Human Love... and not

di millyray
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno - Ti amo ***
Capitolo 3: *** Capitolo due - Chiarimenti mancati ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre - Confidenze ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro - Sanzaru ***
Capitolo 6: *** Capitolo cinque - Funerali, Scarrol e Jack Harkness ***
Capitolo 7: *** Capitolo sei - Callary, tutto ha inizio ***
Capitolo 8: *** Capitolo sette - E' passato ***
Capitolo 9: *** Capitolo otto - Una serata... indimenticabile ***
Capitolo 10: *** Capitolo nove - La macchina dei ricordi ***
Capitolo 11: *** Capitolo dieci - Tears ***
Capitolo 12: *** Capitolo undici - Radici aliene ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodici - Un colpo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredici - L'amore cura tutto ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordici - Fear ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindici - Abbiamo tempo ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedici - Maledetto Torchwood! ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciassette - Nubi aliene, corse e calci ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciotto - Abigail ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciannove - Forgive me ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Torchwood, indipendenti dal governo, esterni alla polizia. Combattiamo gli alieni per il futuro della razza umana. Nel ventunesimo secolo cambierà tutto e voi dovete essere pronti.

In un mondo dove spesso regna il caos, dove le persone a volte scompaiono misteriosamente per non essere più ritrovate oppure muoiono per cause naturali o, il più delle volte, per cause inspiegabili, dove accadono vicende strane, dove il passato si incontra col presente rischiando di cancellare il futuro, dove la vita delle persone è in bilico su un filo sottile e non ci sono morbidi cuscini sui quali cadere ma soltanto appuntiti pugnali pronti a strapparti il cuore, in questo mondo che non è certo tutto rose e fiori, in questo mondo che è il nostro mondo, in questo mondo che accoglie le nostre vite, noi siamo chiamati a compiere delle scelte, che siano esse sbagliate o giuste, buone o cattive. Siamo costretti ad amare, a soffrire, a perdere o guadagnare delle persone, a morire e, che lo vogliamo o no, così le cose devono andare.
Niente potrà farci cambiare il nostro destino, è già stato scritto. Da chi? Questa è una bella domanda. Ma se nel nostro cosmo esistono infinite stelle e miliardi di pianeti con miliardi di vite chi ci dice che non ci sia un essere superiore che controlla tutto e tutti, come una specie di burattinaio. Che sia questo essere a decidere del nostro destino? Che sia lui a far sì che succedano cose inspiegabili?
Le persone nascono e muoiono, ma non vivono mai per nulla. Abbiamo tutti una missione, tutti quanti, nessuno escluso e finché questa non viene compiuta non si esce di scena. Che sia esalare un unico respiro o salvare l’intera razza umana da mali invincibili siamo chiamati a compierla.
Siamo solo delle marionette nelle mani dell’Auriga del destino.

 

 

MILLY’S SPACE

Buonasera o buongiorno… ok, sono le undici di sera e come al solito mi trovo ad aggiornare sempre a queste ore assurde.

Allora, non so quanto sia riuscita a incuriosirvi col prologo, l’ho scritto così, di getto, ma a me pare molto ispirante. Comunque devo premettere che questa è la prima fanfiction di Torchwood che sto scrivendo. Anzi, a dire la verità mi sono appassionata a questo telefilm solo da poco. Ho visto solo le prime due stagioni su internet, mentre la quarta me la sto vedendo in televisione (a proposito, non riesco a trovare la terza se non con Videopremium che non mi va. Se qualcuno magari conosce qualche sito, possibilmente con Nowvideo, gli sarei eternamente grata), però ho letto la trama su internet per cui bene o male so quello che succede. Ma non ho intenzione di seguire la trama del telefilm, non so neanche esattamente in che parte sia ambientata questa storia. Comunque sia per il momento sono tutti vivi e vegeti. Forse potrà capitare che magari esca un po’ dai filoni, che i personaggi siano OOC. Spero che nessuno se la prenda, non è detto che la storia piaccia a tutti.

Detto questo penso di potervi lasciare. Girate pagine e leggetevi il primo capitolo : )

Baci,

M.

P.S. ringrazio già chi vorrà leggere questa mia modesta storia un po’ da fangirl e ringrazio anche le canzoni di Eros Ramazzotti che mi hanno veramente ispirato.

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Capitolo 2
*** Capitolo uno - Ti amo ***


NOTE: se vi piace vi consiglio di ascoltare questa canzone http://www.youtube.com/watch?v=WDj9xHm9wIQ finché leggete il capitolo, a me ha ispirato molto ^^

CAPITOLO UNO - TI AMO

Solo che non doveva andar così,
solo che tutti ora siamo un po’ più soli qui.
(Sta passando novembre, E.Ramazzotti)

Ti rendi conto dell’importanza di qualcosa soltanto quando l’hai persa. E questo Jack lo sa bene. Nella sua vita di cose ne ha perse tante, ha visto morire molte persone, ha visto accadere cose che altre persone non potrebbero nemmeno immaginarsi, ha conosciuto e detto addio a molte persone nel corso della sua lunga, interminabile vita. 
E che cos’altro potrebbe succedergli? Che cos’altro potrebbe ancora vedere in grado di sorprenderlo? È questo a fargli tanta paura. Giungerà ad un limite la sua sopportazione? Ci sarà qualcosa che gli farà letteralmente scoppiare il cervello, l’anima o il cuore?

O forse quel momento è già arrivato, pensò Jack, voltandosi a guardare Ianto dormire tra le sue braccia, una smorfia di dolore a sfregiargli il volto, la fronte coperta di sudore e un braccio poggiato sul suo petto.
Stava morendo, stava morendo e lui non poteva fare niente. Era completamente impotente, lui, Capitano Jack Harkness, che nella sua vita era morto e risorto non sapeva nemmeno quante volte, che riusciva a superare tutte le difficoltà, che aveva sconfitto un centinaio di alieni, ora non riusciva a salvare l’unica persona alla quale si era veramente affezionato.

E questo gli faceva una tale rabbia…

 

24 ore prima…

“Il computer ha captato un segnale alieno nella zona del St.Mellons, in un edificio abbandonato!” esclamò Tosh ai suoi colleghi, senza togliere gli occhi dal computer. Stava cercando di verificare se per caso poteva scoprire qualcosa di più sulla presenza aliena ma, per quanto ultra-moderni e ultra sofisticati fossero quei macchinari, non ne era in grado.

“Un Weevil?” chiese Owen, sbucando dietro le spalle della ragazza.

“No, il segnale è molto più forte. È qualcosa che non abbiamo mai incontrato prima”.

“D’accordo, allora andiamo”. Concluse Jack, scendendo le scale dal suo ufficio. “Ianto, vieni anche tu”.

I cinque non esitarono un attimo e in men che non si dica furono fuori alla jeep. Jack, come al solito, si mise al posto di guida, mentre Tosh, col portatile sulle ginocchia, si sedette nel sedile posteriore insieme a Ianto e Owen. 

In mezz’ora arrivarono all’edificio abbandonato indicato da Toshiko, in una zona piuttosto isolata. Era una vecchia fabbrica, chiusa già da parecchi anni, tutta grigia e coi muri scrostati sui quali crescevano il muschio e l’erbaccia. Anche tutt’attorno l’erba incolta aveva preso il sopravvento e ora circondava la fabbrica affaticando il passo. Una parte del tetto era crollata e alcune finestre avevano i vetri rotti.

Jack, Gwen, Owen, Tosh e Ianto entrarono dentro senza esitare, con le pistole impugnate a due mani.

“Gwen, Ianto, andate al piano superiore. Owen, Tosh, voi restate qui con me” ordinò Jack con voce perentoria non appena furono dentro, nella stanza buia e maleodorante.

Gli altri non se lo fecero ripetere due volte e obbedirono immediatamente agli ordini. Gwen e Ianto salirono le instabili scale per andare al primo piano, mentre gli altri tre rimasero al piano terra a controllare le varie stanze.

“A parte ratti, ragni e odore di muffa non mi pare ci sia niente di estraneo qui dentro” commentò Owen, scostando col piede una tavola di legno, scoprendo un rifugio che si erano scavati due ratti spelacchiati. Il ragazzo storse il naso alla loro vista.

“Shhh” gli intimò Jack.

“Il segnale si è fatto più debole, non riesco più a percepirlo. Sembra che sia sparito” disse Tosh incredula, guardando sul suo palmare.

“Che se ne sia andato?” ipotizzò Owen.

“Ma ce ne saremmo accorti” gli fece notare la ragazza.

“No, se è un alieno che riesce a smaterializzarsi a piacimento”.

“Ok, ragazzi, dividiamoci” ordinò di nuovo il Capitano e immediatamente gli altri due si diressero in direzioni opposte, sempre con le pistole alzate. Non potevano andarsene senza aver controllato tutta la zona.

Owen entrò in quello che pareva essere un ripostiglio con degli scaffali e delle mensole. C’erano ancora delle scope e dei detergenti buttati alla rinfusa. Ma nessuna traccia aliena. Arrivò ad una porta nel fondo, trovandola sbarrata.

Toshiko si trovava in una grande stanza circolare dove non c’erano altre porte se non quella da cui era entrata e alcune finestre rotte. Il suo palmare cominciò a emettere un suono. Il segnale alieno era tornato e sembrava provenire dal piano superiore. Forse era il caso di andare ad aiutare Gwen e Ianto, visto che lì sembrava non esserci niente.

Jack, intanto, stava controllando lungo un corridoio stretto quando, improvvisamente, sentì un forte rumore provenire da sopra la sua testa.

“Gwen, tutto a posto lassù?” chiese nell’auricolare che teneva all’orecchio.

“Abbiamo trovato l’alieno” gli rispose la ragazza. “Ed è piuttosto spaventoso”.

Spaventoso. Già. Il suo sesto senso non si sbagliava mai.

 

Gwen e Ianto si erano trovati a dover fronteggiare una specie di uomo - gatto alto due metri con delle fauci appuntite e degli artigli affilatissimi. Inoltre, quando ringhiava, il rumore che emetteva era inquietantissimo.

“Che cosa mangia questo coso? L’uomo – pesce palla?” scherzò Ianto guardando in direzione di Gwen da dietro una colonna, celato dall’ombra.
La ragazza ridacchiò cercando di smorzare la tensione.

“Basta che non mangi le persone”.

L’alieno prese a camminare nel mezzo, probabilmente cercando i due. Non doveva avere i sensi molto sviluppati per non sentire che erano accanto a lui, nascosti nell’ombra.
Gwen e Ianto impugnarono bene la pistola e si scambiarono un’occhiata complice. Il ragazzo cominciò a contare sulle dita della mano e, quando arrivò a cinque, entrambi uscirono allo scoperto e spararono una freccia soporifera ciascuno contro la creatura. Questi urlò e inarcò la schiena, ma non cadde a terra svenuto come si aspettavano. I due sgranarono gli occhi sorpresi; in quelle freccette c’era della sostanza soporifera sufficiente per far addormentare un elefante. Ma a quanto pareva a quel coso non facevano alcun effetto.

Ne spararono altre, finché l’uomo – gatto non si infuriò completamente lanciandosi contro Gwen che cadde a terra perdendo la pistola. Poi la creatura si girò verso Ianto crollandogli addosso. Il ragazzo cercò di toglierselo di dosso, ma era troppo forte e pesante e, inoltre, lo sentì affondargli i denti nel fianco, al che il ragazzo urlò.

Gwen si mise a sedere ma nella caduta aveva preso una botta in testa che l’aveva un po’ intontita. Appena si rese conto che Ianto era in pericolo, si alzò dal pavimento e cercò di corrergli in aiuto. Ma il mostro era troppo forte anche per lei.
Stava cercando di trovare la pistola o qualsiasi altra arma con cui metterlo K.O. quando vide arrivare Jack, seguito da Owen e Tosh che correvano nella loro direzione. I due uomini insieme riuscirono a tirare via l’alieno dal povero Ianto e a lanciarlo contro il muro.

Jack si inginocchiò accanto all’amico che aveva le lacrime agli occhi per il dolore.

“Mi ha morso, cazzo, mi ha morso!” esclamò, portandosi le mani alla ferita.

“Sta’ calmo, sta’ calmo. Adesso passerà” cercò di tranquillizzarlo Jack, controllando lo squarcio nella camicia dell’altro. La carne era piuttosto lacerata e stava perdendo parecchio sangue.

“Owen?” chiamò.

Il medico di Torchwood corse incontro ai due e si chinò accanto a Ianto per controllare la ferita. Lui e Tosh erano riusciti a mettere a tappeto l’alieno con una sprangata in testa e ora la ragazza lo stava legando per portarlo, in seguito, alla base.

“Posso fermare l’emorragia, ma dobbiamo tornare alla base. Non ho tutti gli attrezzi qui”.

“D’accordo, torniamo” acconsentì il Capitano. Si portò dietro le spalle di Ianto per aiutarlo ad alzarsi. Poi lui e Tosh lo presero per ciascun braccio, mentre Owen e Gwen trasportarono l’alieno e cominciarono così a dirigersi fuori, alla jeep.

 

Il gruppo era ritornato alla base per fare rapporto su quello che aveva appena scoperto. L’uomo – gatto era stato rinchiuso nelle celle sotterranee dove già alloggiavano i Weevil, mentre Ianto sedeva sul letto operatorio dove Owen stava finendo di fasciargli la ferita.

“Se ti fa male dimmelo, ti do un altro antidolorifico” gli disse il dottore, chiudendo l’ultima benda.

“Grazie” rispose l’altro, infilandosi la camicia con attenzione. Sentiva parecchio tirare i punti che il collega gli aveva appena messo.

“E non fare troppi movimenti” lo ammonì ancora Owen.

Non fare troppi movimenti? Questo a Jack non piacerà, pensò Ianto ridacchiando tra sé e sé e lanciando un’occhiata all’ufficio dove si era rinchiuso Jack.

Scese dal lettino faticando a trattenere una smorfia di dolore e cominciò a dirigersi dal capitano. Aprì la porta il più silenziosamente possibile e di soppiatto si avvicinò alla scrivania dov’era seduto l’altro. Si sedette sul bordo e si mise ad osservare che cosa l’uomo stesse facendo.

Jack alzò lo sguardo nella sua direzione e gli mostrò un sorriso. Poi si alzò e con sguardo malizioso gli si avvicinò ancora di più, infilando una mano sotto la camicia, sfiorando con le dita le bende che fasciavano la ferita.

“Ti fa male?”

“Giusto un po’”

Il Capitano avvicinò il viso a quello dell’altro e in poco tempo annullò la distanza, unendo le loro labbra in un bacio appassionato. Ianto fu leggermente colto di sorpresa, ma si lasciò completamente andare al bacio possessivo di Jack. Adorava come lo baciava. In realtà adorava tutto di lui, come lo abbracciava, come lo accarezzava, come lo possedeva.

Jack si staccò, un po’ troppo presto e un po’ troppo bruscamente per i gusti dell’altro e si allontanò per prendere qualcosa da uno scaffale.

“Ti preparo del caffè?” chiese Ianto con voce indifferente, ma dentro di lui tutto premeva e gli urlava di smettere di fare il rispettoso e l’innocente e di saltare addosso all’altro senza pietà.

“Sì, per favore”.

Maledetto, sei maledetto, Jack. Ma è anche per questo che mi piaci.

Ianto non fece neanche in tempo ad alzarsi che la porta dell’ufficio si spalancò di colpo e Gwen entrò dentro passando lo sguardo per tutto la stanza, finché non individuò Jack.

“Jack, Tosh ha individuato un’altra forma di vita aliena all’ospedale. Pare sia lo stesso che abbiamo trovato noi”.

“Vai con Owen a controllare. Noi vi osserveremo da qua”.

“D’accordo!”

 

Quando Gwen e Owen arrivarono davanti alla porta dove erano custoditi gli archivi, un uomo – gatto, identico a quello che era rinchiuso nelle loro segrete, si stava mangiucchiando alcuni fogli di carta osservando la porta in modo molto minaccioso, probabilmente solo in attesa di scappare.

D’improvviso, però, notando delle presenze che lo osservavano, spalancò le fauci emettendo un ringhio stridulo al quale Gwen indietreggiò spaventata.

“Ci potete dire cos’è questa cosa?” chiese l’infermiera, una donna piuttosto corpulenta e dalla carnagione scura che aveva tutta l’aria di essere una tipa tosta, da non prendere in giro. Ma naturalmente a Owen questo non importava, il che gli permetteva di dire quello che voleva a chi voleva.

“Quello? Oh, è solo un piccolo micio bisognoso d’affetto”.

Come da copione, l’infermiera lo guardò malissimo.

“Gwen, preparati” ordinò a quel punto il dottore, parlando con tono perentorio. “Appena apriamo la porta gli spariamo una raffica di pallettoni”.

La ragazza annuì solamente.

“Ma così non lo uccidete?” chiese l’infermiera; sembrava che le importasse veramente di quella creatura.

“Oh, mi creda, è più resistente di quello che sembra”. La tranquillizzò Owen.

I due membri di Torchwood impugnarono le pistole a due mani, pronti a sparare. L’infermiera aprì loro la porta.

L’alieno li osservò per qualche secondo, decidendo poi di lasciar perdere quello che stava facendo e alzandosi in piedi. Gwen e Owen non attesero un secondo prima di scaricargli le loro armi addosso, colpendolo in diverse parti del corpo. L’uomo – gatto cadde all’indietro colpendo il pavimento con un colpo secco.

Quando i due si avvicinarono, con cautela e senza abbassare le pistole, stava ancora respirando ma aveva perso i sensi. Si affrettarono subito a legarlo.

“Qualcuno è stato ferito da questa creatura?” chiese Gwen all’infermiera dietro di lei.

“Due infermieri del nostro staff, mentre alcune persone sono arrivate qui già ferite”.

“E che cosa li è successo?”

“Inizialmente stavano bene, avevano solo perso un po’ di sangue. Ma poi… poi sono andati peggiorando e un paio sono morti dopo dodici ore dal morso”.

Gwen e Owen smisero di colpo di fare quello che stavano facendo e si guardarono l’un l’altro scioccati.

 

L’infermiera aveva accompagnato i due membri di Torchwood al capezzale di una ragazza vittima dell’uomo – gatto. Owen esaminò la sua cartella  clinica dandoci una veloce occhiata.

“Febbre alta, forti dolori nella zona del morso, sudorazione eccessiva e tutti i valori del sangue sballati.” elencò il dottore con voce neutra, esattamente come si addiceva a un medico.

Gwen guardò la ragazza e venne colta da un senso di pena e dispiacere per lei. Stava chiaramente soffrendo, si capiva dal suo sonno agitato.

“Owen, dobbiamo fare qualcosa.”

“Hai suggerimenti?” le chiese lui in tono sarcastico.

La ragazza lo guardò duramente ma non aggiunse altro. Così l’amico si girò verso l’infermiera e le consegnò in mano una boccetta dal contenuto giallognolo.

“Cos’è?”

“Una specie di medicina. La dia a tutti quelli che sono stati morsi. Non so se funzionerà.”

Fece per andarsene ma la donna lo bloccò per un braccio.

“Torchwood, per una volta potreste dirci che sta succedendo?”

“Volentieri, se solo anche noi lo sapessimo”.

 

Jack e Ianto se ne stavano di fronte alla porta di vetro della cella che imprigionava la loro nuova creatura.

“Hai intenzione di fissarlo così tutto il tempo?” chiese Ianto  guardando in direzione del Capitano.

“Solo finché non avrò trovato un altro passatempo altrettanto emozionante.” gli rispose l’altro senza distogliere gli occhi dal mostro.

“Be’, potrei proportelo io, un passatempo divertente.” non c’era malizia nella voce di Ianto, né nello sguardo. Anzi, era rimasto impassibile, come sempre. A Jack però non sfuggì l’allusione e non poté non mostrare il suo sorriso sghembo e malizioso che metteva in evidenza la fila di denti bianchi e perfetti.

“Allora perché non mi aspetti nel mio ufficio?”

“Agli ordini, capo.”

Ianto uscì dalla stanza, ma Jack rimase ancora un po’ a osservare, per dare il tempo all’altro di prepararsi. E poi quelle creature, i Weevil e ora l’uomo – gatto, lo incuriosivano parecchio.

Quando decise di raggiungere Ianto, però, incontrò Owen e Gwen sulla porta che lo guardavano con due espressioni spaventose.

“Abbiamo scoperto una cosa che non ti piacerà per niente.” introdusse la ragazza.

“Il morso di quelle creature è letale. Le persone che sono state morse sono morte dopo dodici ore, anche se inizialmente non davano segni di malessere…”.

L’ultima parte del discorso di Owen che Jack era riuscito a sentire era stato: le persone sono morte. Dopo quello il suo cervello era andato completamente a farsi fottere. Solo un nome gli vorticava in testa: Ianto.

Ad un tratto, però, vennero tutti distratti da un rumore di vetri infranti che proveniva dal piano superiore.

Il primo a precipitarsi fuori fu Jack. Vide Ianto inginocchiato per terra con l’espressione distorta dal dolore e la camicia bianca macchiata di sangue. Il capitano ebbe un tuffo al cuore a quello vista, anche se non lo avrebbe mai ammesso.
Toshiko era già china accanto all’amico e immediatamente anche gli altri gli si precipitarono accanto, Jack sorreggendolo per i fianchi.

“La ferita si è riaperta e anche estesa.” constatò Owen, guardando gli altri preoccupato.  

 

5 ore dopo…

Jack entrò nell’appartamento di Ianto sbattendo la porta dietro di sé.

Gwen e Owen lo aspettavano in salotto, una seduta sulla poltrona e l’altro in piedi alla finestra con le braccia conserte e la mascella serrata. Appena lo vide entrare, nel riflesso del vetro, si girò per aggiornarlo.

“Gli ho dato l’antidoto ma non so quanto funzionerà. Questa è una forma aliena che non conosciamo, non so che effetti abbia. Ho provato ad analizzare il suo sangue  e quello delle altre persone che sono state morse ma non ci ho ricavato niente. E’ un veleno che fa morire le cellule rapidamente.
L’ho imbottito di antidolorifici, ma… probabilmente non passerà la notte.” abbassò lo sguardo, non potendo affrontare quello duro e pieno di dolore di Jack. Perché, anche se cercava di non darlo a vedere, il capitano stava una merda. Teneva a Ianto più di quanto avrebbe voluto.

“Non puoi fare qualcos’altro?” gli chiese, fissandolo negli occhi.

“Non so che altro fare”.

“Cazzo, Owen, tu devi…”

“Non sono Dio, Jack!” urlò a quel punto il dottore spazientito, avvicinandosi al capitano e guardandolo minaccioso. “Non posso decidere della vita degli altri.”

Ma perché tutti si aspettavano qualcosa da lui? Prima Gwen e ora Jack. La situazione faceva schifo pure a lui e già da solo si sentiva una merda perché non riusciva a salvare uno dei suoi amici, nonostante lui fosse un medico e avesse il sacrosanto dovere di salvare le persone.

Gwen, dal canto suo, guardò in direzione dei due con il viso rigato di lacrime. Sperava che non prendessero ad azzuffarsi, non se la sentiva di dover calmare anche una rissa.

