. “Come ha detto tuo padre, non è facile lavorare con un paziente che non si sente tale.”
Lily si mordicchiò un’unghia senza rispondere. Non l’aveva mai vista concentrarsi tanto su qualcosa: persino ad Hogwarts non l’aveva mai vista così immersa in un compito.
La Psicomagia l’affascina.
E ne era felice, tuttavia lo sarebbe stato di più se la persona sotto la lente di ingrandimento non fosse stata la strega che gli aveva dato la vita e che al momento gliela stava non poco complicando.
Erano seduti al tavolo della cucina, inondato dal sole pomeridiano. Sören contemplò i resti del pranzo veloce che avevano consumato data la mole delle trascrizioni. Sua madre aveva parlato con la Patil, tanto, ma non aveva detto niente di risolutorio. Aveva raccontato della sua infanzia in Germania, di suo fratello, ma quasi per dimostrare alla Psicomaga che i suoi tentativi di far breccia erano caduti nel vuoto.
“Tutta questa roba è inutile.” Concluse chiudendo il fascicolo che stava sfogliando con uno scatto secco.
Lily alzò la testa stupita. “Perché?”
“Perché dovrebbe interessarmi la sua infanzia o il suo primo ballo in società?”
“Dovrebbe invece! Pensi davvero che la dottoressa si sia fatta raccontare tutte queste cose tanto per passare due ore del suo tempo?”
Sören esitò. Non poteva dire di conoscere la Psicomagia, se non come paziente, ma aveva assistito e svolto personalmente molti interrogatori durante la sua carriera nella SAGITTA. “Non intendo dire che la Guaritrice Patil…”
“Psicomaga.” Lo corresse. “Vedi, è tutta qui la differenza. Se devi cercare una ferita, vai dritto dove sanguina, no? Con la Psicomagia è diverso. È come dissotterrare un tesoro nascosto. Non basta operare in un solo punto!”
“Ma tuo padre ha detto che non è riuscita a farsi dire dove Doe si nasconde.” Osservò.
“Vero.”
“E quindi?” Capiva che Lily cercava di fargli capire qualcosa facendocelo arrivare da solo.
Ma non abbiamo tempo.
O meglio, lo avevano, ma non era più disposto ad aspettare.
Voglio continuare con la mia vita. Voglio poter passare un pomeriggio con la mia ragazza senza dovermi preoccupare di salvare il Mondo Magico.
Lily non parve notare il suo tono brusco, o se lo fece decise di ignorarlo. “Quindi il punto non è farla parlare, ma conoscerla. Solo conoscendo qualcuno puoi farti aprire il suo cuore.”
“Cuore.” Fece una smorfia sarcastica, non riuscendo a frenarsi. “Dubito che ne possieda uno.”
“Tua madre non è John Doe.” Contestò pacata. “Da quel che posso leggere qui, è soprattutto una donna che ha sempre creduto di doversi affidare agli uomini per poter sopravvivere.”
“Dove lo avrebbe detto?”
“Non lo ha detto, è questo il punto dell’intera faccenda! Cerchiamo di pensare come lei, okay?” Gli mise una mano sulla sua. Non si era accorto di averla serrata. Di nuovo 
Parlare di mia madre non mi piace. Immedesimarmi ancor meno.
Tenne però la bocca chiusa. Quello non doveva essere un compito diverso dallo sbattere un criminale in galera o prendere una testimonianza.
“Bene. Chi sono quindi?”
“Sei una giovane Purosangue che è vissuta all’ombra del fratello dopo che i genitori sono morti. Erano molto anziani, ti hanno avuta in tarda età e quindi tuo fratello maggiore ha assunto la statura di padre. Padrone, aggiungerei. Non hai frequentato alcuna scuola…”
“… troppo cagionevole, o forse una scelta voluta di Alberich.” Suggerì, perché doveva perlomeno provarci. “Forse voleva evitare che fosse un punto debole, esposto. Al tempo era già immischiato a piene mani nella Thule.”
Lily lo premiò con un cenno incoraggiante. “Quindi sei cresciuta sotto il controllo di tuo fratello. Non hai amici, gli unici contatti che hai sono quelli voluti da Alberich ed esci raramente dal castello in cui, a dirla tutta, sei prigioniera.”
“Una bella prigione.” Ribatté ironico visto camere ariose, vestiti sontuosi e pasti caldi ogni giorno non qualificavano il confinamento di Sophia Von Hohenheim come una punizione di qualsivoglia genere.
Io in una prigione ci sono stato. Anche per causa sua.
“Sì, ma comunque una prigione.” Lily lo ammonì con lo sguardo. Certo, quello era un gioco di ruolo. In quel gioco, dovevano essere dalla parte di sua madre. “Poi cosa succede quando hai diciassette anni?”
Decise di assecondarla. “Mio fratello mi dà in sposa ad un mago. Un mago inglese, che presumibilmente ho conosciuto a malapena. Non lo amo.” E questo non c’era bisogno che lo leggesse sugli appunti della Patil.
Lily annuì, sfogliando i suoi, di appunti. “È un matrimonio combinato. Alberich ha bisogno dell’intelligenza di quell’uomo, del suo aiuto, ed tu sei la ricompensa per il suo aiuto.”
Sören non rispose: per Lily quello era lavoro, e questo particolare lo turbò. Non avrebbe dovuto, visto che sapeva che dietro l’espressione neutra della strega si nascondeva sincera preoccupazione per lui. Amore. Tuttavia…
Non mi piace. 
Ma non era il caso di puntare i piedi come un bambino. Anche se era dei suoi genitori che stavano parlando.
“Ancora una volta ciò che desidero non viene preso in considerazione.” Continuò con tutta la buona volontà di cui era capace. “Potrei oppormi, ma sarebbe inutile. Mio zio sceglierebbe comunque per me.” Non si accorse della sostituzione tra fratello e zio finché non vide lo sguardo di Lily. “Volevo dire fratello.” Sospirò: non voleva essere compatito.
Non adesso. Non adesso che parlo di mia madre.
Aveva senso? “Immagino che per certe cose mia madre ed io fummo trattati allo stesso modo.”  Concluse cercando di suonare distaccato.
Gli fece poi cenno di continuare. Lily ubbidì. “Quindi sposi Elias Prince. Un anno dopo, come ci si aspetta, dai alla luce un maschio … Sören.” Gli accarezzò un braccio. Si obbligò a non ritrarsi.
“Non voglio avere nulla a che fare con lui, è figlio di Elias. È nipote di Alberich. Lo lascio crescere dalle balie. Presso la servitù comincia a girare la voce che dopo la nascita del bambino la mia salute, sia mentale sia fisica, cominci a deperire ...”
“Non sanno cosa farsene di te. Sei confinata nella tua ala del castello, senza poter neppure vedere tuo figlio.” Era una impressione, o il viso di Lily esprimeva sincera pena?
Per mia madre?
“Dubito che questo le abbia spezzato il cuore come pensi.”
Lily alzò lo sguardo dagli appunti. “Sören … dall’interrogatorio…”
“Questo posso dirtelo io, non c’è bisogno di leggere.”
Esitò. “Stai supponendo partendo dai tuoi ricordi. Dovresti immedesimarti.”
“Forse non voglio.” E si sentiva davvero un ragazzino capriccioso, che puntava i piedi e si rifiutava di eseguire un ordine sensato, eppure …
Lily invece di farglielo notare – e avrebbe dovuto – scosse la testa. “Ne hai tutto il diritto.”
Ce l’aveva?
“Sì, ce l’hai.” Rispose alla sua domanda tacita. “Continuerò io, tu stammi solo a sentire, va bene?”
Annuì, passandosi le mani sulla stoffa dei pantaloni: gli bruciavano, specialmente quella mano.
“Vuoi smettere?” Suggerì Lily gentile. Era una Psicomaga, ovvio si fosse accorta del suo disagio. “Posso continuare da sola, se vuoi.”
“No, tuo padre mi ha dato questo compito. Voglio portarlo a termine.”
Lily gli lanciò un'occhiata indecifrabile, ma poi si risolse a continuare. “Sono una prigioniera. Ma non sono rassegnata, desidero conoscere qualcosa oltre il castello dove vengo confinata sin da bambina … l’occasione mi si presenta quando conosco il braccio destro di mio fratello, John Doe.”
“Johannes.” La corresse. “Quando ha incontrato mia madre per la prima volta si faceva chiamare Johannes.”
Lily prese nota della cosa appuntandola a lato della sua pergamena e cancellando il nome scritto invece dalla Patil. “Johannes mi corteggia, mi desidera … è la prima volta che qualcuno mette i miei bisogni di fronte ai suoi. Sono stata considerata una pedina da mio fratello, una fonte di imbarazzo per mio marito. Per Johannes sono una regina.”
Sören notò che Lily teneva il suo nome fuori dall’equazione, volutamente.
E per mia madre? Io cosa sono? Cos’ho rappresentato?
“Il mio amante mi fa credere morta, e poi mi porta via. Finalmente sono libera, ma non del tutto. C’è sempre una clausola. Un uomo deve ancora decidere per me.”
“Lo credi davvero?” La fermò non riuscendo a trattenersi. “Credi davvero che mia madre si senta così?”
Perché oltre la rabbia e la delusione di dover chiamare una persona del genere madre … rimaneva la curiosità.
Oltre a Thomas, è l’unica Von Hohenheim ancora in vita.
Sangue del suo sangue.
“È scritto qui.” Lily picchiettò con un dito sugli appunti. “Ci sono molti modi di raccontare la propria storia, i propri stati d’animo. Lo puoi fare anche parlando di cosa hai mangiato a pranzo. Una brava Psicomaga è in grado di capirlo.” Aggrottò le sopracciglia, scorrendo gli occhi tra i suoi appunti e quelli della Psicomaga più anziana. “Sophia non cercherà di scappare. Aspetterà che Doe venga a prenderla. Perché nel suo sistema di idee ha imparato che essere considerato un oggetto può essere anche un punto di forza, quando un uomo ti ritiene indispensabile.”
Un oggetto.
Questo lo stupì: sua madre si sentiva come si era sentito lui fino a cinque anni prima, quando suo zio controllava ogni aspetto della sua vita. Una bacchetta pronta a colpire, non un essere umano. Ma invece che sentirsi costretta, ribellarsi, aveva deciso di abbracciare quel ruolo. E diventare la cosa di cui Johannes non poteva fare a meno.
“Pensi che lo abbia aiutato nel progetto Demiurgo?”
Lily scosse la testa “Forse l’avrà usata come prestanome per la talpa, ma a mio parere … e quello della Patil, non l’ha coinvolta. Gliene avrà parlato … l’avrà persino illusa di prendere delle decisioni, perché Doe è un gregario per natura, ha bisogno di qualcuno che lo comandi, almeno l’illusione, ma quando il Demiurgo è andato fuori controllo è lui che ha preso le redini.” Rimase un attimo in silenzio. “Credo che questo tipo di controllo non le interessi. È una donna intelligente … La Patil dice che si rende conto che se le cose andassero male dovrebbe uscirne con le mani più pulite possibili. Se controlla Doe, lo fa in un altro modo.”
“In camera da letto.” Mormorò nauseato. L’idea che il Camaleonte, il bastardo che lo aveva tormentato per tutta la sua adolescenza fosse l’amante di sua madre gli dava il voltastomaco.
Dov’eri mentre mi faceva sputare sangue durante gli allenamenti mamma?
Nel suo letto?
Si costrinse a non pensarci, a non finire nel buco nero in cui precipitava ogni volta che pensava al vecchio compagno d’armi. “Quindi non sa dov’è il nascondiglio.” Concluse per entrambi, passandosi una mano sul viso. “Non ne ha idea.”
“Papà purtroppo si sbaglia.”
Sören soffocò un’imprecazione trai denti. “Quindi è inutile.”
“Nessuno è inutile. Mai.” Lo rimproverò Lily e avrebbe voluto farle notare che non giocavano a dire banalità melense, ma lasciò perdere vedendo che l’altra aveva un’espressione poco raccomandabile. “Tua madre vuole vederti.”
Finse che quella frase non gli si conficcasse nello sterno, all’altezza del cuore. Finse di non esserne colpito.
Fallì miseramente.
“E a cosa potrebbe giovare?”
“Potresti convincerla a portare gli auror al nascondiglio di Doe, quando verrà a riprendersela.” Gli suggerì. “Doe non si aspetterà una cosa simile.”
“Come fai a dirlo?”
“Se non è ancora venuto significa che non teme che spifferi niente. Non puoi dire ciò che non sai.”
Era un buon punto, tuttavia c’era un problema. “Non posso convincerla a tradirlo. Mi hai detto tu che si sente una sua proprietà.”
“Sì, ma non importa di cosa si sia convinta … rimane tua madre.”
“Dai troppa importanza al suo istinto materno.”
“Non parlo di quello.” Lily esitò. “Secondo la Patil, Sophia si sente in colpa per quello che ti è stato fatto da tuo zio.”
“Gliel’ha detto lei?”
“No, ma…”
“Allora state ipotizzando, tutto qui. Non posso condurre un interrogatorio su delle idee.” Sbottò rabbioso. Avrebbe voluto intimare a Lily di chiudere il becco: come poteva capire il rapporto tra lui e Sophia se era nata in una famiglia che l’amava, con una madre che la vedeva come la luce dei suoi occhi?
“Se pensi che io e la Patil ci siamo inventate tutto, quello che abbiamo fatto in queste ultime due ore non ha avuto alcun senso.” Fu la risposta glaciale. Aveva davvero tirato la corda. L’aveva praticamente insultata. Non gli importava. 
Rimasero in iroso silenzio per qualche minuto, quelli necessari a calmarsi per evitare una lite. Lily ribolliva quando lui, a giudicare dalle orecchie paonazze e gli occhi scintillanti di rabbia, ma la sua piccola inglese aveva imparato a mordere la lingua invece che gettarsi in una lite a capofitto.
Per fortuna, perché non credo che adesso riuscirei a trattenermi.
“Non è quello che volevo dire.” Borbottò guardandosi le mani. Non aveva mai amato litigare, ma discutere con Lily era cento volte peggio che farlo con chiunque altro sulla faccia della terra.
“Allora cosa?” Non demorse quando si rifiutò di risponderle. “Ren, parlami. È già abbastanza stressante senza che ci teniamo tutto dentro.”
“Stressante per te?”
“Per entrambi.” Sottolineò con l’aria di chi stava per rifilargli un manrovescio. Stavolta se lo meritava. “Pensi che me ne freghi qualcosa di tua madre? Mi importa di te, e vederti così arrabbiato mi fa male! Voglio aiutarti!”
Aveva ragione. Ovviamente. Scosse la testa, passandosi una mano trai capelli. “Mi è solo difficile immaginarla interessata a me.” Buttò fuori. Sperò bastasse.
Lily si alzò per poi chinarsi ad abbracciarlo. Seppellì il viso contro la stoffa della sua maglietta. Era meglio che tirare le tende o seppellirsi sotto le coperte. Specie perché nessun lenzuolo ti accarezzava i capelli a quel modo.
“Questa situazione ti fa sentire sotto esame…” Disse conciliante. “ … lo capisco, okay? Ma credo davvero che tu possa convincerla a darci una mano. Puoi farcela.”
A questo punto la palla era nella sua metà del campo. “Dirò a tuo padre di organizzare il prima possibile. Adesso ho le informazioni che mi servono.”

****
 
San Mungo, Laboratorio di Pozioni.
Pomeriggio.

Tom scese nel laboratorio di pozioni del San Mungo con la distinta sensazione che qualcosa di grosso stesse accadendo; non solo Zabini era venuto ad avvertirlo che Al lo cercava, ma si era addirittura prodigato in raccomandazioni.
Vacci subito. Certo. Ma dirmi perché non era contemplato.
Zabini non si sarebbe mai negato il piacere di tenerlo sulle spine. Uscì quindi dall’ascensore e si diresse verso le porte del laboratorio senza perdere tempo. La sua corsa fu fermata da un Pozionista, che si frappose tra lui e l’ambiente. E Albus.
“I non autorizzati non posso entrare.” Lo apostrofò. Lo riconobbe per uno della cricca di Pozionisti. “Tu sei il ragazzino che si è intrufolato qua dentro il mese scorso, vero?” Aggiunse.
“Thomas Dursley.” Si presentò senza battere ciglio. “Mi ha chiamato Albus.” Sottolineò, sapendo che il compagno veniva tutt’ora considerato uno della cricca.
“Potter è occupato.” Replicò l’uomo senza muoversi di un millimetro. “Se hai bisogno di parlargli aspetta che abbia finito il turno.”
Tom lo guardò, indeciso se tirare fuori la bacchetta oppure dargli un pugno in faccia.
“Fammi entrare.”
“Ripetilo un paio di volte ragazzino, magari mi convinci.”
Fortunatamente fu tolto dall’impaccio di dover decidere come mettere al tappetto l’idiota proprio da Al, che sgusciò dietro la mole dell’ex-collega. “Ehi! Brad, è tutto a posto, l’ho chiamato io.”
“Come vedi, Brad, ero autorizzato.” Rimarcò lasciandosi portare via. Albus, a giudicare dallo strattone che gli diede, doveva aver fiutato la sua voglia di litigare.
“Attaccheresti briga anche con il tuo riflesso quando sei di questo umore.” Borbottò infatti spingendolo dentro.
“Quale umore? Sono calmissimo.”
Gli rifilò una botta sul braccio. “Vuoi sapere perché ti ho chiamato o ti lascio a misurarti la bacchetta con Brad? Le prenderesti, sai, è un ex campione Duellante.” Non gli diede il tempo di rispondere: pareva eccitato come un bambino. “Beh?”
Sospirò massaggiandosi il braccio offeso. “Sono tutto orecchi.”
“Forse abbiamo trovato la cura. Al Demiurgo.” Si morse un labbro con gli occhi che gli brillavano. “Cioè, Sam e gli altri ci stanno lavorando adesso, ma… ci siamo! Credo di aver capito come curare il sergente Flannery, Bobby … e tutti gli altri.”
“Come?” Una piccola parte di sé fu delusa dal fatto di non avervi partecipato. Ma era una delusione ridicola. Non era previsto che fosse lui l’eroe di quella storia: ma Al.
“I Maghinò.” Vedendo la sua espressione sconcertata ridacchiò. “Sì, Sam ha fatto la stessa faccia quando gliel’ho detto. Non si tratta di loro, quanto piuttosto del loro sangue. Sai cos’è una malattia autoimmune?”
“È quando il tuo sistema immunitario ti attacca?” 
Al annuì. “Esatto. Una cosa simile succede ai Maghinò. Sin dalla nascita qualcosa spinge gli anticorpi presenti nel loro sangue ad attaccare la magia presente come se fosse un corpo estraneo … le cause sono ancora poco chiare, e sinceramente, neppure studiate.”
“I Maghinò, problema da mettere sotto il tappeto.” Convenne con una smorfia. “Quindi userete una malattia per combatterne un'altra?”
“Una cosa simile.” Convenne. “Pensaci, senza magia il Demiurgo non si diffonde. Per questo i Maghinò sono immuni!”
Tom aggrottò le sopracciglia. “Sì, ma questo cosa c’entra con i maghi?”
“Useremo gli anticorpi Magonò per sintetizzare una cura in grado di distruggere la magia nel sangue dei pazienti infettati … e con essa, il morbo. Almeno è ciò che speriamo.”
“Dovranno rinunciare alla propria bacchetta quindi?”
Io preferirei morire.
Al scosse la testa. “La magia si rigenera assieme al sangue. Basterà pulirlo dal siero Magonò come fanno i medici Babbani con i pazienti in dialisi. Checché ne dicano gli ignoranti, la mancanza di magia non è contagiosa e in questo caso, neppure permanente.”
Tom a quel punto sorrise e lo fece senza ombre, perché il compagno se lo meritava.
Ovviamente venne squadrato con sospetto. “Che c’è?”
Potter di poca fede.
“Ci sei riuscito. Li hai salvati.” Perché era vero: con la sua testardaggine, con la costanza nel voler combattere una battaglia che ai più era sembrata ormai persa … Albus aveva sconfitto il Demiurgo. 
Com’era prevedibile a quelle parole il compagno avvampò, marker inevitabile di ogni sua forte emozione. “Non è ancora detto, ci sono un sacco di test da fare…”
“D’ora in poi ti chiamerò Salvatore della Medimagia.”
Sbuffò, ma gli occhi gli ridevano. “Non ci pensare nemmeno.”
“Guaritori e Medimaghi per decenni canteranno le tue gesta.”
Stavolta l’altro ragazzo non riuscì a trattenere la risata. “Ma falla finita…” Lo afferrò per una manica, come un bambino piccolo. Come il suo Al. “Ce l’ho fatta sul serio, eh?”
“Sì.” Convenne passandogli un braccio attorno alle spalle per tirarselo contro. Gli baciò la nuca bollente di gioia repressa.  Non era nello stile del Guaritore Potter chiedere plauso e onori al pubblico. Per questo lo stava stritolando in un abbraccio trituraossa. Non se ne lamentò: faceva parte del pacchetto una volta che ti innamoravi di un astuto serpeverde con il cuore testardo di un grifondoro.
“Niente male, Potter.” Gli mormorò all’orecchio. “Sarà dura fare di meglio.”
“A questo punto ti tocca diventare Ministro della Magia. Come minimo.”
Sogghignò, scoccando un’occhiata di trionfo alle espressioni fosche dei Pozionisti. Sì, non solo era entrato ma stava anche requisendo la loro mascotte.
Venite a dirmi qualcosa, avanti.
“Non sottovalutarmi.”
Al alzò il viso servendogli lo stesso sorriso. “Io e te non ci sottovalutiamo mai, vero Tom?”
“E per questo vinciamo sempre, Al.”

****

Milo era consapevole di aver rischiato di tirare il calzino. Era stato maledettamente vicino ad incontrare Merlino e tutta la schiera di stronzi suo pari, questo era sicuro.
Perché l’ultima cosa che ricordava era un esplosione, un dolore intenso e uno spilungone che gli salvava la vita.
Mica era Dursley? Il cugino stronzo del mio ancor più stronzo padrone?
No, perché mi puzza tanto di delirio.
Chiunque lo avesse salvato, lo aveva fatto comunque per il rotto della cuffia dato che aveva vagolato nel limbo dell’incoscienza per quelli che gli eran parsi secoli. Poi, in tutto quel buio disconnesso, in quelle voci attutite e tocchi leggeri come piume aveva cominciato ad insinuarsi la luce. Prima brevi bagliori, poi sempre più forti, come l’intermittenza di un televisore rotto. Lentamente, molto lentamente aveva percepito i propri polmoni succhiare aria, il proprio cuore battere sempre più forte.
In parole povere si era risvegliato.
Doveva essere in ospedale. L’odore di erbe medicinali di una clinica magica non si scordava mai: era un po’ come l’odore del primo spinello.
Ti si sigilla nel cervello.
Mise a fuoco un soffitto dove due grosse palle piene di candele galleggiavano come sospinte da una dolce brezza.
Uh. Salvato dai maghi. Sarebbe la prima volta per un Magonò, o qualcosa del genere.
Provò a muovere le dita e con enorme sollievo quelle gli risposero sollecite.
Salve ragazze, mi sarebbe dispiaciuto fare a meno di voi. Senza di voi farmi una sega o suonare un violino sarebbe stato un bel po’ complicato.
Grazie per esserci ancora. Molto apprezzato.
Si leccò le labbra, provando a muovere la testa per guardarsi attorno; questo si rivelò più difficile del previsto.
Paralizzato. Paralizzato, dannazione!
il fiotto di adrenalina parve dare una scossa al suo stupido corpo ritardato; gli sembrava di aver la testa pesante tonnellate ma riuscì a muoversi abbastanza per vedere la persona che era seduta accanto al letto.
Michel.
Un accesso di tosse segnò quanto la cosa l’avesse colto di sorpresa.
Il mago, che fino a quel momento era rimasto assorto nella contemplazione della finestra, scattò in piedi. Il suono l’aveva allarmato.
Ciao.
Era ancora arrabbiato con lui. Furioso, e ferito … e incredibilmente felice che fosse lì.
Stronzo di un mago. Non dirmi che sei rimasto qui tutto il tempo.
Pareva proprio di sì: Milo avrebbe potuto scrivere un compendio su come vegliare un moribondo, avendo avuto tra le scatole per cinque anni un idiota che traeva grandissimo diletto nel finire in ospedale un giorno sì e l’altro pure. E l’inglese ne mostrava tutti i segni, dai vestiti indossati con poca cura, alla barba fatta di fretta per finire all’espressione spossata di chi aveva dormito poco e male.
Non disse niente però: non era neppure sicuro di poterlo fare dato che si sentiva la lingua di cartapesta. Fu Michel a sporgersi su di lui, afferrandogli una mano così forte che lo fece sussultare di dolore. “Emil … Merlino benedetto, io … scusa.” Incespicò sulle parole scostandosi come se lo avesse ustionato. “Emil…” Ripeté.
Una volta aveva creduto che il ragazzo di fronte a lui fosse incapace di emozioni più forti dello sdegno o dell’ironia.
Ti si sta spezzando la voce, brutto coglione.
Chissà perché era a lui che veniva da piangere. Perché aveva scampato la morte per un soffio, perché era ancora arrabbiato e perché non aveva idea di cosa fare di se stesso. O di loro due per quanto valeva.
Beh, sei il tipo scampato alla morte qui. Forse la prima mossa non sta a te.
Michel infatti gli accarezzò una guancia. I polpastrelli morbidi incontrarono qualcosa di rasposo.
Per Faust, è la mia barba?
“… quanto…” Articolò dominando una seconda fitta di tosse. La gola non gli avrebbe dato presto requie aveva idea. “… quanto faccio schifo?”
Michel soffocò quello che era evidentemente un singhiozzo in una smorfia ironica delle sue. “Abbastanza.” Gli passò le dita trai capelli. Erano così fresche, e Dio, sarebbe stato così facile chiudere gli occhi e perdersi in quelle carezze.
“Cosa … che è successo?” Ricordava gente ferita, Figgins. Figgins che nonostante tutto quel gridare e sputare insulti era rimasto per aiutarlo. Che, con l’improbabile Dursley, gli aveva salvato la vita. “Diagon Alley…”
“Shh.” Gli mise una mano sulla spalla. “Non è importante adesso. Sei qui, solo questo conta.”
Non proprio, pensò odiandosi. Per niente, purtroppo.

Emil si era svegliato e l’aveva fatto proprio nel momento in cui aveva abbassato la guardia. Una cosa così da lui…
Com’era da lui ignorare il fatto fosse ad un passo dalla fossa per tirarsi a sedere – o almeno provare dato che ricadde dopo un fiacco tentativo - e fissarlo con occhi lucidi e determinati. “Cos’è successo? C’erano con me … i ragazzi del Goose … Dove … stanno bene?”
Emil, lo aveva scoperto osservando le sue azioni più che le sue parole, era la persona più premurosa che conoscesse, fatta eccezione per Al. Il suo tedesco aveva a cuore gli altri più di se stesso, anche se lo nascondeva sotto strati di sarcasmo e sfacciataggine. Era chiaro quando interagiva con Prince, girandogli attorno come una chioccia riluttante ma non per questo meno ansiosa, o quando sfamava Loki ascoltando i suoi lazzi di buon cuore. O con Dirk, che aveva conosciuto solo per un pomeriggio – ma che tale era bastato per far chieder di lui per le successive settimane. Persino quando erano due estranei che si annusavano con diffidenza era corso in suo aiuto la sera della festa di Scorpius.
Emil, nonostante fosse stato preso a calci dal mondo intero, continuava a preoccuparsi di chiunque incrociasse la sua strada semplicemente perché era un essere umano come lui. 
Era davvero la persona migliore che conoscesse.
“Nessun Magonò è stato colpito nell’attacco. Soltanto tu ed è comunque una ferita da cui ti riprenderai.” Lo rassicurò. “Ho mandato Loki ad informarsi.”
Emil gli scoccò un’occhiata indecifrabile. “Perché l’avresti fatto?” Domandò dividendosi tra la sorpresa e la diffidenza.
Siamo tornati al punto di partenza.
Fece male esattamente come si era aspettato.
“Immaginavo che me l’avresti chiesto.” Rispose tranquillo. “Sono la tua gente, ed eri con loro quando gli infetti hanno attaccato. Inoltre, Danny Figgins è venuto a trovarti mentre eri incosciente. Mi ha detto di riferirti che tornerà quando sarai in compagnia migliore.”
“Quel coglione…” Lo vide sorridere divertito, ed odiò l’altro Magonò per aver causato quella reazione.
Stava diventando patetico.
“Che ne è stato … degli altri? Dei maghi?” Gli domandò riscuotendolo dalle sue miserie.
“Con l’arrivo degli Auror si è evitato il peggio, ma nondimeno…” Scosse la testa. “Ci sono state delle vittime.”
“Merda, che casino.” Mormorò chiudendo gli occhi. “Quei poveri bastardi…” Li riaprì di colpo. “Sono andato parecchio vicino a finire sottoterra come loro, vero?”
“Sì.” Sussurrò di rimando cercando di dimenticare il viso cereo e il respiro appena accennato che aveva vegliato in quei  lunghi giorni. “… ma sei qui adesso.”
“Sono qui.” Confermò con un sorriso ispido, ancora un po' incredulo: la voglia di baciarlo gli mozzò quasi il fiato. “Il principino lo sa? Che sono sveglio?”
“Vuoi che lo informi?” Cercò di non provare delusione all’idea che fosse immediatamente pronto a liquidarlo in favore dell’altro mago.
E perché non dovrebbe? Al momento non rappresenti nulla per lui.
“No.” Lo sorprese. “Ha già i suoi casini a cui pensare … e una ragazza da ripassarsi. Avrà tempo per rampognarmi come il rompipalle che è.” Aggiunse con un sogghigno che pensava di aver perso per sempre.
Non poteva mettersi a piangere.
Dignità Zabini. Sei erede di una Casata di maghi dignitosi. Cerca di comportarti come uno di loro.
“Allora … hai bisogno di qualcos’altro? Dell’acqua forse?” Voleva essergli utile. Non gli importava di risultare penoso. Tutto piuttosto che ammettere che la sua presenza non era opportuna.
“Quello sì … e magari sapere cosa ci fai qui.” Si voltò completamente verso di lui. Gli occhi erano ancora lucidi di stanchezza, ma non erano confusi come prima. Tutt’altro. “Perché?
Cercò di sorridere, ma era difficile quando si aveva il cuore stretto in una morsa. “Perché ti devo delle scuse. Ti ho caricato di un peso che non era il tuo … i miei problemi con la mia famiglia e il mio lavoro non erano tuoi da risolvere.” Essere onesto, Al lo diceva sempre, prima o poi pagava.
Era quel poi che lo preoccupava. Sarebbe mai arrivato per lui?
“Questo è sicuro.” Non stava sorridendo, ma neppure lo guardava come aveva fatto quel pomeriggio a casa sua. Era un buon segno, no? “…  però sei fortunato, aver quasi rischiato di crepare mi ha reso più bendisposto verso il mondo.” Fece una pausa. “È cambiato qualcosa?”
Michel intuì a cosa si stava riferendo. “Sta cambiando.” Ammise. “Ho detto a mio padre che non sono disposto a rinunciare a te.”
Nessuna risposta né reazione, ma lo stava continuando ad ascoltare. Sì, era un buon segno, decise. “Molti problemi restano, me ne rendo conto.”
“Non posso smettere di essere un Magonò…” Lo interruppe piano.
“Non voglio questo. Non avere una bacchetta, essere Milo Meinster ti rende…”
“Chi?” Il tono era sarcastico, eppure vi notò una punta di incertezza.
“Qualcuno che mi ha spinto ad andare oltre ai miei pregiudizi. Mi hai ricordato chi ero e cosa posso ancora essere, semplicemente entrando nella mia vita. Ti sembra poco?”
Aveva detto la cosa giusta. Le sopracciglia aggrottate dell’altro ragazzo si aprirono in un’espressione incredula, vulnerabile.
Prese coraggio. Doveva chiedere. Doveva sperare. “Ho bisogno di ancora un po’ di tempo però. Sei disposto a concedermelo?”
Perché non poteva ancora lasciare suo padre, ma soprattutto il suo lavoro. Era oltre i suoi desideri di semplice mago. Aveva pur sempre dei doveri verso il suo Ministero, specialmente in tempo di crisi.
Se Al ha davvero trovato la cura come dice, forse c’è un modo per evitare un’intera nazione si perda nel caos.
Finito quel disastro, aveva preso la sua decisione. Il suo blasonato lavoro poteva pure andare al diavolo.
Che Emil mi rivoglia indietro o no.
Perché in quelle lunghe ore di veglia aveva capito che avrebbe lasciato la sua vecchia vita per se stesso e per nessun'altro.
Emil distolse lo sguardo, tornando alla contemplazione del soffitto. Avrebbe voluto chiedergli una risposta. Domandargli se lo amava ancora. Invece non disse niente.
Amare qualcuno era anche aspettare.
“Non è che abbia intenzione di alzarmi da qui tanto presto. Credo che non me lo lascerebbero manco fare.” Disse con voluta lentezza. “Come vedi, ho un bel po’ di tempo tra le mani.”
Michel cercò di dominare l’intenso calore che sentiva irradiarsi da dentro. Non c’entrava la magia, o qualche sorta di malattia misteriosa. Gli pareva che qualcuno la chiamasse felicità. “Sì, immagino di sì … Emil, lo sai che ti amo, vero?”
L’altro fece una smorfia che pareva nascondere uno starnuto o un paio di occhi lucidi. I secondi probabilmente da come tentò debolmente di passarsi una mano sul viso. “Voi maghi … sempre pronti a fare proclami.”
Gli prese una mano e fu felice di non vedersi respinto. Così felice che avrebbe affrontato dieci Blaise Zabini e un’intera armata di Indicibili. “Ho intenzione di dimostrartelo. Sono testardo, mi conosci.”
“Purtroppo sì, stronzo di un mago” L’altra mano era stazionata in zona viso e non si sarebbe mossa per niente al mondo. La lasciò lì, ma baciò quella che aveva tra le sue. “Lasciami in pace…” Borbottò ma così debolmente che sembro una richiesta del tutto contraria. “Cristo, mi hai spezzato il cuore.”
Questo fece male. Premette di nuovo le labbra contro il dorso caldo della mano dell’altro. “Spezzando il mio nel processo. Sono un povero imbecille, e forse non merito una seconda possibilità ma ho intenzione di ripararli, Emil. Entrambi. Me lo lasceresti fare?”
“È una cazzo di domanda retorica, vero?”
Sorrise. Non si mosse, non tentò di baciarlo o vincere le sue resistenze in modi più subdoli. Si accontentò di rimanere lì, dove lo voleva. “Non ti sfugge nulla mon ange.”
“Vaffanculo.”
Rise, sentendolo ridere di rimando. Era un suono un po’ disperato. Ma vivo. Per il momento, decise, bastava. Sarebbero ripartiti da lì.

****

America, Boston.
Ufficio SAGITTA.

“Cosa diavolo pensavi di fare?!” Ethan Scott era entrato nel suo ufficio come un Bolide, seguito a ruota da un mortificato agente Estevez.
Prevedibile come il sorgere del sole.
“Buongiorno a te, Ethan.” Lo salutò tranquilla abbassando documenti che avevano bisogno di una visione e firma urgente.
Avrebbero dovuto aspettare.
“Agente Estevez, può andare.” Congedò il sottoposto, ben felice di obbedirle da come si richiuse immediatamente la porta dietro. “Siediti.” Ordinò all’uomo senza perdere una briciola della calma che possedeva.
Scott, ancora paonazzo in viso, fu incerto se darle retta o ricominciare la sua sfuriata. Alla fine decise per la prima anche se con evidente sforzo. “Hai mandato dei tuoi agenti nel mio ufficio … a prelevarmi!” Sibilò. “Come un criminale qualunque!”
“Se ricordi bene, non trattiamo criminali ordinari, ma maghi oscuri.”
L’uomo la guardò, preso in contropiede. Non riusciva a capire il perché dell’assenza di reazioni da parte sua.
Oh, Ethan. Non mi hai mai visto in un interrogatorio. Altrimenti sapresti in cosa ti sei appena andato a cacciare.
Quella furia assolutamente poco lucida era la reazione che aveva sperato di causare mandando Estevez e Murphy al gabinetto ministeriale.
L’unico modo per capire se Scott era davvero la talpa era affrontarlo direttamente, a muso duro. Non permettergli di nascondersi dietro i propri assistenti o le proprie cariche, ma spingerlo a provare talmente tanta umiliazione da finirle praticamente in braccio.
Sperava davvero che Ama e Malfoy avessero ragione sul suo coinvolgimento.
Perché se risultasse pulito la mia testa sarebbe la prima a cadere.
“Ti è completamente dato di volta il cervello?” Sibilò. “I tuoi uomini mi hanno accusato di essere l’informatore nel caso Demiurgo!”
“Lo hanno fatto formalmente? Non mi sembra, o non saresti qui a parlare con me, ma in una cella in attesa di chiarire la tua posizione.”
Il mago fremette di rabbia ma accettò il punto. “Hai delle prove per sostenere le tue accuse?”
Nora sorrise, Appellando una cartella e spingendola nella sua direzione. “I tuoi soldi, Ethan. I tuoi movimenti bancari sono stati piuttosto vivaci negli ultimi anni.”
“E quindi?” Ribatté scorrendogli con gli occhi senza vero interesse. “La carriera politica non è un’opera di carità … Servono Galeoni per arrivare alle persone giuste. Ho i miei benefattori.”
“Gradirei una lista.”
“Ed io gradirei sapere perché dovrei consegnartela. Sono persone riservate, privati che non vogliono che qualcuno metta il naso nelle loro vite … specialmente sostenendo accuse così deliranti!”
“Posso ottenere un mandato, Ethan. Sarebbe tutto molto più semplice…”
“Ma io non voglio renderti le cose semplici, mia cara Nora.” Replicò con un sorriso sgradevole. Smaltito lo shock,  stava riprendendo controllo su se stesso. Prima di quanto avesse sperato. “I tuoi uomini irrompono nel mio ufficio, trascinandomi via come una feccia qualsiasi … e poi vengo a sapere di essere accusato di passare segreti ad un criminale internazionale? E senza il minimo straccio di prova? Ti facevo più intelligente di così, Capitano Gillespie. Inoltre, vorrei sapere chi ti ha autorizzato a guardare il contenuto della mia camera blindata. Non mi risulta di aver rilasciato alcun permesso.”
“Non ne avevo bisogno.” Rispose dura. “Per legge le forze di polizia magica possono accedere ai conti bancari di un cittadino americano se questi è sospettato di aver commesso un reato. E Scott, sono stati fatti versamenti alla tua camera due giorni dopo esatti ai trasferimenti avvenuti tra due conti intestati a John Doe e la compagna. Cifre simili, giorni sequenziali. Questo come lo spieghi?”
L’uomo aggrottò le sopracciglia. Per un attimo Nora vi lesse qualcosa simile all’allarme. Ma, e questo la sorprese, anche confusione. La maschera da politico non tardò però a tornare. “Coincidenze? Ogni giorno vengono compiute migliaia di transazioni finanziarie, e questo solo nel mondo magico. Se guardi bene, sono certo troverai almeno un centinaio di candidati con il mio stesso problema. Molti di più se esci fuori dall’area di Boston.”
“Ma nessuno di loro era informato di cosa stava accadendo a Londra.”
Scrollò le spalle. “Ed hai pensato subito a me? Commovente, Eleanor.” Si sporse verso di lei. “Ma non sono io il tuo mago. Inoltre, non sono l’unico esterno alle indagini ad esser rimasto informato … Dimmi, hai parlato di recente con il tuo piccolo randagio tedesco? Hai controllato i suoi estratti conto?”
“Lascia Prince fuori da questa storia.”
La squadrò beffardo. “E perché dovrei? Mi sembra di ricordare che il ragazzo abbia fatto un buon lavoro come infiltrato per la Thule. Magari ha ripreso il mestiere di famiglia … ha fatto di tutto per partecipare all’indagine, o no?”
Fu seriamente tentata di afferrarlo per il bavero della sua costosa veste e spaccargli la faccia. Ma non avrebbe avuto alcun senso. Quello che diceva invece sì. “Non è lui.” Si limitò a dire.
Per quanto gli avesse spezzato il cuore, aveva indagato sul suo miglior agente: dopo la segnalazione di Harry aveva dovuto.
Non è stato lui. Ha sempre avuto una scorta a fianco, e se non quella, Lily Potter. Emil mi manda mensilmente i suoi movimenti bancari. Non ci sono stati versamenti negli ultimi cinque anni.
Il sollievo di quella rivelazione era stato enorme. E per questo, si era sentita ancora più in colpa.
“L’affetto ti acceca, amica mia.”
Nora serrò la mascella. “Ho seguito le prove, Scott. E non mi hanno portato da Prince … ma a te.”
“Forse dovresti riconsiderarle allora. Perché non stai facendo un gran lavoro.” Diede un’occhiata all’orologio da taschino. “Se non c’è altro, posso andare?”
Nora fu tentata di trascinare quel culo pallido nella prima cella disponibile. Ma Scott, per quanto odioso, aveva ragione.
Non abbiamo prove concrete per arrestarlo. Neppure per trattenerlo.
Sperava che l’accusa violenta e l’umiliazione lo spingessero a mettere il piede in fallo, ma aveva sbagliato i suoi calcoli. Scott aveva sì perso la calma, ma non si era tradito.
Fece un cenno rabbioso di assenso, che fu accolto con un sorrisetto. Avrebbe voluto strapparglielo dalle labbra. “Ti ringrazio, Nora. Rimango comunque a completa disposizione del SAGITTA. La prossima volta, magari, dammi il tempo di chiamare il mio magiavvocato. Non vorrei che l’opinione pubblica pensasse che voi ragazzi in blu non rispettate i diritti dei cittadini.”
Viscida serpe che non sei altro.
Era convinta più che mai che dietro la fuga di informazioni ci fosse lui. Aspettò che si fosse tirato dietro la porta per andare alla finestra e osservarlo scendere le scale. Fu delusa: neppure lasciato ai suoi pensieri fece trasparir nulla. Arrivato all’ingresso fu accolto da un ragazzo, il suo segretario personale, che doveva averlo aspettato in sala d’attesa: si portava sempre qualcuno dal suo entourage. Il viso del giovane gli era familiare, zigomi alti e colori slavati, registrò distrattamente, ma era sfuocato come tutto ciò che guardava ultimamente da una certa distanza.
Temo che presto dovrò comprarmi un paio d’occhiali.
Stava invecchiando, pensò amaramente: e cominciava a non avere più la forza di sguainare la spada e difendere il mondo dai suoi stessi mostri.

****

“Mi ha fatto delle domande. Credo stia cominciando a sospettare qualcosa.”
“Quindi a quanto pare i nostri amici inglesi hanno scoperto che mandiamo i soldi in America e che finiscono nelle casse per la grande ascesa di Ethan Scott.”
“Cosa devo fare?”
“Cosa pensi di dover fare?”
“Sistemare la situazione. Amputare. Cauterizzare. Andarmene.”
“La Thule ti ha tirato a dovere, vedo. Non devo proprio aggiungere niente. Vieni qui quando hai finito. Potresti tornarmi utile.”
“Sissignore.”
“Buon lavoro, Sören.”


****

Note:

Fermi tutti. Ragionate. No, sul serio. Sören non è un nome poi così raro. 
(E tante grazie alla suspance.)
Qui la canzone del capitolo. E grazie per la pazienza con cui continuate a leggere e commentare. So che mi faccio attendere, ma ormai la mia vita è così incasinata che è un miracolo che riesca a dedicare un momento a qualcosa che non sia lavoro. Che mi piace, ma non è questo.
Comunque, l’avete intuito: tra poco si conclude.


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Capitolo 52
*** Capitolo LI ***


Capitolo LI



 

When your children arrive, the best you can hope for
Is that they break open everything about you.
(Amy Poehler, Yes Please)

5 Agosto 2028
Magazzino Purge&Dowse ovvero…
San Mungo, Mattina
 
“Ehi, ragazzone, si può?”
C’era solo una persona che lo chiamava così in Inghilterra e quella era Zenzero, la Potter che aveva fatto perdere la testa a Sören. Milo ricambiò con un gesto di saluto al meglio delle sue possibilità. Quella mattina era riuscito a mettersi a sedere sul letto senza svenire dal dolore quindi era relativamente allegro.
Certo, potrebbe anche centrare il messaggio sdolcinato che maghetto stronzo mi ha mandato appena sveglio …
Per puro riflesso cretino nascose il cellulare sotto la federa del cuscino. “Ehi.” Salutò e tentò immediatamente di mettersi più dritto quando notò che la ragazza era accompagnata dal suo vecchio datore di lavoro, nonché amico, nonché piaga personale. Sören, che lo stava scrutando come se potesse schiattare da un momento all’altro. “Sto bene.” Sbuffò. “Sono sveglio, no?”
“Molto sveglio.” Gli venne in soccorso la strega dando un colpetto al fianco del compagno.
“Sei sveglio.” Ripeté il suddetto come un pappagallo demente. Milo sospirò: se c’era una cosa che il mago di fronte a lui non era in grado di fare era gestire situazioni come quella.
Le visite ad un degente lo mettono super a disagio. Quando Estevez si ferì dovetti spingerlo in ospedale a calci!
“Ora che tutti sappiamo che ho gli occhi aperti e respiro …” Iniziò ragionevole. “Posso offrirvi qualcosa? Una flebo? Il mio pitale da svuotare?”
“Scordatelo.” Ridacchiò Lily. “L’ultima volta che ho controllato non ero una Maginfermiera.” Estrasse qualcosa dalla borsa. Qualcosa di molto voluminoso – dannata, comoda magia – squadrato e color cuoio.
Custodia. Strumento. Violino!
“Il mio violino!” Esclamò per poi inevitabilmente soffocare un’imprecazione quando tentò di sporgersi dal letto . Sören scattò a fermarlo prima che si sfracellasse a terra.
“Molto imbarazzante …” Borbottò con la bocca soffocata dal giubbotto dell’altro. “Possiamo dimenticare questi ultimi tre secondi? Principino, maneggiami a posto.”
Li sentì sghignazzare, e questo era un male per il suo orgoglio d’uomo, ma un bene per l’atmosfera della stanza. Fu rimesso sui cuscini e persino coperto con il lenzuolo.
“Non sono un moribondo.” Ci tenne a specificare mentre Lily gli appoggiava la custodia in grembo. Vi passò sopra le dita e inspirò: la realtà dei fatti bruciava. “Devo ancora arrendermi al fatto che sono uno straccio però.”
E che devo farmi accompagnare quando voglio andare al cesso.
“Datti tempo tigre. Al mi ha detto che eri conciato male quando ti hanno portato qua.” Lo consolò la ragazza, rivolgendogli comunque uno squillante tono da presa per il culo.
“Sei pallido. Che cura ricostituente stai seguendo?” Domandò Sören con cipiglio severo. Pareva sul punto di mettergli una mano sulla fronte e proclamarsi suo custode. Era orribile.
Lo faceva sentire coccolato.
Ugh.
“Non ne ho idea? Mi fanno bere un mucchio di roba rivoltante e ho ‘sta roba al braccio.” Sollevò il suddetto dove campeggiava la flebo. “Me la devo portar dietro anche quando piscio!”
“Credo che quello serva per evitare che ti venga il tetano.” Rispose Lily con la pazienza di una madre. Davvero, era orribile. Si strinse il violino al petto e tentò di ricordarsi che era un bastardo solo al mondo.
Era più facile quando lo ero davvero.
La realtà era che, come il principino, manco lui sapeva come gestire qualcuno che si preoccupava sinceramente che non fosse morto in qualche canale di scolo.
Lily colse alla perfezione il suo disagio e, da dannata femmina qual’era, decise di peggiorare le cose. “Vado un attimo su a controllare i miei pazienti. Cioè del Reparto.” Si corresse con la faccia di chi non aveva idea di cosa fosse la modestia.  “Torno giù con qualche pasticcino!” Non aspettò che le rispondessero, baciando Sören sulle labbra aperte in segno di protesta e salutando lui con un altro sulla punta delle dita.
Quando si fu richiusa la porta alle spalle piombò il silenzio.
Siamo due uomini. Io sono una checca, okay, ma rimane il punto. Non ci abbracceremo commossi o stronzate del genere!
Solo perché ho rischiato di crepare, poi. È robetta!
A Sören succedeva di continuo, non è che si proclamassero affetto imperituro ogni volta.
“Hanno trovato la cura al Demiurgo.” Disse l’altro strappandolo dai suoi pensieri. A quanto pareva, la frequentazione con Zenzero l’aveva allenato nelle chiacchiere vuote.
Tuttavia quella non lo era. “Sul serio?”
“Albus ha chiamato Lily ieri sera. Non è ancora ufficiale, stanno facendo una serie di trial in laboratorio.” Si mise le mani in tasca e marciò verso la finestra. “Tu come stai?”
“Come mi vedi.” Rispose aprendo la custodia con uno scatto e passando le dita – ancora troppo fredde, cazzo, suonare era fuori discussione – sulle corde del violino. “I Guaritori hanno detto che sarò fuori in una settimana. Mi sto rompendo le palle.” Confessò malmostoso. “Qua non prende neanche la tv!”
Sören si voltò con un mezzo sorriso. “Almeno adesso puoi suonare.”  
Lo ricambiò. “Già. Grazie per il pensiero.”
“È stata Lily a pensarci, non io.”
“Questa tua onestà un giorno ti si ritorcerà contro.”
L’altro sogghignò. “Per ora ha dato solo buoni frutti.” Indicò con un cenno della testa la porta e, per associazione, la strega che ne era appena uscita.
Fischiò in segno di ammirazione. “Ancora in luna di miele?” 
“Sì, qualsiasi cosa voglia dire.” Confermò compiaciuto, ma continuando a rimanere alla finestra come un dannato gufo impagliato. E Milo capì che dietro l’imbarazzo per la visita c’era altro.
“Cos’è che non gira per il verso giusto?” Domandò: una parte di sé gli stava urlando di non impicciarsi per il suo bene, ma …
… onestamente, quando mai mi sono fatto i cazzi miei?
Neanche esser stato infilzato come un pollo allo spiedo lo aveva scoraggiato.
È una vocazione.
“Perché per stare scopando come un riccio mi sembri un po’ depresso.”
“Mi conosci bene…”
Alzò gli occhi al cielo. “Ti ho fatto da balia e diario segreto per cinque anni, non rimarcare l’ovvio.”
“Si tratta di mia madre.” Fece una smorfia. “Gli Auror vogliono che le parli e le offra un accordo. Vogliono John Doe e pensano di ottenerlo tramite lei.”
“Woah, frena!” Chissà se Zenzero gli avrebbe mai insegnato a informare la gente senza sparare informazioni come palle di cannone. Probabilmente no. “Di che diavolo stai parlando?”
Sören assunse un’aria imbarazzata. “È vero, non ti ho informato degli ultimi sviluppi.”
Milo si strinse nelle spalle. Era sveglio da neanche ventiquattro ore e già saltava nei casini dell’altro.
Sono proprio uno stronzo.
Come se non ne avessi di miei, poi.
“Non potevi mica raccontarli al mio corpo comatoso … Dai, spara.”

Quando ebbe finito di raccontare tutto, Milo – che era sveglio, stava bene – ebbe un solo, tranciante commento.
“Hai proprio una famiglia di merda.”
Già.
Nonostante la situazione gli venne da ridere. Era difficile rimanere seri quando l’altro, in qualche modo, riusciva sempre a ridimensionare i problemi.
Forse alla loro dimensione originale.
“Ho paura di fallire.” Ammise. “Non la vedo da anni e non ho idea di che persona sia. Non l’ho mai conosciuta davvero.”
“Ci sono donne a cui non frega un cazzo dei propri figli.” Ammise Milo con aria meditabonda. “Diavolo, ho conosciuto stronze che avrebbero venduto i propri figli per una manciata di Taler. Però la maggior parte non è così … persino la mia non era uno schifo totale.”
“Ti voleva bene?”
Era quel genere di domande che lo qualificavano come un disadattato, pensò contemplando l’espressione sconcertata dell’amico.
La cosa buona è che nè lui nè Lily  glielo facevano pesare con conseguenti sguardi inumiditi dalla pietà. “Sì … ero suo figlio.” Fece spallucce. “Non quello che avrebbe voluto, ma mi voleva bene. Solo che era mio padre che prendeva la decisioni in famiglia.”
Annuì come se sapesse di cosa diavolo stava parlando. Decise di cambiare discorso. “Zabini è venuto a trovarti?” Era un argomento che avrebbe preferito evitare, ma meno di sua madre.
Il male minore.
Da come l'altro tentò – male – di nascondere un sorriso aveva già la sua risposta. “Pensi di dargli una seconda possibilità?”
“Non lo so.” Confessò. “Cioè, sì … gli ho detto di rimanere nei paraggi, ma … cazzo, non ho idea se sto facendo la cosa giusta! È ancora nei casini con suo padre.” Per un attimo sembrò indossare tutti i suoi anni. Che Sören, ricordò, erano più vicini a quelli di Lily che ai suoi. “Non mi aspetto che molli tutto e mi prenda per mano per la vie di Diagon Alley.”
“Invece dovrebbe.”
“Sì, vabbeh…”
Lo guardò male. Lily lo faceva sempre quando si sminuiva. “Smettila di sottovalutarti. Come ti ho già detto, dovrebbe ritenersi fortunato ad avere il tuo affetto. Sei indubbiamente una persona migliore di lui. Mi hanno detto cosa stavi cercando di fare prima di essere ferito.” Addolcì il tono, perché non si era sorpreso quando aveva scoperto che l’altro era rimasto ferito tentando di aiutare i maghi di Notturn Alley.
Ha aiutato me per anni. E non era tenuto. Il salario prevedeva solo che badasse alla casa e alle mie cose.
Non a me come persona.
Milo voltò la testa, forse per non fargli vedere che era rimasto toccato dalle sue parole. Lo capiva: era una cosa che avevano in comune. “Credo che si tratti di una scelta. Come per me e Lilian.” Continuò. “Lei è una persona migliore di me, eppure mi ha scelto. Tu devi decidere se vuoi Zabini nella tua vita o meno. Penso che sia tutto qui.”
Milo si strofinò la faccia come a scacciare un prurito. “Da quando sei diventato esperto di relazioni sentimentali?”
“Trovo solo la tua situazione simile alla mia.” Sospirò. “Anche se non mi piace paragonarmi a Zabini. Ti ha fatto del male. Non posso provare simpatia per chi fa del male ai miei amici.”
“Zenzero ha ragione a chiamarti cavaliere dall’armatura lucente.” Sbuffò lanciandogli un ghigno ispido. Gli afferrò poi la mano. Fu un gesto che sorprese entrambi, ma la faccia tosta dell’altro evitò un conseguente silenzio imbarazzato. “Ti meriti di stare con Zenzero, se ‘sta cosa dei meriti vale una cicca.” Disse serio. “Non sei più il palo in culo di una volta.”
Gli strinse la mano di rimando. Si doveva fare così, no? “Anche grazie a te.”
“Ma falla finita.” Grugnì svicolando dalla presa. “Ho capito, posso stare con chi mi pare perché sono una gran persona.”
“Precisamente.”
“Sentimentale come sei, saresti un signor finocchio.”
“Peccato mi manchi la condizione fondamentale.”  
Milo ridacchiò. “Credimi, a nome di tutte le checche del mondo è una fortuna non averti nelle nostre schiere. Avresti fatto una strage.” Rimase per un attimo in silenzio. “Con tua madre andrà bene.” Disse poi. “Immagino Zenzero te l’abbia ribadito fino alla nausea, ma sei un agente. Far parlare qualcuno è il tuo lavoro, no?”
Era ciò che si ripeteva da due giorni. “Sono troppo coinvolto.”
Milo scosse la testa. “Non vederla come una cosa negativa. A meno che tua madre non sia una sociopatica, ma credimi, anche se ne abbiamo incontrati fin troppi nel nostro cammino è raro che la gente lo sia … Avrà più paura lei di questo colloquio di quanto ne abbia tu. È lei che ha roba da farsi perdonare.”
A quel punto di vista non aveva pensato. Aggrottò le sopracciglia intuendo il consiglio implicito. “Quindi mi consigli di farla sentire in colpa?”
“Non ci avevi già pensato da solo? Tra te e Zenzero non fate un cervello in due!” Esclamò. “Finisce che questo caso ve lo risolvere il Magonò che piscia dentro una padella.”
“Potrebbe essere.” Concesse. “Da quel che ci ha detto Albus, useranno sangue Magonò per curare i maghi infettati dal Demiurgo. L’idea gliel’ha data il fatto che tu non fossi stato contagiato.” Si godette l’espressione sbalordita dell’amico. Era così rara vedergliela addosso che non poté fare a meno di continuare a stuzzicarlo. “Quindi forse hai ragione tu. Diventerai l’eroe della nazione.”
“Faust me ne scampi!” Sbottò orripilato. “Appena mi riprendo giuro su Merlino che mi imbarco sulla prima Passaporta disponibile!”
“Temo che sia troppo tardi per scappare. Ti ricordo Zabini.” 
“Cazzo.” Mugugnò passandosi le mani sul viso. “Stavo meglio da solo.”
“Come bugiardo sei persino più patetico del sottoscritto.”
“E ce ne vuole.” Ammise sbirciandolo tra le dita. “Questi inglesi ci hanno fregato, eh principino?”
“Temo di sì.”
Nonostante tutto, nonostante sua madre, non riusciva ad arrabbiarsi con la terra d’Albione e i maghi che la abitavano. E ne era certo, neppure Milo.

****


Ministero della Magia, Ufficio di Cooperazione,
Mattina.

“… e alle dodici la conferenza stampa con la delegazione mittle-europea della sanità.”
Michel concluse il suo report attendendo che Lord Malfoy desse in escandescenze. Avrebbe dovuto secondo i suoi calcoli: la serie di appuntamenti che li aspettava sarebbe stato una giostra da incubo dove avrebbero dovuto destreggiarsi tra giornalisti e funzionari stranieri.
E non possiamo dire che al San Mungo stanno lavorando alla cura definitiva. Bocca chiusa fino a che i trial di laboratorio non saranno terminati.
Ci mangeranno vivi.
L’uomo fece un cenno secco con la testa, dando almeno segno che l’avesse ascoltato: aveva infatti guardato tutto il tempo fuori dalla finestra che rifletteva magicamente la City di Londra in tutto il suo grigio splendore estivo.
“Ricordati di chiamare mio figlio e dirgli che oggi non potrò pranzare con lui.”
“ … Sissignore.”
Michel evitò di fargli notare che non era il suo assistente personale, ma lasciò perdere: del resto era inutile. Dall’interrogatorio con gli Indicibili l’uomo non gli aveva tolto gli occhi di dosso trascinandoselo dietro e abbaiandogli ordini a destra e a manca.
Se non altro faccio qualcos’altro che firmare scartoffie e scrivere rapporti noiosi.
Avrebbe però voluto avere almeno il tempo di chiamare Emil per informarsi della sua salute.
Sarà tanto se oggi riuscirò ad andare a trovarlo prima che finisca l’orario delle visite.
“È tutto?” Lo riscosse Lord Malfoy.
“Sissignore.” Confermò prendendo l’agenda e mettendosela sottobraccio. Prima che potesse chieder congedo entrò la sua vera segretaria.
“La sua rassegna stampa Signore.” Disse posandola sulla scrivania e uscendo com’era venuta, non prima di avergli però lanciato un’occhiata velenosa.
Avrebbe voluto dirle che non ci teneva affatto a soffiarle il posto.
Preferirei diventare un custode di Schiopodi che essere alle dirette dipendenze di Lord Malfoy.
L’uomo Appellò la rassegna con un gesto della bacchetta, scorrendo i titoli riassunti. Per quanto ne sapeva gliene venivano consegnate almeno tre nel corso della giornata.
Qualcuno è maniaco del controllo…
“Se posso andare…”
L’uomo alzò la testa dalla pergamena. Un’espressione indecifrabile gli aleggiava in viso. “Prima leggi questo.” Disse spedendogliela davanti.
Michel la prese. “Cosa…”
“Terzo titolo, Boston Magic Journal.”
Obbediente lesse.

Ethan Scott, il Delfino del gabinetto presidenziale ricercato per Alto Tradimento.

Il terreno gli franò sotto i piedi.
Ethan Scott. L’uomo a cui aveva passato informazioni su Prince e sui casi fino a quel momento. Era ricercato, lesse, per aver a sua volta passato informazioni sensibili ad un noto terrorista internazionale: il Camaleonte, anche conosciuto come John Doe.
“Commenti?” Il tono di voce di Lord Malfoy era casuale, quasi gli stesse chiedendo  dei suoi programmi per il fine settimana.
Solo in quel momento realizzò che non aveva detto a nessuno del suo piccolo accordo con l’americano.
“Come sa…”
“Dirigo questo Dipartimento, Michel.” Scandì con l’aria di chi rimarcava l’ovvio. “Pensare di poter nascondere una cosa simile al sottoscritto è quanto meno stupido.”
“Io…” Aveva passato informazioni riservate alla talpa. La stessa talpa che aveva tenuto in scacco il Ministero e aveva causato le morti di Notturn Alley.
Lo scopriranno. Mi sbatteranno ad Azkaban. Perderò tutto … la mia reputazione, i miei amici … Emil.
Per un attimo pensò che sarebbe svenuto, ma Lord Malfoy non glielo permise. In due falcate lo raggiunse prima che gli cedessero le ginocchia, spingendolo a sedere su una sedia. “Abbi almeno la decenza di non perdere la testa, sciocco ragazzo!” Tuonò. Lo sentì poi chiamare la segretaria e qualche attimo dopo gli fu spinto un bicchier d’acqua in mano. “Bevi.” Gli ordinò.
Come in una sorta di trance vide l’uomo dire qualcosa alla strega – forse di andare a chiamare i Tiratori per un arresto immediato?
Gli ho detto tutto. Gli ho raccontato tutto dei rapporti settimanali di Prince. Come di quelli del Sergente Gillespie.
Fu quando vide il volto di Scorpius – Sy, il suo vecchio amico d’infanzia adesso Auror –che capì che era arrivato il momento di pagare per tutti quegli anni di arrivismo sfrenato.
“Non voglio andare ad Azkaban…” Mormorò senza riuscire a frenarsi, ogni dignità persa.
Scorpius per tutta risposta lo guardò disorientato. “Azkaban?” Si voltò verso il genitore. “Papà, ma che gli hai detto?”
“Qualunque idea stia vagando in quel cervello minorato non ha niente a che fare con me.”  
Scorpius sbuffò evitando di commentare. Poi gli si rivolse con un sorriso gentile. “Mike … è tutto a posto. Non sono qui per portarti da nessuna parte. Papà mi ha chiamato per aiutarti.”
“Lascia pure che si crogioli nella sua stoltezza. Forse ne trarrà giovamento.”
Se non avesse avuto i colori del padre, l’amico avrebbe instillato in chiunque il legittimo dubbio fosse stato adottato.
Scorpius roteò gli occhi al cielo, come migliaia di volte gli aveva visto fare quando il genitore si comportava in maniera rivoltante. “Papà mi ha accennato qualcosa … Ti va di raccontarmi cos’è successo con Ethan Scott? Eri l’agente di collegamento di Prince … Come ci sei entrato in contatto?”
Vuotò il sacco. Non tralasciò nulla delle chiamate con l’americano, nulla che ricordasse almeno. Al tempo gli erano sembrati innocui giochi di potere.
Che imbecille. Quando mai i giochi di potere lo sono?
Si era lasciato divorare dalla sua ambizione, e tutto perché non riusciva ad ammettere un malessere più profondo.
Quando ebbe finito l’amico rimase in silenzio per qualche attimo, seduto di fronte a lui e sopra la scrivania del padre.
È probabilmente l’unico essere vivente al mondo a poterlo fare. Animali da compagnia compresi.
“Cavolo, Mike…”
Bevve un altro sorso d’acqua per evitare un secondo svenimento. “Sono nei guai, lo so.”
“Meno di quanto pensi, ma più di quanto vorresti.” Tentò di rassicurarlo. “Non potevi sapere che Scott era la talpa … a dirla tutta, per ora è ricercato solo come persona interessata ai fatti. Almeno ufficialmente.”
“Ma i giornali…”
“I giornali dicono un mucchio di stronzate.” All’occhiataccia del padre sorrise indolente. “Sì, papà, stronzate. È colpa del Profeta se Potty e famiglia devono starsene lontani da ogni dannata strada frequentata!”
“Dovrò ricordarmi di mandare una cesta di frutta all’editore.”
Scorpius scosse la testa con una risatina. “Comunque. Per quel che mi hai detto, non gli hai passato informazioni di grande importanza … La maggior parte, purtroppo, le ha ottenute proprio da noi.”
“Quindi Notturn Alley…”
“Ti limitavi a far rapporto dopo che Sören, e poi Ama ti portavano i loro, quindi non potevi avvertirlo di cose che dovevano ancor accadere, incluso il blitz al castello dei Prince.” Lo confortò. Si fece serio. “Questo non toglie che parlare ci hai parlato. Dovrò farti delle domande e poi dovrò fare rapporto.”
“Speravo che la cosa potesse rimanere in questo ufficio Scorpius.” Si inserì Lord Malfoy. “È il motivo per cui ti ho chiamato.”
“Ed io che pensavo che non riuscissi a stare senza il tuo unico figlio.” Scherzò. Poi scosse la testa. “Mi dispiace papà, ma è la legge. Non posso non informare i miei superiori delle conversazioni tra Ethan Scott e Mike.”
“I tuoi superiori…”
“Sono i maghi a cui rispondo quando sono in servizio. E sono in servizio.” Disse con calma, indicando l’uniforme. Lo scambio dei sguardi tra i due Malfoy non avrebbe sfigurato in un tenzone. Alla fine, con sua sorpresa, fu il più anziano ad abbassarlo.
“Quei Grifondoro ti hanno rovinato.” Decretò.
Scorpius sbuffò divertito. “Papà, io sono un Grifondoro.”
“Non me lo ricordare.”
Michel provò un’ondata di invidia. Mai, neppure nei loro momenti migliori, lui e Blaise Zabini erano arrivati ad avere quel rapporto. Lord Malfoy poteva storcere la bocca, ma valutava le parole di Scorpius. E non perché era suo figlio. Ma perché lo rispettava come uomo.
L’amico, dopo un ultimo sorrisone al genitore, si voltò verso di lui. “Vuoi che facciamo questa cosa nel tuo ufficio?”
Con quell’arpia che ho come collega?
Lord Malfoy parve leggergli nel pensiero. “Potete usare il mio, devo comunque uscire.”
“Okay, grande!” Annuì l’altro come se stessero per prendere the e pasticcini, e non redarre qualcosa che somigliava drammaticamente ad una confessione. “Grazie papà!”
“Non ringraziarmi. Limitati a tenermi fuori dai piedi quest’imbecille.” Lo guardò e fu come se il circolo polare artico avesse deciso di trasferirsi al Ministero. “Sei sospeso fino a nuovo ordine.” E prima che potesse obbiettare – non che ne avesse la minima voglia – aggiunse. “E ringrazia che non ti faccio licenziare con infamia dopo questa tua bella pensata.”
“… Sissignore.” Quando l’uomo si fu chiuso la porta alle spalle inspirò. “Pensavo volesse uccidermi.”
“Sì, fa proprio quella faccia vero?” Commentò Scorpius grattandosi distratto il tatuaggio sul collo.
“… Sy, mi dispiace. Ho combinato un casino.” Mormorò, perché doveva. Perché l’amico aveva mollato quello che stava facendo per venire da lui e cercare di evitargli la galera nonostante persone come Robert Jordan, suoi amici, fossero in ospedale per colpa della talpa.
E quindi anche per colpa mia.
Gli fu risposto con una smorfia. “Hai agito come chiunque avrebbe fatto in questo ufficio se contattato da un pezzo grosso. Ti hanno programmato per fare cose del genere.” Scosse la testa. “E non dar retta alle sparate di mio padre. È preoccupato! Sa cosa significa dar retta alle persone sbagliate.”
Michel inghiottì un groppo di pianto che sembrava artigliargli la gola. Non poteva mettersi a piangere davanti all’altro. Avrebbe rischiato un abbraccio e non era sicuro sarebbe riuscito a sopravvivere all’umiliazione di farsi consolare. “Possiamo cominciare.” Disse con la sua voce più ferma.
“Sicuro di sentirtela? Possiamo farci portare un the prima.”
Scosse la testa. “Qualsiasi cosa succederà, sono pronto ad affrontarla. Ho smesso di mentire.”
“Wow.” Scorpius batté le palpebre perplesso. “Grandi annunci!”
“Non annunci, fatti.” Lo corresse. C’erano due persone a cui aveva fatto quella promessa. A se stesso ed Emil.
Per quanta paura avesse, per quanto temesse che la sua buona volontà non avrebbe pareggiato i suoi errori … no, non poteva deludere nessuno dei due.

****

Mare del Nord.
Direzione Azkaban. Pomeriggio.

“Sei sicuro? Perché quando scenderemo non potrò più chiederti se vuoi tornare indietro.”
Harry Potter non era la migliore compagnia del mondo quando si trattava di attenersi alle proprie scelte. Sören lo scoprì mentre saliva su una carrozza trainata da Thestral: sua madre era stata trasferita ad Azkaban e l'ubicazione della prigione permetteva di accedervi solo tramite carrozza o barca. La seconda opzione prevedeva una traversata troppo lunga; per fortuna uno dei privilegi dati dalla presenza del Salvatore era avere vetture di prima scelta.
“Ad Azkaban non ci si può Materializzare?” Si intromise Lily: non aveva voluto saperne di restare al Mulino. Sia lui che il Capo Potter avevano tentato di dissuaderla, ma la sua piccola inglese era più testarda di un ariete. Se si metteva in testa qualcosa era impossibile farle cambiare idea.
Era più facile fosse lei a farla cambiare agli altri.

“Ho attraversato l’oceano per andare a salvare il sedere al ragazzo qua presente. Senza autorizzazioni, da minorenne. Pensate davvero che chiedermi di starmene buona a casa funzionerà?”

Infatti avevano finito per capitolare.
“No, ci sono protezioni simili a quelle di Hogwarts.” Rispose Potter mentre la figlia occhieggiava fuori dal finestrino, dove cielo e mare si fondevano in una scala di grigi. Stava piovendo. “Né si possono usare scope o macchine volanti. I Thestral sono gli unici ad aver ragione delle correnti d’aria che vengono dal Nord. Chi viaggia in barca è meno fortunato. Ma di solito si tratta dei detenuti.”
“Un bel mal di mare…” Osservò Lily sedendosi sui cuscini di velluto: incrociò poi il suo sguardo e gli sorrise, intrecciando la mano alla sua.
Sören si trovò nella scomoda posizione di desiderare quel contatto quanto volerne sfuggire, visto che si sentiva gli occhi del Salvatore bruciare sulla faccia.
“Avete idee su come far parlare Sophia?” Chiese l’uomo interrompendo quel momento atroce. Si arrischiò a dargli un’occhiata: espressione indecifrabile.
Non è un Legimante, ma ha comunque una faccia di bronzo notevole.
O forse era un mago adulto che aveva affrontato una guerra e una buona porzione della sua vita immerso nella disciplina.
Ovvio che sappia nascondere le sue emozioni, idiota.
Lily ancora una volta rispose per lui. “Non si aspetta una visita da Sören. Se abbasserà le difese Ren potrà tentare di offrirle un nuovo accordo.”
“Che tipo di accordo? Mi avete detto che non ha idea di dove sia John Doe, ed è l’unica cosa che vogliamo da lei.” 
“Johannes verrà a prenderla.” Si inserì. “Non adesso, aspetterà che le acque si siano calmate, ma la farà evadere.”
“E visto che vogliamo accelerare le cose … Vogliamo chiederle di mettersi in contatto con Doe di sua spontanea volontà. E lasciarsi Tracciare. Così sarà lei a guidarvi da lui, dritto dritto nelle suo nascondiglio!” Concluse Lily.
L’uomo aggrottò le sopracciglia. “Come pensate di convincerla? Preferisce passare i suoi giorni in cella che tradire il suo uomo.” Ricordò loro, ma li stava ascoltando, il che era già molto. Non aveva mai conosciuto nessuno come il Capo Potter. Neppure il Capitano Gillespie, con tutta la sua apertura mentale, era così bendisposta a vagliare le idee di un semplice agente – lui – e di una civile – Lily.
“Non credo che sia leale a Doe fino a questo punto.” Ribatté la ragazza. “È che lo considera la sua unica alternativa valida … anche se dovesse passare mesi in prigione. È abituata ad essere chiusa da qualche parte fin dall’infanzia, non le peserà così tanto.” Si voltò verso di lui. “Ren può farle cambiare idea. Per quanto sia stata una madre carente rimane pur sempre sua madre. E se sei legato a qualcuno da un vincolo di sangue, tendi a dare una possibilità, specie se gli devi qualcosa…”
L’uomo lo squadrò confuso. “Ti deve qualcosa?”
Fece un sorriso amaro.
“Sì, una madre.”
Passarono il resto del viaggio in silenzio, interrotto solo dalle strida dei gabbiani e dallo scroscio della pioggia che si abbatteva sui finestrini. 

Azkaban era un posto spaventoso.
Bella forza, certo che lo è. È una prigione!
Alta, come un unico blocco di cemento, sembrava bucare direttamente le nuvole. Non c’era un’asperità nell’intera facciata e per trovare la porta dovettero percorrere un sentiero strettissimo.
Lily lanciò un’occhiata a Sören: era ancora più pallido del solito e pareva profondamente attento a mettere un piede dopo l’altro.
L’ultima volta che ha visto una prigione … è stato da dentro. Come detenuto.
“Tutto a posto?” Gli domandò nei pressi dell’ingresso, mentre suo padre sbrigava le formalità con il Tiratore Scelto di stanza alla guardina.
“No.” Le rispose dirigendo la linea dello sguardo in un punto indefinito davanti a sé.   
“Avrebbero dovuto organizzare l’incontro al Ministero.” Borbottò: una cella detentiva non avrebbe scatenato tutti quei deja-vu.
“Non si sposta un prigioniero per ragioni futili.” Fu la risposta da bacchetta indottrinata. Avrebbe voluto baciarlo e stringerlo finché non si fosse calmato – perché neppure nelle sue illusioni più rosee Sören possedeva la tranquillità che dimostrava.
Ma non posso. Non adesso.
L’avrebbe respinta, perché in quel momento era in un posto molto più buio rispetto a dove si trovava lei.
Metaforicamente.
Poteva stargli vicino e provare a fare un po’ di luce però. “Mi dispiace di non poter fare di più.” Mormorò sfiorandogli una mano, quella mano. Era bollente.
L’altro distolse gli occhi dal suo baratro personale e per un attimo parve tornare il ragazzo che conosceva. Le sorrise. “Wenn Sie nicht da wäre, würde ich nicht einmal versucht haben, Liebe.” Mormorò.
“Ren … ti ricordi che non so il tedesco, sì?” Il fatto che fosse scivolato nella sua lingua madre senza accorgersene la diceva lunga sul suo stato d’animo. Decise comunque di buttarla sullo scherzo. L’atmosfera in qualche modo andava alleggerita. “E lo imparerò, promesso. Nel frattempo ti dispiace tradurre?”
Sören scrollò le spalle. “Ho detto che senza di te non ci avrei neppure provato. Quando sono con te … sono più forte.”
Lily sentì le guance andarle a fuoco: potevano dire che peccava di mancanza di modestia nel modo più assoluto – ed era vero.
Ma non mi abituerò mai ad essere guardata così.
Come se fosse l’eroe di qualcuno. Ed era quello che gli comunicava Sören. Scosse la testa, battendo le palpebre per evitare gli occhi lucidi. “Lo sei sempre stato. Hai solo bisogno che qualcuno te lo ricordi ogni tanto. È solo capitato che quel qualcuno fossi io.”
“Non poteva essere nessun’altro.”
“Ren…”
Smettila di farmi venir voglia di sdiliquirmi come un’eroina romantica!
“Ragazzi?”
Incanto interrotto. Suo padre aveva lasciato loro un po’ di privacy, ma adesso era il momento di andare. Passarono quindi da una porticina asfittica dove li aspettava un secondino.
“Devi rimanere qui.” La informò con il tono, quello che non ammetteva repliche da parte sua e dei suoi fratelli. “C’è una sala d’attesa, con the caldo e un camino. Ti verremo a prendere una volta finito.”
“Non ho bisogno…”
Suo padre la fermò con un cenno della mano. Aveva stampata in faccia l’espressione da Auror, e quella non poteva essere corrotta. “Non ti farò salire nelle prigioni a contatto con la peggior feccia del Mondo Magico, dovessi Impastoiarti ad una sedia. Sono stato chiaro?”
Lily serrò le labbra, ma non fiatò. C’era una linea che non aveva mai oltrepassato, neppure lei che della famiglia era quella più insofferente alle regole.
Se papà usa il tono da Auror non ribatti. Mai.
“Sono stato chiaro?” Ripeté. “Non voglio sorprenderti a girovagare per il carcere da sola.”
“Sissignore.” Borbottò: odiava il fatto che a Sören non fosse concesso il lusso di esser protetto come lei.
E la colpa era proprio di sua madre, la persona che avrebbe dovuto avere quel compito.
Non è giusto.
Annuì. “Vi aspetto.” Passò una mano sul braccio del compagno. “Andrà tutto bene.” L'aveva ripetuto così tante volte che ormai quella frase aveva perso ogni significato.
Gli venne rivolta a malapena un’occhiata. “A dopo.” Si sforzò comunque di risponderle prima di seguire il carceriere e suo padre.
Almeno ha papà con lui. 
Sperava bastasse.

****

Johannes gli aveva parlato delle prigioni. Quelle vere, quelle dove non arrivava la luce del sole se non per pochi minuti al giorno, dove i pasti erano rancidi e le pulci e i topi all’ordine del giorno. Lo aveva ascoltato distratta quella volta, accarezzandogli i capelli mentre i polpastrelli di lui le premevano sulle costole, quasi a volerle affondare le dita nel cuore per sentirlo battere.
Vi aveva trascorso un periodo da ragazzo, ed era qualcosa che ancora lo segnava.
Ora Sophia si trovava nella stessa situazione, e la odiava. La odiava con la ferocia con cui aveva odiato suo fratello e le sbarre che le aveva costruito attorno.
Tuttavia, poteva resistere. Azkaban era un posto orribile, certo, ma il cibo era commestibile e la cella fredda, ma pulita. Aveva subito di peggio le volte che aveva osato sfidare l’ira di suo fratello.
Le segrete del castello.
Aveva compreso Johannes e le sue paure, perché, sebbene in misura minore, le aveva sperimentate. Era bastata una notte nelle segrete del loro castello nella Germania del Nord per toglierle per sempre la voglia di opporsi alle scelte di Alberich.
Non volevo sposarmi. 
Azkaban non era peggio di quella notte piena di buio e di topi: gli Auror pensavano di stare logorandola, ma si sbagliavano.
Posso resistere. Non sono più una ragazzina.
Il rumore rugginoso della chiave nella toppa le segnalò che era in arrivo la cena. Guardò fuori dalla finestra: no, era troppo presto. Forse era Harry Potter, con il suo insano desiderio di offrirle accordi?
No, realizzò ancora voltandosi verso l’entrata, nessuna delle due. Era un secondino del turno pomeridiano … e Sören, suo figlio.
Il primo si limitò a far entrare il ragazzo dentro la cella per poi chiudersi la porta dietro.
Sophia non sapeva onestamente cosa pensare.
“Madre.” Fu il ragazzo a prendere la parola. Alla luce artificiale della cella sembrava più giovane di quanto gli fosse sembrato al maniero dei Prince.
Quanti anni dovrebbe avere?
Forse una ventina, se la memoria non la ingannava. Vent’anni, e un fisico da uomo fatto, con un accenno di barba e i capelli troppo corti per un mago perbene. Indossava anche indumenti Babbani.
“Sören. Non mi aspettavo venissi.” Rispose attingendo al vecchio repertorio di strega Purosangue. I convenevoli erano qualcosa che ti portavi nella tomba.
“Infatti non volevo venire.” Fu la risposta.
Quindi sono disperati a tal punto…
Era evidente che Harry Potter aveva chiesto a suo figlio di fare da intermediario nella speranza riuscisse a far breccia nei suoi silenzi.   
Certo, un figlio è in grado di toccare le corde del cuore di una madre.
Peccato che non si fosse mai sentita tale: da quando la nutrice glielo aveva messo tra le braccia a quando l’aveva visto l’ultima volta, durante un Natale privo di neve dove l’aveva informata che sarebbe partito per Durmstrang, Sören per lei era sempre stato un estraneo.
Com’era possibile che quel bambino fosse suo, si era chiesta anni prima. Non le somigliava affatto. Era la copia di Elias. Non sorrideva mai e la guardava sempre come se si aspettasse di vederla urlare da un momento all’altro.
Aveva detestato Sören, perché parlava come suo fratello e aveva il viso dell’uomo che le era stato imposto.
“Mi hanno detto che vi rifiutate di collaborare.” La riscosse dai suoi pensieri.
“È vero. Non ho niente da dire agli Auror.”
Sören serrò le labbra. L’aveva contrariato. “Assomigli a tuo zio quando sei arrabbiato.” Non lo disse con cattiveria, ma si vide guardata con rancore. “Mi odi?” Domandò incuriosita.
Per quanto le sembrasse accaduto in sogno, aveva dato alla luce quel ragazzo dai pugni serrati. 
Chi è? Cosa è diventato?
Era passato tanto tempo dopotutto. Le persone, lei lo sapeva bene, cambiavano.
“Non vi odio.” Una menzogna. Era sempre stata brava a sondare gli umori di chi le stava attorno. Era una buona carta da giocare per sopravvivere agli scatti di un fratello iroso o quelli di un’amante instabile. “Non avete idea di dove sia John Doe, è così?”
“È così.” Confermò.
Parve riflettere. “Non importa.” Disse. “Sono qui per offrirvi un accordo.”
“Me ne hanno già proposti, li ho rifiutati tutti.” Gli fece notare. “Perché con te dovrebbe essere diverso?”
Leggere le persone era un lavoro difficile se non si era una Legimante e a volte le capitava di sbagliare. Ma non poteva confondere il dolore che vide negli occhi di suo figlio con altro.
E ricordò quell’espressione: la stessa che le buttava addosso da bambino. Come se lo avesse privato di qualcosa.
Della stessa cosa di cui sono stata privata io probabilmente.
Amore. 
Sören non voleva stare lì. Gli Auror dovevano averlo costretto, forse glielo avevano ordinato se era uno di loro. Lo era? Non indossava un uniforme, ma questo poteva non voler dir niente.
Sì, doveva rimanere per un'imposizione, decise. Un'ordine. Perché anche se era lei la prigioniera, pareva lui quello a soffrire una tortura. Da come stringeva i pugni, da come la guardava. Aveva dei begli occhi, notò. Scuri, ardenti, profondi. Dovevano far sognare molte streghe quando non sprizzavano rabbia come in quel momento. 
“Vi importa qualcosa di tutte le persone morte per colpa del Demiurgo?”
“Non le conoscevo.” E non doveva conoscerle neppure Sören, o forse sì? Non sapeva niente di lui. Aveva notato delle somiglianze con uomini del passato, ormai morti, ma non sapeva niente dell’uomo che era, del mago che soffriva all’idea di altri maghi uccisi per colpa di Johannes.
Era sorpresa: a suo fratello e ad Elias non era mai importato di nulla, se non di loro stessi e del loro prezioso erede.
“A te importa.” Osservò. “Di quelle persone.”
“Sì. Erano innocenti, avevano delle famiglie.”
“Da quando?”
“Cosa?”
“Da quando ti importa di una vita umana?” Aveva lavorato con Johannes per conto di Alberich. Aveva causato del dolore. Aveva ucciso. Poteva averlo partorito lei, ma era figlio di Alberich ed Elias, di questo ne era sempre stata certa.
Sören parve indovinare cosa le passava per la mente perché si irrigidì. Per un attimo parve sul punto di fare qualcosa. Forse anche di colpirla. Invece colpì il muro. Un colpo sordo, secco. Doveva essersi fatto male.
Lo osservò stringere i denti, dominare il dolore. “Non sono più quella persona. Non mi conoscete.”
E Sophia capì che se in quegli anni lei era cambiata, lo aveva fatto anche quel suo figlio perduto.
Conosceva quell’espressione disperata e nuda: l’aveva vista molte volte allo specchio quand’era ragazza.
“Hai ragione.” Ammise. “Fammi vedere quella mano Sören.”

Non fu sicuro di aver sentito bene finché la donna – sua madre – non ripeté la richiesta. Fino a quel momento aveva pensato di aver fallito.
Sophia non era parsa particolarmente colpita nel vederlo. Ma questo poteva voler dir poco: da che la conosceva, aveva sempre indossato la stessa espressione di noia indifferente.
La sua maschera. Perché dovrebbe toglierla per me?
“Fammi vedere quella mano Sören.”
E poi qualcosa era cambiato. Era forse stata la sua perdita di controllo a farle cambiare atteggiamento? O dirle che non era la copia degli uomini che aveva tanto odiato?
Qualunque cosa fosse, aveva scorto nella donna di ghiaccio davanti a lui interesse. E poi era arrivata la richiesta.
“Perché?” Le domandò. Poteva essere una diversione per tentare la fuga.
Anche se sarebbe inutile. Nessuno scappa mai da una prigione magica.
“Perché sta sanguinando.” Gli fece notare come se fosse perfettamente normale. Che la sua mano sanguinasse, che lei se ne preoccupasse.
“La curerò uscito di qui. Ho un accordo da offrirvi.” Si attenne al piano.
Era l’unico modo per mantenere il controllo.
Sua madre rifletté per qualche attimo. “Ti ascolterò.” Disse poi. “Non posso curarti la mano, non ho la mia bacchetta. Era una scusa per farti venire vicino. Voglio vederti.”
“Sono davanti a Voi.”
“Più vicino, ti prego.” Fece un sorriso. I lineamenti dei Von Hohenheim parevano scolpiti nella pietra, ma bastava un sorriso per addolcirli. Anche Thomas, le rare volte che sorrideva, smetteva di assomigliare ad Alberich.
Suo zio in compenso non aveva mai sorriso granché.
Si avvicinò, perché se questo avesse fruttato un accordo, era anche disposto a sederlesi in grembo.
Sophia era seduta sulla panca che doveva fungere anche da letto. Un materasso vi era accuratamente ripiegato.
Più lussi che a Nurmengard.
Gli inglesi avevano sempre avuto il cuore più tenero dei loro vicini del Nord.
“Siediti.” Quel cambio di atteggiamento lo insospettiva, tuttavia la assecondò. Lily glielo aveva consigliato.

“Mettila a suo agio. Falla parlare. Devi guadagnarti la sua fiducia facendole credere che hai bisogno di parlare con lei, di conoscerla. È facile che qualcuno si fidi di te dopo che crede di averti fatto un favore.”

Non era stato difficile fingere turbamento, come era stato semplice tirare quel pugno. Era una recita, ma era stato maledettamente semplice immedesimarsi.
Troppo semplice. Una parte di te è ancora quel bambino che vuole la mamma.
Sophia era invecchiata, notò sedendolesi accanto. Nella penombra del castello gli era parsa giovane, troppo giovane per avere un figlio della sua età, ma alla luce artificiale della cella notava le rughe, la piega amara della bocca, gli occhi stanchi.
Non aveva gli occhi azzurri dei Von Hohenheim: l’aveva dimenticato.
“Ti piace vestirti come un Babbano?” Gli domandò. Tipica osservazione da Purosangue.
“Vivo in mezzo ai Babbani. In America non c’è separazione.” Fece una pausa. “Comunque sì, preferisco il loro abbigliamento. È pratico.”
“Vivi in America?”
“A Boston.”
“Non sei un Auror inglese quindi…”
“No, ma faccio parte della forza di polizia magica americana.”
“Non indossano uniformi?”
“Non ne indosso una al momento. Non sono in servizio.”
“Quindi non ti hanno ordinato di venire a parlarmi.”
Sua madre era stata una donna instabile, umorale, ma mai stupida. Peccato fosse appena caduta nella trappola tesa da Lily.
Falle credere che, nonostante tutto, volevi parlarle.
“Me lo hanno chiesto come favore. Potevo rifiutarmi.”
“Perché non l’hai fatto?”
“Perché siete mia madre.” Erano arrivati alla parte delicata del colloquio, quella dove Lily lo aveva avvertito di fare più attenzione. Se fosse suonato falso avrebbe invalidato l’intera operazione.
Era più semplice pensarla così: un’operazione di polizia.
“Pensano che possa farvi accettare un accordo perché sono vostro figlio.” Aggiunse. “Non hanno idea di quanto poco io e Voi siamo stati una famiglia.”
La strega inspirò. Impercettibilmente, ma era uno dei segni che Lily gli aveva detto di cercare. Forse aveva appena inferto un colpo alla corazza. “È vero.” Ammise abbassando gli occhi. “Alberich non ha mai voluto che fossi una madre per te.”
Mio zio era un mostro. Ma siete stata voi a respingermi. Non c’era quella volta che avete ordinato ai servi di portarmi via dalle vostre stanze dove mi ero nascosto per evitare una punizione.
“Dicevano che eravate pericolosa.”
“Ero solo infelice.” Lo disse con il tono distratto di chi conversava del più o del meno. Già, lo aveva dimenticato: tutte le streghe  della sua infanzia parlavano delle proprie emozioni in quel modo svagato.
C’era voluta Lily con i suoi proclami, le sue lacrime e le sue risate di gioia per fargli scoprire che i sentimenti si dimostravano.
“Johannes vi ha reso felice?” Era quella la domanda in cui poteva rischiare tutto.
Molto, da come sua madre lo guardò con sospetto. “Cosa ti hanno raccontato di me e lui?”
“Non molto. Ho scoperto di recente che siete la sua amante.” Fece una smorfia. La sola idea che la strega che gli aveva dato la vita fosse la compagna dell’uomo che gliela aveva rovinata era disgustoso. Ma non era ciò che doveva darle ad intendere. “… E questo che vi dice? Che vi ama?”
“Me lo dimostra.” Nessuna incertezza. No, non poteva contare sull’indebolire la cieca fiducia che Sophia nutriva in quel mostro.
“Forse conoscete un mago diverso da quello con cui ho avuto a che fare io.” Concesse. “Ma ha comunque i giorni contati. Non potrà nascondersi per sempre … o forse non farà nient’altro per il resto della propria vita. Nascondersi, come un topo in una tana. In una gabbia.”
Aveva detto le parole giuste. Qualcosa, nello sguardo di sua madre, parlò di allarme. Di consapevolezza. “Non è stato il suo piano più brillante.” Replicò neutramente. “Ma ne uscirà. Lo ha sempre fatto.”
“Rintanandosi nel prossimo buco. Ma anche se vi liberasse …” Si guardò attorno. “… Sarebbe per mettervi in un’altra prigione. Più graziosa certo, più spaziosa, ma quante mura di castelli avete visto in questi anni?”
La strega non rispose. Lo prese come un buon segno. L’espressione inquieta con cui evitava di guardarlo ancora di più. “È così che volete vivere?” Le domandò gentile. Aveva imparato da Rico la parte del poliziotto buono.
“… Cosa puoi offrirmi in cambio?”
Ci sono riuscito Lily.
Era la domanda che aspettava. “La libertà.” Erano le parole più semplici ad incidere di più. “Anch’io ero destinato a passare il resto della vita in una cella di Nurmengard, ma mi è stata offerta una seconda opportunità. Ho collaborato con il Ministero Americano. Sono un mago libero adesso.”
Sophia lo contemplò quasi vedesse concrete possibilità apparire davanti ai suoi occhi. “È ciò che davvero puoi offrirmi?”
Scosse la testa. “Non io, il Ministero inglese. Non vi siete macchiata d’omicidio, e non siete una complice. Non hanno motivo per trattenervi se li aiutate. Potreste uscire di qui, rifarvi una vita. Una vita vera, non più stanze e bei giardini, ma strade … persone.”
“È allettante.” Convenne con un cenno della testa. “Tuttavia come sopravvivrei da sola, nel mondo? Non ho proprietà e non ho Galeoni.”
A quello Lily non aveva pensato. Improvvisò. “Potreste avere i miei. La metà, almeno, quella che vi spetta.” 
Questo la sorprese. “Divideresti la tua fortuna? Così poco Von Hohenheim…” Ironizzò, ma parve colpita.
“Voglio che questa storia finisca, che Johannes sia assicurato alla giustizia. Privarsi di denaro è qualcosa che posso sopportare.”
La strega incrociò le mani in grembo. “Mi stai chiedendo di tradire il mio benefattore."
"Sì, lo sto facendo." Non indorò la pillola.
Parve apprezzarlo da come annuì. "Non so dove si trovi però Questa è la verità.”
“Potete mettervi in contatto con lui. Ve ne daremo la possibilità … vi farete portare nel suo nascondiglio portando la Traccia. Vi localizzeremo.”
“E lo arresterete.” Concluse al posto suo. “Sì, mi è chiaro.”
Quei discorsi gli erano già stati fatti, ma pareva che li sentisse per la prima volta. Perché era lui a farglieli?  
“Collaborerete dunque?”
“Ho bisogno di tempo per rifletterci. Mi stai chiedendo molto.”
Serrò le labbra. Non si era aspettato che procrastinasse. “Il tempo è l’unica cosa che non abbiamo. È un’offerta con una scadenza, e non sono io a deciderla.”
“Stasera allora. Ti farò avere la mia risposta stasera.”
Meglio di niente.
“L’ufficio Auror si occuperà…”
“Voglio darla a te.” Lo fermò e gli posò una mano sul braccio. Il braccio del nucleo di bacchetta. “… sei bollente. Hai forse la febbre?”
Sören si alzò in piedi di scatto: non aveva potuto evitarlo, e cercò di dominarsi per non mandare tutto all’aria.
Non alla fine. Sono quasi alla fine.
“Sto bene.” Si sforzò di sorridere. “Come desiderate. Mi occuperò di inoltrarla a chi di dovere.”
Non l’aveva insospettita. Continuava a fissarlo con il neutro interesse di prima.
Era ora di andarsene. Glielo disse. Parve delusa. Non era delusa, non gliene era mai fregato niente di lui. Voleva solo uscire di lì e lui era la sua chiave. “Certo. Cura quella mano, non ha un bell’aspetto.”
Va all’inferno.
Avrebbe dovuto gioire della riuscita del piano, eppure aveva solo voglia di mettere più miglia di distanza possibile tra lui e quella donna che gli sorrideva come se avesse trovato una pentola d’oro. Come Ginny e il Capo Potter sorrideva a Lily.
Non lo puoi fare. Non ne hai diritto.
“Arrivederci Sören.”
Si lanciò fuori da quella cella come se avesse avuto gli Inferi alla calcagna.

“Non ho precisamente contravvenuto agli ordini, no? Non sono sola!”
Suo padre pareva volerla strangolare, ma se l’era aspettato quindi sfoderò il suo sorriso migliore e indicò il giovane secondino accanto a lei: c’era voluto davvero poco a convincerlo ad accompagnarla fino alla cella di Sophia Von Hoenheim.
È stata la mia miglior pomiciata del Terzo anno.
“Vorrei arrabbiarmi ma non ne ho la forza.”  Borbottò l’uomo facendo cenno al ragazzo di sparire, cosa che fece alla velocità della luce dato che si era reso conto di aver commesso un grosso errore di valutazione.
Scusa Wallace. Migliore del Terzo Anno, ma non abbastanza per tornare sul viale dei ricordi.
Sono una ragazza fedele, io.
“Ren è ancora dentro?”
Suo padre fece per rispondere quando il suddetto uscì dalla porta come una furia, mancando di pochi centimetri la guardia che gliela aveva appena aperta. Praticamente finì loro in braccio. Aveva l’aria di chi voleva commettere un omicidio.
“È andata bene.” Disse sorprendendoli. “Mi darà una risposta stasera, ma sarà positiva. L’ho convinta.”
“Ti darà?” Chiese suo padre, ma non era quella la cosa importante.
“Che cavolo hai fatto alla mano?!” Gliela prese, trovandola insanguinata e tumefatta. “Non si era parlato di prendere a pugni i muri!”
“Mi avevi detto di fare il modo che il mio turbamento apparisse reale.” Le mise poi una mano sulle sue, a coprire quella offesa. “Guarirà.” Si voltò poi verso suo padre. “Vuole che sia io il tramite dell’accordo.”
“Te la senti di continuare?”
Annuì. “Ormai la Pluffa è in campo, dite così no?”
Lily avrebbe voluto fargli notare che era un idiota, e che rompersi un paio di dita per convincere sua madre a collaborare era allarmante ed era inutile che stemperasse il tutto con una battuta. Ma rimase in silenzio, perché un’occhiata dell’altro le comunicò a chiare lettere che aveva già deciso e no, non c’era spazio per le obiezioni.
E poi io ho la testa dura!
Suo padre sbuffò una risata. “Veramente sarebbe il Boccino, ma ho capito ciò che intendi.”
Sul serio?!
Ingoiò praticamente la lingua per non rispondere da quanto se la morse, mentre suo padre continuava tranquillo. “Voi tornate pure a casa, io devo rimanere per un altro caso. La carrozza vi aspetta all’ingresso.”
Lo salutarono e seguirono il secondino che aveva aperto la porta a Sören. “Ti rendi conto…” Iniziò perché non era rimasta in silenzio davanti a suo padre dando prova di sostenere il proprio ragazzo per poi farlo sul serio.
“Per favore Lily.” Fu subito fermata. Il sorriso si spense. “Voglio solo tornare a casa.”
… oh, dannazione.
Si era appena riferito alla Tana come casa. Questo le tolse ogni voglia di fargli una ramanzina.
Per ora.
“Certo.” Sospirò. Il discorso era comunque solo rimandato. “Andiamo a casa.”

****

Aveva rischiato ad accompagnare Lily Potter fino alla cella della detenuta numero quarantasei. Seriamente rischiato.
Wallace Ruthford, Tiratore Scelto di stanza a Azkaban era stato ad un passo dall’essere radiato, ne era sicuro. Da come l’aveva guardato il Capo Auror – Harry Potter, per la miseria – c’era andato maledettamente vicino.
Tirò un profondo sospiro di auto-commiserazione e fu felice di vedere il Magonò addetto alla cena dei detenuti spingere il carrello lungo il corridoio. Arrivato controllò singolarmente ogni coperto. “Distribuisci gli altri. Alla cella quarantasei penso io.” Gli comunicò, che gli pareva nuovo e forse non era stato informato delle disposizioni date dall’Ufficio Auror per quanto riguardava la prigioniera al suo interno.
Aprì la porta ed entrò con il vassoio. C’era da ammetterlo, faceva un certo effetto vedere una donna così bella e distinta in un posto come quello; di solito le streghe che arrivavano lì erano più vicine ad essere Megere che altro.
“La sua cena, Signora.” Non riusciva a chiamarla con il numero che le era stato assegnato: cioè, ci aveva pure provato, ma era stato guardato con tale stupore che si era vergognato come se l’avesse insultata.
“Grazie Wallace.” Gli sorrise sedendosi al piccolo tavolo da pranzo, che fungeva anche da scrittoio. “Vedo che stasera il menù prevede stufato.” Inarcò un sopracciglio. “Ancora.”
“Eh, già.” Si grattò una guancia. Non invidiava affatto la Signora. Per quanto il cibo fosse molto migliorato dai tempi dei Dissennatori – suo padre gli aveva raccontato di pane raffermo e brodo congelato – non era certo una cena da cinque bacchette.
Proprio per niente.
“Domani è venerdì. Magari fanno il pesce.” Tentò con un sorriso impacciato. Cosa aveva mai combinato una Lady come quella per finire dentro? Qualcosa di grosso di sicuro, ma Wallace non leggeva il Profeta e passava tutto il suo tempo libero a ciondolare nella Manchester Babbana della sua  ragazza. 
Se non fosse stato per suo padre, pace all’anima sua, ci si sarebbe trasferito in pianta stabile: ma quel lavoro glielo aveva trovato lui prima di morire, e c’era anche da dire che era l’unico che fosse riuscito a tenersi stretto.
Non sputare nel piatto dove mangi.
Preso dai suoi pensieri non si accorse che la Signora gli aveva domandato qualcosa.
“Come scusi?”
“Oh, era una domanda sciocca … Non era nulla di importante.”
“Ha bisogno di un’altra coperta?” Azzardò. Il tipo della cella ventitré si era ammalato per quel motivo, e pure parecchio, tanto che il suo caposquadra gli aveva fatto una sonora lavata di capo per non aver segnalato lo stato di salute del balordo.
Che rottura. Fossimo in una pensione a cinque stelle poi!
“No, quelle che ho sono più che sufficienti, ti ringrazio.” Gli rispose con un sorriso. Era sempre così educata: un piacevole cambiamento rispetto agli insulti che doveva subire ogni giorno dagli altri detenuti. “Mi chiedevo solo chi fosse la ragazza che ha accompagnato mio figlio Sören.”
“Suo figlio…”
“Il ragazzo che è venuto a trovarmi questo pomeriggio.”
Ah, sicuro. Se lo ricordava. Come si ricordava di averlo visto parlare fitto fitto con Lily.
A quelle fighe piacciono sempre quelli con la faccia incazzata.
“Era Lily Potter.” Rispose con uno sbuffo. “Credo sia la sua tipa o giù di lì.”
“Potter … come il Capo Auror Potter?”
“Sì, è sua figlia.” Confermò. “Andavamo a scuola assieme … era a Grifondoro.”
La strega annuì distratta. “Non sapevo che mio figlio avesse una fidanzata.”
Wallace si strinse nelle spalle, evitando di dirle che le ragazze come la Potter non erano materiale da anello e promesse. Del resto non erano affari suoi.
“Quando ha finito batta un colpo.” Le disse invece, rientrando nel suo ruolo.  Qualcosa gli diceva che non avrebbe dovuto dare tutta quella confidenza ad una detenuta.
Ma andiamo, potrebbe essere mia mamma!
E non aveva la faccia da assassina. Forse era una ladra. Tipo quella Cat-Woman, da cui Brenda – la sua ragazza – si era vestita ad Halloween.
“Un’ultima cosa, Wallace …” Lo fermò. “Saresti così gentile da portarmi carta e piuma?”
“Uhm, okay. Deve spedire un Gufo?”
Gli rispose con un piccolo, grazioso cenno di assenso. “Ho una risposta da dare.”

****


Note:

Insomma, gran capitolo! Avevo promesso la Jeddy, ma slitta al prossimo. Giuro!
Questa la canzone del capitolo. E alla prossima!
(Sperando di riuscire ad aggiornare in tempi non biblici. Ma in questo periodo, è puro culo.)


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Capitolo 53
*** Capitolo LII ***


 Capitolo LII
 
 
 


“Give me hope in the darkness that I will see the light
I will hold on, just promise we will be alright”
(Ghost that we knew, Mumford’s & Sons)
 
 
 
6 Agosto 2028
Londra, Ministero della Magia.
Dipartimento Applicazione Della Magia, Mattina.

 
L’Ufficio Auror, come ogni ufficio appartenente alla polizia magica che si rispettasse, aveva una palestra: piuttosto spartana, ma aveva panche dove fare pesi e un tappeto dove esercitarsi nelle prese corpo a corpo. C’erano anche due piccole pedane da duello ma quelle erano constantemente occupate dai decani. Per questo Scorpius, quando quella mattina andò in cerca di James, si diresse a colpo sicuro verso le panche.
Che scimmione è, senza bicipiti gonfi e l’aria incazzata?
Quella mattina l’espressione di James era peraltro particolarmente feroce, tanto che il cipiglio da fatica era profondo come un solco. Persino il tatuaggio che gli adornava tutto l’avambraccio sembrava più cattivo: il leone Grifondoro ruggiva minaccioso.
“Buongiorno Potty della mia esistenza!” Lo salutò afferrando il manubrio dei pesi per metterlo a posto. Strinse tra i denti un’imprecazione perché il partner era un idiota e amava caricarsi come un mulo pieno di testosterone. “Hai deciso di rimanerci sotto?”
“Non fare la femminuccia.” Brontolò accettando l’aiuto. “Vuoi darmi il cambio?”
“Piuttosto mi butto da una scogliera.” Sorrise garbatamente. “No, ti cercavo. Ci sono novità sul Demiurgo. Ho parlato adesso con il Sergente Weasley.” O meglio, il Rosso aveva parlato al muro e ad Ama, ma dettagli. Non gli aveva ancora perdonato il lancio di bicchieri al battesimo di Alexandra.
Gli Weasley non dimenticano. Incamerano astio.
Per me sono loro ad aver mantenuto viva la fiamma dell’odio reciproco con la mia famiglia…
“Pare che Sören sia riuscito a convincere sua madre a farsi Tracciare.” Gli spiegò.
James si alzò a sedere, tamponandosi il sudore con un asciugamano. Pareva poco interessato. “Ah sì? E a che serve? L’abbiamo già presa.”
“Il punto è fare in modo che venga liberata e poi seguirla fino al nascondiglio di John Doe … Il principio dell’esca. Ma ohi.” Gli passò una mano davanti agli occhi, vedendo che era completamente perso in pensieri tutti suoi. “Scendi dalla scopa, Potty, il nostro turno inizia tra mezz’ora.”
“Appunto, tra mezz’ora.” Gli venne risposto prima che saltasse in piedi e fuggisse verso le docce. “Ne parliamo dopo, okay?”
“Ehi.” Lo afferrò per un braccio. “Sono un po’ stanco di amici elusivi … Ieri Mike che confessa di essere il diario segreto di un ricercato. Direi che ho fatto il pieno, non ti pare?”
James si morse un labbro. “Sì, ho saputo di Zabini. Direi che non ci si può aspettare di meglio da un serpeverde, ma poi tu te la prendi.”
“Sì, perché insulti tutta la mia famiglia e metà dei miei amici. Oltre a tuo fratello ovviamente. ” Replicò. “Che succede?”
“Niente …” Si guardò attorno, valutando evidentemente quanta gente potesse sentirlo. “Non voglio parlarne qui.”
Scorpius alzò gli occhi al cielo. “Dobbiamo chiuderci in una doccia, giusto per fomentare quel bel pettegolezzo secondo cui ce la spassiamo alle spalle delle rispettive metà?”
James si adombrò e Eureka! la Pluffa era entrata nella rete. Era evidentemente una faccenda che non aveva a che fare con il lavoro.
“Che ha combinato Lupin?” Domandò paziente. Tanto tutto girava attorno a quell’idiota perennemente indeciso.
James scrollò le spalle, in quel modo tutto Potter di spazzare i problemi sotto il tappeto.
“Giuro che ti trascino sul tappeto e te lo faccio sputare.” Lo minacciò. “Non puoi venire al lavoro con la testa altrove.” Aggiunse più serio. “Senza Bobby non possiamo proprio permettercelo.”
James a questo alzò la testa. “Hai ragione.” Ammise torcendosi l’asciugamano tra le mani. “Gli ho chiesto di sposarmi.” Buttò fuori.
“Oh … wow, okay.” Questo non se l’era aspettato. Più che altro, non si spiegava l’espressione triste dell’amico. Se c’era una cosa di cui era certo era che Ted Lupin si vestiva da cani e amava sinceramente James.
Quindi perché l’amico non stava sorridendo come un idiota? “Ed è … andata male?”
Lo faccio divorare dai pavoni di papà. Glielo avevo promesso.
Un Malfoy mantiene sempre le sue promesse.
James fece una smorfia. “Non lo so. Cioè … no, non lo so.” Ripeté e per un attimo parve smarrito. “Com’è andata tra te e Rosie? Voglio dire … come gliel’hai detto?”
“Quando avevamo diciassette anni, sul tetto di Durmstrang. Mi sono inginocchiato e le ho dato l’anello.” Fece spallucce, sorridendo al ricordo. “Poi si è solo trattato di aspettare che i nostri genitori digerissero la faccenda. Il che ci porta ad oggi.”
James lo guardò esitante. “Ah.” E non disse altro.
Scorpius dedusse il resto. “Perché?”
 
 
James non aveva la minima idea di come si facesse una proposta di matrimonio. Cioè, conosceva la parte idiota dell’inginocchiarsi e tirar fuori l’anello, grazie tante, sua sorella l’aveva sottoposto a quintali di commedie romantiche – alcune non erano state neanche tanto male.
Ma non pensava che fosse una roba da proporre a Teddy.
Inginocchiarsi e … Cioè, dai.
Si conoscevano da quando erano bambini e si erano messi insieme in circostanze che nessuno sano di mente avrebbe definito romantiche – rischiose ed eccitanti, quello sì, ma non c’erano stati violini e tramonti. Aveva pensato che chiederglielo e basta sarebbe andato bene, che era la cosa maledettamente giusta da fare se volevano dare una famiglia a Ben. Si era aspettato che Ted convenisse, che lo baciasse e che cominciasse a pianificare il matrimonio come il precisino che era …
Invece le cose erano andate in un modo un po’ diverso.
 
“… sposarci?” Ted pareva diventato una statua di pietra, ma era comprensibile. L’aveva colto di sorpresa.
“Pensaci, è la soluzione giusta! Se vogliamo dare una famiglia a Ben, la cosa migliore da fare è esserlo sul serio.”
Era un discorso dannatamente sensato, di quelli che piacevano tanto al suo professorino, quindi perché cavolo lo guardava come se gli fossero spuntate due corna da alce in testa?
Mica sono mio nonno!
“Jamie …” Si era umettato le labbra, come faceva sempre quando era a corto di parole. “Me ne parli all’improvviso… Sei sicuro di averci pensato bene?”
“Cazzo sì!” Gli aveva assicurato con veemenza. “Non te ne ho parlato prima perché … beh, c’era altro a cui pensare. Ma adesso è il momento giusto, no?”
Non si era immaginato che Ted gli saltasse al collo come una ragazzina eccitata, baciandolo e urlandogli un ‘sì’ entusiasta, ma neppure che lo guardasse con l’incertezza dipinta sul volto. E qualcos’altro, qualcosa che non riusciva a piazzare ma che non gli era piaciuta per niente.

Diffidenza?
“Non vuoi?” Gli aveva chiesto a brutto muso, perché a volte era l’unico modo per ottenere una risposta sincera dall’altro.
“No! Non ho detto questo!” Esclamò con il panico nella voce. “Certo che …” Si schiarì la gola, passandogli una mano sulla guancia. “Certo che voglio sposarti, James. Sei l’amore della mia vita.”
Gli era parso di aver ripreso a respirare solo in quel momento. “Allora qual è il problema?”

Ted aveva scosso la testa. “Mi conosci … quando le cose mi prendono di sorpresa vado in tilt.” Aveva abbozzato un sorriso. Non andava bene cazzo, aveva pensato, perché sembrava volerlo rassicurare?
“Vuoi pensarci?” Aveva proposto, non sapendo cos’altro fare.  
Ted era parso di colpo sollevato. Sollevatissimo. “Solo per chiarirmi le idee?” Aveva suggerito. “Il matrimonio è una cosa seria, James.” Gli aveva preso le mani guardandolo negli occhi. Stupido Lupin, lui e i suoi occhi color miele. Gli toglievano ogni voglia di dar battaglia. “Per me è una cosa seria. Non … non voglio che tu me lo proponga solo perché dobbiamo difendere Ben da Vulneraria.”
“Non te l’ho chiesto per questo!”
Gli aveva sorriso. “Dammi un paio di giorni per pianificare alcune cose e per dirlo a mia nonna. Non sopporterebbe di saperlo da qualcun altro.”
“Non l’ho ancora detto a nessuno.” Aveva borbottato. Era stata proprio Andromeda a dirgli che doveva sposare suo nipote quando era venuto a trovarlo, in una delle conversazioni più disagianti di tutta la sua vita. Non aveva ancora capito i sentimenti della strega in merito, ma perlomeno aveva la sua benedizione.

“Perfetto.” Ted aveva annuito. E per quella sera non ne avevano più parlato.
 
“Quindi non ha detto di no.” Riassunse Malfoy, ma pareva più confuso di lui.
Grandioso. Dovrebbe essere quello che di questa roba ci vive, il coglione romantico che fa dichiarazioni sui tetti!
“Non ha manco detto di sì.” Grugnì mentre il getto bollente dell’acqua lo colpiva come uno schiaffo.
L’amico si appoggiò alla parete di fronte al cubicolo della doccia. “Ma non ha neanche detto di no.” Ripetè.
James gli scoccò un’occhiataccia. “La smetti di ripetere quello che dico?”
“Veramente sto sostenendo il contrario di quello che dici. Vuole sposarti, Potty! Te l’ha detto!”
“Sì, ma dovevi sentire come l’ha fatto! Come se avesse accettato … chessò, di ridipingere la staccionata!”
“Secondo me hai sbagliato il modo.”
James prese ad insaponarsi furiosamente. “Cos’ho sbagliato?”
“Una proposta di matrimonio è una cosa delicata.” Scorpius prese un’aria ispirata, per cui l’avrebbe preso a pedate nel sedere se non fosse stato disperato. “Deve esserci il contesto giusto, l’atmosfera giusta e … sì, anche le parole devo essere misurate.”
“Di che diavolo stai parlando? Mica quella stronzata dell’inginocchiarsi?”
L’amico lo contemplò con vago disgusto, un’espressione che doveva aver preso di peso da quello stronzo del padre. “Quella stronzata, come dici tu, è un gesto simbolico. Significa mostrare all’altro che si è pronti ad adorarlo come un re … o nel mio caso, una regina.”
“Mi avrebbe riso in faccia.” Disse convinto. Il suo Teddy non era tipo da mazzi di fiori, da San Valentino a Madame Pie’ di Burro o da lunghi sguardi struggenti. Nel periodo Vitro lo era stato, ma solo per assecondare quella smorfiosa di sua cugina. Potendo essere se stesso era tipo da piccoli gesti, una carezza tra i capelli o ricordarsi di comprare la tua torta preferita.  
“Forse inginocchiarsi non sarebbe da voi.” Concesse Scorpius. “Ma ecco!” Schioccò le dita, colto da illuminazione. “Devi trovare la vostra dichiarazione ideale! Ti posso assicurare che la reazione sarà molto diversa.”
James chiuse l’acqua ravviandosi i capelli fradici con una mano. “Il succo non cambierebbe, Malfuretto. Che importa come glielo dico?”
“Stai scherzando?” Lo inseguì nello spogliatoio e per fortuna erano soli o le voci sul fatto che scopassero sarebbero triplicate. Non per altro, ma il coglione pareva punto sul vivo quasi stessero litigando come due innamorati. “La tua dichiarazione faceva schifo!”
Per l’appunto.
“Se avessi fatto come te, Rosie mi avrebbe spedito giù dal tetto. Sposiamoci perché così il lupo cattivo non porta via Benedetta.” Scimmiottò il suo accento, e pure con una certa bravura. “Non era una dichiarazione d’amore eterno, era una trovata strategica!”
“Ma Ben è parte della faccenda!”
“Certo che lo è.” Scorpius addolcì il tono, mettendogli una mano sulla spalla. “Ma forse Lupin pensa che tu voglia sposarlo solo per permettergli di tenere la piccoletta. Il che, lasciatelo dire, è deprimente.”
“Gli ho spiegato che non è così. L’ha capito.” Scosse la testa rivestendosi in fretta. Il turno stava per iniziare e lui aveva tutta l’intenzione di lasciarsi quella storia alle spalle. “Senti, lasciamo perdere, okay?”
Gli sorrise smagliante. “No!”
“Vaffanculo.” Replicò per mantenere il punto. “Ha capito quel che intendevo!”
Scorpius aggrottò le sopracciglia. “Conosciamo la stessa persona? Perché se ricordo bene, Lupin ha la magnifica propensione a fraintendere le tue intenzioni da quando vi siete messi assieme.”
James scrollò le spalle, ma non poteva negare. “È migliorato.” Lo difese. “Ora sa che voglio stare con lui.”
Scorpius schioccò la lingua. “Te l’ho detto, fagli di nuovo la proposta. Fagli entrare nella zucca che è lui che vuoi, e non fargli invece un favore. A certa gente le cose vanno spiegate. Parecchie volte.” Si strinse nelle spalle. “Non è colpa mia se non ti sai scegliere gli uomini!”
James sbuffò, ma non tentò di obiettare. Forse l’idea di Malfoy non era così assurda.
Tanto cos’ho da perdere. La faccia? Beh, quella di sicuro. Ma pazienza.
Per Teddy, tutto.
“Potty?” Lo riscosse Malfoy. Erano di fronte all’ufficio Auror. Come diavolo ci era arrivato? Probabile che l’altro ce l’avesse portato a spintoni a giudicare dall’espressione esasperata. “Ma mi stai ascoltando?”
“No, per niente.” Confessò senza rimorsi. “Hai ragione comunque.”
Scorpius battè le palpebre perplesso. “Cosa, sul fatto che lo spezzatino della mensa contiene unghie di ratto?”
“No, idiota … l’altra cosa!”  
“Grandioso! Quindi ci riprovi?”
“Seh.”
“Bravo il mio Potty!”  
Avrebbe dovuto farsi spiegare da Lily quella roba dell’inginocchiarsi.
 
****
 

Stati Uniti, Boston
Ufficio SAGITTA

 
Per molto tempo, più di quanto avesse voglia di ricordare, il Capitano Eleanor Gillespie aveva vissuto unicamente del proprio lavoro. Dalla morte di Jeremiah era stato l’unico modo per arrivare alla fine della giornata, l’unico per tirare su Ama senza essere divorata dai sensi di colpa di averle tolto il padre. Ma come dicevano i saggi, il tempo curava ogni ferita.
Alla soglia dei suoi cinquant’anni sentiva che era arrivato il momento di voltare pagina. Di vivere come Nora, e non solo come poliziotto. E ci stava riuscendo.
Certo, tranne quando casi transnazionali si mettono di mezzo …
Il Demiurgo stava minacciando la serenità della sua vita privata e se una volta la cosa non l’avrebbe preoccupata, adesso la faceva infuriare.
Il Camaleonte avrà molto di cui rispondere quando me lo troverò davanti.
Bussarono alla porta. Dalla figura al di là del vetro intuì che si trattava dell’agente Estevez e che aveva una certa fretta di parlarle. “Avanti.”
“Capitano!” Pareva letteralmente camminare sui carboni ardenti. Era uno dei motivi per cui l’aveva messo in coppia con Prince: i nervi saldi di quest’ultimo stabilizzavano quelli sin troppo eccitati del portoricano. “È arrivata una chiamata dalla polizia metropolitana. Codice viola.”
Crimine di natura non identificata. Ovvero, crimine magico.
“Hanno chiamato direttamente noi?” Procedura insolita. Normalmente era il Dipartimento di polizia magica interfederale a smistare quel genere di chiamata nei vari uffici di competenza. Era raro che i Babbani alzassero la cornetta per comporre direttamente il loro numero.
“Si tratta della vittima.” Il ragazzo fece una smorfia. “È il funzionario Scott.”
Ethan Scott?
La sorpresa la congelò sulla poltrona. Letteralmente. “Quando è successo?” Riuscì a chiedere.
“Stamattina un vicino ha chiamato il 911. Era venuto a bussargli per una questione condominiale ed ha trovato la porta spalancata. Il coroner è Björnsonn, un Informato. È stato lui a chiamarci.”
Nora trasse un respiro di sollievo: questo avrebbe facilitato il lavoro. Gli Informati erano uomini e donne che conoscevano o addirittura lavoravano con il Mondo Magico. Molti avevano un familiare mago. La maggior parte però era Magonò.
Non c’era tempo da perdere. Si alzò in piedi. “Cambiati l’uniforme e dì a Murphy di fare lo stesso. Mi accompagnerete.”


 
L’appartamento di Ethan Scott si trovava a Beacon Hill, il quartiere più ricco della città. Sontuosi palazzi in mattoni si susseguivano in una strada piena di alberi verdeggianti. Il quartiere era a maggioranza Babbana, ma ospitava anche la cremè della società magica. 
“Che lusso!” Commentò Estevez occhieggiando fuori dal finestrino della berlina nera che completava il loro travestimento. Potevano essere stati chiamati da un Informato, ma il poliziotto medio bostoniano non aveva idea che esistesse un secondo livello di legge nella propria città. Interpretare un’agenzia federale era il modo migliore per non destare sospetti ed evitare grattacapi.
Scesero davanti ad uno dei palazzi. L’ambulanza del coroner era parcheggiata davanti e poliziotti sorvegliavano l’area delimitata da nastri gialli.
Nora scese accompagnata dai due uomini. Furono immediatamente avvicinati da quello che pareva il detective a capo dell’indagine. “Avete bisogno di aiuto?” Li apostrofò in tono rabbioso. Aveva perfettamente intuito ciò che stava per accadere, e come ogni buon boston finest non avrebbe capitolato senza combattere.
Murphy tirò fuori il distintivo con una certa soddisfazione e così fece Estevez. “Agente Eoin Murphy, FBI. D’ora in poi l’indagine passa sotto la nostra giurisdizione.”
Era come lasciar giocare due bambini, pensò Nora divertita. Si allontanò, avendo notato il coroner: era a lui che puntava, non ad una scaramuccia con un livido detective.
Il medico, un tipo dinoccolato di lontane originili vichinghe, era appoggiato all’ambulanza ed osservava i propri assistenti caricare un sacco nero. Nora si sentì in colpa: aveva antagonizzato Scott dal primo giorno che si erano conosciuti ed era stata convinta ciecamente che fosse corrotto … si era accanita su di lui: e se questo avesse causato la sua morte, seppur indirettamente?
“È lui?” Domandò.
“Buongiorno anche a te.” La salutò ironico il Magonò. “Sì, non c’erano tracce di incantesimo di camuffamento. È proprio chi dice di essere … rigor mortis compreso.”
“Dannazione.” Non c’era più spazio per i dubbi. Ethan Scott era morto.  
“Cosa sai dirmi?”
L’uomo si raddrizzò con un’espressione soddisfatta: per il lavoro che faceva era difficile avesse a che fare con il Mondo Magico e Nora sapeva quanto questo gli mancasse. “È morto attorno alla mezzanotte di ieri sera … dopo che l’avremo portato in laboratorio saprò essere più preciso. Non mostra ferite da difesa e la sua bacchetta non è stata usata nelle ultime dodici ore.” Fece un cenno verso il furgone. “Ve l’ho lasciata da parte.”
“Grazie.” Gli sorrise. “Pensi che conoscesse l’assassino?”
Annuì. “Tanto da aprirgli la porta e farsi ammazzare mentre era alla scrivania del suo studio. Il nostro uomo stava ignorando l’assassino quando è stato ucciso. Gli dava le spalle.”
Nora aggrottò le sopracciglia. “Qualcuno del suo entourage quindi?”
“Probabile.”
“La famiglia? Il suo assistente personale?”
“Ha una vecchia madre in Florida … e il suo assistente risulta irrintracciabile. Telefono spento.”
L’assistente.
L’aveva incrociato quando aveva trascinato Scott al SAGITTA: un ragazzo biondo, smilzo, che non poteva avere più di una ventina d’anni e che le era sembrato familiare.
Dove l’ho già visto?
Avrebbe dovuto procurarsi una foto e studiarla con attenzione. “L’assistente è il principale sospettato?”
“Così credono i detective. Sono d’accordo.” Aggiunse alla sua muta domanda. “Per tua informazione ad una prima occhiata pare che la vittima sia stato freddata da un Avada Kedavra. Così vecchia Europa…” Aggiunse con un sorriso canzonatorio. “Ne hai viste all’opera quando sei stata lì, no? Pulite, efficienti … peccato per il gran rumore, ma quello può essere mascherato da uno stereo a tutto volume.”
Nora sospirò. “Fammi indovinare, i vicini si sono lamentati della musica alta ieri sera.”
“È il motivo per cui quel pover’uomo l’ha trovato.” Indicò un tipo nervoso che stava parlando con Estevez e Murphy. “Voleva lamentarsi.”
“L’omicida ha usato un incantesimo europeo.” Quindi Doe era coinvolto nella vita di Scott. Non poteva essere una coincidenza. “Sei sicuro?”
Il coroner assunse un’espressione di comica offesa. “Nora, non sarò in grado di aggiustarti il lavandino senza l’ausilio di brutali strumenti Babbani, ma so riconoscere un’anatema. È il mio lavoro!”
Abbozzò un sorriso mite, sapendo quanto fosse suscettibile se veniva messa in discussione la sua professionalità. “Scusami Laurie, è la poliziotta che parla.”
L’uomo scosse la testa e le prese una mano, baciandone il palmo. Nora fu felice che i suoi uomini fossero alla prese con l’isteria di un testimone perché sarebbe stato imbarazzante mostrar loro il sorriso da liceale innamorata che si sentì spuntare in viso. “Se posso fare altro …” Aggiunse con un sorrisetto invitante.  
“Hai già fatto tanto … Chiamandoci direttamente mi hai regalato ore preziose.” Lo mise in riga. Era pur sempre in servizio e con un cadavere da gestire. “Devo andare.”
“Il dovere chiama, naturalmente.” Le lasciò la mano. “Ci vediamo stasera?”
“A stasera.”
Sì, aveva buoni motivo per voler vedere il dannato Demiurgo chiuso una volta per tutte.
Raggiunse i propri uomini. “Avete raccolto la deposizione?”
Murphy annuì. “È un Babbano, non è stato molto utile.” Sbuffò.
“Magari avrai più fortuna con gli altri inquilini del palazzo, interrogali e vedi se qualcuno di loro ha visto o sentito qualcosa. E cerca di collaborare con la polizia.” Si voltò verso l’agente più giovane. “Estevez, tu torni con me. Voglio che rivolti come un calzino la vita dell’assistente personale di Scott. Al momento è il nostro indiziato principale.”
“Sissignore.” Rispose in coro come bravi scolaretti. Stavano cercando di farsi perdonare la prosopopea con cui si erano presentati alla polizia.
Come all’asilo …
C’era un motivo per cui aveva deciso di finire dietro una scrivania.
A proposito di scrivania … Urge una chiamata.
Qualcosa gli diceva che Harry Potter, a quella nuova poco esaltante scoperta, avrebbe immediatamente proposto una soluzione.
E qualcosa mi dice che non mi piacerà.
 
 
****
 
 
Ministero della Magia, DALM
Ufficio Auror, pomeriggio

 
“Sono anni che dovrebbero cambiare il bollitore, ci saranno colonie di Gorgosprizzi qua dentro!”
Sören aggrottò le sopracciglia. “Cos’è un Gorgosprizzo?”
“Ti ho mai parlato di zia Luna?” Lily non aveva voglia di parlare dell’amica di famiglia, come non aveva voglia di essere lì, nell’ufficio di suo padre ad attendere un colloquio che non l’avrebbe inclusa. Tuttavia doveva: Sören era stato chiamato lì per l’operazione delicatissima che coinvolgeva sua madre.
Dopo quest’estate mi ci vorrà una vacanza.
O un anno sabbatico. Un altro.
“Lily.” Sören la allontanò dal pianale di cottura che esibiva macchie di grasso agghiaccianti: erano nel cucinino ad attendere la riunione. “C’è qualcosa che ti turba?”
Uhm … tutto?
Non si fidava di Sophia Von Hohenheim. Aveva studiato gli appunti che la Patil aveva redatto su di lei e da essi si evinceva una spiccata capacità di dissimulazione e scarsa empatia.
In soldoni, mamma Von Hohenheim è una bugiarda patentata e non se ne vergogna affatto.
Poteva capire le ragioni che l’avevano spinta a diventare la strega che era, ma non le era piaciuto come era riuscita ad entrare sottopelle al suo ragazzo. Quando la sera prima Sören aveva ricevuto un suo Gufo, un milione di campanelli le erano trillati in testa.
Ci ha messo troppo poco a dire di sì. È davvero così disperata?
E allora perché ha fatto tutta quella manfrina con gli auror?
Tuttavia suo padre non si era fatto domande: informato, aveva convenuto nell’organizzare la cosa il prima possibile, procedure ministeriali permettendo.
“So come la pensi …” La richiamò all’attenzione. “Staremo attenti. Non stiamo operando alla cieca.”  
Scosse la testa spedendo il bollitore a riempirsi con un colpo di bacchetta. “Questo cambiamento di rotta è stato un po’ troppo repentino, non credi?”
Sören fece una smorfia. Come tutti gli uomini, detestava essere messo in discussione. Persino da lei. “Ciò che importa è che disposta ad aiutarci. Non importa per quale motivo.”
“E se fosse tutto un inganno? Ci hai pensato?”  
“Non stavolta. Mia madre vuole riacquistare la sua libertà. È disposta a tradirlo.” Come faceva ad esserne così sicuro? Era una cosa da poliziotto? Era un tipo di cocciutaggine tutta sua?
Entrambe. Direi che entrambe va bene.
“Siamo sempre noi streghe, vero?” Scherzò per allentare la tensione. “Siamo la vostra rovina.”
Sören accettò la diversione con un sorriso. “O la nostra salvezza.”
“Come siamo romantici…” Si sporse a baciargli l’angolo della bocca, ma si tirò indietro quando vide entrare qualcuno con la coda dell’occhio.
Era James con le sopracciglia aggrottate in sospettosa confusione.
Oh, già. Mi sono scordata di dargli la bella notizia. A giudicare dalla sua faccia nessuno gli ha detto degli ultimi sviluppi.
Non era il momento giusto comunque.
“Lils, che ci fai qui?” Domandò e mancava solo buttasse il petto in fuori … ah, no, eccolo lì, il gesto da scimmione protettivo.
“Faccio il caffè.” Rispose serissima, mentre Sören accanto a lei soffocò con un colpo di tosse un insolito scoppiò di ilarità. Non temeva la reazione di James.
E perché dovrebbe?
James poteva minacciare di prenderlo a colpi di bacchetta quanto voleva, ma cinque anni prima l’altro aveva ampiamente dimostrato come fosse uno sforzo vano.
Suo fratello infatti si astenne da commenti, anche se l’aria irritata che indossava come una giacca vistosa la diceva lunga. “Resta qui poi.” Le intimò. “Devo parlarti di una cosa.”
“Sissignore!” Si versò una tazza di benzina – non poteva essere caffè, non con quel colore – e rivolse un immaginario brindisi ai due. “Buona riunione!”
La risposta di James fu un prevedibile grugnito.  
 
 
Sören percepiva una nube di malumore provenire da James Potter, ma decise di ignorarla. Dopotutto aveva ben altro a cui pensare, in primis le parole di Lily in merito a sua madre.
E se avesse ragione? Se la sua compiacenza fosse una trappola tesa con il benestare di Johannes?
Come fosse, quel piano andava attuato. La cura era stata trovata e Johannes doveva per forza esserne venuto a conoscenza, fosse solo per cosa strillavano le prime pagine del Profeta quella mattina.
Presto si sarebbe mosso e, come in una partita di scacchi, dovevano anticiparlo.
Raggiunse così l’ufficio di Harry Potter, dove erano già presenti il Sergente Weasley, Scorpius e il Sergente Gillespie. James Potter si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò contro in un gesto piuttosto chiaro.
Questa è una riunione a porte chiuse.
Il che era strano visto che quell’operazione avrebbe dovuto coinvolgere almeno due squadre.
Mancando Jordan, non c’è neppure una.
“Siamo tutti.” Esordì il capo Potter, appoggiato alla propria scrivania. Aveva notato che vi si sedeva dietro solo quando voleva incutere timore.
L’adottare una posa rilassata nonostante la sua presenza era un segno di quanto i loro rapporti fossero migliorati. “Ho già fatto aggiornato Ron e i ragazzi.” Anche il tono denotava una confidenza che cozzava con le uniformi indossate dai presenti. Ama infatti gli lanciò uno sguardo confuso. Si strinse nelle spalle di rimando.
Temo non si abituerà mai al modo di procedere dei Potter-Weasley.
“Ufficialmente predisporremo il trasferimento di Sophia Von Hohenheim da Azkaban alle aule del Wizengamot per formalizzare le accuse a suo carico. Non arriverà mai fin lì.”  
“Dove pensate che colpirà?” Domandò Ama.
“Nel tragitto.” Rispose l’uomo con sicurezza. “Le protezioni del Ministero sono troppo potenti per poter tentare qualcosa. Se rischierà lo farà all’aperto.”
“La scorta sarà di Tiratori scelti. Quelli non sono in grado di distinguere la bacchetta dal proprio sedere. Vittoria facile.” Sussurò Potter a Scorpius che nascose malamente un ghignetto.
“Quindi il piano è farle indossare un Segnalatore e seguirla fino al covo di Doe?” Domandò poi quest’ultimo.
“Ufficialmente sì.” Harry Potter si scambiò un’occhiata con il Sergente Weasley: era ovvio che ci fosse in ballo altro.
“Ufficialmente?” Scorpius esitò. “C’è anche una parte ufficiosa?”
L’uomo li guardò complessivamente ma si fermò su di lui. Si impose di mantenere il contatto visivo. Aveva l’impressione ci fosse in gioco ben altro che una sfida all’ultimo sguardo.
Questo dovette raggiungere una decisione, perché si voltò per rispondere a Malfoy. “Se vi ho riuniti qui, è perché credo che nessuno di voi sia la talpa.” 
“Senza offesa, Signore, ma è ovvio che non lo siamo. Il colpevole è Ethan Scott!” Ribattè Scorpius perplesso. “ … giusto?”
“Ethan Scott è stato trovato morto in casa sua, stamattina.”
Tra i presenti ad eccezione del Sergente Weasley serpeggiò un mormorio incredulo. Neppure il Sergente Gillespie sapeva nulla a giudicare dall’espressione sorpresa.
“Pare sia stato ucciso la sera stessa in cui il SAGITTA l’ha interrogato.” L’uomo incrociò le braccia al petto. “Questo potrebbe significare due cose … che Doe ha cercato di metterlo a tacere oppure…”
“Che non era coinvolto.” Terminò per lui. “Non nel modo che pensavamo.”
Potter annuì. “Il suo assistente personale pare essersi dato alla macchia. Lavorava per lui da circa cinque anni e aveva accesso a tutti i suoi conti, così come le sue camere blindate.”
“Al lato finanziario della sua vita.” Intuì. “Quindi se Scott avesse usato i soldi della Thule per foraggiare la sua campagna verso il gabinetto del Presidente potrebbe anche averlo fatto in buona fede.”
Quando gli era stato detto che Scott era tra la rosa dei sospetti, come tutti, aveva puntato il dito verso di lui: privo di morale, ambizioso e arrivista. Il colpevole perfetto.
Il capro espiatorio perfetto …
“Stiamo cercando di rintracciare il ragazzo, ma non risponde al telefono e non è a casa. Controllando le sue credenziali è venuto fuori che la sua identità non è esistita fino a quando non ha messo piede su suolo americano.”
Sören capì dove l’uomo voleva andare a parere. “Credete che sia un ex agente della Thule?”
Tutti avevano pensato che la Talpa fosse un corrotto, qualcuno che aveva aiutato John Doe per soldi o potere come Selina Hardcastle o Kirill Poliakoff.
Nessuno aveva pensato ad un infiltrato.
Una persona come me.
“Per questo abbiamo bisogno di un piano b.” Spiegò Potter. “Sapevamo a quali informazioni Scott aveva accesso … per quanto riguarda il suo assistente, non siamo sicuri di niente.”
“Un attimo … Scott era comunque in cerca di informazioni ufficiose, ha convinto Michel … voglio dire, il funzionario Zabini a fornirgliele! Se non fosse stato coinvolto perché chiederle?” Si intromise Malfoy; la rivelazione lo aveva scosso ed era comprensibile considerato che era stato proprio lui a portarlo all’attenzione dei due Ministeri.
“Parti dal presupposto che la persona che ha chiesto informazioni fosse Scott.” Mormorò Ama. “Zabini lo ha mai visto di persona? Ci sono molti modi di contraffare una chiamata tramite Fuoco Magico.”
“Merda. Significa che la talpa è ancora a piede libero?” James Potter aveva il potere di riassumere una situazione con un’unica parola. Spesso era una volgarità, ma in quel caso nessuno se la sentì di bacchettarlo, neppure il padre.
“Significa che non possiamo fidarci della parola di Sophia Von Hohnheim. Dobbiamo partire dal presupposto che ci abbia mentito e che non voglia consegnare il suo compagno.” Rispose il padre con tono grave. “Era lei il prestanome per la talpa, da questo se ne deduce che perlomeno lo conoscesse.”
“Quindi qual è il piano?” Chiese Scorpius con un’urgenza nella voce che faceva chiaramente capire quanto si ritenesse colpevole di quell’errore di valutazione. Avrebbe voluto confortarlo, perché il vero potere di Johannes non era il trasformismo, ma i dubbi che riusciva ad instillare nella mente delle vittime dei suoi raggiri.
“Uno di noi dovrà andare con lei.”
Il silenziò piombò nella stanza. Il Sergente Weasley sembrava l’unico a non esser sbalordito.
“ … volete che uno di noi si faccia prendere ostaggio dal Camaleonte?” Domandò Ama lentamente.
Non uno di noi …
Sören non era stupido. Aveva trascorso l’infanzia ad essere usato come un’arma e riconosceva al volo il momento in cui stava per accadere.  
“Mi offro volontario, Signore.” Harry Potter non era suo zio. Non glielo avrebbe mai ordinato come se fosse una cosa da nulla. Glielo avrebbe chiesto e avrebbe aggiunto che poteva rifiutarsi come aveva fatto il Capitano Gillespie quando si era trattato di partire per l’Inghilterra.
Peccato che non si tratti di una vera e propria scelta.
“Sören …” Esordì l’uomo e lesse una richiesta di scuse nel suo sguardo. Gli bastò.
No, non ho scelta. Tuttavia, posso scegliere di farmi avanti.
Per quanto lo riguardava, c’era una notevole differenza. “Sono l’unico che ha la concreta possibilità di esser preso in ostaggio. Ho stabilito un contatto con mia madre e inoltre sono il paziente zero. Dal punto di vista del Demiurgo ho un valore.”
“Non se ne parla! Prince è sotto la custodia del Ministero Americano, non potete usarlo come se fosse una bacchetta in vostro possesso!” Sbottò Ama, sempre la prima a scagliarsi in sua difesa. C’era stato un tempo in cui tutta quell’animosità era stata rivolta verso di lui.
Non lo ricordava più e questo in qualche strano modo lo commosse.
“Sergente, ho scelto io…”
“Peccato che tu non possa scegliere.” Ritorse. “Ti ricordo che non puoi disporre di te stesso…”
“Come una persona libera?” Concluse chiudendole la bocca. “Sono consapevole che la mia volontà ha delle restrizioni.” Si voltò verso il Capo Auror. “Ma suppongo lei abbia già parlato con il Capitano Gillespie.”
L’uomo annuì. “Ha messo come clausola il fatto che tu fossi d’accordo. Penseremo a qualcos’altro se tu…”
“Mi sono offerto volontario.” Ripetè paziente. “Avete ragione, mia madre potrebbe avere un agenda segreta o aver addirittura allertato Doe. Non possiamo rischiare di far saltare l’operazione per un supposto rischio alla mia incolumità.”
Supposto?” Ama – perché era Ama, un’amica in quel momento – parve volerlo prendere a schiaffi. “Andrai nella tana dei lupi!”
“Una volta ero uno di loro.” Le fece notare.
“Ma non lo sei più.” Borbottò a sorpresa – assolutamente tale – Potter. James Potter. “Come farai a convincerli che non li seguirai per segnalare la loro presenza come una gigantesca freccia luminosa? Hai pure la Traccia addosso!”
Era troppo sorpreso da quell’intervento per rispondere. Fu Harry Potter a prendere la parola. “Sören si toglierà la Traccia. È uno spezza-incantesimi, sei in grado di farlo, vero?”
Annuì a disagio: fino a quel momento l’informazione era rimasta tra lui e il Capitano Gillespie. Neanche all’Istituto Magico di Boston erano riusciti a capire che le protezioni che gli avevano apposto per rassicurare gli alti papaveri del Ministero americano erano effettivamente inutili. Suo zio e Doe l’avevano cresciuto per essere un’arma inarrestabile.
Ama infatti lo guardò orripilata. “Significa che avresti potuto eludere la sorveglianza dal giorno in cui ti hanno scarcerato?”
Suo malgrado sorrise divertito. “Ma ho deciso di non farlo, giusto?”
Mio Dio.”
Il Capo Auror Potter li riportò all’ordine. “Il punto non è cosa è in grado di fare Sören, ma convincere Doe che è disposto a farlo.”
“Mentire al bugiardo?” Indovinò Malfoy. “Perché se sarà Prince a togliersi la Traccia da solo … non si tratta di fare l’ostaggio, ma di diventare complice!”
Oh.
A quello non aveva pensato.
C’è una bella differenza tra fingere di farmi catturare e andare con loro di mia spontanea volontà.
Supponeva che a quel punto non potesse più tirarsi indietro.
“Faremo credere a Doe che il suo piano abbia funzionato quando invece sarà tutto orchestrato nei minimi dettagli. Dalla scorta, che sarà composta da noi e non dai Tiratori, fino a Sören che dovrà convincerlo di volerci tradire.”
“Non sarà semplice fargli mangiare la foglia, Signore.” Obbiettò Malfoy. “Dopo tutto quello che Prince ha fatto per catturarlo come potrà convincerlo che ha cambiato idea?”
“La stampa non è stata informata della scoperta del cadavere di Scott. Gli unici a sapere che non è la talpa siamo noi e il Capitano Gillespie. Useremo questo a nostro vantaggio. Sören dirà che ha tradito perché è stato tradito per primo, da noi. Perché lo sospettiamo di essere la talpa e perché è a rischio di essere incarcerato.” Si voltò verso di lui. “Sai di essere un sospettato, non è così?”
Annuì. Non c’era stato alcun interrogatorio, ma non si era illuso neppure per un momento che la scorta che lo seguiva come un’ombra lo facesse solo per difenderlo da Johannes.
“Aspettate, cosa?” Malfoy lo guardò incredulo. “Lo è davvero?”
“Lo siete stati tutti, Malfoy. La procedura è procedura, indipendentemente dalle nostre convinzioni personali” Ribattè Weasley, il che era ironico visto che aveva diffidato di lui sin dal primo momento. “O credi che gli Indicibili siano venuti ai piani alti solo per chiacchierare?”
Il biondo gli rivolse una smorfia simpatetica. “Se non altro questo ti tornerà utile.” 
“Già.” Commentò.
Ho passato gli ultimi cinque anni della mia vita a dimostrare che sono cambiato.
Ora non solo dovrò convincere Johannes che non mi ha creduto nessuno … ma che non lo sono affatto.
“Sarà una commedia a beneficio di Doe e la sua donna.” Spiegò Weasley. L’idea non gli andava affatto a genio, ma si fidava del vecchio compagno d’arme e non lo avrebbe mai osteggiato apertamente.
“E la Traccia?” Intervenne nuovamente James Potter. “Tutte belle chiacchiere, ma se non ce l’ha addosso come facciamo a trovarlo? Coi segnali di fumo?”
Sören si voltò verso i due uomini in comando: quel punto gli premeva visto e considerato che sapeva quanto Johannes fosse paranoico. L’avrebbe perquisito da capo a piedi.
Weasley e Potter si scambiarono un’occhiata e per un momento sembrarono ringiovanire di un buon ventennio, fenomeno che li rese inquietantemente simili all’altra coppia di auror presenti. “L’idea viene dal mondo Babbano.” Spiegò il Capo Potter. “Faremo in modo che tu abbia un tracciatore gps. Riescono a farne di davvero piccoli.” Indicò il suo anello. “Avremo bisogno di quello.”
Instintivamente lo coprì con una mano. “Lo metterete all’interno?”
“Ne creeranno una copia.” Aggiunse Weasley. “Il mio Hugo e i suoi ragazzi sono bravi in questo genere di cose.”
Se ne separò con un sospiro. “Ditegli di fare attenzione. È antico.” Ignorò l’espressione spazientita dell’uomo e si rivolse al diretto superiore. “Quando avverrà il trasferimento?”
“Un paio di giorni, massimo tre. Dobbiamo organizzarci con la prigione e concordare il cambio di scorta con i Tiratori Scelti. Ci riaggiorneremo.” Non tentò di dissuaderlo o si raccomandò, cosa che gradì moltissimo. “Fino a quel momento ritieniti libero.” Esitò. “Naturalmente puoi continuare a soggiornare al Mulino.”
Scosse la testa. “Sarebbe strano se rimanessi ospite del Salvatore con un’accusa di tradimento sulle spalle. No, tornerò in albergo.”
L’uomo annuì. “Notificheremo alla scorta il tuo spostamento. Gli dirò di venirti a prendere.”
“Sissignore.”
“Potete andare.” Li congedò.
Scese così le scale assieme ai due auror ed Ama e fu lì, dall’alto, che vide Lily seduta nel cucinino mentre rimestava annoiata la propria tazza di caffè. Si sentì assalire da un’ondata di senso di colpa. Aveva preso una decisione capitale senza neppure consultarla.
Si tratta di lavoro, e non potevo rifiutarmi, ma …
Lily.  
“Potter.” Si rivolse al ragazzo che a quanto ricordava era pronto a requisire le attenzioni della sorella. “So che devi parlare con Lily, ma avrei bisogno di farlo prima io. È un problema?”
L’altro schioccò la lingua, poi si voltò verso Scorpius e Ama. “Lasciateci soli un secondo.”
Oh, no.
Voleva piantare una scenata da fratello geloso in mezzo all’ufficio?
“Potty…” Iniziò Malfoy pensando la stessa cosa. “Non credi…”
“Non ho intenzione di far niente!” Sbuffò questo spazientito. “Lo sai che ho altro a cui pensare!”
L’altro parve ricordarsi qualcosa perché annuì e convinse Ama a non intervenire portandola via.
Fantastico.
“Potter…” Cominciò pieno di buone intenzioni.
“Pensate tutti che sia un idiota, vero?” Lo fermò spiccio. “Che non abbia capito un tubo, come se non facessi l’investigatore di lavoro!”
Guardò verso Lily, che li aveva scorti dalla porta aperta e per questo si era affacciata preoccupata. Non poteva sentirli da quella distanza, ma l’espressione bellicosa del fratello poteva essere un buon indizio.
Decise comunque di fingere che fosse una conversazione normale. “Non credo di capire.”
“Tu e mia sorella. Avete una cosa in ballo o no?”
Non smentì. Tra cinquantasei ore avrebbe potuto morire o comunque finire tra le grinfie di Doe. Al diavolo tutto. “Stiamo assieme, sì.”
Potter parve di colpo aver ingoiato qualcosa di schifoso, ma non diede segno di volergli spaccare la faccia. Era già qualcosa. “Tu non mi piaci.” Disse invece. 
“Neanche tu mi piaci.” Lo ripagò della stessa moneta. 
“Bene.” Annuì come se avessero appena messo un punto. “Detto questo, per me siamo a posto. Per ora.” Si premurò di aggiungere. “Ho altro per la testa, ma ti tengo d’occhio, serpe.”
“Non ho frequentato Serpeverde.”
Sai cosa intendo.” Grugnì indispettito. “Comunque…” Prese un profondo respiro. “Papà ha detto che sei dei nostri e…” Fece una dolorosissima pausa. “… la penso come lui. Per ora mi fido.”
Che gran concessione.
Non lo disse ad alta voce però. Da come l’altro era paonazzo era palese gli costasse una fatica enorme ammettere di essersi sbagliato sul suo conto. “Grazie.” Disse invece.
“Okay.” Ora pareva in imbarazzo. “Va’ da mia sorella. Posso chiamarla dopo il lavoro, non c’è fretta.”
Non se lo fece ripetere e raggiunse Lily. “È tutto okay?” Gli domandò preoccupata. “Ti ha detto…”
“Va tutto bene.” La rassicurò. “Abbiamo instaurato una tregua.”
“Quindi lo sa … di noi due intendo.” Realizzò. Sorrise sollevata. “Pensavo avrebbe reagito molto peggio!”
Non ha reagito perché gli faccio pena.
La prese per mano. “Dobbiamo parlare. Conosci un posto tranquillo?”
il sorriso di Lily si spense rapidamente com’era arrivato. “Sì ... gli archivi dell’ufficio. Li evitano tutti come la peste, ci vanno solo quando devono deporre le scartoffie.”
“Perfetto, fammi strada.”
Non sarebbe stata una conversazione semplice.
 
