Il varco tra i mondi

di Aledileo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il varco tra i mondi - Introduzione ***
Capitolo 2: *** Prologo ***
Capitolo 3: *** Capitolo primo: Il reame della luna splendente ***
Capitolo 4: *** Capitolo secondo: Antichi nemici ***
Capitolo 5: *** Capitolo terzo: Un nuovo inizio ***
Capitolo 6: *** Capitolo quarto: La scacchiera è pronta ***
Capitolo 7: *** Capitolo quinto: Primo interludio ***
Capitolo 8: *** Capitolo sesto: Hybris ***
Capitolo 9: *** Capitolo settimo: Fiamme dall'interno ***
Capitolo 10: *** Capitolo ottavo: Gli spiriti della battaglia ***
Capitolo 11: *** Capitolo nono: Il risveglio ***
Capitolo 12: *** Capitolo decimo: Secondo interludio. Sogni. ***
Capitolo 13: *** Capitolo undicesimo: Vortici di speranza ***
Capitolo 14: *** Capitolo dodicesimo: La madre dei mali ***
Capitolo 15: *** Capitolo tredicesimo: La guerra infuria ***
Capitolo 16: *** Capitolo quattordicesimo: Battaglia al Quinto Cerchio ***
Capitolo 17: *** Capitolo quindicesimo: Terzo interludio. Mare. ***
Capitolo 18: *** Capitolo sedicesimo: Il falco all'attacco ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciassettesimo: Togetherness ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciottesimo: La colonia nascosta ***
Capitolo 21: *** Capitolo diciannovesimo: Tumulti del cuore. ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventesimo: Quarto interludio. Sole. ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventunesimo: Scomode verità ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventiduesimo: L'urlo di guerra ***
Capitolo 25: *** Capitolo ventitreesimo: Tra luce e ombra ***
Capitolo 26: *** Capitolo ventiquattresimo: Per il mio futuro! ***
Capitolo 27: *** Capitolo venticinquesimo: Quinto interludio. Arcobaleno. ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventiseiesimo: Il volo dell'ippogrifo ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventisettesimo: Il continente perduto ***
Capitolo 30: *** Capitolo ventottesimo: Fuori dalla gabbia ***
Capitolo 31: *** Capitolo ventinovesimo: Cosmi ruggenti ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentesimo: Sesto interludio. Luna. ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentunesimo: La furia del mare ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentaduesimo: Il figlio del drago ***
Capitolo 35: *** Capitolo trentatreesimo: Un uomo d'azione. ***
Capitolo 36: *** Capitolo trentaquattresimo: Cala la notte. ***
Capitolo 37: *** Capitolo trentacinquesimo: Settimo interludio. Natura. ***
Capitolo 38: *** Capitolo trentaseiesimo: Lotta per il trono. ***
Capitolo 39: *** Capitolo trentasettesimo: Una verità. ***
Capitolo 40: *** Capitolo trentottesimo: Fratelli. ***
Capitolo 41: *** Capitolo trentanovesimo: Soltanto un respiro. ***
Capitolo 42: *** Capitolo quarantesimo: L'ultima alleanza ***
Capitolo 43: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Il varco tra i mondi - Introduzione ***


Liberamente ispirata a “I CAVALIERI DELLO ZODIACO”, di M. Kurumada

 

ALEDILEO presenta

 

I CAVALIERI DELLO ZODIACO

6

 

Il varco tra i mondi

 

SAGA DI AVALON

Parte 2 di 4

 

 

 

Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To say that for destruction ice
Is also great
And would suffice.

(Robert Frost)

 

 

Note dell’autore: per una migliore comprensione di questa fan fiction, è consigliabile la lettura, nell’ordine, di “Di Dei e di Rimpianti”, dei tre capitoli della Trilogia di Flegias e di “L’avvento dell’inverno”, primo capitolo della Saga di Avalon.

 

"Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Masami Kurumada;

questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro."

 

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Capitolo 2
*** Prologo ***


PROLOGO

 

Sedeva nelle sue stanze, nelle sale del Grande Sacerdote di Atene, sul velluto rosso che le era stato offerto in dono cinquecento anni prima, da un mercante di stoffe di Venezia che aveva sfidato le perigliose acque del Mediterraneo, incurante del pericolo turco, solo per presentarsi al suo cospetto, e ringraziarla di aver dato a suo figlio uno scopo per cui vivere. E per cui morire.

 

La Dea sospirò, carezzando la stoffa vermiglia, delicata come il volto del Cavaliere che l’aveva onorevolmente servita, combattendo al suo fianco per la giustizia. E morendo prima ancora di compiere sedici anni. Uno dei tanti che aveva strappato alla fanciullezza, alla felicità, alla vita.

 

Non doveva sentirsi in colpa. Lei non aveva obbligato nessuno, non aveva minacciato nessuno dei Cavalieri, dei servitori, dei soldati semplici che erano caduti invocando il suo nome. Nessuna delle migliaia di anime che nei secoli avevano varcato la Bocca di Ade, per lei. Né il Cavaliere di Pegasus, né Adamant il valoroso, né gli alchimisti di Mu, né il primo Capricorno depositario della Sacra Excalibur, né Shin dell’Ariete, né Micene di Sagitter.

 

E allora perché continuava a sentirsi così? Perché continuava a dolersi, sentendosi responsabile del sangue versato, del manto scarlatto che aveva annaffiato i bei campi di Britannia, le gelide terre del Nord, le aride distese del Sahara o i gradini di marmo della scalinata del Grande Tempio?

 

“È il peso dei sopravvissuti l’onere più difficile da sopportare!” –Aveva detto un giorno a Shin dell’Ariete, quando lo aveva sentito piangere per la perdita di tutti i suoi compagni, durante la Guerra Sacra che aveva dilaniato l’Europa a metà del Diciottesimo Secolo. –“Devi vivere anche per loro! Devi essere uomo abbastanza per onorare le loro morti con la tua vita!”

 

Com’era strano, adesso, ricordare quelle parole. Le apparivano lontane, portate via dal vento, affidate a un ricordo che nessuna soddisfazione più le dava. Shin era morto e con lui tutti i Cavalieri della sua generazione, e di quella precedente e di quella ancora precedente. Tutti erano caduti mentre lei era rimasta, lei ancora esisteva.

 

Perché? Si chiese di nuovo, spostandosi i lunghi capelli viola dietro la schiena, con un gesto così freddo da apparirle innaturale.

 

Forse una risposta l’aveva, l’unica che non avrebbe voluto darsi, perché accettarla avrebbe significato vanificare gli sforzi di coloro che avevano creduto in lei, al punto da dare la vita per quel sogno. E quella risposta gliel’avevano data i suoi antichi nemici. Nettuno, Ares, Ade, Crono, in parte anche suo padre, sia pur senza ostilità.

 

La sua vita era una maledizione e tale infausto destino si estendeva a coloro che la accompagnavano, a coloro che standole accanto soffrivano e perivano. Del resto di nient’altro era stata capace, in tutte le sue reincarnazioni, se non generare dolore e morte tra le fila di coloro che le erano devoti e la amavano come una madre.

 

E quale madre vivrebbe così a lungo da vedere tutti i suoi figli cadere nell’ombra?

 

Eppure, per quanto dura e difficoltosa le apparisse l’esistenza a volte, costretta a sopportare il ricordo del passato, un peso che le schiacciava il cuore, mozzandole il respiro, aveva deciso di non cedere, di non lasciarsi dominare dai tumulti dell’animo e del cuore e di continuare a fare quello per cui era nata. Quello per cui così tante volte si era reincarnata sulla Terra, ad ogni occasione in cui la malvagità era aumentata e la sua presenza si era rivelata necessaria per contrastarla.

 

La mia presenza, o quella dei Cavalieri che in mio nome combattono? Si chiese, spostando lo sguardo alla sua destra, dove tre ragazzi che amava stavano parlando tra loro, a bassa voce, per non disturbare la sua meditazione, convinti che la Dea fosse stanca per le battaglie sostenute di recente.

 

“Milady!” –Esclamò Pegasus, notando che la fanciulla aveva volto lo sguardo nella loro direzione.

 

“Sto bene, grazie, Pegasus!” –Rispose Atena con un sorriso.

 

“È successo ancora?” –Chiese Andromeda.

 

“Sì!” –Annuì la Dea. –“Sembra che non riesca a controllare il flusso dei miei ricordi, che continuamente, non appena chiudo gli occhi, mi aggrediscono e mi portano indietro nel tempo, sempre più indietro! E ogni volta, lo ammetto, c’è sempre qualcosa in più che riesco a ricordare, un frammento di memorie sepolte nella Divina Volontà di Atena che ancora non ho completamente recuperato!”

 

“Il Grande Mur ha definito come “resistenza” questo atteggiamento della vostra mente, un meccanismo psichico, di difesa se vogliamo definirlo così, che impedisce a contenuti rimossi un tempo di tornare nuovamente coscienti!”

 

“È probabile che sia così! Soltanto quando tutte le barriere della mia mente saranno state abbattute potrò finalmente essere Atena! Finalmente essere la Dea!”

 

“E quel momento… quando arriverà?” –Chiese Pegasus, con voce titubante.

 

Non voleva dirlo, davanti alla Dea che aveva giurato di proteggere, né di fronte ai suoi compagni, ma c’era qualcosa, nell’idea che la Divina Volontà prendesse pieno possesso del corpo di Isabel, che lo spaventava. Qualcosa che gli faceva temere che, qualora fosse accaduto, l’avrebbe persa per sempre, separati da una distanza che non sarebbe più stato in grado di colmare.

 

La distanza tra un uomo e un Dio.

 

Atena non rispose, limitandosi ad un sorriso scarso, ma fu un’altra voce, ben più profonda e magnifica, a parlare per lei.

 

“Il tempo è prossimo, Dea della Guerra, affinché la tua crescita sia completa! E certo non è casuale che quel momento sia adesso!”

 

Pegasus e i suoi amici si voltarono verso il portone d’ingresso, dove l’elegante sagoma del Signore dell’Isola Sacra era apparsa. Rivestito delle sue bianche vesti, dai ricami color argento, che parevano fluttuare a ogni movimento aggraziato dell’uomo, Avalon camminò sul tappeto rosso, seguito da tre Cavalieri delle Stelle.

 

“Sono lieto di rivedervi, Cavalieri dello Zodiaco!” –Esclamò, fermandosi ai piedi della rampa che conduceva al trono, sui cui gradini Pegasus, Phoenix e Andromeda si erano appena messi in piedi. Un po’ sorpresi da quella visita per loro improvvisa.

 

Non così era Atena.

 

“Siete pronta, instancabile figlia di Zeus, Atritonia?” –Domandò Avalon, offrendole il braccio. La fanciulla annuì, alzandosi in piedi e afferrando lo Scettro di Nike, poggiato a fianco del trono, prima di accettare il braccio del Signore dell’Isola Sacra e incamminarsi assieme a lui verso la grande terrazza sul retro.

 

Alle loro spalle Pegasus, Andromeda e Phoenix si accodarono ai tre Cavalieri delle Stelle, sebbene conoscessero soltanto due di loro.

 

Reis, Jonathan e Matthew! Su di loro è ricaduta la mia scelta!” –Declamò Avalon, uscendo all’aria aperta, in quella fresca notte d’autunno, prima di voltarsi verso i Cavalieri dello Zodiaco. –“Sono invece loro che ti accompagneranno?”

 

“Sì!” –Rispose Atena, di fronte agli occhi straniti di Pegasus e degli altri, che ancora non avevano chiaro il motivo dell’improvvisa convocazione.

 

Erano ancora ad Atene, alloggiati assieme ai soldati semplici, con cui condividevano il rancio e le fatiche della ricostruzione del Grande Tempio, quando Mur dell’Ariete li aveva raggiunti, informandoli che la Dea voleva conferire con loro quanto prima. E pregandoli anche di portare con sé gli scrigni delle Armature Divine.

 

Incuriositi, Pegasus, Phoenix e Andromeda avevano comunque obbedito alle direttive del Cavaliere di Ariete, ma non avrebbero certo immaginato che il Signore dell’Isola Sacra sarebbe stato presente a quell’incontro. Del resto, quell’uomo era ancora un mistero, per loro come per altri.

 

“Molto bene! Possiamo procedere! Jonathan?!” –Esclamò Avalon, rivolgendosi al Custode dello Scettro d’Oro.

 

Il ragazzo dai capelli biondo cenere annuì, sollevando il Talismano ed espandendo il proprio cosmo, luminoso ed etereo, di fronte agli occhi trasognati di Pegasus e dei suoi compagni, che osservarono sciami di comete avvolgersi attorno al suo corpo, in uno sfavillio di luci.

 

“Finora avete ammirato soltanto la potenza offensiva di quest’asta dorata, Cavalieri!” –Parlò Jonathan, con gli occhi chiusi. –“I devastanti raggi di energia che è in grado di emettere, al pari della spada custodita da Reis! Ma vi è un altro potere che contraddistingue il manufatto da me protetto, il vero potere del Cavaliere dei Sogni!” –E nel dir questo il fiore sulla cima dello scettro si aprì, emettendo un ventaglio di luce dorata che rischiarò la sera di Atene.

 

Meraviglioso…” –Mormorò Andromeda, affascinato. E Reis, in piedi accanto a lui, gli pose una mano su una spalla, sorridendogli amabilmente.

 

“Voi sapete dove vanno a finire i sogni? Le fantasie smarrite dagli uomini? Le cose che gli uomini dimenticano, troppo indolenti per sforzarsi di ricordare? Molti credono che vadano perduti, ma in realtà niente lo è mai! Neppure i sogni, pur che si abbia la forza di lottare affinché si avverino!” –Continuò Jonathan. –“Proprio di tali voli pindarici, perduti o correnti, io sono il custode! L’uomo preposto alla difesa del varco che conduce ad altri mondi! Io sono il Cavaliere dei Sogni e questa è la mia luce!”

 

Lo sfavillante ventaglio si rivolse verso il basso, chiudendosi attorno al piccolo gruppo e generando una colonna di luce aurea che li circondò, squarciando il cielo e sollevandosi verso le profondità dell’universo. In quella colonna di luce Avalon sorrise, tenendo Atena al suo fianco, prima che entrambi ne venissero inghiottiti, seguiti all’istante da Pegasus, Andromeda, Phoenix, Reis, Matthew e Jonathan.

 

Alla Settima Casa Libra vide la spirale luminosa sprofondare nel cielo notturno. Atena lo aveva preventivamente informato di quel che sarebbe successo, affidandogli il comando del Grande Tempio in sua assenza. Il Cavaliere d’Oro sospirò, augurandosi che Nike proteggesse la Dea e i suoi compagni anche quella volta.

 

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Capitolo 3
*** Capitolo primo: Il reame della luna splendente ***


CAPITOLO PRIMO: IL REAME DELLA LUNA SPLENDENTE.

 

Quando Pegasus riaprì gli occhi si accorse di essere ancora vivo. E quello era di sicuro un buon inizio. Sbatté le palpebre un paio di volte, per liberarsi dal fastidioso riverbero di luce ancora impresso sulla retina, cercando i compagni con lo sguardo. Erano tutti attorno a lui, nella stessa posizione in cui erano disposti alla Tredicesima Casa, sebbene fosse chiaro a tutti che non erano più al Grande Tempio. Né in Grecia.

 

Guardandosi intorno, Pegasus vide che si trovavano su un pianerottolo rialzato, in cima ad una rampa di scale che poi proseguiva divenendo un sentiero lastricato che conduceva a un ampio complesso templare, che si stagliava marmoreo contro lo sfondo di un cielo scuro. Un’architettura simile ai tanti santuari eretti in onore agli Dei greci, pur non avendolo mai visto fino ad allora.

 

Fu una candida voce femminile ad attirare l’attenzione dei presenti, facendoli voltare verso il basso, laddove una donna rivestita di argentei abiti aveva appena iniziato a salire lungo la scalinata.

 

“Avete superato ogni mia aspettativa! Rapidi e solerti, me ne compiaccio! Ma soprattutto vi ringrazio!” –Esclamò, raggiungendo infine la piattaforma sopraelevata dove Atena, Avalon e i loro Cavalieri attendevano.

 

Là, Pegasus poté osservarla meglio, notando le vesti sontuose, come quelle che aveva visto addosso a Era o a Demetra, la lunga chioma violacea, costellata da numerose trecce, e la coroncina argentea con una luna intarsiata che riluceva tra i capelli. E capì che colei che aveva di fronte era una Dea. Ne percepì, pulsante, l’essenza vitale, il cosmo che fluiva attorno a loro, solleticandoli, studiandoli e infine abbracciandoli.

 

“Divina Selene!” –Commentò allora Avalon, inchinandosi. –“Con piacere vi rivedo, sebbene le circostanze non siano di festa, e con eguale piacere vedo che la vostra bellezza è rimasta intatta!”

 

“Il piacere è mio, Signore dell’Isola Sacra. Piacere e riconoscenza per aver risposto al mio appello ed aver portato validi aiuti. Cos’altro potrei aspettarmi, del resto, da una Divinità che così tanto ha lottato per difendere l’umanità e il loro diritto alla vita ogni qual volta l’oscurità abbia tentato di sopprimerla?” –Sorrise la Dea, spostando lo sguardo su Lady Isabel. –“Non ci incontriamo da millenni, e il tuo corpo era ben diverso, ma riconosco il tuo cuore, così pieno d’amore e speranza per il futuro!”

 

“Anch’io ti ho riconosciuto e ti ringrazio per averci accolto nel tuo regno!” –Rispose la fanciulla dai capelli viola, accennando un inchino, prima che l’altra Divinità la pregasse di rialzarsi, non essendo il tempo né il luogo per le riverenze. –“Pegasus, Cavalieri, permettete che vi presenti Selene, la Dea della Luna, figlia dei Titani Iperione e Tia, e sovrana del Reame della Luna Splendente!”

 

Se… Selene?!” –Balbettarono i Cavalieri dello Zodiaco, ancora troppo confusi dal rapido susseguirsi degli eventi.

 

Jonathan sorrise, comprendendo lo stupore dei ragazzi, prima di poggiare una mano sulla spalla di Pegasus, invitandolo a guardarsi intorno, veramente intorno, spaziando con lo sguardo laddove l’occhio fosse capace di arrivare, fino a perdersi nell’oscurità che riluceva oltre l’orizzonte. Una notte così profonda da sembrare irreale.

 

Non… è possibile…” –Mormorò il Cavaliere, iniziando a comprendere.

 

Oltre la piattaforma sopraelevata, oltre il complesso templare, il terreno digradava leggermente, quasi fossero in cima ad una collina, ma al termine di essa, oltre la curva dell’orizzonte, Pegasus non vide niente. Vide soltanto un cielo scuro macchiato di stelle che parevano fissarlo da lontano, burlandosi della sua ingenuità, e un pianeta, verde e azzurro, avvolto da strati di nuvole bianche. Un’immagine che, come Phoenix e Andromeda, aveva ammirato più volte negli atlanti scolastici. Del resto la Terra vista dalla Luna appariva davvero così.

 

“Non possiamo essere davvero…

 

“Sulla Luna?!” –Ironizzò Jonathan. –“Certo che ci siamo! È stato lo Scettro dei Sogni a portarci qua, aprendo un varco dimensionale!”

 

“E qua sarebbe…?”

 

“Il Reame della Luna Splendente, di cui sono Dea e sovrana!” –Intervenne allora Selene, facendo cenno ai presenti di seguirla lungo la scalinata. –“Non dovresti essere troppo sorpreso, Cavaliere di Pegasus! Da quel che so, non è certo il primo mondo divino che visiti! Hai camminato sul fondo del mare, respirando tranquillamente; hai varcato la soglia di Ade, pur senza morire…

 

“Per non parlare dell’Olimpo e della vera Asgard, oltre le nuvole!” –Puntualizzò Avalon.

 

“Forse non trovi il mio regno abbastanza attraente? Chissà che le mie figlie non riescano a farti cambiare idea!” –Rise Selene, giunta ormai ai piedi della gradinata, dove un uomo dai capelli celesti, rivestito soltanto di un chitone bianco, la attendeva. Sorridendo, la Dea gli prese le mani tra le proprie, prima di baciarlo sulle labbra, per poi voltarsi verso il gruppo e presentarlo. –“Il mio sposo, Endimione!”

 

“Sono onorato di incontrare guerrieri così valorosi! Le gesta dei Cavalieri di Atena costellano le leggende, anzi creano esse stesse le leggende!” –Parlò allora l’uomo, prima di dare il braccio a Selene e incamminarsi assieme verso il Santuario della Luna, presto seguiti da Atena e Avalon e dai loro sei Cavalieri.

 

“Non capisco! Come può esistere una simile struttura sulla luna? E come è possibile che i satelliti non l’abbiano mai individuata?” –Bofonchiò Pegasus, agitandosi tra Andromeda e Phoenix.

 

“Come il Grande Tempio è protetto da scudi invisibili, sorretti dalla Divina Volontà di Atena, ugualmente il Reame Beato è celato dal cosmo di Selene, impedendo a qualunque essere non divino di localizzarlo!” –Chiarì Jonathan, aggiungendo tra sé. –“E non soltanto!”

 

“Del resto, se la tecnologia e la scienza terrestri superassero i poteri di un Dio, la stessa esistenza degli Dei verrebbe meno, non trovi Pegasus?!” –Intervenne Reis, mentre Matthew, al suo fianco, si guardava intorno ammirato e esterrefatto. Per quanto fosse stato in precedenza informato riguardo alla loro destinazione, trovarsi lì, in un altro mondo, fu una sensazione straniante, ma se Avalon lo aveva scelto, concedendogli il privilegio di quella prima missione, doveva sentirsi onorato e conscio delle proprie potenzialità.

 

Non dovettero camminare molto per arrivare ai cancelli della residenza della Dea della Luna, la cui struttura ricordava quella di una delle Dodici Case di Atene, con un corpo centrale di forma rettangolare, circondato da ampi colonnati. L’unica differenza era costituita dalla presenza di un piano superiore, di forma sferica, che pareva risplendere di luce cristallina. Vista dal basso, quella cupola somigliava proprio ad una gobba della luna, come Pegasus l’aveva spesso vista sedendo sul molo della Darsena assieme a Lamia o a sua sorella.

 

Già, Patricia. Si disse il ragazzo, abbandonandosi a un sospiro. Nonostante l’avesse ritrovata, al termine della Guerra Sacra contro Ade, a volte si chiedeva se era davvero così, non riuscendo mai a trascorrere del tempo con lei. Anche adesso non la vedeva da una settimana, da quando aveva lasciato Nuova Luxor per volare ad Atene e affrontare la minaccia dell’inverno. Le aveva fatto mandare un messaggio, per tranquillizzarla, ma avrebbe voluto vederla di persona, abbracciarla, correre con lei come facevano da bambini, quasi a voler dimostrare a entrambi che il tempo non aveva vinto, che erano ancora giovani e pieni di vita.

 

A volte mi chiedo se è davvero così. Se sia mai stato così.

 

La voce maestosa del Signore dell’Isola Sacra distrasse il Cavaliere dai suoi pensieri, portandolo a sollevare lo sguardo verso l’ingresso del Santuario della Luna, dove una moltitudine di ragazze si era radunata per salutare gli ospiti. Sgranando gli occhi, e strappando un sorriso imbarazzato a Phoenix e Andromeda, Pegasus non poté non notare la bellezza di tutte quelle giovani, abbigliate come ninfe, dai visi solari e dai capelli lucidi come stelle.

 

“Sono certo che non le hai dimenticate, Atena.” –Stava dicendo in quel momento la Dea della Luna. –“Sono le mie cinquanta figlie! Ma ti dispenso dall’onere di ricordare tutti i loro nomi!”

 

“Dimenticare simili bellezze sarebbe impossibile!” –Commentò Jonathan, guadagnandosi un sorriso di approvazione da parte di Matthew e un’occhiata torva di Reis, cui rispose con un colpo di tosse, rimettendosi in posizione di guardia.

 

“Le mie figlie si occuperanno di rendere confortevole il vostro soggiorno, per quanto questi tempi oscuri possano permetterlo! Non esitate a chiedere qualunque cosa possa soddisfare le vostre necessità!” –Chiarì Selene, congedando poi le ragazze, che tornarono alle loro mansioni, prima di invitare Avalon e Atena all’interno del tempio.

 

Fu mentre ne varcavano la soglia che un pizzicare d’arpa li raggiunse. Una musica soave cullò i loro affannati spiriti, donando pace e freschezza.

 

Voltando lo sguardo, Pegasus vide un giovane dai capelli castani seduto su un muretto tra le colonne, lo sguardo perso nel cosmo, le mani intente a solleticare le corde dello strumento musicale in suo possesso, pur senza guardarle, profondo conoscitore di una melodia che aveva scelto per dare loro il benvenuto.

 

Atena parve riconoscerla, anche se non seppe dirsi dove e quando l’avesse udita. Fu Avalon a venirle in aiuto, mentre il ragazzo depositava l’arpa, avvicinandosi per salutare gli invitati greci.

 

“Mount Badon. Diciotto anni dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente.”

 

La Dea dai capelli viola trasalì, mentre ricordi di un passato lontano le affastellavano la mente. Immagini di sangue e battaglie, in cui aveva indossato la sua Veste Divina e lottato al fianco di suo padre, stretta tra l’Egida e Nike, per combattere l’oscurità. E quella melodia… quella melodia l’aveva suonata un bardo e doveva ricordarle qualcosa. Un avvertimento forse?

 

“Dea Atena, permettimi di presentarti Asterios, il Principino della Luna!” –Esclamò Selene, baciando in fronte il giovane musicista, che poi si inchinò, prendendo la mano della Vergine Dea e posandovi sopra le labbra carnose.

 

“Incantato!” –Sorrise amabile.

 

“Non sapevo tu avessi anche un figlio.” –Commentò Atena, rivolgendosi a Selene, che si limitò a rispondere sibillina.

 

“Infatti. Ho solo figlie femmine!”

 

“Quante smancerie!” –Bofonchiò Pegasus a denti stretti, prima che Andromeda lo colpisse con una gomitata, sferragliando le loro corazze. –“E non abbiamo ancora capito cosa ci facciamo qua. Bah, sulla luna! Dove andremo la prossima volta? A combattere contro i Marziani?”

 

In quel momento il suolo sotto di loro tremò, anticipando un fragoroso boato e il tipico rumore che i Cavalieri avevano associato al crollo di un edificio. Voltandosi verso destra, videro luci scarlatte e dorate rischiarare l’orizzonte, contorcendosi come fulmini e incastrandosi tra loro. E da quella direzione arrivò correndo un uomo, rivestito da un’armatura di colore indaco e avorio, di fattura simile a quelle dei Cavalieri Celesti.

 

“Capitano! Cos’è accaduto?” –Incalzò Selene, presto raggiunta dall’uomo, che si inginocchiò ai suoi piedi, senza perdersi in saluti verso gli ospiti.

 

“Il nono cerchio è stato preso! Chandra sta cercando di contrastarli ma non potrà impedire che penetrino all’interno del perimetro. Anzi, qualcuno è già entrato!”

 

Endimione, a tali notizie, strinse le mani di Selene, il cui volto tradiva adesso nervosismo e tristezza. Anche alcune ragazze, rimaste fuori ad osservare incuriosite i nuovi arrivati, si agitarono, abbandonandosi a improvvisi pianti e grida impaurite. Asterios, in mezzo a loro, rimase impassibile, ma a Pegasus parve di vedere il suo sguardo cercare quello di Avalon e fissarlo per un paio di interminabili secondi.

 

“Entriamo. Non c’è più tempo!” –Disse allora il Signore dell’Isola Sacra, scuotendo la Dea della Luna da quelle tragiche notizie.

 

Selene annuì, conducendo i presenti al piano superiore dell’edificio, all’interno di quella bolla che in realtà era un’unica grande sala dalle pareti trasparenti. Una sfera attraverso la quale era possibile ammirare l’intera superficie lunare correre ai loro lati, fino a scivolare bassa all’orizzonte.

 

Come la Dea ebbe modo di spiegare, il Reame della Luna era diviso in nove cerchi concentrici che si allargavano attorno al nucleo centrale, sito in cima ad un leggero rilievo. Guardando attraverso i vetri, i Cavalieri dello Zodiaco videro le mura dei vari cerchi ergersi sotto di loro. Contarono sette recinti, ma quando giunsero all’ottavo videro fumo, fiamme e lampi di luce sormontarlo.

 

“Ecco perché siete qua!” –Chiarì Selene, la voce per la prima volta incrinata dal dispiacere. –“Per aiutarmi a salvare questo mondo perfetto, che mai aveva conosciuto una guerra in tutti questi millenni. Per confortare una Divinità illusa che aveva davvero ritenuto possibile vivere fuori dai tumulti del mondo.”

 

“Non parlare così, mia adorata!” –La sorresse allora Endimione, aiutandola a sedersi al proprio scranno. –“Hai sempre governato con saggezza, ne siamo tutti consapevoli. E non hai certo causato tu questo vile attacco!”

 

“Chi vi sta attaccando? E perché?” –Chiese allora Pegasus, che percepiva violente energie cosmiche scontrarsi presso la cinta più esterna delle mura.

 

“Dovresti riconoscere almeno un cosmo, Pegasus! È quello di un tuo vecchio nemico, con cui ti sei duramente confrontato!” –Esclamò allora Avalon, invitando il ragazzo a concentrarsi, ancora di più, fino a percepire la sanguinaria e bellicosa natura del cosmo di un Dio creduto perduto.

 

“Non può essere!!!” –Gridò, cercando con lo sguardo Phoenix e Andromeda, anche loro atterriti dall’inaspettata rivelazione.

 

Era l’infuocato cosmo del figlio di Zeus che avevano affrontato pochi mesi addietro nelle Stanze del Grande Sacerdote, ad Atene, e che adesso stava squassando la tranquillità del Reame della Luna Splendente.

 

Ares, Nume della Guerra, e funesto ai mortali.

 

***

 

Ascanio era in ginocchio e teneva la mano dell’Antico, disteso su una branda di paglia e foglie nella sua capanna sull’isola di Avalon. Passava ore al suo capezzale, aiutando le sacerdotesse ad accudirlo, sebbene ben poco da fare vi fosse rimasto.

 

Il Primo Saggio giaceva incosciente da quando lo spirito tenebroso di Flegias aveva abbandonato il suo corpo, lasciandolo fiacco e svuotato. Così lo aveva trovato Ascanio, quando era ritornato all’Isola Sacra dopo aver aiutato Nikolaos ad Atlantide, stupendosi di quanto apparisse invecchiato, di quanto la sua vera età stesse salendo in superficie, un cancro che ormai non poteva più essere arginato. Sospirò, ricordando gli eventi degli ultimi giorni, consapevole che l’ora oscura a lungo paventata era arrivata.

 

Aveva appena lasciato Atlantide quando il cosmo del suo mentore lo aveva raggiunto, pregandolo di raggiungere Jonathan e Reis in Nord Europa e di condurli ad Avalon quanto prima. Prontamente aveva obbedito, recuperando i compagni e comparendo assieme a loro sull’alto colle del Tor, vicino alla cittadina di Glastonbury. Là, in quel tardo pomeriggio, i tre Cavalieri delle Stelle avevano sgranato gli occhi, di fronte a quel cumulo di bruma oscura che pareva avvolgere l’Isola Sacra, una caligine di origine nient’affatto naturale. Avevano tentato di farsi strada tra le nebbie, capendo ben presto di non poter andare oltre, e capendo anche perché Avalon aveva voluto che Jonathan rientrasse. Solo lui infatti poteva aprire il varco, eludendo l’ombra che era calata sull’isola.

 

Il ragazzo dai capelli color cenere aveva annuito, evocando il potere dello Scettro d’Oro e traslando se stesso e i due Cavalieri nel cuore dell’Isola Sacra. Avalon era andato loro incontro, affannando nel raccontare quel che era accaduto, dall’attacco di Flegias alla possessione dell’Antico fino al sorgere di quella cortina di tenebra, sicuramente un ultimo regalo del suo antico compagno di addestramento. Tutti segni, a suo dire, dello scoccare dell’ora fatidica.

 

“È tempo di metterci in cammino!” –Aveva commentato sibillino, scambiando qualche parola con Andrei in privato, prima che quest’ultimo lasciasse l’isola, accompagnato da Jonathan, per tornare sul lago Titicaca.

 

Reis si era ritirata nel suo giaciglio, per rinfrescarsi e riposarsi, e Ascanio era rimasto lì, a pochi passi dal Signore dell’Isola Sacra il cui sguardo sembrava per la prima volta preoccupato. Ma poi, quando aveva sollevato il volto, fissando il ragazzo, Avalon aveva sorriso, parlando per tranquillizzarlo.

 

“Non hai niente da temere, figlio dell’Isola Sacra! I serpenti che porti tatuati sulle braccia sono indice della tua saggezza, della conoscenza antica che ti permetterà di far fronte ad ogni difficoltà. Ho fiducia in te, Ascanio, più che in ogni altro Cavaliere delle Stelle. Oserei dire che per me sei come un figlio, ma sarebbe un’affermazione errata in quanto tu vali molto di più. Sei il mio erede, destinato a succedermi alla guida dell’Isola Sacra!”

 

Quelle parole avevano colpito nel segno, stordendo il cuore pensoso del Comandante dei Cavalieri delle Stelle, che non si sarebbe mai aspettato una simile confessione, da parte di un uomo che ben celati teneva sempre i suoi sentimenti. Avalon aveva compreso lo smarrimento del ragazzo, lo aveva rassicurato con una pacca su una spalla e lo aveva invitato a riposarsi un po’, poiché presto avrebbero avuto bisogno di tutte le forze disponibili.

 

“Vorrei averne, davvero!” –Mormorò, stringendo le nodose dita dell’Antico tra le proprie, quasi potesse ridar loro la vitalità di un tempo, quando il mondo era giovane e Tegel era uno dei Sette. Uno dei primi epta sophoi che affrontarono l’ombra.

 

Gu.. guarda…” –Frusciò la debole voce dell’Antico, parlando per la prima volta dopo giorni. Ascanio ne fu stupefatto e si mosse per chiamare qualcuno che potesse curarlo, ma l’uomo prevenne ogni suo gesto, afferrandolo per la mano e ripetendo a fatica. –“Guarda!”

 

Quel tocco fece vibrare i loro cosmi, dando ad Ascanio la consapevolezza di quel che avrebbe dovuto fare, di quel che l’Antico si aspettava da lui. Inspirò profondamente, concentrando i sensi, prima di usare quel potere.

 

Metempsicosis.”

 

La trasmigrazione dell’anima, che permise alla sua coscienza di fluire dentro il corpo del Primo Saggio, e di sapere.

 

Le visioni arrivarono repentine, travolgendo il ragazzo e impegnandolo in uno sforzo mentale per dominarle, per mantenerle in ordine. E per apprendere, finalmente, quel che accadde millenni addietro. Fu così che li vide, giovani e armati, rivestiti di lucenti armature di mithril, le stesse che tutt’oggi Jonathan e gli altri Cavalieri delle Stelle indossavano.

 

“Attento alle spalle, Vasteras!” –Gridò una voce, avvisando l’amico di balzare indietro e puntando l’arma che custodiva contro l’ombra. Una scarica di energia azzurra riempì l’aria, dilaniando nel profondo la creatura tenebrosa e impedendogli di mietere una nuova vittima. –“Allontanati! Non… posso resistere a lungo!”

 

“Sono con te!” –Intervenne allora un’agile figura, sfoderando la lama capace di tagliare le stelle. –“Spada di luce!!!”

 

Il rinnovato assalto spinse l’ombra indietro, dirigendola verso il cuore della piana desertica dove Galen la stava aspettando, disposto in cerchio assieme agli altri compagni. I tre sfiniti combattenti si scambiarono un’occhiata convinta, annuendo e espandendo il proprio cosmo, concretizzandolo in luminosi talismani di energia.

 

“Ora!!!” –Gridò Galen, impugnando il manufatto e liberando un’intensa fiamma scarlatta, presto seguita da uno scintillante arcobaleno energetico e da un’onda di pura luce, che investirono la grande ombra, facendola avvampare e infuriare.

 

“Il momento solenne è arrivato!” –Risuonò allora la voce di Tegel, ergendosi in volo al di sopra dei presenti, mentre il talismano da lui custodito fluttuava in aria di fronte a sé, assorbendo la maligna aura del loro nemico. –“Un patto è un patto, e noi lo abbiamo appena suggellato! Che le nostre anime ne siano testimoni, che i nostri spiriti possano essere dannati in eterno se mai verremo meno all’estremo impegno!”

 

“Non accadrà!” –Risposero in coro i sei compagni dell’uomo, infondendo ai talismani la loro massima potenza. –“Ktêma es aei!”

 

Una gigantesca esplosione riempì l’aria, distorcendo il tempo e lo spazio e annientando le visioni nella mente di Ascanio, lasciando soltanto un nulla immenso. Quel che era accaduto in seguito, lo aveva appreso nel corso degli anni da Avalon e dallo stesso Primo Saggio, unico sopravvissuto dei sette combattenti originari.

 

“Come avete potuto vivere così a lungo?” –Gli chiese, intuendo parte della risposta.

 

“Grazie all’energia spirituale che permea ogni essere vivente, fonte di vita e di morte. Come credi che sia nato, il cosmo, Ascanio? È un dono del nostro creatore. Imparando a conoscerlo e a controllarlo, può limitare l’invecchiamento di un corpo terreno, permettendo allo spirito di perdurare. Fino ad oggi.”

 

“Una forma estrema di rallentamento cardiaco, come uno dei miei maestri ricevette in dono da Atena.” –Intuì il Comandante dei Cavalieri delle Stelle, ottenendo un cenno d’assenso dall’Antico. –“E allora perché non usate il cosmo per ringiovanire? Per ritornare l’aitante giovane di un tempo?”

 

“Perché quel tempo è passato, Ascanio. Ogni cosa ha un posto nell’universo, ogni persona ha un ruolo, e il mio quest’oggi si è esaurito. Ultimo dei sette saggi, porterò a termine la missione che ci demmo quel giorno, rispettando la promessa fatta ai miei compagni. Trovare degni custodi cui affidare i talismani, e proteggerli per sempre.” –Sospirò, rompendo la sincronia tra le loro menti. A fatica, l’anziano mentore di Avalon sollevò il braccio destro, sfiorando con le dita la fronte del ragazzo. –“ Ktêma es aei!” –Ripeté, lasciando che tutta la sua energia vitale, tutta la sua forza celata, fluisse in lui.

 

Ma… magister, cosa fate? Così facendo voi…” –Tentennò Ascanio, terrorizzato da una simile prospettiva. Ma l’Antico lo tranquillizzò con un sorriso.

 

“Il corpo è solo un temporaneo contenitore di una potenza ben più grande, che travalica i limiti stessi dell’esistenza. Lo imparerai anche tu, come io l’ho appreso in migliaia di anni, preparandomi a questo. I Talismani, presi singolarmente, sono solo oggetti materiali, ben lavorati ma non così diversi da altri manufatti divini. Ciò che li rende unici, e ciò che Anhar non ha mai compreso, è l’essenza che li permea, la coscienza dei forgiatori che permane dentro di loro. Ti sei mai chiesto perché i Talismani appaiano quando voi li invocate? E perché quello sciocco che tradì la gilda dell’equilibrio non li abbia mai trovati mentre Jonathan e gli altri sono riusciti a risvegliarli? Perché in essi vive il cosmo di coloro che li hanno forgiati e che hanno atteso, in silenzio, il passare dei secoli, aspettando i cuori impavidi che li avrebbero impugnati un giorno. Il giorno dell’ira.” –Spiegò l’uomo, mentre tutta la sua coscienza interiore passava dalle rachitiche dita dentro ad Ascanio, fino all’ultima stilla di cosmo. –“Quando Galen morì, quindici anni fa, la sua forza non andò perduta, ma fluì dentro lo Specchio del Sole, che Febo dopo poco risvegliò. Ugualmente quest’oggi io muoio felice, Ascanio, perché so che il Talismano da me preservato troverà degno custode. Dei sette, ve ne è uno che non è mai stato usato, perché il saggio che lo aveva creato non vi aveva ancora fatto confluire la sua anima. È il momento di chiudere il cerchio. È il momento di farti dono dell’ultimo dei Talismani, il più potente dei Sette. Va a te, discendente di re, a te che possiedi i dragoni intrecciati di vita e di morte. Sai dove trovarlo, adesso… ti appartiene.” –E spirò, l’ultimo dei grandi eroi del Mondo Antico.

 

Ascanio rimase in silenzio per qualche minuto, lasciando che le lacrime scivolassero sul suo volto ruvido, incapace di trattenerle. Adagiò la mano del Primo Saggio sul giaciglio di foglie e la osservò ingiallire, travolta da un autunno improvviso. Privo del cosmo che lo manteneva in vita, il corpo dell’Antico appassì, sgretolandosi dopo pochi istanti e divenendo polvere. Si concesse ancora qualche istante, l’allievo di Avalon, prima di mettersi in piedi e cacciar via i tristi ricordi.

 

Uscì a passo svelto dalla tenda, dirigendosi verso l’alto colle dell’isola, laddove si ergeva da secoli il pozzo dalle sacre acque, riparato dalla cinta di megaliti. Proprio in quel luogo, intriso di mistica energia, Avalon anni addietro glielo aveva mostrato e adesso sapeva di poterne disporre, sapeva che avrebbe dovuto disporne per affrontare la prova ultima della loro esistenza.

 

Giunse sulla cima del colle, camminando a piedi scalzi sull’erba, fino a poggiare le mani sulle sponde del pozzo e guardare al suo interno. Socchiuse gli occhi ed espanse il cosmo, entrando in sintonia con le correnti energetiche che spiravano sull’alto colle e che gli diedero ulteriore vigore. Quanto gli bastò per risvegliare l’ultimo Talismano.

 

Le acque del calice ribollirono all’improvviso, mentre un’intensa luce rischiarò la cima dell’isola, proveniente dalle profondità della stessa. Una colonna chiara e vivida che dal pozzo si innalzò verso il cielo, sfondando la coltre di tetra foschia. E là, all’interno di quel pilastro di luce, apparve il manufatto di cui era appena divenuto custode. Lo vide per pochi istanti, prima che venisse di nuovo risucchiato dalla luce, la stessa che fagocitò l’intero spiazzo. Il pozzo tremò, l’erba cresciuta all’esterno venne incenerita da un’intensa fiamma, rivelandone i bordi e le fattezze, mentre l’intera struttura si sollevava e le acque si riversavano al di fuori, invadendo l’alto colle di Avalon.

 

Ascanio focalizzò il cosmo sul pozzo, rivelandolo per quello che era realmente, e sorrise, lieto e fiero di indossare infine la sua armatura. La struttura si scompose all’istante, mentre i vari pezzi che la componevano andavano ad aderire al fisico prestante del ragazzo, rivestendolo poco dopo. Adesso il suo percorso poteva dirsi completo, il percorso iniziato anni addietro in Cina, proseguito ad Atene e infine a Glastonbury. Ma per esserne degno avrebbe dovuto affrontare l’ultima prova, il motivo per cui Avalon lo aveva richiamato sull’isola.

 

“Ve ne andate?!” –Aveva borbottato stupefatto, qualche ora prima, quando il suo mentore aveva spiegato che lui, Reis e Matthew avrebbero raggiunto Atene, dove Jonathan li attendeva. –“Credevo che fosse impossibile, per voi, superare questa coltre di tenebra.”

 

“Dovresti aver capito, Ascanio, che ben poche sono le cose che non sono in grado di fare.” –Gli aveva sorriso Avalon. –“Non era per liberarmi che ti ho chiesto di tornare. Ma per vedere se tu sei in grado di uscire.”

 

E adesso avrebbe dovuto dimostrarlo. Adesso, in piedi sul molo di legno che fungeva da attracco per le barche che sfidavano il lago, con la bieca foschia che gli turbinava attorno, nascondendo l’isola agli occhi di chiunque.

 

“Tu puoi aprire le nebbie! Sei l’unico, oltre a me, che possa farlo! Sei il Cavaliere della Natura, il Comandante dei Sette, iniziato ai misteri di Avalon! Pensa a cosa è importante nella tua vita e trai forza da ciò!” –Gli aveva detto il Signore dell’Isola Sacra.

 

Ascanio socchiuse gli occhi, espandendo il proprio cosmo, portandolo fino al parossismo, forte dell’eredità ricevuta, da suo padre e dal Primo Saggio, e sollevò il braccio destro al cielo, invocando le nebbie di Avalon. Quando riaprì gli occhi, non poté trattenere un sorriso compiaciuto alla vista del varco che si era aperto di fronte a sé, un varco che conduceva a Glastonbury.

 

Si voltò verso l’isola e solo allora notò la processione di druidi, sacerdotesse e fedeli che lo aveva raggiunto intonando un lamento funebre. Uno dopo l’altro, avevano atteso che il custode del drago bianco e del drago rosso mostrasse loro la via e adesso erano in ginocchio di fronte a lui, riconoscendone l’autorità. In quel momento Ascanio capì che quel che Avalon gli aveva detto era vero. Un giorno sarebbe stato il suo erede e il nuovo Signore dell’Isola Sacra.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo secondo: Antichi nemici ***


CAPITOLO SECONDO: ANTICHI NEMICI.

 

“Non è possibile!” –Esclamò Pegasus, ancora stupefatto da quella rivelazione. –“Ares è morto! Lo abbiamo visto noi stessi venire risucchiato da un cono d’ombra! È stato Flegias ad eliminarlo, quando ormai non serviva più ai suoi scopi!”

 

“È andata davvero così?!” –Mormorò Andromeda, dando conferma anche ai pensieri del fratello.

 

Erano tutti seduti nell’Occhio, la grande sala al piano superiore del Santuario della Luna, sotto la cupola di vetro luminoso attraverso la quale era possibile osservare l’universo e le stelle lontane. L’arredo era minimo, costituito soltanto da un ampio tavolo la cui forma rotonda ricordava quella di una luna piena, attorno al quale i fedeli di Avalon, di Atena e di Selene si erano riuniti.

 

“Temo che quel che vedeste quella sera ad Atene sia stata solo la sua temporanea scomparsa, non la fine! Nessuno, in fondo, ha mai sentito esplodere il suo cosmo!” –Concluse Avalon.

 

“Lo sapevate?” –Domandò allora Pegasus.

 

“Lo paventavamo.” –Si limitò a rispondere il Signore dell’Isola Sacra. –“Temevamo che quel raggio d’ombra fosse in realtà un trasferimento, un modo per nascondere la precipitosa fuga di un Dio che aveva ancora un ruolo da giocare negli eventi del mondo. Temevamo che esistesse qualcuno di ancor più potente in grado di asservire il bellicoso spirito di Ares alla sua causa. Ma per quanto i nostri occhi spaziassero sul pianeta, mostrandocelo attraverso le acque del Pozzo Sacro, di Ares Brotoloigos perdemmo ogni traccia. Viscido e silente, il distruttore di uomini ha atteso nell’ombra, tramando nuovi inganni ai danni loro e degli Dei a lui ostili!”

 

“Incredibile! Rabbrividisco al pensiero che possano esistere Divinità più potenti di Ares, capaci di piegare il suo cosmo!” –Mormorò Andromeda.

 

“Egli non è certamente solo!” –Chiarì Avalon, cui Selene rispose con un cenno di assenso, alzandosi dalla tavola rotonda e incamminandosi verso la vetrata che dava sui cerchi inferiori, laddove i suoi devoti stavano combattendo.

 

“Affatto. Pare che l’antica stirpe degli Dei della Guerra sia stata restaurata!” –Sospirò, mentre un grido di donna, turpe e violento, squarciava l’aria, facendo tremare persino la grande bolla del Santuario della Luna. –“Discordia lo affianca, Signora della Contesa e sua antica compagna nelle razzie del Mondo Antico!”

 

“E le figlie di lei, le Makhai, i bellicosi spiriti che inneggiavano alla guerra e al clangore della lotta!” –Concluse Endimione, raggiungendo l’amata, le cui ultime notti più volte erano state interrotte dagli urli osceni delle Divinità Guerriere, che parevano ululare alle loro anime, senza concedere loro pace.

 

“Le Makhai?! Le seminatrici di morte, i cui nomi si perdono nella leggenda!” –Esclamò Atena, visibilmente sconvolta.

 

“Sento le loro urla fin nelle vene. Ribollono nel mio sangue, scuotendomi ogni volta in cui, poggiato il capo sul cuscino, tento di chiudere gli occhi e riposarmi!” –Sospirò Selene.

 

“Discordia? Le Makhai? Cos’è questo, un sabbia di streghe e fantasmi del passato?!” –Bofonchiò Pegasus, prima che Avalon prendesse nuovamente la parola, anticipando quel che Atena e i suoi paladini stavano per obiettare.

 

“Temo che la presenza di Eris, Dea della Contesa, sia colpa mia! Cavalieri di Atena, avrei dovuto parlarvene in precedenza, ma non abbiamo avuto modo di scambiare qualche parola in più se non quelle che la guerra ci ha imposto di pronunciare. Pur tuttavia sento il dovere di confessarvi quel che accadde lo scorso anno! Terminato il vostro scontro con Discordia, che avevo osservato attentamente, pronto a intervenire qualora ve ne fosse stata necessità, percepii un’energia irata persistere ancora, sia pur debole, sull’isola di Hokkaido, proprio dove la Madre dei Mali aveva sollevato un santuario occasionale. Mi ci recai e trovai la fonte di quelle vibrazioni: la mela d’oro, ove lo spirito di Discordia era perdurato!”

 

“Che cosa?! Ma io la distrussi, con la freccia di Sagitter!!!” –Obiettò prontamente Pegasus.

 

“Credesti di distruggerla. Ma un’arma umana, sia pur impugnata dal più valente dei Cavalieri, non può arrecare permanente danno ad un involucro divino, poiché tale devi considerare l’amaro frutto che ancora ha mietuto vittime! Ma per comprenderne il potere dobbiamo risalire agli albori del mondo, alle prime contese divine, quando Zeus, per punire Eris per aver provocato l’ennesima zizzania tra gli Olimpi, e sono certo che Atena potrebbe confermare le mie parole, ricordando lei stessa la contesa per la mela alla Dea più bella, si decise infine a bandirla dal Monte Sacro e dalla Terra intera, tanto grande e fresco era il potere del Signore del Fulmine all’epoca! La maledizione che Zeus le inflisse la legò per sempre alla cometa Lepar, che in quel momento transitava attorno alla Terra, vincolando ad essa la sua esistenza! Indi per cui, per quanto il suo corpo mortale venne trafitto della freccia del Sagittario, la sua Divina Volontà, legata alla cometa, ha perdurato, ricreando la mela d’oro, simbolo primigenio della contesa, e attendendo sofferente un nuovo corpo da adescare, come fece con la giovane fanciulla dell’orfanotrofio!”

 

“È terribile!” –Esclamò Andromeda. –“Quindi, finché la cometa Lepar esisterà, anche Discordia non potrà essere uccisa del tutto?”

 

“Proprio per porre rimedio a questa nefasta possibilità decisi di portare la mela ad Avalon, per spezzare il legame con la cometa! Non fu semplice, lo ammetto! I sigilli del giovane Zeus erano ancora forti, ma grazie all’aiuto dei druidi riuscii nell’impresa! In questo modo, una volta uccisa, Discordia non sarebbe più potuta rinascere! Così informai Atena, pregandola di nascondere la mela d’oro nella Sala del Sigillo, il luogo più protetto dell’intero Santuario, in modo da tenerne sotto controllo la rinascita, ed ella concesse ad un messo a lei fidato di raggiungere le coste del Galles e recuperare il prezioso carico, che, per quel che vedo, è invece andato perduto! Me ne dispiaccio! Ritenevo improbabile che qualcuno potesse percepirne la presenza, eppure le demoniache figlie vi sono riuscite! Forse soltanto loro avrebbero potuto seguirne il tracciato cosmico!”

 

Fu allora che Atena si voltò verso Pegasus, Phoenix e Andromeda, confermando le parole del Signore dell’Isola Sacra. –“Avevo chiesto a un mio collaboratore, Cliff O’Kents, di occuparsene, approfittando del rientro della Nike dalle coste scozzesi! Ma sia lui che Tisifone sono scomparsi!”

 

“Che cosa?!” –Gridò Pegasus. –“Quando? Perché non siamo stati informati?!”

 

“Avrei voluto parlarvene. Un giorno di questi lo avrei fatto. Ma stavo cercando di mettermi in contatto con la Sacerdotessa prima di allarmarvi; temo che sia stata ferita da un improvviso attacco!”

 

“E… ci siete riuscita?!”

 

“Purtroppo no.” –Chiosò Atena, distogliendo lo sguardo, mentre una lacrima le solcava una guancia. Sapeva che Pegasus la stava fissando, che la stava giudicando con i suoi occhi neri, con il balenio intenso della sua iride che non sarebbe riuscita ad affrontare in quel momento, nonostante fosse una Dea. Nonostante fosse la sua Dea. O forse, si disse, sospirando amaramente, proprio per quello.

 

“Mi dispiace avervi coinvolto!” –Esclamò allora Selene, richiamando l’attenzione dei presenti. –“Avevo inviato un messaggio ad Avalon, per rinverdire un’antica promessa, non mi aspettavo che anche i Cavalieri di Atena accorressero in nostro aiuto. Non è la vostra guerra, me ne rendo conto, non è il vostro regno ad essere attaccato. Quello, fin troppo avete dimostrato di essere degni di proteggerlo. Pur tuttavia devo chiedervi di rimanere, ve lo chiedo in tutta umiltà, perché coloro che presiedono i nove cerchi di luna hanno ben poche capacità belliche, non avendo alla lotta armata destinato la loro esistenza. Soltanto il mio capitano, il valoroso Shen Gado dell’Ippogrifo, è un abile combattente, ma da solo, contro l’intera famiglia degli Dei della Guerra, ben poco potrebbe fare!”

 

“Sono pronto a morire per voi, Divina Selene!” –Commentò il condottiero, alzandosi prontamente in piedi e attirando gli sguardi dei Cavalieri di Atena su di sé.

 

Da quando erano entrati nell’Occhio, Shen Gado non aveva più parlato, anzi, precisò Pegasus, non aveva mai parlato, né rivolto loro parola alcuna, da quando erano giunti al Santuario della Luna. Pareva che tutte le sue attenzioni fossero dirette a Selene e alla guerra in corso, perché era chiaro, e gli sguardi che ogni tanto rivolgeva oltre la cupola di vetro lo confermavano, che là l’Ippogrifo voleva volare. Sopra la guerra. A vivere e a morire per il Reame che aveva giurato di difendere.

 

Tanta dedizione… Mormorò Pegasus, senza nascondere un moto di comprensione verso di lui, sebbene ben poca empatia avesse mostrato nei loro confronti. Una devozione che in fondo non era diversa da quella che da anni mostrava verso Lady Isabel.

 

“Perché sta accadendo tutto questo? Perché?” –Pianse Selene, gettandosi a terra e coprendosi il volto con le mani.

 

Endimione si chinò subito su di lei, sussurrandole parole dolci e pregandola di essere forte. Anche Atena si mosse, per porgerle aiuto, prima che la voce del Signore dell’Isola Sacra la richiamasse.

 

“Ho esteso io l’invito ai Cavalieri di Atena e alla loro Dea, credendo che, di fronte al risvegliarsi di antichi nemici, avessero conti in sospeso che desiderassero saldare. Oltre che per il loro innato senso di giustizia che li ha sempre portati a combattere cause ritenute inizialmente perse ai confini del mondo conosciuto, o persino più in là. Ma di fronte al precipitarsi degli eventi, mi rendo conto di non aver concesso loro scelta. Perdonatemi, Cavalieri dello Zodiaco, per avervi privato di questo diritto, avrei dovuto informarvi prima di trascinarvi in questa nuova campagna militare!”

 

“Signore dell’Isola Sacra, non siamo divenuti Cavalieri di Atena per voltare le spalle alla giustizia o alla libertà dei popoli minacciati!” –Esclamò allora Pegasus, alzandosi in piedi, subito affiancato da Andromeda e da Phoenix. –“Non lasceremo Ares e Discordia liberi di distruggere questo mondo! Fin troppo sangue è stato sparso a causa loro! Scorpio e i Cavalieri di Bronzo, di Acciaio e dell’Olimpo gridano ancora vendetta! Non lo abbiamo dimenticato!”

 

Selene sorrise a quelle accorate parole, rialzandosi grazie all’aiuto di Endimione e muovendo appena le labbra, per pronunciare un sentito ringraziamento.

 

“Coraggio Cavalieri, andiamo! Non vedo l’ora di tornare a prendere a cazzotti Ares!” –Avvampò Pegasus, venendo però frenato da Andromeda.

 

“Non essere incauto! È di una Divinità che stai parlando, e una delle più pericolose! Ricordi lo scontro nelle Stanze del Sacerdote? Neppure in cinque riuscimmo a piegarlo! E dovremmo riuscirci in tre?”

 

“Credo che il vostro valore, da allora, sia ulteriormente avanzato, Cavaliere di Andromeda! E non mi riferisco ai vostri ideali o all’indubbio senso dell’onore che vi contraddistingue, bensì alla padronanza dei sensi e alla capacità di bruciare il cosmo, capacità che, come è noto, permette il superamento di propri precedenti limiti.” –Spiegò Avalon. –“Avete da tempo scavalcato il confine dell’essere umano, divenendo qualcosa che sta oltre, padroni di un’essenza che appartiene soltanto agli Dei.”

 

“Agli Dei?!” –Balbettarono i Cavalieri dello Zodiaco, non capendo le parole del Signore dell’Isola Sacra, che quindi riprese a parlare.

 

“Quando affrontaste i Cavalieri d’Oro, ad Atene, risvegliaste l’essenza del cosmo, il settimo senso, che imparaste a padroneggiare ad Asgard e nel Regno Sottomarino, divenendo veri e propri Cavalieri d’Oro. Quando scendeste in Ade, vi spingeste oltre, raggiungendo l’ottavo senso, la capacità di restare vivi nell’aldilà, quella che per degli esseri umani parrebbe una contraddizione in termini. Ma quel che avete fatto in seguito, e lo avete fatto inconsapevolmente, vi ha portato ancora un gradino più in alto, a un tanto così dall’essere Divinità. Avete acquisito il nono senso!”.

 

“Il nono senso?! Ma quanti ce ne sono?!” –Bofonchiò Pegasus.

 

“Nove coscienze. Poiché non vi è altro che un uomo possa raggiungere, se non uno status superiore a quello dell’esistenza. Uno status divino.” –Precisò Avalon, e alle sue parole anche Selene e Atena annuirono. –“Non so con esattezza quando avete risvegliato quest’ultima coscienza, forse durante la scalata all’Olimpo, o negli scontri con i figli di Ares, ma di certo ne avete affinato l’uso in seguito, guerreggiando per i nove mondi di Asgard e giungendo infine qua, dove non potreste stare se non possedeste il senso ultimo!”

 

“Avalon dice il vero, Cavalieri!” –Intervenne Selene, notando lo sbigottimento negli occhi dei tre compagni. –“Soltanto agli Dei è consentito permanere nel Reame della Luna Splendente, soltanto ad esseri dotati del Nono Senso! Ed infatti tutti gli abitanti del mio regno sono Divinità, o discendenti di Divinità. Il mio amato Endimione, figlio di Zeus e della ninfa Calica, le mie figlie, di stirpe divina, e infine coloro che proteggono i nove cerchi: i Seleniti, le Divinità della Luna dedite al culto degli astri in varie religioni terrestri.”

 

“Quello che avete sentito accendersi, pochi attimi fa, era il cosmo di Tsukuyomi, Divinità lunare dello shintoismo, mentre questo che arde di impazienza appartiene a Tecciztecatl,  Selenite di Urano e Dio della Luna presso i popoli aztechi.” –Concluse Endimione.

 

“Si stanno facendo pericolosamente vicini se già il custode del settimo cerchio appresta le sue difese!” –Rifletté Asterios, ottenendo uno sguardo di assenso da parte di Avalon.

 

“Cavalieri di Atena, non temete! Il nono senso avvampa in voi, lo percepisco! Siatene consapevoli e sfruttatelo al meglio! Fatelo esplodere, trascendendo la vostra natura umana e raggiungendo lo stadio ultimo dell’esistenza, divenendo pari a delle Divinità! Divenendo voi stessi Dei!”

 

“È davvero possibile?! Per un essere umano… divenire una Divinità?!” –Mormorò Andromeda.

 

“La vostra esistenza qui lo testimonia, Cavalieri. Nessun essere privo del Nono Senso potrebbe rimanere vivo in questo regno.”

 

“Anche i Cavalieri delle Stelle possiedono il Nono Senso?” – Chiese allora Pegasus, cui Avalon rispose con un sorriso.

 

“Quand’anche non fosse così, non avrebbero problemi a rimanere in questo reame in virtù delle armature che indossano, intrise dello spirito primordiale dei creatori dei Talismani.”

 

“Vi è una sola eccezione al proposito che dominò me e le altre Divinità lunari quando, stanchi delle guerre terrestri, lasciammo il pianeta per costruire il nostro Elisio privato. Una valorosa eccezione, rappresentata dall’unico uomo cui abbia mai concesso di dimorare nel reame beato. Il vittorioso Shen Gado dell’Ippogrifo, che salvò la mia primogenita dalla violenza di nove giganti, e nelle cui mani metto di nuovo la sua vita, assieme a quella di tutte le mie altre figlie e dell’uomo che amo.”

 

Il silenzioso guerriero non disse alcunché, limitandosi a indossare l’elmo sopra i mossi capelli rossicci e a incamminarsi verso l’uscita dell’Occhio, le ali della corazza che fluttuavano in aria seguendone i movimenti. Fu la voce di Pegasus a fermarlo poco prima che lasciasse la sala.

 

“Aspetta, Shen Gado! Verremo con te! Concedici l’onore di affiancarti, e di farci da guida, in questa nuova perigliosa guerra!”

 

Il comandante dei Seleniti non disse alcunché, limitandosi ad annuire e a spostarsi di lato, per invitare i Cavalieri dello Zodiaco e delle Stelle a precederlo, ma a Pegasus parve di vedere l’ombra di un sorriso profilarsi sul suo volto teso.

 

“Siate prudenti!” –Commentò Lady Isabel, indugiando con lo sguardo sul suo Primo Cavaliere.

 

Prima di andarsene, il ragazzo mise una mano sul pettorale della corazza di Andromeda, sperando che non se ne avesse a male. Lui e Phoenix ne avevamo brevemente parlato ed entrambi si erano rivelati d’accordo.

 

“Resta con Atena e Selene! Qualcuno dovrà proteggerle! Non mi fido di Ares! Se è vero che i Seleniti non sono in grado di combattere, potrebbe sbaragliare in fretta le linee difensive e giungere a palazzo! Non deve trovarle indifese!”

 

Andromeda storse un po’ il naso, sospirando all’idea che gli amici continuassero a vederlo come il coniglio del racconto di Sirio, ma ritenne comunque che la valutazione di Pegasus fosse corretta. Per cui rimase sulla soglia, ad osservare l’amico e il fratello correre dietro all’Ippogrifo, seguiti dai tre Cavalieri delle Stelle. Quel che Andromeda non vide fu una figura minuta che, nascosta nel corridoio, aveva ascoltato l’intera conversazione, prendendo infine la sua decisione.

 

Nell’Occhio erano rimasti soltanto Endimione e Selene, crollata nuovamente su una sedia, il respiro affannato e numerose gocce di sudore che le imperlavano il viso. Da quella distanza, Andromeda non poté udire cosa le stesse dicendo, ma era certo che il sempiterno giovane stesse cercando di consolare il suo cuore, dandole quella sicurezza, quella speranza, che solo chi ama può riuscire a darti.

 

Gli stessi pensieri albergavano nella mente di Lady Isabel, che era rimasta a fissare la coppia per qualche minuto, incapace di dire alcunché. O semplicemente troppo presa dai suoi turbamenti personali per poter prestare soccorso alla Divinità amica.

 

Alla vista di quell’amore, così intenso, così puro, così dannatamente umano, la Duchessa di Thule non poté fare a meno di chiedersi se anche lei, un giorno, avrebbe potuto goderne. Se anche lei, quando tutto fosse finito, avrebbe potuto provare quella stessa sensazione, quella felicità improvvisa, che per millenni si era negata. Oppure sarò condannata ad essere sempre Atena, la Vergine Dea della Guerra Giusta?

 

***

 

Il primo a rompere il momento di silenzio fu proprio colui che lo aveva chiesto, per ricordare e commemorare coloro che non c’erano più, ma che non per questo, a detta sua, avrebbero rinunciato a lottare per la giustizia, da qualunque luogo li avesse attesi dopo la morte.

 

“Sono certo che, anche in questo momento, Gemini, Scorpio e Micene rimangono fedeli Cavalieri di Atena, al pari di Toro, Acquarius, Capricorn e oserei dire anche di Cancer e Fish!” – Chiosò il Cavaliere d’Oro della Vergine, concludendo il suo breve intervento iniziale.

 

Gli altri partecipanti, riuniti attorno a lui, annuirono, abbandonandosi a un leggero sospiro, leggero ma veloce, per non permettere a tristi ricordi di riaffiorare.

 

“Ti ringrazio per l’accoglienza, Cavaliere di Virgo, e per averci concesso di usare la tua casa per quest’incontro. Sebbene non ne abbia l’ufficialità, in quanto solo Atena o il suo rappresentante in Terra possono convocarlo, questo è de facto un Chrysos Synagein!” – Commentò Libra, spostando lo sguardo sugli altri uomini presenti.

 

Ioria del Leone assentì, stringendo i pugni in silenzio, affiancato da Mur che si precipitò a chiarire le ragioni di quell’incontro.

 

“Da tempo non prendevamo un momento per noi, sopraffatti come siamo stati, nell’ultimo anno, dalle guerre continue che siamo stati chiamati ad affrontare.”

 

“Un altro anno, un’altra guerra. Pare che nessun secolo sia così fortunato da potersene ritenere privo.” –Intervenne allora Virgo, seduto sul trono a forma di fiore di loto, al centro del Sesto Tempio dello Zodiaco.

 

“Pur tuttavia mai come negli ultimi mesi, da quando Cristal il Cigno ci liberò dalla prigionia di Hel, a così estenuanti e ininterrotte prove siamo stati chiamati! Sembra che il mondo intero stia precipitando verso la sua distruzione!”

 

“O che qualcuno voglia farvelo precipitare!” –Chiosò Dohko, strusciandosi il mento con le dita. Al che Virgo annuì, sempre tenendo gli occhi chiusi.

 

“Appurato questo, che non è una novità, possiamo passare al vero motivo di quest’incontro, Cavaliere di Libra?” –Incalzò Ioria.

 

“Sono stato io a chiederlo, in verità!” –Parlò allora Mur, attirando gli sguardi dei compagni. –“Ho una richiesta da fare, una richiesta che ho già avanzato a Dohko, e di cui volevo rendervi partecipi! Ho bisogno di allontanarmi dal Grande Tempio per qualche giorno! So che non è il momento migliore per gite fuori porta, ma è un atto necessario, che sento di dover compiere per fugare il dubbio che covo nell’animo.”

 

“Che sta succedendo, Mur? Di cosa vai parlando?” –Replicò il custode del Quinto Tempio.

 

“Da giorni le mie notti sono tempestate di incubi. Visioni terrificanti in cui vedo mia madre agonizzare sanguinante, singhiozzare, delirare e urlare il mio nome a gran voce, come mai le ho sentito fare, priva di quella calma, di quel controllo, che hanno sempre contraddistinto la nostra stirpe. Temo che qualcosa di terribile le sia accaduto, e il fatto di non riuscire a contattarla telepaticamente mi preoccupa.” –Spiegò il Cavaliere di Ariete, ripetendo quanto già detto poche ore prima a Libra.

 

“Ed io già ti ho detto che le tue preoccupazioni potrebbero essere infondate. Anzi, certamente lo sono. Sei stanco e spossato, come tutti noi, ma non dobbiamo permetterci facili allarmismi. Nondimeno vi è dell’altro. Ben lo so. Lo sospettavo da tempo, sebbene Shin non me ne avesse mai parlato.”

 

A quelle parole Ioria fissò Dohko con sguardo stranito, mentre anche Virgo, in silenzio, seguiva interessato quella conversazione.

 

“La colonia segreta.” –Mormorò Mur.

 

“Quale colonia?!” –Sbraitò il Leone, stufo di tutti quei segreti.

 

“La colonia dei discendenti di Mu, da cui proveniamo Kiki ed io. E di cui il mio maestro Shin è stato autorevole membro.” –Precisò l’Ariete. –“È là che mia madre vive, ed è là che l’ombra è calata. Lo sento. Per questo vi chiedo, venerabile Maestro, in quanto Cavaliere più anziano, e alla presenza di amici e compagni, di accordarmi il permesso per recarmi in Asia a verificare quanto sta accadendo.”


“E io ti concedo quel permesso, Mur dell’Ariete. La tua missione è importante anche per gli equilibri del mondo. Perciò va’, indaga e riferisci al consiglio quanto prima!”

 

“Vi ringrazio. Sarò di ritorno quanto prima.” –Si inchinò in segno di rispetto e poi si mosse, uscendo dalla Sesta Casa dello Zodiaco.

 

“Informerò Atena quando ritornerà dalla missione con Avalon! Sono certo che anche lei avrebbe acconsentito.” –Commentò Libra, prima di incamminarsi verso l’uscita sul retro, lasciando Ioria e Virgo da soli.

 

“Beh, se non c’è altro…” –Esclamò il Cavaliere di Leo, facendo per muoversi, ma venne trattenuto dalle parole del parigrado.

 

“Un’ultima cosa, Ioria. Sono contento che siamo rimasti noi. Ciò che sto per dirti è di estrema importanza, per Atena e per te soprattutto, ma sono certo che Dohko lo troverebbe un argomento un po’ frivolo.”

 

Ioria si voltò, fissando Virgo con sguardo incuriosito, per quanto avesse già capito a cosa il compagno stesse alludendo. Lo sorprese, invece, vedere che il Cavaliere aprì gli occhi mentre pronunciava il nome di una donna a cui era legato. Una donna che non era stato capace di amare.

 

Castalia.

 

“Come Libra ci ha riferito, la Sacerdotessa dell’Aquila, di ritorno dalla missione umanitaria in Canada, è stata invitata da Atena a fermarsi in Bretagna per investigare sulla sorte della compagna, il Cavaliere dell’Ofiuco, di cui si sono perse le tracce da quasi una settimana!”

 

“Conosco bene i fatti, Virgo.”

 

“Ma da giorni non abbiamo più notizie neppure dall’Aquila e la situazione è diventata degna di inquietudine. Cosa farà quindi il Leone?”

 

“Cosa dovrei fare? Farmi travolgere dai sentimenti e abbandonare il mio posto? Con Pegasus, Atena, e adesso persino Mur, in missione, le difese del Grande Tempio sono già fin troppo sguarnite. Dobbiamo avere fiducia, Virgo. Fiducia nei nostri compagni. Sono certo che Castalia sta bene, e anche Tisifone!” –Mormorò Ioria, cercando di trattenere l’apprensione che invece l’aveva invaso. –“Inoltre anche Asher sta convergendo verso il Mar Celtico!”

 

“Umpf, un Cavaliere di Bronzo, e neppure dei più capaci.” –Lo schernì Virgo. –“ Se davvero un pericolo ha investito le Sacerdotesse Guerriero, credi che un ragazzino come lui sia in grado di portare loro aiuto? Perderemmo tre Cavalieri e in un momento di crisi come questo non possiamo permettercelo. Stavo pensando di andare personalmente a verificare la situazione, sempre che tu non voglia assumerti l’onere di questo salvataggio. In tal caso, mi farei prontamente da parte.”

 

Ioria non disse alcunché, limitandosi a spostare lo sguardo dal Cavaliere d’Oro al vuoto che li circondava, il vuoto in cui i suoi occhi verdi vagarono per qualche istante, tentando di afferrare una risposta, all’apparenza vacua e lontana ma in realtà ben più vicina e consistente di quanto il ragazzo credesse.

 

Sbuffò, infastidito, prima di dare le spalle al Custode della Porta Eterna e incamminarsi verso l’uscita. Virgo sogghignò, percependone l’incertezza e i tumulti del cuore, consapevole che il Leone avesse già preso la sua decisione.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo terzo: Un nuovo inizio ***


CAPITOLO TERZO: UN NUOVO INIZIO.

 

Pegasus e Phoenix correvano verso la battaglia, seguiti da Jonathan, Reis e Matthew. Li guidava Shen Gado dell’Ippogrifo, che ben conosceva i passaggi più celeri per il Primo Cerchio.

 

Il Capitano della Guardia aveva spiegato ai suoi improvvisati compagni d’arme la struttura del reame della Luna, suddiviso in nove anelli concentrici che si allargavano attorno a un nucleo centrale, dal primo, più interno, al nono, il più esterno, nonché quello in cui iniziava la Via Maestra attraverso il regno. Nove cerchi separati da alte e robuste mura di sabbia lunare, pervasa dal cosmo degli Dei fondatori. Nove cerchi che prendevano il nome dai pianeti del sistema solare, il cui schema volevano idealmente ricreare, ponendo la residenza di Selene e Endimione al centro, il sole del loro regno.

 

“Eccoci al primo, difeso da Igaluk, Selenite di Mercurio e Divinità lunare presso i popoli inuit!” –Incalzò Shen Gado, varcando la soglia con un agile balzo.

 

Pegasus e gli altri lo seguirono, stupendosi al qual tempo del paesaggio in cui si ritrovarono, una landa glaciale costellata da rozzi speroni di ghiaccio che sgorgavano dal terreno. Non molto dissimile dalla Siberia in cui Cristal ha vissuto, pensò il ragazzo, ricordando quand’era corso in aiuto dell’amico, anni addietro.

 

“Ogni Selenite personalizza la propria parte di regno a modo suo, ricreandovi le bellezze della terra natia, formandole con il proprio cosmo divino.” –Commentò Reis, intuendo i pensieri del Cavaliere.

 

Ariunngaipaa!” –Esclamò un uomo, facendosi loro incontro. –“Benvenuti al Primo Cerchio! Non abbiamo mai avuto così numerose visite come quest’oggi! Ma non tutte piacevoli!” –Dai tratti somatici tipici degli abitanti delle terre artiche, Igaluk era piuttosto basso, dieci centimetri meno di Pegasus e Phoenix, sebbene di corporatura apparisse ben piazzato, da ciò che la sua singolare corazza lasciava trasparire. Era un’armatura bianca e azzurra molto coprente, che ben si intonava al paesaggio circostante, con cui, a seconda dei riflessi di luce, riusciva persino a confondersi. Sulle spalle, sulle braccia e sulle ginocchia portava delle smussate lastre circolari che a Pegasus parvero degli scudi un po’ grezzi, e forse assai ingombranti in battaglia. Ma poi ricordò le parole di Selene e di Shen Gado sul ruolo avuto dai Seleniti fin da quando il reame della Luna era stato fondato. Un ruolo puramente difensivo, di protettori dell’ultimo paradiso perduto, e riconobbe che lo scudo era in tal caso l’arma più adatta.

 

Igaluk! Com’è la situazione? Sento cosmi maligni saturare l’aria!” –Chiese subito Shen Gado, ricevendo in cambio uno sguardo preoccupato.

 

Bil e Hjúki stanno facendo la spola tra i nove cerchi per darci tutte le notizie! Non che ce ne sia effettivo bisogno, essendo tutti coscienti dello spegnersi del cosmo di un compagno. Ma è un modo, per i giovani apprendisti, di sentirsi utili e dare il loro contributo!” –Rispose il Selenite di Mercurio. –“I nostri invasori stanno per varcare la soglia del Settimo Cerchio e non so quanto il vecchio Tecciztecatl potrà resistere contro quelle furie! Mai percepito cosmi così bellicosi!”

 

“È là che andremo, allora! A portare aiuto!” –Esclamò il Capitano della Guardia, e anche Pegasus e gli altri annuirono, prima di salutare Igaluk e sfrecciare lungo la piana ghiacciata.

 

Subito i Cavalieri di Atena notarono che Shen Gado non procedette in linea retta, bensì virò verso destra, scivolando tra le grezze stalagmiti con l’agilità e la sicurezza di chi quella strada aveva percorso più volte. Dopo una corsa di pochi minuti si fermò di fronte a un varco incassato nel muro di ghiaccio che separava il Primo Cerchio dal Secondo, un pertugio così stretto che, se non lo avesse indicato loro, non lo avrebbero notato.

 

“Dunque le uscite non sono tutte lungo la stessa direzione...” –Commentò Pegasus. Al che Shen Gado annuì, spiegando che la sinuosità della Via Maestra era un ulteriore strumento di precauzione che i Seleniti avevano adottato millenni addietro, quando edificarono il loro regno.

 

“Solo chi conosce la strada sa dove andare, gli altri devono procedere per tentativi, costretti anche a girare in tondo.”

 

“Oppure possono semplicemente sfondare il muro!” –Ironizzò Pegasus, ricevendo un’occhiata stizzita da parte di Reis e Jonathan.

 

“Non è così semplice. Dovrebbero avere forza sufficiente per vincere la resistenza offerta dal cosmo di Selene e della Divinità preposta alla difesa di quel cerchio…” –Disse Shen Gado, ma la sua spiegazione fu interrotta da un improvviso scuotersi del suolo lunare, che zittì per un momento tutti i presenti, facendoli trasalire.

 

“Voi non lo conoscete… ma Ares è un tipo che va per le spicce!” –Esclamò Pegasus sarcastico, prima di fare cenno agli altri di infilarsi nello stretto passaggio tra i due anelli, aumentando la loro velocità.

 

Matthew, l’ultimo ad entrare, si fermò dopo pochi passi, guardandosi alle spalle perplesso e concentrando i propri sensi.

 

“Tutto bene?” –Gli chiese Reis, fermatasi ad aspettarlo.

 

“Sì.” –Commentò il ragazzo. –“Mi era sembrato di percepire qualcosa… o qualcuno…” –Non disse altro e riprese a correre assieme al Cavaliere di Luce, lasciandosi alle spalle il Cerchio di Mercurio e la figura ignota che, da dietro un rilievo ghiacciato, li osservava attenta.

 

***

 

Flare era magnifica, quel giorno. Scivolava leggiadra tra la folla festosa, in un abito bianco che sua madre aveva cucito per lei molti inverni addietro, per un’occasione importante, magari il suo sposalizio. Dispensava sorrisi agli abitanti di Midgard, riuniti per celebrare la fine di un’era e l’inizio di una nuova, intrattenendosi a parlare con loro e ricevendo carezze e benedizioni.

 

Il Salone del Fuoco della fortezza era gremito di gente, non solo residenti nella cittadella ma anche taglialegna, arcieri e gente comune, a lungo vissuta nei boschi del regno, che aveva scelto di abbandonare il proprio silenzioso isolamento per radunarsi a palazzo in quell’occasione solenne. Triste e al tempo stesso fonte di speranza. Non capitava tutti i giorni, infatti, di assistere all’incoronazione della nuova Regina di Midgard.

 

Flare avrebbe voluto che la cerimonia avesse luogo all’esterno, nel piazzale retrostante la rocca, sia per accogliere un maggior numero di persone, sia per rendere onore alla sorella, che là amava pregare Odino, circondata da tutti i fedeli. Ma lo spazio era ancora inagibile, a causa degli scontri con i Giganti di Fuoco, per quanto i suoi consiglieri avessero già provveduto a organizzare i lavori di rifacimento. Molti volontari stavano arrivando da tutte le terre del nord, per dare il loro contributo alla ricostruzione del piazzale, sgombrandolo dalla macerie e dalla neve, e all’edificazione di una nuova statua di Odino, un’impresa titanica pari a quella di cui avevano sentito parlare nei racconti degli avi. A Flare si strinse il cuore dalla gioia nell’apprendere con quanta sincera devozione il popolo di Midgard credesse negli antichi Dei e nei loro rappresentanti in terra, anche dopo quanto era accaduto, anche dopo le violenze subite, e le parole di Enji le diedero ulteriore conferma.

 

“Ho servito il casato di Polaris fin dalla fanciullezza e posso dirvi, mia Signora, che nessuna Celebrante di Odino è stata amata come vostra sorella. Lei era proprio come la cittadella, che si erge a picco sul Mare Artico, sfidando fiera le intemperie del mondo. E voi rischiate di esserlo ancora di più!”

 

La nuova regnante non disse niente, limitandosi a sorridere al devoto consigliere, che la accompagnava lungo il salone, seguiti a breve distanza da un gruppo di Guardie della Cittadella, una porzione del poderoso servizio di sicurezza che Bard, d’accordo anche con Cristal, aveva allestito quel giorno, a protezione di Flare e del popolo. Per quanto entrambi non temessero attacchi specifici, dopo quanto era successo con Loki giorni addietro avevano deciso di non correre rischi.

 

Proprio il giovane allievo di Orion la attendeva ai piedi della scalinata che conduceva al trono, splendido nella sua uniforme di servizio, con il Cavaliere del Cigno al suo fianco. Dismessi i panni del combattente, Cristal indossava abiti prettamente nordici, che Flare gli aveva fornito prendendoli dal guardaroba di famiglia. Anche Kiki era presente, rimasto a Midgard assieme all’amico per sostenere Flare, in un completo così elegante quanto barocco che lo faceva assomigliare ad un valletto di corte.

 

“Rivoglio i miei vestiti!” –Bofonchiò il ragazzino, grattandosi il fondo schiena. –“Questi mi danno il prurito!”

 

Cristal non poté trattenere una risata genuina, prima di rimanere a bocca aperta quando la nuova Celebrante di Odino gli si parò di fronte, con i voluminosi capelli biondi che le ricadevano liberi sulla veste. Flare sorrise ai giovani, fermandosi di fronte al nuovo Comandante della Guardia e baciandolo in fronte, ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per Asgard e per il casato di Polaris.

 

Orion non avrebbe potuto istruire allievo migliore! Sono sicuro che è fiero di te, come tutti noi!” –Gli disse, sorridendo, prima di salire i pochi scalini del palco e voltarsi verso il popolo riunito. Il suo popolo. Quello che era chiamata a difendere e confortare.

 

Wotan, vernda oss!” –Esordì, invocando la protezione del Signore degli Asi. –“Genti di Asgard! Genti di Midgard! La vostra presenza qua mi onora, la vostra fiducia mi rasserena, la vostra speranza mi darà la forza per muovermi lungo nuovi sentieri, che mai avrei immaginato di percorrere così presto! Mia sorella, la mia adorata sorella, amava questa terra, ricca di insidie e misteri, di fascino e nascosto calore, e per questa terra ha dato la vita, affrontando l’ombra e le fiamme! Da sola, ha scelto di uscire dal mondo affinché il mondo potesse continuare a esistere, convinta nel profondo che dopo un’epoca oscura sarebbe succeduta la luce, come le due essenze si rincorrono dai giorni della creazione!” –Parlò la ragazza, con voce calma, sostenuta dal ricordo di Ilda e dallo sguardo fermo di colui che amava, tutto ciò che ancora le restava di quel sogno di felicità inseguito da bambina.

 

“Leggo la paura nei vostri occhi, il timore per il futuro, soprattutto adesso che il nostro suolo è stato violato, il nostro santuario incendiato, la statua del Signore degli Asi sfregiata. Ma leggo anche, nei vostri cuori come nel mio, la voglia di ricostruire, di andare avanti, di non cedere, forti e solidi come le rocce con cui la cittadella è stata issata, come le radici del possente Yggdrasill, che da solo poteva sostenere nove mondi. Noi non siamo chiamati a così estenuante impresa, poiché solo di un mondo dovremo sobbarcarci il peso. Il nostro! Il recinto di mezzo cui siamo confinati a vivere! Sentiamoci lieti di ciò, perché un peso non è, né deve esserlo. Deve essere un’opportunità! Per tutti noi. Così dobbiamo viverla, e io la vivrò con voi!” –Quindi, alzando una mano per sopire la moltitudine di applausi scatenatisi dalla folla, fece un gesto che stupì la maggioranza dei presenti, ma non Cristal. Si inginocchiò, giunse le mani e pregò. –“Odino non è morto! Non ancora! Egli continuerà a vivere fintantoché noi crederemo in lui! E un giorno, tra molti misseri, quando i lupi mangeranno il sole e la luna e un nuovo inverno scenderà, Odino ritornerà per lottare al nostro fianco! Odino è con noi! Wotan sjálfr er með oss!”

 

La stessa frase fu ripetuta da Cristal, Enji, Bard e, bocca dopo bocca, da tutti i presenti, in un mormorio sommesso che aumentò d’intensità divenendo una vera e propria invocazione. Una speranza cui aggrapparsi in un momento di passaggio.

 

“Odino è con noi!”

 

“Che sia davvero così?” –Non poté evitare di chiedersi una delle tre figure che, dall’alta balconata del Salone del Fuoco, osservavano la cerimonia riparati dietro le colonne.

 

“Nessuno conosce i destini del mondo!” –Commentò una voce di donna. –“Avì! Persa è l’antica sapienza di Mimir, esaurita la fonte, nessun oracolo li rivelerà più.”

 

“Fate attenzione a non rivelare i vostri cosmi! Il giovane comandante è un ragazzino, ma il Cavaliere di Atena è combattente esperto e non faticherebbe a percepirne traccia!” –Redarguì l’uomo che per primo aveva parlato.

 

“Cosa ne pensi della nuova sovrana di Midgard?” –Intervenne allora una terza voce, poggiando la mano sulla sua spalla. –“Non ha la flemma della sorella!”


“Questo è vero. Pur tuttavia possiede un cuore grande e misericordioso, colmo d’amore. Di nient’altro questa terra ha bisogno!” 

 

***

 

Il Selenite di Saturno ricordò a Pegasus un nobile Dio conosciuto di recente, lo splendente Balder, figlio di Odino, al cui stesso pantheon il custode del Sesto Cerchio apparteneva. Il suo nome era Mani ed era alto e ben piazzato, imponente nella sua armatura di foggia nordica, in grado di combinare una rara bellezza con un’indiscussa attitudine guerriera, dote assai rara tra i Seleniti. Salutò con trasporto Pegasus e Phoenix, di cui sembrava conoscere molto bene la vita e le avventure.

 

Heilir, Cavalieri di Atena! Vi ho osservato a lungo, seguendo le vostre vicende nelle acque del secchio Sǿgr, l’unico specchio che mi è rimasto sul vecchio mondo!” –Esclamò l’uomo, con voce distinta e vellutata. –“Percepisco il vostro buon cuore e non mi stupisce che il figlio di Odino abbia ceduto la sua luce a uno di voi! Fanne tesoro, Cavaliere di Pegasus, perché, avì, temo che tutti i mondi stiano precipitando in un abisso di tenebra che neppure il Sole di Asgard potrebbe rischiarare!”

 

“È stato un onore per me, per tutti noi, guerreggiare a fianco di Balder e di Odino, nobile Mani! Possano aver trovato pace, qualunque mondo li abbia accolti dopo la morte!” –Rispose Pegasus, e anche Phoenix e i Cavalieri delle Stelle annuirono con rispetto, ma prima che potessero aggiungere alcunché furono distratti dalle grida di due ragazzi, di una dozzina d’anni non di più, che arrivarono correndo, anticipando un fragoroso boato e il sollevarsi di una nube di polvere alle loro spalle.

 

“Il Settimo Cerchio…” –Commentò Mani, vedendo vampe rossastre lampeggiare tra le rovine del muro crollato.

 

“Sono qua! Gli invasori hanno conquistato il Cerchio di Urano!” –Gridarono Bil e Hjúki, gli apprendisti di Mani.

 

“Andiamo!” –Esclamò Pegasus, stringendo i pugni e lanciandosi avanti, seguito da Phoenix, Reis e Jonathan. Il Capitano della Guardia rimase assieme a Mani, avendo concordato in precedenza, assieme ai Cavalieri di Atena, la strategia da adottare: loro sarebbero stati la testa dell’ariete, decisi a sfondare le linee nemiche, mentre Shen Gado e i Seleniti avrebbero costituito la retroguardia, proteggendo i passaggi tra i cerchi. –“L’ultima difesa prima di giungere da Isabel.” –Chiosò il Primo Cavaliere della Dea Atena, lanciandosi verso il varco aperto nel muro del Settimo Cerchio, ove, in mezzo al fumo e alle fiamme, alcune figure corazzate avevano iniziato ad apparire. –“Dove sei, Aresss?!”

 

Una moltitudine di uomini e donne, rivestiti dalle stesse corazze violacee e scarlatte, e armati di tutto punto, si fece loro incontro, vociando all’impazzata, generando un gran frastuono con le grida e il loro confuso avanzare. Osservandoli meglio, i Cavalieri di Atena notarono che i componenti dell’esercito nemico erano tutti molto simili tra loro, divisi perfettamente in uguale numero di maschi e di femmine, giovani e forti, come fossero nati per la guerra.

 

“Non fatevi ingannare dal loro aspetto adolescenziale! È un inganno tessuto ad arte per impietosire gli avversari!” –Commentò allora Reis. –“Gli uomini che vedete sono i Phonoi, diabolici figli di Discordia, gli inarrestabili guerrieri dell’omicidio, e non si fermeranno finché non avranno reciso la testa dell’ultimo abitante della Luna!”

 

“Mentre le armigere dalle belle fattezze ma dal volto pallido, quasi spettrale, sono le Androctasie, spiriti della battaglia e del macello!” –Intervenne Jonathan, che aveva iniziato ad espandere il proprio cosmo dorato. –“Appartengono alla grande famiglia degli Dei della Guerra, rampolli di Eris e di chissà quale abominio! Ci occuperemo noi di loro, siamo avvezzi ai combattimenti di massa e ci piace fare a gara tra chi abbatte più nemici!”

 

“Ricordi nell’Inferno? Di quanti Spectre ti ho battuto, bel biondino?” –Ironizzò Reis, sfoderando la lama di cui era custode.

 

Spectre?! Vuoi forse dirmi che eravate scesi in Ade con noi?!” –Balbettò Pegasus.

 

“Naturalmente. Non vi era venuto il dubbio di non essere soli?! Quanti Spectre avete sconfitto voi Cavalieri di Atena? Una cinquantina? Beh, ora sapete chi ha fatto fuori l’altra metà!”

 

“Saremmo venuti anche nell’Elisio a prestarvi aiuto, ma le nostre corazze non avevano ricevuto sangue divino!” –Concluse Jonathan, proprio mentre un gruppo di Phonoi si faceva loro incontro, le armi sfoderate e pronte al massacro. –“Qua invece possiamo combattere tutti insieme! Andate!!!” –Li incitò, concentrando una sfera di energia nella mano e scagliandola in mezzo al gruppo di nemici. –“Cometa d’oro, apri la via!!!”

 

L’esplosione disintegrò numerosi Phonoi, scagliandone altri tutt’intorno ed esponendoli al rapido assalto di Reis, piombata su di loro a spada tesa, determinata a non offrire al nemico neanche un pertugio per invadere il Cerchio di Saturno.

 

“Ora!!!” –Ripeté concitatamente la ragazza, mentre Pegasus e Phoenix sfrecciavano nel varco, protetti dai fendenti scagliati dai Cavalieri delle Stelle. –“Buona fortuna, amici! A tutti noi!” –Aggiunse, prima di travolgere alcuni avversari con un vortice di energia dorata. Solo allora, in quell’istante in cui riuscì a rifiatare, realizzò che Matthew non era più con loro.

 

***

 

Il Cavaliere dell’Arcobaleno era rimasto indietro. Volutamente.

 

Appena entrato nel Quinto Cerchio, custodito dal Selenite di Giove, aveva deciso di staccarsi dal gruppo e verificare un’intuizione che lo aveva invaso fin da quando avevano lasciato il palazzo. La sensazione che qualcuno li stesse seguendo.

 

Ne aveva avuto sentore nella piana di ghiaccio del Primo Cerchio e poi in seguito, fino a divenire un timore costante nel varco che conduceva all’anello di Thot, che, per omaggiare le calde terre ove era stato a lungo venerato, aveva ricreato una versione ridotta del deserto egiziano, completa pure di piccole piramidi utilizzate come alloggi. Proprio dietro una di queste costruzioni Matthew si era nascosto, poco distante dal tunnel scavato nel muro con cui si accedeva al Cerchio di Giove, mentre Reis e gli altri sparivano nel desertico orizzonte.

 

Non dovette attendere molto per avere risposta ai suoi dubbi, poiché una snella figura avvolta in un mantello si affacciò cauta dal varco, guardandosi intorno fugacemente prima di individuare le tracce sulla sabbia. Dal suo punto riparato, Matthew ne ammirò l’astuzia con cui aveva cura di procedere proprio laddove Pegasus e gli altri erano passati, calpestando le loro stesse impronte per non lasciarne altre sul terreno.

 

“Basta così! Rivelati ora!” –Disse il Cavaliere dell’Arcobaleno, balzando fuori dal nascondiglio e lanciandosi contro la sconosciuta figura, che, sorpresa dall’improvvisa aggressione, non riuscì a difendersi, ruzzolando a terra assieme al ragazzo. –“Uh?!” –Mormorò Matthew, che aveva udito la voce dell’inseguitore lamentarsi per la caduta.

 

Forse dovrei dire inseguitrice. Rifletté, osservando il grazioso corpo palesatosi dopo la perdita del mantello.

 

Era una ragazza alta e snella, con lunghi capelli castani striati d’oro e il volto delicato su cui rifulgevano due occhi verdi. Era vestita con abiti semplici e pezzi di armatura di varie forme e dimensioni, come se fossero stati presi alla rinfusa da corazze diverse. Sembrava seccata da quell’imprevisto, ma nient’affatto ostile alla causa per cui Matthew e i suoi compagni stavano combattendo.

 

“E tu chi sei?!” –Domandò il ragazzo, sgranando gli occhi.

 

Umpf, chi vuoi che sia? Non ci sono molti abitanti in questo paradiso imperfetto!” –Commentò lei, scuotendosi la sabbia di dosso. –“Una famiglia reale e dieci cani da guardia!”

 

Matthew rimase attonito per qualche secondo, riflettendo sulle sue parole, prima di ricordarsi dove l’aveva vista. Poco prima di entrare nell’Occhio, neanche due ore addietro. Assieme alle sue sorelle.

 

“Sei una delle figlie di Selene!!!” –Esclamò, ottenendo in risposta un sospiro stanco.

 

“Elanor!” –Ammise lei. –“La primogenita, per l’esattezza.”

 

“Cosa fai qua? Tua madre ti starà cercando! Dovresti essere a palazzo con la tua famiglia!”

 

“Proprio dove non voglio stare!” –Commentò lei, schiva. –“Non ho intenzione di nascondermi e lasciare ad altri l’onere della difesa. No, io voglio combattere!”

 

“Stai scherzando?! Sei una ragazzina!!! Quanti anni hai? Sedici?”

 

A quelle parole Elanor ammutolì, imbronciata, prima di fissare Matthew con sguardo sprezzante e osservare lo stupore dipingersi sul suo volto quando si sentì sollevare da terra e spingere contro il muro di confine.

 

Tele… cinesi?!” –Balbettò il Cavaliere delle Stelle.

 

“Non prendermi per una sprovveduta! Sono pur sempre la figlia di una Divinità! E non è forse una donna colei che impugna la fulgida lama? L’ho vista, poc’anzi nell’Occhio! Fiera e pronta alla battaglia! Come una vera Amazzone! Io voglio essere come lei, voglio lottare! Voglio vivere e morire per qualcosa, non conservarmi in eterno sotto un guscio di vetro!”

 

“Per questa ragione ti sei fatta un’armatura da sola?!”

 

Elanor annuì, per poi liberare il ragazzo dalla sua morsa mentale e farlo scivolare a terra. –“Non è il massimo, lo so, ma protegge il cuore e altri punti vitali. Del resto, con gli scarti delle corazze dei Seleniti non avrei potuto creare di meglio. Quanto meno se mia madre non mi avesse tarpato le ali e non fossi stata costretta ad allenarmi di nascosto!”

 

“Che vuoi dire?!”

 

La divina Selene ha rinunciato a combattere quando ha lasciato la Terra, disinteressandosi dei suoi problemi e delle vicende di uomini e Dei, uscendo di fatto dalla storia. Tutto quel che le è interessato è stato l’amore di Endimione e il benessere delle sue figlie, che per secoli ha tenuto sotto una campana di cristallo, letteralmente, per paura che ci accadesse qualcosa. Non sono neppure mai potuta uscire da palazzo, per percorrere da sola la Via Maestra!!!”

 

“Ecco perché ci hai seguito, perché sapevi che Shen Gado avrebbe fatto strada!”

 

“La guerra che mia madre ha tanto voluto evitarci è arrivata e per colpa sua non siamo pronti ad affrontarla! Per colpa della sua negligenza tattica abbiamo dovuto chiamare rinforzi, perché i nostri custodi sono Divinità ammuffite e non guerrieri in forze! È umiliante, non trovi? Se mia madre ci avesse insegnato a combattere, avremmo potuto occuparcene da soli!”

 

“Non vi è vergogna nel chiedere aiuto, Elanor! Io stesso, per molti anni, ho rinunciato a combattere e a proseguire nei miei studi, temendo il passato e forse il futuro, finché non ho perso colei che amavo. Da allora ho imparato l’umiltà e la necessità di agire in gruppo, per contrastare un nemico comune, un nemico che a volte siamo troppo deboli per affrontare da soli!” –Sospirò Matthew. –“Non ti fermerò, se vuoi combattere. Non spetta a me farlo. ma assicurati di essere sicura delle tue scelte, poiché non potrai tornare indietro una volta scesa sul campo di battaglia!”

 

Elanor accennò un sorriso, assentendo alle parole del ragazzo, che non fecero altro che confermare la sua decisione. Quando fece per chiedergli se avessero potuto procedere assieme, vide l’ombra del braccio di Matthew sul terreno sabbioso. La colpì alla nuca, facendola cadere al suolo, priva di sensi.

 

“Perdonami, Principessa della Luna! Il battesimo della guerra è un rito che non dovrai affrontare quest’oggi!” –Mormorò, prima di avvolgerla nel mantello e muoversi per depositarla dentro una piramide, ove avrebbe potuto riposare.

 

Fu allora che un turbine di sabbia lo sollevò in malo modo, schiantandolo contro il muro di confine e facendolo ruzzolare a terra, assieme al corpo inerte di Elanor. Mentre Matthew si rimetteva in piedi, tossendo e con la vista arrossata dai granelli di rena, vide un uomo avvicinarsi ad ampie falcate e capì che sarebbero sorti problemi.

 

Alto e slanciato, con un’armatura dalle diverse tonalità di marrone e due ali scure ripiegate sulla schiena, che simboleggiava l’ibis sacro agli egizi, aveva un aspetto nient’affatto amichevole e subito lo apostrofò, chiedendogli chi fosse e perché avesse colpito quella ragazza.

 

“Matthew è il mio nome, sono un Cavaliere di Avalon!” –Si premurò subito di chiarire il ragazzo, incalzato dalle domande dell’uomo.

 

“Perché non sei passato con il resto dei tuoi compagni? Cosa facevi nascosto nelle mie terre con questa… chi è questa ragazzina?” –Esclamò, per poi riconoscere la figlia primogenita di Selene. –“Che cosa le hai fatto? L’hai ferita?”

 

“No, affatto, lei voleva combattere, io le ho detto di tornare all’Occhio!” –Ma le parole del Cavaliere delle Stelle caddero nel vento, lo stesso furioso turbine di sabbia che il Selenite di Giove aveva appena sollevato.

 

Thot, Custode del Quinto Cerchio, non ama le menzogne!” –Chiarì l’uomo, preparandosi alla battaglia.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo quarto: La scacchiera è pronta ***


CAPITOLO QUARTO: LA SCACCHIERA E’ PRONTA.

 

La reggia di Zeus era deserta, ben pochi vi dimoravano più.

 

Morti i Cavalieri Celesti, nella guerra scatenata da Flegias, massacrati gli Dei e le loro certezze di immortalità, sgozzati i satiri, le ninfe e gli abitanti del Monte Sacro, restavano soltanto Zeus e la sua sposa, e una cerchia ristretta di fedelissimi. Ciononostante, da una settimana il Cronide pareva aver riacquistato una parte della superba vitalità tipica dei giorni in cui il mondo era giovane ed egli si era appena assiso sull’olimpico trono. Ed era la presenza di un’altra Divinità, da lui ridestata, ad aver contribuito al miglioramento del suo umore.

 

“Nettuno, fratello mio, sono lieto di constatare che hai recuperato del tutto le forze, lo percepisco dalla freschezza del tuo cosmo, simile a mareggiata che si solleva impetuosa nel breve arco di un istante!” –Esclamò il Tonante, entrando nelle stanze riservate al mitologico fratello e congedando Ganimede e le ancelle, che lo avevano assistito durante la convalescenza.

 

“Mi sento meglio, dici il vero, Zeus. E non ho bisogno di un consulto di Asclepio per comprendere che è a te che devo il mio repentino recupero!” –Disse l’Imperatore dei Mari, alzandosi dal letto in cui aveva riposato negli ultimi giorni, dopo che Ascanio e Nikolaos avevano risvegliato il suo vero corpo da un sonno durato secoli. –“Sento la folgore palpitare dentro di me, una sensazione elettrizzante, lo ammetto, dovuta all’Ichor di cui ti sei privato per farmene dono. Un gesto gentile, che non dimenticherò, puoi esserne certo!”

 

“Una cortesia tra fratelli, chiamiamola così, resasi necessaria dalle circostanze.” –Si affrettò a chiudere il discorso Zeus, mentre entrambi si incamminavano fuori dalla reggia, per passeggiare nel sempreverde giardino attorno.

 

“Tra fratelli che non si vedevano da secoli e che, perdonami se puntualizzo, non sono mai stati in così affiatati rapporti. Cos’altro vuoi condividere con me?” –Domandò Nettuno, sornione, e poi, notando che il fratello non accennava a rispondergli, riprese a parlare. –“Apprezzo il tentativo, Zeus, ma non sono in vendita. Per cui adesso parla, cosa vuoi realmente? La mia forza, ciò è indubbio, ma non credo di poterti offrire altro, non avendo un’armata da far combattere. Tutti i miei generali in quest’epoca sono già morti e passeranno anni prima che la mia divina volontà possa riunirne altri. Non posso aumentare le file delle tue sparute legioni!”

 

“Questo no. Però puoi fortificarle.” –Confessò infine Zeus, fermandosi al centro del giardino fiorito.

 

“Come?!” –Esclamò Nettuno, stupito, prima che lo sguardo indagatore del Signore degli Dei scavasse nei recessi della sua anima, portandolo a ricordare. E a comprendere. –“Il giacimento di oricalco!”

 

“Non ho dimenticato, fratello, che Atlantide nascondeva la più grande riserva di oricalco del Mondo Antico, così ricca da generare l’invidia di molti. E proprio alle tue scorte attingemmo, per armare i nostri eserciti, quando i Titani minacciarono la terza stirpe cosmica! Ugualmente adesso, in vista della fine, debbo chiederti di potervi attingere ancora, un’ultima volta!”

 

“Non entro da secoli, forse millenni, nel giacimento di oricalco ma non vi è motivo di credere che sia stato violato, del resto nessuno, a parte noi due, era a conoscenza della sua ubicazione.” –Rifletté Nettuno, annuendo con fare deciso. –“Le mie scorte sono a tua disposizione, Zeus Tonante, è il minimo che possa fare per ringraziarti di avermi risvegliato, anche se avrei preferito per un’occasione migliore!”

 

“Vorrei anch’io che vivessimo in tempi diversi…” –Mormorò Zeus, concedendosi un sospiro addolorato. –“Tempi che non rischiassero di concludersi a breve. Possono sembrare ironiche le mie parole, dette da un Dio che vive da millenni, ma vorrei davvero poter tornare indietro, a giorni più felici, per poter rivivere i fasti olimpici che a causa della mia debolezza sono scomparsi.”

 

“Tetre parole le tue. Sei davvero così angosciato, Signore del Fulmine?”

 

“Vivo da secoli in quest’angoscia, forse da millenni, dalla fine della Titanomachia. Quando ci penso, quando ripenso alle sue parole, maledico me stesso per aver udito, per avergli tenuto la mano mentre moriva e aver appreso quel che sarebbe accaduto! È sciocco, lo so, è futile e umano ma a volte vorrei che Vasteras non mi avesse mai detto niente, vorrei non aver avuto un così previdente consigliere! Se fosse stato zitto, se fosse morto senza avvisarmi, avrei vissuto un’esistenza tranquilla, priva di angustie, invece l’ansia mi ha invaso, l’ansia della fine di tutte le cose, anche degli Dei. Ho cercato di scacciarla in ogni modo, viaggiando, girando il mondo, concedendomi a folli amori impossibili, che mi ricordassero di essere sempre giovane e maschio, e abbandonandomi a dissolutezze di ogni genere, celebrazioni e gozzoviglie. Tutto solo ed esclusivamente allo scopo di nascondere il fatto che la nostra ora sarebbe comunque giunta. E la fine del paradiso olimpico con essa.”

 

“Paradiso olimpico?! Non è un controsenso per un regno che pace e serenità non ha mai visto se non nei sogni e nelle idilliache speranze degli uomini?” –Azzardò Nettuno, ricordando che gli Olimpi si sono fatti la guerra per secoli. –“Era contro Eracle, Ade contro Atena, io stesso contro Atena. E, da quel che mi hai detto, tuo figlio il bellicoso non ha ancora rinunciato ai suoi progetti imperiali!””

 

“Le ragioni di mio figlio sono indecifrabili anche se temo abbia ceduto all’ombra. È l’unica spiegazione plausibile per giustificare la sua ritrovata esistenza terrena. Per questo dobbiamo sbrigarci! Nettuno, ti chiedo di raggiungere Atlantide oggi stesso e recuperare le scorte di oricalco, di modo che mio figlio Efesto possa lavorarlo quanto prima!”

 

“Come comandi, Zeus Tonante!” –Concordò il sovrano dei silenti abissi, dando le spalle al fratello e incamminandosi verso la reggia.

 

Solo allora notò la delicata figura di Demetra, Dea delle Coltivazioni, a una ventina di metri di distanza, intenta a prendersi cura di una siepe di rose, una varietà particolare, dai petali color avorio, che era riuscita a far crescere sul Monte Sacro. Le sorrise, passando oltre e lasciandola ai suoi lavoretti. Anche Zeus rientrò nella reggia e la sorella rimase sola nel quieto giardino, quello stesso giardino che solo pochi mesi prima era stato devastato dalle vampe di Tifone, ma che il suo cosmo aveva curato, rinvigorendo il terreno e permettendo alla flora di rinascere.

 

Per Zeus, e probabilmente anche per gli altri Dei sopravvissuti, infondere così tanto tempo e risorse alla cura di un terreno che presto sarebbe tornato ad essere un campo di battaglia era solo uno spreco di energie preziose, che Demetra avrebbe fatto meglio a conservare, poiché se la grande ombra li avesse sommersi anche la sua luce avrebbe rischiato di spegnersi. Sospirando, la sorella di Zeus si incamminò nel roseto, per cogliere alcuni fiori e preparare un elegante mazzo che avrebbe portato a una coppia molto speciale. Una famiglia che viveva alle pendici del Monte Sacro e a cui la Dea del Grano e dell’Agricoltura molto doveva.

 

L’anziana coppia era costituita da Elena e Deucalione, i genitori del Luogotenente dell’Olimpo, che Demetra aveva avuto modo di conoscere, e di apprezzare, dopo la fine della Grande Guerra. In virtù dei meriti conquistati dal figlio, Zeus aveva persino invitato i due mortali a vivere a palazzo, ricevendo un cortese ma fermo rifiuto, preferendo essi continuare a vivere nell’intimità della loro dimora. Così, a ogni quarto di luna nuova, la Dea aveva preso l’abitudine di recarsi a fare loro visita, portando fiori e semi per le coltivazioni. Ma quando quel giorno arrivò al Bianco Cancello, limite estremo dei possedimenti olimpici, una strana sensazione la invase.

 

L’eccessiva quiete del bosco, il malinconico ricordo dei giorni in cui Bronte del Tuono occupava il valico, impedendo a qualunque estraneo di accedere al Monte Sacro, nonché i timori di Zeus per l’ultima guerra, rallentarono il suo passo, incutendole un insolito timore. Ma, più di ogni altra cosa, la atterrì l’odore di sangue che permeava l’aria. Acre, pungente, a tratti nauseabondo. Le venne sbattuto in faccia da un’improvvisa, quanto insolita, brezza, che le fece gelare il sangue. Soprattutto quando capì da dove proveniva.

 

Gettando a terra il bel mazzo di rose, Demetra iniziò a correre, lasciandosi il sentiero alle spalle e sfrecciando in mezzo agli alberi, giungendo in un lampo di fronte alla casetta di legno. La porta divelta, la cucina messa a soqquadro, schizzi di sangue sul muro. E i corpi massacrati di Elena e Deucalione sul pavimento, le mani e i piedi recisi dagli stanchi corpi e messi a bollire in un pentolone sul caminetto.

 

Di fronte a quell’orrore, Demetra vomitò.

 

Per quanto avesse visto passare tutte le ere del mondo, e le barbarie a cui spesso uomini e Dei si abbandonavano, quella violenza gratuita la scosse più di altre guerre passate, forse perché la toccava vicino. O forse perché adesso avrebbe dovuto trovare la forza di annunciare a Nikolaos la morte dei suoi genitori, morte che non era riuscita ad evitare.

 

A cosa giova essere una Dea, allora, se non possiamo proteggere i nostri cari? A cosa servono i nostri poteri se dobbiamo assistere impotenti a tutte queste stragi?

 

Non seppe rispondersi, prostrata a terra da un nuovo conato di dolore.

 

***

 

La prima cosa che Pegasus e Phoenix notarono entrando nel settimo anello del regno lunare furono le fiamme. Un’immensa distesa di vampe infuocate che pareva divorassero ogni cosa sul loro cammino. Quella che un tempo era stata una bella pianura fiorita, dove gli animali potevano correre in libertà, era stata fagocitata da una fiamma la cui impronta Pegasus ben conosceva.

 

Aresss!!!” –Gridò. E la sua voce fece ondeggiare le vampe infernali, fino a rivelare una striscia di terra ancora intatta in cui il ragazzo e l’amico si lanciarono, giungendo infine al centro del Cerchio di Urano, in una radura ove il custode stava combattendo.

 

Shen Gado aveva parlato loro al riguardo ma Tecciztecatl si presentò ben più bizzarro di quanto lo avessero potuto immaginare. Era un uomo vecchio d’aspetto, dalla barba canuta e dalle folte ciglia bianche, così folte che gli coprivano parte degli occhi, e indossava un’armatura tanto coprente quanto originale, il cui simbolo era decisamente un coniglio. Riprova diedero loro l’elmo marrone, cui erano fissate due lunghe e affusolate orecchie, la coda corta e la copertura per i piedi, decisamente ben più grande di quelle solitamente in uso. Ma per quanto anziano, il guardiano del Cerchio di Urano pareva non essere privo di vigoria, tanto intento era a fronteggiare un gruppo di Phonoi da non essersi neppure accorto dell’arrivo dei due Cavalieri di Atena.

 

“Muori, vecchiaccio!” –Ringhiò un guerriero, mulinando un’ascia da guerra. Ma Tecciztecatl fu svelto a balzare a piedi uniti all’indietro, evitando al contempo anche l’affondo di una lancia.

 

“Vecchio sì, ma non stolto!” –Commentò calmo il Selenite di Urano, allungando una mano dietro la schiena e afferrando quello che a Pegasus parve il fondo di un pentolone ma che, guardando meglio, identificò come il guscio di un’enorme conchiglia. Tecciztecatl la impugnò come fosse uno scudo, parando con essa gli affondi delle armi nemiche, prima di travolgerne un paio con una sfera di energia.

 

I Phonoi rimasti si riunirono tra loro, puntando le lame verso il vecchio custode e tartassandolo con una sventagliata di attacchi energetici, impegnandolo sulla difensiva, fino a farlo crollare a terra per il contraccolpo. Pegasus e Phoenix decisero di intervenire in quel momento.

 

Fulmine di Pegasus!!!” –Gridò il ragazzo, sfrecciando in mezzo al gruppo di nemici e massacrandone a decine con i suoi pugni lucenti. Quelli che furono svelti abbastanza per gettarsi di lato vennero raggiunti dalle piume infuocate della fenice, che maciullarono i loro volti, prima che Phoenix piombasse tra loro, scaraventandoli lontano con un solo battito d’ali.

 

“Oh meno male! Credevo avrei dovuto combattere ancora da solo! Non ho più il fiato per queste imprese!” –Borbottò Tecciztecatl, prima di guardare stranito i due nuovi arrivati. –“E voi chi siete? Credevo che Mani o Thot fossero giunti in mio soccorso!”

 

“Non da solo dovrai lottare, valoroso Tecciztecatl, ma al fianco dei Cavalieri di Atena, qua per prestarti aiuto, se ci concederai questo onore!” –Esclamò Pegasus, presentando se stesso e l’amico.

 

“Da quando morire in guerra è un onore, ragazzo?!” –Bofonchiò il Selenite di Urano, salvo poi ringraziare entrambi per il loro intervento. –“Sarei voluto correre a difendere la breccia nel Settimo Cerchio che questi dannati han creato, ma le fiamme che mi circondano mi intimoriscono. Ho una paura dannata del fuoco, ragazzo, una fobia che mi perseguita da secoli.”

 

“Paura del fuoco?! Quale eresia!” –Ringhiò allora una quarta voce, risuonando feroce per tutto il cerchio e scuotendo le vampe fino in profondità. –“Pirofobia significa paura della vita! Perché il fuoco è la fiamma dell’esistenza, l’olio che apre i cancelli della vittoria! Della mia vittoria! Ahr ahr ahr!”

 

Umpf… mostrati, canaglia, e vediamo di regolare i nostri conti una volta per tutte!” –Ironizzò Pegasus, strusciandosi il naso divertito, mentre Phoenix, al suo fianco, muoveva lo sguardo sull’oceano di fiamme attorno a loro, cercando di individuare la provenienza di quella voce che entrambi ben conoscevano.

 

“E sia! Fiat fŏcus!” –Commentò il creatore delle vampe di fuoco, mentre queste si allargavano di lato, mostrando l’avvicinarsi di un carro da guerra, che proveniva dall’ormai distrutto Cerchio di Nettuno. Seduti in bella mostra, sul pianale anteriore del carro, un uomo e una donna dai perfidi sguardi sorridevano estasiati, inebriandosi dell’aria di lotta armata che permeava il suolo lunare.  

 

“Ci rivediamo, Cavaliere di Pegasus! E a quanto vedo sei ancora il solito bamboccio impertinente! Il tempo non ti ha fatto maturare se ancora non hai capito quanto vano sia il tuo claudicante agire!” –Esclamò Ares, Dio della Guerra, alzandosi in piedi sul carro e fissando gli avversari dall’alto, con disprezzo e superiorità.

 

Il suo aspetto fisico era lo stesso di mesi addietro, quando si erano scontrati ai Templi dell’Ira, il volto da bello e bastardo, un filo di barba incolta, ma la scarlatta Veste Divina era immacolata, priva di graffi, tirata a lucido per l’ultima guerra. Nella mano destra stringeva una lunga lancia avvolta dalle fiamme, simile a quelle degli antichi opliti, la cui punta gocciolava ancora del fresco sangue di cui si era imbevuta.

 

“Non posso dire di esserne felice, Ares!” –Ironizzò Pegasus. –“Ma farò buon viso a cattiva sorte. Cos’altro potrei fare? A parte, si intende, riempirti di botte!” –Non aggiunse altro e scattò avanti a pugno teso, liberando migliaia di comete di energia.

 

“Al tuo posto!” –Ringhiò il Nume, muovendo con rapidità la lancia in un’infinita serie di affondi, ciascuno perfettamente mirato a distruggere ogni singola sfera energetica, vanificando l’intero assalto di Pegasus. –“Dòru àimatos!” –Latrò, mirando a una coscia del Cavaliere, che fu svelto a gettarsi di lato, piombando nell’oceano di fiamme ma riuscendo a evitare la lama.

 

“Ragazzo!!!” –Gridò Tecciztecatl, vedendo le vampe rossastre chiudersi su Pegasus, come petali di un fiore, e temendo per lui. Scambiò una rapida occhiata con Phoenix prima che entrambi si lanciassero avanti.

 

“Ce n’è anche per te, stai tranquillo, vecchio!” –Tuonò Ares, volgendo lo sguardo su di loro e scagliandoli indietro, ben oltre il limitare del cerchio di fiamme, tra i cadaveri dei Phonoi ormai divorati dalle vampe scarlatte.


Aaahhh!!!” –Urlo il Selenite di Urano, travolto da un improvviso e fecondo terrore. Pareva che ovunque si girasse lingue di fuoco lo avvolgessero, insinuandosi negli spazi liberi della sua corazza e divorandogli il corpo. D’un tratto, Tecciztecatl vide se stesso ossuto e rachitico camminare in un oceano di magma, il volto scavato dalle gocce di lava che gli cadevano dagli occhi, la bocca vomitante sangue e fiamme. Disperato, si portò le mani alla testa, strappandosi l’elmo, spezzando le orecchie di coniglio e iniziando a darsi colpi sul capo, per cancellare quelle visioni, per spazzar via quel presente di vecchiaia, dolore e morte in cui era precipitato, così lontano dai fasti cui pareva essere destinato quando era giovane. Quando il mondo era giovane.

 

“Sarei potuto essere il Dio del Sole…” –Mormorò, ricordando la giovinezza nelle terre che in seguito sarebbero state chiamate America. –“Se non avessi avuto paura del fuoco. E invece divenni Signore della Luna e Nanauatzin, più umile e coraggioso, prese il posto che avrei potuto ottenere, sacrificandosi nelle fiamme per continuare a brillare per il mondo e per gli uomini.”

 

Non… cedere ai ricordi…” –Disse infine una voce, spezzando le visioni del custode del Cerchio di Urano. –“Non dargliela vinta, a quel bastardo di Ares!” –Aggiunse, permettendo a Tecciztecatl di riconoscere il giovane Pegasus, anch’egli intento a lottare con le vampe infuocate. –“Sei vittima del suo colpo segreto, le Onde di Terrore, con cui fa emergere le paure nascoste nell’animo di ognuno. Trova la forza di fronteggiarle, non farti divorare dall’amarezza di ciò che fu!”

 

Hai… ragione… ragazzo! Tecciztecatl non sarà vinto da un rimpianto!” –Riconobbe infine il Selenite di Urano, bruciando il proprio cosmo, sempre di più, ricordando la magnificenza di un tempo, i regali preziosi e il corallo che gli uomini gli offrivano, l’inebriante sensazione di essere un Dio. –“Per il sole e la luna, se hai ragione! Grazie, figliolo!”

 

“In fondo, sono solo trucchi da cartomante!” –Ironizzò Pegasus, che nel frattempo si era rimesso in piedi.

 

“Oh, davvero?!” –Ghignò Ares, balzando con un’agilità improvvisa nello spiazzo, proprio in mezzo a Pegasus, Phoenix e Tecciztecatl. Impugnando la lancia al centro, la mosse a spazzare, colpendo il Cavaliere della Fenice tra collo e spalla, sbattendolo a terra, quindi, roteando l’asta vorticosamente, si preparò a parare la tempesta di pugni che Pegasus aveva già scatenato.

 

Uno dopo l’altro i suoi colpi si spensero sull’arma di Ares e alcuni gli vennero persino rimandati indietro, obbligando il ragazzo a balzare di lato. Ma quando vide il Dio impugnare di nuovo saldamente la Lancia di Sangue, Pegasus sollevò le difese, concentrando i sensi per parare l’affondo. In un attimo Ares prese la mira e colpì.

 

Pegasus non riuscì neppure a gridare, tanto rapido e sorprendente era stato quell’attacco. Poté solo osservare il corpo ferito di Tecciztecatl accasciarsi a terra, con uno squarcio sul ventre, laddove la Dòru àimatos lo aveva trapassato, dopo un’ultima veloce rotazione.

 

Bastardooo!!!” –Gridò Pegasus, scattando avanti e lasciando esplodere il suo cosmo.

 

Phoenix, che intanto si era rimesso in piedi, corse ad affiancare l’amico ma un tridente si conficcò proprio di fronte a lui, esplodendo e scagliandolo indietro.

 

“Non ti sarai dimenticato di me, bel giovane?!” –Rise sguaiata una donna dai crespi capelli blu. –“Sarebbe scortese non dedicare le giuste attenzioni a una signora, soprattutto se è di carattere pretenzioso come lo sono io! Ah ah ah!”

 

Il Cavaliere della Fenice strinse i denti, preparandosi al periglioso scontro con un secondo demone del loro passato recente. Discordia, Dea della Contesa e Madre dei Mali, pareva non attendere altro.

 

***

 

Che Andromeda fosse inquieto era evidente.

 

Il suo sguardo guizzava dalla grande vetrata esterna, su cui balenavano vampe e folgori di scontri lontani, alla Dea che doveva proteggere, la fanciulla dai capelli viola inginocchiata a mani giunte al centro dell’Occhio, immersa nella sua preghiera fin da quando Pegasus e gli altri avevano abbandonato la reggia di Selene.

 

Per dare loro forza. Per essere le ali in grado di tenerli in piedi quando le gambe non li reggeranno più. Così Atena aveva motivato la sua scelta, quando la Dea della Luna le aveva chiesto se non preferisse una più comoda sistemazione. Ho sopportato ben altro che il marmo di un pavimento. Aggiunse, riferendosi alle rigide temperature di Asgard o ai flutti oceanici che l’avevano quasi affogata nella Colonna Portante. E come lei avevano fatto i suoi Cavalieri, di cui Andromeda faceva parte, anche se per tanto tempo si era sentito scomodo in quei panni.

 

Lei lo capiva, voleva essere là fuori, a dare la vita per il fratello e i suoi compagni. E non a fare da balia a una Dea che pareva non essere mai in grado di difendersi.

 

“Va’!” –Si limitò a dirgli Lady Isabel, non appena il ragazzo le si avvicinò, per verificare che non fosse troppo stanca.

 

Andromeda la fissò con sguardo incuriosito, prima che Atena gli rinnovasse l’invito ad andare. –“Saprò difendermi!” –Aggiunse, rivelando un oggetto nascosto sotto la lunga veste bianca. Qualcosa di cui neppure Pegasus era a conoscenza.

 

Il Cavaliere annuì, ringraziando la Dea e porgendo i propri saluti a Selene che, circondata da una decina di figlie, sedeva sconsolata al tavolo rotondo, interrogandosi sul futuro del suo reame. Quindi corse via nei corridoi del santuario, scendendo al piano inferiore e cercando la via che conduceva al Primo Cerchio. Fu proprio prima di uscire dalla reggia che lo sentì, un odore particolarmente acuto.

 

Un odore di salvia bruciata.

 

Storcendo il naso, stranito, Andromeda mosse qualche passo verso un salone laterale, da cui l’aroma pareva provenire. Il portone di accesso era quasi del tutto accostato, soltanto uno spiraglio permise al Cavaliere di cogliere le voci dall’interno, pur non riuscendo a vedere in faccia coloro che stavano parlando, due uomini sicuramente. Per quanto fossero vicini, pochi passi, non di più, Andromeda faticava nell’udire quel che stessero dicendo.

 

“La situazione è ben più preoccupante di quanto abbia lasciato trasparire durante il consiglio. Mai avrei immaginato che avrebbero mosso guerra al reame della Luna Splendente! Di tutti i regni divini, ero certo che questo sarebbe stato l’unico a rimanere completamente al sicuro. Non credevo neppure fossero a conoscenza della sua esistenza!” –Esclamò la prima voce.

 

“Ne eravamo tutti convinti, non devi crucciarti. È un errore che l’intera gilda ha commesso, persino io che a lungo in quest’Eldorado ho dimorato.” –Rispose un secondo uomo.

 

“Non è soltanto il regno di Selene ad essere sotto attacco.” –Riprese allora la voce, stupendo il suo interlocutore. –“Si stanno risvegliando, Asterios! Come il cosmo dei Titani e del loro signore Crono ridestò creature nel mito a loro fedeli, ugualmente il suo ritorno sta richiamando in vita la sua oscura progenie. Bestie immonde minacciano l’equilibrio del mondo e presto cingeranno d’assedio altri regni divini, per fame, spirito bellico o vendetta! Non abbiamo le forze per difenderli tutti!”

 

“Dobbiamo intervenire all'istante allora, estirpando la mala erba prima che cresca!” –Incalzò l’altro, venendo subito rassicurato dal compagno.

 

“Ho già dato mandato a un nostro comune amico di occuparsene! Del resto, nessuno più di lui è desideroso di scendere in guerra!”

 

“Quello che non capisco è come abbiano potuto scoprire l’ubicazione del talismano, perché è chiaro che sono qua per questo! Solamente noi quattro sapevamo dove era nascosto e siamo stati più che attenti a rivelarlo ad altri!”

 

“A ben pensarci…” –Mormorò il primo uomo. –“Eravamo in cinque a saperlo.”

 

“Cinque?! Ma Anhar non ha mai saputo niente di ciò!”

 

“Non mi riferivo a lui, ma al mio mentore.” –E, non appena ebbe pronunciato quella frase, Avalon capì. –“Lo ha appreso da lui!!! Dai suoi ricordi, dalla sua coscienza prigioniera dell’ombra che lo aveva invaso sulla cima dell’Isola Sacra! Ecco perché Anhar mi ha attaccato giorni fa! Non voleva uccidermi, no! Voleva soltanto le memorie del Primo Saggio, succhiargliele fino all’ultima stilla di linfa vitale! E così facendo, oltre ad aver ghermito la sua vita, ha appreso anche quel che Tegel sapeva! La vera natura dei Talismani!”

 

“Quel farabutto!!!” –Ringhiò il suo interlocutore. –“Ora capisco gli istinti omicidi di Andrei… Anch’io vorrei averlo tra le mani per…” –Ma nel vedere lo sguardo rattristato del compagno, Asterios addolcì il dono della voce, prendendogli le mani e obbligandolo a guardarlo negli occhi. –“Mi dispiace per il tuo mentore, era un brav’uomo, ci ha addestrato e preparato per molti anni al secondo avvento. Rimpiango la sua tragica fine.”

 

“Non farlo! La sua missione è compiuta. Egli adesso è con il talismano, egli è il talismano, e gli darà sempiterna forza!” –Concluse Avalon, mentre una lacrima gli colava giù dagli occhi argentei. Quindi si voltò verso il portone, spalancandolo con la sola forza del pensiero e spingendo Andromeda a balzare indietro di scatto, per non essere investito in pieno.

 

“I tuoi sensi sono acuti, Cavaliere, se sei riuscito a percepire la nostra presenza in questa sala, nonostante avessi avvolto i nostri corpi in una nebbia atta a celarli, e bruciato della salvia per coprire le nostri voci.” –Sorrise Avalon, prima di aggiungere, con fare interrogativo. –“Di una cosa però sono stupito. Che tu abbia compreso la nostra conversazione.”

 

“Non era mia intenzione mancarvi di rispetto, mio Signore. Mi sono semplicemente trovato…

 

“Non è quello che intendevo. Ci sarà tempo per parlarne con Atena e Pegasus, quando Ares e Discordia saranno sconfitti. No, mi riferivo ad altro. Spiegami, Cavaliere di Andromeda, come sei riuscito a capire quel che stavamo dicendo, nonostante stessimo parlando in antico gaelico?”

 

Andromeda sgranò gli occhi esterrefatto. Fece per rispondere qualcosa, dire ad Avalon che  si sbagliava, che non era possibile che avessero parlato in quella lingua a lui ignota, quando infine, dagli abissi della sua coscienza, emerse una luce lontana. Un unico nome che già gli aveva offerto un dono straordinario.

 

Biliku.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo quinto: Primo interludio ***


CAPITOLO QUINTO: PRIMO INTERLUDIO

 

LUCE.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventesimo anno prima del secondo avvento.

 

La diga di cemento armato si ergeva a poche miglia da lì, stagliandosi verso il cielo fin quasi a coprirlo. Orribile a vedersi, incombeva sul villaggio ricordando ai suoi abitanti che le loro vite erano nelle sue mani e che avrebbe potuto prenderle in qualsiasi momento. Reis la guardava con frustrazione, sapendo di non potersi opporre a quel potere. Così, quando l’immensa struttura collassò, squarciata da enormi crepe rigurgitanti fiumane d’acqua, non poté far altro che socchiudere gli occhi, radunare il suo cosmo e portare le braccia avanti, palmi aperti verso la furia montante, per generare una barriera con cui affrontare la mareggiata. Consapevole di non poterla arrestare del tutto, avrebbe quantomeno potuto limitare i danni, cercando di salvare il maggior numero di persone.

 

Impaurite e tremanti, le sentì radunarsi dietro di lei, piangere e implorare il perdono divino, e Reis fu certa di sentire anche la voce di sua madre e suo padre in quel cumulo di anime tristi, sebbene non fosse in grado di distinguerle, né loro potessero vederla. Sospirò, riportando lo sguardo sulle braccia tese avanti a sé, concentrate nel generare un cuneo di luce che permetteva alla gigantesca marea di defluire ai lati della barriera, lasciando intatto il villaggio che si apriva alle sue spalle.

 

Posso farcela! Disse a se stessa, per quanto la pressione sulle sue gracili braccia stesse aumentando a dismisura. Stavolta ce la farò! Aggiunse, stringendo i denti, mentre le vene le si ingrossavano e dalle ferite aperte sulle mani e sul volto iniziava a zampillare il sangue per lo sforzo eccessivo.

 

Una nuova ondata, ancor più fragorosa della precedente, si schiantò sul suo cuneo difensivo, mandandolo in frantumi e investendo in pieno la ragazza e gli abitanti del villaggio, risucchiandoli in un torbido vortice di desolazione. Travolta dalla piena, sommersa dalle onde dei ricordi, Reis si sentì intrappolata, avvinghiata ad alghe da cui non riusciva a liberarsi, percependone la forza per intero. La afferravano, per quanto lottasse, la strattonavano, la trascinavano nelle fangose profondità del passato, togliendole ogni via di fuga. Perché ogni volta che ci provava, ogni volta in cui invocava aiuto, la sua bocca si riempiva di acqua e fango, il suo respiro strozzato risuonava macabro su un fondale di morti, liberando solo una bolla. Un’ultima bolla che, al momento di esplodere in superficie, avrebbe segnato la sua nuova morte.

 

Mi… dispiace. Bisbigliò anche quella volta. Non vi ho salvato!

 

“Quante volte ancora volete farmi morire?!” –Esclamò la bambina, aprendo gli occhi e cercando di recuperare il controllo del proprio battito cardiaco, aumentato a dismisura dopo l’ultima ondata.

 

“Quante sarà necessario per impedire che ciò avvenga realmente!” –Commentò calma la voce del suo istruttore, seduto davanti a lei, con la schiena appoggiata ad un albero di mele.

 

“E quando sarò pronta?”

 

“Quando riuscirai a superare indenne i traumi del passato!” –Si limitò a rispondere il suo maestro, alzandosi da terra e facendole cenno di seguirlo lungo il sentiero che, tra l’erba, saliva lungo il pendio dell’isola, passando in mezzo a folti meleti.

 

Reis adorava correre tra gli alberi, arrampicarsi sui rami e aiutare le sacerdotesse a cogliere le mele, molto più che stare china negli orti a strappare erbe o a preparare decotti o infusi. La parte pratica del suo addestramento, quella prettamente fisica, era quella che preferiva e che le aveva permesso di essere una bambina in splendida forma, molto più bella e in salute delle sue coetanee, e gran parte del merito andava all’ambiente in cui aveva vissuto fin da quando aveva due anni.

 

“Ricordi il tuo villaggio nel Galles? L’alluvione che lo spazzò via? Sono passati otto anni da allora ma è ancora nella tua mente. Lo rivedi, quel momento nefasto, ogni volta in cui chiudi gli occhi, ogni volta in cui ti addormenti; lo percepisco. Se non sei ancora crollata, se sei ancora in grado di alzarti e correre, lo devi al cosmo che pulsa dentro te, lo stesso cosmo che ti ha salvato quando eri ancora una bambina. Non sottovalutarne la forza, ma non sopravvalutare la tua resistenza. Il tuo involucro è quello di un essere umano!”

 

“Sei un uomo buono!” –Esclamò improvvisamente la piccola, fermandosi al limitare del sentiero e lasciando andare la mano dell’uomo. –“Saresti un buon padre, sai, maestro?”

 

“Se fossi tuo padre ti sculaccerei per la tua impertinenza!” –Commentò questi, alzando l’indice destro.

 

“Perdonatemi, maestro!” –Chinò il capo la bambina, prima che alcune sacerdotesse la chiamassero, affinché le aiutasse con la raccolta delle mele.

 

Avalon la guardò allontanarsi e correre scalza tra l’erba, felice, come dovrebbe essere una bambina di dieci anni. E non succube del peso del mondo. Sospirò, chiedendosi se fosse giusto prenderne la vita, così, come fosse un bene di sua proprietà, e addestrarla per un solo unico scopo di guerra.

 

“Questo è ciò che i Talismani hanno deciso! Non crucciarti per il suo destino, ma sii fiero per ciò che diverrà!” –Lo raggiunse allora una voce, mentre l’anziana sagoma del Primo Saggio gli si avvicinò. –“Antalya non avrebbe potuto affidare la Spada di Luce a un essere umano indegno della sua fiducia! Se lo ha fatto è perché….”

 

“So perché lo ha fatto! Percepisco anch’io il cosmo di luce che alberga nell’animo di Reis!” –Precisò Avalon. –“Pur tuttavia non ha ancora vinto il trauma della sua infanzia, l’alluvione in cui morirono i suoi genitori! Tutte le simulazioni mentali effettuate lo dimostrano: per quanto eccella in ogni altra materia, esercizio o difficoltà, non è mai riuscita a superare quella prova! A liberarsi di quel retaggio! Dovrà avere la mente sgombra da ogni preoccupazione per poter brandire al meglio il Talismano che le è stato assegnato!”

 

“E come pensi di prepararla al riguardo?”

 

“Chiederò ad un amico di occuparsene!” –Commentò Avalon, voltandosi verso il mare di nebbia che circondava l’isola. Lo fendette con lo sguardo, cercando l’alto colle che si ergeva sull’altra sponda del lago, laddove riluceva pallido, al sole di mezzogiorno, quel che restava di un antico luogo rituale. Una rozza torre che gli abitanti della vicina cittadina chiamavano Tor, senza sapere che proprio quella costruzione era il portale per penetrare i segreti del colle stesso. Era il varco per scendere all’inferno.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Sedicesimo anno prima del secondo avvento

 

“Mi congratulo con voi! Avete portato a termine un complesso percorso di formazione, umana e guerriera! Sia io che Andrei siamo fieri dei risultati da voi ottenuti!” –Esclamò fiero il Signore dell’Isola Sacra, ergendosi ai piedi del Pozzo Sacro sulla cima di Avalon.

 

Di fronte a lui, in rispettoso silenzio, stavano inginocchiati i tre Cavalieri delle Stelle che per primi avevano risvegliato i Talismani dentro di loro.

 

“Oggi siete soltanto tre, ma un giorno sarete sette, quando gli altri prescelti prenderanno coscienza del cosmo che alberga dentro di loro! Sette come il più sacro dei numeri in tutte le cosmogonie del mondo! Sette furono le meraviglie del Mondo Antico, sette i savi greci, sette gli Apkallu mesopotamici, sette i chakra o punti di forza nell’induismo, sette le colonne che reggono le volte dei sette mari, sette le stelle dell’Orsa Maggiore da cui Midgard trasse i suoi difensori, sette i colori di Bifrost, la via che conduce a un altro mondo, sette i circuiti del labirinto che secondo la tribù amerindia dei Tohono O’odham è scavato nel sacro monte Baboquivari. E infine sette sono i piani che livellano i pendii del Tor, la nostra montagna sacra!” –Aggiunse, muovendo appena la mano di lato, in modo da aprire il velo di nebbia che avvolgeva l’isola e mostrare ai Cavalieri delle Stelle la cima della collina di Glastonbury, ove i resti di un’antica torre rilucevano sotto il sole al tramonto. –“Ed è là che andrete! Per adempiere all’ultima prova, che decreterà se siete degni o meno della fiducia che i Sette Saggi hanno riposto in voi! Sono certo che riuscirete, non ho motivo di diffidare della loro scelta!”

 

“Vi accompagnerò io!” –Esclamò allora Andrei, facendosi avanti, per una volta privo della scarlatta armatura e rivestito soltanto da una rustica tunica.

 

“Reis, tu andrai per prima!” –Precisò Avalon, prima di mettersi a sedere, in posizione meditativa, accanto al Pozzo Sacro.

 

La ragazza annuì, alzandosi in piedi e incamminandosi dietro al Signore del Fuoco, senza timore. Per quanto il suo mentore avesse parlato a tutti, era certa che le sue parole fossero dirette a lei in particolare. Fossero il desiderio di un uomo di vedere la figlia sbocciare, liberando il cosmo di luce albergante dentro di lei.

 

In silenzio, Reis percorse il sentiero che si inerpicava attorno al colle sacro, curvando per sette livelli fino alla sommità, giungendovi quando ormai il sole era tramontato e solo alcune torce rischiaravano l’ingresso ai resti della tozza torre. Era la prima volta che gli dedicava più di un fugace sguardo e fu sorpresa nel ritrovarsi a compiangerlo, quel monolite solitario, ultimo resto di una struttura che le ere del mondo avevano eroso. Ma tu ancora ti ergi, impavida bandiera di solitudine! Perché?

 

La risposta le fu chiara dopo pochi passi, quando, entrando al suo interno, si ritrovò in una cella stretta, priva di aperture, mentre Andrei si fermava proprio sulla soglia, non osando violarne la sacralità. Senza dire alcunché, le porse i propri auguri con un cenno del capo, prima che il portone si richiudesse, lasciandola sola e nel buio più completo. Inspirando profondamente, Reis si impose di non avere paura, cercando di capire cosa avrebbe dovuto fare. Socchiuse le palpebre, nel tentativo di strappare una sia pur debole vittoria all’oscurità, ma non riuscì comunque a vedere alcunché, non essendoci davvero niente da vedere.

 

Solo da sentire.

 

D’un tratto possenti correnti d’aria si sollevarono, scarmigliandole le vesti e i capelli, correnti che, dovette ammettere con stupore, provenivano da sotto di lei. Dal terreno. No, adesso non c’è più! Non vi era più traccia del suolo sotto i suoi piedi, vi era solo un vuoto ampio ove la ragazza stava precipitando, cullata dallo sbuffare di venti caldi. Possibile? Si disse, ricordando antiche leggende gallesi su forze potenti che dimoravano nella cavità della collina. Che il ventre del Tor sia davvero la porta per l’Inferno?

 

Più precipitava e più gli sbuffi aumentavano di intensità, divenendo correnti birichine che spiravano da ogni direzione, schiacciandola, comprimendola, torcendole braccia e gambe in pose innaturali, al punto da far scricchiolare ogni osso del suo corpo. Decisa a reagire, Reis espanse il proprio cosmo, sempre di più, per generare una bolla di energia che potesse ripararla dalle fastidiose lame di vento. Ma per riuscirvi, per stabilizzare la discesa agli inferi, dovette bruciare la propria energia interiore come mai aveva fatto prima, poiché sentiva che ancora non bastava, che i risultati ottenuti finora erano insufficienti, e non l’avrebbero salvata. Il controllo dei cinque sensi, la perspicacia offerta dal sesto, persino la padronanza del settimo senso, che faceva di lei un Cavaliere di livello superiore, ancora non bastavano. E allora ricordò le parole di Avalon, le parole con cui l’aveva salutata poc’anzi.


“C’è sempre un oltre cui ambire. In tutte le cose.”

 

Eccolo. Quello era il suo confine da superare.

 

Aaahhh!!!” –Reis bruciò ogni stilla di cosmo, generando onde di luce che annientarono le correnti d’aria e frenarono la sua caduta, o così le parve poiché poco dopo si ritrovò con i piedi su qualcosa di solido.

 

Voltando lo sguardo attorno capì di essere su un suolo di roccia dura, al centro di una grande caverna sotterranea. La luminosità era scarsa e sembrava provenire dal ruscellare stanco di un fiumiciattolo che scorreva a pochi passi da lei. Per il resto non c’era altro, solo un sepolcrale silenzio.

 

“Ben fatto, ragazza! Proprio ben fatto!” –Parlò una squillante voce all’improvviso, facendo trasalire il Cavaliere delle Stelle, che spostò lo sguardo in ogni direzione per individuarne la provenienza. –“Del resto, se tu non avessi risvegliato l’Ottavo Senso saresti morta! Perché ai vivi non è certo permesso rimanere in Annwn!”

 

Annwn?! L’oltretomba?” –Mormorò Reis. –“Sono davvero all’inferno?”

 

“Che c’è, non ti piace? Non è di tuo gusto? È strano che tu lo pensi, del resto sei tu che così lo stai immaginando!” –Aggiunse la voce, mentre una fulgida polvere di stelle iniziava a cadere sulla riva del torrente, depositandosi su una roccia sull’altra sponda. Là, su quel masso, apparve poco dopo un’evanescente figura, dai contorni indistinti, tanto che Reis ebbe bisogno di avvicinarsi per poterla osservare bene.

 

Sorrideva, l’uomo seduto sulla roccia, inzuppando i piedi nudi nell’acqua del rio e divertendosi a schizzettare la ragazza, che stordita si chiedeva chi fosse quel bizzarro personaggio.

 

“Già conosci la risposta alla tua domanda! Se questo è Annwn, io non posso che esserne il sovrano! Arawn, per servirti!” –Esclamò l’uomo, balzando in piedi e accennando un inchino tra mille sorrisi.

 

“Il signore dell’Altro Mondo celtico…

 

“Già già, è uno dei miei tanti titoli, ma tu puoi chiamarmi soltanto Arawn! Come io ti chiamerò Reis, è questo il tuo nome non è vero, graziosa bambina?”

 

“Non sono una bambina! Ho tredici anni, sono una ragazza ormai!” –Rispose lei, con tono infastidito.

 

Ouch! Una vera adulta! E allora dimmi, dall’alto della saggezza accumulata in così tanti anni di vita, sai cosa facciamo adesso? Non lo sai? Oh, eppure è molto semplice! Giochiamo!” –Rise Arawn, facendo una capriola e ruzzolando all’indietro, senza mai cadere a terra, limitandosi a rotolare a mezz’aria. –“Sono sempre solo in queste terre oscure, nessuno viene mai a trovarmi, nessuno di vivo, intendo, e non voglio perdere l’occasione per divertirmi un po’!”

 

“Non sono qua per giocare, Arawn! Devo adempiere alla mia missione di Cavaliere!” –Esclamò Reis, capendo di aver perso anche fin troppo tempo con quel buffone che tutto sembrava fuorché un potente e intimorente sovrano infernale.

 

“Uh uh! Un buon proposito il tuo, ma temo che dovrai posticiparlo! Non è buona educazione rifiutare l’invito di un re! La tua mamma non te lo ha insegnato?” –Ghignò Arawn, mentre Reis si voltava a fissarlo con sguardo duro. –“Suvvia, mettiti comoda! Non ci vorrà molto!” –E schioccò le dita, con cui fece sollevare un masso dal suolo per permettere alla ragazza di sedervisi. –“Beh, in verità potrebbe essere un gioco molto veloce! Tutto dipende, come dire, da quanto sarai abile… a sopravvivere!” –Aggiunse sibilando e mostrando a Reis la sua bianca dentatura, una sfilza di lame di luce che sembrarono trafiggerle il cuore.

 

La ragazza si mosse svelta per andarsene ma si accorse di non riuscire a muoversi, bloccata a sedere dalla presa mentale del suo interlocutore, che aveva appena fatto comparire un libro nella sua mano. Un robusto tomo di carta ingiallita che presentò come Mabinogion.

 

“Questo, cara mia, è uno dei Preiddeu Annwfn, i tesori dell'Annwn, più prezioso persino della mia muta di levrieri da caccia! E sai cosa rende magico questo testo? Il fatto che chiunque, compresa tu, litigiosa e bellicosa bambina dagli occhi verdi, è costretto a fare tutto quel che c’è scritto! Senza possibilità alcuna di opporsi!”

 

“Che cosa? È assurdo! Perché dovrei farlo?”

 

“Perché?! Ah ah ah! Come perché? Non è ovvio?!” –Sghignazzò Arawn, chinando il volto e allungando il collo fino a portarsi di fronte allo sguardo preoccupato di Reis. –“Perché io lo comando! Ah ah ah! E ora balla, bambina! Balla per me!” –E le gambe di Reis iniziarono a muoversi e a battere il ritmo, pur senza molta grazia, costringendo il corpo della ragazza a prodigarsi in piroette e estrosi giri di vita, di fronte allo sguardo divertito del signore dell’Oltretomba.

 

“Tutto questo è stupido! Smettila!!!” –Gridò con rabbia il Cavaliere di Luce.

 

“Davvero? Beh, se non vuoi ballare, vattene! Che c’è? Non sai dov’è l’uscita?!” –Ironizzò Arawn, mentre Reis stringeva i denti, non riuscendo a opporsi al potere mentale che l’aveva resa suo burattino. –“Uff, quanto sei noiosa!” –E l’uomo schioccò le dita, liberandola dall’asservimento. –“In tutta onestà, sei un caso disperato! Mai visto una donna ballare peggio di te! Hai la sensualità di una scopa di saggina! Alla tua età, in una corte medievale, avresti già ricevuto i rudimenti per diventare un’ottima dama e non una… una… beh, quel che sei!”

 

“Non voglio essere una dama di corte! È roba da femmine deboli!” –Bofonchiò Reis.

 

“E cosa vuoi essere?”

 

“Un guerriero!” –Rispose fiera.

 

“E perché?”

 

Quell’interrogativo sembrò impensierirla per un momento, lasciandola in silenzio e forzandola a chiedersi davvero cosa volesse. Per sé.

 

“Ok, cambio domanda!” –Ironizzò Arawn, alzando le braccia al cielo.

 

“Smettila di farmi domande, voglio andarmene!”

 

“Non puoi!”

 

“E perché?”

 

“Non è ovvio? Perché io te lo vieto!” –Rise Arawn, aprendo il Mabinogion e bloccando la ragazza sul posto. –“Sei orfana, in fondo, dove vorresti andare? Non hai una casa o una famiglia che ti aspetti, nessun focolare cui fare ritorno!”

 

“Voglio tornare ad Avalon, dal mio maestro e dai miei compagni!”

 

“Da quei druidi vecchi e bavosi? Una compagnia ben poco divertente! Nemmeno salutano quando, morti e decrepiti, discendono nelle mie profondità! Ma se ne senti la mancanza, sarò gentile e vi farò riunire!” –Esclamò Arawn, sfiorando il libro, mentre dalle pagine ingiallite sorgevano alcune fulgide evanescenze che presto assunsero la sagoma dei druidi e delle Sacerdotesse dell’isola sacra. Reis sussultò riconoscendone i volti, stanchi ma sapienti, carichi di una gentilezza che non le avevano mai fatto mancare in quegli anni. Li vide voltarsi verso di lei, cercare di sorriderle, sforzarsi di non farla preoccupare, e poi li vede contorcere, avvilupparsi su loro stessi e ardere, consumandosi intensamente nell’arco di brevi istanti.

 

“Cosa stai facendo? Che hai fatto?!”

 

“Li ho portati da te! Non mi avevi detto che ti mancavano?”


“Ma li stai uccidendo!!!”

 

“È naturale! Sono vivi, non hanno risvegliato l’ottavo livello della conoscenza, per cui non possono rimanere in Annwn. Se non da morti!” –Rise Arawn, continuando ad evocare sagome di persone a Reis note. –“Non approvi? Poco importa! Non hai certo modo di impedirmelo!”

 

“Lo credi tu!” –Avvampò la ragazza, bruciando il proprio cosmo, adesso per una ragione ben precisa. Difendere coloro che l’avevano accolta nella loro casa, dandole persino un nome, e verso cui provava infinita riconoscenza. –“Ardi, cosmo di luce!!!” –Gridò, mentre le sue vesti andavano in cenere e la sua morbida pelle veniva ricoperta da una scintillante corazza dalle forme aerodinamiche. –“Pagherai per la tua malvagità, Arawn!!!” –Urlò, lanciandosi contro di lui, il pugno carico di energia cosmica.

