Human Love... and not di millyray (/viewuser.php?uid=69746)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno - Ti amo ***
Capitolo 3: *** Capitolo due - Chiarimenti mancati ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre - Confidenze ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro - Sanzaru ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque - Funerali, Scarrol e Jack Harkness ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei - Callary, tutto ha inizio ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette - E' passato ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto - Una serata... indimenticabile ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove - La macchina dei ricordi ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci - Tears ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici - Radici aliene ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodici - Un colpo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredici - L'amore cura tutto ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordici - Fear ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindici - Abbiamo tempo ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedici - Maledetto Torchwood! ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciassette - Nubi aliene, corse e calci ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciotto - Abigail ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciannove - Forgive me ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
PROLOGO
Torchwood,
indipendenti dal governo, esterni alla polizia. Combattiamo gli alieni
per il
futuro della razza umana. Nel ventunesimo secolo cambierà
tutto e voi dovete
essere pronti.
In
un mondo dove spesso
regna il caos, dove le persone a volte scompaiono misteriosamente per
non
essere più ritrovate oppure muoiono per cause naturali o, il
più delle volte, per
cause inspiegabili, dove accadono vicende strane, dove il passato si
incontra
col presente rischiando di cancellare il futuro, dove la vita delle
persone è
in bilico su un filo sottile e non ci sono morbidi cuscini sui quali
cadere ma
soltanto appuntiti pugnali pronti a strapparti il cuore, in questo
mondo che
non è certo tutto rose e fiori, in questo mondo che
è il nostro mondo, in
questo mondo che accoglie le nostre vite, noi siamo chiamati a compiere
delle
scelte, che siano esse sbagliate o giuste, buone o cattive. Siamo
costretti ad
amare, a soffrire, a perdere o guadagnare delle persone, a morire e,
che lo
vogliamo o no, così le cose devono andare.
Niente potrà farci cambiare il nostro destino, è
già stato scritto. Da chi? Questa
è una bella domanda. Ma se nel nostro cosmo esistono
infinite stelle e miliardi
di pianeti con miliardi di vite chi ci dice che non ci sia un essere
superiore
che controlla tutto e tutti, come una specie di burattinaio. Che sia
questo
essere a decidere del nostro destino? Che sia lui a far sì
che succedano cose
inspiegabili?
Le persone nascono e muoiono, ma non vivono mai per nulla. Abbiamo
tutti una
missione, tutti quanti, nessuno escluso e finché questa non
viene compiuta non
si esce di scena. Che sia esalare un unico respiro o salvare
l’intera razza
umana da mali invincibili siamo chiamati a compierla.
Siamo solo delle marionette nelle mani dell’Auriga del
destino.
MILLY’S
SPACE
Buonasera
o buongiorno… ok, sono le undici di sera e come
al solito mi trovo ad aggiornare sempre a queste ore assurde.
Allora,
non so quanto sia riuscita a incuriosirvi col
prologo, l’ho scritto così, di getto, ma a me pare
molto ispirante. Comunque devo
premettere che questa è la prima fanfiction di Torchwood che
sto scrivendo. Anzi,
a dire la verità mi sono appassionata a questo telefilm solo
da poco. Ho visto
solo le prime due stagioni su internet, mentre la quarta me la sto
vedendo in
televisione (a proposito, non riesco a trovare la terza se non con Videopremium che non mi va. Se qualcuno
magari conosce qualche sito, possibilmente con Nowvideo,
gli sarei eternamente grata), però ho letto la trama su
internet per cui bene o male so quello che succede. Ma non ho
intenzione di
seguire la trama del telefilm, non so neanche esattamente in che parte
sia
ambientata questa storia. Comunque sia per il momento sono tutti vivi e
vegeti.
Forse potrà capitare che magari esca un po’ dai
filoni, che i personaggi siano
OOC. Spero che nessuno se la prenda, non è detto che la
storia piaccia a tutti.
Detto
questo penso di potervi lasciare. Girate pagine e
leggetevi il primo capitolo : )
Baci,
M.
P.S.
ringrazio già chi vorrà leggere questa mia
modesta
storia un po’ da fangirl e ringrazio anche le canzoni di Eros
Ramazzotti che mi
hanno veramente ispirato.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo uno - Ti amo ***
NOTE:
se vi piace vi consiglio di ascoltare questa
canzone
http://www.youtube.com/watch?v=WDj9xHm9wIQ
finché
leggete il capitolo, a me ha ispirato molto ^^
CAPITOLO
UNO - TI AMO
Solo
che non doveva andar così,
solo che tutti ora siamo un po’ più soli qui.
(Sta
passando novembre, E.Ramazzotti)
Ti
rendi conto dell’importanza di qualcosa soltanto
quando l’hai persa. E questo Jack lo sa bene. Nella sua vita
di cose ne ha
perse tante, ha visto morire molte persone, ha visto accadere cose che
altre
persone non potrebbero nemmeno immaginarsi, ha conosciuto e detto addio
a molte
persone nel corso della sua lunga, interminabile vita.
E che cos’altro potrebbe succedergli? Che cos’altro
potrebbe ancora vedere in
grado di sorprenderlo? È questo a fargli tanta paura.
Giungerà ad un limite la
sua sopportazione? Ci sarà qualcosa che gli farà
letteralmente scoppiare il
cervello, l’anima o il cuore?
O
forse quel momento è già arrivato,
pensò Jack,
voltandosi a guardare Ianto dormire tra le sue braccia, una smorfia di
dolore a
sfregiargli il volto, la fronte coperta di sudore e un braccio poggiato
sul suo
petto.
Stava morendo, stava morendo e lui non poteva fare niente. Era
completamente
impotente, lui, Capitano Jack Harkness, che nella sua vita era morto e
risorto
non sapeva nemmeno quante volte, che riusciva a superare tutte le
difficoltà,
che aveva sconfitto un centinaio di alieni, ora non riusciva a salvare
l’unica
persona alla quale si era veramente affezionato.
E
questo gli faceva una tale rabbia…
24
ore prima…
“Il
computer ha captato un segnale alieno nella zona
del St.Mellons, in un edificio abbandonato!”
esclamò Tosh ai suoi colleghi,
senza togliere gli occhi dal computer. Stava cercando di verificare se
per caso
poteva scoprire qualcosa di più sulla presenza aliena ma,
per quanto
ultra-moderni e ultra sofisticati fossero quei macchinari, non ne era
in grado.
“Un
Weevil?” chiese Owen, sbucando dietro le spalle
della ragazza.
“No,
il segnale è molto più forte. È
qualcosa che
non abbiamo mai incontrato prima”.
“D’accordo,
allora andiamo”. Concluse Jack,
scendendo le scale dal suo ufficio. “Ianto, vieni anche
tu”.
I
cinque non esitarono un attimo e in men che non si
dica furono fuori alla jeep. Jack, come al solito, si mise al posto di
guida,
mentre Tosh, col portatile sulle ginocchia, si sedette nel sedile
posteriore
insieme a Ianto e Owen.
In
mezz’ora arrivarono all’edificio abbandonato
indicato da Toshiko, in una zona piuttosto isolata. Era una vecchia
fabbrica,
chiusa già da parecchi anni, tutta grigia e coi muri
scrostati sui quali
crescevano il muschio e l’erbaccia. Anche
tutt’attorno l’erba incolta aveva
preso il sopravvento e ora circondava la fabbrica affaticando il passo.
Una
parte del tetto era crollata e alcune finestre avevano i vetri rotti.
Jack,
Gwen, Owen, Tosh e Ianto entrarono dentro
senza esitare, con le pistole impugnate a due mani.
“Gwen,
Ianto, andate al piano superiore. Owen, Tosh,
voi restate qui con me” ordinò Jack con voce
perentoria non appena furono
dentro, nella stanza buia e maleodorante.
Gli
altri non se lo fecero ripetere due volte e
obbedirono immediatamente agli ordini. Gwen e Ianto salirono le
instabili scale
per andare al primo piano, mentre gli altri tre rimasero al piano terra
a
controllare le varie stanze.
“A
parte ratti, ragni e odore di muffa non mi pare
ci sia niente di estraneo qui dentro” commentò
Owen, scostando col piede una
tavola di legno, scoprendo un rifugio che si erano scavati due ratti
spelacchiati. Il ragazzo storse il naso alla loro vista.
“Shhh”
gli intimò Jack.
“Il
segnale si è fatto più debole, non riesco
più a
percepirlo. Sembra che sia sparito” disse Tosh incredula,
guardando sul suo
palmare.
“Che
se ne sia andato?” ipotizzò Owen.
“Ma
ce ne saremmo accorti” gli fece notare la
ragazza.
“No,
se è un alieno che riesce a smaterializzarsi a
piacimento”.
“Ok,
ragazzi, dividiamoci” ordinò di nuovo il
Capitano e immediatamente gli altri due si diressero in direzioni
opposte,
sempre con le pistole alzate. Non potevano andarsene senza aver
controllato
tutta la zona.
Owen
entrò in quello che pareva essere un
ripostiglio con degli scaffali e delle mensole. C’erano
ancora delle scope e
dei detergenti buttati alla rinfusa. Ma nessuna traccia aliena.
Arrivò ad una
porta nel fondo, trovandola sbarrata.
Toshiko
si trovava in una grande stanza circolare
dove non c’erano altre porte se non quella da cui era entrata
e alcune finestre
rotte. Il suo palmare cominciò a emettere un suono. Il
segnale alieno era
tornato e sembrava provenire dal piano superiore. Forse era il caso di
andare
ad aiutare Gwen e Ianto, visto che lì sembrava non esserci
niente.
Jack,
intanto, stava controllando lungo un corridoio
stretto quando, improvvisamente, sentì un forte rumore
provenire da sopra la
sua testa.
“Gwen,
tutto a posto lassù?” chiese
nell’auricolare
che teneva all’orecchio.
“Abbiamo
trovato l’alieno” gli rispose la ragazza.
“Ed è piuttosto spaventoso”.
Spaventoso.
Già. Il suo sesto senso non si sbagliava
mai.
Gwen
e Ianto si erano trovati a dover fronteggiare
una specie di uomo - gatto alto due metri con delle fauci appuntite e
degli
artigli affilatissimi. Inoltre, quando ringhiava, il rumore che
emetteva era
inquietantissimo.
“Che
cosa mangia questo coso? L’uomo – pesce
palla?”
scherzò Ianto guardando in direzione di Gwen da dietro una
colonna, celato
dall’ombra.
La ragazza ridacchiò cercando di smorzare la tensione.
“Basta
che non mangi le persone”.
L’alieno
prese a camminare nel mezzo, probabilmente
cercando i due. Non doveva avere i sensi molto sviluppati per non
sentire che
erano accanto a lui, nascosti nell’ombra.
Gwen e Ianto impugnarono bene la pistola e si scambiarono
un’occhiata complice.
Il ragazzo cominciò a contare sulle dita della mano e,
quando arrivò a cinque,
entrambi uscirono allo scoperto e spararono una freccia soporifera
ciascuno
contro la creatura. Questi urlò e inarcò la
schiena, ma non cadde a terra
svenuto come si aspettavano. I due sgranarono gli occhi sorpresi; in
quelle
freccette c’era della sostanza soporifera sufficiente per far
addormentare un
elefante. Ma a quanto pareva a quel coso non facevano alcun effetto.
Ne
spararono altre, finché l’uomo – gatto
non si
infuriò completamente lanciandosi contro Gwen che cadde a
terra perdendo la
pistola. Poi la creatura si girò verso Ianto crollandogli
addosso. Il ragazzo
cercò di toglierselo di dosso, ma era troppo forte e pesante
e, inoltre, lo
sentì affondargli i denti nel fianco, al che il ragazzo
urlò.
Gwen
si mise a sedere ma nella caduta aveva preso
una botta in testa che l’aveva un po’ intontita.
Appena si rese conto che Ianto
era in pericolo, si alzò dal pavimento e cercò di
corrergli in aiuto. Ma il
mostro era troppo forte anche per lei.
Stava cercando di trovare la pistola o qualsiasi altra arma con cui
metterlo
K.O. quando vide arrivare Jack, seguito da Owen e Tosh che correvano
nella loro
direzione. I due uomini insieme riuscirono a tirare via
l’alieno dal povero
Ianto e a lanciarlo contro il muro.
Jack
si inginocchiò accanto all’amico che aveva le
lacrime agli occhi per il dolore.
“Mi
ha morso, cazzo, mi ha morso!” esclamò,
portandosi le mani alla ferita.
“Sta’
calmo, sta’ calmo. Adesso passerà”
cercò di
tranquillizzarlo Jack, controllando lo squarcio nella camicia
dell’altro. La
carne era piuttosto lacerata e stava perdendo parecchio sangue.
“Owen?”
chiamò.
Il
medico di Torchwood corse incontro ai due e si
chinò accanto a Ianto per controllare la ferita. Lui e Tosh
erano riusciti a
mettere a tappeto l’alieno con una sprangata in testa e ora
la ragazza lo stava
legando per portarlo, in seguito, alla base.
“Posso
fermare l’emorragia, ma dobbiamo tornare alla
base. Non ho tutti gli attrezzi qui”.
“D’accordo,
torniamo” acconsentì il Capitano. Si
portò dietro le spalle di Ianto per aiutarlo ad alzarsi. Poi
lui e Tosh lo
presero per ciascun braccio, mentre Owen e Gwen trasportarono
l’alieno e
cominciarono così a dirigersi fuori, alla jeep.
Il
gruppo era ritornato alla base per fare rapporto
su quello che aveva appena scoperto. L’uomo – gatto
era stato rinchiuso nelle
celle sotterranee dove già alloggiavano i Weevil, mentre
Ianto sedeva sul letto
operatorio dove Owen stava finendo di fasciargli la ferita.
“Se
ti fa male dimmelo, ti do un altro
antidolorifico” gli disse il dottore, chiudendo
l’ultima benda.
“Grazie”
rispose l’altro, infilandosi la camicia con
attenzione. Sentiva parecchio tirare i punti che il collega gli aveva
appena
messo.
“E
non fare troppi movimenti” lo ammonì ancora Owen.
Non
fare troppi movimenti? Questo a Jack non piacerà,
pensò Ianto ridacchiando tra sé e sé e
lanciando un’occhiata all’ufficio dove
si era rinchiuso Jack.
Scese
dal lettino faticando a trattenere una smorfia
di dolore e cominciò a dirigersi dal capitano.
Aprì la porta il più
silenziosamente possibile e di soppiatto si avvicinò alla
scrivania dov’era
seduto l’altro. Si sedette sul bordo e si mise ad osservare
che cosa l’uomo
stesse facendo.
Jack
alzò lo sguardo nella sua direzione e gli
mostrò un sorriso. Poi si alzò e con sguardo
malizioso gli si avvicinò ancora
di più, infilando una mano sotto la camicia, sfiorando con
le dita le bende che
fasciavano la ferita.
“Ti
fa male?”
“Giusto
un po’”
Il
Capitano avvicinò il viso a quello dell’altro e
in poco tempo annullò la distanza, unendo le loro labbra in
un bacio
appassionato. Ianto fu leggermente colto di sorpresa, ma si
lasciò
completamente andare al bacio possessivo di Jack. Adorava come lo
baciava. In
realtà adorava tutto di lui, come lo abbracciava, come lo
accarezzava, come lo
possedeva.
Jack
si staccò, un po’ troppo presto e un po’
troppo
bruscamente per i gusti dell’altro e si allontanò
per prendere qualcosa da uno
scaffale.
“Ti
preparo del caffè?” chiese Ianto con voce
indifferente,
ma dentro di lui tutto premeva e gli urlava di smettere di fare il
rispettoso e
l’innocente e di saltare addosso all’altro senza
pietà.
“Sì,
per favore”.
Maledetto,
sei maledetto, Jack. Ma è anche per questo che mi piaci.
Ianto
non fece neanche in tempo ad alzarsi che la
porta dell’ufficio si spalancò di colpo e Gwen
entrò dentro passando lo sguardo
per tutto la stanza, finché non individuò Jack.
“Jack,
Tosh ha individuato un’altra forma di vita
aliena all’ospedale. Pare sia lo stesso che abbiamo trovato
noi”.
“Vai
con Owen a controllare. Noi vi osserveremo da
qua”.
“D’accordo!”
Quando
Gwen e Owen arrivarono davanti alla porta
dove erano custoditi gli archivi, un uomo – gatto, identico a
quello che era
rinchiuso nelle loro segrete, si stava mangiucchiando alcuni fogli di
carta
osservando la porta in modo molto minaccioso, probabilmente solo in
attesa di
scappare.
D’improvviso,
però, notando delle presenze che lo
osservavano, spalancò le fauci emettendo un ringhio stridulo
al quale Gwen
indietreggiò spaventata.
“Ci
potete dire cos’è questa cosa?” chiese
l’infermiera,
una donna piuttosto corpulenta e dalla carnagione scura che aveva tutta
l’aria
di essere una tipa tosta, da non prendere in giro. Ma naturalmente a
Owen
questo non importava, il che gli permetteva di dire quello che voleva a
chi
voleva.
“Quello?
Oh, è solo un piccolo micio bisognoso
d’affetto”.
Come
da copione, l’infermiera lo guardò malissimo.
“Gwen,
preparati” ordinò a quel punto il dottore,
parlando con tono perentorio. “Appena apriamo la porta gli
spariamo una raffica
di pallettoni”.
La
ragazza annuì solamente.
“Ma
così non lo uccidete?” chiese
l’infermiera;
sembrava che le importasse veramente di quella creatura.
“Oh,
mi creda, è più resistente di quello che
sembra”.
La tranquillizzò Owen.
I
due membri di Torchwood impugnarono le pistole a
due mani, pronti a sparare. L’infermiera aprì loro
la porta.
L’alieno
li osservò per qualche secondo, decidendo
poi di lasciar perdere quello che stava facendo e alzandosi in piedi.
Gwen e
Owen non attesero un secondo prima di scaricargli le loro armi addosso,
colpendolo in diverse parti del corpo. L’uomo –
gatto cadde all’indietro
colpendo il pavimento con un colpo secco.
Quando
i due si avvicinarono, con cautela e senza
abbassare le pistole, stava ancora respirando ma aveva perso i sensi.
Si affrettarono
subito a legarlo.
“Qualcuno
è stato ferito da questa creatura?” chiese
Gwen all’infermiera dietro di lei.
“Due
infermieri del nostro staff, mentre alcune
persone sono arrivate qui già ferite”.
“E
che cosa li è successo?”
“Inizialmente
stavano bene, avevano solo perso un po’
di sangue. Ma poi… poi sono andati peggiorando e un paio
sono morti dopo dodici
ore dal morso”.
Gwen
e Owen smisero di colpo di fare quello che
stavano facendo e si guardarono l’un l’altro
scioccati.
L’infermiera
aveva accompagnato i due membri di
Torchwood al capezzale di una ragazza vittima dell’uomo
– gatto. Owen esaminò
la sua cartella clinica
dandoci una
veloce occhiata.
“Febbre
alta, forti dolori nella zona del morso,
sudorazione eccessiva e tutti i valori del sangue sballati.”
elencò il dottore
con voce neutra, esattamente come si addiceva a un medico.
Gwen
guardò la ragazza e venne colta da un senso di
pena e dispiacere per lei. Stava chiaramente soffrendo, si capiva dal
suo sonno
agitato.
“Owen,
dobbiamo fare qualcosa.”
“Hai
suggerimenti?” le chiese lui in tono
sarcastico.
La
ragazza lo guardò duramente ma non aggiunse
altro. Così l’amico si girò verso
l’infermiera e le consegnò in mano una
boccetta dal contenuto giallognolo.
“Cos’è?”
“Una
specie di medicina. La dia a tutti quelli che
sono stati morsi. Non so se funzionerà.”
Fece
per andarsene ma la donna lo bloccò per un
braccio.
“Torchwood,
per una volta potreste dirci che sta
succedendo?”
“Volentieri,
se solo anche noi lo sapessimo”.
Jack
e Ianto se ne stavano di fronte alla porta di
vetro della cella che imprigionava la loro nuova creatura.
“Hai
intenzione di fissarlo così tutto il tempo?”
chiese Ianto guardando
in direzione del
Capitano.
“Solo
finché non avrò trovato un altro passatempo
altrettanto emozionante.” gli rispose l’altro senza
distogliere gli occhi dal
mostro.
“Be’,
potrei proportelo io, un passatempo divertente.”
non c’era malizia nella voce di Ianto, né nello
sguardo. Anzi, era rimasto
impassibile, come sempre. A Jack però non sfuggì
l’allusione e non poté non
mostrare il suo sorriso sghembo e malizioso che metteva in evidenza la
fila di
denti bianchi e perfetti.
“Allora
perché non mi aspetti nel mio ufficio?”
“Agli
ordini, capo.”
Ianto
uscì dalla stanza, ma Jack rimase ancora un po’
a osservare, per dare il tempo all’altro di prepararsi. E poi
quelle creature,
i Weevil e ora l’uomo – gatto, lo incuriosivano
parecchio.
Quando
decise di raggiungere Ianto, però, incontrò
Owen e Gwen sulla porta che lo guardavano con due espressioni
spaventose.
“Abbiamo
scoperto una cosa che non ti piacerà per
niente.” introdusse la ragazza.
“Il
morso di quelle creature è letale. Le persone
che sono state morse sono morte dopo dodici ore, anche se inizialmente
non
davano segni di malessere…”.
L’ultima
parte del discorso di Owen che Jack era
riuscito a sentire era stato: le persone sono morte. Dopo quello il suo
cervello era andato completamente a farsi fottere. Solo un nome gli
vorticava
in testa: Ianto.
Ad
un tratto, però, vennero tutti distratti da un
rumore di vetri infranti che proveniva dal piano superiore.
Il
primo a precipitarsi fuori fu Jack. Vide Ianto
inginocchiato per terra con l’espressione distorta dal dolore
e la camicia bianca
macchiata di sangue. Il capitano ebbe un tuffo al cuore a quello vista,
anche
se non lo avrebbe mai ammesso.
Toshiko era già china accanto all’amico e
immediatamente anche gli altri gli si
precipitarono accanto, Jack sorreggendolo per i fianchi.
“La
ferita si è riaperta e anche estesa.”
constatò Owen,
guardando gli altri preoccupato.
5
ore dopo…
Jack
entrò nell’appartamento di Ianto sbattendo la
porta dietro di sé.
Gwen
e Owen lo aspettavano in salotto, una seduta
sulla poltrona e l’altro in piedi alla finestra con le
braccia conserte e la
mascella serrata. Appena lo vide entrare, nel riflesso del vetro, si
girò per
aggiornarlo.
“Gli
ho dato l’antidoto ma non so quanto funzionerà.
Questa è una forma aliena che non conosciamo, non so che
effetti abbia. Ho provato
ad analizzare il suo sangue e
quello
delle altre persone che sono state morse ma non ci ho ricavato niente.
E’ un
veleno che fa morire le cellule rapidamente.
L’ho imbottito di antidolorifici, ma…
probabilmente non passerà la notte.”
abbassò
lo sguardo, non potendo affrontare quello duro e pieno di dolore di
Jack. Perché,
anche se cercava di non darlo a vedere, il capitano stava una merda.
Teneva a
Ianto più di quanto avrebbe voluto.
“Non
puoi fare qualcos’altro?” gli chiese,
fissandolo negli occhi.
“Non
so che altro fare”.
“Cazzo,
Owen, tu devi…”
“Non
sono Dio, Jack!” urlò a quel punto il dottore
spazientito, avvicinandosi al capitano e guardandolo minaccioso.
“Non posso
decidere della vita degli altri.”
Ma
perché tutti si aspettavano qualcosa da lui?
Prima Gwen e ora Jack. La situazione faceva schifo pure a lui e
già da solo si
sentiva una merda perché non riusciva a salvare uno dei suoi
amici, nonostante
lui fosse un medico e avesse il sacrosanto dovere di salvare le
persone.
Gwen,
dal canto suo, guardò in direzione dei due con
il viso rigato di lacrime. Sperava che non prendessero ad azzuffarsi,
non se la
sentiva di dover calmare anche una rissa.
Jack,
allora, senza dire niente, uscì dalla stanza e
andò in camera da letto di Ianto dove questi giaceva tra le
coperte, accudito
da Tosh che gli stava passando un panno inumidito con un po’
d’acqua sulla
fronte madida di sudore. Se proprio doveva morire, era meglio se lo
faceva
nella tranquillità di casa sua.
“Ha
chiesto di te” disse la ragazza non appena lo
vide entrare.
“Grazie,
Tosh, ci penso io.” le rispose lui e, anche
se non aveva usato un tono di comando, la frase serviva chiaramente per
congedarla. Voleva restare da solo con Ianto. Toshiko lo
capì subito e
abbandonò immediatamente la stanza.
Jack
prese il suo posto sedendosi al capezzale dell’amico.
Gli passò il panno umido sulla fronte.
Ianto
si agitò leggermente e poi aprì gli occhi
nella sua direzione.
“Jack”
sussurrò con voce debole “Sei qui”.
“Sì”
rispose l’altro cercando di non far notare che
aveva la voce spezzata “Hai freddo?” gli chiese poi.
“Un
po’”.
Jack
allora si alzò dalla sedia e si stese accanto a
Ianto, nel tentativo di riscaldarlo di più col proprio
corpo. Ianto ne approfittò
per poggiare la testa sul suo petto, mentre il capitano prendeva ad
accarezzargli i capelli.
“Mi
dispiace, non doveva andare così” gli
sussurrò
cercando di non piangere “E’ colpa mia, non avrei
dovuto portarti…”.
“No”
lo interruppe l’altro “Non è
stata… colpa tua”
ma ogni parola sembrava costargli parecchio sforzo.
“Sarò morto facendo… il mio
dovere, come ho sempre… voluto”.
“No,
non dire così” ormai neanche Jack riusciva
più
a trattenere le lacrime. “Tu non morirai”.
Ianto
ridacchiò debolmente lasciando cadere una
lacrima sulla camicia del capitano. “Non importa…
sono… sono comunque contento…
di morire tra le tue braccia. Resterai con me, vero?”
Il
capitano portò lo sguardo alla finestra: il sole
stava calando all’orizzonte e il vento di novembre si era
alzato scuotendo le
foglie degli alberi.
“Sempre”
gli sussurrò, riportando lo sguardo
su di lui. Ianto però aveva già
chiuso gli
occhi, sempre appoggiato sul suo petto. Non era ancora morto, ma Jack
si sentì
stringere il cuore in una morsa d’acciaio.
Aveva voglia di prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa. Si sentiva
così
impotente.
“Ianto,
non andartene, non mi lasciare” disse,
sicuro che comunque l’altro non lo avrebbe sentito.
“Non voglio continuare a
vivere senza di te, non avrebbe senso” ormai non si
preoccupava neanche più di nascondere
le lacrime. “Ti amo”.
E
gli diede una bacio sulla fronte calda.
Il
giorno dopo…
Jack
si svegliò di colpo, reduce da un brutto sogno
che aveva dimenticato non appena aveva aperto gli occhi. Non si trovava
nel suo
letto, questo lo capì subito, ma gli ci volle un
po’ per ricordarsi che cosa
fosse successo. Sentiva soltanto una pesantezza sul cuore e qualcuno
che gli
gravava addosso.
Ianto.
Ianto
era ancora poggiato sul suo petto, gli occhi
chiusi, l’espressione rilassata. Un po’ pallido
forse.
E
lui… lui non era pronto a dirgli addio. Non così
presto, non in quel modo. Avrebbe dovuto fare di più,
avrebbe dovuto insistere
di più per salvarlo. Glielo doveva, dopo tutto quello che
gli aveva fatto
passare come minimo avrebbe dovuto salvarlo. E invece…
l’unica cosa che ora
poteva fare era dargli l’ultimo bacio e portare il peso della
sua perdita sulla
coscienza.
Lo
poggiò sui cuscini e si chinò per dargli un bacio
sulle labbra. Ma non appena gli si avvicinò notò
che c’era qualcosa che non
andava, qualcosa di strano. Dell’aria fredda usciva dalle
labbra di Ianto,
fiato, respiro. Stava ancora respirando.
Col
battito accelerato andò a tastargli la fronte,
il viso, le mani trovandoli caldi… tutto il suo corpo era
caldo, non freddo
come si era aspettato. Caldo.
Gli
diede un bacio sulle labbra. Ianto sotto di lui
si mosse e poi… poi aprì gli occhi azzurri
fissandoli in quelli altrettanto
chiari di Jack.
“Ianto”
sussurrò Jack incredulo.
“Jack”
La
porta si spalancò di colpo facendoli sobbalzare
tutti e due.
“Jack,
volevo solo…” Owen, sulla porta, rimase come
paralizzato nel vedere Jack a gattoni sul letto e Ianto sotto di lui,
vivo più
che mai. Entrambi lo fissavano come se lo volessero incenerire.
“Sembra
tutto nella norma” concluse Owen dopo aver eseguito
un controllo su Ianto, da cima a fondo.
“Te
l’ho detto, mi sento bene”.
“Non
è detto. Non possiamo escludere che tu possa
avere una ricaduta” gli fece notare il dottore che non voleva
nutrirsi di false
speranze. Ma era chiaro che anche lui, come tutti gli altri, era
contento di
vedere che l’amico stava bene e che non era morto.
“Ho
chiamato l’ospedale” sbottò Tosh,
entrando nella
stanza. “Mi hanno detto che gli altri pazienti che sono stati
morsi ora stanno
bene. Hanno avuto un recupero eccezionale dopo che hanno preso
l’antidoto”.
Owen,
intanto, aveva finito di controllare la ferita
di Ianto, trovandola quasi completamente rimarginata.
“Allora
l’antidoto ha funzionato”.
“Direi
proprio di sì”.
“Questo
è… fantastico”.
“Bene,
ora che abbiamo tutti constatato che ho altri
giorni da vivere di fronte a me, qualcuno mi preparerebbe da
mangiare?” chiese
Ianto che non vedeva l’ora di togliersi dagli occhi quel via
vai di gente che
continuava a chiedergli come stava. E poi… doveva fare due
chiacchiere con
Jack.
“Sì,
subito!” esclamò Tosh uscendo dalla stanza
insieme a Gwen.
Owen
finì di riporre i suoi attrezzi da lavoro e le
seguì.
L’unico
a rimanere fu Jack, proprio come Ianto
sperava.
“Bene.
E ora… parliamo
di quel ti amo”.
MILLY’S
SPACE
Sono
una romanticona, lo so, ma dopo aver visto la scena
della morte di Ianto (e aver versato non so quante lacrime),
be’… questo è
quello che da una come me viene fuori.
Che
dite di questo primo capitolo?? Spero che mi lasciate
qualche recensione, ci tengo a sapere se la storia via piace o se mi
conviene
lasciar perdere.
Tanto per non creare false speranze vi dico subito che non so quanto
spesso
riuscirò ad aggiornare questa storia. Ne ho ancora altre in
ballo che devo continuare,
ma, chi ha già letto altre mie opere sa che non sono una che
molla. Perciò la
porterò avanti, fino alla fine. Ho anche delle belle idee.
Comunque,
per rimanere sempre aggiornati, mi potete
trovare anche su Facebook, basta mettere un mi piace qui:
https://www.facebook.com/MillysSpace?fref=ts
Ok,
adesso posso lasciarvi. E ricordatevi le recensioni
^^
Milly.
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Capitolo 3 *** Capitolo due - Chiarimenti mancati ***
CAPITOLO
DUE – CHIARIMENTI MANCATI
Fra
di noi c’è bisogno d’armonia
poi diventa facile aiutarsi a vivere.
(Quanto
amore sei, E. Ramazzotti)
Si
potevano dire molte cose del Capitano Jack
Harkness. Si poteva dire con assoluta certezza che era un uomo molto
avvenente,
coraggioso, astuto, intelligente. Si poteva dire che fosse anche
piuttosto
audace, a volte troppo impulsivo, agiva prima di pensare alle
conseguenze anche
se poi raramente capitava che si sbagliasse e si poteva pure dire che
era
vanitoso, orgoglioso, pieno di sé e delle volte persino
fottutamente bastardo.
Sì, Jack era tante cose, a volte si faceva persino fatica a
capirlo. Dopotutto
vari secoli di esistenza dovevano averlo segnato profondamente.
Ma
mai, mai qualcuno avrebbe potuto dire che fosse
una persona contradditoria.
E invece, ora, Ianto Jones si trovò costretto ad ammettere
che forse la
personalità di Jack non era poi così del tutto
chiara e prevedibile, come aveva
fino ad ora pensato.
Probabilmente
lui era l’unico del
gruppo ad averlo conosciuto veramente nel profondo e non
perché un po’ di tempo
fa aveva scartavetrato i suoi file per scoprire qualcosa della sua vita
e
nemmeno perché aveva letto il suo diario.
Semplicemente
le situazioni, intime e
non, che avevano condiviso insieme gli avevano permesso di conoscere e
saper
interpretare tutte le sue espressioni facciali, le sue smorfie, i suoi
tic e i
movimenti del suF corpo. fin troppe volte lo aveva guardato in quei
suoi occhi
chiari, così stanchi, così vecchi…
come portatori di un pesante fardello.
Ok,
magari ciò era dovuto anche al suo
elevato spirito d’osservazione, ma Ianto sentiva di avere
tutto il diritto di
vantarsi di conoscerlo bene, persino più di Gwen.
Erano
passate ben due settimane dall’episodio
dell’uomo-gatto, due settimane da quando lui era stato ferito
rischiando la
morte e, soprattutto, due settimane da quando Jack gli aveva sussurrato
quel
“ti amo”. Quel “ti amo” che
ormai sembrava essersi dissolto nel vento e portato
via dall’altra parte del mondo. O dell’universo.
Con Jack non si poteva mai
sapere.
Jack
aveva fatto di tutto per negarlo,
per negare di aver detto quelle due fantomatiche parole, per negare
l’evidenza.
E negare l’evidenza era qualcosa di letteralmente
impossibile, forse solo Dio
poteva riuscirci. Dio e Jack Harkness, ovviamente.
D’altronde
Jack Harkness era Jack
Harkness, se voleva qualcosa trovava sempre un modo per ottenerlo.
Ma
questa volta Ianto non gliel’avrebbe data vinta.
Non gli importava se il Capitano avesse cercato di farglielo capire in
tutti i
modi, che quelle parole lui non le aveva mai dette, che probabilmente
se le era
solo sognate o immaginate perché la febbre lo stava facendo
delirare. E non
sembrava intenzionato a cedere. Come un bambino colto con le mani
sporche di
Nutella che continua a negare di sapere come sia potuto succedere.
Però
pure Ianto sapeva essere più
cocciuto di un mulo, quando voleva, e questo Jack ancora non lo sapeva,
non
conosceva tutte le armi che avrebbe potuto utilizzare.
Perché certo, lui poteva
anche comportarsi da bravo e docile cagnolino ammaestrato che non apre
bocca se
non gli viene chiesto, ma quando si trattava di qualcosa a cui teneva,
non
aveva intenzione di starsene a subire, proprio per niente. Non lo aveva
fatto
con Lisa e non lo avrebbe fatto nemmeno ora.
Però, doveva ammettere, che sarebbe stata dura, soprattutto
perché ora, a
confermare che quello che si sbagliava non era lui, Jack aveva preso ad
evitarlo, a non rivolgergli più la parola a meno che non
fosse strettamente
necessario. La sera era sempre l’ultimo ad andarsene e, se
Ianto cercava di
trattenersi, lui lo congedava in modo gentile ma freddo. E, cosa forse
meno
importante ma comunque evidente, non avevano nemmeno più
fatto sesso.
Magari per il Capitano questo non era un grosso problema: gli bastava
mostrare
quel suo sorriso sghembo da bastardo latin-lover, lanciare uno dei suoi
sguardi
maliziosi con i suoi penetranti occhi grigi e chiunque sarebbe cascato
ai suoi
piedi, donne, uomini, gay, etero e confusi.
Ma per il gallese non era così, invece, per lui era
difficile il doppio. Già
solo per il fatto di fare sesso con un uomo lo metteva parecchio in
confusione,
sballando tutto il suo equilibrio fisico, emotivo e psicologico, tanto
che dopo
la loro prima volta ci aveva messo parecchio a digerire la cosa,
temendo di
dover ricorrere addirittura a uno strizzacervelli, ma sentirsi pure in
astinenza, lui, che comunque al sesso non aveva mai dato molta
importanza, be’,
lo sconvolgeva.
E
poi… e poi, non c’era solo questo. Non era solo
per dimostrare di avere ragione e di essere più astuto di
Jack e non si
trattava nemmeno di un semplice bisogno fisico. C’era molto
di più, qualcosa di
molto più profondo, qualcosa che nemmeno lui era in grado di
capire e che gli
sconvolgeva le viscere ogni volta che lo guardava, che lo pensava, che
gli
stava vicino. Ed era sicuro che se Jack gli avesse detto “ti
amo” guardandolo
negli occhi gli sarebbe stato tutto più chiaro.
Rhys
era sempre il solito, sospirò Gwen finendo di
bere la sua tazza di caffè bollente. Stava osservando il suo
ragazzo mentre
mangiava i cereali affogati nel latte e, come un bambino che aveva
appena
imparato a usare il cucchiaio, si era sbrodolato tutto il mento.
Be’, era ovvio,
dopotutto era difficile mangiare senza smettere di parlare, come stava
facendo
lui da un quarto d’ora abbondante. E, come al solito, Gwen lo
guardava con
attenzione, teneva le orecchie aperte, ma non lo sentiva. La sua mente
era
partita per chissà dove, lontana da quella cucina, quella
casa, quel mondo.
D’altronde c’era di molto meglio da fare, che
starsene lì ad ascoltare le
solite storie dell’amico Duff che combinava una delle sue
solite cazzate che
facevano ridere gli amici e annoiare lei, come pensare a che cosa
sarebbe
potuto succedere quel giorno a Torchwood, in quale altra strana e
misteriosa
creatura aliena o paranormale avrebbero potuto incappare.
“Gwen,
ma mi stai ascoltando?”
Soltanto
a quella domanda un po’ contrariata di
Rhys, Gwen riuscì a tornare alla realtà, con un
leggero capogiro dovuto alla
brusca caduta della sua mente in quella che era ormai la sua noiosa
quotidianità. Ecco perché le serviva Torchwood,
per uscire da quella monotonia più
stancante del suo lavoro. Non che fosse colpa di Rhys, anzi, lui era
fantastico. Era lei il problema, lei e il suo bisogno quasi morboso di
avere
delle avventure, fin da quando era una bambina.
“Eh?
Ah, sì sì!” si affrettò a
rispondere dopo
qualche secondo.
“E’
da mezz’ora che te ne stai lì immobile con la
tazza in mano” le fece notare Rhys. Era tornato serio e si
era pulito la bocca
dei residui della colazione.
“Ehm…sì,
ora devo andare al lavoro”.
“Il
lavoro, sì”.
Gwen
sembrò non sentire il suo ultimo commento
piuttosto acido e si avvicinò al divano per prendere la
giacca. Ma nel
piegarsi, gli occhi le caddero sullo schermo della tv, dove stavano
trasmettendo delle immagini al telegiornale che attirarono parecchio la
sua
attenzione. Alzò il volume col telecomando e si mise in
ascolto, più attenta di
quanto non lo fosse stata con Rhys.
“Un’altra
rapina in banca, questa volta ad essere
colpita è stata la International Bank of Wales”
stava dicendo la voce del
giornalista inviato. “La tecnica usata sembra essere la
stessa delle altre tre
rapine a mano armata accadute non molto tempo fa a Londra. Che i
rapinatori
siano gli stessi? Difficile dirlo, con i pesanti passamontagna che
avevano
addosso. Quel che è certo è che è un
mistero come queste persone, appena giunta
la polizia, riescano a scomparire in un batter d’occhio, come
se si
volatilizzassero. Non si capisce nemmeno se fuggano via in auto.
Semplicemente,
sembra che si volatilizzino. E naturalmente questo crea numeroso panico
tra le
persone”.
“Che
c’è di interessante?” le chiese Rhys,
avvicinandosi quatto quatto alle sue spalle.
Gwen
sobbalzò alla sua voce. La notizia l’aveva
totalmente catturata.
“Niente.
Solo un’altra rapina in banca” rispose
frettolosamente, indossando la giacca. Si girò verso il suo
ragazzo per dargli
un sonoro bacio sulle labbra. “Ci vediamo stasera. Non
combinare guai”
ridacchiò, prima di uscire dalla porta.
Aveva
seguito le notizie delle rapine in banca,
erano avvenute a poca distanza l’una dall’altra. La
prima non l’aveva
insospettita più di tanto, ma poi la seconda…
insomma, rapinatori che si
volatilizzano? Era strano… qualcosa le puzzava.
Forse era il momento che Torchwood entrasse in azione.
La
ruota del Nucleo girò lateralmente con il solito
rumore di ingranaggi, impossibile da non sentire, e Gwen fece la sua
entrata
nella basa salutando i suoi colleghi allegramente. Ma c’erano
solo Tosh e Owen
a ricambiare il saluto, la prima inchiodata sulla sua postazione
davanti ai
computer e il secondo a studiare un artefatto alieno nel suo mini
laboratorio.
“Ciao,
Gwen. Passata bene la notte?” le chiese la
giapponese in tono cordiale, senza togliere gli occhi dai suoi
macchinari.
“Splendidamente!”
esclamò l’altra. “E voi?”
“Sicuramente
non come la tua, a copulare tutta la
notte con Rhys” la prese in giro Owen, lanciandole
un’occhiata maliziosa. Gwen,
per tutta risposta, gli fece una linguaccia e decise di cambiare
argomento.
“Avete sentito il telegiornale stamattina? E’
avvenuta un’altra rapina in
banca, questa volta nel Galles. Pensate che possano c’entrare
gli alieni?”
Il
dottore, emettendo una specie di ringhio, sbatté
il cacciavite con cui stava lavorando sul tavolo delle biopsie che,
all’impatto
con lo strumento, produsse un’agghiacciante rumore metallico
che fece
sobbalzare le due ragazze.
“Avanti,
Gwen, sono solo rapine, cosa vuoi che
c’entrino gli alieni?”
“Sì,
ma ne sono avvenute tre a poca distanza l’una
dall’altra e…”.
“Sono
solo coincidenze”.
“E
invece Gwen potrebbe avere ragione” la voce calma
e pacata di Tosh interruppe il loro battibecco.
Gwen,
a quella affermazione, lanciò un’occhiataccia
a Owen che ricambiò con una scrollata di spalle, incrociando
le braccia.
“Il
computer ha captato dei segnali alieni in quella
zone” continuò la giapponese. “Adesso
è piuttosto debole, però è abbastanza
chiaro. Dovremmo andare a controllare. Qualcuno chiami Jack”.
“Vado
io!” esclamò Gwen, prima che qualcun altro
potesse dire qualcosa.
Salì
di corsa le scale di ferro e fece per avviarsi
all’ufficio del Capitano quando, in un angolo proprio
adiacente all’ufficio,
notò un’ombra seduta per terra, con la schiena
appoggiata al muro.
“Stai
ammirando un bel panorama?” chiese,
avvicinandosi.
Ianto,
che non l’aveva minimamente sentita, troppo
preso da quello che stava facendo, sobbalzò e
voltò lo sguardo verso di lei.
“Gwen!”
esclamò sorpreso. “Io… no, stavo
solo…”.
“Ammirando
il fondoschiena di Jack?” concluse lei
per lui, guardandolo maliziosa ma divertita.
“Cosa?!
No!” si affrettò a rispondere l’altro.
Ma
adesso era lui a comportarsi come il bambino colto con le mani sporche
di
cioccolato. Non poteva negare l’evidenza.
“Tranquillo,
a me puoi dirlo” lo tranquillizzò Gwen,
sedendosi accanto a lui a gambe incrociate. “E poi ha un bel
fondoschiena” e
anche lei puntò lo sguardo verso Jack che, attraverso la
vetrata dell’ufficio,
dava loro le spalle, chinato in avanti con le mani poggiate sulla
scrivania di
mogano, intento a leggere qualcosa. Indossava i soliti abiti eleganti
con le
bretelle, una camicia bianca e il cappotto appeso
all’appendiabiti accanto
all’armadio.
“Ma
adesso abbiamo una missione da compiere”
aggiunse Gwen, battendo una mano sul ginocchio di Ianto e alzandosi in
piedi di
scatto.
Entrò
nell’ufficio del Capitano senza bussare, come
al solito, spalancando la porta con un gesto rude. Se l’uomo
si fosse
spaventato sentendo quell’improvviso rumore non lo diede a
vedere.
“Jack,
Tosh ha trovato dei segnali alieni nella zona
della banca. Dobbiamo andare” annunciò, senza
altri convenevoli.
Jack
si immobilizzò di fronte a lei con le braccia
incrociate, guardandola di sbieco.
“Scusa,
chi è il capo qui?”
Gwen
sospirò rassegnata. “Tu”.
“Esatto
e gli ordini li do io”.
La
ragazza scrollò le spalle e attese che Jack si
muovesse.
“Dobbiamo
andare” aggiunse l’uomo e senza attendere
risposta afferrò il suo cappotto e si precipitò
fuori dalla stanza. Gwen
sorrise tra sé e sé.
Ed
ecco, gli sembrava di essere tornato come ai
vecchi tempi, come quando era appena entrato a Torchwood III.
Jack lo aveva di nuovo lasciato in disparte. Soltanto che allora lo
poteva
capire, non si fidava ancora completamente e non lo conosceva bene. Ma
adesso…
ormai si era introdotto nel gruppo perfettamente, d’altronde
lui non era nuovo
a quelle cose. Che motivo c’era per lasciarlo alla base
mentre loro andavano in
spedizione, quando avrebbe potuto rendersi utile in missione?
Ah giusto, Jack lo evitava.
Ianto
sospirò affranto riponendo un foglio di carta
dentro ad una cartellina.
Così gli altri erano là fuori a divertirsi e a
lui toccava stare lì a mettere
in ordine le scartoffie. Oltretutto il Capitano l’aveva
liquidato in un modo
molto brutale e per niente carino. Se n’erano accorti anche
gli altri.
No,
iniziava a stancarsi. Doveva trovare un modo per
risolvere quella faccenda al più presto.
La
banca era vuota. I clienti e i dipendenti scossi
erano stati fatti uscire e il luogo chiuso con del nastro giallo,
segnalato
come scena del crimine. Per fortuna non c’erano stati
né morti né feriti, ma i
rapinatori erano scomparsi nel nulla, dopo aver portato via tutto il
denaro, e
non c’era nessuna traccia che potesse condurre al loro
rifugio. Nemmeno i segni
di gomme di qualche ipotetica auto.
Gli
agenti della polizia erano fuori insieme a
qualche persona ancora un po’ sconvolta che aveva deciso di
rimanere per poter
aiutare nelle indagini. Ma non stavano procedendo granché
bene.
Jack,
Gwen, Tosh e Owen erano le uniche anime vive
dentro la banca, a perlustrare ogni angolo per trovare qualche traccia.
La
giapponese, come al solito, guardava sul suo palmare e lo puntava in
giro per
captare qualche segnale.
“Qui
indica che recentemente c’è stata
dell’attività
aliena, ma il segnale si sta indebolendo”, disse per
informare anche i suoi
compagni.
“Qualsiasi
cosa ci fosse stata ormai è andata via”,
concluse Owen, richiudendo il cassetto di una delle scrivanie.
Jack
diede un’occhiata fuori, attraverso le persiane
abbassate, ma non vide niente di sospetto, se non macchine della
polizia e
molte persone ancora sconvolte.
“Credete
che questi rapinatori usino qualche
marchingegno alieno per commettere i furti?”
ipotizzò Gwen guardando gli altri.
“Può
darsi. O magari i rapinatori sono alieni”, le
diede manforte Toshiko.
“Che
interesse avrebbero degli alieni a rapinare
delle banche?” fece Owen con tono critico.
“Non…
non lo so”.
“Ragazzi,
andiamocene!” esclamò Jack ad un tratto.
“Qui non c’è niente”.
“Sei
sicuro?” gli chiese Gwen.
“Sì”,
rispose senza esitare.
E
quando il capo comandava non si poteva obiettare.
Nel
Nucleo erano rimasti solo lei e Jack.
Gli altri erano usciti fuori a pranzo, il Capitano aveva dato loro il
permesso,
visto che non c’era molto da fare per il momento. Avevano
invitato anche lei,
ma aveva declinato. Preferiva passare un po’ di tempo con
Rhys.
Prese
la sua giacca di pelle e si avviò per uscire.
L’occhio però le cadde sui vetri
dell’ufficio di Jack, dove vide l’uomo seduto
alla sua scrivania. Non stava facendo niente, sembrava incantato a
fissare un
punto davanti a sé, apparentemente senza vederlo,
stravaccato sulla sua sedia,
con i piedi sopra il tavolo.
Il
suo pranzo con Rhys avrebbe dovuto aspettare
ancora un po’, decise.
Salì
di corsa i pochi gradini e piombò di nuovo
nell’ufficio del Capitano. Questi, non appena vide la porta
aprirsi, voltò la
testa nella sua direzione, inarcando un sopracciglio.
“Non
dovresti essere a casa?” le chiese senza
particolare interesse.
“Ci
andrò”, rispose Gwen. “Ma prima volevo
chiederti
una cosa”.
Jack
abbassò i piedi e si mise seduto composto.
Dall’espressione della ragazza sembrava essere una domanda
seria. E lui
detestava le domande serie, implicavano sempre troppa
sincerità.
Gwen
si avvicinò, prese una sedia da lì vicino e si
sedette di fronte a Jack, solo la scrivania li separava.
“Cosa
succede tra te e Ianto?”
Ianto
trangugiò l’ultimo sorso della sua birra e
guardò in direzione di Owen che ormai da dieci minuti stava
giocando a biliardo
con una bella bionda che aveva adocchiato nel locale dove erano venuti
a
mangiare, abbandonando i suoi amici da soli al tavolo.
Ridacchiò alla vista del ragazzo che civettava in modo del
tutto sciallo e
inapparente e anche con buoni risultati. La ragazza ne era attratta,
anche se
cercava di fare un po’ la dura, per non cedere come una
ragazzetta qualsiasi.
“Ianto?”
si sentì chiamare ad un tratto. Si voltò
verso la voce che aveva parlato, trovando gli occhi scuri di Tosh
puntati su di
lui.
“Dimmi?”
“Posso
chiederti che succede tra te e Jack?”
L’uomo
si dipinse in faccia l’espressione più
confusa che gli riuscì e, probabilmente qualcuno ci sarebbe
anche cascato, ma
non Gwen.
“Che
intendi?”
“Mi
sembra che vi stiate evitando. O meglio, che tu
lo eviti”.
“Che
cosa te lo fa credere?”
“Dai,
Jack, non sono cieca”.
Jack
sospirò debolmente. Ormai era inutile negare. E
magari gli faceva bene parlarne, forse avrebbe potuto togliersi un peso
dallo
stomaco.
“Se
l’è presa per una cosa che è successa
tra di
noi”, rispose, voltando subito dopo lo sguardo
dall’altra parte, per non guardare
l’amica negli occhi.
“Che
cosa?”
“Non
sono affari tuoi”, berciò poi, ma naturalmente
non poteva aspettarsi di spaventare una ragazza come Gwen con una
semplice
frase detta in tono duro.
Lei
puntò i gomito sulla scrivania e poggiò il mento
sulle mani.
“Resterò
qui finché non me lo avrai detto”.
“Rhys
non ne sarà contento”.
“Con
Rhys me la vedrò io”.
Il
Capitano mostrò il suo solito sorrisetto sghembo
e si rassegnò a dover raccontare tutto.
“Che
intendi?” chiese Ianto, non capendo.
“Mi
sembra che da un po’ di tempo ti eviti”,
spiegò
l’amica.
“Allora
non sono matto!” esclamò l’altro un
po’
troppo a voce alta, facendo spalancare gli occhi a Tosh per la
sorpresa. “Anche
tu te ne sei accorta”.
“Ce
ne siamo accorti tutti”.
“Sì,
diciamo che il rapporto tra me e Jack si è un
po’ raffreddato”, concluse infine il ragazzo,
rimanendo sul vago.
“E
come mai?” Toshiko sembrava veramente
interessata, il che era un po’ strano visto che di solito non
si interessava
mai agli affari degli altri. Sicuramente erano stati Owen e Gwen a
metterle la
curiosità addosso, chissà quante chiacchiere si
saranno fatti su loro due.
Ianto
si guardò un attimo attorno per assicurarsi
che nessuno li stesse ascoltando e si protese un po’ sul
tavolino che lo
separava dalla ragazza.
“Mi
ha detto che mi ama”.
“E’
convinto che io gli abbia detto che lo amo”.
Gwen
restò un attimo interdetta, ma poi si avviò di
nuovo all’assalto. “Ed è vero?”
Jack
abbassò gli occhi senza dire niente e la ragazza
emise un verso di esultazione. “Lo sapevo!”
“Sapevi
cosa?”
“Che
fra voi due c’era molto di più del semplice
sesso. Io e gli altri…”.
Il
Capitano inarcò le sopracciglia. “Tu e…
gli
altri?”
“Certo.
Mica crederai che lavoriamo senza
spettegolare sul nostro capo”, spiegò in tono
malizioso.
L’uomo
ridacchiò e si lasciò andare contro lo
schienale della sedia.
“E
sentiamo un po’, che storie vi raccontate?”
“Non
cambiare argomento”, lo redarguì lei tornando
seria e guardandolo come una madre che sgrida il proprio figlio.
“Ianto
che cosa ti ha risposto dopo?”
“Niente.
E’ stato un incidente, la cosa non deve
andare oltre”.
Gwen
spalancò gli occhi. “E
perché?”
Jack
fece per aprire bocca ma si bloccò di colpo.
Già, perché?
“E
tu che gli hai risposto?” chiese Tosh, questa
volta veramente curiosa.
“Niente.
E’ successo quando stavo per morire. Lui
era convinto che stessi dormendo e me lo ha sussurrato. Adesso
però lo ha
ritirato e sta cercando di convincermi che me lo sono solo immaginato o
sognato” le spiegò Ianto, in vena di confidenze.
Era la frase più lunga che la ragazza
gli avesse sentito pronunciare, ma non ci fece molto caso.
“Scusa
se te lo dico, ma non è che può…
insomma,
magari ha ragione lui. Che ne sai…”.
“No
che non ha ragione lui!”, esclamò il ragazzo
interrompendo bruscamente l’amica. “So quello che
ho sentito, ma non capisco
perché lui si ostini a negarlo”.
“Ma
allora perché non glielo dici tu, che lo ami”.
“Perché
voglio che me lo dica prima lui”.
“Perché
è meglio così” rispose senza alcun
timbro
nella voce che facesse capire che cosa provava. Ma gli occhi tradivano
sempre
le emozioni della gente e quelli di Jack, se li si osservava bene,
erano meglio
di un libro aperto.
“Hai
mai sentito parlare del carpe diem, Jack? Cogli
l’attimo perché non ti si presenterà
più”.
“Questo
non mi sembra…”, iniziò Tosh ma
l’amico la
interruppe di nuovo.
“Scusa,
perché ti interessi alla mia situazione
sentimentale e non guardi un po’ di più alla
tua?”
“Io
non ho nessuna situazione sentimentale”.
“Io
non direi”, non era tipico di Ianto giocare
sporco, ma era stufo e il discorso stava prendendo una piega che non
gli
piaceva. Si voltò in direzione di Owen e della ragazza
bionda che era con lui.
“Sai, è carina quella tipa. Il tipo di ragazza che
starebbe bene con Owen”.
Tosh
abbassò lo sguardo e arrossì.
Forse
questa volta avevano trovato una pista più
fruttuosa, ma a quanto pareva si trovava ai confini del mondo.
Seguendo le indicazioni del navigatore si erano trovati a guidare in
una strada
fuori città, di campagna, dove c’erano
sì e no quattro case costruite con un
paio di assi attaccate alla bell’e meglio e la maggior parte
disabitate. Era
una strada piuttosto dissestata anche, piena di ghiaia e fango e
più volte
avevano beccato una buca, tanto che Gwen aveva quasi cacciato Jack
fuori
dall’auto per potersi mettere al volante lei. Forse era
meglio avere un
fuoristrada e non un Suv.
In poche parole, non era una zona che loro avevano mai frequentato.
Finalmente
il navigatore segnò loro che erano
arrivati a destinazione. Erano davanti a una casa, o meglio, una
bettola fatta
di pietre e qualche asse di legno, ma sembrava più
resistente delle altre,
quantomeno.
Tutti
e cinque scesero dall’auto e si guardarono
attorno. Questa volta Ianto non aveva accettato di venire escluso per i
banali
capricci di Jack e si era unito alla missione prima che il Capitano
avesse
avuto il tempo di protestare.
“Ma
dove diavolo siamo?” chiese Owen, storcendo il
naso.
“Spero
non in un posto come quel villaggio con gli
abitanti cannibali”, aggiunse Ianto, che aveva un ricordo
molto preciso di
quell’esperienza.
“Entriamo
a controllare”, concluse Jack ed estrasse
la pistola.
Anche
gli altri lo imitarono e, prima di varcare la
porta, fecero un giro di ricognizione attorno alla casa, sbirciando
attraverso
le finestre sporche e rotte per vedere se ci fosse qualcuno. Ma a
quanto pareva
era vuota.
Gwen
aprì la porta con un calcio liberando l’accesso
e, sempre con le pistole ben puntate per sorprendere eventuali
abitanti,
entrarono uno alla volta.
Appena
varcata la soglia, si separarono e si diressero
in varie direzioni, a controllare le varie stanze.
“Oh,
mio Dio!” si sentì Owen esclamare.
“Venite a
vedere”.
I
suoi compagni gli furono presto dietro le spalle e
rimasero sorpresi da quello che videro: una stanza, quasi completamente
vuota
ad eccezione di un tavolino basso e un paio di sedie di legno. Quello
che però
li lasciò sconvolti era la quantità di denaro in
contante sparso per tutta la
stanza. Per terra c’erano valigette traboccanti sterline e
non era possibile
camminare senza calpestarle.
“Pensate
che siano i soldi delle rapine?” chiese
Gwen, camminando con cautela nella stanza.
“Probabile”,
le rispose Ianto.
“Qualcuno
dovrebbe controllare le altre stanze”,
disse ad un tratto Jack.
“Ci
andiamo io e Ianto”, si intromise Tosh guardando
Ianto che le lanciò un’occhiata strana, ma la
seguì senza protestare.
Quando
i due ragazzi furono usciti, Owen si avvicinò
ad un attaccapanni dietro la porta, dove erano appesi quelli che
sembravano
essere due lunghi mantelli di stoffa morbida e scura.
“Che
cos’è?” chiese, prendendone in mano uno.
Gwen
si avvicinò e lo toccò guardandolo affascinata.
“Non lo so”.
“Guarda,
faccio re Artù!” esclamò il ragazzo e,
per
fare lo stupido, girò il mantello per metterselo sulle
spalle. Ma non appena
questi gli si appoggiò sul corpo Gwen sgranò gli
occhi e lo guardò come se gli
fossero appena spuntate le antenne in testa. Be’,
effettivamente una cosa
simile era successa: tutta la parte dal collo in giù del suo
corpo era
scomparsa e la sua testa era rimasta a fluttuare in aria.
Anche Owen abbassò gli occhi e gridò un
“Porca miseria!”
Il suo corpo c’era ancora perché se lo sentiva, il
punto era che non si vedeva.
Uscì
in corridoio e si guardò allo specchio.
“Forte!
Sembra il mantello dell’invisibilità di
Harry Potter”, era emozionato come un bambino.
“Hai
visto un po’ troppo fantasy, Owen?” lo prese in
giro Gwen, appoggiata allo stipite della porta.
“Be’,
perché no? Una volta sono usciti dei circensi
da un video”.
“Non
pensavo fossi amante di quella saga”.
“Come
non amarla? Johanne Kathleen Rowling è un mito”.
Prima
che Gwen potesse aggiungere altro, però,
sentirono dei rumori provenire dall’esterno: portiere che
sbattevano e voci
concitate che parlavano.
Owen fece la prima cosa che gli venne in mente e trasse a sé
Gwen per
nasconderla sotto il mantello. Poi si infilarono in uno sgabuzzino.
Dalla
porta d’ingresso fecero la loro entrata due
tizi, uno alto, barbuto, sulla quarantina e dall’aria per
niente rassicurante e
l’altro molto più giovane, piuttosto bello, dai
lineamenti fini e delicati.
Entrarono
nella stanza dove poco prima si trovavano
anche Owen e Gwen. Jack aveva appena fatto in tempo a nascondersi
dietro all’armadio
e sperava con tutto il cuore di non essere trovato.
“Dovremmo
mettere in ordine questo casino”, disse
quello più giovane raccogliendo una mazzetta da terra.
“Lo
faremo”, rispose l’altro, con una voce profonda
e baritonale. Poi si guardò intorno e parve annusare
l’aria come un cane. “Qui
c’è stato qualcuno”, concluse.
Il
ragazzo lo guardò preoccupato. “Che
intendi?”
“Quello
che ho appena detto. Qualcuno è appena stato
qui”.
“Ma
no, non è possibile”.
Il
barbuto si avvicinò all’armadio e, senza che Jack
se lo fosse minimamente aspettato, lo afferrò per un braccio
e lo trascinò al
centro della stanza.
“Sentivo
io che c’era un brutto odore”, commentò
acido.
Il
più giovane, invece, se ne restò immobile a
fissare lo sconosciuto con occhi vacui. Pareva terrorizzato.
“Non
startene lì immobile!” gridò
l’altro “e lega
questo infiltrato”.
Nel
frattempo la porta d’ingresso sbatté di nuovo e un
altro uomo fece il suo ingresso. Aveva la testa completamente calva ed
era
vestito tutto di pelle.
“Chi
cazzo è quello lì?!”
esclamò, non appena vide
il Capitano.
“Un
infiltrato. E potrebbero essercene altri. Vai di
sopra a controllare”.
Il
pelato corse immediatamente fuori dalla stanza,
mentre l’uomo giovane tentava di legare Jack su una sedia, ma
gli tremavano
parecchio le mani. Il Capitano se ne stava in silenzio, pregando
mentalmente
perché Toshiko e Ianto si fossero nascosti bene.
Poco
dopo, però, il pelato fece ritorno con gli
altri due membri di Torchwood che non avevano potuto opporre resistenza
visto
che stava puntando loro una pistola.
“Avevi
ragione, Rod, qui ce ne sono altri due”.
L’uomo
barbuto, che a quanto pareva si chiamava Rod,
grugnì qualcosa e andò alla finestra.
Anche
Tosh e Ianto vennero legati ben bene vicino a
Jack.
“Chi
diavolo siete voi tre?” berciò il primo uomo,
spostandosi dalla finestra.
“I
tre moschettieri?” fece Jack con espressione
seria.
Ma
parve che Rod trovò la battuta di pessimo gusto. Si
scagliò contro Jack e gli tirò la testa
all’indietro tirandolo per i capelli.
Rimase a guardarlo con occhi inceneritori. Se avesse potuto uccidere
con lo
sguardo probabilmente Jack sarebbe già morto, risorto, poi
morto di nuovo e
risorto un’altra volta.
“Stammi
a sentire, belloccio. Non sono in vena di
battute, capito? Oggi ho i coglioni girati e credimi, potrei girarli
anche a te
solo per il gusto di sentirti urlare”.
“Che
paura”, commentò Jack derisorio, non appena
l’altro
gli lasciò andare la testa. Rod, per tutta risposta,
sputò per terra, vicino
alla sua scarpa.
“Che
ne facciamo di loro, Rod?” chiese il tizio
pelato.
“Li
ucciderei, ma dobbiamo aspettare il capo”.
Ianto
si avvicinò lentamente a Jack. “Non so chi sia
questo capo, ma dobbiamo trovare un modo per andarcene”,
sussurrò al Capitano,
il quale annuì.
“Dove
sono Gwen e Owen?” chiese Tosh.
“Comunque!”
esclamò di nuovo l’uomo barbuto. “Questo
non significa che io non mi possa divertire un po’”.
Si
avvicinò di nuovo a Jack e gli tirò un pugno in
pieno viso facendogli sanguinare il naso. Jack emise un debole lamento
e guardò
l’altro con gli occhi lucidi, confuso. “Adesso ti
farò alcune domande e tu mi
risponderai sinceramente. Oppure ti farò soffrire talmente
tanto che mi
scongiurerai di ucciderti”.
Jack
gli avrebbe riso in faccia se il naso non gli
avesse fatto così male e se non avesse avuto paura di
compromettere la
situazione ancora di più.
Tante volte la gente lo aveva fatto soffrire fisicamente e per questo
tante
volte aveva sperato di ottenere la grazia, ma sembrava che il Tristo
Mietitore
non volesse concedergli quella possibilità.
“Allora
ti servirà parecchia fantasia”, lo
informò
Jack guardandolo dritto negli occhi.
Rod
ridacchiò minaccioso.
Poi, sotto lo sguardo fisso dell’altro, si
avvicinò a Ianto, estrasse un
coltello dalla cintura e gliela puntò contro la gola.
“A
quanto pare ho toccato un tasto debole”, sibilò
il tipo, notando gli occhi spalancati del Capitano. Ianto cercava di
non
tremare, ma era difficile con una lama di freddo acciaio puntata
contro, pronta
a tagliarti la testa.
Ma
prima che qualcun altro potesse fare o dire
altro, si sentirono delle assordanti sirene accompagnate da dei
lampeggianti
blu.
“Chi
diavolo ha chiamato la polizia?” gridò
l’uomo
pelato uscendo in corridoio.
“Io!”
esclamò Owen appena sbucato dallo sgabuzzino. Dietro
di lui c’era Gwen che reggeva il mantello.
E
anche per quel giorno era finita. Torchwood aveva
fatto il suo dovere, portando la calma e la tranquillità nel
Galles. E anche la
giustizia.
A quanto pareva i rapinatori di banche erano proprio quei tre, o meglio
quattro, tizi della casa in mezzo alla campagna. Per scomparire e non
lasciare
tracce usavano i mantelli dell’invisibilità i
quali erano stati sequestrati da
Torchwood e riposti con cura insieme a tanti altri oggetti alieni della
loro
collezione.
Jack
stava per chiedere a Ianto di preparargli un
caffè, ma quando si avvicinò alla postazione dove
stava la macchina tanto
adorata dal ragazzo, non lo trovò. Effettivamente era da un
po’ che non lo
vedeva.
“Jack!”
lo chiamò Gwen. “Potresti uscire? Ianto ti
vuole parlare”.
Il
Capitano inarcò le sopracciglia nella sua
direzione e la ragazza scrollò semplicemente le spalle per
dirgli che lei non
sapeva niente.
Alla
fine uscì e
cominciò a dirigersi verso il molo, pronto a spiegare a
Ianto una volta per
tutte che doveva smetterla di insistere.
Ma non appena lo raggiunse rimase scioccato da ciò che vide.
MILLYS’
SPACE
E
la mia passione per Harry Potter si fa sentire anche
qui ^^ effettivamente non vedrei male Owen che legge la saga della
Rowling. Voi
che dite??
Avrei
voluto aggiornare il capitolo un po’ prima ma purtroppo
mi è mancato il tempo. Ma meglio tardi che mai, no?
Allora,
alcune piccole note: le vicende alle quali si
riferiscono Ianto e Owen sono rispettivamente quelle che avvengono
nella
puntata sedici della prima stagione (Il villaggio degli orrori) e la
dieci
della seconda stagione (Intrappolati in un film). So benissimo che
prima di
questa puntata Owen doveva essere già morto e risorto ma da
brava fan quale
sono ho deciso di saltare quel pezzo e così l’Owen
della mia storia è ancora vivo
con tutti gli organi ben funzionanti ^^.
Sinceramente l’ho trovata una cosa un
po’ di cattivo gusto, far
succedere a Owen quello che gli è successo, ma sappiamo che
al nostro Russel
Davis piace far soffrire i suoi personaggi.
Per quanto riguarda la frase ad effetto che Gwen dice a Jack,
“Carpe diem”, be’
penso che non abbia bisogno di spiegazioni. Comunque è un
verso tratto da un’ode
di Orazio, famosa anche per essere stata usata nel film
“L’attimo fuggente” di
Peter Weir.
E, ultima cosa: avrei voluto far chiarire le cose tra Jack e Ianto in
questo capitolo,
ma mi sarebbe venuto troppo lungo. E poi così vi lascio con
un po’ di suspance
^^.
Bene,
ora rispondo alle recensioni e vi saluto : )
Buona
serata a tutti…
SWEETLADY98:
sono mooooolto contenta che i capitoli precedenti ti siano piaciuti,
spero di
non averti deluso neanche stavolta : ) grazie anche per i complimenti.
Anche io
adoro la coppia Jack/Ianto, secondo me doveva essere molto
più approfondita e
invece Davis ha deciso di stroncarla sul nascere
ç___ç maledetto >.< ti
ringrazio per la recensione, spero di leggerne altre : )
Un bacio, M.
P.S. sì, mi piacerebbe se mi passassi i link, ma sono
piuttosto impedita con la
tecnologia e rischierei di fare qualche danno. Non mi è mai
piaciuto scaricare
roba sul pc, oltretutto ho l’antivirus scaduto. Se potessi
vedermeli in
streaming sarebbe molto meglio : ) se vuoi comunque passa e vedo se
riesco a
combinar qualcosa.
BIMBA3:
pensa, io stavo già preparando varie armi per andare a casa
di Davis ad
ammazzarlo, come lui ha fatto col povero Ianto. Avrei raccolto un bel
gruppetto
di fan infuriati u.u sì, ho deciso di salvare anche Tosh e
Owen perché,
nonostante mi piacciano le storie drammatiche, patteggio sempre per
l’happy
ending. E poi, a parte Jack e Ianto, anche Owen mi piace molto come
personaggio. Io sono convintissima che anche nella serie Jack ami
Ianto,
sebbene non glielo dice mai, il che è un peccato (almeno in
punto di morte
poteva farlo, proprio come hai detto tu), ma visto che Davis non vuole
approfondire
la cosa, lo farò io ^^.
Grazie mille per la recensione, fammi sapere che ne pensi di questo
capitolo.
Un bacione, M.
P.S.
venite a trovarmi sulla mia pagina facebook:
https://www.facebook.com/MillysSpace
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Capitolo 4 *** Capitolo tre - Confidenze ***
CAPITOLO
TRE – CONFIDENZE
Ora,
tu, giovane amore mio, stammi bene accanto
perché questo è solo il punto di partenza
tutto il resto poi verrà da sé.
(Quanto
amore sei, E. Ramazzotti)
“Che
diamine stai facendo?” urlò Jack con gli occhi
fuori dalle orbite.
“Se
non posso convincerti con le buone, allora uso
le cattive”, rispose Ianto scrollando le spalle.
“Scendi
immediatamente da lì”, gli ordinò
l’altro,
puntandogli un dito contro e guardandolo minacciosamente.
Ianto
lo guardò dritto negli occhi, ma non si mosse.
Era in piedi, in bilico sopra la ringhiera della baia. Sotto di lui
c’erano il
vuoto e l’acqua e, se fosse caduto, oltre a un bel volo di
qualche metro, si
sarebbe trovato ad impattare con l’acqua e anche se fosse
sopravvissuto a ciò,
il che richiedeva una gran bella botta di culo, non sarebbe uscito del
tutto
illeso.
Insomma, faceva venire le vertigini soltanto a guardarlo stare
lì sopra e, come
facesse ad avere quel buon equilibrio, il Capitano non ne aveva idea.
“Ti
prego, scendi”, ripeté Jack, questa volta con
più calma. Iniziò ad avvicinarsi cautamente.
“Prima
dimmi che mi ami”.
“Cosa?”
“Dimmi
che mi ami”.
“Ma
che diavolo ti salta in mente?!”
“Quando
me lo hai detto l’altra volta stavo
rischiando la vita. Perciò devo rischiarla di nuovo per
fartelo ridire”.
Di
tutte le cose strane e assurde che gli erano
capitate questa… ok, forse non era la più strana
e assurda, ma comunque poteva
rientrare nella lista. Insomma, qualcuno che rischiava la vita per lui?
“Tu
sei fuori di testa, Ianto”.
“Sì,
lo sono ed è soltanto colpa tua”.
Jack
prese un grosso respiro e cercò di calmarsi.
D’altronde la calma era il suo forte, no? Calma e sangue
freddo. Non aveva
davanti un alieno, solo Ianto. Un attimo. E se Ianto fosse stato
impossessato
da un alieno?
Naaah, era troppo Ianto per essere un alieno.
“Dimmi
che mi ami e scenderò”, ripeté il
ragazzo
senza smettere di guardare Jack.
Il
Capitano abbassò lo sguardo.
“No”.
Ianto,
allora, lanciò uno sguardo al cielo e si
dondolò sul posto.