Jack, allora, senza dire niente, uscì dalla stanza e andò in camera da letto di Ianto dove questi giaceva tra le coperte, accudito da Tosh che gli stava passando un panno inumidito con un po’ d’acqua sulla fronte madida di sudore. Se proprio doveva morire, era meglio se lo faceva nella tranquillità di casa sua.

“Ha chiesto di te” disse la ragazza non appena lo vide entrare.

“Grazie, Tosh, ci penso io.” le rispose lui e, anche se non aveva usato un tono di comando, la frase serviva chiaramente per congedarla. Voleva restare da solo con Ianto. Toshiko lo capì subito e abbandonò immediatamente la stanza.

Jack prese il suo posto sedendosi al capezzale dell’amico. Gli passò il panno umido sulla fronte.

Ianto si agitò leggermente e poi aprì gli occhi nella sua direzione.

“Jack” sussurrò con voce debole “Sei qui”.

“Sì” rispose l’altro cercando di non far notare che aveva la voce spezzata “Hai freddo?” gli chiese poi.

“Un po’”.

Jack allora si alzò dalla sedia e si stese accanto a Ianto, nel tentativo di riscaldarlo di più col proprio corpo. Ianto ne approfittò per poggiare la testa sul suo petto, mentre il capitano prendeva ad accarezzargli i capelli.

“Mi dispiace, non doveva andare così” gli sussurrò cercando di non piangere “E’ colpa mia, non avrei dovuto portarti…”.

“No” lo interruppe l’altro “Non è stata… colpa tua” ma ogni parola sembrava costargli parecchio sforzo. “Sarò morto facendo… il mio dovere, come ho sempre… voluto”.

“No, non dire così” ormai neanche Jack riusciva più a trattenere le lacrime. “Tu non morirai”.

Ianto ridacchiò debolmente lasciando cadere una lacrima sulla camicia del capitano. “Non importa… sono… sono comunque contento… di morire tra le tue braccia. Resterai con me, vero?”

Il capitano portò lo sguardo alla finestra: il sole stava calando all’orizzonte e il vento di novembre si era alzato scuotendo le foglie degli alberi.

“Sempre” gli sussurrò, riportando lo sguardo  su di lui. Ianto però aveva già chiuso gli occhi, sempre appoggiato sul suo petto. Non era ancora morto, ma Jack si sentì stringere il cuore in una morsa d’acciaio.
Aveva voglia di prendere a pugni qualcosa, qualsiasi cosa. Si sentiva così impotente.

“Ianto, non andartene, non mi lasciare” disse, sicuro che comunque l’altro non lo avrebbe sentito. “Non voglio continuare a vivere senza di te, non avrebbe senso” ormai non si preoccupava neanche più di nascondere le lacrime. “Ti amo”.

E gli diede una bacio sulla fronte calda.

 

Il giorno dopo…

Jack si svegliò di colpo, reduce da un brutto sogno che aveva dimenticato non appena aveva aperto gli occhi. Non si trovava nel suo letto, questo lo capì subito, ma gli ci volle un po’ per ricordarsi che cosa fosse successo. Sentiva soltanto una pesantezza sul cuore e qualcuno che gli gravava addosso.

Ianto.

Ianto era ancora poggiato sul suo petto, gli occhi chiusi, l’espressione rilassata. Un po’ pallido forse.

E lui… lui non era pronto a dirgli addio. Non così presto, non in quel modo. Avrebbe dovuto fare di più, avrebbe dovuto insistere di più per salvarlo. Glielo doveva, dopo tutto quello che gli aveva fatto passare come minimo avrebbe dovuto salvarlo. E invece… l’unica cosa che ora poteva fare era dargli l’ultimo bacio e portare il peso della sua perdita sulla coscienza.

Lo poggiò sui cuscini e si chinò per dargli un bacio sulle labbra. Ma non appena gli si avvicinò notò che c’era qualcosa che non andava, qualcosa di strano. Dell’aria fredda usciva dalle labbra di Ianto, fiato, respiro. Stava ancora respirando.

Col battito accelerato andò a tastargli la fronte, il viso, le mani trovandoli caldi… tutto il suo corpo era caldo, non freddo come si era aspettato. Caldo.

Gli diede un bacio sulle labbra. Ianto sotto di lui si mosse e poi… poi aprì gli occhi azzurri fissandoli in quelli altrettanto chiari di Jack.

“Ianto” sussurrò Jack incredulo.

“Jack”

La porta si spalancò di colpo facendoli sobbalzare tutti e due.

“Jack, volevo solo…” Owen, sulla porta, rimase come paralizzato nel vedere Jack a gattoni sul letto e Ianto sotto di lui, vivo più che mai. Entrambi lo fissavano come se lo volessero incenerire.

 

“Sembra tutto nella norma” concluse Owen dopo aver eseguito un controllo su Ianto, da cima a fondo.

“Te l’ho detto, mi sento bene”.

“Non è detto. Non possiamo escludere che tu possa avere una ricaduta” gli fece notare il dottore che non voleva nutrirsi di false speranze. Ma era chiaro che anche lui, come tutti gli altri, era contento di vedere che l’amico stava bene e che non era morto.

“Ho chiamato l’ospedale” sbottò Tosh, entrando nella stanza. “Mi hanno detto che gli altri pazienti che sono stati morsi ora stanno bene. Hanno avuto un recupero eccezionale dopo che hanno preso l’antidoto”.

Owen, intanto, aveva finito di controllare la ferita di Ianto, trovandola quasi completamente rimarginata.

“Allora l’antidoto ha funzionato”.

“Direi proprio di sì”.

“Questo è… fantastico”.

“Bene, ora che abbiamo tutti constatato che ho altri giorni da vivere di fronte a me, qualcuno mi preparerebbe da mangiare?” chiese Ianto che non vedeva l’ora di togliersi dagli occhi quel via vai di gente che continuava a chiedergli come stava. E poi… doveva fare due chiacchiere con Jack.

“Sì, subito!” esclamò Tosh uscendo dalla stanza insieme a Gwen.

Owen finì di riporre i suoi attrezzi da lavoro e le seguì.

L’unico a rimanere fu Jack, proprio come Ianto sperava.

“Bene. E ora… parliamo di quel ti amo”.

 

 

MILLY’S SPACE

Sono una romanticona, lo so, ma dopo aver visto la scena della morte di Ianto (e aver versato non so quante lacrime), be’… questo è quello che da una come me viene fuori.

Che dite di questo primo capitolo?? Spero che mi lasciate qualche recensione, ci tengo a sapere se la storia via piace o se mi conviene lasciar perdere.
Tanto per non creare false speranze vi dico subito che non so quanto spesso riuscirò ad aggiornare questa storia. Ne ho ancora altre in ballo che devo continuare, ma, chi ha già letto altre mie opere sa che non sono una che molla. Perciò la porterò avanti, fino alla fine. Ho anche delle belle idee.

Comunque, per rimanere sempre aggiornati, mi potete trovare anche su Facebook, basta mettere un mi piace qui: https://www.facebook.com/MillysSpace?fref=ts

Ok, adesso posso lasciarvi. E ricordatevi le recensioni ^^

Milly.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo due - Chiarimenti mancati ***


CAPITOLO DUE – CHIARIMENTI MANCATI

Fra di noi c’è bisogno d’armonia
poi diventa facile aiutarsi a vivere.
(Quanto amore sei, E. Ramazzotti)

Si potevano dire molte cose del Capitano Jack Harkness. Si poteva dire con assoluta certezza che era un uomo molto avvenente, coraggioso, astuto, intelligente. Si poteva dire che fosse anche piuttosto audace, a volte troppo impulsivo, agiva prima di pensare alle conseguenze anche se poi raramente capitava che si sbagliasse e si poteva pure dire che era vanitoso, orgoglioso, pieno di sé e delle volte persino fottutamente bastardo.
Sì, Jack era tante cose, a volte si faceva persino fatica a capirlo. Dopotutto vari secoli di esistenza dovevano averlo segnato profondamente.

Ma mai, mai qualcuno avrebbe potuto dire che fosse una persona contradditoria.
E invece, ora, Ianto Jones si trovò costretto ad ammettere che forse la personalità di Jack non era poi così del tutto chiara e prevedibile, come aveva fino ad ora pensato.
   Probabilmente lui era l’unico del gruppo ad averlo conosciuto veramente nel profondo e non perché un po’ di tempo fa aveva scartavetrato i suoi file per scoprire qualcosa della sua vita e nemmeno perché aveva letto il suo diario.
   Semplicemente le situazioni, intime e non, che avevano condiviso insieme gli avevano permesso di conoscere e saper interpretare tutte le sue espressioni facciali, le sue smorfie, i suoi tic e i movimenti del suF corpo. fin troppe volte lo aveva guardato in quei suoi occhi chiari, così stanchi, così vecchi… come portatori di un pesante fardello.
   Ok, magari ciò era dovuto anche al suo elevato spirito d’osservazione, ma Ianto sentiva di avere tutto il diritto di vantarsi di conoscerlo bene, persino più di Gwen.

Erano passate ben due settimane dall’episodio dell’uomo-gatto, due settimane da quando lui era stato ferito rischiando la morte e, soprattutto, due settimane da quando Jack gli aveva sussurrato quel “ti amo”. Quel “ti amo” che ormai sembrava essersi dissolto nel vento e portato via dall’altra parte del mondo. O dell’universo. Con Jack non si poteva mai sapere.
   Jack aveva fatto di tutto per negarlo, per negare di aver detto quelle due fantomatiche parole, per negare l’evidenza. E negare l’evidenza era qualcosa di letteralmente impossibile, forse solo Dio poteva riuscirci. Dio e Jack Harkness, ovviamente.
   D’altronde Jack Harkness era Jack Harkness, se voleva qualcosa trovava sempre un modo per ottenerlo.

Ma questa volta Ianto non gliel’avrebbe data vinta.
Non gli importava se il Capitano avesse cercato di farglielo capire in tutti i modi, che quelle parole lui non le aveva mai dette, che probabilmente se le era solo sognate o immaginate perché la febbre lo stava facendo delirare. E non sembrava intenzionato a cedere. Come un bambino colto con le mani sporche di Nutella che continua a negare di sapere come sia potuto succedere.
   Però pure Ianto sapeva essere più cocciuto di un mulo, quando voleva, e questo Jack ancora non lo sapeva, non conosceva tutte le armi che avrebbe potuto utilizzare. Perché certo, lui poteva anche comportarsi da bravo e docile cagnolino ammaestrato che non apre bocca se non gli viene chiesto, ma quando si trattava di qualcosa a cui teneva, non aveva intenzione di starsene a subire, proprio per niente. Non lo aveva fatto con Lisa e non lo avrebbe fatto nemmeno ora.
Però, doveva ammettere, che sarebbe stata dura, soprattutto perché ora, a confermare che quello che si sbagliava non era lui, Jack aveva preso ad evitarlo, a non rivolgergli più la parola a meno che non fosse strettamente necessario. La sera era sempre l’ultimo ad andarsene e, se Ianto cercava di trattenersi, lui lo congedava in modo gentile ma freddo. E, cosa forse meno importante ma comunque evidente, non avevano nemmeno più fatto sesso.
Magari per il Capitano questo non era un grosso problema: gli bastava mostrare quel suo sorriso sghembo da bastardo latin-lover, lanciare uno dei suoi sguardi maliziosi con i suoi penetranti occhi grigi e chiunque sarebbe cascato ai suoi piedi, donne, uomini, gay, etero e confusi.
Ma per il gallese non era così, invece, per lui era difficile il doppio. Già solo per il fatto di fare sesso con un uomo lo metteva parecchio in confusione, sballando tutto il suo equilibrio fisico, emotivo e psicologico, tanto che dopo la loro prima volta ci aveva messo parecchio a digerire la cosa, temendo di dover ricorrere addirittura a uno strizzacervelli, ma sentirsi pure in astinenza, lui, che comunque al sesso non aveva mai dato molta importanza, be’, lo sconvolgeva.

E poi… e poi, non c’era solo questo. Non era solo per dimostrare di avere ragione e di essere più astuto di Jack e non si trattava nemmeno di un semplice bisogno fisico. C’era molto di più, qualcosa di molto più profondo, qualcosa che nemmeno lui era in grado di capire e che gli sconvolgeva le viscere ogni volta che lo guardava, che lo pensava, che gli stava vicino. Ed era sicuro che se Jack gli avesse detto “ti amo” guardandolo negli occhi gli sarebbe stato tutto più chiaro.

 

Rhys era sempre il solito, sospirò Gwen finendo di bere la sua tazza di caffè bollente. Stava osservando il suo ragazzo mentre mangiava i cereali affogati nel latte e, come un bambino che aveva appena imparato a usare il cucchiaio, si era sbrodolato tutto il mento. Be’, era ovvio, dopotutto era difficile mangiare senza smettere di parlare, come stava facendo lui da un quarto d’ora abbondante. E, come al solito, Gwen lo guardava con attenzione, teneva le orecchie aperte, ma non lo sentiva. La sua mente era partita per chissà dove, lontana da quella cucina, quella casa, quel mondo. D’altronde c’era di molto meglio da fare, che starsene lì ad ascoltare le solite storie dell’amico Duff che combinava una delle sue solite cazzate che facevano ridere gli amici e annoiare lei, come pensare a che cosa sarebbe potuto succedere quel giorno a Torchwood, in quale altra strana e misteriosa creatura aliena o paranormale avrebbero potuto incappare.

“Gwen, ma mi stai ascoltando?”

Soltanto a quella domanda un po’ contrariata di Rhys, Gwen riuscì a tornare alla realtà, con un leggero capogiro dovuto alla brusca caduta della sua mente in quella che era ormai la sua noiosa quotidianità. Ecco perché le serviva Torchwood, per uscire da quella monotonia più stancante del suo lavoro. Non che fosse colpa di Rhys, anzi, lui era fantastico. Era lei il problema, lei e il suo bisogno quasi morboso di avere delle avventure, fin da quando era una bambina.

“Eh? Ah, sì sì!” si affrettò a rispondere dopo qualche secondo.

“E’ da mezz’ora che te ne stai lì immobile con la tazza in mano” le fece notare Rhys. Era tornato serio e si era pulito la bocca dei residui della colazione.

“Ehm…sì, ora devo andare al lavoro”.

“Il lavoro, sì”.

Gwen sembrò non sentire il suo ultimo commento piuttosto acido e si avvicinò al divano per prendere la giacca. Ma nel piegarsi, gli occhi le caddero sullo schermo della tv, dove stavano trasmettendo delle immagini al telegiornale che attirarono parecchio la sua attenzione. Alzò il volume col telecomando e si mise in ascolto, più attenta di quanto non lo fosse stata con Rhys.

“Un’altra rapina in banca, questa volta ad essere colpita è stata la International Bank of Wales” stava dicendo la voce del giornalista inviato. “La tecnica usata sembra essere la stessa delle altre tre rapine a mano armata accadute non molto tempo fa a Londra. Che i rapinatori siano gli stessi? Difficile dirlo, con i pesanti passamontagna che avevano addosso. Quel che è certo è che è un mistero come queste persone, appena giunta la polizia, riescano a scomparire in un batter d’occhio, come se si volatilizzassero. Non si capisce nemmeno se fuggano via in auto. Semplicemente, sembra che si volatilizzino. E naturalmente questo crea numeroso panico tra le persone”.

“Che c’è di interessante?” le chiese Rhys, avvicinandosi quatto quatto alle sue spalle.

Gwen sobbalzò alla sua voce. La notizia l’aveva totalmente catturata.

“Niente. Solo un’altra rapina in banca” rispose frettolosamente, indossando la giacca. Si girò verso il suo ragazzo per dargli un sonoro bacio sulle labbra. “Ci vediamo stasera. Non combinare guai” ridacchiò, prima di uscire dalla porta.

Aveva seguito le notizie delle rapine in banca, erano avvenute a poca distanza l’una dall’altra. La prima non l’aveva insospettita più di tanto, ma poi la seconda… insomma, rapinatori che si volatilizzano? Era strano… qualcosa le puzzava.
Forse era il momento che Torchwood entrasse in azione.

 

La ruota del Nucleo girò lateralmente con il solito rumore di ingranaggi, impossibile da non sentire, e Gwen fece la sua entrata nella basa salutando i suoi colleghi allegramente. Ma c’erano solo Tosh e Owen a ricambiare il saluto, la prima inchiodata sulla sua postazione davanti ai computer e il secondo a studiare un artefatto alieno nel suo mini laboratorio.

“Ciao, Gwen. Passata bene la notte?” le chiese la giapponese in tono cordiale, senza togliere gli occhi dai suoi macchinari.

“Splendidamente!” esclamò l’altra. “E voi?”

“Sicuramente non come la tua, a copulare tutta la notte con Rhys” la prese in giro Owen, lanciandole un’occhiata maliziosa. Gwen, per tutta risposta, gli fece una linguaccia e decise di cambiare argomento. “Avete sentito il telegiornale stamattina? E’ avvenuta un’altra rapina in banca, questa volta nel Galles. Pensate che possano c’entrare gli alieni?”

Il dottore, emettendo una specie di ringhio, sbatté il cacciavite con cui stava lavorando sul tavolo delle biopsie che, all’impatto con lo strumento, produsse un’agghiacciante rumore metallico che fece sobbalzare le due ragazze.

“Avanti, Gwen, sono solo rapine, cosa vuoi che c’entrino gli alieni?”

“Sì, ma ne sono avvenute tre a poca distanza l’una dall’altra e…”.

“Sono solo coincidenze”.

“E invece Gwen potrebbe avere ragione” la voce calma e pacata di Tosh interruppe il loro battibecco.

Gwen, a quella affermazione, lanciò un’occhiataccia a Owen che ricambiò con una scrollata di spalle, incrociando le braccia.

“Il computer ha captato dei segnali alieni in quella zone” continuò la giapponese. “Adesso è piuttosto debole, però è abbastanza chiaro. Dovremmo andare a controllare. Qualcuno chiami Jack”.

“Vado io!” esclamò Gwen, prima che qualcun altro potesse dire qualcosa.

Salì di corsa le scale di ferro e fece per avviarsi all’ufficio del Capitano quando, in un angolo proprio adiacente all’ufficio, notò un’ombra seduta per terra, con la schiena appoggiata al muro.

“Stai ammirando un bel panorama?” chiese, avvicinandosi.

Ianto, che non l’aveva minimamente sentita, troppo preso da quello che stava facendo, sobbalzò e voltò lo sguardo verso di lei.

“Gwen!” esclamò sorpreso. “Io… no, stavo solo…”.

“Ammirando il fondoschiena di Jack?” concluse lei per lui, guardandolo maliziosa ma divertita.

“Cosa?! No!” si affrettò a rispondere l’altro. Ma adesso era lui a comportarsi come il bambino colto con le mani sporche di cioccolato. Non poteva negare l’evidenza.

“Tranquillo, a me puoi dirlo” lo tranquillizzò Gwen, sedendosi accanto a lui a gambe incrociate. “E poi ha un bel fondoschiena” e anche lei puntò lo sguardo verso Jack che, attraverso la vetrata dell’ufficio, dava loro le spalle, chinato in avanti con le mani poggiate sulla scrivania di mogano, intento a leggere qualcosa. Indossava i soliti abiti eleganti con le bretelle, una camicia bianca e il cappotto appeso all’appendiabiti accanto all’armadio.

“Ma adesso abbiamo una missione da compiere” aggiunse Gwen, battendo una mano sul ginocchio di Ianto e alzandosi in piedi di scatto.

Entrò nell’ufficio del Capitano senza bussare, come al solito, spalancando la porta con un gesto rude. Se l’uomo si fosse spaventato sentendo quell’improvviso rumore non lo diede a vedere.

“Jack, Tosh ha trovato dei segnali alieni nella zona della banca. Dobbiamo andare” annunciò, senza altri convenevoli.

Jack si immobilizzò di fronte a lei con le braccia incrociate, guardandola di sbieco.

“Scusa, chi è il capo qui?”

Gwen sospirò rassegnata. “Tu”.

“Esatto e gli ordini li do io”.

La ragazza scrollò le spalle e attese che Jack si muovesse.

“Dobbiamo andare” aggiunse l’uomo e senza attendere risposta afferrò il suo cappotto e si precipitò fuori dalla stanza. Gwen sorrise tra sé e sé.

 

Ed ecco, gli sembrava di essere tornato come ai vecchi tempi, come quando era appena entrato a Torchwood III.
Jack lo aveva di nuovo lasciato in disparte. Soltanto che allora lo poteva capire, non si fidava ancora completamente e non lo conosceva bene. Ma adesso… ormai si era introdotto nel gruppo perfettamente, d’altronde lui non era nuovo a quelle cose. Che motivo c’era per lasciarlo alla base mentre loro andavano in spedizione, quando avrebbe potuto rendersi utile in missione?
Ah giusto, Jack lo evitava.

Ianto sospirò affranto riponendo un foglio di carta dentro ad una cartellina.
Così gli altri erano là fuori a divertirsi e a lui toccava stare lì a mettere in ordine le scartoffie. Oltretutto il Capitano l’aveva liquidato in un modo molto brutale e per niente carino. Se n’erano accorti anche gli altri.

No, iniziava a stancarsi. Doveva trovare un modo per risolvere quella faccenda al più presto.

 

La banca era vuota. I clienti e i dipendenti scossi erano stati fatti uscire e il luogo chiuso con del nastro giallo, segnalato come scena del crimine. Per fortuna non c’erano stati né morti né feriti, ma i rapinatori erano scomparsi nel nulla, dopo aver portato via tutto il denaro, e non c’era nessuna traccia che potesse condurre al loro rifugio. Nemmeno i segni di gomme di qualche ipotetica auto.

Gli agenti della polizia erano fuori insieme a qualche persona ancora un po’ sconvolta che aveva deciso di rimanere per poter aiutare nelle indagini. Ma non stavano procedendo granché bene.

Jack, Gwen, Tosh e Owen erano le uniche anime vive dentro la banca, a perlustrare ogni angolo per trovare qualche traccia. La giapponese, come al solito, guardava sul suo palmare e lo puntava in giro per captare qualche segnale.

“Qui indica che recentemente c’è stata dell’attività aliena, ma il segnale si sta indebolendo”, disse per informare anche i suoi compagni.

“Qualsiasi cosa ci fosse stata ormai è andata via”, concluse Owen, richiudendo il cassetto di una delle scrivanie.

Jack diede un’occhiata fuori, attraverso le persiane abbassate, ma non vide niente di sospetto, se non macchine della polizia e molte persone ancora sconvolte.

“Credete che questi rapinatori usino qualche marchingegno alieno per commettere i furti?” ipotizzò Gwen guardando gli altri.

“Può darsi. O magari i rapinatori sono alieni”, le diede manforte Toshiko.

“Che interesse avrebbero degli alieni a rapinare delle banche?” fece Owen con tono critico.

“Non… non lo so”.

“Ragazzi, andiamocene!” esclamò Jack ad un tratto. “Qui non c’è niente”.

“Sei sicuro?” gli chiese Gwen.

“Sì”, rispose senza esitare.

E quando il capo comandava non si poteva obiettare.