 

Uhm… Può darsi!” –Commentò il re degli inferi, portandosi una mano davanti alla bocca, incapace di trattenere uno sbadiglio. –“O forse no!” –Aggiunse, fissando con sguardo malizioso il Cavaliere delle Stelle. –“Mabynnogyon!”

 

La corsa di Reis si interruppe bruscamente, con il braccio piegato e pronto a colpire ma senza poterlo portare del tutto avanti. Frustrata, la ragazza tentò di bruciare ancora il cosmo, ma venne spinta indietro da una mossa violenta di Arawn che le sbatté letteralmente il libro in faccia, scaraventandola contro una parete della caverna.

 

Tut tut! Non sottovalutare il potere delle parole, ragazza! Sono come pugnali, a volte, e possono penetrare in profondità! Tornando a noi… dove eravamo rimasti? Ah sì, non vuoi essere la mia ballerina! Poco male, il mondo dell’arte non subirà una grave perdita, ma cos’altro potresti essere?!”

 

Io… so già chi sono!” –Esclamò Reis, rimettendosi in piedi a fatica. –“Sono il Cavaliere di Luce e questa è la mia lama!” –Aggiunse, alzando un braccio al cielo e evocando il Talismano da lei custodito. –“Spada di Luce!!!” –E scattò avanti, brandendo l’arma e liberando migliaia di fendenti energetici, che saturarono in fretta la cavità sotterranea, dirigendosi verso Arawn, aggredendolo come fauci da ogni direzione.

 

Mabynnogyon!” –Tuonò di nuovo il sovrano infero, fermando l’assalto di Reis, paralizzandolo in un preciso momento del tempo cosmico e disperdendolo poi con un semplice movimento del braccio. –“Sei migliorata! Ma non è abbastanza!” –Le disse, prostrandola a terra con il suo potere mentale, mentre la forma del Mabinogion aumentava a dismisura, sprofondandola al suolo.

 

Schiacciata da tale devastante potere, Reis sentì in bocca il sapore della sconfitta, nella forma dei grumi di terra che le cascavano sul viso. Ansimò, decisa a resistere, riversando tutta la sua forza nelle braccia sollevate sopra di sé, per cercare di frenare la pressione dell’antico tomo. Tossì, respirando a fatica, la bocca impastata, la trachea che non riusciva a filtrare aria. Si sentì soffocare, ricordando di essersi già sentita così. Quel giorno.

 

Non… può succedere di nuovo!” –Rifletté, ripensando a coloro che aveva perso. Coloro che, troppo giovane e inesperta, non aveva potuto salvare. –“Non accadrà di nuovo! Ho giurato a me stessa che finché sarò viva nessun amico morirà perché io non ho saputo difenderlo! Onorerò coloro che mi hanno dato una nuova vita, una nuova luce!” –Esclamò, lasciando avvampare il suo cosmo, lasciandolo libero di espandersi come una supernova, rischiarando la caverna, le viscere del Tor, il tramonto di Avalon.

 

“Era quello che volevo sentire!” –Commentò Arawn appagato, mentre Reis, impugnata la spada, la sollevava in alto, lacerando il Mabinogion con mille strali di luce, prima di balzare fuori e lanciarsi verso di lui. –“Flashing sword!!!”

 

I dardi sfolgoranti trapassarono la figura del re infero, dilaniandone le forme fino a smembrarla. Solo all’ultimo istante, esaurita la carica dell’attacco, Reis notò che Arawn sorrideva.

 

Avrebbe voluto chiedergli spiegazioni ma si accorse di non riuscire più ad esercitare alcun controllo sul suo corpo, mentre il paesaggio attorno a sé sembrava mutare, il sovrano infero scomparire e la caverna dissolversi in una volta stellata. Riconoscendo l’odore di brughiera, Reis si voltò, capendo di essere tornata a casa, sulla cima del Tor, e trovò Avalon di fronte a sé, le mani giunte, in chiaro segno di attesa.

 

“Hai superato il trauma della tua infanzia, ragazza! Adesso sei pronta per affrontare il mondo, con tutti i suoi pericoli!”

 

“Se permettete, maestro mio, vorrei chiamarmi Reis di Lighthouse, in onore vostro e dei druidi che hanno visto in me la luce del domani!” –Esclamò il Cavaliere, inginocchiandosi.

 

Avalon le sorrise, facendole cenno di alzarsi e di seguirlo lungo gli erbosi pendii del Tor, i capelli solleticati dal vento della notte. Reis non l’aveva notato prima, ma il suo mentore stringeva qualcosa in mano, un piccolo oggetto d’oro. Forse un anello? Si chiese, sforzandosi di non essere troppo curiosa, ben sapendo quanto egli non amasse che gli venissero poste domande.

 

“È accaduto qualcosa di spiacevole, Reis!” –Le confessò infine, sulle rive silenti del lago. –“Un amico ci ha lasciato! E presto dovremo agire, scendendo personalmente in campo!”

 

“Avete una missione da affidarmi, maestro?”

 

“A te e ai tuoi compagni! Ognuno avrà un obiettivo preciso! Ma ti spiegherò tutto domattina, questa notte pensa solo a goderti il meritato riposo, fiera dei tuoi risultati!”


“Devo preparare qualcosa?”

 

“Non credo avrai bisogno di niente, in quella terra lontana! Vestiti leggeri e forse un cappello per ripararti il volto dal sole!” –Sorrise Avalon, aprendo infine il velo di nebbia per tornare sull’isola.

 

“Dove dobbiamo andare? In Grecia?!”

 

“Più a sud! In Egitto!”

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Sedicesimo anno prima del secondo avvento

Fine.

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo sesto: Hybris ***


CAPITOLO SESTO: HYBRIS.

 

“Fatti sotto, canaglia!” –Esclamò Pegasus, cercando di mascherare con ironia la paura che lo strapotere del suo avversario inculcava in lui. Sebbene, alla vista del Dio armato e sanguinario che gli si stagliava di fronte, nel cuore del Cerchio di Urano, vi fossero davvero pochi motivi per sorridere.

 

“Non aspettavo altro, cane d’un Cavaliere!” –Ringhiò Ares con voce possente, torcendo le labbra in un ghigno bastardo. La lancia nella sua mano avvampò in una spirale fiammeggiante mentre il Dio la puntava avanti, in rapidi e virulenti affondi, che Pegasus fu svelto ad evitare, balzando di lato in lato, senza uno schema preciso, sperando di trovare un’apertura sufficiente per contrattaccare.

 

Ma Ares non gli dava tempo per riflettere, muovendo l’arma con precisione e velocità, stupendo lo stesso Cavaliere per l’agilità che pareva dimostrare, pur con quell’armatura da battaglia che lo rivestiva, utile certamente ma anche pesante.

 

Eppure non mostra segni di stanchezza. Anzi, sembra persino più in forze rispetto al nostro ultimo scontro. Rifletté Pegasus, schivando un affondo nemico, che aveva mirato dritto al suo viso. E non difetta di precisione. Aggiunse, con un brivido, ritenendo di non poter rimanere passivo ancora a lungo. Approfittando di un nuovo tentativo di piantargli la lancia nel volto, Pegasus si buttò indietro, le ali dell’armatura ripiegate su se stesse, fece una capriola e atterrò in verticale, molleggiando sulle mani e usandole poi per darsi una spinta verso l’alto.

 

“Hop!” –Esclamò, spalancando le ali del destriero celeste ed espandendo il proprio cosmo. –“C’è aria pulita, quassù.” –Ironizzò, gettandosi poi sul Dio nemico con il pugno sfrigolante energia cosmica. –“Fulmine di Pegasus!!!”

 

L’attacco dall’alto obbligò Ares a cambiare posizione, puntando continuamente la lancia per distruggere ogni singola sfera energetica che il Cavaliere dirigeva verso di lui, in un impegno continuo e costante che, se pur lo stancò, non lo rabbuiò. Anzi, nell’ultimo affondo spinse la lancia in profondità, avvolta in spirali di fiamma che turbinarono attorno al corpo di Pegasus, distraendolo al punto da farlo sbandare ed esporlo al rinnovato assalto del Dio.

 

“Sei mio!” –Digrignò i denti Ares, sollevando un turbine di vampe energetiche con cui travolse il Cavaliere di Atena, scaraventandolo molti metri addietro, fino a farlo sbattere contro il muro che separava il Cerchio di Urano da quello di Nettuno.

 

Nel loro continuo scontrarsi, i due contendenti si erano allontanati dal centro del cerchio, lasciando spazio a sufficienza affinché Phoenix e Discordia potessero confrontarsi. Anche il resto dell’esercito dei Signori della Guerra era andato oltre e Ares poteva sentire le loro grida, e quello delle Makhai, infiammare l’aria, accrescendo in lui la fame di guerra. Del resto, di quella era sempre stato bramoso, al punto da meritarsi l’epiteto di insaziabile.

 

Aatos polemoio lo chiamavano gli antichi greci. E sebbene i secoli fossero passati, gli uomini e i loro regni nati e sepolti, egli ancora restava il sanguinario, furioso, distruttore di uomini. E di Dei. Aggiunse con un ghigno, ricordando imprese recenti.

 

Divertito, accostò due dita alla bocca e fischiò, voltandosi verso lo spiazzo ove aveva ferito il Selenite e lasciato il suo carro da guerra, lo stesso carro che adesso gli stava venendo incontro trainato da due particolari creature. Anche Pegasus, appena rimessosi in piedi, le notò, tenendosi la testa stordito dallo schianto, e non riuscì a reprimere un moto di disgusto di fronte alla nuova diavoleria del crudele Dio.

 

“Che razza di bestie da soma usi?!” –Bofonchiò, osservando le due violacee evanescenze farsi più vicine, per quanto non riuscisse a distinguerne i tratti.

 

“Il motivo per cui sono stato costretto a ritardare il nostro incontro, del resto due spiriti sono ancora troppo pochi per correre veloce. Ma quando ne avrò nove, vedrai come sfreccerò. Ben più rapido di quanto non possa muovermi adesso!” –Sogghignò Ares, ottenendo uno sguardo confuso da parte del ragazzo che subito chiese chi fossero costoro. –“Spiriti di certo non combattivi come te, e forse neanche come il vecchio che ho infilzato poc’anzi. Pare che i loro nomi fossero Chandra e Tsukuyomi, i custodi dei cerchi più esterni. Misera vita la loro, dimenticati e poco venerati dai seguaci dell’induismo e dello scintoismo, si sono esiliati dal mondo solo per incontrare una triste morte su quest’ermo satellite. Triste ma di certo non veloce. Ooh, no! Sai bene che a me piace… giocare! Ahr ahr ahr!!!”

 

“Bastardo!!! Li hai torturati?!” –Avvampò Pegasus, schizzando avanti, proprio come Ares si aspettava. Gli bastò muovere un braccio a spazzare per generare un’onda di energia fiammeggiante con cui investì il Cavaliere di Atena, frenando la sua corsa e spingendolo in alto, senza difese, esposto al taglio della sua arma.

 

Dòru àimatos!!!” –Tuonò, portando un unico preciso affondo che raggiunse Pegasus sull’interno del braccio, poco sopra l’ascella, laddove l’armatura divina non lo proteggeva. Fu un taglio veloce, prima che il Cavaliere spazzasse via le fiamme con un’esplosione di cosmo e balzasse indietro, a distanza di sicurezza.

 

Sebbene mai nessuno spazio sia ampio abbastanza per contenere la furia bellica di Ares. Bofonchiò, toccandosi la ferita sanguinante e stringendo i denti, per quanto gli dolesse, come se le fiamme dell’inferno gli avessero invaso l’animo.

 

Ares lo notò e ne fu soddisfatto. –“Sei prevedibile! Pur tuttavia mi diverto a lottare con te, Cavaliere di Pegasus! Mai nessuno mi ha impegnato a fondo come tu mi obblighi a fare! Tiri fuori il lato migliore di me, sentiti onorato di ciò!”

 

“Figuriamoci il lato peggiore!” –Ironizzò Pegasus.

 

“Oh, presto conoscerai anche quello! Meriti di conoscerlo, in virtù dei peccati di cui tu e i tuoi compagni vi siete macchiati! La colpa più grave ricade su di voi e porta un nome preciso: hybris!”

 

Hybris?!”

 

“La tracotanza con cui avete osato sfidare il divino! La superbia con cui avete violato leggi immutabili che asseriscono la superiorità degli Dei sugli esseri umani! Solo per questo meritate la morte! Il fatto poi che siate succubi di quell’insulsa verginella, che da secoli seduce ragazzini in pubertà mandandoli a morire al posto suo, non fa che aumentare il piacere di uccidervi!” –Ghignò il sanguigno figlio di Zeus, senza perdersi l’espressione indignata comparsa sul volto del ragazzo nell’udir parlare in quel modo della sua Dea.

 

“Non osare offendere Atena, farabutto che non sei degno neppure…

 

“Vedi?! Ha sedotto anche te! Ahr ahr ahr! Che cosa ti ha offerto, Cavaliere? Con quale malizia ha ottenebrato il tuo senso di giudizio, spento la tua obiettività e convintoti al suicidio? Perché solo morte incontrerai quest’oggi, sfidando Ares Brotoloigos!”

 

“Che cosa mi ha dato?! Che cosa mi ha dato?!” –Strillò Pegasus, faticando a reprimere la rabbia, salvo poi rendersi conto, mentre il suo inconscio rispondeva candido alla domanda di Ares, che tutto quell’ardore che covava dentro, e che da mesi reprimeva, non era affatto rabbia ma un sentimento più puro e più bello, capace di scuotere universi interi. –“Mi ha dato amore!!!” –Ammise, infiammando il suo cosmo oltre ogni limite, stupendo lo stesso Ares e obbligandolo persino a un passo indietro. –“Qualcosa che tu non hai mai avuto, né mai avrai! Cometa di Pegasus, splendi!!!”

 

“Maledetto moccioso impertinente!” –Ringhiò il Dio, portando avanti la Lancia di Sangue, avvolta in un turbine di fiamme, e lasciando che l’attacco del Cavaliere vi collidesse. Per qualche secondo i due poteri rimasero in equilibrio, con Pegasus che brillava nel suo cosmo azzurrino e Ares che avvampava in mille striature rossastre. Ma poi, temendo che il ragazzo potesse spingersi oltre, e consapevole di quel che aveva risvegliato, il figlio di Zeus espanse ulteriormente il suo cosmo, muovendo il braccio sinistro e liberando un secondo assalto che prese Pegasus alla sprovvista.

 

Ira di Ares!!!” –Ruggì, investendo il ragazzo in pieno. Per quanto non lanciato a piena potenza, il colpo fu sufficiente per sbalzare Pegasus indietro, di nuovo contro il devastato muro di confine, permettendo ad Ares di trafiggerlo una seconda volta con la lancia, stavolta nell’interno coscia, strappandogli un grido di sofferenza.

 

“Godo! Sì, godo come un cane in calore nell’udire i tuoi gemiti selvaggi! Gemiti che io ti ho procurato!” –Lo irrise il Nume, mentre Pegasus si accasciava a terra, tenendosi la gamba dolorante. –“Suvvia sono solo due tagli! Sii uomo per sopportarli! In fondo, quanti me ne hai provocati tu? Due figli almeno me li hai portati via! Non che mi curassi del loro destino, ma Phobos e Deimos avrebbero potuto essermi ancora utili!”

 

“Ti ascolti quando parli?” –Ansimò Pegasus, faticando nel rimettersi in piedi. –“O sono solo i deliri di un Dio prossimo al tramonto? Perché se ti udissi, rabbrividiresti, tanto meschini e vacui sono i tuoi pensieri. I pensieri di un uomo solo, senza amici, famiglia o amore. I pensieri di un vecchio inacidito vinto dalla vita.”

 

“Belle parole, Pegasus, ti applaudirei quasi, non avessi una mano impegnata a reggere la lancia che ti perforerà il cuore!” –Rise Ares, manovrando l’arma divina in nuovi pericolosi affondi. –“Dòru àimatos!!!” –Tuonò, investendo Pegasus con il suo attacco per la terza volta.

 

Stanco e ferito, il ragazzo fece appena in tempo a voltarsi, venendo raggiunto sulla schiena dalla lancia nemica, che gli sfondò l’ala sinistra, conficcandosi poi nell’armatura, che ne frenò la perforazione.

 

“Le vestigia che indossi ti hanno salvato. Merito del mithril di cui Efesto ti ha fatto dono, l’ultimo rimasuglio dello splendore olimpico. Quasi mi commuove il pensiero che l’abbia ceduto a voi, zingari destinati a cadere per mia mano!” –Ringhiò Ares, balzando su Pegasus e immobilizzando il ragazzo a terra sotto il peso suo e del suo cosmo infuocato. –“Ma alla lunga anche la miglior difesa ha una falla. Basta una crepa per far crollare una diga! Ahr ahr!” –Ghignò, imprimendo maggior forza alla sua lancia, nel tentativo di sfondare la corazza e piantarla nel corpo agonizzante di Pegasus. –“Che c’è, ragazzo? Sei fiacco? Non dormi bene la notte? Io invece sono fresco di forze e pronto a mille giorni di guerra!”

 

Il Cavaliere non rispose, continuando a radunare le proprie energie, pur dovendo ammettere che le parole di Ares erano vere. Era davvero stanco. Stanco della guerra, stanco delle morti e delle barbarie, stanco di dover lottare continuamente senza mai potersi riposare. A volte lo invadeva la consapevolezza di non aver fatto altro nella vita, di non essere degno di ulteriore ricordo che non la lapide che avrebbero posto sulla sua tomba, a imperitura memoria del combattente che non riposava mai.

 

Eppure… Mormorò, stringendo i pugni, incurante degli affondi nemici. Tutte queste battaglie, tutto questo correre e andare avanti, contro sempre nuovi nemici, deve essere servito qualcosa, non soltanto a riempire lo spazio vuoto di questa parentesi di vita terrena. Queste battaglie, queste esperienze devono essere servite… a migliorarmi. A farmi crescere. A essere uomo. Sì!!! Avvampò, espandendo il proprio cosmo azzurro. Sono un uomo, prima ancora di essere un Cavaliere. E amo, disperatamente amo!

 

Isabeeel!!!” –Gridò il paladino della speranza, lasciando divampare il suo cosmo, che scaraventò Ares molti metri addietro, facendolo ruzzolare per la prima volta a terra e perdere la presa della lancia, tanto intensa era stata la deflagrazione. –“Per noi combatto. Per il nostro futuro. Non solo per te. Stavolta, anche per me!!!” –Si disse, rimettendosi in piedi, nello stesso momento in cui anche il Dio della Guerra si rialzava, e lanciandosi contro di lui, liberando una luminosa cometa energetica.

 

Ares non si fece prendere alla sprovvista, scatenando al qual tempo una furiosa danza di vampe incendiarie, contrastando l’attacco e generando una bolla di energia cosmica che le due forze in campo alternativamente riuscivano a spingere verso l’avversario pur senza venirne travolti.


Fu il Nume a spezzare l’equilibrio, concedendosi un ghigno beffardo quando vide Pegasus respirare a fatica, fino a costringersi a poggiare un ginocchio a terra, il volto madido di sudore. –“Avevo dimenticato di dirtelo, ma la Lancia di Sangue è intrisa di curaro. Lo conosci? Un delizioso veleno di fabbricazione casalinga. Un apprendista della Regina Nera ne strappò la ricetta agli indigeni di un tempio in Amazzonia, dopo averli torturati! Perdoni la mia smemoratezza? Sto invecchiando, in fondo! Ahr ahr!” –Rise il Dio, incrementando la potenza del suo attacco fino a travolgere il Cavaliere di Atena e schiantarlo a terra, facendogli perdere persino l’elmo dell’armatura. –“Potrei lasciarti al suolo agonizzante e attendere che il veleno faccia il suo effetto! Potenziato dal mio cosmo divino, impiegherà ben poco a prenderti la vita, ma sarebbe come concederti un lungo lasso di tempo che non meriti vivere!”

 

“Ma.. ledetto…” –Tossì Pegasus, che adesso comprese come mai i suoi riflessi si fossero appannati negli ultimi scambi di colpi. Fece per rialzarsi, ma un turbine di fiamme lo piegò a terra, forzandolo a rimanere immobile intanto che Ares sollevava la lancia e gli diceva addio.

 

“Oplà!!!” –Gridò allora una voce, mentre un’esile figura balzava contro la schiena del Dio, spingendolo in avanti e facendogli perdere la presa sulla lancia, spezzando anche la concentrazione necessaria per evocare le vampe di fuoco. –“Appena in tempo, a quanto pare! Sveglia, ragazzo! Hop hop!”

 

“Abbattuto da un patetico coniglio lunare?!” –Ringhiò Ares, che aveva riconosciuto il vecchio custode del Cerchio di Urano. –“La senilità ti ha estorto il senno?!” –Avvampò, rialzandosi prontamente e dirigendo un violento assalto infuocato contro Tecciztecatl, che fu lesto a saltare all’indietro, sempre a piedi uniti, atterrando dietro al carro da guerra, che gli offrì temporaneo riparo dalla furia del Nume.

 

“La senilità mi ha cambiato in molti modi, Ares, ma non mi ha reso indolente o codardo, solo un po’ smemorato. Ma la vista di quel ragazzo che con disprezzo hai massacrato mi ha ricordato chi sono! Un Dio di pace, che assieme a otto compagni accettò l’offerta della greca Selene di fondare un nuovo mondo, liberi di vivere e invecchiare assieme.” –Commentò Tecciztecatl, mentre il cosmo infuocato di Ares distruggeva parte del suo stesso carro. –“Quando abbandonammo la Terra, e i suoi mali, vi lasciammo anche una parte della nostra essenza divina, quella che dipendeva dalla venerazione e dall’amore sincero dei nostri fedeli, convinti di poterne fare a meno, di non averne bisogno nel paradiso che avremmo edificato. Ingenui, non pensammo che ci avrebbe reso deboli!”

 

“E ciò è evidente!” –Tuonò Ares, investendo il Selenite di Urano con una tempesta di fuoco e schiantandolo a terra, con larghe crepe sulla corazza e la pelle ustionata. Tecciztecatl tentò di proteggersi con la sua conchiglia, ma il Nume la distrusse con il suo cosmo rovente, privandolo di ogni difesa.

 

“Lascialo stare!!! È me che vuoi!” –Urlò Pegasus, cercando di rimettersi in piedi ma crollando di nuovo, piegato dal potente veleno che gli mozzava il respiro.

 

“Ti sbagli, Cavaliere! Voglio entrambi! Voglio tutto questo mondo! Dòru àimatos!” –Latrò Ares, richiamando la Lancia di Sangue e piantandola nel palmo della mano di Tecciztecatl. –“Inchiodato al suolo, da dove potrai guardarmi in lacrime, implorando pietà! Morirai così, vecchio giullare, nello stesso modo in cui sono morti i vetusti Dei che ti han preceduto!” –E iniziò a radunare il cosmo sulla punta dell’indice, per liberare il terribile colpo segreto in grado di far strage del suo animo. E ridurlo al fantasma di una bestia da soma.

 

Nell’udire quelle parole il Selenite di Urano torse lo sguardo a fatica verso i resti del carro da guerra, laddove gli spiriti urlanti di Chandra e Tsukuyomi, i volti ormai irriconoscibili, si contorcevano smaniosi. Ricordò i loro volti felici quando misero per la prima volta piede sulla Luna, ricordò le speranze per un futuro di pace e la promessa che scambiarono, assieme agli altri sei custodi, di invecchiare assieme, senza permettere a nessuno di morire da solo.

 

Mi… dispiace…” –Pianse Tecciztecatl, trovando in quelle lacrime la forza per reagire. Estrasse di forza la mano da sotto la lancia, incurante del dolore di ossa e tessuti distrutti, quindi, con una rapida torsione del busto, puntò le gambe verso Ares, portando le ginocchia al petto e poi distendendo gli arti all’improvviso, colpendo il Dio in faccia e spingendolo indietro bruscamente. –“Perduti i ricordi, infrante le promesse, resta solo la vendetta e un nuovo proposito.” –Disse a se stesso, radunando tutte le sue forze per l’ultimo attacco. –“Balzo del coniglio lunare!” –Esclamò, saltando appena in tempo per evitare la Lancia di Sangue e poi piombando su Ares e colpendolo di nuovo in faccia, facendogli persino volar via l’elmo.

 

Irato come non mai, il Nume della Guerra riuscì comunque a mantenersi in piedi, afferrando per un piede il bizzarro combattente e sbattendolo al suolo più volte, crepando del tutto la già provata corazza.

 

“Ti farò allo spiedo, vecchio coniglio rinsecchito!” –Sibilò, non ottenendo altra risposta che un placido silenzio. Del resto, quel che il Selenite voleva dire a Pegasus già glielo aveva comunicato. Adesso poteva solo morire. –“Ira di Ares!!!” –Furono le ultime parole che udì, prima di essere annientato.

 

“Non esiste niente di impossibile in questo mondo, ragazzo. Nessuna vetta che l’uomo non possa raggiungere, checché ne dicano gli Dei. Neppure loro infatti riuscirebbero ad impedire a un vecchio di morire felice.” –Gli aveva sorriso Tecciztecatl, e adesso forte di quell’aiuto Pegasus bruciò il proprio cosmo, riuscendo a rimettersi in piedi.

 

“Curaro o meno, io ti ucciderò, Ares!” –Affermò, portando avanti il  braccio destro e chiudendo le dita della mano una dopo l’altra, a pugno.

 

***

 

Sebbene non fosse sul campo di battaglia, quel che stava accadendo al Cerchio di Urano Isabel lo aveva impresso davanti agli occhi, marchiato a fuoco nelle memorie della sua esistenza. Sangue, ambascia e morte. Di offrire altro era mai stata capace? Si chiese, non riuscendo a darsi alcuna risposta, tranne quella più evidente. Un pallido no.

 

Sospirando, tentò di rimettersi in piedi, ma la fatica per la preghiera continua e l’affastellarsi di visioni nella sua mente l’aveva stancata più di quanto avesse creduto, e se non fosse stato per le braccia che l’afferrarono prontamente sarebbe di certo caduta.

 

“Mio Signore…” –Mormorò, riconoscendo le decorate vesti argentee del Custode dell’Isola Sacra, che le sorrise e la aiutò a sedersi al tavolo poco distante.

 

Selene si era ritirata nelle sue stanze, a piangere o a cercare consolazione nel marito, e l’Occhio era completamente vuoto, ad eccezione di una figura che attendeva in rispettoso silenzio sulla soglia. Ma Atena non la notò, la mente persa sul campo di battaglia, nel tentativo di seguire i destini di Cavalieri a cui aveva fatto da matrigna più che da madre. Eppure, ogni volta in cui pensava a Pegasus, ogni volta in cui lo immaginava rialzarsi pesto e logoro per affrontare comunque il nemico, le visioni aumentavano, il respiro si faceva affannoso, il delirio cosmico la pervadeva e non sapeva spiegarsi perché.

 

“Adesso tutto vi sarà chiaro!” –Le disse il Signore dell’Isola Sacra, sfiorandole la fronte con un dito e dipingendovi un segno con tinte azzurre. Una luna sorgente.

 

Bastò quel tocco, quel lieve pizzicore, a precipitarla di nuovo tra i ricordi delle sue vite passate, per abbracciarle tutte, fin dal suo concepimento. Boccheggiando, Atena fu travolta da un flusso estenuante di visioni, che camminavano di pari passo con le sue reincarnazioni, avvenute in momenti fondanti della storia umana. Una, più di ogni altra, pareva riservarle ricordi maggiori, memorie insepolte mai del tutto obliate.

 

Quel volto, mormorò Atena, ricordando l’eroe che uccise la famelica bestia divenendo di diritto il suo Primo Cavaliere, l’archetipo di una stirpe di eroi. E dando vita alla maledizione!

 

“Ricordate, Dea Atena! Non abbiate paura!” –Commentò Avalon con voce pacata, sostenendola nel suo viaggio ma accorgendosi ben presto del cambiamento in atto, non abbisognando lei più della sua guida. –“Abbandonate la Vergine Dea, la fanciulla che non voleva amare, e diventate ciò che siete preposta ad essere!”

 

Fu allora che Atena la udì, nitida nella sua mente, la melodia pizzicata quel giorno a Mount Badon, sull’alto colle di Britannia, quando a fianco di Zeus Tonante aveva fronteggiato il nemico. E assieme a loro c’erano i Cavalieri di Glastonbury, i bianchi destrieri cresciuti ad Avalon, guidati dal Signore dell’Isola Sacra in persona. Era stato il loro ultimo incontro, quindici secoli addietro, ma lo avevano suggellato con la promessa di combattere di nuovo insieme.

 

“Quando?” –Aveva chiesto la Dea dal volto stanco al termine della campagna bellica.

 

Avalon non aveva risposto, limitandosi a sorridere e a lasciare che le note di un’arpa riempissero il cielo, le stesse note che, le aveva detto, avrebbe udito alla fine dei tempi, a scandire gli ultimi atti di un’infinita guerra tra luce e ombra.

 

“E quel momento è ora!” –Esclamò la figura rimasta in disparte, l’uomo che Selene aveva presentato come Principino della Luna, il bardo che secoli addietro suonò quel motivo a Mount Badon. Un motivo di vittoria, per celebrare la sconfitta del nemico comune, con valore anche di memorandum. –“Ora che siamo alla fine di tutte le cose!”

 

“Ricordi, Atena? Ricordi chi sei?” –Le chiese Avalon, cui la donna annuì, fissandolo negli occhi argentei.

 

“Sono Atena! La Dea della Guerra!”

 

***

 

La deflagrazione energetica scagliò entrambi indietro di parecchi metri, aprendo per la prima volta uno squarcio sulla Veste Divina di Ares. Che ne fosse consapevole o meno, Pegasus aveva risvegliato il Nono Senso e questo intimoriva il Dio della Guerra, deciso a scrivere la parola fine su quella battaglia, forte anche del curaro che aveva intossicato il ragazzo e gli rendeva pesante ogni singolo respiro. Dalla sua parte, oltre alla maggior freschezza di forze, aveva anche un’arma capace di perforare una corazza divina, la Dòru àimatos, un’arma che di Ichor si era cibata più volte.

 

Ma mai abbastanza! Sogghignò il Nume, impugnando l’asta infuocata e puntandola avanti, liberando migliaia e migliaia di strali venefici contro il Cavaliere, che ormai si muoveva più per istinto di sopravvivenza che non per reale coscienza.

 

Bruciando il cosmo, Pegasus riuscì a respingere numerosi affondi della Lancia di Sangue, evitando quelli laterali, che non lo impensierivano, e concentrandosi su quelli che puntavano al volto e ai pochi punti scoperti della sua corazza. Ma proprio quelli, come temeva, erano la maggior parte.

 

In strategia, Ares non è certo carente! Si disse, proprio mentre il Dio, calando con violenza un piede al suolo, generava una faglia fin sotto i piedi del ragazzo, da cui vampe infuocate iniziarono a scaturire, travolgendo il Cavaliere e scaraventandolo indietro. Pegasus tossì, affannando nel disperato tentativo di rimettersi in piedi, ma venne afferrato per il collo dalle massicce mani di Ares, il quale, abbandonata la lancia, voleva godersi il tanto atteso momento di trionfo, assaporandolo fino in fondo, ubriacandosi del sangue che a breve sarebbe sgorgato dalla gola del ragazzo.

 

“Guarda, Vergine Dea, la fine dei ragazzi a cui hai promesso il cielo! L’abisso oscuro di Tartaro invece li attende! Compiangili e pentiti per la tua dannata esistenza!”

 

Pegasus non rispose, lasciando il Nume alle sue chiacchiere di gloria, convinto che volesse soltanto distrarlo. Distrarlo dalla sua missione e dal suo futuro. E non è a questo che devi pensare, Pegasus. Disse una voce dentro sé, rifocillando il suo animo inquieto. Ma ai motivi per cui devi vincere. Sono tanti, e li conosci bene. Troppi anche solo per avvalorare la lontana ipotesi di una sconfitta. Per cosa combatti, Pegasus? Te lo chiedi da anni, da quando salisti sul ring al Palazzo dei Tornei e non credo la risposta sia cambiata. Anzi, gli anni le hanno dato ancora più valore.

 

Per rendere giustizia a coloro che ho perso, e che Ares ha ucciso! Sospirò, ricordando i volti dei Cavalieri di Bronzo e d’Acciaio sterminati durante la Grande Guerra, assieme al Custode dell’Ottava Casa dello Zodiaco. E l’idea che su quelle picche, ad essiccare al sole, avrebbero potuto esserci anche Patricia e Fiore di Luna lo fece rabbrividire. Ma pensando alla sorella gli sovvenne il secondo motivo che lo spingeva a lottare, la seconda parte della risposta.

 

Per coloro che mi aspettano a Luxor! Sorrise, ricordando l’infanzia al collegio Saint Charles, le corse con la sorella che lo cullava quando era stanco, i giochi con Lamia e le partite a pallone con Smarty e Sancho. Partite a cui spesso anche Andromeda, Sirio e Cristal si erano uniti. Ed era certo che, se ne avesse avuto occasione, anche Phoenix non si sarebbe tirato indietro.

 

Per i fratelli di sangue con cui ho diviso la vita! Fratelli che da anni lottavano al suo fianco, in nome di Atena.

 

E per coloro che amo!

 

Non ebbe bisogno di aggiungere altro, che l’immagine di Isabel con i capelli mossi dal vento, seduta tra le sue gambe in un fresco tramonto, era stampata di fronte ai suoi occhi, memento mori di ciò che non sarebbe mai potuto essere.

 

Con un ultimo ruggito, radunò le energie rimaste, forte dei sentimenti accumulati in anni di battaglie, e sollevò le mani fino ad afferrare i bracciali dell’armatura di Ares, intento a stritolargli il collo. Nonostante la vista annebbiata e il respiro rantolante, ne vide lo stupore e ne udì il grido scioccato e scocciato quando, facendosi forza, allontanò le braccia del Nume dal suo collo, lasciando le callose dita ad afferrare il vuoto. Gli avrebbe volentieri sputato in faccia, avesse avuto abbastanza saliva da offrirgli. Invece poté solo colpirlo con una sventagliata di calci, da distanza ravvicinata, sufficienti per spingerlo indietro e schiantarlo su quel che restava del suo carro da guerra.

 

Quando si rialzò, gridando come un forsennato, Ares osservò con orrore una crepa sul pettorale della Veste Divina, proprio dove la scarica di calci di Pegasus lo aveva raggiunto.

 

“Quel che mi hai detto poc’anzi lo rigiro a te, bamboccio! Sei morto! Dòru àimatos!!!” –Sbraitò, scattando avanti, lancia in pugno, e liberando migliaia di strali incandescenti.

 

Pegasus avrebbe voluto rispondergli a tono, ma, troppo debole per parlare, poté soltanto muovere il braccio per inerzia, per parare gli affondi nemici. Ma quando sentì di averne mancati un paio, quando sentì la lama cozzare contro l’Armatura Divina, capì di non essere in grado di combattere ancora. E cadde, ginocchia a terra, proprio mentre l’assetata lancia mirava al suo collo.

 

Sdeng!

 

Un suono cristallino, sia pur metallico, lo scosse dal torpore, costringendolo a risollevare lo sguardo spento verso la figura che improvvisamente si era posta di fronte a lui, riparandolo dietro un massiccio scudo rotondo. Non capì chi fosse, a chi appartenesse quell’armatura dorata, finché la donna non si voltò a guardarlo, e a sorridergli.

 

“Per una volta lascia che sia io a proteggere te!” –Commentò, prima di essere richiamata dalla rude voce del figlio di Zeus.


“Finalmente scendi in campo, Atena Parthenos!”

 

“Quell’epiteto più non mi appartiene!” –Esclamò la fanciulla dai capelli viola, bardata dalla sua Veste Divina, con lo Scettro di Nike nella mano destra e l’Egida a protezione del braccio sinistro. –“Adesso che ho ritrovato me stessa, la Dea che era in me! Io sono Atena Promachos, la conduttrice degli eserciti in battaglia! Io sono la Dea Guerriera!”

 

Avalon, con la mano appoggiata al vetro dell’Occhio, ne udì le parole e sorrise.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo settimo: Fiamme dall'interno ***


CAPITOLO SETTIMO: FIAMME DALL’INTERNO.

 

Virgo rideva soddisfatto.

 

Sghignazzava fragorosamente nel salone principale della Sesta Casa, gustandosi, nelle fiamme del braciere, la guerra in corso sulla Luna, guerra che presto sarebbe dilagata, incendiando la Terra intera. Del resto, e di questo era sommamente convinto, da una sola scintilla divampano incendi soffusi. Come ebbe a dire quel brav’uomo di Lucrezio.

 

E il pianeta, a suo credere, offriva molti arbusti secchi che lo avrebbero permesso.

 

Gli uomini! Sogghignò, espandendo il cosmo e lasciando che le fiamme della visione turbinassero attorno a sé, fino a generare un mosaico sul muro laterale che gli mostrò tutti gli eventi in corso.

 

Mio padre guerreggia appagato, facendo strage di quegli sciocchi Seleniti, convinto di poter sedere vittorioso al tavolo delle trattative, alla fine della guerra, e presentare il suo conto! Mi sembra quasi di sentirla, la sua brama di potere, che già lo incorona governatore di qualche provincia del nascituro impero delle tenebre. La vedo, colare sulla sua barbetta, l’acquolina che rivela la sua fame di gloria! Lo sento, il fremito eccitato che accompagna il tendersi del muscolo quando impugna la Lancia di Sangue, piantandola nel corpo sventrato della sua vittima, quasi servisse a riaffermare la sua patriarcale e virile autorità!

 

Povero sciocco! Non ha mai compreso a che gioco stiamo invece giocando! Una corsa al trono da cui è escluso! Pur tuttavia, quell’ardore selvaggio, quella furia animalesca che riversa in guerra, mi affascina e mi appartiene! O, quantomeno, appartiene al semidio chiamato Flegias, il figlio di Ares che fui un tempo! Rise l’uomo dalle sembianze del Cavaliere della Vergine, mentre le fiamme oscure cambiavano forma, mostrando nuove immagini a colui che possedeva la Vista.

 

La Vista. Uno dei pochi doni che Avalon gli aveva fatto, uno dei pochi segreti che era riuscito a carpire all’Isola Sacra, e che gli aveva permesso di sopravvivere per così tanto tempo. Persino Loki se ne era stupito. Persino Odino doveva ricorrere alla Fonte di Mimir per sapere, per vedere. Egli invece doveva soltanto evocare le tetre fiamme, prodromo dell’incendio purificatore.

 

Surtr lo aveva capito, che il mondo sarebbe finito così. E anche quel poeta inglese di cui adesso mi sfugge il nome lo aveva predetto. Dicono taluni che il mondo finirà nel fuoco, altri nel ghiaccio. Io propendo per il primo! Ah ah ah! E guardò ancora, osservando Pegasus fronteggiare suo padre mentre i Cavalieri delle Stelle tentavano di frenare l’avanzata degli Spiriti della Battaglia, e gli altri Seleniti si organizzavano per affrontare i figli di Eris. Doveva esserci anche Avalon con loro, ne era certo, per quanto non riuscisse a trovarlo, nascosto come sempre ai suoi poteri oscuri. Di certo osservava gli eventi dalla reggia di Selene, codardo e presuntuoso, convinto di poter manovrare le sue pedine e ottenere facile vittoria.

 

Bastardo! Avvampò, mentre le fiamme attorno a lui divamparono in ogni angolo della casa, rischiarandone le silenziose profondità. Ma subito riprese controllo di sé, temendo che qualcuno potesse scoprirlo. E rise, compiaciuto dall’errore che Avalon per la prima volta aveva commesso.

 

Egli crede davvero che mi interessi l’ultimo talismano? Umpf, ho abbandonato ormai l’idea di impossessarmene, da quando ho compreso, grazie alle memorie di Tegel, quel che realmente sono. Ma se non posso averli, posso almeno arrestarne la furia e distrarre i nostri nemici da altri obiettivi. Ghignò, mentre le fiamme turbinavano ancora, rivelando un volto calmo che ben conosceva. Il viso di un uomo che stava camminando tra alte montagne innevate, diretto verso segreti che finora non erano stati rivelati. Neppure ad Atena.

 

E, quale ironia, sarebbe stato proprio lui, un Cavaliere di Atena (o presunto tale!) ad autorizzare tale missione.

 

Virgo rise, o quantomeno fu il suo corpo a farlo. La coscienza ormai era stata annientata, sopraffatta da un potere più grande di lui. Un potere più grande di qualsiasi essere vivente, che presto si sarebbe rivelato al mondo intero. Pochi attimi ancora, poche ore, e la sconfitta delle benigne stelle sarà definitiva! La configurazione astrale è ormai stata ricreata e il Signore di…

 

“Maestro?!”

 

Una voce all’improvviso ruppe il tombale silenzio, obbligando il Cavaliere a voltarsi di scatto verso l’ingresso lontano e a spegnere d’un sol colpo tutte le fiamme, lasciandone solo alcune a baluginare sul trono a forma di fiore di loto.

 

“Maestro, siete in casa?” –Ripeté la voce femminile, mentre timidi passi iniziavano a risuonare sul marmoreo suolo del Sesto Tempio.

 

Aguzzando la vista, Virgo riuscì a intravedere un’esile figura affacciarsi tra le statue dell’ingresso, identificandola come una ragazza sui vent’anni, con mossi capelli castani. Indossava vesti molto povere, una semplice tunica gialla fissata in vita da un cordone, e questo gli permise di capire subito chi fosse. Uno dei discepoli che il Cavaliere d’Oro aveva addestrato in Uttar Pradesh anni addietro, la giovane portata da Iemisch sull’Isola delle Ombre per farne un’arma al servizio dell’oscurità.

 

Cosa diavolo vuole? Digrignò i denti il Custode del Sesto Tempio, imponendosi la calma mentre si incamminava verso l’atrio, per accogliere l’allieva.

 

“Riconosco la tua voce! Tirtha, la Pellegrina!” –Esclamò, fermandosi a qualche metro di distanza, evitando le lame di luce che filtravano tra le colonne all’ingresso.

 

“Sono lieta di rivedervi, maestro!” –Si inchinò la giovane, con fare compito, rialzandosi solo quando l’uomo, spostandosi di lato, le fece cenno di precederla all’interno della casa. –“Perdonatemi se vi ho recato disturbo! Ho forse interrotto la vostra meditazione?”

 

“Posso riprenderla in qualsiasi momento! Ma dimmi, cosa ti porta nella mia umile dimora? Che cosa turba la tua giovane anima?”

 

“Voi avete sentito?! Oh maestro, ero certa che avrei trovato conforto in voi! L’ombra, maestro… l’ombra non mi ha ancora…” –Esclamò la ragazza, il respiro mozzato da un singulto.

 

“Controlla le tue lacrime e non temere giudizio alcuno! Solo i muri e le colonne del sesto tempio sono in ascolto! Che cosa ti ha fatto… l’ombra?” –La incitò Virgo, che aveva iniziato a comprendere quel che stesse accadendo alla ragazza.

 

“Non mi ha ancora lasciato! La sento, maestro! È in me!” –Confessò, sollevando gli occhi tremanti verso il volto del Cavaliere, che quasi si dispiacque per non poterle sorridere, per non poterle dire che lo aveva sospettato.

 

È naturale, del resto. La distruzione del mio corpo mortale e dell’Isola delle Ombre hanno rappresentato solo una sconfitta momentanea. Ma quando il varco si è aperto, le creature oscure che avevano infettato il suo animo hanno trovato nuovo nutrimento! Un plancton di tenebra di cui cibarsi e grazie al quale crescere! Sogghignò Virgo, pensando a come poter sfruttare quella nuova interessante scoperta.

 

“Maestro?!” –La voce atterrita della Pellegrina lo rubò di nuovo ai suoi pensieri, portandolo a voltarsi infastidito verso di lei, che subito chinò lo sguardo, temendo di averlo deluso confessandole il suo intimo segreto. –“Vi prego di scusarmi, ma non sapevo dove andare! Non potevo rimanere ad Angkor, non con questo male nel cuore! Non con il timore di poter ferire Pavit o uno dei santoni che spesso meditano con noi sotto il bassorilievo del Kurma! No, vivere con questo peso sarebbe impossibile! Per cui vi chiedo, oh illuminato, c’è una cura? Una salvezza per la mia anima? O solo nella morte potrò trovare pace?!”

 

“Una cura?! Ma certo mia cara! Fidati di me! Farò in modo di mettere fine quanto prima alla psicomachia che ti dilania il cuore!” –Le sussurrò con voce melodiosa il Cavaliere, carezzandole il mento con un dito, cullandola con parole che così disperatamente voleva udire. Ma quando Virgo schiuse gli occhi, fissandola con quelle iridi intrise di fuoco e ombra, Tirtha trasalì, spalancando la bocca per gridare, ma venendo prontamente afferrata dalla mano destra dell’uomo, che le strizzò il collo, mozzandole il fiato, gettandola poi a terra.

 

“Silenzio, mia cara! Non l’hai invocato poc’anzi? E già vuoi rimangiarti la parola?! Non si fa così, proprio no, birichina!” –Le sibilò, montando sopra di lei e bloccandole ogni movimento. –“Sei venuta alla Sesta Casa, mi hai arrecato disturbo, interrompendo le mie elucubrazioni, per avere una panacea che ponesse fine al tuo dissidio, e io te la sto offrendo! Accetta l’ombra! Abbracciane la causa, falla tua! Ti darà forza, ti farà essere ben più potente della ragazzina vestita di stracci e odorosa di giungla che nelle notti senza stelle cerca conforto nell’amico devoto, senza concedersi mai! Ah ah ah! Un’esistenza a metà hai sempre vissuto, come apprendista, che non è mai diventato Cavaliere, come donna, che non ha mai avuto soddisfazioni, e adesso come essere umano, dilaniato da un conflitto tra ombra e luce, un conflitto che credevi di aver vinto ma che il risveglio del mio Signore ha riacceso in te!”

 

Cosa… state dicendo, maestro? Vi prego!” –Singhiozzò Tirtha, mentre le mani di Virgo bramose le strappavano la tunica, carezzandole il corpo e i seni sodi, fino a stringerli con violenza.

 

Abbraccia… l’ombra!!! O muori divorata da essa!!!” –Ringhiò, avvolgendola nel suo cosmo tenebroso e lasciando che la sua natura animalesca emergesse. Glielo vide negli occhi, che si tinsero di nero, mentre boccheggiava delirante, invocando pietà. –“Questa è la mia pietà! Risparmiarti un’esistenza di dolore, lacerata in due metà!”

 

“Che cosa state facendo?!” –Esclamò una terza voce all’improvviso.

 

Volgendo lo sguardo verso l’ingresso, Virgo vide un giovane dai capelli fulvi fissarli con occhi stupefatti e trattenne una risata al pensiero di quanto sconvolta potesse essere la sua mente adesso, dopo aver visto il suo nobile ed etereo maestro a cavalcioni sopra l’allieva seminuda.

 

Pavit!” –Esclamò, ricordandosi il nome dello sciocco discepolo. –“Aspettavamo proprio te! Vuoi unirti ai festeggiamenti?”

 

Festeggia… maestro ma che succede? Vi sentite bene?!

 

“Mai stato meglio! Anche se temo che non potrò dire lo stesso di te, tra poco!” –Sibilò, rimettendosi in piedi e offrendo la mano a Tirtha, che in silenzio la afferrò, la mente avvolta in una nuvola d’ombra, lo sguardo ormai perso nel buio.

 

Tirtha?! Cos’hai? Cos’è accaduto? Perché hai lasciato Angkor in fretta e in solitudine?”

 

“Cercava risposte, la donna che ami! E le ha trovate qua alla Sesta Casa, al Tempio della Vergine d’Oro!” –Ironizzò il Cavaliere, abbandonandosi a un riso sguaiato.

 

Voi… tu non puoi essere il mio mentore!” –Esclamò infine Pavit, inorridito.

 

“Quale intuito! Tardivo ma efficace!” –Si limitò a commentare l’uomo, prima di dare a Tirtha il suo primo ordine. –“Uccidilo!”

 

La ragazza si lanciò contro il compagno, graffiandogli il volto con artigli di tenebra e poi muovendosi per colpirlo con un calcio in pieno petto, inebriata dal ruscellare del sangue sul volto ferito. Ma Pavit, dopo la sorpresa iniziale, fu svelto a muoversi all’indietro, afferrando la gamba dell’amica e sbattendola in terra, pensando al qual tempo una soluzione per impedirle di nuocergli pur senza ucciderla.

 

“Il dubbio ti dilania, non è vero? Ucciderla o essere ucciso, questo è il problema!” –Rise Virgo, osservando la scena divertito. –“Ed in effetti è un gran problema, quanto meno per te, poiché lei non si fermerà finché non sarai morto!”

 

“Che cosa le hai fatto, bastardo? Riconosco la tua voce, adesso! Sei il Maestro di Ombre contro cui il mio maestro lottò mesi addietro!” –Disse Pavit, mentre Tirtha intanto si rialzava e gli si lanciava di nuovo contro, gli artigli di tenebra pronti a sgozzarlo.

 

“Le ho dato una ragione per vivere! Ora fai la tua scelta, Pavit il Devoto!”

 

“Mai!” –Avvampò il discepolo, bruciando il proprio cosmo e generando un’onda di luce con cui travolse Tirtha, scaraventandola contro il muro. Quindi si voltò verso Virgo, per affrontare anche lui, ma questi non era più di fronte al trono. Lesto, era sgusciato alle sue spalle, paralizzandolo con una morsa mentale.

 

“Meno uno!” –Ghignò il Cavaliere, affondando il braccio nella schiena del ragazzo e strappandogli il cuore. Quindi, mentre Tirtha si rimetteva in piedi, le fece cenno di avvicinarsi e glielo lanciò, facendola poi cadere sopra di lui.

 

Virgo!!!” –Gridò allora una voce, mentre lo sferragliare di un’armatura anticipava l’arrivo di un uomo dall’entrata posteriore del tempio. –“Dei dell’Olimpo! Cos’è questa carneficina?!” –Tuonò Libra, sputando nel salone principale, mentre il parigrado gli si faceva incontro, con lo sguardo affranto e pieno di lacrime.

 

Dohko, ti prego, non ucciderla! Lei non sa cosa sta facendo! È malata!”

 

“Malata?! Ma chi sono costoro? I tuoi… discepoli?!” –Li riconobbe, mentre Virgo iniziava a raccontare cos’era accaduto. La scoperta dell’ombra annidata nel suo cuore da parte di Tirtha, la fuga dall’Indocina, la battaglia per l’anima che era infuriata mentre il maestro aveva cercato di liberarla da tale oscura tenebra e infine la vittoria dell’ombra, che l’aveva spinta a uccidere il compagno. –“Per Atena! È terribile!”

 

“Il mio cuore è straziato da indicibili tormenti, Dohko! Ed è tutta colpa mia! Ho fallito! Ho cercato di purificare il suo cuore ma l’ombra è così radicata, così forte, come mai l’ho percepita prima d’ora, da avermi respinto!”

 

Io… l’ho sentita!” –Annuì il Cavaliere di Libra.

 

“Davvero?!” –Incalzò preoccupato il parigrado, temendo che il suo gioco fosse stato scoperto.


“Mentre meditavo alla Settima Casa, è esplosa nella mia mente, come una macchia su un velo bianco! Per questo sono intervenuto! Non in tempo, a quanto pare!”

 

“Ti prego, concedimi di curarla! È pericolosa, è vero, è un’assassina, ma è pur sempre una mia allieva! E non ha colpe, di per sé!”

 

Libra rimase qualche secondo pensieroso, osservando Tirtha china sul corpo di Pavit, il cuore macellato a pochi passi di distanza, lo sguardo furioso di una tigre pronta ad azzannare. Fece per avvicinarsi, ma la ragazza si sollevò, sfoderando artigli di pura tenebra e un ghigno demoniaco, prima di avventarsi anche su di lui.

 

Dohko!!!” –Gridò Virgo, vedendo oscuri fendenti abbattersi sullo scudo dorato del Cavaliere, pur senza scalfirlo, in un flusso continuo di cieco furore.

 

“Perdonami, amico mio! Ma devo fermarla!” –Si limitò a commentare il custode della Settima Casa, prima di concentrare il cosmo sul braccio e muoverlo dal basso verso l’alto, generando un dragone di energia che travolse Tirtha, schiantandola contro una colonna molti metri addietro.

 

Virgo corse subito da lei, per verificarne le condizioni, e sentì il cuore battere ancora, capendo che il Cavaliere aveva soltanto voluto stordirla. Con il volto rigato da false lacrime, lo ringraziò più volte, chiedendo clemenza per lei.


“Sarà Atena a giudicare i suoi peccati! Per adesso dobbiamo impedirle di ferire ancora! La condurremo alla prigione di Capo Sounion, dove il cosmo della Dea la tratterrà fino al suo ritorno!”

 

“Solo Atena può darle pace! Non potrei sopportare anche la sua perdita, è l’ultimo dei miei discepoli! L’ultimo di dieci allievi che la guerra mi ha rubato!”

 

“Comprendo il tuo dolore, amico mio! È accaduto a molti di noi!” –Esclamò Dohko, ponendo una mano sulla spalla del parigrado. Quindi si incamminò verso l’uscita, portando Tirtha con sé e dicendo che avrebbe mandato alcuni soldati ad occuparsi del cadavere di Pavit. Si fermò un istante, ponderando tra sé un enigma che non riusciva a decifrare. Per un momento, per un solo momento, gli era parso di percepire due cosmi di ebano alla Sesta Casa. Poi scosse la testa e iniziò a scendere la scalinata, certo di essersi sbagliato.

 

Virgo, rimasto al centro del salone, si spostò i capelli all’indietro, concedendosi un sorriso malefico. Stava vincendo.

 

***

 

Al Cerchio di Saturno Reis e Jonathan erano in difficoltà.

 

L’ondata di Phonoi e di Androctasie sembrava inarrestabile e soprattutto interminabile. Per ogni guerriero che uccidevano, altri dieci ne arrivavano e ben presto i Cavalieri delle Stelle sentirono la pressione di tale furiosa avanzata sulla loro pelle. L’unica cosa positiva, pensò Jonathan, era che, di fronte a quel brulicante ammasso di nemici, ovunque puntasse lo Scettro d’Oro era certo di colpire qualcuno, anche senza impegnarsi troppo nel prendere la mira. Ma quella misera consolazione non mitigò lo sforzo di entrambi, che alla fine furono spinti lontano dal varco nel muro, mentre l’esercito dei Signori della Guerra dilagava all’interno del Sesto Cerchio.

 

“Maledizione! Sono troppi!” –Strinse i denti Reis, impegnando con la spada una lama avversaria, prima di sfilarla e infilzare il proprio oppositore.

 

“Serve un’azione congiunta! Uniamo i nostri colpi segreti!” –Propose Jonathan, bruciando il proprio cosmo lucente, presto imitato dalla compagna.

 

Vortice scintillante di luce!” –Gridò Reis, liberando un turbine che travolse alcune decine di guerrieri, scaraventandoli in ogni direzione, le corazze squarciate da fulgidi fendenti. Quelli che riuscirono a evitarlo, o ne vennero solo sfiorati, si esposero al repentino assalto dell’allievo di Andrei, che aveva già concentrato il cosmo sul palmo della mano, generando migliaia di comete energetiche.

 

“Ora mi sento meglio!” –Commentò il ragazzo dai capelli biondo cenere, soffiandoli via dal volto sudato su cui gli si erano fastidiosamente appiccicati.

 

“Quando torniamo ad Avalon, ti farò tagliare quel cespuglio che hai in testa!” –Ironizzò la compagna. –“Simili distrazioni generano ritardi nei tuoi attacchi!”

 

“Ah, davvero? Eppure mi sembra di tenere il passo!”

 

“Sensazione sbagliata! Ho eliminato quasi il doppio dei tuoi avversari!” –Concluse Reis, balzando alle spalle di due Androctasie e colpendole poi con un rapido affondo. Per un momento si incupì, guardando i loro corpi giovanili crollare nel sangue e nella polvere, riflettendo che, fossero state umane come lei, sarebbero state sue coetanee e forse, in un’altra vita, avrebbero potuto essere amiche, uscire insieme, frequentarsi e vivere una realtà diversa, che non il continuo mondo di guerra in cui erano immersi. Ma poi ricordò chi erano, le figlie di Discordia, colpevoli, al pari della genitrice, di molti mali nel mondo. –“Vostra madre vi ha generato, facendovi dono dello status di Divinità, ma siete stati voi, con le vostre turpi azioni, ad inquinare tale rango, lasciando che gli uomini vi identificassero con gli spiriti del macello! Voi, da Dei siete divenuti mostri!”

 

“Tu credi?” –Parlò allora una voce, risuonando sopra la molesta cacofonia della battaglia. –“È un’opinione interessante, quella di chi sostiene che anche gli Dei dispongano del libero arbitrio, qualità di cui finora ho sempre udito uomini farsene vanto! Dovremmo parlarne! Se al termine di questo scontro sarai ancora viva! Ih ih ih!” –Rise la stessa voce femminile, prima che il rimbombare confuso di migliaia di piedi, pesanti come zoccoli, riempisse l’aria.

 

Anche i Phonoi e le Androctasie lo udirono, scattando lesti verso i lati del varco nel muro, mentre una devastante onda d’urto squassava il suolo lunare, investendo in pieno il Cavaliere di Luce e scagliandolo in aria, assieme ad alcuni guerrieri nemici che non erano riusciti a portarsi in tempo fuori dal suo raggio d’azione.

 

“Che diavoleria è questa?!” –Esclamò Jonathan, stringendo lo Scettro d’Oro di fronte a sé, pronto a ripararsi da un eventuale assalto, e osservando nel contempo Reis rimettersi in piedi a fatica.

 

“Non diavoli siamo, ma spiriti bellicosi! Gli spiriti per eccellenza della battaglia, le voci che animano i soldati in lotta, infoiano il loro ardore e mantengono saldo il loro proposito di andare avanti! Vittoriosi sempre, arrendevoli mai!” –Gli rispose una voce femminile, mentre alcune figure avanzavano tra la polvere sollevata dall’ultimo assalto, rivelandosi agli occhi dei Cavalieri delle Stelle.

 

Erano tre donne, alte e snelle, dall’impeccabile fisico guerriero, i capelli tagliati corti, da uomo, il volto una maschera di ghiaccio. Erano rivestite da corazze violacee e rossastre, coprenti quanto una Veste Divina, sebbene Jonathan non fosse certo che Efesto avesse mai costruito alcunché per tali violenti spiriti. Prima ancora che si presentassero, il ragazzo capì chi aveva di fronte, e capì anche che quello scontro non sarebbe stato affatto facile.

 

“Noi siamo le Makhai, gli spiriti della battaglia!” –Continuò colei che aveva parlato finora, la donna al centro del trio, quella con i corti capelli biondi. Forse persino più biondi di Jonathan, al punto da sembrare quasi bianchi. –“Io sono Kydoimos, la confusione!”

 

“E io sono Homados, il rumore della battaglia!” –Le fece eco la sorella dai capelli viola, prima che anche la terza parlasse. –“Proioxis, l’avanzata impetuosa! Ma di questa caratteristica vi siete certo già accorti!” –Aggiunse, con un ghigno beffardo, diretto soprattutto a Reis, ancora acciaccata dall’onda d’urto.

 

“Ora che queste insulse formalità sono state sbrigate, possiamo proseguire per la nostra strada!” –Esclamò allora Kydoimos, iniziando ad avanzare, subito imitata da tutti i Phonoi e le Androctasie, che si erano riorganizzati in falangi compatte, tenendosi comunque a debita distanza dal trio.

 

“Dove credete di andare?!” –Intervenne Jonathan, il cui scettro stava iniziando a pulsare vivida energia.

 

“Che domanda sciocca! Al palazzo di Selene!” –Continuò il demone del frastuono in battaglia, sottolineando l’ovvietà di quell’affermazione seguitando ad avanzare.

 

“Temo che non vi sarà così semplice!” –Esclamarono i Cavalieri delle Stelle, scambiandosi un rapido sguardo prima di lanciarsi entrambi alla carica.

 

“Ah no?!” –Sbuffò Kydoimos annoiata, prima di voltarsi verso la sorella dai capelli neri, che subito annuì, facendosi avanti e aprendo le braccia di lato. Subito un’onda di energia si propagò dal suo corpo, investendo in pieno Reis e Jonathan e scaraventandoli indietro, facendoli ruzzolare per molti metri sul suolo lunare e strappando loro persino la presa delle armi.

 

Risolto quel piccolo contrattempo, Kydoimos ricominciò a camminare, affiancata dalle sorelle, guidando l’esercito della guerra verso il cuore del Cerchio di Saturno.

 

As… pettate! Lo scontro è appena iniziato!” –Esclamò Jonathan, facendo forza su un ginocchio per rimettersi in piedi.

 

“A me pare che sia finito da un pezzo!” –Gli rispose la Makhai del frastuono, senza neppure fermarsi.

 

“Non mi ignorare!!!” –Avvampò il Cavaliere delle Stelle, il palmo stretto attorno ad un globo di energia. Non attese risposta e scattò avanti, liberando il suo colpo segreto.

 

“Non chiedere troppo!” –Digrignò i denti Proioxis, voltandosi all’improvviso e balzando di fronte al giovane. La cometa lucente, che stava sfrecciando verso di lei, frenò la sua corsa, venendo infine rispedita indietro ad una velocità persino maggiore.

 

Jonathaaan!!!” –Gridò Reis, vedendo il compagno colpito in faccia dal suo stesso attacco e scaraventato indietro, con la maschera dell’armatura in frantumi.

 

“Se ti ignorassi, sarebbe certo meglio, per te!” –Concluse la figlia di Eris, prima di fare cenno alle sorelle di proseguire. –“Pur tuttavia, dato che molto hai insistito, rimarrò qui a farvi compagnia, finché non avrete esalato il vostro ultimo respiro! E, state sicuri, accadrà molto presto, perché nessuna difesa può contrastare l’avanzata furiosa delle Makhai!”

 

Non… possiamo lasciarle passare…” –Balbettò Jonathan, faticando a rialzarsi.

 

Reis capì i pensieri del compagno. Con Pegasus e Phoenix impegnati contro Ares e Discordia al Settimo Cerchio, e loro costretti all’immobilità, soltanto Shen Gado avrebbe potuto impedire che quell’esercito furioso si riversasse sui Seleniti, e poi sulla residenza di Selene. Ma se persino loro, addestrati ad Avalon, erano in difficoltà contro uno solo di quei demoni, cosa avrebbe potuto fare il sia pur valoroso Capitano della Luna?

 

“Vai!” –Affermò infine il Cavaliere di Luce, mentre l’amico si rimetteva in piedi. –“Appena avrai l’occasione, vai!” –Ripeté, prima di scattare avanti, la spada saldamente in pugno. Ma prima ancora che potesse gridare alcunché, Proioxis aveva già sollevato il piede e stava calando il tacco sul terreno.

 

“Forse non avete capito…” –Sibilò, mentre una devastante onda di energia scuoteva il suolo lunare, rimbombando sotto di loro e attorno a loro e travolgendoli di nuovo. –“Nessuno di voi andrà da nessuna parte! Mia sarà la mano che vi scorterà ai gradini di Tartaro! Mio il calcio nel posteriore per farvi precipitare entrambi! Addio Cavalieri di Avalon, questa di Proioxis è l’Avanzata Impetuosa!!!” –Aggiunse, spalancando le mani e generando una devastante onda d’urto, simile a un maroso di pura energia, che sfrecciò verso di loro, fagocitando in fretta il poco spazio restante.

 

Jonathan e Reis cercarono di disperderla, colpendola con raggi energetici, ma quando comprese che non vi sarebbero riusciti, quest’ultima fu svelta ad afferrare l’amico e portarlo dietro una barriera che aveva appena creato, una scintillante cascata di luce che avvolse entrambi a spirale, mentre l’onda li investiva in pieno, schiantandoli molti metri addietro, con le armature crepate in più punti.

 

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Capitolo 10
*** Capitolo ottavo: Gli spiriti della battaglia ***


CAPITOLO OTTAVO: GLI SPIRITI DELLA BATTAGLIA.

 

Quando Shen Gado vide l’esercito dei Signori della Guerra avvicinarsi al varco che dal Cerchio di Saturno conduceva a quello di Giove capì che i Cavalieri di Atena e di Avalon avevano fallito. Non li compianse, né li biasimò, avendo percepito l’intensità cosmica dei loro avversari, Divinità devote alla battaglia e alla strage, Divinità che esistevano all’unico scopo di generare un conflitto perenne. Divinità, ammise infine, spostando lo sguardo sul Selenite che si ergeva solitario all’ingresso del passaggio, ben diverse dagli stanchi Numi che le ostilità del mondo terreno avevano rifuggito.

 

“Arrivano!” –Parlò allora Mani, le mani sudate strette sul lungo bastone che reggeva in mano, l’unica arma di cui disponesse.

 

“Dubito che quel legno stantio servirà a qualcosa, contro quelle furie!” –Commentò il Capitano della Guardia, ma il Selenite lo pregò di mostrare rispetto.

 

“Questo bastone è stato ricavato dal legno di Yggdrasill, l’Albero dell’Universo! Fu Odino a farmene dono, molti misseri addietro, quando lasciai Asgard, affinché potessi piantarlo in più fertile suolo! Non ho dimenticato le sue parole e la sua speranza!”

 

Shen Gado non disse alcunché, limitandosi a riportare lo sguardo sullo squadrone nemico che ormai era giunto a una decina di piedi di distanza. Era guidato da due donne alte e snelle, il cui cosmo ostentatamente aggressivo collideva con le forme perfette dei loro corpi, quasi Fidia in persona li avesse scolpiti. Fu proprio una di loro, una bionda dai capelli a spazzola, a sollevare un braccio, fermando l’avanzata dei suoi sottoposti.

 

“Sei tu il Selenite preposto alla difesa del prossimo varco?” –Esclamò con voce stridula, rivolgendosi a Mani.

 

“Esattamente! Il mio nome è Mani, Selenite di Sa…” –Ma Kydoimos non lo fece neppure presentare, scattando avanti alla velocità della luce, afferrandolo per la gola e sbattendolo contro il muro alle sue spalle.

 

“Non ti ho chiesto una biografia, solo una breve e monosillabica risposta! Sì o no! Non è difficile, neppure per voi esuli stralunati di questo miserrimo regnuccio!” –Ringhiò, sfoderando affilati canini. Poi, vedendo il terrore nello sguardo del Dio lunare, che nella foga aveva addirittura perso la presa sul bastone di legno, scoppiò a ridere, lasciandolo ricadere a terra e dandogli un buffetto sulla guancia, divertita. –“Perdona la mia irruenza, bel maschio nordico, ma abbiamo sprecato fin troppo tempo con quei patetici Cavalieri delle Stelle che avevano pensato di sbarrarci il passo! Quale fatua illusione in così poco tempo caduta! Adesso dobbiamo recuperare! Coraggio, spiriti della battaglia, avanziamo!” –Urlò, facendo cenno ai Phonoi e alle Androctasie di rimettersi in marcia.

 

“Stai scherzando, voglio sperare!” –Disse allora Shen Gado, costringendo Kydoimos a sollevare lo sguardo su di lui, ritto in piedi sulla cima dell’alto muro di confine.

 

“Spera pure! In fondo, cos’altro ti resta?!”

 

“Combattere!!!” –Avvampò il Capitano, espandendo il cosmo adamantino. Quindi si lanciò in aria, roteando su se stesso e iniziando a precipitare verso terra, con la gamba tesa diretta al volto della Makhai, che non rimase inerte ad attendere di essere colpita.

 

Lesta, Kydoimos mosse un passo indietro, proprio mentre la rotazione trivellante del corpo di Shen Gado generava un buco nel suolo e sul suo volto si palesava un’espressione scontenta, per aver mancato il bersaglio. La Makhai approfittò di quel momento per colpirlo al volto con un pugno di energia, ma il corpo del Capitano roteò di nuovo, mentre le ali della corazza si spalancavano in uno sfarfallio di luci, deviando l’assalto della crudele Divinità e spingendola persino di lato, sorpresa da quell’inconsueta mossa.

 

Kydoimos!!!” –Fece per intervenire allora Homados, fermandosi dopo neppure due passi, ben sapendo quanto la sorella odiasse che qualcuno interferisse nelle faccende proprie. Soprattutto dopo essere stata pubblicamente umiliata di fronte alle truppe.

 

“Dunque anche l’ippogrifo possiede artigli! E io che credevo tu fossi solo un equino con le ali!” –Sibilò il demone della confusione. –“Per rimediare a questo mio errore, ti concederò di morire per primo! Shamara!!!” –Esclamò, mentre una torbida evanescenza nasceva dalle sue dita per poi avvilupparsi attorno al corpo del Capitano della Guardia, entrando dentro di lui, senza che potesse fare alcunché per impedirlo. Un attimo dopo il valoroso Shen Gado cadde a terra goffamente, accasciandosi con lo sguardo perso nel nulla, gli occhi ancora aperti in un’espressione di sconfitta inattesa.

 

Che… cosa gli hai fatto?!” –Balbettò Mani, rimettendosi in piedi.

 

“Non lo so! E credimi, non ti piacerebbe affatto sapere quale tormento gli spiriti maligni da me evocati infliggono ogni volta al malcapitato cui strappano l’anima!”

 

È… morto?!” –Singhiozzò il Selenite, incredulo.

 

“Lo sarà presto! Sbrigati a pronunciare il rito funebre! Ih ih ih!” –Quindi, volgendosi verso Homados e il resto dell’esercito, gridò loro di ripartire, salvo poi trovarsi Mani, con il bastone saldo in pugno, a sbarrargli la strada.

 

“Un rito funebre lo pronuncerò per te, strega!!!” –Gridò questi, muovendo l’arma in un rapido affondo, che Kydoimos non ebbe problema alcuno ad evitare, balzando indietro con un’agile capriola, atterrando sulle mani e poi dandosi la spinta per saltare di nuovo in avanti, colpendo il Selenite in pieno volto.

 

“La mia grazia non ti era bastata? Hai dunque voluto sprecare l’unica occasione di salvezza, stupida ammuffita Divinità?!” –Ringhiò la Makhai, strattonando il corpo di Mani con il braccio destro, mentre con il sinistro lo riempiva di pugni e graffi.

 

Immeritata… grazia…” –Borbottò il Selenite, strappando un’espressione sorpresa alla figlia di Eris, che lo guardò per la prima volta con una luce di interesse. Ma prima che potesse aggiungere altro venne travolta da uno scroscio di energia acquatica e spinta indietro, mentre una pioggia di bastoni cadeva dal cielo tempestandole la corazza. Non appena capì cos’era successo, Kydoimos annientò il puerile assalto con un’onda di energia, che travolse anche i due apprendisti, schiantandoli al muro assieme al loro mentore. –“Bil! Hjúki! Che fate ancora qua? Vi avevo detto di correre a palazzo! Là sareste stati al sicuro!”

 

“Non potevamo lasciarvi da solo, padre! Combattere è anche nostro dovere!” –Dissero i due ragazzini, che, nascosti nel tunnel, avevano seguito l’intera scena, decidendo infine di attaccare la Makhai.

 

“Vostro dovere è divenuto morire, adesso!” –Sentenziò quest’ultima, il volto irato dalla frustrazione. Berciò ordini a Homados di avanzare assieme al resto dell’esercito, incurante di quel che la sorella le stava dicendo, e avanzò a passo deciso fino a portarsi di fronte a Mani e ai suoi apprendisti, le unghie delle sue mani divenuti affilati artigli di cosmo. –“Ma dato che il sesto cerchio è stato preso, pur con il vostro intenso tentativo di resistenza, non c’è più motivo di avere fretta! Per cui, siatene certi, la vostra morte non sarà immediata e scevra di dolore! Tutt’altro!” –Sibilò, calando la mano sul Selenite di Saturno.

 

***

 

Il secondo assalto fece ancor più male del precedente. Di questo Jonathan ebbe conferma tastandosi la fronte indolenzita e sanguinante. Reis, pochi metri più in là, giaceva distesa sulla schiena, gli occhi chiusi, forse svenuta dall’impatto con l’ultima onda d’urto, per cui avrebbe dovuto combattere anche per lei.

 

“Cavaliere fino in fondo!” –Si disse, faticando nel rimettersi in piedi, le ossa che gli dolevano per le percosse subite.

 

“Ti rialzi ancora? Sono impressionata, ragazzo!” –Lo derise Proioxis, avvicinandosi a passo svelto. –“Ma se lo fai per essere alla mia altezza, te ne dispenso, tranquillo! Tanto saresti comunque più basso di me! E a me gli uomini bassi proprio non piacciono!” –Aggiunse, muovendo rapida la gamba destra, colpendo il ragazzo sul viso e spingendolo indietro. Ma Jonathan, che si aspettava tale mossa, sfruttò il calcio per balzare lontano, effettuando una capriola a mezz’aria e atterrando in piedi. Un istante dopo lo Scettro d’Oro apparve nella sua mano, incupendo la Makhai che sfrecciò verso di lui con i pugni intrisi di energia cosmica.

 

Aberrazione della luce!” –Esclamò il Cavaliere delle Stelle, mentre continui lampi di luce venivano emessi dal fiore in cima all’asta, disturbando la carica della Divinità e facendole mancare il bersaglio. Fu troppo però pensare che non avrebbe previsto un attacco diretto, così, mentre Jonathan roteava lesto il Talismano, per schiantarlo sul suo collo, Proioxis balzò indietro, aprendo poi le braccia di lato ed espandendo il proprio cosmo.

 

A quella vista, il ragazzo strinse i denti, capendo quel che nell’arco di un secondo sarebbe accaduto. Così afferrò Reis bruscamente, trascinandola quanto più distante possibile dall’onda d’urto scatenata dalla Makhai, che riuscì solo in parte a raggiungerli, sbilanciandoli e facendoli ruzzolare a terra, senza però ulteriori ferite.

 

“Sfuggente e fastidioso! Ma perché mi stupisco, sei come tutti gli uomini, in fondo!” –Ghignò Proixis, mentre Jonathan, depositata la compagna al suolo, si rialzava per affrontarla.

 

“Parli come se di uomini tu ne abbia avuti molti! Al riguardo mi permetto di dubitarne!”

 

“Anche arrogante! Motivo in più per sopprimerti quanto prima! Nonostante tu non sia un Cavaliere di Atena, e come tale non oggetto diretto della mia vendetta, hai fatto tutto il possibile per diventarlo!”

 

“Vendetta? Che ti hanno fatto i Cavalieri di Atena?” –Domandò Jonathan incuriosito, approfittando di quel momento per recuperare le forze.

 

Umpf, hanno ucciso mia sorella, quei miserabili! Palioxis, la ritirata confusa! Era la più giovane di noi quattro! Morta sulla nave che abbiamo assalito per recuperare lo spirito di nostra madre, colpita alle spalle da un servitore della Dea! Che vergogna!”

 

“Che cosa ti fa vergognare? Il fatto che un umano si sia azzardato a uccidere una Divinità o che la Divinità fosse così debole da farsi uccidere da un umano?!”

 

“Irritante! Lo aggiungo alla lista degli aggettivi atti a descriverti!” –Ringhiò Palioxis, aprendo i pugni di lato e concentrando sfere di energia attorno a ognuno di essi. Quindi, con felina agilità, scattò verso Jonathan, muovendo un braccio dopo l’altro, in una raffica continua di pugni e di affondi.

 

Il ragazzo tentò di difendersi con lo scettro, lasciando che le bombe di luce esplodessero a contatto con l’asta, spingendo ogni volta entrambi i contendenti indietro, quindi, notando che tale strategia non sarebbe servita a niente, decise di contrattaccare, liberando il suo colpo segreto da distanza ravvicinata.

 

Cometa d’oro!!!” –Esclamò, muovendo il braccio sinistro dal basso verso l’alto, mentre ancora con il destro impugnava lo Scettro d’Oro per parare i colpi nemici.

 

Sorpresa da quell’assalto, Proioxis fu comunque svelta a balzare di lato, venendo solo raggiunta al basso ventre dalla sfera di energia infuocata, che le sfrigolò la corazza, strappandole un certo disappunto.

 

“Sono contento, in fondo!” –Ansimò il ragazzo, ancora con il braccio teso e il palmo aperto verso la nemica. –“Sapere che verso qualcuno provi interesse è consolante! Credevo che a voi Makhai il significato di certi termini fossero ignoti: amore, amicizia, affetto…

 

“Lo sono, infatti. Per noi, spiriti della battaglia, niente sta più in alto della famiglia! la sacra stirpe dei Signori della Guerra, che nel Mondo Antico incendiava i campi di battaglia, risuonando al suono di trombe e grida furiose, mentre gli stendardi scarlatti di Ares e i vessilli violacei di Eris marcavano il territorio appena conquistato!” –Declamò Proioxis con improvviso orgoglio. –“Noi tutti, figli e figlie della Madre dei Mali, siamo molto più che amici. Siamo uniti da un legame indissolubile che ci rende parte dello stesso tutto e ora! Siamo nati e vissuti insieme e in silenzio, nell’ombra, abbiamo atteso per secoli il ritorno della nostra genitrice, che ci avrebbe condotto all’ultima guerra!”

 

“Un invidiabile destino…” –Ironizzò Jonathan. –“A nient’altro sei servita se non a soddisfare i suoi piani di guerra, mai libera di scegliere il tuo cammino!”

 

“È qua che sbagli, Cavaliere di Avalon!” –Affermò la Makhai con tono serio. –“Come dissi poc’anzi alla tua compagna, il libero arbitrio è prerogativa anche delle Divinità, non solo degli uomini! È un dono, del resto, che gli Dei han concesso agli uomini, in quanto loro per primi hanno dovuto e saputo scegliere! È un dono antico, che risale alle primissime contese divine, quando Gea, la Madre Terra, creò un’arma sterminatrice in grado di recidere la vita del suo sposo, facendone dono al figlio che l’avrebbe ucciso in suo nome. Gea scelse di creare la Megas Drepanon, di andare contro l’ordine che Urano aveva costruito, ordine di cui lei avrebbe fatto parte sul trono dei vincitori. Allo stesso modo Crono scelse di brandire l’arma, evirando il padre e decretando la fine della prima generazione cosmica. Sai meglio di me cosa accadde in seguito, millenni dopo. La storia si ripeté. Per una strana ironia, anche Crono cadde, ucciso dal figlio, e la guerra che seguì la sua morte infuriò sul Monte Sacro, obbligando Olimpi e Titani a fare le loro scelte. Scelte di campo, scelte di vita, scelte che segnarono i destini del mondo. Per cui, per tornare alla tua domanda, sì, il libero arbitrio è prerogativa anche degli Dei: mia madre ci ha creato, ci ha infuso il suo odio verso gli Olimpi, ma siamo stati noi a coltivarlo, noi a inebriarci del sangue e della morte, delle grida dei soldati in guerra, della furia delle schiere in lotta! Noi siamo le Makhai, gli Spiriti della Battaglia, l’espressione più pura del conflitto universale in cui versa questo mondo! E, tra tutte, io sono Proioxis, colei che avanza decisa, la Dea dietro la quale le altre si accodano dopo che questa ha aperto loro la strada! Avanzata imperiosa!!!”

 

La devastante onda d’urto sfrecciò verso Jonathan, che nel frattempo aveva riposto lo Scettro d’Oro nell’apposito aggancio sulla schiena, aprendo al qual tempo le braccia per generare uno scudo di energia con cui cercare di rallentare l’assalto della Makhai. Consapevole che non avrebbe potuto sopportare una così feroce pressione, il ragazzo si preparò all’impatto, che fu peggio di quel che si aspettasse. La Barriera Astrale resistette per pochi secondi, giusto il tempo di rendere altamente letale un attacco mortale, prima di schiantarsi e esporre i Cavalieri delle Stelle al poderoso assalto, che li travolse e sballottò in aria, fino a schiantarsi contro il muro del Sesto Cerchio.

 

“Pare che sia tutto!” –Commentò Proioxis, volgendo infine loro le spalle e iniziando a incamminarsi dietro alle sorelle. Per un attimo la invase la tentazione di affacciarsi al Cerchio di Urano e vedere questi famigerati Cavalieri di Atena, da cui la madre le aveva messe in guardia, quasi fossero più temibili di Zeus. Ma nel sentire accendersi gli infuocati cosmi di Discordia e Ares, capì che erano nel pieno dei loro giochi e di certo non avrebbero gradito intrusione alcuna. Così si rimise in marcia lungo la Via Maestra, salvo poi essere fermata dopo qualche passo da alcune voci stanche.

 

“Te ne vai proprio adesso?” –Esclamò Jonathan, rimettendosi in piedi a fatica, il volto una maschera di sudore, sangue e capelli sfilacciati. –“Ora sei tu che ti comporti come tutte le donne e mi lasci insoddisfatto sul più bello!”

 

“Quale ardore! Per un miserabile in punto di morte!” –Sibilò Proioxis, voltandosi e notando che anche Reis si era ripresa e aveva affiancato il compagno. –“Spiacente solo di non averti fatto morire prima!” –E allargò le braccia, espandendo il proprio cosmo. –“Ma sono in tempo per rimediare!”


“Stai pronta!” –Mormorò il Cavaliere dei Sogni, radunando le forze. Reis fece altrettanto evocando le loro barriere, proprio mentre l’Avanzata Impetuosa li raggiungeva, spingendoli indietro. Grazie alle loro difese congiunte, riuscirono a non essere travolti, ma la pressione risultò presto insostenibile, impegnando entrambi in uno sforzo notevole per arginare la devastante onda d’urto.

 

Fu Reis a smuovere la situazione, con una repentina intuizione. Si gettò in terra, sfiorando il suolo con la mano e lasciando che il cosmo dorato vi fluisse, generando sottili ma intense correnti d’energia che vorticarono fino a raggiungere Proioxis, esplodendo all’improvviso sotto e attorno a lei. –“Vortice scintillante di luce!” –Tuonò l’allieva di Avalon, osservando soddisfatta la Makhai venir sollevata da terra dall’improvviso turbinio di stelle. –“È tua!!!”

 

Senza farselo ripetere una seconda volta, Jonathan, dissoltasi l’onda temibile, aveva già impugnato lo Scettro d’Oro puntandolo verso il corpo della nemica e adesso lo stava tempestando di continui raggi di energia. Così fitta fu la pioggia che, per quanto la Dea cercasse di recuperare il controllo sul suo corpo, venne comunque raggiunta in diversi punti, l’armatura graffiata e in alcune parti pure scheggiata.

 

“E non è finita!” –Commentò Reis, scattando avanti, mentre Proioxis ricadeva al suolo, atterrando compostamente. La lama lucente sfrecciò verso il suo volto ma la Makhai fu lesta a spostarsi di lato, colpendo poi la ragazza con un calcio su un fianco e facendola ruzzolare lontano. Quando questa si rialzò per ritentare, capì che la Dea aveva già sollevato impenetrabile muraglia difensiva e infatti i suoi fendenti luminosi vennero respinti.

 

“Interessante!” –Mormorò allora Jonathan, avvicinandosi e attirando lo sguardo stupito di entrambe le donne. –“La barriera di cui ti servi per rimandare indietro i nostri attacchi! Mi chiedevo come avevi fatto finora, se erano i tuoi poteri mentali a permettertelo o altro! La risposta invece è semplice, l’ho avuta sotto gli occhi per tutto il tempo senza afferrarla! Questa barriera non è altro che l’onda d’urto che fermenta, il poderoso assalto che scagli contro i nemici, ridotto adesso ad uno stato primordiale, ma già pulsante!”

 

“Hai buon’occhio! Per una Signora della Guerra la difesa in sé non esiste, non è altro che il ribollire inquieto di un fiume in procinto di riversarsi sul campo di battaglia! È l’eccitazione che precede l’attacco, il guanto sulla spada pronto per sguainarla!”

 

Efficace… Mantenendola in tensione costante sei sempre pronta ad attaccare, oltre che in grado di difenderti da assalti diretti!” –Rifletté Jonathan, mentre Reis lo raggiungeva, intuendo quel che l’amico non avesse voluto dire. Quanto ciò costava alla Dea in termini di dispendio energetico. Uno sforzo continuo.

 

Lo comprese e non nascose un moto di disprezzo per la Makhai, per la sua esistenza infelice. –“Ti compiango, in fondo, figlia del Male! Non hai mai avuto pace, né mai la avrai! E la tua barriera lo dimostra, è l’espressione della tensione incessante che ti pervade l’animo, sempre pronta ad azzannare, sempre timorosa di un attacco nemico, sempre in guerra!”

 

“È lo spirito battagliero che ci contraddistingue, Reis di Lighthouse! Il furor bellico che marchia il nostro Ichor e di cui sono fiera! Non pretendo che lo comprendiate! No, pretendo soltanto che moriate! Avanzata impetuosa!!!” –E scagliò nuovamente il proprio colpo segreto, ma Jonathan e Reis, che si erano preparati, furono svelti a lanciarsi di lato, ognuno in una direzione diversa, evitando il grosso dell’onda d’urto e venendo anzi sospinti dalla stessa. Non attesero neppure che l’attacco scemasse, voltandosi verso la Dea non appena ebbero sfiorato il suolo con la punta dei piedi, armi in pugno, i cosmi rifulgenti di polvere di stelle.

 

La luce dello scettro baluginò improvvisa, ma i raggi energetici vennero presto spenti dal movimento del braccio di Proioxis, che generò un’onda di cosmo con cui travolse Jonathan, spingendolo indietro. Quindi si voltò verso la direzione opposta, ma Reis aveva approfittato di quel momento per portarsi di fronte a lei, sotto di lei, la spada già puntata e pronta a piantarsi nel suo ventre. Fu con velocità estrema che Proioxis riuscì a schivare l’affondo, girandosi su un fianco e osservando con orrore la lama stridere sulla sua corazza. Proprio dove Jonathan l’aveva colpita in precedenza.

 

La Veste Divina andò in frantumi e sangue imbrattò la scintillante lama di fronte agli occhi attoniti e furibondi della Makhai, che allontanò Reis facendo esplodere il proprio cosmo. La deflagrazione scagliò il Cavaliere di Luce indietro, togliendogli l’elmo della corazza, ma Jonathan fu subito su di lei, per aiutarla a rimanere in piedi, approfittando di quel breve contatto per dirle di avere un piano.

 

“Dobbiamo rifarlo! Ma, scemata l’onda di energia, tu attaccherai per prima!”

 

La ragazza non capì come la ripetizione di quella strategia potesse aiutarli a vincere un’avversaria che adesso, dopo le ultime ferite ricevute, pareva più decisa che mai a eliminarli. Eppure lo sguardo che Jonathan le risolse, il sorriso di un amico che chiede di avere fiducia in lui, le fugò ogni dubbio e le ricordò che cosa li rendeva diversi dagli Dei, e da questi spiriti della battaglia. Un sentimento chiamato amicizia.

 

Così bruciò il cosmo e Jonathan fece altrettanto, mentre Proioxis, sul cui volto lampeggiava l’ira, apriva le braccia, radunando l’energia per scagliare una devastante onda d’urto. Un attimo dopo, persino più in fretta di quel che i Cavalieri si aspettassero, l’assalto li raggiunse, obbligandoli a sfrecciare al massimo della velocità consentita dalle loro forze per non esserne sopraffatti. Appena fuori dal suo raggio d’azione, Reis si voltò verso la Makhai, con la Spada di Luce in pugno, ma, come aveva previsto, la Dea aveva subito sollevato la guardia, non desiderando essere colta di sorpresa una seconda volta.

 

L’onda di energia da distanza ravvicinata la schiaffeggiò contro il muro di confine, strappandole più di un lamento e scheggiando l’Armatura delle Stelle, ma quando la ragazza torse lo sguardo per vedere se anche Jonathan avesse incontrato uguale sorte, rimase stupita nel vedere che il compagno non si era mosso affatto. Era rimasto nello stesso punto dopo aver evitato l’Avanzata impetuosa, gli occhi socchiusi, intento a radunare ogni stilla di energia che ancora gli rimaneva, mentre tutto attorno a sé e sopra di sé, vorticavano migliaia e migliaia di comete lucenti. Scie di energia pura, globi abbaglianti che sembravano provenire da una nube sferica che si agitava nell’aria, decine di metri sopra il ragazzo.

 

Che… cos’è quest’inquietudine?!” –Balbettò Proioxis, muovendo d’istinto un passo indietro di fronte a così accecante scintillio cosmico.

 

“È la casa di tutte le comete! La galassia lontana e silenziosa da cui provengono le più pure luminescenze dell’universo!” –Spiegò Jonathan, aprendo infine gli occhi, mentre tutte le comete sfrecciarono verso la Makhai, lasciandosi dietro code di luce. –“Questa è la Grande Nube di Oort!!!”

 

“Maledizione!!!” –Proioxis aprì subito le braccia, generando l’onda distruttiva, che annientò migliaia di comete, ma per quante ne distruggesse altre ne ricomparivano, forti di quella vicinanza alla casa madre che le rendeva inestinguibile potere. Una dopo l’altra le comete traforarono l’attacco della Dea, aprendo sempre nuove e più ampie brecce nella sua onda, che prestò collassò, disperdendosi e permettendo alle sfere energetiche di raggiungere la Makhai. –“Io… devo scappare!!! Devo…” –Ma con orrore Proioxis non riuscì a muovere le gambe. Abbassando lo sguardo, notò Reis, strusciata fino ai suoi piedi, che le sorrideva compiaciuta, dopo averle piantato la Spada di Luce in un piede, inchiodandola così a terra. –“Eris, madre mia, aiutami!!!” –Poté soltanto urlare mentre l’immenso ammasso stellare la investiva in pieno, disintegrando armatura, corpo e spirito.

 

“Non so come si usa, nella vostra bella famiglia, ma nella mia vecchia Inghilterra in questi casi si dice goodbye!” –Commentò Reis, ruzzolando fuori dal raggio d’azione della detonazione energetica.

 

***

 

Tanto leggero era il passo di Ermes da risultare impercettibile ad orecchio umano. Eppure Zeus, in meditazione sul Trono del Fulmine, lo udì comunque, posando lo sguardo sul vecchio amico, inginocchiatosi in riverente attesa ai piedi della scalinata. Percependo il peso di quello sguardo, il fedele messaggero parlò.

 

“Nettuno è partito, mio Signore! Il suo cosmo già rifulge oltre le colonne d’Eracle!”

 

“Molto bene! La solerzia di mio fratello è impareggiabile! Per gli affari che lo interessano, ovviamente!”

 

Ermes non disse alcunché, aspettando che fosse il Signore del Fumine ad aggiungere altro. Ormai aveva imparato a conoscerlo e sapeva quando Zeus stesse pensando a qualcosa.

 

“Dispiega le tue ali, Messaggero Olimpico! E controlla le sue mosse, rimanendo sempre a debita distanza! Fai attenzione, sebbene abbia riposato per secoli, la potenza del tridente di Nettuno è indubbia, seconda soltanto alla divina folgore cui sei fedele. Perciò, non sottovalutare la sua astuzia!”

 

“So come osservare senza essere visto!” –Si limitò a commentare Ermes, alzandosi e annuendo. Quindi, prima di incamminarsi fuori dalla Sala del Trono, arrischiò una considerazione. –“Nonostante lo abbiate risvegliato, non vi fidate ancora di lui, non è vero? Le parole di Atena hanno lasciato il segno.”

 

“Mio caro Ermes…” –Sorrise allora Zeus, soddisfatto della perspicacia del vecchio amico. –“Vi sono solo due persone, in questo strano mondo, cui io riponga la massima fiducia! Una combatte sulla Luna, l’altra è in questa stanza! Da tutti gli altri, mi tengo alla giusta distanza!”

 

“Mio Signore, voi mi onorate…” –Balbettò il Dio dei Mercanti e del Commercio, prima che Zeus gli desse le spalle, dirigendosi verso la grande finestra che dava sul giardino della reggia. –“Sarò degno della vostra fiducia!” –Aggiunse, allontanandosi.

 

“Già lo sei, da molto tempo. Vorrei esserlo anch’io, della tua.” –Commentò tra sé il Signore dell’Olimpo, fissando il cielo e il mondo che si apriva di là dal vetro.

 

Il richiudersi del portone alle sue spalle fece capire a Zeus di essere rimasto solo, come ormai pareva passare molto del suo tempo. Le parole che Avalon gli aveva rivolto bruciavano ancora nel suo animo inquieto, ricordandogli di essere un re senza corona, un sovrano privo di eserciti, avendo assistito alla loro distruzione in un’inutile guerra che di sacro ben poco aveva. Solo il dolore inferto ai sopravvissuti.

 

Sospirando, il Dio tornò a sedere sul trono, muovendo lo sguardo verso oriente.

 

Là, tra le impervie vette del Caucaso, millenni addietro aveva incatenato il Titano Prometeo, reo di aver disobbedito ai suoi ordini, per amore degli uomini. Poi Eracle lo aveva liberato, permettendogli di ottenere il perdono dal padre. Questa parte della storia era nota a tutti, ma ciò che ben pochi sapevano, anche tra gli Olimpi, era che in tempi recenti un altro prigioniero era stato condannato ad eguale sorte.

 

Prima che Avalon venisse ad ammonirlo, prima delle Panatenee e di Ascanio, un altro uomo aveva conquistato il Signore del Fulmine per le sue qualità guerriere, per il suo spirito indomito che pareva non temere nemmeno la morte. Per il suo desiderio di ascendere al cielo più alto, liberandosi dai retaggi dell’umana esistenza. Ma, come Icaro aveva volato troppo vicino al sole, anch’egli aveva ardito più del dovuto, ricevendo la giusta punizione.

 

Zeus si carezzò la barba incolta, osservando le sofferenze del giovane incatenato e chiedendosi se non fosse giunto il momento di comportarsi come sua figlia, offrendo o meno il perdono regale all’uomo che volle farsi Dio.

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Capitolo 11
*** Capitolo nono: Il risveglio ***


CAPITOLO NONO: IL RISVEGLIO.

 

Nel deserto del Taklamkan c’era odore di morte.

 

Scherzando, Febo lo aveva detto a Marins durante la loro uscita notturna, ma nessuno dei due avrebbe potuto immaginare ciò a cui stavano andando incontro. Nonostante Avalon li avessi informati, nonostante si fossero preparati per tutta la vita, la realtà li sopraffece, prostrandoli a terra, vinti.

 

Adesso i loro corpi esanimi erano crocifissi al muro, nei sotterranei del tempio che avevano a lungo cercato. Languivano pallidi e nudi, mentre decine di serpi nere, attorcigliate ai loro arti, succhiavano via la loro essenza vitale, il loro cosmo, lasciandolo fluire nelle bare di ebano che giacevano sul pavimento e che servivano a favorire la rinascita.

 

Una macabra pozza che una figura ammantata di nero osservava sogghignando.

 

Il Maestro ha avuto un’ottima idea, ispirandosi alla cattività di Loki. Non l’avrei creduto, eppure il procedimento funziona. Distillando il cosmo dei Cavalieri delle Stelle, lo useremo per nutrire le oscure creature che dormono da millenni, aspettando l’avvento del Signore di tutte le cose. Rifletté, avvicinandosi al corpo di Marins e torcendogli la testa con forza. Lo fissò, ma non trovò niente in quello sguardo vacuo, solo un’infinita assenza, dovuta alla completa perdita di sé.

 

“Dubito che vi risponderà, mia Signora!” –Commentò allora una roca voce, emergendo dalle tenebre del sotterraneo. –“Con il vostro permesso ho usato metodi che non prevedono riguardo alcuno per lo spirito e per il corpo, bensì un lento e doloroso supplizio.”

 

“So bene che nell’infliggere pena e sofferenza sei maestra, Algea!” –Si limitò a rispondere la figura ammantata, presto raggiunta dal suo interlocutore, una vecchia zoppa e gobba, che si inchinò al suo fianco, attendendo ordini. La donna vestita di nero la fissò dall’alto verso il basso, senza nascondere uno sguardo di disprezzo per la sua deformità fisica e per l’odore di lezzo che le sue vesti emanavano. –“Anche se, a quanto vedo, non hai ancora ottenuto risultati significativi. Cos’altro hai scoperto? Che il biondo è il figlio di Amon Ra? Già lo sapevamo! Che il suo compagno ha visto il padre morire e ancora ne soffre? Cosa ce ne importa?! Ben più vitali segreti devi strappare alle loro menti! Informazioni utili alla nostra causa!”

 

“Me ne dolgo, mia Signora, ma ho incontrato resistenze inaspettate nei miei tentativi di violare la loro psiche, persino adesso che sono deboli e moribondi riescono a trovare la forza per opporsi!”

 

“Difese mentali. È naturale, per dei combattenti addestrati ad Avalon! I nostri nemici sono astuti e ben preparati! Molto bene, sarà ancora più divertente distruggere tutti i loro propositi e le loro speranze di successo…

 

“Non si preoccupi, comunque, sono certa che a breve riuscirò a penetrare le loro difese e a carpire i loro segreti!”

 

“Sbrigati allora! Ben poco tempo ti resta, a giudicare dal baluginare fioco del loro cosmo! E non devo essere io a ricordarti che con la loro morte finirebbero anche le tue possibilità di essere utile, vecchia storpia!”

 

Algea inghiottì a fatica, chinando il capo, prima di avvicinarsi di nuovo ai corpi di Febo e Marins per sperimentare ulteriori forme di tortura.

 

Sorridendo soddisfatta, la tenebrosa figura se ne andò, inerpicandosi lungo le rozze scale di pietra fino a portarsi al primo livello di quel tempio nascente. Quando la costruzione sarebbe stata completa, persino per lei sarebbe stato difficile orientarsi in quel dedalo di corridoi, cunicoli e celle, sebbene non fossero luoghi ove amasse dimorare a lungo, preferendo gli spazi ampi del cielo.

 

“Non vi avevo sentito rientrare, mia Signora! Siete stata a verificare lo stato di caducità dei nostri ospiti?” –Esclamò una voce, distraendola dai suoi pensieri. Si voltò di scatto, gli occhi in tensione e pronti ad azzannare, per trovarsi di fronte un giovane ben vestito, con un sontuoso abito violaceo, intonato al colore bizzarro dei suoi lunghi capelli rosa.

 

“Non devo certo giustificare le mie azioni con te, Polemos! Né con nessun’altro che qui dimora!” –Sibilò in risposta, infastidita per essere stata sorpresa, o forse controllata. –“Io vado, vengo e torno quando voglio!”

 

“Indiscutibilmente.” –Commentò sibillino il giovane dai capelli rosa, accennando un inchino. Quindi, ad un gesto dell’altra Divinità, la seguì lungo il tunnel di pietra, sbucando in un salone più ampio, ove rozze torce piantate negli interstizi tra le pietre del pavimento, diffondevano un cauto bagliore, riflettendosi sulle oscure corazze di coloro che erano in attesa.

 

“Salute a te, Lord Comandante, e a voi, Nera Signora!” –Esclamò un guerriero dai capelli biondi e gli occhi violacei, rivestito da una cotta da battaglia, mentre alle sue spalle tre gigantesche figure accennarono un saluto, che al soldato parve più un sibilo.

 

“Non è ancora Lord Comandante!” –Puntualizzò la donna, godendosi divertita l’espressione compunta comparsa sul volto del giovane, che preferì ignorare la precisione per dirottare altrove la sua attenzione.

 

“Se posso rubarvi qualche attimo del vostro prezioso tempo, gradirei informarvi della situazione sulla luna! La campagna bellica non sta procedendo alla velocità che speravo, velocità che avremmo mantenuto se ne avessi avuto il completo comando. I Cavalieri di Atena e di Avalon sono intervenuti e sappiamo bene quanto Ares sia già stato sul punto di fallire con loro! Cosa ci garantisce che non accada di nuovo? Del resto, è evidente a tutti i presenti in questa sala che il figlio di Zeus è un incapace! Un barbaro privo di raziocinio che crede che in guerra gli eserciti debbano ruggire in campo aperto, azzannandosi fino a strapparsi di dosso gli ultimi brandelli di pelle, anche a costo di essere squartati vivi!”

 

“Deduco che tu non approvi i suoi metodi, Polemos!”

 

“Li aborro. La guerra è un’arte, la mia arte. E sarei lieto di metterla a vostra disposizione!” –Affermò deciso, genuflettendosi leggermente,

 

“Avremo modo di ammirarti all’opera, Demone della guerra e della battaglia! E sono certa che mi farai impazzire! Ben più di quanto il muscoloso corpo di cui ti sei impossessato già non faccia adesso! Igh igh! Ma Ares ha ricevuto un incarico preciso e sono certa che farà di tutto pur di svolgerlo, anche se dovesse costargli la vita! Del resto sai bene da chi provengono gli ordini! O hai forse intenzione di contrastare la sua volontà?”

 

“Non mi permetterei mai!” –Chinò il capo Polemos, sfuggendo allo sguardo indagatore della sua interlocutrice.

 

“Credo che non ti sia chiaro il vero motivo dell’attacco al Reame della Luna Splendente! Te lo dirò in poche parole, e lo dirò anche a voi, fedelissimi, per cui ascoltate la mia roca voce! Duplice intento nasconde in verità questa battaglia: da un lato infatti, con Avalon e Atena impegnati in prima persona sulla luna, possiamo distogliere la loro attenzione da altri obiettivi per noi interessanti e verso cui i nostri eserciti già si dirigono. Inoltre, ed è bene che tutti lo sappiano, sia i senescenti druidi che nelle nebbie si celano impauriti per fuggire allo sguardo dell’Unico, sia gli Dei di Grecia, di Asgard o di qualunque altro puerile regno sia nato in questo breve arco del tempo cosmico: noi siamo qua!!!” –Declamò, quasi strillando ed espandendo il proprio cosmo, che pervase l’intero salone, allungandosi come un manto di tenebra su tutti loro, facendoli rabbrividire e ponendo fine ad ogni chiacchiericcio. –“Che sentano la nostra potenza! Che percepiscano la nostra rinascita! Non vi è angolo del pianeta che i nostri artigli non possano ghermire! Non vi è spazio in cui noi non possiamo giungere e che possa considerarsi al sicuro! Igh igh! Se Ares e le sgualdrine delle Makhai moriranno, cosa vuoi che mi importi? Piangeremo forse la loro dipartita? Tu la piangerai, Polemos?! Che muoiano tutti, che moriate tutti! Meglio così! Presto disporremo di tutti gli eserciti della Terra, a qualunque Dio siano devoti, poiché in fondo tutti gli Dei non sono altro che un unico Dio! Il nostro! E a noi risponderanno!”

 

“Sì, mia Signora!” –Rispose Polemos con enfasi, e anche gli altri presenti annuirono.

 

“A questo proposito, come procede la rinascita? I nostri figli e fratelli saranno presto tra noi?”

 

“Il risveglio avanza a passi da gigante, grazie all’accelerata degli ultimi giorni. Oltre alle Makhai, ai Phonoi e alle Androctasie, che sono già scesi in guerra, anche alcune Astrazioni sono tornate a nuova vita, così come gruppi di Neikea e di Pseudologoi, bellicosi spiriti portatori di dolori e malevolenze per il genere umano! E persino le Empuse hanno accettato il nostro invito! Si uniranno a noi con gioia, a condizione che vengano lasciate libere di scorazzare per il mondo e divorare le loro prede!”

 

Igh igh! Adoro quelle vacche bastarde!” –Commentò la figura ammantata. –“Ci riserveranno grandi sorprese, ne sono certa!”

 

“Pochi giorni ancora, forse poche ore, e la rinascita dell’Esercito delle Tenebre sarà completa!” –Concluse Polemos.

 

“Quando potremo scendere in guerra? Voglio affrontare quei cani rabbiosi dei Cavalieri di Atena!” –Intervenne allora il guerriero in armatura, attirando lo sguardo irato del supposto Lord Comandante.

 

“Porta pazienza, giovane soldato! E impara a mostrare deferenza per i tuoi superiori! Forse il tuo maestro non te l’ha insegnato?” –Ghignò la donna vestita di nero, senza perdersi il rossore improvviso comparso sul volto di Polemos.

 

“Chiedo venia, mia Signora, ma grande è il mio desiderio di confrontarmi di nuovo con loro, soprattutto con uno di essi! Abbiamo un conto in sospeso da migliaia di anni, risalente al primo Cavaliere di Pegasus, e sono curioso di vedere se il suo discendente si mostrerà all’altezza!” –Spiegò il guerriero, prima di venir zittito da un gesto imperioso del suo istruttore.

 

“Una cosa però potrebbe disturbarci! Abbiamo ricevuto un messaggio dall’Olimpo! Sembra che Zeus abbia risvegliato Nettuno, il vero mitologico Dio, per averlo al suo fianco nell’ultima guerra, con tutte le ricchezze celate nel continente perduto!”

 

“Uhm, interessante! Questa è la prima notizia davvero interessante di questa giornata noiosa! Pare che il mare stia offrendo regali un po’ a tutti, in questi giorni!” –Commentò la donna tra sé, dando le spalle ai presenti e riflettendo su quest’informazione. –“Non che la ricomparsa del re pescatore mi inquieti, ma è opportuno sbarazzarcene prima che diventi un fastidio! E so già a chi affidare quest’incarico!”

 

“A noi, mia Signora?! A noi?!” –Incalzò il soldato dai capelli biondi.

 

“No!!!” –Lo fulminò la figura ammantata, centrandolo in pieno con una scarica di energia violetta e scagliandolo contro un muro dell’edificio, facendolo crollare su di lui. –“Che ti serva da lezione! Mai interrompere una signora mentre parla! Igh igh!” –Aggiunse, prima di rivolgersi a un imbarazzato Polemos. –“Poiché noto che sei ancora impegnato con l’addestramento del tuo allievo, non ti tratterrò oltre!”

 

“No, mia Signora, io posso… esservi utile!” –Cercò di incalzare l’uomo dai capelli rosa, non ottenendo altro che un riso di scherno.

 

Fu la rauca voce di Algea a distrarre i presenti, portando la notizia del risveglio di due ulteriori Divinità.

 

“Nutrirsi del cosmo dei Cavalieri delle Stelle ha permesso loro di recuperare in fretta le forze!” –Esclamò la vecchia, avanzando a piccoli passi verso il centro del salone, mentre due figure sconosciute rimasero dietro di lei, ai lati dell’ingresso, quasi temessero quei lievi sprazzi di luce che le torce diffondevano nella stanza. –“Dovete capirli, si sono appena svegliati da un sonno di oscurità durato secoli! Abbiamo avuto tutti la stessa reazione, più o meno, quando abbiamo riaperto gli occhi! Ih ih ih!”

 

“Presentatevi!” –Ordinò la figura ammantata di nero, mentre i due nuovi arrivati muovevano un passo avanti, lasciando scivolare a terra una viscosa sostanza bianca di cui i loro corpi nudi erano intrisi.

 

Il primo era un uomo alto e robusto, con mossi capelli grigi, il petto ricoperto da una vistosa peluria, ugualmente evidente sulle braccia e sulla gambe. Le ampie spalle erano leggermente incurvate, le mani dalle dita carnose pronte per serrarsi attorno a un collo nemico.

 

“Il mio nome è Horkos, figlio di Eris! Rappresento la maledizione inflitta a coloro che tradiscano un giuramento!” –A tali parole le tre gigantesche figure, finora rimaste in disparte, sibilarono soddisfatte, in segno di saluto.

 

La signora oscura sorrise sotto il mantello, prima di rivolgere lo sguardo alla seconda figura, dalla corporatura di donna, sebbene ben poco attraente. Certo non quanto lei.

 

“Io sono Lethe, che è Dimenticanza!” –Si limitò a commentare la Dea dallo sguardo spento e dai fianchi larghi, anch’ella figlia della Regina della Contesa.

 

“Molto bene! Le fila del nostro esercito si ingrossano, proprio adesso che ho una nuova missione da assegnare! Horkos! Lethe! Venite con me! Faremo un pezzo di strada insieme, per conoscerci meglio, prima che io mi separi da voi per occuparmi di una certa faccenda!” –Non disse altro e si incamminò negli angusti corridoi del santuario, seguita dagli Dei appena ritornati in vita.

 

Algea tornò zoppicando nelle segrete, e anche gli altri presenti si dispersero, lasciando il solo Polemos in piedi vicino a un altare di pietra. Adirato oltre ogni dire, il demone furioso batté un pugno sull’ara, spaccandola al centro, e continuando a tempestarla di pugni finché non l’ebbe disintegrata del tutto.

 

Un rumore di pietra smossa alle sue spalle lo fece voltare, proprio mentre il soldato punito affannava nel rimettersi in piedi, liberandosi dalle macerie franate su di lui. Polemos gli si avvicinò, sollevandolo di peso e sbattendolo al muro.

 

“Sei un idiota! Avrei potuto farmi assegnare un incarico, invece per colpa tua dovrò ancora attendere e il titolo di Lord Comandante, di cui ti fai stupidamente vanto, si allontana sempre più!”

 

“Mi dispiace, maestro…” –Si rabbuiò il guerriero. –“Volevo soltanto… aiutarvi… mostrarvi la mia totale accondiscendenza e desiderio di seguirvi in guerra!”

 

“Guerra a cui, se continuiamo ad aspettare l’arrivo degli ordini, rischiamo di non partecipare affatto, e ciò intaccherebbe la mia posizione gerarchica! Con tutti questi Dei che tornano in vita, ci sarà una gran folla desiderosa di compiacerlo! Questo non deve accadere!” –Ringhiò Polemos, spostandosi i lunghi capelli rosa sulla schiena. –“E non accadrà! Preparati, andiamo in missione!”

 

“Cosa avete in mente, Lord Comandante? Oh perdonatemi, precorro i tempi ma voi per me lo siete già!”


“Fai bene a pensarlo, Chimera! Perché quest’oggi lo diverrò!”

 

***

 

Quando tutti ebbero lasciato il desolato atrio, una pietra incastrata in un muro scivolò di lato, anticipando l’uscita di una testa ricoperta da un cappuccio color marrone e oro. L’uomo si guardò intorno circospetto, attento a percepire il minimo rumore che potesse indurlo alla fuga, quindi si fece forza ed uscì completamente dal tunnel, acquattandosi tra le ombre. Spostò lo sguardo sull’intera sala, cercando eventuali sentinelle nascoste, prima di incamminarsi rasente al muro verso i sotterranei. La quasi totale mancanza di illuminazione giocò a suo favore, per quanto limitasse la sua velocità, costringendolo a fare attenzione a non inciampare in eventuali ostacoli. Stringendo i denti per la tensione, infilò la rampa che conduceva alle segrete, per trovare conferma ai sospetti del Dio cui era devoto. Non ebbe il coraggio di affacciarsi completamente, temendo che la vecchia zoppa intenta a scavare nei ricordi di Febo e Marins si accorgesse di lui, ma memorizzò quel che doveva, prima di ritornare sui suoi passi. A fatica ripercorse il tunnel incavato nel muro, faticando nel tortuoso labirinto di cunicoli fino a uscire all’esterno, da una vetusta grata di scolo. Cercando di non pensare al putridume di quella fogna, la spinse con i piedi, più e più volte, finché non cedette, permettendogli di passare e essere finalmente fuori dal santuario. Allora iniziò a correre, avvolgendosi nel mantello color sabbia in grado di mimetizzarlo con il brullo ambiente circostante, e quando credette di essere a sufficiente distanza dal tempio oscuro, si portò due dita alla bocca e fischiò.

 

Non passarono che pochi istanti che due artigli robusti lo afferrarono per le spalle, sradicandolo letteralmente da terra e portandolo via, in volo, verso sudovest, al di là del fiume Hotan. Arrischiandosi finalmente a respirare, quasi all’interno del tempio avesse temuto di essere udito per quello, rilassò i muscoli e sollevò lo sguardo, per ammirare la magnificenza del falco dal delicato piumaggio che lo aveva prelevato.

 

Continuarono a volare per una buona mezz’ora, finché le propaggini dei Monti Kunlun, confine sud-orientale del Taklamakan, non apparvero all’orizzonte, e allora l’enorme uccello iniziò a scendere, dirigendosi verso una valle incassata tra le montagne dove i loro compagni li stavano attendendo.

 

“Guardate! Ce l’hanno fatta! Naveed è di ritorno!” –Esclamò un uomo, indicando il cielo, mentre il possente falco planava verso il campo, tra le grida festose dei soldati rimasti in trepidante attesa.

 

Una donna al suo fianco sbatté i piccoli occhi riparati da spesse lenti graduate per mettere a fuoco l’immagine del nobile rapace che scendeva su di loro, depositando con cura l’uomo a terra, prima di posarsi a sua volta sul freddo suolo di quella terra lontana da casa. Pochi attimi dopo le sue forme mutarono, rivelando il bel volto che tutti i soldati lì accampati conoscevano e a cui tutti avevano giurato fedeltà.

 

Il suo nome era Horus, il Dio Falco, detto il lontano.

 

Era un uomo alto e robusto, dal fisico scolpito e dai lunghi capelli castani, capo di quella spedizione di pronto intervento allestita per un unico scopo. La salvezza di colui che considerava suo fratello.

 

“In piedi, in piedi! Non è tempo di omaggi, ma di azione!” –Esclamò il Dio egiziano, mentre alcuni servitori, prontamente accorsi, gli porgevano coperte e vestiti per avvolgere il suo muscoloso corpo. –“Naveed, voglio un resoconto completo sulla fortezza oscura! Quanti nemici la presiedono? Struttura, trappole, sistemi difensivi? E, soprattutto, Febo è ancora vivo?”

 

“Sì, mio Signore. L’ho osservato per qualche istante, notando il suo petto alzarsi e abbassarsi leggermente, ma… è prigioniero, di un maleficio io credo, ed esposto a continua tortura!” –Parlò il giovane soldato, iniziando a spiegare tutto ciò che aveva visto, tutte le informazioni che aveva memorizzato. –“Sono nei sotterranei, che sembrano essere una cella chiusa, non accessibili dall’esterno!”

 

“Per cui dovremo entrare dall’ingresso principale, non possiamo certo far passare le truppe armate dal tunnel che hai scoperto!” –Meditò Horus.


“Non solo per quello, mio Signore, ma per un altro motivo… So che sembra pazzesco ma c’è la possibilità di non ritrovarlo affatto. Il percorso che ho seguito al ritorno non era lo stesso di quando sono entrato, era… cambiato! E anche mentre uscivo strisciando, ho avuto la sensazione che il tempio stesse mutando forma… Ho persino creduto che mi avrebbe fagocitato!”

 

“Non essere sciocco!” –Disse uno dei soldati attorno. –“Già! Avrai sbagliato strada!” –Fece eco un altro, prima che Horus li zittisse tutti.

 

“Credo che Naveed dica il vero! Quel tempio potrebbe davvero essere un’entità vivente, come Karnak, retta dalla Divina Volontà degli Antichi! Del resto, a sentire la nostra archeologa, fino a qualche giorno fa non esisteva neppure! Non è vero, Dottoressa Hasegawa?”

 

La donna dagli occhiali a fondo di bottiglia sorrise timidamente, per essere stata chiamata in causa, prima di annuire e mostrare alcune carte, la mappatura della zona desertica a est del fiume Hotan, proprio dove Febo e Marins avevano chiesto di concentrare le esplorazioni. Ma non vi erano segni che facessero presagire la presenza di insediamenti o di una qualsiasi struttura umana.

 

“Dovrebbe esserci solo deserto laggiù! Quanto meno questo era ciò che c’era fino a pochi giorni fa!” –Parlò la scienziata.

 

“Un tempio sorto dal nulla! Questo significa che il risveglio degli Antichi è iniziato, e presto sarà completo! Dobbiamo agire ora, e in fretta, prima che acquistino una forza tale da non poterci opporre! Un nuovo Apopi è qualcosa di cui non abbiamo bisogno! Jarrah, manda un messaggio al Sommo Ra, che invii rinforzi il prima possibile!” –Declamò Horus, indicando un soldato che subito corse a liberare un ibis sacro, legando un piccolo papiro a una sua zampa.

 

“Non credo che potremo permetterci di aspettare così tanto, mio Signore! Il momento propizio è adesso!” –Riprese a parlare Naveed. –“Le due entità più potenti hanno lasciato il santuario, la prima mutandosi in un rapace di tenebra e volando via, verso l’Europa, l’altro andandosene assieme a un soldato più giovane. Il tempio è quasi deserto, eccezion fatta per la vecchia che tortura il nobile Febo e tre enormi figure che non sono riuscito a individuare. Se ne stavano nell’ombra, a parlottare tra loro. Ho cercato di decifrarne il linguaggio ma alle mie orecchie giungevano solo sibili spettrali!”

 

“Temo di sapere chi siano queste tre mostruosità!” –Sospirò Horus, soppesando la situazione. Attaccare adesso il santuario sarebbe stata una mossa azzardata, vista la scarsità di forze al suo comando, una pattuglia di esploratori, più adatti ad incursioni rapide che ad uno scontro diretto. Pur tuttavia, aspettare i rinforzi avrebbe permesso ai nemici di rafforzarsi, in quantità e in potenza, riducendo al qual tempo le speranze di ritrovare Febo e Marins vivi. –“Maledizione!”

 

“I dubbi non si addicono ad un condottiero, che deve essere lesto nel decidere! Anche quando la bilancia del destino è inclinata dalla parte a lui avversa!” –Esclamò allora una voce, mentre un uomo alto e dal volto magro e austero usciva dalla tenda in cui aveva riposato fino a quel momento.

 

Nel trovarselo di fronte, ricoperto dalla sua Veste Divina, tutti i soldati prontamente si inginocchiarono, e nessuno osò sollevare lo sguardo, per non incrociare il suo. Persino la Dottoressa Hasegawa provò un certo timore verso il nuovo arrivato, finendo per genuflettersi a sua volta, ma senza rinunciare a dargli un’occhiata incuriosita. Il bastone d’oro incurvato, il flagello e il pastorale incrociati sul pettorale dell’armatura, il lungo copricapo ornato dall’Ureo e da due piume di struzzo ai lati non lasciavano dubbi sulla sua persona. La studiosa trasalì, realizzando di essere di fronte alla Divinità egizia dell’Oltretomba.

 

“Padre!” –Commentò Horus, non sapendo che il Dio li avesse raggiunti sui Monti Kunlun.

 

“Se lo scopo di questa spedizione è salvare il figlio di Amon Ra, dobbiamo agire adesso, o la missione sarà fallita in partenza perché Febo presto sarà morto e neppure io potrò riportarlo indietro dal terribile Amenti cui è destinato!” –Esclamò Osiride a gran voce. –“La mia sposa, la dolce Iside, osservando il moto delle stelle, mi ha informato che il varco tra i mondi non è ancora del tutto aperto, e questo li rende vulnerabili! Per cui dispiega la tue ali, giovane falco, è tempo di innalzarsi!”

 

“Come comandi!” –Annuì Horus, dando ordine ai soldati di prepararsi ad una partenza immediata. –“Dottoressa Hasegawa, esprimiamo gratitudine per la sua competenza, grazie alla quale sarà molto più semplice ritrovare il figlio di Amon Ra! Da questo momento è dispensata da ogni onere, si senta libera di andarsene dove e quando lo desidera, anche a Karnak se in futuro vorrà farci visita e studiare i nostri usi e costumi!”

 

Io… sono preoccupata per le sorti di Marins e di Febo!” –Esitò la donna, intimorita ma al tempo stesso affascinata dal ritrovarsi in piena mitologia, e desiderosa anche di saperne di più.

 

“La terremo aggiornata, ma una guerra non è posto adatto ad una studiosa! Beh, forse persino tutto questo le sembrerà stupefacente, non è vero? Uomini falco, divinità antiche, soldati egizi che marciano nel Taklamakan?” –Sorrise il giovane Dio.


“Non troppo, in verità. Quando ero giovane, agli inizi della mia carriera archeologica, ho vissuto esperienze non troppo dissimili, proprio nelle terre da cui provenite!”

 

Horus annuì, dando ordine a un gruppo ridotto di soldati di scortare la donna al suo campo base, da dove era stata prelevata il giorno prima, e di accompagnare poi tutta la sua spedizione lontano da quel deserto, la cui eterna pace sarebbe a breve stata turbata da un violento conflitto.

 

“Mettiamoci in marcia! Ci aspetta un’ardua missione! Indossate i mantelli simbiotici e azzerate i vostri cosmi! Dobbiamo sfruttare quanto più possibile l’effetto sorpresa!” –Esclamò il giovane Dio, mentre l’intera squadra d’assalto si armava, iniziando a incamminarsi verso il valico che li avrebbe condotti fuori dai Monti Kunlun. –“Che Amon Ra vegli su di noi!” –Aggiunse, mutando forma e spalancando le ali del rapace dall’argenteo piumaggio.

 

In quello stesso momento, molte miglia a sud-ovest, nel cuore del Santuario di Karnak, una donna sedeva sulla scalinata posteriore intenta a suonare il sistro, scuotendo lo strumento con fare ritmato, quasi fosse vittima di una qualche malia. 

 

Nonostante la distanza, nonostante il suo amato e suo figlio avessero deciso di non usare i loro poteri cosmici, per non essere individuati dagli occupanti del tempio nemico, Iside sapeva perfettamente quello che stava accadendo, lo stava vivendo sulla sua pelle, come fosse stata presente.

 

“Torneranno!” –Esclamò una voce all’improvviso, strappando la Dea al suo stato di trance. –“Inoltre Horus possiede il tiet, non è così? Nessuna forza potrebbe opporsi al potere di quel talismano, che custodisce tutto l’amore di Iside!”

 

La Dea della Maternità accennò un sorriso, senza mutare l’espressione preoccupata del suo volto, e si augurò che il Nodo della Vita, in cui aveva canalizzato la sua energia protettiva, funzionasse anche contro la grande ombra nascente.

 

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Capitolo 12
*** Capitolo decimo: Secondo interludio. Sogni. ***


CAPITOLO DECIMO: SECONDO INTERLUDIO

 

SOGNI.

 

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventunesimo anno prima del secondo avvento.

 

 

Le fiamme stavano soffocando il santuario di Inti, ad Isla del Sol, cingendo d’assedio l’ultimo grande complesso templare andino. Andrei, ancora frastornato dalla botta ricevuta, stava cercando di rimettersi in piedi, riordinando i confusi frammenti di ricordi che gli affastellavano la mente. Frammenti di caos.

 

Ricordava i fedeli riuniti, i tre giorni di digiuno, l’attesa per la festa per il solstizio d’inverno. E una coppa. Sì, una coppa che gli era sfuggita di mano dopo averne bevuto il contenuto. Per essere chicha era stata decisamente preparata con un eccessivo contenuto alcolico. O forse non era l’alcol ad aver obnubilato i suoi sensi così tanto?

 

Pianti di donna e grida lontane lo scossero, mentre poggiava un ginocchio al suolo, facendo leva per rialzarsi e osservare sconvolto la devastazione del suo mondo, la fine di quell’isola di pace in cui aveva a lungo vissuto. Da quando aveva deciso di abbandonare l’isolazionismo cui i suoi fratelli parevano invece essersi votati, soprattutto uno.

 

Dall’alto ingresso del tempio di Inti, posizionato sulla sommità di una gradinata che risaliva il versante orientale della costruzione, vide una coltre di fiamme nere e fumo sovrastare Isla del Sol. Laddove, fino a poche ore prima, aveva visto uomini e donne pregare assieme, invocando la benedizione del Signore del Giorno, adesso ardeva un’immensa carneficina, una strage che non era stato in grado di evitare. Ma di tempo per torturarsi inutilmente, macellandosi l’animo con un infecondo senso di colpa, ne avrebbe avuto. Prima però avrebbe affrontato colui che quella carneficina aveva scatenato, colui che aveva osato violare la sacralità dell’Inti Raimi.

 

Non ebbe neanche bisogno di impegnarsi troppo a scandagliare l’isola con il cosmo, non sembrando il suo avversario affatto interessato a celarlo. Anzi pareva proprio che stesse urlando al mondo di essere lì, ritto ai piedi del tempio, avvolto in un turbinar di vampe nere che sinuose si avvoltolavano attorno al suo corpo. Pareva che niente lo intimorisse, né l’anatema che i sacerdoti gli avevano lanciato non appena aveva dato ordine di profanare il tempio di Apu Punchau, né l’eventualità di uno scontro con un uomo che conosceva bene, figli entrambi dello stesso creatore.

 

Anhaaar!!!” –Gridò Andrei, e la sua voce rombò dall’alto colle fino a invadere tutta l’isola, risuonando furiosa sulle violate acque del Lago Titicaca.

 

Il suo nemico accennò un sorriso, perfido e divertito, muovendo un piede e issandosi sul primo scalino della gradinata, molti metri sotto di lui, prima di sollevare il viso e trafiggerlo con sguardo insolente. Quasi rispondessero a una melodia silenziosa, suonata dall’oscuro direttore d’orchestra, le tetre vampe presero ad ardere con intensità maggiore, strisciando lungo la scalinata del tempio e piombando su Andrei, per soffocarlo e ghermire la sua vita.

 

“Dovrai fare molto di più, se vorrai vincermi.” –Si limitò a commentare quest’ultimo, socchiudendo gli occhi e mormorando alcune parole in quechua, per evocare il fuoco. –“Nina lawray.” –Radunato il cosmo, lo fece esplodere poco dopo, risucchiando le oscure vampe in un più esteso vortice di fuoco, che iniziò a turbinare attorno a lui, prima che Andrei lo dirigesse verso il basso.

 

Aurora infuocata!!!”

 

Anhar fu svelto a balzare di lato, evitando di essere travolto e rimediando solo una lieve ustione al braccio sinistro, comunque riparato dalla sua scarlatta armatura. Quando cercò di nuovo Andrei con lo sguardo vide che l’uomo era in ginocchio, prostrato da un affanno improvviso di cui egli ben conosceva la causa. Sogghignò, complimentandosi con se stesso per come aveva distrutto l’esile parvenza di felicità in cui l’antico compagno si era cullato per qualche anno, prima di scattare lungo la scalinata, superando gli ultimi gradini con un balzo, avvolto nel suo cosmo incendiario.

 

“Che sia la notte più nera ad accoglierti! Apocalisse Divina!!!”

 

La tempesta di fuoco e ombra sollevò lo stanco corpo di Andrei scaraventandolo di peso contro la parete esterna del tempio di Inti, facendola crollare su di lui dopo poco e scagliando di sotto frammenti di pietra e mattoni, tra le grida terrorizzate dei fedeli che erano rimasti a guardare. Una silenziosa preghiera al Dio della Luce, affinché desse loro un segno.

 

Passando accanto alle macerie crollate, Anhar entrò nella piccola sala sulla sommità del tempio, l’ultima che ancora doveva controllare, dopo aver lasciato le celle inferiori ai suoi sottoposti. Uno spazio ristretto, in verità, riservato ai sommi officianti di Inti, su cui spaziava lo sguardo protettore di un volto umano incorniciato all’interno di un sole d’oro. Un’antica rappresentazione del Dio generatore della vita, fulcro del Tahuantinsuyo, l’Impero Inca.

 

“Temo che stanotte il numero dei tuoi già miserrimi accoliti si ridurrà drasticamente, mio caro Inti! Non che mi dispiaccia, anzi in verità non posso che goderne! A nient’altro infatti auspico se non al crollo di tutti i nuovi falsi Dei, e tu, in fondo, sei un giovincello rispetto ad altri! E farai la stessa fine di Quetzalcoatl!” –Ironizzò Anhar, specchiando il suo ruvido volto nel disco d’oro agganciato alla parete e immaginando, compiaciuto, di farne realizzare uno con le sue fattezze. –“Ma anziché raggi di sole, tutto intorno ci vorrei delle fiamme scarlatte e nere! Oh sì, lo appenderò nella mia camera da letto, sulla cima dell’Olimpo, quando sarà mio!”

 

“Dovrebbero metterci dei teschi, al posto delle fiamme, cane spregevole! Uno per ogni amico che hai tradito, uno per ogni giuramento disatteso!” –Ringhiò una voce, distraendo il Rosso Fuoco dai suoi viaggi mentali.

 

“Ancora vivo?! Sono deluso! Il veleno di cui la coppa era ripiena avrebbe dovuto prostrarti inerme e invece ancora t’affanni nel tuo intestardito agire? Farò uccidere la mia schiava per non aver eseguito alla lettera i miei comandi!” –Ghignò Anhar.

 

“Tu non farai uccidere più nessuno!” –Avvampò Andrei, espandendo il proprio cosmo, ma il suo avversario gli scagliò contro il disco d’oro, facendolo roteare vorticosamente, al fine di mozzargli la testa.

 

Andrei fu svelto a rotolare di lato, evitandolo, ma già Anhar si era lanciato su di lui. Come il guerriero si aspettava.

 

Concedendosi un sorriso, Andrei sfiorò il pavimento del tempio, infondendogli il calore del suo cosmo, mentre un muro di fuoco sorgeva di fronte a lui, a sbarrare il passo al violento carnefice.

 

“Fermarmi con delle fiamme?! Idea poco produttiva!” –Ridacchiò Anhar, ma non appena mosse il braccio per scacciarle, queste presero vita, avvolgendosi attorno al suo arto e strisciando poi lungo il suo corpo, penetrando persino la cotta divina che indossava. –“Aaargh!!! Razza di maledetto! Che fiamme hai volto contro di me?!”

 

“Le fiamme della speranza!” –Commentò pacato Andrei. –“Quelle che mai potrai sopire!” –E si scagliò contro di lui, il palmo della mano carico di rovente energia cosmica, che poggiò contro il pettorale della corazza di Anhar prima di liberarla. –“Aurora infuocata! Esplodi!!!”

 

La detonazione ravvicinata scaraventò il guerriero indietro, avvolgendolo in una fiammeggiante cometa che distrusse il muro retrostante, proseguendo la sua corsa fino a schiantarsi nelle acque del lago, estinguendosi con un gran boato.

 

Nonostante la teatralità della scena, Andrei non poté fare a meno di pensare che quel problema non era certo stato risolto, solo momentaneamente accantonato. Di altri doveva invece occuparsi adesso, per quanto la testa gli martellasse e il solo respirare provocasse in lui affanno. Il veleno che aveva bevuto con l’inganno aveva ottenebrato i suoi sensi, rendendolo debole e vulnerabile.

 

E altri avrebbero pagato per la sua debolezza.

 

***

 

Jonathan correva per i corridoi del tempio di Inti, tenendo una mano sulla ferita al fianco destro. Aveva aiutato le guardie a liberare l’ingresso del santuario, occupato da quei misteriosi nemici comparsi dal cielo poche ore prima, ma era stato colpito di striscio da un colpo di lama. Strinse i denti, sperando che non fosse avvelenata, e continuò ad avanzare, passando in mezzo a cadaveri che non voleva guardare in faccia, per paura di ritrovarci un volto amico.

 

Stava scendendo nel cuore del tempio, dove i supremi officianti avevano dato maggiore resistenza, anche a giudicare dal numero di nemici morti sparsi nelle gallerie. Pur tuttavia era certo che l’attacco non fosse ancora finito. No, non poteva considerarsi tale finché quegli aggressori non avessero avuto ciò per cui erano venuti. Come gli antichi conquistadores, avrebbero preteso il loro tributo. Il loro tesoro.

 

“Come osate mettermi le mani addosso?!” –Gridò d’improvviso una voce di donna, riscuotendo il bambino dai suoi pensieri. Una donna che ben conosceva.

 

Col cuore in affanno, scivolò tra le ombre dei corridoi interni fino ad arrivare alla sala più profonda del tempio, dove gli officianti si riunivano per celebrare i loro riti. Il sancta sanctorum del Tempio di Inti.

 

Facendosi forza, Jonathan sporse la testa e osservò la violenza consumarsi in fretta, al centro di quello spazio, dove gli invasori del tempio avevano radunato i sacerdoti e le sacerdotesse superstiti, uno sparuto gruppo impaurito, che sembrava aggrapparsi alla veste di una donna dal carattere fiero.

 

“State violando il tempio del Dio del Sole! La sua ira vi coglierà tutti, servi delle tenebre! Alla prima luce del giorno, di voi resteranno solo ceneri!” –Gridò la vestale, prima di essere zittita dal manrovescio di un uomo.

 

“Taci, serva, e mostraci i segreti del tempio! So che custodite ancora antiche pozioni di guarigione, arti magiche da utilizzare in guerra, veleni naturali e forse anche la formula dell’immortalità? Igh igh igh!” –Ghignò un uomo rivestito da una tunica nera, fermata in vita da una fascia grigia. –“Prendete tutto quel che ci può essere utile! Fate razzia di ogni elemento che possa aiutarci a comprendere questo mistero!” –Gridò, rivolto agli uomini che lo accompagnavano.

 

“Fermi! Smettetela! Ma cosa state facendo? Cosa volete? Perché ci avete assalito?! Inti è un Dio di pace!”

 

“Conoscenza. È questo che cerchiamo!” –Rispose l’uomo, placando infine la voce. –“Il mio signore ritiene che questo santuario celi un segreto perso dagli albori del tempo. Difficile a dimostrarsi, in verità, poiché nessuno conosce la forma di questo così importante, e al tempo stesso evanescente, manufatto. Per tale motivo io, che sono ben più pratico, preferisco concentrarmi sulle cose materiali dell’esistenza, anziché inseguire fatui sogni di dominio. Io, che della Regina Nera sono l’ultimo alchimista!”

 

“La Regina Nera?! La leggendaria isola da cui provengono i guerrieri oscuri, figli delle tenebre?” –Tremò la donna prigioniera.

 

“Delle loro corazze sono l’artefice. Athanor, per servirvi.” –Ironizzò, facendo un inchino, prima di berciare nuovi ordini ai suoi scagnozzi.

 

Fu allora che Jonathan spuntò fuori dal suo nascondiglio, balzando agilmente sulla schiena di un invasore e tranciandogli la gola con una lama. A tal vista, gli altri uomini si lanciarono su di lui, lance in pugno, ma il bambino fu svelto a evitare gli affondi, cercando riparo dietro gli arredi della sala.

 

Tut tut.” –Mormorò Athanor, facendo cenno ai suoi servitori di abbassare le armi e tornare a occuparsi delle loro faccende prioritarie. Quindi, voltandosi verso Jonathan, ne bloccò i movimenti, inchiodandolo sul posto con lo sguardo. –“Inutile che tu tenti di fuggirmi, bel bambino, sforzeresti soltanto i tuoi muscoli per niente. Sei prigioniero della mia morsa telecinetica, ma lo sarai per poco, il tempo necessario per tagliarti la gola, come tu l’hai tagliata al mio collaboratore. Sai come si dice? Occhio per occhio…” –Commentò calmo, obbligando con la forza della mente il braccio di Jonathan a spostarsi verso la sua carotide, con la lama pronta a reciderla.

 

Nooo!!!” –Gridò la donna, perdendo tutta la sua flemma e gettandosi in avanti, subito fermata dalla scorta dell’alchimista nero, che sogghignò serafico, contento di aver colpito nel segno.

 

“Pare che tu non sia un orfanello smarrito. Non è così?” –Esclamò, voltandosi verso la donna che, in lacrime, non toglieva lo sguardo da Jonathan. –“Sacerdotessa e madre, a quale dei due doveri sarai più fedele?” –Le chiese, afferrandole il mento e obbligandola a guardarlo negli occhi. –“Lo scopriremo presto.” –E, nel dir questo, sbatté Jonathan contro un tavolo, piantandogli la lama nel palmo aperto di una mano.

 

“Brutto bastardo, lascialo andare!!!” –Ringhiò furibonda la madre del ragazzo.


“Dimmi cos’è che il mio padrone sta cercando, che cosa disperatamente invade i suoi sogni costringendoci a vagare per il pianeta e a saccheggiare tutti i sacri templi che incontriamo! Quale talismano è mai nascosto in questa putrida isoletta dimenticata dagli Dei, persino dal vostro? Parla vacca, o lo sgozzo come un agnello sacrificale!!!” –Gridò Athanor, stritolando il collo della donna e fiatandole in faccia il suo mortifero proposito.

 

La sacerdotessa di Inti, con gli occhi iniettati di sangue e lacrime, guardò un’ultima volta il bambino biondo bloccato sul tavolo dalla telecinesi del nemico, accennando un sorriso, troppo breve e troppo poco sentito per racchiudere tutto quel che provava. Tutto quel che avrebbe perduto. Poi spostò lo sguardo su Athanor, risalendo dalle labbra avvizzite lungo il naso deforme e fissandolo negli occhi, con tutta la risolutezza che poté trovare in quel momento di disperazione estrema. Lo fissò e gli sputò in faccia, di fronte agli sguardi attoniti dei sacerdoti e dei soldati invasori. E lo avrebbe fatto di nuovo, se l’alchimista oscuro non le avesse torto la testa in una posa innaturale, fino a schiantarle l’osso del collo.

 

Morta, il suo corpo si afflosciò sul pavimento, tra i singhiozzi dell’alto clero e le grida del bambino.

 

Stanco di quei drammi familiari, Athanor scaraventò Jonathan contro il resto dei sacerdoti, gettandoli a terra, prima di dare l’ultimo ordine ai suoi scagnozzi.

 

“Incendiate tutto!” –Esclamò, prima di incamminarsi a passo svelto nei corridoi del tempio, diretto verso l’esterno.

 

Anche quella missione, come quelle ai templi di Cuzco e di Chichén Itzá era stata inutile, un nulla di fatto. Che cosa stesse cercando Flegias, o Anhar come a volte si faceva chiamare, lui ancora non l’aveva capito e forse non l’avrebbe mai compreso. Del resto Athanor viveva per sopravvivere, e per farlo doveva servire il Rosso Fuoco, fintanto che l’alleanza avrebbe fruttato ad entrambi. Così da queste razzie in America Meridionale aveva recuperato alcuni papiri antichi, ricette per veleni e medicamenti, istruzioni per lavorare i metalli e ogni altro tipo di informazione utile per accrescere la sua continua fame di sapere. Ma di fantomatici talismani creati all’alba dei tempi da una cricca di saggi, Athanor non aveva trovato traccia.

 

Uscito fuori dal complesso templare, si portò due dita alla bocca e fischiò, attendendo che l’enorme Roc planasse su di lui per recuperarlo e portarlo via da quell’ennesimo insuccesso. Almeno quel magnifico esemplare, risvegliato e manipolato dall’oscuro potere della Pietra Nera di Flegias, era stato un suo trionfo, e anche il figlio di Ares lo aveva apprezzato.

 

***

 

Alla vista della madre uccisa di fronte ai suoi occhi, Jonathan esplose in un urlo furioso. Per tutto il tempo in cui era stato bloccato dalla psicocinesi di Athanor, aveva cercato di rimanere calmo, di concentrare i sensi, come il suo precettore gli aveva insegnato, di raffreddare l’ardore del suo spirito, ma gli era stato impossibile sfuggire alla morsa mentale dell’alchimista oscuro.

 

Del resto aveva soltanto nove anni. E anche se in seguito si sarebbe maledetto e colpevolizzato per non aver saputo fare di più, in quel momento piangere per la madre morta era tutto quel che gli era concesso. Fu allora che, mentre carezzava il corpo spezzato e le mani prive di vita, le mani che l’avevano cullato e protetto per anni, il fuoco che covava dentro riuscì infine a trovare la via per accendersi.


Aaahhh!!!” –Gridò, stringendo i pugni e alzando lo sguardo, mentre un’aura color avorio lo avvolgeva, una luminescenza così accesa che obbligò tutti i presenti a coprirsi gli occhi.

 

Quando riuscirono di nuovo a vedere, notarono che il bambino si era rimesso in piedi e che in mano stringeva una lunga asta dorata, apparsa dal nulla.

 

Inqa.” –Mormorò Jonathan, assaporandone la potenza intrinseca. Con un balzo fu sugli aggressori, mulinando l’arma come una spada e colpendoli uno dopo l’altro, gettandoli a terra o spingendoli indietro, mentre l’aura attorno al suo corpo cresceva di intensità, stupendo persino i sacerdoti ancora vivi.

 

Infine, come fosse un gesto che aveva sempre compiuto, sollevò l’asta, la cui sommità rivelò un fiore in procinto di sbocciare, e mormorò alcune parole.

 

“Scettro d’oro, illumina la via!!!” –E mille strali luminosi sgorgarono dalla cima dell’arma, trafiggendo gli invasori del tempio di Inti e ponendo fine alla loro vita.

 

Ammirati, gli officianti rimasti vivi si inginocchiarono attorno a lui, alzando e abbassando le mani, in onore al ritorno del loro signore. Non ebbero dubbi, il Signore del Giorno era tornato a Isla del Sol per salvare le loro vite.

 

Jonathan, stanco per l’improvviso sforzo e confuso dal rapido succedersi degli eventi, non seppe cosa dire, accasciandosi a terra a pochi passi dalla madre, che tentò di raggiungere allungando un braccio.

 

Fu così che li trovò Andrei, quando arrivò correndo seguito dai soldati inca che era riuscito a riorganizzare in fretta. Vicini, eppure ormai separati per l’eternità.

 

Con palese tristezza nel volto, il Signore del Fuoco si avvicinò al bambino, sollevandolo e avvolgendolo in una coperta, prima di affidarlo ad alcune badanti che provvedessero a medicare le sue ferite e a nutrirlo. Quindi si chinò sul corpo della sacerdotessa di Inti.

 

Juana. Mormorò l’uomo, spostandole i capelli rossicci dal volto, in un tenero gesto che molte volte aveva ripetuto nella loro intimità.

 

Hai scelto di morire pur di non rivelare la verità. Perdonami se ho tardato, perdonami se non sono riuscito a salvarti. Pianse Andrei, lasciando che le lacrime cadessero sul volto della donna che aveva amato. Aveva sentito spegnersi la sua vita, mentre correva nel cuore del complesso templare, aveva sentito le grida disperate quando Juana credeva che Athanor avrebbe ucciso suo figlio, ma ancor di più aveva udito le ultime parole che la donna gli aveva diretto.

 

Proteggi nostro figlio. Egli nasconde la luce che illuminerà il mondo.

 

Andrei annuì, pulendosi le lacrime e sollevando la donna, adagiandola su un tavolo vicino, fissandola per l’ultima volta.

 

Avalon aveva ragione, si disse. Non avrebbero dovuto legarsi con gli esseri umani, non avrebbero dovuto condividere gioie e dolori con loro, perché ciò li avrebbe resi deboli e li avrebbe allontanati dalla loro missione di garanti dell’equilibrio.

 

Forse era vero. Eppure, in fondo al cuore, Andrei non poté nascondere un sorriso, pensando al figlio che aveva avuto con Juana. Un bambino che nascondeva un segreto celato da millenni. Uno dei Talismani per cui Anhar aveva dato fuoco al tempio di Inti, e che Andrei era quasi riuscito a perdere. Cosa sarebbe accaduto se Jonathan fosse morto?

 

Il Signore del Fuoco scosse la testa, preferendo allontanare simili nefasti pensieri, lasciando ad Avalon le speculazioni filosofiche sugli incroci possibilistici della vita. Quel che era davvero importante, adesso, era addestrare Jonathan al gravoso compito che lo attendeva, fortificarlo, proteggerlo e prepararlo al secondo avvento.

 

Egli è uno dei Prescelti. Il cosmo di Menara è in lui.

 

“Ti insegnerò tutto quello che so!” –Gli disse, qualche ora dopo, quando il bambino riprese i sensi, in una capanna usata come rifugio per i feriti. –“Sui Talismani in generale, e in particolare sul tuo, lo Scettro d’Oro o Scettro dei Sogni!”

 

“Scettro dei Sogni?!” –Borbottò Jonathan, non comprendendo.

 

“Sì, questo è il nome che il suo creatore gli diede. Perché vedi, Jonathan, l’asta che impugni non è soltanto uno scettro, ma una chiave, che apre il varco che conduce ad altri mondi. Varco di cui tu, Cavaliere dei Sogni, sarai il guardiano!”

 

***

 

“Non dire niente, ti prego. Ne sono consapevole!” –Esclamò Andrei, mentre la figura dalle vesti argentee si avvicinava, frusciando leggera tra l’erba, senza neppure schiacciarla.

 

“Oh, lo so!” –Sorrise Avalon infine, fermandosi al centro del cerchio di monoliti. –“Quel che importa è che tu lo sia davvero, e che tu sia pronto per andare avanti!”


Andrei annuì, immaginando quel che l’antico compagno gli avrebbe detto. Quel che gli avrebbe chiesto.

 

“Tuo figlio rimarrà ad Avalon, terminerò il suo addestramento! Non ci vorrà molto, è un ragazzo sveglio, di mente acuta, ed è stato istruito bene, sia da te, che dai sacerdoti del tempio di Inti! Conosce la forza dei misteri così come del tirar di spada! A Reis farà piacere avere qualcuno della sua età con cui confrontarsi!” –Quindi si zittì un attimo, prima di concedersi una risata genuina, così cristallina da stupire lo stesso Andrei. –“Tuo figlio, uno dei Sette?! Il destino gioca in modo imprevedibile con le nostre vite! Anche se questo non modifica il nostro obiettivo finale! Egli non dovrà mai sapere che sei suo padre, gli diremo che è orfano, come Reis, come tanti altri giovani ed eroici combattenti, e ciò gli dovrà bastare! Nella solitudine troverà la forza, l’affetto lo renderebbe debole! E la debolezza è dote che i custodi dei Talismani non devono possedere! Devono essere forti e intransigenti per reggere l’unica luce in grado di rischiarare l’universo!”

 

Io… sono d’accordo con te! Per lui sarò solo il suo maestro! Nessuno, comunque, al di fuori della gilda conosce la sua paternità!” –Commentò Andrei, stringendo i pugni. –“Chiarito questo, che ne è di Anhar? Dove si è nascosto quella carogna infame?”

 

“Nelle stesse ombre dietro cui si cela da secoli, nascondendosi persino alle acque del Pozzo Sacro! Ombre da cui furtivamente esce, di tanto in tanto, per spargere ulteriori semi di disgrazia! In Africa ho percepito la sua presenza l’ultima volta, tra le dune sabbiose del Sahara! E non è un caso che poche ore dopo abbia avvertito un fremito, un incresparsi improvviso nelle acque della visione…

 

“Cosa vuoi dire?!” –Incalzò Andrei, mentre entrambi si avvicinavano all’orlo del Pozzo Sacro, osservando al suo interno.

 

Le calme acque si agitarono all’improvviso, mostrando una violenta tempesta imperversare in un canale marino, sollevando navi e scagliandole contro gli scogli o ribaltandole sulle spiagge, tra le grida disperate dei marinai. Su tutto aleggiava una oscura presenza, un vento di fiamme nere carico di un rancore covato per secoli.

 

“Che cos’è questo luogo?”

 

“Mar Ionio. Canale di Sicilia.” –Chiarì Avalon, lasciando che l’amico metabolizzasse l’informazione. E capisse.

 

“Tifone?! È stato risvegliato?!”

 

“I suoi sigilli si sono improvvisamente indeboliti e di certo l’odio che affama il suo cuore potrebbe spingerlo a liberarsi quanto prima. Per questo sto lavorando, per ripristinarli in fretta, prima che provochi ulteriori danni.”

 

“Vado a ucciderlo!” –Affermò Andrei. Ma Avalon lo bloccò, afferrandolo per il braccio e scuotendo la testa.

 

“Torna a Isla del Sol, la ricostruzione del tempio di Inti deve procedere! Il tuo popolo ha bisogno di speranza, di fiducia, della tua rasserenante presenza, perché un giorno, non lontano, dovrà tornare a combattere! E, se vuoi che lo facciano con determinazione, devi dare loro un motivo, una guida da seguire!”

 

“Che ne sarà di Tifone?”

 

“Un mio allievo se ne sta occupando.” –Commentò schivo Avalon, prima di riportare lo sguardo sulle acque del Pozzo Sacro. Là, tra il mulinare delle correnti e il luccichio delle anime perse, la sagoma di un uomo apparve poco dopo. Il Signore dell’Isola Sacra lo riconobbe subito, anche se il suo corpo era celato da un mantello, e sorrise.

 

Presto i Talismani sarebbero stati riuniti e Micene di Sagitter avrebbe ricevuto in dono la luce più pura. Lui, soltanto lui, poteva essere il Cavaliere della Leggenda. Di questo, il suo maestro era assolutamente sicuro.

 

E Avalon non sbagliava mai.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventunesimo anno prima del secondo avvento.

Fine.