“D’accordo,
come vuoi”.
Jack
rialzò di nuovo gli occhi sull’altro
chiedendosi che diamine avesse in mente adesso, quando sentì
il suo cuore fare
una capriola all’indietro e premere per uscirgli dal petto
nel momento in cui
vide Ianto staccare un piede dalla ringhiera.
“Ianto!”
urlò, protendendosi in avanti e afferrando
il ragazzo per i fianchi. “D’accordo,
d’accordo! Ti amo! Però adesso scendi”.
Il
gallese sorrise tra sé e sé gongolando. Infine,
fece un salto giù dalla ringhiera con l’aiuto di
Jack che ancora temeva di
vederlo volare di sotto.
Non appena constatò che aveva i piedi ben saldi al terreno,
il Capitano si
voltò dall’altra parte, dandogli le spalle.
“Ma
che cosa ti era saltato in mente?” sbraitò,
girandosi
di scatto di nuovo verso Ianto e portandosi i capelli indietro.
“Suicidarti?”
Ianto
rabbrividì un po’. Non aveva mai visto Jack
così incazzato, che lui ricordasse. Forse aveva esagerato un
pochino. Ma almeno
aveva ottenuto ciò che voleva.
“Solo
a convincerti a dirmi che mi ami”, rispose
come se niente fosse.
“Diavolo,
ma perché non potevi lasciar perdere?
Perché ti ostini così tanto?”
“Perché
sì, perché ti amo anch’io”.
Jack
stava per aggiungere qualcos’altro ma ammutolì
di colpo.
Spostò lo sguardo verso la strada dove in lontananza
c’erano due ragazzi che
passeggiavano con un cane. Non sembrava che li avessero notati.
“E
questo adesso dovrebbe cambiare le cose?” chiese
il Capitano con più calma, riportando di nuovo lo sguardo su
Ianto.
“Be’,
sì… o almeno lo vorrei”, rispose il
ragazzo
con un’espressione affranta.
“E
che cosa vorresti che cambiasse? Quello che c’è
tra noi?”
“Sono
stufo di essere solo la tua macchina del
sesso!” fece allora l’altro, alzando di nuovo la
voce. Forse stava sbagliando tutto,
forse si era spinto troppo oltre.
Jack
spalancò i suoi occhi chiari. “Macchina del
sesso? Tu non sei la mia macchina del sesso, Ianto, non lo sei mai
stato”.
“Ah
no?”
“No”.
“E
allora che cosa sono per te?”
Quella
era la domanda fondamentale e richiedeva una
risposta semplice ma essenziale, Jack lo capì dallo sguardo
del gallese, così
rattristato, così pieno di una strana angoscia,
così doloroso alla vista. E
immediatamente sentì frantumarsi qualcosa nel proprio cuore.
Perché quella
domanda non voleva celare soltanto quelle sette parole, ma molto di
più. Decisamente
di più.
“Sei…
sei… sei la cosa più importante che
ho”,
rispose infine, abbassando lo sguardo. Ed era vero. Aveva conosciuto
tante
persone e alcune di queste per lui erano state molto importanti. Ma
Ianto lo
era adesso, lì e in quel momento. Non importavano il passato
o il futuro,
importava il presente, soprattutto per un Agente del Tempo. Ianto era
il
presente e doveva concentrarsi solo su quello.
Carpe
diem, no?
Si
avvicinò con passo felpato al compagno e appoggiò
le mani sulla ringhiera, restando a fissare il panorama di fronte a
sé. Il sole
ormai stava volgendo al tramonto, tingendo il cielo di tinte accese e
brillanti.
“Sai
perché non ti ho fatto venire con noi, oggi in
missione?” disse poi e continuò senza aspettare la
risposta dell’altro. “Perché
avevo paura. Ho paura che tu ti faccia del male, ho paura che rimani
ferito di
nuovo e che rischi di nuovo di morire. E non c’è
una terza possibilità, non c’è
mai e se dovesse succedere la prossima volta potresti non tornare
più indietro…
potresti non tornare più da me. E io non voglio che questo
accada perché non
sopporterei di vederti morire, non per colpa mia. Ed è anche
per questo che non
volevo dirti che ti amo, per questo ti ho evitato. Perché so
che anche tu mi
ami e io non voglio che tu mi ami. Non me lo merito, non merito di
stare con
una persona speciale come te.
Ho paura ad affezionarmi alla gente perché so che tutti
prima o poi moriranno,
mentre io resto sempre qui, da solo. E anche tu prima o poi morirai e
mi
lascerai da solo”.
Era
forse il discorso più sentimentale che avesse
fatto e per poco non gli venne da vomitare per tutta quella
sdolcinatezza. Però
era vero, terribilmente vero. Per la prima volta si metteva veramente a
nudo di
fronte a qualcuno.
Ianto
però non emise alcun suono. Era calato un
silenzio piuttosto pesante tra loro e il vento iniziava ad alzarsi.
Jack si voltò verso il ragazzo, per assicurarsi che stesse
bene, quando si
trovò di fronte a ciò che non si era affatto
aspettato. Delle gocce bagnate gli
stavano rigando il volto e i suoi occhi azzurri erano velati di lacrime.
“Ianto?”
lo chiamò sorpreso. “Che c’è
che non va?”
gli si mise di fronte prendendolo per i fianchi e guardandolo in volto.
“Mi…
mi dispiace”, biascicò l’altro, cercando
di
mantenere la voce il più ferma possibile.
“E
di cosa?”
“Io
non voglio lasciarti solo”.
Jack
sospirò. “Ma lo farai. Non puoi
impedirlo”,
appoggiò la fronte contro quella di Ianto.
“Ti
amo”.
“Lo
so”.
E
si baciarono. Jack si fiondò sulle labbra di Ianto
quasi come se fosse un bacio d’addio, con una fretta e una
passione che non
aveva mai usato. Ma Ianto ci stette, almeno finché
riuscì a restare al posso.
Poi cedette perché Jack era troppo forte e si
lasciò dominare dalla lingua del
Capitano, si lasciò stringere fra le sue braccia, si
lasciò prendere.
“Torniamo
a casa?” chiese Jack non appena si furono
staccati, entrambi col fiatone.
A
casa.
Era strano perché con quella parola si riferiva alla casa di
Ianto, dato che
lui non ce l’aveva. Ed era strano perché pareva
già considerarla casa sua.
Ed era proprio questo il bello. Si partiva dalle piccole cose, dalle
cose più
semplici e quotidiane per costruire una relazione.
E loro avevano iniziato già da tempo senza nemmeno essersene
resi conto.
Ianto
annuì piano, sorridendo.
“Ma
secondo voi ce la faranno quei due a chiarirsi?”
chiese Gwen sbucando di colpo tra Tosh e Owen che se ne stavano di
fronte al
computer.
“Di
chi stai parlando?” le chiese la giapponese,
spegnendo uno dei primi schermi.
“Ma
di Jack e Ianto, ovvio!”
“Aaah,
secondo me non concluderanno niente. Si troveranno
a scopare come conigli, come al solito”, commentò
il dottore prendendo la sua
giacca dall’attaccapanni.
“Potresti
almeno essere un po’ solidale. Secondo me
questa volta potrebbero farcela… a mettersi insieme,
intendo”, lo contraddisse
Gwen, appoggiandosi al tavolo.
“A
me non interessa. Che facciano quello che
vogliono”, fu il commentò indifferente di Tosh.
Aveva spento tutti i computer e
si era tolta gli occhiali da vista.
La sua giornata era conclusa e non vedeva l’ora di tornare a
casa.
“Ma
non sei curiosa nemmeno un po’?” le chiese Gwen
con un sorrisetto malizioso.
“Assolutamente
no! Io mi faccio solo gli affari
miei”, le rispose l’amica con tono da saccente.
Gwen
sbuffò.
“Ehi,
Tosh!” chiamò ad un tratto Owen che aveva
iniziato a dirigersi verso l’uscita. “Non ho voglia
di andare a casa. Ti va se
andiamo a mangiare da qualche parte?”
Toshiko
per poco non si mise a saltare dalla gioia,
gli occhi le brillavano e tutta la stanchezza, tutto d’un
tratto, sembrò
scemare via.
“Certo!”
esclamò avvicinandosi al ragazzo. Lui le
mise un braccio attorno alle spalle, ma prima di andare via si
girò di nuovo,
verso Gwen. “Tu vieni?”
“Oh
no, Rhys mi aspetta a casa”.
“Certo,
il buon vecchio Rhys. Salutalo da parte
mia”.
Finalmente,
non ne poteva più. Era stata una
giornata piuttosto stancante, doveva ammetterlo. E per fortuna che quel
giorno
non aveva dovuto correre troppo.
Lavorare per Torchwood era emozionante, ma a volte terribilmente
stancante.
Non
appena varcò la porta di casa, sentì un
buonissimo
profumo invaderle il naso e le fece immediatamente venire
l’acquolina in bocca.
Si
tolse le scarpe e, più silenziosa di un gatto,
entrò in cucina, trovandovi Rhys ai fornelli, con un
grembiule a scacchi che
canticchiava una canzoncina allegra, tutto intento a preparare
chissà quale
prelibatezza.
Sempre
senza fare rumore e di soppiatto, gli si
avvicinò da dietro le spalle e gli cinse i fianchi con le
braccia appoggiando
il viso sulla sua ampia schiena.
“Gwen!”
esclamò lui, voltandosi e abbracciandola.
“Non ti ho sentita entrare”.
“Lo
so”, rispose la ragazza, questa volta affondando
il viso nel suo petto.
“Ehi,
che c’è?” le chiese Rhys con tono dolce.
“Niente,
sono solo stanca”.
Lui
ridacchiò vedendola fare un ampio sbadiglio.
“Spero
tu abbia almeno la voglia di mangiare. Sto
cucinando da due ore”.
“Oh,
per quello sempre”.
“Bene,
perché io e te tra mezz’ora ci metteremo a
tavola, di fronte a un bel piatto di spaghetti italiani, e tu mi
racconterai di
qualche strana creatura aliena che avete sconfitto”.
Gwen
sorrise e diede un casto bacio sulle labbra del
suo ragazzo. Ecco perché amava Rhys ed ecco
perché le piaceva sempre tornare a
casa da lui dopo una dura giornata di lavoro. Era qualcosa di
così confortevole
e sicuro, un nido dove tutte quelle cose strane, alieni, mostri,
fantasmi e
creature di ogni tipo non potevano entrare.
Casa sua e Rhys erano il suo porto sicuro.
“Certo!
Prima però vado a cambiarmi”, e così
dicendo, corse su per le scale già un po’ meno
stanca.
Tosh
si asciugò le lacrime agli angoli degli occhi,
l’ultimo riflesso delle risate ancora impresso sul volto.
Lei e Owen erano seduti in un tavolino leggermente appartato di un
piccolo
locale e il dottore le aveva appena raccontato un aneddoto che
l’aveva fatta morire
dalle risate. O forse non era tanto quello, forse era stato il modo in
cui l’aveva
raccontato o il fatto che si trovava lì da sola con lui che
la faceva sentire
così allegra.
“Questa
cosa l’avevo raccontata anche ad altri ma
nessuno aveva mai riso così tanto come te”, fu il
commento del ragazzo, quando
l’amica riuscì a calmarsi.
Tosh
inarcò le sopracciglia e si morse il labbro
inferiore. “Ah sì?”
Temette di essere arrossita.
“Sì.
E sai cosa? Dovresti ridere così più
spesso”.
La
ragazza sorrise dolcemente e abbassò lo sguardo,
leggermente imbarazzata.
“Be’,
allora… allora cercherò di… farlo
più spesso”.
Owen
annuì e mise in bocca anche l’ultimo pezzo di
crosta che era rimasto del suo hamburger.
Toshiko
rialzò lo sguardo e lo portò sulla vetrata
di fronte a lei, cercando di evitare gli occhi dell’amico.
“Oh,
quelle decorazioni sono bellissime!” esclamò,
notando dei disegni rappresentati sui vetri, per cambiare argomento.
Il
dottore si girò nella direzione indicata
dall’amica
e osservò anche lui quelle decorazioni piuttosto particolari.
“Sì.
Sapevo che ti sarebbe piaciuto questo posto”.
“Ah
sì?”
“Be’,
a me piace molto. È carino per passare una
tranquilla serata con gli amici”.
Toshiko
sorrise tra sé e sé. Sembrava essere la sua
giornata fortunata quella, sperava che non finisse mai.
Toshiko,
non farti illusioni. Owen ha detto che siete solo amici,
si disse mentalmente.
Ad
un tratto, però, vide una ragazza passare vicino
al loro tavolo. Era alta, decisamente più alta di lei con
quei tacchi, e
portava dei jeans attillatissimi che addosso a lei sembravano
disegnati, i
capelli scuri raccolti in una coda alta che ondeggiava a ogni suo
passo,
insieme al suo didietro.
Anche Owen la seguì con lo sguardo, girò pure la
testa per vederla sedersi ad
un altro tavolo dove altre ragazze, probabilmente le amiche, la
accolsero
ridacchiando.
Toshiko
era sicura che si sarebbe alzato per
raggiungerle e flirtare con loro. E invece, il ragazzo, si
girò di nuovo
riportando l’attenzione su di lei.
E lei trangugiò l’ultimo sorso di birra, quando
sentì partire dallo stereo una
canzone un po’ lenta e romantica e non riuscì a
trattenersi dall’esclamare: “Oh,
mio Dio! Adoro questa canzone!”
“Davvero?”
fece Owen.
“Sì,
è stupenda!”
“Be’,
allora… ti va di ballare un po’?”, le
chiese
lui, porgendole la mano.
La
ragazza osservò prima la sua mano, poi lui, poi
di nuovo la sua mano, sbigottita.
“Che
cosa?”
“Ti
ho chiesto se vuoi ballare. Se non vuoi pazienza”.
“Oh
no!” rispose con un po’ troppa fretta.
“Voglio
dire… sì, certo che voglio ballare”.
E
senza attendere altro, Owen le prese la mano che
lei gli porse e la condusse sulla pista da ballo dove già
altre coppiette si
stavano godendo la canzone stretti l’uno tra le braccia
dell’altro.
Ianto
mugolò a bassa voce, stringendo le mani sul
lenzuolo.
Era steso sul letto con Jack che gli stava sopra a cavalcioni e gli
lasciava una
lunga scia di baci su tutto il petto, insieme a qualche morso attorno
ai
capezzoli.
Erano entrambi senza camicia, ma molto probabilmente presto si
sarebbero
ritrovati completamente nudi.
Il
ragazzo affondò le mani tra i capelli del Capitano
quando questi prese a mordicchiarli il lobo dell’orecchio
destro. I loro bacini
erano finiti a cozzare l’uno contro l’altro e tutti
e due sentivano l’eccitazione
crescere sempre di più.
Ma sembrava che quella sera se la stessero prendendo con comoda, senza
fretta,
pure Jack ci stava mettendo tutta la calma possibile, senza saltare
alcun
preliminare. Forse perché non c’era nessuna
catastrofe o fine del mondo da
affrontare, nessun alieno minaccioso alla porta. O forse il motivo era
un
altro, che non c’entrava niente col loro lavoro, ma solo coi
loro sentimenti.
Ianto
chiuse gli occhi, lasciandosi andare tra le
calde braccia del suo amante. Ad un tratto, però,
sentì che aveva smesso di
baciarlo e che si era scostato un po’.
Riaprì gli occhi trovandosi il suo volto sopra al proprio,
gli occhi chiari che
lo guardavano intensamente, come a volerlo sondare.
“Ianto?”
lo chiamò a bassa voce.
“Sì?”
“Posso
chiederti una cosa?”
“Sì”.
Tutto, purché si rimettesse a fare quello che
stava facendo.
“Perché
ci tenevi così tanto che ti dicessi che ti
amo?”
“Perché
è vero”.
“No,
non è solo per questo”.
“Perché…”,
il ragazzo voltò lo sguardo dall’altra
parte, in direzione della porta, per evitare di guardare
l’altro negli occhi. Quello
che stava per dirgli era troppo imbarazzante… e troppo
profondo.
“Ehi”,
lo chiamò di nuovo Jack, allora, molto
dolcemente, facendogli voltare la testa verso di sé.
“Puoi dirmelo”.
“E’
solo che…”, iniziò Ianto.
“Solo
che?”
“Non
ce la facevo più… a guardarti e…
insomma, non
lo so, Jack, è solo che ho… ho bisogno di
qualcuno. Non riesco a stare da solo,
non riesco a reprimere i miei sentimenti. E di notte… di
notte mi piace avere
qualcuno che dorma al mio fianco”.
Jack
gli sorrise teneramente e gli diede un bacio
sulle labbra, allungando le proprie mani su quelle di Ianto allungate
sopra la
sua testa e intrecciando le loro dita.
E
quella notte, per la prima volta, fecero veramente
l’amore.
Toshiko
fece una giravolta su se stessa e poi tornò
di nuovo tra le braccia di Owen, ritrovandosi a poggiargli una mano sul
petto e
l’altra intrecciata con la mano del ragazzo.
Stavano ancora ballando quella canzone, in silenzio ed evitando di
guardarsi
troppo negli occhi. Cercavano di mantenere comunque le distanze, per
non farlo
diventare troppo intimo. O almeno questa era l’impressione
che aveva la
ragazza, ma non aveva idea se Owen se ne fosse accorto o meno o se lo
facesse
apposta.
Comunque
sia, non importava. Le bastava essere lì
con lui.
“Rhys?”
“Sì?”
“Ti
ho mai detto che ti amo?”
Rhys
sorrise sentendosi sciogliere e portò una mano
della sua ragazza sul proprio petto, all’altezza del cuore.
“Dopo tutto questo
tempo mi fai ancora battere il cuore così”.
Anche
Gwen lasciò che
le sue labbra si aprissero in un sorriso e, ridacchiando allegra, si
abbassò
verso Rhys, sotto di lei sul divano, e lo baciò
appassionatamente, lasciando
che i capelli le scivolassero giù, come per nascondere
quello che stavano
facendo perché era qualcosa che apparteneva soltanto a loro.
MILLY’S
SPACE
Non
credevo che sarei riuscita ad aggiornare così
presto…
ma le recensioni molto belle che ho ricevuto mi hanno stimolata a
scrivere
questo capitolo abbastanza in fretta.
Spero che non sia venuto male anche se temo di aver fatto i personaggi
un po’ OOC,
specialmente Jack.
Il fatto è che Jack io in realtà lo vedo pieno di
sentimenti, anche se non li
mostra apertamente
proprio
per mantenere quella
corazza impenetrabile che lo caratterizza. Ma credo che sia
tutt’altro che insensibile
e immune all’amore e sono convinta che lui sia veramente
innamorato di Ianto.
Jack mi affascina soprattutto per questo, perché
è un personaggio che va
interpretato. In lui è incentrata un’ampia gamma
di sentimenti ed emozioni, è
un animo che va sondato, insomma, con un bel po’ di
esperienza psicologica,
anche.
Ma ok, non siamo qui per parlare della mia passione per Jack Harkness e
la
psicologia, bensì di questa storia.
Allora,
è un capitolo un po’ di transizione
perché ho
pensato che fosse giusto far fare una pausa ai nostri eroi e farli
godere qualche
attimo di calma. Ne succederanno delle belle, col proseguo, pertanto
facciamoli
divertire finché possono : )
Ianto
ha escogitato un buon sistema per convincere il
nostro Jack a dichiararsi, anche se forse un pochino esagerato (la
melodrammaticità dell’autrice, che ci potete fare?
^^), ma il desiderio di
Ianto di avere una persona accanto non è solo un capriccio
dell’autrice (o
meglio, sì visto che sono io che scrivo la storia e tutto
quello che c’è
scritto nella serie non succede), ma c’è una
motivazione di fondo che scoprirete
più avanti e che secondo me c’è anche
nel telefilm.
E,
ultima nota, la canzona sulla quale ballano Tosh e
Owen è I can’t fight
this feeling di Reo Speedwagon
(l’ha trovate qui
à
http://www.youtube.com/watch?v=zpOULjyy-n8).
In
realtà non sono una grande fan di questa coppia, ma mi
è sembrato giusto
dedicarle comunque un po’ di spazio. E ne troverete un
po’ anche più avanti,
forse già dal prossimo capitolo.
Bene,
penso di aver detto tutto. Anzi, no. Ho un’ultima
cosa, o meglio, una domanda: qualcuno di voi sa per caso il nome della
sorella
di Ianto? Non ricordo se lo abbiano detto nel telefilm, comunque sia in
ogni
caso non lo so.
Adesso
sì che è tutto ^^
Grazie
della cortese attenzione e non scordatevi le
recensioni.
Baci,
Millyray.
GLINDA:
hola, cara : ) grazie mille per la recensione, mi fanno sempre un sacco
di
piacere. Sì, Jack è un personaggio piuttosto
particolare, ma è anche per questo
che lo amiamo, no? Grazie ancora, spero di risentirti. : )
SWEETLADIE98:
sono molto contenta di essere riuscita a mantenere i personaggi
così come sono
perché è una cosa piuttosto difficile e capita a
molti autori di stravolgerli. Qui,
però, come ho già detto sopra, credo di essere
andata un po’ fuori, ma va be’
^^ licenza d’autore… sono anche contenta di essere
stata esauriente con le
descrizioni. Secondo me è importante che siano brevi ed
efficaci e non una
lunga sfilza di azioni e aggettivi che dopo un po’ iniziano
ad annoiare.
Bene, ti ringrazio ancora per il link che mi hai passato, mi sono
già vista
tutti gli episodi della 3 stagione. Inutile dire che aspettavo con
ansia la
scena della morte di Ianto su cui poi ho pianto come una fontana.
Dimmi che ne pensi di questo capitolo, se ti va : ) Baci.
P.S. il nick è millyray, ma puoi chiamarmi solo milly o ray,
come preferisci :
)
P.P.S. il tuo avatar è stupendo : )
BIMBA3:
sì, Jack lo amiamo sia con i suoi difetti che coi suoi pregi
: ) a Ianto non è
successo niente, sta’ tranquilla ^^ è solo Jack
che ha avuto un leggero
infarto. Grazie mille della recensione, spero di risentirti.
Bacioni,
M.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo quattro - Sanzaru ***
CAPITOLO
QUATTRO – SANZARU
Il
buio ha i tuoi occhi,
belli come li hai soltanto tu.
(Il
buio ha i tuoi occhi, E. Ramazzotti)
Jack
si svegliò con un sussulto, la coda dell’ultimo
strano sogno che si dissolveva davanti al suo sguardo leggermente
confuso. La
prima cosa che notò era che non si trovava nel suo letto.
Questo era molto più grande e sulla parete accanto
c’era un’ampia finestra ad
illuminare la stanza. La seconda cosa di cui si accorse, invece, era
che non si
trovava da solo. C’era qualcosa che gli pesava sul petto e
che gli provocava un
piacevole torpore.
Abbassò
lo sguardo e vide Ianto con gli occhi chiusi
che dormiva placidamente, appoggiato sulla sua spalla e un braccio
buttato sul
suo petto.
Gli ci volle qualche secondo per inquadrare tutta la situazione, su
come era
finito nel letto di Ianto. E, d’un tratto, si rese conto che
quella era la
prima volta che dormivano veramente insieme. Avevano fatto sesso molte
volte,
non solo nel suo ufficio al Nucleo, ma anche a casa di Ianto, in
cucina, in
salotto, in bagno, però non avevano mai dormito insieme.
Jack se ne andava via
sempre, quasi subito dopo il rito. Come un ladro che, preso quello che
voleva,
fugge via per non essere catturato.
Ma ora… ora era caduto nella trappola e doveva ammettere,
osservando il volto
tranquillo del ragazzo che dormiva e sentendo il suo fiato sul collo,
che era
una trappola molto piacevole, gli dava quel pacifico senso di
tranquillità,
sicurezza e calore di cui, se ne rese conto in quel momento, aveva
veramente
bisogno. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta
in cui si era
sentito così che lo aveva dimenticato.
Circondò
la vita di Ianto con un braccio, per
avvicinarlo di più a sé e prese ad accarezzargli
i capelli sulla fronte. Doveva
ammettere che era bello quando dormiva. Ma lui era bello sempre. E
chissà che
cosa stava sognando, magari dei sogni più belli dei suoi.
Jack avrebbe tanto
voluto saperlo.
Ad
un tratto, però, anche Ianto aprì gli occhi,
posando il suo sguardo azzurro sul volto dell’altro.
“Ciao”.
“Ciao”.
“Scusa,
non volevo svegliarti”, sussurrò Jack
sorridendogli.
“Non
mi hai svegliato”.
Ianto,
allora, si alzò mettendosi seduto sul letto
per stiracchiarsi un po’, ma improvvisamente sentì
le braccia di Jack
circondarlo per la vita e il suo petto aderire alla sua schiena.
“Che
ore sono? Forse dovremmo andare”, disse,
allora. In realtà non aveva la minima voglia di staccarsi
dalle braccia di
Jack, stava così bene e sarebbe potuto rimanere
lì tutto il giorno, per non
dire per sempre. Però quella situazione gli metteva anche
una strana sensazione
addosso, era così strano, Jack non lo aveva mai stretto
così. Era strano,
certo, ma molto bello.
“Io
però avrei un certo languorino”, rispose il
Capitano e… forse era solo una sua sensazione ma a Ianto
parve che la sua voce
si fosse fatta incredibilmente sensuale.
“Allora…
allora perché non vai in cucina a
prepararti qualcosa?”
Jack
fece una leggera pressione sui suoi fianchi per
buttarlo di nuovo a letto e, con un colpo di reni, gli si mise a
cavalcioni,
ripetendo la posizione dell’altra sera.
“Preferirei
che fossi tu a prepararmela” e si
abbassò per avvicinare i loro volti.
“Perché
io?”
“Be’,
perché in ogni coppia ci deve essere qualcuno
che prepara la colazione e non sarò certo io”.
Coppia?
Jack aveva detto veramente coppia?
“Siamo
una coppia?”
“Sì.
Perché, non lo vuoi?”
“Certo
che lo voglio”.
“Bene,
altrimenti il tuo quasi suicidio sarebbe
stato inutile ed inspiegabile e ti avrei ucciso io, allora”.
Ianto
ridacchiò divertito, ma tornò serio subito
dopo, notando gli occhi socchiusi di Jack e il suo sorrisetto sghembo.
La cosa
lo eccitava parecchio.
“Allora,
vado a prepararti la colazione”.
“Aspetta!”
lo fermò il Capitano, premendo le mani
sulle sue spalle per farlo restare sdraiato. “Prima devi
sfamare il mio
amichetto lì sotto” e, con un cenno del capo,
indicò le sue parti basse, dove
un evidente rigonfiamento nei suoi boxer faceva intuire perfettamente
che cosa
volesse dire. E Ianto non poteva certo biasimarlo, anche la sua
erezione
mattutina reclamava per essere soddisfatta.
Ma di certo non si aspettava quell’improvviso assalto alle
sue labbra che venne
subito dopo.
Jack,
in bagno davanti allo specchio, vestito solo
con un paio di boxer prestatigli da Ianto, era indeciso se farsi la
barba
oppure no. Si passò una mano sul viso e alla fine decise che
era meglio,
cominciava a sentire qualche pelo, anche se ancora non si vedeva, e lui
detestava
avere la barba. Poco gli importava se erano già in ritardo
al lavoro.
“Hai
la schiuma da barba?” gridò per farsi sentire
da Ianto, ancora in camera da letto.
“Nell’armadietto
accanto al lavandino”, sentì
rispondersi.
Jack
aprì il suddetto armadietto, appeso al muro, e
passò lo sguardo alla ricerca di quello che gli serviva. Ma
prima di arrivare
alla schiuma, i suoi occhi caddero sulle innumerevoli boccette e
scatolette di
medicinali e rimase piuttosto sbigottito davanti a quella
quantità di farmaci.
C’erano due mensole piene di quelli che parevano per lo
più sonniferi e
tranquillanti, alcune di queste erano aperte e mezze vuote, altre erano
ancora
sigillate. Le rigirò un po’ tra le mani per
leggere le etichette e notò anche
una boccetta di Valium.
Ma che se ne faceva Ianto di tutta quella roba?
Prese
la schiuma da barba e richiuse l’armadietto.
Glielo avrebbe chiesto in un secondo momento, adesso non voleva
rovinare quel
momento di famigliarità e pace.
Come
c’era da aspettarsi, Jack e Ianto arrivarono
alla base per ultimi. Quando raggiunsero la baia trovarono le auto
degli altri
tre membri già parcheggiate all’ingresso.
Il Capitano fece girare la ruota e, dopo aver preso la mano del suo
compagno,
sotto lo sguardo incredulo dell’altro, varcò la
soglia insieme a lui con uno
svolazzo del cappotto grigio.
“Era
ora! Ma dov’eravate finiti?” esclamò
Gwen, non
appena li vide arrivare. Poi, però, abbassò lo
sguardo alle loro mani
intrecciate e un sorriso le nacque spontaneo sulle labbra.
“Oh, dobbiamo
brindare a qualcosa?”
“No!”
le rispose Jack secco. Cominciò a dirigersi
verso le scale ma, prima di posare il piede sul primo gradino, si
voltò verso
Ianto. “Me lo prepari un caffè, come piace a
me?”
“Agli
ordini, capo”, gli rispose il ragazzo
facendogli il saluto militare, seguendolo con lo sguardo mentre si
dirigeva
verso il suo ufficio.
“Aspetta,
Jack!” lo chiamò Gwen, allora, con una
leggera nota di panico nello sguardo. Ma l’uomo non le
badò e la ragazza
scambiò uno sguardo preoccupato con Tosh e Owen.
Dopo forse mezzo minuto, Jack ricomparve dal piano superiore,
appoggiato alla
ringhiera con un’espressione piuttosto adirata.
“Chi diavolo ha combinato quel macello nel mio
ufficio?”
Owen
scrollò le spalle, Tosh si morse il labbro
inferiore e Gwen gli fece un sorrisetto falsamente innocente.
Ianto, invece, abbandonò la sua postazione alla macchina del
caffè e corse su
per le scale a vedere a che cosa si stesse riferendo Jack. E
capì il motivo di
tanto disappunto del suo compagno.
L’ufficio era completamente sottosopra, c’erano
carte e penne sparse per terra
ovunque, non si poteva camminare senza calpestarle, la sedia era
rovesciata e
il tavolo messo di traverso, anch’esso pieno di fogli
volanti. Persino alcune
mensole della libreria si erano staccate.
“Prima
che tu te la prenda con qualcuno…”,
iniziò
Gwen da dietro le spalle dei due uomini. “Ecco chi
è stato a fare questo al tuo
ufficio”.
Jack
si voltò verso di lei, ma si trovò davanti Owen
che reggeva in braccio quella che pareva essere una scimmia con le
dimensioni
di un bambino di cinque anni. Si teneva con le sue lunghe braccia al
collo del
dottore e con il muso rivolto verso il Capitano. Dalla sua espressione
così
tenera e dolce non sembrava per niente essere lei la causa di tutti
quei danni.
“E
che cazzo sarebbe quella cosa?” berciò Jack,
squadrano l’animale come fosse qualcosa di ripugnante.
“Non
è una cosa!” gli fece notare Owen in tono di
rimprovero. “Questo è uno scimpanzé e
ha pure un nome… sì… si
chiama… Monkey.
Sì, si chiama Monkey”.
“Monkey?”
ripetè Ianto cercando di non scoppiare a
ridere. Di sicuro il nome se lo era inventato lì al momento.
Ma a parte quello,
tutta quella situazione era piuttosto comica. “Originale,
molto originale”.
“E
voi gli avete lasciato fare questo casino nel mio
ufficio? E si può sapere dove l’avete
trovato?” chiese allora il Capitano,
questa volta più calmo.
“Non
gliel’abbiamo lasciato fare. Era già lì
quando
siamo arrivati e non sappiamo come ci sia arrivata. Comunque non
è di questo
mondo, Tosh ha notato delle sostanze aliene nel suo corpo”,
gli spiegò Gwen
pazientemente. “Volevamo mettere in ordine prima che
arrivassi, ma… non ne
abbiamo avuto il tempo”.
Jack
alzò gli occhi al cielo e appoggiò una spalla
allo stipite della porta.
“D’accordo”,
concluse infine. “Owen, mettiti a
lavorare. Fai tutte le analisi che servono per scoprire da dove viene o
che
cosa sia quella… quella scimmia”.
“Era
quello che stavo per fare”.
“Tu,
Tosh”, continuò il Capitano senza fare caso alla risposta di
Owen. “Osserva tutte le
registrazioni che sono state fatte nel corso della notte per vedere se
sono
avvenute delle anomalie o cose simili nel Nucleo”.
“D’accordo”.
“E
tu Ianto… mi aiuti a mettere in ordine”.
Afferrò la maniglia della porta e fece per chiudersi dentro
la stanza, quando
Gwen lo bloccò. “E io che faccio?”
L’uomo
si fermò a guardarla un attimo col suo
cipiglio altezzoso, come a volerla studiare, e infine disse.
“Non so… renditi
utile o fai quello che vuoi”.
La
ragazza lo guardò strano, ma non fece in tempo a
dire nient’altro visto che questi non le lasciò il
tempo e sparì nell’ufficio
insieme a Ianto.
Alla fine scese giù andando ad appoggiarsi a un tavolo pieno
di strani oggetti.
“Be’,
poteva andare peggio”, commentò. “Non ha
reagito così male”.
“Sappiamo
che una delle regole di Jack è non toccare
il suo ufficio”, le fece notare Toshiko. “Un minimo
di urla era prevedibile”.
Gwen
infilò le sue bacchette nella confezione di
cibo giapponese e ne tirò fuori un pezzetto di sushi che
mise subito in bocca.
Lo stesso fece Ianto, terminando così il suo pranzo. Si
alzò ber buttare via la
sua confezione, fermandosi subito dopo accanto a Owen che se ne stava
impalato
a braccia incrociate a poca distanza dal lettino del mini studio medico
su cui
sedeva lo scimpanzé che avevano trovato
nell’ufficio di Jack.
“Pensate
che dovremmo darle da mangiare?” chiese il
dottore senza togliere gli occhi dall’animale.
“E
che cosa le dovremmo dare?” fece Gwen.
“Non
so… delle banane? Qualcuno ha una banana?” Owen
si voltò guardando i suoi amici ad uno ad uno. Tutti
però scossero il capo.
“Sicuramente
non gli darei la mia”, rispose Jack,
seduto sui gradini. Sembrava ancora avercela con quello che era
successo nel
suo ufficio, sebbene il più delle cose lui e Ianto erano
riusciti a sistemarle.
Ianto, però, a quella frase, ridacchiò sotto i
baffi.
“Perché
non la adottiamo come animale domestico?”
propose Gwen, beccandosi un’occhiataccia da parte del
Capitano. “Scusa, scusa,
stavo solo scherzando”, aggiunse subito dopo, alzando le mani
sopra la testa in
segno di resa.
“Almeno
avete capito com’è arrivata?” chiese
Ianto a
quel punto.
“No”,
rispose Tosh immediatamente. “Ho controllato
tutte le registrazioni. Solo quella nell’ufficio di Jack
mostra delle anomalie
dal momento in cui l’ufficio è vuoto a quello in
cui compare Monkey. Però non
ci fa capire niente. Sembra essere spuntata dal nulla”.
“Forse
ha usato una specie di teletrasporto”,
propose Owen.
“Forse.
E la domanda è anche: perché proprio qui, a
Torchwood. Credevo che qui non potesse entrare niente”.
Jack
fece per dire qualcosa quando, tutto d’un
colpo, sentirono la ruota del Nucleo girare. Qualcuno stava entrando,
eppure
tutti loro erano lì e nessun’altro sapeva di
quella base e di come entrarci.
Perciò, contemporaneamente, si avvicinarono con le pistole
puntate, pronti ad
affrontare qualsiasi strana minaccia fosse.
Non
appena la porta si aprì completamente, videro
una figura attraversare l’uscio ed entrare dentro. Era una
giovane donna con la
pelle scura, i lunghi capelli neri raccolti in un chignon e lo sguardo
scuro
vispo e allegro. Li raggiunse con un sorriso divertito dipinto in volto.
“Devo
ammettere che non mi aspettavo proprio questo
tipo di benvenuto”, commentò vedendosi cinque
pistole puntate contro.
“Martha!”
esclamò Jack sorpreso, abbassando subito
la propria pistola. In tre falcate la raggiunse e
l’abbracciò forte, quasi
staccandola da terra. “Ma che ci fai qui?”
“Be’,
ero di passaggio così…”, rispose la
ragazza
stringendosi nelle spalle. “ho deciso di venire a
trovarvi”.
“Ammettilo,
ti mancavo troppo, così non hai potuto
resistere”.
“Sì,
Jack, senza dubbio”, sbuffò lei alzando gli
occhi al cielo.
Anche
gli altri, allora, l’abbracciarono, contenti
di rivederla.
“Be’,
raccontaci qualcosa. Dove sei stata, cos’hai
fatto?” le chiese Gwen curiosa.
“Ah,
sicuramente non ho avuto una vita interessante
come la vostra”.
Quando
Gwen e Martha rientrarono dopo una
passeggiata nei dintorni, trovarono Tosh e Owen davanti al computer ad
osservare qualcosa e parevano parecchio presi. O meglio, Owen era
parecchio preso
ed apparentemente divertito, Tosh, invece, sembrava voler evitare di
guardare,
ma continuava a spostare anche lei gli occhi sullo schermo.
“Ehi,
ragazzi, che state guardando?” chiese Gwen non
appena lei e Martha li raggiunsero.
“Oh,
è un film porno?” aggiunse Martha notando che
l’immagine sullo schermo mostrava due persone chiaramente
impegnate in un atto
sessuale. Poi, però, osservò meglio e
sgranò gli occhi quando si accorse che
cosa stava guardando in realtà. “Un
momento… ma quelli sono…”.
“Jack
e Ianto!” esclamarono lei e Gwen all’unisono.
“Esattamente!”
affermò Owen ridendo senza ritegno.
“Non
dovremmo guardare queste cose”, li redarguì
Tosh. “Stiamo violando la loro privacy”.
“Ma
li stiamo osservando dalle telecamere di
sorveglianza? E… oh mio Dio! Ma lo stanno facendo davanti ai
Weevil!” si
accorse Gwen e pareva un po’ disgustata.
“Non
è colpa nostra se li abbiamo beccati. Loro
dovrebbero stare più attenti a dove lo fanno”, si
difese Owen.
“Tosh
ha ragione”, gli fece notare Gwen, allora.
“Però, cazzo… è troppo
bello”, concluse infine, scoppiando a ridere.
In
quel momento videro Jack afferrare Ianto per le
spalle e sbatterlo di faccia contro al muro. Ianto vi si
attaccò quasi a
volerci entrare dentro, intanto il Capitano doveva averlo penetrato, a
giudicare
dalle espressioni contratte di entrambi. Jack prese a spingersi dentro
il
compagno, muovendosi su e giù, sempre con maggior
velocità.
“Ma
loro stanno insieme o sono solo compagni di
letto?” chiese Martha, senza
togliere
gli occhi dallo schermo. A quel punto anche Tosh si era arresa e stava
guardando.
“Credo
stiano insieme”, le rispose Gwen.
“Wow.
Chissà che gli ha fatto Ianto”, fu il commento
di Martha.
Infine,
osservarono come le espressioni dei due
uomini nei sotterranei cominciavano a distendersi in
un’espressione estasiata e
felice, segno che avevano raggiunto l’orgasmo.
Ianto,
non appena Jack si fu allontanato, scivolò
contro il muro distendendosi per terra. Aveva il respiro accelerato e
sentiva i
muscoli tremare leggermente.
Anche Jack aveva un po’ di fiatone ed era leggermente sudato.
Ma parecchio
soddisfatto.
“Cristo,
Jack, mi hai letteralmente spaccato”,
borbottò Ianto tra un respiro e l’altro.
Il
Capitano ridacchiò sedendosi per terra. Aveva
bisogno di un po’ di riposo. Fare sesso, doveva ammetterlo,
stancava un po’. Ma
era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato mai, fisiologicamente non ne
sarebbe
mai stato in grado.
“Ammettilo,
che non ti sei mai fatto una scopata
così”.
“Effettivamente
no. E questa è la seconda volta che
lo facciamo in un giorno”.
“Sta’
sicuro che ce ne sarà una terza”, Jack
portò
lo sguardo verso la telecamera appesa al muro sopra la sua testa.
Appena
tornati di sopra, avrebbe dovuto provvedere a cancellare quella
registrazione,
così che nessuno degli altri avrebbe visto niente.
L’unico testimone del loro
peccato sarebbero stati i due Weevil, ma grazie al cielo non erano
dotati di
parola.
“Su,
rivestiti o prenderai freddo”, concluse,
rivolto a Ianto. Si alzò anche lui e cominciò a
raccogliere i suoi vestiti
sparsi per terra.
Quando
si fu rivestito, lasciò Ianto a sistemarsi e
tornò di sopra.
“Oh,
siete già tornati!” esclamò, vedendo i
quattro
amici seduti davanti ai computer che lo guardavano in modo un
po’ strano.
“Ehm…
sì”, rispose Gwen con un sorriso a trentadue
denti.
In
quel momento arrivò anche Ianto, che notò subito
che c’era qualcosa di strano nel comportamento degli altri.
“Che
state facendo?” chiese.
“Niente!”
rispose Martha, un po’ troppo
frettolosamente, e si spostò più vicino a Owen
per nascondere il delitto. Si
erano dimenticati di chiudere la schermata. “Stavamo
solo… controllando… una
cosa”.
Jack
e Ianto si guardarono l’un l’altro un po’
confusi.
“Voi,
tutto a posto?” chiese Gwen, allora, sperando
di distrarli. “Passata… passato un buon
pomeriggio?”
Owen,
con un calcio alla caviglia, le intimò di
stare zitta. La ragazza, in risposta, gli lanciò
un’occhiataccia.
Ianto,
accorgendosi che stavano nascondendo qualcosa
alle spalle, si avvicinò alla scrivania e osservò
il computer in centro. “Ma
quella è… la videocamera delle celle?”
“Quella?
Ehm no…”, cercò di negare Owen, ma
piuttosto inutilmente.
Allora
anche Jack si avvicinò e un risolino
divertito gli uscì dalle labbra, capendo che cosa era
successo. “Ci stavate
guardando”.
“Chi?
Noi? Nooo!”
“Sì
che lo avete fatto. Be’, spero che vi siate
almeno divertiti”, concluse il Capitano, cominciando a
dirigersi verso
l’ufficio.
Ma, se a Jack non importava niente, non si poteva dire lo stesso di
Ianto. Il
ragazzo era piuttosto imbarazzato, anche se cercava di non darlo a
vedere.
“Ianto,
mi dispiace”, disse Tosh, notando il suo
sguardo contrariato. “Io non lo volevo fare”.
“Sì,
ma lo hai fatto”, probabilmente avrebbe
aggiunto qualcos’altro, ma alla fine decise di lasciar
perdere e andò a
raggiungere Jack.
“Ti
ho detto che dovevi spegnere”, sbraitò la
giapponese rivolta a Owen, mollandogli uno schiaffo dietro la nuca.
“Ouch!
Che c’entro io? Anche voi avete guardato”, si
lamentò l’accusato.
“Dai,
mettiamoci al lavoro”, lo esortò allora
Martha, prendendolo per un braccio.
I
due si diressero verso il piccolo studio medico
per fare altre analisi alla scimmietta aliena. Era piuttosto tranquilla
per
essere di quella specie, di solito i Scimpanzé facevano un
sacco di pasticci
ma, a parte l’ufficio di Jack, non aveva ancora messo a
soqquadro niente.
Doveva essere un animale educato, forse domestico, tuttavia non
mostrava
particolari capacità. Ogni tanto si fermava a fissare le
persone, come se le
studiasse, il che inquietava un po’, ma sicuramente era
normale. Magari non era
abituata a degli esseri umani.
Martha
le si avvicinò con una siringa per farle
un’iniezione quando questa d’improvviso, come se
qualcuno glielo avesse
ordinato, le saltò addosso stringendole forte il collo. La
ragazza cadde a
terra ma, sentendosi venir meno l’aria, non poté
urlare né emettere alcun
suono, se non dei gorgoglii.
Owen
accorse subito per aiutarla. Afferrò Monkey per
le spalle cercando di scrollarla di dosso da Martha, ma
l’animale sembrava
avere più forza di quanto non ne mostrasse. Alla fine, senza
che se lo fosse
minimamente aspettato, la scimmietta staccò le mani dal
collo della dottoressa
e le mise in faccia a Owen coprendogli gli occhi e togliendogli
così la
visuale. Il ragazzo indietreggiò e cadde
all’indietro colpendo il muro.
A
Martha ci volle qualche secondo per rendersi conto
di cosa stava succedendo, era ancora intenta a riprendere il fiato ma,
prima
che potesse reagire, gli altri, attirati dai rumori, erano
già accorsi per
aiutare Owen.
Jack
e Ianto strattonavano lo Scimpanzé per
toglierglielo di dosso, ma invano. Infine arrivò Martha che,
con un colpo
secco, infilò una siringa nel didietro
dell’animale premendo lo stantuffo e
iniettandole il liquido che c’era dentro.
“Sonnifero”,
disse la ragazza rispondendo alla muta
domanda degli altri. Monkey aveva cominciato a rilassarsi e, dopo poco,
mollò
la presa su Owen cadendo addormentata. Jack la afferrò e la
mise sul lettino.
“Ragazzi”,
chiamò il dottore con uno strano tono.
“Ditemi che avete spento la luce”.
“No,
perché?” fece Gwen.
“Perché
non vedo niente”.
“Non
ci sono lacerazione nella retina né altre
anomalie”, concluse Martha spegnendo la luce della piccola
torcia medica con
cui aveva controllato la vista di Owen. Gli aveva fatto diversi altri
esami da
cui non era risultato niente. “Non vedi niente?”
“No,
buio totale”.
Martha
si scambiò un’occhiata con gli altri che li
guardavano dall’alto, appoggiati alla ringhiera.
“Ma
com’è potuto succedere?” chiese Gwen,
guardando
in direzione di Jack. Il Capitano, per tutta risposta,
scrollò le spalle.
“Aspetta,
un momento…”, sbottò Ianto, allora.
“E’
successo quando la scimmia ti è saltata addosso,
no?”
“Sì”,
rispose Owen.
“Dove
ti ha messo le mani esattamente?”
“Sugli
occhi”.
Tutti
quanti, eccetto Owen, avevano gli occhi
puntati su Ianto, curiosi di sapere che cosa stesse pensando.
“Tosh, uno
dei simboli tradizionali della cultura giapponese non sono le tre
scimmie?”
Toshiko,
che aveva afferrato il punto, sgranò gli
occhi e la bocca sorpresa.
“Ma
certo! Le Sanzaru, le tre scimmie sagge! Mizaru,
Kikazaru, Iwazaru!”
“Eh?!” fece
Owen socchiudendo gli occhi.
La
ragazza scosse il capo e spiegò in tono vivace.
“Sono le tre scimmie rappresentante nel santuario di Toshogu
e indicano il non
vedere il male, il non sentire il male e il non parlare del male e con
le mani
si coprono rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca”.
“Quindi
queste tre scimmie sono arrivate dal
Giappone?” chiese Owen.
“No,
non credo… non lo so…”.
“Però…”,
la interruppe Jack. “se le scimmie sono tre
e noi ne abbiamo una… da qualche parte ce ne sono altre
due”.
“Controllo
subito se ci sono segni di attività
aliena in città!” esclamò Tosh,
correndo subito ai computer e in un paio di
minuti trovò quello che stava cercando. “Ci sono
due punti caldi, uno è in
Avington Street e l’altro in uno zoo poco fuori
città. Non sono sicura che
siano le scimmie ma…”.
“D’accordo,”
concluse allora Jack, interrompendola
di nuovo. “Io e Ianto andremo allo zoo mentre Martha e Gwen
andranno in
Avington Street. Tu, Tosh, accompagna Owen a casa”.
E
in poco tempo tutti si misero in marcia.
“Bene,
si entra in azione”, disse Ianto uscendo dal
Suv insieme a Jack. I
due erano davanti
al cancello dello zoo che si trovava poco fuori Cardiff, non molto
trafficato
quel giorno, per fortuna, a parte qualche turista e scolaresche
accompagnate
dagli insegnanti. Era giorno lavorativo, dopotutto.
Camminarono
per un po’ finché non arrivarono a una
piccola casetta di legno nella quale un uomo oziava sprofondato su una
sedia,
un cappello di paglia piuttosto rovinato poggiato sulla testa.
Jack
e Ianto entrarono dentro bussando piano, al che
l’uomo si ridestò e guardò i due uomini
con evidente stupore.
“Scusi,
Capitano Jack Harkness e Ianto Jones, siamo
di Torchwood”.
L’uomo,
per tutta risposta, alzò un sopracciglio e
continuò a scrutarli.
“Volevamo
chiederle un’informazione”, continuò
Jack.
“Per caso stamattina da voi è comparso un
Scimpanzé? Uno scimpanzé un
po’…
particolare?”
Ma
l’uomo non sembrava proprio in vena di parlare,
continuava a starsene zitto. Jack, a quel punto, temette che
l’uomo fosse un
po’ tocco o chissà… anche se, doveva
ammetterlo, la sua domanda suonava un po’
strana, magari era quello che stupiva l’uomo.
La luce del sole entrò dalla finestra aperta e
andò a colpire una parte del
volto dello sconosciuto, scoprendo così i suoi lineamenti.
Era piuttosto
anziano, forse sulla settantina, il volto segnato da pesanti rughe. Ma,
su quel
volto così scavato, due brillanti occhi azzurri spiccavano
vispi e vivaci.
“Effettivamente
sì”, rispose alla fine l’anziano,
interrompendo il silenzio che si era venuto a creare. Aveva una voce un
po’
rauca e, immediatamente, venne scosso da dei pesanti colpi di tosse.
“Stamattina hanno chiamato per dirci che hanno trovato una
scimmia girare nei
dintorni. Hanno subito pensato che fosse una delle nostre,
così l’hanno portata
qui. Ma non è una delle nostre”.
“E
lei come fa a saperlo?” chiese Ianto.
“Perché
le nostre scimmie hanno tutte un piccolo
marchio sotto al piede sinistro e quella non ce l’aveva. Ma a
parte questo”, altri
colpi di tosse. “si vede. È un animale
particolare”.
“Particolare
in che senso?”
“E’
troppo docile e mansueta. L’abbiamo messa nella
gabbia insieme alle altre, ma le altre sembra che ne abbiano
paura”, pausa per
tossire. “se ne tengono lontane. Inoltre, pare che non voglia
mangiare il cibo
che diamo alle altre, eppure non soffre di malnutrizione”.
“Possiamo
vederla?” chiese Jack.
“Posso
portarvici”.
L’anziano
signore accompagnò i due fino al recinto
dove erano tenute le scimmie. C’erano solo alcune persone
attorno alle grate di
ferro, che scattavano foto.
“E’
da stamattina che sono così”, sbottò il
custode
dello zoo, guardando in direzione delle scimmie, le mani strette al
bastone che
usava per camminare.
Jack e Ianto non capirono subito a che cosa si riferisse, ma poi
notarono che
effettivamente c’era qualcosa che non andava in quegli
animali. Continuavano ad
urlare ed emettere versi, come se qualcosa le rendesse nervose.
“C’è
qualcosa che le disturba”.
Jack
guardò in direzione delle scimmie e, in mezzo a
tutte quelle agitate, ne notò una, solo una che, a
differenza delle altre,
pareva tranquilla e pacata, come se attorno a lei non stesse succedendo
niente.
“Dobbiamo
portare via una delle vostre scimmie”,
annunciò infine il Capitano, in tono perentorio.
Gwen
e Martha giunsero all’indirizzo indicato loro
dal navigatore e parcheggiarono la macchina vicino al bordo del
marciapiede.
“Dovremmo
essere nel posto giusto”, disse Gwen
allungando la testa fuori dal finestrino per controllare la zona.
Davanti a lei
si distendeva una lunga distesa di asfalto e piccole case in stile
londinese,
ordinate, pulite, immacolate, con praticelli ben curati.
“Come
facciamo a sapere quale casa è?” chiese
Martha, guardando anche lei, perplessa, la strada.
“Direi
che ci toccherà bussare ad ogni porta”,
rispose Gwen, scendendo dalla macchina, seguita poi dalla collega.
Ma, prima che potessero fare anche un solo passo, sentirono strani
stridii
provenire dall’abitazione numero dodici.
“O
forse non ce ne sarà bisogno”.
Le
due ragazze corsero verso la casa incriminata e
bussarono alla porta. Ma dopo quasi un minuto, nessuno venne ad aprire.
“Forse
non c’è nessuno”, commentò
Martha, ma Gwen
non pareva essere d’accordo. Si spostò verso la
finestra vicino e guardò
dentro, attraverso le tende scostate.
“Direi
che entriamo con la forza”.
Non
diede nemmeno il tempo all’altra di cogliere la
frase, che diede una forte spallata alla porta e la buttò
giù.
Quello che si presentò davanti alle due ragazze, non appena
superarono la
soglia, era un disordine paragonabile a quello causato da una bomba. Il
tavolino del salotto era rovesciato e accanto, sul tappeto, si stava
allargando
una macchia scura proveniente da una boccetta di smalto. Il divano era
strappato in più punti e c’erano vestiti e vari
altri oggetti sparsi per terra.
“Oh,
mio Dio! Ma che è successo qui?” chiese Martha.
Gwen aprì la bocca per risponderle, ma la voce le
morì in gola quando vide un’ombra
sulla parete. Si avvicinò un po’ di più
e, nascosta dietro a un armadietto, uno
dei pochi oggetti rimasti in piedi, vide una ragazza appoggiata contro
la
parete, le ginocchia strette al petto e gli occhi colmi di lacrime.
Pareva
terrorizzata, guardava Gwen come se vedesse un cane a tre teste e non
poteva
avere che poco più di vent’anni. Fu soprattutto
questo a colpire la ex
poliziotta.
“Ehi”,
le sussurrò, inginocchiandosi per essere alla
sua stessa altezza. Ma la ragazza si ritirò ancora
più indietro. “Tranquilla,
non voglio farti del male”, stava cercando di usare il tono
più dolce e
tranquillo che possedeva. “Posso sapere come ti
chiami?”
La
ragazza aprì la bocca ma, anziché rispondere,
puntò un dito alla gola e fece cenno di no con la testa.
Gwen non capì, ma le corse in aiuto Martha.
“Guarda!”
La
mora si girò vedendo, sopra al mobile della
cucina, una scimmietta seduta tranquilla a sbucciare una banana.
Tornò di nuovo a rivolgersi alla sconosciuta.
“Quella scimmia ti ha aggredita?”
La
ragazza annuì debolmente.
“Ti
ha toccato in qualche punto?”
La
ragazza si indicò la bocca.
“Ok”,
concluse Gwen. Poi si mise alla ricerca di
qualcosa in quel marasma di oggetti sparsi e rovesciati.
Afferrò un foglio e
una penna e li porse alla ragazza. “Scrivimi il tuo
nome”.
La
ragazza, con mano tremante, si avvicinò al foglio
che le porgeva l’altra e scrisse un nome in una calligrafia
un po’ storta.
“D’accordo,
Cindy, ascolta. Adesso noi portiamo via
quello scimpanzé e ti prometto che tutto tornerà
a posto, qualsiasi cosa ti
abbia fatto. Non ti preoccupare. Tu non aprire a nessuno, non fare
niente e non
uscire di casa. Ti verrò io a trovare,
d’accordo?”
Cindy annuì un po’ più calma e Gwen le
sorrise. Poi si voltò verso Martha.
“Hai
il sonnifero?”
Tosh
poggiò le chiavi della porta d’ingresso sul
tavolo e sospirò. Owen, dietro di lei, tentò di
avvicinarsi al divano ma sbatté
contro qualcosa che aveva lasciato per terra e cominciò a
borbottare
imprecazioni contro tutte le divinità che conosceva.
“Aspetta,
ti aiuto!” esclamò la ragazza porgendogli
un braccio perché si appoggiasse e lo accompagno fino al
divano.
Lo fece sedere e poi si accomodò accanto a lui.
“Ehm,
senti… forse è il caso che io vada. Gli altri
avranno bisogno di me”.
“Aspetta,
Tosh!” la fermò il ragazzo prima che
l’altra avesse il tempo di alzarsi.
“Non… non mi va di restare da solo”.
Toshiko
abbassò lo sguardo rammaricata. Accidenti,
cosa accidenti poteva fare? Voleva rimanere con Owen per non lasciarlo
da solo,
soprattutto in un momento come quello, però da un altro lato
era convinta che
non fosse una buona idea. Quella situazione era troppo intima.
Quindi, cosa poteva fare? Ascoltare il cuore o il cervello?
“D’accordo.
Allora… posso rimanere per un po’”,
concluse alla fine, riportando lo sguardo su Owen. “Ti posso
portare qualcosa?
Da bere, da mangiare?”
“No”,
la interruppe lui. Poi cadde il silenzio, un
silenzio in cui la tensione si poteva tagliare con il coltello.
“Senti, Tosh…
secondo te…”.
“Dimmi”.
“Secondo
te… rimarrò così per sempre?”
Tosh
ci mise qualche secondo a capire a
che cosa si riferisse Owen e, quando lo
ebbe fatto, spalancò gli occhi e si affrettò a
cercare un modo per consolarlo.
“No, Owen, no! Troveremo un modo per risolvere questa cosa,
vedrai. Lo facciamo
sempre”.
Sapeva che non erano le parole giuste, però purtroppo madre
natura non l’aveva
dotata della stessa capacità retorica con cui
l’aveva dotata per i computer.
“Lo
spero perché non mi va di rimanere cieco per il
resto della vita”.
La
ragazza lo guardò attentamente in viso come per
studiarlo, approfittando del fatto che lui non poteva vederla, e quello
che
vide nel suo sguardo la intristì. Di solito lui non lasciava
trapelare le sue
emozioni, ma in quel momento si capiva benissimo che era tormentato.
“Non
succederà, vedrai”, cercò di consolarlo
lei,
accarezzandogli il viso. Ma
si era
avvicinata un po’ troppo, a quella distanza poteva vedere
ogni puntino del suo
volto perfetto, ogni sfumatura dei suoi occhi, ogni piega delle sue
labbra. E
se si avvicinava un po’ di più con il viso,
magari, con le sue labbra,
eliminando le distanze tra loro…
E
stava per farlo quando uno squillo dalla sua borsa
la distrasse, facendola tornare coi piedi per terra.
“Il
cellulare!” esclamò, maledicendo tutti i santi
del paradiso.
Quando
Toshiko rientrò alla base, trovò tutti gli
altri già presenti e nel bel mezzo di una discussione. E ora
c’erano anche tre
scimmiette identiche sedute sul tavolo operatorio dello studio di Owen.
“Bene,
e ora che facciamo?” chiese Martha,
scambiandosi un’occhiata con gli altri.
“Come
sta Owen?” fece Gwen, notando la presenza
della giapponese.
“Sta…
bene, credo”, rispose Tosh, decidendo che era
meglio sorvolare sullo scambio di battute tra lei e Owen, troppo intimo
per
farlo sapere agli altri.
“Potrei
analizzare il loro sangue, fare alcuni esami
per trovare…”, cominciò Martha,
riportando il discorso sulla cosa importante.
“Owen
lo ha già fatto e non ha trovato niente”, la
interruppe Gwen.
“Forse
non ha fatto abbastanza. Forse riesco a
scoprire qualcosa di più”.
“Ragazzi,
guardate”.
A
quel richiamo di Ianto, tutti si voltarono verso
le tre scimmie che avevano iniziato a comportarsi in maniera strana.
Ciascuna
di loro si era coperta rispettivamente gli occhi, le orecchie e la
bocca e
avevano preso a dondolare sul posto emettendo versi scimmieschi.
Jack
tentò di avvicinarsi quando, tutto d’un colpo,
una di loro gli saltò addosso facendolo cadere. E la stessa
cosa fecero le
altre, aggredendo anche gli altri presenti. Il Capitano tentava in
tutti i modi
di scrollarsela di dosso, ma quelle scimmie sembravano possedere una
forza pari
a quella umana. Ed erano anche parecchio imbestialite.
Gwen
riuscì a mandare la sua dall’altra parte della
stanza, facendola sbattere contro il muro e svenire, mentre Tosh e
Martha erano
intente ad aiutarsi a vicenda.
Ad un tratto un colpo secco risuonò nel Nucleo, facendo
sussultare tutti quanti
e distrarre la scimmia che stava aggredendo le due ragazze.
Jack, invece, sentì l’animale mollare la presa sui
suoi polsi e cadergli
addosso e ritirò la mano sporca di sangue con cui
l’aveva tenuta per il fianco.
Quando la spinse via, vide Ianto con una pistola in pugno puntata
contro di
lui. Era stato lui a
sparare allo
Scimpanzé.
“Grazie”,
gli sussurrò il Capitano afferrando la
mano che l’altro gli stava porgendo.
Si
scambiarono tutti una veloce occhiata, contenti di
aver scampato a quel pericolo, un po’ in disordine e col
respiro accelerato.
Improvvisamente, però, un altro suono scosse le pareti,
questa volta il trillo
di un cellulare.
Tosh corse a rispondere e nel frattempo gli altri provvidero ad
addormentare la
scimmia che era ancora cosciente.
“Ragazzi”,
chiamò la giapponese quando ebbe chiuso
la comunicazione. “Era Owen. Ha detto che la vista gli
è tornata”.
“Oh,
che fortuna!” esclamò Martha.
“Quindi
basta ucciderle per far cessare il loro
effetto”, concluse Gwen.
“A
quanto pare…”.
“Allora
dobbiamo fare lo stesso anche per aiutare
Cindy”.
“Ma
come facciamo a capire qual è delle due?”
Jack,
senza dire niente, estrasse la pistola e la
impugnò a due mani puntandola contro gli
Scimpanzé.
“Jack,
no!” gridò Gwen.
Ma
il Capitano fece finta di non averla udita e
sparò contro entrambe le scimmie, uccidendole
all’istante.
“Tutto
bene quel che finisce bene”, sospirò Martha,
voltandosi verso i due uomini dietro di lei.
“Come
sempre, no?” sorrise Jack, slanciandosi verso
di lei per stringerla in un forte abbraccio. “Sei sicura di
non voler rimanere
un po’ di più?”
“No,
sono già rimasta abbastanza”.
Quando
il Capitano si fu scostato, fu il turno di
Ianto, di abbracciarla.
“Mi
raccomando, non lasciarlo solo”, gli sussurrò
lei all’orecchio, ben attenta a non farsi udire
dall’altro.
“No,
mai”, rispose Ianto.
I
tre si scambiarono un’ulteriore occhiata, un po’
malinconica, e poi Martha aprì la portiera
dell’auto.
“Be’,
direi che ci si vede”.
“Assolutamente”.
“A
presto”.
Jack
la aiutò a salire e le chiuse la portiera.
“Fai
buon viaggio”.
“E
tu sta’ attento”.
“Sempre”.
Un
ultimo sorriso e Martha mise in moto,
allontanandosi nella notte di Cardiff.
“Direi
che tutto sommato è stata una giornata
tranquilla”, commentò Ianto quando la ragazza si
fu allontanata.
“E
non è ancora terminata”, aggiunse Jack.
“Che
vuoi dire?” chiese l’altro perplesso.
“Che
non abbiamo ancora
fatto tris”.
MILLY’S
SPACE
Salve
a tutti : )
Eccomi con un nuovo capitolo… speravo di non metterci tutto
questo tempo, ma
purtroppo i miei numerosi impegni mi portano via sempre un sacco di
tempo.
Come
mi è venuta l’idea delle tre scimmie? Bella
domanda,
in realtà è stata tipo un’illuminazione
improvvisa. Purtroppo, però, ho avuto a
disposizione soltanto Wikipedia per informarmi su questa tradizione
giapponese,
in realtà non ne so molto, pertanto se ci sono eventuali
errori o se voi ne
sapete qualcosa di più potete dirmelo.
Inoltre, la comparsa di Martha è stata un po’
forzata perché avendo Owen fuori
uso mi serviva un altro dottore.
Devo ammettere, però, di non essere molto contenta del
finale, mi sarebbe
piaciuto approfondire un po’ di più la questione
delle scimmie aliene o magari
farli fare una fine diversa. Ma al momento non ho idee e non vorrei
farvi
attendere troppo. Spero di rifarmi col prossimo capitolo.
E… devo aggiungere altro? Ah sì, Jack e Ianto
finalmente stanno insieme. Devo dire
che Jack non me lo immagino molto impegnato, però io amo
questa coppia e almeno
nei miei sogni, visto che nel telefilm non succede, posso farli stare
insieme
felici e contenti : )
Bene
dai, penso sia tutto.
Se avete domande, commenti, suggerimenti sapete dove trovarmi.
Lasciatemi una recensione o venitemi a trovare su Facebook. https://www.facebook.com/MillysSpace
SWEETLADY98:
no, effettivamente Ianto non fa cose troppo azzardate, ma
secondo me
nasconde un animo un po’ diavolesco XD e vedrai
più avanti ^^ grazie mille per
la recensione e i complimenti. Spero di risentirti, un bacione,
M.
P.S. grazie, sì, il nome del marito di Rhiannon me lo
ricordavo anche io… ahaha
è un mito quell’uomo XD
BIMBA3: sono contenta
che ti siano piaciuti
questi momenti, ne troverai altri in giro sparsi qua e là,
anzi, già in questo
capitolo c’è un’altra scenetta dolce tra
Jack e Ianto. Eh, con Jack a volte
bisogna andarci giù pesante. E Tosh e Owen sì, si
stanno avvicinando, ma
nemmeno io ho ancora deciso come concludere tra loro.
Spero di risentirti, un bacio. M.
GLINDA: eh
sì, la calma non durerà ancora a
lungo. Se vuoi sapere che cosa succederà, continua a seguirmi.
Baci, Milly.
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Capitolo 6 *** Capitolo cinque - Funerali, Scarrol e Jack Harkness ***
CAPITOLO
CINQUE- FUNERALI, SCARROL E JACK HARKNESS
Fammi
illudere, fammi credere
ancora un po’ a un ideale d’amore che ho.
(Bucaneve,
E.Ramazzotti)
“Per
quanto ancora dovremmo sorbirci questa lagna?”
chiese Ianto sussurrando all’orecchio della donna che gli
stava seduta accanto.
“Ehi,
è morta una persona. Abbi un minimo di
rispetto”, gli rispose Rhiannon con tono di rimprovero.
Ianto
sbuffò e allungò le gambe, appoggiandosi allo
schienale della panca su cui sedeva. Voltò il capo verso il
fondo della chiesa,
incrociando lo sguardo di Jack che se ne stava appoggiato al muro, con
le
braccia incrociate, ben avvolto nel suo cappotto da seconda guerra
mondiale. Il
Capitano, non appena lo vide, gli strizzò l’occhio
e gli mostrò quel sorriso
sghembo che gli piaceva tanto.
Ianto non poté far altro che ricambiare, ma quando
girò di nuovo la testa per
rivolgere l’attenzione alla messa, vide una vecchia signora
raggrinzita che lo
guardava piuttosto male. Il ragazzo si strinse in sé e fece
finta di niente.
Finalmente,
dopo quella che gli parve un’eternità, la
messa si concluse e i partecipanti furono liberi di andarsene per
accompagnare
la bara al cimitero, dove sarebbe stata seppellita.
Rhiannon si fermò dentro per scambiare qualche parola con i
parenti, mentre
Ianto scappava immediatamente fuori, altrimenti ci sarebbe finito anche
lui in
una bara, per mancanza di ossigeno. Detestava i posti angusti e pieni
di gente,
specialmente il tipo di gente che era presente quel giorno alla messa.
Raggiunse Jack, che se ne stava poco fuori dalla chiesa, appoggiato al
tronco
di un grande salice.
“Vivere
e morire. Le sole e uniche certezze che
abbiamo”, sospirò non appena lo vide arrivare.
“Non
direi che lo stesso valga per te”.
“Ovviamente
esistono sempre le eccezioni”.
Ridacchiarono
entrambi, mentre accanto a loro
passavano delle persone in lutto con fazzoletti in mano e visi rigati
di
lacrime.
“Ti
prego, fai che al mio funerale non ci sia tutto
questo dramma. E soprattutto non voglio tutte queste
persone”, disse Ianto,
appoggiandosi anche lui all’albero.
Jack
si voltò a guardarlo con una strana
espressione. “Io spero piuttosto che il tuo funerale avvenga
tra molto, molto
tempo”.
Ianto
ricambiò lo sguardo rimanendo immobile, anche
se tutto il suo corpo fremeva per saltare su quelle sue labbra morbide
e farsi
avvolgere nel suo caldo abbraccio.
“Non
capisco una cosa”, si limitò a dire, infine.
“Perché hai insistito così tanto
perché andassi a questo funerale? E
soprattutto, perché hai insistito per venire?”
Il
Capitano parve riflettere un po’ prima di
rispondere. “Te l’ho detto, per conoscere tua
sorella”.
“Sì,
ma non serviva un funerale”.
Jack
stava per aggiungere qualcos’altro, quando
venne bloccato dall’arrivo di Rhiannon e di suo marito.
“Ianto!
Ecco dove ti eri cacciato! Ma ti sembra il
modo di sparire?” la donna rimproverò il fratello,
dandogli una leggera sberla
dietro la nuca.
“Stavo
soffocando là dentro”, si lamentò lui.
“Ma
da quanto tempo è che non metti piede in una
chiesa?”
Ianto
ci pensò un attimo, poi rispose. “Credo dalla
mia prima comunione”.
Rhiannon
sospirò rassegnata, abbassando le braccia.
Solo in quel momento parve accorgersi della presenza di Jack.
“E
lui chi è?” chiese al fratello.
“Ehm…
lui è… il mio… capo”,
biascicò il ragazzo,
piuttosto imbarazzato.
“E
perché mai ti porti il tuo capo al funerale
di…”.
“Sono
Jack Harkness”, la interruppe il Capitano,
porgendole la mano. “E sì, sono il capo di Ianto,
ma sono anche il suo
compagno”, aggiunse poi con disinvoltura e un sorrisetto
beffardo.
“Piacere,
Rhiannon Davies e lui è mio marito John”,
ricambiò lei guardando l’uomo affascinata. Solo in
un secondo momento, però, si
accorse di quello che le aveva detto. “Un momento! Hai detto
compagno?”
“Sì”.
“Ma
compagno… in che senso?” questa volta il suo
sguardo si spostò su Ianto.
Il
fratello, per tutta risposta, si strinse nelle
spalle e corrucciò le labbra. Ma a Rhiannon bastò
quello per capire.
“Noooo!!
Mi prendi in giro?!” esclamò lei con gli
occhi quasi fuori dalle orbite.
Ianto
scosse il capo in un segno di diniego.
“Ma
perché non me l’hai detto? Sei proprio un
cretino!”
“Ouch!”
esclamò il ragazzo al pugno neanche troppo
leggero che la sorella gli aveva mollato sulla spalla. La donna aveva
aperto di
nuovo la bocca per aggiungere qualcosa, quando vennero interrotti da
una
ragazza bionda, in equilibrio su dei tacchi alti quanto un grattacielo.
“Oh
mio Dio! Ianto!” esclamò questa.
Ianto
la squadrò dall’alto in basso con sguardo
confuso. “Ci conosciamo?”
“Non
ti ricordi? Sono Christa. Ci siamo visti un
paio di volte un bel po’ di anni fa. Avevamo sedici anni,
più o meno”.
La
ragazza, Christa, sembrava parecchio emozionata
di averlo incontrato, come se avesse davanti il suo cantante preferito.
E Ianto
non volle deluderla, dicendole che non la ricordava affatto.
Così assunse la
sua espressione più simpatica e sorpresa e disse:
“Ah,
Christa, sì certo che mi ricordo. Ne è passato
di tempo”.
“Sì
e tu sei cambiato parecchio. È un peccato che ci
incontriamo in un momento così triste”.
“Christa!”
si sentì qualcuno urlare da dietro.
La ragazza si voltò e fece un gesto con la mano a un uomo
che la stava
chiamando. “Devo andare adesso. Spero di rivederti di
nuovo”.
“Certo”,
sorrise Ianto e la guardò allontanarsi. Poi
si voltò verso sua sorella. “Chi cazzo era
quella?”
“E’
la nipote della prozia Ursula”.
“E’
chi è Ursula”.
Rhiannon
lo guardò di sbieco e infine sospirò.
“Lasciamo perdere”.
Intanto, dietro di loro, Johnny e Jack se la ridevano sotto i baffi.
“Comunque,
voi due…”, continuò la donna, puntando
un
dito sia sul Capitano che sul fratello. “Venite a pranzo da
noi. Dovete
raccontarmi questa cosa”.