 
Non riusciva a crederci.
Non riusciva a credere che Sören fosse stato così stupido da accettare un piano che definire delirante era fargli un complimento. E soprattutto, non riusciva ad accettare che la guardasse con quell’aria tranquilla, come se suo padre – suo padre, il Salvatore, non lo Sterminatore –non avesse appena deciso di mandarlo al macello.
“Siete tutti fuori di testa!” Proruppe ed era una fortuna che gli archivi auror fossero un disastro di scaffali e rapporti lasciati a prendere polvere. Non c’era nessuno a sorvegliarli a parte reclute nervose che era facilissimo spedire a prenderle un caffè se eri la figlia del Capo.
Era una fortuna perché aveva voglia di urlare e poteva.
“Lily, sono l’unico che può fare questo lavoro.” Obbiettò ragionevole.
Avrebbe voluto prenderlo a pugni.
“Mentire al bugiardo! Si è mai sentita una cosa più stupida?!”
“È un buon piano invece. Sei stata tu a dirmi che non ti fidi di mia madre.”
“Ma non fino al punto di farti impersonare il cattivo!” Strinse le mani contro una scansia perché era così arrabbiata, così spaventata che aveva paura di perdere il controllo. Certo, in famiglia non era lei ad avere episodi di magia accidentale …
C’è sempre una prima volta però.
“L’idea non piace neppure a me.”
“Allora perché ti sei offerto volontario?!”
“Perché sono l’unico che può farlo.”
“Basta!”
Si rendeva conto di non star reagendo come una compagna supportiva. Sören aveva paura come lei, era preoccupato quanto lei. Avrebbe dovuto confortarlo.
Lo aveva fatto fino a quel momento, ingoiando perplessità e preoccupazioni: stavolta non ci riusciva. Stavolta non si trattava di aiutarlo a collaborare con i mantelli rossi o farlo parlare con una donna incarcerata.
Si trattava di mandarlo nella tana del lupo.
“Mamma dice che è papà l’uomo con la sindrome del salvatore più sviluppata del pianeta ma si sbaglia, sei tu!” Lo accusò. “Hai così tanta voglia di dimostrare che non sei più come tua madre e Doe che sacrificheresti te stesso … noi … per farlo!”
La sua accusa lo colpì come uno schiaffo, glielo lesse in faccia. Serrò la mascella. “Non è questo il motivo per cui ho accettato. Lily, ascolta…” Si avvicinò e la prese per le spalle. Avrebbe voluto divincolarsi ma poi non le sarebbe rimasta la forza per trattenere le lacrime.
Perché ovviamente mi viene da piangere. Che eroina vittoriana sarei stata!
“Non voglio ascoltare!” Lo fermò. Era stanca. Di quel maledetto Demiurgo, di dover sempre aspettare che Sören le fosse portato via da cause di forza maggiore.  
Non era Albus. Non era in grado di sopportare un secondo castello in fiamme.
“Voglio mettere la parola fine. Questo è il modo.”
“Questo è un suicidio. Si renderanno conto che stai fingendo, non sei bravo a bluffare … Non sei mai stato in grado di ingannare nessuno!”
“Non è esatto.” Mormorò e di colpo lo spettro di cinque anni prima fu in mezzo agli scaffali, tra di loro. “Non mi aspetto che tu sia d’accordo…”
“Infatti non lo sono.” Ritorse. “Una cosa è partecipare all’indagine, un’altra è diventare un’esca. Non si tratta di un blitz o di inseguire Doe. Si tratta di tornare dov’eri … chi eri e, anche se per poco, fartelo piacere. Te ne rendi conto?”
Sören non ribatté. Non c’era molto da dire in effetti. “Non posso tirarmi indietro. Non adesso.”
“Non ti sto chiedendo di farlo.” Perché il Demiurgo era ovviamente più grande di loro. Del loro rapporto, del loro bisogno di costruirsi un futuro. “Ma non aspettare che ti auguri buona fortuna.”
E detto questo uscì dall’archivio senza guardarlo in faccia.
“Lily!”
Lo ignorò chiudendosi la porta alle spalle. Si stava comportando come una ragazzina? Forse. Erano trascorsi cinque anni, non cinque decadi. Riusciva ancora a ricordare il castello, il ritratto di Sören in compagnia di Von Hoehneim e il pallore cadaverico dell’altro quando si erano trovati faccia a faccia dopo la rivelazione.
Riusciva ancora a ricordare il ghigno di Doe mentre decideva di scagliarle addosso L’Anatema che Uccide.
La fiera del deja-vu.
“Lils.” Giusto suo padre ci mancava! Doveva aver sentito le urla – chi non le aveva sentite in quell’ufficio?– per decidere di scendere dal suo scranno ai piani alti. “Va tutto …”
“No.” Lo interruppe. “Ma tranquillo, sei riuscito a convincere Ren al punto giusto. Crede che andare a morire per mano di Doe sia suo dovere!”
“Non è quello che succederà.”   
“Me lo puoi garantire papà?” Chiese sapendo che il genitore aveva fatto un punto d’onore nel non mentire mai né a lei né ai suoi fratelli.
La cosa peggiore fu vedergli mantenere la promessa. “Farò tutto il possibile perché Sören sia al sicuro.”
Cercò di ingoiare un fiotto di lacrime mentre gli dava le spalle e se ne andava: non si sarebbe fatta consolare, né da lui né dal suo ragazzo. Non era un’eroina che aspettava che il suo cavaliere tornasse dalla guerra.
Era una strega incazzata.
E impotente.
 
 
Harry Potter non era il genere di padre che sapeva come comportarsi quando i propri figli erano sconvolti o tristi. Poteva offrire un abbraccio e una spalla su cui piangere ma non era Ginny. Non era in grado di dire le parole giuste, dubitava ci sarebbe riuscito mai.
Con Lily non era riuscito a fare nulla, se non a guardarla andare via con le lacrime agli occhi.
Il tuo piano non considera il lato umano, vero Harry?
Come Silente, riusciva sempre a prendere le decisioni giuste nel modo più eticamente scorretto possibile.
Non poteva calmare Lily, no. Poteva però controllare che Prince non si fosse suicidato tra gli schedari.
Lo trovò appoggiato ad uno di essi, con lo sguardo di un bambino che aveva smarrito la strada di casa.
Mia figlia è la bussola?
Scacciò quell’idea sdolcinata e gli si affiancò. “Tutto bene ragazzo?”
Questo scattò in piedi come se lo avesse morso una Fata. “Sissignore.”
“Riposo.” Gli venne automatico. Si diede dell’idiota. “Sören … non sono qui come Capo Auror.” Cercò di fargli capire. Venne guardato come una bizzarra creatura a tre teste.
Grandioso. Avanti, vecchio mio, un po’ di empatia.
Indicò con un cenno della testa l’uscita. “Le donne Weasley sanno essere piuttosto … intense … nell’esprimere il proprio disaccordo, vero?”
Sören esitò. Non si trovava a suo agio a trattarlo come pari, era evidente. Altrettanto palese però era la sua voglia di parlare. “È furiosa con me. Crede che sia un piano folle.”
“Non puoi biasimarla.” Ironizzò. “Ma a volte seguire le procedure non porta a niente. Bisogna pensare fuori dagli schemi.”
Sören suo malgrado sorrise. “È così che ha sconfitto Voldemort?”
“Più o meno.” Convenne. “Cosa ne pensi di questo piano? Veramente.”
“Penso che abbia un alto margine di rischio … e che il rischio riguardi soprattutto il sottoscritto.” Sarcasmo. Il ragazzo ne era pieno quando si lasciava un po’ andare. Doveva essere un tratto comune a tutti gli uomini Prince.
“Hai compreso la situazione alla perfezione allora.” Si fece poi serio. “Nessuno ti sta obbligando.”
“La mia coscienza sì, Signore.” Obbiettò. Rimase un attimo in silenzio. “Sa perché voglio fermare Doe, Signore?”
“Immagino per assicurarlo alla giustizia come ogni buon agente.” Sapevano entrambi che non era così. Sören fece una smorfia divertita.
“Iniziamente volevo ucciderlo.” Confessò pacato. “Prima che chiunque potesse decidere di arrestarlo e processarlo. Volevo essere io a porre fine alla sua vita.”
“E me lo stai dicendo perché…”
“Perché ho cambiato idea.” Aggrottò le sopracciglia guardando un punto oltre a sé, come a ricordare qualcosa. “Me ne sono reso conto  mentre lei illustrava il piano. Se lo uccidessi, sarebbe una vendetta e mi darebbe soddisfazione … ma non mi farebbe sentire meno colpevole dei crimini che ho commesso quando ero suo compagno. Quando ero come lui.” Si raddrizzò. “Voglio fingere di essere ancora sulla sua stessa linea d’onda. Non voglio esserlo davvero.”
Harry annuì dandogli una pacca sulla spalla. “È una buona realizzazione.”
Sören abbozzò un sorriso. “Immagino lo sia, Signore.”
“Per Lils…” Lo vide rabbuiarsi di colpo. Dovette trattenere una battuta di spirito, perché i giovani innamorati non avevano un gran senso dell’umorismo. “Non è arrabbiata con te, ma con la situazione … e con me, in effetti.” Aggiunse con un sospiro. “Dalle tempo per processare.”
“Vorrei che capisse che faccio tutto questo anche per lei. Per il nostro futuro assieme.”
Okay, ci stiamo avventurando in un territorio un po’ troppo personale …
“Sono certo che … uhm … lo farà.” Gli battè una seconda pacca sulla spalla. “Non è facile avere un … beh … una persona a cui tieni nelle forze dell’ordine. È abituata, certo, essendo il mestiere di famiglia, ma…” Stava blaterando dall’espressione perplessa sul volto del ragazzo, quindi tagliò corto. “Sai cosa intendo.”
“Sissignore.” Ebbe la cortesia di convenire. “Grazie.” Aggiunse. “Per le sue parole.”
“Molto bene.” Rispose come un vecchio pazzo e imbranato. Doveva rivalutare la mancanza di informazioni e drammi che proveniva da Albus e James. Nessuno dei due gli avrebbe dato dei nipoti.
Ma neanche compagni da consolare.
 
****
 San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo.
Pomeriggio.
 
Milo si era talmente rotto le palle di stare in ospedale che se gli fosse andata a fuoco una gamba ne avrebbe gioito. Leggere non ne aveva voglia – e non era mai stato un tipo da libri, con sommo orrore del principino. Suonare non poteva: una Maginfermiera grossa come un camion gli aveva intimato di far silenzio per non disturbare gli altri pazienti.
Ma la mia è arte!
Non era valso a niente protestare, così sperava sul serio che gli andasse a fuoco una gamba.
Un diversivo. Qualcosa. Qualsiasi cosa.
Si stava chiedendo se chiamare Figgins e farsi portare un po’ d’erba per sballarsi prima che la virago tornasse quando udì battere alla porta di camera sua.
“Ciao.” Disse Michel e Milo lo avrebbe abbracciato. Baciato. Perdonato. Cento, mille volte: tutto pur di esser strappato all’inedia.
“Mi trovi in un momento sensibile.” Annunciò. “Sono così annoiato che potrei perdonarti un omicidio … purché tu mi parli.”
Il ragazzo gli sorrise, entrando con piglio più sicuro. Cosa curiosa, non era vestito da mago. “Come ti senti?”
“Sto benissimo, ma Occhi Da Cerbiatto è un sadico. Si diverte a farmi restare qui a seccare come una pianta da appartamento.”
“Occhi da … Ah, Albus.” Intuì divertito. “Nomignolo azzeccato.”
“Demascolinizzante al massimo. Se lo merita, quella checca.” Sbuffò mentre l’altro si sedeva accanto a lui. “Sul serio, sto bene, posso esser dimesso!”
Michel si strinse nelle spalle, facendogli venir voglia di urlare. “Se dice che non puoi esser dimesso, probabilmente hai ancora bisogno di recuperare.”
“Sì, la mia libertà.” Bofonchiò vinto: era vero purtroppo, aveva ancora bisogno di aiuto per zoppicare in bagno e la ferita pulsava sorda anche la notte, facendolo impazzire.
Che culo essere resistenti alle cure magiche. ‘Fanculo.
Sarebbero passati mesi prima che si rimettesse del tutto. Per distrarsi da quel gramo pensiero rivolse la sua attenzione al mago accanto a lui; aveva l’aria di chi aveva dormito poco, ma quella non era una novità.     
Tuttavia…
C’era anche qualcos’altro nel suo sguardo. Una nuova determinazione.
Cos’era successo in quelle quarantotto ore?
“Ci sono novità?” Andrò dritto al punto.  
Michel passò le dita sul copriletto con aria assorta. “Stamattina ho rassegnato le mie dimissioni dall’Ufficio di Cooperazione Magica.”
Cazzo.
Spalancò la bocca come un pesce preso all’amo. L’altro ridacchiò. “Sì, l’ho fatto. Sembra incredibile anche a me, ma non sono più un Ministeriale.” Tornò serio, mordendosi le labbra. “Credo di aver fatto la cosa giusta.”
“… avevi detto che dovevi prima sistemare della cose al lavoro. Si trattava di questo?” Era così stupito che non riusciva manco a decidere se fosse una notizia buona o meno.
Certo, ora quello stronzo di suo padre non potrà più ricattarlo. Però cazzo.
Estremo.
“Non ero certo di cosa volessi fare.” Ammise. “Ma poi è successo qualcosa che mi ha messo di fronte ad una scelta. Così l’ho presa.”
“E tuo padre?”
Michel si massaggiò il collo, come se il pensiero del genitore gli provocasse un crampo. “Non ne ho idea. Non mi interessa … Può capire i motivi delle mie dimmissioni o decidere di non parlarmi mai più. In ogni caso, non posso comunque farci niente.” 
“Uh … okay.” Non se l’era aspettato. Quando gli aveva detto che aveva bisogno di tempo, aveva pensato ad un nuovo modo per nicchiare, per tenerlo appeso mentre dava un colpo al cerchio e uno alla botte.
Ho accettato solo perché sono un povero idiota innamorato.
L’aveva giudicato male.  
“Non l’hai fatto per me, vero?” Domandò brusco. L’idea gli toglieva il fiato. E non in senso buono.
“No. L’ho fatto per me.” Esitò. “Certo, se nel processo ci guadagnassi anche la tua compagnia … non me ne rammaricherei. Affatto.”
“Coglione.”
“Dico sul serio Emil. Voglio stare con te.” Lo guardò come se fosse l’unica cosa importante nella stanza. E anche se lo era, perché erano soli, grazie tante …
Comunque. Cazzo.
Una parte di sé voleva buttarsi dalla finestra e zoppicare via, il più lontano possibile da tutti quei sentimenti, quelle aspettative che forse avrebbe rovinato, incasinato, perché non era mai stato sul serio con qualcuno. L’altra però lo inchiodava su quel letto ringhiandogli che quella era un treno che passava una volta nella vita.
Non fare lo stronzo e salici sopra.
“Cos’è successo per metterti tanta fretta?” Chiese per prendere tempo. Adesso era a lui che serviva un momento di riflessione.
 
Michel esitò. Aveva sperato che il motivo delle sue dimissioni non venisse fuori, ma era stato uno sciocco: Emil voleva giocare a carte scoperte, e visto il motivo per cui si erano lasciati la prima volta non poteva biasimarlo.
“Sono stato sospeso…” Esordì con calma, sentendosi la bocca secca e il cuore a mille. Non aveva idea di come l’altro avrebbe potuto reagire alla sua confessione; Scorpius era stato comprensivo, persino Lord Malfoy a modo suo aveva capito che aveva agito in buona fede…
Ma Emil.
Tu? Il funzionario modello! Che diavolo hai combinato?”
Si umettò le labbra. “Non so se hai letto giornali di recente, ma gli Auror hanno scoperto che Ethan Scott, un funzionario di alto livello americano, era la talpa. Adesso è in fuga.”
Scott? Figlio di puttana!” Saltò a sedere, mascherando poi un gemito con una seconda, robusta imprecazione. “Ha sempre ronzato attorno a Sören, da quando ci siamo trasferiti a Boston e …” Lo guardò perplesso. “Ma tu cosa c’entri?”
Dovette dirgli la verità, e stavolta fu persino peggio che confessarla a Lord Malfoy. Al giudizio dell’uomo poteva sopravvivere, anche se debitamente ammaccato, ma a quello di Emil … no.
L’altro lo ascoltò senza aprire bocca, sempre più scuro in volto e a Michel venne voglia di vomitare o di scappare.
Non respingermi un’altra volta. Non disprezzarmi. Ho sbagliato, ma sto cercando di rimediare.
Era questo il motivo per cui aveva rassegnato le dimissioni: sapeva che la sospensione datagli da Lord Malfoy era stato un modo per proteggerlo dal vespaio che si sarebbero scatenato una volta scoperto che aveva collaborato con la Talpa.
L’unica cosa sensata da fare era dimettermi con ancora la reputazione intatta. Senza infangarla a nessun altro nel processo.
Poteva non esser d’accordo su tanti usi e costumi Purosangue, ma non avrebbe mai rinunciato alla sua dignità di Zabini. Checché ne pensasse suo padre.
“Per questo ti sei dimesso?” Gli domandò, quasi leggendogli nel pensiero. Aveva ancora la fronte corrugata, ma non pareva in dirittura di esplosione come quando gli aveva confessato il ricatto di suo padre.
“Il mio arrivismo ha causato problemi … danni … a persone amiche.” Pensò a Scorpius, alle volte che aveva rischiato la vita perché John Doe era sempre un passo avanti agli Auror. Il vecchio amico non glielo aveva fatto pesare, ma Michel non era un idiota. “Era mio dovere.” Vedendo che non ribatteva deglutì. “Capirei se non volessi avere più a che fare con me.”
Emil tradì un’espressione sorpresa. “Cosa? No, non stavo pensando a te.” Sbuffò. “Sto pensando che anche io ho dato a quella serpe un sacco di informazioni su Sören perché la Gillespie mi aveva detto che una sua parola poteva di nuovo sbatterlo a Nurmengard. Quel figlio di puttana non voleva usarlo come trampolino di lancio per diventare un pezzo grosso … lo controllava per John Doe.”
“Temo di sì.” Convenne sentendosi più leggero di svariate tonnellate. “Non sapevo che fosse la talpa…” Aggiunse, tanto per essere chiari.
Emil scosse la testa. “Perché io? Ho sempre pensato che fosse un pezzo di merda ma non fino a questo punto!”
Michel ridacchiò, un suono abbastanza patetico visto che stava tentando di non far tremare la voce. Aveva avuto davvero paura che Emil decidesse di cancellarlo dalla sua vita.
Forse aveva aiutato non nascondergli la verità, stavolta.
“Michel …” Disse l’altro dopo un attimo di silenzio. “… non è stata colpa tua, non tutta almeno. Ti ha preso per il culo. Ci ha preso tutti per il culo. Anche se hai combinato un casino mi sa che ti riprenderebbero al Ministero, se glielo chiedessi. Non sei l’unico ad avergli aperto casa e cuore, credimi.”
“Il fatto è che non voglio.” Ribatté. “Questa faccenda mi ha dato la motivazione per andarmene. Non ero tagliato per quel lavoro.” Fece un mezzo sorriso. “Qualcuno mi ha detto che ho il cuore troppo tenero.”
“Non è mica una brutta cosa.”
“Dici?”
“Eccome.”
Rimasero in silenzio, ma uno di quelli quieti, in cui Michel si sentì stranamente a suo agio. Emil poi spinse la mano a coprire la sua: un gesto che valse più di un intero discorso.
Ne conseguì una piccola esplosione, un bacio di cui avevano bisogno entrambi, labbra, lingua e mani ovunque.
Michel dovette ricordarsi che l’altro era ancora ferito per non stringerselo addosso e inalare il suo odore, perché gli era mancato da impazzire.
“Woah.” Mormorò Emil con il fiato corto, la fronte contro la sua. “Cosa…” 
“Non ti lascerò più uscire dalla mia vita.” Gli assicurò. “Anche se ti venisse voglia di scappare. Ti inseguirei. Ho i mezzi e adesso, pare, anche il tempo.”
Emil lo baciò di nuovo, passandogli le dita, quelle dita meravigliose sui riccioli corti della nuca. Gli piaceva farlo: si annotò di lasciarli crescere ancora. “Sembra una minaccia.”
“È una dichiarazione di intenti.” Lo corresse. “Non lascerò che tu rimanga solo, mai più. Ti appartengo. Disponi di me come meglio preferisci.”
Emil sorrise. Niente sogghigni, niente mugugni ispidi. Era lo stesso sorriso che gli aveva rivolto da bambino, un sorriso che l’aveva convinto che non sarebbe mai stato come suo padre.
Ecco un’altra cosa di cui ringraziarti…
“Non sarà semplice, maghetto. Non piaceremo alla gente.” Gli disse dopo che l’ebbe costretto a stendersi con lui. L’ultima volta che era stato trattato come un orso di pezza era stato durante il periodo di incubi di Al.
Stavolta la differenza era che Emil voleva proprio lui nel suo letto.  
Tutta un’altra cosa, essere amati.
Amati da qualcuno che gli tirò un pugno sul fianco. “Oh, hai sentito quel che ho detto?”
“Ho sentito.” Gli accarezzò con un pollice la barba ispida sul mento. “Ma onestamente, quando mai è stato semplice tra di noi?”
L’altro scoppiò in una risata. “Non hai tutti i torti.” Gli scoccò un’occhiata di sottecchi. “Quindi sei convinto … vuoi proprio essere il mio ragazzo?”
“Assolutamente.”
Roteò gli occhi al cielo. “Peggio per te.”
Michel gli baciò la guancia. “Credo che la parola giusta, mon ange, sia meglio.”
 
****
 

Note:

E quindi, sono tornata!
Dopo la pausa originale e femslash, qui se volete sapere di che parlo, il Potterverse ritorna prepotente sul mio pc e nei miei pensieri. Lo ammetto, mi era mancato.
Qui la canzone del capitolo.

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Capitolo 54
*** Capitolo LIII ***


Capitolo LIII


 
 
 

Telling myself I could be strong
Or some such brave bullshit

(Kathleen, David Gray)
 
 

7 Agosto 2028
Londra, Mayfair
Casa Weasley-Granger. Mattina.

 
Rose aveva un segreto.
E non erano ripensamenti sul suo matrimonio.
Perché non era solo una strega in procinto di sposarsi, non dalla sera prima almeno …
Inspirò, aprendo gli occhi alla luce ingloriosa – perché fuori pioveva – del mattino. Inspirò e si passò una mano sull’addome dove … beh.
Dove.
Complice una serie di segnali, come la nausea che le era presa senza motivo la sera dell’addio al nubilato – non aveva bevuto così tanto! – aveva deciso di fare un test di gravidanza: Babbano, perché a Diagon Alley chiunque riconosceva la sua faccia e non voleva avere gente a ficcanasare e sputare sentenze prima che la cosa fosse del tutto certa.
Beh, lo era.
Sorpresa!
Una volta trascorsi i primi minuti di puro panico, passati seduta sulla tazza del gabinetto dello studio di MagiAvvocatura presso cui faceva praticantato, aveva deciso di aspettare. Aveva scelto di godersi quella consapevolezza da sola, senza parenti intorno, senza chiasso.
Per una volta …
Soltanto lei e la nocciolina – che più o meno doveva avere quelle dimensioni.
Aveva tenuto la bocca chiusa davvero con tutti: le sue cugine, sua madre, Al e soprattutto il suo fidanzato.
Il motivo era semplice: non c’era alcuna fretta di far scoppiare una bomba annunciando at urbi et orbi che non avrebbe aspettato un anello per incubare un piccolo Weasley-Malfoy.
Suo padre tra l’altro avrebbe avuto un infarto.
E Scorpius?
Sorrise, voltando la testa sul cuscino per osservare la schiena nuda del proprio fidanzato e  il raggio di luce che gli illuminava i capelli, rendendolo una sorta di grosso angioletto tatuato con tanto di aureola.
Non aveva taciuto per paura della sua reazione.
Figuriamoci!
Tra le tante cose su cui avevano fantasticato, prendendosi in giro come loro solito, era proprio l’eventualità di avere bambini.
Sarà un ottimo padre. Non di una nidiata di undici figli come vuole lui, ma comunque … un ottimo papà.
Fremeva dalla voglia di dirglielo, ma non poteva farlo, non finché lo stupido Demiurgo avrebbe occupato tutti i suoi pensieri.
Perché era quel maledetto caso che la sera prima non l’aveva fatto dormire. Si era rigirato nel letto fino a quasi causarle un esaurimento nervoso.  
Notando l’ora decise di svegliarlo. “Scorpius … ehi, è ora.”
L’altro per tutta risposta afferrò il cuscino premendoselo sulla testa con un lamento indignato.  
“Vuoi rischiare di incontrare mio padre a colazione?” Gli domandò.
“Mangiare è sopravvalutato. La salterò.”
“Dice colui che non riesce ad ingozzarsi meno di tre volte al giorno!”    
Un altro mugugno segnalò che la sua tecnica non stava funzionando.
“Non hai dormito stanotte.” Tentò di nuovo: parlargli era un buon modo per farlo sorgere dal coma.  
Scorpius si voltò verso di lei e, con la pelle pallida che si ritrovava, le occhiaie si notavano come se l’avessero preso a pugni. “Mi sono addormentato …” Guardò verso l’orologio sul comodino. “… direi un’ora fa.”
Ecco perché pareva un Infero. “Dì a papà che hai bisogno di un giorno libero!”
“No, sto alla grande.”   
Ovviamente. Scorpius Malfoy non si limitava ad andare al lavoro. Marciava verso un’idea di sé stesso. Un po’ come quando si era spaccato la chiena per diventare il Capitano della loro squadra di Quidditch, o quando aveva fatto il diavolo a quattro per essere scelto per il Tremaghi.
Guai a fermarsi per riposare.
“Rischi di crollare addormentato sulla scrivania…” Cercò di dissuarderlo. “Hai una faccia orribile.”
L’altro si portò una mano al petto con aria offesa. “Se mi pensi orribile, Rosellina, come puoi sposarmi?”
“Ho pessimi gusti.” Scrollò le spalle. “Dico sul serio, non sei un timbracarte, se oggi esci di pattuglia…”
“Non uscirò di pattuglia.” Tagliò corto alzandosi in piedi per stiracchiarsi. “Stiamo preparando una cosa. Pianificazione. Probabilmente non lascerò l’ufficio.”
Rose sospirò: la cosa più difficile era parlargli normalmente. Persino in quel momento, mentre stavano parlando di lavoro, aveva un incredibile voglia di spiattellare tutto.
No. Non farlo.
Conosceva Scorpius, sapeva che il suo senso di responsabilità verso la famiglia – per ora rivolto solo ai genitori e alla nonna – rasentava quello di uno zelota.
Se gli dico che sarà padre finirebbe per pensare solo a quello.
Con la possibilità che fosse in prima linea e distratto, non era proprio il momento giusto.
… gh, è così difficile!
Il compagno, ignaro del corso dei suoi pensieri, si inginocchiò sul letto per arrivare alla sua altezza. “È quasi finita rosellina.” Le sorrise baciandole la punta del naso. “Tra poco passerò notti insonni perché aspetterò il nostro matrimonio … e il non dover fare più colazione con tuo padre!”
Argh!
Forse avrebbe davvero dovuto dirlo a qualcuno prima di sbottarglielo in faccia.
Al? Devo parlare con Al.
“Bene.” Per distrarsi, per pensare ad altro non trovò di meglio che stuzzicarlo. “Dimmi solo se devo aspettarmi altre notti così. Vado a comprarti un sacco a pelo.”
La reazione di Scorpius, con sua sorpresa, fu un improvviso rabbuiarsi.
Eh? Oddio, che ho detto?
“Pensi che sia un buon auror?”
Eh? Cosa?
“Il migliore.” Rispose pronta nonostante la confusione. La verità ti faceva avere la voce ferma. “Perché me lo chiedi? Crisi di coscienza?”
Scorpius fece una risatina fiacca. “No, è … ho fatto un errore.” Scrollò le spalle dimostrando così uno stato d’animo contrario. I suoi gesti a volte andavano interpretati alla rovescia. “Ho supposto che una persona fosse colpevole.” Fece una pausa. “Quella persona adesso è morta.”
“Ethan Scott.” Intuì. Aveva sentito suo padre parlarne a sua madre la sera prima, quando era scesa per augurar loro la buonanotte.
L’altro annuì, fissando le coperte come se fossero la cosa più interessante del mondo. “Non l’ho ucciso io, me ne rendo conto, e non ero l’unico a pensare che fosse l’informatore … ma sono stato io a sostenere per primo l’idea.”
Tipico di Scorpius darsi colpe per cose che non aveva commesso. “Le prove portavano a lui?” Obbiettò ragionevole.
“Sì, ma …”
“La vostra squadra ha investigato e siete giusti ad una conclusione. Il fatto che fosse sbagliata non ti rende responsabile della sua morte. Né tu, né gli altri.”
“È stato ucciso perché lo stavamo sospettando, Rose!” Sbottò. “Abbiamo messo il sale sulla coda alla vera Talpa e questa si è sbarazzata di Scott perché aveva paura che potesse portare a lei!” Scosse la testa. “Che razza di agente sono, se…”
“Sbagli?” Lo fermò. “Un essere umano. Pensi che mio padre non si sia mai sbagliato? O zio Harry?” Gli fece notare. “Non è la prima volta che John Doe mette in scacco l’Ufficio Auror. Non sei il solo che si sente frustrato lì dentro.”
“Ma…”
“Non sei più ad Hogwarts.” Cercò il suo sguardo fino a trovarlo, perso da qualche parte fuori dalla finestra. “Non è più Scorpius contro tutti. Sei tu il giocatore di Quidditch, non devo dirti io che gli errori si fanno come squadra, no?” Gli voltò il viso verso di sè. “Vuoi che chiami mio padre e te lo faccia dire da lui?”
Scosse la testa rapido. “Ti prego, no. Non voglio che mi abbracci o mi conforti … o roba del genere.”
“Non credo accadrà mai.” Lo rassicurò. “Va bene sentirti responsabile, ma non in colpa. Okay?”
Scorpius la guardò intensamente. “Ti amo.” Scandì, e per sottolineare la sua gratitudine pensò bene di franarle addosso in un abbraccio da grizzly che la fece crollare sul letto. “Scorpius!
“Come sei saggia.” Bofonchiò contro la sua guancia. “Sposiamoci subito. Nella saggezza.”
“Cretino.” Sospirò abbracciandolo stretto. Nondovevadirglielo. “Ti senti un po’ meglio?”
“Ho sonno.” La rassicurò. “Credo che sia arrivato il momento di riprendere a bere caffè.”
“Nel modo più assoluto, no.” Tentò di spingerlo a sedere senza successo. “Se mi lasci andare vado a prenderti una tazza di the.”
“Non voglio.” Ma si spostò, lasciandola libera di alzarsi in piedi e infilarsi la vestaglia. “Comunque c’è una squadra a cui sento assolutamente di appartenere.” Le disse mentre apriva la porta.
“Quella di Grifondoro?”
Alzò gli occhi al cielo, come sempre faceva quando la riteneva una tonta. “Quella composta da me e te.” Le offrì un sorrisone adorabile. “Il nostro binomio!”  
… Trinomio.
Fuggì dalla stanza prima che fosse troppo tardi.
Devo parlare con Al.
 
****
 
San Mungo, Reparto Lesioni da Incantesimo
Mattina
 
“Posso andarmene adesso?”
Albus guardò con malcelato divertimento Milo, seduto sul letto e di nuovo vestito come se dovesse andare per club. Accanto a sé aveva la borsa preparata e pareva pronto a buttarsi dalla finestra: tutto pur di lasciare l’ospedale.
“Devi mettere una firma qui.” Gli porse la pergamena d’uscita, certificante che Milo Meinster era pronto per calcare di nuovo il suolo di Londra da uomo sano.
Beh, più o meno.
La medicina Babbana coadiuvata da quella magica l’avevano rimesso in piedi in un quarto del tempo, ma questo non significava che fosse pronto a saltare su una pista da ballo.
Milo firmò con un gesto secco la cartella, praticamente lanciandogliela addosso. “Ci si vede!” Dichiarò alzandosi in piedi con una fluidità che in realtà era tutta scena visto che poi si aggrappò con disinvoltura alla testata del letto.
Sarà un’impresa convincerlo a farsi spingere in carrozzina fino fuori il perimetro del San Mungo.
“Emil…”
Fortuna voleva che ci fosse Michel pronto ad evitare una crisi diplomatica, cosa di cui era molto lieto considerando che il Magonò si era dimostrato un paziente persino più insopportabile di Tom con la febbre.
E nessuno è più insopportabile di Tom con la febbre.
Fin’ora.
“Non devi convincere nessuno, fa’ con calma.” Lo apostrofò Zabini spostandoglisi accanto e prendendogli la borsa.
“Sto bene!”
“Da come ti lamenti ne sono certo. Tuttavia nessuno vuole vederti crollare per le scale, tantomeno l’ospedale visto quanto Al e gli altri si sono impegnati per rimetterti in sesto.” Indicò la sedia a rotelle con un cenno imperioso, che ad Al ricordò i gloriosi tempi della Squadra di Quidditch Serpeverde. “Se ci tieni tanto puoi spingerti da solo.”
Milo brontolò qualcosa in tedesco ma obbedì, sedendosi con una smorfia. Ad un’occhiataccia da parte dell’altro fece un grosso sospiro e gli porse la mano. “Grazie Bambi, te ne devo una.”
Al ignorò il nomignolo e gli strinse la mano. “Ho solo fatto il mio lavoro.”
“Non fare il modesto, hai fatto molto di più.” Milo suo malgrado riuscì a produrre un sorriso. Era quel genere di sorriso che faceva perdere la testa ai bravi ragazzi.
Oh, se non ne so qualcosa …
Gli diede una pacca sulla spalla. “Mike si prenderà cura di te d’ora in poi. Ricordati le pozioni.” Aggiunse rivolto all’amico che annuì in completa serietà.
Milo avvampò. “Non sono un cazzo di moribondo, sono in grado di badare…”
“Sì, certo.” Lo fermò prima che ricominciasse la tiritera. “Ci si vede, giusto?”
Scrollò le spalle. “Seh.” Brontolò prima spingersi via vigorosamente.
Michel, rimasto solo, abbozzò un sorriso. “Grazie Al. Davvero, per tutto.”
Fece un cenno vago, perché Tom aveva torto, non si pavoneggiava quando qualcuno gli mostrava gratitudine. “Sono contento che le cose si siano risolte per il meglio. Sono contento per voi.”
L’amico annuì, aggiustandosi la sacca del Magonò sulla spalla. Era la prima volta dopo tanto tempo che lo vedeva così felice. Così se stesso, e non un nugolo di ansia da prestazione e cattivi pensieri.
“Verrò a trovarvi nei prossimi giorni per controllare che la ferita stia bene.” Che dopotutto Milo era il suo primo paziente di Medicina Comparata. Stava pensando di farci un case study e pubblicarlo!
Michel, ignaro di quel suo colpo di coda Serpeverde – ma se l’avesse saputo avrebbe approvato – si sporse e lo abbracciò. Anche quello: un gesto spontaneo che non faceva da tanto. “Auguraci buona fortuna.”
Ricambiò con forza. “Tutta quella che c’è nel mondo Capitaine.”
Guardandoli andare via, con Milo che tentava di non mostrarsi contento che Michel si impuntasse nello spingerlo, per poi chinarsi a baciarlo, non potè fare a meno di provare la dolceamara sensazione di averlo un po’ perso.
Non davvero, perché erano ancora amici, però…
“Mi hai chiamato per dirmi che Zabini si è portato in casa il Magonò?” Tom dalla voce pareva appena essersi alzato, il che significava che era immerso nel lavoro fino ai gomiti.
“Non lo so, pensavo volessi saperlo!”
“Guarda che non smetterà di sbavarti dietro solo perché si è trovato il fidanzatino.”
Al si appoggiò al muro del corridoio con uno sbuffo: a volte chiamare Tom era come farsi un’analisi di coscienza.
“Mike non mi ha mai sbavato dietro!”
“Smettila di fare il bravo ragazzo.”
Si morse un labbro. “Non lo sono?”
La risata del compagno gli ricordò perché, nonostante fosse una persona orribile, l’avesse scelto e continuasse a farlo ogni giorno. “Non lo sei mai stato, Al. È un fraintendimento generale considerarti così.”
“Per fortuna a te piaccio ancora.”
“C’è altro?” Il momento di grazia era appena finito. Comprensibile visto che l’aveva chiamato unicamente per lamentarsi di aver perso uno spasimante.  
“Sì, ti amo.”
Tom per tutta risposta riagganciò. Prevedeva una serata di bronci, ma a tutto c’era rimedio.
Dovrò ordinare quel suo orrido giapponese. Mei ne sarà contenta.
Lo scaldarsi subitaneo dello Specchio Comunicante gli fece sperare di poter risparmiare quel supplizio culinario: sfortunatamente non era Tom, ma Rose con un messaggio.
 
Codice Potter-Weasley. Emergenza.
 
Sospirò e rispose con un luogo e un’ora.
Tempo di riprendere i panni del bravo ragazzo …
 
 
“Sicuro che non ti serva altro?”
“Sì, che tu smetta di fare la chioccia!”
E Milo sentiva di esser stato gentile. Tuttavia Michel lo fissò con l’aria indispettita di chi voleva affogarlo come un gatto in un torrente.  
Stiamo assieme da ventiquattro ore e già siamo ai ferri corti. Alla grande!
Un po’ era colpa sua, okay. Michel l’aveva portato a casa con un taxi, non fidandosi di come avrebbe preso la Materializzazione – male, di sicuro. Lo aveva anche sistemato nella stanza della musica, Trasfigurando il divano Chesterfield in un letto a due piazze. Aveva organizzato tutto perché fosse a portata di mano: in sostanza si preparava a fargli da infermiere.
La cosa gli metteva ansia.
Non aveva la minima idea di come comportarsi quando qualcuno si metteva a sua disposizione: era passato troppo tempo.
E non aiutava il fatto che Michel fosse così paziente. Lo faceva sentire una merda.
“Vado di là a sentire cosa vuole Loki per pranzo.” Gli comunicò pacato, tutto vestiti di lino leggero e aria da adone esotico.
Non dovresti farmi da infermiere, dovresti scoparmi. Questo cambio di ruoli è criminale!
Tuttavia inevitabile, visto che aveva ancora la capacità di muoversi di un settantenne.
“Michel…” Si odiò per la voce patetica che gli uscì. Si schiarì la gola. “… grazie. Per ospitarmi e … uhm, per il resto. Faccio lo stronzo, ma …”
L’altro tornò indietro per sedersi accanto al letto. “Ma apprezzi.” Concluse con aria divertita. “Avevo intuito.”
Si passò una mano tra i capelli. Per Faust, avrebbe ucciso per tirarsi fuori da quella situazione in maniera brillante, da Milo. Ma con Michel non lo sarebbe stato mai: con lui era quella checca sentimentale di Emil.
“Non mi torna essere dall’altra parte della faccenda.” Gli spiegò. “E poi so quant’è una rottura di palle star dietro…”
“Non lo è.” Lo fermò prendendogli una mano tra le sue. “Averti a casa con me intendo … certo, speravo di averti un po’ più sano …” Lo canzonò con un luccichio malizioso nello sguardo. Oh, okay, stava girando il coltello nella piaga.
‘Fanculo. È come avere una torta davanti e essere a dieta!
“Prenderò tutte quelle cazzo di pozioni come uno scolaretto!”   
“Non pensare che la tua presenza qui sia solo a tuo beneficio.” Gli rispose di rimando serio. “La realtà è che ho bisogno di te quanto tu ne hai di me. Devo ancora abituarmi al cambio di vita.”
Milo sbuffò, stringendogli la mano e levando l’altra per tirarselo contro. Michel lo seguì docilmente, stendendoglisi accanto, tra un tripudio di cuscini e coperte soffici.
Jackpot prenderti un ragazzo con il pallino per la biancheria da letto costosa!
“Imparerai dal migliore.” Lo confortò. “Con tutte le volte che mi sono reinventato …”
“Non ti manca mai la tua vecchia vita?”
Scrollò le spalle. “Me l’hai già chiesto  … a quale ti riferisci poi? Ne ho vissute un bel po’.”
Michel annuì, come se avesse detto una cosa profonda, quando in realtà constatava solo la realtà dei fatti. Non si era fermato un attimo da quando la sua famiglia l’aveva buttato fuori. Il periodo con il principino era stato il suo stop più lungo.
Uno stop che mi ha portato da te.
Riprendere fiato a volte non è una cattiva idea.
“Riformulo la domanda allora.” Michel si voltò su un fianco, una mano ad accarezzargli il petto. “Quella di adesso ti piace?”
“Dici la vita dove sono bucato come un vecchio copertone?” Finse di fraintendere. Sogghinò alla sua espressione corrucciata. “O come tuo ragazzo?”
“Sei in grado di darmi già un parere? Stiamo assieme da ieri, almeno ufficialmente.” Gli rispose: adorava avere l’ultima parola. Un po’ come Sören.
Mi circondo di gente che mi fa venir voglia di sbattere la testa al muro.
Ma quanto sarò stronzo?
Michel lo scrollò per una spalla. “Ti sei accigliato di nuovo.” Gli fece notare. “Devo preoccuparmi di aver premuto un tasto sbagliato?”
“Li premi da quando ti conosco, maghetto. Tipo tutti quelli che ci sono.” Grugnì rimediandosi un bacio sull’orecchio, poi sul collo. Socchiuse gli occhi. “Fortuna che hai altre qualità.”
“Ovvero?”
“Hai un culo fantastico e sei pieno di Galeoni.”
Il fatto che fosse tecnicamente convalescente non impedì a Michel di mordergli il lobo di un orecchio. Forte. Ingoiò un lamento che ebbe una connotazione sessuale che non sfuggì a nessuno di loro. Non da come Michel ne approfittò per far scivolare una gamba tra le sue. E sfregare.
Milo inspirò, perché l’astinenza era una brutta bestia contro cui lottare. “Vuoi rimandarmi in ospedale? No, perché sarebbe un buon modo per disfars…” Michel non lo lasciò finire, coprendo la bocca con la sua.
Si era messo con un maniaco sessuale.
Grazie Babbo Natale. Sapevo che prima o poi avresti esaudito il mio desiderio!
Gli passò un braccio dietro la schiena premendoselo contro. Uno dei problemi del San Mungo era la mancanza totale di privacy: in quella stanza invece, guardata dalla magia e da una porta blindata …
Michel si staccò, a due centimetri dalle sue labbra. “Hai ragione, forse è meglio fermarci.” Dichiarò con uno slancio virtuoso del tutto fuoriluogo.
“Facciamo piano.” Lo implorò. “Mi fanno male le palle.” Finì per piagnucolare rimediandosi una risatina impietosa. “Non sto scherzando, ogni volta che tentavo di darci di mano entrava un infermiera o quello stronzo del tuo amico!”
“Povero piccolo…” Lo prese per il culo. Però fece scivolare anche la mano in basso, oltre gli stupidi pantaloni della tuta da lungodegente, oltre il boxer e …
Grazie. A. Faust.
Un coro angelico salutò la fine della sua astinenza forzata. Quello e il suo blaterare, fortunatamente in tedesco.
Michel poi gli baciò l’angolo delle labbra, con un’espressione così tenera che se non fosse seguita ad una gloriosa sega avrebbe potuto figurare in qualche giornale patinato.
“Ti amo anch’io…”
… oddio mi ha capito.
“Ma tu non sai il tedesco!” 
Michel sorrise beato. “Mon ange, la lingua dell’amore è universale.” Inarcò un sopracciglio. “E a capir due frasi ci arrivo anch’io.”
Non trovò di meglio che mettersi un braccio sopra gli occhi, il sempiterno principio dello struzzo con la testa sotto la sabbia. “Non vale.” Bofonchiò.
“Quindi non mi ami?”
Qualcuno mi soffochi con un cuscino. Ora.
“Non dovevi chiedere a Loki chissà cosa?”
“Del pranzo, sì.” Convenne. “Vado, ma torno.” Non poteva vederlo in faccia, ma sapeva che aveva assunto quell’aria assurdamente intensa, ridicola.
Bellissima.
“Bella forza, è casa tua!”  
Quando Michel si chiuse la porta alle spalle, Milo sorrise.
Ti amo.
 
****
 
Scozia, Hogsmeade
Casa Lupin-Potter, Pomeriggio.
 
Una volta tanto Benedetta era tranquilla. Il che aveva del miracoloso.
Stava infatti acquattata nei pressi dello steccato, tentando di sorprendere uno dei numerosi gnomi che infestavano il giardino; da quando James le aveva insegnato a lanciarli, la caccia allo gnomo era diventato il suo gioco preferito.
Finirà per diventare una Potter in tutto e per tutto …
Seduto ad una sedia pieghevole che aveva portato fuori per godersi la bella giornata, Ted poteva permettersi di prendere una pausa dalla pianificazione delle lezioni del futuro anno scolastico e da Benedetta. E lasciar un po’ correre la mente.
Solo un po’.
Il problema è che James si era proposto. In stile tipicamente Potter gli aveva messo davanti l’ipotesi matrimonio come se fosse una cosa senza impegno, sicura, come centrare la porta con una Pluffa.
Avrebbe voluto arrabbiarsi, se non fosse stato un gesto così suo da rientrare nella grande equazione che spiegava perché lo amasse tanto.
James si era proposto e non aveva idea se fosse giusto accettare.
Certo, l’adozione di Benedetta sarebbe andata molto più spedita con un matrimonio di mezzo, tantopiù considerando che la sua dolce metà era parte di una dinastia di golden-boy amatissimi dal Mondo Magico.
Il punto era proprio quello.
Non voglio che si senta obbligato a proporsi per via di Benedetta. Non me l’avrebbe chiesto dall’oggi al domani se non ci fosse stata la questione di Vulneraria.
Sospirò guardando affranto il giardino davanti a sè. Era giusto accettare una proposta condizionata?
Sei proprio un idiota.
Così gli avrebbe detto sua nonna se le avesse mai confessato quei dubbi – e non era intenzionato a farlo, tante grazie.
Non mi chiamano Sega Ambulante Ted?
Pensano che non lo sappia, invece …
E poi c’era un altro aspetto di quella faccenda che non riusciva a digerire ed era dovuto al suo essere un romantico vecchio stile, fino alla punta dei suoi capelli da Metamorfomago. Quando aveva sognato La Proposta – perché sì, per tutti gli Inferi, aveva pianificato il suo matrimonio da quando aveva sei anni – lo aveva immaginata … diversa.
Sopratutto in un contesto meno prosaico di una cucina, di fronte ad una torta fredda, mezzo morto di sonno.
Non che volesse violini, serenate o sciocchezze del genere, ma James glielo aveva chiesto con la stessa verve con cui gli avrebbe proposto una gita sulle Highlands.
Si passò una mano tra i capelli, sospirando.
Avrei voluto propormi io. A modo mio.
Ma James, perché era James, l’aveva battuto sul tempo.
“Teddy!” La voce di Benedetta lo strappò da quel momento di auto-commiserazione.
I bambini sono esseri meravigliosi.
La vide in piedi, dimentica degli gnomi. “Che c’è Ben?”
“C’è lupo!”
Ted aggrottò le sopracciglia: un lupo? In una via residenziale, in mezzo ai maghi? Non erano troppo distanti dalla Foresta Proibita, certo, ma le creature che la abitavano di solito non si spingevano fino al centro abitato. Si alzò, esaminando il vialetto con lo sguardo.
Non c’era animale in vista, neppure il cane dei Paciock. Però qualcuno c’era: un uomo stava camminando con passo energico, vestito di un vecchio mantello marrone bosco.
Sembrava cercare un abitazione, da come scrutava i numeri civici. Ted si avvicinò allo steccato. “Buongiorno, posso aiutarla?” Gli si rivolse quando fu sicuro fosse a portata d’orecchio.
Questo, abbastanza anziano da poter essere suo nonno, si fermò per scrutarlo. Poi abbassò lo sguardo e notò Benedetta.
“Ciao Benedetta.” Disse in tono amichevole. Aveva occhi giallo zafferano – come aveva fatto a non accorgersene? – e una cicatrice che gli solcava una buona parte della testa.
Vulnus. Cicatrice.
Quell’uomo era Vulneraria.
Ted si mise davanti alla bambina, parandola alla vista. “Cosa ci fa qui?” Prese la parola con calma, anche se sentiva il sangue ribollirgli nelle vene.
Chi gli ha dato il nostro indirizzo? È stata Flynn?
Il Mannaro parve infastidito dalla sua intrusione. “Vedo che hai capito chi sono.” Esordì con forte accento gallese. “Sono qui per vedere mia nipote.” Aggiunse con il tono di chi era abituato a farsi obbedire.
Il lupo alpha, giusto.
Trasudava così tanta aria di comando che un uomo forse diverso ne sarebbe stato intimidito.
Peccato che il mio padrino mi abbia insegnato a non temere quelli come te.
Di solito dove c’è fumo, manca l’arrosto.
“Benedetta, entra dentro.” Ordinò alla bambina. La sentiva scalpitare dietro di sé, curiosa com’era.
Assolutamente no.
“Ted…” Iniziò infatti con il tono indignato di chi non si sarebbe arresa senza combattere.
“Dentro. Adesso.” Ripetè, e stavolta con il tono con cui convinceva le matricole Grifondoro alla resa.
Benedetta ubbidì come un fulmine.
Grifondoro. Diventerà decisamente una Grifondoro.
Vulneraria la guardò andar via con aperta rabbia. Non gli diede il tempo di protestare. “Non dovrebbe essere qui. Non so come abbia ottenuto il mio indirizzo di casa, ma il Ministero è stato chiaro sulla custodia…”
Un ringhio di gola da parte dell’altro gli fece rimpiangere di aver lasciato la bacchetta sul tavolo. “La cucciola è mia nipote!” Esclamò. “Il Ministero può andare a farsi fottere per quanto mi riguarda … Ho il diritto di conoscerla!”
“L’ha conosciuta. Lunastorta l’ha portata da voi. Li avete cacciati.” Ritorse. Con un Accio avrebbe potuto prendere il proprio legno, ma gli Incantesimi Senza Bacchetta non erano affidabili quando si era sotto forti dosi di stress.
O rabbia, come nel suo caso.
Vulneraria fece il gesto di scacciare una mosca. “Le premesse erano diverse.”
“Certo, Lunastorta vi aveva presentato un bambino … Di quelli ne avete già in abbondanza, vero?”
Non era da lui comportasi così. Ted Lupin era un uomo educato, ragionevole, che non si sarebbe mai scagliato contro quello che a conti fatti era un estraneo. Ma Vulneraria con la sua presenza stava invadendo l’intera strada, strabordando nel suo giardino.
Nella mia casa.
“Non mi aspetto che un lupacchiotto addomesticato capisca come funzionino le cose in un branco.”
“Non sono un Mannaro.”
L’altro sogghignò. “No, certo che non lo sei ragazzo. Non sei come la cucciola, di nostro hai soltanto la puzza.”
Era troppo. Aprì il cancello e se lo sbattè dietro. “Si chiama Benedetta.” Scandì. “Ha un nome.”
Il Mannaro per un attimo parve preso in contropiede: non doveva essere abituato ad esser fronteggiato. Non di recente almeno, a giudicare dalla cicatrice.
“Un nome da umana.” Si riprese subito. “Come Mannara deve essere ancora battezzata, solo allora farà parte del branco.”
“Non farà mai parte del vostro branco.”
Vulneraria emise un basso ringhio dismissivo, tentando di superarlo per entrare in giardino. Gli bloccò il passaggio: non doveva farlo entrare.
Peccato che il Mannaro fosse di tutt’altra opinione, perché gli diede uno spintone, talmente forte che lo fece indietreggiare di un paio di passi.
Ted non ci vide più.
Lo afferrò per il retro del mantello, costringendolo a fermarsi onde evitare di rimanere strozzato. “Levami le mani di dosso!” Ruggì voltandosi furioso.
Studi sostengono che i Mannari, lasciati vivere allo stato brado percepiscono un attenuazione dei sintomi della loro condizione, in favore di un aumento della forza bruta …
Il resto dello studio non lo ricordava, ma lo sposò a pieno mentre Vulneraria lo sbatteva contro la roccia nuda dall’altra parte della strada.
“Non metterti contro di me, lupacchiotto.” Gli fiatò addosso come un cattivo di serie b. “Ho sbattuto a terra tuo padre, e tu hai il sangue più annacquato del suo!”


“Che sta succedendo?!”
 
Neville. Il suo buon vicino Neville. Doveva aver sentito le urla, e in pieno stile Grifondoro era uscito di casa brandendo la bacchetta.
Come avresti dovuto fare tu.
Bravo Tassoscemo …
Vulneraria lo mollò di colpo. Da come guardava la bacchetta doveva aver ben chiaro come la situazione si fosse appena capovolta.
“Ci sono problemi Teddy?” Domandò l’amico con l’aria di chi si sarebbe buttato nella mischia senza battere ciglio. Incredibile a dirsi, ma quell’uomo dall’aria mansueta era il primo a sedare le risse ai Tre Manici e l’ultimo a tirarsi indietro se c’era da separare i contendenti con le maniere forti.
Ted guardò il Mannaro che pareva trattenersi dal saltare alla gola ad entrambi: e quell’uomo avrebbe dovuto crescere con lui Benedetta?
Sul mio cadavere.
“No … nessuno.” Scandì lentamente. “Vulneraria se ne stava andando.”
“Non finisce qui, lupacchiotto.” Ringhiò prima di sistemarsi il mantello e andarsene con lunghe falcate rabbiose.
Neville gli fu subito accanto. “Vulneraria?” Domandò rinfoderando la bacchetta. “Il nonno di Ben?”
“Proprio lui.” Si massaggiò il petto, dove la manata del Mannaro l’aveva colpito. Soffocò una smorfia di dolore.
Livido sicuro.
L’amico guardò nella direzione in cui il Mannaro era scomparso. “Era qui per vederla?”
“Non autorizzato, sì.” Strinse la mascella. Si percepì stringerla. “Ma non accadrà una seconda volta. Farò il modo che al Ministero siano informati di quanto successo. Con un po’ di fortuna otterrò un ordine restrittivo.”
Neville si fece scuro in volto. “Ha cercato di far del male alla piccola?”
“Voleva avvicinarla senza il mio permesso.”
L’amico, con sua sorpresa, lo guardò incerto. “Ma…” Iniziò. Non gli diede il tempo di continuare; Benedetta era in casa da sola, e Merlino solo sapeva in che guaio avrebbe potuto cacciarsi in sua assenza.
“Grazie per l’intervento Nev.” Gli diede una pacca sulla spalla e si diresse verso casa.
Una parte di sé era consapevole che rischiare una rissa con il nonno di sua nipote era l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare se voleva ottenere l’affido definitivo.
Peccato non fosse riuscito a controllarsi.
“Ben, dove sei?”  Quando aprì la porta, per poco non la diede in faccia alla bambina, che per fortuna aveva riflessi migliori del classico cinquenne umano. Si tirò indietro, con aria colpevole.
A cosa ha dato fuoco?
“Ehi.” Iniziò gentile, perché doveva ricordare come si faceva ad essere una brava persona, e non un fascio di nervi e furia. “… che ti ho detto sullo stare dietro le porte? Se qualcuno la apre soprappensiero può farti male.”
Scusa!” Esclamò in italiano, mordendosi poi un labbro. “Signore grosso chi era?”
“Nessuno.” Rispose prima di potersi fermare. Sospirò. “No … era … tuo nonno. Ti ricordi? Ne abbiamo parlato, del nonno del tuo papà.”
“Allora è bisnonno!” Puntualizzò con sua enorme sorpresa. “Jamie mi ha insegnato la genialogosa!” Spiegò orgogliosa.
“Genialogia.” Sbuffò divertito: se lo immaginava, il suo ragazzino, ad intricarsi con le numerose ramificazioni della sua famiglia tentando di farle digerire ad una confusissima Benedetta.
“Ecco!” Annuì come una maestrina in formato mignon. Poi di colpo abbassò il visetto, cominciando a dondolare da un piede all’altro. Lo faceva sempre quando l’umore precipitava. “… che voleva?”
“Niente di importante.” La tranquillizzò chinandosi alla sua altezza. “Non è stato gentile, quindi l’ho mandato via. Non vogliamo persone maleducate…” Aggressive, rabbiose, violente. “… in questa casa, vero?”
“Jamie dice le parolacce.” Gli fece notare.
“Beh, è dive…”
“Mi vuole portare via?”
Ted si sentì gelare il sangue nelle vene. Allora li aveva ascoltati. Non solo, aveva dedotto. Le mise le mani sulle spalle. “Ben…”
“Non voglio!” Esclamò con gli occhi lucidi. “Non voglio andare via da casa, e da te e da Jamie! Non voglio che mi porta via!” Disse tutto di un fiato nella sua lingua madre perché era ovvio, era sconvolta.
La strinse a sé, seppellendo il naso in quella massa di capelli arruffati, solo parzialmente domati dai suoi imbranati tentativi mattutini. “Non permetterò che nessuno ti porti via.” Le mormorò. “Questa è casa tua.”
Benedetta piegò la testa da un lato per guardarlo bene, seria. “E io sono la tua bambina!”
Ingoiò il groppo alla gola. Mettersi a piangere non avrebbe migliorato la sua posizione di protettore. “Certo che lo sei…” Disse con un tono da campione dei frignoni. O così avrebbe detto James.
Benedetta parve trovare la risposta soddisfacente. “Okay.” Dichiarò, svicolando per farsi mettere giù. “Posso andare a giocare in camera?”
Il mondo dei bambini era mutevole come una nuvola nel cielo. Per fortuna. Le sorrise. “Sì, ma prima togliti le scarpe.”
“Va beeene.” Strascicò prima di calciarle via e salire su come un razzo.
Le prese, e finse di non volersele stringere al petto come una madre ansiosa.
Meglio fare qualche chiamata invece. Aveva una promessa da mantenere.
 
****
 
 
Diagon Alley, Casa di Albus Potter e Thomas Dursley.
Pomeriggio.
 
“Mi hai perdonato?”
“Non ne sono sicuro.”
“Dopo tutto quello che ho fatto per te!”
“E per te stesso. La cosa è stata reciproca.”
Albus rotolò su un fianco, steso accanto a Tom, coprendo solo parte della sua lunghezza scheletrica. Gli passò le dita sulle costole, seguendone il contorno una ad una. “Quella cosa è solo a tuo beneficio, Tom.”
Tom sprimacciò il cuscino che gli sosteneva la testa, con un’espressione da gatto impigrito.
Sul serio, Zorba ne faceva una uguale sputata. “Me la sono meritata per essermi sorbito la tua lagna fedifraga.”
“Lagna…” Gli diede uno schiaffo sul petto a cui l’altro rispose con uno sbuffo indignato. “Non mi lagno!”
Tom per tutta risposta lo rovesciò sulla schiena come una tartaruga molto nuda e irritata. Poi avvicinò il viso al suo, mortalmente serio. “È la cosa che ti riesce meglio, Potter.”
“Idiota.”
Albus rispose al consequenziale bacio, passandogli le dita tra i capelli e serrando la presa nei dintorni della nuca.
Idiota … Il mio idiota.
Quella sessione di sesso pomeridiano costellato da frecciatine e morsi era pur sempre un progresso, visto che fino a pochi mesi prima la sola menzione del rapporto tra lui e Mike sarebbe bastata per gettare il compagno in una crisi di gelosia nera e autoalimentante.
Dopotutto, per quello doveva anche ringraziare quella faccia da schiaffi di Meinster.
Aveva pagato esser tanto paziente con lui.
 
“Ehi, ragazzi!”
 
Non pagava però esserlo quella sciagura rossa di sua sorella.
Lily, che era entrata in camera senza premurarsi che fossero decenti, li squadrò senza il minimo imbarazzo. “Ma siete sempre in calore voi due?” Chiese con sincero interesse.
Lils!” Urlò, indeciso se afferrare coprirsi con un cuscino o saltare fuori dal letto per ucciderla.
Tom fu più sveglio di lui. Con un movimento afferrò la bachetta sul comodino e tirò il lenzuolo, caduto a terra, sopra di loro.
Sua sorella ebbe l’indecenza di sorridergli. “Me lo dedichi un minuto?”
“Portala via prima che l’ammazzi.” Fu tutto quello che disse Tom, ed era abbastanza.
Al, perché non voleva che la stanza si sporcasse di sangue e budella umane, trovò alla cieca i propri pantaloni e la spinse fuori senza troppe cerimonie.
“Eh, come se non avessi mai visto un paio di sederi e relativi…”
“Per l’amor di Merlino, zitta.” Ringhiò. “Non potevi bussare?”
“L’ho fatto, ma siete stati così geniali da Insonorizzare la stanza.” Gli fece notare. “E comunque perché non avete usato un Colloportus?”
“Se Mei ha bisogno di noi e non riesce ad entrare? Non può ancora usare la magia fuori da Hogwarts!” Ribattè anche se era ben consapevole che l’adolescente avrebbe preferito bruciarsi gli occhi con una Pozione Corrosiva che rischiare di coglierli sul fatto.
Lily scrollò le spalle, spostandosi in salotto. Avrebbe voluto spedirla fuori di casa a pedate, ma sfortunatamente se veniva a trovarlo senza annunciarsi c’erano ragioni gravi.
E ora che è successo? Stasera mi tocca pure Rosie …
Va bene il cliché del confidente gay, ma qui si esagera!
“Ma fate sempre sesso il pomeriggio? Non avete, chessò, da lavorare?”
“Io ho le notti e il lavoro di Tom è flessi … ma perché ti sto rispondendo?!”
“Perché sono bravissima a far parlare la gente.” Rispose. “Non mi offri niente?” Aggiunse sedendosi sul divano. “Stai cominciando a diventare inospitale come Tommy!”
“Tendo ad esserlo sì, quando mi si disturba.” Le si sedette accanto cercandosi di dimenticare che aveva un robusto bisogno di una doccia. “Avanti, che succede?”
“Non posso venire a trovare il mio fratellino senza ragioni apparenti?”
“È il momento in cui devo insistere per farmi raccontare tutto? Perché non lo faccio.” La minacciò serio. “Se mi entri in casa abbi almeno la decenza di non fare la preziosa!”
Lily si morse un labbro. “Come fai?” Domandò senza spiegare niente: tipico suo, iniziare con una frase teatrale.
Non le avrebbe dato la soddisfazione di preoccuparsi. “A sopportarti? È la stessa cosa che mi chiedo ogni volta che vedo la faccia di Jamie. Sono giunto alla conclusione che nella vita precedente dovevo essere una persona orribile.”
Lily gli mollò una gomitata, ma accettò la punzecchiatura. “A stare con Tom.” Chiarì. “Cioè, perché lo ami, questo lo so … ma come fai a…”
“Sopportarlo?” Ripeté.
Suonate gli allarmi. La luna di miele di Lily e Sören si è appena conclusa!  
“Tu e Ren avete litigato?”
Sua sorella fece spallucce, ma era un chiaro assenso. “Ci vuole pazienza.” Disse seguendo il filo del ragionamento di prima. “Tom, lo sai, non è una persona facile … ma neanch’io lo sono.” Ammise. “Si tratta di trovare un terreno comune.”
“Grazie al cavolo, voi avete avuto tempo fin dalla culla per trovarlo!” Borbottò. “Io e Sören…” E qui si zittò, perché non era da sua sorella lamentarsi delle sue mancanze come donna.
Da quel punto di vista, era più orgogliosa di James.
“Perché avete discusso?” Insistette: tanto era quello che ci si aspettava facesse, no?
Sii onesto. Ti diverti da morire.
“Per cosa vuoi che discutiamo adesso…” Borbottò Lily sprofondando nell’abbraccio del divano. E le dighe furono aperte: gli sciorinò tutta la lite.
“Perché vuole sempre fare l’eroe? Cosa deve dimostrare?” Concluse esasperata.
“Beh…”
“Sì, lo so cosa vuole dimostrare, che è cambiato e che sta dalla parte giusta, ma non deve farlo continuamente!”
“Immagino…”
“Soprattutto non deve dimostrarlo a me! Sono la sua ragazza, lo conosco meglio di sua madre … Letteralmente, perché sua madre è una stronza egoista che lo metterà nei guai!”
“Credo…”
“Vorrei solo poter avere una vita normale con lui. Invece dobbiamo sempre contare il tempo prima che lo mettano su una Passaporta, o prima che papà decida che deve essere usato come esca per John Doe! E non lo capisce, pensa che…”
Lils.” La prese per le spalle. Con i suoi fratelli andava spesso usato il contatto fisico per avere una reazione. Sia James che Lily tendevano a avanzare come treni finché non percepivano un ostacolo. “Sei qui per sfogarti o per un consiglio?”
Sua sorella fece una smorfietta. “Entrambi?”
Albus sospirò. “Passiamo al consiglio, okay?”
Un mugugno non impegnativo. Lo interpretò come un assenso. “Ascolta … Sören non è Scott.”
Lily, prevedibilmente, si inalberò. “Cosa c’entra…”
Sören non è Scott.” Ripetè paziente. “Scott era un colletto bianco, il massimo problema che doveva affrontare in capo alla giornata era discutere con il proprio capo. Sören è un poliziotto.”
“Non è questo…”
“ … il punto.” Terminò per lei. “È vero. Il punto è che non puoi aspettarti che Sören si comporti come una persona normale. Perché non lo è.” E lo disse con tutto l’affetto che provava per Prince. “È stato cresciuto in un certo modo, ha avuto delle esperienze che la maggior parte dei maghi … degli esseri umani … sente solo raccontare. Non puoi tarare le sue reazioni su quelle del mago della strada. Non è che non capisce la pericolosità delle sue decisioni. È che non ritiene il pericolo un motivo valido per non prenderle.”
Lily non disse niente, quindi il concetto doveva essere arrivato.
“È anche questo il motivo per cui ti sei innamorata di lui, no?” Le sorrise. “Non puoi prendere solo la parte buona di una persona. Devi prenderla tutta … anche quella che ti fa infuriare o ti spaventa a morte.”
“Come fai tu con Tom…” Mormorò.
“Come faccio io con quell’idiota.” Concordò. “E come fa lui con me. A modo suo.” Aggiunse perché non gliel’avrebbe mai data vinta.
Lily annuì, afferrando un cuscino e sprimacciandolo, come faceva sempre quando aveva bisogno di riflettere. “Ho paura di perderlo.” Sussurrò. “… e non solo per la missione.”
Le accarezzò la testa, come la bambina che sarebbe sempre stata, almeno per lui: la piccola Lils tutta smorfie e fossette. “Tutti abbiamo paura che le cose con la persona che amiamo non vadano. È normale. Di solito lottare perché non succeda aiuta.”
“… sto lottando.”
“E ne vale la pena?”
Lily fece un piccolo sorriso. “Cavolo, sì.”  
La lasciò in salotto, con la promessa che una volta ripresa se ne sarebbe andata senza salutarli. Tornato in camera scivolò dentro il letto, dove Tom aveva già sparso fogli di chissà quale ricerca stava scrivendo con Stevens. “Grazie per aver aspettato.” Lo apostrofò.
L’altro non alzò lo sguardo dalla pergamena che stava leggendo. “Non sei l’unico ad essere paziente.”
Aspetta, ha davvero imparato la Legimanzia?
“No.” Sbadigliò l’altro con suo sommo orrore. “Per la milionesima volta … non ho imparato la Legimanzia.” Inarcò un sopracciglio. “E ci hai davvero usato come paragone positivo per spiegare le difficoltà della vita di coppia?”
“Hai origliato!”
“Voi Potter non parlate, urlate.”
Albus sbuffò, strappandogli di mano la pergamena. Ignorò le sue proteste e gli si spalmò contro, seppellendo il viso contro la sua spalla. “L’ho fatto … ma non pavoneggiarti. È una gara tra zoppi.”
Tom gli passò un braccio attorno alle spalle e gli premette un bacio sulla testa. “Sì, ma comunque vinciamo.”
“Non è questo…”
“Primi in classifica.”
Sbuffò trattenendo una risatina. "In un certo senso."
"Nel senso migliore."
Non l'avrebbe avuta vinta stavota. Ma era disposto a lasciar correre.
 
****
 
Diagon Alley, Finnigan’s Wake pub
Sera
 
Il Finnigan’s era il posto giusto per i grandi annunci. Rumoroso quanto bastava, con luci soffuse atte a nascondere espressioni e musica in costante diffusione.  
Rose pensava fosse perfetto per L’annuncio.
“Ricordami perché siamo venute qui a cenare?” Brontolò Violet al suo fianco.
Non aveva idea del perché l’avesse invitata. O forse sì: alla fine dei salmi la francese era l’amica più cara che avesse.
Il che è ironico considerando che quando l’ho conosciuta la odiavo.
Non poteva non darle la Notizia assieme a suo cugino. Erano le persone che avrebbe voluto avere a fianco se fosse mai mancato Scorpius.
Non che debba mancare. No, tante grazie.
È per dire.
“I cocktail costano poco.” Le fece notare.
“Pezzente.” La apostrofò affettuosa. “Se eri a corto di soldi potevi chiedere a me … O al tuo fidanzato. Non lo sposi perché è schifosamente ricco?”
“Falla fini … ah, ecco Al!” Fece un cenno al cugino, che si stava facendo spazio tra i tavoli. Essendo privo di Tom a seguito, quella sera esibiva una camicia in sgargiante fantasia a pois fluo. Avvicinandosi si rese conto che si trattava in realtà di volpi su sfondo verde.
“Questa camicia…”
“È bellissima.” Ribatté sedendosi davanti a lei. “Ho chiesto a zia Robin, ora vanno così!”
“In quale universo parallelo?” Sibilò Violet come se l’avesse personalmente offesa. “Mettiti di lato così non ti vedo.”
L’altro gli rivolse una smorfia poco impressionata e prese il menù. “Sto morendo di sete. Offri tu Letty, vero? Da serpe velenosa a serpe velenosa.”
“Con i denti da latte che ti ritrovi, fiorellino, non credo…”
“Offro io stasera, siete miei ospiti.” Tagliò corto perché quelle schermaglie, per quanto non veramente astiose, sfociavano spesso in vere e proprie bisticci. “Un Mangiamorte e un Patronus liscio, giusto?”
Al annuì occhieggiando verso il palco. “Grazie, Rosie. Stasera c’è la serata a microfono aperto.” Aggiunse allegro. “Andiamo a fare le Sorelle Stravagarie?” Guardò Violet. “Tu puoi fare Irsuta.”
“Crepa.”
“Non è quel genere di serata.” Sospirò: del resto, non poteva più bere e solo in caso di completa sbronza avrebbe accettato di rendersi ridicola davanti ad una platea di completi estranei. “Vi devo parlare.”
“E non siamo qui per questo?” Dietro il tono da presa in giro Al mostrava preoccupazione.
Beh, il Codice Potter Weasley viene tirato fuori solo per le cose gravi.
E le serate karaoke, anche.
Prese le ordinazioni salutando Fergus che gli gridò dietro qualcosa, ma considerando che un ragazzotto barbuto stava letteralmente strillando sul palco, non tentò neanche di decifrarlo. Tornò indietro e posò i cocktail davanti agli amici.
“Me l’hai fatto fare doppio!” Esclamò impressionato il cugino. “Cosa vuoi farmi digerire?” Ne diede un sorso. “Sei incinta per caso?”
“In effetti sì.”
Ecco, detto.
Fu più facile di quanto avesse previsto. Per una volta infatti non doveva sganciare una bomba spiacevole, come sul lavoro o nella infinita giostra che era la sua multiforme famiglia.
Non era una brutta sensazione.
Le reazioni non tardarono a mancare. Al quasi schizzò a sedere, coprendosi la bocca con le mani. “Merlino Benedetto!” Esclamò, tutto occhi enormi.
Violet sorseggiò il suo drink senza scomporsi. Non avrebbe mai tradito il suo aplomb. “Però … e chi avrebbe detto che i pallidi geni Malfoy sarebbero riusciti a sfangare un'altra generazione.”
“Letty!” Esclamò divertita. “Scorpius è un ragazzo perfettamente in salute e…”
“Vigoroso? Lo credo bene.” Ora che l’aveva attirata nella sua piccola trappola le mise una mano sulla sua. “Congratulazioni Weasley. Spera che non sia maschio.”
“Scorpius sarà al Settimo Cielo!” Gli sorrise Al, andando ad abbracciarla stretta. “Sono così contento!”
Sì, ci voleva una bella notizia …
il Mondo Magico avesse una resilienza notevole, il clima che si respirava per strada, al lavoro e in casa era sempre contaminato da una sottile inquietudine.
Il Demiurgo.
Anche se non se ne parlava sembrava sempre essere lì.
La paura del contagio.
Il San Mungo stava perfezionando una cura, ma non c’era ancora niente di certo, nonostante l’ottimismo di Al e colleghi.
Nel mio piccolo …
Si rese poi conto di quanto appena detto dal cugino. “Scorpius ancora non lo sa.” E alle espressioni stupefatte che ne conseguirono aggiunse. “Non voglio rischiare di distrarlo dal lavoro.”
“Questa è la cosa più stupida…” Iniziò Al.
“Rose ha ragione.” Le venne in soccorso, a sorpresa, Violet. “Se Malfoy sapesse che sta per diventare padre mollerebbe Pluffa e Boccino per seguirla come un’ombra!”
“Ma figurati!”
“Mi scordo sempre che vieni da una famiglia di eroi, Potter.” Violet giocava con la propria cannuccia, essendosi già scolata il suo Patronus con la grazia di chi reggeva meglio di un Battitore ungherese. “Scorpius è un Malfoy. Per quella famiglia non esiste niente più importante del proprio sangue.”
“Scorpius non è un Purosangue razz…”
“Nessuno ha detto questo.” Sbuffò l’altra infastidita. Comprensibile visto che l’aveva, di striscio, appena insultata. “Non si tratta di una questione di casata, ma di famiglia. I Malfoy mettono i Malfoy al di sopra di tutto. Non hai letto di come Lady Narcissa mentì a Lord Voldemort per salvare suo figlio? Il padre di Sy?”  
Albus aggrottò le sopracciglia confuso. “Non capisco questo cosa c’entri.”
“Se Weasley informasse il novello paparino, il suddetto finirebbe per dare le dimissioni pur di non rischiare di rendere orfano suo figlio.”
Al fece una smorfia voltandosi verso di lei. “La pensi così?”
“Non credo darebbe mai le dimissioni, ama troppo fare l’auror.” Specie alla luce della conversazione di quella mattina. “Ma voglio comunque dirglielo quando avrà la mente più sgombra.” Soggiunse. “Per quanto ho capito non si tratta di aspettare molto. Vogliono tentare una nuova operazione a breve.” Fece una pausa. “Troppo breve.”
Al annuì. “Beh, non sei di molte settimane, vero?”
“Quattro.” Pronunciò orgogliosa, ed era una sensazione strana: non era una cosa per cui aveva studiato, lavorato e per cui si era rotta la schiena. Era una cosa che il suo corpo portava avanti da solo, senza il minimo contributo da parte del suo cervello sgobbone.
Eppure era come se avesse appena conseguito undici MAGO.
Al dovette intuire il suo stato d’animo perché le strinse una mano con affetto. “Sarai una mamma meravigliosa, Rosie.”
“Ansiosa e protettiva al punto giusto.” Convenne Violet. “Povero bambino. Con un genitore demente e uno apprensivo diventerà schizofreni…” Si bloccò soffocando un’imprecazione in francese. “Potter!”
Al, che doveva appena averle rifilato un calcio nello stinco, scrollò le spalle. “Pensaci, sarà il primo Weasley biondo!”
“Domi è bionda.”
“È argento. È la sua eredità Veela.” Rimbeccò Violet indignata. “Comunque cos’è, maschio o femmina?”
“Non ne ho idea.” Si strinse nelle spalle. “È troppo presto.”
“Magari sono gemelli! Come Molly e Lucy!”
“O trigemini, Weasley. Pensaci.
“Non ci allarghiamo.” Li mise in riga, ma non riusciva a contenere il sorriso.
A proposito di contenere…
“Vi chiedo di tenere la bocca chiusa, almeno finché non potrò dirlo a Scorpius … Ce la fate?” Chiese: dirlo a sua madre e pregarla di non spifferarlo a suo padre era stata dura, ma sapeva che avrebbe mantenuto il segreto.
Papà non ne sarebbe in grado. E sapermi incinta prima di vedermi sposata quando ancora non ha digerito del tutto il matrimonio …
La testa gli esploderebbe come un calderone.
Al si fece una croce sul cuore. “Mettici pure sotto Voto Infrangibile!”
Violet alzò il mento imperiosa. “Io riesco a tenere un segreto anche senza bisogno di un incanto che preveda la mia morte in caso di rottura.”
“Come sei riuscita a mantenere segreta la tua sessualità per anni? In effetti è un buon parago… ahu!” Al si massaggiò dove il pugno di Violet lo aveva colpito. “Era un complimento!”
Violet lo ignorò. “Weasley, conta pure su di me.” Fece un cenno in direzione di Al. “Se vuoi gli faccio una Fattura Mollelingua.”
Al gli mostrò la suddetta. “Preferirei rimanesse integra. Mi serve.”
Sorrise ad entrambi. “Grazie.” Erano sicuramente gli ormoni ma si stava commuovendo. Ingoiò un paio di lacrime ed accettò l’abbraccio avvolgente e familiare del cugino. “Sono felice…” Disse piano, perché non erano cose da dire ad alta voce.
“Certo che lo sei.” Al le baciò la testa. “E lo siamo anche noi. Un brindisi!” Alzò il proprio calice. “Al piccolo Weasley-Malfoy!”
“Malfoy-Weasley.” Ribattè Violet che si sentiva parte di quella famiglia allucinante forse persino più di lei, che lo sarebbe stata presto legalmente. “Che non sia maschio.”
“Ma abbia i capelli biondi!”
Rose rise e alzò il calice. Segreto o meno, la sua nocciolina un alzare di calici se lo meritava proprio.
 
****
 
 
Note:


Ormai un mese (e qualche giorno in più…) è diventato un appuntamento fisso.
La mia Real Life pretende giornalmente la mia testa e una buona parte del mio cuore, quindi sostanzialmente scrivo nei ritagli di tempo. E cerco di mantenere le fila unite.
A questo punto – lo so, lo ripeto da mesi – non manca davvero molto prima della “battaglia finale”. Un capitolo.
Anticipo che il prossimo vedrà molto Jeddy e molto LiRen.
Ah, sì: questa la canzone del capitolo.
 
 
 
 

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Capitolo 55
*** Capitolo LIV ***


Capitolo LIV
 
 
 
 

I want to learn to love in kind
‘Cause you were all I ever longed for

(The Wolf, Mumford’s & Sons)
 
 
9 Agosto 2028
Londra, Piccadilly Circus.
Pomeriggio
 
Sören era sospeso. Per meglio dire, era in attesa: e per sua esperienza, non c’era niente di peggio del lento sgocciolare via dei minuti, delle ore, aspettando che arrivasse il momento in cui sarebbe entrato in scena.
Era stato un soldato paziente al soldo di suo zio.
Una volta.
Ora era diverso. C’erano sempre degli ordini di mezzo, ma stavolta aveva scelto di seguirli.  Scelto di mettersi in prima linea e fare il doppiogioco con John Doe, l’uomo che meglio di tutti sapeva leggergli nella mente, avendo vissuto gomito a gomito per tanto, troppo tempo.
Lily aveva ragione, era un suicidio.
Si passò una mani tra i capelli, guardando dalla finestra dell’albergo: sotto di lui frotte di Babbani gremivano Piccadilly Circus, presi nelle loro vite, ignari di cosa si muoveva nel sottosuolo di quella Londra di cui si credevano incontrastati padroni.
Li invidiava.
Avrebbe voluto essere un senza-magia per doversi preoccupare solo dei frutti del proprio lavoro, di una routine noiosa e di essere all’altezza delle aspettative della donna che amava.
Lilian …
Lily che dopo la lite al Ministero si era rifiutata di chiamarlo o mandargli un Gufo, neppure due righe. Non l’aveva cercata: non avrebbe saputo cosa dirle oltre a ciò che si erano già abbondantemente urlati addosso.
L’ho persa?
Il suo malato senso del dovere aveva infine esasperato la sua piccola strega inglese?  
Forse si è stufata di aver paura per te. Forse sta riconsiderando la sua scelta … forse sta pensando che sarebbe stato meglio avere un mago come Ross al proprio fianco.
Un mago che non rischia di lasciarla sola.
Sfilò una sigaretta dalla stecca che Milo gli aveva fatto recapitare tramite gli auror: avrebbe voluto averlo tra i piedi per chiedergli consiglio. Peccato che l’amico stesse guarendo tra le braccia di Zabini. Non sarebbe stato giusto disturbarlo.
Visto che tra l’altro ha dato le dimissioni.
Sei solo, principino. Solo ad attendere il via libera per farti ammazzare.
Si accese la sigaretta con un movimento brusco della mano e finì per bruciarne metà perché troppo nervoso. Ne fumò l’altra ipnotizzato dal frenetico muoversi della città sotto di sé.
Non chiamarla. Non azzardarti a chiamarla.
Due colpi alla porta lo distolsero da un momento di purissima commiserazione. Chiuse la finestra e si impose di non farsi prendere dal panico.
Ci siamo?
“Prince.” La voce di uno degli Auror di scorta fece capolino dalla porta. “Hai una visita.”
Lily!
Non era Lily, perché entrò Dionis, il suo buon amico Dionis … con la figlia.
“Cosa…” Esordì stupefatto, mentre l’altro faceva un cenno di ringraziamento ai due agenti e si chiudeva la porta dietro. “ … che ci fai qui?”
“Sono venuto a trovarti!” Spiegò come se fosse ovvio, bilanciando la bambina su un braccio mentre con l’altro teneva un passeggino chiuso. “All’oscuro di Lily e Roxanne.” Aggiunse con un sorriso complice.
Suo malgrado ricambiò. “Immagino che tua moglie non sarebbe felice di sapere che porti Alexandra in bocca al pericolo.”
L’altro scrollò le spalle, baciando la testolina della figlia dormiente. “Questo posto pullula di auror, è probabilmente il più sicuro dell’intero Mondo Magico.”
Non aveva tutti i torti, quindi gli fece cenno di sedersi. Era così disperato che persino intrattenere un padre di famiglia con infante al seguito gli sembrava allettante.
“Posso farvi portare qualcosa da bere? Per la bambina?”
Dionis scosse la testa. “Ha già mangiato, ma per me una birra.” Gli strizzò l’occhio. “Faust solo sa quanto ne abbia bisogno!”
Sören sorrise di rimando. Ne ordinò due, una anche per sé dato che ne sentiva la disperata necessità.
Almeno non bevo da solo come un ubriacone …
“Sto bene.” Si premurò di esordire quando entrambi ebbero due boccali schiumosi alla mano. “Sto aspettando.”
“Di entrare in azione.” Indovinò Dionis dando un lungo sorso appagato. “Hai quella faccia.”
“… quale faccia?”
“Quella che avevi su cinque anni fa, per tutto il tempo.”
Sono già entrato nel personaggio? Grandioso.
Dionis dovette intuire qualcosa dalla sua espressione perché gli scoccò un’occhiata di scuse. “Intendevo dire che sembri preoccupato.”
“Lo sono.”
“… quindi è pericoloso.”
Sören fece una smorfia amara, quasi quanto il sapore della birra. “… hai parlato con Lily.”
L’amico ebbe il buon gusto di non accampare scuse. “Roxanne è una delle persone da cui va’ per sfogarsi e farsi bacchettare … non ci ho parlato, ma l’ho ascoltata.” Abbozzò un sorriso. “Non è più arrabbiata con te.”
“No?” Ironizzò. “Il trattamento del silenzio parla di tutt’altro.”
“È una Weasley.” Ribatté come se quello spiegasse tutto. “Hanno un orgoglio sconfinato. Mantiene il punto perché non sa come ammettere che ha esagerato.”
“… non ha esagerato. Ha detto tutte cose vere.”
Fin troppo.
Dionis rimase in silenzio: quello che apprezzava dell’amico è che non era tipo da aprir bocca e lasciar andare. “Lily sa di chi si è innamorata.” Si risolse a dire. “Vedrai, tornerà.”
Sören sospirò: avrebbe voluto credergli, ma non poteva togliersi dalla testa il tarlo di aver tirato la corda, di averle chiesto troppo.
È una costante tra di noi. Lei vive tranquilla la sua vita ed io vengo a sconvolgergliela.
“Me la tieni d’occhio un secondo? Pausa bagno.” La domanda dell’amico lo riportò bruscamente coi piedi per terra.
“… tenere d’occhio chi?”
Avrebbe preferito rimanere senza risposta perché gli venne porta Alexandra. L’infante Alexandra.
“Non sono bravo con i…” Non fece in tempo a finire la frase che l’altro gliela mise sulle ginocchia senza troppe cerimonie.
“Sei o non sei il suo padrino?” Sogghignò infame prima di sparire in bagno.
Dannato senso del dovere!
La bambina, trovandosi su un nuovo paio di gambe si agitò scocciata, spingendolo a frenare l’inevitabile caduta con le mani. Si ritrovarono così a fissarsi negli occhi.
“Buongiorno.” Propose e fu felice che non ci fosse nessuno a testimoniare la sua agghiacciante inadeguatezza.
Lily si sarebbe sganasciata dalle risate.
Alexandra in compenso, molto più simile al suo comprensivo padre, gorgogliò qualcosa fissandolo corrucciata.
Non piangere. Ti prego. Non piangere.
“Sono l’ultima persona a cui dovresti essere affidata.” Borbottò mentre questa sgambettava senza senso logico alcuno.
Come fanno i neonati, cioè.
“Sarò un pessimo padrino.” Le confidò. “Come sono pessimo in un sacco di cose. Ad essere una persona in generale, suppongo.”
Alexandra per tutta risposta gli diede una botta sul braccio con un piede e gli sorrise.
… quando sorride assomiglia a Lilian.
O forse era lui che se lo immaginava perché ne sentiva la mancanza.
“Vedo che avete fatto amicizia!” Lo prese in giro Dionis, tornando con un sorriso che avrebbe avuto voglia di cancellargli dalla faccia a suon di Fatture. “Quando è così tranquilla è carina, vero?”
“Sì, lo è.” Scrollò le spalle passandogliela. 
“Tutto a posto?” Domandò riprendendosela con la tranquillità consumata del genitore. “Sei impallidito!”
“Avevo paura di farla cadere.” Ammise malmostoso. “È la prima volta che prendo in braccio un bambino.”
Dionis lo guardò sorpreso, ma si astenne dal commentare: un altro dei suoi innumerevoli meriti. “Un giorno avrai figli anche tu.” Annunciò con il suono di una profezia.
Sbuffò. “L’ultima cosa a cui penso al momento è tramandare una discendenza.”
“Non adesso infatti, un giorno.” Gli mise una mano sul braccio. “Prima o poi la guerra finisce amico mio.”
È per farla finire che ho accettato il piano di Harry Potter, cosa credete?
Non lo disse però, preferendo dare un sorso alla sua birra.
È per tornare da te, mia Lilian.
Sperava solo di non trovare una porta sbarrata.
 
****
 
 
Scozia, Hogsmeade.
Mattina.

 
“Non puoi tenerla chiusa in casa per sempre.”
James voleva sempre aver ragione. Era cresciuto facendo a gomitate per farsi notare tra la selva di cugini e quando era arrivato ad Hogwarts, con i riflettori puntati su di lui, primo figlio del Salvatore, aveva solo dovuto rincarare la dose.
Avere ragione era sempre stata un po’ la sua ancora di salvezza. Ci si aggrappava con le unghie e coi denti e funzionava. Più o meno sempre.
Con Teddy era diverso. Normalmente il coltello dalla parte del manico l’aveva l’altro, con la sua stupida pacatezza.
C’erano momenti però in cui era certo di non sbagliarsi.
Tipo quello.
“La pulce ha bisogno di uscire e prendere una boccata d’aria. Sta dando di testa.” Continuò mentre il compagno fingeva di non ascoltarlo, concentrato a scegliere un libro dalla mostruosa biblioteca che fagocitava buona parte del salotto. E delle scale. E di camera loro.
Ricordati che lo ami tanto, Potter. Proprio tanto.
Te lo vuoi pure sposare!
“Non è sicuro.” Ribatté per circa la milionesima volta. “Dopo quello che è successo con Vulneraria…”
“Non l’avevo capito le prime novemila volte che me l’hai detto, eh.” Gli fece notare affiancandoglisi. Ted non stava scegliendo un bel niente: se ne stava con lo sguardo fisso nel vuoto. “Il Grande Lupo non è qui, Teddy.” Tentò di rassicurarlo, perché la visita del licantropo l’aveva scosso, e tanto: quando era tornato a casa l’aveva trovato poco tassorossescamente sul piede di guerra. “Il Ministero gli ha spedito una lettera di diffida. Se mette di nuovo piede ad Hogsmeade si può scordare di vedere Benedetta!”
“I Mannari non riconoscono l’autorità del Ministero, James.” Ed eccolo lì, il tono da professorino stronzo. A volte si chiedeva se avrebbe mai smesso di considerarlo un suo studente.
Per un anno in cui lo sono stato! Porca puttana, segnato tutta la vita.
“E allora perché non se l’è già venuta a prendere?”  
“Perché qualcuno l’ha consigliato bene. Flynn probabilmente.” Sbottò seccato, chiarendo quanto l’opinione che aveva della funzionaria fosse precipitata dopo il disastro che aveva combinato spifferando la vera natura di Ben al branco.
“Flynn ha solo fatto il suo lavoro.” Gli fece notare, perché funzionario in senso lato lo era anche lui e c’erano regole che andavano rispettate.
Ugh. Sto davvero diventando una persona adulta.
Ripeto, ugh.
Ted, a tutta quella assennatezza, fece una smorfia. “… Ben è impossibile oggi.” Ammise.
Era l’apertura che cercava. “Guarda che è così da giorni. Non puoi costringerla a starsene in casa. Ha il richiamo della foresta nelle vene!” Scherzò, ma non del tutto: Ben adorava stare fuori all’aria aperta, più di qualsiasi altro bambino avesse conosciuto.
Ed ho conosciuto me.
Appena le davi il via si lanciava fuori, tornando dentro solo per i pasti e per dormire. Pareva bearsi del contatto con l’erba, dell’odore della foresta vicina e della fauna che riusciva a scovare.
Il compagno fece una smorfia, ma il fatto che avesse rilassato le spalle era un ulteriore segnale stesse cedendo. “Magari domani la portiamo alla Tana … oggi non è la giornata giusta.”
“Perché ci sono un paio di bancarelle e un po’ di gente in più?”
“È la festa della fondazione, James.” Ted lo guardò con riprovazione, quasi fosse colpa sua che ogni anno Hogsmeade festeggiasse l’esser stata creata da un mago che aveva avuto la brutta abitudine di farsi perseguitare da ogni Babbano incontrato sul suo cammino.
“Appunto!” Rincarò. “Vuoi fargliela perdere? Ha visto così poco del Mondo Magico che mi stupirei se riuscisse ad impugnare la bacchetta prima di arrivare a Hogwarts!”
Ted si morse un labbro e lì seppe di aver colpito duro. Benedetta era praticamente digiuna del mondo a cui si supponeva dovesse appartenere e, sebbene si fosse integrata senza troppi problemi, non aveva ancora manifestato un reale interesse per la magia se non quella usata per far alzare in volo una scopa.
“Potresti approfittarne per farle una lezioncina su quanto sia fico essere un mago.” Suggerì. “E poi potreste andare alla bancarella di Mielandia … ho saputo che ci sono gli Zuccotti a metà prezzo!”
“Non te ne comprerò una scorta mensile come l’anno scorso.” Sorrise Ted, arreso.
“Eddai!”
“Li hai finiti in due giorni, Jamie. Ti sei sentito malissimo.”
“Ho imparato la lezione!” Gli assicurò accarezzandogli le spalle, perché il contatto fisico era un buon modo per distrarlo quando c’erano proibizioni pretestuose di mezzo. “Ti giuro che ne mangio solo uno al giorno.”
“Controllerò.” Lo ammonì sfiorandogli le labbra con un bacio. “Se riesci a staccare prima ti aspettiamo.”
“Non credo.” Sospirò. “Stanotte ho la ronda a Notturn Alley. Dopo l’attacco degli Infetti abbiamo dovuto raddoppiarle. Opinione pubblica.” Sbuffò.
Ted annuì e per un attimo esitò. E non c’entrava Ben, perché l’aveva già convinto.
… ah, è per la proposta. Sicuro per quello.
“Jamie, dobbiamo parlare…” Iniziò infatti.
“Sto un po’ in ritardo.” Lo fermò. “Facciamo stasera?”
Ted battè le palpebre sorpreso. “Come … uhm, come vuoi.” Sicuro, perché non era da lui procrastinare su decisioni come quella.
A meno che non avesse un piano. La sua Seconda Proposta di Matrimonio – quella che aveva bisogno delle maiuscole perché sarebbe stata fighissima – si sarebbe svolta e compiuta quella sera stessa, tutto grazie al valido ficcanasare di Malfuretto e sua sorella, che stranamente in quei giorni gli aveva dedicato più tempo di quanto avesse fatto negli ultimi mesi.
Ma non dovrebbe stare con il Pipistrello?
A sentire Scorpius avevano litigato poco dopo la riunione nella stanza di suo padre; forse era per quello.
Mah, chissenefrega. Meglio così. Quando le ho chiesto di darmi una mano era tutta contenta.
Lily adorava quel genere di boiate romantiche e quindi, come in tutte le cose che le piacevano, era brava. Lei e Malfoy avevano orchestrato una cena in un ristorante extra-lusso Babbano e lui avrebbe dovuto solo pettinarsi e ‘evitare di vestirsi come un motociclista gay’, Lily dixit.
Doveva essere una sorpresa però, da lì il suo finto turno a Notturn Alley.
“Allora vado.” Disse. “Dì alla pulce che me ne deve una.”
Ted sospirò divertito. “Diventerai il suo preferito.”
Sogghignò. “Lupacchiotto mio, lo sono già!”
Pettinarsi e invitarlo a cena. Facile come bere un bicchiere di succo di zucca.
Cosa poteva andare storto?
 
 
****
 
 
Casa di Michel Zabini
Brunch.
 
“Sono convalescente e sono già incatenato ai fornelli. Com’è?”
“La storia della tua vita, piccolo angioletto biondo!”
Milo scoccò un’occhiataccia a Loki, ma non la intendeva sul serio; dopotutto il mago gli stava facendo un favore.
Non mi tratta da moribondo.
Michel e lui erano una coppia e viadiscorrendo, okay, ma da adone strafigo il suo novello ragazzo si era trasformato in una specie di zietta rompicoglioni.
E chi l’avrebbe mai detto? Checazzo.
Da quando l’aveva portato a casa lo teneva confinato nella stanza della musica, agitandosi anche quando doveva andare a pisciare.  
Rigirò un pancake con un colpo di spatola, ignorando l’avvicinarsi di soppiatto dell’altro ragazzo. “Dì un po’, ma il tuo amichetto quando la farà finita?” Gli domandò invece.
“Finché non ti riprendi del tutto, credo.”
“Grandioso.” Fece una smorfia. “Se sapevo che mi sarei messo con l’ansia fatta persona avrei lasciato perdere.”
Loki evitò per un soffio il calcio che tentò di rifilargli quando tirò via un pancake dalla pila pronta per una colata di sciroppo. “È un bambino disagiato, sai.” Decretò leccandosi le dita.
“L’avevo capito.”
“No, sul serio. La classica storia del piccolo lord cresciuto nel lusso ma senza affetto, hai presente? Suo padre è un grosso dildo di legno.”
Milo sogghignò al paragone. “Hai un’approfondita conoscenza in materia?”
“Sono versatile se c’è una donna di mezzo.” Stette al gioco.
“E sua nonna?” Quella nonna che gli aveva regalato un’intera stanza della musica e che l’aveva cresciuto?
Quella doveva avergli voluto bene in maniera funzionale, no?
Loki fece una smorfia. “Amara, sì. Mike è stato con lei fino a poco prima di andare ad Hogwarts. Non ho mai capito perché Zabini Senior ce l’avesse spedito … da piccolo era il perfetto Purosangue modello! Io e Scorpius sembravamo dei barboni a confronto.”
… forse perché tutta ‘sta purezza di sangue non ce l’ha?
Ma era il Grande Segreto, e lui era venuto a sapere solo per quel do ut des che si era instaurato all’inizio della loro relazione. Non l’avrebbe tradito.
“Secondo me quando Blaise ha realizzato che Mike stava crescendo esattamente come sua madre si è preso un colpo ed è corso ai ripari strappandoglielo dalle mani.”
“Che cos’ha che non va questa Amara?”
Loki sospirò. Un po’ troppo serio per i suoi gusti. “Hai presente quando Mike smette di sembrare un manichino impagliato? Quella è l’influenza nefasta di sua nonna.”
“Ah.”
Il problema ce l’ha quello stronzo!
Loki scrollò le spalle. “Per tornare al discorso, il nostro buon Zabini non ha ben chiaro come dimostrare che tiene a qualcuno a parte finirci a letto … così strafà.”
“Già.” Brontolò finendo di disporre la colazione sul tavolo e facendogli cenno di mettersi a sedere. “Vorrei solo si desse una calmata. Non smetterò di respirare nel sonno o roba del genere!”
Loki fece un cenno svagato, gettandosi poi sul cibo come se non lo vedesse da giorni. Considerato che era tornato quella mattina con la barba lunga, l’aria di chi aveva dormito nei propri vestiti e senza un soldo in tasca forse era così.
“Provaglielo. Facci sesso.” Aggiunse, vuotando la propria tazza di the che si premurò di riempirgli di nuovo.  
Milo, colui che sfama i maghi bisognosi. Suona bene. Visto che sono senza lavoro, andrà alla grande sul mio curriculum.
“È quello che cerco di fare da giorni.” Grugnì dando una forchettata svogliata alle sue frittelle. “Se non lo infilo dentro un buco impazzisco.”
Il mago gli diede una pacchetta simpatetica sul braccio. “Ti sono vicino, ma non posso fare niente a parte riempirgli il the di Pozione Erettile.”
“… idea grandiosa, fallo.”
Sogghignarono come due idioti e Milo si chiese, per stupida associazione di idee, come se la stesse passando il principino. Sapeva che stava lavorando con gli Auror e non voleva disturbarlo, così gli aveva mandato una stecca delle sue sigarette preferite e aveva tenuto chiuse le comunicazioni.
Tanto ha Zenzero, no?
Una chiamata avrebbe potuto anche farla però. Non che non si fidasse della rossa, ma aveva letteralmente allevato l’idiota per cinque anni.
Era naturale sentirsi apprensivo.
Fece per raggiungere la tasca della tuta, dove teneva il cellulare, che un rumore, un forte scoppio, allarmò sia lui che l’altro. O meglio, Loki per poco non si gettò sotto il ripiano in marmo.
“Non avrai mica portato qui i tuoi guai?” Si informò preoccupato.
“Non ho dato a nessuno l’indirizzo di Mike, come potrei? È un amico!” Fece una pausa. “Certo, quello pareva proprio lo scoppio di un incantesimo…”
Milo masticò un’imprecazione a mezza voce. “Non vorrai mandarmi a vedere da solo?” Chiese dato che conosceva quel tipo di linguaggio corporeo, così come il sorrisetto da vero figlio di troia che gli servì. “Sono un Magonò!”
“Sei imponente e minaccioso.” Gli fece notare zuccherino. “E poi pensaci, se cercano me, non daranno certo grane a te!”
“A meno che non vogliano pestarmi per sapere dove sei tu.” Sibilò. Poi individuò la fonte dei rumori: proveniva dalla sala della musica!
La collezione!
Non credeva che Michel avesse detto a molti dell’esistenza di un intero patrimonio dentro una stanza della propria casa.
Quindi …
“Hai detto a qualcuno della Guallazzi?” Domandò all’altro.
“Della che?”
“Gli strumenti musicali, la collezione!” Chiarì afferrando il primo coltellaccio che gli capitò a sotto mano: fortuna voleva che il maghetto avesse il pallino per l’arredamento e avesse acquistato quella cucina Babbana completamente arredata. “Hai detto a qualcuno che l’ha ereditata da sua nonna e la tiene in casa?”
Loki batté le palpebre. “Potrei…” Ammise. “Ma…”
“Cazzo!” Corse verso la stanza con tutta la velocità che la sua stupida convalescenza gli permetteva. Aveva suonato quegli strumenti, li aveva toccati e adorati.
E poi, erano palese che Michel ci tenesse più per il loro valore sentimentale che finanziario.
“Milo, aspetta!” Gli andò dietro Loki, bacchetta alla mano. “Se ti succede qualcosa Mike mi ammazza!”
“Se succede qualcosa ai violini io ammazzo te!” Lo minacciò spalancando la porta della stanza, coltello ben stretto in pugno.
Non fu pronto a trovarsi di fronte una donna.
Eh?
Strega, pelle color cioccolato e dai vestiti dalla foggia etnica, coloratissimi, con un turbante fissato con una spilla che conteneva lo smeraldo più grosso che avesse visto in vita sua.
Lo scoppio. Era una Materializzazione.
Loki fu più svelto di lui. Lo vide abbassare la bacchetta e aggiustarsi il colletto della camicia.
Sul serio?
“Il piccolo Loki …” Salutò questa aprendo le braccia come un angelo accogliente da dipinto pre-raffaellita. Abbracciò il ragazzo in un frusciare di vesti, baciandogli poi le guance. Pareva la danza di una farfalla. “Come sei cresciuto, mon joli!”
Loki si scostò per farle il baciamano. A guardarlo bene non pareva sorridesse come suo solito, tutto sguainare di denti bianchi e occhi salaci. Sembrava davvero contento di vederla.  
Chi cavolo è ‘sta tizia? Direi una parente, ma coi colori non ci siamo.
“È passato tanto tempo, tante.” Okay. L’aveva chiamata zia in francese? Allora erano parenti! “Non sapevo foste tornata in Inghilterra.”
“Solo in visita.” Spiegò. Cristo, era nato e sarebbe morto frocio, ma una donna così, quando ti guardava, e stava guardando verso di lui con espressione interrogativa, era capace di mettere in discussione qualche certezza. “Mon ange è qui?”
Mon ange … è come mi chiama Michel.
Fece due più due. E no, non era un deficiente per non esserci arrivato prima: la top-model che aveva davanti non mostrava più di trent’anni!
Dovrebbe averne almeno il doppio.
Dannati maghi e le loro magie.
Loki scosse la testa. “È fuori, ma tornerà per pranzo. Permettetemi di presentarvi il mio amico.” Fece un gesto à la Purosangue nella sua direzione. “Milo Meinster.”
Milo si trovò nella scomoda posizione di reggere ancora il coltello. Lo posò sul tavolino da caffè sentendo ogni oncia del suo essere un teppistello di strada. “… ho il piacere di conoscere la nonna di Michel?” Domandò andando dritto al punto.
La strega sorrise e confermò con un piccolo cenno della testa. Per quel sorriso si sarebbero potute combattere guerre. Una fottuta Elena d’Africa.
Ora capiva perché Michel l’aveva fatto fesso.
Con ‘sti geni….
“Pensavamo fossero entrati dei ladri.” Disse senza lasciarsi abbindolare.  
La strega non parve  toccata dalla frecciatina. Si guardò invece attorno. “È rimasta esattamente come ricordavo.” Commentò. Diede poi un’occhiata alle vetrine. “Ma non del tutto.”
Ah, si è accorta che ho tolto un po’ di polvere.
Soprattutto dal suo preferito, il Guarnieri del Gesù. Non per altro, ma era rimasto esposto con la sua custodia sul tavolino da caffè. “Mi fa piacere che Michel la usi con i suoi amici.” Disse rivolgendosi a Loki.
Mi sta ignorando!
Non che si fosse presentato al suo meglio, se ne rendeva conto, tuttavia la cosa gli scocciava. E lo scocciava soprattutto non sapere il perché.
Loki annuì, come un pupazzo caricato a molla. “Sì, l’ha riaperta per Milo!”
La strega parve sorpresa. Sicuro, perché far entrare nel luogo sacro dei Purosangue uno straccione come lui?
“Apprezzi la musica?” Gli domandò.
“Io e suo nipote condividiamo gli stessi interessi.”
“In molti campi?”
“Parecchi, sì. Sono il suo ragazzo.” Confermò alzando il mento, perché poteva indossare una tuta Babbana e aver bisogno di una rasatura, ma non aveva intenzione di sentirsi a disagio in un posto che era diventa la cosa più simile al concetto di casa che conoscesse.
“Oh.” Inclinò la testa da un lato e per la prima volta parve guardarlo davvero. “Deve aver cambiato gusti.”
Ma vaffanculo!
Elena d’Africa o meno l’aveva appena offeso. “Da quando l’ha visto l’ultima volta? Forse.” Ritorse ignorando il sussulto di quell’idiota di Loki, ridotto ad una larva adorante.
Etero. Vedono una vagina e perdono il cervello.
La strega non perse il sorriso. Pareva proprio non registrare gli insulti. “Questo violino è stato usato di recente.” Osservò. “L’hai suonato tu?”
Quella domanda non se l’aspettava. Decise di puntare sull’onestà: magari le avrebbe fatto prendere un colpo, sapere che le sue zozze mani da Magonò avevano toccato la sua preziosa collezione. “Sì, Michel mi ha dato completo accesso alla stanza, archi compresi.”
“Potresti suonarmi qualcosa?”
“Adesso?”  
“Adesso.” Confermò. Si voltò verso Loki. “Joli, mi porteresti una tazza di the? Non ne ho avuta ancora una decente da quando sono arrivata a Londra. Mi fido della tua mano.”
“Subito!”  
Che pena …
Quando l’altro se ne fu andato la guardò dritta in faccia. Lui non si sarebbe fatto fregare da un po’ di sbattere di ciglia.
C’è già suo nipote che mi danna l’anima così.
“Non sono un suonatore ambulante.” Non più almeno. “Suono quando mi va.”
La donna fece una breve risata. “Hai il sangue caldo, vero? Voi tedeschi siete così pieni di passione…” Stava flirtando con lui?
Per mettere fine a quel momento disagio le prese il violino dalle mani, incastrando un fazzoletto tra collo e viso. “Ha qualche pezzo preferito?”
“Stupiscimi.”
… ed è irritante come il maghetto, ovvio.  
Fece mente locale e decise di evitare il classico. Anzi, decise di saltarlo, prendendo un’opera pressoché sconosciuta di un compositore afro-americano la cui musica aveva conosciuto spulciando i negozi di dischi di Boston.
Non si aspettava che la donna lo conoscesse. Fu quindi inevitabile spalancare la bocca come un pesce lesso quando applaudì la conclusione del movimento. “Danzatrice africana … che caro, hai trovato un pezzo che mi si addicesse!”
“… Lo conosce?”
La strega, che nel frattempo si era adagiata sul divano – non seduta, donne come lei non si sedevano sulle proprie chiappe come i comuni mortali – emise un piccolo sbuffo divertito. “Dopo che hai visto questa stanza pensi davvero che non conosca la materia?”
“… in effetti.” Borbottò stringendo il violino come uno stupido peluche. “Michel mi ha detto che è una specie di esperta.”
“Preferisco definirmi appassionata.” Lo corresse con un sorriso amabile. Ora che l’aveva sentito suonare era gentile!
… dai, sii onesto e guardati allo specchio. Al momento sei giusto un bel sentire.
“Come vuole.” Si strinse nelle spalle, riponendo il Guarnieri nella custodia. Si asciugò il sudore con il fazzoletto che aveva usato per imbracciarlo: aveva suonato con l’ansia addosso.
Perché ti importa così tanto piacerle?
Perché quella donna era il motivo per cui una persona come Michel si era interessata a lui. Era stata la musica ad averli uniti nonostante la differenze, e doveva ringraziare la principessa africana lì davanti se il suo ragazzo l’aveva preso in considerazione, almeno all’inizio.
“Siediti qui con me.” Lo invitò con un gesto.  
Obbedì perché non è che potesse andare da altre parti, e non riusciva ancora a stare in piedi per lunghi periodi.
“Il tuo modo di suonare…” Iniziò.
Mi ha riconosciuto! Pericolo!
Prima che il vecchio panico tornasse a tutta forza, la strega aggiunse. “… è ciò che ha allontanato mio nipote dalle spire di suo padre?”
Eh?
La sua espressione dovette parlare da sola perché l’altra ridacchiò. “Mi sono forse sbilanciata troppo? Eppure non me lo spiego, sai.”
“Cosa?”
“Mio nipote che si licenzia dal Ministero. Suo padre non avrebbe mai fatto una cosa simile.”
“Michel non è suo padre.”
La donna gli mise a sorpresa una mano sulla sua. Inanellata fino all’ultimo dito, eppure calda. “No, non lo è, vero?”
“Francamente, signora, non mi sarei mai innamorato di un palo in culo.” Disse fuori dai denti. Si morse la lingua. “Volevo dire…”
“No, no, ho capito benissimo cheri.” Rise di cuore. “Milo, hai detto?”
“Sissignora.”
Gli rivolse un sorriso che fu impossibile non ricambiare. “Piacere di conoscerti, Milo.”
 
 
Michel capì che qualcosa non andava a casa sua quando, entrato in cucina, vide Loki preparare una tazza di the.
Non che l’amico non fosse in grado di scaldare un po’ d’acqua, ma era l’assoluta precisione con cui stava preparando un vassoio di biscotti che lo preoccupava.
“Nott?” Lo apostrofò piegando il trench sottobraccio: sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe dovuto indossarlo sopra il completo da lavoro. Era stato strano chiudere le ultime pratiche e mettere i suoi pochi effetti personali in una scatola.  
Si apre un nuovo capitolo della mia vita.
Non era mai stato convinto di qualcosa come lo era di quelle dimissioni.
E del fatto che Loki non preparasse il the.
“Buongiorno a lei, Mastro Zabini!” Lo salutò distratto. “… a tua nonna piacciono i biscotti al cioccolato?”
“Mia nonna?” Si era bevuto il cervello? Era tutta quella droga che si fumava in compagnia di Emil pensando di farlo alle sue spalle?
“Sì.” L’altro lo fissò perplesso. “È venuta a trovarti!”
Se nella stanza fosse appena atterrato un Ungaro Spinato ne sarebbe stato meno sorpreso. “Mia nonna.” Ripeté come un ritardato. “È qui.”
Loki parve di colpo realizzare che non stava dandogli una notizia già digerita. “Oh … ehm.” Ebbe il buon gusto di schiarirsi la voce. “Non lo sapevi?”
“No.” Articolò glaciale perché davvero, era l’unico modo in cui poteva reagire.
Sua nonna, Amara Zabini, aveva accuratamente evitato di mettere piede in Inghilterra per più di una decade e ora improvvisamente tornava. Senza pensare di avvisarlo con uno straccio di Gufo!
Si rendeva conto di star reagendo come un amante tradito, ma era la cosa più vicina a cui poteva paragonarsi.
“Dov’è Emil?”
“A tenerle compagnia!”
Meraviglioso.
Li trovò nella stanza della musica mentre conversavano del più e del meno in francese, quando il suo ragazzo a volte si rifiutava perfino di parlar in inglese giusto per il gusto di dargli fastidio.
“Vedo che possiamo saltare le presentazioni.” Sbottò interrompendoli.
Mon ange…”
Non era cambiata di una virgola, ma non era una sorpresa: l’unico contatto che aveva avuto con lei in tutti quegli anni erano state foto patinate, dalle principali rubriche di gossip magico. Aveva visto come la caducità umana l’avesse appena sfiorata.
La stella del jet-set magico …
Rivederla fu essere catapultati nell’infanzia dorata che aveva disperatamente cercato di dimenticare per anni.
I bei ricordi fanno male.
“Potevate almeno mandarmi un Gufo.” Ribatté rigido. “Non attendevo una vostra visita.”
Emil, che fino a quel momento era rimasto seduto a guardarli, si alzò in piedi. “Mi sa tanto che la sorpresa non è riuscita, Amara.”
La chiama già per nome?
Era ridicolo esser geloso di sua nonna. Da un punto di vista d’età, forse: peccato l’avesse vista sedurre schiere di maghi molto più giovani di lei e non sarebbe stato strano se …
“Togliti quei pensieri sciocchi dalla testa, mon ange.” Lo fermò Amara con tono di biasimo. Naturalmente: aveva sempre saputo leggere nel cuore degli uomini. “Giustifico la tua rabbia, ma non la gelosia. Non potrei mai rubarti qualcosa.”
Milo inarcò le sopracciglia. “Io sarei la cosa? Grazie, eh!”
Michel dovette frenare un sorriso, perché nonostante tutto l’altro era riuscito a stemperare un po’ la tensione. “Cosa ci fate qui, nonna? Pensavo non voleste più mettere piede a Londra.”
“Sono venuta a conoscenza del contrasto tra te e Blaise.” Lo fermò prima che potesse chiedere come. “Ho le mie fonti, mon ange …  E non ho mai smesso di chiedere di te.”
Fece una smorfia. “Questo mi fa piacere, ma…”
“Ma ti ho abbandonato.” Concluse per lui. “Non è forse quello che pensi?”
“Non…”
Vide con la coda dell’occhio Emil spostarsi alle sue spalle. Non fece niente, neppure lo toccò eppure gli diede un incredibile conforto averlo vicino. “Mio padre mi voleva accanto a sé. Non avevate il potere di fermarlo. E poi, è passato tanto tempo.” Mormorò sentendosi un bugiardo.
“Potevo averti per me, se avessi insistito.” Sua nonna lo guardò con un sorriso carico d’affetto e rimpianto. “Ma pensai che avessi bisogno di stabilità … una famiglia. Forse ho sbagliato.”
“Voi eravate la mia famiglia …” Trovò giusto farle notare. “Ma la vita che ho qui … mi piace.” E si accorse che era vero. Hogwarts, Serpeverde, Albus, Loki e Scorpius erano pezzi importanti della sua vita. “È piena.” Scoccò un sorriso al compagno, prendendogli la mano e baciandogli la guancia. “E poi, se fossi rimasto con voi, non avrei conosciuto il mio Emil.”
Negli occhi di sua nonna passò un lampo di consapevolezza. Anche lei ricordava il piccolo violinista prodigio che gli aveva rubato il cuore da bambino? “… Emil Von Houten!” Sì, lo ricordava. “Si diceva…”
“Fossi morto? No, vivo e vegeto. Solo un po’ troppo Magonò.” Il suo ragazzo si strinse nelle spalle ma dalla postura intuì la sua inquietudine.
“Mia nonna non tradirà il tuo segreto.” Lo rassicurò.
“Non ne ho intenzione, conosco il Mondo Magico continentale e capisco perché hai deciso di sparire.” Confermò mettendogli una mano sulla spalla. “Anche se è un peccato aver perso un talento come il tuo nella scena musicale magica.”
Milo scrollò ancora le spalle, un gesto che riassumeva in toto l’atteggiamento dietro cui si riparava ogni volta che veniva tirato in ballo il suo passato da Purosangue: conoscendolo aveva capito che era una posa, ma non sarebbe stata dismessa per sua nonna, una sconosciuta.
“La vita a volte va diversamente da come te lo aspetti.” Gli venne in soccorso. “Io ne sono la prova vivente.”
“A questo proposito…” Li guardò entrambi “… hai deciso cosa vuoi fare adesso?”
“Non ancora.” Ammise. Si guardò con Emil. “Perché?”
La strega fece un sorriso che gli ricordò che dopotutto, suo padre non era arrivato alla posizione professionale che aveva solo grazie al sangue dei Burke.
“Potrei avere una proposta.”
Emil, che era allenato a cogliere le opportunità quando gli si presentarono, fu più lesto di lui. “Sarebbe?”
Sua nonna gli sorrise. “Voglio che tu lavori per me, Michel.” Si voltò verso il suo ragazzo, soppesandolo con lo sguardo. “Voglio che entrambi veniate a lavorare per me.”

 
****
 
Hogsmeade, Pomeriggio.
 
“Benedetta, resta vicino a me!”
Aveva ripetuto quella frase almeno un migliaio di volte nel giro di un’ora. E non aveva mai odiato così tanto Hogsmeade.
Il villaggio, di solito sonnolento come si conveniva alla sua latitudine e alla scarsità di persone, quel giorno straripava di banchetti, musica e persone.
Ted non amava quel genere di aggregazione sociale; si teneva lontano persino dalla festa del Solstizio di Ottery St. Catchpole, che pure aveva visto generazioni di Weasley partecipare con entusiasmo.
Ben, da bambina qual’era, era della sua opposta opinione: mordeva il freno, tirandolo qui e là e cercando in ogni modo di eludere la mano che teneva ferma la sua.
“Voglio cercare Ceddy!” Gli spiegò irritata. “Voglio andare in giro con lui!”
“Siete troppo piccoli per andare in giro da soli.” Non avrebbe affidato la sua unica nipote al figlio maggiore di Neville, per quanto avesse preso dal padre e fosse quindi più responsabile di undicenne medio. “Ora lo cerchiamo.” Si arrese vedendola rabbuiarsi e covare un principio di bizza.
Se solo il Plenilunio non fosse così vicino …
Si rassegnò a cercare nella selva di teste quella bruna di Neville; dove c’era il collega e buon amico di solito c’erano anche i suoi figli.
Disciplinati, loro.
Lo trovò nei pressi dello stand di Mielandia, ovviamente, a contrattare con i figli la quantità minima di dolci concessa a testa. “Ehi!” Lo salutò con una pacca sulla spalla, mentre Benedetta svicolava per gettarsi con entusiasmo di un cucciolo sul primogenito Paciock. “Non pensavamo sareste venuti!”
“Già, cambio di piani.” Sorrise impacciato di rimando. Si erano lasciati abbastanza bruscamente dopo l’aggressione di Vulneraria: aveva la vaga impressione avrebbe dovuto scusarsi. “Ben rischiava di far saltare in aria la casa.”
Neville rise. “I miei si sono svegliati all’alba per essere sicuri di essere i primi ad arrivare.” Scrollò le spalle. “Per una volta che da queste parti si organizza qualcosa…”
“Bel tempismo.”
L’amico intuì il suo disagio. “James è passato da Hannah stamattina, mi ha detto che avete fatto denuncia al Ministero.”
“Sì, ma una diffida è poco più che un pezzo di carta per un uomo come Vulneraria.”
“Non c’è modo di raggiungere un accordo?” Domandò, perché per esser stato Grifondoro aveva l’indole da paciere di un tassorosso.
“È venuto qui pretendendo di vedere la bambina. Non ho la minima intenzione di fargliela vedere.”
“È suo nonno.”
Bisnonno.”
“Ted…”
“Sì, lo so, non è questo il punto.” Diede un’occhiata a Benedetta, che stava attentando al sacchetto di Cedric, il quale pazientemente sopportava il furto. “Il punto è che la considera una sua proprietà, una proprietà del branco.” Soltanto a dirlo si sentiva il sangue bollire nelle vene. “Non gliene importa nulla della sua serenità. Se non l’avessi fermato se la sarebbe presa e portata via come un sacco.”
Neville fece una smorfia. “Non sto dicendo che tu non abbia ragione. Solo … Benedetta ha perso i suoi genitori. Ha te e James, certo, ma … parte della sua famiglia è quel branco. Non credo sia giusto tenerla lontana da quella parte della sua vita.”
Ragionevole Neville …
In un contesto scolastico, o che non lo avesse riguardato da vicino, avrebbe convenuto con lui.
Peccato non fosse nessuno dei due casi.
“Se quella parte della sua vita la minaccia, sì, Nev. È giusto.” Che suonava terribilmente come un “ha iniziato lui”, ma decise di fingere non fosse così.
L’altro mago non rispose, anche se immaginava come la pensasse dalla piega scontenta delle labbra. Si guardò invece attorno. “Dove sono finiti?”
Non gli servì sapere il soggetto per capire di chi parlava. Si voltò e vide che Benedetta e Cedric non erano più dove dovevano essere, ovvero accanto a loro. “Ben!” Chiamò incredulo. Un momento. Un momento aveva distolto lo sguardo ed era già sparita!
“Non ti agitare, saranno andati da Zonko.”
“Non mi sto agitando.” Rispose sapendo benissimo di fare l’opposto.
Fatti neanche dieci passi trovarono Cedric, che si stava guardando confuso e preoccupato attorno, come qualsiasi bambino che avesse perso i genitori.
Nessuna traccia di Ben.
“Ced, dov’è Benedetta?” Domandò Neville, e vederlo preoccupato gli diede esattamente la conferma che cercava per andare nel panico.
“Non lo so…” Aggiunse il ragazzino. “Era con me fino ad un secondo fa!”
“L’hai persa di vista?” Si dominò per non suonare aggressivo. Non gli riuscì tanto bene da come Cedric lo guardò ansioso. “Dove stavate andando?” Cercò di razionalizzare: Ben non era nuova a quel genere di improvvise sparizioni. Come ogni seienne che si rispettava prendeva iniziative senza chiedere o allertare nessuno.
“Da Zonko!”
Ted non se lo fece ripetere due volte, ma Neville non fu da meno: si assicurò che il figlio raggiungesse i Tre Manici e poi lo seguì.
Bambini con i propri genitori, un gran scoppio di botti e dimostrazioni di giocattoli targati Tiri Vispi … ma nessuna traccia della bambina.
“Si sarà persa, c’è tanta gente.” Tentò Neville, ma la sua faccia parlava da sola.
Ted non rispose: non gli serviva possedere un sesto senso per capire e Ben non si sarebbe mai spontaneamente allontanata da un bambino che aveva cercato per tutto il pomeriggio.
Quando vide per terra un sacchetto di dolci, lo stesso sacchetto che Ben aveva preso dalle mani di Cedric capì.
Era stata rapita.
 
****
 
Piccadilly Circus, Pomeriggio.
 
Lily non aveva resistito: era andata a trovare Sören.
Era ancora arrabbiata, certo. Nervosa e di cattivo umore, ma non era riuscita a stargli lontano con lo spauracchio di fare troppo tardi, arrivare all’albergo e scoprirlo in viaggio verso la missione suicida del secolo.
Solo a posteriori avrebbe potuto dire se era stata una cattiva idea; dopotutto lei era Lily Luna, la strega dagli innumerevoli colpi di testa.
A volte mi va di culo, altre …
Inspirò, mentre l’ascensore dell’albergo la sputava al piano scelto. Subito vide gli Auror piantonare annoiati il corridoio; per ragazzi addestrati a catturare maghi oscuri quella doveva essere una corveè insostenibile. Li salutò quindi con il suo sorriso più gentile, che in qualche modo si sentiva responsabile delle scelte di suo padre.
Tranne quando manda il mio ragazzo al macello!
“Sono venuta a trovare l’agente Prince.” Spiegò loro.  
Non è che a papà è venuta la brillante idea di limitargli anche le visite?
“Non è qui, è stato scortato nella sala duelli dell’albergo.” Gli spiegò uno dei due auror.
“ … lo aspetto dentro!” E sgusciò prima che potessero protestare. Non che l’avrebbero fermata o altro.
Figlia del capo. Sono intoccabile.
La stanza come al solito non sembrava abitata; Sören aveva un talento naturale per non lasciare mai traccia di sé nei posti che abitava. Solo un libro lasciato aperto sul divano del salottino testimoniava che una presenza umana aveva calcato quei luoghi.
Qualcuno avrebbe potuto vederlo come un pregio, visto il lavoro che svolgeva. A lei stringeva il cuore.
Non è che lo fa con cognizione di causa. Gli viene naturale … non sa come vivere un posto.
Si sedette sul divano, sfogliando il libro: era l’antologia di Keats che gli aveva prestato.
Oh, Ren …
Le mancava. Essere innamorate alla follia era una vera scocciatura. Non era facile rimanere incazzate incanalando i propri sentimenti in un sentiero unico.
Sono tutti sparsi in giro. A manciate.
“Lily…” La voce dell’altro, entrato in tuta ed espressione sorpresa, la destò dalla contemplazione del suo universo romantico personale.
“Oh … ehi!” Trovò appropriato ribattere. Se fossero stati in una di quelle commedie romantiche Babbane di cui faceva scorpacciata quando era giù di morale si sarebbero corsi incontro per poi baciarsi selvaggiamente.
Quella era invece la vita reale, quindi si fissarono come due stoccafissi per circa mezzo minuto prima che l’altro si schiarisse la voce. “Ehi.” Rispose, impacciato come e quanto lei. “… non mi aspettavo di trovarti qui.”
“La scorta mi ha fatto entrare.”
“Non intendevo in quel senso.”
Lily sospirò. Erano bloccati come due soldatini dementi.
Avanti, coraggio!
Decise di non girarci troppo intorno. “Sono ancora arrabbiata con te.” Sancì e Sören annuì. Bene, almeno quello l’aveva capito. “Ma non ce la facevo più.”
“… a fare cosa?”
“A starti lontana.” E non era mai stata quel genere di ragazza. O forse sì: forse non c’era niente di male a sentire la mancanza, stile braccio amputato, di un’altra persona.
Ammetterlo faceva un po’ spavento.
Sören le sorrise, uno di quei suoi micro-sorrisi che esplodevano tutti negli occhi. “Anche tu mi sei mancata.” Fece un passo in avanti. “Volevo mandarti un Gufo, ma non sapevo se avresti gradito.”
“Non lo so.” Ammise. “Continuo a credere che il piano di mio padre sia delirante e che tu sia un pazzo ad avergli dato retta.” Fece un grosso sospiro, perché percepiva l’incazzatura montare di nuovo e quello era un buon modo per spingerla tutta giù. “I suoi piani funzionano quando lui è il protagonista … non so se sia fortuna, o perché è il Prescelto, o perché non fa altro da quando aveva undici anni, ma tu … tu non sei lui.”
“Non ho mai avuto la presunzione di pensarlo.” Saggio, saggio Ren e la sua stupida ragionevolezza. “Liebchen … ti ho spiegato perché lo faccio.”
Ancora quel nomignolo. La mandava ai matti perché le rendevano le ginocchia deboli, facendole venir voglia di baciarlo a morte. “Sì, perché te l’hanno ordinato.” Ribatté sostenuta.
Sören scosse la testa. “Non è solo per questo. È per poter pensare ad avere un futuro assieme, senza ombre, senza dovermi preoccupare che qualcuno faccia del male a te … o a me. Che sia una persona…” Esitò “O il mio passato.”
… già.
Razionalmente aveva capito che era quello ciò che l’altro aveva voluto dirgli nella stanza degli schedari.
Peccato che tu non l’abbia lasciato parlare.
Non gliel’avrebbe comunque data vinta. “Di quale futuro parli se rischi la vita?”
“Un rischio non è una condanna a morte … non sono un mago alla sua prima magia.” Un secondo sorriso, e stavolta le stava di fronte, con la sua stupida maglietta del DALM americano e l’odore fresco della doccia, la pelle ancora calda dall’allenamento, fremente di magia, tanto che anche la sua in qualche modo la sentiva e …
E datti una calmata, non sei in calore!
… Morgana, l’astinenza che brutta bestia che è.
“Non sono un leader, Lily.” Oh, okay, stava parlando. Attenzione. Era importante.
Lo guardò in faccia per darsi un tono. “In … in che senso?”
“Che non sono io quello con le idee.” Si passò una mano tra i capelli facendoli ricadere sugli occhi. Era incredibile come gli crescessero, giusto suo padre aveva altrettanto bisogno delle forbici.
Incrociò le braccia al petto per reprimere il desiderio di passarci in mezzo le dita. “Ancora, non capisco dove tu voglia andare a parare.”
E non è perché ho perso il filo del discorso per sbavare sui tuoi addominali.
Non adesso, almeno.
“L’idea di tuo padre è buona.” Non le diede il tempo di protestare. “Lo è. Sono anni che il DALM inglese e quello americano tentano di catturare Doe senza successo. L’unica variabile che non hanno ancora usato è usare il suo stesso gioco contro di lui.”
“Non capisco perché la variabile debba prevedere te!”
“Perché non sono quello con le idee.” Ripeté paziente. “Sono un soldato, e imparo ciò che mi viene insegnato. È la cosa in cui sono più bravo. E farlo mi aiuterà…”
“A fare cosa?” Okay, aveva il brutto vizio di interrompere, però sul serio, cosa?
Sören la guardò come se stesse valutando la sua domanda. “A continuare ad imparare ciò che desidero fare meglio di qualunque altra cosa.”
Le sembrava di essere un pappagallo, ma i suoi poteri LeNa non erano mai riusciti a sondare a dovere la testa di legno che aveva di fronte.
Sì, lo amava anche per quello. “Sarebbe?”
“Amarti. È questo il futuro che immagino per noi.”
 
Semplice, diretto. Con Lily bisognava essere così, lo aveva imparato a sue spese. Mai prendere la strada lunga, mai tentare di abbellire un concetto che la sua piccola inglese preferiva spogliato sino all’osso.
Questo però non significava non usare le parole a suo favore.  
Perché da come la sua ragazza – lo era ancora? – lo guardò capì di averle indovinate, le parole giuste. Da come lo placcò, più che abbracciarlo, perché i Potter non avevano la minima idea di come entrare nello spazio vitale altrui, sia che fossero minacciosi come James Sirius, sia che fossero impiccioni nati come Albus.
Francamente, preferiva l’alternativa di Lily, dita nei capelli e un bacio che gli rimescolò il sangue. Fece per prendere l’iniziativa e spostarsi verso la camera da letto – erano giuste le vibrazioni che sentiva? – quando Lily lo afferrò per la maglietta e lo fece crollare sul divano con quello che fu, a conti fatti, uno sgambetto.
(Erano giuste.)
“Continua.” Gli soffiò sulle labbra salendogli addosso. “Quello che dici ha senso.”
“Ne sono … lieto.” Boccheggiò mentre l’altra lo invitava senza mezzi termini a togliersi la maglietta per poi seminare una scia di baci lungo il suo petto e poi stomaco. “… Voglio… voglio stare con te … e non solo in una stanza di albergo o dietro il cortile di casa tua. Voglio avere del tempo da dedicarti, senza pensieri. Senza nessuno in mezzo … a parte i tuoi fratelli. Loro sono onnipresenti.” La buttò sull’ironia perché era l’unico modo per non perdere l’ultimo scampolo di dignità mentre Lily passava un dito sull’elastico dei suoi inutili pantaloni.
Lily che fece uno dei suoi sogghigni furbi. “Stai andando molto bene…” Lo lodò. “Quella parte sull’amarmi non parla solo del lato carnale, vero?”
“No!” Esclamò perché doveva essere quella la risposta corretta. Forse. O forse no da come all’altra brillavano gli occhi per una risata mal trattenuta. “… o meglio sì, anche.”
“Infatti mi sembrava.”
“Quello che intendo dire è … ” Chiuse gli occhi perché se l’avesse guardata un altro mezzo secondo avrebbe smesso di formulare frasi di senso compiuto. Doveva concentrarsi. Lily lo stava stuzzicando, perché era Lily, ma voleva anche una risposta seria. “… che voglio passare il resto della mia vita a fare le cose che fanno le persone normali. Con te. Avere progetti, sposarsi e … avere figli, credo, un giorno. Se andrà anche a te. Ed ho accettato perché tutto questo inizi il prima possibile. So che sei arrabbiata, ma vorrei che lo capissi.”
Non ci furono movimenti o commenti, così arrischiò ad aprire gli occhi, anche solo per esser sicuro di non aver esagerato e rovinato tutto.
Lily stava per mettersi a piangere.
Ho sbagliato tutto.
“No, no!” Lo fermò. “Non hai sbagliato!”
No?
Era per il suo potere o per il terrore dipinto sulla sua faccia perché l’altra scosse la testa con una risatina. “… Ho capito, Ren. Ho capito sul serio stavolta.” Si chinò a sfiorargli le labbra con un bacio, e non era passionale e non parlava di mandarlo al San Mungo, ma era forse persino più tranquillizzante. “Voglio la stessa cosa. Ti amo.”
Gli parve che un macigno gli fosse appena stato tolto dal petto. “Ti amo anch’io.”
Lily gli passò le dita tra i capelli, il sorriso adesso una sfumatura molto più vicina al discorso di prima. “A proposito del lato carnale della faccenda…”
 
 
Dopo, tra lenzuola sgualcite, vestiti che avrebbero dovuto trovarsi piegati su una sedia, ma in fondo non era così importante, e il calore dei loro corpi intrecciati, Lily avrebbe solo voluto dormire. Erano giorni che non lo faceva a dovere.
“… Liebchen?”
Sören ovviamente non era della sua stessa opinione.
Sveglio come un Gufo a mezzanotte!
Sbadigliò senza preoccuparsi di nasconderlo. “Dimmi.”
“Sei ancora la mia ragazza, giusto?”
Sorrise, tentata di non rispondergli e lasciarlo ancora un po’ a cuocere nel suo brodo.
… nah. Depravata, ma non crudele.
Si voltò verso di lui, posandogli la testa contro il petto. “Sarò sempre la tua ragazza, Ren.”
Venne ricompensata con un abbraccio da undici Mago. “Sempre.” Ripeté contento.
Due scemi in mezzo ad una tempesta.
Andava bene così; navigare a vista non era poi così male. Perché ne era certa, la costa era vicina.
 
****
 
Note:

La canzone del capitolo qui.
 