 

Nel Nucleo erano rimasti solo lei e Jack.
Gli altri erano usciti fuori a pranzo, il Capitano aveva dato loro il permesso, visto che non c’era molto da fare per il momento. Avevano invitato anche lei, ma aveva declinato. Preferiva passare un po’ di tempo con Rhys.

Prese la sua giacca di pelle e si avviò per uscire. L’occhio però le cadde sui vetri dell’ufficio di Jack, dove vide l’uomo seduto alla sua scrivania. Non stava facendo niente, sembrava incantato a fissare un punto davanti a sé, apparentemente senza vederlo, stravaccato sulla sua sedia, con i piedi sopra il tavolo.

Il suo pranzo con Rhys avrebbe dovuto aspettare ancora un po’, decise.

Salì di corsa i pochi gradini e piombò di nuovo nell’ufficio del Capitano. Questi, non appena vide la porta aprirsi, voltò la testa nella sua direzione, inarcando un sopracciglio.

“Non dovresti essere a casa?” le chiese senza particolare interesse.

“Ci andrò”, rispose Gwen. “Ma prima volevo chiederti una cosa”.

Jack abbassò i piedi e si mise seduto composto. Dall’espressione della ragazza sembrava essere una domanda seria. E lui detestava le domande serie, implicavano sempre troppa sincerità.

Gwen si avvicinò, prese una sedia da lì vicino e si sedette di fronte a Jack, solo la scrivania li separava.

“Cosa succede tra te e Ianto?”

 

Ianto trangugiò l’ultimo sorso della sua birra e guardò in direzione di Owen che ormai da dieci minuti stava giocando a biliardo con una bella bionda che aveva adocchiato nel locale dove erano venuti a mangiare, abbandonando i suoi amici da soli al tavolo.
Ridacchiò alla vista del ragazzo che civettava in modo del tutto sciallo e inapparente e anche con buoni risultati. La ragazza ne era attratta, anche se cercava di fare un po’ la dura, per non cedere come una ragazzetta qualsiasi.

“Ianto?” si sentì chiamare ad un tratto. Si voltò verso la voce che aveva parlato, trovando gli occhi scuri di Tosh puntati su di lui.

“Dimmi?”

“Posso chiederti che succede tra te e Jack?”

 

L’uomo si dipinse in faccia l’espressione più confusa che gli riuscì e, probabilmente qualcuno ci sarebbe anche cascato, ma non Gwen.

“Che intendi?”

“Mi sembra che vi stiate evitando. O meglio, che tu lo eviti”.

“Che cosa te lo fa credere?”

“Dai, Jack, non sono cieca”.

Jack sospirò debolmente. Ormai era inutile negare. E magari gli faceva bene parlarne, forse avrebbe potuto togliersi un peso dallo stomaco.  

“Se l’è presa per una cosa che è successa tra di noi”, rispose, voltando subito dopo lo sguardo dall’altra parte, per non guardare l’amica negli occhi.

“Che cosa?”

“Non sono affari tuoi”, berciò poi, ma naturalmente non poteva aspettarsi di spaventare una ragazza come Gwen con una semplice frase detta in tono duro.

Lei puntò i gomito sulla scrivania e poggiò il mento sulle mani.

“Resterò qui finché non me lo avrai detto”.

“Rhys non ne sarà contento”.

“Con Rhys me la vedrò io”.

Il Capitano mostrò il suo solito sorrisetto sghembo e si rassegnò a dover raccontare tutto.

 

“Che intendi?” chiese Ianto, non capendo.

“Mi sembra che da un po’ di tempo ti eviti”, spiegò l’amica.

“Allora non sono matto!” esclamò l’altro un po’ troppo a voce alta, facendo spalancare gli occhi a Tosh per la sorpresa. “Anche tu te ne sei accorta”.

“Ce ne siamo accorti tutti”.

“Sì, diciamo che il rapporto tra me e Jack si è un po’ raffreddato”, concluse infine il ragazzo, rimanendo sul vago.

“E come mai?” Toshiko sembrava veramente interessata, il che era un po’ strano visto che di solito non si interessava mai agli affari degli altri. Sicuramente erano stati Owen e Gwen a metterle la curiosità addosso, chissà quante chiacchiere si saranno fatti su loro due.

Ianto si guardò un attimo attorno per assicurarsi che nessuno li stesse ascoltando e si protese un po’ sul tavolino che lo separava dalla ragazza.

“Mi ha detto che mi ama”.

 

“E’ convinto che io gli abbia detto che lo amo”.

Gwen restò un attimo interdetta, ma poi si avviò di nuovo all’assalto. “Ed è vero?”

Jack abbassò gli occhi senza dire niente e la ragazza emise un verso di esultazione. “Lo sapevo!”

“Sapevi cosa?”

“Che fra voi due c’era molto di più del semplice sesso. Io e gli altri…”.

Il Capitano inarcò le sopracciglia. “Tu e… gli altri?”

“Certo. Mica crederai che lavoriamo senza spettegolare sul nostro capo”, spiegò in tono malizioso.

L’uomo ridacchiò e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

“E sentiamo un po’, che storie vi raccontate?”

“Non cambiare argomento”, lo redarguì lei tornando seria e guardandolo come una madre che sgrida il proprio figlio.

“Ianto che cosa ti ha risposto dopo?”

“Niente. E’ stato un incidente, la cosa non deve andare oltre”.

Gwen spalancò gli occhi. “E perché?”

Jack fece per aprire bocca ma si bloccò di colpo. Già, perché?

 

“E tu che gli hai risposto?” chiese Tosh, questa volta veramente curiosa.

“Niente. E’ successo quando stavo per morire. Lui era convinto che stessi dormendo e me lo ha sussurrato. Adesso però lo ha ritirato e sta cercando di convincermi che me lo sono solo immaginato o sognato” le spiegò Ianto, in vena di confidenze. Era la frase più lunga che la ragazza gli avesse sentito pronunciare, ma non ci fece molto caso.

“Scusa se te lo dico, ma non è che può… insomma, magari ha ragione lui. Che ne sai…”.

“No che non ha ragione lui!”, esclamò il ragazzo interrompendo bruscamente l’amica. “So quello che ho sentito, ma non capisco perché lui si ostini a negarlo”.

“Ma allora perché non glielo dici tu, che lo ami”.

“Perché voglio che me lo dica prima lui”.

 

“Perché è meglio così” rispose senza alcun timbro nella voce che facesse capire che cosa provava. Ma gli occhi tradivano sempre le emozioni della gente e quelli di Jack, se li si osservava bene, erano meglio di un libro aperto.

“Hai mai sentito parlare del carpe diem, Jack? Cogli l’attimo perché non ti si presenterà più”.

 

“Questo non mi sembra…”, iniziò Tosh ma l’amico la interruppe di nuovo.

“Scusa, perché ti interessi alla mia situazione sentimentale e non guardi un po’ di più alla tua?”

“Io non ho nessuna situazione sentimentale”.

“Io non direi”, non era tipico di Ianto giocare sporco, ma era stufo e il discorso stava prendendo una piega che non gli piaceva. Si voltò in direzione di Owen e della ragazza bionda che era con lui. “Sai, è carina quella tipa. Il tipo di ragazza che starebbe bene con Owen”.

Tosh abbassò lo sguardo e arrossì.

 

Forse questa volta avevano trovato una pista più fruttuosa, ma a quanto pareva si trovava ai confini del mondo.
Seguendo le indicazioni del navigatore si erano trovati a guidare in una strada fuori città, di campagna, dove c’erano sì e no quattro case costruite con un paio di assi attaccate alla bell’e meglio e la maggior parte disabitate. Era una strada piuttosto dissestata anche, piena di ghiaia e fango e più volte avevano beccato una buca, tanto che Gwen aveva quasi cacciato Jack fuori dall’auto per potersi mettere al volante lei. Forse era meglio avere un fuoristrada e non un Suv.
In poche parole, non era una zona che loro avevano mai frequentato.

Finalmente il navigatore segnò loro che erano arrivati a destinazione. Erano davanti a una casa, o meglio, una bettola fatta di pietre e qualche asse di legno, ma sembrava più resistente delle altre, quantomeno.

Tutti e cinque scesero dall’auto e si guardarono attorno. Questa volta Ianto non aveva accettato di venire escluso per i banali capricci di Jack e si era unito alla missione prima che il Capitano avesse avuto il tempo di protestare.

“Ma dove diavolo siamo?” chiese Owen, storcendo il naso.

“Spero non in un posto come quel villaggio con gli abitanti cannibali”, aggiunse Ianto, che aveva un ricordo molto preciso di quell’esperienza.

“Entriamo a controllare”, concluse Jack ed estrasse la pistola.

Anche gli altri lo imitarono e, prima di varcare la porta, fecero un giro di ricognizione attorno alla casa, sbirciando attraverso le finestre sporche e rotte per vedere se ci fosse qualcuno. Ma a quanto pareva era vuota.

Gwen aprì la porta con un calcio liberando l’accesso e, sempre con le pistole ben puntate per sorprendere eventuali abitanti, entrarono uno alla volta.

Appena varcata la soglia, si separarono e si diressero in varie direzioni, a controllare le varie stanze.

“Oh, mio Dio!” si sentì Owen esclamare. “Venite a vedere”.

I suoi compagni gli furono presto dietro le spalle e rimasero sorpresi da quello che videro: una stanza, quasi completamente vuota ad eccezione di un tavolino basso e un paio di sedie di legno. Quello che però li lasciò sconvolti era la quantità di denaro in contante sparso per tutta la stanza. Per terra c’erano valigette traboccanti sterline e non era possibile camminare senza calpestarle.

“Pensate che siano i soldi delle rapine?” chiese Gwen, camminando con cautela nella stanza.

“Probabile”, le rispose Ianto.

“Qualcuno dovrebbe controllare le altre stanze”, disse ad un tratto Jack.

“Ci andiamo io e Ianto”, si intromise Tosh guardando Ianto che le lanciò un’occhiata strana, ma la seguì senza protestare.

Quando i due ragazzi furono usciti, Owen si avvicinò ad un attaccapanni dietro la porta, dove erano appesi quelli che sembravano essere due lunghi mantelli di stoffa morbida e scura.

“Che cos’è?” chiese, prendendone in mano uno.

Gwen si avvicinò e lo toccò guardandolo affascinata. “Non lo so”.

“Guarda, faccio re Artù!” esclamò il ragazzo e, per fare lo stupido, girò il mantello per metterselo sulle spalle. Ma non appena questi gli si appoggiò sul corpo Gwen sgranò gli occhi e lo guardò come se gli fossero appena spuntate le antenne in testa. Be’, effettivamente una cosa simile era successa: tutta la parte dal collo in giù del suo corpo era scomparsa e la sua testa era rimasta a fluttuare in aria.
Anche Owen abbassò gli occhi e gridò un “Porca miseria!”
Il suo corpo c’era ancora perché se lo sentiva, il punto era che non si vedeva.

Uscì in corridoio e si guardò allo specchio.

“Forte! Sembra il mantello dell’invisibilità di Harry Potter”, era emozionato come un bambino.

“Hai visto un po’ troppo fantasy, Owen?” lo prese in giro Gwen, appoggiata allo stipite della porta.

“Be’, perché no? Una volta sono usciti dei circensi da un video”.

“Non pensavo fossi amante di quella saga”.

“Come non amarla? Johanne Kathleen Rowling è un mito”.

Prima che Gwen potesse aggiungere altro, però, sentirono dei rumori provenire dall’esterno: portiere che sbattevano e voci concitate che parlavano.
Owen fece la prima cosa che gli venne in mente e trasse a sé Gwen per nasconderla sotto il mantello. Poi si infilarono in uno sgabuzzino.

Dalla porta d’ingresso fecero la loro entrata due tizi, uno alto, barbuto, sulla quarantina e dall’aria per niente rassicurante e l’altro molto più giovane, piuttosto bello, dai lineamenti fini e delicati.

Entrarono nella stanza dove poco prima si trovavano anche Owen e Gwen. Jack aveva appena fatto in tempo a nascondersi dietro all’armadio e sperava con tutto il cuore di non essere trovato.

“Dovremmo mettere in ordine questo casino”, disse quello più giovane raccogliendo una mazzetta da terra.

“Lo faremo”, rispose l’altro, con una voce profonda e baritonale. Poi si guardò intorno e parve annusare l’aria come un cane. “Qui c’è stato qualcuno”, concluse.

Il ragazzo lo guardò preoccupato. “Che intendi?”

“Quello che ho appena detto. Qualcuno è appena stato qui”.

“Ma no, non è possibile”.

Il barbuto si avvicinò all’armadio e, senza che Jack se lo fosse minimamente aspettato, lo afferrò per un braccio e lo trascinò al centro della stanza.

“Sentivo io che c’era un brutto odore”, commentò acido.

Il più giovane, invece, se ne restò immobile a fissare lo sconosciuto con occhi vacui. Pareva terrorizzato.

“Non startene lì immobile!” gridò l’altro “e lega questo infiltrato”.

Nel frattempo la porta d’ingresso sbatté di nuovo e un altro uomo fece il suo ingresso. Aveva la testa completamente calva ed era vestito tutto di pelle.

“Chi cazzo è quello lì?!” esclamò, non appena vide il Capitano.

“Un infiltrato. E potrebbero essercene altri. Vai di sopra a controllare”.

Il pelato corse immediatamente fuori dalla stanza, mentre l’uomo giovane tentava di legare Jack su una sedia, ma gli tremavano parecchio le mani. Il Capitano se ne stava in silenzio, pregando mentalmente perché Toshiko e Ianto si fossero nascosti bene.

Poco dopo, però, il pelato fece ritorno con gli altri due membri di Torchwood che non avevano potuto opporre resistenza visto che stava puntando loro una pistola.

“Avevi ragione, Rod, qui ce ne sono altri due”.

L’uomo barbuto, che a quanto pareva si chiamava Rod, grugnì qualcosa e andò alla finestra.

Anche Tosh e Ianto vennero legati ben bene vicino a Jack.

“Chi diavolo siete voi tre?” berciò il primo uomo, spostandosi dalla finestra.

“I tre moschettieri?” fece Jack con espressione seria.

Ma parve che Rod trovò la battuta di pessimo gusto. Si scagliò contro Jack e gli tirò la testa all’indietro tirandolo per i capelli. Rimase a guardarlo con occhi inceneritori. Se avesse potuto uccidere con lo sguardo probabilmente Jack sarebbe già morto, risorto, poi morto di nuovo e risorto un’altra volta.

“Stammi a sentire, belloccio. Non sono in vena di battute, capito? Oggi ho i coglioni girati e credimi, potrei girarli anche a te solo per il gusto di sentirti urlare”.

“Che paura”, commentò Jack derisorio, non appena l’altro gli lasciò andare la testa. Rod, per tutta risposta, sputò per terra, vicino alla sua scarpa.

“Che ne facciamo di loro, Rod?” chiese il tizio pelato.

“Li ucciderei, ma dobbiamo aspettare il capo”.

Ianto si avvicinò lentamente a Jack. “Non so chi sia questo capo, ma dobbiamo trovare un modo per andarcene”, sussurrò al Capitano, il quale annuì.

“Dove sono Gwen e Owen?” chiese Tosh.

“Comunque!” esclamò di nuovo l’uomo barbuto. “Questo non significa che io non mi possa divertire un po’”.

Si avvicinò di nuovo a Jack e gli tirò un pugno in pieno viso facendogli sanguinare il naso. Jack emise un debole lamento e guardò l’altro con gli occhi lucidi, confuso. “Adesso ti farò alcune domande e tu mi risponderai sinceramente. Oppure ti farò soffrire talmente tanto che mi scongiurerai di ucciderti”.

Jack gli avrebbe riso in faccia se il naso non gli avesse fatto così male e se non avesse avuto paura di compromettere la situazione ancora di più.
Tante volte la gente lo aveva fatto soffrire fisicamente e per questo tante volte aveva sperato di ottenere la grazia, ma sembrava che il Tristo Mietitore non volesse concedergli quella possibilità.

“Allora ti servirà parecchia fantasia”, lo informò Jack guardandolo dritto negli occhi.

Rod ridacchiò minaccioso.
Poi, sotto lo sguardo fisso dell’altro, si avvicinò a Ianto, estrasse un coltello dalla cintura e gliela puntò contro la gola.

“A quanto pare ho toccato un tasto debole”, sibilò il tipo, notando gli occhi spalancati del Capitano. Ianto cercava di non tremare, ma era difficile con una lama di freddo acciaio puntata contro, pronta a tagliarti la testa.

Ma prima che qualcun altro potesse fare o dire altro, si sentirono delle assordanti sirene accompagnate da dei lampeggianti blu.

“Chi diavolo ha chiamato la polizia?” gridò l’uomo pelato uscendo in corridoio.

“Io!” esclamò Owen appena sbucato dallo sgabuzzino. Dietro di lui c’era Gwen che reggeva il mantello.

 

E anche per quel giorno era finita. Torchwood aveva fatto il suo dovere, portando la calma e la tranquillità nel Galles. E anche la giustizia.
A quanto pareva i rapinatori di banche erano proprio quei tre, o meglio quattro, tizi della casa in mezzo alla campagna. Per scomparire e non lasciare tracce usavano i mantelli dell’invisibilità i quali erano stati sequestrati da Torchwood e riposti con cura insieme a tanti altri oggetti alieni della loro collezione.

Jack stava per chiedere a Ianto di preparargli un caffè, ma quando si avvicinò alla postazione dove stava la macchina tanto adorata dal ragazzo, non lo trovò. Effettivamente era da un po’ che non lo vedeva.

“Jack!” lo chiamò Gwen. “Potresti uscire? Ianto ti vuole parlare”.

Il Capitano inarcò le sopracciglia nella sua direzione e la ragazza scrollò semplicemente le spalle per dirgli che lei non sapeva niente.

Alla fine uscì e cominciò a dirigersi verso il molo, pronto a spiegare a Ianto una volta per tutte che doveva smetterla di insistere.
Ma non appena lo raggiunse rimase scioccato da ciò che vide.

 

MILLYS’ SPACE

E la mia passione per Harry Potter si fa sentire anche qui ^^ effettivamente non vedrei male Owen che legge la saga della Rowling. Voi che dite??

Avrei voluto aggiornare il capitolo un po’ prima ma purtroppo mi è mancato il tempo. Ma meglio tardi che mai, no?

Allora, alcune piccole note: le vicende alle quali si riferiscono Ianto e Owen sono rispettivamente quelle che avvengono nella puntata sedici della prima stagione (Il villaggio degli orrori) e la dieci della seconda stagione (Intrappolati in un film). So benissimo che prima di questa puntata Owen doveva essere già morto e risorto ma da brava fan quale sono ho deciso di saltare quel pezzo e così l’Owen della mia storia è ancora vivo con tutti gli organi ben funzionanti ^^.  Sinceramente l’ho trovata una cosa un po’ di cattivo gusto, far succedere a Owen quello che gli è successo, ma sappiamo che al nostro Russel Davis piace far soffrire i suoi personaggi.
Per quanto riguarda la frase ad effetto che Gwen dice a Jack, “Carpe diem”, be’ penso che non abbia bisogno di spiegazioni. Comunque è un verso tratto da un’ode di Orazio, famosa anche per essere stata usata nel film “L’attimo fuggente” di Peter Weir.
E, ultima cosa: avrei voluto far chiarire le cose tra Jack e Ianto in questo capitolo, ma mi sarebbe venuto troppo lungo. E poi così vi lascio con un po’ di suspance ^^.

Bene, ora rispondo alle recensioni e vi saluto : )

Buona serata a tutti…

SWEETLADY98: sono mooooolto contenta che i capitoli precedenti ti siano piaciuti, spero di non averti deluso neanche stavolta : ) grazie anche per i complimenti. Anche io adoro la coppia Jack/Ianto, secondo me doveva essere molto più approfondita e invece Davis ha deciso di stroncarla sul nascere ç___ç maledetto >.< ti ringrazio per la recensione, spero di leggerne altre : )
Un bacio, M.
P.S. sì, mi piacerebbe se mi passassi i link, ma sono piuttosto impedita con la tecnologia e rischierei di fare qualche danno. Non mi è mai piaciuto scaricare roba sul pc, oltretutto ho l’antivirus scaduto. Se potessi vedermeli in streaming sarebbe molto meglio : ) se vuoi comunque passa e vedo se riesco a combinar qualcosa.

BIMBA3: pensa, io stavo già preparando varie armi per andare a casa di Davis ad ammazzarlo, come lui ha fatto col povero Ianto. Avrei raccolto un bel gruppetto di fan infuriati u.u sì, ho deciso di salvare anche Tosh e Owen perché, nonostante mi piacciano le storie drammatiche, patteggio sempre per l’happy ending. E poi, a parte Jack e Ianto, anche Owen mi piace molto come personaggio. Io sono convintissima che anche nella serie Jack ami Ianto, sebbene non glielo dice mai, il che è un peccato (almeno in punto di morte poteva farlo, proprio come hai detto tu), ma visto che Davis non vuole approfondire la cosa, lo farò io ^^.
Grazie mille per la recensione, fammi sapere che ne pensi di questo capitolo.
Un bacione, M.

P.S. venite a trovarmi sulla mia pagina facebook: https://www.facebook.com/MillysSpace

 

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Capitolo 4
*** Capitolo tre - Confidenze ***


CAPITOLO TRE – CONFIDENZE

Ora, tu, giovane amore mio, stammi bene accanto
perché questo è solo il punto di partenza
tutto il resto poi verrà da sé.
(Quanto amore sei, E. Ramazzotti)

“Che diamine stai facendo?” urlò Jack con gli occhi fuori dalle orbite.

“Se non posso convincerti con le buone, allora uso le cattive”, rispose Ianto scrollando le spalle.

“Scendi immediatamente da lì”, gli ordinò l’altro, puntandogli un dito contro e guardandolo minacciosamente.

Ianto lo guardò dritto negli occhi, ma non si mosse.
Era in piedi, in bilico sopra la ringhiera della baia. Sotto di lui c’erano il vuoto e l’acqua e, se fosse caduto, oltre a un bel volo di qualche metro, si sarebbe trovato ad impattare con l’acqua e anche se fosse sopravvissuto a ciò, il che richiedeva una gran bella botta di culo, non sarebbe uscito del tutto illeso.
Insomma, faceva venire le vertigini soltanto a guardarlo stare lì sopra e, come facesse ad avere quel buon equilibrio, il Capitano non ne aveva idea.

“Ti prego, scendi”, ripeté Jack, questa volta con più calma. Iniziò ad avvicinarsi cautamente.

“Prima dimmi che mi ami”.

“Cosa?”

“Dimmi che mi ami”.

“Ma che diavolo ti salta in mente?!”

“Quando me lo hai detto l’altra volta stavo rischiando la vita. Perciò devo rischiarla di nuovo per fartelo ridire”.

Di tutte le cose strane e assurde che gli erano capitate questa… ok, forse non era la più strana e assurda, ma comunque poteva rientrare nella lista. Insomma, qualcuno che rischiava la vita per lui?

“Tu sei fuori di testa, Ianto”.

“Sì, lo sono ed è soltanto colpa tua”.

Jack prese un grosso respiro e cercò di calmarsi. D’altronde la calma era il suo forte, no? Calma e sangue freddo. Non aveva davanti un alieno, solo Ianto. Un attimo. E se Ianto fosse stato impossessato da un alieno?
Naaah, era troppo Ianto per essere un alieno.