 

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Capitolo 13
*** Capitolo undicesimo: Vortici di speranza ***


CAPITOLO UNDICESIMO: VORTICI DI SPERANZA.

 

Castalia era sconfortata. E anche quel sole appena sorto in lontananza non la faceva ben sperare. Sospirò, prima di rientrare nella capanna, pulirsi il viso al lavello e mettersi addosso la cotta di rame e bronzo che indossava durante le ricerche, preparandosi a una nuova giornata di fallimenti. Purtroppo, per quanto a lungo l’avessero cercata, per quanto attentamente avessero scandagliato mari e coste, di Tisifone ancora non avevano trovato tracce e ogni giorno che passava rendeva sempre più flebile la speranza di ritrovarla.

 

Stava tornando dal Canada quando aveva ricevuto nuovi ordini direttamente da Atena, informata della scomparsa della nave su cui viaggiavano la Sacerdotessa dell’Ofiuco e i suoi collaboratori. E proprio la Dea le aveva chiesto di occuparsi delle ricerche, affiancandole una squadra di recupero inviata apposta da Nuova Luxor, capitanata da un fedelissimo di Lady Isabel, un professore che anni addietro aveva persino creato delle armature. Con l’appoggio della Grande Fondazione, Castalia e la squadra al suo comando avevano perlustrato il Mar Celtico, partendo dall’ultima posizione rilevata della nave di Tisifone, dedicando particolare attenzione alle coste francesi, verso cui le correnti tendevano a confluire.

 

Dall’Ile de Batz, Castalia si era progressivamente spostata verso l’estremità della penisola di Bretagna, fino all’Ile de Ouessant, laddove la Fondazione aveva installato una base provvisoria. Un punto strategicamente perfetto per controllare ambo le coste della penisola francese e per lavorare in segretezza, essendo l’isola poco popolata. Ma tutte le speranze che aveva nutrito quel giorno, quando aveva stretto la mano al professore giapponese giunto di corsa dall’altra parte del globo con un jet a reazione della Fondazione Thule, portando con sé un carico di macchinari fantascientifici, adesso parevano scomparse, appannate dalla stessa foschia che al mattino permeava le coste dell’isolotto, rendendo ancora più complesse le ricerche.

 

“Finalmente sei sveglia!” –La richiamò una voce giovanile. –“Il professore ci ha mandato a cercare! Pare che il radar dei fratelli abbia rilevato qualcosa in mare aperto! Per ora è un segnale molto debole, ma a parer suo vale la pena di indagare!”

 

“Certamente.” –Si limitò a rispondere Castalia, sorridendo sotto la maschera al giovane dai capelli castani con cui era stata a stretto contatto negli ultimi giorni.

 

Asher non colse il tentennamento della ragazza o se anche se ne accorse fu bravo a non darlo a vedere, limitandosi a farle cenno di precederlo lungo il camminamento di legno che si snodava tra le baracche del piccolo porto di Cadoran, sul versante settentrionale dell’Ile de Ouessant, poco distante dal faro di Stiff, scelto dal Professore per lavorare nell’isolamento più completo.

 

Anche Asher aveva ricevuto precise istruzioni da Atena, per cui, dopo aver lasciato la Svezia, aveva raggiunto le coste francesi, impegnandosi a fondo nelle ricerche.

 

Senza perdere neanche in un’occasione determinazione e tenacia. Osservò la Sacerdotessa dell’Aquila, ritrovando nel ragazzo alcuni aspetti che le ricordarono l’allievo che aveva addestrato ad Atene. E che adesso combatte chissà dove in questa guerra che pare non avere fine. Aggiunse, poco prima di entrare dentro la stazione di ricerca, dandosi della stupida per essersi lasciata travolgere così facilmente dal senso di sconfitta. Cosa avrebbe dovuto fare Pegasus all’ingresso della Casa del Toro? Voltarsi e tornare indietro o affrontarne il corpulento custode, pur con il rischio di perdere la vita? Si rispose da sola, reperendo nel ricordo dell’allievo la forza per andare avanti. Ti troveremo, Tisifone! Ti troverò, amica mia! Concluse, entrando nella base.

 

“Buone notizie, Castalia! Oh sì, spero proprio che lo siano!” –Disse il Professor Rigel, mostrando alla ragazza e ad Asher i risultati di alcune ricerche effettuate in mare aperto, seguendo un’ipotetica linea retta che dal faro di Stiff correva verso le coste della Cornovaglia. –“Proprio in questo punto i nostri strumenti di rivelazione hanno individuato qualcosa, qualcosa che non dovrebbe esserci, non essendo sulla rotta ufficiale di alcuna nave. Ho già inviato i fratelli a controllare!”

 

“Molto bene, Professor Rigel, la vostra efficienza supera la vostra preparazione!” –Commentò la donna, che nutriva grande stima per l’operato dello scienziato, soprattutto da quando, due giorni addietro, gli aveva mostrato la sua ultima creazione. I fratelli a cui faceva, con tono fiero, riferimento.

 

“Oh, mi lusingate, Castalia! Voi non…” –Ma prima che il professore potesse aggiungere altro una serie di interruttori iniziò a lampeggiare, anticipando il risuonare frenetico di un fastidioso allarme. –“Ma cosa succede?” –Esclamò l’uomo, correndo verso i monitor, dove alcuni tecnici parlavano tra loro in tono concitato. –“Sembra che tutte le nostre boe rivelatrici siano impazzite… e di alcune… abbiamo perso il segnale, quasi fossero state disattivate o…

 

“Distrutte.” –Mormorò Castalia, e Asher le diede ragione, battendo un pugno nel palmo dell’altra mano, prima di correre all’esterno dietro di lei. A fatica trattennero un’espressione di stupore nell’osservare la violenta tempesta che stava sferzando il porto, devastando tutte le sue strutture e sradicando ponti e capanne.

 

No, rifletté il Cavaliere d’Argento. Non è una tempesta. Le correnti d’aria soffiano in una ben precisa direzione. Osservò, notando come tutto quel caos riuscisse comunque ad avere una parvenza d’ordine, rappresentata proprio dall’occhio di quel ciclone inatteso. È una tempesta circolare, simile a un tornado o a un, aggiunse, notando che persino le acque del mare non erano esenti da quella furia, vortice.

 

E proprio al centro di quel tornado, che ormai aveva violentato la sempiterna calma di quell’isola, cambiandone per sempre anche la morfologia, era appena apparso un uomo, i cui lineamenti da lontano non riusciva ancora a definire, sebbene fosse certa che indossasse un’armatura.

 

Un Cavaliere?! Mormorò, cercando di individuarlo ma stando attenta a non essere travolta dal mulinare imperterrito del vortice o dai pezzi di legno o pietra che precipitavano in ogni direzione. Fu solo l’intervento di Asher, che balzò su di lei, schiacciandola a terra, che impedì ad una trave appuntita di mozzarle il collo, ma neppure il ragazzo poté proteggerla dalla furia di quel turbine che puntava dritto verso di loro. 

 

“Non troppo presto!” –Parlò infine lo sconosciuto apparso dal mare, e al suono della sua voce il mulinello d’aria e acqua si allargò, sfumando ai lati e scagliando verso l’entroterra tutto ciò che aveva fagocitato nella sua breve, ma devastante, marcia. –“Prima di uccidervi desidero sapere. Chi siete? Anzi no, questo già lo so. La maschera che porti sul volto, donna, è sufficiente per indicarti come Sacerdotessa Guerriero. Quel che mi chiedo è cosa fanno due Cavalieri di Atena così a nord, ben fuori dalla vostra area di giurisdizione.”

 

“Perché vuoi saperlo? E chi sei tu?” –Incalzò Castalia, facendosi forza col tono della sua stessa voce.

 

“Siete giovani, per questo siete scusati!” –Rise lo sconosciuto, il corpo ricoperto da una corazza azzurrognola, molto coprente. –“Ma se foste vissuti secoli addietro, quando il mondo era giovane e gli uomini provavano reverenziale paura nei confronti del mare, allora il mio nome avreste di certo conosciuto. E lo avreste temuto. Perché io sono Cariddi, l’irrequieto. Il generatore di vortici così devastanti che persino l’eroico Ulisse ebbe di me timore, preferendo affrontare Scilla, che rischiare la sorte nelle mie profondità!”

 

Ca… Cariddi?!” –Mormorarono Asher e Castalia, che ben conoscevano le leggende su quel pericolo marino. –“E cosa fai qua? Anche tu sei piuttosto a nord, rispetto al tuo campo d’azione, non è vero?”

 

“In un certo senso sì! Ma è da molto tempo che non dimoro presso le coste di Sicilia, preferendo vagare per gli oceani, in modo da non essere rintracciabile.” –Disse, incupendosi per un istante, per poi tornare al tono gioviale ma fermo avuto fin dall’inizio. –“Ciò è irrilevante, comunque. Quanto meno per chi sta per morire! In tutta onestà, uccidere due Cavalieri di Atena mi reca dispiacere, perché in passato ho avuto simpatia per la vostra Dea. Pur tuttavia gli ordini sono ordini e sincerarmi che non vi fossero superstiti equivale a far fuori chiunque metta il naso in affari che non gli competono!”

 

“Tu sai cosa è accaduto alla Sacerdotessa mia compagna?” –Esclamò Castalia, avendo compreso a cosa si riferisse. –“Parla, che ne è di lei?”

 

“Solo il mare lo sa.” –Rispose Cariddi, alzando le spalle.

 

“Bastardo!!!” –Ringhiò Asher, chiudendo le dita a pugno e iniziando a espandere il proprio cosmo. Prima che Castalia potesse dirgli alcunché, il ragazzo era già corso avanti, balzando su Cariddi e muovendo il braccio per colpirlo in pieno volto, ma, come la Sacerdotessa notò prontamente, l’uomo fu più veloce, girando il capo e lasciando che il pugno di Asher fendesse l’aria, prima di afferrarlo a mezz’aria e sbatterlo al suolo.

 

“Un rottame tra i relitti.” –Commentò Cariddi, sprofondando il ragazzo tra le travi di legno del vecchio pontile.

 

“Ehi, ci sono anch’io!” –Lo chiamò allora Castalia, prima di balzare su di lui con un calcio acrobatico. E venire prontamente scaraventata indietro.

 

“Lo noto.” –Ironizzò l’uomo, incamminandosi verso di lei. Ma fu di nuovo distratto da Asher, che, risollevatosi, stava bruciando il cosmo, richiamando a sé l’armatura dell’Unicorno, che subito apparve e si dispose sul suo corpo. –“Non ti servirà a molto. Credimi.” –Disse, mentre il Cavaliere di Bronzo spiccava un balzo, portandosi al di sopra di Cariddi per poi piombare su di lui con una mitragliata di calci.

 

Criniera dell’Unicorno!!!”

 

“Che nome sciocco per un semplice calcio volante!” –Commentò Cariddi, con aria divertita, muovendosi ad una velocità superiore a quella del ragazzo, di cui poté osservare ogni singolo movimento. Quando si stancò, soffocò con la mano destra uno sbadiglio, prima di afferrare la gamba tesa di Asher con la sinistra e sbatterlo a terra. Una volta, due volte, dieci volte, fino a crepargli l’armatura e spaccargli l’elmo della corazza, imbrattandogli il volto di sangue. Infine lo scagliò in aria, preparandosi a colpirlo con un fascio di energia cosmica, ma Castalia lo anticipò, balzando in alto e recuperando l’amico.

 

Stai… attenta…” –Mormorò Asher, sputando sangue. –“Sembra calmo e tranquillo ma la sua forza fisica è devastante.”

 

“Come nei vortici che genero, uguale forza pervade le mie braccia!” –Chiosò Cariddi trionfante. –“E non è potere che una donna e un ragazzino possono vincere!”

 

“Questo lo vedremo!” –Esclamò Castalia, che aveva a sua volta indossato l’armatura dell’Aquila. –“Cometa pungente!!!” –Aggiunse, scatenando il colpo segreto che aveva insegnato a Pegasus.

 

“Quattrocentosedici colpi al secondo! Non male davvero, per un Cavaliere del tuo rango! E sono convinto che se ti lasciassi scatenare potresti anche migliorarti!” –Ammise Cariddi, con un’espressione di genuino stupore. –“Ma sei ancora troppo debole per affrontare una creatura divina! Fatti un favore e muori!” –Concluse, avanzando tra gli attacchi di Castalia e chiudendo infine la mano sul suo pugno destro teso. Lo stritolò, tra le grida della donna e lo scricchiolare della corazza, prima di scagliare in alto il corpo nemico e colpirlo con una sfera energetica.

 

Ca… Castalia!!!” –Urlò Asher, rimettendosi in piedi. –“Maledetto, non ci lasceremo vincere così! Abbiamo una missione da portare a termine e non ho intenzione di deludere la fiducia che Atena ha riposto in me! No, non la deluderò!!!” –Ed espanse ulteriormente il suo cosmo, come mai fatto prima, sostenuto dal ricordo di Lady Isabel, dal suo sorriso, dalla prospettiva di renderla soddisfatta di sé. –“Assaggia il corno della giustizia! Rifulgi, Corno d’Argento!!!” –E portò avanti il braccio destro, generando una cometa energetica che sfrecciò verso Cariddi, coprendo in un lampo la distanza tra loro, solo per schiantarsi sul palmo aperto del misterioso guerriero, che la spense poco dopo, di fronte agli occhi angosciati di Asher. –“A… allora… siamo proprio inutili?!” –Mormorò, crollando a terra, assieme a tutte le sue convinzioni.

 

“Ora che lo avete capito, restate fermi, di modo che possa farvi fuori con un solo attacco!” –Commentò Cariddi, mentre Castalia a fatica si trascinava verso Asher.

 

“Resta fermo tu!” –Gridò una voce all’improvviso, facendo voltare i contendenti verso la cima del promontorio ove fino a poche ore prima si ergeva la base di ricerca della Fondazione, adesso un cumulo di macerie.

 

Il Professor Rigel e alcuni soldati che Isabel aveva dato loro in scorta puntavano i fucili in direzione di Cariddi e, dai puntini rossi apparsi sulla corazza dell’uomo, parevano dotati di ottima mira, nonostante la distanza.

 

Sca… scappate!!!” –Rantolò Castalia. Ma fu troppo tardi.

 

Prima ancora che il rumore degli spari giungesse alle loro orecchie, Cariddi aveva già raggiunto i tiratori, lasciandosi alle spalle le pallottole e le grida della Sacerdotessa. Gli bastò muovere un braccio a spazzare per generare un’onda di energia con cui investì i soldati, sollevandoli e scaraventandoli indietro, le pelli lacerate, quasi strappate via, dal mulinare violento del suo cosmo.

 

“Rimane solo lei, a quanto pare.” –Commentò, osservando il volto terrorizzato del Professor Rigel, per poi allungare il braccio e strappargli il fucile che non riusciva a far funzionare. Lo stritolò con le sue dita, mentre con l’altra mano afferrava la faccia dell’uomo, distruggendogli gli occhiali e sollevandolo da terra, incurante delle sue urla di terrore.

 

“Lascialo stare! Siamo noi i tuoi avversari!” –Gridarono allora Castalia e Asher, rimessisi a fatica in piedi. –“Non hai dunque onore nel guerreggiare con semplici esseri umani?”

 

“E voi, ai miei occhi, cosa siete?” –Ironizzò Cariddi, voltandosi e scagliando loro contro il corpo ferito dello scienziato. Castalia lo afferrò al volo, prima che sbattesse la testa a terra, mentre Asher, avvolto nel suo cosmo violaceo, si lanciava contro il nemico.

 

Corno d’argentooo!!!” –L’attacco energetico sfrecciò verso Cariddi, che lo evitò semplicemente spostandosi a destra, per poi colpire il ragazzo sul dorso con un pugno che gli schiantò lo schienale dell’armatura. Non fece in tempo a infierire perché già Castalia era balzata su di lui, gli artigli dell’aquila pronti a ghermire. Ma bastò che Cariddi spostasse lo sguardo su di lei per sollevare un turbine di energia che ne frenò il volo, spezzandone parti della corazza, prima di risucchiare anche Asher al suo interno, farli roteare assieme e scaraventarli a riva, tra i relitti del porticciolo.

 

“Bene, sembra che il problema superstiti sia stato risolto. Incaute Makhai, mi state facendo tardare all’appuntamento con il mio signore, l’unico che possa vantarsi del titolo di Imperatore dei Mari!” –Commentò Cariddi, passando tra i cadaveri dei soldati e dirigendosi verso la baia, laddove le acque già stavano increspandosi all’avvicinarsi del suo cosmo, pronte ad aprirsi per accoglierlo.

 

Fu allora che lo raggiunse il lamento di Castalia, presto seguito da quello di Asher, che, doloranti, tentavano di risollevarsi ancora, come il loro vecchio allievo e amico aveva sempre fatto. Tanta testardaggine strappò un sorriso al loro avversario.

 

“Come si dice da queste parti, Kentoc'h mervel evet bezañ saotret! Meglio la morte che la macchia, eh?” –E espanse infine il proprio cosmo, rivelandolo ai due Cavalieri come mai lo aveva ostentato prima. Ansimando a fatica, sia Castalia che Asher ne percepirono la magnificenza e anche la profondità, simile a un gorgo abissale di cui non si riesce a vedere la fine. –“La vostra devozione merita un premio, vi onorerò del mio colpo segreto! Siatene fieri, e addio!” –Ma prima ancora che riuscisse a rivelare tale potere, la terra tremò sotto i suoi piedi, mentre lunghi filamenti verdastri saettarono fuori, avvinghiandosi attorno al suo corpo. –“Che… cosa sono?!”

 

“Le liane dell’Eridano!” –Esclamò allora una voce, limpida e cristallina, mentre le liane aumentavano in quantità, e anche nella forza della loro stretta, percorse adesso da un vigoroso cosmo celeste. –“E questo è il mio gorgo!!!” –Aggiunse, anticipando l’arrivo di un globo di energia azzurrina, che si schiantò sul pettorale dell’armatura di Cariddi, scagliandolo in alto, incenerendo le stesse liane.

 

Questa… voce…” –Mormorò Castalia, muovendo lo sguardo nella direzione dell’uomo appena comparso sull’isola, un uomo a cui si era unita tempo addietro. –“Niko… laos…” –E svenne, certa di essere adesso al sicuro.

 

“Riposa, dolce Castalia!” –Commentò il nuovo arrivato, fermandosi accanto ai corpi feriti dell’Aquila e dell’Unicorno e sincerandosi che non fossero in fin di vita. –“Il tuo cosmo mi ha guidato fin qua. Ti tenevo d’occhio da giorni, da quando hai mancato il nostro appuntamento per mettere anima e corpo nella ricerca di un’amica. E finalmente ti ho individuato.”

 

“Un altro Cavaliere di Atena?!” –Ghignò allora Cariddi, rimessosi in piedi. –“Avresti fatto meglio a restartene in Grecia, perché se dei due pivelli ho avuto pietà, tu mi hai fatto proprio arrabbiare con quest’attacco a sorpresa!”

 

“Non a un Cavaliere di Atena ti rivolgi, guerriero sconosciuto, ma al Luogotenente dell’Olimpo, Nikolaos dell’Eridano Celeste!” –Esclamò fiero il ragazzo, rivestito dalla sua lucente cotta turchina.

 

Eridano eh?! Ho sentito parlare di te… i fiumi mormorano, del resto, e io ascolto le acque. Sei l’ultimo della tua stirpe, l’ultimo Cavaliere Celeste, e l’unico umano tra le guardie scelte di Zeus. Perché? Cosa ti rende diverso?”

 

“La fede nel futuro e il desiderio di proteggere coloro che amo.” –Rispose il giovane, iniziando ad espandere il cosmo. –“E se l’uno o l’altro tu minacci, io ti combatterò!”

 

“E sia! Ma non chiamarmi guerriero, usa il mio nome, che è Cariddi! Un nome che dovresti conoscere o che, in ogni caso, conoscerai presto!”

 

“Pagherai per il dolore che hai inflitto a questi innocenti! Gorgo dell’Eridano!!!” –Avvampò Nikolaos, concentrando il cosmo in una sfera di energia celeste e scagliandola verso Cariddi alla velocità della luce.


Umpf! Mi hai sorpreso una volta, non la seconda!” –Commentò quest’ultimo, aprendo le braccia di lato mentre un violento vortice iniziava a turbinare attorno a sé, generando una barriera roteante contro cui l’assalto del Luogotenente si schiantò. Anzi, come ebbe a notare lo stesso Nikolaos, venne risucchiato al suo interno, disgregandosi in macchie di energia che vorticarono attorno a Cariddi, salendo a spirale verso l’alto, fino a esplodere nel cielo lontano.

 

“Così intenso è il mulinare di quel turbine…” –Rifletté il Cavaliere Celeste.

 

“E niente può sottrarsi alla sua forza di attrazione.” –Concluse Cariddi, aprendo il palmo della mano avanti a sé e spingendo il vortice verso Nikolaos, dandogli la forma di una barriera verticale d’aria, che schiacciò a terra il Luogotenente, schiaffeggiando il suo corpo con violente scariche di energia. –“Come ben puoi vedere.” –Aggiunse, volgendo il palmo verso il cielo e sollevando al qual tempo il suo avversario, travolto dal vortice di energia.

 

“Maledizione, devo reagire!” –Esclamò Nikolaos, cercando di recuperare una postura corretta e al tempo stesso incendiando il proprio cosmo, fino a generare una sfera di energia tra le mani, pronto per scagliarla contro Cariddi. Ma questi intensificò il proprio assalto, scagliando il ragazzo ancora più in alto, facendogli persino perdere il controllo sulla sfera, che gli esplose tra le mani, scheggiando la sua corazza, per poi scaraventarlo decine di metri addietro.

 

“Pare che tu sia un po’ meglio degli altri due. Anche se inferiore alle mie aspettative. Da un Cavaliere Celeste mi aspetto di più, e lo so perché ne ho affrontati in passato. Giasone, Castore, Polluce, gli Argonauti, erano tutti eroi leggendari, semidei, figli, come me, di Divinità. Tu invece non sei nessuno, solo un banale essere umano, e come tale inferiore!

 

Non… parlare… di Giasone e dei miei compagni, caduti contro l’ombra che ammanta questo scorcio di secolo!” –Disse Nikolaos, affannando nel rimettersi in piedi. –“Ombra di cui tu fai parte! E che è mio dovere spazzar via! Correnti… dell’Eridano!” –Aggiunse, sfiorando il suolo con la mano carica di vitalità cosmica.

 

Getti d’energia acquatica sgorgarono dal terreno sotto e attorno ai piedi di Cariddi, schiantandosi sulla sua corazza e destabilizzandolo per qualche istante, quanto gli ci volle per recuperare una posizione eretta, annientando quei fiotti d’acqua con un’onda di cosmo. Quel breve attimo bastò a Nikolaos per portarsi di fronte a lui, una sfera di energia rilucente sulla mano destra. La poggiò sul pettorale del nemico, lasciandola sfrigolare e strappandogli un gemito, di sorpresa e di disappunto, prima che questi lo scaraventasse indietro con un vortice d’aria, schiantandolo poco distante da Castalia e da Asher.

 

“Ardito!” –Commentò Cariddi, osservando la crepa ancora fumante sull’armatura, prima di spostare lo sguardo sul Cavaliere di Zeus, che già si era rimesso in piedi. –“Ti onorerò con il mio massimo colpo, il possente maelstrom che tutto risucchia! Raggiungi i tuoi compagni, Luogotenente dell’Olimpo, e dì loro che hai tenuto alto il nome di cui ti fregi! Addio! Moskstraumen!!!” –Gridò, sollevando il braccio destro al cielo e generando un gigantesco vortice, che piombò su Nikolaos, Castalia e Asher in una frazione di secondo, risucchiandoli al proprio interno e facendoli turbinare nel cielo sopra l’Ile de Ouessant.

 

“Vana è ogni resistenza. Chi viene inghiottito dal maelstrom incontra solo morte. Una morte atroce, dovuta all’enorme pressione interna al gorgo che spezza tutte le ossa.” –Spiegò Cariddi, placando infine la sua tecnica, dal cui fondo fuoriuscirono i corpi malconci dei tre Cavalieri. Uno dopo l’altro si schiantarono a riva, tra i frammenti insanguinati delle loro corazze, sotto lo sguardo vigile del generatore di vortici.

 

Alla vista di quei corpi contusi, delle pose innaturali assunte dai loro arti, Cariddi sospirò, prima di dare loro le spalle e incamminarsi verso l’oceano. Verso casa.

 

Questo dolore… è fortissimo. Rantolò Nikolaos, cercando di rimettersi in piedi. L’Armatura Divina era distrutta in più punti, ma la sua maggiore resistenza gli aveva impedito di riportare danni peggiori, come invece temeva fosse accaduto a Castalia e Asher. Ma era come se sentisse rotta ogni singola ossa del corpo. A fatica cercò di recuperare controllo di sé, focalizzandosi prima sulle dita, muovendole piano, una ad una, quasi a sincerarsi di averle ancora tutte. Le trascinò sul terreno sabbioso, determinato a stringerle a pugno ma incapace di farlo, incapace di trovare la forza per chiuderle. E se anche vi riuscissi… non ho modo di vincere Cariddi. Non ho tecniche che possano danneggiarlo, rifletté. Del resto non era per quello che era divenuto un Cavaliere Celeste.

 

“Non per attaccare, non per arrecare offesa, bensì per difendere la nostra bella Terra. E coloro che la popolano.” –Aveva detto quel giorno ai suoi genitori, mostrando loro la cotta celeste che Efesto aveva appositamente forgiato per lui.

 

“Anche noi avremmo dovuto difendere la nostra terra, il nostro regno. Eppure un giorno ci fu chiesto di attaccare, di scendere in guerra per il nostro Signore!” –Dissero allora tre voci, raggiungendo l’animo di Nikolaos. Tre voci lontane che gli ricordarono i giorni dell’investitura, quando li aveva incontrati la prima volta, fieri e possenti, e così grandi gli erano apparsi da cingere l’Olimpo in un unico abbraccio.

 

“Ma voi… siete… Bronte del Tuono, Sterope del Fulmine e Arge lo Splendore…

 

“I Ciclopi Celesti!” –Parlarono tronfi gli antichi difensori del Bianco Cancello. –“Incaricati dal Sommo Zeus di presidiare i confini del suo regno, fino al giorno in cui non ci fu detto di uscirne per iniziare una guerra sbagliata. Una guerra ove tu, Luogotenente, fosti l’unico a rimirare lontano. Una guerra ove perirono i tuoi compagni. Adesso sei l’ultimo rimasto, l’ultimo Cavaliere Celeste, su te ricade la responsabilità e l’onore di lottare fino alla fine! In nome di Zeus e di coloro che hanno rivestito quel ruolo nel corso di millenni, combatti anche per noi, che fummo ingannati e credemmo nell’ombra! Combatti, giovane Ciclope!”

 

Quelle parole rincuorarono l’animo di Nikolaos, ma ancor più fece la scarica di energia che improvvisamente pervase ogni membra del suo corpo, come se i Ciclopi avessero acceso una miccia che attendeva silente dentro di lui. Bruciando il cosmo, il ragazzo si rimise in piedi, liberandosi dell’elmo a maschera, ormai distrutto, e spazzandosi i capelli insanguinati all’indietro, quasi a voler gettar via ogni residuo di stanchezza.

 

Nel percepire l’avvampare del suo cosmo, Cariddi si fermò, voltandosi sorpreso, ma non troppo dispiaciuto per il nuovo scontro che avrebbe dovuto sostenere.

 

“Non ti è bastato discendere una volta nel maelstrom? Vuoi dunque precipitarvi di nuovo? Che sia per follia o per un disperato bisogno di sentirti alla pari con coloro che ti hanno preceduto, io ti accontenterò! Ecco, Luogotenente, questo di Cariddi è il Moskstraumen!!!”

 

Il gigantesco gorgo travolse Nikolaos, risucchiandolo al suo interno, fioca fiammella di cosmo baluginante in un abisso di tenebra. Ma anziché risputarlo poco dopo, con la corazza distrutta e le ossa maciullate, il maelstrom dovette tenerlo in sé, perché il Cavaliere Celeste era determinato a non lasciarsi travolgere.

 

“Ma cosa… sta facendo?!” –Borbottò Cariddi, cercando di penetrare con lo sguardo all’interno del vortice. A fatica, riuscì a percepire la presenza di Nikolaos, in piedi, con le gambe divaricate, al centro del gorgo, il cosmo che risplendeva come non mai. Un cosmo celeste avvolto adesso da saettanti scariche azzurre.

 

Aaaahhh!!!” –Gridò il Luogotenente, le braccia aperte ai lati, le mani che tentavano di afferrare quella turbinante oscurità. Mani che racchiudevano adesso la forza di tre Ciclopi Celesti, i custodi del fulmine, la sacra arma di Zeus. A Nikolaos parve di udire la voce di Arge, mentre le sue dita affondavano nel gorgo, come la Spada del Fulmine sempre squarciava i corpi nemici. Poi gli parve di sentire Bronte sollevare il vortice da terra, con la sua immensa forza, mentre le folgori lucenti di Sterope pervadevano l’intera struttura. –“Io… sono l’ultimo dei Cavalieri Celesti. L’ultimo Ciclope Celeste!!!” –Ringhiò a squarciagola Nikolaos, di fronte agli occhi sbalorditi di Cariddi. –“Zeus, aiutamiii!!!”

 

Con il cosmo al parossismo, il Luogotenente deviò la direzione del maelstrom, fino a farlo schiantare contro lo stesso Cariddi, che ne venne risucchiato all’interno. Quindi, sfruttando le ultime forze, fu abile a spingerlo verso il mare aperto, lasciando che esplodesse in lontananza, agitando le acque per un’ultima volta. Solo alla fine crollò sulla sabbia, affondando la faccia nella rena bagnata, e lì avrebbe voluto rimanere, per riposarsi e riprendere fiato, quando si ricordò di Castalia e di Asher e delle loro condizioni critiche.

 

Rantolando, cercò di rimettersi in piedi, poggiando un ginocchio a terra, ma la stanchezza lo fece cadere di lato. Fu afferrato in tempo da due braccia snelle, che lo aiutarono a rialzarsi e lo accompagnarono fino al limitare della baia, dove Castalia e Asher erano stati distesi. Entrambi palesemente feriti.

 

“Non si affatichi!” –Disse il Professor Rigel, che aveva soccorso, appena aveva potuto, anche gli altri due Cavalieri. Aveva il volto sporco di sangue e schegge di vetro ancora infilate nella pelle, ma la sua risoluzione non era venuta meno.

 

Dobbiamo… tornare in Grecia…” –Mormorò Nikolaos. –“Per curarci. Per medicare le loro ferite.” –E anche lo scienziato dovette dargli ragione, sebbene non sapesse in quel momento come avrebbe potuto aiutarli. La nave di ricerca era ancora in mare aperto e non sarebbe rientrata fino a sera e, dopo la distruzione della base, non aveva neanche modo di mettersi in contatto con i suoi occupanti.

 

Fu uno improvviso sbatter d’ali a distrarre entrambi da foschi pensieri.

 

“Se permettete, vi verrò in aiuto!” –Esclamò una placida voce, mentre Nikolaos muoveva lo sguardo verso il cielo, contro cui si stagliava una delicata figura ammantata di luce. –“Posso trasportarvi io in Grecia!”

 

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Capitolo 14
*** Capitolo dodicesimo: La madre dei mali ***


CAPITOLO DODICESIMO: LA MADRE DEI MALI.

 

A Phoenix, Discordia parve ancora più pazza di quando l’avevano affrontata l’anno prima, dopo aver preso possesso del corpo di una ragazza dell’orfanotrofio Saint Charles, servendosene per rapire Lady Isabel, della cui forza aveva tentato di cibarsi.

 

Un parassita. Rifletté il Cavaliere, evitando le scariche energetiche che la Dea gli stava scagliando contro tramite un elegante, quanto pericoloso, tridente. Aveva cercato più volte di avvicinarsi, di travolgerla con un attacco diretto, ma l’agilità della Signora della Contesa era tale da tenere a distanza persino un combattente esperto come lui, stupito dalla grazia che stava riversando in battaglia. Non sembrava neppure che stesse combattendo, tutta intenta a ridere sguaiatamente, mulinando la venefica arma verso Phoenix, quasi stesse danzando sulle note di una musica silente, una musica che solo la Dea pareva udire.

 

“Un requiem di morte!” –Commentò infine, rivolgendosi per la prima volta a lui. –“è questa la deliziosa melodia che mi solletica l’orecchio, portata dal vento lunare. Una ballata di sangue suonata dalle mie figlie, che ne dirigono il ritmo con le uccisioni. Ogni ferita è una nota, ogni cuore strappato è un fa diesis, ogni vittima lasciata alla spalle è una chiave di violino, che segna l’inizio e la fine di una nuova ballata!”

 

“Te lo hanno mai detto che sei fuori di testa?!” –Ironizzò Phoenix, bruciando il proprio cosmo fiammeggiante.

 

“Preoccupati della tua, di teste, Cavaliere! Perché tra poco potresti non averla più, al posto giusto!” –Sghignazzò Eris, portando avanti il tridente con un colpo secco e mirando al collo del ragazzo, che fu svelto a balzare indietro, ferito solo di striscio.

 

Alla vista del sangue ruscellare fresco sulla pelle del nemico, Discordia ebbe un sussulto, e a Phoenix parve di vedere nei suoi occhi un’eccitazione incredibile, una fame che così poche volte aveva rimirato negli sguardi dei suoi avversari.

 

“Dunque quel che il mito racconta è vero!” –Commentò, deciso a studiare la reazione della Dea, in cerca di un suo punto debole. –“Sei davvero più sanguinaria di Ares!”

 

“Quel caro ragazzo! Ah ah ah! È a me che deve tutto, potrebbe considerarmi la sua matrigna, colei che l’ha avvezzato all’arte della guerra!” –Declamò fiera. –“Sebbene diverso sia il nostro approccio! A lui piace giocare, muovere i soldatini, far marciare gli eserciti fino a sentire lo scontro tra gli scudi e le spade, il clangore della lotta furiosa, l’estasi della lancia tesa! Io, invece, a meno crudi pensieri dirigo la mia mente! Non all’atto in sé, ma alla volontà che sta dietro una dichiarazione di guerra! All’ostilità che domina l’animo dei contendenti, al preciso e bramato desiderio di uno scontro armato, che segna la fine di ogni trattativa e l’abbassarsi di uomini e Dei ad un unico livello! La guerra è come la morte, la grande pacificatrice! La contesa finale che dirime ogni angoscia dell’animo!”

 

“Contesa che tu hai voluto, che tu hai provocato! Quante guerre hai fomentato? Quanti uomini hai corrotto, spingendoli a lasciarsi dominare dall’ira, rovinando le loro vite?!”

 

“Tutt’altro. Ho dato loro un motivo per cui vivere, uno scopo che riempisse il vuoto languore della loro esistenza, lasciando emergere sentimenti che già covavano dentro i loro animi! Ricordi le rose di rabbia? Che Ares più volte sfruttò nel corso dei secoli? Io ne fui la creatrice, la giardiniera oscura che praticò segreti innesti! Un’arte, quella del giardinaggio, che da millenni coltivo, da quando creai una squisita mela da destinare alla Dea più bella!”

 

“Sei malata!!!” –Tuonò Phoenix, scattando avanti, con il pugno teso e avvolto dalle fiamme. Ma bastò che la Dea lo fissasse per inchiodarlo sul posto, i muscoli in tensione, l’energia cosmica pronta a deflagrare.

 

“E tu sei morta, araba fenice!” –Sibilò Discordia, prima di travolgere il ragazzo con un’onda di energia e scagliarlo molti metri addietro. Non gli diede neppure tempo di rifiatare, balzando su di lui, con la lama del tridente mirante alla sua gola, obbligando Phoenix a rotolare sul suolo lunare per evitare l’affondo. Si rimise in piedi in fretta e furia, scagliando alcune piume metalliche contro la Dea, che le distrusse mulinando l’arma avanti a sé, lo sguardo accecato dalla frenesia, la lingua che percorreva le labbra, avida di sangue e morte. –“Trofeo della mia superiorità guerriera presto sarai! Che Ares si tenga il cavallino rampante, io preferisco te, Ikki di Phoenix!”

 

“Uh?!” –Balbettò il Cavaliere nell’udire il nome scelto dai suoi genitori, nome che ben poco usava, ricordandogli un’infanzia che presto era divenuta età adulta.

 

“Abbiamo molte cose in comune, caro mio, non soltanto l’inquieto spirito che ci pervade e ci porta ad essere sempre in lotta con tutti! Ma anche il simbolo da cui traiamo forza è simile! Per te è la fenice, l’uccello immortale in grado di risorgere dalle sue ceneri; per me la mela d’oro, ove Zeus racchiuse la mia anima secoli addietro, seccato dal mio ennesimo dispetto! Quello sciocco! Umpf! Non capiva che volevo soltanto animare la festa! Ah ah ah!”

 

“Noi non siamo simili, Eris! Io sono un Cavaliere che combatte affinché il mondo non conosca più guerre, affinché non vi siano più orfani come me e mio fratello!”

 

“Già! Parliamo dei tuoi genitori! Personaggi interessanti, da quel che ricordo! Tu sai perché sono morti?”

 

Che… cosa?!” –Esclamò Phoenix, preso alla sprovvista da quella domanda.

 

“Non lo sai, lo immaginavo. Forse ti avranno raccontato che sono morti per una malattia, o in un incidente, una di quelle tragedie che ahimè segnano la vita di molti! Ma la verità, la cruda verità, ti è sempre stata celata, anche dal patrigno della parte umana della tua Dea, tale Duca Alman, che di certo sapeva! Permettimi allora di aggiornarti al riguardo! I tuoi genitori sono morti in nome mio, vittime dello spirito di discordia che da millenni spargo nel mondo! Oooh, sì, ricordo il martellare inquieto del cuore di tuo padre, quel giorno in cui rientrò a casa, dicendo alla moglie di aver perso il lavoro! Proprio allora che era nato tuo fratello, un’altra bocca da sfamare! E, si sa, in questi casi, quando la disperazione invade l’animo umano, sono sempre i figli a rimetterci! Tuo padre voleva liberarsi di Andromeda, portarlo ad una parrocchia vicina, sperando che i preti si sarebbero presi cura di lui… ma tua madre no, lei era una donna dai sani principi, una sciocca versione umana di Atena! Disse al marito che non avrebbe abbandonato i suoi figli, che avrebbe preferito morire piuttosto che commettere una simile infamia! Per ironia, il marito esaudì il suo desiderio poco dopo… Nacque un litigio, un violento litigio, in cui tuo padre, in preda all’ira, colpì la donna che ti generò, uccidendola. Sconvolto dall’omicidio, si gettò dalla finestra, morendo a sua volta. Una bella storia, vero, Phoenix? E non guardarmi così, non me la sto mica inventando! Non incolpare me della debolezza di tuo padre o dell’idealismo di tua madre, motivi per cui entrambi sono morti!”

 

Io… non ti incolpo per questo… Discordia!” –Commentò Phoenix, inspirando lentamente, per trattenere una rabbia che gli stava macerando il cuore, e che doveva riuscire a controllare. –“Io ti incolpo per la tua stessa esistenza, votata al male, a nient’altro! Tu hai generato i mali del mondo che Prometeo rinchiuse nel vaso! Se tu fossi stata Dea di pace, come Atena, ben diversa sarebbe stata la storia dell’umanità! Per tutti i torti di cui ti sei macchiata, io ti sconfiggerò, Eris!!! Prendi, il battito d’ali capace di infrangere le stelle! Ali della Fenice!!!”

 

L’infuocata tempesta di energia dilaniò il suolo lunare, venendo udita persino da Pegasus e Ares, dall’altro lato dell’anello di Urano, convergendo sulla Signora del Dolore, che non sembrava affatto preoccupata. Tra le fiamme e la polvere sollevata, Phoenix la vide muovere le labbra, mormorando parole che non riuscì a comprendere. Poté solo vedere un lampo di luce rifulgere di fronte a sé, sopra la testa della Dea, un lampo così potente da frenare la sua tempesta di fuoco e disperderla. Anzi no, non disperderla, bensì… attirarla a sé. Mormorò attonito, riconoscendo l’icona diabolica apparsa tra i due contendenti.

 

Una mela d’oro.

 

Discordia sorrise, mentre tutta l’energia prodotta dal Cavaliere della Fenice veniva risucchiata all’interno della mela, per poi essere liberata in un secondo momento dall’altro lato della stessa, quasi fosse un effluvio di cui la Dea si nutrì.

 

Yum! Delizioso! In questo pugno c’era tutto il tuo rancore, Phoenix! Tutto l’odio che ti ha divorato il cuore per anni, dalla morte dei tuoi genitori! Il dolore per la loro prematura scomparsa, l’incombenza di un fratello minore, il timore che mali peggiori si abbattessero su di voi, la solitudine dell’addestramento, l’inferno della Regina Nera, la morte di Esmeralda, la caduta delle illusioni, l’uccisione del tuo maestro, il tradimento degli ideali di amicizia e poi, anche in seguito, il tuo carattere rissoso che ti ha portato più volte a contrastare apertamente la leadership di Pegasus. Su tutto questo aleggia lo spirito della contesa! Il tuo animo è così incline allo scontro da rappresentare per me il concime migliore per far prosperare il Pomo della Discordia!”

 

“Taci, maledetta! Ho abbandonato da tempo la via dell’odio!” –Incalzò Phoenix, tentando un secondo assalto. –“Ali della Fenice!!!” –Ma anche quella volta la bufera di fiamme ed energia cosmica venne risucchiata all’interno della mela, per poi essere espulsa in faccia alla Dea, sogghignante e trionfante.

 

“Non hai capito, Phoenix! Non sono le azioni a definire un individuo, quelle possono essere falsate! Ma è lo spirito, l’inquietudine esistenziale ove alberga il germe della contesa! E tu, ragazzo mio, ne sei infetto! Ah ah ah! Prova ne è la tua incapacità a superare quest’ostacolo! Tuo fratello, invece, avrebbe annientato il pomo d’oro in pochi secondi! Sono fortunata che tu abbia deciso anche oggi di fargli da balia! Così potrò ucciderti e portargli la tua testa in dono! A tale vista, alla vista degli sfregi di cui riempirò il tuo volto, anche il suo animo quieto collasserà, lasciando emergere una furia distruttiva e guerrafondaia che tutti gli uomini celano dentro sé! Di quello spirito volto alla contesa io sono la madre! E tu, figlio, non puoi opporti! Pomo della Discordia!!!” –Avvampò la Dea, dirigendo la mela verso il cuore di Phoenix, che cercò di tenerla indietro, di spingerla via, senza riuscire a muoverla di un millimetro. Quasi fosse pesante come una montagna.

 

Il pomo d’oro si depositò sull’armatura della Fenice, entrando al suo interno e avvinghiandosi al cuore del ragazzo, che crollò a terra, prostrato da spasimi indicibili. Phoenix urlò, sbraitò, tentò di strappar via quel frutto maledetto, ma non poté far altro che osservarlo scomparire dentro di sé. Travolto da una smania improvvisa, il Cavaliere si tolse il pettorale dell’armatura, graffiandosi poi la pelle nel disperato tentativo di trovare una via verso il suo cuore. E, se non avesse recuperato un’ultima stilla di consapevolezza, se lo sarebbe davvero strappato dal petto, offrendolo a Discordia in cambio di pace.

 

“Dimenati pure quanto vuoi, Cavaliere! Il Pomo della Discordia si nutrirà del tuo rancore, della tua natura litigiosa, consumandoti fino a ridurti a larva. E di questa sconfitta, mio bellicoso amico, potrai incolpare solo te stesso, e il tuo carattere!”

 

Phoenix non rispose alcunché, troppo stravolto persino per parlare. Gli pareva che artigli di fuoco gli stessero dilaniando il cuore, e che quello stesso fuoco poi percorresse le sue vene, espandendosi ovunque dentro di sé, anche nella sua mente. Cercò di rimanere lucido, di non cedere a fatali allarmismi, ma anche il solo pensare lo prostrava a terra, il pensare alle parole di Eris, alla loro attendibilità.

 

Il pensare ai suoi genitori.

 

Mamma… Papà… A differenza di Andromeda, nato qualche anno dopo di lui, Phoenix li ricordava ancora. Forse non il volto, opacizzato dal tempo e dal dolore, ma gli abbracci, il calore domestico di un’esistenza ancora non sfigurata dai fumi della guerra. Ricordava sua madre, e l’aroma di erbe in cucina, e suo padre, che doveva essere un fumatore incallito, a ripensare all’odore di fumo che pervadeva le stanze di casa. E poi ricordò quel giorno, quando li portarono via.

 

“C’è stato un incidente.” –Qualcuno disse. E quel ricordo adesso gli mozzò il fiato, quelle parole a cui non aveva più pensato.

 

Così si era ritrovato all’orfanotrofio, a insegnare a suo fratello a guardare il cielo, ad osservare le stelle, sperando di distrarlo, con quei piccoli gesti, dalle bruttezze del presente. E da lì a Villa Thule e poi alla Regina Nera il passo era stato veloce.

 

“Noi siamo simili, Phoenix! Animi inquieti, divorati dal tormento e inclini al litigio.”

 

Le parole di Discordia lo fecero infuriare, persino più del ritrovarsi inerme, su un suolo straniero, con il viso e il corpo affondati nella sabbia lunare, a pochi passi da una lama in grado di recidere la sua vita per sempre. Lo fecero infuriare perché erano vere, perché quella bastarda genitrice di sventure aveva ragione. Lui era collerico, di pugno facile e incline a picchiare più che a parlare. E ora aveva scoperto perché, che cosa lo rendeva così irascibile.

 

Perché era come suo padre.

 

E infatti, al pari suo, aveva causato la morte di tutte le donne che gli erano state vicino, di tutte le donne che aveva amato o avvicinato. Esmeralda, Pandora, Ippolita.

 

Una nuova fitta lo prostrò a terra, di fronte al divertito sguardo della Signora della Contesa, che troppo adorava quei momenti, quegli attimi di vita che le saturavano il cuore. Lei, che a differenza di Ares più dedito alla pugna, amava passeggiare tra le vittime di una battaglia, anche dopo che gli altri Dei si erano ritirati, sfiorando i cadaveri massacrati, riempiendo le narici del fetore della morte. Lei, che dagli uomini era stata allietata, ma solo finché fossero stati un diversivo, un modo per ingannare il tempo in attesa della prossima battaglia. Lei, che dal corpo di Phoenix agonizzante, dal volto devastato dal dolore, dovette ammettere di essere attratta, portandola a chinarsi vicino a lui e a sfiorargli il petto, per percepirne i singulti.

 

“Se tu non fossi stato così scontroso, avremmo potuto divertirci un po’, mio bel lupo solitario! Ah ah ah!” –Sghignazzò, gettandosi dietro la schiena i vaporosi capelli blu.

 

“Stai attenta… a quello che chiedi!” –Ringhiò Phoenix, allungando all’improvviso il braccio verso la Dea e afferrandole il collo, torcendola fino ad allineare i loro occhi. Trasudanti di determinazione, quelli di lui, e di sorpresa, quelli di lei. –“Ali della Fenice!” –Sibilò, sollevando Eris con un turbine violento di energia infuocata e osservandola compiaciuto mentre veniva sballottata lontano, fino a schiantarsi a terra, con numerose crepe sulla Veste Divina.

 

Co… come hai fatto?! Come?!” –Strillò, risollevandosi, il volto paonazzo per quell’oltraggio. –“Eri in mio potere! Ancora un istante e di te niente sarebbe rimasto! Come puoi aver avuto ragione del Pomo della Discordia?”

 

“Sei stata tu a darmi la chiave per la vittoria! Tu, smuovendo i miei ricordi e riportando la figura di mio padre davanti ai miei occhi! Quel che hai detto è verità, io sono come lui, e Andromeda è caritatevole come mia madre! Pur tuttavia… la forza di mio fratello, la bontà del suo cuore, è stata così intensa da opporsi alla Volontà Divina di Ade. Forte di questo esempio, e dell’amore che mi ha sempre offerto, come avrei potuto lasciarmi sconfiggere? Come avrei potuto permettere al rancore e allo spirito di contesa di dominare il mio cuore, toccato dalla purezza di Andromeda? Lui ha estirpato il male dal mio animo, lui mi ha indicato il percorso ed io, in questi anni, mi sono solo limitato a seguirlo! E questo mi ha dato pace!”

 

Non… è possibile!!! Non può essere! Il tuo animo… è infetto!!!” –Gridò Eris, ricreando la mela d’oro di fronte a sé. –“Pomo della Discordia!!!”

 

Nuovamente il frutto luminoso apparve in cielo, fluttuando fino a portarsi davanti a Phoenix, ma questa volta, anziché opporsi, anziché infiammare il proprio cosmo rabbioso, il ragazzo si limitò a sospirare, socchiudendo gli occhi e ricercando quell’armonia che solo pensando al fratello poteva trovare. Quella purezza per cui valeva la pena vivere, cacciando via ogni male, ogni desiderio di contesa.

 

E la mela si fermò.

 

Oscillò incerta sul petto del Cavaliere, senza trovare alcuna via, alcun accesso al suo cuore irato. Così Phoenix la afferrò, stringendola tra le mani e stritolandola poco dopo, di fronte agli occhi attoniti della Dea della Discordia.

 

“Mai nessuno era riuscito ad aver ragione del pomo d’oro! Mai nessuno aveva posseduto animo così puro da potersi definire al di sopra di ogni contesa! Persino Zeus evitò la sfida, preferendo rifilare a Paride l’onere della scelta! E tu, miserabile mortale, la cui vita è tinta dal sangue e dall’odio, mi hai fatto un simile torto?!”

 

“Le delusioni sono una brutta bestia, Eris, ma capitano a tutti! Non prendertela a male!” –Ironizzò Phoenix, strusciandosi il naso con un dito, prima di espandere il proprio cosmo e rivestirsi interamente dell’Armatura Divina.

 

“Prenderò la tua testa, invece, malnato!”

 

“Lo ripeti da un’ora eppure la sento ancora sulle mie spalle!”

 

“Insolente!!!” –Tuonò la Dea, mulinando il tridente e liberando guizzanti scariche di energia che squarciarono il terreno, obbligando Phoenix a balzare di lato in lato per evitarle. –“Anche senza il Pomo della Discordia, sono ancora la Madre dei Mali, nel pieno possesso dei miei poteri! Sono una Dea, Phoenix, ricordalo!” –E lo abbatté con una folgore energetica, che incenerì anche le lunghe code della corazza della Fenice.

 

“Vi è una sola Dea la cui autorità riconosco, e non sei tu, Eris!” –Esclamò il Cavaliere, rialzandosi. –“Tu sei sola, come Ares, senza nessuno che combatta per te! E non dirmi di guardare oltre, di ascoltare la marcia indefessa del tuo esercito verso il cuore del reame, perché sai bene che quel legame di paura che vincola i soldati al loro Dio non vale quanto il genuino affetto che unisce noi Cavalieri ad Atena!”

 

“Ti sbagli, Fenice! Non solo paura muove le gambe dei Phonoi e delle Androctasie, non solo la volontà di rendere una madre fiera dei propri figli, bensì la condivisione degli stessi obiettivi! Il sentire comune, il provare la stessa sete di guerra! Non dimenticare chi sono costoro! Figli miei, nati per partenogenesi dalla Madre della Contesa e, come tali, semi dello stesso frutto, semi che ho coscientemente sparso per il mondo nel corso di una cattività durata millenni! Non dimenticare, mio caro, la prigionia cui Zeus mi confinò!”

 

“La cometa Lepar…” –Mormorò Phoenix, ricordando ciò che Avalon aveva spiegato loro nell’Occhio.

 

“La culla ove la mia progenie è germinata! La culla da cui, ogni volta in cui il suo moto la avvicinava alla Terra, ho sparso i miei semi sul pianeta! Dodici volte, nel corso dei millenni, dodici semi per altrettante generazioni di figli!”

 

Do… dici?!” –Esclamò il Cavaliere, intuendo le potenzialità di quel numero.

 

“Cifra certo non casuale, in quanto dodici sono gli Dei dell’Olimpo. O almeno lo erano, ai tempi in cui il mondo era giovane e Zeus mi esiliò. Nessuno di loro mosse un dito, nessuno parlò a mia difesa, tutti troppo impauriti dalla folgore di Zeus. Persino chi, come Era o Dioniso, a volte si era avvalso dei miei servigi! Così nidificò in me il desiderio di vendetta, il proposito di gettare l’Olimpo nel caos, ben più di quanto avessi fatto con la razza umana fino a quel giorno! Per questo generai i miei figli, per questo li nutrii con il mio cosmo, infondendo loro la stessa propensione alla contesa che scorre nel mio Ichor! Per cacciar giù gli Dei dal Monte Sacro e sostituirli con un nuovo Dodekatheon, di cui io sarei stata madre putativa! E sotto di me avrebbero prosperato Limos e Lethe, Ate e Disnomia, Horkos e Algea, le Makhai, i Phonoi e le Androctasie, i Neikea, gli Pseudologi e le Amphilogie!”

 

“Una bella famiglia felice…” –Ironizzò Phoenix, pur turbato da quella rivelazione. Se oltre a Eris e ai figli presenti sulla Luna, avessero dovuto affrontare anche il resto della progenie della Madre dei Mali la guerra sarebbe stata ben lungi dal concludersi. E se non sono qui Rifletté, ricordando una strategia bellica di Ares. Dividi e impera. Li ha lasciati sulla Terra! Giacciono nel silenzio dell’ombra, attendendo il grido di guerra che li scuota e li guidi verso nuove mete di conquista! Maledizione!

 

“Qualcosa turba i tuoi pensieri, giovane guerriero? Quel solco sulla fronte parla più di quanto la tua natura solitaria non riveli!” –Commentò la Dea, puntando il tridente verso Phoenix ed espandendo il battagliero cosmo. Una scarica di energia riempì l’aria, obbligando il Cavaliere a scattare di lato, prima che una tempesta di fulmini si abbattesse su di lui, alternata al ridacchiare imperterrito di Eris. –“Come vedi, mi sono allenata a prendere il posto di Zeus! Sono persino in grado di controllare la forza del keraunos, proprio come lui, unica nel mio genere! Del resto, dopo millenni trascorsi ad osservare in silenzio i tuoi nemici, impari a conoscerne anche le armi, e a farle tue! E adesso che sono stata liberata, adesso che posso finalmente esistere, sono in grado di scatenare il mio vero potere! Muori, Phoenix! Melas keraunos!!!”

 

La danza di fulmini neri atterrò Phoenix con una velocità e un’intensità sconcertanti, facendo comprendere al ragazzo che la Dea dalla folle risata, che ricordava gloriarsi del suo prossimo trionfo al calar del sole, era solo un’ombra del vero potenziale della Signora della Contesa. Libera, rinata, ringiovanita, era davvero un’entità pericolosa, oscura come Ade, potente come Thanatos, sanguigna come Deimos. E forse anche di più. Discordia esprimeva davvero il potere del male.

 

Una nuova scarica energetica lo raggiunse mentre, aiutandosi con le ali della corazza, cercava di portarsi a distanza di sicurezza, schiacciandolo al suolo e facendogli perdere l’elmo. Non fosse stato per il mithril e per la sapienza di Efesto, persino l’armatura rinata col sangue di Atena sarebbe andata in frantumi, dilaniata da quei poderosi fulmini oscuri.

 

Melas keraunos!!!” –Ripeté Discordia, trapassando il corpo del Cavaliere con una fitta pioggia di aghi neri e gettandolo contro il muro che separava il Cerchio di Urano da quello ormai superato di Nettuno. Una nuova raffica di folgori lo demolì, seppellendo Phoenix sotto le macerie, di fronte al pago sguardo di Eris.

 

“Quale potenza!” –Rantolò il Cavaliere, respirando a fatica sotto i detriti franati. Cercò di radunare le forze, di riflettere sulla tattica da adottare, ben consapevole che, di fronte ad una mente perversa come quella di Discordia, in grado di disorientare l’avversario, poche strategie potessero funzionare. Pur tuttavia doveva tentare. Per sé, per Pegasus, che stava affrontando Ares, per suo fratello, appena sceso sul campo di battaglia, e persino per Atena, il cui cosmo pareva essersi acceso all’improvviso.

 

Incuriosito, e anche preoccupato, dall’intervento di Andromeda e della Dea, Phoenix fece esplodere il proprio cosmo, distruggendo i resti del muro franato e rialzandosi, di fronte allo sguardo attento di Discordia, che lo stava chiaramente aspettando.

 

“Le scocciature peggiori sono lunghe da eliminare!” –Commentò la Dea, con una fragorosa risata, prima di mulinare il tridente, pronta per liberare una nuova pioggia di fulmini. Ma Phoenix la anticipò, muovendo rapido un braccio e generando un sottile raggio di energia che trapassò l’elmo della Veste Divina, spezzandolo in due e lasciando colare un rivolo di sangue sul volto sbigottito di Discordia. –“Cosa… è stato?!”

 

“Il Fantasma Diabolico. Il pugno dell’illusione della Fenice.” –Chiarì il Cavaliere, ormai completamente in piedi. –“Come tu hai tentato di piegare il mio spirito, con le tue parole mendaci, ugualmente proverò a fare io!”

 

“Ah ah ah! Divertente, ragazzo! È una dote richiesta per divenire Cavalieri di Atena o solo un ultimo sfizio che ti sei voluto togliere prima di lasciare questo mondo? Quale che sia la risposta, non mi interessa! Il tempo a nostra disposizione per questo scontro volge al termine! L’avanzata delle Makhai è stata rallentata al Cerchio di Giove ed è d’uopo che vada a far cadere qualche testa! Perciò, Phoenix, addio! È stato un piacere! Melas keraunos!!!” –Avvampò la Dea, scatenando la furia delle folgori nere, che piovvero su Phoenix da ogni direzione.

 

Il ragazzo tentò di evitarle, scattando alla velocità della luce, ma venne comunque raggiunto in più punti, l’armatura graffiata, in parte scheggiata, il volto ustionato da quelle scariche violente. E, su tutto, il fastidio maggiore per Phoenix fu continuare a udire la risata di Discordia, che pareva davvero compiacersi di ogni attimo del loro duello.

 

D’un tratto, però, la Dea smise di ridere, distratta da un suono improvviso che le parve provenire dalla sua destra. Mosse lo sguardo, pur continuando a massacrare Phoenix di fulmini neri, ma non vide alcunché, non essendo rimasto niente nel Cerchio di Urano, soltanto l’accendersi impetuoso dei cosmi di Pegasus e Ares nell’altra metà dell’anello. Accigliata, riportò l’attenzione su Phoenix, salvo accorgersi che il ragazzo era protetto da uno scudo rossiccio, che le sue scariche di energia non riuscivano a scalfire, per quanto insistesse e aumentasse l’intensità del suo attacco.

 

Imbestialita, avanzò a grandi falcate verso Phoenix, per capire da dove fosse sbucato quello scudo, proprio mentre l’arma scompariva, rivelando quel che dietro era celato. Il corpo del Cavaliere di Atena stava roteando su se stesso, in una sequenza infinita di capriole, sprigionando un’energia così abbagliante da costringere la Dea a coprirsi gli occhi con un braccio. Fu allora che Phoenix sfrecciò verso di lei, come l’incandescente nucleo di una cometa, accompagnato da una fitta pioggia di dardi neri che obbligò la Dea a sollevare un muro di energia cosmica davanti a sé, ove gli strani assalti si esaurirono. Un pizzicare di cetra la distrasse ancora, prima che alle orecchie giungesse nitida una triste melodia, la stessa che credeva di aver sentito poc’anzi, per quanto nessun’altro fosse attorno a loro. Riportò lo sguardo sul Cavaliere della Fenice, accorgendosi con orrore che era scomparso e che sul suo muro difensivo era apparsa un’enorme crepa a forma di croce ghiacciata, che si stava espandendo al punto da invadere l’intera barriera, mandandola in frantumi.

 

Discordia gridò, venendo spinta indietro, mentre di nuovo una cometa energetica e dardi corvini piovevano su di lui, obbligandola a muovere il tridente avanti a sé, per spezzarne l’avanzata.

 

Fu allora che Phoenix si rimise in piedi, dopo essere stato trafitto dalla devastante tempesta di fulmini neri. Era durata ben poco, per sua fortuna, ma alcuni di essi avevano trapassato l’armatura divina raggiungendo le carni al di sotto e causandogli pene indescrivibili. Adesso il Cavaliere osservava Discordia di fronte a sé, priva ormai di ogni interesse per il loro scontro, intenta a roteare l’arma in ogni direzione, pretendendo di colpire o trafiggere invisibili avversari. Non capì cosa le fosse accaduto, cosa avesse invaso la sua delirante mente al punto da renderla ancora più folle. A meno che Rifletté, consapevole che l’azione del suo colpo segreto era diversificata in base al soggetto.

 

Non ebbe il tempo di chiedersi altro che una mano si appoggiò alla sua spalla destra, obbligandolo a voltarsi. E a fare un passo indietro, sconvolto alla vista dell’uomo che gli si parava di fronte, un uomo che doveva essere morto. Solo allora, udendo le lamentele di Discordia, comprese quel che la Dea stesse osservando.

 

“Sono felice di rivederti, Cavaliere di Phoenix, stavolta come alleati! Ascoltami bene, perché abbiamo poco tempo, quello che il Fantasma Diabolico ci consentirà, ma io ti dirò come sconfiggere la Signora della Contesa!” –Esordì così uno dei più valenti Cavalieri della storia. Serian di Orione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 15
*** Capitolo tredicesimo: La guerra infuria ***


CAPITOLO TREDICESIMO: LA GUERRA INFURIA.

Una bruma scura sormontava il complesso templare ove Febo e Marins erano prigionieri, generando malumore e preoccupazione nell’animo di Horus e di suo padre. Amon Ra li aveva avvisati che qualcosa di terribile e oscuro era all’opera nel cuore del deserto del Gobi, in uno dei luoghi più antichi del pianeta. Qualcosa di fronte al quale persino Seth e Apopi potevano essere definite pallide minacce.

"La descrizione di deserto della morte o punto di non ritorno è calzante." –Ironizzò Horus, osservando l’immenso territorio che si apriva di fronte a loro.

"Sei pronto?" –Gli chiese Osiride, fissandolo nell’unico occhio che gli rimaneva.

Il figlio annuì, prima di rivolgere l’ultimo sguardo al drappello di Soldati del Sole che stava per marciare verso la rovina o la morte. Molti di loro, per certo, non avrebbero visto il sorgere di una nuova alba, eppure nessuno aveva esitato, nessuno aveva osato opporsi al volere di Osiride, recepito non come un ordine ma come l’ardente desiderio di un padre di liberare colui che considerava alla stregua di un figlio.

Il giovane falco salutò i presenti, prima di mutare il proprio corpo e spalancare le ali dal grigio piumaggio. Afferrò Naveed per le spalle e lo sollevò di peso, lanciandosi nel cielo caliginoso dell’Asia Centrale.

Osiride, nel frattempo, aveva raccolto il proprio potere attorno allo scettro, roteandolo sopra la testa e generando cerchi di energia che calarono su tutti i guerrieri egizi, nascondendo al qual tempo le loro fattezze. Dal momento che avevano scelto la via dell’assalto diretto, procedere a piedi, esposti alle avvisaglie delle vedette, sarebbe stata solo un’inutile marcia stancante. Così il Signore di Amenti aveva optato per una strategia più rozza ma di certo più efficace.

"Arrivare quanto più possibile vicino alla piazzaforte nemica!" –Mormorò, scomparendo a sua volta.

Era certo che non sarebbero potuti entrare all’interno, a causa dell’oscura energia che permeava quel luogo, ma quanto meno poterono coprire le miglia di distanza dal tenebroso santuario in un lampo di luce, riapparendo proprio fuori dalle mura esterne. A vederlo da vicino, con quei torrioni merlati e il portone su cui erano scolpite forme demoniache, Osiride torse la bocca in un gesto di raccapriccio, riconoscendo che più che un tempio ove venerare una qualche antica divinità era più simile ad una fortezza da guerra. Uguale pensiero attraversò la mente dei Soldati del Sole, che adesso, così vicini al pericolo, così esposti al gelido soffio dell’ombra, ne percepirono tutta la potenza. Pur tuttavia sfoderarono le spade, disponendosi attorno al Dio degli Inferi, che li incitava a non cedere alla paura, a dominarla e a riversarla contro i nemici.

"Qualunque cosa ci aspetti! Qualunque mostro si pari a noi di fronte, la sua sorte è già segnata! La piuma di Maat lo ha già condannato a precipitare in Amenti!"

Fu in quel momento che grida raccapriccianti squarciarono l’aria, mentre il suolo veniva squassato da scosse improvvise. Di scatto il portone del santuario nemico si spalancò e tre orribili figure ne uscirono: alte, ben più del doppio di un normale essere umano, il corpo slanciato e avvolto da serpi fiammeggianti, le bocche spalancate nell’atto di cacciar versi osceni, tre donne furono su di loro, scagliando lance di legno incendiarie e facendo guizzare fruste di fuoco.

"Per Amon, quale mostruosità!" –Commentò Osiride, mentre le tre figure, quasi spinte dal vento, si libravano leggere in aria, pur nella loro enormità fisica. –"Non arretrate!!! Reagite!!! Soldati del Sole, attaccate le figlie di Apep!!!"

Le urla del Dio riscossero i guerrieri dallo stordimento dovuto alla sorpresa, spingendoli a correre in avanti, mentre guizzi di luce laceravano l’aria, partendo dalle lame che impugnavano.

"Spade del Sole!!! Irradiate e incenerite il nemico!!!"

Le tre creature però furono svelte a evitare gli affondi, dividendosi il campo di battaglia e piombando proprio in mezzo ai soldati, dove maggior strage potevano generare. Guardandole meglio, i guerrieri egizi notarono che le serpi arroventate che avvolgevano i loro corpi nascevano direttamente dal cranio, come fossero capelli, vipere affamate che subito si avvinghiarono ai soldati, stritolandoli, strattonandoli, mordendoli, affondando i denti nelle loro carni, senza mai essere sazie.

"Sono delle furie scatenate!" –Avvampò Osiride, muovendo lo scettro regale in modo da creare una cupola di luce con cui protesse se stesso e alcuni guerrieri che gli stavano attorno, respingendo le fiamme nemiche. Quindi, dando l’esempio, puntò l’asta dorata emettendo un raggio di energia che raggiunse in pieno una delle tre figure, spingendola indietro e mozzandole un braccio. Digrignando i denti, la donna cercò di rialzarsi, affondando l’altra mano nel suolo e facendovi fluire il suo cosmo oscuro. Immediatamente centinaia di serpi infuocate sorsero dal terreno, intrappolando i Soldati del Sole e facendo strage dei loro corpi. Inorridendo, Osiride notò che persino dalla spalla mozzata stavano fuoriuscendo tali abominevoli vipere.

"Figlie di Apopi, la vostra oscurità non avrà ragione dell’Esercito del Sole di Amon!" –Esclamò, generando un’onda di energia con cui travolse la creatura, fino a farla schiantare contro il muro esterno del santuario. Quando fece per voltarsi verso le altre due, si sentì afferrare per una gamba e sbattere a terra, una frusta fiammeggiante avviluppata attorno allo stinco, la sadica risata di una creatura intenta a trascinare il Dio verso le sue grinfie. –"Come osi, bestia immonda?! Non hai dunque pudicizia?" –Ringhiò Osiride, espandendo il cosmo e incenerendo la frusta. Poi, rimessosi in piedi, si lanciò contro l’orrido mostro, lo scettro rivolto avanti, mirando al cuore.

Rinfocolati dall’azione del Dio, i guerrieri egizi sopravvissuti ripresero a lottare con maggior fuga, mulinando le spade in ogni direzione e mozzando le orribili serpi di cosmo che volevano cibarsi della loro linfa vitale. Ma proprio allora un nuovo grido li stordì, risuonando nei loro timpani fin quasi a sfondarli. Fu un attimo e una mandria di vacche furiose li caricò, uscendo a centinaia, forse a migliaia dal portone aperto del tempio. Vacche nere, grigie, alcune marroni, con lunghe corna che si allungavano a dismisura, infilzando i corpi esterrefatti dei soldati egizi, che mai avrebbero creduto di dover affrontare simili creature, considerando soprattutto quanto sacro fosse quell’animale nelle terre di Amon Ra.

"Se la compagnia delle Erinni non vi ha soddisfatto, siamo venute anche noi a darvi il benvenuto!" –Esclamò una vacca, piantando le corna nel petto di un Soldato del Sole, per poi sbatterlo a terra e iniziare a nutrirsene, divorando in fretta vesti, pelle e organi vitali. –"Siamo le Empuse, le divoratrici! E teniamo fede al nostro nome, come potete vedere! Igh igh igh!"

In quel momento Osiride si liberò della donna con cui stava lottando, piantandole lo scettro nel ventre e poi muovendolo di lato, come fosse una spada, per squarciarle la pelle. Pur ferita, pur imbrattata di sangue e budella, la furia della Erinni non sembrava placarsi, addirittura cresceva, infoiata da un appetito insaziabile. Inorridito, il Dio pensò che sarebbe giunta a cibarsi del suo stesso corpo smembrato.

"Hai scelto la migliore, come compagna di giochi!" –Disse allora una delle Empuse, intenta a smembrare un soldato poco distante. –"Aletto, l’incessante. L’Erinni che non è mai stanca e non dà requie ai suoi nemici! Buon divertimento! Igh igh!" –E rituffò la faccia nel ventre squarciato dell’uomo.

In quel momento Aletto si riscosse, tra grugniti bestiali, dirigendo le serpi maligne verso il corpo del Dio, alle cui gambe si avvolsero all’istante, stritolandole, mirando a spezzare la resistenza della Veste Divina, per raggiungere la carne al di sotto.

"Ora basta!!!" –Tuonò il Nume, ormai una maschera di rabbia. –"Sono Osiride Petementes, Giudice supremo dell’Oltretomba, membro della Grande Enneade! Non indietreggio impaurito di fronte a tali abomini! Sappiatelo, voi tutte, streghe furiose, e temete la mia ira!"

Per nulla convinte, centinaia di Empuse si lanciarono verso di lui, le fauci pronte ad azzannare, mentre sempre più in alto si snodavano le serpi di fuoco sul suo snello corpo, fin quasi ad azzannargli la barba. Quasi. Sibilò il Dio, bruciando il cosmo. Tutte le vipere infernali furono annientate, disintegrate da quell’estremo bagliore che costrinse persino Aletto a indietreggiare, coprendosi il volto con un braccio.

"Flagello di Amenti!!!" –Recitò Osiride, alzando le braccia in diagonale e generando una valle di puro cosmo ove le Empuse vennero risucchiate una dopo l’altra, i luridi corpi percorsi da spasimi incontrollabili. –"Al tuo posto!" –Ringhiò infine, dirigendo l’assalto contro la vicina Erinni, che, intuito il pericolo, tentò di fuggire.

Fu tutto inutile, perché il richiamo di Amenti la raggiunse, aspirandola al suo interno, per quanto si dibattesse, afferrando i bordi del varco energetico, nonostante l’ardore del cosmo le incenerisse le mani. Le serpi si contorsero furiose, tuffandosi nel terreno e tentando di ancorare il corpo del demone a quella realtà. Con fatica, utilizzando sempre nuove energie, Osiride riuscì infine a spezzare la resistenza di quella furia, allungando i bordi della valle di cosmo fino a mozzarle le braccia e inghiottendo poi il corpo mutilato all’interno, potendo così richiudere il varco.

"E una!" –Commentò, senza molta soddisfazione, considerando quante forze aveva dovuto profondere in un’operazione che avrebbe creduto semplicissima. Ricordò le parole del soldato egizio, che aveva immaginato l’oscuro tempio come una creatura viva, pulsante di energia, e dovette riconoscerne la veridicità. L’aveva percepita fin dall’inizio, quell’ansia senza nome che l’aveva invaso mettendo piede di fronte a quel santuario, e adesso poteva esserne certo. Quell’energia oscura, quella materia primordiale che pareva fermentare dentro le sudice mura, si stava nutrendo del suo cosmo, e dell’essenza vitale dei suoi soldati, per poter tornare in vita.

Rialzandosi a fatica, si guardò attorno, per dare coraggio ai pochi Soldati del Sole rimasti in vita, che ancora combattevano con le Empuse, e cercare le sue prossime prede. Una delle Erinni, quella a cui aveva mozzato il braccio, gli aveva appena rivolto una fetida fiatata incendiaria, ma della terza aveva perso le tracce.

***

All’interno del santuario, in una cella ampia e spoglia, alcune voci stavano parlottando tra loro, al buio.

"Odo rumori provenire dall’esterno!" –Disse piano un’anziana voce maschile.

"Cosa succede? Eh, cosa succede?" –Si ringalluzzì un altro, balzando in terra e portando un corno d’ottone all’orecchio.

"Cosa vuoi che succeda, vecchio sordo?! Ci stanno attaccando! Non senti il furore dei cosmi che si infiammano? Sarai pur stato giovane anche tu, Geras! Sono rumori di guerra!"

"Guerra?! Guerra?! Santi numi, moriremo tutti!" –Parlò allora una terza isterica voce, pervasa da una tremenda paura, quasi disperazione. –"Oh Dei del Cielo aiutateci!"

"Stolto!" –Gli diede una botta in testa la prima voce. –"Siamo noi gli Dei del Cielo!"

"Oh, è vero! Allora confermo! Moriremo tutti!!!" –Piagnucolò il compagno.

"Devo dire che la valutazione di Oizys è corretta! Non abbiamo ancora recuperato le nostre forze, cosa potremmo fare contro ignoti e potenti guerrieri? Fargli lo sgambetto col mio bastone?!" –Confermò l’uomo con il corno all’orecchio.

"Niente!" –Li zittì tutti una quarta voce. –"Non faremo assolutamente niente!"

I tre litiganti si voltarono verso la direzione di provenienza della nuova voce, riconoscendone la cadenza e soprattutto l’impersonalità, quasi fosse espressione di un distacco dal mondo che solo una Divinità poteva possedere.

"Moros, cosa vuoi dire?"

"Ciò che ho appena detto! Non è chiaro, forse, Momo?" –Continuò il Dio, placido nel suo dialogare. –"Noi non faremo niente poiché non c’è niente che noi possiamo fare! Il destino seguirà il suo corso, sempre e comunque, e non saranno le balorde azioni di un vecchio, di un miserabile e di uno zitello inacidito cacciato dall’Olimpo per aver ridicolizzato i suoi occupanti con sciocchi apprezzamenti a cambiarlo! Ogni essere vivente, umano o divino, andrà verso la fine scritta per lui, per quanto possa sforzarsi di cambiare direzione! Così ho parlato!"

"Beh, potevi startene zitto allora! Pfui!" –Sputacchiò Momo.

"Che ha detto? Che ha detto?!" –Intervenne allora Geras, agitando il cornetto all’orecchio e finendo per sbattere in una colonna del tempio, cadendo a terra.

"Moriremo tutti!" –Ripeté Moros. E le sue parole non suonarono come un timore o una speranza, ma solo come una semplice constatazione.

***

Il falco d’argento apparve nel cielo sopra il Taklamakan, nascosto tra le nuvole di quel tardo pomeriggio. Nonostante l’imbrunire, la via era tracciata chiaramente davanti ai suoi occhi, inoltre, quand’anche si fosse perso, l’accendersi impetuoso del cosmo di suo padre di fronte al nero portone lo avrebbe comunque guidato alla meta. Naveed, stretto dai suoi artigli, scrutava tra i nembi in cerca di vedette o nemici nel grande spiazzo aperto che si estendeva di fronte al tempio, cinto da alte mura nere di fronte alle quali i suoi compagni stavano combattendo. Non vide nessuno, confermando la valutazione fatta in precedenza, sebbene non potesse essere certo che altre oscure potenze non fossero risorte durante la sua assenza.

Horus planò nel cortile, depositando il soldato, che subito impugnò la Spada del Sole, guardandosi attorno circospetto, pronto a liberarne i raggi, mentre il Dio recuperava la sua forma umana, indossava la Veste Divina e correva verso la scalinata d’ingresso a quella che sembrava la struttura principale del tempio. Abbatté il portone con un calcio, facendo entrare, forse per la prima volta, un filo di luce in quell’androne oscuro, permettendo a Naveed di riconoscere la sala dove aveva visto riunirsi i loro nemici poche ore prima. Scattando avanti, il giovane condusse Horus verso un corridoio sulla sinistra, dirigendosi verso i sotterranei, ma accorgendosi di dover cambiare strada più volte, essendo mutato lo schema interno della costruzione.

"Avverto la stessa sensazione di ore addietro! La rovina del tempo!" –Commentò Naveed. –"È come se tutto fosse abbozzato, provvisorio, caduco. Tutto è rimasto sepolto sotto una polvere di eternità, fuori dal mondo, fuori dal tempo. Come…" –Quindi si interruppe, temendo per le sue parole.

"Come era Karnak quando Amon Ra era prigioniero del suo isolamento!" –Annuì Horus, che provava lo stesso senso di decadenza. –"Ma c’è un altro potere all’opera, un’oscura forza che pervade l’aria, saturandola e forse sostenendo questo luogo di afflizione, per quanto non riesca a percepirne l’origine!"

Un infimo bagliore lo distrasse, portandolo a correre verso quell’unica fonte di luce, ritrovandosi infine in una sala buia, scoprendo che quel chiarore proveniva da una torcia incassata nel muro sull’altro versante, a segnare quello che sembrava l’accesso ad una scalinata, e Naveed fu certo che conducesse ai sotterranei. Ai lati del salone però giacevano decine di bare nere, dentro cui Horus sentì fermentare potenti e cupe energie. Rabbrividì, esitando per un momento, ma poi ricordò le parole del padre sull’essere fermi durante una missione e pensare prima all’obiettivo principale, poi al resto, per non vanificare un’azione congiunta. Così riprese a correre dentro il salone, seguito da Naveed, mentre alcune minute figure nascoste dietro ai feretri si lasciavano prendere dal panico e iniziarono a scappare.

"Aspettatemi! Puff, pant! Aspettatemi!" –Gridò un uomo, trotterellando a fatica reggendosi a un bastone.

Naveed fu subito su di lui, trapassandogli il costato con la Spada del Sole e liberando un getto infuocato di energia che incendiò vesti e carni dell’anziano, che rantolò ancora per qualche passo, prima di accasciarsi su una bara d’ebano, mentre un corno d’ottone cadeva dalle sue tasche. Improvvisamente anche il contenuto del sarcofago iniziò a bruciare, una sostanza vischiosa, quasi oleosa, dentro cui un corpo scheletrico stava immerso. Grida terrificanti risuonarono nella sala, mentre un altro uomo piagnucolava più avanti, venendo subito raggiunto da Horus, che lo afferrò, sollevandolo di peso, chiedendogli chi fosse e dove fossero i prigionieri.

"Lo sapevo! Lo sapevo io! Siamo tutti condannati! Miseria, sofferenza e morte ci aspettano!" –Ripeté angosciato, senza che il Dio egizio potesse cavargli altro.

"Non avrete risposte da Oizys, solo parole grame! Del resto non si diventa Dei della Miseria e della Sventura per caso!" –Parlò allora una voce calma, mentre un uomo calvo, assiso a gambe incrociate, appariva in aria di fronte a Horus, fissandolo con sguardo inespressivo.

"Chi sei tu?" –Lo interpellò subito il figlio di Osiride, mentre Naveed prendeva posizione di fronte a lui, spada in pugno.

"Moros, il destino ineluttabile! Così mi chiamano! Non che mi interessi, in fondo, come gli altri si rivolgono a me, un nome non cambierà di certo il fato, ne convieni, Horus, il lontano?"

"Come conosci il mio nome?!"

"Io conosco il nome di tutti gli esseri viventi, e soprattutto ne conosco la sorte! Il fato a cui nessuno può opporsi! Neppure gli Dei!"

"Se conosci la sorte di tutti, sai anche che potrei ucciderti adesso con le mie mani, creatura delle tenebre!"

"Ne sono consapevole! Come sono consapevole che potresti sterminare Oizys e tutte le Astrazioni che riposano in queste bare d’ebano attendendo il momento della loro rinascita! O, se lo desideri, potresti imboccare quelle scale erte, che vedi là dietro, alle mie spalle, e scendere nei sotterranei e liberare gli amici a te cari! Oppure potresti tornare indietro ad aiutare tuo padre, che, permettimi di fartelo notare, è in evidente difficoltà! Infine c’è sempre un’ultima scelta, quella che io prediligo!"

"Ossia?!" –Domandò Horus, incuriosito da quel bizzarro personaggio.

"Non fare niente, proprio come me! Poiché niente comunque cambierà! Quindi a che giova faticare tanto? Fai la tua scelta Horus, figlio di Osiride, e pagane il fio!"

Il giovane falco rimase assorto nei suoi pensieri per qualche secondo, prima di fare cenno a Naveed di seguirlo e correre lungo la scala di pietra fino all’ultimo livello, da cui sentivano provenire, sia pur debole, l’impronta cosmica di Febo e di Marins.

"Per Osiride, quale supplizio!" –Gridò Horus, osservando con disgusto la scena rivelatasi ai suoi occhi.

Febo e Marins erano appesi al muro, abbandonati nudi e inermi su rozze croci di pietra, mentre i loro corpi venivano prosciugati dell’essenza vitale da serpi di cosmo nero, di fronte all’attento sguardo di una vecchia gobba. Ai piedi dei due Cavalieri delle Stelle, da una bara d’ebano identica a quelle che avevano visto nella sala al piano superiore, una figura rachitica si stava muovendo, iniziando a liberarsi dalla sostanza vischiosa in cui il suo scheletro era immerso.

Horus comprese subito quel che stava accadendo e prese la sua decisione, incitando Naveed ad agire. –"Artigli del falco!!!" –Gridò, liberando il possente rapace il cui cosmo incendiò le serpi venefiche che stavano massacrando i due compagni, spingendo indietro la vecchia torturatrice.

Naveed, al qual tempo, si era portato ai bordi del feretro, accendendo la Spada del Sole di un lucido fulgore e piantandola nel petto della scheletrica figura. Subito una violenta fiamma si propagò, rischiarando la tenebra puzzolente di quel sotterraneo e permettendo a Horus e al suo soldato di osservare la nefandezza di quel processo di rinascita. Le mani ossute della figura nel sarcofago, presto divorata dalle fiamme del sole d’Egitto, si allungarono spasimando verso il giovane Dio, ma Naveed fu svelto a reciderle con un altro colpo di lama, pregando il suo Signore di rimanere a distanza.

"Fobetore!!! Nooo!!!" –Gridò allora la vecchia spinta a terra, rialzandosi urlando e rivelando il suo viso butterato. –"Maledetti impiccioni! Ce l’avevo quasi fatta! Che la maledizione di Algea, Dea della Sofferenza e del Martirio, vi pervada!"

"Non temere, brutta strega! Riabbraccerai presto il tuo disgustoso amico, poiché sarai la prossima a cadere, pagando per il male che hai causato!" –Avvampò Horus, espandendo il proprio cosmo argenteo, che lo avvolse, terrorizzando la donna dalle nauseabonde vesti, che fu costretta a fare altrettanto.

"Timoria!!!" –Strillò, dirigendo un unico potente raggio di energia oscura verso il Dio egizio, che non ebbe problema alcuno a pararlo con il palmo della mano aperta, su cui fulgido risplendeva il suo cosmo.

"Hai provato e hai fallito! Ora non provare più! Riposa, donnaccia! Artigli del falco!!!" –Tuonò il figlio di Osiride, mentre rapidi fendenti di energia piombavano su Algea da ogni direzione, dilaniando le sue vesti putride e le sue carni stanche, prima di lasciarla crollare a terra, in una pozza di sangue scuro.

Horus ne osservò la carcassa per qualche secondo, senza soddisfazione alcuna. Un attacco di quel genere, portato da un Dio del suo calibro, membro della Piccola Enneade, avrebbe dovuto distruggerla completamente e non limitarsi a sbrindellare vecchi abiti e pelle marcia. Cos’è questo peso che grava sul mio cuore, che rende pesanti i miei passi, affatica le mie membra e diminuisce la forza dei miei assalti? Che sia l’oscuro potere celato tra queste mura, la cui forza d’attrazione adesso percepisco più nuda e cruda che mai? Rifletté, prima che Naveed lo richiamasse.

"Mio Signore, qua! Aiutatemi!" –Il soldato stava mulinando la Spada del Sole in ogni direzione, per distruggere le serpi nere rimaste, riuscendo infine a liberare Febo e Marins da quella macabra tortura.

Con delicatezza, Horus estrasse i chiodi che erano stati piantati nei palmi delle loro mani e nella carne, proprio sotto le ascelle, tremando inorridito di fronte alle chiazze nere che costellavano la loro pelle, orrende tumefazioni frutto dell’abominio. Naveed lo aiutò a rimuovere i corpi e a posizionarli poi a terra, lontano dal sarcofago e dal cadavere putrescente della vecchia, per sincerarsi delle loro condizioni.

Debole, lontano, fioco, quasi un sospiro nel vento, il cuore di Febo e di Marins pareva battere ancora, e questo aveva una sua logica, dovette ammettere il Dio Falco. Per quel che aveva visto, i loro nemici avevano deciso di servirsi del cosmo dei Cavalieri delle Stelle come nutrimento per risvegliare antichi Dei rimasti nell’ombra per millenni; pertanto avevano bisogno di tenerli in vita, anche se incoscienti, quanto più potessero, allungando le loro sofferenze.

"Bastardi!" –Ringhiò Horus, prendendo un oggetto che Iside gli aveva dato e mettendolo al collo di Febo. Naveed lo riconobbe e chinò il capo, per onorare la Dea Madre misericordiosa. –"Il tiet li aiuterà a riprendere le forze!"

Fu allora che la voce ruvida di Algea li raggiunse, facendoli trasalire, convinti che la vecchia fosse morta. –"Non sofferenza fisica ti aspetta, giovane falco. Cough cough! Non pena adeguata sarebbe per il tuo atto sacrilego. Ben più intenso supplizio ti attende, per mano delle Dee della Vendetta! Così siamo pari." –Tossì la Dea delle Sofferenze, prima di spirare.

Naveed bofonchiò qualcosa, per cacciar via la maledizione di quella vecchia, prima di venir spinto di lato dallo smottamento del terreno. Qualcosa di grosso, di molto grosso, stava camminando sopra di loro. Ed era anche parecchio veloce, a giudicare dalla rapidità con cui stava discendendo i gradini verso il sotterraneo, proiettando agghiaccianti ombre sulle mura, rischiarate da improvvise fiamme rossastre.

Hisss!!! Sibilò un’orrida bestia, sbucando infine nell’angusta sala e palesandosi per quel che era. Un alto corpo di donna, di nero vestita, con lunghe serpi infuocate per capelli e occhi iniettati di sangue. In mano reggeva una torcia, la cui fiamma ne rendeva i lineamenti ancor più orripilanti. Naveed fece un balzo indietro, impugnando la spada, sia pur con mano tremante, ma tenendosi comunque sempre davanti a Febo e Marins. Horus lo affiancò all’istante, ben sapendo chi aveva davanti, uno dei demoni antichi della vendetta. Una delle tre Erinni.

***

Libra si fece aiutare da Yulij del Sestante per trasportare il corpo inerme di Tirtha alla prigione di Capo Sounion, scortati da alcuni soldati del Santuario. Per quanto potesse sembrare una precauzione eccessiva, verso un avversario che neppure indossava un’armatura, Dohko preferì evitare ogni rischio, avendo visto di persona che cosa una persona dominata dall’ombra potesse fare. Ed inoltre il fatto di aver persino respinto i poteri mentali di Virgo lo faceva temere più di ogni altra cosa, conoscendo davvero pochi esseri umani, in tutto il mondo, che potessero permettersi un lusso simile.

"Qualcosa vi turba, Cavaliere di Libra?" –La voce di Yulij del Sestante lo raggiunse, atona e metallica a causa della maschera che le copriva il volto.

"Sono solo dispiaciuto. Era una ragazza molto promettente." –Si limitò a commentare Dohko, continuando a marciare lungo la via che conduceva alla scogliera. –"Proprio come te!" –Aggiunse, per sembrare meno distante con la giovane Sacerdotessa.

Dopo la fine della guerra contro Ares, quando Atena aveva deciso di restaurare il Grande Tempio, ricostruendo case, alloggi e quant’altro fosse stato distrutto dai berseker, aveva chiesto ai Cavalieri d’Oro e d’Argento di completare l’addestramento dei loro ultimi allievi, in modo da poterli investire non appena ritenuti meritevoli.

"Ho già dato disposizione a Castalia e Tisifone di riprendere il programma di formazione delle giovani sacerdotesse!" –Aveva iterato Atena.

"Capisco le vostre necessità, mia Dea!" –Aveva detto Libra, in ginocchio di fronte al trono assieme a Mur e Ioria. –"Mai come adesso le fila del nostro esercito sono state così ridotte. Escludendo i Cavalieri dello Zodiaco, ormai assurti a ben superiore rango rispetto a quello che qualsiasi classificazione possa dare loro, vi sono solo tre Cavalieri d’Oro, due Cavalieri d’Argento e due Cavalieri di Bronzo, Unicorno e Camaleonte. Sette su ottantotto."

"Non è propriamente così!" –Aveva esclamato Atena, sorprendendo i tre Cavalieri d’Oro che avevano ardito sollevare il volto e fissare la Dea dallo sguardo sorridente.

Proprio in quel momento, da dietro la tenda color porpora, un uomo era uscito, portando tomi antichi con sé e inchinandosi prontamente a lato del trono, in rispettoso silenzio. Sebbene non lo conoscessero, i Custodi Dorati riconobbero le vestigia che aveva indosso, vestigia che da anni nessuno più aveva indossato.

"Ma quella è la sacra armatura di…" –Aveva mormorato Ioria, prima che Atena riprendesse a parlare.

"Nicole è il mio nuovo assistente. Come sapete era l’archivista della Biblioteca del Santuario, una figura di fondamentale importanza per la ricerca storica e la cura delle fonti. Per adesso il suo compito sarà puramente diplomatico. Domani partirà per il Giappone per consegnare alcuni schizzi ad un mio fedele collaboratore, che intende realizzare, con il mio benestare, due Armature d’Acciaio, in sostituzione di quelle andate distrutte durante l’assalto di Ares. Nicole ha avuto un’allieva, di nome Yulij, di cui Tisifone si sta occupando per irrobustirne il fisico e, a detta dell’Ofiuco, possiede talento e capacità ricettive. Doti che, in tempi oscuri come questi, sono ben accetti."

"Certamente, mia Signora!" –Avevano commentato i Cavalieri d’Oro, prima di venire al corrente di una nuova rivelazione. Qualcosa che la stessa Atena aveva ignorato fino al giorno prima, quando Nicole l’aveva informata.

"Ve ne sono altri…" –Mormorò Libra tra sé, prima che lo scrosciare di un’onda lo rubasse ai suoi pensieri. Erano infine arrivati a Capo Sounion, la prigione scavata ai piedi della scogliera dai primi Grandi Sacerdoti, costretti, da fatti incresciosi, a istituire un luogo ove recludere i traditori. Una stirpe che, ahimè, con il tempo non è affatto scomparsa. Sospirò Libra, ripensando a Kanon, a Gemini e alla Guerra Sacra del Diciottesimo Secolo.

"Procedete!" –Disse infine, mentre i soldati conducevano il corpo privo di sensi di Tirtha lungo il sentiero a strapiombo sul mare, raggiungendo infine la prigione e depositandola al suo interno. –"Non fate avvicinare nessuno!"

"Temete per la sua sicurezza, mio Signore?" –Domandò Yulij.

"Per la verità, temo per la sicurezza degli altri!" –Chiarì Libra, prima di dare alla Sacerdotessa e ai soldati le ultime istruzioni e rientrare al Grande Tempio. C’era qualcosa di cui doveva parlare a Virgo al più presto.

 

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Capitolo 16
*** Capitolo quattordicesimo: Battaglia al Quinto Cerchio ***


CAPITOLO QUATTORDICESIMO: BATTAGLIA AL QUINTO CERCHIO.

 

“Allora, vediamo di stare calmi, ok?!” –Ripeté Matthew per la terza volta, spinto con la schiena contro una piramide, le braccia, alzate in chiaro segno distensivo. –“Sono un Cavaliere di Avalon e sono qua per lottare contro i vostri nemici!”

 

“E la figlia di Selene rientra in questa categoria?”

 

“Elanor stava andando a combattere e io l’ho colpita per impedirglielo! Tu, che sei fedele a sua madre, l’avresti lasciata andare?” –Quindi, vedendo che il Selenite pareva ancora dubbioso, vuotò completamente il sacco. –“Non vedi che si è costruita un’armatura da sola, pur di andare in guerra? Ci ha seguiti, Thot! Io ho solo fermato i suoi propositi suicidi! Cos’avrei dovuto fare?!”

 

Quelle parole colpirono il Dio, che abbassò il lungo bastone d’oro che teneva puntato alla gola del ragazzo, permettendogli di respirare. Quindi si chinò sulla fanciulla, ancora svenuta, e sospirò. Per quanto ben poche volte si fossero incontrati, e a pensarci adesso, dopo secoli vissuti in quel mondo lontano da tutto, gli sembrò davvero strano, quelle rare occasioni lo avevano rattristato, perché mai l’aveva vista sorridere, quella ragazza dal volto bello e luminoso, tediata sempre da un pallore che non riusciva a spiegarsi. Un pallore che, a detta di tutti, in quel paradiso perduto, non aveva motivo di esistere. A volte, nelle lunghe ore di studio della volta celeste, aveva chiesto alle stelle una risposta ai suoi perché, cercandola anche nei papiri e negli scritti che aveva portato con sé dall’Egitto. Ma non aveva saputo dare un nome a quel male, a quella noia esistenziale che a lungo aveva divorato il cuore di Elanor.

 

E invece era la vita, la tua stessa vita, a tenerti in gabbia, dolce Elanor! Mormorò il Dio, sfiorandole il delicato viso e sistemandole i capelli, prima di sollevarla e condurla all’interno di una delle piramidi disseminate nel Cerchio di Giove.

 

Matthew rimase per un momento in disparte, non sapendo cos’altro dire, prima che un rumoroso vociare lo distraesse, attirando la sua attenzione e anche quella di Thot, prontamente uscito dalla costruzione.

 

“Cos’è?!” –Esclamò subito Matthew, tirando uno sguardo all’orizzonte.

 

“I nemici… stanno per entrare nel Quinto Cerchio!” –Rispose il Dio con angoscia.


“Sono già qui?!” –Rifletté il ragazzo, chiedendosi cosa fosse successo nel frattanto, cosa stessero facendo Pegasus, Phoenix, Reis e Jonathan e soprattutto se stessero bene. Cosa quest’ultima di cui iniziava a dubitare, considerando la rapidità con cui l’esercito di Ares aveva superato i cerchi esterni.

 

Maledizione! È tutta colpa mia! Ho perso tempo anziché essere con loro ad aiutarli! Ringhiò, sbattendo i piedi sulla sabbia. Thot notò la sua frustrazione e lo invitò a metterla da parte, facendogli cenno di correre assieme a lui.

 

“Ho letto nel tuo cuore, e c’è del giusto. Se giusto è morire in guerra. Vieni con me, Cavaliere di Avalon, e potrai realizzare i tuoi propositi!”

 

Il custode del Talismano dell’Arcobaleno acconsentì, sfrecciando nel deserto assieme al Dio egizio, fino a portarsi di fronte al passaggio incavato nel muro che conduceva al Cerchio di Saturno, laddove alcune figure erano appena comparse. Cercò di contarle, ma perse il conto superata la centinaia, richiamato anche da Thot che lo pregò di rimanere indietro, ad almeno dieci metri di distanza. Quindi il Selenite si sedette, a gambe incrociate, espandendo il proprio cosmo e lasciando che il disco lunare, posto al centro del suo elmo, si illuminasse.

 

Stranito, Matthew non proferì parola, per non disturbare la sua meditazione, immaginandola un’ultima preghiera prima della battaglia, quando un sibilo richiamò la sua attenzione. Sbattendo le palpebre più volte, e focalizzando lo sguardo sulle alture del varco, il ragazzo rimase di sasso nel vedere che i bordi si stavano assottigliando, sfumando leggermente. Anzi sembrano proprio sciogliersi, decomponendosi nella loro struttura primaria. Tantissimi granelli di sabbia!

 

Pochi attimi dopo, mentre il grosso dell’esercito di Ares correva all’interno del passaggio per il Quinto Cerchio, le pareti laterali collassarono su loro stesse, sfaldandosi in cumuli di sabbia e travolgendo l’intera armata. Ma il potere di Thot non si limitò a disgregare le mura, bensì prese il controllo di ogni singolo granello di rena, continuando a muoverli, a farli scorrere ad alta velocità, generando figure animalesche le cui fauci inghiottirono i Phonoi e le Androctasie, e poi vortici e mulinelli, che ne risucchiarono altri, riempiendo di sabbia le loro bocche, le loro narici e i loro orecchi, fino a soffocarli.

 

“Che fine terribile!” –Commentò Matthew.

 

“Ad arti ben più eleganti ho dedicato la mia esistenza, Cavaliere di Avalon, come il tuo maestro certo saprà. Alla scrittura, mia passione primaria, alla matematica, alla geometria, alla medicina e all’astronomia. Non alla guerra, a quella non ho mai pensato di profondervi sforzi. Pur tuttavia so difendermi, se minacciato!”

 

In quella, un urlo demoniaco squarciò il cielo lunare, mentre mucchi confusi di rena, polvere e corpi venivano sbalzati in aria, dal centro dello spazio ove fino a poco prima era esistito il varco, adesso un caotico ammasso di sabbia lunare. Un secondo urlo, ancor più raccapricciante, obbligò Matthew e Thot a tapparsi gli orecchi, mentre un’onda d’urto si abbatteva su entrambi, scagliandoli indietro. Tanto intenso era stato quel suono che il Cavaliere di Avalon credette di aver perso l’udito, quando, faticando a rialzarsi, barcollò stordito, prima di riuscire a stabilizzarsi.

 

“Che diavolo… succede?!”

 

La risposta arrivò sotto forma di un’agile donna, dai lunghi capelli rossicci e dalla corazza identica a quella delle Androctasie, di cui sembrava membro. Con estrema destrezza sfrecciò tra le sabbie, sollevandole al suo passaggio, prima di balzare su Matthew e riempirlo di pugni. Quando il ragazzo capì quel che stava accadendo, e che se non avesse reagito a breve sarebbe morto, già la sua nemica lo aveva ghermito per il collo e sollevato, per guardarlo in faccia prima di strappargli il cuore dal petto.

 

“Ora basta!” –Tuonò allora Thot a gran voce, mentre calava il  bastone sul braccio con cui la donna stava stritolando Matthew, colpendola sul gomito e forzandola a lasciar cadere a terra la sua preda.

 

“Osi interrompermi?! Quale coraggio! Mai nessuno è vissuto abbastanza da potersi vantare di aver toccato la Regina delle Makhai!” –Avvampò la guerriera dalla chioma rossiccia, le labbra torte in una smorfia malvagia. –“Alala è il mio nome, il grido che risuona sui campi di battaglia, incitando l’animo dei miei soldati e creando sconforto e disperazione nei miei nemici! A te, Dio che ti fregi dell’appellativo di sapiente, la scelta del campo!”

 

“Ho già fatto quella scelta millenni addietro!” –Esclamò Thot con orgoglio. –“E non sarà un ammasso di barbari sanguinari a farmi cambiare…”

 

A-la-la!!!” –Echeggiò d’improvviso la Makhai, spingendo indietro il corpo del Dio egizio, fino a schiantarlo contro il muro di confine dall’altra parte del cerchio.

 

“Onde soniche…” –Mormorò allora Matthew, affannando nel rimettersi in piedi.

 

“Molto di più! Io sono l’essenza della guerra! Il preludio di lance! Il grido che infoia, la voce che uccide! Persino Ares è solito invocarmi in battaglia, prima di inebriarsi dell’attacco finale! Io sono l’estrema unzione che anticipa la carneficina!”

 

“Se sei così importante, perché sei vestita come gli altri soldati, con quest’armatura semplice?”

 

“Un’armatura, per essere efficace, deve essere resistente agli affondi nemici e deve coprire le parti vitali. Di tutti gli orpelli e le decorazioni, di cui molti Dei van fieri, a me poco importa, inutili fastidi in battaglia, niente di più! E poi a me piace stare tra i soldati, camminare in mezzo a loro, anzi dietro di loro, in modo da poterli abbracciare tutti con un unico urlo di guerra e spingerli avanti!” –Precisò Alala, prima di ordinare a Homados, che intanto era emersa dall’ammasso di sabbia, di radunare in fretta le truppe e marciare sul palazzo. –“Che quegli sfaticati dei Phonoi portino le chiappe fuori all’istante! Non siamo qua per fare le sabbiature! Se entro due minuti non sono tutti in riga, ucciderò personalmente gli scansafatiche e i detrattori!”

 

“Sì, mia Regina!” –Obbedì Homados, iniziando a correre per ricreare la formazione da battaglia, aiutando i superstiti a rialzarsi e abbandonando feriti e caduti.

 

“Ordine ci vuole in guerra! Ordine e fermezza, oltre che una grande potenza d’attacco!” –Chiarì Alala, riportando lo sguardo su Matthew. –“E tu, ragazzino, non hai nessuna di queste cose a quanto pare! Sei solo, debole e confuso, fatti un favore… muori!” –E sfrecciò verso di lui per colpirlo con un pugno al cuore, ma il Cavaliere fu lesto a balzare di lato, evitando l’affondo ed espandendo al qual tempo il suo cosmo.

 

La cintura della sua armatura, ove erano incastonate sette gemme di colori diversi, si illuminò all’improvviso, mentre una spirale di energia variopinta vorticò attorno a Matthew, che portò avanti il braccio destro, liberando il suo colpo segreto.


Arcobaleno incandescente!!! Via!!!”

 

L’attacco però si spense dopo pochi istanti, travolto dall’onda d’urto generata dal grido di Alala, che non soltanto sollevò sabbia e polvere, scavando persino solchi nel suolo lunare, ma si abbatté su Matthew, schiantandolo a terra e facendogli perdere l’elmo dell’armatura. Un attimo dopo Alala era su di lui, libera adesso di tempestargli la faccia di pugni. Per primo gli spaccò il naso, spezzandoglielo e poi facendoglielo ingoiare con un secondo pugno, che gli portò via parte dell’arcata dentaria. Il terzo pugno lo sprofondò nel suolo, aprendo un cratere sotto il suo corpo, macchiato da schizzi di sangue fresco. Quindi lo sollevò per i capelli biondicci, strappandogliene parecchi, e preparandosi, con l’altra mano a dita tese, a tagliargli la testa.

 

Fu un colpo d’ali a distrarre Alala dall’ultimo atto, l’ombra di un uccello apparsa all’improvviso. –“Conosci la leggenda dell’ibis, Regina delle Makhai? Era animale sacro alle popolazioni egizie perché si cibava di serpenti, ma ancor più di carogne! E guarda che carogne infami abbiamo qua davanti! Un gran condottiero intento a massacrare un ragazzino! Atteggiamento disdicevole, non trovi?” –Esclamò Thot, avventandosi dall’alto, le ali della corazza spalancate e avvolte in un luccichio di sabbie dorate. Gli artigli dell’ibis le graffiarono la pelle, nei punti non protetti dall’armatura, e fu solo con molta prontezza che Alala poté evitare che le unghie di Thot le si piantassero in faccia, cavandole gli occhi.

 

Con un colpo d’anca, la donna cercò di svincolarsi dalla presa del Dio, ma questi la tenne saldamente, fino a ruzzolare insieme nel cratere insanguinato. Thot provò a colpirla con il bastone, ma Alala era svelta, resistente e cocciuta, e quei fendenti menati a casaccio non la scoraggiarono, ma la spinsero a reagire, torcendo il polso del Selenite e facendogli perdere la presa sullo scettro, che con un calcio spinse lontano. Quindi la donna balzò indietro, portandosi in alto e radunando le forze per un ultimo assalto, a suo dire quello definitivo.

 

A-la-la!” –Sibilò, generando un’onda di pressione che sfrecciò verso Thot, incapace di difendersi, ma che venne intercettata dal corpo di Matthew, balzato agilmente di fronte al Dio per proteggerlo.

 

“Ragazzo!!!” –Gridò questi, osservandone il corpo venire maciullato da un’indicibile violenza, le ossa schiantarsi, gli occhi uscire dalle orbite, fino a ricadere inerme a terra, la sua vita aggrappata a un ultimo filo di cosmo.

 

Per niente turbata, ma sempre più divertita, Alala spalancò le labbra per un secondo attacco, quando un’agile figura saltò su di lei, colpendola al volto con un calcio e atterrando poi dall’altra parte. Nell’urto la Regina delle Makhai perse l’elmo, rivelando il suo volto di donna adulta e battagliera, con i lunghi capelli rossicci che ondeggiavano alle sue spalle, come serpenti pronti a stritolare il nemico tra le spire.

 

“Un nuovo arrivo? Di singolare corazza sei equipaggiata, fanciulla!” –Ironizzò Alala, osservando la ragazza dai capelli castani e dagli occhi verdi.

 

“Elanor!!!” –La riconobbe Thot, correndo verso di lei. –“Che fai qua? È pericoloso!”

 

“Conosco la gravità della situazione! Perché mi avete estromesso? E dov’è Matthew? Devo fargli un bel discorsino!” –Incalzò subito lei, prima che il Dio la facesse voltare verso il fondo del cratere, dove il corpo massacrato del ragazzo giaceva. –“Per tutti gli Dei! Matthew! Sta bene? È vivo?!”

 

“Perché non vai a chiederglielo?” –Ironizzò Alala, muovendo un passo nella loro direzione e iniziando a bruciare il proprio cosmo.

 

“Vacci tu, strega!” –Esclamò Elanor, sollevando l’indice destro al cielo e attaccando col proprio colpo segreto. –“Croci di luna!!!” –Da quattro punti attorno al suo corpo si irradiarono raggi di energia, moltiplicandosi in migliaia di copie che spezzarono la concentrazione necessaria ad Alala per liberare l’urlo furioso, obbligandola a balzare di lato in lato, evitando i fasci energetici.

 

Con agilità, la donna si portò infine proprio di fronte a Elanor, troppo vicina perché le croci potessero raggiungerla, e sorprendentemente le carezzò il viso, ammirandone la passione guerriera. Stordita, la ragazza fece per allontanarsi, ma Alala la tenne stretta per il collo mentre i suoi capelli ondeggiavano sinuosi, scivolando lungo il corpo di Elanor e intrappolandola in una solida maglia.

 

“Ho apprezzato il tuo tentativo, fanciulla! Inconsistente ma passionale! E quando c’è la passione tutto il resto non conta, tutto il resto si perde alle porte del furor bellico! Saresti una Makhai perfetta! Con un po’ d’addestramento, s’intende!” –Sogghignò la donna. –“Che te ne pare della mia proposta? Sempre meglio di un cappio al collo, non trovi? Oh, perdonami, quello in fondo l’hai già!” –Rise, mentre i suoi lunghi capelli vermigli strattonavano ogni osso del corpo di Elanor, marcandole la pelle, aprendole ferite e ricordandole quanto fosse stata stupida e imprudente.

 

“Sai dove puoi ficcartela la tua proposta?!” –Trovò la forza per mormorare, strappando una risata divertita ad Alala.

 

“Homados, l’hai sentita? È una di noi!” –Ghignò, per poi mutare la sua espressione in disappunto, aumentare la presa e scuotere la testa delusa.

 

Fu allora che un uccello di cosmo si abbatté sulla sua chioma, incendiandola e liberando Elanor da quella soffocante prigionia, proprio mentre Thot mulinava il bastone d’oro, obbligando la Dea a un balzo indietro. Un secondo ibis energetico dipartì dal suo scettro, schiantandosi contro il pugno teso della Makhai, che venne comunque spinta a distanza di sicurezza, permettendo al Dio di chinarsi sulla figlia di Selene e liberarla alla bell’e meglio da quel groviglio di capelli bruciati.


“Elanor, ascoltami bene! Ho bisogno che tu faccia esattamente quel che ti dico! Guardami! So di non avere autorità su di te, ma è necessario che tu obbedisca!” –Esclamò Thot, prendendo le mani della ragazza, il cui sguardo era chiaramente sconvolto. –“Prendi il ragazzo e va’ dietro quella piramide, trova un riparo! Niente obiezioni! Va’! Ora!”

 

Elanor, soffocando le lacrime, ubbidì, gettandosi nel cratere e recuperando il corpo esanime del Cavaliere di Avalon, caricandoselo in spalle e correndo verso la costruzione indicata da Thot, non molto distante, di fronte all’attento sguardo di Alala, che poi lo riportò sul Dio egizio.

 

“Sei generoso e vuoi morire al loro posto o semplicemente non vuoi che assistano alla tua tragica e patetica fine? Ti risparmio la scelta, poiché la prima opzione proprio non sussiste, in quanto, ucciso te, ammazzerò anche loro! Ah ah ah!” –Rise Alala.

 

“Lo vedremo, carogna!”

 

“Sbagliato! Avresti dovuto dire sentiremo! È verbo più adatto per Alala!” –Ironizzò, preparandosi infine all’assalto. Ma prima che riuscisse a vociare il suo urlo di guerra, venne sollevata da un improvviso turbine di sabbia, un vortice che la sradicò da terra, tempestandola di scariche energetiche, e schiantandola molti metri addietro, proprio addosso all’armata di Androctasie appena riformatasi, gettandola nella confusione.

 

Approfittando di quel momento, Thot corse verso i due ragazzi, chinandosi su Matthew per verificare le sue condizioni, a dir poco tragiche. Gli sfiorò il cuore, sotto il pettorale ammaccato dell’armatura, e socchiuse gli occhi, recitando un’antica litania che Elanor non seppe interpretare. Un cosmo caldo avvolse il corpo di Matthew, cicatrizzandone le ferite, ripristinando i suoi organi distrutti e lenendo i suoi affanni, risvegliandolo infine dal delirio cui era precipitato.

 

“Mio Signore… Thot, state bene? Mi avete donato il vostro cosmo?!” –Esclamò il ragazzo, toccandosi il corpo, come per verificare di avere tutte le ossa al posto giusto.

 

“Tu non hai avuto paura a porti a mia difesa, giovane Cavaliere, perché dovrei temere io di donare un po’ della mia eternità?!” –Rispose sibillino il Dio, prima di rimettersi in piedi, sia pur visibilmente provato. –“Ora andatevene! Tornate a palazzo! Selene sarà disperata al pensiero di averti perso, Elanor!”

 

“Non se ne parla!” –Si impuntò lei, e quella volta anche Matthew le diede ragione.

 

“Credo che ormai sia tardi per tutto, tranne che per una cosa! Combattere!” –E uscì da dietro la piramide assieme a Elanor e a Thot, avanzando a passo deciso verso Alala, che nel frattempo si era rimessa in piedi, tra insulti e anatemi, avvolta in un’aura di cosmo violaceo.

 

“Raccomandate l’anima ai vostri Dei! Di Avalon, d’Egitto o di qualunque altro misero regno! Per noi Makhai sono solo province di un ben più vasto impero!” –Sibilò, preparandosi all’ultimo assalto.

 

“I tuoi deliri cosmici devono essere fermati!” –Sentenziò Matthew, espandendo il suo rinfrescato cosmo. –“Arcobaleno incandescente!!!”

 

Croci di luna!!!” –Gli fece eco Elanor, prima che la voce di Thot li sovrastasse entrambi, mentre la maestosa sagoma di un uccello sacro a Ra sfrecciava di fronte a loro. –“Volo dell’Ibis!”

 

Grido di guerra!!!” –Tuonò allora Alala, generando un’onda distruttiva su cui si schiantò il triplice attacco, frenandolo e disperdendolo, sollevando sabbia e polvere e scagliando anche parecchi Phonoi e Androctasie indietro, a gambe all’aria, per quanto Homados stesse ordinando di allontanarsi.

 

La potenza della Makhai obbligò i tre combattenti a infondere ogni stilla di energia a quell’ultimo tentativo di resistenza, consapevoli di non avere un’altra possibilità. Nessuno di loro l’avrebbe avuta. Ma la vitalità della Regina della Guerra, il suo furore bellico, erano ben più grandi di quanto avessero potuto immaginare e presto il suo grido prese il sopravvento, spingendo indietro la massa di energia, prima lentamente poi in maniera sempre più consistente, mentre Elanor si accasciava esausta e Matthew e Thot avvampavano nei loro cosmi allo stremo.

 

“Mia è la vittoria!” –Ringhiò Alala trionfante, rinnovando la carica distruttiva, proprio mentre uno stridio metallico pervase l’aria. Un fischio fastidioso di cui non seppe individuare la provenienza, finché non vide guizzanti catene d’avorio scintillare nel cielo lunare, afferrare Thot, Matthew ed Elanor e portarli fuori dal raggio d’azione del suo assalto. –“Chi ruba le mie prede?”

 

“Io!” –Esclamò allora una giovane voce, mentre un’Armatura Divina dai colori rosa e oro appariva sul campo di battaglia.

 

“Riconosco le tue vesti, Cavaliere di Andromeda! Dovrei ucciderti subito per avermi privato del mio trofeo, ma dato che questo prolisso scontro mi ha riservato solo delusioni, sono certa che avrai modo di offrirmi qualcosa di meglio! Qualcosa che gratifichi la nostra presenza qui e ora! Non credi?” –Esclamò Alala.

 

“Io sono qua per difendere questo regno, Regina delle Makhai! Non per ottenere onore o piacere in guerra!” –Rispose pronto il ragazzo, prendendo posizione di fronte a Thot, Matthew ed Elanor.

 

“Sarà uno scontro interessante, allora! L’urlo di guerra, che infuoca l’animo di coloro che lottano, e lo spirito di pace che li vorrebbe invece a casa a fare la guardia alle pecore! Ah ah ah! Interessante davvero!” –Rise Alala, prima di liberare il suo poderoso assalto. –“Grido di guerra!!!”

 

L’onda di energia sfrecciò verso Andromeda, che sollevò lesto le catene per rallentarne l’avanzata, riuscendovi solo in parte e venendo comunque sballottato indietro. Quando poté recuperare posizione eretta si accorse che Alala non era più di fronte a lui ma che già era sfrecciata avanti, cambiando completamente strategia. A nulla valsero le grida di Matthew ed Elanor, perché Andromeda non riuscì neppure a vederlo, quel demone periglioso, balzare su di lui e afferrargli un braccio, per poi scaraventarlo contro il muro di confine, a parecchi metri di distanza. Ve lo fece schiantare con una forza tale da far tremare la colossale struttura, strappando un ghigno soddisfatto alla Regina delle Makhai, che si voltò verso Homados, berciando loro di tenersi pronti.

 

“Perché perdere tempo a zigzagare tra questi cerchi di falliti, quando possiamo aprirci la via?! Diritti verso il cuore dell’impero!” –Sibilò, radunando le forze e preparandosi a lanciare il più potente grido di guerra mai risuonato su quel lontano suolo.

 

Quasi avesse capito cosa la Dea aveva in mente, Thot si alzò e fece per correre verso Andromeda, per metterlo in guardia, ma l’urlo acuto di Alala lo atterrò, obbligando Matthew ed Elanor a gettarsi a terra, tappandosi le orecchie, non desiderando altro che sfondarsi i timpani.

 

A-la-la!!!” –Vociò la Makhai suprema, mentre un’onda di pura potenza nasceva dalle sue labbra, rimbombando sull’intero corpo celeste e scuotendolo in profondità.

 

Lo udirono tutti.

 

Selene e Avalon, riuniti a palazzo, sotto la pioggia di vetri dell’Occhio andato in frantumi.

 

Pegasus e Atena, intenti a guerreggiare con Ares, e Phoenix, poco distante.

 

Jonathan e Reis, che faticavano ad affrontare Proioxis, e tutti i Seleniti ancora in attesa.

 

Andromeda venne investito in pieno, proprio mentre cercava di rialzarsi dall’assalto precedente, e schiantato di nuovo contro il muro alle sue spalle, ma stavolta neppure questo bastò a frenare la corsa di quell’onda distruttiva, che scosse la costruzione così violentemente da farla tremare, erodendo la sabbia lunare, già provata dalla debolezza del Selenite custode. Pochi attimi dopo, un duplice schianto e due faglie si aprirono ai lati del Cavaliere, mentre una nuova onda d’urto scaraventava lo stesso e il pezzo di muro alle sue spalle proprio all’interno del Quarto Cerchio.

 

“Incredibile!” –Mormorò Matthew, di fronte a tale devastante potenza. –“Dobbiamo aiutare Andromeda! Da solo contro Alala non potrà farcela!”

 

“Oh, di lui non mi preoccuperei adesso! Al Cerchio di Marte troverà tutto l’aiuto di cui potrebbe disporre, aiuto ben più efficace di quello che noi tre potremmo dargli!”

 

“Che vuoi dire, Thot? Prima non vi ho trovato nessuno, solo una miriade di falò accesi, e ho pensato fosse disabitato! Chi protegge il Quarto Cerchio?”

 

“Un uomo di poche parole! Sebbene uomo non sia il termine adatto! Anzi, tra tutti i Seleniti preposti alla difesa del Reame Splendente, Sin è l’unico che possa davvero definirsi un Dio! È l’unico a non conoscere pietà!” –Chiarì il Selenite di Giove, prima di fare cenno a Elanor e Matthew di rialzarsi e aiutarlo a sistemare una nuova faccenda.

 

***

 

Andromeda, nel frattempo, stava affannando nel rimettersi in piedi, travolto dall’onda sonica scatenata da Alala, quando si sentì afferrare per le punte dell’elmo e tirare in piedi, per trovarsi il volto indemoniato della Regina delle Makhai di fronte a sé, eccitata e desiderosa di uno scontro all’ultimo sangue.

 

“Sei folle!” –Gridò il Cavaliere, espandendo il cosmo e liberando una scarica di energia che scosse l’intero corpo della donna, spingendola indietro con un gemito improvviso. –“A tal punto giunge la tua disperazione? A nient’altro aneli se non ad un mondo di guerra?”

 

“Sì!” –Rispose laconica Alala, leccandosi le labbra. –“E guerra sarà!”

 

“Come desideri!” –Esclamò allora una voce maschile, che non provenne però dalla bocca di Andromeda.

 

Sorpresa, la Makhai si guardò attorno, notando l’accendersi di roghi scarlatti, vivide fiamme che costellavano l’intero suolo del Quarto Cerchio. Un elemento, il fuoco, in cui avrebbe dovuto trovarsi a suo agio, avendo trascorso numerose campagne belliche tra le vampe di Ares. Ma c’era qualcosa, in quei roghi precisi e controllati, in quei cerchi di fuoco ben delineati, che la insospettiva, che la faceva addirittura temere. Qualcosa, si stupì anche solo a pensarlo, di sinistro.

 

“Se guerra mi porti, guerra avrai! Non sia mai che Sin degli Accadi rifiuti un combattimento!” –Rincarò la voce, anticipando l’apparizione di un ragazzo dai capelli blu, rivestito da un’elegante cotta divina, così finemente intarsiata come ben poche Alala ne aveva ammirate nella sua lunga carriera militare.

 

Anche Andromeda lo osservò affascinato, mentre camminava in aria di fianco a lui, notando nei suoi occhi una luce altera che in pochi guerrieri aveva rimirato. E quei pochi, come Atlas, Alcor e Radamante, erano stati tutti avversari terribili.

 

“Sin degli Accadi? È questo il nome della mia prossima vittima?” –Rise Alala, iniziando ad espandere il proprio cosmo.

 

“A meno che non si tratti di un caso di omonimia, temo di no!” –Chiosò il Selenite di Marte, volgendole contro il palmo della mano e scaraventando la Regina delle Makhai contro i resti del muro franato, travolgendola con una bolla infuocata che incendiò parte dei suoi capelli. –“Sin non è mai vittima, solo carnefice!”

 

In quella, dallo squarcio aperto nella muraglia tra Quarto e Quinto cerchio decine e decine di Phonoi e Androctasie iniziarono a riversarsi all’interno, le armi in pugno, i cosmi sfolgoranti energia cosmica. Fin troppo ordinato era stato il loro avanzare fino a quel momento, adesso necessitavano di sfogarsi, di lasciar libero sfogo alla loro furia guerriera. E il Selenite di Marte sogghignò, non aspettando altro.

 

“Cavaliere di Andromeda! Penserò io a fronteggiare quest’animalesca marea di anime prave! Sei in grado di tenere a bada i capricci di quella donna?”

 

Quale che fosse la sua opinione, il seguace di Atena non poté esprimerla, obbligato a liberare di nuovo le sue catene, dopo che Alala aveva fatto esplodere il suo cosmo, polverizzando i detriti franati su di lei e pronta a dare nuovamente battaglia. Stretto tra i ruggiti bestiali dei Signori della Guerra da un lato e la feroce difesa del Selenite del fuoco, ad Andromeda sembrò davvero di ritrovarsi in un girone infernale.

 

 

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Capitolo 17
*** Capitolo quindicesimo: Terzo interludio. Mare. ***


CAPITOLO QUINDICESIMO: TERZO INTERLUDIO.

 

MARE.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Ventesimo anno prima del secondo avvento.

 

Pioveva, la mattina in cui mio padre morì.

 

In realtà, a pensarci bene, non ricordo affatto se piovesse o avesse piovuto la notte prima. Di sicuro il terreno era ancora bagnato, fango fresco dove le nostre impronte, e quelle degli animali di cui eravamo a caccia, risaltavano nitide. È strano, perché tendiamo ad associare la pioggia o la foschia ai giorni tristi? Sarebbe stato diverso se mio padre fosse morto in un giorno di sole o in piena estate? Avrei provato qualcosa di diverso? Il dolore sarebbe stato accettabile o avrebbe smesso di bruciarmi dentro, anche adesso, a distanza di anni? E di vite.

 

Non so rispondermi, non ho mai saputo farlo. Né saprei dire come andò esattamente, ricordo solo le grida entusiaste di mio padre per aver adocchiato un alce. Lo sparo. Un secondo sparo. E la corsa nella boscaglia, capendo che qualcosa era andato storto. Che il cacciatore era diventato preda.

 

Il rito funebre durò molto poco, e anche quel giorno pioveva. Il clima era uno schifo nel Vermont, non mi sorprende che mia madre lo avesse abbandonato anni addietro, sebbene ciò avesse implicato dimenticarsi un figlio nell’altra camera. Per fortuna c’era mia zia, lei mi sorrideva sempre, per quanto avesse il sorriso più brutto che gli Dei avessero potuto concederle. Povera donna. In realtà non era neanche mia zia, solo una vecchia compagna del liceo di mio padre, che spuntava ogni anno per la Festa del Ringraziamento portando barattoli di confettura che il suo caro amico ammucchiava in dispensa, dicendomi di non mangiarli mai, neppure se il frigo fosse stato vuoto. Era una solitaria, la zia Susy, una di quelle donne che quando le guardi, e cerchi di studiarne il volto poco curato nascosto dietro fondi di bottiglia, capisci perché non hanno mai avuto un uomo in vita loro. E quando entri in casa, faticando a trovare la strada per il bagno tra le montagne di libri, scatole di puzzle e cibi per gatti, capisci che non avrebbero mai saputo dove metterlo, un uomo.

 

Comunque la zia Susy mi prese con sé dopo la morte di mio padre. Mi disse di sentirsi obbligata, per l’enorme affetto che la legava all’amico, e credo che fosse davvero sincera, una delle poche persone che possono permettersi di esserlo in questa vita. Mi portò a New York e mi spinse a coltivare i miei sogni, le mie passioni, quelle che lei non aveva mai avuto forza per affrontare, troppo debole e impaurita, troppo disposta a nascondersi dietro i suoi libri per viverla davvero.

 

“Tuo padre mi disse che ti piace il baseball! New York è piena di posti dove allenarsi! Chissà, in futuro potresti avere Yogi Berra come allenatore!”

 

E andò proprio così. La vissi alla grande, la vita nella Grande Mela. Mi allenai, irrobustii il mio fisico, imparai a lanciare e divenni molto veloce a correre, dote che avevo sempre coltivato, fin da bambino, quando fuggivo nei boschi delle Green Mountains per saltare la cena.

 

Correre L’ho sempre fatto, in fondo, passando da un posto all’altro, da un’occupazione all’altra, da una vita all’altra. Perché? Cos’è quest’inquietudine che mi impedisce di fermarmi troppo a lungo in un posto, di mettere radici, e mi spinge invece ad andare avanti? Senza fermarmi mai.

 

***

 

La partita era stata un successo. Aveva rifilato tre strikeout in un solo inning alla squadra avversaria, di fronte a una piccola folla in delirio e agli occhi soddisfatti della zia Susy. Gli faceva piacere che venisse a vederlo giocare, una delle rare occasioni in cui usciva di casa, anche se Marins iniziò a pensare fosse per scambiare due chiacchiere con il padre di un suo compagno di squadra. Un trentenne divorziato che sembrava uscito da uno dei romanzi d’amore che la zia leggeva davanti al caminetto.

 

Sorrise, seduto sugli spalti dello Shea Stadium, dopo che ormai tutti se ne erano andati, asserendo che la zia se lo meritasse quel momento di felicità.

 

E lui? Quando avrebbe iniziato a pensare alla sua? Quando avrebbe iniziato a godersela davvero? Pesavano ancora sul suo cuore i lutti del Vermont, o c’era qualcos’altro a ostacolare la sua felicità? Avrebbe avuto tanti motivi per essere sereno, per sentirsi appagato, in quella nuova vita che aveva iniziato a New York, circondato da affetti sinceri e con una carriera sportiva alle porte. Eppure c’era sempre un eppure.

 

Non sei contento, Marins? Perché? Si chiese, per l’ennesima volta.

 

“Perché sei vuoto!” –Gli rispose una voce, rubandolo ai propri pensieri.

 

Il ragazzo si voltò e incontrò lo sguardo attento di un uomo in piedi sulla tribuna, a pochi passi da lui. Silenzioso e immobile, lo osservava da qualche minuto, senza che lui se ne fosse accorto. Avrebbe dovuto spaventarlo, quella strana apparizione, eppure la calma distaccata di quell’uomo pareva mitigare il suo animo inquieto. Indossava una camicia bianca, infilata dentro un paio di jeans, e aveva il volto in parte oscurato dalla visiera del berretto dei Mets acquistato alle bancarelle durante la partita.

 

“Vuoto?!” –Balbettò, mentre l’uomo infine si mosse, camminando calmo lungo i gradini degli spalti, le mani in tasca, la brezza della sera che gli muoveva i capelli scuri. Infine si voltò, fissando Marins con occhi argentei e uno sguardo indagatore, che pareva spaziare su mondi lontani, mondi che il ragazzo non avrebbe neppure saputo immaginare.

 

“Proprio così. Privo di ambizioni, di una bussola che ti indichi la rotta, di uno scopo che ti tiri giù dal letto la mattina e giustifichi allenamenti e sacrifici. E non parlo di un obiettivo immediato, facilmente raggiungibile, come la conquista di una base, o di un bel voto a scuola. Mi riferisco a mete ben più lontane nel tempo, ragioni esistenziali in grado di saziare i tuoi perché.”

 

“Non è un po’ presto per decidere cosa dovrei fare da grande?!” –Ironizzò Marins, strappando una risata all’affascinante sconosciuto.

 

“Prima lo ammetti e prima colmerai il vuoto, sentendoti finalmente appagato. Non vorrai fare la fine di Tantalo?” –Quindi, vedendo che il bambino non conosceva quel nome, gli raccontò la storia del figlio di Zeus. –“Tantalo fu un ricco re dell’Asia Minore che aveva avuto la tracotanza di oltraggiare gli Dei, violando le leggi della xenia, l’ospitalità sacra agli antichi. Così dopo la morte fu sprofondato in Ade e condannato a una pena eterna, impossibilitato a bere e a mangiare! Una pena che presto diventò un supplizio insopportabile, essendo infatti l’uomo immerso in un lago di acque fresche, che si ritiravano ogni volta in cui immergeva le mani per berle. Al tempo stesso sopra di lui pendevano rami carichi di frutti splendidi e gustosi, ma ogni volta in cui allungava le mani per nutrirsi ecco che i rami si ritiravano, lasciandolo ad afferrare il nulla! Oh, quale ironia, Tantalo aveva tutto così vicino, un mondo meraviglioso a portata di mano, senza mai poterlo raggiungere! Una felicità che egli non fu mai in grado di assaporare! Dimmi, Marins, vuoi incontrare anche tu eguale destino?”

 

Il bambino non rispose, fissando lo sconosciuto con uno sguardo incuriosito e mille domande che avrebbe voluto fargli, prima tra tutte chi diavolo fosse e come facesse a sapere tutte quelle cose su di lui. Ma non trovò di meglio che rispondergli.

 

“Ho bisogno di una corsa!”

 

“Una corsa?!” –Rise l’uomo, per poi annuire. –“D’accordo facciamola!” –Gli si avvicinò, gli mise un braccio dietro la schiena, tenendolo stretto, e poi si lanciò dall’alto degli spalti, effettuando un’agile capriola a mezz’aria e atterrando a pieni uniti sul campo da gioco, incurante delle grida di terrore di Marins.

 

What the hell… come cavolo hai fatto?!”

 

“Puoi farlo anche tu, se vuoi!” –Gli sorrise l’uomo, mentre le luci dello stadio si accendevano e i due unici giocatori entravano in campo. –“Ora mostrami i tuoi lanci migliori!” –Incalzò, prendendo alcune palle e passandole al ragazzo che, eccitato da quell’improvvisa sfida notturna, corse a mettersi in gioco. Di nuovo.

 

Si allenarono per un paio d’ore, lanciando e correndo attorno alle basi, ma per quanto lontano Marins si impegnasse a tirare, quell’uomo era sempre abbastanza veloce da raggiungere i suoi lanci, e il ragazzo credesse che non si stesse neppure sforzando.

 

Alla fine, stanco per la doppia performance della serata, Marins si buttò a sedere sulle panchine delle squadre, asciugandosi il volto sudato e continuando a interrogarsi sul suo ospite misterioso. Per un momento lo invase la sensazione che si trattasse di un angelo, il suo angelo custode, venuto a portarlo in paradiso, o forse era suo padre, morto e risorto e adesso tornato nella sua vita sotto una forma diversa. Quale che fosse la risposta, non dovette aspettare molto per conoscerla, soltanto allungare il braccio, in risposta alla mano offertagli dall’uomo, e stringerla nella propria. Vi fu un lampo di luce e il William Shea Stadium scomparve. I grattacieli divennero alberi di mele dai frutti succosi, New York un’isola perduta nelle nebbie del tempo e l’Oceano Atlantico un lago di acque calme che lo separava dal resto del mondo. 

 

“Benvenuto ad Avalon, l’isola di cui sono signore!” –Gli sorrise l’uomo. –“Qua potrai dare un senso alla tua vita, finora rimasta incompleta, continuando il viaggio fino a trovare te stesso, il tuo vero te. Non sarai solo, ci sono due compagni che domani ti presenterò. Vi troverete bene e sono certo che sarete un’ottima squadra!”

 

Marins non seppe cosa dire, troppo stanco e stordito dalle ultime ore. Seguì Avalon in un breve giro dell’isola, finché l’uomo non lo accompagnò ad un giaciglio per riposare. Prima di chiudere gli occhi sorrise, sentendosi per la prima volta soddisfatto della sua scelta: quel giorno aveva fatto il lancio più lungo della sua vita. E si augurò di essere in grado di afferrare la palla prima che finisse fuori campo.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Diciottesimo anno prima del secondo avvento.

 

“Il tuo addestramento è quasi completato, Marins!” –Gli disse il suo mentore, camminando assieme a lui lungo un sentiero esterno dell’isola, diretti verso il piccolo molo di legno. –“Hai fatto notevoli progressi in questi ultimi due anni! Non soltanto da un punto di vista fisico, per cui la tua preparazione era già eccellente, ma per ciò che riguarda il controllo del cosmo, giungendo a padroneggiarlo in maniera ottimale. C’è solo una cosa che ti manca per colmare la distanza tra te e i tuoi compagni, un piccolo ma indispensabile passo!”

 

“Lo so, mio Signore!” –Annuì il ragazzo dagli occhi azzurri, raggiungendo la banchina assieme ad Avalon. –“Ho provato più volte a evocarlo, eppure…

 

“Provare non esiste, Marins! Sono i vestiti che si provano, i discorsi degli oratori o gli spettacoli teatrali! Non la vita. Quella, la si vive!”

 

Il giovane fece per rispondere al suo mentore quando si accorse che le nebbie del lago si erano animate. Sgranando gli occhi per la sorpresa, le vide avvicinarsi, quasi fossero un’entità vivente, convergere su di lui, circondarlo, avvolgerlo nelle loro spire, per quanto Marins si dibattesse e invocasse aiuto. Ma attorno a lui non c’era più nessuno, solo uno sconfinato silenzio. In quel silenzio Marins cadde, perdendo i sensi, e poi cadde ancora, sempre di più, incapace di comprendere cosa stesse accadendo, dove stesse andando, perché quel vento gelido gli sbattesse in faccia, lui che il freddo l’aveva sempre detestato.

 

Brrr!!!” –Bofonchiò, scuotendosi e drizzandosi all’improvviso, cercando di capire dove si trovasse. Ma c’era poco da capire, considerando la scarsa luminosità dell’ambiente, che pareva essere un’immensa caverna dall’alta volta e dal suolo disseminato di rocce coperte di muschio. Per quanto assurdo fosse, gli sembrò che piovesse, e infatti sul suo volto ruscellavano gocce d’acqua che cadevano dal soffitto. Una pioggia leggera ma continua, di quelle che da bambino guardava dalla finestra della casa di famiglia, nel Vermont.

 

“Sapevi che tuo padre era un adoratore di riti celtici?” –Lo scosse una voce all’improvviso, mentre Marins si guardava intorno furtivo, cercando di vincere l’oscurità con i suoi sensi allenati. –“Aveva anche comprato per pochi dollari una riproduzione, bruttarella in verità, dell’Asgardsreien, il celebre dipinto del pittore norvegese Peter Nicolai Arbo. Tua madre non la amò mai, intimorita da tutte quelle figure guerresche a cavallo, e gliela fece appendere in cantina! Ritengo che siano poche le persone che al giorno d’oggi credono ancora negli antichi riti. Si contano sulle dita di una mano e sono quasi sempre membri di qualche gruppo classificato spregiativamente sotto il nome di neopaganesimo.”

 

“Chi sei?”

 

“Che domande?! Io sono io! Chi altri dovrei essere?!” –Rincalzò la voce, prima che un lampo di luce distraesse il ragazzo, anticipando l’apparizione di un singolare personaggio. Non era molto alto, ma aveva mossi capelli castani che scivolavano su un fisico ben curato, rivestito da pelli di animale, forse daino, che Marins non riuscì a individuare. Sul cranio portava una corona di foglie e in mano stringeva un bastone nodoso, intagliato da un albero antico.

 

“Grandioso! Qualche ulteriore indizio?!” –Ironizzò l’allievo di Avalon.

 

“Uhm, vediamo…” –L’uomo ci pensò su, quasi divertito dall’atteggiamento del ragazzo, fino a schioccare le dita soddisfatto. –“Dal momento che ti trovi nel mondo sotterraneo, io non posso che esserne il guardiano, non credi?!”

 

“Mondo sotterraneo… non sapevo ci fosse un regno al di sotto di Avalon?!”

 

Gosh, è un modo di dire per indicare gli Inferi! Quanto sei razionalista! Sei proprio uno yankee!” –Sbuffò l’uomo, fingendosi offeso. –“Comunque stavamo parlando di tuo padre, non di me, sebbene io sia certo più interessante! Eh eh eh! Vedi, tu e il tuo defunto genitore, con cui ogni tanto mi attardo a chiacchierare, abbiamo una passione in comune, a entrambi piace andare a caccia! Entrambi siamo cultori della caccia selvaggia!” –Sghignazzò, mentre sul suo volto si allargava un sorriso sospetto, un sorriso che a Marins parve tinto di crudeltà. –“E sai come si pratica la Caccia Selvaggia nel Galles? Oh, con i levrieri!”

 

D’un tratto il ragazzo udì il ringhiare di alcuni cani, un ringhiare forte e prolungato, quasi fosse un richiamo. Quindi iniziò uno scalpiccio, sempre più veloce, sempre più pressante, al punto che il suolo iniziò a muoversi di fronte a quell’improvvisata carica proveniente dall’oscurità. E più i cani parevano avvicinarsi più il loro ringhio si faceva meno intenso, per confondere ulteriormente il ragazzo, che voltava lo sguardo in ogni direzione, temendo di ritrovarseli addosso quanto prima.

 

“Mio caro, ti presento i miei levrieri, gli spiriti dell’Annwn! Trattali bene, eh!” –Esclamò l’uomo, mentre quattro cani da caccia attaccavano Marins da ogni direzione. –“Cŵn Annwn!”

 

Il ragazzo fu svelto ad evitare il primo assalto, gettandosi a terra, ma dovette subito rimettersi in piedi per fronteggiare la nuova carica di quegli animali spettrali, la bava che colava tra i denti chiari e aguzzi. Erano grossi segugi dal pelo bianco e dagli occhi e dalle orecchie fulve, simbolo di morte sanguigna, e oltre ad essere veloci e ben addestrati non smettevano di ululare, quasi volessero far sapere al mondo che lui era la sua preda.

 

“Sei mai stato a Cadair Idris? È una montagna in Galles, fonte di molte leggende. Ma è anche un buon terreno di caccia, i miei levrieri spesso si trastullano in quella zona, e tutti, oh sì proprio tutti gli abitanti, sanno che udire il latrato dei Cŵn Annwn è segno inequivocabile di morte! È l’ultimo rintocco dell’orologio della vita di un uomo! Quanto ancora gireranno le tue lancette, Marins, dipende solo da te! Eh eh eh!”

 

“Confortante!” –Mormorò il ragazzo, balzando su alcune rocce attorno ed evitando così di essere azzannato dalle pericolose dentature dei levrieri.

 

Grazie alla sua velocità e al fisico curato, il ragazzo riuscì a non essere raggiunto, ma, ben capendo di non poter correre per sempre, in quello spazio che ancora non aveva capito quanto ampio fosse e che pericoli nascondesse, decise di cambiare strategia. Così sfrecciò indietro, tuffandosi proprio in mezzo ai levrieri e colpendoli uno ad uno, con un secco taglio di mano sulla nuca. Nessun guaito, nessuno spasimo, i cani selvaggi crollarono al suolo uno dopo l’altro, con il collo spezzato.

 

Molto… bene…” –Ghignò allora l’uomo, avanzando verso Marins, che si mise subito in posizione difensiva, temendo che volesse scagliarsi contro di lui, per vendicare le sue creature. Invece questi si limitò a chinarsi sui levrieri, carezzare il loro morbido pelo e mormorare alcune parole di commiato, mentre i loro corpi sfumavano, divenendo spiriti e scomparendo nelle tenebre. –“Ora saranno liberi di correre per sempre nelle sconfinate praterie dell’Annwn, il regno su cui dimoro, che sia per loro terra di delizia e di sempiterno cibo!” –Aggiunse, rimettendosi in piedi e fissando Marins negli occhi. –“Io sono Arawn, Sovrano degli Inferi, e apprezzo il rispetto che hai avuto per i miei cani selvaggi! Non li hai torturati, non li hai fatti soffrire, uccidendoli con un sol colpo preciso! Per renderti grazie, ti onorerò del mio massimo attacco, anch’esso in grado di spegnere le speranze di vittoria di chiunque con un’unica sola carica! Addio giovane yankee! Presto ritroverai tuo padre! Schiera furiosa!!!” –E nel dir questo, Arawn portò entrambe le braccia avanti, volgendo i palmi aperti contro Marins, e liberando un fiume di energia cosmica, le cui onde maestose avevano il volto di rabbiosi cani da caccia.

 

Il ragazzo tentò di fuggire, ma venne raggiunto in fretta, potendo soltanto incrociare le braccia davanti a sé, espandere il cosmo e cercare di contenere l’impatto con quell’assalto devastante. La carica furiosa lo travolse, strappando le sue vesti, lacerando le giovani carni e schiantandolo al suolo molti metri addietro.

 

“I testimoni della Caccia Selvaggia non possono sopravvivere, sono condannati a sciagure e sofferenze, e a una repentina morte! Sentiti fiero di essere caduto per mia mano!” –Concluse Arawn, senza alcun sorriso sul volto, prima di dare le spalle al giovane e allontanarsi.

 

Marins rimase a terra per un tempo indefinito, cercando di radunare le forze. L’assalto nemico lo aveva travolto in pieno, così velocemente da non averlo neppure visto. Era possibile? Che vi fossero esseri in grado di correre più veloce di lui? Aveva sempre creduto di essere unico, nel suo genere, ed infatti era persino più svelto di Reis e Jonathan. Eppure, quei levrieri di puro cosmo non gli avevano lasciato spazio di manovra. No, non poteva farsi battere così. In fondo, aveva solo subito uno strike, e ce ne volevano ben tre per mandarlo fuori gioco, si disse, risollevandosi e bruciando il proprio cosmo.

 

Un’armatura dorata e azzurra apparve sopra di lui, scomponendosi in tanti pezzi e aderendo perfettamente al suo corpo, attirando l’attenzione di Arawn, che si voltò incuriosito, e anche eccitato all’idea di divertirsi ancora.

 

“Pare che questa caccia si stia rivelando ben più fruttuosa di quanto avessi creduto!” –Commentò, mentre Marins, avvolto in un turbinante cosmo di colore azzurro mare radunava le energie tra le braccia sollevate sopra la testa.

 

Maremoto dei mari azzurri!!!” –Gridò, liberando un poderoso gorgo di energia acquatica, che sfrecciò verso Arawn, trapassandolo e schiantandosi contro il muro alle sue spalle, inondando poi la caverna. –“Che cosa?! Dov’è andato?!” –Si agitò subito Marins, guardandosi attorno. Se la vista non lo ingannava, il suo nemico si era teletrasportato altrove.

 

Si girò di scatto, pugni tesi, convinto che volesse prenderlo di sorpresa, ma Arawn non era neppure dietro di lui. Eppure lo sentiva, sì, lo percepiva nell’aria di quella caverna, carica dei lamenti delle prede dei levrieri, satura dell’odore del pelo spettrale di quelle creature mai stanche.

 

“Dove sei, Arawn?! Dove ti nascondi? Cacciatore pauroso sei, ordunque!”

 

Tut tut! Non pauroso, ma attento!” –Rispose il Dio, esplodendo in un’acuta risata che risuonò per l’intero antro, disorientando Marins, che ancora non aveva individuato l’avversario.

 

Fu solo quando sentì il suolo muoversi, il manto muschioso di rocce e terra sollevarsi e avvoltolarsi attorno ai suoi arti inferiori che capì. Arawn era Annwn, e poteva formarlo a suo piacimento. Enormi levrieri di puro cosmo sorsero dal terreno, avventandosi su Marins da ogni direzione, limitandone gli spostamenti, spezzando la magia che le sue gambe compivano correndo.

 

“Sei un disonesto!” –Lo aggredì il ragazzo, espandendo il cosmo e cercando di tenere lontane quelle creature affamate. Ricordò gli insegnamenti di Avalon e lasciò che le forze radunate scorressero in lui, traboccando come un fiume in piena. Il maroso di energia acquatica esplose repentino, fluendo a guisa di vortice attorno a sé e spazzando via i levrieri di cosmo, inglobandoli e annientandoli in poderosi schizzi d’acqua.

 

Quando il ragazzo fu finalmente libero, crollò sulle ginocchia ansimando, stanco per aver consumato molte energie. Per quanto lo scontro non fosse in corso da molto tempo, sembrava che in quella caverna le forze lo abbandonassero più in fretta. O forse è quel che si prova durante il primo vero scontro? Si disse, chiedendosi se anche per i suoi compagni era stato così. Reis aveva risvegliato il cosmo quando era ancora un’infante, sottoposta a una pressante violenza che aveva scatenato in lei la forza dell’istinto di sopravvivenza. Jonathan aveva dovuto aspettare i dieci anni e assistere al massacro del Tempio di Inti e alla morte di sua madre per liberare l’arcano potere celato dentro sé. E lui? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?

 

Suo padre era morto da un paio d’anni, sua madre un ricordo sbiadito nelle angustie del tempo. Yogi Berra e i suoi trascorsi nel baseball erano reminescenze di una vita lontana. Che cosa gli restava adesso? Cosa voleva essere, in fondo?

 

Concedendosi un sorriso, gli vennero in mente le parole che Avalon gli aveva rivolto la prima sera in cui si erano incontrati, la storia che gli aveva narrato riguardo a Tantalo. Solo allora la capì.

 

Tantalo sono io. Affermò, rimettendosi in piedi, avvolto nel suo cosmo azzurrino. C’è tutto un mondo là fuori, un mondo di felicità, che non sono mai stato in grado di vedere, tutto preso dal dover sempre correre altrove. Per mio padre, per mia zia, per Avalon. Oggi corro per me!

 

Un calcio in faccia lo spinse indietro, scaraventandolo a terra a pochi metri di distanza, rubandolo ai suoi pensieri e ricordandogli che avrebbe ancora dovuto superare l’ultimo ostacolo, che infine si era palesato. Arawn, il Signore degli Inferi, sorrideva divertito, sormontato da un’aura violacea che presto assunse le forme di una battuta di caccia.

 

“L’ultimo atto, Cavaliere dei Mari! Sarai degno o meno dell’armatura che indossi? Cacciare o essere cacciati, questo è il segreto della sopravvivenza!” –Parlò il Dio, prima di portare le braccia avanti e liberare il colpo segreto. –“Schiera furiosa!”

 

Maremoto dei mari azzurri!!!” –Gridò Marins di rimando, lasciando che i due attacchi si scontrassero, generando un’enorme bolla di energia, al cui contatto i levrieri ringhianti e le limpide acque venivano disintegrati. E più forza entrambi profondevano al loro assalto, più lo stesso veniva distrutto, smembrato da forza eguale ma contraria, arrivando ad una sensazione di stallo. Che solo uno dei due avrebbe potuto alterare.

 

L’uomo o il Dio.

 

Non… ci sto… a morire da solo in questo lugubre inferno… Ho ancora tante mete da raggiungere! Tante palle da lanciare nello stadio della vita!!!” –Avvampò Marins, bruciando il cosmo come mai fatto prima, sorretto da una determinazione guerriera che non poteva essere altro che fame di futuro.

 

Fu allora che lo sentì, quel formicolio improvviso che gli diede calore e aumentò le sue forze, mentre una lunga asta dorata, con tre punte sulla cima, apparve di fronte a sé, entrando subito in contatto con la sua impronta cosmica, quasi fosse la stessa.

 

Eccolo…” –Mormorò, con sguardo trasognato. –“Il Talismano!!!” –E lo afferrò, liberandone tutto il suo potere. –“Tridente dei Mari Azzurri!!!” –Tuonò, mentre folgori celesti crepitavano ovunque attorno a sé, distruggendo la bolla di energia e tutti i levrieri furiosi di Arawn.

 

Persino il Signore di Annwn impallidì di fronte a quell’arma di cui aveva sentito parlare nelle antiche leggende del popolo celtico. L’arma che il Dio Nettuno aveva preso a modello come simbolo. Il tridente in grado di separare gli oceani.

 

Una scarica di energia lo raggiunse ad una coscia, spingendolo indietro e bruciandogli la pelle. Una seconda esplose tra i suoi piedi, scaraventandolo contro il muro retrostante, che subito venne bombardato da una raffica di folgori azzurre.

 

“Ok, ok, hai vinto!” –Si affrettò a chiarire l’uomo spaventato, invocando l’intervento del Signore dell’Isola Sacra. –“E non chiedermi mai più un favore!” –Bofonchiò. –“Sono stufo di tutti questi ragazzini complessati!”

 

Non ottenne risposta, anche se credette di aver udito una leggera risata, per quanto sapesse che Avalon non era solito perdersi in frivolezze. Un attimo dopo Marins scomparve, l’intero Annwn scomparve, portando il ragazzo a chiedersi se fosse stata un’illusione o se qualcosa di reale ci fosse stato davvero. Scosse la testa, non avendo in fondo importanza. Quel che contava era aver imboccato il bivio giusto, ed era certo che persino il suo allenatore sarebbe stato concorde.