Un'idea di come può essere Amara Zabini qua. E poi ditemi che Michel non le somiglia.
Finito con un mezzo cliff-hanger (dai, un po’ di drama ai Jeddy dovevo pur darlo! Mi stanno diventando piccolo-borghesi) e annuncio ci vorrà un po’ per il nuovo capitolo.
Come qualcuno forse sa, se mi ha su fb, mi trasferisco a Milano per lavoro. Grandi Speranze e Cambiamenti e tutto il resto, quindi per un periodo non ben definito avrò meno tempo a disposizione da dedicare alla scrittura.
Non disperate comunque; la DP Saga è sempre nei miei pensieri, come lo siete voi, quindi grazie per i commenti, per i messaggi su fb e per la presenza. Siete voi il carburante di questa storia! <3

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Capitolo 56
*** Capitolo LV ***


Capitolo LV


 
 


My blood is singing with your voice, I want to pour it out
(Howl, Florence & The Machine)
 
 
 
9 Agosto 2028
Scozia, Hogsmeade.


 
James arrivò ad Hogsmeade quando ormai era troppo tardi.
Tardi. Tardi era una parola grossa, terribile, perché il Gufo speditogli da Neville parlava di una cosa che la sua testa non riusciva a processare.
Ben è stata rapita.
Quando la Metropolvere lo sputò nel camino di casa uscì senza preoccuparsi di inondare il salotto di cenere, cosa che normalmente gli sarebbe valsa una reprimenda da parte del compagno.
Ted era seduto sul divano, circondato da Neville, un paio di Tiratori Scelti che conosceva di vista e Flynn.
Non l’ha ammazzata?
Non era un mistero che la funzionaria non fosse più nelle sue grazie dopo aver cantato con Moscardo; questo lo preoccupò.
“Teddy…” Lo chiamò togliendosi il mantello dell’uniforme. “Cosa…?”
“Lo stiamo ancora interrogando agente Potter.” Lo fermò uno dei Tiratori, un certo Balfe, che ricordava gli stesse sull’anima dall’ultima festa di Natale del Dipartimento.
“Interrogando a proposito di cosa?” Lo apostrofò bellicoso, ignorando l’occhiata ammonitrice di Neville.
È che il suo professorino non parlava; si limitava a guardare un punto della libreria con ogni singolo muscolo del corpo contratto.
Ancora una domanda del cazzo e sbotta!
“Lasciate perdere, ci penso io adesso.” Scostò il Tiratore con una manata imperiosa e si frappose tra lui e il compagno. “Il caso passa nelle mani dell’Ufficio Auror.”
“Gli Auror si occupano di maghi oscuri agente Potter, e questo è un chiaro caso di rapimento di minore.” Sì, gli stava proprio sul gozzo. Doveva c’entrare qualche battuta stronza fatta a Malfuretto e una mezza rissa, se tutti i whiskey incendiari che aveva ingurgitato gli facevano ricordar bene.
Magari Ben è stata rapita da un mago oscuro allora.” Ribatté con la sua migliore faccia da schiaffi. Non si passava l’adolescenza a fare il bullo per poi scordarne le basi.
Balfe e collega si scambiarono un’occhiata irritata, ma non mossero obiezioni; non sembravano particolarmente ansiosi di gettarsi sul caso.
Una scomparsa di minore non è il genere di cosa che ti fa guadagnare una promozione. Cioè, se tutto va come deve …
In caso contrario, può andare un sacco male.
Si scrollò di dosso quel pensiero bastardo, perché Ben stava bene. “Ci penso io.” Ribadì e a giudicare dalle facce sollevate dei due, che si accomiatarono con un cenno della testa, forse non avrebbe dovuto neanche insistere così tanto.
Me l’avrebbero sbolognato comunque.
“Ma puoi farlo sul serio?” Si informò Flynn dopo che gli agenti, usciti di casa, si furono Smaterializzati con uno schiocco sonoro.
“Non proprio.” Le sorrise di rimando prima di rivolgere la sua completa attenzione al compagno. Questo in compenso evitava accuratamente di guardare nella sua direzione.
Pensa che sia colpa mia?
Dopotutto era stato lui a persuaderlo a portare la bambina alla festa del patrono. Aveva perorato la causa finché non era capitolato.
Suo malgrado, dietro la sua uniforme e tutta la sua sicurezza, sentì lo stomaco stringersi in una morsa.
“Ehi.” Si fece coraggio sedendosi accanto a lui. “Cos’è successo?”
“… è tutta colpa mia.” Parlava. Non tutto era perduto!
“Ma no, cosa…”
“Dovevo dar retta al mio istinto, lasciarla a casa. È bastato un secondo … un secondo e l’ho persa di vista.” Respirava piano, respiri controllati e James, che l’aveva visto perdere la calma più di chiunque altro al mondo – era un certificato di quanto lo amasse, in un certo senso – era consapevole che quello fosse il preludio di una vera e propria crisi di panico.
Ennò. No. Ho bisogno che sia lucido!
“Non è stata colpa tua.” Gli mise una mano sul braccio, stringendo la presa finché l’altro non si voltò a guardarlo, registrando la sua presenza per davvero stavolta. “Ti ricordi quando io, Albie e Lils eravamo piccoli? Mamma e papà ci perdevano in continuazione. Una volta Al è riuscito persino ad andare al San Mungo da solo, di notte!”
“… non è la stessa cosa. Benedetta non si è persa. È stata rapita.”
James lanciò un’occhiata a Neville e Flynn. Nelle espressioni dei due lesse del dubbio.
Non sanno se credergli o meno.
Io gli credo.
“Vulneraria?” Domandò.
“Chi altri!” Sbottò alzandosi in piedi. “Me l’ha giurata. Ha detto che sarebbe tornato … e l’ha fatto!”
“Sì, mi ricordo.” Convenne. “Però minacciare di fare qualcosa non è farlo sul serio … no, non sto dicendo che non ti credo.” Mise le mani avanti notando la sua espressione. “Ma quando ho fatto quella pantomima prima … dicevo la verità. È mio il caso adesso, e quindi devo seguire le prove.”
Cazzo, come sono diventato giudizioso.
Vedi, Teddy? Anche gli irriducibili crescono.
Peccato che il compagno in quel momento non pareva felice della sua prova di maturità. “Non ho bisogno di prove. Chi altro aveva motivo di portarla via?”
“Nessuno, ma prima di parlare di un rapimento dobbiamo ricordarci che Ben … è Ben.” Sospirò. “Non è esattamente un campioncino di ubbidienza.”
Il compagno si morse un labbro ma non gli si scagliò contro, dandogli della maledetta testa di bacchetta – un insulto evergreen nei suoi interrogatori. Già qualcosa. “James, me lo sento.” Mormorò. “Non so spiegarti perché … ma so che non se n’è andata di sua spontanea volontà. Che qualcuno l’ha obbligata a seguirlo o…” E si bloccò, l’espressione devastata.
L’aveva vista sulla faccia di troppi genitori per non riconoscerla.
Lo prese per le spalle. “La troveremo. Chiamo papà, faccio diramare un comunicato all’intero DALM, Tiratori e Auror congiunti.” La sparò grossa, ma era sicuro che suo padre avrebbe perlomeno preteso una squadra di ciascuna unità investigativa sul campo.
Minimo.
“Io organizzo una squadra di ricerca che batta la Foresta Proibita.” Si inserì Neville. “Con un po’ di fortuna non si sono allontanati … Vulneraria è un mago?”
“Non ne ho idea, ma sono sicuro che non abbia una bacchetta … o l’avrebbe usata per mettermi fuori gioco quando è venuto la prima volta.” Rispose Ted, meno contratto, più lucido. Più se stesso.
Ci stiamo dando da fare. È quello che ha bisogno di vedere.
James per la prima volta in quei minuti si permise di respirare.
Flynn si schiarì la voce. “Sentite, so che volete sputarmi in un occhio o roba del genere.” Lanciò un’occhiata cauta in direzione di Ted. “Per quanto vale, Vulneraria ha pisciato fuori dal vaso. Se volete, vi porto direttamente all’accampamento.”
James esitò; per quanto lo sguardo del compagno si fosse acceso e lui stesso fosse un fan dell’azione cotta-e-mangiata …
È un azzardo.
Entrare in un accampamento di Mannari, L’accampamento di Mannari della Gran Bretagna, non era una mossa furba; si sarebbero trovati circondati da persone che, se non erano maghi, avevano perlomeno la forza di una decina di Babbani incazzati.
E la cosa peggiore è che dovremo dire loro che il Grande Capo ha rapito una bambina.
“Aspettiamo le squadre.” Suggerì. Se la sua non fosse stata decimata dal maledetto Demiurgo avrebbe potuto far arrivare Malfuretto e gli altri in meno di cinque minuti.
Fottuto Demiurgo …
“Non abbiamo tempo.” Gli sembrava che i ruoli si fossero invertiti; Teddy Ragione&Sentimento era diventato James la testa calda.
E viceversa.
“Sì che ce l’abbiamo.” Insistette. “Se andiamo io e te cosa pensi potremmo fare? Saremo in due contro un’intera tribù di Mannari!”
“Abbiamo le bacchette, no?”
… cosa?
“Che cazzo stai dicendo?” Gli uscì di cuore. “Non possiamo andare lì a bacchette spianate e pretendere che ci consegnino Benedetta! Non sappiamo neppure se Vulneraria l’ha portata lì o … o se l’ha presa sul serio!”
“Non ti sto chiedendo il permesso, James.”
Cosa?!
“Dovresti invece, perché sono un ufficiale di polizia e quando ho preso il distintivo ho giurato di far rispettare la Legge Magica a tutti … te compreso!” Ignorò l’occhiata incredula dell’altro, perché sul serio, cos’aveva da stupirsi?
Sei tu che ti comporti da idiota!
“Ti stai comportando come un idiota.” Disse infatti. “Ben è stata rapita, ma puntare la bacchetta contro un branco di Mannari non la riporterà a casa! Ci metterà in un casino di guai invece!”
“James, so cosa…”
“No che non lo sai! Sei un professore!” Se avesse dovuto pestare in zucca del buonsenso al suo uomo l’avrebbe fatto.
Diavolo. È assurdo. Sentitemi parlare! Io che uso la parola buonsenso!
Ma doveva se l’altro pareva averlo smarrito del tutto. “Non hai la minima idea di quel che stai facendo da quando Vulneraria ha scoperto della pulce. Sei andato nel panico, e ci sei ancora!”
“Sto benissimo.” Replicò con una faccia che segnalava tutto il contrario.
James guardò Flynn, per segnalarle di levarsi dai piedi, e quando quella obbedì lo prese senza mezzi termini per la nuca, serrando le dita sui capelli. Ted, che aveva sempre risposto meglio alle sollecitazioni fisiche che ai lunghi discorsi, soffocò un gemito. “James, mi stai…”
“Non hai sbagliato niente.” Lo guardò dritto negli occhi, adesso di un blu tempestoso e instabile. “Vulneraria probabilmente osservava i vostri spostamenti da giorni. È un cacciatore, no?” Vedendo che lo seguiva proseguì. “Non c’era modo per evitare che la prendesse. Ben è sempre in giro, disobbedisce. E se avessi continuato a tenerla rinchiusa sarebbe scappata. Ho ragione?”
Ted si morse le labbra, distogliendo lo sguardo. “Ciò non toglie che fosse sotto la mia responsabilità…”
“E la mia.” Gli fece notare. “Chi è stato a romperti le palle finché non hai acconsentito a portarla fuori? Io. E Merlino solo sa quanto mi prenderei a Fatture in faccia per questo.” Avrebbe voluto accarezzarlo, ma non ne ebbe il coraggio.
Perché non sei l’unico con l’ansia da prestazione, Lupin.
“Se cerchi un colpevole guarda me.” Fece un sorriso storto perché gli riuscivano bene. “Sono io quello che combina casini, no?”
“Jamie…” Ted crollò. Non c’erano molte persone al mondo ad avere il privilegio di vederlo togliere i catenacci alle emozioni che teneva ben disciplinate con tazze di the e lunghi libri barbosi.
Lui era uno di quelli. Quindi lo abbracciò, stretto, serrando le dita sulle spalle scosse dai singhiozzi.
“La nostra bambina…” Fu tutto quello che gli sentì dire. E gli bastò.
La nostra.
La nostra, cazzo.
Non gli serviva più un anello per dimostrare a sé stesso che era capace di far parte di quella famiglia, di prendersene cura.
Glielo darò comunque, ma vabbeh.
Lo baciò sulle labbra, ed erano oltre i baci coreografici. I loro erano imperfetti e fuori luogo, data la situazione e per questo veri. “La ritroveremo e la stritolerai finché non ti darà un calcio per farti smettere, okay? Te lo prometto.”
Ted si asciugò le lacrime con il palmo della mano, una piccola smorfia a segnalare che no, non stava piangendo, era colpa della polvere. “Chiama Harry.” Mormorò. “Aspetto.”
 
****
 
Londra, Victoria Embankment.
Casa di Michel Zabini.

 
“Che ne pensi?”
Michel distolse lo sguardo dalla contemplazione assorta del muro di fronte a sé: era un muro interessante, trattandosi di quello della stanza della musica, e vi era addossata un’enorme libreria che esibiva antichi testi di musica per cui i melomani di tutto il mondo avrebbero fatto a pugni per dare anche solo una sbirciata.
Emil li aveva sfogliati molte volte, quindi non ne era più impressionato. Tanto che gli stava accanto, seduto sul divano con l’immancabile sigaretta alle labbra.
Ah, gli aveva anche fatto una domanda.
E una domanda prevede una risposta.
Tu che ne pensi?” Chiese invece, che era Michel Zabini e non poteva non far fede al suo nome, mettendo le mani avanti e dandosi il tempo per riflettere.
Il compagno sbuffò infastidito. “È tua nonna, mica la mia! L’offerta l’ha fatta a te!”
“Veramente l’ha fatta ad entrambi.” Gli fece notare sprofondando un po’ nel divano, una posa poco elegante, più simile a quella che avrebbe adottato uno scomposto adolescente riluttante.
Cioè il mio Emil.
Il quale fece spallucce. “Me l’ha chiesto per fare la carina, di sicuro.”
“Mia nonna non fa la carina.” Scosse la testa. “Ti ha chiesto di lavorare con lei perché ha dei progetti per te. Non è abituata a far beneficienza.”
“Ma se è il suo lavoro!”
“Organizzare raccolte fondi è un business, e mia nonna ha sempre avuto una singolare bravura nel far aprire i cordoni della borsa ai maghi che contano.” Ironizzò, perché Amara non era nata ricca, ma in un villaggio poverissimo del Congo francese e si era mossa nei salotti buoni fino a farlo dimenticare a tutti, sé stessa compresa.
Come io non sono riuscito mai a fare con papà.
Oh, il mio sangue sporco…
Una mano entrò nella sua visuale e per poco non se la trovò in faccia. “Emil!” Protestò.
“Se non la pianti di guardare struggente l’infinito ti prendo a schiaffi.” Notificò irritato. “… Ne vuoi parlare? Di ‘sta faccenda? ” Domandò poi scoccandogli un’occhiata attenta.
Già. Stiamo insieme solo da una manciata di giorni e già ci si ripresenta una nuova sfida.
Riusciremo mai ad avere una relazione senza svolte di trama?
Dubitava, ma forse andava bene così. Gli prese la mano, un po’ per calmarlo un po’ perché ne sentiva il bisogno lui. “Ne voglio parlare, ma temo di dover ancora digerire il fatto che abbia deciso di tornare nella mia vita.”
Emil annuì con l’aria di chi aveva capito. Gli strinse la mano di rimando e poi gli prese l’altra. “Ascolta …” Iniziò con piglio burbero che, aveva imparato, nascondeva sincera preoccupazione. “… qualunque cosa tu decida, stavolta cerca di essere felice. È tutto qui, alla fine. Fare quello che ti fa felice.”
Michel sorrise: aveva sentito quel discorso sulle bocche di alcuni dei suoi più cari amici. Lo aveva sentito pronunciare da Scorpius, che sin da bambino aveva rivolto un gigantesco dito medio a tutto ciò che ci si aspettava da lui. Quel tipo di coraggio non sarebbe mai stato il suo.
Il coraggio di Violet, che invece aveva abbandonato tutto per amore, forse era più nelle sue corde.
“Tu mi rendi felice, mon ange.” Rispose baciandogli quelle mani d’oro. “Se prenderò una decisione dovrai farne parte.”
In molti, molti sensi …
Emil esitò, senza ritrarsi, ma gli lesse negli occhi il fantasma della conversazione che aveva portato alla loro rottura. “Non sto dicendo che sarai responsabile della decisione che prenderò.” Lo rassicurò. “Solo che terrà conto anche di noi due.” Ci rifletté divertito. “Suono incredibilmente melenso, temo.”
“Da pazzi.” Sbuffò rilassandosi. “Però okay, maghetto, è come sei. Lo posso sopportare.”
“Per fortuna.” Lo baciò. Quei baci distratti, che non preludevano a nulla, gli erano ancora nuovi. Erano un linguaggio che per anni, causa sua principalmente, gli era stato precluso. A giudicare da come li accoglieva Emil, sempre con un po’ di sorpresa, doveva essere lo stesso per lui.
Merlino, siamo due novizi …
Era come giocare d’azzardo. Nessuna sicurezza, nessuna certezza di vittoria. Sembrava una cosa che avrebbe amato Loki.
Non certo io.
Eppure …
“Allora che facciamo?” Domandò Emil stravaccandosi, lui senza pudore, sul divano. “Tua nonna vorrà una risposta.”
Michel annuì; Amara era andata a riposare in albergo, ma sarebbe tornata nei prossimi giorni, e da come aveva illustrato loro i piani per il futuro avrebbe pretesto una risposta in tempi brevi.
Cercò di analizzare la situazione con pragmatismo.  “Si tratterebbe di farle da assistente personale … Nulla che non abbia già fatto al Ministero, ad essere onesti.” Rifletté. “Ma vorrebbe dire viaggiare molto, non avere mai fissa dimora…”
“E la cosa ti schifa?”
Michel ci rifletté: abbandonare l’Inghilterra, doveva aveva trascorso tutta la sua vita… Lasciare gli amici, la sicurezza di una Londra che conosceva come il fodero della sua bacchetta …
“No. Credo che mi piacerebbe.” Si stupì lui stesso della risposta che gli uscì. Ma in fondo aveva senso: il suo sangue, quel sangue tanto disprezzato da suo padre, aveva i colori dell’Africa, della Francia, dell’Italia. Per quanto si fosse circondato di vestiti alla moda, oggetti costosi e colori, aveva sempre sofferto il grigio di cui pareva imbevuta quell’isola, la mentalità ristretta di molti dei suoi concittadini e il soffocante codice di condotta della nobiltà a cui sarebbe dovuto appartenere.
Emil sogghignò soddisfatto. “Sicuro di riuscire a reggere i ritmi di tua nonna? Quella mi sembra una bella zingara, etnia a parte.”
“Ho passato metà della mia infanzia a seguirla ovunque.” Gli ricordò. “L’unica cosa che mi mancherà saranno i miei amici…” Pensò ad Albus, a Loki, a Scorpius … a quella brigata sconclusionata che lo aveva mantenuto sano di mente e che non gli aveva permesso di rendersi una fotocopia infelice di suo padre.
Prima di Emil, c’erano stati loro.
La sua faccia dovette inconsapevolmente esprimere molto, perché venne abbracciato e trascinato steso sul divano. Quando voltò la testa, l’altro lo coinvolse in un bacio molto, molto consolante.
Quindi servono anche a questo i fidanzati …
Interessante.
“I tuoi amici non spariranno inghiottiti da una voragine. Saranno dove sono sempre stati, perché voi maghi non schiodate il culo da dove siete nati manco a riempirvi di Galeoni.” Gli fece notare. “Vuoi lavorare per tua nonna, sì o no?”
Chiuse gli occhi e annuì. “… e tu?” Li riaprì per guardarlo: poteva essere sicuro delle sue decisioni, ma non poteva dire altrettanto di quelle del compagno. Non aveva quella presunzione. “Tu vuoi lavorare per lei?”
 
Milo quando aveva lasciato il principino al suo destino – almeno dal punto di vista lavorativo, quello amicale era un altro paio di maniche – si era ripromesso che non avrebbe più permesso a nessuno di dargli ordini. Già quelli di Sören, che erano goffi come quelli di un anatroccolo dispotico, gli erano stati difficili da digerire …
Figuriamoci quelli di un altro cazzo di mago. No, basta maghi. Ho dato per questa vita e pure per un paio d’altre.
E poi era arrivata Amara Zabini. Che gli aveva promesso un lavoro come suo assistente, lo stesso di Michel, ma aveva alluso a tutt’altro.
Non vuoi tornare nel mondo da cui sei stato cacciato?
Cacciato a pedate, sottolineamo.
E anche Michel doveva aver letto tra le righe perché l’esitazione con cui lo stava guardando non parlava di un salario dato per prendere appuntamenti e organizzare venues per far alleggerire la coscienza a ricchi maghi sfaccendati.
 
“Potrei farti conoscere le persone giuste…”
“Le ho conosciute Madame, e se devo essere onesto non ci tengo a ritrovarmele tra i piedi.”
“Non ti manca la musica? Perché io lavoro con la musica, Milo. Ne sono costantemente circondata. Come potrei farne a meno, quando la amo così tanto?”

 
Già. Come puoi fare a meno di respirare?
Non puoi.
Per questo persino nei momenti più bui della sua vita aveva avuto un violino a fianco. Perché qualche volta aveva dimenticato di essere umano. Di essere un musicista?
Quello mai.
 
“Dovrei incontrare un sacco di facce di cazzo che avrei preferito non vedere mai più.” Osservò leggero, perché era l’unico tono che potesse usare per una conversazione così pesante. “Non credo proprio che il mondo dell’arte magica in Europa sia cambiato poi così tanto dall’ultima volta che ci ho messo piede …”
“Sei tu ad essere cambiato.” Michel gli sollevò il mento con due dita. Lo avrebbe morso se non l’avesse contemplato come la settima meraviglia del mondo.
Così mi smonti però, eh.
“Non sei più Emil Von Houten, non solo.” Continuò. “Sei Milo … e Milo non si farebbe mai abbattere dalle malelingue. Combatterebbe con le unghie e coi denti. Guarda in cosa mi ha trasformato, da mago razzista qual ero.”
“Dì la verità, vuoi solo bullarti di avere per ragazzo un musicista famoso.” Convenne mordendosi l’interno della guancia per non piangere, cazzo, non poteva piangere.
Michel fece spallucce. “Certo, anche.” Gli porse un fazzoletto, da bravo stronzo qual’era. “E poi mi è stato detto che la mia lingua è biforcuta come quella di un serpente. La peggiore malelingua di tutta Europa, come vedi, ce l’hai dalla tua parte.”
Milo a quel punto trovò che non ci fosse più niente da dire. Non serviva dirgli che sarebbe cascato nelle grinfie di Amara Zabini volontariamente.
Del resto era già caduto tra quelle del suo insopportabile, meraviglioso nipote.
Ormai era fottuto.
Manco in un letto si era sentito tanto contento.
 
****
 
 
Londra, Piccadilly Circus
The Royal Inn
 
“Lilian…”
“Sì?”
“Raccontami una storia.”
Era iniziato così il giorno in cui Sören avrebbe catturato John Doe, nell’operazione di polizia più demente della storia.
Lily aveva ribadito più volte cosa pensasse, così invece di chiedergli di scappare alle Bahamas e lasciar perdere redenzioni, conti da saldare, sfide all’ultimo sangue e quant’altro, gli era scivolata accanto, tra le coperte ancora calde di sonno, e bilanciando tra le gambe una tazza di the aveva cominciato.
Era brava a raccontare. Balle soprattutto, a sentire la sua famiglia, ma non era quello che Sören voleva sentire; poteva essere un cretino suicida, ma era un cretino suicida consapevole di marciare sparato verso i casini.
Sören voleva una storia per ricordarsi che c’era ancora qualcosa di buono nel mondo.
E chi era lei per negarglielo?  
Così gli aveva raccontato la storia dei suoi genitori, dei suoi zii, di quella generazione di giovani maghi che avevano combattuto per la libertà, ad ogni costo, con un conto salato da cui comunque, alla fine, erano riusciti a riprendersi. E a ricostruire. Era la cosa più vicina ad una fiaba che avesse mai ascoltato. Non c’era una morale forse, ma un continuo lieto fine ed era quello che l’altro aveva bisogno di ascoltare.
Quindi quella sera la passarono a letto sì, ma come due bambini, il sesso e il desiderio accantonati per il momento.
“Non dev’essere stato facile ricominciare.”  
“Non lo è stato, ma ci sono riusciti … io e miei fratelli siamo una bella testimonianza vivente.” Confermò con un sorriso. “La pace prima o poi arriva.”
“Non sei la prima persona che me lo dice.” Mormorò. “Sto provando a crederci.”
“E quale sarebbe l’alternativa?” Gli fece notare. “Vivere perennemente in trincea?”
Sören scosse la testa. “Dopo questo, ho chiuso con le trincee. Non con il mio lavoro, essere un agente mi piace…”
“Lo so.”
“Com’è riuscito tuo padre a bilanciare tutto?”
“Mio padre?” Domandò confusa. La testa del suo ragazzo era un labirinto con brusche svolte ad u. Bisognava imparare ad orientarsi o, nella maggior parte dei casi, farsi guidare dall’istinto. Così rispose senza pensarci troppo. “Papà ci prova. Non si può toglierlo dal suo lavoro, o meglio, dal lavoro sul campo. Ne soffrirebbe troppo. Da quello di scrivania invece non c’è problema, gli ha sempre fatto schifo.” Sbuffò divertita. Suo zio diceva sempre che l’ufficio del Capo Potter era più vuoto dello stomaco di un cane randagio.  
“E a tua madre sta bene?”
“Lo ama.” Scrollò le spalle. “Ha sempre saputo che tipo era, si conoscono da quando sono bambini.” Era ancora arrabbiata con il Salvatore di tutti meno che del suo ragazzo, ma doveva essere onesta. “È un brav’uomo. Torna sempre a casa alla fine della giornata, credo sia questo l’importante.”
“Per te lo è?”
“Importante?” Sospirò: avrebbe mentito se avesse detto che le assenze lavorative di suo padre non le erano pesate, specialmente prima e dopo Hogwarts.
Ma c’è la Tana …
Era cresciuta circondata da una frotta di parenti, nonni e cugini: non poteva dire che le fosse mancato l’affetto.
“C’era nei momenti importanti.” Si risolse a dire. “E ci vogliamo bene.”
Anche se al momento lo ricoprirei di Fatture Orcovolanti!
“Anch’io volevo bene a mio padre …e credo che anche lui ne volesse a me.” Se ne uscì, ed era quello il nocciolo del discorso? Poteva essere: non l’aveva mai sentito parlare di Elias Prince, fatto salvo qualche accenno. Comunque, da quei frammenti di conversazione, si era fatta un’idea su che tipo di mago fosse stato Prince Senior per il figlio.
L’unica influenza positiva della sua infanzia.
“Ne sono sicura.”
“Credi che una persona come me possa diventare padre?”
Sbam!
Lanciamo questa Bombarda Maxima e vediamo come reagisce la Rossa! Dai!

Lily sbatté le palpebre, completamente spiazzata. Solo dopo realizzò che non le era stato chiesto in qualità di ragazza  – con tutte le implicazioni ansiogene del caso. Sören stava rivolgendo quella domanda alla vecchia amica che era stata e che, sebbene in modo diverso, era ancora.
“… improvviso desiderio di paternità?” Si informò comunque cauta perché ugh, bambini proprio no, non in quel momento instabile e folle della loro vita!
Sören la guardò confuso, prima di realizzare la portata del ginepraio in cui si era infilato e impallidire. “Non intendevo dire … io e te … Non.” Inspirò brusco, il suo modo di andare in iperventilazione. “Non intendevo proporti di metter su famiglia!”
“Cosa di cui te ne sono molto grata.” Gli mise una mano sulla spalla, tirando un comico sospiro di sollievo per sciogliere la tensione. E anche per riprendere a respirare a dovere. “Era una considerazione oggettiva allora?”
“Esatto.” Si affrettò a confermare. “Sì, ho … ho cominciato a pensarci perché Dionis…”
“Sì, mi immagino.” Lo fermò divertita. “Sono padre, diventa padre anche tu, diventiamo papà assieme! Dion è uno che ama condividere la propria gioia, che ti piaccia o meno.”
Sören stiracchiò un sorrisetto. “Penso che abbia preso uno Snaso con il sottoscritto.”
Lily scosse la testa. “No, non credo. La penso come lui.”
“… perché?”
“Perché il fatto che tu ti faccia questa domanda già ti mette un gradino sopra tanti altri uomini, Babbani o maghi che siano.” E ne era convinta: Sören aveva ancora molta strada fare per diventare un bambino vero, ma, ironia a parte, aveva una sconfinata riserva d’amore da dare.
Ed ha passato troppo tempo a tenerla imbottigliata.
“Credimi, saresti un bravissimo papà.”
Il compagno distolse lo sguardo verso la finestra, fissandola con una tale intensità che probabilmente gli avrebbe dato fuoco se avesse avuto la bacchetta in mano. Rispettò il suo desiderio di non farsi vedere commosso. “Cos’è tutto questo pianificare il futuro comunque? Devo aspettarmi che tu vada dai Folletti e impegni una somma per una villetta a schiera a Kensington?” Lo prese in giro.
Si voltò per guardarla e okay, forse era meglio se guardava la finestra, perché per uno sguardo così era anche disposta a sfornare un paio di marmocchi. Gemelli, per giunta.
“È l’aria inglese.” Le rispose però a tono, tirandola a sé e sdraiandosi di nuovo tra le lenzuola; la loro fortezza momentanea. “I capelli rossi quanto sono ricorrenti nella tua famiglia?”
Lily decise di stare al gioco, perché solo con quel suo impossibile tedesco avrebbe potuto parlare di bambini senza farsi venire un improvviso desiderio di partire per paesi lontani. “Tranne i miei fratelli, Rosie e il ramo francese siamo inevitabilmente pel di carota, temo. Qualche problema?”
“Nessuno.” Le baciò la testa. “Spero anche nelle lentiggini.”
“Sì, sono decisamente io quella avventata e che corre troppo. Dovrebbero sentirti adesso!” Scosse la testa mentre l’altro ridacchiava. “Comunque scordatelo che lo chiamiamo con qualche orribile nome della tradizione Purosangue.”
“Sören è un bel nome.”
“Sì, ma qui diventa Severus. Hai idea di quanto abbiano preso in giro Al? E lo ha come secondo nome!”  
“Io pensavo ad Elias.” Disse serio. Gli brillavano ancora gli occhi di divertimento, e stavano giocando, pretendendo di dispiegare un futuro che era incerto come non mai, ma …
“Se è una bambina Eileen?” Gli servì su un piatto d’argento perché era scema.
O perché lo amava da morire, che era un po’ la stessa cosa.
“Non Molly o Ginevra?”
“Nah.” Fece spallucce. “La mia famiglia ha già esaurito i diritti sulla quota nomi dei prossimi discendenti. Tocca alla tua.”
Sören le prese il viso tra le mani e la baciò: e dal tono del bacio lo scherzo era finito da un pezzo.
Oh, beh. Anche se fosse. Non è che mi vedo con qualcun altro.
Ci mise un po’ a sentire battere alla porta. Sören no, perché si irrigidì di colpo.
Lily non pensò a staccarsi, perché se l’avesse fatto avrebbe gridato contro tutte le ingiustizie  che c’erano al mondo, riunite in due auror che erano venuti a prendere il suo uomo. Come un’idiota gli si aggrappò addosso, serrando gli occhi e rifiutando di mollare la presa.
Sören fu … Sören. Ricambiò l’abbraccio, accarezzandole la schiena come se avessero ancora tempo.
"Ti amo, Lily."
... oh, al diavolo. Al diavolo, al diavolo!
“Anch'io, brutto pezzo di scemo, ma piantala di fare il tedesco melodrammatico. Solo… torna, okay?” Sussurrò ad un punto imprecisato della sua clavicola, perché guardarlo in faccia era troppo. “Non andare in cerca di rese dei conti finali e roba del genere. Porta papà e le sue squadre fino John Doe, poi gira il culo e torna da me.”
Sören le prese il viso tra le mani. “Te lo prometto.” Si morse un labbro. “Te lo prometto, mia Lilian.” Ripeté, come se volesse convincersene lui per primo.
Probabilmente era così.
“Verrò a prenderti di persona se non ti riavrò nel mio letto nelle prossime settantadue ore. Lo farò.” Mantenere la voce ferma, pensare ad altro. Pensare a cose belle, come alla lunghissima vacanza a cui l’avrebbe obbligato una volta finito tutto.
Dove nessuno può raggiungerci. 
Neanche i guai.
Sören la sciolse dall’abbraccio; era un Occlumante migliore di quanto fosse un Legimante, ma doveva aver capito la serietà delle sue intenzioni. “Ne saresti capace.” Convenne infilandosi i pantaloni e la camicia. Fu pronto in un attimo, perché accidenti a lui, era uno di quei tipi nati pronti.
Quanto lo odio.
E quanto lo amo.
Si chinò a baciarle la fronte. “A domani liebchen.”
Non gli rispose, perché la sua capacità di battuta si arrestava lì, con lui che le dava le spalle e si chiudeva dietro la porta.
Si raggomitolò nel letto e morse il cuscino. Si sarebbe alzata, si sarebbe vestita e sarebbe andata al San Mungo a rendersi utile perché restare in attesa con le mani in mano l’avrebbe fatta impazzire.
L’avrebbe fatto, ma dopo.
 
 
 
 
****
 
 
Londra, Ministero.
Ufficio Auror.
 
C’era voluta tutta la sua forza d’animo, il suo rigore, il suo odio per Johannes per dare le spalle a Lily e seguire gli auror venuti a prenderlo.
Cinque anni prima dirle addio era stato difficile, soprattutto perché pensava che non l’avrebbe più rivista.
Lasciarla sapendo di essere atteso, di essere amato … era peggio. Molto peggio.
Sperava che tutto quello non trasparisse dalla sua espressione mentre varcava le porte dell’ufficio auror. Cercò con lo sguardo Potter e Scorpius, e li trovò entrambi alla propria scrivania condivisa. Stavano parlando a bassa voce, e Potter lanciava occhiate impazienti verso l’ufficio del padre. Accanto a loro Ama stava controllando qualcosa nei suoi appunti, probabilmente per dar loro privacy.
Li raggiunse. “Agenti…” Li apostrofò.
“Oh, Prince!” Scorpius, il campione di cortesia, stavolta sembrava aver dimenticato le buone maniere. Il cipiglio che esibiva era così incongruo, in quel volto di solito solare, che lo preoccupò.
È in ansia per l’operazione?
Potter in compenso gli lanciò un’occhiata … colpevole?
Colpevole?
“Prince, ascolta.” Aveva l’aria di avere i minuti contati, e la polvere che esibiva sul giubbotto faceva capire quanto.
Non si è neppure spazzolato, ed è una sorta di maniaco dell’apparir al meglio.
Come Lily.
Doveva smettere di pensare a Lily. “Ti ascolto.”
Potter gli lanciò un’occhiataccia mentre Scorpius, per ragioni a lui sconosciute, soffocava una risatina. “Benedetta è stata rapita.”
“La nipote del tuo compagno?” Ricordò. “Com’è successo?”
“Storia lunga, la sua famiglia la rivuole indietro con le buone o con le cattive. Siamo arrivati alle cattive purtroppo.”  
Fece due più due. “Non prenderai parte all’operazione.”
L’altro annuì, passandosi una mani tra i capelli e lanciando un’occhiata verso il partner. Scorpius gli batté una mano sulla spalla ritrovando il sorriso anche per l’altro. “Guai a casa. Anche se ce lo portassimo dietro non avrebbe la testa. E già di solito la lascia in Scozia tutte le mattine…”
“Ma va’ all’inferno!”
“Potter.” Lo richiamò all’ordine, perché come la sorella – dovevasmetterlasubito – aveva la capacità di distrarsi di un pre-scolare. “Non è un problema.”
Questo annuì con l’aria di ascoltarlo solo a metà. “Mi sostituirà il Sergente Stump, è in gamba. Quando ero ancora ad Hogwarts aveva già migliaia d’ore di servizio. Ti parerà le spalle.”
“Il punto è proprio che non lo faccia.” Gli ricordò, dato che tra meno di un paio d’ore avrebbe dovuto impersonare il ruolo di Giuda. “Come ti ho detto, per me va bene. Lo è per te?” Domandò: per come lo conosceva, James Potter era il tipo di agente che non si sarebbe fatto scappare per nulla al mondo la possibilità di combattere in prima linea, specie quando c’era la concreta possibilità di vincere la battaglia finale.
L’inglese inspirò bruscamente. No che non andava bene, era evidente.
Sören capiva cosa provava: per quel momento, quella possibilità di vittoria lui aveva lasciato l’amore della sua vita in una stanza ad aspettarlo.
Poi però scosse la testa, come a scacciare un pensiero. “La mia famiglia ha bisogno di me.” Tagliò corto. “Qui sono sostituibile, là no.”
È tutto qui alla fine, giusto? Il cuore prima del dovere.
Un tempo non avrebbe capito quella decisione; gli avrebbe del debole.
Non adesso.
Gli tese la mano. “Fa’ ciò che devi. Festeggerai con noi la vittoria.”
Potter lo guardò confuso per un attimo, prima di sorridere – Merlino, per fortuna non sorrideva come la sorella – e ricambiare la stretta. “Ci puoi contare Pipistrello. Sarò in prima fila con un Whiskey Incendiario in mano!”
“Non mi aspetto niente di meno.”
Per la prima volta nella loro lunga e, se poteva aggiungere, travagliata conoscenza, si scambiarono un sorriso sincero. Dalle parti di Scorpius arrivò un fischio ammirato. “Non si ha mai una macchina fotografica tra le mani, quando serve!” Finse di lamentarsi con Ama, che per tutta risposta lo ignorò. “Momento epico!” Aggiunse allegro.
“Vatti a fare un giro, Malfuretto.” Sbuffò Potter, di nuovo in modalità maschio alfa. “Piuttosto, ho bisogno di parlare con il grande capo, si può sapere quando…” Non finì la frase che l’interpellato scese le scale, seguito dall’immancabile Ron Weasley. Padre e figlio si scambiarono un’occhiata, e l’espressione seria dell’uomo si ammorbidì appena.
“Ho avvertito Zacharias, supporteranno le ricerche di Neville con una delle loro squadre. Tu puoi coordinarti con la squadra di Rothfuss. E tienimi informato. Chiamami se avrete bisogno, James. D’accordo?”
Il ragazzo annuì. “Grazie papà.” Diede un breve e sentito abbraccio al padre e si accomiatò allontanandosi verso la scrivania del caposquadra che gli era stato indicato.
Era difficile per un Potter rinunciare ad una resa dei conti, considerò Sören con un mezzo sorriso: in ogni singolo membro di quella genia aveva riscontrato un’incredibile voglia di fare la differenza.
Solo il richiamo della famiglia riesce a farli rinunciare.
Era un merito. “Bene.” Lo richiamò all’attenzione Harry Potter. “Siamo pronti?”  
“Sissignore.” Rispose.
 
****
 
 
Galles, Denbighshire.
 
Ted non era contento di come si stavano svolgendo le ricerche.
James glielo leggeva in faccia, nella postura con cui aveva accolto la squadra di Tiratori e i suoi colleghi: avrebbe voluto far da solo.
Da quando è diventato un vendicatore solitario?
Forse lo era sempre stato. Il compagno non era mai stato il tipo di mago che si trovava bene in un contesto di gruppo. Tranne al lavoro, quando doveva per forza o per amore interfacciarsi con colleghi e alunni, preferiva agire in solitudine.
Per fare entrare me nel suo processo decisionale ce n’è voluta. Figuriamoci gli altri.
Gli mise una mano sulla spalla mentre i Tiratori facevano radunare i Mannari vicino al focolare: erano gli auror ad entrare nelle capanne e perquisirle. Per quanto Flynn avesse spiegato la situazione all’anziano del branco, tal Moscardo, e continuasse a stargli accanto a mo’ di assicurazione che nulla sarebbe accaduto, il clima era teso.
Come la metti, non è una bella scena. Sembra una perquisizione.
Avrebbe potuto dare una mano ai colleghi ma preferiva rimanere accanto all’altro, al limitare dell’accampamento. Da come si mordeva le labbra doveva esser indeciso su cosa lo metteva più a disagio, dover far la parte del Mangiamorte o non poter andare in giro a rivoltar capanne alla ricerca di Ben.
“Ehi.” Lo apostrofò. “La troveranno.”
“Benedetta non è qui.” Ribatté. Sarebbe stato minaccioso se i capelli non avessero continuato a cambiare colore ad ogni soffio di vento.
È stressato.
“Ma non hai detto che l’aveva di sicuro portata qua?”
“Non intendevo l’accampamento. Stiamo perdendo tempo. Vedi Vulneraria o Ben da qualche parte forse?”
Oooh, okay, sarcasmo.
“No, ma non significa che siano su un aereo per la Svizzera.” Replicò sullo stesso tono. “Teddy, non stai aiutando.”
Per un attimo lo vide vacillare. “Scusami.” Mormorò distogliendo lo sguardo e puntandolo in mezzo agli alberi. “… so che non dovrei neppure essere qui.”
“No, infatti, partecipi alle ricerche solo perché il tuo ragazzo è un Potter molto speciale.” Fu contento di strappargli almeno un mezzo sorriso.  
“I ruoli si sono invertiti…”
Ah, se n’è accorto pure lui!
“Prima o poi doveva succedere, Professore. Tra poco sarò io a mettere i sottobicchieri in tavola.”
“Non spero tanto.” Stavolta sorrise più convinto. Immediatamente spento una volta che il Sergente dei Tiratori si avvicinò.
“Non è qui.” Esordì. “Le capanne sono pulite.”
“Quindi?” Chiese James.  
L’uomo fece una smorfia. Non era entusiasta di essere così vicino ad un branco di Mannari, per quanto ridotto a donne e bambini. “Sta per calare il sole e stasera è notte di luna piena. Non posso chiedere oltre ai miei uomini.”
“Neppure di fare il loro lavoro?”
“Teddy!” Niente di meglio che un’esplosione di passivo-aggressività per mettere le cose nella giusta prospettiva, no? James non gli tirò un pugno solo perché aveva ancora un anello in tasca che attendeva di essere consegnato.
Avremo dovuto essere in un ristorante da ricconi a giurarci eterno amore, non in mezzo ad una foresta umida con il rischio di essere sbranati!
Ma ehi, era James Sirius Potter: la sua vita era una continua sfida.
“Riprenderete le ricerche domattina?” Bloccò la protesta di Ted con un’occhiataccia che, miracolo, funzionò.
Devo ricordarmela. Così magari la uso quando comincia a fare lo spocchioso so-tutto-io.
“Affermativo.” Confermò questo facendo cenno ai suoi uomini di radunarsi. “Con la luce sarà più semplice perlustrare i boschi qui attorno.”
“Certo.” Annuì compito. “Grazie per la collaborazione. Ci vediamo domattina.”
Quando i Tiratori si furono Smaterializzati fu la volta degli auror. “Vuoi che rimaniamo James?” Domandò il Sergente. “Abbiamo ancora del tempo e il bastardo sarà di certo acquattato nei dintorni. Possiamo fare un ultimo tentativo.”
“No.” Scosse la testa. “Hanno ragione i Tiratori, riprendere le ricerche appena fa luce è l’unica cosa sensata da fare.”
Quando anche il secondo gruppo se ne fu andato si voltò verso il compagno, rimasto fino a quel momento in silenzio. Sorrise alla sua aria tempestosa. “Non credo che ci sarà bisogno di loro domattina. Stanotte Ben dormirà nel suo letto.”
“… li hai appena mandati via.” Osservò.
“Sì, ma noi rimaniamo.” Gli diede una pacca sulla spalla, avvicinandosi al vice capo branco.
“James, cos’hai intenzione di fare?”
Ah, ora ti torna la ragionevolezza?
“Fin’ora ho fatto la cosa giusta, tutte le procedure del caso. Ora basta. Non lascerò che la pulce passi la sua seconda trasformazione qui con un rapitore psicopatico del cazzo. In taglia Mannara per giunta.”
Ted lo fece fermare di colpo afferrandolo per una spalla. Aveva un’espressione così seria che per un attimo si preoccupò. “Ti amo, lo sai?” Disse invece.
James si impedì di gongolare come una scolaretta: forse dopo il matrimonio quell’istinto da decerebrato gli sarebbe passato.
O forse no.
“Perché stiamo per fare la stronzata pericolosa del secolo?”
Ted sospirò, una parte di lui ancora professorino giudizioso. Poi gli sorrise di nuovo, e il Plenilunio doveva entrarci qualcosa perché fu un sorriso ferino. “Perché ho il compagno che ho sempre desiderato accanto.”
La prossima volta che me lo dirai sarà con un anello al dito, cazzo.
Se lo tenne per sé però, perché era anticlimatico da morire dirlo ad alta voce e poi baciarlo a morte, visto il contesto. “E te ne sei accorto solo adesso?” Ironizzò invece prima di voltarsi verso Moscardo: non pareva un Mannaro, piuttosto un signore di mezza età fissato con la vita all’aria aperta.
Mai fidarsi delle apparenze. Neanche Teddy sembra quello che è.
Erano i geni Mannari, a regalare quell’aria da Dottor Jekyll e Mister Hyde? “Ho già detto quello che so agli agenti, ragazzo.”  
“Sapevi che era sua intenzione rapirla?” Gli domandò a bruciapelo.
“Non si tratta di rapimento se la cucciola è famiglia. Appartiene al branco.” Argomentò e James temette seriamente in un’esplosione da parte del compagno.
Perché tutti continuano a prendere a calci i suoi punti deboli?
“Benedetta non è una cosa.” Disse Ted, ed era il tono che faceva sprofondare decine di alunni in un silenzio tombale.
Posso testimoniarlo!
“È una bambina di cinque anni. È stata rapita da un posto che considerava casa ed è stata strappata da due persone che la amano. Tutto per cosa? Per avere una femmina nel branco?”
“Il branco deve sopravvivere e nessuno qui le farebbe del male.” L’uomo fece una smorfia. “Dite che l’amate, e vi credo. Ma è un Mannaro, come noi. Ora è piccola, docile. Ma quando crescerà? Sarete in grado di far fronte ai suoi bisogni? Per tuo padre è stata dura vivere tra due mondi. È stato trattato come un reietto, e così accadrà a Benedetta se la crescerete tra i maghi. Sarà temuta, detestata. Qui sarebbe capita.”
Cavolo …
Per quanto ottusamente fedele ad uno stronzo, il vecchio aveva le sue ragioni, e anche Ted dovette accorgersene perché non ebbe la forza di replicare.
Si sentì quindi in dovere di intervenire. “Non sta a Vulneraria decidere con chi deve vivere, ma al Ministero.”
Moscardo emise un basso ringhio gutturale. “Altri maghi! Decidete per noi da secoli, ci etichettate, ci mettete su un grosso libro e ci tenete rinchiusi in una riserva. Come potete prendere la decisione giusta se ci ritenete sbagliati?” Gli occhi ebbero un improvviso bagliore dorato. James guardò con ansia il sole sparire oltre le cime degli alberi. Era l’imbruinire.
“Okay, ora non facciamone un problema di classe…” Iniziò.
Ted lo fermò con un cenno di diniego. Lo vide rilassare la postura e non capì quell’improvvisa resa. Non subito almeno. “Io non vi ritengo sbagliati. Mio padre era un Mannaro, io sono un ibrido. Come potrei?” Interloquì pacato. “Ritengo sbagliato quello che ha fatto Vulneraria però. Se fosse stato un mago sarebbe stato lo stesso.”
Oh, okay … Sta cercando di portarlo dalla sua parte.
In effetti non era il caso di affrontarlo direttamente: era un anziano, ma era pur sempre un Mannaro. “Non voglio tagliarla fuori da un mondo a cui appartiene, Moscardo, in nessuno dei due casi. Voglio arrivare ad un accordo, ma non stasera. Stasera voglio solo portarla a casa. Ha saltato l’ultima dose di Antilupo, ed è sempre stata abituata a prenderla.”
“È con la sua famiglia, starà bene…” Ripeté l’uomo, ma per la prima volta non parve convinto delle sue ragioni.
“Lupin non ha tutti i torti.” Intervenne Flynn. “Se Benedetta non è abituata a diventare Mannaro senza Antilupo potrebbe diventare aggressiva. Verso sé stessa e verso Vulneraria. Ed essendo lui il capobranco, se non si sottomette potrebbe finire male.”
Cosa?
“In che senso?” Chiese con un orribile presentimento.
“Che ci saranno due lupi che lotteranno per essere l’alfa nello stesso territorio.”
Merda.
Si lanciò un’occhiata con Ted, che era impallidito.
A questo non avevamo pensato.
L’uomo si passò una mano sulla testa. Un sospiro segnalò un’apertura e James l’avrebbe baciato. “È andato al Picco della Vedova. Sono da soli, gli uomini sono a cacciare dall’altra parte della Foresta.”
“Finalmente una buona notizia!” Esclamò Flynn. “Sbrighiamoci. Una volta presa Ben dovremo filare via alla velocità di uno Schiantesimo.” Consultò il proprio orologio. “Il Plenilunio è tra meno di un’ora.”
 
 
Ted avrebbe voluto essere ignaro del mondo dei Mannari. Come un mago qualunque, che si limitava ad avere idee preconcette e una generale diffidenza per chiunque avesse gli occhi dorati dei lupi.
Sfortunatamente aveva passato buona parte dell’adolescenza a studiarli, tentando di capire il mondo che aveva segnato suo padre al punto da influenzare molte delle sue decisioni. Interessarsi alla Licantropia era stato un modo per sentirsi vicino ad un genitore che non aveva mai conosciuto, simile al desiderio di diventare auror come sua madre.
Mettersi nei panni dei genitori non aveva funzionato, ma studiare lo aveva reso informato, che forse era la cifra stessa del suo essere. Conoscere la natura delle cose e non esserci mai dentro completamente.
Ecco perché sono diventato professore …
Divagazioni a parte, stavano addentrandosi nel fitto di una foresta pullulata di Mannari e avendo sviscerato per anni ogni testo su di loro sapeva bene in che razza di guaio si fossero cacciati.
Flynn pareva condividere la sua preoccupazione. “Nella prime ore l’aggressività è minima.” Disse controllando con la coda la propria bacchetta, posata nel palmo della mano ed incantata con un Guidami. “La Luna deve essere completamente sorta perché la trasformazione sia completa … con annessi e connessi.” Concluse forse per tranquillizzare sé stessa, oltre che loro.
“Allora perché sto indossando questa roba schifosa?” Argomentò James, avvolto in un vecchio giubbotto che Moscardo gli aveva prestato. “Senza offesa per il vecchio, ma lavarlo ogni tanto?”
“Perché ti potrebbe salvare la vita.” Gli spiegò. “Ha l’odore di Moscardo.”
“… perché il branco sentisse il mio, da umano, sarei fottuto. Ricevuto.” Realizzò James, abbottonandoselo.
Non basterà se la Luna sarà al suo culmine.
Scacciò quel pensiero. “Allunghiamo il passo e bacchette alla mano.” Disse.
Il suo ragazzo batté le palpebre. “Okay, ma non dovremo arrivare ad usarla, giusto? Non con Ben!”
“Senza l’Antilupo non ho idea di come potrebbe reagire alla nostra presenza.”  
James borbottò un’imprecazione tra i denti, ma non ribatté.
Flynn gli si affiancò. “Sei sicuro di volerlo portare? Giubbotto o meno, il ragazzo puzza di umano lontano un miglio.”
Ted assentì. “È un auror addestrato, sa quello che fa. Se le cose prendessero una brutta piega avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile.”
Flynn annuì con un sorriso poco convinto. “Già … io e te non siamo granché come squadra di salvataggio, un professore e una funzionaria del Ministero.”
Le batté una pacca sulla spalla: l’aveva perdonata, considerando che stava rischiando la propria incolumità per riparare all’errore. “Non siamo solo questo, no?”
Con la luna sorta nel cielo, pallida e tonda, non lo erano. In mezzo ad una foresta, circondati da una miriade di odori, rumori che appartenevano ad un mondo antico, dove gli animali erano padroni, non potevano esserlo.
Ted respirò a pieni polmoni l’aria carica di eccitazione, sentendo il sangue ribollire nel petto, i muscoli guizzare involontari.
Benedetta doveva sentire quel richiamo atavico quanto e più di lui.
Non posso privarla di questo.
Moscardo aveva ragione, e alla luce del sole avrebbe cercato un accordo, per il bene di Ben e per non renderla come Remus, esule in due mondi.
Ma non stasera.
“Siamo arrivati.” L’Incantesimo Guidami si era esaurito, segnalando con una freccia bluastra uno sperone roccioso che si stagliava di fronte a loro, una volta diradati gli alberi. “Moscardo ha detto che questo è il territorio di caccia di Vulneraria.” Spiegò la funzionaria.
“Quindi sta cacciando qua attorno?” James aveva tirato fuori la bacchetta, mentre guardava lucido e attento la boscaglia di fronte a sé.
Flynn scosse la testa. “Il bosco è tranquillo, non ha iniziato. Se sta riposando in attesa che la trasformazione sia completa si sarà nascosto da qualche parte con Benedetta …”
“Una grotta.” Suggerì James indicando il picco. “La Cornovaglia è piena di grotte!”
“Andiamo.” Li spronò. “Troviamo Ben, le somministriamo l’Antilupo e la portiamo via.”
“E Vulneraria?” Interloquì Flynn. “No, perché trasformato sarà ancora meno ragionevole.”
Non sono venuto qui senza un piano.
O meglio, aveva le idee chiare. Era già qualcosa. “James ha lo Schiantesimo più potente che conosco.” Gli sorrise e fu ricambiato con un ghigno compiaciuto: a volte lusingare il primogenito dei Potter aveva risvolti positivi. “Voi tenete a bada Vulneraria, a Ben penserò io.”
Trovare la grotta fu facile. Ce n’era una abbastanza grossa proprio nel punto dove il picco si congiungeva ad un ammasso di rocce formando una sorta di terrazza naturale. Ted illuminò l’entrata con la bacchetta: carcasse di piccoli animali la disseminavano, come un tetro avvertimento per chi avesse intenzione di entrare.
È questa.
“Se entriamo qua dentro usciamo orizzontanti.” Intervenne James grave. Doveva aver visto qualcosa che a lui sfuggiva. Alla sua occhiata interrogativa spiegò. “Se usiamo un Lumos li avvertiamo della nostra presenza, se entriamo alla cieca loro ci vedranno comunque meglio di noi. In ogni caso, siamo fottuti.”
Già.
Si fidava della sua analisi. “Cosa proponi di fare allora?” Gli domandò.
“Stanarli.” Tagliò corto. “Sono come grossi lupi, no? Quindi avranno paura della cosa che più fa paura agli animali. Il fuoco. Accendiamo uno davanti all’entrata, e spingiamo il fumo dentro la grotta.” Fece una pausa intuendo la sua titubanza. “Non sarà pericoloso per la pulce, ma li farà uscire. A quel punto li separeremo.”
È un piano. È un buon piano.
Flynn la pensava come lui perché fischiò ammirata. “Abbiamo un vero Potter condottiero!”
James, come suo solito, aggiustò la postura per armonizzarla con l’idea che voleva dare di sé al resto del mondo. “Che vuoi farci, il sangue non è acqua!”
Gli diede uno schiaffetto sulla nuca perché tra i suoi tanti compiti, c’era anche quello di farlo tornare con i piedi per terra. “Potrai vantarti quanto vuoi, dopo.”
“Agli ordini!” Gli rispose con un sorriso da schiaffi. Fu poi tempo di tornare all’azione: trovare la legna fu semplice visto che ne erano circondati, meno lo fu accendere il fuoco dato che era una notte tersa, ma ventosa.
Sono questi i momenti in cui amo essere un mago.
La magia fece divampare le fiamme in poco tempo e poi, buttandovi sopra felci ancora verdi, si creò un compatto fumo grigio che indirizzarono all’interno della grotta.
La reazione non tardò ad arrivare, e fu violenta ed improvvisa. Due masse scure schizzarono fuori dalla caverna e Ted, che non era più il giovane allievo Auror di un tempo e soprattutto non aveva più la prontezza di riflessi che l’aveva tenuto all’erta per i suoi primi anni di insegnamento – non riuscì a reagire, rimanendo come un cervo di fronte ai fari di un automobile.
Ma non James, che senza esitare puntò una delle due macchie e lanciò lo Schiantesimo. Un lampo rosso e Vulneraria, la massa di pelo arruffato più grossa delle due, fu catapultato fuori dallo spiazzo di rocce, giù tra gli arbusti del bosco.
Ben!” Si voltò verso il mannaro più piccolo: Ben trasformata non differiva molto da un giovane lupo, a parte il muso più corto e la coda a ciuffi. Da adulta sarebbe diventata almeno il doppio.
Non me ne devo preoccupare adesso.
Perché da come gli stava mostrando i denti doveva tener l’attenzione ben focalizzata sul presente. “Benedetta, sono io … zio Teddy.” Nonostante le proteste soffocate di James rinfoderò la bacchetta e alzò le mani. Non c’era tempo per trasformarsi in un lupo, e in quella forma in ogni caso gli sarebbe stata preclusa la possibilità di parlarle. “Sono io piccola, va tutto bene.” Il ringhio con cui gli rispose e l’indietreggiare ad orecchie abbassate segnalava chiaramente quale fosse il problema. “Lo so che sei spaventata … ma torniamo a casa. È finita, torniamo a casa.” Stressò l’ultima parola, perché era importante che la capisse.
Hai una casa e l’avrai sempre.
Un serie di ululati squarciarono la radura. “Dobbiamo Smaterializzarci ora, questo è il branco, Vulneraria deve averli chiamati!” Tradusse per loro Flynn, che con James era rimasta a prudente distanza di sicurezza. “Non possiamo affrontarli, sono troppi!”
No, non potevano ma Ben non era tranquilla, e tentare di portarla via in quelle condizioni non poteva che finire male. “Benedetta, dobbiamo tornare a casa, adesso.” Tentò di nuovo.
Teddy!” James non urlò, non proprio, ma il sussurro che gli lanciò gli gelò comunque il sangue nelle vene. Alla luce della luna ora alta nel cielo vide forme scure salire lungo lo sperone di roccia. Ne contò sei.
Sei Mannari adulti che avevano appena trovato le loro prede.
Fece appena in tempo a chinarsi a prendere la bacchetta che il primo balzò in avanti e con orrore puntò James, sbattendolo a terra con violenza. “Jamie!” Un balenio rosso e un guaito segnalò che il ragazzo non si era lasciato prendere di sorpresa.
Sfortunatamente neanche il resto dei Mannari. Ted si trovò a doverne respingere due, e di questi uno era Vulneraria, ne era sicuro: trasformato non l’aveva visto che di sfuggita, ma la cicatrice che gli ricopriva buona parte del cranio ferino era inconfondibile.
Ci uccideranno. Ci uccideranno o ci morderanno.
La consapevolezza di aver portato Flynn e James verso la morte o una lunga malattia orribile lo atterrì.
Non può succedere. Non posso perdere la mia famiglia, non di nuovo.
Ma non era un uomo d’azione, non lo era mai stato. Bastò quell’attimo di paura, quell’attimo di distrazione che Vulneraria lo caricò, sfoderando i denti e cercando di chiuderli attorno al suo braccio. Lo prese di striscio, lacerandogli la camicia e facendolo cadere a terra.
Stavolta mi morderà.
Nell’impatto la bacchetta gli era saltata via dalle mani.
Mi morderà.
Aspettò di sentire il dolore della carne lacerata ma udì invece un latrato e Vulneraria improvvisamente non fu più su di lui, ma in lotta con un altro Mannaro che lo aveva afferrato per il collo tirandolo via.
Quel Mannaro era Benedetta.
Si tirò in piedi, cercando a tentoni la bacchetta. “Ben, no!” Gridò spaventato, ma questa non gli diede retta, persistendo nel suo attacco. Vulneraria, che all’inizio era stato forse troppo sorpreso per reagire, ci mise solo pochi attimi a liberarsi della presa, scagliando Benedetta a distanza. Non fece in tempo a tornare da lui che questa schizzò di nuovo in piedi, frapponendosi tra loro e il branco, scoprendo i denti e latrando con forza.
… ci sta proteggendo.
Vulneraria tentò di avanzare, ma era chiaro che avrebbe dovuto scontrarsi con lei se avesse persistito nel tentativo.
… la attaccherà?
Per un attimo il tempo parve sotto Arresto Momentum; si udivano solo i respiri delle bestie e degli uomini mischiati assieme. Poi Vulneraria lanciò un ululato, subito seguito dai compagni. Anche stavolta Benedetta non si spostò di un millimetro; il cambiamento fu da parte del branco, che indietreggiò prima di sparire nel folto della foresta così come era venuto.
“… Cosa cavolo è successo?” Sentì James mormorare, e si sentiva di condividere il sentimento.
A dopo le spiegazioni.
“Ben.” La chiamò, e il lupo si voltò, con gli occhi vispi e intelligenti della sua bambina, ogni traccia di aggressività scomparsa. Mise la bacchetta da parte. “Vieni qui.” La chiamò.
Non l’avrebbe attaccato, ora ne era sicuro. Non nel senso classico del termine visto che fu comunque buttato a terra. E leccato in faccia. “Ben!” Rise arruffandogli il pelo. “Brava cucciola.” La lodò mentre questa gli strofinava il muso addosso.
“Ha chiaramente scelto il suo capobranco.” Scherzò Flynn sospirando di sollievo. “Per nostra fortuna, non è il vecchio Vulneraria.”  
“È per questo che non ha attaccato noi, ma i Mannari?” Chiese James, ancora evidentemente scosso, ma illeso. Lo controllò da cima a fondo con la coda dell’occhio; notandolo l’altro scosse la testa. No, non l’avevano morso.
Merlino sia ringraziato…
“E' sotto Antilupo da quando è piccola, questo deve sicuramente aver aiutato a chiarirle le idee su cosa stava accadendo, ma sì.” Confermò la strega. “Siete voi la sua famiglia, e l’istinto protettivo ha fatto il resto.”
“E i Mannari erano d’accordo?”
Flynn si strinse nelle spalle. “Vulneraria deve aver capito che avrebbe dovuto combattere contro sua nipote con il rischio di ucciderla … È un Mannaro anziano, ed un capobranco. Il Plenilunio non gli dà alla testa, per fortuna. Gli altri lo hanno solo seguito … dopotutto in questa foresta ci sono prede molto più interessanti che un trio di maghi pelle ed ossa!”
James si avvicinò incerto, infilando la bacchetta nel giubbotto. “Credete che possa…”
Ted si scambiò uno sguardo con Flynn, che annuì. Osservò con il fiato sospeso l’altro avvicinarsi: per quanto amasse Ben e la accettasse senza riserve, vedersela davanti trasformata in uno dei peggiori incubi di un mago non doveva essere semplice.
Ma il suo ragazzino era straordinario, come lo era Benedetta. Si scrutarono un po’ a vicenda, e James le fece annusare la mano, come aveva imparato a fare con i cani di campagna. Benedetta si lasciò poi accarezzare di buon grado. “È il giubbotto di Moscardo?” Domandò.
Ted gli sorrise. “No, sei tu.”
Siamo la sua famiglia. Lo siamo sempre, in entrambi i mondi.
James chinò la testa, ispirando forte e Ted gli accarezzò la nuca, fingendo di non aver notato gli occhi lucidi. “Che ne dici se torniamo a casa?” Suggerì.
“Cazzo, sì.”
 
 
Non c’era niente di meglio che tornare a casa dopo uno scampato pericolo. James stava imparando che la quiete di un fuoco acceso e un divano su cui stravaccarsi dopo aver rischiato la vita era preferibile a celebrazioni in pompa magna.
Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato questo, il mio riposo dell’eroe.
Ma portata Benedetta nella stanza dedicata alla trasformazione e dato la buonanotte con un bacio sul muso peloso più adorabile di sempre, si era fatto una lunga doccia per togliersi di dosso la puzza di bosco, e ora sorvegliava le fiamme con affianco Ted.
Era in pace.
“Che serata…” Disse all’altro, preso a sorseggiare the come doveva fare perché era Teddy Lupin.
La normalità è grandiosa!
Questo sorrise. “Mi fa rivalutare i lunghi pomeriggi di correzione compiti.”
James annuì. Malfoy e gli altri dovevano essere nel pieno dell’azione, ma non sentiva il minimo stimolo a raggiungerli.
La vita privata si è già presa tutte le mie forze, spiacente.
“Tosta la ragazzina.” Commentò. “Voglio dire, se è così adesso, a diciassette anni comanderà un branco tutto suo!”
“Potrebbe.” Ribatté il compagno, ed era già tanto che vagliasse quella possibilità. Quella sera doveva avergli aperto gli occhi su un sacco di cose.
Peccato non sul matrimonio.
L’anello gli bruciava ancora addosso – non era riuscito a separarsene neanche dopo essersi cambiato – ma non aveva molto senso darglielo in quel momento.
Il ristorante … la proposta.
Oh ‘fanculo. Tanto comunque sarei stato richiamato in ufficio.
“James?” Ted lo scosse ed ehi, stava quasi per addormentarsi. “Cos’hai in tasca?”
Oh cazzo.
“Niente!” Nicchiò nel panico, perché come un idiota stravolto dagli eventi si era seduto dal lato sbagliato e l’altro stava evidentemente sentendo qualcosa di duro contro di sé.
E non è la mia solita dose d’amore.
“Sei sicuro?”
Si arrischiò a guardarlo e lo vide sorridere. E non era uno di quei suoi sorrisi inconsapevoli che precedevano un attacco di panico, né l’espressione incerta di cui lo graziava ogni volta che andava in blocco emotivo.
Era il sorriso pieno d’amore che aveva sperato sin da ragazzino rivolgesse a lui e a lui solo, e per cui aveva lottato con le unghie e coi denti ed infinita pazienza.
Era un sorriso per cui avrebbe fatto tutto da capo, altre mille volte.
Estrasse la scatolina. “Stasera volevo fare le cose come si deve.” Mise le mani avanti. “Sul serio, avevo prenotato in un ristorante super-lusso e mi sarei persino inginocchiato.”
Ted sbuffò divertito. “Un po’ teatrale.”
“Era per convincerti!” Si difese. “Per convincerti che…”
“Non ne ho bisogno, James.”
Si sentì sprofondare. “… dell’anello?”
Gli prese il viso tra le mani, costringendolo a guardarlo. “Di essere convinto. Non dopo tutti questi anni, non dopo stasera. Avevo solo paura di spingerti ad un passo che non sentivi tuo.”
“Ma che cazzo di…”
Lo fermò con un bacio. Ormai Lupin se l’era segnato, era un buon modo per fargli passare il fiotto d’esasperazione che lo coglieva ogni volta che  tentava di difenderlo da roba inesistente. “Me ne rendo conto adesso. Sono lento, amore mio, mi conosci.”
“Eh, manco poco.” Convenne. “Volevo fare le cose alla lettera proprio per questo.”
“Siamo stati dirottati.” Gli accarezzò la guancia. “Pensavo che sarebbe piaciuto anche a me fare le cose … in maniera classica.” Scosse la testa. “Ma non siamo classici io e te, giusto?”
“Quindi…”
“Quindi sto aspettando, Jamie.” Lo guardò divertito. “Non devi darmi qualcosa?”
Oh … oh, okay.
Evitò l’inginocchiarsi che in effetti era una roba proprio cretina, ma aprì la custodia dell’anello e nel panico si chiese se Malfuretto gli avesse consigliato bene, che dopotutto era un Purosangue cretino. Da come Ted guardò la semplice fede di oro bianco si tranquillizzò.
Se la guarda come un libro appena uscito di stampa è okay.
“Edward Remus Lupin…” Perché era e sarebbe rimasto uno stronzo e l’occhiataccia che gli venne lanciata lo fece gongolare solo di più. “… mi vuoi sposare?”
“Sì, James Sirius Potter.” Lo imitò, ma poi gli tese la mano. Fu un miracolo che azzeccò il dito al primo colpo perché era così emozionato che avrebbe potuto infilarglielo in una narice. “Dopotutto sono sempre stato tuo.”
“Puoi scommetterci.” Intrecciò la mano alla sua e lo baciò, e non era come Lily e Malfuretto avevano progettato che andasse. Non era come nessuno aveva progettato andasse, una storia d’amore tra il ragazzino arruffato e combinaguai e il giovane uomo che voleva sempre fare la cosa giusta.
Ma erano loro, e Benedetta dormiva al sicuro.
Per questo avrebbe funzionato sempre alla grande.
 
 
****
 
 
 
Note:

Non mi sto neanche a giustificare, perché onestamente non so se qualcuno ancora si ricorda ‘sta storia. Giuro che non me l’ero dimenticata, era solo bloccata nel traffico della vita vera.
Questa la canzone del capitolo.
Giuro che proverò a scrivere più in fretta stavolta, ma cambiare città non è che ti stimoli a rintanarti davanti ad un pc. :P

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Capitolo 57
*** Capitolo LVI ***


  
 
 
 
                                                    Benvenuti a teatro. Dove tutto è finto ma niente è falso.
 
 
 
 
Londra, Magazzino Purge&Dowse Ltd. …
… ovvero San Mungo, Sera.
 
Neppure quella sera Albus era tornato a dormire e Tom stava cominciando a perdere la pazienza.
Lo sapeva, stava lavorando alla realizzazione dell’antidoto per il Demiurgo e non era cosa semplice da quello che era riuscito a strappargli le poche volte che l’aveva incrociato a casa, mentre si trascinava verso la prima superficie orizzontale disponibile. Si trattava di sintetizzare una cura da sangue umano e se i Babbani ci avevano messo secoli della loro medicina per inventare le trasfusioni, i maghi, pur con tutta la loro magia, avevano vita altrettanto difficile.
E qui non abbiamo anni. Neppure mesi.
Albus lavorava, assieme agli altri Pozionisti e i Medimaghi di Malattie Magiche, da giorni, senza conoscere riposo se non quello che gli veniva imposto. Era un Serpeverde: finchè non avessero raggiunto l’obbiettivo non si sarebbe risparmiato.
Il che, per lui, si traduceva in un letto gelido e notti di insofferente insonnia.
Se da adolescente gli avessero prospettato l’ipotesi che avrebbe fatto fatica a dormire senza qualcuno accanto avrebbe riso di gusto.
Ora non più.
“Potresti almeno fingere di starmi ad ascoltare, eh!” Lo apostrofò Meike strappandolo dalle sue lugubre riflessioni. “Va bene che ti manca Mutti…”
“Non mi manca.” Ribattè dando un sorso svogliato alla propria tisana. Fece una smorfia quando si accorse che era fredda. “Non è partito per terre sconosciute.”
Non glielo perdonerei mai se lo facesse. Senza di me.
“Se mi innamoro e sviluppo una dipendenza del genere ammazzami.” Sbuffò l’altra con aria disgustata. Stava fingendo: era la prima sostenitrice della loro coppia e andava in ansia quando li vedeva litigare manco fosse figlia loro.
“Si tratta di abitudine.” Scrollò le spalle. “Tutti ne sviluppiamo più di una.”
“Al è un abitudine come lavarsi i denti prima di andare a letto?”
“Quello è un dovere se non vuoi assimigliare ad una Megera.” Le fece notare. “Comunque no. La sua presenza è la cosa a cui sono abituato.” Anche se il compagno non era lì, sentiva la sua occhiataccia perforargli la nuca.
Bella parata, Dursley.
“Ed è bella una cosa del genere?” Chiese sinceramente interessata. “Cioè, aver tanto bisogno di una persona…”
“L’alternativa è rimanere da soli.”
“No, beh, ce ne sono varie di alternative…”
“Non per me.”
Meike fece un mezzo sorriso, allungandogli un calcetto sul ginocchio visto che erano entrambi seduti sul divano a fingere di ascoltare uno dei nuovi strambi gruppi della ragazza. “Stramboide.” Lo apostrofò affetuosa: era la cosa che più gli rinfacciava da che la conosceva e sospettava la cosa per cui gli stesse più simpatico. “Perché non vai a trovarlo?”
“Sta lavorando.” Quello che molti non capivano degli ex-Serpeverde era che l’etica del lavoro era radicata nel loro modo di essere, quanto e più dei Tassorosso. Ma mentre i secondi si limitavano ad esser soddisfatti dell’impegno in medias res, chi era stato scelto da Salazar si sentiva realizzato solo alla fine dei giochi.
Con successo, se posso aggiungere. Il fallimento non è contemplato.
… in questo caso forse ancora meno, visto che sull’altro piatto della bilancia posano vite umane.
Per questo capiva lo stakanovismo ai limiti della follia del compagno; quando un progetto al laboratorio lo prendeva a pieno, non conosceva sonno o stimoli esterni.
Meike, facendo parte della stessa gloriosa Casata, si limitò ad annuire. “Regolare, ma credo che vederti gli farebbe bene. Anche tu manchi a lui.”
“Te l’ha detto?”
Fu guardato con compatimento. “È la carenza di affetto che ti fa avere un insolito momento di insicurezza?” Sogghignò. “Se vuoi posso abbracciarti.”
“No.” Si alzò in piedi per scongiurare la minaccia. “L’idea comunque è buona.”
“Io ho solo buone idee.” Convenne placida stendendosi sul divano come un gatto. “Portagli i biscotti che ho fatto stamattina … Sono i suoi preferiti.”
“Torno presto.”
“Ma prenditi pure tutto il tempo che ti serve!” Lo caldeggiò alzando lo stereo ad un volume che fece scappare Zorba dalla propria cuccia.
Lo abbassò con un colpo di bacchetta. “Se trovo qualche adolescente maschio seminudo in salotto sappi che lo appenderò al balcone per le mutande.”
“E se non ce le avesse?”
“Saprò ingegnarmi.”
Meike non si scompose: c’erano tre persone su cui le sue minacce non avevano il minimo effetto. Una di quelle sfortunatamente ce l’aveva davanti. “E se fosse una donna?” Continuò.
“Sono per la parità dei sessi.” Motteggiò facendola ridere. “Sono serio. Niente festini.”
“Li ho mai fatti?” Domandò offesa. “Di cui tu o Mutti siete a conoscenza almeno?” Aggiunse allegramente.
La ignorò, andando a prepararsi mentre Zorba lo seguiva affranto. “Torno presto.” Ripetè.
E se cominci a parlare con il gatto forse è il caso di andare a trovare Al.
In meno di mezz’ora fu al San Mungo, che ormai conosceva come le sue tasche: tutta la ramificata famiglia Weasley-Potter aveva perlomeno una conoscenza base del posto.
Passiamo più tempo qui che chiunque altro.
Tirò dritto verso i piani bassi, usando le scale perché gli ascensori potevano essere forieri di incontri non desiderati, tra cui Lily l’impicciona o Auror di vario grado e forma di antipatia.
Non che i Pozionisti fossero meglio, rammentò cupo mentre si fermava di fronte alla porta del Laboratorio di pozioni. L’ultima volta era stato un miracolo riuscire a passare oltre un muro di insopportabili rimesta-calderoni.
E ora?
Il corridoio era deserto, eccezion fatta per un tipo delle pulizie che pareva addormentato sulla propria scopa, il cappellino calato fino agli occhi.
Potresti stordirlo e indossare la sua uniforme …
… o forse potrei semplicemente entrare e chiedere del mio compagno.
Che era la cosa più razionale e meno macchiavellica da fare, quindi spinse le porte a molla ed entrò.
L’atmosfera gli ricordò perché Pozioni, per quanto avesse ricevuto sempre ottimi voti, non fosse mai stata la sua materia preferita: l’odore, prima di tutto. Raramente una pozione medicamentosa era gradevole all’olfatto. Al diceva sempre che se eri fortunato si limitava a sapere di uova marce.
Non sono stato fortunato.
E poi il caldo: almeno una cinquantina di calderoni sobbolliva nell’enorme stanzone in pietra e neppure gli incantesimi refrigeranti riuscivano a togliere l’impressione di trovarsi in un gigantesca zuppa gorgogliante.
Si coprì il naso con la manica della giacca, rimpiangendo di non averne scelto una più leggera.
Sto facendo la sauna.
L’insofferenza era tale che surclassò l’arrivo del pozionista scheletrico che l’aveva accolto la prima volta. “Ti sono mancato?” Lo apostrofò senza neanche tentare di essere amichevole.
Tanto non sarei credibile.
“Le persone non autorizzate…” Iniziò come un disco rotto.
“Ho bisogno di parlare con il mio compagno, la prozia Muriel è morta.” Poteva divertirsi a stuzzicare, ma non era stupido. “Erano molto legati.” Mentì con quella che sua sorella Alicia avrebbe definito una splendida faccia da culo.
L’uomo tentennò, dimostrando perlomeno un grammo di cervello oltre a quelli usati per rimestare ingredienti. “Vado a chiamarlo. Resta qui.” Brontolò sparendo tra fumi, vapori e facce sospettose.
Tornò dopo qualche irritante minuto – lo aveva fatto apposta a farlo aspettare e sudare, ne era sicuro – seguito da un perplesso Al. “Tom, ma la prozia…” Iniziò, ma appena vide la sua faccia cambiò subito tiro. “… oh Morgana, è terribile.” Mormorò mentre gli occhi gli si facevano lucidi con l’abilità dell’infanzia. “Dexter, credo di avere bisogno di un momento.” E senza attendere la risposta del collega lo prese per un gomito e lo spinse fuori.
Il mio Al, Maghi e Streghe della giuria.
Quando furono in corridoio l’altro incrociò le braccia al petto e sospirò. “Puoi per favore evitare di usare la prozia come scusa?”
“Pensavo la detestassi.”
“Certo, è solo che l’ho già usata una volta con Smethwyck! E credo che Lily l’abbia fatta finire in una bara qualcosa come nove volte.” Esclamò preoccupato. “Un giorno o l’altro uno dei due finirà nei guai, e preferirei non essere io.”
Mi sei mancato.
Non lo disse ad alta voce ma Al glielo lesse nello sguardo perché si sciolse in un sorriso. “Cosa mi hai portato?” Chiese indicando il fagotto che aveva sottobraccio.
“Meike ha fatto i biscotti.” Lo osservò scartare e ingollarne due nel giro di qualche attimo. “Non credevo ti avrei fatto io questa domanda … ma stai mangiando?”
“Quando mi ricordo.” Si strinse nelle spalle con aria colpevole. “E so cosa stai per dirmi, ma sto lavorando ad una cosa importante!”
“Non ho aperto bocca.” Scosse la testa. “Stavo solo assaporando il tuo momento di ipocrisia.”
“Idiota.” Bofonchiò con la bocca piena di biscotti. “Non c’è tempo.”
Annuì, perché quello era un dato di fatto. “Come sta andando?”
“Tentativi sempre più vicini al risultato finale atteso.” Non si sbilanciò. “Pensavo che il sangue Magonò fosse più stabile come ingrediente per pozioni e invece…”
“Forse dipende dal Magonò.”
“Sì, infatti.” Convenne sedendosi a terra senza troppe cerimonie. Seguì il suo esempio solo perché ormai il mantello era già un disastro. “E far donare il sangue ai Maghinò è più difficile che catturare uno Snaso una volta rintanato.” Appoggiò la testa al muro, chiudendo gli occhi. “Merlino, sono esausto.”
Quella confessione fu un via libera. Gli passò una mano attorno alle spalle e se lo tirò contro. Al per tutta risposta gli conficcò il naso nella giugulare, inspirando.
Non si lamentò. “Puzzo di sudore.” Disse invdce.
“Un po’, ma meglio del calderone su cui ero chino fino a poco fa.” Bofonchiò. “Sul serio, profumi.”
“Di cosa?”
“Casa.”
Già.
Lo abbracciò più stretto, due idioti presi ad annusarsi a vicenda. Meike aveva ragione, quella era un astinenza bella e buona. Qualcuno avrebbe potuto dire che non era sano – e ricordava come un certo Zabini avesse ribadito quel concetto più e più volte.
Ma se siamo felici cosa diavolo importa?
“Ne avrai per molto?” Domandò ignorando la quantità di briciole che l’altro gli stava riversando addosso visto che non aveva smesso di ingozzarsi di biscotti.
“Non riesci a dormire senza di me, vero?” Sogghignò soddisfatto. “Dormi con Zorba, no?”
“I surrogati non mi interessano, e quel gatto graffia.”
“Assomiglia al suo padrone.”
“Sei tu il padrone.”
“Di chi dei due?”
Gli rifilò un pizzicotto a cui l’altro si sottrasse contorcendosi, cosa che non dispiacque a nessuno dei due. Gli rubò un bacio condito di cioccolato. “Vuoi che me ne vada?”
“No, cinque minuti.” Si lamentò come se lo stesse obbligando ad alzarsi da letto.
Thomas Dursley, il fantastico scendiletto.
Avrebbe dovuto prendersela, ma con le braccia piene di un Al, anche se puzzolente di Merlino sapeva cosa, poteva soprassedere.
Per stavolta.
Specie se l’altro gli lasciava bacetti affettuosi sul collo. “Se non la pianti ti prendo qui.” Lo informò placido rimediando una risatina. “Non scherzo.”
“Ted e James si sposano.” Replicò estemporaneo. O forse no.
Se voleva farmi fare una doccia fredda c’è riuscito.
Ugh.
“James in abito bianco? Delizioso.”
“Dai.” Tom abbassò lo sguardo, e si trattenne dal commentare perché vide l’altro sinceramente contento. “James mi ha mandato un messaggio via Gufo. Non me l’aspettavo!”
“Voleva solo farti notare che l’ha fatto per primo. Avete tutta quella cosa di arrivare uno prima dell’altro…”
Ci fu una lunga pausa.
“Stiamo parlando di sposarci?”
Tom battè le palpebre. “No.” Giusto? “Ti interessa farlo?”
“Non davvero.” Fece spallucce l’altro. “Non ho bisogno di riconoscimenti per sapere che mi appartieni e ti appartengo.”
“Da bambino la pensavi in modo diverso.” Lo prese in giro. “Dicevi che volevi matrimoniarti con me.”
“Hai una memoria da elefante, lo sai?” Sbuffò divertito. “Ero un bambino, non sapevo neanche cosa significasse. Per me voleva dire stare sempre con te, che era tutto quello che mi interessava … e che mi interessa.” Si sporse per un secondo bacio, questa volta più lungo.
Tom acconsentì sentendo che in quel prolungare c’era altro. Infatti poi Al lo guardò in faccia, con quei suoi grandi occhi velati di incertezza.
Appunto.
“Però non mi dispiacerebbe dirlo a tutti, che siamo una coppia intendo.”
“Lo sanno già.”
“No, lo suppongono, è una cosa diversa.” Gli fece notare. “E fin’ora non ho avuto problemi, sul serio, l’idea di esser definiti due scapoli rampanti è esilarante, ma…”
“Vuoi metterti al pari con James.” Concluse per lui ed era buffo vederlo tentennare tra l’impulso di negare e il desiderio di essere onesto. “Per me va bene.”
Al lo guardò sorpreso. “Sul serio?”
Si strinse nelle spalle: le persone di cui aveva stima e amava già lo sapevano. Suo padre non era un idiota, e gli aveva fatto digerire cose in prospettiva molto peggiori.
“Non vedo l’ora di molestarti di fronte a zio Ron e farmi dare dell’incestuoso bastardo dalla Prozia Muriel.”
Al gli sorrise radioso. “Non siamo davvero cugini.”
“Se lo fossimo stati per me non sarebbe cambiato nulla.”
“Tom!” Gli diede una manata sul petto, scostandosi scandalizzato. “Che schifo, sul serio!”
“Perché?” Lo riportò sopra di sé, dove doveva stare. “In qualsiasi universo, sesso, forma o epoca sceglierei te.”
È evidente che ne hai saltata una visti i risultanti, ma hai rimediato.
L’altro scosse la testa. “Romantico … ed incredibilmente disturbato.”
Gli sorrise di rimando. “Sono proprio io.”


Lo lasciò con la promessa che avrebbe cercato di tornare a casa il prima possibile. “Non manca molto.” Si stiracchiò. “Sam dice che siamo vicini, e anche se sono solo muscoli con un mestolo in mano, lo credo anch’io.”
“Non esagerare.” Gli raccomandò inutilmente. Si chinò a prendersi l’ultimo bacio. “Tornerò con altre provviste.”
“E altri abbracci.”
“Se non si può avere altro…”
Gli venne rifilato uno schiaffo sulla spalla. Guardò Al rientrare e per un momento percepì l’ombra di esser tagliato fuori.
Passò subito però: l’odore del laboratorio era davvero rivoltante.
E ho fatto quel che dovevo.  
Si incamminò, passando il tipo delle pulizie che continuava a sonnecchiare.
Avrà la mia età ed è inutile persino per un lavoro come questo.
Scommetto che era di Tassorosso.
Contento di quel pensiero si diresse verso le scale; non si accorse che un paio d’occhi continuarono a seguirlo dietro una cappellino abbassato.
 
 
****
 
 
Mare del Nord, Nurmengard.
 
“Siamo qui per prelevare la prigioniera quarantasei.”
Sören osservava, nient’altro. Il suo ruolo da recitare era infatti fare da ruota di scorta ai tre auror che erano venuti a prelevare Sophia Von Hohenheim in attesa del grande colpo di scena.
Mia madre.
Non si sarebbe mai abituato a vederla muovere, parlare e in generale a vederla viva.
Per fortuna non dovrò farlo. Quando sarà tutto finito, non dovrò più preoccuparmene.
La guardia carceraria prese le bolle di consegna, colme di ceralacca e firme, e le esaminò con attenziona solerte. “Aspettate qui.” Disse prima di chiudere la grata con uno scatto secco.
Dovendo stazionare in corridoio in attesa della strega, osservò le spalle fasciate di rosso di Malfoy tanto per impegnare lo sguardo: Scorpius stava chiacchierando amabilmente di gioie e dolori della vita coniugale.
Ammirava la sua capacità di pensare a tutt’altro persino in una situazione tesa come quella.
“E tu, Prince?” Lo apostrofò. “Hai mai pensato al grande passo?”
Grande passo? … Ah, certo.
“No.” Scosse la testa guardandosi attorno: fuori dalle finestre, feritoie più che altro, il mare si stagliava come una lastra di acciaio increspata da onde sottili come ali di gabbiano.
Guardare il mare lo rilassava sempre.
“Sembra però il pensiero fisso di voi inglesi.” Motteggiò perché intuitiva che l’amico stava tentando di coinvolgerlo nella conversazione.
Scorpius infatti si aprì in un sorriso a trentadue denti. “Ehi, che c’è di male a credere nell’amore?”
“L’amore non si declina solo in un contratto davanti ad un ufficiale.”
“Ma è un coronamento!”
“Per il momento mi accontento di avere al mio fianco una strega straordinaria.” Commentò dismissivo. Anche perché se avesse proposto a quell’anima libera di Lily una catena del genere avrebbe sicuramente rischiato di farla scappare a gambe levate.
Per quel che aveva inteso, la sua piccola inglese supportava il matrimonio in tutte le sue forme e declinazioni, ma non era intenzionata a partecipare come protagonista.
Come darle torto, con la famiglia che si ritrova dovrebbe gestire un circo, non una cerimonia.
“Già, non stai con la figlia del capo?” Si intromise uno dei due auror, un tipo muscoloso e compatto alla James Potter. “Che culo!” Commentò.
“Ti ringrazio.” Recitò compito, per niente contento di quello strambo complimento.
“A scuola era una tipa un po’ allegra, ma poi si è data una calmata. Ma ehi, se l’avesse fatto del tutto sarebbe un peccato, no?” Continuò cercando forse la sua maschia approvazione. “Tipe così sono selvagge.”
Sören osservò l’espressione contrariata di Malfoy, ma fu lesto ad intervenire di persona. Era suo dovere. “Se per allegra intendi di indole, certo. Lo è ancora.”
“Ma no, volevo dire…”
“Immagino benissimo, ma ti consiglio di non continuare.” Perse il poco sorriso che aveva approntato per mostrarsi amichevole. “Trovo profondamente ipocrita, oltre che offensivo, che un mago possa apostrofare una strega come facile di costumi quando tutto ciò che si limita a fare è avere la stessa libertà emotiva concessa ad un uomo.”
L’altro auror battè le palpebre confuso mentre Malfoy, che l’aveva capito perché era abituato ad eloqui peggiori a casa sua, ridacchiò sotto i baffi. “Non volevo mica offenderla!” Si difese. “Solo farti i complimenti per essere riuscito ad acchiappartela!”
“Non ho acchiappato niente, non è stata una caccia. Ci siamo scelti.” E con questo concluse la conversazione, spostandosi dall’altro lato per guardare fuori dalla finestra.  
Ho esagerato?
Scorpius lo raggiunse. “Ehi, non ti facevo un femminista!”
“Non so cosa sia.” Scrollò le spalle. “Ho solo detto ciò che penso.”
“Beh, mi sei piaciuto! E si capisce perché la piccola Potter abbia scelto te.”
Sorrise suo malgrado. “Perché sono un femminista?”
Scorpius gli battè una pacca sulla spalla. “Perché sei un gran essere umano.”
Fece per risponderle, perlomeno ringraziarlo di avergli detto le parole giuste, perché una cosa del genere aveva davvero bisogno di sentirla in quel momento, quando la porta si aprì. “La prigioniera è pronta.” Disse una guardia, diversa da quella alla grata. Era il ragazzo che aveva fatto girare Lily per metà prigione, ricordò. Wallace?
Anche l’altro parve riconoscerlo perché abbassò lo sguardo come se fosse stato colto in flagrante.
Di esserti fatto abbindolare dalla mia ragazza? Non sei il primo.
Avrebbe provato simpatia per lui se non fosse stato tanto concentrato a non prendere a pugni qualcosa. Sua madre gli stava di fronte, nel corridoio, ammanettata e con il mantello drappeggiato addosso: neppure la prigione era riuscita a toglierle quella patina da dama Purosangue.
Si scambiarono uno sguardo, ma Sophia non aprì bocca, neppure per salutarlo. Guardò invece la sua uniforme.
Già. Il simbolo dell’oppressione.
Doveva ricordarsi come si era sentito quando l’avevano portato via dal castello di suo zio, forzandolo a toccare una Passaporta come se non avesse avuto volontà propria. Sarebbe stato più facile entrare nel personaggio del Giuda.
Posso riuscirci.
 
 
Scorpius aiutò Sophia Von Hohenheim a salire sulla carrozza-cella che l’avrebbe portata fino al Ministero.
Che dovrebbe.
Il piano era tutto un altro, anche se doveva concentrarsi nel far sembrare quel trasferimento una routine ben oliata. La donna gli rivolse un’occhiata sorpresa quando lo vide porgerle la mano per salire sul predellino. “Sei un Purosangue?” Lo apostrofò con lo stesso accento di Sören.
Uuuh, straniante. Hanno la stessa voce!
“Sissignora.” Convenne perché a domanda si rispondeva sempre, specie se la strega in questione si muoveva e parlava come un incrocio tra sua nonna e l’amico.
“Un Purosangue che fa un lavoro del genere … curioso.”
Scorpius serrò le labbra, punto sul vivo come ogni volta qualcuno gli faceva notare che poteva aspirare a ben altro che essere una testa di bacchetta.
Peccato che mi piaccia, essere una testa di bacchetta.
“Ad alcuni di noi piace rendersi utili.” Tagliò corto salendo dietro di lei e accomodandolesi accanto. La carrozza-cella non differiva da una normale carozza ad eccezione della comodità. Niente cuscini, niente sedili imbottiti, solo pareti rinforzate da Barriere Anti-Evasione e sbarre di ferro ai finestrini.
Sören lo imitò, sedendosi dall’altro lato. Non aveva ancora aperto bocca ed era così infossato in sé stesso che non ebbe il coraggio di rivolgergli la parola.
Come riesce a non impazzire sapendo che potrebbe rischiare la vita e la reputazione in un colpo solo non lo so.
Scorpius non si illudeva di essere coraggioso. La lucidità necessaria a non avere paura era una cosa che tirava fuori solo in momenti disperati, e a volte era solo un atteggiamento.
Sören invece di coraggio ne aveva da vendere. La postura era rilassata, gli occhi attenti, simile a Artiglio quando era a caccia.
Sembra più tranquillo adesso che quando è fuori dall’uniforme.
Prince pareva perennemente sulla punta di una sedia inesistente quando era nel mondo civile.  
È proprio un soldato nell’anima.
Non come lui, che si nascondeva dietro un cumulo di chiacchiere e battute.
Rose quella mattina infatti l’aveva sgamato subito.
 
“I piani di mio zio, per quanto sembrino deliranti, funzionano.” Lo aveva rassicurato mentre lo aiutava a cercare vari pezzi di uniforme pulita: vivere in maniera ordinata senza Calzino era difficile e sperava davvero che Rose convincesse i suoi genitori – Hermione specialmente - a lasciarglielo tenere anche una volta sposati.
“Ehi, ne ho mai dubitato?” Chiese un po’ sterilmente perché sì, l’aveva fatto, eccome. Ad essere onesto, dubitava di tutti i piani che gli Potter-Weasley architettavano.
Sono un branco di pazzi. Ottimi amici, grandiosi compagni di avventure …ma pazzi.
L’altra gli passò la camicia, rassettando la piega con un colpo di bacchetta: per motivi che gli aveva solo vagamente spiegato aveva deciso di rimanere a casa quella mattina. “Qualsiasi mago sano di mente mettere in dubbio le idee di mio zio Harry.”  
“Uhm.”
“Ma andrà tutto bene. La fortuna assiste gli audaci, no?” Gli aveva sorriso, morbida, accogliente e con una strana aura luminosa che ultimamente aveva e che non riusciva bene a piazzare.

Non che si lamentasse, il sesso era grandioso.
“Ti vedo stranamente fiduciosa dell’intera operazione.” Aveva osservato abbottonandosi la camicia probabilmente tutta storta, dato che la compagna lo fermò per continuare l’operazione al posto suo.
“Sono preoccupata.” Aveva scosso la testa. “Come sono preoccupata ogni volta che tu, papà o qualsiasi altro membro della mia famiglia decide di salvare il mondo. Devo cominciare ad abituarmi suppongo.”
“Atteggiamento positivo.” Aveva fischiato ammirato. “Okay, che hai fatto della mia pallocchetta?”
Rose aveva ridacchiato andando a prendergli la giacca dove mai avrebbe guardato, cioè tra i suoi cappotti. Come ci riusciva?
Le donne sanno sempre dove sono le cose. Magia.
Magia universale.
“Sono il suo clone malvagio.” Aveva replicato. “Vi stiamo sostituendo tutti, uno per volta. Arrendetevi, o sarete assimilati.”
“No, Rosie, è
voi sarete assimilati, la resistenza è inutile!”
L’altra aveva roteato gli occhi al cielo. “Passi decisamente troppo tempo con Hugo e la sua videoteca.”
“La fantascienza è il fantasy dei maghi!”
“Sto per sposare un nerd.” Gli aveva dato un bacio a stampo, accarezzandogli il tatuaggio sul collo, cosa che lo rendeva più o meno collaborativo come Donnola quando gli si grattava la pancia. Aveva mugolato soddisfatto, prendendola tra le braccia: un’ora ancora, prima di attaccare al lavoro e farsi tirare dentro Il Grande Piano.
Sfruttiamola al meglio.
“Siamo due sgobboni, fiorellino.” Le aveva fatto notare coinvolgendola in un passo di valzer estemporaneo che l’aveva fatta ridere e oh, se amava farla ridere!
Mai piangere. Tutta la mia vita sarà votata a non farti piangere.
L’amava tanto ed era terrorizzato e Rose l’aveva capito, perché lei capiva sempre tutto: infatti gli aveva preso il viso tra le mani guardandolo con quel suo meravigliosi occhi cioccolato. “Malfoy, sai perché sono tranquilla?” L’aveva vista esitare per un attimo, per poi scuotere la testa. “Per una cosa che ti dirò quando sei tornato …” Gli sorrise di nuovo. “E perché so che farai di tutto per tornare indietro intero e rompiscatole.”
“Abbiamo un matrimonio da celebrare!” Convenne.
“Anche.” Confermò passandogli le dita tra i capelli.
“Anche?”
Rose si era bloccata, un’espressione di comico imbarazzo dipinto sul volto. “Soprattutto.” Aveva detto un po’ troppo veloce.
“Rosellina? Sta succedendo qualcosa che non…” Non gli diede il tempo di dire altro perché praticamente lo buttò sul letto e gli salì a cavalcioni.

“Parlare o altro?” Gli aveva chiesto con quell’espressione che l’aveva fatto fesso anni prima, quando pensava di avere a che fare con una palletta di insicurezze.
E invece no. Quando una rosellina sboccia, sboccia sul serio.
“Altro!”
 
 
Insomma, mi sono fatto corrompere con del sesso.
Non che gli dispiacesse, beninteso, ma era evidente che Rose gli stesse tenendo nascosto qualcosa.
Forse non voleva dirmelo oggi. Non è il giorno giusto in effetti.
Guardò fuori dal finestrino. Il cielo era terso, neppure una nuvola: avrebbero potuto avvistare John Doe a qualsiasi distanza.
Anche se il punto, credo, è proprio aiutarlo a farla franca.
Scoccò un’occhiata a Sören che pareva lontano miglia. Non lo era affatto, era tutta una scena. Gli altri due auror sembravano invece in assetto da guerra.
Qualcuno non sa entrare nella parte.
Non aveva molta importanza: Sophia Von Hohenheim sembrava distratta quanto suo figlio.
Certo che non si assomigliano proprio.
Neanche lui assomigliava a sua madre Astoria, tutta colori caldi e pelle ambrata, ma lì era una distanza totale. Erano seduti accanto, il gomito di Sören sfiorava l’avambraccio della donna, eppure …
È come se fossero due estranei in ascensore.
Pesante.
Così avrebbe commentato James e si sentiva di sposare a pieno quel pensiero.
Mi manchi, Potty.
Per un’altra oretta non accadde nulla, tanto che Wilkins cominciò ad appisolarsi contro la spalla del Sergente Stump, salvo venir svegliato da una marziale gomitata. Scorpius, con i nervi a fior di pelle quanto annoiato, diede un’occhiata fuori dal finestrino. Da lontano vide una carrozza e la mano gli andò alla bacchetta, salvo rilassarsi. Notando il cenno interrogativo del Sergente scosse la testa. “È solo un’altra carrozza-cella. Sta andando ad Azkaban.”
Distolse lo sguardo e fece aderire le spalle contro le pareti della cella. Non stava succedendo niente: possibile che i grandi capi avessero sbagliato? Che in realtà John Doe non aveva nessun interesse nel recuperare la propria compagna?
Sbirciò l’espressione della suddetta: pareva rassegnata al suo destino di prigioniera e non mostrava segni di impazienza o attesa.
Se si fossero sbagliati quella sarebbe stata l’ennesima occasione buttata al vento per catturare Doe e ritrovare le persone che aveva rapito.
E poi Sophia Von Hohenheim parlò.
“Attento a cosa desideri.”
… cosa? Mi ha letto…
Mi ha letto nella testa?
Non fece in tempo a formulare quella domanda – che per Merlino, cambiava tutto! – che un urto spaventoso li scagliò tutti da un lato, in un intreccio di gambe, braccia e bacchette.
La strega no. Era rimasta seduta al suo posto come Sören, ma con una sostanziale differenza: mentre il primo era riuscito a non rovinare a terra grazie ai propri riflessi da veterano, la seconda si era aggrappata al sedile di metallo con forza.
Se lo aspettava!
Poi, un esplosione. Scorpius si coprì la testa mentre la parete opposta alla loro veniva aperta come una scatola di sardine. La carozza era abbastanza grande da ospitare cinque persone sedute. E due in piedi, che piombarono con un salto dall’altra carrozza, quella che in teoria sarebbe dovuta andare ad Azkaban e che invece li aveva appena speronati.
Il Sergente fu la prima a reagire, saltando in piedi e brandendo la bacchetta: Sören, come la parte pretendeva, rimase invece al suo posto.
Merda, fa un certo effetto.
Affiancò l’altro auror, ma non riuscì a fare un passo in più. Perché vide chi erano i due scagnozzi di Doe.
O meglio, cosa erano. Occhi bianchi, espressione assente, vene in rilievo sul collo ed espressione da tori incazzati.
Infetti!
Infetti che eseguivano gli ordini, dato che uno dei due tese la mano alla Von Hohenheim come a volerla invitare a seguirlo: la strega ebbe un attimo di incertezza, prima di prenderla come se avesse appena acconsentito ad un giro di valzer.
… hanno trovato la cura?
Perché non sembra, ma … Che cazzo sta succedendo?!

“Fermatevi!” Gridò il Sergente, ripresosi dallo shock. “In nome del Ministero della Ma…”
Non gli diedero il tempo di finire: uno dei due Infetti scagliò un incantesimo non-verbale che congelò la strega sul posto. Letteralmente.
“Sergente!” Gridò Wilkins pronto a dar battaglia in piena crisi sucidida. Scorpius lo afferrò per le braccia.
“Fermo!”
Sören non può aiutarci. Noi non possiamo farli fuori. Ma gli Infetti faranno fuori noi se proviamo a restituirgli il favore.
Non possiamo combatterli, ma non possiamo neanche stare con le mani in mano.
Sospetto. Troppo sospetto.
Dovevano buttarne almeno giù uno, senza morire nel processo.
Pensa, Malfoy, pensa.

Buttarlo giù. Ma certo!
Everte Statim!” Scagliò l’incantesimo contro il più grosso di due, che si preparò a pararlo. Parò, ma al tempo stesso rinculò indietro, verso lo squarcio e quindi verso il vuoto.
Scorpius frenò un urlo di trionfo quando lo vide precipitare in mare. L’altro non parve turbato dalla scomparsa del compagno. Non parve neanche percepirla.
Un attimo …
Invece si voltò verso la Von Hohenheim, e come una marionetta addestrata le tese nuovamente la mano come prima aveva fatto il compagno.
Imperio. Sono sotto Imperio, ecco perché seguono gli ordini!
Doe non aveva trovato una cura al Demiurgo, non li aveva fatti tornare in sé. Aveva solo messo una pezza.
Instabile per giunta. È una maledizione potente, ma questa gente è tutto fuorchè un mago normale.
Si scambiò un’occhiata con Sören: non c’era tempo per seguire il piano, considerando anche che Doe non pareva della partita. Se era nell’altra carozza, non aveva intenzione di palesarsi.
Improvvisare.
“Vuoi tornare da Johannes?” Sören si rivolse alla madre con espressione neutra. “Passerai da una gabbia ad un'altra.”
“Almeno con lui è gradevole.” Gli venne risposto. “Non costringermi ad ordinargli di fermarti, Sören. Non voglio che ti facciano del male.”
Scorpius non aveva mai conosciuto Sören prima che diventasse Prince. Quando era un Von Hohenheim. Per questo il sorriso che gli vide dipingersi sul volto gli fece venire i brividi.
Era però il segnale convenuto. La recita aveva raggiunto il suo culmine. Si scambiò un cenno di intesa con Wilkins. “Basta così! Sophia, ordini a quella … cosa … di arrendersi o saremo costretti ad usare la forza!” Gridò impersonando piuttosto bene James Potter. Era il genere di tipo che non avrebbe capito un accidente dell’atmosfera.
Con tutto il bene che ti voglio Potty, eh.
“Avete sentito? Non gli importa se diventerete un danno collaterale.” Disse Sören alzandosi in piedi. “Preferirebbero vedervi morta che concedere un’altra vittoria a Doe. A proposito, non lo vedo. Perché non è venuto a prendervi?”
La strega lo contemplò guardinga: era chiaro che si stesse chiedendo perché il figlio non avesse ancora alzato la bacchetta contro di lei.
Forse dopotutto non è una Legimante …
Ma Sören era un Occlumante: e se aveva anche solo metà del cervello che pareva avere, si era chiuso nel momento in cui l’altra aveva fatto quella battuta da veggente.
“Johan mi aspetta, Sören, che tu voglia o meno. Non tornerò ad Azkaban, non rimarrò nelle mani del Ministero Inglese un giorno di più.”
Sören scosse la testa. “Non avete capito, Madre. Non ho intenzione di fermarvi…” Dannazione, se era entrato nella parte. Faceva paura. “Ho intenzione di seguirvi.”
E quando si voltò verso lui e Wilkins aveva lo sguardo vuoto di chi si preparava ad uccidere. Scorpius levò la bacchetta, ma non potè fare a meno di chiudere gli occhi.
“Avada…”
No, un attimo, cosa?!
“Kadavra!”
Lampo verde, sfondo nero. Sipario.
 
 
****
 
 
Londra, Mayfair, Casa di Hermione & Ron Weasley.
Notte.
 
Rose era immersa in un sonno profondo quando si sentì scuotere per una spalla. Aprì gli occhi di scatto: sonno leggero.
Cos’altro potrebbe essere se Scorpius è fuori in missione?
Era sua madre, in vestaglia e capelli selvaggi – non passava giorni che non ringraziava Merlino di non averli ereditati. “Rosie, alzati tesoro.”
“… Che succede?” Niente, giusto? Sua madre la faceva alzare nel cuore della notte perché voleva che le scaldasse del latte o la aiutasse con della roba di lavoro, no?
Certo. La mamma. Che persino con quaranta di febbre si mette a fare le pulizie.
“Scorpius…”  
“Cos’è successo a Scorpius?” Fu sveglia di colpo, le coperte attorcigliate alla gambe e il cuore a mille.
Sua madre scosse la testa. “Papà mi ha chiamato dall’Ufficio Auror, e sai com’è nello spiegare le cose quand’è occupato a far altro. Mi ha detto che l’hanno portato al San Mungo.”
“Sta bene?”
“Tesoro…”
Non le diede il tempo di ribattere, uscendo fuori dal letto con il rischio di rompersi l’osso del collo. Rallentò solo perché infortunarsi con un fagiolino in arrivo era una pessima idea.
Sua madre ebbe il buonsenso di lasciarla ai preparativi, ritirandosi in camera propria, dove la sentì fare lo stesso. Era una fortuna che Hugo vivesse da solo o con quel trambusto l’avrebbero certamente svegliato.
Mezz’ora dopo erano davanti al vecchio magazzino-aka-ospedale.  
Calmati. Scorpius sta bene o papà te l’avrebbe detto.
Dannazione papà, perché dici sempre le cose a metà?!
All’accetazione trovarono la solita maginfermiera che non aveva una particolare vocazione al rapporto umano.
Ce ne sono altre poi?
Fu sua madre a prendere la parola. “Cerchiamo Scorpius Malfoy, ci hanno detto che è stato ricoverato.”
La donna non alzò gli occhi dal lavoro a maglia su cui stava alacremente lavorando. “Siete familiari?”
“Sono la sua fidanzata!” Si intromise.
“Quindi no.” Tagliò corto la strega. “Le visite ai pazienti iniziano dalle undici di domattina.”
Sua madre la fermò prima che potesse Affatturare la stronza. “Grazie per l’informazione.” Disse gelida prima di tirarla via.  
“Voglio vederlo!” Si rendeva conto di comportarsi come una pazza, ma non le importava.
Non gliel’ho detto! L’ho lasciato partire e non gliel’ho detto!
Avevano un fagiolino in comune, un figlio e lei aveva avuto la brillante idea di far partire il suo uomo per una missione ad alto rischio senza informarlo della cosa.
Aveva fatto un orribile errore di valutazione.
Se gli succede qualcosa, se è stato Infettato, se…
Rose.” Stavolta il tono di sua madre le ricordò perché da bambina non aveva mai conosciuto al parola ‘disobbedienza’. Le mise le mani sulle spalle, e nonostante l’aria severa tentò un sorriso. “Me ne occupo io.”
“Ma le regole…”
“Al diavolo le regole.” Ribattè pacata lasciandola con un palmo di naso.
Al diavolo le…
Mamma?
Era troppo stravolta per aver la forza di ribattere, quindi rimase ferma a guardare la genitrice che parlava a bassa voce con la maginfermiera, la cui espressione mutò da irritata a preoccupata nel giro di una manciata di attimi.
Che le sta dicendo? La sta ... minacciando?
Probabilmente da come la strega si affrettò a rispondere all’ultima domanda; sua madre tornò indietro con l’espressione di chi aveva appena vinto una causa. “Quando le persone esercitano il poco di autorità che hanno per gratificare il loro ego e a discapito altrui, è buona norma rimetterle al loro posto. Ricordatelo sempre Rosie.”
“Uh… okay. Me lo segno. Grazie mamma.” Non sarebbe mai arrivata a sondare l’abisso di epicità che Hermione Granger in Weasley poteva raggiungere quando si sentiva toccata nei suoi personali valori morali. “Scorpius?”
“A Lesioni, ma non è in Terapia D’Urgenza.” Si affrettò ad aggiungere. “Possiamo andare da lui.”
Presero l’ascesore senza scambiarsi un’altra parola. Sua madre però continuava ad osservarla perché aveva capito.
“Se fossimo stati sposati non avresti avuto bisogno di bullizzare quella scema.” Si sfogò infine.
“Vero.” Confermò con un cenno della testa. “Bisognerebbe fare qualcosa per questa politica idiota delle visite urgenti ristrette ai soli consanguinei. Potremo…”
Smise di ascoltarla, perché non era dell’umore per assecondare un’ennesima crociata materna – per quanto giusta.
Perché non gliel’ho detto?
Non avrebbe fatto più l’errore di aspettare.
In corridoio contò suo padre, altri due auror che conosceva di vista – e Lord Malfoy. Se ne stavano ai lati opposti e se avessero potuto ergere un muro l’avrebbero fatto. “Scorpius!” Sbraitò in direzione di entrambi. Non le importava di sembrare una sciroccata vestita solo del proprio mantello, di una maglietta delle Stravagarie e i pantaloni del pigiama.
“Rosie, piccola, guarda che sta bene…” Iniziò suo padre e l’avrebbe strangolato.
Ora me lo dici?!
“Ha bisogno di riposo.” Argomentò Lord Malfoy squadrandola da capo a piedi come se si fosse appena rotolata in un cassonetto dell’immondizia. “Domani mattina…”
“Sono incinta.” Lo seccò senza mezzi termini mentre spingeva la porta della stanza.
E vaffanculo.
Scorpius era in compagnia di sua madre. Ed era seduto sul letto, e parlava, sorrideva. Stava bene.
Promemoria: uccidere papà o insegnargli a dare le informazioni giuste al telefono.
“Rosie!” La salutò e a guardarlo bene non aveva una bella cera: aveva una coperta sulle spalle, l’aria di un topo affogato e miserabile.
Non l’aveva mai amato così tanto.
Gli si gettò tra le braccia in un turbinio di mantello, pigiama e … non ricordava se ai piedi avesse le ciabatte o un paio di scarpe da ginnastica.
Chissenefrega.
Scorpius ricambiò l’abbraccio con una mezza risata. “Ti sono mancato così tanto?”
“Mio padre si è scordato di dirmi come stavi.” Bofonchiò contro la stoffa rigida e salata della sua uniforme.
Si è fatto il bagno in mare?
“… tuo padre è un cretino.” Lo sentì sospirare mentre le accarezzava i capelli. “Mamma, per cortesia, puoi andare a riferirgli che è un cretino e che non si spaventa così la mia dolce caramellina piena d’ansia?”
“Vado a prendere una tazza di the per entrambi, certo.” Convenne Lady Astoria, perché era una delle poche che riusciva a decifrare il linguaggio di quell’assurda testa bionda senza sforzo.
Quando furono soli, Scorpius continuò a cullarla ed ignorare il moccio che gli stava di certo imbrattando la spalla. “È tutto okay.” La rassicurò. “Il piano è andato un po’ fuori controllo e sono finito a fare il bagno nell’oceano, tra le varie … ma è tutto okay. Cioè, lo sarà.” La voce si fece incerta. “Sono sicuro che lo sarà.”
Avrebbe dovuto chiedere di Sören, e se il piano era andato in porto, ma francamente non gliene importava nulla. Non in quel momento, non avvolta nell’abbraccio del suo raggio di sole personale.
Provate a vivere con la prospettiva di stare senza sole.
La mezz’ora più schifosa della mia vita.
Intanto Scorpius ritenne doveroso spiegarle la situazione. “Prince si è fatto portare via in qualche modo, anche se forse sua madre è una Legimante, quindi potrebbe essere potenzialmente nella merda. Ora dobbiamo solo aspettare, cioè, gli altri devono aspettare, tuo padre mi ha esonerato fino a…”
“Sono incinta.”  
Era l’unica cosa che aveva in mente, l’unica che riusciva a dire.
Ci fu un momento di lunghissimo silenzio, e Rose si arrischiò ad alzare lo sguardo.
Scorpius la stava guardando con la bocca aperta e gli occhi sgranati.
L’ho rotto?
“Sei…” La voce che gli uscì era un ottava più alta ma, da sciocco maschio qual’era, fu lesto a bloccarla. “Sei?” Domandò sbattendo le palpebre con un Gufo.
Sorrise. Finalmente si permise un sorriso. “Sono.” Confermò.
“Sei.” La sciolse dall’abbraccio e scese dal letto prendendo a passeggiare. Non se ne preoccupò, Scorpius era iperattivo: una notizia del genere non avrebbe mai potuta processarla da fermo. “Sei.” Ripetè come un disco rotto passandosi una mano tra i capelli. E di colpo un larghissimo sorriso gli si allargò sulla faccia. “Incinta!”
“Sì!” Confermò lasciandosi andare ad una risata. Perché il suo Malfoy le stava di fronte eccitato come un bambino di fronte ad uno stuolo di regali e non era morto senza sapere di essere padre.
Grazie Merlino, Morgana, Faust e anche Dio, per sicurezza.
“Posso…” Esitò e stava letteralmente trattenendosi dal saltellare, perché era un grosso scemo che tramutava la gioia in energia. “Credi che faccia male al bambino se ti prendo in braccio e do di matto?”
“Se non mi fai cadere non dovrebbero esserci problemi, Malfoy.”
Venne così conseguentemente presa tra le braccia e fatta girare come una trottola con un urlo di trionfo da parte del matto. Lo fece smettere solo baciandolo. “Sveglierai tutto il reparto!”
“Chissenefrega, è il giorno più felice della mia vita!” Esclamò guardandola … beh, come la guardava sempre, facendola sentire amata e speciale, ma c’era anche altro.
Sono la madre di suo figlio, stronze. Ormai non c’è più speranza per nessuna.
“Guarda che sei appena stato ripescato dall’Oceano…” Gli fece notare. “Difficilmente questo si classifica come giorno migliore della tua vita.
“E quindi? Quello è lavoro, questi siamo noi due.” La mise giù con cura: probabilmente avrebbe dovuto passare nove mesi a convincerlo che non era fatta di vetro. Le guardò lo stomaco, e ci appoggiò un dito con un ghignetto. “Tre, scusa fagiolino.”
“… come sai che lo chiamo fagiolino?”
Scorpius si strinse nelle spalle. “Non lo sapevo, ma che nomignolo vuoi dare a nostro figlio, scusa?” Le strizzò l’occhio. “Le grandi menti pensano allo stesso modo.”
“O forse mi hai attaccato il tuo cattivo gusto in fatto di soprannomi.” Sospirò divertita. “A proposito, temo di essermelo fatto sfuggire davanti a tuo padre…”
“Oh.” Non parve molto turbato, anzi. Per lo strano rapporto che lo legava al genitore pareva addirittura deliziato dalla cosa. “Papà, hai sentito?!” Sbottò. “Sarai nonno!”
Un silenzio tetro accolse quell’esclamazione. Seguito poi da una robustissima imprecazione di suo padre.
“È al settimo cielo.” Le assicurò. “Piuttosto, tu l’avevi detto al tuo?”
“No, l’hai fatto tu.” Si strinse nelle spalle, perché erano due figli orribili.
Speriamo di cavarcela meglio come genitori.
“Tra poco ce li troveremo tra i piedi ad urlare.” Osservò grattandosi sconsolato la nuca.
Ovviamente.
“Ho una proposta.” Disse quindi.
“Smaterializzarci via di qui e andare a letto?” La guardò speranzoso. “Potremo barricarci nella casa nuova. Se arieggiamo non dovremmo essere uccisi dai fumi tossici della pittura fresca.”
“No, sposiamoci.”
Scorpius la guardò perplesso. “Credo che quella parte sia già stata coperta. Ti ricordi? La mia proposta, l’addio al celibato… Gli inviti, il matrimonio alla Tana programmato a Settembre?”
“Intendo adesso. Stanotte.” E non era mai stata tanto convinta di qualcosa come in quel momento. Era stanca di aspettare: l’approvazione dei suoi genitori, che gli inviti fossero recapitati, la scelta del buffet, gli stramaledetti step che la società imponeva.
Non voglio più che qualcuno mi dica di aspettare l’orario di visita.
“… Adesso?” Scorpius aggrottò le sopracciglia. “Ma pensavo volessi…”
“Aspettare che tutti siano pronti, d’accordo o presenti? Non me ne importa più. Non voglio più aspettare che sia opportuno o di buon gusto. Si tratta di noi tre. Dopotutto, mi hai già messa incinta, no? Stiamo già sguazzando nella disapprovazione generale.”
Scorpius la contemplò esilarato: un altro mago gli avrebbe dato della folle, ma lei se l’era scelto bene. “Te lo devo proprio dire, Weasley … passeranno cent’anni e saremo vecchi e grigi, e sarai ancora in grado di lasciarmi di stucco.”
Gli diede una spintarella giocosa. “All’ultimo piano c’è una cappella e mamma può tirare giù dal letto il Ministro in persona se ci si mette. Che ne dici Malfoy, ci stai?”
“Al cento per cento.” Ghignò allegro. “Per Merlino, sono mesi che ti dico che dovremmo scappare a Las Vegas e metterci un anello al dito una volta per tutte! Ero serio!”
Prese il braccio che l’altro le offriva. “Allora andiamo a dare la lieta notizia ai nostri genitori.” Ci pensò su. “La doppia lieta notizia.”
“Spero che tuo padre abbia un infarto.”
“Scorpius!”
“Piccolino, non mortale…” Si corresse. “Sei sicura?” Le chiese di nuovo. “So che vorresti ci fossero i tuoi cugini, Al … e Violet probabilmente mi ucciderà quando scoprirà che sono convolato a giuste nozze senza di lei.” Sbuffò. “È peggio di una sorella gelosa.”
“Faremo una cerimonia anche per il resto del clan, non pensare di poter scappare.” Lo rassicurò. “Ma stasera voglio che sia solo per noi. Dobbiamo festeggiare.”
“Di essere vivi?”
“Tra le varie, sì.”
“Che c’è di meglio di un matrimonio?” Convenne aprendo la porta. “Ehi gente, buone notizie!”
 
****
 



Note:

Azione e fluff finale. La mia ricetta preferita!
Forse per Natale riesco a finire (ahahahahah). No, dai, ci provo.
Questa la canzone del capitolo.

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Capitolo 58
*** Capitolo LVII ***


 
 
Things you said and the ways you lied
made me read the writing and see the signs
(Thing You Said, Árstíðir)
 
 
 


10 Agosto 2028,
Mare del Nord, vicino Azkaban.
 
Il vento scuoteva le fiancate della carrozza. Un vento funesto, cattivo. Sören, per lungo tempo, chiuso tra i bastioni del castello di famiglia non ne aveva conosciuti altri: quelli violenti e forieri di tempesta che risalivano dall’oceano.
Il primo vento gentile l’aveva conosciuto a diciannove anni: quello che risaliva dalla brughiera scozzese di Hogwarts.
Si sentiva lo sguardo di sua madre addosso: aveva acconsentito a farlo salire nella carrozza con cui gli Infetti erano venuti a prenderla, ma non era parsa convinta dal suo voltafaccia anche se non si era minimamente preoccupata di tenersi accanto uno dei due, mandandoli entrambi a guidare la carrozza.
Ma non mi sta neppure chiedendo delucidazioni.
Cosa dovrei pensare?
Quando aveva Schiantato Scorpius e il resto della squadra di auror, liberando poi la carozza-cella dai Thestral e facendola precipitare in mare, pensava di aver dato una decisa prova di sé.
Potrebbe comunque non credermi.
Guardò fuori dal finestrino, la distesa tumultuosa del mare: sapeva che c’era un piano di contenimento, che la carozza-cella era stata incantata per non affondare e che nel momento stesso in cui aveva toccato l’acqua, un segnale era partito verso Azkaban dove una squadra di salvataggio l’avrebbe presto raggiunta.
Sarà andato tutto bene?
Aveva eseguito gli ordini e non aveva nulla da rimproverarsi.
Come se questo bastasse a non farti sentire in colpa. Illuso.
Si girò l’anello tra le dita – falso, con dentro il segnalatore montato da Hugo Weasley, che eppure sembrava in tutto e per tutto il suo.
Ignorare sua madre e aspettare che facesse la prima mossa era la strategia giusta.
Deve esserlo.
“Lily Potter.” Esordì, e quel nome risuonò come uno scoppio di incantesimo nell’abitacolo silenzioso. “La figlia del Salvatore dei Due Mondi…” Continuò con aria assente; stava anche lei guardando fuori dal finestrino. “Non era la tua ragazza?”
È la mia ragazza.
… E tornerò sano e salvo da lei se riuscirò a convincervi del contrario, suppongo.
“Come mai questa domanda?” Domandò circospetto.
La strega si strinse nelle spalle. “Un uccellino mi ha raccontato la vostra storia…”
Doe.
Strinse le labbra. “La mia liberta è più importante.” Si limitò a dire.
“Libertà.” Sembro considerare quella parola con attenzione, per poi voltare lo sguardo verso di lui. “È per questo che sei qui?”
“Volete una spiegazione o vi accontentate di portarmi da Doe come vi ho chiesto?” Non aveva tempo, né pazienza per una guerra psicologica.
Inoltre, non era certo sarebbe riuscito a vincerla.
Sophia fece un mezzo sorriso. “Mi stupisce soltando vederti su questa carrozza con una parola simile sulle labbra. Durante il nostro ultimo incontro mi avevi dato ad intendere di averla trovata sotto il Ministero Americano.”
“L’avevo fatto.” Concordò, perché sbugiardare completamente ciò che aveva detto l’avrebbe reso sospetto. “Le cose sono cambiate. Il Ministero inglese … Harry Potter.” Specificò. “Non hanno mai creduto che fossi dalla loro parte. Mi hanno tolto il caso, messo agli arresti in un albergo. Cercavano un capo espiatorio e l’hanno trovato con me.” Fece una smorfia dolorosa, perché dopotutto, anche se quelle azioni erano state portate avanti per il suo bene, lo avevano amareggiato. “Sono stanco di eseguire gli ordini.”
“Sei venuto a parlarmi sotto loro richiesta.” Ricordò. Fece un piccolo cenno di assenso. “Una pedina.”
“Una pedina.” Confermò. “Lo sono stato sotto mio zio, vostro fratello … Lo ero per il Ministero inglese. Questa era la mia occasione per fuggire. L’ho colta.”
“Johan non ti lascerà andare quando ti vedrà.” Gli fece notare neutra. “Ha un conto in sospeso con te.”
Avrei dovuto ammazzarlo.
“Lo farà, se è furbo. Vi ho parlato della fortuna dei Prince, ricordate?”
Gli occhi di Sophia si fecero attenti; comprensibile.
Dev’essere difficile vivere in povertà quando sei cresciuta nel lusso. Johannes potrà averla salvata da mio zio, ma l’ha costretta ad una vita molto al di sotto di ciò che vuole.
“Hai detto che l’avresti divisa con me, se avessi collaborato con gli Auror.”
“È quello che mi è stato detto di dire.” Confermò con un cenno della testa: il vento era considerevolmente calato il che significava che si stavano avvicinando alla costa.
Quale costa però?
Guardando fuori non riusciva a scorgere che pesanti banchi di nebbia.
“E non era la verità?”
“No, naturalmente.” Fece un sorrisetto divertito. “Pensavate davvero che il Ministero inglese vi avrebbe lasciato camminare tra le sue strade come la nobile che siete? Vi avrebbero rinchiuso una volta avuto Doe in custodia.”
“Lo so.” Replicò seria. “Per questo è venuto a prendermi.”
“Per questo sono venuto con voi.” Disse di rimando. “Posso sbloccare il patrimonio di famiglia.”
“Come?”
Sören frugò nelle tasche del proprio mantello, prima di porgerle il suo borsello. La strega lo prese, aprendolo. Inarcò le sopracciglia vedendovi i Galeoni, lustri e nuovi, contenuti.
“La camera in cui è contenuto è amministrata da Milo Meinster, il mio assistente. È un Magonò, non ha interesse per le faccende dei maghi finché avrà un vitalizio da cui attingere. Farà in modo di farlo spostare in un conto offshore una volta che sarò al sicuro.”
La strega contemplò il mucchio d’oro nel palmo della sua mano. Era quella la sua debolezza, dunque. “E perché vorresti dividerlo con me?”
Era però una donna intelligente, per sua sfortuna. Come tutti i Von Hohenheim possedeva una cronica disistima verso il prossimo. In suo zio si era trasformata in violenta paranoia, in Thomas in asocialità.
In lei? Calcolo.
Harry Potter aveva un piano, ed era il momento di farlo entrare in ballo.
Speriamo sia vincente come quello che l’ha portato a sconfiggere Voldemort.
O sono spacciato.
“Consideratelo un investimento.” Respinse la mano che gli tendeva il borsello. “Tenetele.” Aggiunse.
La strega guardò il borsello e per un momento mostrò un emozione. “Temo di non capire.” Confusione, ecco cos’era – non era bravo a capire le persone come Lily: era comunque l’apertura che cercava.
Del resto, era la prima espressione spontanea che le aveva visto fare.
“Voglio acquistare il Demiurgo.”
Non gli rispose subito: la vide ponderare la domanda, valutare se stesse dicendole la verità e come scoprirlo. Alla fine si arrese. “Il Demiurgo non è pronto. Penso tu conosca meglio di me gli effetti collaterali di una sua somministrazione.”
“Sì.” Confermò. Le sorrise, il genere di sorriso che non avrebbe sfigurato in bocca a suo zio.
Lo aveva visto troppe volte per non saperlo riprodurre alla perfezione.
“… ma sono anche convinto che Johannes sia a conoscenza dei passi in avanti che stanno facendo al San Mungo. Una volta trovata una cura per gli effetti collaterali, potrà essere somministrato ad un soggetto scelto senza bisogno di metterlo sotto Maledizione per mantenerlo stabile. Che per inciso, immagino non sia una soluzione di lunga durata…”
“Questo non lo so.” Disse la strega, e sembrava sincera. “Ma se vuoi fare affari con Johannes, devo avvertirti. Non si fiderà di te.”
“Non ho bisogno che si fidi, ma che mi venda una formula stabile.”
“A che pro?”
“Non fate un po’ troppe domande per essere una semplice amante?” La fermò, perché più tentava di analizzarlo, più rischiava di saltare la sua copertura. Poteva affrontare Johannes, poteva convincerlo perché lo conosceva. Ma sua madre? Tolto quello che Lily gli aveva detto di lei, quella donna era un mistero.
La strega inarcò le sopracciglia. “La mia era curiosità. Non abbiamo avuto modo di conoscerci molto bene.”
“Per questo è tardi.” Le fece notare, stando ben attento a misurare il tono. L’ultima cosa che voleva era contrariarla. “Ma potete fare ancora qualcosa per me. Doe si rifiuterà di parlarmi, sempre che non mi attacchi direttamente. Avete influenza su di lui, convincetelo a darmi udienza e avrete più di quel borsello.”
La strega se lo strinse tra le mani. Non era convinta, glielo poteva leggere nello sguardo, ma il richiamo di una camera colma di Galeoni non era dissimile a quello di una sirena.
“Farò il possibile.” Concesse infine. “Stai giocando una partita pericolosa, Sören.”
Gli venne da ridere.
Ti preoccupi per me? Adesso?
“La partita a cui fate riferimento è iniziata molto tempo fa. Sto solo riprendendo a giocarla, Madre.”
 
 
****


Londra, Diagon Alley
Casa di Thomas Dursley & Albus Potter
 
La vendetta era un piatto freddo, e Thomas Dursley se la vide arrivare in testa con precisione crudele.
Perché Albus aveva atteso quasi un mese prima di cambiargli suoneria dello smartphone, cullandolo nella falsa illusione che il dispetto fattogli fosse finito nel dimenticatoio.
Per poco non rischiò un infarto quando Tubthumping risuonò in tutto lo splendore delle cinque e mezzo del mattino.
Zorba, che aveva occupato il cuscino del compagno fino a quel momento, soffiò irritato quando Tom si drizzò a sedere, rischiando di sbattere un piede contro una delle colonne del letto a baldacchino – perché ne avevano comprato uno era un mistero che doveva ancora sondare.
Ah, sì. Perché Al non riusciva più abituarsi ai letti Babbani.
Afferrò il maledetto telefono che squillava allegro l’intero repertorio di voci bercianti della canzone.
Odiava quella canzone.
Mi ha impostato la sveglia?
Non era la sveglia, ma una chiamata dalla ragione di tutti i suoi tormenti.
(Per fortuna alcuni erano piacevoli).
Cosa.” Articolò sentendosi la voce rasposa e un vago desiderio di compiere un omicidio della prima creatura vivente su cui avesse posato gli occhi.
Zorba lo guardò male.
“Ce l’abbiamo fatta!” Trillò Al. “La cura sta facendo effetto sulle cavie!”
“… umane?”
“No, sciocco, i topi.” Sbuffò questo, minimamente turbato dal suo tono di voce, prossimo allo zero assoluto. “Stanno reagendo al siero. Abbiamo finito l’ultima batteria di test!”
Si passò una mano sul viso. Non ci sarebbe stato verso di farlo tacere finché non gli avesse sciorinato l’intera misura del suo successo.
“Al momento non mi ricordo perché non ti ho soffocato nella culla.” Borbottò. “Avevo la possibilità, se ben ricordo…”
“Per favore, eri la gracilità fatta persona da bambino, persino io avrei potuto avere la meglio!” Un altro sbuffo impaziente. Poi una pausa. “Ma ti ho svegliato?”
“… Sono le cinque del mattino. Dammi una sola buona ragione per cui avrei dovuto essere sveglio.”
“Sono le …” Persino senza averlo davanti poteva immaginarlo a sbattere quei suoi enormi occhioni verdi come un gufo disorientato. “Di che giorno?”
“Torna a casa.” Sbadigliò mentre il gatto saltava di nuovo sul letto, questa volta lanciandogli un’occhiata accusatoria. Lo accarezzò sulla schiena, facendoselo acciambellare in grembo come un cattivo di serie b.
“Sei venuto a portarmi dei biscotti qualche ora fa, giusto?”
“Questo pomeriggio.” Puntualizzò. “Falla finita, hai vinto la battaglia. Ora lascia fare agli altri.”
“Non ho davvero fatto un granché, se non stare tra i piedi di Sam.” Chiarì, con quella falsa modestia che non avrebbe perso mai, giusto perché godeva enormemente a farsi rinfacciare i successi. “Ma penso che in effetti, da adesso, non avranno più gran bisogno di me … E credo che Smeth, dopo questa immersione totale in Malattie Magiche mi toglierà il saluto.”
“Un tradimento vero e proprio.” Commentò annoiato. “Ti sei divertito almeno?”
“… da matti.” Sospirò. “Penso che finirò per prendermi una Specializzazione anche in Malattie Magiche.”
“Secchione.”
“Non tutti sono monotematici come te, caro il mio Signor Bacchetta.” Lo punzecchiò. “Comunque, davvero, scusa. Pensavo fosse mattino … è che nei Laboratori non ci sono finestre e…”
“Lascia perdere.” Guardò fuori dalla finestra, dove i primi raggi di luce stavano rischiarando le tegole del tetto del palazzo di fronte. “Mi riaddormento.”
“E vuoi che sia lì quando ti risvegli?” Il tono da presa in giro era sfumato in uno più dolce.
Tom si maledisse, ma davvero, tutto quel sonno arretrato degli ultimi tempi lo rammolliva. “Sì.”
“Ricevuto.” Lo sentì chiudere una porta, forse era tornato ai piani superiori. “Devo soltanto tornare un attimo giù a salutare Sam e gli altri, mi sono già cambiato.”
“Bene.”
Una pausa.
Ora cosa?
Stava quasi per sbattergli il telefono in faccia quando Al parlò – probabilmente intuendo le sue intenzioni. “A proposito di quello che ci siamo detti, sai, su dire di noi all’universo mondo…”
“Sì.”
“Te lo ricordi?”
Roteò gli occhi al cielo. “Non sono io che ho perso la concezione dello spazio e del tempo.”
“Lo diciamo e poi ce ne andiamo in vacanza.”
Tom socchiuse gli occhi, perché sul serio, spalancarli non era contemplato a quell’ora del mattino. “Per dirla come quel primate di tuo fratello … sganciamo la bomba e poi ce la filiamo?”
“Molto Serpeverde, no?”
“Hai paura che ci costringano a ritrattare? Un po’ troppo tardi per quello. Ti ho già corrotto a puntino.”
Albus ridacchiò divertito. “Non sono del tutto sicuro di come siano andate le cose, ma no. È solo … Questa faccenda non sarà durata che pochi mesi, ma mi sembra siano passati anni. Ho voglia di staccare. Tu no?”
Tom non poteva biasimarlo. Il Demiurgo, e tutte le sue varie ramificazioni di persone e sentimenti, aveva messo alla prova anche loro, sebbene in maniera collaterale.
Strano che Lily non si sia lanciata nello spazio con un razzo a propulsione.
Anche se adesso, un motivo per rimanere ce l’ha.
“Sì.” Confermò. “Andiamo in vacanza.”
“Scelgo io?”
“Niente spiagge assolate.”
“Ti farebbero bene, ma eviterò.” Promise. “Dormi, dai. Tra poco arrivo.”
Tom chiuse la chiamata, spengendo anche lo smartphone e mandandolo a Levitare, supponeva, nei pressi del comodino.
C’era solo Zorba a testimoniare il suo sorriso. Quindi non se ne fece un problema.
 
****
 
Da qualche parte nell’Inghilterra del Nord …
 
Non erano rimasti a lungo nella carrozza. Dopo circa un’ora di viaggio erano atterrati sulla terraferma che era risultata essere un tratto di costa brullo, privo di insediamenti umani. Sören aveva tentato di scorgere qualche punto di riferimento, ma purtroppo la terra di Albione gli era perlopiù sconosciuta.
Sempre se ci troviamo ancora in Inghilterra.
La vegetazione spoglia gliela ricordava, ma per quanto ne sapeva potevano trovarsi sulle coste francesi.
No, siamo in Inghilterra. Non ci siamo diretti a sud, verso l’Europa Continentale ma ad Ovest. E ad Ovest ci può essere soltanto la Gran Bretagna.
Avevano atteso una manciata di minuti, poi era arrivato un fuoristrada. Babbano, privo di targa come di magia. Uno dei due Infetti si era messo alla guida e l’altro accanto. Il viso inespressivo era rilassato, tipico di chi si trovava sotto Imperio.
Mi ero dimenticato quanto Doe fosse bravo in questo genere di Maledizioni.
Il fuoristrada aveva imboccato una vecchia strada di campagna, sterrata e poco agevole ma poi, con sua grande sorpresa, dopo una manciata di minuti aveva imboccato quella che aveva tutta l’aria di essere un autostrada.
Siamo nel mondo Babbano.
Dunque Doe aveva preferito nascondersi nell’altra metà del mondo, quella priva di magia. Aveva senso considerando che l’intero Mondo Magico britannico lo stava cercando.
Meno se deve avere immediato accesso alla magia.
Vivere nel Mondo Babbano per un mago non era semplice. Non tanto per una questione di mero spaesamento, ma perché la magia si nutriva di sé stessa. Un mago, lontano da altri maghi e luoghi incantati, percepiva un indebolimento delle proprie capacità. Ininfluente per brevi periodi di tempo, sostanziale se perpetrato a lungo.
Doe non si nascondeva da molto, certo; tuttavia, se la sua intenzione era di lavorare a manipolare il corso della magia stessa nel corpo di un mago, non doveva essersi reso la vita semplice.
Oltre al fatto che non ha accesso a ingredienti per la pozione più banale.
Poteva tenere Maledetti due Infetti abbastanza a lungo da recuperare la sua amante, ma dubitava seriamente che avrebbe potuto far molto altro.
Quindi è vero. Sta aspettando che il San Mungo faccia il lavoro al posto suo.
Ma come ha intenzione di rubare l’antidoto?
Era questo che lo confondeva: il vecchio partner era troppo furbo per non rendersi conto che non appena si fosse trovato nel raggio di cento metri dall’ospedale si sarebbe visto piombare l’intera forza di polizia magica addosso.
Quindi chi ha intenzione di mandare?
Non certo un Infetto. Un’operazione così delicata avrebbe avuto bisogno di qualcosa di più che un paio di muscoli comandati da un impulso magico. Oltre al fatto che Doe si fidava soltanto di Doe. Persino nel loro periodo di collaborazione era riluttante a delegargli dei compiti.
Ha con lui qualcuno di cui si fida. Ma chi?
La macchina rallentò improvvisamente, riscuotendolo dai suoi pensieri. Erano arrivati.
Si trovavano alla periferia di una città, almeno a giudicare dalla lunga via di capannoni industriali che si snodava di fronte a loro. Avevano costeggiato quella che sembrava un’importante area portuale; gru, argani e navi attraccate costituivano la maggior parte del paesaggio.
“Dove siamo?”
“Una città Babbana.” Si strinse nelle spalle Sophia. Suonava sincera.
Come me, di geografia Babbana deve saperne poco o nulla.
Uno dei due Infetti aprì la portiera dalla parte della strega e la aiutò a scendere, ma quando Sören tentò di seguirla si vide spinto indietro da una mano che assomigliava assai di più ad un maglio d’acciaio.
Sophia inarcò le sopracciglia, sorpresa quanto lui. Fece poi un mezzo sorriso. “Temo che sia stato loro ordinato di condurre una sola persona da Doe. Aspetta qui.”
“In macchina?” Domandò nervoso. Non gli arrideva particolarmente l’idea di trovarsi in un abitacolo chiuso, in un parcheggio di un luogo sconosciuto.
“Avvertirò Johan della tua presenza. Aspetta qui.” Ripetè prima che l’Infetto gli sbattesse la porta in faccia.
… aspettiamo quindi.
Fece aderire la schiena al sedile, chiudendo gli occhi e concentrandosi sul regolare la propria respirazione. Era un esercizio base se si voleva mantenere la calma.
È solo un piccolo cambiamento, nulla di più. Non deviare dal piano.
Si girò l’anello tra le dita. Il rilevatore si sarebbe attivato quando avrebbe premuto ai lati del sigillo dei Prince, non prima. Hugo Weasley, una volta che glielo aveva consegnato era stato piuttosto chiaro: il campo magico che emettava una volta azionato era debole, ma purtroppo percepibile se lo avessero perquisito con degli incantesimi di Smascheramento.
Non è ancora il momento.
Non sapeva neppure se il nascondiglio di Doe, con le cavie … con gli ostaggi, si trovasse lì oppure quella sosta fosse l’ennesima trappola.
Il mio obbiettivo è portare gli Auror da loro.
Doe è collaterale.
Ripeterselo non serviva a molto ma era meglio che indugiare su pensieri scuri e vischiosi come l’ansia che sentiva.
Di colpo sentì le portiere bloccarsi: era un suono acquisito, ma non molto diverso dal rumore di un Colloportus. Poi la macchina cominciò a muoversi. Afferrò la maniglia per uscire, ma dovette rinculare con un’imprecazione perché il metallo era bollente.
Un incantesimo di … !
La macchina era stata incantata, quindi era inutile cercare di uscire nei modi che conosceva, da mago: si tolse invece la giacca, mentre questa prendeva velocità.
Vuole uccidermi.
Non c’era tempo da perdere. Arrotolò la giacca attorno a quel braccio e prese a tirare colpi al finestrino. Due, tre, quattro colpi. Il vetro era rinforzato.
Udì il rumore delle ruote girare a vuoto e poi un attimo per realizzare: quello dopo la macchina impattò contro la superfice dell’acqua. Fu scaraventato contro il sedile.
Deve uscire o morirò affogato.
Ora.
Lasciò perdere i pugni e usò la forza delle gambe per tentare di rompere il vetro posteriore, quello che gli avrebbe permesso una via di fuga più agevole.
Acqua.
Era ovunque e stava entrando nell’abitacolo, infradiciandogli i vestiti e rovesciandoglisi addosso. Un ultimo calcio e il vetro, finalmente, si ruppe. Trattenne il respiro mentre si diede una forte spinta con le mani; la pressione dell’acqua lo stordì ma non smise di nuotare, di dare vigorose bracciate verso l’alto, verso la salvezza.
Quando sentì l’aria schiaffeggiargli il viso si permise finalmente di respirare.
Figlio di puttana.
Doe l’aveva appena spedito a fare “il bagno coi pesci”, come amava parafrasare quando si vantava di aver ucciso qualcuno.
Sopra di lui però il pontile di cemento, illuminato dalle fioche luci dell’alba, era vuoto.
Non era qui a godersi lo spettacolo?
“Chi non muore si rivede, eh ragazzino?”
Doe.
Non fece in tempo a voltarsi verso la voce – a livello dell’acqua, com’era possibile? – che due paia di braccia lo tirarono su, buttandolo su una superfice dura, legnosa.
Una barca?
Mise a fuoco, pur con gli occhi pieni di sale, tre figure. I due Infetti e …
John Doe.
Che seduto davanti al motore gli sorrideva beffardo. Quello che lo colpì fu la mancanza di dissimulazione. Indossava la sua vera faccia, quella anziana, dalla piega amara e i lineamenti induriti.
Al di là dell’aspetto dimesso, era lui. E pareva divertirsi un mondo a vederlo bagnato fradicio, come un topo affogato, mentre arrancava semi cieco sul fondo della barca. “Ce n’era bisogno…?” Tossì.
“Oh, sai che ce n’era bisogno.” Rispose scrollando le spalle. “Considerala una pacca sulla spalla.”
“Mi hai quasi ammazzato.”
“E non è ancora detto che non voglia finire il lavoro.” Il sorriso gli scivolò via dalla faccia mentre faceva cenno ad uno dei due scagnozzi. Questo gli calò un cappuccio sopra la testa, e fu di colpo tutto buio.
Sören si sentì spinto tra due masse di muscoli frementi magia. Non tentò di divincolarsi: sarebbe stato inutile.
“Andiamo a farci un giro.” Decretò il vecchio partner da qualche parte alla sua destra. “E se mi piacerà quello che avrai da dire, forse non ti farò tornare tra i pesci.”
Non disse nulla, permettendosi per la prima volta in quelle ore di avere paura.
Non può vedermi nessuno.
E non poteva aiutarlo nessuno; perché stringendo i pugni l’aveva sentito chiaramente.
Non aveva più l’anello con sé.
 
****
 
 
Ospedale San Mungo.
 