“Dimmi che mi ami e scenderò”, ripeté il ragazzo senza smettere di guardare Jack.

Il Capitano abbassò lo sguardo.

“No”.

Ianto, allora, lanciò uno sguardo al cielo e si dondolò sul posto.

“D’accordo, come vuoi”.

Jack rialzò di nuovo gli occhi sull’altro chiedendosi che diamine avesse in mente adesso, quando sentì il suo cuore fare una capriola all’indietro e premere per uscirgli dal petto nel momento in cui vide Ianto staccare un piede dalla ringhiera.

“Ianto!” urlò, protendendosi in avanti e afferrando il ragazzo per i fianchi. “D’accordo, d’accordo! Ti amo! Però adesso scendi”.

Il gallese sorrise tra sé e sé gongolando. Infine, fece un salto giù dalla ringhiera con l’aiuto di Jack che ancora temeva di vederlo volare di sotto.
Non appena constatò che aveva i piedi ben saldi al terreno, il Capitano si voltò dall’altra parte, dandogli le spalle.

“Ma che cosa ti era saltato in mente?” sbraitò, girandosi di scatto di nuovo verso Ianto e portandosi i capelli indietro. “Suicidarti?”

Ianto rabbrividì un po’. Non aveva mai visto Jack così incazzato, che lui ricordasse. Forse aveva esagerato un pochino. Ma almeno aveva ottenuto ciò che voleva.

“Solo a convincerti a dirmi che mi ami”, rispose come se niente fosse.

“Diavolo, ma perché non potevi lasciar perdere? Perché ti ostini così tanto?”

“Perché sì, perché ti amo anch’io”.

Jack stava per aggiungere qualcos’altro ma ammutolì di colpo.
Spostò lo sguardo verso la strada dove in lontananza c’erano due ragazzi che passeggiavano con un cane. Non sembrava che li avessero notati.

“E questo adesso dovrebbe cambiare le cose?” chiese il Capitano con più calma, riportando di nuovo lo sguardo su Ianto.

“Be’, sì… o almeno lo vorrei”, rispose il ragazzo con un’espressione affranta.

“E che cosa vorresti che cambiasse? Quello che c’è tra noi?”

“Sono stufo di essere solo la tua macchina del sesso!” fece allora l’altro, alzando di nuovo la voce. Forse stava sbagliando tutto, forse si era spinto troppo oltre.

Jack spalancò i suoi occhi chiari. “Macchina del sesso? Tu non sei la mia macchina del sesso, Ianto, non lo sei mai stato”.

“Ah no?”

“No”.

“E allora che cosa sono per te?”

Quella era la domanda fondamentale e richiedeva una risposta semplice ma essenziale, Jack lo capì dallo sguardo del gallese, così rattristato, così pieno di una strana angoscia, così doloroso alla vista. E immediatamente sentì frantumarsi qualcosa nel proprio cuore. Perché quella domanda non voleva celare soltanto quelle sette parole, ma molto di più. Decisamente di più.

“Sei… sei… sei la cosa più importante che ho”, rispose infine, abbassando lo sguardo. Ed era vero. Aveva conosciuto tante persone e alcune di queste per lui erano state molto importanti. Ma Ianto lo era adesso, lì e in quel momento. Non importavano il passato o il futuro, importava il presente, soprattutto per un Agente del Tempo. Ianto era il presente e doveva concentrarsi solo su quello.

Carpe diem, no?

Si avvicinò con passo felpato al compagno e appoggiò le mani sulla ringhiera, restando a fissare il panorama di fronte a sé. Il sole ormai stava volgendo al tramonto, tingendo il cielo di tinte accese e brillanti.

“Sai perché non ti ho fatto venire con noi, oggi in missione?” disse poi e continuò senza aspettare la risposta dell’altro. “Perché avevo paura. Ho paura che tu ti faccia del male, ho paura che rimani ferito di nuovo e che rischi di nuovo di morire. E non c’è una terza possibilità, non c’è mai e se dovesse succedere la prossima volta potresti non tornare più indietro… potresti non tornare più da me. E io non voglio che questo accada perché non sopporterei di vederti morire, non per colpa mia. Ed è anche per questo che non volevo dirti che ti amo, per questo ti ho evitato. Perché so che anche tu mi ami e io non voglio che tu mi ami. Non me lo merito, non merito di stare con una persona speciale come te.
Ho paura ad affezionarmi alla gente perché so che tutti prima o poi moriranno, mentre io resto sempre qui, da solo. E anche tu prima o poi morirai e mi lascerai da solo”.

Era forse il discorso più sentimentale che avesse fatto e per poco non gli venne da vomitare per tutta quella sdolcinatezza. Però era vero, terribilmente vero. Per la prima volta si metteva veramente a nudo di fronte a qualcuno.

Ianto però non emise alcun suono. Era calato un silenzio piuttosto pesante tra loro e il vento iniziava ad alzarsi.
Jack si voltò verso il ragazzo, per assicurarsi che stesse bene, quando si trovò di fronte a ciò che non si era affatto aspettato. Delle gocce bagnate gli stavano rigando il volto e i suoi occhi azzurri erano velati di lacrime.

“Ianto?” lo chiamò sorpreso. “Che c’è che non va?” gli si mise di fronte prendendolo per i fianchi e guardandolo in volto.

“Mi… mi dispiace”, biascicò l’altro, cercando di mantenere la voce il più ferma possibile.

“E di cosa?”

“Io non voglio lasciarti solo”.

Jack sospirò. “Ma lo farai. Non puoi impedirlo”, appoggiò la fronte contro quella di Ianto.

“Ti amo”.

“Lo so”.

E si baciarono. Jack si fiondò sulle labbra di Ianto quasi come se fosse un bacio d’addio, con una fretta e una passione che non aveva mai usato. Ma Ianto ci stette, almeno finché riuscì a restare al posso. Poi cedette perché Jack era troppo forte e si lasciò dominare dalla lingua del Capitano, si lasciò stringere fra le sue braccia, si lasciò prendere.

“Torniamo a casa?” chiese Jack non appena si furono staccati, entrambi col fiatone.

A casa.
Era strano perché con quella parola si riferiva alla casa di Ianto, dato che lui non ce l’aveva. Ed era strano perché pareva già considerarla casa sua.
Ed era proprio questo il bello. Si partiva dalle piccole cose, dalle cose più semplici e quotidiane per costruire una relazione.
E loro avevano iniziato già da tempo senza nemmeno essersene resi conto.

Ianto annuì piano, sorridendo.

 

“Ma secondo voi ce la faranno quei due a chiarirsi?” chiese Gwen sbucando di colpo tra Tosh e Owen che se ne stavano di fronte al computer.

“Di chi stai parlando?” le chiese la giapponese, spegnendo uno dei primi schermi.

“Ma di Jack e Ianto, ovvio!”

“Aaah, secondo me non concluderanno niente. Si troveranno a scopare come conigli, come al solito”, commentò il dottore prendendo la sua giacca dall’attaccapanni.

“Potresti almeno essere un po’ solidale. Secondo me questa volta potrebbero farcela… a mettersi insieme, intendo”, lo contraddisse Gwen, appoggiandosi al tavolo.

“A me non interessa. Che facciano quello che vogliono”, fu il commentò indifferente di Tosh. Aveva spento tutti i computer e si era tolta gli occhiali da vista.
La sua giornata era conclusa e non vedeva l’ora di tornare a casa.

“Ma non sei curiosa nemmeno un po’?” le chiese Gwen con un sorrisetto malizioso.

“Assolutamente no! Io mi faccio solo gli affari miei”, le rispose l’amica con tono da saccente.

Gwen sbuffò.

“Ehi, Tosh!” chiamò ad un tratto Owen che aveva iniziato a dirigersi verso l’uscita. “Non ho voglia di andare a casa. Ti va se andiamo a mangiare da qualche parte?”

Toshiko per poco non si mise a saltare dalla gioia, gli occhi le brillavano e tutta la stanchezza, tutto d’un tratto, sembrò scemare via.

“Certo!” esclamò avvicinandosi al ragazzo. Lui le mise un braccio attorno alle spalle, ma prima di andare via si girò di nuovo, verso Gwen. “Tu vieni?”

“Oh no, Rhys mi aspetta a casa”.

“Certo, il buon vecchio Rhys. Salutalo da parte mia”.

 

Finalmente, non ne poteva più. Era stata una giornata piuttosto stancante, doveva ammetterlo. E per fortuna che quel giorno non aveva dovuto correre troppo.
Lavorare per Torchwood era emozionante, ma a volte terribilmente stancante.

Non appena varcò la porta di casa, sentì un buonissimo profumo invaderle il naso e le fece immediatamente venire l’acquolina in bocca.

Si tolse le scarpe e, più silenziosa di un gatto, entrò in cucina, trovandovi Rhys ai fornelli, con un grembiule a scacchi che canticchiava una canzoncina allegra, tutto intento a preparare chissà quale prelibatezza.

Sempre senza fare rumore e di soppiatto, gli si avvicinò da dietro le spalle e gli cinse i fianchi con le braccia appoggiando il viso sulla sua ampia schiena.

“Gwen!” esclamò lui, voltandosi e abbracciandola. “Non ti ho sentita entrare”.

“Lo so”, rispose la ragazza, questa volta affondando il viso nel suo petto.

“Ehi, che c’è?” le chiese Rhys con tono dolce.

“Niente, sono solo stanca”.

Lui ridacchiò vedendola fare un ampio sbadiglio.

“Spero tu abbia almeno la voglia di mangiare. Sto cucinando da due ore”.

“Oh, per quello sempre”.

“Bene, perché io e te tra mezz’ora ci metteremo a tavola, di fronte a un bel piatto di spaghetti italiani, e tu mi racconterai di qualche strana creatura aliena che avete sconfitto”.

Gwen sorrise e diede un casto bacio sulle labbra del suo ragazzo. Ecco perché amava Rhys ed ecco perché le piaceva sempre tornare a casa da lui dopo una dura giornata di lavoro. Era qualcosa di così confortevole e sicuro, un nido dove tutte quelle cose strane, alieni, mostri, fantasmi e creature di ogni tipo non potevano entrare.
Casa sua e Rhys erano il suo porto sicuro.

“Certo! Prima però vado a cambiarmi”, e così dicendo, corse su per le scale già un po’ meno stanca.

 

Tosh si asciugò le lacrime agli angoli degli occhi, l’ultimo riflesso delle risate ancora impresso sul volto.
Lei e Owen erano seduti in un tavolino leggermente appartato di un piccolo locale e il dottore le aveva appena raccontato un aneddoto che l’aveva fatta morire dalle risate. O forse non era tanto quello, forse era stato il modo in cui l’aveva raccontato o il fatto che si trovava lì da sola con lui che la faceva sentire così allegra.

“Questa cosa l’avevo raccontata anche ad altri ma nessuno aveva mai riso così tanto come te”, fu il commento del ragazzo, quando l’amica riuscì a calmarsi.

Tosh inarcò le sopracciglia e si morse il labbro inferiore. “Ah sì?”
Temette di essere arrossita.

“Sì. E sai cosa? Dovresti ridere così più spesso”.

La ragazza sorrise dolcemente e abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata.

“Be’, allora… allora cercherò di… farlo più spesso”.

Owen annuì e mise in bocca anche l’ultimo pezzo di crosta che era rimasto del suo hamburger.

Toshiko rialzò lo sguardo e lo portò sulla vetrata di fronte a lei, cercando di evitare gli occhi dell’amico.

“Oh, quelle decorazioni sono bellissime!” esclamò, notando dei disegni rappresentati sui vetri, per cambiare argomento.

Il dottore si girò nella direzione indicata dall’amica e osservò anche lui quelle decorazioni piuttosto particolari.

“Sì. Sapevo che ti sarebbe piaciuto questo posto”.

“Ah sì?”

“Be’, a me piace molto. È carino per passare una tranquilla serata con gli amici”.

Toshiko sorrise tra sé e sé. Sembrava essere la sua giornata fortunata quella, sperava che non finisse mai.

Toshiko, non farti illusioni. Owen ha detto che siete solo amici, si disse mentalmente.

Ad un tratto, però, vide una ragazza passare vicino al loro tavolo. Era alta, decisamente più alta di lei con quei tacchi, e portava dei jeans attillatissimi che addosso a lei sembravano disegnati, i capelli scuri raccolti in una coda alta che ondeggiava a ogni suo passo, insieme al suo didietro.
Anche Owen la seguì con lo sguardo, girò pure la testa per vederla sedersi ad un altro tavolo dove altre ragazze, probabilmente le amiche, la accolsero ridacchiando.

Toshiko era sicura che si sarebbe alzato per raggiungerle e flirtare con loro. E invece, il ragazzo, si girò di nuovo riportando l’attenzione su di lei.
E lei trangugiò l’ultimo sorso di birra, quando sentì partire dallo stereo una canzone un po’ lenta e romantica e non riuscì a trattenersi dall’esclamare: “Oh, mio Dio! Adoro questa canzone!”

“Davvero?” fece Owen.

“Sì, è stupenda!”

“Be’, allora… ti va di ballare un po’?”, le chiese lui, porgendole la mano.

La ragazza osservò prima la sua mano, poi lui, poi di nuovo la sua mano, sbigottita.

“Che cosa?”

“Ti ho chiesto se vuoi ballare. Se non vuoi pazienza”.

“Oh no!” rispose con un po’ troppa fretta. “Voglio dire… sì, certo che voglio ballare”.

E senza attendere altro, Owen le prese la mano che lei gli porse e la condusse sulla pista da ballo dove già altre coppiette si stavano godendo la canzone stretti l’uno tra le braccia dell’altro.

 

Ianto mugolò a bassa voce, stringendo le mani sul lenzuolo.
Era steso sul letto con Jack che gli stava sopra a cavalcioni e gli lasciava una lunga scia di baci su tutto il petto, insieme a qualche morso attorno ai capezzoli.  
Erano entrambi senza camicia, ma molto probabilmente presto si sarebbero ritrovati completamente nudi.

Il ragazzo affondò le mani tra i capelli del Capitano quando questi prese a mordicchiarli il lobo dell’orecchio destro. I loro bacini erano finiti a cozzare l’uno contro l’altro e tutti e due sentivano l’eccitazione crescere sempre di più.
Ma sembrava che quella sera se la stessero prendendo con comoda, senza fretta, pure Jack ci stava mettendo tutta la calma possibile, senza saltare alcun preliminare. Forse perché non c’era nessuna catastrofe o fine del mondo da affrontare, nessun alieno minaccioso alla porta. O forse il motivo era un altro, che non c’entrava niente col loro lavoro, ma solo coi loro sentimenti.

Ianto chiuse gli occhi, lasciandosi andare tra le calde braccia del suo amante. Ad un tratto, però, sentì che aveva smesso di baciarlo e che si era scostato un po’.
Riaprì gli occhi trovandosi il suo volto sopra al proprio, gli occhi chiari che lo guardavano intensamente, come a volerlo sondare.

“Ianto?” lo chiamò a bassa voce.

“Sì?”

“Posso chiederti una cosa?”

“Sì”. Tutto, purché si rimettesse a fare quello che stava facendo.

“Perché ci tenevi così tanto che ti dicessi che ti amo?”

“Perché è vero”.

“No, non è solo per questo”.

“Perché…”, il ragazzo voltò lo sguardo dall’altra parte, in direzione della porta, per evitare di guardare l’altro negli occhi. Quello che stava per dirgli era troppo imbarazzante… e troppo profondo.

“Ehi”, lo chiamò di nuovo Jack, allora, molto dolcemente, facendogli voltare la testa verso di sé. “Puoi dirmelo”.

“E’ solo che…”, iniziò Ianto.

“Solo che?”

“Non ce la facevo più… a guardarti e… insomma, non lo so, Jack, è solo che ho… ho bisogno di qualcuno. Non riesco a stare da solo, non riesco a reprimere i miei sentimenti. E di notte… di notte mi piace avere qualcuno che dorma al mio fianco”.

Jack gli sorrise teneramente e gli diede un bacio sulle labbra, allungando le proprie mani su quelle di Ianto allungate sopra la sua testa e intrecciando le loro dita.

E quella notte, per la prima volta, fecero veramente l’amore.

 

Toshiko fece una giravolta su se stessa e poi tornò di nuovo tra le braccia di Owen, ritrovandosi a poggiargli una mano sul petto e l’altra intrecciata con la mano del ragazzo.
Stavano ancora ballando quella canzone, in silenzio ed evitando di guardarsi troppo negli occhi. Cercavano di mantenere comunque le distanze, per non farlo diventare troppo intimo. O almeno questa era l’impressione che aveva la ragazza, ma non aveva idea se Owen se ne fosse accorto o meno o se lo facesse apposta.

Comunque sia, non importava. Le bastava essere lì con lui.

 

“Rhys?”

“Sì?”

“Ti ho mai detto che ti amo?”

Rhys sorrise sentendosi sciogliere e portò una mano della sua ragazza sul proprio petto, all’altezza del cuore. “Dopo tutto questo tempo mi fai ancora battere il cuore così”.

Anche Gwen lasciò che le sue labbra si aprissero in un sorriso e, ridacchiando allegra, si abbassò verso Rhys, sotto di lei sul divano, e lo baciò appassionatamente, lasciando che i capelli le scivolassero giù, come per nascondere quello che stavano facendo perché era qualcosa che apparteneva soltanto a loro.  

 

 

MILLY’S SPACE

Non credevo che sarei riuscita ad aggiornare così presto… ma le recensioni molto belle che ho ricevuto mi hanno stimolata a scrivere questo capitolo abbastanza in fretta.
Spero che non sia venuto male anche se temo di aver fatto i personaggi un po’ OOC, specialmente Jack.
Il fatto è che Jack io in realtà lo vedo pieno di sentimenti, anche se non li mostra apertamente
proprio per mantenere quella corazza impenetrabile che lo caratterizza. Ma credo che sia tutt’altro che insensibile e immune all’amore e sono convinta che lui sia veramente innamorato di Ianto.
Jack mi affascina soprattutto per questo, perché è un personaggio che va interpretato. In lui è incentrata un’ampia gamma di sentimenti ed emozioni, è un animo che va sondato, insomma, con un bel po’ di esperienza psicologica, anche.
Ma ok, non siamo qui per parlare della mia passione per Jack Harkness e la psicologia, bensì di questa storia.

Allora, è un capitolo un po’ di transizione perché ho pensato che fosse giusto far fare una pausa ai nostri eroi e farli godere qualche attimo di calma. Ne succederanno delle belle, col proseguo, pertanto facciamoli divertire finché possono : )

Ianto ha escogitato un buon sistema per convincere il nostro Jack a dichiararsi, anche se forse un pochino esagerato (la melodrammaticità dell’autrice, che ci potete fare? ^^), ma il desiderio di Ianto di avere una persona accanto non è solo un capriccio dell’autrice (o meglio, sì visto che sono io che scrivo la storia e tutto quello che c’è scritto nella serie non succede), ma c’è una motivazione di fondo che scoprirete più avanti e che secondo me c’è anche nel telefilm.

E, ultima nota, la canzona sulla quale ballano Tosh e Owen è I can’t fight this feeling di Reo Speedwagon (l’ha trovate qui à http://www.youtube.com/watch?v=zpOULjyy-n8). In realtà non sono una grande fan di questa coppia, ma mi è sembrato giusto dedicarle comunque un po’ di spazio. E ne troverete un po’ anche più avanti, forse già dal prossimo capitolo.

Bene, penso di aver detto tutto. Anzi, no. Ho un’ultima cosa, o meglio, una domanda: qualcuno di voi sa per caso il nome della sorella di Ianto? Non ricordo se lo abbiano detto nel telefilm, comunque sia in ogni caso non lo so.

Adesso sì che è tutto ^^

Grazie della cortese attenzione e non scordatevi le recensioni.

Baci,

Millyray.

GLINDA: hola, cara : ) grazie mille per la recensione, mi fanno sempre un sacco di piacere. Sì, Jack è un personaggio piuttosto particolare, ma è anche per questo che lo amiamo, no? Grazie ancora, spero di risentirti. : )

SWEETLADIE98: sono molto contenta di essere riuscita a mantenere i personaggi così come sono perché è una cosa piuttosto difficile e capita a molti autori di stravolgerli. Qui, però, come ho già detto sopra, credo di essere andata un po’ fuori, ma va be’ ^^ licenza d’autore… sono anche contenta di essere stata esauriente con le descrizioni. Secondo me è importante che siano brevi ed efficaci e non una lunga sfilza di azioni e aggettivi che dopo un po’ iniziano ad annoiare.
Bene, ti ringrazio ancora per il link che mi hai passato, mi sono già vista tutti gli episodi della 3 stagione. Inutile dire che aspettavo con ansia la scena della morte di Ianto su cui poi ho pianto come una fontana.
Dimmi che ne pensi di questo capitolo, se ti va : ) Baci.
P.S. il nick è millyray, ma puoi chiamarmi solo milly o ray, come preferisci : )
P.P.S. il tuo avatar è stupendo : )

BIMBA3: sì, Jack lo amiamo sia con i suoi difetti che coi suoi pregi : ) a Ianto non è successo niente, sta’ tranquilla ^^ è solo Jack che ha avuto un leggero infarto. Grazie mille della recensione, spero di risentirti.
Bacioni,
M.

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Capitolo 5
*** Capitolo quattro - Sanzaru ***


CAPITOLO QUATTRO – SANZARU

Il buio ha i tuoi occhi,
belli come li hai soltanto tu.
(Il buio ha i tuoi occhi, E. Ramazzotti)

Jack si svegliò con un sussulto, la coda dell’ultimo strano sogno che si dissolveva davanti al suo sguardo leggermente confuso. La prima cosa che notò era che non si trovava nel suo letto.
Questo era molto più grande e sulla parete accanto c’era un’ampia finestra ad illuminare la stanza. La seconda cosa di cui si accorse, invece, era che non si trovava da solo. C’era qualcosa che gli pesava sul petto e che gli provocava un piacevole torpore.

Abbassò lo sguardo e vide Ianto con gli occhi chiusi che dormiva placidamente, appoggiato sulla sua spalla e un braccio buttato sul suo petto.
Gli ci volle qualche secondo per inquadrare tutta la situazione, su come era finito nel letto di Ianto. E, d’un tratto, si rese conto che quella era la prima volta che dormivano veramente insieme. Avevano fatto sesso molte volte, non solo nel suo ufficio al Nucleo, ma anche a casa di Ianto, in cucina, in salotto, in bagno, però non avevano mai dormito insieme. Jack se ne andava via sempre, quasi subito dopo il rito. Come un ladro che, preso quello che voleva, fugge via per non essere catturato.
Ma ora… ora era caduto nella trappola e doveva ammettere, osservando il volto tranquillo del ragazzo che dormiva e sentendo il suo fiato sul collo, che era una trappola molto piacevole, gli dava quel pacifico senso di tranquillità, sicurezza e calore di cui, se ne rese conto in quel momento, aveva veramente bisogno. Era passato talmente tanto tempo dall’ultima volta in cui si era sentito così che lo aveva dimenticato.