 

Il paesaggio mutò di nuovo e Marins riconobbe la tozza sagoma del campanile sul Tor proiettare la propria ombra su di lui, in quella pallida mattina di giugno. Avalon lo stava aspettando, silenzioso e con lo sguardo attento, come era sua abitudine.

 

“Stanco di correre?” –Gli disse, strappando un sorriso al ragazzo.

 

“Affatto.”

 

“Era quello che volevo sentirti dire.” –Commentò Avalon soddisfatto, prima di mettere una mano sulla spalla del Cavaliere dei Mari Azzurri e discendere il Tor, diretti verso casa.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Diciottesimo anno prima del secondo avvento.

Fine.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo sedicesimo: Il falco all'attacco ***


CAPITOLO SEDICESIMO: IL FALCO ALL’ATTACCO.

 

“Posso portarvi altro, Cavaliere di Virgo?” –Domandò l’archivista, dopo aver depositato alcuni tomi su un tavolo della Biblioteca del Santuario.

 

“Va bene così, Nicole! Se mi servirà aiuto, ti chiamerò!” –Si limitò a rispondere il Custode della Sesta Casa, ringraziandolo per avergli mostrato i libri che stava cercando. Quindi, vedendo che l’uomo non accennava ad allontanarsi, sollevò la testa e gli chiese se ci fossero problemi.

 

“Mi chiedevo soltanto a cosa fosse dovuto il vostro interesse per quel periodo storico. Gli Anni Bui non sono molto ricercati dagli studiosi, che preferiscono concentrarsi su periodi di maggior gloria di Atene, come gli anni dell’edificazione del Grande Tempio e delle Dodici Case!”

 

“Ritengo che la storia offra sempre qualcosa da insegnare, qualcosa di utile a coloro che dopo di noi verranno, anche nei momenti in cui l’umanità e gli Dei hanno rivelato i loro lati peggiori. Come potremmo in fondo apprezzare la luce, se non conoscessimo gli orrori dell’ombra?” –Rispose pacato il Cavaliere di Virgo, mentre l’archivista annuiva soddisfatto, inchinandosi e tornando poi al suo lavoro di catalogazione.

 

Impiccione! Sibilò, dopo che si fu allontanato, iniziando a sfogliare gli antichi volumi. L’idea gli era venuta per caso, dopo aver appurato che tra le memorie del Primo Saggio non vi fosse niente di valido, al riguardo. Del resto non avrebbe avuto motivo di approfondire, non essendo stata una battaglia che vide il coinvolgimento di Avalon o di altri regni divini ad eccezione di quelli greci. Ma di certo negli Annali del Santuario il luogo della sua caduta deve essere certamente indicato!

 

Il volto del Cavaliere d’Oro si torse in un perfido sorriso al pensiero di quel che avrebbe potuto ottenere, se fosse riuscito a risvegliarlo, o quanto meno a individuarlo. Un braccio armato contro Atene! In fondo, non solamente Tifone e i Giganti hanno marciato contro il Grande Tempio, anche altre colossali creature hanno ben ragione di essere in collera con gli Olimpi per le condanne che loro inflissero. E poiché non hanno preso parte alla recente Titanomachia, debbo arguire che ancora riposino nel limbo, attendendo la chiamata di un sogno di conquista. Io darò loro quel sogno, rendendolo afferrabile come le redini di una giumenta. E loro lo cavalcheranno, aprendo la strada alla distruzione dei regni di Grecia! Doveva soltanto trovare il luogo in cui furono sconfitti, il luogo in cui Zeus spalancò l’abisso di Tartaro, confinandoceli uno ad uno.

 

La risposta gliela mostrò l’ultimo tomo, sulla cui costola esterna una sbiadita scritta in caratteri greci indicava l’argomento di narrazione.

 

Ατλας

 

Scritta dall’unico Cavaliere d’Oro sopravvissuto al cruento conflitto, la cronaca era corredata da una cartina illustrante il tentativo di fuga dell’ultimo dei quattro fratelli. Anche se disegnata a mano, con qualche imprecisione frutto del periodo storico in cui fu redatta, Virgo riconobbe distintamente i confini settentrionali del continente africano, le propaggini dell’arcobaleno ove era celata la sua pentola d’oro.

 

***

 

La Erinni attaccò subito, mulinando una frusta fiammeggiante.

 

D’istinto, Horus si portò di fronte a Naveed, per proteggere il suo sottoposto e i Cavalieri delle Stelle, che ancora giacevano incoscienti sul pavimento del sotterraneo. Sollevò il braccio destro e lasciò che la verga vi si annodasse, ustionando la corazza ma non raggiungendo la pelle al di sotto. Prima che il Dio potesse liberarsene, la creatura gli scagliò contro la torcia che reggeva in mano, obbligandolo a balzare in alto e a spalancare le ali, librandosi a mezz’aria, mentre l’asta si conficcava per terra.

 

Deciso a passare al contrattacco, Horus continuò a volare, trascinando la Erinni con sé, in modo da obbligarla a lasciare la presa della frusta. Lo spazio angusto limitava i loro movimenti e il calore che le fiamme della creatura stavano generando lo rendevano posto quanto mai inadatto per un lungo scontro, per cui il Dio tentò di chiuderlo in fretta. Senza però riuscirvi.

 

Restò sorpreso quando vide che anche la Erinni poteva volare, grazie a tenebrose ali d’uccello, o di qualche demoniaca creatura che non conosceva, che spuntavano dalla sua schiena, e presto se la ritrovò addosso, con tutte le serpi, l’alito fetido e la brama di sangue.

 

Artigli del falco!!!” –Gridò il figlio di Osiride, liberando fendenti di energia con cui mozzò le vipere che si protendevano verso di lui, trinciando anche la frusta e permettendosi maggiore libertà d’azione. Ma la donna mostruosa non ne fu affatto turbata, limitandosi a ricrearla e a lanciarla verso di lui, una serpentiforme vampa di fuoco che pareva inseguire Horus ad ogni movimento.

 

“Attento, mio Signore!” –Lo avvertì Naveed, rimasto indietro, in piedi di fronte a Febo e Marins, con la spada impugnata a due mani, terrorizzato da quell’arpia. Se ne avesse avuto l’occasione, sarebbe fuggito al piano di sopra, portando almeno uno dei feriti con sé, ma la scalinata era proprio alle spalle della Erinni che, sia Naveed che Horus l’avevano notato, cercava sempre di non allontanarsene troppo.

 

Un guizzante colpo di frusta afferrò il Dio per un calcagno, dando alla bestia la possibilità di sbatterlo a terra, fargli perdere l’elmo della corazza e poi piombare su di lui.

 

“Stammi lontana!” –Avvampò Horus, volgendole contro il palmo della mano, da cui lampi di energia saettarono, aprendosi a ventaglio di fronte a sé e tenendo indietro le serpi infuocate. Pur tuttavia, per quanto fosse finora riuscito a non farsi mordere o ferire, il Dio percepì il peso di quello scontro, quanto in fretta le sue energie stessero scemando, risucchiate, quasi prosciugate dall’aria fetida di quel santuario. Persino volare l’aveva stancato e presto non avrebbe più potuto permetterselo. Strinse i denti, abbandonandosi a un paio di improperi, cercando un modo per salvare Febo.

 

Febo Mormorò infine, capendo che causa e risultato di quella missione potevano combaciare. E sfrecciò verso di lui, subito seguito dalla Erinni, le cui serpi si snodarono bramose nella sua direzione.

 

Naveed! Colpiscila!!! Ora!!!” –Gridò Horus, mentre il soldato puntava la Spada del Sole liberando un raggio di energia ardente che annientò una vipera, obbligando l’animalesca donna a frenare la sua avanzata.

 

“Anche io posso farti male, eh?” –Commentò il guerriero, con una punta d’orgoglio per la buona mira avuta. E rinnovò l’assalto, liberando nuovi fasci di energia, forzando così la Erinni sulla difensiva.

 

“Bravo Naveed, tienila impegnata! Dammi… un minuto!” –Esclamò Horus, chino adesso su Febo. Gli sollevò la testa, schiaffeggiandolo un paio di volte nel tentativo di svegliarlo, quindi afferrò il tiet, stringendolo tra le mani e concentrando il cosmo, per attivarlo. –“Iside, madre mia, l’amuleto di cui mi faceste dono, affinché mi donasse protezione e luce, in questo mondo come nel prossimo, possa essere per Febo un faro nell’oscurità, un’ancora di salvezza prima che l’oscurità della morte lo possieda! Vi supplico, aiutatelo, sciogliete il nodo della vita e permettetegli di tornare a camminare!”

 

“Mio Signoooreee!!!” –Urlò allora Naveed, interrompendo la meditazione del Dio, che si voltò di scatto, vedendo la verga fiammeggiante strappar via la spada dalle mani dell’uomo e gettarla nelle tenebre del sotterraneo, prima di tornare indietro e puntare alla sua testa.

 

“A terra!!!” –Horus gettò a terra il soldato, balzando su di lui, proprio mentre la frusta passava mulinando nell’aria sopra di loro, quindi lo spinse via, rinnovandogli l’invito a portar fuori i due Cavalieri delle Stelle non appena ne avesse avuto l’occasione. –“Io ti darò quella possibilità! Dovessi morire nel farlo, ma te la darò! Febo, fratello mio, torneremo a Karnak!”

 

***

 

Non solamente Iside udì l’invocazione di Horus. Anche suo padre, all’esterno del santuario, macchiato di sangue e budella, ne percepì la passione, la sensibilità, l’accorato sfogo, e decise di fare il possibile per non vanificare i suoi sforzi.

 

Flagello di Amenti!!!” –Tuonò, aprendo un nuovo squarcio dimensionale dentro il quale risucchiò una ventina di Empuse, incurante dei loro lamenti disperati, poca cosa in fondo rispetto a tutto il dolore che avevano provocato.

 

Ma poca cosa fu anche l’effetto di quel colpo, la cui minore intensità fu percepita dalle divoratrici rimaste, che videro con estremo piacere il Dio barcollare stanco, fino a doversi appoggiare al bastone per non cadere a terra. Osiride digrignò i denti con rabbia, pur di non doverlo ammettere, ma quel continuo guerreggiare lo stava prosciugando di ogni energia. Facendosi forza, si risollevò, proprio mentre una carica di vacche furiose sopraggiungeva a gran velocità, i corni lucenti rivolti verso il suo cuore.

 

“Correte ad abbracciare la morte?!” –Esclamò il nume, puntando lo scettro dorato avanti a sé che irradiò migliaia di fasci di energia, falciando quella ferina cavalcata.

 

Non s’avvide però Osiride di una ristretta mandria di Empuse che aggirò il grosso delle vacche, portandosi lesta alle sue spalle. Lo travolsero in una decina, fiatando fiamme di cosmo dalle fauci, e sbattendolo a terra, facendogli perdere la presa sul bastone d’oro e ustionando l’elegante Veste Divina con il loro alito incendiario. Un’ultima violenta esplosione cosmica permise al Signore di Amenti di liberarsi anche di quella carica, privandosi però della quasi totalità della sua forza.

 

Respirando a fatica, il volto pallido e scavato dalla stanchezza, Osiride si appoggiò su un ginocchio per tirarsi su, e proprio in quel momento le lunghe corna oscure di un paio di Empuse lo trafissero alle cosce, strappandogli un grido di dolore.

 

Cibooo!!!” –Ghignò una vacca, già pregustando il delizioso manicaretto che un corpo di stirpe divina rappresentava per il suo vorace palato.

 

Ci… cibo?!” –Mormorò il Dio, stordito e sopraffatto da mille pensieri. –“Non ho permesso ad Apep di nutrirsi del mio corpo, dovrei permetterlo a voi, immonde sanguisughe?!” –Avvampò, bruciando quel che rimaneva del suo cosmo.

 

Con rabbia, si strappò il flagello e il pastorale incrociati sul pettorale, piantando poi il doppio scettro nelle fauci aperte dell’Empusa, dilaniandola dall’interno. Quindi, usandolo come un coltello, le squarciò la gola, staccandole la testa. Ebbro di sangue e furia, sradicò il cranio della vacca sgozzata, strappando via il corno dalla sua gamba ferita, e lo mulinò, piantandolo nel tozzo corpo della seconda bestia, affondando le aguzze corna in profondità, scannandole le budella. Estrasse poi il corno dalla seconda gamba e lo sollevò in aria, in gesto di trionfo, gridando a squarciagola.

 

“Chi altro vuole sfidare Osiride? Chi ancora vuole sfidare la morte?”

 

Nessuno rispose, perché non vi era più nessuno in vita per parlare.

 

I soldati che lo avevano accompagnato erano tutti morti e i loro cadaveri marcivano tra le vacche trucidate, decorando col rosso del sangue e con l’oro e il verde delle loro vesti la brulla spianata di terra di fronte al santuario oscuro. Prima ancora del ritorno dei suoi occupanti, il tempio aveva già ospitato un rito di sacrificio in loro onore.

 

“Non siete caduti invano!” –Vociò Osiride, spaziando con lo sguardo tra i corpi dei caduti. –“Il vostro coraggio sarà ricordato, la vostra condotta di vita eletta a modello esemplare e i vostri nomi saranno enumerati nel Libro dei Morti, sotto la voce audacia! Testimonianza di rettitudine sarete per coloro che verranno!”

 

Fu allora che, tra i cadaveri squartati delle Empuse, notò delle fiammelle accendersi, guizzare in aria e rivolgergli velenose fauci affamate. Un’apertura alare anticipò il sollevarsi dell’animalesco corpo della terza Erinni, quella a cui il Dio aveva mozzato il braccio e che adesso impugnava una frusta fiammeggiante, pretendendo vendetta.

 

“E sia allora! Che questa sia davvero per me la terra del non ritorno!” –Esclamò Osiride, impugnando lo scettro regale, mentre la creatura, dall’alto, piombava su di lui, incurante degli strali energetici che il Dio gli stava dirigendo contro.

 

La Erinni lo schiacciò al suolo, lasciando che le serpi infuocate gli bloccassero braccia e gambe, stritolandole e incendiandole con vampe infernali, insinuandosi tra le crepe dell’armatura e affondando i velenosi denti nelle carni, per nutrirsi del divino sangue d’Egitto. Agonizzando, Osiride riuscì a sollevare il bastone, torcendolo di fronte a sé per tenere a bada il volto orribile della rivale, quel nido di serpi che non poté non ricordargli Seth, e l’inganno di cui era rimasto vittima millenni addietro.

 

Quale ironia, ripensare a quel tempo, quando aveva creduto a suo fratello, l’ingannatore, lasciandosi rinchiudere in quella bara e affogare. Una bara! Una sepoltura che adesso, in così lontana terra straniera, non avrebbe avuto. Sbuffò, o forse sentì il fiato venefico della Erinni sul collo, il sibilare di centinaia di vipere di fuoco assetate come non mai.

 

Pensare a Seth però gli fece venire in mente anche qualcos’altro. Non solo il tradimento del fratello, il dolore e la morte. Ma anche l’impegno che coloro che lo amavano profusero nella sua ricerca. Iside, che lo riportò in vita e che poi cercò i pezzi del suo corpo, e Horus, che quando fu grande abbastanza non esitò ad affrontarlo in battaglia, in quel durissimo scontro di cosmi in cui perse un occhio. E lo fecero per lui. Per amor mio!

 

“Horus!” –Mormorò Osiride, infiammando al ricordo del sacrificio del figlio. –“Rinunciò a un occhio pur di tenere alto il mio nome! Che padre sarei, che Dio sarei, se non fossi pronto a fare altrettanto?!” –Ruggì, bruciando tutto il proprio cosmo, tutta la sua lunga vita e incenerendo le serpi avvinghiate al suo corpo. –“Vuoi i miei occhi, lurida bestia? Orbene te li darò!” –E si portò una mano al volto, strappandosi un bulbo oculare, mentre con l’altra mano afferrava la Erinni per il collo, incurante delle vampe di calore che trasudavano dal suo corpo. Le spalancò la bocca a forza, ficcandole in gola l’occhio, per poi ritirare la mano e osservarla gustare smaniosa la sua preda.

 

Ma pochi attimi dopo la donna cacciò un grido terribile, in preda a convulsioni violente, sentendo un fuoco immenso dilaniarla dall’interno. Tentò di volar via, ma Osiride la afferrò per le ali, sbattendola a terra, il cosmo ormai acceso alla massima intensità.

 

“Non avere fretta! Il castigo divino oggi ha raggiunto tutti noi!” –Le disse, prima di lasciarsi esplodere.

 

***

 

Febooo!!!”

 

Il grido lancinante di Horus raggiunse un qualche angolo della sua mente turbata, venendo captato dai ricettori del suo subconscio. Il battito del suo cuore aumentò leggermente, pur rimanendo molto debole, al di sotto della soglia necessaria alla sopravvivenza. Eppure Febo era vivo, doveva esserci ancora qualcosa di sé, qualcosa rimasto puro e immacolato dall’abominio cui assieme a Marins era stato fatto oggetto.

 

Guaì, così piano che neppure lui stesso avrebbe potuto udirsi, al solo ricordare le torture subite, il dolore che Algea aveva inflitto loro. Non solo fisicamente, bensì interiormente. La Dea delle Sofferenze aveva prosciugato il loro cosmo, risucchiando la linfa vitale che del cosmo era ricettacolo primario. E con esso se ne erano andati i ricordi, i momenti belli, gli affetti, le carezze degli amici e le vittorie sofferte contro i nemici. Una parte di sé era fluita via, distillata e svenduta come vino a un suk.

 

E cosa gli era rimasto adesso? La forza? Ben poca se non riusciva neppure a piegare le dita. L’esperienza? Misera, avendo affrontato un numero esiguo di avversari, per quanto neppure riuscisse a ricordarli. La volontà? Umpf, era la prima cosa che Algea aveva sottratto loro, asservendoli all’oscuro volere di quel tempio.

 

Il tempio… Mormorò, strizzando le palpebre, mentre fitte di dolore gli pervadevano il corpo, ferendolo come lame di pugnale. Solo pensarlo, solo immaginarlo era fonte di sofferenza. E quello che era accaduto là dentro, ciò che avevano trovato, si era rivelato peggio di quel che Avalon avrebbe potuto illustrare loro. Là dentro, ove avevano combattuto fino allo stremo, prima di essere divorati dall’ombra, dimorava il male allo stato più puro. Un essere senza corpo, un manto di puro cosmo contro cui nessun’arma avrebbe potuto avere effetto.

 

Una omega immensa.

 

Aaahhh!!!” –Se avesse avuto la voce, avrebbe urlato. Se avesse avuto la vista, avrebbe pianto. Se avesse posseduto il tatto, avrebbe allungato le mani per riuscire anche solo a toccarlo. L’infinita vanità del tutto.

 

Così era caduto, e Marins era crollato al suo fianco.

 

Persi i Talismani, distrutte le armature, privati persino della coscienza, cosa restava loro? Soltanto languire in un nulla senza fine, aspettando l’avvento del re dal tremendo potere.

 

“Il re…” –Ansimò Febo, febbricitante, il volto madido di sudore. Chi era il re? C’era stato un re nella sua vita, una figura così importante, così maestosa, da servire e onorare, da venerare con rispetto, nutrendosi dei suoi principi, della sua grazia, della sua luce?

 

Luce…” –Mormorò, prima di perdere di nuovo i sensi.

 

Febo!!!” –Lo chiamò allora una voce di donna. Una voce che non aveva mai udito in vita sua. Ma che poteva appartenere soltanto a lei.

 

Ma… madre?!”

 

Febo, svegliati!” –Ripeté la donna, parlando con voce vellutata, soffice come un abbraccio. Come l’abbraccio che non aveva mai potuto dare al figlio.

 

“Madre, dove sei?!” –Balbettò Febo, agitandosi nell’oscurità.

 

“Sono qui! Segui la mia luce! Segui la luce del sole, fonte di vita!”

 

Il ragazzo chiuse gli occhi, osservando un riverbero di speranza baluginare lontano. Vi si diresse, nudo e scalzo, mentre il ciuffo di luce aumentava di intensità, fino a entrarvi dentro e a passarvi attraverso. Si ritrovò così a Delfi, la splendida e operosa città del Parnaso ove Apollo aveva fatto innalzare il suo santuario e ove l’oracolo parlava in suo nome.

 

Era una calda giornata primaverile e il sole faceva risplendere le colonne di marmo del tempio del Nume, fuori dal quale una gran folla era riunita per rendergli omaggio e invocare la sua benevolenza. Febo passeggiò nel pronao, senza che nessuno gli rivolgesse parola, senza che nessuno lo vedesse, entrando infine nella cella principale del santuario, dove sua madre lo aspettava.

 

“Sei bellissimo!” –Gli andò incontro la donna, sollevando le lunghe vesti di seta.

 

Mi… sei mancata!” –Trovò la forza per dirle Febo, mentre la madre lo abbracciava, carezzandogli i capelli biondi. –“Iside mi ha cresciuto, non mi ha fatto mancare niente, neppure l’amore. Eppure… il tuo ricordo non mi ha mai lasciato. A volte mi sento in colpa per la tua sorte, Apollo non ti avrebbe punito se io non fossi nato.”

 

“Non pensarlo mai! La mia sorte io sola l’ho scelta, concedendomi al Dio che mi aveva abbagliato! E mai, neppure per un momento, ho rimpianto quel giorno, perché da quell’unione sei nato tu, figlio del Sole! Un ponte tra culture diverse, simbolo di un’alleanza che mai come in questo momento è necessaria! Ora va’, figlio mio, combatti la tua guerra, io veglierò su di te! Ben poco posso fare! Solo donarti una stilla di vita, che possa essere per te sufficiente per ricordare chi sei e quanto vali davvero!” –E lo baciò in fronte, trasferendogli ogni goccia della sua energia.

 

“Madre?!” –Esclamò Febo, mentre l’immagine iniziava a tremolare e la donna pareva scomparire, inghiottita dal tempio, da Delfi, dalla Terra tutta. –“Madre?!” –Ripeté, tirandosi su di scatto, in un lago di sudore, e accorgendosi di essere in una cella oscura, disteso su un gelido pavimento. Accanto a lui, nudo e pallido, Marins giaceva inerte, mentre poco lontano, sull’altro lato di quello stanzone, due figure combattevano una danza animalesca. Febo ne percepì il cosmo e riconobbe in Horus il guerriero dall’armatura danneggiata che quelle infami serpi di fuoco stavano stritolando. Si portò le mani al collo, sfiorando il tiet e capì che molti amici avevano contribuito a farlo tornare. Sorrise, piangendo al tempo stesso, prima di sfilarsi l’amuleto e metterlo al collo di Marins, schiaffeggiando l’amico per aiutarlo a riprendere i sensi. Quindi, vedendo che il compagno non reagiva, gli mise le mani sul petto, iniziando a bruciare il proprio cosmo.  

 

Dapprima fu una fiammella di luce, così fatua che neppure Horus e la Erinni se ne accorsero, poi crebbe di intensità, alimentata dall’amore di coloro che credevano in lui. Hannah, sua madre, che lo aveva dato alla luce. Amon Ra, suo padre, che lo aveva accolto nella sua dimora pur tra mille pregiudizi. Iside e Osiride, per cui era sempre stato un figlio, un membro della famiglia reale. Horus, che aveva rischiato la vita per liberarlo da quella prigionia di tenebra. E Marins, il suo migliore amico, al cui fianco altre battaglie avrebbe combattuto.

 

“Risvegliati, Cavaliere dei Mari! Un’ultima guerra ci attende!” –Mormorò, mentre il suo cosmo cresceva e diventava un sole infuocato che rischiarò l’intero sotterraneo, insinuandosi tra le pietre della struttura e infiammandola in profondità.

 

Fe… Febo!!!” –Rantolò Horus, spossato da quel logorante scontro.

 

“Sono qui!!!” –Rispose fiero il Cavaliere delle Stelle, mentre la sua armatura appariva di fronte a sé, rivestendolo dopo pochi istanti. In quella anche Marins riaprì gli occhi, mentre il cosmo dell’amico lo aiutava a recuperare i ricordi perduti e le forze. –“Dammi un minuto!” –Gli disse, alzandosi in piedi e muovendo un passo avanti, gettando la sua sfida alla Erinni, che subito la colse, scaraventando il corpo stanco di Horus a terra e schizzando verso di lui, ad ali spiegate. –“In questa terra di luce non c’è posto per creature oscure come te! La monderò, con la mia Bomba del Sole!!!” –Gridò, liberando una sfera di energia ardente, simile ad un piccolo astro, che sfrecciò verso la Erinni, investendola in pieno ed esplodendo in un tripudio di fiamme dorate.

 

Le serpi, la frusta, le ali della bestia infame vennero incenerite, tra gli spasimi atroci dell’ultima castigatrice. Spasimi che presto cessarono, quando una lama infuocata le mozzò la testa, facendola rotolare al suolo prima di disgregarsi in putrida cenere.

 

Naveed!!!” –Esclamò Horus, riconoscendo il soldato che, pur pesto e logoro, era ancora vivo.

 

“Horus, fratello mio!” –Corse allora Febo ad aiutarlo, sollevandolo e ringraziandolo per aver così tanto rischiato in nome suo.

 

Il Dio Falco lo abbracciò, felice di vederlo sveglio e vivo, mentre anche Marins si rimetteva in piedi, rivestito dalla sua armatura dei Mari Azzurri. I quattro compagni sfrecciarono allora al piano di sopra, passando di nuovo dalla stanza dove Horus aveva conversato con Moros, poche ore prima, e trovandolo ancora lì, sospeso in aria a meditare, completamente disinteressato alla loro presenza.

 

Che agissero, che corressero, che si agitassero oltre ogni dire, al Dio del Destino tutto ciò non interessava, perché l’ora ultima di tutte le cose sarebbe giunta. Per sé come per loro.

 

Nel cortile Horus recuperò la sua forma di falco, pur se con fatica, ma capì subito di non poter trasportare tutti e tre i compagni fino in Egitto. Naveed si affacciò allora dal portone principale, per controllare cosa ne era stato dei suoi compagni, e crollò in lacrime di fronte alla carneficina che insozzava il deserto del Taklamakan. Anche Horus si fermò per un momento sulle mura esterne ad osservare il campo di battaglia, riconoscendo il corpo di suo padre tra i cadaveri di cui le Empuse ancora in vita stavano cibandosi. Avrebbe voluto scendere e ucciderle tutte, prendere il suo corpo e portarlo a Karnak per la sepoltura, ma comprese l’urgenza di andarsene quanto prima, prima che qualche nuovo oscuro potere venisse scatenato. Così fece montare Naveed sulla sua schiena, afferrando Febo e Marins con gli artigli, e volò via, restando basso a pochi metri dal suolo, impossibilitato a fare di più.

 

Fu in quel momento di scoramento che una voce lo raggiunse, una voce che tutti e quattro ben conoscevano, e che spinse Naveed a chinare il capo di riflesso. Quel cosmo che li avvolse, caldo e confortevole, e dentro il quale i loro corpi svanirono poco dopo, apparteneva al Dio supremo di tutto l’Egitto. Il possente Amon Ra.

 

E luce fu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 19
*** Capitolo diciassettesimo: Togetherness ***


CAPITOLO DICIASSETTESIMO: TOGETHERNESS.

 

“Da quanti secoli combattiamo, Ares?” –La voce calma ma decisa di Atena sorprese il Dio della Guerra, tanta era la determinazione che traspariva dal portamento sicuro della figlia di Zeus, appena comparsa nel Cerchio di Urano per proteggere Pegasus. –“Da quando, secoli addietro, sconfitto in guerra assieme alle tue armate di berseker, cercasti rifugio nelle profondità di Ade, spingendo il Signore dell’Oltretomba contro di me! Vigliacco fosti, incapace di vincermi da solo, e vigliacco sei rimasto!”

 

“Vigliacco?! È ironico che sia tu a definirmi tale, tu che da millenni armi eserciti di giovani, rubando loro i sogni e il futuro, per mandarli a morire in guerra, anziché combattere personalmente! Io almeno sono sempre in prima linea, laddove la vampa imperversa e scorre il sangue!” –Berciò Ares, la mano stretta alla lancia infuocata e desiderosa di penetrare le nivee carni della fanciulla dai capelli viola che aveva osato uscire allo scoperto, forse per la prima volta dai tempi del mito.

 

“Di errori ne ho fatti molti, e forse avrei dovuto essere più forte, più concreta anziché dispensare soltanto amore e perdono!” –Si rattristò per un momento Atena e il ghigno sul volto di Ares si allargò, certo di aver colpito nel segno. –“Ma errore più grande sarebbe stato permettere a te, o a Ade o a Crono o a qualunque altra crudele Divinità, di soggiogare gli uomini, privandoli del libero arbitrio e confinandoli nell’odio e nelle tenebre. No, Atena ha dedicato la vita a proteggere gli uomini, anche quando hanno sbagliato e sprecato tempo e risorse a farsi la guerra tra di loro, perché ho sempre confidato che la loro grandezza stesse nella possibilità di rinascere!”

 

“Facoltà che a te, presto, sarà tolta.” –Sentenziò Ares, sibillino, iniziando a mulinare la lancia sopra la testa, mentre attorno a loro sorgevano vampe di fuoco, e obbligando Atena a sollevare l’Egida. –“Preparati a raggiungere… il resto della famiglia!”

 

La Dea avrebbe voluto chiedergli altro, indagare sui dubbi che Avalon le aveva palesato ore prima, ma la rabbia di Ares la investì all’istante, sotto forma di strali infuocati che cozzarono uno dopo l’altro sul robusto scudo dorato.

 

“Ti ripari dietro quel clipeo di ferraglia come per secoli ti sei fatta scudo di ragazzi nel fiore degli anni, strappandoli alle loro madri, esiliandoli dalla loro felicità terrena e sprofondandoli nei brulli campi di un anonimo sepolcreto, ove nessuna gloria li ha attesi, nessun canto eroico. Solo una triste e smussata lapide che l’edera col tempo ha sommerso!” –Ringhiò il Dio, la cui lama tempestava la superficie dell’Egida, forzando Atena alla difensiva.

 

“I Cavalieri non combattono per gloria o per onori, Ares, ma tu certo non puoi capire i valori che ne muovono i passi, valori che sempre hanno riempito i loro cuori.”

 

“È questo che dicevi alle madri, quando riportavi loro i figli morti? Ē tān ē epi tās?! Con lo scudo o sullo scudo? È con questa menzogna che convincevi te stessa, bugiarda d’una sorella bastarda, quando i rapsodi e gli aedi cantavano le gesta di Atena la terribile Sovrana?! Atena la sterminatrice di fanciulli? Atena, la regina delle anime perse? Quanti threnoi hai ispirato? Di quanti lamenti funebri ti sei resa responsabile?!”

 

Atena inghiottì a fatica, sentendosi improvvisamente debole. Consapevole della nuda e crudele verità. Del resto, quel che Ares le stava rinfacciando era solo una parte dell’ambascia che l’aveva invasa negli ultimi tempi, da quando aveva iniziato a ricordare, da quando era riuscita a enumerare tutti coloro che in suo nome erano morti. Pur tuttavia, assieme a quel dolore, era emersa anche un’altra consapevolezza, che il tocco di Avalon aveva acuito, permettendole di accettarla.

 

La necessità di combattere. E di non arrendersi mai. Indipendentemente dal costo.

 

I suoi Cavalieri lo avevano pagato in termini di vite, di sacrifici, di futuri negati; lei lo aveva pagato saturando il suo cuore del ricordo di loro, di tutte le loro esistenze rubate. Ma mai, neppure una volta, sprecate.

 

“Mai!!!” –Avvampò Atena, sollevando lo Scettro di Nike e intercettando con esso la lama del Dio, in uno sfrigolare di metalli e cosmi divini. –“Mai, Ares!!!”

 

Il bastone di Thule e la Dòru àimatos si incontrarono più volte, con forza crescente, con Ares che mirava al collo della Dea e quest’ultima che tentava di strappargli via l’asta. Poco avvezza allo scontro fisico, fu però Atena ad essere disarmata per prima, con un affondo secco del Nume che le portò via Nike e graffiò il bracciale della Veste Divina.

 

“Sei mia!” –Sibilò Ares, caricando la lancia di tutto il suo cosmo infuocato.

 

Atena fece appena in tempo a rifugiarsi all’ombra dell’Egida, accusando il violento impatto, che addirittura sentì la punta della lama premere sul suo braccio sinistro, tanto intensa era l’azione offensiva del cosmo di Ares. Cercò di liberarsi, ma il Dio la teneva stretta, determinato a causarle quanto più dolore potesse. Divertito, Ares poggiò un piede sull’Egida, estraendo la lancia e al tempo stesso spingendo la fanciulla indietro, osservandola capitombolare di schiena, alla sua completa mercé.

 

“La fine del viaggio, Atena! Porta i miei saluti alla madre dei miei figli! In fondo, anch’ella ha avuto una sua utilità!” –Ghignò il Nume, sollevando la Lancia di Sangue e godendosi quel momento a lungo atteso. Un attimo dopo calò l’arma sulla Dea, pur senza raggiungerla mai.

 

Pegasus, percepito il pericolo, si era sollevato di peso, posizionandosi tra la lancia e Atena appena in tempo per essere trafitto sul fianco destro. Senza dire una parola, troppo debole persino per aprir bocca, il Cavaliere resse lo sguardo del Dio, sorpreso e infastidito, prima di investirlo con una mitragliata di pugni di luce e spingerlo indietro. Solo allora, mentre Atena affannava nel rimettersi in piedi, singhiozzando per l’atroce spettacolo, Pegasus sentì il dolore della lancia rimasta conficcata nel suo fianco, il sangue che colava imbrattando la celeste armatura, il veleno che gli rendeva difficile respirare. Se resisteva ancora, se ancora non si era abbandonato al silenzio, fine ultima dei suoi tormenti, era per difendere lei.

 

Come un automa, il Cavaliere afferrò l’asta sporgente, sollevando poi il braccio destro a dita tese, caricandolo del suo cosmo e calandolo infine sull’arma. Ma ammutolì nel vederla ancora intatta.

 

Ahr ahr! Non avrai pensato di spezzarla così facilmente? È un’arma divina che ti ha infettato, non un manufatto terreno! E tu, penoso innamorato suicida, non hai mezzi per tagliarla! Non possiedi mica Excalibur!” –Sghignazzò Ares, espandendo il proprio cosmo e richiamando a sé la Lancia di Sangue, che schizzò bruscamente via dal corpo del Cavaliere, strappandogli un gemito di dolore al punto da piegarlo sulle ginocchia.

 

“Pegasus!!!” –Esclamò Atena, in pena, avvicinandosi al giovane che tossiva e perdeva sangue, sfiorandogli il mento con le dita. –“Perché?!” –Aggiunse, prima che la voce violenta del loro nemico li richiamasse entrambi.

 

“Fermi così, non muovetevi! Abbracciate la fine insieme! Ira di Ares!!!” –Tuonò, scatenando la devastante tempesta di vampe infuocate.

 

“Egida, difendimi!!!” –Reagì Atena, posizionando lo scudo di fronte a sé e a Pegasus, sforzandosi di tenerlo vicino, affinché non venisse travolto. Ma tale posticcia difesa fu sbaragliata dall’assalto del Dio, che osservò compiaciuto la Dea e il suo Primo Cavaliere venire sballottati in aria, sferzati da vampe roventi, per poi schiantarsi al suolo, uno accanto all’altro. Proprio come le tombe che li avrebbero accolti.

 

L’urlo disperato di Discordia raggiunse Ares in quel momento, portandolo a muovere lo sguardo verso l’altra parte del Cerchio di Urano, laddove la Signora della Contesa stava affrontando Phoenix. Quale vergogna! Commentò il Nume, scuotendo la testa con disappunto, percependo l’indebolirsi del suo cosmo divino. Non aver ancora ucciso neppure un nemico! Mi auguro che la tua stirpe stia facendo lavoro migliore!

 

Distratto da quel pensiero, Ares non si accorse che Atena aveva allungato la mano verso il suo Cavaliere, disteso sul suolo lunare accanto a lei, così vicino da poterne udire il rantolo soffocato con cui tentava di respirare.

 

“Perché?!” –Ripeté, sospirando.

 

“Lotterò sempre per te!” –Rispose una voce, parlando direttamente al suo cosmo. –“L’ho sempre fatto, dai tempi delle Dodici Case! Sei la mia forza, la mia speranza! Sei il mio amore! Non posso vivere senza di te!”

 

Pegasus…” –Mormorò Atena, non sapendo come rispondergli, perché in fondo c’erano troppe cose da dire. Troppe cose da dirgli.

 

“Non ce n’è bisogno. Lo so!” –Si limitò a commentare il ragazzo, consapevole del ruolo della Dea, del suo essere faro solitario per tutti coloro che lottano per amore di giustizia. Del suo essere Atena Parthenos. –“Ma sappilo anche tu, prima che io muoia. Ti amo Isabel, se può un uomo amare davvero una Dea. Ti amo, e solo per te tenterò ancora!” –Aggiunse, bruciando il cosmo, ogni stilla di energia, espandendolo fino all’estremo angolo dell’universo, sorretto da quel sentimento che non voleva più negare. –“Cassios diede la vita per colei che amava, anche se questo avrebbe comportato far vivere il suo nemico. Chi sono io per non fare altrettanto? Quale uomo potrebbe non essere ugualmente coraggioso?! Aaahhh, brucia cosmo delle tredici stelle!!! Brucia, fiamma di Pegasus!!!”

 

Ares grugnì stupefatto di fronte a quell’impressionante cascata di luce che da Pegasus pareva riversarsi sull’intero satellite, raggiungendo i suoi compagni e i Cavalieri di Avalon e dando loro speranza. Irritato, afferrò la Dòru àimatos, ma prima ancora di riuscire a muoverla dovette fronteggiare la carica del destriero celeste, piombato ad ali spiegate contro di lui.

 

“Tu sia dannato, Pegasus!!! Stai morendo! Perché non lo accetti?!”

 

“Forse sarà così, Dio della Guerra, ma tu non vivrai abbastanza per vedermi spirare!” –Esclamò il Cavaliere, portando avanti il pugno lucente e schiantandolo sul palmo della mano sinistra di Ares, che venne spinto indietro per l’impatto.

 

“Alla Dòru àimatos non puoi opporti!” –Sibilò quest’ultimo, preparandosi ad affondarla ancora. –“E stavolta berrà dal tuo cuore!”

 

“No!” –Gridò Pegasus, il cui cosmo riluceva al parossismo, avvolgendolo in una spirale di luce che si perdeva nella volta stellata. E in quella stessa spirale lampeggiò un cristallo di ghiaccio, fino a scivolare di fronte al volto del ragazzo, assumendo le forme di un manufatto divino che ben conosceva.

 

Che… cosa?!” –Ringhiò Ares, alla vista della fredda lama azzurra.

 

“Grazie, Odino!” –Commentò il ragazzo, allungando la mano per afferrare la spada Balmung e nutrirsi della sua energia, il tepore del sole di Asgard che mondò il suo corpo dal turpe veleno. –“Gli Dei del Valhalla sono con me!”

 

In quello stesso momento, al Sesto Cerchio, Mani trovò la forza di sorridere, di fronte allo sguardo sbigottito del suo avversario. E incitò Pegasus a vendicare anche gli Asi.

 

“Quest’oggi pagherai per i tuoi crimini! Balmung ti giudicherà!” –Esclamò il Cavaliere di Atena, calando la lama e incocciandola con la Dòru àimatos.

 

Ares cercò comunque di infilzare l’avversario, ma grazie alla spada di Odino Pegasus poté deviarla ogni volta in cui la lancia puntava minacciosa su di lui, fino a spingere indietro il Nume con un fendente energetico, che gli scheggiò un coprispalla. Imbestialito, Ares si lanciò in una carica frontale contro il Cavaliere, che riuscì ad evitarla balzando in alto, aiutato dalle ali dell’armatura, fino a portarsi proprio sopra di lui, quando questi si voltava per contrattaccare.

 

Odinooo!!! Il tuo cosmo è in me!” –Gridò Pegasus, calando Balmung e spezzando la lunga asta sanguinaria. E la mano che la reggeva.

 

Aaargh!!! Maledetto ragazzino!!!” –Avvampò il Nume della Guerra, tenendosi il moncherino sanguinante, roso dal dolore e dall’umiliazione subita. Mai nessuno, in millenni di storia e di battaglie, aveva osato tanto, e pareva che Pegasus fosse completamente incurante del fatto di aver ferito un Dio.

 

Come può mostrare tanta sfrontatezza? Un Cavaliere dovrebbe provare rispetto o timore della collera divina, eppure egli è già oltre. Che abbia acquisito la consapevolezza di essere diventato mio pari? Si chiese il figlio di Zeus, riconoscendo l’aura che circondava il ragazzo, lo stadio ultimo della conoscenza. Il quid rivelatore del Nono Senso.

 

“No! No! No!!!” –Ringhiò, imbestialito da tale possibilità, scatenando un caotico ammasso di vampe di energia che Pegasus parò torcendo Balmung di fronte a sé. –“Puoi avere tutti gli aiuti che vuoi, tutti gli Dei del mondo dalla tua parte, ma il tuo cuore sarà mio! Lo strapperò e finirà ad ornare la mia collezione!!!”

 

“Parli troppo.” –Commentò Pegasus, sollevando poi la spada al cielo, in un fluido gesto che gli venne naturale, per quanto lo avesse visto eseguire una volta sola. –“Tempesta di spade!!!” –Allo stesso modo le parole gli uscirono di bocca e una miriade di lame di energia piovve dal cielo, tartassando il corpo di Ares, che tutto si aspettava fuorché un attacco del genere.

 

Il colpo segreto di Odino.

 

“Che diavoleria è mai questa?!” –Trasalì, sollevando un vortice di fuoco con cui disperse buona parte delle spade. Ma non poté impedire alle altre di raggiungerlo, trafiggerlo, distruggere la sua Veste Divina e far ruscellare infine il sangue. –“Il mio… ichor!!!” –Tuonò il Nume, alla vista della sua corazza imbrattata. Spostò lo sguardo sulla lancia spezzata, il braccio mozzato e adesso la suprema armatura in frantumi. –“Che cosa mi resta di un sogno di dominio durato millenni?!” –Mormorò per un istante, invaso da una goccia di sconforto, l’unica mai piovuta su quel deserto di orgoglio e superbia. Quindi vide Pegasus barcollare, ormai allo stremo, e crollare sulle ginocchia, mentre Balmung cadeva accanto a lui. E capì, cosa solo gli rimaneva. –“La vendetta!!!”

 

A denti stretti, invocò il potere del suo padrone, l’oscura essenza cui aveva giurato fedeltà dopo che questi lo aveva risvegliato, in una grotta in Asia, liberandolo dalla prigione di tenebra cui il cono d’ombra lo aveva confinato, su volontà della creatura che si faceva passare per suo figlio.

 

Com’era stato ingenuo, a credere di poter sedere sull’olimpico trono. A pensare che la Grande Guerra potesse concludersi con la sua vittoria. Anche se non lo avessero sconfitto, e Tifone avesse incenerito il Monte Sacro, alla fin fine sarebbero stati soltanto pedine, manovrati nello stesso subdolo modo in cui lui aveva usato i suoi figli, i suoi guerrieri e ogni singolo essere vivente che poteva essergli utile.

 

Atena parve percepire il suo smarrimento, osservandolo mentre si rimetteva in piedi. –“Che cosa ti è successo? Dove sei rimasto nascosto per tutti questi mesi?”

 

“Ero intento a prepararmi.”

 

“A cosa? A quest’invasione senza motivo? Non credevo ti interessasse regnare su un reame sconosciuto ai più, senza sudditi, senza ricchezze, senza poter ostentare il tuo trionfo!”

 

“Non è per questo che sono qua, Atena. E lo sai bene. O forse ancora no. Forse, il gran burattinaio che tesse i destini del mondo non ti ha ancora reso partecipe di quel che sta accadendo, e ciò mi fa infine sorridere. Ahr ahr ahr! Anzi no, mi fa proprio godere! Sapere che esiste qualcosa che non conosci, e che ti ucciderà! Ahr ahr ahr!” –Sghignazzò il Nume, prima di concentrare tutto quel che restava del suo cosmo infuocato in un unico assalto finale. –“Ira di Ares!!!”

 

Atena sollevò prontamente l’Egida, caricandolo del suo cosmo divino, e lasciò che la tempesta di fiamme scivolasse sulla sua superficie, disperdendosi ai lati, consapevole comunque di non poter resistere a lungo. Così cercò di muovere lo Scettro di Nike, per puntarlo contro Ares, per quanto il turbinare continuo di vampe da guerra ne rendesse precaria la stabilità.

 

Fu in quel momento che Pegasus si rialzò, mettendo una mano su quella con cui Atena reggeva il bastone della vittoria, stringendogliela e trasmettendole parte del suo cosmo. La Dea fece altrettanto, lasciando che la sua energia fluisse in Pegasus, mescolandosi, attorcigliandosi, fondendosi assieme in un’unica potenza. Una fiamma devastante che diressero contro Ares.

 

“Per l’amore e la giustizia sulla Terra!!! Rifulgi, Nike!!!” –Gridò Atena, puntando lo scettro contro il cuore del Nume, che lo guardò terrorizzato, comprendendo quel che sarebbe successo. –“Cometa di Pegasus!!!” –Aggiunse il ragazzo, liberando il proprio colpo lucente, con cui avvolse il bastone, scagliandolo avanti ad una velocità pazzesca fino a sfondare la cassa toracica di Ares e spuntare dalla sua schiena.

 

“Come Ade, così tu.” –Mormorò Atena, fissando l’antico rivale negli occhi e percependone l’infinita assurda paura di morire. Che cosa lo spaventasse così tanto, la Dea non lo comprese, non avendo mai Ares avuto timore di alcunché, né essendo la prima volta in cui cadeva in battaglia. Anzi, avendo sempre usato il suo corpo mitologico, l’unico degno, a detta sua, di ospitarne la divina essenza, era già stato abituato a rimanere nel limbo per qualche secolo, fintantoché la sua coscienza non fosse stata in grado di riformarsi. E allora che cosa rendeva diversa questa sconfitta dalle altre che l’avevano preceduta? Che cosa generava in lui così sconfinato terrore?

 

Ma forse…, intuì la Dea, proprio mentre il corpo del Nume si sgretolava di fronte ai suoi occhi, rivelandosi per quel che era realmente. Un cadavere vecchio di migliaia di anni, che solo la divina volontà di Ares aveva mantenuto giovane e vigoroso e che adesso tornava cenere, come se la coscienza ultima del Dio fosse stata annullata.

 

Al tempo stesso, anche i cosmi di Chandra, Tsukuyomi e Tecciztecatl svanirono, dissolvendosi in polvere di stelle, liberi finalmente dalla crudele prigionia.

 

Un gemito sommesso la spinse a interrompere le sue riflessioni e a chinarsi su Pegasus, crollato in ginocchio per l’eccessivo sforzo. Nonostante la luce del Sole di Asgard avesse incenerito il curaro nel suo sangue, le ferite riportate lo avevano stancato e stava per perdere i sensi, non fosse stato per il tocco della mano di Atena che gli sfiorò il viso, spostandogli i capelli dagli occhi e forzandolo a guardarla. Bella, come le era sempre apparsa. Donna, come l’aveva sempre considerata. Dea, come infine era diventata.

 

“Grazie!” –Sorrise la fanciulla, infondendogli il tepore del suo cosmo ristoratore. –“Anche stavolta mi hai salvato! Cosa sarei senza di te?”

 

“Saresti Atena, Dea della Guerra giusta! Io… sono solo un uomo!” –Tolse lo sguardo, Pegasus, perdendolo nella volta stellata.

 

“Forse. O forse sarei incompleta… debole… e infelice.” –Si limitò a rispondergli Atena, mettendogli le braccia attorno al collo, pur con le corazze che rendevano goffo quell’abbraccio.

 

“Come ti dissi l’altra notte, quando tornammo da Asgard, non permetterò mai che ti accada niente di male. Finché avrò vita, io combatterò per te.” –Le disse Pegasus, stringendola a sé e carezzandole i capelli, inebriandosi del suo aroma.

 

Atena avrebbe voluto rispondere qualcosa, magari condividere con lui i ricordi di cui era tornata in possesso, e soprattutto i motivi per cui li aveva messi da parte, in un cassetto della memoria che non credeva avrebbe aperto mai più. Ma sentì Pegasus irrigidirsi, percependone il disagio. Spostando lo sguardo, vide che il ragazzo fissava avanti a sé, apparentemente nel vuoto spazio lunare, poi, guardando meglio, con gli occhi del cuore, capì.

 

In piedi, a pochi passi da loro, rivestito dalla bronzea corazza che il Cavaliere aveva indossato ai tempi della Guerra Galattica, c’era un giovane di vent’anni, dal volto sbarazzino, che Pegasus non poteva fare a meno di trovare familiare. E le parole di Isabel gli tolsero ogni dubbio.

 

“Quell’uomo è stato il primo Cavaliere a vestire la tua armatura! Egli è Bellerofonte di Pegasus! La tua forza, e la tua maledizione!”

 

***

 

“Mi manca tantissimo!” –Esclamò Flare, gettandosi tra le braccia di Cristal. Adesso che la cerimonia era finita, che i fedeli si erano ritirati per pregare o per tornare alle loro mansioni, poteva togliersi il velo di ufficialità, la maschera di forza che aveva dovuto indossare per sopportare il peso di una corona che non avrebbe voluto ricevere. Non così presto.

 

“Lo so.” –Commentò Cristal, carezzandole i capelli. –“Manca a tutti noi. Ma sei stata bravissima, hai parlato con il cuore, mostrando di condividere lo stesso destino di sofferenza del popolo, e questo ti avvicina a coloro che sei chiamata a governare. Hai parlato come avrebbe fatto Ilda e questo è il modo migliore per onorarla!”

 

Flare annuì, baciando il ragazzo e lasciandosi cullare da quell’abbraccio confortante. Seppur in pubblico doveva mostrare fermezza, per mantenere l’ordine e evitare il caos, era pur sempre una donna, e come tale bisognosa dell’amore di un uomo che adesso era tutto quel che poteva definire famiglia. Incupendosi per un istante, si chiese se anche quel sogno non sarebbe svanito, intimorita all’idea che il ragazzo potesse essere coinvolto in una nuova missione. Ma poi scosse la testa, ritenendo che a breve non sarebbe accaduto. Del resto Loki e Surtr erano scomparsi, chi altri avrebbe dovuto minacciare la pace di Midgard?

 

Intuendo i suoi pensieri, Cristal la prese per mano, conducendola fuori dalle sue stanze, dove troppo a lungo aveva indugiato nei giorni successivi alla scomparsa della sorella. Per piangerla, per ricordarla o anche solo per prepararsi al suo nuovo ruolo. E grazie a Cristal, grazie al suo affetto, aveva saputo superare quel lutto, interiorizzandolo e trasformandolo in una spinta per andare avanti.

 

“Guarda la tua terra, Regina di Asgard! Osservane il bagliore sotto i raggi di questo timido sole! L’inverno è arrivato ma la roccaforte degli uomini ancora resiste! Né il mare né la fiamma di Surtr le hanno arrecato danno!” –Disse il Cavaliere, fermandosi con Flare in cima alle mura esterne della fortezza, su un camminamento di ronda, in modo da poter abbracciare con lo sguardo l’intera vallata aprirsi di fronte a loro, dall’agglomerato di case dai tetti coperti di neve alle foreste lontane.

 

Flare sorrise, poggiando la testa sul petto del ragazzo ed inspirando a fondo quella nuova aria, che sapeva di futuro. Un futuro che avrebbe voluto vivere con lui. Esitò per un momento, non sapendo come affrontare il discorso, non sapendo neppure se Cristal avesse pensato almeno una volta alla possibilità di stabilizzarsi, di mettere radici in un posto che potesse chiamare casa. Che potessero entrambi definire tale.

 

Esitò, e perse l’occasione di chiederglielo, venendo entrambi distratti da un riflesso lontano, poco sotto l’orizzonte, che attirò la loro attenzione.


“Che strano!” –Mormorò Cristal. –“C’è qualcosa nell’aria… qualcosa che riflette la luce. Un velo di rugiada leggera? Non lo avrei mai notato se non avessi guardato dall’alto in quella precisa direzione.”

 

“I tuoi sensi sono ben affilati, Cavaliere del Cigno, se riesci a percepire quel che i miei poteri all’occhio umano han celato! Non me ne meraviglio, del resto, travalicando i tuoi stessi limiti, hai rimesso in discussione ciò che è umano da ciò che è divino!” –Esclamò allora una terza voce, interrompendo il momento privato della coppia e costringendoli a voltarsi verso le scale del camminamento, dove un uomo, avvolto in un mantello di pelliccia, stava salendo a parlare con loro.

 

“Principe Alexer!” –Lo riconobbe Cristal, prima ancora di vederne il volto, nascosto nel cappuccio del mantello, chiedendogli il motivo di tanta segretezza. –“Mi ero stupito infatti di non vedervi alla cerimonia!”

 

“Non me la sarei persa per niente al mondo!” –Commentò l’uomo dagli occhi di ghiaccio. –“Ma ho preferito rimanere defilato, in mezzo alla folla, per osservare senza essere visto. In fondo, questo non è il mio regno, sono solo un fedele giunto a rendere omaggio alla nuova Celebrante di Odino, il cui regno inizia sotto una configurazione astrale portatrice di non buoni auspici!”


“Cosa intendete dire, Principe?
Ragnarök è terminato! Surtr non può più mietere vittime e Loki e i Sigtívar sono stati sconfitti!”

 

“Mia dolce Flare, dovreste ben sapere che i pericoli del mondo sono infiniti e che è dovere di una regina occuparsi della sicurezza del regno.” –Esclamò Alexer, prima di indicare la vallata sotto di loro. –“Il velo che vedete è lo stesso che calai giorni addietro per difendere Midgard dai Giganti di Fuoco, e che ho mantenuto in forma più lieve per impedire, a chi ne fosse al di fuori, di percepire cosa stesse accadendo all’interno. Nascondere la ricostruzione della cittadella, l’installarsi di una nuova regina, il celere riorganizzarsi delle difese, questo era il mio intento e credo di esservi riuscito. Ho portato con me dalla Valle di Cristallo un cospicuo gruppo di fabbri, manovali, genieri, per metterli a vostra disposizione nei lavori di restauro della fortezza, per forgiare nuove armi e corazze e fortificare le vecchie torri di guardia!”


“A sentir voi, sembra che Asgard debba prepararsi ad un assedio!” –Considerò Flare, inorridendo al sol pensiero.


“Se così vi piace immaginarlo, a me sta bene, purché agiate, come vostra sorella avrebbe fatto. Destini ben più grandi delle nostre vite possono dipendere dalla solidità di queste mura!”


“Che cosa succede Alexer? Temi l’avvento di un nuovo nemico?” –Intervenne allora Cristal, strappando un sorriso colpevole al Principe.

 

“Purtroppo per noi, il nemico è già arrivato e non è neppure tanto inatteso! Ma andiamo con ordine.. il velo che ho creato… che vi ha nascosto agli occhi del mondo… ha anche nascosto il mondo ai vostri occhi. Perdonatemi per questo inganno ma era necessario. Flare doveva crescere, superare il trauma e fortificarsi, e per farlo doveva averti al suo fianco, Cristal. Solo così sarebbe riuscita a non abbandonarsi alle lacrime e ai rimpianti. Adesso più che mai è necessario che i regni divini siano solidi e legati da rapporti di amicizia e aiuto reciproco. In fondo, come tutti gli Dei non sono altro che un unico Dio, anche gli uomini appartengono tutti allo stesso popolo ed è tempo che combattano uniti! Sì!” –Aggiunse infine, trapassando il Cavaliere del Cigno con i suoi occhi di ghiaccio. –“Un’alleanza di tutti i regni divini è necessaria per affrontare e vincere la grande ombra!”

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo diciottesimo: La colonia nascosta ***


CAPITOLO DICIOTTESIMO: LA COLONIA NASCOSTA.

 

Sul plateau tibetano l’aria era buona. Respirandola, Mur sorrise, riconoscendo tracce di casa.

 

Spaziò con lo sguardo tra le eminenti cime innevate, dalla catena himalaiana, che si estendeva alla sua destra, spostandosi verso occidente, fino alle vette del Karakoram e dell’Hindu Kush. Quelle terre antiche, che così pochi uomini avevano violato, erano il luogo in cui la sua storia era iniziata, la culla ove era cresciuto, ricevendo i primi insegnamenti, prima di trasferirsi ad Atene e divenire allievo di Shin. Ma il Cavaliere di Ariete non aveva mai dimenticato le proprie origini, rendendo onore al suo popolo con la sua sapienza, la sua arte e la sua capacità di mantenere segreti. Capacità in cui, doveva ammetterlo, si era rivelato particolarmente adatto.

 

Sospirò, inebriandosi a pieni polmoni di quell’aroma di eternità, prima di rimettersi in marcia. Era stato facile arrivare dalla Grecia in Asia Centrale, grazie ai suoi poteri di teletrasporto, ma l’ultimo pezzo di strada aveva deciso di percorrerlo a piedi. Una scelta dettata da un’esigenza interiore, dalla ricerca di una pace che solo sul tetto del mondo poteva trovare. Una calma che nelle ultime notti aveva perduto, da quando visioni angosciose avevano iniziato a turbare i suoi sogni, visioni di guerra, schiavitù e morte. Visioni di volti confusi, ove solo quello di sua madre appariva nitido davanti ai suoi occhi, nitido come il sangue che le colava dal mento. Un mulinar di lame e niente più, solo la consapevolezza della sua tragica fine.

 

Scosse la testa per allontanare quei nefasti pensieri e aumentò l’andatura, giungendo alla meta del suo viaggio. Magnifico e temibile, di fronte a sé si apriva il massiccio del Dhaulagiri, le cui dieci cime, sempre coperte di neve, superavano i settemila metri di altezza, facendo meritare al complesso montuoso il nome sanscrito di Montagna Bianca.

 

Quella era la sua destinazione, il luogo in cui dimoravano gli ultimi discendenti di Mu.

 

A passo svelto, raggiunse l’ingresso al valico che conduceva alla terra di pace ove millenni addietro si rifugiarono i pochi che riuscirono a scampare all’inabissamento dell’isola antica. Ancora una volta Mur si sorprese della genialità della sua stirpe, in grado di proteggere la colonia con la sola forza della mente. Trattenendo un sorriso, il Cavaliere di Ariete sfiorò l’innevata parete rocciosa che si apriva alla sua destra, accorgendosi di non riuscire ad afferrare alcunché. Per quanto agitasse la mano, quel bianco suolo risultava intangibile e distante, quasi non fosse mai sufficientemente vicino. Un trucco mentale generato dai difensori di quell’ermo santuario.

 

Un attimo dopo fu oltre. All’interno del regno, nel cuore della montagna che lo ospitava e proteggeva.

 

“Non un passo di più o non ti garantisco la vita!” –Esclamò una voce maschile, fermando l’avanzata del Cavaliere d’Oro, che volse lo sguardo verso i rilievi attorno al sentiero, da cui la voce era giunta. –“Identificati!” –Aggiunse un secondo uomo.

 

Mur sorrise, socchiudendo gli occhi e lasciando che fossero i sensi a fargli strada, quegli stessi affilati sensi che gli permisero di individuare un gruppetto di figure sulla cima dei rilievi, i corpi avvolti da una bruma biancastra che li rendeva invisibili ad occhio umano. Trucchi mentali con cui potevano controllare senza essere visti.

 

“Non dovete temere, popolo di Mu, poiché io sono uno di voi! Il mio nome è Mur, allievo di Shin e Cavaliere d’Oro di Ariete!” –Annunciò il difensore del Primo Tempio di Atene, sollevando le mani e lasciando che il proprio cosmo fluisse attorno a sé, fino a lambire i rifugi delle guardie e andare oltre.

 

“Grande Mur! Siete tornato?! Che bello rivedervi!” –Esclamarono i difensori dell’ultima colonia, uscendo dai loro nascondigli e palesandosi di fronte agli occhi dell’uomo. Alcuni erano volti noti, che Mur aveva conosciuto le poche volte in cui si era recato in visita a sua madre, negli anni di esilio dal Grande Tempio, altri erano giovani dallo sguardo fresco, di certo novizi nello studio dei poteri mentali.

 

Eppure rifletté, dubbioso, realizzando di non averne percepito la presenza fin quando non l’avevano chiamato. Se fossero stati nemici…

 

Non ebbe il tempo di chiedersi altro che i custodi della colonia di Mu gli fecero cenno di seguirlo verso il cuore della montagna, ove dimorava il resto della popolazione, in caverne naturali adattate al punto da divenire funzionali abitazioni. Un luogo sicuro in cui la più antica civiltà terrestre aveva continuato a respirare.

 

Sebbene non fosse la prima volta che percorreva i dedali che portavano alla culla della propria cultura, Mur non riuscì a non trattenere il respiro, ammirando la vitalità che pulsava sotto strati di roccia e ghiaccio eterno. Cucine, biblioteche, alloggi, orti e frutteti, persino un giardino ove crescevano erbe divenute rare nel mondo esterno. E, su tutte, un alitare continuo di aria buona, corroborante per lo spirito, diffusa fino in profondità dai labirintici corridoi che perforavano l’interno del Dhaulagiri.

 

Mur!!!” –Lo chiamò infine una voce femminile, costringendolo a spostare lo sguardo verso una delicata figura, in vesti violacee, che, appena uscita da una caverna, aveva iniziato a corrergli incontro.

 

“Madre!!!” –Esclamò il giovane, lasciandosi abbracciare. –“Come state? State bene?”

 

La donna annuì più volte, baciandolo in fronte, senza riuscire a trattenere le lacrime per la gioia di rivederlo. Quindi gli fece cenno di entrare nella propria abitazione, ove avrebbero potuto parlare in privato.

 

“Come vi sentite, madre? Sono stato molto in pena per voi! È accaduto qualcosa?” –Incalzò il Cavaliere, di fronte allo sguardo attento della donna.

 

“Sto bene, Mur, davvero. Sei gentile a preoccuparti, ma mi sento bene! Perché?”

 

Io… ho percepito dei segnali. Visioni terribili che mi hanno riempito la mente ogni volta in cui tentavo di riposarmi. Visioni che ho interpretato come un presagio. Per questo sono giunto fin qua, per sincerarmi sulle vostre condizioni!”

 

“Per quanto sia lieta di rivederti, figlio mio, temo di non essere io a necessitare di cure. Che succede, Mur? Cosa angoscia la tua mente, inquinando persino il tuo cosmo? L’ho percepita subito, non appena hai varcato la Bocca della Montagna, un’evidente sfumatura di ambascia che mai ha macchiato il tuo cosmo placido.”

 

Io… non lo so… madre… Credevo davvero che foste in pericolo!!!” –Il Cavaliere scosse la testa, cercando di far luce in quei nebulosi pensieri. Quel che aveva intuito, entrando nella colonia nascosta, era dunque vero. I suoi sensi erano ottenebrati, al punto da generare errate percezioni. Un difetto di valutazione che un uomo come lui, dalle elevati facoltà mentali, non poteva permettersi e che poteva essere stato causato solo da una forza ancora più potente. E oscura. Una forza che doveva essersi insinuata nella sua mente, facendo leva su inconsce paure represse.

 

Ma quando? E come?!

 

Non seppe rispondersi, così riportò lo sguardo sulla madre, che lo fissava impaurita ma anche con un sorriso sincero.

 

“Al di là di tutto, sono contenta di rivederti!” –Gli disse, sfiorandogli il viso con una mano. –“Ho seguito le tue gesta da lontano, ascoltando lo stormire del vento, e ho penato e sofferto ogni volta in cui ho sentito il tuo cosmo giungere al parossismo. Il tuo, e anche quello del piccolo Kiki.”

 

“Mi ha detto che sei giunta in suo aiuto alle Andamane.”

 

“Gli ho solo ricordato quanto sia bello vivere. È troppo giovane per averlo già dimenticato. A volte vorrei che Shin non ti avesse mai scelto, che tu fossi rimasto qua, celato ai mali del mondo, anziché andare ad Atene, e che Kiki non fosse mai nato, così non avrebbe provato tutta quella devozione verso l’eroico fratello che condurrà entrambi al martirio.”

 

“Se morire è il tributo da versare per difendere la Terra, sono ben lieto di pagarlo!”

 

“Io no. Ma so di non poterlo impedire.” –Sospirò la madre, prima di aggiungere, sorniona. –“La tua venuta non è comunque vana. Sei arrivato in tempo per dirgli addio!”

 

Co… come?! Sta… così male?”

 

La donna annuì, accennando un sorriso sentito, prima di invitare il figlio a fargli visita, onorandolo dell’ultimo saluto. Mur rimase a ponderare per qualche istante, prima di alzarsi e uscire dall’abitazione, incamminandosi a passo deciso verso la dimora del padre di tutto il suo popolo, il più longevo abitante di Mu che sia mai sopravvissuto.

 

Lo trovò dove l’aveva lasciato anni addietro, disteso sul letto della sua caverna, quella più in alto di tutte, dalla cui sommità il vecchio poteva ammirare il suo regno, la sua colonia, quel che restava di una vita di reliquie e ricordi. Lo ritrovò così e per un momento sembrò a Mur che il tempo non fosse passato.

 

Padre…

 

“Ora posso morire!” –Commentò l’anziano uomo, senza accennare a sollevarsi. Teneva gli occhi chiusi, muovendo a malapena le labbra, ma fu in grado di sfiorare la mano di Mur mentre questi si avvicinava al suo giaciglio. –“La tua presenza qui, quest’oggi, è il dono migliore che potessi ricevere, l’obolo che mi traghetterà sereno verso un’altra vita. Ascolta, figlio di Mu. Ascolta, discendente di Antalya.”

 

“Sono qui, nobile Rasha!” –Si inginocchiò il Cavaliere di Ariete, senza lasciare la mano dell’uomo, percependo il fluire del suo cosmo ancestrale solleticargli la pelle.

 

“Avrei parlato con tua madre, le avrei detto di tramandare a te, o a tuo fratello, la sapienza del nostro popolo, memorie di un tempo che non devono andare perdute. Cough cough!” –La voce di Rasha era distante e interrotta da continui colpi di tosse, che rendevano difficile decifrarne correttamente le parole, ma Mur fece il possibile per tranquillizzarlo. –“Ho vissuto più a lungo di quanto un uomo normale abbia mai avuto diritto, ben cinque secoli ho visto scorrere. Sembrano tempi lontani, ricordi dei giorni in cui, come te, ho vestito l’Armatura dell’Ariete d’Oro. Il montone dalle corna lucenti, possente e fiero nello sbarrare il passo agli avversari.”

 

“Siete stato Cavaliere di Atena? Non lo sapevo!”

 

“La Dea deve sapere, Mur… Caugh caugh! Quando mettemmo al suo servizio la nostra abilità, le nostre capacità di lavorare i metalli e generare corazze per i suoi Cavalieri, facemmo quel che Antalya avrebbe voluto. Iniziammo a combattere una guerra contro l’oscurità, la stessa a cui lei era sopravvissuta, unica donna di sette compagni. Lei fu la capostipite del nostro popolo, lei ideò il metodo di creazione delle armature, combinando gli elementi della natura. Metodo che tu hai imparato e cercato di trasmettere a tuo fratello. Lascia che ti dica un’ultima cosa, lascia che completi il tuo… addestramento!”

 

In quel momento una violenta esplosione scosse il complesso del Dhaulagiri, smuovendo mucchi di neve e schiantando rocce e ghiaccio che nessun piede umano aveva mai calpestato. Mur lasciò cadere la mano dell’anziano Rasha, interrompendo lo scambio di informazioni mentali, correndo fuori dall’ingresso e guardando in basso, in direzione della Bocca della Montagna. Seppur distante decine di metri, fu in grado di vedere una voluta di fumo sollevarsi dall’entrata, e in quello stesso fumo poco dopo apparve un gruppo di sconosciuti in armatura. Quanti non seppe dirlo, ma sufficienti per far fuori in un breve istante la guarnigione difensiva, livellando i rilievi che lambivano il sentiero e spianando la via verso il cuore della montagna.

 

“Chi sono questi invasori?” –Mormorò il Cavaliere di Ariete, mentre infine tutto gli appariva chiaro nella mente. Le visioni, l’angoscia, il desiderio di rivedere sua madre. Tutto faceva parte di un piano montato ad arte per spingerlo a tornare a casa, mostrando così a ignoti nemici l’ubicazione di un luogo noto solo a chi vi dimorava. Quello che non riusciva a capire era perché. –“Cosa vogliono? Non ci sono ricchezze qua!”

 

Si voltò, per chiedere a Rasha ulteriori informazioni, e notò il braccio penzolare stanco fuori dal giaciglio, gli occhi chiusi e le labbra rimaste aperte, a metà di una parola che così tanto aveva spaventato Mur.

 

“Spero tu sia in pace!” –Sospirò il custode della Prima Casa di Atene, prima di coprire il corpo con un lenzuolo e poi scattare fuori.

 

Per quel che ne sapeva, la colonia non aveva guerrieri. Nessuno, dei discendenti di Mu, aveva mai dimostrato inclinazione per la battaglia, preferendo dedicare le loro vite e le loro energie allo studio. Solo i più giovani, per costituzione i più adatti, padroneggiavano i rudimenti della scherma e del combattimento con la spada, pur con la consapevolezza di non doverli mai mettere in pratica.

 

Fino ad ora. Si disse, sfrecciando lungo i sentieri tortuosi della Montagna Bianca diretto verso l’ingresso.

 

Mur! Mur!!!” –Lo chiamò sua madre, intenta a parlare con altri abitanti della colonia fuori dalla sua abitazione. –“Che succede? A chi appartengono questi cosmi ostili? Spiriti bellicosi intrisi di fiamme e odio. Mai ho percepito una così intensa sete di guerra!”

 

“Non lo so, madre, ma lo appurerò presto! Adesso ascoltatemi, ve ne prego! Radunate il popolo e portatelo al sicuro, nelle caverne più interne, sigillando l’ingresso con i vostri poteri! Di certo conoscerete un rito adeguato! Gli psicocineti più esperti invece con me, possono essere utili per rallentare il nemico!”

 

“Li radunerò!” –Disse prontamente un uomo, allontanandosi di qualche passo e sfiorando la propria testa con le dita, in modo da inviare un messaggio ai compagni.

 

“Fa’attenzione! Ti supplico!” –Esclamò la donna, afferrando Mur per un braccio, prima che si allontanasse. –“Non ho mai sopportato l’idea che tu combattessi, l’idea di non poterti dire addio, caduto in campi di battaglia lontani! Ma pensare che tu possa morire qui, a casa nostra, mi strazia il cuore, Mur!”

 

“Non accadrà! Abbi fede!” –Le disse, sfrecciando verso la Bocca della Montagna, dove la giovane guarnigione di discendenti di Mu aveva tentato di opporre una breve resistenza, venendo spazzata via in fretta.

 

Ahr ahr! Freschino qua dentro!” –Commentò una ruvida voce maschile. –“Sarà il caso di accendere un bel fuoco per riscaldare l’ambiente! Che ne pensi, Lethe?”

 

L’esile figura al suo fianco non disse alcunché, limitandosi a spostare lo spento sguardo dall’ingresso verso le cavità della montagna, dando ordine ai soldati che erano con loro di penetrare all’interno.

 

“Conoscete gli ordini.” –Chiarì, schiva. –“Eseguiteli!”

 

Un centinaio di guerrieri, rivestiti di corazze dalle forme aguzze, dotate di spuntoni sulle spalle e sui gomiti, passò oltre, incamminandosi lungo il sentiero percorso da Mur neppure due ore addietro. Non riuscirono a compiere che pochi passi che dovettero fermarsi, schiantandosi uno contro l’altro, bloccati da una barriera invisibile che sbarrava loro il passo.

 

“Che diavoleria è mai questa?” –Esclamò allora l’uomo alto e robusto che guidava la spedizione. Facendosi largo tra i soldati, agitando furioso una mannaia, si avvicinò al punto oltre il quale il battaglione non poteva andare oltre, scoprendo, toccandolo, l’esistenza di un velo così sottile da risultare impercettibile ad occhio nudo. Un muro, un po’ ondulato, su cui timidamente si infrangevano i raggi di sole che giungevano dall’esterno. Non fosse stato per quel debole chiarire neppure lui lo avrebbe notato.

 

“È il Muro di Cristallo!” –Esclamò allora la calma voce di Mur, parlando sopra il confuso mormorio dei presenti. –“Limite ultimo della vostra incresciosa avanzata!” –Quindi, senz’altro aggiungere, la barriera esplose in un riverbero di luce, scagliando indietro l’uomo con la mannaia e una decina di soldati troppo vicini ad essa.

 

Grrr!!! Trucchetti da prestigiatore!” –Ringhiò il guerriero, rimettendosi subito in piedi. –“Fatti vedere, Ariete d’Oro! So che ci sei tu dietro questa trappola!”

 

“Mi conosci? Dovrei sentirmi onorato, sebbene tenda ad essere più infastidito dalla vostra intrusione, o incursione, che dir si voglia, in questo luogo di pace!” –Continuò Mur, parlando da dietro il muro, senza che le sue forme fossero rivelate. –“Io invece non ti conosco, ma ardo dal desiderio di udire i vostri nomi! Soddisfami, ti prego!”

 

Umpf, fai poco l’arrogante in mia presenza! È a un Dio che ti rivolgi! Horkos, figlio di Discordia, Dio punitore di tutti coloro che violano un giuramento!”

 

“E dalla stessa madre siamo state concepite noi, le Amphilogie! Divinità della Disputa e del Contenzioso!” –Parlarono allora i guerrieri che accompagnavano Horkos, guerrieri che, Mur non lo aveva fino ad allora notato, erano tutte donne, sebbene presentassero un fisico scolpito, quasi muscoloso, e un corto taglio di capelli da farle apparire come uomini.

 

Horkos? Amphilogie? Cosa sta succedendo?!” –Si chiese il Cavaliere di Ariete, senza avere tempo per riflettere ulteriormente, dovendo fronteggiare la rinnovata carica del figlio di Discordia, che si lanciò contro la barriera da lui eretta, tempestandola di colpi con la propria mannaia.

 

“Cadi!!!” –Ringhiò Horkos, caricando l’arma del suo cosmo divino.

 

Preparandosi alla collisione, Mur espanse il proprio cosmo, concentrandolo sul quadrante del Muro di Cristallo ove era certo che il nemico avrebbe colpito. E quando la mannaia calò, liberando l’energia accumulata, al Cavaliere di Ariete sembrò che gli avesse squartato il cuore, tanto violento fu l’urto, al punto da spingerlo indietro, a gambe all’aria, per quanto anche Horkos venisse scaraventato molti metri distante.

 

“Bella sfida!” –Esclamò divertito il figlio di Eris, pulendosi un labbro sanguinante con il dorso della mano e rimettendosi in piedi. Ma la donna dalla corporatura minuta che lo accompagnava, rimasta silente per tutto quel tempo, gli passò accanto, senza permettersi di andare oltre. Fissò la barriera eretta da Mur, che ancora resisteva, prima di chiudere gli occhi e mandarla in frantumi, come fosse fragile vetro.

 

In… credibile…” –Mormorò il Cavaliere di Ariete, riconoscendo, nel cosmo emanato dalla donna, una palese sfumatura divina.

 

“Non abbiamo tempo per giocare, Horkos! Non vorrai generare disappunto in coloro che ci hanno affidato questa missione?”

 

Pfui!” –Il figlio di Eris sputò in terra, grugnendo parole incomprensibili, prima di berciare ordini alle Amphilogie, che subito riformarono le fila, ricominciando ad avanzare lungo il sentiero. E quando Mur, rimessosi in piedi, fece avvampare il proprio cosmo, deciso a fermarli, Horkos sfrecciò avanti, il braccio destro avvolto in un’incandescente energia violacea.

 

Sturmjan!!!” –Tuonò il Dio, investendo il Cavaliere con una pioggia di pericolosi affondi che parevano cadere su di lui da ogni direzione. Rapidi, precisi e decisamente violenti, gli impedirono di sollevare qualsiasi difesa, mozzando persino i movimenti delle braccia. Un ultimo, più poderoso, si schiantò sull’elmo della corazza d’oro, distruggendone il cimiero, prima di spaccarlo in due e prostrare a terra il suo possessore.

 

A tal vista, le Amphilogie aumentarono l’andatura, passando ai lati di Mur e proseguendo verso il cuore della colonia a ritmo serrato. Il Cavaliere di Ariete affannò nel rimettersi in piedi, tastandosi la fronte sanguinolenta e ringraziando la maestria dei suoi antenati, che gli aveva permesso di forgiare corazze così resistenti. Si voltò, deciso a fermarne l’avanzata, ma venne afferrato per un braccio da Horkos, che glielo torse forzandolo a guardarlo in faccia.

 

Solo allora, osservandolo per la prima volta con attenzione, Mur vide quanto fosse brutto il figlio di Discordia. Nonostante il fisico robusto e le braccia forti, il volto era una maschera di terrore, butterato e marcato da così tante cicatrici che ad un solo sguardo era impossibile contarle tutte. Un occhio, poi, sembrava fuori posto, posizionato più in basso rispetto all’altro, contribuendo a dare al Dio un’esteriorità rozza e acerba, ben diversa dall’aggraziata madre che l’aveva generato. I capelli grigi, folti e vispi, sembravano alberi isteriliti da una fiamma di morte che il Signore dei giuramenti mancati covava nell’animo.

 

“Ammiri il mio splendore, Cavaliere di Ariete? Ahr ahr!” –Rise sguaiato il figlio di Eris. –“Preoccupati del tuo! Rimarrà ben poco del tuo candido volto quando avrò finito con te! Ahr ahr!”

 

“Al tuo posto, bestia! Dei ben più potenti ho affrontato! E neppure con l’aiuto di cento braccia mi hanno piegato!” –Avvampò Mur, espandendo il cosmo e cercando di spingere indietro il nemico con i suoi poteri mentali, ma non ottenendo altro che un’ulteriore beffarda risata.

 

“Forse ti è sfuggito. Ma sono un Dio!” –E, nel dire ciò, gli piegò il braccio all’indietro, inebriandosi del suono acuto delle ossa che andavano in frantumi. –“I tuoi poteri telecinetici mi fanno il solletico!”

 

Non… sottovalutarmi…” –Trovò la forza per mormorare Mur, prima di radunare tutte le energie e generare una devastante onda di energia con cui travolse Horkos, scaraventandolo indietro, fin sulla soglia della Bocca della Montagna. Quindi, stanco e ferito, crollò sulle ginocchia, annaspando per quell’improvviso sforzo. Fu solo il vociare delle Amphilogie che gli impedì di lasciarsi andare, il timore dei danni che potevano infliggere alla colonia e ai suoi abitanti. –“Madre… vi salverò…

 

Un leggero frusciare di vesti attirò la sua attenzione, portandolo a voltarsi verso la donna dai lunghi capelli indaco che si era appena avvicinata a lui, la stessa che aveva neutralizzato il suo potere. Per quanto non indossasse corazza alcuna, Mur fu certo che in battaglia non ne avrebbe avuto bisogno, percependo in lei una fervente energia cosmica.

 

“Chi sei?!” –Mormorò, non ottenendo risposta. Solo un impercettibile movimento di dita, con cui la donna sollevò il Cavaliere da terra, schiantandolo contro un versante interno della montagna, sprofondandolo nelle rocce che da culla erano infine divenute bara. –“Psyche… kinesis… così poderosa non l’ho mai provata… Mi devasta le ossa…” –Fece per rimettersi in piedi, salvo accorgersi che la donna silenziosa era già di fronte a lui, il palmo della mano pronto a sfiorargli la corazza d’oro, un’ondata di vibrazioni che la sua sola vicinanza generava nel corpo di Mur, che ormai non rispondeva più al suo controllo. Persino la sacra armatura di Ariete, sottoposta a così intensa pressione, cigolava lamentosamente, quasi fosse sul punto di schiantarsi da un momento all’altro.

 

“Fermati!!! Lui è il mio avversario!!!” –Urlò allora Horkos, interrompendo il massacro e permettendo a Mur di rifiatare. –“Lo hai forse dimenticato?” –Ironizzò il Dio, passando accanto alla donna e rivolgendole uno sguardo sprezzante. –“Io ho il comando dell’operazione, sorella!”

 

“Con il tuo permesso allora, seguirò le Amphilogie, per assicurarmi che tutto proceda come pianificato!” –Gli rispose senza battere ciglio, prima di dargli le spalle e incamminarsi verso le profondità di Dhaulagiri.

 

“Una volta ottenuto quel che ci serve, mettete il villaggio a ferro e fuoco! Noi non facciamo prigionieri, ricordalo, Lethe! Ahr ahr!” –Sghignazzò il corpulento guerriero, prima di riportare lo sguardo sul devastato corpo di Mur, che ancora non riusciva a rimettersi in piedi. –“Serve una mano?” –Lo schernì, afferrandolo per il braccio dolorante e tirandolo su, incurante dell’urlo di dolore del Cavaliere. –“O forse, una gamba?” –Aggiunse, sollevando il corpo del giovane, roteandolo in aria e infine schiantandolo a terra, divertito. –“Dato che questo arto non ti serve più, tanto vale tagliarlo, non credi?”

 

Così dicendo, sfoderò la mannaia che portava affissa alla cinta, caricandola del suo cosmo violaceo, prima di calarla su Mur, che fu svelto a rotolare di lato, evitandone la lama. Horkos però mosse in fretta il braccio, per inseguire la sua preda, che, troppo debole per rotolare ancora, non poté far altro che frenarne la discesa con la psicocinesi, bloccando arma e arto a mezz’aria, con un notevole sforzo mentale. Quindi, bruciando al massimo il proprio cosmo, generò una sfera di luce nel palmo della mano destra, scagliandola poi contro il figlio di Eris e travolgendolo.

 

L’attacco improvvisato non fu affatto risolutivo, limitandosi a spingere il Dio indietro di qualche metro, ustionando e scheggiando la sua spigolosa armatura.

 

“Ma niente più!” –Sogghignò Horkos, osservando invece il Cavaliere di Ariete, con un ginocchio a terra, ansimare a fatica. Quando fece per alzare la mannaia, si accorse però di non riuscire a roteare il braccio, anzi di non poter muovere neppure le gambe; persino ruotare la testa gli risultò difficile. –“Ancora psicocinesi?!” –Ringhiò, salvo poi accorgersi di sottili filamenti di cosmo che, dal suo massiccio corpo, si dipanavano attorno a sé, creando una tela così fitta e vasta da riempire l’intero passaggio verso le profondità della caverna. –“Un nuovo trucco?!”

 

Ragnatela di cristallo!” –Commentò Mur, rimettendosi infine in piedi.

 

“E hai la presunzione di volermi bloccare a lungo?” –Ghignò Horkos, espandendo il proprio cosmo, che infiammò l’aria attorno, incendiando e schiantando numerosi filamenti di energia. –“Misera motivazione che non ti aiuterà a vincere la battaglia!”

 

“Non a lungo. Ma quanto basta.” –Mormorò il Cavaliere di Atena, che già aveva sollevato un braccio al cielo, evocando la tecnica insegnatagli da Shin. –“Per il Sacro Ariete!!! Rivoluzione stellare!!!”

 

La devastante pioggia di stelle cadde sul figlio di Eris, crepando in parte la sua corazza e strappandogli grida di rabbia e sorpresa, prima che la sua furia esplodesse, sradicando in un sol colpo l’indebolita ragnatela di cosmo e sollevando l’arma mortifera.

 

Sturmjan!!!” –Tuonò, rispondendo a ogni stella cadente con vigorosi affondi energetici, il cui numero crebbe in maniera esponenziale, sovrastando in poco tempo l’assalto di Mur e costringendolo alla difensiva. –“Sei mio!!!” –Ringhiò soddisfatto, mentre il mulinare frenetico della sua lama squassava il suolo attorno al Cavaliere di Ariete, graffiando la sua corazza, trinciando i suoi capelli e spingendolo indietro. –“Quanto, ancora?!”

 

Horkos torse le labbra in un ghigno appagato, ritenendo che il giovane fosse finito in trappola. Del resto alle sue spalle si ergeva il fianco della montagna, il sentiero era ostacolato dal Dio stesso e alla sua destra si apriva un pericoloso baratro da cui spiravano violente correnti ascensionali.

 

“Che la morte ti colga, Cavaliere di Atena!” –Affermò il figlio di Discordia, portando avanti la mannaia avvolta nel suo cosmo, diretta al collo di Mur.

 

Fu allora che il suolo tremò, mentre colonne di cosmo dal colore verde acqua sorgevano dal precipizio, catturando l’attenzione dei contendenti. Colonne che, guardandole meglio, Horkos riconobbe essere dei lucenti dragoni di energia.

 

“Che trucco è mai questo?!” –Ringhiò, mentre centinaia di quelle figure luminose, ascese al cielo, si riunivano in un’unica mastodontica sagoma, le cui fauci energetiche si fiondarono verso Horkos all’istante.

 

“Che le zanne dei Draghi di Cina mondino quest’immacolata terra!” –Risuonò allora una voce, mentre il devastante assalto travolgeva il figlio di Eris, schiantandolo a terra molti metri addietro, con l’arma in frantumi e la corazza grondante sangue in più punti.

 

Quando Horkos si rialzò, notò un giovane dai corti capelli neri avanzare a passo deciso di fronte a lui. Un giovane rivestito da una raffinata corazza eburnea, dai riflessi verdastri, raffigurante un drago. Non ebbe bisogno di chiedergli alcunché poiché ben sapeva chi fosse quel ragazzo.

 

 

 

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Capitolo 21
*** Capitolo diciannovesimo: Tumulti del cuore. ***


CAPITOLO DICIANNOVESIMO: TUMULTI DEL CUORE.

 

Dopo che Alala aveva distrutto il muro tra Quinto e Quarto cerchio, i Phonoi e le Androctasie erano stati pervasi da un animalesco furor bellico, che li aveva spinti ad abbandonare le compatte formazioni in cui avevano marciato fino a quel momento e a correre verso il varco, armi in mano, tra grida e versi osceni, esaltati e forse convinti di una prossima vittoria. Matthew ed Elanor, inzaccherati di sangue, sudore e sabbia, si erano appena rimessi in piedi, cercando di valutare la situazione, se correre in aiuto di Andromeda o se invece raggiungere gli altri Cavalieri di Avalon e Atena ai cerchi esterni, quando Thot li aveva invitati a rimanere lucidi, e a fare ciò che andava fatto.

 

“Sfoltire questa marea di carogne! Non vi sembra un’ottima idea?!” –Aveva aggiunto, spalancando le ali della corazza e balzando in volo, prima di piombare sui Phonoi e travolgerli con il suo cosmo dorato.

 

Matthew ed Elanor avevano fatto altrettanto, così da venti minuti lottavano nella mischia confusa creatasi nel cuore del Quinto Cerchio, cercando di colpire quanti più nemici potessero. Si erano disposti uno accanto all’altro, distanziati a sufficienza in modo da non ostacolarsi a vicenda, una catena che i Signori della Guerra avrebbero dovuto spezzare se avessero voluto proseguire per l’anello di Marte e ricongiungersi con gli altri soldati. Non che ai Phonoi dispiacesse quello scontro, mai stanchi di mulinare asce, scuri e mannaie, vere o di puro cosmo.

 

“Dietro di te!” –Gridò Matthew, indicando ad Elanor un gruppetto di figli di Eris che, staccatosi dal resto della massa, stava cercando di superare la ragazza sulla destra.

 

“Li ho visti!” –Le rispose al volo la nuova compagna, balzando agilmente indietro, schivando una lancia, che si piantò in mezzo alle sue gambe, e usandola poi come trampolino per saltare ancora più in alto e liberare i suoi raggi di energia.

 

Matthew perse qualche secondo ad ammirare le sue curve snelle e perfette, fin quando il grido di un Phonoi non lo distrasse, facendolo chinare giusto in tempo per evitare che la sua testa fosse mozzata. Un pugno al ventre fece accasciare il suo nemico e un calcio lo scaraventò addosso ai sopraggiunti compagni, mentre la cintura dell’armatura di Matthew si illuminava ed egli dirigeva un variopinto arco di luce contro i nemici.

 

“Così non funziona! Stiamo perdendo troppo tempo, siamo stanchi e non abbiamo attacchi ad ampio raggio!” –Borbottò, mentre Elanor, recuperata una picca da un defunto avversario, la roteava per frenare un affondo nemico e poi piantarla in un pettorale già danneggiato.

 

“Cosa proponi?” –Gli domandò allora.

 

“Tenetevi pronti!” –Intervenne Thot, che con un vortice di sabbia aveva appena sgominato una decina di Phonoi. Quindi espanse il proprio cosmo, sollevando un dito al cielo e scagliando un raggio di luce verso stelle lontane, di fronte agli occhi sgranati di Matthew ed Elanor. –“Dono del cielo!!!” –Tuonò il Dio, mentre una fitta pioggia di strali dorati iniziava a cadere sulle teste dei nemici, moltiplicandosi in una raggiera che presto assunse una forma a tutti nota.

 

Sono… piramidi di cosmo…” –Mormorò il Cavaliere dell’Arcobaleno, mentre centinaia di massicce costruzioni apparivano sopra le teste dei Phonoi, obbligandoli a gettar via le armi e a sollevare le braccia per afferrarle e non esserne schiacciati. Qualcuno tentò di fuggire, di evitare l’onere della prova, ma venne pestato a terra da una nuova piramide comparsa sopra di lui, e mentre i Phonoi faticavano a sorreggere le costruzioni, tentando invano di scagliarle di lato, ecco che di nuove ne comparivano, un secondo livello che andava a poggiare sulle prime evocate, aumentando il peso cui gli indesiderati Atlanti erano costretti.

 

“Ora!!!” –Tuonò il Nume, mentre Matthew e Elanor iniziavano a sfrecciare attorno al mucchio di nemici, liberando i loro colpi segreti. Le Croci di Luna e l’Arcobaleno incandescente falciarono la vita di numerosi Phonoi, incapaci in quel momento di difendersi, e i fortunati che furono feriti solo di striscio persero comunque l’equilibrio o si indebolirono, finendo schiacciati dalle piramidi. Un terzo livello di costruzioni, ulteriormente innalzato da Thot, mise fine per sempre alla loro esistenza, concludendo la faticosa battaglia.

 

“Bene!” –Commentò il Cavaliere di Avalon, gettandosi a sedere sul suolo lunare, stanco per il procrastinarsi di quella lotta. Anche Elanor era esausta, per quanto avesse dato prova di notevole resistenza, non avendo mai combattuto fino ad allora.

 

Se la cava persino meglio di me. Sorrise Matthew, fissandola. Forse troppo a lungo, a giudicare dallo sguardo scocciato che la ragazza le rivolse mentre gli camminava davanti, per andare a parlare con Thot. Matthew se ne accorse e chinò il capo, arrossendo imbarazzato.

 

“Mani è in pericolo! E il cosmo di Shen Gado è scomparso! Qualsiasi cosa sia accaduta al Cerchio di Saturno, hanno bisogno di aiuto!” –Parlò il Custode dell’anello di Giove.

 

“Vengo con te!” –Esclamò subito Elanor, ma Thot la pregò di restare con Matthew e riposarsi. –“Non chiedere troppo a te stessa!” –Ma le raccomandazioni paterne del Dio furono disturbate da un frusciare improvviso, che anticipò l’arrivo di una decina di lame rotanti, ultimi residui di asce spezzate nella battaglia. –“Attenta!” –Gridò Thot, spingendo la primogenita di Selene a terra e venendo colpito ad una spalla. Una seconda ascia gli schiantò il bastone d’oro, mentre una terza lo raggiunse sull’avambraccio destro, scheggiando la già provata corazza divina. Le altre vennero annientate dall’esplosione del suo cosmo, che sollevò una nube di polvere lunare, in mezzo alla quale una ridanciana figura femminile apparve poco dopo.

 

Matthew la riconobbe subito. Era la donna cui Alala berciava i suoi ordini, una delle comandanti dell’esercito dei Signori della Guerra. Non ne ricordava il nome, ma di certo era una Makhai.

 

“Homados!” –Esclamò la giovane alta e snella, carezzandosi i capelli viola. –“Spirito del tumulto e del rumore in battaglia!”

 

“Ancora qua? Credevo avessi seguito tua sorella al Cerchio di Marte!” –Incalzò Thot, tenendosi il braccio ferito e fermando con il cosmo l’emorragia di sangue.

 

“Punto primo: lei non è mia sorella. Alala è… una parente acquisita, se così possiamo definirla. Le mie sorelle sono Kydoimos, Palioxis e Proioxis. Anche se forse dovrei dire erano, quantomeno per due di loro! Umpf, stupide e deboli, farsi sconfiggere da esseri umani equivale a stuprare il proprio status divino!”

 

“Bastarda, non provi amore neppure per le tue sorelle morte?!” –Ringhiò Matthew, rimessosi in piedi, subito affiancato da Elanor.

 

“Quale amore puoi dare a un cane che si morde la coda da solo?” –Rise la donna, prima di chiarire il secondo punto. –“E… no. Ho preferito aspettare la conclusione del vostro scontro, osservarvi di nascosto, vedere i vostri colpi segreti, il modo in cui combattete, per carpire le vostre debolezze! Adesso che mi è chiaro che neppure in tre potete sfiorare la lontana possibilità di vincermi, vi affronterò!”

 

“Codarda!!!”

 

“Astuta, direi! Ah ah ah!” –Sghignazzò Homados, espandendo il proprio cosmo. Thot fece altrettanto e Matthew ed Elanor lo videro assumere la stessa posa di poc’anzi, quando aveva evocato le piramidi di cosmo.

 

Dono del cielo!” –Esclamò infatti il Dio a gran voce, mentre un’enorme Mer egizia appariva sopra la Makhai, ancora più grande e poderosa di quelle che avevano seppellito i Phonoi.

 

Ma la figlia di Eris non ne fu per niente sconvolta, anzi non alzò neppure lo sguardo, limitandosi a sorridere con perfidia e a pronunciare parole che i ragazzi non riuscirono a comprendere. D’improvviso, tutt’intorno a Homados, sorsero alte mura di cosmo violetto, su quattro lati, e sulla sommità di quel cubo una nuova identica costruzione, seppure più piccola, che andò a incastrarsi tra quella che circondava la Dea e la piramide che stava precipitando su di lei.

 

Migdal bavel!” –Esclamò Homados, mentre dal quadrilatero di energia che la attorniava schizzò fuori un nuovo cubo, sfrecciando verso Thot e investendolo in pieno, scaraventandolo molti metri addietro, con l’armatura danneggiata e lo scettro ormai distrutto.

 

Migdal… cosa?!” –Balbettò Matthew, che non aveva capito niente.

 

“La Torre di Babele! È ebraico!” –Mormorò Elanor al suo fianco, mentre la costruzione di cosmo violaceo cresceva ancora di un piano, distruggendo la piramide di Thot e ergendosi fiera di fronte a loro, quasi volesse sfidare il cielo.

 

“Conoscete la leggenda dell’antica costruzione di Babele, non è vero, ragazzini inesperti? Rappresenta la suprema arroganza della razza umana, così infima e lurida, che pretese, accostando un po’ di mattoni e bitume, di arrivare al cielo, di elevarsi fino a raggiungere Dio! Umpf, quale arroganza!” –Esclamò fiera Homados. –“Il cielo punì gli uomini, disperdendoli, e allo stesso modo io punirò voi, che di tale specie siete misera rappresentanza! Addio! Migdal bavel!!!”

 

Un enorme cubo di energia saettò verso il Cavaliere delle Stelle, che niente poté fare se non afferrare Elanor e offrire la schiena al poderoso assalto, in modo da proteggerla. Strinse i denti, preparandosi all’impatto, che fu ben più doloroso di quanto credesse, scaraventando entrambi molti metri addietro, in un groviglio di corpi feriti, schegge d’armatura e polvere.

 

“Molto bene! Pare che qua non ci sia altro da fare!” –Commentò la Makhai, scuotendosi le mani dalla sabbia e osservando compiaciuta lo sfacelo del Quinto Cerchio. Quello che un tempo era stato un deserto di sabbia, costellato da attente ricostruzioni delle antiche Mer egizie, era adesso un campo di battaglia ove acre imperava l’odore del sangue. Homados sogghignò, inspirandolo a pieni polmoni, nutrendosi di quell’aroma così inebriante, così fortificante, così suo! Quindi si incamminò in mezzo ai cadaveri dei Phonoi, senza degnarli di uno sguardo, diretta verso il varco che conduceva all’infuocato Cerchio di Marte, ove il cosmo di Alala stava esplodendo di continuo. Qualunque cosa stesse accadendo, la Regina delle Makhai sembrava aver incontrato impreviste difficoltà contro quel bizzarro Cavaliere dai capelli rosa. Che sia stata stritolata dai suoi catenacci? Si chiese, fermandosi e soppesando la situazione.

 

Palioxis e Proioxis erano già morte, Kydoimos stava ancora combattendo ma anche il suo cosmo baluginava fioco. Restava solo Alala dei cinque gloriosi Spiriti della Battaglia! Perché avrebbe dovuto soccorrerla? Che se la sbrigasse da sola quella bastarda! Oltretutto non era neppure sua sorella, era la figlia di Polemos, antico demone della battaglia che da sempre mirava a prendere il posto di Ares come Signore Supremo delle Armate della Guerra. E di certo, se quell’eventualità fosse occorsa, Polemos avrebbe sostituito le Makhai con altri guerrieri a lui fedeli. Quindi perché rischiare? Perché immischiarsi in una battaglia già in corso? No, non era affatto nel suo stile. Lei non era come Kydoimos, che doveva sempre rispondere alle provocazioni, o come Proioxis, che a uno scontro diretto non poteva dire di no. Lei lasciava correre, limitandosi ad osservare e a intervenire solo quando i giochi erano iniziati, e la sorte stesse volgendo a suo favore.

 

Così prese la sua decisione e iniziò a correre in un’altra direzione, lungo l’antica Via Maestra, certa che, se il Custode del Cerchio di Marte era impegnato ad affrontare le Androctasie e i Phonoi che avevano varcato il buco aperto da Alala, nessuno avrebbe presieduto il vero passaggio. E lei avrebbe avuto via libera fino al Cerchio della Terra. Il terzo anello. Solo tre e sarebbe giunta a palazzo, forse sarebbe stata l’unica ad arrivarci. E a quel punto, con Alala e le sue sorelle morte, avrebbe ucciso quella patetica Divinità lunare greca e il suo efebico sposo e sarebbe divenuta la nuova Regina delle Makhai, e perché no, Signora della Guerra e Supremo Comandante. Avrebbe anche sposato quel fanatico di Polemos pur di arrivare in maniera facile a quella posizione! Scoppiò a ridere, nel silenzio di quello strano mondo lunare, continuando a correre verso il varco per il Cerchio di Marte.

 

***

 

Matthew giaceva ferito tra le sabbie, con un taglio aperto sulle sopracciglia che gli imbrattava l’occhio destro, appannandogli la vista. L’udito credeva di averlo perso un paio di volte nell’affrontare quelle infoiate delle Makhai. Tante quante era stato travolto, atterrato, sballottato in aria e per terra dagli assalti di nemici che non era forte abbastanza da affrontare. Persino i Phonoi, quelle macchine prive di coscienza, sembravano disporre di una preparazione bellica superiore alla sua. Forse, si disse, Avalon aveva sbagliato ad affidargli quella missione. Sarebbe dovuto rimanere sull’isola, a prendersi cura del vecchio dalla barba bianca, e lasciare il posto ad Ascanio, che di certo avrebbe onorato il titolo in maniera molto più degna di lui.

 

Più forte, più fiero, più distaccato, il Comandante Ascanio avrebbe asfaltato ognuna di quelle streghe, anziché farsi sbattere a terra come un cencio, farsi salvare da un Dio vestito da un uccello estinto e da una ragazzina in preda a adolescenziali turbe suicide. Come prima missione è stata un successo! Ironizzò, cercando di tossire, la bocca impastata da grumi di sabbia e sangue.

 

“Ogni cosa ha un principio!” –Esclamò allora una voce, risuonando direttamente nella mente del ragazzo. –“Non esisterebbero i mari se non vi fossero i fiumi che danno loro acqua, e cosa ne sarebbe dei fiumi se non avessero sorgenti che li generassero? Anche una montagna senza la terra che la compone sarebbe poca cosa, forse niente. E che dire dell’uomo, se non avesse un cuore, come potrebbe alzarsi e combattere? Come potrebbe bruciare il proprio cosmo, così ardentemente, se non sapesse perché e per cosa sta combattendo?”

 

Ma… maestro…” –Rantolò Matthew. –“Mi… dispiace… vi ho deluso.”

 

“E perché mai? Per aver preso qualche cazzotto e danneggiato una corazza che può essere riparata?”

 

“Per aver fallito.”

 

A quelle parole, Avalon non rispose. Così Matthew continuò a parlare al suo cosmo. –“Volevo… proteggere Elanor, volevo che la sua vita non fosse rovinata dal sapore del sangue, dal sudore della battaglia e dal dolore della perdita, come lo è stata la mia, e quella di molti altri Cavalieri o aspiranti tali. Volevo difendere la sua purezza, sperando che potesse rimanere fuori da tutto questo, salvarle la vita, come non fui in grado di fare con Miha! Sono stato sciocco e debole…

 

“Eppure è per questo che sei voluto diventare un Cavaliere! Per questo ha risvegliato il Talismano che custodivi nel cuore, per impedire che altri soffrissero quanto tu hai sofferto, per evitare che perdessero qualcuno che amavano! Non è così, Matthew? E allora, se è così, alzati e lotta, e dimostralo! Non a me, che già lo so, ma a te stesso! Dimostra di essere in grado di proteggere davvero qualcuno!”

 

È… tardi ormai.”

 

“Non è mai troppo tardi per lottare!” –Chiosò Avalon, donando una stilla di cosmo al giovane Cavaliere, che iniziò a muovere le dita anchilosate, a strizzare gli occhi e a tentare di sollevarsi a fatica.

 

Ormai… Homados sarà già al cerchio di Marte…

 

“Di questo posso occuparmi io, con l’aiuto di un tuo vicino amico!” –Sorrise il Signore dell’Isola Sacra, prima di scomparire. Quando Matthew si rimise in piedi, vide Thot, già rialzatosi, che lo fissava con sguardo severo. Quindi il Nume tirò un’occhiata in lontananza, lungo l’anello da lui difeso, per poi riportarlo su di lui e allungare una mano per aiutarlo a alzarsi.

 

***

 

Homados correva da quasi dieci minuti lungo l’anello di Giove, avanzando tra la sabbia e le piramidi. E nient’altro. Un vero e proprio deserto trasferito sul satellite terrestre. Mugugnando per la noia, la Makhai non perdeva di vista l’alto muro di sabbia lunare alla sua sinistra, per individuare il passaggio per il Cerchio di Marte. Sapeva bene quanto potessero essere celati, quei varchi, mimetizzati nel paesaggio al punto da sembrare fenditure naturali, per questo prestava molto attenzione. Ma dopo altri dieci minuti le sembrò piuttosto strano non averlo ancora trovato. Per la velocità sostenuta, era di certo già arrivata dall’altra parte del regno, ed infatti percepiva i cosmi di Alala e Kydoimos molto distanti. Stranita, rallentò l’andatura, certa che il passaggio sarebbe comparso entro breve. Tutta intenta ad osservare il muro di confine non si accorse di un avallamento del terreno e ci ruzzolò dentro, rotolando tra improperi e maledizioni. Subito si scosse, balzando fuori dall’imprevisto cratere, salvo accorgersi di essere sporca di sangue. Non suo.

 

Stupefatta, sollevò lo sguardo e vide gruppi di uomini, rivestiti da corazze scarlatte, giacere scompostamente a terra. Una carneficina che ben conosceva, avendovi preso parte poco prima.

 

Non… è possibile!” –Si disse, riconoscendo, poco oltre, i corpi inermi di Thot, Matthew e della ragazza. –“Sono tornata al punto di partenza! È assurdo!”

 

Quasi non riusciva a crederlo, ma aveva compiuto un intero giro dell’anello senza trovare il passaggio. Eppure ho prestato attenzione! Non può essere così piccolo da non essere notato a occhio nudo! Ringhiò, riprendendo a correre, stavolta più vicina alla parete di sabbia lunare e ripercorrendo il cerchio di Giove una seconda volta, per poi ritrovarsi nel luogo dove aveva affrontato il Selenite e i suoi compagni.

 

“Incredibile!!!” –Sbuffò, adirata, fermandosi un attimo per riflettere. E accorgendosi che il varco aperto da Alala con il suo grido di guerra era sparito. –“Il muro… è intonso! Come se niente l’abbia sfiorato! Assurdo! Eppure… percepisco il suo cosmo accendersi nel Quarto Cerchio!!! E io non posso raggiungerla!!! Maledizione! Che inganno è mai questo?” –Ringhiò, iniziando a prendere a pugni la massiccia muraglia, sfogando quella frustrazione improvvisa. Poi si calmò, imponendosi di rimanere lucida e iniziando a camminare, prima a passo lento, poi sempre più veloce, continuando a cercare quel passaggio nascosto.

 

Ad un certo punto dovette fermarsi bruscamente, poiché tre piramidi le sbarravano la strada. Una cintura che prima non poteva esserci. E dietro quelle tre, Homados ne vide altre, intrecciate in modo da coprirle ogni possibilità di dirigersi in quella direzione. Sconvolta, si voltò indietro e vide che anche su quel lato erano sorte d’improvviso delle rozze costruzioni di pietra, e altre ne stavano sorgendo, davanti a lei, dietro di lei, riducendo sempre di più lo spazio a sua disposizione.

 

“Questi trucchi, con il mio genio, non funzionano!!!” –Urlò, infastidita oltre ogni dire –“Migdal bavel!” –E ricreò la Torre di Babele attorno a sé, scagliando blocchi di energia cosmica contro le piramidi attorno, distruggendole una ad una, per quanto di nuove continuassero a spuntare dal terreno. L’ultima deflagrazione di energia fu così potente da annientare tutte le costruzioni attorno, e persino un pezzo del muro che separava il Quinto Cerchio dal Sesto. Ma del varco per l’anello di Marte ancora nessuna traccia.

 

“Gran genio, in verità! Ha avuto bisogno di quasi tre giri per subodorare la trappola!” –Rise improvvisamente una gioviale voce maschile, attirando l’attenzione della Makhai, che sgranò gli occhi nel ritrovarsi tre figure di fronte, tre figure che, a suo credere, dovevano essere morte.

 

“Voi?! Ma come avete fatto?!”

 

“I vantaggi di avere Avalon come maestro!” –Ironizzò Matthew, al centro della linea di sbarramento, costituita anche da Thot, alla sua sinistra, e da Elanor, a destra.

 

“Dunque è stata tutta un’illusione! Un trucco mentale di quel pusillanime burattinaio! Credevo di correre invece sono rimasta sempre nello stesso punto!”

 

“Tutt’altro! Hai corso davvero attorno al reame, ma non hai mai trovato l’uscita dall’anello di Giove né mai la troverai!” –Commentò Thot, avanzando di un passo, avvolto nel suo cosmo dorato, che infine calò d’intensità, mentre alcune forme del paesaggio iniziavano a mutare. Tutte le piramidi del Quinto Cerchio scomparvero e anche il suo suolo si fece brullo e arido, come i satelliti lo mostravano alla Terra. –“Non serve più che finga di essere in Egitto!”

 

Thot?!” –Mormorarono Elanor e Matthew, mentre il Dio si voltava a fissarli con gli occhi lucidi.

 

“In fondo è sempre stata solo una grande finzione… pensare di vivere in sempiterna pace…” –Aggiunse, accennando un sorriso, prima di riportare lo sguardo sulla Makhai. –“Hai perso, spirito della battaglia! Puoi fare tutto il rumore che vuoi, tutto il frastuono che la tua collerica voce potrà produrre, ma mai, e ti ripeto mai, varcherai la soglia che conduce al Cerchio di Marte! Essa è celata dal mio cosmo divino, che ha smosso le sabbie lunari nascondendola a te e a coloro che dopo di te dovessero venire!”

 

Pfui! Abbatterò questi mucchietti di sabbia con la mia Torre di Babele! Non sei Dio sapiente a sufficienza per prevederlo?”

 

“Non ti sarà facile!” –Sibilò il Nume, espandendo al massimo il proprio cosmo. No, ripeté tra sé, mentre la maestosa sagoma di un ibis ad ali spiegate compariva alle sue spalle, rilucendo contro il cielo stellato, tra poco non ti sarà affatto facile!

 

Thot!!!” –Gridarono Matthew ed Elanor, che avevano compreso quel che il Selenite voleva fare.

 

“Fatti avanti, strega! Thot non ti teme! Questo sarà l’ultimo volo dell’ibis sacro!” –Declamò a gran voce, il cosmo ardente tutto attorno al suo corpo. –“Sommo Ra, in vostro nome combatto!!! Volo dell’Ibis!!!” –E sfrecciò verso Homados, le ali spumeggianti di energia cosmica, avvolto in un turbinio di sabbia che si abbatté sulla Makhai, disturbandone la visuale e impedendole di difendersi completamente.

 

Il contraccolpo scagliò Matthew ed Elanor indietro, sollevando nuvole di polvere. Quando queste si diradarono, i ragazzi poterono vedere Homados camminare a fatica, le braccia chiuse e appoggiate sul ventre ferito, sul volto un’espressione terribile, di dolore e al tempo stesso rabbia. Ai suoi piedi, immobile e spento, il corpo di Thot, la testa piegata in una posa innaturale, l’armatura in buona parte distrutta. Che fosse morto lo avevano già capito dall’esplosione del suo cosmo, fuso ormai adesso con le sabbie lunari.

 

Bas… tardo!!!” –Ringhiò la Makhai, calando il tacco sul cranio del Dio e sprofondandolo con un sol colpo nel terreno. A tal vista, Matthew ed Elanor si scambiarono un’occhiata veloce, annuendo entrambi, prima di lanciarsi avanti.

 

Era giunto il loro momento di combattere!

 

***

 

Una folata di vento le solleticò il viso, strappandole un brivido di freddo e scuotendola dal sonno. Stordita, si girò confusamente su un lato, accorgendosi di essere su una branda, piuttosto vecchia e usurata a giudicare dalla durezza e dalle molle che tendevano ad emergere. Strizzando gli occhi, mise a fuoco l’immagine della stanza in cui si trovava, spartana e piena di spifferi, ma certamente diversa dall’idea di inferno che si era fatta, e capì di non essere morta.

 

Una brocca d’acqua su un cassettone vicino al letto, due fette di pane abbandonate e vestiti puliti piegati su una sedia di legno. Doveva trovarsi nella camera di un’antica magione, forse un castello, a giudicare dal pavimento e dalle mura di pietra e dall’assenza di qualsiasi tocco di modernità. Le ampie finestre arcuate garantivano la luminosità e il ricambio dell’aria e poco distante, a giudicare dal sordo scrosciare, pareva scorrere un fiume. O comunque un corso d’acqua. Si disse Tisifone, sollevando la schiena dalla branda e cercando di capire dove si trovasse.

 

E soprattutto perché.

 

L’ultimo ricordo che aveva, l’ultimo che era riuscita a recuperare dagli abissi annacquati della sua memoria, era la vista di una nave che affondava, distrutta da una violenta esplosione cosmica. E poi c’erano quelle strane guerriere dalle lunghe gambe, e Cliff che sparava a una di loro, il sangue, il comandante massacrato e un manufatto di cui aveva sentito soltanto parlare. Perché? Non poté evitare di chiedersi.

 

“Ti sei svegliata, finalmente!” –Esclamò una voce femminile, interrompendo i suoi pensieri. –“Credevo avessi intenzione di dormire altri due giorni!”

 

Di scatto si voltò verso la porta, tirando su la coperta per coprire il suo seno, sorpresa e imbarazzata. Probabilmente più sorpresa, che imbarazzata.

 

In fondo la donna che aveva appena parlato, e che era appena entrata nella stanza con una scodella ripiena di un liquido fumante, doveva averla vista nuda molte volte, vent’anni addietro, quando aiutava la madre a lavare la sorella minore.

 

“Eppure, da piccola, eri quella che più faceva disperare nostra madre, non volendo mai dormire!” –Continuò, poggiando la ciotola sul mobile accanto al letto e andando poi a sedersi sulla sedia di legno. –“Sei sempre stata inquieta, non è vero, Tisifone?”

 

“Ma tu… Morgana?!” –Scosse la testa la sorella, faticando a associare quel nome alla donna seduta di fronte a lei. Non soltanto perché erano passati quindici anni dal loro ultimo incontro, ma specialmente perché credeva fosse morta.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 22
*** Capitolo ventesimo: Quarto interludio. Sole. ***


CAPITOLO VENTESIMO: QUARTO INTERLUDIO.

 

SOLE.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: ignoto. Mondo Antico.

 

“Ne siete davvero sicuro, padre?”

 

La delicata voce di Febo raggiunse il possente Dio mentre apriva i portoni del suo privato santuario, costringendolo a fermarsi. Il ragazzo non aggiunse altro e per qualche minuto restarono entrambi in silenzio, finché, con un sospiro, Amon Ra non si voltò, fissando il ragazzo al centro della sala ipostila. Dallo sguardo fiero e dal nobile portamento, quel giovane dai capelli biondi era suo figlio, anche se a volte faceva fatica ad accettarlo. Perché pensarlo come tale, come risultato di una sua scelta, lo rendeva colpevole, riaprendo ferite che non si erano mai rimarginate. Ferite che, a distanza di anni, bruciavano ancora nell’animo del Dio.

 

“Conosci i motivi che mi hanno portato a questa scelta! Sofferta, di certo, ma maturata nel corso di anni che hanno visto appassire questa bella Terra e inaridire l’appassionata devozione degli uomini verso gli Dei.” –Rispose il Signore di Karnak.

 

“La fedeltà del popolo può essere ottenuta di nuovo, padre! Se deste loro un segno, se ricordaste agli uomini quanto avete fatto per loro…

 

“Non cambierebbe niente!” –Esclamò serio Amon. –“Ci hanno tradito, abbandonato, dimenticato! Molti seguono persino culti oscuri, nascosti tra le ombre di antiche piramidi dentro cui l’Occhio di Ra non può penetrare!”

 

“Dove non vuole entrare!” –Precisò Febo. –“Quando ero un bambino, e Iside mi cullava raccontandomi la storia della sua famiglia e dell’Enneade, più volte amava rimarcare che non esistesse niente a questo mondo che Ra non potesse vedere, niente che potesse essere celato al Pastore dell’Universo! Questo perché non esiste luogo sulla Terra ove i raggi del sole non possono giungere, non può esistere nube, nebbia o tenebra che non possano trafiggere e vincere!”

 

“Un tempo, forse. Adesso è tutto cambiato…” –Sospirò il Dio.

 

“No, voi siete cambiato, padre! Voi avete smesso di credere! Negli uomini, negli altri Dei vostri fratelli e compagni, e anche in voi stesso, nelle vostre capacità! Come potete essere il sole che illumina il mondo se non riuscite a dare luce neppure al vostro stesso tempio? Guardate questo salone immenso, che anni addietro ospitava ricevimenti e giochi! Adesso sprofonda nella polvere dell’oblio, celato da infissi che nessuno apre più! Uscite fuori, con me! Torniamo a correre nel deserto, a respirare l’aria del mondo, visitando gli antichi templi e le Mer erette in vostro onore!”

 

“Tu non capisci!” –Commentò Amon Ra, scuotendo la testa. –“Tu non sai!”

 

“Invece sì. Iside me ne ha parlato, e comprendo di essere parte in causa nella vostra sofferta decisione! Voi state rinunciando a vivere per colpa mia!”

 

“Questo non devi dirlo!” –Tuonò il Dio, avvampando nel suo cosmo e scagliando il ragazzo indietro, fino a schiantarlo contro una colonna del salone. –“E Iside doveva stare zitta! Farti da nutrice doveva, non da confidente!”

 

“E lo ha fatto! Come tu mi hai fatto da padre, sebbene…

 

“Non lo volessi?! È questo che pensi, Febo? Che io ti accusi per la mia caduta, che ti incolpi per la decadenza di Karnak e la derisione di cui sono stato fatto oggetto? Se lo credi, sei libero di andartene! Esci dal Viale delle Sfingi e non tornare più!”

 

“Non è quello che voglio!”

 

“E allora cosa vuoi, Febo? Perché non mi lasci andare?!” –Gridò il Dio.

 

“Voglio la verità! Cos’è accaduto… quella notte?!”

 

***

 

L’attacco di energia infuocata investì in pieno l’enorme sfinge, distruggendo la sua faccia e facendo piovere frammenti di pietra sui soldati sotto di essa, obbligandoli a correre in ogni direzione per non essere travolti.

 

“Riformate le linee! Non arretrate! Per il Sole e per Karnak!!!” –Gridò una voce, incitando i compagni a rimanere uniti, per fronteggiare l’aggressione. Era notte fonda e non fosse stato per il cielo terso, su cui lampeggiava il disco lunare, non li avrebbero neanche sentiti arrivare, tanto silenziosi e veloci erano discesi su di loro.

 

Arrivarono dall’alto, su un carro trainato da cavalli bianchi, i cui zoccoli fendevano l’aria, camminando su un sentiero del cielo, un sentiero che dal Monte Elicona aveva raggiunto in fretta l’Egitto.

 

Fuoco della corona!!!” –Tuonò un guerriero avvolto in un cosmo amaranto, prima di dirigere una violenta bomba di energia incandescente contro il gruppo di Soldati del Sole disposti in prima linea, a chiudere l’accesso al Viale delle Sfingi che conduceva al Tempio di Karnak.

 

Artiglio luminoso!!!” –Gli fece eco un secondo combattente, dilaniando con fauci di fuoco i pochi sventurati che erano riusciti a resistere al primo assalto. Quindi, osservando compiaciuti la carneficina generata, entrambi i guerrieri si misero di lato, lasciando che un uomo alto e snello, dai capelli azzurri, passasse tra loro, incamminandosi a passo deciso lungo il viale.

 

Un’ulteriore pattuglia di soldati si fece loro incontro, le vesti verdi e oro che brillavano al riflesso delle loro spade, rivestite da una vivida fiamma. –“Fermi dove siete!!! Non un passo di più nel Santuario del Dio del Sole o ne assaggerete l’ira!!!”

 

“Ah! Quale eresia! Minacciare me, Febo Apollo, facendosi vanto di un ruolo che mi appartiene?!” –Avvampò l’uomo alto e snello, sgranando gli occhi, prima di sollevare la mano destra e liberare un’onda di energia che travolse tutti i difensori del tempio.

 

“Mio Signore! Attento!” –Gridò allora uno dei suoi seguaci, mentre un’ombra veloce guizzava su di loro, rimbalzando tra le tenebre fino a piombare sul Dio a gamba tesa.

 

“Adesso non esagerare!” –Esclamò un’acuta voce di donna. –“Se anche tu sei una Divinità, dovresti sapere che non è educazione violare un sacro suolo di culto, soprattutto se quel luogo è la culla del più grande potere sulla Terra! La culla dove nasce il sole d’Egitto!”

 

Umpf! Ardita e temeraria, donna!” –Commentò Febo Apollo, evitando l’affondo nemico semplicemente spostandosi di lato. Fece per sollevare il braccio destro ma già la figura femminile si era mossa, espandendo il proprio cosmo e generando una collisione tra energie che spinse entrambi indietro di qualche passo. –“Ma te lo concedo in virtù del tuo rango divino!”

 

“Mi hai riconosciuto, dunque?! Sono sorpresa!” –Ironizzò lei, effettuando un agile salto e una piroetta con cui atterrò a qualche metro di distanza.

 

Bastet, la Dea gatta! È mia abitudine documentarmi sui nemici!”

 

“È ironico che sia tu a definirmi tale, Febo Apollo! Tu che hai invaso il sacro suolo d’Egitto con i tuoi sgherri, recando danno e offesa al Signore del Sole!”

 

“Bada a come parli, donna! Noi siamo i Cavalieri della Corona, i sacri guerrieri fedeli ad Apollo, l’unico e vero Dio del Sole!” –Tuonò allora un uomo della scorta, facendosi avanti nel suo cosmo amaranto. –“Io sono Atlas, della Carena! E se non vuoi che il tuo grazioso corpo si ritrovi ad ardere su una pira funeraria ti consiglio di obbedire al mio Signore e dargli ciò per cui siamo venuti!”

 

“Una bella lezione di umiltà inizierò a darla a te, Atlas della Carena!” –Rispose allora la Dea gatta, scattando avanti velocemente e generando un reticolato di energia con il veloce movimento delle dita. La gabbia energetica si chiuse sul Cavaliere della Corona, stridendo su una barriera fiammeggiante che aveva prontamente eretto a sua difesa, ma un rinnovato assalto della Dea la mandò in frantumi, permettendo agli artigli della gatta d’Egitto di affondare nel ventre del guerriero di Apollo. –“La tua nave è giunta all’ultimo porto.” –Sibilò, trapassandogli lo stomaco con l’intero braccio e lasciandolo poi a terra sanguinante.

 

“Ora basta!!!” –Tuonò Febo Apollo, sollevando Bastet con una presa psicocinetica e scaraventandola indietro, fino a schiantarla contro la facciata del tempio di Karnak.

 

“Dovremmo essere noi a dirlo!!!” –Esclamarono allora cinque voci all’unisono, mentre nuove figure scattavano sugli aggressori, provenendo da ogni direzione. Cinque attacchi che obbligarono il Dio del Sole e i suoi accoliti a rifugiarsi dietro una barriera che Apollo sollevò, una cupola di energia simile alla corona solare, su cui gli assalti si schiantarono, sebbene il più potente, quello proveniente dall’alto, la mandò poi in frantumi. –“Se guerra portate, guerra riceverete!” –Chiosò un uomo, atterrando di fronte agli invasori, mentre le ali della sua corazza grigia si ripiegavano lungo la schiena. –“Parola di Horus e dei suoi figli!” –Aggiunse, venendo attorniato da quattro guerrieri in armatura.

 

“Ciò che vorrei ricevere, Dio Falco, è quel che mi spetta di diritto! Quel che mi è stato rubato, circuito, portato via! E, per tale offesa, sono disposto a scatenare ogni guerra che quest’arida terra sarà in grado di sopportare, finché giustizia non sarà fatta e la mia sete di vendetta saziata!!!” –Tuonò Febo Apollo, espandendo il proprio cosmo, così vasto e potente che spaventò i quattro che accompagnavano Horus.

 

“Cosa ti è stato portato via?”

 

“L’Oracolo!!!” –Sibilò il Dio, prima di scatenare una tempesta di energia ardente, che investì il giovane Falco e i suoi figli, gettandoli a terra molti metri addietro. –“La mia celebrante, la donna che più di ogni altra mi dava forza con la sua fede, con la sua poesia! La mia decima musa! La musa della devozione e dell’amore incondizionato!”

 

“Lo sono ancora!” –Parlò infine una debole voce di donna, obbligando il Dio greco e i suoi seguaci a sollevare lo sguardo verso l’ingresso del complesso templare, dove un’esile figura era appena apparsa. –“Sono ancora fedele a voi, mio Signore, mio luminoso Signore del Sole!”

 

Hannah…” –Mormorò Febo Apollo, osservando la Sacerdotessa di Delfi camminare a fatica, tenendosi una mano sulla pancia, rigonfia e ormai prossima al parto. –“Da quel che vedo… non è così!” –Commentò schivo, spostando lo sguardo.

 

“Mio Signore, voi mi uccidete… io… non lo merito…

 

“No?!” –Avvampò il Dio, il volto arrossato dalla collera.

 

“No!!!” –Rispose una terza voce, risuonando nella notte d’Egitto e ridestando tutti i presenti. Bastet, Horus e i suoi figli si rimisero prontamente in piedi, avvolti da una luce calda e armoniosa che proveniva dal cuore del regno, l’unico vero sole a cui amassero ristorarsi.

 

“Finalmente ti mostri, ladro di Oracoli!” –Sibilò Febo Apollo, mentre un’alta figura, rivestita da una luminosa Veste Divina si affacciava sul portone di Karnak, impugnando un lungo scettro con il manico piegato. –“Amon Ra, usurpatore di un titolo che con questo atto hai oscurato!”

 

“Quale atto, Apollo? Amare? Non è a questo che servono gli Dei? A insegnare agli uomini ad amare, con la loro benevolenza?!” –Rispose pacato ma fermo il Dio egizio.

 

“Non osare insegnarmi! Non tu, che hai violato il mio santuario, impossessandoti del mio bene più prezioso, senza rispetto alcuno per la mia persona!”

 

Vedo… che in realtà è una persona che merita davvero poco rispetto…” –Mormorò Amon Ra, suscitando la collera del figlio di Zeus, che aprì il palmo della mano sollevando un’onda di energia che fagocitò in fretta l’intero viale, distruggendo sfingi e monumenti sacri, fino ad abbattersi sul complesso templare, in una nube di polvere e sabbia.

 

Quando l’ammasso fumoso si diradò, e i Cavalieri della Corona già marciavano avanti, convinti di dare il colpo di grazia ai nemici malridotti, dovettero frenare i loro passi, accorgendosi non soltanto che Karnak era ancora in piedi, ma anche che i suoi occupanti non avevano riportato danno alcuno. Riparati da un velo luminoso che Amon aveva prontamente eretto a difesa della sua dimora, Bastet, Horus e i suoi figli, si ergevano a protezione del loro Dio e della Sacerdotessa di Apollo, stretta al corpo dell’uomo di cui perdutamente si era innamorata, dell’uomo che le aveva dato calore.

 

“Puoi riprovare.” –Commentò Amon Ra, espandendo il proprio cosmo e concentrandolo sul djam, prima di scagliare un violento raggio di energia contro il carro del sole, distruggendolo. –“Ma dubito che il risultato sarebbe differente!”

 

“Questo non appaga la mia ira, né rende grazie all’affronto che ho subito! Ma se non posso piegarti con la forza, maledetto Dio egizio, io ti vincerò con la pazienza!” –Sibilò Febo Apollo, recuperando un tono di voce calmo e distaccato. –“La mia maledizione cade su di voi, che vi porti sofferenza e solitudine! Proverai, Amon Ra, cosa significa rimanere soli e perdere coloro che amiamo! Sentirai, sulla tua stessa pelle, il peso di una vita eterna, silenziosa condanna per i tuoi peccati! Così ho parlato e queste sabbie mi siano testimoni!” –Non aggiunse altro, il furente Dio greco, prima di dare le spalle a Karnak e ai suoi abitanti. Fece qualche passo, seguito dai Cavalieri della Corona ancora vivi, e poi sparì, in un lampo di luce, tornando sul Monte Elicona, a trastullarsi con la cetra e le Muse.

 

Amon Ra rimase per qualche istante a fissare il vuoto, il devastato paesaggio ove un carro e tanti uomini ardevano in un rogo notturno, prima che uno strillo di Hannah lo riportasse in sé. –“Il bambino… amore mio… lui… sta per nascere…” –Gli disse, mentre il Dio ordinava a Bastet di chiamare Iside e le sue ancelle, per assisterla durante il parto.

 

Fu un’operazione veloce, ma non fu affatto indolore. Le urla, gli strepiti, i vagiti di dolore di Hannah, Amon non li avrebbe dimenticati mai, anche perché furono le ultime parole che di lei udì. Straziata dal parto, distrutta da una maledizione a cui non aveva forze per opporsi, la donna si spense dopo aver visto suo figlio per la prima e unica volta, dopo che Iside glielo mostrò, strappandole un sorriso e una sola parola.

 

Febo.”

 

E poi morì.

 

La rabbia di Amon esplose quella notte, e a niente valsero i tentativi di Iside, Horus e degli altri Dei a lui vicini di offrirgli conforto. Quel che il Signore del Sole realmente voleva lo aveva perso, e con Hannah aveva perso anche la sua determinazione, la sua fede nel futuro e la sua autorevolezza. Offeso dal villipendio e deciso a farla pagare ad Apollo, il Dio diede ordine a Bastet e a Sekhmet di radunare l’esercito l’indomani, per manciare sulla Grecia, ma ricevette in risposta sguardi assenti e sfuggenti.

 

La voce di quel che era accaduto si era sparsa in fretta e molti ritenevano che la strage notturna fosse stata responsabilità di Amon, e che per un bambino bastardo nato da madre greca non valesse la pena rischiare un conflitto con Apollo e l’Olimpo che l’avrebbe protetto. Lo pensarono in molti, e altrettanti lasciarono Karnak poco dopo, dirigendosi a Tebe o a Dendera, e quelli che rimasero non mostrarono più la stessa devozione al Dio avuta prima. Persino la Leonessa d’Egitto quietò il suo ruggito, pur senza mai schierarsi apertamente contro Amon. Persino Osiride rimase silenzioso in Amenti, rifuggendo la chiamata alle armi e venendo presto raggiunto dai figli di Horus, che alla guerra non erano proprio avvezzi.

 

Soltanto Iside rimase a Karnak, insistendo con Ra affinché tenesse il bambino, che era pur sempre suo figlio, nonché tutto quel che gli rimaneva della donna amata.

 

“Dal suo ricordo traine forza!” –Gli disse, mettendoglielo in braccio quel giorno, quel delicato infante dagli occhi verdi. Amon Ra annuì, ma non fu mai in grado di tenere fede al patto con se stesso, e anziché forza ne trasse solo rimpianti.

 

***

 

“È stata colpa mia…” –Mormorò Febo, dopo che il padre ebbe raccontato l’intera storia della sua nascita.

 

“Non pensarlo mai! Sei la cosa più bella di cui abbia goduto in questi anni, dopo la morte di tua madre! L’unico affetto in grado di mantenermi vivo, quando tutto il resto diveniva cenere! Se c’è qualcuno da biasimare, quello sono io.”

 

E… non posso continuare ad esserlo?”

 

Amon Ra non rispose, dando le spalle a Febo, a Karnak e a tutta la sua vita. Spinse il portone ed entrò nel santuario, sigillando l’intero complesso fuori dal tempo. Senza più guerre né affanni, ricordi o speranze. Senza più prima né dopo, passato o futuro. Karnak vivrà in un eterno presente, senza principio e senza fine. Un eterno ora. E sarebbero passati secoli prima che le sue porte fossero di nuovo aperte.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon

Tempo: secondo avvento.

 

Come gli fossero tornati in mente, quei ricordi lontani, neppure lui seppe spiegarselo. Poté solo sorridere, riflettendo su come era cambiato. Lui, e anche il mondo di cui tanto aveva avuto paura, da cui lontano aveva cercato di tenere Febo, per impedire che avesse a soffrire dei suoi mali come era accaduto a lui.

 

Meditava su questo, Amon Ra, seduto sul trono nel suo santuario privato, lo stesso da cui si era infine rialzato quindici anni addietro, dopo avervi trascorso secoli, la coscienza chiusa in uno stato embrionale, eternamente in riposo. Da allora, dal giorno in cui il sole era tornato a sorgere su Karnak, il Dio aveva riacquistato il suo antico splendore, accrescendo non solo il suo potere ma anche recuperando sapienze perdute, spolverandole dalla sabbia dell’oblio. Ed in quel processo di svecchiamento non era stato solo, bensì aiutato da numerosi amici, sia residenti all’interno di Karnak, che non.

 

Febo e Marins sono stati salvati! Adesso riposano nelle stanze di Iside, sottoposti a cure continue. Non essere in ansia, la sapienza della Madre lenirà i loro affanni!”

 

“Mai mi permetterei di dubitare delle conoscenze della Dea della Maternità e della Fertilità! Non potrei immaginare i Cavalieri delle Stelle in mani migliori, Signore del Sole, e ti sono grato!” –Esclamò allora l’altra voce, risuonando direttamente nella mente del Sommo. –“Ti ringrazio, Amon Ra, per aver messo i tuoi servitori a mia disposizione, impiegandoli in una perigliosa missione dai così alti costi! Con la guerra sulla Luna in corso e il risveglio degli Antichi in vari luoghi del mondo, eri l’unico, purtroppo, a poter intervenire in tempi celeri!”

 

“Apprezzo i tuoi ringraziamenti, Signore dell’Isola Sacra, ma non è per questo che mi risvegliasti, quindici anni addietro? Per tramite del tuo allievo, Micene di Sagitter?” –Ironizzò il Dio. –“Per avermi al tuo fianco nell’ultima guerra?!”

 

“Il lungo letargo non ha intorpidito la tua mente, Signore del Sole. Acuta e brillante come l’astro che rappresenti.” –Commentò compiaciuto Avalon. –“Di certo il tuo potere era necessario, per garantire l’equilibrio del mondo. Inoltre la tua presenza mi rasserena, mi dà forza, anche in questi giorni bui! E credo che in fondo pure tu volessi dare a tuo figlio un ultimo saluto prima dell’avvento dell’ombra!”

 

Amon Ra sorrise alla veridicità delle parole dell’alleato, prima di alzarsi dal trono e uscire dal suo santuario privato, salvo poi fermarsi dopo qualche passo, tra le colonne dell’immenso salone. Incerto. –“C’è un’altra cosa…

 

“Che cosa turba il tuo cuore, facendoti tentennare dal parlarmene? Sii sincero con me, non vi è niente che tu debba temere di rivelarmi!”

 

“Quel che Horus e Febo hanno visto nel deserto del Gobi, i sotterranei di quel luogo mortifero…

 

“Il Santuario delle Origini, issato sul campo della prima battaglia contro l’ombra!” –Annuì il Signore dell’Isola Sacra, percependo i brividi del cosmo di Amon. –“Quel che tuo figlio ha veduto è solo una parte di ciò che cela! Un frammento dell’oscurità che sta per riversarsi su tutti noi! Mi auguro che le mura di Karnak siano solide e pronte all’urto, perché la tempesta è prossima! Già le prime piogge d’ombra hanno iniziato a cadere!”

 

“Così ci siamo. L’alba dell’ultima guerra è sorta!” –Concluse Amon Ra, impugnando saldamente il djam, simbolo del suo potere regale, e congedando l’amico.

 

“Arrivederci, Pastore dell’Universo! Ci incontreremo di nuovo dove tutto ebbe inizio, e dove tutto avrà fine!” –Il cosmo di Avalon scomparve, rapido com’era giunto, lasciando il Dio del Sole ai suoi pensieri. Non era per sé che temeva, avendo vissuto una vita immensamente lunga, e a tratti anche noiosa, ma per coloro che amava, coloro che aveva nascosto al mondo per così tanto tempo da impedir loro di vivere appieno. Per garantire un futuro al suo regno, che nelle nebbie del tempo aveva poltrito a causa sua, avrebbe dovuto combattere.

 

“E lo farò!” –Esclamò a gran voce, avvampando nel suo cosmo dorato.

 

Tutti, a Karnak, udirono il suo richiamo, tutti sentirono l’occhio di Ra su di sé, e si inchinarono, ovunque fossero, pronti ad obbedire alle richieste del Sommo. Ma fu solo una donna dai capelli neri ad essere raggiunta dal suo volere, un’agile figura che si stava allenando nel cortile del tempio, al riparo da sguardi indiscreti.

 

“Cosa comandi, mio Signore?” –Esordì, entrando dopo pochi minuti nella Grande Sala Ipostila e inginocchiandosi di fronte a Ra.

 

“Avvisa Sekhmet di tenersi pronti!”

 

“La Dea Leonessa aspetta soltanto i vostri ordini!”

 

“E i figli di Horus? Sono in posizione?” –Incalzò, non avendo percepito traccia dei loro cosmi nel luogo che erano preposti a difendere.

 

“Credo che, dopo quanto accaduto al Sommo Osiride, si siano recati al Tempio di Horus a rendere omaggio al loro padre. Ma tutte le difese sono già state allertate!”

 

“Mi occuperò io del Falco. Sono certo che capirà. È un guerriero, non un ragazzino! È tempo che tutti ricordino chi siamo, gli Dei d’Egitto, Signori del Deserto, e non lasceremo estendere ad alcuna Divinità oscura la sua ala nera su di noi!”

 

***

  

Padre…” –Mormorò Febo, percependo l’infiammarsi del cosmo di Amon Ra.

 

Riposava su un morbido giaciglio nelle stanze di Iside, Signora della Maternità, che aveva scelto di prendersi personalmente cura di lui, anziché affidarlo ai sacerdoti e ai loro ut. Era ancora convalescente, ma la febbre era passata e il suo carnato aveva ripreso un po’ di colore, cacciando via quel biancore che così tanto aveva spaventato la Dea Madre quando lo aveva rivisto.

 

“Non ti agitare!” –Gli disse, rinfrescandogli la fronte e il viso con un panno fresco imbevuto di un unguento vegetale che favoriva la respirazione.

 

Febo trovò sollievo nelle sue cure, in quei piccoli gesti d’affetto che Iside non gli aveva mai fatto mancare, prendendosi cura di lui come sua madre avrebbe fatto. Mettendo da parte il dolore, le afferrò una mano con la propria, fissandola negli occhi stanchi e invocando il suo perdono. –“Mi dispiace.”

 

La Dea accennò un sorriso, capendo, prima di carezzare la mano del giovane e dargli un bacio sulla fronte. Non disse altro, alzandosi e incamminandosi verso l’uscita, seguita dall’attento sguardo di Febo. Solo allora il ragazzo notò Marins appoggiato al muro accanto all’ingresso.

 

“Ehi! Come stai?”

 

“Ho vissuto momenti migliori!” –Ironizzò il compagno, che, come Febo, indossava una lunga veste bianca, semplice e traspirante. –“La protesi mi sta dando fastidio, una sensazione di prurito che gli oli di Iside non hanno ancora eliminato! Credo si tratti della sindrome dell’arto fantasma, ci cui mi aveva parlato Avalon tempo fa. Comunque sto bene, il cosmo di tuo padre mi ha ristorato in fretta!”

 

“Mio padre… spero di vederlo presto. Ho così tante cose da dirgli, da chiedergli…

 

“Beh, non dovrai aspettare molto, allora!” –Commentò il ragazzo, voltandosi verso l’ingresso, dove l’alta sagoma di Ra era appena apparsa, con un sorriso sul volto.

 

“Padre!!!” –Esclamò Febo, affannando nel mettersi in piedi. Ma il Dio lo pregò di rimanere composto, per non affaticarsi. –“Padre, vi sono nuovamente debitore! È già la seconda volta che accorrete in nostro aiuto!”

 

“Non è forse questo compito di un genitore?! Anche se per molto tempo ho dimenticato cosa volesse dire avere un figlio, sto cercando di rimediare. E non solo perché sei speciale, perché sei un Cavaliere delle Stelle, ma perché sei il figlio che così tanto avevo voluto, il figlio che credevo di aver perduto.” –Commentò il Sommo Ra, abbracciando Febo, per poi alzarsi e camminare attorno al letto. –“Adesso riposa. Quando ti sarai ristabilito, parleremo… del resto.”

 

“Padre, vi prego! Non andate via! Non posso aspettare!” –Lo fermò Febo, e anche Marins si avvicinò, per udire meglio. –“La morte di Osiride pesa sul mio cuore… Perché ha attaccato il Santuario delle Origini così frontalmente? Non ha pensato ai rischi che avrebbe corso? Creature troppo oscure sta partorendo quel tempio, bestialità che vanno al di là di ogni forma di immaginazione, e ogni ora che passa, forse anche ogni minuto, nuovi orrori vanno a sommarsi a quelli già esistenti!”

 

“Osiride sapeva perfettamente quello che stava facendo, Febo! Per quanto indicata come incursione, sia lui che Horus erano ben consapevoli che in realtà sarebbe stato uno scontro frontale. Non avrebbe potuto essere altrimenti, con le terribili Divinità poste a guardia di quel luogo. Ma era l’unico modo per permettervi di uscire vivi da lì, l’unico modo per liberare il sole prigioniero!”

 

Lui… lo ha fatto per noi…” –Mormorò allora Marins, chinando lo sguardo.

 

“Precisamente!” –Annuì Amon Ra, dando un buffetto al figlio su una guancia e uno all’americano sul naso e allontanandosi.

 

Sulla porta incrociò il Dio Falco, venuto a sincerarsi delle condizioni dell’uomo che considerava un fratello, dell’uomo per cui suo padre aveva scelto di morire.

 

“Horus!!!” –Esclamò Febo, scendendo dal letto e mettendosi in piedi. –“Io… non so cosa dire, come ringraziarti… quello che tu e tuo padre avete fatto per noi è stato…

 

“Un suicidio.” –Commentò atono il figlio di Osiride, attirando lo sguardo di Febo. –“Mio padre aveva un debito nei tuoi confronti, da quando scendesti in Amenti per salvarci dalla prigionia di Anhar e Apopi! Se lo portava dietro da quindici anni, nel tentativo di riuscire un giorno a pagarlo. Adesso lo ha fatto, adesso è in pace!”

 

“Vorrei che lo fossimo anche noi!” –Sospirò il Cavaliere del Sole, strappando un sorriso al fratello adottivo.

 

“Lo vorrei anch’io.” –Esclamò, prima di andarsene. –“E lo saremo, Febo. Torneremo ad esserlo, presto. Hai la mia parola. Ho solo bisogno… di un po’ di tempo.”

 

Rimasti soli Febo e Marins sospirarono sconsolati, convinti di un’unica verità. Una sola certezza. Rimettersi in forma quanto prima per tornare sul campo di battaglia.

 

Era tempo che il cerchio si chiudesse e che i Sette combattessero tutti assieme.

 

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Secondo avvento.

Fine.

 

 

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Capitolo 23
*** Capitolo ventunesimo: Scomode verità ***


CAPITOLO VENTUNESIMO: SCOMODE VERITA’.

 

Yulij fissava il mare. Ammirata, osservava le onde nascere e poi disfarsi, a volte nel breve arco di un istante, schiantandosi sugli scogli e sollevando spruzzi d’acqua che disturbavano i soldati di guardia alla prigione di Capo Sounion. Si chiese come stesse la ragazza incarcerata, come avesse potuto commettere atti così terribili da meritare una sorte simile. A vederla adesso, magra, con il volto pallido e dal colorito terreo, l’avrebbe creduta una viandante, forse figlia di una famiglia povera, una condizione ben diversa dalla sua.

 

Sospirò, spostandosi i lunghi capelli grigi dietro la schiena, e ricordando quanto avesse dovuto pregare i suoi genitori affinché le permettessero di allenarsi per diventare un Cavaliere, quanto non capissero l’importanza della sua fede in Atena. Del resto come avrebbero potuto? Non erano guerrieri, né mai lo erano stati, bensì ricchi mercanti, che commerciavano da secoli in tutto il Mediterraneo, e avrebbero voluto che la figlia seguisse la strada tracciata dagli avi, divenendo contabile e poi amministratrice dell’azienda di famiglia. C’erano stati litigi, urla furiose, a volte anche uno schiaffo aveva ricevuto da suo padre. E poi c’era stato il terremoto.

 

E nessuno aveva più urlato.

 

“Cosa succede qua?” –Una voce maschile distrasse Yulij dai suoi pensieri, facendola voltare in tempo per ammirare il fisico statuario di Ioria del Leone avvicinarsi.

 

Bello, come gli era sempre apparso, il Custode del Quinto Tempio esprimeva al meglio gli ideali di virilità che avrebbe voluto ritrovare in un uomo, per questo fu contenta di indossare la maschera in quel momento, così Ioria non avrebbe potuto vederla arrossire imbarazzata da frivoli pensieri.

 

“Cavaliere di Leo!” –Si inchinò prontamente, raccontando quel che era accaduto e la decisione di Libra di tenere la ragazza in prigione. –“Credevo foste in missione! Io… vi avevo visto lasciare le Dodici Case qualche ora addietro!”

 

“In effetti sarei dovuto partire!” –Ammise Ioria. –“Pur tuttavia ho deciso di trattenermi, per capire cosa fare, e per farlo a volte ricorro all’aiuto di un amico. Con lui che mi ascolta è più facile prendere decisioni!”

 

“Capisco!” –Commentò la ragazza, di certo desiderosa di sapere altro ma senza voler apparire come una ficcanaso. A guardarlo da vicino, Ioria era ancora più bello, rendendo degnamente onore all’età che aveva. Capiva adesso perché la Sacerdotessa dell’Aquila fosse spesso turbata in sua presenza, per quanto amasse apparire fredda e distante. Non che avesse mai avuto modo di parlarle, al riguardo, erano solo sciocchi pettegolezzi che circolavano nel campo di addestramento femminile.

 

“Ero da mio fratello!” –Confessò il Cavaliere di Leo, più parlando con se stesso che con la ragazza.

 

“Da vostro…?! Ma come, io credevo che la tomba…?!”

 

“Micene non ha mai avuto una vera sepoltura nel Grande Tempio, per vicende complesse che non ho voglia di ripercorrere. Nonostante ciò, anni addietro un amico dispose un’urna in sua memoria su una collina qua vicino, dove lui e Micene, e poi anch’io quando crebbi, erano soliti allenarsi. Un memoriale cui recarsi di tanto in tanto e rendere omaggio ai ricordi, quelli più belli, spaziando con lo sguardo sull’intero Santuario.”

 

Yuliji non disse niente, limitandosi a chinare il capo e a darsi della stupida per essersi fatta travolgere da pensieri infantili. Capiva il Cavaliere di Leo, avendo anch’ella avuto bisogno, nel corso degli anni, e anche in tempi recenti, di confrontarsi con persone del suo passato che ormai non erano più con lei. Ma per farlo lei aveva scelto un altro metodo. Si affidava alle stelle.

 

“Posso vederla?”

 

“Uh?! Beh, il Cavaliere di Libra ha dato ordine di non far avvicinare nessuno, ma credo che voi non abbiate modo di essere ferito da quella donna…

 

Ioria non aggiunse altro, incamminandosi lungo il sentiero fino alla base della scogliera e congedando i soldati di guardia. Ricordava molto bene Tirtha e Pavit, i discepoli di Virgo, e la loro tragica esperienza sull’Isola delle Ombre. Pur con tutta l’oscurità che li aveva assaliti, pur con tutto il male che aveva maciullato il loro cuore, alla fine erano riusciti a ritrovarsi e a rimanere uniti. Sorrise, paragonando il loro legame a quello che lo univa a Micene. Anche loro non si erano forse persi per poi ritrovarsi?

 

Tirtha…” –Avvicinandosi alle sbarre, Ioria scrutò nella cella, non vedendo niente, solo il mare avanzare e ritirarsi di continuo. Si avvicinò ancora, spostando lo sguardo dietro agli scogli, verso il fondo della cavità, dove il sole a fatica arrivava, e allora li notò. Due occhi neri, persino più scuri dell’oscurità stessa.

 

In un attimo Tirtha balzò avanti, fiondandosi contro le sbarre e allungando lunghi artigli di tenebra. Ioria fece appena in tempo a fare un salto indietro, evitando che l’affondo gli strappasse un occhio oltre ad un ciuffo di capelli.

 

“Per Atena! Come sei ridotta?” –Mormorò esterrefatto, riconoscendo che le sue condizioni erano addirittura peggiori di quelle in cui l’aveva vista sull’isola, prima che Pavit la salvasse. –“Consunta dall’ombra, della Pellegrina resta mero scheletro ormai!”

 

Che l’avessero raggiunta o meno, quelle parole la fecero imbestialire ancora di più, mentre muoveva tra le sbarre le braccia artigliate. Se fosse più magra, riuscirebbe persino a sgusciarci attraverso! Notò Ioria, chiedendosi che cosa avesse potuto generare una simile trasformazione. Ricordava l’affetto che legava i discepoli di Virgo, questi due in particolare, gli ultimi superstiti di dieci credenti indiani, e non riteneva possibile che un’oscurità potesse essere così forte da distruggerlo.

 

Eppure Si disse, strusciandosi il mento pensieroso. Già un’altra volta, ad un amico accadde di affrontarne un altro. E ricordò quando, anni addietro, Galarian lo attaccò alla Quinta Casa, posseduto da un gelido cosmo di ebano che aveva preso il controllo della sua coscienza.

 

Arkhein.

 

Che sia accaduta la stessa cosa a Tirtha? Rifletté il Leone, realizzando che, in tal caso, vi era un solo modo per scoprirlo e per liberarla da quella prigionia. Estirpare l’ombra dal suo cosmo! E poiché l’ombra è materia composta da atomi, sarà il mio pugno, muovendosi a una velocità maggiore a quella della luce, ad annientarla! Come salvai Galan quel giorno, ugualmente salverò te, Tirtha!