“Sicuro di non voler rimanere e assistere al miracolo?”
Sentire una parola Babbana in bocca a Seamus, che di solito per quanto Mezzosangue era del tutto incapace di ricordare il lessico dei Senzamagia, dava la misura di quanto gli animi nel Laboratorio di pozioni fossero alti. Lo stanzone era immerso nell’atmosfera della grande scoperta.
Albus scosse la testa. “Preferisco tornare a casa.”
“Dovresti rimanere, l’intuizione è stata tua dopotutto.” Insistette il Capo Guaritore con blando rimprovero.  
“Sì, ma la messa in atto è quella che conta.” Si schernì. Era nato e sarebbe morto con una idiosincrasia totale per le luci dei riflettori. Preferiva sapere che far sapere di aver contribuito alla nascita di una scoperta medica.
“Davvero Sam, torno a casa, Tom mi aspetta.” Gli sorrise. “Fammi sapere quando si risveglia il primo paziente piuttosto.”
“Non preoccuparti.” Gli assicurò con una pacca sulla spalla. “Va’ a riposarti, al resto pensiamo noi.”
“Mi inviti a nozze!” Scherzò aggiustandosi lo zaino a tracolla e pianificando il resto della sua giornata: ore di sonno ininterrotte, colazione a tardo pomeriggio e in serata sesso.
Un sacco di sesso.
Se tutto il Mondo Magico gli doveva un’intuizione geniale, sarebbe stato il suo compagno a pagarne il prezzo.
Non penso sarà poi questo grande sacrificio.
Era talmente preso a fantasticare sui suoi festeggiamenti personali che non si accorse che qualcuno aveva bussato alla porta del laboratorio. “Vado io!” Disse, che tanto doveva uscire.
“Non pensarci neanche, faresti entrare anche un Troll, Potter!” Fu la replica scherzosa di Dexter che era un po’ il custode delle chiavi di quel posto. “Resta dove sei, scaccio l’intruso e poi ti faccio uscire.”
“Esagerato.” Ridacchiò sfilando il telefono dalla tasca e controllando che le sue, di personali scocciature, non avessero lasciato messaggi o richieste di salvataggio dell’ultima ora.
Tutto tranquillo? Questo è il vero miracolo!
Fu un attimo. Il tempo di alzare la testa dal cellulare e vedere un lampo rosso che Dexter fu scaraventato due metri indietro: sbattè contro uno dei tavoli da lavoro tirandosi dietro ingredienti e fialette.
Era talmente instupidito che non vide subito il ragazzo. Era entrato dalla porta ed era lui ad aver appena Schiantato il pozionista.
Ci fu un momento di mortale silenzio nel laboratorio, un momento in cui tutte e sei le persone all’interno si voltarono e realizzarono quanto appena successo.
Il ragazzo indossava l’uniforme dei custodi dell’ospedale, ma invece del carrello delle pulizie teneva in mano una bacchetta e non perdeva di vista nessuno di loro.
È un professionista.
Albus lo realizzò con lucida chiarezza mentre questo gli si rivolgeva. “Tu, chiudi la porta con un Colloportus. Non provare ad usare la bacchetta per attaccarmi.” Aggiunse. “O ucciderò uno dei tuoi colleghi. Voi…” Si rivolse agli altri. “ …. bacchette a terra, calciatele nella mia direzione.”
Al deglutì, lanciando un’occhiata in direzione di Seamus: il Guaritore era scuro in volto ma obbedì, facendogli cenno di fare lo stesso.
Tanto può andar male durante un duello. In un laboratorio di pozioni poi, pieno di sostanze volatili …
Chiuse la porta come richiesto, gettando subito dopo la bacchetta a terra e calciandola in direzione del ragazzo: lo aveva visto seguire l’operazione con lo sguardo.
Sa cosa sta facendo.
Non era uno squilibrato in cerca di sostanze stupefacenti, come era successo qualche mese prima, spingendo l’ospedale a richiedere una barriera magica all’entrata del reparto.
Quindi era già dentro, altrimenti non sarebbe riuscito a passare.
“Mettiti insieme agli altri.” Lo apostrofò distogliendolo dai suoi ragionamenti. Aveva un’intonazione straniera, ma familiare.
… Non riesco a capire.
Devo farlo parlare.
“Cosa vuoi? Non abbiamo sostanze stupefacenti qui, sono tutte stoccate in magazzino.”
Il ragazzo lo ignorò, rivolgendosi verso quello che ritenne essere il capo, ovvero Seamus. “Siete il Guaritore Finnigan?” Domandò.
Il modo formale in cui lo disse gli accese un Lumos in testa.
È tedesco! Questo tizio è tedesco!
Come Sören … e come John Doe. Non c’era dubbio, quindi, su che cosa stesse cercando.
La cura agli effetti collaterali del Demiurgo.
Com’è riuscito ad entrare? Il posto pullula di Auror e tutti i dipendenti sono controllati da cima a fondo!
Non aveva importanza in ogni modo, non da come stava guardando Seamus.
È lui il motivo per cui è venuto qui.
“Sono io.” Rispose l’amico con tono tranquillo: aveva fatto una guerra, non si sarebbe lasciato intimorire dal primo scagnozzo con una bacchetta spianata. “Di cosa hai bisogno?”
“Che lei venga con me.” Rispose.
Bingo.
Non vogliono rubare la cura una volta ultimata come pensava papà.
… vogliono rubare la mente dietro la cura.
Ovvero il Capo Guaritore di Malattie Magiche Seamus Finnigan. Il che aveva perfettamente senso considerando che potevano reperire facilmente gli ingredienti, ma non usarli con profitto.
“I miei orari di visita sono affissi alla bacheca dell’accettazione, puoi tornare quando sarò in servizio.” Ironizzò l’irlandese senza muovere un passo.
L’interpellato non parve cogliere l’ironia. “Non credo abbia capito la situazione.”
“L’ho capita benissimo invece.” Ribatté “L’ospedale è pieno di uniformi rosse, ti consiglio di andartene finché sei in tempo.”
Il tedesco non battè ciglio. “Possiamo fare le cose in due modi, Guaritore Finnigan. O mi segue senza opporre resistenza, o ucciderò le persone in questa stanza e lei dovrà guardare.”
Freddo, efficiente. Per un folle momento ad Albus ricordò Sören, le poche volte che l’aveva visto in azione.
È così che la Thule ha cresciuto i suoi adepti quindi. Tutti quanti.
Era stata una vera fortuna che Alberich Von Hohenheim avesse preferito affidarsi ad un mercenario come Doe e poi ad un soldato in crisi di coscienza come Ren.
Perché se avesse usato un tipo del genere per rapire Tom le cose sarebbero andate in modo molto diverso.
“Spero di essere stato chiaro adesso.” Concluse. “Vogliamo andare?”
Seamus era un fascio di nervi e rabbia accanto a sé, ma annuì. “Al, occupati tu del resto.” Mormorò a mezza bocca.
… cioè?
Aveva un brutto presentimento. Un orribile presentimento, visto che Sam era un brav’uomo, un’ottimo medico ma …
… un terribile Grifondoro.
E come tale, prono a decisioni prese di pancia, più che di testa.
“Sam…” Sussurrò preoccupato. “Non fare cazzate.”
L’uomo non gli rispose, seguendo invece il tedesco. Lo vide passare accanto alle bacchette a terra e tirò un sospiro di sollievo.
Non pensa di raccoglierne una, okay.
Peccato che pensò bene, una volta alla porta, di saltare addosso al proprio rapitore.
No!
Questo, preso di sorpresa, non riuscì a mantenere l’equilibrio e sbattè contro la porta chiusa: fu un attimo però, un solo momento di incertezza prima che tirasse una gomitata nel plesso solare al Guaritore, lo facesse indietreggiare quanto bastava e …
No!
Un lampo violaceo si schiantò contro l’amico che crollò a terra come una marionetta a cui avevano reciso i fili.
“Sam!” Gli corse affianco ignorando il tedesco che del resto non pareva allarmato dalla sua iniziativa. “Sam!” Lo chiamò mentre l’altro si teneva il collo, dove un fiotto di sangue cominciava ad imbrattare il camice.
Sectusempra. O qualcosa di simile.
Qualcosa che poteva ucciderlo nel giro di pochi minuti. “Devo guarirlo!” Apostrofò il ragazzo. “Fammi prendere la mia bacchetta, sta morendo dissanguato!”
Questo non tradì un’emozione. “Usala per fermare il sangue e nient’altro, o farai la stessa fine.”
Imprecò sentendo le lacrime salirgli agli occhi ma obbedì. Prese la testa dell’amico sulle gambe cominciando a recitare tutti gli incantesimi anti-emorragici che conosceva.
Andiamo, andiamo, andiamo…
Era sangue arterioso ed era troppo, tanto. Cominciò a vedere la luce solo quando sentì l’altro mago gemere, tentando di muoversi.
“No, stai fermo o ti si aprirà la ferita … È ancora fresca.” Lo fermò serrandogli un braccio attorno al petto per bloccarlo. Guardò verso i Pozionisti, rimasti a guardarlo terrorizzati. “Portatemi una Pozione Coagulante e una Bevanda della Pace.” Li apostrofò. “Non deve muoversi, ma non riesco a tenerlo fermo!”
Mentre gli venivano date le due pozioni, che stappò e fece bere all’altro, il tedesco lo osservava tranquillo. Non era nervoso all’idea che tutto quel trambusto avesse allertato qualcuno.
Pur vero che siamo nei piani più bassi e qui non viene quasi mai nessuno.
“Sopravviverà?” Domandò quando Seamus riprese a respirare regolarmente.
“Non se vuoi muoverlo da qui.” Fu chiaro mentre terminava di fasciare la ferita con un Ferula. “L’ho messo a dormire per evitare che si agiti e riapra la medicazione ma ha comunque perso troppo sangue. Non puoi portarlo via adesso, lo uccideresti sul colpo.”
“Non è un’opzione. Il Guaritore viene via con me.”
“Hai capito quello che ti ho detto?!” Esclamò incredulo. “E’ incosciente e se lo svegli o lo muovi rischia di morire. Non ti serve più a nulla adesso!”
Il ragazzo per la prima volta da quando era entrato parve tradire un’emozione. La ruga che gli si formò nelle sopracciglia parlava di inquietudine.
Ha una missione da compiere ed ha appena combinato un casino.
“Ho tamponato la situazione, ma qualunque cosa tu gli abbia lanciato addosso sta ancora lavorando. Ha bisogno di immediate cure mediche o non passerà le prossime ore.” Tentò di spiegargli. “A Doe porteresti un cadavere.”
“Ho capito.” Ma non aveva capito davvero o non avrebbe continuato a guardare Sam come se fosse un obbiettivo. “Tu puoi mantenerlo in vita però.”
“Ma non posso svegliarlo, e a voi serve da sveglio per potervi aiutare.” Tentò disperatamente di fargli capire. “Perché pensi che lo abbia messo in stasi?”
Il ragazzo mormorò un’imprecazione tra i denti. Poi guardò verso i tre pozionisti, compreso Dexter, che era riuscito a rimettersi in piedi.
Capì immediatamente a cosa stava pensando. “Non sono in grado di lavorare in autonomia.” Mentì, ma non del tutto: era comunque Seamus a capo dell’intero esperimento. “Sono come te, delle braccia armate.”
“E tu chi sei?”
La domanda lo colse di sorpresa.
Chi sono?
… uno che si impiccia troppo.
Fece una smorfia. “Sono solo un Guaritore di Lesioni.”
“Ma sei qui, lavori con loro da giorni, ti ho visto.” Lo guardò con attenzione. “Qual è il tuo ruolo?”
Al sapeva che avrebbe dovuto inventarsi qualcosa; dire che era lì come semplice aiuto, che non ne sapeva più dei pozionisti, che non contava niente. Il tedesco gli avrebbe probabilmente creduto.
Ma si porterebbe via Sam, o uno dei ragazzi.
Ed era ben conscio di che fine Doe faceva fare alle persone, una volta che esaurivano il loro scopo.
Selina Hardcastle, Parva Duil, Kirill Poliakoff, Henry Price …
Tutti pedine sacrificabili. Lui però era Albus Severus Potter.
E su una scacchiera, anche solo per il suo cognome, contava ben di più.
Se le cose dovessero mettersi male potrei essere usato come merce di scambio.
Aveva un valore che avrebbe potuto salvargli la vita.
“Ho aiutato Sam con la cura. L’idea di usare sangue Magonò è mia.” Spiegò. “Se …” Si fermò, perché gli stava tremendo la voce. Perché dannazione, aveva paura. “Se lasci qui il Guaritore Finnigan puoi prendere me e comunque avere ciò che cercavi. Posso sinterizzare la cura al Demiurgo. So come si fa.”
Il ragazzo parve valutarlo. “Se non dici la verità lo scopriremo, e morirai. Non fare l’eroe.”
Oh, tesoro, lo dici proprio alla persona sbagliata.
Noi Potter abbiamo la maledizione di essere eroi. Tutti quanti.
“Sto dicendo la verità.” Sostenne il suo sguardo. “Sono la tua alternativa migliore.”
Il tedesco fece un cenno di assenso. Gli aveva creduto. “Seguimi allora.”
Gli obbedì, lasciando la presa su Sam che era ancora vivo e grazie a lui lo sarebbe rimasto. Non avrebbe lasciato vedova sua moglie e privi di un padre Gus e Gail.
Concentrati su questo, perché se pensi a cosa stai per fare …
“Fate in modo che sia subito portato in terapia d’urgenza quando ce ne saremo andati. Fate chiamare Smethwyck.” Si raccomandò ai due Guaritori che gli avevano portato le pozioni e gli erano rimasti accanto.
Serpeverde. Anche se terrorizzati non rompiamo le file.
In qualche modo era consolante. “Al … stai facendo una cazzata.” Disse uno dei due. “Gli auror…”
“Avrebbero già dovuto essere qui, deve aver trovato un modo per non allertarli.” Lo fermò. “Prendetevi cura di Sam, okay?” Si voltò verso il tedesco. Lo stava guardando impaziente ma pareva almeno avere il pudore di lasciargli un momento.
Per un messaggio d’addio?
… Se la vuoi giocare così…
“Dite a mio padre di venirmi a cercare.” Li pregò, anche se sapeva che non ce n’era bisogno. L’unica cosa che lo manteneva sano di mente era la consapevolezza che Harry Potter avrebbe smosso mari e monti per tirarlo fuori dai guai. “… e…”
Tom.
Si morse un labbro perché non stava andando a morire, per Merlino.
“Dite a Tom che mi dispiace non aver mantenuto la promessa.”
Se ne esco vivo è la volta buona che mi pianta.
Era il momento di farla finita con i brutti pensieri. Ed agire. “Sono pronto.” Comunicò al mini-Doe.
Se non altro parla molto meno.
Il ragazzo aspettò che si fosse avvicinato e poi lo afferrò per un braccio. “Non cercare di scappare.” Lo apostrofò. “Useremo una Passaporta, rischieresti di volare a mezz’aria e sfracellarti al suolo.”
“Grazie per il consiglio.” Mormorò a mezza bocca: non l’avrebbe fatto comunque.
Ho visto cosa hai fatto a Sam e non sono un idiota.
Il ragazzo estrasse una pietra dalla tasca e dopo che l’ebbe toccata con la bacchetta questa prese a brillare.
“So già cosa devo fare.” Lo anticipò prima che gli desse istruzioni.
Purtroppo era proprio quello il punto.
 
****
 
 
 
Note:

Due mesi sono tanti, e … quindi scusate! >_<
Ci provo davvero a trovare un equilibrio tra vita fangirlica e sociale, ma non è facile.
Questa la canzone del capitolo.





 

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Capitolo 59
*** Capitolo LVIII ***


Capitolo LVIII

 
 


 
 
 
This thing
It’s a family affair

(The Driver, Bastille)
 
 

11 Agosto 2028
Da qualche parte sulle coste dell’Inghilterra del Nord …
 
Odore di mare. Era inconfondibile, non potevi scambiarlo con nient’altro. Sören lo riconosceva come avrebbe riconosciuto l’odore della propria pelle.
E ne era invaso, immerso, mentre la barca dove John Doe l’aveva buttato – ripescato gli sembrava un termine troppo gentile – sciaguattava al ritmo delle onde.
Si stavano muovendo, ma non aveva idea della direzione, visto che gli era stato calato un sacco sulla testa. Non aveva tentato di toglierselo: premuto tra due masse di muscoli frementi magia quali erano gli Infetti sotto Imperius doveva star attento persino a come respirava.
Dove mi staranno portando? Prima eravamo in un porto. O stanno girando intorno per confondermi le idee o ci stiamo dirigendo in mare aperto.
Prediligeva la seconda considerando che non sentiva il rumore della risacca. Vento, onde che si infrangevano sulla barca, gabbiani. Nient’altro.
John Doe, che si era messo al comando, non parlava: insolito per lui, ma era pur vero che erano passati cinque anni dall’ultima volta che si erano visti.
In cinque anni una persona può cambiare.
Se era successo a lui, perché non a Johannes?
Decise di non soddisfare la propria curiosità: se avessero voluto ucciderlo sarebbe bastato dargli il colpo di grazia mentre tentava di non annegare.  
La risposta la ebbe pochi minuti dopo: la barca sbattè contro qualcosa.
Un molo?
Fu tirato in piedi, e poi le sue mani furono condotte su quella che sembrava una scala di corda.
Una nave.
Siamo su una nave.
Avendo passato buona parte del Torneo Tremaghi su un vascello magico avrebbe saputo riconoscerne il legno e l’odore tra mille altri mezzi di locomozione.
“Potreste togliermi il cappuccio almeno per salire.” Fece notare. “Ho capito dove ci troviamo.”
“Bel tentativo principino, ma non ho nessuna intenzione di farti ammirare i dintorni.” Fu la risposta di Doe. “Sali.”
Obbedì mascherando un’imprecazione tra i denti: essere in grado era una cosa, la difficoltà oggettiva di perdere la presa era un’altra. Ci riuscì in ogni caso, anche se salito sulla coperta si trovò fradicio di sudore come se avesse corso una maratona.
Fu immediatemente ri-afferrato per le braccia. “Non ho intenzione di scappare.” Fece notare.
“E chi ha parlato di scappare? Non potresti andare molto lontano in ogni caso …” Lo canzonò Doe. “No, mi assicuro solo tu non ti faccia male.”
“Quanta premura…”
“È il minimo per un vecchio compagno di bacchetta.” Ghignò: poteva indovinare la sua espressione solo da come modulava la voce. Non aveva bisogno di vederlo.
Non ci riesci neppure con Lily.
Era una verità sinistra, ma conosceva il mago di fronte a sé più della strega che amava.
“Hai spostato il Demiurgo su una nave…” Disse per distrarsi dai suoi stessi pensieri. “Siamo in acque internazionali, immagino.”
“Sei diventato proprio un vero, piccolo investigatore, eh?”
“Semplice buonsenso.”
Lo udì ridacchiare. Se non altro non aveva perso il senso dell’umorismo, oltre ai capelli.
“Portatelo sottocoperta, mi occuperò di lui tra poco.”
Venne così di nuovo strattonato in giro: scale, scesero due piani e l’odore di pesce divenne così persistente che gli diede il voltastomaco.
Una nave rubata, probabilmente commerciale.
Forse una nave Babbana. Avrebbe senso. Non risulterebbe rubata nel Mondo Magico … e in quello senza magia …
Beh, non è difficile nascondersi dai Babbani. È un po’ una seconda natura per chiunque di noi.

Per quanto Doe lo nauseasse, l’idea era buona: allontanarsi in acque fuori dalle giurisdizioni di entrambi i due mondi lo aveva sostanzialmente fatto diventare Intracciabile.
Anche se non lo è.
Venne fatto entrare in una stanza: dall’odore di olio e ruggine doveva essere il locale dei motori.
Motorizzata. Definitivamente Babbana.
A quel punto, e solo a quel punto, uno degli Infetti gli tolse il sacco. Strizzò gli occhi, cercando di abituarsi alla luce artificiale che pareva esplodere come un Lumos in una grotta buia. Si guardò poi intorno: sembrava un locale di manutenzione, ed era privo di oblò.
Così non posso guardare fuori.
I due Infetti, senza rivolgergli sguardo o parola, se ne andarono, sbattendosi la porta dietro.
Ne fu sollevato.
Un Imperius può tenerli buoni, ma per quanto? Ogni quante ore devono lanciarglielo addosso?
Una volta solo si sedette sull’unica sedia presente, dietro una scrivania malandata ospitante un computer. Provò ad accenderlo, ma senza successo, dato che la magia doveva aver fatto impazzire tutti i sistemi di bordo, ad esclusione del sistema di illuminazione che era invece parte di una tecnologia più rudimentale. Per puro esercizio di intenti cercò di aprire la porta: era sigillata da una decina di barriere magiche, delle più complesse, se conosceva abbastanza Doe.
E lo conosceva.
Devono essersi attivate una volta che gli Infetti si sono tirati dietro la porta.
Si passò una mano tra i capelli, sia perché persino in quelle situazioni aveva in odio sentirsi in disordine, sia perché quel gesto era un imporsi una calma che era ben lungi dal provare: aveva perso l’anello con il segnalatore, non aveva con sé la sua bacchetta e non poteva usare quel braccio.
Il punto non è scappare. Ma rimanere abbastanza da poter segnalare la mia posizione … in qualche modo.
Il problema è che si trovava a bordo di una nave. Una nave enorme, almeno a giudicare da quanto ci aveva messo ad arrivare in quella stanzetta.
Non so come e dove muovermi.
Ma c’era un lato positivo: se era di grande dimensioni forse non tutta la tecnologia presente era stata messa ko.
Se fosse stato in grado di arrivare fino alla sala di controllo avrebbe potuto cercare la radio: qualsiasi nave Babbana ne aveva una.
Posso farla sintonizzare su una frequenza magica. Chiamare gli Auror.
Era teoricamente in grado di farlo, all’Accademia di Polizia Magica di Boston glielo avevano insegnato.
Estevez è sempre stato più bravo in questo genere di cose.
Lui era quello che picchiava duro, non quello che escogitava piani alternativi.
A quanto pare, non ho scelta.
Il suo compito era rimanere sulla nave il tempo sufficiente per segnalare la sua posizione. E per farlo aveva bisogno che John Doe credesse alla sua proposta.
Hai un piano. Eseguilo.
Più tranquillo incrociò le braccia e chiuse gli occhi: doveva riposare. Avrebbe dovuto essere in forze per quando sarebbe entrato in scena.
 
 
****
 
Londra, Diagon Alley
Casa di Al Potter & Thomas Dursley
 
Albus non era tornato.
Tom si era sempre ritenuto una persona razionale: odiava chi indossava le proprie emozioni come giacche vistose, o chi usava la propria emotività per giustificare scatti violenti o lagne drammatiche.
Ma Al c’era sempre. E c’era sempre perché aveva deciso così. Un mutuo accordo il loro, nato dal fatto che si erano scelti. Il ragazzino strano e quello invisibile, perso in una selva di teste Weasley.   
Erano parte di un club segreto a cui nessuno, eccetto loro, poteva partecipare.
Per questo quando Tom aprì gli occhi e si trovò da solo la prima reazione fu di paura.
Non puoi essere parte di un club, se sei il solo membro.
E meno prosaicamente, Al gli aveva promesso che sarebbe stato a casa per colazione.
Quello che non mantiene le promesse di solito sono io.
Si rivestì in fretta, ignorando Zorba che tentava di farsi aprire la finestra per la sua passeggiata mattutina.
Dov’è?
In cucina trovò Meike che stava facendo i compiti, cuffiette alle orecchie e aria concentrata. Alzò lo sguardo però, sebbene non l’avesse sentito arrivare.
“Woh, aria di tempesta.” Disse schioccando le labbra. Smise di sorridere quando vide la sua faccia. “Cavolo c’hai?”
“Al è tornato?”
“No, non l’ho visto, perché? Ha finito il suo turno?”
“Avrebbe dovuto.”
Meike si strinse nelle spalle. “Si sarà fermato a fare le spesa o roba del genere …”
“Mi ha detto che sarebbe tornato, e non ha mandato né Gufi né messaggi per avvertirmi del contrario.”
Meike, di solito pronta a stuzzicarlo sull’argomento lo guardò incerta. “Beh, chiamalo no?” Roteò gli occhi al cielo quando non lo vide reagire. Prese il telefono al posto suo e richiamò il numero dell’altro. “… è staccato. Magari è ancora in ospedale, per questo non prende.”
“Stava uscendo quando mi ha chiamato per dirmi che tornava … sono passate due ore.”
“Okay non è tanto da lui.” Ammise con il tono calmo di chi dava ragione a chi stava per avere un tracollo nervoso. “Però, anche tu che dai di matto se non ti avverte di un cambio di piano…”
“Non do di matto.”
“Sì, che …”
“Non è esagerare se puoi incontrare superuomini fuori controllo solo andando a berti una birra al pub. È buonsenso.” Sbottò.
Meike si morse un labbro. “Entschuldigung, cercavo solo di sdrammatizzare…” 
“Esercizio sterile.” Aveva già la bacchetta con sé, ed Appellò il mantello. “Vado al San Mungo.”
“Vengo con te!” Decise e ignorò la sua conseguente occhiataccia. “Se fai lo psicopatico non ti puoi aspettare che ti lasci da solo. Mutti mi farebbe secca!”
“… passi troppo tempo coi Potter.”
"Senti da che pulpito!” Scrollò le spalle infilandosi il chiodo. “Dai, se ci Smaterializziamo ci mettiamo un secondo. Andiamo lì, scopri che si è addormentato sui divanetti dell’accettazione, ti fai dare del coglione e ce ne torniamo tutti quanti a casa. Così poi mi aiuti con Incantesimi, che mi mancano ancora dieci centimetri e non so che cavolo inventarmi.” 
Tom suo malgrado sorrise: il tentativo di distrarlo era sciocco, ma non per questo meno volenteroso.
Da che la conosceva, Meike Wollin cercava più di chiunque altro – forse persino più di Al – di ridimensionarlo ad essere umano, e non ad un grumo di brutti presentimenti e sfiducia verso il prossimo.
Era una delle ragioni per cui si era resa tanto indispensabile in quella casa.
La afferrò per la collottola mentre metteva a posto il resto della sua roba, sparsa in più gradi di disordine sul tavolo. “Non perdere tempo.”
“E tu non afferrarmi come un pacco, scemo!” Si divincolò per prenderlo sottobraccio. “Maneggiami come un essere umano!”
“Cerca di non lasciare la presa.”
“Perché sono idiota, vero?” Sbuffò. “Eddai Tom, non siamo tutti delle scimmie senzienti tranne te e Mutti!”
“Quasi tutti.” Non riuscì a trattenersi, ignorando il pugno al costato. “Non voglio dovermi preoccupare anche per te.”
“Tu ti preoccupi sempre per tutti.” Gli lanciò un’occhiata di sbieco, sospirando alla sua aria offesa – sì, era un insulto. “Non fare quella faccia … sai che è vero. Lily ha ragione, soffi come un gatto ma poi fai il cane da pastore.” 
“… perché siete delle pecore senza cervello.” Ribatté facendola ridacchiare. Era finito il tempo delle battute. Si Smaterializzò.
 
****
 
Londra, San Mungo.
 
C’erano momenti in cui Ron Weasley avrebbe preferito esser rimasto a fare da aiutante a suo fratello George.
Momenti in cui avrebbe mandato al diavolo di tutto cuore più di vent’anni di carriera nell’Ufficio Auror per tornare a vendere Cacchebomba e Filtri d’Amore.
Scoprire che suo nipote Albus era stato rapito da John Doe era uno di quelli.
Manca solo James e abbiamo fatto il trio!
Mentre la sua squadra ascoltava i testimoni, si occupava di perimetrare il Laboratorio di Pozioni e di tener lontani i curiosi, aveva soltanto voglia di prendere a pugni qualcuno. Chiunque.
Ma non posso prendere a calci nessuno, se non me stesso.
Harry stava per arrivare. Assieme a lui aveva preso e ascoltato la chiamata d’aiuto. Arrivata troppo tardi purtroppo, l’avevano già preso in ostaggio.
O meglio, Al si era offerto.
C’era da aspettarselo.
Conosceva il nipote da quando era un frugoletto con gli occhi troppo grandi; Albus Severus dietro quell’aria timida e dimessa possedeva la stessa caparbietà del padre, la stessa indole suicida.
Tutto, pur di salvare qualcun altro.
Il vero erede del Salvatore non era James, pur con il suo essere Auror e un ottima pasta d’uomo.
È Albie. È sempre stato lui.
Per questo quando i Pozionisti avevano raccontato di come si fosse sostituito a Sam per evitare che venisse portato via, ferito ed incosciente, non se n’era stupito poi molto.
È proprio una cosa che avrebbe fatto Harry alla sua età. Come quando si è beccato la peste di Goblin per fermare uno stregone dallo sterminare un paesello di Babbani …
Ama, che ormai faceva parte della sua squadra essendosi sfaldata quella di Flannery, gli si avvicinò. “Se lo ritenete necessario sono pronta ad allertare i miei contatti su suolo inglese.”
“Fallo.” Confermò con un cenno della testa, anche se dubitava che lo scagnozzo di Doe fosse ancora nell’area metropolitana di Londra. Se avevano capito qualcosa del modus operandi del Camaleonte e soci e che facevano del loro meglio per mettere tutta la distanza possibile da qualsiavoglia forza di polizia.
E sono sempre un passo avanti a noi.
Che fosse grazie ad una Talpa o a qualche stratagemma non riuscivano ad averne ragione: l’unica consolazione in quella situazione maledetta era che Prince era riuscito ad infiltrarsi e che avrebbe preso contatto con loro quanto prima.
Se Prince è con loro farà in modo che ad Albie non succeda niente.
Il tedesco gli stava sull’anima, nessun dubbio in merito. Ma Harry si fidava di lui, e questo bastava.
Ron!” La voce di Harry lo raggiunse appena uscito dalle porte del laboratorio. L’amico di una vita aveva l’aria di non dormire da giorni, e avrebbe continuato ad averla, pensò amareggiato.
Ora che uno dei suoi figli è nelle mani di Doe. Di nuovo.
Gli diede una pacca sulle spalle per fargli sapere che c’era. “Stiamo concludendo i primi rilievi. Dagli interrogatori fatti ai testimoni sembra che il rapitore si sia infiltrato in ospedale prima che mettessimo barriere e ronde. Ha rubato il tesserino e l’uniforme di uno dei ragazzi della manutenzione. Hanno contratti di breve durata, e spesso in sostituzione di manutentori in malattia … Ha approfittato di un buco nel personale. Hanno tutti pensato stesse sostituendo qualcuno.”
“Voglio un identikit.”
“Ci stiamo lavorando.”
Harry annuì, con lo sguardo concentrato in un punto lontano. Non guardava qualcosa in particolare, se non una sfilza di schemi e piani dentro la sua testa.
“Sam come sta?”
“Lo hanno stabilizzato, dovrebbe cavarsela.” Abbozzò un sorriso. “Tuo figlio gli ha salvato la vita.”
Era una magra consolazione, e lo lesse negli occhi dell’altro. “Mio figlio non avrebbe dovuto essere qui in prima istanza.”
“Ma c’era, e puoi biasimarlo?” Scosse la testa perché qualcuno doveva dirlo. “Ha preso da suo padre, non poteva che fare quel che ha fatto.”
“Non ho messo al mondo dei figli perché commettessero i miei stessi errori.” Mormorò con il tono di chi covava una tempesta: non a caso, il resto degli auror si stava tenendo a distanza di sicurezza, Sergente Gillespie compreso.
Ha capito alla svelta che tipo ci comanda.
Annuì con aria ragionevole. Erano quelli i momenti in cui rimpiangeva che Hermione non li avesse seguiti anche in quella scelta di vita.
Lei è sempre stata più brava di me a maneggiarlo, in ‘ste situazioni.
“Al è stato rapito per un motivo preciso, non è un semplice ostaggio” Argomentò. “Lo vogliono usare per creare una cura … quindi non è in pericolo immediato, non finché sarà utile a Doe.” Esitò, poi fece una smorfia. Purtroppo certi meriti andavano riconosciuti. “Inoltre, Prince è con loro. Lo terrà al sicuro.”
“Se mostrerà di volerlo fare farà saltare la sua copertura e l’intera operazione andrà in bocca agli Inferi.” Gli fece notare l’altro mentre misurava ad ampi passi il corridoio. Ci avrebbe fatto un buco. “Metterebbe a rischio la vita di entrambi. No, se è furbo non lo proteggerà.”
… già.
“Signore…” Ama Gillespie si intromise a suo rischio e pericolo, ma lo fece con una naturalezza che gli ricordò la madre, Nora. Considerando che l’ amico pareva lì lì per indirre lo stato di guerra dell’intero Mondo Magico era da ammirare.
“Parla.” Concesse comunque il loro Generale – Capo Auror ma certe volte era difficile notare la differenza tra Harry è un militare di quei film che tanto amava Hugo.
La strega mantenne lo sguardo senza battere ciglio. “L’agente Prince è relativamente inesperto in termini di esperienza nelle forze di Polizia Magica, è vero. Non lo è tuttavia nel trattare con John Doe. Ho piena fiducia in lui. Le riporterà suo figlio sano e salvo.”
Ron fece un sorrisetto amaro: era ironico, ma il motivo per cui tutti avevano sempre disprezzato il giovane Prince era adesso un’ancora di salvezza per suo nipote.
“Ama ha ragione.” Convenne. “E poi Doe sa che Albie è figlio tuo. Non è così stupido da fargli del male, sapendo che verremmo a cercarlo in capo al mondo. L’abbiamo già fatto. E l’abbiamo trovato. Due volte.”
“E questa sarà l’ultima.” Si guardò attorno. “Potete continuare senza di me.” Il che era un grosso atto di fiducia che Ron non mancò di registrare. “Devo tornare in Dipartimento, farmi aggiornare sulla posizione di Prince. E poi … devo avvertire Tom.” La maschera di gelo e furia parve cedere per un attimo; quel figlioccio adottivo sarebbe stato sempre il fianco scoperto di Harry.
Se non sapessi che ama i suoi figli all’infinito penserei che è il suo prediletto.
“E Ginny? Il resto della nostra famiglia?” Domandò comunque un po’ piccato, perché il sangue era sempre più importante di eventuali rapporti accessori.
“L’ho già avvertita, la conosci, è una roccia … è lei che ha rassicurato me. Si occuperà lei di informare gli altri.” Scosse la testa. “A Tom devo dirlo io.”
“Almeno stavolta non è toccata a lui.” Tentò di scherzare. Pessima idea da come Harry lo fulminò con lo sguardo.
“Probabilmente dal suo punto di vista è come se lo fosse…” Mormorò a mezza voce prima di piantarlo lì, il che era in perfetto stile Harry Potter.
Questa l’ha ereditata da Silente. Le uscite di scena … uguali.
Si voltò verso uno dei suoi uomini. “Chiama l’Auror Potter e dirgli di tornare in servizio.” Gli dispiaceva strappare James dal meritato riposo, dato che aveva passato la notte a cercare la piccola Ben, ma non aveva scelta: aveva avuto a che fare con il Demiurgo fin dall’inizio ed era l’unico superstite della squadra di Flannery.
Ho bisogno dei miei maghi migliori. E soprattutto, di quelli più motivati.
“E l’agente Malfoy?” Domandò Ama, una delle streghe più intempestive che conoscesse.
“Non è stato ancora dimesso.” Tagliò corto perché aggiungere alle motivazioni della assenza del suddetto il fatto che fosse neopadre e appena sposato con la sua bambina gli faceva venir voglia di prendere a testate qualcosa.
Tra lui ed Albus non aveva idea di chi gli avrebbe fatto venire un infarto prima.
Ragazzini. Saranno la mia morte.
 
****
 
“Andiamo a chiedere in accettazione?”
Meike era la voce della saggezza, e Tom trovò dunque sensato darle retta, che se fosse dipeso da lui avrebbe setacciato l’intero ospedale alla ricerca del suo ragazzo.
“Parlo io, quando hai quella faccia spaventi sempre tutti, e poi chiamano la sicurezza.” Sospirò l’adolescente trascinandolo con sé come un bambino recalcitrante. “Scusi, stavamo cercando il Guaritore Potter, può chiamarcelo?”
La Maginfermiera all’accettazione, che doveva averlo visto almeno un centinaio di volte, li squadrò da capo a piedi. “Oggi non riceve.”
“Siamo la sua famiglia.” Argomentò senza darsi per vinta Meike. “Lui è suo cugino o qualcosa del genere…” Lo guardò incerta, poi sorrise con la faccia da schiaffi che l’aveva sempre contraddistinta. “Io sono sua figlia.”
“Figlia dice…”

“Adottiva ovviamente!”
Tom nascose con un colpo di tosse una mezza risata. Che si spense immediatamente quando avvistò il padrino uscire dagli ascensori: indossava l’uniforme, il che significava che era in servizio attivo.
Non dovrebbe esserlo. Non a quest’ora, e non qui.
“Harry.” Lo chiamò; l’altro, una volta riconosciutolo, gli si avvicinò la sua classica camminata energica che facevano inevitabilmente a pugni con i suoi occhiali da talpa e i capelli spettinati.
Ogni volta …
“Thomas.” E quando lo chiamava per nome intero non significava mai nulla di buono.
Sapeva cosa aspettarsi, ma questo non glielo rese affatto più semplice.
“Dov’è Al?”
“Siediti…”
“Non voglio sedermi! Dimmi dov’è!” Sbottò mentre Meike e la maginfermiera li guardavano come se stessero per estrarre le bacchette e darsi ad un Duello all’ultimo sangue. L’atmosfera doveva presagirlo, tanto che i pochi maghi che stazionavano in attesa di essere smistati nei vari reparti si spostarono rapidamente lontano da loro.
Non capirete mai niente di me e Harry.
“John Doe l’ha preso.”
Quello che aveva sempre apprezzato del padrino era il modo di dare le notizie, brutte o belle che fossero. Non ci girava mai attorno.
Serrò i pugni, percependo ogni centimetro della sua bacchetta, che premeva sulla tasca del mantello.
Non ti serve. Non adesso.
“…vuoi sederti?” Lo incoraggiò Harry mettendogli una mano sulla spalla. “Ti prego.”
Gli obbedì, perché il visetto spaventato di Meike era un ottimo motivo per non dare di matto come avrebbe desiderato.
La invidiava: non era più un adolescente in preda ai convulsi moti del proprio animo. Era un adulto, e da tale doveva comportarsi.
“… Com’è successo?” Riuscì a chiedere.
“Uno dei suoi scagnozzi si è infiltrato nel San Mungo, travestendosi da adetto alla manutenzione. Pare che ci sia un ricambio continuo e che le facce nuove siano la norma.”
“Hanno studiato l’ospedale…”
“C’era da aspettarselo, e non potevamo molto tranne aumentare la sorveglianza. Ma Tom, passano centinaia di maghi al giorno in questi corridoi … controllare tutti era impossibile.”
Non rispose, perché avrebbe avuto troppo da dire e Harry, che lo guardava con gli occhi cerchiati di stanchezza, non era la persona giusta su cui sfogare la propria rabbia.
Allora chi? È un auror, avrebbe dovuto essere lui e i suoi compari a proteggere Al!
Serrò la mascella. “Non mi hai ancora detto com’è successo.”
“C’è stata una colluttazione e Sam è stato ferito gravemente. Albus ha preso il suo posto per evitare che lo portassero via…”
“Gli bastava che fosse una delle menti della cura…”
Harry annuì.
“Come hanno fatto a saperlo?” E mentre lo diceva gli fu chiaro: era stato il suo compagno ad informare il sodale di Doe, probabilmente proprio per evitare al Guaritore Finnigan una morte certa.
Si alzò in piedi di scatto perché doveva fare qualcosa. Non era molto, era ridicolo, ma scaricare la sua frustrazione e soprattutto, la sua bacchetta, contro i distributori di bevande a fianco gli sembrò un’ottima idea.
Harry, a differenza di Meike e del resto della gente che pensò bene di scappare a gambe levate dalla sala d’attesa, rimase fermo e impassibile come un gargoyle.
“Come fai a rimanere calmo?!” Ringhiò e per un attimo, più di un attimo a dirla tutta, ebbe l’impulso di rompergli la faccia in mille pezzi. “L’hanno preso! Hanno preso Al!
Harry lo guardò duro. “Non sono calmo, Tom. Sono tutto fuorché quello, credimi. Sono preoccupato e spaventato.” Stressò entrambe le parole, perché era importante. Lo capiva che era importante, perché essere un auror non ti rendeva meno genitore. Essere il Salvatore del Mondo Magico, sempre in prima linea, sempre pronto ad affrontare una nuova minaccia, non rendeva il rapimento di qualcuno che amavi semplice routine da sbrigare.
Era importante dirlo. “Sono furioso, ma se ci mettessimo entrambi a fare a pezzi il San Mungo non credo risolveremo qualcosa. O mi sbaglio?”
… e come sempre, Harry Potter è dalla parte della ragione.
Seccante.
Chiuse gli occhi, cercando di smaltire la furia bollente che si sentiva scorrere nelle vene.
Prima me … ma me lo meritavo. Poi Lily. Poi Al.
Albus, che dannazione a lui, aveva deciso di infilarsi nel covo di John Doe, un mago che considerava la vita altrui come merce di scambio.
“Quel pezzo di imbecille…” Sibilò. “Lo ammazzo.”
Il padrino si permise un mezzo sorriso, e Tom lasciò correre solo perché era di triste consapevolezza. “Siediti, avanti.” Al suo esitare lo guardò serio. “Suonerà sciocco ripeterlo, ma mi sento molto più tranquillo ad averti di fianco a me che non a demolire pezzi di arredamento.”
“… comprensibile.” Gli obbedì perché lo vide fermare l’arrivo di un paio di auror e addetti alla sicurezza in assetto da guerra con un cenno quieto della mano.
“È tutto sotto controllo. Me ne occupo io.” Rimasero quindi soli.
Al.” Aggiunse, come se quello giustificasse tutto.
Da parte sua era così, ma si rendeva conto che le sue reazioni erano sempre fuoriscala, specie se riguardavano un certo Potter di mezzo.
“… Lo so.”
“No, non lo sai.” Non aveva intenzione di fare l’adolescente ombroso, ma era la verità. Harry non poteva rendersi conto di tutto quello che gli si agitava dentro.
“Invece sì.” Lo stupì. “Thomas, non sono uno sciocco. Forse sono miope su molte cose…” Si toccò ironico gli occhiali. “... ma lasciami perlomeno illudere di essere in grado di leggere il cuore di due dei miei ragazzi.”
… Ah.
Distolse lo sguardo, perché non era il momento, non era il luogo e dannazione, Albus avrebbe dovuto essere lì. Non lui.
“Se gli succedesse qualcosa, io…” Chinò la testa, perché se non poteva fare a pezzi qualcosa l’alternativa sfortunatamente era crollare. “Non posso vivere senza di lui.”
Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto…

Si rifiutò di terminare la poesia, considerando che era una stramaledetta ode funebre.
Però la penseresti così, se Albus ti fosse strappato com’è successo a Auden con il suo amante.
“Non saprei come…”
Harry annuì con calma, come se fosse perfettamente normale dire una cosa del genere. Meglio, come se gliel’avesse già sentito dire migliaia di volte.
Forse non l’hai detto. Ma ormai lo hanno capito tutti.
“Non gli succederà nulla.” Fermò un suo tentativo di protesta con una mano. “Il nostro Al è più di quanto lascia vedere. Se ha seguito Doe, è perché è sicuro di tornare a casa. Da noi, da te.” Fece una pausa. “E non pensare neppure per un secondo che non farò tutto ciò che in mio potere per assicurarmi che non gli sia torto neppure un capello.” Una breve esitazione. “E poi … non è solo.”
Prince …
Aveva dimenticato che con Doe doveva esserci anche Sören: poteva non aver ancora del tutto inquadrato quel suo insensato cugino, ma di una cosa era certo: era il mastino da guardia migliore che conoscesse.
Proteggerà Al.
Si passò una mano sul viso, contemplando il disastro che aveva combinato con i distributori automatici. “Paghi tu, vero?” Domandò ad Harry che per tutta risposta scosse la testa.
“Sei un uomo adulto ormai. Hai un lavoro, sei perfettamente in grado di provvedere tu stesso ai danni che causi.”
Touché.
“… da quanto lo sai?”
“Che sei un uomo adulto?” Lo prese in giro.
Lo guardò male.  
Harry si strinse nelle spalle. “L’ho sempre saputo. Robin una volta mi ha detto che non riesce ad immaginarvi lontano l’uno dall’altro … credo fosse un tentativo gentile di farmi capire.” Lo guardò dritto negli occhi. “Per me non cambia niente.”
Si trovò nella scomoda posizione di non avere idea di cosa dire. Per fortuna c’erano sempre un paio di parole jolly. “… grazie.”  Tipo quella.
Harry fece un cenno dismissivo. “Ad essere onesti, era James e Teddy che non mi aspettavo.”
Tom abbozzò un sorriso. “Almeno non siamo così teatrali.” Lo vide guardarsi attorno con le sopracciglia inarcate. “Non sempre almeno.” Specificò di malumore.
“Per fortuna.”
“Grazie.” Ripetè. Lo fece anche per Al. “Anche se non mi aspettavo una reazione diversa.”
Harry gli sorrise. “Tu e mio figlio mi creditate sempre meriti maggiori di quelli che ho. Devo soddisfare le aspettative, no?”
Rimasero in silenzio; nell’atrio, ora vuoto, regnava un silenzio quasi innaturale.
“… voglio venire con te.”
“No.” Harry in un attimo perse l’aria da buon padre di famiglia. “Ti voglio lontano dall’azione il più possibile.”
“Al…”
“Avrà bisogno di te una volta tornato a casa, non prima. Ho già troppi uomini sul campo, ho bisogno che tu resti qui. E poi Albus non mi perdonerebbe mai se ti portassi nel bel mezzo della mischia.” Aggiunse.
“È vero.” Convenne suo malgrado. “Sarebbe capace di serbarti rancore per anni.”
“Come ogni Weasley che si rispetti.” Sospirò. “Puoi promettermelo?” Domandò tornando serio. “Niente sorprese?”
Tom avrebbe voluto rispondere che no, non aveva intenzione di rimanere ad attendere come un civile ingombrante. Il suo stupido Potter si era ficcato ben due volte nel fuoco della battaglia per venirlo a riprendere.
Peccato però si fosse messo in mezzo solo con l’unico, nobile obbiettivo di portarlo a casa.
Io non sarei tanto misericordioso.
“Questa volta … Doe … devi ammazzarlo.”
“Non è come funziona la legge, Thomas. Devo catturarlo.” Fu la risposta dell’Auror. Gli occhi di Harry però raccontavano una storia diversa. “Se dovesse accadere però, non perderei il sonno.”
“Neppure io.”
Semmai lo riacquisterei.
Si guardarono, e Tom ricordò uno dei motivi per cui era lì, in quel corpo e con quella vita.
Voldemort non avrebbe mai potuto uscirne vivo.
Harry poi arruffò i capelli, tornando il padrino che conosceva. “Porta a casa Meike, poi se vuoi vieni in ufficio. I miei uomini ti terranno costantemente aggiornato.”
Annuì, mentre l’altro si alzava e si dirigeva verso l’uscita. “Harry!” lo chiamò all’ultimo momento.
Riportalo. Da me.
Riportalo a casa.
Harry, perché era Harry Potter, la persona meno scontata che conoscesse, per tutta risposta alzò il pollice.
Ci volle qualche minuto perché Meike tornasse a recuperarlo. “… Tutto okay?” Domandò incerta. “Non farai esplodere altra roba?”
“No.”
“Bene, perché mi hai quasi fatto venire un infarto!” Lo guardò in tralice, già pronta a perdonarlo. “Ho sentito di Al…”
“Lo riporterà a casa.” Si limitò a dire, perché il padrino aveva sempre mantenuto le promesse che gli aveva fatto. “Gli credo.”
“Anch’io!” Esclamò. “Perché è tipo il Salvatore, giusto? Salva le persone, è un po’ il suo mestiere!”
Annuì, perché era meno complicato che spiegarle che Harry non salvava, non proprio. Dava una seconda possibilità. Stava agli altri, poi, non rovinarla.
Per questo si sarebbe piegato alla sua richiesta e avrebbe fatto quello che ci si aspettava da un semplice civile, e non da un mago instabile con un’anima ormai centenaria.
Si avviò verso l’uscita. “Andiamo, ti riporto a casa.”
Meike gli rivolse un'occhiata sospettosa. “… e tu dove vai?”
“Non ho intenzione di fare l’eroe … non è scritto nei miei geni.” Ironizzò. “Vado al Ministero. All’ufficio Auror posso avere informazioni di prima mano.”
Harry Potter mantiene sempre le sue promesse. Temo di dover ricambiare il favore.
“Vengo con te?” Apprezzava l’offerta, tuttavia non era certo di poter continuare a mantenere la facciata che si stava imponendo per non spaventarla.
“Preferisco che tu stia a casa, nel caso riuscisse a mettersi in contatto con noi.” Mentì. “Temo che Zorba non sia in grado di ricevere Gufi.”
Meike ridacchiò, un po’ di colore che le ritornava sulle guance pallide. Quando uscirono lo abbracciò stretto, e dubitava fosse solo per la Materializzazione Congiunta.
… starà bene, vero?” Borbottò in tedesco. “Al non è un auror come James…”
No, non lo è.
… mi hai ripetuto fino alla nausea che eri felicissimo di non essere stato coinvolto, il cretino.
E invece.
Harry Potter manteneva le sue promesse. Suo figlio, decisamente meno.
“Sarà così seccante e ficcanaso che lo rispendiranno subito al mittente.” Cercò di sorriderle. Fallì miseramente.
Meike per fortuna lo conosceva, perché non tentò di farsi consolare. “Dai, portami a casa … e poi vai a dare il tormento agli Auror anche per me.”
“Sarà fatto.”
Quella era una promessa che poteva decisamente mantenere.
 
 
 
****
 
 
Da qualche parte nell’Inghilterra del Nord …
 
La Passaporta li aveva materializzati in una darsena. Infinite distese di barche, a motore o a vela, si susseguivano in un cielo di un azzurro incongruente, considerando che stava andandosi a ficcare in un casino di proporzioni epiche.
Sono sempre le giornate più luminose, quelle foriere di guai.
Non lo aveva detto Tom?
Albus si guardò attorno, ma non per molto. Il suo rapitore lo afferrò per un braccio, spingendolo verso una delle banchine.
“Facciamo un giro in barca?” Domandò con una faccia tosta che non sposava affatto. Stava cominciando a rimpiangere il suo atto di coraggio.
Sam è salvo, certo … ma io?
Il ragazzo non gli rispose. Lanciò un incantesimo simile ad un fuoco di artificio che si stagliò brillante nel cielo.
Sta chiamando una barca.
La quale non tardò ad arrivare, priva di conducente e quindi spinta dalla magia. Era una piccola barca a motore, Babbana come tutto ciò che li circondava.
Si sono nascosti nel mondo dei senza magia. Furbo.
“Sali.” Gli ordinò imitandolo subito dopo. Recuperò poi un sacco di iuta dal fondo della barca e glielo gettò in grembo. “Indossalo.”
Ma anche no!
“Non ho idea di dove ci troviamo, è proprio necessario?” Chiese, che l’idea di essere cieco per la restante parte del viaggio non gli piaceva per nulla.
“Fallo o ci penserò io.” Ovviamente. Albus fu rapido nell’obbedirgli, maledicendolo di tutto cuore. Era come parlare ad un muro!
È quindi questo il tipico agente della Thule. O di John Doe. Comunque, ormai sono la stessa cosa…
Con il senno di poi gli sembrava assurdo che cinque anni prima avessero spedito Sören a rapire Thomas.
Se questo è l’agente modello, Ren in confronto è un cuore di panna.
Alberich Von Hoheneim doveva aver preso una cantonata pazzesca, oppure aveva scelto sotto alterato stato mentale.
Erano pensieri sterili, ma tutto era meglio che mettersi a congetturare il suo immediato futuro.
Cioè incontrare Doe.
Era stato l’incubo di sua sorella e la spina nel fianco della serenità del suo ragazzo per anni. Non l’aveva mai incontrato di persona, se non di sfuggita in quella grotta maledetta, mentre tentava di riportare Tom alla ragione.
Non ci tenevo a ripetere l’esperienza …
L’unico lato positivo della faccenda è che era abbastanza sicuro che non avrebbe avuto nulla da temere fintantoché gli fosse tornato utile.
Poi …
Poi verranno a prendermi.
Perché era certo che suo padre fosse già all’opera. Sperava solo avesse avuto il buonsenso di ordinare al Tom di starsene buono.
Se se lo porta dietro giuro che chiedo di essere ripudiato.
Passò quella che gli sembrò un’oretta. Poi la barca urtò qualcosa. Il tedesco si alzò dal suo posto e lo fece tirare in piedi, guidandogli poi le mani su una scala di corda. “Posso togliermi il cappuccio? A meno che tu non mi porti in braccio non riuscirò a salire se non me lo tolgo.” Spiegò ragionevole.
Ci fu una breve pausa, poi l’altro glielo tolse dalla testa bruscamente. “Ora sali.”
Al battè le palpebre abbacinato dalla luce improvvisa. Mentre si arrampicava riuscì a capire che si trovava sul fianco metallico di una nave, un mercantile di piccole dimensioni.
… sperso in mezzo all’oceano. Non vedo neanche un lembo di terra ferma.
Fantastico.
Essere in mezzo al mare era come essere in un non-luogo, tagliato fuori da entrambi i mondi. Il nascondiglio perfetto.
Non c’era modo di scappare, se non a nuoto o su quella barca, che probabilmente era sorvegliata a vista essendo l’unico mezzo di collegamento con la terraferma. 
Deglutì il panico e arrivò al ponte. Ad attenderlo, nessuno.
Meno male.
L’ultima cosa che voleva era un comitato di benvenuto offerto da Doe in persona. Il tedesco gli fu accanto qualche attimo dopo, puntandogli la bacchetta ad un fianco: non aveva smesso un attimo di tenergliela addosso, probabilmente persino mentre saliva.
“Puoi anche abbassarla, sai? Non ho intenzione di scappare o mettermi a combattere contro chissà quanti maghi come te…”
Lo fulminò con un’occhiataccia. “Parli troppo.” Decretò.
“Se ti fosse capitato di rapire uno dei miei fratelli ti sarebbe andata molto peggio. Io sono quello silenzioso.” E con un’occasionale logorrea da stress, ma questo non lo disse.
Il tedesco fece una smorfia, facendogli cenno di seguirlo. Già un passo in avanti rispetto allo strattonare di prima. Scesero così una scaletta, finendo sottocoperta.
Ma è una nave fantasma?
Perché sembrava non esserci nessuno nei corridoi, dipinti di un deprimente beige rugginoso.
I Babbani hanno proprio un problema con i colori sgargianti …
Arrivarono di fronte ad una porta. Recitava “alloggio del Capitano”; John Doe doveva trovarsi lì.
Il ragazzo bussò due volte, e dopo una breve attesa gli fu aperto. Al provò a sbirciare ma la visuale gli fu impedita da un’imponente massa di muscoli chiusa in un mantello logoro. “Devo parlare con Johan.” Gli disse il ragazzo. “Attendi qui fuori. Se proverai a scappare…”
“Sì, sì.” Annuì irritato. “Il tuo amico qui mi farà nero.”
“Lieto che tu abbia capito.” L’omone gli si affiancò mentre la porta veniva chiusa con un clangore metallico. Non sembrava un Infetto: non ne aveva lo sguardo vitreo.
E niente occhi bianchi.
Mercemago. Come quelli al castello di Von Hohenheim.
“Spero almeno che ti paghino bene, perché il gioco non vale assolutamente il Boccino…” Borbottò mentre questo lo guardava confuso.
E non capisce la mia lingua.
Li ha presi dall’Est, come l’altra volta.
Johannes poteva non lavorare più per la Thule, essendo  stata smantellata dal Capitano Gillespie e dalla sua taskforce…
… ma usa tutti i vecchi trucchi del mestiere.
Anche il suo loquace rapitore doveva far parte del vecchio ordine delle cose, tedesco e zelota com’era.
Chissà se si rende conto di non avere più lo stesso datore di lavoro.
Una persona che prendeva ordini in quel modo e faceva evidente fatica a deviare da essi – convincerlo a scambiarlo con Sam era stata un’impresa titanica del resto – non era il genere di mago che si faceva molte domande. Agiva e basta.
Sören invece se ne aveva sempre fatte troppe.
E questo ha fatto tutta la differenza del mondo.
Guardò il mercenario; non avrebbe mai avuto ragione di una massa di muscoli allenata come quella. Anche se fosse stato meno bravo di lui con la bacchetta aveva riflessi dieci volte più allenati.
Niente da fare, anche da uno così non ho possibilità di sfilarmi. Mi farebbe a pezzi.
Non gli restava quindi che aspettare la grande presentazione.
Sangue freddo.
Non appena lo ebbe pensato, lo perse. Perché dalla porta della cabina filtrò la luce di un incantesimo e si udì un grido. Forte, lacerante, di dolore.
Che…
La cosa peggiore fu leggere lo stesso sgomento negli occhi del Mercemago.
Che sta succedendo?
La porta si spalancò di colpo e ne uscì Doe. Sorrideva, e Tom glielo aveva detto: sorrideva sempre.
“Albus Severus Potter, il Guaritore!” Lo apostrofò. “Non avrei mai creduto di incontrarti di persona… anche se forse ci siamo già intravisti qualche anno fa, vero?”
“… Sì, nella Foresta Proibita.” Confermò lodandosi per il tono di voce fermo. 
Mentre ordinavi al mio ragazzo di uccidermi.
“Mi ricordavo bene allora.” Confermò, squadrandolo da capo a piedi. “Eri un ragazzino pelle ed ossa, quasi non ti riconoscevo. Anch’io ti sembrerò un po’ diverso…”
Già. Sembri avere trent’anni in più.
Non lo disse però, e del resto neppure l’uomo si aspettava una risposta. Si scostò invece, facendogli cenno di entrare. “Avanti, avanti … è stato una bella Materializzazione, sarai affamato.”
“… non molto.”
“Lo sarai, c’è tanto da fare.” Gli diede una pacca sulla spalla. “Considerati pure mio ospite. Ogni tua richiesta sarà soddisfatta.” Gli fece l’occhiolino. “Se farai quel che ti dico sarà come essere in vacanza, Albus.”  
 
Era la giovialità con cui ti si rivolgeva a ghiacciarti il sangue nelle vene, gli aveva spiegato Tom. Non c’era nulla di crudele nei suoi modi, ed era questa la cosa che più faceva paura.
Perché non eri preparato a vedere cos’era capace realmente di fare. Albus quasi sbattè contro la mole del Mercemago dietro di lui quando, entrando, vide il tedesco steso a terra, boccheggiante in agonia, mentre la sua schiena era un sentiero di ferite aperte, che lentamente andavano a tingergli la casacca di rosso.
Lo ha punito … lo ha punito perché non ha preso il Guaritore giusto.
Al era abituato al sangue, e solo per quello non vomitò. La stessa fortuna non toccò al Mercemago che soffocò invece un conato, barcollando indietro.
Doe lo guardò esilarato. “Non ne fanno più di Mercemaghi come una volta.” Commentò, rivolgendo poi qualche parola secca al mago, che fu lesto a scappare dalla stanza. “Mi sa che dovrò liberarmene … ti pare avere al soldo qualcuno spaventato da un po’ di sangue?”
“Un po’?” Sussurrò muovendosi verso il ragazzo. Aveva bisogno di cure immediate.
Doe gli sbarrò la strada. Si muoveva come un gatto, nonostante l’età.
Che forse non è quella reale. O forse sì. La Thule deve aver pasticciato anche con lui, non solo con Ren …
“Indole da crocerossina, eh?” Domandò scuotendo la testa con l’aria di trovarlo adorabile. Gli fece schifo. “A questo proposito …”
“Devo fermare l’emorragia, o morirà!” Lo interruppe, fregandosene del terrore che gli batteva nel petto al ritmo di una grancassa.
Doe lo guardò attento. Per un attimo parve voler ribattere, poi fece un misurato passo indietro. Era teatrale: un dannato giullare
Ecco da dove ha preso il nomignolo.
“Se ci tieni…” Concesse. “… è tutto tuo, con lui ho finito.”
Si accovacciò di fianco al ragazzo: respirava ancora, ma stava andando in shock. Non aveva mai odiato nessuno in vita sua, fatta eccezione per Von Hohenheim.
Abbiamo un altro candidato.
Sfilò la bacchetta dalla tasca della giacca, recitando tutti gli Incantei Coagulanti che conosceva. Dubitava che avrebbe avuto tempo per operare una vera guarigione: doveva però stabilizzarlo, a tutti i costi.
Per tutta il tempo sentì gli occhi di Doe sulla schiena. Quando il respiro del ragazzo tornò regolare si permise un respiro di sollievo.
“Ed è già il secondo mago che salvi dalla morte oggi…” Commentò Doe, accovacciandosi accanto a lui. “Il povero Sören aveva ragione, non sei un bluff.”
Mi ha voluto mettere alla prova? È per questo che ha ferito …
Poi realizzò come lo aveva chiamato.
“Sören?” Guardò il ragazzo disteso. Si chiamava come Prince?
Anche il vero amico di Piuma di Lils si chiamava così.
Doe dovette leggergli nel pensiero – o nella sua espressione sconvolta – perché ridacchiò. “Alberich era un vero bastardo, eh?” Gli battè una pacca sulla spalla. “Per fortuna lo avete ammazzato o vi avrebbe perseguita fino alla fine dei vostri giorni.”
Ci ha tenuto d’occhio … ci ha tenuto d’occhio da sempre.
“Perché non ha mandato lui?” Domandò piano.
“Chi?”
“Perché Alberich ha mandato mandato suo nipote invece che … lui?” Indicò il ragazzo.
Ren non è mai stato all’altezza del compito.
Doe fece spallucce. “Ormai ha importanza?” Lo guardò divertito. “Non ti starai chiedendo se vi stiamo ancora ingannando, eh?”
… sì.
Si fidava di Ren. Si fidava, era un amico, amava sua sorella, ma …
“Sta’ sereno, piccolo Salvatore … a differenza del mio vecchio padrone, non amo gli scacchi. Né tormentare la vostra piccola famiglia di eroi. Cerco solo di avere i miei soldi.” Lo strattonò in piedi. “La riprova? Quell’idiota.” Indicò con un cenno del mento il secondo Sören. Avrebbe dovuto chiamarlo così? “Non ho ordinato che tu fossi rapito, è stata una sua decisione. Sei scomodo, con il tuo cognome e i tuoi parenti.”
Non è stata un’idea sua, ma mia.
L’ho convinto io.
Era in parte responsabile di quel massacro. “… mi ucciderai?” Gli tremava la voce, e non gli importava. Non gli importava di mostrarsi forte, perché era terrorizzato e quella era la verità.
Doe sorrise. “Sei in grado di creare l’antidoto?”
“… Sì.” Annuì. “Se ho gli ingredienti e le attrezzature giuste.”
“Di questo non preoccuparti. Visto che sei qui, non c’è niente da fare. Pensa almeno a far funzionare la tua preziosa testolina.” Gli arruffò i capelli. “Ai dettagli pensiamo noi.”
“Noi chi?”
Doe pareva divertirsi incredibilmente a contemplare la sua paura, la sua confusione. Era come un gatto. E lui era il topo. “Sören, l’altro … è sulla nave, se è questo che ti chiedi.”
Deve essere sulla nave, è il piano di papà.
Solo … in che ruolo?
Gli fece cenno di uscire. “Basta emozioni per adesso, va’ a riposare un po’ … abbiamo tanto da fare.” Fuori lo aspettavano due Mercemaghi. Doe rivolse loro un paio di parole e mentre uno lo scortava via, l’altro entrò a recuperare il tedesco esanime.
Al si fece portare docilmente dentro una delle cabine: era priva di effetti personali quindi doveva servire per lui. Si sedette sul letto. “Cibo?” Gli si rivolse il Mercemago in inglese stentato. “Acqua?”
Se non altro non mi hanno legato al buio da qualche parte.
“Acqua, grazie.” Quando la porta si fu chiusa si stese sul letto.
Era entrato in un gioco più grande di lui. E la cosa peggiore?
Non ne conosceva le regole.
 
****
 
 
Note:

Che storia è se almeno un Potter-Weasley non si mette nei casini?
È nei geni, gente. È nei geni.
La poesia a cui fa riferimento Thomas è “Funeral Blues” di W.H. Auden. Una roba molto allegra, quindi ovviamente lui la ama moltissimo.
Questa la canzone del capitolo.
 

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Capitolo 60
*** Capitolo LIX ***


Capitolo LIX
 
 
   


Hoping I will carry you home
(Smokestacks, Layla)
 
 
Da qualche parte nel Mare del Nord…
 
Doe aveva sempre giocato sul logorare. Era la cosa che gli riusciva meglio, far impazzire il proprio opponente finché non commetteva un passo falso. Era in quel momento che colpiva, come il codardo che era.
Sören aveva cercato di impiegare quell’attesa riposandosi, ma naturalmente non era riuscito a far altro che fissare le paratie della cabine come un pazzo. Era rimasto all’erta, a lungo, finché non aveva perso il conto dei minuti.
Non era la paura ad ucciderti. Era l’attesa.
Avrebbe ucciso per una sigaretta in quel momento. Quella, o un bacio di Lily; gli davano lo stesso grado di dipendenza.
Solo una delle due però ha effetti positivi sulla mia salute.
Mentale.
Se Lily fosse stata lì …
… sarebbe stato anche peggio di come stava in quel momento, terrorizzato che potesse accaderle qualcosa.
Lily è già stata “qui”.
E Doe le aveva lanciato una Maledizione Senza Perdono addosso.
Avrebbe ucciso per una sigaretta.
Udì la maniglia della porta abbassarsi. Scattò in piedi, ficcandosi le mani in tasca per evitare di mostrare quanto fosse in agitazione.
Doe entrò, da solo, come se non fossero passati che pochi minuti da quando l’aveva fatto gettare in quella cabina sudicia. Aveva una postura rilassata, ed era disarmato.
Era tutta scena.
Gli sorrise. “Perdonami se ti ho fatto aspettare, principino, ma prima il dovere, giusto?”
“… mi chiamo Sören.” Ribatté, che quel nomignolo ormai era ad uso e appannaggio di Milo, il suo amico Milo. Non avrebbe permesso a Doe di insozzarlo.
Il mago scrollò le spalle. “Come se fosse meglio. Se mi avessero dato il nome di quella feccia di mio padre me lo sarei cambiato appena ne avessi avuto modo…” Sorrise. “Oh, è già, l’ho fatto!”
“Basta giocare. Dobbiamo parlare.” Sbottò; era solo, poteva usare un tono più confidenziale. Questo avrebbe ricordato all’altro, con un po’ di fortuna, che erano stati compagni.
Vite fa.
Doe sbuffò divertito. “Sempre questo tono di comando … È proprio vero che non si può togliere il Purosangue da un mago.”
“Sono venuto qui per un motivo, non per fare quattro chiacchiere.”
“Vero, vero…” Concesse chiudendosi la porta alle spalle con un gesto della mano. Doveva fare attenzione; non mostrava bacchette in vista, ma Johannes rimaneva un mago temibile.
Specie quando sa che non puoi attaccarlo.
L’altro spalancò le braccia. “Avanti!” Lo incitò. “Hai tutta la mia attenzione. Da quando hai istinti suicidi?”
“Non credo di capire.” Finse.
“Andiamo…” Scosse la testa tirando fuori dalla tasca della giacca la propria pipa, e tirandone una boccata. “Venire qui, offrirti come agnello sacrificale … Davvero ci tieni così poco a vedere l’alba di domani?”
“Chi ti ha detto che morirò?” Si sedette sulla sedia che aveva scaldato per ore. Non doveva mostrare paura, o Doe avrebbe affondato i denti. “Lo hai deciso tu?”
“Sei sulla mia nave, circondato dai miei uomini e, a quanto pare, senza rinforzi. Diciamo che ho un sesto senso per certe cose…”
“Se mi uccidi non avrai i soldi della mia famiglia.” Tagliò corto, perché non aveva intenzione di giocare a quel gioco più di quanto fosse necessario. E se gli davi l’opportunità, Doe era capace di parlare e bearsi della sua voce per ore.
L’altro fischiò con apparente ammirazione. “Diretto, eh?”
“So che Sophia te ne ha parlato, deve anche averti mostrato il borsello.”
“L’ha fatto.” Confermò perdendo il sorriso. Bene, stava cominciando a prenderlo sul serio. “Credi davvero che sia così facile farmi fesso? Un po’ di Falci suonanti e per te sono pronto a credere che hai disertato dai tuoi amichetti?”
“Non sarebbe la prima volta che cambio schieramento.” Gli rinfacciò tranquillo. Si sentiva rivoltare lo stomaco anche soltanto a fingere.
Ma posso farlo. L’ho fatto per anni, per evitare che Von Hohenheim mi trovasse manchevole.
Posso farlo ancora. Come inforcare una scopa …
Non era affatto come inforcare una scopa, ma non era quello il punto. “Pensavo che i tuoi nuovi amichetti ti piacessero. Non sei culo e camicia con gli americani?”
“Per volermi uccidere ti interessi un po’ troppo alla mia persona…” Ironizzò. Doveva capire quanto conosceva della sua storia; in quel modo avrebbe avuto misura di quanto la talpa gli avesse detto.
“Mi preoccupo sempre della sorte di un vecchio amico.” Sogghignò. “Devo dirlo, il Mannaro perde il pelo … ti è sempre piaciuto fare il cagnolino al soldo di un’ideale. Adesso cos’è, la libertà?”
Non rispose, lasciandolo parlare a vuoto. “Tu e la libertà avete litigato?” Lo incalzò. Era positivo, significava che stava cercando di capire.
Se sto dicendo sul serio, se gli sto raccontando una menzogna …
“Non sono più su suolo americano.” Gli fece notare. “Il mio problema sono gli inglesi. Hanno deciso che devo pagare per quanto ho fatto quando servivo mio zio… e il Salvatore non è persona a cui l’opinione pubblica, o il suo stesso ufficio, sappia dire di no.”
“Anche considerato il fatto che ti scopi sua figlia.” Doe ghignò al suo involontario irrigidirsi. “… davvero, principino? Non sei un po’ troppo cresciuto per avere una cotta? Per quella puttanella Mezzosangue col complesso da crocerossina poi … Un classico!”
“Il mio problema è Harry Potter.” Ignorò la frecciatina, perché doveva attenersi al piano.
Attennersi al piano e non saltare addosso a Doe per metterlo a tacere per sempre. “Il Capitano Gillespie preferisce non inimicarselo. Mi ha venduto … se resto ancora in Inghilterra finirò per venire arrestato per i reati che ho commesso cinque anni fa.”
“E quindi?”
“Ho bisogno del tuo aiuto.”
Doe rise, una risata spontanea, generata probabilmente dall’incredulità. Che diavolo ne sapeva? Non era Lily, lui, non era in grado di cogliere quelle sfumature. “Perché ridi?” Domandò invece, che giocare la carta dello sciocco aveva sempre pagato con persone come Doe, convinti della propria intelligenza sopra quella degli altri.
Il mago sputò a terra, vicino ai suoi piedi. Quello era disprezzo. “L’ultima volta che ci siamo visti, ragazzino, hai tentato di mettermi le manette ai polsi. Perdonami la sfiducia.”
“Era ciò che mi era stato chiesto di fare.”
“E tu obbedisci sempre agli ordini, vero?” Lo schernì.
“Non più. Sono stufo di dover lavorare per chi mi considera una pedina sacrificabile. Gli americani non sono diversi dai poliziotti britannici. Sono un’arma, utile a loro discrezione. Voglio essere libero.”
Doe schioccò la lingua, ma non diede adito a commenti. Lily ci aveva visto giusto: la libertà per quel mago corrotto era forse l’unico valore che aveva un peso.
O non sarebbe diventato così bravo a darsi alla macchia.
“Pensi di trovarla lavorando per me? Commovente…”
“No, ma ho bisogno dei tuoi contatti, e della formula del Demiurgo.”
Doe diede una boccata alla pipa. Non mostrava particolari emozioni, il che significava che lo stava ascoltando. “E sei disposto a pagarmeli.” Concluse per lui.
“I tuoi contatti per far perdere le tracce, il Demiurgo come lasciapassare.” Confermò. “Una volta che avrà una formula stabile, naturalmente.”
“E a cosa potrebbe mai servirti principino? Non sei una specie di Demiurgo che cammina?” Gli fece notare, un bagliore di cupidigia negli occhi. Si impose di non ritrarsi. “Peccato che tu sia un unicum, o saresti già su un tavolo, vivisezionato.”
“Una sfortuna, davvero.” Ironizzò. “Non posso portare con me la mia camera blindata, ma posso portare qualcosa che posso rivendere, potenzialmente all’infinito. Come una carta di credito Babbana.”
“Stiamo diventati furbi…” E non poteva sbagliarci, c’era una vaga nota di compiacimento nel tono, quasi fosse orgoglioso di lui?
La cosa lo nauseò, considerando che stava recitando la parte del mago codardo e prezzolato.
Come lui.
Lily gli aveva detto che era un narcisista, ed era vero. Durante la sua infanzia, i pochi momenti in cui l’aveva trattato in maniera amichevole era stato quando si era comportato come lui.
Dopo l’omicidio di Jeremiah Gillespie mi offrì il mio primo tiro di pipa …
“Mi hai insegnato tu che si vive solo per se stessi, perché ne sei così sorpreso?” Si alzò in piedi, fronteggiandolo. Era invecchiato, notò: non utilizzava più la sua faccia da ragazzo, e il viso rifletteva la vita che aveva fatto, i vizi, i peccati.
Sarei stato come lui, se non avessi trovato Lily …
Doe aveva trovato sua madre, ma non pareva averne tratto grande giovamento spirituale.
L’uomo levò la mano, e si impedì di reagire, anche perché gliela calò sulla spalla. Una pacca. “Il mio ragazzo…” Gli diede uno schiaffo sulla guancia. “Alla fine ci sei arrivato. L’unica persona che non potrà mai deluderti è riflessa allo specchio.”
Va all’inferno.
Gli sorrise di rimando. “Siamo d’accordo allora?”
Annuì, ficcandosi la pipa in bocca. “Non posso negare che i soldi del tuo vecchio mi farebbero comodo, anche se una volta che Potter ci avrà dato la cura ne avrò fino a farmi scoppiare le tasche del mantello!”
“… Potter?” Gli si gelò il sangue nelle vene. Di quale Potter stava parlando?
La cura, idiota. Sta parlando di Al.
“Albus è qui?” Non potè mascherare la sorpresa.
Doe scrollò le spalle. “Il tuo sostituto ha fatto un mezzo macello ed ha quasi ammazzato il Guaritore Finnigan, il frocetto si è offerto. Dice di poter sintetizzare la cura … Speriamo per lui che non si sbagli, o dovrò ammazzarlo.”
Cercò di pensare velocemente, anche se il panico non aiutava. “Cercare di ammazzare un Potter è sempre una pessima idea. Ti ricordo cos’è successo a mio zio quando ci ha provato.”
Doe alzò gli occhi al cielo. “Dicevo per dire … magari lo butto a mare, sono resistenti come scarafaggi, troverà la vita di casa.” Sghignazzò.
Albus non ha la preparazione tecnica per sopravvivere ad una cosa del genere!
Era un civile, un maledetto civile in una nave brulicante Infetti, Mercemaghi e Doe.
“È in grado di lavorare alla cura, so che era il braccio destro del Capo Guaritore di Malattie Infettive.”
Perché non può fare a meno di impicciarsi.
Se quella maledetta famiglia non avesse dato i natali all’amore della sua vita li avrebbe Maledetti uno ad uno.
La sua presenza qui è un problema.  
Doveva proteggerlo. Doveva farlo fuggire di lì il più velocemente possibile e al tempo stesso doveva mantenere la sciarada con il suo vecchio, sospettoso compagno d’arme.
Facile.
Doe non parve notare la sua agitazione, perché gli passò la pipa. “Prima di perfezionare il nostro piccolo accordo però, ho bisogno che tu faccia qualcosa per me.”
Come diavolo avrebbe fatto a far scappare Potter da là? Poteva però coinvolgerlo nella ricerca di una radio per contattare gli Auror. “Di cosa si tratta?”
“Nulla di troppo complicato, i miei sponsor … chiamiamoli così … ci verranno a trovare per vedere i progressi fatti con la formula. Ho bisogno che tu li intrattenga.”
Diede una boccata, inspirando grato il fumo e buttandoselo nei polmoni. “Non sono un imbonitore, non lo sono mai stato.”
“Però sei un Purosangue, avete tutti i vostri metalinguaggi. Tua madre non sta bene, devo avere qualcuno che li faccia parlare delle loro stronzate.”
“Va bene.” Doveva mettersi in contatto con Al. “Dovrò far fare a loro il giro della nave?”
“Niente del genere.” Ridacchiò. “No, solo intrattenerli.” Ribadì.
“Va bene.” La sua missione era di nuovo cambiata.
E questo che odio del non avere supporto tattico, dell’essere da solo.
Nessuno ti avverte quando cambiano i piani. Nessuno ti dice come adattarti.
Ma rimaneva il fatto; adesso il suo obiettivo era proteggere Albus Severus Potter.
 
 
****
 
 
Albus aveva finito per addormentarsi. Persino in una situazione come quella il suo corpo la sapeva più lunga di lui. Accumulare riposo era il modo migliore per non crollare nel momento sbagliato, e quindi aveva dormito di un sonno senza sogni. L’aveva risvegliato il rumore della porta aperta di colpo, che l’aveva fatto saltare a sedere sul letto.
“Sei richiesto in laboratorio.” Lo apostrofò un mercemago, con un inglese che Tom avrebbe preso in giro a morte.
Era ora.
Pensò nonostante tutto. L’attesa era l’arma peggiore che chiunque potesse rivolgerti contro.
Il mago lo scortò fuori, e non c’era dubbio, quella era una nave Babbana. Dovevano averla rubata e svuotata del suo equipaggio.
Preferì non pensare a come l’avessero fatto.
Scesero con un ascensore, fino a quella che doveva essere la stiva: non sapeva niente di nautica e annessi, ma per ospitare un Laboratorio di Pozioni di una certa grandezza, con una buona aereazione, la stiva di un cargo era l’unico posto praticabile.
Si appiattì i capelli, che per il sonno dovevano essere schizzati da tutte le parti, una stupida eredità paterna che lo faceva apparire sempre più giovane di quel che era.
E non è il momento giusto per sembrare appena uscito da Hogwarts.
Il mercemago aprì il portellone che li separava dall’ambiente della stiva – aveva visto giusto! – e gli fece cenno di entrare con un cenno della testa.
“Spero almeno abbiate trovato il modo per convogliare il fumo dei calderoni fuori di qui…” Borbottò, perché aveva vissuto sulla sua pelle un laboratorio di pozioni raffazzonato – il suo, quello estivo – e sapeva che “improvvisare” e “pozioni” non dovevano stare per nessuna ragione nella stessa frase.
Fu sorpreso quando si trovò di fronte ad un’infermeria con tutti i crismi: dai lettini, agli scaffali di pozioni, fino ad un perfetto sistema di condizionamento, tanto che aveva persino tolto l’odore di olio per motori e pesce marcio che invece aleggiava nel resto della nave.
Chiunque gestisse quel posto, non era un pozionista alle prime armi.
Non riuscì a non provare ammirazione mentre scendeva le scale che portavano al cuore dell’ambiente. Cercò con lo sguardo il laboratorio, il posto dove si supponeva dovesse esser lavorare. Lo vide in fondo, separato da una barriera di magia azzurra che teneva fuor i fumi dei calderoni.
Guardandosi intorno notò che i lettini erano vuoti, e lo stomaco gli si torse in una morsa: era il numero esatto degli Infetti che gli auror avevano dovuto affrontare al castello di Sören, più quelli che avevano seminato panico e morte a Diagon Alley.
Li hanno liberati, ma prima li tenevano qui.
Quello che non capiva era il perché avessero ricostruito l’infermeria, quando era ovvio che i pazienti se n’erano ormai andati.
Serve ad ospitare nuove cavie una volta che avrai sintetizzato la cura.
… ma la cura per chi?
C’erano Infetti per la nave? Non li aveva visti.
“Albus Severus Potter!” Una voce lo riscosse dalle sue riflessioni. Dalla barriera azzurra emerse un mago. Al era così poco abituato ad essere apostrofato per l’interezza del suo nome che per un attimo si chiese se non si fossero già conosciuti da qualche parte: a volte persino la stampa che tanto tampinava suo padre dimenticava cosa c’era scritto sul suo certificato di nascita.
Questa gente però ti conosce meglio di un pugno di giornalisti assetati di scoop …
Doe e i suoi uomini avevano dato il tormento alla sua famiglia per quasi dieci anni, dal loro punto di vista doveva essere una specie di star.
“Lieto di conoscerla finalmente.” L’uomo gli tese la mano: aveva l’aria dello studioso, occhiali piccoli e tondi e aria fiacca. Persone del genere si trovavano in casini simili perché non riuscivano a dire di no ad una buona paga e la possibilità di fare tutte le ricerche che volevano, che fossero legali o meno.
Non gli piacevano per niente.
Ricambiò comunque la stretta. “Lei è?”
“Maximilian Loher, Capo Pozionista del Progetto Demiurgo … anche se immagino suoni un po’ fuoriluogo, considerando la situazione.” Fece una risatina secca, priva di divertimento.
“È un bel laboratorio.” Considerò, ed era sincero nonostante tutto.
Il mago fece una smorfia. “Solo il meglio, per un grande progetto.” Ironizzò, ma al tempo stesso lanciò un’occhiata alle sue spalle, come a controllare che il mercemago che l’aveva accompagnato non li stesse ascoltando.
“Un piccolo tour?” Propose. Mostrarsi ostile non avrebbe aiutato. Se si fosse mostrato compiacente, avrebbe avuto modo di studiare meglio la situazione.
E le eventuali vie di fuga.
“Non c’è molto da vedere.” Tagliò corto l’uomo. “Le mostro in laboratorio, dobbiamo metterci al lavoro.”
“Bene.” Acconsentì affiancandoglisi, mentre il mercemago chiudeva la fila.
L’alito dell’uomo puzzava di alcool, e questo non fece che confermare la sua prima impressione.
Non posso chiedergli aiuto. Non è affidabile.
Il pozionista lo fece passare attraverso la barriera, e furono nel laboratorio. Al, nonostante la situazione, soffocò un’esclamazione di sorpresa. Era come esser tornato bambino e varcare le soglie di Mielandia per la prima volta – la sede di Diagon Alley, non il piccolo negozio di Hogsmeade.
Tra calderoni professionali, ingredienti e tomi di pozioni perfettamente allineati su scaffali di mogano lucidissimo c’era tutto ciò che un Pozionista avrebbe potuto sognare.
Loher fece una seconda breve risata notando la sua espressione rapita. “Sembra il paradiso, non è vero?”
“Dove ha trovato i fondi per…”
“Come le ho detto, Signor Potter, è un grande progetto. Almeno, era partito come tale…” L’uomo raggiunse la tasca della veste e ne tirò fuori una fiaschetta da cui diede un sorso.
Albus tirò fuori un volume finemente rilegato e ne sfogliò le pagine: solo la biblioteca doveva valere una fortuna.
“I soldi sono della Signora.” La madre di Sören probabilmente. “Ho servito la Thule con onore, non avrei mai accettato di lavorare per un cane randagio come Doe.” Sputò.
Distolse lo sguardo dalle volute di inchiostro che raccontavano di pozioni di origine millenaria. “Sophia Von Hohenheim faceva parte della Thule?”
“I Von Hohenheim hanno fondato la Thule. Io lavoro per lei.”
Sembrava sincero, ma Al non seppe se credergli: del resto, Doe era bravo nel persuadere le persone a fare ciò che voleva, facendo loro credere di fare ben altro.
Guarda con Tom.
“E suo nipote? Sören?” Poco gli importava di identificare chi fosse  davvero a capo di quel progetto mostruoso.
Quello che gli interessava sapere, era se lì dentro aveva almeno un amico.
Il mago scrollò le spalle. “Alberich non si è mai fidato di lui, era troppo debole.” Si tocco il petto con un sorriso sgradevole. “La coscienza è una brutta bestia, Signor Potter…”
È quella che ci distingue, dalle bestie.
Non ribattè, perché rincuorato. Se persino il capopozionista beone scagionava Sören, c’erano buone possibilità che Doe avesse tentato di fuorviarlo.
Che poi non sarebbe una novità.
Cosa dice la tua di coscenza, Potter? Ti fidi di Sören?
Non era innamorato di lui, come Lily. Ma credeva nell’onestà degli sguardi, e quello del tedesco di Lily era sempre stato pulito. Troppo.
Sì, decise. Aveva un alleato in quella nave.
Devo solo trovarlo.
“Credo di essere qui per un motivo…” Iniziò, e il mago si riscosse dal suo stupore alcolico, annuendo.
“Perché può sintetizzare il siero per annullare il virus. Per rendere il Demiurgo stabile.” Disse, e non si sbagliò, c’era speranza nel suo tono di voce. Sollievo.
A Doe non serve un pozionista che non porti risultati, eh?
Poi realizzò quanto gli aveva appena detto. Sentì una morsa spiacevole alla bocca dello stomaco. “Non è quello che la cura fa.”
Non l’avevano capito?
Ci fu un momento di silenzio, denso e pesante.
“La cura è sintetizzata dal sangue dei Magonò. Viene inoculata intravena e ripulisce completamente il sangue del paziente dalla magia. È così che neutralizziamo il virus contenuto nel Demiurgo.” Spiegò lentamente.
L’uomo impallidì, una statua di gesso che non osava muoversi.
Pezzi di imbecilli.
Pensò disperato: ma non poteva incolpare completamente le spie di Doe e l’uomo che aveva davanti. Il dannato Profeta aveva strombazzato la nascita della cura senza spiegare come funzionava.
Siamo stati noi a non voler divulgare i dettagli.
“Non abbiamo stabilizzato il vostro siero del superuomo…” Spiegò nonostante avesse voglia di mentire. Ma non sarebbe servito, perché i risultati sarebbero stati sotto gli occhi di tutti, sotto quelli di Doe, soprattutto. “Lo abbiamo distrutto assieme al virus.”
Loher cercò a tentoni un punto di appoggio, finendo per rovinare su uno degli sgabelli. “Ci ucciderà.” Sussurrò, e ad Al si ghiacciò il sangue delle vene. Perché non era una minaccia. Era una constatazione. “Se non gli serviamo, ci ucciderà.”
Te, forse. Non me, sono materiale utile per uno scambio.
E sinceramente poco gli importava della fine di quel mago amorale…
Ma avrebbe sopportato di veder uccidere un uomo di fronte ai suoi occhi? Perché non c’era nessun dubbio sul fatto che quel sadico di Doe l’avrebbe fatto guardare.
Loher gli piantò gli occhi in faccia, e Al instintivamente indietreggiò: erano lo sguardo di un animale preso in gabbia, che fiutava l’odore della morte. “Doe non deve saperlo…” Articolò rauco.
“… e come? Posso solo creare una cura totale, non una via di mezzo! Ai pazienti verrà tolta tutta la magia. Se l’obbiettivo è mostrare a Doe il superuomo, non possiamo farlo.”
“Non è Doe.” L’uomo si passò le mani tra i capelli radi. Doveva averlo fatto molte volte in quei giorni, perché sembravano quelli di un folle.
Se avevi dubbi sull’attenerti ai rigidissimi paletti della regolamentazione e controllo dei pozionisti, guarda che succede quando mandi tutto alle ortiche.
“… il problema non è Doe?”
“Ha dei compratori. Compratori che oggi verranno qui, e si aspetteranno di vedere dei risultati. Hanno investito su questo progetto… molti, molti soldi.”
Merda.
“E mi faccia indovinare.” Gli veniva quasi da ridere, ed era un principio di crisi di panico. “Non è il genere di mago che ama puntare sulla scopa da corsa sbagliata…”
Loher si passò le mani sul viso, soffocando un lamento in tedesco, che Al non capì ma che sposò a pieno.
Pensavo di essermi infilato in una situazione orribile.
È persino peggio. È peggio.
“Se…” Loher lo guardò, e stava riflettendo velocemente. Non doveva essere un idiota se Doe l’aveva scelto per un progetto come quello. “… cosa succede se somministriamo il Demiurgo e la cura ad un paziente non ancora Infetto?”
Okay, è un idiota.
“Non ne ho idea.” Fu però costretto ad ammettere. “Credo … in teoria…” Si passò una mano tra i capelli, passeggiando per il laboratorio. Muoversi l’aveva sempre aiutato a pensare. “… dovrebbe crearsi un equilibrio temporaneo, dato dal sangue magonò che combatte la magia in eccesso stimolata dalla prima fase del morbo.” Vedendo lo sguardo del pozionista accendersi fu lesto ad aggiungere. “Ma è un equilibrio instabile.”
“Non importa.”
Cosa?!
“È folle, stiamo parlando di piazzare una bomba ad orologeria nel sistema linfatico di un mago sano.” Sussurrò, perché era mostruoso.
“È un risultato che non ci farà uccidere.”
“Non lo farò mai!” Sbottò, e no, a costo di rischiare di finire dentro una bara, non l’avrebbe fatto. Era il giuramento che aveva fatto ad Esculapio il giorno del diploma alla Scuola di Medimagia, era la sua coscienza.
Loher si alzò di scatto, e Al non avrebbe creduto che un mago che sembrava un topo fosse capace di sbatterlo contro uno degli scaffali. Non con quella forza, non con quella furia. “Tu lo farai.” Sibilò piantandogli la bacchetta in faccia. “Lo farai o sarò io ad ucciderti.”
E Al gli credette, perché la disperazione, la paura poteva anche farti segnare un goal nell’anello della tua squadra. “Non hai nessuno che ti aspetta a casa, Potter?” Farfugliò e Merlino, aveva perso il controllo. “… Non hai paura di morire?”
… sì. Sì, ho paura.
Aveva Tom, a cui aveva promesso di tornare. Aveva la sua famiglia. Aveva la sua vita, tranquilla e semplice, e bellissima.
Chiuse gli occhi, serrando i pugni. Non era stato Smistato a Grifondoro come il resto della sua famiglia per un motivo. Un motivo che in fondo l’aveva sempre fatto vergognare, oltre all’orgoglio per la sua Casa, oltre all’affetto che aveva provato per i suoi compagni.
Non combatto battaglie che possono uccidermi.
“…la cavia?” Mormorò e Loher a questo lo lasciò andare. Doveva aver capito di aver vinto. “Dev’essere in salute, o rischiamo che muoia a metà del processo.”
Il mago gli diede una pacca sulla spalla. Avrebbe voluto massacrarlo di Maledizioni. “Non preoccuparti, a questo penso io.” Detto questo, oltrepassò la barriera e sparì, forse a cercare il mercemago, forse a trovare la cavia.
Vittima. Chiamala con il suo nome.
Si sedette sullo sgabello occupato dall’altro, e si prese la testa tra le mani. Era troppo grande per piangere, per chiamare suo padre.
Avrebbe tanto voluto fare entrambi.
Alzò lo sguardo: non sarebbe servito a niente, giusto? Doveva fare da sé. Non c’era suo padre, non c’era Tom, era solo.
… ma non del tutto.
Sören era su quella nave, ed era la sua unica possibilità di scamparla, di sopravvivere e soprattutto di non avere le mani sporche di sangue innocente.
Doveva trovarlo.
 
****

Londra, Ospedale San Mungo.
 
“Non riusciamo ad avere un identikit del rapitore.”
A Ron non piaceva dare brutte notizie a Harry. Era forse l’unica persona, assieme ad Hermione e Ginny, a non rischiare nulla nel farlo, ma in ogni caso era una cosa che detestava fare di tutto cuore.
Specie se c’era di mezzo uno dei suoi figli, dato che l’amico d’infanzia diventava irragionevole come un troll di montagna.
Forse un po’ più sensato… Ma di poco.
“Avete sette testimoni oculari, com’è possibile.” Neppure un punto di domanda, una semplice attestazione. Ron avrebbe tanto voluto tornare a casa, farsi un paio d’ore di sonno e poi rispondere.
Invece erano ancora al San Mungo, vicino ai maleodoranti laboratori di pozioni.
Non aiutava neppure il fatto che Seamus stesse lottando tra la vita e la morte qualche piano sopra al loro.
“Sono stati affatturati, amico, probabilmente un incantesimo di memoria… Non si ricordano.”
“Usiamo il Memento.”
“Non è come ingoiare una manciata di Mou Mollelingua, Harry!” Esclamò esasperato. Era preoccupato anche lui, e infuriato, ma questo non significava poter scavalcare le regole, o l’umano buonsenso, come in una corsa coi sacchi.
“Fa’ chiamare gli Psicomaghi.” Lo ignorò.
Tirargli un pugno sul naso non gli sembrava un’idea felicissima: durante la loro adolescenza forse avrebbe funzionato, ma non quando erano due maghi adulti, con i primi acciacchi e uno stuolo di sottoposti che guardava a loro come modelli da imitare.
Auror che stavano peraltro tra i piedi, pronto a captare qualsivoglia discussione.
Miseriaccia.
Ben attento a non farsi percepire come aggressivo lo prese per un braccio e lo tirò da parte. “Ascolta, sai meglio di me che quell’incantesimo è invasivo.” Iniziò. “Il più delle volte non ti fa che recuperare frammenti inutili. L’abbiamo usato su Prince e non si è ricordato quasi niente … lanciarlo su delle persone spaventate e che hanno bisogno di riposo mi sembra un’idea del cazzo.”
Harry serrò la mascella, ma non ribatté. Era un buon segno. “Questo non vuol dire che non dobbiamo chiamare gli Psicomaghi.” Aggiunse conciliante. “Magari hanno un’idea migliore, sono Guaritori del cervello … io non ci capisco nulla di questa roba, ma loro sì.”
“D’accordo.” Ammise a mezza bocca. L’avrebbe baciato. Fece un cenno ad uno degli auror, ordinandogli poi di andare a chiamare lo Psicomago di turno, con la raccomandazione di far avvertire anche il loro primario, Padma, donna intelligente e che non aveva problemi ad affrontare un Harry in versione mamma orsa, qualora fosse stato necessario.
Rimasero in silenzio per un po’, ognuno perso nei propri pensieri.
Fu Harry a romperlo. “Dobbiamo avere quell’identikit Ron, prima che siano lontani miglia dall’Inghilterra.”
“Lo so.” Esitò. Doveva dirlo. O meglio, doveva ricordarglielo. “… ma anche se lo avessimo le telecamere che Hughie ha installato all’ingresso e sulle uscite secondarie non coprono il laboratorio di Pozioni. Le abbiamo già fatte passare a setaccio dai suoi ragazzi, non hanno trovato tracce di Albie e il suo rapitore.” Buttandoli tutti giù dal letto per giunta, ma questo non lo disse. Del resto era stato suo figlio stesso ad obbligarli a parolacce a mettersi al lavoro, risparmiandogli la figura del ministeriale despota.
L’orgoglio di papà.
“Non parlo delle telecamere dell’ospedale infatti.” 
“E quali allora?”
“Lily mi ha raccontato che uno dei ragazzi di Hugo ha il padre che lavora per una grossa ditta che si occupa del sistema di sorveglianza delle Banche Babbane. Hanno telecamere in tutta la città … in tutto il paese se è per questo.”
Ron annuì: gli sembrava di ricordare quella conversazione. Lily li aveva fatti ridere raccontando nella maniera animata che la contraddistingueva di come il ragazzo, aiutato da Hugo e gli amici, avesse architettato uno scherzo a danno di un ex compagno di scuola, fingendo di aver trovato un incantesimo per leggergli nella mente, quando in realtà avevano semplicemente seguito i suoi spostamenti dalle telecamere per una sera.
“Non so se sarebbero in grado di seguire gli spostamenti di qualcuno fuori da Londra però…” Vedendo la sua espressione si affrettò ad aggiungere. “Va bene, glielo chiedo.”
“Bene.”
Ron estrasse lo Specchio Comunicante dalle tasche del mantello con una smorfia, ma non replicò; avrebbe avuto tempo per dirgli di piantarla di avere la faccia di chi voleva prendere a botte qualcuno.
Se ci fosse qui Malfoy glielo direbbe lui…
Grugnì a mezza bocca, ignorando l’occhiata perplessa dell’altro.
Se comincio a sperare che ci sia qui il Furetto per rimettere in riga ‘sta testa di pigna sono proprio messo male …
Lo specchiò lo strappò dalle sue cupe considerazioni, restituendogli l’immagine insonnolita e arruffata del figlio. “Ehi.” Borbottò. Il tono di voce però era ben sveglio. “Sto per mandare a casa i ragazzi, ma io resto in ufficio se avete bisogno.”
“Temo di sì, Hughie.” Gli sorrise affettuoso: il suo ragazzo poteva non essere corazzato come i ragazzi di Harry sulle relazioni interpersonali, e sembrare sempre con la testa sulle nuvole – gli era parso strano che non fosse stato smistato a Corvonero – ma ero uno Weasley. Aveva cuore da vendere. “Ascolta … Shane è ancora lì?”
Si passò una mano tra i capelli, sbadigliandogli apertamente in faccia. “Sì, a che vi serve?”
“Se vi diamo una faccia, è in grado di trovarla in giro per l’Inghilterra?”
Non si era spiegato bene, ma Hugo colse al volo da come gli si illuminò lo sguardo. “Sicuro, abbiamo ancora i codici di accesso per entrare alla Synectics. Non li cambieranno fino alla prossima settimana, possiamo lanciare il programma di riconoscimento facciale e interfacciarlo con il loro sistema di sicurezza in tempo reale. Non dovremo neanche hackerare, credo.”
Non ci aveva capito niente, ma era fattbile ed era ciò che gli interessava. “Senza infrangere la legge Babbana però …” Raccomandò comunque, che il suo secondogenito aveva sempre avuto un concetto di legalità un po’ lasco, a differenza di Rosie, la piccola paladina della legge. “E non cacciate nei guai il padre di Shane!”
Hugo sorrise, un vero sorriso da Weasley combinaguai. “Siamo maghi, Pa’ … letteralmente. Non ci vedranno neanche.”
… oh, beh. Touché.
“Appena abbiamo l’identikit te lo mando via Gufo.”
“Mandarmi uno scan no, eh?”
“… un che?”
Hugo sbuffò, alzando gli occhi al cielo come faceva sempre quando cercava di spiegargli qualcosa di Informaticcia. “Va bene un Gufo, Pa’ … teniamo le finestre aperte.”
“Bravo ragazzo.” Lo lodò prima di chiudere la chiamata e rivolgersi ad Harry. “Hai sentito?”
L’amico annuì. “Non sono sordo. Voglio dire … sì, è grandioso amico.” Corresse il tiro, accorgendosi di aver usato un tono troppo brusco. Finalmente. “Abbiamo un piccolo genio dell’IT in famiglia, eh?”
“Finché i Babbani non me lo sbattono in galera per aver combinato qualche casino con i computer…” Scherzò.
Harry riuscì ad imitare quasi un sorriso. “La mela non cade mai lontana dall’albero.”
“Ehi, noi siamo la legge!”
“Non tanto a dirla tutta.” Il sorriso divenne più ampio. Immediatamente cancellato quando videro la Patil entrare nel corridoio con quello che doveva essere la Psicomaga di turno che le trotterellava a fianco.
Harry e Padma …
Non si adoravano.
Per eufemizzare.
Padma Patil era una donna intelligente, forte, ma aveva una memoria di elefante.
Ballo del Ceppo.
Erano passati decenni, tuttavia la strega ancora non era riuscita a perdonar loro di averle quasi rovinato il ballo della vita, e di aver rischiato di fare altrettanto con la gemella.
Non l’hai mai detto apertamente, ma…
Le poche occasioni in cui si erano incontrati era stato il gelo in persona: non aiutava neppure il fatto che Lily la idolatrasse.
Harry le era sì grato, perché prendendo Lily in analisi l’aveva aiutata tantissimo, ma sfortunatamente era geloso di chiunque entrasse nel cuore dei suoi figli con il ruolo di eroe personale.
Se c’è un eroe, quello è lui.
Anche se non aveva mai espresso quei pensieri ad alta voce, Ron sapeva.
Forse avrei dovuto fare lo Psicomago.
“Ehi Padma.” La salutò gentilmente. “Scusaci per averti tirato giù dal letto…”
“È mio dovere.” Tagliò corto ignorando Harry di buona misura: Lily aveva loro confidato che non avesse in particolare simpatia il genere maschile, tanto che il reparto da lei diretto annoverava solo streghe, neppure un mago. “Sally mi ha aggiornata. Il Memento è fuori discussione.”
“Abbiamo bisogno di un identikit…”
“Quello di cui invece ho bisogno io, Capo Potter, è di prendermi cura dei miei pazienti.” Lo freddò altera. “E i pozionisti lo sono diventati nel momento in cui ci avete chiamato. Qui di no, niente Memento. È troppo rischioso nelle condizioni mentali in cui sono al momento.”
“Con tutto il rispetto…” Iniziò Harry e per le Mutande di Merlino, James aveva preso da lui il gonfiare il petto quando si sentiva derubato della sua autorità.
Ron, che viveva con donne forti da una vita, decise che era il momento di mettersi in mezzo. “Padma, non abbiamo intenzione di rischiare la salute mentale di nessuno, okay? Ma Albus è stato rapito, ed ogni momento è prezioso. C’è altro che possiamo tentare per fargli recuperare la memoria? Ci bastano le ultime ore.”
La strega lo misurò con lo sguardo. Era lui a dirla tutta ad aver reso il Ballo del Ceppo uno schifo totale, ma gli aveva anche chiesto scusa.
Dopo la guerra, okay, ma l’ho fatto.
E Padma aveva accettato. “Sì.” Annuì infine. “Ci sarebbe, ma è un’incantesimo sperimentale.” Esitò. “In un certo senso è altrettanto invasivo, ma non forza il paziente a ricordare, quanto piuttosto a lasciar entrare lo Psicomago all’interno dei suoi ricordi.”
Sembrava fare al caso loro. “Come guardare in un Pensatoio?”
La strega scosse la testa. “Non proprio. I ricordi in un Pensatoio sono estratti da un soggetto attivo, che decide di selezionarli. Qui si tratterebbe del processo inverso.”
Harry gli lanciò uno sguardo, ma ebbe il buonsenso di non intervenire. “Le possibilità di successo?”
“Dipende principalmente dallo Psicomago.” Li guardò entrambi. “La maggior parte dell’incantesimo opera su di lui.”
“Puoi farlo?” Chiese Harry. 
“Io no, ma Lily Luna sì.” Li guardò entrambi. “È con lei che ci sto lavorando da mesi. Essendo una Legimante Naturale ci ha messo meno della metà del resto dei miei allievi a padroneggiarlo … del resto, legge nelle emozioni altrui da quando è nata.”
Ed ecco un altro ragazzino che viene coinvolto…
Harry era scuro come una nube temporalesca, ma non stava dando di matto, quindi era praticamente un assenso a procedere. “Per noi va bene.” Assolutamente no, ma poco importava a quel punto.
“Bene, va’ a chiamarla. È a casa, ma è reperibile.” Disse all’altra Psicomaga. “Io vado a preparare i pazienti.”
Quando se ne andò, Ron fece un lungo sospiro. “Beh, almeno James…”
“Sta’ zitto Ron.”
Scosse la testa, perché mai avrebbe obbedito ad un ordine di quell’insopportabile testone del suo migliore amico. Non quando si comportava in quel modo perlomeno. “Io te l’avevo detto che rinchiuderli in una torre era una buona idea, ma tu non hai mai voluto darmi retta.”
“Ce li ho rinchiusi. Hogwarts è piena di torri.” Harry fece una smorfia disperata. “I guai li hanno trovati pure lì.”
A quello c’era poco da ribattere. Gli diede una pacca sulla spalla e gli rimase accanto: come avrebbe fatto fino alla fine dei loro giorni.
 
 
*****
 
 
Note:

Vabbeh, lo sapete. Genuflessioni e scuse per il ritardo mostruoso. Giuro su Dio che voglio dare una degna conclusione, ma la vita reale continua a mettersi in mezzo.
Fastidiosa vita reale.
Qui la canzone del capitolo. Si ringrazia Spotify e le sue playlist hipster.

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Capitolo 61
*** Capitolo LX ***



 



 
Together, will we grow old?
(Be there, Seafret)
 
 
 
Devonshire, Il Mulino.
Prime luci dell’alba.
 
Non stava davvero dormendo: Lily era in quel dormiveglia agitato che precedeva un’esame … o una catastrofe. Entrambi gli eventi si somigliavano, da un certo punto di vista.
Quindi quando il rumore di ali sbattute contro la finestra la fece sobbalzare fu più per la sorpresa che per averla svegliata.
Era uno dei gufi del San Mungo, riconoscibili perché tutti avevano legato alla zampa destra una coccarda con il logo dell’ospedale. Slegò la lettera e la lesse rapidamente.
Padma vuole … me?
Essendo una tirocinante doveva essere disponibile a qualsiasi ora del giorno o della notte, ma raramente veniva chiamata per le emergenze; per quelle c’erano le Psicomaghe in carica.
Non c’era tempo per farsi troppe domande però, proprio per la natura eccezionale di quella chiamata. Si sciacquò il viso e si vestì in fretta, cercando di fare meno rumore possibile visto che sua madre stava ancora dormendo.
Non è neanche sorto il sole…
Scese in cucina ed entrò nel camino, tirandosi il cappuccio del mantello sui capelli per proteggersi dall’inevitabile cenere della Metropolvere: l’ultima cosa che voleva era sembrare più orribile di quanto già non fosse, con poche ore di sonno alle spalle e un’incantesimo cosmetico lanciato alla meno peggio. Lanciò uno sguardo all’orologio che segnava la posizione di ogni membro della famiglia. Se Al e James erano ovviamente “via” e suo padre al “lavoro” la stupì invece sua madre.
Via anche lei?  
La assalì una sensazione spiacevole alla bocca dello stomaco, ma non c’era tempo per interrogarsi. Prese una manciata di Polvere Volante e la gettò ai suoi piedi. “San Mungo!”
Fiamme verdissime la avvolsero, senza bruciarla, pizzicandole solo il naso e gli occhi: gli spostamenti via camino non erano nella lista dei suoi mezzi di locomozione magica preferiti – erano un incubo per i suoi vestiti e capelli – ma avevano il pregio di essere veloci e meno impegnativi di una Smaterializzazione.
Per come sto adesso sarei capace di Materializzarmi in tre diversi Continenti.
La Metropolvere la risputò nel camino della saletta relax del reparto Thickley. A quell’ora era deserta e quindi potè sistemarsi senza dover giustificare la propria aria da Infero a chicchessia. Guardandosi allo specchio del bagno adiacente si sentì di colpo una scema.
Sören…
Il suo ragazzo era nell’occhio del ciclone e lei si preoccupava che l’ombretto non la facesse somigliare ad un panda.
Al diavolo. È l’unica cosa su cui al momento ho controllo.
In fondo non era un bisogno poi tanto scemo.
Lils!”
La voce di James la colse di sorpresa. Uscì dal bagno per incontrarlo; indossava l’uniforme e a differenza sua non si era preoccupato granché di sembrare appena uscito dal letto.
“Ben?” Chiese immediatamente. Sapeva che erano riusciti a portarla a casa dopo che il lupo cattivo – o meglio, il nonno Mannaro – l’aveva rapita, Ted le aveva spedito un messaggio, ma in ogni caso…
Non è che sono qui per lei?
“Sta bene, è a casa con Teddy. Tutto risolto.” Le sorrise l’altro. “E’ tutto okay.”
Gli sorrise di rimando. “I tuoi capelli sono un incubo.” Si premurò di informarlo.
James fece una smorfia, passandoci le dita in mezzo e peggiorando così la situazione. “Dammi tregua, fino a cinque minuti fa stavo dormendo. Se si continua così mi verrà un infarto…”
“Così come?” Lo guardò realizzando di colpo. “Sei venuto a cercarmi. Gli Auror hanno bisogno di me?”
James fece una seconda smorfia. “Al.” Disse semplicemente.
Sì, okay. Al?
Roteò gli occhi al cielo. “Te l’ho detto mille volte, non leggo davvero la mente.” Lo guardò bene in faccia. “Perché sei preoccupato e incazzato con Al?”
James emise un verso a metà tra un lamento e un grugnito. “Si è fatto rapire da Doe.”
“… cosa?”
Lily avrebbe voluto mostrare sbalordimento o perlomeno sorpresa.
No. Non direi.
Aveva solamente voglia di prendere a calci quel cretino di suo fratello.
… beh, almeno adesso sai come si deve essere sentito quando ti ha trovato sul treno per Durmstrang. – le ricordò la sua orribile, orribile coscienza.
“Alla fine è riuscito a mettersi nei casini.” Annuì James, come se avesse indovinato nei suoi pensieri. “Giuro che quando lo vedo…”
“A cosa vi servo?” Lo interruppe perché anche se condivideva appieno i suoi sentimenti c’erano cose da fare. Cose che a quanto pareva la riguardavano. “Padma mi ha chiamato perché glielo avete chiesto voi?”
Il fratello si strinse nelle spalle. “Non ne so granché, te l’ho detto, sono appena arrivato. Papà mi ha detto di venirti incontro…”
“Come sta?”
Le lanciò un’occhiata eloquente facendole cenno di seguirlo. “È riuscito a spedire a casa Tommy e questo l’ha un po’ tranquillizzato.”
“A volte ho come l’impressione che siano loro i suoi figli preferiti…” Sospirò, ma era contenta: Tom era incontrollabile quanto e più della sua anima gemella. Meglio che stesse quanto più lontano possibile da quella faccenda.
“Sicuro.” Ironizzò l’altro. “Fatti a sua immagine e somiglianza.”
“… anche nella sfiga.” Concluse e poi fu doveroso darsi un cinque. Si sorrisero e Lily fu felice che James fosse lì, arrabbiato e motivato come lei. “Ma Scorpius?”
“Ce ne sono di cose su cui devo aggiornarti sorellina! Dopo però.” Tornò serio. “Stronzate a parte, Prince non si è ancora messo in contatto con noi e non abbiamo idea di dove sia finito. Non possiamo aspettare che si faccia vivo ora che c’è un ostaggio di mezzo.”
Ah. Ecco. Fantastico.
Si rifiutò però di farsi prendere dall’angoscia. Una volta varcate le porte – o focolari – dell’ospedale diventava una Psicomaga. Ed era quello che intendeva essere. “Lo proteggerà, sai… dico, ad Albie.” Lo rassicurò. “Farà in modo che non gli succeda niente.”
James suo malgrado annuì, e lo fece anche con meno malmostosità di quanto non si sarebbe aspettata.
In un certo senso, Ren è un po’ la nostra guardia del corpo personale.
Come Piton lo è stata per papà.
Ma non voleva pensare a quello, anche perché Piton era morto per far sì che suo padre avesse la possibilità di mettere fine ad una guerra, e non gli sembrava un paragone appropriato.
In nessun modo, assolutamente.


James la scortò fino al piano interrato, quello del Laboratorio di Pozioni. Suo padre doveva avervi stabilito il quartiere generale perché la accolse in mezzo ad una marea di uniformi rosse. “Ehi.” Tentò di sorridere. “Mi dispiace averti…”
“A me no.” Tagliò corto perché non aveva intenzione di fare la figura della povera ragazzina trascinata in una situazione più grande di lei.
Ho smesso cinque anni fa, grazie, come se avessi accettato.
“Come posso aiutarvi?”
Suo zio Ron, alla perenne e rassicurante destra di suo padre sbuffò divertito. “Quando fai così mi ricordi tua ma’ quando prendeva di mira Malfoy e la sua cricca di idioti.”
“Grazie.” Perché era un complimento. Incrociò poi lo sguardo della Guaritrice Patil: da quanto era lì?
Probabilmente da quando sono arrivata.
Aveva la capacità di scomparire di fronte agli occhi pur essendo in bella vista: una qualità utile nel loro lavoro, considerando che per analizzare una situazione, o una persona, a volte era necessario essere fuori scena. “Posso farlo.” La anticipò. “Qualsiasi cosa vogliate che faccia … posso.”
“Tutti eroi in famiglia.” Ironizzò la strega, ma c’era una nota di lode nella sua voce, anche se dalla faccia dei familiari presenti pareva averla colta solo lei. “Ho bisogno che tu usi l’incantesimo su cui stiamo lavorando.”
“ … oh.”
… quello?
Si morse un labbro, cercando di non dar voce alla sua incertezza.
Non è ancora pronto.
“Su chi?” Chiese comunque.
“I Pozionisti che erano con Al.” Intervenne suo zio. “Il rapitore ha cancellato loro la memoria ed abbiamo bisogno del suo identikit.”
“Non l’ha cancellata.” Lo corresse la Guaritrice. “L’ha solo resa inaccessibile.”
“E non è la stessa cosa?” Intervenne James confuso. “Se hai Obliviato qualcuno quel pezzo di memoria è andato!” Si rabbuiò, probabilmente ricordando quando Doe lo aveva Obliviato a Diagon Alley.   
“Non proprio.” Ribatté lanciando un’occhiata alla superiore che le fece cenno di continuare. “Non puoi cancellare la memoria. Un Oblivion si limita ad interrompere il collegamento tra il ricordo e la tua coscienza. Non puoi recuperarlo, perciò per te non esiste. Ma con il tempo, e le terapie giuste il collegamento…” Fece delle virgolette nell’aria perché non era il termine giusto, ma non stava parlando a degli esperti del settore. “… puoi essere riallacciato.”
“Tipo con il Memento?”
“Con quello non ripristini un collegamento, forzi la mano. È la stessa differenza tra creare un ponte da far percorrere a qualcuno bloccato su un crepaccio o recuperarlo con un Accio … e poi funziona solo per gli incantesimi di memoria base. Ma non stiamo parlando di un Obliviazione, giusto?” Intuì.
“No, Lily.” Le confermò la Guaritrice. “Hanno usato qualcosa di più potente, che non siamo riuscite a identificare.”
“Roba della Thule…” Borbottò suo zio. “Magia oscura.”
“Ci servirebbe tempo per capire di che incantesimo si tratta, ma non ne abbiamo. Devi entrare.” Concluse la Patil.  
“… non credo di poterlo fare.” Ammise e le pesava, ma non era il caso di millantare sicurezza su una cosa del genere. L’aveva usato una sola volta, e su Benedetta.
I bambini hanno la mente semplice come un giardinetto di quartiere.
Qui mi si chiede di cercare un ricordo nella mente di un adulto.
Era come chiederle di cercare un ago non in un pagliaio, ma in una maledetta metropoli.
“Se non te la senti la chiudiamo qui.” Intervenne suo padre. “Non sei obbligata.”
Si fermò dal rispondergli male: voleva proteggerla, se ne rendeva conto, ma non era stato chiesto aiuto ad una studentessa di quindici anni.
Non sono più quella ragazzina. Sono una Psicomaga.  
“Non è questo.” Argomentò pacata. “È che l’incantesimo è ancora in via di sperimentazione e non è stabile.” Si voltò verso la Patil. “Voglio farlo.” Mise le mani avanti. “Ma non sono sicura di essere la persona adatta.”
“Sei una LeNa, Potter. Hai un accesso facilitato rispetto a me o alle altre Psicomaghe. Quest’incantesimo l’ho creato su misura delle tue capacità.”
Oh … okay. Wow.
Non glielo aveva mai detto, ed era il complimento più lungo e soprattutto, più ansiogeno per le responsabilità che portava, che le avesse mai fatto.
“Allora è deciso.” Concluse ostentando sicurezza, perché diavolo, ora ne aveva un po’. “Solo … quando sceglierà il nome per farlo registrare al Ministero, può chiamarlo Lilian Mementum o roba del genere? Me lo merito, no?” Sdrammatizzò, perché ce n’era maledettamente bisogno.
James alle spalle di suo padre – la spalla sinistra, quella destra era già occupata da Ron – le strizzò l’occhio.
La Patil invece fece una smorfia, ovvero la sua personalissima versione di una risata. “Lo terrò in considerazione.”
Lily sorrise ai maschi della sua famiglia, perché se avesse mostrato la minima esitazione i due esemplari adulti l’avrebbero portata via di peso e chiusa in una stanza, lontano da tutti i guai del mondo.
“Allora andiamo!”
Spiacente, Albie non è l’unico che ama sguazzarci come una papera.
 
****
 
Albus aveva cercato in tutti i modi di uscire dalla stiva: non c’era riuscito.
Doe non era un idiota e doveva aver capito le sue intenzioni nel momento stesso in cui l’aveva visto salire sulla nave.
Ha capito che avrei cercato di scappare.
Doveva aver dato ordine ai suo scagnozzi di assicurarsi che non potesse girare indisturbato per la nave, e per far questo gli era stata confiscata prima di tutto la bacchetta. Un Mercemago gliel’aveva tolta di dosso non appena era stato portato via dall’ufficio di Doe. Avrebbe potuto argomentare che gli serviva per lavorare, ma sarebbe stata una bugia con le gambe corte.
Per fare una pozione la maggior parte delle volte si usano coltelli e mestoli.
E in ogni caso, se ci fosse stato bisogno, ci sarebbe stato Loher ad assisterlo alitandogli sul collo.
Si aggrappò l’ennesima volta alla chiusura metallica di uno degli oblò, che non si aprì di un millimetro: o era la ruggine, o un Incantesimo.
… anche se riuscissi ad aprirlo non posso certo nuotare fino a riva!
Doveva trovare Sören, ma non riusciva neppure ad uscire dalla stiva.
Maledizione!
Tirò un calcio ad uno dei lettini, prima di crollarci sopra frustrato: non c’era nessuno che poteva aiutarlo, e soprattutto, non c’era Tom. Tom era quello con le idee, per quanto a volte dementi e a rischio suicidio.
Non c’era neanche Rose, a dargli una mano ad esser brillante.
Albus Severus Potter aveva bisogno di qualcuno, di uno Sherlock o un Watson per interpretare la sua parte.
In realtà una parte la hai …
Ma piuttosto che aiutare Loher nel suo scellerato piano avrebbe preferito buttarsi nelle acque gelide dell’oceano.
L’alternativa però qual’era? Se avesse detto a Doe la verità sull’antidoto, la sua utilità sarebbe cessata in quel momento. Poteva essere ancora un valido ostaggio, ma nulla avrebbe potuto impedire a Doe di ucciderlo una volta fosse stato sufficientemente lontano dall’Inghilterra e da suo padre.
Complimenti, Potter. L’hai davvero fatta grossa stavolta.
Ma non se ne pentiva: consegnandosi a quel gruppo di folli aveva evitato la morte di Seamus.
Ho più possibilità io di uscirne vivo che un mago gravemente ferito, giusto?
Rincuorato da quel pensiero si alzò in piedi, riprendendo a perlustrare il posto.
Ci saranno dei condotti di aereazione da cui posso uscire? I Babbani li usano, no?
Se Tom fosse stato lì li avrebbe trovati.
Già, ma non c’è.
Cominciò a tastare le pareti metalliche con le mani, guardando in tutte le direzioni: li costruivano in basso o in alto?
In alto forse?
Due colpi secchi lo fecero sobbalzare sorpreso: non furono forti, ma erano vicini.
Rilassati, le navi sono piene di cigolii e rumori.
Quando però si ripeterono a breve distanza, Al realizzò che non erano casuali.
Due colpi. Una pausa. Un colpo. Tre colpi assieme. È un codice!
Ed era il codice Morse, riconobbe sorpreso dopo l’ennesima sequenza di suoni: Tom glielo aveva insegnato quando erano bambini, Al lo ricordava bene: l’estate dei loro dodici anni l’avevano passata in stanze separate – quell’anno erano tornati talmente tanti Weasley al nido che le sistemazioni erano state confuse e ingiuste ed erano finiti a dormire in due stanze diverse.
Per parlarsi di notte, quando non avevano sonno e c’erano ancora tante cose da dire, Tom aveva proposto quel sistema: il codice morse e due torce elettriche, l’uno ad una finestra diversa della Tana. Il gioco era finito quando Lily si era accorta della cosa pretendendo di partecipare.
Tom ovviamente ha detto di no.
Erano anni che non lo usava, e ci mise più di qualche attimo ad avere conferma che non si stesse immaginando tutto; non poteva sbagliarsi però, quella che stava ascoltando era il suo nome.
E c’era una sola persona che poteva contattarlo così invece di entrare semplicemente dalla porta di ingresso.
“So…” Gli uscì, ma fu lesto a tapparsi la bocca: Doe poteva aver messo di guardia qualcuno all’entrata.
Cercò di ricordare come rispondere in morse, ma era passato troppo tempo, ricordava solo la frequenza di saluto. Sperò bastasse.
Il rumore per tutta risposta si arrestò, per poi riprendere più forte.
Sì, ma non mi ricordo!
Poi realizzò che forse l’intento del tedesco era diverso. Colpi così forti erano facilmente localizzabili.
… è qui. È qui da qualche parte!
Si diresse verso la fonte del rumore e dopo aver spostato mobili e lettini la trovò, dietro uno scaffale contenente attrezzi Babbani risalenti alla gestione precedente. Lo spostò di peso e trovò una grata.
Il condotto di aereazione!
“… Sören?” Mormorò.
Ti prego, ti prego…
“Sono io, Albus. Stai bene?” Gli rispose la voce dell’amico, e Al dovette frenare un singhiozzo.
Si accovacciò all’altezza della griglia, e vi vide attraverso il volto sudato e sporco dell’altro. “…come?”
“Condotti di aereazione.” Spiegò. “Percorrono tutta la nave.”   
“Come hai fatto a trovarmi?” Riuscì finalmente a parlare. Il groppo che aveva alla gola non gli rendeva le cose semplici.
Non sono più solo.
“Ero sicuro che ti avrebbero portato nel Laboratorio di Pozioni. Ne avevano uno sia nel primo nascondiglio che nel castello della mia famiglia.” Si passò una mano tra i capelli, tirando via un paio di ragnatela e chissà cos’altro nel mentre. Si pulì sulla camicia, disgustato. “Non poteva che essere nella stiva, l’unico spazio grande abbastanza.”
“E il codice morse?”
“Lily mi ha detto che lo conoscevi. Te l’ha insegnato Thomas?”
Al annuì. I due cugini potevano non somigliarsi, ma avevano lo stesso cervello analitico. “Ho provato ad uscire, ma mi hanno chiuso dentro.” Gli raccontò. “Mi hanno preso la bacchetta.”
Sören fece un mezzo sorriso dolente. “L’hanno presa anche a me.” Lo guardò di nuovo, attento. “Stai bene?” Ripetè.
“Ho avuto momenti migliori… però ho trovato te, quindi va molto meglio.” Ridacchiò, fingendo un improvviso prurito al naso per nascondere il lacrimone che gli era uscito. Era patetico, se ne rendeva conto, ma per fortuna aveva davanti un mago che non l’avrebbe giudicato per un momento di debolezza.
L’altro infatti non diede segno di essersi accorto delle sue lacrime. “Al.” Disse soltanto. “ … non posso tirarti fuori di qui, non ancora. Farei saltare la mia copertura.”
Avrebbe dovuto ringraziarlo per la brutale onesta, ma si sentì precipitare nel panico. “… No, ascolta. Devo … devo davvero uscire di qui.” Balbettò, e si rendeva conto di essere un egoista e che stava mettendo l’altro in una posizione orribile, ma non voleva lavorare per Doe.
“È quello che ho intenzione di fare. Devi solo avere pazienza.”
Aveva sperato che trovando Sören si sarebbe risolto tutto, ma era stato un idiota.
“Non capisci!” Sbottò. “Vogliono che sintetizzi una cura per il morbo, ma posso solo neutralizzarlo assieme a tutta la magia di una persona infetta. Solo che non lo sanno! Vogliono fare una dimostrazione per degli acquirenti e Loher vuole usare una persona sana, la vogliono infettare e io non posso fa-!”
“Albus, calmati.” Lo fermò. Non si era accorto di stare cominciando ad iperventilare.
Una crisi di panico come ai vecchi tempi. Ottimo.
“Non capisco di cosa tu stia parlando, e non ho idea di chi sia Loher. Raccontami tutto dall’inizio.” Gli ordinò secco, ed era un tono così da Tom che sentì il panico diminuire. Almeno un po’.
Gli raccontò la conversazione con Loher, senza tralasciare un dettaglio, neppure il fatto che avesse accettato di aiutarlo.
Sono un codardo, ma lo sarei ancora di più se non lo ammettessi.
Sören lo ascoltò senza dire una parola, poi mormorò a mezza bocca qualcosa in tedesco.
Al si abbracciò le ginocchia, ed era un gesto stupido, ma non aveva nessun posto, o nessuna scusa, dietro cui nascondersi. “Mi dispiace, ho avuto paura.”
“Non scusarti, hai fatto quel che dovevi per rimanere vivo.” Ribatté, e non c’era biasimo nei suoi occhi.
Non piangere. Non piangere!
“… ho paura.” Ripeté. “Sono diventato un Guaritore per aiutare le persone, non voglio usare quello che so per fare del male, ma…”
“Ti stanno obbligando, non è una tua scelta.”    
“Tu non capisci…”
“Sì, invece.” Gli fece notare duro e Al si sarebbe dato dell’idiota.
Certo che mi capisce.
“Ren, mi dis…”
“Doe troverebbe comunque un altro modo per mostrare ai compratori un super-soldato. Se c’è qualcuno che ha sempre un piano b, quello è lui.” Interruppe le sue scuse. “E potrebbe essere peggio di quello che Loher vuole fare. Credimi, lo so.”
Aveva ragione, ma questo non lo faceva sentire meglio.  
“Ti farò scappare. Sto cercando di trovare un modo.” Lo rassicurò, e non era conciliante. Glielo stava dando come se fosse una certezza. “Il tuo compito adesso è rimanere vivo. Promettimi che rimarrai vivo.” E non c’era dubbio, quella era una supplica.
Con sottointeso “non fare niente di più stupido di quello che hai già fatto”.
Beh, non che abbia tutti i torti…
Doveva essere stressante avere a che fare con gente come lui e Lily, considerando che rischiavano la vita nel momento stesso in cui uscivano dalla loro zona di comfort.
“… te lo prometto.” Sospirò. “Non c’è niente che possa fare per aiutarti? A parte non morire?”
“Sì. Devo trovare un modo per mettermi in contatto con gli Auror … ho perso il segnalatore quando mi hanno condotto qui. Hai visto una radio? Una trasmittente?”
Al scosse la testa. “Ho messo a soqquadro tutta la stiva, ma non ho visto niente del genere. Avrei cercato di usarla.”
Sören non parve stupito, e perché avrebbe dovuto? Non erano stati catturati da degli idioti. “Mi hanno chiesto di intrattenere i compratori. Probabilmente hanno degli Specchi o forse dei cellulari addosso, cercherò di prenderne uno.”
“Posso provare a fare lo stesso con Loher.”
No.” E non era un tono che poteva contestare. “Hai promesso.”
Non aveva margine di replica, quindi si limitò ad annuire. “Me la caverò.” Perché era quello che l’altro voleva sentirgli dire. “Sono un Serpeverde.”
Sören alzò gli occhi al cielo. “Non fate che dirlo. Non capisco perché dovrei essere rassicurato.” Stava cercando di distrarlo, era evidente.
Quell’uomo era davvero il principe azzurro di Lily.
“Stare con gli americani ti fa male.” Gli offrì. Non l’aveva tranquillizzato granché, ma almeno ci aveva provato.
“Non stare con voi inglesi mi ha fatto bene.” Sören gli sorrise di rimando prima di guardare oltre le sue spalle, dove si trovava la porta di ingresso. “Devo andare.” Aveva sentito qualcosa? “Appena avrò contattato gli Auror e gli avrò dato la nostra posizione verrò a prenderti.”
“Lo so.” Mise il pugno contro la grata. “Voi Prince avete questa fissa per salvarci la pelle…”
Sören abbozzò un sogghigno. Aveva capito la frecciatina. Rispose al pugno. “È il nostro modo di scontare i peccati.”
 
****
 
San Mungo, Laboratorio di Pozioni.
 
Lily avrebbe operato l’incantesimo nel Laboratorio; era il luogo del rapimento ed era quindi sensato che rimanessero lì: la speranza era un luogo familiare avrebbe facilitato il processo di recupero della memoria.
Dovrebbe, ma ogni mente è diversa.
Sentiva lo sguardo di suo padre sulla schiena, ma lo ignorò: Harry Potter non avrebbe smesso di volerla fuori dai guai e lei non avrebbe smesso di aiutare le persone.
Dopotutto è il motivo per cui ho continuato a studiare.
Perché diciamocelo, non ne avrei trovati altri, non validi come questo.

La Patil aveva fatto preparare un tavolino e due sedie: nient’altro serviva per quell’incantesimo.
A parte i miei poteri e una gran botta di culo.
“Puoi farcela.” La incoraggiò la strega, in quel modo duro e sintetico che aveva per farti capire che non lo diceva tanto per dire. “Sarò accanto a te tutto il tempo.”
“Okay.” Non è che potesse tirarsi indietro a quel punto. Si sedette di fronte al primo dei Pozionisti; lo conosceva di vista, Al glielo aveva presentato durante una pausa caffè. “Ciao Dexter.” Lo salutò cordiale. L’altro le rispose con un sorriso tirato.
“Non ho capito cosa mi volete fare.” Esordì. “Ma se serve per ritrovare Albus, non risparmiarti.”
“Non so che idea hai degli incantesimi di memoria, ma non è doloroso!” Lo rassicurò. Almeno non per te.
“Mi scaverai pur sempre nel cervello.” Ritorse sulla difensiva. Lily non se la prese: i pozionisti dell’ospedale erano famosi per antagonizzare chiunque non provenisse dai loro ranghi, pazienti compresi.
Ma sono leali l’uno all’altro fino alla morte. Non a caso, sono quasi tutti ex-studenti di Serpeverde.
Infatti l’uomo guardò verso i colleghi. “Il tedesco avrebbe potuto prendere uno di noi, ma tuo fratello si è offerto.”
“Non c’è modo di fermarlo quando si mette in testa di salvare tutto e tutti.” Sorrise di rimando: per prima cosa doveva stabilire una connessione emotiva con la persona che aveva davanti, tranquillizarlo. E considerando che non avevano esattamente tempo per prendersi un the e chiacchierare del più e del meno, doveva concentrare i suoi sforzi. “Non avresti potuto impedirglielo.”
“Ma avrei dovuto.” Ribattè con una smorfia. “È solo un ragazzo.”
“Mio fratello sa quello che fa.”
Più o meno.
“Lo spero.” Sbuffò l’altro. “Sarebbe un peccato non vederlo più trotterellare qua sotto.”
“Vi considera suoi amici.” Confermò gentile. “Gli piace stare qua.”
“Sì, a volte dà una mano dopo il turno…” A giudicare da come la postura si era sciolta riconoscere il legame che suo fratello aveva con il Laboratorio era la chiave giusta per portarlo il Pozionista rilassarsi. “Non ci tratta come stracci vecchi, come fanno gli altri Guaritori.” Guardò male verso la Patil, che non colse il guanto dell’offesa.
“Forse sarebbe opportuno mettere a parte le considerazioni personali.” Osservò invece. “Almeno per ora.”
L’uomo annuì, seppur a malincuore. “Cosa avete bisogno che faccia?”
Lily riprese la parola: la Patil fuori dall’orario di lavoro non era esattamente la persona più conciliante del pianeta, ed era meglio evitare che si mettesse a bisticciare con l’altro mago. “Nulla, devi solo rilassarti e darmi la mano.”
“La mano? Non avete bisogno dei miei ricordi da mettere in una fialetta e poi versare nel Pensatoio?”
La Patil non ribatté e quindi Lily capì che stava a lei dare spiegazioni.
Allora le do come mi pare.
“Sei stato affatturato. Abbiamo bisogno di fare le cose diversamente. Ho bisogno di entrare nel tuo subconscio e cercare i ricordi che ci servono, perché da solo non sei in grado di recuperarli. Ci andremo assieme.” Aggiunse per tranquillizzarlo. “Non guarderò dove non vorrai.”
Il mago non parve molto convinto, ma le tese comunque la mano. “Non ho mai sentito parlare di un incantesimo del genere…”
La Patil accanto a lei le lanciò uno sguardo esasperato.
Sì, meglio Allock.
In proporzione faceva molte meno domande. Ma Lily era abituata al dubbio e alla diffidenza da quando conosceva Tom. Ce ne voleva per scoraggiarla. “Perché siamo ragazze piene di sorprese.” Scherzò. “Dai Dexter, ti ho mai detto come devi fare una pozione?”
“No, tu no.” Le concesse. “Non ancora.”
Ed io che pensavo che Tom fosse insopportabile e collateralmente Serpeverde.
Dev’essere una roba che ti insegnano lì dentro invece.
“Perché non capisco un accidenti di Pozioni infatti.” Gli strinse la mano, chiundendola tra le sue. “Okay. Sei pronto?”
Ad un suo cenno di assenso chiuse gli occhi. “Ora voglio che mi racconti il posto più bello in cui sei stato.”
“… come?”
“Dexter.” Lo avvertì. “Ho bisogno che ti concentri. È importante.”
Posso essere anch’io modello-Patil se voglio!
L’altro fece una smorfia. “… hai ragione, scusa.” Ci riflettè un attimo. “Casa dei miei, in Cumbria. È circondata dal bosco, ed è vicino ad un lago. Gran posto per andare a pescare.”
Era il primo step. Lily si concentrò e vide quello che l’altro ricordava. Un flash, e un lago dalle acque cristalline e un bosco scuro e pulito a perdita d’occhio.
Ancora più a fondo.
Fece quel paesaggio suo, e quando riaprì gli occhi, era dentro: guardava il lago lambirle la punta delle scarpe e percepiva l’odore umido del bosco. Passò una mano sulla staccionata, al di là del quale…
“La casa di che colore è?”
“Uhm, bianca con il tetto rosso.”
“C’è un giardino? Potresti descrivermelo?”
“… pieno di fiori?”
Ed ecco il piccolo cottage circondato dai fiori.
Era la mente di Elias a fornirle quelle immagini spontaneamente, nel momento stesso in cui l’altro le ricordava. Passò le dita su un cespuglio di ortensie: c’erano, ma erano ancora della consistenza del fumo.
Il ricordo non è stabile.
“I fiori sono molto belli, chi li ha piantati?” Domandò.
Aveva gli occhi chiusi, ma era sicura che Dexter sorridesse. “Li hanno scelti mia madre mia moglie.”
L’emozione, eccola.
Come tutti i Serpeverde, il pozionista valutava i propri affetti sopra ogni altra cosa. Ci aveva visto bene quando aveva usato l’amicizia che aveva con Al per metterlo nella corretta disposizione d’animo per l’incantesimo.
Il paesaggio di fronte a lei prese corpo, sostanza e i colori divennero brillanti, reali.
Ed ecco il mio punto di recupero.
Se le cose fossero andate male durante l’incantesimo non avrebbe rischiato di perdersi nella mente dell’altro: avrebbe avuto quel posto per tornare indietro, un posto che il pozionista conosceva come le proprie tasche, che amava e che gli dava sicurezza.
Ora devo solo far sì che mi raggiunga.
Che era la parte più difficile.
“Ora voglio che immagini di essere lì con me.” Gli spiegò. “Siamo davanti alla staccionata, e c’è una bellissima siepe di ortensie. Di che colore?”
“Blu … no, celesti.” Lily vide cambiare il colore repentinamente, sfuocarsi.
Oh, okay. No! Cambio soggetto!
“Non fa niente, di che colore è la staccionata?”
“Bianca.” Disse con sicurezza e di colpo Lily se lo trovò davanti, come una Materializzazione, ma senza rumore o bacchette coinvolte. Il pozionista battè le palpebre, guardandosi attorno.
“… Sono dentro la mia testa?” Domandò sbalordito.
“Dentro i tuoi ricordi.” La corresse con un sorriso. “Ma sì, più o meno.”
“Incredibile…” Afferrò con le mani la staccionata, scuotendola. “Per Merlino, sembra così reale!”
“Quanto può esserlo un sogno.” Gli strizzò l’occhio: che poi era quello che le era successo quando Doe l’aveva messa al tappeto cinque anni prima. I suoi poteri dovevano aver reagito allo stress psicologico a cui era stata sottoposta.
E da qui, un bel viaggio nella mia testa con mia nonna come ospite.
Che poi non ero altro che io che tentavo di razionalizzare il tradimento di Sören.
Una parte di sé comunque non avrebbe mai stesso di credere di esser stata davvero nello stesso limbo in cui suo padre da ragazzo aveva incontrato Silente.
In ogni caso, quell’incantesimo era favoloso, quando funzionava. Purtroppo non c’era tempo per giocare. “Dobbiamo andare adesso.”
L’uomo annuì. “Devo immaginarmi il Laboratorio adesso? Nello stesso modo?”
Lily scosse la testa. “Non ce n’è bisogno, è più semplice.” Gli tese la mano. “Devi solo accompagnarmi dentro.”
Il pozionista gliela prese docilmente stavolta. “Ma siamo lontani miglia da Londra!”
“Nella realtà sì, nei tuoi ricordi no.” Si guardò attorno, poi trovò quel che cercava.
La porta di casa. Un ingresso.
“E se fosse dentro casa tua?” Gli suggerì.
“… davvero?”
“Davvero!” Confermò divertita. “Puoi immaginare tutto quello che vuoi, dove vuoi, questo è il tuo parco giochi.”
“… Roba da matti.” Sbuffò incredulo, ma non pareva preoccupato e questo era un bene.
È lui che comanda qui. E se si spaventa, è un problema.
Era uno dei pericoli maggiori di quel incantesimo: se la persona su cui veniva lanciato si sentiva in pericolo, automaticamente attaccava chi riteneva resposabile.
Ovvero il primo estraneo che il suo subconscio trova. Ovvero me.
Questo non l’aveva detto ai suoi. L’importante era che la Patil lo sapesse e fosse pronta ad intervenire.
“Quindi mi basta credere che il Laboratorio sia dentro casa mia … e ce lo troverò dentro?” Le chiese strappandola dai suoi pensieri.
“Perché non provi?” Vedendo che esitava aggiunse. “Sei al sicuro. Nessuno può farti del male.”
Non sei tu quello in pericolo.
Ma coooomunque…
“Andiamo?”
L’uomo girò il pomello della porta. “Andiamo.”
Entrarono e uno spesso fumo azzurrognolo li avvolse; un cambio di ambientazione, un cambiare ricordo. Lily gli strinse la mano, dato che l’ultima cosa che voleva era che andasse solo e che lo stesso succedesse a lei.
Il Laboratorio si materializzò di fronte ai loro occhi; il pozionista vi trascorreva la maggior parte della giornata, quindi i dettagli erano nitidi e c’erano pochissime zone buie. “… ci siamo sul serio!” Esclamò guardandosi attorno. “Adesso?” Sembrava essersi abituato a quella scenografia sfocata e inconsistente.
Beh, è pur sempre nella sua testa. Se non si sente a suo agio qui, dove?
Si appuntò di comunicarlo alla Patil: non l’aveva detto a suo padre – ovviamente – ma era il periodo più lungo in cui era rimasta nella testa di una persona. In un certo senso, era tutto nuovo anche per lei.  “Lo popoliamo.” Gli rispose. “Chi c’era con te quando siete stati attaccati?”
“I ragazzi, ovviamente … Il Capo Guaritore Finnigan e Potter.”
“Ti ricordi dov’erano?”
L’uomo si concentrò. “I miei colleghi erano alle loro postazioni…” Indicò i tavoli da lavoro, corredato ciascuno di un calderone. Un moto di sorpresa gli sfuggì dalle labbra quando dalla nebbiolina che circondava tutto si formarono delle ombre: avevano le fattezze dei Pozionisti.
Almeno come lui li ricorda.
“E gli altri?” Lo incoraggiò.
“Il CapoGuaritore Finnigan era vicino all’entrata. Non facciamo entrare gli esterni nell’area di lavoro.” Indicò di nuovo un punto e comparve una versione più bassa e decisamente poco lusinghiera del mago.
Povero Sam.
Lily trattenne un sorriso. “E Al?”
“Con lui.” Lily sentì una morsa allo stomaco quando vide la figura di suo fratello, i suoi capelli perennemente arruffati e le sue immancabili scarpe da tennis ai piedi. Nei ricordi del pozionista era più giovane di quanto in realtà non fosse.
È la mascotte del laboratorio dopotutto.
“Stavano parlando…” Aggrottò le sopracciglia. “Sì, stavano parlando… E poi…” Le tonalità blu della stanza passarono ad un rosso violento e Lily dovette appoggiarsi ad un tavolo, perché sentì il pavimento sotto di sé perdere consistenza, diventare più simile a quella del fango.
È la Fattura. Sta cercando di combatterlo!
Dexter le lanciò un’occhiata allarmata, guardandosi i piedi, già sprofondati per metà. “Cosa sta…”
“È tutto nella norma.” Lo rassicurò. “Stai andando bene, non perdere la concentrazione.”
L’incantesimo della Patil e i mie poteri contro una Fattura della Thule.
Vediamo chi la spunta.
Speriamo noi.
“Com’è riuscito ad entrare il rapitore?” Gli domandò.
“Ha …” Guardò verso la porta. “Bussato.” Battè le palpebre sorpreso. “Sì, ha bussato! E sono stato io ad aprire. Ho detto a tuo fratello di stare fermo, ero sicuro fosse qualche Guaritore, così …”
“Hai aperto tu.” Annuì. Poi udirono tre colpi secchi.
Ci siamo.
Dexter le lanciò un’occhiata tesa, e sì, aveva paura anche lei. Il brutto di quell’incantesimo era che tutto sembrava reale. Gli sorrise. “È il tuo mondo. Comandi tu.”
L’altro annuì. “Devo…”
“Andiamo ad aprire, sì.” Confermò con più tranquillità di quanto in realtà non provasse. Si diressero verso la porta e Dexter recitò l’incantesimo di scioglimento della barriera – al Laboratorio, per ragioni di sicurezza, si poteva accedere solo se qualcuno apriva da dentro.
Lily non vide il volto del rapitore, ma un lampo di un rosso acceso e poi, subito dopo, un cambio di scena, un fast-forward violento e si ritrovò gambe all’aria, il respiro mozzato.
È stato Schiantato! Perché nessuno mi ha detto che è stato Schiantato!
“Schiantesimo?” Domandò ironica rimettendosi in piedi.
Dexter fece una smorfia, massaggiandosi la nuca. “… non pensavo l’avrei rivissuto. Mi avevi detto che non c’era niente che poteva farmi del male!”
“Se fosse stato un vero incantesimo saresti ancora a terra.” Gli fece notare irritata.  
Alzò poi lo sguardo: c’era una figura in più nel quadro, ma aveva la consistenza di una nuvola scura. Nessun lineamento, nessun segno distintivo.
Eccolo là, il rapitore.
Era immobile come in un fermo immagine, in attesa che il Pozionista lo animasse.
Era la prima volta che Lily entrava in un ricordo violento: la sensazione non le piacque per nulla.
“… è il rapitore.” Disse Dexter con sicurezza. “Sei sicura che non mi attaccherà?”
“Non ti ha attaccato nella realtà, non ti attaccherà adesso.” Gli confermò. “Cosa sai dirmi di lui?”
“Era … era giovane.” Annuì. “Sì, era poco più che un ragazzo. È la prima cosa che ho notato quando ho ripreso i sensi. Ho pensato che fosse stato umiliante, essere messo al tappeto da un ragazzino.”
La corporatura era quella di un soldato, notò Lily. Alto, spalle larghe, anche se non era molto muscoloso. “Di che colore aveva i vestiti?”
“Color sabbia.” Ribatté pronto. “Era vestito come uno dei custodi dell’Ospedale.” Aggiunse.
Gli girarono intorno. “Ed era straniero.”
“Nazionalità?”
Dexter scrollò le spalle. “Non lo so, ma si sentiva che non l’inglese non era la sua prima lingua. Persino quando ha attaccato Finnigan dava del lei a tutti. Parlava come parlavano i maghi cento anni fa.”
Attimo.
Poteva essere una coincidenza, ma conosceva una sola persona che aveva l’irritante abitudine di parlare come un romanzo di fine settecento farcito di vocabili pomposi.
Ren.
E Sören le aveva raccontato di aver imparato l’inglese tramite un tutore privato; figure mitologiche ormai, mummie che giravano con bacchette di giunco per castigare i propri allievi e attingevano a testi polverosi per insegnare.
Quindi era un Purosangue. Vecchia scuola.
“Poteva essere tedesco?”
“Forse?” Dexter scosse la testa. “Beh, era biondo.” Aggiunse di colpo. “I tedeschi lo sono tutti, no? Biondo e pallido come un cadavere.” Ora che aveva la certezza che non lo avrebbe aggredito si avvicinò alla figura, faccia a faccia. Lily non lo dissuase, anche se non si trovava a suo agio ad essere così vicina ad una memoria che si poteva riattivare in qualsiasi momento cominciando a sparare fatture. “Ho pensato … ho pensato che era così che doveva sembrare un Mangiamorte …” Mormorò. “Non aveva alcuna pietà nello sguardo.”
E fu quella la chiave di volta. Bastò quella realizzazione impaurita a far scattare il ricordo che la fattura aveva nascosto. Il volto del ragazzo divenne nitido, perché chi ti aveva spaventato così, ti rimaneva stampato in testa.
… Merlino benedetto.
Lily soffocò un’esclamazione, indietreggiando di colpo. “Ehi.” La richiamò il pozionista, sentendola tirarsi indietro. “Che ti succede?”
Io lo conosco.
Lo shock fu troppo, perse la presa sulla mano dell’altro, che a dirla tutta non la stava trattenendo. E purtroppo questo bastò a mettere in allerta il subconscio di Dexter. Di cui faceva parte anche il rapitore, che si animò di colpo, che la guardò, levando la bacchetta pronto a colpire l’intruso.
Lily gridò e si parò il viso con le mani.
“Potter!”
Un lampo bianco e i polmoni le si riempirono di aria gelata; era quella la sensazione che si provava quando qualcuno ti faceva uscire dall’incantesimo di memoria forzatamente.
Era successo solo un’altra volta e Lily avrebbe preferito non ripetere l’esperienza.
“Lils!” Si sentì scuotere per la spalla: era James, che gli stava davanti con suo padre e  Padma.
“Sto … cosa…” Balbettò incoerente. “Cosa è successo?”
“Hai cominciato a tremare e respirare forte, sembrava ti stesse venendo una crisi!” Spiegò James. “La Patil t’ha svegliato.”
“Ho dovuto.” Gli spiegò la donna. “Stavi per perderti.”
“… decisamente.” Guardò verso Dexter, che si stava risvegliando in quel momento, molto più tranquillamente. “Pensavo … pensavo sarei riuscita a gestirla, ma …”
Ma non mi aspettavo quello!
Suo padre sospirò, prendendole una mano. Avrebbe voluto dirgli che non aveva bisogno di essere rassicurata, ma non era vero. “Hai fatto del tuo meglio, Lils.”
“Certo che sì.” Ribatté. “Ho l’identikit che vi serve.”
L’uomo tradì un moto di sollievo. “Ottimo. Portiamo Dexter al Ministero.”
“Non serve, l’ho visto anch’io e so dirvi anche nome e cognome.”
Suo padre e suo fratello si guardarono sorpresi. “Davvero?” Chiese James. “Guarda che se ha dato un nome ai pozionisti di sicuro sarà stato falso…”
“I pozionisti non c’entrano, l’ha dato a me. Lo conosco io.” Inspirò. “Si chiama Sören Luzhin, ed è il mio ex amico di piuma.”
 