Circondò la vita di Ianto con un braccio, per avvicinarlo di più a sé e prese ad accarezzargli i capelli sulla fronte. Doveva ammettere che era bello quando dormiva. Ma lui era bello sempre. E chissà che cosa stava sognando, magari dei sogni più belli dei suoi. Jack avrebbe tanto voluto saperlo.

Ad un tratto, però, anche Ianto aprì gli occhi, posando il suo sguardo azzurro sul volto dell’altro.

“Ciao”.

“Ciao”.

“Scusa, non volevo svegliarti”, sussurrò Jack sorridendogli.

“Non mi hai svegliato”.

Ianto, allora, si alzò mettendosi seduto sul letto per stiracchiarsi un po’, ma improvvisamente sentì le braccia di Jack circondarlo per la vita e il suo petto aderire alla sua schiena.

“Che ore sono? Forse dovremmo andare”, disse, allora. In realtà non aveva la minima voglia di staccarsi dalle braccia di Jack, stava così bene e sarebbe potuto rimanere lì tutto il giorno, per non dire per sempre. Però quella situazione gli metteva anche una strana sensazione addosso, era così strano, Jack non lo aveva mai stretto così. Era strano, certo, ma molto bello.

“Io però avrei un certo languorino”, rispose il Capitano e… forse era solo una sua sensazione ma a Ianto parve che la sua voce si fosse fatta incredibilmente sensuale.

“Allora… allora perché non vai in cucina a prepararti qualcosa?”

Jack fece una leggera pressione sui suoi fianchi per buttarlo di nuovo a letto e, con un colpo di reni, gli si mise a cavalcioni, ripetendo la posizione dell’altra sera.

“Preferirei che fossi tu a prepararmela” e si abbassò per avvicinare i loro volti.

“Perché io?”

“Be’, perché in ogni coppia ci deve essere qualcuno che prepara la colazione e non sarò certo io”.

Coppia? Jack aveva detto veramente coppia?

“Siamo una coppia?”

“Sì. Perché, non lo vuoi?”

“Certo che lo voglio”.

“Bene, altrimenti il tuo quasi suicidio sarebbe stato inutile ed inspiegabile e ti avrei ucciso io, allora”.

Ianto ridacchiò divertito, ma tornò serio subito dopo, notando gli occhi socchiusi di Jack e il suo sorrisetto sghembo. La cosa lo eccitava parecchio.

“Allora, vado a prepararti la colazione”.

“Aspetta!” lo fermò il Capitano, premendo le mani sulle sue spalle per farlo restare sdraiato. “Prima devi sfamare il mio amichetto lì sotto” e, con un cenno del capo, indicò le sue parti basse, dove un evidente rigonfiamento nei suoi boxer faceva intuire perfettamente che cosa volesse dire. E Ianto non poteva certo biasimarlo, anche la sua erezione mattutina reclamava per essere soddisfatta.
Ma di certo non si aspettava quell’improvviso assalto alle sue labbra che venne subito dopo.

 

Jack, in bagno davanti allo specchio, vestito solo con un paio di boxer prestatigli da Ianto, era indeciso se farsi la barba oppure no. Si passò una mano sul viso e alla fine decise che era meglio, cominciava a sentire qualche pelo, anche se ancora non si vedeva, e lui detestava avere la barba. Poco gli importava se erano già in ritardo al lavoro.

“Hai la schiuma da barba?” gridò per farsi sentire da Ianto, ancora in camera da letto.

“Nell’armadietto accanto al lavandino”, sentì rispondersi.

Jack aprì il suddetto armadietto, appeso al muro, e passò lo sguardo alla ricerca di quello che gli serviva. Ma prima di arrivare alla schiuma, i suoi occhi caddero sulle innumerevoli boccette e scatolette di medicinali e rimase piuttosto sbigottito davanti a quella quantità di farmaci. C’erano due mensole piene di quelli che parevano per lo più sonniferi e tranquillanti, alcune di queste erano aperte e mezze vuote, altre erano ancora sigillate. Le rigirò un po’ tra le mani per leggere le etichette e notò anche una boccetta di Valium.
Ma che se ne faceva Ianto di tutta quella roba?

Prese la schiuma da barba e richiuse l’armadietto. Glielo avrebbe chiesto in un secondo momento, adesso non voleva rovinare quel momento di famigliarità e pace.

 

Come c’era da aspettarsi, Jack e Ianto arrivarono alla base per ultimi. Quando raggiunsero la baia trovarono le auto degli altri tre membri già parcheggiate all’ingresso.
Il Capitano fece girare la ruota e, dopo aver preso la mano del suo compagno, sotto lo sguardo incredulo dell’altro, varcò la soglia insieme a lui con uno svolazzo del cappotto grigio.

“Era ora! Ma dov’eravate finiti?” esclamò Gwen, non appena li vide arrivare. Poi, però, abbassò lo sguardo alle loro mani intrecciate e un sorriso le nacque spontaneo sulle labbra. “Oh, dobbiamo brindare a qualcosa?”

“No!” le rispose Jack secco. Cominciò a dirigersi verso le scale ma, prima di posare il piede sul primo gradino, si voltò verso Ianto. “Me lo prepari un caffè, come piace a me?”

“Agli ordini, capo”, gli rispose il ragazzo facendogli il saluto militare, seguendolo con lo sguardo mentre si dirigeva verso il suo ufficio.

“Aspetta, Jack!” lo chiamò Gwen, allora, con una leggera nota di panico nello sguardo. Ma l’uomo non le badò e la ragazza scambiò uno sguardo preoccupato con Tosh e Owen.
Dopo forse mezzo minuto, Jack ricomparve dal piano superiore, appoggiato alla ringhiera con un’espressione piuttosto adirata.
“Chi diavolo ha combinato quel macello nel mio ufficio?”

Owen scrollò le spalle, Tosh si morse il labbro inferiore e Gwen gli fece un sorrisetto falsamente innocente.
Ianto, invece, abbandonò la sua postazione alla macchina del caffè e corse su per le scale a vedere a che cosa si stesse riferendo Jack. E capì il motivo di tanto disappunto del suo compagno.
L’ufficio era completamente sottosopra, c’erano carte e penne sparse per terra ovunque, non si poteva camminare senza calpestarle, la sedia era rovesciata e il tavolo messo di traverso, anch’esso pieno di fogli volanti. Persino alcune mensole della libreria si erano staccate.

“Prima che tu te la prenda con qualcuno…”, iniziò Gwen da dietro le spalle dei due uomini. “Ecco chi è stato a fare questo al tuo ufficio”.

Jack si voltò verso di lei, ma si trovò davanti Owen che reggeva in braccio quella che pareva essere una scimmia con le dimensioni di un bambino di cinque anni. Si teneva con le sue lunghe braccia al collo del dottore e con il muso rivolto verso il Capitano. Dalla sua espressione così tenera e dolce non sembrava per niente essere lei la causa di tutti quei danni.

“E che cazzo sarebbe quella cosa?” berciò Jack, squadrano l’animale come fosse qualcosa di ripugnante.

“Non è una cosa!” gli fece notare Owen in tono di rimprovero. “Questo è uno scimpanzé e ha pure un nome… sì… si chiama… Monkey. Sì, si chiama Monkey”.

“Monkey?” ripetè Ianto cercando di non scoppiare a ridere. Di sicuro il nome se lo era inventato lì al momento. Ma a parte quello, tutta quella situazione era piuttosto comica. “Originale, molto originale”.

“E voi gli avete lasciato fare questo casino nel mio ufficio? E si può sapere dove l’avete trovato?” chiese allora il Capitano, questa volta più calmo.

“Non gliel’abbiamo lasciato fare. Era già lì quando siamo arrivati e non sappiamo come ci sia arrivata. Comunque non è di questo mondo, Tosh ha notato delle sostanze aliene nel suo corpo”, gli spiegò Gwen pazientemente. “Volevamo mettere in ordine prima che arrivassi, ma… non ne abbiamo avuto il tempo”.

Jack alzò gli occhi al cielo e appoggiò una spalla allo stipite della porta.

“D’accordo”, concluse infine. “Owen, mettiti a lavorare. Fai tutte le analisi che servono per scoprire da dove viene o che cosa sia quella… quella scimmia”.

“Era quello che stavo per fare”.

“Tu, Tosh”, continuò il Capitano senza fare  caso alla risposta di Owen. “Osserva tutte le registrazioni che sono state fatte nel corso della notte per vedere se sono avvenute delle anomalie o cose simili nel Nucleo”.

“D’accordo”.

“E tu Ianto… mi aiuti a mettere in ordine”.
Afferrò la maniglia della porta e fece per chiudersi dentro la stanza, quando Gwen lo bloccò. “E io che faccio?”

L’uomo si fermò a guardarla un attimo col suo cipiglio altezzoso, come a volerla studiare, e infine disse. “Non so… renditi utile o fai quello che vuoi”.

La ragazza lo guardò strano, ma non fece in tempo a dire nient’altro visto che questi non le lasciò il tempo e sparì nell’ufficio insieme a Ianto.
Alla fine scese giù andando ad appoggiarsi a un tavolo pieno di strani oggetti.

“Be’, poteva andare peggio”, commentò. “Non ha reagito così male”.

“Sappiamo che una delle regole di Jack è non toccare il suo ufficio”, le fece notare Toshiko. “Un minimo di urla era prevedibile”.

 

Gwen infilò le sue bacchette nella confezione di cibo giapponese e ne tirò fuori un pezzetto di sushi che mise subito in bocca.
Lo stesso fece Ianto, terminando così il suo pranzo. Si alzò ber buttare via la sua confezione, fermandosi subito dopo accanto a Owen che se ne stava impalato a braccia incrociate a poca distanza dal lettino del mini studio medico su cui sedeva lo scimpanzé che avevano trovato nell’ufficio di Jack.

“Pensate che dovremmo darle da mangiare?” chiese il dottore senza togliere gli occhi dall’animale.

“E che cosa le dovremmo dare?” fece Gwen.

“Non so… delle banane? Qualcuno ha una banana?” Owen si voltò guardando i suoi amici ad uno ad uno. Tutti però scossero il capo.

“Sicuramente non gli darei la mia”, rispose Jack, seduto sui gradini. Sembrava ancora avercela con quello che era successo nel suo ufficio, sebbene il più delle cose lui e Ianto erano riusciti a sistemarle.
Ianto, però, a quella frase, ridacchiò sotto i baffi.

“Perché non la adottiamo come animale domestico?” propose Gwen, beccandosi un’occhiataccia da parte del Capitano. “Scusa, scusa, stavo solo scherzando”, aggiunse subito dopo, alzando le mani sopra la testa in segno di resa.

“Almeno avete capito com’è arrivata?” chiese Ianto a quel punto.

“No”, rispose Tosh immediatamente. “Ho controllato tutte le registrazioni. Solo quella nell’ufficio di Jack mostra delle anomalie dal momento in cui l’ufficio è vuoto a quello in cui compare Monkey. Però non ci fa capire niente. Sembra essere spuntata dal nulla”.

“Forse ha usato una specie di teletrasporto”, propose Owen.

“Forse. E la domanda è anche: perché proprio qui, a Torchwood. Credevo che qui non potesse entrare niente”.

Jack fece per dire qualcosa quando, tutto d’un colpo, sentirono la ruota del Nucleo girare. Qualcuno stava entrando, eppure tutti loro erano lì e nessun’altro sapeva di quella base e di come entrarci.
Perciò, contemporaneamente, si avvicinarono con le pistole puntate, pronti ad affrontare qualsiasi strana minaccia fosse.

Non appena la porta si aprì completamente, videro una figura attraversare l’uscio ed entrare dentro. Era una giovane donna con la pelle scura, i lunghi capelli neri raccolti in un chignon e lo sguardo scuro vispo e allegro. Li raggiunse con un sorriso divertito dipinto in volto.

“Devo ammettere che non mi aspettavo proprio questo tipo di benvenuto”, commentò vedendosi cinque pistole puntate contro.

“Martha!” esclamò Jack sorpreso, abbassando subito la propria pistola. In tre falcate la raggiunse e l’abbracciò forte, quasi staccandola da terra. “Ma che ci fai qui?”

“Be’, ero di passaggio così…”, rispose la ragazza stringendosi nelle spalle. “ho deciso di venire a trovarvi”.

“Ammettilo, ti mancavo troppo, così non hai potuto resistere”.

“Sì, Jack, senza dubbio”, sbuffò lei alzando gli occhi al cielo.

Anche gli altri, allora, l’abbracciarono, contenti di rivederla.

“Be’, raccontaci qualcosa. Dove sei stata, cos’hai fatto?” le chiese Gwen curiosa.

“Ah, sicuramente non ho avuto una vita interessante come la vostra”.

 

Quando Gwen e Martha rientrarono dopo una passeggiata nei dintorni, trovarono Tosh e Owen davanti al computer ad osservare qualcosa e parevano parecchio presi. O meglio, Owen era parecchio preso ed apparentemente divertito, Tosh, invece, sembrava voler evitare di guardare, ma continuava a spostare anche lei gli occhi sullo schermo.

“Ehi, ragazzi, che state guardando?” chiese Gwen non appena lei e Martha li raggiunsero.

“Oh, è un film porno?” aggiunse Martha notando che l’immagine sullo schermo mostrava due persone chiaramente impegnate in un atto sessuale. Poi, però, osservò meglio e sgranò gli occhi quando si accorse che cosa stava guardando in realtà. “Un momento… ma quelli sono…”.

“Jack e Ianto!” esclamarono lei e Gwen all’unisono.

“Esattamente!” affermò Owen ridendo senza ritegno.

“Non dovremmo guardare queste cose”, li redarguì Tosh. “Stiamo violando la loro privacy”.

“Ma li stiamo osservando dalle telecamere di sorveglianza? E… oh mio Dio! Ma lo stanno facendo davanti ai Weevil!” si accorse Gwen e pareva un po’ disgustata.

“Non è colpa nostra se li abbiamo beccati. Loro dovrebbero stare più attenti a dove lo fanno”, si difese Owen.

“Tosh ha ragione”, gli fece notare Gwen, allora. “Però, cazzo… è troppo bello”, concluse infine, scoppiando a ridere.

In quel momento videro Jack afferrare Ianto per le spalle e sbatterlo di faccia contro al muro. Ianto vi si attaccò quasi a volerci entrare dentro, intanto il Capitano doveva averlo penetrato, a giudicare dalle espressioni contratte di entrambi. Jack prese a spingersi dentro il compagno, muovendosi su e giù, sempre con maggior velocità.

“Ma loro stanno insieme o sono solo compagni di letto?” chiese Martha,  senza togliere gli occhi dallo schermo. A quel punto anche Tosh si era arresa e stava guardando.

“Credo stiano insieme”, le rispose Gwen.

“Wow. Chissà che gli ha fatto Ianto”, fu il commento di Martha.

Infine, osservarono come le espressioni dei due uomini nei sotterranei cominciavano a distendersi in un’espressione estasiata e felice, segno che avevano raggiunto l’orgasmo.

 

Ianto, non appena Jack si fu allontanato, scivolò contro il muro distendendosi per terra. Aveva il respiro accelerato e sentiva i muscoli tremare leggermente.
Anche Jack aveva un po’ di fiatone ed era leggermente sudato. Ma parecchio soddisfatto.

“Cristo, Jack, mi hai letteralmente spaccato”, borbottò Ianto tra un respiro e l’altro.

Il Capitano ridacchiò sedendosi per terra. Aveva bisogno di un po’ di riposo. Fare sesso, doveva ammetterlo, stancava un po’. Ma era qualcosa a cui non avrebbe rinunciato mai, fisiologicamente non ne sarebbe mai stato in grado.

“Ammettilo, che non ti sei mai fatto una scopata così”.

“Effettivamente no. E questa è la seconda volta che lo facciamo in un giorno”.

“Sta’ sicuro che ce ne sarà una terza”, Jack portò lo sguardo verso la telecamera appesa al muro sopra la sua testa. Appena tornati di sopra, avrebbe dovuto provvedere a cancellare quella registrazione, così che nessuno degli altri avrebbe visto niente. L’unico testimone del loro peccato sarebbero stati i due Weevil, ma grazie al cielo non erano dotati di parola.

“Su, rivestiti o prenderai freddo”, concluse, rivolto a Ianto. Si alzò anche lui e cominciò a raccogliere i suoi vestiti sparsi per terra.

Quando si fu rivestito, lasciò Ianto a sistemarsi e tornò di sopra.

“Oh, siete già tornati!” esclamò, vedendo i quattro amici seduti davanti ai computer che lo guardavano in modo un po’ strano.

“Ehm… sì”, rispose Gwen con un sorriso a trentadue denti.

In quel momento arrivò anche Ianto, che notò subito che c’era qualcosa di strano nel comportamento degli altri.

“Che state facendo?” chiese.

“Niente!” rispose Martha, un po’ troppo frettolosamente, e si spostò più vicino a Owen per nascondere il delitto. Si erano dimenticati di chiudere la schermata. “Stavamo solo… controllando… una cosa”.

Jack e Ianto si guardarono l’un l’altro un po’ confusi.

“Voi, tutto a posto?” chiese Gwen, allora, sperando di distrarli. “Passata… passato un buon pomeriggio?”

Owen, con un calcio alla caviglia, le intimò di stare zitta. La ragazza, in risposta, gli lanciò un’occhiataccia.

Ianto, accorgendosi che stavano nascondendo qualcosa alle spalle, si avvicinò alla scrivania e osservò il computer in centro. “Ma quella è… la videocamera delle celle?”

“Quella? Ehm no…”, cercò di negare Owen, ma piuttosto inutilmente.

Allora anche Jack si avvicinò e un risolino divertito gli uscì dalle labbra, capendo che cosa era successo. “Ci stavate guardando”.

“Chi? Noi? Nooo!”

“Sì che lo avete fatto. Be’, spero che vi siate almeno divertiti”, concluse il Capitano, cominciando a dirigersi verso l’ufficio.
Ma, se a Jack non importava niente, non si poteva dire lo stesso di Ianto. Il ragazzo era piuttosto imbarazzato, anche se cercava di non darlo a vedere.

“Ianto, mi dispiace”, disse Tosh, notando il suo sguardo contrariato. “Io non lo volevo fare”.

“Sì, ma lo hai fatto”, probabilmente avrebbe aggiunto qualcos’altro, ma alla fine decise di lasciar perdere e andò a raggiungere Jack.

“Ti ho detto che dovevi spegnere”, sbraitò la giapponese rivolta a Owen, mollandogli uno schiaffo dietro la nuca.

“Ouch! Che c’entro io? Anche voi avete guardato”, si lamentò l’accusato.

“Dai, mettiamoci al lavoro”, lo esortò allora Martha, prendendolo per un braccio.

I due si diressero verso il piccolo studio medico per fare altre analisi alla scimmietta aliena. Era piuttosto tranquilla per essere di quella specie, di solito i Scimpanzé facevano un sacco di pasticci ma, a parte l’ufficio di Jack, non aveva ancora messo a soqquadro niente. Doveva essere un animale educato, forse domestico, tuttavia non mostrava particolari capacità. Ogni tanto si fermava a fissare le persone, come se le studiasse, il che inquietava un po’, ma sicuramente era normale. Magari non era abituata a degli esseri umani.

Martha le si avvicinò con una siringa per farle un’iniezione quando questa d’improvviso, come se qualcuno glielo avesse ordinato, le saltò addosso stringendole forte il collo. La ragazza cadde a terra ma, sentendosi venir meno l’aria, non poté urlare né emettere alcun suono, se non dei gorgoglii.

Owen accorse subito per aiutarla. Afferrò Monkey per le spalle cercando di scrollarla di dosso da Martha, ma l’animale sembrava avere più forza di quanto non ne mostrasse. Alla fine, senza che se lo fosse minimamente aspettato, la scimmietta staccò le mani dal collo della dottoressa e le mise in faccia a Owen coprendogli gli occhi e togliendogli così la visuale. Il ragazzo indietreggiò e cadde all’indietro colpendo il muro.

A Martha ci volle qualche secondo per rendersi conto di cosa stava succedendo, era ancora intenta a riprendere il fiato ma, prima che potesse reagire, gli altri, attirati dai rumori, erano già accorsi per aiutare Owen.

Jack e Ianto strattonavano lo Scimpanzé per toglierglielo di dosso, ma invano. Infine arrivò Martha che, con un colpo secco, infilò una siringa nel didietro dell’animale premendo lo stantuffo e iniettandole il liquido che c’era dentro.

“Sonnifero”, disse la ragazza rispondendo alla muta domanda degli altri. Monkey aveva cominciato a rilassarsi e, dopo poco, mollò la presa su Owen cadendo addormentata. Jack la afferrò e la mise sul lettino.

“Ragazzi”, chiamò il dottore con uno strano tono. “Ditemi che avete spento la luce”.

“No, perché?” fece Gwen.

“Perché non vedo niente”.

 

“Non ci sono lacerazione nella retina né altre anomalie”, concluse Martha spegnendo la luce della piccola torcia medica con cui aveva controllato la vista di Owen. Gli aveva fatto diversi altri esami da cui non era risultato niente. “Non vedi niente?”

“No, buio totale”.

Martha si scambiò un’occhiata con gli altri che li guardavano dall’alto, appoggiati alla ringhiera.

“Ma com’è potuto succedere?” chiese Gwen, guardando in direzione di Jack. Il Capitano, per tutta risposta, scrollò le spalle.

“Aspetta, un momento…”, sbottò Ianto, allora. “E’ successo quando la scimmia ti è saltata addosso, no?”

“Sì”, rispose Owen.

“Dove ti ha messo le mani esattamente?”

“Sugli occhi”.

Tutti quanti, eccetto Owen, avevano gli occhi puntati su Ianto, curiosi di sapere che cosa stesse pensando.

 “Tosh, uno dei simboli tradizionali della cultura giapponese non sono le tre scimmie?”

Toshiko, che aveva afferrato il punto, sgranò gli occhi e la bocca sorpresa.

“Ma certo! Le Sanzaru, le tre scimmie sagge! Mizaru, Kikazaru, Iwazaru!”

“Eh?!”  fece Owen socchiudendo gli occhi.

La ragazza scosse il capo e spiegò in tono vivace. “Sono le tre scimmie rappresentante nel santuario di Toshogu e indicano il non vedere il male, il non sentire il male e il non parlare del male e con le mani si coprono rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca”.

“Quindi queste tre scimmie sono arrivate dal Giappone?” chiese Owen.

“No, non credo… non lo so…”.

“Però…”, la interruppe Jack. “se le scimmie sono tre e noi ne abbiamo una… da qualche parte ce ne sono altre due”.

“Controllo subito se ci sono segni di attività aliena in città!” esclamò Tosh, correndo subito ai computer e in un paio di minuti trovò quello che stava cercando. “Ci sono due punti caldi, uno è in Avington Street e l’altro in uno zoo poco fuori città. Non sono sicura che siano le scimmie ma…”.

“D’accordo,” concluse allora Jack, interrompendola di nuovo. “Io e Ianto andremo allo zoo mentre Martha e Gwen andranno in Avington Street. Tu, Tosh, accompagna Owen a casa”.

E in poco tempo tutti si misero in marcia.