 

“Ardi, cosmo del Leone!!!” –Ruggì Ioria, concentrando la propria energia sul pugno destro. –“Per il Sacro Leo!!!” –La tempesta di fulmini si abbatté su Tirtha, con una precisione estrema, avendo cura di colpire solo dove l’ombra era palesemente allo scoperto: sulle mani, negli occhi, persino la bocca sembrava vomitare oscurità. E da quei varchi, il fulmine lucente si insinuò nel corpo della ragazza, scuotendola, stramazzandola, fino a farla accasciare esausta sugli scogli.

 

“Cavaliere di Leo!!! Cosa succede?!” –Esclamò Yulij, arrivando di corsa con i soldati, che avevano percepito l’avvampare del cosmo d’oro.

 

Ioria spiegò in breve quanto accaduto, sperando che il fulmine avesse fatto breccia nel suo animo, costringendo Tirtha a risvegliare la sua volontà. Adesso, che viva o muoia, tutto è in lei.

 

***

 

Mo… Morgana?! Ma com’è possibile?!” –Spalancò gli occhi la Sacerdotessa dell’Ofiuco, alla vista della sorella che credeva scomparsa.

 

“Non fare quella faccia! Sono una combattente come te! Non una debole! Ho perso una battaglia, ma non la vita! Il bel giovane che venne a recuperare l’elmo del Sagittario di nient’altro si curò, se non di quell’oggetto! Pensò che fossi morta, dopo il suo ultimo attacco, e per un po’ lo credetti anch’io…” –Esclamò la donna dai lunghi capelli blu notte, con un pizzico di tristezza. Quindi si alzò, avvicinando la ciotola fumante al volto di Tisifone e pregandola di nutrirsi, finché la zuppa fosse stata calda. –“Hai rischiato l’ipotermia, sorella! Ho persino pensato che non ce l’avresti fatta, ma poi mi sono detta: no, Tisifone è una guerriera! Saprà lottare fino in fondo! Ero certa che ti saresti ripresa!” –Aggiunse, per poi allontanarsi.

 

“Morgana, aspetta! Non andartene! Dobbiamo parlare! Io… devo sapere!” –La richiamò la sorella, facendola voltare prima che uscisse dalla stanza.

 

“Parleremo! Non avere timore! Non appena ti sarai ristabilita! Mangia qualcosa, poi indossa questi abiti che ti ho messo da parte, sono della mia taglia, dovrebbero calzarti! Ti aspetto nel salone, quando sarai in grado di camminare da sola!” –E se andò, lasciando la Sacerdotessa insoddisfatta.

 

Mille pensieri ronzavano nella sua mente, relativi alla sorte di sua sorella e anche alla propria. Se ben ricordava, il castello di Morgana si trovava nei Caraibi… come aveva fatto a giungere fin là, dal Mar Celtico? Scosse la testa, ancora intontita, prima di assaporare lentamente la zuppa di verdure, un boccone per volta, facendo fatica persino a ingoiare. Ripensò a quel che la sorella le aveva appena detto e annuì, dandole ragione. Era una combattente, proprio così, e Morgana lo sapeva, perché era come lei. Per questo l’aveva lasciata sola, anziché scortarla come un’invalida fino al salone, perché doveva essere in grado di camminare sulle proprie gambe. Solo così avrebbe potuto essere pronta.

 

Per la vita e per la guerra.

 

***

 

Il salone del castello di Morgana era molto spoglio, con un minimo arredamento finalizzato alla praticità: una lunga tavola per desinare e un caminetto nell’angolo interno, la cui canna fumaria, passando al centro della costruzione, permetteva di scaldare anche le stanze adiacenti e superiori. Proprio vicino al focolare acceso sedeva la donna in attesa, su una poltrona di pelle che aveva conosciuto tempi migliori, fissando i legni ardere e schioccare.

 

“Sei diventata come lei!” –Commentò una voce femminile, attirando l’attenzione di Morgana, che si voltò verso l’ingresso, dove Tisifone era appena comparsa, rivestita degli abiti che le aveva prestato.

 

Camminava a passo deciso, ma c’era qualcosa nel suo incedere che rivelava la degenza non ancora terminata. Morgana le fece cenno di sedersi sul canapè di fronte a lei, dove una coperta la aspettava. Nonostante fossero vicini all’Equatore, l’inverno del mondo aveva raggiunto anche loro e il castello non era mai stato un luogo simbolo di tepore.

 

“Come nostra madre, intendo.” –Aggiunse, mettendosi a sedere e studiando la reazione della sorella. –“Ben pochi ricordi ho di lei, morta quando ero bambina, ma in quei pochi la rammento vicina al fuoco, intenta a cucinare o a rattoppare i nostri abiti e quelli di nostro padre, che consumava lavorando nelle cave di rena rossa.”

 

Morgana assentì, senza dire altro. Non c’era bisogno, in fondo, di aggiungere alcunché. Sapevano entrambe cos’era accaduto in seguito, dopo che l’uomo che le aveva generate era rimasto invalido in un incidente in miniera. Era ricaduto su di lei, la figlia maggiore, l’onere di sfamare la famiglia e aveva scelto la sua strada. Accattona, ladra, un giorno corsara, era divenuta quello che era senza rimpianti.

 

“Non avrei mai creduto di rivederti! Non in questa vita, almeno!”

 

Neanch’io lo avrei creduto! Ed in effetti è stata una casualità, un gioco del destino, a farci incontrare di nuovo!” –Commentò la donna dai capelli blu, raccontando come l’aveva trovata. –“Mi trovavo in Nord Europa, sulla via del ritorno dopo aver concluso certi affari che non mi perito di raccontarti, quando percepii un debole cosmo conosciuto. Fu una sensazione strana, all’inizio, perché non riuscivo a capire cosa fosse questo fuoco che un tempo mi aveva scaldato il cuore. Poi compresi, eri tu che stavi morendo! Giungemmo in tempo per recuperarti dal mare. Come una naufraga moribonda, ti eri afferrata a un pezzo di legno e non volevi mollarlo più, il tuo scoglio salvatore. Quando ti issammo a bordo eri fredda come la morte, vicina all’ipotermia, di sicuro. Non fu facile scaldarti, ma il cosmo serve anche a questo, no? A irrobustire una persona!” –Sospirò infine, alzandosi e poggiando una mano sulla spalla della sorella. –“Sono lieta che tu ti sia salvata! Sentiti libera di rimanere finché non avrai recuperato le forze, fin quando non sarai in grado di andartene da sola. Ho una barca soltanto, e mi serve, per cui dovrai trovare un modo, ma sono certa che l’inventiva non ti manca, sorella!”

 

Tisifone scosse la testa, sentendola parlare in quel modo. Così lontano e diverso dal tono affettuoso con cui le si rivolgeva quando era bambina. Fece per replicare, ma si trattenne, vedendo un riflesso di luce scintillare sul volto della donna, prima che questa lo spazzasse via, pulendosi la guancia e cancellando quell’unica lacrima.

 

“Avete bisogno di me, mia signora?” –Esclamò allora una ruvida voce maschile, anticipando l’entrata nel salone di un giovane dai capelli neri. Alto e ben piazzato, indossava un’aderente armatura bianca e nera, con guizzanti pinne posizionate ai lati delle braccia e delle gambe. Non portava elmo, permettendo a Tisifone di riconoscerlo.

 

Lo aveva visto una volta sola, anche se all’epoca era solo un adolescente, quando il precedente Gran Sacerdote lo aveva bandito, assieme ai suoi compagni, condannando i loro gesti di pirateria.

 

“Non al momento, Delfino, ma apprezzo la tua premura! Rimani a disposizione, comunque, qualora mia sorella richieda assistenza!” –Non disse altro e se andò, lasciando Tisifone nel salone assieme al nuovo arrivato.

 

“Anche tu ti sei salvato, dunque?”

 

“Dalla carica di Pegasus e dei suoi compari?! Più per indolenza che per merito!” –Rise Delfino. –“Caddi da una rupe e mi troncai un braccio e una gamba. Un vero Cavaliere non si sarebbe comunque arreso, si sarebbe arrampicato lo stesso, a mani nude, incurante del dolore e della fatica. Ma probabilmente quel titolo non mi è mai appartenuto. Strisciai fino ad una caletta, aspettando che la notte passasse, che qualcuno dei miei compagni, forse la mia regina, venisse a salvarmi. Tentai persino di usare il cosmo per curare la ferita, ma non avendolo mai destinato ad un simile uso fallii. L’alba mi sorprese a invocare la morte, tremante di freddo e paura per il destino di solitudine che mi attendeva. E fu allora che lo sentii… un cosmo caldo come mai l’avevo percepito prima. Mi invase, fuoriuscendo dal mio cuore e donando affanno al mio corpo spezzato, permettendomi di tornare a camminare. Uscii allora dal mio rifugio, inerpicandomi fino al castello, dove trovai Morgana ferita, ma ancora viva. Anch’ella, mi confidò, era stata lambita da quell’improvvisa energia. Chiunque fosse stato a salvarci la vita, ci aveva scaldato il cuore, così ci sforzammo nel migliorare la nostra esistenza, abbandonando la pirateria e dedicandoci ad una vita semplice, come pescatori, su quest’isola. Fummo raggiunti in seguito da altri Cavalieri disonorati, reietti come noi che non avevano mai avuto la determinazione di lottare per Atena fino in fondo. E li accettammo, permettendo alla nostra colonia di prosperare.”

 

“Per quale motivo non siete tornati ad Atene? Saprete di certo che Arles è caduto e da un anno e mezzo la vera Atena impera sul Grande Tempio!”

 

“Per fare cosa? Implorare il perdono divino? Ah ah ah! Sarebbe troppo umiliante, oltre che inutile! Atena non potrebbe mai graziarci! Faremo privata ammenda per le nostre colpe. Un po’ lo stiamo già facendo, nel nostro piccolo. Non so cosa vi abbia raccontato, ma la verità è che eravamo andati in Scandinavia per portare aiuto alle popolazioni in difficoltà, alle navi che non riuscivano a rientrare in porto. A vostra sorella non piace parlare di sé, di questa nuova versione nata dopo la sconfitta per mano di Pegasus. Non so perché, probabilmente teme di non sentirsi degna della vostra fiducia. Timore che non ha motivo di esistere, dato che Morgana vi ha salvato, donandovi tutto il suo cosmo! Non siete stata l’unica, Tisifone, a giacere incosciente per un paio di giorni, al confine tra vita e morte.” –Chiarì Delfino, mentre gli occhi del Cavaliere d’Argento si riempivano di commozione, confermando un sospetto preesistente.

 

Un guizzo veloce attirò la sua attenzione, permettendole di vedere Morgana scagliarsi con forza contro l’uomo, fino a sbatterlo al muro, per poi schiaffeggiarlo furiosa.

 

“Devo tagliarti la lingua, Delfino? Non credo che ti serva, in fondo, per nuotare!”

 

Per… donatemi, mia regina! Stavo soltanto ragguagliando vostra sorella sul nostro nuovo stile di vita!” –Si limitò a scusarsi il Cavaliere, mentre Tisifone si alzava, ordinando loro di smetterla.

 

“Siete Cavalieri di Atena anche voi! Che lo vogliate o meno! Non potete averlo dimenticato! Anzi, in fondo al cuore sono certo che lo sappiate! E il fatto che le armature non vi abbiano ancora abbandonato lo testimonia!”

 

“Sciocchezze! Mica sono esseri senzienti, le corazze!” –Bofonchiò Morgana, lasciando comunque Delfino libero dalla sua stretta.

 

“Ti sbagli! Un’armatura sente colui che la indossa, aiutandolo e donandogli energia quando la sua causa è nobile e valida, oppure abbandonandolo quando questi sceglie la via dell’ombra, come accadde al bieco Cancer! Inoltre… non sono soltanto le armature a riporre fiducia in voi… anche la Dea!”

 

Che… stai dicendo?!”

 

“Quello che sai, da mesi ormai! È stata Atena a salvarvi la vita, perdonando i vostri peccati e accettandovi tra le fila dei suoi combattenti! Come fece con Gemini e con Kanon lo scorso anno! E, nel piccolo anche con me, rea di non averla riconosciuta a suo tempo, e di aver persino levato la mano su di lei!”

 

“È assurdo! Non ci credo! Non ha senso!!! Per quale motivo Atena dovrebbe averci perdonato? Noi che abbiamo infangato il suo buon nome con turpi azioni?!”

 

“Per darvi una seconda possibilità! Questo è quello che fa la Dea, con tutti noi! Ci permette di ricominciare! Atena crede nella grandezza del genere umano, malgrado tutto!”

 

Per qualche minuto nessuno parlò, riflettendo tutti sulle parole di Tisifone. Difficili da accettare, ma forse in linea con il pensiero della Dea. Se così fosse… Se Atena ci avesse davvero perdonato… Mormorò Morgana, chiudendo il pugno, inebriandosi di quell’illusione. Ma poi scosse la testa, considerandola per ciò che era, e nulla più.

 

Rumore di passi improvvisi risuonò nel castello, anticipando l’entrata nel salone di un ragazzo dai folti capelli rosa. Indossava un’armatura rossa, con delle catene attorcigliate attorno ai bracciali, ed aveva il volto trafelato e lo sguardo scioccato.

 

“Morgana! Perdonate l’intrusione! Ma un branco di cormorani è appena arrivato dalle Canarie, portando notizie incredibili!!!”

 

“Sta’ calmo, Reda! Cos’è accaduto? Quali notizie portano i nostri amici uccelli?”

 

“Qualcosa è comparso al largo delle coste africane… qualcosa che non dovrebbe esistere… Un’isola… enorme!”

 

***

 

Quando Tirtha aprì gli occhi, notò le onde ritirarsi dal pavimento di scogli. Aveva le vesti bagnate e sentiva freddo, eppure qualcuno le aveva messo una coperta addosso, sistemandogliela alla meno peggio per ripararla dalla brezza della sera. Si voltò a fatica, lamentando dolore alla schiena e soprattutto alla testa, e vide le sbarre di fronte a lei. Stordita, non capendo dove si trovasse, le afferrò e fece leva per tirarsi su, ma, ancora troppo debole, fallì e cadde avanti, sbattendo la testa contro una sbarra.

 

“Stai attenta! Ti sei appena ripresa!” –Commentò una voce maschile, attirando la sua attenzione.

 

Tirtha si voltò e notò un trentenne dai capelli castani e dagli occhi verdi fissarlo con sguardo apprensivo, affiancato da una figura con una maschera eburnea sul volto.

 

“Sta bene? È in sé?” –Domandò quest’ultima, permettendo a Tirtha di capire che si trattava di una donna.

 

“Credo di sì!” –Annuì Ioria, che aveva percepito la scomparsa del cosmo d’ombra dal corpo del discepolo di Virgo. –“Tirtha, ti ricordi di me? Sono Ioria del Leone, Cavaliere d’Oro di Atena! Sei nella prigione di Capo Sounion, per la tua sicurezza! Ma, se mi aiuti a capire, potrai uscire molto presto!” –Aggiunse, ricapitolando alla ragazza tutto quello che era accaduto, focalizzandosi soprattutto sulla sua possessione da parte dell’ombra. –“Ricordi cosa è accaduto?”

 

Io… non ricordo… mi duole la testa…” –Mormorò, tenendosi il cranio con entrambe le mani.

 

Ioria annuì, prima che Yulij gli passasse una ciotola con alcune fette di pane con olio spalmato sopra e una fiaschetta con dell’acqua. –“Tieni. Mangia qualcosa, non so da quanto tempo non ti nutri… di vero cibo, quanto meno!”

 

La Pellegrina accettò con timore quel gesto, divorando in fretta il pane e prosciugando la borraccia, cercando al tempo stesso di riordinare i caotici pensieri che le riempivano la testa, portandola ad un passo dall’esplosione.

 

Ricordo… l’ombra… L’ho sentita in me, una strana inquietudine, qualche giorno fa, mentre osservavo le stelle da una torre di Angkor. Era come… un seme, che velenoso cresceva dentro me. Straziata, ho valutato anche di gettarmi di sotto e affogare nei fossati del tempio, per non fare del male a nessuno!”

 

“Lieto che tu non l’abbia fatto!” –Le sorrise Ioria.

 

“Avrei dovuto! Avrei dovuto, invece!!!” –Singhiozzò lei, coprendosi il volto con le mani. Quelle stesse mani con cui riteneva di aver ucciso Pavit.

 

“Cos’altro ricordi? Dopo aver lasciato Angkor immagino tu sia venuta ad Atene.”

 

“Sì! Atene! Io… sono andata dal mio maestro, perché sapevo che mi avrebbe aiutato, che mi avrebbe donato la pace… però… Aaargh!!!” –Gridò, strappandosi i capelli, in preda a un’isteria improvvisa che spaventò anche Yulij, per quanto Ioria le dicesse di rimanere calma e concentrata. –“Il sangue, le grida, gli artigli di tenebra, il cuore di Pavit… io… l’ho stretto in mano… io sono un mostro!!! Devi uccidermi!!! Voi dovete uccidermi!!!” –Strillò disperata, afferrando le sbarre e incastrandovi la testa in mezzo, con le lacrime che le rigavano il volto.

 

“La luce del mio fulmine ha incenerito l’ombra annidata nel tuo cuore. Ma tu e tu soltanto puoi fronteggiare i ricordi!” –Le parlò Ioria, espandendo il proprio cosmo e avvolgendola, per donarle momentaneo tepore. –“So bene quanto possano fare male, quanto il passato a volte possa uccidere più del presente! Ma solo tu puoi donare pace a te stessa, accettando quanto è accaduto!”

 

Tirtha non disse niente, limitandosi a scivolare lungo le sbarre, rannicchiandosi sotto la coperta, tremando di freddo e paura, non desiderando ricordare più. –“Non voglio più vedere!!!” –Commentò, agitando la mano davanti al viso. –“Non voglio più vederlo… morire!!!” –Aggiunse, esausta. E a Ioria e a Yulij sembrò che avesse perso i sensi.

 

Si guardarono sospirando, prima di voltarsi e incamminarsi verso il Grande Tempio, convinti che non vi fosse altro da fare per il momento, quando uno strillo improvviso li richiamò.

 

“L’ho visto!!! Io l’ho visto morire!!! Pavit!!! Lui è caduto… davanti a me!!!”

 

Co… come?!” –Rifletté Ioria, spingendo la ragazza a un ultimo sforzo, a ricordare ora. E intuendo al tempo stesso quello che stava cercando di dire.

 

“Lui mi ha detto di ucciderlo!!! Lui mi ha ordinato di farlo!!! Ma io non l’ho fatto!!! Non potevo! Io… lo amavo…” –Singhiozzò Tirtha, mentre Ioria si chinava su di lei, di modo che soltanto lui potesse udire le sue parole. Le afferrò la fronte con la mano, donandole ancora un po’ di calore e aiutandola a vincere quell’ulteriore resistenza con cui qualcuno aveva manovrato la sua mente.

 

“Cos’è accaduto alla Sesta Casa, Tirtha? Chi ha ucciso Pavit?”

 

“Lui! è stato lui!” –Sibilò la ragazza, gli occhi iniettati di sangue. –“Il Cavaliere di Virgo!!!”

 

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Capitolo 24
*** Capitolo ventiduesimo: L'urlo di guerra ***


CAPITOLO VENTIDUESIMO: L’URLO DI GUERRA.

 

A-la-la!!!”

 

Il grido smanioso della Regina delle Makhai rimbombò per l’intero Cerchio di Marte, scuotendolo in profondità e infoiando l’animo delle Androctasie e dei Phonoi che avevano seguito la figlia di Polemos oltre il muro da lei abbattuto. Di fronte a tale devastazione, a tale sovvertimento dell’ordine che strideva con la ben assettata marcia cui finora erano stati costretti, la progenie di Eris esplose in urla concitate, dirigendo continui e pressanti attacchi contro il Custode del Quarto Cerchio. Il cerchio del Pianeta Rosso.

 

Rosso come il sangue e come il fuoco. Rifletté Andromeda, guardandosi attorno e riconoscendo che erano appunto questi gli unici elementi che risaltavano in quella caotica massa di combattenti. Il sangue divino della discendenza di Discordia, che ruscellava sul brullo suolo lunare, e i roghi che divampavano ovunque, accendendosi ogni qual volta un nemico veniva sconfitto. Chiaro e tangibile segno di vittoria che il Selenite di Marte voleva mostrare a chiunque tentasse di superarlo.

 

Sin…” –Mormorò il Cavaliere, osservandone l’elegante sagoma dai capelli blu camminare a mezz’aria su un oceano di fiamme che senza sosta aizzava contro gli avversari.

 

“Se così tanto ti affascina il fuoco, ti ci rosolerò ben bene, mio delizioso agnellino! Dopo averti dilaniato le membra con le mie urla e scuoiato con i miei unghioni!” –Affermò Alala, piombando su di lui e muovendo le braccia ad altissima velocità, obbligando il ragazzo a balzare indietro. Senza dargli neppure il tempo di sollevare le catene difensive, la Regina delle Makhai rinnovò il suo assalto, scaricando pericolosi fendenti energetici che stridevano sulla lucente corazza di Andromeda, tra scintille e gemiti di fatica.

 

“Ora basta!!!” –Strillò il Cavaliere, liberando la guizzante arma che si moltiplicò in numerose copie, puntando su Alala da molte direzioni. –“Onde del Tuono! Colpite!”

 

Le catene mirarono leste al cuore della Signora della Guerra, che saltava di lato in lato per evitarne le temibili punte, senza esserne troppo impensierita. Tra un balzo e l’altro, trovò comunque il tempo di farsi una risata, sadica e sanguigna, con quel tono di voce pungente da cui Andromeda era stato fin dall’inizio infastidito. Quasi ne percepisse il disagio, Alala spiccò un salto, anticipando l’affondo della catena d’attacco e usandola poi come leva per balzare ancora più in alto, portandosi proprio sopra il Cavaliere di Atena, avvolta in una nube di cosmo.

 

“Resta là, in basso, e odi l’acuto imperiale che nessuna difesa può contrastare! Cadi, Andromeda, sotto le note del Grido di Guerra!!!”

 

L’attacco sonico travolse le catene del ragazzo, sparigliandole e rendendole inutili, mentre l’intero suo corpo veniva schiacciato a terra, sprofondando in una conca di sabbia, sottoposto a un’indicibile pressione che sembrò togliergli il fiato.

 

Ouff!” –Mormorò il Cavaliere, respirando a fatica, mentre l’assalto scemava di intensità e Alala atterrava poco distante da lui, sul bordo del cratere ove aveva schiantato il suo avversario. Andromeda si sollevò di scatto, disponendo le catene in modalità difensiva, immaginando che la seguace di Ares fosse in procinto di scattare su di lui per dargli il colpo di grazia, invece, stupendosene, la trovò intenta a fissarlo. Con quello sguardo maligno che aveva visto volgere anche a Thot e agli altri al Quinto Cerchio, condito adesso da una stilla di curiosità.

 

“Sei una delusione anche tu!” –Commentò Alala, soffiando indietro un ciuffo dei suoi lunghi capelli rossicci che il sudore le aveva incollato alla fronte. –“Dopo il patetico Dio che si vantava di proteggere il Cerchio di Giove e i due adolescenti in pubertà improvvisatisi guerrieri, speravo di trovare ben più ragguardevole avversario in te, il Cavaliere di Andromeda, membro della gloriosa squadra che ha sconfitto Nettuno, Ade, Crono e messo in difficoltà persino Sua Tronfiezza Ares! E invece mi ritrovo l’ennesimo ragazzino indeciso che non sa combattere! Umpf, invidio i Phonoi che almeno, da quel che vedo, hanno incontrato un vero guerriero!”

 

“Non sono più un ragazzino e l’indecisione l’ho messa da parte tempo addietro, Regina delle Makhai, quando ho compreso che i miei dubbi non avrebbero giovato alla causa per cui combatto!”

 

“E sarebbe?”

 

“Garantire amore e giustizia sulla Terra, concretizzando gli ideali di cui Atena è portatrice!”


“Ah ah ah! Sciocchezze di proporzioni cosmiche! Te l’ho detto, non sai combattere! Torna a casa, gentil donzella! Non puoi essere un guerriero se la guerra non ti piace e vi prendi parte solo perché devi! Guarda me, ammira la mia potenza, piegati di fronte alla devastazione che solo il suono della mia voce genera in coloro che ardiscono sfidarmi! Guardami, e poi muori, Cavaliere!!! Grido di Guerra!!!” –Avvampò Alala, mentre violente onde soniche sfrecciavano verso Andromeda, sollevando sabbia e pezzi interi di suolo lunare, obbligando il paladino di Atena a coprirsi gli occhi con una mano, mentre già con l’altra aveva scatenato la catena difensiva.

 

Il turbinare dell’arma lo protesse dall’assalto, ma non poté impedirgli di essere spinto indietro, tanto violento e furibondo era l’urlo di Alala. Tanto sentito! Rifletté Andromeda, intuendo che fosse quello il segreto della sua forza. La Regina delle Makhai, come tutte le sue sottoposte, nella guerra ci credeva davvero! Non in quella battaglia particolare, che forse non era neppure la più esaltante che avessero combattuto dal Mondo Antico ad oggi, ma nel cozzare esaltato di cosmi e vite. La guerra era tutto ciò che perseguivano, con la stessa motivazione con cui i Cavalieri dello Zodiaco lottavano per la pace e la speranza di un futuro sereno. Come poteva, quindi, lui che aveva sempre dovuto combattere, più che voluto, opporsi a così tanto fervore bellico? A così tanto piacere distruttivo?

 

La risposta gli venne spontanea, senza bisogno di riflettere troppo. Sospirando, mosse il braccio e scatenò le Onde del Tuono, obbligando Alala a balzare indietro, vicino al varco nel muro crollato che conduceva ai cerchi successivi, dove i suoi amici stavano lottando. Gli bastò pensare a loro, a suo fratello, agli insegnamenti del suo maestro e alle esperienze passate, e tutto il resto nacque da sé.

 

“Non posso! Ma devo!” –Ammise, espandendo il cosmo. –“E forse, in fondo, lo voglio! Sì, se davvero la guerra è l’unico modo per rispondere alla guerra! Se davvero è l’unico modo per proteggere i deboli e gli innocenti!”

 

L’esplosione del cosmo di Andromeda rischiarò il Cerchio di Marte, facendo ruzzolare Alala di qualche metro a terra, ma questa subito si riscosse, scattando avanti, proprio mentre il Cavaliere le dirigeva contro migliaia di strali avvolti in scariche energetiche. Non vista, però, un’ultima catena si insinuava silente nel terreno accanto ad Andromeda, scavando un solitario percorso verso l’avversario.

 

“Mi fa il solletico la tua arma!!!” –Ringhiò Alala, sferzando l’aria con i suoi unghioni energetici e tenendo lontane le molteplici punte perigliose. Tutta presa a contrastare l’assalto frontale, non s’avvide la Regina d’un guizzo di luce che scaturì dal suolo sotto i suoi piedi, una catena che vorticò rapida attorno al suo corpo, avvolgendola in una stretta spirale. –“Che… cosa?!”

 

“Non il più ciarliero è il guerriero vincitore!” –Commentò Andromeda, strattonando l’arma e sbattendo Alala a terra.

 

Sputando sabbia e sangue dal labbro inferiore, la Dea faticò nel rimettersi in piedi, fulminando il Cavaliere con uno sguardo furibondo, salvo poi esplodere in una verace sghignazzata. –“Mal ti giudicavo, a quanto pare! Mi hai sorpreso, te ne do atto! Mai nessuno era riuscito a fermarmi, sia pur con un trucchetto truffaldino! E ora vuoi sbrigarti a tagliarmi la testa o pensi di aspettare che l’esplosione del mio cosmo disintegri questo tuo catenaccio per cani rabbiosi?!”

 

“Taci, serpe maligna devota alla guerra!” –Esclamò Andromeda, mentre folgoranti lampi di energia pervadevano la catena, diffondendosi poi lungo tutto il corpo della figlia di Polemos e strappandole un silenzioso vagito di dolore.

 

“Ah ah ah! Queste patetiche espressioni di quella che tu definisci violenza, e che per me nient’altro è se non un vacuo pizzicore, non fanno altro che eccitarmi! Sì, mi stimolano… a gridare!!! A-la-la!!!” –Tuonò, liberando un suono così acuto e frastornante che il Cavaliere dovette portarsi le mani alle orecchie, disturbato e ferito.

 

La Dea approfittò di quel momento per corrergli addosso e spingerlo a terra con una violenta spallata, che gli fece persino perdere l’elmo dell’armatura, prima di iniziare a tempestarlo di calci, per quanto limitati potessero essere i movimenti delle sue gambe, ancora strette nella catena.

 

“Una furia… che non può essere placata… ciò è evidente… Una sete inestinguibile di guerra…” –Mormorò il discepolo di Albione, recuperando la presa sulla sua arma e liberando una poderosa scarica di energia rosata, ben più intensa delle precedenti, che percorse Alala da capo a piedi, incendiandole persino ciuffi di capelli. Ma neppure quella volta la suprema Makhai gemette, eccitata a dismisura dallo scontro in atto. Fece per dischiudere le labbra e travolgere Andromeda con una nuova onda sonica, quando un corpo balzò all’improvviso sulla sua schiena, gettandola a terra e tappandole la bocca con una mano intrisa di rovente energia. –“Ma tu…?”

 

“Affrettati, Cavaliere di Atena! Ogni secondo che passi a trattenere la tua forza, a interrogarti sui perché e i per come che determinano le guerre nel mondo, è un’occasione che offri al nemico per riportare vittoria su di te! Vittoria che, per quel che mi è dato vedere, non è poi così distante!”

 

Sin…” –Commentò Andromeda, distogliendo lo sguardo da quello gelido del Selenite di Marte.

 

“Potrei ucciderla adesso, riempiendole le viscere di fiamme e osservarla compiaciuto mentre arde dall’interno!” –Disse quest’ultimo, mentre il palmo della sua mano si illuminava di una luce rossastra, che dovette ferire Alala, che iniziò a dimenarsi sotto di lui, gli occhi per la prima volta saturi di lacrime di terrore. –“Non sarebbe una morte immediata, richiederebbe qualche secondo, forse un minuto intero, ma sarebbe divertente! E appagante!” –Aggiunse, quasi con un sussurro.

 

“Ti prego, non farlo!” –Lo chiamò Andromeda, senza che questi riducesse l’intensità della propria fiamma, limitandosi a chiedergli una spiegazione.

 

“Perché non vuoi che uccida questo nemico, che così tanta devastazione e morte ha causato al Reame della Luna Splendente? Perché Andromeda non sei uomo abbastanza per vincere le tue remore? Cosa dovrebbe accadere affinché tu ti svegli? Che ti portino la testa di tuo fratello?!”

 

Il Cavaliere di Atena non rispose alcunché, inghiottendo a fatica, mentre Sin balzava indietro, liberando infine Alala dal suo peso e permettendole di tornare a respirare. Osservandola meglio, mentre affannava nel rimettersi in piedi, Andromeda notò che aveva le labbra e parte del viso ustionato.

 

“Spero per te che quel momento non arrivi, Cavaliere di Atena!” –Chiosò Sin, prima di riportare lo sguardo sul mucchio di Phonoi e Androctasie ancora vivi, prigionieri di una gabbia di fuoco che il Selenite aveva evocato pochi attimi prima di intervenire nello scontro di Andromeda. –“Ma se dovesse accadere, tu solo ne saresti responsabile!”

 

Io… so che devo ucciderla, perché non accetterà mai una sconfitta! Solo non voglio che sia una tortura, bensì un estremo atto necessario!”

 

“Questa si chiama pietà! Ed è ciò che distingue le Divinità dagli esseri umani! Noi non proviamo emozioni, poiché provandole saremmo al pari degli umani! E io non voglio esserlo! No, io sono un Dio e come tale sono superiore! Ma tu e i tuoi compagni, che avete risvegliato il Nono Senso, siete degli umani ascesi al cielo degli Dei! Adesso dovete scegliere ciò che volete essere, non potete rimanere in mezzo a due mondi! Poiché presto entrambi collasseranno e voi dovrete sapere dove e per chi combattere!” –Affermò deciso il Custode del Cerchio di Marte, prima di allontarsi e tornare a fronteggiare i suoi avversari.

 

“Fa anche il sapiente, quel bel combattente! Mi dispiacerà quasi cavargli gli occhi!” –Ringhiò Alala, ormai rimessasi in piedi. –“Quando avrò finito con te!”

 

“Tu non farai più male a nessun…” –Esclamò Andromeda, prima di vacillare all’improvviso, forzandosi a poggiare un ginocchio al suolo per non crollare e avendo cura di stringere ancora la catena tra le mani, per non lasciare la Makhai libera di agire.

 

“Oh, ti fa male la testa, bel bambino?” –Ridacchiò quest’ultima, in maniera sguaiata. –“Lascia che la mamma ti dia un bacino!” –Aggiunse, alzando il tono della voce, sì da prostrare di nuovo Andromeda a terra. –“Nausea, vertigine ed emicrania sono i sintomi immediati di chi è a lungo esposto ai suoni da me generati! Cos’è? Credevi di esserne immune? O credevi che soltanto nelle grida infoianti fosse il mio potere? Se così pensavi, allora eri in errore, Cavaliere! Errore che adesso pagherai con la vita!”

 

Il paladino di Atena scosse la testa, per cacciar via quei suoni malefici, ma non riuscì a togliersi la voce di Alala dalla mente. La sentiva rimbombare dentro di sé, saturando ogni organo interno, stordendolo e indebolendo i suoi riflessi. Riuscì comunque a percepire l’avanzata della Makhai, prima ancora che quest’ultima muovesse un piede, fermandola di scatto, muovendo la catena a guisa di tagliola e sbattendola di nuovo a terra. Fu un riflesso condizionato, si chiese, o forse in quel momento di pericolo aveva fatto buon uso del dono di Biliku, come Arvedui gli aveva insegnato?

 

Non seppe rispondersi che già Alala era di nuovo in piedi, il cosmo che ardeva incandescente, la bocca spalancata in un grido di sfida. Andromeda percepì la forte tensione che correva lungo la catena di difesa e temette quasi di vederla andare in frantumi di fronte ai suoi occhi. Così, nonostante lo stordimento dei sensi, mosse svelto anche l’altra catena, avvinghiandola attorno alla Makhai in modo da fermarla dentro una gabbia trapezoidale, bloccando definitivamente ogni suo movimento.

 

“Astuto!” –Commentò la Dea, concedendosi però un sogghigno perverso. –“Ma a meno che tu non mi tappi la bocca con un bacio, a ben poco servirà! A-la-la!!!”

 

Il grido di guerra distrusse i timpani di Andromeda, prostrandolo a terra, mentre il cosmo dell’oscura Regina permeava l’aria, obbligando le catene ad uno sforzo immane per non essere sradicate dal suolo e disintegrate.

 

Male… dizione… E’ come contro Mime e Syria! Non c’è modo di fermare questi suoni demoniaci! Capitolò il Cavaliere, tenendosi la testa con ambo le mani, quasi sul punto di impazzire.

 

“E invece c’è! Basta semplicemente che tu non ascolti!” –Parlò allora Sin, intento, a una ventina di metri di distanza, a fronteggiare l’ultimo assalto dei Phonoi.

 

Co… cosa?! Non è possibile! Le onde sonore possono arrivare dappertutto!”

 

“Idiozie! Puoi farlo, Andromeda! Anzi devi farlo se vuoi vincere! Io lo faccio! Sempre!”

 

“Come?!”

 

“Concentrati! Focalizza il tuo cosmo sull’obiettivo ultimo della battaglia ed escludi tutto il resto! Rifiuta tutto il resto! Solo allora smetterai di udire la voce del tuo nemico, le sue provocazioni, lo scherno! Sorretto dall’unica fede in cui merita credere, lascia che il tuo cosmo arda fiammeggiante, espressione della fiducia in te stesso e nella tua vittoria! È questo che io, Sin, faccio sempre! Vinco!!!” –E nel dire ciò, il Selenite di Marte volse il palmo della mano destra contro i Phonoi, generando una devastante esplosione di magma ardente che ne annientò una decina, scagliando le loro membra incendiate contro i compagni titubanti.

 

“Incredibile!” –Balbettò Andromeda, percependo nel Custode del Cerchio di Marte una vigorosa energia, che in ben poche Divinità aveva riscontrato. –“Se sei così forte perché non sei intervenuto in aiuto degli altri Seleniti? Ne avrebbero avuto bisogno!”

 

Aiutarli? E perché mai avrei dovuto? Un guerriero che non è in grado di combattere da solo, per difendere la propria terra, non è degno di dirsi tale e merita di essere sconfitto. Con i vinti, Sin degli Accadi non ha niente a che spartire! Perciò, se non vuoi essere considerato tale, sbrigati a terminare il tuo avversario, prima che sfoderi qualche nuovo trucco con cui piegarti!” –Affermò serio, prima di interrompere la comunicazione telepatica con il Cavaliere e lasciare che un muro di vivide fiamme sorgesse tra loro, a rimarcare i propri campi di battaglia.

 

Approfittando di quel momento, Alala aveva radunato le forze, decisa a liberarsi da quella prigionia metallica. Per quanto il fuoco di Sin le avesse ustionato la bocca, incenerendole persino un pezzo di lingua, e il solo parlare le generasse spasimi mai provati fino a quel giorno, non aveva intenzione di farsi vincere in quel modo. Non da quell’efebico ragazzino in armatura rosa che non amava combattere. No, se fosse caduta, se un giorno le sue spoglie avessero dovuto tornare a calcare la desolazione del Tartaro, sarebbe dovuta morire in una battaglia all’ultimo sangue contro un vero guerriero, magari il giovane dai capelli blu che così tanto la disprezzava.

 

“Questo scontro termina adesso, Andromeda! Di ben altra compagnia ho bisogno per trovare appagamento!!! A-la-la!!!” –Gridò la figlia di Polemos, scatenando un’onda di energia sonica che smosse il terreno di fronte a sé, facendo oscillare persino le catene che la tenevano prigioniera, prima di dirigersi su Andromeda.

 

Ma, con sommo stupore, la Dea dovette osservare il disperdersi del proprio assalto, che per la prima volta non aveva raggiunto il bersaglio, rallentato, vinto e infine disperso da una nebbia rosacea che il Cavaliere di Atena aveva sollevato di fronte a sé. Un bizzarro muro di energia che aveva neutralizzato le onde soniche.

 

“Cosa diavolo è quella nebbia?!”

 

“Energia allo stato puro, Alala! Il mio potere segreto!” –Commentò Andromeda, in piedi di fronte a lei, gli occhi socchiusi, il respiro calmo, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Una posizione necessaria per liberare la mente e raccogliere tutte le proprie energie, imbrigliandole in un utilizzo diverso dal solito devastante attacco.

 

Corrente della Nebulosa!” –Mormorò infine, aprendo gli occhi e permettendo ad Alala di vedere più chiaramente un vorticare di evanescente energia rosa attorno al corpo del ragazzo, una cortina protettiva che andava facendosi sempre più spessa. –“Sin ha ragione! Non devo permettere alle mie emozioni di intralciarmi! Questo non significa che sono disposto a diventare una bestia da guerra come te, ma conservando lucidità e occhio clinico ho capito che la capacità dei tuoi assalti di andare a segno è dovuta in parte allo stordimento che la tua voce genera negli avversari! Se fossi riuscito a escluderla, ho pensato, avrei avuto un attimo di tempo in più per fermare l’avanzata dell’onda energetica che accompagna sempre le tue strida!”

 

“Piuttosto interessante… Pur tuttavia come pensi di vincermi, restando celato dietro la tua foschia rosata? Ah ah ah! Ti risparmio la fatica di pensarci!” –E, nel dire ciò, Alala espanse al massimo il proprio cosmo, sradicando le catene di Andromeda dal suolo lunare, pervadendole con una devastante energia che le scheggiò in più punti, schiantando alcuni anelli e portandola ad un passo dalla liberazione.

 

“Come poc’anzi ti ho detto, questa era solo la corrente della mia nebulosa! La fase iniziale! Ora conoscerai l’impeto della tempesta, impeto che neppure il tuo Grido di Guerra può eguagliare!!!” –Esclamò fiero il Cavaliere, portando avanti il braccio destro e scatenando il suo massimo colpo segreto. –“Nebulosa di Andromedaaa!!!”

 

In quell’esatto istante il ragazzo tolse forza alle catene, permettendo ad Alala di liberarsi, giusto in tempo per essere investita in pieno dalla bufera energetica che la scaraventò in alto, sballottandola più volte, spaccandone l’armatura, fino a schiantarla infine a terra, in un cratere profondo il doppio rispetto a quello che aveva ospitato Andromeda poco prima.

 

Ansimando per lo sforzo, ma finalmente libero da quel fastidioso eco nelle orecchie, il Cavaliere crollò sulle ginocchia, respirando a fatica e chiedendosi, come ogni volta in cui aveva ucciso qualcuno, se quella fosse davvero stata l’unica via. O se non avesse potuto esserci un sentiero che non era stato in grado di battere. Se lo era sempre domandato, anche contro i nemici più crudeli e sanguinari, persino contro Phobos e Fenrir, convinto, in fondo al suo buon cuore, che tutti alla fin fine fossero vittime, che tutti fossero schiavi della guerra, un’entità crudele a sé stante che giocava con le vite di uomini e Dei piegandoli al suo volere.

 

Avrebbe voluto chiedere a Sin cosa ne pensasse, sebbene già ne intuisse la risposta, quando il sollevarsi di un turbine di sabbia attirò la sua attenzione. Al centro del cratere scavato poc’anzi Alala si era rimessa in piedi, i lunghi capelli rossicci sospinti dal vento, simili a serpenti di fuoco le cui fauci nient’altro desideravano se non affondare nel delicato corpo del Cavaliere di Atena.

 

“I miei complimenti! Pare che tu abbia tirato fuori la tua virilità, infine!” –Commentò la Dea, uscendo dal buco nel suolo, l’armatura danneggiata e sporca di grumi di sabbia e ichor che mai aveva ruscellato fuori da quel muliebre corpo. –“Il Nono Senso… lo padroneggi ormai! E questo ci rende quasi pari!”

 

Alala…” –Mormorò Andromeda, tradendo un’espressione incredula e sgomenta, che la Regina delle Makhai non vide o non volle vedere, troppo presa a radunare il suo possente cosmo divino.

 

“Hai scelto di attaccarmi usando il tuo colpo migliore, non ti meravigliare se altrettanto farò io, adesso!” –Spiegò, sollevando le braccia in chiara posa offensiva. –“Non lo usavo da tempo, dall’era delle prime guerre tra Dei, successive all’evirazione di Urano! Sentiti degno di questo privilegio, Cavaliere, sentiti degno di essere definito un avversario, per me!” –Sogghignò Alala, prima di generare una sfera di energia tra le mani, una sfera che andò ingigantendosi sempre più, fino ad avvolgere l’intero corpo della Regina. –“Addio Andromeda! Che la mia voce ti accompagni lungo i gradini che conducono agli inferi! Arringa finale!!!”

 

Quasi intuendo quel che sarebbe accaduto, il Cavaliere dello Zodiaco balzò indietro, quel tanto che gli consentì di evitare di essere disintegrato dalla poderosa massa di energia che sfrecciò verso di lui, fagocitando in fretta il terreno tra i due contendenti. Andromeda mosse d’istinto le catene, per rallentarne la corsa, ma nessuna configurazione si rivelò efficace, venendo distrutte una dopo l’altra; tentò allora di sollevare il muro difensivo che aveva sperimentato poco prima, ma l’enorme velocità dell’attacco gli impedì di portare a compimento il suo proposito, venendo investito dalla marea energetica e spinto indietro. Di quanto non seppe dirselo, sentì solo il corpo schiantarsi contro una dura superficie e la corazza divina creparsi in più punti, sempre sperando che non fossero invece le sue ossa ad aver ceduto. Quindi precipitò a terra, schiantandosi malamente con la faccia nella sabbia lunare. Per qualche istante non fece niente, non avendo la forza di muovere neppure un dito, convinto che l’Arringa finale gli avesse triturato ogni singolo osso del corpo. Poi, piano piano, iniziò a sentire il sangue continuare a fluire dentro di sé, le braccia e le gambe che rispondevano ai suoi stimoli, e riuscì allora a farsi forza per rimettersi in piedi.

 

“Posso aiutarti?!” –Ghignò allora una voce all’improvviso, mentre fredde mani lo afferravano per il collo, tirandolo su di colpo e costringendolo a fissare l’indemoniato sguardo di Alala, ritta di fronte a sé. –“Non disturbarti a rispondere, da un cenno del capo capirò se sono gradita o meno!” –Sibilò, mentre unghioni di energia nascevano dalle sue dita trafiggendo Andromeda al collo e inzuppandosi di fresco sangue.

 

Aaargh!!!” –Annaspò il ragazzo, muovendo di scatto il braccio destro, attorno al quale già rilucevano folgori energetiche, per spingere Alala indietro. Ma la Dea, aspettandosi una mossa simile, lo colpì con un calcio, per poi ribaltare l’intero corpo di Andromeda e sbatterlo a terra, sotto di lui, il collo ancora trafitto da artigli oscuri. Non del tutto paga, la Regina delle Makhai calò il tacco sul pettorale dell’Armatura Divina, più e più volte, sprofondando il ragazzo qualche metro dentro al suolo, liberandolo infine dai sanguinari unghioni e osservandolo affogare in una pozza di sangue.

 

“Come, scusa? Hai detto qualcosa?!” –Ironizzò, abbandonandosi ad una chiassosa sghignazzata e generando al tempo stesso nuove e fastidiose onde di energia sonica con cui dilaniò ulteriormente il corpo e la mente del Cavaliere. –“Ah ah ah! Quale sorpresa questo scontro! E io che temevo si rivelasse una perdita di tempo!”

 

Andromeda non disse niente, troppo debole per muovere le labbra. Poté solo sfiorare la catena che ancora stringeva in mano e darle il suo ultimo ordine.

 

A-la-la!!! A-la-la!!! A-la-la!!!” –Intonò la Regina delle Makhai, scatenando la furia devastante del suo potere e sprofondando sempre più il ragazzo nel suolo lunare, tra schizzi di sangue e frammenti di corazza crepata. –“Arringa fin

 

D’un tratto però il vociare sguaiato si interruppe, mentre con un sibilo impercettibile due lucenti serpenti metallici sgusciarono fuori dalla sabbia, ognuno da un lato della Dea. Obbedendo alle direttive del padrone, le catene di Andromeda si arrotolarono attorno al collo di Alala, puntando poi una nella direzione opposta all’altra. Si tesero per un momento, percorse da una violenta scarica di energia, strappando un grido di sorpresa alla figlia di Polemos, e poi le mozzarono la testa, insudiciandosi del suo divino sangue.

 

Privo di vita, il corpo della Signora della Guerra si accasciò sul bordo del cratere, precipitando all’interno poco dopo e finendo proprio sopra l’indebolito Cavaliere di Atena, il cui volto stanco e ferito era adesso bagnato dalle lacrime del suo ultimo gesto. L’ultimo di una mai conclusasi serie di omicidi.

 

Pur tuttavia si disse, fissando il cranio della Makhai rimasto sull’orlo della conca, a guardarlo di sbieco, con quello sguardo torvo che persino adesso pareva millantare. Non mi hai lasciato scelta. Nessuno me l’ha mai lasciata! Aggiunse, non per giustificarsi, o per trovare consolazione ai suoi peccati, ma perché davvero sapeva che era così. Poco prima di perdere i sensi, vide un’agile ombra balzare all’interno della buca, sollevarlo e poi portarlo fuori. Non riuscì a guardarlo in faccia, notò soltanto dei ciuffi di capelli blu stagliarsi contro il cielo scuro e per un attimo credette che Phoenix fosse giunto a salvarlo, come in passato.

 

“Ci sei riuscito, infine!” –Esclamò l’atona voce maschile del Selenite. –“Sapevo che avresti fatto quel che andava fatto, per garantire la vittoria tua e di coloro che come te combattono per un ideale! Pensala come vuoi, ma sei un guerriero come me, sebbene più reticente! Riposa adesso, nessuno disturberà il tuo sonno, Cavaliere di Andromeda!”

 

I… che è…?!” –Balbettò il ragazzo, ma Sin gli premette un dito sul collo, mozzandogli il fiato. D’istinto, un cosmo caldo lo penetrò, passando dentro le ferite aperte che ancora grondavano sangue, cicatrizzandole poco dopo e permettendo ad Andromeda di regolarizzare il proprio respiro.

 

“Se la tua domanda era chiedermi cosa ne fosse stato degli incauti guerrieri che hanno osato violare il Cerchio di Marte, la risposta è una soltanto! E non poteva essere diversa! Sono morti, arsi dalle fiamme di Sin degli Accadi, il Selenite che non conosce dubbi o pietà! Sarai tu un giorno in grado di fare altrettanto?”

 

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Capitolo 25
*** Capitolo ventitreesimo: Tra luce e ombra ***


CAPITOLO VENTITREESIMO: TRA LUCE E OMBRA.

 

“Gradisci un’altra tazza?” –Chiese il Cavaliere d’Oro, con voce melliflua, indicando la teiera ancora bollente al non troppo inatteso ospite.

 

“Sto bene così.” –Rispose Dohko, che aveva appena terminato l’infuso di erbe preparato da Virgo. Un’antica ricetta indiana, a sentir quest’ultimo, utile per rilassare i muscoli e ripristinare l’equilibrio psicofisico dell’uomo.

 

“Un vero peccato. Credevo che un uomo come te, dedito alla vita contemplativa, avrebbe apprezzato una sana tisana ayurvedica! Non sono diffuse in Cina?!” –Commentò il Custode della Porta Eterna, terminando di sorseggiare la propria.

 

Erano seduti ad un tavolino dai gambi bassi, in una piccola sala della Sesta Casa, intima e adatta alla conversazione che avevano iniziato da poco, da quando il Cavaliere di Virgo, rientrando dalla Biblioteca del Grande Tempio, aveva trovato il parigrado ad attenderlo, bisognoso di esprimergli i propri timori sulla guerra in corso.

 

“Non ho notizie da Atena da quando sono partiti. Cosa starà accadendo sulla Luna?” –Chiese il Maestro di Sirio, che più volte aveva sforzato il cosmo nel tentativo di raggiungere la Dea e i Cavalieri dello Zodiaco, senza riuscirvi. –“Quel che accade nel Reame Splendente risulta celato ai miei poteri!”

 

“Per questo sei venuto alla Sesta Casa, per chiedermi di mettermi in contatto con Atena?”

 

“Per questo motivo, sì. E anche per un altro.” –Aggiunse Libra, con tono esitante.

 

“Un altro?” –Si rabbuiò Virgo, senza darlo a vedere.

 

“Sono preoccupato per te. Temo che il tuo animo possa uscire scosso dagli eventi degli ultimi giorni. La ricomparsa di Ana, il cui ricordo è stato sfruttato per spezzare il tuo spirito, l’apparizione di un’ombra improvvisa qua nel cuore del Santuario e infine questa penosa giornata segnata dalla morte di un tuo discepolo, per mano dell’ultima ancora viva. Ricordo ancora il giorno in cui Sirio e Demetrios si scontrarono ai Cinque Picchi! Due dei miei allievi più cari forzati a un combattimento necessario alla maturazione di entrambi, ma tremendamente doloroso. Quanto piansi quel giorno! Solo in un’altra occasione versai così tante lacrime! Perciò capisco il tuo turbamento; chiunque, nella stessa situazione, sarebbe già crollato!”

 

“Ti ringrazio per la tua stima, Maestro di Cina. E per la tua premura. Ti confermi un amico sincero, oltre che un valido combattente.”

 

“E con gli amici sai bene che puoi parlare. Anche se le confidenze più si addicono ai salotti delle dame o ai banchetti olimpici, prima di essere Cavalieri siamo pur sempre esseri umani!”

 

“È vero. Lo siamo!” –Sospirò Virgo. –“Che strano non ricordarlo mai!”

 

Per qualche momento nessuno dei due parlò, lasciando che un velo di silenzio calasse tra loro, riflettendo ognuno sulle parole dell’altro. Poi il Custode della Sesta Casa si alzò, accendendo alcune candele e bastoncini di quello che a Libra sembrò incenso, che presto inondò la stanza con il suo odore pungente, facendo arrossare gli occhi del Cavaliere di Cina.

 

“Temo di non poterti essere d’aiuto, Dohko. Neppure i miei poteri possono superare la barriera che Selene ha eretto a difesa del suo regno, scudi difensivi pari a quelli che celano il Santuario di Atena e l’Olimpo. E quanto al resto… cosa mai potrei dirti in aggiunta a quello che già sai? Soffro. Terribilmente soffro. Il destino di Tirtha mi pesa sul collo come una spada di Damocle, combattuto tra il volerla salvare e il dovere, che mi impone di punirla per ciò che ha fatto! Punirla con la pena capitale!”

 

“Eppure… è andata davvero così?!”

 

“Come?!”

 

“È solo un pensiero fugace, non prenderlo per verità di fede. Eppure… ore addietro, quando la rabbia di Tirtha è esplosa contro Pavit, per un momento, per un solo fugace momento, mi è parso di percepire due cosmi di tenebra, proprio qua, alla Sesta Casa!”

 

“Alla Sesta Casa?!” –Virgo trattenne una risata, senza mascherare lo sbigottimento. –“Mio buon amico, se qualcun altro avesse varcato i confini della magione che presiedo non credi me ne sarei accorto? O temi forse che i miei occhi, sia pur chiusi, non vedano più bene come un tempo?”

 

“Non era quello che intendevo, perdonami se ti ho mortificato! Ma l’ansia del presente obnubila i miei pensieri!” –Si affrettò subito a scusarsi Dohko, alzandosi in piedi e muovendosi verso di lui, salvo poi barcollare e cadere di lato, stordito da una foschia imprevista attorno alla sua mente.

 

“Non mi hai mortificato, affatto. Hai soltanto detto quello che pensi. Permettimi di ricambiare la confidenza!” –Commentò allora Virgo, mentre il compagno faticava nel risollevarsi, senza capire perché si sentisse così debole e fiacco. –“In verità sei andato molto vicino al cuore della questione, pur senza comprenderla a pieno. Lascia allora che ti illumini!” –Aggiunse, sfiorando il mento di Dohko e sollevandoglielo poi con forza, in modo da obbligarlo a guardarlo in faccia. –“Io sono l’ombra!”

 

“Co… cosa?!” –Balbettò il parigrado, non comprendendo le sue parole.

 

Fu in quel momento che Virgo aprì gli occhi, rivelando scarlatte pupille intrise di tenebra, mentre un’immensa e sanguinaria aura da battaglia investiva il Cavaliere di Libra, sollevandolo da terra e scaraventandolo indietro, contro un muro interno del Palazzo della Vergine. Stordito, ricadde su un fianco, l’armatura che cozzava contro il marmo del pavimento. Tentò di rimettersi in piedi ma gli parve di scivolare, di non essere in grado di fare leva sulle gambe e alzarsi, mentre l’immagine sfuocata del Custode della Porta Eterna si avvicinava, avvolta in tetre demoniache fiamme.

 

“Sforzati pure quanto vuoi, ma ormai sei una marionetta nelle mie mani! L’infuso che hai bevuto era saturo di aconito, in quantità così massiccia da uccidere un uomo in pochi minuti! Purtroppo nel tuo caso c’è un fastidioso ma. Sei un Cavaliere, temprato al dolore e alla resistenza, e i pochi minuti potrebbero diventare lunghi, una vera agonia che terminerebbe con la tua disperata richiesta di ucciderti! Considerati fortunato, perché hai un buon amico come me, che ti risparmierà questo calvario. Uccidendoti subito!” –Spiegò l’uomo dai capelli biondi, mostrandogli un fusto di pianta erbacea dai petali di un acceso color violetto, sventolandola sotto il suo naso, di modo che potesse respirarne il velenoso effluvio.

 

Akoniton, nata dalla bava di Cerbero dopo che Eracle l’ebbe domato! Una saliva altamente tossica da generare, fecondando il terreno, una pianta così letale! Nota fin dal Mondo Antico, è stata chiamata in molti nomi, arsenico vegetale, strozzalupo, Elmo di Giove. Io la chiamo… erba fiamma!” –E gliela strusciò sul volto, gustandosi le pustole che apparivano ovunque la poggiasse, il fuoco che incendiava la pelle e faceva strillare il Cavaliere di Libra. –“Un amico ne aveva allestito una piantagione sull’Isola della Regina Nera e dato che a lui non serve più ho pensato di appropriarmene!” –Sogghignò, chinandosi sul Cavaliere e avvolgendolo in un rogo di vampe mortifere, che superarono ogni sua difesa, raggiungendo la carne sotto l’armatura.

 

Dohko gridò, il corpo trafitto da aghi di fiamma, il respiro che si faceva sempre più affannoso. Tentò di allungare una mano verso l’antico compagno, di articolare parole, per chiedergli perché lo stesse torturando, perché avesse tradito Atena, ma gli uscirono solo suoni confusi, che strapparono una risata al Cavaliere di Virgo.

 

“Conosci l’ayurveda, Dohko? È un sistema di medicina tradizionale indiana, che utilizza metodi naturali per prevenire malattie e curare la salute dell’uomo, al fine di allungargli la vita. Trovo sia un’affascinante quanto ingegnosa fonte di sapere, cui spesse volte mi sono abbeverato. E, credimi quando te lo dico, ma io sono in giro da molto tempo!” –Parlò, con voce calma e divertita.

 

“Secondo l’ayurveda esistono tre energie vitali, chiamate Dosha, che pervadono il nostro corpo, la cui salute dipende dall’equilibrio raggiunto da queste sfere. Basta una carenza in una delle tre per indebolire l’intero organismo. La prima energia è nota come Vata ed è il principio di movimento, legata a tutto ciò che nel corpo umano si muove.” –Disse il Custode della Sesta Casa, sfiorando con il fiore gli arti di Libra e strappandogli, ad ogni lieve tocco, grida e spasmi violenti. –“L’apparato respiratorio…” –Proseguì, mentre Dohko parve boccheggiare, incapace di inspirare aria dal naso, tingendosi presto di un pallore mortale. –“Il sistema nervoso…” –Aggiunse, giocherellando con il suo orecchio e riempiendoglielo di aconito, al punto da bruciarglielo e liquefarlo, proprio mentre i nervi facciali del Cavaliere si ispessivano, divenendo mostruosamente violacei, quasi fossero sul punto di esplodere. –“E il sistema di circolazione sanguigna!” –Concluse, alzandosi in piedi e osservando la pelle dell’uomo gonfiarsi, come se qualcosa al suo interno premesse per uscire, causandogli dolori lancinanti e spingendolo a rigettare più volte.

 

“La seconda energia invece è chiamata Pitta ed è il Dosha della trasformazione.” –Riprese a parlare Virgo, mentre Dohko, trascinandosi nel suo stesso vomito, tentava di implorarlo a smettere, senza riuscire neppure a parlare. –“Per trasformazione si intende sia la digestione fisica di un alimento, che quella mentale, l’elaborazione delle emozioni. Tu, per esempio, cosa provi, al momento?”

 

“V… Virgo!!!” –Rantolò il Custode della Settima Casa. –“Ferma… ti…”

 

“Virgo non è uno stato d’animo, Cavaliere! Soltanto il ricettacolo di questa mia nuova esistenza! Ah ah ah!” –Sghignazzò il feroce guerriero, prima di illustrare il terzo Dosha. –“Kapha, l’energia della coesione, proprio dei liquidi corporei. Lubrifica e mantiene il corpo solido e uniforme. Ma cosa accadrebbe se il Kapha fosse spezzato? Anche il corpo umano lo sarebbe? Scopriamolo!!!” –Esclamò esaltato, afferrando il parigrado per il collo e sollevandolo fino a sbatterlo contro il muro, avvolto in un turbinio di fiamme oscure. –“Fammi vedere… se non ricordo male, hai delle mani molto curate, non è vero?” –Sibilò, torcendogli il braccio destro e rivelando le falangi mozzate. Tre, come le dita che gli aveva reciso con un sol colpo di spada infuocata durante lo scontro ai Templi dell’Ira.

 

“T… tu?!” –Lo riconobbe infine Dohko, gli occhi stracolmi di orrore.

 

“Sorpresa!” –Ridacchiò il crudele carnefice, chiudendogli il pugno a forza e spaccandogli anche le altre dita, maciullandole fino a farne poltiglia nella sua mano, godendo delle grida, degli strepiti, dell’avvampare vano del fievole cosmo del moribondo avversario. Gli piegò il braccio dietro la schiena e poi glielo schiantò, inebriandosi del rumore secco delle ossa rotte, del disgregarsi di corazze per troppo tempo ritenute indistruttibili. –“Ma niente nella vita lo è mai! Persino il muro più robusto può crollare! Persino il monte più alto può essere livellato dall’alito fetido di un gigante! Tutto, in fondo, ha una fine!” –Concluse, avvolgendo il Cavaliere in un globo di vampe nere e schiantandolo contro il muro interno, sfondandolo e osservando la carcassa dorata ruzzolare verso il centro del palazzo, poco distante da dove Pavit era morto. –“E questa è la tua! I piatti della Bilancia sbattono per suonare l’ultimo requiem dell’antico guerriero!”

 

Dohko, dopo aver compreso la vera identità del suo torturatore, tentò di reagire, di sollevarsi usando il gomito ancora funzionante, ma venne schiacciato a terra dalla mole del nemico, che era appena balzato su di lui, sprofondandolo nel pavimento con un deciso colpo di tacco.

 

“Aaah! Oggi è un giorno meraviglioso per morire, non credi, Libra? Non essere avido, in fondo hai vissuto per più di due secoli e mezzo! Di tempo per farti un giro sul pianeta ne hai avuto! Ah ah ah! Ringraziami, presto ritroverai Shin, il tuo vecchio amico, e anche il di lui discepolo! Non credo manchi molto alla sua morte!”

 

“Mu… Mur?! Che vuoi dire? Cosa… hai fatto?!”

 

“Io?! Assolutamente niente. Potrei mai?!” –Sghignazzò l’uomo, espandendo il cosmo scarlatto, avvolgendolo sul palmo della mano destra. Una ad una chiuse le dita, partendo dal pollice, con una calma pericolosa, accompagnando ogni singolo movimento con una nuova violenta vampa di fuoco che piegò Dohko a terra. –“Prima la Vergine d’Oro, quindi i suoi discepoli. Adesso tu e poi Mur. Rimane solo Ioria, il mignolino birichino. Spezzato lui, sarà la fine dell’alta casta!”

 

“Io… non te lo permetterò!!!” –Ringhiò il Cavaliere di Libra, inorridendo a tale infausta prospettiva, che avrebbe compromesso l’andamento della guerra in corso. Si rialzò con tutte le forze che ancora gli restavano, ardendo nel suo cosmo verde smeraldo. –“Non infangherai il nome dei Cavalieri d’Oro, farabutto!”

 

“Temo sia un po’ tardi per questo campanilismo di facciata! La bava di Cerbero non lascia scampo!” –Sogghignò l’oscuro rivale, avvolto da un rogo di vampe infernali. –“Avresti dovuto pensarci prima di farti ingannare!”

 

“Zitto, bestia! Muori e chiedi perdono a Virgo per aver disonorato questo tempio! Colpo dei Cento Draghi!!!” –Gridò Libra, portando, con gran fatica, entrambe le braccia avanti e liberando i maestosi animali di Cina.

 

“Patetico!” –Commentò l’uomo dalla fattezze del Cavaliere della Vergine, volgendogli contro un palmo della mano e lasciando che l’improvvisato attacco vi si schiantasse, esaurendosi poco dopo, incendiato, quasi annientato, dalle fiamme mortifere che lo rivestivano. Le stesse fiamme che prostrarono Dohko in ginocchio, carbonizzando le sue ultime speranze. –“Sei sempre stato una spina nel fianco, fin da quando eri una prugna viola, e il ringiovanimento non t’ha giovato! È un vero piacere occuparmi personalmente di te! Non ci sono Sirio e Cristal quest’oggi, per tentare l’Urlo di Atena insieme, nevvero? Non ci sono Ermes e Artemide ad unire il loro cosmo al tuo, sorretti dalla stessa giusta causa! Nessuna scappatoia, solo morte!”

 

“Sirio e Cristal fermeranno i tuoi propositi di dominio, Flegias!!!” –Gridò infine il Cavaliere d’Oro, fissandolo con disprezzo e disgusto. –“Non sarai mai re di niente! Non impererai mai su…”

 

“La tua voce mi ha stufato!” –Sibilò il Rosso Fuoco, infilando una mano nella bocca di Dohko e stipandogli ben bene il fiore d’aconito in gola, tra gli spasimi e i mugugni del Cavaliere, che sentì le viscere andare a fuoco. Quindi gli afferrò la lingua, strappandogliela con violenza e osservandola poi con perverso gusto, indeciso se tenerla o meno come souvenir della battaglia. –“Aconitum napellum incendĕ!” –Invocò, e dalla gola di Libra sortirono fiamme ruggenti, che devastarono il suo corpo internamente. Drogato, pestato, arso vivo, il Cavaliere d’Oro non resistette più, crollando sul marmo avvelenato e dirigendo a Sirio il suo ultimo pensiero.

 

“Così passo l’immortale Maestro di Cina! Onore e gloria a lui, e tutti quei discorsi che si dedicano al morto! Tieniteli pure, io mi tengo la vittoria!” –Sogghignò Flegias.

 

Adesso ne era rimasto soltanto uno.

 

***

 

Phoenix fu stupito nel vedere Serian di Orione di fronte a sé, il leggendario guerriero dal fiero sguardo con cui si era scontrato un anno addietro, in un turbinoso duello fisico e ideologico. Inizialmente pensò quasi che Discordia lo avesse risvegliato dal sonno eterno per averlo al suo fianco nella conquista della Luna, ma poi, osservando meglio, notò l’aura evanescente, i contorni sfumati, prossimi a dissolversi, e capì che stava dialogando con uno spirito.

 

“Cavaliere di Phoenix! Finalmente ci rivediamo e noto con piacere che la tua fiamma ancora non è stata spenta, che le ali dell’uccello infuocato ancora ti sostengono nel tuo volo verso la vittoria! Di ciò mi rallegro!” –Parlò l’antico Cavaliere di Atena, prima di spostare lo sguardo verso la Dea cui era stato unito da un legame a doppio filo. Amore e odio, riconoscenza e disperazione. –“Abbiamo poco tempo, solo quello con cui le illusioni generate dal tuo colpo segreto tratterranno la sua furia! Perché è questo che Eris vede, o meglio, crede di vedere: i Cavalieri Ombra miei compagni che, per punirla di averli condannati ad un secondo inferno, dirigono su di lei la loro vendetta! Ascoltami, è necessario che tu vinca la Signora della Contesa, e puoi farlo, usando le sue stesse armi!”

 

“Che… cosa intendi, Cavaliere di Orione?!”

 

“Eris o Discordia come ama farsi chiamare non è immune dallo spirito di contesa che lei stessa ha liberato nel corso di millenni! Per quanto ami gloriarsi dei suoi distruttivi risultati, del caos scatenato ovunque ella passeggi, il suo cuore è in tumulto perenne, il suo animo è a pezzi, e su questo devi far leva per sconfiggerla! È una Dea che non ha mai saputo essere donna, che non ha mai saputo amare, a differenza di Era o Afrodite, e che al tempo stesso non ha mai ricevuto affetto. Nessuno l’ha mai venerata, i popoli l’hanno sempre rifuggita, spesso maledetta per l’odio che istigava in loro! Persino il sanguigno Ares ha avuto ben più seguaci di lei! Motivo questo che l’ha resa invidiosa degli Olimpi, della loro beatitudine e dell’amore che riuscivano a ricevere dagli uomini, soprattutto Atena, la Vergine guerriera. Discordia me lo disse, lo scorso anno, ammettendo di aver risvegliato noi Cavalieri di Atena solo ed esclusivamente per fare un torto a lei, per farla soffrire, certa che avrebbe penato nel vedere suoi seguaci lottare davanti ai suoi occhi inermi. E noi abbiamo contribuito a farle del male… alla Dea che avevamo giurato di difendere!” –Sospirò Serian, di fronte allo sguardo attento di Phoenix.

 

“Sbagliai, quel giorno, ad accettare la sua offerta per una nuova vita! Come sbagliai ad unirmi a lei, credendo che quella notte di passione potesse sublimare la solitudine di un’esistenza vissuta senza amore e intrisa solo di guerre e morte! Fu la paura dell’oblio dell’oltretomba, il timore di essere dimenticato, a spingermi a quel gesto di cui adesso mi vergogno! E lo capii troppo tardi, folgorato dalla lucentezza del cosmo di Pegasus, che mi ricordò quello dei miei compagni, dei Cavalieri che ti hanno preceduto, di tutti i combattenti che hanno lottato per Atena e per i suoi ideali fin da quando il mondo è stato creato! Rialzati, Phoenix! Afferra la mano del passato, la forza silente degli eroi che dal cielo stellato ti osservano, Cavaliere della Speranza, e lotta! Lotta ancora!” –Affermò l’antico avversario, allungando un braccio verso il Cavaliere della Fenice, che lo afferrò con decisione, gli occhi bagnati di lacrime, prima di sollevarsi, avvolto nel suo cosmo amaranto.

 

“Serian, io… ti ringrazio! No, non ti dirò altro, saranno i miei gesti a parlare!” –Scosse la testa Phoenix, mentre l’aura luminosa del Cavaliere di Orione si faceva sempre più evanescente, fino a dissolversi del tutto. –“Addio, altro me stesso!” –E chiuse il pugno, lasciando che una spirale di fuoco turbinasse attorno al suo braccio. –“Discordiaaa!!!” –Gridò, attirando di nuovo l’attenzione della Dea, sul cui volto comparve un’improvvisa espressione smarrita. Non aggiunse altro e scattò avanti, mentre tutto attorno a sé si aprivano ali scarlatte. –“Che la fiamma di Bennu sia con me!!! Ali della Fenice!!!”

 

Un turbine di energia infuocata travolse la Signora della Contesa, sradicandola da terra e scaraventandola in alto, ustionandole la Veste Divina e distruggendo persino il tridente che stringeva in mano, fino a farla ruzzolare a terra, la vaporosa chioma scompigliata e macchiata di sangue.

 

“Vile, pagherai questo affronto!!!” –Ringhiò la Dea, rialzandosi prontamente, salvo accorgersi che Phoenix era già di fronte a lei, il pugno pronto a colpire. Non riuscì a scansarsi del tutto, solo quel tanto che le permise di essere sfiorata dalla ruvida mano del ragazzo, che si fermò davanti alla sua fronte, generandole un lieve pizzicore.

 

Discordia sogghignò, avvampando nel suo cosmo divino e spingendo il Cavaliere indietro con un’onda di energia che Phoenix neppure contrastò, aspettandosela, lasciandosi invece trascinare, allontanandosi così da lei.

 

“Ben fatto, ragazzo! Non vi è vergogna nella resa di fronte a un nemico incommensurabilmente superiore a te! L’aver trattenuto il pugno ti consentirà una morte rapida, anziché una drammatica agonia! Morte che avverrà sotto la nera pioggia di strali che già ti hanno piegato! Melas…”

 

D’un tratto la Dea gridò disperata, portandosi le mani alla testa, inarcando il busto in malo modo, trafitta da una scossa di dolore che le invase il corpo intero, espandendosi come una folgore dal sistema nervoso. Urlò più volte, strappandosi i capelli, gli occhi iniettati di sangue per quell’improvvisa scarica di sofferenza.

 

Quando riuscì a recuperare il controllo di sé, normalizzando l’affannato respiro, vide Phoenix, con un sorriso pago sul volto, sfrecciare verso di lei, avvolto nel suo fiammeggiante cosmo amaranto. E comprese che era stato quel bastardo di un orfanello a generare in lei così tanta pena. Quel bastardo di un Cavaliere devoto alla Vergine Dea che lei tanto detestava, e che Discordia parve notare alle spalle di Phoenix, sorreggerlo e vegliare su di lui in battaglia.

 

“Atenaaa!!! Ancora ti fai beffe di me?! Tu e la tua stirpe siate dannati!!!” –Ringhiò la Signora della Contesa, espandendo il cosmo e frenando l’avanzata della fenice di fuoco. –“Avete avuto tutto! Era il potere e il trono olimpico, Afrodite l’amore e la bellezza, tu la sapienza in guerra e il rispetto dei tuoi guerrieri! A me non avete lasciato niente! Niente, solo il disprezzo delle genti per la verità che la mia presenza faceva emergere, i primordiali istinti bellici celati nell’animo di ognuno e che il vostro moralismo reprimeva soltanto! Mi avete tolto ogni possibilità di trionfo, confinandomi nella miseria! Ti odio, vi odio!!!” –Avvampò la Dea, mentre una tempesta di folgori nere stramazzava Phoenix al suolo, scheggiando in più punti la sua corazza.

 

“Ci… ci siamo! Ci siamo quasi… il suo sistema nervoso sta per crollare… Se riuscissi a raggiungerla un’altra volta… un’ultima volta…”  –Rantolò, affannando nel rimettersi in piedi e accorgendosi che la maligna Divinità stava lanciandosi verso di lui, il volto distorto da un folle piacere o da un disperato dolore taciuto per secoli. Quali che fossero le ragioni della sua isteria, Phoenix non rimase ad aspettarla, balzando indietro con un’agile capriola e atterrando su una sola mano, che piegò, sfruttandola per darsi una spinta verso l’alto, sostenuto dalle ali della corazza. –“A te, Discordia! Il colpo che stravolge la mente! Fantasma diabolico!!!”

 

Anziché fuggire, la Dea aprì le braccia, ridendo follemente, andando incontro al suo nemico, mentre un terzo sottile foro si apriva al centro della sua fronte, facendo scivolare qualche goccia di Ichor sul viso stravolto dalle emozioni. Emozioni che, quell’ultimo colpo, incrementarono ulteriormente, scavando nel passato di Eris con precisione clinica, ben sapendo adesso cosa cercare. Le sue origini, l’origine di quell’odio che aveva sempre mostrato verso gli Dei suoi pari e gli esseri umani, un odio che nascondeva soltanto un infinito rammarico.

 

“Ti vedo, Atena!!!” –Ringhiò, volgendo lo sguardo verso Phoenix, che strabuzzò gli occhi confuso. –“Oh sì, ti vedo che ammiri candida l’operato dei guerrieri, i tuoi boia, senza mai sporcarti le mani! Oh, certo, sei l’ipocrita per eccellenza, mascheri dietro parole di pace le guerre e i sacrifici che hai imposto all’umanità! Tu, ancor più di me, dovresti essere definita Madre del Dolore! Tu sei la vera Signora dei Mali! E allora, poiché così è, ti faccio un dono! Accettalo, ne sei degna ben più di me! Eccolo!” –Aggiunse, lasciando che il suo cosmo divino generasse un pomo dorato, porgendolo avanti a sé, sul palmo della mano destra.

 

Phoenix capì che Serian aveva detto il vero e che il Fantasma Diabolico aveva spezzato il bellicoso, ma ancora razionale, spirito della Dea nemica, lasciando che tutto l’odio covato si riversasse fuori. Osservandola adesso, pareva una delle Erinni, gli occhi iniettati di sangue, lo sguardo pazzo e al tempo stesso gioioso, una tempesta di fulmini neri che danzavano attorno a lei. Ma in fondo a tutto, un baluginio lontano e mai ammesso, il Cavaliere parve vedere un’accorata richiesta, forse una speranza. Lo vide nel braccio teso che Discordia stava offrendo ad Atena, come se l’antica rivale fosse di fronte a lei, e lo vide in quel dono, in quel frutto della contesa, che di Eris era l’essenza.

 

“Prendilo, Atena!” –Ripeté, quasi implorando la Dea. Al chè Phoenix annuì.

 

Eris sorrise, un atto per la prima volta sincero, e lasciò che la mela d’oro fluttuasse di fronte a sé, per poi liberare una violenta scarica di energia che afferrò la Dea stessa, strattonandola avanti, fino a che il pomo non gli si attaccò al petto, sprofondando nel suo cuore.

 

Discordia urlò, sbraitò istericamente, tentando invano di afferrare l’intangibile frutto, non ottenendo altro risultato se non strapparsi le vesti, graffiarsi la pelle, affondando gli artigli tra sangue e viscere umane. Il suo strillare scagliò persino Phoenix indietro, obbligandolo a sollevare un braccio per pararsi il volto dalla scoordinata pioggia di fulmini neri che stava bersagliando il Cerchio di Urano. Ma questa andò lentamente scemando, mentre Eris si accasciava esausta a terra, il corpo straziato da artigliate violente che si era autoinflitta. Del pomo d’oro non vi erano tracce, e Phoenix sapeva che non era mai esistito, se non nella mente di Discordia.

 

Con un balzo fu su di lei, mentre l’esausta Dea sollevava lo sguardo vitreo, senza che fosse chiaro chi o cosa stesse davvero guardando. Il Cavaliere della Fenice infiammò al massimo il proprio cosmo, concentrandolo attorno al pugno e muovendolo verso il petto dell’avversaria, che proprio in quel momento proruppe in un’ultima isterica risata, gli occhi arrossati ormai colmi di lacrime.

 

“Che in un’altra vita tu possa trovare serenità!” –Mormorò il giovane, affondando il pugno di fuoco nel corpo di Eris, che incendiò all’istante, sotto le note di una selvaggia ilarità. Quindi le strappò il cuore, osservandolo ardere nel suo pugno e consumarsi poco dopo, senza provare il benché minimo rimpianto.

 

“Molti nemici ho affrontato e persino contro quelli più ostili non ho provato piacere nell’ucciderli, poiché sapevo, dai loro racconti, dalle confessioni che il Fantasma Diabolico era riuscito a tirare fuori dai loro cuori martoriati, che in fondo non erano malvagi. Non nell’accezione che la semantica vorrebbe dargli. Virgo, Gemini, Alcor, Kanon, Ippolita erano solo infelici. Persino Hrymr, e il suo desiderio di vendetta, dovuto alla barbara fine della sua stirpe, ero riuscito a capirlo. Ma tu, come Deimos prima di te, non meriti alcuna pietà né comprensione! In te non c’è niente di buono, poiché soltanto tu hai scelto chi essere! La Dea dell’Odio! E come tale sarai ricordata! Addio, Signora della Contesa!” –Esclamò, mentre il fuoco della fenice divorava quel lembo del Cerchio di Urano ove si era consumato lo scontro.

 

Quindi, dando le spalle al declinante rogo divino, Phoenix cercò i cosmi dei suoi compagni. Li aveva sentiti accendersi durante la battaglia, anche quello di Andromeda, che invece avrebbe dovuto rimanere al sicuro a palazzo, e si chiese se le truppe di Ares non avessero già superato i nove cerchi. Concentrando i sensi, invece capì che il fratello era ben più vicino e che forse c’era ancora speranza di vittoria. Conscio che Pegasus avrebbe capito, il ragazzo cercò la via verso i cerchi interni, mentre la lancia di Nike si apriva infine strada nel petto di Ares.

 

 

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Capitolo 26
*** Capitolo ventiquattresimo: Per il mio futuro! ***


CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO: PER IL MIO FUTURO!

 

Il drago di luce si abbatté su Horkos con gran foga, scaraventandolo contro una parete del massiccio montuoso, permettendo al Cavaliere di Ariete di rifiatare e di sorridere al suo inaspettato salvatore.

 

“Grande Mur, state bene?” –Esclamò Sirio, avvicinandosi e aiutandolo ad alzarsi.

 

“Adesso sì, grazie!” –Disse l’uomo, prima di raccontare quanto accaduto, rimarcando come non avesse idea di chi fossero quei guerrieri, chi li avesse inviati e soprattutto perché. –“Ciò che so, e che per adesso mi basta, è che minacciano la sopravvivenza dell’ultima colonia di Mu, della mia gente! E devo fermarli! Mia è la responsabilità di averli condotti qui, un’ingenuità che non avrei commesso se fossi stato lucido!”

 

“Vi aiuterò, Grande Mur, abbiate fiducia in me!”

 

“Lo so, Sirio! Lo so!” –Sorrise per la prima volta il Cavaliere di Ariete, ponendo una mano sulla spalla del ragazzo, prima di voltare lo sguardo verso l’ingresso nella montagna, laddove Horkos si era appena rimesso in piedi.

 

“Un drago e un caprone! Due teste da mozzare, due trofei da esporre nella mia sala privata!” –Ghignò, iniziando ad espandere il proprio cosmo.

 

“Come osi?!” –Avvampò subito Sirio, facendosi avanti, ma il Cavaliere d’Oro lo afferrò per un braccio, muovendo la testa in cenno di diniego. –“Ma… Grande Mur, lasciatemi combattere al vostro fianco!”

 

“Sarebbe un onore, Sirio! Ma non adesso! No, ora ho bisogno che tu mi faccia un favore! Salva la mia gente, te ne prego, proteggili dalla furia delle Amphilogie! Se la loro potenza è pari a quella del fratello, potresti aver bisogno di tutte le tue forze per superare tale impresa!” –Gli disse, fissandolo con occhi lucidi. Una richiesta accorata a cui Sirio non seppe dire di no. Annuì, ricambiando il sorriso del guerriero, prima di voltarsi verso Horkos e corrergli incontro, avvolto nel suo cosmo color verde acqua.

 

“Ti stai gettando allo sbaraglio!” –Commentò quest’ultimo, scattando avanti a sua volta. –“Stur…”

 

“Errore!!!” –Gridò Sirio, balzando improvvisamente in alto e sollevando il braccio destro, prima di calarlo di scatto, generando un fendente di energia cosmica.

 

Horkos tentò di evitarlo, ma i poteri psicocinetici di Mur lo inchiodarono sul posto. Gli bastò un attimo per liberarsene, ma in quell’attimo Excalibur si abbatté sul suo braccio, scheggiando la Veste Divina e raggiungendo le carni al di sotto. Ringhiando, il figlio di Discordia si voltò verso l’ingresso della montagna, proprio mentre Sirio lo inforcava di corsa, sostenuto dalle ali della sua corazza, ma non poté seguirlo poiché già il cosmo del Cavaliere d’Oro rifulgeva splendente di fronte a sé.

 

Per il Sacro Ariete!!! Rivoluzione stellare!!!” –Esclamò Mur, mentre migliaia di stelle cadenti tempestavano il tozzo corpo del figlio di Eris.

 

“Fino alla fine, eh, Cavaliere?!” –Ghignò Horkos, espandendo il cosmo oscuro e scatenando una deflagrazione energetica che squassò il fianco della montagna, distruggendo il sentiero di accesso alla colonia, sommergendo i due contendenti sotto una coltre di neve, roccia e ghiaccio eterno.

 

***

 

L’esplosione fece sobbalzare Sirio, che correva trafelato lungo la tortuosa mulattiera nelle profondità del Dhaulagiri. E lo fece fermare per pochi secondi, giusto il tempo di ricordarsi che Mur era un potente Cavaliere d’Oro, degno di stima e di lode, e che doveva aver fiducia in lui, ricambiando quel sentimento che lo aveva portato ad aiutarlo più volte, fin dai tempi del loro primo incontro nello Jamir.

 

“Se la caverà!” –Si disse il ragazzo, riportando lo sguardo avanti e riprendendo a correre. Di preciso, neppure lui sapeva bene verso cosa, ma Mur aveva parlato di una colonia e ritenne che quella fosse l’isola felice dove i discendenti di una delle prime civiltà terrestri ripararono dopo l’affondamento della loro terra natia. Un luogo pregno di storia e cultura che ignoti nemici stavano minacciando.

 

“Horkos… Figlio di Discordia…” –Rifletté, ricordando gli scontri con i Cavalieri Ombra risvegliati da quella cupa Divinità. –“Che la sua stirpe voglia vendetta? Cos’altro potrebbero cercare in questo luogo di cui nessuno, finora, aveva notizia?!”

 

Tutto preso da intricati pensieri, quasi non s’avvide della figura che apparve dietro una curva, proprio al centro del sentiero. Esile, non molto alta, una donna dai lunghi capelli scuri procedeva con cautela, guardandosi attorno smarrita e tenendosi una mano sul fianco destro, il volto contratto dagli spasimi. Gli ci volle qualche secondo, a Sirio, per riconoscerla, il tempo di cui la sua mente abbisognò per realizzare che la donna ferita che le si era appena parata di fronte era colei che tanto aveva cara.

 

“Fiore di Luna?!” –Esclamò, fermandosi a pochi passi di distanza e guardandola con occhi sgranati, mentre un rivolo di sudore gli colava lungo la schiena. –“Cosa… fai?”

 

“Sirio?! Oh Sirio, ti ho trovato!!!” –Parlò la fanciulla, avanzando verso di lui e allungando una mano, la stessa che aveva tenuto fino ad allora premuta sulla ferita al fianco destro. Una mano da cui grondavano gocce vermiglie.

 

“Fiore di Luna, ma che ci fai qua? No… no, non è possibile!!! Non puoi essere lei!” –Scosse la testa il combattente di Atena, alla ricerca di una spiegazione razionale.

 

Fu allora che la ragazza inciampò, cadendo di fronte a lui, con un gemito che fece trasalire il Cavaliere, la mente confusa e preda di ansie e dubbi. Non poteva essere la donna che amava, di questo Sirio era certo. Fiore di Luna era ancora ai Cinque Picchi, dove quella mattina l’aveva lasciata, distesa nel loro giaciglio, ancora intenta a sognare il loro futuro assieme. Il futuro di cui a lungo, in quei giorni di quiete, avevano discusso, giungendo a una sola conclusione.

 

“Aiutami, Sirio!!!” –La voce della fanciulla lo strappò ai suoi pensieri, quella voce così identica a quella di colei che per anni lo aveva sostenuto e consolato, durante l’addestramento e in seguito, quando le guerre del mondo da bambini li avevano fatti diventare adulti. –“Mi fa male…” –Aggiunse, sollevando le vesti color porpora e rivelando una ferita causata da un taglio di lama, da cui sangue sgorgava copioso.

 

“Cos’è successo? Perché sei qui?”

 

“Non è ovvio?!” –Mormorò lei, chinando il capo con imbarazzo, quasi temesse la sua reazione. –“Ti ho seguito, Sirio. Non potevo restare ancora a casa, da sola, a languire giorno dopo giorno, aspettando tue notizie, il tuo ritorno o che Pegasus ti riportasse in un feretro. Quante volte mi hai abbandonato? Non le conto più ormai… Si perdono insieme alle lacrime versate nelle mie notti solinghe. E stamani ho pensato che avrei potuto cambiare il fato, iniziando un nuovo cammino insieme… come i tuoi amici!”

 

“Co… come?! Che c’entrano gli altri?!”

 

“Non combatte forse Pegasus da sempre assieme a Lady Isabel? Con lei e per lei. E Andromeda e Nemes? Sono entrambi guerrieri. E Flare non ha mai avuto timore di scendere in battaglia, temprata a sopportare ben più del freddo di Asgard, per Cristal! Solo per amore suo. Perché io non posso fare altrettanto?!”

 

“Tu non sei una guerriera, Fiore di Luna. Sei una ragazza... anzi, sei… io non so cosa sei, non so nemmeno come tu possa essere qui… se davvero… sei tu.” –Mormorò il Cavaliere, agitandosi e torturandosi per il tempo che stava perdendo.

 

“Ma che stai dicendo, Sirio? Chi mai dovrei essere?!”

 

“Non lo so! Un inganno forse. Non capisco… Già una volta fui sorpreso da una combattente che si finse la donna che amo, e non posso, non voglio, permettermi di…” –Ma la sua frase fu interrotta da una parola, una sola parola che la fanciulla ferita pronunciò. –“Co… come?! Cosa hai detto?!”

 

“Ryuho!” –Ripeté Fiore di Luna, singhiozzando. Quindi, prendendosi la testa tra le mani, chinò il capo, quasi prostrandosi a terra tra le lacrime.

 

Sirio rimase paralizzato di fronte a quella scena, con quell’unica parola che ancora gli rimbombava nella mente. Quella parola eletta a simbolo del loro amore che solamente la vera Fiore di Luna, e nessun sosia avversario, poteva conoscere.

 

Scusandosi per aver dubitato di lei, il ragazzo si abbassò sulla fanciulla, pregandola di non piangere più e di mostrargli la ferita, di modo che potesse curarla alla bell’e meglio, in attesa che Mur, o uno della sua stirpe, avesse modo di occuparsene.

 

“Oh Sirio, sono così felice di essere con te!” –Disse lei, ansimando. –“Scusami se ti ho seguito, non volevo essere un peso… volevo soltanto stare con te…”

 

“Lo voglio anch’io, Fiore di Luna! Lo voglio anch’io!” –Commentò placido il Cavaliere del Dragone, carezzando i morbidi capelli della ragazza, mentre i loro occhi si incontravano, trasmettendosi tutto il loro amore. Un attimo dopo le labbra di lei si posarono su quelle del compagno, bagnandole con le lacrime scivolate sul suo volto. Un bacio che sembrò fermare il tempo attorno, attutendo i rumori e lasciando che tutto sfocasse, che tutto precipitasse nell’oblio.

 

Non appena Fiore di Luna allontanò le labbra, Sirio crollò a terra senza neppure un gemito, gli occhi vitrei, la bocca ancora fresca del sapore di lei.

 

“Mai fidarsi di una donna!” –Commentò la fanciulla, tirandosi indietro i lunghi steli corvini, prima che le sue forme mutassero, rivelando quelle della figlia di Discordia.

 

Era un trucco vecchio come il mondo, rifletté Lethe, ma ogni volta c’era sempre qualcuno che ci cascava. Del resto nient’altro un uomo desidera se non trovare appagamento ai propri desideri, ai propri ideali, ai propri progetti. Una conferma di vita in mezzo al caos imperante nel mondo! E lei, Dea della Dimenticanza, quei sogni li faceva propri, mostrandoli come prospettive di futuro recente, prima di strapparli dalla memoria dei nemici, assieme al ricordo di ciò che tali speranze aveva generato.

 

***

 

Dopo la scomparsa di Loki e Surtr, Sirio era rientrato ad Atene assieme ai Cavalieri dello Zodiaco suoi compagni, trattenendosi solo una notte, per riposarsi e curare le proprie ferite, sospinto dal desiderio di tornare ai Cinque Picchi e abbracciare Fiore di Luna. Ormai lo aveva capito, e vedere Cristal consolare Flare per la perdita della sorella non aveva fatto altro che confermare i suoi sentimenti. Per quanto ardesse nel suo cuore un anelito di libertà, che lo avrebbe spinto sempre e comunque a lottare per gli uomini, uguale calore aveva iniziato ad emanare una fiamma nata col tempo passato assieme. La fiamma più potente dell’universo.

 

“Ti amo!” –L’aveva svegliata così quel mattino, con un bacio, strappandole un grido di felicità per quell’improvvisa ma gradita sorpresa. –“Voglio stare con te! Per sempre!” –E aveva desiderato che tale auspicio divenisse presto certezza.

 

Lo pensava davvero, e anche Fiore di Luna vi credeva. Del resto lo aveva sempre aspettato, ogni volta in cui era partito per affrontare una nuova minaccia. Ma la più grande, il timore di una sempiterna solitudine, l’aveva sopportata lei stessa, da sola, trovando nella speranza di un futuro insieme la forza per superarla. Quando, dove e come erano soltanto domande che si perdevano nelle acque della Cascata del Drago, quel che contava, quel che davvero valeva, era la certezza di quella verità, che la coppia suggellò una notte, scambiandosi promessa d’amore eterno e unendosi sotto il cielo di Cina. Lo stesso cielo che, da bambini, avevano ammirato insieme, in cerca di una stella cadente che potesse indicare loro il cammino.

 

“Non sarò un Cavaliere per sempre!” –Le aveva detto Sirio. –“Un giorno le tenebre verranno spazzate via, da un così luminoso vento di giustizia che darà nuova linfa alla Terra intera, nuova fede agli uomini. Un vento di futuri non troppo distanti, che si offrono al palmo della nostra mano. Io combatto per questo, Fiore di Luna! Non soltanto per te, per Atena o per i miei compagni, ma per garantire a tutti noi una vita felice, paghi nelle nostre ambizioni. E finalmente sereni!”

 

“Lo saremo mai, Sirio?!” –Aveva sospirato la fanciulla, stretta al compagno, che non aveva saputo offrirle risposte migliori di un abbraccio e di un bacio sul ventre, che a lungo aveva carezzato quella notte, sepolcro ove giaceva la loro promessa di fede.

 

E quel giorno, quando il Cavaliere aveva percepito cosmi inquieti saturare l’aria, ed esplodere minacciosi in vari luoghi della Terra, alcuni anche vicino ai Cinque Picchi, aveva rimarcato l’importanza di quel giuramento. –“Tornerò!” –Aveva affermato, indossando l’Armatura Divina, di fronte agli occhi inquieti di Fiore di Luna. –“Lo farò per noi, e per il figlio che porti in grembo!”

 

“Come lo chiameremo, Sirio?!”

 

“Ryuho!” –Aveva risposto lui, sorridendo. –“Picco del Drago! A ricordare il luogo in cui è nato il nostro amore e nella speranza che un giorno egli possa ergersi al di sopra delle tenebre del mondo, rischiarandole con la purezza del proprio cuore!”

 

Quello era il bagaglio emotivo che Sirio portava nel cuore quando aveva raggiunto Mur tra le montagne, la leva indistruttibile su cui avrebbe fatto pressione per rimettersi in piedi ogni volta in cui un nemico o il fato avverso lo avrebbero piegato. Per quello, per il suo futuro, avrebbe lottato ancora.

 

Eppure…

 

“Do… dove sono?!” –Mormorò il ragazzo, la cui mente stava scivolando nell’oblio, sommersa dalle acque della dimenticanza in cui Lethe l’aveva immersa.

 

Di quei ricordi, di quel bacio, delle notti trascorse insieme pareva non essere rimasto niente. Solo fatue reminescenze, che veli di nebbia stavano allontanando sempre più da lui, strati di incertezza ove persino i nemici affrontati, e gli amici al cui fianco aveva lottato, divennero figure evanescenti. Cancer, Capricorn, Luxor, Orion, Crisaore, Ade, Ares, Flegias e molti altri svanirono, tra macchie di sangue e morte.

 

Chi era il guerriero dalla corazza rossa che si faceva vanto di avere uno scudo come il mio? E quei demoni di nero vestiti che affrontai in gruppo di fronte a un’enorme muraglia? Che muro era? Ed era davvero un muro, o forse era un palazzo?

 

Domande e dubbi subissavano la sua mente, rincorrendosi e mutando ogni volta in cui i ricordi sfumavano, divenendo sempre più sottili, al punto che a molti avversari non riuscì a a dare un nome. Alla fine, di tutti quegli scontri e di quei guerrieri, Sirio perse anche il ricordo di averli combattuti, chiedendosi se non fossero stati piuttosto dei surrogati di realtà, mondi fantastici in cui la mente aveva trovato rifugio.

 

Niente è reale. Si disse, vittima di un incantesimo cui non poteva opporsi. E un’aggraziata voce di donna rincarò la dose, incitandolo a lasciarsi andare, a lasciarsi cullare dalla serenità, da quella pace dell’animo che aveva diritto di provare.

 

“Dimentica!” –Mormorò Lethe, carezzando il volto di Sirio e manovrando le sue capacità percettive. –“Sei giovane, sei bello. Hai diritto alla felicità, non credi, figlio mio? Allattato da una madre che sa cosa è meglio per la propria progenie e non da una Dea che solo di sangue e guerra ha intriso la vostra adolescenza, impedendovi di viverla a pieno! Adesso potrai ricominciare, adesso potrai essere davvero felice! Guarda!” –E mosse ulteriormente i suoi ricordi.

 

Era il primo giorno di scuola, al liceo classico della sua città. Sirio adorava leggere, navigare lungo le pagine dei libri della biblioteca di famiglia, ove trascorreva ore, anche da solo, a nutrirsi di un’antica sapienza. E quando suo nonno veniva a fargli visita, tornando da uno dei tanti scavi che conduceva in Medio Oriente, il ragazzo sedeva sul divano assieme a lui, per ascoltare i resoconti delle sue avventure, affascinato da un mondo preistorico che un giorno avrebbe scoperto. Così aveva deciso di coltivare i suoi interessi umanistici, sperando di diventare un archeologo o un professore universitario e aiutare a diffondere la cultura.

 

“Ehi Sirio, ci vediamo stasera alla festa! Non mancherai vero?!” –Gli disse un ragazzo dai mossi capelli castani, passandogli accanto nei corridoi della scuola. –“Ho sentito che ci saranno tutte le ragazze della seconda, soprattutto quella cinesina che ti piace tanto!” –E corse via, assieme a un amico dai capelli biondi, lasciando Sirio ad osservarli pensieroso.

 

Non ricordava i loro nomi, né come si fossero conosciuti, forse erano nella stessa classe, ma sentiva di voler loro bene, sentiva che i loro destini erano connessi. E quando rientrò a casa, dopo le lezioni, e chiese ai genitori il permesso di uscire la sera, questi furono ben lieti di concederglielo, ritenendo che alla sua età avesse pieno diritto di svagarsi con gli amici.

 

“Te lo meriti, figlio mio!” –Gli disse sua madre, baciandolo e avvolgendolo in un tepore che solo la sicurezza di una famiglia poteva infondergli.

 

E Sirio era felice, non aveva motivo di non esserlo. I suoi risultati scolastici erano eccellenti, i suoi genitori erano fieri di lui, gli amici lo adoravano, potendo sempre contare sul suo aiuto. E adesso aveva persino iniziato a frequentare la ragazza dagli occhi a mandorla che da anni lo faceva impazzire. Come potrebbe la vita essere migliore di così? Si chiese, tornando a casa in bicicletta.

 

Fu allora che una scossa violenta fece tremare il manto stradale, e forse l’intera città, abbattendo palazzi e aprendo voragini in cui edifici e uomini rovinarono. Crepacci da cui sorsero improvvise colonne di luce verdastra, che si innalzarono verso il cielo. Colonne che, Sirio strabuzzò gli occhi stranito, somigliavano a dragoni di luce. Durò un attimo e nulla più, il tempo con cui il paesaggio cambiò di nuovo e Sirio si ritrovò a casa, con la madre che lo aspettava sulla soglia, per abbracciarlo.

 

“Hai sentito il terremoto, mamma?” –Domandò, affannato e confuso.

 

“Quale terremoto, Sirio? Non è successo niente!” –Gli sorrise, prendendogli lo zaino e incitandolo a correre in cucina, dove una tavola imbandita lo aspettava. –“Non è successo niente, pensa solo a mangiare!” –Ripeté, cullandolo, come ogni giorno.

 

E forse, in fondo, era davvero così. Aveva sognato, distratto da un riverbero di luce che aveva scambiato per un dragone, ed era caduto dalla bicicletta. E presto anche il ricordo di quel sogno scomparve, travolto da un presente così festoso e intenso in cui Sirio venne risucchiato. Gli studi, gli amici, le ore in biblioteca con il nonno, le serate a passeggio sul molo con la sua ragazza. E sua madre che ogni giorno, regolarmente, lo attendeva sulla soglia, prendendosi cura di lui e indicandogli il sentiero. Così sempre, e sempre così. Un’eterna felicità.

 

Eppure

 

Una leggera contrazione del volto del ragazzo infastidì Lethe, che ancora non era riuscita a distruggere del tutto la sua coscienza. Cos’era stato quel ricordo? Quel frammento che aveva rischiato di destabilizzare la struttura della sua opera, quella vita perfetta in cui la mente del ragazzo si era persa? Quel ricordo… sta tornando!!!

 

Come un flash improvviso, le acque del mare si sollevarono di fronte agli occhi straniati di Sirio e della sua ragazza, che amavano trascorrere le serate a passeggiare sul molo, fantasticando su terre lontane ove un giorno avrebbero veleggiato assieme. Il giovane mosse un passo indietro, mentre onde immense sfrecciavano verso di lui, abbattendosi sul pontile, sulle navi ormeggiate, sulla spiaggia e la sua città, celandola per un momento al suo sguardo e permettendogli di vedere all’interno. Tra l’acqua e la schiuma torbida dei suoi ricordi, vide un uomo rivestito da una corazza d’oro lucente fronteggiarne un altro, su cui aleggiava una tenebra infuocata. Volti che non conosceva, che non ricordava, ma che sembravano chiamarlo.

 

“Sirio…” –Mormorò la figura dalla corazza d’oro, il cui volto sanguinante pareva guardare proprio verso di lui. Allungò una mano, priva di alcune dita, nonostante Sirio tentasse di allontanarsi, e lo raggiunse, sfiorandogli la fronte e bagnandola. Non con sangue, come il ragazzo aveva temuto, ma con acqua. Fresca e lucida come rugiada. –“L’acqua della cascata dei Cinque Picchi!” –Aggiunse l’uomo, prima di scomparire, travolto dal turbinare furioso delle onde marine.

 

Quando tutto si placò, e la baia riprese il suo consueto aspetto, Sirio si voltò verso la ragazza dagli occhi a mandorla, trovandola ancora al suo fianco, sorridente e pronta a passare un’altra notte assieme, come se nulla fosse accaduto.

 

Del resto, si disse il ragazzo, toccandosi il viso e lasciando che le gocce d’acqua ruscellassero sulla sua mano, cos’è accaduto davvero?

 

“Niente.” –Gli parve di udire la voce di sua madre che lo rassicurava. –“Andiamo Sirio! Portami a ballare!” –Lo incitò la ragazza, mentre anche altri amici li raggiungevano. –“Coraggio, Sirio, la festa ci aspetta!”

 

“Sirio! Sirio! Sirio!” –Tante voci lo chiamavano, inebriandolo e rendendolo felice. Ma così facendo, cantilenando di continuo nella sua mente, gli impedivano di vedere davvero ciò che giaceva all’ombra della sua vita. Un’altra esistenza.

 

“Non andare, Sirio!” –Lo chiamò sua madre, la voce incrinata per la prima volta dal timore. –“Non percorrere quella strada, ti porterà solo dolore! Vieni a casa, invece, vieni da noi!”

 

“Mamma, io…” –Indugiò il ragazzo per qualche istante, mentre le gocce d’acqua nella sua mano rilucevano vivide, sollevandosi nell’aria di fronte a lui ed esplodendo in lampi di luce verdognoli. E in quei flash, in quei frammenti di visione, Sirio vide ciò da cui stava fuggendo, ciò da cui sua madre, gli amici e l’amore lo avevano allontanato. Il suo vero io.

 

“Dragoneee!!!” –Gridò una voce all’improvviso, squarciando l’oscurità di quel futuro incerto in cui era precipitato. E portando il ragazzo a riaprire gli occhi.

 

China su di lui, intenta a massaggiargli la cute, c’era una donna dal volto emaciato, che mai aveva visto fino ad allora. Una donna che di certo non era sua madre, di cui non ricordava più il volto, né colei che lo attendeva ai Cinque Picchi.

 

“Chi sei?” –Domandò infine, mentre l’esile donna si alzava, allontanandosi scocciata.

 

“Sei uno sciocco! Ti ho offerto la possibilità di una vita diversa, migliore da quest’esistenza di affanni e morte, e tu l’hai rifiutata! Perché non hai accettato di perderti lentamente nell’oblio? Perché hai gettato via la tranquillità di una vita in cui chiunque, al tuo posto, sarebbe stato ben lieto di vivere, con coloro che ama, senza doversi preoccupare più di niente? Io… non lo capisco…”

 

Sirio si rimise in piedi, scuotendo la testa frastornato, ma libero infine di tutte quelle visioni che lo avevano disorientato.

 

“Avevo rimosso i tuoi ricordi di guerra, generando un mondo di pace perpetua dove saresti potuto vivere per sempre! Mai nessuno ha rifiutato un così dolce dono di Lethe, Dea della Dimenticanza!”

 

“Lethe?! Sei dunque sorella e compagna del Dio che il Cavaliere d’Ariete sta fronteggiando? Il Dio che ha guidato una spedizione mortale in questa colonia?”

 

“Così pare. Sebbene Horkos ed io abbiamo modi diversi di approcciarsi agli altri. Io aborro lo scontro violento, il fluire abbondante del sangue! Avendo percepito la bontà del tuo cuore, avevo deciso di farti dono di una fine placida, consona al tuo spirito! Un infinito naufragare in un mondo perfetto! Ma rifiutando il mio presente mi hai offeso, e ora vedrai il mio lato terribile!” –Affermò la Dea, espandendo per la prima volta il cosmo e obbligando Sirio a fare altrettanto.

 

“Ti ringrazio per l’offerta, Divina Lethe, ma io stesso ho scelto questa vita, ogni giorno, vivendola per ciò che ritengo sacro, pur doloroso che possa essere! E non la cambierei mai! Sono un Cavaliere di Atena e per questo combatto!”

 

“Per questo morrai, stupido idealista!” –Parlò la figlia di Eris con voce stridula, prima di sollevare un braccio al cielo e generare un’immensa sfera di energia azzurra e verde, simile ad un vorticare di acque perigliose. –“La dimenticanza che ti aspetta adesso è ben diversa da quella in cui ti avevo poc’anzi cullato, questa è fredda e immediata come la morte! Addio Dragone, perditi! Fiume dell’oblio!!!”

 

“Non sperare che io mi arrenda!” –Rispose il Cavaliere a gran voce, portando entrambe le braccia avanti e liberando il proprio cosmo scintillante. –“Colpo dei Cento Draghi!!!”

 

I due poteri si scontrarono uno contro l’altro, crepitando folgori di energia e rimanendo in equilibrio per lunghi istanti, obbligando entrambi i combattenti a profondervi sempre più energia.

 

“Puoi contrastarmi ma non vincermi, Sirio! Io sono una Divinità!” –Esclamò la donna, aumentando l’intensità dell’assalto e travolgendo il paladino di Atena, fino a schiantarlo contro il versante interno della montagna.

 

Quando Sirio ricadde a terra, ormai privo dell’elmo scheggiato dell’armatura, Lethe era già su di lui, fluttuando veloce nell’aria, come fosse un’evanescenza. Ma la morsa che gli stringeva il collo, obbligandolo a guardarla negli occhi, era reale, e funesta.

 

“Sei stolto! Quale ideale può valere così tanto da rinunciare alla vita di propria sponte? Gli onori della guerra, la soddisfazione di aver abbattuto il proprio nemico?”

 

“Un… figlio…” –Mormorò Sirio, fissando la Dea nelle bianche orbite e notandovi un guizzo sorpreso. Approfittando di quella distrazione, il Cavaliere la colpì con un calcio improvviso, liberandosi dalla sua presa e spingendola indietro, avvampando nel proprio cosmo. –“Un figlio che solo colei che amo mi potrà dare! E non sarà un’illusione, no! Sarà reale, come l’amore che provo per lei, come il futuro agognato assieme! E né tu, né alcuna Divinità potrà mai farmi cambiare idea!!!” –Gridò, mentre dragoni di luce vorticavano attorno a sé, avvolgendosi alle sue braccia e generando una poderosa massa di energia. –“Per vincerti, per vincere una Divinità, dovrò spingermi più in là di quanto abbia mai fatto finora! Perdonatemi, Vecchio Maestro, se violerò di nuovo i vostri insegnamenti! Ma non posso fallire, non adesso che ho trovato la mia strada!!!”

 

“Impressionante!” –Commentò la figlia di Discordia, prima di evocare di nuovo il torrente della dimenticanza, aprire le dighe e scatenarne la furia.

 

Pienezza del dragone, nei limiti di Atena!!!” –Rispose Sirio, generando una straordinaria massa di energia che cozzò contro il Fiume dell’Oblio, frenandone l’avanzata. –“Iaaah!!!”

 

“La tua è follia!!!” –Gridò Lethe, il tono di voce preoccupato dagli esiti imprevedibili di una battaglia che sperava di evitare.

 

“Amare è anche essere folli.” –Chiarì Dragone, cercando di rimanere calmo e concentrato, per quanto l’aver liberato un simile ammasso di energia lo sfiancasse ogni attimo sempre di più. Non solo per il continuo infondergli di ogni stilla vitale, ma anche per il disperato tentativo di controllarlo, di impedire che esplodesse, come Libra aveva sempre ritenuto, e che quindi annientasse in un sol colpo l’intera catena del Dhaulagiri.

 

All’improvviso un’enorme sfera di energia piovve su Lethe, schiantandola a terra ed uccidendola, rilasciando tutto il cosmo accumulato in una poderosa deflagrazione che scagliò Sirio indietro di parecchi metri, danneggiando in più punti l’Armatura Divina e ustionandogli la pelle. Abbagliato da tale imprevisto lucore, il Cavaliere faticò a rialzarsi, sbattendo le palpebre più volte, ferito dal fastidioso riverbero e dall’ultima immagine che aveva della Dea nemica. Un urlo disperato prorotto dal suo corpo sventrato, pallido cadavere che giaceva adesso stramazzato al suolo, tra il pulviscolo e i detriti.

 

“Che… è successo?!” –Mormorò, mentre i suoi occhi spaziavano nel polverone sollevato, individuando una figura alta e snella avanzare a passo deciso. –“Chi sei?! Perché l’hai uccisa?!”

 

“Dovresti ringraziarmi, piuttosto, non interrogarmi! Ti ho risparmiato una fine lenta e lacrimosa! Detestabile per un guerriero, non trovi, Sirio Dragone? Tu che rappresenti una delle sacre bestie di Cina, aspiri a ben più gloriosa morte, immagino. Morte che io, Polemos, posso darti!” –Esclamò l’uomo, rivelandosi infine al Cavaliere di Atena.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 27
*** Capitolo venticinquesimo: Quinto interludio. Arcobaleno. ***


CAPITOLO VENTICINQUESIMO: QUINTO INTERLUDIO.

 

ARCOBALENO.

 

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Sedici anni prima del secondo avvento.

 

C’era guerra quel giorno ad Atene.

 

Le Panatenee erano state interrotte da un attacco improvviso, condotto da guerrieri dalle armature egizie. La folla si era dispersa, urlando e gemendo, invocando la protezione della Dea Guerriera su tutti loro. Qualcuno era stato ascoltato, altri erano caduti implorando pietà. Pochi infine avevano combattuto.

 

Matthew li aveva visti cadere, molti compagni di addestramento, ragazzi come lui che non avevano ancora raggiunto i dieci anni. Li aveva visti morire davanti ai suoi occhi, trafitti da spade in grado di scagliare raggi di energia, divorati dagli artigli di una donna dalla corazza a forma di Sfinge, prima che iniziasse la riscossa dei difensori del Santuario di Atena. Aveva visto il fumo levarsi da più parti quel giorno, i cosmi dei Cavalieri d’Argento accendersi e rischiarare il cielo, mentre i Custodi Dorati tentavano di impedire l’avanzata nemica attraverso le Dodici Case, per proteggere l’Oracolo della Dea. Aveva sentito questo e molto altro, nascosto nelle cavità sotto le gradinate dell’arena, in un luogo scoperto per caso assieme ad alcuni amici anni addietro, mentre cercavano un nascondiglio per evitare l’addestramento. Adesso di quegli amici non era rimasto niente, uccisi da quella guerra improvvisa per cui non erano preparati. Neanche lui lo era, del resto il suo maestro lo diceva sempre, criticando la mancanza di concentrazione e l’indolenza che gli impedivano di progredire, nonostante ne avesse le capacità.

 

Avrebbe voluto averne, quel giorno, di capacità, così forse avrebbe smesso di udire le grida del popolo impaurito, delle donne che supplicavano pietà, dei giovani che morivano sotto edifici in fiamme. Mai avrebbe pensato che il Grande Tempio potesse essere invaso, mai avrebbe pensato che l’Oracolo non avesse potuto prevederlo.

 

Già, il Sacerdote. Forse era troppo vecchio per decifrare i segni portati dal vento. Forse era troppo sordo per ascoltare la Dea. Presto avrebbe abdicato, lo dicevano in molti al mercato. E in molti indicavano nel suo mentore un possibile successore.

 

Il suo maestro. L’uomo che aveva tentato di sollevarlo dalla polvere di quotidiana tristezza e farne un Cavaliere. O quantomeno un apprendista. A volte non si sentiva degno neppure di quel misero titolo. Non si sentiva degno di niente, in realtà, solo di starsene nascosto mentre il resto del mondo crollava attorno a lui.

 

Rimase nel suo nascondiglio per ore, fin quasi al tramonto, e vi sarebbe rimasto ancora non fosse stato per un richiamo improvviso, una voce che aveva iniziato a risuonargli nella mente. Un unico suono che sembrava invocare il suo aiuto.

 

Si riscosse, alzandosi e guardandosi intorno, finché non percepì da dove provenisse quel silenzioso richiamo che nessun’altro poteva udire. Dal luogo più protetto del Grande Tempio, dove certo non sarebbe potuto arrivare tramite il percorso ufficiale. Non solo perché la scalinata delle Dodici Case era macchiata dal sangue di una guerra in corso, ma perché difficilmente i Cavalieri d’Oro avrebbero consentito a uno sconosciuto di raggiungere la Sala del Grande Sacerdote in quel preciso momento.

 

Così Matthew dovette arrangiarsi.

 

Il suo maestro, una volta, lo aveva portato ad allenarsi nelle valli rocciose alle spalle della Collina della Divinità e da là sotto aveva ammirato il retro della Statua di Atena baciata dal sole, l’enorme scultura eretta sulla terrazza della Tredicesima Casa. Proprio dove Matthew voleva arrivare, e proprio dove arrivò, dopo ore di dura e massacrante scalata. A mani nude, cadendo e ferendosi più volte, si inerpicò lungo la parete di roccia, aprendosi una personale strada verso la residenza dell’Oracolo, con cui sentiva il bisogno di parlare, per confidargli i suoi sentori, i turbamenti del suo animo. Turbamenti che riguardavano il suo maestro. Il valoroso Cavaliere di Gemini.

 

Anche se non gli aveva detto alcunché, Matthew aveva notato che l’uomo era cambiato negli ultimi giorni, da quando aveva ricevuto quella visita inaspettata, che a tutti aveva tenuto nascosta. Persino al prode Cavaliere di Sagitter, con cui molto era in amicizia. Matthew li aveva scoperti per caso, mentre rientrava da un giorno di allenamenti, e li aveva seguiti, osservandoli parlare nel tramonto di Atene, litigare e infine picchiarsi. Aveva trattenuto il fiato, scoprendo che l’altro uomo con cui il maestro si incontrava di nascosto era suo fratello, e che adesso era stato imprigionato a Capo Sounion per aver cospirato contro la Dea. Matthew c’era persino stato, alla prigione del mare, che molti ritenevano in disuso da tempo, e l’aveva visto, il fratello del Cavaliere di Gemini, origine dei turbamenti del suo maestro.

 

Di questo avrebbe voluto parlare al Sacerdote, quando fosse giunto alla Tredicesima Casa. Ma non vi trovò nessuno, solo una scia di sangue che macchiava il marmo di fronte alla Statua di Atena. Ancora abbastanza fresco.

 

Spaventato, Matthew si nascose tra i tendaggi del tempio, cercando di capire cosa stesse accadendo, dove fosse il Sacerdote e perché quel richiamo fosse giunto proprio da lì. Rimase nascosto per ore, finché non calò la notte e un rumore improvviso lo distrasse. Un uomo era apparso sulla terrazza della Tredicesima Casa, un uomo che pareva mescolarsi alle tenebre stesse. In silenzio si tolse l’armatura d’oro, pulendola dal sangue, e si immerse nella vasca nella Sala della Purificazione, lasciando alle fresche acque di Grecia il compito di lavar via i suoi peccati.

 

Con orrore, Matthew riconobbe il corpo del suo maestro, i lunghi capelli, un tempo azzurri, tinti di un grigio che andava facendosi sempre più scuro, e un giorno sarebbe divenuto nero. Deglutendo a fatica, il ragazzo comprese che dell’uomo dal cuore nobile che lo aveva addestrato non era rimasto niente, vinto da tenebre così profonde che neppure la luce del sole avrebbe potuto rischiarare. Avrebbe voluto parlarne con qualcuno, ma in fondo lui non era nessuno e nessuno lo avrebbe ascoltato. L’Oracolo era morto, i Cavalieri d’Oro lo avrebbero deriso, forse solo Micene lo avrebbe capito, ma il Sagittario era lontano, a combattere in Egitto, ed egli era rimasto solo.

 

Rientrò ai suoi alloggi, trovandoli devastati, come buona parte degli edifici dei soldati, la mensa e anche l’infermeria. Per quella notte dovette accontentarsi di dormire all’aria aperta, sotto una coperta che una vecchia gli donò, ma non vide stelle nel cielo lontano. Solo un’ombra immensa ricoprire tutta la sua vita.

 

Giorni dopo lo raggiunse la notizia del tradimento di Micene, e del suo tentativo di assassinare l’infante Atena. Tutti al Santuario ne furono sconvolti ma solo lui capì che la lunga mano di Gemini aveva mietuto un’altra vittima e che l’ombra ormai dimorava ad Atene. Per tal motivo, quella notte prese la decisione di andarsene, con i suoi pochi averi e un fagotto di stracci, imbarcandosi su una nave in partenza per l’Africa. Di mozzi, in fondo, i mercantili avevano sempre bisogno.

 

Rimase in mare per dieci anni, guadagnandosi da vivere come poté, girando attorno all’Africa e a volte spingendosi fino in Australia, rendendosi conto che c’era tutto un mondo fuori da Atene, un mondo che, continuando a restare al Grande Tempio, non avrebbe mai potuto conoscere. A volte pensava ai suoi compagni d’addestramento, alla battaglia di quel giorno d’estate, alla sorte del suo maestro, ma poi finiva per scuotere la testa, convinto che fossero eventi troppo grandi per lui, al di là della sua portata.

 

Tornò ad Atene a vent’anni compiuti, sistemandosi nel villaggio di Rodorio assieme ad alcuni marinai stanchi di vivere in mare. Per un po’ camparono lavorando come pescatori o scaricatori di porto, ma poi molti si stufarono di stare a terra e, spinti dal richiamo del mare, tornarono a cercare lavoro sulle navi in partenza. Ma non Matthew, che anche di quella vita vagabonda si era stufato.

 

Fu proprio al porto, mentre scaricava casse, che la vide per la prima volta.

 

Sembrava fuori luogo, quella delicata figura dai morbidi capelli rossicci, intenta a guardarsi attorno con fervido interesse, come se rare volte avesse visto delle navi. Indossava una maschera che le copriva il volto, ma Matthew capì comunque che lo stava fissando, così le sorrise, accennando un saluto e costringendola a voltarsi dall’altra parte, imbarazzata.

 

“Ci servono due casse di olive e anche del vino! Rosso per l’esattezza! In gran quantità!” –Esclamò la voce squillante di una donna dai capelli verdi, che stava concordando con il capitano della nave una consegna da effettuare nell’entroterra. E Matthew non ebbe difficoltà a capire dove esattamente.

 

Quella donna era una Sacerdotessa Guerriera e la ragazza che la accompagnava una sua apprendista. Intuizioni che, scoprì in seguito dalle parole della stessa esile fanciulla, si rivelarono fondate.

 

“Sei stato gentile a caricare tutte le casse sul carro!” –Gli disse. –“Avrei potuto occuparmene io, ma grazie lo stesso!”

 

“Dovere di cavaliere!” –Ironizzò il ragazzo, asciugandosi il sudore dal volto con la maglietta, senza perdersi lo sguardo vagamente interessato ai suoi addominali che l’apprendista sacerdotessa tentò di dissimulare.

 

Proprio in quel momento una bambina dai vispi occhi verdi gli passò vicino, stringendosi alla lunga veste di un vecchio che camminava a fatica, appoggiandosi a un bastone.

 

“Com’è bella Atene, nonnino! Mi ci porti ancora?” –Esclamò la piccola, raggiante.

 

“Certo, piccola Elena! Ci torneremo presto! Ma ora dobbiamo tornare sulla nostra isola, con tutti i rifornimenti!” –Le sorrise, prima di inciampare e cadere a terra.

 

Matthew corse subito ad aiutarlo, guidandolo alla propria barca e premurandosi che non fosse ferito. L’anziano lo ringraziò più volte, rivolgendogli parole benaugurali, prima di congedarlo con un sorriso stanco. Solo allora, tornando al molo, il giovane notò che l’apprendista sacerdotessa era scomparsa.

 

La rivide un anno dopo, nella stessa stagione, scoprendo che si chiamava Miha. Venne da sola, quella volta, essendo la sua maestra impegnata in una missione per conto del Sacerdote, e si permise di trattenersi un po’ di più, a parlare con quel ragazzo dai capelli biondi per cui aveva un’inspiegabile simpatia. Matthew le confessò che un tempo anch’egli aveva provato a divenire un Cavaliere.


“Sei un apprendista?!” –Mormorò a bassa voce, prima di dire al ragazzo di fare silenzio. –“Non sono informazioni che dovresti dare agli sconosciuti! Non sai che vige la legge marziale al Grande Tempio? Arles non ammette disertori!”

 

“Arles…” –Ripeté cupo Matthew, abbandonandosi a un sospiro. Ringraziò Miha per il consiglio e le rinnovò l’invito a tornare per un’ulteriore scorta. –“Magari in tempi migliori, tempi in cui un ragazzo e una ragazza possano parlare senza paura di essere uccisi per tradimento, defezione o altri assurdi pretesti!”

 

“Il rispetto dell’autorità costituita non è il tuo forte!” –Ironizzò Miha.

 

“Non quando non la riconosco!” –Si limitò a commentare Matthew prima di salutare la ragazza.

 

Tempi migliori arrivarono dopo pochi mesi, quando il giovane seppe che l’usurpatore era stato sconfitto e Atena, la vera Atena, esiliata anni addietro dal suo stesso Santuario, era tornata per riportare la pace.

 

“Arles è morto?!” –Rifletté quel giorno, quando tutti a Rodorio festeggiarono la fine della tirannia, preparandosi per partecipare alla grande adunata che la Dea avrebbe tenuto nell’arena del Grande Tempio.

 

Matthew non vi prese parte, incamminandosi da solo in un’area isolata e ben poco frequentata. Il cimitero ove riposavano i guerrieri che avevano combattuto per la giustizia e la libertà della Terra e che, dopo la prematura morte, non avevano ottenuto altro che una lapide malconcia in un campo d’erba brulla. Il ragazzo vagò tra le tombe per una buona mezz’ora, passando tra nomi che non aveva mai sentito, Ludwig, Serge, Gilles, Helga, Algerion, Edomon, Adamant, Tancredi, Tristano, Iulia, Ian, Serian, Lesia, Relta, Izo, Kaiser, Eurialo, Niso, Noesis, fino a giungere a tombe più recenti. Asterione, Betelgeuse, Cancer, Capricorn, Acquarius. E Gemini.

 

Di fronte alla tomba del suo maestro si inginocchiò. E pianse. Finalmente pianse.

 

“Perdonatemi! Sono stato indolente! Avrei potuto combattere e salvarvi, avrei dovuto farlo! Ma temevo che avrei fallito!” –Mormorò, sfiorando la fredda lapide di marmo. –“Spero che adesso abbiate potuto finalmente trovare pace!”

 

Quando rientrò a Rodorio, trovò Miha ad attenderlo. Sapeva cosa gli avrebbe detto, quanto avrebbe insistito affinché tornasse al Grande Tempio e riprendesse il suo addestramento. Quello, a sentir lei, era il suo destino, il suo futuro.

 

“Non rinunciare alla tua missione! Fallo anche per onorare l’uomo in cui credevi un tempo!”

 

Matthew annuì, abbracciando la ragazza e rientrando infine ad Atene, pronto per far parte del nuovo corso che la storia avrebbe preso adesso che la Dea era ricomparsa. Per quanto rasserenato dalla sua presenza, e dalla sua guida, il ragazzo sapeva, al pari di tutti i fedeli di Atena Polias, che la sua presenza significava una cosa soltanto.

 

L’oscurità era forte adesso, e una nuova guerra sarebbe presto scoppiata.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Un mese prima del secondo avvento.

 

Avalon osservava Matthew praticare un esercizio mentale con una mela, un esercizio molto semplice, in verità, che la maggior parte dei novizi imparava dopo pochi mesi di addestramento, e che consisteva nel far rotolare una mela sul loro corpo, dalla testa ai piedi, muovendola con la sola forza della mente. Rudimenti di telecinesi di cui anche un bambino disponeva.

 

Eppure per Matthew era impegnativo. E aveva già schiacciato due mele, sbattendole a terra per la frustrazione.

 

“La pazienza non rientra tra le sue virtù!” –Commentò un’anziana voce, affiancando il Signore dell’Isola Sacra sulla cima dell’alto colle.

 

“È un modo edulcorato per dire che non imparerà mai?” –Ironizzò Avalon, senza staccare gli occhi dal ragazzo che, molti metri più in basso, sedeva nel meleto provando ormai da ore senza riuscire.

 

“Tu perché vuoi che impari?”

 

“Per completarsi!” –Rispose Avalon. –“L’ombra si allunga su tutti noi, ogni giorno un po’ di più, e quando il varco si aprirà Matthew dovrà essere pronto! Tutti noi dovremo esserlo; non potremo funzionare al meglio se alcuni muscoli non saranno sufficientemente sviluppati! Un uomo non può camminare a lungo se ha un’unghia incarnita!”

 

“Credi che il ragazzo lo sia? Reis e gli altri sono molto più avanti di lui!”

 

“Matthew non è inferiore a nessuno, non in termini di addestramento! Sebbene discontinua e frammentaria, ha goduto di una preparazione che ha coperto ogni sfera del sapere di un uomo! Da Gemini ha appreso i fondamenti del cosmo e le tecniche base di uno scontro fisico, dalla vita in mare ha imparato a sopravvivere e il sudore del duro lavoro, dalle persone che ha incontrato ha conosciuto l’amore e il rispetto. Qui, ad Avalon, ha perfezionato tutto questo, canalizzando le sue energie per uno scopo superiore!”

 

“Che cosa gli manca, allora?!”

 

“La volontà di liberarsi dei fantasmi del passato!” –Commentò Avalon, fissando l’Antico negli occhi e ricevendo un cenno d’assenso con il capo.

 

“Vuoi ripetere il tuo vecchio trucco? Non ti stanchi mai di interpretarlo?”

 

“Per la verità, pensavo a qualcosa di diverso stavolta. A qualcuno di diverso, forse l’unica persona che possa dare a Matthew la giusta spinta, chiudendo così un percorso iniziato quasi vent’anni fa!”

 

***

 

Fu Avalon ad accompagnarlo sulla cima del Tor, percorrendo assieme il Sentiero del Pellegrino, che si snodava lento attorno alla collina per sette cerchi. Reis e Jonathan gli avevano detto che era un rito di iniziazione, e anche Marins, prima di partire per l’Asia con Febo, lo aveva pregato di stare tranquillo, conservando la mente lucida che un Cavaliere delle Stelle avrebbe sempre dovuto avere.

 

E forse era per quello che Matthew non si sentiva ancora parte del gruppo.

 

Per quanto lo avessero accolto con calore, con il trasporto riservato a un familiare ritrovato dopo molto tempo, e si fossero anche offerti di allenarsi assieme, l’ultimo allievo di Avalon non aveva ancora rotto quel velo di ghiaccio che lo separava dagli altri Cavalieri delle Stelle. Perché si sentiva diverso, e forse non all’altezza.

 

Giunti sulla cima del Tor, il Signore dell’Isola Sacra aprì il portone del campanile, ultimo resto di costruzioni religiose che si erano succedute, al pari dei culti praticati, nel corso dei secoli. Un gargoyle sembrò fissarlo incuriosito e Matthew ricambiò lo sguardo, chiedendosi, non per la prima volta, cosa ci facesse lì, con un piede sulla soglia dell’Altro Mondo, e perché il destino avesse scelto proprio lui, in cuor suo immeritevole di così tante attenzioni.

 

“Il destino non esiste.” –Gli ricordò Avalon, richiudendo il portone alle sue spalle e lasciando il ragazzo da solo. Nell’ombra. Del presente e di tutta la sua vita. –“Sono solo le nostre azioni a determinare chi siamo. E tu, per il tuo buon cuore, sei stato scelto per indossare la Cintura dell’Arcobaleno, i cui colori tingeranno il mondo dei sentimenti che celi nell’animo. Questo era il proposito di Vasteras, e sono certo che sia anche il tuo.”

 

“I miei propositi?!” –Rifletté Matthew, rimasto da solo.

 

“Sì, per quanto strano possa apparire, anche un rinunciatario come te ha dei progetti, delle ambizioni!” –Esclamò allora una voce, proveniente dalle tenebre attorno. –“Che poi tu non sia uomo abbastanza per lottare per essi è un altro discorso!”

 

“Ma… questa voce?!” –Mormorò il ragazzo, mentre una sagoma di luce prendeva forma davanti a lui. Un uomo dal volto maturo, segnato dal tempo e dal fato, con lunghi capelli grigi che ricadevano sull’armatura dorata che indossava. –“Maestro, siete voi?! Il Cavaliere di Gemini?!”

 

“Questo il ruolo che ebbi in una parte della mia vita!” –Chiosò il suo interlocutore. –“Parte che terminò quando venni sopraffatto dalla Pietra Nera, abbandonando questa corazza e indossando altri paramenti! Ma che te ne parlo a fare? Tu c’eri, tu sai quel che accadde! Osservasti impaurito, riparato dietro le tende della tua vita, il consumarsi dell’ombra nel mio animo, senza fare niente, come tuo solito. Senza intervenire. Mi lasciasti cadere, senza neppure allungare una mano!”

 

“Maestro io… avrei voluto salvarvi, avrei voluto fare qualcosa… ma cosa? Cosa avrei potuto fare di fronte a così tanta malvagità, io che ero solo un ragazzo?!”

 

“E cos’eravamo io e Micene quando scegliemmo? Non eravamo forse ragazzi quando andammo in Egitto per combattere l’ombra? E cos’era Pegasus, quando accettò di recarsi in Grecia, a subire massacranti allenamenti, lontano da sua sorella, pur di rivederla un giorno? E cos’era Phoenix quando scelse l’inferno della Regina Nera, sacrificandosi al posto del fratello? Non c’è bisogno di essere adulti, o Cavalieri, per essere eroi! Basta solo volerlo!”

 

“Io… perdonatemi…” –Abbassò lo sguardo Matthew, per nascondere le lacrime.

 

“No!” –Rispose secco il Cavaliere di Gemini, colpendolo in pieno volto con un pugno e sbattendolo a terra. Solo allora, rimettendosi in piedi, con la guancia rossa e dolorante, Matthew notò dove si trovavano, nell’arena del Grande Tempio, in uno dei tanti tramonti in cui erano soliti allenarsi. Lui indossava le vesti dei giorni dell’addestramento, misere protezioni rispetto alla fulgida corazza ottenuta in seguito, corazza che adesso giaceva in cima ad una colonna, al centro dell’arena, ripiegata sotto forma di cintura. –“Se la vuoi, se vuoi riprenderla, dovrai superarmi! Alzati, indolente, e completa almeno un percorso della tua vita!”

 

“Affrontare voi, maestro?!” –Balbettò per un attimo il ragazzo, non comprendendo come tutto quello fosse possibile. Se anche era un sogno, se anche era un’illusione, era così reale, così vivida, davanti ai suoi occhi e nel suo cuore. Come i pugni di cui Gemini lo riempì negli istanti successivi, come i lividi che gli apparvero sul viso, sul petto, sulle braccia. Come le ossa che gli cedettero, venendo schiacciato a terra da un ultimo violento affondo, sprofondando tra la polvere della sua esistenza.

 

“Non avrei potuto sperare in una vittoria più facile! Cosa può attendere del resto chi guerreggia contro un pupazzo? Perché tale devi considerarti, un fantoccio in balia del vento, la cui vita è sempre stata decisa dalle scelte degli altri, scelte a cui hai risposto in un unico modo. Fuggendo, cambiando strada, rinunciando. Ma adesso sei all’ultima curva, Matthew. O reagisci e mi sconfiggi, oppure morirai qua, senza armatura, senza amici e senza onore. È questo che vuoi?!”

 

Il ragazzo non rispose, schiacciato sotto il tacco della corazza di Gemini, ingoiando polvere e rimpianti. Qualunque cosa avesse detto non avrebbe cambiato la realtà dei fatti, ben riassunta dalle parole del suo maestro. Era vero, era sempre stato un rinunciatario, che aveva preferito le scorciatoie al vero e proprio scontro. Eppure… non voleva essere ricordato così. Adesso che aveva conosciuto la luce del mondo, che aveva scoperto la sua missione, non avrebbe avuto più scuse a giustificare la sua inazione.

 

“Io… combatto!!!” –Avvampò, rimettendosi in piedi e spingendo via il piede del Cavaliere d’Oro, obbligandolo a balzare indietro, proprio mentre Matthew espandeva il proprio cosmo, che vorticò attorno a lui come un arcobaleno lucente. –“Combatto per voi, maestro mio! Per tenere alto il vostro buon nome, che non deve essere legato agli infami gesti che avete compiuto nei tredici anni in cui siete stato vittima dell’ombra!” –E portò avanti il pugno destro, generando un’onda di energia che sfrecciò verso Gemini, che la parò volgendogli contro il palmo della mano, ma venendo comunque spinto indietro.

 

“Combatto per tutti gli apprendisti, gli adolescenti, i semplici servitori della Dea che trovarono la morte durante il vostro regno, durante l’attacco dei berseker o sull’Isola delle Ombre! Morirono perché erano deboli, e forse se fossi stato più forte, se fossi stato un vero Cavaliere conscio del suo ruolo, li avrei salvati! Almeno uno lo avrei potuto salvare!” –E scagliò un secondo pugno lucente, che forzò Gemini a portare avanti anche l’altra mano per difendersi dall’onda d’urto, sempre più consistente.

 

“Infine combatto per me! Non per Avalon, ma per me stesso, che ho finalmente compreso quale ruolo voglio avere! Non più di pedina, ma di alfiere! Io… vi darò quel che avrei dovuto donarvi a suo tempo! La dimostrazione di aver appreso i vostri insegnamenti!!! Io, maestro, farò esplodere le stelle per voi!!!” –Aggiunse, rifulgendo in un cosmo dagli intensi colori, prima di sollevare il braccio al cielo e generare una devastante esplosione di energia.

 

Gemini, dall’altro lato, rispose con eguale determinazione e i due assalti collisero, schiantando ogni cosa raggiunta dal loro raggio d’azione. Terriccio, colonne, gli spalti dell’arena, tutto fu inghiottito dalla poderosa deflagrazione, e per un momento anche Matthew pensò di venir annientato a sua volta. Ma, sollevando lo sguardo e puntandolo su quello del suo maestro, quel momento durò solo un attimo, ricordando le sue stesse parole di poco prima. I motivi che lo spingevano a lottare, il desiderio di completarsi infine. Ed allora il suo cosmo esplose, allungandosi verso Gemini come un ponte di luce.

 

Arcobaleno incandescente!!!” –Gridò, mentre il suo corpo veniva rivestito dalla corazza del Cavaliere dell’Iride e e le sette pietre si illuminavano una ad una. –“Sono questi i colori con cui tingerò il mondo! Rosso, come l’amore di cui ogni essere vivente aspira! Arancione, come l’onore e lo spirito di generosità che dovrà sorreggere i nostri passi! Giallo, come la lucentezza di un futuro sotto il sole! Verde, espressione delle forze della natura, e di una giovinezza che tramite questa potremo sempre coltivare! Blu, come gli sconfinati orizzonti del cielo, simbolo di sogno e di un’infinita aspirazione! Indaco, colore acceso, in grado di vincere la tristezza di un mondo spento, e infine viola, ricordo e capriccio della mia infanzia. Era il colore dell’abito con cui vestirono mia madre il giorno del funerale. Combatto anche per questo, per un mondo dove genitori e figli possano vivere insieme, abbracciandosi l’un l’altro!”

 

“Bra… bravo…” –Mormorò Gemini, prima che l’onda di luce lo travolgesse, trapassando le sue difese e prostrandolo a terra, il torace in fiamme e quel che restava della sua corazza chiazzata di sangue. –“Hai completato il tuo addestramento, regalandomi quel che più di ogni altra cosa volevo per te! Uno scontro in grado di tirar fuori tutto il tuo potenziale!”

 

“Ma… maestro…” –Matthew corse verso di lui, afferrandolo in tempo prima che crollasse esanime al suolo. –“L’ho capito, adesso. Quel richiamo che sentii quel giorno, ad Atene, era il vostro cosmo che chiedeva aiuto! Era l’ultimo barlume della vostra coscienza che si aggrappava alla speranza che un allievo indolente potesse salvarvi! Perdonatemi, ho fallito, se avessi agito… molte cose sarebbero andate diversamente!”

 

“Hai fatto quello che era in tuo potere, Matthew. Non avresti potuto opporti all’ombra racchiusa nella Pietra Nera. Persino Atena ha faticato a risvegliare il mio vero io! Smettila di fartene una colpa e impara a perdonare te stesso! E poi, se potrai, un giorno perdona… anche me…” –Ansimò il Cavaliere d’Oro, gli occhi che faticavano a rimanere aperti, le immagini che iniziavano ad apparire sfuocate. Tutto sembrò scomparire, l’arena, il Grande Tempio, persino Atene, scivolare in una profonda oscurità, ma Matthew non si arrischiò a lasciare la mano del suo mentore, che trovò la forza per sorridergli un’ultima volta. –“Sei un vero combattente per la giustizia, l’allievo che ho sempre desiderato! A qualunque Divinità tu sia devoto, non smettere mai di credere! Nel futuro, nel tuo futuro! Quello che tu, con i tuoi gesti e il tuo cammino, da solo determinerai!” –Non disse altro e spirò, dissolvendosi in polvere di stelle tra le sue mani.

 

Matthew rimase in ginocchio, singhiozzando per qualche minuto, finché non sentì una leggera brezza smuovergli i capelli. Solo allora si voltò, trovando Avalon di fronte a sé, sulla cima del Tor ormai immersa nella notte di Britannia.

 

“Voi?!” –Balbettò stanco, credendo di aver vissuto un’immensa illusione.

 

“Io mi limito a creare l’ambientazione, Matthew, ma i sentimenti, e quel che muove l’animo di chi la popola, sei tu ad averli messi in campo! E ad essere riuscito ad andare oltre, a chiudere per la prima volta un percorso della tua vita!”

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Un mese prima del secondo avvento.

Fine.

 

 

 

 

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Capitolo 28
*** Capitolo ventiseiesimo: Il volo dell'ippogrifo ***


CAPITOLO VENTISEIESIMO: IL VOLO DELL’IPPOGRIFO.

 

Non le ci volle molto, a Kydoimos, per disarmare Mani. Del resto, nonostante i suoi natali regali, era un Dio ben poco atto a combattere; anzi, come la Makhai presto notò, a parte il portamento fiero, pareva più un genitore impensierito per la sorte dei propri cari che non una Divinità battagliera.

 

Dopo pochi minuti dall’inizio dello scontro, il bastone del Selenite di Saturno era già nelle sue mani e se ne era appena servita per crepargli l’elmo sul lato destro, stordendolo ed esponendolo al successivo attacco. Una sana sventagliata di pugni.

 

Era così che Kydoimos amava combattere, con tutta se stessa, con tutto il suo corpo, che doveva essere, ed in effetti era, un’arma da battaglia. Veloce, scattante, pungente, mai stanco. Questo era il ritmo del cuore di una Makhai, che aumentava durante ogni battaglia, giungendo al nirvana quando incontrava un valido avversario in grado di tenerle testa, in grado di ballare con lei la danza del caos.

 

E non è questo il caso! Commentò delusa, schiantando Mani contro il muro di confine con un calcio secco, per poi scagliargli contro il suo stesso bastone, piantandoglielo in mezzo alle gambe.

 

“Padre!!!” –Gridò allora Hjúki, correndo verso di lui, mentre Bil rimaneva alle sue spalle, tenendo d’occhio l’avversario.

 

Come se due bambini possano essere un problema! Sbuffò Kydoimos, osservando con maliziosa simpatia l’amorevolezza che riversavano verso l’impotente genitore. Simpatia o invidia? Si chiese per un momento, ammirando quel sincero spirito di fratellanza, così lontano dal legame che univa le Makhai. Scosse la testa, ricordando a se stessa di non essere mai stata invidiosa di niente, e scattò avanti.

 

Bil tentò di frenarne l'avanzata, usando il cosmo per generare colonne d'acqua che si abbatterono scrosciando su di lei, investendola da ogni direzione, senza impensierirla affatto. Anzi, riuscirono persino a strapparle un sogghigno compiaciuto.

 

“Una bella rinfrescata era proprio quello che ci voleva! Grazie, bambino!” –Esclamò, balzando su di lui e afferrandolo poi per i ricciuti capelli dorati, incurante dei suoi tentativi di liberarsi. –“O forse sono io ad essere particolarmente focosa?! Ah ah ah!”

 

A quella vista Hjúki si allarmò, gridando alla pericolosa guerriera di liberare suo fratello.

 

“Come desideri. Ma attento a quel che desideri, potrebbe realizzarsi!” –Ridacchiò la Makhai, scagliando Bil addosso all'altro fanciullo, osservandoli ruzzolare a poca distanza dal padre dai sensi intontiti. Non senza una certa ironia, osservò che l'avevano tenuta impegnata per ben più lunghi minuti rispetto ai due uomini dotati di armatura, di cui lestamente si era sbarazzata. Sospirando sconsolata per la ridicola fragilità di quel mondo privo di difensori, mosse un piede per passare oltre, quando venne afferrata per il calcagno da un'esile mano, il cui tocco non avrebbe neppure percepito se non fosse stato accompagnato da un gemito. O, come parve al suo animo, da una supplica.

 

“Una richiesta di morte, mi pare di udire! Perché così va considerato questo ridicolo tentativo!” –Ironizzò, osservando Bil che, a fatica, si era trascinato fin ai suoi piedi, e il fratello, poco distante, che aveva recuperato il bastone di Mani, puntandolo nella sua direzione. –“Ah ah ah! Siete i migliori difensori che questo regno abbia mai avuto! Lo sapete vero? Peccato, tra dieci anni forse avreste potuto salvarlo! Che questa consapevolezza sia l'obolo che vi accompagnerà all'Inferno! Addio, ragazzini, ho giocato fin troppo con voi!” –Esclamò, avvampando nel proprio cosmo e scagliando entrambi indietro, le vesti incendiate da un'improvvisa fiamma venefica.

 

Nooo!!!” –Gridò allora un uomo, prima di investire Kydoimos con un'onda di gelida energia, cogliendo la Makhai di sorpresa, non aspettandosi che fosse ancora in grado di combattere.

 

“Hai ritrovato le forze all'improvviso? O è stato il timore per la sorte di quei due marmocchi a farti svegliare dal torpore della tua inutile esistenza?!” –Ringhiò la donna dai biondi capelli, rialzandosi di scatto e fissando Mani con sguardo tagliente.

 

“È stata la loro fede a farmi alzare! La passione autentica che hanno infuso ai loro gesti, l'altruismo e l'amore con cui si sono eretti a protezione del padre... che tanto amore invece non merita!” –Rispose il Selenite, abbandonandosi a un sospiro.

 

“Di questo puoi essere certo! Meriti solo di morire, qui e ora!” –Chiarì la Makhai, lanciandosi avanti con il pugno carico di energia.

 

Rivelando una certa agilità, Mani scartò di lato, evitando l'affondo e muovendo svelto il bastone intagliato, mirando al basso ventre della nemica, ma il colpo, portato con poca forza, servì solo a spingere Kydoimos all'indietro. Imbestialita, la Makhai della confusione portò di nuovo il pugno avanti, avvolto in folgori di energia, ma il Selenite lo fermò roteando l'asta di fronte a sé.

 

“Non di legno comune è fatto il bastone di Mani! Estratto dall'Albero dell'Universo, così mi disse Odino quando me ne fece dono! In esso c'è tutta la sapienza e la capacità di resistere alle intemperie del mondo che sempre hanno caratterizzato Yggdrasill, il perno della nostra civiltà!”

 

“Fino a quando non è caduto!” –Lo derise Kydoimos, tentando un nuovo assalto diretto e venendo respinta indietro dalla veloce rotazione del legno.

 

“Questo lo rende ancora più importante! Non è più solo un dono del grande Frassino, adesso è tutto ciò che di quell'albero mitico rimane! Posso solo essere onorato di impugnarlo in quest'ultima guerra!”

 

“Te lo pianterò nel cuore e poi darò fuoco alla tua carcassa! E a quella dei mocciosi che ti seguono, Dio di Asgard!” –Avvampò la Makhai, spostando lo sguardo sui corpi svenuti di Bil e Hjúki.

 

“Bastarda!!! Non oserai!!!” –Tuonò Mani, come se alzare la voce fosse un deterrente alla follia guerriera di Kydoimos, la quale era già schizzata verso i bambini, pronta per sfondare loro i crani. Gridando per il terrore, e per la rabbia, il Custode del Cerchio di Saturno piantò il bastone nel suolo, infondendovi tutto il suo cosmo, tutta la vita che poteva lasciar fluire pensando al futuro che stava per essere negato ai suoi figli. –“Sorgi, Axis Mundi!!!”

 

E allora dal terreno sotto i piedi della Makhai spuntarono decine e decine di rami, che subito si innalzarono al cielo, in una selva continua che le rese impossibile avanzare ancora. I lunghi fusti nodosi si avvinghiarono al suo corpo, stritolandolo, premendo con forza sulla Veste Divina che poche volte in battaglia era stata incrinata. Kydoimos tentò di reagire, di sgusciare via da quella bizzarra prigionia, ma dovette ammettere che la forza dei rami del Frassino Cosmico era terribile, parevano vigorosi come le braccia degli Jotnar.

 

Ma anche quest'alberello farà la fine del suo predecessore! La fiamma degli Spiriti della Battaglia non può essere spenta! Di certo non con trucchetti da giocoliere di corte! Avvampò la Dea, espandendo il proprio cosmo e incenerendo i fusti nodosi che la avvinghiavano, mantenendo gli altri a distanza con l'energia ardente emanata dal suo corpo.

 

“Ci hai provato, Mani! Almeno questo lo scriveremo sulla tua lapide! Ora raggiungi Shen Gado e fatevi compagnia, dannati per l'eternità!” –Esclamò fiera, mentre una violacea evanescenza le avvolgeva la mano, affusolandosi tra le sue dita, prima di scattare verso il basso, incitata dalla stessa Kydoimos. –“Shamara!!!”

 

Scansatiii!!!” –Gridò allora una voce maschile, mentre un'agile figura si lanciava su Mani, pur non riuscendo a portarlo completamente fuori dal raggio d'azione di quella fatua evanescenza.

 

Shen... Gado...” –Mormorò il Selenite di Saturno, intontito, mentre gli spiriti maligni si attorcigliavano attorno al suo corpo, cercando una via per entrare. Il valoroso Comandante di Selene tentò di cacciarli via, ma non riusciva neppure a raggiungerli, tanto intangibili e distanti apparivano al tatto. Poté solo dire a Mani come vincerli, superando le proprie paure.

 

Quasi avesse compreso, e forse con la consapevolezza di non riuscire, il Custode del Sesto Cerchio lanciò un'ultima occhiata ai suoi figli, che giacevano svenuti a pochi passi dal varco che non era stato forte abbastanza da difendere, e poi di nuovo a Shen Gado, che annuì mestamente, prima che Mani chiudesse gli occhi, sopraffatto dagli spiriti evocati da Kydoimos, ormai entrati dentro di lui.

 

“Sono sorpresa del tuo risveglio, ippogrifo!” –Esclamò allora la donna, che nel frattempo aveva distrutto quel che restava del novello frassino generato dal Selenite. –“Mai nessuno prima d'ora era riuscito a vincere gli spiriti maligni che le tribù native dell'Amazzonia chiamano Shamara! Ho soggiornato presso di loro per un po' di tempo, poiché non molto lontano é avvenuta la mia rinascita, ed ho visto uomini condannare altri uomini a così intense sofferenze da far storcere la bocca persino a me e alle mie sorelle! Eppure tu, impassibile, ancora ti ergi a me di fronte, ancora ti affanni e alla morte resisti. Com'è possibile? Sinceramente, rispondimi!”