*****
 
Note:

Io non ci provo neanche più a scusarmi. Insomma, lo sapete. :P
Qui la canzone del capitolo.

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Capitolo 62
*** Capitolo LXI ***


 

 
Yet I go on
(Lift, Poets of The Fall)
 
 

Da qualche parte del mare del Nord…
Mattina.


“Non puoi certo indossare l’uniforme per incontrare i nostri ospiti.”
Sören avrebbe dovuto spogliarsi ed indossare i vestiti che Johannes gli aveva fatto portare da un Mercemago, eppure esitava. Toccando i pantaloni di foggia magica, la camicia di seta e il panciotto ricamato era stato come essere catapultato nella sua infanzia.
Sono cinque anni che non indosso vesti magiche ad eccezione dell’uniforme.
Ma se quest’ultima era il simbolo del suo affrancamento dal passato, certo non lo era ciò che aveva davanti.
Falla finita, sono solo stoffa e bottoni. Non significa nulla. Non più.
Inspirò, liberandosi del corpetto datogli dagli Auror e dal resto dei vestiti, guardandosi allo specchio opaco della sua cabina. Non era più quel ragazzo smarrito, si disse, era un agente sotto copertura.
Come quelli dei polizieschi Babbani che tanto ama Estevez.
Si allacciò l’ultimo bottone del panciotto e diede un’ultima occhiata allo specchio: poteva andare. Era abbastanza convincente per sembrare il giovane Sören Von Hoenheim, il Purosangue che seguiva le orme dello zio e ne era l’erede naturale.
Si preferiva di gran lunga con una tshirt comprata da Milo e con i capelli arruffati dalle dita vivaci di Lily.
Sentì bussare alla porta.
Per fortuna non perdo mai tempo in preparativi…
“Avanti.” Disse passandosi il pollice sull’anulare: l’unica mancanza era l’anello con il sigillo dei Prince.
Se non l’avessi perso…
A quest’ora sarebbe già stato in dirittura della costa, pronto a riabbracciare la sua ragazza e mettersi quella storia alle spalle.
Johannes entrò, alle sue spalle i soliti nerboruti guardia-spalle.
Si fa sempre scortare in mia presenza. Ha paura. Continua a non fidarsi.
E faceva bene. “Ragazzo mio!” Lo apostrofò allegramente. “Direi che hai un aspetto favoloso, ma già lo sai.” Gli diede uno schiaffetto sulla guancia, come ai vecchi tempi, a cui non reagì, sempre come ai vecchi tempi. “Sei proprio tu, adesso, eh?”
Va’ all’inferno.
“Mi sento molto più a mio agio, in effetti.” Convenne con un sorriso. “Immagino che i compratori ci stiano aspettando.” Tagliò corto, perché non aveva alcun desiderio di sentirlo blaterare del loro comune passato.
“Immagini bene.” Concordò passandogli un braccio attorno alle spalle e portandolo fuori: i due mercemaghi tenevano le bacchette accese in un Lumos che rischiava loro la strada: la nave era avvolta completamente nella magia e doveva essere questo il motivo per cui l’impianto elettrico non funzionava.
Compresa quindi la radio.
“Devo essere onesto, sono un incubo … non ce n’è uno che parli la stessa lingua! Con il francese me la cavo, ma il ceceno?” Sbuffò. “Tu mi sembra fossi in grado di parlarlo, sì?”
… quindi i compratori vengono da più parti del mondo.
Sören registrò le parole dell’altro mago: l’analisi fatta dalla SAGITTA sul profilo dei papabili compratori non era dunque stata una completa perdita di tempo e risorse.
“Sono arrugginito.” Ammise seguendolo. “Non lo parlo da anni.”
“Mi ricordo, l’ultima volta eravamo da quelle parti… Te lo ricordi? Dovemmo lavarci via il sangue…”
“Johannes.” Lo fermò perché no, non voleva ricordare. “Rivedermi in questi panni ti ha forse dato l’impressione che abbia cambiato idea sull’operato di mio zio? Perché non è così.”
L’uomo alzò gli occhi al cielo, come avesse a che fare con un adolescente suscettibile. “Come siamo ombrosi … Non hai mai saputo tirar fuori il meglio da una situazione, principino, è sempre stato questo il tuo problema. Non ti sai divertire!”
“Forse ho una concezione di divertimento diversa dalla tua.”
“Se intendi stare tra le cosce della tua rossa ti capisco…”
Sören si fermò di colpo, facendolo quasi inciampare. “Hai finito?” Ringhiò. “Perché se pensi che sia ancora il ragazzino che ha il terrore di ribattere ai tuoi lazzi per non incorrere nelle ire di Alberich ti sbagli.”
Johannes perse il sorriso e per un attimo si chiese se non avesse esagerato. Non l’aveva fatto però: aveva reagito esattamente come avrebbe fatto il Sören di un tempo. “Non ho mai avuto figli, lo sai?” Se ne uscì dal nulla. “Non che ne abbia mai voluti, odio i marmocchi. E li odia anche tua madre.”
Sì, ci avevo fatto caso.
Pareva sua personale missione cercare di dargli ad intendere in tutti i modi che sua madre lo disprezzava.
Non c’è bisogno che si sforzi.
“Però tu mi sei sempre piaciuto. Certo, avevi il brutto difetto di elemosinare carezze da gente che godeva nel prenderti a calci e per Faust, se non hai il minimo senso dell’umorismo! … ma ti ho insegnato tutto quello che sapevo, non è così?”
“Dove vuoi andare a parare?” Se cercava di buttarla sul ricatto emotivo, non avrebbe funzionato. Non avrebbe mai funzionato. Mai.
Tu non sei mio padre.
Come non lo era stato Alberich.  
Doe, a sorpresa, lo afferrò per la nuca e se lo spinse addosso, fronte contro fronte. Sören si irrigidì, nauseato e al tempo stesso spaventato da quella vicinanza: gli ricordava troppo i momenti in cui l’aveva umiliato, in cui l’aveva fatto sentire meno dell’essere umano che era, solo un’arma di cui disporre a piacimento.
“Sei una mia creatura, Sören. Tuo zio poteva ordinare, ma c’ero io con te, sempre. Ero io che ti davo da mangiare, che ti curavo … che ti dicevo quando dormire e quando ammazzare. Se sei vivo oggi e cerchi di convincerti che sei moralmente superiore a me … lo devi a me. O saresti cibo per vermi. Mi sbaglio?”
Sören sentì il sapore del sangue riempirgli la bocca: anche quello, un ricordo di quando da bambino si mordeva l’interno della guancia per non piangere, dopo gli allenamenti, dopo aver avuto paura di morire durante una missione.
Sapeva perfettamente cosa l’altro voleva fargli dire. “… non ti sbagli.”
“Già.” Concordò trionfante. “Come tua madre, tu sei roba mia. E lo sarai sempre.” Lo lasciò andare e sogghignò quando lo vide tirarsi indietro. “… avanti adesso, basta coi discorsi seri! Abbiamo un pranzo e ospiti da intrattenere.”
“Mi occuperò del ceceno.”
“Bravo ragazzo.”
Sören lo seguì mentre nel resto della nave sprofondava l’oscurità.
 
****
 
Londra, San Mungo.
Tarda mattinata.
 
Lily guardava nelle profondità abissali della sua tazza di the, perché tali le sembravano: abissali, quindi interessantissime.
Tutto pur di non dover confrontarsi con quello che era appena successo. James le era seduto accanto, dato che in quel momento non c’era bisogno di azione, ma solo che un Auror portasse l’identikit a Hugo e i suoi compari di merende per cominciare la ricerca della Talpa, dell’unico esile filo che potesse permettergli di ritrovare Albus. E Sören.
Sören …
Chiuse gli occhi con un sospiro, mentre le spalle le cedevano un po’. Solo un po’. “Ehi.” Abbastanza perché suo fratello se ne accorgesse e ci passasse un braccio sopra, stringendola a sé. “Ohi, se ne vuoi parlare…”
“Abbiamo già concordato una seduta con Padma. Una lunga seduta.” Borbottò, godendosi comunque il contatto solido del petto dell’altro, l’odore familiare del suo dopobarba – quello che fortunatamente Ted aveva scelto per lui. “Oggi non ti sei messo quella tua colonia pestilenziale?” Lo prese in giro, perché ne aveva bisogno.
E James lo intuì. “Non ho fatto in tempo.” Sbuffò. “E comunque a Teddy piace.”
“In effetti è meno peggio dell’ultima…”
“Scema.”
“Scemo sarai tu.” Lo guardò di sbieco, le sopracciglia aggrottate in totale preoccupazione, i capelli arruffati per quante volte ci aveva passato le mani in mezzo tentando di fingere che non fosse così. “… grazie.”
“Come se avessi fatto qualcosa.” Brontolò. “Se non faccio qualcosa, se non entriamo in azione … scoppio!”
“Gogo troverà …” Si fece forza. “Troverà Luzhin.”
Sören Luzhin, il suo amico di piuma, quello vero, quello che si era fatto sostituire da Ren. Quello a cui aveva scritto una lunga lettera di scuse quando aveva saputo che, seppur indirettamente, per colpa sua era diventato orfano. Il ragazzo biondo e con l’aria tormentata che aveva popolato parecchi dei suoi incubi, lo stesso per cui la Patil aveva lavorato mesi cercando di farle capire che no, delle persone non erano morte perché aveva deciso di iscriversi ad un programma di corrispondenza con studenti all’esterno.
Va all’inferno.
L’aveva ingannata. Sceglierla come amica di piuma, presentarsi timidamente e cominciare a scriversi di sciocchezze e scambiarsi foto dei propri genitori, delle proprie case d’infanzia, dei propri amici… aveva avuto tutto un secondo fine.
Per due anni ho dato informazioni dettagliatissime sulla vita della mia famiglia. Sulla vita di Tom. Su cosa amava, cosa detestava, sul suo rapporto con Al … sui suoi punti deboli, compresa la curiosità morbosa che aveva verso il suo passato.
Merlino…

Quella che poi John Doe era andato a stuzzicare facendosi inevitabilmente dar retta.
Sono stata l’informatrice ufficiale di Alberich Von Hohenheim.
Sören non aveva sottratto lettere piene di dettagli sulla sua famiglia ad un ragazzo innocente. Si era semplicemente sostituito a qualcuno aveva già fatto tutto il lavoro e che aveva fatto abboccare una ragazzina stupida.
Le veniva da vomitare.
“… Ehi.” James la riscosse. “Sicura di voler aspettare la Patil?”
Gli sorrise. “Sì. È meglio così. Al momento mi sa che non riuscirei a cavarne fuori le gambe. Ho bisogno di un aiuto qualificato.” Gli diede una pacchetta sul petto vedendolo incupirsi. “Davvero, mi basta un abbraccio.”
“Sicuro!” La strinse con convinzione, baciandole la testa. “Ti voglio bene peste. Non pensare manco per sbaglio che sia colpa tua.”
Chiuse gli occhi e no, non si sarebbe fatta vincere dal magone di sentirsi amata anche con tutto quello che aveva contribuito a combinare. “Anche io scimmione.”
“Ehi.” La voce del comune genitore le fece alzare la testa. “Jamie, è ora di prepararsi. Hugo ha trovato una pista.”
Suo fratello sorrise come se gli avessero appena fatto un regalo. Da un certo punto di vista tutto matto e pericoloso, era così. “Finalmente!” Saltò in piedi. “Raggiungo i ragazzi.” Le lanciò un’ultima occhiata. “Dopo potrai stritolare a dovere anche Albie.”
Qualcuno avrebbe detto che tutta quella sicurezza nella riuscita di un’operazione così delicata era tracotanza. Ma loro erano Potter.
Essere degli sbruffoni è la nostra difesa.
“Ho più voglia di prenderlo a calci nel sedere che altro.” Rispose a tono facendolo sghignazzare, prima di infilare la porta della saletta ristoro e sparire in uno svolazzare di mantello rosso.
Lily rivolse un sorriso a suo padre, che lo ricambiò ma non davvero: non aveva bisogno di essere LeNa per leggere la sua ansia a caratteri cubitali. “Sto bene papà.” Cercò di rassicurarlo. “Sono contenta di esservi stata d’aiuto.”
“Lo hai fatto.” Confermò definitivo, quasi volesse sfidarlo a sostenere il contrario. “Senza di te…”
“Lo so, sono abbastanza egocentrica da rendermene conto. Sono un genio.” Scherzò. Non stava funzionando. “Davvero, mi passerà!”
Harry Potter era più testardo di un caprone, diceva a volte sua mamma, perché nonostante avesse operazioni da coordinare, un figlio di mezzo da salvare e in generale dovesse immedesimare l’Eroe a tutto tondo che era, le si sedette accanto, tornando ad essere il suo papà quattrocchi e impacciato. “Ti devo delle scuse.”
Eh?
“Eh?” Ripeté ad alta voce. “Hai fatto qualcosa di imperdonabile negli ultimi cinque minuti che non ci siamo visti?”
Suo padre si tolse gli occhiali. Brutto segno. “Quando tu e i ragazzi siete nati … ho fatto una promessa, a ciascuno di voi. Sempre la stessa…” Iniziò.
“Che non avresti chiamato nessuno di noi Dobby?” Non le piaceva vederlo così. Non sconfitto, perché non lo era mai. Ma colpevole.
Riuscì a fargli uscire una mezza risata. “… tua madre racconta un sacco di balle.” Sbuffò. “Ma no … la mia promessa era che non vi sarebbe mai capitato quello che è capitato a me. Che non vi avrei tirato dentro battaglie che avrebbero dovuto combattere degli adulti.”
… come ha fatto Silente con te?
Non lo disse però, che il rapporto con il vecchio preside era un argomento delicato.
 “… in che modo quello che è successo sarebbe colpa tua?” Disse invece. “Von Hohenheim ha messo su tutto questo teatrino degli orrori per riportare Tom all’ovile! Il fatto che uno dei suoi scagnozzi mi abbia usato come banco informazioni non ha nulla a che fare con te! Hai cercato in tutti i modo di non coinvolgerci. Non fai altro da quando è iniziata!”  
“… se avessi affidato Thomas ad un’altra famiglia, forse Von Hohenheim…”
“Ad un’altra famiglia?” Doveva aver gridato dall’espressione dell’altro, ma non le importava. “Per farlo crescere da gente che se lo sarebbe fatto soffiare da sotto il naso? Che magari avrebbe pensato che era matto, o maledetto? Papà noi dovevamo prenderci cura di Tom! Era destino!”
Suo padre la guardò meravigliato, prima di passarsi una mano sul viso e sospirare. “Sì, ho detto una sciocchezza.”
“Direi.” Concordò. “E poi ce lo saremo trovato comunque tra i piedi, perché Tom è il tuo bambino, come lo siamo noi.”
Le prese una mano stringendola forte. Rispose alla stretta, perché la soluzione migliore per lei in quel momento, era aiutare qualcun altro.
Lo è sempre stato.
“Papà, sei un essere umano, e gli esseri umano fanno errori. Ma in questo caso, hai fatto la cosa giusta …” Argomentò. “Von Hohenheim ha giocato con noi per anni, ma ha perso. Ha perso alla grande, perché Tom e Sören, che erano suoi, sono diventati nostri. Abbiamo vinto.”
Suo padre le fece una carezza, con gli occhi umidi che resero piuttosto lacrimevoli anche i suoi. “Credi ancora nel destino?”
Lily scosse la testa. “Credo che Tom fosse destinato ad incontrarti, così come io fossi destinata a conoscere Sören … Però poi abbiamo scelto noi cosa fare.” Ci rifletté. “Diciamo che se Von Hohenheim era il destino, noi l’abbiamo preso a calci nel sedere alla grande.”
Suo padre scoppiò a ridere e rise anche lei. Rimasero in quel confortevole silenzio di chi si era già detto tutto, ed era d’accordo. “… non sentirti in colpa per Luzhin.”
Le disse. “Non c’era niente che potessi fare.”
“Forse avrei dovuto accorgermi che mi chiedeva cose un po’ troppo personali, ma io facevo altrettanto. Credevo fosse … come me. Curioso.” Fece una smorfia. “Non sentirti in colpa per non aver controllato però. A quattordici anni ti avrei Affatturato se avessi messo il naso nella mia corrispondenza.”
Suo padre annuì. “Niente sensi di colpa allora. Per nessuno dei due.”
Le sembrava un’offerta ragionevole. Gli mostrò il pollice. “Okay.”
“Brava streghetta.” Le sorrise. “Devo andare adesso, ma ti farò tenere informata … puoi aspettare in ufficio se vuoi, Tom è già lì.”
Lily scosse la testa. “Grazie, ma penso che rimarrò in ospedale. La Patil potrebbe aver bisogno di me … e tenere la bacchetta occupata mi fa bene, mi conosci.”
“Sei mia figlia.” Le fece una carezza sulla testa. “Ci vediamo dopo.”
“A dopo!”
Solo un mago poteva fare quella promessa e, ai suoi occhi, essere credibile: quel mago sarebbe sempre stato suo padre.
 
****
 
Da qualche parte nel Mare del Nord…
 
Ad Albus non era rimasto altro che attendere: che Sören tornasse a prenderlo, ma molto più verosimilmente, che il dottore tedesco tornasse con la cavia.
Non c’era niente che potesse fare, non senza rischiare la vita ed aveva promesso all’amico che non avrebbe fatto nulla che potesse metterlo in pericolo.
Comodo, no?
No, non lo era. Si passò una mano tra i capelli, senza preoccuparsi che ormai assomigliassero al nido di un adolescente nevrotico.
Non lo era, perché avrebbe dovuto convivere con quello che stava per fare con il resto della sua vita.
Avrebbe di nuovo avuto il coraggio di mettere piede al San Mungo, prendersi cura dei pazienti, sorridere e salvare delle vite?
Forse no. Forse mai più.
Ingoiò il magone e si impose di non sussultare quando sentì la porta sopra di sé aprirsi. Entrò Loher, con un sorriso orrendo stampato in faccia. Lo seguivano due mercemaghi e tra di loro, supponeva, la cavia.
“Eccoci qua!” Esclamò l’ometto e Albus rimase senza parola quando realizzò di chi si trattasse.
Era il suo rapitore: e ancora peggio, era il suo rapitore che a stento si reggeva in piedi, pallido in volto, e sofferente.
Dopo quello che gli ha fatto John Doe, mi stupisce sia in grado di star dritto.
“Avevo detto una cavia in salute!” Esclamò, nonostante tutto, nonostante i Mercemaghi con le bacchette spianate e la sua posizione tutt’altro che rosea. “Non opererò su qualcuno in queste condizioni!”
Loher alzò gli occhi al cielo. “Sì, lo immaginavo. Non si preoccupi, Signor Potter … penserò io a rimetterlo in forze.” Fece un cenno ai due maghi che spinsero il ragazzo claudicante su un lettino. “Non per vantarmi, ma da anni rimetto in piedi maghi passati sotto la bacchetta del folle che ci ha costretti qui. Pensa forse che sia la prima volta che pongo rimedio al suo scarso controllo?”
“Immagino di no.” Dovette ammettere. “Lavorava per Von Hohenheim.”
“E così faceva Johannes. Ho visto maghi in condizioni peggiori. Le darò una cavia sana.” Fece un mezzo sorriso. “Se può alleggerire la sua coscienza, lo veda come uno scambio … Salverò la sua vita, che al momento è appesa ad un evidente filo, se lei lo trasformerà in un super-mago. Credo che sia una situazione conveniente per tutti, no?”
Albus pensò in fretta: suo fratello avrebbe berciato inganni e ricatti, ma lui era un Serpeverde, e se c’era una cosa che la sua Casa – e i suoi compagni, Loki e Michel in testa – gli avevano insegnato, era a vedere il guadagno in una situazione in perdita.
“Sì, lo è.” Ammise. Fece uno sforzo sovra umano per ignorare la sua coscienza. “Avrò bisogno che sia addormentato, e legato.” Mormorò. “Quando il siero comincerà a fare effetto … non credo resterà buono.”
“Per quello che sto per fare io, neanche.” Sbuffò l’altro. “Se lo desidera, può attendere in laboratorio. Non sarà piacevole.”
“No.” Disse, e la voce gli uscì ferma. Forse aveva ragione suo padre, a dire che il coraggio arrivava dopo aver deciso di essere coraggiosi. “Resto qui. Posso essere utile.”
Era, e nonostante tutto, sarebbe rimasto un Guaritore.
 
****
 
Tintinnare di posate d’argento, la luce soffusa di candele avorio che fluttuavano su una lunga tavola imbandita, dove una tovaglia di seta chiarissima parlava di uno sfarzo non ostentato, ma tuttavia dichiarato.
A Sören quello spettacolo era familiare, ma questo non significava che lo tranquillizzasse; semmai il contrario.
Nemmeno quando si era finto Luzhin si era sentito così tanto a disagio.
Sperava di averlo nascosto bene, quando gli erano stati presentati i compratori: tre, due maghi e una strega. Erano loro i misteriosi benefattori del progetto Demiurgo, loro che avevano reso possibile l’attuazione di quell’esperimento scellerato, e sempre loro che avevano finanziato i migliaia di Galeoni d’attrezzatura che aveva intravisto nella stiva della nave.
Quel poco che Sophia era riuscita a portare via inscenando la sua finta morte non poteva aver finanziato un progetto di quella complessità e portata. Oltre, naturalmente, a mantenere tutti i Mercemaghi che aveva visto.
Ma quei tre maghi sì. Li guardò, facendo attenzione a non soffermarsi su nessun in particolare. La persona che aveva accanto, e che Johannes gli aveva ordinato di intrattenere, era la donna. Doveva avere una cinquantina d’anni, e benché portasse vesti semplici e un velo le cadesse modestamente sui capelli era chiaro che non fosse lì per rappresentare nessuno, se non se stessa. Johannes aveva pensato bene di non dargli nessun indizio ed era soltanto riuscito a farsi dire il suo nome, Asyat e che veniva dal Ministero Libero della Cecenia. Lo sguardo che gli aveva lanciato gli aveva fatto chiaramente capire che non le avrebbe cavato fuori altro.
Non che mi serva …
Ricordava di aver letto di una guerra intestina tra maghi ceceni e maghi russi, non diversa da quella che aveva dilaniato per decenni il mondo Babbano. Facile quindi immaginare che la strega fosse interessata alla formula del super-mago per motivi che andavano oltre il personale.
C’era poi il francese, che al momento scherzava rumorosamente con Johannes: era Renard Thierry, il mago che Ama aveva segnalato all’Ufficio Auror come papabile compratore. A discapito di quanto pensato, godeva di ottima salute.
Non erano quei due però a dargli i brividi, ma l’ultimo compratore. Si arrischiò a lanciare un’occhiata nella sua direzione, ma venne immediatamente beccato. Distolse lo sguardo: quell’uomo non aveva parlato da quando Johannes li aveva introdotti.
È lui il maggiore finanziatore.
Indossava un completo Babbano, ma se avesse dovuto ricordare la sua faccia avrebbe fatto fatica. Era bianco, e l’inglese con cui lo aveva ringraziato aveva una traccia di spagnolo, ma di più non era riuscito a scoprire. Neanche il suo nome, dato che Johannes si era limitato a presentarlo come “il nostro principale benefattore”. 
Era lui a mettergli i brividi, e non sapeva dire il perché: sembrava un ometto anonimo, un Babbano che avrebbe potuto incontrare tutti i giorni mentre andava al lavoro, eppure emanava un’aura che lo metteva a disagio.
“Johan, dove tenevi nascosto il tuo braccio destro? È stata una vera ingiustizia non presentarcelo!” Domandò in francese Thierry. Da come l’attenzione degli altri due si spostò su quella conversazione intuì che sarebbe stata la lingua franca di quella sera.
Allora perché mi ha voluto qui?
Era ovvio che il suo vecchio compagno d’arme fosse perfettamente in grado di tenere la sala, e non c’era neppure bisogno di un traduttore.
“Sören è stato impegnato in altre faccende. Un braccio destro deve preoccuparsi un po’ di tutto, non è vero ragazzo?” Domandò con tono disinvolto, come se fino a due ore prima non l’avesse minacciato di morte.
“È così … ero impegnato altrove.” Convenne, sorridendo al belga, che lo stava guardando come Estevez avrebbe guardato un hamburger fumante. “Sono lieto di aver avuto modo di conoscervi.” Aggiunse.
“Oh, spero che durante la serata ci sarà modo di approfondire…” Mormorò il mago e Doe gli rivolse un sogghigno ilare.
Sören abbassò lo sguardo, imponendosi di non mostrare disgusto o disagio.
Sono qui per fare il ragazzo immagine?
“Via, via Renard.” Ridacchiò Johannes. “Sören è qui per lavoro.”
“Come lo siamo tutti.” Intervenne la strega che doveva esser stufa di tutti quei convenevoli e smancerie. “Quando cominciamo a parlare di affari?”
Il sorriso di Johannes rimase immutato, ma Sören vi registrò una nota di irritazione. Detestava quando qualcuno gli guastava il divertimento. “Presto. Ho pensato che dopo il lungo viaggio che avete dovuto affrontare avreste gradito una cena ristoratrice. Non c’è alcuna fretta.”
“Invece, Johan, temo che ci sia.” Disse lo spagnolo – lo era? – con tono pacato. “Sono quello che forse ha più viaggiato…” Quindi non lo era. “… ma credo di parlare a nome di tutti dicendo di essere impaziente di vedere il risultato del nostro investimento.”
Johannes fece una breve risata. “Naturalmente, ma…”
“Il nostro buon amico ha ragione, che fretta c’è?” Gli diede manforte Thierry, trangugiando quello che doveva essere il quinto bicchiere di vino delle Ardenne. A differenza sua, e della cecena che perlomeno aveva assaggiato il cibo, l’ultimo compratore non aveva toccato nulla. “Siamo su una nave dispersa Dio sa solo dove, con niente da fare se non godere della reciproca compagnia…” E di nuovo lo graziò di un’occhiata lasciva. “Tanto vale divertirci un po’, no?”
Per Faust, sperava che Johannes non l’avrebbe costretto a flirtrare con quel tizio.
Conoscendolo lo farebbe solo per il gusto di vedermi molestato.
Lo spagnolo-che-non-era-tale chinò la testa in un cenno di educato assenso, mentre la strega sbuffò, ma non diede adito ad ulteriori commenti: evidentemente nessuno sospettava che Doe aveva rubato quella nave nell’ultimo, disperato tentativo di sfuggire alla cattura.
Ha cambiato talmente tanto base e strategia da aver confuso anche i suoi compratori.
La cena continuò senza intoppi con Johannes e Thierry che dominarono la conversazione. Scoprì così che il belga era stato uno dei fornitori di suo zio, ma avevano interrotto i rapporti anni prima, probabilmente in concomitanza con la sua sparizione dalle scene a causa della situazione instabile nello Zimbabwe.
C’eravamo andati maledettamente vicini… Avevamo quasi capito chi erano i compratori.
Se avessimo arrestato Thierry, ci avrebbe venduto anche i nomi degli altri.
Era tardi per i rimpianti. Approfittando dell’atmosfera più rilassata cercò invece di capire se uno di loro portava un telefono addosso. Era certo che lo avesse il Principale Benefattore – aveva deciso di chiamarlo così – perché lo aveva visto allontanarsi per una telefonata, ma non c’era modo di avvicinarlo senza che se ne accorgesse.
Un problema dopo l’altro…
Al dolce – una sontuosa piramide di cioccolato portata da in dono dal belga – fu sorpreso dal sentire una voce alle sue spalle.
“Spero di essere arrivata in tempo per assaggiare il dono del nostro ospite.” Sua madre entrò dalla porta, prontamente aperta da uno dei Mercemaghi improvvisatosi cameriere di sala. Indossava un abito da sera e in un flashback Sören la rivide giovane, mentre dava il braccio a suo zio durante uno dei pochi ricevimenti a cui le aveva permesso di partecipare.
“Giusto in tempo Mia Regina. Signori … vi presento Sophia Von Hohenheim, ” Johannes le andò incontro, i denti aperti in un sorriso rapace. Le mise un braccio attorno alla vita, in una presa che era tutto fuorché delicata o elegante. Una donna Purosangue non si sarebbe mai fatta manovrare così, ma sua madre non batté ciglio.
Doveva esserci abituata.
Come etichetta imponeva si alzò assieme agli altri due maghi, e Thierry si sporse a farle il baciamano quando gli passò vicino. “Ho sentito tanto parlare di lei, Sophia … Condoglianze per suo fratello. Alberich era un mago notevole.”
“Lo era, vero?” Disse in quel tono distratto che aveva imparato a riconoscere come suo. “Peccato abbia perso il senno alla fine. O forse non lo ha mai avuto.”
Un silenzio imbarazzato piombò nella sala da pranzo, anche se Johannes fu svelto a romperlo con una mezza risata. “È un rischio delle menti geniali, la sregolatezza.” Chiosò frettolosamente. La fece sedere accanto a sé e non fu una sua impressione, quando le strinse la spalla, la donna impallidì.  
Le sta facendo male.
Il che era strano, perché per quanto la presa fosse salda, non lo era al punto da provocare dolore. Se avesse voluto farle male avrebbe dovuto stringere di più, e gli ospiti se ne sarebbero accorti.
Che cosa le ha fatto?
Qualsiasi cosa fosse, era stata intenzionale, intuì quando lo vide guardarla con furia: la sua presenza non era stata programmata e la stava quindi punendo.
Nonostante tutto non poté impedirsi di sentire un nodo allo stomaco: Sophia non era una madre modello, ma il suo stupido istinto da cavalier servente – come lo avrebbe chiamato Lily – gli impediva di ignorare la cosa.
L’ha picchiata?
Doe era un sadico: lo era con le sue vittime e lo era stato con lui. Non era difficile immaginare lo fosse anche con la sua compagna.
Perché allora è tornata da lui?
Diede una forchettata al dolce, perché sapeva di essere osservato: dagli ospiti, da Doe.
… è tornata perché non ha altro posto dove andare. Nessuno a cui rivolgersi.
Johannes l’avrà liberata da mio zio, ma l’ha reclamata per sé.
Non poteva provare empatia per una donna che l’aveva rifiutato dal momento in cui l’aveva messo al mondo, però…
Poteva cercare di capirla.
Non aveva idea del perché sentisse il bisogno di comprendere le scelte di Sophia, dato che ormai era ovvio che non l’avrebbe aiutato a catturare l’amante, ma sapeva che aveva solo quell’occasione per avere delle risposte.
Non le tolse di dosso gli occhi per tutta la serata, cercando di essere il più discreto possibile: non fu un grosso problema dato che Johannes aveva occhi e lazzi solo per i suoi compratori. Dopo aver fumato dei sigari portati in dono dal Principale Benefattore, Johannes annunciò che sarebbero andati finalmente a vedere il loro investimento. Si alzò e si portò quindi via Thierry; fortunatamente si era preso il compito di intrattenerlo. A breve distanza seguirono l’altro mago e la strega cecena. Sua madre fu lasciata indietro, completamente ignorata. 
Vedendola alzarsi con evidente fatica non poté fare a meno di andarle accanto per porgerle il braccio. Dopotutto era quello che ci si aspettava da un figlio – casomai i compratori si fossero voltati indietro.
Sophia accettò l’aiuto con naturalezza, appoggiandosi a lui. “Vi ha picchiato.” Disse senza girarci intorno. Non era nel suo stile.
Lo guardò sorpresa, quasi non capisse l’attestazione. Poi sorrise. “Oh, Sören, che idea sciocca.”
“Avete difficoltà ad alzarvi.” La incalzò, come avrebbe fatto con un sospettato. Non aveva certo tempo per esser delicato. “Dalla rigidità della vostra postura direi che vi ha colpito alla schiena. Mi sbaglio?”
La risata di sua madre lo colse di sorpresa. “Non sono cose che un figlio dovrebbe scoprire, suppongo, ma quello che è accaduto tra me e Johan non è nulla di così allarmante come una violenza. Anzi, semmai il contrario.”
… Ah.
Sören sentì il proprio viso arroventarsi, sia per umiliazione ma soprattutto per cocente imbarazzo. “Io…”
Sophia gli scoccò un’occhiata indecifrabile, poi sorrise di nuovo. “Hai una ragazza, no? Non ti è mai capitato di…”
“Assolutamente no.”  
Era grottesco e avrebbe affrontato dieci Infetti piuttosto che avere quella conversazione.
“Immagino che avrei dovuto farti un discorso simile, ad un certo punto…” Disse facendogli gelare il sangue nelle vene. “In ogni caso, ci sono molti modi di amare qualcuno…”
“Non facendogli del male.” Tagliò corto. Quello era un punto fermo da cui non avrebbe mai deviato. Come se fosse poi possibile. La sola idea di far del male a Lily lo nauseava. “Non mi interessa sapere quello che fate con Johannes. Ma se usa la violenza per tenervi legata a sé, si riconferma il mago degenerato che è.”
Sophia a questo non rispose, rimanendo in silenzio. “Sei come Elias. Intransigente.” Disse infine. Prima che Sören potesse protestare, che davvero non aveva bisogno di sentirla infangare ancora una volta la memoria di suo padre, aggiunse. “Anche lui la pensava come te. Sarebbe stato suo diritto farlo, ma non mi ha mai sfiorato.”
“Non l’avrebbe mai fatto.”
Sua madre sorrise. “No. Aveva quel suo codice d’onore, quel suo ferreo modo di vedere le cose e dividere il mondo …” Lo guardò con attenzione. “A volte penso che rimanere invischiato nella nostra famiglia e nella Thule sia stata la cosa peggiore che potesse capitargli. Pensava di aver trovato in Alberich un uomo da seguire, non un mostro.”
Sören esitò. Era la prima volta che le sentiva pronunciare delle parole positive verso suo padre. Non sapeva se concordando con lei avrebbe rischiato di scoprirsi: non doveva dimenticare che sua madre lo pensava un disertore del SAGITTA, e così doveva pensarlo il resto della nave. “Era un ingenuo.” Si sforzò di dire, chiedendo scusa alla memoria di suo padre. “Il mondo non è bianco e nero.”  
Sophia annuì distratta, quasi la conversazione avesse di colpo perso interesse. Meglio così, pensò.
“L’amore è dolore.” Lo riscosse. Continuava a guardare oltre a sé, come se chiacchierasse del tempo. “Da che ho memoria, ogni cosa che ho amato mi ha portato solo sofferenza.”
Sören pensò che era lo stesso modo in cui Milo parlava dei suoi sentimenti; l’amico usava un tono derisorio, sghignazzava ma era solo una scena per nascondere il suo cuore gentile.
Cosa nascondeva invece sua madre?
Forse niente. Forse è solo una messinscena.
Non poteva saperlo, lui non era Lily, non aveva l’empatia necessaria per capirlo. “L’amore non è dolore.” Ribatté, perché comunque gli sembrava una cosa sensata da dire.
“Tu dici?”
Non poteva credere di star avendo quel genere di conversazione, non con davanti tre maghi che avrebbe dovuto arrestare e Johannes.
E soprattutto non con Sophia Von Hohenheim.
Abbassò lo sguardo, incrociando gli occhi scuri della strega: sembrava attendere una risposta.
Non gli restò che accontentarla. “È…” Esitò. Come si parlava di cose effimere come quella? Gli sarebbe davvero servito l’assist di Lily.
Lily … mia Lilian.
“È luce.” Non rischiava nulla ad essere sincero su quello. Del resto, anche i disertori potevano innamorarsi.
“È … essere avvolti nella luce dopo aver camminato nel buio. All’inizio ti sembra di essere più cieco di prima, ed è … fa paura.” Aggrottò le sopracciglia. Era così che si era sentito dopo Nurmengard, quando il Comandante Gillespie gli aveva portato la prima lettera di Lily. Aveva capito di amarla, e ne era rimasto terrorizzato.
Ma poi…
“Ma poi … poi realizzi di aver aspettato quello tutta la vita.  Quella luce. E di volerla, e di voler restare lì ad ogni costo. Anche se forse non te la meriti, perché sei pieno di ombre.”
Ma era stata proprio la sua Lilian a dirgli che al diavolo le ombre, anzi meglio. Era una delle tante cose che si erano sussurrati la notte prima, tra le coperte.
Sembrava passato un secolo.
 
“Ti immagineresti mai un mondo senza neppure un’ombra? Sarebbe orribile, Ren, non ci crescerebbe sopra niente!”
“Sì, ma io intendevo come metafora…”
“E pure io! Però ascoltami. L’ombra serve in natura, serve a rinfrescare, a far crescere cose. Le ombre sono normali … ci devono essere. Meno prosaicamente, tutti abbiamo il nostro passato. Ma fingere che non abbia neanche un problema dentro, è stupido. Perché non è vero.”

“Lily…”
“Ed io non voglio una persona con un passato immacolato. Voglio te, proprio perché sei tu, per quello che hai vissuto e per quello che hai fatto. Anzi, sai cosa? Ne ho bisogno.”

 
“Credo che l’amore sia questo.” Concluse.
Sua madre lo aveva ascoltato senza interromperlo. La risata di Johannes echeggiava nelle paratie metalliche, lasciando l’eco: avevano decisamente distanziato il gruppo. “Non capisco bene.” Gli disse. “Ma immagino che il concetto di amore sia diverso per ciascuno di noi.”
“Amate Johannes?”
“Il passero ama la mano che lo ha chiuso in una gabbia? Sì, la ama.” Aggiunse prima che potesse rispondere. “È la stessa mano che lo sfama e che lo accarezza. Potrebbe ucciderlo, invece lo protegge dal mondo esterno.” Fece una pausa. “Perché dovrei voler fuggire da Johan? Non saprei dove andare. Qui, invece, so cosa mi aspetta.”
Improvvisamente le parole gli aveva detto di usare per convincere sua madre ad abbassare la guardia e fidarsi, ebbero senso anche per lui.
Da una gabbia all’altra.
Era ironico che una situazione come quella lo avesse aiutato ad avvicinarsi a sua madre e a comprendere in parte le sue azioni.
“Il mondo non è un posto così orribile.” Si arrischiò a dire. Il resto della comitiva si era arrestato di fronte ad una porta, che Johannes stava facendo aprire a due mercemaghi.
“Forse no. Ma è soltanto una gabbia più grande.”
“Non sono d’accordo.” La guardò. Un paio di frasi scambiate non avrebbe miracolosamente restaurato il loro rapporto. Non avrebbero fatto crescere di colpo l’affetto, o la familiarità.
Però…
“La mia offerta resta valida.” Disse piano. “Posso offrirvi la libertà. Lontano da lui.”
Sua madre gli carezzò una guancia. “Preoccuparsi per gli altri quando dovresti preoccuparti per te … non è mai stato una caratteristica dei Von Hohenheim, e non credo neppure di tuo padre. Eppure tu l’hai sempre avuta.”
“… Come?” Sören non fece in tempo a registrare il significato della prima frase che sentì Doe chiamarlo. Si voltò, e lo vide sulla soglia, sorridergli.
“Avanti ragazzo, stiamo aspettando te!” Lo apostrofò. “Potrai parlare dopo con tua madre.”
Sören le lanciò un’ultima occhiata, ma la postura e lo sguardo della donna erano tornati distanti Non gli restò così che raggiungere Johannes, che lo afferrò per la spalla, spingendolo dentro.
Si trovò così in una saletta, non molto grande, attrezzata con morbide poltrone di velluto e un paio di tavolini dove campeggiavano bottiglie di champagne pronte ad essere stappate. Ne contò quattro, tre delle quali già occupate dai compratori.
“Stiamo per assistere ad uno spettacolo!” Spiegò l’altro di fronte alla sua confusione. “Vogliamo dare un piccolo assaggio ai nostri amici su cosa un mago a cui è stato somministrato il siero è in grado di fare.” Agitò la bacchetta e quella che fino ad un momento prima era stata una parete si dissolse per lasciar spazio ad una seconda stanza, molto più grande della prima, e forse usata dai Babbani come magazzino.
La parete si era dissolta, constatò, Sören, ma una barriera liquida ed azzurrina, assolutamente simile a quella usata dagli Auror per contenere situazioni potenzialmente pericolose, l’aveva sostituita.
Sören realizzò che oltre non c’era una stanza, ma un’arena.
Si voltò verso Johannes. “Non mi avevi detto di avere un Infetto a bordo.” Anche se Albus gli aveva parlato di ciò che voleva fargli fare Loher, doveva mostrarsi sorpreso.
“Non un Infetto, principino, un super-mago.” Lo corresse. “E mostreremo a tutti ciò che è in grado di fare. Solo, ha bisogno di un mago che gli tenga testa … almeno per un po’.”
Sören realizzò di colpo il motivo per cui l’aveva voluto alla cena. Lo stesso motivo per cui non l’aveva ucciso prendendosi i suoi soldi.
Perché aveva intenzione di usarmi come carne da macello…
“Vuoi che lo affronti.”
“Sei sempre stato intelligente.” Gli diede uno schiaffetto sulla guancia. “Cioè, non davvero, ma abbastanza da capire quando sei stato fottuto, vero?”
“E se mi rifiutassi?”
“Ti farei portare via ed ammazzare.” Disse disinvolto. “Poi ti farei fare a pezzi e recapitare a rate alla tua fidanzatina … Dici che le tornerebbero gli incubi?”
Serrò la mascella, imponendosi di non reagire. I compratori e sua madre potevano essere in ascolto, e poteva ancora…
Merlino, non puoi fare niente. Ti ha incastrato.
“E ah, ucciderei anche il frocetto che sei venuto a salvare. Credo sia questo il motivo per cui sei qui, vero? Oltre a cercare di catturarmi per i tuoi amichetti inglesi.” Aggiunse con una scrollata di spalle. “Come vedi non hai scelta.”
“… non ci hai mai creduto…”
“Certo che no!” Sbuffò divertito. “Ti conosco, principino. So che non tradiresti mai chi ti ha promesso una bella cuccia e una cagnolina in caldo quando tutto questo sarà finito.”
“… non sono un cane.”
Lo afferrò per la nuca e se lo tirò contro “Non sarai mai nient’altro.” Sören rimase fermò quando gli baciò la guancia, una presa in giro, una simulazione grottesca di un gesto paterno.
“Ti ucciderò.” Mormorò e l’avrebbe fatto. L’avrebbe fatto anche a costo di rimetterci la vita.
“Lo dici sempre, ma sono ancora vivo, giusto?” Gli strizzò l’occhio. “Avanti, entra nell’arena. Non vorrai far aspettare i nostri ospiti!”
Sören non rispose, limitandosi a seguire i due Mercemaghi che gli si erano affiancati. Era questo che aveva voluto dirgli sua madre prima, realizzò mentre le passava affianco. Non la guardò, ma si sentì osservato.
Lei lo sapeva. Sapeva che Johannes non gli aveva creduto.
Che senso aveva avuto la loro conversazione se non gli aveva detto quello?
Era ininfluente chiederselo, in ogni caso. Doveva concentrarsi adesso, che aveva ben altra priorità.
Per esempio, non morire.
 
****
 
 
Note:

Ecco la canzone del nuovo capito. *sparisce in una nuvola di fumo e impegni*



 

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Capitolo 63
*** Capito LXIII ***


 
 
 
I'm ready for the fight, and fate 
(Iron, Woodkid)
 
 
 
Da qualche parte nel Mare del Nord …
 
Albus non ricordava quand’era stato l’ultima volta che aveva messo qualcosa sotto i denti, né tantomeno l’ultima volta che aveva riposato preso da un sonno profondo. Aveva dormito sulla nave, ma quanto?
Forse un paio d’ore…
Si strofinò gli occhi, sentendo per l’ennesima volta l’attenzione venir offuscata dalla stanchezza. Non poteva permetterselo.
Non con Luzhin steso sul lettino, le cinghie ancora strette attorno al busto e alle gambe. Era svenuto un’ora prima, dopo che gli era stato inoculato sia il siero che la cura. Sentiva ancora le sue urla nelle orecchie, e non doveva essere l’unico da come Loher stava svuotando bicchieri a ritmo regolare. I Mercemaghi che li avevano assistiti erano usciti per fumare e probabilmente distendere i nervi.
Si chiederanno chi gliel’ha fatto fare.
I soldi non ti aiutano a dimenticare di aver torturato un uomo.
Perché quello avevano fatto; gli avevano salvato la vita sì, ma per cosa?
Al controllò i parametri vitali con la bacchetta che gli era stata fornita, non la sua e quindi ci si trovava male; comunque il polso era ancora accelerato e la temperatura alta.
Perlomeno non sembrava soffrire.
“Funzionerà?” Domandò Loher passandosi una mano sulle labbra, forse per sembrare più autorevole e non sputargli addosso Vodka e saliva.
Non attaccava. “Dobbiamo solo aspettare che si risvegli.” Ribatté asciutto.
“Ma la capacità magica…”
“È ancora vivo, mi sembra già qualcosa.” Si sedette su uno dei due lettini strofinandosi il viso con le mani. “C’è qualcosa da mangiare in questa nave?”
Aveva bisogno di essere in forze per quando Sören sarebbe tornato a prenderlo. Non dubitava neanche per un secondo che sarebbe stato semplice scappare da lì.
Se non mi reggo in piedi sarei solo un peso morto. E ci farei uccidere entrambi.
Loher annuì. “Faccio portare qualcosa.” Gli diede le spalle. Dal suo punto di vista aver giocato al Piccolo Pozionista sulla pelle di un altro mago doveva averli fatti diventare amiconi.
Spero che ti buttino nella cella più umida e buia di Azkaban.
Perché se Doe meritava la galera a vita, Loher meritava altrettanto. Lo aveva visto al lavoro: era un Pozionista brillante, gli incantesimi curativi che gli aveva visto lanciare rivaleggiavano per precisione ed efficacia con quelli di Smethwyck.
Avrebbe potuto salvare centinaia di vite se avesse scelto di fare del bene.
Invece ha scelto la Thule.
L’uomo tornò indietro con una bottiglia nuova, di cui ruppe il sigillo con un movimento allenato. “Un bicchierino?” Gli offrì. Vedendo che lo ignorava aggiunse. “Avanti ragazzo, si vede che ne hai bisogno!”
Non ha tutti i torti.
Era inutile fare il sostenuto quando avrebbe avuto incubi per settimane finita quella storia. Lo accettò vuotandolo di colpo. Il tedesco fischiò. “Non si direbbe dal faccino che hai, ma sai bere!”
“Sono inglese, è quasi uno sport nazionale dalle mie parti.” Lo fece ridere. Meglio, più abbassava la guardia più sarebbe stato semplice averne ragione se le cose avessero dovuto farsi fisiche.
“Mocciosi inquietanti …” Loher stava guardando Luzhin. “Doe era uguale a lui quando era ragazzo.” Gli riempì nuovamente il bicchiere facendo lo stesso con il suo. “Alberich lo trovò in mezzo ad una strada a fare la fame … Meglio giovani e disperati, diceva. Bastava che ci parlasse un paio di volte … ed erano suoi per sempre.”
“Immagino…” Sembrava in vena di chiacchiere e Al non lo deluse: poteva sempre dargli informazioni utili. “Però Doe non mi è mai sembrato il genere di persona che segue ciecamente qualcuno.”
“Mica li metteva sotto Imperius sai!” Esclamò “Sfruttava i loro punti deboli, i loro desideri. Probabilmente allo psicopatico lassù…” Indicò il soffitto sopra di loro. “Avrà detto che poteva avere tutti i soldi che voleva.” Borbottò. “No, a lui non è mai importato niente della Conoscenza. Per la maggior parte di quei ragazzi però non era così … Ci credevano davvero.”
Al non faceva fatica a credere che una schiera di ragazzi come Luzhin e Ren fossero stati manipolati nel diventare bacchette assassine in nome di un’ideale: Von Hohenheim aveva quasi fatto impazzire Tom, ed era la persona più testarda e insofferente ai giochi di potere che conosceva.
“Alberich ha sempre avuto le parole giuste per convincerti.” Continuò Loher. “Ti faceva credere che eri destinato a grandi cose, che erano gli altri … la società … a non capire il tuo potenziale. Ci cascavano tutti.” Indicò di nuovo Luzhin. “Lo vedevano come il padre che finalmente si meritavano. In un certo senso, li faceva nascere una seconda volta. Li creava.”
Il Demiurgo…
Chissà che il progetto non avesse preso il titolo dalle manie di onnipotenza del suo principale promotore.
“Li ingannava.”  
No!” Esclamò con gli occhi pieni di rabbia, tanto che Albus si ritrasse sorpreso. “Li lusingava, ma non mentiva Alberich … mai. Era davvero così. La Thule … le cose che abbiamo fatto, le barriere della magia che abbiamo abbattuto… Il Demiurgo stesso … se avesse avuto Prince ancora a capo avrebbe funzionato!”
“Elias Prince, il padre di Sören.” Annuì con aria comprensiva, perché non era mai una buona idea contestare un ubriaco.
“Era un genio.” Annuì e c’era sincera ammirazione negli occhi acquosi e fuori fuoco dell’uomo. “Lavoravo sotto di lui quando ho iniziato. Era un visionario … Vedeva un mondo dove i Babbani non avrebbero più potuto farci del male, dove saremo stati lontani dalla loro ignoranza, dalla loro violenza e dalle loro guerre.”
Albus sbuffò. “Ho già sentito questa storia…”
Loher ridacchiò, dando un sorso al suo bicchiere. “No ragazzo, niente a che fare con il dominio incontrastato dei Maghi sui Babbani. Siamo troppo pochi per essere una vera minaccia e il nostro sangue è sempre più diluito. Siamo destinati a scomparire se continuiamo a mischiarci con loro.”
“Non funziona proprio così…”
“No, quello che Elias teorizzava era scomparire completamente dalle loro mappe.” Continuò ignorando la sua osservazione: era ormai sul viale dei ricordi. Da come la faccia si contorceva in pura commozione doveva aver avuto una cotta per il padre di Sören o roba del genere.
Ugh.
“Hai mai sentito parlare dell’Orbis Alius?”
“… di cosa?”
Quella bizzarra conversazione fu interrotta da un lamento. Al si voltò perché proveniva dal lettino su cui era steso Luzhin; il ragazzo aveva di colpo aperto gli occhi e li stava fissando.
Si trovò a trattenere il fiato e lo rilasciò di colpo solo quando notò che l’iride piena, celeste e normale.
Niente occhi bianchi. È un buon segno, giusto?
“Ben svegliato.” Biascicò l’altro mago con una risatina fuori luogo.  
Questo rimbalzò lo sguardo dall’uno all’altro. “Cos’è … cos’è successo?”
Loher emise un urletto di trionfo. “Visto Potter? Ce l’abbiamo fatta!”
… pare di sì.
Si avvicinò, controllandogli i parametri vitali per l’ennesima volta. Lo guardò stupito: il polso era bradicardico e la temperatura era scesa tornando a livelli normali.
Ce l’abbiamo fatta davvero. Abbiamo attivato il Demiurgo senza gli effetti collaterali!
Avrebbe gioito se questo non avesse significato dare una mano a Doe. “Come ti senti?” Preferì domandargli rifugiandosi nel suo ruolo di Guaritore.
“Bene.” Non era un tipo di molte parole. Guardò le cinghie confuso. “… Cos’è successo?” “Ti abbiamo curato.” Riassunse perché non gli sembrava il caso di dilungarsi in particolari. Li stava guardando, ma l’espressione era assente, come se facesse fatica a capire quello che gli stavano dicendo.
Eppure sono sotto Incanto Traduttore da quando ho messo piede qui.
“Il Demiurgo ha funzionato ragazzo, sei il primo esperimento riuscito!” Sbottò entusiasta Loher.
Albus lo ignorò perché l’alternativa era infilargli una scarpa in bocca.
Tom l’avrebbe già Schiantato.
“… Sono il Demiurgo?”
“Tecnicamente sei sotto effetto del Demiurgo.” Lo corresse; era sempre più convinto che non fosse del tutto in casa.
Non che abbia avuto modo di conoscerlo prima … ma mi sembrava un po’ più presente.
Se non altro nel minacciarmi di morte.
In ogni caso era tutta un’altra storia rispetto agli Infetti che aveva avuto modo di vedere al San Mungo mesi prima. “Ho sete.” Gli comunicò.
“Dopo tutto il sangue che hai perso è normale.” Al alzò gli occhi al cielo quando Loher fece per riempire l’ennesimo bicchiere di Dio Sa Cosa. “Forse è meglio dell’acqua.” Prese la caraffa ma non fece in tempo a riempire il bicchiere che Luzhin si alzò strappando le cinghie che lo tenevano bloccato come se fossero pezzi di scotch.
Quelle cinghie erano magiche.
Si diresse verso la caraffa e la afferrò trangugiandola tutta in poche sorsate.
Al trovò assolutamente ragionevole indietreggiare di un paio di passi: sì, sembrava tutta un’altra storia rispetto agli Infetti ma si era appena liberato dall’equivalente Babbano di quasi mezzo quintale di catene d’acciaio inossidabile. “… forse dovresti stenderti.”  
Luzhin fece un mezzo sorriso. “Non ce n’è bisogno. Mi sento bene.” Sembrava sorpreso lui stesso. “Continuo ad avere sete però.”
“Ti faccio portare altra acqua!” Esclamò Loher prima di chiamare a gran voce i Mercemaghi. “Tutta l’acqua che vuoi ragazzo! Te lo meriti.”
Luzhin si guardò le mani, stringendo e rilasciando i pugni. “Potter … sei stato tu a rimettermi in piedi?”
Annuì. Non aveva idea del perché, visto che gli si stava rivolgendo con molta più gentilezza di quanto ne avesse usata al Laboratorio, ma aveva i nervi a fior di pelle. “Uno sforzo congiunto con Loher.”
L’altro contemplò il mago più anziano senza nascondere il disgusto. “Non mentirmi. Sei stato tu.” Gli tese la mano, chinando la testa. “Mi hai salvato la vita. Ti ringrazio.”
Al non aveva la minima intenzione di avvicinarsi, ma non aveva neanche scelta. Era piuttosto sicuro di non averla. Così gli strinse la mano: fu un attimo. Fu come quando per sbaglio aveva toccato il vecchio tosaerba dei Dursley prendendo la scossa. Si ritrasse soffocando un gemito.
Aveva fatto molto più male.
Luzhin sembrò sorpreso quanto lui ma non altrettanto dolorante. Si guardò ancora le mani, poi sorrise. “Scusa. Colpa mia.”
… okay, è inquietante. È dannatamente inquietante.
Aveva lo stesso sorriso fisso e allarmante che gli aveva rivolto Tom quando era sotto Imperio.
Solo che nessuno l’ha Maledetto.
“Mi sento davvero bene grazie a te.”
“… non c’è di che?” Non trovò di meglio da dire mentre la porta del Laboratorio si apriva con Loher scortato dai due Mercemaghi … e da Doe.
Poteva andare peggio. Poteva piovere.
“Albus, sei stato un ottimo acquisto!” Esclamò allargando le braccia mentre guardava da lui a Luzhin. “E il mio caro Søren. Chi non muore si rivede, ti vedo in ottima forma!”
“Sissignore.” Confermò mettendosi sull’attenti. “Comandi.”
Doe lo guardò trionfante. “Il mio bravo soldatino…” Per un folle momento Albus pensò che l’avrebbe abbracciato. “Bene, bene… Loher mi ha già detto tutto. I festeggiamenti a dopo, che ne dite?” Batté le mani. “Invece caro il mio Luzhin, io e te andiamo a farci belli di fronte ai nostri benefattori.”
“Ho sete.”
… ancora?
Doe fece un cenno dismissivo. “Potrai bere tutto il vino elfico che vuoi dopo che ti sarai pavoneggiato di fronte ai nostri sacchi di Galeoni su due gambe. Dovrai combattere, ti voglio concentrato e non sbronzo.”
A questo il ragazzo sorrise. E poi, di nuovo quel sorriso fisso da matto.
Possibile fosse il solo ad averlo notato?
“Sissignore.”
Doe si voltò verso di lui. “Loher mi ha detto che hai fame. Abbiamo un sacco di roba da sgranocchiare dove stiamo andando, vieni con noi?”
Albus fece per rispondere di no, che non ci pensava nemmeno ma l’espressione dell’uomo lo convinse del contrario. “Non ho scelta vero?”
Questo ridacchiò passandogli un braccio attorno alle spalle. “Sei quello sveglio della famiglia, eh?”
No, non lo sono.
O non si sarebbe mai trovato a braccetto con John Doe con la certezza di aver appena creato qualcosa di simile ad un Frankenstein magico.
 
****

Ministero della Magia, Ufficio Auror.

Ama stava bevendo l’ennesimo caffè disgustoso ed era così piena di caffeina che non ricordava l’ultima volta in cui aveva posato la testa su un cuscino.
In una situazione del genere non aveva però molta importanza. Si passò una mano tra i capelli, mentre l’ennesima chiamata a Fuoco Magico infruttuosa le dava la misura di quanto la sua presenza lì fosse inutile: i contatti inglesi, una lunga lista di informatori del SAGITTA tra Maghi e Babbani, non le stavano dando i risultati sperati. Nessuno aveva visto o saputo niente del rapimento di Albus Severus Potter.
E Prince ancora non si trova. Anche l’anello con il GPS risulta irrintracciabile. Deve averlo perso.
Nel peggiore dei casi il suo miglior agente poteva essere stato fatto prigioniero o ucciso; nel migliore aveva invece tra le mani una nave piena di mercemaghi e con un ostaggio da tenere in vita.
Non vorrei essere al suo posto per niente al mondo.
O forse sì: perché a differenza di quel maledetto europeo testone lei avrebbe fatto di tutto per uscirne viva. Sören per salvare capra e cavoli si sarebbe probabilmente fatto ammazzare.
Una lettera rischiò quasi di conficcarlesi in un occhio, e solo i suoi riflessi ormai dettati dal nervoso le consentirono di prenderla al volo.
Era dell’Agente Potter.
 
Abbiamo una pista. Tocca la lettera con la bacchetta, diventerà una Passaporta. Bussa al 72 di Diagon Alley.
 
Ama non se lo fece ripetere due volte, trangugiò l’ultimo sorso di caffè e stinse i denti quando la magia la strappò dalla sedia sfondata per catapultarla a mezz’aria tra i tetti di Diagon Alley.
Atterrò incespicando al civico indicato – odiava quel mezzo di trasporto, in America le Passaporte erano state sostituite da tempo con un sistema di Metropolvere capillare. 
Dopo questo maledetto caso dormo dieci giorni. Di fila.
Non doveva essere l’unica con quello stato d’animo, perché quando bussò al portoncino designato gli aprì un tardo adolescete con l’aria dell’insonne cronico.
“Sì?”
Mostrò il distintivo agganciato alla cintura. “Sergente Ama Gille…”
“Sì, sì.” La fermò grattandosi una porzione di pancia scoperta quasi fosse allo specchio e non di fronte ad un agente di polizia. “Hugo, ci sta un’altra testa di bacchetta!”
Prego?
Non ribatté a tono solo perché fu surclassata da un urlo. “Falla passare!”
“Vabbeh.” Brontolò questo lasciandola entrare per poi richiudere la porta digitando un codice che, dal rumore, sembrò bloccarla quasi fosse il caveau di una banca.
La cosa la sconcertò visto che Diagon Alley sembrava la culla della Magia più antica; quello che invece le si parava davanti era un’enorme stanza su un unico piano ingombra di cavi, illuminazione led e tanta, tanta tecnologia Babbana.
Con i campi magici che emana ogni singolo mattone del quartiere?
Intravide tre mantelli rossi tra quell’esplosione fantascientifica. James fu il primo a notarla, facendole un cenno di saluto: sia lui, che il padre che il sergente Weasley erano alle spalle di un ragazzo dai capelli rossicci che stava smanettando davanti ad un computer.
Ama non era cresciuta nel Mondo Babbano, ma ne conosceva i principali metodi di intrattenimento, quali cinema, musica e videogiochi – Mark, il suo ultimo ragazzo, era stato un buon cicerone in tal senso.
Quel computer sembra uscito da un film di fantascienza degli anni ’90!
“Ehi Ama! Vieni.” La invitò James. “Hugo sta per farci vedere quello che ha trovato.”
“… Trovato cosa?”
“Filmati delle telecamere di sorveglianza di diverse zone dell’Inghilterra. Abbiamo trovato il rapitore di Al.” Spiegò il Capo Potter voltandosi. Anche lui avrebbe avuto bisogno di una vacanza.
O forse di figli meno sfortunati.
Ma si trattenne dal comunicarglielo. “Avete usato un programma di riconoscimento facciale?” Domandò, perché aveva seguito vari corsi sui metodi investigativi Babbani. Era sorpresa che l’avessero fatto anche gli inglesi.
Non mi sembrano così al passo coi tempi.
“Beh, non proprio.” Borbottò il ragazzo al computer. “Abbiamo un po’ barato.”
“Mio cugino e i suoi amici hanno fatto amicizia con una società di sicurezza Babbana che fa software per i circuiti di sicurezza di mezza Inghilterra.” Spiegò James con l’aria di recitare una frase che aveva imparato a memoria, ma senza capirne il senso. “Ho detto bene?”
“Più o meno.” Commentò questo lanciandole un’occhiata per poi abbassare subito lo sguardo. “Non la chiamerei amicizia …”
Assomiglia a Mark. Nerd.
Ricambiò il sorriso. “Avevo capito.”
“Hugo, puoi mostrarci qualcosa?” Lo incalzò il Capo Potter.
“Un attimo zio … Questa macchina ha avuto giorni migliori.”
“Non potevi usare un computer più veloce?”
“È quello più veloce che ho.” Si adombrò rendendo così lampante la sua somiglianza con il Sergente Weasley.
Dev’essere suo figlio.
“È molto interessante quello che fate qui. Non ho mai visto tanta tecnologia così vicina ad un’area ad alta densità magica.” Intervenne conciliante. Comprendeva l’urgenza degli Auror, ma aveva imparato a sue spese che i civili non andavano messi sotto pressione. “Se avete bisogno di nuove attrezzature il mio ufficio ha alcuni contatti utili.” Si offrì, perché non ci voleva un genio per capire che quel posto era un faro di modernità nella sonnolenta società magica inglese.
Ad Ama, come sua madre, piaceva aiutare persone che nel tempo potevano ripagarla da debiti di gratitudine.
Il ragazzo la guardò stupito arrossendo di nuovo. Era carino, stimò divertita. “… grazie per l’offerta, ma non è che non potrei procurarmeli. Solo che più sono nuovi più ci danno problemi.” Le spiegò. “L’hardware più robusto e affidabile è stato prodotto negli anni ’90. Tra l’altro, è quello che sbarella di meno se c’è di mezzo la magia.”
“Immagino che la tecnologia wireless sia fuori discussione.”
“Eggià.”
“Finalmente qualcuno che parla la tua lingua, eh Gogo?” Lo stuzzicò James. “Te l’avevo detto che agli americani piace ‘sta roba!”
“Piace alla maggior parte degli esseri umani, sai.” Sbuffò l’altro. “Ah … ecco.” Brontolò sollevato. “Ci siamo.” E con un colpo di mouse l’intero schermo si riempì della classica risoluzione rudimentale e pixelata da telecamera di sorveglianza.
“Questo filmato è di una gioielleria vicino al San Mungo.” Esordì il ragazzo; pochi secondi dopo nell’inquadratura entrarono due figure riconoscibilissime, specialmente perché la prima, tenuta per il braccio dalla seconda, aveva un camice da Guaritore.
“Al…” Mormorò il Capo Potter e la mascella serrata faceva ben capire le sue emozioni, anche se il resto della faccia era immobile. I due ragazzi sparirono pochi instanti dopo in un lampo che, a giudicare dalle interferenze, doveva aver causato non pochi problemi alla linea elettrica della zona.
“Si sono Smaterializzati.” Sbuffò il Sergente Weasley. “E adesso?”
“Un secondo papà.” Hugo digitò alcuni comandi sulla tastiera e l’inquadratura cambiò. Stavolta ritraeva quello che sembrava il retro di un locale. “Vicolo dietro una discoteca a Birmingham.” Disse mentre nell’inquadratura apparivano il rapitore e il giovane Potter. Il fotogramma dopo invece era in un parcheggio di un Centro Commerciale a Manchester.
“Si è Smaterializzato ogni tot miglia. Londra, Birmingham, Manchester…” Enumerò James. “Ha senso se voleva allontanarsi da Londra e voleva farlo velocemente ma senza perdere pezzi.”
“Aveva già memorizzato i punti di Materializzazione.” Considerò il Capo Potter. “Tutti nel Mondo Babbano.”
Il Sergente Weasley fece una smorfia divertita. “Pensava che non l’avremo beccato così, e invece…” Arruffò i capelli del figlio. “Ottimo lavoro ragazzo!”
Ama guardò il volto di Luzhin, soffermandosi sui capelli biondi e ben pettinati, l’aria pulita e tranquilla. Ethan Scott doveva averlo trovato perfetto come tirapiedi, dava proprio l’impressione di qualcuno che amava prendere ordini.
Non sembra capace di uccidere.  
Ma dopotutto non lo sembra neppure Sören.
La Thule aveva arruolato ragazzi che sembravano tutto fuorché maghi oscuri. Forse era per quello che erano riusciti ad operare indisturbati per anni: sia lui che Prince sembravano persone normali, che chiunque poteva incrociare passeggiando per strada o salutare sul pianerottolo di casa.
I perfetti infiltrati.
Il pensiero le diede un certo malessere.
“L’ultima traccia che abbiamo è ad Edimburgo.” Hugo indicò lo schermo: mostrava un’ampia area portuale, riconoscibile per i container e i muletti che vi si muovevano. “Poi li abbiamo persi.”
“Si sono imbarcati!” Esclamò James. “Sono sicuro! Si sono imbarcati!”
“James …” Lo frenò il padre. “Potrebbe essere un altro tentativo di depistaggio.”
“Come se non ce ne fossero già stati abbastanza.” Borbottò Weasley Senior.
“No invece.” Ribadì testardo. “Pensaci papà! Se sono su una nave Babbana sono fuori dai giochi. Da tutti i giochi! Doe può mandare in tilt qualsiasi sistema di localizzazione, come deve aver fatto con il gps nell’anello di Prince, così per i Babbani risulterebbe sparita nel nulla … e per noi vale la stessa regola, perché un cargo pieno di chessò, computer, non lo considereremo mai!”
“E potrebbero navigare in acque internazionali, scappare senza essere inseguiti.” Gli diede manforte Ama. Era un’idea sensata. “Una nave Babbana è il mezzo di trasporto perfetto.”  
Il Capo Potter si scambiò un’occhiata con il Sergente Weasley. “Non hanno tutti i torti.” Convenne quest’ultimo. “C’è solo un problema … come miseriaccia facciamo a sapere quale nave hanno preso? Da un porto del genere ne partiranno decine ogni giorno!”
“Dì pure centinaia.” Sospirò Hugo. “Da qui possiamo hackerare i computer del porto, quelli che tengono i registri di entrate e partenza suppongo, ma se non sappiamo dove guardare…”
Ama rifletté velocemente. “Che porto avete detto che è?”
Hugo si voltò verso uno dei ragazzi seduti ai computer distanti da loro. “Non l’ho detto. Robin, che porto è?” Chiese ad una ragazza con lunghi dreadlock e un sacco di piercing.
“Grangemouth.” Rispose quella pronta. “Volete che cerchi il collegamento di Metropolvere più vicino?”
“Quello possiamo farlo da soli … ” Tentò il Sergente Weasley un po’ piccato. “Mando un Gu-…”
“Noi siamo più veloci pa’.” Sorrise Hugo. “Allora?”
“Powdrake Road, in un pub, lo Smiddy Crest.”
James si guardò attorno, cercando probabilmente con lo sguardo una mappa della Metropolvere. “Ma come…”
“Abbiamo digitalizzato.” Si strinse le spalle Hugo. “Abbiamo creato una mappa privata su Google Maps. È più semplice se usiamo il loro motore di ricerca.”
Ama guardò con divertimento i tre Auror cercare di far finta di averci capito qualcosa. “Grazie.” Disse ai due ragazzi. Poi si rivolse ai colleghi. “L’ho chiesto perché il nostro DALM ha contatti con tutte le polizia portuali e aereoportuali del Commonwealth. I maghi oscuri americani tendono ad usare aerei e navi per trasportare artefatti magici. I controlli doganali Babbani non sono attrezzati per rilevare magia oscura … Così un paio di anni fa abbiamo messo nostri agenti in incognito in tutti i porti più grandi.”
“Ottimo.” Il Capo Potter si mostrò impressionato, la qual cosa, doveva ammetterlo, la inorgoglì. Con la sua storia personale non doveva esser semplice sorprenderlo. “Come intendi procedere?”
“Se è sparita una nave, sicuramente i Babbani se ne saranno accorti. Non sono così sprovveduti come molti credono…” E la frecciatina fu tutta per il Sergente Weasley. “Sarà stata aperta un’indagine. Dovrò solo scoprire di che nave si tratta e poi potremo usare i nostri mezzi per cercarla.”
“Fallo.” Convenne l’uomo. “E porta con te l’agente Potter.” Aggiunse vedendo che il figlio scalpitava.
“Sissignore.” Ama fu contenta di avere James con lei: ci aveva messo un po’, ma aveva imparato a considerarsi parte della squadra Auror anche se continuava a non condividere alcuni metodi di indagine. Ma in azione ... beh, le sarebbero mancati quei tre ragazzoni inglesi.
“Appena sapete qualcosa chiamateci.” 
Risposero in coro. “Sissignore.”  
 
****
Da qualche parte nel mare del Nord…
 
A Sören era stata data una bacchetta non sua. Uno dei Mercemaghi era infatti entrato nell’arena improvvisata e gli aveva porto un legno che aveva subito sentito spiacevole sotto le dita. Doveva essere la bacchetta di scorta di qualcuno perché era maltenuta pur non avendo segni di uso frequente.
Castò un Lumos e fece una smorfia: lento e difficoltoso.
Non che avesse molta importanza: non voleva vincere, ma solo uscirne vivo.
Guardò verso la parete di magia liquida che lo separava dagli spettatori. Sua madre era seduta accanto a Thierry che le stava dicendo qualcosa, una mano posata sulla sua gamba. Sophia non sembrava neppur aver notato il gesto troppo confidenziale: guardava un punto lontano nella stanza, persa nei suoi pensieri.
Doe entrò, seguito da …
Oh, no.
Albus Potter. Il ragazzo si sedette dove gli venne indicato accettando con un sorriso nervoso un calice di vino elfico. Persino oltre la barriera di magia azzurrina poteva vedere che aveva il viso pallido e spossato.
Ti tirerò fuori di qui. Ne usciremo vivi, entrambi.
Non che le sue promesse potessero essere udite – né  aveva la certezza che le avrebbe mantenute – ma lo pensò lo stesso.
Lo aiutava a non realizzare l’inevitabilità di uno scontro che avrebbe potuto ucciderlo.
Concentrato su Al non si rese conto che Doe aveva accompagnato dentro anche un’altra persona: il suo opponente che penetrò la barriera magica come se fosse burro. Lo riconobbe immediatamente e non poté frenare un suono sorpreso.
Søren Luzhin?
Non avrebbe mai potuto togliersi dalla mente l’aspetto del ragazzo che aveva dovuto impersonare durante il Torneo Tremaghi.
… era un uomo di mio zio?
Così sembrava. Il ragazzo si tolse la giacca e la gettò a terra con un movimento allenato, di chi aveva già affrontato molti Duelli.
“Tu…” Mormorò senza sapere bene cosa dire. La sorpresa era troppa; era certo che Doe stesse sghignazzando alle sue spalle.
“Immagino non vi ricordiate di me.” Convenne questo in tedesco. “Ero qualche anno dietro a voi a Durmstrang. Sono stato cresciuto nel nome della Conoscenza, per la Thule. Come Voi.”
Non avrebbe dovuto stupirsi: persino nella morte suo zio era riuscito a metterlo in difficoltà, a farlo sentire tradito e stupido.
Ho sempre pensato che Luzhin fosse una vittima. Una mia vittima.
Invece era parte del piano…
Sapeva che Alberich aveva finanziato l’educazione di molti ragazzi oltre a lui, soldati che sarebbero andati ad ingrossare le fila dell’organizzazione una volta raggiunta la maturità. Sapeva, perché glielo aveva detto Doe, che non era l’unico ad aver compiuto missioni operative.  
Non immaginava però che avrebbe mai incontrato un collega, e che quello sarebbe stato Luzhin.
“Eri il corrispondente di Lily…”  
“Lo ero, finché Vostro zio non ha deciso di sostituirmi con Voi.” Convenne. “Un errore tattico che non mi sono mai spiegato. Io non avrei fallito.”
Sören strinse la bacchetta tra le dita. “Allora è stato meglio così.” Disse a denti stretti.
Negli occhi del ragazzo passò un lampo indecifrabile. “Lo credete davvero?” Non sembrava particolarmente preoccupato dallo scontro.
Poi Sören si ricordò che in teoria aveva il Demiurgo in circolo.
Ed è cosciente?   
Albus Potter aveva dunque fatto il miracolo da Doe tanto atteso? Aveva stabilizzato il siero del super-mago?
“Non che abbia importanza adesso.” Continuò Luzhin guardando verso gli spettatori. “Credo che vogliano vederci combattere, Herr Von Hohenheim.”
“Prince.” Lo corresse togliendosi la giacca e tirandosi su le maniche della camicia. “Mi chiamo Sören Prince.”
Il ragazzo annuì e poi non restò che inchinarsi l’uno all’altro.
Sembra in sé. Forse non dovrò combattere per…
Non fece in tempo a finire il pensiero che un incantesimo lo spedì dall’altra parte della stanza. Sbatté violentemente contro la parete e solo i riflessi gli permisero di cadere in ginocchio e non rompersi la faccia.
Tossì per il dolore e il respiro mozzato. Non si era neanche accorto che l’altro aveva levato la bacchetta. 
Luzhin gli diede il tempo di rialzarsi in piedi, come regola voleva. Stavolta Sören non esitò; gli lanciò contro un Impedimenta. La sua intenzione non era metterlo fuori gioco e vincere, ma rallentarlo.
Doveva sì essere un sacco da allenamento per mostrare l’efficacia del Demiurgo, ma non aveva intenzione di rimetterci la vita nel processo.
Il ragazzo deflesse l’attacco senza neppure uno scudo di difesa: mandò semplicemente il suo incantesimo a schiantarsi contro la barriera di magia, che lo assorbì con un lampo accecante.
“Tutto qui?” Gli chiese. “Mi avevano detto che il nipote di Von Hohenheim ci avrebbe un giorno guidato tutti…”
Sören strinse le labbra, assorbendo l’offesa. Al di là della situazione, il suo orgoglio urlava oltraggiato.
“No, non è tutto qui.”
Schermò il successivo Schiantesimo con quella mano, e approfittando della sorpresa del ragazzo – non sapeva del nucleo di bacchetta nel suo braccio? – gli lanciò un Everte Statim che lo fece indietreggiare di parecchi metri anche se non perse l’equilibrio.
Era un Duello che sembrava più una battaglia senza esclusione di colpi. Sören aveva incrociato la bacchetta con molti maghi prima di Luzhin, ma era come scontrarsi con la Magia stessa.
Magia che non vacillava, che dava indietro tutto quello che riceveva, solo moltiplicato, solo ancora più letale.
Poteva essere trascorsa un’ora come dieci minuti e Sören sentiva le gambe tremare, i polmoni in fiamme e la mano che reggeva la bacchetta ustionata. Luzhin sembrava fresco come una rosa.
Il siero del super-soldato è dunque questo …
Ti rendeva davvero invincibile.
Sören tentò un’ultima apertura, ma lo Schiantesimo di Luzhin lo prese in pieno. Crollò a terra, boccheggiando alla ricerca di aria, ancora cosciente ma senza forze. Non tentò neanche di alzarsi, tanto non ci sarebbe riuscito.
Il ragazzo biondo gli torreggiava davanti come un dio della mitologia nordica.
Era così che Von Hoehnheim avrebbe voluto me e Thomas?
“Eccezionale!” Eruppe uno dei compratori. Dalla voce sembrava Thierry anche se dalla sua posizione non riusciva a vederlo. “Johannes, credo di aver visto abbastanza. Ammetto che avevo cominciato a dubitare di aver speso bene i miei Galeoni, ma mi sbagliavo. Il siero funziona, e questo splendido adone ne è la prova!” Sospirò. “Non è che posso comprare anche lui con la formula?”
“La penso come Renard.” Convenne la strega dell’Est. “E voglio raddoppiare il mio ordine.”
Sentì la risata di Doe. Era un tripudio di trionfo e soddisfazione. “Dei dettagli ne parleremo dopo, ma sono lieto che lo spettacolo vi abbia potuto provare la bontà del vostro investimento.” Sören sentì dietro di sé la barriera magica venire dissolta. “Lasciamo che i nostri duellanti riposino adesso.”
Quindi non voleva uccidermi…
Come al solito Doe aveva giocato al gatto col topo. Si rialzò a sedere: ogni singola costola gli  doleva al tal punto dal farlo urlare.
“Già finito?” Fu la voce del Principale Benefattore a riempire lo stanzone. “Johannes, ci avevi promesso uno spettacolo degno di questo nome.”
Doe parve confuso. “Mi sembra di aver già provato l’efficacia del Siero…”
“Certamente.” Convenne. “Ma avevi detto che il Siero abbassa anche le inibizioni e le remore morali. Ti rende, parole tue, un soldato in attesa di un ordine.”
Sören cercò lo guardo di Albus Potter, e da quel che gli restituì, intuì che Doe aveva come al solito esagerato.
“Sì, è uno dei suoi tanti benefici.”
“Fagli uccidere il ragazzo allora.” Disse l’uomo come se stesse parlando del tempo. “Se è nient’altro che una macchina obbediente basterà che glielo ordini.”
Sören vide esitazione nel volto dell’antico compagno. Aveva tratto immenso piacere nel torturarlo fisicamente e mentalmente durante gli anni, ma realizzò, non aveva mai voluto vederlo morto.
O avrebbe avuto più di un occasioni per farmi fuori.
Una cosa era un danno collaterale, Luzhin che lo uccideva per sbaglio.
Una cosa è ordinare il mio omicidio.
Doe era un vigliacco, lo era sempre stato. Dietro i suoi lazzi e le sue crudeltà non aveva mai avuto la spietatezza gelida di suo zio. Lo aveva visto uccidere, ma sempre colpendo alle spalle, mai guardando in faccia la sua vittima.
“Allora?” Domandò la strega. “Questo Duello non è concluso. Senza una morte, non è che una scaramuccia tra ragazzini.”
Thierry fece l'ennesima una risatina nervosa, ma intervenne. Non ne avrebbe avuto motivo.
Sören capì di non avere nessuno a perorare la sua causa: non Doe, che non poteva smentirsi e rischiare di perdere faccia davanti a tutti, non Albus, che era trattenuto a sedere da uno dei Mercemaghi a viva forza. Aveva la schiena rigida, ed era ovvio che gli stessero puntando la bacchetta alla schiena.
Non provò neanche a guardare verso sua madre.
Quindi finirà così…
I compratori, con i loro soldi, si sentivano in diritto di ordinare la sua morte per puro divertimento e nessuno li avrebbe fermati.
Con un’occhiata intimò all’amico di non aprire bocca. Se avesse attirato l’attenzione su di sé avrebbe rischiato di diventare parte del divertimento.
Doe si schiarì la voce. “Sören, tirati in piedi. Offri un ultimo spettacolo decoroso…”
Obbedì, perché al di là di tutto non si sarebbe fatto ammazzare come un animale al macello.
Mi dispiace Lilian…
C’era solo lei nella sua testa in quel momento. La sua piccola inglese, il suo sorriso, le sue mani, le sue labbra e ogni singola meravigliosa curva del suo corpo. Se doveva morire, lo avrebbe fatto i pensieri pieni di lei.
Perdonami Liebchen …
Aveva infranto la loro promessa. Non sarebbe tornato, ma soprattutto non era riuscito a salvare Albus. Era questa la cosa peggiore.
Non sono un eroe. Non ci sono riuscito anche se volevo diventarlo. Per te, mia Lily…
Mi dispiace. Mi dispiace tanto.
Non sarebbe riuscito ad opporsi a Luzhin, aveva perso le ultime forze. Levò la bacchetta sentendo il braccio pesare come se fosse ancorato al fondo del mare.
 
“È mio figlio quello di cui state parlando.”

Era stata sua madre a parlare, rompendo il silenzio che si era creato.
Sören si voltò per vedere Sophia alzarsi, togliersi dalla presa tentacolare di Thierry. C’era tutto il tono di una Von Hohenheim in quelle parole, tanto che Doe aprì la bocca per ribattere ma la richiuse subito quando l’altra continuò.
“Non voglio che sia ucciso per il divertimento dei nostri ospiti.” 
“Ci era stato promesso…” Iniziò la strega.
“Non mi interessa.” La bloccò. “Se volete un cadavere alla vostra tavola usate un Mercemago, non un Purosangue figlio di una delle più Antiche Casate europee.” 
… Chi è questa donna?
Non poteva essere la stessa strega che aveva visto fino a quel momento.
Mi sta difendendo?
Doe sembrava non sapere che Snaso pescare. Al di là di tutto sua madre era Sophia Von Hoenheim, la sorella del fondatore della Thule. Non poteva ignorarla.
Albus, approfittando dell'attenzione diverta altrove, si liberò dalla presa del Mercemago – forse spaventato dall’eventualità di essere la sostituzione designata. “Cos’altro volete?” Sbottò con le lacrime agli occhi. “Il siero funziona, è per questo che avete pagato, non per un omicidio!”
Thierry parve trovare il coraggio di dire la sua. “Via, via … Siamo tutti un po’ su di giri per via del vino … Non facciamo cose di cui potremo pentirci. La bella Sophia ha ragione, uccidere il ragazzo mi sembra eccessivo.”
Il Principale Benefattore annuì con un sorriso incolore. A differenza degli altri non si era mosso dalla sua sedia. “Non ero a conoscenza della parentela. Perdonami Johannes, ci siamo lasciati un po’ andare.”
“Nessun danno.” Disse tra i denti questo. Essere preso in contropiede dalla sua donna doveva averlo mandato in escandescenze, ma non darlo a vedere. “Luzhin, lascia perdere, abbiamo visto abbastanza.” Si voltò verso Albus. “E tu, renditi utile, portalo in infermeria.”


“No, non voglio.”


Luzhin lo disse talmente piano che probabilmente l’udì soltanto lui.
Accadde tutto velocemente: il suo opponente levò la bacchetta, le prime scintille verdi che facevano intuire di che incantesimo si trattasse. L’ordine abbaiato, e ignorato, di Doe. L’urlo di Al. Il placcaggio, letteralmente, dell’amico che lo buttò a terra. La compressione della Smaterializzazione.
Altro non gli fu dato di capire perché perse i sensi.
 
****
 
 
Note:
Questa la canzone del capitolo.
Personalmente, mi immagino Søren Luzhin come Alexander Ludwing di Vikings.
E capiremo meglio perché ha disatteso gli ordini.
E perché Sophia si è messa in mezzo quando pareva non fregargliene una ceppa. ;D

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Capitolo 64
*** Capitolo LXIII ***


Capitolo LXIII
 
 
 
 

Hold me closer than anyone before
(Send them off! Bastille)
 
 

13 Agosto 2028
Porto di Grangemouth, Scozia.
 
“Sai cosa detesto del nostro lavoro Ama?”
Nora si voltò verso James, seduto accanto a lei nell’angusto prefabbricato che faceva da ufficio alla guardia portuale di Grangemouth. Arrivati erano stati accolti con la tipica diffidenza isolana di chi sì, aveva visto il tuo distintivo, ma non lo riconosceva e pertanto pensava subito ad una fregatura.
Non si può neanche dar loro torto … I Babbani hanno avuto la piaga del terrorismo internazionale per così tanti anni che in confronto noi maghi con i nostri occasionali maghi oscuri siamo dei novellini.
Fortunatamente li avevano comunque fatti entrare e l’intervento dell’agente infiltrato aveva scongiurato eventuali grattacapi o lungaggini burocratiche.
In ogni caso, stiamo aspettando.
E Potter non era il tipo di agente che sapeva pazientare. Erano seduti lì da un paio di minuti e già si agitava sulla sedia, lanciando occhiate fuori dalla finestra con una smorfia insofferente che sarebbe stata comica, se non l’avesse abbinata ad un fastidioso tamburellare sulla scrivania di fronte a loro.
“No, cosa?” Domandò comunque.
“Le attese.”
“Non l’avrei mai detto.”
James incassò la frecciatina con un sogghignetto. “Lo so, sono un rompipalle quando faccio così, Malfuretto me lo dice sempre.”
“L’importante è esserne consapevoli.” Lo canzonò, ma in parte condivideva la sua irrequietezza.
Sören è alla completa mercé di quello psicopatico del Camaleonte.
Qualcosa nella sua espressione dovette tradirla perché James le diede un colpetto con la propria spalla, solidale. “Tutto okay?”
Annuì perché quella faccenda non doveva diventare personale. Ripeterselo aiutava un po’. “Voglio solo mettere le mani su Doe il più presto possibile.”
“A chi lo dici!” Esclamò con forza. “Beh, io voglio anche prendere a calci in culo di Albie…” Rilasciò un sospiro. “Hai fratelli?”
“Figlia unica.” Scosse la testa. “Mi sarebbe piaciuto avere una famiglia numerosa come la vostra però.”
“Non credere, è più le volte che ti mandano ai matti che altro!” Le rivolse un sorriso ammiccante. “Se ci tieni però abbiamo ancora qualche posto vacante come nuora. Ho un sacco di cugini o cugine da presentarti!”
Ama ridacchiò. “Toglimi una curiosità, hanno tutti i capelli rossi?”
“Perché, è il genere di cosa che ti stuzzica?”
Prima che potesse mandarlo cordialmente al diavolo il Collegamento aprì la porta, chiudendosela subito dopo dietro con un Colluportus che stonava con la sua uniforme da lavoro color giallo fosforescente. “Ci è voluto del bello per convincere il mio capo che fate parte delle indagini per il cargo scomparso!” Esordì malmostoso. “Potevate almeno darmi qualche giorno di preavviso per inventarmi qualcosa!”  
“Se l’avessimo avuto non saremo qui a parlare con lei, Briggs.” Lo apostrofò dura, che non aveva tempo per le rimostranze di nessuno, e tollerava quelle di Potter semplicemente perché le condivideva. “Ha portato quanto le ho chiesto?”
Il mago le porse una cartella con fogli ancora caldi di stampa. “C’è tutta la documentazione della nave sparita. È un cargo americano di grosse dimensioni, nessuno chiude occhio da giorni … l’armatore è fuori di testa.” Fece una smorfia. “Si sa qualcosa dell’equipaggio?”
“È probabile che sia ancora sulla nave, prigioniero.” Rispose Ama, anche se dubitava che li avrebbero ritrovati vivi, non con Doe che aveva l’abitudine di non lasciare testimoni. Passò il fascicolo a James che lo aprì per scorrerne qualche righe con aria confusa.
“L’hanno rubato direttamente dal porto?” Domandò quest’ultimo. “Come avete fatto a non accorgervene?” Gli piantò gli occhi addosso in un’imitazione piuttosto fedele del padre. “Eri di turno?”
Lo scozzese diventò paonazzo. “Ero in pausa. È accaduto tutto nel giro di una manciata di minuti …”
“Testimoni oculari?”
Sbuffò. “Qui la gente ha la testa semplice, anche se avessero visto qualcosa a quell’ora e con quel tempaccio, avranno pensato ad un whisky di troppo.” Le lanciò un’occhiataccia. “Ve lo ricordate sì, che mi avete messo a lavorare con i Babbani?”
“E il Capitano la paga profumatamente per questo.” Gli ricordò con altrettanto vigore. Approfittando della sua aria colpevole aggiunse. “Lei si preoccupi di non far insospettire i suoi colleghi. Oblivi, se necessario.”
“I filmati delle videocamere di sorveglianza?” Chiese James.
“Fritti.” Scosse la testa Briggs. “Chiunque abbia fatto il lavoro è un professionista.”
Uno dei migliori.
“Come si sono svolti i fatti?” Potevano leggerli anche dal rapporto della sicurezza, ma era stato redatto da un Babbano. Aveva bisogno della versione magica dell’accaduto.
Briggs aggrottò le sopracciglia. “Come vi ho detto ero in pausa. Sono stato chiamato alla radiotrasmittente da un collega, sono arrivato al dock … e il cargo era sparito. Hanno strappato le catene dell’ancora … bestie con anelli che pesano dai 25 chili in su.” Scosse la testa. “Segni di bruciatura da Recido.” Aggiunse commentando una delle foto del fascicolo. “L’hanno rubata come se fosse una scopa.”
Ama osservò la foto sporgendosi dalla spalla di James: non c’era alcun dubbio, il furto era stato di stampo magico. “La ricerca è cominciata subito?”
“Quel cargo, con il suo contenuto, vale quasi un milione di sterline, certo che sì! Abbiamo chiamato la guardia costiera la notte stessa. Niente da fare, volatilizzato … ma non poteva andare diversamente.” Considerò.
“Perché?”
L’uomo si strinse nelle spalle. “La parte difficile è entrare qui dentro e farla sotto il naso della sicurezza. Sono Babbani, ma ci sono telecamere ovunque e ronde continue. Una volta che hai tagliato la corda è facile sparire dai radar. I gps nautici sono roba delicata, da migliaia di sterline, ma non ci vuole niente per mandarli in tilt, basta un incantesimo di bassa lega. Per me è una causa persa.” Concluse alzando le mani in segno di impotenza.  
James sbuffò sdegnato. “Lo sai con chi stai parlando? Te la riporteremo di sicuro, parola di Auror!” Concluse gonfiando il petto in un modo che all’inizio aveva trovato irritante. Ci aveva fatto l’abitudine ormai; a differenza dell’Agente Murphy almeno l’inglese non lo faceva con intenzione.
Fare il pavone è una seconda natura per lui.
Si congedarono, lasciando l’agente di collegamento all’ennesima dose di caffè, scones e noia. “Sei sempre così sicuro di te?” Gli domandò mentre tornavano indietro.
James si strinse nelle spalle. “Di solito non mi sbaglio.” Fece un mezzo sorriso, passandosi una mano tra i capelli. “E poi, non abbiamo alternative, no? Dobbiamo trovare quella nave.”
Ama non se la sentì di dargli torto. Gli posò invece una mano sulla spalla. “Prince è uno dei miei agenti migliori, terrà tuo fratello al sicuro.”
L’altro scosse la testa con aria dolente. “Tu non conosci Albie.”
 
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
 
Lily aveva detto a James che sarebbe rimasta al San Mungo a fare quello che le riusciva meglio, ovvero agire e non pensare. Nei fatti, concedersi completamente ai pazienti.
Dopo neanche un’ora la Patil l’aveva scovata a fissare come una pazza la povera Alice, che dormiva il sonno dei giusti.
E mi ha spedito a casa …
Con le mani in mano non riusciva a stare e quindi si era diretta nell’unico posto dove poteva essere ancora vagamente utile: l’Ufficio Auror.
Si guardò attorno; gli Auror erano in fibrillazione e da lontano poteva sentire la voce di suo padre tuonare ordini. Da quello che intuì non c’erano ancora state svolte significative, semplicemente il Salvatore stava tra i piedi dei suoi uomini.
E gli vogliono tutti troppo bene per non mandarlo a pescare Avvincini…
Lei era lì per tutt’altra missione però; Tom era da qualche parte, a dar fastidio a qualcuno fino a rischiare uno Schiantesimo o chiuso nella sua testa in un solitario arrovellarsi.
In ogni caso rischiava di farsi molto male, e lei doveva trovarlo prima che ciò accadesse.
Non vide James e Scorpius da nessuna parte, ma trovò uno degli agenti della scorta di Sören. “Ehi!” Lo fermò. “Hai visto un ragazzo alto, con i capelli neri e l’aria da poeta tragico?”
“Dici il figlioccio del Capo?” Domandò l’altro con sicurezza. Fece anche una smorfia inequivocabile. “È in sala caffè. Sta’ attenta, morde.”  
Lily ridacchiò. “Nah, abbaia solo un sacco.” E si infilò nella stanzetta evitando di incrociare parenti o conoscenti; non voleva farsi notare. Se suo padre avesse saputo che era nei paraggi si sarebbe distratto per controllare fosse tutto a posto, e voleva evitare.
Forse è lo stesso motivo per cui Tommy si è nascosto qui. A parte perché odia la gente.
Lo trovò infatti nel punto più lontano dalla porta, seduto su una sedia e con una tazza di caffè in mano mentre fissava il vuoto.
Molto bene.
“Tommy!” Lo chiamò con voce squillante facendolo sobbalzare. “Non mi hai sentita entrare?”
La guardò malissimo. “Che ci fai qui?”
Fu onesta. “Ti faccio da babysitter.”
“Non ho bisogno…”
“Invece credo proprio di sì.” Prese una sedia e gli si sedette davanti. “E poi ne ho bisogno io. Ti ricordo che anche l’amore della mia vita è dentro quella nave in compagnia di Doe.”
Tom sbatté le palpebre, finalmente riconoscendo la sua presenza. Prima l’aveva di sicuro calcolata come una voce di sottofondo nel suo personale inferno di angoscia. “… è già l’amore della tua vita?”
“Lo è sempre stato.” Ribatté rifiutandosi di arrossire perché non era quel tipo di ragazza. “E vorrei che tornasse sano e salvo, ma non ho controllo sulla cosa. Quindi, come vedi, siamo in due a dover ammazzare il tempo.”
Tom si rigirò la tazza tra le mani. “Non mi lasciano uscire di qui.” Ammise a mezza bocca. “Non posso chiedere aggiornamenti, non posso avvicinarmi ad Harry e non posso tornare a casa.”
Lily non se ne stupì; quando suo padre era in pieno assetto da battaglia uscivano tutte le sue vecchie ansie di guerra. Compreso il bisogno di avere tutto e tutti sotto controllo.
“Quante volte hai chiesto di essere aggiornato?” Domandò invece. “E no, ogni due minuti non è considerabile come una richiesta ragionevole.”
Ci fu un breve e colpevole silenzio da parte dell’altro. “Voglio un caffè decente. Questo sembra sputo di Poltergeist.” Concluse dispotico.
“Ragionevole.” Riconobbe magnanima. “Dai, posso farti uscire di qui, andiamo.”
Tom tentennò; era ovvio fosse combattuto tra il desiderio di libertà e quello di rimanere quanto più vicino possibile alla sua unica fonte di informazioni. “Non ci diranno niente, se non a cose fatte.” Lo spronò. “Lo conosci papà … e vuoi davvero cercare di parlare con zio Ron?”
“Andiamo.” Si alzò in piedi con un movimento improvviso, mollando sul lavello la tazza di caffè con un po’ troppa forza. Lily ebbe l’impulso di prenderlo per mano come quando erano bambini, ma era consapevole che l’altro l’avrebbe respinta. Quel privilegio ormai lo lasciava soltanto ad Al.
E vabbeh.
Sfilarono silenziosi tra cubicoli e Auror che lanciarono loro occhiate consapevoli, ma nessuno tentò di fermarli. “Non mi pare che ci sia questo gran desiderio di farti rimanere…”
“Non parlavo di loro infatti.” Borbottò affiancandolesi. “Ma di lui.”
Ovvero zio Ron, che se ne stava di fronte alla porta con l’aria indisponente di chi non si sarebbe fatto convincere da moine o lusinghe.
Favoloso. È lui il cane da guardia che ha sguinzagliato papà?
Siamo fregati.
“Lilù, non sapevo fossi qui!” Esordì incrociando le braccia al petto. “Meglio così … vi faccio accompagnare in sala caffè? Credo ci siano ancora dei calderotti.”
“Veramente veniamo da là.” Prese a braccetto Tom, che non si divincolò solo perché voleva evitare a tutti i costi di sembrare infantile.
Fatica sprecata. Zio Ronnie ci vede ancora con il pannolone.
“Lo porto a casa, deve farsi qualche ora di sonno.” Spiegò con il suo miglior piglio pacato. Abbassò anche la voce sperando di renderla quanto più simile a quella di sua mamma, quindi matura ed affidabile. “Puoi avvertire papà così non gli prende una sincope se non lo vede?”
“Ci sono delle brandine libere in dormitorio che potete usare.” Non si scompose. “È meglio se restate qui, così se succede qualcosa vi avvertiamo subito.”
Sì, come no.
Strinse il braccio di Tom che aveva aperto bocca per protestare. “È due giorni che abbiamo i ritmi sonno-veglia scombinati. Credo sia meglio se dormiamo entrambi in un letto vero.” Obbiettò. “E poi Tommy non entra in una branda, è troppo alto.” Gli pestò un piede quando lo sentì ad un passo dallo sbottare.
Fa’. Parlare. Me.
Non era un Legimante ma il messaggio passò comunque perché emise una specie di ringhio basso, e tacque.
Ron sbuffò. “Davvero, ragazzi, è meglio…”
“Non scapperemo a cercare Ren e Albus.” Suo zio non andava forte nei sottointesi, quindi bisognava esser diretti. “Non escogiteremo un piano super brillante per localizzare la nave e non ci Smaterializzeremo con il rischio di finire nel bel mezzo dell’Oceano. Anche perché, nel remoto caso riuscissimo a centrarla da questa distanza, finiremo tra le braccia di Doe, un’esperienza che nessuno dei due vuole ripetere. Giusto Tom?”
Tom fece una smorfia, ma siccome era un tipetto intelligente dietro tutta quella prosopopea da bello e dannato, annuì docile.
Bravo.
Ron emise un secondo sospiro, piazzando le mani sui fianchi. “Ragazzi…”
Okay, gesto distensivo. Attaccare, adesso!
Inumidì lo sguardo con l’esperienza di migliaia di capricci infantili. “Zio, siamo in piedi da non so quante ore … e abbiamo davvero bisogno di mettere qualcosa sotto i denti e fingere di dormire. Tom poi deve tornare da Meike, non può lasciarla sola!”
Stimolare il senso di famiglia e…
“Va bene.” Si arrese abbassando le braccia lungo i fianchi. “Ma se vi chiamiamo sui cellulari rispondete. Subito.” Sottolineò con forza.
“Certo! Grazie zio!” Esclamò con zelo fin troppo eccessivo, ma l’uomo non parve registrarlo. “Tommy?”
“Andiamo.” Convenne quasi trascinandola fuori dall’ufficio.
“Visto che avevi bisogno di me?” Cinguettò soddisfatta mentre l’altro si infilava in ascensore come se avesse un Dissennatore alle calcagna.
La degnò dell’ombra di un sorriso. “Sei una manipolatrice.”
“Detto da te è quasi un complimento!”
“Lo è.” Si appoggiò alle pareti chiudendo gli occhi e Lily realizzò quanto fosse stanco sul serio. Conoscendolo si era anche scordato di mangiare.
“Ti porto a casa.” Lo rassicurò.
“So arrivarci da solo.”
“Ne sono certa, ma non devi.” Gli sorrise. “Ci sono io, e non sono Al, ma meglio di niente, no?”
Tom non rispose ma si passò una mano sul viso. E la tenne lì. “Vorrei sentire la sua voce…” Mormorò così piano che dovette sporgersi per sentirlo. “… vorrei solo sentire la sua voce e sapere che sta bene.”
Frenò l’ennesimo impulso di abbracciarlo. Thomas Dursley poteva avere un carattere orripilante, essere moralmente un po’ troppo grigio per i gusti comuni, ma l’amore che provava per suo fratello non avrebbe vacillato, mai.
Era una cosa da ammirare.
Voleva aiutarlo davvero, e si sentiva uno schifo a non poterlo fare.
Se solo ci fosse un modo per farli parlare…
Le arrivò come un lampo. In fondo tutte le idee migliori venivano così. “Forse puoi!”
Tom non si disturbò a crederle, uscendo invece dall’ascensore e costringendola a trotterellargli dietro per tenere il passo. “Ho già provato a chiamarlo sul cellulare e allo Specchio Magico, non è raggiungibile.”
“Io parlavo di un incantesimo!”
A questo si arrestò bruscamente, facendola sbattere contro la sua stupida schiena ossuta. “Che intendi?”
Si massaggiò il naso offeso, ma decise di soprassedere. “Ho studiato un incantesimo a Storia della Psicomagia … mi è rimasto impresso perché aveva un nome bellissimo, l’Incantesimo delle Anime Parlanti.”
“Fa schifo.” La bruciò spassionato. “E poi non ne ho mai sentito parlare.”
“Solo perché tu non lo conosci non significa che non esista, sai?” Rintuzzò seppellendo il desiderio di prenderlo a schiaffi. “E non l’hai studiato perché non è nel registro degli incantesimi approvati dal Ministero. È sperimentale. La Patil ce ne ha parlato a lezione solo a titolo esemplificativo.”
Questo attirò la sua attenzione più che se gli avesse dato le coordinate della nave di John Doe. “Esempio di cosa?”
“Telepatia.” Scrollò le spalle. “Una specie almeno … non mi ricordo, è stato mesi fa, ma ho preso appunti. Dettagliati. E ho anche chiesto la formula per curiosità.”
Tom sorrise divertito. “Per curiosità…”
Lily arrossì. “Certo, scemo inquietante, non provo incantesimi illegali per divertimento.”
“Peccato.” La guardò attentamente. “Credi davvero possa funzionare?”
Se andiamo al Mulino, e recuperiamo gli appunti magari te lo posso dire con certezza.” Ripeté esasperata. “Non ho la tua memoria da elefante!”


Il viaggio verso la Tana vide una Lily insolitamente silenziosa; Tom non avrebbe mai creduto di poterle vedere quell’espressione addosso, così seria e determinata, eppure…
La rendeva così simile ad Al che faceva quasi male guardarla. “Voi Potter…” commentò mentre l’altra apriva la porta di casa; non c’era nessuno a giudicare dall’assenza di rumori. Ginny doveva esser a far veglia alla Tana, assieme a Molly e ad uno sciame di parenti più o meno acquisiti.
Meglio così, almeno non avremo distrazioni.
“Noi Potter cosa?” Gli domandò salendo le scale.
“Andate sempre al salvataggio di qualcuno.” Concluse suo malgrado divertito. “Sarà la vostra rovina.”
Potrebbe essere la rovina di Al perlomeno.
Perse il sorriso. Lily gli lanciò un’occhiata da oltre le spalle. “Ci fa sentire bene. Credo che per certi versi sia come una droga.” Fece una smorfia. “Spero di non passare la scimmia ai miei figli.”
C’era un po’ troppa verità in quelle parole, per cui decise di non soffermarcisi. “Già pensi ad un figlio?”
Lily arrossì. “Non adesso!” Scrollò le spalle entrando in camera e cominciando a cercare nervosamente in giro. “Forse, un giorno…”
“Con Sören?”
“Che ne so!” Esclamò un po’ troppo velocemente. “… cioè, sì. Forse. Boh … non voglio spaventarlo cominciando a parlare di matrimonio, figli e Tana tutti i Natali. È un po’ prestino, no?”
Tom si sedette sul letto, evitando accuratamente di schiacciare i peluche dell’altra; sapeva per esperienza che emettevano squittii e trilli raccapriccianti. “Se non è scappato quando gli hanno detto che avrebbe dovuto lavorare gomito a gomito con James, non scapperà più.”
Lily ridacchiò. “Dici? Ah… eccolo!” Da una pila di riviste che ingombrava metà scrivania tirò fuori un quaderno rosa e pieno di brillantini.
Ugh.
“È carinissimo!” Lo difese sfogliandolo con attenzione. “E poi me l’ha regalato Al.”
Sorrise. “Non dubitavo. Avete gli stessi orribili gusti.”
“Oh, sta’ zitto.” Lily parve trovare quel che cercava perché si immerse nella lettura per un paio di minuti prima di alzare la testa. “Credo si possa fare.”
“Come?”
Era una domanda legittima, e non significava che non si fidasse. Anzi. Pur avendo riserve sulla sua folle vita sentimentale e la brutta abitudine di parlargli come se fosse un moccioso irragionevole era stato uno dei primi a credere che Lily avrebbe potuto farcela come Psicomaga.
È come Al. È molto più di quello che sembra.
Lily gli si sedette accanto, mostrandogli gli appunti. “Leggi qui! L’incantesimo venne creato nel cinquecento da un mago italiano, Magellano Malatesta per parlare con la sua amante, Alba Lapini. I due si conoscevano fin da bambini, e si amavano … ma erano entrambi sposati ad altre persone.” Sospirò melodrammatica. “Matrimoni di interesse Purosangue, quanti danni hanno combinato.”
“Quindi?”  
L’altra ignorò il suo tono di urgenza. “Il marito di lei era molto geloso, e quando si accorse della tresca la rinchiuse nella torre più alta del suo castello. La torre in questione era farcita di incantesimi di Intracciabilità, Incantesimi Gnaulanti e nel punto più ventoso del Lazio … Sembra che non riuscissero neanche ad atterrarci i Gufi. Magellano era un Legimante esperto però, e alla fine trovò l’incantesimo adatto per continuare a sentire la sua voce e sapere che stava bene.” Lo quotò con un sorriso. “Da veri romanticoni, no?”
Tom non raccolse la provocazione. “Bella storia, ma in concreto come funziona?”
Lily indicò la formula. “Permette di inviare brevi messaggi da una mente all’altra, sfruttando la naturale connessione che si instaura tra due maghi che si conoscono da una vita e che condividono un forte legame emotivo.” Gli picchiettò il petto. “Cioè voi due.”
Tom distolse lo sguardo: non era fan di quel genere di incantesimi, che facevano più leva sull’interiorità di un mago che sulla sua effettiva capacità magica.  
Incantesimo Patronus, Occlumanzia, Legimanzia …
Non erano certo la sua tazza di the.
“In concreto si tratta di puntarsi la bacchetta alla testa, pensare intensamente ad un ricordo comune e chiamare il nome della persona che si vuole raggiungere.” Continuò l’altra. “Una volta istaurato il ponte in teoria sarete in grado di parlarvi. Non un discorso vero, più frasi spezzate, però…”
Tom guardò la formula. Era una lunga frase in italiano, scritta in inchiostro viola e brillante. Nient’altro che un appunto preso da una strega curiosa.
E forse l’unica possibilità che aveva per mettersi in contatto con Al. “Oltre a Malatesta è stato mai eseguito da qualcun altro?”
Lily esitò. “Non proprio … Te l’ho detto, non è approvato dal Ministero e non si sa se ci siano effetti collaterali. Con la Psicomagia il discorso è un po’ più complesso che lanciare uno Schiantesimo.”
“Facciamolo.” Tagliò corto.
“Okay.” L’altra inspirò. “Starò con te tutto il tempo e se qualcosa andasse storto...” Gli lanciò un’occhiata incerta. “Se…”
“Non preoccuparti.” Non era bravo nelle rassicurazioni, quindi si limitò a puntarsi la bacchetta alla testa e recitare la formula. Era stufo di aspettare.
Al. Mi senti?
Al…

 
****
 
 
Da qualche parte nel mare del Nord…
 
“… ren … Sören … Soren!
Una voce lo stava chiamando. Maschile, giovane. Una lingua straniera di cui intendeva le parole, ma che non era la sua. Non apparteneva a Doe, né a suo zio. Né a Milo, né…
Albus?
Sören aprì gli occhi e si pentì immediatamente di averlo fatto: la luce era troppo forte, come una lama incandescente che gli incendiava gli occhi.
“Sören!” Ripeté mentre il tono dell’amico sfociava nel sollievo. “… per Merlino, pensavo di averti perso!”
“… perso…” Non si era perso, sapeva esattamente dov’era. Sulla nave di Doe, nel bel mezzo del nulla, ostaggio quando avrebbe dovuto salvare Albus Potter e condurre gli Auror da Doe.
Ho fallito.
Quando finalmente riuscì a mettere a fuoco il mondo si guardò attorno, cercando di capire cosa fosse successo e cosa lo avesse ridotto in quel modo: l’ultimo ricordo che aveva era di Luzhin che gli torreggiava davanti, pronto ad ucciderlo.
… perché sono ancora vivo?
“… Cos’è successo?” Domandò tirandosi a sedere con un sostanzioso aiuto da parte dell’altro. Però il dolore era sparito, riusciva a respirare liberamente. Albus doveva averlo curato con la bacchetta che teneva in mano; quella con cui aveva affrontato Luzhin.
“Dove…” Erano in una cabina, intuì notando l’arredamento. Una delle tante cabine dell’equipaggio Babbano.
“Ci siamo Smaterializzati prima che Luzhin ti facesse secco con un Avada.” Spiegò Al sedendosi accanto a lui ed appoggiando la schiena contro il muro; lasciò andare un lungo sospiro, quasi lo avesse trattenuto per tutto quel tempo. Non aveva una bella cera, il viso era pallido e tirato, ma sembrava incolume.
“Ci hai Smaterializzati tu?”
“Sì.” Annuì. “Per un soffio, perché bastava poco per farci secchi entrambi.”
“Mi hai salvato la vita.” Realizzò.
“Ti ho solo tirato una spinta…”
“Solo?” Albus l’aveva spinto lontano dal raggio d’azione dell’incantesimo con una prontezza di riflessi che doveva aver modulato dalla sua esperienza sportiva, ma così facendo aveva rischiato di finire al posto suo. “… Che pensavi di fare?” Esclamò incredulo. “Potevi…”
“Sì, lo so.” Ribatté piano, passandogli la bacchetta. “Ma che alternative avevo? Non volevo guardarti morire.”
“Tu…” Annaspò a corto di parole. Con i Potter era una specie di accadimento ineluttabile.  “Come hai fatto?” Non ricordava molto di quegli attimi spaventosi, ma rammentava nitidamente che l’altro l’aveva placcato a mani nude.
Al si strinse nelle spalle. “Magia Accidentale.” Notando la sua espressione perplessa tentò un sorriso. “Non so se Lily ti ha mai raccontato di quando James da piccolo faceva saltare l’impianto elettrico … l’abbiamo ereditata da nostro padre. Quando siamo spaventati o in preda ad una forte emozione… è come un auto-pilota.” Fece una risatina incredula. “Onestamente l’ho usata solo un paio di volte in vita mia! È capitata al momento giusto, no?”
Sören si astenne dall’aprire bocca e rispondere, perché anche se in teoria avrebbe dovuto ringraziarlo, gli venivano in mente solo una sequela di insulti. “In che parte della nave ci troviamo?” Preferì domandare.
Al si guardò attorno. “Nella cabina dove mi hanno tenuto prigioniero prima di portarmi nel laboratorio.” Stimò con sicurezza. “Devo aver pensato inconsciamente fosse il posto più sicuro. Non lo so, te l’ho detto, non ho ragionato. Voglio dire…” Esitò. “… Luzhin è andato completamente fuori di testa. Voleva ucciderti!”
“… già.” Disattendendo peraltro un ordine diretto di Doe, a cui aveva obbedito come un soldatino fino ad un momento prima. Qualcosa doveva essere andato storto, nella sua testa o nelle sue intenzioni, e non aveva idea di che conseguenze avrebbe potuto portare.
Specialmente perché è una bacchetta che cammina.
“Dobbiamo andarcene.” Decretò alzandosi in piedi. Non riuscì a mantenere l’equilibrio, ma per fortuna Al, pur con tutti i suoi difetti, rimaneva un’ottima spalla a cui appoggiarsi.
“Ma se non riesci a camminare! Ti ho curato, ma sono sicuro di non esser riuscito a sistemarti del tutto la commozione cerebrale.” … anche se un po’ troppo loquace per i suoi gusti.
“Hai un’alternativa migliore?” Domandò mentre l’intera stanza ondeggiava vistosamente. E dubitava fosse a causa del mare mosso.
“No, cioè … certo che ce ne dobbiamo andare di qui, ma dobbiamo avere un piano. Questo posto pullula di Mercemaghi …e poi, Luzhin.” Gli ricordò.
Come se ce ne fosse bisogno.
Non era finita. Durante lo scontro era stato più occupato a salvarsi la pelle che analizzare lo stato d’animo del suo avversario ma non c’era dubbio che il suo omonimo volesse vederlo morto.
E non posso affidarmi alla Magia Accidentale per salvarmi la pelle una seconda volta.
“Okay.” Albus prese a camminare avanti e indietro, le dita che tormentavano i capelli con lena. Avendo imparato a conoscerlo un po’ in quei mesi aveva intuito che era il suo modo per attivare le sinapsi quindi lo lasciò fare. “Va bene, siamo su una nave nel bel mezzo del mare, giusto?”
Si supponeva dovesse rispondere? Dall’occhiata che gli venne lanciata capì di sì. “Certo.”
“Bene. Per andarcene quali alternative abbiamo?” Guardò fuori dall’oblò. “Una Smaterializzazione congiunta? Dovremo avere abbastanza magia per tentare la terra ferma!”
“Non io.” Scosse la testa. “Non ho idea di dove ci troviamo, ma conoscendo Doe siamo ben lontani dalla costa. Il rischio di Spaccarsi è troppo alto.”
“Una Passaporta allora. Sei in grado di crearla?”
“Troppo complesso, troppo poco tempo.” Sospirò. “Anche se la mia capacità magica fosse al cento per cento ci impiegherei almeno un paio d’ore. Presto ci troveranno.”
Albus si morse un labbro, lanciando uno sguardo preoccupato verso la porta. “… una scialuppa allora. Sono arrivato qui in barca, sono sicuro che la usano per spostarsi dal mare alla terraferma, potremo prendere quella!”
Sören annuì. Poteva essere una buona idea. “Dove la tengono?”
Al ci rifletté. “È la prima volta che salgo su una nave ma… Titanic!” Esclamò senza senso. “La tengono sul ponte per … calarla in acqua? Una cosa del genere.”
“Sei sicuro?”
Albus si strinse nelle spalle. “Se per deve essere a portata di mano in caso di emergenza, dove altro dovrebbero tenerla? Anche se la calassero con la magia, è lì che deve stare.”
“Dobbiamo arrivare sul ponte allora.” Poteva portarcelo. Sören strinse la bacchetta tra le dita, legno solido, che gli dava sicurezza. Poteva scortare Al fino alla barca, farcelo salire e spedirlo via da quell’inferno.
Io rimarrò.
Aveva preso quella decisione nel momento stesso in cui aveva realizzato di non avere più l’anello con il gps al dito. Doveva rimanere su quella nave e trovare il modo di comunicarne la posizione agli Auror.
Devono catturare Doe … e Luzhin.
Perché se Doe era un pericolo per qualsiasi Ministero incrociasse, diverso non era Luzhin. Soprattutto in preda al Demiurgo e con quella furia omicida negli occhi.
Va’ fermato.
Albus si diresse verso la porta, fermandosi però ad un passo dall’aprirla. “Tu verrai con me, vero?”
Potter, fin troppo intuitivi.
Lily era una LeNa ma suo fratello era capace di guardarti con quei maledetti occhi verdi e leggerti nell’anima.
Un po’ compativa suo cugino.
“Certo.” Mentì con disinvoltura. “Dobbiamo metterci in marcia, ma sarò chiaro. Niente colpi di testa, mi segui e non prendi iniziative.” Si raccomandò con la certezza che alla prima scossa di adrenalina sarebbe stato bellamente ignorato.
“Non che avessi intenzione di far altro.” Borbottò l’altro, falso come la moneta di un Leprecauno. “Sono disarmato.”
“Con la lingua che vi ritrovate voi Potter non lo siete mai.” Sospirò facendolo ridacchiare. Uscirono nel corridoio, completamente buio e castò quindi un Lumos per guardarsi attorno: non c’era anima viva.
Al momento.
“Sei pronto?” Anche senza toccarlo percepiva la tensione che emanava l’amico e poteva comprenderla: senza bacchetta era indifeso e di nessun aiuto. Eppure stranamente Sören fu felice di averlo affianco.
No, non stranamente.
Da quando aveva deciso di passare al lato giusto aveva capito che combattere da soli era peggio. Lo era sempre.
“Ci sono.” Gli rispose Al toccandogli una spalla. “Andiamo.”
Sören sorrise. Da soli non si aveva nessuno per cui combattere, quindi era decisamente più facile perdere. E perdersi.
“Andiamo.”
 
Sören era un pessimo bugiardo.
Albus invece si riteneva piuttosto bravo, anche perché l’altro non aveva minimamente capito che lui invece aveva capito; dietro quel “certo” e quegli occhi che avevano evitato i suoi per un attimo, Sören gli aveva detto a chiare lettere che aveva tutt’altri piani.
Vuole portarmi in salvo, ma non vuole seguirmi.
Il che era fuori discussione; non avrebbe  lasciato che rimanesse in quella specie di arena del Tremaghi ad affrontare un tizio pazzo e gonfio di steroidi magici.
Fissò la schiena dell’amico e al di là dell’angoscia e della paura di morire non era mai stato così sicuro di qualcosa. Non aveva intenzione di tornare da sua sorella e dirle che aveva lasciato il suo ragazzo in mezzo al mare.
Dovessi rubarti la bacchetta e Schiantarti tu vieni con me.
Avere la meglio non avrebbe dovuto essere neanche troppo difficile, visto che anche se l’aveva curato era palese che Sören stesse accusando gli effetti di una commozione cerebrale coi fiocchi.
Magie, non miracoli.
Non gli importava di lasciare Doe a piede libero e Luzhin a vagare per la nave in pieno delirio di onnipotenza. Non era un Auror, non era compito suo sbattere i cattivi ad Azkaban.
Sono un Guaritore, le mie priorità sono altre.
Arrivarono alla fine del corridoio che delimitava le cabine dell’equipaggio e Sören gli fece cenno di fermarsi di fronte alle scale che portavano al piano superiore; il boccaporto era spalancato su, ovviamente, altro buio.
Quasi preferivo il castello dei Von Hohenheim … o la grotta nella Foresta Proibita.
Almeno c’era luce. Poca, ma c’era.
“Vado a controllare che non ci sia nessuno, resta qui.”
“Ma…”
Resta. Qui.” Scandì, il volto illuminato in un’espressione mortalmente seria.
Non gli restò che obbedire, anche se l’idea di restare solo lo atterriva. Piuttosto che vedere nero si sedette su uno dei gradini e chiuse gli occhi; così poteva immaginare di essere a casa, sotto le coperte e tra le braccia scomodissime del compagno.
Tom …
Sperava che suo padre l’avesse tenuto buono, o alla peggio sedato; lo spilungone doveva essere nel panico a quel punto, e quindi rabbioso e assolutamente irragionevole.
Mi terrà il muso per settimane.
Sempre che ne esca vivo …
Inghiotti il magone, appoggiando la fronte contro le ginocchia; in quella posizione il respiro gli scaldava il viso e lo faceva sentire un po’ meno infreddolito e solo.
Tom…
 
“Al.”

Per poco non ebbe un infarto. La voce dell’altro era appena risuonata nella sua testa!
Che diavolo …?!
Si alzò in piedi, lanciando occhiate nel vuoto e nel silenzio più totale. “… Tom?” Mormorò incredulo.
Non era lì, non poteva essere lì. Eppure…
Udì dei passi per le scale, e poi la bacchetta di Sören lo illuminò. “… Cos’è successo, stai bene?” Doveva proprio avere una faccia assurda.
“Mi hai chiamato?”
Sören aggrottò le sopracciglia. “No. Perché, cos’hai sentito?”
Tom. Che presumibilmente è a centinaia di miglia marittime da qui.
Merlino, sto impazzendo?
“… niente, questa nave è piena di cigolii.” Scrollò le spalle. “Possiamo andare?”
L’altro non pareva molto convinto, ma lasciò cadere il discorso. “Sì, di sopra è libero.” Lo invitò a seguirlo con un cenno del mento, cosa che fece ben volentieri. Quella scala era appena diventata il posto più spaventoso della nave.
È la tensione. Dev’essere la tensione e il fatto che lo vorrei qui. Cioè, non davvero, basta uno di noi nei guai, ma comunque…
Calma, Potter. Non perdere la testa.
Inspirò, focalizzandosi sulla figura dell’amico davanti a sé; era reale, non lo chiamava con strani voci oniriche ed era a lui che doveva affidarsi.
Così preso nei suoi ragionamenti non si accorse che questo si era fermato bruscamente; quasi gli inciampò addosso, ma Sören fu lesto a prenderlo per un braccio e tirarlo contro il muro, sussurrando un Nox rapidissimo.
Pochi attimi dopo la luce di due bacchette illuminò il fondo del corridoio, ad una decina di metri da loro. “Dissilludo.” Albus sentì i peli delle braccia formicolare, mentre l’incantesimo li rendeva invisibili agli occhi dei due Mercemaghi in avvicinamento.
“Non respirare.” E non era una metafora, era un ordine. Così Al si trovò a trattenere il respiro, ringraziando la sua buona preparazione atletica e pregando che i due si sbrigassero.
Quasi rischiò di farsi scoprire quando gli sfilarono affianco; espressioni vuote, occhi aperti nel nulla.
Sono sotto Imperio!
Non erano Infetti però, quelli ormai li sapeva riconoscere ad occhio. Uno dei due era il Mercemago che gli aveva portato da mangiare quando era nella cabina.
Scesero le scale continuando la loro ronda e solo allora Al tirò un grosso respiro, imitato dall’altro.
“Erano…”
“Sì, ho visto.” Lo anticipò.
“Doe?”
“No.” Sören guardò l’ultimo bagliore delle bacchette spegnersi. “… credo sia stato Luzhin.”
“Ti sta cercando.” Realizzò. “Ma si può sapere che gli hai fatto?”
“Non ne ho idea.” E sembrava davvero non averla. “Ha detto un sacco di cose mentre duellavamo, ma pensavo lo facesse per distrarmi. Prima di oggi sapevo a malapena che faccia avesse, e solo per via di Lily…” Aggrottò le sopracciglia. “Non può avercela con me perché ho preso il suo posto cinque anni fa. Non avrebbe senso.”
“Beh…” Esitò: non riusciva a togliersi dalla testa il sorriso di Luzhin quando aveva realizzato non solo di essere vivo e ancora in salute, ma di aver acquistato l’equivalente di un superpotere Babbano. “Non faceva parte della Thule come te? Potrebbe considerarti un rivale.”
“Di che rivalità parli? La Thule si è disintegrata con la morte di mio zio, il Capitano Gillespie l’ha smantellata dalle fondamenta. Membri, collegamenti, agenti e cellule dormienti… hanno arrestato tutti e chiuso i laboratori. Non c’è più motivo per antagonizzarmi.” Un lampo di improvvisa comprensione gli passò negli occhi. “Pensi che mi ritenga responsabile?”
Oh sì, decisamente!
“Se credeva nella causa e in tuo zio, per lui la fine della Thule sarà stata la fine del mondo.” Gli sembrava di parlare come Lily, ma del resto sua sorella non era l’unica ad andar forte con le congetture. “Questo spiegherebbe perché lavorava per John Doe. È l’unico ponte rimasto con il suo passato.”
“E questo spiega perché mi vuole morto. Ho tradito mio zio, sono diventato un informatore per il DALM americano. Il tradimento per la Thule si lava nel sangue.”
“Carino.” Commentò con un brivido. “Che facciamo?”
“Il piano non è cambiato. Saliamo e troviamo le scialuppe.” Gli rispose deciso; non pareva particolarmente turbato da quella scoperta.
Si deve essere abituato ad avere nemici…
Era una cosa un po’ triste.  
“Okay.” Disse per poi seguirlo senza aggiungere altro: non ce n’era bisogno.
No, il piano non è cambiato. Adesso devo davvero Schiantarti e portarti via con me.
 
Il passato tornava costantemente a mordergli il culo, avrebbe commentato spassionatamente Milo se fosse stato lì.
E non c’era altro modo di dirlo, perché Luzhin voleva la sua testa e la voleva probabilmente in virtù di quello che erano stati: due marionette manovrate da suo zio.
Una più convinta dell’altra, ma in ogni caso…
Quella situazione era frutto di una serie di sliding doors, considerò, nascondendosi dalla seconda ronda e controllando che Al non segnalasse la loro presenza facendo rumore.
Cinque anni prima aveva fatto una serie di incontri, di esperienze che l’avevano cambiato solo perché suo zio, con la mente offuscata dalla malattia, aveva deciso di sostituirlo a Luzhin.
Se non si fosse ammalato niente di tutto questo sarebbe mai accaduto. Non avrebbe mai testato la mia fedeltà in quel modo così assurdo.
E non avrei mai conosciuto Lily, né Dionis.
E di conseguenza, non avrebbe mai ritrovato la sua bussola morale. Avrebbe continuato a lavorare per suo zio fino alla fine, e poi forse si sarebbe dato alla macchia con Doe.
Luzhin era diventato il cattivo della storia al posto suo per una mera serie di coincidenze.
Decise di accantonare quel pensiero, dato che erano quasi arrivati sopraccoperta.
Ricordava quel pezzo di nave perché l’aveva percorsa per andare nella piccola arena di gladiatori che Doe aveva approntato per divertire i propri compratori. “Fa’ attenzione.” Disse ad Al. “È l’ultimo posto dove abbiamo visto Luzhin … potrebbe essere ancora nei paraggi.”
E Johannes?
Dov’era il vero artefice di tutto quel casino? Si era già nascosto aspettando che passasse la bufera?  
Probabilmente.
Al gli afferrò un braccio a sorpresa. “Non vorrai andare a cercarlo, vero?”
Per un attimo pensò che l’amico aveva sviluppato una Legimanzia estemporanea, poi realizzò che non stava parlando di Doe, ma del suo omonimo. “Te l’ho detto, dobbiamo…”
Un colpo improvviso li fece sobbalzare. E poi un rantolo, come se qualcuno stesse tentando di chiamare aiuto. Si guardarono negli occhi e Sören comprese due cose: primo, che il rumore proveniva dalla sala da pranzo. Secondo, che non c’era alcun modo di impedire a Potter di seguirlo. Soffocò un’imprecazione in tedesco e corse dentro tallonato dall’altro.
La prima cosa che percepì era bagnato sotto le scarpe. Bagnato, vischioso e un odore che una volta sentito, non potevi più togliertelo dalle narici, sigillato per sempre nel cervello.
Sangue.
“Al…” Iniziò. Forse poteva risparmiare l’amico.
“Lancia un Lumos.” Disse questo in tono piatto. “Qualcuno stava gemendo, può ancora essere vivo.”
… è un Guaritore. Deve aver riconosciuto l’odore prima di me.
Nonostante tutto lo pronunciò a denti stretti.   
La scena che si parò loro davanti era materiale da incubo: una dozzina di corpi erano riversi a terra alla luce delle poche candele rimaste. Le sedie fatte a pezzi, imbrattati di resti di cibo, cocci di piatti e altro. La moquette di cui era rivestito l’ambiente aveva assorbito il sangue, ma non era bastato. Non abbastanza da non far sembrare quel posto una sorta di macello per esseri umani.
Per la grazia di Odino…
Sören aveva visto Doe all’opera, ma quello era tutto un altro livello di orrore. Era come se fosse esplosa una bomba; con nessuna predilezione in particolare, ma senza risparmiare un viso, un solo corpo. Sentì la mano di Al serrarsi di nuovo sul braccio, più forte.
“Merlino Benedetto…” Sussurrò. “… perché?” Aggiunse così piano che lo sentì a malapena.
Sören abbassò la bacchetta. Avevano visto abbastanza. “Perché può farlo.”
Era quello il segreto degli assassini, dei genocidi; a volte non c’era motivo per mettere fine ad una vita umana.
In preda al delirio dato dal potere puoi fare di tutto. Quindi perché no?
Era una lezione che Doe gli aveva insegnato sin da bambino: uccidere era uno dei primi impulsi a cui un individuo indulgeva se privo di senso di colpa, empatia, e paura di un eventuale punizione in quella o in un’altra vita. Quel trittico era l’unica valvola di controllo che impediva alla razza umana, sia Babbana che magica, di estinguersi.
Se non lo possedevi, e con Luzhin sembrava quello il caso, una carneficina era solo uno dei possibili risultati.
E neppure il più sorprendente…
Al inspirò forte, poi gli toccò il polso con fermezza. “Fammi luce, dobbiamo controllare se qualcuno respira ancora.”
Obbedì, ammirando il controllo dell’inglese, che nonostante avesse l’aria di voler rimettere non si risparmiava dall’esaminare con accuratezza ogni singolo cadavere. Dai vestiti Sören capì che aveva ucciso ben tre dei compratori; mancava all’appello il Principale Benefattore. Doe l’aveva portato via in tempo? Né lui né Sophia erano lì.
Al si chinò su quella che riconobbe come la strega dell’est. “… era lei.” Disse chiudendole gli occhi con una mano. “Non siamo arrivati in tempo.”
“… non avresti comunque potuto salvarla. Le sue ferite…”
“Sören.” Lo fermò. La voce vibrava di tensione, ad un passo dalle lacrime. “Per favore.”
“… Scusami.” Gli mise una mano sulla spalla. “… ma è la verità, non puoi salvare tutti.”
“Posso almeno provarci.” Si voltò verso di lui: a volte c’era una durezza, nello sguardo di quel ragazzo in apparenza tanto mite, che lo spiazzava. Da una persona come Albus ti aspettavi un crollo in una situazione del genere.
Invece.
Era rabbia, stimò. Albus reagiva con rabbia all’ingiustizia e alla violenza verso altri esseri umani. E questo surclassava persino il suo istinto di sopravvivenza.
Stavano per giustiziarmi. Non poteva accettarlo … e mi ha salvato.
Combatteva, al pari di Harry e James Potter; usava solo armi diverse.
Lo prese per le spalle, costringendo a guardarlo. “Lo capisco, ma per farlo devi essere ancora vivo. Non c’è più niente da fare qui, dobbiamo andarcene.”
Albus annuì, ma prima di seguirlo si fermò di fronte ad un Mercemago. “Aspetta…” Gli sfilò la bacchetta dalla mano, e dopo averla pulita contro la manica con un movimento allenato da chi era abituato a vederla insozzata ogni giorno, se la infilò nella tasca dei pantaloni. “Okay, sono pronto.”
“Albus…”
“Non sono un duellante al tuo livello, ma posso difendermi.” Gli rispose spiccio. “Dai, muoviamoci.”
Sören abbozzò un sorriso in risposta; sarebbe stato davvero difficile convincerlo a salire sulla scialuppa da solo.
 
****
 
 
Note:

Come ho detto su FB ho plottato fino alla parola FINE, cosa che non avevo fatto prima perché beh, mi costava davvero farlo dal punto di vista emotivo. Però ci siamo e devo davvero venire a patti con ‘sta cosa. :’)
Spero che i prossimi capitoli siano un buon modo per salutare questo mondo e dirvi GRAZIE per essere rimasti con me fino a qui, nel frattempo qua la canzone del capitolo.
 

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Capitolo 65
*** Capitolo LXIV ***


 




Death inspires me like a dog inspires a rabbit
(Heavydirtysoul, Twenty One Pilots)
 
 
 
Da qualche parte nel mare del Nord…
 
“Ci siamo, sei pronto?”
Albus non sarebbe mai stato pronto. Non era un mago d’azione, era uno studioso, al massimo un atleta e non era abituato al rush di adrenalina di chi rischiava la vita ad ogni pie’ sospinto.
Sören era però tornato dall’avanscoperta del ponte con i capelli scompigliati e le guance rosee dal freddo. Un’immagine che in un certo senso lo rassicurò; là fuori non c’era solo morte e distruzione, ma anche una normalissima brezza marina, e non vedeva l’ora di respirare qualcosa di diverso dall’aria viziata della nave.
“Hai trovato le scialuppe?”
“Sì.” Confermò regolando l’intensità del Lumos per non accecare entrambi. “Ce ne sono due, grandi. Non sono sorvegliate.”
Al sospirò di sollievo: la salvezza era vicina, letteralmente. Strinse la presa sulla bacchetta e per l’ennesima volta rimpianse la sua. L’avrebbe mai riavuta indietro? Doe gliel’aveva confiscata, ma se suo padre fosse riuscito a catturato…
Non era il momento per pensarci quindi fece cenno a Sören di andare. Questo aprì il boccaporto in modo da farlo passare per primo.
Al si schermò gli occhi con una mano quando la luce accecante del giorno si rivelò in tutta la sua … accecante lucentezza?
Merlino, sono ore che non vedo il sole. Quant’è bello.
Non perse troppo tempo in contemplazione però; si mise subito al sicuro dietro una pila di cordame aspettando che il tedesco lo raggiungesse dopo aver chiuso il boccaporto con un Colloportus. “E se ci dovessero scoprire?” Gli domandò sconcertato. “Hai chiuso la nostra unica via di fuga!”
“Non l’ho fatto.” Rispose spiccio. “Ce ne sono altre, ma da lì possono salire e non saremo in grado di accorgercene. È un punto cieco.”
Non c’era molto da obbiettare quindi lo seguì senza aggiungere altro. Da quando avevano lasciato l’orrendo spettacolo della sala da pranzo Sören non aveva più aperto bocca, chiudendosi in un silenzio operativo che però pareva anche altro.
Albus non era stupido, e aveva capito che taceva per non lasciar trasparire le sue emozioni; poteva essere stato un buon Occlumante, ma a quanto sembrava quel tipo di capacità si era affievolita.
Il che, tradotto in Galeoni, significava che non era più capace di nascondere i suoi stati d’animo.
Nervoso. È nervoso…
Oppure si sentiva in colpa, non era in grado di capire quale dei due non essendo un LeNa.
Arrivarono a destinazione senza che nulla accadesse; il garrito dei gabbiani e il cielo azzurro facevano a pugni con l’atmosfera che invece si respirava. Albus passò una mano sullo scafo arancione di una delle due scialuppe, che parevano grossi modellini giocattolo, luccicanti e dotati di congegni di cui ignorava del tutto la funzione.
“Come la mettiamo in mare?” Domandò all’altro, già impegnato a leggere le varie etichette di warning appiccicate sull’intera struttura.
“Viene espulsa dall’argano.” Notando che non capiva aggiunse. “Come una fionda.”
“Non viene calata?” Deglutì a disagio guardando fuori babordo; l’idea di fare un salto di decine di metri nell’acqua gelida e spumeggiante sotto di loro non era decisamente la sua tazza di the.
“Sono costruite per farlo, non corri alcun rischio.” Borbottò sfiorando le numerose leve e pulsanti cercando di intuirne la funzione senza azionarli.
Non corri…
Era deciso allora. Lo voleva far scappare da solo.
Lo avrebbe Schiantato, decise, prima che lo facesse lui. Mettersi a discutere non aveva senso, non con una testa di bacchetta del genere. Lo avrebbe messo k.o. e poi lo avrebbe trascinato dentro quell’affare di plastica e vetroresina.  
Ce ne andiamo assieme.
“Vabbeh … come si apre?” Girò attorno alla scialuppa e ignorò le proteste del tedesco arrampicandosi per trovare quel che cercava, ovvero l’entrata. Sbirciò dentro; l’ambiente sembrava ben sigillato. Non entrò completamente però, perché Sören poteva aspettare solo quello per chiudercelo dentro e spedirlo a fare il volo più disagiante di tutta la sua vita. “Trovato!”
“Bene.” Gli fece eco dal basso. “Credo di aver capito come si sgancia, entra dentro.”
Col cavolo.
“Sali anche tu, ci sarà lo stesso comando qua sotto.” Obbiettò ragionevole. “Non credo che i Babbani interpretino alla lettera il concetto che il capitano della nave deve affondare con lei.”
Sören fece un passo indietro per guardarlo. E per tutti gli Inferi, per un momento Al fu tentato di obbedirgli, perché aveva proprio l’aria di voler tirare fuori la bacchetta. “Ti seguirò con l’altra scialuppa.” Disse calmo e rassicurante.
“Lo sai che fai schifo a dire bugie?” Replicò sullo stesso tono. “Sali. Non me ne vado senza di te.”
“Albus…”
“Pensavi che non avessi capito il tuo piano deficiente?”
Non stai parlando con mio fratello James, tesoro. Sono abituato a gente che mi trama alle spalle da quando ho undici anni.
Serpeverde palestra di vita.
“Non è in discussione…”
“Certo che lo è!” Esclamò incredulo. “Non ti lascerò da solo ad affrontare un mago chiaramente psicolabile … e non sto parlando soltanto di Doe!”
Sören serrò le labbra. “Sei un civile, mi saresti solo di impiccio. Devi smetterla di pensarti indispensabile.”
Sbuffò; cercava di ferirlo, ma doveva fare di meglio. “E chi cavolo ha parlato di rimanere? Voglio che tu venga con me!”
“È mio compito…” Iniziò.
“Chissenefrega!” Lo bloccò con rabbia. “Al diavolo quello che ti hanno detto di fare, al diavolo Doe e i suoi esperimenti impazziti! Papà può andare a cercarsi da solo questa maledetta nave, non lascerò che tu ti sacrifichi per dargli le coordinate! È una stronzata!”
“Io non…” Tentò di nuovo.
“Dimmi che mi sbaglio, avanti!” Lo incalzò. “Dimmi che pensi davvero di uscirne vivo!”
Sören distolse lo sguardo, dandogli l’apertura che sperava. Scese dalla scialuppa con un salto, prima che l’altro decidesse di sganciarla con lui ancora fuori. “Non ti lascerò diventare carne per bacchetta, sei mio amico.” Abbassò i toni, rendendoli più concilianti. “Inoltre  sei il ragazzo di mia sorella e pure mio paziente.” Gli mise una mano sulla spalla, cercando il suo sguardo. “Ehi, Ren…”
… avanti, fidati di me.
L’unico modo per Schiantarlo era prenderlo di sorpresa, ma per farlo doveva prima fargli abbassare la guardia. “Se andiamo, andiamo assieme. Non ti abbandono, okay?”
L’altro si aprì in un’espressione vulnerabile e Al si sentì in colpa per un attimo. Ma uno solo; sfortunatamente fu quello che bastò all’altro per vedere la direzione della sua bacchetta. E bloccarlo, con una mano che pareva incandescente e okay, era quella sua mano-bacchetta!
“Che cerchi di fare?” I lineamenti gli si indurirono, si chiuse. “Volevi Schiantarmi?”
Si morse un labbro. “Se fosse servito a portarti con me…”
“Hai cercato di ingannarmi.”
“Anche tu.” Ribatté a tono. “Quindi non tentare di farmi sentire in colpa. Se cerchi di affatturarmi sappi che farò la stessa cosa. Siamo troppo vicini perché possa finire bene. Vuoi che Luzhin ci trovi svenuti?”
Sören aveva l’aria di chi avrebbe volentieri voluto tirargli una testata sul naso. “Sali su quella scialuppa.” Ringhiò con accento inasprito. “Posso costringerti anche senza bacchetta.”
“Ne sono sicuro, ma ti avverto che calcio forte e mordo. E non a tutti piace quando lo faccio.” Fece un sorriso che probabilmente avrebbe dato incubi all’altro per un bel po’.
Nessuno pensa che sia in grado di farlo.
Sören sbatté le palpebre spaesato, prima di realizzare il sottointeso e arrossire furiosamente. “Ma che problema hai?”
“Ne ho tanti, ma sono anche una brava persona che non abbandona gli amici.”
“Tu…”
Prima che l’altro potesse finire sentirono delle urla. Urla in una lingua che Al non conosceva, ma che l’altro invece capiva da come sgranò gli occhi.
“Mercemaghi!” Esclamò e praticamente lo prese di peso, allontanandolo dalla scialuppa. Prima che potesse protestare un sibilo gli sfiorò il lato della testa e qualcosa dietro di lui esplose. Si voltò appena in tempo per vedere uno squarcio sulla fiancata del loro unico mezzo di salvezza.
No!” Esclamò, ma Sören lo trascinò di nuovo indietro, sui loro passi, dietro il mucchio di sartie di poco prima, placcandolo poi sotto di sé. Lo sentì rispondere agli attacchi, e non vedeva nulla, sentiva solo grida, frastuono di incantesimi e un fortissimo odore di polvere bruciata.
Era orribile.
Sören aspettò che gli incantesimi dei Mercemaghi si fermassero per un attimo per passargli un braccio attorno alla vita e Smaterializzarsi. Con uno schiocco violento si Materializzarono in un corridoio. Lungo, scuro. Erano tornati dentro. Il tedesco si rialzò velocemente e sigillò la porta che dava sull’esterno.
Respira, inspira, respira…
Al sentì le gambe cedergli e le assecondò. Erano al sicuro, almeno per il momento, giusto? I polmoni gli bruciavano come se avesse respirato Ardemonio e gli facevano male le ginocchia e i gomiti dopo che l’altro l’aveva spinto a terra.
Vivo. Però sono vivo.
“Stai bene?” 
Aspettò qualche attimo a rispondere perché aveva paura di balbettare. “… le scialuppe.” Mormorò. “Ce n’è ancora una giusto?”
Fu il turno di Sören di rimanere in silenzio.
“Ren?”
“Le hanno distrutte cercando di colpirci.” Mormorò appoggiandosi alla porta e chiudendo gli occhi. “Le ho viste, sono entrambe inutilizzabili.”
Ci ho condannati.
“Mi dispiace…” Sussurrò tentando di non piangere e fallendo miseramente. Del resto, era un rilascio di tensione, niente di cui vergognarsi. “… volevo…volevo solo…”
“Avrei dovuto Schiantarti.” Lo fermò e poi gli sorrise. Un sorriso stanco che gli fece venir voglia di seppellirsi. “Prima o poi imparerò che con voi Potter non si può ragionare.”
“Volevo solo salvarci entrambi…” Bofonchiò strofinandosi il viso perché non sapeva che altro dire, a parte darsi del cretino centinaia di volte. “Mi disp…”
“Lo so.” Lo fermò. “Qualcuno una volta mi disse che non serviva a nulla ripeterlo. È vero. Quello che ci serve adesso è un piano di riserva.” Sören misurò il corridoio con lunghi passi, considerando forse le vie di uscita e l’eventuale da farsi. Tornò poi da lui, una presenza protettiva e rassicurante. “Idee?”
Al tirò su con il naso. Poteva essere un intralcio fisicamente, ma aveva un cervello che, panico a parte, funzionava ancora. Era ora di usarlo. “Andiamo a cercare il locale della radio?” Propose. “Se la troviamo potremo cercare di farla funzionare e poi barricarci dentro.”
Sören annuì tendendogli la mano per aiutarlo ad alzarsi. “Mettiamoci in marcia.”
 