Ianto,
Jack, Rhiannon e John erano seduti attorno al
tavolo della sala da pranzo, gli avanzi del cibo e i piatti sporchi
ancora
davanti a loro, in attesa di essere lavati. Ma nessuno dei commensali
aveva
voglia di alzarsi per farlo.
David e Misha, i figli di John e Rhiannon, erano in salotto a giocare.
“Allora,
vi siete conosciuti al lavoro?” chiese la
padrona di casa, fissando il fratello che incrociò le
braccia e si mise a
guardare ovunque tranne lei. Durante il pranzo avevano parlato del
più e del
meno, o meglio, John aveva raccontato tutti gli aneddoti che lo
riguardavano,
da quando era piccolo fino ad adesso, così Ianto aveva
sperato che la questione
lui e Jack fosse stata dimenticata.
E
invece no, quella malefica di sua sorella stava solo aspettando il
momento
propizio, ovvero quando tutti erano sazi, assonnati e un po’
ubriachi.
“Sì,
più o meno”, rispose Jack. “Ianto ha
cominciato
a venirmi dietro fin dal primo giorno”. E ammiccò
in direzione del ragazzo che
si voltò a guardarlo scioccato. “Questo non
è vero!” esclamò. “Sei tu che
mi
hai sbattuto sulla tua…”. Si bloccò
prima di concludere la frase. Forse non era
il caso di dire che cosa gli aveva fatto Jack poche settimane dopo il
suo
arrivo a Torchwood davanti a sua sorella e a suo marito, con il rischio
che
potessero sentire anche i bambini.
“Ma
tu mi hai supplicato di assumerti”, gli ricordò
Jack senza togliersi il sorrisetto bastardo dalla faccia.
“Non
di certo perché c’eri tu”.
“No,
infatti, per il mio cappotto”.
“Che
c’entra il tuo cappotto?”
“Il
mio cappotto c’entra sempre”.
“Ma
guardali, sembrano già marito e moglie”, li
prese in giro John, divertendosi nell’ascoltare i loro
battibecchi.
“E
sei sempre tu quello che è salito sulla ringhiera
di un ponte per costringermi a dirti che ti amo”,
rincarò la dose il Capitano.
“Lo
sai, Jack, sei proprio un bastardo”.
“Ma
è per questo che mi ami”.
Ianto
non trovò niente con cui controbattere. Era
vero, lo amava anche per quella sua bastardaggine e la faccia tosta.
Senza
quelle, dopotutto, non sarebbe stato Jack.
Rhiannon
si mise a raccogliere i piatti sporchi,
ridendo ancora sotto i baffi. “Dai, fratellino, aiutami a
sparecchiare”. Il
ragazzo fece come la sorella gli aveva chiesto e poi la
seguì in cucina con le
braccia cariche.
Appoggiarono tutto nel lavello e la donna aprì il rubinetto
per lavare. Il
fratello rimase accanto a lei, appoggiato alla maniglia del forno.
“Ma
dove l’hai trovato un tipo del genere?” gli
chiese la sorella in tono scherzoso, passando la spugna sulla lama di
un
coltello.
“Oh
be’, viene da un altro pianeta”, le rispose
Ianto facendola ridacchiare. Ma lei non aveva idea quanto quella
risposta fosse
vera.
“Ma
perché non me l’hai mai detto che…
sì, insomma…
che sei gay?”
Ianto
parve rifletterci un attimo. “Perché…
non lo
so. In realtà non credo di esserlo. Jack è il
primo”.
“E
come mai proprio lui?”
“Mi…
mi fa sentire bene. E poi almeno sono sicuro
che lui non se ne andrà mai”. Aveva lo sguardo
perso nel vuoto, fisso in un
punto non ben definito. Ma gli occhi gli brillavano, si accorse
Rhiannon, che
non poté non commentare. “Allora deve amarti
proprio tanto”.
“Oh
be’… lo spero”. In realtà non
intendeva proprio
quello quando aveva detto che Jack non se ne sarebbe andato. Certo, lui
non se
ne sarebbe andato, non come aveva fatto Lisa. Di questo era sicuro.
Tutto il
resto, chissà. Ma non voleva pensarci ora. Era una filosofia
che aveva adottato
quando aveva iniziato a lavorare per Torchwood: non pensare troppo al
futuro,
non sai mai cosa ti potrebbe riservare.
“Però
mi fa piacere”. La voce di sua sorella lo fece
ritornare alla realtà. “Mi sembri più
felice”.
“Davvero?”
“Sì
e non dirmi che non è vero”.
Ianto
sospirò ma non disse niente, così Rhiannon
aggiunse: “Dai, prepara un po’ di
caffè”.
Lei
nel frattempo aveva finito di lavare i piatti e
aveva richiuso il rubinetto. Ma uno strano rumore scoppiettante la fece
sbuffare. “Accidenti! Si è otturato di nuovo.
Johnny l’aveva sistemato la
settimana scorsa”.
Ianto lanciò un’occhiata sospettosa
all’oggetto incriminato. “Fammi vedere”,
disse, avvicinandosi. La sorella si spostò per fargli spazio
e lui guardò con
un occhio dentro al tubo di scarico. Di nuovo si sentì un
rumore provenire
proprio da lì dentro, come di qualcosa che scoppia.
“Rhian,
va’ a chiamare Jack”, ordinò a Rhiannon,
senza spostare lo sguardo dal lavello.
“Ma
no, ci penserà John”.
“Non
si tratta di otturazione. Va’ a chiamare Jack”.
La
donna non capiva che cosa il fratello volesse, ma
non fece altre domande e obbedì, andando in sala da pranzo.
“Passami
il cacciavite grosso”.
Ianto
prese l’oggetto e lo passò a Jack, sdraiato di
schiena sul pavimento della cucina, con la testa sotto al lavello, ad
armeggiare col tubo che faceva scorrere l’acqua.
John e Rhiannon erano fermi lì accanto a chiedersi che cosa
i due stessero
facendo.
“Forse
ci sono!” esclamò Jack, infilando tre dita
dentro al tubo. “Accidenti, è stretto”.
“Vuoi
provare a prenderlo con delle pinze?” gli
chiese Ianto, inginocchiandosi accanto a lui.
I
padroni di casa, intanto, si guardarono straniti.
“No,
no, lo sento. L’ho quasi preso. Eccolo!” Il
Capitano, con l’indice e il pollice, aveva estratto qualcosa
fuori dal tubo,
qualcosa di lungo, viscido, marrone e puzzolente. “Datemi una
bacinella,
veloce!”
Rhiannon,
colta alla sprovvista, fece un balzo sul
posto ma riuscì ad afferrare una bacinella blu sulla mensola
dietro di lei e a
passarla a Ianto che la porse a Jack perché ci mettesse
quella strana cosa che
aveva estratto dal lavello.
“Sono
stati Misha e David. Hanno sicuramente buttato
della roba dentro”, concluse Johnny, guardando
l’oggetto contenuto nella
bacinella.
“No,
non sono stati i bambini”, lo contraddisse
Ianto.
“Vi
presento uno Scarrol!” Jack ammiccò in direzione
dei presenti, allungando poi la bacinella verso Rhiannon, che
buttò un’occhiata
incuriosita. “Cristo santo! Ma che puzza! Che diamine
è?”
“Uno
Scarrol”, ripeté il Capitano come se stesse
semplicemente parlando del tempo. “E’ una creatura
che vive nelle tubature e
ogni tanto si incastra da qualche parte. Non mordono”. Con un
dito andò ad
accarezzare quello che sembrava il naso dello Scarrol. Questi
aprì gli occhi e
gli azzannò un dito. Jack lo ritrasse con un ghigno di
dolore. “Be’, non sempre
almeno”. Poi si voltò a guardare gli altri.
“Scusate, amici, ma è il momento
che io e Ianto leviamo le tende. Dobbiamo portare questo coso al
sicuro”.
“Ehi,
ma dove credete di andare? Ci dovete spiegare
che cos’è quella cosa?” gridò
Johnny dalla cucina, quando Ianto e Jack furono
già alla porta d’ingresso, intenti a indossare le
giacche.
“Ve
l’abbiamo detto, è uno Scarrol”.
“Sì,
ma da dove viene?”
“E’
una storia lunga, Rhian, ma prometto che un
giorno te la spiego”.
Misha
e David, seduti sui gradini, osservavano la
scena con aria stupita e confusa.
“Vedi
di non sparire come fai sempre o la prossima
volta manderò la polizia a casa tua!”
gridò Rhiannon dietro al fratello.
“Cercherò
di non farlo!” fece il fratello in
risposta quando lui e Jack erano già fuori dalla porta.
“Rhys,
ne avremo di bambini! Abbi un po’ di
pazienza!”
“Sì,
ma quanta pazienza? Quel tuo lavoro…”.
Gwen
sbuffò per l’ennesima volta quel giorno. Rhys
ci andava veramente pesante, quando voleva, e in quel momento ne aveva
veramente le scatole piene, di lui e del suo desiderio di avere figli.
Avevano
affrontato quell’argomento almeno un centinaio di volte, ma
lui pareva non
ascoltarla. Anche lei voleva dei bambini, assolutamente,
però quello non era il
periodo giusto per averne, sia per il suo lavoro sia perché
ancora non si
sentiva pronta. Credeva di esserlo, ma in realtà si
sbagliava e Torchwood, in
un certo senso, l’aveva salvata dal fare quel passo.
“Ascolta,
Rhys”, iniziò, con tono più calmo
possibile e lo sguardo più sincero che le riuscì
di fare. Gli prese le mani tra
le sue. “Io…”.
“Ehi,
piccioncini!”
Gwen
urlò e
Rhys si versò addosso la lattina di birra che
teneva in mano.
“Oh,
scusate, non volevo spaventarvi”.
“Be’,
ci sei riuscito lo stesso!” ringhiò la ragazza
in direzione dell’uomo che era spuntato da dietro la panchina
su cui era seduta
con suo marito. “Comunque, che diamine ci fai qui,
Jack?” Era convinta, ormai,
che l’uomo fosse venuto per dirle che avevano una missione
importantissima e
segretissima da compiere. Almeno quello l’avrebbe salvata da
quello zuccone di
Rhys. Invece, la risposta del Capitano la deluse. “Ah niente,
vi ho visti e
sono venuto a salutarvi”.
“E
guarda che mi hai fatto fare!” si lamentò Rhys,
asciugandosi la camicia con un fazzoletto di carta.
“Mi
dispiace”.
“Sì,
certo”.
“Veniamo
da un funerale”, disse la voce di Ianto che
li aveva raggiunti in quel momento. “Anche se dopo siamo
stati a pranzo da mia
sorella”.
“Funerale?
Oh Dio! Chi è morto?” esclamò Gwen,
allarmata.
“Nessuno
di importante. La mia vecchia bisnonna.
Aveva più di cento anni”.
“Oh,
mi dispiace. Condoglianze”.
“Grazie.
Non la conoscevo. Forse l’ho vista una
volta in tutta la mia vita”. Stava guardando in direzione del
cielo, con aria
pensierosa.
Jack,
allora, si raddrizzò con un scatto e mise le
mani sui fianchi. “Comunque, io e Ianto andiamo a caccia di
Weevil. Ti va di
venire Gwen?”
La
ragazza guardò prima i due colleghi dietro di lei
e poi il marito seduto accanto. Aveva solo due scelte da fare: andare
in
un’emozionante avventura correndo rischi che
l’avrebbero caricata di
adrenalina, oppure restare lì con un marito un po’
noioso a parlare di figli e
di futuro. La scelta era piuttosto semplice.
“No,
grazie. Resto qui”. Ma
perché la coscienza vinceva sempre
sull’istinto? Be’, dopotutto, era giusto; aveva
promesso al marito una giornata
tutta per loro.
“Come
vuoi!” le rispose il Capitano, senza togliersi
il sorrisetto beffardo di dosso. In due rapide falcate si
allontanò da loro e
si piazzò di fronte alla panchina, a un paio di metri di
distanza. “Allora,
tesoruccio. Andiamo?”
Ianto
sospirò, ma raggiunse Jack senza dire niente,
cercando di trattenere un sorrisetto sotto i baffi. Il Capitano gli
circondò la
vita con un braccio e insieme si allontanarono.
“Tesoruccio!
Allora quei due stanno veramente
insieme?!” esclamò Rhys, incredulo.
“Certo!
Sei tu che non mi hai mai creduto”.
“Accidenti!
Be’, spero almeno che Ianto faccia
ritrovare un po’ di buonsenso a quel pazzo del tuo
capo”.
“E’
di Jack Harkness che stiamo parlando”.
“Ah,
già. Giusto”. L’uomo si voltò
verso Gwen e
rimase a fissarla con sguardo serio. “Ma torniamo
all’argomento bambini…”.
Ma
perché non sono andata con Jack?
Ianto
si scervellava ormai da due minuti interi
cercando di trovare una scusa per mettere giù la cornetta e
chiudere quella
conversazione. Una bomba esplosa nel suo salotto? No, no, troppo
drastico.
Magari il microonde. Naah, non ci sarebbe mai cascata. O magari che
aveva
improvvisamente perso una mano? Ma la prossima volta che
l’avesse rivista come
avrebbe fatto a spiegare che gli era ricresciuta? Uff…
“Allora,
che diamine era quella cosa?” chiese
Rhiannon per l’ennesima volta. E Ianto sbuffò per
l’ennesima volta.
“Uno
Scarrol”. Ormai quella parola era diventata una
litania.
“Sì,
ma cos’è uno Scarrol?”
“E’
una creatura che vive nelle tubature”.
“Non
prendermi in giro”. La voce di sua sorella si
era fatta decisamente minacciosa. E quello non era mai un buon segno.
“O mi
dici che cos’è o vengo là e ti infilzo
con la forchetta che sto tenendo in
mano”. E conoscendola, Ianto era sicuro che
l’avrebbe fatto.
“E’
un alieno,
diamine!” esclamò infine.
MILLY’S
SPACE
Ma
bene… ma per caso il gatto vi ha mangiato la tastiera
del computer?? No, insomma, che fine hanno fatto le recensioni?
Va be’ dai, non importa, ma la prossima volta ne pretendo
almeno un po’… è
estate, adesso non avete più i libri che vi chiamano per
essere studiati, no? U.U
Allora…
che dire? Un capitolo moooolto di passaggio. In realtà
volevo metterci un po’ di azione anche, ma non mi
è venuto in mente niente. Comunque
non disperate, che dal prossimo capitolo finalmente inizierà
a succedere
qualcosa. E rimarrete molto sorpresi ^^
Ah
e tanto per farvi sapere, lo
Scarrol è una mia invenzione. Non so
esistano alieni che vivono nelle tubature, ma vi consiglio,
d’ora in poi, di
stare molto attenti u.u
Grazie
per la cortese attenzione e non dimenticatevi di
fare un salto sulla mia pagina facebook. E, soprattutto, non scordatevi
le
recensioni.
Baci,
M.
P.S.
quasi dimenticavo: recentemente ho pubblicato una
Oneshot su Torchwood, se avete voglia di andare a leggerla. Si intitola
Stella. Non è niente di
che ma è molto
dolce.
PUFFOLA_LILY: ehi,
carissima. Come ti ho già detto sono
rimasta molto sorpresa ma anche molto contenta di leggere le tue
recensioni in
questa fiction : ) ti ringrazio molto per aver recensito tutti i
capitoli, mi
fa sempre piacere riceverne e mi fa anche molto piacere vedere che i
lettori mi
seguono nelle varie storie che scrivo. Purtroppo in questo capitolo non
compaiono Tosh e Owen. La mia pecca è quella di concentrarmi
di più sulle
coppie che mi piacciono. Con questo non voglio dire che la coppia
Tosh/Owen non
mi piace, però non è quella che preferisco ^^.
Spero di risentirti presto, un grosso bacione.
Milly.
P.S. io la tua scrittrice preferita?? Ma dai… be’,
in tal caso tu sei la mia
lettrice preferita ^^
|
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Capitolo 7 *** Capitolo sei - Callary, tutto ha inizio ***
CAPITOLO
SEI – CALLARY, TUTTO HA INIZIO
Perfetta
così questa nostra stagione
di giorni insieme ad esplorare noi.
(Questa
nostra stagione, E. Ramazzotti)
Un
vecchietto dalla faccia cadente e mezzo ripiegato
su se stesso aprì il pesante portone di legno e
strizzò gli occhi per vedere i
due uomini che avevano bussato.
Il St. Mary’s Patron si presentava come un edificio di
dimensioni notevoli,
però piuttosto vecchio e dai muri scrostati. Il tetto era
stato riparato in
alcuni punti con un lavoro piuttosto improvvisato e alcune finestre
avevano delle
assi di legno inchiodate. Era situato a mezz’ora di strada
fuori Cardiff, in
mezzo a un paesaggio brullo ma pittoresco.
Eppure non era disabitato, ci vivevano una trentina di bambini, tutti
senza
genitori, con alcune suore che si prendevano cura di loro e
provvedevano alla
loro istruzione.
Quella
mattina uggiosa Jack e Ianto si erano
presentati alla loro porta, dopo aver ricevuto una chiamata anonima da
un
numero proveniente da lì.
Il
Capitano aveva aperto la bocca per presentarsi,
ma il vecchio che aveva aperto loro la porta lo precedette.
“Salve, voi dovete
essere del Torchwood”. Aveva un tono basso, però
parlava piuttosto chiaramente.
“Siete arrivati presto”.
“Sì,
ehm…”, iniziò Ianto, senza sapere che
cosa dire
di preciso. “Siamo qui, pronti ad aiutarla”.
Lanciò un’occhiata in direzione
del compagno con un punto di domanda stampato in fronte. Jack, allora,
prese in
mano la situazionec come sapeva fare. “Io sono il Capitano
Jack Harkness e lui
è Ianto Jones. Ci fa entrare?”
L’anziano
signore, molto lentamente, si spostò e
spalancò la porta per farli passare.
“Venite,
non voglio parlare qui”, disse loro quando
si furono ritrovati in un corridoio poco illuminato.
“Ci
può dire chi è lei?” chiese allora Jack
che
aveva già intuito che in quel posto tirava una brutta aria.
E quel vecchietto
era piuttosto strano. Forse era dovuto solo al suo aspetto,
però… sì,
effettivamente c’era qualcosa che non andava nel suo aspetto.
“Oh,
sì scusate. Io sono Timothy Narborough e sono
il custode di questo orfanotrofio. Adesso vi pregherei di
seguirmi”.
Jack
strinse la mano di Ianto nella sua ed entrambi
lo seguirono. Il vecchietto camminava piuttosto lentamente,
appoggiandosi a un
bastone e, visto da dietro, la sua gobba sembrava ancora più
prominente.
Giunsero fino al fondo del corridoio e il custode aprì
un’altra porta, questa
volta più piccola, che dava accesso a una specie
di… stanzino o ripostiglio.
Vicino ai muri erano stipati degli scatoloni, tanti scatoloni, mentre
al centro
vi erano un tavolino e una sedia, entrambi di legno. C’era
solo un muro libero
da quelle scatole di cartone, dove si apriva una piccola finestra con i
vetri
opachi per la sporcizia.
Insomma, era praticamente un buco quella stanza. Adesso Jack e Ianto
sapevano
come si sentiva un pesce intrappolato in una boccia di vetro.
L’anziano
si buttò pesantemente sulla sedia e tirò
un sospiro di sollievo. Sembrava che camminare gli costasse parecchia
fatica.
Guardandolo meglio e con la poca luce del sole che filtrava dalla
finestra, i
due uomini notarono solo ora quanto la sua vecchiaia fosse avanzata. Il
volto
era pieno di rughe, gli occhi piccoli e scuri erano semichiusi dalla
palpebre
cadenti e la pelle cascante sulle guance gli aveva formato un doppio
mento. I
capelli erano bianchi e radi, quelli in cima alla testa erano tutti
caduti.
Gli avrebbero dato almeno novant’anni, eppure…
“Noi
abbiamo ricevuto uno chiamata questa mattina…”,
iniziò Ianto guardando il signore. C’era qualcosa
che gli impediva di spostare
lo sguardo da lui.
“Sono
stato io a chiamarvi”, rispose il Signor
Narborough. “In realtà nessun’altro sa
che siete qui. Il fatto è che… sono
scomparsi quattro bambini”. Ora li fissava intensamente, come
a volerli
studiare, con quei suoi occhi così vecchi ma estremamente
attenti.
“E
non potevate chiamare la polizia? Forse sono
semplicemente scappati”, ipotizzò Jack, senza
scomporsi.
“Oh
no. Loro… loro non se ne sono andati. Sono stati
portati via”.
“Ne
è certo, signor Narborough?” chiese Ianto.
Sentiva una strana inquietudine addosso. Quell’uomo gli
metteva una certa
soggezione.
“Sì.
Stanno succedendo delle cose strane. Molto
strane. Io le ho sentite”. Il suo tono era molto calmo, come
se stesse parlando
dell’ultima partita a scacchi che aveva giocato coi suoi
amici. Eppure i suoi
occhi posati sui due ospiti erano fissi, immobili, non stava nemmeno
sbattendo
le palpebre.
“Quando
sono scomparsi i bambini?” chiese Jack.
“Due
settimane fa”.
“Cosa?!”
esclamò Ianto spalancando gli occhi. “E
perché non ci avete chiamato prima?”
“Perché
la suora madre non ha voluto. Anche lei
pensa che i bambini siano scappati e
dice che non dobbiamo preoccuparcene”.
“Chi
è questa suora madre? Ci voglio fare una
chiacchierata”. La rabbia aveva fatto scomparire a Ianto
tutta la tensione che
aveva provato prima. C’erano dei bambini, probabilmente
piuttosto piccoli,
sperduti da qualche parte o forse rapiti da qualche individuo
pericoloso, che
non sapevano cosa fare. Questo non gli andava affatto bene.
Jack però gli mise una mano sulla spalla, come a intimargli
di stare calmo e di
non fare azioni di cui poi si sarebbe pentito.
“D’accordo”,
sospirò Jack. “Gli altri bambini dove
sono?”
“Adesso
sono in classe a fare lezione”.
“Possiamo
fare un giro dell’edificio? Per
controllare”.
“Certo.
Però se qualcuno ve lo chiede, non dite che
vi ho chiamati io. La suora madre diventa severa quando qualcuno le
disobbedisce”.
Jack
e Ianto uscirono dalla stanza claustrofobica,
il primo con un milione di pensieri circa quello che poteva star
accadendo in
quell’orfanotrofio e il secondo pensando a quanto gli stesse
antipatica quella
suora madre. E non l’aveva nemmeno conosciuta.
“Ianto,
se ci dividiamo facciamo prima. Tu vai di
sopra, io controllo qui sotto”.
Il
ragazzo annuì e fece come il Capitano gli aveva
ordinato. Salì lentamente le imponenti scale vicine
all’ingresso guardandosi
attorno con fare circospetto. Il posto era pieno di polvere e negli
angoli del
soffitto i ragni si erano intessuti la loro casa.
Ma non c’era nessuno che teneva in
ordine?, si chiese, di certo quel vecchio custode non poteva
fare granché.
Arrivò in un altro lungo corridoio ai cui lati si aprivano
diverse porte e
finestre. L’ambiente era piuttosto silenzioso, nemmeno una
mosca si sentiva
volare. Non c’erano luci accese, se non quella che penetrava
dalle finestre,
che non era comunque abbastanza, sia perché anche quelle
finestre, come quella
nello stanzino, erano piuttosto sporche, sia perché la luce
del sole quel
giorno era debole. Perciò anche quel corridoio era in
penombra.
Ianto
si avviò, camminando sul tappeto grigio e
consunto che copriva le assi scricchiolanti che fungevano da pavimento
e aprì
la prima porta. Si ritrovò in quella che doveva essere una
camera da letto,
piena di brandine di ferro simili a quelle degli ospedali della seconda
guerra
mondiale. Ce n’erano almeno una trentina, tutte identiche e
sulla parete in
fondo era appoggiato un grande armadio di mogano, impolverato
anch’esso. Le
finestre di quella stanza erano leggermente più grandi delle
altre presenti in
quell’edificio e decisamente più pulite. Entrava
più luce lì dentro e Ianto si
sentì già un po’ più
tranquillo.
Girovagò
un po’ per la stanza, sbirciando qui e là,
guardando sotto i letti, restando in ascolto di eventuali rumori
sospetti.
Aveva portato con sé uno dei tanti macchinari di Tosh,
quello che captava i
segnali alieni, ma non c’era niente.
Decise, perciò, di dare un’occhiata alla porta
accanto.
Questa voltò si trovò in quella che doveva essere
una stanza giochi, a
giudicare dagli oggetti che c’erano. Alcune bambole di pezza
con occhi o
braccia mancanti appoggiate sulle mensole, macchinine mezze rotte e
alcuni
libri stropicciati, una sedia a dondole di fronte all’unica
finestra.
Ianto
si avvicinò proprio alla finestra per dare una
sbirciatina fuori. C’erano solo un grande cortile pieno di
ghiaia e alcuni
enormi salici dai rami biforcuti.
Ad un tratto, però, vide una figura scura sbucare da quegli
alberi. Era vestita
di nero e si stava dirigendo velocemente all’interno
dell’edificio.
“Signore!”
Il
ragazzo per poco non balzò in aria per lo
spavento. Si voltò verso la voce che lo aveva chiamato,
trovandosi di fronte un
bambino sui dieci anni, capelli biondo rossicci tagliati a caschetto e
parecchie lentiggini sparse attorno al naso.
“Ciao”,
lo salutò. “Chi sei?”
“Mi
chiamo Brian Wilkins, signore. Lei che ci fa
qui?”
“Sono…
sono solo venuto a… controllare una cosa. Non
dovresti essere a lezione?”
Il
bambino non gli rispose, si limitò a osservarlo
con i suoi penetranti occhi neri. Ianto fu percorso da dei brividi
lungo la
schiena.
All’improvviso, però, sentì delle voci
provenire dal piano di sotto che parlavano
in modo piuttosto concitato.
Brian si voltò e corse verso le scale. Ianto lo
seguì.
Le
voci lo condussero fino a quella che, con molta
probabilità, era una sala da pranzo. Non era una stanza
molto diversa dalle
altre, almeno per quanto riguardava la rarità dei mobili e
la poca luce che
filtrava, però era leggermente più grande. Al
centro ospitava un lungo tavolo
di legno lucidato con sedie tutt’attorno e un piccolo
armadietto che custodiva
dei piatti e delle tazzine dietro ad ante di vetro.
La stanza era piuttosto affollata in quel momento. C’era Jack
circondato da
alcune suore, tutte vestite perfettamente con la loro divisa e il velo
in
testa. Il Capitano, tuttavia, non sembrava affatto a disagio,
continuava a
mantenere la sua aria spavalda, come se tutto ciò lo
divertisse.
“Ma
bene, ce n’è un altro!”
esclamò una delle donne
nel veder sopraggiungere Ianto. Il ragazzo però non rispose,
si limitò ad
osservarle tutte quante e immediatamente uno strano sospetto lo
assalì. Erano
tutte piuttosto anziane. Non quanto il custode Narborough,
però quasi. “E tu, Brian?
Dov’eri finito? Dovevi tornare in classe!” aggiunse
in direzione del ragazzino
che era arrivato con Ianto.
“Mi
scusi, suor Theresa”, rispose quello, abbassando
il capo, dispiaciuto.
“Va
bene. Ora però torna in classe”. Brian
obbedì
senza protestare, ma lanciò una penetrante occhiata a Ianto,
come se volesse
dirgli qualcosa con lo sguardo.
“Insomma,
si può sapere cos’è tutto questo
fracasso?” chiese un’altra voce di donna,
proveniente dal corridoio. Un’altra
suora aveva fatto il suo ingresso nella sala da pranzo, identica alle
altre per
l’abbigliamento, ma sembrava più giovane, non
aveva tutte quelle rughe a
solcarle il viso. Piuttosto era parecchio pallida e
i suoi occhi nerissimi quasi non lasciavano
vedere la pupilla. Dietro di lei, arrancando, era arrivato anche il
custode.
“Chi siete voi?” chiese la suora a Jack e Ianto,
squadrandoli dall’alto in
basso. Il suo sguardo minaccioso non tranquillizzava molto.
“Mi
permetta di presentarmi!” esclamò Jack con un
sorriso. Ianto si chiese come facesse lui ad essere così
tranquillo. E non
tanto per le suore sclerate o per il custode strano. Era tutto quel
posto che
non gli piaceva. “Io sono il Capitano Jack
Harkness”.
“E
il suo amico chi è?” berciò, guardando
male
Ianto.
“Lui
è il mio compagno, Ianto Jones. Lei invece chi
è?”
“Io
sono la suora madre e la direttrice di questo
orfanotrofio”.
“Ah
bene”.
Così
giovane?,
penso Ianto. Di solito le suore madre venivano
scelte per il livello di esperienza e altre cose, il che richiedeva
anche una
certa età. E quella suora madre era la più
giovane in quel posto. Almeno così
sembrava.
“Cosa
ci fate qua?” La suora madre non sembrava
voler mostrare simpatia.
“Siamo
venuti ad indagare sulla scomparsa di quattro
bambini”.
“Cosa?
Chi vi ha chiamati?”
“Questo
non ha importanza. Dobbiamo sapere alcune
cose. Vi possiamo fare delle domande?” Jack stava mostrando
tutta la gentilezza
di cui era capace, ma la suora madre ancora non sembrava volersi
fidare.
Piuttosto, stava probabilmente pensando a tutti i modi possibili per
cacciare i
due intrusi fuori di lì. Le altre, invece, si lanciavano
occhiate furtive le
une tra le altre, come se temessero qualcosa.
“Siete
della polizia?”
“No,
non siamo della polizia”.
“E
allora cosa siete?”
“Siamo
del Torchwood”. Ora anche Jack iniziava a
spazientirsi. Non lasciò il tempo all’altra di
emettere fiato che le chiese
subito: “Lavorate solo voi cinque qui?”
“Sì,
siamo solo noi”. Il tono della suora madre era
ancora acido, però almeno aveva iniziato a rispondere alle
domande.
“E
riuscite a gestire tutti questi bambini?” le
chiese Ianto un po’ stupito.
“Sì,
certo. Non è mica così difficile. Sono dei
bravi bambini”. La risposta l’aveva data
un’altra suora, ma abbassò il capo
allo sguardo inceneritore della direttrice.
“In
che circostanze sono scomparsi i bambini?”
“Noi
non abbiamo denunciato nessuna scomparsa…”. La
suora che aveva parlato poco fa venne improvvisamente colta da un
accesso di tosse
che la fece piegare in due, interrompendo così quello che
stava dicendo la
suora madre. Si portò un fazzoletto alla bocca, dando le
spalle ai presenti.
“Vieni,
prenditi un bicchiere d’acqua”, le
sussurrò
quella che le stava vicino, dandole delle leggere pacche sulla schiena.
La
suora bevve tutto d’un sorso l’acqua che la collega
le aveva dato e la tosse si
calmò subito. Infine, poggiò il bicchiere sul
tavolo.
“Le
stavo dicendo…”, continuò la
direttrice. “Che
noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa. Qui non è
scomparso nessuno. E
ora, per favore, andatevene!”
“D’accordo,
d’accordo”, cedette Jack. “Ianto,
andiamocene. Qui non siamo i benvenuti”. Allungò
una mano verso il tavolo,
senza farsi notare da nessuno.
Ianto rimase un po’ stupito dall’improvvisa
rinuncia di Jack, ma non si oppose.
Lui non vedeva solo l’ora di andarsene.
“Vi
accompagno alla porta”, si intromise il signor
Narborough.
I
due uomini lo seguirono senza aggiungere altro,
non accorgendosi nemmeno del piccolo Brian che li guardava andare via
seduto
sulle scale del corridoio.
“Signor
Narborugh”, fece Jack, allora, prima che
l’altro chiudesse la porta. “Qui vengono mai delle
persone in visita? C’è stata
qualche coppia che ha adottato mai uno di questi bambini?”
Il
vecchio si strinse nelle spalle e assunse un’aria
pensierosa. “Che io ricordi, Signore, i bambini che vivono
qui sono sempre
stati gli stessi”.
“Grazie”.
Quando
rientrarono al Nucleo, Gwen, Tosh e Owen
erano già arrivati e Jack e Ianto li trovarono a rigirarsi i
pollici, un po’
annoiati.
“Ehi,
dove siete stati?” chiese Gwen con
un’espressione un po’ contrariata.
“Una
spedizione in un orfanotrofio”, le rispose
Ianto. “Stamattina abbiamo ricevuto una chiamata dal custode.
A quanto pare
stanno scomparendo misteriosamente dei bambini”.
“Scomparendo?”
“Owen!”
esclamò il Capitano. “Ho un lavoretto per
te”. Estrasse un oggetto dalla tasca e la tirò al
dottore, che lo prese al
volo. Owen osservò curioso quel bicchiere di vetro che
stringeva in mano. A
quanto pareva dalle gocce d’acqua, doveva essere stato usato.
“Quando
lo hai preso?” chiese Ianto, sorpreso.
“Poco
prima che uscissimo. Owen, analizzami tutto
quello che c’è in quel bicchiere. Tosh, fammi una
ricerca sull’orfanotrofio di
St. Mary’s Patron”, ordinò Jack.
“Hai
dei sospetti?” gli chiese Ianto.
“Qualcuno”.
“Spiegatemi
questa cosa dell’orfanotrofio”, si
lamentò Gwen, puntando gli occhi sul Capitano.
“Il
custode ci ha detto che stanno avvenendo delle
cose strane in quel posto e che scompaiono dei bambini”. La
ragazza non fece in
tempo a chiedere nient’altro, che il Capitano
scappò nel suo ufficio con passo
svelto. Poco dopo
venne raggiunto da
Ianto che, silenziosamente, gli era arrivato alle spalle.
“Ehi”,
lo salutò Jack voltandosi verso di lui.
Delicatamente lo baciò sulle labbra. “Stai
bene?”
“Sì,
solo che…”.
“Solo
che?” Il Capitano gli poggiò le mani sui
fianchi.
“Stavo
solo pensando a quell’orfanotrofio. Sai, non
mi è piaciuto per niente, era…”.
“Nemmeno
a me, penso ci sia qualcosa di strano lì”.
“Non
era questo che intendevo”.
Jack
fissò i suoi occhi chiari in quelli azzurri di
Ianto che celavano in sé qualcosa che sembrava essere
un’aspettativa.
“Non
è un bel posto per dei bambini”, aggiunse il
ragazzo per specificare.
“Vorresti
accoglierli tutti in casa tua?” gli chiese
allora Jack, scherzosamente. Ma Ianto non rise. Continuò a
osservarlo serio.
“No, certo che no. Però…”.
“Se
non ci fossero gli orfanotrofi tutti quei poveri
bambini abbandonati resterebbero in mezzo alla strada, a morire di
freddo e di
fame”.
Ianto
non gli rispose. Si limitò ad abbassare lo
sguardo, puntandolo su un bottone della camicia di Jack. Il Capitano lo
teneva
ancora tra le braccia, ma avrebbe potuto districarsi dalle sue braccia molto facilmente.
No,
Jack, io avrei preferito stare in mezzo alla strada, pensò,
ma non glielo disse.
Alla
fine, si decise ad uscire dall’abbraccio del
Capitano e in pochi passi raggiunse la porta. Prima che uscisse,
però, l’altro
lo chiamò di nuovo. “Ianto, stiamo bene
insieme”, gli disse e questa volta non
c’era niente di sarcastico o scherzoso nel suo tono.
“Mi piace stare con te.
Non voglio che le cose cambino”.
Ianto annuì mestamente. Poi uscì, pensando a
quello che Jack gli aveva appena
detto. Certo, erano delle belle parole, proprio quelle che amava
sentire da
parte sua, però…
Forse
pretendo troppo.
Owen
aveva finito di esaminare il bicchiere che Jack
gli aveva dato e ora il Capitano si era affiancato al dottore che gli
stava
spiegando quello che aveva trovato.
Lo sguardo dell’ex Agente del Tempo era palesemente
interessato, ma non stava
guardando il collega, bensì aveva lo sguardo fisso nel vuoto.
“Come
sospettavo”, commentò alla fine, quando Owen
finì di parlare.
“Cosa?”
gli chiese Gwen in incuriosita. Anche
l’attenzione di Ianto e Tosh si era rivolta verso di lui.
“Si
chiama Arrannya
o anche Acqua della vita.
E’ una
sostanza che allunga la vita di chi la beve, ma ne va somministrata
molto poca.
Non provoca l’immortalità, semplicemente fa
sì che si possa vivere un po’ di
più, continuando a invecchiare”.
“Per
questo erano incredibilmente vecchie le suore
che stavano in quell’orfanotrofio”, dedusse allora
Ianto, lo sguardo acceso.
“Esattamente.
È una sostanza che produce parecchio
odore, l’avevo sentita nel loro alito. Viene prodotta sul
pianeta di Callary, ma da quello
che mi risulta,
dopo pochi anni è stata bandita e la si cominciò
a vendere sotto banco.
Chiunque fosse stato trovato in possesso dell’Arrannya
sarebbe andato incontro a dure sanzioni”.
“Ci
credo!” esclamò Ianto, guardando in direzione di
Jack che aveva un’espressione strana dipinta in volto.
“E’
un po’ come la droga, no?” puntualizzò
Toshiko,
togliendosi gli occhiali da vista.
Il
Capitano ridacchiò. “Sì, più
o meno, solo che i
suoi effetti non sono così evidenti come quelli della droga
e non se ne diventa
dipendenti. La vita su Callary
mediamente
è molto breve, per questo hanno cercato di creare una
sostanza che potesse
allungare la vita”.
Un
veloce giro di sguardi attraversò il Nucleo.
Tutti quanti avrebbero voluto sapere qualcosa di più su
questo pianeta e su
questa incredibile sostanza, ma nessuno aveva il coraggio di chiedere
altre
spiegazioni a Jack.
Avevano intuito che quello era un argomento piuttosto delicato per il
loro
Capitano, doveva far parte del suo passato, molto probabilmente, e non
volevano
turbarlo.
“Bene,
allora!” esclamò improvvisamente Owen
battendo le mani e facendo riscuotere tutti dall’improvviso
turbamento in cui
erano finiti. “Sappiamo chi sono e cosa sono. Possiamo
agire”.
Jack, però, gli mise una mano sulla spalla, guardandolo
intensamente con i suoi
occhi chiari, come a volergli dire di stare calmo con uno sguardo.
“Non cosi in
fretta”, lo contraddisse. “I Callaryani sono
creature molto pericolose,
dobbiamo stare attenti. Dobbiamo organizzarci bene, non possiamo
piombare
nell’edificio come niente fosse. Inoltre, non sappiamo se
siano proprio in
quell’orfanotrofio, le suore potrebbero essere soltanto delle
cavie. Andiamo in
sala riunioni e discutiamone lì”.
E
senza aspettare risposte da parte dei suoi amici,
Jack si avviò velocemente verso la grande stanza che
ospitava al centro un
lungo tavolo di legno.
Gwen, Tosh, Owen e Ianto si sedettero ai posti che occupavano di
solito, mentre
Jack si posizionò a capotavola, restando in piedi con le
mani poggiate sulla
superfice del mobile.
“Allora,
cosa sai dirci di questi Callaryani?”
chiese Gwen, lo sguardo puntato sul Capitano.
L’uomo
prese un respiro e, facendo vagare lo sguardo
dall’uno all’altro dei suoi colleghi,
iniziò a parlare. “Hanno una forma quasi
identica a quella umana, però sono molto più
pallidi e hanno tutti gli occhi
molto scuri. Hanno però anche un altro aspetto, con una coda
molto lunga e
delle ali da pipistrello”.
“Qual
è il loro punto debole?” domandò Owen,
allora,
che era parecchio affascinato da queste strane creature. Come gli altri
del
resto.
“Sono
vulnerabili come gli umani, ma hanno un potere
di autoguarigione, se riescono ad attivarlo. Però sono molto
agili e veloci,
dovremo stare attenti a non farci cogliere di sprovvista”.
“Certo,
non sarà un problema”, commentò Gwen,
pregustandosi già l’azione che sarebbe seguita di
lì a poco.
I
cinque membri del Torchwood ultimarono i dettagli
con cui sarebbero entrati in gioco per affrontare una nuova minaccia
aliena e
si decisero ad andare a fare una piccola incursione
nell’orfanotrofio quella
notte.
Perciò, per quelle poche ore che li separavano da quella
missione, Jack decise
di mandarli a casa a riposarsi.
Quando
gli orologi batterono la mezzanotte, Jack,
Gwen, Tosh, Owen e Ianto abbandonarono il loro Suv e si incamminarono
nell’ampio cortile incurato del rudere che vi sorgeva nel
mezzo, a passo svelto
ma cauto, guardandosi attorno continuamente.
Il Capitano apriva il piccolo corteo, gli altri quattro invece
seguivano la
coda del suo capotto svolazzante, in posizione simmetrica.
Improvvisamente, si fermò vicino alla gradinata che portava
all’ingresso e si
voltò verso i suoi compagni.
“Io
e Ianto andiamo dentro, voi tre controllate nei
dintorni. Teniamoci in contatto”.
Annuirono
tutti senza protestare, controllando però
di avere la pistola al proprio posto.
I
due rimasti si avvicinarono a una finestra rotta
e, senza bisogno di parole, seppero immediatamente che cosa fare. Ianto
si issò
sul bordo dell’apertura cercando di tirarsi su. mentre il suo
compagno lo
aiutava da sotto spingendolo per i fianchi. Quando il ragazzo fu
entrato, aiutò
il Capitano allungandogli una mano e tirandolo dentro.
Poi si rialzarono in piedi spolverandosi i vestiti. Il più
giovane puntò la
torcia accesa, illuminando l’ambiente e notarono di essere in
una piccola
stanza quadrata, completamente spoglia e piena di ragnatele e polvere.
“D’accordo,
direi di iniziare a perlustrare le varie
stanze”, disse Jack e l’altro si
precipitò immediatamente alla porta, uscendo
in corridoio. “Aspetta!” lo fermò
però il compagno, raggiungendolo in pochi
passi. Gli stampò un dolce bacio sulle labbra e, guardandolo
negli occhi, con
un sorriso, gli sussurrò: “Sta’
attento”.
Ianto
annuì e si allontanò con un sorriso appena
accennato a decorargli le labbra. Estrasse la pistola dalla fondina
anche se
non c’era nessuna minaccia, né concreta
né probabile. Però stringerla in pugno
lo faceva sentire più al sicuro, anche se avrebbe di gran
lunga preferito avere
Jack accanto. Entrò nella cucina, piena di fornelli e
pentole appese sopra un
piccolo tavolo da lavoro. L’aria era ancora impregnata
dell’odore di cibo.
Si guardò attorno con circospezione, facendo luce dietro ad
ogni mobile e in
ogni angolo, attento a non fare rumore coi piedi. Non dovevano
svegliare
nessuno degli abitanti.
Dopo
poco decise di uscire da lì e andare a vedere
da un’altra parte. Ma proprio mentre stava per svoltare in un
angolo, qualcuno
gli venne addosso e Ianto per poco non ebbe un infarto.
Illuminò l’intruso con
la torcia constatando che era solo il vecchio custode ed
esalò un sospiro di
sollievo. Dietro di lui arrivò anche Jack.
“Di
sopra”, sentì mormorare all’uomo.
Guardandolo
meglio si accorse che aveva una faccia strana, piuttosto pallida, gli
occhi
erano spalancati e sembrava che non vedessero. “Sta
succedendo adesso”.
Ianto
e Jack non esitarono un attimo e corsero su
per le scale, carichi di adrenalina che non li faceva neanche sentire
la paura.
Quando
giunsero nel corridoio del piano superiore,
però, non trovarono niente di strano o sospetto. Decisero di
dividersi di nuovo
e di controllare in ciascuna delle porte. Ianto aprì la
prima che gli capitò e
si ritrovò di nuovo nella sala giochi che aveva visto quella
mattina. Le
bambole e i pupazzetti erano molto più inquietanti al buio,
sembrava che lo
stessero guardando minacciosamente. Ma a parte quello non
c’era niente di
anormale.
Ad
un tratto, però, sentì uno strano rumore, come
una specie di sibilo e puntò la torcia per terra,
sospettando che fosse un
serpente. Effettivamente c’era qualcosa che strisciava, ma
non era un serpente.
Sembrava un piccolo verme molto grosso che lasciava dietro di
sé una scia di
una poltiglia giallognola, come la saliva delle lumache.
Si chinò ad osservarla meglio, incuriosito, non dubitando
nemmeno che potesse
fargli del male, una creaturina così minuscola e
apparentemente innocua.
Di sicuro non si aspettava che gli saltasse addosso come invece fece,
posandosi
sul suo avambraccio. Ianto sentì un dolore penetrante
pervadergli tutto il
braccio, come se qualcuno gli avesse affondato l’arto con un
coltello, e vide
del sangue sgorgare e macchiargli la giacca elegante. Prese il
vermiciattolo
con l’altra mano e cercò di toglierselo di dosso,
faticando parecchio. Quando
ci riuscì, lo buttò a terra e lo
calpestò con un piede. Quello che ne rimase
dopo era solo una poltiglia schifosa e appiccicosa.
Controllò la ferita al braccio, notando un taglio piuttosto
lungo. Non sembrava
però aver intaccato alcuna arteria.
“Ianto!”
si sentì improvvisamente chiamare e
riconobbe la voce di Jack.
Si
precipitò nella stanza accanto e quello che vide
lo lasciò a bocca aperta: le cinque suore erano sedute
attorno a un tavolo
rotondo e sembrava che fossero in uno stato di trance, gli occhi
sbarrati e lo
sguardo rivolto in nessun punto. Quella in mezzo, però, che
doveva essere la
suora madre, emanava una strana luce azzurrognola che illuminava tutta
la
stanza, ma che non sembrava dirigersi da nessuna parte.
Jack
e Ianto erano rimasti fermi immobili vicino
alla porta, a guardare la scena senza sapere che fare. Ad un tratto,
però, la
suora madre si sollevò a mezz’aria, dietro la sua
schiena si intravedevano due
grandi ali da pipistrello e una lunga e grossa coda da lucertola che
sfiorava
il pavimento.
Emise un fischio acuto e, girandosi di scatto, tentò di
colpire i due uomini
proprio con la coda. Loro, però, riuscirono a scansarsi
appena in tempo per non
venire colpiti, buttandosi a terra, ma poi sentirono un fragoroso
frastuono e
videro i vetri delle finestre volare ovunque.
L’alieno era scappato fuori.
“Gwen,
Tosh, Owen!” gridò Jack nell’auricolare
che
aveva all’orecchio. “Sta scappando fuori. Cercate
di fermarlo”.
Il
Capitano aiutò il compagno a rialzarsi e poi si
precipitarono di sotto, uscendo fuori in cortile. Qui trovarono
l’alieno al
centro, imprigionato dentro una specie di gabbia fatta di energia
elettrica,
uno dei tanti strumenti che collezionavano al Nucleo, e Gwen, Tosh e
Owen
attorno, che guardavano la creatura con interesse.
Jack sorrise per il fantastico tempismo dei tre.
Quando
si avvicinarono alla gabbia, videro che la
Callaryana aveva ancora le sembianze della suora madre, col viso pieno
di rughe
e gli occhi scavati, però aveva due canini affilati che
sbucavano dalla bocca e
le ali e la coda la facevano apparire totalmente diversa. Indossava
ancora la
divisa da suora, ma non aveva il velo, perciò i suoi capelli
bianchi cascavano
sulle spalle e sotto la luce forte della luna glieli faceva sembrare
fluorescenti.
“Come
ti chiami?” le chiese Jack, a pochi passi di
distanza.
Lei
li guardò tutti quanti minacciosamente e sembrò
emettere una specie di ringhio. Però non diede alcuna
risposta.
“Non
ti faremo del male”, la tranquillizzò il
Capitano allora, in tono molto gentile. “Se
collabori”.
“Sono
Laetitia”, rispose finalmente lei, puntando
gli occhi scuri come la pece in quelli dell’uomo di fronte a
lei.
“Perché
sei venuta qui?”
“Per
il mio popolo”.
Ianto
inarcò le sopracciglia.
“Che
intendi?”
“Mi
hanno mandata per compiere una missione”.
“Cioè?”
“Prendere
dei bambini”.
Jack
spalancò la bocca incredulo. “E
perché?”
Laetitia
abbassò il capo. “Cosa ti importa saperlo?
Tanto mi ucciderai”.
“Non
ho detto che ti ucciderò”.
“Ma
lo farai. In un modo o nell’altro”. La voce
della Callaryana era pacata e tranquilla, sembrava non avere paura di
essere
stata catturata. O di venire uccisa. Lo diceva come fosse una cosa
normale,
come se le capitasse tutti i giorni.
“Ti
lascerò tornare a casa. Ma prima dimmi: da
quanto tempo sei qui?”
“Dieci
anni”.
“E
perché?”
“Per
il mio popolo”.
Owen
sbuffò. Così non si andava da nessuna parte.
“E
le altre suore e il custode? Loro sanno che cosa
sei? Da quanto tempo sono qui?”
“Loro
fanno parte di un progetto ben più grande,
possono benissimo essere sacrificati. Servono solo da
tramite”.
“Per
cosa?”
“Per
i bambini”.
Jack
rimase un attimo a fissarla, poi ghignò in modo
un po’ arrogante. “Allora, se ho capito bene, il
tuo popolo vuole dei bambini.
Hai allungato la vita di quelle suore per poterle sempre avere
accanto”.
La
Callaryana distese le labbra in quello che pareva
essere un sorriso, un sorriso rassegnato, forse.
“Adesso
puoi uccidermi”.
“Ho
detto che non ti ucciderò. Dimmi qual è questo
progetto. Cosa vuole il tuo popolo?”
Ma
l’aliena non gli rispose. Spostò lo sguardo su
Ianto che indietreggiò sotto i suoi occhi neri e scrutatori.
“Tu sanguini”, gli fece notare, riferendosi al suo
braccio. Il ragazzo spostò
lo sguardo sulla ferita dove c’era ancora del sangue, che
però stava iniziando
a seccarsi.
Improvvisamente,
la creatura fece sparire le ali e
la coda e tornò ad avere un aspetto completamente umano. O
quasi. Allungò una
mano verso le sbarre e, proprio nel momento in cui le toccò,
una potentissima
scarica elettrica la percosse, facendola gridare violentemente. Nessuno
si era
aspettato quel gesto, nessuno lo aveva previsto.
“No!”
urlò Owen, premendo il pulsante per disattivare
la gabbia. La Callaryana cadde a terra con gli occhi chiusi, il corpo
scomposto, i capelli sparsi per terra.
Il dottore si chinò per toccarle il polso, poi
alzò il capo verso i suoi amici
con un’espressione affranta. “E’
morta”, disse solamente.
Jack sospirò, dispiaciuto più per non aver avuto
le informazioni che voleva. Si
avvicinò a Ianto e gli prese il braccio guardando la ferita.
Anche se non era
grave, era piuttosto profonda. Estrasse un fazzoletto dalla tasca e
glielo legò
per fermare il sangue.
“Ultimamente
ti ferisci un po’ spesso, Ianto”, fu il
commento di Owen quando finì di mettere i punti al braccio
ferito dell’amico.
Erano tornati alla base, con un’aria un po’
affranta, ma contenti che almeno
quell’avventura si fosse conclusa.
Non erano riusciti a ritrovare i quattro bambini scomparsi e nemmeno
togliersi
il pensiero di un’altra possibile minaccia da parte di Callary, ma almeno i bambini di
quell’orfanotrofio erano al sicuro,
sotto la custodia delle altre suore che non si ricordavano niente di
quello che
era successo.
Owen passò un paio di giri di garza
sull’avambraccio di Ianto e gli permise di
andare.
Il ragazzo si diresse verso Jack, che lo stava aspettando vicino alle
scale.
Sembrava piuttosto stanco. Gli prese una mano e lo trasse a
sé dandogli un
bacio, cingendogli la vita con le braccia e stringendolo forte. Ianto
lo lasciò
fare, piacevolmente sorpreso da quella improvvisa dimostrazione
d’affetto.
Infine, smisero di baciarsi ma non si separarono. Il giovane
appoggiò la testa
sulla spalla dell’altro, stancamente, godendosi il suo
profumo, mentre il
Capitano lo cullava e gli dava un bacio sulla fronte.
Intanto
gli altri
cominciarono a prepararsi per tornare a casa.
MILLY’S
SPACE
Allora,
solo alcune piccole note: questo potrebbe
sembrarvi solo un’avventura come tante altre affrontate dal
Torchwood, ma vi
dico già che è piuttosto importante per gli
avvenimenti futuri. Callary non ho
idea se esista, non credo (^^). E’ una mia totale invenzione,
così come l’Arrannya,
quindi ne detengo i diritti d’autore u.u
Detto
questo vi ringrazio per la cortese attenzione e
spero che mi lascerete qualche recensione. Inoltre, non dimenticatevi
di dare
un’occhiata alla mia pagina face.
https://www.facebook.com/MillysSpace
Bacioni : )
SWEETLADY98: ehi, spero che
questo capitolo ti
sia piaciuto altrettanto… sì, pure io adoro
Rhiannon : ) be’, spero tu abbia
tempo per lasciarmi una recensione e se no pazienza…
bacioni, M.
PUFFOLA_LILY: eccolo qua, il
capitolo ^^ sì, Jack
è assolutamente fantastico. Anche io me lo sposerei, se non
lo shippassi troppo
con Ianto ^^ ahaha fatti risentire, un bacio. Milly
|
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Capitolo 8 *** Capitolo sette - E' passato ***
CAPITOLO
SETTE - E' PASSATO
No, non può
finire così,
la vita
inventerò ancora per un po’.
No, non può
finire così,
qualcuno
troverò e rinascerò.
(Solo
ieri, E.Ramazzotti)
Il
letto scricchiolò sotto il suo peso, mentre vi si
sedeva sul bordo, poggiando i piedi nudi sul freddo pavimento. Si
accorse di
avere addosso la maglietta azzurra di Jack, quando gli passarono per la
mente
le immagini di quello che aveva fatto la scorsa notte e lo sguardo gli
corse
subito dietro le spalle, dove il bel Capitano dormiva ancora
pacificamente, il
viso rilassato in un’espressione serena che raramente Ianto
gli aveva visto
dipinta in viso. Era strano che dormisse ancora, di solito era lui
quello che
si svegliava per primo, sempre vigile, sempre scattante.
Cercando
di fare meno rumore possibile e
scrollandosi di dosso i brividi rimastigli dall’incubo che
aveva appena fatto,
si alzò dal letto con un colpo di reni ma
un’improvvisa nausea gli salì alla
bocca dello stomaco. Chiuse gli occhi per qualche secondo, aspettando
che gli
passasse, e poi andò in bagno.
Era da un po’ di giorni che si svegliava con uno stano senso
di vomito nello
stomaco, sempre più forte. Poi gli passava per
l’ora di pranzo. Ma non l’aveva
ancora detto a Jack, non voleva farlo preoccupare. E in ogni caso,
probabilmente era dovuto allo stress e alle poche ore di sonno che
faceva.
Stava
per prendere la schiuma da barba, quando sentì
qualcuno abbracciarlo da dietro e tirarlo contro il proprio petto.
Capì
immediatamente che quel corpo caldo e quelle braccia forti
appartenevano a Jack
e un sorrisetto gli nacque spontaneo sulle labbra, mentre si lasciava
cullare
dal suo Capitano.
“Ti
preparo la colazione?” gli sussurrò
all’orecchio.
“Solo
del caffè”.
“Quello
lo fai meglio tu”.
Ianto
ridacchiò e si districò dalle braccia del
compagno. “D’accordo, vado a farlo io”.
Posò la crema accanto al lavandino e
fece per avviarsi alla porta. Ma non appena fece un passo, un forte
capogiro lo
assalì e dovette aggrapparsi al termosifone per non cadere.
Jack gli circondò la vita con un braccio e lo
fissò preoccupato. “Ehi, che
succede?”
“N…
niente”, borbottò il ragazzo. “Mi gira
solo la
testa”.
Jack
lo rimise dritto e gli tastò la fronte. “Sei
sicuro di stare bene? Ti porto in ospedale o…”.
“No,
Jack, no!” cercò di tranquillizzarlo
l’altro.
“Sto bene, davvero. Ora è passato”.
“Ma…”.
“Sto
bene, Jack!” E se ne uscì a passo di marcia dal
bagno, senza lasciare il tempo all’altro di aggiungere
qualcosa.
Jack
rimase a fissare la porta come bloccato.
Sperava che non avesse niente di grave, forse tutto quel lavoro a
contatto con
alieni e altre robe strane poteva danneggiare l’organismo
delle persone. Si
augurava che non fosse così.
“Come
andiamo, Tosh?”
Toshiko
digitava freneticamente qualcosa al computer,
quando Jack le si avvicinò alle spalle, fissando gli occhi
sullo schermo.
“Sembra
che qualcosa sia passato attraverso la
fessura questa notte”, disse la ragazza. “Ma questa
è l’unica attività che mi
segna”.
“D’accordo,
allora, non c’è niente di cui
preoccuparsi. Continua a monitorarlo, però”.
“Va
bene”.
“Ragazzi,
c’è un pacco per noi”. La voce di Ianto,
appena rientrato nel Nucleo, attirò l’attenzione
di tutti. Gwen spense il
cellulare, Owen abbandonò la sua sala medica, Tosh si
girò con la sedia e Jack
prese una piccola scatola dalle mani del compagno. La poggiò
sul tavolo, l’aprì
con un gesto secco e guardò dentro, imitato dagli altri. Vi
era contenuto un
piccolo specchio di forma rettangolare, sufficiente solo per vedere una
parte
del proprio viso, decorato con una cornice argentata piuttosto semplice.
“Chi
l’ha mandato?” chiese Gwen.
“Non
so”, le rispose Ianto. “Il fattorino ha detto
che era per Torchwood e che il mittente era anonimo”.
“Guardate,
ci sono delle scritte”, notò Toshiko,
indicando con l’indice dei segni in un angolo. “Ma
non è inglese”.
“Probabilmente
è una lingua aliena”, ipotizzò Jack.
“Pensi
che sia alieno?”
“Perché
altrimenti ce lo avrebbero mandato?”
“Per
specchiarci?” scherzò Owen, beccandosi
un’occhiataccia da Gwen.
“Dobbiamo
analizzarlo. Tosh, cerca di decifrare le
scritte”.
Il
team si mise subito all’opera, mentre il Capitano
spariva nel suo ufficio. Poco dopo anche Ianto lo seguì.
“Ehi”,
lo salutò Jack, seduto dietro la scrivania. “Stai
bene?”
Ianto
alzò gli occhi al cielo e si sedette sulla
scrivania. “Sì, Jack, smettila di
chiedermelo”.
“D’accordo,
d’accordo”. Jack si buttò contro lo
schienale della sedia e mostrò il suo solito sorrisetto
sghembo.
“Comunque,
quello specchio…”, iniziò il ragazzo
per
cambiare argomento, evitando di guardare quel sorrisetto dipinto sul
volto
dell’altro. “Mi è familiare”.
“In
che senso?”
“Sono
sicuro di averlo già visto da qualche parte,
ma non ricordo dove”.
“Be’,
è uno specchio abbastanza comune. Magari lo
hai visto in un negozio”.
“Non
saprei”. Ianto restò a fissare un punto
invisibile sul muro di fronte a lui, senza aggiungere altro, e poi
lasciò
l’ufficio di Jack a passo di marcia. Raggiunse Owen nel suo
studio e lo trovò
indaffarato a studiare lo specchio. “Scoperto
qualcosa?”
“Solo
che è un affare alieno. Ma non ho idea a che
cosa serva”. Il dottore si voltò per prendere
qualche altro attrezzo e Ianto ne
approfittò per avvicinarsi all’oggetto sul tavolo
e guardarlo meglio. Vi si
specchiò dentro, trovandoci riflesso solo il proprio occhio
azzurro.
Eppure gli sembrava tanto familiare… terribilmente familiare.
Ma
forse era solo una sua impressione.
Vide
una scatola di biscotti poggiata sul tavolino e
si accorse di avere fame. L’afferrò iniziando a
mangiare il primo biscotto e
andò a fare qualcosa.
“Cinque
a tre per noi! Ve l’avevo detto che vi
battevamo!”
Jack
aiutò Ianto a scendere dal canestro al quale si
era appeso dopo aver fatto un tiro al volo e gli diede un sonoro bacio
sulle
labbra.
“La
partita non è ancora finita. Vedremo chi sarà ad
esultare tra poco”, lo provocò Owen, lanciando ai
due un’occhiata di sfida.
Quel
pomeriggio, dopo pranzo, avevano deciso di
andare a farsi una partitina a basket nel campo vicino, visto che non
c’era
molto da fare al Nucleo. Stavano giocando già da
mezz’ora, Gwen e Owen contro
Ianto e Jack. Tosh aveva deciso di rimanersene in disparte a tenere il
punteggio e controllare sul portatile che si era portata dietro le
eventuali
attività della fessura, perfettamente conscia delle sue
poche capacità
sportive.
“Non
sapevo fossi così bravo, Ianto”,
commentò Gwen,
osservando curiosa il ragazzo.
“Quando
andavo al liceo ci ho giocato un po’ di
volte”.
“Ragazzi,
continuiamo?” si intromise Owen.
“Dov’è la
palla?”
Soltanto
in quel momento si accorsero che la palla
da basket era scomparsa, probabilmente rotolata chissà dove.
D’un tratto, però,
notarono una figura in piedi a poca distanza da loro. Reggeva in mano
qualcosa
di tondo e li osservava.
Ianto
cominciò ad avvicinarsi, una specie di dejavù
lo aveva colto tutto d’un colpo e gli pareva di aver
già visto quella persona.
E le sue sensazioni furono confermate, quando le arrivò ad
un metro di
distanza. Il cuore cominciò a battergli a mille e rimase
completamente
paralizzato sul posto, senza parole e senza fiato. Sentiva la presenza
dei suoi
amici dietro di lui, increduli anche loro.
“Lisa!”
esclamò lui, riuscendo a recuperare le
parole da qualche parte nel fondo della gola.
“Ciao,
Ianto”.
Lisa
non era cambiata proprio per niente. Quella sua
pelle color cioccolato, le curve, le gambe toniche e il corpo snello
erano uguali
a quando l’aveva conosciuta. Si era sentito attratto fin da
subito, non solo
dal suo corpo ma anche dal suo modo di fare, dalla sua
personalità. E nemmeno
quelli sembravano essere cambiati. Era perfettamente come la ricordava.
“Bene,
quindi non sei una specie di clone e neanche
un robot”, concluse Owen, poggiando sul tavolino il suo
stetoscopio. “I tuoi
organi funzionano perfettamente e non c’è traccia
di decadimento fisico. Ciò
significa che non sei nemmeno un vampiro o uno zombie. E a quanto pare
neanche
un alieno”.
Lisa
alzò gli occhi al cielo e accavallò le gambe.
“Sono
in ottima forma”, disse lei maliziosa. “Come
sempre”. Si alzò dal tavolo del piccolo studio di
Owen, sul quale il dottore
l’aveva visitata e si mise a girovagare per il Nucleo,
osservando gli oggetti
che incontrava con fare curioso.
“Allora
come sei arrivata qui?” le chiese Jack,
poggiato alla ringhiera accanto a Ianto.
La
ragazza si fermò accanto al divanetto sotto la
scritta Torchwood. “Devo
dire che
questo posto fa molto… Futurama”,
commentò, senza fare caso alla domanda del Capitano
“Avete un sacco di cose
interessanti. Chi lo ha arredato?”
“Come
sei arrivata qui?” ripeté Jack, guardandola
serio.
Lei
si girò verso di lui e rimase
a osservarlo intensamente, come se volesse trasmettergli
qualcosa attraverso lo sguardo.
“Che
importanza ha?” fece lei allora, scendendo con
passo elegante e avvicinandosi al Capitano. Si fermò di
fronte a lui a
fronteggiarlo, più bassa solo di qualche centimetro.
“Ora sono qui. Non ho
certo intenzione di uccidervi o conquistare la Terra”.
Ianto,
fermo dietro a Jack, sorrise divertito e Lisa
gli fece l’occhiolino. Il Capitano non se ne accorse o forse
fece finta di non
averlo visto. Continuò semplicemente a fissare la ragazza e
ordinò in tono
perentorio: “Ianto, rinchiudila nelle celle”.
“E
così ora sei sotto gli ordini di quel belloccio”,
fece Lisa, provocante. Ianto aprì la porta della cella
vicina a quella di Janet
e rimase fermo, aspettando che la ragazza ci entrasse. Sperava di non
doverla
convincere o buttare dentro a forza. Anche perché non era
tanto sicuro di
uscirne vincitore. Lisa era sempre stata una ragazza molto forte, in
forma,
sapeva persino praticare qualche arte marziale dal nome strano. “E’
peggio di quella che avevamo al Torchwood
di Londra”, aggiunse, cercando forse un modo per iniziare una
conversazione.
“Entra”,
disse semplicemente lui, senza guardarla.
Lei spalancò gli occhi sbigottita. “Non puoi fare
sul serio”.
“Mi
dispiace, Lisa. Questi sono gli ordini”.
“Quand’è
che sei diventato così accondiscendente?”
chiese, in tono acido, avvicinandosi alla soglia della cella.
“Una volta non
eri così”.
“Sono
cambiato”, rispose lui, alzando lo sguardo sul
suo viso e poggiando una mano sul muro davanti.
“Sì,
lo vedo”, ringhiò lei, facendo
un’espressione
quasi disgustata. “Ora sei diventato un bravo ragazzo. Ti
vesti pure come se
fossi… un cameriere”.
Ianto
spostò lo sguardo, non avendo il coraggio di
affrontare quello della ragazza. Sentiva come se le facesse un enorme
torto,
eppure non poteva fare altrimenti. Non poteva disobbedire a Jack e
scappare via
con Lisa, non solo perché Jack era il suo compagno e il suo
capo, ma anche
perché era lampante che c’era qualcosa di
sbagliato. Lisa non doveva essere lì.
Però, l’altra vocina nella sua testa, quella che
seguiva una volta, quando non
si preoccupava di nessuna conseguenza, gli diceva che
l’errore era rinchiudere
Lisa in quella cella e considerarla un mostro. Dopotutto, non era una
persone
qualunque… era la sua Lisa, quella che aveva amato, che
aveva condiviso con lui
buona parte della sua vita, che lo aveva aiutato a superare i suoi
problemi.
Quante volte aveva sognato di poterla riabbracciare di nuovo,
stringerla fra le
sue braccia e ora, finalmente, poteva farlo. I miracoli a volte
avvengono no?
In fondo, non aveva smesso di amarla, anche se adesso amava Jack. Ma si
possono
amare in ugual modo due persone contemporaneamente?
“Perché
sei qui? Che cosa vuoi?” le chiese,
riportando lo sguardo su di lei.
Lisa
sbatté le sue lunghe ciglia e lo guardò con i
suoi enormi occhi scuri e supplicanti. Ianto sentì dei
brividi corrergli lungo
la schiena, quei brividi che sentiva tutte le volte che guardava in
quelle
pozze profonde e aveva come l’impressione di potercisi
perdere dentro.
“Voglio
te”, sussurrò lei con voce dolce,
prendendogli in mano la cravatta. “Ti amo”. E,
senza lasciargli il tempo di
dire niente, lo tirò per la cravatta verso le proprie labbra
e lo baciò. Ianto
non si ritrasse, anzi, completamente dimentico di dove si trovava, si
avvicinò
di più a Lisa e le circondò la vita con le
braccia, mentre lei gli affondava la
mano tra i capelli.
Si staccarono solo dopo un po’. Ianto si sentiva come se si
fosse appena
svegliato da un sogno impossibile, il cuore che batteva a mille. Lisa
invece
gli sorrideva contenta, come se avesse appena ottenuto ciò
che voleva.
Ma, al contrario di ciò che si era aspettata, si vide
spingere indietro dal
ragazzo che subito richiuse la porta della cella lasciandola dentro.
Lei si
avvicinò al vetro e lo guardò incredula.
“Ianto! Non puoi farmi questo!”
“Mi
dispiace, Lisa”, disse lui, guardandola
dispiaciuto. “Ma tu non dovresti essere qui”.
Subito girò sui tacchi e si avviò
all’uscita.
“Ianto!”
chiamò di nuovo lei, ma l’altro fece finta
di non udirla. “Cosa c’è tra te e
quell’uomo?” chiese poi, con tono quasi
disperato. Ianto si bloccò sul posto, come scottato.
Sicuramente intendeva
Jack. “Ho visto come lo guardi. Cosa c’è
tra voi?”
Quanto
Ianto tornò dalle celle trovò i suoi amici
stranamente in silenzio. Owen stava mettendo in ordine i suoi attrezzi
da
medico, Gwen era seduta sul divano col cellulare in mano e Tosh e Jack
se ne
stavano davanti ai computer, lei impegnata a scrivere qualcosa mentre
lui
fissava lo schermo con sguardo vacuo.
Quando lo vide arrivare, il Capitano gli lanciò una strana
occhiata e poi si
diresse al suo ufficio.
Ianto
si avvicinò alla giapponese e gli venne quasi
un colpo quando vide la schermata delle celle aperta su uno dei
computer. In un
angolo c’era Lisa, seduta per terra col viso tra le
ginocchia. Sicuramente Jack
stava guardando quella videocamera da più tempo e
probabilmente non solo lui.
Anche
Tosh lo guardò con un’espressione che gli
esprimeva una muta richiesta, ma lui non ci fece caso e corse dietro a
Jack.
Entrato nell’ufficio, richiuse la porta dietro di
sé e osservò la schiena di
Jack fermo alla scrivania.
“Jack,
hai visto…”, cominciò con voce incerta,
ma si
bloccò di colpo, sentendosi un po’ stupido. Ma
certo che aveva visto! “Jack,
io… mi dispiace. Non…”.
“Ianto!”
esclamò il Capitano, girandosi
improvvisamente verso il ragazzo, ancora appoggiato alla porta.
“Non chiedere
scusa se non sei dispiaciuto. E poi non m’importa. Sei libero
di baciare chi
vuoi”.
Ianto
alzò il capo verso di lui guardandolo come se
avesse detto una bestemmia. Poi gli si avvicinò lentamente,
come se avesse
paura che l’altro lo potesse picchiare da un momento
all’altro.
“Ma io voglio baciare solo te”, gli
sussurrò, mettendogli le mani sulle spalle.
“Allora
baciami”, fece Jack, sensuale.
Il
ragazzo non se lo fece ripetere due volte e
annullò tutte le distanze tra loro due, fiondandosi sulle
labbra del Capitano
quasi con disperazione. Con una mano si afferrò alla sua
camicia, mentre sentiva
quella di Jack corrergli lungo la schiena.
Si lasciò travolgere, come sempre, e il bacio di Lisa di
poco fa gli parve un
ricordo di tanti altri. Non poteva dire che quello della ragazza gli
era stato
indifferente, così come lei non gli era indifferente. Gli
aveva portato alla
memoria vecchi ricordi, lontane esperienze vissute con lei, le
avventure che
avevano sperimentato, le belle memorie che aveva, ma che erano al
contempo
amare. Era il passato.
Quello di Jack, invece, era… be’, era come Jack.
Intenso, passionale, forte.
Era tutto il contrario di quello di Lisa. Era come quei baci che puoi
solo
sognarti, uno di quei baci che ti ricordi per tutta la vita.
Ma, soprattutto, il bacio di Jack rappresentava il presente.
Quando
si staccarono, rimasero a guardarsi per
qualche secondo, come a volersi trasmettere con lo sguardo
ciò che provavano.
Poi Jack si allontanò e mostrò un sorrisetto
malizioso. “Mi sono ricordato di
avere un impegno”. E,
senza spiegare
nient’altro, afferrò il suo cappotto e
uscì fuori dall’ufficio.
“Ehi,
Jack, vai fuori?” chiese Owen, avvicinandosi
al Capitano. “Ti accompagno. Ho scordato il cellulare in
macchina”.
I
due azionarono la ruota e si ritrovarono
nell’ingresso con l’ascensore. Si misero a
discutere del ritorno di Lisa e di
come avrebbero risolto quella questione e si ritrovarono fuori,
abbagliati dal
sole.
“Owen?!”
esclamò all’improvviso una voce di donna.
Il dottore si voltò verso la direzione da cui
l’aveva sentita provenire e
sgranò gli occhi nel trovarsi davanti una ragazza bionda,
affiancata da un uomo
alto vestito in modo strano. “Katie?!”
“Non
ho rilevato attività della Fessura e non ci
sono altre tracce di attività aliena a Cardiff, eccetto qui
al Nucleo”, disse
Tosh quando lei e gli altri si erano seduti nella sala delle riunioni
per
discutere degli ultimi avvenimenti.