 

“A dispetto del nome e delle forme raccapriccianti, il tuo colpo segreto è misera cosa.  Un trucchetto con cui fai emergere le paure insite in ogni individuo, facendole divenire realtà. Per cui, chi vi crede si ritrova a vivere un eterno presente dominato da tali paure e dal suo fallimento, una prospettiva che la mente umana ben poco potrebbe tollerare, spingendo verso il suicidio! Pur tuttavia non mi conosci, Dea della Confusione, o avresti saputo fin dall'inizio che non così avresti potuto vincermi! Perché l'intrepido ippogrifo non conosce paura, mentre tu, donna guerriera, adesso dovrai temermi!” –Esclamò fiero, espandendo il proprio cosmo color indaco.

 

“Incredibile!!! Un uomo che non conosce paure! Uhm, adesso che lo percepisco, trovo nel tuo cosmo divine sfumature! Forse l'eredità di chi ti ha generato ti permette di esercitare un così preciso distacco!” –Rifletté Kydoimos, mentre Shen Gado balzava in alto, lanciandosi su di lei con il tacco teso, roteando su se stesso in uno scintillio di viola e avorio.

 

“Non soltanto, Dea miserabile che con turpi inganni vinci i nemici! Ma se il tuo colpo tira fuori le paure umane, su me non può funzionare perché io non ho visione di alcun futuro che mi terrorizzi, in quanto tutto quel che potevo paventare, tutto ciò che avrebbe potuto darmi dolore, si è già realizzato! Adesso non mi resta altro che vivere o morire, ma quella scelta già l’ho fatta e non ho intenzione di tornare sui miei passi! Cadi, misera strega, sotto il Galoppo dell'Ippogrifo!” –L'assalto spinse Kydoimos indietro, mentre Shen Gado, dopo aver distrutto il suolo di fronte a lei, muoveva lesto la gamba destra, scatenando una raffica di calci diretti al volto della donna.

 

“Mi piaci!” –Sogghignò quest'ultima, con maliziosa perfidia, prima di afferrare l'arto sporgente del Comandante dei Seleniti e tirarlo a sé, bloccando i suoi affondi e al tempo stesso sbilanciandolo. Per evitare di cadere, Shen Gado dovette appoggiare una mano a terra e Kydoimos approfittò di quel momento per colpirlo al volto con una ginocchiata. Intrappolato nella morsa della Makhai, il guerriero dovette incassare il colpo alla mandibola, prima che un successivo calcio lo scaraventasse indietro.

 

“Come sei freddo! Un eroe tuo pari dovrebbe essere ben più caloroso e passionale, non trovi?” –Sghignazzò la donna, umettandosi le labbra con la lingua, prima di scattare avanti, avvolta in vampe di fuoco violacee.

 

“No!” –Si limitò a rispondere l'Ippogrifo, sollevando la gamba destra di colpo e muovendola a spazzare, fermando e colpendo Kydoimos sul basso ventre, con un colpo così duro e preciso che le mozzò il fiato per una manciata di secondi, dando il tempo a Shen Gado di balzare in alto, spalancando le ali dell'armatura, e piombare poi su di lei a tacco teso. –“Galoppo...”

 

“Sei ripetitivo!” –Sentenziò la Makhai, alzando un braccio e afferrando il piede corazzato dell'uomo con una mano, bloccandone ogni movimento.

 

“Credi?!” –Ironizzò allora lui, roteando all'improvviso su stesso, coadiuvato dalle flessuose ali della corazza, e torcendo al qual tempo la mano della donna, prima di colpirla in pieno volto con un calcio violento, schiantandola molti metri addietro.

 

Bas... tardo!!! Mi hai fatto abbassare la guardia con una concatenazione di assalti similari!” –Ringhiò Kydoimos, rimettendosi in piedi, l'elmo ormai distrutto, i biondi capelli intrisi del suo sangue divino che, da una ferita alla tempia, le imbrattava gli occhi, colando fin lungo il collo. Sfiorandosi la pelle con un dito, intingendolo nel proprio Ichor, la Makhai tornò a sorridere, in quel modo perfido e un po' pazzo che le era proprio. –“Vorresti leccarlo? Sì, lo credo bene, e di certo non ti limiteresti a questo. Tutta la tua furia guerriera non può mascherare il desiderio che ti invade in mia presenza, Ippogrifo! Del resto sei una bestia, e come tale hai i tuoi bisogni! Perciò lascia che ti invadano tali turpi pensieri e sfogali con me. Su di me!”

 

Shen Gado non rispose alcunché, mantenendo la posizione faticosamente guadagnata di fronte al varco verso il Cerchio di Giove, proteggendo al tempo stesso Mani e i suoi discendenti. Ma Kydoimos, anziché offendersi, vide in quel mutismo scocciato un'ulteriore sfida, rincarando la dose.

 

“Fai il duro e puro? Interessante! Ti piegherò con ancora maggior soddisfazione! E lo farò con un bacio! Ah ah ah!”

 

“Smettila di dire idiozie e combatti, donna!” –Esclamò allora Shen Gado, espandendo il proprio cosmo, mentre la figlia di Eris faceva altrettanto.

 

“Non dico idiozie, ma verità! E adesso lo vedrai! O forse dovrei dire, lo sentirai, il tocco delle mie labbra! Le labbra dell'oscurità!” –Rise Kydoimos, portandosi una mano sotto il mento e muovendo le labbra nell'atto di lanciare un bacio. –“Kiss of the Darkness!!!”

 

L'assalto prese Shen Gado alla sprovvista, non aspettandosi avesse un aspetto così inconsueto. Lui, per lungo tempo avvezzo a fronteggiare mostri, giganti e predoni, e poi, dopo il trasferimento sulla Luna, disabituato a combattere, non aveva mai affrontato una donna dalle movenze così letali come Kydoimos. O così subdole, rifletté, mentre il tenebroso bacio di energia lo investiva in pieno, scagliandolo contro il muro di confine, incrinandogli persino qualche ala.

 

“Beh, che ne pensi? Ti ha lasciato senza fiato, vero? Lo so, me lo hanno detto in molti! Ah ah ah!” –Sghignazzò selvaggia la Makhai, incamminandosi a passo fermo verso di lui, decisa a finirlo. Shen Gado fu svelto a rialzarsi, ma non abbastanza per impedirle di afferrarlo per la gola, sbatterlo al muro e costringerlo a guardarla in faccia. –“È tutto il tempo che mi osservi, Ippogrifo! Eppure io non ho ancora visto il tuo volto... è così orribile che lo celi alle donne che invece vorrebbero coprirti di baci? Ah ah ah! Lascia che io veda, e giudichi!” –Aggiunse, muovendo l'altra mano in modo da sfilargli l'elmo.

 

“No!!!” –Avvampò allora il Comandante dei Seleniti, lasciando esplodere il proprio cosmo. Una detonazione così intensa e fulminea che Kydoimos ne fu sopraffatta e sbalzata molti metri addietro, ruzzolando sul suolo lunare con l'armatura distrutta. Ma neppure Shen Gado ne uscì indenne, venendo schiacciato ulteriormente contro il muro, con numerose crepe sulla corazza divina.

 

“Sei un folle disperato!!! Tu, non io, hai la mente ottenebrata dalla pazzia, se a così tanto sei disposto solo per coprire il tuo volto!!!” –Gridò la figlia di Discordia, rimettendosi in piedi a fatica. –“Tanta devozione non deve andare sprecata! Tutt'altro! Ti onorerò della parola fine, Ippogrifo, così una volta morto non dovrai più preoccuparti che una donna ti veda in volto!!! Addio, uomo fantoccio! Kiss of the Darkness!!!”

 

Il potente bacio di energia oscura sfrecciò verso Shen Gado, saturando lo spazio tra loro in un attimo e sollevando polvere e frammenti di suolo, obbligando persino la stessa Kydoimos a coprirsi il volto con una mano. Sogghignò, quando udì l'impatto, un rumore persino più secco e preciso del precedente. Uno schianto contro un muro.

 

Ma la Makhai rimase stupita quando vide che non era stato il guerriero a cozzare contro la muraglia di confine, bensì il suo assalto ad essere dissolto da un'ingegnosa trovata. Usando le ali flessibili della corazza, Shen Gado le aveva chiuse di fronte al suo corpo, proteggendosi alla meglio dall'onda devastatrice, sia pur a costo di danneggiarle.

 

“Mie adorate ali, che tante volte mi avete salvato in battaglia, renderò onore al vostro sacrificio! Che non si dica che l'ippogrifo, pur senza ali, non possa più volare!!!” –Esclamò fiero il Comandante, bruciando al massimo il proprio cosmo e preparandosi a scagliare il suo attacco più potente. –“Dominion of light!!!” –Gridò, sollevando un braccio al cielo, mentre da ogni direzione, tutt'attorno a Kydoimos, spuntavano strali di luce, che piovvero su di lei a un ritmo incessante.

 

“Male... dizione!!!” –Ghignò la donna, espandendo il cosmo tenebroso e cercando di contrastare quella martoriante pioggia di luce, una pioggia che pareva cadere dalle stelle del cosmo tanto fitta e persistente era. Iniziò a correre, per evitare di essere trafitta, ma i raggi lucenti sembravano spostarsi con lei, trovandola ovunque tentasse di andare, causandole frustrazione e irritazione. Quindi, osservando la postura sicura ed eretta di Shen Gado, torse le labbra in un ghigno malvagio, comprendendo infine. Caricò il pugno destro di energia oscura e lo piantò nel terreno sotto di sé, sollevando un turbine di polvere e suolo lunare, così vasto e fitto da nasconderla per qualche istante agli occhi dell'Ippogrifo. Quando questi la avvistò di nuovo, la Makhai era già troppo vicina perché il suo assalto potesse colpirla senza ferire anch'egli al qual tempo. –“Ora ti darò quel bacio che così tanto hai fuggito! Il bacio dell’oscurità!!!” –Disse con voce suadente, scatenando il suo assalto da distanza ravvicinata e travolgendo il valoroso comandante, con un boato che fu udito sull'intero suolo lunare, quasi come la donna avesse voluto dire alle sorelle di esserci ancora, di essere lei la vittoriosa.

 

“E ora...” –Aggiunse, avvicinandosi al corpo ferito dell'Ippogrifo. –“Vediamo questo volto misterioso...” –E si chinò su di lui, per togliergli l'elmo danneggiato, da cui riusciva a intravedere un viso maschile, con una palese cicatrice su una guancia.

 

“Non toccarlo!” –Tuonò allora una giovane e fresca voce, anticipando lo scintillio di uno strale luminoso che si conficcò nel terreno tra lei e Shen Gado. Uno strale che, stupendo la stessa Makhai, aveva la forma di una lunga asta dorata dalla cima ornata da un fiore sbocciato. –“Scettro d'Oro!!!” –Esclamò la stessa voce, mentre Kydoimos era costretta a balzare via di scatto, per non essere investita da una sfilza di raggi di luce.

 

“Se vuoi giocare, gioca con noi, non con i feriti! Vigliacca!” –Intervenne allora una voce femminile, mentre un’agile figura, armata con una lama di luce, piombava sulla Makhai, costringendola ad un serrato corpo a corpo, in cui stavolta lei era la preda. Lei era la vittima costretta ad arretrare, a spostarsi di continuo, per non essere trafitta da una spada di pura energia.

 

“Visto che me lo hai chiesto, mi tratterrò a giocare ancora, ragazzina!” –Rispose impavida, fermandosi infine e concentrando il cosmo attorno alle sue labbra, di fronte agli occhi straniti dell'avversaria.

 

Sca... ppate!!!” –Vociò allora Shen Gado, affannando nel rimettersi in piedi, proprio mentre il Bacio dell'Oscurità investiva in pieno i suoi soccorritori.

 

“Giornata proficua, quest'oggi!” –Commentò la Makhai, avvicinandosi ai corpi distesi a terra dei due ragazzi appena intervenuti. Quindi, notandone le corazze e i volti, fece una smorfia, riconoscendone i nemici di cui Proioxis avrebbe dovuto sbarazzarsi.

 

“Se pensi alla tua amata sorella, sta’ tranquilla. Tra poco la raggiungerai, nel terribile inferno che aspetta voi cagne immonde!” –Esclamò uno di loro, rialzandosi ansimando, il bel volto segnato da ferite ancora aperte. –“I Cavalieri delle Stelle non lasciano alcun lavoro incompiuto! Io sono Jonathan e lei è Reis, e come abbiamo vinto Proioxis ugualmente vinceremo te!”

 

“Dovrei esserne impressionata? O forse afflitta da qualche tremendo dolore che dovrebbe spingermi a un'istantanea vendetta per amore della sorella perduta? Ah ah ah! Solo dispiacere provo, e pena per quella stupida, che non è stata in grado di vincere due ragazzini come voi! Poco importa, vi aggiungerò alla lista dei caduti in questo cerchio! State pronti, bambini, la mamma è decisa a punirvi! Ah ah ah! Kiss of the Darkness!!!”

 

Il violento assalto energetico sfrecciò verso i Cavalieri delle Stelle, che furono lesti a tirare su le proprie difese. La Barriera Astrale e la Cascata di Luce impedirono loro di essere feriti, ma non riuscirono a frenarne del tutto la carica, violenta e frastornante, proprio come l'Avanzata Impetuosa che avevano fronteggiato in precedenza.

 

Dev'essere un topos ricorrente di queste Makhai!” –Ironizzò Jonathan, sforzandosi nel mantenere solida la propria barriera. –“Se un giorno mai conoscerò il loro creatore, avrei due paroline da dirgli!”

 

“Parla meno e agisci di più!” –Sibilò Reis, mentre tutto attorno alle sue braccia scivolava un fiume di polvere di stelle. –“Vortice scintillante di luce!!!” –Gridò, liberando il suo colpo segreto, che inglobò parte dell'assalto di Kydoimos, disperdendolo in varie direzioni, permettendo anche a Jonathan di rifiatare e di liberare una moltitudine di comete energetiche, che sfrecciarono verso la Makhai alla velocità della luce.

 

Uah ah ah! Questo è vero godimento!!!” –Strepitò quest'ultima, intensificando il proprio attacco e generando così una violenta esplosione che scagliò tutti i contendenti indietro di decine di metri, aprendo persino degli squarci sul suolo e nel muro di confine.

 

“Ma questa non c'è del tutto con la testa!” –Commentò Jonathan, il primo a rimettersi in piedi, aiutandosi con lo Scettro d’Oro. –“Possibile che dobbiamo sempre affrontare avversari con un simile livello di pazzia?!”

 

“Mettila in questo modo... Il fatto che continuiamo ad affrontarli vuol dire che ogni volta ne usciamo vincitori!” –Lo confortò Reis, rialzatasi a sua volta, prima di voltarsi verso il varco per il Cerchio di Giove, su cui l'ardimentosa sagoma della Makhai della Confusione si stagliava ancora. Ferita, sanguinante, con la corazza danneggiata in più punti e la pelle che si intravedeva al di sotto, cerea com'era stata quella di Proioxis, ma ancora decisa a dare loro battaglia.

 

Jonathan non poteva fare a meno di notare l'ironia della loro posizione. Era Kydoimos adesso a proteggere il varco, era lei che si ergeva a pochi passi dal tunnel, lei che però a quel passaggio pareva non pensare più, determinata, ostinata, di certo infatuata dal desiderio di lotta. Era quello, solo quello, in fondo, che la Makhai voleva.

 

“Sull'impavido capitano la mia tecnica non ha avuto effetto, ma il Selenite di Saturno è stato malamente piegato! Chissà cosa avranno in serbo, per voi, gli spiriti maligni che rispondono al nome di Shamara?!” –Sussurrò, strappando un gemito di infastidita sorpresa al Custode dello Scettro d'Oro, che fece cenno a Reis di tenersi pronta.

 

Jonathan conosceva bene le leggende che circolavano riguardo alle tribù amazzoniche che a simili riti erano devote, riti in grado di distruggere la mente di un uomo. E per quanto l'addestramento cui ad Avalon erano stati sottoposti avesse sgombrato i loro animi dal buio e dalla paura, non voleva certo provarne eventuali effetti. Così mosse il braccio con grazia e velocità, dirigendo un preciso raggio di energia contro il polso di Kydoimos, schiantandone la corazza e facendo imbestialire la Makhai, che si lanciò verso di loro proprio mentre i due Cavalieri facevano altrettanto.

 

“Un colpo che distrugge le menti? Interessante! Se possibile, vorrei dire la mia al riguardo!” –Esclamò allora una nuova voce maschile, mentre una fiammeggiante figura piombava tra i combattenti, spalancando ali così lucenti e maestose da frenare la corsa di Reis e Jonathan. –“Assaggia, perversa Makhai, il colpo che piega ogni spirito, persino il più crudele! Assaggia il pugno dell'illusione della fenice!!!”

 

Un sottile raggio di energia raggiunse Kydoimos in piena fronte, fermando la sua corsa e spingendola persino indietro tanto fulmineo e intenso era stato l'affondo. Poi, quando si riebbe, comprese che non era successo niente, che il suo corpo era ancora lì, pronto per combattere ancora, persino con quel nuovo nemico.

 

“Phoenix!!!” –Esclamarono Reis e Jonathan, felici di rivedere il Cavaliere dello Zodiaco, il cui volto stanco e ferito non tradiva però alcuna volontà di riposo, non finché l'ultimo pericolo non fosse stato debellato. Aveva percepito poc’anzi il cosmo di Andromeda elevarsi fino al parossismo e poi placarsi, come se l'oceano fosse stato svuotato di colpo, ed era più che mai deciso ad andare a investigare.

 

“Anche noi abbiamo avvertito l'accendersi impetuoso del cosmo di tuo fratello, e il suo svanire poco dopo. Così come ancora percepiamo il dilaniante tormento cui il Cavaliere dell'Arcobaleno nostro compagno è sottoposto. Chiunque sia il nemico che ha incontrato, non sta affatto avendo la meglio!” –Spiegò Reis, prima che l'isterica voce di Kydoimos li richiamasse.

 

“Oh, tutta questa preoccupazione per i vostri congiunti vi fa onore! Ma rende vana la mia tecnica! Non va bene, proprio no! Un gesto scortese che la mamma dovrà punire seduta stante! Con un bel bacio di tenebra...”

 

“Sta' attento, Phoenix! Sembrerebbe qualcosa di piacevole, ma è un'esplosione devastante!” –Esclamò Jonathan, sollevando all'istante le proprie scintillanti difese.

 

“L'unico bacio che riceverai quest'oggi sarà quello della morte!” –Parlò allora una voce che i tre compagni avevano udito in una sola occasione, ore addietro, quando avevano per la prima volta varcato il cerchio da lui presieduto.

 

“Mani!!!” –Lo riconobbero Reis e Jonathan, osservando il malconcio Selenite rimettersi in piedi a fatica, il volto tumefatto e bagnato da sudore freddo.

 

“Quale sorpresa! Dunque gli spiriti maligni hanno fallito anche con te, Dio di Asgard? O vuoi forse vantarti dell'epiteto di ultimo Ase ancora vivo? Per poco ancora, s'intende!” –Sghignazzò Kydoimos, voltandosi verso di lui.

 

“Non in cerca di titoli o gloria sono, Makhai della Confusione, ma di perdono. E lo chiedo ai miei figli, che non sono stato in grado di difendere, e al valoroso Ippogrifo che per salvarmi ha rischiato la vita, così come hanno fatto i Cavalieri di Atena e di Avalon qui presenti!”

 

“Nobile Mani... noi...” –Ma Jonathan non poté aggiungere altro, che già il Selenite aveva ripreso a parlare, indicando il varco alle sue spalle.

 

“Andate! I vostri compagni hanno bisogno di aiuto e non possiamo sprecare tempo ad affrontare in cinque un solo avversario!”

 

“Dimentichi chi è l'avversario!” –Precisò la Makhai, avvampando nel suo cosmo violaceo. –“Qualcuno che adora gli scontri di gruppo, la ridda violenta e caotica delle battaglie di massa! Fatevi avanti anche tutti assieme!”

 

“Tutt'altro! Non potrò mai dimenticarti, Kydoimos, né potrò dimenticare le tragiche visioni con cui i tuoi demoni mi hanno riempito la mente, mostrandomi più e più volte la morte dei miei figli! Puoi essere certa che quelle immagini non le scorderò mai! Ma proprio tali orripilanti prospettive mi hanno spinto a scuotermi dal torpore e a reagire, a considerarli non più come un peso che limiti in battaglia, ma come la ragione stessa della battaglia! Il voler garantire loro un futuro!!! Per questo Mani combatte! Forse morirò quest'oggi, raggiungendo gli Asi e i Vani nell'oblio che tutti attende dopo la caduta del Frassino Cosmico, ma se la mia fine permetterà a Bil e a  Hjúki di salvarsi, allora ben venga!” –Affermò fiero. –“Ben venga!”

 

“E allora eccomi! Ah ah ah! Kiss of the Darkness!!!” –Ghignò isterica Kydoimos, lanciandosi contro di lui nel suo cosmo oscuro.

 

Ultimo inverno!” –Tuonò il Selenite asgardiano, liberando una furibonda tempesta di ghiaccio, così gelido e pungente da frenare la corsa della Makhai, congelandone i piedi e parte delle gambe in un'indistinta massa azzurrognola.

 

“Co... cosa?! Che tecnica è mai questa?!” –Latrò imbufalita, tentando di muovere gli arti. –“Dimentichi che noi Makhai siamo le compagne di Ares e Discordia dai tempi del mito? Che in noi arde l'impetuosa e implacabile fiamma della guerra? L'unica in grado di scaldare qualsiasi mondo!!!” –E nel dir questo fece esplodere il proprio cosmo rovente, che iniziò a liquefare il ghiaccio che la imprigionava.

 

“È tua, Shen Gado!” –Disse allora Mani, scansandosi di lato e rivelando infine l'eroico comandante già pronto per l'ultimo scontro. Con un balzo, l'Ippogrifo fu nello spazio sopra Kydoimos, piombando poi su di lei a tacco teso, moltiplicando la propria immagine in infinite copie che colpirono, calciarono, affondarono dentro il corpo della donna senza darle tregua.

 

Galoppo dell'Ippogrifooo!!!” –Tuonò, distruggendone le vesti divine, riducendole a sanguinolenta poltiglia. Ma quando fece per ritirarsi, Shen Gado si sentì afferrare per un tallone, dall'avida presa di Kydoimos che ancora aveva forza per sbatterlo a terra e stringergli poi le dita attorno al collo.

 

“Non ti ho ancora visto in volto...” –Sibilò, soffocando il Comandante dei Seleniti, che si agitò per liberarsi.

 

“Né mai lo vedrai, strega!” –Intervenne allora Mani, balzando su di lei, con il bastone donatogli da Odino saldamente nelle sue mani.

 

Kydoimos tossì, sputando sangue e allentando in tal modo la presa su Shen Gado, che fu lesto a liberarsi e a balzare indietro con un'agile piroetta, lasciando la donna ad osservare la sua triste sorte. L'asta ricavata da Yggdrasill, la pianta che tanto aveva schernito, le aveva penetrato il cuore, sbucando dall'altra parte del corpo, mentre tutto attorno il cosmo di Mani brillava cristallino.

 

Comprendendo quel che sarebbe accaduto, la Makhai della Confusione gioì, ridendo a più non posso, al punto da riempirsi gli occhi di lacrime.

 

“Che fine meravigliosa! Oh sì, una fine magnifica la mia!!! Morte, mio capitano, leviamo l’ancora! è l’ora!” –Declamò, mentre decine e decine di rami e fronde sorgevano dal bastone, dilaniandola dall'interno e distruggendo quel che restava del suo corpo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** Capitolo ventisettesimo: Il continente perduto ***


CAPITOLO VENTISETTESIMO: IL CONTINENTE PERDUTO.

 

Se la Fondazione avesse piazzato delle boe rivelatrici nel Golfo di Biscaglia, come aveva fatto nel Mar Celtico, in quel momento i contatori sarebbero impazziti, e Rigel e gli altri studiosi avrebbero avuto di che discutere per scoprirne il motivo. Di tutti gli scienziati del mondo, forse solo quelli della Fondazione Thule avrebbero potuto capire; del resto loro sapevano. Di Lady Isabel, di Atena, dei Cavalieri. Dell’esistenza di un mondo parallelo di Dei e di eroi che viveva a fianco dell’umanità sebbene questa non se ne fosse mai resa conto.

 

Ma presto avrebbero dovuto ricredersi.

 

Presto, molto presto, i satelliti avrebbero mostrato quell’enorme zolla di terra appena sollevatasi al largo delle coste del Marocco. Una gleba che nel Mondo Antico aveva ospitato una delle più progredite civiltà umane.

 

Devo sbrigarmi! Mormorò Nettuno, chinato, con un ginocchio sul suolo, proprio di fronte al tempio in cui aveva riposato per secoli. Regolarizzando il respiro, affannato per lo sforzo, il Nume si rialzò, girando lo sguardo attorno a sé, per ammirare una nuova volta l’isola su cui aveva imperato millenni addietro, l’isola che, nel periodo di suo massimo splendore, aveva ospitato astronomi e aedi, scultori e maestri di danza. L’isola ove era nata la prima grande civiltà marittima e la più antica schiera di guerrieri divini.

 

Atlantis. Aggiunse, spaziando su tutto quel che restava di quel regno arcaico. Templi caduti in rovina, che gocciolavano silenti sotto il sole d’autunno, strade e palazzi ormai irriconoscibili, costruzioni invase da una selvaggia flora marina e da qualche animale che non era riuscito a fuggire in tempo. A parte ciò, nessun’altro essere vivente turbava la quiete del continente perduto. O almeno questo era quel che Nettuno riteneva.

 

“Siete tornato a casa, mio Signore!” –Esclamò una decisa voce di donna, rubando il Dio ai suoi pensieri.

 

Prima ancora di voltarsi, il fratello di Zeus Olimpo sorrise, ben sapendo chi avrebbe trovato di fronte a sé. La donna che già una volta gli aveva salvato la vita, mettendo a repentaglio la propria.

 

“Quante volte ancora vuoi morire per me, dolce Titis?” –Commentò, fissando la snella silhouette dell’ultimo Cavaliere Sirena.

 

“Ogni volta in cui ce ne sarà bisogno!” –Si limitò a rispondere la fedelissima, chinandosi di fronte al Nume. Aveva l’armatura leggermente danneggiata per gli scontri con Ascanio, Phantom e il guardiano del tempio sommerso, ma nei suoi occhi brillava la stessa luce di decisione che aveva sempre palesato, sin da quando, anni addietro, aveva aiutato Julian a prendere coscienza con il Dio sopito in lui.

 

“Sei stata al mio fianco in molte occasioni, Titis! Quando mi risvegliai nel corpo del giovane Kevines e riunii i Sette Generali e i Guerrieri di Scaglie, e quando fui davvero sul punto di credere nella vittoria contro Atena. E infine quando dovetti assistere al crollo del mare azzurro, e alla fine dei miei sogni di dominio. È giusto, in fondo, che tu sia qui anche adesso, alle soglie dell’ultima guerra.”

 

“Mio Imperatore… quali sono i vostri piani? È dunque vero quel che il Divino Ermes mi accennò giorni addietro? Avete stretto alleanza con il Signore del Fulmine?”

 

Nettuno non rispose, fissando Titis per qualche secondo con imperturbabili occhi blu, prima di spostarli alle sue spalle, verso le costruzioni lontane, e incamminarsi in quella direzione, facendo cenno al Cavaliere Sirena di seguirlo.

 

“Sono qua per un motivo ben preciso! Verificare l’integrità delle riserve di oricalco, di cui mio fratello vuole servirsi per generare nuove corazze! È strano, non trovi? Di tutti gli Dei coinvolti in lotta adesso, sono l’unico a non avere un esercito, ma anche l’unico da cui potrebbero dipendere le sorti della stessa, disponendo della più grande riserva del materiale principale di cui le corazze di qualsiasi guerriero divino sono composte! Mi verrebbe da ridere, se fossi un folle Dio gaudente come era Dioniso! Ma sono Nettuno, o Poseidone come mi chiamavano i greci, quando invocavano la mia benedizione prima di ogni lungo viaggio per mare, quando chiedevano clemenza alle acque, per garantire una navigazione serena! Sono Nettuno sì, e sono uno stolto!”

 

“Co… come, mio Signore?!” –Balbettò Titis, fermandosi all’improvviso. Ma il Nume neppure se ne accorse, avanzando ancora di qualche passo fino a portarsi al centro esatto dell’isola, laddove un tempo confluivano le quattro strade principali che conducevano ai porti di Atlantide.

 

“Eppure Elmas me lo disse! Elmas lo aveva predetto… quel che sarebbe successo… scatenando quella guerra. Del resto, a cos’altro mai potrebbe portare un conflitto armato se non alla fame, alla miseria, alla distruzione e alla fine di tutto?”

 

“A sentirti parlare adesso non sembrerebbe proprio di udire il possente Nettuno Ennosigaeum, colui che si faceva borioso vanto del titolo di Imperatore dei Mari! Colui che per brama di possesso s’arrischiò a muover guerra ad Atena, scatenando la prima Guerra Sacra e decretando la fine del suo stesso regno!” –Parlò una voce all’improvviso, facendo avvampare il Nume.

 

“Chi osa?!” –Esclamò, scandagliando con il cosmo ogni angolo dell’isola, mentre Titis si guardava attorno sospettosa, pronta a schierarsi a difesa del suo Dio.

 

“Ah ah ah! Oso ben altro, se è per questo! Del resto, è ben noto che quel titolo non ti spetti, quell’onorificenza di cui mai sei stato degno! A differenza di chi, invece, negli oceani a lungo ha dimorato, traendone forza e fiducia! Senza tradirla mai!”

 

“Rivelati!!!” –Sibilò sdegnato Nettuno, mentre nella sua mano compariva il tridente di scaglie d’oro. Lo roteò per un istante sopra la testa, in uno sfarfallio di luci, prima di puntarlo verso i resti di un’antica costruzione, liberando un raggio di energia e distruggendo gli stessi ruderi.

 

“Vedo che non tutta l’eredità del tuo consigliere è andata perduta! Qualcosa di lui almeno hai salvato, se non i suoi insegnamenti, né la sua vita!” –Precisò pungente la voce sconosciuta, che adesso a Nettuno e a Titis parve più vicina, permettendo a entrambi di distinguerne le sfumature. Era la voce di un uomo adulto, dalla tonalità profonda come il mare. –“Ben misero ricordo rispetto al valore di quell’uomo che hai condannato a morte! Uno dei tanti che da te hanno avuto il benservito!” –E, dopo quest’ultima frase, un lampo di energia bluastra esplose a pochi passi di distanza dal fratello di Zeus, accecandolo per un istante, per poi rivelargli la sagoma di colui che l’aveva fino ad allora provocato.

 

Un uomo corpulento, rivestito da un’armatura di chiara fattura divina, sebbene molto più complessa e arzigogolata rispetto alle vesti degli Olimpi. Sullo schienale erano affisse delle ali, ma Titis, osservandole meglio, notò che non erano propriamente ali, non quelle di un uccello quantomeno. Somigliavano più a delle enormi pinne, tipiche di qualche animale sottomarino. Sulla testa indossava un elmo a forma di corona, fissato sotto il mento da un nastro metallico che si intravedeva a malapena sotto quella moltitudine di capelli blu che gli ricadevano ribelli su ogni lato del cranio, senza che questi si curasse troppo di esserne infastidito. In mano infine reggeva un’asta, all’apparenza anonima e priva di segni di riconoscimento, non fosse stato per l’impugnatura a forma di conchiglia intagliata.

 

Fu quel particolare, molto più dell’aspetto trasandato, a far sobbalzare Nettuno, che infine comprese chi aveva di fronte. E, nel capirlo, tremò.

 

“Non… è possibile! Non puoi essere tu!!! Non puoi essere vivo!!!” –Rantolò il Nume, cercando comunque di mantenere un certo contegno e un tono di voce fermo, sebbene fosse assodato che il suo avversario avesse notato il suo smarrimento.

 

Ed avversario è il termine adatto per indicarlo. Si disse, ricordando le antiche contese per il dominio dei mari, meno conosciute di quelle per la terraferma ma ugualmente sofferte.

 

La guerra dei tre re. Così la chiamarono un tempo, quando il mondo era giovane e gli Dei delle prime generazioni cosmiche non avevano ancora smesso di respirare.

 

E adesso uno dei tre è qui di fronte a me! Vivo e vegeto! Realizzò, prima di sbuffare scocciato per quell’intrusione e muovere un passo avanti, ponendosi al qual tempo di fronte a Titis, che di certo non aveva compreso il pericolo che correva.

 

“Sono sorpreso di vederti, Forco!” –Esclamò infine, strappando un ghigno perfido al nuovo arrivato.

 

“Ne sono sicuro! Da quanto non ci vediamo, Nettuno? Ho perso il corso dei secoli, o forse dovrei dire dei millenni? Non che abbia importanza, in fondo anche tu hai ben poco vissuto! Ben poco hai sfruttato l’enorme tesoro di cui sei rimasto troppo a lungo unico ozioso guardiano!”

 

“Che vuoi dire? Di cosa stai parlando?”

 

“Del mare, di cos’altro? Quale altro tesoro dovremmo aver caro noi che dalle acque traiamo forza e vigore, essendone i protettori ma anche le manifestazioni più pure? So che non comprendi i miei sentimenti, Nettuno, non li hai mai compresi, per questo non sei degno del titolo di cui ti sei arrogato! Imperatore dei Mari!!! Puah! Un lurido reuccio di un regno melmoso che le flatulenze di cinque ragazzini hanno abbattuto!!! E osi ancora definirti un Dio? Tu che per primo hai tradito gli ideali di grandezza e maestosità di cui i mari sono portatori?!”

 

“Come osi parlarmi in questo modo, Dio dimenticato?!”

 

“Dimenticato?! Forse è così. Immagino che gli uomini abbiano fatto presto a rimpiazzarmi con qualche nuova idolatria, del resto io, a differenza tua, non ho mai avuto interesse nell’ingraziarmeli! Non ho mai cercato la loro approvazione! Ciò che interessava a me, e agli altri Dei primordiali, era il mantenimento dell’integrità dell’enorme mondo sottomarino ove le nostre esistenze erano immerse, quel mondo di cui ben poco te n’è calato, vedendovi solo un terreno di conquista e di lotta!”

 

“Non è vero! Io amavo la mia terra, la mia magnifica Atlantide! E amavo il mio popolo, che a lungo vi ha dimorato, prosperando in ricchezza e felicità! Non solo i Generali, i miei guerrieri, ma anche la gente comune, i mercanti, i pescatori…”

 

“Sciocchezze!!! Vedi? Continui a non capire! C’è un abisso tra di noi, che neppure tutti gli oceani del pianeta potrebbero colmare! Tu parli di terra, di ricchezza, di genti umane… io parlo del mare, della vita che risplende sul fondale silente, dell’energia che fluisce in eterne correnti! Ponto e Oceano, come me, lo avevano compreso, che nel mare vi è un potenziale infinito, e a lungo abbiam lottato per la supremazia, per dirimere chi fosse degno di sedere sul trono degli oceani! Uno dopo l’altro, però, cademmo nell’oblio: il primo, sconfitto, come Gea e Urano, dalla Megas Drepanon del giovane Crono, e il secondo, ucciso poi da Zeus, al termine della Titanomachia, come ringraziamento personale per non aver preso parte alla guerra. E non dirmi che non perorasti tale richiesta? È in fondo quel che faceste all’epoca, no? Spartirvi il mondo noto! A te gli oceani, a Zeus i cieli, al tenebroso Ade l’Oltretomba. Ma a nessuno di voi, Deucci della terza generazione, è mai importato dei regni che vi siete assegnati! Nessuno di voi ne ha mai percepito le primordiali energie che vi risiedevano! Solo di farvi la guerra vi è importato! Ma adesso le cose cambieranno, e cambieranno proprio qua, ad Atlantide, simbolo della tua immensa e immonda follia, Nettuno! Trema, Dio che mai sei stato degno di essere tale, perché tra poco perderai tutto!”

 

“Le tue parole sono oscure, Forco, e intrise di follia!” –Tuonò il Nume Olimpico, impugnando saldamente il tridente.

 

“Le renderò più chiare, se lo desideri! Gli Dei antichi stanno tornando, e il fatto che io sia qua ne è una dimostrazione! Non ne sei convinto? Lascia allora che te ne dia prova! Lascia che ti dia un assaggio del potere di Forco, Signore e Padrone degli Oceani!” –E, nel dir questo, rivelò per la prima volta il proprio cosmo, vasto e possente, simile a mareggiata che tutto travolge. –“Kata Thalassa!!!”

 

Una poderosa ondata sorse dal suolo stesso, distruggendolo e scaraventando in alto Nettuno e il Cavaliere Sirena, che il Dio fu svelto a riparare con il proprio corpo, permettendole di sopravvivere a quell’incredibile pressione. Persino lui, se fosse stato un uomo comune, sarebbe morto, il corpo tranciato da quell’onda titanica. Si schiantarono molti metri addietro, contro le mura di un antico tempio, sprofondando tra le rovine e l’erba marina, di fronte allo sguardo soddisfatto dell’ancestrale Divinità.

 

“Co… come hai fatto?!” –Rantolò Nettuno, rimettendosi prontamente in piedi. –“Un potere simile… degno di un Dio del tuo livello, sicuramente… Ma come hai potuto recuperarlo? E come sei riuscito a tenerlo nascosto agli occhi di Zeus? Non riesco a credere che mio fratello non fosse a conoscenza della tua rinascita!”

 

“Ooh, il grande Zeus Tonante a ben altre faccende ha dedicato gli ultimi decenni della sua lunga e inutile esistenza! Tu non l’hai visto, nei suoi momenti migliori, ma la sua massima fatica consisteva nel sollevare il bicchiere di ambrosia che il prode Ganimede o qualche driade dal corposo seno gli aveva appena riempito! Un novello Dioniso, così avrebbero potuto definirlo!”

 

“Pur tuttavia avrebbe dovuto percepire il sollevarsi di una simile maestosa energia, così sconfinata e così… profonda!”

 

“Questo è infatti il mio cosmo, il cosmo di Forco, primordiale dominatore dei Mari, nato da Gea e Ponto! Io sono la Prima Onda, Nettuno! Io sono l’antico che avanza, e tu, che ti sei dimostrato indegno, non potrai sconfiggermi, da solo!”

 

“Il mio Signore non è solo!” –Esclamò allora l’acuta voce di Titis, affiancando prontamente il Dio, avvolta nel suo iridescente cosmo, e strappando una franca risata a Forco.

 

“Ti fai difendere dalle donne, Nettuno? Non sei in grado di brandire da solo il tuo tridente?! Ah ah ah! Ma non temere, ardimentosa donzella, ho anch’io qualcuno da farti affrontare!” –E, nel dir questo, il Dio antico battè le mani, mentre da dietro un muro poco distante usciva l’alta sagoma di un guerriero dai capelli arancioni.

 

Sulle prime Nettuno non lo riconobbe, ma poi ne osservò la danneggiata corazza azzurrognola, e il simbolo che l’aveva ispirata, il possente vortice che terrorizzava i naviganti nei mari del nord, e comprese, fulminandolo con uno sguardo terribile.

 

“Tu!!! Traditore!!!” –Ringhiò, puntandogli contro il tridente e liberando una guizzante scarica di energia, che il guerriero riuscì a malapena ad evitare, scansandosi con agilità, nonostante la sua stazza robusta. –“Come osi presentarti al mio cospetto? Hai una bella faccia tosta a camminare sull’isola che hai lasciato sprofondare!”

 

“Se vi è un colpevole da incriminare per la vostra disfatta, quello siete voi, Re Nettuno! Elmas ve lo disse, di non attaccare Atena, di non portare in guerra il vostro popolo! Ma voi, accecato dalla brama di potere, dal desiderio di possedere l’Attica, le muoveste guerra, esponendo tutti noi alla sua rivalsa! Ricordate le frasi del vostro consigliere? “Lasciate che le acque riposino nei mari, non sulla Terra!” Questo amava ripetere alle vostre orecchie sorde!”

 

“Sordo e anche cieco son stato, se non son stato in grado di capire il tuo tradimento! Tu informasti la figlia di Zeus dei miei piani, donandole la chiave per vincere i miei Generali! Tu le rivelasti il segreto delle armature, favorendo l’alleanza tra Atena e gli alchimisti di Mu!”

 

“Non prendertela con lui! Già all’epoca eseguiva i miei ordini!” –Intervenne allora Forco, godendosi il volto arrossato dalla rabbia dell’antico rivale. –“Come adesso, anche allora attendevo nell’ombra, sperando in una tua distruzione! E quale modo migliore per ottenerla se non lasciare che altri fossero a occuparsene?”

 

“Maledetto! Entrambi siete dei maledetti!” –Ringhiò Nettuno, di fronte alle risate soddisfatte di Forco e Cariddi. Li aveva odiati a lungo, soprattutto il secondo, uno dei più promettenti tra i giovani generali di cui all’epoca si era circondato. Aveva persino pensato di affidargli il comando dell’esercito, il posto che in seguito fu di Dragone del Mare, ma scoperto il tradimento lo scomunicò, rifiutando di usarne il simbolo tra le corazze di scaglie e scegliendo quella di Scilla, al posto di Cariddi.

 

“La verità, Nettuno, è che io ho sempre saputo da che parte stare!” –Chiarì quest’ultimo. –“Dalla parte del più forte, com’è ovvio. Certo non dalla parte di un Dio della terza generazione cosmica, così infingardo e pauroso da non arrischiarsi mai ad usare il suo vero corpo in battaglia, dovendo ricorrere ogni volta a un simulacro terrestre. Quale stima dovrei avere di un così miserabile Signore del Mare? Imperatore delle Pozzanghere, questo dovrebbe essere il tuo titolo! Ah ah ah!”

 

Irato, Nettuno scatenò una violenta scarica di energia, ma questa non raggiunse Cariddi, riparato dietro un muro di energia azzurra, una barriera d’acqua che Forco aveva sollevato attorno a loro.

 

“Trattieni la tua ira, Nettuno! Avrai presto occasione di combattere, sebbene non sarà scontro a te favorevole!” –Precisò l’antico Dio, con voce vellutata. –“Pur tuttavia, per rispetto al tuo rango e al tuo ruolo di Signore dei Mari, ti faccio una proposta! Ti offro la possibilità di aver salva la vita e quella della damigella che ti fa da scorta! Unisciti a me!”

 

“Co… cosa?!” –Balbettò il fratello di Zeus, e persino Cariddi sollevò un sopracciglio, stupito da quella richiesta.

 

“Le potenze del mare dovrebbero stare tutte assieme! Non ha senso farci la guerra tra di noi, l’ho imparato in secoli di conflitti con mio padre e Oceano, Titano delle Correnti! A che giova sprecare così le nostre forze? Dovremmo unirle sotto un’unica bandiera, sotto l’effigie del trono del mare! Questo, quantomeno, è ciò che sto facendo io, radunando tutti i guerrieri e le Divinità degli oceani. Di tutti gli oceani. In fondo, come tutti gli Dei non sono che un solo Dio, ugualmente i mari di tutta la Terra non sono che un unico mare. Panthalassa. Un termine caduto in disuso, ma che presto tornerà attuale.”

 

“Cosa vuoi dire, Forco? Cosa stai per fare?!” –Esclamò Nettuno, e Titis al suo fianco rabbrividì, temendo una nuova inondazione del pianeta.

 

“Prepararmi al domani. Quando questa guerra sarà finita, la Terra sarà ridotta ad un cumulo di macerie; ville, palazzi e alte costruzioni saranno spianate e stessa sorte subiranno i colli e le montagne, anche le più eminenti. I campi saranno resi sterili e i pochi uomini superstiti si massacreranno tra loro per un po’ di cibo. Solo nel mare ci sarà la vita, quella vita maltrattata da troppo tempo. Quella vita che io farò pagare, a peso d’oro, a chi la vorrà! Per questo mi sto armando, Nettuno! Allora, dimmi, da che parte preferisci stare? Tra coloro che moriranno o tra i pochi eletti che sopravvivranno?”

 

“La tua offerta è allettante, Forco, e poggia su ben logiche basi. Io stesso, neppure due anni addietro, tentai di ricoprire la Terra sotto profondi strati di acque, per punire il degrado e la depravazione del genere umano!”

 

“L’unico momento di te che molto ammirai!” –Ironizzò l’ancestrale Divinità.

 

“Ma i tempi sono cambiati, io sono cambiato! L’hai detto tu stesso, l’ultima guerra è arrivata e ognuno deve scegliere dove stare! Mio fratello Zeus ha avuto fiducia in me, mi ha risvegliato e mi ha donato il suo Ichor, per riaccendere l’assopita fiamma della vita. Non lo tradirò, violando i sacri vincoli di famiglia! No, io Nettuno combatterò per mantenere l’equilibrio sulla Terra!” –Esclamò fiero l’Olimpico Dio, avvampando nel proprio cosmo cristallino, di fronte agli occhi pieni di ammirazione di Titis, che quelle parole avrebbe voluto udire.

 

“Dunque hai scelto! Morte!” –Commentò Forco, puntando il bastone avanti e abbattendo Nettuno con una scarica di potenza. –“E morte sia!”

 

“Mio Signore!!!” –Gridò prontamente Titis, correndo in suo aiuto, ma venendo atterrata all’istante da Cariddi, balzato su di lei con un veloce calcio rotante.

 

“Occupati della sirena! La voglio fuori da quest’isola in pochi minuti! Ma prima…” –Aggiunse, osservando perfido Nettuno che si rialzava. –“Divertiti con lei! Voglio che l’usurpatore veda la sorte in cui incorrono coloro che a lui sono fedeli! Come Elmas, così Titis! Voglio che assista impotente anche alla sua morte!”

 

“Sei un bastardo!!!” –Urlò il fratello di Zeus, scattando verso Forco, che fece altrettanto, mulinando la lunga asta argentea.

 

“E tu sei stato deposto, fittizio sovrano di un regno che non esiste più!” –Commentò quest’ultimo, fermando l’avanzata di Nettuno e spingendolo indietro con una scarica energetica, prima di conficcare il bastone nel suolo, imprimendovi tutto il suo cosmo. –“Questo è il potere degli Dei ancestrali, l’essenza del cosmo che ricevetti in eredità da mio padre! La Eskatos Dunamis!!!” –Avvampò Forco, mentre enormi crepe iniziarono ad aprirsi lungo l’intera zolla di terra che un tempo era stata Atlantide. –“Mira, oh usurpatore, la fine di un sogno in cui troppo a lungo ti sei cullato! Il continente perduto scomparirà di nuovo! E tu non potrai fare niente per impedirlo!”

 

“Ti sbagli! Io posso combattere!” –Dichiarò Nettuno, con decisione. –“Io combatterò!”

 

***

 

Flare teneva Cristal per mano, stringendosi a lui per avere conforto. Sedeva sul trono che era stato di sua sorella fino a pochi giorni prima, vicino al grande braciere che Enji continuamente si premurava di mantenere in vita. Un tempo, forse quando era bambina, gli aveva sentito dire che la fiamma di quel braciere doveva essere sempre tenuta accesa, perché, qualora si fosse spenta, Asgard sarebbe caduta. E Flare di Polaris temeva che ciò sarebbe accaduto durante il suo, non desiderato, regno.

 

Percependone la tensione, Cristal le si avvicinò, sfiorandole la guancia con una mano e sorridendole, prima di voltarsi di nuovo verso l’uomo che, in rispettoso silenzio, attendeva al centro del Salone del Fuoco.

 

“Vi sono ruoli che a volte siamo chiamati a vestire, per quanto ben defilati preferiremmo invece rimanere” – Commentò il Principe Alexer, splendido come sempre nella sua corazza azzurra, dai riflessi di acquamarina. –“Anch’io, come voi, Celebrante di Odino, aborro la guerra, preferirei trascorrere le giornate sull’ampio verone del mio castello, ad osservare il sole sorgere e calare sulla Valle di Cristallo, e i mille giochi di luce da ciò generati. Pur tuttavia, se lo facessi, dovrei accettare anche la non remota ipotesi che quello potrebbe essere l’ultimo giorno in cui rimirerei la mia adorata valle. Che forse domani potrei non vederla più. E quel pensiero è sufficiente a spingermi a non rimanere inerte, ad agire!”

 

“Mio fratello parla proprio bene! Ha preso da me, questo è certo!” –Esclamò allora una quarta voce, sorprendendo i presenti, anticipando il palesarsi di un cosmo fiammeggiante.

 

Le lingue di fuoco del braciere presero a danzare, turbinando in un mulinello scarlatto che avvolse l’intero salone, prima di concentrarsi attorno ad una sagoma apparsa in mezzo ad esse. Alla vista di un’armatura sconosciuta, e di una così poderosa esplosione di energia, Cristal si mise prontamente di fronte a Flare, gettando via il mantello di pelliccia e rivelando la sua Armatura Divina.

 

“Non temere, Cigno! La fiamma di Andrei non ti arrecherà dolore!” –Spiegò Alexer, mentre il compagno usciva dal vortice di fuoco, disperdendolo con un leggero cenno della mano e permettendo infine al Cavaliere di Atena di osservarlo meglio.

 

Alto e robusto, con il volto fiero e battagliero, un filo di barba incolta e lo sguardo determinato di chi mai si guarda indietro, il nuovo arrivato indossava una corazza della stessa fattura di quella del Principe Alexer, dalle forme aerodinamiche e dagli sgargianti colori rossastri. Pareva, a vederla, che fosse composta da fiamme vive, tanto i riflessi potevano muoversi a seconda del variare del punto di osservazione.

 

“Lode a te, Celebrante di Odino! Il mio nome è Andrei, Signore del Fuoco, e sebbene non ci fossimo mai incontrati finora, conosco bene il tuo cuore, così come le gesta impavide dell’eroe che ti affianca!” –Esclamò l’uomo, inginocchiandosi e portandosi una mano sul cuore. –“Perdonate quest’intrusione ma, avendo sentito che mio fratello non era al castello, ho pensato fosse il luogo più opportuno dove cercarlo!”

 

“Tuo fratello?!” –Balbettò Cristal, che, per quanto rilassatosi, era rimasto sbalordito dall’apprendere che, oltre ad Alexer, vi era un altro cosmo così potente, sfolgorante come quello di un Dio.

 

Un cosmo così simile a quello di Avalon. Rifletté, ricordando l’apparizione del Signore dell’Isola Sacra nell’ultima battaglia contro Flegias.

 

“In un certo senso...” –Si limitò a sorridere Alexer, poggiando una mano sulla spalla di Andrei. –“In fondo lo scopo per cui siamo nati è lo stesso.” –Ma poi, osservandolo meglio, notò un taglio sulla guancia destra e qualche scheggiatura sulla sua perfetta corazza, e il suo sorriso scomparve.

 

“Incidenti di percorso.” –Parlò allora Andrei, anticipando la domanda del Principe. –“A te la diplomazia, a me la guerra. Non è così che funziona?”

 

“Cos’è successo, Andrei?”

 

“Ho deciso di anticipare i tempi. In questi anni in cui hai osservato beato la tua bella valle e Avalon si è nascosto nelle nebbie, io ho girato il mondo, strisciando in silenzio lungo le ley lines.”

 

“Le linee di energia che percorrono la Terra?!” –Esclamò Alexer, ricevendo un cenno d’assenso da parte del Signore del Fuoco.

 

“Ero sicuro che, se fossero rinati, sarebbero apparsi in un punto percorso da correnti di energia naturale, in modo da sfruttarle per recuperare in fretta le forze. Così è stato, infatti. Sono riuscito a far fuori una ventina di loro, in questi giorni. Limos, meglio noto come Fame, e altri figli di Discordia, i Neikea, gli spiriti della lite e del bisticcio, e gli Pseudologoi, Divinità delle bugie. Sono gli unici che sono riuscito a trovare. Per fortuna, attaccandoli subito, quando erano in forma embrionale, ho potuto distruggerli prima che disponessero di tutto il loro pieno potere e che potessero correre aiuto dei loro numerosi fratelli.”

 

“Ottimo, Andrei. Davvero ottimo! Strategia e potenza d’attacco non ti sono mai mancati.” –Annuì Alexer, prima di voltarsi infine verso Cristal, che fissava entrambi con sguardo attonito, non avendo capito alcunché della loro conversazione.

 

“Ti spiegherò a breve, e tu dovrai riferirlo ad Atena. Il frutto è maturo, Cristal, e presto cadrà dall’albero del tempo. L’ultima guerra si avvicina, anzi, possiamo dire che con l’attacco alla luna sia ufficialmente iniziata.”

 

“Quale guerra?” –Chiese il Cavaliere del Cigno.

 

“Quella per il futuro del pianeta e di tutti i suoi abitanti. Vivere o morire. E forse la seconda opzione non è poi così lontana dal vero.”

 

“Che mi dici del tuo giro attorno al mondo? Di sottili arti diplomatiche sei ancora maestro?” –Incalzò Andrei.

 

“Ovviamente. In guerra si va preparati. E con tutti i rinforzi possibili.” –Commentò il Principe Alexer, spiegando di aver armato tutti i suoi guerrieri nella Valle di Cristallo e di aver invitato gli altri regni divini a fare altrettanto. –“Da Themiskyra sono sceso in India, nella valle del Gange, e poi in Oceania, incontrando ovunque opinione favorevole al nostro progetto di unificazione militare. Del resto la minaccia che siamo chiamati a fronteggiare è, a dir poco, globale.”

 

“Anche i guerrieri inca faranno la loro parte. Di questo puoi star sicuro!” –Disse fiero Andrei, mettendosi una mano sul cuore. –“Il culto di Inti è ancora radicato e nessuno ha dimenticato… quel che accadde vent’anni fa.”

 

“In questo caso, credo sia opportuno smetterla di nascondersi e aprirsi al mondo, seppur così diverso da quello in cui a lungo abbiamo vissuto!” –Esclamò allora una morbida voce maschile, mentre tre figure, avvolte dalla luce, entravano nel Salone del Fuoco, camminando a passo lento verso il trono.

 

Cristal, che nella vera Asgard, aveva trascorso un po’ di tempo, imparando a conoscerne gli abitanti, rimase stupito nel ritrovarseli di fronte, avendo dato per scontato che fossero caduti durante il Ragnarök.

 

“Mio Signore!” –Flare subito si affaccendò per mettersi in ginocchio e rendere omaggio al nuovo arrivato.

 

“Lasciate stare, Regina di Midgard. Non è tempo di inchini e abbracci. E tu, giovane Cigno, non essere adirato con la tua amata, le ho chiesto io di mantenere il segreto sulla nostra presenza qua. Lo smottamento spaziotemporale ci ha stordito, più di quanto avessimo creduto, e volevamo essere al sicuro per riprendere le nostre forze.” –Parlò il Dio di Asgard.

 

“L’ospitalità del Recinto di Mezzo è davvero squisita!” –Commentò una donna dal viso magro, a fianco dell’Ase.

 

“Se questa guerra che incombe è davvero l’ultima, allora credo che varrà la pena combatterla insieme. Per rendere onore a coloro che non ci sono più. Coloro che ci sono stati portati via. Qualunque alleanza stiate tentando di mettere insieme, sappiate che anche Asgard si unirà a voi!” –Disse allora Vidharr, l’Ase Silente.

 

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Capitolo 30
*** Capitolo ventottesimo: Fuori dalla gabbia ***


CAPITOLO VENTOTTESIMO: FUORI DALLA GABBIA.

 

Matthew ed Elanor erano più che mai decisi a vendicare Thot, uccidere Homados e impedire a chiunque di superare il varco tra Quinto e Quarto Cerchio. Adesso che la crepa aperta da Alala era stata richiusa, soltanto loro due erano a conoscenza della reale ubicazione del passaggio che, prima di morire, il Selenite di Giove aveva celato. E, piuttosto che rivelarlo a quella furia, sarebbero morti con quel segreto.

 

Falce di luna calante!!!” –Gridò la ragazza, sollevando un braccio al cielo e poi abbassandolo di scatto, in modo da generare un fendente energetico che trivellò il suolo, sfrecciando ad alta velocità verso Homados, obbligando la Makhai a balzare di lato per non essere investita.

 

“Bel colpo!” –Le fece eco il suo biondo compagno, saltando in alto e piombando poi sulla Dea a gamba tesa, avvolto nel suo cosmo multicolore.

 

Homados fu svelta ad evitare anche quell’affondo, dovendo ammettere a se stessa che quelli che credeva ragazzini agonizzanti sembravano aver recuperato le forze, o quantomeno aver infine trovato una ragione per combattere. O per morire. Si disse, concedendosi un sorriso nefasto. Poco importa, questione di minuti! Alle altre, in fondo, è andata peggio! Ah ah ah!

 

Matthew, che aveva capito che la Makhai doveva essere continuamente messa sotto pressione, in modo da impedirle di ricreare la Torre di Babele, contro cui non avevano difese, aveva espanso il suo cosmo al massimo, aprendo le braccia di lato ed evocando una tecnica appresa sull’Isola Sacra.

 

Moltiplicazione.” –Mormorò, mentre dalla sua immagine ne nascevano altre due, e dalle stesse altre due, fino ad avere sette copie del Cavaliere di Avalon, tutte attorno ad Homados. Sette vertici di una stella dai colori dell’arcobaleno, ciascuno brillante nel proprio cosmo.

 

“Interessante!” –Commentò Elanor, osservando i cloni di Matthew radunare le energie e attaccare la Makhai congiuntamente, da ogni direzione, scagliando assalti di potenza e precisione.

 

“Così! Forza! Insieme!” –Vociarono i sette uomini, balzando su Homados, uno dietro l’altro, uno dopo l’altro, a volte anche insieme, in un turbinio di colori che contribuì a disorientare non poco la guerriera.

 

“Ora basta!!!” –Tuonò infuriata, evitando alcuni assalti, ma venendo però raggiunta da altre sfere energetiche, che le graffiarono la Veste Divina. Inoltre, notò, tutte le copie parevano aver chiaro dove colpire. Nel basso ventre, dove Thot l’aveva ferita prima di morire, aprendo uno squarcio che anche un apprendista Cavaliere avrebbe saputo raggiungere.

 

Morire qui? Morire ora? Mai! Ringhiò, certa di essere ad un passo dalla vittoria. I cosmi di Kydoimos e di Alala erano scomparsi, cancellati dal suolo lunare e confinati a chissà quale oscuro Tartaro potesse attenderle, adesso che lui era tornato. Questo significava che era l’ultima Makhai rimasta, l’ultima Signora della Guerra, e non soltanto doveva combattere per sé, ma anche per quella scomoda eredità che le fallite delle sue sorelle le avevano lasciato. Che non si dica che le Makhai non urlano più!!!

 

Migdal…”

 

“Eh no, carina!” –Intervenne allora Elanor, sfrecciando avanti e scagliando quattro raggi di energia, mirando alla testa, ai piedi e alle mani di Homados, obbligata a spalancare le braccia contro la sua volontà, come fosse stata crocifissa.

 

“Sei ridicola! Pensi di causarmi dolore con queste lievi stimmate? O di tenermi bloccata per sempre?!” –Avvampò Homados, nel suo cosmo violetto, iniziando a recuperare padronanza di un braccio. Poi di un altro.

 

“Non per sempre. Per quanto basta a Matt!” –Le rispose la ragazza a tono, balzando indietro, mentre tutte le copie del Cavaliere di Avalon scattavano sulla Makhai, scagliando, da sette lati diversi, veloci e precise sfere di energia.

 

L’assalto congiunto, condotto alla velocità della luce, travolse Homados, nonostante i suoi furibondi tentativi di difendersi e coprire la parte esposta del suo corpo. Un paio di sfere, Matthew ne fu certo, la raggiunsero proprio all’addome, facendola infuriare e digrignare i denti, sputando bavosa rabbia e parole infamanti. Concentrato il cosmo sul pugno, lo piantò nel suolo, generando un’esplosione proprio sotto i piedi di Elanor e scagliandola in aria, tra spruzzi di sabbia lunare e schegge della sua ormai quasi del tutto distrutta corazza.

 

Fu Matthew ad afferrarla al volo, mentre tutte le altre sei copie convergevano su di lui, sovrapponendosi all’originale e scomparendo. E fu sempre il ragazzo a generare un arcobaleno lucente sotto di lui, con cui rimanere sollevato in aria, quasi fosse un tappeto volante.

 

“Dovrò chiamarti Alì Babà!” –Sorrise Elanor, stretta tra le braccia del ragazzo, salvo poi ricordarsi, dopo quel delicato momento tra loro, di essere in piena guerra.

 

“Avalon si arrabbierà come una furia per questo… gioco infantile! Anzi, come una Makhai!!!” –Ironizzò Matthew, prima di depositare Elanor sull’arcobaleno di luce e dirigersi verso Homados. –“Ma sarò contento anche di prendermi quella lavata di capo, perché vorrà dire che ce la saremo cavata!”

 

“Ce la caveremo!” –Lo rincuorò lei, stringendogli la mano.

 

“Siete finiti!!!” –Gridò allora Homados, espandendo al massimo il proprio cosmo violetto e dirigendo strali lucenti contro di loro, che tentarono di evitarli, zigzagando sull’arcobaleno in discesa libera, per poi contrastarli con i loro colpi segreti.

 

Arcobaleno incandescente!!! Falce di luna calante!!!” –Tuonarono i ragazzi, mentre due piani di energia, uno orizzontale, l’altro verticale, confluivano sulla Makhai, costretta a far esplodere tutto il proprio cosmo.

 

Migdal bavel!!!”

 

L’esplosione fu assordante e scaraventò Matthew ed Elanor in alto, lacerando le loro carni, per quanto il primo cercasse di proteggere la compagna facendole scudo con il corpo. Quando ricaddero a terra, si accorsero di non essere sul suolo lunare ma su una superficie fatua e a tratti arroventata. Guardandosi intorno, inorriditi, capirono di essere stati rinchiusi in uno dei cubi che costituivano il basamento della Torre di Babele. Un gigantesco esaedro di energia cosmica, dentro il quale erano costretti a rotolare, cadere e rialzarsi continuamente, per poi ruzzolare di nuovo al suolo, mentre Homados, divertita, muoveva le dita, quasi stesse solleticando le corde di un’arpa.

 

“I bambini sono stati cattivi e la mamma li ha puniti! Anzi, la matrigna cattiva! Ambientatevi, mettetevi a vostro agio, non siate timidi! Quanto vi rimarrete dipende solo da voi, ma ben pochi sopravvivono alla cacofonia della Torre di Babele! Ah ah ah!”

 

Matthew ed Elanor, oltre che storditi dal rotolare continuo del cubo, erano piegati dal risuonare di migliaia di voci, diverse, dissonanti, deleterie per il loro udito, che parlavano tutte assieme all’interno di quella prigione. Voci di donne, di uomini e bambini, che gridavano, piangevano, maledivano gli Dei per averli abbandonati e i Cavalieri per non averli aiutati, e la pioggia per non aver irrorato i campi, e il sole per averli condannati a una siccità eterna, e altri mille anatemi e giudizi e lamenti. Voci continue, che non smettevano mai, che li seguivano ovunque muovessero un passo, per quanto nel cubo fossero presenti solo loro due. Di alcune, non riuscirono a comprendere neppure le parole, pronunciate in qualche antica lingua sconosciuta. Di altre, invece, poterono riconoscere persino chi e quando le aveva dette loro. Erano le voci delle loro anime, che mettevano in risalto tutte le contraddizioni insite dentro di loro, i tumulti del cuore che avevano mosso i loro incauti passi in quella guerra che non erano stati degni abbastanza di combattere. In quella guerra in cui non avrebbero dovuto neppure ardire di prendere parte.

 

Matthew era solo un apprendista. Un eterno apprendista, rincarò una voce. Uno di quegli studenti che continuano a ripetere all’infinito la stessa prova, senza mai superarla. Indolente, stanco, e anche vigliacco, aveva lasciato che il suo maestro fosse divorato dall’ombra senza neppure provare ad aiutarlo, senza neppure provare a salvarlo. E, colpa ben più grande, aveva lasciato che il Grande Tempio fosse da tale oscuro maestro dominato per tredici anni, che divenisse luogo di barbarie e pena capitale, ricettacolo di una volontà assassina che da Atene voleva mondare la Terra.

 

E anche dopo aver risvegliato il Talismano da lui custodito, forse per un caso fortuito, ben poca strada aveva fatto, riuscendo solo a evocare un arcobaleno di cosmo con cui divertirsi a fare la giostra, un comportamento ben poco consono per un Cavaliere del suo livello. Cosa ne penserebbero Febo e Marins, imprigionati, seviziati e torturati a morte nei tenebrosi androni ove giacevano rinchiusi dei suoi infantili divertimenti? E Jonathan e Reis, della cui impronta cosmica aveva perso traccia da un paio d’ore, forse feriti, spossati o addirittura caduti in una battaglia che lui aveva rifiutato, preferendo rimanere indietro, in dolce compagnia? Eppure ricordi, Matthew, quel che accadde all’ultima donna che amasti… la donna che, come Elanor, non fosti in grado di salvare!

 

Miha… Mormorò il ragazzo, riconoscendo la sua voce tra le tante che rimbombavano nella sua mente. Un suono limpido, ben più degli altri, che gli ricordava di essere una delusione.

 

Un fallimento totale.

 

Elanor, dal canto suo, non stava affatto meglio. Annaspava, piegata a terra, la testa stretta tra le braccia, quasi tapparsi gli orecchi potesse impedire al suo cuore di udire ancora, di piangere ancora. E invece falliva, come Matthew, e veniva posta a processo. Da sua madre, che la malediva per averla trascurata, per non essere rimasta con lei, in quell’ora oscura, a farsi forza insieme, anziché lasciarla a disperarsi da sola. Dalle sue sorelle, che si chiedevano perché le avesse abbandonate. Da se stessa, che si chiedeva cosa ci facesse lì, a combattere con un’armatura di latta, dove avesse davvero creduto di andare, a morire in una guerra in cui persino gli Dei perivano.

 

Gli Dei, Elanor. Da quando ti reputi loro superiore?

 

Le ritornò in mente, o forse fu una voce a sbatterglielo in faccia, quel che aveva detto a Matt qualche ora prima, quando l’aveva sorpresa ad inseguirli.

 

“Non prendermi per una sprovveduta! Sono pur sempre la figlia di una Divinità!”

 

E che figlia! Neanche un colpo aveva messo a segno! Forse sarebbe andata meglio se avesse continuato ad allenarsi con i bersagli di legno che Shen Gado a volte le creava per farle passare il tempo. Almeno quelli a volte li abbatteva. Non tutti.

 

“Che… cosa mi dicesti?”

 

Quella voce la raggiunse inaspettata, scavandosi un solco in mezzo a quella Babele di suoni dissonanti. Quella voce così fresca, sia pur sofferente, e piena d’affetto.

 

“Matt?!” –Lo riconobbe la ragazza, sforzandosi ad alzare la testa e a cercare il suo sguardo.

 

“Cosa mi dicesti, quando ci incontrammo? Cosa volevi davvero?”

 

Matthew era a pochi passi da lei, crollato sulle ginocchia, il volto marcato dalle vene che stavano per scoppiargli. Ma trovò comunque la forza di allungare un braccio nella sua direzione.

 

Elanor cercò di fare altrettanto, all’inizio senza riuscirci, incapace di togliere una mano dall’orecchio, per non morire sommersa da quel frastuono maledetto. Poi, vedendo che il ragazzo non accennava a ritirare la sua, pur condannandosi a morire così, si fece forza e allungò il braccio quanto più poté, fino a permettere alle loro dita di trovarsi, e di intrecciarsi.

 

“Lottare. Vivere e morire per qualcosa. Non conservarmi in eterno sotto un guscio di vetro!”

 

Quelle parole le aveva dette col cuore, credendoci davvero, anche se forse non ancora pienamente consapevole di quel che significavano, di quanto realmente valessero, nonostante Matt avesse cercato di farglielo capire, di farla desistere. Per salvarla, da se stessa prima che dalla guerra.

 

“Non… avevo capito perché tu volessi combattere! Cosa può spingere la figlia di una Divinità a rinunciare alla propria condizione di immortalità, che qualunque uomo sarebbe disposto ad uccidere pur di avere, e a scendere a sporcarsi in una guerra che altri avrebbero potuto combattere? Avresti potuto rimanere nell’Occhio, aspettare che la fiumana passasse. I Cavalieri di Atena e di Avalon, i tuoi Seleniti, i tuoi stessi genitori se necessario, avrebbero respinto la bellicosa ondata o avrebbero trovato un modo per metterti in salvo, lontano da qui. Lontano dalla morte. Perché, Elanor, hai deciso di non voler sopravvivere?”

 

“Perché ero in gabbia.” –Rispose la ragazza, il volto rigato dalle lacrime. –“E non mi sentivo completa.”

 

Il cubo roteò di nuovo, facendo ruzzolare Matthew ed Elanor, sbattendoli uno sull’altra, finalmente vicini, mentre tutto attorno imperavano migliaia e migliaia di voci, decise a piegarli alla forza dei loro tumulti, dei loro errori, dei loro fallimenti. Ma per quanto aumentassero, in numero e in intensità, il Cavaliere delle Stelle e la sua improvvisata compagna sembravano aver trovato un modo per escluderle tutte dalla loro mente, ascoltando solo la voce del cuore.

 

“Ho passato un’esistenza intera in gabbia e ti assicuro che per una Divinità un’esistenza è un periodo di tempo piuttosto lungo! Mia madre, regina della quiete domestica, mi ha dato tutto, ha donato a me e alle mie sorelle un mondo intero in cui poter vivere in pace, in serenità, senza farci mancare niente, in cibi, vestiti, salute, alcun oggetto materiale di cui potessimo necessitare. Ma tutte quelle attenzioni, quel continuo e disperato attaccamento a una vita facile, avevano un prezzo e io l’ho pagato, non le mie sorelle, che a una banale e patetica esistenza han presto fatto l’abitudine, chinando il capo alla noia che ha seppellito lesta le loro personalità. Non mia madre, che nient’altro voleva se non l’amore eterno di Endimione, che ha avuto. Ma io! Un uccello in una gabbia d’oro, così mi sento da anni, desiderosa di aprire le ali e volare via, senza poterlo fare. Bisognosa di vedere il mondo, conoscerne i turbamenti, comprenderne gli umori delle genti. E invece, limitata proprio da coloro che amo, soffocata nel mio poter essere me stessa!”

 

“Pur tuttavia…” –Disse allora Matt, avvicinando il viso a quello della ragazza, perdendosi in quegli occhi verdi smeraldo. –“La tua scelta di combattere, di scendere in guerra… non è stata dettata soltanto da questo. Non stai lottando solo per te stessa, o per dimostrare a tua madre di essere in grado di farlo! No, tu stai lottando per difendere la tua terra, la tua casa, la tua famiglia! Lo sento, dentro te, il cuore che combatte per amore è il cuore più puro!”

 

Elanor accennò un sorriso, tra le lacrime, dando infine ragione al giovane Cavaliere. Per quanto sua madre le avesse tarpato le ali, impedendo alla sua personalità di crescere, affermarsi e distaccarsi da lei, non le aveva mai fatto mancare amore. E adesso avrebbe dovuto dimostrarsi degna di quella fiducia. Adesso avrebbe combattuto anche per lei.

 

“Madre!!! Guardami!!! Guarda tua figlia, Elanor, della Luna Splendente!!!” –Gridò, e la sua voce cristallina sovrastò tutte le altre, respingendole indietro, confinandole ad un silenzio improvviso. Persino Homados, fuori dal cubo, rimase ad osservare, non capendo quel che stesse accadendo al suo interno, i cui confini evanescenti impedivano di vedere con chiarezza.

 

“Brucia, mio cosmo!!! Ardi per difendere coloro che amo!!!” –Avvampò Elanor, mentre un vortice di luce rosa la avvolgeva, sostenendola mentre si rimetteva in piedi.

 

Matthew, al suo fianco, fece altrettanto, espandendo il suo cosmo dalle iridescenti sfumature e lasciando che le sette gemme della sua cintura rilucessero come mai prima di allora, pregne di una passione che aveva infine trovato ragione d’essere.

 

L’esplosione dei loro cosmi annientò la Torre di Babele, scaraventando Homados indietro di parecchi metri, obbligandola a coprirsi gli occhi per non restare accecata da tale improvviso lucore. Quando riuscì a vedere di nuovo, rimase sorpresa alla vista di uno strano oggetto improvvisamente apparso nel cielo di fronte ad Elanor. Un oggetto che sembrava uno scudo celtico.

 

Matthew lo guardò affascinato, sorridendo al biancore di quel materiale, finemente lavorato, e si accorse che era identico a quello che rivestiva il suo corpo, e quello di Reis, Jonathan e gli altri Cavalieri delle Stelle.

 

“Perciò questo è…” –Comprese infine, mentre Elanor sfiorava il manufatto luminoso, stabilendovi una profonda connessione cosmica. –“L’ultimo talismano!!!”

 

Improvvisamente lo scudo si disfece in una ventina di pezzi che andarono a ricoprire il corpo della ragazza, interamente, ristorando le sue energie e dandole una degna armatura. Affissa al bracciale sinistro c’era una croce, di chiara provenienza celtica, composta da un cerchio vuoto sovrapposto ad una croce greca, in modo che il fulcro del primo corrispondesse al punto di intersezione dei raggi della seconda.

 

“Bastardi! Non vi permetterò di usarlo!!!” –Ringhiò Homados, sfrecciando verso di loro, ma venendo subito fronteggiata da Matthew, che liberò il potere del proprio Arcobaleno Incandescente, costringendo la Makhai indietro.

 

“Elanor!!! Con me!!!” –La incitò allora il ragazzo, espandendo il proprio cosmo, e gridando insieme a lei. –“Talismani!!!”

 

E luce fu.

 

***

 

Nel percepire la vibrazione provocata dallo Scudo di Luna, Avalon, che osservava gli eventi dall’alto dell’Occhio, sorrise compiaciuto. –“L’ora è giunta. L’ultimo talismano è infine stato risvegliato. I Sette saranno presto riuniti! L’energia degli antichi fluisce in loro per mezzo dei talismani, la percepisco, così intensa, un flusso di memoria storica dagli albori del tempo e di profonda saggezza.”

 

Selene, avvicinatasi all’uomo, si abbandonò a un sospiro affranto, prima di chiedere cosa sarebbe accaduto adesso. –“Che ne sarà di Elanor? Che ne sarà di mia figlia?!”

 

“La attende lo stesso destino di Jonathan e degli altri! Onorare i Talismani che li hanno scelti, dopo millenni di attesa. Sopportarne il peso o esserne sopraffatti! E non ho motivo di credere che non riescano in tale impresa, tantomeno tua figlia!”

 

“Per questo sei venuto, vero? Non per portarmi aiuto? Non per difendere questo regno di cui poco ti cale, ma per prenderti l’ultimo talismano?”

 

“Una cosa non esclude altra!” –Precisò Avalon, con voce flemmatica. –“Se la Terra cadesse nell’ombra e il sole e le stelle si spegnessero, pensi che la luna potrebbe splendere ancora?”

 

Selene non rispose, il cuore straziato da tormenti che ormai non riusciva a controllare, la sua natura divina sopraffatta da un’angoscia di caducità umana. Pur tuttavia trovò la forza per recuperare compostezza, sollevare il mento e annuire timida, ben conscia che il Signore dell’Isola Sacra avesse ragione.

 

“Una domanda ancora. Perché hai portato i Cavalieri di Atena? Temevi di non essere in grado di sbaragliare Ares e i suoi accoliti?”

 

A quelle parole, Avalon rise, come Selene non lo aveva mai sentito fare prima di allora, per poi voltarsi di lei e fissarla con magnetici occhi argentei.

 

“Non esiste entità su questo suolo lunare che possa arrecare danno alla mia persona, né ad alcuno dei Quattro! Ma era necessario che Pegasus fosse qua, per prendere coscienza del Nono Senso e elevarsi al rango divino, lo stesso rango che Atena ha finalmente ritrovato, dopo che le memorie delle sue vite passati, delle sue incarnazioni, sono confluite di nuovo nella sua mente. Adesso sono pronti! Siamo pronti!”

 

“Per… cosa?” –Quasi ebbe paura a chiedere la Dea della Luna.

 

“Per l’ultima guerra. Una volta che i talismani saranno riuniti, la Coppa di Luce tornerà a splendere ed essa sarà l’arma definitiva per porre per sempre fine alla minaccia…” –Ma il Signore dell’Isola Sacra dovette interrompersi, distratti entrambi dal rumore di passi sul pavimento dell’Occhio, passi corazzati di un uomo che aveva deciso di prendere in mano il suo destino.

 

“Endimione!!!” –Esclamò Selene, portandosi una mano alla bocca, sorpresa dal vedere l’amato ricoperto da una cotta di battaglia, l’elmo sottobraccio e una spada al fianco.

 

“Non la indossavo da tempo. Da quando ero Re dell’Elide, nel Mondo Antico, ben prima di ricevere in dono da Zeus la giovinezza eterna, ma noto che ancora ben mi calza.” –Commentò l’uomo, fermandosi di fronte a Selene e ad Avalon.

 

“Perché ti sei vestito così? Dove vuoi andare?!” –Affannò subito la Dea, gettandosi tra le sue braccia.


“A fare quello che devo! Combattere per difendere la nostra terra, il nostro regno, la nostra famiglia.”.” –Si limitò a rispondere il suo sposo, fermandole le mani con le proprie e costringendola a guardarlo in faccia, pur tra le lacrime che le rigavano il volto. –“Ares e Discordia sono caduti, è vero, ma ancora si combatte nei Cerchi di Marte e Giove!”

 

“Mi ritiro!” –Si inchinò educatamente Avalon, facendo cenno di andarsene, per lasciarli da soli.

 

“Non puoi farlo! Se ti accadesse qualcosa… ne morirei…” –Singhiozzò Selene, cui Endimione carezzò i capelli e asciugò le lacrime.

 

“Non posso lasciare la difesa del reame a nostra figlia, una ragazza che sta scoprendo adesso i suoi poteri, e ai Cavalieri di Atena, nobili e generosi di certo, ma estranei! Che uomo sarei? Che re sarei? Indegno dell’immortalità e impaurito di perderla!”

 

“Non solo l’eternità ti sarebbe negata, mio sposo, ma il nostro amore. Vuoi davvero morire?”

 

 “Non qui e non ora. Ma un giorno accadrà. E pure tu scomparirai e del nostro amore non resterà niente. Ma che importa se potremo dire di averlo intensamente vissuto?!” –Chiarì lui, sollevandole il viso e baciandola sulle labbra. Quindi si mosse per andarsene, ma non riuscì a fare più di cinque passi che cadde a terra, privo di sensi, con lo sguardo placido di un uomo dormiente.

 

“Non potevo lasciarlo morire!” –Confessò Selene, incrociando lo sguardo severo di Avalon, a pochi passi da lei, che aveva ben capito cos’era accaduto.

 

“Comprendo la tua sofferenza, Dea della Luna, pur tuttavia è un’eventualità a cui devi prepararti. A cui tutti noi dobbiamo prepararci!” –Spiegò, mentre anche Asterios lo raggiungeva, rivestito finalmente della sua lucente armatura.

 

***

 

L’attacco congiunto scaraventò Homados indietro di molti metri, con gravi crepe aperte sull’armatura e chiazze di sangue che costellavano il suolo attorno a lei, a ricordarle in ogni momento che non era poi così superiore alle sorelle. Anzi, le sembrò persino di udire il ghigno di Kydoimos, non lo era mai stata.

 

“Zitta!!! E zitti anche voi, vi farò tacere per l’eternità!” –Sbraitò collerica, bruciando il proprio cosmo.

 

Matthew ed Elanor fecero altrettanto, inebriandosi dell’ancestrale e puro potere racchiuso nei Talismani. Anche Reis e Jonathan ne avevano percepito il risveglio e stavano correndo verso di loro, attratti da tale poderosa forza d’attrazione e al tempo stesso anche curiosi di vedere l’ultimo Talismano, su cui Avalon aveva mantenuto riserbo assoluto. Sebbene fossero entrambi certi che quantomeno Ascanio ne fosse stato messo a conoscenza.

 

Cintura dell’arcobaleno!!!” –Avvampò Matthew, liberando sette potenti raggi di energia, che sfrecciarono verso Homados, presto uniti ad un’onda di luce che Elanor generò semplicemente spostando il braccio ove riluceva il manufatto da lei custodito. –“Scudo di luna!!!”

 

Il doppio assalto si scontrò con la Torre di Babele che la Makhai aveva appena innalzato, impedendole di morire sul colpo, ma la pressione generata dai Talismani e da quei cosmi ardenti portati adesso al parossismo la spinsero indietro, mentre l’intera struttura che la proteggeva iniziò a scricchiolare. Falle si aprirono, alcune pareti andarono in frantumi, mentre i colorati raggi di energia nemica la raggiungevano, trafiggendole gli arti, il ventre, persino il volto.

 

“Aaargh!!!” –Gridò l’ultima Makhai, mentre la Torre di Babele esplodeva e lei veniva travolta in pieno dalla marea lucente e scagliata in alto, schiantandosi poi al suolo priva di vita. Se avesse avuto le forze per girare la testa, anche solo di pochi centimetri, avrebbe visto il varco per il Cerchio di Marte apparire proprio davanti a lei, a pochi passi dalla posizione che per buona parte dello scontro aveva tenuto.

 

“La nostra luce ci ha permesso di vincerla!” –Commentò Matthew. –“La luce della nostra passione, quella che spiega perché combattiamo. E per chi.”

 

Elanor annuì, sorridendo al ragazzo, quindi si sporse per baciarlo su una guancia, ringraziandolo per tutto quello che aveva fatto per lei quel giorno. Ossia proteggerla, in tutti i modi e in ogni occasione. E non lo avrebbe dimenticato.

 

In quel momento arrivarono Reis e Jonathan, spada e scettro in mano, osservando felici ma interessati l’ultimo Cavaliere delle Stelle. Elanor, della Luna Splendente.

 

 

 

 

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Capitolo 31
*** Capitolo ventinovesimo: Cosmi ruggenti ***


CAPITOLO VENTINOVESIMO: COSMI RUGGENTI.

 

Ioria correva lungo la Via Maestra del Grande Tempio, che dal Cancello Principale raggiungeva le Dodici Case, inseguendo un dubbio che l’aveva invaso. Aveva lasciato Yulij a prendersi cura di Tirtha, dando ordine che la ragazza fosse sfamata e curata, ma senza mai perderla d’occhio, convinto della sua innocenza. O quanto meno della sua non volontarietà nei fatti.

 

Aveva già visto quello sguardo indemoniato, un cuore posseduto dall’oscurità che veniva forzato a compiere azioni che la mente non avrebbe mai accettato. E aveva già provato anche quel sentimento di disperazione susseguente al risveglio, al recuperare coscienza di sé. Lo aveva sperimentato sulla pelle, neppure due anni addietro, quando Arles aveva preso controllo della sua mente, trasformandolo in una macchina per uccidere Pegasus o chiunque avesse varcato la soglia dei leoni. E il ricordo di cosa aveva fatto, del sangue di cui si era imbrattato le mani, lo perseguitava ancora.

 

Per questo temeva, anzi inorridiva, al pensiero che la storia potesse ripetersi. Se un Demone dell’Oscurità si è annidato nel cuore di Virgo, mio è il compito di liberarlo, mio l’onere di ridargli la luce! Come già aveva fatto con Galan e con Tirtha. Eppure, il pensiero che potesse esistere qualcuno in grado di prendere il controllo della mente del Custode della Porta Eterna lo faceva rabbrividire. Sarebbe come divenire un Dio!

 

Un battito d’ali lo distrasse proprio mentre metteva piede sulla scalinata delle Dodici Case, facendolo voltare verso lo spiazzo roccioso dove Lady Isabel aveva languito per dodici ore trafitta dalla freccia di Betelgeuse. Un battito d’ali che accompagnò il planare di una figura ammantata di luce che Ioria aveva già incontrato, proprio in quello stesso Grande Tempio, pochi mesi addietro.


“Cavaliere di Leo! I miei omaggi!” –Esclamò Euro, Vento dell’Est, splendido nella sua celeste Veste Divina.

 

“Li ricambio, nobile figlio di Eos!” –Rispose subito Ioria, accennando un inchino, salvo accorgersi dei due corpi che il Dio teneva sotto ciascun braccio. Con delicatezza, l’ultimo dei Quattro Venti li depositò a terra, liberandoli dai mantelli in cui li aveva avvolti, per tenerli caldi durante la rapida trasvolata, rivelando ben noti volti.

 

“Castalia!!! Phantom!!! Cos’è accaduto? Dei dell’Olimpo, chi li ha ridotti in questo stato?” –Incalzò il Cavaliere d’Oro, osservando le corazze danneggiate, i tagli e le ferite sui loro corpi. E il volto di Castalia, privo dell’ormai distrutta maschera.

 

“Io… Ioria…” –Balbettò il Luogotenente dell’Olimpo, faticando persino nel girarsi su un fianco. –“Devi… sapere…”

 

Euro lo pregò di non affaticarsi e rimanere disteso, mentre raccontava al Cavaliere d’Oro quanto accaduto sull’isola francese, così come Phantom gli aveva spiegato, notando lo sguardo attento di Ioria corrugarsi in una maschera di preoccupazione.

 

“Cariddi?! Un altro nemico?! Ma che diavolo succede quest’oggi?! Una nuova guerra?!”

 

“La sua forza bruta era devastante! A malapena sono riuscito a impedire che ci uccidesse tutti!” –Rantolò il Cavaliere Celeste, riuscendo infine a mettersi seduto.

 

“Che ne è di Asher e del Professore? Sono salvi?”

 

“Malconci ma vivi. Euro ha curato le ferite dell’Unicorno che ha preferito rimanere sull’Ile de Ouessant con Rigel, aspettando il rientro della nave scandaglio, incapace di arrendersi, incapace solo di abbandonare il pensiero della ricerca! Quel ragazzo non teme niente, né la malattia né la morte. Che la veda come una liberazione?” –Aggiunse, con un sospiro, prima che un gemito di Castalia attirasse l’attenzione di tutti.

 

“Ha bisogno di cure immediate! Credo che, oltre alle ferite esteriori, abbia lesioni interne!” –Spiegò il Luogotenente dell’Olimpo, rivolgendosi a Ioria, che annuì, prima di percepire, al pari dei compagni, una violenta esplosione cosmica deturpare l’armonia della Collina della Divinità. Un’esplosione che, Ioria non aveva dubbi, proveniva dal cuore delle Dodici Case, dal Sesto Tempio della Vergine. –“Che sta succedendo? A chi appartiene questo cosmo oscuro?!”

 

“Non c’è tempo per le spiegazioni! Devo andare!” –Incalzò Ioria, prima di chiedere a Euro di assistere la Sacerdotessa dell’Aquila ancora per un po’, fino al suo ritorno.

 

Il Vento dell’Est assentì, osservando con preoccupazione il Cavaliere di Leo scattare lungo la scalinata di marmo, con la stessa eroica determinazione che aveva sempre ammirato in Pegasus e nei loro antesignani, gloriosi eroi del Mondo Antico al cui fianco aveva combattuto. Il Luogotenente rimase qualche secondo a soppesare la situazione, prima che lo sguardo di Euro gli togliesse ogni dubbio.

 

“Fa’ attenzione! Sei ancora molto debole!” –Gli disse, ponendogli una mano su una spalla.

 

Phantom annuì, prima di correre dietro al Cavaliere di Leo.

 

***

 

“Virgo avrebbe ucciso Pavit?!” –Esclamò il Luogotenente dell’Olimpo, sfrecciando assieme a Ioria lungo la scalinata del Grande Tempio. –“Non è possibile! Le sue lunghe meditazioni lo hanno reso il Cavaliere più vicino agli Dei! Come puoi credere che sia stato posseduto? Tirtha deve essere sconvolta! Deve esserci un’altra spiegazione!”

 

“Vorrei non crederlo, infatti.” –Si limitò a commentare il custode del Quinto Tempio, superando la magione da lui presieduta e continuando a correre verso la casa successiva, dove avrebbero avuto tutte le risposte. –“Ma senti anche tu questo cosmo che invoca disperatamente aiuto! È Libra! E sta combattendo alla Sesta Casa!”

 

“Ma contro chi?!” –Rifletté Phantom, non riconoscendo, nel cosmo di tenebra che lo sovrastava, l’impronta del Cavaliere di Virgo.

 

Una deflagrazione violenta fece sussultare entrambi, spingendoli ad aumentare l’andatura e a raggiungere con un balzo il piazzale di fronte al Sesto Tempio. Dall’interno, inequivocabili, provenivano rumori di lotta. Senz’altro attendere, Ioria e Phantom si lanciarono nel corridoio principale, giungendo in fretta al centro della casa, dove il Cavaliere d’Oro della Vergine li stava aspettando.

 

“Benvenuti!” –Sogghignò, avendo percepito le loro energie avvicinarsi e ben sapendo di non poter far altro che accoglierli, senza nascondersi più. –“Oltre al Leone anche l’Eridano Celeste! Che simpatica rimpatriata! Manca solo l’Aquila a completare il vostro triangolo!”

 

“Virgo!!! Che stai dicendo? Torna in te, amico mio, te ne prego!” –Esclamò Ioria, muovendo un passo avanti. –“L’ombra ti possiede, ma tu puoi cacciarla! Hai la forza e la sapienza per riuscire nell’impresa in cui io fallii!”

 

“In molte cose hai fallito, Cavaliere di Leo! Non vorrai perdere tempo ad enumerarle tutte? Se non ricordo male, Lothar del Sudario di Cristo dipinse un quadro particolarmente efficace delle tue molteplici mancanze! Ahr ahr ahr!” –Sghignazzò il custode del Sesto Tempio. –“Un quadro… a tinte fosche!” –Aggiunse, liberando un turbine di fiamme oscure che avvolse il Leone d’Oro, scaraventandolo contro il colonnato e abbattendolo in parte.

 

“Ioria!!!” –Gridò Phantom, indeciso sul da farsi.

 

“Non temere, ardito Luogotenente! Gli farai presto compagnia!” –Sibilò il suo interlocutore, piegando a terra il Cavaliere Celeste con la forza del pensiero, mentre un rogo di tetre vampe nasceva attorno a lui, intrappolandolo. –“Prima di dirci addio, consentimi di farti un regalo! Ti sarà utile per scendere con maggior foga i gradini del Tartaro, spinto dal desiderio di riabbracciare i tuoi congiunti! Ahr ahr!” –E gli afferrò il cranio, stringendogli la fronte in un’algida presa e vomitandogli nella mente una caterva di immagini.

 

Rapide, come lame di luce, si susseguirono davanti ai suoi occhi, senza che Phantom potesse fermarle o metterle in ordine. Riuscì solo a discernere un luogo che ben conosceva, il simbolo dei suoi affetti più cari. La casa che suo padre aveva edificato con duro lavoro, per accogliere e coccolare la moglie incinta. Una casa adesso sporca di sangue.

 

“Nooo!!!” –Gridò il Luogotenente olimpico, portandosi le mani alla testa, sul punto di esplodere da un momento all’altro, tanto violento e repentino era stato quel rigurgito di dolorose immagini.

 

“E invece sì!” –Sibilò il Cavaliere di Virgo, sollevando l’avversario con un turbine di fiamme roventi e scaraventandolo via, proprio addosso a Ioria che si stava rimettendo in piedi, togliendosi i detriti e i calcinacci di dosso. –“Restate a terra, strisciate, luridi vermi! Leccate il fango da questa corazza di latta dorata e forse vi risparmierò!”

 

“Sei… fuori di testa…” –Mormorò il Cavaliere di Leo, aiutando Phantom a rialzarsi.

 

“Mai stato più lucido, in verità! Lo stesso non posso dire del tuo compagno, il vecchietto dalla carnagione viola ringiovanito solo per morire ventenne!”

 

“Il… Dohko?! Dov’è Libra?”

 

“Proprio qua! Non l’hai visto?” –Sogghignò perfido il padrone della Sesta Casa, accendendo il trono usato come braciere e rivelando il corpo massacrato del Cavaliere d’Oro, colà disteso, la corazza affumicata e distrutta in più punti, il sangue che colava fuori dalla bocca spalancata, scivolando fino a terra. Di fronte agli occhi sgomenti di Ioria e Phantom, l’uomo che chiamavano Virgo intinse un dito nella gola del Custode della Settima Casa, bagnandolo di linfa vitale, e lo assaporò, saziandosene avidamente. –“Corroborante! Merita allora nutrirsi di sangue d’oro!” –Ironizzò, prima di sollevare un oceano di vampe cremisi.

 

“Per Atena, quale orrore!!! Tu… non puoi essere Virgo… non hai niente della sua purezza! Sei un mostro!!!”

 

“Ed infatti non è Virgo il mio nome scarlatto!” –Sghignazzò, mentre le fiamme che lo attorniavano si allungavano, rivelando le sue vere fattezze. –“Sono un vecchio amico! Desideroso di una rimpatriata! Ahr ahr ahr!”

 

“Che… cosa?! Non può essere! Flegias?!” –Esclamarono sbigottiti Phantom e Ioria. –“Ma tu sei morto… ucciso dai Cavalieri dello Zodiaco sull’Isola delle Ombre!”

 

“Potrei mai essere ferito da quei dilettanti? Il mio corpo è stato distrutto ma lo spirito primordiale che mi sorregge a correnti ben più impetuose può resistere! Io sono la quercia delle tenebre, l’Yggdrasill che sorregge l’impero dell’ombra! E voi, ai miei occhi, siete solo parassiti, e come tali vi estirperò!”

 

“Farneticanti ciance!!! Per il Sacro Leo!!!” –Tuonò allora Ioria, scattando avanti e generando un reticolato di energia che presto si chiuse su Flegias, il quale, nient’affatto impressionato, si limitò a far esplodere il suo cosmo.

 

Kaan!!!” –Gridò, mentre le vampe che lo attorniavano si chiudevano a cerchio su di lui, in modo da formare una cupola difensiva su cui i raggi di luce si schiantarono, estinguendosi uno dopo l’altro, per quanto Ioria potesse reiterare l’assalto.

 

“Non è possibile! Quella tecnica… è di Virgo!!!” –Esclamò sbalordito il custode del Quinto Tempio, prima che Flegias muovesse un braccio, smuovendo l’intero apparato difensivo e tramutandolo in una bomba di fuoco oscuro, che investì Ioria, schiantandolo molti metri addietro.

 

“Perspicace il ragazzo! Non si direbbe!” –Ironizzò il Rosso Fuoco, prima di portare lo sguardo su Phantom, che nel frattempo aveva espanso il proprio cosmo celeste. –“Tu invece non mi piaci!” –Aggiunse, mentre il Luogotenente Olimpico liberava il Gorgo dell’Eridano, che sfrecciò verso Flegias alla velocità della luce.

 

Annoiato, il Maestro di Ombre si spostò di lato, lasciando che la sfera di energia acquatica gli passasse di fianco, smuovendogli semplicemente il lungo crine biondo, prima di avventarsi su Phantom e tempestarlo di pugni. Uno dopo l’altro, in una così intensa sequenza da impedirgli qualsiasi reazione. Con l’ultimo pugno lo schiantò contro il massiccio portone che si ergeva sul versante interno della casa, macchiando di sangue le rifiniture d’oro del fiore intarsiato.

 

“Non mi sei mai piaciuto, Luogotenente! Anche quando ero un tuo diretto superiore! Mentre tutti si affannavano a compiacermi, e a obbedire prodighi alle direttive del Consigliere di Zeus, tu dovevi sempre puntualizzare, testardo come un Cavaliere di Atena! Avrebbero dovuto darti una delle ottantotto armature, anziché forgiarne una solo per te!” –Commentò Flegias, torreggiando sul ragazzo e fissandolo con astio, prima di raccogliere la saliva in bocca e poi sputargliela in testa. –“Ma tutta la simpatia che Zeus ha avuto per te non basterà comunque a salvarti!” –Ringhiò, calando il braccio su di lui, ma venendo infine distratto da un grido improvviso.

 

Ioria si era rimesso in piedi e si stava lanciando contro di lui con il pugno destro carico di energia cosmica. –“Lascialo stare, infingardo traditore!”

 

“E perché mai?!” –Ghignò Flegias, afferrando Phantom per un braccio e tirandolo su di peso, in modo da metterlo sulla traiettoria dell’attacco di Ioria, che lo raggiunse alla schiena, distruggendo la corazza già danneggiata e facendo sputare sangue al Cavaliere Celeste. –“Scudi umani, una tecnica di guerra antica quanto efficace!” –Rise con perfidia, osservando il volto traumatizzato di Ioria e, prima che quest’ultimo potesse abbozzare una qualche strategia di difesa, afferrandogli il collo con la mano destra ancora libera e sbattendolo contro Phantom. –“Cenci da scuotere, ecco cosa siete per me! Sono la lavandaia di sangue che strizzerà i vostri corpi prosciugandoli fino all’ultima goccia!” –Gridò, mentre sinuose vampe oscure si avvinghiavano addosso ai due Cavalieri, strappando loro urla di sofferenza.

 

Ioria cercò di reagire, anche per il compagno gravemente ferito. Afferrò il braccio di Flegias con una mano, liberando intense scariche folgoranti, non ottenendo altro effetto che strappargli un sorriso divertito.

 

“Tifavo per te, in verità!” –Commentò, stordendo il Leone, che non capì cosa volesse dire. –“Con la Sacerdotessa dell’Aquila, intendo! Avresti aggiunto un po’ di fuoco alla sua patetica esistenza! Invece l’hai lasciata a questo fallito che non si regge in piedi! Come farà a soddisfarla, proprio non lo so!”

 

“Bastardo, non osare permetterti in questo modo…” –Ringhiò Ioria, ma Flegias aumentò la presa, piantando le unghie nel collo del Cavaliere.

 

“Altrimenti?!” –Tuonò, prima di scaraventare entrambi contro il muro dall’altra parte della stanza, facendolo crollare su di loro. –“Te l’ho detto, Ioria, mi sei simpatico! Ma questo tuo atteggiamento non aiuta! Tutt’altro! Ora, per come la vedo io, hai due scelte, e ti assicuro che sono molte più di quante Libra, o il qui presente Phantom, ne abbiano avute! La prima è morire: chiara, semplice, inequivocabile, e sai bene che accadrà se insisti a guardarmi torvo, del resto non hai mezzi per ferirmi. La seconda, che personalmente trovo ben più interessante, è unirti a me. In fondo, a suo tempo, ti schierasti dalla parte giusta, perché non ripeterti? Ah, se è un Demone dell’Oscurità che stai cercando, te lo darò! Del resto chi meglio di me, che l’ho ideata, padroneggia quella tecnica?!”

 

“Sei… folle, Flegias!!!” –Avvampò Ioria, rialzandosi ed espandendo il proprio cosmo, mentre i detriti crollati su di loro andavano in frantumi al solo contatto. –“I tuoi deliri di onnipotenza, la tua mente malata, ti hanno fatto perdere di vista la realtà! E nella realtà tu sei il nemico e io colui che ti vincerà!”

 

“Illusione che presto cadrà!” –Strinse i denti il Maestro di Ombre, lasciando turbinare le vampe di fuoco, proprio mentre Ioria, radunate le forze, portava entrambi i pugni avanti, liberando due massicce sfere di energia dorata.

 

Double bolt!!!”

 

L’attacco si abbatté alle spalle di Flegias, che fu nuovamente lesto a schivarlo, squassando il portone e aprendo infine la via verso il Giardino dei Salici Gemelli. Ma Ioria, che tale eventualità aveva previsto, si era già buttato in terra, sfiorando il suolo e infondendovi il suo cosmo sfolgorante.

 

“Assaggia le zanne del Leone, figlio di Ares!” –Esclamò, mentre migliaia di folgori lucenti saettavano fuori dal pavimento sotto i piedi di Flegias, intrappolandolo in una gabbia di energia.

 

“Divertente! Mi fa il solletico!” –Rise questi, prima di radunare il cosmo tra le mani e rilasciarlo sotto forma di un ventaglio di energia infuocata che spazzò via i fulmini. –“Ooohm!!!” –Mormorò, allietato da quello scontro.

 

“È tutto tuo, Phantom!” –Disse allora Ioria, rotolando di lato e attirando le vampe su di sé, proprio mentre il Luogotenente dell’Olimpo, che nel frattempo si era rialzato alle spalle dell’amico, liberava il poderoso gorgo di cui era padrone.

 

La sfera di energia acquatica sfrecciò verso Flegias, che inarcò un sopracciglio, colto per la prima volta di sorpresa. Ma ebbe comunque il tempo di voltarsi in trasversale, osservare il Gorgo dell’Eridano passargli accanto e afferrarlo poi con il palmo della mano, avvolgendolo in oscure vampe di fuoco e rimandarlo indietro.

 

Phantom si lanciò di lato, per evitare di essere investito in pieno, ma la deflagrazione della sfera, a contatto con il muro retrostante, lo raggiunse comunque, spingendolo avanti, proprio ai piedi del Maestro di Ombre. Di nuovo quest’ultimo sollevò il braccio per colpirlo ma all’ultimo istante lo volse verso destra, proprio dove Ioria era appena apparso con il pugno sfrigolante energia cosmica. Deridendo la prevedibilità del Cavaliere, lo abbatté con una vampa di fiamme nere, schiacciandolo a terra, accanto al compagno sconfitto. Quindi, come un cacciatore di ritorno da una proficua giornata, li afferrò entrambi per un calcagno, trascinandoli fuori, nell’immenso giardino che sorgeva incavato su un fianco della Collina della Divinità.

 

Le Sacerdotesse del Santuario, e le loro apprendiste, molto si erano adoprate, dopo la fine della Grande Guerra, per riportare quel parco all’antico splendore, occupandosi di seminare il terreno e curare la crescita dell’erba e dei fiori. Il risultato, sia pur non paragonabile alla versione precedente, aveva comunque soddisfatto sia Atena che il Custode del Sesto Tempio, che spesso vi sedeva per meditare. Quest’oggi la sua oscura versione vi si sarebbe adagiata per ammirare il concretizzarsi del suo progetto di dominio. Là, tra i Salici Gemelli, avrebbe atteso l’avvento della grande ombra. E la fine del mondo.

 

Con un solo movimento del braccio, Flegias liberò una tempesta di fiamme che incenerì parte del giardino, lasciando solo un terreno brullo e sterile. Terreno ove Ioria e Phantom sarebbero stati sepolti, chiarì, sghignazzando.

 

“Ci seppellirò la tua testa invece, figlio di Ares!!!” –Ringhiò Ioria, rimettendosi in piedi e bruciando ancora una volta il proprio cosmo.

 

“Dubito che riuscirai a farlo, Cavaliere! Dal momento che non ho più una testa! A meno che tu non voglia seppellirci questa… la testa del tuo amico Virgo!”

 

A quelle parole Ioria fermò il pugno, già carico di rovente energia, invaso da un pensiero che fino a quel momento, travolto dalla furia degli eventi, non aveva considerato. Virgo! Che ne sarà di lui? Se anche colpissimo Flegias, chi feriremmo realmente?

 

Non seppe rispondersi e il Rosso Fuoco approfittò di quel momento per investirlo con una tempesta di energia incandescente, schiantandolo a terra molti metri addietro. E anche quando si rialzò, stringendo i denti per il dolore, continuò ad essere travolto dal dubbio. Phantom parve comprendere l’esitazione del compagno, non sapendo neppure lui come liberare Virgo da quella possessione che, era chiaro, andava ben al di là di un semplice controllo mentale. No, Virgo non esiste più! La sua coscienza è stata annientata e Flegias vive nel suo corpo! Concluse il Luogotenente dell’Olimpo, giungendo ad una sola conclusione. Si voltò verso Ioria e vide che il ragazzo, con gli occhi lucidi, aveva compreso.

 

Sollevando lo sguardo, oltre Flegias e le sue vampe infernali, il Leone vide i Salici Gemelli ergersi in lontananza, impassibili e imperterriti ai destini del mondo. Avevano resistito agli Urli di Atena, alla Grande Guerra e all’avvento dell’inverno e Ioria si disse certo che sarebbero rimasti in vita fino alla fine del tempo.

 

Sotto quegli alberi Virgo scelse di morire, per mandare un messaggio ad Atena e continuare la sua lotta. Noi faremo altrettanto, rendendo onore al suo ricordo e tenendo alto il suo nome. Nessun sacrificio sarà stato vano! Avvampò Ioria, mostrando il pugno chiuso, attorno al quale scintillavano folgori dorate.

 

Phantom, accanto a lui, si preparò per l’ultimo assalto, consapevole di non avere altre forze residue. –“Sia quel che sia, sono contento di morire con te, amico mio!”

 

Ioria annuì, prima di sfrecciare avanti, avvolto da sfolgoranti fulmini d’oro. –“Per il Sacro Leo!!! In nome di Virgo!!!”

 

“Padre! Madre! Sorella! Presto saremo di nuovo insieme! Per adesso, vi vendicherò! Gorgo dell’Eridano!!!” –Gli fece eco il compagno, fondendo il proprio assalto con quello del Leone.

 

“Avete avuto la vostra possibilità di scegliere! Lo avete fatto! Perciò non adiratevi se altrettanto farò anch’io!!! Apocalisse… divina!!!” –Tuonò il Maestro di Ombre, sollevando il braccio destro e scatenando la più devastante tempesta di energia che avesse mai solcato quel suolo.

 

I raggi di luce di Ioria si estinsero, il globo di energia acquatica venne dilaniato e smembrato, i due Cavalieri furono sollevati da terra e avvolti in spire di fuoco oscuro, che distrusse le loro corazze, ustionò le carni, strappò via pezzi di pelle dai loro corpi, facendoli infine ricadere a terra in una pozza di sangue, mentre tutti i loro sogni e le loro speranze crollavano assieme a loro.

 

E tutto fu silenzio.

 

Per qualche minuto Flegias rimase ad osservare i corpi massacrati dei valorosi combattenti per la giustizia, inebriandosi dell’odore del loro sangue. Poi si ricordò di Dohko, il cui cadavere ancora ardeva nel braciere nella Sesta Casa, e si incamminò verso l’interno, per recuperarlo e gettarlo sopra gli altri due, per poi dare fuoco all’intera catasta.

 

Aveva mentito, si disse con un ghigno perfido. Non li avrebbe sotterrati. Del resto, perché perdere tempo a scavare? Meglio bruciare, meglio che l’odore della loro sconfitta si diffonda per tutto il Grande Tempio e raggiunga quei pochi spauriti soldati che ancora claudicano per difenderlo. Ahr ahr ahr!

 

“Fe… fermati!!!” –Lo chiamò una voce all’improvviso, facendolo voltare di scatto verso il giardino e strappare un verso di sorpresa.

 

Ioria era ancora vivo, per quanto visibilmente allo stremo. Era appoggiato su un ginocchio, sanguinante da ogni ferita aperta sul suo corpo, soprattutto al collo, alla tempia destra e a un occhio, e respirava a fatica. Il braccio destro era allungato avanti a sé, sorretto dal sinistro che gli impediva di afflosciarsi, mentre quel che restava del suo cosmo si espandeva attorno a sé, sempre di più, fino a generare una galassia di stelle che sovrastò il Giardino dei Salici Gemelli.

 

“Ancora non ti arrendi? Sei proprio come Pegasus!” –Commentò il Rosso Fuoco, recuperando la sua baldanza guerriera. –“Ma non puoi fare più niente ormai! Rinuncia Ioria, rinuncia o ti massacrerò con queste mie mani! Senza cosmo, senza tecniche segrete, solo con queste dita ti stuprerò la faccia, rendendola irriconoscibile persino alla tua bella aquilotta!”

 

“Taci, spergiuro!!! Photon Invoke!!!” –Gridò il Cavaliere di Leo.

 

Cosmos Open!” –Ripeté divertito il Rosso Fuoco, facendo trasalire l’avversario.

 

“Co… come conosci la mia sequenza d’assalto?! L’hai visto solo una volta, a esplosione già scatenata!”

 

“Hai ragione. Vagamente lo rammento. Ma Virgo, invece, lo conosce bene! E sa anche come neutralizzarlo!” –Ridacchiò, concentrando il cosmo tra le mani e liberando un ventaglio di energia infuocata, che si diresse, come un maroso di fuoco nero, contro Ioria.

 

“Con… tinua!!!” –Esclamò Phantom, balzando davanti all’amico e venendo investito in pieno dall’assalto nemico.

 

“Nikolaos!!!” –Gridò Ioria, raggiunto dagli schizzi di sangue del Luogotenente, che crollò accanto a lui. E la sua tragica fine gli tolse ogni dubbio. –“Photon Drive!!!”

 

La pioggia di stelle cadde su Flegias, o almeno così parve al Cavaliere d’Oro, salvo poi accorgersi di non riuscire più a muovere neppure un muscolo. Persino parlare gli risultava impossibile, l’immagine del nemico davanti a lui si fece sfuocata e i suoni lontani. Fu soltanto usando il cosmo che capì che il Maestro di Ombre stava sogghignando soddisfatto.

 

“Interessante tecnica questo Sacro Virgo! Blocca attacco e difesa nello stesso momento! E mentre eri intento a preparare quel colpo troppo lento ne ho approfittato per toglierti i cinque sensi! Adesso dimmi, Cavaliere di Leo, ancora convinto nei tuoi propositi? Ahr ahr ahr! La sorte che hai scelto è, sì, ben nota, ma non per questo meno terribile!” –Esclamò fiero il Flagello di Uomini e Dei. –“Non affannarti ad urlare, tanto nessuno potrà udirti! Mur è in Asia, e a quest’ora sarà già morto! Atena e Avalon sulla luna, Libra è caduto! Nessuno più resta a difendere il Grande Tempio! Morto tu, la gloriosa casta dei Cavalieri d’Oro scomparirà! Mi sento fiero di questo risultato! Ah già, dimenticavo che non puoi parlare, sarei stato curioso di sapere quale santo protettore avresti invocato! Quale che sia, è un lamento destinato a perdersi nel vento, poiché nessuno verrà in tuo aiuto! Sei solo!”

 

“Ci sono io!!!” –Parlò allora una voce fiera, risuonando contemporaneamente nella mente di tutti e tre i combattenti, mentre due draghi di energia, uno bianco e uno rosso, incendiavano il Giardino dei Salici Gemelli, abbattendosi infine su Flegias.

 

Rialzandosi, stordito e sorpreso, il Rosso Fuoco parve incupirsi per un momento, portando la mano destra sul cuore, come se temesse di aver perso qualcosa. Come se quei draghi si fossero cibati del mantello di oscurità che lo vestiva.

 

Sollevò lo sguardo irato, trovandosi di fronte il guerriero che aveva osato ferirlo. Anche Ioria e Phantom, sia pur deboli, guardarono il nuovo arrivato, non riuscendo inizialmente a riconoscerlo. Alto e robusto, le gambe ben piazzate al suolo, indossava un’armatura che nessuno di loro aveva mai visto, una corazza dall’aspetto simile a quelle indossate da Jonathan e dai Cavalieri delle Stelle.

 

“Pen… dragon…” –Mormorò il Luogotenente, riconoscendo infine il cosmo del loro salvatore. E sorrise, prima di accasciarsi esanime.

 

“Riposa, Phantom! Mi occuperò io del Flagello di Uomini e Dei! Ho molti motivi per cui combattere, molte persone da vendicare, altre a cui rendere onore!” –Spiegò il guerriero, togliendosi l’elmo dell’armatura e rivelando il suo volto maschile, su cui brillavano due occhi neri. –“Non abbiamo mai avuto il piacere di affrontarci in uno scontro diretto, sebbene i nostri cammini si siano incrociati sull’Isola delle Ombre! All’epoca, però, vestivo un’armatura diversa, quella dei Cavalieri Celesti, i cui panni ho smesso accettando ufficialmente il mio ruolo!

 

Sono Ascanio Pendragon, Cavaliere della Natura, Comandante dei Cavalieri delle Stelle e custode dei misteri di Avalon! E sono qui per prendere la tua vita, Anhar!”

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 32
*** Capitolo trentesimo: Sesto interludio. Luna. ***


CAPITOLO TRENTESIMO: SESTO INTERLUDIO.

 

LUNA.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Vent’anni prima del secondo avvento.

 

La catena montuosa del Pindo era un’area aspra e solitaria, ben lontana dagli agglomerati urbani ove gli uomini preferivano risiedere. Un’area adatta alle passeggiate che la Dea ogni tanto decideva di concedersi, sebbene non amasse particolarmente il corpo celeste di cui il suo regno era satellite. Né i relativi abitanti.

 

Li osservava spesso, gli uomini, spaziando dall’Occhio fino ai verdi campi del pianeta vicino, tentando di capire cosa li spingesse a vivere quelle misere, futili e caduche esistenze, cosa desse loro un motivo per alzarsi dal letto ogni mattina e affannarsi in un vano e claudicante agire. In fondo, alla fine, sarebbero tutti stati sconfitti. Dalla morte, dalle malattie, dall’odio per i loro simili, dal trascorrere del tempo. Fattori questi che aveva rimosso dalla propria vita quando aveva fondato il reame della Luna Splendente, il suo regno beato, bandendo de facto simili prospettive che invece parevano affliggere persino gli Dei rimasti sulla Terra.

 

Selene sospirò, allontanando lo sguardo dal Monte Olimpo, che si ergeva impavido alla sua destra, la cima avvolta da nebbia così fitta che neppure lei poteva sondarla. Il lieve tocco della mano dell’amato la riscosse, spingendola a sorridere e a lasciare indietro tutti quei pensieri che la invadevano ogni volta in cui abbandonava la sicurezza del reame e scendeva sulla Terra.

 

“Ci siamo quasi!” –Le sussurrò Endimione, proseguendo a passo calmo lungo il sentiero che si snodava tortuoso tra le montagne del Pindo, diretto verso la cima della vetta più alta.

 

Smolikas. Il monte sacro ad Apollo.

 

Uno dei pochi luoghi del pianeta che Selene considerava degno di attenzione e di rispetto, un sito di culto dedicato al Dio greco del Sole, l’astro complementare della Luna. Proprio il Nume in persona le aveva raccontato, durante una delle sue ultime visite all’ermo santuario, che in tempi antichi un osservatorio era stato edificato sulla sommità di Smolikas, da cui uomini saggi studiavano il moto delle stelle. Una storia che le aveva strappato un sorriso, ricordandole l’innato spirito di Icaro che pareva albergare dentro ogni uomo, e che forse era proprio ciò che li distingueva.

 

Il loro desiderio continuo di andare oltre, nonostante la limitatezza della loro stessa esistenza.

 

Perché sognare di essere un’aquila se non possiedono le ali per poter volare? Si chiedeva spesso Selene. Perché bramare il cielo se non sono in grado neppure di camminare sulla terra senza inciampare?

 

A quelle domande ebbe risposta quel giorno.

 

“Eccoci!” –Commentò infine Endimione, fermando la strana carovana di famiglia.

 

Erano giunti ai margini di uno spazio scavato nella roccia, a pochi passi dalla cima di Smolikas, ove i resti di un antico santuario, nato sulle rovine del precedente osservatorio, ancora resistevano imperterriti al trascorrere del tempo, delle mode e dei culti religiosi. Molte delle figlie di Selene superarono la coppia, avvicinandosi incuriosite o estasiate a quel luogo antico di cui la madre aveva spesso parlato loro. Soltanto una non si mosse, rimanendo al suo posto, all’ingresso di quel recesso sacro che non le suscitava emozione alcuna.

 

Sono solo pietre. Mormorò Elanor, scalciando tra la polvere. Pietre antiche, colonne mozzate, i resti di qualche capitello di foggia corinzia. E cos’altro? Perché venire fin quassù, sfidando i pericoli delle alture del Pindo, per rendere omaggio a un Dio? Non avrebbero potuto costruire un tempio in pianura o in un luogo ben più accessibile, come fecero a Delfi? E per cosa poi? Per venerare un Dio che non si è neppure premunito di preservarlo dalla rovina del tempo?

 

“Il tuo ostruzionismo è fuori luogo!” –Osservò allora la madre, avvicinandosi.

 

Aveva lasciato Endimione e le figlie ad osservare i resti del santuario, lasciando che fosse il marito ad illustrare loro l’originaria architettura, ben sapendo quanto sarebbero state interessate a vicende che, per tutte loro, appartenevano alla storia antica. Ma era stata certa fin dall’inizio di quel viaggio che la primogenita non l’avrebbe apprezzato, quantomeno non ne avrebbe compreso il senso.

 

“Vuoi offendermi, Elanor?”


“Nient’affatto, madre! Perdonatemi se vi ho dato quest’impressione!”

 

“L’impressione che mi dai è di una seccatura perenne! Sei sempre scocciata! Cos’è che ti opprime a tal punto da non permetterti mai di sorridere alla vita? Forse la compagnia delle tue sorelle, della tua famiglia che ti ama, non ti aggrada?”

 

“Io… non…” –La ragazza esitò per un momento, scostandosi un ciuffo di capelli castani dietro l’orecchio, ben attenta a non incrociare mai lo sguardo della madre, sguardo che, sapeva, avrebbe potuto leggerle nell’animo. E non voleva affatto che sapesse quel che le turbinava dentro, un desiderio che non avrebbe mai capito. –“Non apprezzo i luoghi angusti, incassati tra le montagne!”

 

“Se è solo questo che ti infastidisce, non temere. Ci rimetteremo presto in cammino, lasciami solo il tempo di rendere omaggio al Dio del Sole!” –E si diresse verso il santuario, per raggiungere Endimione e le figlie, quando il suolo tremò all’improvviso.

 

Volgendo lo sguardo lesto verso la cima di Smolikas, Selene notò una virulenta frana di massi abbattersi sulle rovine del tempio, seppellendolo assieme alla sua famiglia.

 

“Nooo!!!” –Gridò, la voce rotta da una disperazione fulminea. Ma non ebbe modo di fare altro che venne afferrata da una mano robusta, che si chiuse attorno al suo gracile corpo, sollevandola da terra e sbattendola poi con forza contro il fianco di una montagna.

 

Solo allora, sprofondata tra la pietra e il terriccio, poté infine osservare il suo assalitore. O, meglio, il gruppo di assalitori.

 

Erano una decina di uomini giganteschi, così alti e massicci da sembrare montagne viventi, rivestiti da rozze cozze protettive irte di spuntoni affilati. I volti ruvidi e sanguigni erano coperti di cicatrici, segno evidente del loro spirito bellicista e degli scontri da cui mai si erano tirati indietro.

 

“Cos’abbiamo qua? Una damigella indifesa?! Ahr ahr ahr!” –Ringhiò il colosso che stringeva Selene tra le dita, avvicinandosi fin a fiatarle in faccia il suo fetido alito.

 

“E che damigella! Guarda là che vestiti pregiati! Mica come i luridi fazzoletti con cui ti pulisci il naso, Berto!”

 

“In effetti, non mi dispiacerebbe strusciare il mio grosso naso rigonfio su quella bella seta! Magari dopo colerò gocce dal profumo di rosa! Igh igh!” –Rise sguaiatamente il compagno, aumentando la stretta sul corpo di Selene e mozzandole il fiato. –“Ma prima dobbiamo liberarlo da quel che c’è dentro! Non che ci voglia molto, vista la corporatura!”

 

“Ehi voi! Lasciate stare mia madre!” –Esclamò allora un’acuta voce femminile, mentre il gruppetto di uomini si voltava verso il sentiero tra i monti, giusto in tempo per vedere un’agile ombra spiccare un balzo e colpire a piedi uniti la faccia di uno di loro, spingendolo indietro. L’impatto non fu sufficiente per farlo cadere ma gli spaccò il naso, imbrattandogli la faccia di sangue e facendolo imbestialire.

 

“Razza di moscerino impertinente! Lascia che ti metta le mani addosso!” –Si dimenò il corpulento guerriero, facendosi strada tra i compagni, che intanto agitavano le mani in ogni direzione per afferrare l’esile ma veloce figura che saettava tra loro.

 

“Tu provaci!” –Ringhiò Elanor, fermandosi infine, al limitare dello spiazzo e sollevando le braccia in posizione difensiva.

 

“Ahr ahr! Ma guardatela! È una ragazzina!” –Sghignazzarono i giganti. –“Ed è persino troppo piccola per divertircisi!”

 

“Oh beh, un modo per usarla lo troviamo di certo!” –Aggiunse uno di loro, avviandosi verso di lei, presto seguito da quello che Elanor aveva ferito sul naso. –“Lasciala a me, Baffo, la voglio stritolare e inzuppare nello stufato di stasera!” –E gli si avventò contro, agitando le lunghe braccia corazzate per afferrarla. Ma Elanor fu più svelta, saltando sul braccio dell’aggressore e usandolo per darsi la spinta per balzare ancora più in alto, mirando all’occhio sinistro, sorpreso e indifeso, con il pugnale che stringeva in mano.

 

L’urlo furioso del gigante fu accompagnato da un battere e percuotere continuo dei piedi sul suolo, che fece tremare l’intero complesso montuoso, generando frane e smottamenti, mentre il colosso tentava di tamponare la ferita sanguinante con la propria mano, gridando parole oscene. Elanor, nel frattempo, aveva schivato altri due guerrieri, ferendoli alle dita con la sua lama, prima però di essere colpita bruscamente dal calcio di un terzo gigante, che l’aveva fatta ruzzolare per diversi metri.

 

“Il gioco è finito, bambina! Di Bronto sei ora la bambolina!” –La avvisò questi, strattonandola per un braccio e sollevandola di peso, nonostante le sue effimere proteste. Ebbe cura di mostrarne il corpo alla madre, senza perdersi l’espressione sgomenta, prima di sbatterlo a terra un paio di volte, percuotendolo come un cencio. Quando fece per calare il piedone su di lei, per schiacciare definitivamente quell’effimera minaccia, sentì qualcosa pungergli la pianta del piede, strappandogli un gemito di sorpresa e fastidio. –“Ahia! Quest’insetto mi ha punto!”

 

“Ahr ahr! Ma guardatela, stringe ancora un pugnale in mano! Bronto è stato ferito da un’ape! Ahr ahr!!!” –Risero gli altri giganti, osservando la ragazza, sfinita e stremata, ancora con in grado di sollevare un braccio per reggere una lama.

 

Fu allora che esplose il cosmo di Selene, generando un bagliore abbacinante che mai aveva violato le vallate interne del Pindo, neppure nei giorni del massimo splendore del culto di Apollo. Berto e i due giganti che lo affiancavano vennero annientati da tale improvvisa detonazione, dilaniandosi in urla di tormento, mentre il resto del gruppo fu scaraventato contro i fianchi dei monti attorno e qualcuno ruzzolò persino di sotto dai precipizi aguzzi.

 

Per quanto da tempo avesse abbandonato ogni velleità bellica, divenendo una Dea dedita agli affetti del proprio focolare domestico, la vista della figlia maltrattata e violentata aveva risvegliato in Selene la sopita fiamma del cosmo. Ma la repentina esplosione l’aveva anche fiaccata, prostrandola a terra, ansimante e ferita, incapace persino di trascinarsi fino al corpo della primogenita per verificarne le condizioni.

 

“Ela… nor…” –Mormorò la Dea, allungando una mano nella sua direzione.

 

“Ma… dre…” –Trovò la forza per risponderle la ragazza, rotolando a fatica su un fianco, quel tanto che le bastò per incrociarne lo sguardo addolorato. Uno sguardo che fino a pochi minuti prima aveva tentato di evitare e di cui adesso invece aveva disperato bisogno. –“Perdonatemi…”

 

“Maledette donnacce!!!” –Ringhiò allora una voce, mentre passi pesanti si avvicinavano loro da direzioni diverse, anticipando l’arrivo di una cinquina di giganti sopravvissuti, sia pur malconci. –“Avremmo dovuto farle fuori subito, anziché giocarci! Che ci serva da lezione! Nostra madre ce l’ha insegnato, no? Ad aver paura della luce! Repentina, può accecarti in qualsiasi momento; per questo è meglio l’ombra, perché culla e non brucia mai! No…” –Ripetè Bronto, fissando la Dea dall’alto con l’unico occhio buono rimastogli. –“L’ombra non brucia! L’ombra è una sempiterna pace!” –Gridò, sollevando il rozzo piede e calandolo infine sul corpo indifeso di Selene.

 

Un lampo di luce violetta lo distrasse all'improvviso, facendogli mancare il bersaglio, proprio mentre la stessa luce, dalle sembianze simili a quelle di un uccello dalle ali spalancate, svolazzava nell’aria di fronte agli attoniti giganti, planando su Selene e poi su Elanor, e portandole via.

 

“Eh?!” –Bofonchiarono i colossali predoni, mentre l’intensità del bagliore diminuiva rivelando colui che dietro tale lucore s’era celato. Un uomo dai capelli rossicci rivestito da una coprente armatura dai colori indaco e avorio, sul cui schienale erano affisse due ampie ali piumate.

 

“Ma è soltanto un uomo!”

 

“Ha la corazza! Quindi è un Cavaliere!” –Aggiunse Bronto, prima che Baffo scoppiasse a ridere. –“Allora dovremmo esserlo anche noi!”

 

“No!” –Parlò allora il nuovo arrivato, con voce calma e fredda. –“Voi siete soltanto feccia!” –E sollevò un braccio al cielo, rivelando per la prima volta il suo cosmo. –“Cadete, sotto le mie lame di luce! Dominion of light!!!”

 

Migliaia di fendenti di energia piovvero sui malcapitati guerrieri, senza che questi riuscissero a comprenderne la provenienza. Li travolsero da ogni direzione, scheggiando le loro corazze e sventrando i loro corpi, in uno schizzar continuo di sangue e membra umane. Alcuni colossi abbozzarono una qualche forma di resistenza, sollevando le braccia sopra la testa, per ripararsi da quel mitragliare continuo, e caricando lo sconosciuto, nel tentativo di schiacciarlo con la loro mole. Ma, correndo alla cieca, non poterono vedere che il misterioso cavaliere già aveva cambiato posizione, scavalcandoli con un sol battito d’ali e portandosi dietro di loro. Una sventagliata di lame di luce li raggiunse alla schiena, dilaniando le carni e ponendo fine alla loro avanzata.

 

“Bastardooo!!! Nessuno si prende gioco di noi!” –Gridò allora un gigante, spaccando il suolo sotto di sé con un deciso colpo di mano e facendo poi leva per sollevare un immenso lastrone di roccia, su cui il salvatore di Selene era in piedi.

 

Fu svelto, quest’ultimo, a balzare via, ma dovette coprirsi il volto con ambo le braccia per parare il violento affondo di un altro colosso, piombato su di lui con il pugno teso, venendo spinto indietro di molti metri. Ne approfittò Baffo per scagliargli contro l’intero lembo di terra e roccia che aveva sradicato, seppellendocelo poco dopo tra le sghignazzate soddisfatte dei due giganteschi guerrieri rimasti.

 

“Lo maciullo!” –Ringhiò, spiccando un salto e atterrando a piedi uniti sul mucchio di pietra e terriccio e iniziando a calpestarlo con foga crescente. –“Igh igh! Spezzatino di impiccione, stasera! Ma’ sarà contenta!”

 

“Fallo ben triturato! Sai che non mi piace quando mi resta roba tra i denti!” –Lo istigò l’altro, prima di incamminarsi verso il limitare dello spiazzo, dove Selene ed Elanor ancora giacevano prive di sensi. Dovette fermarsi di colpo quando un’improvvisa luce sorse alle sue spalle, accompagnando e sovrastando l’ultimo urlo del gigante suo compagno e fratello, devastato dall’onda di energia. –“Che… cosa? Che cos’è quello?!” –Ringhiò l’ultimo colosso rimasto, osservando una bestia di luce, dalle strane forme, solcare il cielo e dirigersi poi in picchiata verso di lui.

 

La parte anteriore pareva quella di un’aquila, con il prominente becco rivolto verso di lui e gli artigli pronti ad affondargli nel cuore, ma il resto del corpo era decisamente troppo grosso. E quelle zampe posteriori??? Si chiese il gigante, non riuscendo a metter in piedi nessun’altra strategia che non fosse mettersi a correre, abbandonando tutto il resto, prede comprese.

 

L’animale di energia lo raggiunse poco dopo, trapassandolo all’altezza del ventre e gettandolo a terra in una pozza di sangue. Continuò il suo volo ancora un po’, giusto per sincerarsi che non vi fossero ulteriori predoni in agguato, e poi atterrò accanto ai corpi feriti delle due donne, una delle quali pareva essersi ripresa dallo stordimento.

 

“È incredibile… Sto sognando, non è così? Sei… un ippogrifo!” –Mormorò Elanor, faticando nel rimettersi in piedi.

 

“Questo è il mio simbolo!” –Si limitò a commentare il giovane dai capelli vermigli, aiutandola a rialzarsi. –“Siete state fortunate che mi trovassi nei dintorni o avreste fatto una brutta fine! I Giganti di Ebdera fanno davvero quel che promettono! Se vi hanno detto che vi avrebbero mangiato, state pur certe che questa sera avrebbero banchettato con i vostri corpi!”

 

“Ma è disgustoso!!!” –Esclamò Elanor, tirando un’occhiata veloce verso i cadaveri dei giganteschi guerrieri. –“Che razza di uomini sono?!”

 

“Non sono uomini infatti. Non più. Hanno abiurato alla loro natura umana quando hanno abbandonato la precedente vita, entrando nella confraternita! È una strana fratellanza, quella dei Giganti di Ebdera, celata nelle montagne della Morea! Qualcuno sostiene che siano discendenti dei primi giganti, figli bastardi che qualche Titano seminò per la Grecia all’epoca dell’ultima grande guerra. In verità sono solo briganti che seminano il terrore nelle montagne del Peloponneso o nelle piane dell’Attica, raccogliendo altra feccia umana loro pari. Predoni, pirati, Cavalieri rinnegati, Cavalieri mai investiti di tale titolo. Per denaro o altre ricchezze farebbero qualsiasi cosa! Mi sorprende, e mi preoccupa, che siano giunti così a nord nelle loro scorribande! Ed erano addestrati e ben corazzati! Tutto ciò è sospetto, dovrò proporre al Sommo di estirpare una volta per tutte questa minaccia! Voglia il cielo che non siano riusciti a mettere le loro mani sudice su di voi!”

 

“Il cielo o chi da esso discende per combattere!” –Annuì la primogenita di Selene, prima di chinarsi sulla madre e risvegliarla, raccontandole l’accaduto.

 

Il loro salvatore, intanto, si era diretto verso i resti del santuario di Apollo, iniziando a spostare i massi franati e liberando infine una via verso il recesso profondo, spinto da Elanor, che gli aveva spiegato che le sue sorelle erano rimaste là sotto. Voci di donna giunsero ai suoi orecchi poco dopo, voci concitate, affannose, ma adesso voci colme di gioia. Con un ultimo sforzo, il cavaliere dell’ippogrifo aprì infine un passaggio verso una cavità sotterranea, probabilmente una cella dell’antico complesso templare, dove Endimione e le ragazze si erano rifugiati in fretta, non appena la pioggia di massi era iniziata. Spaventate, con le vesti lacere e numerose ferite e contusioni a deturpare i loro corpi perfetti, erano comunque ancora vive e grate all’uomo che le aveva salvate. Uomo di cui, come Selene ed Elanor ebbero a notare poco dopo, ancora non conoscevano il nome.

 

“Sono Shen Gado dell’Ippogrifo! Cavaliere Celeste al servizio del Sommo Zeus!” –Si presentò, inchinandosi con deferenza.

 

***

 

La Sala del Trono era piuttosto affollata quella sera, obbligando Ebe e Ganimede a un continuo affaccendarsi, per fare in modo che tutti i presenti avessero di che ristorarsi. Nonostante l’antica rivalità che aveva marcato il loro rapporto, in quell’occasione i due coppieri olimpici dovettero collaborare per assicurare a Zeus i migliori servigi. Non che Ganimede già non vi provvedesse, ma da tempo la reggia non accoglieva così numerosi ospiti.

 

Cinquanta fanciulle e una coppia sui generis. Una Dea e un uomo mortale, che ne era divenuto il fedele compagno. Un uomo che, al pari dello stesso Ganimede, aveva beneficiato di un dono divino, permettendogli di elevarsi al di sopra delle altre genti.

 

L’eterna giovinezza.

 

Il coppiere sorrise, riempiendo di ambrosia la coppa di Endimione e allontanandosi poco dopo in silenzio, mentre il Cavaliere Celeste del segno dell’ippogrifo terminava di esporre il resoconto dell’accaduto al Signore del Fulmine.

 

“È stata l’esplosione repentina del cosmo della Dea della Luna a indicarmi con chiarezza ove si trovassero! Così sono potuto intervenire prontamente, per sbaragliare quel che restava dell’oscura fratellanza!”

 

“Fratellanza di cui temo, ahimè, sentiremo ancora parlare!” –Commentò la cristallina voce di Ermes, in piedi a pochi passi da Shen Gado, alla base della scalinata che conduceva alla sala del trono.

 

“Già già! Ma tutto è bene quel che finisce bene, non è così?!” –Esclamò allora Zeus, seduto in maniera scomposta sullo scranno regale. E fece cenno a una ninfa di portargli ancora una coppa d’ambrosia, approfittandone per studiare con attenzione il suo delicato corpo quando questa si avvicinò.

 

“Non sottovaluterei il problema, mio Signore! Potrei guidare un’offensiva contro di loro! I Giganti di Ebdera sono…” –Ma la voce del Sommo sovrastò quella di Shen Gado, ancora in ginocchio, con lo sguardo rivolto al pavimento.

 

“Un cumulo di avanzi del Tartaro! Bestioni deformi e stupidi la cui intelligenza è inversamente proporzionale alla loro stazza! Se Selene non si fosse fatta cogliere di sorpresa, non avrebbe avuto problemi a sgominarli con un cenno della mano! E ora basta parlare di rozze violenze! È un giorno di festa questo! Pensiamo a festeggiare!” –Affermò il Signore dell’Olimpo, mettendosi in piedi e sollevando il calice, incitando tutti i presenti a fare altrettanto.

 

Era, seduta al suo fianco, si alzò a sua volta, obbligando anche le altre Divinità e i Cavalieri Celesti presenti nell’ampio salone ad alzare le loro coppe dorate, in un tintinnio che suonò come musica superba alle orecchie del padrone di casa.

 

“All’audace Shen Gado, che mise in fuga i giganti! E alla divina Selene, che dopo tanti anni passati a spiarci di nascosto dall’altra faccia della luna, ha pensato bene di passare a farci un saluto! E io le dico: salute!”

 

“Salute!” –Ripeterono in coro i presenti, più o meno convinti.

 

“Per la verità, sono passata per un altro motivo, Divino Zeus!” –Intervenne allora la Regina della Luna, lasciando la panca ove era assisa, accanto a Endimione, e incamminandosi verso il centro della stanza, raggiungendo Shen Gado. –“Ho una richiesta da farti, una richiesta che spero accetterai!”

 

“Parla pure, Dea della Luna! A meno che tu non voglia chiedermi la mia riserva di ambrosia, e ti assicuro che è di un’ottima annata, Dioniso lo può confermare…” –E a quelle parole un Dio dalla faccia rubiconda, seduto alle spalle di Ermes, annuì ridendo, il liquido violaceo che gli ruscellò fuori dalla coppa fin troppo colma. –“Non ho motivo di rifiutarti alcunché!”

 

“Ne sono lieta, mio Signore, perché intendo chiederti il tuo Cavaliere Celeste! Il valoroso Shen Gado dell’Ippogrifo!”

 

A quelle parole il cicaleccio nella sala si zittì, mentre decine e decine di teste si voltarono prima verso Selene poi verso Zeus, chiedendosi se la donna stesse scherzando o quanto il Nume avrebbe impiegato a folgorarla per una simile pretesa.

 

“Che impertinenza!” –Commentò Dioniso, sottolineando la sua opinione con un sonoro rutto.

 

La Dea della Luna non si fece intimorire, inginocchiandosi di fronte alla scalinata e spiegando le ragioni della propria richiesta.

 

“Questo viaggio è stato utile! Per quanto io non ami la Terra, né i suoi abitanti, e abbia deciso a suo tempo di fuggirla, è ugualmente vero che il mio reame beato non dispone di guerrieri, soltanto di pacifiche Divinità in cerca di un mondo migliore. La presenza di un Cavaliere così audace e competente, capace di difendere la mia famiglia da eventuali minacce, mi rassicurerebbe!”

 

“Che minacce mai potrebbero giungere in quelle desolate lande?!” –Ridacchiò qualcuno, forse il Dio del Vino.

 

“Le tue ragioni sono fondate, Divina Selene, per questo ti concedo di servirti di Shen Gado, sempre che sia ciò che egli desidera! No, non ringraziarmi, ben misero dono ti ho fatto in fondo! Sono certo che si stuferà presto di quei paesaggi solitari! Per adesso, brindiamo… all’Ippogrifo… sulla Luna!”

 

“Sulla Luna!!!” –Esclamarono tante voci in coro.

 

. Mormorò Selene, afferrando la mano dell’amato e fissandolo negli occhi. Sulla Luna! Finalmente sarebbero tornati a casa.

 

***

 

“Perché me?!”

 

La domanda non giunse inattesa. Del resto, Elanor era certa che il Cavaliere fosse abbastanza intelligente da aver capito.

 

“Vostra madre avrebbe potuto chiedere qualsiasi cosa in dono e Zeus avrebbe acconsentito. Quindi… perché chiedere un Cavaliere Celeste?”

 

“Non un, ma il.” –Sorrise Elanor, prima di annuire. –“È stata una mia idea, lo ammetto! Ti ho visto combattere quest’oggi, ho visto la determinazione nei tuoi occhi, la stessa che anch’io un giorno riverserò in battaglia! Ti chiedo soltanto di prepararmi!”

 

“Alla guerra?! Una principessa che vuole sporcarsi le mani?!”

 

“Non sono una principessa!” –Avvampò la primogenita di Selene, trattenendosi dalla voglia di schiaffeggiarlo. –“Da oggi sono la tua apprendista!”

 

“Segreta apprendista!” –Puntualizzò questi, accennando un sorriso. –“Se non volete che la Dea della Luna addobbi casa con un ippogrifo imbalsamato!”

 

***

 

Danes era stato sconfitto. Danes aveva perso.

 

Era la prima volta che tornava a casa senza preda, la preda volta in cui, accecato dalla facile vittoria, si era lasciato travolgere da un’entità dotata di cosmo. Eppure sua madre, la madre di tutti i giganti, aveva sempre detto loro di non temere il cosmo, poiché erano in grado di vincere chiunque grazie alla loro devastante forza bruta.

 

Che avesse torto?

 

No! La madre non può avere torto! Si disse il gigantesco guerriero. Lei ci ha nutrito finora, lei ci ha reso forti. Lei ci ha allattato nell’oscurità. Lei, la donna che avevano chiamato Ebdera, sebbene nessuno sapesse chi fosse realmente.

 

L’avevano trovata in una caverna, nel cuore della Morea, ove i giganteschi predoni erano soliti fare razzie, e ne erano rimasti affascinati. Il suo aspetto, all’epoca, era ben diverso da quello attuale e inizialmente non avevano neppure compreso che cosa fosse quel bozzolo di energia oscura. E sarebbero tutti morti prima di saperlo, prima di conoscere la verità su di lei.

 

La culla delle tenebre.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Vent’anni prima del secondo avvento.

Fine.

 

 

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Capitolo 33
*** Capitolo trentunesimo: La furia del mare ***


CAPITOLO TRENTUNESIMO: LA FURIA DEL MARE.

 

Vista da lontano faceva un certo effetto.

 

Un’enorme zolla di terra, disseminata di rovine di antichi edifici ricoperti da alghe e flora marina, che ancora grondavano l’acqua in cui erano stati immersi per secoli. Dalla catastrofica fine che aveva segnato il destino di tutti i suoi abitanti. E, sopra di essa, lampeggiavano colorate folgori lucenti, bagliori così intensi e improvvisi che solo lo scontro tra diverse energie cosmiche poteva generare.

 

Questo Tisifone lo sapeva bene, anche se non riusciva a capire a chi appartenessero quei cosmi potenti, di sicuro non a Pegasus e ai Cavalieri dello Zodiaco. Non riusciva neppure a distinguere quanti fossero, ma almeno uno pareva esserle familiare. 

 

Dopo le notizie riferite da un branco di cormorani, Morgana aveva dato immediato ordine di andare nel Golfo di Biscaglia a verificare, così aveva trascinato la sorella, Delfino e gli altri Cavalieri reietti a bordo di uno dei tanti mezzi che avevano sequestrato nel corso degli anni dediti alla pirateria, un Bell X-22, ed erano partiti alla volta dell’Africa, ognuno con diversi pensieri in testa. Uno su tanti albergava nell’animo di Tisifone, oltre all’essere in apprensione per Pegasus, Atena e desiderosa di sapere cosa stesse accadendo. Quanto poteva fidarsi della sorella?

 

“Da dove diavolo è comparsa quell’isola enorme?” –Esclamò uno degli abitanti del velivolo, un ragazzetto dai buffi capelli azzurri che era stato compagno di Andromeda durante gli anni di addestramento.

 

“Non è segnata su alcuna carta!” –Confermò il compagno dai capelli rosa. –“E queste energie che si scontrano… sono immense!!! Mai percepito una simile potenza!”

 

“Questo perché non hai mai fronteggiato un Dio!” –Intervenne allora Tisifone, ponendo fine alla breve conversazione.

 

“Hai idea di cosa possa essere?” –La chiamò allora la sorella, facendole cenno di venire in cabina di pilotaggio, dove lei e Delfino stavano discutendo la possibile strategia da tenere.

 

“Considerata l’ubicazione, la struttura e questo incendio di cosmi… non può trattarsi che di Atlantide, il continente perduto ove imperava Nettuno! Quando e come sia riemersa dagli abissi non so dirtelo! Ma è mio dovere indagare! Potrebbe costituire un pericolo per Atena e per i Cavalieri! Puoi farmi arrivare fin là?”

 

Morgana annuì, indicando a Delfino uno spazio dove atterrare, una piccola baia sul versante settentrionale dell’isola, alla giusta distanza dagli scontri in atto. Nessuno pareva essersi accorto di loro e Tisifone ne approfittò per condurre il gruppetto di Cavalieri dimenticati verso il cuore di Atlantide, avendo cura di scegliere un percorso sicuro, passando dietro muri di edifici distrutti e tenendosi sempre chinati, per non essere individuati da eventuali sentinelle. A fatica, cercò di controllare il battito del cuore, sopraffatto da troppe emozioni negli ultimi giorni: lo scontro a fuoco sulla Nike, l’ipotermia, il ritrovare la sorella creduta morta e ora… il camminare malferma su un’isola leggendaria, un’isola che chissà quali livelli di conoscenza e civiltà doveva aver raggiunto. Affascinata, la Sacerdotessa Guerriero si fermò per guardarsi un attimo intorno, pur senza dimenticare l’obiettivo della loro incursione, e solo allora captò i frammenti di una conversazione in corso alle sue spalle. A quanto pare non era l’unica a nutrire interesse verso i segreti di Atlantide, sebbene il campo di studio di Morgana e dei suoi fosse ben più… materialistico.

 

“Pensa a quanti tesori sono nascosti qua sotto? Celati in cripte che nessuna mano umana ha forzato da secoli? Diventeremmo ricchi, ragazzi, se ne trovassimo anche una minima parte!” –Commentò uno dei vecchi compagni d’addestramento di Andromeda, e anche l’altro annuì. –“Saremmo ripagati di tutte le nostre fatiche!”

 

Quali fatiche? Si chiese Tisifone, scuotendo la testa e sospirando di fronte al crudo infantilismo di certi Cavalieri che probabilmente non avrebbero mai dovuto essere investiti. Cercando di non pensarci, proseguì, scivolando silenziosamente tra le rocce ricoperte di alghe, terreno in cui Morgana e Delfino parevano muoversi con eleganza, fino a portarsi in cima ad un terrapieno da cui poteva ammirare quel che stava accadendo in quella che un tempo era stata la piazza principale dell’isola.

 

Un uomo dal fisico massiccio, rivestito da un’elegante armatura azzurra, sia pur danneggiata in più punti, aveva appena scaraventato a terra un’esile figura, schiacciandola con il piede in una pozzanghera nutrita dal suo stesso sangue. Tisifone non riuscì a vederla in volto, ma la corazza rossiccia e i lunghi capelli biondi le fecero tornare alla memoria il loro breve scontro.

 

Titis della Sirena! E contro chi sta combattendo? Inoltre… chi sono quelle due figure sullo sfondo, la cui potenza è superiore persino a quella di Atena? Uno dei due… la sua impronta cosmica mi è familiare… sebbene la ricordassi differente.

 

Non ebbe il tempo di riflettere ulteriormente, distratta dal rinnovarsi dello scontro tra il Cavaliere Sirena e il suo oppositore, il cui cosmo aveva appena generato un gorgo di energia in cui Titis stava per essere risucchiata, per quanta forza profondesse nel tentativo di resistere. A quel punto prese la sua decisione.

 

“Dove stai andando?” –Bisbigliò Morgana, osservando allarmata la sorella lasciare la posizione riparata e correre verso la battaglia, correre ben più velocemente di quanto le sue condizioni fisiche le potessero consentire. Il cosmo… rifletté la piratessa, il cosmo di un vero combattente di Atena permette miracoli. Dovrei saperlo, in fondo.

 

Con un balzo, Tisifone piombò su Titis, afferrandola poco prima che venisse risucchiata dal mulinello di energia, che passò oltre, schiantandosi contro un mucchio di vecchi edifici, riducendoli in polvere.

 

“Eh… cosa?! Ma tu sei Tisifone del Serpentario?!” –Balbettò il Cavaliere Sirena, mentre l’imprevista salvatrice si rimetteva in piedi. –“Che ci fai ad Atlantide?”

 

“Dunque è così, il continente perduto è riemerso dagli abissi! Perché? E chi è costui che ti sta massacrando?”

 

“Socievole come sempre…” –Commentò Titis, faticando nel rialzarsi, la mano premuta su un fianco da cui sangue sgorgava copioso.

 

“Mi trovavo nei paraggi e ho percepito violente energie cosmiche innalzarsi dal mare, decidendo così di investigare, temendo un pericolo per Atena e l’umanità! Puoi rispondermi o vuoi continuare ad essere scontrosa?”

 

“Umpf… Dici bene, l’umanità rischia ben più di quanto abbia avuto a temere quando Nettuno decise di far piovere per quaranta giorni!” –Confessò infine la donna, indicando i duellanti a decine di metri di distanza. –“La Divinità che sta fronteggiando il mio signore è Forco, antico padrone degli oceani! Nato da Gea e Ponto, contese per secoli il dominio sui mari al padre e ad Oceano, prima di essere annientato da un attacco congiunto di Nettuno e Zeus, al termine della vittoriosa Titanomachia che segnò il trionfo della generazione olimpica sugli Dei precedenti! Adesso è tornato, e come avrai argutamente intuito, i suoi propositi non sono cambiati! Vuole sedere sul trono del mare, lui e lui soltanto, ma per farlo dovrà abbattere Nettuno!”

 

“Dunque l’altro uomo… con la barba… è Nettuno? È quello il vero aspetto del Signore dei Mari? Sembra uscito da un dipinto mitologico!”

 

“Se avete terminato di fare salotto, belle signore, possiamo riprendere a lottare…” –Le interruppe allora la rude voce maschile del guerriero dall’armatura azzurrognola.

 

“Ah, e lui è Cariddi, il galoppino di Forco! Era uno dei primi sette Generali degli Abissi ma tradì il mio Signore passando ad Atena notizie utili per invadere Atlantide e sconfiggere il nostro esercito, su suggerimento di Forco ovviamente.”

 

“Cariddi… il vortice che tutto risucchia…” –Mormorò Tisifone, assimilando in fretta le nuove informazioni.

 

“In carne e muscoli! Fa sempre piacere incontrare qualcuno che mi conosce! Le Sacerdotesse di Grecia si confermano ben informate, allora!” –Ridacchiò l’uomo, strusciandosi il naso con un dito.

 

“Che vuoi dire?! Altre ne hai incontrate, prima di me?”

 

“Una soltanto. In Bretagna. E non ha fatto una bella fine!” –Ironizzò, suscitando un subitaneo moto di collera da parte di Tisifone, che scattò subito verso di lui.

 

“Bastardo!!! Era Castalia, vero? Cosa le hai fatto?!”

 

“Ah ah ah! Sei divertente, ragazza!” –Esclamò Cariddi, muovendosi di lato ed evitando l’affondo del Cavaliere d’Argento, afferrandole il braccio teso con un’algida presa e colpendola poi allo sterno con un pugno deciso, che la fece accasciare proprio su di lui. –“E hai un buon odore! Non come la graziosa sirenetta che puzza di pesce!” –Aggiunse, carezzandole i folti capelli verdognoli e inspirandone il sapore.