 
****
 
Diagon Alley, civico 72
WeasleyTech.

 
“Mica male no?”
Hugo ci metteva sempre un po’ a capire quando qualcuno gli parlava. Forse era dovuto al fatto che aveva passato gran parte della sua infanzia ad essere parte di un noi e non si aspettava quindi di essere coinvolto in una conversazione a due.  
“Ohi, capo! Parlo con te!”  
Una pacca sulla spalla da parte di Robyn, il suo braccio destro, lo riportò sulla terraferma. “… che?” Bofonchiò acutamente rimediandosi un’alzata di occhi al cielo.
“Dico, la testa di bacchetta laggiù.” Sogghignò. “L’americana. Hai visto che viso? Stupenda.”
Si strinse nelle spalle, mentre lanciava un’occhiata cauta alla strega. Certo che era bella, bisognava esser ciechi per non accorgersene.
Li aveva sentiti?
Sembrava di no, visto che era assorta nell’ascoltare la radio. Era tornata una mezz’ora prima, chiedendo loro di trovarle un modo per ascoltare le trasmissioni della Marina Militare Britannica.
Facilissimo.
James l’aveva convinta che era una cosa che potevano fare in due minuti e Hugo aveva imprecato, perché non era vero, ma proprio per niente. Però c’era riuscito lo stesso, perché era un genio e lavorava con dei geni.
Ci avevano messo meno di dieci minuti a trovare il giusto forum deep web di radioamatori inglesi mentre al tempo stesso due suoi ragazzi lavoravano su una radio per renderla capace di ascoltare le basse frequenze delle comunicazioni militari Babbane.
Dieci minuti, e l’esigente Sergente DALM aveva avuto ciò che chiedeva.
Non è che avevamo alternative, cazzo.
C’era di mezzo la vita di Albie e del ragazzo di Lils.
Finì la sua bevanda energetica, una roba verde fosforescente che Shane comprava per tutti al più vicino Tesco e che probabilmente conteneva bava di alieno. Pazienza, aveva bisogno di rimanere sveglio.
“Secondo te è lesbica? Ha l’aria rigorosa…” Fantasticò la strega dandogli un secondo colpetto per tener desta la sua attenzione. “Ci provo a chiederle di uscire o faccio una cazzata? Che dici?”
“Dico di lasciarla lavorare, che se la disturbi mi sa che ti Affattura.” Scosse la testa. “E poi si frequentava con un altro agente fino a poco tempo fa. Decisamente maschio.”
“Magari è bi.”
“Nah.”
La ragazza si tormentò il piercing al labbro con aria stizzita. “A volte mi chiedo come fai a saperne più di un Indicibile quando a malapena ti ricordi i nomi delle persone con cui lavori.”
“Mi ricordo i vostri nomi. È successo solo una volta.” Sbuffò cestinando la lattina. Sorrise contento del centro perfetto: aveva ancora il tocco. “Comunque me l’ha detto Lils.”
“E tua cugina come lo sa?”
“Gliel’ha soffiato.”
“Ma non stava con quel tipo scozzese, il Tassorosso?”
“Si sono mollati, Ross è tornato in Australia.” Fece spallucce perché ad essere onesti non gli era mai piaciuto granché, con quei muscoli e i modi di fare da amicone.
Almeno Prince è più disadattato di me.
“Ma riesce a tenersene stretto almeno uno?” Alla sua occhiataccia alzò le mani in segno di scuse. “Guarda che era un complimento! Vorrei saper io acchiappare come fa lei. Invece finirò sola e piena di Kneazle. Il destino triste di una lesbica promettente.”
“Torna al lavoro.” Sospirò.
“Agli ordini capo …” Acconsentì ironica. "Ah, visto che ci sei, perché non vai a portarle il caffè che ci siamo scordati di farle?”
Cadde dalle nuvole. “Aveva chiesto del caffè?”
“Sì, a te.
Hugo masticò un’imprecazione a mezza bocca, dirigendosi come un Bolide verso un angolo attrezzato a cucina.
Che poi, manco lo sapeva perché fosse tanto ansioso di compiacere quella tizia. Al di là della preoccupazione per Al non è che dovesse impressionarla o che.
… no. È che voglio semplicemente azzeccarne qualcuna.
Almeno una.
Non era un buon periodo, tra epidemie di strani virus magici, crisi familiari, sua sorella che si sposava incinta e faceva impazzire suo padre e ciliegina sulla torta, Gail che prendeva una Passaporta per l’Irlanda perché aveva bisogno di prendersi una pausa.
Una pausa da me, dato che il pub va a gonfie vele.
Accese la macchina del caffè, guardandolo sobbollire piano.
Forse andare a convivere non appena si erano messi assieme era stata una cazzata; ma Gail aveva insistito e lui aveva un appartamento enorme e poi, se persino quel Crup impazzito di Rosie era riuscito a sistemarsi, insomma, quanto poteva essere difficile?
Tanto. Tanto difficile. Cazzo se lo è.
Forse non era tagliato per il ruolo di fidanzato.  
Avrebbe voluto chiedere consiglio a Lily, ma in quel periodo non c’era verso di farsi dare retta.
Decise di accantonare il problema, perché era la cosa più semplice da fare. Lo era sempre stata. Si avvicinò all’americana. “Ehi. Ti ho portato … ehm, da bere.”
Aveva chiesto questo, giusto?
Ama, perché si era presentata così e non era vero che non si ricordava i nomi, gli sorrise. “Grazie.” Prese la tazza dandone un vigoroso sorso. “E scusami per il disturbo.”
“Il disturbo?”
“Per il caffè.”
“Ma va’.”
Hugo era consapevole di non essere la persona più amichevole del pianeta. Non era capace di parlare del più e del meno, dire la cosa giusta, mettere le persone a proprio agio. Era Lily quella ferrata. E lui si era sempre accodato.
Però era bravo a fare il suo lavoro.
Sì, vabbeh … non che conti niente in ‘sto caso.
Visto che la sua professionalità serviva a poco se doveva colmare i silenzi di donne bellissime che non lo investivano di chiacchiere.
Inaspettatamente gli venne sorriso. “Fai un caffè molto buono.”
“Mica lo faccio io, è la macchinetta.” Si schernì lanciando un’occhiata alla radio. “Come sta andando?”
“Non bene.” Fece una smorfia. “Se penso che dovrò ascoltare codici navali per ore ho voglia di Schiantarmi da sola…”
“Non puoi farlo fare a qualcun altro?” Era un Sergente, di sicuro aveva qualcuno a cui delegare.
“Ho chiesto aiuto all’agente di collegamento al porto di Grangermouth, ma non posso chiedergli di stare tutto il giorno ad ascoltare la radio, non è quello che si suppone debba fare.”
“Fallo fare a me allora.” Si offrì perché dal modo in cui si era scolata il caffè si vedeva lontano un miglio che aveva bisogno di una pausa. E di una seria, contemplante un letto e almeno sei ore buone di sonno.
Con Lils dopo il rapimento mi sono fatto una cultura sull’insonnia forzata.
Ama parve pensarci sul serio, poi scosse la testa. “Ti ringrazio, ma hai già fatto tantissimo. Non voglio rubarti altro tempo.”
“Guarda che ti stai per addormentare sul tavolo.” Le fece notare e cavolo, ecco l’altra faccia, quella che Gail ultimamente aveva sempre addosso. Come se invece di dire una cosa normale avesse appena preso a calci un gattino bagnato.
Ho detto la cosa sbagliata. Di nuovo.
“Non mi addormenterò.” Rispose smettendo di sorridere. “Non dormo in servizio.”
“Ah … no.” Aveva capito male. Capivano tutti male, per quanto ci si sforzasse, la sua faccia e i suoi modi di fare incasinavano sempre tutto. “È che sembri aver bisogno di una pausa, e…” Sudò freddo quando la vide aggrottare le sopracciglia. “Non sto dicendo che non sei in grado di fare il tuo lavoro, voglio solo … tipo, aiutare? Davvero!” La supplicò scorato.
Prevedibile come un Eclissi, si sentiva la faccia scottare e la schiena fradicia di sudore.
L’americana guardò a lungo, poi MerlinoBenedettoGrazie, tornò a sorridergli. “È una cosa di famiglia allora…”
“Che?”
“Aiutare. Impicciarsi.” Li pronunciò come se fossero sinonimi. “In effetti c’è una cosa che potresti fare, ma non ho idea se sia fattibile.”
Si sentì sciogliere dal sollievo. “Spara.”  
“Automatizzare il processo. Non c’è modo per far fare questo lavoro ad un computer?”
Hugo sorrise. “Certo che sì.”
 
 
“Quindi il computer sta ascoltando quello che dice la radio.”
“Grossomodo sì, lo sta facendo un programma.”
“E le parole chiave che ti ho dato?”
“Quando le trova, le isola e lancia un allarme sonoro. Nel frattempo registra la trasmissione, così se ti distrai non te la perdi. Niente fattore umano necessario.” Finì di spiegarle alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi.
Ama non aveva avuto grossi problemi a seguire la conversazione di Hugo Weasley perché l’America, al di là dei suoi trascorsi storici, era molto più tollerante e curiosa della cultura Babbana in confronto all’Europa. A Ilvermony ancora non erano arrivati ad avere materie come Informatica Magica comparata, ma nella piccola scuola progressiva di Salem, a cui era andata, sì.
Le aveva sempre trovata affascinanti, pur non capendoci granché.
Per questo aveva capito che Hugo Weasley era un diamante grezzo in mezzo ad un mucchio di comuni ciottoli.
Avrebbe mentito se non avesse ammesso a sé stessa di essere attratta da quel genere di ragazzo. Peccato fosse troppo giovane e molto impegnato, almeno a giudicare dallo sfondo del computer che aveva intravisto mentre lavorava per lei.
Però non si sentiva in colpa a corteggiarlo professionalmente. “È una soluzione geniale.” Lo lodò facendolo arrossire. “Neanche il nostro ufficio IT ci avrebbe messo così poco.”
Le scoccò un’occhiata sbalordita. “Avete un ufficio IT?”
“Una specie.” Ridimensionò, perché erano più due ragazzi, un Nato Babbano e una Maganò, relegati in una stanzetta ingombra di computer e apparecchiature per la sorveglianza. “Sono liberi professionisti in realtà. Ci danno una mano quando dobbiamo comunicare con la Polizia Babbana. Se cominciano a parlare di filmati di sorveglianza e tabulati telefonici è a loro che chiediamo.”
Il ragazzo si stravaccò su uno dei divani che componevano il poliedrico arredamento del posto. Quello pareva recuperato da un’asta di beneficienza non particolarmente fortunata. “Proprio come in Inghilterra.” Commentò divertito.
Ama si sedette accanto a lui perché sì, aveva bisogno di una pausa. E magari una seconda tazza di caffè. “Mi sembra che però l’ufficio Auror si affidi molto a te.”
Alzò gli occhi al cielo. “Perché siamo parenti. Non ci capiscono niente, ma sono uno Weasley, è … beh, un discorso lungo.” Le lanciò un sorrisetto nervoso, ma non si scostò. Da quando era lì non le aveva tolto gli occhi di dosso un attimo, e non erano occhiate ingenue. Era consapevole di essere in servizio e non era tipa da provarci con persone già fidanzate, però era sempre bello sentirsi desiderata.
Visto com’è finita con Prince …
Era così sbagliato flirtrare un po’?
Oh, per Paracelso. Me lo merito!
“Non credo sia solo per questo. Quello che hai realizzato qui è impressionante. Prima dicevo sul serio.” Gli mise una mano sulla gamba. “Considerando quanto la società magica europea sia arretrata tecnologicamente siete dei pionieri.”
Fece un pessimo lavoro nel nascondere il compiacimento. Aveva un modo buffo di arrossire, sulle orecchie più che sulle guance.
“Mi sa che però in America siamo nella media.” Borbottò.
“No.” Scosse la testa. “Non sono un’esperta, ma il modo con cui riuscite a far funzionare internet anche se siete in mezzo ad un quartiere ad alta densità magica sarebbe da studiare.”
Sbatté le palpebre confuso. “Studiare?”
“L’Istituto Magico di Boston ha una cattedra che si occupa proprio di questo. Il nome preciso non lo ricordo, ma indagano come far funzionare coesiste la tecnologia e la magia. Farle lavorare insieme, anche.”
Hugo dimenticò l’imbarazzo, almeno da come le entrò nello spazio personale. Si fermò dal prenderla per le spalle solo per un soffio. “È quello che faccio io, da una vita!” Esclamò eccitato. “Davvero avete gente che lo fa? Per lavoro?”
“Per lavoro, sì, e il Ministero americano lo finanzia con un bel po’ di Taler.” Confermò divertita. “Crediamo nell’innovazione, Hugo. È anche scritto nella nostra Costituzione.”
Quella nuova, almeno.
Fischiò ammirato. “Non credevo che esistessero Ministeri amanti alla tecnologia!”
“Amanti è un po’ eccessivo, ma interessati sì. Se può migliorare la vita dei maghi e facilitare la sicurezza interna, qualsiasi nuova idea è benvenuta.”
“Wow…” Scosse la testa, con un sorriso incredulo. “Sembra fantastico.”
Il suo entusiasmo era contagioso quindi si trovò a parlare prima di riflettere veramente. “Perché non vieni a trovarci? Conosco un po’ di persone all’Istituto Magico, potrei presentartele.”
Le scoccò un’occhiata incerta. “… ah, eh, non lo so.” Si morse un labbro. “Cioè, grazie, ma qui ho le mie cose … cioè, ci sto bene.”
Maghi inglesi, tutti uguali. Mamma me l’ha sempre detto che per loro non c’è posto migliore di casa propria.
Però l’idea non era male. E poi, oltre alla naturale simpatia che provava per il giovane Weasley, averlo come amico poteva tornarle utile. Glielo aveva già dimostrato ampiamente in quella manciata di ore.
In questo la pensava come sua madre; una rete di contatti era fondamentale per il loro lavoro.
E se il contatto è anche carino …
“Lo capisco.” Convenne conciliante. “ … ma si tratterebbe di scoprire cosa succede dall’altra parte dell’Oceano. Una vacanza, se vuoi.”
Hugo le sorrise. Aveva un sorriso schivo, quasi sembrava non lo facesse, forse per via dello sguardo costantemente corrucciato. “Eh, mi servirebbe proprio…”
“Siamo in due.” Sospirò. “Dopo questo caso mi prenderò un paio di settimane di ferie, penso di essermele meritate.”  
“Allora mi faresti tu da guida?” Quella frase la stupì. Non sembrava proprio tipo da provarci apertamente. Eppure il sorriso che le stava rivolgendo non dava adito a grossi fraintendimenti.
Ma quindi non è fidanzato?
“Verresti da solo?” Si maledisse per come le era uscita; ma del resto non voleva trovarsi in una di quelle situazioni dove si divertiva con un mago che poi sarebbe tornato dalla ragazza ignara e innamoratissima.
Aveva degli standard.
Ed ho chiuso con i triangoli.
L’altro non parve capire il sottointeso. Le scoccò un’occhiata confusa. “Sì, perché?”
“La tua ragazza.” Indicò il monitor dove campeggiava una foto di lui abbracciato da una biondina riccioluta. “Non penso sarà contenta di vederti andare in vacanza senza di lei.”
Hugo lanciò un’occhiata al monitor e poi le spalle gli sprofondarono. Così come la sua espressione; nessun tentativo di nascondere l’ovvio. “Ci siamo presi una pausa. Di quelle lunghe e … boh, da cui mi sa che non si torna indietro. Sta in Irlanda adesso, dai suoi.”
“Mi dispiace.” Non davvero, ma sembrava così affranto che il suo spirito materno fece capolino comprensivo.
“Nah.” Si strinse nelle spalle, con una smorfia. “Succede.” Fece un mezzo sorriso. “Forse anche io me ne devo prendere una. Di pausa. E poi non sono mai stato in America.”
Ama gli sorrise di rimando. Magari non sarebbe nato un bel niente, ma dopotutto non aveva programmi per quelle due settimane se non stare sul divano o fare palestra per non sentirsi troppo in colpa.
“Credimi, meritiamo una visita.”
 
 
****

Devonshire, Otter St. Catchpole
Il Mulino.

 
“Non funziona.”
“Tom…”
“È stata solo una perdita di tempo darti retta, quando avrei potuto…”
“Fare cosa?” Lo fermò alzandosi in piedi. Le si era addormentato il sedere a furia di stare seduta sul letto mentre l’altro continuava a ripetere il nome di suo fratello come una litania.
Neanche un piccolo riconoscimento? Nooo, molto meglio urlarmi addosso!
Lily aveva migliorato tanto le sue scorte di pazienza da quando aveva cominciato a fare tirocinio al San Mungo, perché la Psicomagia aveva bisogno soprattutto di persone disposte a sopportare.
… ma non aspirava alla santità. E mezza parola indisponente di Tom era persino peggio di dover ascoltare Gilderoy leggere i suoi libri di gioventù per ore
“Se hai qualcosa di meglio da fare vai pure, mica ti trattengo!” Concluse sostenendo lo sguardo furibondo dell’altro.
Quaaanto detesta essere affrontato di petto.
“Non sto dicendo questo, sto dicendo che l’incantesimo non funziona.”
“E invece di chiederti perché non riesci a farlo funzionare…”
“Non è per colpa mia.” La fermò irritato. “Ho fatto tutto quello che mi hai detto.”
“Perché seguire alla lettera le istruzioni dà sempre risultati, vero?”
Tom fece una smorfia che si poteva tranquillamente riassumere in “sì, con me funziona sempre”.
Oh, ma va al diavolo!
Lily andò alla finestra per respirare un po’ d’aria fresca, lasciandolo a bollire nel suo calderone; capiva la sua frustrazione, perché la condivideva, ma non si sarebbe arresa.
Perché arrendersi vorrebbe dire aspettare di avere notizie e …
No, devo tenermi occupata. Devo. O impazzisco.
“Torno dagli Auror.” Sospirò Tom raggiungendola. “È stato un tentativo, non è andato a buon fine. Hai provato.” Tentò di consolarla, ma suonava piuttosto deluso.
Gli avrebbe tirato un calcio. “Neanche un po’?” Ignorò la sua aria stranita. “Intendo dire, non ti è sembrato di sentire qualcosa neanche per un momento?”
Perché in quell’ora di veglia barbosa aveva visto i lineamenti dell’altro irrigidirsi, come se avesse udito qualcosa: certo, era stato per una frazione di secondo, ma aveva comunque percepito speranza irradiarsi dall’amico.
I miei poteri non si sbagliano. Mai.
Tom fece una smorfia. Era consapevole che se le avesse mentito sarebbe stato subito smascherato. “Per un secondo … mi sembra di aver sentito la sua voce.” Ammise.
“Non funziona, eh?!” Esclamò dandogli un pugno sulla spalla. “E non volevi dirmelo!”
Tom si scostò infastidito. “Non funziona perché me lo sono immaginato. Si chiama autosuggestione. Volere qualcosa così tanto che…” Si bloccò e la voce si fece più sottile, forse per evitare di rompersi. “… è solo condizionamento mentale.”
Se Tom diventava così emotivo era davvero ad un passo dal tracollo. Forse avrebbero dovuto smettere, ma sapeva che se l’avessero fatto avrebbero perso l’occasione di fare qualcosa. Doveva insistere. “E come fai a saperlo? Sei un esperto dei labirinti della mente per caso?”
“No, ma neanche tu.”
“Lo sarò.” Replicò audace tirandolo di nuovo verso il letto. “Avanti, racconta!”
La seguì di malavoglia, ma la speranza si poteva passare di mano in mano e Tom poteva anche fare l’avvocato del diavolo, ma aveva bisogno di credere in qualcosa in quelle ore. Fosse anche una sensazione. “… Al. Mi ha risposto.”
“Quindi ti ha sentito!” Si passò una mano tra i capelli riflettendo velocemente. “… Cos’hai fatto di diverso?”
“Niente.” Sbuffò. “Ho solo continuato a ripetere il suo nome e concentrarmi su un ricordo comune.”
“Sempre lo stesso?”
“Sì.”
Non aveva molto senso. Ma se dovevano ricostruire la dinamica dovevano per forza procedere a tentoni. “Qual è il ricordo?”
Tom non rispose, fissando lo sguardo su uno dei pupazzi del letto. Era un unicorno rosa, quindi una cosa che non avrebbe mai degnato di attenzione in circostanze normali. 
Oh.
“Sesso?”
Nonostante la situazione tesa fu esilarante vederlo avvampare di sdegno. “Sei malata.”
… no? Ma allora … oh, ah!
“La vostra prima notte assieme!” Intuì intenerita. “Ma che cosa carina… e devo dire, ottima idea. Di certo ve la ricordate bene entrambi, no?”
“Sta zitta.” Se avesse potuto l’avrebbe strangolata o si sarebbe strangolato da solo. Per quanto adorasse mettere Al in situazioni al limite della decenza, Tom si imbarazzava a morte se i discorsi prendevano una piega romantica.
Non perché fosse timido, ma perché trattavano di una materia che non era mai riuscito a piegare al suo volere, né tantomeno a controllare.
L’amore.
E non potendo arrabbiarsi con un sentimento, la cosa lo mandava in cortocircuito.
Si trattenne dal non ridergli in faccia o fare battutacce perché non era il momento. “Okay, allora se non sei tu è Al. È lui che deve aver risposto … in qualche modo?”  
L’incantesimo ha bisogno di due persone per funzionare. Forse è questo il problema. Una delle due è totalmente ignara.
Però qualcosa deve aver fatto, anche se inconsapevolmente …
“Vuoi che glielo chiediamo?” Propose sarcastico.
Lily non gli diede la soddisfazione di ribattere a tono, mettendosi invece a leggere per l’ennesima volta i suoi appunti. Ignorò il richiamo dell’altro che come al solito detestava essere ignorato, e lesse.
Lesse, e capì. “Notte!” Esclamò.
“Cosa?”
“Era notte nella storia che ci ha raccontato la Patil.” Si aprì in un sorriso trionfante perché aveva trovato l’inghippo. “E cosa si fa di notte solitamente?”
Aggrottò le sopracciglia confuso. “Si legge?”
“Merlino, Tommy, no!” Alzò gli occhi al cielo, perché in effetti, che risposta poteva mai aspettarsi da un topo da biblioteca? “Si dorme!
L’altro rimase per un momento in silenzio. “… l’incantesimo per funzionare deve vedere entrambi i soggetti addormentati.” Realizzò. “Perché…”
“Perché è con il sonno che le difese si abbassano, ed è terreno fertile per un incantesimo mentale. Per l’appunto il grosso delle cure di Psicomagia vengono somministrate quando il paziente dorme o è in una trance indotta.” Si diede dell’idiota per non averlo capito prima. Esitò. “C’è solo un problema. Possiamo anche farti addormentare… ma Al non sa di doverlo fare.”
Tom non parve particolarmente turbato da quel particolare. “… ma dovrà farlo ad un certo punto. Dovrà riposarsi.”
“Sì, ma non è che puoi dormire finché non arriva!” E appena lo ebbe detto capì che Tom sì, lo avrebbe fatto. Avrebbe atteso esanime finché Al non si fosse presentato nei suoi sogni.
L’imbronciato mago di fronte a lei non riusciva a controllare o capire completamente l’amore; ma questo non l’aveva mai fermato dal provarlo senza tentennamenti per suo fratello.
Wow.
Gli fece un sorriso. “Ti preparo una Distillato Soporifero, Bella Addormentata?”
Tom ignorò la frecciatina. “Me la preparo da solo. Avete tolto l’attrezzatura per Pozioni di Al su in soffitta?”
“Figurati, in questa casa non si butta mai niente. È ancora tutto lì.”
 
Mezz’ora dopo e tornarono in camera con la pozione. Tom la bevve, fece la faccia disgustata di rito – solo Al riusciva a rendere beveroni del genere accettabili – e si stese sul letto intrecciando le mani sullo stomaco, composto e persino con la piega dei capelli ordinata. “Se incroci le braccia aumenta l’effetto veglia funebre, sai?” Gli consigliò ironica.
Tom sbadigliò, ma ebbe comunque la forza di lanciarle un’occhiataccia. Erano entrambi tesi, e insicuri e al diavolo, Lily aveva un disperato bisogno di sdrammatizzare, perché poteva essere stata un’idea balorda.
A dirla tutta non era neanche sicura che la maggior parte degli ingredienti fosse ancora edibile. Al non rinnovava le scorte da quando era uscito di casa.
Perché non si era fatta venire quei dubbi prima?
“Ehi, ascolta…” Tentò.
L’altro, con gli occhi quasi chiusi, borbottò qualcosa che assomigliava ad un “Troppo tardi…”
Giusta osservazione. Gli prese la mano tra le sue. “Non ti lascerò solo un attimo.”
“Non lo fate mai …” Bisbigliò ormai ad un passo dal sonno. “… ora è il mio turno.”
“Di fare co…” Si era addormentato, ma tanto non c’era bisogno che le spiegasse alcunché.
Ora tocca a te trovare Al, e non lasciarlo solo.
Sospirò. Gli fece scivolare un indice sul polso, guardando con attenzione l’orologio sulla scrivania per tener sotto controllo le pulsazioni.
Sognalo, Tommy. E riportalo a casa.
 
****
 
Da qualche parte nel mare del Nord …
 
“Hai bisogno di riposarti.”
“Sto bene … davvero!” Al incrociò lo sguardo di Sören, che pareva decisamente poco convinto. Non che avesse tutti i torti: aveva fame e un disperato bisogno di riposare. Dovunque, anche il nudo pavimento sarebbe andato bene.
Non era ancora il momento per crollare dato che stavano percorrendo l’ennesimo snodo della nave. Sören lo stava guidando con l’aria di chi conosceva la strada, e tanto gli bastava.
Non aveva proprio la forza di chiedergli come conoscesse la planimetria di un cargo Babbano.
“Ce la faccio, mi basta arrivare alla radio.” Gli promise prima che la sua pancia lo sbugiardasse brontolando con stronzissima vivacità.
L’amico gli rivolse un sorriso divertito. “Dubito che là troveremo qualcosa da mangiare.” Si fece serio. “Da quando non metti qualcosa sotto i denti?”
“… non lo so?” Scosse la testa. “Ma non c’è problema, posso…”
“No, non puoi.” Lo fermò gentile ma deciso. “Siamo vicini alla cambusa, sicuramente avranno una dispensa con delle provviste. Faremo scorta. Non so quando potremo mangiare di nuovo.”
Si stava prendendo cura di lui, ed era umiliante ma non c’era niente da fare, ne aveva un disperato bisogno. “Dovrei essere io quello che si preoccupa della salute di entrambi…” Sospirò colpevole.
Sören scrollò le spalle, illuminando una porzione di parete per leggere qualcosa; era una piantina del posto, ma era piena di simboli che Al non riusciva a decifrare. La curiosità ebbe la meglio sulla stanchezza. “Dove hai imparato … dico, a leggere questa roba?”
“In America.” Seguì con il dito una direzione tra quell’intrico di linee e segni poi annuì tra sé e sé, come a confermare un ragionamento. “È una piantina anti-incendio.” Aggiunse voltandosi verso di lui. “Non ho idea se la abbiano tutte le navi. Questo però è un cargo americano e mi è già capitato di salirci per lavoro. Mi è stato insegnato come leggerla sul campo.”
Di solito non era così loquace, e Al intuì che parlava per tenerlo attento e non lasciarlo scivolare nell’abbattimento. “Sei un ragazzo pieno di sorprese…”
Sören gli sorrise impacciato, ma non rispose. Non era molto bravo ad accettare i complimenti.
Dal mio punto di vista è un pregio.
“Sono contento che tu ti sia messo con Lily.” Gli confessò. “Se non altro, saprai tirarla fuori dai guai al momento opportuno.” Aggiunse per sdrammatizzare.
“Questo va oltre le mie capacità, temo.” Rispose a tono, ma dal calore del tono di voce si capiva che gli aveva fatto piacere. “Ma farò del mio meglio.”
“È già tanto.” Gli assicurò dandogli una pacca sulla spalla. “Vedrai, quando torneremo a casa sarai accolto come un eroe.”
Fece una smorfia. “Non sono un eroe.”
“Se rischi la vita per fare qualcosa di assolutamente stupido l’onorifico te lo becchi per forza.”
“Per forza?”
“Proprio così.” Ridacchiò alla sua espressione desolata. “Quello, e un maglione.”
“Cos’è quest’ossessione che tu e Lily avete per i maglioni?”
“Non è un’ossessione!” Protestò indignato; non gli aveva detto di stare in silenzio, quindi si sentì in dovere di continuare. E poi gli serviva a distrarsi. “È una tradizione. A Natale nonna Molly ne regala uno ad ognuno di noi nipoti … credo che i suoi Tom li bruci, ma gli toccano comunque.”
Sören annuì con l’aria di ascoltarlo per semplice educazione. Aprì poi una porta e dando un’occhiata sommaria gli fece cenno di seguirlo dentro; entrarono così in un ambiente grande, pulito e delimitato da grossi tavoli di acciaio e sedie dello stesso materiale. Un refettorio realizzò Al; ogni suppellettile era inoltre inchiodata a terra.
Per evitare che voli tutto in aria durante le tempeste.
Babbani furbi …

“Di là c’è la cambusa.” Indicò Sören con un cenno della testa. “Andiamo.”
Al lo tallonò contento; la prospettiva di riempirsi lo stomaco era una gioia semplice, ma di quelle fondamentali. Trovarono la dispensa, che Sören forzò con un colpo di bacchetta e Al non si vergognò di far razzia di merendine e bevande zuccherose e frizzanti di dubbia provenienza. Sören non lo fermò mentre si ingozzava, ma si fece scivolare nelle tasche una buona quantità di barrette proteiche. Le riconobbe perché Tom gliele comprava di simili per il post-jogging.
“Buona idea!” Bofonchiò un po’ colpevole. “Quelle ci serviranno.”
Sören annuì, sedendosi su una una pila di cartoni e mangiandone una con calma. Al lo imitò, reclinando la testa contro quello che poteva essere un sacco di patate e chiudendo gli occhi.
“Non ti addormentare…”
“Con l’overdose di zuccheri che ho appena fatto? Impossibile.” Ridacchiò. “Mi sto solo rilassando, tranquillo.” Aprì gli occhi. “Sei un tipo da rosso.”
“Rosso?”
“Per il maglione. Dovrò dirlo a nonna Molly, anche se dovrai contendertelo con James.” Alla sua espressione perplessa aggiunse. “È una cosa di famiglia, fattene una ragione!”
“Ma non sono …”
“Certo che lo sei.” Lo fermò. “Stai con mia sorella, sei cugino di Tom e mi stai salvando una vita. Tutte le carte in regola, insomma. Avrai una famiglia, inglese e rumorosa, che ti piaccia o meno.”
Sören non rispose e si arrischiò a dargli un’occhiata. Lo vide contemplare la sua barretta con immensa cipiglio.
Fa’ come Tom quando è commosso…
“Mi piace.” Mormorò piano.
“Bene!” Doveva pur ringraziarlo in qualche modo, ed era ovvio di cosa avesse bisogno il ragazzo di fronte a lui, molto più che la gloria o il plauso pubblico. Una volta finita quella storia l’avrebbe fatto invitare a cena alla Tana.
Perché questa storia finirà.
Con lo stomaco pieno si sentiva più fiducioso in merito.
Un improvviso rumore di passi li strappò di colpo dalla bolla di sicurezza in cui si erano immersi. Sören scattò in piedi, bacchetta alla mano.
Ci hanno trovati?
Gli fece cenno di rimanere in silenzio e soprattutto fermo dov’era.
No, aspetta, non puoi andare a controllare da so…
Niente da fare, era già uscito. Al non ci mise molto a disattendere gli ordini e andargli dietro.
Nel refettorio i passi si fermarono nello stesso momento in cui loro si accovacciarono dietro il bancone dove venivano serviti i piatti. L’amico vedendolo gli scoccò un’occhiataccia a cui rispose con un’innocente alzata di spalle.
Ormai dovresti averlo capito!
Fu ad un passo dal dargli uno scappellotto, era sicurissimo, ma poi fece di nuovo gesto di rimanere immobile. Poi di chiudere gli occhi: questa volta gli obbedì, perché Sören aveva in mente qualcosa. Si alzò infatti in piedi e lanciò un Lumos Maxima a cui venne risposto con un tramestar di passi e una robusta imprecazione in tedesco.
Conosceva quella voce.
Lampi, schianti e odore di polvere da sparo. Ci furono rapidi scambi di incantesimi e Al si raggomitolò al sicuro, mentre sedie e tavoli si schiantavano tra di loro.
“Fermo! Dannato ragazzino, fermati!” Urlò la voce di John Doe, perché era proprio lui. “Bandiera bianca!”
Lo disse in inglese … e cosa?
Si sta … arrendendo?
Persino Sören doveva esser rimasto sconcertato da quell’affermazione perché nel refettorio cadde un silenzio tombale.
“Parliamo, okay? Adesso abbasso la bacchetta e se non è troppo disturbo, fallo anche tu.” L’intonazione era la solita, piena di scherno, ma c’era un urgenza nuova nella voce.
Albus mise fuori la testa dal suo nascondiglio per studiare la situazione; John Doe era uscito (uscito allo scoperto!) da un mucchio di tavoli e sedie e aveva le mani alzate. Con la penombra non vedeva bene, ma sembrava ferito alla testa; aveva una benda attorno alla fronte.
“Sei cieco, posso disarmarti quando voglio.” Fu la replica dell’altro, ancora al sicuro dietro una barricata non dissimile. “Dimmi perché dovrei perdere tempo a parlare quando posso Schiantarti.”
Doe fece una smorfia. “Perché, che tu l’abbia notato o meno principino, siamo entrambi nella merda.”
“L’unico nei guai qui mi sembri tu.”
“Sul serio?” Roteò gli occhi al cielo. “Il biondino con il tuo stesso nome. Si è improvvisato macellaio dei miei compratori, ha ammazzato tutti i Mercemaghi che hanno provato ad opporglisi … e quelli che gli si sono arresi? Li ha messi sotto Imperio. Adesso ha lui il controllo della nave.” Fece una pausa, e guardò nella sua direzione. “Diglielo frocetto. Digli quello di cui è capace il Supermago.”
Mi ha scoperto!
Doe vedendo che nessuno dei due reagiva emise un suono frustrato. “Vi sto dicendo che abbiamo un pazzo sanguinario sulle nostre tracce! Dobbiamo collaborare.”
… Che?
Sören non diede segno di voler abbassare la bacchetta continuando a tenerlo sotto tiro. “Ho smesso di cadere nei tuoi giochetti mentali anni fa, Johannes. Per quanto ne so, ti ha mandato lui.”
Merlino, lo avrebbe baciato in bocca.
Doe si passò una mano sulla testa con una smorfia. “… non credermi se vuoi, ma quella merdina ingrata mi vuole più morto di quanto non voglia te. Me l’ha detto in faccia. Forse non ha preso bene la piccola punizione di cui l’ho omaggiato…”
“Di che stai parlando?”
Al a quel punto intervenne; Doe era sempre Doe, ma gli sembrò di colpo vecchio, e stanco. Avrebbe potuto prenderli di sorpresa prima, e catturarli senza sforzo perché avevano abbassato le difese in quella cambusa.
Io parlavo ad alta voce, deve avermi sentito per forza.
Non vuole catturarci.

Vuole davvero parlare.
Sperava di non sbagliarsi. “Lo ha punito per aver preso me al posto del Guaritore Finnigan, che è a capo della Cura.” Spiegò all’amico, rimanendo comunque al sicuro e con la bacchetta ben stretta in pugno. “Lo ha quasi ridotto in fin di vita.” Aggiunse accusatorio.
Doe scrollò le spalle. “Se avessi voluto ucciderlo l’avrei fatto. Era solo per fargli capire chi comandava … mi ha sempre guardato dall’alto in basso. Lo sai, principino, maghi così proprio non li digerisco.”
“Taglia corto.”
Doe parve poco contento dell’ordine, ma obbedì. “Sono riuscito a scappare alle sue maledizioni per il rotto della cuffia. Conosci la solfa … sangue, urla, un gran volare di incantesimi. Ho approfittato della confusione per darmela a gambe.”  
Solito, vecchio John Doe.
“Cosa vuole?”  
“A quanto pare vendicare il nome di tuo zio.”
“Mio zio è morto e la Thule è stata distrutta.”
“Appunto. Ha cianciato di riprendere da dove il Magister aveva iniziato… Il classico zelota plagiato. Eri così anche tu, ti ricordi? Prima di finire tra le cosce di quella rossa, intendo…”
Al serrò la mascella, ma si frenò dal reagire perché Sören lo fece prima di lui. Un leggero movimento di bacchetta e Doe fu scaraventato contro una fila di tavoli. Crollò a terra con un grugnito sofferente e un gran clangore metallico. Al poteva vederlo, fremeva dalla voglia di reciprocare, ma si frenò.
Si scrocchiò invece il collo, alzandosi in piedi. “Sehr gut, me lo sono meritato.” Sogghignò sputando a terra un grumo di sangue. “Ora che ti sei sfogato, possiamo parlare?”
Sören non mosse un muscolo. “Non mi fido di te.”
Bravo Ren!
Doe fece spallucce. “Non devi fidarti di me, principino … devi soltanto rispondere ad una domanda. Vuoi uscirne vivo?” Indicò nella sua direzione. “Vuoi che il frocetto faccia altrettanto? Allora ho una proposta. Altrimenti, me ne vado.”
“Non sulle tue gambe.”
“Vuoi davvero continuare a duellare e avvertire Luzhin che siamo qui?” Fece cenno verso la porta. “Per me non è un problema. Ma forse per te sì.”
Al capì che erano giunti ad uno stallo, e non ne sarebbero mai usciti senza un po’ d’aiuto. C’era troppo odio e troppa diffidenza da entrambe le parti.
Solo una delle due ha ragione, ma comunque …
Uscì dal suo nascondiglio affiancandosi a Sören. “Sentiamo almeno cos’ha da dire.” Gli suggerì. “Lo hai sotto tiro, e anche io. Non se ne va da nessuna parte.”
Sören scoccò un’occhiata nella sua direzione. Non era convinto, ma avevano alternative?
No, purtroppo.
“Parla.” Sospirò.
Doe sorrise e ad Al venne voglia di Schiantarlo. Giusto per sicurezza. “La barca con cui ti ho portato qui.” Esordì. “Possiamo usarla per andarcene. So che hai tentato di arrivare alle scialuppe, ma i Mercemaghi ti hanno fermato prima…”
“Come…”
“Vi stavo pedinando. L’idea era quella di uccidervi e prendere il vostro posto sulla scialuppa.” Confessò candidamente. “Peccato abbiate fatto casino. Bella pensata litigare ad alta voce sul ponte.” Li schernì.
Al, onde evitare un secondo scoppio di incantesimi da parte dell’amico gli mise una mano sul braccio e prese la parola. “È vero quello che dice? C’è una terza scialuppa?”
L’amico annuì. “Più una barca a motore, ma sì. È con quella che sono arrivato.”
“Posso portarvici.” Vedendo che non rispondevano incalzò. “È la nostra unica speranza … non possiamo continuare a giocare all’infinito al gatto col topo con Luzhin, prima o poi ci troverà. Questa bagnarola non è infinita.”
Al si scambiò uno sguardo con Sören: dovevano ammetterlo, era un buon piano e a differenza della ricerca della stanza della radio, c’era una via di fuga compresa.
“Dobbiamo prima ripristinare il gps del cargo.” Disse però Sören. “Non possiamo lasciare Luzhin a vagare indisturbato per l’Oceano.”
“Onestamente ragazzino, me ne frega meno di niente.”
Sören sorrise lieve. “Peccato, perché non hai scelta. Forse non ti è chiaro, ma comunque vada sei in mia custodia. Ci porterai a spegnere il gps e poi alla barca. Morirò prima di lasciarti scappare stavolta.”
Doe ridacchiò, ma ad Al non sfuggì come strinse la bacchetta tra le dita. “È una promessa principino?”
“Sì.” Rinfoderò la sua ma mantenne il contatto visivo con il Camaleonte. Non l’aveva rotto neppure per un attimo. “Lo è.”
Wow … Tom, ti amo e tutto quanto, ma credo di essermi un po’ innamorato di tuo cugino.
Doe gli tese la mano. “Beh, abbiamo un accordo direi.”
Sören la ignorò. “Sei da solo?” Gli domandò invece.
Già … c’erano meno corpi di quanti erano gli invitati. Mancava sua madre e il tizio slavato che voleva farlo ammazzare da Luzhin.
“Qui? Sì. Ho portato tua madre al sicuro però.”
“Dove?”
“Posso portarvici. Farvi riposare per qualche ora.” Quella disponibilità untuosa era disagiante, ma supponeva fosse il modo di Doe di dimostrarsi meritevole di fiducia. “Il tuo amichetto non sta in piedi e tu non stai messo molto meglio. Se vi trovano in giro, vi faranno fuori senza neanche sforzarsi granché.” Inarco un sopracciglio. “Siete al limite, ve lo si sente addosso.”
Già…
“Sto bene.” Mentì, perché non voleva essere un peso più di quanto già non fosse. “Mi sono già riposato, andiamo a cercare la stanza del radar o quello che…”
“No, ha ragione. Dobbiamo riposare e la stanza delle comunicazioni è lontana da qui.” Lo interruppe Sören e non c’era spazio per obbiettare. “È un posto protetto?”
“Sei mai riuscito a trovarmi quando volevo nascondermi?” Obbiettò e non aveva tutti i torti. “Forza, gambe in spalla, ragazzi. La strada è lunga!”
Sören gli diede una pacca sulla schiena, spingendolo con gentilezza davanti a sé e facendo così da retroguardia.
Pare assurdo…
Stavano fidandosi di John Doe, il mago che fino a poche ore prima era stato l’unico da cui guardarsi, da cui fuggire.
Il nemico del mio nemico è mio amico.
Mai proverbio era stato più veritiero.
 
****


 
Note:

Questa la canzone del capitolo.
Dubitando fortemente di riuscire a sfornare un nuovo capitolo prima di Natale, vi auguro buone feste … e, come sempre, grazie per la pazienza. :*
 

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Capitolo 66
*** Capitolo LXV ***


 
 



Dentro di me ci sono due lupi. Uno è malvagio. L’altro è buono.
Combattono continuamente.
Quale lupo vince? Quello che nutro di più.

(George Bernard Shaw)
 
 
Da qualche parte nel mare del Nord …
 
Doe non li aveva attirati in una trappola.
La cosa aveva dello straordinario pensò Al mentre scendevano da una scala di metallo piuttosto ripida; si trovavano in un ambiente che riconobbe come quello della stiva, ma in una parte diversa rispetto a dove era stato ricavato il laboratorio.
Credevo fosse un mercantile piccolo …
Più vi si muoveva più si rendeva di quanto si fosse sbagliato; o forse erano ore che giravano in tondo, cercando di schivare pericoli mortali e bacchette pronte ad ucciderli e questo gli stava facendo perdere il senso dell’orientamento.
Quando entrò dentro un secondo salone – si chiamavano così? – questa volta pieno di container a perdita d’occhio, e mai visti fino a quel momento, si rassegnò ad aver definitivamente perso ogni punto di riferimento.
“Qui l’impianto elettrico funziona.” Osservò mentre Doe leggeva le sigle sulle fiancate.
“Sono luci di emergenza.” Gli rispose a sorpresa.
Sorpresa poi … è sempre stato un logorroico.
La cosa sconcertante è che parlasse loro in tono normale. “Siamo nel vero cuore della nave.” Fece un gesto che abbracciava l’intera area. “Siamo nel magazzino. Imponente, vero?”
“Cosa trasporta?”
Non roba pericolosa, vero? Tipo cose volatili … o incendiabili o …
“Farina.”
Oh, okay, farina.
… Farina?!
Sören notò la sua espressione . “Albus, va tutto bene?”
“È una polvere. È volatile.” Mormorò. “… e si incendia, basta una scintilla d’incantesimo. Casa mia una volta era un mulino Babbano … ha smesso di esserlo perché è saltato in aria.”
Ovviamente John Doe doveva rubare l’equivalente di una polveriera e perderne il controllo in acque internazionali.
Ovviamente.
“Tranquillo Potter, terremo tutti le bacchette nel fodero e i sacchi di farina ben sigillati.”
“Voi, ma Luzhin? Se ci trova qui e cominciano a volare incantesimi?!” Sbottò fregandosene di aver alzato di un ottava la sua voce, suonando più o meno come una ragazzina isterica. “È questo il tuo posto sicuro?”
Doe alzò gli occhi al cielo “È sempre così irritante?”
Sì, se serve a salvarmi la vita!
“Albus ha ragione.” Gli fece eco Sören, suonando molto più autorevole. “È rischioso.”
Doe annuì con l’aria di trovarli esilaranti. “Esatto!” Ridacchiò. “Quando ci troveremo di fronte ai suo nuovi, piccoli minion almeno sapremo con cosa difenderci. Sacchi di farina, non è ironico?” Al loro silenzio poco convinto aggiunse con aria annoiata. “Avete idee migliori, piccoli geni?”
Non ne avevano. Al si strofinò il viso e si odiò, perché gli occhi gli bruciavano per la stanchezza e aveva davvero bisogno di stendersi e perdere conoscenza senza avere il terrore di finire tra le grinfie di Luzhin.
“No?” Li schernì sapendo di aver vinto. “Lo immaginavo.”
Muori.
Una volta che Doe si fu allontanato Sören gli si affiancò, toccandogli appena il gomito e facendogli cenno di mettersi in marcia. In quella penombra rischiarata solo dai loro Lumos sembrò gli sorridesse come Tom.
Gli mancava da morire.
 
Al…
 
Ancora!
Si bloccò di colpo, facendo inciampare l’amico contro di sé. “Scusa!” Fu lesto a sussurrargli per non farlo allarmare. “Stavo per cadere …”
Aveva sentito di nuovo la voce di Tom, non poteva sbagliarsi; avrebbe riconosciuto quel timbro basso ed esigente tra mille voci.
Fantastico, ho le allucinazioni da stanchezza.
… o forse no.
Forse il suo ragazzo, geniale e sempre pronto a sfidare i limiti della magia, aveva trovato un modo per mettersi in contatto con lui.
Sì, beh, potresti essere un po’ più loquace!
… Tom?

“Eccoci arrivati.” Doe catturò la loro attenzione dando un colpo al fianco di un container rosso uguale esattamente a tutti gli altri. Eseguì poi diversi movimenti con la bacchetta, alcuni completamente sconosciuti ad Al, e infine sollevò la saracinesca con un solo gesto fluido. “Fate come se foste a casa vostra!”
Sören non mosse muscolo, e mettendogli una mano sul petto gli chiese di fare lo stesso. “Prima tu Johannes.”
“Malfidati…” sbuffò l’uomo entrando di buon grado.
Quando Sören gli diede il via libera Al lo seguì; dentro era freddo e mal areato, checché ne avesse detto Doe, ma almeno era asciutto e privo di pacchi di farina. Doe accese con un colpo di bacchetta una fila di led industriali e l’improvvisa luce permise loro di vedere una figura accoccolata contro la parete di fondo.
“Madre.” Mormorò Sören facendo un improvviso passo avanti.
La donna, perché era lei, si alzò a sedere: si era drappeggiata addosso il proprio mantello a mo’ di coperta ed era visibile solo una mezzaluna di viso pallido, e teso.
“Sei tornato.” Disse tendendo una mano verso Doe.
Al aveva avuto modo di vederla di sfuggita durante l’esibizione di Luzhin. Sembrava un’altra persona: sembrava fragile … umana. Un prigioniero a cui era stata annunciata la grazia.
Perché era al buio? Non sa premere un interruttore?
Lanciò uno sguardo a Doe; il sorriso che mostrava mentre la prendeva tra le braccia era quello di un conquistatore. “Certo mia Regina, avete avuto paura?” Le domandò dolcemente e okay, metteva i brividi.
“Sì.” Rispose questa, voltandosi poi verso di loro con blanda sorpresa. “ … Non erano morti?”
Ehi, grazie tante!
“A quanto pare sono più resistenti della gramigna.” Commentò salace dandole una mano a mettersi in piedi. “Siete stata in silenzio e senza far rumore come vi avevo chiesto. Avete fatto bene.” Le scostò una ciocca di capelli dal viso. “Luzhin potrebbe essere ovunque pronto ad uccidervi.”
… e benvenuti nel regno del terrore insensato. Anche perché poteva accendere la luce, da fuori non l’avrebbe vista nessuno, non ci sono finestre!
Cercò di attirare l’attenzione di Sören, ma lo trovò concentrato sulla coppia di fronte a sé. Non era difficile leggere rabbia e disgusto nella sua espressione.
Doe l’ha obbligata a stare al buio senza motivo. Forse per sembrare ancora più eroe al suo ritorno …
Sadico coglione.
“Siete ferita?” Le domandò, perché anche se faceva parte della banda dei cattivi era pur sempre sopravvissuta ad una strage e quindi forse bisognosa di attenzioni mediche.
Prima che questa potesse rispondere, Doe lo fece al posto suo. “Potter, sempre pronti a dare una mano!” Esclamò sarcastico. “Non ha bisogno di cure.”
“Vorrei fosse lei a dirmelo.” Argomentò pacato; forse non era una buona idea inemicarsi un amante possessivo, ma aveva Sören al suo fianco e comunque non potevano tirare fuori le bacchette.
Non rischio molto.
Doe fece una smorfia infastidita ma cedette il passo. “Mia Signora, è evidente che il ragazzo vuole sentire la vostra voce. Come biasimarlo?”
Guarda, ma proprio no. È che non mi fido di te.
La strega gli diede finalmente attenzione. Al si costrinse a non sussultare: il colore era diverso, ma la forma degli occhi era quella di Alberich … e di Tom. “Sto bene, Johannes mi ha tratto in salvo prima che Luzhin potesse ferirmi.”  
“Se avete bisogno, sono un Guaritore.” Insistette, ma non vi fu risposta. Doe prese subito la parola.
“Se avete espletato i vostri piccoli riti da bravi ragazzi, proporrei una tregua per riposarci.” Guardò l’orologio che aveva al polso. “Due ore, poi andremo alla barca.”
“Prima il gps.” Si inserì Sören.
Doe sbuffò. “Siamo più vicini alla barca adesso. Se volevi attivare il gps così tanto sarebbe bastato salire tre piani dalla cambusa. Ce l’avevi sopra la testa.”
Cosa?
Gli rivolse uno sguardo incredulo, ma l’amico non si scompose. “Li hai sentiti anche tu muoversi sopra di noi. Era impossibile salire, ci avrebbero trovati.”
“Io non ho sentito niente!” Protestò Al.
Sören scosse la testa. “Non parlavo con te.” Notando che non sembrava capire aggiunse. “L’aura magica. Sia io che Johannes siamo in grado di vederla, e sopra di noi c’erano almeno cinque persone.”
Doe fece un sogghigno. “Sei. Stai perdendo colpi a stare coi buoni, principino.”
Al spalancò la bocca: certo, ogni mago era in grado di percepire se c’era magia attorno a lui.   
Ma da qui a riuscire a contare quanti maghi ci sono …
“L’aura magica, se allenati ad avvertirla, è come un’impronta termica. È una luce brillante nel buio.” Gli spiegò Sören con un mezzo sorriso. “Qui non ci sono muri spessi, ma paratie di metallo. È più facile. Ad Hogwarts non ci riuscivo per via delle mura …”
Al annuì impressionato: era una capacità magica di cui non aveva mai sentito parlare, ed era in quei momenti che si rendeva conto quanto ancora gli sfuggisse di un mondo che credeva di conoscere a menadito.
Era una cosa che avrebbe mandato fuori di testa Tom.
“È fantastico, perché non ce l’hai mai detto?
Sören gli sorrise, ma fu Doe ad intervenire. “Perché è uno di quei piccoli segreti che io e il buon Prince condividiamo … niente di cui andare orgogliosi, se te l’ha insegnato la buona vecchia Thule, eh?”
Figlio di … Donna Scarlatta.
L’altro perse il sorriso. “Per questo non siamo subito andati a cercare il gps.” Continuò come se non l’avesse ascoltato. “Dobbiamo aspettare che la via sia libera … o essere abbastanza in forze da affrontarli.”
Strinse un braccio all’amico, cercando di fargli capire che non doveva dar retta alle frecciatine del Camaleonte. “Meglio schiacciare un pisolino, allora.” Disse. “Facciamo dei turni di guardia?”
“Inizio io.” Lo anticipò Sören. “Tu cerca di riposare.”
A questo non aveva molto da obbiettare – era distrutto - e per rendere la situazione più confortevole Materializzò per sé una coperta, un cuscino e un sottile materasso da campeggio. Non era in grado di creare un letto vero, ma considerato il poco spazio nel container non avrebbe neanche avuto senso. Guardò poi la strega.
Perché non ha fatto Apparire qualcosa per stendersi?
Probabilmente non ne era in grado, anche se gli sembrava impossibile per una donna con lo stesso sangue di Tom e Sören.
Forse per una nobile Purosangue quelle magie domestiche non venivano naturali?
Sospirò. Ben attento a non attirare l’attenzione di Doe, che stava di guardia all’entrata con Sören, fece Apparire il suo stesso equipaggiamento ai piedi della donna. Non aspettò che lo ringraziasse infilandosi nel giaciglio improvvisato e voltandosi verso la parete.
Chiuse gli occhi ma si sentì osservato a lungo prima di scivolare nel sonno.
 
****
 

Tom si era risvegliato sulla scogliera di Rügen.
O meglio, non proprio: in realtà stava ancora dormendo, era l’incantesimo delle Anime Parlanti – che nome cretino - che gli stava facendo vivere quell’esperienza come se fosse vera.
Erano i suoi ricordi a rendere tutto così reale, stabilì guardando la linea dritta del mare, le scogliere di gesso bianche e la lingua sabbiosa su cui stava camminando. Ogni estate lui e Al andavano a trovare Cordula, approfittandone per passare un po’ di giorni da soli, senza amici o parenti pronti a tirar loro la giacca e chiedere attenzioni. Quell’anno a causa del Demiurgo non erano potuti partire, tuttavia avrebbe potuto mappare ad occhi chiusi il loro piccolo nascondiglio lontano dal mondo. Alzò lo sguardo mentre un lampo squarciava le nuvole.
Sulla cima della scogliera c’era il loro faro. Il faro in cui avevano fatto l’amore per la prima volta.
Fece una smorfia, quasi potesse udire la risatina maliziosa di Lily.
Non era stato solo il sesso a suggelare quel luogo come speciale; era stato il posto in cui Al l’aveva perdonato, in cui l’aveva riaccolto tra le braccia e fatto tornare …
Umano.
Si chinò a prendere un ciottolo da terra, scagliandolo contro le onde.
Era lì che doveva aspettarlo.
 
Albus poteva ricordare solo una manciata dei sogni che aveva fatto durante la sua breve vita e della maggior parte non rammentava che frammenti, sensazioni e qualche viso. Niente di particolare, insomma. Non gli era mai capitato di viverli consapevolmente.
Al momento invece sapeva di sognare. Sapeva di non essere davvero a Rügen.
Sogno lucido?
Lily gliene aveva parlato, tuttavia pensava fossero un po’ diversi. Prima di tutto, non così dettagliati: sentiva la sabbia grezza della spiaggia crepitare sotto le scarpe da ginnastica, il garrito dei gabbiani e il rumore fortissimo delle onde infrangersi sulla battigia.
… wow.
E poi non avrebbe mai sognato Rügen in esterna. Avrebbe sognato il faro, avrebbe sognato ben altro.
Una scenografia così, con quel mare gonfio e il tono drammatico delle nuvole che si stavano ingrossando era più un sogno di Tom che suo.
 
“Al…”

Stavolta si sentì chiamare forte e chiaro, come se l’altro fosse a pochi passi da lui.
E lo era. Gli stava di fronte: indossava il suo amato cappotto nero e gli dava le spalle.
Tom!” Esclamò, aspettando che svanisse in uno sbuffo di fumo, perché era così che funzionavano i sogni purtroppo.
Invece no. Invece rimase e si voltò.
Corrersi incontro come due idioti fu assolutamente sensato. Ad Al non importò che il terreno fosse sconnesso e di rischiare probabilmente una storta, tanto era un sogno.
Un sogno bellissimo perché l’abbraccio che lo avvolse era familiare, era scomodo, troppo stretto e il naso gli sbattè contro la spalla ossuta dell’altro.
Perfetto.
Tom era pessimo nel dare gli abbracci ed era una cosa così sua che gli era sempre piaciuta moltissimo.
 “Al…” Sentiva le dita dell’altro infilarglisi nei capelli, scivolargli lungo la schiena per controllare che fosse tutto intero.
Lo lasciò fare e davvero stava dormendo? Perché l’odore della colonia di Tom, quella che aveva scelto con sua madre in una boutique piena di commessi odiosi, era ovunque e la respirò a pieni polmoni come se fosse aria fresca.
Si scostò per guardarlo negli occhi, quegli occhi blu mare e capì perché il corrispettivo fosse così tanto in burrasca.
È il suo sogno.
“Ehi.” Gli prese il viso tra le mani, costringendolo a non attirarlo di nuovo a sé e rompere così il contatto visivo. “… immagino che ci sia una spiegazione magica del perché siamo assieme adesso, ma non mi importa.” Disse. “Me la dici dopo. Stai bene?”
Io?” La smorfia sarcastica di cui lo omaggiò un po’ se la meritava. “Non sono io quello che è stato rapito.”
“Mi dispiace.” Non era pentito di aver preso il posto di Sam ma ciò non toglieva che avesse infranto una serie di promesse.  “… ho dovuto prendere una decisione in fretta, ma se avessi potuto scegliere…”
“Ti saresti offerto lo stesso.” Concluse staccandosi da lui e Merlino, adesso faceva freddo. Un tuono risuonò un po’ troppo vicino.
Mica vorrà far piovere perché è arrabiato con me?
Sarebbe stato capace, conoscendolo. Sospirò. “Ero l’unica merce di scambio che Doe non avrebbe buttato a mare dopo assolto il compito. È un mercenario, ti ricordi che ti disse?” Non gli rispose. Decise di continuare comunque, perché doveva fargli capire che sì, si era messo sulla linea di fuoco ma l’aveva fatto con la quasi sicurezza di non essere centrato.
Quasi.
“Gli sono più utile da vivo che da morto… Senza contare che se mi uccide, avrà contro mio padre. E nessuno sano di mente si mette contro papà.”  Inspirò. “Non che sia questo il problema adesso.”
Tom aggrottò le sopracciglia ma di nuovo non aprì bocca. Anche senza toccarlo percepiva la rabbia che gli scorreva sottopelle, la tensione, l’ansia.
È come una corda che vibra.
“Sto bene.” Ripetè. “Sono stanco, e avrei bisogno di una doccia e di mangiare, ma Sören … mi ha trovato e mi sta tenendo al sicuro.” Fece un mezzo sorriso. “Mi sto un po’ innamorando di tuo cugino.”
“Non stai migliorando la tua situazione.”
Ridacchiò, guardando verso il cielo. Meglio cambiare argomento. “È il tuo sogno, vero? Sta reagendo a te, non a me.”
Tom scrollò le spalle. “Immagino di sì.”
“Come funziona? Cosa … che stiamo vivendo?”
La sua mania di fare il professorino non poteva essere sopita da una cosa banale come avercela a morte con lui. “È un incantesimo. Me lo ha dato Lily.”
“Lily?”
“Tua sorella è meno stupida di quanto si pensi. Si chiama l’Incantesimo delle Anime Parlanti. Risale al Medioevo, veniva usato da amanti che venivano separati da eventi avversi. Uno dei due lo lanciava su di sé. La connessione mentale si stabilisce invitando l’uno nel sogno dell’altro, apparentemente.”
Gli sorrise, avvicinandosi. “Così avevi bisogno di me…”
“O forse eri tu che piagnucolavi per avermi con te.”
“Bugiardo.” Gli passò una mano lungo il braccio e intrecciò le dita alle sue. Non gliele strinse di rimando ma se lo aspettava. “Ha funzionato esattamente per questo motivo, no? Perché avevamo bisogno l’uno dell’altro.”
Tom fissò l’orizzonte con cocciuto cipiglio. “Cosa succede se muori?”
“Ehi, grazie ta…”
“Come sopravvivo se tu muori?” Lo fermò. “Come…” Gli si incrinò la voce. “… come faccio?”
Tom…
Lo voltò verso di sé, e quando gli vide le lacrime agli occhi decise che ne sarebbe uscito vivo.
A costo di morire.
Il che era un controsenso ovviamente, ma rendeva bene l’idea di quanto d’acciaio fosse la sua volontà. Lo tirò giù per il collo della camicia, coinvolgendolo in un bacio che sperava urlasse quella sua intenzione.
Non ti lascio. Per Morgana, per Merlino … per tutti gli stramaledetti maghi leggendari, la nostra storia non finirà in tragedia per un demente dopato di magia!
Quando si separarono nel cielo le nuvole si stavano diradando.
Buon segno.
Appoggiò la fronte contro la sua. “Lo so che non sei davvero qui.” Mormorò con le labbra appoggiate alla sua guancia. “… ma è così reale.”
Tom sbuffò una mezza risata. “Dovremo ringraziare Lily. Le ho detto che è un incantesimo cretino…”
“Beh, il nome è un po’ cretino.” Convenne. “Tom, non ho intenzione di morire.”
“Lo spero bene.” Si tirò su, riprendendo il controllo di sé e sembrando quindi molto sdegnato.
Scemo.
Era il momento di parlare di cose serie. “Stiamo cercando di attivare il gps della nave. Pare che se riusciamo a farlo funzionare gli Auror potranno trovarci …”
“Più facile che vi trovi la Marina Militare Britannica e che Harry e gli altri si accodino.” Gli fece notare. “Era questo il grande piano? Mandare Prince ad accendere un interruttore?”
“Non ne ho idea … è che la situazione si è un po’ complicata.” Gli spiegò. “Non è Doe il problema.”
Tom lo guardò confuso. “E quale sarebbe invece?”
“… Chi piuttosto. Se te lo dico non mi crederesti mai. Sembra una svolta di trama da film di serie b.” Borbottò. “Sai quelli che vede tuo fratello?”
“Cosa posso fare?” Domandò. Accettò che gli asciugasse le lacrime con la punta delle dita, ma fece una smorfia all’ennesima carezza. “Sto bene, dimmi cosa devo fare per tirarti fuori di lì.”
Eccolo qui, il mio gatto stronzo …
“Non ho idea di quanto riuscirò ancora a riposare … non so neanche se il tempo qui scorre diversamente.” Riflettè rapidamente. “Ti ricorderai di questo? Di quello che ci siamo detti?”
“Credo di sì.” Tom esitò. “In realtà non ho idea di come funzioni l’incantesimo. L’ho imparato e me lo sono lanciato addosso dopo aver bevuto della Pozione Soporifera. È stato abbastanza … sperimentale.”
“Non conosci gli effetti collaterali?” Esclamò incredulo. “Ma vi siete almeno fatti aiutare da qualcuno al San…”
“Non era il momento di chiedere autorizzazioni a procedere.” Tagliò corto. “Lily sta monitorando il mio battito cardiaco. Mi sveglierà se qualcosa dovesse andare storto.”
“Sei…”
“Tu hai fatto di peggio.”
Il nostro amore è grande … e colmo di ripicche.
“Va bene.” Si passò una mano tra i capelli. “Sì, mi puoi aiutare.” Annuì. “Devi dire a papà quello che sta succedendo qui.” Tom poteva riferire agli Auror cosa stava accadendo sulla nave, di Luzhin e della loro instabile alleanza con Doe.
Poteva dargli indizi che a lui sembravano solo informazioni, ma che forse avrebbero permesso agli Auror di trovarli.
Certo, possiamo attivare il gps … ma meglio non lasciare niente di intentato.
“Quanto tempo hai?”
“Tu inizia.”
 
Gli raccontò tutto; non tralasciò niente, neanche il massacro dei compratori, le sue reazioni, il terrore che aveva provato e la decisione di non abbandonare Sören nonostante il buonsenso gli dicesse di lasciarsi mettere su una scialuppa e scappare a gambe levate da lì. Non avrebbe avuto senso nascondergli qualcosa se questa poteva risultare utile a trovarli.
Oltretutto … ho bisogno di parlarne.  
Avrà bisogno di farlo per molto tempo finita questa storia, temo.
L’altro lo ascoltò in silenzio, interrompendolo solo per esser sicuro di aver capito. Aveva un’espressione illeggibile ma non era necessariamente un male; significava soltanto che gli stava dando attenzione al cento per cento ed era tutto quello che poteva chiedergli in quel momento.
Per confortarlo avrebbero avuto tempo.
Spero.
Perché dipanando gli eventi ad alta voce era stata una lenta, ennesima realizzazione di quanto stessero rischiando.  
“Non devi fidarti di Doe.” Esordì Tom dopo che ebbe concluso. “Immagino che abbia avuto modo di mostrarsi collaborativo … ma è così che fa. Non vorrà spartire la scialuppa. Non con Prince che vuole arrestarlo.”
Al annuì: per quanto stesse tentando di convincersi che non aveva motivo per liberarsi di loro fintantoché poteva usarli … sarebbe arrivato quel momento.
“Sören lo sa … cioè, credo che lo conosca abbastanza bene da non fidarsi. Avrà un piano.” Guardò verso il mare; il rumore della risacca era lo stesso che aveva accompagnato le loro passeggiate estive quando Meike era ancora piccola e li obbligava ad andare alla ricerca di conchiglie con lei.
“Non sembri convinto.”
“Non ne abbiamo parlato.” Ammise. “Credo che voglia ancora mettermi sulla scialuppa e poi andare a combattere i suoi demoni come una sorta di eroe tragico … È una cosa che avete in comune.” Lo accusò affettuosamente rimediandosi una smorfia irritata.
“Io ne avrei fatto volentieri a meno.”
Rimasero in silenzio; non avevano idea di quanto tempo restava ancora. Al gli prese la mano e Tom stavolta la strinse. “Avvertirò Harry. Quello che mi hai detto cambia completamente le carte in tavola…”
“In peggio.”
“Non necessariamente.” Alla sua espressione sorpresa aggiuse. “Luzhin a quanto mi hai detto vuole morti Sören e John Doe perché hanno tradito la visione di Von Hohenheim … qualunque delirio avesse lo condividevano. Ma non ha motivo per voler morto te.”
“Neanche i compratori se è per questo.” Gli fece notare. “È completamente impazzito … tu non l’hai visto.”
Tom gli strinse la mano più forte. “Non si sta aggirando per la nave con la bava alla bocca … ha messo sotto Imperio i Mercemaghi di Doe, questa è pianificazione. Non credo sia così fuori controllo come pensiate.” Fece una pausa. “Dovresti dare retta a Sören e prendere la scialuppa. Lui è lì per un motivo, tu no.”
Al capì dove voleva andare a parare. “Non me ne andrò lasciandolo a lottare con Doe e Luzhin!”
Tom gli scoccò un’occhiata indecifrabile. “Non sto dicendo…”
“Lo stai pensando!”
Lo stava pensando perché Tom era nato e sarebbe morto calcolatore, e perché una parte di sé avrebbe valutato la sua cerchia di affetti – le sue persone - sempre più importante dell’uomo comune. Dello sconosciuto. Della persona da sacrificare per poter salvare chi gli stava a cuore.
Era un difetto che non avrebbe mai superato probabilmente.
Questo non significa che debba dargli retta però!
“Non posso abbandonare Sören …  e neanche sua madre! Anche se ha collaborato con Doe è pur sempre una persona indifesa. Doe …” Scosse la testa perché non era così caritatevole. “Beh, lui se lo meriterebbe di finire ucciso da qualcosa che ha contribuito a creare … karma e tutte quelle cavolate … ma non posso barattare la mia vita con quella di due persone innocenti!”
“Moriresti per loro?” Era un’accusa bella e buona. Albus si liberò dalla stretta e gli si piazzò davanti, pieno di rabbia perché una parte di sé, ovvio, avrebbe lasciato Ren e sua madre a morire se questo significava poter tornare a casa e riabbracciare la sua famiglia.
Avrebbe tanto voluto dargli un pugno. Perché Thomas Dursley, con il suo mondo fatto di assoluti, era e sarebbe sempre stato lo specchio delle sue indecisioni, la voce della ragione, quella crudele eppure così sensata.
Era una cosa che odiava di lui, quanto amava tutto il resto.
“Voglio che ne usciamo tutti sani e salvi, è tanto sbagliato?”
Tom non mutò espressione, né mostrò un cenno di comprensione. Era la paura di perderlo a farlo comportare così, e glielo stava perdonando solo per questo. “Potrebbe non essere possibile. Potresti dover scegliere tra la tua vita e la loro … Ci hai pensato?”
“Ci devo almeno provare.” Si morse un labbro. “Non salvo la gente perché voglio fare il Guaritore. Voglio salvare la gente e per questo ho deciso di fare il Guaritore. Con che faccia mi guarderei allo specchio se condannassi Sören a restare lì, con due persone che vogliono ucciderlo, per salvarmi la pelle?”
Tom lo guardò a lungo, così tanto che pensò di dire qualcosa, anche soltanto per mandarlo a quel paese.
“In effetti come Auror avresti fatto pena. Ti avrebbero fatto fuori subito.”
“Tom…”
“La verità è che non ho idea di cosa farei al tuo posto. La stessa cosa immagino.” Guardò alle sue spalle, il mare, che offriva qualcosa su cui concentrarsi per non crollare. “… Riportare a casa tutti. Del resto, me l’hai insegnato tu.”
Ad Al venne ovviamente da piangere. Aveva un disperato bisogno di abbracciarlo e quindi glielo disse, chiaro e tondo, anche se era decisamente anticlimatico.
Tom obbedì baciandogli la testa e strofinandogli una mano contro la schiena, in uno strambo gesto di conforto che doveva aver copiato da chissà chi o visto chissà dove. “Fa’ quel che devi.” Mormorò. “Ricorda che devi tornare. Da me.”
“Cosa credi che stia tentando di fare?” Ribattè. Da lontano cominciò a sentire dei rumori; era musica stimò, musica Babbana.
No!
Tom parve sentirla come lui. Serrò le labbra in una linea dura. “Questa è Lily … è musica che ascolterebbe Lily. Fa schifo.”
“… Ti stai svegliando, vero?” Domandò anche se conosceva la risposta. Strinse più forte la presa in quell’abbraccio, perché non se ne voleva andare, ma Tom non sarebbe rimasto. Era magia, aveva delle regole che andavano al di là dei desideri per quanto forti e disperati fossero.
“Gli ingredienti della pozione erano vecchi … gli effetti non sono durati quanto avrebbero dovuto.” Tom si staccò da lui per guardarlo. “Andrò da Harry, gli racconterò tutto. Ci rivedremo ancora.” Concluse prima di baciarlo. E fu un bacio lungo, lungo abbastanza perché Al, con gli occhi chiusi, lo sentisse sparire dalle sue mani.
Era un incantesimo straordinario, ma terribilmente crudele.
Inghiottì un singhiozzo perché non era il momento di piangere, non ancora. Si strofinò il viso e guardò verso la scogliera bianca e verso il faro. Stava svanendo, come cancellato da acqua sulla pittura fresca. Chiuse di nuovo gli occhi e quando aprì gli occhi, era tornato sulla nave.
Sören gli stava accanto; era seduto con la schiena contro le pareti del container e doveva essere il suo turno di riposare.
“Stavi piangendo.” Gli si rivolse con un sussurro. Volevo svegliarti, ma …”
“Hai fatto bene a lasciarmi dormire.” Rispose, prima di afferrargli un braccio, preso da un dubbio. “Dov’è Doe?”
“Davanti alla porta. È il suo turno di guardia, ma non dormirò.” Gli assicurò. “Tu invece…”
“No, ascolta.” Lady Von Hohenheim sembrava profondamente addormentata a giudicare dal ritmo del suo respiro ma la prudenza non era mai troppa, quindi lo tirò per un braccio, invitandolo a stendersi accanto a lui. Quando fu sicuro che non fossero a portata d’orecchio, aggiunse. “Ho visto Tom.”
“… Hai sognato Tom?”
Scosse la testa. “Ci ho parlato, come sto facendo con te.”
Sören parve credergli all’istante, il che glielo rese caro come un fratello acquisito. “Come?”
Gli sorrise. “Ovvio, con la magia.”
“Un incantesimo?”
“Lo conosceva Lily.” Il nome di sua sorella produsse un fremito visibile nei lineamenti dell’altro. Aveva paura di non poterla più rivedere o ancora peggio, che si mettesse in prima linea per dare una mano.
Noi Potter tendiamo a farlo, già…
“Sono al sicuro, a casa.” Gli spiegò, aggiungendo sommariamente quanto aveva capito di quel che era successo. “Possiamo fare in modo che ci trovino!”
“E come?” Sören guardo verso l’entrata, dove si trovava Doe. “Non abbiamo idea di dove siamo … potremo aver già abbandonato l’Europa.”
“Non ci siamo mossi da quando sono salito!”
“Non siamo su una barca a vela. Non puoi rendertene conto finché siamo sottocoperta.”
Sören aveva ragione, eppure non era disposto a rinunciare così facilmente. Rivedere Tom, stare tra le sue braccia, lo aveva infuso di nuovo vigore, di una voglia incredibile di uscire di lì, a qualsiasi costo: se avesse dovuto affrontare Luzhin l’avrebbe fatto.
Non era più solo. “Ci sarà pur qualcosa che possiamo fare o che possiamo riferirgli!”
“Sì, che siamo ancora vivi e che saremo presto a casa.”
“Tu dici?” All’espressione perplessa dell’altro aggiunse. “Secondo Tom, Doe non dividerà la scialuppa con noi … cercherà di lasciarci qui.”
“È ovvio.” Lo stupì. Gli rivolse un sorriso dolente. “Conosco Johannes da quando ero un bambino … Ci si rivolterà contro. Questo è certo.”
Guardò verso l’uomo. Non poteva sentirli parlare da quella distanza, ma bastava la sua presenza per metterlo in agitazione. “Adesso?”
“No. Su una cosa ha detto la verità … Ci porterà alla barca. Possiamo aiutarlo ad arrivarci e a differenza di mia madre possiamo difenderci. Fin lì non avrai nulla da temere.”
… ora sì che mi sento meglio!
“E dopo?”
“Ho un piano.”
“Ren…” Era un po’ sleale usare il nomignolo con cui lo chiamava Lily, ma forse sarebbe riuscito a farsi ascoltare, cosa quasi impossibile aveva scoperto quando assumeva quell’espressione decisa. “Ne abbiamo già parlato, dobbiamo andarcene di qui … al diavolo Luzhin!”
“Non mi sono mai detto d’accordo.” Gli fece notare. “Devo attivare il GPS, Albus. Non posso lasciare un mago del genere a piede libero. È mio dovere, sono un agente del SAGITTA.”  
Avrebbe voluto tirargli uno schiaffo, ma non era il posto giusto per avere un confronto fisico considerando che Sophia si poteva svegliare da un momento all’altro e Doe era a pochi metri. “Okay, allora rimango.”
“Continui ad essere un civile.” Gli ricordò con il tono di un professore che impartiva una lezione ad un alunno un po’ tardo. “Apprezzo la tua preoccupazione, e mi hai aiutato.” Gli strinse un braccio per bloccare un principio di protesta. “Mi hai salvato la vita, ma devi tornare a casa … devi tornare dalla tua famiglia e da Tom. Se rimarrai con me non potrò garantirti che ne uscirai incolume.”
Moriresti per loro?
Albus si morse un labbro cercando di tenere a bada la paura. Avrebbe voluto contestare, ma desiderava disperatamente la terra ferma e tutto ciò che ne conseguiva.
Aveva fatto tanto il duro ma la verità era una sola: non voleva morire.
“Oltretutto, devi prenderti cura di mia madre. Assicurarti che non rimanga ferita … quando cercherò di trattenere Doe potrebbe succedere di tutto.” Abbassò lo sguardo e per un attimo parve cercare le parole giuste. “Avrà anche scelto di innamorarsi del mago sbagliato, ma non merita di diventare vittima di Luzhin.” Disse piano. Non gli diede tempo di replicare, che si scostò tornando seduto. “Mancano due ore alla sveglia. Cerca di dormire ancora un po’.”
Non aveva idea di che altro dire per convincerlo a seguirlo, così colpì basso. “Devi tornare da Lily.”
Sören inspirò forte. Molto basso. “… voglio tornare da lei.” Mormorò. “Ma le ho promesso che sarei diventato una persona migliore di quella che aveva lasciato al castello di mio zio. È una promessa che mantengo con lei … e con me stesso.”
Questo è il modo?”
“Luzhin e Doe sono affar mio. Rimango un Von Honeheim, per quanto poco mi piaccia ricordarlo.” Fece una pausa. “Devo fare in modo che non facciano più male a nessuno. La mia famiglia li ha creati … sta a me fermarli.”
Avrebbe voluto dirgli che si sbagliava, ma lo capiva. Come Potter, comprendeva quanto il sangue potesse condizionare le proprie scelte di vita.
“Non mi prendo responsabilità per come ti accoglierà quando tornerai.” Ribatté perché okay, era una battaglia persa, ma questo non significava che gli avrebbe lasciato l’ultima parola. “Potresti anche prenderti una fattura in faccia.”
Sören sorrise. “Sono pronto ad affrontare le conseguenze delle mie scelte.”
Sospirò. “Lo spero.”
 
****
 
Londra, Ministero della Magia.
Ufficio Auror.



“… Luzhin è diventato un super-mago.”
“A quanto pare sì.”
Lily era certa che lo scambio di sguardi tra Tom e suo padre aveva un intero mondo di non detto nel mezzo, ma non era sufficientemente riposata o desiderosa di sondarlo con i suoi poteri.
Quindi si limitò ad aspettare che avessero finito accanto a suo zio, che non appena era entrata nell’ufficio di suo padre le si era messo di fianco come un non richiesto guardiano.
Doveva ammettere però la faceva sentire tranquilla.
Effetto mamma orsa …
Suo padre gettò gli occhiali sulla scrivania, reclinò la testa sullo schienale della poltrona e si lasciò andare in una considerazione piuttosto colorita sulle madri di Luzhin e Doe. Lily dovette frenare un sorrisetto, perché una parte di lei aveva ancora cinque anni e non vedeva l’ora di dirgli che certe parole non si dicevano.
Tom non fu altrettanto maturo. “Dove sono finite le tue buone maniere, Harry?” Domandò ironico.
“Sono cresciuto in un sottoscala, chi le ha mai avute?” Fu la replica a tono. Già, dimenticava sempre che suo padre era uno dei pochi a non provare l’intenso desiderio di mandare a quel paese Tom e le sue uscite fuori luogo.
Hanno lo stesso senso dell’umorismo.
“Quindi Doe ci è riuscito. Ha stabilizzato il siero.”  
“È opera di Al.” Chiarì Tom. “Ha messo in pratica quello che era già stato scoperto al San Mungo. La cura funziona.”
“Questa è un’ottima notizia per Flannery e gli altri pazienti.” Ammise suo padre con un piccolo cenno della testa. “Dovremo mandare un Gufo al San Mungo per aggiornarli …”
“Ci penso io.” Intervenne suo zio. “Lils, vieni a darmi una mano?”
“A spedire un Gufo?” Obbiettò per niente intenzionata a muoversi da lì. “Papà, dici che possiamo usare la connessione che Tom ha con Al per capire dove sono? Voglio dire, l’incantesimo ha funzionato, Tom può cercare di nuovo di raggiungerlo…”
“Posso farlo.” Convenne l’altro. “Non è stato difficile.”
Suo padre esitò; non era fan degli incantesimi che coinvolgevano la mente.
È un Grifondoro da Prima Linea. Ama le fatture che scoppiano e le cose che esplodono.
“È pur sempre un incantesimo, Lilù.” Si voltò verso Tom. “Nessun effetto collaterale?” Domandò comunque valutativo.
Non può permettersi di fare lo schizzinoso, mi sa.
“Sto bene.”
“Possiamo provarci di nuovo, ma stavolta con la supervisione della Patil, al San Mungo!” Suggerì. “Alla fine, nessuno rischia niente. Tommy dovrà soltanto dormire.”
Suo padre si alzò, voltandosi poi verso la vetrata che si apriva sull’intero ufficio auror. Anche senza vederlo Lily poteva sentirlo rimuginare, pianificare, progettare.
“Ci serviranno più uomini, se Luzhin è letale come dite.” Esordì dopo quasi un minuto. “Dobbiamo sapere quanti Mercemaghi ha sotto Imperio. Cosa sta facendo, se possibile. Non possiamo salire sulla nave alla cieca.”
Tom annuì. “E per il gps?”
“Deve essere Prince ad attivarlo, purtroppo non possiamo aiutarlo. È l’unico modo che abbiamo per soccorrerli … anche i Babbani li staranno cercando. Non appena torneranno visibili sui loro radar Ama ci avviserà.”
“E se La Marina Britannica arrivasse prima di voi?”
Ancora una volta, suo padre era l’unico essere vivente oltre ad Al a non prendere quella raffica di domande come un interrogatorio che aveva il fine ultimo di accusarlo. Sembrava invece farne un punto d’onore di rispondergli onestamente.
“Dubito che le loro navi o i loro elicotteri siano più veloci di una Passaporta …” Disse infatti. “Faremo in modo di disturbare il segnale non appena saremo sul cargo. Non possiamo rischiare che si intromettano.”
“Direi di no.” Convenne Tom sembrando soddisfatto di ciò che aveva sentito. “San Mungo quindi.”
“San Mungo.” Suo padre li raggiunse e riuscì persino ad esibire un sorriso convincente. “… voi e Al siete i nostri occhi su quel cargo. Datemi qualcosa su cui lavorare.”
Lily notò la postura di Tom farsi un po’ più dritta. E orgogliosa. Nascose una risatina perché non voleva mortificarlo.  
Poi si rivolse a Ron. “Dì a Jamie di accompagnarli in ospedale … voglio che resti lì con loro e ci informi se scoprono qualcosa.”
Suo zio sbuffò. “Non vorrai tagliarlo fuori dall’azione? Con le ultime perdite che abbiamo avuto al castello dei Prince siamo sotto organico… e Jamie è una buona risorsa.”
“Lo so.” Ammise con un sospiro. “No, voglio solo che rimanga lì il tempo necessario per avere quante più informazioni possibili. La priorità è trovare la nave. Prince deve attivare il gps.”
L’avranno detto cento volte da quando siamo qui …
Lily non protestò, ma non era tranquilla: si rendeva conto che la riuscita dell’operazione pesava sulle spalle di Sören. Era stato così fin dal principio, non avrebbe dovuto essere più preoccupata di quando lo aveva salutato due giorni prima.
Però…
C’era qualcosa che Tom le stava nascondendo; era solo una sensazione dato che la mente di quello zuccone era uno dei posti più inespugliabili del mondo, persino per lei. Però.
Mentre aspettavano nel salottino caffè che James li raggiungesse prese la decisione di forzare le cose.
“Guarda che non serve che me lo nascondi.” Non poteva obbligarlo a vuotare il sacco, ma poteva girarci attorno.
Tom che osservava assente l’andirivieni di Auror non parve particolarmente colpito dalla sua esternazione.
“Di cosa parli?”
Stupido serpeverde. Non può avermi già sgamata!
“A proposito di Ren … c’è qualcosa che non mi dici. Sono una LeNa, il non detto me lo mangio a colazione.”
Tom fece spallucce. “Non il mio.”
Stronzo!
“Va bene.” Ammise. “… però ci ho preso, giusto? Si tratta del mio ragazzo.” Stressò le ultime due parole. “Se corre dei rischi…”
“… se li corre dirtelo a cosa servirebbe?” Le fece notare. “A spaventarti? Inoltre, è in pericolo da quando è iniziato tutto. Non è cambiato niente.”
“Se si trattasse di Al, non vorresti che ti dicessero la verità?” Ritorse. “Tu più di tutti dovresti capirmi!”
Tom non ribattè, ma vide che la cosa l’aveva colpito. Poteva continuare a indossare la faccia di chi detestava l’umana stirpe, ma non era più l’adolescente ombroso e misantropo di un tempo.
A differenza del Tom di un tempo, quello di adesso era in grado di empatizzare. E faceva una bella differenza.
Infatti rilasciò un lungo sospirò e parlò. “Doe ha detto ad Al che Luzhin vuole morti sia lui che Prince.” Fece una pausa. “Ma è qualcosa che ha detto Doe … in ogni caso è da prendere con le molle.”
Lily si strinse le braccia al petto; non poteva certo aspettarsi un abbraccio da Tom, ma diavolo se ne aveva bisogno.
“Ti sei scritta con lui per anni… con il vero Luzhin intendo. Che tipo è?”
Lily scosse la testa. “Non ne ho idea … non credo mi abbia mai raccontato qualcosa di vero. Era solo una finzione per farmi parlare di voi … di te.” Ed era una cosa con cui sarebbe difficilmente venuta ai patti.
Sono stata io la talpa, per due anni … Se il padre di Tom sapeva tanto di lui, se Doe è riuscito a plagiarlo… è anche per la mia stupida bocca larga.
Una mano sulla spalla la distolse dalle sue cupe riflessioni. “No.” Le disse semplicemente. “Non farlo.”
Lily ridacchiò. “Fosse facile…”
“Non lo è.” Assentì. “Hai ancora le sue lettere?”
Lily esitò prima di rispondere; quella era una cosa che non sapeva nessuno e avrebbe preferito rimanesse così.
Sì, ma ormai che senso ha?
“Ho detto ai miei di averle bruciate assieme a quelle di Ren … ma non l’ho fatto. Ce le ho ancora tutte, le lettere di Luzhin. Non mi sembrava giusto liberarmene, visto che quella parte era stata sincera.”
E invece …
Tom non diede adito a commenti. Non gli aveva mai così tanto bene come in quel momento. “Va’ a prenderle e poi raggiungimi al San Mungo. Devi rileggerle e cercare di capire che tipo è.”
Era una buona idea; suo padre doveva sapere con chi aveva a che fare ed era improbabile che Al potesse aiutarli su quel frangente.
L’idea è proprio che gli stia lontano venti miglia, non che ci chiacchieri.
Certo, la corrispondenza che avevano avuto poteva essere piena di balle …
… ma anche un orologio rotto segna l’ora giusta almeno due volte al giorno.
La Patil glielo diceva sempre in merito ad Allock: non era possibile dire bugie senza infondere una parte di verità in esse. 
E come Gilderoy rivelava parte di sé inventando favole, Luzhin poteva aver rivelato un suo punto debole cercando di conquistare la sua fiducia.
“Okay … ma vi posso lasciare da soli?” Gli domandò vedendo James avvicinarsi ad energiche falcate. Tom aveva già assunto l’espressione di chi avrebbe voluto trovarsi da tutt’altra parte. “Farai il bravo?”
“Dillo a quel primate di tuo fratello.”
“Lo prendo come un sì.” Fece un cenno di saluto ad un confuso James e si diresse verso l’uscita. “Ci vediamo dopo!”
 
“Dove sta andando? Non doveva venire con noi al San Mungo?”
In sole ventiquattro ore aveva parlato e visto più gente di quanto non facesse in un intero mese. Tom avrebbe tanto voluto lasciare quell’ennesima domanda senza risposta.
… ma mi servono.
Tutte quelle persone potevano salvare Al. Lui poteva salvare Al.
Avrebbe fatto uno sforzo.
“È andata a rendersi utile.” Nonostante tutto, non potè trattenersi. “Ti chiedo cortesemente di fare lo stesso e non farmi perdere tempo. Andiamo?”
James lo guardò male. “Non ti prendo a calci solo perché ho promesso a papà che ti avrei sopportato.”
“Interessante. È la stessa cosa che gli ho promesso io.”
James sbuffò, ma non diede adito ad ulteriori commenti facendogli cenno di uscire dalla saletta. Obbedì, contento di aver segnato un punto.
 
****
 
Note:
Vabbeh, sì. Diventeremo tutti nonni prima di vedere la parola fine.
...
Ovviamente sto scherzando, ma vorrei davvero fare a meno di essere adulta, alle volte.
Questa la canzone del nuovo capitolo. Si ringrazia Spotify e gli ascolti settimanali randomici via playlist.
 



 

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Capitolo 67
*** Capitolo LXVI ***


 


Evil is relative. Which side of the mirror are you?
(Geoff Jones)
 



Søren Luzhin aveva sempre saputo di essere destinato a grandi cose.
Peccato fosse nato sotto una cattiva stella.
La sua famiglia, prima di tutto; Purosangue, certo, ma con un blasone impoverito nelle generazioni; niente di drammatico, semplicemente la solita vecchia storia di proprietà frazionate tra troppi fratelli e cugini, e qualche brutta scelta di investimento da parte delle generazioni prima di lui.
Frederick, suo padre, era solo la summa dell’inettitudine a gestire il denaro della sua linea familiare; l’ultima spiaggia era stata rilevare un’azienda di polvere volante con uno dei tanti cugini e cercare di aprire un mercato in Oriente.
Non aveva mai funzionato, e Søren era stato ben felice quando era stato il momento di partire per Durmstrang, dopo un’infanzia passata in un castello ormai vuoto da oggetti, se non quelli immediatamente funzionali alla vita di tutti i giorni, ad ascoltare i suoi genitori litigare come mendicanti per strada.
Lui non era come loro.
L’unica cosa che suo padre non aveva avuto cuore di vendere (o forse non aveva trovato compratori) erano stati i quadri di famiglia, che erano rimasti appesi nella galleria dei ritratti, l’unico punto del castello dove ci fosse qualcosa da guardare al posto di nude pareti; lì Søren aveva passato i pomeriggi migliori, seduto sul vecchio tappeto mangiato dalle tarme, abbeverandosi ai racconti dei suoi avi, nelle gesta grandiose che avevano compiuto e sognando di combattere il Babbanofilo Albus Silente a fianco di Gellert Grindenwald come il suo bisavolo Utrecht aveva fatto fino all’ultimo respiro.
I quadri parlanti glielo avevano confermato, lo avevano letto nel suo sguardo deciso e nella mascella pronunciata di famiglia che Frederick non aveva ereditato: avrebbe riportato la casata dei Luzhin ai fasti di un tempo.
Doveva solo trovare una causa da servire.
E con questa certezza aveva varcato le porte di Durmstrang; avrebbe dimostrato ai suoi pari che anche il figlio di un nobile diventato commerciante poteva diventare qualcuno.
Le cose non erano andate come si era aspettato; il suo anello non valeva niente, la sua uniforme era appartenuta a suo padre e i suoi libri e il baule erano di seconda mano.
Non era degno; glielo avevano fatto chiaramente capire i suoi compagni di camerata, Purosangue come lui, ma ricchi.

“Ehi arriva Luzhin! La puzza di povero si sente fin qui!”


Era bravo a Duellare però: questo glielo avevano riconosciuto anche i suoi detrattori. Era diventato presto il favorito del Maestro di Duelli, che gli aveva detto, riempendolo di orgoglio, che aveva il fuoco negli occhi.
I duelli erano diventati subito il suo rifugio; su una pedana il lignaggio, i Taler, tutto spariva e rimanevano soltanto due bacchette che si scontravano.
Era lì che aveva affrontato per la prima volta Sören Von Hohenheim.
Lo conoscevano tutti: cadetto dell’Ala Nera, ultimo erede di una delle casate più Antiche e famose della Germania settentrionale. Si vociferava fossero addirittura discendente diretto di Paracelso.
Von Hoheneim giovane però non aveva niente che ricordasse una figura eroica. Era magrolino, con una tenda di capelli che gli cadeva ordinata su un viso pallido in cui campeggiavano due occhi privi di espressione. Sembrava un manichino per allenamento. Un debole.
Quel giorno aveva pensato che batterlo sarebbe stato semplice.
Si era sbagliato di nuovo; era stato mandato a gambe all’aria in tre mosse e Søren, con gli occhi pieni di lacrime mentre gli altri allievi ridevano del suo viso arrossato, si era sentito morire.
Poi il Maestro l’aveva rialzato e aveva ordinato al suo avversario di andare a cambiarsi, cosa che aveva fatto senza neanche guardarlo in faccia un’ultima volta.
Come se non esistesse e fosse stato solo un ostacolo da battere.
L’aveva odiato.
 
“Non prendertela ragazzo, sei riuscito a tenergli testa.”
“Per tre mosse maestro … solo per tre mosse! Non sono riuscito a lanciare neppure un incantesimo di difesa!”
“Via, via, non essere troppo duro con te stesso. Nessuno del tuo anno è riuscito ad andare oltre l’inchino con quel piccolo mostro. Hai fatto un buon lavoro.”

 
Il Maestro era stato l’unico essere vivente a credere in lui. I quadri non erano mai contati del resto.
Aveva così finito per passare tutto il tempo in cui non era a lezione in palestra, a provare nuove mosse, a stare vicino al Maestro Johannes e apprendere i suoi insegnamenti.
Poi a tredici anni, la stessa età a cui Von Hohenheim lo aveva umiliato, Il Maestro gli aveva parlato per la prima volta della Thule. La Thule, di cui lui era un servitore diretto, dato che lavorava per ils suo fondatore, Alberich Von Hohenheim, zio di Sören.
La Thule, il cui motto era Per la Conoscenza: ma non quella noiosa che doveva studiare a scuola. La Conoscenza pura, in tutti gli ambiti, compreso il Duello. Johannes – gli aveva chiesto di chiamarlo così dopo un po’, come se fossero due compagni d’arme – gli aveva spiegato che gli incantesimi che insegnavano a Durmstrang erano roba da bambini, che non avrebbero fatto altro che bruciare qualche casacca o dare qualche livido.
Quelli che gli insegnava privatamente, nelle ore in cui avrebbe dovuto dormire, erano invece tutt’altra cosa: Maledizioni, complessi Incanti che portavano l’avversario a dolore indicibile, alla resa totale.
Poteva imparare ancora, sempre di più, se avesse servito la Thule.
Aveva finalmente trovato una causa da servire.
 
Søren a quindici anni aveva i voti più bassi del suo anno, ma poteva sbattere culo a gerra anche gli allievi del Settimo, anche i cadetti dell’Ala Nera. Potevano dargli della zecca con un anello, potevano prendersi gioco delle sue uniformi lise, ma quando era su una pedana era Beowulf che sterminava avversari come fossero insetti.  
Il suo unico rimpianto era che Von Hohenheim si fosse diplomato prima di potergli chiedere una rivincita, ma ne era certo, avessero mai dovuto incontrarsi di nuovo, gli avrebbe fatto rimpiangere l’umiliazione di quel lontano giorno.
Johannes rideva e gli assicurava che avrebbe scommesso per lui.
Johannes era il suo unico amico; quindi quando un anno dopo gli aveva chiesto di testare le sue capacità prima di presentarlo al Magister Alberich non aveva battuto ciglio. Neppure quando gli aveva detto di uccidere un compagno, uno qualsiasi.

“Voglio renderti le cose facili, scegli tu. Così non rischiamo di far fuori qualcuno a cui tieni, no?”
 
Søren aveva apprezzato il gesto, ma lo aveva anche giudicato inutile. Non c’era nessuno a cui tenesse in quel castello di bambocci.  
Aveva scelto così il primo dei suoi bulli; non perché lo odiasse particolarmente. Semplicemente perché lo riteneva simbolico.
E i simboli erano importanti.
La vera difficoltà era stato farlo sembrare un incidente; Johannes si era raccomandato ma non ci era riuscito. O meglio, aveva invitato il compagno sulla scogliera, per un duello. Aveva sopportato i suoi lazzi, l’essere chiamato una testa di bacchetta ossessionata. Poi era bastato incalzarlo fino al ciglio. Un solo incantesimo e l’idiota era precipitato giù.
Non pensava che urlasse così tanto.
Dopo aveva vomitato, ma Johannes l’aveva aiutato: aveva fatto sparire le prove e si era premurato di dirgli che era normale, succedeva a tutti al primo omicidio, Von Hohenheim Junior aveva pianto come un poppante.
Poi gli aveva offerto la prima vodka incendiaria della sua vita e lui si era sentito un uomo.
 
“Pronto ad incontrare il Magister?”
 
Alberich Von Hohenheim non assomigliava affatto al nipote: era alto, imponente, e sembrava uscito da uno dei racconti dei suoi avi, quando ancora i maghi leggendari camminavano la terra e morivano nella gloria.
Così, quando gli aveva stretto la mano, quando lo aveva ascoltato aveva capito che quell’uomo, la sua Thule, gli avrebbero aperto le porte di un futuro grandioso.
 
“Sei giovane, ma ha ragione Johan, hai il fuoco negli occhi. Quello di qualcuno che ha sofferto per una condizione ingiusta, per una nascita inferiore alle sue capacità. Ma hai trovato noi, mio giovane amico … Cosa desideri, più di ogni altra cosa? Sii onesto, se menti lo capirò.”
 
Era stato semplice, le parole gli erano scivolate sulla lingua perché aspettava di pronunciarle da una vita.
 
“Voglio servire la Thule, Magister. Voglio servire Voi, per la Conoscenza.”
E per affrancarsi dal suo anello di ferro e non di argento come quello dei compagni. Dalla sua ridicola famiglia e da un futuro come impiegato nell’azienda del padre, come un qualsiasi, squallido mago qualunque.
Ma questo non l’aveva detto.
Von Hohenheim gli aveva sorriso compiaciuto. 

“Ha pronunciato il giuramento prima che glielo chiedessimo. L’hai istruito bene Johan.”
“È tutta una sua iniziativa padrone. Vi ho trovato un buon servitore, non è vero?”

“Un servitore per cui ho già una missione.”

Scrivere ad una ragazzina non era esattamente ciò che aveva immaginato come primo compito per la Thule, ma non aveva protestato; era un soldato, e un soldato dedito alla causa obbediva e basta.
Aveva continuato a scriverle e ad accumulare e riportare informazioni per un anno mentre continuava a fingersi un semplice studente.
(Non lo era. Non lo sarebbe stato mai più.)
 
Alla vigilia dei suoi diciassette anni gli era stata rivelata la sua vera missione; l’unico figlio del Magister era stato rapito alla nascita e cresciuto per una serie di coincidenze proprio dall’Eroe del Mondo Magico Harry Potter.
Dopo aver fallito nel recuperarlo la prima volta – lo stolto si era rifiutato – era il momento per lui di entrare in gioco. Il rapporto coltivato con Lily Potter gli sarebbero servito per avvicinarsi alla blindatissima famiglia del Salvatore e finalmente poter ricongiungere il Magister al proprio sangue.
E lui, tra tanto adepti, era stato scelto per quel compito.
 
“Sei contento ragazzo?”
“Farò il volere del Magister.”
“Accidenti, ti abbiamo proprio addestrato bene, eh? Sei proprio un cagnolino fedele.”


Il ghigno di Johannes gli aveva lasciato una sensazione spiacevole...  
 
“Siamo tutti cani al soldo del padrone, caro il mio soldatino. Tutti quanti. La catena è corta, ma se l’osso è succulento non c’è da lamentarsi, no?”
 
… ma aveva deciso di non interrogarsi, perché una causa da servire non prevedeva dubbi, suo zio Utrech – o meglio il suo quadro – era sempre stato ferreo su questo.
Il dubbio era il seme della disfatta, e lui non poteva permetterselo.
Era pronto, era il suo momento.
E poi Sören Von Hohenheim era tornato nella sua vita e come quel giorno di quattro anni prima lo aveva gettato a terra come uno straccio.
 
“Il Magister ha deciso ragazzo mio, spiacente. Il nipotino prenderà il tuo posto ad Hogwarts … avete anche lo stesso nome, torna proprio bene.”
“Era la
mia missione!”
“Era. Ha deciso che certe cose vanno fatte in famiglia, che vuoi farci.”
“Gli ho mai dato motivo per non fidarsi di me? Cos’ho sbagliato?”

“Su, non prendertela. I tuoi sono già stati ampiamenti risarciti, il Magister li ha ricoperti d’oro per farsi prestare il tuo nome. Fatti una vacanza con i soldi del padrone e non pensarci … sarà per la prossima volta.”
“Non ho bisogno di soldi! Sono un servo fedele, merito questa missione! È mia! Ho lavorato anni per questa occasione… ho
ucciso per voi!”
 
Johannes aveva riso e poi gli aveva passato una mano tra i capelli, non una carezza, ma un gesto che avrebbe potuto regalare ad un bastardino troppo esagitato.
 
“No, hai ucciso per te stesso, o credimi, quella bacchetta non l’avresti mai levata. Ora torna a casa. Ci basta un solo Sören … e quello, spiacente, non sei tu.”
 
 
Il rumore sordo di un’onda particolarmente violenta si abbattè sullo scafo e Luzhin aprì gli occhi, tornando al presente: li aveva chiusi non per dormire, ma per risparmiare le energie. Doveva essere riposato per quando li avrebbe incontrati.
Sören e Johannes …
Strinse la bacchetta tra le dita, e una manciata di scintille vi scaturirono rabbiose; accanto a lui i Mercemaghi, sebbene debitamente messi sotto Imperio, ebbero un fremito. L’istinto e la paura andavano oltre le Maledizioni.
“Come sta andando?” Domandò a Loher, che stava trafficando attorno ai suoi nuovi compagni d’arme; Gli Infetti erano messi sotto Imperio e i Mercemaghi giacevano distesi sui lettini mentre la cura e il siero gli fluivano nelle vene. Era un peccato aver perso Albus Potter; ma se lo sarebbe ripreso. Non era stupido, sapeva di aver bisogno di teste pensanti oltre che braccia per portare avanti ciò che aveva in mente.
L’ometto annuì senza incrociare il suo sguardo. “… bene. Tra un’ora si sveglieranno.”
Aveva paura di lui, come la avevano gli unici Mercemaghi che aveva lasciato fuori dal Battesimo – aveva deciso di chiamarlo così, suonava bene.
Gli servivano soldati invincibili, ma quei due in particolari dovevano essere operativi subito. Li avrebbe trasformati poi.
“… Ragazzo, cosa hai intenzione di fare?” Lo apostrofò Loher in un inaspettato rigurgito di coraggio. Quando abbassò lo sguardo su di lui lo vide però sussultare. “Johannes ci…”
Sorrise, perché quella reazione gli era piaciuta.
Finalmente.
“Non ci darà problemi, Dottore. Non dovrete preoccuparvi finché starete dalla mia parte.” Si alzò comandando con un colpo di bacchetta ai due maghi di seguirlo. “Ora lavorate per me.”
Loher annuì di riflesso. Comprensibile: era allettante potersi abbandonare agli ordini di qualcuno di più potente, per anni aveva fatto lo stesso.
Ora però le cose erano cambiate e quello con il potere era lui.
Finalmente.
“Tornerò tra poco.” Gli disse. Notando la sua esitazione – aveva paura a rimanere solo con tutti quei presto maghi invincibili?
“… Non sarete solo a lungo.” Lo rassicurò. “Vi porterò un aiutante.”
“Potter?”
“Sì. Avrete bisogno di una mano per quello che ho in mente.”
“… non … non capisco.”
“Lo facciamo per la Thule.”
Loher battè le palpebre come un gufo abbagliato da un Lumos. “… la Thule non esiste più, Doe ci ha ingannati … non abbiamo mai lavorato in memoria del Magister!”
Søren sorrise; non riusciva a smettere di farlo e perché avrebbe dovuto?
“Fin’ora.”
 
****
 
Sören si svegliò con una bacchetta puntata in faccia.
Doe!
Afferrò il polso dell’assalitore che invece di tentare di liberarsi emise un lamento sorpreso; decisamente non era il suo vecchio compagno d’arme.
“Albus!” Esclamò esasperato lasciando la presa. “Cosa diavolo…”
“Finivo di curarti!” Borbottò il ragazzo massaggiandosi il braccio che per fortuna non gli aveva spezzato. “Ti ricordo che ti sei beccato una commozione cerebrale poche ore fa!”
“Potevi avvertirmi…” Borbottò strofinando il viso per cancellare gli ultimi rimasugli di sonno; sonno poi …
Più che altro un dormiveglia angosciato.
Aveva accettato che Albus prendesse il suo posto per un’ora, con l’intenzione di rimanere comunque sveglio ma non ci era riuscito.
Sono più esausto di quanto pensassi.
Non era un buon segno, ma decise di ignorarlo perché in ogni caso non gli sarebbe servito a nulla. “Grazie comunque.”
Albus scosse la testa poco convinto “Ho fatto quel che potevo con quello che avevo, cioè una bacchetta non mia e non al San Mungo … quando torniamo a casa un check-up serio non te lo toglie nessuno!”
“Rassicuri sempre così i tuoi pazienti?” Ironizzò rimediandosi uno schiaffo sulla spalla. Guardò verso l’entrata. Doe si era alzato in piedi e si stava stirando come se avesse dormito fino a pochi minuti prima. “Si è addormentato?” Domandò.
“Difficile dirlo … comunque non gli ho tolto gli occhi di dosso.”
“Hai fatto bene.” Si voltò verso Doe. “Johannes, è ora di andare.”
“Mi hai letto nel pensiero principino!” Tese la mano guardando oltre le loro spalle. “Venite mia Regina, ora di mettersi in marcia.”
Sua madre, silenziosa come lo era stata per tutto il tempo, li oltrepassò raggiungendo l’uomo; questo le cinse la vita e la coinvolse in un bacio che lo obbligò a distogliere lo sguardo a disagio.
È mia madre, dannazione.
“Ugh … sono il poster dell’amore abusivo.” Commentò Albus, e non poteva che dargli ragione.
Oltre a quello era sicuro che il suo vecchio compagno d’arme fosse così esplicito nelle sue dimostrazioni di passione proprio per metterlo in difficoltà.
… sbatterlo a Nurmengard per il resto della sua vita gli avrebbe dato ancora più soddisfazione.
“Andiamo.” Incitò l’amico.
“Dove?” Lo apostrofò Doe cogliendolo di sorpresa. “Sei tu che comandi, no principino? Barca o sala dei radar?”
Non doveva esitare: una sola frazione di secondo e Doe avrebbe potuto capire il suo piano. “Andiamo alla barca.” Rispose neutro.
L’altro magò finse un’espressione sbalordita. “Disattendi gli ordini diretti dei tuoi nuovi padroni per salvarti la pelle?”
Doveva ignorare i suoi lazzi e tentativi di farlo innervorsire visto che avevano l’unico scopo di fargli commettere un passo falso rivelando le sue intenzioni. Doe non era un idiota e sapeva che dietro un repentino cambio di piani c’era sempre una motivazione.
Non deve scoprire che è a suo detrimento.
“Non me lo sarei aspettato da te! Stare coi buoni ti ha reso un codardo?”
Il problema è che non era mai stato capace di ignorarlo del tutto; Doe l’aveva visto crescere e conosceva a memoria i suoi punti deboli. Quelli da premere per farlo rispondere. “Se li riportiamo indietro rischiamo di scontrarci con Luzhin o nei Mercemaghi … è troppo rischioso. La mia priorità è mettere in salvo i civili.”
“I civili, ma sentitelo…” Motteggiò. “E tutte quelle belle favole sull’occuparti della piccola bacchetta psicotica?”
“Ho altra scelta? Di certo non lascio Potter solo con te.” Ribattè a tono. 
“Paura che butti a mare il prezioso figlio del Salvatore? Non lo volevo neanche sulla nave … quello che voglio è andarmene da mago libero. Te l’ho già detto, per me questa storia finisce qui.”
Finisce qui? Hai creato un esercito di maghi fuori controllo e hai fatto in modo che un ex zelota di mio zio mettesse ad entrambi un bersaglio sulla testa!” Lo aggredì e anche se era l’ultimo posto dove avrebbe dovuto affrontare quella conversazione non poteva farne a meno. Doe non stava premendo i bottoni giusti, ci stava letteralmente saltando sopra. “Devi pagare per ciò che hai fatto!”  
Doe fece una smorfia. “Come hai pagato tu? Con la coscienza ripulita da un bel distintivo?”
La bacchetta non era stata così bene come tra le sue mani, pronta ad essere usata. “Cosa stai insinuando?”
“Ren…” La voce di Albus era palesemente la ragione, ma decise di ignorarla.
“Sono stato assolto.”
Doe sbuffò una mezza risata. “Per quello che abbiamo fatto non c’è assoluzione. Tutte le persone che abbiamo ucciso… Non ultimo, tra l’altro, il marito del tuo bel Capitano.”
“Lo hai ucciso tu!”
“Ma sei stato a guardare, no? Siamo sulla stessa barca principino. Sei un mostro quanto me.”
Ren!” Albus lo afferrò per un braccio; non si era accorto di aver quasi annullato la distanza tra lui e Johannes e di aver estratto la bacchetta. “Non ascoltarlo.” Lo pregò. “Non è il momento. La barca.” Gli ricordò. “Dobbiamo andarcene.”
Annuì ignorando il sogghigno di trionfo di Doe; sarebbe stato meraviglioso cancellarglielo dalla faccia non appena Potter e sua madre fossero stati lontani.
Devo consegnarlo vivo. Nessuno pretende che lo consegni illeso.
Si mossero in fila indiana, Doe ad aprire la fila e lui a chiuderla; abbandonata l’area dei container scesero ancora di un piano; il rumore del motore da sordo si fece progressivamente più forte e non perché si stavano avvicinando alle eliche ma perché queste si muovevano più velocemente. Il ronzio che riverberava dalle paratie era inequivocabile.
“Ci stiamo muovendo …” Sussurrò Al al suo fianco. “… dove diavolo vuole portarci Luzhin?”
“Non ne ho idea.” Cosa muoveva l’ex agente di suo zio? Perché ce l’aveva tanto con lui?
Solo perché ho contribuito a distruggere la Thule?
Non era stato che una pedina dopotutto; seguendo quel ragionamento avrebbe avuto più senso che volesse vendicarsi del Capitano Gillespie.
E se fosse così?
Sören strinse le labbra; se il piano di Luzhin fosse navigare fino all’America e cercare il Capitano?
No, è un piano troppo assurdo …
Non conoscere la motivazione che lo muoveva lo metteva a disagio; con Doe era stato semplice, la motivazione era la fuga. Poteva ferirlo con l’intenzione di farlo, poteva volergli entrare nella testa e scontrarsi con lui, ma aveva l’unico scopo di cavare le gambe da quella situazione.
Luzhin invece si stava dirigendo verso una destinazione precisa con un piano sconosciuto.
Non può essere niente di buono.
Qualunque fosse, doveva fermarlo prima che la nave raggiungesse la sua nuova destinazione.
 
****
 
Tornare alla vita di tutti i giorni era stato come piombare in un incubo.
I suoi genitori erano venuti a prenderlo alla fine del sesto anno; gli erano sembrati degli estranei.
Normale, aveva pensato, non li vedeva da anni, ma non era soltanto quello; le loro espressioni caute, la premura soffocante e poi gli scambi di sguardi, le mezze parole dette dietro una porta, come se stessero custodendo un segreto sporco.
Il segreto era lui; il figlio che avevano messo al mondo era un assassino.
Non capivano. Non capivano che l’omicidio non era niente,  era stato solo un mezzo per raggiungere uno scopo più grande. Per far capire al Magister quanto fosse pronto a servire una causa più grande di lui.
Non che fosse servito ad un granché, comunque.
Era stato abbandonato; Johannes non glielo aveva detto apertamente ma aveva capito. Non sarebbe mai diventato il braccio armato della Thule.
Non era stato scelto. Aveva fallito.
E come un fallito era tornato in seno alla sua famiglia, per il quale non era che un ragazzino con le mani lorde di sangue; una disgrazia da seppellire lontano, in India, dove nessuno avrebbe potuto cercarli.
I soldi che il Magister aveva dato ai suoi per comprare la sua identità erano stati una benedizione, diceva suo padre.
 
“Ci faranno ricominciare da capo. Una nuova vita, lontano dalla vecchia.”

Mentre in Europa Von Hohenheim indossava i suoi vestiti, pronunciava il suo nome come proprio e serviva la Thule lui era seppellito nella giungla indiana che assomigliava sempre di più ad una tomba.
Era come essere morti.
Solo che i morti non provavano tutta quella rabbia; si sentiva un Infero invece, una creatura infelice a cui non era stata data pace. La scaricava sul giardino, sui pochi animali che sua madre avevano preso per rendere quel posto una casa.
Ma invece di esaurirsi, cresceva.
I suoi genitori avevano cominciato ad evitarlo; avevano paura di lui e li aveva sentiti parlare di Guaritori una notte che era uscito in giardino per poter respirare lontano dal caldo colloso della sua camera.
Non aveva bisogno di essere guarito. Aveva bisogno di una causa, di una ragione di vivere.
L’aveva persa. Non gli restava niente.
... Uccidere suo padre era stato un incidente.
Dopo pochi mesi di quell’inedia una sera suo padre aveva deciso di affrontarlo. Lo aveva preso da parte, gli aveva intimato di lasciarsi tutto alle spalle e di smettere di avvelenare la sua e le loro esistenze.
Era stato il tono; come se il semplice fatto di avergli dato i natali lo giustificasse a parlargli dall’alto in basso.
Suo padre, con gli occhiali sempre sporchi di ditate e il viso tondo e liscio come un uovo, suo padre che non aveva preso neanche un tratto dalla loro gloriosa Casata.
Quando glielo aveva rinfacciato Frederick aveva riso. Gli aveva dato dello stupido. Gli aveva detto che i loro antenati non erano che fondamentalisti  e che erano tutti finiti a Nurmengard o in una bara. Se non avesse messo la testa a posto sarebbe finito come loro.
Non era stata colpa sua; aveva cercato di andarsene, ma suo padre lo aveva afferrato per un braccio. Con quelle mani molli, fatte altro che per i conti e che non avevano mai impugnato una bacchetta per lottare.
Quando lo aveva Maledetto era crollato contro il muro senza un lamento, e stavolta aveva visto la vita scivolargli via dalla faccia, non come il suo compagno di scuola.
Lo aveva fatto sentire bene. Lo aveva fatto sentire come la prima volta che Johannes lo aveva lodato.
Sua madre l’aveva uccisa per farla smettere di gridare; in ogni caso che avrebbe dovuto fare? Non conosceva un incantesimo di memoria abbastanza potente per farle dimenticare di avere un marito e che quel marito era morto per mano di suo figlio.
Dopo aveva dormito a lungo e bene per la prima volta dopo mesi. Poi li aveva seppelliti in giardino perché era pur sempre sangue del suo sangue.
Come se quel suo gesto avesse messo in moto qualcosa erano arrivati i Mercemaghi. Erano lì per disfarsi di testimoni scomodi ovviamente. Il Magister doveva aver pensato che i suoi avrebbero finito per parlare prima o poi e non poteva dire di non essere d’accordo.
Non aveva neanche tentato di ragionare con i sicari; erano stati pagati, non si sarebbero di certo fermati alle suppliche di un ragazzo. Li aveva affrontati invece, pronto a morire perché cos’altro gli restava da fare a quel punto?
Solo che quando aveva sentito un incantesimo colpirlo alla gamba, quando il dolore era esploso irradiandosi ovunque il suo istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio.
Era scappato. Era allenato e abituato all’umidità di quelle zone da mesi; anche se ferito seminare una mezza dozzina di maghi sovrappeso e affaticati dal caldo non era stato difficile.
Non era stata codardia; non poteva esserlo perché qualche settimana dopo si era ritrovato di fronte il Salvatore, Harry Potter, l’uomo che nei suoi sogni da illuso avrebbe dovuto affrontare per conto del Magister.
Il Destino non aveva ancora finito con lui.
Perché Harry Potter, il nemico del Magister, l’aveva salvato da una probabile morte per setticemia in quella foresta pidocchiosa.
Non era una coincidenza: era un piano che il Destino aveva serbato per lui.
Quando lo avevano portato in ospedale a Dheli non si era mai sentito tanto vivo: aveva mentito quindi, perché dire la verità sarebbe stato uno sbaglio.
Non era stato difficile fingersi spaventato, confuso e in lutto. Come tutti i bambini del mondo magico cosceva la storia di Harry Potter; ne aveva modellata una simile per sé, per convincere Harry Potter e i suoi agenti che era una vittima e non un carnefice.
Lo avevano lasciato in pace. Come tanti, come tutti, lo avevano dimenticato.
Un paio di mesi per riprendere le forze e poi era tornato nel vecchio castello di famiglia.
Era vivo ed era persino avanzato qualcosa dalla mancia che il Magister aveva dato ai suoi.
Così aveva aspettato; perché era solo questione di tempo prima che il Destino venisse a bussare alla sua porta.
E infatti Johannes era tornato.
 
****

Londra, Ospedale San Mungo.
 
“Sono scomodo.”
“Sei tutto ossa, per forza stai scomodo!” Lily chiuse così la questione, spingendo Tom steso sul lettino. Accanto a lei la Patil era una sfinge, probabilmente per evitare di strangolare il novello im-paziente dell’ala Thickley. “Fa’ il bravo.”
“Non sono un ragazzino.” Brontolò alzandosi di nuovo a sedere. “Quanto ci vorrà perché la Pozione Soporifera faccia effetto?”
“Una buona pozione del Sonno non fa svenire, ti accompagna fino alla fase REM.” Spiegò la Patil. “Dove l’Incanto delle Anime Comunicanti comincerà a lavorare. Aiuterebbe se riuscissi a rilassarti…”
“Rilassarsi, lui?” Sbuffò Lily divertita. “Impossibile.”
La Patil non diede adito a commenti, ma la sua espressione scontenta era indicativa, Lily però dubitava fosse solo per i capricci di Tom. Quando le aveva prospettato il da farsi la Capo Guaritrice si era mostrata tutto fuorché entusiasta; come lei sapeva che quel genere di incantesimi aveva una percentuale di rischio non trascurabile.
Lo sappiamo tutti. Abbiamo solo deciso di ometterlo a papà.
“Sei nervoso.” Convenne guardando il suo insopportabile amico. “Cosa ti preoccupa?”
Tom fece una delle sue smorfie sarcastiche ma vedendo che non sortiva il minimo effetto capitolò rapidamente.
È preoccupato sul serio.
“… Non so quando Al si riaddormenterà. Potrebbero volerci ore, e non le abbiamo. Non ho modo di dirgli che lo sto aspettando.”
La Patil annuì comprensiva. “Capisco come ti senti, ma non c’è motivo di preoccuparsi. Una volta stabilita la prima connessione uno degli effetti dell’Incanto è potersi sentire oltre le barriere della veglia.”
Questo catturò l’attenzione di Tom, che battè rapidamente gli occhi per tenerli aperti; i primi effetti della pozione stavano cominciando ad arrivare. “Mi ha detto di aver sentito la mia voce.” Confermò.
La Patil sorrise. “È un incantesimo durevole, il cui effetto non si esaurisce in tempi brevi. Il legame mentale durerà almeno per un altro paio di giorni. È una stima approssimativa naturalmente, sono anni che non lo vedo in azione …” concluse guardando fuori dalla finestra assorta.
Gesto universale per segnalare nostalgia.
“L’hai usato in passato Padma?” Domandò stupita.
“Non ve ne avrei parlato a lezione altrimenti.” Rispose controllando per l’ennesima volta i parametri vitali di Tom con un colpo di bacchetta. “Vuoi stenderti?” Lo invitò; avevano preso possesso di una delle aule usata per la riabilitazione, quella psico-motoria per la precisione. Quel giorno non c’erano sessioni a calendario, quindi non avrebbero rischiato di essere disturbati dai pazienti.
“Non ancora.” Suo cugino sarebbe morto cocciuto, ma soprattutto curioso. “Lo ha lanciato su di sé? Quando?”
“Io e mia sorella lo usavamo ad Hogwarts, per parlarci di notte …” Spiegò ad entrambi. “Il Cappello ci aveva Smistato in due case Case diverse. Il tempo che potevamo dedicare l’una all’altra era limitato.” Fece una breve pausa. “Separarsi era necessario, ma difficile … Parvati trovò l’incantesimo nella biografia del suo creatore. Con i dovuti aggiustamenti è diventato quello che avete usato.”
“Siete gemelle, giusto?”
“Sì, e per questo mi sorprende che l’incantesimo abbia funzionato con te e Albus. Avete un legame di sangue come cugini, ma comunque…”
“Beh, in realtà …” La interruppe Lily ma fu a sua volte fermata dall’altro.
“Sono stato adottato. E Al è…” Aggrottò le sopracciglia. “… il mio ragazzo.” Mormorò. Guardò Padma. “Il mago che amo.”
Dev’essere la prima volta che lo dice ad alta voce a qualcuno. Cioè, a parte la banda … ma anche con noi, non è che lo abbia mai detto chiaro e tondo.
Lily annuì con orgoglio interposto. “Si conoscono da quando sono bambini, sono la definizione stessa di anime gemelle!”
“Chiudi il becco.” Sbuffò Tom mentre il viso, traditore, mostrava un colorito insolitamente roseo. “Sei come al solito inopportuna.”
Padma ignorò il loro alterco; stava riflettendo. “Gli autentici depositari dell’Incantesimo dunque. Due amanti …”  
Lily ne fu sollevata; non riusciva a togliersi di testa di aver, alla fine dei salmi,  tentato un incantesimo senza supervisione di un Guaritore esperto.
E conoscendo Padma me la farà scontare una volta finito tutto.
“Funzionerà meglio quindi?”
“Non necessariamente, ma il fatto che si conoscano sin da bambini rende il legame più stabile, perché hanno ricordi ed esperienze condivise …” Sorrise di nuovo, e stavolta gli occhi le brillavano come se fosse giunta ad una conclusione. “Potremo provare qualcosa di nuovo.”
Ed ecco la Corvonero che c’è in lei!
Tom si stropicciò gli occhi per l’ennesima volta. “Se hai suggerimenti adesso è il momento di parlare. Non so per quanto ancora riuscirò a stare sveglio.”
“In effetti sono stupita che tu non sia ancora K.O.” Lo fissò contemplativa. “Saresti una sfida interessante per il Capo Guaritore Finnigan …”
“Le posso assicurare che lo sarei per il San Mungo intero.” Sogghignò.
Beh, visto come è nato in effetti …
Padma non ribatté, ma del resto non era il momento di fare domande non inerenti. “Devi ricordare le mie istruzioni alla lettera una volta che sarai addormentato. Pensi di riuscirci?”
“L’unica cosa che non mi manca è la memoria.” Tom fece una smorfia amara e Lily non era tanto sicura di voler capire il sottotesto; c’erano dei momenti in cui anche i suoi poteri dovevano rimaner fuori dalla famosa soglia di casa altrui.
“Tommy, se non te la senti…”
La tacitò con un gesto seccato della mano. “Non ho accettato di sottopormi ad un coma indotto per avere dubbi. Prego Dottoressa, sono tutto orecchie.”
Padma si sedette sul ciglio del letto, i grandi occhi scuri piantati in quelli del suo amico. “Ti è familiare il termine Sogno Lucido?”  
“È un gruppo rock Babbano.” Ironizzò. Ad un suo schiaffo sulla spalla aggiunse, corredato da sbadiglio. “No.”
“È un fenomeno conosciuto anche come onironautica, ovvero la capacità di prendere controllo dei proprio sogni …”
“Sapere di stare sognando in un sogno!” Si intromise Lily. “È quello che ho fatto con il pozionista che ha identificato Luzhin. L’ho mandato in trance e poi sono entrata nel suo inconscio … nel mondo dei sogni.”
“Non credo di aver capito…”
“Guarda, è semplice…”
La superiore le mise una mano sul braccio e Lily si morse la lingua: come al solito la sua voglia di blaterare su argomenti che amava aveva preso il sopravvento. “È una materia complessa, e non è mai stata veramente studiata a livello magico.” Continuò la donna al posto suo. “I Babbani sono molto più avanti di noi anche se, naturalmente, non hanno la magia ad aiutarli. Personalmente ne sono sempre stata affascinata da quando, appunto, ho conosciuto l’incantesimo delle Anime Parlanti”
Tom si passò una mano sul viso. “Quindi quest’incantesimo … e quello usato da Lily per l’identikit di Luzhin sono della stessa famiglia?”
“Esatto!” Confermò Lily. “Anche se nel mio caso la porta d’ingresso è stata una trance indotta, nel tuo è proprio un sogno generato nella fase REM.”
Tom detestava quando non riusciva a capire qualcosa, quindi incrociò le braccia al petto e la fissò come se stesse raccontandogli una brutta barzelletta oscena.
Oh, mamma mia …
“È la differenza tra fare il bagno nel Mar Mediterraneo e farlo invece nell’Oceano Atlantico.” Forse con i paragoni sarebbe andata meglio. “Se sei nella fase REM è tutto molto più stabile e reale, ma è un filino più facile…”
Andare a fondo.
Non finì la frase ma Tom la intuì da come fece uno sbuffo sarcastico. “Fatemi indovinare, finirò a nuotare con gli squali…”
“La connessione che avete ti impedirà di perderti. Potrei spiegarti tecnicamente come avviene, ma dubito capiresti qualcosa.”
Tom parve sprofondare ancor più nell’irritazione, ma per fortuna non commentò. “Quindi, in concreto cosa devo fare?”
“Il mondo onirico è fluido. Ti sembra di toccare, vedere e sentire cose che non esistono … quindi puoi modellare il mondo a tuo uso e consumo. E lo stesso vale per Albus.”
“Quindi?” Ripetè.
“Quindi puoi lanciare incantesimi. Ed è quello che dovrai fare.”
Tom si fermò a metà di uno sbadiglio; il dover menare la bacchetta, come al solito, lo ringalluzziva facendogli dimenticare la stanchezza. “Che tipo di incantesimo?”
Padma esitò; per un attimo a Lily sembrò che avesse cambiato idea e che volesse dir loro che no, forse non era il caso.
“Tom e la sua bacchetta sono una cosa sola.” La incoraggiò. “Se c’è qualcuno che può fare un incantesimo mentre dorme, quello è lui!”
La Patil sospirò. “Non mi preoccupano le sue capacità, ma la sua volontà.”
Tom a questo serrò le labbra. “Mi sembra di starne dimostrando molta dato che sto letteralmente lottando contro una Pozione.”
Padma lo soppesò e lo giudicò affidabile. “Bene.” Disse decisa. “Come te la cavi con le Maledizioni Senza Perdono?”
… Cosa?!
 
****
 
Da qualche parte nel mare del Nord …

“Visto? Mantengo le mie promesse!”
Erano arrivati alla barca, Albus non poteva crederci; il frastono delle eliche che gli rimbombava nello orecchie gli sembrò di colpo celestiale.
È finita! Siamo salvi!
Sören si guardò attorno; Doe li aveva fatto entrare nell’ennesimo locale di stoccaggio merci, solo che era molto più ristretto rispetto a quello dove avevano dormito.
Forse un magazzino?
Non che avesse importanza dal suo punto di vista. La barca, o meglio un gommone da come si intuivano le forme sotto il telo di protezione era lì, pronto ad essere usato.
“E come la caliamo in acqua? Non vedo nessuna uscita…” Commentò Sören girandogli attorno.
Doe alzò gli occhi al cielo. “È una Passaporta. Una volta sopra, basta toccare il timone e si attiva. Finisce in mare aperto, a distanza dalla nave. Giusto per evitare di finire nella scia del motore…”
Sören sciolse le sartie che tenevano ferma la copertura, rivelando in effetti un gommone.
Niente trucco e niente inganno. Doe ha detto la verità …  
“Quindi…”
“La mossa sta a te, Sören.” Il fatto che Doe avesse chiamato Prince per cognome suonò strano anche alle sue orecchie. Ren infatti si irrigidì subito. “… possiamo fare in due modi. Saliamo tutti e ce ne andiamo di qua d’amore e d’accordo, oppure facciamo pari e dispari e chi vince si prende il gommone.”
“Fammi indovinare, non intendi la morra cinese.”
Doe sogghignò. “Sei sempre stato sveglio.”
Sören non perse tempo in chiacchiere. Il primo incantesimo fu il suo, che Doe aspettandoselo perché già, era stato suo mentore dannazione, parò con facilità, mandandolo a schiantarsi contro una delle paratie con un rumore sordo e un sacco di scintille.
Maledizione!
Al sfoderò la sua bacchetta, ma non era così stupido da mettersi in mezzo. Fece invece quello che il suo cervello Serpeverde gli suggerì; si mise davanti al gommone e lanciò un’incantesimo scudo per evitare che i due lo distruggessero nell’impeto dello scontro. Cercò poi con lo sguardo la Von Hohenheim. “Venga qui dietro! Adesso!” Le gridò.
Gli obbedì senza esitare. Gli si mise alle spalle, al sicuro dietro lo scudo di magia. “Doe non si lascerà battere…” Commentò a. “Vincerà.”
Era una strega, ma avrebbe tanto voluto darle un calcio nel sedere. “Sören è più giovane e l’ho visto battersi. Pochi maghi che conosco sono al suo livello.”
“Maestro e allievo…” Pareva parlasse di uno duello in pedana invece che uno scontro all’ultimo sangue. “… Doe lo ucciderà se non gli darà via di scampo. Sören non vuole ucciderlo invece, e la differenza è sostanziale.”
“Ma davvero.” Se si allungava una pedata forse poteva dargliela sul serio. “… e le sta bene?”
Nessuna risposta.
“No, perché visto e considerato che gli ha salvato la vita neanche un giorno fa è un po’ assurdo che adesso non se ne faccia un problema.”
“Non sta a me decidere.”
“E a chi allora? Merlino, tiri fuori un po’ di amor proprio!” Sbottò. Era una strega, certo, ma quell’apatia gli dava terribilmente sui nervi considerando che tutti, Doe compreso, cercavano disperatamente di non crepare da ore. “È una Von Hohenheim o cosa?!”
Sperava davvero che il suo incantesimo avrebbe retto; Sören ad onor del vero stava tentando di evitare che lo scontro li coinvolgesse, ma Doe al contrario sembrava non considerarlo un problema.
Ha ragione questa stronza, Ren non ha scampo … non può difendere e attaccare al tempo stesso.
“Quello è suo figlio.” Continuò: il senso di colpa poteva trasformarla in un’alleata? Tentar non nuoce
“Non dubito che la vostra relazione avrà bisogno di decadi di terapia … ma faccia quello che farebbe una madre, lo protegga. Convinca Doe a consegnarsi. Sören dovrà metterlo dentro la scialuppa e controllare che se ne stia buono … così lascerà perdere quella stronzata del gps e potremo tornare tutti sulla terraferma!”
Non poteva vederla in viso dato che gli stava alle spalle. Stava per ribadire il concetto quando gli rispose. “Non mi ascolterebbe.” Gli si affiancò e ah, era più alta di lui. Guardò verso i due duellanti. “… pensi che la mia opinione abbia mai contato qualcosa? Sono solo una donna…”
“Se la sentissero mia sorella e mia madre … come il resto della mia famiglia di donne, le posso assicurare che la prenderebbero a schiaffi.” Scosse la testa. “Senta, ho capito che è cresciuta pensando che qualcuno debba decidere al posto suo, ma suo fratello è morto e Doe è uno sbandato. Se dovesse scegliere tra salvarsi la pelle o salvarla, cosa pensa farebbe?”
Sophia fece per rispondere, ma venne fermata da uno Schiantesimo diretto verso di lei. L’avrebbe colpita, se Sören non si fosse messo in mezzo; lo deviò, ma non riuscì ad assorbire l’impatto, sbattendo violentemente contro il bordo del gommone e cadendo a terra.
Ren!
“Abbiamo un vincitore!” Esclamò Doe, fiato corto e viso stravolto, ma ancora in piedi. Ancora in grado di levare la bacchetta. Sören tentò di rialzarsi, ma l’altro fu svelto ad impossessarsi della sua bacchetta con un Accio. “Troppo stanco per usare il tuo super-braccio, eh Principino?”
Al tentò di reagire, ma era Doe; ben presto la sua bacchetta fece la fine di quella dell’altro, in pugno all’uomo. “Al muro.” Ordinò.
“… fa’ come ti dice.” Gli mormorò Sören accettando una mano per tirarsi in piedi. Era pallido di rabbia e avrebbe tanto voluto dirgli che non era colpa sua, che non si poteva vincere contro chi non si faceva problemi a colpire la strega che amava, ma a che sarebbe servito?
Abbiamo comunque perso.
Doe si rivolse poi a Sophia. “Salite sulla carrozza mia Regina, ce ne andiamo.” Sogghignò. “E visto che sono magnanimo, lascerò in vita vostro figlio e il suo amichetto. Sarà Luzhin a decidere cosa farne di loro.”   
“Faresti prima ad ammazzarci…” Ringhiò Sören.
“Ti stai proponendo?” Lo canzonò. “Non essere così pessimista, il frocetto con le sue parentele è un buon ostaggio, magari lui si salva.”
“Vaffanculo.” John Doe ce l’aveva fatta, ancora una volta aveva vinto.
“Con quella bocca baci tua madre?” Saltò dentro il gommone tendendo la mano a Sophia, che era ancora a terrra. “Mia Regina.” Intimò. “Andiamo.”
La strega guardò verso Sören. Al non se lo stava immaginando, quella era preoccupazione.
Sarà pure una stronza, ma ha visto di cosa è capace Luzhin …
Doe ci sta condannando a morte.

“Potremo prenderli ostaggio …” Mormorò.
Doe la guardò divertito. “Per farne cosa? Sono come serpi, ci si rivolterebbero contro a metà viaggio. No, meglio lasciarli con il buon Luzhin. Sarà un ospite esemplare.”
“Johannes…”
“Ho forse chiesto la vostra opinione?” Abbaiò con una rabbia che cancellò con un colpo di bacchetta la galanteria che fino a quel momento le aveva usato. “Salite su questa scialuppa, ora.”
Sophia si irrigidì, ogni emozione sparita sul viso mentre obbediva docile. Fece per afferrare la mano dell’uomo.
E quella esplose.
La mano, esplose.
Albus fece appena in tempo a vedere un’esplosione di fiori – che paragone cretino poi, ma era lo shock, lo shock di vedere Doe fatto a pezzi davanti ai suoi occhi – che Sören lo afferrò e lo tirò dietro di sé per proteggerlo.
Chiuse gli occhi, perché non voleva vedere. Non aveva intenzione di guardare il corpo di John Doe cadere dentro il gommone perché gli bastava sentire il rumore sordo, umido.
Del sangue … delle viscere …
“Il lavoro di squadra è una cosa meravigliosa.” Commentò Luzhin e la voce era vicina, doveva essere a pochi passi da loro.  
“Eravate così concentrati a sbranarvi a vicenda che non ci avete neanche sentito arrivare …” Sospirò. Perché i cattivi dovevano sempre atteggiarsi a teatranti quando dovevano gongolare? Lo odiava.
“Cosa vuoi Luzhin?” Chiese Sören calmo, senza neanche un tremore nella voce. Come ci riusciva?
“Voglio? Molte cose.” Al se avesse potuto si sarebbe anche tappato le orecchie; quella voce sarebbe stata materia dei suoi prossimi incubi, ne era sicuro.
Sempre che ne esca vivo.  
“Al momento? Lui.”
Lui?
Sören si irrigidì.
… parla di me?
Si fece coraggio e aprì gli occhi, guardando oltre le spalle dell’amico. Luzhin era davanti a loro e non c’era dubbio, perché piantò gli occhi nei suoi.
... Parla di me.
 
****
 
 
Note:

Sì, Doe è decisamente morto. Nel modo che meritava, quindi in maniera assolutamente mondana. Mi mancherà, vecchia ciabatta. Comunque ... mi raccomando, se sei un Potter non devi mai dire “è finita”. Attira tutte le sfighe.
Canzone del capitolo qui

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Capitolo 68
*** Capitolo LXVII ***



 
 
“Questa è la mia libertà, il mio dovere, la mia guerra.”
- Tom Clancy, Splinter Cell.
 
 
 
“Cosa vuoi Luzhin?” Chiese Sören senza neanche un tremore nella voce. Come ci riusciva?
“Voglio? Molte cose.” Al se avesse potuto si sarebbe anche tappato le orecchie; quella voce sarebbe stata materia dei suoi prossimi incubi, ne era sicuro.

Sempre che ne esca vivo.  
“Al momento? Lui.”
Lui?
Sören si irrigidì.
… parla di me?
Si fece coraggio e aprì gli occhi, guardando oltre le spalle dell’amico. Luzhin era davanti a loro e non c’era dubbio, perché piantò gli occhi nei suoi.
... Parla di me.
 

Da qualche parte nel mare del Nord ...