“Quindi
è qualcosa di alieno?” chiese Gwen,
guardando verso la collega.
“Da
quello che mi risulta sì”, rispose lei,
digitando qualcosa sul portatile.
“Questo
significa che le persone che sono tornate
c’entrano con questo posto. Lisa ha lavorato per Torchwood ed
era la fidanzata
di Ianto. Ma la ragazza bionda? E l’uomo?” fece di
nuovo Gwen, spostando lo
sguardo su tutti i presenti.
Owen fissava un punto indefinito sul tavolo, ancora sconvolto per il
ritorno di
Katie, Ianto era seduto sulla sedia, una gamba poggiata sul ginocchio
con
espressione quasi indifferente e Jack dava loro le spalle, fermo sulla
soglia
della porta, con aria tormentata.
“Inoltre
c’è lo specchio. Tosh, sei riuscita ad
analizzare le scritte?”
“Il
computer sta ancora cercando. Presto dovremmo
avere una risposta”.
“D’accordo.
Che ne dite allora se…”.
“La
ragazza bionda”, si intromise ad un tratto Owen,
interrompendo il discorso di Gwen. “Era la mia fidanzata.
Dovevamo sposarci,
quando lei è morta perché…
c’era un alieno nella sua testa”.
Sia
Gwen che Tosh che Ianto spostarono lo sguardo
sul dottore, guardandolo con aria sconvolta.
“Oh,
Owen…”, sussurrò la giapponese,
allungando una
mano verso di lui. “Mi… mi dispiace”.
Lui alzò il capo verso di lei e le lanciò una
strana occhiata.
Per qualche attimo nella sala cadde un pesante silenzio, nessuno sapeva
cosa
dire. Quella era forse l’esperienza peggiore che poteva loro
capitare.
“E
che mi dite dell’uomo? Qualcuno di voi lo
conosce?” chiese a quel punto Gwen. Gli altri tre scrollarono
le spalle come
per dire che loro non avevano niente a che farci.
“Jack?” chiamò allora la
ragazza, guardando in direzione del Capitano, l’unico fino a
quel momento che
non si era espresso. Lui, però, rimase lì
dov’era, lo sguardo vacuo fisso sullo
stipite della porta, le mani in tasca. Anche gli altri si voltarono a
guardarlo, intuendo che lui, invece, sapeva qualcosa.
“Quell’uomo”,
iniziò lui, senza guardare nessuno dei
compagni. “Si chiama Franklin. È… era
mio padre. Ma è morto un sacco di tempo
fa”.
Di
nuovo piombarono tutti in silenzio. Ianto non
sapeva se alzarsi e andare da lui per consolarlo o restare
lì dov’era. Ma poi
si rese conto che non avrebbe saputo cosa dirgli e che Jack non amava
apparire
fragile.
“Dovremmo
interrogarli, forse loro sanno qualcosa”,
concluse a quel punto Gwen.
“Usiamo
Katie”, disse Jack, voltandosi verso gli
altri e riprendendo la sua solita espressione di Capitano.
“Perché
proprio lei?” si lamentò Owen, guardandolo
male.
“Perché
Lisa non ci dirà niente”, rispose lui,
poggiando le mani sul tavolo. “E in quanto a
Franklin… non ci conosce. Avevo
solo dodici anni quando è morto, non mi
riconoscerà. Katie si fida di te”. Non
era una risposta del tutto logica, Jack lo sapeva, ma sperava che il
suo tono
convincente fosse riuscito a ingannarli, come succedeva sempre. La
verità era
che non voleva confrontarsi con suo padre.
“Vado
a prenderla”, disse Ianto, alzandosi dalla
sedia.
Il
ragazzo scese nelle celle, ma evitò accuratamente
di guardare in quella di Lisa e non si fermò nemmeno da
quella di Katie.
Piuttosto raggiunse l’ultima, quella dove c’era
Franklin, e si fermò a
osservarlo. Era molto simile a Jack, alto coi capelli castani, il
fisico forte
e la mascella dura. Ma non sembrava avere la stessa aria vissuta e
tormentata
del figlio, anche se un luccichio di malinconia c’era.
L’uomo,
sentendosi osservato, alzò lo sguardo su di
lui e inclinò il capo. “Sei venuto a
uccidermi?” chiese con un tono rassegnato.
“No”,
rispose subito Ianto. “Non vogliamo farvi del
male”.
“Allora
perché ci tenete qui dentro?”
“Perché…”,
rimase un attimo a pensare a che cosa
sarebbe stato meglio dire. “Perché dobbiamo capire
il motivo per cui siete
qui”.
Franklin
abbassò il capo e sospirò.
“Signore?”
lo chiamò Ianto. “Lei… lei ha dei
figli?”
L’uomo
alzò lo sguardo a guardarla, chiedendosi
silenziosamente come mai gli facesse una domanda del genere. Poi
sorrise
teneramente. “Sì. Ne ho uno, si chiama Grey.
Adesso ha sedici anni”.
Anche Ianto sorrise, ricordandosi che aveva già sentito quel
nome. L’aveva
detto John quando era venuto a trovare Jack. Lo sapeva che Grey era
qualcuno di
importante per il Capitano.
“E’
il suo unico figlio?”
Franklin,
allora, si incupì di colpo. “No. Ne avevo
un altro, un figlio più grande. Ma è morto
durante un’invasione aliena. O
almeno credo. È scomparso tentando di salvare il
fratellino”.
Ianto
capì che si riferiva a Jack ed era pronto a
fargli altre domande, ma in quel momento vide arrivare proprio il
Capitano che
lo guardava con una faccia strana.
“Ianto,
che fai? Ti stiamo aspettando”.
Il
ragazzo sobbalzò e si allontanò velocemente dalla
cella di Franklin, biascicando un “Arrivo”. Quando
il Capitano si allontanò,
aprì la cella di Katie e la invitò a seguirlo.
Salirono
al piano superiore, dove la ragazza si
buttò subito tra le braccia di Owen. “Owen! Ma che
sta succedendo?!” esclamò
lei, in tono spaventato. Il ragazzo la strinse, cercando di
confortarla. “E’
quello che stiamo cercando di capire”. La fece accomodare su
una sedia e lanciò
un’occhiata di intesa a Jack.
“Che
posto è questo?” chiese Katie, guardandosi
attorno.
“Si
chiama Torchwood”, le rispose il Capitano,
studiandola con i suoi occhi chiari. “E’ la nostra
base segreta dove
rintracciamo la vita aliena”.
“Alieni!?”
fece lei, guardando tutti i presenti come
se fossero impazziti.
“Ascolta,
Katie”, si intromise a quel punto Owen, stufo
dei temporeggiamenti di Jack. Si inginocchiò di fronte alla
ragazza e la guardò
dolcemente. “Il punto è che… tu non
dovresti essere qui. È successo qualcosa
che non sappiamo spiegarci. Devi dirci che cos’hai
fatto…”.
“Ma
io non ho fatto niente. Mi sono trovata qui
all’improvviso”. Alzò lo sguardo verso
il Capitano, come se avesse intuito che
era lui il capo lì e che bisognava convincere lui.
“Ero appena tornata a casa
dal supermercato e stavo mettendo a posto la spesa. Ho aperto il
frigorifero e
sono finita alla baia… e tu hai aperto la porta”.
“Ma
il punto è che tu dovresti… dovresti essere
morta”.
Lei
spalancò gli occhi e lo guardò scioccata.
“No,
Owen, tu sei morto… avevi un tumore e…”.
Improvvisamente
Owen si alzò e passò lo sguardo sui
suoi compagni, notando una luce di comprensione negli occhi di Jack.
Sembrava
star pensando intensamente a qualcosa. Come punto da un ago, corse nel
suo
ufficio e, dopo appena pochi secondi, tornò indietro
reggendo lo specchio che
avevano ricevuto quella mattina.
“Questo
non è uno specchio!” esclamò come fosse
la
cosa più ovvia del mondo. “Questo è
un…”.
“Portale!”
Una voce nascosta tra gli scaffali
interruppe la frase di Jack concludendola per lui. Videro sbucare fuori
la
figura di Lisa che reggeva una pistola in mano e la puntava contro di
loro.
“Pensavo che l’avresti riconosciuto,
Ianto”, continuò la ragazza, addolcendo il
tono stavolta. “Te l’ho mostrato quando lavoravamo
per il Torchwood di Londra.
È stata l’unica cosa a rimanere integra
dopo… be’, dopo tutto il caos dei
cyberuomini”.
Ianto spalancò gli occhi, un ricordo improvviso che gli
tornava a galla. “Ma
non avevamo mai capito a cosa serviva”.
“No,
ma io l’ho capito, basta tradurre le scritte
sulla cornice”.
“E
a che cosa serve?” chiese Gwen, impaziente.
“E’
come ha detto lei un portale”, rispose Jack.
“Serve per portarti in un mondo parallelo”.
“Mondo
parallelo?”
“Ci
sono infiniti mondi e universi paralleli tra qui
uno identico a questo. Solo che quelli che sono morti in questo mondo
sono vivi
in quello parallelo e viceversa”, spiegò il
Capitano pazientemente, senza
togliere gli occhi da Lisa.
“E
così che sono tornata qua. Ero sicura che anche
tu lavorassi per il Torchwood di Cardiss così ho inserito le
coordinate e l’ho
mandato attraverso la fessura. Non avevo previsto che arrivassero anche
la
donna e quell’altro uomo”.
A
quel punto anche Gwen estrasse la pistola e la
puntò contro la ragazza. Ianto però si mise in
mezzo, cercando di avvicinarsi a
Lisa cautamente. Lei però non abbassò la sua arma.
“Lisa…”.
“Pensavo
che l’avresti riconosciuto”, ripeté lei,
con voce leggermente rotta. “Pensavo che te lo ricordassi.
Invece… invece ti sei
dimenticato di tutto quello che abbiamo passato insieme”.
“No,
Lisa, non è così”.
“Ah
no? E allora lui?” Indicò Jack con la punta
della pistola. Stavolta aveva lasciato che qualche lacrima le
scivolasse lungo
il viso. “Mi hai sostituita con lui. Ma lui non ti conosce
come ti conosco io.
Scommetto che lui non sa quello che ti ha fatto tuo padre, scommetto
che non ti
confidi con lui come ti confidavi con me”.
“Lisa!”
la chiamò il ragazzo come per intimarle di
non aggiungere altro. “Non è così. Non
potrei mai sostituirti”. Allungò la mano
per prendere la pistola. Lei però si allontanò di
qualche passo. “Dammi la
pistola. Non ti faremo del male”.
“No,
ma volete mandarmi via. Io non voglio
andarmene, sono venuta per te, perché ti amo”.
Ianto,
allora, avvolse con la mano la punta della
pistola, sicuro che lei non gli avrebbe sparato e se la fece
consegnare. Poi si
avvicinò a Lisa e l’abbracciò, mentre
lei avvolgeva il suo collo con le braccia
e affondava la testa nel suo petto. “Voglio solo che
ricominciamo da capo,
voglio che…”. Non riuscì a concludere
la frase però, perché Owen, avvicinatosi
velocemente senza che lei lo vedesse, le conficcò una
siringa nel collo e le
iniettò il liquido che vi era contenuto, probabilmente un
sonnifero. Ianto
sentì la ragazza crollare tra le sue braccia a peso morto.
“Possiamo
invertire le coordinate e rispedire lo
specchio nella Fessura. Se ne andranno come sono venuti”,
disse Jack, senza
guardare nessuno in particolare.
Ianto
sedeva sulle scalette di ferro che portavano
al piccolo laboratorio di Owen e osservava Lisa stesa sul lettino,
legata alle
sbarre con delle manette. Avevano pensato che fosse meglio
così, non volevano
correre il rischio che li sorprendesse di nuovo come aveva fatto prima.
Il
ragazzo sentì i passi di Gwen avvicinarsi e poi
percepì che si sedeva accanto a lui, ma non ci fece caso.
Gli mise una mano sul braccio e guardò anche lei in
direzione di Lisa.
“Come
ha fatto ad uscire dalla cella?” chiese, più
per fare conversazione che per vera curiosità.
“Ha
lavorato a Torchwood per tanti anni. Non sarà
certo una porta blindata a fermarla”, rispose lui in un tono
che pareva pieno
di orgoglio.
“Sembra
una tipa tosta”.
Ianto
sorrise. “Sì, lo è. più che
altro non le piace
che le si dica ciò che può o non può
fare”.
“Mi
dispiace… per quello che le è successo,
intendo”. Gwen sospirò. Non gliel’aveva
mai detto, né gli aveva mai chiesto
come si sentisse dopo la morte di Lisa. Per la verità non
parlava molto con
Ianto, lo conosceva così poco. Conosceva così
poco di tutti loro e le
dispiaceva. Ma forse era anche meglio.
Intanto
Jack, seduto sul giaciglio nella cella
accanto a Franklin, fissava una macchia nella parete di fronte a
sé, in
completo silenzio.
“Tra
poco potrai tornare a casa”, disse dopo un po’,
senza voltarsi a guardare l’uomo seduto accanto a lui.
“Non
vedo l’ora di riabbracciare mio figlio”, disse
questi, in tono sommesso, quasi commosso.
Il
Capitano annuì, sorridendo malinconicamente.
“Salutamelo. Salutami Grey”.
“Lo
farò, puoi contarci”. Franklin si voltò
verso di
lui come per aggiungere qualcos’altro quando, resosi conto di
quello che l’uomo
gli aveva appena chiesto, lo guardò con una faccia un
po’ perplessa. “Come…
come fai a sapere che si chiama Grey?”
Anche
Jack si girò nella sua direzione, guardandolo
con occhi che cercavano di trattenere le lacrime.
“Perché l’ho scelto io quel
nome, ricordi? Grey… “.
Vide Franklin
spalancare gli occhi, un improvviso bagliore di consapevolezza nello
sguardo.
Rimase a scrutarlo per qualche secondo, come per trovare una risposta
alla sua
muta domanda.
“J…
figliolo?”
Il
Capitano annuì col capo e l’uomo non ebbe bisogno
di altro. Allargò le braccia e lo strinse in un forte
abbraccio. Jack affondò
il viso nell’incavo del suo collo, assaporandone il buon
odore, quell’odore che
gli era mancato terribilmente, e lasciò andare una lacrima.
“Devi
raccontarmi tutto, tutto quello che hai fatto
fino ad ora”, gli ordinò Franklin senza lasciarlo
andare. “Lo sai che hai
salvato la vita a Grey? Ti sei sacrificato per
lui…”.
Già…
era contento di sapere che almeno in un mondo
parallelo le cose erano andate come sarebbero dovute andare.
“Tu
sei completamente matto!” esclamò Katie,
cercando di calmare le risate che l’avevano sconquassata fino
a poco fa. Diede un
morso alla ciambella che teneva in
mano e si buttò sopra ad una panchina. Owen si
accomodò accanto a lei,
spostandole una ciocca di capelli che le era caduta davanti agli occhi.
Avevano
deciso di uscire un po’, per trascorrere insieme quel paio di
ore che avevano
prima che lei se ne andasse. Anche se il ragazzo non sapeva quanto
buona fosse
stata quell’idea. Sarebbe decisamente stato arduo
separarsene.
“Lo
sai, non sei cambiato proprio per niente”, fece
lei, guardandolo dolcemente.
“E
ti dispiace?”
“No,
affatto”. La ragazza diede un altro morso alla
ciambella e si sistemò meglio, appoggiandosi al petto di
Owen. “Sono contenta
di averti rivisto, comunque. Anche se ora sarà
difficile… andare avanti”.
“Dobbiamo
farlo, però”.
“Non
è stato facile per niente. Mi dicevano tutti
che col tempo sarebbe tornato tutto come prima, ma non è
così. Sento sempre una
specie di… vuoto nel petto”.
Owen
le accarezzava i capelli, ricordando come si
era sentito lui dopo la morte di Katie. Gli sembrava che il mondo non
potesse
più andare avanti e che niente sarebbe più
tornato come prima. Invece, un
giorno era uscito di casa e fuori aveva visto che procedeva tutto come
doveva
procedere: le persone che camminavano frettolosamente, il sole che
tramontava e
sorgeva, i negozi che aprivano e chiudevano… e tutto quello
gli era sembrato
inaccettabile. Come potevano le cose essere normali, quando dentro di
lui era
tutto… morto?
“Hai
trovato qualcun altro?” le chiese, cercando di
mantenere il tono indifferente. Invece, sentiva che la risposta a
quella
domanda contava molto.
“Oh
no!” esclamò lei, voltandosi a guardarlo.
“Non…
non me la sento”.
“Fallo”,
le disse, giocando con una ciocca dei suoi
capelli biondi. “Devi andare avanti. Trovare qualcun
altro”.
Lei
sembrò guardarlo con una tristezza infinita.
“Solo se mi prometti che lo farai anche tu”.
Ianto
mise le mani sui fianchi di Lisa e la guardò
negli occhi.
“Sei
sicuro che non possiamo farlo?” chiese lei,
sbattendo le lunghe ciglia.
“Mi
dispiace, Lisa. Lo sai anche tu che è sbagliato.
I mondi paralleli…”.
“Sì,
sì, conosco bene la regola”.
Il
ragazzo ridacchiò vedendola alzare gli occhi al
cielo con fare frustrato, ma avrebbe di gran lunga preferito lasciarsi
andare
al pianto. Nei suoi occhi, invece, non vide neanche una lacrima celata.
Era
questo che gli piaceva di Lisa, non piangeva mai.
“Ci
eravamo promessi che noi non ci saremmo separati
mai, qualsiasi cosa fosse accaduta, che saremmo andati ovunque per
ritrovarci”.
Ianto
non seppe che rispondere. Lei sapeva come
farlo sentire bene in colpa. Si ricordava le loro promesse giovanili,
fatte un
po’ tra i discorsi scherzosi e un po’ tra quelli
scherzosi.
Allora l’avvicinò di più a
sé e la baciò, un bacio che aveva il sapore
dell’addio.
Lei ricambiò e chiuse gli occhi per lasciarsi completamente
andare.
“Siamo
pronti”, si sentì dire da Gwen.
I
due si staccarono e rimasero a guardarsi un altro
po’. “Ti amo, Ianto Jones”.
Lisa
si avvicinò a Franklin e Katie, già pronti in
posizione e un grande raggio luminoso li colpì. Gwen
lanciò dentro il portale
e, come nei film, i tre scomparvero, senza lasciare più
alcuna traccia, se non
il ricordo di ciò che erano stati.
Jack
si stese nel letto accanto a Ianto, che gli
dava le spalle, e lo circondò con un braccio, poggiando il
proprio petto contro
la sua schiena. il ragazzo non si mosse, ma il Capitano percepiva che
era
sveglio.
“La
ami ancora?” gli chiese.
Ianto
sospirò e si girò verso di lui.
“Lisa
è stata una parte importante della mia vita.
Con lei… lei mi ha aiutato nei momenti difficili”.
L’altro
abbassò lo sguardo. Non aveva risposto alla
sua domanda, ma aveva capito. L’amava ancora. Ma non sapeva
dire se la cosa gli
facesse male o no.
“Che
cosa intendeva quando ho detto che io non so
quello che ti ha fatto tuo padre?” gli chiese poi,
ricordandosi quella frase
della ragazza.
Il compagno però rimase muto, come se non sapesse bene che
dire. “Niente…
niente di che. Solo che… be’, sai che mio padre
era un po’ violento”.
Jack annuì e gli accarezzò i capelli, anche se
non del tutto convinto.
“Comunque,
Jack”. Ianto riportò lo sguardo su di
lui. “Lisa fa parte del passato. Adesso per me conti tu.
E’ te che amo”.
Il
Capitano lo spinse
verso di sé e gli baciò la fronte.
“Anche io ti amo”. Intanto il ragazzo
premette il viso contro il petto dell’uomo, cercando di
rilassarsi tra le sue
braccia. C’erano ancora tante di quelle cose non dette, tanti
segreti, tanti
scheletri nell’armadio. Purtroppo aveva perso
l’occasione di parlare con il
padre di Jack. Ma forse era anche meglio così.
Che importava, ormai?
Domani era un altro giorno, c’era ancora tanto tempo.
MILLY’S
SPACE
Salve
a tutti!
Speravo
di arrivare un po’ prima con questo capitolo, ma
è stato piuttosto difficile da scrivere. Tutt’ora
non saprei dire se ne sono
soddisfatta, ma lascerò a voi i commenti.
Vorrei
fare alcune piccole precisazioni, poi vi lascio in
pace: uno, non so come sia Lisa caratterialmente, voglio dire, non so
come
l’abbia immaginata Russel Davies, ma io la vedo come una tipa
tosta che non si
lascia mettere i piedi in testa facilmente. Anche un po’
scontrosa e vanitosa.
Due, non so quale sia il nome vero di Jack (avevo letto in
un’altra fanficton
che è Jax, ma non sono sicura), perciò ho cercato
di evitarlo. Forse la scena
tra lui e il padre sarebbe potuta essere fatta meglio, ma ditemi voi.
E,
ultima cosa poi me ne vado via sul serio, vi racconto
un aneddoto (anche se sicuramente non ve ne frega un schnitzel): un
giorno mia
mamma stava lavando i piatti, quando io dal bagno la sento urlare come
un’ossessa. Dice che c’è qualcosa nel
lavello e io immediatamente penso:
“Oddio! Uno Scarrol!” Così accorro in
cucina e scopro che era solo una
lucertola.
Va be’ -.-‘’
Adiòs,
Milly.
PUFFOLA_LILY:
Ianto
è un ragazzo fortunato, dici? Secondo me lo è
Jack ^^ ma vedrai, vedrai…
comunque sì, sono abbastanza teneri Ianto e Jack, anche se
cerco di non farli
troppo sdolcinati perché non è nel loro stile.
Sono contenta comunque che la
storia ti piaccia. Fatti risentire, un bacio. M.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo otto - Una serata... indimenticabile ***
CAPITOLO
OTTO – UNA SERATA… INDIMENTICABILE
Ho
già capito chi sei, che cosa cerchi tu da me
che cosa vuoi di più da me
tu vuoi quel graffio al cuore che anch’io fortemente vorrei.
(Fuoco nel fuoco, E. Ramazzotti)
La
ruota del Nucleo girò rumorosamente facendo
spostare la porta di lato e Gwen entrò dentro quasi
saltellando allegramente.
Sembrava essere parecchio di buon umore quella mattina, forse una buona
notizia
o una piacevole nottata con Rhys.
“Buongiorno,
ragazzi!” salutò in tono pimpante, ma
tutto ciò che ricevette in cambio furono dei borbottii o dei
grugniti. “Che
allegria! Siete sempre così gioiosi?”
“La
gioia è solo una effimera illusione di chi fugge
dalla realtà”, sospirò Owen,
concentrato a pulire i suoi attrezzi da lavoro e
non facendo per niente caso a Gwen.
“Ci
siamo dati al pessimismo Leopardiano, Owen?”
In
quel momento la porta dell’ufficio di Jack si
spalancò e ne uscirono Ianto e il Capitano.
Quest’ultimo aveva uno strano
sorrisetto sardonico dipinto sulle labbra, l’altro invece
scese le scalette
camminando a gambe larghe, una smorfia sulle labbra. Soltanto Gwen
parve però
accorgersene e a fatica trattenne una risata.
“Stamattina
ho incontrato Andy”, sbottò allora la
ragazza, sedendosi con un colpo di reni su un tavolino e accavallando
le gambe.
“Oh
adesso mi spiego il tuo buonumore”, la prese in
giro Owen, uscendo dal suo laboratorio. “Rhys non ti basta
più?”
Gwen
gli lanciò un’occhiata omicida.
“Idiota”,
soffiò in direzione dell’amico, ma nemmeno la sua
battuta le rovinò l’allegria.
“Comunque, stavo dicendo…”,
continuò allora, giocherellando con un cubo di
Rubik. “Il dipartimento di polizia di Cardiff organizza una
festa stasera e ci
ha invitati”.
“E
a cosa dobbiamo questo onore?” chiese ancora Owen
che quella mattina sembrava grondare acido da tutti i pori quella
mattina.
“Be’,
dopotutto contribuiamo a tenere in ordine
questo posto”, fu la risposta della ragazza che
guardò in direzione di Jack
ricevendo solo una scrollata di spalle. “Vi va di
venire?”
“A
una festa con degli sbirri sfigati?!” esclamò il
dottore con fare sconvolto. “Non ci penso proprio”.
Gwen
sbuffò, ma dopotutto non si aspettava certo che
Owen accettasse di buon grado. “Tu, Jack?”
Il
Capitano rimase un attimo a guardarla prima di
rispondere. “Lo sai che la polizia non mi piace”.
“Ma
anche io ero una poliziotta!”
Altra
scrollata di spalle da parte di Jack.
“Tosh?”
chiese questa volta la ex poliziotta,
guardando in direzione di Toshiko e sperando di ricevere una risposta
soddisfacente almeno da lei. Essendo anche lei una ragazza, contava
nella
complicità che correva tra ragazze.
“Le
feste non fanno per me”, le rispose invece la
giapponese, togliendosi gli occhiali da vista. E questa volta il
buonumore di
Gwen finì leggermente intaccato. “Immagino di non
poter contare neanche su di
te, Ianto”.
“Ho
portato il mio completo migliore in tintoria la
scorsa settimana”.
Certo,
che avesse portato il suo completo migliore
in tintoria ci stava, ma non credeva assolutamente che ne avesse solo
uno.
“Certo
che siete proprio deprimenti”, concluse alla
fine Gwen, scendo dal tavolo. “Pensate solo al lavoro.
Potreste divertirvi una
volta tanto”. Poi tirò fuori dalla tasca qualcosa
di rettangolare e lo buttò
sul tavolino. “Vi lascio qui i biglietti nel caso cambiaste
idea”. E abbandonò
la stanza a passo di marcia.
Ianto
chiuse la comunicazione con la pizzeria da cui
erano soliti ordinare il pranzo e poggiò il telefono sul
tavolo più vicino. Poi
vide i biglietti per la festa di polizia di quella sera e li prese in
mano,
osservandoli con attenzione.
“Però,
non mi sembra una cattiva idea andare alla
festa”, disse, dopo un po’. “Qui
c’è scritto che sarà servito un buffet
e che
ci sarà una pista da ballo”.
“Ancora
peggio. Non so ballare”, rispose Owen,
seduto su una sedia a rigirarsi i pollici. Era indeciso tra il tornare
a casa o
il restare lì. Non c’era molto da fare quel giorno
a Torchwood, la Fessura non
aveva mostrato segnali di alcun genere e non c’erano stati
avvistamenti di
alieni o altro. Stava perdendo tempo lì. Però
anche tornare a casa non avrebbe
cambiato molto.
“Non
devi ballare per forza”, gli fece notare Ianto.
“E’ dai tempi del liceo che non vado a una festa in
cui si balla”.
Jack,
allora, distolse gli occhi da dei documenti
che stava leggendo e li puntò sul compagno.
“Io
all’ultimo ballo del liceo ci sono andato con
una certa Jessica”, ricordò il dottore.
“Ma poi mi sono fatto la sua migliore
amica nei bagni della scuola”.
Ianto lo guardò con una strana espressione, ma non disse
niente. si limitò a
riporre i biglietti sul tavolo e a girare sui tacchi.
“Ianto!?”
lo chiamò il Capitano, buttandosi contro
lo schienale della sedia. “Vorresti andarci?”
“Intendi…
alla festa della polizia?”
“Sì”.
Il
ragazzo non seppe che cosa rispondere. Come mai
Jack gli faceva quella domanda? Forse era una domanda a trabocchetto o
qualcosa… alla fine, comunque, optò per la
verità. “Be’, non mi dispiacerebbe.
Ma non è così importante”. Poi si
allontanò per andare a prendere le pizze.
Durante
il pranzo, Owen si cimentò nel raccontare
altri episodi dei tempi in cui andava al liceo, senza tralasciare
niente,
nemmeno quante ragazze si era fatto. Solo Gwen e Tosh lo stavano
ascoltando, la
prima divertita e l’altra piuttosto infastidita.
Jack sembrava perso nei suoi pensieri, mentre Ianto era troppo
impegnato a
divorare la sua pizza.
“E
poi qualcuno aveva fatto uno scherzo a questa
ragazza piena di brufoli, dicendole che io avevo una cotta per
lei”, fece una
pausa per mangiare un boccone di pizza, poi continuò.
“e ha avuto il coraggio
di chiedermi di uscire. Credo che abbia passato un’intera
settimana a piangere,
quando ha capito cosa le avevano fatto”.
“Sei
proprio uno stronzo”, commentò Gwen cercando di
trattenere le risate.
“Sì,
lo ero. Ma da allora lei ha imparato a fidarsi
meno della gente”.
Il
dottore si zittì e nessun altro prese la parola.
Dopo un po’, però, Jack scorse lo sguardo sui suoi
compagni e assottigliò lo
sguardo, perplesso. “Ianto, hai intenzione di mangiarti anche
il cartone?” Tutti
gli sguardi si puntarono su Ianto che a
sua volta alzò gli occhi con un pezzo di crosta in mano.
Aveva mangiato tutta
la sua pizza in poco tempo, cosa che faceva raramente perché
l’avanzava quasi
sempre, e ora si stava divorando anche le briciole.
“No,
è solo che ho fame”.
Il
Capitano non parve del tutto convinto, ma scrollò
le spalle e decise di lasciar perdere.
“Spero
che tu non sia troppo pieno. Andiamo a caccia
di Weevil”.
“E’
da un quarto d’ora che camminiamo e ancora non
ce n’è traccia”, si lamentò
Ianto, puntando la torcia attorno a sé, sulle
pareti sporche e piene di muffa. Era
divertente cacciare i Weevil,
ma non
quando bisognava infilarsi nelle fognature. Poi doveva riempirsi di
profumo per
non puzzare di merda.
“Ne
troveremo uno, vedrai”, cercò di incoraggiarlo
Jack che apriva la strada camminando davanti, mentre l’altro
seguiva lo
svolazzo del suo lungo cappotto grigio.
“Certo.
Non vedono l’ora di…”.
“Shhh!”
lo zittì allora il Capitano, portando un
indice alle labbra e tendendo le orecchie in ascolto. Anche Ianto si
mise
sull’attenti e gli parve di udire, a pochi metri da loro, il
tipico ringhio
basso dei Weevil. “Mi sa che ce n’è uno
nei paraggi”, bisbigliò, appiattendosi
contro il muro. Poi prese a camminare, sempre strisciando contro la
parete,
finché non arrivò a una svolta nel cui mezzo
c’era proprio un Weevil intento ad
annusare qualcosa.
“Ehi!
Fermo là”.
L’alieno
si guardò attorno come in preda al panico,
cercando una via di fuga. Jack approfittò di quel momento
per saltargli
addosso. Cercò di dargli una scossa, ma quello lo
disarmò con una potente
manata e lo fece cadere a terra. Allora Jack lo prese per le gambe e lo
buttò
anche lui, salendogli a cavalcioni. Ma il Weevil non demordeva e si
difendeva
con tutte le sue forze. In poco tempo riuscì a mettere in
difficoltà il suo
assalitore e a invertire le posizioni. Proprio quando il Capitano si
prese un
pugno sulla mascella, Ianto afferrò il mostro per le spalle
e lo allontanò da
lui, lanciandolo contro il muro. Gli assestò un paio di
pugni facendolo
svenire.
Poi si voltò verso Jack e lo aiutò ad alzarsi.
“Bel
lavoro”, gli disse il Capitano sorridendo,
piegato in due per riprendere fiato.
“Tu
hai fatto il grosso del lavoro”, rispose Ianto,
avvicinandosi a lui e pulendogli con un dito il sangue che usciva da
una ferita
al labbro. Tanto in poco tempo sarebbe guarita. Jack gli prese il dito
sporco
in mano e leccò via il sangue in modo molto suadente, senza
mai interrompere il
contatto visivo col ragazzo che si sentì i brividi correre
lungo la schiena e
una piacevole sensazione nel basso ventre.
Cercò
di allontanarsi velocemente ma ciò gli causò
un leggero capogiro e gli parve che tutto il corridoio attorno a lui
avesse
preso a girare. Jack, accorgendosene, lo afferrò per le
spalle e lo guardò
preoccupato. “Stai bene?”
Ianto
alzò gli occhi stanchi su di lui. “Sì,
è stato
solo un attimo”.
“Sicuro?”
“Certo!
Sto bene”. Il ragazzo gli sorrise per
rassicurarlo e poi andò verso il Weevil svenuto. Jack non
fece altre domande
anche se era chiaro che Ianto non stava bene. Era da un po’
di giorni che
sembrava avere dei capogiri e rischiava di svenire. E poi gli si
leggeva nello
sguardo che qualcosa gli dava fastidio. Avrebbe dovuto insistere di
più, fare
qualcosa però…
“Forza!
Andiamo via”.
I
due uomini risalirono in superficie, Jack con il
Weevil buttato su una spalla e Ianto che questa volta apriva la strada.
Raggiunsero
il Suv in completo silenzio e posarono l’alieno nel
bagagliaio, legato come un
salame.
Poi si accomodarono anche loro, il Capitano al posto di guida e il suo
compagno
accanto a lui dal lato del passeggero. Stava per allacciare la cintura,
quando
il più vecchio gli prese una mano e, avvicinatosi, lo
baciò. Ianto, anche se
non se lo era aspettato minimamente, lo lasciò fare e
socchiuse la bocca per
fargli spazio. Dopotutto non era raro che Jack lo baciasse
così, senza alcun
motivo, come se una vocina nella sua testa glielo ordinasse. O come se,
dai
suoi baci, dipendesse la sua intera esistenza.
Ma non si fermarono lì. Jack riuscì a slacciargli
la cravatta senza che l’altro
nemmeno se ne accorgesse, Ianto la vide soltanto volare contro il
parabrezza.
Poi cominciò ad armeggiare coi bottoni della sua camicia,
scorrendogli la mano
fredda sul petto.
Poi si ritrovarono sdraiati sul sedile posteriore, senza neanche
ricordarsi di
come ci erano arrivati, Ianto sotto e Jack sopra di lui. Si baciavano,
si
accarezzavano, si godevano ogni centimetro dei loro corpi e poco
importava se
si trovassero in un parcheggio dove, anche se a quell’ora
poco affollato,
correvano il rischio di essere visti. Non tralasciavano nessun
preliminare, non
lo facevano da quando… be’, da quando si erano
messi insieme, ufficialmente.
Perché ora non si trattava più di semplice sesso,
non erano solo i loro corpi a
unirsi. Era… tutto.
Il
ragazzo si aggrappò con una mano ai capelli del
Capitano, mentre questi gli mordicchiava il collo, e premette il naso
contro la
sua spalla, assaporandone il profumo, quel profumo che possedeva
soltanto Jack,
quel profumo che non se ne andava nemmeno quando odorava di sudore o di
fognature. Ma lui non odorava mai di sudore o fognature, quel profumo
era
sempre lo stesso, inebriante, invadente, eccitante…
Si lasciò sfuggire un sospiro. Non avrebbe resistito ancora
a lungo. E Jack,
come se lo avesse capito, in poco tempo fu dentro di lui,
completamente, senza
lasciargli il tempo di prepararsi. Non lo faceva mai, lui era
così: veloce e
intenso.
Ianto cercò di tenere al minimo i gemiti. Accarezzava il
petto del Capitano mentre
questi si muoveva su e giù, delicatamente per non fargli
male.
Infine,
raggiunsero l’orgasmo nello stesso momento e
fu come… come aver trovato qualcosa che cercavano da tanto
tempo.
Jack si lasciò cadere sul compagno, una mano poggiata sulla
sua spalla e la
testa sul suo petto. “Ti amo, Ianto Jones”, gli
soffiò all’orecchio. Ianto
avrebbe tanto voluto piangere, piangere per la gioia, quella gioia
talmente
forte da essere addirittura opprimente, quella gioia che ti schiaccia
sotto il
suo peso.
Tutto
andava bene, ora. Era con Jack, in quell’auto,
c’erano soltanto loro due e tutto andava bene. Il loro mondo
era racchiuso lì
dentro.
Alla
fine ci erano andati a quella festa alla
centrale di polizia. Gwen ancora non aveva capito come avevano fatto a
cambiare
idea in così poco tempo, ma non era questo che contava. Non
sapeva perché, ma
nutriva grandi speranze per quella serata, come se qualcosa di speciale
sarebbe
dovuto avvenire.
La
verità era che Ianto aveva solo espresso un
piccolo desiderio di andarci e Jack, inspiegabilmente, aveva
acconsentito ad
accompagnarlo. Quel giorno il Capitano era stato particolarmente dolce
e
accondiscendente nei suoi confronti e, per quanto il ragazzo tentasse
di non
farci caso, non poteva fare a meno di pensare al perché e di
sentirsi anche
piuttosto contento.
Poi
aveva deciso di unirsi anche Toshiko, tanto per
conoscere altra gente, aveva detto. E infine si era convinto anche
Owen, ma
solo perché gli amici lo avevano provocato dicendogli che
era asociale e che si
vergognava.
E
così avevano varcato la porta della centrale sotto
gli occhi di tutti. In fondo, non accadeva tutti i giorni che il team
di
Torchwood si unisse alla gente comune. Tutti bene o male conoscevano
quell’organizzazione e l’aura di mistero che vi
alleggiava e c’era chi ne era
piuttosto attratto e chi preferiva invece non porre troppe domande. Ma,
quella
sera, più di qualche occhio cadde sui cinque personaggi che,
in qualche strano
modo, si presentavano diversi dagli altri, e non tanto per i vestiti o
per il
modo di parlare, quelli erano assolutamente normali, ma per gli sguardi
che
avevano, per le espressioni, il modo di porsi, di affrontare quella
determinata
situazione quotidiana. Stonavano in mezzo a tutti quei poliziotti in
borghese
con i loro rispettivi compagni. O forse erano gli altri a stonare.
“Allora,
Gwen, non mi presenti ai tuoi amici?”
chiese un ragazzo biondino e piuttosto magro, avvicinandosi a Gwen e ai
suoi
compagni di lavoro.
“Oh,
ciao, Andy. Loro sono Jack, Ianto, Toshiko e
Owen. Ragazzi, lui è Andy”, presentò
Gwen, contenta come una bimba il giorno di
Natale.
“E
così sei tu il famoso Andy!” esclamò
Jack,
esuberante come sempre, stringendo la mano al poliziotto.
“Famoso?”
“Certo.
Sentiamo tanto parlare di te”, continuò ad
infierire il Capitano, non badando affatto alle gomitate di Gwen.
“Davvero?”
Il povero Andy aveva un’espressione
proprio perplessa e incredula. Sembrava che questo fatto fosse per lui
piuttosto improbabile. “E che cosa si dice di me?”
“Andy!”
intervenne Gwen allora per non peggiorare la
situazione e lanciò un’occhiata omicida a Jack
dietro di lei. “Dov’è la tua
accompagnatrice? Perché non me la presenti?”
Il
ragazzo abbassò lo sguardo e si guardò i piedi
come imbarazzato. “Ecco io… veramente…
non sono venuto con nessuno”.
“Vuoi
dire che sei qui da solo?!” esclamò la
ragazza, esagerando l’espressione sconvolta. “Ma
come?”
Ogni
altra risposta o protesta venne interrotta in
quel momento dall’arrivo di Rhys che teneva in mano due
bicchieri di champagne.
“Ragazzi, volete anche voi qualcosa?” chiese,
più per essere educato che non
perché volesse veramente andare a prendere qualcosa agli
amici di sua moglie
che, doveva confessarlo, non gli andavano molto a genio.
“Sì,
vorrei uno di quei drink con l’oliva dentro, se
non ti dispiace”, rispose Jack, guardando Rhys con sguardo
quasi provocatorio.
A volte si divertiva a prenderlo in giro o a farlo esasperare. Ianto
alzò gli
occhi al cielo. “Te lo porto io”, si
offrì, più che altro per fuggire da tutta
quella pantomima.
Raggiunse
il tavolo del buffet destreggiandosi come
un equilibrista tra le varie persone, cercando di non scontrarsi con
nessuno, e
tirò un sospiro di sollievo. E, completamente dimentico
della bibita per Jack,
si mise a mangiare tutto quello che gli capitava a tiro.
Forse non era stata una buona idea venire lì,
pensò, mettendo in bocca un
pezzettino di formaggio. C’erano troppe persone, la stanza
era troppo affollata
e a lui non erano mai piaciuti i luoghi troppo affollati, come non gli
era mai
piaciuto stare in mezzo a tanta gente.
Si infilò in bocca due o tre noccioline. Ma che cosa aveva
sperato di ottenere?
Una serata piacevole e romantica con Jack?
Sospirò tra sé e sé addentando un
cetriolo.
“Ehi,
hai parecchia fame oggi”, sentì esclamare una
voce dietro di lui. Si voltò trovandosi davanti Tosh che gli
sorrideva
cordiale, come sempre.
Ianto
abbassò lo sguardo sul cetriolo che teneva in
mano. Non gli erano mai piaciuti i cetrioli, però quello era
buono. Poi si
accorse di aver finito anche tutto il piatto delle noccioline.
Forse doveva andarci piano col cibo.
Finì
di mangiare quel cetriolo e si allontanò senza
dire niente. Raggiunse di nuovo Jack, trovandolo circondato da un
gruppetto di
donne che lo guardavano affascinate e divertite mentre lo ascoltavano
raccontare
uno dei suoi aneddoti stravaganti. Ma probabilmente non capivano molto
di
quello che diceva, troppo impegnate a fare altro. Una si era
addirittura
slacciata il primo bottone della camicia.
A
Ianto venne voglia di trascinarlo via per un
orecchio. Non ci aveva messo molto a fare amicizia. Possibile che
riuscisse ad
attirare tutti quei sguardi in così poco tempo?
“Ne
hai ancora per molto?” gli chiese in tono
piuttosto acido e infastidito.
Jack
si voltò verso di lui e lo guardò con cipiglio
incuriosito. Poi appoggiò le mani sulle spalle di due donne
e, guardandole
provocante, sospirò: “Scusate, ma
c’è qualcun altro che richiama la mia
attenzione”. E, prendendo Ianto per la vita, lo
baciò sotto gli sguardi di
tutte quelle signore che rimasero piuttosto attonite e sconvolte.
Miriam
uscì dalla toilette e si avvicinò al
lavandino. Aprì il rubinetto dell’acqua
lasciandola scorrere sulle mani e nel
frattempo si dette un’occhiata allo specchio. La matita nera
sotto l’occhio
stava andando via, forse era meglio metterne ancora un po’. E
magari sistemare
il rossetto. Doveva ammettere che si stava piuttosto divertendo quella
sera.
Credeva che si sarebbe annoiata e che avrebbe dovuto sopportare battute
dal
pessimo gusto e donne che spettegolavano su ogni persona. E invece no,
gli
amici e i colleghi di David erano piuttosto simpatici.
Finì
di lavarsi le mani e strappò un po’ di carta
dall’aggeggio posto accanto al lavandino. Si
sistemò il trucco e si rassettò un
poco la gonna. Si voltò, pronta a tornare alla festa, quando
rimase paralizzata
sul posto nel vedere la figura che le stava in piedi davanti. Uno
strano essere
alto, magro, con uno smoking addosso, la testa ovale. Non aveva
né gli occhi né
la bocca, ma due lunghe corna in cima al capo su cui stavano due grosse
pupille
bianche.
Doveva essere una maschera, per forza.
“Chi… chi
sei?” chiese Miriam, con la bocca completamente secca per lo
spavento appena
preso. “Perché sei vestito
così?”
Ma
la creatura continuava a non rispondere. Se ne
stava lì in piedi a osservarla come se la volesse analizzare
per bene.
“Sei
venuto con qualcuno? Vuoi che…”,
continuò la
ragazza, correndo con lo sguardo alla porta. Forse se si muoveva
velocemente
riusciva a fuggire. Ma cosa mai poteva essere? Sicuramente un uomo con
la
maschera, ma perché conciarsi così? Voleva
uccidere qualcuno? Era un serial
killer? O semplicemente voleva divertirsi alle spalle di qualcuno con
un
orribile scherzo.
Mosse
un primo passo in laterale per fuggire via, ma
quel mostro, improvvisamente, allungò una mano e la
infilò dritta nel petto di
Miriam, squarciandola come fosse fatta di cartapesta. La ragazza non
fece in
tempo nemmeno a tirare un ultimo respiro che quello le estrasse il
cuore
staccandolo da tutti i suoi tubi e canali e se lo portò alla
bocca, addentandolo.
Miriam cadde a terra come una bambola rotta, il sangue che sgorgava dal
suo
petto e dalla bocca.
Il
capo del dipartimento era stato il primo ad
accorrere, attirato dalle grida della moglie che aveva trovato il
cadavere di
una ragazza riverso sul pavimento del bagno e grondante sangue.
Quando vide che cos’era successo, cercò di tenere
i curiosi il più lontano
possibile. Anche il team di Torchwood aveva raggiunto il luogo del
crimine,
entrando subito all’opera. Owen, approfittando della
confusione che si era
creata, ebbe qualche minuto per esaminare il corpo.
“Non
ha altre ferite oltre a questa sul petto. E
oltretutto il taglio non sembra essere stato fatto da un bisturi,
sembra più
uno squarcio, la pelle è strappata. E le hanno portato via
il cuore”. Alzò lo
sguardo su Jack, come attendendo istruzioni.
“Sappiamo
chi è la vittima?” chiese Toshiko.
“Si
chiama Miriam”, rispose Ianto, appoggiato allo
stipite della porta, completamente impassibile. ”Forse
è la fidanzata di quel
poliziotto biondo con la maglietta dei Rolling Stones”.
“David!
Oh no!” esclamò Gwen, portandosi le mani
alla bocca.
In
quel momento sopraggiunse anche Andy. “Allora, è
un caso per Torchwood?” chiese in tono sprezzante.
“Potrebbe
esserlo”.
“Non
fare la vaga con me, Gwen!” quasi gridò in
direzione della ex collega.
“Cosa
vuoi che ti dica, Andy! Ero giù con te, non so
cosa sia successo!”
Un
altro poliziotto, allora, ordinò anche a loro di
allontanarsi da lì per lasciare le prove il più
intatte possibile. Il capo era
già andato a cercare di calmare gli altri. Non aveva
intenzione di dire
dell’omicidio, tanto la notizia sarebbe trapelata in ogni
caso. Quelli che
avevano raggiunto il bagno avevano visto la scena, o quantomeno avevano
capito.
Si ipotizzava che l’assassino fosse ancora lì,
magari uno dei presenti o qualcuno
che si era infiltrato senza invito, perciò fino a nuovo
ordine sarebbero dovuti
rimanere tutti lì e non allontanarsi per nessun motivo.
La
polizia si stava già dando da fare interrogando i
presenti pur non contando di scoprire qualcosa. Anche Torchwood stava
facendo
la propria parte, a modo proprio. Owen e Ianto chiedevano agli invitati
se
avessero notato qualcosa di strano, studiando i loro volti per capire
se in
realtà qualcosa di strano era presente in loro, mentre Gwen,
Jack e Tosh erano
impegnati a guardare in giro.
La
giapponese era entrata in quello che pareva
essere un ufficio. Sicuramente ci lavoravano parecchi agenti, a
giudicare dalla
presenza di quattro scrivanie e del disordine che vi regnava. Rimase
qualche
secondo sulla soglia a guardarsi intorno. Poi si addentrò
tra i tavoli a
controllare, tanto per essere sicura che non ci fosse niente che non
andava.
Jack era convinto che si trattasse di un alieno, ma lei sperava che
fosse solo
un terribile serial killer. Almeno per una volta non sarebbe toccato a
Torchwood risolvere tutto.
Ad un tratto, però, i suoi tacchi inciamparono in una
sostanza appiccicaticcia,
come una chewing gum. La ragazza tornò sui suoi passi e
scoprì la suola sporca
di nero. Si inginocchiò a terra e osservò la roba
scura che macchiava il
pavimento. Sembrava uno strano liquido, come una piccola macchia di
petrolio.
Invece, quando lo toccò, scoprì che era solido,
anche se molle. Prese una
provetta dalla borsa e ne raccolse un po’. In seguito sarebbe
andata al suv per
inserirlo nel computer e controllare di cosa si trattava.
“Allora,
di cosa si tratta questa volta?” chiese
Rhys con uno strano sorrisetto divertito sulle labbra. “Un
alieno che mangia
cuori? Un vampiro?”
“Rhys!
Non esistono i vampiri!” gli ricordò Gwen in
tono quasi sconvolto. Non capiva che cosa ci fosse di così
divertente; una
ragazza era appena morta e c’era un alieno che minacciava
tutti loro. O forse
era un serial killer. Il che era peggio. O magari no.
“Questo
lo dici tu”.
La
ragazza sbuffò e richiuse violentemente
l’armadietto che aveva aperto. Quella ricerca si stava
prospettando
inconcludente. Che cosa speravano di trovare lì? Conosceva
quasi tutti i
poliziotti che lavoravano in quella centrale, non sospettava di nessuno
di
loro.
“Oh
mio Dio! Chi è che legge queste riviste?!”
esclamò ad un tratto suo marito, sfoggiandole davanti una
rivista con una
ragazza in bikini sulla copertina. “Scommetto che
è di Andy”.
“Rhys,
per favore, smettila. Non siamo qui per
ficcare il naso nelle cose degli altri”, lo
redarguì lei.
“A
me invece sembra proprio di sì”.
“Signore,
che ci fa qui?”
Jack
si bloccò in mezzo al corridoio e si voltò
verso l’uomo che l’aveva chiamato. Era il capo
della polizia e non sembrava
avere un’aria molto felice.
“Cercavo…
ehm… il bagno”. Sorrise affabilmente il Capitano
con l’espressione più
innocente possibile.
“Non
è su questo piano. E comunque nessuno le ha
dato il permesso di muoversi”.
L’altro
alzò gli occhi al cielo. Possibile che la
polizia dovesse essere così noiosa? E soprattutto,
perché doveva rispettare
tutte queste regole? Grazie al cielo Gwen non era così.
“Sì,
d’accordo”, rispose. “Vado”. E
fece il saluto
militare, senza smettere di sorridere. Almeno era riuscito a
controllare quel
piano. Per fortuna la centrale non era molto grande; contava in Gwen e
Tosh.
“Jack!”
Jack
si infilò in bocca una nocciolina, quando sentì
una voce trafelata chiamarlo da dietro le spalle. Si voltò,
incontrando la
figura di Toshiko che gli veniva incontro con il portatile in mano.
“Avevi
ragione. È un alieno!” quasi urlò la
ragazza,
ricordandosi all’ultimo momento di non parlare troppo forte
perché la sala da
ballo era piena di persone. Gli altri membri del Torchwood si
radunarono
attorno ai due. “Ho esaminato la sostanza che ho trovato e
guarda un po’ cos’è
uscito…”.
Il
Capitano lesse velocemente i dati al computer e
ad un tratto impallidì di colpo. “Non è
possibile”.
“Che
cosa?” chiese Ianto.
“Si
tratta di un Wheepul”.
“Un
che?!”
“Sono
tra le creature più letali che ci siano
nell’universo”.
“Li
hai già visti?”
“Sì,
ma credevo che non ce ne fossero più. Ti
strappano il cuore dal petto con le loro stesse mani. Non conoscono
emozioni né
niente, sanno solo cos’è la carne. Non puoi
scappare di fronte a loro, puoi solo
ucciderli o… morire”.
“Ti
strappano il cuore?!” esclamò Rhys sconvolto.
Pareva che avesse afferrato soltanto quello della spiegazione.
“Come sarebbe a
dire che ti strappano il cuore? E per cosa?”
“Per
mangiarselo”, rispose Jack come fosse la cosa
più ovvia del mondo.
“Ehi,
non sentite puzza di bruciato?” chiese ad un
tratto la voce di un giovane poliziotto, fermo al centro della stanza.
Ad
un tratto, come se quella fosse stata una parola
d’ordine, comparve di nuovo la stessa creatura che aveva
ucciso Miriam in
quella maniera brutale. Era identico, alto, con lo smoking, senza occhi
né
bocca, le corna in cima alla testa.
Qualcuno
urlò ma nessuno ebbe il coraggio di
muoversi.
“State
tutti fermi!” ordinò Jack gridando forte per
farsi udire da tutti. “Non muovetevi se volete
salvarvi”.
Ma
il poliziotto che aveva parlato prima, ignorando
completamente il suggerimento, cercò di filarsela via di
corsa, terrorizzato
come probabilmente non lo era mai stato in vita sua. Il Wheepul
però non gli
lasciò alcuno scampo: con un gesto quasi impercettibile, gli
infilò la mano nel
petto e gli estrasse il cuore.
Soltanto
allora si scatenò il panico più completo;
la gente cominciò a correre via spaventata, le donne
urlavano, qualcuno cercava
di riportare la calma, ma invano. Tutti si addossarono alle porte, le
quali
però parevano bloccate.
Il
Capitano, notando che il Wheepul era parecchio
confuso, estrasse la pistola e, con un colpo ben mirato, gli
sparò in testa,
spargendo ovunque il suo cervello. O quello che vi era contenuto.
“Be’,
direi che poteva andare peggio”, commentò
Gwen, alla fine della serata. Dopo quella brutta avventura con
l’alieno, i
partecipanti alla festa avevano deciso di tornarsene a casa e di
dimenticare
quell’esperienza. Due morti e un attacco alieno avevano tolto
a tutti la voglia
di festeggiare. Peccato però che fossero crollati tutti a
dormire prima di
poter raggiungere le proprie auto, colpa di un po’ di
champagne e qualche
pillola di Retcon.
“Avremo
mai una giornata normale?” chiese Tosh, già
indovinando la risposta.
“Sai
il lavoro che facciamo. La normalità ormai non
esiste più da noi”.
In
quel momento li raggiunse anche Ianto, sedendosi
accanto a Jack che lo guardò per qualche secondo e gli prese
la mano.
“Tutto
bene?” gli chiese, senza farsi udire dagli
altri.
“Sì,
sto bene”, rispose
il ragazzo. Non vedeva l’ora, però, di tornarsene
a casa e farsi una bella
dormita.
MILLY’S
SPACE
Buonasera,
bella gente! Non mi dilungo troppo perché sto
per uscire.
Vi
ricordo solo di andare a visitare la mia pagina
Facebook (Milly’s Space), ci trovate un sacco di cose carine,
e di lasciarmi
qualche recensione. Noto con dispiacere che sono diminuite. Spero
ciò non sia
dovuto al calo di interesse per questa storia, alla quale io tengo
molto. Se così
fosse ditemelo apertamente, accetto anche le critiche, lo sapete : )
Bacioni
e alla prossima.
M.
PUFFOLA_LILY:
io
comica?? Ahaha, semmai lo era mia mamma xD Non ti preoccupare, presto
si
scoprirà qualcosa del passato di Ianto e hai ragione, non
sarà affatto
piacevole. Io però vorrei sapere di più anche del
passato di Jack. Spero che
Davies faccia una serie anche su di lui ^^ io non saprei dove metterci
le mani,
sinceramente. Spero di risentirti, un bacio. Milly.
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Capitolo 10 *** Capitolo nove - La macchina dei ricordi ***
CAPITOLO
NOVE – LA MACCHINA DEI RICORDI
Basta
un fiore solo in mezzo a un mucchio di rifiuti,
basta il po’ di cielo che quel fumo lascia ancora vedere,
basta il bianco polo, un pellicano sopra spiagge nere…
(Ancora
vita, E.Ramazzotti)
Jack
diede una leggera spinta verso l’alto alla
porta del garage spalancando così l’uscio, dietro
al quale una distesa enorme
di oggetti accatastati sugli scaffali facevano bella mostra di
sé.
Tosh
piegò le labbra per dire qualcosa, ma nessun
suono uscì dalla sua bocca. Rimase semplicemente imbambolata
come un pesce
lesso di fronte a tutto quel caos. E pensare che adesso si sarebbero
dovuti
mettere a cercare un oggetto di cui non sapevano manco il colore le
faceva
risalire i succhi gastrici dallo stomaco.
“Sei
sicuro di non sapere come sia?” chiese a Jack,
in piedi accanto a lei.
“No,
mi spiace”, rispose lui, schioccando le labbra
e addentrandosi nello spazio angusto. Pareva rilassato come se il fatto
che
dovessero cercare un oggetto extraterrestre di cui non sapevano nulla
in mezzo
a un centinaio di altri oggetti non lo toccasse affatto. Ma lui era
così,
pareva che nulla lo disturbasse. Era sempre rilassato. O prendeva dei
psicofarmaci oppure era così di natura, unico nel suo
genere. Be’, dopotutto
era Jack e, visto che lavorava da tanti anni per Torchwood, doveva
esserci
abituato.
La
ragazza sospirò rassegnata e seguì Jack dentro il
garage. Che importava se quella mattina si era svegliata con la luna
storta e
avesse dovuto prendere due pastiglie contro il mal di pancia a causa
del ciclo!
Il lavoro non poteva aspettare.
Sperava solo che il tizio al quale apparteneva quel garage stesse via
abbastanza
a lungo per dare il tempo a loro di trovare quello che cercavano.
Fortuna che
avevano il radar con cui rintracciarlo, ma se non cercavano nei posti
giusti
nemmeno quello sarebbe stato tanto utile.
“Qui
non ci sono segnali. Prova ad andare più in
fondo”, disse all’amico, tenendo gli occhi fissi
sullo schermo del radar. Il
Capitano obbedì senza protestare e cominciò a
rovistare in mezzo a degli
scatoloni pieni di dischi in vinile.
“Questo
tipo sembra essere un collezionista di
oggetti vecchi ed inutili”, sbuffò
l’uomo, storcendo il naso di fronte a quella
che pareva essere una palla da basket sporca e completamente sgonfia.
“Potremmo
lasciargli un biglietto con dei
suggerimenti”, propose Tosh in tono scherzoso. “O
mettergli a posto
direttamente il garage”.
“Ah
no, io non lo faccio!” esclamò Jack, alzando le
mani e imitando una perfetta faccia sconvolta, facendo ridere la
ragazza.
I due continuarono, senza dirsi niente, a rovistare tra i vari
scatoloni, le
mensole, gli scaffali e oggetti vari, ma dopo un paio di minuti Toshiko
decise
che non le andava di stare in silenzio. “Allora…
tu e Ianto…”, cominciò, ma non
sapeva esattamente che cosa voleva dire. Forse non era un discorso di
cui gli
andava di parlare, ma sempre meglio che parlare del tempo.
“Io
e Ianto cosa?”
“Sì,
insomma… come va tra te e Ianto?”
Jack
assottigliò gli occhi in un’espressione
perplessa. “Bene. Perché me lo chiedi?”
La
ragazza si spostò una ciocca di capelli dietro
l’orecchio imbarazzata e girò gli occhi per la
stanza per evitare di guardare
il collega. “No, così… tanto per
parlare”.
“Be’,
se vuoi posso parlarti di quello che facciamo
a letto”, propose allora il Capitano, guardandola con un
sorriso sghembo.
Tosh
arrossì. “Oh no, no! Non serve!” si
affrettò a
rispondere e l’uomo ridacchiò divertito.
“E tu piuttosto? Hai conquistato
qualcuno?”
La
giapponese si morse il labbro. “No, nessuno. Non
è che abbia molto tempo per socializzare”.
Probabilmente il discorso sarebbe
continuato su quella direzione causando non pochi imbarazzi alla
ragazza, ma
all’improvviso il radar nelle mani di Toshiko emise un bip
molto forte, facendo
sobbalzare entrambi.
“Dovrebbe
essere qui. Prova a spostare qualcosa”.
Jack
prese in mano un vecchio cellulare con
l’antenna ma lo mise da parte vedendo che non era
l’oggetto incriminato. Lo
stesso fece con una bambola di pezzo a cui mancavano un occhi e un
braccio e
con un sonaglio per bambini. Finché non prese in mano una
vecchia macchina
fotografica e il radar parve impazzire.
“E’
quello! A quanto pare è un oggetto molto
potente”, constatò Tosh, spegnendo il radar.
“Sì,
dobbiamo stare attenti”.
“Posso
vederlo?”
Il
Capitano lo passò nelle mani dell’amica che se lo
rigirò tra le mani come per analizzarne bene la struttura.
Premette un pulsante
facendo aprire un piccolo sportello sul lato. “Guarda,
c’è ancora il rullino”.
Jack si sporse per vedere, ma tutto d’un tratto le pareti del
garage
scomparvero e la stanza si riempì di rumori di passi, di
persone che parlavano,
di auto che andavano sulla strada, di clacson e strepiti di ogni tipo.
I due alzarono lo sguardo sbigottiti e increduli. Ad un tratto
l’uomo spinse la
ragazza per farla salire sul marciapiede ed evitarle un bel
investimento da
parte di un ciclista che sfrecciava veloce quasi quanto un auto.
“Oh
mio Dio! Siamo in Giappone!” esclamò Tosh,
riconoscendo i palazzi, le strade e le scritte in giapponese.
Probabilmente
erano a Tokyo, considerando il traffico e le persone che camminavano
frettolosamente.
“Come
ci siamo finiti qua?” chiese Jack,
allontanandosi dal mezzo della strada e trascinandosi accanto ad un
muro pieno
di volantini.
“Forse
è stato questo”. Guardarono la macchina
fotografica con sguardo quasi spaventato. Poi la giapponese
spostò gli occhi
sull’amico e lo guardò con un misto di senso di
colpa e dispiacere. La sua
espressione non pareva molto contenta e ciò la
lasciò un po’ basita; quando
erano finiti nel periodo della seconda guerra mondiale lui ne pareva
quasi
felice, completamente a suo agio. Adesso invece sembrava
così spaesato.
“E
come ci torniamo a casa?”
“Non
sembra che siamo finiti in un altro tempo.
Forse ci ha solo spostati nello spazio, non nel tempo, quindi ci basta
prendere
un aereo se non capiamo come funziona”, rispose la ragazza,
come fosse la cosa
più ovvia del mondo.
Jack
si infilò le mani in tasca e si guardò attorno.
“O
forse…”, riprese Tosh, guardando qualcosa a
qualche metro di distanza da loro e che pareva aver attirato la sua
attenzione.
“O forse no”.
Tutto
ad un tratto la giapponese si mise a correre
verso qualcosa o qualcuno e Jack fu costretto a rincorrerla.
“Toshiko!” gridò,
ma lei non gli badò.
Raggiunsero
una bambina di sette o otto anni che stava
attraversando un portone massiccio di una palazzina e loro si
infilarono dietro
di lei, seguendola anche su per le scale.
“Toshiko!” chiamò di nuovo Jack,
aspettandosi che la bambina si fermasse o si girasse verso di loro, ma
lei
parve non averli nemmeno notati. Ma chi era? E perché Tosh
la stava inseguendo?
Si fecero cinque rampe di scale sempre dietro alle calcagna di quella
piccola
sconosciuta e, arrivati all’ultimo pianerottolo, la seguirono
pure dentro ad un
appartamento dal quale provenivano due voci che parlavano in modo
piuttosto
concitato.
La
bambina raggiunse le scale che conducevano al
piano superiore, ma non salì in cima; si fermò a
metà e si sedette sui gradini,
attenta a quello che le due persone si stavano dicendo in giapponese.
Anche Jack e Tosh si accoccolarono sull’ultimo gradino.
“Tosh,
si può sapere perché siamo arrivati fin
qui?”
La
ragazza non rispose subito, parve forse soppesare
le parole da dire. “Quella bambina sono io”,
sospirò infine, lasciando il
Capitano leggermente scioccato. “e questa è una
scena a cui ho assistito quando
avevo otto anni. A quanto pare siamo finiti indietro nel
tempo”.
L’uomo
avrebbe voluto chiederle qualcos’altro, ma le
voci dell’uomo e della donna, di certo i genitori della
bambina, fermi in mezzo
alla cucina, si erano fatte più alte e ora si stavano
decisamente gridando
addosso. Non capiva che cosa si stavano dicendo, ma sicuramente non
erano belle
cose. Doveva essere un brutto litigio.
Alzò lo sguardo verso la versione piccola di Toshiko e la
vide che si tappava
le orecchie per non sentire. Poi cercò di guardare quella
seduta accanto a lui,
ma gli stava troppo in basso e non riusciva a vederla bene in viso.
Tuttavia
non disse niente e restò a guardare.
A
un certo punto, l’uomo, preso sicuramente da un
impulso, alzò il braccio e colpì la moglie su una
guancia, facendole inclinare
la testa e lasciandole il segno delle cinque dita. Lei lo
guardò scioccata e
con le lacrime agli occhi. Anche la piccola Toshiko si era spaventata,
tanto
che scappò nella sua stanza, anche se rimase a sbirciare
dalla soglia.
Poi la donna giapponese prese a urlare qualcosa al marito completamente
fuori
di sé. Ma lui si limitò a voltarle le spalle, ad
afferrare la giacca e a uscire
fuori sbattendosi la porta di casa dietro le spalle.
Nella casa rimase soltanto il silenzio, interrotto dai singhiozzi della
donna.
Tutto
d’un tratto, la casa cominciò a vorticare
attorno ai due intrusi e davanti a loro si ricostruirono di nuovo le
pareti del
garage dal quale erano partiti, con tutti gli oggetti accatastati gli
uni sugli
altri.
I due restarono per qualche secondo in silenzio come a voler riprendere
fiato.
“Stai
bene, Tosh?” chiese Jack, aggrappandosi a un
piccolo banchetto dietro di lui.
“Sì”,
rispose la ragazza, cercando di asciugare le
lacrime che già da un po’ avevano preso a
scorrerle lungo le guance. “Sono
solo… sono solo… sorpresa. Tutto qui. Avevo
cercato di dimenticare
quell’episodio”.
“Non
serve che me lo racconti”.
Toshiko
sospirò; era una fortuna che Jack non si
impicciasse, non le andava di certo di raccontare come si era conclusa
l’ennesima litigata tra i suoi genitori. Suo padre, dopo
quell’episodio, era
tornato a casa solo dopo due settimane e soltanto per dire che voleva
il
divorzio. La bambina di otto anni che era stata un tempo ne era rimasta
parecchio traumatizzata e la ragazza di quasi trent’anni che
era adesso non era
ancora riuscita a superarlo.
“Forse
è meglio se andiamo”, concluse il Capitano,
dirigendosi verso l’uscita. La giapponese si
asciugò le ultime lacrime e cercò
di ridarsi un contegno.
“Tosh,
sicura di stare bene?” chiese di nuovo Jack
notando che la collega non lo stava seguendo.
“Sì,
sì”, si affrettò a rispondere. Poi
afferrò la
macchina fotografica, stando bene attenta a come la toccava, e
uscì alla luce
del sole.
Quando
i due rientrarono alla base trovarono già
tutti al lavoro.
Jack
scivolò dieto le spalle di Ianto che stava
pulendo una tazza nella piccola cucina improvvisata, e gli
poggiò le mani sui
fianchi. “Mi sei mancato”, mugolò. Il
più giovane sorrise; gli piacevano quelle
attenzioni da parte del Capitano. “Che ne dici se mi fai quel
tuo delizioso caffè
e mi raggiungi in ufficio?” L’uomo non attesa
la risposta, tanto sapeva che l’altro
avrebbe obbedito; si allontanò dal compagno e si
defilò nel suo ufficio.
“Ianto,
potresti mettere questo negli archivi?”
chiese Tosh, poggiando la macchina fotografica aliena che lei e Jack
avevano
trovato quella mattina. Non le andava più di toccarla. Non
ne capiva bene il
motivo, ma era ancora piuttosto scossa per l’episodio della
sua infanzia a cui
aveva dovuto assistere, di nuovo. Pensava di averlo superato e invece
non era
così. L’aveva semplicemente nascosto in una parte
recondita della sua mente e
non aveva più osato pensarci. E ora, rivedendo di nuovo
quella scena, ci stava
male.
Si sedette al computer e cercò di distrarsi col lavoro.
Dopotutto, lei faceva
sempre così.
“Ci
penso io, Ianto!” si intromise Owen, risalendo
di corsa i gradini del suo studio e raggiungendo il tavolino su cui
stava l’oggetto
extraterrestre, poi insieme a Gwen andò giù per
le scale.
Ianto
aveva finito di preparare il caffè, sia per
Jack che per Tosh. La ragazza lo ringraziò con un sorriso,
ben contenta di
quella bibita calda che sicuramente l’avrebbe rimessa un
po’ in sesto. Poi il
giovane andò verso l’ufficio di Jack ed
entrò quasi timidamente.
Il Capitano stava seduto alla sua scrivania, leggendo delle carte. Ma
non
appena vide l’altro entrare, alzò lo sguardo e gli
sorrise.
“Tutto
apposto?”
“Certo!”
Ianto gli passò la tazza e si sedette sulla
scrivania. “Tu? Com’è andata la ricerca
stamattina”.
“Abbastanza
bene. Ma abbiamo scoperto anche qual è
il suo potere”.
“E
cioè?”
“Credo
sia qualcosa come far rivivere dei ricordi
spiacevoli a chi lo tiene in mano”.
“Molto…
spiacevole”.
“Sì,
Tosh è stata costretta a rivedere un litigio
tra i suoi genitori”.
“L’avevo
vista un po’ scossa”.
Jack
allora si alzò dalla sedia e si avvicinò a
Ianto, cingendogli i fianchi con le braccia. “Ma non parliamo
di ricordi
spiacevoli ora”, sussurrò, a pochi centimetri di
distanza dalle sua bocca. Senza
lasciargli il tempo di dire nulla, si fiondò sulle labbra
del ragazzo e prese a
baciarlo con desiderio.
“Forse
non dovremmo. Qualcuno potrebbe entrare”, gli
fece notare Ianto, ma Jack continuò come nulla fosse,
slacciandogli la cravatta
e infilandogli una mano sotto la camicia.
“Secondo
te come funziona?” chiese Owen, appoggiato
su una libreria nella penombra della stanza degli archivi. Gwen
alzò lo sguardo
su di lui, scorgendo soltanto una parte del suo viso illuminata da una
fioca
lampadina dall’altra parte della stanza.
“Sinceramente
non mi va di saperlo”.
“Non
sei curiosa neanche un po’?”
La
ragazza si avvicinò a lui e puntò gli occhi sulla
macchina fotografica che l’amico teneva in mano.
“Prova a schiacciare qui”, gli
suggerì indicando un grosso bottone. Owen obbedì
e un piccolo sportellino si
aprì sul lato. “No, niente”.
Ma
prima che i due potessero fare qualsiasi altra
cosa, gli scaffali della stanza degli archivi scomparvero e si
rimodellarono
tutto attorno a loro delle pareti bianche piene di poster di gruppi
musicali e
ragazze in bikini.
“Owen!
Dove siamo?” chiese Gwen, spaventata. “Come
ci siamo finiti qua?”
“Non
ne ho la più pallida idea”, le rispose
l’amico,
guardandosi attorno con fare circospetto. Quel posto gli era molto
familiare,
così come quei poster e tutti quegli oggetti che
c’erano nella stanza. Soltanto
in quel momento si accorsero di un ragazzo seduto su un letto al centro
della
stanza. Doveva essere un adolescente. Era piuttosto attraente
dall’aspetto, ma
aveva un’aria da bad boy. Non pareva però aver
notato i due intrusi.
“Lui
non ci vede”, constatò Gwen. “Siamo come
fantasmi. Ma chi è?”
Owen,
resosi conto di quello che era appena
capitato, spalancò gli occhi e si sentì rizzare i
peli delle braccia. “Quello…
quello sono io”.
L’amica
lo guardò grave. “Che?”
“Siamo
tornati indietro nel tempo. Siamo nel mio
passato”.
Il
giovane Owen si tolse le cuffie del walkman dalle
orecchie e scese dal letto.
“Come
facciamo a tornare indietro?” chiese allora la
ragazza, rigirandosi di nuovo tra le mani quell’oggetto che
li aveva portati
fin lì.
“Non
ne ho idea”.
Videro
il ragazzo aprire la porta e Owen senior
decise di seguirlo. Arrivarono fino al piano terra, dove una donna
dall’aria
piuttosto trasandata era buttata sul divano con gli occhi chiusi e una
mano
sulla fronte. Nel salotto sembrava essere caduta una bomba:
c’erano bottiglie
di alcolici sparse ovunque, alcune mezze vuote altre vuote
completamente,
vestiti sparsi dappertutto, piatti e bicchieri impilati sul
tavolino…
La
donna sul divano non dormiva affatto perché si
accorse della presenza del ragazzo appena entrato.
“Owen!” esclamò con voce
roca. “Sei ancora qui? Che fai, perdi tempo come sempre?
Perché non ti trovi un
lavoro?”
Il
giovane Owen non disse nulla, si limitò a
raccogliere le stoviglie e a portarle in cucina. L’Owen
adulto, invece, rimase
a osservare la donna. Il suo alito odorante di alcool gli arrivava fin
lì,
benché fosse a qualche metro di distanza. Sua madre beveva
talmente tanto che a
volte si dimenticava persino del suo nome.