 

“Che… stai…?!” –Ma non poté aggiungere altro che venne spinta indietro da un potente calcio dell’uomo, che la scaraventò addosso a Titis, facendole ruzzolare per molti metri sul selciato acquitrinoso.

 

“Mi piace sentire l’odore delle mie vittime!” –Rise il fedelissimo di Forco, prima di aggiungere, con un sorriso sghembo. –“Ah, e per la cronaca, la tua amica è morta!”

 

“Io…” –Tisifone ruggì furiosa, avvampando nel proprio cosmo mentre si rimetteva in piedi, ma prima che potesse scattare di nuovo verso di lui Titis la strattonò per un braccio.

 

“Cosa credi di fare? Lui è il mio avversario! Nemico di Nettuno e di coloro che caddero ad Atlantide per colpa sua! Tu sei di troppo qui, vattene!”

 

“Non starai dicendo sul serio?”

 

Uno sguardo tagliente del Cavaliere Sirena le tolse ogni dubbio, proprio mentre Cariddi portava il braccio avanti, scagliando un devastante pugno di energia che spaccò in due il suolo tra di loro, obbligando entrambe le donne a balzare indietro, ognuna in direzione opposta all’altra.

 

“Che triangolo esaltante! Da chi posso cominciare? Dall’attraente sirenetta dal biondo crine o dalla focosa Sacerdotessa di Atena, che in giochi ben più passionali potrebbe coinvolgermi?” –Ironizzò il guerriero, scattando in mezzo a loro alla velocità della luce, avvolto in un turbinar di energia cosmica. –“Uhm, perché non divertirsi con entrambe contemporaneamente?!” –Aggiunse, sollevando le braccia e generando due vigorosi mulinelli che travolsero Tisifone e Titis, scagliandole in aria per parecchi metri prima di schiantarle a terra, ferite e sanguinanti.

 

“Ugh… Che forza devastante… Se mi avesse investito in pieno… sarei morta.” –Rifletté la tenace Sacerdotessa Guerriero, affannando nel tentativo di rialzarsi ma avendo difficoltà persino a muovere un muscolo.

 

“Sei… una sciocca!” –La raggiunse la voce di Titis. Lieve e lontana, quasi provenisse da un altro universo, sebbene la donna giacesse a solo pochi passi da lei. –“Perché restare? Te l’ho detto… Va’ via! Non siamo amici, non hai motivo di lottare con me.”

 

“Non lo faccio per simpatia personale, ma per ripagare un debito che Atena ha con il tuo Dio! Non ho dimenticato l’aiuto prestato da Nettuno ai Cavalieri dello Zodiaco durante la Guerra Sacra, quando inviò le armature d’oro nell’Elisio, e sono certa che Pegasus al posto mio farebbe lo stesso!” –Commentò Tisifone, con voce aspra ma decisa. Già, Pegasus… Chissà dove sei? In quale mondo divino stai combattendo, bruciando e bruciando ancora la tua luce, fino ad estinguerti in un intenso bagliore per l’umanità?

 

Pensare a lui, all’impegno che aveva sempre profuso nella lotta, anche ogni volta in cui la battaglia pareva persa a priori, le diede la forza di reagire. Le fece chiudere il pugno, radunare le energie e rimettersi in piedi.

 

***

 

“Ma che sta facendo?!” –Sibilò uno dei seguaci di Morgana. –“Vuole combattere ancora?”

 

“È una stupida, non ha visto che non ha speranze? A che giova morire su quest’isola? E per cosa poi? Per aiutare un’antica nemica? Tua sorella ha qualche problema mentale, Morgana!” –Completò l’altro, prima che un gesto di Delfino li zittisse entrambi.

 

Dalla loro posizione riparata, i quattro Cavalieri reietti stavano seguendo lo scontro in atto, ancora incerti sul da farsi. Sebbene qualcuno di loro avesse le idee più chiare riguardo a come approfittare di quella situazione, depredando le ricchezze dell’isola dimenticata. Ma Morgana non ne era convinta, non più ormai. Da quando aveva visto la sorella scattare verso morte sicura, un dubbio la tormentava.

 

Perché? Perché rischiare la vita in una guerra che non ti appartiene? Lascia che Forco e Nettuno si uccidano tra di loro e che la Sirena li segua nel loro destino di morte! Quella donna, in fondo, non è stata tua avversaria mesi addietro? Non ha aiutato il suo Signore a sterminare l’umanità, accecata dal suo integralistico messaggio di epurazione? È normale per te considerare amici quelli che un tempo sono stati tuoi nemici?

 

Quasi avesse udito i suoi pensieri, Tisifone replicò. O forse fu soltanto il vento a parlare alla sua coscienza, ma Morgana lo sentì comunque, quel pensiero di verità.

 

“Risponditi da sola.”

 

***

 

Il nuovo attacco di Cariddi scaraventò le due donne contro i ruderi di un edificio, nonostante la pallida difesa abbozzata dal Cavaliere Sirena che aveva eretto una barriera di coralli.

 

“Umpf! Ridicola tecnica per mortificare un uomo!” –Commentò sprezzante il guerriero dei mari, camminandovi sopra e schiacciando i colorati coralli più e più volte fino a ridurli in poltiglia. –“Tale sarà la vostra fine! Risucchiati nel più potente gorgo che abbia mai terrorizzato i naviganti!” –Esclamò, espandendo il cosmo e generando, sopra di sé, un oscuro vortice di energia dalla poderosa forza d’attrazione. –“Ne avete certamente sentito parlare, sebbene le migliori informazioni potrebbero pervenire da chi è disceso nel suo abisso, senza mai tornare a rivedere il sole! È il possente maelstrom che imperversa nei mari del Nord… e che adesso vi accoglierà!”

 

“Maledizione!” –Ringhiò Tisifone, toccandosi una costola che doveva essersi incrinata. –“Se almeno avessi l’armatura… la mia armatura…” –E bruciò il cosmo così intensamente, da stupire persino Titis di quanto intensa e genuina fosse la sua fiamma. Una fiamma che poco dopo venne rivestita da una corazza che, sia pur danneggiata, contribuì a ridarle energia, lenendo in parte le sue ferite. –“L’armatura del Serpentario! Temevo di averla perduta… con l’attacco alla Nike!!!”

 

“A ben poco ti servirà, donna, quell’effimera protezione contro la furia del mare!!! Mira la possanza del gorgo oceanico!!! Impallidisci di fronte al Moskstraumen!!!” –Gridò Cariddi, liberando il devastante maelstrom, che iniziò a tirare a sé tutto quel che entrava nel suo ampio raggio d’azione.

 

Fu allora, mentre Tisifone stava per venire risucchiata dal vortice, che Titis balzò su di lei, sbattendola a terra, e venendo attratta al posto suo. –“Grazie, ma no grazie! Non potrei accettare che un amico si sacrifichi per me, figuriamoci un nemico!”

 

“Nooo!!!” –Strillò la Sacerdotessa, agitando le mani nel vano tentativo di raggiungerla e, nel farlo, strusciando un oggetto che aveva dimenticato. Una preziosa risorsa che Kiki aveva aggiunto alla sua corazza la prima volta in cui l’aveva riparata, dopo l’assalto di Sterope del Fulmine al Grande Tempio. Eoni fa. Commentò, srotolando la frusta e attorcigliandola poi ad un polso di Titis, poco prima che la donna venisse risucchiata dal temibile gorgo. –“Resistiii!!!”

 

“Non ce la puoi fare, Tisifone!!! Vattene!!!” –Si agitò quest’ultima, la cui parte inferiore del corpo stava ormai scomparendo nel maelstrom. –“Smettila di fare la stupida!!! Non sei un eroe!!!”

 

“Non ho mai voluto esserlo…” –Commentò la Sacerdotessa Guerriero, rivelando uno sguardo colmo di lacrime. –“Eppure siamo simili…”

 

“Co… cosa?!” –La frase colse Titis alla sprovvista, facendole dimenticare per un momento di essere sul punto di morire dilaniata dal più possente vortice marino della storia della navigazione. Fu un attimo, ma la fece sorridere, prima che la forza d’attrazione del Moskstraumen le frantumasse i gambali della corazza, strappandole un grido sofferente.

 

“Intona pure il tuo canto funebre, sirenetta! Per te questa è la fine!!!” –Declamò Cariddi, prima che un suono metallico attirasse la sua attenzione. Fu un sibilo nel vento, appena percettibile di fronte al frastuono generato dall’azione del maelstrom, ma lo percepì giusto in tempo per evitare la punta affilata di una catena che mirava al suo volto. –“Che… cos’è?!” –Esclamò sorpreso, distraendosi per un istante.

 

“Le catene che terranno a bada la tua furia guerriera!” –Gli rispose un’acuta voce di ragazzo, prima che due figure, avvolte nei loro cosmi blu e rosa, comparissero ai suoi lati, liberando guizzanti catene di bronzo, che si attorcigliarono attorno al suo braccio teso verso il cielo. –“Non soltanto la pregiata corazza di Andromeda era celata sull’omonima isola!”

 

“Chi siete, sbarbatelli?!” –Tuonò Cariddi, proprio mentre un calcio rotante lo colpiva alla schiena, sbilanciandolo di qualche passo, e una scarica elettrica si insinuava tra le crepe della corazza, punzecchiandogli il corpo massiccio e strappandogli un gemito di fastidio.

 

“Siamo Cavalieri di Atena!!!” –Risposero i quattro in coro. –“Anche se troppo a lungo lo avevamo scordato! Ma qualcuno ci ha ricordato, con i suoi gesti appassionati, per cosa valesse davvero la pena vivere! Non per gloria o ricchezze ma per sentirci degni di noi stessi!”

 

“Mor… gana…” –Mormorò Tisifone, osservando la sorella intervenuta in loro aiuto e approfittando di quel momento, in cui l’intensità del Moskstraumen pareva essersi ridotta, per tirare Titis fuori dal vortice.

 

“Io sono Reda di Bootes!” –Esclamò il ragazzo dai capelli rosa, subito imitato dal compagno. –“Salzius, di Cassiopea! Cavalieri di Bronzo dell’isola di Andromeda, discepoli del grande Albione di Cefeo!!”

 

“Della costellazione del Delfino io sono Cavaliere!” –Intervenne allora un uomo rivestito da un’armatura nera e bianca, prima che l’unica donna dei quattro si presentasse. –“Morgana! E sono la sorella dell’impavida donna che risponde al nome di una delle Erinni! Ci sarà un motivo per questo, non hai notato il suo carattere, particolarmente furioso?”

 

“Quel che ho notato è che siete quattro falliti, agnelli sacrificali che offrirò in dono al mio signore Forco per concimare col sangue dei nemici il nuovo impero del mare!” –Rise Cariddi, che, superata la sorpresa iniziale, aveva percepito il basso livello di cosmo dei nuovi arrivati, ritenendo che ben pochi danni avrebbe ricevuto da loro.

 

“Taci e combatti!” –Esclamò Reda con baldanza, stringendo la presa della sua catena e piegando il polso dell’avversario, che si limitò a sorridere.

 

“Come desideri!”

 

L’impeto del maelstrom esplose all’improvviso, espandendosi in ogni direzione, verso tutti i combattenti che lo accerchiavano e che vanamente cercavano di resistergli. Le catene di Reda e Salzius andarono in frantumi all’istante e anche la frusta di Tisifone le venne strappata dalle mani, polverizzandosi nel gorgo poco dopo.

 

“È… incredibile… Per quanti mari abbiamo solcato, mai ho incontrato un simile leggendario potere! C’è tutta la rabbia del mito racchiusa in questo vortice!!!” –Mormorò Morgana, affannando per non essere aspirata al suo interno.

 

“Dobbiamo distrarlo! Fargli perdere la concentrazione sul suo colpo segreto!” –Propose Tisifone, che aveva notato come, durante il breve assalto dei compagni, l’intensità del Moskstraumen fosse scemata.

 

“Ci penso io!!!” –Esclamò allora Delfino, spiccando un agile balzo e iniziando a roteare su se stesso, puntando alla schiena di Cariddi con il tacco teso.

 

“A fare cosa, di grazia?!” –Rise quest’ultimo, muovendo il braccio mancino e afferrando l’uomo senza neppure voltarsi per guardarlo in faccia. Ne udì soltanto i lamenti mentre lo sbatteva a terra con violenza, sprofondandolo nel suolo, riducendo in frammenti la corazza e il corpo che era preposta a proteggere.

 

“Delfino!!!” –Gridarono Reda e Salzius, correndo in aiuto del giovane, ma finendo per entrare nel raggio d’azione del vortice, che li attirò a sé, per quanto si dimenassero e tentassero di afferrare un qualsiasi appiglio nel terreno.

 

“Dobbiamo tentare adesso! Non avremo una seconda occasione! Nessuno di noi l’avrà!!!” –Disse allora Morgana alla sorella, che prontamente annuì. E anche Titis si unì loro.

 

“Tenterò di immobilizzarlo con i miei coralli! Ora… Sottile trama corallina!!!” –Esclamò quest’ultima, ricoprendo il lastricato di Atlantide di fiori animali, fino ad inglobare i piedi e le gambe di Cariddi in quell’indistinta massa colorata.

 

“Mi fai il solletico, niente più!” –La derise questi, mentre la forza d’attrazione del vortice sradicava quel fatuo strato di coralli.

 

“Tra poco non riderai più!!! Cobra incantatore!!!” –Gridò Morgana, scatenando su di lui centinaia di guizzanti saette di energia, subito seguita dalla sorella, avendo cura di mirare alle crepe nella corazza, per raggiungerne la carne al di sotto. –“Può anche essere il guerriero più forte del mondo, ma la postura di chiunque collasserebbe pizzicato da una scarica a così alto voltaggio!!!”

 

“Io non sono chiunque!” –Ghignò il generale traditore, trattenendo una smorfia di dolore. –“Io sono Cariddi l’irrequieto! Terzo dei Forcidi! Il generatore di vortici così minacciosi che persino Ulisse ebbe di me timore! E voi, donne, siete ben lontane dal valore dell’eroe di Itaca!” –Ribadì, sollevando anche il secondo braccio e travolgendo tutti coloro che lo attorniavano con un potente gorgo di energia.

 

Durò un attimo, il tempo che ci volle a distruggere le loro corazze, frantumare qualche ossa e rigettarli poi a terra tutti quanti, a costellare così il pavimento di quell’antica piazza dove Nettuno era solito passeggiare, tra la folla e i banchi dei suoi fedeli. Ma se un tempo il Nume vi riceveva lodi e ringraziamenti, per aver garantito il bel tempo, navigazione serena e pescati fruttuosi, adesso ne ebbe solo dolore. Per sé e per coloro che inaspettatamente combattevano contro i suoi nemici.

 

“Per.. ché?” –Mormorò Titis, immersa in una pozza di sangue, attirando l’attenzione di Tisifone, schiantatasi poco distante. –“Perché hai detto che siamo simili?”

 

“Tu perché sei tornata a vestire l’armatura? Eri una sirena adesso, non è così? Lo eri davvero! Ti vidi, quel giorno, portare in salvo Julian e poi struggerti nel salutarlo, faticando ad abbandonare l’abbraccio di quel mortale. Perché tornare a combattere adesso che potevi essere finalmente libera?”

 

“Libera?! A volte mi chiedo se lo sono mai stata.” –Sospirò la giovane, raccontando la sua storia. –“Discendo da una famiglia di metamorfi, il cui potere si tramanda di generazione in generazione, fin dalla prima donna di cui Nettuno si innamorò, mutandola in sirena, in modo da permetterle di vivere sia sulla terraferma, con i suoi familiari, che negli oceani, alla sua corte. Con lui.”

 

Trattenendo il dolore per le ossa maciullate, Tisifone si voltò, osservando l’antica rivale negli occhi e riconoscendo quello sguardo. Quello di una donna innamorata a cui il fato ha negato la possibilità di avere l’uomo che ama!

 

“Lo amavi… Julian, intendo.”

 

Titis non rispose, lo fecero solo le sue lacrime, scivolandole dagli occhi e mescolandosi al sangue che colava dalla ferite sul bel volto deturpato.

 

“Me ne vergogno tanto… Amavo l’essenza del Dio, lo spirito primordiale del Signore dei Mari, e al contempo ero attratta dal corpo di Julian. Un dualismo di sentimenti che forse riflette la mia duplice natura, umana e animale. Ma che importa? Adesso ho perso entrambi, perché Nettuno è un vero Dio e Julian, privo della sua coscienza, neanche si ricorderà di me!”

 

“È una sensazione che ho provato anch’io. Amare senza essere amati e osservare l’altro convolare verso la propria felicità. Un motivo più che valido per fare follie!” –Confessò il Cavaliere d’Argento. –“Pur tuttavia, la morte in battaglia, che ora vedi come una liberazione, non ti porterà pace… No! Ti impedirà di rischiare tutta te stessa e di scoprire se non poteva davvero esserci speranza!”

 

“Ti… sifone…” –Mormorò Titis, prima che un secco colpo di tacco sul ventre la sprofondasse ancora più al suolo, facendole vomitare sangue e altri liquidi interni.

 

“Ancora a far salotto, voi due?!” –Ironizzò Cariddi, ergendosi minaccioso sui due corpi inermi. –“Pettegole come tutte le donne! Dovrò farvi passare la voglia di aprir bocca, se non per supplicare la pietà del nuovo Imperatore dei Mari!” –E, nel dir questo, affondò di nuovo nel petto della sirenetta, strappandole un atroce grido di dolore.

 

“Bastardooo!!!” –Ringhiò Tisifone, faticando nel rimettersi in piedi. Ma prima ancora che riuscisse a sollevare un braccio per scagliare il proprio colpo segreto, vide con la coda dell’occhio un’agile figura balzare sulla schiena di Cariddi e affondargli le unghie nel collo. –“Sorella!!!” –Esclamò, riconoscendola, proprio mentre il guerriero la afferrava per un braccio, torcendolo e prostrandola a terra.

 

“Fastidiosa puntura di insetto! E come tale da schiacciare!” –Commentò, colpendola con un pugno allo stomaco, distruggendo l’armatura e piantandolo dentro di lei, fino a sentire il sangue bagnargli le dita.

 

“Morganaaa!!!” –Gridò il Cavaliere del Serpentario, rialzandosi di colpo, mentre la sorella si accasciava sul  braccio di Cariddi, gocciolando sangue.

 

“Se tanto la desideri, prenditela!” –Le rispose questi, spingendogliela contro in modo brusco, mentre Tisifone correva ad afferrarla prima che cadesse a terra. –“È tempo di finirla! Il mio signore sta per uccidere Nettuno e io voglio essere presente a quel glorioso momento! Perciò, addio ragazzi, è stato un piacere! Per me lo è stato senz’altro!” –Chiarì, sollevando un braccio ed evocando il poderoso maelstrom.

 

“Anche per noi!!!” –Urlarono allora Reda e Salzius, lanciandosi su di lui e afferrandogli le braccia, in modo da impedirgli di usarle, proprio mentre Delfino, concentrato tutto il suo cosmo, balzava in alto, piombando sul nemico con un calcio volante.

 

Vortice del delfino!!!” –Gridò, riuscendo a colpirlo alla nuca e facendogli perdere l’elmo già danneggiato, rivelando una folta capigliatura arancione.

 

“Tsè! E hai il coraggio di chiamarlo vortice?!” –Ironizzò Cariddi, bruciando il proprio cosmo che avvampò attorno a sé, strappando strilli di dolore agli allievi di Albione, che pure resistevano, aggrappati ai suoi arti e decisi a non mollarli. –“Vi mostrerò adesso cos’è un vero vortice!!!” –Tuonò, alzando le braccia e scaraventando i due ragazzi in alto, risucchiati dal gorgo di energia, prima di voltarsi verso le donne, vacillando allora per la prima volta. –“Uh?!” –Mormorò, mentre la vista si faceva confusa e le immagini meno nitide.

 

Delfino approfittò di quel momento per afferrarlo alle spalle, chiudendogli le braccia in una solida presa, il cosmo portato al parossismo.

 

“Non riuscirò a trattenerlo a lungo!!!”

 

“Errore! Tu non riuscirai proprio a trattenermi!!!” –Esclamò furioso Cariddi, mentre il maelstrom, sopra di loro, continuava a muggire famelico, aumentando persino d’intensità al comando mentale del suo creatore.

 

Sottile trama corallina!!!” –Parlò allora Titis, trascinatasi in silenzio fino ai piedi del guerriero, afferrandogli una gamba e iniziando a rivestirla con i suoi fiori animali. –“Cobra incantatore!!!” –Urlarono Tisifone e Morgana, scaricando su di lui centinaia, forse migliaia, di folgori energetiche, che si fecero largo tra le crepe della sua corazza, allargandole fino a far schizzare fuori il sangue.

 

Moskstraumen!!!” –Gridò il servitore di Forco, espandendo al massimo il proprio cosmo, mentre il maelstrom si chiudeva su tutti loro, dilaniando pavimento, corazze e ossa umane. Delfino fu il primo ad essere risucchiato al suo interno e, conscio del suo destino, tirò un ultimo sguardo a Morgana, la sua regina, sorridendole. Poi fece quel che un uomo in punto di morte può fare per dare una possibilità a coloro che ama. Lasciò esplodere tutto il suo cosmo, generando una detonazione che squassò il vortice dall’interno, scaraventando tutti a terra, tra grida e caos.

 

Quando la polvere dell’esplosione scemò di intensità, Cariddi era il solo che ancora si reggesse in piedi. Tisifone lo osservò dal basso, scansando con gentilezza il corpo di Morgana che le si era parato davanti, per ripararla dall’esplosione, e notò che neppure lui era uscito indenne dall’ultimo dono di Delfino. L’armatura gravemente danneggiata, l’azzurro dell’oricalco tinto adesso del sangue che colava dalle ferite aperte, lo sguardo languido, a tratti confuso, di certo sofferente.

 

“Una… variante…” –Balbettò allora una flebile voce, costringendo Tisifone a chinarsi sulla sorella e a chiederle di ripetere. –“Ho aggiunto una variante al nostro colpo segreto… Curaro. Un veleno celato nelle mie unghie. Non sono mai stata forte, mai ho avuto la costanza di allenarmi a fondo, come te, ma ho sempre preferito… le scappatoie…” –Mormorò, accasciandosi.

 

E anche Cariddi fece lo stesso, crollando sulle ginocchia, portandosi una mano allo stomaco scosso da profondi conati. Rigurgitò più volte, urlando e muggendo, battendo i pugni sul suolo e distruggendo l’area attorno a sé, ma alla fine capì. Che neppure lui aveva vinto.

 

Tisifone gli si avvicinò, trascinando le gambe che non sentiva più, e fissò i suoi occhi azzurri adesso iniettati di sangue. Anche in silenzio, gli sembrò di udirne la supplica.

 

“Graziami!”

 

E lo fece.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 34
*** Capitolo trentaduesimo: Il figlio del drago ***


CAPITOLO TRENTADUESIMO: IL FIGLIO DEL DRAGO.

 

Ioria e Nikolaos osservarono stupiti il guerriero giunto in loro soccorso e, finché non si tolse l’elmo, rivelando il volto virile e gli occhi neri, non lo riconobbero. L’armatura che indossava era infatti ben diversa da quella dei difensori dell’Olimpo, più simile, come fattura, alle corazze di Jonathan e degli altri Cavalieri delle Stelle. Elegante, coprente, leggera al tatto, era decorata da due teste di drago stilizzate, usate come protezioni per le spalle, una dalle sfumature rossastre, l’altra dalle tinte bianche. Colori sacri agli antichi culti cui era devoto.

 

“A… Ascanio…” –Mormorò l’Eridano Celeste, concedendosi un sorriso speranzoso.

 

“È Ascanio Pendragon il nome mio, Cavaliere della Natura, di cui vesto infine la corazza, e Comandante dei Cavalieri delle Stelle! Il ruolo in cui mi avete conosciuto, amici e nemici, non più mi appartiene! Smessi i panni del Cavaliere Celeste, quando l’ultimo membro della Legione Nascosta, Gwynn del Biancospino, morì per mano del Licantropo, rappresento adesso il Signore dell’Isola Sacra, ai cui misteri sono stato iniziato! In nome suo combatto, per riscattare un antico tradimento, che tu, miserabile Anhar, hai compiuto!” –Declamò fiero l’uomo dai capelli neri, puntando il dito contro il Rosso Fuoco. –“Preparati a sorte terribile! Il ruggito dei draghi dell’antica Albion ti travolgerà di nuovo!”

 

“Non credere troppo nella buona sorte, scagnozzo di Avalon! Mi hai atterrato sfruttando la mia distrazione, condizione che non si ripresenterà!” –Esclamò Flegias, mentre attorno a sé sorgevano oscure vampe infuocate, che subito diresse contro il Cavaliere delle Stelle.

 

“È con questo fuoco che hai segnato il tuo cammino, Anhar? È questo il marchio dell’infamia con cui hai reciso ogni legame con l’Isola Sacra?” –Chiese Ascanio, espandendo il proprio cosmo, fresco e potente, carico di una vitalità che né Ioria né Phantom avevano mai percepito in lui, quasi fosse rinato in una seconda vita.

 

“Questo è il fuoco purificatore con cui incendierò il mondo, l’ecpirosi che incenerirà Avalon e tutti i suoi abitanti!” –Ringhiò il Maestro di Ombre, chiudendo il pugno della mano destra e lasciando che, allo stesso modo, le tetre vampe cingessero d’assedio il corpo del Cavaliere della Natura. –“Questa è la vampa oscura della conflagrazione universale, l’incendio della fine del mondo!!!”

 

“Un’eresia. Il sogno di una notte d’inverno destinato a sciogliersi ai primi raggi di sole!” –Sentenziò quest’ultimo, lasciando esplodere il proprio cosmo e annientando le fiamme che lo attorniavano. Quindi, muovendo il braccio destro avanti, generò uno scintillante dragone di energia, dalle scaglie rosse e le fauci aperte, che azzerò in un lampo la distanza che lo separava da Flegias, abbattendosi su di lui. –“Che le zanne del Drago di Sangue ti conducano alla morte, traditore dei misteri! Come gli instancabili Cŵn Annwn di Arawn, la sacra bestia di Britannia ti caccerà fintantoché non ti avrà smembrato!”

 

“Non se io la uccido prima!” –Ghignò Flegias, le cui vampe si chiusero a cupola attorno a lui, difendendolo dal devastante attacco, che smosse il terreno tutto attorno, sollevando zolle di fiori e polvere. –“Con le fiamma di Garuda!!! Kaan!!!”

 

“Continua a usare i poteri di Virgo! Ma perché?” –Intervenne Ioria, notando che il Maestro di Ombre aveva iniziato a radunare la propria energia tra le mani, pronto per rilasciarla all’improvviso. –“Allontanati Ascanio o l’abbraccio dell’Oriente ti travolgerà!!!”

 

Il Comandante dei Cavalieri delle Stelle fu svelto a balzare all’indietro, proprio mentre Flegias liberava un ventaglio di energia infuocata che disperse il Drago Rosso, concedendosi un sorriso compiaciuto.

 

“Le tue speranze in una vittoria rapida si assottigliano, figlio dell’Isola Sacra!”

 

“Ad Avalon ho appreso ad essere paziente!” –Si limitò a commentare Ascanio, evitando i tranelli del nemico, specialmente quelli verbali. –“E a volte una lenta vittoria è molto più gratificante, non trovi, Anhar? Non è forse questo che insegui da secoli, ormai?”

 

“Perché lo hai chiamato Anhar?!” –Si intromise allora Ioria, aiutando al qual tempo Phantom a rialzarsi. –“Non è Flegias il suo nome?!”

 

“In verità l’ombra ha molti nomi, tante quante sono le facce della verità! Pur tuttavia, egli rimane sempre figlio dell’unico Dio da cui tutti gli Dei sono discesi.” –Chiosò Ascanio, sibillino, osservando l’accigliarsi del volto del Cavaliere di Virgo. –“Anhar era un membro della gilda dell’equilibrio guidata da Avalon, un membro che abbandonò la retta via, infettato e corroso da un’ombra primordiale! Flegias temo sia stata solo una delle tante identità cui è passato attraverso, per convincere se stesso di essere qualcuno. Per dare uno scopo ad una vita che a nient’altro è stata votata se non al perseguimento del caos!”

 

“Tanta filosofia e così poca azione!” –Ringhiò il Maestro di Ombre. –“Sono stufo!!!” –Aggiunse, sollevando il braccio destro e scatenando una furiosa tempesta di vampe infuocate. –“Apocalisse Divi…” –Ma prima che riuscisse a completare l’invocazione, Ascanio era già scattato avanti, il pugno destro rigurgitante energia cosmica.

 

Come un drago di luce, il Cavaliere della Natura sfidò le demoniache fiamme oscure, portandosi a ridosso del nemico e colpendolo sul petto con un pugno secco, che lo spinse indietro, mozzandogli il respiro e interrompendo il suo assalto. Per l’impatto, Flegias scavò due solchi nel terreno con i piedi, gli stessi solchi dove ricadde sulle ginocchia poco dopo, sputando sangue e bile dalla rabbia.

 

“Bastardo!!! Quando avrò raso al suolo quella nefasta isola nebbiosa, la concimerò con le tue budella!” –S’infiammò, rialzandosi e accorgendosi che Ascanio era già pronto in posizione offensiva, le braccia portate avanti a sé, la maestosa sagoma di un drago dalle scaglie marmoree che lo attorniava.

 

Attacco del Drago bianco!” –Tuonò, liberandone l’impeto e osservandolo saettare verso Flegias, che non riuscì a ricreare in tempo il Kaan, limitandosi a portare avanti il braccio destro, palmo aperto all’infuori, con cui tentò di frenarne l’avanzata.

 

Fu allora che Ioria intervenne, piantando il pugno nel suolo e scaricandovi guizzanti folgori dorate, che subito sorsero attorno a Flegias, fulminandolo e strappandogli un grido furioso, mentre anche Phantom evocava robusti filamenti dal terreno, avvinghiandoli attorno al corpo del Maestro di Ombre, per bloccargli i movimenti.

 

“Misero tentativo, miserrimo risultato. E miserabili combattenti!!!” –Ringhiò questi, lasciando avvampare il proprio cosmo oscuro e riducendo in cenere le liane dell’Eridano e le zanne del Leone.

 

“Parli di te stesso?” –Lo sorprese però Ascanio, sfrecciato di fronte a lui a velocità incredibile, poggiando la mano sul pettorale della corazza della Vergine e scatenando la forza devastante del Drago dalle squame bianche.

 

“Aaargh!!!” –Flegias venne scagliato in aria, tra i frammenti insanguinati dell’armatura d’oro, fino a schiantarsi a terra, proprio in mezzo ai salici gemelli.

 

“Bel colpo!” –Commentò Phantom, crollando ansimante sulle ginocchia.

 

Ascanio non rispose, limitandosi ad osservare il loro nemico che si rialzava, sputando e maledicendoli in tutte le lingue che conoscesse, prima di guardarsi attorno e realizzare dove fosse stato scagliato.

 

“Se davvero credi che tra questi alberi giaccia la mia tomba, sei un illuso, Comandante! Li sradicherò e te li pianterò nel cuore!!!” –Latrò, furibondo.

 

“Abbiamo un problema!” –Parlò infine il Cavaliere della Natura, a bassa voce, per non farsi udire dall’indemoniato avversario. Ioria e Phantom lo osservarono subito con interesse, prima che questi cominciasse a spiegare. –“Attaccandolo in questo modo, se pure riuscissimo a ferirlo, danneggeremmo solo Virgo! Credevo che il Drago Bianco fosse sufficiente per estirpare l’anima di Flegias dal corpo del Cavaliere della Vergine, non che vi fosse così profondamente radicata!”

 

“Che intendi dire?”

 

“I draghi al mio comando riprendono il dualismo della tradizione celtica tra il rosso e bianco, colori concorrenti e complementari! Il rosso, colore del sangue, è il drago della morte, l’attacco poderoso che sfonda ogni difesa e lascia i nemici esanimi al suolo. Il bianco, come il latte di una madre o il seme dell’uomo, è colore della vita, il suo potere è più spirituale, in grado di smuovere i sentimenti nel profondo dell’animo umano. Ma temo che dello spirito di Virgo non sia rimasto alcunché!” –Sospirò Ascanio. –“Ben due volte l’ho colpito con l’Attacco del Drago Bianco e ancora Flegias sghignazza follemente, imperando su un corpo che non è il suo! No, amici miei, questa non è una semplice possessione, come accadde a te, Ioria, per mano di Arles! Questo è un vero e proprio caso di annullamento della coscienza di un uomo, sostituita per intero dallo spirito di un altro! Un potere così oscuro che solamente gli Dei possono manovrare! E neppure tutti!”

 

“Non possiamo fare niente? Neppure tu, Ascanio, non potresti provare a risvegliare la coscienza del Custode della Sesta Casa con il tuo potere? Sfruttare la metempsicosi per entrare dentro di lui?!”

 

“No, Nikolaos, non posso e non voglio farlo! Perché, se anche riuscissi nell’impresa, la psiche di Virgo ne risulterebbe sconvolta! Il suo corpo non potrebbe sopportare di essere conteso da ben tre anime al suo interno! Nessun mortale sopravvivrebbe!”

 

“Dunque… non vi è niente che possiamo fare? Solo continuare a colpirlo, ferendo il corpo di Virgo e condannandolo noi stessi a morte?” –Mormorò Ioria, demoralizzato. Ma la conversazione tra i tre fu interrotta da una pioggia di vampe di fuoco che Flegias aveva diretto su di loro, osservando compiaciuto i loro tentennanti tentativi di proteggersi, per quanto niente potesse offrire loro riparo sicuro dalla sua violenza sanguigna.

 

“Cadete, vermi! Rantolate al suolo, contorcetevi e smaniate! Vi guarderò soffrire, i corpi divorati dalle fiamme nere, prima di schiacciarvi e mettere fine alle vostre sofferenze che giungono come gradita musica ai miei timpani! Ah ah ah!” –Esclamò delirante il Maestro di Ombre.

 

Ioria afferrò Phantom, ruzzolando assieme sul terreno squassato per sfuggire alle violente vampe di fuoco che parevano saturare il cielo, ma non poterono evitarle a lungo, venendo risucchiati in un turbine di energia ardente che li scaraventò contro le mura esterne della Sesta Casa, intrisi di ferite e crepe sulle corazze.

 

Ascanio invece rimase nel giardino, le gambe piantate nel terreno, espandendo il cosmo fino a generare due dragoni, uno bianco e l’altro rosso, che si avvolsero a spirale attorno a lui, proteggendolo dalla furia della pioggia di fuoco e facendo inalberare Flegias.

 

“Tu sia dannato, figlio dell’isola sacra!!!” –Avvampò, scattando avanti, mentre sfere di energia infuocata apparivano sulle sue mani, venendo da lui prontamente dirette verso il Cavaliere della Natura. Una dopo l’altra, Flegias le scagliò contro la barriera di cosmo che attorniava Ascanio, su cui rimbombarono, esplodendo, pur senza creparla. –“Aaargh!!!” –Strillò infine il Rosso Fuoco, piantando un pugno nel terreno e infondendovi l’incandescente energia delle sue vampe oscure che schizzarono fuori proprio sotto i piedi di Ascanio, disperdendo i draghi di energia e scaraventandolo in alto.

 

Di fronte a quella scena, Flegias sogghignò pago, torcendo le labbra in un sorriso di sfida. –“Vengo a prenderti!” –Sibilò, pronto per balzare in alto e inseguire l’ambita preda.

 

“Non ti disturbare!” –Parlò Ascanio, direttamente al suo cosmo. –“Sarò io… a venire da te!!!” –Aggiunse, mentre le vampe di fuoco si richiudevano su di lui, iniziando infine a turbinare attorno al suo corpo, senza raggiungerlo mai. Con un’esplosione accecante, il Comandante dei Cavalieri delle Stelle liberò la propria energia interiore, sommandola a quella che lo circondava e dirigendo l’intero ammasso contro Flegias, sotto forma di due enormi dragoni dalle fauci aperte. –“Double Dragon Attack!!!”

 

“Non mi avrai!!! Apocalisse divina!!!” –Tuonò il Maestro di Ombre, scatenando la devastante tempesta di vampe oscure e osservandola, sconvolto, venire trapassata dalla furia dei draghi di Albion, che si abbatterono su di lui, scaraventandolo indietro, con nuove crepe aperte sull’armatura d’oro e una fitta imprevista al cuore. Quella stessa fitta che l’aveva aggredito all’inizio dello scontro, quando Ascanio lo aveva atterrato per la prima volta.

 

“Per quanto il Drago Bianco non possa liberare completamente Virgo dalla tua opprimente coscienza, posso logorarla poco a poco, strappandotene un po’ ogni volta! Proprio come ho fatto finora!” –Commentò il Cavaliere di Avalon, atterrando a piedi uniti e osservando il disprezzo sul volto del Flagello di Uomini e Dei, che affannava nel rialzarsi.

 

“Un’impresa piuttosto ardua e lunga!” –Ghignò questi. –“Hai tutto questo tempo?”

 

“Per la verità, no!” –Esclamò deciso Ascanio, espandendo il proprio cosmo, forzando il nemico ad un impulsivo passo indietro. Anche Ioria e Phantom, sorreggendosi a vicenda, si erano intanto avvicinati, incuriositi dalla nuova mossa del Comandante. –“Vi è un solo modo per salvare Virgo ed eliminare una volta per tutte la Terra dalla tua fastidiosa presenza! Un rito che prevede una nascita e una morte, per bilanciare l’equilibrio cosmico! La rinascita di Virgo e la tua scomparsa!”

 

“Sei un buffone! Tu non…” –Gridò Flegias, scattando avanti, ma venendo spinto indietro dall’esplosione del cosmo di Ascanio, puro e lucente come un sole sorgente. Cosmo che, tutti osservarono, pareva essere concentrato attorno alla testa.

 

Anzi no. Per la verità attorno all’elmo! Notò Ioria, mentre il copricapo della corazza si sollevava dal cranio, levitando in aria e dilatando la propria forma. D’un tratto roteò su se stesso, capovolgendosi e fermandosi proprio nello spazio tra Ascanio e Flegias, che subito lo riconobbe, avendolo visto nei ricordi dell’Antico.

 

“Ma questo è…”

 

“Il manufatto da me custodito! Il più potente dei Sette!” –Spiegò calmo Ascanio, mentre Ioria e Phantom lo osservavano affascinati. –“E se lo riconosci, allora saprai anche cosa è in grado di fare!”

 

Il cosmo presente nel talismano esplose all’improvviso, rigurgitando fuori un fiume di energia, come se qualcosa all’interno bollisse sotto una fiamma elevata, rivelando nitide le sue forme finali. Quelle di una grossa pentola.

 

“Il calderone dei misteri!!! Il talismano celato ad Avalon, che mai avevo usato finora, perché mai nessun nemico mi aveva spinto così lontano da doverlo usare!”

 

“Un calderone… Meraviglioso!” –Commentò Phantom, invaso da un’improvvisa tranquillità. –“È un potentissimo simbolo di potere nella tradizione celtica! La storia ci ha regalato il ricordo di molti celebri pentoloni in grado di dare vita, morte o sostentamento! Il calderone di Dagda, per esempio, il Dio buono dei celti, era celebre per non svuotarsi mai, fonte inesauribile di nutrimento per tutti coloro che avevano fame! Quello di Bran, invece, si diceva avesse il potere di riportare in vita i morti! Altri potevano invece donare saggezza!”

 

“Dici il vero, Nikolaos. Il potere del calderone è immenso, rappresenta il grembo della Grande Dea Madre, espressione della sua forza trasfigurante! Forza di cui tu, Flagello di Uomini e Dei, adesso avrai un assaggio!” –Esclamò Ascanio, mentre Flegias veniva trascinato verso il pentolone da un’immensa forza invisibile.

 

“Cosa ne sai tu della Dea Madre? Che ne sapete voi degli Dei Antichi?!” –Ringhiò, agitandosi con foga ma senza riuscire a vincere la forza d’attrazione che lo sollevò da terra, fino a inzupparlo dentro l’energia cosmica che ribolliva nel manufatto. –“Io solo sono l’araldo dell’ombra! Io solo ne conosco i segreti!!!”

 

“Tu, tra poco, più non sarai!” –Sentenziò il Comandante dei Cavalieri delle Stelle, ampliando al massimo il proprio cosmo, che venne rigurgitato dal Calderone dei Misteri dentro cui il corpo posseduto da Flegias ardeva, si dimenava, si contorceva, invaso da una sensazione di pace, di serenità, di luce che così tanto strideva con la sua reale natura. –“Che il Calderone dei Misteri compia la sua opera! Che la liberazione del Cavaliere di Virgo dall’ombra trovi infine attuazione!”

 

Un’ultima scossa fece sussultare il corpo del Custode della Sesta Casa, prima che questi si accasciasse contro il bordo esterno del pentolone, mentre un’aura nera, su cui lampeggiavano due occhi rossastri, fuoriusciva dal suo corpo, rimanendo sospesa in aria, sopra la lucente energia in fermento.

 

“Virgo!!!” –Gridò Ioria, avvicinandosi al talismano, per poi voltarsi verso Ascanio e aspettare un cenno di conferma.

 

“Portalo via! Il suo corpo ormai è stato purificato, la sua anima è libera infine! Ma che lui viva o muoia, dipende solo dalle sue forze!” –Precisò il Comandante, mentre Ioria trascinava il parigrado fuori dal gorgogliante magma energetico.

 

“Lo aiuterò io! Gli darò il mio cosmo! Virgo è forte, si sveglierà!” –Ansimò il Leone, fermandosi vicino ad Ascanio, che aveva ancora gli occhi puntati sull’evanescenza oscura che aveva estirpato dal corpo del Cavaliere d’Oro.

 

“Ho ancora una cosa di cui occuparmi! Dopo potrò gioire!” –Commentò, mentre il suo cosmo spumeggiava furioso all’interno del pentolone. –“Hai dimenticato le mie parole, Flegias? Una vita per una vita. L’equilibrio del mondo deve essere garantito! Come il calderone puà dare vita, ugualmente può dare morte! E morte è ciò che meriti di ricevere! Troppe le tue colpe per enumerarle tutte quest’oggi! Mi limiterò a farti scontare gli oltraggi che hai recato ai miei maestri! Dohko di Libra, il Primo Saggio e Avalon, la loro vendetta è la mia!” –E, nel dir questo, risucchiò la fiammeggiante anima oscura di Flegias all’interno del pentolone, per quanto questa guizzasse vampe nere nel tentativo di liberarsi. –“Ardi! Ardi e consumati, come troppi uomini e Dei hai consumato inseguendo i tuoi progetti imperiali!”

 

“Non.. puoi farlo! Non puoi uccidermi!!!” –Gridò la sua voce stridula, in quel ribollir di cosmo lucente. –“Non devi farlo! Avalon non lo vorrebbe! Lui… si arrabbierebbe molto con te!”

 

“Che sciocchezze vai dicendo?!” –Rise Ascanio, continuando a concentrare la propria energia in quell’operazione tanto attesa. –“Un ultimo bluff prima della fine?!”

 

“Pensa Ascanio! Pensa! Come posso essere qui, quest’oggi, nonostante il tuo maestro mi abbia spazzato via, giorni addietro, sulla cima dell’isola?! Tu credi che io mi sia salvato per fortuna, per miracolo o per intercessione divina dalla Nebulosa delle Stelle? Ti sbagli, è stato Avalon stesso a salvarmi!” –Sibilò Flegias, profondendo le ultime forze che gli rimanevano in quell’accorata orazione. –“Egli ha lasciato che un pulviscolo di me, un misero frammento di ombra, vagasse per il cielo! E lì, nel vuoto cosmico, il mio Signore mi ha trovato, dandomi una seconda opportunità, sfruttando il corpo di Virgo da lui appena fagocitato!”

 

“Idiozie di proporzioni inaudite! Avalon per ben due volte ha tentato di eliminarti!”

 

“Appunto! Due volte, Ascanio! Due volte ci ha provato ed entrambe ha fallito! Lo reputi possibile? Reputi davvero possibile che il tuo maestro, il maestro di voi Cavalieri delle Stelle, così forte e potente, non fosse in grado di estirpare per sempre la minaccia da me rappresentata?! Mi ha lasciato vivere volutamente, per lo stesso motivo per cui ha aspettato secoli prima di darmi la caccia! Perché gli servo! Servo, come lui e i suoi tirapiedi, al mantenimento dell’equilibrio! Luce e ombra, senza che nessuna possa sopraffare l’altra!”

 

“Tu menti!!!” –Avvampò il glorioso Comandante. –“Vuoi ingannarmi come fuorviasti Zeus, Crono e molti altri prima di loro! Ma io ti conosco, so di cosa sei capace, serpe oscura!!!”

 

“E conosci anche il tuo maestro?” –Sussurrò Flegias, prima di venire completamente risucchiato dall’energia fermentante nel talismano.

 

Ascanio non seppe rispondersi, invaso per la prima volta da un’esitazione che non avrebbe mai voluto provare. Non durò che un attimo quella sensazione sfuggente, quell’oscuro timore che le parole del Flagello di Uomini e Dei fossero vere, prima che la fiera coscienza del seguace di Avalon riemergesse, fugando ogni esitazione e completando l’assorbimento di Flegias all’interno del Calderone dei Misteri.

 

“Così tutto finisce!”

 

Improvvisamente un fascio di energia nera fendette il cielo, schiantandosi proprio sul talismano e scaraventando Ascanio indietro. La tetra evanescenza, che un tempo era stato Anhar, venne assorbita dall’ancor più fitta oscurità, diluendosi in quel fiume di tenebra che poco dopo scomparve, ritornando nell’universo da cui era giunto.

 

“No!!!” –Gridò il Comandante, battendo un pugno sul terreno e osservando il calderone rovesciato, ormai vuoto.

 

“Se ne è andato…” –Commentò allora una voce calma, una voce che né Ascanio né i suoi compagni da tempo udivano.

 

“Se ne è andato!” –Ripeté Virgo, disteso tra le braccia di Ioria, gli occhi azzurri che fissavano il cielo.

 

“Sì, amico mio. Se ne è andato!” –Annuì il Cavaliere di Leo, felice che il parigrado fosse di nuovo libero. –“Ma non troppo presto!” –Aggiunse tra sé, ricordando i cadaveri di Pavit e di Libra.

 

***

 

Castalia giaceva incosciente su un letto dell’infermeria, dove Euro, Vento dell’Est, l’aveva portata poc’anzi. L’armatura distrutta, il corpo pieno di ferite, molte delle quali non visibili ad occhio nudo, conseguenza delle percosse subite da Cariddi. Il figlio di Eos aveva sospirato, prima di bucarsi un’unghia con uno spillo e lasciar cadere il suo sangue sul corpo della Sacerdotessa Guerriero.

 

Poche gocce furono sufficienti per far rifiorire la vita in lei, riparando le ossa spezzate e richiudendo le ferite superficiali. Del resto, sorrise Euro, carezzandole i capelli rossicci, il cosmo fluisce nel sangue ed è questo che rende l’Ichor così prezioso!

 

Non ci sarebbe voluto molto tempo, al Cavaliere d’Argento, per tornare operativo, sebbene Euro percepisse una chiara agitazione nel suo animo. Turbamenti che forse non dipendevano dalla batosta presa in Francia. Le strinse ancora una volta la mano, per donarle un’ultima stilla di energia, prima di andarsene e lasciarla riposare. Aveva sentito il richiamo di Zeus e doveva rientrare sull’Olimpo al più presto, per quanto, con il cuore, avrebbe voluto essere alla Sesta Casa a lottare contro l’ombra.

 

Castalia rimase così da sola, la fronte ancora calda da una febbre improvvisa che l’aveva aggredita poco prima, quando, nel suo stato di incoscienza, era stata raggiunta dalla voce di un amico che non udiva da tempo.

 

“Svegliati, Sacerdotessa dell’Aquila! Svegliati e ascoltami! Abbiamo poco tempo!”

 

“Ma tu… sei Morfeo?!” –Mormorò Castalia, riconoscendo il Dio che, mesi addietro, aveva cercato di aiutare lei e il Luogotenente dell’Olimpo.

 

“Vorrei poter dire in persona, ma temo che presto della mia persona, anima compresa, rimarrà ben poco!” –Sospirò il Signore dei Sogni.

 

“Cosa significa? Cosa sta succedendo Morfeo? Dove sei?”

 

“L’ora è giunta, Sacerdotessa dell’Aquila! L’ora dell’ultima battaglia! L’ho attesa, languendo in questo limbo infinito per tutti questi mesi, credendo che, qualora il varco fosse stato aperto anche noi saremmo potuti tornare in libertà! Tornare a combattere per tutto ciò che riteniamo santo! E invece no! L’apertura del passaggio ha decretato la nostra fine! Già Estia e Dioniso sono stati fagocitati, per permettere all’ombra di recuperare energia! Presto toccherà a me, a Ebe e ad Artemide! Nessuno di noi tornerà più sull’Olimpo! Nessuno rimirerà più lo splendore di un mondo che abbiamo imparato ad amare troppo tardi!”

 

“Morfeo… le tue parole sono oscure… quale varco? Chi vi sta uccidendo?!”

 

“Saprai tutto molto presto, Sacerdotessa dell’Aquila, ma non è per questo che sono qua! Bensì per consegnarti un messaggio! Poche parole, solo quelle che ho potuto percepire, del resto ormai non sono più in grado di entrare nei sogni degli uomini, soltanto nei tuoi, l’ultima porta rimasta aperta a Morfeo! L’ultima ad aver creduto in me!”

 

“Quale messaggio?!” –Rantolò Castalia.

 

“Salvami!” –Esclamò il Dio, ripetendo quella stessa parola che dominava i sogni di una mente ferita, che a nient’altro riusciva a pensare se non a lei.

 

Il Cavaliere d’Argento subito si agitò, credendo che Ioria o Nikolaos fossero in fin di vita, ma Morfeo le tolse ogni dubbio, richiamando alla sua memoria il terzo uomo della sua vita. Un uomo da cui era stata separata tempo addietro, non per sua scelta, ma per scelta di colui che adesso invocava il suo perdono.

 

“Addio, Sacerdotessa dell’Aquila! Possano le tue ali portarti sempre più in alto, per volare oltre le nuvole!” –Scomparve così, il Dio dei Sogni, uscendo per sempre dai suoi pensieri.

 

Castalia sussultò, sollevandosi di scatto dalla branda, con il respiro affannato e il volto fradicio di sudore. Allungò una mano verso la brocca d’acqua, che qualche inserviente aveva lasciato sul cantonale accanto al letto, e lo notò, rabbrividendo.

 

“Non… è possibile…”

 

Era certo di averlo perduto nelle battaglie combattute sull’Olimpo, quando più volte era stata sul punto di morire. Aveva pianto, quando aveva realizzato di non averlo più, l’unico ricordo che ancora la legava a lui. E invece adesso era lì, l’ultimo dono che Morfeo aveva voluto fargli, usando tutto quel che restava del suo cosmo, fino all’ultima stilla. Un ciondolo di cui esistevano solo due copie al mondo, fabbricate dai suoi genitori. Uno lo aveva lei, l’altro suo fratello.

 

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Capitolo 35
*** Capitolo trentatreesimo: Un uomo d'azione. ***


CAPITOLO TRENTATREESIMO: UN UOMO D'AZIONE.

 

Sirio si trovò di fronte un uomo dai lunghi capelli rosa, che ricadevano sullo schienale di un’elegante armatura da battaglia, ornata da un pregiato mantello di seta. Studiandola meglio, il Cavaliere notò quanto fosse ricca di fregi e intarsi, splendente come gli era apparsa la corazza del Drago la prima volta in cui l’aveva indossata.

 

“Si può dire che per me sia altrettanto! Del resto ogni volta in cui scendo in battaglia è come fosse la prima volta! Fresco di forze, potente, con l’armatura tirata a lucido, rappresento una giovinezza guerriera che nessun’altra Divinità può sfoderare, e la rapidità con cui ho tolto di mezzo quella feccia di Lethe lo dimostra! Io sono Polemos! Io sono la guerra, e come tale non ho età. Io semplicemente esisto, compagno fedele di ogni epoca dell'uomo, amante silenzioso mai pago e mai domo ma sempre pronto a soddisfare l’istinto più bieco!” –Parlò costui, con tono raffinato e superbo.

 

Polemos? Non ho mai sentito parlare di te! Sei un compagno di Lethe? O un suo rivale?! Parla! Hai qualcosa a che fare con quest’attacco alla colonia…?” –Ma Sirio non riuscì a terminare la frase, venendo atterrato di colpo da un calcio poderoso, sferratogli da una figura piombata su di lui.

 

“Bada a come parli, moccioso!” –Ringhiò un ragazzo dai capelli biondi, il corpo rivestito da una squamata corazza dorata e marrone. Osservandola di sfuggita, Sirio notò l’originale coprispalla, a forma di testa di capra, con aguzze corna sporgenti, l’elmo simile al muso di una fiera maestosa e una lunga coda serpentiforme  –“Ti fai maleducato vanto di non conoscerlo, ma presto sarà il supremo Comandante delle Armate delle Tenebre e allora non solo lo conoscerai, ma rabbrividirai nell’udirne il nome! Egli è Lord Polemos, mio mentore e futuro governatore del pianeta in nome di…

 

“Basta così, Chimera! Apprezzo il buon uso della dialettica che fai, ma ti rammento che non è per disquisire con il Dragone che fin qua siamo giunti!” –Intervenne allora il Signore della Guerra, cui il giovane biondino prestò subito ascolto, inchinandosi e invocando il suo perdono. –“Va’a prendere ciò per cui siamo venuti! Diamo un senso a questa missione e poi rientriamo! Voglio esserci quando lei tornerà!”

 

“Sì, Lord Comandante! Eseguo!” –Annuì, scattando verso le profondità della colonia.

 

A… Aspetta!!!” –Annaspò Sirio, ancora disteso a terra, afferrandogli un piede e frenandone la corsa. –“Chi sei?”

 

“Non mi riconosci?! L’armatura che indosso non rende giusto tributo alla bestia dalle triplici fattezze?! Io sono il leone, la capra e il serpente! Io sono Chimaira!”

 

Chi… mera…” –Mormorò Sirio, ricordando antichi insegnamenti del Vecchio Maestro che riguardavano tale mostro. –“Non sapevo vi fosse un guerriero con questo simbolo… A quale armata appartieni?” –Aggiunse, rimettendosi infine in piedi.

 

“A nessuna! Io servo solo il mio maestro!” –Sibilò questi, fissandolo con occhi di brace, mentre la guizzante coda della sua armatura si attorcigliava attorno ad un calcagno del Cavaliere di Atena, strattonandolo bruscamente e sbattendolo poi a terra. Una volta, due volte, tre volte. Una triplice ferita, come era nel suo stile, prima di gettarlo contro la parete rocciosa e osservarla, compiaciuto, mentre franava su di lui.

 

“Ti sei divertito abbastanza, ma non è lui l’oggetto della tua vendetta!” –Intervenne allora Polemos, cui Chimera rispose con un cenno d’assenso, prima di sfrecciar via, proprio mentre il cosmo del drago ruggiva, disintegrando sassi e rocce e liberando Sirio.

 

“Dov’è andato quell’impudente?”

 

“Lascialo perdere! Non che Chimera rifiuterebbe uno scontro con te, non è uomo da tirarsi indietro quando si tratta di combattere! Ma immagino preferisca conservare le forze per affrontare il discendente di colui che domò la triplice bestia millenni addietro, l’amico cui sei così tanto devoto, Sirio Dragone!”

 

“Come mi conosci? E cosa vuoi?!”

 

“Conosco tutti voi, Cavalieri dello Zodiaco, perché vi ho studiato, osservandovi ammirato e imparando molte cose, sulla vostra personalità, sui vostri poteri, sulle vostre debolezze! Del resto, conoscere il nemico è fondamentale in una guerra, ne convieni? Ah ah ah!” –Rise l’ambizioso comandante, prima di atterrare Sirio con una sfera di energia, che il ragazzo non vide neppure come e quando era stata generata. –“In quanto a ciò che voglio, lo scoprirai presto. Se sarai ancora vivo quando Chimera tornerà, ipotesi che dipende solo ed esclusivamente da te!”

 

“Che vuoi dire?!”

 

“Ciò che ho appena detto! Siediti, se vuoi, e aspetta con me che tutto sia finito. Non ci vorrà molto, te lo assicuro, Chimera è solito andare per le spicce, e se non interferirai potrai tornare dalla tua amata Fiore di Luna ai Cinque Picchi! Hai la mia parola d’onore!”

 

“Fiore di… Maledetto, cosa sai su di lei? Se le hai fatto qualcosa, non ti perdonerò!” –Avvampò Sirio, lanciandosi avanti, avvolto nella sua luminescente aura cosmica. Ma per quanto veloci fossero i suoi affondi, Polemos riusciva sempre ad evitarli, riusciva sempre a muoversi ad una velocità più alta, scansandosi, allontanandosi, girando intorno al ragazzo, senza mai smettere di sogghignare.

 

“Cosa avrei dovuto farle? È una ragazza, non un guerriero, e sono questi ultimi i miei avversari! Te l’ho detto, so tutto su di voi, perciò te lo ripeto. Siediti e aspetta!”

 

A quelle parole Sirio rimase di sasso, continuando a fissare Polemos per qualche interminabile secondo, finché, appurato che il Dio non avesse intenzioni offensive, non rilassò i muscoli irrigiditi, abbassando infine le braccia, strappando un cenno d’approvazione al suo misterioso interlocutore.

 

“Molto bene, vedo che hai capito! La perspicacia non ti fa difetto!”

 

In tutta risposta Sirio sfrecciò avanti, rapido come una cometa, riuscendo anche a muovere il braccio e chiudere le dita a pugno, mirando al cuore dell’avversario.

 

“Ah! Errore!” –Sibilò questi, scuotendo la testa con grave disappunto e muovendo il braccio destro ad ancor più elevata velocità. –“Non presti ascolto alle mie parole! Oltre che cieco, le battaglie ti hanno reso pure sordo?” –Ironizzò il Dio, mentre il pugno di Sirio si schiantava sul palmo della sua mano, avvolto in un’accesa luce color amaranto. –“Eppure ero stato chiaro, non vuoi forse ritornare dalla donna che ami?!”

 

“Certo che lo desidero, più di ogni altra cosa!”

 

“Non sembrerebbe.” –Commentò Polemos, chiudendo le dita sul pugno del Cavaliere e lasciando esplodere una violenta scarica di energia, che scaraventò Sirio indietro, di nuovo contro una parete di roccia. Di nuovo schiantandosi dentro la parete stessa.

 

Quando riuscì a rimettersi in piedi, il ragazzo notò con orrore che il guanto protettivo della corazza del Drago era andato in frantumi, disintegrato da un’energia rovente che gli aveva ustionato persino le dita.

 

“Se avessi voluto mozzarti la mano avrei potuto farlo.” –Chiarì Polemos. –“Anzi potrei farlo! Posso farlo in qualsiasi momento, così come posso abbatterti, vincerti, schiantarti a terra fino a triturare ogni singola ossa del tuo corpo di Cavaliere, se è questo che desideri! Perché mi sembra proprio che tu stia anelando lo scontro!”

 

“Non l’ho mai voluto!!! Ma tu e i tuoi scagnozzi avete attaccato quest’oasi di pace ed è mio dovere difenderla, in nome di un amico cui sono fedele!”

 

“Oh già, il Grande Mur dell’Ariete! Era suo il cosmo che si è spento mezz’ora fa?” –Ridacchiò il Dio, suscitando la collera di Sirio, che espanse il cosmo, preparandosi per scagliare il proprio colpo segreto. Ma quando fece per muovere il braccio destro si accorse che Polemos era già di fronte a lui, il dito indice a sfiorargli il pettorale dell’Armatura Divina proprio all’altezza del cuore. Laddove era celato l’artiglio del drago.

 

“Io non lo farei!” –Sussurrò, mentre una minacciosa aura amaranto andava sempre più espandendosi dal polpastrello del dito, surriscaldando la corazza e generando in Sirio subitaneo terrore.

 

Paralizzato da quella repentina presa di posizione, il Cavaliere esitò per un momento, dando modo a Polemos di travolgerlo da vicino con una violenta esplosione energetica che, quella volta, non lo scagliò contro la montagna, ma lo inchiodò sul posto, esponendolo in prima linea all’onda d’urto nemica. Travolto da indescrivibile potenza, Sirio gridò, le braccia spalancate e inermi, i lunghi capelli neri che svolazzavano randagi all’indietro, incendiandosi in più punti, l’Armatura Divina che ardeva, scricchiolava, fremeva e infine si ricopriva di crepe. Urlò con tutto il fiato che ebbe in gola, sentendo il corpo schiacciarsi, sottoposto a sfibrante pressione, finché il Dio non ridusse l’intensità del proprio assalto, lasciando che il ragazzo si accasciasse a terra, crollando esausto sulle ginocchia.

 

Solo allora gli sfiorò il mento con un dito, lo stesso che aveva usato per prostrarlo, pizzicandogli la pelle con lo stesso calore.

 

“È bastato un dito per sfatare tante leggende! Come eroe leggendario non vali poi molto!” –Sussurrò, premendo sulla bazza del ragazzo e forzandolo a guardarlo in faccia. –“Pensa cosa potrei fare adesso!”

 

Che… cosa vuoi?!” –Rantolò Sirio, incapace di reagire.

 

“Niente.” –Commentò sibillino Polemos, lasciando la presa e allontanandosi di qualche passo, dando le spalle allo stupefatto e stranito Cavaliere di Atena. –“Dovresti averlo capito ormai! Io non amo perdere tempo! Le distrazioni, le inutili divagazioni, i giochi e gli intrighi li lascio ai burocrati, ai giullari, ai leccapiedi di corte, preferendo andare subito al cuore di un problema! Per questo sono intervenuto, quando ho capito che Lethe e Horkos non sarebbero stati in grado di portare a termine la missione! Come sono solito affermare, se vuoi che una cosa sia fatta bene devi farla tu stesso, non affidarla ad altri, tanto più a scadenti galoppini figli di una di nuovo defunta Divinità!”

 

“Perché attaccare la colonia di Mu? Cosa vi ha fatto questo popolo pacifico?!”

 

“Punto primo: questo non è un popolo pacifico. Nessun popolo lo è. Forse non sai che sono stati proprio questi muriani, o come si chiamano, a creare le corazze che indossate, permettendo ad Atena di combattere tutte le Guerre Sacre e a così tanti giovani di morire inseguendo fatui sogni di pace. Punto secondo: non è niente di personale, ma stiamo solo cercando informazioni utili. Non appena Chimera le avrà trovate, ce ne andremo!”


“E io dovrei rimanere ad aspettare? Restare a guardarvi distruggere, uccidere, inquinare questa colonia perduta?!” –Avvampò Sirio, rimettendosi a fatica in piedi.

 

“La risposta corretta dovrebbe essere un sì, ragazzo. Dovresti aver capito che non puoi fermarmi!”

 

“E tu dovresti sapere che la boria in battaglia non aiuta! Molti nemici ci hanno sottovalutato ma siamo sempre riusciti a far cambiare loro idea!”

 

“Sì, sì, lo so! Tutti a credervi Cavalieri di Bronzo e invece avete fatto carriera in fretta, superando i beneamati Cavalieri d’Oro e scardinando una tripartizione gerarchica vecchia di millenni! Storia ben nota, ormai! Come ti ho detto, vi ho osservato! Ma tu, invece, non sai niente di me, altrimenti non tenteresti neppure di attaccarmi perché sapresti che nessuna tecnica è efficace contro Polemos!”

 

“Anche Orion diceva parole simili, eppure lo abbiamo sconfitto!” –Tuonò Sirio, espandendo il proprio cosmo color verde acqua.

 

Orion non era la personificazione della guerra!” –Si limitò a rispondere il Dio, mentre il Cavaliere scattava avanti, liberando il Colpo segreto del Drago Nascente. –“E tu non lo sei della scaltrezza!” –Ironizzò, mentre l’assalto luminoso gli sfrecciava accanto, sollevandogli il mantello e poi perdendosi nel cielo lontano.

 

Co… come ha fatto? L’ha evitato semplicemente spostandosi? Eppure era un colpo alla velocità della luce!” –Mormorò l’allievo di Libra.

 

“Colpo che, come ti ho detto, già conoscevo! E ora, a meno che tu non voglia tirar fuori il tuo vetusto repertorio di tecniche, comprendente Excalibur, Drago Volante, Cento Draghi e quel colpo suicida detto Pienezza del Dragone, ti consiglio di rinunciare. Ne dimentico qualcuno? Ah sì, il Fuoco del Dragone, che non può certo dirsi una tecnica da battaglia e le Acque della Cascata, che potrebbero allarmare un apprendista ma certo non il demone della guerra!”

 

“Conoscere le mie tecniche non significa essere in grado di evitarle! Soprattutto se sono doni divini in grado di scindere le stelle!” –Replicò Sirio, sollevando il braccio al cielo e scagliando un rapido e preciso fendente di energia verso l’avversario, che di nuovo lo schivò spostandosi a destra.

 

Irritato, il Cavaliere di Atena ripeté l’assalto, muovendo l’arto in direzioni diverse in modo da generare decine e decine di piani energetici, che Polemos seppe scansare uno dopo l’altro, fintantoché ne ebbe voglia. Poi, stanco per quel gioco infantile, mosse a sua volta il braccio destro, fermando l’ultimo attacco con un equivalente fendente di energia.

 

Co… cosa? Come puoi contrastare Excalibur?!”

 

“Non è che una lama di puro cosmo, in fondo! Possono averla anche forgiata i druidi più sapienti ma non è la lama ad essere protagonista di leggende, quanto chi la impugna!” –Precisò il Dio, spingendolo indietro e aprendogli un taglio sulla corazza al centro dell’avambraccio. –“Ci sono molte spade famose che spesso associamo a eroi storici o mitologici, ma credimi, nessun’arma è in grado di impensierirmi, poiché già tutte le ho provate! Tutte le ho smussate! Le vuoi conoscere? Eccole! Nell’ordine, Durlindana, Caladbolg, Claíomh Solais!” –Esclamò, sollevando un braccio al cielo mentre migliaia di strali lucenti piovevano su Sirio, mitragliandolo sulla schiena, sull’elmo e sul petto. –“Ne dimentico qualcuna? Ah sì, Fragarach! Gramr (del tuo amico Orion)! Tizona!!! Come ti ho detto, sono solo spade! Ma tagliano! Oh, se tagliano!” –Ironizzò, le labbra torte in un sorriso furbetto.

 

“Come puoi controllarle tutte?!” –Sgranò gli occhi Sirio, agitando lo scudo nel disperato tentativo di difendersi.

 

“Perché tutte mi appartengono! Siano spade, lance o dardi, siano tecniche fisiche o spirituali, io tutte le conosco, le so vedere, capire, contrastare! E, se voglio, anche replicare! Perciò rinuncia, Dragone! Non hai speranza alcuna contro di me! Nessuno di voi Cavalieri dello Zodiaco l’avrebbe!” –Chiosò il Nume, muovendo il bracciodi lato e scagliando un ultimo poderoso fendente che si abbatté sulla spalla di Sirio, frantumandone la protezione e piegandolo a terra.

 

È… incredibile… Quest’uomo è fortissimo! Anzi no, non è un uomo… Non c’è niente di umano in lui, nel suo muoversi, nel suo guerreggiare! Egli è un Dio a tutti gli effetti! Come Nettuno, Ade e Ares, e forse persino più di loro! Rifletté Sirio, piegato sulle ginocchia, la mano destra poggiata sulla spalla sanguinante, nel tentativo di fermare l’emorragia. È stato così difficile aver ragione di quegli antichi demoni! Persino in cinque abbiamo faticato! Come posso affrontarne uno da solo? Pegasus, amici, vorrei che fossimo insieme!

 

“Come puoi farlo?! Elevandoti al suo stesso livello e divenendo un Dio a tua volta, ragazzo mio!” –Parlò allora una voce direttamente al cuore del Cavaliere.

 

“Questo cosmo… Maestro!!! Dove siete?”

 

“Lontano, Sirio, lontano dalle fresche acque che per due secoli mi hanno dato conforto e sicurezza! E temo che non ci vedremo più!”

 

“Maestro che cosa è successo? Perché questo tono funebre?!”

 

“Sirio, ascoltami bene! Polemos è avversario insidioso, grazie al suo rango divino e alla sua completa conoscenza di ogni arte o tecnica bellica, per questo l’unico modo per affrontarlo è superarlo in potenza! Il Nono Senso, ragazzo, già alberga dentro di te, lo hai sfiorato più volte durante le battaglie precedenti! Devi solo riuscire a controllarlo, a dominare l’esplosione energetica dentro di te senza lasciarti sopraffare! Innalzati, Drago d’Oriente, e illumina il mondo con lo splendore delle tue scaglie di giada!” –Mormorò Dohko, la cui voce andava facendosi sempre più fievole.

 

“Maestro, non lasciatemi! C’è ancora così tanto che desidero sapere, tanto che desidero apprendere!!!”

 

“Ti ho insegnato tutto quel che sapevo, Sirio, e sei diventato il Cavaliere che io non sono mai stato ma che ho sempre sognato di addestrare! Sei stato l’allievo migliore che abbia mai avuto ed è stato un onore essere il tuo maestro! Addio, amico mio, io ti sosterrò da lontano, sempre al tuo fianco nella lotta contro l’oscurità!” –Concluse Libra, prima che il suo cosmo svanisse, dissolvendosi in un mare di ricordi.

 

Ma… estro…” –Pianse Sirio, conscio di quel che era accaduto. –“Dohko…

 

Al pensiero di lui, della sua tragica fine, il Cavaliere strinse i pugni, chiudendoli entrambi, anche quello ferito dal calore cosmico di Polemos, percependo per la prima volta una nuova fiamma baluginare dentro sé. Una fiamma amica, che aveva vegliato su di lui per tanti anni, osservandolo divenire Cavaliere e uomo.

 

“Brucia il tuo cosmo, Sirio! Risveglia il Nono Senso e controllalo! Raggiungi quel livello, il livello degli Dei, e domina l’esplosione energetica dentro di te! Atena non se ne avrà a male. Non stavolta!”

 

Ricordò le ultime parole di Libra, e adesso le comprese. Adesso che sentiva fluire dentro sé l’ultima stilla di cosmo del Cavaliere d’Oro, assieme alla sua saggezza, alla sua pazienza e alla sua mai venuta meno fiducia nel domani.

 

“Per voi maestro! Per voi tenterò ancora!!!” –Esclamò il ragazzo, rialzandosi, avvolto in una luminescente aura di color verde acqua.

 

“Quale energia!” –Commentò allora il Demone della Guerra, esaminando interessato il mutamento in atto nel suo cosmo, un espandersi vasto e vigoroso, fino ai limiti estremi dell’universo. –“E forse oltre!” –Aggiunse, comprendendo quel che il Cavaliere stava per fare.

 

Polemos!!!” –Lo chiamò Sirio, mentre una colonna di energia cosmica sorgeva attorno a lui, inglobandolo poco dopo. –“Hai detto che conosci ogni tecnica e colpo segreto! Ti do atto di questa verità! Ma tu dovrai darmi atto che conoscere non significa riuscire ad evitarla! Non quando il Drago ruggisce in un boato di stelle!!! Atena, perdonami se puoi, ma devo farlo!!! Pienezza del Dragone!!!” –Gridò il ragazzo, dirigendo un impetuoso torrente di energia allo stato puro contro l’avversario, che lo osservò ammirato e persino un po’ stupito.

 

Meraviglioso…” –Giudicò Polemos, plaudendo il modo in cui il Cavaliere di Atena era riuscito a controllare un potenziale energetico così distruttivo e instabile come il suo massimo colpo segreto. Un risultato frutto di anni di addestramento e migliorie che lo aveva portato, al pari dei suoi amici, a controllare l’ultimo stadio della conoscenza. –“La capacità di trascendere l’umano e divenire un Dio.” –Annuì il Demone della Guerra, espandendo il proprio cosmo, il più vasto che Sirio avesse mai percepito, persino superiore a quello delle massime Divinità che aveva incontrato. Ma anziché usarlo per contrastare l’assalto nemico, non ottenendo altro risultato che generare una devastante esplosione che avrebbe annientato non solo loro due ma l’intera catena montuosa che li attorniava, Polemos sfruttò la Eskatos Dunamis per creare un corridoio di energia, all’interno del quale la Pienezza del Dragone confluì, quasi scivolò, venendo presto indirizzata verso un nuovo obiettivo.

 

“Ma cosa…?!” –Mormorò Sirio, osservando il fiume energetico verde e amaranto incurvarsi lentamente, fino a virare verso il fianco della montagna. Troppo tardi comprese quel che Polemos aveva in mente, quando già la massa di energia esplose, riducendo in frantumi l’intero rilievo.

 

Una pioggia di rocce, sassi, neve e ghiaccio si abbatté su Sirio, con un impeto e una rapidità immani da non permettergli di allontanarsi, indebolito e fiaccato dallo scontro e dall’enorme concentrazione necessaria a stabilizzare il proprio colpo massimo. Ebbe solo il tempo di voltarsi verso Polemos e osservarlo annuire compiaciuto, mentre quel che restava di Dhaulagiri franava su di lui, seppellendolo.

 

“Onore a te, Cavaliere del Dragone! Ti sei dimostrato degno di rappresentare una delle sacre bestie dell’Oriente! Saggezza e forza non ti mancano, né la capacità di utilizzare entrambe con equilibrio!” –Commentò il Dio ancestrale, voltandogli le spalle, attirato dall’avvicinarsi frenetico di passi svelti. –“Ma non sempre la moderazione è la via per la vittoria. A volte lo è per l’estinzione.”

 

“Mio Signore!!!” –La voce schietta di Chimera lo raggiunse in quel momento, mentre il giovane guerriero sbucava fuori dall’altro versante della distrutta montagna, portando un grosso fagotto con sé. –“Abbiamo ciò per cui siamo venuti!”

 

Polemos non ebbe bisogno di ulteriori informazioni, sorridendo compiaciuto prima di allontanarsi e dare un ultimo ordine al suo servitore.

 

“Molto bene! Distruggi il resto! In guerra non esistono testimoni!”

 

Chimera annuì con una morbosa luce di soddisfazione negli occhi. Si voltò verso il sentiero che conduceva alle profonde caverne dove tuttora i combattimenti erano in atto e sogghignò. Le Amphilogie non erano riuscite a prendere possesso dell’intera colonia, a causa di un’imprevista ondata di orgoglio che aveva invaso i discendenti di Mu, spingendoli a lottare fino alla fine per difendere la loro terra. Ma a Chimera non importava, né delle prime né dei secondi, poiché quel che a loro serviva già lo stringeva sotto braccio, nonostante i gemiti doloranti della donna.

 

Bruciò il proprio cosmo, prima di balzare in alto, piegando le gambe in modo da avvicinare le ginocchia al petto, e poi puntò verso il suolo, affondandovi dentro con forza dirompente, imprimendovi l’ardente fiamma del suo cosmo.

 

Zoccolo della capra infernale, scatena la tua temibile collera!!!”

 

Un attimo dopo il suolo tremò, espandendosi a raggiera tutto attorno alla Montagna Bianca e per molti chilometri attorno. Quel che la Pienezza del Dragone non aveva abbattuto, crollò adesso, sospinto da una furia assassina che fece strage di ogni difesa. Uomini, donne, bambini, combattenti di ambo le fazioni, tutti vennero sommersi dal roboante inferno che piovve su di loro, di fronte al divertito sguardo di Chimera, fiero e solerte nell’eseguire gli ordini del Lord Comandante.

 

Sì, adesso poteva definirlo tale. Dopo il successo della loro missione, dopo il recupero della chiave per distruggere i Cavalieri di Atena, dell’Olimpo e di chiunque avesse avuto abbastanza fegato, o follia, da osare sfidarli. E lei ne sarebbe stata soddisfatta.

 

Oh sì! Mormorò il guerriero, mettendosi in spalla il fagotto e seguendo il Demone della Guerra verso la loro dimora. Lei sarebbe proprio stata fiera di loro!

 

***

 

Per un tempo che non seppe definire credette di essere morto.

 

Non sentiva più niente, né riusciva a percepire alcunché, al di là della tenebra infinita in cui era immerso. Poi, lentamente, iniziò a muovere le dita, faticando nel piegarle ma capendo di essere vivo, e che i ruvidi granuli che gli raschiavano la pelle erano terriccio. Allora ricordò il combattimento, l’esplosione dei loro cosmi e il crollo della montagna.

 

La colonia di Mu... Mormorò Sirio, temendo il peggio per il popolo nascosto che, di certo, aveva conosciuto il suo stesso destino. O forse peggio, si disse, ringraziando la protezione dell’Armatura Divina che, sia pur deteriorata, gli aveva permesso di non morire. Devo… uscire da qui sotto… verificare se ci sono superstiti, feriti, aiutarli… Rifletté, iniziando a bruciare il proprio cosmo, sebbene il solo tentare gli strappasse dolori atroci, ai muscoli, alle ossa, nonché violente fitte alla testa.

 

Il suo corpo era al limite, e forse lo aveva persino già superato. Riuscire a controllare l’intensa fiamma della Pienezza del Dragone, dominare quel potere considerato prerogativa degli Dei lo aveva sfinito e, se non fosse stato per il tepore del cosmo di Libra, che gli aveva donato le ultime energie, ne sarebbe stato sopraffatto.

 

D’un tratto gli sembrò che il peso dei massi franati sulla sua schiena diminuisse. O forse sono io che a poco a poco sto morendo? Rantolò Sirio, faticando a respirare in quell’oscura e desolata prigionia sommersa. Poi la sensazione si fece più evidente, la zavorra che lo schiacciava a terra parve davvero farsi più leggera e, d’un tratto, vide persino un raggio di luce. Debole e lontano, ma preciso e pungente.

 

Pochi attimi più tardi lo raggiunse una voce amica, una voce che temeva di non poter udire di nuovo. Una voce che lo incitava a rialzarsi, finalmente libero.

 

“Sirio!!! Stai bene? Ti ho trovato per miracolo… il tuo cosmo è al lumicino, appena percettibile…” –Esclamò il Grande Mur, aiutandolo a uscire dai detriti della valanga.

 

Mur… sto bene, e tu? Credevo di averti perduto!” –Rispose Sirio, notando preoccupato l’aspetto malmesso del Custode della Prima Casa. Ferito, con la corazza scheggiata in più punti e grumi di sangue che la ricoprivano, aveva persino tagli aperti sul volto e ciuffi sparsi dei suoi lunghi capelli viola gli erano stati strappati via. –“E la tua gente? Che ne è della colonia perduta?!”

 

A quelle parole il Cavaliere di Ariete non rispose, assumendo un’espressione greve, carica di colpa per il proprio fallimento. Strinse i pugni, dando le spalle a Sirio e incamminandosi in silenzio laddove un tempo esisteva il sentiero che conduceva al cuore della Montagna Bianca. Adesso non c’era più niente, solo un nuovo rozzo rilievo formato dal terreno crollato e ammucchiatosi caoticamente, sommergendo tutto quel che Dhaulagiri celava. Antichi segreti andati per sempre perduti.

 

Mi… dispiace… Avrei voluto fare di più, aiutarti…

 

“Non dolertene, Cavaliere! Hai dato il massimo, come sempre, affrontando un avversario insidioso che neppure la forza di dodici Cavalieri d’Oro avrebbe potuto contrastare! Ti ringrazio, amico mio!” –Si sforzò di sorridere Mur, la voce per la prima volta incrinata da un così acuto dolore da rendere difficile persino parlare. –“Mia è stata la colpa! Io li ho condotti qua, vittima di un incantesimo che non sono stato in grado di percepire, di un’ombra che mi ha obnubilato la mente, spingendomi a vedere solo i miei timori, senza accorgermi del resto del mondo! Avrei dovuto saperlo, ma per una volta l’ho rimosso, i doveri di un Cavaliere, il suo sacro compito, esulano da faccende personali!”

 

“Salvare gli altri è il dovere di un Cavaliere! E sono sicuro che Atena capirebbe, persino approverebbe, lo spirito che ti ha guidato fin qua!” –Cercò di consolarlo Sirio, senza riuscirvi troppo.

 

Fu allora che uno scricchiolio sommesso li raggiunse, spingendoli a voltarsi verso il caotico ammasso di rocce, terriccio e grumi di neve, osservandolo muoversi ancora, scivolare verso il basso, rotolare via, mentre qualcosa di indefinitamente grosso, persino di enorme, sorgeva dal cumulo di macerie.

 

Ma… cosa?!” –Borbottò Sirio, sollevando le braccia in posizione difensiva, temendo un qualche nuovo trucco di Polemos e Chimera.

 

“Non è possibile!!!” –Esclamò allora Mur, con un guizzo di sorpresa e felicità nel tono. –“Gli abitanti di Mu…” –Osservò, indicando il campo difensivo che adesso baluginava di fronte a loro, un muro quasi trasparente dietro il quale un centinaio di sagome umane, ferite e malconce, sorridevano loro di rimando.

 

I due Cavalieri di Atena corsero loro incontro, mentre questi si accasciavano, sudando e tremando per l’enorme sforzo sostenuto. Il primo tentativo di coordinare i loro poteri mentali per proteggere le loro famiglie, e il futuro della colonia, dalla furia involontaria della Montagna Bianca.

 

Mu… Mur…” –Rantolò un giovane, che l’Ariete riconobbe come il nipote di Rasha. –“Abbiamo… cercato di fare il possibile… Non siamo guerrieri, molti di noi non ce l’hanno fatta. Lo sforzo mentale li ha sopraffatti!”

 

Il Custode del Primo Tempio annuì, osservando i volti stanchi dei sopravvissuti, leggendo nei loro occhi la stanchezza per la prova sostenuta, la tristezza per la perdita degli amici e dei propri congiunti, e anche l’incertezza sul loro futuro, sul destino di quell’antica comunità adesso spazzata via. Prima che Mur potesse confortarli, il nipote di Rasha gli afferrò una mano, costringendolo a guardarlo negli occhi.

 

Mi… dispiace… L’hanno presa!” –Poi svenne.

 

Solo allora, passando in rassegna coloro che erano riusciti a salvarsi, il Cavaliere di Ariete notò che sua madre non era tra loro.

 

Ripensò alle parole di Rasha, a quel che aveva tentato di dirgli, al segreto ultimo sulla forgiatura delle armature, e infine capì qual era stato lo scopo di quell’assalto. E le parole di Sirio poco dopo confermarono i suoi dubbi.

 

“Dobbiamo rientrare ad Atene!” –Convennero allora i due Cavalieri. –“Atena deve essere informata all’istante!”

 

 

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Capitolo 36
*** Capitolo trentaquattresimo: Cala la notte. ***


CAPITOLO TRENTAQUATTRESIMO: CALA LA NOTTE.

 

Pegasus non capiva.

 

Le parole di Isabel erano enigmatiche. In quale modo, quel ragazzino dai tratti così simili ai suoi, che da alcuni giorni gli appariva in visione, poteva essere il primo Cavaliere di Pegasus? Il primo che aveva vestito la storica corazza della costellazione dalle tredici stelle. E poi, se davvero lo era, perché aveva iniziato a tormentarlo con quelle apparizioni improvvise?

 

Le risposte fu difficile averle, perché Isabel pareva reticente a parlare di quella storia. A parlare di sé. E Pegasus capì che non si riferiva alla donna in cui si era reincarnata anni addietro, bensì alla vera sé. Alla Dea.

 

“Quello che sto per dirti potrebbe cambiare tutto. Tra noi intendo, Pegasus. Sei davvero sicuro di volerlo udire?”

 

“Certo che voglio sapere! E lascia che sia io a giudicare!” –Le rispose il ragazzo, osservando quanta compostezza conservasse ancora il delicato viso della Dea che amava. Anche dopo lo scontro con Ares, la stanchezza e le ferite. Non soltanto quelle fisiche.

 

“È una complessa storia che risale al Mondo Antico, tempi forse più miti ma non per questo più felici. Anche all'epoca, d'altronde, uomini e Dei combattevano. Tra di loro e contro di loro. E io avevo appena sconfitto Nettuno nella prima Guerra Sacra, quella che si concluse con l'inabissamento di Atlantide.”

 

“Quando vennero create le armature... dei Cavalieri di Atena...” –Mormorò Pegasus, ricevendo un cenno d'assenso con il capo.

 

“Precisamente! Un gesto resosi necessario dalle capacità offensive dei Generali degli Abissi che, se non li avessimo fermati, avrebbero invaso l'Attica, annettendola al Regno dei Mari. Pare bizzarro pensarlo, ma a quel tempo Nettuno sognava di possedere la Terra, e non di affogarla in un nuovo diluvio universale!” –Sospirò la Dea, prima di riprendere. –“Tra i tanti Cavalieri vi era un giovane di nome Bellerofonte, resosi grande in tutta la penisola greca per le sue mirabili imprese, in particolare l'uccisione della terribile Chimera, un mostro di origini divine che imperversava nell'odierna Turchia. Fu il primo a vestire la corazza di Pegasus, ma fu anche colui che la ispirò, colui che mi influenzò nella scelta del simbolo. Il bianco cavallo alato in grado di non arrendersi mai, in grado di spingersi sempre più in alto con il solo sbattere delle sue ali, con le sue sole forze. Uno spirito libero, un uomo faber fortunae suae che ha lasciato alla corazza, e a coloro che l'hanno indossata in seguito, una parte di sé.”

 

“Una parte... in me?!” –Sgranò gli occhi Pegasus, guardandosi attorno, a cercar tracce di quel Cavaliere. Ma non vide nessuno, soltanto la desolazione del Settimo Cerchio dove gli ultimi roghi di Ares stavano ormai estinguendosi.

 

“Proprio così. E non mi sto riferendo soltanto al carattere, alla determinazione che ti contraddistingue, ma a qualcosa di più intimo. Qualcosa di più personale.” –Arrossì Atena, distogliendo per la prima volta lo sguardo. –“Bellerofonte, proprio come te, amava la sua Dea!”

 

“Io... Isabel...” –Pegasus fece per avvicinarsi ma Atena lo fermò, sollevando una mano e pregandolo di farle terminare quella scomoda confessione.

 

“Lo avevo dimenticato, persino rimosso dalla mia coscienza divina, forse perché per molto tempo mi sono vergognata dei miei pensieri, dei pensieri di una Divinità destinata ad essere vergine, per non concedersi a nessun uomo, in modo da poter essere la Dea di tutti i Cavalieri, nessuno escluso. Una madre quasi, di certo non una ragazzina innamorata. L'amore l'ho lasciato ad altri; ad Afrodite, che nonostante l'affetto di Efesto riuscì comunque ad unirsi ad Ares, per generare i figli che poi l'han massacrata. Ad Era, che in silenzio ha sofferto per secoli di fronte alle scappatelle del suo fratello e sposo. Ad Eos e a Selene, che in un uomo mortale hanno trovato la felicità, l'altra parte della mela, in grado di completare la loro esistenza. A volte le ho invidiate, è sciocco, lo so, la mia vita non è certo in virtù di un appagamento carnale o sentimentale, bensì destinata a qualcosa di molto più elevato. La salvezza del genere umano. Eppure, a volte, di fronte all'altrui felicità, ho avuto modo di chiedermi... se anch'io... in un'altra vita... non avessi potuto essere diversa.”

 

“E in quell'altra vita... eri sola?”

 

“No, Pegasus. Ero con l'unico uomo per cui il mio cuore abbia mai battuto, l'unico per cui abbia provato emozioni, che non siano il rispetto e l'autorità impostami dal mio rango.” –Confessò infine Atena, concedendosi un sorriso genuino. –“In quella vita Pegasus ero con te! Tu sei Bellerofonte, l'eroe che uccise la Chimera cavalcando il destriero alato! Lui rivive in te, come in tutti i Cavalieri di Pegasus che ti hanno preceduto! Lo avevo dimenticato e solo il tocco di Avalon me lo ha fatto tornare in mente, riportando in vita sepolte emozioni. Non so di cosa si tratti, Pegasus, di quale maleficio, ma entrambi ne siamo coinvolti.”

 

“Non definirlo in questo modo, Isabel. La nostra unione non è una maledizione, soltanto amore.” –La rassicurò Pegasus, afferrandole una mano. –“Perché di questo si tratta, non è vero? Amasti Bellerofonte ai tempi del mito, nello stesso modo in cui lui amò te.”

 

Atena annuì, inghiottendo quell'amaro boccone di realtà che non avrebbe mai creduto di dover assaporare nuovamente. Non dopo tutto quel tempo, non dopo secoli di silenzio, secoli passati a chiedersi se non avrebbe potuto fare qualcosa per salvarlo. Da se stesso e dal loro amore.

 

Bellerofonte comprese i miei tormenti, il dissidio che mi lacerava l'anima, combattuta tra ciò che dovevo fare, in quanto Dea Vergine, Dea della Guerra, Dea della Giustizia e degli Uomini tutti, e ciò che in fondo al cuore avrei voluto. Comprese e se ne andò, condannandosi a una vita di privazioni, vittima di una maledizione che aveva il nome di amore, la stessa che grava adesso su di te, Pegasus! E anche questo dolore, come altri che ti ho inflitto, è a causa mia!”

 

“Stai scherzando, vero?” –Le disse prontamente il Cavaliere dello Zodiaco. –“Se davvero in un tempo lontano siamo stati amanti, come può un sentimento simile, così forte da trascendere persino il tempo e scivolare fino a noi, agli albori di un nuovo millennio, essere una maledizione? È un'opportunità, Isabel. La nostra opportunità.”

 

“Io... non sono più Isabel, Pegasus!” –Cercò di divincolarsi la figlia di Zeus, ma il ragazzo la tenne stretta per il braccio, tirandola a sé. Faccia contro faccia.

 

“Lo so. Sei la Dea. La mia Dea.” –E la baciò.

 

***

 

L'ondata scatenata da Avatea allagò l'intero Cerchio di Marte, suscitando un lieve disappunto nel suo custode, percepibile solo dal corrugarsi della sua fronte.

 

“Mi dispiace invadere il tuo terreno di caccia, Sin, ma si è rivelato un gesto necessario per mondare il reame beato da coloro che hanno tentato di invaderlo.” –Commentò placida l’anziana protettrice del Terzo Cerchio.

 

“Lo capisco.” –Si limitò a risponderle Sin, osservando dall'alto del muro di confine la fiumana d'acqua sommergere i corpi carbonizzati dei Phonoi e delle Androctasie che avevano avuto l'ardire di affrontarlo. Poco distante anche il cadavere di Alala, in fondo a un avvallamento nel terreno, venne inghiottito dalle acque, che di certo trovarono facile strada verso il Cerchio di Giove, defluendovi poco dopo.

 

A un cenno della Divinità oceanica, le limpide correnti si ritrassero, riportando alla luce i domini di Sin degli Accadi, privi adesso di qualsiasi cadavere, risucchiato nella profonda serenità degli abissi su cui Avatea imperava.

 

“Lo apprezzo.” –Esclamò il Selenite di Marte, strappando un sorrisetto alla parigrado, prima di muoversi per scendere dal muro.

 

La guerra era finita, ed era stata un'esperienza meno traumatica di quanto Selene avesse creduto all'inizio. Di nove Seleniti, solo quattro erano morti, e sull'ulteriore longevità di tre di essi nessuno avrebbe scommesso. Di Thot invece a Sin dispiaceva. Per quanto fosse più uno studioso che un guerriero, aveva notevole discernimento ed era stato in grado di organizzare al meglio la difesa del suo cerchio, sacrificandosi per la causa. Doti che il Selenite di Marte ben apprezzava in un combattente.

 

I cerchi esterni erano stati distrutti e le mura che li delimitavano avrebbero dovuto essere ricostruite, un compito di cui Selene avrebbe potuto occuparsi tranquillamente in un momento di riposo. Né l'Occhio né il Palazzo Reale erano stati raggiunti, per cui la Dea della Luna poteva dirsi soddisfatta. Sebbene, e questo a Sin era chiaro più che a qualunque altro superstite, quest'ottimo risultato era stato raggiunto solo ed esclusivamente grazie all'intervento dei Cavalieri di Atena e di Avalon.

 

Loro, in prima persona, si erano sporcati le mani, feriti e macchiati di sangue, per affrontare Ares ed Eris, Alala e le altre Makhai. Se non fosse stato per il loro aiuto, Sin avrebbe dovuto fronteggiarli al Cerchio di Marte e non si sentì affatto certo che sarebbe riuscito a tenerli tutti a bada. Sospirando scocciato per quell'ipotetica ammissione di debolezza, volse lo sguardo in direzione della grande cupola di vetro che si stagliava al centro del regno, sicuro che Selene fosse ancora laggiù, a piangere tra le braccia dell'amato, come se fiumi di lacrime fossero in grado di arrestare la furia degli invasori. Almeno la fiumana di Avatea ben più devastanti effetti possiede! Ironizzò, augurandosi che da quell'esperienza la Dea della Luna potesse trarre utili insegnamenti in quanto a strategie difensive. Nessun regno è un'isola! Commentò il focoso Selenite, prima che una voce nota lo chiamasse.

 

“Sin!!!”

 

Era Andromeda, che lo raggiunse correndo assieme ad un altro Cavaliere di Atena, i cui capelli blu lo identificarono come l'immortale Fenice. Un personaggio al cui fianco Sin avrebbe volentieri combattuto e, perché no, gli avrebbe persino concesso l'onore di sfidarlo, per vedere quale fiamma avrebbe potuto ardere in più sempiterno rogo.

 

“Sono lieto di rivedervi sani e salvi, Cavalieri di Atena! E vi ringrazio per aver lottato con noi, e per noi, quest'oggi!”

 

“Grazie a te di avermi aiutato quand'ero in difficoltà!”

 

“Fai tesoro di ogni insegnamento, Andromeda, anche di quelli più noiosi da udire. Del resto un uomo si rivela grande proprio nel fare le cose che odia di più, non trovi?!”

 

Andromeda annuì, mentre il fratello gli metteva una mano nei capelli, arruffandoglieli, come usava fare fin da quando erano bambini, strappandogli ogni volta un gemito di protesta e una risata.

 

“Dov'é Pegasus? E Atena? Stanno bene, fratello?”

 

“Non ho dubbi al riguardo!” –Commentò Phoenix, prima di proporre ad Andromeda di accompagnarlo ai cerchi di Giove e Saturno, dove si trovavano i Cavalieri delle Stelle e gli ultimi difensori della Luna. Ma prima che potessero muoversi un urlo li distrasse, portandoli a voltarsi verso la cima del muro che separava il Cerchio di Marte da quello della Terra.

 

Avatea!!!” –Esclamò Sin, osservando l'anziana donna crollare giù.

 

Senza pensarci due volte, il Selenite di Fuoco sfrecciò verso di lei, afferrandola appena in tempo prima che si schiantasse al suolo e muovendo la bocca per chiederle cosa fosse accaduto. È vecchia, d'accordo, ma la sua forza non è mai venuta meno. Possibile che generare quell'ondata purificatrice l'abbia fiaccata a tal punto da non reggersi neppure...? Ma non riuscì a formulare alcuna domanda che anch’egli dovette accasciarsi a terra, di fronte agli sguardi attoniti di Phoenix e Andromeda, che fecero per soccorrerlo salvo accorgersi di provare anche loro quel che sentivano i Seleniti.

 

Un'enorme, terribile oscurità gravava all'improvviso sui loro cuori, così profonda, così nera, come mai l'avevano percepita. Una tenebra in grado di spegnere ogni forma di luce. La sentirono tutti, sull'intero territorio lunare, accasciandosi uno dopo l'altro, tra grida di terrore e smorfie di rabbia per quel silenzioso attacco.

 

Nell'Occhio le figlie di Selene strillarono all'impazzata, correndo di stanza in stanza, quasi potessero in quel modo fuggirne, fino a crollare esauste sui pavimenti di marmo bianco. La Dea della Luna trasalì, gettandosi sul corpo svenuto dell'amato Endimione, offrendosi come scudo a un suo eventuale carnefice.

 

“Che succede? Che succede ancora?!” –Schiamazzò, inascoltata.

 

Avalon guardò Asterios negli occhi, ed entrambi capirono, rabbrividendo all'istante.

 

“Non è possibile!!!” –Gridò il Principino della Luna, sollevando lo sguardo verso il cielo, e notando soltanto adesso che non vi erano più stelle.


“Lei è qui!” –Commentò Avalon.

 

“L'origine di tutti i mali. La madre della tenebra più nera, da lei stessa procreata! Colei che stavamo aspettando!”

 

“Dunque ci siamo! La sua discesa in campo segna l’ultima tappa del nostro cammino! È tempo che i Quattro si riuniscano!” –Chiarì il Signore dell’Isola Sacra.

 

In quel momento l'Occhio andò in frantumi e mentre una pioggia di vetri cadeva su di loro, Avalon vide enormi serpi d'oscurità violare quel recinto che finora aveva resistito. Non seppe definirle diversamente, non avendo forma precisa, essendo solo sagome di tenebra, come quelle che Flegias aveva evocato mesi addietro sull'isola del Mediterraneo, ma in forma molto più vasta e temibile. E soprattutto molto più oscura.


Stella di Avalon!!!” –Tuonò, sollevando un braccio al cielo e aprendo il palmo, laddove un astro di luce scintillò fulgido, frenando per un istante l'avanzata di quella marea d'ombra.

 

Asterios afferrò Selene e Endimione, portandoli ai piedi del Signore dell'Isola Sacra, lui ancora addormentato, lei troppo sconvolta per fare alcunché. Quindi si alzò, affiancando il compagno, ed espandendo il proprio cosmo color verde acqua.

 

Una seconda stella comparve sul suo palmo aperto, combattendo assieme all'altra contro quell'improvvisa discesa delle tenebre. Non sapevano dove guardare, non sapevano cosa guardare, non essendovi alcun corpo nemico, solo un'unica immensa presenza capace di invadere ogni spazio, arrivando persino ai recessi del cuore.

 

Con una sonora sghignazzata, che martellò le loro menti spossate, la marea d'ombra si ritirò, abbandonando l'Occhio distrutto e muovendosi a spirale lungo l'intero regno, avvolgendolo nella sua tetra morsa.

 

I primi a cadere furono i Custodi dei Cerchi Interni, sopraffatti da quell'imponente oscurità, simile adesso a immense ali in grado di abbracciare tutta la Luna.

 

“Guarda là, fratello! Cos'è?” –Esclamò Andromeda, mentre deformi sagome nere piombavano su di loro, per spegnerne la luce.

 

“Non lo so, ma non mi piace! Ardi fuoco della Fenice!!!” –Ringhiò il Cavaliere, subito imitato dal fratello e persino da Sin, che, ai suoi piedi, teneva una mano sul petto di Avatea, per controllarne il respiro, e aveva appena sollevato l'altra, lasciando avvampare la sua fiamma fatale.

 

“Dobbiamo... resistere!!!” –Mormorò il Selenite di Marte, portando il cosmo al culmine.

 

“È come se... queste tenebre... volessero succhiarci la luce, la nostra luce!!! Vogliono fagocitare la nostra energia!!!” –Gridò Andromeda.

 

“Non cedere, fratello!!!” –Lo incitò Phoenix, per quanto anch'egli si sentisse svuotare.

 

Uguale sentimento provavano i Cavalieri delle Stelle, riunitisi tra loro al Cerchio di Giove dopo la rivelazione di Elanor come settimo membro del loro gruppo. E proprio la ragazza, che avrebbe voluto onorare Thot per averla salvata, fu la prima ad accasciarsi, travolta da quell'improvvisa oscurità.

 

“Cosa... cos'è?!” –Chiese allora Matthew, mettendosi una mano sul cuore, percependo qualcosa che gli veniva strappato via.

 

“Che sia dunque...?!” –Mormorò Jonathan, fendendo la volta celeste con il suo sguardo acuto e inorridendo nel vedere che non vi erano più stelle ad osservarli, solo un'unica oscura cappa nera.

 

“Il nemico che Avalon attende da anni... è qua!!!” –Aggiunse Reis, bruciando il cosmo all'istante, mentre cupe ali di tenebra si chiudevano su di loro.

 

Talismaniii!!!” –Gridarono in coro i quattro Cavalieri, generando una cupola difensiva di oro lucente su cui le oscure ali scivolarono, toccandola, palpandola, assaporandone la luminosità e sogghignando, provocando al qual tempo, ad ogni tocco, uno spasimo nell'animo dei Cavalieri delle Stelle.

 

Anche Mani, i suoi figli e il valoroso Shen Gado vennero raggiunti da quell'oscurità agghiacciante, senza riuscire a sfuggirle, neppure nel varco tra i cerchi in cui avevano tentato di ripararsi. Vennero afferrati, stritolati, strapazzati come cenci e infine rilasciati a terra, vuoti ormai di ogni energia.

 

Per ultima, infine, la notte scese su Pegasus e Atena, che avevano percepito, al pari dei compagni, il manifestarsi repentino di quel manto di tenebra, una coltre che pareva isolarli dall'universo, esponendoli alla mercé di quel nuovo misterioso nemico.

 

“Che sia...?” –Rifletté la Dea della Guerra, ripensando all'ultima conversazione con Ares. Aveva detto poco, lo scontroso Nume, ma Atena aveva compreso che stesse agendo per conto di qualcun'altro, qualcuno che lo aveva salvato mesi addietro, tenendolo nell'ombra e nutrendolo con la stessa. Qualcuno di cui lo stesso Ares aveva soggezione.

 

“Attenta!!!” –La scosse Pegasus, buttandosi su di lei e ruzzolando insieme a terra, mentre un paio di enormi artigli di tenebra piombavano su di loro. –“Che nuova diavoleria è mai questa?!” –Avvampò il ragazzo, rimettendosi in piedi, splendente nel suo cosmo azzurro.

 

Tirò uno sguardo verso l'alto e vide che gli artigli altro non erano che la parte inferiore di un uccello immenso, un uccello composto da pura tenebra, i cui occhi, sebbene Pegasus non potesse distinguerli, tanto scura era la tinta che lo rivestiva, erano puntati su di lui. Se li sentiva addosso, come pugnali di ghiaccio sul cuore, e si disse certo che, qualunque cosa avesse detto o fatto, quelle lame sarebbero affondate.

 

Di fronte a tale profonda oscurità, per la prima volta Pegasus pensò che sarebbe morto.

 

“Non... cedere!!!” –Esclamò allora Atena, affiancandolo all'improvviso, l'Egida rivolta verso l'esterno, lo scudo scintillante su cui l'ondata di tenebra si abbatté di colpo, spingendoli entrambi indietro, pur fermi nella loro postura. –“Nike, rifulgi!!!” –Aggiunse la Dea, portando avanti lo Scettro di Vittoria, avvolto nel suo caldo e lucente cosmo.

 

Fu un raggio di sole in un cielo di tenebra, che si perse dopo pochi istanti, inglobato da quell'entità suprema che li stava attorniando.

 

“In morti bizzarre sono incorso più volte! Sbranato vivo dal Mastino degli Inferi, soffocato dalle ragnatele di uno Spectre, ma che sia un pipistrello di tenebra a vincermi... questo no, non lo accettooo!!!” –Esclamò fiero il Cavaliere dello Zodiaco, bruciando al massimo il proprio cosmo. Lo scintillio delle sue stelle frenò per un momento l'avanzata dell'oscurità, che venne crivellata poco dopo da una moltitudine di pugni di luce. –“Fulmine di Pegasus!!! Iaiii!!!”

 

“Coraggioso e valente. Me ne compiaccio!” –Parlò allora una voce di donna all'improvviso, una voce che Pegasus non seppe dire da dove provenisse, sentendola direttamente nella mente.

 

Anche Atena dovette udirla, voltandosi verso il Cavaliere, prima di venire sballottata e schiacciata a terra dal rinfocolarsi repentino della marea d'ombra.

 

“Chi sei?” –Ringhiò Pegasus, adesso più arrabbiato che impaurito, dirigendo i suoi pugni  attorno a sé, nell'oscurità in cui ormai erano immersi. Persino vedere Isabel era difficile, nonostante giacesse ai suoi piedi, solo il cozzare delle loro armature gli rivelava la sua posizione, questo e lo sfavillare dello Scettro di Nike, Dea che sempre aveva dato loro la vittoria. –“Non abbandonarci proprio adesso, amica mia!”

 

Un attimo dopo le tenebre si ritrassero, recuperando la forma che avevano avuto in precedenza, quella di un oscuro e gigantesco uccello che sbatteva le sue spaventose ali nell'aere attorno. Ali così enormi da avvolgere l'intero satellite in un solo tenebroso abbraccio.

 

Pegasuuusss!!!”

 

La voce calda di Andromeda lo distrasse in quel momento, portandolo a voltarsi verso l'ingresso al Settimo Cerchio, da cui il ragazzo era appena comparso, seguito da Phoenix, Reis e Jonathan, ritrovatisi dopo che i due fratelli avevano deciso di correre attraverso i Nove Cerchi in aiuto dell'amico. Elanor aveva invece preferito tornare a palazzo, per sincerarsi delle condizioni di sua madre, e Reis aveva chiesto a Matt di andare con lei. Per farle da scorta, ufficialmente, ma anche per toglierlo da quella battaglia campale.

 

“Sapete cos'è quella strana creatura?!” –Domandò Pegasus ai Cavalieri delle Stelle, che non seppero sul momento come e cosa rispondere. Per quanto conoscessero la verità.

 

Fu una ben nota voce a togliere entrambi dall'imbarazzo, risuonando sulla piana del Cerchio di Urano con la pacatezza che la contraddistingueva.

 

“Il suo nome è Nyx, Pegasus, ed è uno dei più antichi demoni oscuri che siamo chiamati ad affrontare!”

 

I cinque Cavalieri e Atena si voltarono verso la cima del muro che separava il Sesto e il Settimo Cerchio e là trovarono Avalon, splendido, rivestito da un'aura di vivida luce adamantina, così intensa che dovettero distogliere per un momento lo sguardo, abituatosi all'oscura caligine in cui erano immersi.

 

“Potente Divinità primordiale, nata sotto forma di uccello nero, Nyx è la madre di molte creature diaboliche che avete affrontato o che presto sarete costretti a fronteggiare! Ella è la Prima Dea, il cui grembo ha partorito le tenebre che hanno avvolto la Terra, coprendo a volte (ahimè, troppe volte) la luce dall'animo degli uomini! Ella è la Notte!”

 

A quelle parole l'uccello di oscurità sogghignò, prima di spalancare le ali e planare su di loro.

 

***

 

In quello stesso momento, sul Monte Olimpo, le porte della Sala del Trono si aprirono all'improvviso. Zeus, che stava conversando con Era, Euro, Ermes e Demetra, si sollevò di scatto dal trono, imprecando contro le tre esili figure che avevano osato disturbare quel concilio ristretto. Ma dovette trattenersi dal redarguirle ulteriormente quando vide le loro condizioni.

 

Tutti le videro, e inorridirono.

 

Egle, Aretusa ed Esperia, le Ninfe del Tramonto, note agli uomini anche con il nome di Esperidi, arrivarono correndo, inciampando l'una sull'altra, gridando e piangendo, vittime di una sofferenza mai provata prima.

 

“È tornata!!! Lei è tornata!!!” –Singhiozzarono in coro.

 

“Chi? Cos'è accaduto? State tranquille!” –Cercò di calmarle Ermes, avviandosi incontro a loro.

 

“Nostra madre!!!”

 

Vos...” –Il Dio dei Mercanti rimase di sasso a quella rivelazione, al pari di Euro e Era, voltandosi verso l'alto trono dove il volto di Zeus rimaneva imperscrutabile.

 

“La sua oscurità... la sentiamo...” –Aggiunsero le tre esili fanciulle, i volti un tempo delicati e sereni adesso deturpati dal terrore, scavati da rughe di oscurità così profonde da lasciar intravedere le ossa al di sotto. –“Lei... ci sta... Noi ci stiamo spegnendo...” –Mormorarono, accasciandosi una sull'altra, di fronte agli occhi frastornati e inorriditi delle Divinità olimpiche, che le videro contrarsi, farsi via via più piccole, raggomitolandosi come feti dalla pelle nera, sempre più scura, fino ad ardere in una repentina fiamma tenebrosa, che divorò quel che restava di loro, lasciando soltanto delle ceneri oscure.

 

“Quale orrore!!!” –Esclamò Era, affondando la testa nel petto del marito, che però, al suo fianco, fremeva per la collera.

 

“Quale affronto!!! Nyx!!!” –Tuonò Zeus, espandendo il proprio cosmo e sollevando una mano al cielo, attorno alla quale scintillanti fulmini celesti presero a guizzare. Un attimo dopo una poderosa scarica di energia trapassò il soffitto della reggia divina, dirigendosi nelle vastità siderali.

 

“La Notte... la primordiale divinità da cui nacquero le Astrazioni... è dunque rediviva!” –Mormorò sconcertato il figlio di Eos, prima di essere affiancato da Ermes, che gli poggiò bonariamente una mano sulla spalla.

 

“Così pare, giovane Euro! E, per certo che sia, ha già preso il suo primo tributo! Le sue figlie! A rimarcare, qualora qualcuno avesse dubbi, che non avrà pietà di nessuno!”

 

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Capitolo 37
*** Capitolo trentacinquesimo: Settimo interludio. Natura. ***


CAPITOLO TRENTACINQUESIMO: SETTIMO INTERLUDIO.

 

NATURA.

 

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: presente.

 

Un’immensa nebbia.

 

È questa la prima immagine che ebbi dell’isola. Una coltre di nebbia che sembrava non avere fine, un cielo che pareva estendersi ovunque, al punto da entrarmi nell’anima. Eppure, per quanto poco potessi vedere, per quanto molto dovessi affidarmi ai sensi, per percepire le presenze che mi attorniavano, non mi sentii affatto a disagio. Tutt’altro. Mi invase una sensazione familiare, che in questi quindici anni non mi ha mai lasciato. La sensazione di esservi già stato prima di allora, in un passato lontano e indefinito. In una di quelle che il mio Maestro e il Primo Saggio di cui è stato discepolo avrebbero definito le mie vite precedenti.

 

Sorrido, e carezzo la croce celtica che porto al collo. L’unico oggetto che mi porto appresso da sempre. Placida reliquia della mia infanzia.

 

In uno sfuocato ricordo d’autunno, rivedo mio padre farmene dono. Ma non riesco a focalizzarmi su di lui, non riesco a vedere i tratti del suo volto, né quello di mia madre e mio fratello. Sono sagome, niente di più. Sbiaditi ricordi di una vita che non ho mai vissuto. O forse di una delle tante cui sono passato attraverso.

 

Avevo sei anni, così mi pare di ricordare, quando sentii parlare per la prima volta di Cavalieri e Divinità. Affascinato, come tutti i bambini a cui si raccontano favole e leggende, fantasticavo sulle imprese mitiche che uomini simili avevano affrontato. Immaginavo Eracle, con la possente clava, lottare a mani nude contro il Leone di Nemea e l’Idra di Lerna. E Dioniso, ebbro di orgia e follia, sollazzarsi con le driadi nei meandri del suo vigneto. E Giasone, veleggiare verso la Colchide alla ricerca del Vello dell’Ariete d’Oro. E Zeus il Sommo, l’apoteosi.

 

Non ricordo neppure come, ma un giorno presi la decisione di trasformare questi sogni in realtà. Di cacciar via i fantasmi della mia infanzia per rincorrere la verità che vi si celava dietro. Così lasciai la natia Australia, nascondendomi in un cargo diretto in Indocina. Avevo sentito parlare di monaci che vivevano in eremi nascosti, nelle grandi catene dell’Himalaya e del Karakoram, e di asceti che praticavano forme di meditazione in grado di accrescere il loro potere interiore. Ma in realtà non avevo la minima idea di dove sarei andato. Né di cosa stessi cercando. La sola cosa che sapevo, e che era importante, era che dovevo andare. Me lo sentivo nell’animo.

 

Che fosse il richiamo di un antenato che confidava in me per restaurare i gloriosi fasti di un’obliata dinastia, o il volere di un Dio di cui ancora non ero a conoscenza, o l’infantile capriccio di un bambino di nove anni, era comunque ciò che accadde. E che mi allontanò dalla mia famiglia.

 

Non rividi più nessuno di loro. Né mio padre, marinaio su uno dei tanti pescherecci che battevano l’Oceano Pacifico, morto in mare durante una tempesta. Né mia madre, il cui cuore, già straziato dalla perdita dei figli, non resse a così tanto dolore. Né mio fratello, che, venni a sapere in seguito, si era diretto in Grecia per diventare Cavaliere di Atena. O forse per ritrovare il fratello da cui il destino l’aveva separato.

 

Il destino o semplicemente la volontà di un uomo che ha deciso di sfidarlo?

 

Dopo tanti anni, lo ammetto, non sono ancora riuscito a trovare la differenza.

 

Un tempo, nella prima fase della mia vita, quei due anni trascorsi in Cina, ad allenarmi di fronte all’attento sguardo di un vecchio dalla pelle viola e dal volto coperto da un cappello di paglia, avrei negato l’esistenza del fato. Ma crescendo, e venendo iniziato ai misteri dell’Isola Sacra, ho imparato cose ritenute in precedenza irraggiungibili, e sondato universi con la sola forza della mente, comprendendo infine che niente avviene per caso. Che tutto fa parte di un piano superiore, di un destino universale che unisce gli uomini e tutti gli esseri viventi, consapevoli o meno di vivere in un eterno presente. Un eterno ora.

 

Chi ne sia il tessitore soltanto gli Dei possono saperlo. E so per certo che persino molti di loro preferirebbero non esserne a conoscenza.

 

Rimasi in Cina per due anni, nella pagoda dell’uomo che mi salvò da morte certa, mentre giacevo, stanco, affamato e fradicio, nelle torbide acque di uno stagno, ai margini di una foresta di bambù. Avevo camminato per giorni, nelle terre interne dell’Asia, inseguendo la chimerica scia di un mistero che ero solo all’inizio dall’apprendere.

 

Mi avevano detto che millenni addietro, in una valle nascosta, una cometa a forma di drago si era schiantata sulla Terra, scavando il terreno fino a generare cinque aspri picchi. Dal sottosuolo smosso, torrenti d’acqua avevano iniziato a sgorgare creando fiumi e cascate, dai colori così vividi e luminosi che a molti parve che la cometa vivesse ancora. E che quelle fossero le sue lacrime. Le lacrime del drago.

 

Arrancai per giorni, forse per settimane, rubacchiando nei campi e nelle risaie per sopravvivere, finché non crollai. E i miei sogni crollarono accanto a me. Mi risvegliai in un letto di paglia, stordito e affamato, mentre i miei occhi stanchi mettevano a fuoco l’immagine di un giovane, di dieci anni o poco più, dal volto bianco, che mi sorrideva porgendomi una tazza fumante, piena di una corroborante zuppa.

 

“Tebaldo!” –Lo chiamò un’anziana voce, pregna di saggezza e forza. –“Come sta il nostro ospite quest’oggi?! Oh, si è svegliato, che fortuna!”

 

Era basso come un nano, e vecchio e rugoso come una quercia centenaria, ma i suoi occhi trasudavano epicità e memoria. Erano gli occhi di un uomo che aveva visto vari inverni corrergli di fronte, affannando disperatamente per afferrarli, senza però raggiungerli, costretto a rimanere inerte e a lasciarli passare. In attesa dell’ultimo.

 

“Do… dove sono?!” –Balbettai, cercando di sollevarmi. E subito il giovane chiamato Tebaldo si affrettò ad aiutarmi, essendo ancora debole per stare in piedi da solo.

 

“Ai Cinque Picchi!” –Commentò l’anziano, spostando lo sguardo verso la finestra, da cui filtrava copiosa l’abbacinante luce del sole di Cina. –“Non era qua che volevi arrivare?!” –Aggiunse, sornione, prima di uscire dalla pagoda.

 

A passi lenti, lo seguii oltre la soglia, accecato dal bagliore del panorama di luce che si apriva di fronte a me. E fu allora che la vidi, la Cascata del Drago.

 

Imponente e maestosa, scorreva alla mia destra, precipitando dall’alto di un picco di qualche centinaio di metri e spruzzando il viso e il cappello di paglia dell’anziano dalla pelle viola seduto in posizione meditava di fronte ad essa. C’era qualcosa, nella sua postura, nella pacata immobilità che lo contraddistingueva, che mi fece sospettare che non fosse un gesto inusuale. Ma il segno del lento trascorrere del suo tempo. E le parole di Tebaldo, poco dopo, confermarono le mie intuizioni.

 

“È il guardiano di quest’oasi di pace! Il Maestro dei Cinque Picchi, o semplicemente Vecchio Maestro! È così che lo chiamano i suoi allievi!”

 

“Non ha un nome?!”

 

“Se anche lo ha avuto, io non lo conosco! Né credo lui stesso lo ricordi…” –Mi sorrise Tebaldo, ponendomi un braccio sulle spalle, con una gentilezza onesta che, negli anni seguenti, non mancò mai di dimostrarmi, abbracciandomi e ridendo con me, come fossi un fratello. Suo fratello.

 

Ancora adesso, dopo quasi quindici anni, rimpiango di non aver mai potuto ringraziarlo, per l’affetto con cui mi ha riempito il cuore. Ancora adesso rimpiango di non avergli potuto dire addio.

 

Né a lui, né a Dohko.

 

Ma se quel giorno, sotto il sole di Grecia, non avessi accettato l’offerta del solerte Ermes, non sarei giunto dove sono adesso. Non sarei stato iniziato ai misteri. E la mia vita non sarebbe cambiata. Sarei rimasto là, a masticare le foglie di un destino amaro, che nient’altro mi avrebbe riservato se non la stessa morte anonima, sotto cumuli di macerie insanguinate, cui Tebaldo era incorso senza che io avessi potuto aiutarlo. Né modificare il fato per lui.

 

Crescendo, sono diventato forte e maturo. E ho capito che in questo mondo in continua mutazione non esiste niente che duri davvero per sempre. Che ciò che vediamo oggi nient’altro è che la polvere di domani. Quella stessa che darà luce ad una nuova vita, in un circolo di morte e rinascita. In un perpetuo ciclo di trasformazione che mai avrà fine.

 

Fu il mio mentore a parlarmene, la prima volta, sulla cima dell’Isola Sacra.

 

Sedevamo sull’erba, cullati dal vento, in mezzo alle alte pietre grezze che ornano la superficie di Avalon. Pare che furono issate dai primi druidi, millenni or sono, quando si rifugiarono sull’isola, facendone il loro paradiso, la loro casa, il luogo da cui sarebbe partita la lunga marcia verso l’ultima guerra. E ogni pietra è stata poi cosparsa delle ceneri di tutti i saggi che si sono succeduti, donando loro quel potere e quella conoscenza che avevano raggiunto in vita. Che fosse possibile o meno, Avalon ci credeva, e ci crede tutt’ora quando vi si reca a passeggiare nelle sue notti di meditazione, per chiedere consiglio agli antichi.

 

E anch’io, quel giorno, percepii qualcosa. Forse fu lo stormire del vento tra le rocce, ma credetti davvero di sentire delle voci che mi chiamavano. Voci nient’affatto estranee ma che sentivo parte di me, del mio essere. Voci che si compenetravano alle altre, divenendo un unico canto. Le memorie perdute della terra.

 

“Ascanus...” –Mormorò qualcuno nella mia mente, chiamandomi con la versione latina del mio nome.

 

Muovendo lo sguardo tra i megaliti e le nebbie, mi parve di scorgere una figura fumosa che avanzava verso di me, una sagoma incorporea su cui brillavano occhi pieni di vita, occhi che stridevano con l’evanescenza del suo corpo. Occhi in cui fui in grado di specchiarmi, ritrovando me stesso.

 

“Chi sei?” –Trovai la forza per balbettare, strappando un sorriso al Signore dell’Isola Sacra e alla figura fatua di fronte a me.

 

“Sono tuo padre!” –Si limitò a rispondere quest’ultima. E capì che non intendeva il mio padre biologico, il cui corpo era stato smarrito e dilaniato dalle correnti del Pacifico. Ma il mio vero padre, l’antenato da cui presi l’epiteto che iniziai ad usare in battaglia.

 

Pendragon. Testa di drago.

 

Avalon mi prese la mano, aiutandomi a mantenere la concentrazione, aiutandomi a penetrare a fondo quel mistero che così tanto mi riguardava. E mi spiegò, con voce ferma, che l’uomo entrato nella storia e nel mito come Arthur Pendragon era stato un condottiero leggendario, dotato di poteri cosmici, come i Cavalieri di Atena e di Zeus, ma su cui gravava un peso troppo grande da sopportare. I destini di un mondo, l’antica Albion, ormai prossimo a scomparire.

 

“Arthur ebbe un figlio da sua sorella, una Sacerdotessa della Dea Madre, e anch’egli, prima di morire a Mount Badon assieme al padre, ebbe il tempo di generare un erede con una Sacerdotessa di Avalon, un erede che fu tenuto nascosto. I sassoni ormai avevano invaso la Britannia e il nome Pendragon aveva portato con sé troppi cadaveri. Così la sua identità fu celata, ma gli fu permesso di avere una vita felice, di amare e di morire infine, continuando la dinastia del più grande re di Albion. Una linea che ha attraversato il tempo e lo spazio, giungendo fino a te, l’ultimo di una stirpe di eroi. Ricordo ancora quel che facemmo iscrivere sulla tomba di Arthur: Hic iacet Arthurus, rex quondam, rexque futurus, e quel che dissi quel giorno al mio maestro: Arthur non è morto. Egli vivrà.

 

E quel momento è adesso!”

 

Le parole di Avalon mi colpirono, ma ancor più lo fece l’ultimo gesto di mio padre, che, avvicinatosi a me, mi porse le mani, permettendomi di vedere i dragoni tatuati sulle sue braccia. Uno bianco e uno rosso, intrecciati assieme, simboli di un’antica tradizione di Britannia. La vita e la morte. Incantato dalla visione, allungai un braccio per stringere quello di Arthur, per sentirlo lì, vivo di fronte a me, ma afferrai soltanto nebbia.

 

La figura si dissolse, scivolando nell’aria in comete di foschia, affusolandosi attorno al mio corpo e poi penetrando in me. Da allora, ogni volta in battaglia mi sento come se fossimo in due a combattere, io e mio padre, e tutta la nostra storia. Da allora, sulle mie braccia campeggiano le sagome di un drago bianco e di un drago rosso, a ricordarmi il mistero vissuto quel giorno e il giuramento prestato. Un giuramento silenzioso, fatto di gesti e di assensi.

 

Quando mi alzai, mi parve per la prima volta di vedere il sole risplendere sulla cima dell’isola sacra, testimone silente di quella promessa.

 

Avalon si avvicinò al pozzo sacro, riscaldato dall’ultimo raggio di sole, e vi immerse la mano, facendovi fluire il proprio cosmo. Immenso e intenso. Quando risollevò il braccio mi accorsi che reggeva qualcosa, ma non capii cosa fosse finché non me lo mise davanti. Sembrava una pentola, ma non serviva affatto per cucinare, bensì per combattere.

 

“Il più potente dei Talismani al più potente dei Cavalieri delle Stelle, colui che comprende i turbamenti del mondo e vive in comunione con la natura!” –Parlò il Signore dell’Isola Sacra, l’uomo che, in quegli anni vissuti a Glastonbury come Cavaliere Celeste, non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso, ritenendomi destinato a qualcosa di più che non condurre una legione dimenticata verso la fine.

 

Socchiusi le labbra, per esprimergli la mia gratitudine, ma non riuscii a proferir parola, potei soltanto espandere il mio cosmo, stabilendo un contatto diretto con il manufatto che ero chiamato a difendere, il Talismano che mi aveva scelto come suo protettore, permettendomi di accedere ai misteri.

 

“Dei sette Talismani forgiati un tempo per combattere l’ultima ombra, questo è l’unico rimasto celato all’interno di Avalon, di modo che il suo custode potesse proteggerlo. Dovrai fare molta pratica per raggiungere il livello di cosmo sufficiente a padroneggiarlo al meglio, perché, e di questo devi essere consapevole, chi beve dal calice dei misteri può assaporare l’inebriante sapore della vita o il tetro precipitare verso la morte, foss’anche il suo possessore. Un dualismo che i saggi conoscevano bene ed è stato alla base di tutte le tradizioni celtiche.”

 

“Sono pronto alla prova!” –Mi limitai a rispondere.

 

Ed era vero.

 

In fondo, mi dissi, per quel motivo avevo a lungo vagato, per trovare uno scopo ultimo all’esistenza. Non una guerra da vincere o una corona da indossare, non uno scrigno di gioielli o il sogno di una notte d’amore. Soltanto risposte, che solo vivendo i misteri di Avalon avrei potuto avere.

 

Il Signore dell’Isola Sacra sorrise, ponendomi una mano su una spalla e congedandomi poco dopo. Gli allenamenti sarebbero iniziati a breve e Gwynn e gli altri Cavalieri Celesti mi aspettavano per la nostra quotidiana corsa lungo i pendii terrazzati del Tor. Lasciai Avalon sulla sommità dell’isola e scivolai tra gli alberi di mele sospinto dal vento. Il vento del mio destino. Quello stesso che da anni mi sorregge e mi impedisce di cedere a qualunque sconforto, e che mi ricorda continuamente chi sono.

 

Sono stato molte cose in vita. Aspirante Cavaliere di Atena, allievo del Maestro dei Cinque Picchi, discepolo di Avalon e iniziato ai misteri dell’Isola Sacra, Comandante della Legione Nascosta dei Cavalieri Celesti di Glastonbury, favorito di Zeus, Comandante dei Cavalieri delle Stelle e custode del settimo Talismano. Ma niente mi ha riempito il cuore quanto adempiere con dedizione alla vocazione per cui ero stato chiamato, rivivendo, dentro di me, le gesta dei miei avi, coloro che unificarono e diedero speranza ad Albion.

 

Io sono Ascanio Testa di Drago, ultimo discendente di Arthur e della gloriosa stirpe che rese grande e unita la Britannia. Io sono Ascanio Pendragon, il figlio del drago.

 

***

 

L’ombra non ha volto. L’ombra non ha tempo. L’ombra semplicemente è.

 

Pretendere di darle un nome, un volto, un corpo, pretendere di vederla, di toccarla, anche solo di capirla richiederebbe avvicinarsi ad essa. Ma, nel farlo, chiunque ne sarebbe sopraffatto, chiunque verrebbe risucchiato al suo interno. Perché è questo che fanno le ombre, strisciano silenti dove il sole non giunge, attendono pazienti il calar della notte, il tingersi istantaneo di un nero profondo, un nero dove finalmente possono esistere. Emergere. Essere.

 

Perché le ombre sono, anche se la luce non sa. O non vede. O non vuole vedere.

 

E quella consapevolezza col tempo prende forma, diventa coscienza di sé, dà vita alla frustrazione, genera l’odio, insegue la rivalsa, ambisce al dominio. Mira ad avere un mondo per sé.

 

Non più un mondo temporaneo, non più fresco riposo notturno dalla luce del giorno. Ma un mondo dove essere per sempre. Regina, e non più serva; creatrice, e non più creata; amata, e non più odiata.

 

Perché anche le ombre amano. E amano altre ombre, con cui daranno vita a nuove tenebre, favorendo la riproduzione della stessa.

 

C’è sempre, in fondo, un guscio vuoto da colmare di tenebra, un giorno da mutare in notte. Un tempo di cui decretare la fine.

 

Ed è questo che l’ombra fa. Scandisce la fine del tempo. Di tutti i tempi, o di uno soltanto. Perché l’ombra vive in un eterno presente, un qui e ora, senza passato o futuro. L’ombra semplicemente è.

 

Il Comandante Ascanio ripiegò la pergamena, avendo cura di non spiegazzarla, spense la candela e diede l’ultimo saluto al giaciglio ove aveva dormito per anni, in una delle tante capanne che costellavano il versante centrale dell’Isola Sacra.

 

Prima di andarsene, prima di partire per Atene, Avalon gli aveva dato qualcosa da leggere, scritti cui si era abbandonato nelle lunghe notti solinghe trascorse a guardare le stelle sulla cima dell’alto colle. In attesa.

 

Li aveva lasciati a lui, convinto che nessuno meglio del Cavaliere della Natura, colui che con essa vive in comunione e che della vita percepisce i turbamenti, li avrebbe compresi. Oltre che per un secondo motivo, personale e utilitaristico.

 

Ascanio era il suo erede, l’erede di antiche tradizioni che risalivano ai tempi di suo padre. Era colui che avrebbe traghettato l’Isola Sacra verso il meraviglioso mondo nuovo che sarebbe nato dalle rovine dell’ultima guerra. Certo, c’era pur sempre il rovescio della medaglia, l’ansia terribile che lo invadeva ogni volta in cui pensava alla Coppa di Luce, l’incertezza di un momento atteso per millenni, un momento che avrebbe potuto cambiare tutto. Era pronto? I Sette erano pronti?

 

Lo avrebbe presto scoperto, e con loro il resto dell’umanità.

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo presente.

 

Il rito funebre per Osiride si svolse in forma strettamente privata, in un salone interno del tempio di Karnak che Amon Ra aveva allestito per l’occasione. Erano presenti, oltre al Dio del Sole, la sposa e il figlio del Dominatore di Amenti, e i figli di Horus. E anche Febo e Marins.

 

“Mi dispiace molto. So che per te era come un padre!” –Disse il Cavaliere dei Mari Azzurri all’amico, al termine della cerimonia.

 

Febo annuì, gli occhi lucidi per l’emozione, dirigendosi assieme a Marins verso la Sala Ipostila, dove Amon Ra li aveva convocati.

 

“È stata colpa mia!” –Mormorò, fermandosi all’improvviso e stringendo i pugni. –“Osiride è morto per salvarmi, per dare a Horus un’opportunità!”

 

“Per salvarci!” –Precisò Marins. –“Non dimenticare che non eri da solo in quel tempio! Non eri da solo quando l’ombra ci ha vinto! Né lo sei adesso!” –Gli sorrise, prima di fargli cenno di proseguire.

 

Il Dio del Sole li aspettava al centro dell’enorme salone, invitandoli a camminare con lui attraverso l’ampio colonnato, nel silenzio rotto solo dai loro passi.

 

Febo passeggiava a fianco di Amon Ra, e Marins li seguiva di qualche metro, ritenendo opportuno lasciare loro il giusto spazio. Si era già sentito di troppo durante il rito funebre e, adesso che le sue condizioni erano migliorate, sperava di poter lasciare Karnak quanto prima, bisognoso di respirare aria fresca. Non sapeva cosa il Pastore dell’Universo volesse discutere con loro ma, dal volto teso e dal prolungato silenzio, doveva essere qualcosa che gli stava particolarmente a cuore, e che al tempo stesso lo incupiva.

 

Con suo grande stupore, fu a lui che Amon Ra si rivolse per primo.

 

“Come sta la tua mano, giovane Cavaliere? Febo mi ha detto che ti ha dato qualche dolore, di recente!”

 

“Niente che un po’ di tempo non possa migliorare, mio Signore! Un formicolio che a volte si fa sentire e che forse vuole spingermi a tornare presto in battaglia!”

 

“Tempo?! Vorrei davvero che ne avessimo! A volte sembra che persino quello di cui noi Dei disponiamo sia insufficiente!” –Sospirò Amon Ra, continuando a camminare, le mani dietro la schiena, la fronte corrugata in un’espressione pensierosa. –“Temo che le tue necessità troveranno presto soddisfazione e forse allora rimpiangerai le calme aule di Karnak, dove il massimo del pericolo era rischiare di ingrassare a causa del troppo riposo e delle abbondanti portate!”

 

“Mio Signore, non intendevo mancarvi di rispetto… Quello che volevo dire…”

 

“Lo so bene, giovane yankee! Non preoccuparti, non mi hai offeso! Anzi, sono lieto di averti come ospite, lieto che tu sia amico di mio figlio! Proprio per questo temo per te, come per lui! Soprattutto adesso che i Sette sono stati rivelati!” –Confessò, fermandosi e voltandosi infine verso i ragazzi, che spalancarono gli occhi stupefatti.

 

“Co… come?! Il settimo Cavaliere delle Stelle è stato dunque trovato?!” –Esclamò Marins, cercando una qualche conferma o smentita nell’amico.

 

“Padre… voi, cosa sapete?!” –Intervenne questi, prima che Amon Ra, non senza un ultimo sospiro, schioccasse infine le dita.

 

“Il rito con cui confinai Karnak fuori dal tempo è ancora attivo, figlio mio. Niente può turbarne la serenità se non sono io a volerlo. Niente può varcarne i confini, neppure il sentore di un amico in pericolo o di una guerra lontana. Pur tuttavia, per voi, calerò il velo che la isola dal mondo, permettendovi di percepire… quel che è accaduto, sta accadendo e presto accadrà!”

 

Fu come se un fiume li travolgesse all’improvviso, sbattendo loro in faccia frammenti di una realtà da cui troppo a lungo si erano estraniati. Feriti, debilitati, privati dell’ultima stilla di energia, i due Cavalieri delle Stelle erano rimasti fuori dagli eventi in corso, eventi che l’Occhio di Ra aveva monitorato, concordando poi con Avalon la strategia da seguire. L’unica possibile.

 

Unirsi o morire.

 

“Jonathan e Reis sulla Luna? Il risveglio dell’ultimo talismano?! E… il Comandante Ascanio che fronteggia l’ombra?! Incredibile, le cose sono precipitate in nostra assenza! E abbiamo dormito a malapena un giorno!” –Esclamò Marins.

 

“Dunque il viaggio è giunto a conclusione! Avalon ha trovato i Talismani dei Sette Saggi! Dobbiamo riunirci adesso, e farlo quanto prima! In questi modo potremo mettere fine alla guerra… alla guerra tra la luce e l’ombra che va avanti da millenni!” –Intervenne Febo, con accalorata passione, ma ricevendo un cenno di diniego col capo da parte del padre.

 

“Non è così semplice, figlio mio! Devono sussistere determinate condizioni affinché ciò sia possibile!”

 

“Ma il vaso….”

 

“La Coppa di Luce può essere evocata una volta sola! Perciò Avalon dovrà essere ben attento e scegliere il momento esatto in cui colpire! Il momento esatto in cui la vostra esistenza avrà infine un senso…”

 

“Non siate triste per noi, padre!” –Gli sorrise Febo, afferrandogli una mano. –“A lungo ci siamo preparati per questo momento! Non falliremo!”

 

“Non temo per il vostro fallimento, ma per la vostra riuscita!” –Ironizzò il Dio, dando le spalle a entrambi e incamminandosi solo lungo la navata centrale del salone.

 

Ricordava ancora la conversazione avuta con il Signore dell’Isola Sacra riguardo ai Talismani. Che cosa fosse la Coppa di Luce neppure a lui era stato detto, ma conosceva abbastanza Avalon da sapere che non era solito mostrare le sue carte se non a gioco iniziato. Per cui, sebbene incuriosito, il Dio del Sole aveva rispettato il silenzio dell’alleato, ponendogli però una sola domanda, su colui che così tanto amava, e pregandolo di essere sincero nel rispondergli.

 

“Cosa ne sarà di Febo?”

 

Avalon lo aveva guardato con i suoi occhi argentei, e per la prima volta Amon li aveva visti tingersi di una tristezza infinita. Poi gli aveva sorriso, afferrando il Pastore dell’Universo per le mani e rinnovandogli l’invito ad essere forte. Anche loro, alla fine di tutto, si sarebbero rivisti.

 

“E pluribus unum.” –Aveva mormorato, prima di svanire.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo presente.

Fine.

 

 

 

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Capitolo 38
*** Capitolo trentaseiesimo: Lotta per il trono. ***


CAPITOLO TRENTASEIESIMO: LOTTA PER IL TRONO.

 

La devastante onda che lo schiantò contro la parete esterna di un edificio fece capire a Nettuno che Forco era davvero intenzionato a dirimere una volta per tutta un’antica questione. Chi fosse degno di sedere sul Trono del Mare e definirsi Imperatore degli Oceani e di tutti coloro che vi dimoravano. Ma gli fece capire anche qualcos’altro, ben più preoccupante della semplice ostentazione di un titolo onorifico, qualifica che, se non accompagnata da un significativo potere concreto, non aveva alcun valore. Gli fece intendere che Forco quel potere lo aveva, ne disponeva realmente, e la pressione cosmica con cui lo stava schiacciando a terra lo dimostrava.

 

“Come… è possibile?!” –Rantolò Nettuno, muovendo a malapena la testa e tentando di rimettersi in piedi. –“Hai recuperato tutto il tuo magnifico potere! Come hai fatto? E perché Zeus né nessun’altra attenta Divinità ha notato quest’improvvisa manifestazione di energia?”

 

“Già te l’ho spiegato, ma forse hai dell’acqua negli orecchi!” –Ridacchiò Forco, fissando il Nume Olimpico dall’alto, tronfio di quella posizione raggiunta. –“La mia rinascita non è stata istantanea, bensì graduale! Dopo la sconfitta che tu e Zeus mi imprimeste nel Mondo Antico, confinaste il mio spirito in una conchiglia di madreperla, che affidaste agli oceani, sperando che si perdesse nel perenne vagare lungo le correnti del pianeta, magari terminando la sua esistenza in una solitaria baia sperduta chissà dove. Caso volle che, secoli e secoli dopo, tali correnti mi abbiano trascinato lungo le coste dell’Africa Orientale, passando di mano in mano, tra tribù impaurite e vessate, mercenari avidi di potere e archeologi incuriositi da simile ritrovamento, finché non arrivai, o dovrei dire ritornai, nelle mani di mio padre!”

 

“Tuo… vuoi dire Ponto?! Fu lui a risvegliarti?!”

 

“Dieci anni fa, all’incirca… Mentre pianificava il ritorno di Gea sulla Terra, decise di abbandonare vetusti contrasti personali e riportarmi in vita, convinto che le Divinità ancestrali dovessero tutte stare dalla stessa parte. Io accettai, ma lo lasciai fare, riposandomi beato in oscuri e silenti abissi, che mi cullarono e nutrirono, aspettando con calma il giorno in cui sarei riemerso al pieno delle mie forze. Ho accresciuto la mia Dunamis con calma, come una pozzanghera aumenta di estensione al centellinare lento ma costante di una goccia d’acqua, mentre gli Dei nascevano e morivano, e con loro tutti gli imperi che avrebbero voluto restaurare. Ponto, Crono, i Titani, Zeus, di nuovo Crono, Ares. C’è voluto molto tempo ma sono potuto rinascere senza che nessuno mi notasse, neppure l’occhio attento di colui che tutto vede dall’Alto Colle! Del resto nessuno presta mai attenzione a quel che succede nei mari, un disinteresse che in questo caso ha giocato a mio esclusivo vantaggio! Mio e della mia stirpe che tu hai rifiutato!”

 

“Vergognati!!! Hai usato persino tuo padre, che aveva avuto fiducia in te, abbandonandolo nel momento del bisogno! Non provi rimorso alcuno?”

 

“Affatto! Sono sopravvissuto, a differenza sua e di altre Divinità obliate, e adesso porterò a compimento il suo proposito, riunendo tutti i più forti guerrieri dei mari, i cui spiriti ho risvegliato, sotto un’unica bandiera! E tu, Nettuno, sarai il primo tra i giovani Dei a cadere! Il primo a conoscere il vero potere della Panthalassa!”

 

“Questo è ancora tutto da accertare!” –Sibilò il Nume Olimpico, espandendo il proprio cosmo cristallino e spingendo Forco indietro, prima di rialzarsi, tridente in pugno, mirando al suo rivale. Ma questi non si lasciò prendere alla sprovvista, torcendo il bastone regale su cui attirò le guizzanti folgori liberate da Nettuno, parandole e neutralizzandole una ad una, per poi piantarlo nel terreno e imprimervi tutta l’energia accumulata. –“Aaahhh!!!” –Gridò il fratello di Zeus, il corpo percorso da così violente fitte da prostrarlo di nuovo a terra, in ginocchio, alla mercé nemica.

 

“Sei debole, Nettuno! Debole e insicuro! Li ho notati, fin da subito, i tuoi innaturali gesti! Non controlli a pieno il tuo corpo! Vuoi per non averlo utilizzato da secoli, vuoi per la tua sempiterna paura di ferirlo… e di morire!”

 

“È… vero!” –Rantolò il Dio, sollevando lo sguardo verso Forco, che invece nel suo corpo mitologico sembrava davvero a pieno agio. –“Troppo a lungo ho beneficiato di un simulacro atto a ospitare la mia Divina Volontà… troppo a lungo ho riposato in chiare, fresche e dolci acque, timoroso… della fine!”


“E la fine è arrivata, che tu lo voglia o meno!” –Incalzò l’ancestrale Divinità, calando il bastone dall’alto, mirando al collo dell’avversario.

 

“Non lo voglio!” –Si riprese questi di scatto, scansando appena il cranio e afferrando l’asta con la mano destra, incurante delle scariche energetiche che continuava ad emanare. –“Sebbene fossi al corrente che questo momento sarebbe giunto!”

 

“Co… come?! Tu sai?!”

 

Nettuno annuì, gli occhi irrorati di lacrime al ricordo di beati giorni persi nella memoria del tempo, una memoria che persino un Dio faticava a mantenere vivida. Non aggiunse altro e sollevò il braccio, bruciando il cosmo e scagliando un attonito Forco qualche metro indietro, obbligandolo ad una non troppo agile piroetta necessaria per atterrare a piedi uniti.

 

“Elmas me lo disse!”

 

“Elmas che tu condannasti a morte!!!” –Ringhiò Forco, a cui Cariddi aveva riferito l’intera vicenda, quando avevano brindato alla disfatta dell’impero di Nettuno.

 

“Era un uomo buono e giusto, che spesse volte mi aveva ben consigliato. Un saggio, come lo fu Vasteras per Zeus, che predisse la nostra rovina, la rovina della nostra generazione. Giovane, irruenta, sconsiderata, tutta dedita ad avere tutto e subito e a non saperlo conservare. Così mi apostrofò, quando Atlantide si inabissò ed egli, ferito a morte, scomparve tra i flutti. E aveva ragione, tutti i cicli cosmici sono destinati a terminare!” –Sospirò il Nume, rimettendosi in piedi. –“Mi aveva detto di non marciare su Atene, mi aveva suggerito di godermi lo splendore della mia civiltà, l’amore della mia gente, di non lasciare che la brama di possesso mi possedesse. Ma io non lo ascoltai e attaccai Atena, che si difese e riversò sulla mia isola la sua vendetta! I Cavalieri d’Oro annientarono i Generali degli Abissi, grazie a nuove armature che gli alchimisti di Mu avevano forgiato per loro, superando la maestria dei miei fabbri! Bellerofonte di Pegasus guidò le legioni di Atena fino alla Sala del Trono e persino la Dea della Guerra scese in campo, irata perché avevo osato mettere a repentaglio la vita dei suoi giovani! Lo scontro che ne seguì causò l’affondamento dell’isola, la morte di Elmas e la mia fuga… Sconfitto, disperato e solo, mi nascosi nel mio tempio privato, condannandomi ad un eterno silenzio…”

 

“Ed iniziando, da allora, ad utilizzare il corpo del primogenito dei Kevines ogni volta in cui volevi tornare a vedere il mondo, troppo impaurito per farlo con il proprio!” –Chiosò Forco, con voce sprezzante.

 

“Gli feci un onore! Arel Kevines fu il primo Dragone del Mare, il Comandante del mio Esercito, e si batté fino all’ultimo contro gli invasori ateniesi! Ogni volta in cui chiudo gli occhi mi sembra ancora di vederlo, agile e possente, combattere al porto di Atlantide mentre l’isola si inabissava, fino all’ultima stilla di energia!”

 

“Ah ah ah! Proprio un grande onore gli hai tributato, infettando la sua stirpe e condannandola ad essere il simulacro di un Dio codardo e fallimentare, che ha tradito se stesso, il suo popolo e il suo regno! Bah, è tempo di rimettere ordine nel mondo, lasciando che paghi chi tanti debiti ha accumulato, e nessuno deve al mare più di quel che gli devi tu!” –Esclamò l’ancestrale Divinità, espandendo il proprio cosmo, che lo sormontò come un cavallone gigantesco, pronto ad abbattersi su indifese rive.

 

“Se pensi di impressionarmi, Forco, non ci stai riuscendo!” –Commentò Nettuno, avvolto nella sua aura tersa. –“Sono un Dio come te e anch’io… so attaccare!!! Assaggia il Tridente del Re Pescatore!!!” –Esclamò, puntando l’arma avanti e liberando una devastante scarica di energia azzurra. Ma Forco, che si aspettava un attacco diretto di quel tipo, aveva già mosso le sue correnti d’acqua, attorniandosi di un muro protettivo, compatto ma al tempo stesso trasparente, da cui poté ammirare il volto del rivale tingersi di un’espressione stupita e infastidita.

 

“Tutto qua? Dal possente Nettuno Ennosigaeum, colui che generava terremoti soltanto battendo il piede al suolo, mi aspettavo molto di più! Ma perché mi stupisco? Sei vecchio, stanco e solo, tu stesso l’hai ammesso! E ai deboli non può essere consentito di sedere sul Trono del Mare! No, l’alto scranno oceanico mi appartiene!!! Kata Thalassa!!!” –Tuonò Forco, scatenando la furia devastatrice dei cavalloni di energia acquatica, che si abbatterono sul Nume Olimpico da ogni direzione, schiacciandolo, pressandolo e poi sollevandolo e travolgendolo di nuovo, fino a schiantarlo contro le mura esterne di un’enorme costruzione all’apparenza meglio conservata rispetto al resto dell’isola.

 

“Ouch…” –Balbettò Nettuno, mentre le acque si ritiravano, lasciandolo fradicio di sangue e vergogna sulla soglia dell’edificio da lui stesso costruito, profondendovi quel che restava del suo cosmo, prima di condannarsi a un millenario riposo.

 

“Ecco, resta lì! Non ti muovere! Voglio che tu ammiri il completarsi del mio progetto di dominio e rivalsa!”

 

“Di… cosa vai cianciando, Forco?!” –Affannò Nettuno, sputando e tossendo acqua, mentre si rimetteva in piedi.

 

“Credevi che non fossi a conoscenza del tuo segretuccio?” –Ironizzò l’ancestrale Divinità, sollevando lo scettro e indicando la costruzione di fronte a sé.

 

Nettuno non ebbe neppure bisogno di voltarsi per sapere cosa intendesse, del resto era proprio lì che si stava dirigendo prima che Forco e Cariddi attaccassero. Non disse alcunché, limitandosi a fulminare l’avversario con sguardo ostile.

 

“Non ti permetterò di violare la cripta ove Elmas riposa! Questo mausoleo è tutto quel che resta della sua memoria!”

 

“Ouh! Io credo che nasconda molto di più!” –Ghignò Forco, con sguardo avido e compiaciuto. –“Tu stesso hai ammesso che il corpo del consigliere fu travolto dai flutti, quindi dubito che riposi là dentro!”

 

“Come osi?! Mi dai del bugiardo e miri a profanare la tomba di un uomo giusto e misericordioso che soltanto pace voleva per il suo regno?!”

 

“Pace che tu non hai abbracciato!” –Puntualizzò il Dio antico, avanzando verso Nettuno. –“Ideali che tu per primo hai calpestato salvo poi, invaso dai sensi di colpa per la morte del vecchio amico, lavarti la coscienza omaggiandolo, scegliendo come simbolo il suo tridente ed erigendo quest’opulento monumento funebre! Un po’ voluminoso per essere solo una tomba!”

 

“Non permetterti…” –Ma il fratello di Zeus non riuscì a terminare la frase che venne colpito sul mento da una stoccata di Forco, il cui bastone lo spinse di lato, schiantandolo contro il peristilio.

 

“Tu non permetterti, casomai! Non puoi permetterti più niente, fallito di un Dio minore! Solo di guardare mentre mi prendo quel che mi serve! L’oricalco che tanto a lungo hai celato! Ah ah ah! Ottima idea, Nettuno, nasconderlo nella cripta del tuo consigliere! Il modo migliore per tenerlo in bella vista senza che nessuno se ne accorgesse!” –Rise Forco prima di piantare lo scettro nell’interstizio tra le due porte centrali, imprimendovi poi tutto il suo cosmo. –“Ora, dal momento che non hai più alcun esercito, non ti dispiacerà se me ne servirò io…” –E liberò una violenta scarica di energia, che percorse l’intera facciata del mausoleo, facendolo tremare fino ai basamenti.