Albus non sostenne lo sguardo di Luzhin: anche se avesse voluto farlo per mostrargli che no, non aveva paura, non sarebbe stato credibile. Quelle iridi slavate, quiete come un lago ghiacciato, gli facevano venir voglia di rannicchiarsi contro la schiena di Sören, al sicuro.
Per ora.
“Albus non va da nessuna parte.” Ribatté quest’ultimo stendendo il braccio all’indietro, come a creare un’ulteriore barriera tra di loro. “Ce ne stiamo andando.”
“Con la scialuppa.” Assentì Luzhin con un mezzo sorriso. “Temo che non sia possibile. Le capacità di Potter servono qui.”
“ … Che capacità?” Riuscì a mormorare; doveva capire. Capire qual era il fine ultimo di quel vichingo pazzo. Lo aveva conosciuto come scagnozzo di Doe ma era evidente che qualcosa doveva avergli fatto scoprire la voglia di prendere iniziativa.
Un obiettivo.
Saperlo gli avrebbe magari permesso di convincerlo che no, non aveva alcun uso in quella nave che non fosse allontanarsi il più rapidamente possibile.
Luzhin strinse le labbra; era impaziente, ma tuttavia qualcosa lo spinse a rispondergli. “Mi hai salvato. Doe mi aveva ridotto in fin di vita ma tu mi hai rimesso in salute e mi hai donato nuove forze. Ho bisogno di te.”
“È stato il siero Demiurgo a farlo, non io.”
“Tu sei l’unico in grado di farlo funzionare.”
“Anche Loher…” Tentò.
“Basta così.” Tagliò corto facendo cenno a uno dei due Mercemaghi che lo aveva accompagnato. “Non hai scelta. Nessuno di voi tre la ha.”
Albus scoccò un’occhiata in direzione di Sophia Von Hohneheim; a differenza di Doe era stata risparmiata dall’efficienza omicida di Luzhin. Aveva però le vesti coperte di sangue e se ne stava abbandonata alla presa del secondo Mercemago come se non fosse altro che un supporto per evitare di accasciarsi a terra. Aveva i lineamenti vuoti e senza vita di un ritratto in cui il sangue di drago aveva smesso di fare effetto da decenni. Doveva essere sotto shock.
“Qualunque cosa tu abbia in mente, non funzionerà. Il Ministero inglese ci sta cercando, e quando arriveranno…” Esordì Sören.
Quando arriveranno? Siamo su una nave Babbana da due giorni, Prince e siamo in acque internazionali. Sai meglio di me che il mare e i maghi non sono mai andati d’accordo … è come essere nella più fitta delle foreste. Non ci troveranno.” Luzhin inarcò le sopracciglia. “O vuoi affrontarmi da solo? Sei debole, stanco … non sei riuscito a risparmiare le forze. Sappiamo già come andrà a finire. Consegnami Potter e prometto che la tua morte non sarà dolorosa.”
No.” Sören sarebbe stato un Tassorosso perfetto, lo pensava ogni volta che la sua testardaggine e il suo desiderio di proteggere ignoravano ogni istinto di conservazione.
Sarebbe morto con la bacchetta in mano non per orgoglio, ma per servire.
Proteggere e servire …
Non glielo avrebbe permesso.
“Ren, lasciami andare … non vuole farmi del male, gli servo.” Tentò di sciogliere la presa dell’altro, ma quello non si mosse di un millimetro. “Posso distrarlo e tu puoi prendere la scialuppa, trovare papà e …”
“No.” Ripeté e non poteva vederlo in viso ma poteva tranquillamente immaginarsi l’espressione indurirsi, farsi assoluta. “Non li porterai via finché sarà vivo … e ti assicuro, non sono semplice da uccidere come Johannes. Potrai anche avere il Demiurgo dalla tua, ma puoi ancora sanguinare.
Luzhin lo guardò infastidito. Non era minimamente turbato dall’evidente anelito omicida-suicida del suo amico. “Ho ucciso Doe perché era destino accadesse.”
Destino?
“Ti ho battuto per lo stesso motivo e non ho tempo da perdere con te. Ho vinto.” Prima che Sören potesse ribattere Luzhin afferrò Sophia per un braccio e se la tirò contro, puntandole la bacchetta alla gola. “Se mi attaccherai ucciderò tua madre. Prima che tu possa colpirmi, o disarmarmi, le farò esplodere la testa in mille pezzi.”
Sören mormorò qualcosa in tedesco, una manciata di parole che avevano il sapore della rabbia … e della sconfitta.
Scacco matto.
Luzhin ridacchiò. “Sei prevedibile. Di Johannes potevo liberarmene solo sporcandomi le mani … il vecchio bastardo avrebbe venduto anche sua madre per sopravvivere. Con te invece non serve usare la forza. Basta avere un ostaggio, e ne ho ben due.”
Sören non rispose subito. “Ad un condannato a morte si concede almeno un ultimo desiderio.” Si risolse a dire.
… si arrende? Si arrende così?
“Ren…” Tentò ma l’altro gli strinse il braccio per farlo tacere.
Ha un piano?
Luzhin lo guardò sorpreso. Sembrava lusingato. “Il tuo ultimo desiderio è scontrarti con me?”
“Sì.” Fece un passo avanti. “Hai ragione. Morirò, ma lasciamelo fare con onore. Sei stato un Duellante di Durmstrang come me, lasciami attraversare il velo con la bacchetta in pugno.”
Ha un piano, vero?!
Quel discorso da romanzo d’appendice doveva comunque aver fatto presa, perché l’altro tedesco annuì tra sé e sé. E poi, non poteva sbagliarsi, quando Ren aveva ammesso la sconfitta gli occhi dell’altro si erano accesi di una scintilla di piacere.
È un narcisista, okay. Questo come ti aiuta a sfangarla?
“Posso concedertelo.” Disse e con un cenno delle dita spinse la bacchetta dell’altro, che era rimasta a terra, nella sua direzione. Sören fu rapido nell’afferarla, forse temendo che avrebbe cambiato idea.
Luzhin invece attese tranquillo; pur nel suo evidente delirio di onnipotenza pareva ancora tener di gran conto le cerimonie. E Sören l’aveva compreso prima di lui.
… questo. Come. Ti. Aiuta?
Non aveva mentito sul non poterlo battere. La commozione cerebrale che aveva tentato di curargli c’era ancora, irrobustita anche dai colpi che aveva preso da Doe; lo vide incespicare quando fu il momento di mettersi in posizione e fare l’inchino.
Luzhin attese che Sören fosse in posizione, poi ordinò ai due Mercemaghi di sgombrare l’aria; uno dei due lo afferrò per il retro della maglietta senza troppe cerimonie. “Ren!” Esclamò nel panico, ma l’amico lo ignorò, ormai concentrato sull’avversario.
Venne così spinto a fianco della Von Hohenheim; la strega aveva ancora lo sguardo perso nel vuoto e un leggero tremore che le scorreva addosso. Non aveva reagito né quando Luzhin l’aveva minacciata né quando l’aveva di nuovo consegnata ai Mercemaghi.
“Sophia…” La chiamò, e quando non gli rispose non poté far altro che prendere una mano tra le sue.
Guaritore nell’anima …
Così avrebbe detto Tom. Come Sören era invece un guerriero, un guerriero esausto che alzava di fronte a sé la bacchetta per un’ultima volta.
No, vero? Ora si Smaterializzerà, oppure tirerà fuori dalla manica un incantesimo nuovo, di quelli che ha imparato da ragazzo e che Luzhin non si aspetta, oppure …
… oppure niente di tutto quello. Luzhin con un cenno elegante, quasi senza sforzo lanciò un incantesimo: un lampo di colore blu che fece il rumore di un petardo.
Sören non riuscì neanche a lanciare un Sortilegio Scudo, l’istinto gli fece soltanto levare il braccio a proteggere il viso. E poi uno schianto e le paratie della nave si aprirono come lo strappo su una camicia e Sören precipitò nel vuoto.
 
Al, poi, non riuscì mai a ricordare con lucidità quel momento. Seppe solo che si liberò della mano di Sophia con l’impressione che lo stesse trattenendo, quasi temesse di vederlo scomparire nello squarcio aperto come il figlio.
Che poi non si sarebbe mai buttato; voleva solo sporgersi e esser sicuro di vedere ancora l’amico. Perché era ancora lì, giusto?
Riuscì ad affacciarsi pochi attimi prima che uno dei Mercemaghi lo acciuffasse di nuovo; vide solo schiuma, e i flutti blu del mare infrangersi contro la fiancata vuota della nave.
A quel punto perse il controllo: adesso era solo, aveva visto Sören morirgli davanti e presto sarebbe toccato a lui. Ne aveva tutto il diritto.
Gridò, di rabbia e di disperazione. Per poco però, perché sentì un colpo alla base della nuca e poi divenne tutto nero.
 
****
 
Aspettare nel mondo dei sogni poteva essere una delle cose più noiose del mondo.
Noiosa, pertanto irritante.
Tom si rigirò tra le dita un ciottolo: liscio, bianco, perfetto per un lancio. Era stato uno dei suoi passatempi durante l’anno passato a Rügen e Meike gli aveva insegnato il movimento necessario per farlo rimbalzare sull’acqua: cosa che fece per l’ennesima volta. Il sasso saltò tre volte sulle superfice della riva prima di affondare tra onda e onda. Sospirò.
Al era sempre stato più bravo in quel ridicolo giochetto; riusciva a farne addirittura sei.
Era consapevole che l’attesa avrebbe potuto essere lunga, considerando che nel mondo reale aveva parlato con Al non più di qualche ora prima, tuttavia sperava che l’altro avrebbe fatto in modo di tornare il più in fretta possibile.
Era preoccupato.
… e se non tornasse? E non perché non riesce a dormire, ma perché …
Si passò una mano tra i capelli, frustrato.
No. Ha promesso che si sarebbe messo al sicuro … che sarebbe tornato. Da me.
Forse ho un modo per aiutarlo. Uno concreto.
Fece per chinarsi e prendere il solito sasso – tornava sempre indietro, come un nastro magnetico riportato al suo punto di origine – quando udì il rumore di acqua agitata, come se un grosso pesce si fosse spiaggiato sulla riva e si stesse dibattendo tentando di tornare al mare.
E poi colpi di tosse convulsi.
I pesci non tossiscono.
… Albus.
Era Al, pochi metri davanti a lui, vicino ad un gruppo di rocce. “Al!” L’acqua non era particolarmente alta in quella piccola baia, ma l’altro non sembrava rendersi conto che avrebbe potuto toccare e annaspava alla ricerca di ossigeno.
Si tolse il cappotto che lo avrebbe impacciato e lo raggiunse ignorando gli schiaffi di cui lo graziavano le onde. Lo afferrò da sotto le braccia e lo tirò su. “Albus, non stai affogando! Si tocca!”  
Avrebbe dovuto apparire sulla spiaggia come l’altra volta. Perché è finito in mare?
L’altro parve finalmente rendersi conto di dove si trovava e soprattutto della sua presenza, perché lo afferrò come se fosse sul punto di annegare. “Tom …” Sussurrò strozzato tra i conati. “Cosa … dove?”
“Stai dormendo.” Gli passò un braccio attorno alla vita per farlo stare dritto. “… siamo di nuovo nel mondo dei sogni.”
Al inspirò un paio di grosse boccate d’aria. Più che stargli abbracciato gli stava letteralmente incollato addosso. “… non … non mi sono addormentato.” Balbettò. “Mi hanno ... colpito.”
Cercò di staccarlo per guardarlo in viso e capire meglio cosa stava succedendo, ma fu uno tentativo vano. Anche in sogno aveva più forza di lui. “Dove?” Chiese allora.
“In testa…”
Gli passò una mano sulla nuca alla ricerca di ferite, ma era inutile: non erano lì fisicamente. “Sei svenuto.” Realizzò poi. Questo spiegava la modalità di apparizione, quasi fosse stato letteralmente scaricato dentro al loro sogno condiviso come un sacco di mattoni.
Aveva cose da chiedere, altro da spiegargli ma doveva prima farlo calmare. “… Torniamo a riva, devi asciugarti.”
“Non sono davvero bagnato … non rischio di ammalarmi.” Gli fece notare tossendo ma seguendolo comunque; era un buon segno.
Se mi risponde a tono vuol dire che sta tornando in sé.
“Irrilevante.” Tirò fuori la bacchetta e due battiti di ciglia dopo erano sul bagnasciuga; il sole fece capolino tra le nubi ma non scaldava affatto. Tom asciugò i vestiti di entrambi con un incantesimo; la magia sembrava l’unica cosa reale là dentro.
Albus lo lasciò fare, osservandolo con sguardo assente, come se fosse miglia lontano da lì.  
… in effetti lo è.
“Cos’è successo?” Domandò. “Chi ti ha colpito?”
“Un Mercemago, credo … per farmi smettere di gridare.” Si strinse le braccia al petto e poi due grosse lacrime gli rotolarono lungo le guance. Strinse le labbra ma non poté impedire che se ne formassero altre.
“Perché stavi gridando?”
Glielo chiese ma aveva già capito. Forse con un’altra persona avrebbe pressato per avere più informazioni, ma con Albus non ne aveva bisogno. Quel tipo di pianto, silenzioso e perso, non gliel’aveva mai visto fare, ma gli era stato raccontato.
Da Zabini. Per farmi sentire in colpa.
Era il pianto che Al riservava al lutto. Al dolore. Alla perdita.
“Sören…” Mormorò. “… Luzhin lo ha ucciso.”
“Non è possibile.” Una parte di sé si rendeva conto che era l’ultima frase che avrebbe dovuto dire, e che non aveva nessuna base fondata per smentirlo, eppure …
Non può essere morto. È un agente specializzato, è stato addestrato da John Doe … è sopravvissuto all’educazione di mio padre.
“Lo ha fatto cadere dalla nave.” Si strofinò il viso cercando di fermare le lacrime. Non ebbe molta fortuna. “Non è riuscito a difendersi. Era stanco, e ferito e… Lily.” Sussurrò sgranando di colpo gli occhi. “Merlino, come … come faccio a dirlo a Lily?” Un singhiozzo gli uscì dalle labbra e non riuscì a continuare, abbracciandolo come se fossero di nuovo tra i flutti e pensasse di stare per affondare.
Tom ricambiò con la mente in subbuglio. Cosa avrebbe dovuto fare adesso? L’unica persona in grado di mettersi tra Albus e il pericolo era morta.  
“… l’hai visto cadere in acqua?”
Doveva esserci un’altra spiegazione.
Albus scosse la testa, strofinandosi per l’ennesima volta il dorso della mano sul viso. Come quando erano bambini e dimenticava di avere un fazzoletto in tasca.
Gli porse il suo, ma l’altro lo ignorò.
Non puoi essere rimasto da solo. Non puoi.
“Allora potrebbe essere ancora vivo.”
Al tirò su con il naso, facendo una risatina tremula. Gli avrebbe dato fastidio se non fosse stata accompagnata da un ennesimo singhiozzo.
Odiava vederlo piangere.
Se piange, è successo qualcosa di brutto.
Era una costante che l’aveva accompagnato per tutta l’infanzia e anche se l’età adulta gli aveva fatto realizzare che il compagno piangeva davvero per un nonnulla, una piccola parte di lui continuava a considerarlo come un campanello d’allarme.
Come il canarino nella miniera. I minatori non avverto il gas riempirgli i polmoni, ma la morte del canarino gli mostra il pericolo.
Era un paragone deprimente, ma Al era la sua bussola; dove non arrivava la sua capacità di sentire, arrivava quella dell’altro. E lo avvertiva.
… Se + piange, è successo qualcosa di brutto.
“Non può essere sopravvissuto.”  
“Non l’hai visto.”
“Tom, l’ha colpito!” Sbottò, staccandosi così bruscamente da spintonarlo.
“Sto solo ragionando.”
Posso fare solo questo al momento.
“Non farlo. Non stavolta.” Scosse la testa. “… non darmi false speranze.”  
“Allora cosa vuoi fare, arrenderti?” Lo disse più rabbioso di quanto avrebbe voluto. Ma era terrorizzato e sapeva che Al poteva scivolargli via dalle mani da un momento all’altro. “Hai promesso che saresti tornato da me.”
Al lo fulminò con lo sguardo come se l’avesse appena insultato. “Voglio tornare da te! Ma Luzhin mi ha preso, e senza Sören … non riuscirò ad attivare il gps, e se non lo farò … papà non mi troverà mai.”
Non l’aveva mai visto così, neppure quando a Durmstrang avevano rischiato di perdere Lily.
L’aveva visto infuriato. Spaventato.
... ma mai sconfitto.
Capì che stavolta era compito suo. Di Thomas Dursley, l’eterno disfattista, che per anni si era appoggiato all’ottimismo ostinato del suo ragazzo.  
“Al…” Gli prese il viso tra le mani. Era ancora bagnato, stava piangendo. “ … forse ho un modo per aiutarti.”
Il piano della Patil a quel punto era l’unica cosa che avrebbe impedito al suo compagno di rimanere da solo in una nave che pullulava di pericoli.
In un certo senso …
Al gli scoccò un’occhiata attenta. “… Come?”
“Un incantesimo.” Esitò. “È sperimentale.”
“Oh, Tom… non mi sembra una buona idea.” Reazione prevedibile: se un incantesimo non era bollato dal San Mungo con doppia firma del Ministero per Albus Potter non era meritevole di considerazione.
Dopotutto è un dottore, non uno scienziato.
Per quanto avesse l’animo del ricercatore, e lo aveva provato trovando la cura al Demiurgo, aveva sempre lavorato secondo le regole.
“Non l’ho inventato io, ma la Guaritrice Patil. È una variazione dell’Imperius.” All’espressione incredula dell’altro, aggiunse. “Non è catalogabile come Maledizione perché il soggetto su cui viene eseguito rimane cosciente.” Odiava ammetterlo, ma non ci aveva capito molto neppure lui. La Psicomaga, per quanto gli scocciasse ammetterlo, aveva creato qualcosa che andava oltre le sue conoscenze.
“Hai detto che è una variazione … Ci sono effetti collaterali?”
Guaritori … tutti uguali. Fissati con le controindicazioni come il peggiore degli ipocondriaci.
“Fin’ora non credo.”
“Non credi? Quanti test sono stati fatti?”
“La Guaritrice Patil ha detto che l’ha provato una volta con sua sorella gemella.”
“Cosa?!”
 “… vuoi sapere come funziona o non devo neanche disturbarmi a spiegartelo?”
Al annuì, ma via via che glielo spiegava l’espressione si faceva sempre più preoccupata.
“È una follia …” Disse infine.
“Abbiamo scelta?”
 
Un incantesimo sperimentale lanciato all’interno di un altro incantesimo sperimentale.
Smethwyck lo avrebbe licenziato. O la sua coscienza di Guaritore diplomato l’avrebbe fatto; la prima cosa che insegnavano all’Accademia di Medimagia era che la maggioranza di incidenti causati dalla magia era dovuto proprio ad incantesimi non inseriti nel Grimorio Ministeriale.
“… facciamolo.” Mormorò, perché Tom aveva ragione, non avevano scelta. Non poteva e non voleva rimanere da solo.
“Hai capito bene di cosa si tratta?”
“Meglio di te.” Rimbeccò. “… si tratta di creare un legame tra le nostre menti utilizzando il sogno condiviso. Una volta svegli, saremo in grado di vedere e sentire cosa vede l’altro. Ho detto bene?” Tom gli lanciò un’occhiataccia ma fece un cenno di assenso. “Allora facciamolo. Così sarà anche più semplice descrivere a papà cosa sta accadendo. Il telefono senza corda non ha mai funzionato bene.”
“Senza fili.” Lo corresse con un mezzo sorriso.  
“Dovrò sorbirmi queste correzioni quando sarai nella mia testa?” Sbuffò rimediandosi una risata. “No, perché potrei risponderti male.”
“Sembreresti un pazzo che parla da solo.”
“Sarei in buona compagnia allora …”
Tom l’aveva fatto sedere sulla sabbia e gli si era affiancato: gli passò un braccio attorno alle spalle e gli baciò la tempia “Non permetterò che ti faccia del male.”
“Guarda che non sarai davvero lì…”
“Ma potrò usarti per lanciargli qualche incantesimo.”
“Così ci farà fuori entrambi.” Sospirò ma nonostante tutto apprezzò quella parole, per quanto poco sensate. L’incantesimo poteva essere folle, ma l’idea di avere Tom vicino lo faceva sentire meglio. Un pochino più forte.
“… comunque Luzhin potrebbe essere sopravvissuto.” Esordì l’altro dopo un breve silenzio. “Se è ancora vivo, è sulla nave. E andrà a cercare il gps.”
Al si morse un labbro; avrebbe tanto voluto lasciarsi convincere, ma la scena della caduta di Sören gli balenava davanti ogni volta che chiudeva gli occhi.
Come farò a dirlo a Lily?
“Pensi che dovremo dirglielo?”
Tom lo guardò confuso. “A chi e di cosa?”
“Lily. Di Sören.”
“No.” Disse di getto. Poi aggrottò le sopracciglia. “… dovremo?”
“Non lo so.” Ammise passandosi una mano sul viso. “… preferirei farmi cavare un dente alla Babbana, ma se mi risveglierò nel tuo corpo, e Lily sa dell’incantesimo, la prima cosa che mi chiederà è come sta Ren.”
“Potremo mentire.”
Certo che potevano. Sarebbe stato infinitamente più semplice che lo scoprisse una volta tutto finito, magari dalla bocca di suo padre, ma Al sentiva un peso allo stomaco all’idea di ingannare sua sorella. “… non sarebbe giusto. Se fossi al suo posto, non vorresti saperlo?”
Tom rimase in silenzio. “Su queste cose sei più bravo tu.” Disse infine. “Se pensi che dobbiamo dirglielo, glielo diremo.”
“… potrebbe avercela fatta, giusto?”
Tom si strinse nelle spalle. “Finché non c’è un cadavere, può essere sia morto che vivo. Come il gatto di Schrödinger.”
“Non ho idea di cosa sia. ” Scosse la testa. “Ascolta …” C’era una cosa che l’altro doveva sapere prima che lanciasse l’incantesimo.
“Te lo dico adesso così se qualcosa va storto almeno questa conversazione non è stata inutile.” Gli spiegò quando l’altro tradì un cenno di impazienza. “La nave si sta muovendo. Stiamo navigando verso qualcosa perché Luzhin ha detto che non aveva tempo da perdere con Sören … Aveva una gran fretta di farlo fuori.”
“Qualcuno lo sta aspettando?”
“Non ne ho idea … ma qualunque sia il suo piano vuole usare il Demiurgo. Per questo sono ancora vivo, gli servo.”
Tom si rigirò la bacchetta tra le dita. “C’era anche un altro Guaritore con te, quel … Loher?” Ad un suo cenno di conferma continuò. “… se ha già qualcuno che conosce la procedura perché vuole te?”
Si strinse nelle spalle. “Pensa che gli abbia salvato la vita.”
“Si fida.” Alla sua espressione dubbiosa aggiunse. “… mi hai detto che era un tirapiedi agli ordini del Camaleonte. Improvvisamente ha preso le redini dell’intera nave. Un tirapiedi non diventa il capo dall’oggi al domani. Un alfiere non può diventare Re.”
“Dove vuoi andare a parare?”
“Ha bisogno di persone che lavorino per lui. Di complici.” Al suo accenno di protesta lo fermò con una mano. “… non credo sia così stupido da pensare che lo aiuterai volentieri. Ma sei l’unica persona in quella nave che non ha tentato di ucciderlo.”
“… dovrei convincerlo che sono dalla sua parte?”
Tom gli prese una mano e gliela strinse. “Dobbiamo convincerlo che ti sei arreso, e che lavorerai per lui perché hai paura di morire. Ti aiuterò.”
Gli sorrise stringendogli una mano con affetto. “Sei sempre stato bravo a manipolare la gente…”
“Una vecchia eredità.” Ribatté con quella strana espressione amara che aveva ogni volta che parlava di Voldemort. “… comunque, mai come te.”
“Non ho mai manipolato nessuno!”
“Mi hai convinto a diventare una brava persona. Direi che sei un fuoriclasse.” Si alzò in piedi, tendendogli la mano. “Sei pronto?”
Si tirò su, spazzolandosi i pantaloni dalla sabbia. “Sì, ma prima una cosa…”
“Ancora? Ti ricordo che non…” Lo  ignorò, preferendo invece afferrarlo per la camicia e tirarlo a sé per un bacio che l’altro ricambiò con altrettanto impeto nonostante la protesta iniziale.
Era una boccata d’aria, lo era davvero; con la fronte appoggiata alla sua, e i respiri mescolati, poteva quasi illudersi di essere davvero a Rügen e che Cordula sarebbe venuta a chiamarli per pranzare.
Una vita fa …
Sospirò staccandosi.
“Sono pronto.”    
Tom batté le palpebre con evidente confusione.
Adoro baciarlo finché non si dimentica chi è…
Alla sua espressione divertita si schiarì la voce. “Bene.” Borbottò levando la bacchetta. “Dammi la mano.”
Gliela tese. L’altro gliela strinse e poi con la bacchetta cominciò a tessere un nastro di magia per legarle entrambe l’una all’altra. “Sembra quasi la cerimonia dei nastri…” Commentò con un sorriso. “Potevi almeno darmi un anello prima, Dursley…”
“Qui non posso dartelo.” Commentò spassionato. Gli rifilò un ghignetto. “Basta chiedere, Potter.”
“Idiota.” Mugugnò sentendosi avvampare. “Dai, forza, non abbiamo tanto tempo…”
“Chiudi gli occhi.” Eseguì prontamente anche per troncare quel discorso che non aveva proprio senso in quel momento. Sentì la punta della bacchetta di Tom toccargli la tempia. Sentì una lieve pressione e poi fu bianco accecante.
 
****
 San Mungo, Reparto Thickley.
 
James non tentò neppure di soffocare l’ennesimo sbadiglio che rischiava di fargli slogare la mascella; quando si era diplomato all’Accademia Auror non avrebbe mai pensato che tra i suoi compiti ci sarebbe stato quello di vegliare un Dursley dormiente …
Ma ehi, il mondo è pieno di sorprese.
Lesse per distrarsi l’ultimo messaggio che Ted gli aveva mandato; Ben si era alzata dal sonno post trasformazione, aveva mangiato come la lupacchiotta che in fondo era e adesso era in giardino a giocare. Ted invece aveva fissato un appuntamento con il Ministero per discutere dell’adozione e il ruolo di Vulneraria nell’intera vicenda.
Il mondo continuava a scorrere e fare le sue robe come se nulla fosse; dentro al San Mungo invece il tempo non sembrava passare mai.
Nella testa di Tom di sicuro, visto che era talmente nel mondo dei sogni che avrebbe potuto disegnargli dei baffi in faccia senza svegliarlo.
Potrei, in effetti …
Lily era andata a fargli una tazza di the e da quanto ci stava mettendo probabilmente si era fermata a chiacchierare con qualcuno. Non rischiava di essere sorpreso quindi …
Potty?” La voce di Malfoy lo sorprese con la bacchetta in mano e la sincera voglia di improvvisarsi artista. “… stai per disegnare qualcosa in faccia a Tom?”
“No.” Mentì in scioltezza voltandosi; Scorpius era sullo stipite della porta, in uniforme.
“… ma tu non dovresti essere a riposo?”
L’altro scrollò le spalle e con due falcate fu seduto sul letto di Dursley. “Dovrei.” Fece un mezzo sorriso di scuse. “… non ce la facevo proprio a starmene a casa con le mani in mano. Rosie ha capito.”
“Papà e zio Ron lo sanno che sei qui?”
“Che noioso!” Sbuffò con un cenno teatrale dei suoi. “Lo so che sono tenuto a starmene a casa, visto che la mia licenza matrimoniale è appena iniziata ed ho un figlio in arrivo, ma…”
Scusa?
Scorpius batté le palpebre perplesso. Poi spalancò la bocca in un muto grido di orrore, come se avesse realizzato solo in quel momento di avergli scaricato due Bombarda Maxima in faccia.
“Ah, già, non te l’ho detto …”
“Che cazzo Malfoy!”
L’avrebbe strangolato se non fossero stati entrambi in uniforme e soprattutto se non avesse avuto la certezza che era una cosa di cui si sarebbe pentito poi.
Forse.
“Abbassa la voce, Tom sta dormendo.”
“È in una specie di coma indotto idiota, non si sveglierebbe neanche se gli infilassimo una bacchetta nel naso! Matrimonio? Figlio?!
Scorpius per tutta risposta tirò fuori la sua migliore espressione da cucciolo bastonato. Avrebbe funzionato se avesse avuto un paio di tette, o molto più semplicemente, se avesse creduto fosse sincera.
“…sono successe un po’ di cose mentre eri via per Ben.”
“Direi!” Si passò una mano tra i capelli. “Non so neanche per qualche delle due mi girano più i coglioni … Rosie che ha una pagnotta in forno o tu che ti sei sposato senza di me.” Inspirò mentre il sacro fuoco dell’incazzatura prendeva una decisa direzione.
“Direi la seconda da come hai l’aria di volermi menare.”
“Sono il tuo testimone!”
“È stata una decisione presa nell’impeto del momento!” Alzò le mani in segno di resa. “Ripeteremo comunque la cerimonia a Settembre, ma … non lo so, sembrava la cosa giusta da fare quando Rosie mi ha detto del fagiolino.”
“Del cosa?”
“Mio figlio. O figlia.” Un lento sorriso si espanse su ogni singolo lineamento del viso dell’altro; non era solo nella bocca, ma negli occhi e nel resto di quella stramaledetta faccia da culo.
… e non poteva dire di non capirlo.
Ben.
“Diventerò papà James.” Fece persino un saltello cretino da seduto e non poté fare a meno di sbuffare divertito.
Come cavolo faceva a rimanere arrabbiato con la rappresentazione adulta di un moccioso felice?
“Lo chiamerai davvero fagiolino?”
“Mica è un elfo.”  Lanciò un’occhiata preoccupata alla porta, quasi avesse paura di veder materializzare zia Hermione e il suo carico di indignazione anti-razzista. “…quello che voglio dire è che adesso è più o meno così secondo Rosie.” Avvicinò pollice ed indice per indicarne la misura. “Da qui, fagiolino. Anche lei è d’accordo.”
“Ti pareva…” Scosse la testa. “… beh, congratulazioni Malfoy.”
Scorpius annuì compiaciuto, guardando poi verso Tom e ricordandosi improvvisamente che c’era anche lui nella stanza. “… ma sta bene?” Domandò preoccupato.
“Sta solo dormendo, te l’ho detto. È una storia lunga.” Si massaggiò la nuca e smascellò l’ennesimo sbadiglio. “… se vuoi tornare in servizio non ti conviene farti assegnare qui, è una palla allucinante.”
“Mi ha detto papino Ron dov’eri, e visto che l’alternativa è stare con Ama e Hugo ad ascoltare la radio, tanto vale stare con il mio maschietto preferito.” Fece spallucce. “È tutto in stallo.”   
“Hai appena chiamato mio zio papino?”
Esibì un preoccupante ghigno estasiato. “Sì, e intendo farlo per il resto della mia vita. Ora che i nodi nuziali sono stretti non può più impedirmelo. Siamo ufficialmente imparentati.”
“Immagino la gioia.”
“Lui e papà sembravano dovessero ingoiare cacca di drago durante la cerimonia. È stato molto commovente vederli trattenersi dall’urlare.” Annuì allegro. Poi si strofinò le mani. “Dai, che posso fare?”
“Guardare Dursley dormire al momento.”
Ci rifletté. Ghignò. “Partitina a Sparaschiocco sul suo corpo esanime?”
“Cazzo, Malfuretto, mi sei mancato.” Ammise di tutto cuore perché quelle ore erano state pesanti soprattutto perché aveva dovuto passarle da solo; Bobby era ancora fuori gioco, Ama non era la sua tazza di the e suo zio e Harry erano troppo immersi nei loro ruoli di capo per dargli retta.
E Albie e il Pipistrello sono là fuori …
Scorpius annuì come se avesse compreso il corso dei suoi pensieri e Appellò una delle sedie per metterglisi di fianco. “Papino Ron mi ha aggiornato … possibile che voi Potter dobbiate sempre mettervi in mezzo?”
“Non noi Potter, Albus.” Lo corresse con uno sbuffo scorato rimendiando una pacca consolatoria sulla spalla. “Sul serio, se torna …” Si fermò.
Se torna …
L’altro gli strinse un braccio. “Ehi, è Albie. È la persona con più resilienza che conosco.”
“… non so che cazzo vuol dire, ma okay.”
“Si rialza sempre in piedi.” Spiegò sommario.
“Giusto e poi … non è solo.” Fece cenno con la testa a Dursley. “Cioè, li hai visti anche tu parlarsi con gli sguardi no? Conversazioni di mezz’ora a volta! Al momento tra l’altro è una roba del genere.”
“Cioè?”
Sbuffò. Tanto non è che avesse di meglio da fare. “Va bene, Malfuretto. Vediamo se riesco a spiegartela io.”
 
“Forse è meglio se gliela spiego io, Jamie, chissà che gli racconti.”

Per un folle momento a James sembrò che la voce che lo aveva ripreso fosse quella di Al. Ma proveniva da Tom.
Si voltò verso quello che era un corpo esanime e si ritrovò invece gli occhi del tetro cugino puntati su di lui.
“… Tommy?”
“È Tom.” Lo corresse questo alzandosi a sedere. Si voltò verso Scorpius e gli sorrise. “Ah, Malfoy … sei qui! Stai bene, ti sei ripreso?”
… ed è di nuovo la voce di Al.
La sua espressione, combinata a quella dell’amico, doveva essere indicativa perché Dursley li guardò entrambi e ridacchiò. “Immagino che Lily non ve l’abbia detto.”
“Detto cosa?”
“Che adesso siamo in due.”
Scorpius sgranò gli occhi. “Sei incinta anche tu?”
James dovette frenare uno scoppio di risa, anche perché Tom fece una smorfia così schifata da essere esilarante, e poi lo notò; gli occhi azzurri dell’altro avevano cambiato colore. O meglio: uno era rimasto uguale l’altro era verde.
… come quelli di suo fratello.
“Sono un uomo, imbecille.” La voce di Tom stavolta.  
“Che diavolo avete combinato voi due idioti?” Sbottò. “Albie, sei lì dentro?”
L’espressione sdegnata di Tom mutò in qualcosa di incerto e imbarazzato che poteva essere solo suo fratello; era la stessa faccia che indossava da anni, ogni qual volta combinava qualche cazzata. “… beh, non direi proprio dentro, direi piuttosto con.” Esitò. “Potreste andare a chiamare Lils e la Guaritrice Patil?”
“Porca put…”
Scorpius scattò in piedi. “Vado subito.” Prima di varcare la porta si girò a guardarli. “… ti posso chiamare Porsley? Come Potter e Dursley…”
Tom aprì bocca con il chiaro intento di dargli contro ma qualcosa sembrò strozzarlo dal colpo di tosse che lanciò. Fece un’espressione incazzata. “Non posso neanche insultarlo adesso?” Una pausa. “L’hai già fatto…” E di nuovo la voce di suo fratello.
Scorpius li guardò deliziato. “Porsley!” Cinguettò prima di trotterellare via.
“Siete inquietanti.” Trovò giusto notificargli incrociando le braccia.
Tom fece spallucce. Conosceva da tanto tempo quei due da rendersi conto quando l’uno e l’altro prendevano il controllo del corpo di Dursley. Che doveva essere una roba del genere, almeno a naso. “A cosa serve ‘sta pagliacciata?”
“Niente che il tuo cervello da primate possa comprendere.” Sorrise Tom e stavolta Al non intervenne.
“Grazie fratellino.”
“Non l’ho detto io!”
“Non l’hai neanche fermato.” Rimbeccò ma la sua irritazione si sciolse come neve al sole quando Tom gli sorrise e lo fece come l’avrebbe fatto suo fratello. Per un attimo fu averlo davvero lì, in carne ed ossa. “… stai bene?”
Al, perché stavolta era lui, annuì. “Me la cavo.”
“Sei stato un coglione.”
“Lo so.”
“Quando torni ti ammazzo.”
“Ti voglio bene anche io fratellone.”
James inspirò per ricacciare indietro il groppo alla gola. “Cazzo, è orrendo sentirselo dire da Faccia da Morto.”
Al rise, ma poi fu Tom a servirgli un’espressione disgustata. “… la cosa è reciproca, credimi.”
 
“Ehi!” Lily era entrata per prima nella stanza, un turbine di capelli rossi, mantello e energia immotivata dato che ne era certo, doveva aver dormito persino meno di lui. Seguivano la Guaritrice Patil e Scorpius, che occhieggiava da sopra la testa di entrambe. “… ha funzionato?” Non aspettò risposta e si aprì in un sorriso trionfante. “Ciao Al!”
“Ciao.” Ricambiò il fratello con un cenno imbarazzato della mano. “… come va?”
“Come vai tu? Come ti senti? Come … stai bene? Cosa vedi?” Lo tempestò di domande.
Tom alzò gli occhi al cielo. “Stiamo bene. Vede quello che vedo io. Al contrario, non sto ancora vedendo niente. Abbiamo deciso di tenere gli occhi chiusi finché non abbiamo completo controllo della cosa. Pensano che Albus stia dormendo. Adesso siamo nella stiva.” Una pausa. “Nell’infermeria in realtà…” Concluse la voce di Al. “Nella stiva hanno allestito un Laboratorio di pozioni e un infermeria dove trattare gli Infetti.”
“Vedo che sta funzionando come si deve.” Intervenne la Guaritrice con aria soddisfatta. “… avete incontrato difficoltà?”
“No. L’incantesimo era semplice.” Questo era Tom. “… però è strano. È come se potessimo controllare un corpo alla volta.” e quello era Al.
La Guaritrice gli si avvicinò, controllando con solerzia i parametri vitali con colpi rapidi di bacchetta. “Sì, è normale.” Confermò. “Le vostre menti adesso sono unite, ma non il corpo. Questo significa che ne potete muovere uno per volta. L’altro rimarrà immobile. Può vedere e sentire tutto, ma è come paralizzato. Chiudendo gli occhi come adesso, il corpo secondario sembrerà addormentato.”
Tom aprì e chiuse la mano. “E se uno di noi dovesse decidere di alzarsi e l’altro volesse rimanere seduto?” Chiese.
“Provate.” Li incitò la strega.
Il risultato fu abbastanza esilarante, perché sia lui che Scorpius dovettero trattenere una sghignazzata mentre l’altro si alzava e poi barcollava come un ubriaco, finendo per sedersi all’indietro come se avesse perso l’equilibrio.
Lily stranamente non rise, guardandolo invece assorta.
“Non fatelo.” Concluse la Patil con semplicità. “Accordatevi prima su chi ha controllo del corpo primario. Avete una connessione mentale perfetta, potete decidere in una frazione di secondo.”
Tom annuì. “Ci sono delle cose che Harry deve sapere.” Disse poi. “Gliele puoi riferire tu?” Gli si rivolse.
“Sto qui apposta!” Prese il taccuino dalla tasca dell’uniforme. “Spara.”
 
Lily ascoltava avidamente quanto Al aveva da dire sulla situazione sulla nave guidata adesso da Luzhin. Ascoltava, e sperava di sbagliarsi.
Perché non una sola volta suo fratello, tramite Tom, aveva parlato di Sören. Aveva descritto Luzhin, la sua forza, il suo arsenale di Infetti e le sue possibili intenzioni. La morte di Doe.
Finalmente. Finalmente è morto …
Ma Ren …?
Fu James a fare la domanda. “E il pipistrello? Dove lo tiene Luzhin? Assieme a sua madre?”
Al sparì. Letteralmente, l’espressione si tramutò in quella di Tom, e Lily seppe che era per paura.
“No.” Disse questo con calma. E la guardò.
Le bastò quello per capire. La testa le ronzava e non aveva idea di come riuscisse a restare in piedi o anche solo a respirare. Il ronzio sovrastava persino i battiti furiosi del suo cuore. Percepì la mano della Patil sulla spalla. “… è morto, vero?”
Tom rimase in silenzio, l’espressione combattuta. In qualche modo comprese che sia lui che Al stavano cercando di prendere il controllo. Fu suo fratello a vincerlo. “Luzhin lo ha buttato fuori dalla nave con un incantesimo che non avevo mai visto … ma non l’ho visto cadere in acqua, né morire. Potrebbe essere ancora vivo.”
“E come ha fat-…” Suo fratello fu bloccato da qualcosa, forse un’occhiataccia di Scorpius visto che gli stava affianco. “Lily!
La voce di James la inseguì mentre scappava da quella stanza, da quel reparto e infine dall’ospedale.
Scappare era un ottimo piano quando sembrava crollarti tutto addosso.
 
****
 
Da qualche parte, nel Mare del Nord ...

Non mollare la presa.

Non c’era altro nella sua testa, se non quel comando. Ed era sempre stato bravo ad obbedire agli ordini, anche se venivano da sé stesso.
Non mollare la presa.
La mano minacciava di scivolare, tra il sudore, il sangue e il fatto che la sua bacchetta non avesse mai avuto un manico particolarmente nodoso.
Non mollare la presa.
Ma rimaneva la sua bacchetta, ed aveva risposto pronta ai comandi quando aveva lanciato un laccio di magia, nel momento stesso in cui l’incantesimo di Luzhin l’aveva scaraventato fuori.
Non mollare la presa.
Il laccio si era legato stretto alla balaustra del ponte, una ventina di metri sopra di lui.
Non mollare la presa.  
Non poteva, non voleva guardare quel braccio perché sapeva cosa ci avrebbe trovato, e il fatto che il dolore non fosse ancora arrivato glielo confermava soltanto. Sentiva il cuore in gola e regolarizzare ogni respiro era uno sforzo immane.
Non mollare la presa.
Si morse la lingua per restare lucido; non poteva andare in shock, non in quel momento.
Tirati su. Usa la bacchetta e raggiungi il ponte.
“Carpe Retractum…” La fune di magia verdastra che fino a quel momento l’aveva tenuto sospeso sulla fiancata della nave cominciò a ridursi lentamente facendolo salire. Cercò di evitare di sbattere contro gli ostacoli della paratia, gli oblò e i tanti pezzi metallici sporgenti puntellandosi con i piedi.
Non mollare la presa.
La sua magia si stava esaurendo, ma non poteva permettersi di perderla o sarebbe caduto in mare. Sarebbe morto.
Non mollare la presa.
Un ultimo strattone, un ultimo sforzo e crollò sul pavimento di gomma incrostata di salsedine del ponte.
A quel punto lanciò uno sguardo verso quel braccio e trovò … niente. Un moncherino carbonizzato.
Serrò la mascella e lasciò andare un grido rauco, soffocato dal mugghiare del mare e dei motori della nave. Il dolore arrivò come se un Ippogrifo avesse cominciato a banchettare con la sua carne viva.
Luzhin gli aveva lanciato un incantesimo Reducto, così potente che l’avrebbe disintegrato all’istante se non avesse usato la bacchetta che la Thule gli aveva messo nel braccio per proteggersi con un Sortilegio Scudo.
Era vivo, ma aveva dovuto pagare a caro prezzo la sua sopravvivenza.
Non andare in shock. Non svenire.
Doveva muoversi in fretta perché i primi brividi lo stavano scuotendo: tagliò una striscia di stoffa dalla manica rimasta integra e con un Ferula la annodò stretta attorno al moncherino. Poi vi puntò la bacchetta “Stupefiucium.” … e lo Schiantò: avendo bloccato la circolazione del sangue lo Schiantesimo agì soltanto sulla spalla e sulla ferita; inspirò ampie e lente boccate d’aria mentre il dolore scemava lentamente, come la marea si sarebbe ritirata da un’insenatura. Era una vecchia ricetta di Doe, avrebbe funzionato per quello che doveva fare.
Si rialzò in piedi stringendo gli occhi e aggrappandosi con il braccio sano alla balaustra del ponte. Era sveglio, ma intorpidito e con le energie ridotte al minimo: avrebbe comunque dovuto bastargli.
Trova la sala radio. Attiva il gps.
Il piano non era cambiato. 
 
****
 
Note:

Non odiatemi. Così, a prescindere <3
Questa la canzone del nuovo capitolo. Perché Chaz mancherà a tutti, un sacco.

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Capitolo 69
*** Capitolo LXVIII ***


Capitolo LXVIII
 
 
 
 
 
 
Forget the poems of saints and ghosts
I'm the one I fear the most
(What’s wrong, Pvris)
 
 

Da qualche parte nel Mare del Nord …
 
 
Spalancò la porta con un Alohomora che quasi la scardinò. Arrivato a quel punto, Sören non riusciva a capire se era l’adrenalina a tenerlo in piedi, e mandare quindi fuori controllo la sua magia, o la disperazione di percepirsi sempre più vicino al perdere i sensi.
Non aveva importanza; era arrivato alla plancia di comando.
Il radar.
Cercò con lo sguardo una console familiare; fortuna voleva che Boston fosse una città portuale e gli era capitato di salire a bordo di navi Babbane per lavoro. Per questo motivo il Comandante Gillespie gli aveva fatto seguire un corso per identificare gli elementi principali della strumentazione di una nave.
Focalizza.
Strizzò gli occhi mentre il sangue gli rombava nelle orecchie. Il dolore al braccio mancante era sordo, ma pulsava sempre più vicino. Avrebbe potuto Schiantare nuovamente l’articolazione per trovare sollievo, ma le fitte lo tenevano lucido.
Concentrati.
Finalmente, tra pulsanti freddi, schermi morti e led spenti individuò ciò che cercava. Dovette puntellarsi al bordo per non crollarci sopra, ma l’aveva trovato; il radar, con il suo trasponder AIS. Avrebbe dovuto far funzionare entrambi per far tornare la nave tracciabile.
 … è tutto spento.
Ma erano lontani dalla stiva e dai laboratori. La magia non poteva aver fatto così tanti danni, non fino a lì.
Il che significava che la corrente era stata interrotta. Girò lo sguardo sull’ambiente circostante e individuò il quadro elettrico, ben segnalato da una serie di targhe e simboli.
… Estevez faceva sempre una battuta …
Non la ricordava e distrarsi era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Concentrati.
Aprì il quadro e strinse tra i denti un’imprecazione; non funzionava nulla perché Doe, o chi per lui, aveva pensato bene di friggere l’intero circuito con un incantesimo offensivo.
… Posso rimediare.  
Ignorò l’improvvisa scarica di dolore che lo attraversò come un coltello. Anzi, la fece sua.
Il dolore, serviti del dolore principino.
È tutta la concentrazione di cui hai bisogno.
Ad pristinum status reformet.” Mormorò e dalla bacchetta uscì un filo sottile e argentato; le magie più complesse non avevano effetti speciali. L’incantesimo, come in un nastro magnetico, riavvolse il tempo su se stesso facendo tornare il quadro elettrico al suo stato originario: cioè funzionante.
Udì, come musica una serie di segnali sonori, prova del fatto che l’elettricità era tornata a scorrere nel posto giusto.
Il radar. Il transponder.
Le gambe gli cedettero di colpo e cadde in ginocchio.
Funziona?
La vista gli si offuscò, ma fece in tempo a vedere la schermata di avvio accendersi; non ne capiva molto, in quelle cose era sempre stato più bravo Rico, ma era ancora in grado di   leggere.
Funzionerà.
Sorrise, perché il suo compito era terminato; sarebbero venuti a salvare Albus e sua madre ed Harry Potter avrebbe assicurato alla giustizia Luzhin e i suoi seguaci.
C’era riuscito, ma non gli importava di fasti o onori, né della redenzione che aveva cercato disperatamente in quei cinque anni. Non gliene importava nulla.
Vorrei solo rivederti, Liebchen…
Per favore, … per … favore …
Posso rivederla?

 
 
 
 
****
 
 
Londra, Diagon Alley.
Laboratorio della Weasley MagiTech

 
Hugo si strofinò una mano sulla faccia: come ogni volta si irritò trovando ruvido solo in alcuni punti: il DNA familiare non lo aveva graziato di una barba folta come quella suo padre né indomabile come quella di Jamie, ma piuttosto una specie di roba a chiazze che lo faceva sembrare uno sbarbato.
Lily sosteneva che in effetti era proprio quello, ma non l’aveva mai ascoltata.
Comunque non poteva evitare di tormentarsi quei tre peli in croce che si trovava, perché erano ore che stava combattendo contro il sonno.
Il fastidio era un modo come un altro per rimanere sveglio.
“Capo, ma una dormita?” Suggerì Robyn, l’unica ad essere rimasta, al momento raggomitolata in una palla di felpa, jeans e briciole di barrette energetiche.
Se persino lei, che non riposava più di tre ore a notte, era stanca, forse avrebbe dovuto capitolare.
Lanciò un’occhiata ad Ama; non si era allontanata dalla radio neanche per andare in bagno, e a nulla erano valse le sue rassicurazioni che il programma che girava sul computer di fianco a lei avrebbe fatto tutto il lavoro. Pareva fidarsi solo delle sue orecchie.
Non se la sentiva di lasciarla da sola.
Se è K.O. la metà di quanto lo sono io, potrebbe perdersi qualcosa. E ho idea che non se lo perdonerebbe mai…
Conosceva quel tipo di strega, era come sua mamma. Tutto il peso del mondo sulle spalle e la certezza che se qualcosa cosa andava storto nella sua orbita, beh, doveva per forza essere colpa sua.
Le allungò l’ennesima tazza di caffè, la quale venne degnata meno di un’occhiata. “Penso di averne bevute troppe.” Sospirò trovando comunque la forza di sorridergli. “Ma grazie. Potresti riposarti un po’ … Non serve che stia qui anche tu.”
“Due paia d’orecchie sono meglio di una, no?” Scrollò le spalle. “E poi non sono stanco.”
“Sei gentile, ma …”
“Dico davvero.”
Hugo lanciò un’occhiata a Robyn, che scosse la testa e alzò gli occhi al cielo in una mimica che proprio non capì. Preferì quindi sedersi di nuovo accanto all’americana. “Capisco che ti senti responsabile di Prince, eh.” Azzardò, perché se fosse riuscita a convincerla che la tecnologia avrebbe lavorato al posto loro l’avrebbe considerata una vittoria personale. E poi, in quelle ore, aveva ufficialmente sviluppato una cotta mastodontica per la persona che Ama si era rivelata, e non poteva farci niente.
Le donne forti, che pigne che mi danno …
Ama abbozzò una smorfia. “Sono pur sempre il sergente di quell’idiota. E l’ho autorizzato io a partire. Se non tornasse …”
“Potrebbero farti qualcosa? Tipo, di disciplinare?”  
Ama scosse la testa. “È solo che Sören…” Si morse un labbro. Aveva passato troppi anni a decifrare le smorfie di sua cugina per non capire il sottointeso.
Ah.
Eccheccavolo, ma cos’è, un magnete per le donne? Quello lì?
“… ti piace?” Domandò, ma all’aria oltraggiata dell’altra si sentì morire.
Oh porca puffola, ho sbagliato?
“No, cioè, è un tuo sottoposto okay, però Lily mi ha detto…”
“Tua cugina non sta mai zitta?”   
“No?” Offrì in segno di pace.
Ama serrò le labbra in una pura linea sottile di furia femminile, ma la stanchezza reclamò la sua attenzione, e finì per afflosciarsi. “… non lo so. Cioè, sì.” Si passò una mano tra i capelli. “È una storia inutile. È innamorato di tua cugina e mi sono fatta da parte. Non c’è altro da dire.” Concluse in tono deciso.
“Okay.” Annuì comprensivo mentre Robyn usciva dalla stanza alla ricerca dell’ennesima bevanda energetica o per dar loro un po’ di privacy. Non sapeva quale delle due fosse peggio.
Mi sono infilato in un ginepraio.
“… ma tengo ancora a lui.” Aggiunse piano. “È impossibile non preoccuparsi. Ci sono delle persone che non vorresti mai nella tua vita in pianta stabile, ma non puoi fare a meno di prenderti cura di loro. Un po’ come se fossero uccellini caduti dal nido troppo presto.” Sbuffò. “Scusami. Sto dicendo cose senza senso…”
“No, lo capisco invece.” Le toccò goffamente la mano. Era calda e liscia e quanto gli piacevano le mani delle donne. Ritirò subito la sua quando l’altra alzò lo sguardo, perché era meglio così.
Altrimenti la bacio. E proprio no.
“Cioè, per me … con Lily … è più o meno lo stesso.” Si schiarì la voce. “Si è messa nei guai un bel po’ di volte, soprattutto quando eravamo a scuola e qualcuno doveva badare a lei. Cioè, raccogliendo i cocci a cose fatte, non sono mai riuscito ad impedirle di fare niente … un po’ la conosci no?”
“Direi che mi sono fatta un’idea abbastanza chiara, sì.” Convenne con tono poco contento.
A Lils proprio non riesce di piacere alle ragazze …
“Anche se adesso abbiamo le nostre vite, è ancora così.” Continuò. “Sarà sempre così, credo. Ci sono delle persone per cui non puoi fare a meno di preoccuparti.” Concluse stringendosi nelle spalle.   
“Sei proprio una chioccia.” Alla sua faccia sbalordita ridacchiò. “Era un complimento Hugo.”
Se continui a dire così il mio nome, cacchio, puoi darmi anche del pollo.
“Forse ho preso da mia nonna. Dovresti conoscerla, è davvero…”
Un improvviso bip li fece sobbalzare entrambi. Nervi tesi o meno, Hugo sapeva benissimo cosa significava.
“Era …” Azzardò Ama, ma la fermò afferrandole la mano. Non la tolse neanche quando la radio cominciò a gracchiare quello che avevano aspettato da ore.
 
 
Ama si alzò dalla sedia come se si fosse trasfigurata in carboni ardenti. “La Marina l’ha localizzata. Prince c’è riuscito!” Disse prima di prendere la bacchetta, Appellare il mantello ed infilarselo. “Devo andare ad avvertire gli Auror.”
Hugo si alzò di rimando. “Vengo con te.”
“Non è necessario, hai già fatto tanto.” Gli occhi di Ama erano lontani, già su un campo di battaglia. Hugo riconosceva quella mimica perché l’aveva vista addosso a suo padre da quando era bambino.
“Non era una domanda.” Le servì di rimando e raddrizzò la schiena quando la vide aggrottare le sopracciglia contrariata. Doveva avere l’aria determinata o l’avrebbe lasciato indietro. “Non puoi ordinarmi di rimanere qui, sono tipo un civile, no? Faccio quel che mi pare del mio tempo libero.” Ringraziò con un cenno della testa Robyn, che senza dire una parola gli aveva portato il giubbotto.  
Se lo infilò ignorando il dolore alle spalle, dovuto a tutte quelle ore di raggomitolamento su una sedia estranea. La sua, bella e ergonomica, regalo di sua mamma, l’aveva lasciata ovviamente ad Ama.
Visto che deve andar a menare la bacchetta, meglio lei che me.
“Hugo, non ho tempo…”
“Dove devi Materializzarti?”
Ama, presa in contropiede da quella sua improvvisa energia volitiva (lo erano sempre tutte), lo guardò spiazzata. “San Mungo? Devo raggiungere James.”
“E te lo ricordi, dico, l’ingresso? Sei in grado di visualizzarlo in modo da arrivarci senza Spaccarti?”
Ama aprì e chiuse la bocca. Poi tacque. “No.” Ammise.
Oh, beh, pensavo di dover insistere di più …
“Ti porto io.” Le tese la mano. “Andiamo.”
Ama la afferrò e non se lo stava immaginando, Nossignore, la strinse più di quanto fosse necessario e okay, con il pollice gli stava accarezzando il dorso. “Sei un ragazzo pieno di sorprese Hugo Weasley.”
Si sentì avvampare come un gladiolo ma fu stoico. Come fece finta di non registrare lo sghignazzo soffocato del suo dannato braccio destro, ancora lì peraltro. “Uhm, sì.” Brontolò prima di concentrarsi sulle tre D: Destinazione, Determinazione e Decisione.
… e Dannazione alle donne bellissime!
 
Ama dovette ricordarsi che in effetti era ancora in servizio quando Materializzandosi al San Mungo si trovò praticamente tra le braccia di Hugo.
Che era più o meno alto quanto lei, ma aveva sempre avuto un debole per i ragazzi in apparenza mingherlini ma con le braccia abbastanza salde da reggere una strega come si doveva.
… e comunque era la stanchezza.
“Eccoci arrivati.” Disse Hugo facendo un cavalleresco passo indietro. Indicò la vetrina sporca che segnalava l’entrata dell’ospedale. “Ti hanno detto a che piano sta?”
“Credo a Lesioni …” ma prima che potesse davvero rifletterci, Potter uscì con un balzo atletico fuori dalla vetrina: riuscì a tirare indietro Hugo appena in tempo.
“Ohi!” Sbottò questo. “Jamie, ma che ca…”
“Avete visto Lily?” Chiese questo col fiatone. “L’avete vista uscire?”
… e adesso che ha combinato?
Si morse la lingua, che tanto era inutile far notare che in teoria c’erano ben altre priorità che andare alla ricerca di una ragazzetta cretina.
Ma tanto qui è tutto un grande affare di famiglia, no?
Potter si passò una mano tra i capelli. Scaricò il peso da un piede all’altro; di colpo non ci fu più traccia del mago sbruffone che aveva sempre conosciuto.
Una brutta notizia. Sta per darci una brutta notizia.
Ci si sarebbe giocata il distintivo. “Che è successo?”
“È una storia lunga, ma Prince è … insomma, è disperso, è caduto in mare.”
“In che senso?”
Forse non era il modo più corretto di formulare la domanda da come Potter la guardò stranito, ma quello che stava dicendo non aveva senso. “Come è caduto?”
“Albie è riuscito a mettersi in contatto con noi, e dice di averlo visto cadere … è stato Luzhin. È … Lily era presente e…” Si fermò squadrandoli come se per la prima volta si fosse reso conto di chi aveva di fronte. “Ma voi che ci fate qui?”
“Qualcuno ha attivato l’AIS … il sistema di posizionamento della nave.” Esordì Hugo lanciandole un’occhiata. “È stato Al?”
Domanda corretta.
“ … no? Insomma, ce l’avrebbe detto!”
“Allora è stato l’agente Prince.” Concluse Ama mentre il sollievo la invadeva. “Non c’è nessun altro nella nave che potrebbe aver fatto una cosa simile.”
Potter si grattò la testa. Rimase in silenzio il tempo per processare il tutto. Per fortuna era un tipo dal pensiero veloce, quasi quanto la bacchetta. “Merda, sì, credo … sì, dev’essere stato lui!” Si aprì in un sorriso genuino. “Quindi non è morto?”
“Se non l’ha fatto prima di cadere in mare, non avrà certo potuto farlo il suo fantasma.” Concluse spiccia. Non era il momento dell’incertezza, o della speranza. Dovevano agire. “La guardia costiera ha comunicato la posizione del cargo. Dobbiamo arrivare prima di loro.”
“Ricevuto.” James annuì, ma poi si voltò verso il cugino. “Gogo, tu …”
Il ragazzo colse al volo. “Penso io a Lils, voi andate.”
James gli diede una pacca sulla spalla. “Grazie.” Poi le si rivolse di nuovo. “Vado ad avvertire Malfoy, useremo il Camino dell’accettazione per arrivare al Ministero. Ci vediamo sotto.” Poi con un balzo fu nuovamente inghiottito dalla vetrina.
Ama fece per seguirlo, ma si fermò a metà strada. Prima di entrare in azione, c’era ancora qualcosa che doveva fare.
Hugo si infilò le mani nelle tasche dei jeans: era un movimento che doveva fare spesso perché erano tutte sformate. La cosa la riempì di tenerezza. “In bocca al Crup allora, eh … e cerca di stare attenta.” Borbotto impacciato: quello era un addio, realizzò Ama. Se tutto si fosse concluso quella sera non sarebbe passata da Londra che per prendere la sua roba.
… nel bene o nel male.
“Hugo … grazie di tutto.” In quelle ore si era sentita più ascoltata, capita e apprezzata che in tutto il suo soggiorno britannico, ma non glielo disse.
Come sua madre, sapeva quando invece era il momento di agire.
Si avvicinò, gli prese il viso tra le mani e lo baciò. Solo pochi secondi, non un bacio vero e proprio. Era piuttosto una risposta ad una domanda muta.
“Vienimi a trovare in America, ti aspetto.” Gli mormorò sulle labbra, prima di voltarsi e entrare in ospedale.
Se doveva salutare l’Inghilterra magica, era molto meglio farlo con un bacio e una promessa.
 
****
 
 
“Malfuretto, sono venuto ad avvertirti che abbiamo la posizione della nave, ma tu non vieni con noi.”
Scorpius inarcò le sopracciglia. Si scambiò uno sguardo con Tom … o con Al, non riusciva a ancora a capire chi dei due fosse in controllo. “Scusa Potterino?” Replicò facendo emergere tutto il suo tono Malfoy. “Da quando sei tu quello che da’ gli ordini?”
James come al solito arruffò le penne. “A parte che sono l’agente senior al momento…”
Era talmente prevedibile che gli venne voglia di abbracciarlo. O menarlo.
“Sì, di un anno, ma falla finita.” Scosse la testa. “Sono tornato in servizio per essere, in servizio, non per fare da balia a mini-Potter e Dursley … senza offesa ragazzi.” Aggiunse voltandosi verso Tom – il corpo di Tom? – che per tutta risposta fece spallucce.
“Qualcuno deve rimanere qui con …” James fece uno strambo cenno omnicomprensivo. “… non è che può essere lasciato da solo!”
“Per questo è al San Mungo, circondato da Guaritori e Psicomaghi.” Gli tenne testa senza distogliere lo sguardo; era quello il segreto con Potty, la battaglia di occhiate truci.
Se la vincevi, era fatta.
James stavolta tenne duro. “Malfuretto … hai appena scoperto di avere un figlio. Che cazzo fai?”
Scorpius strinse le labbra, punto sulla matrice di tutti i suoi dubbi. “Quello che vogliamo far tutti da mesi, sbattere al fresco i cattivi.” Rispose però, perché l’onestà era l’unica carta che gli restava. “E poi non ti lascio da solo, sei il mio partner!”
“Non sarò solo, avrò…”
“Vengo, non è in discussione!”
“Rosie…” James giocò l’ultima carta, ma a quella era preparato.
“Rose è d’accordo.” Incrociò le braccia al petto. “Non avrei potuto nascondere nulla alla mia mogliettina e madre del mio fagiolino.”
“Ti prego di non dire mai più una cosa del genere.” Mormorò Tom con espressione nauseata. “Ha un doppio senso imbarazzante.”
“Siete voi gay che pensate solo a quello.” Gli fece la linguaccia. “Comunque è stata proprio lei a dirmi di andare!”
 
 
Nella realtà le cose non si erano svolte proprio così.
Mentre i rispettivi genitori si stavano ancora raccapezzando di esser diventati di colpo parte della stessa famiglia – il che significava che suo padre e Ron si stavano lanciando occhiatacce dai lati opposti della piccola cappella dell’ospedale– Rose l’aveva preso da parte.
“Conosco quello sguardo.” Aveva detto prendendogli una mano. “Sei preoccupato per James e gli altri, vero?”
Scorpius aveva tentato di ribattere, ma non serviva. Con Rose non era mai servito.
“Mi sento meglio. Potrei tornare in azione e … beh, salvare vite, diventare l’eroe del giorno e baciare fanciulle in pericolo.”
Rose gli aveva stritolato la mano che teneva tra le sue. Ad un suo tenue lamento non aveva mollato manco per sbaglio la presa.

“L’ultima parte scordatela.”
La amava molto.

“Vorrei essere d’aiuto, ma rimarrò qui.” Concluse usando la mano che ancora si sentiva per posargliela sullo pancia. “Sono richiesto.”
Rose si sporse a baciarlo. Ne fu sorpreso prima di ricordare che ora erano ufficialmente sposati e poteva anche smettere di fare il fidanzato dalle intenzioni pure. Prima che potesse metterle una mano sul sedere e farsi Maledire dal suocero, Rose si staccò.
Oh, quanto adorava farle brillare gli occhi.
“Ce la possiamo cavare.” Disse con un sorriso che sfumò in un’espressione seria. “Jamie invece ha bisogno di te … mio padre e zio Harry hanno bisogno di te.”
“Rosellina …”
Gli prese il viso tra le mani senza dargli modo di ribattere. “È solo un prestito, Malfoy. Finisci questa storia … ma poi torna da me e da nostro figlio. E a noi che serve un eroe.”
Le sorrise di rimando, strofinando il naso contro il suo. Neanche gli importava di sentire borbottare di sottofondo papino Ron come una vecchia caffettiera. “Promesso, mia Lady.” All’espressione perplessa dell’altra sogghignò. “Lo sai che ora sei una Lady, vero? Hai sposato un futuro Lord!”
Rose roteò gli occhi al cielo. “Merlino me ne scampi, Malfoy. Se tanto mi dà tanto, sei tu a essere diventato uno Weasley.”
“Lord Weasley, suona bene!”  Le strizzò l’occhio. “Che dici, chiediamo ai signori laggiù cosa ne pensano?”
 
“… insomma, a mio padre è quasi venuto un infarto.”
“È un miracolo che non gli sia ancora venuto.” Commentò Tom. “Non preoccupatevi per me comunque.” E questo era Al. “Non appena tornerà Lily farà lei da staffetta tra me e gli Auror.”
Scorpius fece una smorfia. “… pensate davvero che Sören sia ancora vivo?”
Al annuì. Da quando James aveva dato la buona notizia era più presente. Era come se il sollievo gli avesse infuso nuove energie. “Finché siamo stati insieme non ci siamo neanche andati vicini, al locale dei radar. Non può essere stato nessun altro … anche se mi chiedo come abbia fatto a sopravvivere.”
“Ce lo spiegherà quando lo riporteremo indietro.” Tagliò corto James. “Malfuretto, fa’ come ti pare, vieni se vuoi venire.” Aggiunse brusco. “La tua salma al Ministero però non ce la riporto.”
Era più di quanto si fosse aspettato. “Prego, mio adorato Potty!”
“State attenti.” Sorrise loro Al. Poi l’espressione si indurì. Ovviamente, Tom. “… e sbrigatevi.”  
 
****
 
 
Londra, Piccadilly Circus.
Un pub qualunque.

 
Sua cugina Lily se aveva bisogno di spegnere il cervello non andava in un posto tranquillo.
No, andava in mezzo alla gente, possibilmente rumorosa e su di giri.
La trovò quindi seduta al bancone di un pub Babbano, a quell’ora strapieno di giovani lavoratori e studenti della City intenti a bere, chiacchierare e farsi sovrastare dal ritmo di musica martellante.
Hugo storse le labbra perché il pop Babbano gli faceva cagare quasi quanto quello magico.
Quasi. Peggio di quello magico non c’è proprio niente.
Lily era facilmente individuabile e non solo per i suoi capelli rossi semaforo, ma anche per l’inevitabile aura discronica che ogni individuo magico, per quanto integrato, emanava in posti esclusivamente frequentato da Babbani. Infatti accanto a lei si era formato una piccola bolla di vuoto, occupata soltanto da un uomo in giacca e cravatta che cercava di attaccar bottone.
Hugo sbuffò, perché in ogni posto c’era un tipi così, sordi ad ogni tipo di segnale.
Raddrizzò le spalle, che era un ruolo che aveva svolto troppe volte da studente per non ricordarselo a memoria.
“Ehi.” Lo apostrofò. Venne ovviamente ignorato.
“… e senti, non me lo vuoi proprio dire come ti chiami? Vorrei offrirti da bere, ma non è che posso farlo con una perfetta sconosciuta, giusto?” Ciarlò questo cercando di spostarsi nella linea di tiro dello sguardo della cugina. “Oh, ma mi ascolti?”
Hugo lo afferrò per una spalla. “No, non lo sta facendo e fidati, non lo farà qualsiasi cosa gli dici. Te ne vai adesso?”
Il Babbano si voltò, muscoli tesi ed espressione bellicosa, probabilmente corroborata dalle birre che si era scolato. “E tu chi cazzo sei?”
Lily diede un sorso al suo cocktail. “La mia guardia del corpo.” Rispose disinvolta. “E tu dovresti tornare da tua moglie, Jeb.” Sorrise. “È pure incinta.”
Jeb – che razza di nomi si davano i Babbani? - sbiancò, guardandosi attorno come se d’improvviso si potessero palesare telecamere e coniuge furiosa. “Tu … come …”
Hugo lo voltò misericordiosamente in direzione della porta. “Siamo agenti segreti.”
“Per conto di Sua Maestà.” Convenne Lily mentre le spuntava un piccolissimo sorriso all’angolo delle labbra.
"Sappiamo più di quanto dovremo di voi buoni cittadini.” Gli diede una consistente manata sulla schiena che lo fece sussultare. “Torna da tua moglie…”
“ … ti starà aspettando.” Suggerì Lily pescando una ciliegia candita dal bicchiere e mettendosela in bocca. “Si potrebbe preoccupare se non ti vede tornare.”
Una volta che Jeb fu fuori dai piedi, Lily fece una risatina. “Era tanto che non lo facevamo.”
Hugo annuì sedendosi sullo sgabello accanto a lei e afferrando il menù unticcio del posto. Tanto per fare qualcosa, sapeva già che avrebbe preso una birra.
Al diavolo l’orario, ne ho bisogno.
L’espressione della cugina si spense di nuovo. “Grazie per avermelo tolto dai piedi. Stavo per Affatturarlo.”
“Come ai vecchi tempi, no?” Ordinò con un cenno e poi si voltò verso di lei. “Che cacchio ci fai qui?”
“È un posto come un altro.” Gli rispose distrattamente. “Volevo ubriacarmi fino a perdere i sensi ma poi mi sono ricordata che non sono più quel tipo di ragazza. E tra l’altro non credo di avere abbastanza valuta Babbana con me.”
“Non lo sei mai stata.”
Lily gli strinse una mano, ma lo fece un po’ troppo forte, quindi trovò giusto ricambiare. “… che gran bugiardo. Dopo il diploma e senza lo sguardo giudice della buona Minerva non ero esattamente una santarellina. Ti ricordo Brighton.
Scosse la testa perché Lily si era sempre data troppi meriti quanti troppi difetti. Esagerare era nella sua natura. “Ti sei messa nei casini, ma hai sempre rimediato …”
“Forse stavolta non voglio.”
Visto come stavano le cose trovò giusto parlare senza troppi preamboli. “Sören è vivo.”
Lily non cambiò espressione come si sarebbe aspettato; niente salti sullo sgabello, niente abbracciarlo in pieno impeto gioioso. Le tremarono soltanto le labbra. “… per favore.” Mormoro così piano che dovette abbassarsi per riuscire a indovinare il resto. “… per favore non farlo.”
“Fare cosa? Non ti sto dicendo cazzate.” La ignorò perché davvero, Prince era vivo. Doveva esserlo o l’avrebbe ucciso lui. Quindi le vomitò addosso tutto ciò che sapeva. “Hanno appena attivato il gps della nave, e Al ha detto di non essere stato. È stato Prince. Forse era tutta una messinscena, forse non è caduto in mare, ma voleva solo allontanarsi senza farsi seguire dal nemico o roba del genere, no?”
No?
Lily non ribatté. Teneva gli occhi bassi, e questo gli faceva più paura di quella volta che era caduto da un albero e tutti attorno a lui avevano cominciato a piangere e gridare tranne James. “Freddo.” Disse invece.
“Che?”
“Ho avuto freddo, prima. Quando stavo aspettando il mio cocktail.”
“Aria condizionata?” Tentò come un idiota. “Lily, hai tutte le tue sensazioni e okay, ma …”
L’altra si voltò verso di lui con le lacrime che le rigavano le guance. “Siamo maghi, Hugo. Le nostre non sono mai sensazioni. Ho percepito questa … cosa … gelida che mi passava accanto e ho capito che … gli era successo qualcosa di brutto.” Si guardò attorno come realizzasse solo in quel momento dove si trovavano. “… e ho pensato che potevo mettere le radici qui, tanto non mi importava più di andare da nessuna parte. Senza di …” Le si ruppe la voce e scoppiò in un pianto dirotto.
Hugo le passò un braccio attorno alle spalle. “Sei a pezzi, okay? Lo siamo tutti … quel freddo, quella roba lì … ecco. Potrebbe essere qualsiasi cosa, potrebbe non voler dire niente.” Stava blaterando ma la sua diarrea verbale aveva sempre calmato sua cugina in qualche modo, quindi continuò. “Adesso schiodiamo, ci facciamo un paio di ore di sonno sulle brande del San Mungo e poi torni operativa.”
“ … hanno bisogno di me?”
Ecco la parola chiave per ogni Potter. “Sì, porca miseria! Al e Tom sono nello stesso corpo e, cazzo, è come una specie di golem di sarcasmo! Qualcuno deve tenerli a bada.”
Lily ridacchiò tirando su con il naso. Le passò un tovagliolino, con cui l’altra si tamponò le lacrime. “… credono davvero che Ren sia vivo?”
“Quello o il suo fantasma ha di nuovo reso il cargo visibile ai radar. Cioè, okay che siamo maghi e tutto quanto, ma i fantasmi non possono toccare roba solida quindi…”
Lily lo abbracciò di slancio, e visto che teneva la sua agognata birra in mano rischiò quasi di fargliela cadere. Le diede una pacchetta sulla testa, mostruosamente sollevato perché la crisi era rientrata. “Ecco, basta piangere, dai.”
“… grazie Gogo. Meno male che sei venuto tu a prendermi.” Gli prese una mano tra le sue con quell’espressione che aveva ridotto suoi coetanei, e non, ad un ammasso di gelatina senza volontà.
È un po’ un potere magico. Persuadere, tipo skills di DnD.
“James avrebbe preso a pugni quel coglione.” Convenne con una smorfia. Ridacchiarono assieme e fu come tornare bambini.
Era bello anche in momenti un po’ del cazzo come quello.
 
Uscirono dal pub mentre una pioggerellina fastidiosa rendeva Piccadilly Circus grigio e uniforme. Materializzarono un paio di ombrelli e decisero di comune e muto accordo di farsela a piedi fino al San Mungo.
… chissà se in America piove quanto qua.
Lily gli diede un colpetto con il gomito riscuotendolo dai suoi pensieri. “Ti è successo qualcosa di bello?”
“Non mi leggere!” Sbuffò arrossendo.
“Non l’ho mica fatto apposta. È che emani una scia di soddisfazione da qui al Devonshire.”
“È perché finalmente hanno riattivato il gps.” Mentì.
“No, non è per quello.”
E ti pareva.
Hugo sbuffò, ma non poté frenare un sorriso. “Finita ‘sta storia vorrei, tipo partire … fare un viaggio. Sto pensando a questo.” Non era così scemo da vuotare completamente il sacco, anche se moriva dalla voglia di farlo. Primo, perché non era il momento giusto, secondo perché Lily era anche amica di Gail.
E non voleva pensare a Gail. Perché pensarci era realizzare che non stava pensando a lei da quando Ama era entrata nel suo laboratorio e cacchio era troppo presto e troppo poco per farsi dei film mentali.
“Mi sembra una buona idea.”
Esitò, perché nonostante tutto aveva bisogno di un parere. “… dici?”
“Credo tu conosca già la risposta.” Lo prese a braccetto con un sorriso. “Qualsiasi cosa tu voglia fare, Gogo, io sarò sempre dalla tua parte. Codice Potter-Weasley, giusto?”
Sorrise di rimando. “Giusto.”
Spalla contro spalla affrontarono la stupida pioggia londinese.
 
****
 
 
Mare del Nord.
Coordinate: N°59 55’ 33 64
E001° 17’ 44 94

Ultimo aggiornamento alle 11:01 UTC
 
 
“Sveglialo.”
Un momento prima stava riposando sul letto del San Mungo, quello dopo Al si era di nuovo svegliato nel suo corpo, sulla nave.
Inghiottendo una boccata d’aria e qualcosa che decisamente non lo era tossì, alzandosi a sedere.
 
Cosa ci hanno dato?
 
Tom nella sua testa suonava infastidito. Come biasimarlo?
 
Probabilmente dei sali. E hanno esagerato.
Sbatté le palpebre per mettere a fuoco l’ambiente. Loher era al suo fianco, con una boccetta in mano e l’espressione sollevata.
Non la capì finché non guardò davanti a sé. Luzhin gli torreggiava sopra. D’ istinto si ritirò fino a sbattere la schiena contro la testata metallica del letto.
 
È lui?
 
Annuì impercettibilmente, prima di maledirsi; non doveva in nessun modo far capire che sentiva delle voci nella testa; se fossero stati Babbani non sarebbe stato un problema, ma la magia aveva modi tutti suoi di comunicare.
Luzhin comunque parve non aver notato la cosa perché gli sorrise. “Ben svegliato Albus. Ci sei mancato.”
“… quanto sono rimasto svenuto?” Chiese per prendere tempo. A parte Loher e Luzhin erano soli; non vedeva Sophia o i Mercemaghi. Guardando meglio vide, nella due file di lettini accanto a lui, una mezza dozzina di uomini addormentati.
I Mercemaghi … li ha già sottoposti al Demiurgo?
“Troppo.” Rispose il tedesco. “Alzati.”

Cosa facciamo?
 
Non avrebbero fatto niente, decise; non finché non avesse avuto una panoramica completa della situazione e soprattutto informazioni sulla madre di Sören.
“Dov’è Sophia?”
Luzhin non gli rispose. “Vuoi che ti costringa?” Gli domandò invece. “Alzati.”
Gli obbedì ignorando il tentativo di aiuto da parte di Loher come la scarica di rabbia che percepì da Tom; aveva paura, una paura maledetta che gli strisciava dentro e non avrebbe fatto niente di stupido o di eroico. Solo la presenza di Tom gli impediva di rintanarsi sotto il letto come un ragazzino terrorizzato.
 
Va bene, allora fatti dire cosa vuole …
 
“Perché non mi hai ancora ucciso?” Mormorò. “Potresti, hai ucciso Prince e lui era un avversario di gran lunga più forte di me…”
“Hai detto bene, Potter, avversario.” Si strinse nelle spalle. “Tu, come il buon dottore qui, non lo siete.” Fece una smorfia divertita. “Come potreste? Avete la forza magica di un insetto a mio confronto.”


… ne è proprio sicuro?
 
Strinse le labbra perché Tom prevedibilmente si era sentito punto sul vivo.
Non è il momento! E soprattutto, non è la persona giusta con cui fare a gara a chi ha la bacchetta più lunga!
 
“Va bene … ma a cosa ti servo? Non me l’hai ancora spiegato. Non in concreto almeno.”
“Sì, è vero.” Luzhin parve trovare sensata quella sua richiesta. O forse adorava ascoltarsi parlare.
 
La seconda.
So riconoscere un megalomane quando ne vedo uno.
 
“Devi aiutarmi a creare un esercito. Il mio esercito.” Indicò con un cenno della testa i Mercemaghi. “Con il Demiurgo saranno in grado di esprimere il loro vero potenziale e per assicurarmi che ciò accada ho bisogno anche del tuo cervello. Per questo sei ancora vivo.”
Al guardò verso i lettini. “… non sono stati infettati, vero? Sono sani.”
“Come lo ero io.”
… fantastico.
“Quello che è successo a te potrebbe non ripetersi.” Cercò di spiegargli. “Potrebbero non reagire nello stesso modo, non sono stati fatti test, e non c’è una statistica tale per cui…”
Luzhin lo fermò con una mano. “Le perdite nella ricerca della grandezza sono un prezzo inevitabile da pagare. È necessario iniziare. Loro saranno semplicemente i primi, ma ne arriveranno altri.”

Ricerca della grandezza? Altri? Di che diavolo sta parlando?
 
Al frenò ancora una volta Tom dal prendere il controllo mascherando il suo tentativo con un colpo di tosse. Lo percepiva agitarsi di minuto in minuto, ma non poteva rischiare di infastidire Luzhin lasciandolo parlare a briglia sciolta.
Diamogli corda, non diamogli contro.
“… e a cosa ti servono?” Guardò verso Loher per capire se era già a conoscenza di qualcosa. Lo vide meno spaventato, più simile al Pozionista e allo scienziato che avrebbe dovuto essere invece che la vittima di una serie di circostanze. Sembrava anche sobrio.
 
Non mi avevi detto che aveva paura di Luzhin? Sembra non averne più …
 
Tom aveva ragione. “Hai intenzione di invadere qualche Ministero?” Domandò con il tono più preoccupato che gli riuscì. “Il nostro?”
 
Deve solo provarci …
 
Luzhin fece una breve risata, seguito da Loher. “Come se mi interessassero i ghetti istituzionalizzati dove ci siamo sempre rinchiusi per sfuggire ai Babbani … A che mi serve il controllo di uno o dieci Ministeri?”
Tom, che forse più di lui detestava la retorica, specialmente quando doveva subirla, sbottò. “Non lo so, a cosa ti serve un esercito? Cerchi di compensare qualcosa?”
 
Tom!
 
Luzhin aggrottò le sopracciglia perdendo il sorriso “Non ho bisogno di compensare niente. ” Di colpo lo afferrò per un braccio e se lo spinse contro. “Mi sembra di averlo dimostrato. Non mi farai rimpiangere di averti dato una possibilità, spero.”


Non. Toccarlo.
 
La sua mano, controllata da Tom, andò alla bacchetta ma ovviamente non trovò nulla sotto il braccio, dove solitamente l’altro teneva il fodero quando non indossava cappotti.
 
Io non la porto lì, scemo! E poi me l’hanno sequestrata!
 
Luzhin vedendo il gesto andare a vuoto e il successivo panico sogghignò. “… ho letto del coraggio dei Potter, ma pensavo avesse saltato una generazione. Vuoi davvero scontrarti con me?”
“… no.” Mormorò abbassando lo sguardo. “No, non voglio. Scusami.”
Tom, sta buono.
Il compagno emise un suono frustrato ma si ritrasse lasciandogli di nuovo il campo; era il suo modo di reagire alla paura, ma in quel momento non stava aiutando.
Lasciami fare.
 
… per dare spago ai suoi deliri?
 
Non sono deliri.
Sì, Luzhin aveva inizialmente perso il controllo massacrando i compratori per il puro gusto di farlo e quello era un modus operandi da psicopatico. Ma Albus l’aveva anche visto in azione, durante il suo rapimento e nello scontro con Sören.
Non è fuori di sé. Sta facendo tutto questo per un motivo!
 
Allora fattelo dire.
Perché se Harry e gli altri arriveranno non dovranno trovare sorprese.  
 
Felice di non percepirlo più contrariato – il che si traduceva in una capacità di parlare più liberamente – guardò il tedesco di sottecchi. “… però vorrei capire che hai in mente.”
“Perché dovrei dirtelo? Non ho bisogno di convincerti, posso costringerti.” Argomentò. “Come ti ho costretto a seguirmi.”
“Veramente ho deciso io di venire via con te … ti avevano ordinato di prendere il CapoGuaritore Finnigan.”    
Luzhin parve riflettere su quell’affermazione “Invece ti sei offerto.” Convenne. “Un gesto avventato. Non sei coraggioso … mi chiedo perché tu l’abbia fatto.”
“Non era coraggio, era calcolo.” Ribatté anche se non era del tutto vero. Ma non si sarebbe psicoanalizzato di fronte a due sconosciuti. “Seamus rischiava di morire … lo sappiamo tutti come lavorava Doe. Io invece sono il figlio del Salvatore, potevo essere merce di scambio, avevo più probabilità di uscirne vivo.” Fece una smorfia. “Ma le carte in tavola sono cambiate, vero? Per me hai altri piani.”
 
Che stai facendo?
 
Gli do quello che vuole.
Luzhin stavolta non lo aggredì. Sembrava invece ascoltarlo. “Ti ho già detto cosa voglio che tu faccia. Non ti basta?”
“No, perché puoi spaventarmi fino a farmelo fare, ma non potrai fidarti di me. Se … se vuoi il mio cervello, forse ti conviene che stia dalla tua parte.”
“E lo faresti? Dopo che ho ucciso Prince davanti ai tuoi occhi?”
 
… stai cercando di fargli credere che puoi essere comprato?
 
No, non comprato.
Ma deciso a tirare fuori il meglio dalle circostanze quello sì; era ora di incarnare lo stereotipo del serpeverde brutto e cattivo.
“Sören ha avuto tante occasioni per salvarmi, ma era così ossessionato dal catturarti che ha messo la mia sicurezza in secondo piano ….” Inspirò, cercando di ignorare la sua coscienza. “… ho capito che se voglio uscirne vivo devo chiedere a qualcun altro.” Lo guardò negli occhi il tempo necessario per sembrargli deciso. Chiese aiuto a Tom e fu lui a sostenere lo sguardo. “Devo chiedere a te.” Tom modulò la sua voce in quel tono calmo e suadente che usava solo quando voleva convincere qualcuno a fare qualcosa per lui. “Tu sei diverso … non sei come lui.”
La retorica del fiocco di neve speciale funziona con tutti. Specialmente con chi ci si sente davvero.
 
… è un riferimento velato al sottoscritto?
 
Naturalmente lo era, ma non diede risposta al compagno, preferendo prendere il comando perché vedeva che il tedesco continuava ad ascoltarlo, gli occhi fissi su di lui.
 
Continuiamo?
 
… sta funzionando, no?
“Con la tua attuale capacità magica potevi Materializzarti sulla terraferma. Scappare. Potevi sostituirti a Doe e vendere il Demiurgo ai compratori, se erano i soldi quello a cui miravi. Invece sei rimasto e vuoi che crei un esercito per te. Sören diceva che volevi vendetta… ma non è questo. Punti a qualcos’altro … e visto che adesso sembra che ne faccia parte non mi sembra così pazzesco volere sapere di che si tratta.” Concluse.
Luzhin rimase in silenzio per un momento che gli sembrò davvero troppo, troppo lungo.
… se l’è bevuta?
Poi si guardò con Loher e Albus capì che aveva finalmente trovato la chiave di lettura giusta. “Possiamo dirglielo Herr Luzhin!” Annuì il pozionista. “Potter è un uomo di ricerca, come noi. Può capire.” Fece una breve risatina. “… e poi non è come se potesse andarlo a raccontare a qualcuno, no?”
 
… ed è qui che ti sbagli.
 
“Dopotutto, è nato nelle sue terre.”

Le tue terre?
 
Le nostre. Credo stiano parlando della Gran Bretagna …
Tom non ribatté, confuso quanto lui; non restò loro che aspettare che Loher riprendesse la parola. Lo fece ad un cenno della testa da parte di Luzhin.  
“Te ne ho già parlato. L’Orbis Alius ragazzo. È quello a cui puntiamo.”
Al ricordò nebulosamente che il Pozionista lo avesse fatto, ma lo aveva classificato come un delirio da alcool e l’aveva archiviato senza troppi pensieri.
“… Orbis Alius?” Ripeté incerto. “E cosa…”

Vuol dire “altro mondo” in latino.
 
“… sarebbe?” Terminò ignorando l’input di Tom, che persino in quelle situazioni doveva far sfoggio della sua erudizione. “È un incantesimo?”
“È un luogo.” Lo corresse Loher. “I Babbani lo credevano l’aldilà celtico, un modo per contraddistinguere l’oltretomba o il mondo degli dei … un luogo di eterna giovinezza, felicità e pace.”
“… un luogo di fantasia insomma.” Concluse lentamente; okay, forse Tom aveva ragione, stava parlando con due persone ormai al di là della ragione e del buon senso. Stava trattando con dei pazzi.
 
Aspetta. Fammi parlare.
 
Albus esitò, ma a Tom bastò quello per prendere la parola. “… come Avalon?”
Loher emise un suono soddisfatto. “Esatto! I Babbani lo chiamavano così, oppure Annwn o Tír na nÓg … ha molti nomi, tante quante sono le culture del mondo. Ma chi ne ha parlato maggiormente sono stati proprio i vostri Babbani con le loro leggende arturiane!” Si voltò verso Luzhin. “Le ho lette da ragazzo, piuttosto divertenti … anche se hanno completamente travisato la figura di Merlino. Un mago che serve un re babbano dei tempi antichi … figurarsi!”
“Appunto, è un’opera di fantasia.” Tom mantenne il punto con invidiabile calma considerando che stavano teorizzando di raggiungere l’aldilà.
… e visto che l’unico modo per arrivarci è morire, anche no.
 
Sta calmo.
Ho letto un libro che ne parlava. Non significa solo altro mondo …
 
“Per i Babbani, certo.” Ribatté il tedesco arricciando le labbra in un sorrisetto di superiorità. “… ma del resto, per loro anche il Mondo Magico è un Orbis Alius. Per loro, non siamo che materiale da romanzi come li hai chiamati? Fantasy. Ma la realtà è un’altra … i maghi esistono, il Mondo Magico esiste …”
“Il regno della magia pura.” Intervenne Luzhin. “Esiste anche quello.”
“Quello in cui viviamo noi è il mondo magico.” Si inserì Al. “Non ne esistono altri.”
Giusto?
Tom non gli rispose. Era ovvio che stesse elaborando le informazioni ricevute ma il suo silenzio lo sconcertava più delle teoria strampalate dei due tedeschi di fronte a loro.
Tom?
 
Non ho idea di cosa stiano parlando. Orbis Alius può voler dire anche altro luogo, ma è dovuta ad una disambiguazione letteraria.
Alcuni studiosi di mitologia pensano che etichetti l’aldilà, altri semplicemente luogo nascosto, ignorato dalle mappe.  
… non so cosa intendano loro. Non li seguo.
 
“Il nostro mondo è contaminato da quello Babbano!” Sbottò Loher riportando l’attenzione su di lui. “Siamo assediati dalla scienza, dalla tecnica, dai loro stili di vita … tu stesso, Potter, guardati.” Fece un gesto omnicomprensivo e oltraggiato. “Indossi i loro vestiti, parli come loro, usi la loro tecnologia!”
“Hai una bacchetta, non ne avresti bisogno.” Continuò Luzhin con una smorfia. “Nessuno di noi lo ha. Eppure ci siamo fatti invadere.”


Si chiama progresso, imbecilli.
 
Al dovette nascondere un sorriso, perché Tom era il Purosangue più restio alla conservazione della razza che conoscesse. E la cosa, ogni volta, lo riempiva di una soddisfazione inspiegabile.
 
Ironico, non trovi?
 
Per niente. Tom aveva ragione; il progresso forse non era gentile, non lasciava il tempo di abituarsi e spesso ti prendeva in contropiede. Però permetteva di scoprire, e conoscere, tanto.
Non avrebbe mai voluto tornare ad un mondo di tuniche, diffidenza e totale chiusura.
… in quel mondo poi dove lo troverei il sushi?
“Non la chiamerei proprio invasione … anche perché i Babbani non ne sono consapevoli. Lo avete detto voi, per loro siamo fantasia.” Obbiettò timidamente. “… però è un dato di fatto che sono la maggioranza. È sempre stato così e lo sarà sempre di più…”
“Perché il nostro seme si sta indebolendo.” Convenne Luzhin. “… il nostro sangue è sempre più diluito, nascono sempre più Maghinò. Il Demiurgo, del resto, è nato proprio da questa esigenza.” Fece un mezzo sorriso. “Almeno all’inizio.”  
Okay, adesso non li seguo …
 
Riportali sull’Orbis Alius.
 
“… quindi il Demiurgo vi serve per andare in questo Orbis Alius?”
“È la nostra merce di scambio.” Rispose Luzhin. “… nient’altro.”
“Elias aveva trovato un modo per arrivarci.” Gli spiegò Loher. “Stava lavorando al progetto poco prima di morire. Sono stato così fortunato da ascoltare le sue confidenze al riguardo … allora ero poco più di un apprendista.” Si picchiettò la fronte. “Ma ascoltai. Mi parlò di un mondo fuori dallo spazio e dal tempo. Lì la magia ancora pulsa viva, come un cuore robusto.”
Al aspettò che Tom intervenisse, ma ancora una volta non ci furono input da parte sua. Era all’oscuro quanto lui. “… non ne ho mai sentito parlare.” Ammise a nome di entrambi.

Perché non esiste. Non credi che qualcuno ne avrebbe parlato? A scuola, nei libri? In Europa abbiamo tra gli studiosi di magia più conosciuti al mondo e nessuno ne ha mai fatto parola.
Pensi che Voldemort se lo sarebbe perso come argomento per fare propaganda?
O Grindenwald non avrebbe cercato di andarci?
 
Quello che diceva Tom aveva perfettamente senso.
… però ne sembrano così convinti…
 
“E quando sarete lì cosa farete?”
Luzhin, da seduto sul letto che era, si alzò in piedi di scatto e Albus non sussultò solo perché Tom era con lui, e aveva la capacità di ignorare la paura … o di fingere molto bene di farlo.
“Abbiamo detto abbastanza.” Disse con il tono di chi non voleva essere contraddetto. Loher infatti non aprì bocca, e così fece lui.
“Mettiti al lavoro.” Gli ordinò, voltandosi poi verso Loher. “Questa conversazione non dovrà continuare oltre.” Dopo un rapido cenno di assenso dell’altro tedesco si concesse un sorriso. “La fiducia va guadagnata passo per passo … non è vero Albus?”
“ … Certo.” Imitò il sorriso. “Grazie per avermene parlato.”
“Speriamo di non dovercene pentire.” Disse Loher. “… non si metterebbe bene per te ragazzo. Come vedi, siamo una piccola squadra, ma affiatata.” Lanciò un’occhiata adorante verso Luzhin, che ormai doveva ricoprire il ruolo di nuovo padrone da servire. “Servirai un grande progetto. Un’ideale. Seguici, e avrai una ricompensa inestimabile. Tradisci la nostra fiducia …”
“E andrai a far compagnia a Prince.” Terminò Luzhin senza troppi giri di parole.  
 
Dobbiamo avvertire Harry.
 
Albus guardò Luzhin andare via; non chiese dove si stesse dirigendo con quella fretta, non era così stupido dal tirare una corda già tesa.
… no, devi farlo tu. Se venissi con te dovrei addormentarmi e ora come ora sarebbe troppo strano. Devi andare da solo.
 
Al …
 
Albus percepì il malumore e la preoccupazione di Tom investirlo; non era un’emozione sua, eppure era come essere avvolto in un abbraccio. Spigoloso e troppo stretto.
Chissà se Lily si sentiva così ogni volta che toglieva l’orecchino di controllo. Chissà se anche per lei una sensazione in apparenza spiacevole poteva dare così tanto conforto.
Starò bene.
Si alzò in piedi e seguì Loher.
Non voglio servire nessun maledetto, delirante ideale. Voglio tornare a casa.
 
 
****
 
Note:
 
Per farmi perdonare, un bel po’ di trama!
Prossimo capitolo pura azione. E onestamente, spero di finirlo prima che i boccioli siano in fiore sui rami.
Perdonatemi.
Qui la canzone del capitolo.

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Capitolo 70
*** Capitolo LXIX ***



 
 
 
When I heard the thunder, I could feel the rain
(Into the Jungle, X Ambassador)
 
 
Mare del Nord.
Coordinate: N°59 55’ 33 64
E001° 17’ 44 94

Ultimo aggiornamento alle 1:01 UTC
 
Non c’era nulla di anormale in un cargo che solcava le acque del mare del Nord. Quello che era strano però, era la mancanza di delfini che solitamente amavano inseguire quei grandi pesci metallici.
Il cargo era diretto verso una destinazione che nessun uomo, dietro un radar, avrebbe saputo riconoscere.
Il cargo non aveva nulla di anormale, almeno all’apparenza.
Fino a quel momento.
L’occhio ignaro di un Babbano avrebbe visto soltanto un lampo di luce dorata, violento, barbagliare sul ponte del cargo. 
Quello che l’occhio di un mago avrebbe invece riconosciuto era l’uso di una Passaporta, inconfondibile soprattutto in pieno giorno.
Nulla cambiò sul cargo, che continuò la sua corsa verso la meta.
 
Ama strizzò gli occhi mentre teneva a bada l’ormai familiare nausea che la assaliva ogni qual volta doveva spostarsi magicamente su suolo britannico; la Materializzazione non era piacevole, ma le Passaporte erano persino peggio.
Almeno stavolta sono riuscita ad atterrare in piedi …
Si aggrappò con disinvoltura alla balaustra del ponte, fingendo di ispezionare l’intera area, anche se era evidente a tutti che fosse deserta; davanti a lei James Potter si stava sistemando i capelli mentre Malfoy tirò un respiro sospettosamente profondo.
“Dove siamo esattamente, che mi viene voglia di vomitare anche la cena di ieri sera?” Domandò disinvolto al Sergente Weasley, che ripose al sicuro il motivo del loro malessere, un orologio da taschino che toccò unicamente con un guanto e solo per metterlo nella tasca del mantello.
Si attiva con il tocco. Fantastico. Un metodo sicurissimo di viaggiare.
“Da qualche parte nel mare del Nord.” Rispose questo sfilando la bacchetta dal fodero. “Ci siamo tutti?”
Non commentò perché era davvero l’ultimo dei problemi di quel blitz.
A partire dal breve briefing con cui li avevano omaggiati prima di partire, Ama aveva subito intuito che l’intera operazione sarebbe stata condotta come erano state gestite le indagini che l’avevano vista coinvolta.
Come un affare di famiglia.
 
Il primo problema, si era detta, era sicuramente il fatto che Harry Potter in persona avesse preso il comando; l’uomo, che ormai come sua madre avrebbe dovuto avere un compito amministrativo, era sceso dal suo ufficio indossando l’uniforme d’assalto e questo non aveva lasciato dubbio sul suo ruolo, tanto che era stato accolto da applausi e schiamazzi da parte dei suoi uomini.
Il Sergente Weasley si era messo al suo fianco con la naturalezza di un secondo in comando e mentre gli agenti si facevano attorno in religioso silenzio si era schiarito la gola. “Harry, vuoi dire qualche parola?”
L’uomo gli strinse una spalla in segno di apprezzamento. Poi si voltò il proprio uditorio.

Devo ammetterlo …
Nonostante la bassa statura e i lineamenti ammorbiditi dall’età c’era qualcosa che l’aveva convinta ad ascoltare. Gli occhi, aveva realizzato, erano quelli; era come se tutta l’essenza di quell’uomo leggendario si condensasse là dentro.  
“Sapete che non amo i discorsi motivazionali, quindi la faccio semplice.” Aveva esordito. “Alcuni di voi sanno chi stiamo per affrontare, perché lo hanno cercato per mesi interi.” Si era rivolto al figlio e a Malfoy, che si erano scambiati un’occhiata prima di annuire come un mago solo. “Altri ne hanno solo sentito parlare. L’obiettivo, come sempre quando ci riguarda, è uno solo. Catturare il cattivo, salvare i buoni.” Un paio di risatine l’avevano fatto sorridere. Poi era tornato serio. “Non sono i soliti maghi oscuri quelli che ci troveremo davanti.”
“Ci sono dodici Mercemaghi, un Guaritore e Sören Luzhin, il mago dietro il rapimento di Albus.” Si era inserito il Sergente Weasley. “Albus ci ha detto che, come a Luzhin, a tutti i Mercemaghi è stato somministrato il Demiurgo, una versione stabilizzata, che permette loro di controllare l’aumento di magia … e agire di conseguenza.”
“È vero che hanno la forza di dieci maghi?” Aveva domandato un giovane auror che riconobbe perché aveva fatto parte della scorta di Sören. “Cioè … è una cazzata, giusto?”

“Perché non lo chiedi a Bobby Jordan?” Aveva ribattuto sarcastico James. “Sono sicuro che saprebbe dirtelo al volo.”
“La loro capacità magica è stata potenziata, sì.” Aveva confermato grave Ron, mentre il giovane Auror si era beccato uno scappellotto dal proprio responsabile, una strega dai brillanti capelli rosa cicca. “Non possiamo fare stime, ma non sarà uno scontro pari. Evitate assolutamente gli uno-a-uno.” 

Il mormorio che si era levato fu tacitato da un gesto della mano del Capitano Potter; davvero pendevano dalle sue labbra.
Almeno questo devo riconoscerlo. Ma basterà?
“Il vostro compito sarà di mettere in sicurezza i Mercemaghi. Solo in ultima istanza e solo se necessario colpite per uccidere.” Disse con tono definitivo. “Il vostro obiettivo sarà stordirli, togliere loro la bacchetta e metterli in un campo di stasi. A ciascuno di voi è stato consegnata una pergamena con l’incantesimo da usare. Confido che lo impariate in tempo.” Aveva fatto un sorrisetto ironico a cui era stato risposto con una serie di risatine; Ama aveva visto però più di un Auror affrettarsi a leggere la formula e ripeterla sottovoce con tanto di movimenti di bacchetta.
Il Sergente Weasley aveva quindi comunicato le assegnazioni. “Le squadre di Stump, la mia, e quella di Savage si occuperanno dei Mercemaghi. La squadra di Guglani si occuperà del recupero e messa in sicurezza di Albus.”
… e Prince?
Malfoy la precedette. “Mi scusi Sergente, e Sören?”
L’uomo esitò: era ovvio come il sole che non credesse alla teoria secondo cui il tedesco era sopravvissuto alla caduta in mare. “… Ci stavo arrivando.” Si riprese però. “Savage.” Chiamò il Sergente Caposquadra, che fece un passo in avanti. “A te la ricerca e messa in sicurezza dell’Agente Prince.”
“Ronald... con il dovuto rispetto, non abbiamo la certezza che l’americano sia ancora vivo.” Aveva ribattuto questo dopo un breve scambio di sguardi con i propri uomini; era l’unico team i cui membri esibivano tutti tempie argentate e cicatrici in più gradi di gravità. Dovevano essere i veterani. “Sarebbe azzardato utilizzare un’intera squadra solo per …”
“Le assegnazioni non sono negoziabili Peter.” L’aveva interrotto il Capo Potter con tono tranquillo, ma che lasciava trapelare come non si aspettasse ulteriori rimostranze.

Cosa che in effetti non avvenne anche se i volti corrucciati parlavano a chiare lettere.
… un momento. Manca il problema principale.
“E Luzhin?” Aveva domandato.  
Il Capo Potter l’aveva squadrata con espressione sorpresa, quasi ritenesse quella domanda superflua. “A lui penserò io.”
 
 
… eccerto. A lui penserà il Salvatore.
Un mago che mancava dalla prima linea da almeno trent’anni. Per un Auror equivaleva ad un secolo. Certo, Voldemort era materiale da leggenda, ma Luzhin non era nel passato.
È nel maledetto presente.
E le sembrava assurdo che nessuno avesse protestato all’idea che quell’uomo, da solo, affrontasse una belva del genere.
“Conoscete le vostre assegnazioni. Muoversi, ora!” Esclamò il Sergente Weasley riscuotendola dai suoi pensieri. Ama seguì James Potter e Malfoy, che a loro volta erano stati annessi alla squadra di Weasley vista l’inferiorità numerica. Si mossero in fila indiana come un unico uomo fino a che non furono al secondo piano del cargo. 
Gli unici rumori erano i cigolii delle giunzioni della nave e, lontano, il rumore delle onde: il corridoio di servizio che stavano percorrendo era illuminato soltanto dai neon delle luci di emergenza; era stato proibito di usare Lumos e la fluorescenza sui volti dei maghi faceva sembrare quel blitz una scena tratta da un film di fantascienza.
Alien …
Si concentrò sulla schiena fasciata dalla divisa dell’auror davanti a lei.
Per la prima volta in vita sua non stava pensando all’imminente scontro, anche se le mani le bruciavano per la voglia di lanciare incantesimi.
Prince …
Non si fidava della squadra che avrebbe dovuto trarlo in salvo; le espressioni con cui i membri avevano accolto il proprio compito avevano parlato chiaro. Non era sicura che avrebbero speso tutte le loro energie nella ricerca di un mago che credevano in fondo all’oceano. E se c’era una cosa che aveva capito degli Auror inglesi è che davano priorità assoluta ai propri compagni e non si facevano problemi a trasgredire gli ordini.
Sören non è uno di loro …
Era uno dei suoi. “Sergente.” Richiamò Weasley. “Se non le dispiace vorrei seguire la squadra del Sergente Savage.”
Il mago la guardò sorpreso, ma poi si lanciò un’occhiata con il nipote. “Sì, capisco.” Abbozzò un sorriso comprensivo. “I propri uomini prima di tutto.”
Appunto.
“Prince è una mia responsabilità.” Convenne, poi fece un cenno di commiato ai due giovani auror davanti a lei. “Buona fortuna.”
“Altrettanto! Trova il nostro tedesco preferito, okay?” Esclamò Malfoy stringendole la mano, mentre Potter aggrottava le sopracciglia come se volesse dirgliene quattro, cosa che non la stupì più di tanto.
“Grazie Scorpius.” Gli sorrise. Potter sembrò voler finalmente parlare, ma ci rinunciò voltandole le spalle e marciando via. “ … il solito costipato. Fa schifo in questo genere di cose.” Spiegò Scorpius con un sospiro. Poi le strizzò l’occhio. “Ci vediamo a terra!”
Ama rivolse un ultimo saluto al Sergente Weasley e poi seguì la squadra di salvataggio che l’aveva attesa all’imbocco di uno dei tanti corridoi che si snodavano lungo il piano.
Parlò prima che Savage, il classico agente vecchia scuola, taglio militare e gambe divaricate, potesse dar voce alla sua faccia scontenta. “Sono consapevole che il recupero del mio agente, se aveste potuto scegliere, non sarebbe stato tra le vostre priorità.” Doveva andarci piano; l’ultima cosa che voleva era inimicarsi la squadra di Auror che avrebbe dovuto pararle le spalle in caso di necessità. “Tuttavia è la mia. Aiutatemi a raggiungerlo, vi chiedo solo questo. Al suo recupero penserò io.”
Questo fece una smorfia. “Gli ordini sono ordini, Sergente Gillespie. Il Capo ci ha chiesto di trovare il ragazzo o quel che ne rimane, e così faremo.”  
“L’agente Prince è vivo.”
Lo sguardo che le venne rivolto era di sufficienza: non le credeva. Peggio, pensava si stesse impuntando. “Come vuole … Muoviamoci però, non abbiamo tempo da perdere.”
Ama non ribatté, seguendo i quattro uomini: aveva teso loro una mano, ma era stata rifiutata.
La qual cosa la preoccupava più che se fosse rimasta da sola in quell’enorme cargo pieno di ombre.
 
 
****
 
“Potty…”
James sentiva la presenza di Scorpius dietro di sé; e non solo perché era virtualmente a pochi centimetri da lui, ma anche perché gli stava sussurrando nelle orecchie con tanto di manina morta sulla spalla.
“… e non chiamarmi così! Almeno in azione!” Brontolò lanciando un’occhiata a Bhatt, l’Auror secondo in comando della squadra di suo zio; aveva una reputazione da difendere, soprattutto quando stavano andando in bocca al pericolo.
Essere chiamato come un suppellettile igienico non era come voleva essere ricordato casomai ci avesse rimesso le penne.
“Okay Potterino, ma senti … stai pensando quel che sto pensando io?”
James alzò gli occhi al cielo; stavano tutti procedendo in formazione compatta verso la parte più remota della nave, dove stavano i laboratori. Era pronto allo scontro, le orecchie erano tese nel captare ogni minimo rumore sospetto … e Malfoy, sciroccato come sempre, giocava agli indovinelli come se fossero al primo anno di Hogwarts.
“Che cazzo ne so che stai pensando?” Sibilò. “Falla poco lunga, dimmi che hai.”
“Sei preoccupato per Ama.” Lo disse come un’attestazione.
… e per Merlino, se aveva ragione.
Scrollò le spalle. “È una strega adulta. E poi è con la squadra di Savage … sono della vecchia guardia, gente tosta.”
“… la stessa gente tosta che mi chiama ancora Figlio di Mangiamorte alle mie spalle?” Chiese disinvolto. “La stessa gente che crede che il mondo finisca ai confini della Gran Bretagna e che chiunque non sia inglese non meriti la loro augusta protezione?”
Si voltò scoccandogli un’occhiataccia. Scorpius esibiva la solita faccia da schiaffi e quanto avrebbe voluto dargli un pugno. Perché stava dando voce ai suoi dubbi. “Dove vuoi andare a parare?”
“Dove volevano andare a parare le tue smorfie quando Ama ha deciso di andare a recuperare Ren da sola.”
“Non è da so…”
“Sì che lo è.” Il sorriso lasciò il posto ad un’espressione preoccupata. “Papino Ron li ha scelti perché sono decani e okay … peccato che Peter Savage sia il Sergente con il punteggio più basso in Recupero&Salvataggio.”
“E tu come lo sai?”
Scorpius si strinse nelle spalle. “Bisogna sempre conoscere i propri nemici … o chi ti sta sull’anima. Così al momento giusto puoi rovinarli. Me lo ha insegnato papà!”
“Tuo padre è agghiacciante.”
“Sì, gli voglio tanto bene.” Convenne allegro. “Allora che si fa?”
James si morse un labbro: una parte di sé voleva tornare sui propri passi, raggiungere Ama e salvare il culo al maledetto pipistrello; che al di là della preoccupazione per una strega che aveva imparato a suo modo a stimare, c’era la questione Prince; ora che se l’era preso sua sorella il figlio di Troll faceva parte della famiglia.
Gusti di merda.
Ma comunque rimaneva il fatto; la squadra di Savage avrebbe seguito gli ordini, ma se si fossero trovati di fronte un Infetto, ne era sicuro, avrebbero rincorso quella bandoliera senza troppi rimorsi.
… anche perché non c’è certezza che il pipistrello sia ancora vivo.
L’altra parte di sé però era con suo padre: l’uomo era ad inizio della fila, e li stava guidando seguendo un Incantesimo di Tracciamento che avrebbe portato dritto da Albus e, probabilmente, anche Luzhin e combriccola.
Suo padre, con l’uniforme da combattimento che gli cadeva un po’ larga sulle spalle e gli occhiali senza il quale era cieco come una talpa.   
Suo padre, il cui piano era lasciare il salvataggio agli altri, e il boss finale per sé.
E che avrebbe preferito morire, piuttosto che lasciare che uno di loro venisse ferito.
“Non posso mollare papà.” Sussurrò stringendo l’impugnatura della bacchetta. “Se, come ha detto Tom, sono tutti dentro al laboratorio, sarà un macello quando irromperemo e … devo assicurarmi che non affronti quel pazzo furioso da solo.”
“Ci sarà Ron, no?”
Scosse la testa, perché Scorpius era un novizio: aveva ancora una cifra da imparare sulle dinamiche che regolavano il suo multiforme clan. “Zio Ron è uno stratega.” Spiegò. “… pianifica, organizza, supervisiona. Farà in modo che il blitz funzioni, che tutti facciano quello che devono … come su una scacchiera. Papà …”
“Gioca ad un gioco diverso.” Concluse Scorpius con un sospiro. “Non te la prendere amico, ma a volte mi chiedo come diavolo sia riuscito a mettersi a Capo dell’ufficio visto che non è proprio capace di lavorare in team.”
“La gente lo adora.” Mormorò. “… ed è davvero bravo ad ispirare e quelle robe lì. Gli uomini lo seguirebbero fin dentro ad un rogo di Ardemonio.”
Scorpius fece la sua migliore faccia Malfoy. “Con tutto il rispetto … io no.”
James sogghignò. “Bugiardo. Sei come zio Ron … ci metti il cervello ma alla fine segui il cuore.”
Venne graziato da un’occhiata schifata, a cui non seguì però alcuna rimostranza: tanto aveva ragione. Suo zio e Malfuretto, sotto sotto, avevano lo stesso spirito leale.  “Cosa vuoi che faccia?” Chiese infatti.
“Devi andarci tu da Ama … e dovete salvare Prince, perché se è ancora vivo di sicuro non è messo bene. Avrà bisogno di protezione, e forse anche di cure mediche sul posto.”
Scorpius annuì, perché al suo primo anno in Accademia, a differenza sua, aveva seguito tutti i corsi di pronto soccorso organizzati dal San Mungo: il perché, a detta di Rosie, aveva a che fare con vecchi traumi. Lui non aveva chiesto altro.
Ognuno ha i suoi fantasmi. È okay però quando tornano utili.
“Zio!” Chiamò l’uomo che si voltò di scatto, come se avesse urlato. E non aveva urlato.
“Avete finito di chiacchierare o devo farvi una Pastoia sulla lingua?” Borbottò irritato palesando che non avevano sussurrato impercettibilmente come pensavano, ma ovvio, Malfoy berciava sempre. “Vi rendete conto di dove vi trovate? Non è la sala caffè!”
“Puoi venire qui?” Domandò senza lasciarsi intimidire. “È importante.”
L’uomo borbottò qualcosa a mezza bocca ma fece cenno a Bhatt di scambiarsi di posizione. “Beh?”
“Ama ha bisogno di rinforzi Signore.” Intervenne a gamba tesa Scorpius.
“Il Sergente Gillespie è di rinforzo alla squadra di Savage.”
“Sì, ma…”
“Avete altro da dire o possiamo fare quello per cui siamo qui?”
Scorpius lo guardò a corto di idee, ma James se l’era studiata bene. Quasi.
Sperava almeno. “Zio, il pip… Prince potrebbe essere ferito e ci vuole qualcuno in grado di portarlo via di qui senza far danni.” Indicò il compagno dietro di sé. “Malfuretto ha fatto il corso di pronto soccorso. Quello facoltativo che non si calcola mai nessuno!”
“Con un Oltre ogni Previsione, aggiungerei.” Disse questo alzando leggermente il mento in segno di sfida.
Suo zio si grattò la fronte, squadrandoli poco convinto. “Ragazzi, capisco che siate preoccupati, ma non è una nostra priorità. Inoltre, c’è già una squadra dedicata soltanto al suo recupero.”
“Ma nessuno di loro potrebbe prestargli i primi soccorsi.” Insistette tacitando il compagno con un’occhiata; dovevano metterla sul piano del razionale, o suo zio non avrebbe mai dato loro il permesso di separarsi.
“E se fosse ferito? Prendere una Passaporta potrebbe farlo schiattare sul colpo! Hai detto che non è una nostra priorità … ma io … ecco, io credo che lo sia.” Disse dopo una breve pausa. Gli faceva strano dirlo, ma si rendeva conto man mano che lo pensava, che era vero. “Se non fosse stato per lui non avremo mai trovato la nave, ed ha protetto Albie finché ha potuto. Ha fatto parte della nostra squadra … fa ancora parte della squadra.”
Malfoy intervenne. “Il nostro lavoro è catturare maghi oscuri … ma il fine ultimo è salvare la gente, no? Vorrei che fosse questa la mia priorità oggi, Signore.”
Suo zio rimase in silenzio; poteva permettersi un attimo di riflessione dato che si erano fermati per mandare in avanscoperta la prima squadra, quella capitanata da suo padre, e stavano aspettando che fosse loro dato il via libera per muoversi di nuovo.
Poi sospirò. “Spero che non diventiate mai sergenti voi due, o farete vedere i sorci verdi all’intero Ministero.” Alzò le mani. “Va bene, permesso accordato … ma scordati che andrai da solo.” Fece un cenno a Bhatt che lo raggiunse. “Deva, tu e l’agente raggiungerete la squadra di Savage. Non perderlo di vista.” Aggiunse guardando Scorpius come se avesse già combinato qualche mortale cazzata. “Mia figlia è troppo giovane per diventare vedova.”
“Non ho intenzione di…”
“Zitto, o potrei cambiare idea e buttarti a calci dentro una cabina.” Sbottò facendolo ammutolire. “Sbrigatevi a raggiungerli.”
Scorpius si voltò verso di lui. “James…” Iniziò pieno di buone intenzioni e, con suo sommo orrore, vaga commozione.
Gli diede uno scappellotto sulla nuca: era meglio di un abbraccio. “I migliori Malfuretto. Mi raccomando, torna intero. Ci vediamo sulla terraferma.” Gli mostrò il pugno.
Scorpius lo batté contro il suo. “I migliori.”
 
****
 
Il rumore metallico di una porta che si apriva violenta fece sobbalzare Albus e così Loher. Entrambi si voltarono verso l’entrata: Luzhin scese le scale puntando dritto verso di loro e sia lui che Tom sentirono distintamente un gemito sfuggire dalle labbra del Pozionista.
Con la faccia che ha, ci credo che ha paura …
“Preparateli.” Li apostrofò indicando con un cenno i Mercemaghi stesi sui lettini. “Svegliateli adesso.”
“Non abbiamo ancora terminato …” Tentò Loher, ma Al si guardò bene dal dargli manforte. I lineamenti di Luzhin erano tesi, frementi di una rabbia mal contenuta.
“Cos’è successo?” Chiese invece.
Non gli rispose, ma una lieve flessione nella mascella lo fece per lui; era nervoso, glielo aveva visto già fare al San Mungo.
 
… e questo può voler dire solo una cosa. Ha paura.
Di qualcosa. O di qualcuno.
 
“Mi servono adesso.”
Al si rifiutò di sperare. Ci avrebbe messo un po’ ad usare di nuovo quel verbo con tanta leggerezza. “Il Siero è appena stato inoculato, potrebbero non essere come li vuoi.” Obiettò. “… e non possiamo ricominciare da capo dopo.”
 
Al, se gli servono adesso …
 
Sta’ zitto.
Lo pensò con rabbia, e Tom fece silenzio. Doveva farlo o non sarebbe riuscito a mantenere la concentrazione.
“Devo risolvere un problema.” Tagliò corto. “Svegliateli. Non lo ripeterò ancora.”
Albus si guardò con Loher e poi entrambi si affrettarono a recitare gli Innerva. Luzhin rimase alle loro spalle; Albus lo poteva sentire respirare ed era come percepire un’onda di tensione infrangersi sulla propria schiena.
 
Al.
 
Chiuse gli occhi e gli lasciò finalmente la parola. Perché dopotutto continuava a sperare che fosse finalmente quella la volta buona, il momento in cui tutto sarebbe finito e qualcuno l’avrebbe portato in salvo.
“È arrivato qualcuno?” Domandò Tom, mentre lui controllava rapido i parametri vitali del Mercemago che si stava svegliando di fronte a loro.
“Tuo padre.” Disse e Al si rifiutò di voltarsi. Ogni singolo muscolo del suo viso avrebbe potuto tradirlo. “Il Salvatore in persona … l’ho conosciuto.” Aggiunse. “Allora mi sembrò un ometto banale. Ma oggi non è venuto da solo.”
 
Harry è arrivato!
 
L’esclamazione di Tom gli scoppiò in testa.
 
Dobbiamo avvertirlo. Dobbiamo dirgli dei Mercemaghi, avvertirlo che sanno che è qui.
 
Al lo ignorò. “Mio padre non è un uomo banale.” Mormorò. “Ha sconfitto il mago oscuro più grande di tutti i tempi.”
“Più di vent’anni fa. Non mi spaventano le vecchie glorie.” Gli si affiancò, studiando la sua espressione. “Mi preoccupano più gli Auror che si porta dietro … non vorrei che qualcosa andasse storto. Non adesso che siamo così vicini.”
 
Vicini a cosa? Siamo nel bel mezzo dell’oceano.
 
Al doveva pensare velocemente.
 
Al … dobbiamo avvertire Harry. Contano sull’effetto sorpresa, ma Luzhin li ha sentiti arrivare.
Al, mi stai ascoltando?
 
Continuò a ignorarlo, preferendo guardare Luzhin. “Sono venuti a prendermi.” Scelse con cura le parole. “Mio padre non si arrenderà finché non mi porterà via di qui.”
“Lo immaginavo.” Convenne. “Dovrò ucciderlo allora.”

Albus. Cosa stai facendo?
 
Tom finalmente aveva capito. No, conoscendolo probabilmente aveva frainteso alla grande, troppo preso dalle sue stesse emozioni.
 
Frainteso cosa? Al, dannazione, dimmi a che diavolo stai pensando!
 
“ …. Non te lo lascerò fare. È mio padre.” Levò la bacchetta, ma Luzhin lo bloccò ancor prima che potesse puntare a chiunque fosse nelle vicinanze. Gli bastò stringere la presa sul braccio per fargliela mollare con un grido.
 
Al!
 
Il tedesco lo lasciò, facendolo incespicare fino a Loher, che fu lesto ad afferrarlo e puntargli la bacchetta al fianco. “Sei ancora un ragazzino bisognoso di una tunica dietro cui nascondersi.” Fece una smorfia. “Pensavo fossi diverso, fossi come noi.”
“Va’ all’inferno…” Replicò. “E portati dietro i tuoi deliri!”
Luzhin fece una smorfia irritata, ma non parve considerare il suo insulto come valevole di risposta. Lo sguardo gli dardeggiava alternativamente alla porta e ai mercemaghi. “Levamelo dai piedi.” Apostrofò Loher. “A lui penseremo dopo.”
Loher lo trascinò via, aprendo con un colpo di bacchetta la barriera magica che  li separava dall’adiacente laboratorio di pozioni improvvisato. “Sei fortunato che ci servi ragazzino, o saresti già morto.” Commentò prima di spingercelo dentro senza troppe cerimonie.
Quando la barriera dietro di lui si fu richiusa si permise finalmente un sospiro.
 
… ti è di troppo disturbo spiegarmi che diavolo ti è preso?!
 
Albus sorrise tra sé e sé, guardandosi attorno; era esattamente dove aveva progettato di essere. Era stato un pensiero repentino e aveva funzionato.
Dove credi che siamo Tom?
La risposta gli arrivò subito, pronta ed irritata come si aspettava.
 
In un laboratorio di pozioni. E quindi?
 
“Signor Potter?”
Al si voltò e la sorpresa fu sua quanto di Tom quando videro Sophia Von Hohenheim uscire da un cono di penombra.
 
È la madre di Sören?
 
Lei in persona.
Le sorrise avvicinandosi. “Sophia … sono felice di vedere che sta bene.”
“Sono prigioniera. Di nuovo.” Rispose asciutta. “E il mio compagno è morto.”
Albus fece una smorfia imbarazzata. “Sì, non è … non è proprio una situazione ideale, vero?”
“Sören è morto?” Gli domandò guardando alle sue spalle. “Quel ragazzo l’ha ucciso?”
 
Non si somigliano affatto.
 
Infatti assomiglia a te. Avete gli stessi occhi.
E questo lo rendeva più bendisposto di quanto fosse logico. “… non credo. Penso … penso che sia vivo e che abbia aiutato gli auror ad entrare nella nave. Gli uomini di mio padre sono sulla nave. Verranno a prenderci!”
La strega per tutta risposta guardò di nuovo alle sue spalle. “Sarà come scambiare una prigione per una più grande, suppongo…”
“Come?”
 
Se verranno a prenderla sarà solo per metterla di nuovo ad Azkaban.
Anche se Doe è morto lei rimane sua complice e sai quanto il nostro Ministero ami strombazzare un colpevole all’opinione pubblica.
 
Al si morse un labbro. Non poteva fare ciò che aveva in mente senza avere la certezza che la strega fosse dalla sua parte.
 
Hai bisogno di lei?
 
Tom gli stava dando una mano senza chiedere spiegazioni e questo doveva dargli la misura di quanto fosse preoccupato: purtroppo non aveva tempo per soffermarsi su quello.
Ho bisogno che non spifferi quello che sto per fare e considerando che le sue alleanze sono sempre state un po’ traballanti…
 
Allora offrile una speranza di uscire di qui da donna libera.
 
Tom aveva ragione.  “… forse no. Forse … forse può aiutarmi e aiutare sé stessa.”  
Sophia gli scoccò un’occhiata che poteva definirsi solo come calcolatrice. “La sto ascoltando.”
… cavolo se ti somiglia.
 
Non mi somiglia affatto.
 
Il che era una bugia bella e buona ma lasciò correre. “Devo addormentarmi.” Le spiegò. “Qui dentro c’è tutto il necessario.” Inspirò, perché lì arrivava la parte difficile, la parte in cui avrebbe dovuto riporre sé stesso nelle mani di una persona che aveva sempre scelto il lato vincente e conveniente: e lui al momento era tutto fuorché quello. “Il punto è che sarò indifeso e … ho bisogno che lei dica una bugia se le persone là fuori dovessero chiedere spiegazioni. Può farlo?”
La donna gli sorrise. “Chiedi ad una strega Von Hohenheim se può mentire? Ci devi conoscere molto poco …”
“Gli unici due Von Hohenheim che conosco sono suo nipote e suo figlio, e non sono capaci, quindi spero che la risposta alla mia domanda sia sì, sono nata per questo.” Un lampo inequivocabilmente divertito passò nell’espressione della donna. “Cosa devo dire?”
Si voltò verso gli scaffali, scegliendo con cura gli ingredienti per versarli dentro un pestello. “Che cercando un modo per forzare la barriera mi sono messo fuori gioco da solo.”
“Mi crederanno?”
“Questo sta a lei.” Mischiò gli ingredienti: lui e Tom dovevano risvegliarsi al San Mungo velocemente, o suo padre sarebbe stato accolto da una schiera di Mercemaghi in assetto da guerra. “… ma le conviene, per tutti e due.”
L’esclamazione improvvisa di Tom lo fece sorridere: lo avrebbe preso in giro per mesi per averci messo tanto a capire il suo piano.
 
Per questo hai fatto quella ridicola scenata prima!
 
Annuì, aggiungendo l’ingrediente finale e versando la pozione dentro una fiala.
Sapevo che mi avrebbero sbattuto nel primo posto che avevano sottomano per impedirmi di scappare o fare danni. Le cabine sono troppo distanti e qui dentro non ci sono ingredienti tali da rompere una barriera di magia.
 
… ma abbastanza per farci addormentare.
Al …
 
Lo so. Sono un genio.
“Posso contare su di lei?” Domandò a Sophia che era rimasta a guardarlo in silenzio. “Perché…”
“Mi è chiaro cosa mi aspetta là fuori.” Lo interruppe. “Si addormenti, Signor Potter. Farò in modo che nulla la disturbi.”


Ci fidiamo veramente di lei?
 
Sorrise alla strega, prima di sedersi a terra e svuotare la fiala in un colpo solo. Le palpebre gli si appesantirono subito mentre il torpore del sonno lo avvolgeva. Si stese e chiuse gli occhi.
Non abbiamo scelta.
 
 
 
“Certo che quando mi ero immaginato a fare, tipo, il lavoro di papà mica mi ero immaginato di sedere sul mio culo per ore …”
Lily rivolse un sorriso ad Hugo che per tutta risposta le sbadigliò in faccia. “Grazie, tesoro … Dovresti dormire, sai.” Gli suggerì indicando un letto accanto a quello dove era disteso Tom. “Sembri un Infero.”
“Anche tu mica sei fresca come una rosa.” Replicò l’altro con una scrollata di spalle. “Sei quasi cessa.”
“Figurati!” Sbuffò affatto turbata, anche se si premurò di dargli una gomitata nel punto più tenero del fianco. “Sono sempre belliss…”
Tom si alzò di scatto sul letto, voltandosi verso di loro come un pupazzo a molla.
Agh!
“Luzhin sa che papà è dentro la nave!” Esclamò la voce di Al. “Dovete avvertirli!”
Hugo fu il primo a riprendersi dallo spavento; scattò in piedi correndo a chiamare l’Auror che era rimasto a sorvegliare la stanza.
“ … cosa sta succedendo?”
Tom, o Al, o entrambi, fecero una smorfia. “Luzhin si è accorto che le squadre Auror sono arrivate sulla nave e ci ha fatto svegliare i Mercemaghi trattati con il Demiurgo …” Spiegò Al mentre il corpo di Tom si alzava a sedere sul letto. “Glieli scatenerà contro, ancora prima che possano raggiungere il laboratorio e accerchiarli.”
“Come ha fatto ad accorgersene?”
“Non ne abbiamo idea.” Rispose Tom. “Credo stesse aspettando una reazione da parte di Harry … dopotutto ha preso in ostaggio suo figlio. Avrà messo delle sentinelle.” Esitò. “Non lo so.”
Lily guardò verso la porta dove Hugo stava avvertendo i due Auror; uno di questi corse via, forse verso il primo camino portatile, mentre l’altro rivolse qualche breve parola al cugino e poi si rimise in posizione di piantonamento.
Hugo tornò indietro, passandosi una mano tra i capelli. “Questo tipo … cioè. Luzhin, no?” Sbuffò come suo solito per non dimostrare enorme ansia. “È davvero tanto forte?”
“È stato cresciuto dalla Thule, come Ren … è un soldato, una … una specie di marines Hugo.” Rispose Al. “È addestrato e adesso addirittura potenziato magicamente. Se riuscirà ad usare i Mercemaghi come temo, papà e gli altri avranno grossi problemi.”
“Per questo hanno portato tre squadre, no?”
Lily si morse un labbro; stare lì e non poter fare nulla era terribile.  “… Sören?” Domandò. “Ci sono notizie?”
Tom scosse la testa, con l’espressione dispiaciuta di Al. “Nessuna … ma io sono rinchiuso nella stiva, anzi, al momento nel laboratorio di pozioni. Sono fuori dai giochi.”
“E cerca di rimanerci.” Sospirò sedendoglisi accanto. “… almeno tu.”
Tom, o più probabilmente suo fratello, le passò un braccio attorno alle spalle. “È esattamente quello che voglio fare, credimi.”
Lily gli strinse un ginocchio; era quello ossuto di Tom ma le sembrava quasi di avere accanto Al. “Almeno non sei solo.”
“Non che sia di particolare aiuto.” Borbottò Tom.
“Siete gli occhi di papà.”
“… già. A questo proposito …” Al sospirò. “Credo sia arrivato il momento di tornare sulla nave.”
 
****
 
“La sala radio è da questa parte.” La informò Savage. Ama annuì, apprezzando che perlomeno la stessero coinvolgendo nell’operazione. Al di là delle sue personali convinzioni in merito allo stato di salute di Sören, il Sergente Savage stava rispettando gli ordini che gli erano stati dati; non poteva chiedere di più.
“Una volta che avremo trovato l’agente Prince sarò io ad occuparmene.” Trovò comunque giusto ribadire, mentre questo faceva passare avanti uno dei suoi uomini. L’auror si mise a lavorare sulla porta di fronte a loro; ne avevano trovate diverse chiuse da incantesimi ben al di sopra del livello di un semplice Colloportus.
Semplice precauzione o Luzhin ci stava aspettando?
“Sergente Gillespie…” Iniziò l’uomo. “Abbiamo già…”
“Discusso della cosa, sì … ma mi rendo conto delle contingenze in cui ci troviamo. Al Capo Potter serviranno tutti i suoi uomini ed io sono in grado di occuparmi dell’estrazione dell’agente Prince anche da sola. È il motivo per cui sono qui, dopotutto. Il mio Ministero non ha particolare interesse nella cattura di Luzhin, e ora che John Doe è morto la priorità è riportare a casa il mio agente.”
Savage le scoccò un’occhiata indecifrabile, ma poi annuì. Erano pari grado, gli bastava questo per essere esonerato da ulteriori responsabilità nei suoi confronti. Le porse la Passaporta, un tagliaunghie che prese con un fazzoletto e si infilò nella tasca dell’uniforme, ben attenta a non sfiorarla con nulla che potesse essere pelle nuda dato che era il trigger di attivazione.
“Posso lasciarvi due uomini.” Considerò guardando lo spezza-incantesimi al lavoro. “Come scorta.”
Ama fece per rispondere ma il barbagliare di una luce alla fine del corridoio li mise in allerta. Puntò la bacchetta nella direzione del bagliore e fu immediatamente imitata dal resto della squadra.
Savage fece cenno di attendere, mentre andava a controllare. Ama lo seguì a stretta distanza. “Chi è là?” Esclamò. “Abbassa la bacchetta e fatti vedere!”
“Agente Malfoy e Agente Bhatt!” La voce di Scorpius pareva quasi sorpresa dall’accoglienza riservata e così la sua espressione quando svoltò l’angolo. “Devo anche alzare le mani?”
“Idiota…” Sbuffò l’uomo facendo un cenno all’agente più anziano, Bhatt, che si strinse le spalle, come se fosse venuto a patti da tempo con l’eccentricità del giovane collega. “Deva, che diavolo ci fate qui? Non eravate nella squadra di Weasley?”
“Cambio di piani.” Spiegò. “Malfoy ha un’abilitazione in Primo Soccorso Magico. Se Prince è in cattive condizioni può dare una mano.”
“E così eccomi qua!” concluse Scorpius con un largo sorriso. “Ehi Ama.” La salutò. “Tutto okay?”
Ama fu incerta se sorridere o emettere lo stesso grugnito esasperato di Savage. “Ci mancava solo il piccolo Lord a questa spedizione inutile.” Fu il commento di questo.
… ripensandoci il sorriso era l’unica opzione corretta. “Sì, ma sono comunque felice di vederti.” Gli si rivolse con calore; poteva aver rassicurato Savage circa la sua capacità di lavorare in solitaria, ma non sapersi più da sola era un sollievo enorme.   
Scorpius fece spallucce come se si fosse semplicemente offerto di portarle la spesa fino a casa. “Sören è un amico … al mio posto avrebbe fatto lo stesso.”
 
“Tutto pur di non andare in prima linea. Tipico di quella famiglia …”

Il commento fu fatto a bassa voce, e Ama non capì neppure da chi fosse partito, ma le bastò vedere Scorpius irrigidirsi per capire che era rivolto a lui.
Ah, ma certo …
Prima di venire in Inghilterra aveva studiato la documentazione di ciascun membro della squadra Flannery e aveva letto di come la famiglia di Scorpius fosse Purosangue, antica e soprattutto con un passato dalla parte sbagliata della storia.
Seguaci di Voldemort per due generazioni …
Ricordava di aver trovato abbastanza strano, quindi, che il loro ultimo erede avesse deciso per una carriera nell’Ufficio Auror.
… e adesso so esattamente perché l’ha fatto.
Ama fece per ribattere, ma l’inglese la fermò toccandole la spalla e scuotendo la testa con una smorfia.
… e pensare che facevo gli stessi commenti su Sören.
Naturalmente prima di conoscerlo davvero, ma questo non la fece sentire meglio.
“Meno chiacchiere, più lavoro!” Disse Savage rompendo l’atmosfera tesa che si era creata. “A che punto stiamo con quella porta Cleave?”
“Quasi fatto, Sergente!”
“Non ne vale la pena.” Le sussurrò Scorpius prendendola da parte. “Non sono cattivi diavoli, sai. Hanno combattuto la Seconda Guerra. Probabilmente si sono dati delle gran mazzate con mio nonno. Io ho la stessa faccia … e niente, non ce la fanno, è più forte di loro.”
“È ridicolo. Non sei tuo nonno.”
Scorpius le sorrise. “Sei una brava persona.”
“ Non direi …ma imparo dai miei errori.” Gli sorrise di rimando. “E poi …”
Aspetta.” Scorpius voltò di scatto la testa guardando un punto oltre di loro. “Ho sentito dei…”
Non fece in tempo a finire la frase che un improvviso scoppio di incantesimo esplose a pochi centimetri da loro. Bhatt e Savage, gli ultimi della fila e quindi quelli più vicini alla deflagrazione, fecero in tempo a gettarsi a terra e furono anche i primi a rispondere al fuoco.
“Ci hanno trovati!” Ruggì quest’ultimo. “Cleave, quella cazzo di porta! Copritelo! Non devono arrivare alla porta!”
Furono solo pochi secondi, ma ad Ama parvero secoli mentre scaricava addosso tutto il suo arsenale di incantesimi contro quello che sembrava un’enorme magma di magia che stava cercando di sfondare le loro difese.
Alla luce artificiale intravide due sagome.
Sono solo due?!
Lo spezzaincanteismi diede un ultimo, esasperato, colpo di bacchetta contro lo stipite e finalmente quella cedette.  
Ama si sentì afferrare da dietro. “Tu e Malfoy! Fuori!” Le intimò Savage. “Raggiungete Prince, agli Infetti pensiamo noi!”
“Ci stanno massacrando!” Esclamò Scorpius. “Peter, per Morgana, non posso…”
“Muoviti Scorpius!” Ripeté tirandogli una spinta. “Vi copriamo le spalle, sbrigatevi!”
Ama vide l’incertezza agitarsi sul volto del ragazzo.
Non vuole lasciare nei guai i suoi compagni.
Bhatt, l’agente che l’aveva accompagnato, si voltò senza smettere di lanciare incantesimi. “Malfoy, qua ce la facciamo. L’americano ha bisogno di te, vai! È un ordine!”
Scorpius si riscosse di colpo, annuendo e saltando oltre la porta forzata.
Ama lanciò un’ultima occhiata verso quel mulinare impazzito di incantesimi. Era questo, pensò, il cuore del loro lavoro; oltre le personali antipatie, rischiare la vita perché era giusto farlo.
Proteggere e Servire.
Non rendeva comunque facile lasciare i propri compagni.
 
Sören riprese i sensi perché aveva passato l’adolescenza a guardarsi le spalle; dai nemici della Thule, da John Doe in vena di insegnamenti …
Riprese i sensi perché sentì qualcosa muoversi nella sua direzione. Aprì gli occhi, e benché fuori fuoco, vide una figura avvicinarsi.
Un Mercemago …
Non vedeva bene, continuando a scivolare tra incoscienza e veglia, ma percepiva la magia del suo avversario pulsare violenta, come una ferita aperta.
… no, un Infetto.
Non poteva scappare, non poteva difendersi. Non riusciva neanche ad alzarsi. Sarebbe morto prima dell’arrivo dei soccorsi.
Tentò di cercare la bacchetta; doveva essere da qualche parte, caduta vicino a lui.   
Non così …non …
 
“Sören!”

La voce di Malfoy?
No, stava avendo le allucinazioni. Tentò di aprire nuovamente gli occhi, ma un lampo e un rumore di schianto lo costrinsero a serrarli di nuovo. Rumore di vetri rotti.
 
“… l’hai fatto volare giù con un Expelliarmus?”
“Beh, ehm … avevi idee migliori?” Una pausa. E poi l’inequivocabile parlantina del biondo inglese. “James lo usa sempre quando vuole fare lo stronzo durante gli allenamenti, e ho pensato, se lo spingo abbastanza forte, ecco, sotto c’è l’oceano e da quello non si scappa, Demiurgo o meno. Giusto?”
“…  Ottima pensata. Stramba, ma ha funzionato.”
“Grazie!”

 “ … Sergente?” Articolò mentre un’ombra che aveva decisamente i contorni di Ama gli si parava davanti. La sentì soffocare un’esclamazione.
“Sören…” Mormorò. “Sören, mio Dio…”
Doveva essere conciato decisamente male per suscitare quella reazione nel suo solitamente inflessibile Sergente.
“… va tutto bene, sei al sicuro adesso. Sei salvo.”
Ama doveva avere la mano bagnata perché quando gli sfiorì la guancia sentì umido. E poi qualcosa di caldo che gli avvolse il braccio.
Dove c’era il braccio.
“Dobbiamo stabilizzarlo. Se lo trasportiamo così….” Mormorò Scorpius e poi si bloccò. “Amico, tranquillo, okay? Ti portiamo al San Mungo.”
Lily.
No, non era Ama ad avere le mani bagnate. Era lui; ma supponeva potesse farlo, per la prima volta da quando era bambino.
Piangere. Perché era vero: era salvo, finalmente.
 
****
 
Note:

Avevo pensato di finire con un cliff-hanger, ma poi, considerando che aggiorno ogni mezza stagione, dai, ma anche no.
Questa la canzone del capitolo.
Nel prossimo capitolo tante botte, ma anche un po’ di fluff. Lily se lo deve sprimacciare bene, il suo Ren mezzo morto.
 

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Capitolo 71
*** Capitolo LXX ***


Capitolo LXIX
 
 
 
 
 
Don't you dare quit so easy
(Don’t give in, Snow Patrol)
 
 
 
Londra, San Mungo.
 
 
Gli ospedali erano non luoghi e il San Mungo non faceva eccezione.
Lily in quei due anni di Accademia aveva imparato a chiamarlo casa, ma erano in momenti come quello che percepiva quanto fosse in realtà un luogo di attesa.
Per questo dopo che Tom ed Al erano “tornati” sulla nave lei aveva lasciato Hugo a far loro da guardia ed era sgusciata nell’Ala Thickley. In quel momento i suoi colori e l’architettura accogliente erano la cosa più simile ad un porto sicuro che avesse.
A quell’ora di notte soltanto le due MagiInfermiere di turno erano sveglie mentre il reparto era illuminato fiocamente dalle candele sul soffitto. Aveva accettato una tazza di the e dopo qualche chiacchiera insonnolita aveva deciso di andare da Alice Paciock; amando sonnecchiare di giorno era di notte che la strega era più inquieta, e prima dell’insediamento della Patil era stato spesso necessario sedarla. La Capo Psicomaga aveva risolto installando un carillon sopra il suo letto, incantato perché muovesse l’intero sistema solare a ritmo di alcuni pezzi di musica leggera contemporanei alla gioventù della donna. Adesso stava suonando Stairway to Heaven dei Led Zeppelin.
L’ho fatta ascoltare a Ren, e lui si è comprato l’intera discografia.
Dominò le lacrime strofinandosi il viso con le mani: aveva portato con sé l’intera corrispondenza tra lei e Luzhin ed era sua intenzione finire di leggerla e trovare qualcosa che avrebbe potuto essere utile a suo padre.
Una parte di sé era conscia di quanto fosse inutile a blitz iniziato, ma doveva tenere le mani occupate e così riprese a leggere, mentre sopra di sè continuava l’eterno moto di stelle e piccoli pianeti di legno. Alice, sveglia, canticchiava a bocca chiusa il motivetto.
Non ne posso più …  
Sentì le dita magre di Alice insinuarsi tra le sue. Si voltò per guardarla, ma la strega continuava a fissare il carillon rapita.
Sorrise, stringendo la presa. “Grazie.” Disse, perché da qualche parte in quella mente frammentava era arrivato una richiesta d’aiuto, e la persona che la abitava aveva risposto.
È per questo che lavoriamo …
Ricordò la prima volta che Alice aveva fissato negli occhi zio Neville, suo figlio, e gli aveva fatto una carezza. O quando Frank aveva regalato una rana intagliata nel legno al piccolo Cedric e come da allora non avesse mai dimenticato un compleanno dei nipoti, sebbene non sapesse ancora pronunciare il suo nome. O quando Gilderoy si era invece ricordato il nome della sua prima ragazza e l’avesse ripetuto come una formula magica per ore.
Non quello che vogliamo, ma ciò di cui abbiamo bisogno.
Cantò piano le ultime parole della canzone, mentre Alice si arrendeva al sonno, la mano stretta alla sua.
“Immaginavo che ti avrei trovata qui. Di nuovo.” Disse la voce della Patil. Si voltò e la trovò sullo stipite della porta, i lineamenti severi che all’inizio le avevano ricordati quelli della professoressa McGrannitt, solo in versione più giovane.
Era un po’ suo destino essere salvata da donne rigorose e apparentemente inscalfibili.
Forse perché io sono l’esatto opposto? Stimolo il loro sopito istinto materno?
“… Scusi?”
Padma sbuffò ironica; a differenza sua era andata a casa a riposare dopo aver istruito Tom su come effettuare l’incantesimo. Col senno di poi aveva fatto la cosa giusta.  
“Ci sono novità?” Le domandò.
“Tom e Al sono di nuovo sulla nave. Mio padre è al salvataggio con zio Ron e le squadre di Auror. Sören … è disperso.” Si risolse a dire, anche se quella parola le risultava amara alla bocca.
Disperso … vuol dire perso. Che nessuno sa dov’è.
Non è con me. Dovrebbe essere con me.
“Come ti senti?”
Con la Patil non poteva giocare l’eterno rimpiattino della noncuranza: era la sua terapista, non le avrebbe creduto. “Vorrei prendere a pugni chiunque … me stessa inclusa.” Mormorò. “Almeno qui mi illudo di far qualcosa.”
“Non ti illudi. Ad Alice piace sentirti cantare, la calma molto.”
Avrebbe voluto ribattere con qualche arguzia auto-celebrativa, ma non ne aveva la forza. “È la musica.”
“E la tua presenza.” Soggiunse la strega staccandosi dallo stipite e aggirando il letto per starle davanti. “La prima volta che ti ho visto in Accademia pensavo non saresti durata una settimana.” Continuò poi dal nulla.
“ … ero così disastrosa?”
“Piuttosto una Bombarda Maxima pronta ad esplodere.” Ribatté nel suo famigerato tono tranciante, che tanti allievi aveva ridotto alle lacrime. “Eri un fascio di nervi, chiacchiere inopportune e distrazione. Onestamente, non capivo cosa ti avesse spinto a studiare Psicomagia.”
Oh, wow, grazie.
Non aveva mai chiesto alla propria capa nulla che fossero le consuete valutazioni accademiche e, da paziente, la sua opinione da professionista, ma le era sempre rimasta la curiosità di sapere cosa pensasse di lei come persona.
Ora non ne sono più tanto sicura.
“E ora lo ha capito?” Domandò incerta.
La Patil le sorrise. Era il bello delle persone austere, pensò, come Ren. Quando sorridevano sembrava che il resto del mondo lo facesse con loro.
“Riesci a vedere oltre.” Ossservò la strega addormentata tra di loro. “Vedi le persone per come sono, e al tempo stesso come potrebbero essere. E non riesci a rimanere zitta. Grazie alle tue capacità senti il loro dolore, la loro gioia, ma ne vedi anche il potenziale.” Fece una pausa. “ Questo, Potter, ti renderà un ottima Psicomaga un giorno.”
“Grazie.” Mormorò. “… è una cosa che mi ha detto anche il mio ragazzo.” Serrò le labbra. “Che l’ho reso una persona migliore.”
“Credi che sia vero?”
“Penso che entrambi ci siamo resi persone migliori.”
Lasciarono la stanza per andare a bersi l’ennesima tazza di the. Non aveva idea del perché la Capo Psicomaga fosse tornata a quell’ora antelucana, ben lontana dai suoi soliti giri di visita, ma lo comprese quando lo sentì.
Sören. Era lì.
Per poco non lasciò cadere la tazza, riuscendo all’ultimo secondo ad appoggiarla alla scrivania in saletta infermiere.  
“Cosa succede?” La Patil le fu subito a fianco. “Lily?”
Come aveva sentito freddo nel pub, prima che Hugo la trovasse, adesso una fitta di dolore, come una lama incandescente, le si irradiò sul petto concentrarsi sulla spalla e poi sul braccio.
… Sto avendo un infarto?
No, non io. Questi sono i miei poteri. Non è il mio dolore, è … il suo.
Come era venuto, lasciandola per un attimo senza fiato, sparì.
Allora voltò i tacchi e corse verso gli ascensori. Troppo tempo, erano troppo lenti. Spalancò la porta delle scale e scese a rotta di collo, ringraziando Morgana di aver scelto di indossare scarpe da ginnastica per quelle lunghe ore di veglia.
Spalancò la porta che portava al piano terra e dava sull’accettazione: era attiva a tutte le ore, ma in realtà durante la notte i ritmi rallentavano.
I maghi di notte dormono.
Aveva sentito dire a qualcuno. Eppure adesso c’era movimento. Camici verdi dei  Guaritori, le uniformi bianche di due MagiInfermieri di Lesioni, che conosceva perché giocavano a Quidditch con suo fratello …
… E dietro di loro una barella che veniva caricata di un corpo.
Sören!” Gridò.
La sua esclamazione fece girare più di qualche testa e riuscì quindi a vedere il viso del suo ragazzo. Una macchia dai lineamenti cerei, con i capelli arruffati e incrostati sulle tempie. Gli occhi erano chiusi.
Aveva visto troppe volte quel colore addosso alle persone per non conoscerne il significato. “Sören!” Gridò terrorizzata prima che le braccia della Patil la trattenessero dal gettarsi sul suo petto.
“È vivo.” La fermò. Si voltò cercando un appiglio e lo trovò nell’espressione salda dell’altra. “Lily, lascia lavorare i Guaritori.”
“Voglio …”
Toccarlo, abbracciarlo, baciarlo … Toccarlo. Merlino, voglio toccarlo! Ha bisogno di me, ha … Ti prego, fammi…
“Dopo. Adesso non potresti essergli di alcun aiuto.” La anticipò prima che potesse vomitarle addosso quelle parole. “Inoltre sei troppo agitata. Rischieresti di usare i tuoi poteri e assorbire il suo dolore, come prima.” Aggiunse perché era la sua mentore e aveva fatto due più due.
Trattenne un singhiozzo mentre il lettino veniva portato via in tutta fretta.  
… se servisse a farlo stare meglio, Morgana, mi prenderei tutto.
“Ehi … se la caverà Piccola Potter, okay?” La voce di Malfoy fu così inaspettata che la costrinse a ritornare presente, se non altro per capire da dove proveniva. Era di fianco a lei: da quanto era lì?
“Non eri sulla nave?” Domandò come un’idiota. Accanto a lui c’era anche la Gillespie che la contemplava con aperta esasperazione.
… Devo aver proprio dato spettacolo.
“Io e l’Agente Malfoy ci siamo occupati del recupero e messa in sicurezza dell’Agente Prince.” Si risolse a dire con tono antipatico. Poi corrugò ulteriormente le sopracciglia. “Abbiamo fatto il possibile perché arrivasse cosciente, ma è svenuto prima che attivassimo la Passaporta. Noi …” Iniziò, e poi le labbra le tremarono. Rimase in silenzio, arrabbiata con sé stessa e con il resto del mondo.
Di colpo a Lily non sembrò più così insopportabile.
“Ha attivato il Gps tutto da solo … però aveva bisogno di un passaggio a terra, e così ci abbiamo pensato io ed Ama!” Blaterò Scorpius con enfasi, quasi stesse raccontando di gesta epiche e vittorie sicure. Avrebbe voluto abbracciarlo.
Lo hanno salvato. 
“Grazie.” Disse ad entrambi. “… grazie per averlo riportato indietro.”
“Era nostro dovere.” Disse Ama succinta prima di far crollare finalmente la posa marziale. “ … Dio, ho bisogno di bere qualcosa di forte.”
“Io di affogarmici!” Convenne Scorpius.  
Lily inspirò lentamente mentre la Patil le lasciava le spalle. Doveva averla trattenuta con una certa forza perché erano indolenzite.  
“Ha bisogno di me…” Disse, perché non poteva combattere al suo fianco e non aveva potuto salvarlo, ma quello lo poteva fare. “Deve capire che sono qui.”
“Vuoi entrare in sala operatoria?” Chiese la Gillespie con una nota di incredulità nella voce che sarebbe stata comica, se fossero state altre le contigenze.
“Non entrerai in sala operatoria.” Affermò la Patil perentoria, poi vedendo la sua espressione aggiunse. “Non ce ne sarà bisogno. Come lo hai percepito a piani di distanza, lo stesso è stato per lui.”
Non aveva indagato troppo sulle sue percezioni in quelle ore, ma supponeva non fosse normale, neppure per gli standard di una LeNa, avvertire il dolore o la presenza di qualcuno che non si aveva davanti.
Per attivare i miei poteri tra l’altro le persone le dovrei toccare.
“… Cos’è successo prima? Non lo stavo toccando, eppure…”
“Magia, delle più antiche.” La Patil le sorrise. “Non serve che ti dica quale, immagino.”
L’amore.
Lo stesso immenso, sotterraneo ed immutabile potere che aveva permesso una madre di proteggere un figlio da un mago immensamente più forte di lei. La stessa che aveva permesso ad un adolescente spaventato di sconfiggere quello stesso nemico.  
A volte persino i Babbani riuscivano a crearla, e la chiamavano vero amore, o miracoli.
“Quello che devi fare adesso è riposare.”
Col cavolo!
La Patil lesse ancora una volta le sue intenzioni e sospirò. “Credo non ti sarà difficile chiedere di poter attendere nella stanza che gli sarà destinata.” Fece una pausa. “Sören non morirà stanotte e tu hai bisogno di essere in forze per quando si sveglierà … e quando arriverà il resto della tua famiglia. Avranno bisogno di te e tu potrai aiutarli.”
Lily capì perché la Patil era lì, quando non avrebbe dovuto esserci. Così la abbracciò di slancio.
“… se la caverà davvero?” Mormorò Scorpius prima di mordersi la lingua e scoccarle un’occhiata colpevole. “Cioè, è bello che ne sia sicura, perché anche io sono sicuro che…”
“Ho letto la sua cartella, Signor Malfoy. Non è mio costume lanciarmi in affermazioni affrettate. ” Ribatté Padma con tono pratico e Lily dovette trattenere una risatina all’esplosione di rossore che invase il viso dell’amico. “La prognosi non è delle migliori, ma il Guaritore Smethwyck è già stato chiamato. Lo rimetterà in piedi.”
Lily si avvicinò a Scorpius e gli prese una mano tra le sue. “Padma ha ragione, il San Mungo si prenderà cura di lui. Io mi prenderò cura di lui.” Sorrise quando lo percepì rilassarsi. “Ce la caveremo ragazzone.”
Non era una guerriera o una Guaritrice, ma c’erano battaglie che poteva combattere e ferite che poteva curare.
E diavolo, se lo avrebbe fatto.
 