 

“Bene, si entra in azione”, disse Ianto uscendo dal Suv insieme a Jack.  I due erano davanti al cancello dello zoo che si trovava poco fuori Cardiff, non molto trafficato quel giorno, per fortuna, a parte qualche turista e scolaresche accompagnate dagli insegnanti. Era giorno lavorativo, dopotutto.

Camminarono per un po’ finché non arrivarono a una piccola casetta di legno nella quale un uomo oziava sprofondato su una sedia, un cappello di paglia piuttosto rovinato poggiato sulla testa.

Jack e Ianto entrarono dentro bussando piano, al che l’uomo si ridestò e guardò i due uomini con evidente stupore.

“Scusi, Capitano Jack Harkness e Ianto Jones, siamo di Torchwood”.

L’uomo, per tutta risposta, alzò un sopracciglio e continuò a scrutarli.

“Volevamo chiederle un’informazione”, continuò Jack. “Per caso stamattina da voi è comparso un Scimpanzé? Uno scimpanzé un po’… particolare?”

Ma l’uomo non sembrava proprio in vena di parlare, continuava a starsene zitto. Jack, a quel punto, temette che l’uomo fosse un po’ tocco o chissà… anche se, doveva ammetterlo, la sua domanda suonava un po’ strana, magari era quello che stupiva l’uomo.
La luce del sole entrò dalla finestra aperta e andò a colpire una parte del volto dello sconosciuto, scoprendo così i suoi lineamenti. Era piuttosto anziano, forse sulla settantina, il volto segnato da pesanti rughe. Ma, su quel volto così scavato, due brillanti occhi azzurri spiccavano vispi e vivaci.

“Effettivamente sì”, rispose alla fine l’anziano, interrompendo il silenzio che si era venuto a creare. Aveva una voce un po’ rauca e, immediatamente, venne scosso da dei pesanti colpi di tosse. “Stamattina hanno chiamato per dirci che hanno trovato una scimmia girare nei dintorni. Hanno subito pensato che fosse una delle nostre, così l’hanno portata qui. Ma non è una delle nostre”.

“E lei come fa a saperlo?” chiese Ianto.

“Perché le nostre scimmie hanno tutte un piccolo marchio sotto al piede sinistro e quella non ce l’aveva. Ma a parte questo”, altri colpi di tosse. “si vede. È un animale particolare”.

“Particolare in che senso?”

“E’ troppo docile e mansueta. L’abbiamo messa nella gabbia insieme alle altre, ma le altre sembra che ne abbiano paura”, pausa per tossire. “se ne tengono lontane. Inoltre, pare che non voglia mangiare il cibo che diamo alle altre, eppure non soffre di malnutrizione”.

“Possiamo vederla?” chiese Jack.

“Posso portarvici”.

L’anziano signore accompagnò i due fino al recinto dove erano tenute le scimmie. C’erano solo alcune persone attorno alle grate di ferro, che scattavano foto.

“E’ da stamattina che sono così”, sbottò il custode dello zoo, guardando in direzione delle scimmie, le mani strette al bastone che usava per camminare.
Jack e Ianto non capirono subito a che cosa si riferisse, ma poi notarono che effettivamente c’era qualcosa che non andava in quegli animali. Continuavano ad urlare ed emettere versi, come se qualcosa le rendesse nervose.

“C’è qualcosa che le disturba”.

Jack guardò in direzione delle scimmie e, in mezzo a tutte quelle agitate, ne notò una, solo una che, a differenza delle altre, pareva tranquilla e pacata, come se attorno a lei non stesse succedendo niente.

“Dobbiamo portare via una delle vostre scimmie”, annunciò infine il Capitano, in tono perentorio.

 

Gwen e Martha giunsero all’indirizzo indicato loro dal navigatore e parcheggiarono la macchina vicino al bordo del marciapiede.

“Dovremmo essere nel posto giusto”, disse Gwen allungando la testa fuori dal finestrino per controllare la zona. Davanti a lei si distendeva una lunga distesa di asfalto e piccole case in stile londinese, ordinate, pulite, immacolate, con praticelli ben curati.

“Come facciamo a sapere quale casa è?” chiese Martha, guardando anche lei, perplessa, la strada.

“Direi che ci toccherà bussare ad ogni porta”, rispose Gwen, scendendo dalla macchina, seguita poi dalla collega.
Ma, prima che potessero fare anche un solo passo, sentirono strani stridii provenire dall’abitazione numero dodici.

“O forse non ce ne sarà bisogno”.

Le due ragazze corsero verso la casa incriminata e bussarono alla porta. Ma dopo quasi un minuto, nessuno venne ad aprire.

“Forse non c’è nessuno”, commentò Martha, ma Gwen non pareva essere d’accordo. Si spostò verso la finestra vicino e guardò dentro, attraverso le tende scostate.

“Direi che entriamo con la forza”.

Non diede nemmeno il tempo all’altra di cogliere la frase, che diede una forte spallata alla porta e la buttò giù.
Quello che si presentò davanti alle due ragazze, non appena superarono la soglia, era un disordine paragonabile a quello causato da una bomba. Il tavolino del salotto era rovesciato e accanto, sul tappeto, si stava allargando una macchia scura proveniente da una boccetta di smalto. Il divano era strappato in più punti e c’erano vestiti e vari altri oggetti sparsi per terra.

“Oh, mio Dio! Ma che è successo qui?” chiese Martha. Gwen aprì la bocca per risponderle, ma la voce le morì in gola quando vide un’ombra sulla parete. Si avvicinò un po’ di più e, nascosta dietro a un armadietto, uno dei pochi oggetti rimasti in piedi, vide una ragazza appoggiata contro la parete, le ginocchia strette al petto e gli occhi colmi di lacrime. Pareva terrorizzata, guardava Gwen come se vedesse un cane a tre teste e non poteva avere che poco più di vent’anni. Fu soprattutto questo a colpire la ex poliziotta.

“Ehi”, le sussurrò, inginocchiandosi per essere alla sua stessa altezza. Ma la ragazza si ritirò ancora più indietro. “Tranquilla, non voglio farti del male”, stava cercando di usare il tono più dolce e tranquillo che possedeva. “Posso sapere come ti chiami?”

La ragazza aprì la bocca ma, anziché rispondere, puntò un dito alla gola e fece cenno di no con la testa.
Gwen non capì, ma le corse in aiuto Martha. “Guarda!”

La mora si girò vedendo, sopra al mobile della cucina, una scimmietta seduta tranquilla a sbucciare una banana.
Tornò di nuovo a rivolgersi alla sconosciuta. “Quella scimmia ti ha aggredita?”

La ragazza annuì debolmente.

“Ti ha toccato in qualche punto?”

La ragazza si indicò la bocca.

“Ok”, concluse Gwen. Poi si mise alla ricerca di qualcosa in quel marasma di oggetti sparsi e rovesciati. Afferrò un foglio e una penna e li porse alla ragazza. “Scrivimi il tuo nome”.

La ragazza, con mano tremante, si avvicinò al foglio che le porgeva l’altra e scrisse un nome in una calligrafia un po’ storta.

“D’accordo, Cindy, ascolta. Adesso noi portiamo via quello scimpanzé e ti prometto che tutto tornerà a posto, qualsiasi cosa ti abbia fatto. Non ti preoccupare. Tu non aprire a nessuno, non fare niente e non uscire di casa. Ti verrò io a trovare, d’accordo?”
Cindy annuì un po’ più calma e Gwen le sorrise. Poi si voltò verso Martha.

“Hai il sonnifero?”

 

Tosh poggiò le chiavi della porta d’ingresso sul tavolo e sospirò. Owen, dietro di lei, tentò di avvicinarsi al divano ma sbatté contro qualcosa che aveva lasciato per terra e cominciò a borbottare imprecazioni contro tutte le divinità che conosceva.

“Aspetta, ti aiuto!” esclamò la ragazza porgendogli un braccio perché si appoggiasse e lo accompagno fino al divano.
Lo fece sedere e poi si accomodò accanto a lui.

“Ehm, senti… forse è il caso che io vada. Gli altri avranno bisogno di me”.

“Aspetta, Tosh!” la fermò il ragazzo prima che l’altra avesse il tempo di alzarsi. “Non… non mi va di restare da solo”.

Toshiko abbassò lo sguardo rammaricata. Accidenti, cosa accidenti poteva fare? Voleva rimanere con Owen per non lasciarlo da solo, soprattutto in un momento come quello, però da un altro lato era convinta che non fosse una buona idea. Quella situazione era troppo intima.
Quindi, cosa poteva fare? Ascoltare il cuore o il cervello?

“D’accordo. Allora… posso rimanere per un po’”, concluse alla fine, riportando lo sguardo su Owen. “Ti posso portare qualcosa? Da bere, da mangiare?”

“No”, la interruppe lui. Poi cadde il silenzio, un silenzio in cui la tensione si poteva tagliare con il coltello. “Senti, Tosh… secondo te…”.

“Dimmi”.

“Secondo te… rimarrò così per sempre?”

Tosh ci mise qualche secondo a capire  a che cosa si riferisse Owen e, quando lo ebbe fatto, spalancò gli occhi e si affrettò a cercare un modo per consolarlo. “No, Owen, no! Troveremo un modo per risolvere questa cosa, vedrai. Lo facciamo sempre”.
Sapeva che non erano le parole giuste, però purtroppo madre natura non l’aveva dotata della stessa capacità retorica con cui l’aveva dotata per i computer.

“Lo spero perché non mi va di rimanere cieco per il resto della vita”.

La ragazza lo guardò attentamente in viso come per studiarlo, approfittando del fatto che lui non poteva vederla, e quello che vide nel suo sguardo la intristì. Di solito lui non lasciava trapelare le sue emozioni, ma in quel momento si capiva benissimo che era tormentato.

“Non succederà, vedrai”, cercò di consolarlo lei, accarezzandogli il viso.  Ma si era avvicinata un po’ troppo, a quella distanza poteva vedere ogni puntino del suo volto perfetto, ogni sfumatura dei suoi occhi, ogni piega delle sue labbra. E se si avvicinava un po’ di più con il viso, magari, con le sue labbra, eliminando le distanze tra loro…

E stava per farlo quando uno squillo dalla sua borsa la distrasse, facendola tornare coi piedi per terra.

“Il cellulare!” esclamò, maledicendo tutti i santi del paradiso.

 

Quando Toshiko rientrò alla base, trovò tutti gli altri già presenti e nel bel mezzo di una discussione. E ora c’erano anche tre scimmiette identiche sedute sul tavolo operatorio dello studio di Owen.

“Bene, e ora che facciamo?” chiese Martha, scambiandosi un’occhiata con gli altri.

“Come sta Owen?” fece Gwen, notando la presenza della giapponese.

“Sta… bene, credo”, rispose Tosh, decidendo che era meglio sorvolare sullo scambio di battute tra lei e Owen, troppo intimo per farlo sapere agli altri.

“Potrei analizzare il loro sangue, fare alcuni esami per trovare…”, cominciò Martha, riportando il discorso sulla cosa importante.

“Owen lo ha già fatto e non ha trovato niente”, la interruppe Gwen.

“Forse non ha fatto abbastanza. Forse riesco a scoprire qualcosa di più”.

“Ragazzi, guardate”.

A quel richiamo di Ianto, tutti si voltarono verso le tre scimmie che avevano iniziato a comportarsi in maniera strana. Ciascuna di loro si era coperta rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca e avevano preso a dondolare sul posto emettendo versi scimmieschi.

Jack tentò di avvicinarsi quando, tutto d’un colpo, una di loro gli saltò addosso facendolo cadere. E la stessa cosa fecero le altre, aggredendo anche gli altri presenti. Il Capitano tentava in tutti i modi di scrollarsela di dosso, ma quelle scimmie sembravano possedere una forza pari a quella umana. Ed erano anche parecchio imbestialite.

Gwen riuscì a mandare la sua dall’altra parte della stanza, facendola sbattere contro il muro e svenire, mentre Tosh e Martha erano intente ad aiutarsi a vicenda.
Ad un tratto un colpo secco risuonò nel Nucleo, facendo sussultare tutti quanti e distrarre la scimmia che stava aggredendo le due ragazze.
Jack, invece, sentì l’animale mollare la presa sui suoi polsi e cadergli addosso e ritirò la mano sporca di sangue con cui l’aveva tenuta per il fianco.
Quando la spinse via, vide Ianto con una pistola in pugno puntata contro di lui. Era stato lui  a sparare allo Scimpanzé.

“Grazie”, gli sussurrò il Capitano afferrando la mano che l’altro gli stava porgendo.

Si scambiarono tutti una veloce occhiata, contenti di aver scampato a quel pericolo, un po’ in disordine e col respiro accelerato. Improvvisamente, però, un altro suono scosse le pareti, questa volta il trillo di un cellulare.
Tosh corse a rispondere e nel frattempo gli altri provvidero ad addormentare la scimmia che era ancora cosciente.

“Ragazzi”, chiamò la giapponese quando ebbe chiuso la comunicazione. “Era Owen. Ha detto che la vista gli è tornata”.

“Oh, che fortuna!” esclamò Martha.

“Quindi basta ucciderle per far cessare il loro effetto”, concluse Gwen.

“A quanto pare…”.

“Allora dobbiamo fare lo stesso anche per aiutare Cindy”.

“Ma come facciamo a capire qual è delle due?”

Jack, senza dire niente, estrasse la pistola e la impugnò a due mani puntandola contro gli Scimpanzé.

“Jack, no!” gridò Gwen.

Ma il Capitano fece finta di non averla udita e sparò contro entrambe le scimmie, uccidendole all’istante.

 

“Tutto bene quel che finisce bene”, sospirò Martha, voltandosi verso i due uomini dietro di lei.

“Come sempre, no?” sorrise Jack, slanciandosi verso di lei per stringerla in un forte abbraccio. “Sei sicura di non voler rimanere un po’ di più?”

“No, sono già rimasta abbastanza”.

Quando il Capitano si fu scostato, fu il turno di Ianto, di abbracciarla.

“Mi raccomando, non lasciarlo solo”, gli sussurrò lei all’orecchio, ben attenta a non farsi udire dall’altro.

“No, mai”, rispose Ianto.

I tre si scambiarono un’ulteriore occhiata, un po’ malinconica, e poi Martha aprì la portiera dell’auto.

“Be’, direi che ci si vede”.

“Assolutamente”.

“A presto”.

Jack la aiutò a salire e le chiuse la portiera.

“Fai buon viaggio”.

“E tu sta’ attento”.

“Sempre”.

Un ultimo sorriso e Martha mise in moto, allontanandosi nella notte di Cardiff.

“Direi che tutto sommato è stata una giornata tranquilla”, commentò Ianto quando la ragazza si fu allontanata.

“E non è ancora terminata”, aggiunse Jack.

“Che vuoi dire?” chiese l’altro perplesso.

“Che non abbiamo ancora fatto tris”.

 

 

MILLY’S SPACE

Salve a tutti : )
Eccomi con un nuovo capitolo… speravo di non metterci tutto questo tempo, ma purtroppo i miei numerosi impegni mi portano via sempre un sacco di tempo.

Come mi è venuta l’idea delle tre scimmie? Bella domanda, in realtà è stata tipo un’illuminazione improvvisa. Purtroppo, però, ho avuto a disposizione soltanto Wikipedia per informarmi su questa tradizione giapponese, in realtà non ne so molto, pertanto se ci sono eventuali errori o se voi ne sapete qualcosa di più potete dirmelo.
Inoltre, la comparsa di Martha è stata un po’ forzata perché avendo Owen fuori uso mi serviva un altro dottore.
Devo ammettere, però, di non essere molto contenta del finale, mi sarebbe piaciuto approfondire un po’ di più la questione delle scimmie aliene o magari farli fare una fine diversa. Ma al momento non ho idee e non vorrei farvi attendere troppo. Spero di rifarmi col prossimo capitolo.
E… devo aggiungere altro? Ah sì, Jack e Ianto finalmente stanno insieme. Devo dire che Jack non me lo immagino molto impegnato, però io amo questa coppia e almeno nei miei sogni, visto che nel telefilm non succede, posso farli stare insieme felici e contenti : )

Bene dai, penso sia tutto.
Se avete domande, commenti, suggerimenti sapete dove trovarmi.
Lasciatemi una recensione o venitemi a trovare su Facebook.
https://www.facebook.com/MillysSpace

SWEETLADY98:  no, effettivamente Ianto non fa cose troppo azzardate, ma secondo me nasconde un animo un po’ diavolesco XD e vedrai più avanti ^^ grazie mille per la recensione e i complimenti. Spero di risentirti, un bacione,
M.
P.S. grazie, sì, il nome del marito di Rhiannon me lo ricordavo anche io… ahaha è un mito quell’uomo XD

BIMBA3: sono contenta che ti siano piaciuti questi momenti, ne troverai altri in giro sparsi qua e là, anzi, già in questo capitolo c’è un’altra scenetta dolce tra Jack e Ianto. Eh, con Jack a volte bisogna andarci giù pesante. E Tosh e Owen sì, si stanno avvicinando, ma nemmeno io ho ancora deciso come concludere tra loro.
Spero di risentirti, un bacio. M.

GLINDA: eh sì, la calma non durerà ancora a lungo. Se vuoi sapere che cosa succederà, continua  a seguirmi.
Baci, Milly.

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Capitolo 6
*** Capitolo cinque - Funerali, Scarrol e Jack Harkness ***


CAPITOLO CINQUE- FUNERALI, SCARROL E JACK HARKNESS

Fammi illudere, fammi credere
ancora un po’ a un ideale d’amore che ho.
(Bucaneve, E.Ramazzotti)

“Per quanto ancora dovremmo sorbirci questa lagna?” chiese Ianto sussurrando all’orecchio della donna che gli stava seduta accanto.

“Ehi, è morta una persona. Abbi un minimo di rispetto”, gli rispose Rhiannon con tono di rimprovero.

Ianto sbuffò e allungò le gambe, appoggiandosi allo schienale della panca su cui sedeva. Voltò il capo verso il fondo della chiesa, incrociando lo sguardo di Jack che se ne stava appoggiato al muro, con le braccia incrociate, ben avvolto nel suo cappotto da seconda guerra mondiale. Il Capitano, non appena lo vide, gli strizzò l’occhio e gli mostrò quel sorriso sghembo che gli piaceva tanto.
Ianto non poté far altro che ricambiare, ma quando girò di nuovo la testa per rivolgere l’attenzione alla messa, vide una vecchia signora raggrinzita che lo guardava piuttosto male. Il ragazzo si strinse in sé e fece finta di niente.

Finalmente, dopo quella che gli parve un’eternità, la messa si concluse e i partecipanti furono liberi di andarsene per accompagnare la bara al cimitero, dove sarebbe stata seppellita.
Rhiannon si fermò dentro per scambiare qualche parola con i parenti, mentre Ianto scappava immediatamente fuori, altrimenti ci sarebbe finito anche lui in una bara, per mancanza di ossigeno. Detestava i posti angusti e pieni di gente, specialmente il tipo di gente che era presente quel giorno alla messa.
Raggiunse Jack, che se ne stava poco fuori dalla chiesa, appoggiato al tronco di un grande salice.

“Vivere e morire. Le sole e uniche certezze che abbiamo”, sospirò non appena lo vide arrivare.

“Non direi che lo stesso valga per te”.

“Ovviamente esistono sempre le eccezioni”.

Ridacchiarono entrambi, mentre accanto a loro passavano delle persone in lutto con fazzoletti in mano e visi rigati di lacrime.

“Ti prego, fai che al mio funerale non ci sia tutto questo dramma. E soprattutto non voglio tutte queste persone”, disse Ianto, appoggiandosi anche lui all’albero.

Jack si voltò a guardarlo con una strana espressione. “Io spero piuttosto che il tuo funerale avvenga tra molto, molto tempo”.

Ianto ricambiò lo sguardo rimanendo immobile, anche se tutto il suo corpo fremeva per saltare su quelle sue labbra morbide e farsi avvolgere nel suo caldo abbraccio.

“Non capisco una cosa”, si limitò a dire, infine. “Perché hai insistito così tanto perché andassi a questo funerale? E soprattutto, perché hai insistito per venire?”

Il Capitano parve riflettere un po’ prima di rispondere. “Te l’ho detto, per conoscere tua sorella”.

“Sì, ma non serviva un funerale”.

Jack stava per aggiungere qualcos’altro, quando venne bloccato dall’arrivo di Rhiannon e di suo marito.

“Ianto! Ecco dove ti eri cacciato! Ma ti sembra il modo di sparire?” la donna rimproverò il fratello, dandogli una leggera sberla dietro la nuca.

“Stavo soffocando là dentro”, si lamentò lui.

“Ma da quanto tempo è che non metti piede in una chiesa?”

Ianto ci pensò un attimo, poi rispose. “Credo dalla mia prima comunione”.

Rhiannon sospirò rassegnata, abbassando le braccia. Solo in quel momento parve accorgersi della presenza di Jack.

“E lui chi è?” chiese al fratello.

“Ehm… lui è… il mio… capo”, biascicò il ragazzo, piuttosto imbarazzato.

“E perché mai ti porti il tuo capo al funerale di…”.

“Sono Jack Harkness”, la interruppe il Capitano, porgendole la mano. “E sì, sono il capo di Ianto, ma sono anche il suo compagno”, aggiunse poi con disinvoltura e un sorrisetto beffardo.

“Piacere, Rhiannon Davies e lui è mio marito John”, ricambiò lei guardando l’uomo affascinata. Solo in un secondo momento, però, si accorse di quello che le aveva detto. “Un momento! Hai detto compagno?”

“Sì”.

“Ma compagno… in che senso?” questa volta il suo sguardo si spostò su Ianto.

Il fratello, per tutta risposta, si strinse nelle spalle e corrucciò le labbra. Ma a Rhiannon bastò quello per capire.

“Noooo!! Mi prendi in giro?!” esclamò lei con gli occhi quasi fuori dalle orbite.

Ianto scosse il capo in un segno di diniego.

“Ma perché non me l’hai detto? Sei proprio un cretino!”

“Ouch!” esclamò il ragazzo al pugno neanche troppo leggero che la sorella gli aveva mollato sulla spalla. La donna aveva aperto di nuovo la bocca per aggiungere qualcosa, quando vennero interrotti da una ragazza bionda, in equilibrio su dei tacchi alti quanto un grattacielo.

“Oh mio Dio! Ianto!” esclamò questa. 

Ianto la squadrò dall’alto in basso con sguardo confuso. “Ci conosciamo?”

“Non ti ricordi? Sono Christa. Ci siamo visti un paio di volte un bel po’ di anni fa. Avevamo sedici anni, più o meno”.

La ragazza, Christa, sembrava parecchio emozionata di averlo incontrato, come se avesse davanti il suo cantante preferito. E Ianto non volle deluderla, dicendole che non la ricordava affatto. Così assunse la sua espressione più simpatica e sorpresa e disse:

“Ah, Christa, sì certo che mi ricordo. Ne è passato di tempo”.

“Sì e tu sei cambiato parecchio. È un peccato che ci incontriamo in un momento così triste”.

“Christa!” si sentì qualcuno urlare da dietro.
La ragazza si voltò e fece un gesto con la mano a un uomo che la stava chiamando. “Devo andare adesso. Spero di rivederti di nuovo”.