 

Qualche colonna si spezzò, crollando a terra, fregi e architravi andarono in frantumi, ma la struttura pareva resistere, ben difesa dal divino cosmo di Nettuno che, nel corso dei secoli, aveva eretto una silenziosa ma consistente barriera protettiva.

 

“Apriti, maledetto!!!” –Tuonò Forco, salvo poi spostare lo sguardo verso l’avversario prostrato a terra, e capire. Che non tutta la sua debolezza era imputabile al breve scontro sostenuto ma a un logorante impiego del cosmo che durava da secoli. –“Sei… folle!!! Così tanto temevi che qualcuno si impadronisse dell’oricalco?”

 

Nettuno non rispose, limitandosi a rimettersi in piedi e a fissare il Dio negli occhi, accennando per la prima volta un sorriso di sfida, prima di lasciar esplodere il proprio cosmo, concentrandolo attorno alla gamba destra.

 

Enosis!!!” –Avvampò, calandola a terra e spaccando l’antico lastricato dell’isola.

 

Una scossa improvvisa fece barcollare Forco, subito seguita da un’altra, mentre l’intera pavimentazione di Atlantide iniziava a tremare, schiantandosi poco dopo e trascinando a terra tutti gli edifici che il tempo aveva conservato. Faglie si aprirono lungo l’intera lunghezza del perduto regno, da cui presto getti e onde d’acqua schizzarono fuori, mentre numerose zolle sprofondavano di nuovo nell’abisso.

 

“Meglio che nessuno l’abbia, piuttosto che tu!” –Precisò Nettuno, osservando il volto sbigottito e frustrato di Forco, che doveva balzare da un lastrone di terra all’altro per non inabissarsi a sua volta.

 

“Idiota!!! A tanto sei disposto? A sacrificare tutto, persino l’ultimo ricordo del tuo perduto regno?” –Lo apostrofò, scagliandogli contro il bastone ornato dalla conchiglia, che si piantò ai piedi del Nume Olimpico, esplodendo e scaraventandolo contro il portone del mausoleo, ancora stabile ed eretto al centro dell’ultima grande zolla dell’isola, dove anche Cariddi stava affrontando Titis e i Cavalieri di Atena.

 

Nettuno incespicò nel rialzarsi, afferrando un battente del complesso funerario e usandolo per rimettersi in piedi, perdendosi a rimirare i tridenti scolpiti sui portoni.

 

“Elmas…” –Mormorò, trovando nel ricordo dell’antico saggio la forza per continuare a lottare, portando al parossismo il proprio cosmo divino. –“Perdonami se puoi! Il fato, per mano di Zeus, mi ha offerto una seconda occasione. La giocherò per te!!!”

 

Un’aura cristallina lo avvolse, illuminando quel che restava della piazza centrale di Atlantide, costringendo Forco a coprirsi gli occhi per non restare folgorato da quell’intenso lucore. Quando la luce diminuì di intensità, vide che Nettuno aveva aperto le porte del mausoleo, rivelando quel che giaceva al suo interno, in solinga attesa del suo padrone.

 

Al centro di una bara vuota, protetta da un colorato strato di fiori animali, un enorme corno di conchiglia riluceva pallido. Così grande da non poter essere reale.

 

“Che sia…?!” –Rifletté l’ancestrale Divinità, proprio mentre il cosmo di Nettuno entrava in sincronia con l’oggetto stesso, che brillò di luce accesa, distruggendo il corallo che lo proteggeva e portandosi di fronte al Nume, che ne sfiorò la superficie sorridendo, prima di voltarsi verso Forco e annuire.

 

Un istante dopo il corno di conchiglia si scompose in varie parti, tante quanti i pezzi che componevano la Veste Divina di Nettuno, che ricoprirono prontamente il suo corpo, donandogli nuovo vigore. Adesso, rivestito della sua prima corazza, poteva affrontare Forco nel pieno delle sue forze.

 

“Un altro inganno?!” –Bofonchiò questi. –“Non soltanto rifiutasti di usare il proprio corpo, persino la Veste Divina nascondesti, affidando la protezione del tuo pupillo ad un ben più friabile guscio! Doppia vergogna, Nettuno!!! Non vali davvero niente come Dio!”

 

“Taci, miserabile, e mira il potere del mare azzurro! Corno di Tritone, echeggia!!!” –Esclamò il fratello di Zeus, mentre un gigantesco corno di conchiglia, di color oro vivo, splendeva nel cielo sopra di sé, liberando un fiume di energia contro Forco.

 

“Ah ah ah! Tutto qui l’impeto che sei in grado di infondere alle tue correnti, Nettuno? È questo per te il valore del mare?! Mi fa’ ridere! Mi fai ridere!!!” –Tuonò l’antico rivale, espandendo il cosmo e fronteggiando a piedi uniti l’assalto nemico, incurante del flusso energetico che l’Olimpico Nume stava riversando su di lui. –“Non potrai ferirmi con la forza delle acque, perché le acque appartengono a me! Io sono il mare primordiale, il mugghiare furioso di flussi infiniti! E questa è la Prima, e per te ultima, Onda! L'onda da cui è nata la vita e l'onda che sommergerà questo declinante mondo! Kata Thalassa!!!”

 

Nettuno impallidì di fronte a tale pura potenza, che aveva percepito soltanto nel giovane Zeus ai tempi della Titanomachia, quando il suo cosmo splendeva abbacinante come un sole in terra, meritandosi a buon diritto l'appellativo di Signore di Tutti gli Dei. In Forco c'era una forza diversa, dovette ammettere, di stampo primordiale, a tratti oscura, ma ugualmente in grado di rovesciare mondi. E vincerlo.

 

Il gigantesco maroso di energia cosmica travolse Nettuno, strappandogli il tridente di mano e scaraventandolo all'interno del mausoleo, proprio contro la gabbia di coralli che aveva preservato a lungo la sua corazza. L'intera struttura tremò per un istante, le porte vennero scardinate, numerose colonne crollarono e persino un muro interno, rivelando, anche da lontano, un bagliore caratteristico. Un azzurro pallido che soltanto un materiale poteva emettere.

 

Forco sogghignò, muovendo un passo verso l'ingresso della costruzione, deciso a strappare a Nettuno anche il suo ultimo tesoro, quando un leggero spostamento d'aria lo raggiunse, portandolo a voltarsi di scatto, giusto in tempo per osservare tre snelle figure balzare su di lui da posizioni diverse. E incorrere tutte nel medesimo triste destino.

 

“Quale onore!” –Ridacchiò il Dio, sollevando il bastone e ponendolo in trasversale rispetto a sé, liberando guizzanti folgori di energia. –“Non mi capita tutti i giorni che ben tre donne mi saltino addosso! E che donne! Giovani, belle, formose! Fossi stato di carattere più dissoluto, avrei di certo approfittato di una così succulenta offerta! Ma, ahimè, per voi ahimè, il mio cuore appartiene ad un'altra e sono fedele di natura, per cui da me non avrete alcuna attenzione, tranne la risoluta risposta ad un eventuale fastidio che per scelta potreste darmi!” –Aggiunse, fermando la carica delle guerriere e scagliandole poi a terra, stritolate da folgori bluastre che ne straziarono le già martoriate corazze.

 

“Morgana!!! Tisifone!!!” –Gridarono due giovani dai capelli colorati e le armature malconce, accorrendo in loro aiuto.

 

“E voi chi sareste? I Cavalieri dell'Apocalisse?! Tremo di terrore!” –Li derise Forco, mentre i ragazzi declamavano a gran voce la loro provenienza.

 

“Siamo Reda e Salzius, allievi del grande Albione, dell'Isola di Andromeda! E in suo onore combattiamo!”

 

“Ma fatemi il piacere!” –Li annientò il Dio, scaraventandoli in mare aperto con un solo cenno della mano, prima ancora che potessero tentare una qualsiasi tecnica.

 

“Aaargh!!!” –Rantolò Titis, affannando nel rimettersi in piedi. –“Nettuno, mio Signore... devo aiutarlo! Forco non deve raggiungere... il giacimento di oricalco!”

 

“No, non devi niente a nessuno, sirena! Lascialo al suo destino e tiratene fuori! L'offerta che feci al tuo Dio la rinnovo a te, che sei bella e piena di vita! Accettala e concludi degnamente la tua esistenza, alla corte del vero Sovrano dei Mari! Non gettarla via inseguendo un sogno fatuo destinato a schiantarsi contro gli scogli della dura realtà!” –Le disse Forco, avvicinandosi. Quindi, non ottenendo altra risposta che uno sguardo astioso, la colpì con lo scettro, gettandola a terra e piantandole poi la punta nel palmo della mano. –“Ultima possibilità, donna! Prendere o lasciare?”

 

“Prendere!!!” –Gridò allora l'acuta voce di Tisifone, scattando alle sue spalle e tempestandolo con una raffica di scariche energetiche. –“Ma prendi tu gli Artigli del Cobra!!!”

 

“Sciocca!!!” –Commentò Forco, torcendo il bastone, che attirò tutte le saette violacee, vanificando l'attacco. –“Cariddi avrebbe dovuto annientarvi fin da subito, ma ha sempre avuto una predilezione per le Sacerdotesse di Atena! Forse perché, nel Mondo Antico, di una di loro si era infatuato, così tanto da contribuire a spingerlo verso l'opposta fazione! Errore che, da quel che noto, ha pagato caro!”

 

“Mai quanto pagherai tu! Ho ascoltato i tuoi deliri imperiali e... grazie ma non ci tengo che la Terra diventi un unico oceano! Non so quale guerra sia alle porte, ma non ti permetterò di...”

 

“Chetati!” –Sibilò il Dio, muovendo lo scettro e sbattendo la Sacerdotessa a terra, facendole perdere la maschera eburnea. –“Ma bene! Cosa abbiamo qua? Guarda che bel faccino!” –Ironizzò, puntando il bastone alla gola di Tisifone e costringendola a voltarsi, e a sputargli in faccia tutto il suo disprezzo. –“Sentiti onorata, sarai la prima a cadere per mia mano! Ma non temere, le tue amichette ti raggiungeranno presto!” –Aggiunse, premendo l'asta sul petto del Cavaliere d'Argento, fino a schiantarle l'armatura e a raggiungerle la pelle al di sotto.

 

Ma prima che potesse trapassarle il costato, un ululato sinistro riempì l'aria, un suono greve che rimbalzò di zolla in zolla, invadendo l'isola intera e costringendo Forco a sollevare lo sguardo, cercandone l'origine. Si stupì, al pari di Titis e Tisifone, nell'accorgersi che, mentre stavano combattendo, l'isola era stata circondata da decine di navi. Imbarcazioni che, osservandole con attenzione, riconobbe come velieri e vascelli, ornati con le inequivocabili bandiere dei pirati.

 

“Uh?!” –Mormorò il Dio ancestrale, allontanandosi dalle donne ferite e salendo in cima ad un rialzo nel terreno, per guardare meglio.

 

Proprio in quel momento da ogni imbarcazione partì un colpo di cannone, anticipando una pioggia di voluminosi proiettili neri, tutti diretti su Forco.

 

“Cosa sarebbe questo spettacolo? Il patetico tentativo degli umani di darmi il bentornato?! Tsè! È destinato a immediato naufragio!” –Ghignò, sollevando lo scettro e dirigendo violenti folgori di energia verso ciascuna palla di cannone. Ma, con suo sommo stupore, i proiettili non subirono alcun danno, proseguendo la loro traiettoria verso di lui. –“Che cosa???” –Esclamò, stupito e indispettito, rinnovando l'assalto, che nuovamente non incontrò esito alcuno.

 

Fu allora che un'agile figura gli balzò sulla schiena, le dita della mano allungate a guisa di artigli e cariche di venefica energia cosmica.

 

“Hai perso la bussola, Dio dei Mari? Lascia che ti ricordi dove sta il nord! Qua!” –Esclamò la donna, mirando al suo collo.

 

“Idiota!” –La redarguì subito lui, voltandosi di scatto, il bastone puntato in alto, verso il cuore dell’avversario.

 

“Mor… gana…” –Balbettò Tisifone, osservando attonita la sorella impalata sullo scettro di Forco. –“Morganaaa!!!” –Gridò, rialzandosi di colpo e barcollando avanti.

 

“Bel tentativo! C’ero quasi cascato! Ma non dimenticare che sono un Dio e i miei sensi superano qualsiasi limite umano!” –Commentò il Nume, mentre la donna rimaneva in silenzio, trattenendo il dolore atroce, come aveva fatto fin da bambina. Del resto la vita le aveva strappato ben più solidi legami.

 

“Il colpo della bandiera… almeno quello… te lo darò…” –Rantolò, cercando di sollevare un braccio, prima di venir scaraventata addosso a Tisifone.

 

“Perché? Perché lo hai fatto, Morgana?!” –Pianse quest’ultima, stringendo forte la sorella mentre moriva.

 

“Risponditi da sola.” –Le sorrise la piratessa, spegnendosi poco dopo, il volto rorido dalle lacrime di Tisifone.

 

“Una scena davvero poetica! Ma inutile! Avreste potuto risparmiarvi tutti questi guai rimanendone fuori!” –Commentò Forco, passando oltre i loro corpi feriti e raggiungendo infine l’ingresso al deposito di oricalco, senza sorprendersi troppo di trovarvi Nettuno, ripresosi finalmente dal precedente assalto. –“Ancora insisti?”

 

“È naturale! Se persino i Cavalieri di Atena muoiono per difendermi, nonostante io li abbia combattuti in passato, come puoi pensare che sia disposto ad affidarmi a delicate fanciulle guerriere per proteggere i miei territori?” –Esclamò l’Olimpico Nume, espandendo il proprio cosmo e strappando una risata all’antico rivale.

 

“Niente più ti appartiene, Nettuno! Credevo lo avessi capito, ormai!” –Sospirò questi sconsolato, prima di contrastarlo con la propria aura cosmica, saturando l’aria di folgori energetiche pronte a scatenarsi in un’ultima imprevedibile danza.

 

Fu mentre Forco stringeva la mano attorno all’impugnatura a conchiglia, sollevando lo Scettro dei Mari, che si accorse che Nettuno non aveva più il suo tridente. Nello stesso momento sentì qualcosa colpirlo alla schiena, un colpo netto e preciso che lo trapassò, costringendolo ad abbassare lo sguardo proprio mentre le punte di tre lame argentee sbucavano fuori dall’addome.

 

“Uh?! Ouch!”

 

Titis, Tisifone e persino Nettuno rimasero attoniti ad osservare la figura sgusciata fuori da dietro una colonna dell’antico tempio, un uomo che non vedevano da mesi e che mai avrebbero creduto di ritrovare sull’isola perduta.

 

“Ma quello…” –Balbettò la sirenetta, osservandone gli abiti eleganti di John Richmond, i curati capelli azzurri e l’affascinante volto delicato in cui amava rispecchiarsi in sua presenza.

 

“Julian Kevines!!!” –Esclamò Tisifone, mentre il giovane si allontanava di qualche passo, osservando Forco crollare sulle ginocchia, il sangue divino che gli imbrattava il ventre e le vesti.

 

Nettuno approfittò di quel momento, richiamando a sé il tridente di scaglie d’oro e portando il cosmo al parossismo, prima di liberare una devastante folgore di energia che piovve dal cielo proprio contro il figlio di Ponto, centrandolo in pieno e distruggendo il suolo attorno e sotto di sé. Annaspando per la duplice ferita, Forco cercò di trascinarsi verso il più vicino bordo dell’isola, nonostante Nettuno lo incalzasse con una continua pioggia di fulmini azzurri. A fatica, raggiunse il limitare della zolla e si gettò di sotto, sprofondando nell’oceano e tingendolo di rosso.

 

“È… finita…” –Incespicò Titis, rialzandosi, nonostante le numerose ferite aperte.

 

Il suo Signore annuì, prima di uscire dal mausoleo e ricongiungersi alle donne che avevano lottato per lui. Anche Julian Kevines si era avvicinato, lo sguardo improvvisamente stranito, quasi avesse appena compreso di trovarsi su un’isola ignota in mare aperto.

 

“Julian! Cosa fai qua? Come… sei arrivato?!”

 

“Io… ero a Capo Vicente, nella residenza di famiglia, quando ho sentito un richiamo all’improvviso… una voce parlare dagli abissi della mia coscienza. Così, inseguendo questa mistica melodia, ho preso il largo con uno dei miei motoscafi, giungendo fin qua… e aspettando il momento giusto per intervenire!”

 

“La voce che hai sentito, e che ti ha guidato fin qua, dove la storia della tua dinastia ha avuto origine, è stata la voce di un Dio, Nettuno per l’esattezza, la cui Divina Volontà hai ospitato nel tuo corpo, al pari dei tuoi predecessori!” –Confessò il fratello di Zeus, guardando il giovane negli occhi e ponendogli infine una mano su una spalla. –“Forse non lo rimembri, ma credo sia giusto che tu abbia questo!” –Aggiunse, sfiorandogli la fronte. –“I tuoi ricordi. I nostri ricordi.”

 

A quel tocco Julian trasalì, spalancando gli occhi di colpo, mentre una valanga di immagini gli riempiva la mente. Dalla festa per il suo compleanno, in cui Titis lo aveva trascinato via, all’incoronazione a Re dei Mari, fino alla battaglia con Atena e i Cavalieri dello Zodiaco.

 

“Io… ho fatto tutto questo?! Io ho causato così tanto dolore, sommergendo migliaia di innocenti sotto un nuovo diluvio universale?!” –Mormorò, sconcertato, prima che la voce severa del Dio gli togliesse ogni dubbio.

 

“No, Julian! Non tu, ma io sono il colpevole! Io, Nettuno, il Dio che non è stato degno di essere tale! Forco, su questo, aveva ragione! È tempo di andare avanti, è tempo che anche gli Dei, al pari degli uomini, si prendano le loro responsabilità, e io lo farò fin da subito!” –Spiegò il Nume, prima di compiere un gesto che stupì tutti i presenti.

 

Fissò l’erede dei Kevines negli occhi e poi si inginocchiò.

 

“Ti chiedo perdono, Julian, per aver abusato di te, del tuo corpo, della tua volontà, sovvertendola ai miei propositi, solo per la paura di ferirmi. Solo per la paura della fine. È strano, adesso che la fine di tutto è realmente arrivata, non provo più niente, alcuna paura, solo un gran desiderio di vivere! Quale ironia!”

 

 

 

 

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Capitolo 39
*** Capitolo trentasettesimo: Una verità. ***


CAPITOLO TRENTASETTESIMO: UNA VERITA’.

 

“Infine sei giunta!” –Esclamò Avalon, in piedi sul muro che separava il Cerchio di Urano da quello di Saturno, fissando l'enorme uccello nero composta da puro tenebroso cosmo. –“Più volte invocata da Anhar e infine palesatasi a noi tutti!”

 

“Avalon, tu sapevi della sua esistenza? Sapevi che c'era la Notte dietro tutto questo? Dietro tutte le guerre che abbiamo combattuto?” –Lo chiamò allora Atena, forzando il Signore dell'Isola Sacra ad annuire.

 

“Sospettavamo che la sua rinascita fosse avvenuta. Molti segni purtroppo lo indicavano e di certo solo qualcuno di ben più potente avrebbe potuto allattare Ares nell'oscurità; le Makhai non ne sarebbero state in grado. Ma non avrei mai pensato che si sarebbe fatta viva adesso, qua sulla Luna, quando ancora non ha recuperato la sua forma compiuta, per quel che vedo! Che voglia giocare con noi? Vedere fino a che punto può spingersi, incutendo in noi il timore di una notte infinita?”

 

“La Notte...” –Mormorò Pegasus, stringendo i pugni.

 

“La primordiale Divinità madre di tutte le tenebre!” –Commentò Phoenix, mentre il fratello annuiva, ricordando a entrambi che avevano già affrontato due figli suoi.

 

“Thanatos e Hypnos! La morte e il sonno! Gli Dei Gemelli lei li partorì!”

 

“E non dimenticate Discordia! Anch'ella di Nyx fu figlia!” –Intervenne Jonathan, e al solo nominare la Dea della Contesa Phoenix si scosse.

 

“Molti figli ho avuto, in verità!” –Parlò allora la primigenia Divinità, con suono greve e cupo che stordì le menti di tutti i presenti, mentre sopra di loro, alto nel cielo, l'uccello nero ancora li sovrastava. –“E non tutti si sono rivelati utili e dediti alla mia causa! Del resto, si sa, le pecore nere esistono in tutte le famiglie, anche se nella mia preferisco chiamarle pecore bianche! Eh eh eh!”

 

“La tua ironia è fuori luogo! Dicci cosa vuoi e poi vattene! La Luna non è regno per te!” –Esclamò allora Avalon, espandendo il proprio cosmo che fluì dall'alto del muro di confine come onde di energia argentea, lambendo i corpi affaticati dei combattenti e andando oltre, inarrestabile marea di luce.

 

“Queste misere dimostrazioni di forza mi fanno solo sorridere, Gran Tessitore! Eh eh eh! Quello che voglio? È interessante che tu lo chieda! Perché sono qui per prendere una vita! La tua, per l'esattezza!” –Non aggiunse altro, il tenebroso rapace, sbattendo le ali e dirigendosi verso Avalon con gran foga, il quale, nient'affatto turbato, si limitò a volgerle contro il palmo della mano, da cui si aprì un ventaglio di energia.

 

Lo scontro tra i due poteri apparve a chi seguì la scena da sotto uno scontro tra due mondi diversi, forse tra due universi. Abbagliante era la luce che proveniva dal Signore dell'Isola Sacra, ostentata come mai Pegasus e i suoi compagni gli avevano visto fare prima, quasi fosse egli stesso un Dio. E forse, si chiese il Primo Cavaliere di Atena, lo è davvero?

 

Dall'altro lato non poteva essere più oscura e profonda la tenebra che da Nyx sorgeva. Il solo guardarla generava smarrimento, la sensazione di perdersi in un vuoto primordiale dove niente esisteva più, ove nessuna luce, neppure il sole, poteva permettersi di splendere ancora.

 

Uno scontro tra due mondi, un fondersi continuo di luce e ombra che generava folgori argentee e corvine che presto piovvero sull'intera superficie lunare.

 

Stella di Avalon!!!” –Declamò allora il Signore dell'Isola Sacra, generando un astro di puro cosmo in grado di emanare un'intensa luce adamantina, che obbligò la Notte ad allontanarsi con rapide falcate delle sue ali nere. Ma se qualcuno ebbe a credere che quella luce la intimorisse capì subito di essere in errore.

 

Un grido gutturale fuoriuscì da quello che pareva essere il becco dell'uccello demoniaco, prostrando a terra Atena e i cinque Cavalieri, e di certo anche gli altri Seleniti sparsi per il Reame della Luna Splendente. Un grido di guerra, fame e tenebra che pareva scavare nella loro anima, svuotandola dell’essenza primaria.

 

“È incredibile...” –Mormorò Andromeda, crollando sulle ginocchia. –“La sento dentro di me! È come se ci stesse risucchiando il cosmo!”

 

“Provo anch'io la stessa spiacevole sensazione, Cavalieri!” –Interloquì Jonathan, appoggiandosi al suo bastone dorato.

 

“Questo perché la Notte si nutre di luce!” –Spiegò allora Avalon, parlando alle loro menti ferite. –“Ricordate le ombre evocate da Flegias mesi addietro? Ricordate la proibita tecnica della Maestria di Ombre, che persino gli Dei paventavano? Anche allora affrontammo creature composte di sola tenebra, nate dai mali del mondo, sostenute dal dolore e dall'odio degli uomini, miranti a annientare ogni forma di luce, assorbendola, facendola propria e poi mutandola in tenebra. Questo, ma in scala molto più estesa, è il proposito di Nyx! Svuotare i nostri cosmi puri, per lei deleteri, di ogni stilla di energia lucente, per poi stendere il suo manto di tenebra sulla Terra!”

 

“Terrificante!!!” –Esclamò Atena, che a fatica riusciva a sorreggere Nike e l'Egida. –“Come possiamo fermarla, Avalon? Esiste un modo, vero? Deve esistere!!!”

 

“A una tenebra così fitta non possiamo che opporre identica e altrettanto intensa luce! Sarà il bagliore dei nostri cosmi, portati al parossismo, nutriti della benigna forza delle stelle e degli ideali che ci hanno condotto fin qui, ad averne ragione! Non temere, Atena, non cadrai né qua né oggi! Le acque del Pozzo Sacro non mentono mai!” –Chiosò Avalon sibillino, quindi, vedendo che la Notte si preparava a piombare di nuovo su di lui, decise di anticiparla balzando nel cielo, avvolto nel cosmo sfavillante. –“Cometa di Avalon!!!”

 

Un'abbagliante sfera di energia tracciò una scia nel cielo tenebroso, diretta verso l'uccello deforme, che agitò vanamente le sue ali, venendo centrato in quello che pareva essere il petto. Pegasus e i Cavalieri videro la cometa energetica penetrare quell'abisso di oscurità, perdersi al suo interno e poi... scomparire.

 

“Non... può essere...” –Incespicò Avalon, per la prima volta meravigliato, mentre la Notte sfrecciava verso di lui, allungando un artiglio di tenebra.

 

Il Signore dell'Isola Sacra tentò di evitarlo, ma Nyx fu più veloce, trapassando il suo corpo con numerosi strali di ombra, fino a schiantarlo a terra, poco distante dal gruppo di attoniti e impotenti spettatori.

 

“Mio Signoreee!!! Luce dello Scettro!!!”

 

Fu Jonathan il primo a correre verso di lui, impugnando il Talismano e dirigendo continui fasci di energia lucente verso l'enorme uccello nero che svolazzava divertito sopra di loro. Reis lo seguì subito dopo, aiutandolo a rimettere Avalon in piedi.

 

Le belle vesti aulenti, tessute dalle Sacerdotesse sull'isola britannica, erano adesso logore e strappate, e persino sul volto etereo dell'uomo spiccavano ferite aperte e lividi che mai ne avevano deturpato lo splendore. Ciononostante Avalon pareva ancora in forze, ringraziò Jonathan per l'aiuto ma li pregò di starne fuori.

 

“Co... come, mio Signore?! Noi vogliamo aiutarvi!”

 

“Se davvero la luce di Avalon non può incuterle timore, pensi davvero che il baluginio dei nostri cosmi possa qualcosa sulla Notte?!” –Rifletté allora Reis, comprendendo le motivazioni del loro supremo comandante.

 

“In effetti, sarebbero un prelibato antipasto. Ma niente di più!” –Giudicò allora Nyx, abbandonandosi ad una cupa risata, prima di planare al centro del Cerchio di Urano, rannicchiare le ali su se stessa... e cambiare forma.

 

“Che... cosa?!” –Esclamarono i Cavalieri di Avalon e di Atena, osservando la trasformazione in atto. Le zampe artigliate dell'uccello nero divennero lunghe gambe mentre le ali sventolarono ancora un poco prima di assumere la forma di un tetro mantello, atto a coprire lo snello corpo umano della Dea primordiale. Il volto però non riuscirono a vederlo, riparato sotto un cappuccio nero da cui soltanto due iridi violacee parevano filtrare. Occhi carichi di malvagità.

 

“Hai dunque assunto forma definitiva, Nyx! La tua rinascita è completa!” –Chiosò Avalon, strappando una nuova sghignazzata alla Dea, la cui voce ora era ben più riconoscibile. Più umana, più acuta, ma ugualmente sadica.

 

“Da tempo ormai ho riacquistato i miei poteri, da quando rinacqui tra le montagne di Morea anni addietro sotto forma di uovo nero. Un uovo da cui presto, alimentata dalle ombre del mondo, che gli uomini con i loro gesti e turpi pensieri non fanno che accrescere ogni giorno, spalancai le mie ali, rivelandomi agli ignari predoni che mi avevano trovata!” –Narrò Nyx, di fronte allo sguardo attento di Avalon. –“Ebdera mi chiamarono, e per molti anni mi venerarono come la loro madre, la dispensatrice di oscure carezze. Ed in effetti una madre mi si può considerare, la madre del male e delle ombre, che i miei figli, personificazioni di sentimenti crudi e violenti, hanno contribuito a portare nel mondo! Inganno, vendetta e morte violenta! Vecchiaia, colpa e miseria! Sentimenti che certamente conoscete bene!”

 

“Ebdera?!” –Mormorò Pegasus, ricordando uno dei suoi primissimi scontri, ancora prima di ottenere l'armatura di Cavaliere dello Zodiaco. –“Era il nome di una confraternita di predoni che era solita razziare i villaggi fuori da Atene... Io e Cassios ne sconfiggemmo una decina, come prova preliminare per accedere all'arena.”

 

“Esattamente, Cavaliere di Pegasus! Quelli da voi uccisi non erano che l'ultimo retaggio di una stupida dinastia di bestie, una morbosa fratellanza cui entravano a far parte tutti i reietti umani, i rifiuti che il Grande Tempio non accettava tra le loro fila. Troppo violenti, troppo pericolosi e ben poco adatti a divenire Cavalieri di pace e speranza. Un terreno confacente alle mie esigenze! Eh eh eh! Crebbi alla loro ombra, nutrendomi del loro animo, della tenebra che ogni giorno mi portavano con le loro azioni, e poi, quando ebbi ripreso le mie forze, li abbandonai al fato crudele, svuotati ormai di qualsivoglia energia cosmica. Fu un'esperienza piacevole, sebbene gli angusti spazi delle caverne della Morea non fossero adatti a me. No, Avalon, tu ben lo sai che io amo gli spazi ampi, le distese sconfinate del cielo ove posso spalancare le mie ali d'ombra all'infinito!”

 

“Ali con cui ricoprire la Terra con un manto di tenebra!” –Precisò questi, di fronte al ghigno divertito della Notte.

 

“Ali che ti spezzeremo, stregaccia!!!” –Avvampò Pegasus, facendosi avanti. Ma il Signore dell'Isola Sacra gli afferrò subito un braccio, torcendoglielo e dicendogli di andarsene.

 

“Subito! E porta Atena con sé! Adesso che la Notte ha riacquistato la sua vera forma, e con essa la totalità dei suoi poteri, è avversario al di là della vostra portata!”

 

“Ma, mio Signore, abbiamo risvegliato il Nono Senso! Possiamo tenerle testa! Questa è anche la nostra guerra! La combatteremo assieme!”

 

“Non essere sciocco, Pegasus! È di una Divinità ancestrale che stai parlando! Persino il Nono Senso è poca cosa con lei, un trampolino di lancio ma niente più. E voi non potete ancora lanciarvi! Per cui, se mi avete capito, andatevene!” –Concluse Avalon con voce decisa, stupendo i Cavalieri dello Zodiaco, che non lo avevano mai sentito parlare in modo brusco. –“Non fatemi ripetere! Lasciate a me quest'ostico avversario di fronte al quale Ares e Flegias erano niente!”

 

Pegasus cercò di perorare la propria causa, sostenuto dai compagni e anche da Atena, tutti restii ad abbandonare proprio adesso il Signore dell'Isola Sacra, anche in virtù dei molteplici aiuti che l'alleato aveva sempre fornito loro.

 

“Morireste tutti, giovani Cavalieri, e a nulla sarebbe valso il cammino percorso fino ad oggi! Perché solo una nera tomba può attendere chi osa sfidare la Notte senza adeguata preparazione! Ora va’, Pegasus, fa’ il tuo dovere di Cavaliere di Atena e porta la Dea in salvo! Nell'Occhio! Selene è là e sta usando il suo cosmo per mantenere unita la struttura molecolare della Luna! Con tutte queste esplosioni c'è il rischio che questo zoccolo di terra si schianti da un momento all'altro e quello sarebbe un pericolo enorme per il pianeta! Non devo certo essere io a ricordarvi gli sconvolgimenti ambientali che potrebbero sorgere in caso di distruzione del satellite?! Coraggio, Atena, andate! Unite il vostro cosmo a quello di Selene, per il tempo che ci vorrà per porre fine a questa minaccia!”

 

La Dea finalmente annuì, sia pur riluttante, lasciandosi scortare da Pegasus, Phoenix e Andromeda verso il Cerchio di Saturno, mentre Avalon si rivolgeva ai suoi seguaci.

 

“E voi?! Che fate ancora qui?!”

 

“Noi restiamo, maestro! Ci siamo allenati tutta la vita per questo!” –Esclamò Jonathan con voce fiera, prima che Reis gli facesse eco.

 

“Non vi abbandoneremo! Useremo i tali...”

 

“No!!! Dovete andarvene, adesso! Questo non è più posto per voi!” –Affermò perentorio il Signore dell'Isola Sacra, stupendo i suoi stessi discepoli. –“Tornate sulla Terra, raggiungete Ascanio e rimanete con lui! I Talismani non devono andare perduti, non adesso!”

 

“Ma... Signore... noi siamo i Cavalieri delle Stelle... ci avete creato per questo...”

 

“Reis, dai una botta in testa al tuo biondo compagno! Temo che a frequentar troppo Andrei abbia iniziato a mettere le passioni prima della ragione!” –Lo zittì Avalon, prima di addolcire il tono della voce, vedendo quanto sinceramente i due giovani volessero assisterlo in quel duro scontro. –“Il vostro compito era di coadiuvare i Cavalieri dello Zodiaco, e lo avete fatto, come loro dovevano prendere pieno possesso del loro Nono Senso. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti per cui non avete più motivo di rimanere su quest'ermo satellite. Lasciate fare a me, adesso, mi occuperò io di Nyx! Ci rivedremo sull’isola sacra quanto prima!”

 

“Vi rivedrete da morti! E forse neppure allora!” –Ghignò la Notte, sollevando ondate di oscura energia, che si abbatterono all'istante su Avalon, forzandolo a porre tutto se stesso nel contrastarle.

 

“Dietro di me!!!” –Gridò a Reis e Jonathan, afferrandoli con un braccio prima che venissero risucchiati dall'imperiosa marea di tenebra. –“Pegasus!!!” –Si girò di scatto, osservando Atena e i suoi Cavalieri correre a perdifiato verso il varco per il Cerchio di Saturno, incalzati dalle dirompenti ondate di energia nera, che li raggiunsero poco dopo, travolgendoli e sbattendoli con forza contro il muro di confine.

 

“Maledizione!!! Questa melma... sembra viva!!!” –Ringhiò Pegasus disgustato, cercando di evitare di essere sommerso da quel continuo innalzarsi e turbinare della marea d'ombra.

 

“Non sembra, ragazzo. È!” –Commentò allora Nyx, assumendo la forma di uccello nero e svolazzando sopra di loro. –“È il cosmo della Notte! Lasciati cullare, Pegasus! Lascia che ti avvolga in un cielo senza stelle, dove non vi saranno più affanni e dolore, solo l'eterna quiete del silenzio!”

 

“Sei fuori di testa!” –La schernì allora il giovane, senza essere minimamente ascoltato dalla Dea.

 

“Immagina un mondo totalmente nero, dove non vi sono più contorni. Un mondo dove tutte le cose sono uguali al punto da non risultare più distinguibili. Quello è un mondo perfetto, dove tutte le differenze che dominano quello presente vengono annullate. In un mondo di tenebra non vi sono ricchi e poveri, potenti e deboli, anziani e giovani, tutti sono uguali e condannati allo stesso destino.”

 

“Un destino di privazione e tenebra, finalizzato a servire l'oscurità!” –Declamò allora il Signore dell'Isola Sacra, espandendo il proprio cosmo argenteo e annientando le tenebra che lo attorniavano, permettendo a Reis e Jonathan di tornare a respirare. –“Un destino che ancora non è stato scritto! Cometa di Avalon, illumina la via!!!” –Aggiunse, dirigendo sciami di comete energetiche verso Nyx, che, esaltata da quella nuova sfida, sfrecciò nella miriade di sfere luminosi, sghignazzando divertita.

 

“Sei vecchio, Avalon! Vecchio e stanco! Hai atteso per tutto questo tempo, consumandoti vanamente per il giorno dell'ira! Della tua antica freschezza, l'etere che avrebbe dovuto rischiarare il mondo, cosa è rimasto? Qualche fuoco d'artificio, niente di più!” –Esclamò la Notte, puntando gli artigli verso il basso e allungandoli, in modo da generare affilati strali di tenebra, che subito diresse sul Signore dell'Isola Sacra.

 

“Forse.” –Considerò quest'ultimo, rispondendo con eguale quantità di comete. Ma per quante ne scagliasse, per quante ne scatenasse, lucenti, contro Nyx, tutte venivano  infilzate da quegli unghioni neri. Tutte venivano trapassate, esplodendo e disperdendosi, senza causare alcun danno all'ancestrale Divinità.

 

“Hai avuto la tua occasione, vecchio tessitore! Adesso tocca a me!!!” –Gridò, intensificando il proprio assalto, che divenne una vera e propria grandinata di strali oscuri, che abbatté tutte le difese che Avalon poté sollevare in quel breve lasso di tempo. Persino Reis e Jonathan vennero spinti indietro, le armature trapassate da quei lunghi speroni di tenebra in grado di estinguere anche la luce più pura.

 

“Pur tuttavia...” –Rifletté pacato il Signore dell'Isola Sacra, socchiudendo gli occhi e radunando il cosmo fino all'ultima stilla, costringendosi però a risollevare lo sguardo poco dopo, quando un secco suono argentino mitigò la macerante pioggia d'ombra. –“Uh?!”

 

“Non sei solo in questa guerra!” –Esclamò Atena, sorreggendo l'Egida con entrambe le mani, tanto poderosa era la pressione esercitata dal cupo cosmo di Nyx. –“Come ci aiutammo a Mount Badon, ugualmente faremo quest'oggi! E i bardi canteranno anche di noi in futuro! Di come vincemmo di nuovo l'ombra!”

 

“Dea Atena...” –Sorrise per un momento il suo antico compagno d'armi. –“Non è necessario...” –Ma in quel momento la spinta della Notte si fece più potente, superando anche le difese dello scudo forgiato da Efesto, scheggiandolo in più volte e sbattendo infine a terra la figlia di Zeus, facendole perdere l'elmo nell'impatto e la presa sulle armi.

 

“Atenaaa!!!” –Sbraitarono Pegasus, Andromeda e Phoenix correndo da lei, per quanto ancora invischiati e ostacolati da quella melmosa corrente d'ombra, che adesso, a un comando di Nyx, divenne un vero e proprio turbine oscuro, che risucchiò  i tre Cavalieri al suo interno, sballottandoli per qualche istante, prima di rilasciarli bruscamente, schiantandoli a terra uno dopo l'altro, accanto alla Dea da loro amata.

 

Crocifissi sul suolo lunare, da lunghi strali di tenebra che perforarono loro i polsi e le gambe, i Cavalieri dello Zodiaco lottarono con tutte le forze per liberarsi, per spezzare quell'oscuro legame che stava lentamente prosciugando la loro energia. Gli parve quasi di vederla, a Pegasus, la lucentezza del suo cosmo svanire, come gocce di rugiada, scivolando impotente lungo quegli unghioni oscuri fino al cielo, laddove la Notte li osservava soddisfatta.

 

“No!!!” –Gridò allora il Primo Cavaliere della Dea, incitando i compagni a reagire. –“Non possiamo permetterlo! Nyx non deve avere la nostra energia, la nostra forza, la nostra vita! Sarebbe un'offesa a coloro che ci hanno permesso di arrivare fin qua! Ricordate, quanti amici? Quanti sacrifici? Quante esperienze abbiamo vissuto in questo breve arco del tempo cosmico in cui abbiamo combattuto assieme? Vogliamo gettare via tutto adesso, a un passo dalla fine? Io no!!!”

 

“Pegasus...” –Commentò Andromeda, mentre già Phoenix bruciava il proprio cosmo ardente. –“Siamo con te!”

 

“Anche noi!!!” –Gli fecero eco Reis e Jonathan, i cui corpi risplendevano avvolti da un turbinare di polvere di stelle.

 

“Insieme, amici!!!” –Esclamò Pegasus, mentre un cavallo alato di lucente energia scaturiva dal suo cuore, galoppando libero fuori dalla prigione di tenebra e recidendone gli strali con il puro battere delle sue bianche ali. –“Iaiii!!! Per Atenaaa!!! Fulmine di Pegasus!!!”

 

Ali della Fenice!!! Nebulosa di Andromeda diventa tempestaaa!!!” –Gli andarono dietro i due fratelli.

 

Vortice scintillante di luce!!! Grande Nube di Oort!!!” –Conclusero i Cavalieri delle Stelle, mentre le cinque energie cosmiche sorgevano dal suolo lunare, dirigendosi verso l'uccello nero, che ebbe giusto il tempo di profondere in una sonora risata prima di essere investito in pieno dal portentoso assalto.

 

Quando il lampo di luce scemò d'intensità, Pegasus e i suoi compagni, e Atena che nel frattempo si era rialzata, osservarono speranzosi la volta celeste, sperando di veder ricomparire le stelle. Ma rimasero di sasso quando notarono che la luna era ancora avvolta da un manto di tenebra e che al centro di quella stessa tenebra si ergeva una figura dai tratti umani, per quanto i contorni ancora non riuscissero a distinguere.

 

“No... Non è possibile!!!” –Esclamò Pegasus. “Era un attacco di potenza devastante!”

 

“Ma lei ne è uscita indenne...” –Osservò Andromeda, con voce minata dalla sfiducia.

 

“È davvero una Divinità primordiale, la vera essenza della notte…” –Concluse Phoenix.

 

Quasi come avesse compreso il loro sconforto, Nyx calò su di loro, scivolando con grazia nell'ombra, fino ad atterrare sul suolo lunare. Il lungo mantello incappucciato le copriva ancora il volto, ma Pegasus, se avesse potuto, avrebbe scommesso un occhio che sotto quelle tetre vesti dimorava una bestia.

 

“È stato un bel tentativo! L'ho apprezzato, davvero! Ma ora toglietevi di mezzo e lasciate che mi nutra della mia preda!” –Dichiarò l'acuta voce della Notte ma nessuno dei Cavalieri si scansò, anzi tutti sollevarono le braccia in chiaro segno di sfida. –“E sia, dunque! Che la vostra esistenza giunga quest'oggi alla fine! Addio, impavidi eroi dell’ultimo secolo!  Marea d'ombra, travolgili!!!”

 

Una devastante ondata di pura tenebra fluì dalle mani di Nyx, sollevandosi rapida sotto forma di giganteschi cavalloni di energia oscura, che investirono Pegasus, Atena e tutti i loro compagni, superando qualsiasi difesa. Andromeda tentò di ancorarsi al suolo con le catene, ma resistette pochi secondi, il tempo di cui l'ombra necessitò per corrodere le sue armi e spezzarle.

 

“Aaahhh!!!” –Gridarono i Cavalieri dello Zodiaco, sommersi, sopraffatti e schiacciati da un'oscurità mai percepita prima d'allora. Un'oscurità pura e primigenia il cui tocco li faceva rabbrividire. Un'oscurità in cui però, ad un certo punto, notarono una luce brillare: prima fioca, leggera, lontana, poi sempre più vivida, vasta e crescente.

 

Sulle prime Pegasus pensò che fosse il cosmo caldo di Atena, che veniva in loro soccorso come in passato, ma poi, allungando la mano, sfiorò la pelle della Dea, che annaspava vicino a lui, alla ricerca di un'ancora di salvezza. Il ragazzo la afferrò, tenendola stretta, prima di capire che quel sole nascente era Avalon.

 

“Hai troppa fiducia in te stessa, mia cara Nyx, e ben poca negli altri! Difetto che un giorno ti costerà caro!” –Esclamò placido il Signore dell'Isola Sacra, le cui vesti, ormai ridotte a stracci, turbinavano sul suo corpo, sospinte da un'improvvisa tempesta di luce. –“Ti insegnerei un proverbio umano, ma dubito tu capisca cosa siano un gatto e un sacco!”

 

“Tanta irriverenza e una così misera potenza!” –Sibilò la Notte, concentrando su Avalon tutto il suo attacco, ma accorgendosi, con fastidioso stupore, di non riuscire a smuoverlo, tanto fermo era all'interno del suo vortice di luce. –“No... Non è lui a generare quella corrente... bensì qualcosa che si è interposto tra me e lui... Ma cosa?!” –Per saperlo dovette ridurre l'intensità dell'assalto, sgranando gli occhi, al pari dei Cavalieri di Atena e delle Stelle, quando vide un astro scintillante fuoriuscire dalle tenebre. Un astro artificiale, di una qualche lega metallica che gli uomini avevano lavorato per dargli quella forma. –“Ma quella è...”

 

“Vieni e vestimi, mia armatura!” –Esclamò allora Avalon, mentre l'astro si scomponeva in tanti pezzi quante le parti della corazza che andò subito a ricoprire il suo corpo. Argentea, splendente e immacolata. Una corazza che trasudava la forza di eoni di storia e che il Signore dell'Isola Sacra non indossava da secoli.

 

“Quindici secoli per l'esattezza.” –Commentò Atena, ricordando la Guerra di Britannia in cui Avalon aveva vestito l'angelica armatura.

 

“Ars Magna...” –Mormorò infine Nyx, stupefatta. –“La gloriosa armatura di Avalon! La cosa più grande! È questo il nome riservato alle corazze delle Divinità ancestrali. Ma non ti servirà granché, poiché anch'io dispongo di una di esse! Vuoi dunque che la indossi?”

 

“Fai quel che devi! Adesso siamo alla pari!” –Chiosò Avalon, puntandole contro un dito da cui lesto lampeggiò un fascio di energia luminosa.

 

“Pari?! Ah ah ah! Sei andato fuori di senno? Le abiette nebbie dell'isola ti han ottenebrato la ragione? Come potremo mai essere pari? Un uomo e un Dio, e dei più antichi?” –Rise Nyx, parando l'affondo con il solo palmo della mano.

 

“Non ci sono più uomini su questa Luna, solo entità che stanno oltre. Dovresti averlo capito, vista la fine che ha fatto il tuo esercito di Signori della Guerra!”

 

“Cosa vuoi che mi importi?! Le loro vite servivano a ben poco. A differenza vostra, io posso attingere ad un inestinguibile pozzo di energia! Un immenso buco nero da cui estrarre un'armata di pura tenebre. Hai presente, Avalon? Tu sai cosa attende silente e affamato nell’intermundi!” –Mormorò la Notte, torcendo le labbra in un ghigno perverso.

 

“Intermundi?! Lo spazio… tra i mondi?!” –Rifletté Andromeda.

 

“Che... cosa intende? Quale forza ancora nasconde?” –Si chiese Pegasus, ricordando l'ansia con cui il Signore dell'Isola Sacra aveva tentato di mandarli via poco prima. Che cosa lo intimoriva davvero? Se Nyx era il nemico ultimo che stava dietro Flegias, e dietro il ritorno di Ares e Discordia, perché non aveva voluto affrontarlo insieme? Perché aveva voluto allontanarli? Non sarebbe stato meglio fronteggiarla tutti assieme, unendo le forze nell’ultima battaglia?! Di certo, non appena ne avesse avuto occasione, ne avrebbe parlato con Atena, che sembrava nutrire dubbi al pari di lui.

 

“Ti sei chetato? Non hai più validi argomenti da oppormi?” –Ironizzò Nyx, interpretando il mutismo di Avalon come una sconfitta e preparandosi per l'ultimo assalto.

 

“Ne ho uno io!” –Esclamò allora una nuova limpida voce, accompagnata da un delicato pizzicare d'arpa. Migliaia di falene di energia acquatica parvero sollevarsi nel cielo nero, fendendo l'oscurità e maculandola con il loro glauco balenio. –“Non sei l'unica ad avere un'immensa energia da parte, anche Avalon ne dispone ed è quella dei suoi amici e fratelli, con cui ha condiviso il cammino!”

 

La Notte si voltò di scatto verso l'ingresso del varco per il Sesto Cerchio, sul cui devastato sentiero era apparso un giovane dai mossi capelli castani e gli occhi verdi, rivestito di una scintillante armatura. Le forme e gli intarsi, tutti lo notarono, erano simili a quella di Avalon ed emanava la stessa aura di eternità, sebbene, anziché essere argentea, fosse di color verde acqua. Sulle prime non lo riconobbero, avendolo visto in una sola occasione, ma quando mosse di nuovo le dita, sfiorando le corda della cetra, si ricordarono di lui.

 

“Il mio nome è Asterios, Principe della Luna. E fratello di Avalon!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 40
*** Capitolo trentottesimo: Fratelli. ***


CAPITOLO TRENTOTTESIMO: FRATELLI.

 

L'apparizione di Asterios prese tutti di sorpresa, tranne Avalon che aveva percepito l'avvicinarsi del suo cosmo, ma ancor di più fece scalpore la notizia che il Signore dell'Isola Sacra, il solitario leader che da anni (secoli forse? si chiese Pegasus) tesseva in silenzio solide trame contro l'ombra, avesse un fratello. Persino Reis e Jonathan parevano ignari della cosa, sebbene, osservando meglio la corazza di Asterios, e poi quella di Avalon, non poterono non notarne la somiglianza con un'altra armatura a loro ben più nota. Soprattutto al Cavaliere dei Sogni.

 

“Non fosse per l'assenza di spuntoni sui coprispalla, le forme più aggraziate e il colore ovviamente, direi che è identica a quella di Andrei!” –Esclamò, mentre anche la compagna annuiva, ricordando un altro misterioso individuo dalla corazza ugualmente simile, da lei incontrato soltanto in una manciata di occasioni. Quasi tutte funeste. –“Alexer! Il Signore dei Ghiacci! Che sta succedendo, Reis?”

 

“Non lo so, ma il fatto che persino i Quattro si siano mossi indica che siamo a un passo dalla fine! I nostri Talismani... presto li useremo per l'ultima volta!”

 

“O per la prima!” –Ironizzò Jonathan, riferendosi allo scopo per cui furono forgiati.

 

Il Cavaliere di Luce assentì, prima di riportare lo sguardo su Asterios, che nel frattempo aveva affiancato Avalon, in un luccichio generato dalle migliaia di falene che si muovevano nell'aria, seguendo i suoi spostamenti.

 

“Ridicoli poteri metti in campo, Gran Tessitore! Un musico che si diletta con delle farfalle?! Guarda cosa ne faccio delle vostre bestioline!” –Rise Nyx, sollevando un'onda di oscurità con cui fagocitò lo spazio tra di loro, inghiottendo tutte le falene.

 

“Così pare.” –Chiosò Asterios, concedendosi un sorriso sghembo, al pari del fratello.

 

Indispettita per quell'atteggiamento altezzoso, Nyx tirò un'occhiata al velo di tenebra che aveva eretto attorno al satellite, notando che per la prima volta vi erano dei buchi. E notando, al pari di Pegasus e degli altri combattenti, le stelle continuare a brillare di là da esso, simbolo di un universo che seguitava ad esistere, nonostante la Notte. Di un futuro libero e privo di ombre che poteva ancora essere creato.

 

Per quanto sarà possibile? Si chiese il Primo Cavaliere di Atena, rimettendosi in piedi a fatica, assieme alla Dea e a Phoenix e Andromeda.

 

“Sei venuto a dar manforte al tuo affaticato compare? Ben poco utile sarai! Ma provaci, Principino della Luna! Dimostra che quel titolo vale qualcosa!”

 

“Le tue parole amare non mi tangono, Nyx! Ma dato che della Luna hai parlato, per essa combatterò! Per chi vi abita, e che nel sogno di Selene ha creduto, e per la Dea che mi ha accolto come fossi uno di famiglia, non facendomi mai mancare affetto e protezione. Sebbene io dovessi garantirla a lei.” –Commentò Asterios, pizzicando per l’ultima volta la cetra e poi gettandola via, rivelando uno sguardo risoluto. –“Se notte porti, giorno avrai! Aye!” –Aggiunse, aprendo un braccio di lato e lasciando cadere a terra una goccia di cosmo, di cristallino colore celeste. –“Lance di ghiaccio!!!”

 

Il sabbioso suolo lunare che lo separava dalla Notte venne ricoperto all’istante da un consistente strato azzurrognolo, che si espanse ben oltre la posizione da lei occupata, permettendo alla Dea di specchiarsi in quel terreno ghiacciato dentro cui pareva fermentare una fiumana di pura energia. Poté guardarsi per un istante, rimirando il luccicare di gioielli che teneva nascosti, l’unico segno di luce in quel tenebroso spirito, prima che il terreno stesso si sollevasse, assumendo la forma di aguzze aste di ghiaccio dirette al suo cuore.

 

Nyx dovette balzare indietro, evitando i pericolosi affondi, ma ogni qual volta toccava terra subito il suolo si congelava e nuove lance azzurre emergevano pronte ad infilzarla, inseguita dalla silenziosa marea di cosmo che Asterios aveva risvegliato.

 

“E sia dunque!” –Sibilò, dopo l’ennesima schivata, balzando in alto e assumendo di nuovo la forma di uccello nero, portandosi al di sopra della portata degli attacchi nemici. Questo, quantomeno, fu quel che credette.

 

Il fratello di Avalon torse le labbra in un sorriso astuto, mentre migliaia e migliaia di strali azzurrognoli sfrecciavano nell’aria, obbligando l’oscuro volatile a continue acrobazie per evitarle. Non vi era posto nel cielo ove le lance di Asterios non potessero giungere, generate dal suo cosmo che fluiva attraverso il suolo lunare, un territorio che nel corso dei secoli trascorsi sul satellite aveva ben imparato a conoscere e a rispettare.

 

Per un momento chiuse gli occhi, ricordando che proprio là, presso i cerchi esterni, amava passeggiare, intrattenendosi con i guardiani e ascoltando le loro storie, nutrendosi di un’infinita conoscenza che solo chi il mondo aveva così tanto amato poteva trasmettergli. Da Chandra, Tsukuyomi e Tecciztecatl molto aveva appreso, sulle culture dei popoli, sulle necessità degli uomini di credere in qualcosa, fosse solo in un pallido disco che roteava attorno al pianeta, e proiettarvi le loro ansie e paure. Sorrise, ripensando ai Custodi dei Cerchi Esterni, a quanto avesse provato a insegnar loro a combattere, venendo sempre ringraziato ma mai accontentato.

 

“Perché non volete imparare a difendervi?” –Aveva chiesto loro più volte, stupito e frustrato dal loro diniego. –“Temete di offendere la Dea della Luna, praticando arti che lei ha bandito?!”

 

“Non soltanto, ragazzo.” –Erano soliti rispondergli, soprattutto il Selenite di Urano. –“Ma ognuno ha la sua natura, e questa è la nostra. Vorresti forse cambiarla? Vorresti forse che la luna brillasse alla stregua del sole? Rossa e radiante, come il sangue che in guerra cola, come l’ardore che infiamma l’animo dei combattenti, come il vino che scorre copioso nelle coppe dei vincitori? No, non lo vuoi, lo so bene. E allora lascia che la nostra luce sia come la vedono dalla Terra. Lascia che sia pallida, diafana, forse un po’ triste, ma mai spenta.”

 

“Mai spenta!” –Ricordò Asterios, chiudendo le dita della mano destra a pugno, proprio mentre Nyx, evitata l’ultima raffica di lance di ghiaccio, piombava verso lui e Avalon, allungando lunghi artigli di tenebra. –“Non riuscirai in quest’impresa!!!” –Avvampò, sollevando il braccio, le dita della mano aperte, e dirigendo migliaia di azzurri strali di cosmo contro di lei.

 

Il fratello lo imitò all’istante, liberando uno sciame di comete energetiche che si avvolsero attorno alle lunghe aste di ghiaccio, riempiendo il cielo e obbligando la Notte ad incrementare il numero dei suoi unghioni oscuri.

 

Lo scontro continuo e pressante generò lampi di energia che saettavano a destra e a manca, forzando Atena e i Cavalieri dello Zodiaco e di Avalon a rimanere a debita distanza, per non essere raggiunti. Fremeva, Pegasus fremeva, dal desiderio di lottare con quell’orrenda e temibile creatura eppure, al tempo stesso, non poteva evitare di sentirsi frenato. Da perché a cui non sapeva rispondere e da una spiacevole sensazione che l’aveva invaso quando Nyx aveva posato gli occhi su di lui la prima volta. Quella sensazione gelida che mai lo aveva conquistato in battaglia, nemmeno nei momenti più disperati, quando si era detto pronto a dare la vita in nome della libertà e della salvezza dell’umanità.

 

La paura di morire.

 

Non… adesso. Mormorò il ragazzo, stringendo i pugni fin quasi a farli sanguinare, mentre una poderosa esplosione dilaniava l’atmosfera di fronte a loro, forzandoli tutti a sollevare le braccia per difendersi dall’onda di riflusso. Quando questa scemò, i Cavalieri videro Avalon e Asterios ergersi ancora, sia pur affaticati, avvolti dalle loro aure cosmiche, mentre la Notte, recuperata forma umana, li osservava da lontano, il lungo mantello nero che le oscillava attorno, donandole un’apparenza demoniaca.

 

“Ebbene? Di nient’altro siete capaci, voi che così a lungo avete atteso l’avvento della grande ombra?!” –Gracchiò con voce stridula. –“Ma perché mi sorprendo?! In due, in fondo, cosa mai potreste essere in grado di fare? Evocare le nebbie, qualche farfallina di energia per stupire gli amici di Grecia e sfere di luce destinate a perdersi nella marea d’ombra che mi sorregge! Ma questo lo sapete già da soli, non c’è bisogno che io puntualizzi, ricordandovi come vi siete ridotti! Se avevo sorriso, quando da cinque rimaneste in quattro, adesso mi inebrio esaltata del vostro fallimento! Ah ah ah! Come vi facevate chiamare un tempo? La gilda dell’equilibrio? La pentarchia dei garanti? Nomi roboanti atti a nascondere la debolezza delle vostre vane azioni e la mancanza di concordia che vi caratterizzava, e caratterizza tuttora, da quel che vedo!”

 

Avalon a quelle provocazioni non rispose, limitandosi a tenere fisso lo sguardo su di lei, mantenendo quella parvenza di sicurezza con cui aveva sempre fronteggiato ogni nemico, senza mai dargli occasione di compiacersi. Sebbene, in questo caso, Nyx tenesse il pugnale dalla parte dell’impugnatura.

 

“Non parli ma io so. Io vedo. Per mezzo dei suoi occhi, è chiaro! Ho visto quel che avete fatto, come vi siete persi, incapaci di perseguire obiettivo comune! Ti sorprendi che io sappia? Che lui sappia? Non dovresti! Sai bene, del resto, che il tempo passa lentamente quando si è da soli, tu stesso l’hai provato, nelle lunghe veglie solitarie trascorse sulla cima del colle nebbioso a fissare il cielo, osservando e aspettando che la configurazione astrale venisse ricomposta. Lavoro ingrato, non trovi? Quanto è durato? Secoli forse? Un niente, se paragonato alla solitudine dell’intermundi. Una solitudine infinita, durata millenni, eoni addirittura, in cui nient’altro ha potuto fare se non osservare e meditare, preparandosi alla nuova venuta. Al secondo avvento!” –Chiosò Nyx, mostrando il pugno ad Avalon e ad Asterios, avvolto in una bruma scura, prima di aprire le dita una ad una. –“Cinque eravate, non un numero casuale! E sette Talismani, che avete allevato come agnelli, non come figli, bensì come bestie da sacrificare sull’altare dell’equilibrio. Sette manufatti da opporre alle sette pietre nere. Peccato che qualcuno… vi abbia lasciato!”

 

“Taci!!!” –Tuonò allora il Signore dell’Isola Sacra, avvampando in un’aura argentata e puntando un dito contro la Dea, da cui scaturì un fascio di luce che colpì il suolo tra i suoi piedi, spingendola indietro con una repentina esplosione.

 

“Mancato!” –Sogghignò questa, rialzandosi. –“Non sei preciso nel colpire quanto io lo son con le parole, nevvero, Avalon?”

 

“Per la verità…” –Si limitò a commentare quest’ultimo, concedendosi un sorriso, mentre Nyx si accigliava, non comprendendone l’atteggiamento. Solo allora si accorse che, balzando indietro, era atterrata in una pozza d’acqua e che, scrutandola meglio, capì che non poteva affatto essere tale.

 

“Non propriamente…” –Commentò Asterios, espandendo il proprio cosmo. –“Spiriti d’Acqua, vi invoco!!!” –E, al suo comando, decine e decine di sagome deformi sorsero dalla pozza in cui la Notte era immersa, pozza che andava allargandosi a macchia attorno a lei e sotto di lei, sprofondandola pian piano in un turbinante ruscellare di energia celeste, simile alle ancestrali maree da cui sorse la vita.

 

“Ancora giochini e trucchi per gli amici?!” –Ghignò Nyx, agitando il lungo mantello nero e affannando per uscire da quell’improvvisata prigione, accorgendosi però di non riuscirvi. E più provava, più si dimenava nel balzar fuori, più sagome di energia acquatica le sorgevano attorno, allungando le loro roride braccia deformi verso di lei, sfiorandola, toccandola, abbracciandola, abbarbicandosi addosso a lei, generando nella Dea un subitaneo moto di disgusto ogni qual volta veniva anche solo strusciata. Del resto, quell’energia era così pura, così pregna di luce, da scuotere in profondità la sua essenza di oscurità.

 

E quelle figure, quelle sagome che sembravano invocare il suo nome, fissandola con sguardi muti ma intensi, parevano simboli del Mondo Antico. Sirene, tritoni, putti e ninfe, forme aggraziate, eleganti, luminose, così lontane dal mondo di tenebra su cui lei avrebbe voluto imperare.

 

“Ba… basta!!!” –Ringhiò furiosa, lasciando esplodere il proprio cosmo oscuro e dilaniando tutte le figure che la attorniavano con lame di ebano. –“Non so in quali perversi giochi vi dilettiate, ma pretendere di fermare la calata della Notte con queste grottesche statue d’acqua è quanto meno ridicolo! Ne prosciugherò l’essenza, lasciandole ad essiccare su questo brullo suolo lunare, memento mori della mia potenza e della vostra inutilità!”

 

“Ogni cosa ha un posto nell’universo, anche gli Spiriti d’Acqua!” –Commentò placido Asterios, continuando a infondere alla pozza tutto il suo cosmo, in modo da generare un numero sempre maggiore di sagome celestiali, costringendo Nyx ad aumentare ulteriormente la propria aura da battaglia.

 

Boom!!!

 

Un gigantesco boato fece tremare l’intera Luna, con Pegasus e gli altri Cavalieri che si tenevano per mano per non cadere, investiti poco dopo dal sollevarsi di un’ondata di sabbia che, da Nyx, andò espandendosi a raggiera. Quando la tempesta scemò, i paladini della giustizia videro che la Dea ancora si ergeva in piedi, per quanto vistosamente affaticata e infastidita da quel patetico tentativo di frenarne l’avanzata. Non s’avvide però la Notte che Avalon era scomparso.

 

Lo notò soltanto quando fu sopra di lei, e liberò la tempesta di lucente energia che aveva accumulato in quel breve lasso di tempo in cui Asterios l’aveva impegnata, e distratta.

 

Nebulosa delle stelle!!!” –Esclamò, investendo in pieno Nyx con un torrente di pura energia, che fece strabuzzare gli occhi ai Cavalieri dello Zodiaco tanto abbacinante era il riflesso di quell’ondata.

 

“Incredibile!” –Mormorò Andromeda, a cui parve una versione potenziata del proprio colpo segreto. Un vero e proprio fiume di stelle come le galassie che aveva rimirato negli atlanti scolastici.

 

“A così poderosa luce non posso che opporre altrettanta oscurità!” –Ghignò Nyx, piegata al suolo dallo straripante getto energetico scaturito da Avalon. –“Ti pentirai di avermi costretto a poggiare un ginocchio a terra! Non sai proprio come compiacere le donne! Soprattutto quelle vendicative come me! Marea d’ombra!!!” –Avvampò, sollevando marosi di pura tenebra che si schiantarono contro le onde luminose.

 

Asterios tentò di intervenire, ma le sagome di energia acquatica vennero annientate all’istante, mentre il riflusso di tenebra dilagava anche in altre direzioni, obbligando i Cavalieri di Atena e di Avalon a difendersi. Lo stesso Signore dell’Isola Sacra fu costretto a tornare con i piedi a terra, piegato dalla potenza di serpi d’ombra determinate a trascinarlo verso il cuore di quella notte, verso l’inferno più nero che l’umanità avesse conosciuto.

 

Fu allora, mentre Avalon e Asterios affannavano per liberarsi dalla tetra fanghiglia, che parve a entrambi che l’impeto di tale marea diminuisse, nonostante Nyx fosse ancora concentrata nel produrne. Socchiudendo gli occhi, e osservando meglio, notarono che un velo di energia era appena stato innalzato tra loro e l’ancestrale Divinità, la parte estrema di una cupola protettiva che aveva il suo baricentro alle loro spalle.

 

Incuriosito, il Signore dell’Isola Sacra si voltò verso l’ingresso del Cerchio di Urano, alzando un sopracciglio stupefatto.

 

Selene era infine intervenuta.

 

“Dea della Luna!!!” –Mormorò Avalon, osservandola avvicinarsi a passo lento ma costante, lo sguardo timoroso e forse travolto da mille domande, da troppe incertezze, ma comunque deciso ad aiutare chi così tanto per lei aveva combattuto.

 

Endimione, rivestito dalla sua intarsiata cotta da battaglia, camminava al suo fianco, stringendole la mano, mentre Elanor e Matthew la assistevano sull’altro lato. Di fronte a loro, disposti a semicerchio attorno alla Dea che avevano scelto di difendere, i Seleniti rimasti avvampavano nei loro cosmi divini.

 

Li guidava Shen Gado dell’Ippogrifo, la corazza danneggiata dallo scontro con Kydoimos, macchiata del sangue versato, ma ancora non pronto a lasciarsi andare. Attorno a lui i custodi dei cerchi più interni, decisi a vendicare i compagni caduti e a dare un senso alla loro esistenza.

 

“Per cosa abbiamo creato questo regno nascosto ai più, questo paradiso di cui tanto abbiamo decantato le virtù, se alla prima difficoltà, al primo tentativo di invasione, siamo disposti a cederlo così facilmente?!” –Aveva detto loro Sin degli Accadi, nella breve conversazione avuta all’Occhio con i parigrado.

 

Avatea, Mani e gli altri avevano annuito, accettando la proposta di marciare in aiuto dei Cavalieri di Atena e di Avalon.

 

“A qualunque costo!” –Aveva aggiunto il Selenite di Marte, adesso in prima fila, a fianco di Shen Gado, avvolto nel lampeggiare rossastro del suo cosmo.

 

“Ci siamo, Mene!” –Disse Endimione, continuando a dare forza alla compagna, che accennò un sorriso timido, prima di cercare lo sguardo di Atena e annuire.

 

“Cavalieri di Atene e di Avalon, non ho parole per ringraziarvi! E non dirò niente, no, solo agirò!” –Illustrò la Dea, riunendo tutta l’energia rimastale in modo da allargare sempre più la cupola difensiva, per arginare l’espansione della marea d’ombra.

 

Endimione, Shen Gado e tutti i Seleniti sopravvissuti le donarono la loro forza, avvampando in un arcobaleno di cosmi accesi.

 

“Ooh, finalmente combatto!” –Sogghignò Sin, scatenando le fiamma di cui era padrone e sommandole al potere degli altri quattro custodi rimasti.

 

“Umpf, dovrò occuparmi anche di te, Dea della Luna!” –Ridacchiò Nyx, nient’affatto intimorita. –“Vorrà dire che prima sgozzerò il tuo bel maritino, cibandomi del suo cuore martoriato, e poi verrò da te, ficcandotelo in gola e punendoti per quest’atto di ribellione!” –Tuonò, fissando Selene con uno sguardo così penetrante che alla Dea parve di vedere le proprie difese andare in frantumi, travolta da un odio a cui non sapeva come opporsi. Per un attimo il muro di energia vacillò, ma Endimione le strinse la mano, infondendole quell’amore, quella fiducia, quella speranza di una vita insieme che solo eliminando la Notte avrebbero avuto. E ciò bastò per ridarle vigore.

 

“Adesso!!!” –Esclamò allora Pegasus, caricando da un fianco scoperto di Nyx assieme ai due amici. –“Cometa lucenteee!!!” –Urlò, dirigendole contro il suo massimo colpo segreto, subito seguito da Phoenix e Andromeda. –“Ali della Fenice!!! Tempesta della Nebulosaaa!!!” –E persino da Atena, che puntò lo Scettro di Nike avanti, liberando un potente raggio di energia luminosa.

 

“Sciocchi!!!” –Ghignò Nyx, sollevando e interponendo un manto d’ombra ai loro attacchi. Ma quando fece per muoversi si accorse di non riuscire a spostarsi, bloccata al centro di un quadrilatero di lucente energia che quattro figure avevano generato attorno a lei. Quattro Cavalieri avvolti nei loro cosmi sfavillanti.

 

“Talismani!!!” –Gridarono all’unisono Reis, Jonathan, Matthew ed Elanor, incanalando l’energia dei manufatti in raggi di energia con cui generare una gabbia da cui la Notte faticava a muoversi.

 

In quel momento Avalon e Asterios la attaccarono, piombando sul fianco rimasto libero dopo l’attacco di Pegasus e compagni, strappando un gemito di sorpresa alla Dea ancestrale. L’impeto della Nebulosa delle Stelle la investì in pieno, esponendola all’affondo di migliaia di lance di ghiaccio e facendola ruzzolare per parecchie decine di metri sul devastato suolo lunare.

 

Quando si rialzò, togliendosi il cappuccio e gettando via il lacerato mantello nero, i suoi occhi eruttavano fiamme di puro odio. Ma non fu quello a frenare i passi di Pegasus e degli altri Cavalieri, bensì il volto della Dea, il suo aspetto aggraziato, la snella silhouette di una donna nel fiore degli anni, come Isabel era sempre apparsa loro. Un aspetto lontano anni luce dall’idea che avevano avuto di lei.

 

“Avete scelto la morte più atroce!” –Sibilò, prima di fermarsi e tendere l’orecchio, attratta da un suono impercettibile ai più. Si voltò verso il pianeta Terra, sbuffando scocciata alle notizie appena avute. La stridula voce di Oizys appariva fastidiosa persino da quella distanza, sebbene non avesse motivo di mentirle.

 

Qualcuno, in sua assenza, aveva violato i confini del Primo Santuario, liberando Febo e Marins e rimettendo le sorti della battaglia in gioco.

 

Sogghignò, certa che Avalon già sapesse, costretta a concedergli il primo tempo di quello spettacolo, ben lungi dall’essere terminato. Non disse alcunché, limitandosi ad avvolgersi di nuovo nel proprio mantello e a scuotere lunghe ali di tenebra con cui si sollevò poco dopo, assumendo la forma di un gigantesco uccello nero e volando via, non prima di essersi abbandonata ad un ultimo stridulo verso che piegò buona parte dei Seleniti e dei Cavalieri a terra, tant’era pregno di oscurità.

 

“Ci rivedremo presto. E quando tornerò, mi riconoscerete, perché allora non sarò la Dea della Notte. No, sarò l’emblema della vendetta! E come tale mi comporterò!” –Aggiunse. E ognuno dei rimanenti temette che si rivolgesse a sé.

 

“Avalon!!!” –Gridò allora Atena, correndo verso il Signore dell’Isola Sacra, subito seguita dai suoi Cavalieri. –“State bene? Dov’è andata? Perché ci ha lasciato vivere?”

 

“L’avete sentita.” –Commentò sibillino il Gran Tessitore, sebbene conscio che ormai non poteva più permettersi segreti. Non dopo che Nyx si era rivelata. –“Tornerà!”

 

“Quando? Come possiamo fronteggiarla?! E cosa intendeva dire parlando dell’intermundi?!” –Incalzò Pegasus, e anche Phoenix e Andromeda, e persino i Seleniti, parevano avere molte domande, obbligando Asterios e Shen Gado a placare gli animi, invitando tutti a rilassarsi un momento.

 

“Presto avrete tutte le risposte di cui necessitate. Ve lo assicuro, valorosi Cavalieri!” –Parlò allora il Signore dell’Isola Sacra, con quel tono che da sempre lo caratterizzava. –“Dea Atena, inviate messaggi sull’Olimpo, ad Asgard e in ogni regno divino con cui avete buoni rapporti! È tempo che tutti coloro che combattono per l’umanità, contro l’avvento delle tenebre, si riuniscano! È tempo di conoscere quello che accadde, sta accadendo e accadrà!”

 

***

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Quindici anni prima del Secondo Avvento.

Luogo: Isola di Avalon.

 

“Morto?! Come può essere morto?! Egli era l’uomo della profezia!”

 

La voce solitamente calma di Alexer si incrinò, ferita da un dubbio improvviso che mai aveva violato il suo animo ferreo.

 

Vicino a lui, in ginocchio sul cadavere martoriato del suo allievo, Avalon piangeva.

 

“Non può essere accaduto! Egli non doveva morire! Non poteva!!! Era il Cavaliere della Leggenda, l’uomo che avrebbe dovuto vestire la sacra corazza…”

 

“Ripetere notizie già note non arrecherà conforto al mio dolore!” –Parlò allora il Signore dell’Isola Sacra, sollevando lo sguardo, gli occhi bagnati da lacrime sincere, che la brezza mattutina smosse, facendole luccicare nell’alba di Britannia.

 

“Perdonami, fratello! Comprendo il tuo dolore! Uguale pena riempirebbe il mio cuore se il discepolo in cui avevo riposto così tante speranze e amore fosse perito! Speranze per noi e per l’umanità intera. Pur tuttavia… io non capisco…”

 

“Neppure io capisco, Alexer! Le visioni del pozzo sacro erano chiare, mai mi hanno mentito! Mai ho errato nell’interpretarle! O ci saremmo persi molti secoli addietro!”

 

“Di questo puoi essere certo! La tua guida e la tua saggezza hanno permesso alla gilda di prosperare nei secoli e ai Talismani di tornare a sbocciare!”

 

“E allora perché?! Perché?!” –Gridò Avalon, stringendo a sé il corpo privo di vita di Micene del Sagittario, la fascia imbrattata del sangue dell’ultimo combattimento. –“Era suo il volto che le acque del pozzo sacro mi mostrarono, sua la gloria eterna e la fede nella giustizia! Sue le mirabili imprese con cui rimandò nel limbo Tifone, Seth e Apopi! Egli era la cura per i mali del mondo, faro di luce verso cui le umane genti avrebbero potuto volgere lo sguardo ogni volta in cui l’ombra avrebbe offuscato il loro malfermo cammino! Non riesco a credere di aver sbagliato, non posso neppure pensare di aver voluto credere di averlo trovato! Di essermi convinto di aver trovato colui che ci salverà tutti, portando a compimento il nostro percorso!”

 

“Potresti usare nuovamente la Vista…”

 

“Non servirebbe a riportarlo indietro! Niente può tornare indietro, neppure gli Dei! Ed egli ad essere uno di loro certo non aspirava! No, egli era un umano, e come tale ha scelto di vivere! E di morire!”

 

“Forse… se tu lo avessi salvato…”

 

Cosa avrei dovuto fare? Violare la sua volontà?!”

 

“Non è quello che facciamo da sempre? Incuranti della volontà degli uomini, li usiamo per i nostri scopi?” –Rifletté Alexer, con voce malinconica.

 

“Messa in questi termini, non siamo molto diversi da Anhar!”

 

“Forse no!” –Commentò laconico il Principe. Poi cacciò via i pensieri con un sospiro, sedendo accanto all’amico e ponendogli un braccio sulle spalle, cui Avalon si appoggiò per trovare momentaneo ristoro dagli affanni del presente.

 

Per qualche minuto i due fratelli rimasero in silenzio, mentre il sole sorgeva e si faceva spazio tra le nebbie che proteggevano l’isola sacra, illuminando il cadavere del Cavaliere d’Oro, le numerose ferite e i tagli che costellavano l’addome, stigmi che i suoi parigrado gli avevano impresso. Fu allora che un guizzo rischiarò la mente di Avalon, portandolo ad alzarsi di scatto, di fronte allo sguardo interessato di Alexer.

 

“E se non fosse stato lui il diretto artefice della caduta dell’ombra… ma l’uomo che, con i suoi gesti, l’avrebbe resa possibile? Se non fosse lui destinato a scoccare l’ultima freccia, ma il suo erede… Tutto avrebbe comunque senso!” –Mormorò il Signore dell’Isola Sacra, incamminandosi verso il Pozzo e affacciandosi ad ammirarne le silenti acque. –“Prima di morire, Micene ha consegnato una bambina a un uomo… quella bimba è la reincarnazione della Dea cui era devoto e che avrebbe dovuto difendere… ma quell’uomo… chi è?” –Aggiunse, espandendo il cosmo ed entrando in sintonia con le ancestrali forze che permeavano quel luogo di preghiera.

 

Sulle acque del pozzo si dipinse un volto che Avalon non aveva mai visto, un uomo di cinquant’anni, dall’aspetto austero e severo. Colui che aveva ricevuto in custodia la Dea della Guerra. Il Signore dell’Isola Sacra ne sondò l’animo, ne scoprì la storia e i segreti e infine capì. Che il destino aveva scelto la sua strada, proprio come Micene, e che i sogni che aveva cullato per anni potevano ancora trovare realizzazione.

 

Così placò le visioni, dando le spalle al pozzo, ad Alexer e al cadavere dell’allievo, il cui rito funebre sarebbe stato celebrato quella sera, alla presenza di tutti i druidi dell’isola ove era stato addestrato. Disse al fratello di non preoccuparsi e sparì.

 

Sapeva dove l’avrebbe trovato, avendolo visto poc’anzi grazie alla Vista. In una zona degli scavi ove gli archeologi ritenevano un tempo fosse esistito un altare in onore di Atena, un’ara di pietra che, sia pur scheggiata e ingiallita, ancora si ergeva in un mare di polvere e ricordi. Di fronte a quel marmo di ben più antichi splendori, Alman di Thule stava in ginocchio, piangendo e pregando Dio, o qualunque altro nome gli avessero dato gli uomini, di dargli un segno, di indicargli il cammino.

 

“Cosa devo fare, Signore? Come posso prendermi cura di Atena? Chi sono io per essere degno di tale gravoso ma meritevole compito?”

 

Per qualche minuto nessuno parlò, neppure il vento. Soltanto il respiro affannato di Alman segnava il tempo che passava, estraniandolo dal mondo che continuava ad andare avanti. Poi, d’un tratto, al Duca di Thule sembrò di udire una voce chiamarlo, una voce inudibile, proveniente dal profondo del suo animo. Un abbraccio di serenità che parve confortarlo.

 

Chinò lo sguardo sull’infante Dea e le parve quasi di vederla sorridere, di dirgli, con quei suoi occhi pieni di vita, di non avere paura, che tutto sarebbe andato bene e che lei sarebbe stata protetta e amata.

 

Allora Alman pianse, consapevole del proprio ruolo, del ruolo che il fato aveva scelto per lui. In fondo era ricco, erede del patrimonio di una famiglia che aveva prosperato per secoli con il commercio e la navigazione, ma non aveva mai avuto figli, non aveva mai avuto un erede. Adesso, forse, il futuro avrebbe potuto essere riscritto, anche per lui.

 

Pensò al suo burbero maggiordomo, chiedendosi come avrebbe reagito all’idea di avere una femmina per casa, all’idea di vederla crescere e diventare donna. Sorrise, sicuro che anch’egli si sarebbe commosso di fronte alla purezza della Dea. Poi pensò ai bambini dell’orfanotrofio Saint Charles, di cui la sua dinastia aveva finanziato la costruzione. Come lui, erano raminghi, ancora alla ricerca del loro ruolo nel mondo, ed egli presto gliene avrebbe assegnato uno. Volenti o nolenti, avrebbero fatto la loro parte, e chissà che tra loro non fosse stato presente qualcuno in grado di distinguersi dall’ordinaria massa, di elevarsi al di sopra delle umane genti e dare un senso alla propria esistenza.

 

Rinfrancato da quella speranza, Alman si alzò, scosse i pantaloni dalla polvere e rese grazie a Dio per averlo illuminato. Poche ore dopo era già in volo verso il Giappone, pronto per organizzare la sua nuova vita.

 

Nascosto dietro una colonna, nella bruma mattutina, Avalon annuì, certo di aver visto bene. Micene era morto, questo era vero, ma il suo nome non sarebbe scomparso con lui, avrebbe perdurato, scintillando nel cielo a memoria imperitura di coloro che sarebbero venuti dopo di lui, e che in lui avrebbero visto l’eroe, il martire per la causa, la Stella Polare cui volgere lo sguardo alla ricerca della giusta direzione. Da lui, e in nome suo, sarebbe nato un gruppo di individui dai sensazionali poteri sempre pronto a salvare la Terra ogni volta in cui le tenebre fossero calate su di essa. Un gruppo che avrebbe ospitato il Cavaliere della Leggenda, destinato a indossare l’ultima armatura. O la prima.

 

Estratto dalle Cronache di Avalon.

Tempo: Quindici anni prima del Secondo Avvento.

Fine.

 

 

 

 

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Capitolo 41
*** Capitolo trentanovesimo: Soltanto un respiro. ***


CAPITOLO TRENTANOVESIMO: SOLTANTO UN RESPIRO.

 

Tisifone osservava la barca prendere il largo e portar via quell’accenno di felicità che la vita le aveva regalato durante quell’interminabile giornata.

 

L’aveva sistemata con cura, adagiandola sul fondo di una vecchia imbarcazione trovata sull’isola. Le aveva pettinato i capelli all’indietro, carezzandole un’ultima volta il viso, per poi coprirle le gambe e il ventre sfondato con la coperta che la sorella le aveva fatto trovare sul canapè del castello; la coperta che all’inizio non aveva riconosciuto, vecchia e sgualcita, ma che adesso invece odorava di casa.

 

Era stato l’ultimo lavoro intessuto da sua madre prima di morire.

 

Morgana l’aveva messa sulle spalle di Tisifone, dopo essere salite a bordo del Bell X-22, e lei aveva sorriso a quella gentilezza, senza coglierne subito il significato nascosto. Adesso le avrebbe restituito il favore, affidandola alle cure di colui che più di ogni altro la sorella aveva amato, il luogo dove davvero, nel corso degli anni della sua burrascosa vita, si era sentita a casa. Il mare.

 

Il Cavaliere d’Argento sospirò, prima di voltarsi verso il Dio immobile al suo fianco e annuire mestamente. Nettuno puntò allora il tridente avanti a sé, liberando una folgore di energia che incendiò il tramonto di quel giorno d’autunno, abbattendosi poi sulla barca ove riposava il corpo spezzato della piratessa, incendiandola all’istante.

 

Proprio nel mare, dove a lungo hai imperversato nelle tue scorribande avventurose, termina il tuo cammino, sorella! Mormorò Tisifone, osservando l’imbarcazione di legno stantio consumarsi in una rapida fiammata e sprofondare poi verso quieti abissi.

 

Era successo tutto così in fretta, troppo in fretta. Passare dalla gioia di essersi ritrovate alla disperazione della perdita nell’arco di una sola giornata avrebbe fiaccato l’animo di chiunque, ma Tisifone era una combattente, un’anima sola ma in grado di azzannare la vita ogni volta in cui la stessa le vomitava addosso il suo veleno.

 

Le era successo in varie occasioni. Con Pegasus, con se stessa, con la femminilità che aveva dovuto reprimere per divenire una Sacerdotessa Guerriero, e adesso con la sorella (per troppo poco tempo) ritrovata. Avrebbe mai avuto pace?

 

Sospirò, spostando lo sguardo sui suoi improvvisati compagni, allineati in rispettoso silenzio alle sue spalle, e le scappò un sorriso di fronte all’ironia della situazione. Era lontana dalla sua terra, dalla Dea cui aveva giurato fedeltà e per cui aveva rinunciato al suo ruolo di donna, dai Cavalieri al cui fianco avrebbe dovuto lottare, sopravvissuta per miracolo ad uno scontro mortale su un’isola che non sarebbe più dovuta esistere. E le uniche persone al suo fianco erano il Dio che l’anno addietro aveva tentato di ucciderla, la sua fedele sirenetta e due ragazzetti che parevano aver ricevuto l’investitura più per caso che per merito.

 

“Mi dispiace per tua sorella! Era una combattente valorosa!” –Le si avvicinò allora Titis, parlando con voce sincera. –“Accetta le mie condoglianze, Cavaliere dell’Ofiuco!”

 

“Ti ringrazio!” –Commentò Tisifone. –“Lo apprezzo molto!”

 

Anche Nettuno le rinnovò la sua gratitudine per aver lottato assieme a lui contro Forco, prima di allontanarsi, diretto verso il mausoleo ove riposava il suo primo consigliere, per completare la sua missione, mentre Reda e Salzius sedettero in disparte, medicando le loro ferite, lasciando così le due donne da sole.

 

“Avresti potuto essere tu su quella barca, lo sai vero?” –Riprese allora Titis, fissando la Sacerdotessa di Atena negli occhi.

 

“Ne sono consapevole! Lo sono stata fin dal primo momento in cui sono scesa in guerra!”

 

“Perché?”

 

“Perché questo è il mio destino, che a volte ritengo maledetto! Qualcuno ritiene che l’Ofiuco, per la processione degli equinozi, sia in realtà il tredicesimo segno dello Zodiaco e che, come tale, sia intriso di una maledizione! Io non credo molto a queste storie di fantasmi, sembrano fatte per spaventare senza motivo… Pur tuttavia, qualcosa nel cuore mi rende infelice. E l’unico momento in cui non lo sono, l’unico in cui riesco ad esprimere davvero me stessa…

 

“È in guerra!” –Annuì Titis, trovando conferma ai suoi stessi pensieri.

 

Tisifone sorrise, prima di incamminarsi verso i discepoli di Albione e sincerarsi delle loro condizioni, quando la fresca voce del Cavaliere Sirena la richiamò, indicandole un punto nel mare vasto di fronte a loro.

 

Una nave in avvicinamento.

 

“Pare che il mare prenda e il mare dia…” –Commentò Tisifone, osservando gli occupanti del ponte dell’imbarcazione.

 

Pesto e malconcio, Asher agitò un braccio nella sua direzione, avendola avvistata da lontano. Il Professor Rigel, Cliff O’Kents e i due fratelli d’acciaio erano al suo fianco.

 

Reda e Salzius si rimisero in piedi, chiamati dalla Sacerdotessa, che disse loro che adesso sarebbero rientrati tutti ad Atene per conferire con la Dea.

 

“E voi verrete con noi! È tempo che prestiate fede al vostro giuramento! Mai come adesso Atena ha realmente bisogno di tutti i suoi Cavalieri!”

 

***

 

Ferito e umiliato, Forco scivolò silenzioso verso le profondità oceaniche, suo regno incontrastato da tempi immemori. In abissi così lontani dove neppure Nettuno e i suoi tanto decantati Generali avevano mai messo piede, ingiustamente insigniti di un titolo mai appartenuto loro.

 

Come possono definirsi Generali degli Abissi se tutto quel che del mare han visto si è limitato al Regno Sottomarino? A quelle ridicole colonne greche che continuamente miravano al cielo. Al cielo! Umpf! Ridicolo! È a quello che Nettuno ha sempre guardato, incapace, proprio come Ade, di accettare la maestosa bellezza dei propri possedimenti. Se ne fosse stato in grado, se fosse riuscito ad andare al di là dell'apparenza, avrebbe scoperto una potenza inimmaginabile!

 

“Qualcosa ti turba, mio dolce compagno?!” –Una voce femminile lo rubò ai suoi pensieri, portandolo a voltarsi verso l'ingresso della grotta ove era appena giunto.

 

Adorava vederla così, nella sua forma originaria, e non con quelle bizzarre gambe umane che dovevano sfoderare ogni volta in cui erano costretti a mettere la testa fuori dall'acqua. Costretti, sì, perché sia Forco che la sua amata non ne avrebbero di certo sentito la necessità, preferendo vivere e morire là sotto, nelle oscure profondità dove il sole mai era giunto

 

“L'assalto ad Atlantide non è andato come credevo! Cariddi è caduto e Nettuno ha recuperato l'oricalco! Ho fallito!”

 

“Non dire così! Sono certo che lui capirà! Del resto non è sulla terra che si manifesta il tuo vero potere! Il nostro vero potere!” –Gli sorrise la sua sposa, avvolgendosi sinuosa al suo corpo, che aveva nel frattempo recuperato le sue reali fattezze.

 

Facendosi strada nelle nere acque, la coppia raggiunse il centro della grotta, fuoriuscendo in un'insenatura nascosta illuminata dalla fioca luce di alcune conchiglie particolari. Là sotto giaceva tutto quello di cui avevano bisogno, nient'altro, purché fossero stati insieme. Questo Forco lo sapeva, eppure, come Nettuno e gli altri Dei che avevano avuto l'ardire di definirsi Signori degli Oceani, anch'egli provava desideri, anch'egli covava ambizioni imperiali.

 

La compagna glielo lesse nel volto e sorrise, carezzandogli la pelle squamosa.

 

“Come dicevo, non dovresti preoccuparti! Avremo presto un'altra occasione per sbarazzarci di Nettuno! Del resto, cosa può fare da solo quel misero reuccio? Egli non ha più un esercito che lo difenda! Mentre noi...” –Ridacchiò, solleticandogli il mento e costringendolo poi a guardare avanti.

 

Anche nella poca luce, Forco li vide.

 

I guerrieri che la sua sposa e lui avevano addestrato, preparandoli a quel momento, al momento in cui le acque sarebbero tornate ad avere vitale importanza negli equilibri di potere del mondo. Per questo li avevano scelti, per combattere per loro. Non per altri.

 

L'antico Re dei Mari sogghignò, mentre i servitori a lui fedeli si inginocchiarono per rendergli omaggio. In fondo, i Forcidi non erano mai stati di grandi parole.

 

***

 

Zeus era visibilmente soddisfatto. Nettuno si era dimostrato degno della sua fiducia, riuscendo non soltanto a recuperare l’oricalco, ma anche a sconfiggere un pericoloso avversario, riappacificandosi con il ricettacolo umano della cui famiglia da tempi immemori si serviva. Il Signore dell’Olimpo non aveva mai avuto preoccupazioni simili, non avendo mai trasferito la sua divina coscienza nel corpo di un mortale, né essendo mai stato colto da un simile pensiero. A differenza di Nettuno, di Ade o di altri Dei, Zeus aveva sempre preferito agire di persona, mettendo in gioco ogni volta se stesso, sebbene, e di questo ne era sempre stato consapevole, ben pochi pericoli potessero minacciare la sua sopravvivenza. Forse solo uno.

 

E quell’uno era infine arrivato.

 

“Mio Signore?!” –La voce calma di Ermes lo rubò a nefasti pensieri, portandolo a concentrarsi sui prossimi passi. –“Il giacimento di oricalco è intatto e pronto per essere lavorato da Efesto! Nettuno garantisce che sia ben fornito!”

 

“Molto bene! Ermes, portane subito grandi quantità in Sicilia e dì a mio figlio che scaldi le fornaci! Fatti aiutare da Euro, è giovane e veloce, oltre che molto riservato! Nessuno deve sapere cosa stiamo progettando! Gli occhi dell’ombra possono arrivare ovunque!”

 

“Al riguardo, mio Re… mi permetto di farvi notare che neppure io ne sono al corrente!” –Commentò il Messaggero Olimpico, suscitando la divertita reazione del Signore degli Dei.

 

“Non è chiaro, forse, mio vecchio amico? Efesto finalmente forgerà nuove armature!”

 

“E per chi? L’esercito dei Cavalieri Celesti è stato praticamente annientato durante la scalata all’Olimpo! Solo Nikolaos e Ganimede restano delle antiche legioni! E Shen Gado, sebbene lo abbiate di fatto ceduto a Selene!”

 

“Non a loro sono destinate queste nuove corazze, sebbene anche le loro vesti meritino di essere riparate e solidificate! Ma ai Cavalieri della Speranza! Della nostra speranza!” –Chiarì Zeus, di fronte allo sguardo ammirato del Messaggero. –“Pegasus, Dragone, Cristal, Andromeda, Phoenix! Solo loro possono salvare questo mondo dall’ultima ombra! Di questo siamo tutti consapevoli, sull’Olimpo e ad Avalon! Per questo il Signore dell’Isola Sacra ha messo a disposizione gli ultimi frammenti di mithril in suo possesso, residui di un meteorite schiantatosi in Asia quasi cent’anni fa. Per questo ho chiesto a Nettuno di recuperare l’oricalco. Adesso, assieme alle conoscenze di Efesto, disponiamo di tutti gli strumenti decisivi per creare le più resistenti Vesti Divine mai forgiate prima!”

 

“Divine, mio Signore?!” –Balbettò Ermes, comprendendo quel che quella frase sottintendeva.

 

“Prepara i polsi, mio buon amico! Dovrai tagliarli a breve!” –Sorrise il Dio Olimpico, prima di incitare il Messaggero ad adempiere alla sua missione.

 

Allontanatosi Ermes, Zeus rimase a pensare. Aveva già deciso gli abbinamenti, sulla base dei poteri e dei caratteri di ognuno, uomini e Dei, pur tuttavia non aveva ancora informato nessuno. Da Ermes e Demetra non si aspettava rimostranze, neppure da Era, in fondo. Ma con Nettuno avrebbe dovuto scambiare qualche parola in più, qualora avesse avuto da ridire.

 

“Vuoi dunque andare a fondo con il tuo progetto, possente Zeus?” –La vellutata voce della sua sposa lo raggiunse poco dopo, mentre Era compariva in cima alla scalinata, mettendosi a sedere tra le sue gambe.

 

“Ciò è necessario, mia amata. Spero tu lo capisca!”

 

La Regina degli Dei annuì silenziosa, ma Zeus percepì comunque il suo disagio. La sollevò da terra, mettendola a sedere sulle sue gambe e le chiese infine che cosa la turbasse, oltre all’ombra della fine di tutto che stava allungandosi ormai su di loro.

 

“La colpa, mio Signore. Le colpe di cui un tempo anch'io mi sono macchiata, mettendomi sullo stesso livello degli sporchi umani che ho a lungo disprezzato.”

 

Umpf... Un errore che abbiamo commesso tutti, a quanto pare!” –Ironizzò il Nume supremo.

 

“Ma alle mie colpe non ho potuto fare ammenda, e tu lo sai! Sai a cosa mi riferisco! Ti ho udito quest'oggi, conversare con tuo fratello nel giardino della reggia. E ho sentito cosa ti ha chiesto. Del resto chiunque al suo posto avrebbe desiderato di averlo adesso a fianco!”

 

“La strada di mio figlio tu non l'hai scelta! Lui solo, con le sue azioni, a volte stravaganti, l'ha segnata!” –Precisò Zeus, alzandosi in piedi e scansando la compagna.

 

“No, ma l'ho spesso ostacolata! Ricordi Tirinto, mio Signore? Era splendida come nel Mondo Antico. Eppure io...”

 

“Basta così, Era! Questa tardiva ammissione di responsabilità non è utile alla nostra causa. Lo apprezzo, e sono certo che anch'egli apprezzerebbe. Ma ti prego di rimanere concentrata su quanto dobbiamo fare. Gli sforzi cui siamo chiamati adesso sono gravosi, persino per gli Dei.”

 

“Dunque è vero...” –Si intromise allora una terza voce, interrompendo il dialogo tra la coppia.

 

Zeus si voltò verso l'ingresso del salone, laddove l'alta sagoma di un uomo dalla barba grigia e dai folti capelli segnati dal tempo era appena apparsa, una mano intenta a reggere un tridente di scaglie d'oro, lo stesso che la sua reincarnazione aveva affondato ore addietro nella schiena di Forco.

 

“Nettuno...” –Mormorò il Nume del Fulmine, conscio che adesso non avrebbe più potuto evitare quella conversazione.

 

“Allora tu sai cosa gli è accaduto, in quale limbo dimori adesso? Deve essere un limbo piuttosto intricato se non è in grado di uscirne per prestare aiuto al suo divino padre!” –Esclamò il Signore dei Mari, mentre Zeus e Era iniziavano a scendere lungo la scalinata. –“Se non ricordo male, neppure Ade voleva saperne di tenerlo all'Inferno con sé! E Cerbero latrava sempre in sua presenza!” –Rise infine, ma dalle espressioni sui volti della coppia capì che la situazione fosse ben più complessa.

 

“Vieni con me! Ti mostrerò dove riposa adesso il Protettore degli Uomini!” –Parlò Zeus con voce calma, incamminandosi verso il giardino sul retro, seguito dalla moglie e dal fratello. Non ebbero da fare molta strada, solo portarsi ad un livello inferiore, addentrandosi tra alberi così fitti che nessuno, se non i regnanti dell'Olimpo, aveva mai violato. Fino ad allora.

 

“Non conosco questa parte del tuo regno, Zeus! Dove mi stai conducendo?”

 

“Alla cripta.” –Rispose marmoreo il fratello.

 

E quando vi giunsero Nettuno comprese.

 

Di fronte a loro, nascosto tra antichi alberi mai caduti, rimasti inviolati alle guerre che avevano sconvolto la Terra e l'Olimpo, un mausoleo era stato scavato su un fianco del Monte Sacro, incassato all'interno dello stesso, per essere preservato in eterno. Là dentro, come Zeus ebbe modo di spiegare quando ne varcarono la soglia, riposavano guerrieri che avevano combattuto per la libertà e per gli uomini, rendendo il Signore del Fulmine fiero della loro stessa esistenza.

 

Nettuno trattenne il fiato di fronte a quella rivelazione.

 

“Incredibile!” –Mormorò, sfiorando i muscoli del Dio che aveva sudato e vinto l'ingresso al Monte Olimpo con le proprie imprese. –“Sembra... vero! Scolpito nella pietra a sua diretta somiglianza!”

 

“Non sembra. È!” –Precisò Zeus, sorprendendo ulteriormente il fratello. –“Le statue che vedi, e che potrebbero ornare una reggia divina tanto sono eleganti e curate nei dettagli, altro non sono che mio figlio e dodici dei suoi migliori combattenti, quelli che lui stesso scelse nella Legione dei Migliori!”

 

“La Legione...?! Eracle?! È stato questo il destino del figlio che procreasti con Alcmena?!” –Commentò triste Nettuno, osservando il fisico possente del Protettore degli Uomini e le posture fiere dei guerrieri che lo accompagnavano, ancora rivestiti delle loro gloriose corazze.

 

“Il destino o chi contro di lui ha cospirato…” –Parlò allora Era per la prima volta, raccontando degli scontri da lei stessa sostenuti contro Eracle secoli addietro, scontri che avevano trovato drastica fine, obbligando il difensore di Tirinto ad una scelta finale. –“La morte o la fine del tempo. Così eccolo qua, il prode Eracle e i suoi Heroes!”

 

“E dormiranno in eterno, nel silenzio del loro mondo di pietra, finché sangue divino non li risvegli! Ma, capisci bene, fratello mio, che per ridare la vita a tutti e tredici ci vorrebbero almeno tredici Divinità, e si ritroverebbero tutte molto deboli al termine del rito! Non solo noi non siamo più così tanti, ma non abbiamo neanche energie a disposizione per questo, già dovendo occuparci di altro con il nostro Ichor!” –Sospirò Zeus, dando le spalle alle tredici statue. –“Pazienza! In fondo Eracle ha già sofferto troppi patimenti in nome dell'Olimpo, gli eviterò almeno di combattere un'altra guerra. Per quanto, lo ammetto e sono sciocco nel pensarlo, avrei davvero desiderato abbracciarlo un'ultima volta, prima della fine!”

 

Nettuno, a quelle parole, lo rincuorò, uscendo assieme al fratello dalla cripta. Solo Era rimase indietro qualche istante di più, soffermandosi sul volto del figlio bastardo di Zeus che a lungo aveva tormentato i suoi sogni e chiedendosi se il rito che lo aveva tolto dal tempo era stata davvero una buona idea o se invece adesso non avrebbero tutti avuto di che pentirsene.

 

***

 

“Sei uno stupido! Siete due stupidi!!!”

 

La collera di Nyx travolse Polemos e Chimera, scaraventandoli indietro, fino a farli schiantare contro un muro del Primo Tempio, inchiodandoceli, gli arti trafitti da lunghi artigli di tenebra.

 

As… Aspettate mia Signora! Ascoltateci!”

 

“Cosa dovrei udire? I vostri piagnistei?! O le vostre patetiche scuse?! Di entrambi faccio volentieri a meno! Per colpa vostra, della vostra ridicola intraprendenza, il Santuario delle Origini è stato violato, i Cavalieri delle Stelle sono stati liberati e parte del nostro esercito è stato annientato, prima ancora del suo ritorno! Un smacco imprevisto e oltraggioso per le nasciture potenze del mondo!”

 

“Chiediamo perdono… ma non potevamo sapere che gli Dei Egizi ci avrebbero mosso guerra in nostra assenza! Quell’Amon Ra è stato per secoli rinchiuso fuori dal mondo, nessuno avrebbe creduto che provasse affetto per un figlio bastardo!” –Esclamò Polemos, cercando di convincere la Dea della Notte della loro buona fede. –“Inoltre il tempio non era sguarnito! C’erano le Astrazioni, si stavano già risvegliando quando siamo partiti! Avrebbero potuto combattere!!!”

 

Umpf… buoni quelli!” –Ironizzò Chimera, tentando di liberarsi dagli unghioni d’ombra. –“Mai che muovano un dito, mai che intervengano per guadagnarsi da vivere! Che razza di guerrieri sono?”

 

“Questo è vero!” –Concordò Nyx, volgendo lo sguardo verso un gruppetto di Divinità che si nascondevano dietro le colonne del tenebroso salone. –“Oizys! Momo! Apate, e voialtri! Cosa avete da dire a vostra discolpa?”

 

Inizialmente nessuno rispose, poi un uomo basso e con sparuti capelli venne spinto avanti, lamentando la sgarbatezza dei compagni.

 

“Mia Signora, avete ragione, ma cosa avremmo dovuto fare? Siamo vecchie e stanche Divinità! Geras, pace allo spirito suo, avrebbe potuto invecchiarli di colpo, ma quelle furie avrebbero combattuto anche con il bastone! E io, io cosa avrei potuto fare? Sono così piccolo che quasi mi calpestano, mi avrebbero deriso se li avessi affrontato!”

 

“Piccolo abbastanza per passare inosservato, non è vero, lurido vigliacco?!” –Avvampò Nyx nel suo cosmo oscuro, avvolgendo Momo in una spirale di ombre. –“Cosa ho fatto di male per meritare una simile inutile progenie?! Eris, almeno, ha partorito dei veri guerrieri non dei balocchi!” –Scosse la testa, mentre le tenebre da lei evocate si cibavano della personificazione del Biasimo, scavando fino alle viscere e nutrendosi della sua essenza vitale, fino a lasciare a terra soltanto una massa di pelle, ossa e luridi stracci.

 

“Che orrore!!! Iiihhh!!!” –Gridò una voce stridula, proveniente dal mucchietto di impaurite Divinità.

 

“Vuoi essere il prossimo, Oizys? Allora chiudi quella maledetta bocca! L’unica mia vera sventura è quella di avervi concepito!” –Commentò la Dea ancestrale, prima che una placida figura priva di vesti e di capelli, fluttuando nell’aria, si portasse di fronte a lei, chiedendo ascolto.

 

“Siete ingiusta, Madre Notte!”

 

Moros! Persino tu remi contro di me?”

 

“Affatto! Tengo solo fede al mio nome, ed ugualmente hanno fatto Geras e gli altri! Cosa vi aspettavate, in fondo, da obliate Divinità che hanno rinunciato a combattere nel momento in cui sono venute al mondo? Non lo ricordate, mia Signora? Eppure siete voi ad averle generate, voi che le mandaste tra gli uomini per acuire le loro debolezze! Le Astrazioni non sono guerrieri, bensì la personificazione di sentimenti, vizi e virtù tipici dell’animo umano! Come avrebbe potuto un vecchietto col bastone, come Geras, combattere? O Oizys, quella sventurata creatura deforme, ingaggiare guerra contro il Falco dalle ali argentee? Algea ci ha provato e ne ha ottenuto solo un’infinita e infuocata pena! Ognuno fa ciò per cui è nato, ma noi non siamo nati per guerreggiare!”

 

“Almeno tu avresti potuto fare qualcosa! Le forze non ti mancano, dato che le sprechi in inutili sproloqui!” –Ringhiò Nyx, afferrando il figlio per il collo e sbattendolo a terra, senza che questi muovesse ciglia, come se neppure la prospettiva di morte lo turbasse.

 

“Avrei potuto, certamente, ma non l’ho fatto. Non faccio mai niente io, perché tutto in fondo è già stato scritto! Gli eventi seguiranno il loro corso, qualunque cosa noi decidiamo di fare o meno, alla fine dei tempi tutti moriremo. A che giova allora combattere? È inutile. A che pro difendersi? Tutto è vano, tutto è fatidico. Questo è il destino ineluttabile! Volete sapere il vostro, mia Signora?”

 

“L’unico destino che conosco è quello in cui gli Dei ancestrali domineranno il mondo! E tu, indovino porta scalogna, non ne farai parte!” –Sentenziò, spaccandogli il cranio con un secco colpo di mano.

 

Di fronte a quella violenza, nessuno degli altri Dei disse alcunché. Persino Polemos e Chimera smisero di dimenarsi, nonostante le ferite agli arti, consapevoli che almeno su una cosa Moros aveva ragione. Sarebbero tutti morti, a cominciare da loro due.

  

“Bah!” –Commentò infine la Notte, schioccando le dita e facendo scomparire i lunghi artigli di tenebra che li tenevano prigionieri. –“Sarebbe un vero spreco far fuori due validi combattenti! Inoltre, devo ammettere che, senza la vostra ingerenza, non avremmo avuto ciò di cui avevamo bisogno!”

 

“Per questo siamo intervenuti, mia Signora! Sapevamo che i figli di Eris avrebbero fallito!” –Esclamò Polemos, affannando nel rimettersi in piedi. –“Senza di noi la missione nello Jamir non avrebbe avuto successo!”

 

“Questo vi va riconosciuto!” –Sibilò Nyx, spostando lo sguardo verso un angolo dello stanzone, dove, guardato a vista da un gruppo di guerrieri armati, giaceva inerme e nuda una donna dai lisci capelli viola e dalle sopracciglia rasate in modo da formare due pallini simili a nei. Aveva la schiena in fiamme, per le frustate subite, frustate che l’allievo di Polemos si era divertito a infliggerle con la coda, prima che la Notte interrompesse il suo divertimento. –“Devo ammetterlo, Polemos! Hai avuto più successo tu, con una rapida e mirata incursione, che non Ares e Discordia e tutto l’esercito che si sono portati dietro sulla Luna! Forse vali davvero qualcosa! Ih ih ih!” –Ridacchiò l’ancestrale Dea, avvicinandosi al Demone della Guerra, inginocchiato di fronte a lei.

 

Polemos non disse alcunché, ma Chimera, che non resistette alla tentazione di spostare lo sguardo, riuscì a contare le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, temendo che l’atroce entità lo sgozzasse da un momento all’altro.

 

“Bene, pare che tu abbia ottenuto quel che volevi, non è così?” –Gli disse infine, scarmigliandogli i lunghi capelli rosa. –“Signori! Un attimo di attenzione, prego!” –Strillò, obbligando tutti i presenti a voltarsi verso di lei. –“Ho il piacere di presentarvi il nuovo Lord Comandante delle Armate delle Tenebre! Sarà lui a curare la vostra dislocazione in campo, a lui dovrete obbedire! I miei complimenti, dunque!”

 

Polemos esitò un momento, poi si mise in piedi, mentre Chimera e altri guerrieri alle loro spalle applaudivano, gridando a gran voce il suo nome.

 

“È una cerimonia misera, lo ammetto! Forse avresti preferito aspettare che fosse lui a conferirti l’incarico? Per dargli una maggiore ufficialità?”

 

Lu… Lui?!” –Balbettò infine Polemos, mentre Chimera al suo fianco deglutì.

 

“Naturalmente! Sta venendo qui! Il varco tra i mondi ormai è aperto!” –Chiosò Nyx, abbandonandosi a una risata soddisfatta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 42
*** Capitolo quarantesimo: L'ultima alleanza ***


CAPITOLO QUARANTESIMO: L’ULTIMA ALLEANZA.

 

L’arena del Grande Tempio era gremita di gente, come non lo era da molto tempo, quasi due anni ormai. Dall’unica volta, durante la sua corrente incarnazione, in cui Atena aveva convocato un’assemblea generale di tutti i Cavalieri, soldati e fedeli, poco dopo la caduta di Gemini e la fine della guerra civile che aveva dilaniato il Santuario.

 

Pegasus, entrando nell’arena e prendendo posto sulla tribuna d’onore, assieme ai suoi quattro compagni, ricordò quel giorno, il sole che risplendeva sul volto di Lady Isabel, ripresasi dalla ferita della freccia di Betelgeuse e pronta per portare la pace al Grande Tempio. A pensarci adesso, a ripensare alla contentezza di quel momento, quando per la prima e unica volta avevano davvero creduto che la guerra fosse finita, che non vi fosse più da combattere, il ragazzo sorrise, scuotendo la testa. Una vita fa. Si disse, spostando lo sguardo sugli spalti e passando in rassegna tutti i presenti.

 

La gradinata laterale era occupata dai Cavalieri di Atena, sebbene ben pochi fossero rimasti, decimati dalle guerre interne e dagli scontri provocati dal figlio di Ares. Pegasus notò subito le chiome colorate di Castalia e Tisifone, in prima fila, ripresesi dalle ferite, affiancate da Nicole, Yulij del Sestante, Asher e Nemes, accorsa prontamente alla convocazione di Atena. Dietro di loro, in rigoroso silenzio, quasi temessero di poter essere sgridati in qualsiasi momento, aspettavano Reda e Salzius. Completavano la tribuna, per quanto non fossero Cavalieri, alcune aspiranti sacerdotesse, i più anziani soldati semplici e membri della Fondazione fedeli a Lady Isabel: il professor Rigel, accompagnato dai fratelli d’acciaio, e Cliff O’Kents.

 

Alla loro destra Cristal aveva fatto accomodare la delegazione giunta da Asgard, guidata dalla Celebrante di Odino, Flare di Polaris, scortata da alcune Guardie della Cittadella capitanate da Bard. Sotto di loro sedeva la Dea della Luna, splendida nel suo vestito color panna, con l’amato Endimione che le reggeva la mano e le sue figlie assise tutte attorno, guardate a vista da Shen Gado dell’Ippogrifo e dai Seleniti sopravvissuti: Igaluk, Hubal, Avatea, Sin degli Accadi e Mani.

 

A rappresentare l’Olimpo vi erano il Luogotenente dei Cavalieri di Zeus, Nikolaos dell’Eridano Celeste, assieme ad Euro, il nobile Vento dell’Est, amico ed estimatore dei Cavalieri di Atena, e all’Imperatore dei Mari, la cui apparizione al Grande Tempio aveva subito provocato una certa tensione, soprattutto da parte dei Cavalieri d’Oro e d’Argento. Ma poi Pegasus era intervenuto, ricordando l’aiuto che Nettuno aveva dato loro durante la Guerra Sacra inviando le armature d’oro nell’Elisio.

 

“Questo non significa che abbiamo dimenticato i morti che il diluvio da te scatenato ha causato in tutto il mondo!” –Aveva comunque messo in chiaro il Cavaliere di Atena, prima che il Dio prendesse posizione, accompagnato dalla graziosa sirenetta.

 

Completavano l’ampia tribuna centrale Tirtha e alcuni santoni indiani e una delegazione giunta all’ultimo istante, sorprendendo tutti i Cavalieri di Atena, tranne Ioria, che aveva riconosciuto colui che la guidava. Horus, il Dio falco, scortato da un gruppo di Guerrieri del Sole, arrivato in rappresentanza dell’Egitto.

 

La terza sezione degli spalti, quella vicino all’ingresso nell’arena, era invece riservata ai Cavalieri delle Stelle, presenti finalmente in formazione completa: Jonathan, Reis, Marins, Febo, Matthew, Elanor e il Comandante Ascanio Pendragon, l’unico il cui sguardo trasudava fermezza e determinazione, anche in quella delicata situazione. Alle loro spalle sedevano alcuni druidi e sacerdotesse di Avalon, quelli più giovani e più propensi a viaggiare, affiancati da una delegazione di soldati Inca che Jonathan aveva portato con sé dal Sudamerica.

 

L’ingresso di Atena nell’anfiteatro mise a tacere il chiacchiericcio diffuso, catalizzando tutti gli sguardi sulla fanciulla dai capelli viola, che si presentava ai suoi Cavalieri e agli ospiti ammessi a quell’improvvisato consiglio con un delizioso, quanto semplice, abito bianco. Un peplo di lana, tessuto dalle ergastine del Santuario, fissato sulla spalla da una fibula dorata rappresentante una civetta. La affiancava Kiki, splendido nell’abito da cerimonia, che reggeva un cuscinetto su cui erano posati diversi rami d’olivo.

 

Alle sue spalle procedevano attenti i pretoriani dorati, Ioria del Leone, Mur dell’Ariete e Virgo, quest’ultimo stanco e provato per la possessione subita, ma deciso a farsi forza e a non cedere proprio adesso. A un passo dalla fine.

 

Mentre Atena saliva i gradini di marmo, per prendere posizione sulla tribuna dell’arena, nel posto solitamente riservato all’officiante, il Cavaliere della Vergine non poteva fare a meno di sudare freddo, ben sapendo quel che sarebbe accaduto. Del resto, lui prima di tutti aveva scoperto il nome del loro avversario, sebbene il termine non fosse adatto ad indicare la terribile entità con cui avrebbero dovuto confrontarsi. Il motivo per cui così tanto sangue era stato versato. Sospirando, Virgo affiancò Ioria e Mur, fermandosi ai piedi della tribuna, in tempo per osservare gli ospiti più attesi accedere all’anfiteatro sacro.

 

Quattro figure, rivestite da fulgide corazze, dai colori azzurro, rosso, argento e verde acqua, entrarono a passo deciso, fermandosi al centro dello spiazzo, proprio dove Pegasus e Cassios, e molti altri pretendenti alle sacre armature, avevano combattuto. In silenzio, si inginocchiarono di fronte ad Atena, chinando il capo finché la Dea non li richiamò, permettendo loro di rialzarsi.

 

“Signore dell’Isola Sacra, e voi, suoi fratelli e praticanti! Celebrante di Odino, e voi, abitanti di Asgard! Seleniti e discendenti della splendente Luna! Figlio di Eos, e tu, Poseidon Ennosigaeum! Primogenito di Osiride, detto il lontano, e voi, devoti ammiratori del sole! Pellegrini giunti dalle rive del Gange, dalle foreste dell’Asia o dalle rupi andine! E voi infine, miei Cavalieri, miei fedeli, miei eroi! A voi tutti porgo il benvenuto in quest’arena di pace, a voi tutti offro un ramo dell’albero sacro! Che sia per noi segno di speranza e unione, di amore e rispetto fraterno!” –Esordì Atena, sollevando un ramo di olivo e mostrandolo al sole, mentre anche Kiki e i cinque Cavalieri dello Zodiaco, alla sua destra, facevano altrettanto, lasciando che gli effluvi della pianta riempissero l’aria, giungendo alle narici di tutti i presenti.

 

“Con gioia vi accolgo, e vi ringrazio per essere accorsi prontamente, da diversi luoghi del mondo, da regni divini che per troppo tempo sono stati lontani, divisi o addirittura nemici! Figli di contese durate secoli, di ostilità mal celate o di incomprensioni che non siamo riusciti a superare, ci ritroviamo quest’oggi, in questo scorcio del tempo cosmico che affanna su un filo sottile! Un filo che separa la luce dall’ombra! È una guerra, questa, che da troppo tempo si procrastina! Riusciremo a metterle fine?!” –Sospirò Atena Polias, prima di porre lo sguardo sul Signore dell’Isola Sacra, invitandolo infine a parlare.

 

Sua era stata la richiesta di convocazione di una così numerosa e variegata assemblea, sua la necessità di condividere le conoscenze di Avalon con gli altri regni divini. E sua, forse, la speranza di una soluzione.

 

“Dea Atena! Vi ringrazio per l’ospitalità con cui ci avete accolto! Una simile magnificenza abbaglia i mondi!”

 

“Non ho fatto niente di trascendentale, Avalon! Sono soltanto me stessa, come vorrei che anche tu, e i tuoi compagni, lo foste!” –Rispose la Dea.

 

Avalon scosse il lungo mantello rifinito d’argento che gli cadeva lungo la schiena, con una grazia che faceva parte della sua natura. Eterea. Per qualche minuto non disse altro, limitandosi a fissare Atena con uno sguardo magnetico che trascinò entrambi indietro, all’alba dei tempi.

 

Pegasus fece per dire qualcosa, ma Sirio lo frenò, afferrandogli il braccio e pregandolo di non spezzare quell’unione tra due tra le più potenti entità del pianeta.

 

“Leggo nei vostri occhi la stessa fierezza di allora! Quando, dall’alto di Mount Badon, guidaste i vostri Cavalieri nella battaglia di Britannia, assieme a vostro Padre e ai bianchi Cavalieri di Glastonbury!” –Parlò infine il Signore dell’Isola Sacra. –“Sempre pronta a mettervi in gioco pur di raggiungere il proprio obiettivo! Anche a costo di rischiare la vita! E vi fa onore, Atena! Certo! Ma non sempre il martirio è la via per la vittoria, ormai dovreste averlo imparato!”

 

“Qualunque strada ci sia da seguire, per garantire il sole agli uomini, non avrò timore! Io la percorrerò!”

 

“Avete centrato il punto, Atena!” –Sospirò Avalon. –“Ma temo che di sole, ormai, agli uomini ne resti ben poco! Presto, troppo presto, prima di quanto avessimo creduto, la Terra sprofonderà in un’immensa tenebra, seconda soltanto a quella in cui era avvolta all’epoca della creazione!”

 

“Parole enigmatiche le tue, Signore dell’Isola Sacra! Se un’alleanza vogliamo creare, dobbiamo essere onesti gli uni con gli altri! E, per quanto tu e i tuoi Cavalieri delle Stelle valido aiuto ci abbiate offerto in questi ultimi anni, qualcosa dentro di me mi fa pensare che non ci abbiate detto tutto! Non ancora!”

 

“Cos’altro vuoi sapere, Dea della Guerra Giusta? Il nome di colui che, risvegliato dal lungo sonno, distruggerà la Terra con un solo fetido respiro? Posso dirtelo se vuoi, in fondo è soltanto un nome! Ma ti farà rabbrividire, togliendoti il sonno!”

 

“Il sonno l’ho perso millenni fa, accettando il compito che mi era stato assegnato e spendendo le notti a sospirare, in pena per le sorti dei miei Cavalieri!”

 

“E fai bene ad esserlo! Poiché soltanto la morte attenderà tutti noi!” –Chiosò Avalon, fissando Atena con vividi occhi. –“Del resto, essa è la naturale conclusione della vita, di un processo esistenziale che inizia con la creazione e termina con la distruzione, in un ciclo continuo, che perdura da sempre! Niente viene creato se non per morire un giorno! Che sia oggi o tra mille anni tutto scomparirà! Atene, Avalon, tutti i regni divini, sono solo espressione di un qui e ora che presto non avrà più valore!”

 

“Il tuo fatalismo mi spaventa, Avalon! Che ne è dell’ardore che dimostrasti un tempo, riversandolo dall’alto di Mount Badon sui tuoi nemici?”

 

“L’ardore regna ancora in me, Atena! Ma se Ares o Crono erano nemici che, sia pur con sforzo e sacrificio, era possibile vincere, altrettanto non può dirsi dell’abisso di tenebra che si sta spalancando sotto di noi! Un’oscurità così vasta, così primitiva, che non so, lo ammetto, se la luce dei nostri cosmi potrà contrastarla!”

 

Pegasus fece per intervenire, chiedendo delucidazioni, ma Avalon riprese a parlare, iniziando a camminare per l’arena di fronte agli occhi interessati di tutti i presenti.

 

“Un tempo lontano, agli albori del Mondo Antico, venne combattuta la prima grande guerra! Che fosse sacra o meno, questo non so dirvelo, perché gli Dei all’epoca erano ancora un unico Dio, e quel Dio voleva schiavizzare la Terra che lui stesso aveva generato, detestando il libero arbitrio che gli uomini, figli suoi, avevano sviluppato! Di sicuro però fu una guerra degna di essere combattuta, come lo sono tutte le guerre miranti a difendere la vita e la libertà contro la bieca tirannide! Ma il potere oscuro contro cui gli uomini liberi tentarono di lottare era troppo grande, troppo potente, al punto da sopraffarli tutti. Armati delle migliori speranze, rivestiti dalle più potenti armature, forgiate dal primo ordine di alchimisti che in seguito si sarebbe sparso per il pianeta dando vita a Mu, Atlantide e a molti altri regni, tutti caddero. Uno ad uno. Nessuno poteva essere forte abbastanza da difendersi dal proprio creatore!

 

Fu allora che una gilda di saggi, che aveva trascorso la vita a studiare le sorgenti del cosmo, costruì sette Talismani sull’isola che sarebbe divenuta Avalon, rinchiudendo in essi la forza primigenia della natura, assorbendo il potere puro degli elementi che componevano il mondo e ad esso davano forza! La luce prima di ogni altra, necessaria per contrastare l’oscurità! Il sole, che della luce era il simbolo e per gli uomini fonte di vita! La luna, che del sole era immagine concorrente e al tempo stesso complementare! L’arcobaleno, che tingeva il mondo con i suoi sette colori, vivacizzando quei toni spenti in cui invece sarebbe precipitato! Il mare, che rendeva vivi gli uomini, con il suo scrosciare imperterrito! E infine i sogni, cuore di ogni uomo, desiderio pulsante nascosto nell’animo di ogni essere vivente! Costruirono sette Talismani e li impugnarono per affrontare la terribile minaccia, combattendo con tutto l’ardore che avevano dentro, fino all’esaurimento della più piccola stilla di vita. E vinsero, contando sugli amici che avevano a fianco, aiutandosi l’un l’altro e tenendosi per mano quando erano convinti di non poter più stare in piedi con le proprie forze! Solo così, in nessun’altro modo, avrebbero potuto ottenere il successo, sia pur effimero, che hanno raggiunto! E allo stesso modo dovremo cercare di fare noi, combattenti di Avalon, di Atene, di Asgard o di qualunque altro regno, unendo le nostre forze per l’ultima guerra!”

 

“Perché hai definito effimero il loro successo, Signore dell’Isola Sacra? E che ne fu di questi sette valorosi?”

 

“Perirono, non tutti e non subito. Ma il tempo fece strage anche delle loro vite, sebbene l’oblio mai li abbia vinti. Le loro anime e il loro cosmo permasero nei Talismani, rendendoli vivi, facendone dei cristalli di pura energia che un tempo, quando una seconda oscurità fosse tornata per sommergere il mondo, avrebbero ricominciato a pulsare, scegliendo sette nuovi combattenti, degni di tale ruolo! E quel momento è adesso! Il varco tra i mondi, ove i sette scagliarono il male, nell’infinito vuoto cosmico, si è riaperto, vittima del tempo che, alla lunga, polverizza anche la più potente delle magie, e colui che un tempo questa Terra generò sta tornando per riprenderla, e per distruggerla, completando così il ciclo vitale della stessa!”

 

“Per questo siamo nati, Dea Atena!” –Intervenne allora Andrei, affiancando Avalon. –“Per difendere i sette Talismani e coloro che li avrebbero indossati di nuovo! E, in vista dell’ultima guerra, per unire le genti libere rinsaldando l’antica alleanza che esisteva un tempo!”

 

“Noi siamo gli Angeli!” –Esclamò Avalon, lasciando svolazzare il mantello di seta argentea e ergendosi in tutto il suo beato splendore. –“Gli esseri immortali per eccellenza, generati per difendere il mondo e custodirlo fino all’avvento dell’ultima ombra!”

 

“Io sono Alexer, Angelo di Aria!” –Esclamò l’uomo dagli occhi di ghiaccio che aveva addestrato il Cavaliere di Acquarius, il cui cosmo risplendeva azzurro in un turbinar di venti e nembi.

 

“Io sono Asterios, Angelo di Acqua!” –Lo seguì il ragazzo che Selene aveva ospitato per anni, pizzicando la cetra che stringeva in mano.

 

“Il mio nome è Andrei, Angelo di Fuoco!” –Continuò il robusto maestro di Jonathan, prima che l’alta voce del fratello lo sovrastasse.

 

“E su tutti io sono Avalon, Angelo di Luce e Principe Supremo degli Angeli, investito dal Primo dei Sette Saggi del titolo di Signore dell’Isola Sacra!”

 

In quel momento le quattro armature che avevano indosso brillarono di una luce accecante, obbligando molti tra i presenti a tapparsi gli occhi per non essere abbagliati. Quando riuscirono a riaprirli, notarono le grandi ali spiegate sulle spalle degli Angeli, l’eleganza con cui sapevano muoversi, la grazia che li rendeva leggeri come se nient’altro fossero se non luce stessa.

 

“Noi siamo i garanti dell’equilibrio, la tetrarchia degli Angeli!” –Affermò Avalon, avvolgendo l’intero anfiteatro nel suo immenso e corroborante cosmo.

 

“È incredibile!” –Mormorò Tisifone, che mai aveva percepito un’energia così intensa, neppure di fronte agli Dei fronteggiati fino ad allora. –“Questo cosmo… è così caldo, confortevole, capace di lenire qualunque affanno.”

 

“È un lento oblio, un Elisio ove niente può turbarci più.” –Le fece eco Castalia, dando voce ai sentimenti di tutti i presenti, che si lasciarono cullare da quella manna improvvisa. Un’ambrosia così raffinata che nessuna Divinità aveva mai offerto loro.

 

“Straordinario!” –Commentò Horus, che pure già era stato informato da Amon Ra sul vero ruolo degli Angeli, ma che ancora non era stato raggiunto dalla loro luce. –“Questo è Maat, l’ordine cosmico, la forza positiva dell’universo!” –Naveed e i soldati che lo accompagnavano caddero in ginocchio, coprendosi gli occhi con le mani, il volto segnato da un ruscellare di lacrime che non riuscivano a fermare, tanta celestiale era la beatitudine che aveva invaso i loro animi.

 

“I sumeri ci chiamavano Me, le forze che concorrono a garantire l’ordine dell’universo, gli agenti dell’equilibrio! Noi siamo le potenze del mondo!” –Concluse Avalon, prima di ritirare la propria luce che fluì verso di lui, illuminando per l’ultima volta la sua argentea corazza, prima di quietarsi.


“Sommo Avalon!” –Esclamò allora Atena, inginocchiandosi. –“Dovreste essere voi a parlare da quest’alto scranno, non io che sono una semplice Dea!”

 

“Vi prego, Atena! Questa è casa vostra e noi siamo qua in veste di ospiti, di amici e di compagni! Siamo venuti ad offrire consigli, non a dare ordini!” –Chiosò il Signore dell’Isola Sacra, prima di aggiungere, con un sospiro, parole che incuriosirono l’assemblea. –“E siamo qua per chiedere perdono! Il perdono di tutti voi, uomini e Dei!”

 

“Perdono?! Spiegatevi, vi prego! Di cosa dovreste scusarvi?”

 

“Di aver portato l’ombra! O comunque una parte di essa!” –Rispose Avalon, per poi continuare, incitato dai fratelli. –“Come avrete capito, dalle nostre impronte cosmiche, noi rappresentiamo gli elementi della natura, nella loro forma più pura, così come furono creati! Quei cinque elementi che sacerdoti, filosofi e alchimisti di tutto il mondo hanno sempre studiato, venerato e forse mai compreso, pur essendo un motivo comune in tutte le culture.”

 

“I cinque elementi?!” –Mormorò Mur, ricordando antiche lezioni di Shin. –“Terra, acqua, fuoco, aria e luce o etere.”

 

Khsiti o bhumi, ap o jala, agni o tejas, marut o pavan, e su tutti byom o akasha, da cui nell’induismo si fanno discendere i primi quattro.” –Commentò Virgo. –“I pancha mahabhuta, i cinque elementi!”

 

“Alexer è di certo l’aria, Andrei il fuoco. Avalon la luce più pura, o etere, e Asterios sarà l’acqua.” –Aggiunse allora Cristal, prima che Pegasus rompesse i suoi ragionamenti.

 

“Cinque elementi, ma quattro Angeli. Dov’è il quinto?”

 

E la sua domanda pesò sull’arena per qualche istante, rimbalzando nella mente di tutti i presenti, fino a strappare un sospiro dispiaciuto al Signore dell’Isola Sacra.

 

“Il quinto lo conoscete bene, perché spesse volte vi siete confrontati con lui, in questi ultimi anni!”

 

Che… cosa?!” –Esclamò Pegasus, comprendendo quel che Avalon aveva lasciato intendere. –“Vuoi forse dire che… lui?! Flegias, il figlio di Ares, è uno degli Angeli?!”

 

A quelle parole, un mormorio diffuso pervase l’intera assemblea, mentre volti sbigottiti si fissavano l’un l’altro senza sapersi dare una spiegazione. Ma bastò che Atena battesse tre volte lo Scettro di Nike per riportare tutti al silenzio, consentendo ad Avalon di ricominciare a parlare.

 

Flegias è stata soltanto una delle identità che ha assunto nel corso di millenni trascorsi ad avvelenare l’animo umano, ben più di quanto il suo lo fosse stato! Il suo nome originario è Anhar e… sì, egli era uno degli Angeli, uno di noi! O dovrei dire è, in quanto di certo è ancora vivo, seppure non in forma corporea! Del resto non esiste niente a questo mondo che possa annientare definitivamente uno di noi, niente se non la fine di tutte le cose!”

 

“Ma com’è possibile? Cosa gli è accaduto? Lui… è il male allo stato puro!”

 

“Hai ragione, Pegasus! Oggi Anhar è il male, il nostro più grande nemico nonché il servitore più fedele di colui che siamo chiamati ad affrontare! L’araldo della grande ombra! Ma un tempo non era così… Quando fummo generati, egli era l’Angelo della Terra, l’elemento che maggiormente avrebbe dovuto rimanere a contatto con gli uomini. Purtroppo, proprio come la razza umana, fu il primo, e per fortuna l’unico, ad essere corrotto! Non lo avevamo notato al principio, e ammetto che non lo ritenessimo neppure possibile, tuttavia il seme dell’ombra era germinato in lui, trovando terreno fertile in un animo inquieto. E quando l’Antico, avendone il sentore, lo cacciò dall’Isola Sacra, nominandomi suo successore, egli abbandonò ogni parvenza di bontà, rivelandosi infine per quello che era! La terra, che avrebbe dovuto costituire il suolo su cui edificare un nuovo mondo, venne arsa da una fiamma d’ombra e resa sterile per l’eternità, divenendo melancholia, un serbatoio di velenosissima bile nera. Così il pentacolo che avremmo dovuto rappresentare cessò di esistere e gli elementi diventarono quattro, perdendo potere e accelerando il secondo avvento!”

 

“Incredibile!” –Commentò Pegasus. –“Questo spiega la sua potenza, superiore a quella di Ares e di altre Divinità che abbiamo affrontato!”

 

Anhar si è servito di voi, di tutti voi, per favorire il ritorno dell’ombra sulla Terra, lavorando per distruggere i regni divini dall’interno o per farli scontrare tra di loro! Per farlo, per irretire uomini e Dei, piegandoli ai suoi scopi, utilizzò sette pietre nere, intrise dell’essenza dell’ombra, che gli furono donate dal suo creatore. Sette, proprio come i Talismani che furono creati per contrastarne il potere. Anhar le sparse per il mondo, donandole a potenti mai paghi del loro potere, a burattinai che non si accorsero di essere manovrati, o inserendole in gioielli o monili con cui incantare re e Divinità, per portare ovunque una notte di guerra. Una la diede a Seth, per istigarlo alla rivolta contro Ra, un’altra la offrì a Loki, una terza a Crono. Una era incastonata nell’Anello del Nibelungo, e due supponiamo furono date ai gemelli custodi della Terza Casa di Atene. Solo una tenne per sé, la più potente di tutte, quella che gli permetteva di canalizzare tutte le energie e perdurare! è così che Anhar opera, sfruttando tutto ciò su cui può allungare le mani, dominato da un materialismo che nient’altro è se non continua ricerca di potere. Si finse consigliere di Ra, per accedere ai segreti delle piramidi e aizzare gli Dei d’Egitto contro Atene, niente di diverso da quello che aveva fatto anni addietro in America Meridionale, provocando un conflitto armato tra templi di Divinità diverse. In Africa spinse i Savannah ad una lotta intestina, portando alla fame il continente. In Grecia fece altrettanto, mettendo Crono sul trono di Zeus e approfittando di quell’energia per nutrire suo padre e i suoi fratelli bastardi!”

 

“E che dire di Loki e Surtr, ingannatori ingannati del pantheon nordico, la cui discesa in campo, con il conseguente crollo di Yggdrasill, ha accelerato il riprodursi della configurazione astrale necessaria affinché l’ombra ritorni dal vuoto cosmico ove fu confinata!” –Intervenne allora Alexer, supportando le parole del fratello. –“E proprio la caduta dell’Albero dell’Universo ha segnato la fine del tempo a nostra disposizione, la fine del tempo cosmico, poiché il grande frassino fu piantato dai Sette Saggi nel Mondo Antico, terminata la Prima Guerra, e la madre di uno di essi, la Volva che possedeva la Vista, predisse che sarebbe rimasto in fiore fino al secondo avvento!”

 

“Una concezione ciclica dell’esistenza che è perdurata in molte culture!” –Rifletté Atena, mentre anche Nettuno, Euro, Horus e altri annuivano a loro volta. –“In quella greca, dove ogni generazione cosmica è stata soppiantata dalla successiva, Urano da Crono, Crono da Zeus, e chi mai verrà dopo il Signore della Folgore?”

 

“Tracce ve ne sono anche in Egitto, nell’eterna lotta tra il Dio del Sole e il Serpente Cosmico!” –Intervenne allora Horus, presto seguito da Alexer, che cercò lo sguardo attento della Celebrante di Odino.

 

“E in quella nordica, con i warg che danno la caccia al sole e alla luna in uno scontro ciclico tra due forze antagoniste, luce e ombra, destinato a durare per sempre. Perché proprio il procrastinarsi di questa lotta garantisce l’equilibrio del mondo. Entrambe le componenti sono necessarie, completandosi a vicenda, mantenendo l’universo in equilibrio costante, senza che nessuna delle due prevarichi sull’altra. Questo è l’ordine cosmico!”

 

“E se una simile prospettiva dovesse avverarsi? Se una delle due forze prevalesse sull’altra?!” –Mormorò Atena, ponendo la domanda che tutti si stavano chiedendo.

 

“In tal caso l’ordine cosmico verrebbe a mancare e l’universo scivolerebbe verso la sua distruzione. Ed è il preciso momento del tempo cosmico che stiamo vivendo noi!” –Confermò Avalon. –“Lo hanno chiamato in molti modi! Armageddon, Ragnarok, fine del mondo, giorno del giudizio, giorno dell’ira. Per me non ha alcun nome, per noi è semplicemente l’avvento, la manifestazione del potere primordiale della creazione, l’oscurità più pura di fronte alla quale persino la Notte impallidisce!” –E, senz’altro aggiungere, disegnò con il piede un simbolo sul terreno, allontanandosi in modo che tutti, da qualunque angolo dell’arena, potessero vederlo.

 

“La catarsi del mondo è arrivata!”

 

Ω

 

Riluceva lì, al sole d’inverno, pallido e bieco, scatenando ansie e timori tra gli spettatori. Fu Andromeda il primo a riconoscerlo, ricordando l’ultimo gesto di un nemico affrontato mesi addietro. Sakis del Quadrante Oscuro.

 

L’Omega. La fine di tutte le cose.

 

“Ma chi è questo nemico che così tanto temete? Chi può esistere, più spaventoso della Notte, da intimorire a tal punto gli Dei e le entità più potenti della Terra?” –Incalzò Pegasus, stufo di tutti quei discorsi.

 

“Colui che ha generato la Terra e tutti i mondi, Pegasus, essendo anche nostro padre! Egli è l’Alfa e l’Omega, principio e fine di ogni essere vivente!” –Mormorò Avalon, prima di spostare lo sguardo su Atena, che sussultò di colpo, come trafitta da una lama di ghiaccio.

 

Avalon… Vuoi dire…?!”

 

“Ê toi mèn prṓtista Cháos génet!”Chiarì il Signore dell’Isola Sacra. –“In principio Egli era il Caos, motore di tutte le cose!”

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 43
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

Fu abbastanza semplice, per lui, entrare di soppiatto nel Grande Tempio, celandosi dietro nuvole di passaggio, muovendosi a velocità così elevata che l’occhio umano avrebbe faticato ad individuare anche se i soldati di guardia avessero saputo dove guardare. Del resto, oltre ad essere il Dio dei Commerci, della Diplomazia, delle Strade e dei Viaggi, e di altri attributi che gli uomini gli avevano assegnato nel corso dei secoli, era anche il Dio dei Ladri e di tutte quelle ingegnose attività che lo avevano sempre affascinato, incuriosito da quanto fossero capaci gli uomini di dare vita alle idee più creative e bizzarre quando lo scopo fosse ottenere un furbo vantaggio, quasi sempre a danno di altri. Una mentalità schietta e scaltra di cui, sebbene non ne difendesse l’operato, comprendeva il fine.

 

Le tende della terrazza sul retro della Tredicesima Casa sventolavano stanche, in quel tardo pomeriggio di fine autunno, aspettando il rientro della Dea che vi dimorava, Dea che sarebbe stata impegnata ancora per qualche ora nell’arena per discutere con gli ospiti che aveva improvvisamente convocato. Anch’egli sarebbe dovuto sedere su quegli spalti, per ascoltare la figlia di Zeus profondersi in un’accorata orazione per la salvezza dell’umanità, e lo avrebbe fatto se Era non lo avesse fermato poco prima di lasciare l’Olimpo.

 

“Ho un favore da chiederti, mio vecchio amico!” –Aveva esordito, con voce vellutata, lo stesso tono che le aveva sentito usare ogni volta in cui voleva conquistare le attenzioni del Signore del Fulmine. –“Vorrei affidarti una missione di recupero, una missione riservata che solo tu puoi portare a termine!”

 

A quel punto Ermes si era incuriosito, invitando la Dea a terminare la sua richiesta, sgranando gli occhi stupito quando gli aveva riferito quel che avrebbe dovuto recuperare. O, per dirla in altri termini, rubare.

 

Non capisco cosa se ne faccia, ma dubito che lo userà per fare del male. Rifletté il Nume, scivolando tra i tendaggi della Stanza del Grande Sacerdote, avendo cura di non essere individuato dalle poche guardie rimaste, che stazionavano abuliche presso i portoni di ingresso. No, l’espressione sul suo volto non tradiva alcuna malvagità. Solo un’infinita tristezza! Aggiunse, raggiungendo il trono dell’oracolo di Atena, nel cui basamento un prezioso manufatto era custodito.

 

Lo afferrò con cura, riponendo lo scrigno che lo preservava sotto lo scranno, e rientrando poi di fretta sull’Olimpo. Zeus avrebbe certamente essere voluto informato di ciò che l’assemblea dei regni divini aveva deliberato, sebbene al momento le sue preoccupazioni fossero altre. Ermes lo aveva capito, dagli sguardi incerti che rivolgeva alla vetrata della Sala del Trono, la finestra che guardava a oriente, oltre il Mar Egeo. La finestra che guardava lontano, fino ai Monti del Caucaso.

 

Per quanto amasse dissimulare i propri sentimenti, ormai il Messaggero Olimpico sapeva comprenderli comunque, anche quelli nascosti, e poteva percepire la tensione che pesava sulla scelta che Zeus avrebbe dovuto prendere a meno.

 

Perdonarlo e permettergli di combattere al suo fianco nell’ultima guerra? O lasciarlo languire ancora, altri quindici anni o forse più, condannato alla stessa prigionia di Prometeo?

 

Il Dio dei Mercanti sospirò, conscio che la scelta non sarebbe stata facile, soprattutto per Zeus, che non amava le sfumature della vita, preferendo confini netti ed inequivocabili, fossero bianchi o neri. Il grigio avrebbe soltanto opacizzato la sua risolutezza, mostrando che anche gli Dei possono sbagliare. Con quel pensiero in mente, entrò nella Reggia della Signora dell’Olimpo sorridendo, prima di bussare al portone delle sue stanze. Un tempo Ebe o Iris lo avrebbero accolto, pregandolo di accomodarsi su morbidi cuscini di seta ricamati dalle sacerdotesse dell’isola di Samo, ma entrambe le Dee erano scomparse, massacrate dai figli di Ares durante la scalata olimpica, e dei loro spiriti erano state perse le tracce. Persino il possente Zeus non conosceva il loro destino, sebbene non lo ritenesse dissimile da quello che attendeva gli Dei sopravvissuti.

 

Morte.

 

Era aprì il portone in quel momento, tirando Ermes all’interno delle sue stanze, prima che qualche ancella curiosa, o magari Ganimede, riferisse l’accaduto al suo consorte. Ringraziò il Messaggero per quella cortesia, osservando affascinata l’intarsio della daga dorata per qualche istante, sfiorando il freddo metallo con le dita, di fronte agli sguardi incuriositi del Dio amico.

 

“Perché questa richiesta, mia Signora? Cosa intendete fare?!”

 

“Solo rimediare a un vecchio errore! Fintantoché ne ho la possibilità!” –Rispose laconica la Signora del Cielo, prima di congedarlo con un sorriso tirato.

 

“Se posso aiutarvi…”

 

“Ti ringrazio ma non puoi. Nessuno di voi può.” –Aggiunse, socchiudendo per un momento gli occhi lucidi e lasciando che una lacrima le scivolasse lungo il volto. –“Sei stato un buon amico, Ermes! Sempre a fianco di Zeus, anche nei momenti più difficili! So che lo sarai anche stavolta, so che la tua bacchetta brillerà in battaglia contro la grande ombra! E il solo pensiero mi rassicura!”

 

Il Dio dei Mercanti non comprese le parole di Era, limitandosi a ricambiare il sorriso fiacco, mentre questa richiudeva il portone di fronte a sé, lasciandolo fuori da tutto, dal suo dolore e dalla sua decisione. Rimase per qualche secondo a pensare, prima di abbandonarsi ad un sospiro e incamminarsi verso la Sala del Trono. Efesto era a lavoro da giorni ormai, su quelle che, a sentir lui, sarebbero state le sue migliori creazioni, e Ermes avrebbe contribuito a renderle tali.

 

***

 

Rimasta sola, Era fece la sua scelta. Ci aveva riflettuto a lungo, in quelle ultime fredde notti prima della fine, soprattutto dopo che Nettuno aveva scoperto la verità, riportando a galla antiche memorie sommerse dalla marea del tempo. Una marea che aveva avuto origine neppure tre secoli addietro, quando il suo temperamento era ben diverso, molto più simile al sanguigno e focoso figlio che aveva quasi conquistato l’Olimpo, scatenandovi contro la furia di Tifone e dei suoi berseker.

 

Ma il tempo era passato anche per lei, per tutti loro, Dei che non avevano mai capito cosa volesse dire esserlo, o che forse lo avevano dimenticato. Del resto, da secoli ormai non ricevevano più spontanee offerte nei luoghi di culto a loro dedicati, in quei pochi, miseri e abbandonati santuari che ancora resistevano sotto strati di edera e dimenticanza. Degli Heraion di Samo e di Argo non rimanevano che qualche colonna mozzata e ricoperta di erbacce. Adesso era tempo di andare oltre vetuste contese divine, gelosie mai risolte che avevano soltanto inquinato il loro cuore, facilitando l’avvento della grande ombra. Adesso era tempo di rinascere, per lei, come per gli uomini. Adesso era tempo di restituire agli uomini il loro Protettore.

 

Non indugiò oltre, uscendo sul retro della reggia, passando tra i quieti giardini curati da Demetra, stando ben attenta a non incontrarla, e scendendo lungo il versante orientale, fino a raggiungere la cripta dove gli eroi dei tempi antichi riposavano. Poggiò la mano sul portone, consapevole che, una volta entrata, avrebbe avuto poco tempo a disposizione prima di essere individuata, sospirò e lo spinse, andando incontro al suo destino.

 

***

 

Nessuna torcia rischiarava il salone del Santuario delle Origini, il tempio ancestrale ove la Notte aveva radunato oscure creature e Divinità arcaiche, molte delle quali da lei partorite agli albori del tempo. Ma nessuno dei presenti aveva bisogno della luce per muoversi nell’intricato labirinto che costituiva l’ossatura del santuario, abituati a giacere nell’ombra, aspettando il giorno della sua venuta.

 

Il giorno del secondo avvento.

 

“Quel momento è adesso!” –Sibilò Nyx, in piedi di fronte all’altare di pietra grezza su cui un corpo sanguinante, di ferite ancora fresche, giaceva.

 

Aveva appena fatto in tempo a toglierlo dalle grinfie delle Empuse, che già ne avevano dilaniato le membra, assaporando sadiche il suo ichor.

 

“Presto avrete altre vittime con cui divertirvi!” –Aveva sogghignato. –“Mondi interi di cui cibarvi! Ma lui voglio offrirlo come dono al nostro Signore!” –E aveva gettato il cadavere di Osiride sull’ara, immergendo le mani in uno squarcio sul fianco e schizzando poi di sangue il muro retrostante, ricreando, con macabre gocce, una ben nota configurazione astrale. Quella che, ricreandosi dopo millenni, aveva permesso la riapertura del varco.

 

Alle sue spalle, in ginocchio e silente, l’Esercito delle Tenebre attendeva.

 

Un tuono squarciò il cielo in quel momento, anticipando un grido di guerra che racchiudeva la sofferenza di un mondo condannato all’estinzione. Il muro dietro l’altare si accese di una luminescenza violacea, che presto lo inglobò, spalancando un passaggio verso mondi lontani, laddove fioche stelle brillavano inquiete.

 

“Vi aspettavamo, Potenze del Mondo! Oh Dei gloriosi che generaste il creato! Bentornati prōtógonoi!” –Declamò Nyx, mentre tre figure di puro cosmo iniziavano ad apparire all’interno del portale, varcandolo pochi attimi dopo ed acquisendo solida consistenza. –“Dio elementare, signore dei cieli più elevati, la cui aria superiore soltanto gli Antichi han respirato! Lode a te, Etere, custode della luce più pura!”

 

E da una delle tre figure scaturì un riverbero così chiaro e abbagliante, intriso di essenza divina, che obbligò tutti i presenti a coprirsi gli occhi, per riaprirli soltanto quando il vero volto di Etere fu rivelato.

 

Al suo fianco, quasi all’istante, apparve una bellissima figura femminile, rivestita da un’armatura bianca come quella del fratello.

 

“Dea primordiale del Giorno, sorella e sposa della Luce più pura, lode a te, Emera, figlia mia!”

 

Quindi, mentre Etere ed Emera si posizionavano ai lati, per permettere alla terza figura di farsi avanti, Nyx sogghignò, alla vista del Progenitore cui si era unita un tempo. Suo figlio, sposo e generatore delle tenebre.

 

“Lode a te, Essenza dell’Oscurità, le cui nebbie nere avvolgono i confini del mondo e riempiono le cavità della Terra! Sei il benvenuto, possente Erebo! Sei il benvenuto, Tenebra Ancestrale!”

 

A differenza di Etere ed Emera, quest’ultimo non sprigionava luce alcuna, anzi il suo corpo, rivestito da una tetra armatura, pareva essere più scuro della notte stessa. Soltanto due macchie rosse risplendevano sul suo volto, occhi carichi di un perfido divertimento per la guerra che avrebbe scatenato. In nome suo e del suo creatore.

 

In quella le tenebre presero a muoversi e il varco alle spalle degli Dei Primordiali si allargò, mentre un’immensa sagoma di vuoto cosmico penetrava all’interno del tempio da lui eretto millenni addietro, il tempio che adesso, percependo a pieno la sua presenza, tremò, scuotendosi fin dalle fondamenta e completando infine la sua edificazione.

 

“Primo tra i Progenitori, creatore dell’universo e di tutti gli Dei che da te discendono, ci prostriamo al tuo servizio, Lord Caos!”

 

 

IL VARCO TRA I MONDI – FINE

 

 

© Aledileo per tutti i personaggi inediti.

 

 

 

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SAGA DI AVALON

 

L’alba dell’ultima guerra

 

 

 

 

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