“Gwen,
trova un modo per andarcene”, ordinò alla
ragazza dietro di lui. Gwen cominciò ad armeggiare con la
macchina fotografica,
schiacciò tutti i bottoni, ma non successe nulla.
Owen
junior tornò di nuovo in salotto, fece per
prendere qualcos’altro, ma si vide volare una bottiglia di
vodka accanto al
viso e sfiorargli appena l’orecchio. Tuttavia non
reagì in alcuna maniera. L’altra
sua versione, invece, rimase paralizzata sul posto, i pugni stretti e
il
respiro che si faceva più frenetico.
“Portami
una bottiglia di birra”, gridò la madre.
“O
vattene a morire come tuo padre”.
Ma
il ragazzo non lo fece. Si avvicinò alla porta
d’ingresso,
afferrò la giacca e uscì, seguito dalle urla
della madre che si udivano fino in
cortile. L’altro Owen lo seguì e Gwen gli stette
dietro. “Perché lo stiamo
seguendo?” chiese.
“Non
lo so”, le rispose l’amico. Ed effettivamente
era vero, non sapeva perché lo stava seguendo. Era come se
una vocina nella sua
testa gli dicesse che doveva farlo, che era giusto così. Non
sapeva che cos’era,
ma non riusciva a resistere a questa sensazione.
Dopo
pochi metri, arrivarono ad un’altra porta. Owen
suonò il campanello e venne ad aprirgli una ragazza che
doveva avere più o meno
la sua età, molto graziosa anche se aveva gli occhi
leggermente gonfi,
probabilmente un residuo dell’essersi appena svegliata.
“Owen”,
disse semplicemente e si spostò per farlo
passare. Gwen e Owen adulto entrarono dietro all’adolescente.
“Vuoi sederti?” chiese
la ragazza. Indossava dei pantaloncini molto corti e una canottiera
aderente. Il
ragazzo si accomodò senza una parola. “Ti va
qualcosa?” gli chiese, aprendo il
frigorifero. Ma non ottenendo risposta, lo richiuse. Allora si sedette
di
fronte all’ospite e puntò gli occhi su di lui.
Questi però non la guardava,
teneva lo sguardo fisso a terra e aveva l’aria di una persona
incredibilmente
bisognosa di aiuto. “Tua madre ti ha lanciato di nuovo
addosso qualcosa?”
Solo
allora ci fu una reazione da parte del ragazzo,
man non quella che ci si sarebbe aspettati: si allungò verso
la ragazza e la
baciò con violenza, senza alcuna passione o desiderio. Lei
cercò di spingerlo
via, ma lui continuava a volerla baciare. Si aggrappò
persino alla sua
maglietta, cercando di togliergliela.
“Basta,
Owen!” gli gridò, riuscendo finalmente a
toglierselo di dosso. Lui si allontanò e rimase a guardarla
con sguardo vuoto. Lei
intanto cercò di rimettersi a posto, ma sanguinava da un
labbro, probabilmente
un ricordino dei denti del ragazzo.
“Mi
dispiace, Lucy”, sussurrò,
senza guardarla.
Lei
sospirò e si diresse al lavello per pulirsi il
sangue.
Gwen
e l’altro Owen, fermi sulla soglia della porta,
che erano rimasti a guardare la scena senza commentare, videro la
stanza
vorticare e tornare ad assumere le sembianze della stanza degli archivi
di
Torchwood.
La
ragazza mise giù l’oggetto e si voltò
in
direzione dell’amico. Questi stava tremando e aveva lo
sguardo vacuo fisso in
un punto di fronte a sé.
“Ne
vuoi parlare?” gli chiese, prendendogli una
mano.
“Non
c’è niente da dire”.
“Forse
ti farebbe bene…”.
“No!”
quasi gridò, puntando gli occhi su Gwen. Lei
indietreggiò
spaventata; quello sguardo era così pieno di odio, rabbia
repressa,
disperazione. Cercò però subito di calmarsi,
accorgendosi della reazione dell’amica.
“Scusami, Gwen… io… io sono
solo… scosso, tutto qui”.
“Sicuro?”
“Sì,
mi passerà”.
La
ragazza non cercò di indagare oltre, anche perché
sapeva che da un testardo come Owen non avrebbe ottenuto molto.
Così, si limitò a tornare di sopra, cercando di
dimenticare quell’episodio. Ma una
parte dell’odio e della rabbia che sentiva Owen la
condivideva anche lei. Dopotutto,
non era giusto che una madre trattasse il figlio così. Solo
ora capiva perché
Owen avesse certi comportamenti.
Nessuno dei due però si accorse di uno strano esserino che
aveva preso a
muoversi dentro all’obiettivo della macchina.
I
componenti del Torchwood decisero di andare a
pranzo insieme, ma né Toshiko né Owen parlarono
di quello che era successo.
Entrambi però parevano piuttosto assenti con la mente;
sicuramente le brutte
sensazioni che l’esperienza rivissuta aveva acceso in loro
continuavano a
tormentarli.
Quando
rientrarono al Nucleo, tentarono di
rimettersi al lavoro. Tosh notò un movimento anomalo della
Fessura e richiamò i
compagni perché lo esaminassero con lei sullo schermo del
computer.
Solo Ianto non si unì, attardandosi a mettere in ordine
qualcosa. Ma, passando
vicino alla scrivania, vide la macchinetta fotografica che Jack e
Toshiko
avevano portato quella mattina poggiata sopra.
Eppure era convinto che Owen e Gwen l’avessero messa a posto.
“Ragazzi,
che ne facciamo di questa?” chiese agli
altri, brandendo in mano l’oggetto.
“No,
mettilo giù”, gli gridò Jack,
osservando che il
ragazzo aveva un dito pericolosamente vicino al bottone maledetto.
Troppo
tardi, però: Ianto per sbaglio premette quel
pulsante e lo sportello a lato della fotocamera si aprì per
la terza volta. Il
Nucleo scomparve.
I
cinque membri di Torchwood al completo vennero di
nuovo catapultati in un vortice spazio-temporale che li fece finire,
questa
volta, in una strada deserta, nei pressi di un parco giochi piuttosto
malridotto. Le altalene erano staccate, la scala per salire sullo
scivolo era
priva di alcuni gradini e l’erba cresceva incolta. Un pallone
sgonfio e sporco
era abbandonato nel mezzo, insieme ad alcune bottiglie di birra.
“Ma
dove siamo?” chiese Tosh guardandosi intorno, ma
non c’era niente, né casa, né segnale o
cartellone pubblicitario che le facesse
capire dove potessero trovarsi. Solo quel parco isolato e il cielo
grigio sopra
di loro.
“A
Cardiff” le rispose Ianto, osservando qualcosa al
centro del parco. “Nella zona più povera della
città”.
“E
tu come lo sai?” gli chiese Owen che sembrava
star annusando l’aria con fare sospettoso.
“Guardate
là!” esclamò Gwen attirando
l’attenzione
di tutti. Stava indicando col dito una panchina nel parco,
l’unica panchina
integra, dove era sdraiato un ragazzo, adolescente a giudicare dai
lineamenti
del viso. Aveva capelli scuri e leggermente lunghi, indossava un paio
di jeans
strappati e una felpa grigia a cui aveva arrotolato le maniche.
Sembrava essere
piuttosto magro per quanto larghi gli stavano quei vestiti. Teneva gli
occhi
chiusi, come se dormisse, le labbra distorte in un broncio e tra le
dita
stringeva una sigaretta.
“Chi
è?” chiese Tosh incuriosita.
“Ha
un’aria familiare” le fece eco Owen.
“Sono
io”.
Tutti
si voltarono
verso Ianto con gli occhi sgranati. Tranne Jack che era rimasto
impassibile a
spostare lo sguardo dal Ianto adulto in piedi vicino a lui a quello
adolescente
sdraiato sulla panchina.
MILLY’S
SPACE
Ebbene,
spero vi sia piaciuto questo capitolo… ho deciso
di rivivere un po’ il passato di alcuni personaggi
perché da quello che ho
notato Davies rimane molto sul vago quando si tratta
dell’infanzia o dell’adolescenza
dei suoi personaggi, il che un po’ mi dispiace. Ma non mi
impedisce di crearmi
delle storie ^^.
Nel
prossimo capitolo assisteremo a quella di Ianto e vi
consiglio di prepararvi: sarà piuttosto traumatico.
Purtroppo ho dovuto dividere il capitolo in più di una parte
a causa della
lunghezza, spero non vi dispiaccia.
Lasciatemi
qualche recensione, mi raccomando e… ci
vediamo presto : )
HELLOSWAG:
sono contenta che ti piaccia. Fatti risentire, un bacio. M.
PUFFOLA_LILY:
dici che potrei? Mah, chissà… posso sempre
provarci. Dopotutto su Jack possiamo
sbizzarrirci. Ianto ha decisamente qualcosa che non va, ma
chissà cos’è?? ^^
non ti preoccupare, lo scoprirai presto. Ciau.
AMAYFOX91:
se
vuoi dirmi la tua teoria su quello che succederà puoi farlo,
non c’è problema :
) e se non vuoi farlo nella recensione, puoi scrivermi nella mia pagina
facebook https://www.facebook.com/MillysSpace
sarei
molto contenta di saperla : ) un bacione, Milly.
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Capitolo 11 *** Capitolo dieci - Tears ***
NELL’EPISODIO
PRECEDENTE DI “HUMAN LOVE… AND NOT”:
Jack e Toshiko hanno
trovato una macchina fotografica aliena in grado di trasportare
indietro nel
tempo le persone che le stanno a contatto, precisamente nel periodo
della loro
vita che più li ha scossi, costringendoli ad assistere, come
fantasmi, a
ricordi che hanno cercato di dimenticare.
Tosh ha rivissuto la propria triste infanzia segnata dalla brusca
separazione
dei genitori mentre Owen ha assistito ai maltrattamenti da parte della
perennemente ubriaca quando era adolescente. Ora tocca a
Ianto… chissà cosa lo
ha traumatizzato tanto…
N.B.
questo capitolo è piuttosto forte, ne sconsiglierei la
lettura ai minori di 15
anni.
CAPITOLO
DIECI – TEARS
Ero
una bandiera ferma, che aspettava il vento
come un sorso d’acqua pura che scorre in gola.
(Io prima
di te, E. Ramazzotti)
I
cinque membri di Torchwood al completo vennero di
nuovo catapultati in un vortice spazio-temporale che li fece finire,
questa
volta, in una strada deserta, nei pressi di un parco giochi piuttosto
malridotto. Le altalene erano staccate, la scala per salire sullo
scivolo
mancava di alcuni gradini e l’erba cresceva incolta. Un
pallone sgonfio e
sporco era abbandonato nel mezzo, insieme ad alcune bottiglie di birra.
“Ma
dove siamo?” chiese Tosh guardandosi intorno;
non c’era niente, né casa, né segnale o
cartellone pubblicitario che le facesse
capire dove potessero trovarsi. Solo quel parco isolato e il cielo
grigio sopra
di loro.
“A
Cardiff” le rispose Ianto, osservando qualcosa al
centro del parco. “Nella zona più povera della
città”.
“E
tu come lo sai?” gli chiese Owen che sembrava
star annusando l’aria con fare sospettoso.
“Guardate
là!” esclamò Gwen attirando
l’attenzione
di tutti. Stava indicando col dito una panchina nel parco,
l’unica panchina
integra, dove era sdraiato un ragazzo, adolescente a giudicare dai
lineamenti
del viso. Aveva capelli scuri e leggermente lunghi, indossava un paio
di jeans
strappati e una felpa grigia a cui aveva arrotolato le maniche.
Sembrava essere
piuttosto magro per quanto larghi gli stavano quei vestiti. Teneva gli
occhi
chiusi, come se dormisse, le labbra distorte in un broncio e tra le
dita
stringeva una sigaretta.
“Chi
è?” chiese Tosh incuriosita.
“Ha
un’aria familiare” le fece eco Owen.
“Sono
io”.
Tutti
si voltarono verso Ianto con gli occhi
sgranati. Tranne Jack che era rimasto impassibile a spostare lo sguardo
dal
Ianto adulto in piedi vicino a lui a quello adolescente sdraiato sulla
panchina.
“Cosa?!”
esclamò il dottore. “Non ci credo”.
L’altro
scrollò le spalle. “Libero di non
credermi”.
“Ma
se quello sei tu, allora… siamo nel tuo passato”
concluse Tosh, guardando di nuovo in direzione del ragazzo.
“A
quanto pare”.
Ianto
non cambiava mai atteggiamento, né
espressione. Rimaneva sempre impassibile, neutrale, posato…
eppure Jack in quel
momento riuscì a vedere un barlume di angoscia negli occhi
azzurri del ragazzo,
qualcosa che lo faceva terribilmente soffrire, qualcosa che
già in altri
momenti aveva notato ma che ora sembrava essere più forte.
Forse era arrivato
alla radice, forse adesso avrebbe potuto capire
perché…
“Certo
che avevi un’aria da ragazzaccio”
constatò
Owen.
Ianto
adolescente a quanto pareva non stava
dormendo. Aveva riaperto gli occhi al cielo nuvoloso e aveva tirato un
paio di
boccate dalla sigaretta.
“Eh
già” sospirò quello grande.
Jack
gli si avvicinò silenziosamente e intrecciò la
propria mano con quella del compagno. Ianto si voltò
sorpreso trovandosi i suoi
occhi a poca distanza che lo guardavano decisi ma pieni di affetto. E
il
ragazzo si sentì subito confortato, al sicuro.
Finché c’era Jack neanche i suoi ricordi potevano
fargli del male.
Ad
un tratto videro arrivare un altro ragazzo.
Doveva avere più o meno l’età del Ianto
steso sulla panchina ed era vestito
quasi allo stesso modo. Solo che aveva i capelli tagliati cortissimi e
una
cicatrice sul sopracciglio destro.
Si avvicinò al ragazzo nel parco, ma questi non sembrava
averlo notato o
sentito. O forse faceva finta. Il nuovo giunto perciò fu
costretto a dargli un
paio di colpi sul fianco per farsi notare. Soltanto a quel punto il
giovane
Ianto aprì gli occhi azzurri e guardò
l’altro con espressione indifferente.
Poi, con lentezza e calma, si tirò a sedere per fare posto
all’amico.
“Guarda
che ho trovato” gli disse questi, saltando
tutti i convenevoli. Tirò fuori dalla tasca un piccolo
sacchetto con della
polvere bianca all’interno. “Me l’ha data
Jimmy. Dice che è di ottima qualità”.
Ianto
sbuffò. “Spero che non ti sia costata troppo,
per quel che vale la parola di Jimmy”.
“Prova”
lo esortò l’altro. Prese un fazzoletto, ci
mise sopra la polvere, tirò fuori due cannucce e ne porse
una al ragazzo
accanto a lui.
I
due ragazzi si chinarono e si cacciarono un po’ di
quella roba nel naso. Subito si buttarono a terra, scoppiando a ridere.
“Aspetta,
aspetta” borbottò l’altro tra una risata
e
l’altra. “Jimmy ha detto che ci mette un
po’ a fare effetto. Non puoi essere
già partito”.
Ianto
tornò di nuovo serio e guardò in direzione
dell’amico.
“Voglio
fare una cosa” disse questi afferrando il
fazzoletto e cacciandosi in bocca tutta la polverina rimasta. Poi si
avvicinò a
Ianto e gli diede un bacio sulle labbra. Ianto gli accarezzò
una guancia,
mentre l’altro gli metteva una mano tra i capelli per trarlo
più vicino a sé.
Ianto
adulto, invece, sentì la stretta di Jack sulla
sua mano farsi più forte e tutto il suo corpo irrigidirsi
mentre osservava la
scena. A quanto pareva scoprire che c’erano stati altri
ragazzi che aveva
baciato con la stessa passione con cui baciava lui non gli faceva molto
piacere.
I
due ragazzi nel parco, nel frattempo, si erano separati
e ora si guardavano a vicenda negli occhi.
“Un
bacio alla cocaina? Wow!” esclamò Ianto, sempre
col suo tono indifferente. A quanto pareva quella era una
caratteristica che lo
accompagnava da sempre.
“L’ho
visto fare in un film. Figo, vero?” fece
l’altro, pulendosi le labbra con la manica della giacca.
“Sì,
figo”.
“Guarda,
ho un’altra cosa”, disse ancora l’amico
e,
da una tasca interna della giacca, tirò fuori una siringa
con un ago appuntito
e piena di una sostanza giallognola. La mise di fronte a Ianto
guardandolo
eccitato. “Allora, che ne dici?”
“Cos’è?”
“Una
bella dose di eroina”.
Ianto
rimase leggermente sbigottito e passò lo
sguardo dalla siringa all’amico.
“Te
la regalo. Ma solo perché sei mio amico”.
Il
ragazzo era ancora un po’ sbigottito, ma prese la
droga con molta cautela, come se fosse la cosa più preziosa
al mondo.
“Davvero
ti facevi di quella roba?” esclamò Owen,
spostando lo sguardo sul Ianto adulto vicino a lui. Come gli altri era
rimasto
a guardare tutta la scena scioccato, incredulo, stupito. Nessuno si
aspettava
che il calmo, gentile, pacato Ianto da ragazzino fosse
stato… be’, un drogato.
“E
non è tutto”. aggiunse l’interpellato.
Forse era
meglio prepararli, sicuramente non sarebbero usciti indifferenti da
quella
esperienza. E lui aveva come l’impressione che sarebbe durata
ancora molto.
Tornarono
a concentrarsi sui due ragazzi nel parco.
Ianto adolescente si era intascato la sua eroina, con tanto di commento
da
parte di Owen (“spero che almeno sia sterilizzato
quell’ago), mentre l’amico di
cui ancora non si era scoperto il nome si era alzato porgendo la mano
anche
all’altro.
“Andiamo
dagli altri. Ci stanno aspettando” gli
disse, spolverandosi i pantaloni.
“Ray?”
lo chiamò Ianto. L’altro, che si era
già
avviato, si voltò di nuovo inarcando un sopracciglio.
“Hmm?”
L’amico
sembrò ponderare su qualcosa, poi scrollò il
capo. “No, niente”.
Ray
ridacchiò. “Dai, andiamo”.
Ianto
lo raggiunse, accendendosi un’altra sigaretta.
I due si misero a camminare nella luce del tramonto.
Gli
altri cinque li seguirono senza fiatare. Jack
non aveva staccato la mano da quella di Ianto, ma questi sembrava non
avere il
coraggio di guardarlo. Teneva lo sguardo fisso sulla sua copia giovane.
Arrivarono
in un parcheggio, probabilmente sul retro
di un supermercato. I due adolescenti si avvicinarono ad un gruppetto
di altri
ragazzi, tutti più o meno della stessa età,
adolescenti ma dalle espressioni
per niente rassicuranti. C’era solo una ragazza tra di loro,
vestita di borchie
e pelle e piena di matita nera attorno agli occhi. Quasi tutti si
stavano
fumando una sigaretta e qualcuno stringeva delle bottiglie di birra in
mano.
“Ray,
Ianto!” li salutò uno di loro, con una bandana
in testa, battendo i pugni.
I
membri di Torchwood, intanto, si erano avvicinati,
rimanendo comunque a debita distanza, nonostante gli altri non
potessero
vederli.
“Dov’eravate
finiti?” chiese un altro, che indossava
un cappellino da baseball.
“Ho
dovuto recuperare questo qui nella Discarica”
ridacchiò Ray indicando Ianto.
“Discarica?”
gli fece eco Owen.
“Così
chiamavamo il parco. Ci lasciavamo tutta la
spazzatura”.
“Perché
vai sempre in quel posto sudicio?” a parlare
era stato di nuovo quello che li aveva salutati inizialmente. Sembrava
essere
il capo della banda.
“E’
tranquillo”.
“Io
odio la tranquillità. È
così… silenziosa,
pesante…” questa volta fu l’unica
ragazza presente a proferire quelle parole.
Sembrava essere la più cattiva del gruppo, tutta vestita e
truccata di nero,
con lo sguardo da dura.
“Taci,
nessuno ti ha chiesto la tua opinione, Betsy”
la rimbeccò il capo con tono severo. Lei si
zittì, ma lo guardò malissimo. “Ho
voglia di fare qualcosa” aggiunse poi, guardando gli altri
ragazzi.
“Andiamo
alla spiaggia” propose quello col
cappellino da baseball.
“E
a fare che? Raccogliere conchiglie?”
“Perché
non rubiamo in quel supermercato?” propose
allora un biondino, l’unico che fino a quel momento se
n’era rimasto in
silenzio.
Il
capobanda sorrise e lo guardò come se lo volesse
mangiare.
“Bravo,
Chris, allora vedo che il cervello ogni
tanto lo usi”.
Chris
lo guardò storto ma non disse niente. Finì
solo di fumarsi la sua sigaretta.
“Andiamo!”
li esortò allora l’altro. Ray, Betsy,
Chris e quello col cappellino da baseball si alzarono per seguirlo.
L’unico a
rimanere fermo e impassibile fu Ianto.
“Che
fai, Bambi, non vieni? Abbiamo bisogno delle
tue mani magiche”.
Ianto
sembrò esitare ancora un po’, ma alla fine si
decise a seguirli.
“Bambi?
Mani magiche?” commentò Owen, ridacchiando.
“Sta’
zitto!” gli intimò Ianto adulto, seguendo i
ragazzi, sempre attaccato a Jack, come fosse la sua ancora. E
probabilmente lo
era.
Arrivarono
davanti alla porta d’ingresso del
supermercato, sbarrata e chiusa con un lucchetto. Ma ciò non
sembrò
demoralizzare il gruppetto.
Si misero a cerchio attorno alla porta, lasciando Ianto nel mezzo.
Questi si
chinò a osservare la serratura.
“Betsy”,
disse poi.
La
ragazza, come obbedendo a un ordine muto, allungò
una mano tra i suoi capelli arruffati estraendone una forcina e
porgendola poi
all’amico. Sembrava che non fosse la prima volta che facevano
quella cosa,
erano troppo ben organizzati.
In
alcune mosse il giovane Ianto, con uno schiocco
secco, fece scattare la serratura. Tolse il lucchetto e la catena,
aprendo la
porta.
“Questo
è il paradiso”, commentò il capogruppo
con
un sorrisetto soddisfatto. “Arraffate tutto quello che
potete”.
I
ragazzi non se lo fecero ripetere due volte. Si
calarono i cappucci sul viso, per non essere visti dalle telecamere, ed
entrarono dentro. Prima di seguire gli amici, però, il boss
si avvicinò a Ianto
e gli sussurrò in tono malizioso: “Spero che tu ci
sappia fare altrettanto bene
anche con le cerniere”.
Il
ragazzo non disse niente, rimase impassibile,
osservandolo sparire dentro. Dopo di che si decise a raggiungerli.
“Cazzo,
eri anche un ladro!” esclamò Owen sempre
più
scioccato. A dire il vero erano tutti scioccati. Avevano già
visto il passato
più brutto degli altri, ma questo era quello che li stava
lasciando più
interdetti.
Dopo
pochi minuti i ragazzi uscirono, ciascuno con
la propria refurtiva. Ianto stringeva tra le mani solo una tavoletta di
cioccolato che aveva già scartato, il ragazzo col cappellino
da baseball invece
si era riempito di riviste con modelle nude in copertina.
“Andiamo
a nascondere questa roba. Ci possiamo
rivedere più tardi”.
Ciascuno
dei ragazzi se ne andò nella propria
direzione, solo Ray e Ianto si allontanarono insieme.
“Usala
solo se ti serve, quella siringa”, si
raccomandò il giovane coi capelli corti.
“L’ho pagata cara”.
“Certo”,
lo tranquillizzò l’amico, accendendosi
un’altra sigaretta.
Il
resto del tragitto lo fecero nel più completo
silenzio, seguiti dal Torchwood che rimase sempre dietro le loro
spalle. Quando
arrivarono davanti al cancelletto di una casa dal giardino disordinato
e
malcurato e i muri scrostati, si salutarono.
“Spero
che mio padre sia già a letto”, disse Ianto
prima che l’amico se ne andasse.
“Se
hai problemi non esitare a chiamarmi”.
L’altro
annuì. Poi cominciò a dirigersi verso la
porta d’ingresso con sguardo da condannato. Aprì
la porta il più
silenziosamente possibile e, in punta di piedi, andò verso
le scale prendendo a
salirle, tallonato sempre dai cinque. Era completamente buio nella casa
ed
effettivamente era parecchio tardi, se c’era qualcuno
probabilmente doveva già
essere andato a dormire.
“Oh
cazzo!” esclamò a quel punto Ianto adulto.
“Che
c’è?” chiese Gwen che non aveva mai
sentito
l’amico dire le parolacce.
“No…
non pensavo che… non ricordavo che fosse
successo quel… giorno”.
“Successo
cosa?” fece Jack che aveva intuito che
stava per succedere qualcosa di brutto. Ianto si girò verso
di lui guardandolo
con due occhi che sembravano implorargli aiuto. Ma Jack non aveva idea
di che
cosa fare.
“Che
cosa deve succedere?” insisté Owen. Anche lui
aveva una brutta sensazione.
“Ragazzi,
non avrei mai voluto che vedeste questa
scena”.
Di
nuovo il dottore fece per aprire bocca e chiedere
delucidazioni, ma una voce baritonale accanto a lui lo interruppe.
“Ianto?”
Ianto
giovane, giunto ormai quasi in cima agli
scalini, si bloccò e sembrò maledire tutti i
santi del paradiso.
“Papà”
disse, senza alcuna espressione.
“Ti
sembra questa l’ora di ritornare?”
Il
giovane non rispose subito. Spostò lo sguardo
nella direzione dove stavano i cinque, ma senza vederli. Poi
tornò a guardare
il padre.
“Hai
bevuto… di nuovo” concluse solo, anche se non
c’entrava
niente con la domanda fattagli dall’uomo. Probabilmente
voleva solo sviare il
discorso.
“Qui
le domande le faccio io, ragazzino!” gridò,
allora, l’uomo. “E vieni qui”.
Ianto
esitò, come prima al supermercato, ma poi
scese i gradini e raggiunse il padre. Questi gli diede uno schiaffo in
piano
volto, facendolo voltare per il contraccolpo.
Tosh
gridò per lo spavento e Ianto adulto strinse di
più la presa sulla mano di Jack, come se il dolore lo
potesse sentire lui.
“Tu
non mi devi mancare di rispetto, mi sono
spiegato?” gridò di nuovo l’uomo in
faccia al ragazzo. Era ubriaco, chiaramente
molto ubriaco e il figlio riusciva a sentirgli benissimo
l’alito che sapeva di
birra. Gli faceva venire la nausea. Il padre lo sbatté
contro il muro. “Quelli
come te vanno puniti, vanno presi a botte. Sei solo un finocchio di
merda”, e
gli diede un altro schiaffo.
“No”
bofonchiò Ianto adulto. “Non lo voglio…
non
voglio vederlo”.
Jack
lo strinse a sé cercando di farlo voltare, ma
l’altro non riusciva più a staccare gli occhi
dalla scena.
Ianto
giovane, sotto a quel nuovo schiaffo, cadde a
terra. Il padre gli diede un calcio nello stomaco mozzandogli il fiato,
tant’è
che non riuscì nemmeno ad urlare e la sua bocca si distorse
in una smorfia di
dolore. Poi l’uomo prese a slacciarsi le brache.
Gli altri credettero che volesse solo togliersi la cintura per
picchiare il
figlio e invece… aveva abbassato la cerniera, calatosi i
pantaloni e le mutande
esponendo il suo membro duro e turgido. Poi si abbassò verso
il figlio prendendo
a maneggiare coi suoi pantaloni.
I
cinque rimasero a guardare la scena con gli occhi
spalancati, colmi di disperato terrore e orrore. Non potevano crederci.
La
scena era davanti ai loro occhi eppure non potevano crederci.
Era… era
angosciante, terrificante… inaudito.
L’uomo
mise in bella vista il didietro del figlio e,
con un affondo secco, lo penetrò, senza neanche preoccuparsi
di non fargli
male. La cosa non gli importava, dopotutto.
Ianto gridò. Un urlo che si doveva essere sentito fino alla
fine della via, un
urlo lancinante. Eppure nessuno accorse a vedere che cosa stava
succedendo,
nessuno accorse ad aiutarlo.
Il ragazzo prese a dimenarsi sotto di lui, battere i pugni per terra
cercando
di sgusciare via, ma la prese del padre era troppo forte.
“Ti
prego… ti prego… ti prego…”
cominciò a
supplicarlo, col volto pieno di lacrime. “Mi stai…
facendo male… ti prego… ti
prego”.
Le
sue suppliche però sembrarono animare ancora di
più l’uomo che prese a spingersi dentro di lui con
ancora più forza, e perché
smettesse di fare rumore gli bloccò le braccia al pavimento
con le proprie
mani, tenendolo in una morsa d’acciaio. Il ragazzo non aveva
altra possibilità
se non lasciare che l’altro lo violentasse, pregando di
svenire per non sentire
più quel dolore.
“Ti
piace, eh, Finocchio? È questo che si meritano
quelli come te”.
“Ti
prego… basta… ti prego…” lo
supplicò ancora
Ianto, piangendo e urlando senza sosta, lo sguardo rivolto verso il
salotto dal
quale vedeva provenire la luce della tv accesa.
Anche
gli altri presenti nella casa desideravano
trovarsi ovunque tranne che in quella stanza, di fronte a quella scena.
Eppure ancora
non ne potevano uscire. Quanto ancora sarebbe durata quella tortura?
Tosh si era accucciata per terra in direzione della porta con le mani
sulle
orecchie per non dover sentire le suppliche e le grida del ragazzo e i
gemiti
di piacere del suo aggressore, il viso rigato di lacrime e il corpo
scosso dai
singhiozzi. Anche Owen e Gwen si erano voltati, lui con le braccia
appoggiate
al muro e il sudore che gli colava sulla fronte e lei col viso nascosto
sulla
sua spalla, a trattenere il pianto.
L’unico che aveva abbastanza sangue freddo per guardare era
Jack che non si era
mosso di un millimetro, le labbra strette in un’espressione
dura e Ianto tra le
braccia gli piangeva contro la spalla.
“Jack,
fallo smettere… ti scongiuro, fallo
smettere”.
Il
Capitano si sentì stringere il cuore. Che cosa
poteva fare? Per l’ennesima volta si sentiva impotente e
stava di nuovo
permettendo che qualcuno facesse del male al suo Ianto. Non poteva
nemmeno
avventarsi contro quell’uomo e prenderlo a pugni fino alla
morte.
Finalmente,
dopo un ultima spinta da parte dell’uomo
e un altro grido mezzo strozzato da parte del ragazzo, la violenza si
concluse.
Il padre si staccò dal corpo del figlio e, senza fare
né dire niente, si
allontanò con espressione beata, contento del suo orgasmo e
il membro ancora
penzolante.
Ianto
adolescente, invece, rimase lì, steso a terra
e coi pantaloni ancora abbassati, piccoli singhiozzi scuotevano il suo
corpo
magro e gracile.
Voltò lo sguardo pieno di lacrime in direzione di Jack e al
Capitano, per una
frazione di secondo, parve che lo avesse visto. Si specchiò
in quelle pozze azzurre
e piene di dolore trovandovi il suo Ianto, quello che in quel momento
stava
stringendo tra le braccia. Erano identici, gli occhi erano identici,
stesso
taglio, stessa grandezza, stesso colore… e stesso dolore.
Adesso capiva, adesso
capiva molte cose, cose che prima aveva dato per scontato, a cui non
aveva
fatto caso. E si diede mentalmente dello stupido. Come aveva potuto
essere così
superficiale?
Dopo
un po’ anche il giovane Ianto cominciò ad
alzarsi da quel freddo e sudicio pavimento. Dapprima cercò
di mettersi a
quattro zampe ma una scossa di dolore lo colpì nella zona
del fondoschiena
facendolo quasi cadere di nuovo a terra. Trattenne a stento un grido.
Il ragazzo però non mollò e riuscì a
mettersi in ginocchio, lasciando sgorgare
una lacrima ad ogni movimento. Si tirò su i pantaloni e, con
non poca fatica,
riuscì in qualche modo ad alzarsi in piedi. Evidentemente
aveva paura che il
padre tornasse di nuovo e che lo violentasse ancora o chissà
cos’altro.
Anche
gli altri, notando che era calato il silenzio,
si erano voltati per vedere che cosa stava succedendo. Il ragazzo aveva
cominciato a salire le scale dovendosi reggere con tutte e due le mani
sul
corrimano e un paio di volte rischiò di cadere.
Jack
era stato il primo a seguirlo, esortando gli
altri e trascinandosi dietro un Ianto ancora in lacrime che gli si era
aggrappato alla schiena.
Finalmente
Ianto adolescente riuscì a raggiungere la
sua stanza. I cinque di Torchwood entrarono dentro rapidamente prima
che il
ragazzo sbattesse la porta dietro di sé con un calcio. Quel
gesto però gli fece
perdere il già precario equilibrio e così
rovinò di nuovo a terra cadendo su un
fianco. Un singhiozzo gli scappò dalle labbra.
Gattonò verso l’armadio e ne tirò fuori
un borsone vuoto nel quale cominciò ad
infilare vestiti alla rinfusa che tirava fuori dai vari cassetti, e
altri
oggetti che trovava in giro, apparentemente a caso. E tutto questo
senza dire
niente, senza proferire fiato, se non gemiti di dolore.
Infine infilò la mano sotto il materasso e ne estrasse fuori
un coltello dalla
lama ben appuntita.
Il
gruppetto che era lì impallidì a quella vista
pensando a che cosa avrebbe potuto farci. Ma poi, quando lo videro
metterlo in
una tasca della valigia, tirarono un sospiro di sollievo.
Dopo
aver fatto quell’operazione, Ianto salì sul
letto e prese il cellulare. Digitò alcuni numeri ma prima di
schiacciare il
tasto di chiamata rimase a fissare il muro di fronte a lui, con il
poster di
Star Trek.
Ci ripensò e lo ripose via. Si tastò le tasche e
tirò fuori la siringa di
eroina che Ray gli aveva dato poco prima.
Accese la lampadina sul comodino, afferrò un laccio che
trovò li vicino e se lo
legò sul braccio sinistro, poco sopra il gomito. Questa
volta non c’erano
ripensamenti. Distese l’arto e, con un solo colpo,
affondò l’ago dentro la
vena. Se gli fece male non lo diede a vedere. Iniettò tutta
la stanza spingendo
lo stantuffo e, immediatamente, il suo viso assunse
un’espressione rilassata. Quando
ebbe finito buttò tutto quanto a terra, senza neanche
disinfettare, mentre una
macchiolina di sangue si faceva largo lì dove si era bucato.
Infine si buttò sul letto e chiuse gli occhi, aspettando che
il sonno lo
cogliesse.
Jack,
Gwen, Owen, Tosh
e Ianto adulto vennero di nuovo risucchiati nel vortice e scomparvero.
Si
ritrovarono a Torchwood, nella loro base, così familiare e
così calda.
MILLY’S
SPACE
Ebbene,
questa volta non ci ho messo tanto : ) dopotutto
avevo il capitolo già pronto… che ne dite? Lo so,
lo so, ho esagerato molto le
cose. Nel telefilm non si dice che Ianto si drogasse né che
era stato
violentato dal padre, per quanto questi fosse violento, ma la mia vena
sadica
non ha resistito. Spero abbiate apprezzato lo stesso, sentitevi liberi
di dirmi
quello che pensate.
Nel
prossimo capitolo, che dovrebbe essere la terza e l’ultima
parte, vedremo che cos’è successo in seguito e
come ha fatto Ianto a superarlo.
Spero
ci sarete.
Baci : )
Milly.
HELLOWSWAG:
be’,
non ci ho messo molto… contenta : ) fammi sapere che ne
pensi. Un bacio.
|
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Capitolo 12 *** Capitolo undici - Radici aliene ***
CAPITOLO
UNDICI – RADICI
ALIENE
“Una
lacrima sospesa
che non voleva scendere,
un sorriso a denti stretti, questo prima di te,
prima di te…”
(Prima di
te, E.
Ramazzotti)
“Credevo…
credevo di averne viste tante, di cose
sconvolgenti, ma questa… questa le supera tutte”
esordì Owen, appoggiandosi con
le braccia al tavolo davanti a lui. Era sconvolto, parecchio sconvolto,
e
pallido. Erano tutti pallidi e sconvolti e Tosh aveva ancora il viso
bagnato di
lacrime.
Jack
circondò Ianto per i fianchi con un braccio e
lo accompagnò al divano facendolo sedere e accomodandosi poi
accanto a lui. Il
più giovane appoggiò la testa sul petto
dell’altro, mentre il Capitano prendeva
ad accarezzargli i capelli sulla fronte nel tentativo di farlo calmare.
“Tranquillo,
sta’ tranquillo. È tutto ok adesso” gli
sussurrò, poggiandogli un bacio tra i capelli.
Tutta
la base sprofondò nel più totale silenzio,
nessuno osava fiatare. Solo il ronzio dei computer e degli altri
macchinari
rompeva quella tranquillità.
Finalmente,
dopo qualche minuto, Ianto sembrò
essersi calmato, aveva smesso di piangere e singhiozzare e anche gli
altri
avevano recuperato un po’ di colore.
Gwen
raggiunse i due fidanzati e si sedette accanto
a loro. Poco dopo si avvicinarono anche Owen e Tosh. Volevano dire
qualcosa a
Ianto, rassicurarlo, confortarlo, ma non trovavano parole. Che cosa si
poteva
dire in quei casi? Mi dispiace? Ti
capisco? Sì, certo, come no. A quanti era capitato
di venire violentati dal
proprio padre?
“Mi…
mi dispiace, ragazzi” proferì Ianto,
improvvisamente, senza guardare nessuno, rimanendo sempre abbracciato a
Jack.
“Non volevo… non volevo che assisteste a quella
scena”.
“Oh
no!” esclamò Tosh. “Non è
certo colpa tua…” fece
per dire qualcos’altro, ma alla fine rimase a boccheggiare
come un pesce fuor
d’acqua. Aveva paura di dire qualcosa di troppo o di
sbagliato.
“Ianto?”
lo chiamò Gwen dolcemente, prendendogli una
mano. “Che cos’hai fatto dopo? Lo hai detto a
qualcuno? Lo hai denunciato?”
sapeva che con quelle domande avrebbe potuto risvegliare altri ricordi
brutti
nella mente dell’amico, eppure aveva bisogno di sapere,
doveva sapere come si
erano risolte le cose infine, come aveva fatto il ragazzo a superare
tutto
quello. E anche gli altri volevano saperlo.
Ianto
scosse il capo lentamente. “No, non l’ho detto
a nessuno” sussurrò. “Non l’ho
denunciato, non ne avevo il coraggio. E poi…
anche se l’avessi fatto, lui avrebbe… avrebbe
negato tutto e nessuno mi avrebbe
creduto. Non godevo di buona fama e avrebbero pensato che mi fossi
inventato
tutto”.
Gli
altri si guardarono tra di loro con espressioni
sconvolte.
“E
allora che cos’hai fatto?” insisté Owen,
riportando lo sguardo sull’amico.
Ianto
deglutì prima di ricominciare a raccontare. Si
vedeva benissimo che tentava di non piangere. “Sono andato
via di casa. Dopo
quella sera mi sono alzato all’alba, ho preso la valigia e
sono uscito senza
dire niente a mio padre. Bobby, il ragazzo con la bandana che avete
visto,
aveva una specie di rifugio in una casa abbandonata. Lui viveva
lì, dopo che i
suoi l’hanno cacciato e ogni tanto ci ritrovavamo insieme ad
altri, anche più
grandi. Sono stato lì per alcuni mesi”. Fece una
pausa, come per cercare di
ricordare quella vita che sembrava appartenere a una persona totalmente
diversa
e non a quel ragazzo pacato che conoscevano tutti. “Stavo
male, tutte le notti
avevo degli incubi… tremendi. Però non volevo
parlarne con nessuno, neanche con
Ray che era il mio migliore amico… mi vergognavo troppo.
C’era
la droga, però… c’era solo
quella. Mi ha aiutato, nell’unico modo in cui la droga poteva
aiutarmi:
confondendomi il cervello e i ricordi. Quasi tutte le sere qualcuno
veniva con
della roba nascosta nei pantaloni. Coca, marijuana, hashish,
eroina… e alla
fine ero talmente fatto che non mi ricordavo neanche il mio nome.
Solo che
poi me ne pentivo perché
sapevo che mi stavo facendo male. Allora cercavo di vomitarla. Poi
però stavo
di nuovo male e ne prendevo ancora. Era un tunnel senza via
d’uscita, non
riuscivo più a controllarlo.
Una sera
ci eravamo fatti tutti
quanti, alla grande… io mi ero addormentato tra le braccia
di Ray, non ricordo
perché, e la mattina dopo l’ho ritrovato accanto a
me freddo e morto. Era andato
in overdose, credo.
Betsy
era rimasta sconvolta, lei era
sempre stata innamorata di Ray, e si era spaventata. Aveva paura che
succedesse
anche a lei. Così aveva deciso di smettere e aveva convinto
anche me. Io
all’inizio non volevo… desideravo solo morire,
come Ray. Almeno quella situazione sarebbe finita. Però lei
era stata
testarda”.
Jack
alzò lo sguardo verso il soffitto ringraziando
mentalmente Betsy.
Ianto
continuò, nessuno osava interromperlo. “Era
stato difficile, molto difficile. Stavamo per ricascarci, arrenderci.
Però,
alla fine, ci siamo riusciti. Abbiamo mollato la droga, le rapine nei
negozi e
anche la compagnia di Bobby. Volevamo rifarci una nuova vita.
Così,
quando eravamo abbastanza
puliti, lei decise di andarsene da Londra, non le piaceva
più stare lì, e io mi
trovai un lavoretto per poter vivere decentemente per conto mio.
Però
avevo ancora il ricordo di quello
che mi aveva fatto mio padre e gli incubi mi tormentavano”.
“Come
hai fatto a superarlo?” gli chiese Gwen.
“Lisa”
rispose Ianto. “L’ho conosciuta un giorno,
per caso. Le raccontai tutto, tutto quanto. Mi ha aiutato lei, mi ha
regalato i
momenti più belli della mia vita. Così sono
riuscito a non pensarci più. E mi
ha fatto entrare a Torchwood”.
Gwen,
Owen e Tosh lo guardarono dispiaciuti. Jack lo
strinse più forte a sé.
“E
tuo padre? Hai saputo più niente di lui?” chiese
Tosh.
Ianto
scosse il capo. “Non l’ho più cercato e
nemmeno lui l’ha fatto. Un paio di anni fa è
morto, solo come un cane”,
l’ultima frase la disse in tono duro, pieno di odio e
disprezzo, un tono che i
suoi compagni non l’avevano mai sentito usare.
“Posso
chiederti quanti anni avevi quando… sì,
quando è successo?”
“Diciassette”.
Gli
altri spalancarono gli occhi.
Sei anni… erano passati solo sei anni da tutta quella
vicenda.
Ad
un tratto Ianto si staccò dall’abbraccio di Jack
e, senza guardare nessuno, bofonchiò un: “Scusate,
devo andare in bagno” e si
alzò allontanandosi velocemente, forse per non dover
rispondere ad altre
domande, forse per non vedere più le facce sconvolte e piene
di pena dei suoi
amici o per non dover più sentire il cuore di Jack battere
fortissimo nel petto
e tutto il suo corpo che tremava di rabbia, dolore o chissà
cosa.
“Ragazzi!”
esclamò Owen ad un tratto, alzandosi.
“Non so come abbia fatto Ianto, ma io probabilmente mi sarei
già ucciso. Cazzo!
Non ha nemmeno usato il preservativo e Dio solo sa come abbia fatto a
non
prendersi l’HIV con tutti quegli aghi”.
“Io
credo che non mi sarei nemmeno rialzata da quel
pavimento”, aggiunse Tosh.
Anche
Gwen si alzò, dando le spalle agli amici. “Non
credevo… non credevo che gli potesse essere capitata una
cosa del genere. Non
credevo che a qualcuno che conosco possa essere successo qualcosa del
genere”.
Owen
le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla.
La ragazza gliela accarezzò voltando il capo nella sua
direzione.
“Jack!”
esclamò Toshiko. “Tu… tu che cosa ne
pensi?”
Il
capitano inarcò le sopracciglia.
“Tu
lo sapevi?” aggiunse Gwen, aspettandosi una risposta
affermativa.
L’interpellato
esitò un attimo prima di rispondere,
fissando gli amici come se non li vedesse. Poi scosse il capo in un
cenno di
diniego.
“No.
Non me lo ha mai raccontato”.
Nessuno
però, dalla sua espressione, riusciva a
capire che cosa provasse.
Ianto,
nascosto dietro una porta, li guardava e li
ascoltava. Non pensava che nella sua vita gli sarebbe capitato di
rivivere
quell’episodio che ormai aveva accantonato in un angolo
remoto dei suoi ricordi
e tantomeno si sarebbe potuto immaginare che anche i suoi amici,
nonché i suoi
colleghi di lavoro potessero venire a scoprirlo, persino vederlo. E la
cosa non
gli piaceva per niente. Non tanto per il fatto che ciò li
aveva lasciati
sconvolti, ma più perché ora sapeva che le cose
sarebbero cambiate, ora lo
avrebbero guardato con occhi diversi, forse trattato in modo diverso.
Era come
un terribile segreto che ora era venuto fuori, di fronte agli occhi di
tutti. E
faceva male pure a lui, di nuovo quel dolore, quella sofferenza che
pensava di aver
spento erano ritornati in lui, forti. Persino quella corazza di
distaccata
gentilezza e serenità sentiva che stava per cedere.
Che cosa sarebbe successo poi? Quanto ciò lo avrebbe
danneggiato? Perché era
sicuro che lo avrebbe danneggiato, profondamente. Già ora
sentiva una crepa
dentro di sé.
Lanciò
un’occhiata a Jack… Jack, la sua ancora dopo
Lisa. Lui avrebbe potuto aiutarlo nel caso fosse ricascato di nuovo in
quel
baratro? E che cosa aveva provato lui vedendo quella scena? Era rimasto
sconvolto come gli altri? Forse per lui, che aveva vissuto tanti
secoli,
viaggiato in mondi diversi, visto cose aldilà del mondo,
questo non era niente.
Torchwood
si era messo di nuovo all’opera.
Se c’era qualcosa che avevano imparato da tutte le esperienze
che avevano avuto
era non lasciarsi abbattere né distrarre da niente. Avevano
un lavoro, un
compito importante da svolgere e non potevano distrarsi, dovevano
tenere gli
occhi puntati solo su quello e tutto il resto, i fatti personali, le
emozioni,
persino i sentimenti in taluni casi dovevano essere lasciati fuori.
Anche se non sempre era facile.
Tosh
si era messa di nuovo ai suoi computer, a
digitare bottoni, fissare lo schermo attraverso i suoi occhiali da
vista,
concentrata come sempre, Owen stava nel suo studio personale, a pulire
i suoi
attrezzi da lavoro e Gwen era seduta sul divano a guardare il
cellulare,
probabilmente scambiandosi messaggi con Rhys.
Jack, come al solito, era rinchiuso nel suo ufficio.
Tutto
come al solito, apparentemente. Eppure era
diverso. L’aria che si respirava e l’atmosfera
erano diversi. C’erano ansia,
inquietudine, la tensione si poteva tagliare con un coltello. E tutto
giaceva
nel silenzio, un silenzio spaventoso, si poteva quasi dire. Di solito
Owen
parlava ad alta voce quando faceva qualcosa, si faceva domande da solo
e poi si
rispondeva, faceva battute, scherzava, prendeva in giro. E Tosh correva
sempre
di qua e di là per la stanza cercando oggetti, carte,
matite. Nemmeno Gwen
stava mai zitta, rispondeva alle prese in giro di Owen, scambiava
quattro
parole con Toshiko.
Adesso, invece no. Sembrava che avessero perso tutti quanti
l’uso della parola.
E non sembravano molto concentrati sul lavoro, sembrava essere solo un
buon
modo per distrarsi, tutto qui.
Ianto
si sedette sulle scale, dove nessuno lo
avrebbe notato. Almeno sperava. Avrebbe tanto voluto avere qualcosa da
fare per
distrarsi, per non pensare… e poi… e poi sentiva
tanto la necessità di un
abbraccio, un abbraccio forte, sicuro, che gli dicesse che tutto
sarebbe andato
bene.
Forse Jack… guardò nella direzione del suo
ufficio. Ma non aveva così tanta
voglia di andare da lui, non con quello stato d’animo.
Non
dovette starci a rimuginare molto. Fu Jack a
venire da lui. O meglio, spalancò la porta
dell’ufficio, facendogli fare un
balzo sul posto, e si appoggiò con le mani sulla ringhiera
guardando in basso,
dove stava Toshiko.
“Tosh!”
la chiamò. “Hai individuato segnali
alieni?”
“No,
è tutto piatto” rispose lei col suo solito tono
vivace. “La macchina fotografica è
immobile”.
Jack
allora si voltò in direzione di Ianto e lo
guardò con i suoi penetranti occhi chiari, come a volerlo
sondare fin dentro
l’anima. Poi gli regalò uno dei suoi soliti
sorrisi sghembi per i quali Ianto
impazziva sempre. Ma non in quel caso, il che faceva capire quanto a
terra
fosse il suo stato d’animo. E non solo quello.
“Mi
prepari uno dei tuoi caffè?” gli chiese col tono
più gentile possibile.
“Certo”,
fece l’altro, contento di avere finalmente
qualcosa da fare.
Scese
giù rapidamente e si posizionò alla
macchinetta del caffè, sentendosi gli sguardi degli altri
addosso, ma fece
finta di niente.
Rimase
a osservare come il caffè bollente e fumante
scendeva nella tazza. Aveva un colore stupendo secondo lui, quel
marrone
chiaro, quasi caramello. Per non parlare poi dell’odore:
tiepido, inebriante…
rassicurante.
Rassicurante.
Rassicurante.
Come
le braccia di Jack.
Pensa
alle braccia di Jack, Ianto, pensa alle braccia di Jack.
Si imponeva di pensare. Ma era tutto vano.
Le
sue grida, gli insulti di suo padre, il suo cazzo
dentro di lui, il dolore, le lacrime… tutto gli
tornò di nuovo fuori in un
colpo solo.
Allora respirò profondamente e cercò di
concentrarsi sulle voci degli altri che
ora avevano preso a discutere di qualcosa. Ma non funzionò
nemmeno quello, la
voce di suo padre che gli urlava “Finocchio di
merda” continuava ad
echeggiargli nelle orecchie.
“Tu
che ne pensi, Ianto?” sentì chiedere la voce di
Gwen, ma sembrava provenire da molto lontano.
“Ianto?” ripeté quando questi non
rispose. Il ragazzo era rimasto a fissare un punto imprecisato di
fronte a sé,
il respiro leggermente accelerato.
“Ianto”.
Si
sentì sfiorare una spalla e per poco non balzò in
aria. Voltandosi, incontrò gli occhi di Jack che lo
guardavano preoccupati.
“Stai bene?” gli chiese questi.
Ianto
annuì leggermente cercando di tornare a
concentrarsi su quello che stava succedendo attorno.
“Ci
stavamo chiedendo che potere potesse avere
l’oggetto alieno, se è pericoloso. Tu cosa ne
pensi?”
“Non
lo so”, sussurrò il ragazzo, senza guardare
nessuno dei compagni.
Allora
Jack riprese in mano la situazione assumendo
l’atteggiamento da Capitano e ordinò a tutti di
mettersi al lavoro e provare ad
analizzare la macchina fotografica. Infine disse a Ianto di venire nel
suo
ufficio. Quando questi entrò, chiuse la porta dietro di
sé con uno sguardo
parecchio afflitto.
“Che
cosa vuoi?”
“Voglio
che parliamo”, rispose il Capitano in tono
perentorio, sedendosi dietro la sua scrivania.
“E
di cosa?”
“Di
mele e banane”.
Solo
allora il ragazzo alzò lo sguardo verso il
compagno per guardarlo confuso.
“Voglio
che parliamo di quello che ti è successo”.
Ianto
si avvicinò a lui e si sedette sulla
scrivania. “Perché?”
“Perché
tu non l’hai affatto superato, hai solo
cercato di non pensarci. Devi parlarne con qualcuno”.
“Non
voglio”.
In
quel momento gli ricordava tanto un bambino
capriccioso e a Jack veniva un po’ da ridere. Si
alzò dalla sedia e poggiò le
mani sui fianchi del ragazzo. “Perché non
l’hai detto a tua sorella? Ti avrebbe
aiutato”.
L’altro
sospirò. “Perché…
perché non volevo, lei
aveva la sua vita e non poteva preoccuparsi di me. E poi ci vedevamo
poco,
non…”. Una lacrima gli scese lungo la guancia e il
Capitano si affrettò ad
asciugarla col pollice. Stava per aggiungere qualcosa, quando
all’improvviso
venne interrotto dall’urlo di Tosh.
I
due si precipitarono immediatamente fuori dalla
porta e quello che videro li lasciò paralizzati per qualche
secondo: l’intera
base era stata ricoperta di una strana pianta rampicante e piena di
spine, come
quelle delle rose, solo molto, molto più grosse e appuntite.
Era andata ad
annodarsi attorno alle ringhiere, alle scale e agli oggetti.
Gwen era schiacciata in un angolo, gli occhi pieni di paura puntati
contro
quelle strane radici, mentre di Owen non c’era traccia. Tosh
invece era stata
catturata dalla pianta che le si era attorcigliata su un piede. La
ragazza cercava
di districarsi, tenendosi con le mani avvinghiata alle gambe della
sedia.
Jack
corse subito ad aiutarla, seguito da Ianto.
“Dammi
la mano, Tosh!” le gridò il Capitano. La
ragazza afferrò la sua mano e cercò di tirare
fuori il piede, ma più lei tirava
più quella pianta si stringeva attorno a lei e ora le era
già arrivata a metà
coscia.
Allora Ianto tirò fuori la sua pistola e, tolta la sicura,
la puntò contro la
radice che teneva imprigionata l’amica e sparò
qualche colpo. Quella si
ritrasse subito e Tosh ne approfittò per spostarsi. Ma
immediatamente un’altra
radice spuntò da quella che Ianto aveva colpito.
“Andiamo
via da qui!”
“Owen,
dove sei?”
“Quaggiù!”
La
testa di Owen spuntò da sopra le radici e la si
vide spostarsi verso l’uscita. Si fermò
però a dare una mano a Gwen. Quando
tutti e cinque si furono ritrovati insieme, si diressero subito
all’uscita richiudendo
la ruota dietro di sé. Non si fermarono finché
non uscirono in strada.
“Che
diamine era quello?” chiese Owen, fermandosi in
mezzo alla strada per riprendere fiato.
“Non
lo so. Ma credo sia uscito dalla macchina
fotografica”, rispose Gwen.
“Dove
andiamo adesso? Il Nucleo è inaccessibile”.
“Possiamo
andare nel mio appartamento”, propose
Ianto. “E li decidiamo che fare”.
In
poco tempo i membri del Torchwood raggiunsero
l’appartamento di Ianto e lui li fece accomodare attorno al
tavolo, offrendo da
bere. Voleva tenersi occupato per non pensare.
“Allora,
che facciamo?” chiese Gwen. “Qualcuno sa
cos’è quella maledetta roba?”
“Ho
dei libri di botanica, se a qualcuno va di dare
un’occhiata”, propose Ianto in tono ironico.
“Non
credo si parli di piante rampicanti aliene”,
rispose Tosh. “Ma secondo voi sono anche carnivore”.
“Non
ne ho idea e preferisco non saperlo”.
“Dobbiamo
trovare un modo per liberarcene”, sbottò
Owen, fissando intensamente il suo bicchiere.
“Tu
che proponi?” fece Gwen.
“Il
fuoco!”
Tutti
gli sguardi si spostarono su Jack. Ianto fermò
il suo andare avanti e indietro per la cucina.
“Come,
scusa?”
“Di
solito le piante si distruggono con il fuoco,
specialmente quelle rampicanti. Insomma, non possiamo certo estirparla
dal
terreno”, spiegò lui.
“Ma
non possiamo bruciare il Nucleo”, fece notare
Ianto.
“Riflettiamo:
quella pianta è cresciuta dopo che tre
di noi l’hanno toccata e sono stati catapultati nei loro
ricordi peggiori.
Probabilmente si nutre della paura o del dolore che abbiamo provato in
quei
momenti, non solo dei nostri, ma anche di quelli che abbiamo provato
vedendo i
ricordi degli altri”. Il suo sguardo si spostò su
Ianto. “E finché noi avremo
in mene quei ricordi, quella pianta crescerà
ancora”.
“Ne
sei sicuro?”
“Sì”.
Calò
qualche attimo di silenzio in cui ciascuno
rimase immerso nelle proprie elucubrazioni.
“Io
non… io non riesco a smettere di pensare a
quello che ho visto”, concluse Gwen, evitando lo sguardo
degli altri.
“Nemmeno
io”, aggiunse Tosh.
“Dovete
svuotare la mente, chiudetela. Non pensate a
niente”.
Ianto
chiuse gli occhi e provò a fare come Jack
aveva detto, ma gli riusciva difficile.
“Come
facciamo a ucciderla?”
“Ho
un piano”.
Jack,
Gwen, Owen, Ianto e Tosh tornarono di nuovo
alla base, armati di lanciafiamme e qualche estintore. Parcheggiarono
il Suv al
solito posto e si diressero decisi alla baia.
“Allora,
siete pronti?” chiese Jack voltandosi verso
i suoi amici. Loro annuirono. Dopotutto, non si poteva fare molto
altro.
“Ianto?”
chiamò il Capitano, avvicinandosi al più
giovane. “Sei sicuro? Puoi anche restare fuori”.
“No,
vengo con voi”.
“Guarda
che…”.
“Lo
so, Jack. Ma voglio venire con voi”.
Era
contento che Jack si preoccupasse per lui, ma
non era un bambino e doveva affrontare le sue paure, soprattutto
questa. Una
volta per tutte.
“Mi
raccomando, niente paura e niente ripensamenti.
E speriamo che funzioni”.
Fecero
girare la porta del Nucleo e si accorsero che
i rampicanti erano ormai arrivati quasi all’uscita. Jack
afferrò il
lanciafiamme e lanciò un getto di fiamme contro le radici.
Lasciarono che
bruciasse un po’, poi Owen spense le fiamme spruzzandoci
sopra la schiuma bianca
dell’estintore. A quanto pareva il piano funzionava
perché le radici si stavano
ritraendo e non ricrescevano più.
Intanto, Gwen, Tosh e Ianto cercavano di tagliare la pianta per creare
più
spazio e permettere il passaggio.
A
un tratto, però, Gwen, che era rimasta indietro,
venne afferrata da una radice che le si attorcigliò attorno
al braccio.
Ma rimase bloccata lì sul posto; le immagini che aveva visto
nei ricordi di
Owen e Ianto le tornarono alla mente prepotenti. L’odio di
Owen verso una madre
che non sopportava nemmeno la vista del figlio e il dolore e le lacrime
di
Ianto, ferito dal suo stesso padre. Sentì le lacrime
affiorarle sul bordo degli
occhi.
Improvvisamente,
come era apparso, tutto scomparve e
la sua mente tornò di nuovo al presnete.
“Tutto
bene?” le chiese Ianto che, con il coltello,
l’aveva liberata dalla pianta aliena.
Lei
annuì e continuò col lavoro.
Allora era vero che si nutrivano del loro
dolore.
In
poco tempo riuscirono a disintegrare tutte le
radici, giungendo fino alla loro radice, ovvero la macchina fotografica
di
quella mattina. Decisero di bruciare anche quella, tanto per non
correre più
rischi.
Non erano riusciti ad evitare però che il fuoco rovinasse
qualcosa, anche se
non c’erano stati danni troppo elevati.
Purtroppo,
però, quella maledetta pianta aveva
lasciato ovunque una sostanza violacea e appiccicaticcia e
così dovettero
passare gran parte del tempo e lavarla via.
“Direi
che per oggi abbiamo fatto un buon lavoro”,
concluse Gwen quando ebbero finito.
“In
fondo non è stata così pericolosa. Forse non era
nemmeno carnivora”.
“No,
le piace semplicemente afferrare le persone”.
“Ho
tanta voglia di tornare a casa a mangiarmi un
bel piatto di pasta e farmi massaggiare i piedi da Rhys”,
esalò Gwen,
buttandosi sul divano.
“Beata
te che hai qualcuno da cui tornare”, disse
Tosh.
“Lo
avrai anche tu, non ti preoccupare”.
Ianto,
nel frattempo, si era allontanato dagli altri
per raggiungere Jack nel suo ufficio. Il Capitano si stava infilando il
cappotto.
“Torniamo
a casa?” gli chiese. Il ragazzo annuì con
aria stanca.
Quando
Jack tornò in camera trovò Ianto seduto a
gambe incrociate sul letto e lo sguardo perso nel vuoto con gli occhi
che
fissavano un punto indefinito delle lenzuola bianche.
Gli si sedette accanto, cercando di fare il più piano
possibile, e gli prese
una mano.
“Come
stai?”
“Bene”,
rispose l’altro anche se non sembrava molto
convinto.
“A
me puoi dire la verità?”
“Stavo
solo pensando…”. Ianto tirò un sospiro
e
puntò gli occhi azzurri in quelli chiari di Jack.
“A quello che ti ha fatto tuo
padre?” chiese il Capitano.
“Anche”.
“Era
a questo che si riferiva Lisa quando ha detto
che io non sapevo cosa ti avesse fatto tuo padre?” Era
già da un po’ che se lo
domandava, aveva continuato a rimuginarci da quella volta che Lisa era
tornata
dal mondo parallelo ma non era riuscito a farsi un’idea.
Sapeva che il padre di
Ianto non era stato un grande esempio di padre e che più di
una volta aveva
maltrattato il figlio, ma non avrebbe mai immaginato che lo avesse
anche
violentato. Di solito non si intrometteva negli affari degli altri, non
lo
interessava e non lo riguardava, però adesso si trattava di
Ianto, del suo
ragazzo, e aveva il diritto di sapere che cosa lo turbava, i suoi
segreti più
dolorosi.
“Sì”,
rispose il ragazzo debolmente. “Avrei dovuto
dirtelo, ma…”.
“Ehi,
ehi!” cercò di calmarlo l’uomo.
“Sta’
tranquillo. Non è certo una cosa facile da dire, lo so e io
non pretendo che mi
racconti tutti i dettagli. Però dovresti parlarne con
qualcuno, almeno con tua
sorella”.
Ianto,
a quelle parole, girò lo sguardo facendo
intendere che non gli andava di affrontare quel discorso.
“Se
tuo padre fosse vivo ti accompagnerei alla
polizia per denunciarlo e lui la pagherebbe. E tua sorella ha il
diritto di
saperlo”.
“Non
lo so, Jack”.
“Non
serve a niente fare finta che non sia successo”,
questa volta la voce del Capitano si era fatta più dura.
“Tu hai solo messo da
parte questo ricordo in un angolo del cervello e hai cercato di non
pensarci,
ma non funziona così”.
“E
che vorresti fare? Mandarmi da uno
strizzacervelli?” sbottò il ragazzo, allora, in
tono provocatorio.
“Non
ti manderò da nessuna parte se tu non lo vuoi. Puoi
parlarne con me, se vuoi, quando te la sentirai. Ho visto le medicine
che tieni
in bagno”.
Ianto
voltò improvvisamente il capo verso Jack e lo
guardò leggermente sbigottito.
“Le
prendo quando non riesco a dormire. Se dormo da
solo ho gli incubi e, credimi, sono terribili. A volte cerco di restare
sveglio
per non farli”.
Il
Capitano gli mostrò un sorriso dolce per
rassicurarlo. “Ci sono io qui con te ora e non dovrai
più dormire da solo. E se
avrai paura potrai stringerti a me”. L’ultima frase
la disse in un tono che
fece scoppiare a ridere il povero Ianto che alla fine buttò
le braccia attorno
al collo di Jack che lo strinse in un forte abbraccio.
“Che
ne dici se andiamo a dormire?” gli sussurrò
all’orecchio.
“Ok”.
Quando
si infilarono
sotto le coperte, Ianto poggiò la testa sulla spalla di Jack
usandola come
cuscino e con una mano prese ad accarezzargli il petto, mentre il Capitano lo strinse a
sé, poggiandogli una
mano sulla schiena.
E quella fu la prima notte, da quando vivevano insieme, in cui non
fecero
sesso. Semplicemente si addormentarono, ascoltando il rumore della
pioggia che
già da un paio d’ore aveva preso a battere sui
tetti delle case.
MILLY’S
SPACE
Hola,
chicos!!
Ammetto
che non sono pienamente soddisfatta di questo
capitolo, ma le critiche preferisco lasciarle a voi. Spero recensirete
in
tanti.
Che
altro posso dirvi? Volevo aggiornare prima ma
purtroppo ho trascorso un periodo infernale e non ci sono riuscita.
Spero che,
ora che le vacanze stanno arrivando, troverò più
tempo. Intanto vi auguro un
buonissimo Natale, nel caso non riuscissimo a sentirci prima.
Un
bacione,
Milly.
P.S.
e non scordatevi di fare una capatina alla mia
pagina facebook.
Bacioni.
AMAYAFOX91:
eh
sì, hai azzeccato il punto due, vediamo ora se hai azzeccato
anche con il primo
^^ grazie mille per i complimenti, è importante per me
rimanere in linea con i
personaggi perché detesto quando sono troppo OOC. Spero di
risentirti, un
bacione. M.
HELLOSWAG:
eh!
Scusa per il ritardo, ma ho avuto tantissimi impegni. Spero ti sia
piaciuto
anche questo capitolo. Grazie mille per i complimenti. Pensavo di aver
un po’
esagerato con la storia della violenza e della droga, ma la tua
recensione
positiva mi ha fatto cambiare idea. Grazie ancora. Un abbraccio, Milly.
|
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Capitolo 13 *** Capitolo dodici - Un colpo ***
CAPITOLO
DODICI – UN COLPO
Ti
vorrei, ti
vorrei rivivere anche solo per un attimo,
io vorrei rivivere quella prima volta io e te.
(Ti vorrei rivivere, E.Ramazzotti)
Quando
Ianto Jones si svegliò quella notte, circa
alle due e un quarto, e tastò la parte del letto accanto a
quella dove dormiva
lui, la trovò vuota. Eppure si ricordava benissimo di
essersi coricato insieme
a Jack; avevano fatto sesso come al solito e lui si era addormentato
tra le
braccia del Capitano.
Buttò i piedi fuori dal letto e si stropicciò gli
occhi. Nell’appartamento
regnava il silenzio.
A fatica si alzò, per poi trascinarsi pesantemente verso il
bagno. Fece tutto
con estrema calma: svuotò la vescica, tirando qualche
sbadiglio, si rialzò i
pantaloni e si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani,
contemplando con
sguardo un po’ schifato la propria immagine riflessa nello
specchio. Aveva
delle belle occhiaie ed era piuttosto pallido; sarebbe potuto andare
bene per
fare uno degli zombie nel video di Thriller. A quel pensiero,
ridacchiò tra sé
e sé. La verità era che aveva solo bisogno di
dormire un po’ di più.
E aveva anche l’intenzione di tornare a letto, se non che un
rumorino
proveniente dal suo stomaco lo fece desistere. Solo in quel momento si
accorse
di avere fame e di avere voglia di cibo. Il letto avrebbe dovuto
aspettare
ancora un po’.
Si trascinò questa volta in cucina e guardò nella
dispensa: c’era un pacco di
cereali al cioccolato quasi vuoto. Sarebbe stato meglio finirlo. Ma poi
vide
anche un sacchetto di patatine ancora pieno e gli venne la tentazione
di
mangiare pure quelle. E, siccome non sapeva decidersi, li prese tutti e
due,
mangiando i cereali e le patatine insieme. Nel frattempo
lanciò un’occhiata al
salotto, guardando se tutto fosse in ordine. Il capotto di Jack non era
appeso
al solito posto, questo significava che era uscito. Be’, non
era la prima volta
che usciva nel cuore della notte, gli bastava che tornasse presto a
scaldargli
il letto.
Mise
in bocca l’ultimo cereale rimasto, insieme a
due o tre patatine, quando constatò che quelle schifezze non
lo riempivano
affatto.
Strano, ho cenato solo poche ore fa, si
disse, aprendo il frigorifero e guardando che cosa c’era
dentro. Purtroppo non
era pieno come il suo stomaco avrebbe voluto, in quei giorni non aveva
certo
avuto il tempo di andare a fare la spesa, ma c’era della
pancetta e della sua
marca preferita.
Tirò fuori una padella e un po’ di olio da
frittura, buttandoci dentro la
pancetta e accendendo il fuoco. Non ci mise molto a prepararla e quando
ebbe
finito la mangiò direttamente dal forno, appoggiato al piano
da lavoro. Ora il
suo stomaco sembrava decisamente più soddisfatto.
Sentì
qualcuno che girava la chiave nella serratura,
seguito dal rumore delle scarpe di Jack sul pavimento
dell’ingresso.
“Dove
sei stato?” gli chiese quando lo vide
affiorare sulla soglia della cucina.
“A
fare un giro. Avevo bisogno di un po’ d’aria
fresca”, rispose il Capitano guardandolo in modo strano.
“Che stai facendo?”
“Mangio”,
rispose Ianto, come se mangiare pancetta
fritta alle due di notte fosse la cosa più normale del mondo.
“Pancetta
a quest’ora?”
“Sì,
ne vuoi un po’?”
“No,
grazie”.
Il
ragazzo mise in bocca l’ultimo boccone rimasto e
si pulì le mani con uno straccio.
“Allora
torno a letto”. Nel passargli accanto, però,
venne bloccato da un braccio del Capitano che lo cinse per la vita.
“Stai
bene?” gli chiese.
Ianto
lo guardò con un’espressione confusa.
“Certo.
Perché non dovrei stare bene?”
Jack
gli sorrise dolcemente. “Chiedevo solo”. Gli
diede un veloce bacio sulle labbra e lo lasciò andare.
Quando il compagno si fu
allontanato, prese un po’ d’acqua dal frigo e
guardò la padella e il pacco
vuoto di cereali.
Doveva confessare che era un po’ preoccupato per Ianto. Non
era del tutto
sicuro che avesse superato il trauma della violenza del padre; dopo
quella
volta non ne hanno più parlato e lui si ostinava a non
volerlo dire a sua
sorella. Avrebbe dovuto accorgersi prima che c’era qualcosa
che lo tormentava;
ogni volta che lo guardava negli occhi vi trovava tanta sofferenza, ma
non ci
aveva mai fatto molto caso e comunque lo aveva sempre attribuito alla
perdita
di Lisa. E non l’aveva mai visto ridere, nemmeno un sorriso.
Ora si sentiva in
colpa per non averlo capito prima e per non aver nemmeno tentato di
capirlo.
Non l’aveva mai visto ridere, nemmeno un sorriso.
Ma soprattutto, si sentiva impotente perché questa era una
di quelle situazioni
in cui non poteva fare niente per aiutare.
E
perché diamine mangiava così tanto in quel
periodo? Forse era solo un modo per sfogare il dolore.
Quella
mattina la sveglia suonò alle sei e mezzo
precise. Jack la spense con un colpo secco e mugolò qualcosa
di
incomprensibile.
Ianto si girò a pancia in su e rimase a fissare il soffitto,
quando sentì
qualcosa spingergli sulla bocca dello stomaco e dovette correre in
bagno. Si
abbassò sulla tazza del water e vomitò tutto
quello che aveva mangiato quella
notte.
“Ianto?”
chiamò Jack dalla stanza accanto,
insospettito dalla sua improvvisa fuga. Lo raggiunse in bagno,
trovandolo
abbracciato alla tazza. Si sedette sul bordo della vasca e gli
passò un
asciugamano per pulirsi. Rimase a guardarlo per qualche attimo,
pensando a
quanto fosse sexy anche quando vomitava, poi assunse la sua espressione
seria e
preoccupata. “Che succede?”
“Forse
non era una buona idea mangiare pancetta alle
due di notte”.
“Sarà
solo un’influenza”, lo rassicurò il
Capitano.
“Perché non resti a casa oggi?”
“No,
no. Sto bene”.
“Sicuro?”
“Sì,
non ce la farei a restare a casa”.
Ianto
si rialzò e, senza fare caso a Jack, ritornò
in camera per vestirsi.
“Sei
sicuro di stare bene?” gli chiese il Capitano,
chiaramente preoccupato.
“Sì,
certo!”
Ed era vero, non gli stava mentendo. Doveva essere stato
un malessere
momentaneo perché si sentiva benissimo. Aveva solo un
po’ di fame.