“Certo”, sorrise Ianto e la guardò allontanarsi. Poi si voltò verso sua sorella. “Chi cazzo era quella?”

“E’ la nipote della prozia Ursula”.

“E’ chi è Ursula”.

Rhiannon lo guardò di sbieco e infine sospirò. “Lasciamo perdere”.
Intanto, dietro di loro, Johnny e Jack se la ridevano sotto i baffi.

“Comunque, voi due…”, continuò la donna, puntando un dito sia sul Capitano che sul fratello. “Venite a pranzo da noi. Dovete raccontarmi questa cosa”.

 

Ianto, Jack, Rhiannon e John erano seduti attorno al tavolo della sala da pranzo, gli avanzi del cibo e i piatti sporchi ancora davanti a loro, in attesa di essere lavati. Ma nessuno dei commensali aveva voglia di alzarsi per farlo.
David e Misha, i figli di John e Rhiannon, erano in salotto a giocare.

“Allora, vi siete conosciuti al lavoro?” chiese la padrona di casa, fissando il fratello che incrociò le braccia e si mise a guardare ovunque tranne lei. Durante il pranzo avevano parlato del più e del meno, o meglio, John aveva raccontato tutti gli aneddoti che lo riguardavano, da quando era piccolo fino ad adesso, così Ianto aveva sperato che la questione lui e Jack fosse stata dimenticata. E invece no, quella malefica di sua sorella stava solo aspettando il momento propizio, ovvero quando tutti erano sazi, assonnati e un po’ ubriachi.

“Sì, più o meno”, rispose Jack. “Ianto ha cominciato a venirmi dietro fin dal primo giorno”. E ammiccò in direzione del ragazzo che si voltò a guardarlo scioccato. “Questo non è vero!” esclamò. “Sei tu che mi hai sbattuto sulla tua…”. Si bloccò prima di concludere la frase. Forse non era il caso di dire che cosa gli aveva fatto Jack poche settimane dopo il suo arrivo a Torchwood davanti a sua sorella e a suo marito, con il rischio che potessero sentire anche i bambini.

“Ma tu mi hai supplicato di assumerti”, gli ricordò Jack senza togliersi il sorrisetto bastardo dalla faccia.

“Non di certo perché c’eri tu”.

“No, infatti, per il mio cappotto”.

“Che c’entra il tuo cappotto?”

“Il mio cappotto c’entra sempre”.

“Ma guardali, sembrano già marito e moglie”, li prese in giro John, divertendosi nell’ascoltare i loro battibecchi.

“E sei sempre tu quello che è salito sulla ringhiera di un ponte per costringermi a dirti che ti amo”, rincarò la dose il Capitano.

“Lo sai, Jack, sei proprio un bastardo”.

“Ma è per questo che mi ami”.

Ianto non trovò niente con cui controbattere. Era vero, lo amava anche per quella sua bastardaggine e la faccia tosta. Senza quelle, dopotutto, non sarebbe stato Jack.

Rhiannon si mise a raccogliere i piatti sporchi, ridendo ancora sotto i baffi. “Dai, fratellino, aiutami a sparecchiare”. Il ragazzo fece come la sorella gli aveva chiesto e poi la seguì in cucina con le braccia cariche.
Appoggiarono tutto nel lavello e la donna aprì il rubinetto per lavare. Il fratello rimase accanto a lei, appoggiato alla maniglia del forno.

“Ma dove l’hai trovato un tipo del genere?” gli chiese la sorella in tono scherzoso, passando la spugna sulla lama di un coltello.

“Oh be’, viene da un altro pianeta”, le rispose Ianto facendola ridacchiare. Ma lei non aveva idea quanto quella risposta fosse vera.

“Ma perché non me l’hai mai detto che… sì, insomma… che sei gay?”

Ianto parve rifletterci un attimo. “Perché… non lo so. In realtà non credo di esserlo. Jack è il primo”.

“E come mai proprio lui?”

“Mi… mi fa sentire bene. E poi almeno sono sicuro che lui non se ne andrà mai”. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, fisso in un punto non ben definito. Ma gli occhi gli brillavano, si accorse Rhiannon, che non poté non commentare. “Allora deve amarti proprio tanto”.

“Oh be’… lo spero”. In realtà non intendeva proprio quello quando aveva detto che Jack non se ne sarebbe andato. Certo, lui non se ne sarebbe andato, non come aveva fatto Lisa. Di questo era sicuro. Tutto il resto, chissà. Ma non voleva pensarci ora. Era una filosofia che aveva adottato quando aveva iniziato a lavorare per Torchwood: non pensare troppo al futuro, non sai mai cosa ti potrebbe riservare.

“Però mi fa piacere”. La voce di sua sorella lo fece ritornare alla realtà. “Mi sembri più felice”.

“Davvero?”

“Sì e non dirmi che non è vero”.

Ianto sospirò ma non disse niente, così Rhiannon aggiunse: “Dai, prepara un po’ di caffè”.

Lei nel frattempo aveva finito di lavare i piatti e aveva richiuso il rubinetto. Ma uno strano rumore scoppiettante la fece sbuffare. “Accidenti! Si è otturato di nuovo. Johnny l’aveva sistemato la settimana scorsa”.
Ianto lanciò un’occhiata sospettosa all’oggetto incriminato. “Fammi vedere”, disse, avvicinandosi. La sorella si spostò per fargli spazio e lui guardò con un occhio dentro al tubo di scarico. Di nuovo si sentì un rumore provenire proprio da lì dentro, come di qualcosa che scoppia.

“Rhian, va’ a chiamare Jack”, ordinò a Rhiannon, senza spostare lo sguardo dal lavello.

“Ma no, ci penserà John”.

“Non si tratta di otturazione. Va’ a chiamare Jack”.

La donna non capiva che cosa il fratello volesse, ma non fece altre domande e obbedì, andando in sala da pranzo.

 

“Passami il cacciavite grosso”.

Ianto prese l’oggetto e lo passò a Jack, sdraiato di schiena sul pavimento della cucina, con la testa sotto al lavello, ad armeggiare col tubo che faceva scorrere l’acqua.
John e Rhiannon erano fermi lì accanto a chiedersi che cosa i due stessero facendo.

“Forse ci sono!” esclamò Jack, infilando tre dita dentro al tubo. “Accidenti, è stretto”.

“Vuoi provare a prenderlo con delle pinze?” gli chiese Ianto, inginocchiandosi accanto a lui.

I padroni di casa, intanto, si guardarono straniti.

“No, no, lo sento. L’ho quasi preso. Eccolo!” Il Capitano, con l’indice e il pollice, aveva estratto qualcosa fuori dal tubo, qualcosa di lungo, viscido, marrone e puzzolente. “Datemi una bacinella, veloce!”

Rhiannon, colta alla sprovvista, fece un balzo sul posto ma riuscì ad afferrare una bacinella blu sulla mensola dietro di lei e a passarla a Ianto che la porse a Jack perché ci mettesse quella strana cosa che aveva estratto dal lavello.

“Sono stati Misha e David. Hanno sicuramente buttato della roba dentro”, concluse Johnny, guardando l’oggetto contenuto nella bacinella.

“No, non sono stati i bambini”, lo contraddisse Ianto.

“Vi presento uno Scarrol!” Jack ammiccò in direzione dei presenti, allungando poi la bacinella verso Rhiannon, che buttò un’occhiata incuriosita. “Cristo santo! Ma che puzza! Che diamine è?”

“Uno Scarrol”, ripeté il Capitano come se stesse semplicemente parlando del tempo. “E’ una creatura che vive nelle tubature e ogni tanto si incastra da qualche parte. Non mordono”. Con un dito andò ad accarezzare quello che sembrava il naso dello Scarrol. Questi aprì gli occhi e gli azzannò un dito. Jack lo ritrasse con un ghigno di dolore. “Be’, non sempre almeno”. Poi si voltò a guardare gli altri. “Scusate, amici, ma è il momento che io e Ianto leviamo le tende. Dobbiamo portare questo coso al sicuro”.

“Ehi, ma dove credete di andare? Ci dovete spiegare che cos’è quella cosa?” gridò Johnny dalla cucina, quando Ianto e Jack furono già alla porta d’ingresso, intenti a indossare le giacche.

“Ve l’abbiamo detto, è uno Scarrol”.

“Sì, ma da dove viene?”

“E’ una storia lunga, Rhian, ma prometto che un giorno te la spiego”.

Misha e David, seduti sui gradini, osservavano la scena con aria stupita e confusa.

“Vedi di non sparire come fai sempre o la prossima volta manderò la polizia a casa tua!” gridò Rhiannon dietro al fratello.

“Cercherò di non farlo!” fece il fratello in risposta quando lui e Jack erano già fuori dalla porta.

 

“Rhys, ne avremo di bambini! Abbi un po’ di pazienza!”

“Sì, ma quanta pazienza? Quel tuo lavoro…”.

Gwen sbuffò per l’ennesima volta quel giorno. Rhys ci andava veramente pesante, quando voleva, e in quel momento ne aveva veramente le scatole piene, di lui e del suo desiderio di avere figli. Avevano affrontato quell’argomento almeno un centinaio di volte, ma lui pareva non ascoltarla. Anche lei voleva dei bambini, assolutamente, però quello non era il periodo giusto per averne, sia per il suo lavoro sia perché ancora non si sentiva pronta. Credeva di esserlo, ma in realtà si sbagliava e Torchwood, in un certo senso, l’aveva salvata dal fare quel passo.

“Ascolta, Rhys”, iniziò, con tono più calmo possibile e lo sguardo più sincero che le riuscì di fare. Gli prese le mani tra le sue. “Io…”.

“Ehi, piccioncini!”

Gwen urlò e  Rhys si versò addosso la lattina di birra che teneva in mano.

“Oh, scusate, non volevo spaventarvi”.

“Be’, ci sei riuscito lo stesso!” ringhiò la ragazza in direzione dell’uomo che era spuntato da dietro la panchina su cui era seduta con suo marito. “Comunque, che diamine ci fai qui, Jack?” Era convinta, ormai, che l’uomo fosse venuto per dirle che avevano una missione importantissima e segretissima da compiere. Almeno quello l’avrebbe salvata da quello zuccone di Rhys. Invece, la risposta del Capitano la deluse. “Ah niente, vi ho visti e sono venuto a salutarvi”.

“E guarda che mi hai fatto fare!” si lamentò Rhys, asciugandosi la camicia con un fazzoletto di carta.

“Mi dispiace”.

“Sì, certo”.

“Veniamo da un funerale”, disse la voce di Ianto che li aveva raggiunti in quel momento. “Anche se dopo siamo stati a pranzo da mia sorella”.

“Funerale? Oh Dio! Chi è morto?” esclamò Gwen, allarmata.

“Nessuno di importante. La mia vecchia bisnonna. Aveva più di cento anni”.

“Oh, mi dispiace. Condoglianze”.

“Grazie. Non la conoscevo. Forse l’ho vista una volta in tutta la mia vita”. Stava guardando in direzione del cielo, con aria pensierosa.

Jack, allora, si raddrizzò con un scatto e mise le mani sui fianchi. “Comunque, io e Ianto andiamo a caccia di Weevil. Ti va di venire Gwen?”

La ragazza guardò prima i due colleghi dietro di lei e poi il marito seduto accanto. Aveva solo due scelte da fare: andare in un’emozionante avventura correndo rischi che l’avrebbero caricata di adrenalina, oppure restare lì con un marito un po’ noioso a parlare di figli e di futuro. La scelta era piuttosto semplice.

“No, grazie. Resto qui”.  Ma perché la coscienza vinceva sempre sull’istinto? Be’, dopotutto, era giusto; aveva promesso al marito una giornata tutta per loro.

“Come vuoi!” le rispose il Capitano, senza togliersi il sorrisetto beffardo di dosso. In due rapide falcate si allontanò da loro e si piazzò di fronte alla panchina, a un paio di metri di distanza. “Allora, tesoruccio. Andiamo?”

Ianto sospirò, ma raggiunse Jack senza dire niente, cercando di trattenere un sorrisetto sotto i baffi. Il Capitano gli circondò la vita con un braccio e insieme si allontanarono.

“Tesoruccio! Allora quei due stanno veramente insieme?!” esclamò Rhys, incredulo.

“Certo! Sei tu che non mi hai mai creduto”.

“Accidenti! Be’, spero almeno che Ianto faccia ritrovare un po’ di buonsenso a quel pazzo del tuo capo”.

“E’ di Jack Harkness che stiamo parlando”.

“Ah, già. Giusto”. L’uomo si voltò verso Gwen e rimase a fissarla con sguardo serio. “Ma torniamo all’argomento bambini…”.

Ma perché non sono andata con Jack?

 

Ianto si scervellava ormai da due minuti interi cercando di trovare una scusa per mettere giù la cornetta e chiudere quella conversazione. Una bomba esplosa nel suo salotto? No, no, troppo drastico. Magari il microonde. Naah, non ci sarebbe mai cascata. O magari che aveva improvvisamente perso una mano? Ma la prossima volta che l’avesse rivista come avrebbe fatto a spiegare che gli era ricresciuta? Uff…

“Allora, che diamine era quella cosa?” chiese Rhiannon per l’ennesima volta. E Ianto sbuffò per l’ennesima volta.

“Uno Scarrol”. Ormai quella parola era diventata una litania.

“Sì, ma cos’è uno Scarrol?”

“E’ una creatura che vive nelle tubature”.

“Non prendermi in giro”. La voce di sua sorella si era fatta decisamente minacciosa. E quello non era mai un buon segno. “O mi dici che cos’è o vengo là e ti infilzo con la forchetta che sto tenendo in mano”. E conoscendola, Ianto era sicuro che l’avrebbe fatto.

“E’ un alieno, diamine!” esclamò infine.

 

 

MILLY’S SPACE

Ma bene… ma per caso il gatto vi ha mangiato la tastiera del computer?? No, insomma, che fine hanno fatto le recensioni?
Va be’ dai, non importa, ma la prossima volta ne pretendo almeno un po’… è estate, adesso non avete più i libri che vi chiamano per essere studiati, no? U.U

Allora… che dire? Un capitolo moooolto di passaggio. In realtà volevo metterci un po’ di azione anche, ma non mi è venuto in mente niente. Comunque non disperate, che dal prossimo capitolo finalmente inizierà a succedere qualcosa. E rimarrete molto sorpresi ^^

Ah e tanto per farvi sapere,  lo Scarrol è una mia invenzione. Non so esistano alieni che vivono nelle tubature, ma vi consiglio, d’ora in poi, di stare molto attenti u.u

Grazie per la cortese attenzione e non dimenticatevi di fare un salto sulla mia pagina facebook. E, soprattutto, non scordatevi le recensioni.

Baci,

M.

P.S. quasi dimenticavo: recentemente ho pubblicato una Oneshot su Torchwood, se avete voglia di andare a leggerla. Si intitola Stella. Non è niente di che ma è molto dolce.

PUFFOLA_LILY: ehi, carissima. Come ti ho già detto sono rimasta molto sorpresa ma anche molto contenta di leggere le tue recensioni in questa fiction : ) ti ringrazio molto per aver recensito tutti i capitoli, mi fa sempre piacere riceverne e mi fa anche molto piacere vedere che i lettori mi seguono nelle varie storie che scrivo. Purtroppo in questo capitolo non compaiono Tosh e Owen. La mia pecca è quella di concentrarmi di più sulle coppie che mi piacciono. Con questo non voglio dire che la coppia Tosh/Owen non mi piace, però non è quella che preferisco ^^.
Spero di risentirti presto, un grosso bacione.
Milly.
P.S. io la tua scrittrice preferita?? Ma dai… be’, in tal caso tu sei la mia lettrice preferita ^^

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Capitolo 7
*** Capitolo sei - Callary, tutto ha inizio ***


CAPITOLO SEI – CALLARY, TUTTO HA INIZIO

Perfetta così questa nostra stagione
di giorni insieme ad esplorare noi.
(Questa nostra stagione, E. Ramazzotti)

Un vecchietto dalla faccia cadente e mezzo ripiegato su se stesso aprì il pesante portone di legno e strizzò gli occhi per vedere i due uomini che avevano bussato.
Il St. Mary’s Patron si presentava come un edificio di dimensioni notevoli, però piuttosto vecchio e dai muri scrostati. Il tetto era stato riparato in alcuni punti con un lavoro piuttosto improvvisato e alcune finestre avevano delle assi di legno inchiodate. Era situato a mezz’ora di strada fuori Cardiff, in mezzo a un paesaggio brullo ma pittoresco.
Eppure non era disabitato, ci vivevano una trentina di bambini, tutti senza genitori, con alcune suore che si prendevano cura di loro e provvedevano alla loro istruzione.

Quella mattina uggiosa Jack e Ianto si erano presentati alla loro porta, dopo aver ricevuto una chiamata anonima da un numero proveniente da lì.

Il Capitano aveva aperto la bocca per presentarsi, ma il vecchio che aveva aperto loro la porta lo precedette. “Salve, voi dovete essere del Torchwood”. Aveva un tono basso, però parlava piuttosto chiaramente. “Siete arrivati presto”.

“Sì, ehm…”, iniziò Ianto, senza sapere che cosa dire di preciso. “Siamo qui, pronti ad aiutarla”. Lanciò un’occhiata in direzione del compagno con un punto di domanda stampato in fronte. Jack, allora, prese in mano la situazionec come sapeva fare. “Io sono il Capitano Jack Harkness e lui è Ianto Jones. Ci fa entrare?”

L’anziano signore, molto lentamente, si spostò e spalancò la porta per farli passare.  

“Venite, non voglio parlare qui”, disse loro quando si furono ritrovati in un corridoio poco illuminato.

“Ci può dire chi è lei?” chiese allora Jack che aveva già intuito che in quel posto tirava una brutta aria. E quel vecchietto era piuttosto strano. Forse era dovuto solo al suo aspetto, però… sì, effettivamente c’era qualcosa che non andava nel suo aspetto.

“Oh, sì scusate. Io sono Timothy Narborough e sono il custode di questo orfanotrofio. Adesso vi pregherei di seguirmi”.

Jack strinse la mano di Ianto nella sua ed entrambi lo seguirono. Il vecchietto camminava piuttosto lentamente, appoggiandosi a un bastone e, visto da dietro, la sua gobba sembrava ancora più prominente.
Giunsero fino al fondo del corridoio e il custode aprì un’altra porta, questa volta più piccola, che dava accesso a una specie di… stanzino o ripostiglio. Vicino ai muri erano stipati degli scatoloni, tanti scatoloni, mentre al centro vi erano un tavolino e una sedia, entrambi di legno. C’era solo un muro libero da quelle scatole di cartone, dove si apriva una piccola finestra con i vetri opachi per la sporcizia.
Insomma, era praticamente un buco quella stanza. Adesso Jack e Ianto sapevano come si sentiva un pesce intrappolato in una boccia di vetro.

L’anziano si buttò pesantemente sulla sedia e tirò un sospiro di sollievo. Sembrava che camminare gli costasse parecchia fatica. Guardandolo meglio e con la poca luce del sole che filtrava dalla finestra, i due uomini notarono solo ora quanto la sua vecchiaia fosse avanzata. Il volto era pieno di rughe, gli occhi piccoli e scuri erano semichiusi dalla palpebre cadenti e la pelle cascante sulle guance gli aveva formato un doppio mento. I capelli erano bianchi e radi, quelli in cima alla testa erano tutti caduti.
Gli avrebbero dato almeno novant’anni, eppure…

“Noi abbiamo ricevuto uno chiamata questa mattina…”, iniziò Ianto guardando il signore. C’era qualcosa che gli impediva di spostare lo sguardo da lui.

“Sono stato io a chiamarvi”, rispose il Signor Narborough. “In realtà nessun’altro sa che siete qui. Il fatto è che… sono scomparsi quattro bambini”. Ora li fissava intensamente, come a volerli studiare, con quei suoi occhi così vecchi ma estremamente attenti.

“E non potevate chiamare la polizia? Forse sono semplicemente scappati”, ipotizzò Jack, senza scomporsi.

“Oh no. Loro… loro non se ne sono andati. Sono stati portati via”.

“Ne è certo, signor Narborough?” chiese Ianto. Sentiva una strana inquietudine addosso. Quell’uomo gli metteva una certa soggezione.

“Sì. Stanno succedendo delle cose strane. Molto strane. Io le ho sentite”. Il suo tono era molto calmo, come se stesse parlando dell’ultima partita a scacchi che aveva giocato coi suoi amici. Eppure i suoi occhi posati sui due ospiti erano fissi, immobili, non stava nemmeno sbattendo le palpebre.

“Quando sono scomparsi i bambini?” chiese Jack.

“Due settimane fa”.

“Cosa?!” esclamò Ianto spalancando gli occhi. “E perché non ci avete chiamato prima?”

“Perché la suora madre non ha voluto. Anche lei pensa che i bambini siano scappati e  dice che non dobbiamo preoccuparcene”.

“Chi è questa suora madre? Ci voglio fare una chiacchierata”. La rabbia aveva fatto scomparire a Ianto tutta la tensione che aveva provato prima. C’erano dei bambini, probabilmente piuttosto piccoli, sperduti da qualche parte o forse rapiti da qualche individuo pericoloso, che non sapevano cosa fare. Questo non gli andava affatto bene.
Jack però gli mise una mano sulla spalla, come a intimargli di stare calmo e di non fare azioni di cui poi si sarebbe pentito.

“D’accordo”, sospirò Jack. “Gli altri bambini dove sono?”

“Adesso sono in classe a fare lezione”.

“Possiamo fare un giro dell’edificio? Per controllare”.

“Certo. Però se qualcuno ve lo chiede, non dite che vi ho chiamati io. La suora madre diventa severa quando qualcuno le disobbedisce”.

Jack e Ianto uscirono dalla stanza claustrofobica, il primo con un milione di pensieri circa quello che poteva star accadendo in quell’orfanotrofio e il secondo pensando a quanto gli stesse antipatica quella suora madre. E non l’aveva nemmeno conosciuta.

“Ianto, se ci dividiamo facciamo prima. Tu vai di sopra, io controllo qui sotto”.

Il ragazzo annuì e fece come il Capitano gli aveva ordinato. Salì lentamente le imponenti scale vicine all’ingresso guardandosi attorno con fare circospetto. Il posto era pieno di polvere e negli angoli del soffitto i ragni si erano intessuti la loro casa.
Ma non c’era nessuno che teneva in ordine?, si chiese, di certo quel vecchio custode non poteva fare granché.
Arrivò in un altro lungo corridoio ai cui lati si aprivano diverse porte e finestre. L’ambiente era piuttosto silenzioso, nemmeno una mosca si sentiva volare. Non c’erano luci accese, se non quella che penetrava dalle finestre, che non era comunque abbastanza, sia perché anche quelle finestre, come quella nello stanzino, erano piuttosto sporche, sia perché la luce del sole quel giorno era debole. Perciò anche quel corridoio era in penombra.