****
 
Mare del Nord.
Coordinate: N°61 61’ 66 43
E009° 17’ 44 94
Ultimo aggiornamento alle 2:30 UTC
 
“Cosa facciamo Harry?”
Quella domanda se l’era vista porre fin dall’adolescenza, ma non si sarebbe mai abituato a rispondere con sicurezza.
Essere a capo di qualcosa. Non l’ho mai voluto, eppure è tutto ciò che sono.
Forse era vera quella massima secondo cui il potere arrivava non a chi lo desiderava, ma piuttosto a chi ne era degno.
Sperava di esserlo. Lo sperava da una vita.
Si stavano compiendo gli ultimi preparativi per l’assalto, alla luce artificiale di uno dei magazzini, quello immediatamente adiacente al laboratorio di fortuna che adesso era il quartier generale di Luzhin: corpetti venivano controllati, efficienze delle bacchette venivano misurate, il tutto nel più completo silenzio.
Per questo fu facile udire lo scalpiccio di una mezza dozzina di passi in avvicinamento.
Gli uomini si misero in immediata posizione di allerta, dislocandosi dietro singoli container. Fu Ron, con un cenno convenuto, a dare il cessato allarme: era la squadra di Savage.
Harry non vide Scorpius e Ama con loro ma prima che potesse preoccuparsi fu lo stesso Sergente a spiegare quanto accaduto. “La Passaporta per portare in sicurezza Prince è stata attivata venti minuti fa.” Disse accettando la borraccia di James e sorseggiandola esausto; l’intera squadra sembrava uscita dagli Inferi, i volti tesi, sudati e striati di una polvere color metallo.
Devono essere esplosi parecchi incantesimi.
“Siete stati attaccati?”
“Da un Infetto, Capo.” Convenì Bhatt. “Ma Scorpius e il Sergente Gillespie sono riusciti a raggiungere l’agente Prince mentre noi siamo rimasti indietro per coprirli. Quando siamo arrivati nel locale del GPS non c’era già più nessuno.”
“E l’Infetto?”
“Siamo riusciti a neutralizzarlo e metterlo in stasi.” Intervenne Savage. “Lo abbiamo ficcato dentro una Cabina e piazzato una bella Barriera di Livello 6, giusto per star sicuri.”  
Harry notò che l’uomo aveva una fasciatura sulla spalla, ma questo, al suo sguardo interrogativo, scosse la testa. “È solo un graffio, posso ancora combattere. Sono tosti, quei bastardi, ma non imbattibili.”  
Non imbattibili … ma complicati da buttare giù, questo è sicuro.
“Sedetevi e bevete qualcosa, ci muoviamo tra poco.” Lo congedò. Poi, una volta fuori dalla portata del resto degli Auror, chiamò a sé Ron. “Albie aveva ragione. Luzhin sa che siamo qui ed ha mandato i suoi a stanarci.”
L’amico emise una robusta imprecazione. “Quindi si aspetta un nostro attacco … Se entriamo dalla porta frontale potrebbe far fuori gli ostaggi!”
“È l’unico accesso?”
Ron indicò la planimetria della nave, che il Sergente Gillespie si era fatto spedire direttamente dal suo contatto al porto di Grangemouth, e che avevano appuntato al fianco di uno dei container con un Incantesimo di Adesione. “Solo un entrata, questa qui. L’unica.” Guardò di nuovo la carta, poi fece una smorfia meditabonda. “Potremo mandare la squadra di sfondamento nel locale della caldaia … è dall’altra parte, ma dovrebbero comunque far saltare almeno venti centimetri di metallo per farci passare tutti e non uno alla volta.”
“Che ne dici di Bombarda Maxima?” Suggerì. “E poi la Buiopesto Peruviana per dare tempo a tutti di entrare dentro il laboratorio?”
Ron scosse la testa. “Gli Infetti percepiscono le auree magiche, la Buiopesto sarebbe inutile. Il rumore dell’esplosione li farebbe precipitare tutti lì prima che anche solo due di noi possano farsi strada. No, ci prenderebbero come topi …” Poi parve realizzare di colpo qualcosa. “Aspetta. Il locale della caldaia potrebbe confinare con il posto in cui tengono Albus?” Si sbattè una mano sulla fronte, come se si ritenesse un idiota per non averci pensato prima. “Lo tiriamo fuori da lì e poi con il resto delle squadre irrompiamo dall’entrata!”
“Niente Bombarda, tagliamo direttamente il metallo.” Convenne. “Usiamo la squadra di estrazione.”
Guglani!” Tuonò Ron e l’Auror che aveva il compito di mettere in salvo Albus si staccò immediatamente dagli altri.
Mentre l’amico illustrava il piano al giovane Sergente, Harry notò che James aveva allungato il collo per ascoltare. Sorrise e gli fece cenno di avvicinarsi.
“Comandi!” Esordì suo figlio e non si sarebbe mai abituato a vederlo obbedire così rapidamente.
Visto che ha passato tutta l’infanzia e adolescenza a fare il contrario.
“Jamie, vorrei che seguissi il team di Guglani e ti occupassi del recupero degli ostaggi.”
James serrò le labbra ed eccola, l’ostinazione Weasley. “Se non ti dispiace, Capo, preferirei stare con le squadre di sfondamento.”
“Albus …”
“Albie se la caverà anche senza di me.” Lo anticipò. “Sonny e i suoi ragazzi sanno il fatto loro.” Esitò, poi le spalle si raddrizzarono nella posa marziale che ormai era diventata una seconda natura come lo era per lui e Ron. “Voglio combattere al tuo fianco papà. Sono pronto.”
Harry si frenò dall’abbracciarlo, perché in quel momento non erano padre e figlio, ma due agenti che avrebbero rischiato la vita l’uno per l’altro.
O in fondo, siamo entrambe le cose.
“Forse sono io a non esserlo.” Confessò aggiustandosi gli occhiali per tenere le mani occupate. “Se ti dovesse succedere qualcosa …”
“Avresti dovuto pensarci prima.” Sbuffò il suo splendido, coraggioso ragazzo.  “Sono un Auror, papà. Sono pronto a guardarti le spalle finalmente.”
Stavolta, diversamente da cinque anni prima, non aveva scuse per lasciarlo indietro.
Harry mandò al diavolo ogni codice di condotta, che dopotutto non aveva mai granchè seguito, e lo abbracciò, felice di essere ricambiato con altrettanta forza.
“Sta’ al mio fianco e non perdermi di vista.” Gli raccomandò mentre Ron dava le ultime consegne a Guglani, fingendo al tempo stesso di non aver ascoltato la conversazione.
“Comandi!”
 
****
 
Al si risvegliò sul pavimento della nave. Voltò lo sguardo verso destra, dove ricordava di aver visto l’ultima volta Sophia e quasi gli prese un colpo; un Mercemago, uno di quelli risvegliati da lui e Löher, se ne stava impalato di fronte alla barriera di magia che separava il laboratorio di pozioni dal resto della stiva. Dalla postura era abbastanza chiaro cosa gli fosse stato ordinato di fare.
Monta … la guardia? A chi?
 
A noi.
 
Si alzò a sedere, felice nonostante tutto di essere ancora nel solito posto e soprattutto vivo.
Significa che la madre di Ren aveva fatto ciò che aveva promesso. “ … Sophia?” Chiamò.
“Sono qui Signor Potter.” Rispose facendosi localizzare. Era seduta a terra, le mani e i piedi legati da un fascio di magia.
 
Incantesimo Incarceramus.
 
“Ehi, ma  …” E poi realizzò di essere legato anche lui: mani e piedi. Udì Tom soffocare un insulto. “… che è successo?”
Herr Loher ci ha fatto legare da … quello.” Disse indicando con un leggero cenno della testa il Mercemago che perseverava nella sua posizione da statua di gesso.
“Non le hanno creduto?”
La strega inarcò le sopracciglia come se l’ipotesi di aver fallito neanche la sfiorasse. “Löher lo ha fatto. Ha detto però che non si fidava a lasciarla libero di trafficare in un laboratorio di pozioni, visto che chiaramente non è dalla loro parte.” Concluse.
Fantastico.
 
C’era da aspettarselo … mi sembrava assurdo che non ci avessero ancora neutralizzato.
 
Al inspirò; doveva capire come liberarsi, visto che in quelle condizioni era completamente alla mercè di chiunque avesse voglia di usarlo come carne da bacchetta o eventuale scudo umano.
 
Ho un’idea.
 
Si domandò che diavolo avesse in mente, poi realizzò che Tom poteva fare una cosa che a lui era preclusa, ma che poteva capovolgere completamente la situazione.
Gli incantesimi senza bacchetta!

Posso sciogliere l’Incarceramus. Lasciami il controllo.
 
Al esitò: per quanto fosse un ottimo piano Tom aveva mostrato di non essere in grado di tenere a freno la lingua in presenza di Luzhin o eventuali, e questo perché dietro l’atteggiamento sfidante e rabbioso era spaventato.
E quando era spaventato perdeva di lucidità.
 
Non ti metterò nei guai. Potresti morire.
 
Il tono in cui lo disse lo fece vergognare di aver pensato una cosa del genere.
Chiuse gli occhi e quando li riaprì si percepì mormorare qualcosa: Tom stava recitando una formula per spezzare l’incantesimo.
Il Mercemago aggrottò di colpo le sopracciglia. Era sotto Imperius, lo vedeva dagli occhi, ma Luzhin doveva avergli ordinato di notare eventuali comportamenti sospetti.
Gli rivolse un paio di parole in una lingua che non comprese; sembrava tedesco.
Tom guardò verso il mago che avanzava minaccioso verso di loro e poi gli rispose nella stessa lingua.
 
Okay, è tedesco. Che gli hai detto?
 
Che sto pregando.
Gli rispose senza ironia. Al suo malgrado sbuffò divertito perché l’uomo si fermò e parve bersela. Gli abbaiò comunque qualcosa a cui Tom rispose con tono seccato.
 
Tom! Avevi promesso!
 
Vuole che mi metta accanto alla Von Hohenheim. Gli ho risposto che non posso muovermi dato che mi ha legato le gambe.
Mentre glielo stava spiegando il Mercemago si mosse e senza troppe cerimonie li afferrò – entrambi, perché lo percepì con fastidio anche lui – e li trascinò fino alla strega, ribattendo qualcosa che fece fremere di rabbia il compagno.
 
Non …
 
Non reagire, lo so.  
Tom continuò la sua litania e Al ebbe modo di notare che Sophia li guardava con interesse. Non poteva essersi accorta dello scambio e non poteva sapere che davanti aveva suo nipote, eppure …
“Conosce il tedesco Signor Potter?”
 
Merda! No che non lo conosco!

Tom gli fece assumere la sua miglior faccia di bronzo. “L’ho imparato a scuola.”


Ma non è vero! Ad Hogwarts non si insegnano le lingue!

E una strega che non l’ha mai frequentata come può sbugiardarmi?
Checché ne dicesse Tom, Sophia non parve bersela. “Cosa sta cercando di fare senza bacchetta?”
Tom a questo non rispose, ma c’era da aspettarselo. Quando era concentrato su un obiettivo dimenticava totalmente il mondo attorno a sé. Faceva così fin da quando erano bambini.
“Mi risponda Signor Potter.” Incalzò con un tono perentorio che sì, indubbiamente l’amore della sua vita aveva ereditato a piene mani.
Peccato non ami sentirselo rivolgere.
“Sta’ zitta.” Ribattè infatti innervosito. “Vuoi uscirne viva o no?”
Sophia serrò le labbra in una linea scontenta. “Non posso dire di apprezzare questo suo cambiamento di registro.”
 
Tom, la stai apostrofando nella maniera sbagliata. Dalle del lei!
 
No. Non se lo merita.
L’avrebbe preso a calci se fosse stato qualcosa di diverso da una voce incorporea. “Mi ha chiesto di aiutarla.” Continuò. “L’ho fatto. Gradirei però continuare a pensare che ho lavorato a mio favore.”
Tom fece un sorrisetto sprezzante. “Spiacente di non poterti dare questa soddisfazione.”
Un fremito di collera le passò nell’espressione che aveva imparato a classificare come imperturbabile. Era la prima volta che le vedeva fare una faccia del genere – o una faccia per quel che valeva.
 
Sta’ calmo. Si rende conto da sola che la sua salvezza dipende da noi.
 
“Le conviene che rimanga dalla sua parte, Signor Potter.” Mormorò smentendo le ipotesi dell’altro. “Potrei avvertire il nostro carcerie del suo piccolo bluff di poco prima.”
“E perché? Speri di ottenere qualcosa?”
“Il ragazzo che ci ha presi prigionieri è un uomo dopotutto. E gli uomini…”
“Non sei stanca di dovere sottostare all’ennesimo psicopatico?” Tom fece un sorrisetto odioso. “Se odi le gabbie come dici, forse dovresti cercare di finirci dentro.”
 
Tom! Che diavolo….
 
Le ho dato qualcosa su cui ragionare. Ora chiuderà il becco.
Irritante a dirsi, ma l’altro ebbe ragione; Sophia infatti chiuse la bocca fissando ostinatamente di fronte a sé. Nella ruga d’espressione che le solcava le sopracciglia Al rivide, per la prima volta, Sören.
Quindi qualcosa di Ren ce l’ha …
Percepì anche le corde che gli bloccavano le gambe allentarsi; erano fatte di magia pura e non si sfilacciavano come quelle materiali, ma piuttosto si slargavano come elastici troppo abusati.
Ci sono quasi.
“E quale scelta mi sarebbe offerta in alternativa?” No, non aveva finito. Albus si chiese il perché di quell’improvvisa loquacità in una strega che gli era sempre sembrata totalmente chiusa in sé stessa.
La osservò come Guaritore, più che come vittima: e notò le pupille dilatate e le mani raccolte in grembo, strette tra di loro quasi a cercar calore.
Peccato che lì dentro facesse un caldo infernale.
 
Ha paura, Tom. È spaventata, credo che a questo giro abbia capito di essere nei guai. La morte di Doe deve averle dato una bella scossa …
 
Preferivo il mutismo shockato di prima.
“Quale alternativa, Signor Potter?” Li incalzò con la voce vibrante di emozioni mal trattenute. “Non posso usare la magia come lei.”
… Cosa? Sta dicendo la verità?
Al non ribatté. Non l’aveva vista usare una bacchetta, ma non vi aveva dato troppo peso: aveva semplicemente supposto che non avesse il desiderio di usarla, dato che Doe la seguiva come un’ombra pronto ad anticipare – o presupporre – ogni suo bisogno. 
Tom battè le palpebre. “È una Maganò?”
“Non dica sciocchezze, sono nata strega.” Ribatté sdegnata. “Ma non è stato ritenuto utile insegnarmi ad usare le mie capacità. Mio fratello si è occupato della mia educazione e per lui bastava fossi in grado di portare avanti la casata dei Von Hohenheim. Per quello non serviva magia.”
“E Doe?”
Sophia fece un sorriso amaro. “Lui amava servirmi … in tutto e per tutto. La mia indipendenza sarebbe stato un ostacolo alla nostra relazione.”
Un analfabeta della magia. Facile da controllare se non ha modo di sopravvivere in un mondo in cui non può neanche scaldarsi una tazza di the.
Al non voleva provare simpatia per una donna che di fatto era stata complice di uomini orribili, ma pena… quella sì.  Era inevitabile.
“Mi dispiace.” Mormorò mentre Tom si ritirava in un angolo nella sua testa. In quelle cose era più bravo lui. “Perché non ha cercato Sören? L’avrebbe aiutata … è pur sempre suo figlio.”
“L’aveva cresciuto Alberich.” Fece un mezzo sorriso, quel pallido sorriso senz’anima con cui l’aveva conosciuta. Probabilmente una delle sue difese. “Non sono mai stata sua madre. L’ho lasciato a mio fratello perché non lo sentivo mio. Sören era solo l’ennesima vita da manipolare e mettere a servizio della Thule.” Fece una pausa. “Invece era diverso.”
“Sì, lui …”
“Si è offerto di dividere l’eredità dei Von Hohenheim con me.” Lo interruppe. “Credevo fosse per convincermi a consegnargli Johannes, ma adesso mi chiedo se non fosse sincero. Sembrava preoccupato ... per me.”
“Sören era preoccupato perché le vuole bene.” Confermò mentre Tom emetteva uno sbuffo non impegnativo: stava cominciando a spazientirsi, desideroso di tornare all’opera.
“Pensa che mio figlio mi voglia bene Signor Potter?”
Prima che potesse rispondere il compagno lo batté sul tempo. “Ogni figlio ama la propria madre … È inevitabile.” Lo disse con una sicurezza tale che Al capì che si stava riferendo a Robin. “Si chieda invece se per lei è lo stesso.”
 
Tom …
 
Al percepì un rapido sfrigolare alle caviglie: l’Incarceramus che gli costingeva le gambe si era dissolto. Tom si rannicchiò in modo che il Mercemago non potesse vedere che si era liberato.
“Mettiti davanti a me.” Ordinò a Sophia. “Se copri la visuale potrò pensare ai polsi.”
“Sta cercando di scappare?”
“Se collabori ti porterò con me …” Inarcò un sopracciglio. “O preferisci cercare di convincere Luzhin a prenderti con sé?”
Sophia scivolò di fronte a lui senza emettere un suono, ma con una presa di posizione che fece sorridere entrambi.
Non è una stupida, dopotutto.
 
È tua zia, alla fine qualcosa avrete in comune, no?
 
Prima però che Tom potesse passare alle mani Al percepì un rumore scoppiargli in testa. era come quando era addormentato e un rumore esterno rischiava di svegliarlo.
Fu in effetti l’esatto contrario. Il rumore, il suono di più voci, si fece più forte e poi venne strappato dalla realtà sulla nave.
 
****
 
Londra, San Mungo.
 
Hugo stava dormendo – per quanto potesse farlo su una maledetta poltrona visitatori del San Mungo – quando un concerto di voci lo svegliò.
Aprì la bocca per dar voce a tutta la sua incazzatura ma si morse la lingua quando vide Ama entrare seguita da Malfoy e l’Auror di sorveglianza.
Scorpius e il tizio palestrato poteva anche coprirli di insulti, nessun problema, ma l’americana …
“E-ehi!” Balbettò strofinandosi gli occhi. Non credeva l’avrebbe rivista e onestamente non era sicuro se la cosa gli facesse piacere o meno.
Cioè, mi ha baciato e l’ho tipo baciata e … cioè.
“Dobbiamo parlare con Potter.” Replicò sbrigativa.
Ovvio che fosse in pieno assetto da battaglia, però ci rimase comunque male. Per far qualcosa guardò l’orologio digitale che aveva al polso: aveva dormito sì e no una mezz’oretta.
Grandeee.
“Si è appena addormentato …” Tentò ma Scorpius, pur con una smorfia di dispiacere, scosse la spalla di Tom.
“È per il suo bene.” Lo scrollò ancora. “Wow, sembra in coma!”
“Credo che tipo … lo sia?”
La strega estrasse la bacchetta senza troppe cerimonie. “Innerva.” Recitò con un energico movimento di polso.
Tom saltò sul letto come se fosse appena ripescato dal concreto di rischio di affogare. Tirò un ampia e rumorosa boccata d’aria e li fissò allucinato.
“Che diavolo state facendo?” Ringhiò ed era la sua voce, non quella di Al. “Non è il momento!”
“Albus Potter sta per essere estratto e portato in salvo, direi che lo è invece.” Replicò Ama senza lasciarsi impressionare dal ringhio con cui era stata omaggiata. “Ovunque ti trovi mettiti al riparo.”
“Siamo controllati a vista da un Mercemago e legati come salami.” Disse la voce di Al. “… stiamo cercando di liberarci, ma…”
“Quale parte di subito non hai inteso?”
Al, o Tom, o entrambi, strinsero le labbra e poi annuirono … ? Annuì?
Non vedo l’ora che tornino ognuno nel proprio corpo, miseriaccia.  
“C’è anche Sophia Von Hohenheim con noi … cosa dobbiamo fare?”  
“Taglieranno il metallo della paratia con un Recido. Quando la squadra di recupero entrerà tu e la Von Hoheneim dovrete essere fuori dalla linea di tiro, mini-Potter.” Gli spiegò Scorpius. “A maggior ragione se c’è un Mercemago.”
Tom sbuffò e Hugo capì che era lui perché aveva di nuovo la faccia di chi aveva morso un limone. Quando c’era Albus non teneva le sopracciglia contratte come un pugno. “Siete sicuri che riuscirete a portare Al fuori prima che se ne accorgano?”
Ecco, appunto.
“Ci hanno appena chiamato dalla nave, la squadra di sfondamento agirà pochi secondi dopo quella di Sonny … avranno l’attenzione rivolta altrove.” Lo rassicurò Scorpius. “Tom, sappiamo quel che facciamo.”
“Me lo auguro.”
Hugo soffocò un sorrisetto quando notò Ama alzare gli occhi al cielo e mordersi la lingua. Intercettò il suo sguardo e questa lo distolse di nuovo.
… ma che ho fatto?
Si sentiva proprio scemo ad aver gongolato qualche ora prima con Lily.
Magari mi ha baciato così, in botta di adrenalina.
Scorpius si strinse nelle spalle. “Beh, se non noi almeno il Capo Potter, giusto?”
Tom a questo non ribatté, perché anche se faceva tanto lo stronzo appena si nominava l’autorità di zio Harry diventava mansueto come un agnellino. “Con tutte le volte in cui Al è svenuto potrebbero cominciare a sospettare qualcosa …” Non riuscì però a trattenersi. “Per fortuna il Mercemago è sotto Imperio e la Von Hohenheim è dalla nostra parte.”
“Lo è?” Domandò Ama con tono da Grande Inquisitore.  
“Il nemico del mio nemico è mio amico.” Scrollò le spalle. “Doe è morto. Tra Luzhin e gli Auror credo sceglierà loro pur con l’opzione arresto in ballo. Vuole vivere.” Si stese di nuovo sul lettino.  
Aspetta!” Lo fermò Scorpius dato che aveva già chiuso gli occhi e si era puntato la bacchetta alla tempia, pronto a scivolare di nuovo nell’incoscienza. “Abbiamo trovato Prince, è qui al San Mungo … non è messo benissimo, ma secondo i Guaritori se la caverà.”
Hugo contemplò l’espressione dell’altro rischiararsi di puro sollievo. E pareva proprio lui, non Albus. “Bene. Grazie per avermelo riferito.” Ribatté con una certa rigidità. “Può essere un’ulteriore leva con sua madre. Non credo tenterà colpi mancini, ma meglio prevenire.”
“In bocca agli Inferi.” Sorrise Scorpius. “ … e tenete duro, è quasi finita.”
“Non gufarcela, Malfoy.”
Quando Tom fu di nuovo nel mondo dei sogni – o roba del genere – Scorpius tirò un profondo sospiro. “Non ci resta che incrociare le dita.”
“Già.” Convenne Ama e ad Hugo parve trovasse un po’ troppo interessante il vaso da notte accanto al letto. “A proposito di quel whiskey incendario Malfoy…”
“Oh, sicu…” Poi si bloccò. Lo fissò … e fece un’espressione buffa, una delle sue, scuotendo rapidamente la testa. “Mi sa che dovrà aspettare, Gillespie. Vado a vedere come stanno …” Gonfiò il petto. “… mia moglie e il mio fagiolino! Mi aspettano!”
“Il tuo … cosa?”
“Ci teniamo aggiornati con gli Specchi Comunicanti! Sayonara!” Trillò dandosela letteralmente a gambe.
… lo ha fatto per lasciarci soli?
Hugo non fece in tempo a chiederselo perché Ama si schiarì la voce. “Meglio che vada controllare che non siano arrivate nuove comunicazioni dalla nave.” Proclamò come se dovesse obbligarlo a fare cinquanta flessioni.
Oh, okay, chiaro.
Non avrebbe dovuto sentirsi così deluso, se ne rendeva conto. Teoricamente erano soltanto due sconosciuti che avevano passato qualche ora allucinante assieme e si erano scambiati un bacio in mezzo al casino.  
Giusto?
Questo non lo faceva sentire meno da schifo. “Non è che mi devi niente.” Borbottò un po’ a caso.
Ama battè le palpebre. “In che senso?”
Non sarebbe mai stato bravo a gestire quelle situazioni. “Che non devi sentirti obbligata a trovare una scusa se non hai voglia di avermi attorno.”
Doveva aver di nuovo detto la cosa sbagliata perché Ama gli scoccò un’occhiata sbalordita. “E chi ha detto che non voglio stare in tua compagnia?”
Hugo boccheggiò. Quindi aveva preso una cantonata? Non avendo idea di come fare dietrofront optò per la verità. “Da quando sei qui non mi hai guardato neanche in faccia neanche una volta ed è tipo è il sottotesto per…”
“Non è il sottotesto per niente.” Lo fermò secca. Poi, a sorpresa, si sedette sul letto davanti a lui. “Scusami Hugo.” Disse sciogliendo l’espressione in un sorriso.
Di colpo si trovò nella scomoda posizione di volerla toccare. Quindi gli parve doveroso strofinarsi le mani sudate sui pantaloni. “E … ehm, per cosa?”
“Quando lavoro cerco di non distrarmi e, nel farlo temo di diventare un po’ … brusca.”
“Ti ho … distratto?”
“Da quando sono entrata.” Mormorò con una smorfia imbarazzata così carina che se la sarebbe baciata di nuovo.
E lo fece. Aveva sempre pensato che Lily fosse un po’ matta a pomiciare con gente appena conosciuta o saltare allegramente addosso a qualcuno senza controllare che il momento fosse quello giusto o meno.
Forse però non era una cattiva idea perché Ama ricambiò passandogli le braccia attorno al collo con un certo trasporto. Hugo dovette puntellarsi per non crollarle addosso e, di striscio, non buttare giù Tom a pochi centimetri da loro.
Si staccò per controllare e okay, gli stava sorridendo. “… non sei servizio davvero, eh?”
Ama ridacchiò. “No … direi che il mio turno è finito salvando la pelle a Prince.” Sospirò. “Vorrei rimanere qui per restare aggiornata sul blitz però. Non era una scusa.”
“Che ne dici di un caffè schifoso della caffetteria allora? Possiamo aspettare … uhm, assieme.” Offrì aiutandola a tirarsi su. Aveva la testa leggera e doveva essere per la deprivazione di sonno, garantito. Magari sarebbero arrivate anche le allucinazioni.
Ama gli strinse un braccio. “Mi piacerebbe molto.”
… se però avevano il viso di Ama Gillespie, diavolo, a lui andava benissimo.
 
****
 
 
Accadde tutto in pochi attimi e, avendo passato giorni in quella nave, gli sembrò quasi un allucinazione.
Avendo lasciato il controllo a Tom vide tutto da dietro le quinte: udì il compagno dire a Sophia di spostarsi e poi la risposta della donna, che giustamente gli fece notare di non potersi muovere.
“Ovviamente.” Ringhiò. E poi con un ultimo, rabbioso grumo di frasi ruppe finalmente l’Incarcerarmus che bloccava le mani; afferrò Sophia come una bambina e la tirò su.
 
Ringrazia i miei muscoli!

Il Mercemago si mosse immediatamente, tirando fuori la bacchetta e intimandogli qualcosa in tedesco.
Tom lo ignorò, perché come lui sentì le vibrazioni del pavimento. La squadra di sfondamento era a pochi centimetri di distanza. Con Sophia tra le braccia schivò lo Stupeficium dell’uomo, scivolò contro uno scaffale di ingredienti ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Sophia gridò.
E poi un cigolio, uno schianto e la parete di metallo si aprì come un fiore gigantesco, rivelando la prima fila di Auror che scaricò sul Mercemago un arsenale di incanti. Questo sbattè contro la parete liquida di magia dietro di lui e non si mosse più.
Forza, forza, forza!” Intimò quello che riconobbe come Sonny Guglani, tre anni avanti a loro ad Hogwarts, ex-Grifondoro ora Sergente Auror fresco di nomina. “Potter, muoviti!”
Tom corse verso gli Auror, passando ad uno di loro Sophia. “Lei viene con noi.” Disse senza troppe cerimonie. Poi si fece aiutare a scavalcare la paratia divelta.
Al trattenne il fiato mentre vennero circondati dai mantelli rossi degli Auror e iniziarono a correre. Dietro di loro lo scoppio di incantesimi e grida gli segnalò che dall’altra parte del laboratorio avevano visto tutto e si erano mossi per fermarli.
Sperò che tra di loro non ci fosse Luzhin.
 
E poi sarei io il gramo.
Al serrò gli occhi, lasciando che Tom lo conducesse via di lì: fino all’ultimo non ci credeva, non voleva credere. Fino all’ultimo aveva il terrore che Luzhin si palesasse di fronte a loro e li uccidesse tutti.
Se la sarebbe tenuta a lungo quella paura, aveva idea.
Poi ad un grido di Guglani si fermarono. Al aprì gli occhi: erano sopra coperta, la luce lattiginosa dell’alba si rifletteva sul mare.
È l’alba …
Percepiva il respiro mozzato gonfiargli i polmoni e il sudore scendergli lungo la schiena: per Tom era lo stesso mentre gli Auror si disponevano in posizione di difesa attorno a loro.
“Ci siamo.” Sonny gli si avvicinò. “Adesso attiviamo la Passaporta, ma qualsiasi incantesimo tu stia usando devi scioglierlo. È troppo pericoloso tenerne uno attivo durante il viaggio.”

Come? Di che sta parlando?
 
Intende l’incantesimo delle Anime Comunicanti. Devo andarmene.
Non voleva. Il panico lo invase come una brutta febbre e il risultato fu relegare Tom al ruolo di spettatore mentre scuoteva concitatamente la testa. “No, devo…”
Al, ha ragione. Dobbiamo scioglierlo. Sei al sicuro, posso andarmene adesso.
Non lo era affatto. Luzhin poteva piombare su di loro da un momento all’altro, uccidere tutti gli Auror e trascinarlo di nuovo sotto coperta.
“Albus!” Lo richiamò Guglani mettendogli una mano sulla spalla. “Non c’è tempo, più stiamo allo scoperto più diventa pericoloso!”
Aveva ragione naturalmente ma non riusciva a muovere un dito.
… e quindi Tom lo fece per lui. Prese la bacchetta e se la puntò alla tempia.
No!
No, non andartene, non …

Aveva sopportato tutto fino a quel momento perché prima Sören, e poi Tom, erano rimasti con lui. Se l’avesse lasciato solo …
 
Me ne vado per averti qui con me, cretino di un Potter.
Va tutto bene.
 
Il mondo doveva essere andato davvero a rovescio se era Tom che lo riportava alla ragione e non viceversa.
 
Torna da me.
 
Va bene. Sto arrivando.
Prese il controllo della bacchetta. “Finitem incantatem.” Pronunciò e fu come sciogliersi da un abbraccio che l’aveva tenuto avvolto fino a quel momento: non fu piacevole per niente. La cosa lo sbilanciò anche perché dovette afferrare il braccio di Guglani per inciampare.
“Ci sei?” Gli domandò questo con urgenza.
Gli sorrise. “Sbrighiamoci.”
L’Auror annuì e lo afferrò per un braccio. “Non mollare la presa.”
Al chiuse gli occhi perché aveva imparato che era il metodo migliore per non star male durante l’uso di una Passaporta. E poi, perché era stufo di quel maledetto paesaggio marino.
 
Uno strappo, la sensazione di aria cacciata a forza nei polmoni e poi il mondo prese a vorticare attorno a lui come una girandola impazzita. Sentiva la mano di Guglani tenerlo con forza. Si domandò se Sophia fosse con loro.
Atterrò con malagrazia sul parquet lucido del San Mungo. Con tutte le volte che l’aveva calpestato ormai ne conosceva l’odore.
Riaprì gli occhi ed era proprio lì, nel suo ospedale: non era come essere a casa, ma ci andava maledettamente vicino.
Al!” La voce di sua madre lo fece scattare in piedi nonostante la nausea e la confusione. La vide dirigersi verso di lui, con i vestiti che usava per rilassarsi a casa, senza trucco e con i capelli raccolti sommariamente.
Mamma.
La riscontrò abbracciandola stretta e lasciando andare le lacrime.
“È tutto finito … sei al sicuro adesso.” Era finito ma non era tutto okay, ma andava bene comunque. Con la coda dell’occhio vide zia Hermione sorridergli e così Rose e Scorpius, che le teneva un braccio attorno alle spalle: era l’alba ma erano lì ad aspettarlo. Strinse forte la mano che la cugina gli porse, senza lasciare la presa su sua madre.
“Ti devo raccontare un sacco di cose.” Esordì Rose con gli occhi lucidi. “Te ne sei perse un po’.”
“In un paio di giorni?”
“Puoi giurarci mini-Potter!”
E Tom?
Dov’era?
Rose intuì perché si strinse nelle spalle. “È nell’ala Thickley. Conoscendolo sta urlando contro uno degli ascensori per farlo arrivare più velocemente.”
Sua madre gli asciugò le lacrime con un fazzoletto pulito; aveva il profumo del Mulino, di casa e mancò poco crollasse di nuovo. “Andiamo a cercarlo?”
Non fece in tempo a dirle che ci avrebbe pensato da solo che Tom uscì dalla porta di servizio: infuriato a morte a giudicare dalla faccia e con il respiro corto perché aveva la resistenza di un vecchio bisbetico che si era fatto tre piani di scale senza magia.
Gli corse incontro. Nei romanzi di amore una scena del genere era sempre corredata da una musica romantica e da un lento ma inesorabile gettarsi l’uno tra le braccia dell’altro.
Praticamente si placcarono come due giocatori di Quidditch particolarmente invasati e lui, che aveva decisamente più massa critica del suo scheletrico spilungone, rischiò quasi di sbatterlo contro un muro. L’altro, che in circostanze normali l’avrebbe maledetto, gli prese invece il viso tra le mani e rischiò di tirargli una testata sul naso nella foga di abbassarsi per far collidere le labbra.
Riuscirono comunque a baciarsi come se fosse la fine del mondo. O piuttosto, l’inizio.
Non si erano lasciati che da pochi secondi, sicuro, ma quello era il modo giusto per percepirsi. Non con una stramba magia sperimentale e pensieri connessi, ma con le mani, le labbra e l’intero corpo.
 
“Così questo è fare coming out?”
 
La voce di Scorpius, come al solito squillante, riscosse Al. Fece mente locale e quasi fece un salto indietro.
Per le sottane di Merlino!
Diventò paonazzo quando realizzò che aveva completamente scordato di dove si trovava, ma soprattutto davanti a chi.
Tom fece un ringhio non impegnativo, ma per fortuna non tentò di riacciuffarlo.
Per decenza davanti a zia Hermione, di sicuro.
Che però pareva l’unica sbalordita da quella loro performance: sua madre, a cui non aveva mai detto niente di niente e che però mai nulla aveva chiesto, aveva una singolare faccia assorta.
“Mamma …?” Tentò.
“Decisamente un coming-out.” Disse questa con tono quieto. Poi sospirò. “A tuo padre l’avete detto, vero?”
“Sì.” Rispose Tom a sorpresa. Alla sua aria sbigottita si strinse nelle spalle. “Comunque lo sapeva già.”
“Certo, lo sospettava come tutti.” Convenne sua madre scuotendo la testa con leggerezza, come se non avesse appena gridato ai quattro venti primo, la sua omosessualità, secondo, il suo coinvolgimento con Thomas Dursley.
“Io te l’avevo detto.” Borbottò Rose.
“Tra te e tuo fratello avete un modo tremendo di presentare le cose. Chissà da chi avete preso.”
“Io…”
Sua madre sorrise. Era il suo sorriso di sempre e non avrebbe dovuto esserne stupito, certo. Aveva digerito James, persino Lily e i suoi colpi di testa … eppure ne fu comunque sollevatissimo. “Lo amo …” Tentò più serio. “Io e Tom ci siamo sempre…”
“Amati.” Concluse zia Hermione con il tono di chi aveva tirato le somme ed era piuttosto insoddisfatta per non esserci arrivata prima. “Certo, l’incantesimo delle Anime Parlanti poteva funzionare solo qualora aveste avuto eventualmente un legame di sangue … ma non lo avete.”
“Ne riparleremo.” Ginny guardò Tom. “Portalo a casa.” Disse semplicemente. “Ne avete bisogno tutti e due.”
“Sì.” Convenne questo. “Harry?” Aggiunse.
“Farà il suo lavoro.” Tagliò corto. “Quando avrà finito vi farò mandare un Gufo…” Guardò verso i piani superiori. “Tua sorella è ancora qui per Sören. Resto con lei.”
“Voi due invece venite con me.” Interloquì Hermione con tono deciso rivolta a Scorpius e Rose. “Tu sei incinta e sei stata fin troppo in piedi e tu…” Lo guardò con malcelata simpatia. “Ora che sei di famiglia ho come l’impressione che debba tener d’occhio anche te.”
“Certo mamma Hermione!”
“Scorpius!”
Tom gli tese la mano senza una parola. Al ricambiò il sorriso di sua madre e la prese, lasciando che l’altro li Smaterializzasse.
 
Meike ancora dormiva quindi non si disturbarono a svegliarla. Tom si ripromise comunque di farlo a mattina inoltrata per farsi prepare la colazione.
Una colazione con tutti i crismi, come piaceva ad Al. Al, che senza neanche spogliarsi degli abiti sporchi e strappati della nave si buttò sul letto.
Rinunciò a farglielo notare quando capì che non era quello il punto. Non in quel momento.
Si stese invece accanto a lui, i visi alla stessa altezza.
“È strano…” Mormorò Albus socchiudendo gli occhi e passandogli una mano sulla guancia. “… averti davanti dopo averti avuto tutto il tempo nella mia testa.”
“Sì, lo è.”
“Molto meglio però. È assurdo, ma mi sei mancato.” Sorrise appena. “Mi è mancato toccarti.”
“Idem.”
“ … è finita? È successo tutto così in fretta…”
“È finita.” Lo rassicurò. “Harry penserà al resto.”
Tom non si illudeva che sarebbe passato tutto con una bella dormita e una lunga doccia; quello che Albus aveva passato avrebbe avuto strascichi per giorni, settimane e forse mesi.
Luzhin non sarebbe uscito tanto presto dalle loro vite, come non lo aveva fatto Von Hohenheim. Ma lo avrebbero affrontato assieme e questo faceva tutta la differenza del mondo.
 
 
Al gli si rannicchiò contro, come faceva quando erano bambini, nel letto che dividevano nelle lunghe estati alla Tana: Al era ancora quel bambino d’estate, che gli tendeva la mano tra i campi di orzo e gli salvava l’anima. Ogni volta.
“Rimani qui fino a che non mi addormento?”
“Non me ne andrò.” Ci pensò su. “Non me ne andrò mai.”
“… è una minaccia Signor Dursley?” Bisbigliò al suo orecchio, nel tono del sonno mischiato comunque ad una certa malizia. Eccolo, il suo Albus Severus.
“Mi hai voluto. Non puoi più liberarti di me Potter, sono persino nella tua testa adesso.”
Sentì le labbra di Al premergli un sorriso sulla pelle. “Tutto è andato secondo i piani allora…”
Tom lo strinse baciandogli la testa arruffata. “Bentornato a casa.”
E finalmente arrivò il sonno.
 
 
And in the morning I'll be waiting,
For your never-ending wave
 
****
 
 Note:

Qui la canzone nuovo capitolo e qui quella finale.
 

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Capitolo 72
*** Capitolo LXXI ***


 



 
 
I want the flame without the burning
(Deep Water, American Authors)



 
Harry Potter aveva partecipato a tanti di quei blitz che ormai non riusciva più a contarne il numero; negli anni la frequenza si era ridotta, ma l’adrenalina rimaneva quella di quando era ragazzo.
Come identico rimaneva l’instante il cui veniva dato il segnale alla squadra di sfondamento; identico anche il momento in cui le sfere di polvere Buiopesto venivano lanciate liberando nell’aria una nuvola scura.
Ed è quello che accadde al grido di incitamento di Ron; la squadra di sfondamento fece saltare con un Confringo il portellone che separava i due magazzini; quello in cui si erano nascosti e quello in cui era stato allestito il laboratorio.
La seconda linea, quella della squadra di Savage, lanciò le Buiopesto che si infransero con precisione collaudata in più punti, liberando la polvere nell’intero ambiente.
Protezioni su!” Urlò Ron e Harry, come gli altri, fu lesto ad agganciare la maschera di protezione che avrebbe permesso ai suoi polmoni di evitare una crisi respiratoria in piena regola; avevano infatti appena scaricato diversi chili di polvere che, dai rantoli dei Mercemaghi più vicini all’ingresso, aveva già fatto parte del proprio lavoro.
Furono poi avvolti in una nebbia senza uscita e Harry vide sparire le proprie mani come la bacchetta. A quello serviva il resto della maschera, che includeva anche una protezione per gli occhi; il congegno era stato un regalo del DALM Americano come attestato di amicizia e tutte quelle belle cose diplomatiche che, una volta tanto, erano tornate utili; mentre la parte inferiore permetteva di filtrare la maggior parte di polvere, eventuale veleno o tossine, la parte che proteggeva gli occhi era vetro temprato magicamente per poter rilevare le tracce termiche.
Nora cinque anni prima gliene aveva spedite due casse e si premurava sempre di mandare un rifornimento ad ogni nuova infornata di reclute.
 
“Attenti!”
“Alzate gli scudi!”
 
I Mercemaghi però smaltirono rapidamente l’effetto sorpresa. E non era soli. Da quel che aveva detto Albus con loro c’erano anche i primi pazienti del San Mungo, quegli Infetti che tanto panico avevano seminato nella Gran Bretagna magica; arrivò così la prima scarica di fatture e maledizioni che la squadra di Savage deflesse con Sortilegi Scudo potenziati. L’onda offensiva fu così potente che quasi riuscì a penetrare la loro difesa.
“Ci vedono!” Esclamò James di fianco a lui in parte soffocato dalla maschera.
“No, ma percepiscono la nostra aura magica … è forse è peggio.” Ribatté, spalla contro spalla, le schiene che aderivano alla paratia metallica: solo quella misera lastra di acciaio li separava dal laboratorio e da Luzhin.
Harry era nella terza squadra, quella di rinforzo: non era stato d’accordo fino all’ultimo ma Ron gli aveva fatto notare, con una certa brutalità ad essere onesti, che erano passati anni dall’ultimo blitz veramente fisico a cui aveva partecipato e che quindi non era un’idea brillante far parte della prima linea, quella più esposta al fuoco nemico; a malincuore gli aveva dato ragione.
Però.
Ad ogni attimo che passava, ogni urlo che sentiva, ogni scoppio di incantesimo che gli sfrecciava vicino, sempre più vicino, sentiva i muscoli tendersi, le mani bruciare e quella spinta, quella maledetta spinta verso lo sconto intensificarsi: gli era sempre sembrato di esserci nato e un po’ era così.
Dovresti guidare i tuoi uomini, Salvatore, non nasconderti dietro di loro.
“Papà?” Lo chiamò James.
“La seconda squadra dovrà mettere in sicurezza il perimetro prima la nostra squadra intervenga.” Mormorò a denti stretti; non fu sicuro di averlo ricordato al figlio o piuttosto a sé stesso.
“Sì, okay, ma … la tua bacchetta …”
“ … Cosa?” Harry abbassò lo sguardo: stava sprizzando scintille.
Quel piccolo psicopatico è di là, ed Al … sono riusciti a portarlo in salvo?
Tirò un respiro profondo cercando di calmare il battito furioso che sentiva in gola. “Una volta avrei avuto più sangue freddo.” Ammise.
James emise un suono frustrato, quasi a segnalarsi che no, non se la sarebbe bevuta come una recluta in adorazione. “Ma quando mai?”
“Ehi.”
“Papà, vuoi prendere quel bastardo di Luzhin e ti giuro che sono con te al cento per cento. Ma …” Non riusciva a vedere suo figlio in faccia, coperto dalla maschera, ma poteva indovinarne l’espressione. “… dobbiamo seguire gli ordini.”
“Non sono mai stato bravo in quello.”
“Mi sa che l’ho presa da te allora.”
 
 
“Avanzate!”

La voce di Ron, resa più potente da un Sonorus, echeggiava nell’hangar. Dagli scoppi violenti e dal rumore di scontro la squadra si sfondamento stava avanzando come previsto.
Il piccolo esercito che Luzhin aveva creato era un concentrato di energia ingovernabile, ma al momento erano resi ciechi dalla Buiopesto e tenuti a bada da sortilegi Scudo: la formazione a testuggine che aveva adottato la squadra di Ron non permetteva loro di scagliarsi con violenza cieca contro il primo obiettivo disponibile perché tutto ciò che trovavano era invece un muro di compatto.
E questo avrebbe permesso alla seconda squadra di lanciare loro Impedimenta e incantesimi di Pastoia. Poi, e solo poi, sarebbe intervenuta la terza e ultima squadra, quella di Savage a cui lui e James si erano aggregati.
“Sta funzionando!” Esclamò James rischiando un’occhiata oltre la porta. “Stanno indietreggiando!”
“Tuo zio è uno degli strateghi migliori della Gran Bretagna magica.” Convenne con un mezzo sorriso.
E pensare che voleva finire i suoi giorni come commesso ai Tiri Vispi …
Harry non aveva avuto bisogno di riflettere prima di dare il benestare a quel piano.  
 
 “Seconda Squadra, adesso!”

L’effetto della Buiopesto si stava diradando e quindi Harry poté vedere i bagliori degli incantesimi riflettersi sulle pareti di fronte a sé.
Giallo, Pastoia … celeste, Impedimenta.
Luzhin poteva essere un piccolo mago oscuro in erba, ma aveva commesso il classico errore del principiante: richiamare a sé le proprie forze per proteggersi, invece che dividerle e costringerli ad una guerriglia per tutta la nave.
 
“Terza squadra!”

Il richiamo lo strappò dalle proprie riflessioni. Era arrivato il loro momento: diede una pacca sulla spalla di James, che schizzò in piedi, lanciandosi fuori con il giovane leone che era.
“Capo!” Lo apostrofò Savage affiancandoglisi. “Se vuole guidare …”
“Lascio a te la Pluffa, Peter.” Gli sorrise. “Il mio obiettivo è Luzhin.”
“Sissignore!”
L’uomo, seguito dagli altri auror, si infilò a testa bassa in quella che ormai era poco più che una foschia grigiastra. A metà dell’enorme stanzone era chiaramente visibile la formazione di Auror e i Sortilegi Scudi che li proteggevano.
Dov’è Luzhin?
Oltre l’assemblamento di auror forse? Metà dell’hangar era ormai messo in sicurezza, vuoto ad eccezione di ciò che era stato rovesciato e distrutto nello scontro. Non era lì.
Dov’è?
Una mezza dozzina di voci pronunciarono l’Incanto di Stasi che avrebbe messo fine a quel blitz: non vi furono contro-attacchi. Gli Infetti non reagirono, molto probabilmente perché incapacitati dall’operato della seconda squadra.
Dov’è?
Harry si spazio tra i suoi uomini raggiungendo Ron al centro della testuggine. “Dov’è?” Gli domandò come un disco rotto.
Questo si voltò per guardarlo confuso. “Chi…?”
“Luzhin.”
“Lì in mezzo.” Disse con sicurezza. “Savage!” Chiamò poi. “Rapporto!”
 
Furono pochi minuti, ma pieni di tensione; la terza squadra era infatti uscita dall’area protettiva degli scudi per raggiungere gli Infetti, dato che l’incantesimo di Stasi poteva essere lanciato soltanto a corto raggio. James era con loro.
“L’area è in sicurezza!” Urlò infine la voce del decano.
Harry vide le spalle dell’amico crollare dal sollievo, anche se attese comunque qualche attimo prima di far cenno di sciogliere gli incantesimi di difesa.
Oltre a loro giacevano i corpi esanimi di una dozzina di Mercemaghi; erano legati da una rete di magia violetta, l’incantesimo di stasi che li rendeva inoffensivi come neonati.
Harry e Ron si mossero per raggiungere la squadra di Savage, che girava tra gli Infetti controllando forse con zelo un po’ eccessivo che gli incanti fossero ben eseguiti.
Anche se in questo caso, forse lo zelo standard non è abbastanza.
Guardò ogni singolo volto: maghi adulti, maghi con cicatrici, maghi di ventura.
Nessuno di loro era un ragazzo giovane, dai capelli biondi ed occhi dal taglio slavo.
“Luzhin non è qui.” Mormorò, o almeno gli parve di farlo: Ron, e James che li aveva raggiunti, si voltarono di scatto come se avesse urlato.
“Sei sicuro?” Ron diede un’occhiata sommaria e proruppe in un’imprecazione. “Dove diavolo…”
“È andato dietro ad Al!” Proruppe James impallidendo. “E ora che ci penso, non dovrebbe esserci anche quel tizio di cui Albie ci ha parlato? Quel pozionista? Forse lo hanno inseguito!”
Ron sorrise feroce. “Non credo proprio. Guglani si è appena messo in contatto con noi, Peterson ha ricevuto la comunicazione. Albie è arrivato al San Mungo sano e salvo. Con lui c’è anche la Von Hoenheim.”
“No.” Disse. “È scappato.”
James esplose in un’esclamazione colorita, che gli sarebbe valsa una strigliata se fossero stati in altri frangenti. “Quei bastardi se la sono data a gambe mettendo in mezzo i Mercemaghi! Ecco perché erano tutti radunati qui!”
Harry strinse la bacchetta in pugno: c’era un solo buco da cui quel codardo e il suo topo da laboratorio potevano essere sgusciati.
Lo stesso da cui la squadra di Guglani aveva estratto Albus: quello che avevano creato loro.
“Papà, cosa …”
La voce di James gli giunse ovattata. Un passo dietro l’altro, la bacchetta bollente tra le dita. Non era ancora finita.
“Papà!”
“Harry!”
Perché era il momento di entrare in azione.
 
 
****
 
Londra, Ospedale San Mungo.
Reparto Lesioni Magiche.
 
Qualunque cosa avessero fatto a Sören su quella nave se la sarebbe portata dietro a lungo.
Lily amava rifugiarsi nella maschera della testa leggera quando le cose si facevano emotivamente difficili. Era conveniente ed era anche un modo tutto sommato positivo di reagire ai problemi: ma quando avevano portato il suo tedesco nella stanza assegnata dopo un intervento durato un’ora, un tempo enorme per la Medimagia, le era stato impossibile fingere.
Aveva a malapena dominato un fiotto di lacrime quando aveva notato, oltre le bende, quello che era rimasto al posto del braccio sinistro; un moncherino amputato fin sopra al gomito.
Aveva tenuto duro solo perché in presenza di Achille Light e di un paio di portantini: era stata una questione di orgoglio professionale.
“Si rimetterà, sta solo smaltendo gli effetti della pozione anestetica.” Gli assicurò il Guaritore amico di Al con un sorriso imbarazzato.
Forse non aveva fatto ‘sto gran lavoro di mascheramento.
“ … Come sta?”
“Non aveva ferite gravi, a parte quella al braccio. Una leggera commozione, ma qualcuno dev’essere intervenuto perché c’era già un incantesimo di guarigione in atto quando abbiamo controllato.”
“Dev’essere stato Al …” Ribatté avvicinandosi al letto dove i due portantini lo avevano adagiato: il suo amore era così pallido e sembrava terribilmente giovane, persino più giovane di lei con tutte quelle fasciature e il camice dell’ospedale. Gli passò le dita tra i capelli e li riavviò perché non gli ricadessero sul viso.
“Oh, allora ha senso che non fosse così messo male!”
“Il braccio, Achille…”
Il ragazzo si strinse nelle spalle. “Tra qualche mese, quando la ferita sarà del tutto guarita potrà utilizzare una magi-protesi. Sarà come se non lo avesse mai perso!”
Gli sorrise di rimando, ma senza intenderlo: Achille era un Guaritore di Lesioni, e parlava della ferita fisica. Lei era una Psicomaga: vedeva le ripercussioni nel lungo periodo, specialmente considerando il lavoro che Ren svolgeva. A tanti Auror mancavano pezzi, ma quelli a cui mancava un arto spesso venivano relegati per sempre dietro una scrivania.
La minaccia di diventare un timbracarte, per il suo soldato coraggioso, sarebbe stata la cosa più difficile da digerire.
… ma ci sono io. Non gli permetterò di affrontarlo da solo.
Rinfrancata da quella silenziosa promessa salutò il Guaritore e si apprestò a fare quello per cui era venuta; appellò quindi una delle poltrone per visitatori, la spostò il più vicina possibile al letto e si sedette. Intrecciò le dita a quelle dell’altro. “Sono qui, Ren…” Mormorò piano. “Non ti lascio, sta’ tranquillo.”
Una lieve pressione sul palmo le fece intuire che, anche se non cosciente, aveva percepito le sua presenza.
“Ti amo…” Inspirò mentre un paio di lacrime di sollievo, preoccupazione e felicità, tutto assieme mischiato, le rotolarono lungo le guance. Ora che erano soli poteva lasciarle uscire. “Ti amo così tanto, brutto testone… grazie a Merlino sei tornato.”
Sarebbe sempre stato così? Il terrore, poi il sollievo di riaverlo tra le sue braccia e infine il conto delle ferite?
Come diavolo faceva sua madre a non aver voglia di urlare?
Jamie e papà sono ancora in quell’inferno …
Se non avesse disturbato il riposo dell’altro si sarebbe messa sul serio a gridare contro ignoti.
“Ehi.” Doveva essere una cosa delle madri, sentirsi chiamate in causa anche se non presenti. Ginny entrò con una tazza di the in mano. “Come sta?”
Si strinse nelle spalle, perché non le venivano le parole. Forse dopo, quando l’avrebbe visto sveglio. “… se ti chiedo di correggermelo con del Whiskey incendiario?”
“Non lo vendono nella sala da the al Quinto o te l’avrei preso.” Replicò sullo stesso tono prima di Appellare una poltrona e sedersi accanto a lei. “Resto qui con te se non ti do fastidio.”
“Per niente.” Scosse la testa mentre ormai le lacrime scorrevano libere da costrizioni. Sua madre la lasciò sfogare, limitandosi a strofinarle la schiena con una mano: un gesto che la riportò a quando era bambina e quando il dolore che provava era solo per una sbucciatura.
“Albie è tornato.” La informò e sì, era una cosa importante. Importantissima.
“… è qui?”
“No, Tom lo ha portato a casa. Lo vedrai domani.” Anticipò la sua domanda.  “Tom lo veglierà come una chioccia tetra e ansiosa…” Sbuffò, strofinandosi il viso con una manica della felpa. Poi fece la domanda che le girava per la testa da quando era iniziato il blitz: del resto, aveva davanti l’interlocutrice giusta. “Diventa più facile … dico, con il tempo?”
“No. E vorrei dirti che ci si abitua, ma anche questo non sarebbe vero.”
“… ah, beh. Meno male.”  
“Noi Weasley ci scegliamo degli uomini terribili tesoro.” Sospirò. Poi lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e sorrise. “Per fortuna, passano tutta la loro vita a dimostrarci quanto valga la pena amarli.”
Lily guardò Sören, l’espressione severa che non si scioglieva neanche nel sonno, le labbra sottili che, quando sveglio, si aprivano in uno dei sorrisi più belli del mondo e per baciarla come se fosse l’ultimo giorno delle loro vite.  
Sbrigati a svegliarti. Ho bisogno che tu mi stringa.
“Vero.” Accettò la tazza di the con un sospiro. “Quindi siamo fregate?”
“Puoi giurarci.” Convenne seria. “Non è questo l’amore?”
Lily ci rifletté tirò su con il naso. “Lo è, e ti rende scemo.”
“Certo che sì!” Ridacchiò sua madre. “La mia prima cotta per tuo padre fu imbarazzante.”
“Almeno non sei scappata in un altro Ministero per seguirlo.”
“Papà ti potrà raccontare di un raccapricciante biglietto di San Valentino musicale.” Inspirò e si mise a canticchiare. “Occhi verdi e lucenti di rospo in salamoia…” Fece una faccia schifata facendola ridere. “Rischiai quasi di farlo gettare dalla torre di Grifondoro per l’imbarazzo. Penso che avere reazioni fuori scala quando si è innamorate è una cosa che hai ereditato da me tesoro, mi dispiace.”
“A me no.” Le strinse la mano con affetto.
 
Un distinto bussare alla porta della stanza le fece voltare. Davanti a loro c’era Sonny Guglani, che ricordava ex studente di Grifondoro.
“Lily … Signora Potter.” Salutò cortese. “Mi dispiace disturbarvi ma ho una richiesta da parte di Lady Von Hohenheim.”
Sophia Von Hohenheim. La madre di Ren.
Si alzò in piedi di scatto e sua madre fece lo stesso, anche se con più calma. “Che cavolo vuole?” Domandò brusca.
L’auror fece un istintivo passo indietro e non poteva dire di non capirlo: glielo avevano detto tutti che quando era arrabbiata aveva il carisma spaventoso di nonna Molly. “… ha chiesto di poter salutare suo figlio prima di essere riportata ad Azkaban.” Spiegò a disagio. “Rimarremo con lei e sarà una cosa breve.” Aggiunse volenteroso.
“Non è questo il punto!”
Con tutto il male che quella terribile famiglia aveva causato a Tom ed a Ren, per quanto la riguardava, Lady Von Hohenheim poteva essere gettata in una buca profondissima per il resto dell’eternità.
“Ha una bella faccia tosta a pretenderlo dopo quello che il suo uomo ha fatto al mio ragazzo!”
“A quanto ha detto Al, è stato Luzhin a ferirlo…” Obiettò sua madre con pacatezza.
Sul serio?!
Non poteva giustificare con quella stronza!
Io l’ho fatto e non me ne sono mai pentita tanto come adesso!
Perché Sophia era su quella nave ma non aveva fatto niente per proteggere suo figlio.
Sonny spostò il peso da un piede ad un altro guardando verso sua madre in cerca di un cenno di via libera – ovviamente. “La porterei via, ma per la legge magica rimangono madre e figlio. In teoria è diritto di Lady Von Hohenheim familiare…”
“Familiare un cavolo!” Sbottò furiosa. “Sono io la sua famiglia! Io e Milo Meinster!” Aggiunse, perché era certa che se il ragazzone fosse stato lì si sarebbe unito a lei nell’impedire alla Stronza di entrare. Anche fisicamente se necessario.
“Lily …” Sua madre le appoggiò una mano sulla spalla. Alla sua faccia incredula sospirò. “Sei arrabbiata, ed hai tutte le ragioni. Ma verrà punita e quello che chiede è solo di vedere suo figlio per un’ultima volta.”
“Non è mai stata una ma…”
“Non puoi saperlo.” Bloccò la sua protesta. “Non riguarda te … ma Sören e sua madre.” Fece un sospiro. “Dobbiamo starne fuori.”
Lily chiuse la bocca: fremeva dalla voglia di mettersi in mezzo, di gridare che nessuno avrebbe fatto male a Ren, mai più, neanche e soprattutto sua madre. L’avrebbe uccisa se avesse tentato di ferirlo ancora.
… il che probabilmente era irrazionale dato le contingenze.
Si morse un labbro. “Falla entrare Sonny.”
Sua madre le passò un braccio attorno alle spalle, in parte per confortarla ma sospettava anche per tenerla ferma mentre Lady Von Hohenehim entrava nella stanza.
La prima cosa che la strega fece fu guardare nella loro direzione; assomigliava più a Tom, nella figura e nella fisionomia. Pur essendo appena uscita da ore di inferno manteneva un contegno che in parte gliela rendeva ancora più odiosa e in parte – piccolissima comunque! – gliela faceva ammirare. Persino il vestito, che una volta doveva essere un superbo esemplare da sera adesso spiegazzato e sporco, gridava vecchia nobiltà europea, la stessa che aveva visto alle feste del Ministero e che le ricordavano un libro della Austen.
“Lei deve essere la fidanzata di mio figlio.” Esordì in un inglese compito.  
Raddrizzò le spalle e ce la mise proprio tutta per condensare in una smorfia quello che provava. “In persona. Mi scusi se non le stringo la mano ma non ne ho per niente voglia.”
Sophia inaspettatamente le sorrise. “… Capisco. Adesso comprendo molte delle conversazioni avute con Sören.”
Eh?
Cercò chiarimenti da sua madre, ma questa pareva concentrata nell’analizzare l’altra strega.  
…  vai mamma! Falla nera!
Purtroppo però dovette giungere ad una conclusione completamente diversa dalla sua.
“Sören si riprenderà. Ha subito un intervento importante e lo sta smaltendo … adesso dorme, ma gli diremo che è passata.” Disse con tono amichevole, come se si conoscessero da sempre. E sua madre faceva così con tutti okay, ma con la Stronza?!
Mamma?!
Il fatto che continuasse a tenerla stretta a sé non aiutava. Avrebbe voluto divincolarsi, che non era una ragazzina e …
… No, era una ragazzina ed era meglio lasciar fare a chi aveva vissuto più compleanni di lei. Questo le disse l’espressione di Ginny Weasley ed essendo una LeNa non c’era proprio modo di ignorarlo o fraintenderlo.
Cavolo.
La tedesca fece un lieve cenno con la testa: un ringraziamento, un assenso?
Incrociò le mani in grembo e Lily notò che erano strette. Forte. E notò un’altra cosa: giocherellava con l’anello col blasone, facendolo girare sul dito.
Come fa Ren quando è nervoso …
Era incredibile: non l’aveva cresciuto, eppure era riuscita a passargli un piccolo gesto che significava un intero spettro di emozioni.
La rabbia che la infuocava cedette il posto a qualcos’altro.
Principalmente, stanchezza.
“Le lasciamo un po’ di privacy.” Sua mamma la pilotò con gentilezza verso la cornice della porta. Ebbe il buonsenso di lasciarle comunque la possibilità di monitorare la scena.
Sophia Von Hohenheim si avvicinò finalmente a suo figlio. Accanto sembravano due estranei eppure Lily aveva capito che, in qualche strano modo, dopo quell’esperienza non lo sarebbero stati più.
Perlomeno non da parte di mamma Von Hohenheim. Lily, perché era sé stessa e sarebbe nata e morta impicciona, si sfilò l’orecchino di controllo e si concentrò.
Percepì un grumo di sentimenti, sottili come un filo di ragnatela, avvolgerla.
Erano un bel po’ e tutti mischiati assieme: curiosità, dispiacere, senso di colpa, paura. Confusione, quella ce n’era davvero tanta mentre Sophia guardava Sören.
 
Perché mi vuoi bene?
 
Non era una vera e propria frase quella che aveva appena ascoltato, ma se avesse dovuto riassumere quello che la tedesca emanava per tutta la stanza, l’avrebbe fatto con quella domanda.
 
Non è stato tutto orribile allora.
 
Anche quella era una sintesi ma Lily non aveva idea di cosa volesse dire. Forse si riferiva all’esperienza sulla nave?
Sophia si chinò e sfiorò la fronte di Sören con un bacio: un gesto materno, l’avrebbe potuto catalogare solo così visto che ne aveva ricevuti a tonnellate da bambina.
Sophia si raddrizzò come se fosse lei stessa la prima a sorprendersi per quell’impulso.
Si voltò verso di loro ed era di nuovo il manichino Purosangue di prima. “Vi ringrazio per avermi dato la possibilità di dirgli addio.” Disse senza emozioni.
Lily trovò corretto dire come la pensava, nonostante la stupida empatia a cui Morgana l’aveva condannata. “Non l’abbiamo fatto per te.”
Sua madre sospirò. “Spero che avrà la possibilità di riflettere su ciò che ha fatto, Lady Von Hohenheim … e prenda esempio da Ren. Ci si può liberare dal passato.”
Sophia le contemplò un attimo. “Libertà. È una bella parola.” Considerò prima di salutarle con un leggero cenno della testa; si diresse poi verso Sonny, che era rimasto fuori dalla porta ad attenderla. “Addio Signora e Signorina Potter.”
Quando fu certa che fosse ormai lontana, specialmente dalle loro vite, Lily inspirò profondamente. “Sono stata brava?” Ironizzò agganciando nuovamente l’orecchino di controllo. “Perché volevo saltarle alla gola.”
Sua mamma scosse la testa. “Non si è affatto notato.” Sbuffò ma era divertita.
“… ma in una scala di reazioni tutta Weasley? Sei stata ineccepibile.”
“Lo penso anch’io!” Si sedette riassumendo la posizione di prima. Dita intrecciate a quelle del suo amore e in attesa.
Non vedeva l’ora che si svegliasse.
 
****
 
Se c’era una cosa che gli era sempre stata chiara fin dalla guerra, era che quando si cacciava un nemico, tutti gli impulsi primari venivano messi in secondo piano. Fame, sete, sonno, scomparivano e rimaneva solo l’obiettivo.
Durante la sua carriera di Auror quell’assioma non era cambiato; era solo rimasto sopito dietro una scrivania, dietro una segretaria e troppe carte.
Ma al momento giusto si affacciava ed era una sensazione …
Harry non l’avrebbe definita positiva. Probabilmente non lo era.
Eppure, era così intensa da non rivaleggiare quasi con nient’altro.
Perché inseguire Luzhin e il suo Pozionista gli dava nuova linfa vitale, lo faceva essere più lucido, più forte.
Harry salì il secondo boccaporto, arrivando nell’ennesimo corridoio di servizio;  dovevano trovarsi sotto al ponte se il senso dell’orientamento non lo ingannava.
Staranno cercando di salire per prendere una scialuppa?
Non ne aveva viste quando si era Materializzato sulla nave, ma poteva non significare nulla.
L’unica via di fuga era verso l’alto.
Peccato che quando aprì con un Alohmora la porta di metallo rinforzato di fronte a sé non trovò altre scale, ma un enorme stiva riempita unicamente da container.
… un’altra?
Non era più grande del laboratorio dove aveva lasciato i suoi uomini, ma a differenza di quest’ultimo sembrava che Doe non vi avesse messo le mani. Non vi era traccia di magia e la luminescenza delle luci di emergenza rischiarava file e file di metallo e acciaio, nient’altro.
Ho sbagliato strada?
No, decise scendendo le scale che portavano a livello dei container; Luzhin poteva esser passato solo da lì, non aveva incontrato biforcazioni o ascensori di servizio.
Non sono solo.
Non poteva averlo distanziato così tanto. Inspirò leggermente e tirò fuori lo specchio comunicante dalla tasca del mantello.
Harry!” La voce e il volto stravolto di Ron riempirono l’interezza della superfice riflettente. “Dove diavolo…”
“Ho bisogno che tu mandi qualcuno sul ponte.” Lo interruppe. “Adesso.”
“Cosa…” Si mangiò evidentemente un insulto. “Harry, aspetta i rinforzi!”
“Tu fa’ quel che ti ho detto.”
L’amico stavolta si produsse in un’imprecazione che gli sarebbe valsa la scomunica da parte di Molly Weasley in persona ma si voltò per dare l’ordine. “Dove sei?” Ripeté.
“Sotto il ponte … credo che Luzhin e il suo Pozionista si stiano nascondendo qui, da qualche parte.” Si guardò attorno. “Potrebbero entrare due Sale Grandi qui dentro e forse metà Atrio del Ministero. Se devo cercarli, devo avere un buon motivo.”
Ron scosse la testa. “Non fare cazzate.” Poi si voltò di nuovo, stavolta per ascoltare la voce di qualcuno dietro a lui. “Hanno trovato qualcuno!”
“Luzhin?”
“No, dice di essere il Pozionista. Tentava di usare le scialuppe di salvataggio, ma Doe deve averle manomesse prima che arrivassimo.”
“È solo?”
“Non c’è nessun altro.”
Quindi Luzhin non era scappato assieme a Loher, il suo pozionista.
Perché qui?
C’erano solo due porte, lo poteva vedere anche da dove si trovava: quello da cui era entrato e una dall’altra parte che presumibilmente portava sopra coperta.
Perché non è scappato?
“Harry, stiamo arrivando, aspett…” Chiuse lo specchio con uno scatto secco. Una parte di sé era consapevole del fatto che Ron avesse tutte le ragioni ad intimargli di non proseguire oltre.
Il punto è che era lì, e che quel maledetto ragazzino non poteva essere da nessun’altra parte; niente più esercito di Mercemaghi drogati di Demiurgo dietro cui ripararsi.
Luzhin!” Urlò, perché non poteva impegnare la bacchetta in un Sonorus, non in quei frangenti. “È finita. Consegnati. Abbiamo Loher e il ponte è presidiato dai miei uomini, e così il laboratorio. Sei circondato.”
Nessuna risposta, ma non che se la fosse aspettata.
Le sue parole però avevano sortito l’effetto sperato; percepiva un formicolio alla nuca, ormai familiare come lo era il mantello foderato di rosso che indossava.
Non sono solo.
Il giovane tedesco emetteva così tanta magia che era percepibile, come uno ronzio lontano – non era un ronzio, ma era la cosa che più si avvicinava al descriverlo. Non poteva focalizzare il punto di origine ma era lì, vicino a lui.
“Non voglio esser costretto a toglierti la bacchetta con la forza, e non lo farò se uscirai disarmato.” Continuò con tono chiaro. “Søren.” Lo chiamò per nome voltandosi nella direzione del ronzio. “Esci fuori.”
Un’ombra spuntò da una fila di container ad una ventina di passi da lui.
Herr Potter.” Esordì. Aveva una voce giovane, con la stessa cadenza di Prince. “Mi sorprende che ci abbia messo così tanto a trovarmi.”
Harry fece un mezzo sorriso. “Perdona questa vecchia gloria di guerra.” Abbassò gli occhi e vide che il ragazzo impugnava la bacchetta. “Immagino tu non voglia seguire il mio consiglio.”
“Temo di no, Signore.”
Doveva cercare di farlo ragionare: al di là della sua personale voglia di fargliela pagare per aver rapito suo figlio e aver ferito Prince, non aveva nessuna intenzione di ucciderlo.
Perché non aveva dubbi su quello che i lineamenti del suo avversario annunciavano a grandi lettere.
Duello all’ultimo sangue.
“… anche se riuscissi a liberarti di me ci sono più di tre squadre dentro questa nave.” Si batté una mano sulla tasca interna del mantello. “Conoscono la mia posizione e, adesso, anche la tua.”
Luzhin sbatté le palpebre. Sembrò sorpreso dalla sua affermazione. “Pensava che stessi scappando?”
Harry aggrottò le sopracciglia: ora era lui ad essere confuso. “… non…”
“Non stavo scappando. Mi stavo facendo inseguire. E ci sono riuscito. Lei è qui Herr Potter.”
Volevi che ti inseguissi?” Capì di colpo. “Perché?” 
“Per realizzare il mio destino.” Fece un passo in avanti, ma vedendolo mettersi in posizione di difesa si fermò. Sorrise di nuovo, e Harry conosceva bene quei denti tirati indietro in un’espressione ferina e gli occhi fissi verso un obiettivo invisibile.
Bellatrix Lestrange.
Serrò la presa sulla bacchetta. “Non un passo in più!”
“Non ne avevo intenzione.” Mostrò le mani in un cenno di resa, vanificato in parte dalla presenza della bacchetta. In quella penombra piccoli bagliori azzurri ne scaturivano come scintille elettriche. “… non per il momento.”
“Søren, qualsiasi cosa tu abbia in mente…”
“Lei non potrebbe mai immaginarla, Herr Potter.” Lo interruppe. “È il problema delle menti limitate.”
“In cosa sarei limitato?”
“Io … lei … ci siamo incontrati per un motivo. Quante possibilità c’erano che il Magister perdesse abbastanza lucidità da decidere che quel inetto di suo nipote potesse sostituirmi?”
“Non molte?”
“Pochissime.” Convenne. “Quasi quanto quella che Doe decidesse di chiamarmi di nuovo in servizio, senza realizzare quanto lo odiassi dopo quello che mi era stato fatto. Dopo ciò di cui ero stato privato.” Serrò la mascella mentre la bacchetta continuava a sputare scintille.
Sta perdendo il controllo.
“Di cosa ti hanno privato?”
“Del mio destino.” Ripeté. Quindi era quella la parola chiave: predestinazione. Esistevano ancora maghi convinti di avere uno scopo più alto nella vita, che non fosse quello, banale, di viverla al meglio che potevano.
Voldemort, Grindenwald … Von Hohenheim. E ora Luzhin.
Finiranno mai?
“ … O almeno, così pensavo.” Aggiunse. “Non avevo capito che dovevo aspettare. Incontrare le persone giuste…” Chiuse gli occhi, quasi ad assaporare quello che sarebbe venuto dopo. “… ed arrivare a questo momento. Il mio momento.”
“E lo vuoi condividere con me?” Ironizzò, perché malgrado la situazione non poteva farne a meno; aveva già visto quel film, così come la fine. “Non mi darai un po’ troppa importanza?”
“Come i miei avi prima di me, il motivo per cui sono nato è combattere contro un grande mago.” Continuò ignorando la sua osservazione. “Contro il Salvatore dei Due Mondi.” Sogghignò. “E prendermi la sua vita.”
Ottimo.
Si era dimenticato com’era avere un bersaglio dipinto sulla schiena per colpa dei deliri di qualcun altro.
Non gli era mancato affatto.
Guardò verso l’ingresso da cui era entrato, ma ancora nessuna traccia di Ron.
“… E una volta che mi avrai tolto di mezzo, cosa pensi che accadrà?”
Luzhin non parve riflettere sulle sue parole, né considerarle degne di particolare attenzione. “Non mi interessa. Per il proprio destino si può anche morire.”
Ecco il punto di non ritorno, in quelle due semplici parole.
Ma come tutti i grifondoro, Harry non era tipo da non tentare un’ultima volta. “Søren … hai tutto il futuro davanti e…”
“Le consiglio di preoccuparsi del presente, Herr Potter.” Lo interruppe mettendosi in posizione di attacco. “E di farlo alla svelta.”
Harry inspirò sganciando gli alamari del mantello e gettandolo a lato; aveva incorporato un Sortilegio Scudo di buona entità, ma in quel caso avrebbe fatto meglio ad aver maggior libertà di movimento.
Gli sarebbe servita.
 
****
 
Per i Potter era sempre una questione di vita o di morte. Il mondo contro di loro, e loro contro il mondo.
C’erano momenti in cui Ron si pentiva di aver avuto la malaugurata idea di rivolgere la parola a quel ragazzino smilzo che era poi diventato il suo migliore amico.
Erano solo momenti, certo, ma a volte venivano rafforzati quando realizzava che i figli di quello stronzetto gracilino erano esattamente come lui.
In più, con la tempra ardente Weasley.
James!” Chiamò il nipote. Niente da fare, il ragazzo correva con l’energia dei suoi gloriosi vent’anni e non era facile riuscire a stargli dietro.
Sfortuna aveva voluto, inoltre, che quel dedalo di corridoi li avesse confusi facendogli prendere la strada sbagliata. James si sarebbe fatto agevolmente l’intera nave a quell’andatura, e forse anche i membri più giovani della sua squadra. Di certo non lui e i veterani di Savage a cui aveva chiesto di dar lui supporto.
Per fortuna era arrivata la chiamata di Harry a rimetterli in carreggiata.
Il ragazzo, in testa, si fermò all’improvviso quasi mandando un’intera squadra di Auror a crollargli sulle spalle. Ron finalmente poté acciuffarlo per il cappuccio del mantello. “Per quale diavolo di motivo ti sei-”
“Porta. Dev’essere quella della seconda stiva, giusto?” Disse indicando il portellone metallico di fronte a loro. Inspirò una grossa boccata d’aria. “Che facciamo Sergente?”
Ron fu preso in contropiede; si sarebbe aspettato di vederlo lanciarsi sull’ultimo ostacolo che lo separava dal padre. Invece lo stava guardando in attesa di ordini.
… beh, forse la seconda generazione ha ancora qualche speranza.
O i figli non assomigliavano mai del tutto ai padri, come gli suggeriva sempre Hermione.
Riguardo a Rose purtroppo, ma il punto rimaneva valido.
“La apriamo. Copritemi.” Rispose mentre questo si spostava per fargli spazio. Afferrò la maniglia e spinse. Nulla. Tentò una seconda volta.
Stesso risultato.
“Qualcuno l’ha bloccata da dentro.” Realizzò.
Harry, se l’hai fatto tu giuro che ti uccido. Anche se sei morto. Ti uccido.
“Magia?” Suggerì James. “Colloportus?
Ron provò un Alohomora rapido, ma questo rimbalzò sul portellone in una pioggia di scintille. “… troppo facile.” Sbuffò contrariato. Dall’altro lato non si udivano rumori. “Cleave! Kirke!” Chiamò rispettivamente i due Spezza-incantesimi, una strega dalla sua squadra e un veterano di Savage. “Venite a dare un’occhiata!”
I due si fecero largo tra gli altri Auror. Una volta guadagnata la posizione si chinarono passando la bacchetta lungo gli stipiti recitando al tempo stesso incantesimi di Rilevamento. Dopo qualche minuto Kirke si produsse in una smorfia confusa. “… Non capisco, Sergente.”
Ci mancava solo questa.
“Cosa non capisci?”
“Non sembra che sia stato lanciato un incantesimo di blocco.” Gli diede manforte Cleave spolverandosi le ginocchia e tirandosi su. “Non rilevo niente.”
“Neanche io, Sergente.”
“La porta però è bloccata.” Fece loro notare impaziente: Harry era al di là, a fare l’eroe solitario.
Dovevano salvarlo dalla sua idiozia.
“Magari è stata chiusa a chiave?” Suggerì James. “Voglio dire … questa nave è Babbana.”
“No, l’Alohomora è rimbalzato, qualcosa c’è.” Si rivolse di nuovo ai due Auror. “Cercate meglio.”
L’uomo scosse la testa. “Sergente, non possiamo cercare qualcosa che non c’è.”
“In parole povere non riusciamo a rilevare traccia di incantesimi sulla porta.”
“Ma come…”
“Allora …” Li interruppe James, ignorando la sua occhiataccia. “Dev’essere opera di quel figlio di puttana! La sua magia non funziona come la nostra, chissà cosa diavolo ha combinato per chiuderla … e rimanere solo con papà.” Si rabbuiò, come realizzando qualcosa all’improvviso. “Vuole rimanere solo con papà, non stava scappando! L’ha attirato qui!”
Ron si scambiò un’occhiata confusa con gli altri auror. “… e perché?”
James li contemplò incredulo, come se la risposta fosse ovvia. “Papà è una leggenda del Mondo Magico e quello uno stronzo in delirio di onnipotenza. Vorrà battersi con lui per guadagnarsi la gloria eterna!”
“E come pensa di uscirne vincente?” Intervenne Kirke incredula. “Anche se riuscisse ad avere la meglio sul Capo Potter ci siamo noi.”
James scosse la testa: persino alla luce fallace dei neon lo vide impallidire. “Non credo gliene freghi qualcosa. Penso … penso che gli importi solo di essere un nome nella storia del Mondo Magico … Colui che ha superato il Salvatore.”
Ron si passò una mano tra i capelli. “… ne sei sicuro?”
James si morse un labbro. “Conosco il tipo. Secondo me ha capito di essere in trappola e allora si gioca l’ultima carta che ha. Lo ucciderà. Nella sua testa lo ucciderà per morire nella gloria.”
Ron fece per ribattere – anche se non aveva idea di cosa, perché il nipote aveva ragione, era la perfetta conclusione di quella maledetta storia di sogni infranti e gente che se n’era approfittata – quando un boato  giunse dall’altra parte della porta, così forte che si riverberò facendo tremare le paratie metalliche.
Harry!
Papà!” James mise in parole l’angoscia che provarono tutti. E poi, essendo James, passò ai fatti. Tirò una spallata contro la porta. Poi un’altra. E un’altra.
“Fermati! È bloccata con la-”
Un cigolio straziante bloccò sul nascere le sue proteste.
… sta funzionando?
Suo nipote si stava buttando con rabbia contro ciò che lo divideva da suo padre, ma non era solo un ragazzo nel pieno delle sue forze.
Jamie, il rubinetto rotto.
Era anche un mago dalla magia accidentale più incontrollata che avesse mai conosciuto.
E in quel momento, quell’energia ribelle si stava riversando tutta in un unico punto e contro un unico oggetto.
Sta funzionando!
Fermò Savage, pronto ad intervenire per fermare quella che sembrava una crisi di rabbia in piena regola. Di nuovo il rumore di cardini che cedevano, stavolta più forte.
James se ne accorse, perché a quel punto si bloccò, tirò fuori la bacchetta e scaricò un Confringo sulla porta.
L’esplosione la scaraventò all’interno, lasciando la via libera. Si voltò con il fiatone e la stessa faccia con cui Harry l’aveva convinto che c’erano buone possibilità di far fuori Voldemort.
“Andiamo?” Domandò.
“Hai distrutto una barriera magica a spallate?” Mormorò incredulo Cleave. “Che razza di…”
“Potter.” Riassunse in breve. “Muoviamoci.”
È davvero, davvero un bene che militino dalla parte giusta.
 
****
 
Rendersi conto, quasi alla soglia dei cinquant’anni, di non essere onnipotente era un duro colpo.
Non che avesse mai veramente pensato di esserlo.
O forse sì.
Forse sconfiggere l’incubo della sua infanzia l’aveva reso un filino refrattario all’idea che un giorno avrebbe potuto trovarsi nella situazione di non poterne uscire.
Non da solo.
Harry Potter crollò in ginocchio, i polmoni in fiamme, la testa stretta in una morsa dolorosa, la magia che gli sfuggiva dalle mani come acqua di fiume.
Aveva pensato di potercela fare; che sarebbe stato difficile neutralizzare quel ragazzino, ma non impossibile.
Non aveva messo in conto proprio quello: che, banalmente, era più giovane di lui.
Ogni attacco che gli aveva lanciato era stato rimandato indietro più potente, e a malapena Harry aveva deflesso l’ultima fattura.  
Luzhin era di fronte a lui, in piedi, il respiro affannoso, ma l’espressione dura, lucida, di chi aveva ancora tanto nel suo arsenale.
Facendosi forza della sua riserva di energia inumana l’aveva scaricato come una pila Babbana.
“Stanco, Herr Potter?” Lo derise. “Desidera forse una pausa?”
“Me la lasceresti fare?” Si rimise in piedi sentendo una fitta al ginocchio destro: quello che aveva infortunato qualche anno prima, durante una partita di Quidditch interministeriale.
“Temo di no, Signore.” Sorrise. “Era proprio a questo che puntavo … vederla in ginocchio.”  
Era umiliante: umiliante realizzare che il corpo non rispondeva più come una volta.
Che il respiro gli si era mozzato molto prima di quanto avesse previsto.  
“Lo immaginavo …” Si rimise in posizione, stavolta di difesa. L’unica strategia percorribile a quel punto, rifletté rapidamente, era tenere duro. Aspettare i rinforzi.
Aveva riservato per sé quello scontro, ma non era in grado di portarlo a termine.
“Pensi che valga davvero la pena uccidermi?”  
“Non sono il primo a desiderare la fama che ne conseguirà. Ma sarò il primo a riuscirci.”
Non era un tipo di troppe parole purtroppo; non gli lasciò il tempo di ribattere che un serpente dorato saettò nella sua direzione.
Harry alzò un Protego Horribilis che lo fece infrangere in mille schegge che si infransero sui container. Il contraccolpo lo fece incespicare un paio di passi. Approfittando dell’apertura tentò una serie di Stupeficium ravvicinati, ma il ragazzo li parò con altrettanta efficacia.
Harry levò nuovamente la bacchetta, ma la morsa alla testa si fece di colpo feroce, facendogli sfuggire un lamento. Le gambe gli cedettero facendolo crollare bocconi.
… cosa diavolo?
La vista gli si offuscò e a nulla valse strofinarsi gli occhi: non tornava a fuoco.
“… ci ha messo più del previsto, devo dargliene atto.”
“Cosa…?”
“È la prima volta per lei?” Gli mise un piede sulla spalla e gli diede una spinta. Provò a puntellarsi ma finì per cadere a terra come un ragazzino alle prese con i suoi primi passi.
“La sua magia. L’ha esaurita.” Spiegò con una calma sovrannaturale, quasi fosse un commesso preso ad illustrargli le proprietà di una pozione cosmetica.
Era un paragone ridicolo, ma la sua mente era ridicola. Ed ingolfata.
“La magia non è infinita, Herr Potter. Come il sangue. Si può dissanguare un uomo e si può esaurire un mago. Suppongo che lei non abbia mai portato il corpo all’estremo com’è capitato a me in questi lunghi anni di attesa.”
Certo che sì, maledetto ragazzino.
Ma non così. Era la prima volta che il suo corpo lo tradiva così.
“Ora che il Demiurgo mi ha donato nuova linfa, posso batterla.”
Sulla resistenza sicuramente …
Harry tentò di puntare la bacchetta contro l’avversario. Con grande sforzo gli riuscì, ma per quanto pensasse al prossimo incantesimo, per quanto tentasse di pronunciarlo sottovoce come una preghiera, da essa non uscì nulla.
“Sono felice che non sia svenuto.” Gli puntò la bacchetta alla testa. “Così potrò godermi la sua espressione mentre la uccido.” Fece un lieve inchino. “È un momento speciale. Ancor più speciale, con lei. Grazie per lo scontro, Salvatore.”
Non poteva morire così. Non in un dannatissimo cargo a largo delle coste inglesi, non lontano miglia dalla sua famiglia e a pochi metri da suo figlio e il suo migliore amico, che a giudicare dai rumori che sentiva erano arrivati, erano finalmente lì.
Pensa. Solo pochi secondi. Dagli solo qualche attimo per irrompere …
“… se ti pregassi di lasciarmi vivo servirebbe a qualcosa?”
Luzhin aggrottò le sopracciglia. “Il grande Harry Potter che implora per aver salva la vita?” Sembrava deluso.
“… forse sarai il primo con cui lo faccio.” Ammise. “Ma ho qualcuno da cui tornare, e mi piacerebbe farmi bere un’ultima volta il the preparato da mia moglie.” Persino in una situazione disperata come quella non riusciva a tener freno la lingua.
Ma onestamente, quando mai c’era riuscito riuscito? Neanche sotto minaccia di essere espulso dal defunto Piton.
E lui era ben più spaventoso di te, biondino.
Luzhin serrò la mascella. “Lo faccia.” Sillabò. “Mi supplichi.”
“Mi risparmierai?”
“La ucciderò senza farla soffrire.”
Ah, ecco.
Con la coda dell’occhio vide qualcosa muoversi dietro i cargo. Pur con i sensi esausti registrò l’arrivo degli Auror; l’altro non se ne era reso conto, troppo preso dall’aver finalmente la chiave del tesoro in pugno.
Siete tutti uguali …
Fece un mezzo sorriso. “A pensarci bene … non credo che lo farò.”
Luzhin emise un’imprecazione frustrata, ma non fece in tempo a Maledirlo che un incantesimo lo investì in piena forza, come un ariete di energia brillante che lo mandò a schiantarsi contro uno dei cargo.
Conosceva bene quell’impetuosità.
Lascia stare mio padre, figlio di puttana psicopatico!” Urlò James saltando fuori dal suo nascondiglio, seguito da Ron e il resto degli Auror che si apprestarono a circondare il perimetro.
L’amico lo raggiunse e lo tirò in piedi. “Harry, tutto a posto?” Breve analisi. Un’imprecazione. “Razza di …”
“Hai ragione.” Lo anticipò crollandogli praticamente tra le braccia. “D’ora in poi l’unica attività fisica che farò sarà Quidditch ed insegnare in Accademia.”
Stavolta è la verità.
Venne guardato come se gli fosse spuntato un terzo occhio sulla fronte. “… Che miseriaccia ti è successo? Hai sbattuto la testa?”
“Ho avuto un’epifania.” Riassunse. “Una craniata metaforica, se preferisci.”
Ron scosse la testa, aiutandolo a mettersi fuori dal raggio di azione dello scontro; le due squadre, con James in testa, stavano scontrandosi con un’ora furiosissimo Luzhin.
Gli hanno portato via la preda …
“Alla buon’ora.” Commentò passandogli la borraccia di Pozione Corroborante, dotazione basica di ogni Auror. “Dico, ‘sta epifacosa.”
Bevve in un paio di vigorose sorsate. “Ne hai un’altra?”
“No, ma al San Mungo potrai fartici il bagno.” Si voltò verso lo scontro, e poi di nuovo verso di lui. “La facciamo finita, sì?”
Harry gliela restituì. Stava meglio, ma non era lontanamente pronto a buttarsi di nuovo nella mischia. “Largo ai giovani…” Gli sembrò la cosa corretta e meno dolorosa da ribattere per segnalare che sì, aveva capito.
Ron si strinse nelle spalle. “Invecchiamo tutti, amico. Non è così terribile smettere di essere invincibili.”
Anche da lì potevano vedere James, il suo fiero ragazzo, combattere splendidamente assieme ai suoi compagni. Luzhin aveva i minuti contati.
Sorrise. “Credo tu abbia ragione.”
 
 
Okay, quel crucco era la personificazione della rabbia cieca.
James deflesse qualcosa che assomigliava terribilmente ad un Anatema che Uccide e cercò di bloccarlo con una Pastoia.
Luzhin la spezzò praticamente nel momento in cui gli toccò le gambe.
“Quanto cazzo ci mette ad andare giù?!” Gridò Savage: avevano formato un cerchio che si stava chiudendo attorno al tizio, e lo stavano sfinendo, garantito, ma non abbastanza in fretta.
È come una bestia presa in trappola.
Li avrebbe morsi a sangue persino con le ultime forze rimaste.
E James intuiva le ragioni di quella furia: gli avevano appena sottratto un obiettivo, e aveva il corpo intero teso nel disperato tentativo di sfondare le loro difese e raggiungere suo padre.
Sul mio corpo freddo, bello.
“È finita, arrenditi! Siamo in troppi!” Provò a convincerlo, perché diavolo, voleva crepare?
“Siete solo insetti!” Ringhiò. “Inutili insetti fastidiosi, è Potter che voglio!”
“Beh, io sono un Potter, accontentati!” Di nuovo tentò di mandarlo gambe all’aria, perché forse c’era un modo per non finire con un cadavere da impacchettare.
Che okay, se dovevano farlo secco non ci avrebbe perso del sonno, ma come diceva Lily, bisognava dare una possibilità a tutti. Anche se quest’ultima era una prigione.
Luzhin castò un’altra fattura squarcia-qualcosa, e schermò una scarica di incantesimi da parte della squadra di Savage. Le vene del collo e delle tempie erano in rilievo, come una specie di culturista sotto steroidi. 
Era abbastanza spaventoso.
“Mio padre è solo un mago, cercare di appendere la sua testa in salotto è una cazzata! La gloria eterna è una cazzata!”
Sta’ zitto!
“Potter, che diavolo stai facendo?” Sbottò Savage. “Vuoi farlo infuriare ancora di più?”
“Voglio farlo ragionare!”
“Ti pare che abbia voglia di prendere il the e parlare dei suoi sentimenti?!” Lo spinse via per lanciare su entrambi un Protego Horribilis.  
“Insetti!” Ruggì quasi scagliandosi fisicamente contro di loro. “Il mio Destino è uccidere l’Uomo che visse due volte e ascendere all’Orbis Alius! Non sarò mai solo l’ombra di una gloria familiare sepolta!”
… di che diamine sta parlando?! È fuori come un calderone sfondato!
Ed era orribile pensare che in una versione molto, molto distorta della sua storia personale avrebbe potuto finire proprio come quel tizio.
Okay, non uguale. Ma tipo.
A disperarsi per cercare di uscire dall’ombra dell’anonimato e diventare un mago ammirato da tutti. Come Harry Potter, appunto.
Che poi, per parte sua, l’aveva pensato fino ai sedici anni. Prima di scontrarsi con la realtà e capire che c’erano cose più importanti: l’amicizia, l’amore per Teddy e per il proprio lavoro.
Sì, insomma. Si cresce.
Luzhin non aveva ricevuto il memo.
“Il contenimento … Proviamo con l’incantesimo di Stasi!” Tuonò Savage e James si scambiò un cenno di intesa con la giovane Auror accanto a lui: dalle bacchette uscì una robusta ragnatela di magia azzurrina, che cominciò a chiudersi attorno a Luzhin.
Il quale tentò di dibattersi, ma più vi scaricava contro magia, più quella si serrava in risposta.
L’incantesimi di contenimento per gli Infetti. Lui è un Infetto. Funziona alla grande.
Luzhin urlò di rabbia per l’ennesima volta, e James, di colpo, notò un particolare.
Gli occhi bianchi.
Così come il resto del corpo sembravano emettere una sorta di luminescenza interna.
… momento. Lo deve fare?
No che non lo doveva fare. Come il tizio americano della locanda, come gli Infetti di Notturn Alley e come Flannery, aveva raggiunto il punto di saturazione.
Solo che non era il classico mago della strada. E a giudicare dal ghigno folle che gli comparve sul volto, aveva un piano che non prevedeva di disintegrarsi in un nugolo di polvere.
Ci vuole portare tutti con sé.
“Sergente!” Attirò l’attenzione di Savage. “Gli occhi!”
L’uomo si rese immediatamente conto di quel che stava succedendo. “Sta per farsi esplodere … Smaterializzarsi sopra coperta, adesso!”
Una serie di schiocchi seguirono l’ordine. La barriera di contenimento si dissolse nell’aria, lasciando Luzhin al suo centro, sempre più luminoso, come una dannatissima supernova pazza.
James corse verso suo padre e suo zio, a distanza di sicurezza e quindi non a portata d’orecchio. “Esplosione!” Gridò col fiato corto.
Gli bastò uno sguardo per intendersi con i due Auror più anziani.
Si Smaterializzarono mentre attorno a loro tutto esplodeva.
 
 
Si Materializzarono al tenue lucore dell’alba; non fecero in tempo a realizzare di essere usciti da un inferno di fiamme che la nave, con un orribile rumore di lamiere che si piegavano e roba che si spezzava, cominciò ad inclinarsi di lato.
… e adesso cosa?!
Suo zio lo afferrò per il retro del mantello, prima che finisse fuori bordo, tenendo al tempo stesso in piedi suo padre. “Leviamoci di qui, ne ho le tasche piene!” Sbottò.
Suo padre inspirò, aggrappandosi al parapetto. “Anche perché l’esplosione deve averla danneggiato la stiva … stiamo imbarcando acqua.”
Ron annuì. “Squadre, ora di usare le Passaporte! Gli Infetti sono stati messi in sicurezza?”
“Tutti Signore!”
“Civili trovati? Babbani?”
“Uno, il Pozionista. È stato arrestato!”
“Okay, ora di andarsene! Lasciamo che del resto se ne occupi la Marina Militare Babbana.”
 
James si voltò verso Harry, che abbozzò un sorriso. Non gli chiese se avesse bisogno di aiuto, si passò direttamente un suo braccio sulle spalle, prendendo la Passaporta che l’altro gli porgeva.
“Hai fatto un buon lavoro lì dentro. E mi hai salvato la vita. Bravo, James.”
Si impedì di gonfiare il petto o sorridere come un ragazzino felice. Anche se era un bel po’ complicato visto che si sentiva scoppiare il cuore di orgoglio. “… ho ricambiato il favore, no? Tu me l’hai data ed io te la salvo.” Inspirò per non farsi venire gli occhi lucidi. “Ora però torniamo a casa papà … c’è gente che ci aspetta.”
Suo padre gli arruffò i capelli. “Torniamo a casa.”
 
****
 
“Signora Potter, suo marito è qui.”
Ginny sobbalzò quando la mano di Guglani la scosse dolcemente; dopo aver portato Sophia ad Azkaban era tornato in ospedale mettendosi a completa disposizione sua e di Lily.
I piccoli privilegi di essere la moglie del Capo …
Controllò che Lily stesse ancora dormendo, raggomitolata a fianco di Sören, e sorrise al ragazzo. “Grazie, Sonny … adesso arrivo.”
Ogni volta che Harry tornava dopo una missione era come esser di nuovo ragazza e rivederlo sporco e lacero sulle scale di Hogwarts.
Ogni volta, come quella volta, rivide il ragazzo coraggioso e insopportabile di cui si era innamorata, oltre le rughe e i primi fili grigi tra i capelli.
Harry era sostenuto da James e Ron, ma quando la notò, ovviamente si staccò per andarle incontro e dimostrarle che stava bene.
Fortuna voleva non avesse sposato una silfide, ma una donna Weasley di robusta costituzione che ebbe la forza di sostenerlo e fingere che quella frana fosse un abbraccio tra coniugi ancora molto innamorati.
“Non ti chiederò com’è andata…” Gli sussurrò all’orecchio. “… ti chiederò solo se hai intenzione di farla finita di farmi preoccupare così, Potter.”
“È più o meno la stessa cosa che mi ha detto tuo fratello.” Borbottò contro la sua spalla passandole un braccio attorno alla vita. “Firmate le dovute scartoffie mi metterò in ferie, promesso.”
“ … o ho la licenza per una fattura Orcovolante?”
“Fai del tuo peggio.”  
Harry alzò il viso e posò la fronte contro la sua. Aveva perso gli occhiali da qualche parte, o forse li aveva volutamente tolti, da serpe qual’era. Quei dannati occhi avevano ancora il potere di mozzarle il fiato.
“Ce l’abbiamo fatta, Ginny. Tutti a casa sani e salvi.”
Gli prese il viso tra le mani e lo baciò: dalle retrovie sentì qualcuno fischiare e probabilmente era James. Vide balenare anche un flash e si appuntò di comprare l’Edizione del Profeta il giorno dopo.
Giusto per vedere cosa Rita si sarebbe inventata stavolta per giustificare la tesi secondo cui fossero prossimi al divorzio.
Divorziami questo.
Harry si staccò battendo le palpebre con un sorriso che per fortuna non aveva mai regalato alla stampa, o avrebbe ancora dovuto combattere contro orde di streghe di mezza età con gli ormoni in subbuglio. “… pensandoci forse potrei chiedere a M un congedo temporaneo.”
“Come se ti credessi.” Lo prese a braccetto e fece cenno a James di avvicinarsi.
“Te lo porti via mamma? Fai bene! Agli scribacchini e altre cazzate pensiamo noi!” Esordì allegro: sporco, lacero e con qualche bruciatura di troppo aveva comunque un sorriso capace di illuminare uno stadio. Come poteva impedire ai suoi figli di seguire i propri sogni, anche se pericolosi, quando li rendevano così felici?
Per quanto riguarda il padre, quella è un’altra storia.
“Jamie…” Tentò Harry ma lo bloccò serrando la presa. “… okay, fa’ parlare tuo zio Ron. E digli che domani va’ organizzata una conferenza stampa con M e Malfoy.”
“Ehi, guarda che me lo ricordo come funziona la grande macchina del Ministero!” Esclamò con aria offesa. Poi strizzò loro l’occhio. “Sono meno scemo di quanto si pensi.”
Ginny gli strinse una spalla. Gli bastò leggere nello sguardo fiero di Harry e quello finalmente appagato del figlio per capire che James era riuscito a dimostrare qualcosa di importante a sé stesso quella notte. “Buon rientro ad Hogsmeade”
“Grazie ma’.” Parve ricordarsi qualcosa di colpo. “Ah, vi devo dare una notizia bomba. Ma dopo.
“Dopo.” Convenne, che suo marito non sembrava in grado di tenere gli occhi aperti, figuriamoci gestire una notizia in pieno stile primogenito Potter.
“Tua sorella è con Ren. Se la trovi sveglia aggiornala.”
“Ricevuto!”
 
Ginny pilotò il marito, fattosi docilissimo, verso l’uscita.  
“È ora di riposarsi, Salvatore.”
Harry le sorrise, intrecciando la mano alla sua. “Non puoi che trovarmi d’accordo stavolta.”
C’era del sottotesto in quelle parole, ma decise che non era il momento per sviscerarlo.
Avrebbero avuto tutto il tempo del mondo per farlo.
 
****
 
Teddy non era riuscito a rimanere lontano da Benedetta in quei giorni: vuoi quanto capitato con Vulneraria, vuoi perché James era lontano – e in pericolo – da quasi quarantotto ore.
Del resto Ben in quei frangenti si era comportata … da Ben, e questo l’aveva distratto più di un centinaio di libri di narrativa letti uno di fila all’altro.
Scusate libri. Ma è la verità.
Per questo quando la notte prima si era infilata nel loro letto pretendendo di dormirci non aveva cercato di dissuaderla come molti testi pedagogici consigliavano.
Ne avevano bisogno entrambi.
Aveva trascorso la notte in dormiveglia, ma con la testolina arruffata della sua bambina a solleticargli il collo, era stato tutto un po’ meno ansiogeno.
Quando il compagno tornò stava praticamente dormendo; percepì comunque il peso del letto abbassarsi.
“… Jamie?”
“Mi hai già rimpiazzato, Teddyblu?” Lo apostrofò con il nomignolo di infanzia, per poi baciargli la guancia: aveva l’odore di polvere bruciata addosso (la magia) e del sudore dato dall’adrenalina. Non si era tolto neppure il corpetto dell’uniforme.
Gli passò una mano dietro il collo, tirandoselo ancora più addosso. Non avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato ad amare un odore del genere.
Eppure.
L’altro ridacchiò, stendendoglisi accanto e calciando via gli stivali che finirono da qualche parte con un tonfo sordo.
Sul tappeto, perlomeno…
“Tutto bene…?” Mormorò mentre il compagno allungava la mano per arruffare i capelli di Ben, la quale emise un brontolio di protesta pur senza svegliarsi.
“Il cattivo è stato sconfitto, i buoni hanno vinto.” Gli rispose. “Voi?”
“Ti aspettavamo.”
James rimase un attimo in silenzio per poi stringerlo più forte. “Quello lì era proprio un coglione.”  
Ted si voltò per specchiarsi nelle iridi nocciola del compagno. Chi diceva che gli occhi chiari erano i più belli, non aveva mai contemplato quelli del suo ragazzino. “… di chi parli?” Domandò accarezzandogli una guancia.
“Nessuno di importante.” Scrollò le spalle. Sogghignò. “Come sempre, ho fatto la scelta vincente!”
Ted sbuffò divertito. “Anche dormire sarebbe una scelta vincente. È l’alba.”
James, quasi a riprova della sua affermazione, gli sbadigliò in faccia. “Mi faccio una doccia e arrivo.”
Fece in tempo a scivolare di nuovo nella prima fase del sonno, quella vera stavolta, quella sollevata e serena, che James si infilò sotto le coperte, adesso tutto cotone e profumo di bagnoschiuma. Era quello che sia lui che Benedetta usavano, e profumava di casa. In mezzo a loro la bambina si espanse ulteriormente a stella marina.
James la contemplò un po’, con una strana espressione che gli fece venir voglia di baciarlo. Cosa che fece.
Quel giorno parevano capirsi meglio a gesti, che a parole.
“La scelta giusta…” Gli ripeté sulle labbra. “… siete la mia scelta giusta, Teddy.”
“E tu la nostra.” Lo guardò addormentarsi e poi, finalmente, lo seguì.
 
****
 
 
Quando Doe gli raccontava di cosa c’era dietro il velo, con il solo desiderio di spaventarlo, sosteneva che dopo non ci sarebbe stato nulla.
Solo buio infinito, l’oblio.
Da ragazzino aveva pensato che non fosse un brutto modo di andarsene. Anzi, considerato come stava vivendo, quando il momento sarebbe arrivato lo avrebbe accolto a braccia aperte.
Non si sarebbe mai aspettato di aprire gli occhi su un mattino infuocato di luce.
“Ehi, straniero… buongiorno!”
Né con la voce dell’amore della sua vita nelle orecchie.
“… sono morto?” La sua, di voce, invece sembrava ben poco eterea: roca e dolorante, piuttosto.
Una breve risata e il mondo riprese i propri contorni e giusti colori.
Non era il mattino ad essere di fuoco, ma i capelli di Lily, alla finestra. Poi, vicina a lui.
“Un morto potrebbe fare questo?” Gli premette un bacio sulle labbra. Lo ricambiò come se gli stesse porgendo un bicchier d’acqua in una giornata di afa torrida.
Direi di no.
Quando riaprì gli occhi Lily era ancora lì: quindi era la realtà.
Dalla realtà voleva però avere delle risposte. “… Luzhin?”
“Morto. Si è suicidato nel tentativo di far fuori papà … gli Infetti sono in cura. I Mercemaghi e il Pozionista sono ad Azkaban.” Illustrò diligente mentre gli porgeva un bicchiere d’acqua.
Sören, ancora intontito, fece fatica a distinguere il nesso delle parole dell’altra ma bevve diligente: assaporò qualcosa di dolce e doveva trattarsi di una Pozione perché gli parve di recuperare lucidità.
Gli ostaggi.
Era una fortuna essersi innamorato di una Legimante Naturale perché non dovette trovare le parole: Lily poteva farlo per lui. “Al sta bene, è a casa con Tom. Tua madre è di nuovo ad Azkaban, ma è viva e scoppia di salute. Tranne quel pazzo, tutti vivi.”
Vivi.
Era un buon risultato. Un ottimo risultato. Perché significava che aveva ottenuto ciò che aveva desiderato da quando era stato coinvolto in quel caso.
Sono libero.
Finalmente libero dall’ombra di Doe e assolto dalle colpe della sua famiglia. Libero di scegliere che uomo essere e di poter stare accanto alla strega dei suoi sogni, che in quel momento lo stava guardando come non l’aveva mai guardato nessuno.
Come qualcuno da amare. Alzò una mano a scostarle i capelli dalla fronte. La sua unica mano.
Qualcosa nella sua espressione dovette tradirlo, perché l’altra gliela prese, baciando ogni singolo dito. “Hai mantenuto la promessa, Ren. Sei tornato da me.” Mormorò. “Il resto … lo affronteremo. Assieme. Anche questa è una promessa.”
Annuì, perché le credeva. Perché d’ora in poi qualsiasi cosa il mondo avesse deciso di tirargli addosso, avrebbe avuto qualcuno a combattere con lui.
“… siamo bravi a mantenerle, mia Lily.”
“Bravissimi.”
Ed era una differenza fondamentale.
L’unica che davvero contasse.
 
 
 
 
 
****
 

Note:

Non tirate ancora fuori i fazzoletti. C’è l’epilogo! Che è già stato scritto. ;)
Indicativamente penso di postarlo lunedì pomeriggio.
 
Qui la canzone del capitolo.



 
 

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Capitolo 73
*** Epilogo ***


Epilogo
 
 



 
Days like these lead to...
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Love like ours
(Bonfire Hearts, James Blunt)
 
 

 
L’aia della Tana era un piazzale sterrato che si apriva tra campi coltivati e scacchi ed alberi di quercia, ed aveva ospitato almeno una decina di matrimoni da quando Molly e Arthur Weasley avevano deciso di eleggerla a loro dimora.
Così almeno gli aveva raccontato Albus; non che ricordasse granché, la storia familiare degli Weasley era per lui interessante come contemplare l’asciugatura della saggina della sua scopa.
“Cos’è quella faccia, maghetto? Non ti piacciono le feste?”
Michel storse le labbra all’aria divertita di Emil, che gli aveva aperto la portiera della macchina con un gesto galante. Gli stava pure tendendo la mano.
Mister Sarcasmo …
Uscì raddrizzandosi la giacca con due colpi esperti di dita; si specchiò al finestrino e si trovò perfetto nel suo abito di sartoria francese: si era riappropriato dei colori tradizionali del paese di origine di sua nonna. Ben diversi dalla scala di grigi dei suoi giorni inglesi, gli donavano terribilmente.
Era tornare sé stesso, ed era una realizzazione che non cessava mai di stupirlo. In positivo.
Come positivo era stato quel mese, immerso nei profumi mediterranei della villa di Amara Zabini.
Le nostre fottute, meritate vacanze– aveva commentato Emil e non poteva proprio dargli torto.
Questo, accanto a lui, battè la mano su tettuccio della Aston Martin che li aveva portati fin lì – una delle commodities data dal loro nuovo lavoro come assistenti personali di Amara - dando via libera all’autista di librarsi nel cielo insolitamente azzurro per quel periodo.
Ma naturalmente lo era; dopotutto era il matrimonio di Raggio di Sole Malfoy.
… che purtroppo ha deciso di unirsi a quella campagnola della Weasley.
Contemplò scornato l’enorme tendone arancione che sormontava lo spiazzo. A giudicare dal rumore e dalla musica scandalosamente danzereccia che veniva dall’interno erano già cominciati i primi festeggiamenti.
O perlomeno, le prime bevute in stile peldicarota …
Morgana, che volgarità.
Dov’era Violet? E Lord Malfoy? Perché nessuno si era opposto a quella mostruosità clownesca?
Emil gli passò un braccio attorno alle spalle e lo scrollò, imponendogli silenziosamente di dargli attenzione.
Cosa?
“Mi piaci così, sempre di cattivo umore.” Sogghignò prima di rubargli un bacio. Michel, come ogni maledetta volta, si sciolse come neve al sole, dimenticandosi con precisione chirurgica di dove si trovasse.
 
“Ehi Albie! C’è uno dei tuoi Serpeverde!”

L’urlo di un membro della conigliata Weasley lo distolse dalle labbra del suo amore, il quale fu altrettando lesto a piazzargli una pacca sul sedere.
“Emil!”
“Sciogliti un po’, maghetto, o penseranno che tu abbia infilata una scopa su per il culo. O altro.” Fece un cenno di saluto cordiale allo Weasley n°20. “Non che la butterebbero tanto fuori dal semina-ahia!” Esclamò massaggiandosi il fianco alla sua giustissima gomitata. “Sono ancora convalescente!”
“A giudicare da quel che facciamo a letto, ti sei rimesso splendidamente.” Sibilò ma poi la sua attenzione fu distolta dall’arrivo di Albus, che uscì fuori dal tendone con uno dei suoi meravigliosi sorrisi da Madonna rinascimentale – seguito ovviamente dall’ombra scura che era e sarebbe sempre rimasto Dursley.
… come si fa a vestirsi di nero ad un matrimonio?!
“Mike!” Esclamò felice correndo ad abbracciarlo. Lo strinse di rimando, notando con rassegnato sgomento come per il gran giorno si fosse trovato un completo color glicine e una camicia azzurrina con una fantasia di quelle che parevano balene … o banane?
“Sono serpenti.” Esordì Dursley a debita distanza. “… Meinster.” Aggiunse salutando Emil.
“Sei ancora più incazzato dell’ultima volta, inglese, com’è possibile?”
“È una qualità.” Rispose e con sorpresa di tutti strinse la mano al suo ragazzo. “Tutti questo arancione mi dà il mal di testa.”
… non che abbia tutti i torti.
Al si staccò guardandolo storto. “È un matrimonio magico, Tom. Dev’essere vivace!”
“Sembra che una zucca sia stata vomitata sull’intero tendone.”
Michel serrò le labbra per mascherare una risatina, perché diavolo, lui e Dursley non sarebbero mai tornati amici, ma su certi argomenti l’avrebbero sempre pensata nello stesso modo.
Al in compenso ignorò l’ultima affermazione e gli accarezzò un braccio affettuosamente. E poi, in pieno stile Albus Severus, iniziò senza neanche prendere fiato. “Allora? Com’è la Costa Azzurra? I capelli così ti stanno benissimo! E cos’è che indossi? È un caftano? Che fortuna siate riusciti a liberarvi per questo fine settimana!”
“Se non l’avessimo fatto Scorpius sarebbe venuto a prenderci.”
“Di peso. L’ha proprio scritto nelle partecipazioni.” Convenne Emil. “È fuori di melone. Lo adoro.” 
“Mia nonna potrà fare a meno di noi per quarantotto ore … e poi non sarei mancato per nulla al mondo.” Aggiunse più gentilmente, cosa che gli valse un secondo abbraccio da Al e una smorfia irritata da Tom. “So che siete stati via anche voi…”
“Oh sì, dopo tutto quel casino ne avevamo un gran bisogno!” Al si infilò le mani in tasca con aria disinvolta ma a Michel non sfuggì il leggero irrigidirsi, né il mezzo passo che Dursley fece in sua direzione. “Siamo stati in Messico! Mare, spiaggia e civiltà di maghi Incas perdute, una favola.”
Messico? Spiagge?
In effetti Dursley, sebbene ben lontano dalla sana abbronzatura di Al, esibiva comunque una lieve doratura su viso e mani.
… lo ha sul serio seguito in spiaggia invece di rintanarsi in un antro oscuro?
“Vi trovo bene.” Si limitò a dire, evitando il sottotesto di quella conversazione, ovvero il motivo per cui avevano deciso di scappare dall’Inghilterra e dal post-Demiurgo.
Il rapimento, quello che ha vissuto sulla nave …
Ora che si trovava in una relazione felice, poteva ammettere la verità che aveva sempre voluto ignorare: Thomas era la persona giusta per Albus.
Se non altro, era in grado di gestire le conseguenze dei guai in cui si ficcava il compagno.
“Stiamo bene.” Convenne infatti l’amico prendendo la mano dell’altro, il quale gliela strinse pur non cambiando una virgola della smorfia scocciata che esibiva a loro beneficio.
“Sono contento …”
E per una volta lo era davvero.
Emil ruppe l’attimo di silenzio. “Beh, quindi Malfoy si sposa in seconde nozze?”
“Matrimonio diverso, stessa sposa!” Ribatté Al ironico. “Né i suoi né la nostra famiglia gliel’avrebbero mai perdonata se lui e Rosie avessero data per buona la cerimonia al San Mungo.”
“Violet, anche.”
“Violet soprattutto.” Annuì con un lampo di paura nello sguardo, che parlava di traumi e probabili bomboniere usate come oggetti contundenti. “A proposito, mi ha ordinato di dirottarti in casa non appena fossi arrivato. Credo abbia bisogno di aiuto con Scorpius. Loki si è dato alla macchia da stamattina e…”
“… è per via dell’uniforme di gala che vuole indossare?”
Al emise uno sbuffo imbarazzato. “O della mancanza. Temo voglia sposarsi in t-shirt.”
Vado.” Si voltò verso Emil, che si era già tolto la giacca e si stava arrotolando le maniche della camicia – onestamente era durato fin troppo. “Tu…”
“Puoi lasciarmi da solo maghetto, vai tranquillo. Faccio amicizia facilmente.” Gli strizzò l’occhio. “E poi ho qualcuno da trovare.”
Ah, giusto. Prince.
La notizia delle ferite di Sören era giunta qualche giorno dopo rispetto alla conclusione del blizt. In quei giorni si stavano preparando a partire e Michel si era trovato nella scomoda posizione di non poter impedire ad Emil di correre al capezzale dell’amico. Farlo avrebbe voluto dire perderlo di nuovo.
… e poi c’erano cose più importanti dei propri bisogni personali, era una cosa che il compagno gli ricordava ogni giorno.
Sarebbe stato quindi disposto a partire per la Francia da solo, ma si era risolto tutto spontaneamente, dacché Emil, dopo essere stato a trovare una sola volta l’ex datore di lavoro, aveva deciso di accompagnarlo.
Non gli aveva chiesto cosa si fossero detti, ma Emil aveva avuto le lacrime agli occhi per la commozione per tutto il viaggio.  
“Va bene.” Lo salutò con un bacio leggero. “Ti tengo il posto.”
“Più probabile che te lo tenga io.” Sogghignò avviandosi con Al e Tom dentro il padiglione. “Tu hai uno Scorpius Malfoy da convincere!”
Purtroppo aveva ragione.
 
 
Quel tendone era davvero brutto.
Sören, essendogli stata impartita un’educazione che privilegiava il silenzio al parare personale, aveva tenuto la bocca chiusa, da quando l’aveva visto accuratamente ripiegato in fondo all’aia, a quando aveva dato una mano a montarlo.
Tuttavia, non poteva impedirsi di pensarlo, mentre si sedeva in una delle panche dedicate ai parenti della sposa.
Non sono esattamente un parente …
Ma Lily gli aveva detto di sedersi lì, e così aveva fatto. Tanto per fare qualcosa controllò che l’uniforma fosse ben allacciata: gli andava un po’ larga dopo le settimane trascorse in ospedale, ma tutto sommato dava ancora lustro al DALM americano.
Tutti i bottoni erano a loro posto grazie a Lily: era parsa molto lieta di aiutarlo ad infilarla … e poi sfilarla di nuovo.
Fece un mezzo sorriso che venne però intercettato da un’anziana strega seduta di fronte a lui.
“C’è poco da ridere quando un Malfoy sposa un Weasley!” Dichiarò l’anziana squadrandolo arcigna. “E tu chi saresti?”  
Instintivamente raddrizzò la schiena. “Mi chiamo Sören Prince … sono il ragazzo di Lily. Potter.” Aggiunse incerto. “Con chi ho il piacere di parlare?”
“La zia Muriel.” Sbuffò come se il titolo dovesse dirgli qualcosa. “Comunque sì … la piccola Lily Luna, certo.” Scrollò le spalle. “Una gran bella faccia tosta quella lì. Tutti i figli di Molly ce l’hanno, è il sangue Prewett.” Continuò a briglia sciolta. “Ho sempre detto ad Arthur che non era la ragazza giusta per lui, i capelli rossi in una strega sono sempre un brutto segno!”
“Ma anche il Signor Weasley ha i capelli rossi…”
Dov’era Dionis, pronto a cavarlo di impaccio? Avrebbe dovuto esser seduto accanto a lui, ma forse era rimasto bloccato in casa, impegnato a cambiare la figlia.
“È una cosa diversa!” Lo ritrascinò nella conversazione. “Le streghe coi capelli rossi sono problematiche!” Sören si guardò bene dal dirle che a lui i capelli rossi piacevano, e molto. “Dovresti starci attento anche tu, ragazzo!”
“… grazie, lo farò.”
“Che hai fatto al braccio?” Quella conversazione delirante prese di colpo una piega abbastanza sgradita.
Sören si irrigidì, ma supponeva che finché non avesse indossato una protesi la cosa sarebbe stata notata.
Cercava di non pensarci troppo e di solito ci riusciva: certo,  aveva ancora problemi di equilibrio, e la notte il dolore dell’arto fantasma poteva tenerlo sveglio, ma c’era Lily.
Lily che gli passava un braccio attorno alla vita e gli faceva da naturale contrappeso quando era troppo stanco, Lily che gli accarezzava i capelli finché le pozioni non facevano effetto facendolo finalmente addormentare.
E infine Lily che, di fronte ai suoi sensi di colpa e alla sua frustrazione, si era auto-proclamata “infermiera personale” arrivando persino a comprarsi una di quelle orribile uniformi sexy e Babbane, rendendogli così materialmente impossibile fare l’eroe tragico.
Quelle cinque settimane erano state difficili, si era arrabbiato, si era addolorato per la sua nuova condizione, ma aveva anche riso e sorriso più di quanto non avesse mai fatto, seppur con due arti buoni.
Tutto sommato, se quello era uno scambio, non ne era uscito perdente.
“Sono un agente del DALM e…”
L’ha perso.” Li interruppe una voce. Milo si stravaccò accanto a lui, ed era proprio il suo insopportabile ex-assistente, seppur in maniche di camicia e giacca buttata sulla spalla.
È la prima volta che lo vedo in abito formale …
I capelli e la faccia erano però sempre gli stessi: casualmente arruffati i primi e da schiaffi la seconda.
“Sapesse, è così sbadato!” Milo rivolse un sogghigno alla strega. “E lei il suo tatto invece? Lasciato a casa?”
Zia Muriel boccheggiò oltraggiata e si voltò di scatto verso l’altare.
“Vecchia stronza.” Commentò spassionato scivolando nella comune lingua madre. “Sicuro sicuro che non hai più bisogno di me e che è giusto che ognuno di noi viva finalmente la vita che desidera?”
Sören ricordò le parole che gli aveva rivolto quando era andato a trovarlo in ospedale. Si strinse nelle spalle. “Zia Muriel a parte, sì.”
“Lo vedo!” Gli tolse un’inesistente granello di polvere dalla giacca dell’uniforme. “Opera di Zenzero? È diventata il tuo piccolo angelo del focolare?”
“Ha quasi dato fuoco all’unica camicia che ha provato a stirare con la magia. No, tintoria.” Ribatté mentre l’altro scoppiava a ridere. “…non ti facevo tipo da smoking.”
Milo arrossì allargandosi il nodo della cravatta. “Credo si chiami tight, o roba del genere. Michel mi ha rotto l’anima … e comunque sto da Dio, cazzo. Meglio di quei tuniconi da maghi.”
“È vero.”
Il ragazzo lanciò un’occhiata alla manica vuota, afflosciata lungo il fianco. “Come va?”
“Alti e bassi.” Ammise: aveva scoperto che essere onesto con le persone che amava era il modo migliore per non rendere le cose difficili. A loro e a sé stesso. “Secondo i Guaritori la ferita si sta rimarginando bene. Tra un paio di settimane potrò provare la mia prima magi-protesi.”
“E quando torni in servizio? O ti hanno seccato?”
Quello che apprezzava di Milo era il fatto che fosse diretto fino a risultare scortese.
Preferiva quell’approccio alle occhiate compassionevoli di cui veniva spesso omaggiato. Era uan cosa che parlava di affetto.
“Sono in congedo per malattia fino al mese prossimo.” Spiegò. “Poi tornerò a Boston per la valutazione psico-fisica.”
Non lascerò che mi rileghino ad una scrivania.
Ed era abbastanza sicuro che avrebbe trovato validi alleati oltre oceano.
 
“Rimettiti, Sören. Quaggiù abbiamo bisogno di te. E non lo dico solo come Capitano.”
“Prince, giuro che se non riprendi servizio ti vengo a prendere io. E non ti piacerà!”
“Guey, ti prego, torna! Mi hanno messo in coppia con Murphy … con Murphy! Vieni a salvarmi!”
 
“Ho come l’impressione che li prenderai a craniate sul naso se non ti faranno tornare operativo…” Milo gli diede una botta sulla spalla. “Testa di bacchetta.”
Sören sorrise. “È quello che sono.”
Milo gli porse il pugno, in uno di quei gesti che ancora doveva del tutto decifrare, ma aveva scoperto non gli spiacessero per niente. “Vivere la vita che desideriamo. Ce la stiamo facendo, eh?”
Ricambiò il gesto. “Assolutamente.”
 
 
“Non potevamo sposarci a Las Vegas? Il vestito mi sta stretto, sembro un salame!”
Lily alzò gli occhi al cielo, mentre Rose lanciava lamenti di fronte allo specchio della camera padronale.
Nonna Molly aveva loro ceduto la stanza e poi era andata a dirigere i lavori dentro il padiglione nuziale, lasciandolo così lei, Violet, Roxi e Domi con la promessa sposina.
Già sposa.
E incinta di dodici settimane.
Ma comunque …
“Se non la fai finita Weasley giuro che ti lancio una Pastoia!” Sbottò Violet sistemandole per l’ennesima volta il velo. “Tieni quelle mani a posto!”
“È quello che mi ha detto stamattina.” Confidò Domi a Roxanne, che osservava tutto come se dovesse dare una votazione complessiva. “Indovina cos’ho fatto?”
“Nicky!”
“Da che magi-sarto sei andata Rosie? Perché in effetti…”  
“Ragazze, ehi. Facciamo un bel respiro?” Le bloccò. Non poteva credere di essere diventata la voce della ragione, ma doveva ammettere che in quelle settimane aveva riscoperto il valore della calma.
Un po’ per dare serenità al suo uomo, un po’ perché quella spinta ansiosa di fare, conoscere e in generale far casino che aveva sempre avuto si era ridimensionata. Quasi esaurita.
Una mattina, semplicemente, si era svegliata abbracciata a Sören e per la prima volta si era sentita … in pace.
Niente, niente male.
“La cerimonia inizia tra dieci minuti e okay che la sposa deve essere in ritardo, ma se ci tumiliamo qui dentro Malfoy si farà venire un infarto.” Dichiarò seria.
“In teoria siamo già sposati … è più un pro forma.” Borbottò Rose lasciando Violet finalmente libera di apportare gli ultimi tocchi necessari.
Questa scosse la testa con aria sconsolata. “Stiamo parlando di Scorpius. Pure lo sposassi quindici volte sarebbe agitato come la prima.”
“Furetto Malfoy!” Sghignazzò Domi. “Ho controllato prima … è già davanti all’officiante che fa quella cosa di saltellare sui talloni.”
Il viso di Rose si addolcì. “È proprio un cretino…”
“E ci hai anche fatto un figlio.” Concluse spassionata Violet rinfoderando la bacchetta nella pochette. “Il vestito era di due taglie più piccole, ho fatto letteralmente un miracolo.”
“Magia.”
“Oh, zitta Nicky…”
Roxanne diede un rigido cenno di approvazione, poi si voltò verso di lei. “Come sta Sören? È un po’ che non lo vedo e Dion ha tutto quel suo riserbo da compagni d’arme …”
“In ripresa.” Esitò, ma era Roxie, non aveva bisogno di usare troppi fronzoli. “Ha perso un braccio, non è una corsa sulla scopa. Mi manda ai matti alle volte, ma è un guerriero.” Sorrise. “Il mio guerriero. Ogni giorno va un po’ meglio.”
“Non mi aspettavo niente di meno.” Si scostò per far passare Dominique che rischiava seriamente di vedersi lanciato qualcosa addosso, da Rose o Violet o da tutte e due. “… hai intenzione di accompagnarlo in America?”
“Ne approfitto, tra l’altro anche Hugo vuole andarci.” Si bloccò. Poi la investì con un fiume di parole, perché conosceva bene l’opinione di Roxie circa i suoi viaggi lampo e senza scopo e non voleva darle l’opportunità di mordere. “… e poi vorrei restare. Almeno per un po’. Il Mondo Magico lì non sembra niente male e … e Ren mi ha detto che gli piacerebbe continuare a fare l’agente di collegamento in pianta stabile, perché si è trovato bene qui, quindi forse potremo fare da spola tra Boston e Londra in futuro. Abbiamo dei progetti, ecco.” Concluse tirando il fiato.
La cugina le mise una mano sulla spalla. Oh, niente disapprovazione!
“Stavolta non stai scappando da qualcosa che non vuoi affrontare. È diverso. Bene.” Decretò con aria di approvare.
“… sul serio?”
“Tu che dici?”
Lily afferrò lo strascico di Rose prima che si impigliasse nella maniglia della porta e si affrettò a seguirla.
Sì. Tutta un’altra storia.
 
 
James si appuntò tutte le espressioni di Ted durante la cerimonia.
Ad un certo momento però smise, perché lo vide talmente commosso che garantito, ne avrebbe voluta una proprio così.
Compresa di Ben, che da brava piccola paggetta portò i nastri fino ai due sposi in piena serietà, salvo quasi scagliarglieli in testa perché notò Donnola, cane di Scorpius e suo eletto compagno di giochi per la giornata.
Incidenti adorabili a parte, la cerimonia fu davvero bella: persino ad uno come lui entrò doverosamente qualcosa nell’occhio quando Malfuretto baciò la mano ad una raggiante Rose mentre i nastri si legavano ai rispettivi polsi.
(E gli parve proprio vedere una specie di contrazione facciale simile ad un sorriso dalle parti di Lord Malfoy. Ma forse erano le due Burrobirre che si era già scolato.)
Fu bella perché non ci fu una sola persona che non fosse felice di quell’unione.
Fu bella perché venivano tutti da un periodo in cui avevano rischiato, in cui avevano perso, e in cui erano cambiate delle cose. In meglio.
Le persone infettte dal Demiurgo, che erano tutte tornate a casa dalle proprie famiglie, compresi il buon Bobby e il Sergente Flannery.
Suo padre, che aveva deciso ufficialmente di lasciare l’operativo ed iniziare ad insegnare in Accademia. Aveva anche subodorato l’ipotesi, per quella sua contortà onestà da Eroe, di dimettersi come Capitano, ma sia l’intero Ufficio Auror che l’opinione pubblica avevano rotto l’anima finché non aveva ritirato le sue dimissioni.
Suo zio Ron che aveva dismesso il lutto all’idea di imparentarsi con i Malfoy per parlare unicamente del suo futuro ruolo di nonno.
Albie e Tommy che si erano presentati ad una delle cene omnicomprensive del Clan tenendosi per mano.
(Per inciso, non si era stupito manco zio Percy.)
E infine, lui e Teddy che si erano fidanzati ufficialmente e vaffanculo, avevano ottenuto la custodia congiunta di Benedetta. La ciliegina sulla torta era stata una conversazione, seppur rognosetta, tra Vulneraria e Teddy che era risultata in un fine settimana al mese alla Riserva. C’era ancora parecchia frizione a antipatia tra le parli, ma l’avrebbero sfangata, ne era sicuro.
Infine, sua sorella sarebbe tornata dall’America per mettere il naso nell’organizzazione del suo matrimonio.
Insomma, si erano lasciati alle spalle quel periodo di merda. Alla grande.
 
 
Per questo quando si alzò per fare il discorso la cosa gli venne abbastanza facile.
Ignorò l’occhiata allarmata di Rose e si schiarì la voce mentre un centinaio di teste si voltavano nella sua direzione.
“Non sono bravo con le parole. Anzi, a sentire il mio fidanzato faccio più errori di ortografia che altro.” Esordì mentre accanto a lui Ted ridacchiava. “Però Malfoy mi ha chiesto di dare la benedizione a quest’unione. Che diciamocelo, una generazione fa nessuno se lo sarebbe immaginato, no?”
La faccia di suo zio Ron, come quella di Lord Malfoy, parvero quelle di chi stava tentando disperatamente di non dire qualcosa.
Aiutava il fatto che le mogli li stessero sorvegliando a vista, probabilmente.
“Però eccoci qua. Un Malfoy e una Weasley.” Continuò. “… anzi, no. Scorpius e Rose. La mia cugina rompiboccini e il mio migliore amico.” Si voltò verso i due e strizzò l’occhio al ragazzo, che esibiva una singolare faccia costipata corredata da labbro tremulo.
Coglione dalla lacrima facile.
“Non avrei potuto affidare nessuno dei due a nessun’altro. Rosie, che riesce a tenere a bada il nostro pazzo cavallo Purosangue. E che lo capisce, credo, meglio di chiunque altro.” Levò il calice alla cugina, apparentemente indecisa se tirargli una scarpa o correre ad abbracciarlo. “… e Scorpius, che mi ha insegnato che un cognome non vuol dire un cazzo, e il passato sta bene dove sta. Quindi, un brindisi a due matti che ci hanno creduto abbastanza da unire due famiglie e a crearne una nuova.” Alzò il calice, imitato dal resto degli astanti. A giudicare dal rumore di nasi tirati su e il fatto che Albus e nonna Molly fossero già in un mare di lacrime, aveva fatto un gran lavoro.
Del resto, era o non era James Potter il Re?
“A Scorpius e Rose!”  
 
 
Quando calò il tramonto, Al ebbe la soddisfazione di vedere l’espressione stupita di Tom, mentre il tendone si infuocò alla luce del sole morente.
Intanto centinaia di fuochi fatui cominciarono a danzare sopra le loro teste.
“… si potevano comunque risparmiare l’orgia cromatica.” Ribatté per puro principio.
“A me non dispiace.” Commentò suo padre passando con un piatto pieno di torta in mano e la cravatta persa chissà dove. “Avete già disfatto le valige?”
“Siamo tornati una settimana fa, papà.” Gli fece notare mentre Tom gli baciava la testa e gli passava un braccio attorno alla vita; era ancora un po’ in imbarazzo a mostrare così apertamente la loro relazione, ma Tom aveva risolto le cose non facendosene il minimo problema.
In effetti funzionava.
“Sono ancora tutte all’ingresso.” Lo sbugiardò quest’ultimo. “Meike ha minacciato di farle Levitare fuori dalla finestra.”
Lo faccio!” Urlò la voce di questa da qualche punto nella folla. “Sbrigatevi a tornarvene in Messico!”
Suo padre ridacchiò, ma poi si fece serio. “Pensate di ripartire subito? Quanto starete?”
Al si scambiò un’occhiata con Tom; quel periodo fuori Inghilterra era stato incredibilmente … terapeutico. Un posto nuovo, panorami completamente diversi e un Mondo Magico che non li conosceva.
E tutte quelle piante officinali!
Erano tornati per il matrimonio dell’anno, ma Al sentiva di aver bisogno ancora un po’ di tempo.
Solo un po’.
“L’Inghilterra è casa.” Disse Tom. “Non preoccuparti, Harry. Prima o poi tutti torniamo a casa.”
Ecco il motivo per cui si era innamorato di quell’insopportabile musone: con una sola, tranciante frase, aveva tranquillizzato suo padre, che difatti si congedò da loro con un sorriso e una pacca sulla spalla.
Al abbracciò con lo sguardo la sala, riempita dalle note della musica di Meike e i The Banshees.
 
Your love is like a soldier,
Loyal 'til you die …
 
 
C’erano Scorpius e Rose, ovviamente al centro della pista: il ragazzo la stava facendo volteggiare con un’attenzione rivolta alle cose preziose, pur non perdendo un’oncia dell’energia che lo contaddistingueva. Rose pareva godersela tutta.
Teddy ballava con James, che a sua volta teneva braccio una Benedetta sghignazzante e sporca di dolce fino ai capelli.
Sören e Lily erano abbracciati e un po’ discosti, per dar modo al ragazzo di poterla tenere stretta senza sentirsi d’impaccio. Si guardavano negli occhi, come sempre, come se esistessero solo loro al mondo.
Michel che chiacchierava con Loki e Milo; rideva, gettando indietro la testa, senza preoccuparsi dell’altrui giudizio.
C’erano Violet e Domi, che stavano bisticciando su chissà che cosa, ma che a giudicare dall’aria esilarata della seconda, avrebbero presto smesso in favore di un bacio spettacolare.
E infine i loro genitori, il primo esempio che avevano avuto di amore: non avrebbero mai smesso di esserlo.
“Caspita, persino Lord Malfoy sta ballando con sua moglie …” Considerò.
Tom gli si affiancò, le braccia conserte. “È una velata richiesta?”
“Forse.” Prima di lanciarsi nella danze aveva però una domanda. Ne aveva avute sempre troppe.
Fortuna voleva che l’altra metà della sua anima fosse un saputello pieno di risposte.
“Quando pensi arriverà il prossimo casino?”
Tom non si scompose. “Che importa?”
“Beh…”
“Saremo insieme per affrontarlo. Tutti noi.” Gli tese la mano. “Non esiste sfiga Potter che non possa essere affrontata dalle persone giuste.”
Gliela prese, baciandolo – da lontano udì zia Muriel gridare oltraggiata – e tirandolo sulla pista da ballo. “Quindi alla fine andrà tutto bene?”
Tom lo prese tra le braccia e gli parlò, con quel tono carezzevole che riservava solo e soltanto a lui. “Altrimenti, Potter, non sarebbe la fine.”
 
 
 
People like us—we don’t
Need that much, just some-
One that starts,
the spark in our bonfire hearts
 
 
 
 
 
- fine -
 
 
 
 
 
 
Note:

Vorrei dire un sacco di cose, ma mi sa che mi limiterò all’essenziale perché sennò sbrodolo per dieci pagine.
Questa la canzone del capitolo e quella con cui salutiamo i nostri matti.
L’ho ascoltata anni fa ed ho subito pensato “è lei, è quella con cui devo chiudere”.
 
E poi …
 
Questa storia è iniziata un pomeriggio d’estate di dieci anni fa, da un’universitaria stressata che voleva dar sfogo al suo pairing preferito del tempo, la Harry/Tom.  
La cosa è andata un po’ fuori controllo ed è nata la DPSaga, che ha dato voce ad una caterva di personaggi che non avrei mai immaginato quel pomeriggio del 2009.
Sono diventati parte di me e, spero, anche di voi.
È solo una fan-fiction, ma è stato un gran bel viaggio! Grazie per averlo condiviso con me!
La prossima sarà un’originale. Vediamo se riesco.  


In conclusione: questa storia senza voi lettori, senza i vostri commenti, letture, fan-art, senza i vostri adorabili messaggi su FB e senza le tante chiacchierate avute dal vivo, non avrebbe mai avuto la giusta conclusione.
Grazie per avermi dato questa possibilità. Mi sono davvero divertita.
 
Alla prossima!
 
Dira 17.08.2018

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