“Stanotte
la Fessura ha registrato un picco di
energia”, disse Tosh leggendo dei fogli che aveva davanti a
sé. Lei e gli altri
membri della squadra si erano riuniti quella mattina nella sala delle
riunioni
e studiavano i movimenti della Fessura di quella notte.
“Sappiamo
che cosa può essere passato?” chiese Jack,
in piedi con le mani poggiate sul tavolo.
“No,
ma è sicuramente qualcosa passato in entrata.
Farò una ricerca su tutta la città per vedere se
ci sono tracce aliene o di
altri tempi”.
“D’accordo,
Owen, hai…”.
“Jack!”
Gli
sguardi di tutti si spostarono su Ianto che non
sembrava avere per niente una bella cera.
“Credo
che… credo che sto per vomitare”.
Fu
una questione di secondi: Jack afferrò
velocemente il cestino più vicino e lo passò a
Ianto che vomitò dentro l’intera
colazione.
“Dannazione,
Ianto!” esclamò il Capitano.
“E’ la
seconda volta questa mattina! E poi mi dici che stai bene?”
“Che
cosa?!” aggiunse Gwen.
Toshiko
passò un fazzoletto a Ianto che si pulì e
cercò di darsi un contegno. Se non ci fosse stato tutto
quell’odore di caffè
probabilmente il cibo non gli sarebbe tornato su. Ma da quando
l’odore di caffè
gli dava fastidio?
“Owen,
fagli qualche controllo”, ordinò Jack in tono
perentorio, portando via il cestino.
“Jack,
io…”, tentò Ianto, ma fu interrotto
bruscamente da un’occhiata torva del Capitano. “Non
dire che stai bene perché
non stai bene”.
Il
ragazzo esalò un sospiro e seguì Owen senza
protestare.
“Da
quanto tempo hai queste nausee?”
“Da
qualche giorno. Solo la mattina, poi all’ora di
pranzo passano. Solo oggi mi è capitato di…
vomitare”.
Owen
infilò un ago nella vena di Ianto e gli fece un
rapido prelievo di sangue.
“E
hai qualche altro sintomo? Mal di stomaco?
Diarrea? Stanchezza?”
“No”.
“Potrebbe
essere una semplice influenza
intestinale”.
Ianto
guardò Jack con un’occhiata che sembrava dire:
“Visto? Te l’avevo detto”.
“Non
gli hai detto dell’appetito?” sbottò
Jack in
quel momento, appoggiato alla ringhiera sopra alla sala delle autopsie.
“Che
cosa?”
“Ho
notato che mangi molto ultimamente, anche a
orari strani, come ieri notte”.
“E’
vero, l’ho notato pure io”, aggiunse Gwen.
“Interessante”,
commentò Owen. “Quindi, nausee mattutine,
appetito… sembrano i sintomi di una gravidanza”.
“Ma
non dire idiozie!” sbottò Ianto, guardando il
dottore come avesse detto la cosa più brutta del mondo. Jack
e Gwen, invece,
scoppiarono a ridere.
“Era
una battuta. Comunque, controllerò il tuo sangue
e cercherò di vedere che cos’hai che non va. Ma mi
sembra il sintomo di una
normale influenza, quindi ti consiglierei di andare in un
ospedale”.
Ianto
scese dal tavolo delle autopsie con uno sbuffo
irritato; da quando in qua a loro accadeva qualcosa di normale. Sperava
solo di
non avere nulla di grave.
Si diresse verso le scalette, ma un tremendo capogiro lo colse e
dovette
appoggiarsi sulla prima cosa che trovò. Improvvisamente, sul
muro di fronte
comparve l’immagine del suo scheletro con un puntino verde
proprio al centro
del ventre.
“Che…
che cosa?!” esclamò il giovane, guardando
quell’immagine, sconvolto.
“Oh
mio Dio!”
Jack
gli si avvicinò cautamente e poggiò una mano
sulla sua per impedirgli che la spostasse.
“Forse
dovremmo riconsiderare la mia battuta”, disse
Owen.
“Oh
no!” fece Ianto, districandosi dalla presa di
Jack e lasciando scomparire l’immagine “No, no, no,
no!”
“Quella
è una macchina della gravidanza”, gli fece
notare il dottore.
“Stai
insinuando che…”.
“Non
sto insinuando niente. Sto cercando di capire!”
“Ianto!”
Ianto
si girò verso Jack che con lo sguardo cercò di
tranquillizzarlo. “Andrà tutto bene”.
“No!
Non andrà bene”.
“Potresti
avere qualsiasi cosa lì dentro”, riprese
Owen. “Lasciami controllare”.
Il
Capitano fece un cenno col capo e Ianto
immediatamente si convinse.
Si
sedette di nuovo sul lettino e aspettò che Owen
tornasse dai sotterranei.
“Ok,
questo è un classico e normalissimo ecografo”,
spiegò, portandosi appresso un macchinario.
“Sdraiati sul lettino e apri la
camicia”.
Ianto
obbedì, ma guardò Jack come se stesse andando
sul patibolo.
Il
dottore accese il macchinario e gli spalmò sulla
pancia una specie di crema trasparente e fredda. Poi
cominciò a passarci sopra
uno strumento che somiglia a una specie di piccolo aspirapolvere. La
macchina a
cui era attaccato cominciò subito a mostrare delle immagini
confuse.
“Accidenti!
Eccolo!” esclamò Owen.
“Che
cosa?”
“Il
feto!”
“Che?!”
gridò Ianto istericamente. Anche Jack
guardava l’ecografo con un’espressione sconcertata.
“Eccolo
qui”. Owen indicò qualcosa col dito. “Si
vede molto bene e guarda… c’è pure il
battito. È di quasi otto settimane”.
“E’…
meraviglioso”, sospirò Tosh. Anche lei e Gwen
erano incantate a guardare quelle immagini.
Il
ragazzo steso sul letto era incredulo. Sconvolto
e incredulo. E no, ancora non ci credeva, benché vedesse
anche lui l’immagine
di quel feto e gli pareva pure di distinguere un certo battito
cardiaco, ma…
non era possibile. Non era fisicamente possibile.
“Spegni
quel coso”, disse.
“Che
cosa?”
“Spegni
quel coso!”
Owen
obbedì e spense tutto. Ianto si rialzò e
richiuse la camicia. “Ora dimmi che diavolo
c’è nel mio stomaco”.
Il
dottore si guardò intorno come in cerca d’aiuto.
“E’ un feto. Un bambino. Chiamalo come
vuoi”.
“Non
può essere!”
“Ianto,
lavoriamo con gli alieni, tutto è possibile!
Persino Gwen è rimasta incinta dopo essere stata morsa da un
alieno”.
“Ma
lui non è una donna”, fece notare Tosh.
Owen
scrollò le spalle. “Probabilmente è
successo
qualcosa che ha fatto sì che… il suo organismo
potesse… attuare una
gravidanza”.
“Jack?”
chiamò Ianto in un ultimo vano tentativo di
ottenere la risposta che voleva.
“Owen
ha ragione”, disse il Capitano, facendo
spalancare gli occhi al compagni. “Però
c’è un ultima cosa che possiamo fare
per essere sicuri”.
“Cioè?”
“Fai
un test”.
“Un
test?”
“Di
gravidanza”.
Ianto
lo guardò come se stesse dicendo la cosa più
assurda del mondo. Ed effettivamente tutta la situazione suonava
assurda.
“Non
abbiamo un test di gravidanza”, ricordò Owen.
“Te lo vado a
comprare. Non
ci metterò molto”. E detto quello, con uno
svolazzo del cappotto, Jack uscì dalla base, come se volesse
scappare.
“Allora?”
sbottò Gwen appena vide uscire Ianto dal
bagno.
“Non
lo so. Non sono ancora passati due minuti”.
Il
ragazzo si sedette sul divano accanto a Gwen,
reggendo il bastoncino in mano. Jack continuava a guardare
all’orologio.
“Guarda adesso”.
Ianto
ci mise un po’ a inquadrare il segno sul
bastoncino, ma appena lo vide il suo cuore perse un battito.
“Oh no!”
“Allora?!”
ripeté Gwen, avvicinandosi all’amico.
“Oh
mio Dio! E’ positivo!”
“Ditemi
che è uno scherzo!”
“Ma
com’è possibile?” chiese Toshiko.
Owen
scosse il capo come per dire che lui non ne
aveva la più pallida idea.
“Forse
è stato quando sei venuto a contatto con
qualcosa di alieno come è successo a me”,
tentò Gwen, voltandosi a guardare
Ianto. “Ti ricordi se è successo qualcosa del
genere?”
Il
ragazzo rimase a pensarci per qualche secondo,
poi tirò su la manica scoprendo l’avambraccio dove
una piccola cicatrice bianca
faceva ancora mostra di sé. “Quando siamo andati
in quell’orfanotrofio”,
iniziò. “una specie di verme mi ha
morso”.
“I
Callaryani!” esclamò Gwen.
“Ma
certo!” aggiunse Jack. Ora finalmente tutto gli
era chiaro. “Quel verme che ti ha morso era un verme della
fecondazione. Gli
basta un morso per rendere qualsiasi tipo di organismo favorevole a una
gravidanza. Basta che quella persona faccia sesso, non importa come, e
il gioco
è fatto”.
“Quindi
anche due uomini o due donne possono avere
figli loro?” osservò Gwen.
“Sì”.
“Aspettate
un attimo!” proferì Ianto in quel
momento, scattando in piedi. “Quindi c’è
una specie di alieno dentro di me?”
Il
Capitano ridacchiò. “No, non proprio. In parte
avrà le sembianze di un Callaryano, ma perlopiù
sarà umano perché uscirà dal
tuo grembo”.
“Vi
rendete conto che questo potrebbe rivoluzionare
la medicina?” fece Gwen allora. “Anche chi
è sterile con questo può sperare di
avere figli. E gli uomini che…”.
“No”,
la interruppe Jack. “Non sappiamo come
funziona e potrebbe essere rischioso”. Si avvicinò
a Ianto guardandolo dritto
negli occhi. “Devi abortire. Non voglio che tu corra
pericoli, non sappiamo se
questo… bambino possa nuocerti”.
Ianto
annuì mestamente.
Gwen
osservò Jack seduto nel suo ufficio con lo
sguardo perso a contemplare un innocuo oggetto alieno e poi
spostò lo sguardo
su Ianto seduto sulle scale. Mise via il cellulare con cui aveva appena
mandato
un messaggio a Rhys e lo raggiunse con passo felpato. Gli si sedette
accanto e
gli prese una mano.
“Tutto
bene?”
Lui
si girò a guardarla con un’occhiata vagamente
torva. “Tu che dici?”
La
ragazza scoppiò a ridere. “Dai, non è
poi così
terribile”.
Lui
riportò lo sguardo di fronte a sé.
“Forse no”.
“Deduco
che il bambino sia di Jack”.
“Già”.
Calò
qualche secondo di silenzio tra i due, poi Gwen
riprese. “Avere un bambino è una cosa…
incredibile. È qualcosa che cambia il
tuo modo di vedere le cose, è… spaventoso, ma al
tempo stesso meraviglioso”.
“Tu
dici?”
“Sì
e secondo me non dovresti abortire”.
Ianto
sospirò prendendosi la testa tra le mani.
“Jack ha ragione! Potrebbe essere pericoloso
e…”. Si interruppe, consapevole
che non era questa la verità. “Non… non
posso avere un bambino, Gwen. Come
faccio? Questo lavoro e la mia vita… non sono fatti per
avere un bambino”.
La
ragazza gli strinse la mano più forte e lo guardò
in volto. “Ma è pur sempre un bambino.
C’è una vita che sta crescendo dentro di
te ed è… incredibile, in tutti i sensi”.
“Ianto!
Quando vuoi vieni”.
I
due si voltarono verso Owen che armeggiava nel suo
studio. No, Jack aveva ragione, si
disse Ianto. Era sbagliato, tutto quello era sbagliato e qualsiasi cosa
ci
fosse nel suo corpo non doveva esserci.
Si
alzò lentamente e raggiunse il dottore che,
appena lo vide, gli mostrò una piccola pillola rosa.
“Prendi questa pillola.
Induce l’aborto fisiologico, poi ne dovrai prendere
un’altra per espellere il
feto”, spiegò il giovane.
“L’aborto farmacologico mi sembra l’unica
soluzione”.
Ianto
prese la pillola e il bicchiere d’acqua che il
collega gli passò. Si sedette sul tavolo chirurgico e
osservò attentamente la
pillola. Poi guardò la propria pancia e poi di nuovo la
pillola. Era la cosa
giusta da fare, non poteva avere un bambino, non era pronto e non lo
era
nemmeno Jack. Però… però anche Gwen
aveva ragione, c’era una vita che cresceva
dentro di lui e non poteva ucciderla così.
Ma portare avanti una gravidanza non era cosa da poco.
“Owen?
Mi fai rivedere le immagini di prima?”
“Non
posso farlo!” fu la prima cosa che Ianto
pronunciò appena entrato nell’ufficio di Jack. Il
Capitano alzò lo sguardo su
di lui, perplesso. “Non posso farlo”,
ripetè il ragazzo. “Non posso abortire”.
“Che
cosa?”
“Mi
dispiace, Jack, ma non ci riesco. È…”.
Si
avvicinò lentamente alla scrivania dietro la quale sedeva
Jack. “Insomma, Jack,
non ci riesco. Non posso farlo. È un bambino ed è
nostro…”.
Jack
poggiò le mani sulle spalle del compagno e lo
guardò negli occhi. “Lo so, ma non possiamo
rischiare. È pericoloso…”.
“Perché
dovrebbe esserlo? Non è un alieno”.
Tirò
fuori la foto dell’ecografia che gli aveva fatto Ianto e la
mostrò a Jack. Il
capitano la prese in mano e osservò attentamente le linee
confuse che
delineavano quello che doveva esserci nel ventre di Ianto. Si poteva
riconoscere benissimo che era un bambino. Improvvisamente
sentì qualcosa
raddolcirsi nel suo cuore; con un dito tracciò quelle linee
e faticò a
nascondere un sorriso.
“Non
lo so, Ianto”, soffiò infine, riportando lo
sguardo sul ragazzo. “Non sei una donna, le cose potrebbero
andare male, il tuo
corpo potrebbe non sopportarlo”.
“Voglio
correre questo rischio”
Jack
spostò lo sguardo verso il muro di fronte a sé
e poi tornò di nuovo a guardare Ianto. “Non posso
perderti, Ianto. Sei sicuro
che lo vuoi?”
“Sì”.
Il
Capitano si protese verso il compagno e poggiò le
proprie labbra sulle sue. Ianto ricambiò il bacio, ma
proprio quando si
avvicinò di più all’altro e
cercò di averne di più, questi si
staccò e lo
guardò in maniera strana.
Poi
si allontanò bruscamente e afferrò il suo
capotto. “Scusa, devo andare. Torno presto”. E
senza lasciargli nemmeno il
tempo di emanare un sospiro, uscì dall’ufficio e
poi dalla base.
“Dov’è
andato?” chiese Gwen vedendo Ianto tornare
dall’ufficio di Jack.
“Non
ne ho idea”, rispose il ragazzo. Jack faceva
spesso così. Usciva senza dire dove andasse e doveva
ammettere che talvolta gli
dava un po’ fastidio.
Ed
eccolo lì, in tutto il suo splendore nella divisa
napoleonica. John Hart, l’autentica nemesi del Capitano Jack
Harkness.
“Oh,
Jack! Non credevo che avrei mai ricevuto una
tua chiamata”, disse, non appena si materializzò
con il suo manipolatore.
“Ammettilo che non riesci a stare senza di me”.
Jack
gli mostrò un sorriso sghembo. Dopotutto, gli
piacevano il suo modo di flirtare e di pavoneggiarsi.
“Ho
solo bisogno di chiederti una cosa”, specificò
il Capitano, rimanendo ben distante dall’altro.
“Ma
certo che vengo a letto con te”, ghignò John.
“Ti
piacerebbe”.
“Oh
sì, molto”.
Restarono
a fissarsi per qualche tempo, come
sfidandosi in un muto duello di sguardi.
Forse non è stata una buona idea
chiamarlo, pensò Jack.
Se continua a guardarmi in quel modo lo
violento qui sul posto, pensò John.
“Allora,
per quale motivo mi hai fatto correre qui?
Spero ne sia valsa la pena”.
Jack
si avvicinò al bordo del tetto dell’edificio
sul quale si trovavano e aspettò che l’altro lo
raggiunse. “Una volta sei stato
morso da uno di quei vermi della gravidanza di Callary”.
“Devi
per forza ricordarmi quell’orribile
esperienza?”
“E’
importante”.
John
sospirò e incrociò le mani sul parapetto.
“Sì”.
“E
che è successo dopo?”
“Oh,
mi hai visto anche tu! Ero più grosso di una
balena spaziale”.
“No,
intendo… com’era il bambino?
Com’è stata la
gravidanza?”
John
aspettò un attimo prima di rispondere. “Il
bambino era a posto, non aveva due teste o quaranta occhi se
è questo che
intendi. Mi somigliava molto”, l’ultima parte la
disse con una certa vanità,
come suo solito. “Comunque sono andato dalle infermiere
– gatto per farlo
nascere, mi hanno praticamente aperto in due”.
“E
dopo che fine ha fatto?”
“L’ho
lasciato a loro. Di certo non sono la persona
migliore per fare il padre”.
“Non
hai più avuto notizie?”
“No,
ed è meglio così, per lui e per me”.
“Ma
perché non hai abortito?”
“Oh,
l’avrei fatto se avessi potuto”. Si interruppe,
ma vedendo lo sguardo confuso di Jack fu costretto a spiegare.
“Ci ho provato,
in vari modi, ma il bambino sopravviveva sempre. Dopotutto, ha in parte
geni
Callaryani nel suo DNA e loro sono difficili da uccidere”.
Il
Capitano annuì e tornò a guardare il panorama di
fronte a sé. Le parole di John lo rassicuravano, ma non del
tutto.
“Perché
mi stai facendo queste domande?” chiese
John.
“Semplice
curiosità”.
“No!”
L’ex agente del tempo si voltò completamente
verso Jack e lo scrutò attentamente in volto per capire i
suoi pensieri.
“Aspetta! Non mi dirai che tu…”, non
concluse la frase, ma spalancò la bocca in
un moto di pura sorpresa.
“Ma
che ti salta in mente!” gridò Jack, intuendo che
cosa doveva essere saltato nella mente bacata dell’altro.
“No! Non sono
incinto!”
“Allora
qualcuno della tua squadra! Chi?”
“Non
è affar tuo! E la mia squadra non
c’entra!”
Jack cominciò ad allontanarsi con passo deciso, ma
l’altro lo raggiunse di
corsa. “Vattene via, John!”
“Eh
no! Adesso mi hai chiamato e non ti libererai
tanto facilmente di me”.
Quando
Jack rientrò alla base accompagnato da John,
gli altri membri del Torchwood non parvero molto contenti.
“Che
ci fa lui qui?” esclamò Gwen, mettendo mano alla
pistola.
“Oh,
anche io sono contento di vederti”, commentò
l’intruso
mostrando un broncio tenero.
“Mi
serviva per un consulto”, rispose Jack senza
guardare nessuno, ma dirigendosi veloce verso il suo ufficio.
“Ma ora non vuole
più andarsene”.
“Se
tu ti decidessi a passare un po’ di tempo con
me, smetterei di darti fastidio!” gli gridò dietro
John, ma il Capitano fece
finta di non sentirlo e sparì nel suo ufficio. Ne riemerse
però subito dopo,
appoggiandosi alla ringhiera e guardando l’ex compagno con
sguardo minaccioso. “Visto
che ci tieni tanto a passare un po’ di tempo con me,
accompagnami a cacciare i
Weevil”.
L’altro non se lo fece ripetere due volte e fece per seguire
Jack. Quando però
si scontrò con Ianto che lo stava guardando in modo strano.
“Oh, ciao, Occhi
dolci”, lo salutò John con un sorrisetto
sardonico, per poi allontanarsi
sculettando.
Quando
i due uscirono, gli altri rimasero a guardarsi
l’un l’altro basiti. Ianto non era per niente
contento; di solito Jack andava a
caccia di Weevil con lui o al limite da solo, non l’aveva mai
chiesto a qualcun
altro. E poi… chissà cosa avrebbero fatto. Non
gli era mai piaciuto John, non
gli piaceva il suo flirtare con Jack e quella sua mania di professargli
il
proprio amore, un amore malato secondo lui. Era dura ammetterlo, ma
sentiva il
potente nodo della gelosia stringergli le viscere.
“Ma
perché Jack lo ha fatto venire?” chiese Gwen,
più a se stessa che agli altri.
“Se
guadagnassi una sterlina per ogni sciocchezza
inspiegabile che fa Jack ora sarei ricco”, rispose Owen,
mettendo via il suo
camicie da lavoro.
“Ragazzi!”
chiamò a quel punto Tosh. “La Fessura ha
registrato un eccesso di attività, deve essere passato
qualcosa”.
“Dove?”
“Nella
zona di Wickery Road. Adesso scansiono il
posto”.
“D’accordo!”
concluse Ianto, cercando di prendere in
mano la situazione per non pensare a John e il Capitano. “Ci
dirigiamo verso il
posto e nel frattempo chiamiamo Jack”.
“Tosh,
resta qui per indicarci eventuali spostamenti”,
ordinò Gwen, afferrando il suo cappotto.
“Ma,
Ianto…”, chiamò lei cercando
l’amico con lo
sguardo, ma i tre erano già usciti.
Quando
Ianto, Gwen e Owen arrivarono al posto, una
fabbrica di carta chiusa per motivi di manutenzione, Jack non si vedeva
ancora.
I tre decisero di passare subito all’azione e la prima cosa
contro cui si
scontrarono fu un corpo steso scomposto a terra. Apparteneva ad un uomo
di mezz’età,
un povero malcapitato che si era trovato sulla strada di un
terrificante
alieno, sicuramente. O chissà che altro.
“E’
morto”, sussurrò Owen, inginocchiato accanto al
cadavere.
Gwen
e Ianto strinsero forte le pistole, pronti a
premere il grilletto. “Restiamo uniti”, disse la
ragazza.
Procedettero avanti per un po’, quando sentirono dei rumori
provenire da una
stanza in fondo al corridoio. Owen si avvicinò cercando di
non fare rumore, e
sbirciò dentro. “Guardate un po’ chi si
rivede!” esclamò a bassa voce, seguendo
il profilo di quello che all’apparenza pareva un normale
uomo, con vestiti da
motociclista. Se non fosse per la grossa testa rossa da pesce.
“Di
nuovo quella creatura?” fece Gwen, abbassando la
pistola.
“L’avete
trovato?” chiese la voce di Tosh all’auricolare
del trio.
“Sì,
è il pesce palla”, le rispose Ianto, appoggiato
allo stipite della porta.
“Adesso
ci divertiamo”, concluse Owen, uscendo allo
scoperto.
“Prendilo!
E’ andato di là!” gridò
Ianto, indicando
con un dito la direzione che l’alieno aveva preso. Gwen gli
corse dietro, ma
quello era decisamente più veloce di lei. Allora
sparò un paio di colpi dalla
pistola, colpendo soltanto i muri. “Maledizione!”
imprecò.
Il
pesce palla sbucò in un altro corridoio, ma lì si
scontrò con Owen che gli mollò una gomitata
facendolo voltare su se stesso. Questi
si riprese subito e si vendicò tirando un pugno in faccia al
dottore che quasi
svenne. Riuscì però a riprendersi subito e a
dargli un calcio sulle ginocchia
per farlo cadere a terra.
In quel momento sopraggiunse anche Ianto che cercò di
tramortirlo con la
pistola elettrica, ma quello si rialzò subito e gli
saltò addosso. Ianto cadde
di schiena seguito dalla creatura che cercava di prendergli la pistola.
Owen
cercò di aiutare l’amico, ma l’alieno
gli mollò un altro pugno e il dottore
sbatté contro il muro.
Per una frazione di secondo Ianto pensò di essere
completamente spacciato, ma
improvvisamente qualcuno glielo tolse di dosso e lui poté
tornare a respirare.
Si mise seduto, notando Jack e John che le davano di santa ragione a
quell’alieno.
Quando il pesce palla spinse il Capitano contro il muro, afferrandogli
il collo
con le mani, John gli sparò un proiettile nella schiena e
quello crollò a
terra. E in quel momento li raggiunse anche Gwen. “Ehi!
L’avete sconfitto”.
Jack
corse immediatamente da Ianto, aiutandolo a
rialzarsi. “Stai bene?” gli chiese, controllando
che non fosse ferito. “Sì”,
rispose il ragazzo. “Non saresti dovuto venire”, lo
rimproverò il Capitano. Poi
si voltò verso la sua nemesi. “Grazie per
l’aiuto”.
“Figurati”, fece quello. “Almeno adesso
ti deciderai a passare un po’ di tempo
con me?”
Jack sospirò esasperato. “John, io non voglio
passare del tempo con te!” gli
gridò, a pochi passi da lui. “Non voglio stare con
te né per un giorno né per
un’ora. Non mi interessi, anzi, non voglio più
vederti. Ti ho chiamato solo per
quell’informazione e ora che me l’hai data te ne
puoi anche andare al diavolo!”
Se non fosse stato così presuntuoso e pieno di
sé, qualcuno avrebbe potuto dire
che qualcosa dentro a John si ruppe. Abbassò lo sguardo,
come a voler
nascondere qualcosa, ma subito dopo lo rialzò, guardando il
Capitano con furia
e odio. Alzò la pistola puntandogliela contro.
“Quindi le cose stanno così ora?”
ringhiò. “Ti sei dimenticato quello che eravamo?
Quello che abbiamo fatto
insieme? Non ti importa più nulla?”
“No,
non mi importa. Che vuoi fare? Spararmi?”
“Lo
so che sarebbe inutile ucciderti”, soffiò in
tono sottile. Un sorrisetto sadico gli spuntò sulle labbra.
“Ma posso uccidere
lui”. E prima che qualcuno lo potesse fermare,
spostò la pistola in direzione
di Ianto e sparò un colpo, solo uno, che colpì il
ragazzo dritto nello stomaco.
“Ianto!”
gridò Jack, correndo incontro al compagno
prima che cadesse a terra. “Ianto”.
“Jack”,
soffiò l’altro, una mano poggiata sulla
ferita sanguinante, gli occhi azzurri fissi in quelli del Capitano.
***
MILLY’S
SPACE
Hola!
Speravo di aggiornare prima, ma sono stata impegnata con la stesura di
un’altra
storia per un concorso, quindi non ho avuto molto tempo per dedicarmi
alle
fanfiction.
Avete passato bene le vacanze? Non avete fatto indigestione, vero? In
ogni
caso, vi auguro un buon ritorno a scuola, lavoro e
quant’altro. Io non ne ho
voglia per niente, ma questa è la vita.
Che mi dite? Piaciuto il capitolo?
Una delle mie lettrici aveva ipotizzato che Ianto fosse incinto e a
quanto pare
ha indovinato ^^ ahahaha xD be’ dai, non era difficile.
Penso, almeno.
Moh,
basta con le ciance. Spero di ricevere i vostri
commenti. Purtroppo la pigrizia e la mancanza di tempo mi impediscono
di
rileggere il capitolo, pertanto se ci sono errori, ripetizioni e altri
obbrobri,
perdonatemi.
Un
bacione e buon anno nuovo : )
Milly.
HELLOSWAG:
ehi, mi dispiace averti fatto attendere. Comunque, sono
d’accordo con te,
infatti non sono molto soddisfatta dello scorso capitolo e anche se
avessi
aspettato per farmi venire l’ispirazione, non credo sarebbe
uscito qualcosa di
meglio. Confesso anche che volevo concentrarmi perlopiù su
Ianto e Jack e quello
che è successo a Ianto, quindi il “problema
alieno” era solo un contorno.
Tuttavia, spero di aver rimediato con questo capitolo. Fammi sapere.
Un bacione, M.
AMAYAFOX91:
grazie per i consigli, ho cercato di usarli in questo capitolo. La
verità è che
non cerco mai di far trapelare troppo i sentimenti di Jack
perché neanche nella
serie sono troppo chiari, e cerco anche di mantenere quella patina di
mistero
che lo contraddistingue. Sono contenta comunque che lo scorso capitolo
ti sia
piaciuto. Spero anche questo : )
P.S.
so
che non tutti possono apprezzare una gravidanza maschile e se
così fosse
sentitevi liberi di dirmelo. Se sarete in tanti, vedrò di
fare qualcosa. A me l’idea
piace e scrivo perlopiù per diletto mio, ma se non ci sono i
lettori non
avrebbe neanche molto senso, per cui qualche sacrificio lo faccio
volentieri ^^
|
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Capitolo 14 *** Capitolo tredici - L'amore cura tutto ***
CAPITOLO
TREDICI – L’AMORE CURA TUTTO
“E
ci sei adesso tu
a dare un senso ai giorni miei,
va tutto bene dal momento che ci sei”.
(Adesso
tu, E. Ramazzotti)
“Ianto!”
esclamò Jack scrollando il compagno tra le
braccia perché rimanesse sveglio. Owen si
precipitò dai due e cercò subito di
fare qualcosa per bloccare la fuoriuscita di sangue. Il Capitano allora
lo
affidò alle cure del medico e si precipitò su
John; una furia lo aveva pervaso
di colpo ed era sicuro che lo avrebbe ammazzato con le proprie mani.
“Bastardo!”
gli gridò, afferrandolo per il bavero
della giacca e facendolo sbattere violentemente contro il muro. John
non
nascose una smorfia di dolore quando la sua testa cozzò
contro la parete e
temette un trauma cranico. Non aveva mai visto Jack così
arrabbiato, mai. Il
suo sguardo era… faceva paura e probabilmente questa volta
non ne sarebbe
uscito vivo. Ma cosa gli era saltato in mente? Si era pentito del suo
gesto non
appena era partito il colpo della pistola.
“Jack!”
urlò Gwen quando l’amico mollò un pugno
in
faccia alla sua vittima. Voleva fermarlo perché era sicura
anche lei che lo
avrebbe ucciso.
“Jack,
vieni a vedere!” fece allora Owen, osservando
Ianto. Soltanto allora il Capitano rivolse l’attenzione ai
propri compagni.
“Che succede?”
“Guarda!”
Con
una spinta fece cadere John a terra e si
inginocchiò di nuovo accanto a Ianto. Owen gli aveva tirato
su la camicia
esponendo il buco che il proiettile gli aveva provocato nello stomaco.
Ma le
ferite slabbrate improvvisamente avevano preso a rimarginarsi da sole
e, quando
la ferita si richiuse, il proiettile uscì fuori da solo,
come se una bocca
l’avesse sputato. Tutti erano rimasti a osservare increduli e
senza parole,
persino Ianto che era riuscito a non perdere conoscenza. Alla fine,
tutto ciò
che rimase, fu una macchia di sangue sulla camicia.
“Che
diamine…” iniziò Jack, senza sapere
cosa dire.
“Forse
è il bambino”, sussurrò Owen guardando
il
Capitano dritto in volto. “Forse ha qualche potere di
guarigione. O avrà
ereditato il tuo”.
“Il
mio? Non può essere! Non funziona
così!”
John
riuscì ad alzarsi, la manica premuta contro il
naso sanguinante. “Quindi eri tu!” Ora gli era
chiaro perché a Jack interessava
tanto la sua gravidanza.
“Torniamo al
Nucleo!” disse a quel punto il Capitano senza perdere altro
tempo e aiutando
Ianto a rimettersi in piedi. “E tu vieni con noi”,
concluse, guardando John di
sbieco.
“Il
bambino sta bene”, concluse Owen, puntando
l’indice sullo schermo dell’ecografo per mostrare
la piccola immagine di un
bambino ancora troppo piccolo per essere chiamato bambino ma pur sempre
un
bambino.
Ianto tirò un sospiro di sollievo e strinse più
forte la mano di Jack che gli
stava accanto, in piedi. Anche lui era nettamente più
sollevato. Aveva temuto
il peggio, lo doveva ammettere, aveva temuto di perdere Ianto e il
bambino in
un colpo solo e, per quanto si ostinasse a dirsi che non gliene
importava
niente, quel bambino per lui era importante, invece. Era
suo… suo e di Ianto.
“Certo
che sta bene”, sbottò John a quel punto,
seduto su una sedia e ammanettato alla ringhiera, con Gwen
inginocchiata di
fronte a lui che cercava di curargli il naso. “I Callaryani
hanno poteri di
guarigione e il bambino li ha già sviluppati. Ha protetto
anche te, Occhi dolci.
È per questo che non puoi nemmeno abortire”.
Sentendo
quelle ultime parole, Ianto scattò a
sedere. “Che cosa?!”
“Non
gliel’hai detto?”
Il
ragazzo spostò lo sguardo sul Capitano
guardandolo intensamente per chiedergli informazioni, come fecero anche
gli
altri. Jack restò a boccheggiare senza sapere che dire.
“E
tu come fai a saperlo?” chiese Gwen, attenuando
la tensione che si era venuta a creare.
“E’
successo anche a me”.
“Sul
serio? Tu sei rimasto incinto?!” la ragazza
scoppiò a ridere e premette il fazzoletto sul naso ferito di
John, dimentica di
stare attenta a non fargli male. L’ex agente del tempo
gridò per il dolore.
John
scivolò dentro all’ufficio del Capitano,
silenzioso come una piuma. Osservò la perfetta figura
dell’uomo, soffermandosi
sul sedere, prima di sbottare: “Mi dispiace”.
Jack, che non l’aveva affatto sentito entrare, fece quasi un
balzo. Poi ritrovò
il contegno e lo guardò duramente.
“Mi
dispiace per aver sparato a Ianto”, ripeté, ma
non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi. “Non
pensavo… non pensavo fosse
così importante per te”.
L’altro
restò a guardarlo ma non disse nulla.
“Lo
ami?” gli chiese allora John, puntando i propri
occhi in quelli dell’amato. Il Capitano parve soppesare le
parole da dire, ma
alla fine esalò un semplice:
“Sì”.
John abbassò il capo. Gli fu difficile non lasciar trapelare
sul volto le
emozioni che provava in quel momento. Avrebbe voluto che non gliene
importasse
niente e invece non era così. Amava ancora Jack, lo amava
tanto e… lui non era
più disponibile, era andato avanti. E stava bene.
“Voglio
che te ne vai”, pronunciò il Capitano,
scandendo bene ogni parola. “Voglio che te ne vai e che non
torni più.
Dimenticati di me, dimenticati di Torchwood e vattene per la tua
strada”.
L’altro
cercò di aggiungere qualcosa, ma alla fine
rimase semplicemente a bocca aperta con le parole incastrate in gola.
Non c’era
niente che potesse dire in realtà, non sarebbe servito a
niente. Così, non gli
restò altro che rassegnarsi. “D’accordo.
Come vuoi, Jack”. E uscì dalla porta,
come un cane con la coda tra le gambe. Una cosa era sicura
però: non si sarebbe
mai scordato di quell’uomo che… che gli ha fatto
battere forte il cuore.
Quando
Jack era rientrato a casa con la spesa, aveva
trovato Ianto seduto sul divano a gambe incrociate, lo sguardo perso
nel vuoto.
Decise di riporre prima i sacchetti sul tavolo della cucina e poi di
andare da
lui. Si tolse il lungo cappotto e gli si sedette accanto, ma senza dire
neanche
una parola. Si piegò e cominciò a baciarlo
nell’incavo del collo, facendogli un
po’ di solletico, al che Ianto sorrise. Poi il giovane si
voltò verso l’altro
che smise di baciargli il collo per occuparsi delle sue labbra. Si
scambiarono un
profondo e passionale bacio, quasi non si vedessero da tanto tempo.
“Che
c’è che non va?” chiese il Capitano
quando
lasciò andare la bocca del compagno.
“Niente”,
rispose Ianto un po’ troppo
frettolosamente.
“Non
mentire”.
Il
giovane gallese alzò lo sguardo verso quello del
compagno e restò a guardarlo per qualche tempo prima di
sospirare: “Quindi…
avremo un bambino”.
Jack annuì mestamente e in quel momento qualcosa in lui
scattò; soltanto ora si
rendeva conto del fatto che Ianto era veramente incinto e che di
lì a nove mesi
avrebbero avuto un bambino e sarebbe stato il loro bambino e
l’avrebbero dovuto
crescere e… tutto il resto.
“Non
so se riuscirò a farcela”, concluse Ianto dando
voce, con quell’unica frase, a tutte le preoccupazioni che
l’avevano
attanagliato in quell’ultima ora. Il Capitano
assottigliò gli occhi come per
chiedergli altre spiegazioni.
“Insomma, io non so come si fa a fare il padre, il mio di
certo non è stato un
buon esempio e…”. Si interruppe nel vedere
l’altro che sorrideva intenerito.
“Se ci fosse un libro di istruzioni sarebbe più
facile. Ma non ci sono delle
regole da seguire per essere un buon genitore”.
“Ma tu hai più esperienza di me”.
Jack si morse il labbro inferiore; certo, forse aveva più
esperienza, ma
nemmeno lui era stato un padre eccezionale con Alice.
“Ianto”,
lo chiamò alla fine, guardandolo
intensamente negli occhi azzurri. “Sono sicuro che sarai un
padre fantastico,
lo saremo entrambi. Ti verrà spontaneo, vedrai”.
“Ma
tu lo vuoi? Eri tu che volevi che abortissi”.
Il
Capitano sospirò, soppesando bene le parole da
dire. “Sì. Il fatto è che non lo vedevo
come un bambino, per me era qualcosa…”,
non sapeva come spiegarsi, aveva paura di dire qualcosa di sbagliato e
in quel
momento non gli andava di litigare.
“Pensavi
che fosse un alieno?” gli corse in aiuto
Ianto.
Jack
sospirò. “Sì. Però ora ho la
conferma che si
tratta di un bambino ed è il nostro bambino e lo ameremo
tanto. Solo…”.
“Solo
cosa?”
“Non
voglio che tu corra rischi. Io non posso
rinunciare a te e prima di tutto voglio che tu stia bene”.
Quelle
parole erano forse le più belle che gli
avesse mai detto, pensò il giovane e quasi gli venne da
piangere. Maledetti ormoni
della gravidanza! Tuttavia non riuscì a trattenersi dallo
stringere il Capitano
in un forte abbraccio, circondandogli il collo con le braccia e
poggiando la
fronte contro la sua spalla. L’altro ricambiò,
accarezzandogli la spina
dorsale.
“Ti
amo, Jack”, gli sussurrò all’orecchio
con voce
commossa.
“Anche
io ti amo”.
Quando
Gwen quella sera tornò a casa, pimpante e
allegra, si buttò subito tra le braccia di Rhys che stava seduto sul divano a
guardare una partita
di football. Lui non si aspettava quel saluto, però lo
accettò più che
volentieri e diede un lungo bacio alla moglie.
“Non
crederai mai a ciò che è successo
oggi!”
esclamò la ragazza guardandolo con occhi che quasi
luccicavano. L’uomo si mise
subito sull’attenti, sicuro che gli avrebbe raccontato
qualcosa di emozionante,
come faceva sempre quando tornava dal lavoro.
“Cosa?”
le chiese.
“Ianto
è incinto!”
Rhys
strabuzzò gli occhi e la guardò come se fosse
ammattita. “Non prendermi in giro”.
“Non
ti sto prendendo in giro!” esclamò Gwen
sforzandosi per non scoppiare a ridere di fronte alla sua espressione.
“E’
vero!”
“Come?!”
“Ti
ricordi quando siamo andati in quell’orfanotrofio
dove scomparivano dei bambini?”
Il
marito annuì, impaziente di sentire il resto
della storia.
“Ecco,
un alieno lo ha morso e lui adesso è incinto”.
“Quindi
è incinto di un alieno”.
“A
dire il vero no. Il bambino è di Jack”.
Ok,
ora non ci capiva più nulla, si trovò costretto
a confessare Rhys a sé stesso. O sua moglie era ammattita
sul serio oppure
pesce d’aprile era arrivato un po’ prima.
“Continuo
a non capire, Gwen”.
La
ragazza sbuffò e si appoggiò meglio sui cuscini
del divano. “L’alieno che lo ha morso ha fatto
sì che il suo organismo potesse
sostenere una gravidanza. Non sappiamo come abbia fatto però
è successo. E ora
lui aspetta un bambino, da Jack”.
“Oh”,
fu l’unica cosa che riuscì a dire Rhys, mentre
abbassava lo sguardo pensieroso. “Ma due uomini non
possono… fare bambini”.
“Ehi!
Con Torchwood niente è impossibile, dovresti
averlo capito!” gli ricordò lei, dandogli un
buffetto sul naso.
L’uomo,
però, tutto d’un tratto si fece cupo e
spostò lo sguardo verso il tappetto ai suoi piedi. Gwen se
ne accorse subito e
temette di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Che
c’è, tesoro?”
“Niente,
è solo che…”.
“Solo
che?”
“Ianto
e Jack stanno per avere un bambino”.
“Sì”.
La ragazza non capiva dove il marito volesse
andare a parare constatando l’ovvio.
Improvvisamente
Rhys alzò lo sguardo su di lei e le
puntò addosso i suoi occhi scuri, scrutandola in viso con
intensità. “E noi
quando ne avremo uno?”
Gwen
si passò la lingua sul labbro superiore,
muovendo il capo su e giù ma senza sapere che dire. Era
sempre quello il
discorso, ormai Rhys non faceva altro che nominare la questione bambini
e lei
cominciava anche ad esserne un po’ stufa. Certo, lui non
aveva tutti i torti,
avrebbero anche dovuto parlarne, ma… il fatto era che non
sapeva cosa dirgli. Anche
lei voleva avere dei figli ma il suo lavoro non glielo permetteva e non
poteva
nemmeno mostrarsi egoista nei confronti del marito.
“Dobbiamo
parlarne stasera?”
“Abbiamo
già rimandato troppo”.
Riuscì
solo a togliersi le scarpe appena entrata in
casa prima di buttarsi sul divano, esausta. Toshiko tirò un
sospiro e si
raggomitolò, stringendosi nel suo cappotto. Faceva
leggermente freddo nel suo
appartamento. Be, dopotutto non ci stava tanto e di certo non accendeva
molto
spesso il riscaldamento.
Era
stanca quella sera, particolarmente stanca. Fortuna
che quel giorno non avevano avuto missioni particolari da compiere
né qualche
inevitabile disgrazia da affrontare. Be’, eccetto per Ianto,
ma grazie al cielo
era finito tutto bene.
Ianto
incinto. E chi se lo sarebbe mai aspettato? Chissà
come stava prendendo la cosa, non sembrava molto felice quando
l’aveva
scoperto. Ma sicuramente adesso era a casa sua, con Jack che gli faceva
le
coccole e tutte quelle altre cose che loro due facevano.
Non l’avrebbe mai confessato ad alta voce, ma li invidiava.
Molto. Anche lei
avrebbe tanto voluto avere qualcuno da cui tornare a casa, qualcuno che
l’accogliesse
a braccia aperte con la cena pronta come, ad esempio, faceva Rhys con
Gwen, e
qualcuno che le massaggiasse i piedi, che l’ascoltasse mentre
lei si sfogava e
poi la baciava e… perché non riusciva a trovare
nessuno? Ah già, Torchwood
portava via un sacco di tempo alla sua vita sociale. Quel lavoro era la
cosa
migliore ma al tempo stesso la peggiore che le fosse capitata.
O perché piuttosto non poteva essere disinvolta e
insensibile come Owen, che
sicuramente ora era in qualche locale a flirtare con qualche bella
biondina
dalle tette più grandi della testa?
Owen…
era proprio una ragazza stupida. Innamorarsi di
Owen… stupida, stupida Tosh. Non l’avrebbe mai
ricambiata, questo era sicuro.
Eppure al cuor non si comanda. La vita sarebbe troppo semplice se
così fosse.
No,
doveva smettere di piangersi addosso. Lui non
meritava di certo le sue lacrime e in ogni caso ciò non
avrebbe portato da
nessuna parte.
Si
alzò in piedi piuttosto faticosamente e si tolse
la giacca. Poi si preparò per farsi la doccia.
L’acqua calda le avrebbe
rinfrescato un po’ le idee e dopo qualche ora di sonno
avrebbe iniziato a
vedere le cose da un’altra prospettiva.
Sì… sì…
Ianto,
steso sul letto sotto Jack, inarcò
leggermente la schiena per chiedere di più. Il Capitano gli
stava mordicchiando
il capezzolo destro ed era una cosa che lo faceva impazzire. Oh, lui
sapeva
come stuzzicarlo, lo sapeva bene. Poi però scese fino al suo
addome, lasciandogli
piccoli bacetti ovunque. Infine infilò la punta della lingua
nel suo ombelico,
girandoci un po’ attorno e salì a leccargli il
centro della pancia fino allo
sterno.
Il
giovane sentiva l’erezione crescere e non si
sarebbe accontentato solo di quello. Sperava che Jack si sbrigasse, per
quanto
gli piacessero i preliminari.
Il
Capitano, però, d’improvviso si fermò e
poggiò il
mento sulla pancia del compagno. “Jack”, lo
chiamò Ianto dolcemente, ma dal suo
tono traspariva una certa impazienza. “Che stai
facendo?”
“Cercavo
di capire”.
“Che
cosa?”
“Secondo
te facciamo del male al bambino se
giochiamo un po’?”
Il
più giovane cercò di non scoppiare a ridere.
“Non
penso. Il proiettile non l’ha nemmeno sfiorato per cui
possiamo stare
tranquilli”.
“Sì,
forse hai ragione”.
Jack,
allora, si tolse velocemente i pantaloni
buttandoli da qualche parte per terra, e aprì le gambe del
compagno
preparandosi a penetrarlo.
Non appena sentì il suo sesso entrare dentro di lui, Ianto
provò un certo
fastidio, ma quello sarebbe stato ben compensato in seguito. Il
Capitano si
spinse ancora più dentro senza preoccuparsi troppo, ormai
conosceva bene il
corpo del fidanzato e sapeva come fare. Prese a muoversi, dapprima
lentamente,
poi aumentando sempre di più la velocità. Strinse
le mani attorno alle cosce di
Ianto, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare. L’altro,
invece, muoveva il
bacino seguendo il ritmo di Jack, gli occhi lucidi per il piacere.
L’orgasmo
era lì, gli bastava solo un altro po’.
Il
sesso con Jack era fantastico, semplicemente
fantastico. Jack era fantastico. Non c’era niente da fare, si
sentiva
completamente in sua balia, corpo e anima.
E
quell’orgasmo… quell’orgasmo era uno dei
migliori
che avesse mai provato.
Il
Capitano venne
subito dopo di lui, disperdendo il seme nel suo corpo, poi gli si stese
sopra,
cercando di non buttargli addosso tutto il proprio peso.
Poggiò la testa sul
suo petto, ascoltando il ritmo un po’ accelerato del suo
cuore e cullato dal
ritmo del suo torace che si abbassava e si alzava nel respirare.
Ianto, invece, prese a passargli le dita tra i capelli, sentendosi
felice. Per la
prima volta in vita sua era veramente felice.
MILLY’S
SPACE
È
incredibile che io alla sera riesca a trovare tempo ed
ispirazione per scrivere. Di solito lo studio mi esauriva troppo, ma
adesso sto
cercando di organizzarmi per bene e pare che per il momento funzioni.
Speriamo ^^
Va
bene, detto questo passiamo al capitolo. Non ho molto
da dire, solo che è un tantino più corto degli
altri, ma spero che il contenuto
compensi. Ditemi voi cosa ne pensate.
Invece,
per chi di voi segue anche il telefilm Sherlock,
sto pubblicando una fanfiction
anche lì, se vi va dateci un’occhiata. Si intitola “It’s
elementary, Watson. The fact that I
love you”. E
fate un salto anche sulla mia pagina facebook, Milly’s
Space.
Un
bacione,
Milly.
P.S.
secondo voi, il bambino di Jack e Ianto sarà un
maschio o una femmina? Si aprono le scommesse xD
HELLOSWAG:
Ianto sta bene, il bimbo sta bene e tutti sono felici e contenti.
Be’, eccetto
John. Ti confesso che a me invece come personaggio piace, ha una sua
psicologia
e profondità secondo me ed è molto simile a Jack.
È la sua parte cattiva,
diciamo. Be’, sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso
capitolo, fammi
sapere cosa ne pensi di questo. E non ti preoccupare, sei sana, sei
sana quanto
lo sono io ^^
LAPI:
wow, allora è un onore per me ricevere la tua recensione.
Pure io recensisco
molto poco, la pigrizia è sempre molto forte però
mi rendo conto quanto i
commenti siano importanti. Eh, va be’. Per rispondere alla
tua domanda, diciamo
che Jack si rende conto di quello che sta succedendo solo in un secondo
momento
o almeno così è nella mia storia ^^ Non ti
preoccupare, più avanti vedrai che
non è così insensibile. O forse no. Boh ^^ Un
bacione, M.
AMAYAFOX91:
eh, brava la mia detective ^^ sei quasi brava quanto Sherlock xD fatti
risentire, kisssss. M.
|
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Capitolo 15 *** Capitolo quattordici - Fear ***
CAPITOLO QUATTORDICI - FEAR
“It’s crystal clear, I hear
your voice
and all the darkness disappears”
(I belong to
you, E.Ramazzotti e Anastacia)
“Non
posso non dirglielo, Jack. È mia sorella”.
“E
come le spieghi una cosa del genere?”
“Be’,
le dirò la verità. Tanto sa già quello
che
facciamo. Più o meno”.
“Se
ne sei sicuro”.
Il
capitano parcheggiò il suv a ridosso del
marciapiede, di fronte ai cancelli sbarrati di un edificio. Una volta
spento,
scese velocemente dal veicolo, seguito da Ianto.
“Certo
che ne sono sicuro”. Il ragazzo gli si
affiancò e rimase a guardare l’insegna spenta del Rose’s Hotel. “E’
questo il posto?”
“Direi
di sì”.
Prima
di addentrarsi dentro all’albergo, entrambi
rimasero a guardarlo per un po’, come se lo stessero
ascoltando. A prima vista
sembrava un innocuo Hotel come ce n’erano tanto a cardiff.
Non era
particolarmente di lusso, ma non era nemmeno un bed and breakfast da
quattro
soldi. L’unica pecca che aveva erano i muri scrostati e le
porte chiuse col catenaccio,
segno che era stato chiuso da un po’. Precisamente da quattro
anni, si erano
informati Jack e Ianto prima di venire lì. Sarebbe stato
molto più utile se
l’avessero trasformato in un palazzo di appartamenti o se
l’avessero demolito
per costruirci un parco, ma la gente aveva paura, paura di quello che
c’era
dentro. Qualcuno giurava di sentire delle voci, delle grida provenire
da lì, e
che ogni tanto le luci si accendevano. La gente era convinta che ci
fossero dei
fantasmi. E in quegli ultimi tempi questi fenomeni sembravano accadere
sempre
più spesso.
Per questo Torchwood si era attivato. Dopotutto, loro risolvevano
problemi di
quel genere.
“Andiamo?”
chiese Jack porgendo un braccio al
proprio compagno come un vero cavaliere. Ianto gli sorrise e ci
infilò il
proprio sotto. I due, poi, salirono i pochi gradini che li separava
dall’ingresso.
Al Capitano ci volle poco per scassinare il lucchetto con gli attrezzi
giusti
e, non appena spinsero la porta, vennero pervasi dall’odore
stantio e muffoso
che pervadeva quell’ambiente, chiaro segno che quel posto
veramente non veniva
aperto da un po’.
Davanti a loro si estendeva un corridoio che portava al bancone della
reception, proprio di fronte alle porte, mentre sulla destra
c’erano un basso
tavolino circondato da delle poltrone. Il tutto coperto rigorosamente
da teli
di stoffa bianchi e pieni di polvere. Accanto al bancone,
c’era una rampa di
scale che si muoveva a spirale e che di certo portava alle stanze al
piano di
sopra.
Ianto
tirò fuori da una borsa che portava a tracolla
lo strumento di solito utilizzato da Toshiko per captare segnali alieni
e lo
accese puntandolo in varie direzioni. Ma lo strumento non emetteva
alcun
rumore.
“Pare
non ci sia niente”.
“Aspetta.
Dovremmo controllare tutta la zona”.
“Andiamo
di sopra?”
Jack
si era già avviato verso le scale quando, prima
che Ianto potesse raggiungerlo, sembrò cambiare
improvvisamente idea perché
torno indietro. “Prendiamo l’ascensore”.
Prese il compagno per una mano e lo
trascinò fino all’ascensore che ricordava tanto lo
stile degli ascensori negli
anni venti.
Ianto non capiva quell’improvvisa decisione ma non
cercò di indagare.
Una
volta dentro, il Capitano schiacciò il numero
uno e chiuse i cancelli dell’ascensore. Ianto invece
notò che c’erano ben venti
piani in quell’hotel e il solo pensiero che forse gli
avrebbero dovuti
controllare tutti gli fece salire la nausea. Letteralmente. Ma
riuscì a
spingerla indietro.
L’ascensore
si fermò al primo piano con un suono
metallico e aprì le porte. Jack fu il primo ad uscire e
immediatamente diede
una rapida occhiata in entrambe le direzioni. C’era un lungo
corridoio,
piuttosto stretto anche, e su entrambe le pareti facevano bella mostra
di sé
diverse porte, tutte uguali, tutte sicuramente chiuse a chiave, ma
contrassegnate da numeri differenti.
“Dobbiamo
controllare tutte le stanze?” chiese
Ianto.
“Solo
quelle che trovi aperte. Se ne trovi”. Come
per dare una mostra di ciò che aveva appena detto, Jack
cercò di aprire la
prima porta ma senza successo. Avrebbe potuto usare i suoi strumenti da
scasso,
ma non gli andava di farlo per ognuna. “Senti,
perché non ci dividiamo? Tu
resti qui, io vado di sopra. Se trovi qualcosa, dimmelo”. E
per fargli capire
come, portò la mano verso il proprio auricolare che teneva
all’orecchio e ci
schiacciò un bottone. Ianto lo guardò andare via
con l’ascensore, quasi
dispiaciuto che se ne andasse, e poi cercò di darsi un
contegno. Non poteva
essere nervoso. Non ce n’era bisogno. Era soltanto
un’altra giornata di lavoro
normale, come tutte le altre. E Jack sarebbe tornato.
Si
incamminò lungo il corridoio stringendo forte il
radar cerca-alieni. La nausea lo disturbava ancora e aveva paura che da
un
momento all’altro si trovasse piegato in un angolo a vomitare
tutta la
colazione. Ma sul serio le donne incinte sopportavano questo?
Cercò di non pensarci e di concentrarsi solo sulla missione
affidatagli da
Jack. Si avvicinò ad una delle tante porte e
tentò di aprirla. Ma niente.
Allora continuò ad andare avanti, svoltando dietro ad un
muro. Improvvisamente,
gli sembrò di sentire una presenza alle proprie spalle. Si
voltò lentamente,
sperando di cogliere chiunque fosse in flagrante. Ma non
c’era nessuno. Tirò un
sospiro di sollievo dicendosi che era stata solo una sua sensazione.
Stava
diventando troppo suscettibile.
Mise
avanti un altro piede per continuare la sua
esplorazione attraverso l’hotel, quando gli parve di scorgere
un’ombra strana
provenire da una stanza a pochi metri da lui. Si incamminò
in quella direzione
e, più si avvicinava, più quell’ombra
prendeva le sembianze di una figura
umana. Il radar tuttavia non segnava niente di anomalo. Allora lo mise
via ed
estrasse la pistola. Gli ultimi due passi li percorse con cautela, il
cuore che
batteva a mille. Si parò dinanzi alla stanza aperta con la
pistola ben puntata
di fronte a sé, ma di nuovo scoprì che non
c’era niente. E quell’ombra che lui
aveva scambiato per una figura umana era nient’altro che
l’ombra di una statua
che doveva rappresentare una qualche dea.
Quasi rise di se stesso.
“Jack,
qui non c’è niente”, disse
all’auricolare
legato al suo orecchio destro.
“Nemmeno
qui”, si sentì rispondere dalla voce del
Capitano. “Torna al pianoterra così decidiamo cosa
fare”.
Ianto
obbedì subito praticamente correndo verso
l’ascensore. Non vedeva l’ora di ricongiungersi con
Jack e di uscire da lì;
aveva una brutta sensazione addosso.
Quando giunse al luogo del ritrovo, però, il Capitano non
c’era ancora. La
reception era sempre lì, così come le poltrone e
il tavolino.
Raggiunse il bancone per dare un’occhiata al registro o
scoprire qualcosa,
quando dei passi dietro di lui lo fecero sobbalzare. Si
voltò di scatto
scoprendo che era solo Jack che scendeva le scale.
“Stai
bene?” gli chiese questi, riponendo la propria
pistola.
“Sì”,
rispose il ragazzo ma non ne era tanto sicuro.
“Torniamo
alla base e controlliamo meglio la mappa
dell’hotel. Magari veniamo insieme a Gwen e Owen la prossima
volta”.
“D’accordo”.
Ianto, contento che stessero per
abbandonare quel posto, cominciò ad andare verso la porta,
quando si bloccò sul
posto come paralizzato, il volto che mostrava un’orripilata
espressione di
panico. “Jack, dov’è la porta?”
“Cosa?!”
La
porta d’ingresso dalla quale erano entrati era
sparita, dissolta, come se non ci fosse mai stata. Al suo posto
c’era soltanto
una parete, bianca come tutte le altre. Jack le corse incontro
poggiandoci
sopra le mani, come per cercare una porta segreta o comunicare con il
muro.
Ianto, invece, afferrò un vaso che stava dietro il bancone e
ci vomitò dentro.
Poi
le luci al neon sul soffitto presero ad
accendersi e spegnersi.
“Chi
siete? Come avete fatto ad entrare?”
Sia
il Capitano sia il gallese sobbalzarono entrambi
al sentire quelle voci ed estrassero contemporaneamente la pistola,
puntandola
contro cinque persone appena giunte lì, senza che loro li
avessero sentiti
arrivare. Questi alzarono immediatamente le mani, spaventati.
“Non
sparate!” gridò un ragazzo vestito in stile
metallaro, pieno di borchie e piercing, i capelli acconciati in una
corta
cresta in cima alla testa.
Ianto
e Jack si lanciarono un’occhiata, come per
comunicarsi qualcosa in silenzio, e poi abbassarono le armi
così come le
avevano tirate fuori.
Gli
altri quattro, invece, erano un uomo sulla
trentina vestito in modo particolare, con una camicia bianca, le
bretelle, i
pantaloni eleganti e una lunga giacca di stoffa rossa con bottoni
elaborati e
le maniche avevano una parte lavorata in pizzo. I suoi capelli, poi,
erano
pettinati in modo ancora più strano, lunghi riccioli biondi
che gli scendevano
fino alle spalle che sembravano appena stati sistemati da una
parrucchiera.
Sembrava venire da un altro secolo.
Poi c’era una donna vestita di semplici jeans e una felpa.
Era piuttosto
carina, con quei capelli rossi e gli occhi verdi. Il terzo uomo era
invece
piuttosto avanti con l’età, il volto era
già segnato da rughe e i capelli
bianchi si stavano diradando. Tuttavia, nemmeno lui pareva appartenere
molto a
quell’epoca.
Il quinto personaggio, era, invece, una bambina. Indossava un vestitino
che le
arrivava alle ginocchia, i capelli erano raccolti in due codine alte ai
lati
della testa e aveva le ginocchia sbucciate. I suoi enormi occhi marroni
fissavano i due uomini con enorme terrore.
“Come
siete arrivati qui?” chiese la donna in tono
sorpreso.
“Dalla
porta. Come voi, immagino”.
“Quale
porta?” fece il ragazzo metallaro.
Già,
quella era una bella domanda.
“Quella
che ora è scomparso”, disse Ianto con voce
piuttosto disperata. Non gli andava per niente di restare bloccato
lì dentro.
“Chi
siete voi?” domandò Jack col tono che di solito
usava per dare ordini. E ciò probabilmente indusse la
ragazza dai capelli rossi
a rispondere subito. “Io mi chiamo Chiara Toniazzi e loro
sono Jacob” e indicò
il metallaro. “Il Signor Wilson” puntò
il dito contro l’uomo più anziano
“Oliver Quinn e Emma”. Il giovane che sembrava
provenire da un altro secolo
fece una riverenza e la bambina si nascose dietro le gambe di Chiara.
“Io
sono il Capitano Jack Harkness e lui è Ianto
Jones. Siamo di Torchwood”.
“Torchwood?
Mai sentito”, bofonchiò Oliver con
sguardo pensieroso. Ianto e Jack si guardarono; tutti a Cardiff avevano
sentito
nominare Torchwood almeno una volta benché loro cercassero
di mantenerlo
segreto il più possibile. Sicuramente non era del posto.
“D’accordo”,
fece allora Jack cercando di prendere in
mano la situazione. “Potreste dirci che posto è
questo?”
“E’
un hotel maledetto”, iniziò Jacob con aria
teatrale e voce spiritata. “Non potete nemmeno immaginare che
cosa c’è qui
dentro”.
La
ragazza dai capelli rossi sospirò e fece un passo
avanti. Sembrava essere la più pratica lì dentro,
nonché la più collaborativa.
“E’ strano. Ci sono delle cose qui…
nascoste nelle stanze”.
“Quali
cose?”
“Non
lo so. Sono spaventose, comunque e non sappiamo
come combatterle. Né come uscire da qua”.
Jack
iniziò a percorrere la hall dell’albergo a
grandi passi, aprendo cassetti e spulciando dietro i mobili e
addirittura
dietro ai quadri. Ianto invece si lasciò andare contro una
poltrona coperta.
“Da
quanto siete qui?”
“Non
saprei. Non da molto. Ma è impossibile uscire
ora”.
Il
Capitano bloccò la sua andatura di colpo,
rimanendo immobile di fronte ai cinque con le labbra piegate in un
sorriso
piuttosto furbesco. “Niente è impossibile. Non per
me”. Poi corse al bancone,
aprì una teca di vetro e prese un grosso mazzo di chiavi.
“Ianto!” chiamò poi.
Il ragazzo lo raggiunse, sicuro che aveva qualcosa in mente.
“Ti prometto che
ti tirerò fuori di qui”, gli sussurrò
all’orecchio senza che gli altri lo
potessero udire. Poi gli diede un veloce bacio a stampo. E Ianto seppe
subito
che così sarebbe stato. Infine Jack si rivolse di nuovo agli
altri cinque che
erano rimasti a guardarli curiosi. “Oliver, Jacob, voi
verrete con me e Ianto.
Voialtri andate a esplorare dove meglio credete e se trovate qualcosa,
tirate
un urlo”.
“E
cosa dobbiamo cercare?” chiese il metallaro.
“Qualsiasi
cosa. Non ho intenzione di rimanere qui”.
Tutti
quanti sembravano aver capito che non c’era
verso di contestare quelle parole, né tantomeno mettersi
contro il Capitano.
Così obbedirono subito agli ordini. E in ogni caso, non
potevano dargli torto.
Ianto,
Jack, Jacob e Oliver presero l’ascensore fino
all’ultimo piano, mentre gli altri andarono a piedi partendo
dal primo.
“Non
trovate anche voi che quella fanciulla, Chiara,
sia vestita in modo un po’ fuori
dall’ordinario?” chiese Olver, camminando
dietro gli altri tre uomini lungo il corridoio stretto
dell’ultimo piano
dell’hotel. “Non ho mai visto una donna portare i
pantaloni?” Gli altri erano
troppo distratti per stupirsi o interessarsi alle sue parole e quindi
nemmeno
si degnarono di rispondere, il che parve offendere leggermente il
biondo.
Ianto
si avvicinò ad una porta e notò che il
rilevatore che teneva tra le mani si era acceso di una luce verde
fosforescente, indicando un pericolo alieno.
“Jack?”
chiamò il ragazzo, avvicinandosi di più alla
porta.
“C’è
qualcosa?”
“Non
lo so”.
Il
Capitano pose una mano sulla maniglia e fece per
spingerla in giù. Quando ad un tratto sentirono un grido
provenire da uno dei
piani di sotto, sicuramente appartenente a Chiara oppure a Emma.
Jack
non ci pensò due volte prima di girarsi e
correre verso le scale, lasciando che il cappotto gli sbattesse contro
le
gambe. Scese velocemente le scale, quasi fosse inseguito da uno
pterodattilo, e
arrivò al quindicesimo piano dove vide Chiara inginocchiata
per terra che si
reggeva la testa tra le mani. Emma era nascosta dietro il muro, mentre
il
Signor Wilson tentava di confortarla.
“Che
cos’è successo?” chiese Jack allarmato,
abbassandosi al livello della ragazza.
“Non
lo so. Ha aperto quella porta e ha solo urlato.
Ma io non ho visto niente”, spiegò
l’anziano, l’espressione che lasciava
trapelare tutta la sua paura.
“Chiara?”
la chiamò l’uomo prendendola per le
braccia. Voleva cercare di vederla in viso. “Adesso sei al
sicuro. Nessuno ti
farà del male”. Quelle parole parvero confortarla
immediatamente, perché smise
di tremare e abbassò le mani, poggiandole sulle ginocchia.
Tuttavia non alzò lo
sguardo. “Che cos’hai visto?”
Chiara a quel punto rivolse il viso verso il Capitano rivolgendogli i
suoi
occhi scuri pieni di lacrime e puro terrore. “Era
spaventoso”, esalò con una voce
debolissima, tanto che si faticò a sentirla.
“Enorme, più grande di me e aveva
delle zanne… voleva mangiarmi”.
Il
Signor Wilson lanciò un’occhiata confusa
all’uomo
accanto a lui, indeciso se iniziare ad avere paura o semplicemente
concludere
che la ragazza era impazzita tutto d’un colpo e aveva le
allucinazioni.
Il volto di Jack invece… il suo volto improvvisamente si era
illuminato di una
luce di comprensione. Forse iniziava a capire.
Improvvisamente,
si udirono altri passi dietro di
loro arrivare di corsa e Ianto, Jacob e Oliver fecero la loro comparsa.
“Che
cos’è successo?”
“Dobbiamo
controllare le altre stanze”, ordinò Jack,
rialzandosi.
“Ma
non potete!” esclamò Chiara. “Il
mostro… il
mostro vi mangerà”.
Il
Capitano le sorrise rassicurante. “Non sono tanto
buono. Non mi mangerà”.
Ianto
invece non esitò un attimo e cercò di aprire
tutte le porte di quel piano. Si rese conto di essersi allontanato dal
gruppo
solo dopo un po’, ma continuò ad andare avanti.
Finalmente giunse ad una porta che doveva nascondere qualcosa, visto
che il suo
radar si era messo addirittura a suonare.
Allungò
lentamente la mano verso la maniglia e, con
molta cautela, il cuore in gola, la spinse verso il basso. La porta si
aprì e
un fastidioso cigolio di cardini attraverso il corridoio. Il ragazzo la
spalancò ma era completamente immersa
nell’oscurità.
Allora si decise a varcare la soglia, a passi molto piccoli, e a
tentoni cercò
l’interruttore della luce. Quando lo trovò e la
stanza venne illuminata da una
psichedelica lampada al neon appesa al soffitto, Ianto rimase
paralizzato per
ciò che vide: c’era Jack steso sul
letto… o meglio, c’era il suo corpo buttato
scomposto sul letto, le braccia allungate sopra la testa e le gambe
piegate
oltre il bordo. I suoi occhi erano spalancati ma non vedevano niente ed
erano
ancora più chiari del normale. Dalla bocca gli scendeva un
rivolo di sangue.
Anche sul suo corpo c’era del sangue, ce n’era
tantissimo, gli macchiava la
camicia bianca e il cappotto, il suo bellissimo cappotto. E
c’era del sangue
persino sui muri e sul soffitto e per terra.
Ianto
cercò di urlare ma nemmeno una debole sillaba
gli uscì dalla bocca. I suoi occhi erano pieni di terrore e
di panico. Come
poteva essere lì Jack? Se poco fa lo aveva visto insieme
agli altri vivo e
vegeto. Oltretutto lui non poteva morire. Si sarebbe svegliato,
presto… sì… ma
allora perché non si alzava? Forse qualcuno lo aveva
dissanguato e non poteva
più tornare indietro.
All’improvviso
sentì un botto dietro di lui e con
orrore si rese conto che la porta si era chiusa. Le si buttò
contro per aprirla
ma qualcuno l’aveva chiusa da fuori.
Ma chi? Forse uno di quei cinque che avevano conosciuto
nell’hotel? Che gli
volessero fare uno scherzo.
Si
voltò di nuovo verso il letto, ma Jack continuava
a giacere lì, lo sguardo cieco rivolto verso di lui.
Ad un tratto vide un’ombra uscire da dietro
l’armadio. Era un’ombra molto
grossa e molto… minacciosa. Solo quando quella fu uscita
completamente allo
scoperto, Ianto si rese conto di conoscere benissimo la figura che lo
sovrastava. Era… era suo padre. Suo padre, molto
più grosso e alto di quanto se
lo ricordasse. E tutto d’un colpo gli passò
davanti agli occhi la sua immagine
diciassettenne che tentava di scappare a tutte le vessazioni e le botte
di suo
padre.
“Ciao,
figliolo”, lo salutò l’uomo con un
ghigno
completamente inumano. In realtà non sembrava molto suo
padre, sembrava più una
maschera di suo padre realizzata male. Ma soprattutto realizzata per
riempirlo
di terrore. “Hai visto cosa ho fatto?”
ringhiò, indicando con un cenno del capo
il corpo di Jack steso sul letto. “Voi checche meritate solo
questo. E adesso
ucciderò pure te e poi mi prenderò
quell’obbrobrio che porti nel ventre”.
Ianto
si voltò verso la porta e cominciò a battere
forte perché qualcuno, chiunque, lo liberasse. La paura lo
aveva completamente
attanagliato e non riuscivo a provare nient’altro. Sentiva
che sarebbe morto lì
all’istante, ancora prima che il padre potesse mettergli le
mani addosso.
“Fatemi
uscire!” gridò con tutto il fiato che aveva
in gola. “Vi prego! Liberatemi!!!”
“Non
serve a niente urlare. Nessuno ti può sentire”.
Il
ragazzo sentiva l’uomo avvicinarsi a lui sempre
di più sebbene non udisse i suoi passi. Gli mancavano solo
pochi centimetri ed
era sicuro che gli avrebbe mollato uno dei suoi fortissimi pugni in
testa.
Allora si preparò a ricevere il colpo, rassegnato al fatto
che nessuno sarebbe
venuto a salvarlo, nemmeno Jack. Perché Jack era morto. E questo faceva ancora
più male delle botte
di suo padre.
Lasciò che le lacrime gli inondassero il viso.
Sentì
il padre urlare dietro di lui, alzare il
braccio e…
C’era
un profumo, un profumo dolcissimo, un profumo…
familiare che gli aveva inebriato tutte le narici. E poi
c’erano delle braccia
forti, muscolose, calde… lo tenevano al sicuro, lo
stringevano forte facendogli
capire che tutto sarebbe andato bene.
Alzò
lo sguardo per incontrare due chiari occhi vivi
e attenti, pieni di preoccupazione e paura, ma vivi.
“Jack”,
sussurrò il ragazzo con un debole sorriso di
contentezza.
“Che
cos’è successo?” gli chiese il Capitano
allontanandolo dalla porta.
Ianto
non sapeva come spiegarglielo. Tutto quello
che aveva vissuto fino a poco fa ora non gli sembrava altro che un
bruttissimo
incubo eppure se ci ripensava poteva ancora vedere chiaramente le
immagini e
ricordare le sensazioni che aveva provato, il terrore, il
dolore…
“C’era…
c’eri tu. Eri morto”.
Jack
lo dovette lasciar andare per controllare nella
stanza ancora aperta. Eppure quando entrò non vide niente di
sospetto. C’erano
solo un letto, un armadio, una finestra e due comodini.
Controllò persino
dentro all’armadio ma non trovò niente.
Quando
uscì, vide Ianto seduto per terra, la schiena
appoggiata contro il muro e un ginocchio piegato.
“Che
cosa hai visto?” gli chiese,
inginocchiandoglisi accanto.
“Te.
Eri su quel letto… m… morto. E c’era
mio padre
che… che…”.
Il
Capitano si protese verso di lui per stringerlo
forte contro di sé. Il ragazzo affondò il viso
contro il suo petto e si lasciò
cullare, aggrappandosi alla sua camicia.
“Non
c’è niente. Sei al sicuro adesso, nessuno ti
farà del male”, continuava a sussurrargli per
confortarlo. “E io sono qui con
te”. E gli diede un bacio tra i capelli.
“Ragazzi!”
esclamò la voce di Chiara che era
arrivata di corsa in quel momento. “State bene?”
“Sì”,
rispose Jack aiutando il compagno ad alzarsi.
“Torniamo di sotto”.
La
ragazza rimase ad indugiare con lo sguardo sui
due, ma alla fine li seguì verso l’ascensore. Il
Capitano premette il pulsante
del piano terra e le porte si chiusero con uno schiocco. Ianto si
appoggiò alla
parete dietro di lui, gli occhi puntati sulla schiena di Jack, quando
un
improvviso e lancinante dolore gli trafisse lo stomaco. Si
piegò in due e
faticò a trattenere un gemito.
“Che
succede?” fece Jack allarmato.
“Ho
dei crampi”, biascicò il ragazzo, le braccia
strette attorno alla pancia.
“Merda!”
Quando
l’ascensore si fermò e le porte si furono di
nuovo aperte, Jack e Chiara trascinarono Ianto fino all’atrio
e lo fecero
accomodare su un divano. “Lascia, faccio io”, disse
la ragazza, fermando le
mani del Capitano che cercavano di aprire la camicia del ragazzo.
“Sono
un’infermiera”. Puntò i suoi occhi su di
lui per fargli capire che si poteva
fidare.
“D’accordo”, concluse l’uomo.
“Ti lascio nelle sue mani. Se hai bisogno di me,
chiama”. Ianto annuì e lo guardò andare
via, mentre un altro crampo gli faceva
soffocare un gemito di dolore.
Chiara
gli sbottonò la camicia scoprendogli il petto
e la pancia lisci. “Quanto sono forti i crampi?”
“Abbastanza”,
rispose Ianto con voce rotta.
“Hai
qualche disturbo particolare?”
“Non
mi crederai mai se te lo dico”.
L’infermiera
dai capelli rossi rise divertita.
“Siamo bloccati in un albergo senza porte né
finestre con strane creature e
poco fa sono stata quasi uccisa da un enorme mastino con gli occhi
aguzzi.
Davvero pensi che non possa credere a qualsiasi cosa hai da
dirmi?”
Se
non avesse avuto quei crampi dolorosi anche il
gallese sarebbe scoppiato a ridere. Chiara aveva ragione, ormai pure
nella sua
vita aveva visto tante di quelle stranezze che niente
l’avrebbe più stupito.
“Aspetto
un bambino”, le disse.
“Oh!”
“Già”.
“Ok…
ehm… comunque non stai avendo un aborto, non
c’è sangue. Deve essere lo stress, dovresti stare
un po’ tranquillo”.
Restarono
per un po’ di tempo a guardarsi, Chiara
leggermente imbarazzata e piena di domande da chiedergli e Ianto
piuttosto
sollevato perché i crampi erano passati.
“Com’è successo?” gli chiese
lei.
“E’
lunga da spiegare. E complicato”.
“E’
come questo?”
“Sì,
diciamo che ne fa parte”.
“E’
di Jack?”
Le
labbra di Ianto si piegarono in un sorriso. “Si
capisce così tanto?”
“Abbastanza”,
ridacchiò Chiara. “Si vede che vi
amate”.
Il
ragazzo spostò lo sguardo verso il profilo del
Capitano, in piedi appoggiato al bancone
a leggere dei fogli.
“Comunque
state bene insieme”.
“Grazie”.
“Siete
sposati?”
“Oh
no!”
“Avete
intenzione di farlo?”
“Non…
non lo so”. Sposarsi con Jack? Non ci aveva
mai pensato e a dire la verità non credeva affatto che fosse
una cosa
contemplata nella loro vita di coppia. Jack di certo non era tipo da
matrimoni
anche se era già stato sposato. “E tu?”
chiese poi a Chiara per cambiare
argomento.
“Magari!
Sono single da un bel po’. Diciamo che non
ho molta fortuna con gli uomini. Sono venuta qui anche per questo,
volevo farmi
una bella vacanza e magari conoscere un bel ragazzo gallese”.
“Di
dove sei?”
“Vengo
dall’Italia”.
“Deve
essere un bel posto”.
“Sì,
abbastanza. Ma nemmeno il Galles non è male”.
Entrambi si sorrisero teneramente, quasi fossero complici di un
segreto. Poi
qualcuno dietro le spalle della ragazza tossicchiò attirando
l’attenzione dei
due.
“Posso
parlare da solo con Ianto?”
Chiara
si alzò dal divano mentre il ragazzo si
richiudeva la camicia. Certo, il bambino era sopravvissuto ad una
pallottola,
ma non gli andava di fargli prendere freddo.
“Che
succede?”
Il
Capitano si mise comodo di fronte al compagno e
gli prese una mano. “Ho controllato i registri
dell’albergo, persino quelli
vecchi”.
“Quindi?”
“Quest’hotel
esiste dai primi anni del 1800”.
“Sì,
lo so”. Non capendo dove Jack volesse andare a
parare, Ianto lo esortò con lo sguardo a continuare.
“Oliver
Quinn è stato registrato come ospite di
questo albergo nel 1867, mentre il Signor Wilson è stato qui
nel 1943”.
Ianto
sgranò gli occhi sorpreso.
“Chiara
Toniazzi pare essere stata qui cinque anni
fa, mentre Jacob una settimana prima di lei. C’è
anche una Emma McKeagan
registrata nel 1976. E non è finita. Ho trovato anche dei
documenti che
attestavano la morte di tutte queste persone, deceduti in circostanze
misteriose”.
“Come
sarebbe a dire? Sono dei fantasmi?”
“Non
lo so. Forse. O forse qualcosa li tiene
bloccati qui”.
“Ma
quindi? Che cos’è questo posto? E quello che ho
visto?”
Jack,
anziché rispondere, si alzò e si
allontanò dal
divano andando fino al bancone. Fece un piccolo balzo e si sedette
sulla
superficie liscia del mobile.
“Signore
e signori!” chiamò per attirare
l’attenzione. Tutti perciò rivolsero gli sguardi
verso di lui. “Ascoltatemi
attentamente. Tutti quanti voi avete aperto la porta di almeno una di
quelle
stanze e avete visto qualcosa. Giusto?”
“Sì”,
confermò Jacob.
“Qualcosa
che vi ha fatto molta paura”.
“Esatto!”
“Vi
ricordate che cos’è successo dopo?”
Nella
stanza calò il silenzio, un silenzio carico di
tensione.
“Io
sono svenuto. E quando mi sono risvegliato non
c’era più nessuno e non riuscivo ad
andarmene”, rispose Oliver con uno sguardo
stralunato.
Non
eri svenuto. Eri morto.
“Penso
di aver capito che cosa ci minaccia”,
annunciò alla fine il Capitano e, se prima non
l’aveva fatto, ora aveva
attirato veramente l’attenzione di tutti.
“Di
cosa si tratta?”
“Delle
nostre paure. Quello che vedete nelle stanze
che aprite rappresenta la vostra paura più forte, la vostra
paura nascosta,
quella che non sapete nemmeno voi di avere”.
“Come?!”
“Ma
questo è assurdo?”
“Sarebbe
una maledizione?” chiese Oliver.
“Oh
no! Non è affatto una maledizione”, lo
contraddisse Jack. “E’ un alieno”.
“Un
alieno!” esclamò il Signor Wilson. “Come
può
essere?”
“Un
alieno che si nutre della paura delle persone. E
deve essere molto potente”.
I
presenti si guardavano tutti fra loro, indecisi se
credere a quello strano tizio che parlava di alieni o dargli del matto.
Jack,
non facendoci minimamente caso, si avvicinò
nell’angolo dove sedeva Emma e si
piegò accanto a lei.
“Ciao,
piccolina”.
Lei
lo scrutò con i suoi enormi occhi spaventati ma
non disse nulla.
“Tu
che cosa hai visto nella tua stanza?”
La
bimba abbassò lo sguardo verso la punta delle
proprie scarpe. “Ho visto il buio”.
“Il
buio?”
“Sì.
Mi entrava nelle orecchie e nel naso”.
“Capisco.
E i tuoi genitori?”
“Loro…
non lo so. Non li trovo più”.
Il
Capitano le diede un tenero buffetto sul naso
sospirando. Purtroppo per lei non li avrebbe trovati più.
“Tu
ci salverai?” chiese Emma riportando di nuovo lo
sguardo sull’uomo accanto a lei. “Ci libererai da
quell’alieno?”
Jack
le sorrise. “Certo, tesoro. Te lo
prometto”. Non
rifiutava mai di aiutare
una persona quando questa glielo chiedeva. Era una cosa che aveva
imparato da
una persona fantastica, parecchio tempo fa. E poi, come poter dire di no a una bambina
così dolce come Emma?
Ianto,
seduto ancora sul divano, fissava un punto
imprecisato davanti a lui. E così lui e Jack erano in
compagnia di cinque fantasmi,
oltretutto provenienti da secoli diversi. Avrebbe voluto bombardare
Oliver di
mille domande sulla sua epoca, l’età vittoriana
l’aveva sempre affascinata, ma
non poteva certo rivelargli che si trovavano nel ventunesimo secolo e
che lui
era morto.
E dire che inizialmente aveva pensato fosse semplicemente un tipo un
po’ fuori
di testa.
“Dove
pensate possa trovarsi?” chiese Jacob
osservando la mappa dell’albergo aperta sul bancone della
reception.
“Allora…”,
iniziò Jack tracciando delle linee con un
dito. “Questi sono tutti i piani delle stanze, quindi
escluderei che si possa
trovare qui. Questo che cos’è?”
“Deve
essere la caldaia?” rispose il signor Wilson,
riconoscendo il disegno dei tubi e di strani macchinari che stava
indicando
Jack.
“Forse
è lì”.
“Può
darsi. È un posto caldo. Allora direi di
controllare prima lì”.
Il
Capitano richiuse la mappa e fece un balzo oltre
il bancone.
“Ma
come si sconfigge?” domandò Chiara, legandosi i
capelli in una coda.
“Se
il mostro si nutre delle paure, allora serve un
opposto che lo sconfigga”, ipotizzò Jacob.
“Esattamente”.
“Il
coraggio?”
“No,
quello non basta”.
“E
allora che cosa?”
“La
fede”.
A
quella parola di Jack tutti gli altri si
scambiarono uno sguardo confusi.
“Jack!”
chiamò Ianto avvicinandosi all’uomo. “Ma
come sono morti queste persone?” fece, a bassa voce
perché gli altri non lo
sentissero.
“Di
paura”.
“Paura?”
“Sì”.
“Accidenti.
E con cosa lo uccideremo?”
“Non
lo so. Improvviserò qualcosa. In ogni caso, tu
non vieni con me”.
“Cosa?”
Jack
spinse Ianto contro un muro e lo guardò dritto
negli occhi azzurri. Non aveva intenzione di portarlo con
sé, già poco fa aveva
rischiato di perderlo. Sarebbe morto anche lui di paura se non fosse
venuto a
salvarlo e questa volta il bambino che portava in grembo non
l’avrebbe potuto
salvare. Perciò non aveva alcuna intenzione di trascinarlo
dritto nella tana
del lupo.
Dovette
insistere parecchio però perché il ragazzo
si decidesse a rimanere. Alla fine lo convinse, promettendogli che
sarebbe
tornato presto. Il Capitano se ne andò nella stanza della
caldaia, che stava in
un’ala un po’ isolata, insieme a Oliver e Jacob,
mentre Ianto se ne rimase
nella hall con Chiara, il Signor Wilson e Emma, ripetendosi quanto
detestasse
quando Jack lo escludeva così benché fosse per il
suo bene.
“Ragazzi!
State bene?” urlò Jack guardandosi
attorno. Lui e i due che l’avevano accompagnato erano appena
stati attaccati da
un alieno viscido e bavoso che li aveva stesi tutti quanti a terra
senza che
avessero nemmeno il tempo di urlare. Era molto più grosso e
forte di quello che
il Capitano aveva previsto e non sarebbe stato facile.
“Ho
preso un colpo alla testa, ma sto bene!” gli
rispose la voce di Jacob. Certo che stava bene, dopotutto era
già morto e non
poteva morire un’altra volta.
“Anche
io sto bene”, aggiunse Oliver.
Jack
si mosse di nuovo verso l’entrata della stanza
dove era custodita la caldaia e sbirciò attentamente il
mostro che stava
dentro. Avevano svegliato il drago…
L’alieno, una creatura che somigliava a un tirannosauro Rex,
solo con qualche
occhio in più, lo stava fissando da un angolino nel quale si
era rintanato e
sicuramente preparava un attacco.
“Ricordatevi,
ragazzi! Non dovete temerlo!” ricordò
Jack agli altri due. “E se vi mostra qualcosa, ricordatevi
che sono solo
illusioni, non c’è niente di vero”. Poi
afferrò una sbarra di ferro e gli si
lanciò contro. Ma sapeva che non era quello il modo per
ucciderlo. C’era solo
una maniera con qui avrebbe potuto farlo fuori, una sola e non era
certo una
sbarra di ferro.
Il
mostro lo spinse con la testa facendolo volare in
mezzo a delle assi di legno. “Ahia”, si
lamentò il Capitano, toccando una
sostanza appiccicosa e rossastra che gli stava sporcando la camicia.
“Jack!”
sentì urlare qualcuno. Ma non era né la voce
di Jacob né tantomeno quella di Oliver. Era… era
Ianto. Maledizione! Ma che ci
faceva lì? Gli aveva detto di rimanere al piano terra.
“Ianto!”
Jack cercò di alzarsi, non senza fatica, e
strisciando contro il muro si diresse nella direzione da cui aveva
sentito
provenire la voce. Trovò il ragazzo fermo immobile di fronte
al muso
dell’alieno, l’espressione terrorizzata.
“Ianto! Non avere paura. È questo che
lo uccide, non devi avere paura!”
“Jaaaaaack!!!”
Jack
allora saltò per afferrare la coda del mostro;
gli si aggrappò come un koala e cercò di
dirigerlo via dal compagno. Ma quello
continuava ad agitarsi come un toro imbufalito e rischiava di far
mollare la
presa al suo assalitore.
Ianto
invece afferrò la pistola e la puntò
l’alieno.
Gli sparò un paio di colpi in bocca ma ciò non
servì a niente se non a farlo
arrabbiare ancora di più. la creatura gli si
avvicinò ancora di più e col muso
lo spinse forte contro il muro. Il ragazzo sbatté la testa
piuttosto
violentemente e immediatamente la stanza prese a vorticargli attorno.
La voce
di Jack gli arrivava attutita alle orecchie e sentiva che pian piano
stava
perdendo coscienza.
L’alieno però non aveva intenzione di lasciarlo
perdere; con le zanne protese
gli ringhiava addosso.
“Ianto!”
gridò Jack, in ginocchio dall’altra parte
della stanza. “Ianto!”
“Jack”,
sussurrò il ragazzo, senza voce. Allungò una
mano per raggiungere la pistola che gli era scivolata
quand’era caduto, ma non
riuscì nemmeno a sfiorarla. “Jack. Ti
amo”. Se stava per morire lì, in quel
modo, che almeno quelle fossero le sue ultime parole. Non aveva paura,
perché
c’era Jack lì con lui e Jack lo amava e lo avrebbe
salvato, lo faceva sempre,
perciò lo avrebbe fatto anche questa volta.
Lui amava Jack e Jack amava lui.
“Fai
piano, hai sbattuto la testa”.
Ianto
aprì piano gli occhi per lasciarli abituare
alla luce che, anche se debole, gli dava piuttosto fastidio. Si
portò una mano
alla nuca dolorante e si guardò attorno. Era steso sul
divano della hall
dell’albergo e Jack sedeva per terra accanto a lui. Aveva la
camicia sporca di
sangue ma stava bene. E anche lui stava bene, a parte il mal di testa.
“Che…
che è successo?”
“Ci
siamo appena scontrati con un orribile mostro
alieno che voleva mangiarci”, gli rispose il Capitano con un
sorrisetto
furbesco.
“Oh”.
Ianto si mise seduto, le ossa del corpo che
gli dolevano tutte. “Adesso
dov’è?”
“L’abbiamo…
l’hai sconfitto”.
“Io?”
“Sì”.
“E
come?”
Jack
abbassò lo sguardo e assunse un’espressione
strana, pensierosa. “Non lo so”.
“E
che fine hanno fatto gli altri?”
“Si
sono dissolti. Erano solo delle proiezioni
psichiche tenute in quest’albergo dall’alieno che
si nutriva delle loro paure.
Se l’hotel non fosse stato chiuso avrebbe continuato a
mietere vittime”.
“Ma
nessun’altro poteva vederlo?”
“No,
è visibile solo in questa dimensione”.
“Quindi
questa è un’altra dimensione?”
“In
un certo senso sì”.
“Oh”.
“Dai,
andiamo via”.
Jack
e Ianto si precipitarono subito verso il Suv
senza guardarsi indietro, desiderosi solo di lasciarsi quel posto alle
spalle.
Il sole stava ormai tramontando dietro l’orizzonte e
sicuramente gli altri
dovevano essere preoccupati.
“Jack?”
chiamò il ragazzo voltandosi verso il
compagno.
“Dimmi”.
“Tu
di cosa hai paura?”
Jack
mise in moto l’auto e sistemò lo specchietto
retrovisore. “Di niente. Uno che non può mai
morire di cosa potrebbe avere
paura?”
“Tutti
hanno paura di
qualcosa”.
MILLY’S
SPACE
Eccoci
qui. Probabilmente qualcuno di voi avrà notato una
certa somiglianza tra questo capitolo e l’episodio di Doctor
Who ambientato in
un albergo dove c’era una creatura che si nutriva della
“fede” delle persone.
Effettivamente, mi sono ispirata proprio a quella puntata ^^
be’, che ne dite?
Comunque
anche a me piacerebbe incontrare una persona
vissuta durante l’età vittoriana o magari fare un
viaggio nel tempo e andare a
vederla coi miei occhi. È un’epoca che mi ha
sempre molto affascinata ^^ ma mi
sa che il mio sogno non si realizzerà mai : (
eh, pazienza.
Prima
di chiudere vi faccio sapere che un po’ di giorni
fa ho pubblicato una breve oneshot in questo fandom, si intitola
“In the arms
of an Angel” e se vi va andate
a
leggerla : )
Detto
questo, vi ricordo di lasciarmi qualche recensione.
Un
bacione,
Milly.
HELLOSWAG:
la
tua minaccia mi ha parecchio spaventata, perciò ho fatto di
tutto per
aggiornare abbastanza presto ^^ non pensavo comunque di aver reso lo
scorso
capitolo così flaff. Cercò di non uscire mai
troppo dai personaggi e credo che
la dolcezza non sia contemplata tra le caratteristiche di Jack,
però a volte
non ne posso fare a meno : ) spero di risentirti, un abbraccio. M.
AMAYAFOX91:
John è un personaggio che piace pure a me e in fondo non
credo sia cattivo,
semplicemente a volte fa scelte sbagliate. Spero ti sia piaciuto anche
questo
capitolo. Ciao. Milly.
|
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Capitolo 16 *** Capitolo quindici - Abbiamo tempo ***
CAPITOLO
QUINDICI – ABBIAMO TEMPO
Il
tempo non ha
limiti,
non passa per dividerci
è un pretesto sai che non basta mai
per dividerci.
(Il tempo tra di noi, E. Ramazzotti)
Jack
l’aveva lasciato a casa quella mattina e non
aveva voluto saperne di lasciarlo lavorare. Ianto gli aveva assicurato
che non
sarebbe andato in missione, che avrebbe potuto aiutarli restando alla
base
senza correre alcun rischio, però lui comunque non aveva
voluto. Da quando era
incinto si comportava con lui come se fosse fatto di porcellana e lo
accudiva
più del solito. Non che gli dispiacesse, certo,
però lo faceva sentire un po’
strano. Jack non era mai stato apprensivo, non si preoccupava mai dei
rischi e
alle conseguenze ci pensava solo quando accadevano. E poi quel bambino
era più
forte di quanto pensassero, era riuscito a sopravvivere a un
proiettile,
insomma…
Sospirò
alzandosi da tavola e portando i piatti al
lavello. Adesso si sarebbe dovuto trovare qualcosa da fare in casa per
non
annoiarsi. Detestava annoiarsi, in quei casi pensava troppo.
Accese l’acqua calda e prese una spugna incominciando a
lavare il coltello che
aveva usato per spalmare il burro.
Forse era l’occasione buona per pulire un po’ la
casa o magari guardare la tv o
leggere qualche libro visto che di solito non aveva mai tempo per
farlo. Ma
ormai aveva persino dimenticato come si facevano queste normali cose
quotidiane. La sua vita era tutt’altro che quotidiana.
Improvvisamente
sentì suonare il campanello della
porta. Si sciacquò velocemente le mani e le
asciugò in uno straccio, poi si
trascinò verso la porta.
Non appena aprì l’uscio, si trovò
davanti il sorriso allegro di sua sorella che
aprì le braccia per stringerlo in uno dei suoi abbracci da
orsi. Ianto non si
sorprese più di tanto nel vederla lì, visto che
solo poco fa le aveva mandato
un messaggio dicendole che poteva venire a trovarlo quel giorno, ma non
se
l’aspettava così presto.
“E’
appena avvenuto un miracolo, fratellino!”
“Cioè?”
le chiese il ragazzo chiudendo la porta
quando lei fu entrata.
“Mi
hai detto che potevo venire a trovarti”, rispose
la donna ridacchiando.
“Ahaha!
Spiritosa”.
Rhiannon
si guardò un po’ attorno, come per voler
controllare se qualcosa fosse cambiato, poi si accomodò sul
divano, davanti al
televisore spento. “Dov’è
Jack?” chiese, notando che l’uomo non
c’era.
“E’
al lavoro”.
“E
tu come mai sei a casa?”
Ianto
esitò un attimo sul corridoio d’ingresso,
indeciso se dirle quello che era successo oppure no. Ma alla fine si
decise a
farlo, era sua sorella dopotutto. Avrebbe capito. Rhiannon, dal canto
suo,
lesse qualcosa di sospetto nell’espressione del fratello.
“Rhian,
devo dirti una cosa”, annunciò lui,
sedendosi accanto a lei sul divano. “Anzi, due”.
“Devo
preoccuparmi?”
“Be’
no, non proprio”. Incrociò le gambe e si
voltò
completamente verso di lei, per essere più comodo.
“Ecco, io…”, iniziò, ma non
sapeva esattamente che parole usare per rendere la cosa meno
scioccante. Ma
alla fine si rese conto che quello che stava per dirle sarebbe stato
sconvolgente in ogni caso, perciò si decise a concludere.
“Io e Jack aspettiamo
un bambino”. Rhiannon dapprima lo guardò come se
le avesse appena detto che
voleva volare fino alla luna con l’ombrello. Poi si
portò le mani alla bocca e
spalancò gli occhi. “Oh mio Dio! Avete deciso di
adottare un bambino? O avete
fatto l’inseminazione…”.
“No!”
esclamò il ragazzo interrompendola. Sarebbe
stato più difficile del previsto. “No, no, niente
di tutto questo”. Abbassò lo
sguardo alla ricerca delle parole giuste. “Io aspetto un
bambino.
Letteralmente”. E si portò le mani alla pancia per
sottolineare il concetto.
Rhiannon
assottigliò gli occhi confusa.
“Aspetta… mi
stai dicendo che tu… che tu sei…”.
“Incinto,
sì”, concluse lui per lei, aspettandosi un
qualche tipo di reazione esagerata come era tipico di sua sorella.
“Ma…
ma…”.
Ianto
sospirò pazientemente e cominciò a spiegarle.
“Tu sai che lavoro con gli alieni, no?” La donna
annuì, l’attenzione
completamente catturata dalle sue parole. “Ecco, è
successo che un alieno mi ha
morso e… sono rimasto incinto”.
“Quindi
il bambino è un alieno”.
“No.
Quell’alieno ha solo fatto in modo che io
potessi… sì, insomma, hai capito. Il bambino
è di Jack”.
“Ok”.
Rhiannon prese un grande respiro cercando di
assimilare la rivelazione. Suo fratello le aveva detto che lavorava con
gli
alieni e già quello era stato abbastanza scioccante,
però questo… “Ok”,
ripeté.
“Ok”.
Ianto
la guardava con espressione tesa, non sapendo
se fosse contenta o… chissà cos’altro.
“Guarda”, disse poi, alzandosi per
prendere qualcosa dal cassetto. Quando tornò da lei le
portò la foto di
un’ecografia. “L’ha stampata Owen, un mio
collega”.
Rhiannon
la prese in mano delicatamente e la osservò
in ogni particolare. Le sue labbra però si piegarono in un
piccolo sorriso
intenerito quando vide la piccola creatura ritratta al centro.
“E’ bellissimo”.
“Davvero?”
“Sì.
È un bambino, è ovvio che è
bellissimo”.
Il
ragazzo rilassò la schiena sullo schienale del
divano, contento che la sorella non avesse reagito male. Rhiannon
riportò di
nuovo lo sguardo su di lui e gli sorrise. “Sono contenta per
voi e soprattutto
per te. Avere un bambino ti cambia la vita in meglio, anche se ci sono
molte
difficoltà da affrontare”.
“Lo
so. Ti confesso che ho un po’ di paura”.
La
sorella gli prese una mano tra le sue,
accarezzandogli il dorso. “E’ normale, ma vedrai
che andrà tutto bene. Sarai un
bravo padre e lo sarà anche Jack. E in ogni caso, potete
chiedermi aiuto quando
volete”.
“Grazie”.
Rhiannon
si protese ad abbracciarlo di nuovo, poggiando
il mento sulla sua spalla. “Ma avete pensato che con questo
potreste aver
rivoluzionato la medicina?”
“Sì,
ma non è così semplice”, le rispose
sciogliendosi dall’abbraccio. “Non sappiamo ancora
come sia né se ci sarà
qualche… effetto collaterale. E in ogni caso non credo che
il mondo sia pronto
per accettare una cosa del genere”.
“Be’,
certo. Ma prima di tutto voglio che pensi a
te”.
“Non
ti preoccupare, a quello ci pensa già Jack”.
“Misha
e David saranno contenti di sapere che
avranno un nuovo cuginetto. O una cuginetta”.
Ianto
assottigliò le labbra in una smorfia non molto
piacevole. “A proposito di questo… magari non dire
a John proprio ciò che ti ho
detto”.
La
donna scoppiò a ridere divertita.
“D’accordo.
Come vuoi”.
Dopotutto,
era contento che fosse venuta a trovarlo.
A volte sentiva la sua mancanza e gli sarebbe piaciuto poter
trascorrere con
lei pomeriggi interi in cui si confidavano segreti e ridevano delle
cose più
stupide esattamente come facevano quando erano più piccoli.
“Qual
è l’altra cosa che dovevi dirmi?” chiese
Rhiannon ad un tratto. Ianto se n’era quasi scordato e
improvvisamente il buon
umore di poco fa scomparve. Ora non era più tanto sicuro di
volerglielo
dire. Jack aveva
insistito perché lo
facesse e anche lui si era convinto. Ma adesso…
“Non
so se dovrei dirtelo”.
“Ehi”,
lo chiamò stringendogli più forte la mano.
“Lo sai che a me puoi dire tutto”.
“Questa
cosa non ti piacerà”.
“Non
importa. Voglio che me lo dici”.
Ianto
alzò lo sguardo e la guardò dritto negli
occhi. “Ok, però promettimi che non ti lascerai
influenzare da quello che ti
dirò e che ti comporterai con me come hai sempre
fatto”.
“Certo”,
promise lei ma sentiva la preoccupazione e
la paura crescerle un poco alla volta. Che cosa mai poteva esserci di
così
brutto?
“Ti
ricordi che nostro padre non era venuto al mio
diploma?”
“Sì,
me lo ricordo”.
“Lui
non era venuto perché era da quasi un anno che
non ci vedevamo. Ero andato via di casa”.
“Cosa?!”
esclamò lei spalancando la bocca sorpresa.
“Cosa era successo?”
“Be’,
non stavo più bene lì dentro. Dopo che te ne
eri andata ha iniziato a comportarsi sempre peggio, mi picchiava sempre
più
spesso e per delle sciocchezze, si ubriacava quasi tutte le
sere… non ce la
facevo più”.
La
sorella avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma le parole
non le venivano fuori. E poi intuiva che c’era anche
dell’altro. “Ti ha fatto
qualcos’altro? Oltre a picchiarti, intendo”.
“Be’…”.
Ora arrivava la parte più difficile. Ianto
spostò lo sguardo da un’altra parte per non
doverla guardare. “Una sera ero
tornato a casa più tardi e lui era più ubriaco
del solito e…”.
“E?”
Il
ragazzo intrecciò le dita con quelle della
sorella. “Mi ha… ha fatto una cosa molto
brutta”. Si sedette sul bordo del
divano e si spettinò i capelli. Il cuore gli batteva a mille
e sentiva che
tutto quello che aveva provato la notte che suo padre lo aveva
violentato stava
riaffiorando.
Rhiannon si protese verso di lui e si appoggiò contro la sua
schiena,
abbracciandolo da dietro e poggiando la guancia contro la sua spalla.
“Cosa ti
ha fatto? Ti prego, devi dirmelo”.
“Non
ci riesco”.
“Ok,
allora scrivilo”.
La
donna afferrò la sua borsetta e ne tirò fuori una
penna e un piccolo block notes. Poi li passò a Ianto e lo
incitò a scriverlo.
Il ragazzo era un po’ titubante, ma alla fine si decise a
obbedire. In fondo,
scriverlo era più facile che dirlo. Lo scrisse con una
calligrafia tremante,
dopotutto tutto il suo corpo stava tremando, e diede di nuovo il block
notes e
la penna a sua sorella.
Lei lo prese in mano e lo lesse. Lo lesse una volta e subito non
capì, come se
quelle parole improvvisamente le fossero diventate sconosciute. Poi lo
lesse di
nuovo, finché non le rimasero incollate negli occhi.
Mi
ha violentato.
Infine
abbassò il foglio e rimase a guardare il
fratello. “Stai scherzando?”
“Lo
vorrei tanto. Ma ti giuro che è vero. Lo ha
fatto e io…”.
Di
nuovo si allungò verso di lui e lo abbracciò
stringendolo questa volta più forte di prima. “Oh,
tesoro! Perché non me l’hai
detto? Perché non mi hai chiamata?”
“Perché
non volevo disturbarti. E poi, avrei dovuto
raccontartelo e non volevo. Mi… mi vergognavo troppo e avevo
paura”.
“Ma
io sono tua sorella. Ti sarei venuta a prendere
e ti avrei portato da me e John”.
I
due rimasero abbracciati per un po’, cullandosi
l’uno tra le braccia dell’altro proprio come
facevano da piccoli quando erano
tristi o avevano paura. Si staccarono solo quando il corpo
cominciò a dolere
per quella posizione.
“Dove
sei andato dopo?”
“Da
alcuni amici”.
“Ti
sei drogato?”
Ianto
esitò un attimo prima di risponderle.
“Sì”.
Rhiannon
sospirò. “L’avevo intuito quando ti ho
visto al diploma, ma ho fatto finta di non vederlo. Mi sarei dovuta
prendere
cura di te e invece ti ho lasciato con quel vigliacco. Mi dispiace. Non
sono
stata una brava sorella”.
“Questo
non è vero!”.
“Sì,
invece. Ti dovevo portare con me quando sono
andata via con Johnny. E invece ho solo pensato a me stessa”.
“Hai
fatto bene a pensare a te stessa. Ti sei sempre
presa cura tu della mamma e di me quando ero piccolo. Era giusto
così”.
“Ma
se avessi fatto come avrei dovuto, tutto questo
non sarebbe successo e papà non ti
avrebbe…”.
“Non
importa. Ormai è successo, è inutile piangere
sul latte versato”.
Rimasero
di nuovo in silenzio ripensando alla loro
infanzia e a tutto quello che avevano passato a causa di quel padre
violento.
Non era stato facile per loro e tantomeno lo era stato per Ianto,
però eccoli
lì, ancora insieme, cresciuti e con le loro vite.
“Perché
me lo dici proprio adesso?”
“Jack
ha insistito. Pensava che tu dovessi saperlo”.
“Jack
lo sa?”
“Sì,
anche se lo ha scoperto per caso. Stavamo
lavorando su un oggetto alieno che riporta le persone a rivivere i
momenti
peggiori della loro vita. Praticamente abbiamo visto tutta la
scena”.
A
Rhiannon quasi venne un colpo. Non solo suo
fratello era stato violentato quando aveva diciassette anni dal loro
padre, ma
era pure stato costretto a rivivere la scena una seconda volta. Era
normale che
fosse caduto nella droga.
“Hai
smesso con la droga, vero?”
Il
ragazzo ridacchiò. “Sì, certo. Da un
po’”.
“Ti
voglio bene, lo sai?”
“Lo
so. Anche io te ne voglio, Rhian”.
Ianto
era in bagno che svuotava la lavatrice quando
vide Jack entrare e sedersi sul bordo della vasca.
“Non
è che per caso sai se c’è una fessura
spazio
temporale anche nella lavatrice? No, perché è
strano che i calzini spariscano
così”.
Il
Capitano sorrise divertito ma non disse niente.
Si inginocchiò sul pavimento e abbracciò il
compagno da dietro, baciandolo sul
collo. Il ragazzo sentì dei brividi di piacere corrergli
lungo la schiena e
smise immediatamente di fare quello che stava facendo per mettere le
proprie
mani su quelle di Jack, poggiate sulla sua pancia.
“Jack?
Che cosa c’è?”
“Mi
sei mancato oggi”, gli sussurrò il Capitano
senza smettere di baciargli il collo. Ianto sorrise e si
piegò perché l’altro
potesse baciarlo meglio. Intanto le mani di Jack si strinsero di
più attorno
alla sua pancia. “Come sta il nostro pargolo?”
“Sta
benissimo”, rispose il ragazzo, intenerito alla
parola pargolo. Jack gli stava
veramente mostrando un lato di sé che non credeva esistesse.
Improvvisamente però si staccò e si
alzò in piedi come se l’avesse punto
qualcosa. “Mettiti qualcosa di carino. Voglio portare te e il
pargolo fuori a
cena”.
Ianto
strabuzzò gli occhi sorpreso. “Davvero?”
“Certo!
Sempre se ti va”.
“Sì!”
rispose il giovane un po’ frettolosamente.
“Sì. Vado”. E corse in camera a
cambiarsi, completamente dimentico dei vestiti
che dovevano essere messi ad asciugare e dei calzini scomparsi.
“Hai
ancora fame?”
Ianto
bevve un sorso di acqua e osservò il suo
piatto vuoto. Ora era decisamente sazio. “No, direi di
no”.
“Ti
va il dessert?” chiese ancora Jack.
Effettivamente
un dolce ci poteva stare. Di solito
queste cose non gli piacevano e non era uno che mangiava tanto, ma quel
bambino
era esigente e gli faceva venire persino le voglie più
stravaganti.
“Sì,
ok”.
Il
cameriere arrivò per portare via i piatti dei due
e loro ne approfittarono per chiedergli due fette di
tiramisù. Erano in quel
ristorante già da un paio di ore e se la stavano proprio
godendo. Non capitava
spesso di avere una serata libera e di potersene stare in pace senza
pericolo
di attacchi alieni o persone da salvare. Non avevano altri pensieri per
la
testa se non quella serata, la cena e l’atmosfera.
Si sentivano bene, entrambi.
“Oggi
è venuta mia sorella”, disse ad un tratto
Ianto dopo aver addentato il primo boccone di dolce. “Le ho
detto del bambino”.
“E
come l’ha presa?”
“E’
rimasta un po’ scioccata all’inizio, ma poi ha
detto che è contenta per noi”. Il ragazzo
arrivò a metà dolce quando smise di
mangiare e alzò di colpo gli occhi su Jack. “E le
ho detto anche quell’altra
cosa”.
“Quella…
di tuo padre?” fece il Capitano guardandolo
incerto.
“Sì”.
“E?”
Ianto
esitò un attimo abbassando lo sguardo.
“Niente. Diciamo che si è data la colpa per non
essere stata abbastanza
presente”.
Jack
non aggiunse altro, dopotutto non aveva idea di
che cosa potesse dire. Non era bravo nei discorsi seri né in
quelli che
riguardavano i sentimenti.
Perciò decise di fare quello che sapeva fare meglio.
“Quella
signora dietro di te ci sta guardando da
almeno un’ora”.
Ianto
si voltò leggermente per vedere chi era questa
signora ed effettivamente notò che una donna sulla mezza
età, dai capelli tinti
di un rosso slavato e il viso truccato esageratamente li stava
guardando con
cipiglio scontento. Ma non appena vide che lui l’aveva
notata, girò lo sguardo
e fece finta di bere.
“Sembra
che non approvi”, commentò Ianto indifferente.
Ormai non si faceva più problemi ad uscire insieme a Jack e
a dire che stava
con lui. Vivevano in un paese libero, dopotutto.
“Le
mostriamo una cosa?” chiese allora Jack
guardandolo con occhi provocanti. Il ragazzo si domandò che
cosa potesse
essere, quando all’improvviso vide il Capitano venirgli
incontro e baciarlo
sulle labbra senza lasciargli il tempo di pronunciare neanche una
sillaba.
Subito le loro lingue si trovarono intrecciate; Ianto portò
una mano dietro la
nuca di Jack mentre questi gli mise le mani sui fianchi.
Nessuno nel ristorante parve averli notati, o comunque anche se lo
avevano
fatto, fecero finta di niente. Invece la signora che li aveva guardati
poco
prima si era alzata di colpo e se ne era andata via lanciando loro
un’occhiata
schifata mentre il marito la seguiva di corsa.
Infine,
quando si staccarono, Ianto e Jack
scoppiarono a ridere.
E
mentre passeggiavano al parco, Ianto stava ancora
ridendo, solo che stavolta era per una storia divertente che il
Capitano gli
aveva appena raccontato. Si dovette sedere su una panchina
perché non riusciva
più a reggersi in piedi. Quando finalmente si
calmò, si rilassò contro lo
schienale e restò a guardare il cielo stellato sopra di
sé, col fiatone.
“Dovresti
ridere più spesso”, gli sussurrò Jack
quando si fu seduto accanto a lui. “Sei più
bello”.
Ianto
spostò lo sguardo su di lui e lo guardò
dolcemente. “Presto però non ti piacerò
più”, disse scherzoso.
“E
perché mai?”
“Perché
diventerò grosso come un barile e mi
toccherà rotolare per spostarmi”.
Jack
rise divertito e prese una mano del compagno.
“Tu mi piaceresti anche se avessi una gamba di legno e un
occhio di vetro”.
Il
ragazzo lo guardò intensamente negli occhi e vi
lesse la sincerità. Ancora continuava a stupirsi di tutto
quello, della sua
relazione con Jack. Era strano, all’inizio c’era
solo sesso e pensava che sarebbe
stato così per sempre. Però allo stesso tempo
aveva paura, sentiva una strana
sensazione. Non avrebbe saputo descriverla, però gli
opprimeva lo stomaco già
da un po’.
Sicuramente
erano solo stupide paranoie dovute agli
ormoni della gravidanza.
“E
magari insieme alla pancia ti cresceranno anche
le tette”, scherzò Jack posando le mani sul suo
petto.
Ianto
gli diede un pugno leggero sul braccio e lo
guardò sconvolto. “Idiota!” Allora il
Capitano lo avvicinò a sé e lo fece stendere con
la testa sul proprio grembo.
Con una mano prese ad accarezzargli i capelli mentre l’altra
gliela poggiò
sulla pancia.
“Dovremmo
pensare a dei nomi”, sospirò il ragazzo
mettendo anche la propria mano su quella del compagno.
“Abbiamo
tempo”.
Forse
era proprio
questo che gli faceva paura.
MILLY’S
SPACE
Questo
sì che è un capitolo fluff… spero non
sia troppo
OOC. Comunque io cerco di dare un po’ di spazio anche agli
altri personaggi, ma
proprio non ci riesco. Jack e Ianto mi sono entrati nel cuore e non
c’è più
niente da fare. Però voi ditemi pure se volete che dedichi
più anche a Gwen e
Rhys, Owen e Tosh.
Va
bene, spero vi sia piaciuto il capitolo. Lasciatemi qualche
recensione, please anche perché l’altra volta ho
commesso uno strafalcione e se
Amayafox91 non me l’avesse fatto notare sarebbe rimasto
ancora lì. Perciò
vedete che le recensioni servono a qualcosa ^^
Un
bacione.
M.
P.S.
se siete fan del fandom date un’occhiata alla mia
fanfiction su Sherlock (BBC),
P.P.S.
mia mamma si lamenta sempre del fatto che i
calzini spariscano nella lavatrice, perciò a me viene sul
serio il dubbio che
possa esserci una fessura spazio temporale che se li porta via ^^
AMAYAFOX91:
ma
che pignola, effettivamente ho commesso un errore anche abbastanza
serio. Ti
ringrazio ancora : ) spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. Baci,
Milly.
|
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Capitolo 17 *** Capitolo sedici - Maledetto Torchwood! ***
CAPITOLO
SEDICI – MALEDETTO TORCHWOOD!
Quanta
luce, quanto cielo,
orizzonti da guardare.
(Silver e Missie, E. Ramazzotti)
“Benvenuti
alla casa degli orrori!”
“Non
essere così terrificante!”
“Be’,
ma scusa, guarda che posto!”
Quando
Rhys e Gwen uscirono dalla loro auto, Jack
entrava con una manovra da professionista nel cortile
di un’imponente villa e parcheggiava il Suv
accanto alla macchina dei primi due arrivati. Effettivamente suo marito
non
aveva tutti i torti, dovette concedergli Gwen, la villa era
terrificante.
Certo, era grande e non affatto banale, con tutti quei aggetti e quelle
decorazioni in stile gotico, ma non faceva affatto per lei. Qualcosa
nell’aspetto di quel posto le metteva i brividi soltanto a
guardarla, forse per
il fatto che aveva trovato quello stile sempre molto inquietante; in
quel
momento avrebbe voluto risalire in auto e tornare al sicuro nel suo
modesto ma
confortevole appartamento.
Tuttavia il lavoro chiamava e lo sguardo deciso di Jack non ammetteva
repliche.
“Be’,
che aspettiamo?” chiese Owen, aprendo la
strada a tutto il gruppo e salendo i pochi gradini che lo separavano
dal
portone d’ingresso. Gli altri lo seguirono senza fiatare e il
Capitano inserì
la grossa chiave nella serratura girando un paio di volte
finché non udì lo
scatto.
“Wow!”
esclamò Rhys non appena ebbe varcato la
soglia. Il suo sguardo corse immediatamente attraverso la stanza
cadendo su
ogni dettaglio: i quadri appesi alle pareti che mostravano i mezzi
busti di
personaggi sicuramente importanti, le teste d’angelo che
ornavano quasi ogni
angolo, dai soprammobili sugli scaffali alle maniglie delle mensole, il
lampadario enorme che faceva bella mostra di sé in salotto,
i tappeti con
fantasie complicate, la scala dal corrimano elegante che portava al
piano
superiore… se il piano inferiore era così,
chissà come erano le altre stanze! E
la polvere e le ragnatele di certo non nascondevano tutta quella
ricchezza,
appartenuta a chissà quale erede di una famiglia importante.
Rhys
appoggiò le valigie vicino al basso tavolino in
salotto e si buttò sulla prima poltrona che gli
capitò a tiro, saggiandone la
comodità e la morbidezza. “Non ti piacerebbe
vivere in un posto del genere?”
chiese eccitato rivolto a Gwen. “Mi accontento anche di
qualcosa di più modesto.
Qui sarebbe troppo silenzioso”, gli rispose la ragazza
accomodandosi accanto a
lui. “Be’, gli schiamazzi e le risate dei bambini
la riempirebbero”, fu la sua
contro-risposta, ma Gwen a quelle parole si rabbuiò un
po’ ed evitò il suo
sguardo.
Entrambi furono distratti da Jack che aveva spalancato le imposte delle
finestre per far passare un po’ di luce e aria, non
aspettandosi che queste
emettessero tutto quel cigolio. Dopotutto, era da un po’ che
non venivano
aperte.
“L’ultimo
proprietario di questa residenza era stato
un certo Sir John Mallerick”, iniziò Tosh tenendo
il cellulare di fronte a sé
“figlio di un eminente personaggio politico dal quale
l’ha ereditata negli anni
venti. Il padre a sua volta l’ha ereditata dalla famiglia e
così fino al milleseicento,
quando la villa è stata costruita. Adesso è di
proprietà di questo comune del
Galles che ha cercato di venderla più di una volta, senza
mai riuscirci, a
causa di certe storie sui fantasmi che girano”.
“E
che a quanto pare non sono infondate”, aggiunse
Owen osservando i soprammobili sul caminetto. “Tutti quelli
che hanno trascorso
qui la notte giurano di aver sentito grida di bambini e non hanno
più voluto
metterci piede”.
“Quindi
avremo ancora a che fare coi fantasmi?”
chiese Ianto, ricordando la sua ultima esperienze con qualcosa di
simile e
subito sentì i brividi corrergli lungo la schiena.
“I
fantasmi non esistono”, lo rassicurò Jack
dandogli una pacca sulla schiena e afferrando la propria valigia
insieme a
quella del compagno. “E ora andiamo a prenderci le
stanze”.
Le
stanze, come tutti avevano immaginato, rendevano
giustizia al piano inferiore: ogni stanza aveva un piccolo caminetto e
un letto
a baldacchino sorretto da colonne a intarsio. E, tanto per non essere
da meno,
anche lì c’erano teste d’angelo che
ornavano quasi tutti i mobili, la testiera
del letto, l’armadio, i cassetti… ricordavano
vagamente i visi dei bambini.
Il
gruppo si riunì in cucina, decisamente meno ricca
rispetto alle altre stanze della sala, per cenare e discutere della
missione. I
sofisticati computer che tenevano al Nucleo avevano rilevato un picco
di
energia della Fessura in quegli ultimi giorni e così avevano
deciso di farci
una capatina per quel fine settimana. A Jack non ci era voluto niente
nel farsi
dare le chiavi dal custode.
Purtroppo per lui anche Rhys aveva deciso di unirsi, il quale, da
quando Gwen
gliene aveva parlato, non aveva voluto sentire ragioni e aveva
rimarcato
diverse volte che sarebbe stato divertente e che era da un
po’ che non
passavano un fine settimana insieme, lontano da casa. La moglie gli
aveva detto
che si trattava solo di lavoro e che non sarebbero comunque restati da
soli,
visto che c’era tutto il team, ma per Rhys faceva lo stesso e
aveva detto che
sarebbe stato divertente comunque. E che una caccia agli alieni o a
qualche
altra strana creatura misteriosa era quello che gli ci voleva.
“Allora,
pensi che troveremo qualcosa di
interessante in questo posto?” chiese Ianto, sdraiandosi sul
letto accanto al
Capitano, una volta che i due si furono ritrovati da soli nella propria
stanza.
“Non
saprei. Promette bene”, fu la risposta sommessa
dell’altro, intento a guardare il baldacchino sopra di
sé. Creava un’atmosfera
decisamente romantica.
Il
ragazzo si voltò verso di lui e rimase a
osservare il suo profilo. “Che c’è che
non va?”
Jack
lo guardò confuso. “Perché pensi ci sia
qualcosa che non va?”
“Sei
pensieroso”.
“Non
mi hai mai visto pensieroso?”
Ianto
sorrise dolcemente. “Sì, ma non
così”.
Jack,
allora, per scongelare la situazione e creare
un’atmosfera più favorevole, una di quelle che
piacevano a lui, si sollevò di
scatto e si mise a cavalcioni sopra il compagno, evitando di
poggiarcisi con
tutto il peso. Poi calò sul collo di Ianto e
cominciò a baciarlo.
“Jack?”
lo chiamò questi con voce roca. Faticò a
trattenere una risatina quando questi gli solleticò un lembo
di pelle con la
propria lingua. Il Capitano si mise a slacciargli i bottoni della
camicia e,
quando arrivò all’ultimo, gliela aprì
ben bene scoprendo il suo petto pallido e
liscio. Poi cominciò a baciarlo anche lì,
saggiandone ogni pezzo finché non
arrivò alla pancia dove un piccolo rigonfiamento faceva
bella mostra di sé.
Jack baciò anche quella, delicatamente, e Ianto gli
affondò una mano tra i
capelli, gustandosi la loro consistenza tra le dita. L’altro,
allora, smise di
baciarlo e rimase col mento appoggiato sopra all’ombelico.
“Spero
si sbrighi ad uscire”, sussurrò ma nel
silenzio della stanza era perfettamente udibile.
“Sei
così impaziente?” gli chiese Ianto sorridendo.
“E’
mio figlio, ovvio che sono impaziente”.
Suo
figlio… era la prima volta che Jack lo diceva e
forse la prima volta che lo considerava tale. E Ianto lo adorava. Gli
piaceva
quando diceva certe cose e gli piaceva il modo in cui le diceva. Non
credeva si
sarebbe mai innamorato così intensamente, non dopo Lisa.
Eppure…
“Potrebbe
anche essere una bambina”, lo contraddisse
cercando di non mostrare tutta l’emozione che provava.
“E’
lo stesso. Basta che mi somigli”.
“Non
abbiamo ancora pensato a un nome”.
A
quella constatazione Jack ammutolì di colpo e
assunse di nuovo la sua espressione misteriosa. “Prima o poi
ci verrà in mente
qualcosa”, concluse poi, tornando a sdraiarsi sul letto
affianco a Ianto, una
mano poggiata sulla sua pancia scoperta.
Rimasero
per un po’ in silenzio, ascoltando solo il
rumore del vento che sbatteva contro le finestre.
“Jack?”
“Hmmm?”
“Ti
amo”.
Jack,
che aveva chiuso gli occhi, li riaprì di colpo
e li puntò in quelli altrettanto chiari del compagno.
“Non dirlo con quel
tono”.
“Che
tono?”
“Quello
che hai appena usato. Come se fosse l’ultima
volta che me lo dici”.
Ianto
sospirò. “Be’, chi lo sa… con
quello che
facciamo non si sa mai cosa può succedere”.
“Sta’
zitto!” gli intimò il Capitano affondando il
viso nella sua spalla. “Non dire queste cose. Non dire
più che mi ami”.
“E
perché no?”
“Perché
di no”.
Il
ragazzo prese ad accarezzare la schiena
dell’altro sentendo diverse sensazioni agitarsi dentro di
lui. Quand’è che Jack
era diventato così dolce? Quella era forse la prima vera
dimostrazione del
fatto che a lui ci teneva, che ci teneva davvero.
“D’accordo”,
concluse infine, stringendosi di più a
lui.
Gwen
sedeva e fissava il proprio riflesso nello
specchio posto sopra a uno di quei tavolini di legno che servivano per
il
trucco. Aveva trovato una vecchia spazzola in uno dei cassetti, non una
spazzola comune, ma una di quelle da antiquariato. Doveva essere
appartenuta
alla padrona della villa.
La prese in mano e cominciò a pettinarsi delicatamente i
capelli, sentendosi
proprio come lei. Provò a immaginarsela, seduta
lì davanti allo specchio a
pettinarsi i suoi splendidi capelli, magari biondi e lunghi, proprio
come stava
facendo lei in quel momento. Sicuramente aveva avuto una bellissima
pelle
chiara e liscia, come quella delle bambole di porcellana. E di certo
indossava
dei bellissimi vestiti eleganti e gioielli preziosi.
Accarezzò delicatamente il retro della spazzola e
l’immagine della donna le
passò davanti agli occhi come un lampo che illumina il
cielo.
Improvvisamente
Rhys aprì la porta della stanza
facendo prendere un colpo a Gwen che balzò sulla sedia.
L’uomo non si accorse
di nulla.
“Questo posto è strepitoso. Ci sono un sacco di
stanze, ci vorrà un’intera
giornata per visitarle tutte”.
Gwen si voltò a guardarlo con una strana espressione, come
se lui non dovesse
essere lì.
“Che c’è tesoro? Stai bene?”
le chiese il marito, accorgendosi del suo viso
diventato improvvisamente pallido. Lei non gli rispose subito. Dopo un
po’ però
gli sorrise rassicurante, mostrando la sua dentatura bianca.
“Sì, sto bene.
sono solo un po’ stanca”.
“Andiamo
a dormire”, suggerò Rhys allora, scostando
le coperte del grande letto a baldacchino. “Domani ci aspetta
una lunga
giornata”.
I
due si infilarono sotto le coperte, rabbrividendo
contro le lenzuola fredde. Poi spensero le lampadine sui comodini e si
strinsero l’uno all’altro, aspettando che Morfeo li
cogliesse tra le braccia.
Le testoline d’angelo che decoravano il letto e gli altri
mobili li guardavano
con i loro occhi di marmo nell’oscurità. Ma Gwen e
Rhys non potevano vederli.
Tosh
camminava per i
corridoi della villa, reggendo una candela in mano. Non
aveva idea di
dove fosse l’interruttore delle luci e in ogni caso non le
andava di
accenderle, rischiando di svegliare tutti. Così ora vagava
come un fantasma, in
pigiama e a piedi nudi. Ridacchiò tra sé e
sé per la situazione piuttosto
comica.
Si sentiva come dentro a uno di quei film horror che parlano di spiriti
e lei
ne era la protagonista.
Improvvisamente
sentì uno soffio di aria fredda
colpirle il viso e rimase bloccata sul posto, rabbrividendo. Le
sembrava che ci
fosse qualcosa dietro di lei e non aveva il coraggio di girarsi. La
fiamma
della candela si spostò verso sinistra e minacciò
di spegnersi.
Allora
Tosh, molto lentamente, girò il capo verso
destra e si accorse che una delle finestre era aperta. Esalò
un sospiro di
sollievo. Il soffio d’aria che aveva sentito era il vento che
stava soffiando
fuori e che stava facendo sbattere le tende.
Si stava lasciando suggestionare un po’ troppo; non era da
lei.
Posò
la candela sul davanzale e chiuse velocemente
la finestra. Poi proseguì la sua esplorazione, affrettandosi
ad attraversare il
corridoio.
Non si accorse, però, che un paio di occhi freddi la stavano
scrutando
dall’alto.
Una
volta raggiunto il salotto, Tosh si imbatté in
Owen, seduto sul divano al buio. Per poco non le venne un colpo e
immediatamente si portò una mano alla maglia del pigiama.
Non si aspettava di
trovare il ragazzo lì, altrimenti si sarebbe messa qualcosa
di un po’ più
carino e non quell’orribile pigiama di flanella appartenuto a
sua nonna.
Possibile che dovesse sempre vederla in situazioni imbarazzanti?
“Tosh!”
esclamò lui. “Che ci fai qui?”
“Non
riuscivo a dormire”.
“E
perché hai una candela in mano?”
La
ragazza non sapeva come ribattere a questa
domanda, così si limitò a posarla sul tavolino
davanti al divano e a sedersi in
una piccola poltrona raccogliendo le gambe contro il petto. Sembrava
che avesse
davanti uno sconosciuto poco affidabile, anziché Owen.
“Questa
casa mette i brividi”, commentò lei,
cercando di fare una battuta e togliere quel silenzio imbarazzante.
“Già”,
fu l’unica risposta da parte dell’amico che
non la stava neanche guardando. Probabilmente non era in vena di
chiacchiere.
L’unica luce che illuminava la stanza era quella della
candela, perciò gran
parte della stanza era immersa nell’oscurità.
Tuttavia riusciva a scorgere il
profilo di Owen e si accorse che era seduto in una posizione piuttosto
rigida,
la schiena dritta, le mani poggiate sulle gambe e lo sguardo perso a
guardare
qualcosa di fronte a sé.
“Ti
va un bicchiere di latte?” chiese allora
Toshiko, tanto per avere qualcosa da fare.
“Si,
perché no?” Finalmente il ragazzo si era girato
nella sua direzione e le stava mostrando un po’ di interesse.
“Vado
a prenderlo in cucina”.
La
ragazza si alzò con uno scatto e cominciò a
camminare in direzione della cucina. Ma proprio quando stava per
superare la
soglia, un grido perforò le pareti della casa.
Tornò in salotto di corsa e rimase a guardarsi attorno.
“Che cos’è stato?”
“Non
lo so. Proveniva dal piano superiore!” esclamò
Owen precipitandosi verso le scale.
Jack
e Ianto si erano appena addormentati quando
avevano sentito qualcuno urlare. Proveniva dalla stanza di Gwen e Rhys
e
sembrava proprio che fosse stata la ragazza ad aver gridato.
Il
Capitano raggiunse la loro porta per primo e
cercò di entrare, ma quella era chiusa a chiave.
“Aprite!”
gridò ai due che erano chiusi dentro,
battendo i pugni sul duro legno. In quel momento vennero raggiunti
anche da
Owen e Toshiko. Sentirono dei passi avvicinarsi alla porta e qualcuno
che
girava il chiavistello. Jack tentò un’altra volta
di aprire la porta. Ma ancora
niente. “Aprite questa dannata porta!”
“Non
si apre!” gli gridò di rimando la forte voce di
Rhys.
“Spostati!”
fece Owen, spingendo il Capitano di
lato. Cominciò a tirare la maniglia verso di sé
cercando di romperla e, quando
non ci riuscì, prese a dare spallate alla porta.
“Così
ti fai male, Owen!” gli fece notare Tosh, la
voce spezzata dal panico. Stava succedendo qualcosa in quella stanza e
loro non
riuscivano a capire cosa.
Improvvisamente, Gwen lanciò un altro grido e tutti rimasero
raggelati. Owen
riprese a colpire la porta, questa volta con i calci.
A quel punto il chiavistello scattò e la porta si
spalancò facendo ruzzolare il
ragazzo a terra.
Jack,
Ianto e Tosh si precipitarono dentro posando
subito gli occhi su Gwen che se ne stava seduta sul letto, pallida e
sudata,
gli occhi scuri spalancati verso il soffitto.
“Che
cos’è successo?” chiese Ianto sedendosi
di
fronte a Gwen e sporgendosi verso di lei. Si erano di nuovo riuniti
tutti in
cucina; la ragazza sedeva al tavolo con un bicchiere di latte in mano.
Sembrava
più tranquilla e aveva recuperato un po’ di
colore, ma tremava ancora.
Alzò
lo sguardo su Ianto e puntò i suoi occhi scuri
in quelli chiari di lui. “C’erano…
c’era qualcosa nella stanza”.
“Che
cosa?”
“Come…
come dei fantasmi”.
Gli
altri presenti si lanciarono degli sguardi
confusi, come se si stessero dicendo mentalmente che Gwen tutto
d’un tratto
fosse impazzita.
“Non
sto scherzando. C’era una faccia nel mio
cuscino”.
“Che
tipo di faccia?”
“Non
lo so. Era come coperta da un lenzuolo, ma
potevo distinguerne il profilo. E poi qualcosa è passato sul
soffitto. Una… una
persona, non lo so. È stato tutto molto veloce. Ma
c’era qualcosa, dovete
credermi!”
“Ti
credo!” esclamò Jack e lei si voltò a
guardarlo
con espressione grata, come se sapesse che adesso tutto si sarebbe
sistemato.
Rhys
si sedette accanto alla moglie e le pose un
braccio attorno alle spalle. Lei lasciò andare la testa
contro la sua spalla.
“Che
cosa sarà stato, Jack?” chiese Ianto rivolto al
compagno.
“Non
ne ho idea. Ma lo scopriremo!”
Senza
aspettare nessuno, il Capitano corse verso le
scale, diretto al piano superiore. Tosh fu l’unica a
seguirlo, mentre Owen e
Ianto si diressero in salotto.
“Owen,
cerchiamo anche noi qualcosa”, disse Ianto,
guardandosi attorno con fare circospetto.
“E
cosa vuoi che cerchiamo?”
“Non
lo so, qualsiasi cosa. Guarda nei cassetti,
negli armadi… vedi se trovi qualcosa di sospetto”.
“Potremmo
metterci tutta la vita, visto quanto è
grande questo posto”, si lamentò il dottore,
tuttavia fece come aveva detto
Ianto e cominciò ad aprire dei cassetti. L’altro,
invece, si avvicinò al
camino, attirato dai putti che lo decoravano. Erano sparsi per tutta la
casa,
quei cosi, c’erano quasi in ogni angolo. Dovevano essere
stati la decorazione
preferita dei vecchi proprietari. Solo che quelli sul camino erano
diversi,
sembravano… Ianto si abbassò per guardarne uno da
vicino, soffermandosi sugli
occhi di marmo, quando a un tratto gli parve di veder muoversi
qualcosa.
Scosse il capo cercando di tornare in sé. Doveva essere
stata la stanchezza a
causargli l’allucinazione.
Lanciò
un’occhiata all’interno del camino dove
c’erano ancora della cenere e dei ciocchi di legno e scorse
qualcosa che
spuntava dalla cenere grigia. Non era un ciocco di legno.
Si inginocchiò e immerse le mani nella cenere. Ce
n’era parecchia.
“Ianto,
hai finito di giocare con la sabbia? Ho
trovato qualcosa”, fece Owen, chiudendo di scatto un cassetto.
“Anche
io credo di aver trovato qualcosa”.
Il
dottore raggiunse l’amico e prese in mano quello
che il collega gli porgeva: era qualcosa di lungo e liscio, con una
forma
concava.
“Che
cos’è?”
“Dimmelo
tu”, soffiò Ianto mentre un terribile
sospetto gli stava passando per la testa. Scavò ancora nella
sabbia per vedere
se c’era altro e ne tirò fuori quella che sembrava
essere una mano. O meglio,
lo scheletro di una mano, una mano molto piccola a cui mancavano un
paio di
dita, però era proprio una mano.
Ianto la lasciò cadere e si tirò indietro con uno
scatto.
In quel momento l’orologio a pendolo batté
l’una ed entrambi i ragazzi
balzarono sul posto.
“Cristo!”
esclamò Owen osservando la mano. “Qui è
decisamente successo qualcosa”.
“Vai
a chiamare Jack”.
“Avete
trovato qualcosa?” chiese il Capitano non
appena ebbe sceso le scale.
“Abbiamo
trovato delle ossa nella cenere del
camino”, lo informò Ianto.
“E
io ho trovato delle foto”, aggiunse Owen buttando
sul tavolo le suddette foto.
Jack
le prese in mano le foto e le guardò
attentamente: erano in bianco e nero, molto vecchie,
tant’è che tutte erano un
po’ rovinate, macchiate qui e là e coi bordi
frastagliati. Tuttavia le figure
si vedevano ancora bene e chiaramente rappresentavano quella che doveva
essere
una famiglia, con i due genitori e i figli. La cosa strana,
però, era che in
ogni foto c’era dei bambini diversi.
“Che
significa?” chiese Jack guardando il suo team.
“I
due adulti nelle foto sono gli ultimi proprietari
della casa”, iniziò a spiegare Owen. “Ma
chi sono tutti quei bambini?”
“Ho
fatto una rapida ricerca”, aggiunse Gwen. “E ho
trovato degli articoli che dicevano che i Mallerick avevano avuto dei
figli,
alcuni che sono nati morti e altri deceduti a causa di malattie o
incidenti
domestici. In ogni caso, nessuno di loro è riuscito a
superare i sette anni”.
“Ma
io pensavo che la moglie del Signor Mallerick
non potesse avere figli”, la contraddisse Tosh.
“Questo
era quello che dicevano. A quanto pare non
volevano che queste disgrazie si venissero a sapere. Ho trovato quegli
articoli
in mezzo ad alcuni file molto riservati”.
“Jack!”
chiamò Ianto, fermo vicino al camino. “Lo
scheletro della mano che abbiamo trovato sembra essere quella di un
bambino”.
Il
Capitano si avvicinò al camino e osservò la mano
che era stata posata in un angolo. Poi rovistò tra la
cenere, finché non scoprì
un piccolo anello circolare di ferro arrugginito. Lo tirò
verso di sé aprendo
una piccola porticina quadrata che celava una specie pozzo o
nascondiglio.
“E’
una botola? Quella è una botola?”
esclamò Rhys
con gli occhi spalancati. “Una botola nel camino!?”
“C’è
una scala”, notò Jack ignorando le parole di
Rhys. “Vado a vedere cosa c’è
lì sotto. Voi restate qui”.
“Vengo
con te, Jack”, disse Ianto afferrando subito
una torcia. Jack gli lanciò una strana occhiata, ma non
disse niente. Scese le
scale fino in fondo e poi aiutò il compagno. Quando entrambi
toccarono il
terreno, il Capitano accese la torcia e si guardò attorno.
“Sembra
un sotterraneo”, osservò il gallese,
osservando le pareti di roccia piene di muffa e umidità.
Davanti a loro si
estendeva un lungo corridoio piuttosto buio e stretto.
“Perché improvvisamente
mi sembra di essere entrato in una storia di Edgar Allan
Poe?”
“Dai,
andiamo”, lo incitò Jack, precedendolo lungo
il tunnel.
Per
un po’ camminarono in silenzio, concentrati più
che altro su eventuali rumori e su quello che c’era attorno a
loro. Ma a Ianto
non piaceva tutta quella calma, perciò sbottò di
nuovo: “Perché ti sei
cambiato?” Il ragazzo solo in quel momento aveva notato che
Jack aveva di nuovo
indossato i suoi soliti vestiti da soldato; doveva averlo fatto quando
era
tornato al piano superiore con Tosh. Lui invece era rimasto con la sua
tenuta
da notte.
L’altro
lo guardò come se avesse chiesto la cosa più
stupida del mondo. “Preferivi che andassi in esplorazione in
pigiama?”
“Be’,
io sono in pigiama”.
“Sì.
E ti sta anche bene. Sei sexy”.
Ianto
sorrise tra sé e sé e non disse altro. Era sempre il solito, Jack,
mai una volta che
lo prendesse sul serio. Non che la cosa gli dispiacesse…
A
dispetto di quello che sembrava, non dovettero
camminare a lungo. Salirono qualche rampa di scale e poi giunsero ad
una
piccola porta in metallo, molto vecchia ma ancora resistente. Era
chiusa a
chiave così Jack dovette colpire la maniglia con la porta
per romperla e far
scattare la serratura.
La prima cosa che saltò loro agli occhi fu la
quantità di scheletri e ossa sparse
per la stanza. Non erano tantissimi, ma abbastanza per impressionarli.
La cosa
ancora più terrificante era che sembravano appartenere a dei
bambini. E al
centro della stanza c’era una specie di enorme boiler che
quasi sfiorava il
soffitto.
“Che
cos’è?” chiese Ianto.
“Sembra
essere un amplificatore di energia”, rispose
il Capitano, gli occhi puntati sull’oggetto.
“Io
non ci sto capendo niente”, sbottò Rhys
frustrato, buttandosi sul divano con un sospiro.
Gli
altri si scambiarono diversi sguardi ma nessuno
disse niente. Gwen, seduta accanto al marito, si passò una
mano sul viso
stancamente.
Calò
di nuovo il silenzio nel salotto, interrotto
solo dal ticchettio ritmato del pendolo. Si respirava un’aria
pesante.
A un tratto Owen si alzò in piedi e si stropicciò
i capelli. “Non ce la faccio
più a stare qui. Vado da Jack e Ianto”.
“Owen!”
lo chiamò Tosh, ma lo sguardo, anziché
guardare lui, era posato sul mobiletto di fronte a lei.
“Quegli angeli si sono mossi”.
“Cosa?”
“E’
vero!” concordò Gwen, avvicinandosi ai putti che
decoravano i cassetti del mobile. “Avevano la testa girata
dall’altra parte
prima”. Proprio nel momento in cui lo disse, una figura
trasparente che aveva
chiaramente le sembianze di una persona, sbucò
dall’angelo e le venne addosso.
La ragazza urlò e cadde a terra.
“Gwen!”
gridò Rhys cercando di raggiungerla, ma
un’altra figura uguale alla precedente lo bloccò
volandogli tutt’intorno. Anche
gli altri vennero attaccati da quelle strane creature dalle sembianze
umane che
volavano ed emettevano una strana luce fluorescente, come
un’aureola.
Sembravano dei veri e propri fantasmi. Ed erano centinaia.
Tosh
e Gwen si avvicinarono l’una all’altra cercando
di proteggersi, mentre Owen si buttò per terra e
sparò due colpi con la pistola
per cercare di colpirne qualcuno. Ma come aveva immaginato, i
proiettili li
trapassarono.
“Voi
ci avete disturbati!” dicevano le creature con
voce sibilante. “Andate via! Andate via! Andate
via!”
“O
vi uccideremo tutti”.
Uno
dei fantasmi si fiondò su Gwen e spalancò la
bocca in un urlo disumano a poca distanza dalla sua faccia. La ragazza
impallidì di colpo e rimase paralizzata dalla paura.
Gli oggetti nella stanza cominciarono a volare dappertutto, sollevati
dal vento
che stavano causando gli spettri volando velocemente attorno al
lampadario.
Continuavano a sghignazzare con le loro voci stridule.
“Vi
uccideremo tutti!”
Improvvisamente
dei colpi di pistola sconquassarono
le pareti della stanza e i fantasmi, come spaventati da qualcosa, si
dileguarono alla velocità della luce attraversando i muri. I
ragazzi si
voltarono nella direzione da cui avevano sentito provenire il colpo,
aspettandosi un’altra minaccia; invece trovarono solo Jack e
Ianto, il primo
con la pistola ancora puntata al soffitto e l’altro con uno
sguardo raggelato.
Ci
volle qualche attimo perché tutti quanti
riuscissero a riprendersi. Owen si massaggiò la testa dove
l’aveva sbattuta e
Tosh si sistemò la maglietta del pigiama. “Che
cosa diamine erano quei cosi?”
“Fantasmi?”
“No,
non credo fossero fantasmi”, disse Jack,
riponendo la pistola nella fondina e piazzandosi in mezzo alla stanza,
le mani
sui fianchi. “Io e Ianto abbiamo trovato un amplificatore di
energia. Non so
che cosa esattamente ci facessero i proprietari ma è uno di
quelli che vengono
usati nelle navi spaziali. E poi…”, si interruppe
per lanciare un’occhiata
d’intesa al compagno, al che il giovane gallese
poggiò sul tavolo una specie di
piccolo taccuino in cuoio nero. “… abbiamo trovato
questo diario. Apparteneva
al Signor Mallerick e ci annotava… annotava il nome dei suoi
figli e il modo in
cui sono morti. A quanto pare era lui ad ucciderli”.
“Che
cosa?! Uccideva i suoi figli?!” esclamò Tosh
con espressione sconvolta e disgustata.
“Sì,
ma sembra che fosse stato costretto. E forse
questi fant… queste creature c’entrano
qualcosa”.
“Dobbiamo
scoprire cosa sono e perché sono qui”,
sbottò Owen in tono deciso.
“Forse
sono gli spiriti di quei bambini che…”,
ipotizzò Tosh ancora tremante.
“Non
esistono i fantasmi!” la interruppe il dottore
sgarbatamente.
“Ragazzi…”,
chiamò allora Rhys.
“Probabilmente
sono alieni, se pensiamo
all’amplificatore di energia”, proseguì
Jack.
“Ragazzi…”.
“Sì,
ma… che razza di alieni possono…”.
“Ragazzi!”
urlò a quel punto Rhys spazientito.
“Che
c’è?” Il Capitano lo guardò
con espressione
frustrata.
“Gwen
ha qualcosa che non va”. Solo allora Jack
cominciò a prestargli attenzione. Gwen era seduta sulla
poltrona, lo sguardo
puntato in avanti, in un punto indefinito. Sembrava essere caduta in
trance.
L’uomo le si avvicinò, scostando il marito
piuttosto sgarbatamente. “Gwen?” la
chiamò scandendo bene il suo nome. “Gwen, mi
senti?” Le schioccò due dita
davanti al viso, ma lei non reagì.
“Gwen,
tesoro?” fece Rhys.
A
quel punto Gwen spostò gli occhi dal punto che
aveva continuato a fissare e li posò su Jack. La sua
espressione era fredda e
glaciale. Piegò le labbra in un sorriso sghembo, malvagio.
“La vostra Gwen se
n’è andata”.
Tutti
i presenti spalancarono gli occhi, spaventati.
“Questo non è divertente, Gwen!” la
rimbeccò Owen, inginocchiandosi accanto a
lei.
“Sta’
zitto! Non vedi che è posseduta?” gli
urlò
Rhys, furioso. Aveva le lacrime agli occhi e un’espressione
disperata.
Maledetto Torchwood! Era sempre colpa sua. “Fa’
qualcosa, Jack!”
Gwen
scoppiò in una risata malvagia. “Poveri illusi.
Siete così ingenui”.
“Chi
siete?”
“Non
lo sai?” la testa della ragazza si piegò di
lato, gli occhi erano ridotti a due fessure che sembravano pronti a
mandare
lampi. Chiaramente non era più lei. “Siamo caduti
qui, con la nostra nave. E
abbiamo fatto il meglio che abbiamo potuto. Per sopravvivere”.
“Sopravvivere?
Come?” Jack la teneva per le spalle;
temeva che gli sarebbe sfuggita.
“Avevamo
bisogno di corpi, corpi caldi e vivi”. La voce
di Gwen si era trasformata in un sibilo serpentesco che stava mettendo
i
brividi a tutti quanti.
Jack
alzò lo sguardo sui suoi compagni; una luce di
comprensione gli aveva improvvisamente illuminato gli occhi.
“I bambini! Avete
posseduto i bambini dei Mallerick! Il Signor Mallerick però
se n’era accorto
per questo li aveva uccisi tutti”.
“Quell’inutile
umano continuava a intralciarci”.
“Ma
perché siete rimasti qui? Questa casa è
disabitata da anni”.
Gwen
storse la bocca, disgustata. Evidentemente
considerava quella domanda stupida e inutile.
“Perché non eravamo abbastanza
forti per uscire fuori. Ma adesso…”. Di nuovo mise
su l’espressione di malvagia
soddisfazione. “Adesso lo siamo. E usciremo fuori per
occupare i corpi di tutti
quei stupidi umani”.
Delle
risate malefiche si levarono da ogni angolo
della casa e le creature fluorescenti comparvero nella stanza, uscendo
dalle
pareti o dai mobili, per mettersi a girare intorno alla stanza. Infine,
si
riunirono attorno al soffitto e lo oltrepassarono.
Anche Gwen, spingendo via Jack affinché le lasciasse le
spalle, sparì in un
fascio di luce azzurrognola.
“Dov’è
andata?” chiese Rhys, mal celando la sua
paura e la sua preoccupazione.
“Penso
di sapere dove sia andata”.
Senza
aggiungere altre spiegazioni, Jack corse verso
le scale, seguito dagli altri che avevano già iniziato a
preparare le armi.
Percorsero tutto il corridoio fino a giungere ad una porta
più piccola delle
altre. “Qui abbiamo trovato l’amplificatore di
energia!” spiegò Jack. “Hanno
bisogno di questo per uscire”. Dalla stanza si sentiva
provenire un suono di
voci, risate e strani sibili e rumori meccanici.
“Dannazione!
Ha chiuso la porta!” esclamò il
Capitano, tirando la maniglia.
“Fai
provare me!” Rhys lo scostò e si mise a
martellare contro la porta. “Gwen, apri questa
porta!”
“Non
è Gwen. Non ti darà ascolto!”
“Ma
riusciremo a recuperarla, vero? Lei non è… non
è…”.
Jack
non poté fare a meno di vedere l’espressione
disperata e sconvolta dell’uomo, tuttavia non
seppe come rispondergli. Non aveva idea di cosa facessero
quegli alieni
una volta entrati dentro il corpo di qualcuno. Poteva solo sperare che
tutto si
risolvesse per il meglio.
“Tieni,
Jack! Usa questo!” Tosh gli passò un piccolo
oggetto quadrato con strani ganci attaccati ai lati. Lui lo prese in
mano e lo
poggiò sulla porta.
“Che
cos’è?” chiese Rhys.
“E’
un artefatto alieno che abbiamo trovato in un
vecchio magazzino. Può aprire tutte le porte, di ogni
tipo”, spiegò la
giapponesina.
“Anche
quelle blindate?”
“Certo”.
Jack
schiacciò qualche pulsante e la porta si aprì
con un cigolio. In mezzo alla stanza trovarono
quell’amplificatore a forma di
boiler e Gwen che schiacciava dei pulsanti posti sopra di esso.
Tutt’intorno a
lei volteggiavano le creature.
“Fermati!”
“E
perché dovrei?”
“Non
ci penso proprio!”
Il
Capitano si voltò verso Rhys e lo guardò con
l’espressione più dispiaciuta che fosse in grado
di fare. In quel momento
sembrava essere crollata la sua corazza imperturbabile e i suoi occhi
mostrarono la loro vera età e tutto ciò che
avevano visto. “Mi dispiace”. Tirò
fuori un coltello dalla tasca e, lanciatosi addosso a Gwen, la prese da
dietro
stringendola forte con le braccia. Infine, con un colpo deciso,
piantò il
coltello nel suo stomaco facendola boccheggiare. Il suo corpo si
illuminò di
una luce azzurra e l’alieno che l’aveva posseduta
la lasciò andare, unendosi ai
suoi compagni che stavano ancora volando per la stanza.
“Owen,
pensaci tu!” gridò Jack, lasciando Gwen nelle
mani del dottore.
“Tu
puoi fermare quella macchina?” chiese il
ragazzo, guardando la macchina con occhi preoccupati. Questa aveva
cominciato
ad emettere sbuffi e sibili e sembrava che stesse per scoppiare.
“Sì!” esclamò
Jack, voltandosi completamente verso il suo team. “Ma voi
dovete uscire da qui
il più in fretta possibile”.
Gli altri non se lo fecero ripetere due volte e abbandonarono la
stanza, Owen e
Rhys che sorreggevano Gwen. Soltanto Ianto esitò, ma
un’occhiata decisa del
Capitano lo convinse a seguire gli altri.
Rimasto
solo, Jack si inginocchiò sul pavimento e
infilò la testa sotto l’amplificatore, trovando
proprio quello che cercava: il
serbatoio. Ed era pieno di benzina.
Estrasse un accendino dalla tasca e lo accese, puntando la fiammella
proprio al
centro del serbatoio. Gli alieni, capendo il suo piano, cercarono di
impedirglielo, lanciando oggetti contro di lui, ma il Capitano
riuscì ad
evitarli tutti.
Infine, strisciò fuori chiudendo la porta dietro di
sé. Corse verso le scale,
mentre la stanza dietro di lui esplodeva in un gran boato e potenti
fiamme.
I
cinque membri del Torchwood insieme a Rhys
guardavano la villa divorata dal fuoco. Le fiamme l’avevano
abbracciata
piuttosto in fretta e le finestre e il tetto avevano cominciato a
crollare.
Presto non ne sarebbe rimasto più niente. E insieme a lei
sarebbero morti anche
le creature intrappolate lì dentro, mentre loro erano al
sicuro, lontano da
essa.
“State
tutti bene?” chiese Jack. “Gwen stai
bene?”
“Sì”,
rispose la ragazza appoggiata al Suv perché
Owen le potesse curare la ferita.
“No
che non sta bene, figlio di puttana!” gridò Rhys
guardando Jack con sguardo omicida. “L’hai
accoltellata. L’hai quasi
ammazzata”.
“Rhys!”
lo chiamò la moglie. “Lascialo stare. Non
poteva fare altro”.
“Questo
lo crede lui”.
“Mi
dispiace, Rhys”.
Forse
Rhys aveva ragione, ma quella era stata l’unica
soluzione che gli era venuta in mente, per fermare il disastro e anche
per far
uscire quell’entità dal corpo di Gwen. Dopotutto,
aveva cercato di non colpirla
in un punto troppo vitale.
Ianto
mise l’acqua del tè sul forno e si
asciugò le
mani con uno straccio. “Una cosa che mi chiedo”,
sbottò ad un tratto voltandosi
verso Jack che se ne stava seduto al tavolo da pranzo. L’uomo
alzò gli occhi su
di lui con fare curioso. “Perché seppelliva i suoi
figli in casa. Il signor
Mallerick, intendo”.
“Forse
perché erano i suoi figli e non voleva
separarsene”.
Il
ragazzo rabbrividì al ricordo degli scheletri che
avevano trovato. “Che coraggio, però, ammazzare i
propri figli. Insomma, era
proprio necessario? Gwen non è dovuta morire per esserne
liberata”.
“Probabilmente
pensava che fossero posseduti dal
demonio e che l’unico modo per liberarsene fosse ucciderli.
L’hai letto anche
tu il suo diario, stava impazzendo”.
“Già,
sarà così”. Ianto
lasciò il tè a bollire e si sedette accanto a
Jack. Questi gli mise una mano
attorno alle spalle, lasciandolo poggiare la testa sulla sua spalla, e
portò
una mano ad accarezzargli la pancia di quasi cinque mesi.
Il cielo fuori dalla finestra si stava rannuvolando; forse quel giorno
avrebbe
piovuto.
MILLY’S
SPACE
Buonsalve,
sì, lo so, è da un secolo che non aggiorno. Ma
ho avuto così tanti impegni. Non posso far altro che
porgervi le mie più
sentite scuse, sperando che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbia
compensato la mia assenza.
Non
voglio tediarvi troppo, perciò vi lascio andare. Volevo
solo provi un quesito: secondo voi sarà un maschio o una
femmina? Intendo il
bambino di Jack e Ianto. Sono curiosa di sapere che cosa pensate voi.
Provate a
sparare, vediamo ^^ tanto io ho già deciso.
E ricordatevi anche di venirmi a trovare sulla mia pagina facebook che
si
chiama Milly’s Space. Potete lasciarmi lì le
vostre recensioncine, se volete. O
parlarmi di qualsiasi altra cosa, sono sempre disponibile ad ascoltare
: )
Un
bacione,
M.
LORI
LIESMITH:
wow, allora considero la tua recensione un vero onore. Scusami
se ti ho fatta attendere. Fammi sapere. Un bacio, Milly.
HELLOSWAG:
oddio, metti via quel coltello ^^ ho aggiornato, un po’ in
ritardo, ma ho
aggiornato. Eh sì, Jack e Ianto sono dolcissimi. Purtroppo
non riesco a evitare
di inserire scene fluff, ma cerco comunque di rimanere abbastanza nei
caratteri
dei pg. Anche se forse non ci riesco del tutto. Va be’, dimmi
che ne pensi. Un Bacio,
M.
AMAYAFOX91:
mi
sarebbe piaciuto vedere uno sviluppo simile nella serie, comunque.
Potrei
telefonare a Davies e propormi di scrivere la sceneggiatura per la
quinta
stagione di Torchwood ^^ troverei un modo per far tornare Ianto. Ahaha.
Un
abbraccio, M.
|
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Capitolo 18 *** Capitolo diciassette - Nubi aliene, corse e calci ***
CAPITOLO
DICIASSETTE - NUBI ALIENE, CORSE E CALCI
Penso
che tra me
e te
meglio un pugno che un addio,
come sai non ti ho mai detto una parola in più
(Infinitamente, E. Ramazzotti)
Ianto
si svegliò lentamente notando subito lo spazio
del letto vuoto accanto al suo. Jack doveva essere andato al lavoro
già da un
po’ e non lo aveva nemmeno svegliato. No, la cosa strana era
che lui non si
fosse svegliato, considerando il sonno leggero che lo
contraddistingueva.
Si girò a pancia all’aria scontrandosi con quella
specie di palla rotonda e
dura che lo faceva pesare il doppio del normale e che cominciava
davvero a
piacergli sempre meno; tuttavia vi pose lo stesso una mano sopra,
accarezzandola teneramente. In fondo c’era il loro bambino
lì dentro e lui non
vedeva l’ora che uscisse fuori. Ma avrebbe dovuto pazientare
ancora per un paio
di mesi.
Posò
i piedi per terra e a fatica si alzò dal letto,
sempre tenendo una mano sul pancione e l’altra dietro la
schiena. Diamine, era
difficile essere incinti! Come facevano le donne a voler partorire
anche più di
un bambino? Dopo quello, lui non aveva alcuna intenzione di farne un
altro e
semmai avessero deciso di dare un fratellino o una sorellina al
nascituro,
sarebbe toccato a Jack.
Ma che stava dicendo? Già sarebbe stato faticoso con un
bambino solo, figurarsi
con due. Lui non aveva ancora alcuna idea di che razza di padre sarebbe
stato,
non aveva nemmeno idea se sapesse come si cambiano i pannolini. Certo,
sapeva
che l’avrebbe amato, quel bambino, e che avrebbe cercato di
renderlo felice, ma
un conto era avere dei buoni propositi, un altro era saperli mettere in
pratica.
Troppe
paranoie, Ianto, vai a fare colazione.
“Dov’è
andato?”
“Da
quella parte!”
“Andiamo!”
Jack,
Gwen e Owen stavano correndo a perdifiato in
un parcheggio sotterraneo all’inseguimento di un uomo
posseduto da una strana
creatura aliena informe che somigliava a una scura nube fatta di gas.
Il Capitano estrasse la pistola quando se lo ritrovò a un
paio di metri di
distanza, con l’intenzione di ferirlo a una gamba per
rallentarlo, quando a un
tratto vide il tizio crollare in ginocchio, inarcare la schiena e
spalancare la
bocca verso il soffitto mentre la nube aliena abbandonava il suo corpo
e si
disperdeva attraverso le pareti. L’uomo poi cadde a terra
svenuto.
“Che
diavolo è successo?” chiese Gwen, sopraggiunta
in quel momento assieme a Owen.
“Owen,
controlla il tizio e assicurati che stia bene”,
ordinò Jack per poi premere un pulsante
sull’auricolare che teneva all’orecchio.
“Tosh, mi sai dire dov’è
andato?”
Si
udì un concitato ticchettio di tasti prima che la
voce della ragazza rispondesse all’orecchio di Jack.
“In superficie. Esattamente
sopra di voi”.
“Andiamo,
Gwen”.
L’ex
poliziotta alzò gli occhi al cielo stanca per
la corsa, ma seguì il cappotto svolazzante del Capitano
senza protestare.
Arrivati in superfice, i due si guardarono attorno. “Non lo
vedo, Tosh”.
“E’
nel vicolo alla vostra destra”.
Jack
si voltò nella direzione indicatagli e vide una
donna bionda che fissava la strada in maniera strana. Capì
subito che questa
volta l’alieno si era impossessato di lei. Quando si
voltò verso i due membri
del Torchwood, emise uno strano stridio con la bocca e
cominciò a correre.
“Ma
possibile che tutti gli alieni debbano sempre
correre?”
“Ringraziami
quando Rhys apprezzerà le tue gambe
toniche”.
Ianto
avrebbe desiderato fortemente trovarsi al
lavoro in quel momento ma Jack gli aveva categoricamente vietato di
farlo,
sebbene il gallese gli avesse assicurato che se ne sarebbe rimasto
buono buono
nella base senza dare la caccia ad alcun alieno e senza mettere nei
guai sé
stesso o il bambino. Non che poi al bambino potesse succedere qualcosa,
ma il
Capitano stranamente era diventato iperprotettivo e qualsiasi cosa gli
dicesse
non lo faceva cambiare idea. Lo voleva far soffrire, era questo il suo
piano
malefico. Perché Ianto odiava stare a casa, non riusciva mai
a trovare niente
che lo intrattenesse abbastanza. E uscire a fare la spesa o una
passeggiata al
parco non era un’idea saggia perché la gente lo
avrebbe guardato strano.
Così
si sedette sul divano con un pacco di biscotti
e prese il telefono, cercando il numero di sua sorella nella rubrica.
“Pronto?”
“Rhiannon?”
“Ianto?
Oh mio Dio! La seconda chiamata in una
settimana! Che ne hai fatto di mio fratello?”
Ianto
piegò le labbra in una smorfia infastidita.
“Spiritosa.
Mi stavo solo annoiando”.
“Jack
ti ha lasciato di nuovo a casa”.
“Sì
e lo odio per questo”.
“E
io invece penso che abbia fatto bene. Il tuo non
è uno dei lavori più sicuri”.
Il
ragazzo sospirò e si stese sul divano.
“Sì, ma
che cosa faccio io chiuso in casa?”
“Leggi
un libro, guardi la tv, fai il bucato, ti
rilassi”.
“La
tv è noiosa, il bucato l’ho fatto ieri, ho
finito i libri da leggere e credo di essere già abbastanza
rilassato”. Dopo
aver finito di parlare, in tono piuttosto scocciato, sentì
la sorella ridere
dall’altra parte della linea.
“Fratellino,
verrei volentieri a tenerti compagnia ma
Misha è a casa con la febbre”.
“Davvero?
Oh, spero non stia troppo male”.
“Ma
figurati! E’ contenta di poter rimanere a casa
da scuola”.
Toccò
a Ianto ridacchiare questa volta. “Come la
capisco”.
“Oh,
già. Anche tu eri sempre contento quando non
dovevi andare a scuola”.
“Sì,
ma solo finché c’era la mamma”.
Rhiannon
improvvisamente si zittì, conscia di aver
tirato fuori un argomento piuttosto spinoso. Era meglio virare su
un’altra
strada al più presto.
“Allora,
avete già scelto il nome?”
Jack
e Gwen si arrestarono appena in tempo prima di
andare a sbattere contro il muro di un vicolo cieco. La donna che
avevano
inseguito per tutto quel tempo li aveva superati di un bel
po’ e tentare di
raggiungerla era ormai inutile.
Restarono entrambi piegati in due, le mani poggiate sulle ginocchia,
cercando
di recuperare fiato.
“Ragazzi,
l’ho persa. I computer non la segnano
più”,
sentirono dire Tosh dall’auricolare.
“L’abbiamo
persa anche noi”, la informò Jack mentre
di sottecchi guardava Gwen per vedere se stava bene.
“Che
facciamo, Jack?”
“Torniamo
alla base e ci riorganizziamo”. Il
Capitano si sistemò il collare del cappotto e
girò sui tacchi per tornare sulla
strada dalla quale erano arrivati. “Owen?”
chiamò.
“Sì,
Jack?”
“Come
sta l’uomo?”
“Un
po’ confuso. Ho chiamato un’ambulanza
perché lo vengano
a prendere”.
“Si
ricorda qualcosa?”
“No,
nulla”.
“Bene,
ti veniamo a prendere”.
Jack
e Gwen arrivarono al Suv e vi salirono sopra;
il Capitano mise in moto e cominciò a guidare verso il
parcheggio in cui avevano
lasciato Owen. Poi virarono verso la baia.
Ianto
alla fine si era deciso ad andare alla base lo
stesso, giusto per fare un saluto e vedere come se la stavano cavando i
suoi
colleghi senza di lui e il suo caffè.
Quando varcò la soglia trovò solo Toshiko seduta
davanti al computer con una
mappa satellitare aperta sullo schermo.
“Ciao,
Tosh”.
“Ianto!”
esclamò la ragazza voltandosi verso di lui
sorpresa. “Pensavo che oggi non venissi”.
“Ho
cambiato idea”. Il ragazzo si appoggiò alla
scrivania
e si grattò la pancia, quando in quel momento vide
sopraggiungere Jack dagli
archivi. Questi lo guardò con un’occhiata storta.
“Tu che ci fai qui? Non ti
avevo detto di restare a casa?”
“Sì,
me lo avevi detto, ma fortunatamente godo
ancora del libero arbitrio”.
Il
Capitano stava per aggiungere altro ma venne
improvvisamente interrotto da Gwen. “Ianto! Grazie a Dio sei
arrivato! Ho
veramente bisogno di una buona e forte dose di caffeina”.
Il
ragazzo le sorrise e annuì. “Caffeina in
arrivo”.
E, dando un ultimo sguardo a Jack, come per intimargli di non dire
niente, si
diresse verso la macchina del caffè.
“A
proposito, Ianto, come stai?” gli chiese Tosh.
“Come
una balena spiaggiata. Non faccio che alzarmi
la notte per svuotare la vescica che sembra essere diventata
più piccola di una
nocciolina”.
“Tu
non hai niente da lamentarti”, si intromise Jack
a quel punto, fermo sulle scale che conducevano al suo ufficio.
“Non sei tu
quello che è costretto ad andare al supermercato alle ore
più improponibili per
comprarti caramelle e barattoli di Nutella”.
“Caramelle
e barattoli di Nutella?” ripeté Gwen,
spostando lo sguardo da Jack a Ianto e cercando di non scoppiare a
ridere loro
in faccia.
“Pensa
che la settimana scorsa mi ha chiesto di
andare a prendergli un’anguria. E siamo in pieno
inverno”.
Ianto
piegò in fuori il labbro inferiore in un
broncio che lo fece apparire ancora più adorabile e disse:
“Non lamentarti con
me. Lamentati con tuo figlio”.
“Oddio,
sembrate una vecchia coppia sposata”, fece
notar loro Gwen. Il gallese si voltò a guardarla con aria di
sfida. “Gwen, ci
vuoi anche della cicuta nel tuo caffè?”
“Oh,
no grazie, va benissimo così”. La ragazza si
precipitò verso l’amico per prendersi la sua tazza
di caffè e, non appena lo
ebbe tra le mani, ne bevve un sorso leccandosi i baffi. Era decisamente
quello
che le serviva dopo quella corsa sfrenata.
Ianto nel frattempo iniziò a prepararlo anche per
sé.
“Ma
perché non volete sapere il sesso del vostro
bambino?”
“Perché
vogliamo che sia una sorpresa”.
“Io
morirei dalla voglia di saperlo”.
“Basta
con le chiacchiere!” li interruppe Jack con
voce di comando. “Abbiamo del lavoro da fare”.
“Agli
ordini, capo!” esclamò Gwen scherzosa e si
diresse verso la sala riunioni. Prima di seguirla, però, il
Capitano raggiunse
il compagno e gli mostrò un sorrisetto furbesco.
“Questa la prendo io”, disse,
prendendogli la tazza di caffè dalle mani.
Ianto
rimase di stucco mentre lo guardava
allontanarsi col suo caffè. “E che dovrei bere
io?”
“Che
ne dici di una tazza di tè?”
“Tè?!”
Il ragazzo assunse un’espressione schifata. “Non
sono un fottuto inglese”.
“Oh,
no. Sei un gallese. Un gallese molto, molto
sexy”.
Il
ragazzo sospirò rassegnato; c’erano momenti in
cui davvero non sapeva se prendere Jack a schiaffi oppure sbatterlo
contro un
muro e baciarlo come se non ci fosse un domani. Solo lui gli faceva
quell’effetto.
Ianto
non si era nemmeno accorto di essersi
addormentato. Ricordava di essersi steso sul divano della base e di
aver chiuso
gli occhi per qualche secondo, poi il sonno doveva essere venuto da
sé. Fantastico,
proprio fantastico.
Ma si accorse solo in un secondo momento che c’era qualcosa a
pesargli addosso,
qualcosa di confortevolmente caldo e… con un odore molto
familiare e molto delizioso.
Quei feromoni del cinquantunesimo secolo erano inconfondibili. Jack lo
aveva
coperto con il suo cappotto e a un tale pensiero gli venne da
arrossire. Ancora
non riusciva a capacitarsi di quanto Jack fosse diventato
così… amorevole? Dolce?
Delicato?
Mah…
Vagò
con lo sguardo in giro per la stanza, notando
solo Owen che girava attorno a una donna bionda stesa e ammanettata sul
tavolo
delle biopsie, benché sembrasse essere in un coma profondo,
e si alzò reggendo
il cappotto in mano.
Piano, entrò nell’ufficio di Jack. Il Capitano
stava in piedi dietro la
scrivania e si slacciava la camicia bianca al cui centro faceva bella
mostra
una grossa macchia rossa.
Sangue,
pensò
Ianto che non ci mise a fare due più due.
“Jack!”
L’uomo
alzò lo sguardo sul giovane e gli sorrise. “Ti
sei svegliato”.
“Che
diamine hai fatto?” ringhiò il gallese, una
strana sensazione di paura e preoccupazione che si agitava dentro di
lui.
“Non
so di che stai parlando”.
Ianto
gli indicò con gli occhi la macchia sulla
camicia incrociando le braccia. “Ti sei fatto sparare. Di
nuovo”.
“Non
mi sono fatto sparare. Mi hanno sparato”.
“E
sei morto”.
Jack
fece il giro della scrivania per avvicinarsi al
compagno la cui agitazione gli sembrava del tutto inutile. “E
sono tornato. Di che
ti preoccupi?” Lanciò la camicia sporca su una
sedia vuota.
“Di
che mi preoccupo?” Sembrava proprio che il
ragazzo avesse voglia di litigare, o quantomeno di affrontare una
discussione
piuttosto importante, il che tra loro non era mai capitato.
Be’, non prima del
bambino. “Jack, sei troppo avventato e la facilità
con cui lasci che ti sparino
mi fa pensare che non ti importi. Dai per scontato che tornerai, ma se
un
giorno… se un giorno questo meccanismo o qualsiasi cosa sia
si bloccasse? Se tu
non tornassi più”.
Jack
poggiò le mani sui fianchi di Ianto e lo attirò
a sé, lasciando che la sua pancia gonfia si appoggiasse alla
sua, piatta,
liscia e nuda.
“Io
non potrei farcela senza di te. Non adesso, non
con… il bambino”.
Il
Capitano gli mostrò un sorriso dolce e gli fece
appoggiare la testa sulla sua spalla, cullandolo come un bambino.
“Io non ho
intenzione di andare da nessuna parte”, gli
sussurrò. “Resterò qui con te e il
bambino. Non potrei mai lasciarvi”.
“Sì,
ma…”.
“Niente
ma. Smettila di preoccuparti per me”. Fece
allontanare Ianto da sé per potersi inginocchiare ed essere
all’altezza del
pancione. “Piuttosto, cerca di sbrigarti a farlo
uscire”.
Il
ragazzo si accarezzò la pancia attraverso la
maglietta più grande di due taglie, uno dei pochi indumenti
che riusciva ancora
a indossare. “Lasciagli il suo tempo”.
“Non
vedo l’ora di vederlo”.
“O
di vederla. Potrebbe essere una femmina”.
“E’
lo stesso”.
I
due restarono a guardarsi per un po’ senza dirsi
nulla, godendosi il momento d’intimità,
finché Ianto non emise un gemito
spalancando la bocca in un’espressione di dolore.
“Che
c’è?” chiese Jack preoccupato. Era
troppo
chiedere che qualche stranezza non rovinasse quel momento?
“Credo…
credo che mi abbia appena dato un calcio”.
“Davvero?”
“Sì”.
Il
Capitano poggiò un orecchio sul pancione del
compagno e si mise in ascolto, sperando con tutto il cuore che si
facesse
risentire. E le sue preghiere vennero esaudite perché il
bambino diede un altro
calcio, come se avesse percepito che i genitori stavano parlando di lui
e
volesse far presente la sua presenza e che la cosa gli faceva piacere.
“L’hai
sentito?”
“Oh
sì”.
Jack
posò un morbido bacio sulla pancia di Ianto
pensando che tutto ciò gli piaceva un sacco. Non pensava che
si sarebbe di
nuovo sentito così un giorno, non dopo la nascita di Alice o
il matrimonio con
sua madre, eppure eccolo lì… quasi commosso
perché stava per avere un altro
bambino. Sperava solo di non combinare un totale casino anche con
questo.
La
porta dell’ufficio si spalancò e la testa di Owen
fece capolino. “Scusate se interrompo questo intimo quadretto
famigliare ma
devo parlarti della donna posseduta”.
“Dimmi,
Owen”, fece Jack rialzandosi e assumendo di
nuovo la sua aria professionale, come se nulla nel frattempo fosse
successo.
“La
creatura si mescola con il sangue delle vittime,
per questo le fa comportare in maniera aggressiva e violenta. Ma temo
che la
donna non riuscirà a sopportarlo ancora a lungo. Non
possiamo salvarli
entrambi; o uccidiamo lei o la creatura”.
Jack
rimase in silenzio per qualche istante, lo
sguardo pensieroso. “Hai ancora l’antidoto che
usiamo contro le infezioni
aliene?”
“Sì”.
“Bene,
prova a iniettarglielo e vediamo se funziona”.
“Ci
avevo pensato anche io”.
La
giornata si concluse tranquillamente, per essere
stata una giornata alla Torchwood. L’antidoto aveva
funzionato sulla donna, la
creatura era stata sconfitta e lei retconizzata
e rimandata a casa. Null’altro era successo.
A dire il vero, tutti i giorni di quell’ultimo periodo erano
stati piuttosto
tranquilli - non avevano dovuto affrontare alieni particolarmente
pericolosi o
mortali - il che non prometteva mai nulla di buono. Di solito la calma
precede
una tempesta.
Ma a nessuno di loro andava di pensarla in questo modo, non volevano
essere
pessimisti, così semplicemente cercavano di godersela e di
approfittare di ogni
momento libero. Non sempre le cose dovevano andare male.
Dopo
aver mandato gli altri tre a casa, Jack e Ianto
si stavano dirigendo per ultimi verso l’auto di
quest’ultimo, discutendo su
quello che avrebbero mangiato per cena. Il ragazzo stava per entrare in
macchina, sul lato del passeggero, quando vide gli occhi del Capitano
fissi su
qualcosa in lontananza. Si voltò in quella direzione,
notando una cabina blu
della polizia vicino all’angolo della strada.
Da dove poteva essere spuntata, si chiese. Non c’era stata
prima.
“Che
cos’è?”
“E’
il Tardis”, gli rispose Jack senza smettere di
fissare quell’oggetto. “La cabina del
Dottore”.
“Dottore?”
fece Ianto leggermente confuso. Ma non
gli ci volle molto per capire. “Intendi il tuo
Dottore?”
Finalmente
il Capitano spostò lo sguardo sul
gallese, ma lo guardò in maniera strana, come se stesse
cercando di
comunicargli qualcosa attraverso gli occhi.
Ianto sembrò intuirlo perché lo guardò
anche lui e infine sospirò. “D’accordo.
Immagino
sia una cosa tra voi due”.
Jack
gli sorrise, contento che lo avesse capito. “Ti
prometto che tornerò presto”.
“Me
lo auguro”.
“Tornerò
ancora prima che tu te ne accorga”.
“Intanto
preparo la cena”.
Il
Capitano gli lanciò
le chiavi, gli diede un veloce bacio sulle labbra e corse in direzione
della
cabina.
Ianto entrò in auto e mise in moto. Sperava davvero che Jack
tornasse presto
perché non gli andava di cenare da solo.
MILLY’S
SPACE
È
vergognoso che io mi presenti solo ora, lo so. Di quanto
sono in ritardo? Non lo voglio neanche sapere.
E’ che ho appena iniziato l’università
in una nuova città e, tra le mille cose
da fare e la poca ispirazione, ho messo in pausa tutte le mie fic.
Ma eccomi di nuovo qui.
Posso dire che questo è un capitolo di passaggio e che dopo
di questo ci sarà
una specie di seconda parte, benché sia una fic unica. Ma
non importa, lo
vedrete e spero di non metterci troppo.
Comunque,
sapete, stavo guardando uno dei tanti panel di
John Barrowman (tra l’altro ho comprato il suo nuovo cd e vi
consiglio di fare
altrettanto perché è meraviglioso) e non avevo
idea che volesse avere dei
bambini. Wow!
Che c’entra questo con la storia? Assolutamente nulla ^^ ma
è tardi e sto
straparlando. Meglio che vi lasci.
Notte
e a tutti,
Milly.
P.S.
siete ancora in tempo per dirmi se pensate che sia
un maschio o una femmina ^^
P.P.S.
non ho voglia di rileggere il capitolo perciò se
ci sono errori abominevoli ditemelo.
LORI
LIESMITH:
cara, scusami veramente tanto per questa attesa. Non so
cosa dire per farmi perdonare. Spero almeno che il capitolo ti sia
piaciuto e
mi raccomando, non urlacchiare che se no dopo i tuoi genitori pensano
che tu
sia pazza e danno la colpa a me ^^ un bacio, M.
|
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Capitolo 19 *** Capitolo diciotto - Abigail ***
Nota:
ho
come l’impressione che dopo questo capitolo verrò
linciata. Tuttavia, buona
lettura : )
CAPITOLO
DICIOTTO - ABIGAIL
So, this is me swallowing my pride,
standing in front of you,
saying I’m sorry for that night.
(Back to Dececember, T.Swift)
Cinque
anni dopo.
“Sei
pronta per andare a scuola?”
“Posso
finire di vedere i cartoni?”
“Mi
sa che non abbiamo tempo per vederli tutti”.
“Solo
questo”.
“D’accordo”.
La
bambina teneva gli occhi fissi sullo schermo
della televisione e un biscotto mezzo mordicchiato in mano, mentre il
padre si
era rimboccato le maniche per lavare i piatti sporchi nel lavello, ma
ogni tanto
lanciava occhiate alla figlia sorridendo tra sé e
sé di fronte a quello sguardo
così innocente e affascinato.
Sua
figlia era la cosa più bella che gli fosse
capitata e in quegli ultimi anni era stata la sua forza per andare
avanti.
Ormai viveva soltanto per lei e faceva tutto ciò che
c’era da fare soltanto per
lei.
Sulla televisione comparvero i titoli di coda che segnavano la fine del
cartone
e la bambina mise in bocca il resto del biscotto, mandandolo
giù con un paio di
sorsi di latte.
“Adesso
sei pronta per andare?”
“Sì,
papà”.
La
bambina scattò dalla sedia e corse in camera a
prendere zaino e cappotto. Il padre l’aiutò a
indossarli e poi afferrò le
chiavi dell’auto e quelle della casa.
“Buongiorno!”
li salutò la voce dell’anziana signora
che abitava nell’appartamento di fronte al loro e che aveva
preso in particolare
simpatia i due, soprattutto la bambina, visto che spesso le faceva da
baby-sitter.
“Buongiorno,
Signora Brook”, ricambiò l’uomo mentre
chiudeva la porta di casa. “Come sta oggi?”
“Al
solito, l’artrite che ogni tanto fa
scricchiolare qualche povero osso”, si lamentò
lei, ma sempre con un sorriso
dolce stampato in volto. “Significa che oggi
pioverà”.
“Grazie
per l’avvertimento. Ora io e Abby dobbiamo
andare, siamo in ritardo”.
“Ma
certo, ma certo. Buona giornata”.
“Anche
a lei, Signora Brook”. L’uomo allungò
una
mano in direzione della figlia e la bambina si aggrappò ad
essa, trotterellando
a fianco del padre, lungo il corridoio, verso le scale.
Qualche
ora prima…
Jack
si lanciò praticamente fuori dal Tardis e non
si voltò nemmeno indietro per vedere la cabina ripartire o
salutare l’uomo al
suo interno.
Corse
lungo la baia e raggiunse il parapetto che lo
separava dal mare, appoggiandovi sopra le mani. Lasciò
vagare lo sguardo in
giro, verso l’orizzonte dove il sole pian piano cominciava a
spuntare e faceva
disperdere una luce rosea e pallida che andava a illuminare il cielo e
a
coprire le stelle.
Nulla era cambiato, tutto sembrava essere rimasto come ricordava lui.
Eppure…
Eppure
aveva una terribile sensazione.
Raggiunse
in rapide falcate una panchina dove aveva
visto il giornale e cercò subito la data. Il suo cuore
mancò un battito.
Non poteva essere…
Non voleva crederci…
Ci doveva essere un errore…
Adesso avrebbe richiamato il Dottore e gli avrebbe chiesto di
aggiustare quella
cosa perché lui non poteva essere lì, non poteva
aver perso tutto quel tempo.
Si
lasciò cadere sulla panchina e affondò la faccia
nelle mani.
Ma chi voleva ingannare? Era tutto giusto, era tornato nel momento
giusto,
almeno nella sua linea temporale, solo… ora ci sarebbero
state delle
conseguenze e non sarebbero state affatto piacevoli.
Voltò
il capo e i suoi occhi incontrarono la base
del Torchwood tre, ancora lì, intoccata e come lui
l’aveva lasciata.
Ma questo non significava che in quei cinque anni non fosse cambiato
nulla,
anzi.
A
passo lento e con lo svolazzo del lungo cappotto,
si diresse verso l’entrata. Una volta dentro, rimase fermo in
silenzio per
sentire dei rumori o delle voci, ma non c’era nessuno. Era
ancora presto,
dopotutto.
Si mise a passeggiare in giro, constatando che nemmeno lì
era cambiato molto,
eccetto qualche nuovo oggetto alieno lasciato in giro, un computer
nuovo di
Tosh, fogli di carta e cose così. Persino nel suo ufficio le
cose erano rimaste
come erano. Chissà se qualcuno lo aveva usato, magari Gwen.
Ma ne dubitava.
Scese
al piano inferiore e si scontrò con la
macchina del caffè, pulita e lucidata.
Ianto…
Il suo cuore accelerò immediatamente i battiti al pensiero
del ragazzo. Come
avrebbe fatto a spiegargli? Come si sarebbe giustificato con lui? E,
soprattutto, stava bene?
Gli venne da piangere, ma si trattenne.
Era contento di essere tornato a casa, ma aveva anche paura e questa
era una
sensazione nuova per il Capitano.
Salì
di nuovo al piano superiore e si sedette sul
divano, chiudendo gli occhi.
Gwen,
Tosh e Owen arrivarono insieme alla baia al
solito orario ed entrarono subito alla base di Torchwood, attraverso la
grande
ruota rumorosa. Ma non appena misero piede dentro, capirono che
c’era qualcosa
di strano, a cominciare dalle luci accese.
Contemporaneamente
estrassero le pistole e
cominciarono a guardarsi attorno sospettosi, riflettendo su quale fosse
il
miglior modo per accogliere l’indesiderato visitatore,
chiunque esso fosse. Di
certo non si aspettavano di trovare Jack addormentato sul divano.
Gwen
lo scosse per un braccio piuttosto bruscamente
e l’uomo scattò subito a sedere, trovandosi due
pistole puntate davanti agli
occhi.
“Dannazione!
Mettete giù quelle pistole!” ringhiò il
Capitano, alzandosi in piedi.
“E
perché dovremmo?” fece Gwen in tono scontroso.
“Non
vorrete mica spararmi”.
“Servirebbe
a qualcosa?” chiese Owen, il capo
inclinato da un lato e gli occhi assottigliati a formare due fessure
minacciose.
“Certo,
non mi aspettavo un bentornato caloroso ma
questo mi sembra troppo”.
Restarono
tutti quanti in silenzio per un po’, come
riflettendo sul da farsi, ma poi Gwen e Owen misero via le pistole,
anche se la
mano rimase sull’impugnatura. Infine restarono a fissare il
Capitano di fronte
a loro, gli sguardi seri e impenetrabili. Solo quello di Tosh sembrava
emanare
una certa sorpresa.
“Quando
sei tornato?” chiese Gwen, questa volta più
rilassata ma sempre sull’attenti.
“Poche
ore fa”.
“Perché
sei tornato?” Questa volta fu Owen a porre
la domanda. “Dopo cinque anni, pensavamo che non saresti
più tornato”.
“Ecco…”,
iniziò Jack senza sapere come continuare.
Da dove avrebbe dovuto iniziare? “Io… posso
spiegarvi”.
“Già,
come hai fatto l’ultima volta”.
Il
Capitano stava per aggiungere qualcos’altro, ma
qualsiasi parola stesse per pronunciare venne bloccata dal rumore della
ruota
che girava di nuovo per aprire la porta e lasciar entrare
l’ultimo membro della
squadra che ancora non era arrivato.
Ianto fece il suo ingresso camminando con passo sicuro, buttando la
giacca sul
primo attaccapanni che trovò a portata di mano.
“Scusate
il ritardo, ho accompagnato Abby a scuola”.
Gli
altri rimasero in silenzio, gli occhi rivolti al
ragazzo, aspettando solo il momento in cui si sarebbe accorto della
presenza di
Jack. Il cuore di quest’ultimo batteva
all’impazzata. Come avrebbe reagito, si
chiedeva.
Anche
Ianto salì al piano superiore ma, soltanto
quando si accorse dello strano silenzio che regnava nella stanza,
alzò lo
sguardo sugli amici, bloccandosi sul posto al vedere Jack davanti a
lui.
Nessuno disse niente, non una mosca interruppe il silenzio carico di
tensione
che si era venuto a creare.
Jack non sapeva che fare; avrebbe voluto buttarsi addosso al ragazzo,
stringerlo in un abbraccio, baciarlo e dirgli quanto gli dispiaceva, ma
non gli
sembrava una buona idea, almeno per il momento. Perciò
lasciò che fosse l’altro
a fare il primo passo.
“Bentornato”,
sibilò Ianto. “Spero che il viaggio
sia stato… piacevole”. Il suo tono era
indifferente, disinteressato. E a Jack
fece male. Avrebbe preferito l’odio, la rabbia, qualsiasi
altra cosa sarebbe
andata meglio dell’indifferenza.
“Ianto…”.
“Vado
a fare il caffè. Non l’ho ancora preso
stamattina”, lo interruppe il ragazzo, tornando di nuovo al
piano inferiore.
Anche
gli altri finalmente si decisero a reagire e
si allontanarono dal Capitano. Solo Gwen si voltò verso di
lui. “Subito nella
sala riunioni. Tu ci devi delle spiegazioni”.
Quando
i quattro membri del Torchwood Tre si
radunarono attorno al grande tavolo nella sala riunioni, Jack
lasciò vagare lo
sguardo su tutti loro, cercando dei segni sui loro volti che gli
indicassero
che erano veramente passati cinque anni. Perché ancora non
riusciva a crederci.
Non erano cambiati molto, nessuno di loro. Gwen aveva solo un nuovo
taglio di
capelli, non portava più la frangetta.
Ianto
distribuì il caffè ai suoi colleghi, ma non a
Jack. Non alzò nemmeno lo sguardo su di lui. Il Capitano lo
osservò, cercando
di capire, cercando di trovare le parole giuste da dire.
Perché in fondo era
solo di lui che gli importava; non gli interessava che gli altri
fossero
arrabbiati con lui o che lo odiassero. Solo Ianto contava in quel
momento.
Ma Ianto era… distante. Ed era… diverso. Non
portava più il completo, ma un
semplice paio di jeans e una maglietta. E gli sembrava stanco,
affaticato.
“Allora,
Jack!” esclamò Gwen, distraendo il Capitano
che riportò lo sguardo sulla donna, seduta a capotavola
esattamente di fronte a
lui. “Attendiamo le spiegazioni”.
“Io…”,
iniziò l’uomo, facendo di nuovo scorrere lo
sguardo sui presenti. La verità. La verità era
sempre la soluzione giusta. “Io
ero col Dottore. Stavamo viaggiando, abbiamo visitato diversi posti.
Avrebbe
dovuto riportarmi indietro al momento in cui sono partito,
ma… qualcosa è
andato storto”.
“Che
cosa?”
“Il
Tardis… la sua astronave è rimasta incastrata in
un anello temporale. Ci abbiamo impiegato due settimane a uscirne
fuori”.
“Due
settimane?”
“Due
settimane nell’anello… ma cinque anni qui sulla
Terra”. Lo sguardo gli cadde di nuovo su Ianto il quale
continuava a tenere gli
occhi fissi sul tavolo le labbra serrate, la schiena appoggiata allo
schienale.
“E
non potevi mandarci un messaggio o qualche
segnale? Tanto per capire se stavi bene o che non ti eri scordato di
noi”.
“Ogni
comunicazione era interrotta. Non potevamo
parlare con nessuno. Mi è già capitato una volta,
con John Hart. Ma credetemi,
col Dottore è persino peggio. Non fa che
lamentarsi”. Jack piegò le labbra in
un sorriso cercando di sdrammatizzare, ma non sortì alcun
effetto. “Mi
dispiace. Mi dispiace davvero tanto. Non avrei mai voluto che
succedesse”.
Dopo
le sue parole, nella stanza calò il silenzio.
Da quel momento in poi, Jack era sicuro che avrebbe odiato il silenzio.
Forse
loro aspettavano che aggiungesse qualcos’altro, ma lui non
sapeva più che altro
dire. Quella era in sostanza tutta la storia: due settimane bloccato
nel Tardis
col Dottore e avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro e non
essere mai
partito.
A
un certo punto lo stridio di una sedia che graffia
sul pavimento sbloccò la situazione e Ianto si
alzò in piedi.
“Scusate,
ho un sacco di scartoffie da mettere in
ordine”, disse, uscendo dalla stanza a passo spedito, senza
guardare nessuno.
Subito dopo venne seguito anche da Tosh e Owen.
“Ho
un corpo da dissezionare”, mormorò il medico.
“Io
devo controllare delle cose al computer”.
Solo
Gwen rimase ancora lì insieme a Jack. Aspettò
qualche istante, però, prima di alzarsi anche lei e
dirigersi verso il
Capitano. Restò a guardarlo per un po’, con quei
suoi occhi scuri ma vispi e
dopo, con un incredibile slancio, buttò le braccia attorno
al collo dell’uomo e
lo abbracciò forte. Jack aveva pensato che gli avrebbe dato
uno schiaffo oppure
un pugno ed era già pronto a incassare.
“Mi
sei mancato, Jack”, gli sussurrò
all’orecchio,
affondando il viso nell’incavo del suo collo e inspirandone
l’odore, quei
famosi feromoni del cinquantunesimo secolo.
“Anche
voi mi siete mancati. Tutti quanti”.
Si
staccarono e Gwen gli sorrise. “Sono comunque
ancora arrabbiata con te”.
“Lo
capisco”.
Esitarono.
“Come
sta Rhys?”
“Sta
bene. In fondo, non è cambiato molto qui
dentro. Le nostre vite sono sempre le stesse”.
“Sono
contento che stiate bene”.
“Ce
la siamo vista brutta”.
“Ma
ve la siete cavata alla grande”.
“Sì,
direi di sì”.
Lasciarono
che di nuovo il silenzio li avvolgesse,
senza sapere più che dirsi. Jack era contento di avere
almeno Gwen su cui poter
contare. La donna dal canto suo era contenta di rivedere il Capitano;
loro
quattro se l’erano cavata bene, però si era
sentita molto la mancanza dell’uomo.
Cinque anni erano tanti. Ma non aveva la più pallida idea se
le cose sarebbero
tornate come prima oppure no. L’ultima volta che era sparito
così era stato via
solo un paio di mesi, ma adesso… adesso tante cose erano
cambiate, loro erano
cambiati e in fondo, per quanto ognuno di loro fosse bravo nel suo
lavoro,
addestrato e allenato, erano stati lasciati senza una bussola, senza
una guida.
Nessuno di loro lo avrebbe ammesso, ma Jack contava molto nel team.
“Dagli
tempo”, sbottò Gwen a un tratto. “A
Ianto”,
aggiunse, notando il sopracciglio alzato del Capitano di fronte a lei.
“Parlagli,
ma dagli tempo. Col tempo forse le cose tra di voi si
sistemeranno”.
Non
gli sembrava molto convinta delle sue parole e
nemmeno Jack lo era. Ianto lo avrebbe mai perdonato?
Non ne aveva idea ma ci avrebbe provato, a farsi perdonare.
Perciò disse a Gwen
di mettersi al lavoro, di fare quello che doveva fare e lui corse
giù per le
scale diretto agli archivi, dove sapeva avrebbe trovato il giovane
gallese.
Infatti, non appena aprì la porta, vide Ianto impegnato
vicino ad un tavolo a
riordinare alcuni fogli.
Gli
si avvicinò silenziosamente e restò a guardarlo
per un po’, indeciso su come annunciarsi.
“Che
cosa vuoi?” gli arrivò la voce forte e glaciale
del giovane che gli stava dando le spalle.
“Ianto…”.
Prese un respiro profondo. “Ti trovo bene”.
Idiota!
Non lo trovava bene affatto.
Ianto
non rispose.
“Stai
bene anche in jeans, comunque. Come mai niente
completo?”
“Si
sono rovinati tutto. Me ne è rimasto uno solo
che conservo per il mio funerale”.
Jack
si sentì stringere il cuore e lo stomaco. In
realtà
si sentì stringere tutti gli organi interni. Non avrebbe
saputo dire se gli
avesse dato più fastidio la frase che Ianto aveva detto o il
tono con cui l’aveva
detta. Probabilmente tutte e due.
Gli si avvicinò di più da dietro le spalle e gli
poggiò una mano sul fianco. Il
ragazzo si scostò bruscamente.
“Jack,
ho del lavoro da fare”.
“Mi
dispiace”, pronunciò il Capitano guardandosi i
piedi. “Mi dispiace davvero tanto, Ianto”. Vide il
ragazzo irrigidirsi e
stringere in mano un foglio.
“Tutto
qui quello che hai da dirmi?”
“Davvero,
Ianto. Se ci fosse un modo, anzi, se ci
fossero mille modi per farmi perdonare, per riuscire a rimediare a
quello che
ho fatto ti giuro che li userei tutti. Io non volevo che
succedesse…”.
“Però
è successo. E immagino che tu non possa riportare
indietro il tempo, Jack”.
Il
Capitano tremò al sentir pronunciare il suo nome
in quel tono così rabbioso e per di più da una
delle bocche che amava di più al
mondo.
Ma la frase detta da Ianto sembrava dannatamente ironica in quel
contesto. Uno pensa
che avere una macchina del tempo renda tutto più facile,
invece non è così. Ci sono
comunque tantissime regole che se non vengono rispettate potrebbero
causare
grossi danni irreparabili, linee del tempo che si cancellano e punti
fissi nel
tempo e nello spazio che sballano tutto.
“Spero
tu ti sia divertito con il Dottore. Cinque anni
è tanto tempo, immagino tu non l’abbia
sprecato”.
“Per
me sono state due settimane…”.
“E
per me sono stati cinque anni, dannazione!”
Finalmente Ianto alzò il capo su Jack, puntandogli davanti i
suoi occhi azzurri
in quel momento pieni di rabbia e furore. “Cinque anni in
cui…”. Abbassò di
nuovo lo sguardo e sospirò. “Lasciamo
perdere”.
Ianto
chiuse con forza un fascicolo e si
rimise a sistemare le carte.
“Lo
so che sei arrabbiato con me e va bene, non ti
biasimo. Nei hai tutto il diritto. Però… vorrei
sapere del bambino. Ti prego,
almeno questo”.
“Non
c’è nessun bambino”.
A
Jack venne un colpo e per una frazione di secondo
gli sembrò che la stanza avesse preso a girare.
“Che…
che cosa intendi?”
“Non
c’è nessun bambino, Jack. È una
bambina”.
“E
come si chiama?”
“Abigail.
L’ho chiamata Abigail, come mia madre”.
“E’
un bel nome”.
“Sì,
lo è. E lei è una bambina bellissima”.
“Avrà
preso da te”.
“Immagino
di sì. Ma non voglio parlarne ora”.
Una
bambina. E così avevano avuto una bambina. In altre
circostanze Jack ne sarebbe stato felicissimo. Si era immaginato molte
volte la
sua nascita, quanto sarebbe stato felice vedendola per la prima volta,
come l’avrebbero
cresciuta e tutto il resto. Ma questo era stato prima,
prima di quei fottuti cinque anni.
Adesso… adesso non aveva la più pallida idea di
come comportarsi. Voleva essere
felice, felice perché aveva avuto una bambina, felice
perché era tornato,
felice perché poteva avere di nuovo Ianto con sé.
E invece non ci riusciva.
“D’accordo,
ti lascio lavorare”.
E
uscì. Si sentiva tremendamente vigliacco e
stupido.
Andò
da Owen. Il dottore era impegnato a
dissezionare uno strano corpo scuro, viscido che emanava un odore
piuttosto
sgradevole.
“Wow!
Cos’è?”
“Non
ne ho la minima idea. L’ha trovato Gwen due
giorni fa in una discarica. Emanava una forte energia aliena,
così per
sicurezza controllo di che sostanze è composto”,
spiegò il ragazzo, senza
distogliere l’attenzione dal suo lavoro. Almeno lui sembrava
avere voglia di parlare.
“Senti,
Owen…”.
“Che
c’è, Jack?”
“Potresti
dirmi qualcosa di Abigail? Intendo, di
quando è nata? Com’è…
andata?”
“Non
dovresti chiederlo a Ianto?”
“Non
mi vuole parlare”.
“Puoi
forse biasimarlo?”
“Ti
prego, Owen”. Aveva perso il conto di quante
volte aveva detto ti prego in
quell’ultima
mezz’ora.
Owen
posò lo sguardo sul Capitano e si sentì
sciogliere; quello che aveva davanti non era il solito Jack, spavaldo e
sicuro
di sé. Era un Jack quasi disperato, che non sapeva
più che fare.
“La
gravidanza era andata bene e quando è arrivato
il momento di farla nascere l’ho tirata fuori senza alcun
problema. Era una
bambina bellissima, perfettamente in salute, anche se non completamente
umana”.
Ma,
c’era un ma sulla punta
della lingua
di Owen ed era quello a spaventare il Capitano.
“Ianto,
invece… Ianto ha avuto un’emorragia.
L’ho
dovuto aprire per bloccarla e non avevo molti mezzi a disposizione.
L’ho
salvato per miracolo”.
Jack
dovette sedersi, così si lasciò cadere sui
gradini di ferro cercando di non far notare che stava tremando.
“Grazie”.
“Non
ringraziarmi. Il guaio è che ora Ianto non potrà
più avere bambini. Né da te né da
nessun altro”.
C’era
qualcosa che avrebbe potuto farlo stare peggio
di come stava in quel momento? Probabilmente no.
Ianto doveva averne passate tante e lui non c’era. Non
c’era nel momento più importante
della sua vita, delle loro vite.
Non sarebbe mai dovuto entrare dentro il Tardis. O forse non sarebbe
mai dovuto
tornare.
La
mattinata trascorse tranquilla per Torchwood,
ognuno lavorò per conto proprio e tutti furono molto
silenziosi.
Jack rimase chiuso nel suo ufficio per tutto il tempo, constatando che
lì
niente era cambiato, nessuno aveva toccato niente. Infatti,
c’era parecchia
polvere.
Ianto quasi non uscì dagli archivi, ma tutti sapevano che
voleva soltanto
evitare Jack. Verso l’ora di pranzo si decise a lasciare il
lavoro che stava
facendo per andare a sbrigare qualcosa di molto importante, ma non
disse cosa e
Jack non fece altro che chiederselo. Almeno fino a quando il ragazzo
non si
ripresentò dopo un’ora, in compagnia.
Il
Capitano voleva andare a controllare le celle,
per vedere se ci fossero ancora i Weevil o qualche altra creatura,
quando si
imbatté in un paio di grandissimi occhi chiari che restarono
a guardarlo per
qualche istante, come se avessero di fronte a sé una strana
creatura. Appartenevano
a una bambina piuttosto minuta ma molto graziosa, con i capelli scuri
raccolte
in due lunghe trecce.
“Ciao”,
lo salutò lei.
“Ciao”,
rispose Jack, abbassandosi alla sua altezza.
“Io
sono Abigail. Tu chi sei?”
Jack
per poco non si sentì mancare.
Abigail… quella era Abigail. La sua bambina.
“Io
sono Jack”.
“Io
ti ho già visto”.
“Davvero?”
“Sì,
in una foto di papà”.
“Abby,
tesoro!” la voce di Ianto li distrasse
entrambi e la bambina si voltò verso il fondo della stanza.
“Vieni a finire i
compiti”.
Abigail
corse via,
lasciando Jack completamente spiazzato. Voleva piangere. Aveva
un’incredibile
voglia di piangere.
Ma non poteva farlo.
MILLY'S
SPACE
Sì, sono una
cattiva persona. Sia per non aver aggiornato per così tanto
tempo sia per quello che ho fatto succedere in questo capitolo. Avete
il permesso di lanciarmi addosso la verdura *apre ombrello*.
Sono stata veramente
molto impegnata in questo periodo, voi non ci crederete neanche. Ma non
ho intenzione di propinarvi le solite scuse che tanto non vi
interessano ^^.
Parliamo solo di cose
serie.
Perciò... che
posso dire? Così è andata e così
doveva andare. Possiamo considerare questo capitolo come l'inizio di
una seconda parte della storia, una seconda fase. Siete curiosi di
sapere come andrà a finire? Be', continuate a seguirmi.
Ma, cosa più
importante, lasciatemi qualche recensione. Ho bisogno di conoscere le
vostre opinioni.
Un bacione,
Milly.
LORIE_LIESMITH: mi dispiace, a quanto pare le
cose non sono andate come avevi immaginato tu. Per quanto riguarda i
viaggi col Dottore, ne saprai qualcosa nei prossimi capitoli. Intanto,
spero ti sia piaciuto questo e spero che tu non ti sia dimenticata
della storia.
Un grosso abbraccio. M.
P.S. non ho riletto il capitolo perché è davvero
molto tardi e sono stanchissima, ma ci tenevo ad aggiornare. Quindi, se
c'è qualche errore segnalatemelo pure.
|
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Capitolo 20 *** Capitolo diciannove - Forgive me ***
CAPITOLO DICIANNOVE –
FORGIVE ME
And it’s two a.m. and I’m
cursing your name…
(The way I loved you, T.Swift)
“Papà?”
“Sì,
tesoro?”
“Un
giorno mi porti allo zoo?”
Ianto
mostrò un sorriso dolce alla sua bambina e si
risedette di nuovo sul suo letto. “Appena avrò un
po’ di tempo libero lo farò.
Te lo prometto”.
“E
quando lo avrai?”
“Non
lo so. Lo sai che papà fa un lavoro…
complicato”.
“Lo
so. Però è figo il tuo lavoro”.
“Abbastanza”.
“Vorrei
poterlo dire anche ai miei amici”.
Ianto
sospirò e le prese una mano tra le sue,
accarezzandole il dorso. “Mi dispiace, piccola. Non voglio
che tu sia costretta
a mentire però…”.
“Oh,
ma a me non importa. Tanto loro non
capirebbero”.
L’uomo
ridacchiò. Poi si chinò per posarle un bacio
sulla fronte. “Ti adoro, Abigail”.
“Ti
adoro anche io, papà”.
“Buonanotte”.
“Buonanotte”.
Si
alzò per spegnere la luce. Poi, dopo aver
controllato Abigail un’ultima volta, uscì dalla
stanza e trascinò la porta con
sé, ma la chiuse solo a metà.
Si diresse nell’altro lato dell’appartamento e
lì iniziò a rimettere in ordine
la cucina, a lavare i piatti della cena e a sistemare i giocattoli
sparsi per
il salotto. La sua vita in fondo era diventata così, una
routine costante;
sistemare, riordinare, occuparsi di Abby. E poi c’era il
lavoro. Quello non era
proprio una routine, ogni giorno succedeva qualcosa di strano. Ma forse
qualcun
altro l’avrebbe pensata così. Invece per lui, che
ormai ci era abituato, era
una routine anche quello. Cercava solo di non farsi troppo male, di non
mettere
in pericolo la sua vita perché adesso c’era Abby e
se lui fosse morto chi si
sarebbe occupato di lei? Sua sorella? Certo, ma non poteva lasciarla
orfana.
L’ultima volta che se l’era vista brutta era finito
all’ospedale con un braccio
e un paio di costole rotte. Nulla di troppo grave ma si era spaventato
a morte.
Da allora Owen, Tosh e Gwen si sono incaricati di andare nelle missioni
pericolose. A loro non costava nulla, dicevano, ma non gli piaceva
rimanere in
disparte e guardare i suoi amici rischiare la vita.
Però
anche quella ormai era la routine. Era la sua
vita…
Fino
a quel giorno. Finché Jack non si è di nuovo
ripresentato. Ed era meglio se non lo avesse fatto. Era riuscito a
costruirsi
un equilibrio, a trovare una pace interiore.
Certo, i primi giorni della sua assenza erano stati terribili, anche
dopo che
era nata la bambina. Continuava a pensare a lui, a chiedersi che fine
avesse
fatto e aveva davvero pensato che gli fosse successo qualcosa di
terribile. Ma
poi si era detto “è Jack, a lui non succedono cose
terribili e anche se gli
succedono lui ne esce sempre fuori”. E quindi aveva concluso
che in realtà Jack
non voleva tornare. Tutto quello per lui si era fatto troppo difficile,
per lui
che non amava le cose stabili, che non voleva nemmeno chiamare la loro
relazione una relazione. Ma lo
aveva
fatto solo perché così era più facile.
E una volta convintosi di questo, pian
piano aveva incominciato ad andare avanti; dopotutto, non
c’era altro che
avesse potuto fare. C’era voluto anche tutto
l’aiuto di Rhiannon e dei suoi
colleghi… e poi Abigail. Quando la guardava negli occhi si
diceva che era per
lei che doveva andare avanti. Come una madre che improvvisamente si
ritrova
vedova.
E si era abituato, all’assenza di Jack. Quasi.
Invece
adesso eccolo che ritorna. Come il figliol
prodigo, come l’eroe acclamato che torna da
un’importante impresa. Eccolo che
ritorna a sconvolgere di nuovo tutti i suoi equilibri, come ha sempre
fatto,
dopotutto.
Avrebbe di nuovo dovuto ricostruire la sua routine. Perché
sapeva per certo
che, anche se avesse deciso di non perdonarlo e di tenerlo a distanza,
avrebbe
comunque sconquassato tutto.
Abigail in fondo era anche sua figlia ed era certo che Jack questo non
lo
avrebbe mai rinnegato. In fondo, Jack non era un completo bastardo.
Non
è un bastardo, si
ripeté Ianto per l’ennesima volta
mentre piegava la coperta sul divano. Anche se era arrabbiato con lui
questo
non lo avrebbe mai potuto dire. E non per i sentimenti che aveva
nutrito per
lui ma perché era un semplice dato di fatto.
Un
improvviso suonare alla sua porta lo distrasse.
Ianto lanciò un’occhiata all’orologio
chiedendosi chi mai potesse essere a
quell’ora.
Si precipitò ad aprire la porta e imprecò
sottovoce quando vide chi lo aveva
disturbato. Come si dice “parli del diavolo e spuntano le
corna”.
Fece
per sbattergli la porta in faccia ma Jack ci
mise un piede in mezzo per impedirglielo.
“Aspetta,
Ianto! Lasciami spiegare”.
Ianto
lo guardò come se avesse davanti l’uomo
peggiore del mondo. “Bene, parla!” lo
incitò quando vide che esitava.
“Posso
almeno entrare?”
Il
più giovane si guardò attorno come se temesse
l’arrivo di qualcuno. Poi aprì la porta per farlo
passare.
“Parla
piano che la bambina dorme”.
Jack
continuava a fregarsi le mani, nervoso. Non si
era mai sentito così prima d’ora. Non che lui
ricordasse almeno.
“Ianto,
a me dispiace veramente tanto. So che niente
di quello che dirò potrà convincerti
o… farmi perdonare per davvero, però. Io
non so che fare. Vorrei poter tornare indietro nel tempo
e…”.
“Perché
non lo fai?” lo interruppe Ianto
bruscamente. “Eri un agente del tempo, sai
manipolarlo”.
“Non
è così facile. Ci sono delle
regole…”.
“Già,
niente è facile con te”. Gli voltò le
spalle,
appoggiandosi al ripiano della cucina.
Il
Capitano ebbe un tremito; non stava andando
affatto bene.
“Senti…
lo so che non è stato facile per te. Ci
sarei dovuto essere, per te, per Abigail… e invece ho
rovinato tutto, come
sempre. Ma vorrei rimediare e ti prometto che non ti
deluderò più. Ti prometto
che tutto sarà come deve essere”.
Jack
smise di parlare. Cadde il silenzio.
“Hai
finito?” gli chiese Ianto.
“Sì”.
Finalmente
il ragazzo si voltò a fronteggiarlo.
“Bene,
ora puoi andare”.
“Ianto…”.
Jack sembrava veramente sull’orlo di una
crisi di pianto.
“Ianto
cosa?!” esplose a quel punto l’altro.
“Hai
ripetuto il mio nome non so quante volte oggi e sinceramente sono
stanco.
Davvero stanco. Di te e di… tutto quello che mi tiri
addosso. Tu non sai un bel
niente di quello che ho passato io, quindi non hai nemmeno il diritto
di
parlare. Per te potranno anche essere state due settimane, ma per me e
Abby
sono passati cinque anni. E Jack, ci sono persone che… che
hanno una vita
normale, che fanno cose normali e che non godono
dell’immortalità per cui
possono permettersi di rovinare tutto, di tagliare i rapporti
perché tanto
avranno un sacco di tempo per costruirsene altri”. Fece una
pausa per
riprendersi, poi proseguì: “Dio solo sa come ho
fatto a innamorarmi di te. Vorrei
non averti mai conosciuto. E ora, ti prego, se non hai altro da dire,
vattene.
E per quel che mi riguarda puoi anche tornartene col tuo
Dottore”. E gli voltò
di nuovo le spalle.
Jack
abbassò lo sguardo come un cane bastonato.
Qualcosa dentro di lui era appena crollato con un sonoro rumore.
Restò a
fissare la schiena di Ianto per qualche altro tempo, pensando a delle
parole
efficaci da dire. Ma non ce n’erano. Non ce n’erano
più. Non ce n’erano mai
state.
A
passo lento si diresse verso la porta, l’aprì e
lasciò l’appartamento.
Ianto,
non appena sentì la porta dietro di lui
chiudersi, batté un pugno sul tavolo. Poi cercò
di darsi un contegno. Ritornò
verso la camera di Abigail e restò sulla soglia a osservare
la sua piccola
bambina che dormiva placidamente, abbracciata al suo orsacchiotto di
peluche
preferito, ignara di tutto. Era uguale a Jack, aveva i suoi stessi
occhi, il
suo stesso naso, persino la stessa fossetta sul mento. Quando
l’aveva vista per
la prima volta questa somiglianza l’aveva quasi spaventato.
Come avrebbe fatto
a dimenticare se avrebbe visto l’uomo in ogni dettagli di sua
figlia? Per non
parlare della sua vivacità e del suo ottimismo. Erano tutte
cose che
appartenevano a Jack.
Jack…
al mondo non sarebbe esistito un altro uomo
uguale a lui. Nel mondo? Nell’universo semmai.
Non
appena ebbe richiuso la porta dell’appartamento
di Ianto, il Capitano si ritrovò a scivolarci contro finendo
col sedere sul
freddo pavimento dell’atrio.
Piegò le ginocchia al petto e vi sprofondò il
viso solcato dalle lacrime. Non
era riuscito a trattenerle, ringraziava soltanto di non essersi messo a
frignare di fronte al compagno… ex compagno. Dio, non
riusciva neanche a
pensarci.
Aveva
rovinato tutto! Aveva rovinato tutto! Ed era
solo colpa sua. Voleva strapparsi i capelli per questo, prendere il
muro a
testate ma a cosa sarebbe servito? Non a ridargli Ianto e nemmeno la
loro
bambina.
E
quelle parole che gli aveva detto… vorrei
non averti mai conosciuto. Quelle
parole facevano dannatamente male, erano come lame arroventate.
Ma che altro poteva fare? Che altro?
Perciò
restò così, seduto sul freddo pavimento del
pianerottolo, col viso solcato dalle lacrime.
Il
giorno dopo…
“Abbey,
tesoro, sei pronta?”
“Sì,
papà!”
Abigail
indossò velocemente la giacca a vento e
afferrò lo zaino azzurro con le margherite. Mentre Ianto era
ancora impegnato a
infilarsi in tasca il portafogli e le chiavi dell’auto, la
bambina aprì la
porta e uscì in corridoio. Ma rimase di stucco nel vedere
una figura
rannicchiata in posizione fetale vicino alla porta del loro
appartamento e che
sembrava essere profondamente addormentata.
“Papà,
c’è un uomo che dorme qua fuori”,
gridò.
“Che
cosa?”
“C’è
un uomo steso qua fuori. E’ quello che era ieri
al lavoro”.
Ianto
si precipitò fuori a vedere e sgranò gli occhi
nel trovarsi davanti Jack che, a causa delle grida di Abigail, si era
svegliato.
“Jack,
che diavolo ci fai qua?” lo aggredì
l’uomo
più giovane.
Il
Capitano lo guardò leggermente confuso; sembrava
nache lui leggermente sorpreso di trovarsi lì.
“Ecco, io… mi sono
addormentato”.
Jones
sospirò grattandosi la testa. “Uff…
senti,
rischiamo di arrivare tardi. Entra in casa e aspetto finché
non torno, ok?”
“Ok”.
Jack
non fece in tempo ad aggiungere altro che lo
vide allontanarsi tenendo loro figlia per mano. Lei girò la
testolina per
guardarlo, una luce curiosa negli occhi, e lui le sorrise. Lei
ricambiò.
Il
Capitano era intento a osservare gli oggetti e i
soprammobili presenti nell’appartamento di Ianto. Non era
cambiato molto quel
luogo, aveva solo aggiunto qualche foto di Abbey e cambiato il divano. Aveva persino dato una
sbirciatina nella
stanza della bambina; era una stanza come tutte le altre, piena di
bambole, peluches,
libri e altri giocattoli vari.
Poi
sentì la chiave girare nella toppa e si
precipitò in salotto.
Ianto
aprì la porta e si tolse la giacca. Posò le
chiavi sul mobiletto e restò a guardare Jack.
“Che
ci facevi davanti alla mia porta?”
“Mi
sono addormentato dopo che… dopo che abbiamo
parlato”.
“Hai
dormito lì tutta la notte?” C’era
stupore nel
tono del giovane.
“Be’,
più o meno…”.
“Hai
mal di schiena?”
“Nah…
noi immortali abbiamo la fortuna di non
soffrire mai”, scherzò Jack cercando di
sdrammatizzare. La preoccupazione di
Ianto gli aveva fatto piacere.
“Evviva!”
Ianto, senza mostrare alcun divertimento,
si diresse verso il piano cottura e si versò altro
caffè in una tazza.
“Hai
accompagnato Abigail a scuola?” gli chiese
allora il Capitano, dato che l’altro non accennava ad
aggiungere qualcosa.
“Sì”.
“Mi
parli un po’ di lei?”
Ianto
gli lanciò una strana occhiata e subito dopo
spostò lo sguardo. “E’… molto
allegra, dolce e ubbidiente. È anche intelligente
e più matura per la sua età. Ma questo penso sia
dovuto al suo avere, in parte,
DNA alieno. Per il resto è normale, comunque, Owen
l’ha controllata spesso da
quando è nata”.
Jack
lo aveva visto sorridere, finalmente, da quando
si era messo a parlare di Abigail e c’era una luce serena nei
suoi occhi. Ciò
gli accese un moto di speranza; quantomeno per Ianto non era stato
tutto
orribile.
“Ti
somiglia”.
“Somiglia
di più a te, a dire il vero. Te ne saresti
accorto se l’avessi guardata meglio”, disse Ianto.
Forse non avrebbe mai smesso
di tirargli addosso parole velenose. Il Capitano provò a
prendergli una mano ma
il ragazzo si ritrasse.
“Posso…
posso chiederti cosa… le hai detto di me?”
Il
ragazzo si diresse al lavello per lavare la tazza
che aveva usato. “Niente. Lei crede di essere nata come tutti
gli altri
bambini. Mi sono inventato una storia… che sua madre
è morta in un incidente
poco dopo che lei è nata e che si chiamava Amy. Non ho
aggiunto altro”. Si
voltò di nuovo verso l’uomo più vecchio
e vide il suo volto scioccato e
abbattuto. “Senti, Jack… non sapevo che fare. Non
sapevo nemmeno se saresti
tornato. Ed è troppo piccola per capire certe
cose”.
“Sì,
va bene… lo capisco, davvero”. Jack si
alzò di
colpo; non si era nemmeno accorto di essersi seduto. “Non ti
preoccupare”.
“Dovremmo
andare al lavoro. Siamo già in ritardo”.
“Mi
dispiace, mi dispiace davvero tanto. Continuerò
a ripeterlo anche se so che non basterà. Mi dispiace di
essermene andato, di
essere stato via per cinque anni e… mi dispiace che
tu… che tu non possa avere
altri bambini”.
“Te
l’ha detto Owen, immagino”. Ianto
scrollò le
spalle e abbassò lo sguardo. “Non importa. In ogni
caso non ne voglio altri.
Abbey mi basta”.
“Ok”.
“Ok”.
Restarono
a guardarsi per un po’ in silenzio, come
pensando a cosa dovevano dirsi arrivati a questo punto.
“E’
meglio se andiamo”, esordì Ianto allora.
“Posso
darti un passaggio. Ho il Suv parcheggiato di
sotto”.
“Preferirei
di no”.
Jack
annuì mesto. “D’accordo”. Poi
prese il suo
cappotto e andò alla porta. “Non mi perdonerai
mai, vero, Ianto?”
Ianto
non disse nulla.
Il Capitano aprì la porta e se ne andò.
MILLY’S
SPACE
Ed
eccoci qui, a questo nuovo capitolo.
Le cose per Jack e Ianto non stanno andando bene. Come si
concluderà? Ianto
riuscirà a perdonare Jack e a rimettersi con lui? Oppure si
lasceranno
definitivamente?
Mi
dispiace di non riuscire ad aggiornare le mie
fanfiction più assiduamente, ma sono un po’ presa
da tante altre faccende e sto
anche scrivendo cose… di genere un po’ diverso ^^
Spero che abbiate pazienza e che non vi scordiate delle mie storie. Nel
frattempo godetevi l’estate e andate a fare qualche bagno al
mare che con
questo caldo ci sta. E ricordatevi di lasciarmi qualche recensione che
io
voglio sapere cosa ne pensate.
Un
bacio,
Milly.
FEFI97:
ciaooooo!!! Che bello, una nuova lettrice *-* mi fa moooolto piacere
che la
storia ti piaccia. Sì, Ianto e Jack sono la mia otp in
assoluto. Comunque, non
si sa se Ianto riuscirà a perdonare Jack ma sicuramente non
sarà facile.
Continua a seguirmi, mi raccomando. Un bacione, Milly.
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