Ianto si avviò, camminando sul tappeto grigio e consunto che copriva le assi scricchiolanti che fungevano da pavimento e aprì la prima porta. Si ritrovò in quella che doveva essere una camera da letto, piena di brandine di ferro simili a quelle degli ospedali della seconda guerra mondiale. Ce n’erano almeno una trentina, tutte identiche e sulla parete in fondo era appoggiato un grande armadio di mogano, impolverato anch’esso. Le finestre di quella stanza erano leggermente più grandi delle altre presenti in quell’edificio e decisamente più pulite. Entrava più luce lì dentro e Ianto si sentì già un po’ più tranquillo.

Girovagò un po’ per la stanza, sbirciando qui e là, guardando sotto i letti, restando in ascolto di eventuali rumori sospetti. Aveva portato con sé uno dei tanti macchinari di Tosh, quello che captava i segnali alieni, ma non c’era niente.
Decise, perciò, di dare un’occhiata alla porta accanto.
Questa voltò si trovò in quella che doveva essere una stanza giochi, a giudicare dagli oggetti che c’erano. Alcune bambole di pezza con occhi o braccia mancanti appoggiate sulle mensole, macchinine mezze rotte e alcuni libri stropicciati, una sedia a dondole di fronte all’unica finestra.

Ianto si avvicinò proprio alla finestra per dare una sbirciatina fuori. C’erano solo un grande cortile pieno di ghiaia e alcuni enormi salici dai rami biforcuti.
Ad un tratto, però, vide una figura scura sbucare da quegli alberi. Era vestita di nero e si stava dirigendo velocemente all’interno dell’edificio.

“Signore!”

Il ragazzo per poco non balzò in aria per lo spavento. Si voltò verso la voce che lo aveva chiamato, trovandosi di fronte un bambino sui dieci anni, capelli biondo rossicci tagliati a caschetto e parecchie lentiggini sparse attorno al naso.

“Ciao”, lo salutò. “Chi sei?”

“Mi chiamo Brian Wilkins, signore. Lei che ci fa qui?”

“Sono… sono solo venuto a… controllare una cosa. Non dovresti essere a lezione?”

Il bambino non gli rispose, si limitò a osservarlo con i suoi penetranti occhi neri. Ianto fu percorso da dei brividi lungo la schiena.
All’improvviso, però, sentì delle voci provenire dal piano di sotto che parlavano in modo piuttosto concitato.
Brian si voltò e corse verso le scale. Ianto lo seguì.

Le voci lo condussero fino a quella che, con molta probabilità, era una sala da pranzo. Non era una stanza molto diversa dalle altre, almeno per quanto riguardava la rarità dei mobili e la poca luce che filtrava, però era leggermente più grande. Al centro ospitava un lungo tavolo di legno lucidato con sedie tutt’attorno e un piccolo armadietto che custodiva dei piatti e delle tazzine dietro ad ante di vetro.
La stanza era piuttosto affollata in quel momento. C’era Jack circondato da alcune suore, tutte vestite perfettamente con la loro divisa e il velo in testa. Il Capitano, tuttavia, non sembrava affatto a disagio, continuava a mantenere la sua aria spavalda, come se tutto ciò lo divertisse.

“Ma bene, ce n’è un altro!” esclamò una delle donne nel veder sopraggiungere Ianto. Il ragazzo però non rispose, si limitò ad osservarle tutte quante e immediatamente uno strano sospetto lo assalì. Erano tutte piuttosto anziane. Non quanto il custode Narborough, però quasi. “E tu, Brian? Dov’eri finito? Dovevi tornare in classe!” aggiunse in direzione del ragazzino che era arrivato con Ianto.

“Mi scusi, suor Theresa”, rispose quello, abbassando il capo, dispiaciuto.

“Va bene. Ora però torna in classe”. Brian obbedì senza protestare, ma lanciò una penetrante occhiata a Ianto, come se volesse dirgli qualcosa con lo sguardo.

“Insomma, si può sapere cos’è tutto questo fracasso?” chiese un’altra voce di donna, proveniente dal corridoio. Un’altra suora aveva fatto il suo ingresso nella sala da pranzo, identica alle altre per l’abbigliamento, ma sembrava più giovane, non aveva tutte quelle rughe a solcarle il viso. Piuttosto era parecchio pallida e  i suoi occhi nerissimi quasi non lasciavano vedere la pupilla. Dietro di lei, arrancando, era arrivato anche il custode.
“Chi siete voi?” chiese la suora a Jack e Ianto, squadrandoli dall’alto in basso. Il suo sguardo minaccioso non tranquillizzava molto.

“Mi permetta di presentarmi!” esclamò Jack con un sorriso. Ianto si chiese come facesse lui ad essere così tranquillo. E non tanto per le suore sclerate o per il custode strano. Era tutto quel posto che non gli piaceva. “Io sono il Capitano Jack Harkness”.

“E il suo amico chi è?” berciò, guardando male Ianto.

“Lui è il mio compagno, Ianto Jones. Lei invece chi è?”

“Io sono la suora madre e la direttrice di questo orfanotrofio”.

“Ah bene”.

Così giovane?, penso Ianto. Di solito le suore madre venivano scelte per il livello di esperienza e altre cose, il che richiedeva anche una certa età. E quella suora madre era la più giovane in quel posto. Almeno così sembrava.

“Cosa ci fate qua?” La suora madre non sembrava voler mostrare simpatia.

“Siamo venuti ad indagare sulla scomparsa di quattro bambini”.

“Cosa? Chi vi ha chiamati?”

“Questo non ha importanza. Dobbiamo sapere alcune cose. Vi possiamo fare delle domande?” Jack stava mostrando tutta la gentilezza di cui era capace, ma la suora madre ancora non sembrava volersi fidare. Piuttosto, stava probabilmente pensando a tutti i modi possibili per cacciare i due intrusi fuori di lì. Le altre, invece, si lanciavano occhiate furtive le une tra le altre, come se temessero qualcosa.

“Siete della polizia?”

“No, non siamo della polizia”.

“E allora cosa siete?”

“Siamo del Torchwood”. Ora anche Jack iniziava a spazientirsi. Non lasciò il tempo all’altra di emettere fiato che le chiese subito: “Lavorate solo voi cinque qui?”

“Sì, siamo solo noi”. Il tono della suora madre era ancora acido, però almeno aveva iniziato a rispondere alle domande.

“E riuscite a gestire tutti questi bambini?” le chiese Ianto un po’ stupito.

“Sì, certo. Non è mica così difficile. Sono dei bravi bambini”. La risposta l’aveva data un’altra suora, ma abbassò il capo allo sguardo inceneritore della direttrice.

“In che circostanze sono scomparsi i bambini?”

“Noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa…”. La suora che aveva parlato poco fa venne improvvisamente colta da un accesso di tosse che la fece piegare in due, interrompendo così quello che stava dicendo la suora madre. Si portò un fazzoletto alla bocca, dando le spalle ai presenti.

“Vieni, prenditi un bicchiere d’acqua”, le sussurrò quella che le stava vicino, dandole delle leggere pacche sulla schiena. La suora bevve tutto d’un sorso l’acqua che la collega le aveva dato e la tosse si calmò subito. Infine, poggiò il bicchiere sul tavolo.  

“Le stavo dicendo…”, continuò la direttrice. “Che noi non abbiamo denunciato nessuna scomparsa. Qui non è scomparso nessuno. E ora, per favore, andatevene!”

“D’accordo, d’accordo”, cedette Jack. “Ianto, andiamocene. Qui non siamo i benvenuti”. Allungò una mano verso il tavolo, senza farsi notare da nessuno.
Ianto rimase un po’ stupito dall’improvvisa rinuncia di Jack, ma non si oppose. Lui non vedeva solo l’ora di andarsene.

“Vi accompagno alla porta”, si intromise il signor Narborough.

I due uomini lo seguirono senza aggiungere altro, non accorgendosi nemmeno del piccolo Brian che li guardava andare via seduto sulle scale del corridoio.

“Signor Narborugh”, fece Jack, allora, prima che l’altro chiudesse la porta. “Qui vengono mai delle persone in visita? C’è stata qualche coppia che ha adottato mai uno di questi bambini?”

Il vecchio si strinse nelle spalle e assunse un’aria pensierosa. “Che io ricordi, Signore, i bambini che vivono qui sono sempre stati gli stessi”.

“Grazie”.

 

Quando rientrarono al Nucleo, Gwen, Tosh e Owen erano già arrivati e Jack e Ianto li trovarono a rigirarsi i pollici, un po’ annoiati.

“Ehi, dove siete stati?” chiese Gwen con un’espressione un po’ contrariata.

“Una spedizione in un orfanotrofio”, le rispose Ianto. “Stamattina abbiamo ricevuto una chiamata dal custode. A quanto pare stanno scomparendo misteriosamente dei bambini”.

“Scomparendo?”

“Owen!” esclamò il Capitano. “Ho un lavoretto per te”. Estrasse un oggetto dalla tasca e la tirò al dottore, che lo prese al volo. Owen osservò curioso quel bicchiere di vetro che stringeva in mano. A quanto pareva dalle gocce d’acqua, doveva essere stato usato.

“Quando lo hai preso?” chiese Ianto, sorpreso.

“Poco prima che uscissimo. Owen, analizzami tutto quello che c’è in quel bicchiere. Tosh, fammi una ricerca sull’orfanotrofio di St. Mary’s Patron”, ordinò Jack.

“Hai dei sospetti?” gli chiese Ianto.

“Qualcuno”.

“Spiegatemi questa cosa dell’orfanotrofio”, si lamentò Gwen, puntando gli occhi sul Capitano.

“Il custode ci ha detto che stanno avvenendo delle cose strane in quel posto e che scompaiono dei bambini”. La ragazza non fece in tempo a chiedere nient’altro, che il Capitano scappò nel suo ufficio con passo svelto.  Poco dopo venne raggiunto da Ianto che, silenziosamente, gli era arrivato alle spalle.

“Ehi”, lo salutò Jack voltandosi verso di lui. Delicatamente lo baciò sulle labbra. “Stai bene?”

“Sì, solo che…”.

“Solo che?” Il Capitano gli poggiò le mani sui fianchi.

“Stavo solo pensando a quell’orfanotrofio. Sai, non mi è piaciuto per niente, era…”.

“Nemmeno a me, penso ci sia qualcosa di strano lì”.

“Non era questo che intendevo”.

Jack fissò i suoi occhi chiari in quelli azzurri di Ianto che celavano in sé qualcosa che sembrava essere un’aspettativa.

“Non è un bel posto per dei bambini”, aggiunse il ragazzo per specificare.

“Vorresti accoglierli tutti in casa tua?” gli chiese allora Jack, scherzosamente. Ma Ianto non rise. Continuò a osservarlo serio. “No, certo che no. Però…”.

“Se non ci fossero gli orfanotrofi tutti quei poveri bambini abbandonati resterebbero in mezzo alla strada, a morire di freddo e di fame”.

Ianto non gli rispose. Si limitò ad abbassare lo sguardo, puntandolo su un bottone della camicia di Jack. Il Capitano lo teneva ancora tra le braccia, ma avrebbe potuto districarsi dalle sue braccia  molto facilmente.

No, Jack, io avrei preferito stare in mezzo alla strada, pensò, ma non glielo disse.

Alla fine, si decise ad uscire dall’abbraccio del Capitano e in pochi passi raggiunse la porta. Prima che uscisse, però, l’altro lo chiamò di nuovo. “Ianto, stiamo bene insieme”, gli disse e questa volta non c’era niente di sarcastico o scherzoso nel suo tono. “Mi piace stare con te. Non voglio che le cose cambino”.
Ianto annuì mestamente. Poi uscì, pensando a quello che Jack gli aveva appena detto. Certo, erano delle belle parole, proprio quelle che amava sentire da parte sua, però…

Forse pretendo troppo.

 

Owen aveva finito di esaminare il bicchiere che Jack gli aveva dato e ora il Capitano si era affiancato al dottore che gli stava spiegando quello che aveva trovato.
Lo sguardo dell’ex Agente del Tempo era palesemente interessato, ma non stava guardando il collega, bensì aveva lo sguardo fisso nel vuoto.

“Come sospettavo”, commentò alla fine, quando Owen finì di parlare.

“Cosa?” gli chiese Gwen in incuriosita. Anche l’attenzione di Ianto e Tosh si era rivolta verso di lui.

“Si chiama Arrannya o anche Acqua della vita. E’ una sostanza che allunga la vita di chi la beve, ma ne va somministrata molto poca. Non provoca l’immortalità, semplicemente fa sì che si possa vivere un po’ di più, continuando a invecchiare”.

“Per questo erano incredibilmente vecchie le suore che stavano in quell’orfanotrofio”, dedusse allora Ianto, lo sguardo acceso.

“Esattamente. È una sostanza che produce parecchio odore, l’avevo sentita nel loro alito. Viene prodotta sul pianeta di Callary, ma da quello che mi risulta, dopo pochi anni è stata bandita e la si cominciò a vendere sotto banco. Chiunque fosse stato trovato in possesso dell’Arrannya sarebbe andato incontro a dure sanzioni”.

“Ci credo!” esclamò Ianto, guardando in direzione di Jack che aveva un’espressione strana dipinta in volto.

“E’ un po’ come la droga, no?” puntualizzò Toshiko, togliendosi gli occhiali da vista.

Il Capitano ridacchiò. “Sì, più o meno, solo che i suoi effetti non sono così evidenti come quelli della droga e non se ne diventa dipendenti. La vita su Callary mediamente è molto breve, per questo hanno cercato di creare una sostanza che potesse allungare la vita”.

Un veloce giro di sguardi attraversò il Nucleo. Tutti quanti avrebbero voluto sapere qualcosa di più su questo pianeta e su questa incredibile sostanza, ma nessuno aveva il coraggio di chiedere altre spiegazioni a Jack.
Avevano intuito che quello era un argomento piuttosto delicato per il loro Capitano, doveva far parte del suo passato, molto probabilmente, e non volevano turbarlo.

“Bene, allora!” esclamò improvvisamente Owen battendo le mani e facendo riscuotere tutti dall’improvviso turbamento in cui erano finiti. “Sappiamo chi sono e cosa sono. Possiamo agire”.
Jack, però, gli mise una mano sulla spalla, guardandolo intensamente con i suoi occhi chiari, come a volergli dire di stare calmo con uno sguardo. “Non cosi in fretta”, lo contraddisse. “I Callaryani sono creature molto pericolose, dobbiamo stare attenti. Dobbiamo organizzarci bene, non possiamo piombare nell’edificio come niente fosse. Inoltre, non sappiamo se siano proprio in quell’orfanotrofio, le suore potrebbero essere soltanto delle cavie. Andiamo in sala riunioni e discutiamone lì”.

E senza aspettare risposte da parte dei suoi amici, Jack si avviò velocemente verso la grande stanza che ospitava al centro un lungo tavolo di legno.
Gwen, Tosh, Owen e Ianto si sedettero ai posti che occupavano di solito, mentre Jack si posizionò a capotavola, restando in piedi con le mani poggiate sulla superfice del mobile.

“Allora, cosa sai dirci di questi Callaryani?” chiese Gwen, lo sguardo puntato sul Capitano.

L’uomo prese un respiro e, facendo vagare lo sguardo dall’uno all’altro dei suoi colleghi, iniziò a parlare. “Hanno una forma quasi identica a quella umana, però sono molto più pallidi e hanno tutti gli occhi molto scuri. Hanno però anche un altro aspetto, con una coda molto lunga e delle ali da pipistrello”.

“Qual è il loro punto debole?” domandò Owen, allora, che era parecchio affascinato da queste strane creature. Come gli altri del resto.

“Sono vulnerabili come gli umani, ma hanno un potere di autoguarigione, se riescono ad attivarlo. Però sono molto agili e veloci, dovremo stare attenti a non farci cogliere di sprovvista”.

“Certo, non sarà un problema”, commentò Gwen, pregustandosi già l’azione che sarebbe seguita di lì a poco.

I cinque membri del Torchwood ultimarono i dettagli con cui sarebbero entrati in gioco per affrontare una nuova minaccia aliena e si decisero ad andare a fare una piccola incursione nell’orfanotrofio quella notte.
Perciò, per quelle poche ore che li separavano da quella missione, Jack decise di mandarli a casa a riposarsi.

 

Quando gli orologi batterono la mezzanotte, Jack, Gwen, Tosh, Owen e Ianto abbandonarono il loro Suv e si incamminarono nell’ampio cortile incurato del rudere che vi sorgeva nel mezzo, a passo svelto ma cauto, guardandosi attorno continuamente.
Il Capitano apriva il piccolo corteo, gli altri quattro invece seguivano la coda del suo capotto svolazzante, in posizione simmetrica.
Improvvisamente, si fermò vicino alla gradinata che portava all’ingresso e si voltò verso i suoi compagni.

“Io e Ianto andiamo dentro, voi tre controllate nei dintorni. Teniamoci in contatto”.

Annuirono tutti senza protestare, controllando però di avere la pistola al proprio posto.

I due rimasti si avvicinarono a una finestra rotta e, senza bisogno di parole, seppero immediatamente che cosa fare. Ianto si issò sul bordo dell’apertura cercando di tirarsi su. mentre il suo compagno lo aiutava da sotto spingendolo per i fianchi. Quando il ragazzo fu entrato, aiutò il Capitano allungandogli una mano e tirandolo dentro.
Poi si rialzarono in piedi spolverandosi i vestiti. Il più giovane puntò la torcia accesa, illuminando l’ambiente e notarono di essere in una piccola stanza quadrata, completamente spoglia e piena di ragnatele e polvere.

“D’accordo, direi di iniziare a perlustrare le varie stanze”, disse Jack e l’altro si precipitò immediatamente alla porta, uscendo in corridoio. “Aspetta!” lo fermò però il compagno, raggiungendolo in pochi passi. Gli stampò un dolce bacio sulle labbra e, guardandolo negli occhi, con un sorriso, gli sussurrò: “Sta’ attento”.

Ianto annuì e si allontanò con un sorriso appena accennato a decorargli le labbra. Estrasse la pistola dalla fondina anche se non c’era nessuna minaccia, né concreta né probabile. Però stringerla in pugno lo faceva sentire più al sicuro, anche se avrebbe di gran lunga preferito avere Jack accanto. Entrò nella cucina, piena di fornelli e pentole appese sopra un piccolo tavolo da lavoro. L’aria era ancora impregnata dell’odore di cibo.
Si guardò attorno con circospezione, facendo luce dietro ad ogni mobile e in ogni angolo, attento a non fare rumore coi piedi. Non dovevano svegliare nessuno degli abitanti.

Dopo poco decise di uscire da lì e andare a vedere da un’altra parte. Ma proprio mentre stava per svoltare in un angolo, qualcuno gli venne addosso e Ianto per poco non ebbe un infarto. Illuminò l’intruso con la torcia constatando che era solo il vecchio custode ed esalò un sospiro di sollievo. Dietro di lui arrivò anche Jack.

“Di sopra”, sentì mormorare all’uomo. Guardandolo meglio si accorse che aveva una faccia strana, piuttosto pallida, gli occhi erano spalancati e sembrava che non vedessero. “Sta succedendo adesso”.

Ianto e Jack non esitarono un attimo e corsero su per le scale, carichi di adrenalina che non li faceva neanche sentire la paura.

Quando giunsero nel corridoio del piano superiore, però, non trovarono niente di strano o sospetto. Decisero di dividersi di nuovo e di controllare in ciascuna delle porte. Ianto aprì la prima che gli capitò e si ritrovò di nuovo nella sala giochi che aveva visto quella mattina. Le bambole e i pupazzetti erano molto più inquietanti al buio, sembrava che lo stessero guardando minacciosamente. Ma a parte quello non c’era niente di anormale.

Ad un tratto, però, sentì uno strano rumore, come una specie di sibilo e puntò la torcia per terra, sospettando che fosse un serpente. Effettivamente c’era qualcosa che strisciava, ma non era un serpente. Sembrava un piccolo verme molto grosso che lasciava dietro di sé una scia di una poltiglia giallognola, come la saliva delle lumache.
Si chinò ad osservarla meglio, incuriosito, non dubitando nemmeno che potesse fargli del male, una creaturina così minuscola e apparentemente innocua.
Di sicuro non si aspettava che gli saltasse addosso come invece fece, posandosi sul suo avambraccio. Ianto sentì un dolore penetrante pervadergli tutto il braccio, come se qualcuno gli avesse affondato l’arto con un coltello, e vide del sangue sgorgare e macchiargli la giacca elegante. Prese il vermiciattolo con l’altra mano e cercò di toglierselo di dosso, faticando parecchio. Quando ci riuscì, lo buttò a terra e lo calpestò con un piede. Quello che ne rimase dopo era solo una poltiglia schifosa e appiccicosa.
Controllò la ferita al braccio, notando un taglio piuttosto lungo. Non sembrava però aver intaccato alcuna arteria.

“Ianto!” si sentì improvvisamente chiamare e riconobbe la voce di Jack.

Si precipitò nella stanza accanto e quello che vide lo lasciò a bocca aperta: le cinque suore erano sedute attorno a un tavolo rotondo e sembrava che fossero in uno stato di trance, gli occhi sbarrati e lo sguardo rivolto in nessun punto. Quella in mezzo, però, che doveva essere la suora madre, emanava una strana luce azzurrognola che illuminava tutta la stanza, ma che non sembrava dirigersi da nessuna parte.

Jack e Ianto erano rimasti fermi immobili vicino alla porta, a guardare la scena senza sapere che fare. Ad un tratto, però, la suora madre si sollevò a mezz’aria, dietro la sua schiena si intravedevano due grandi ali da pipistrello e una lunga e grossa coda da lucertola che sfiorava il pavimento.
Emise un fischio acuto e, girandosi di scatto, tentò di colpire i due uomini proprio con la coda. Loro, però, riuscirono a scansarsi appena in tempo per non venire colpiti, buttandosi a terra, ma poi sentirono un fragoroso frastuono e videro i vetri delle finestre volare ovunque.
L’alieno era scappato fuori.

“Gwen, Tosh, Owen!” gridò Jack nell’auricolare che aveva all’orecchio. “Sta scappando fuori. Cercate di fermarlo”.

Il Capitano aiutò il compagno a rialzarsi e poi si precipitarono di sotto, uscendo fuori in cortile. Qui trovarono l’alieno al centro, imprigionato dentro una specie di gabbia fatta di energia elettrica, uno dei tanti strumenti che collezionavano al Nucleo, e Gwen, Tosh e Owen attorno, che guardavano la creatura con interesse.
Jack sorrise per il fantastico tempismo dei tre.

Quando si avvicinarono alla gabbia, videro che la Callaryana aveva ancora le sembianze della suora madre, col viso pieno di rughe e gli occhi scavati, però aveva due canini affilati che sbucavano dalla bocca e le ali e la coda la facevano apparire totalmente diversa. Indossava ancora la divisa da suora, ma non aveva il velo, perciò i suoi capelli bianchi cascavano sulle spalle e sotto la luce forte della luna glieli faceva sembrare fluorescenti.

“Come ti chiami?” le chiese Jack, a pochi passi di distanza.

Lei li guardò tutti quanti minacciosamente e sembrò emettere una specie di ringhio. Però non diede alcuna risposta.

“Non ti faremo del male”, la tranquillizzò il Capitano allora, in tono molto gentile. “Se collabori”.

“Sono Laetitia”, rispose finalmente lei, puntando gli occhi scuri come la pece in quelli dell’uomo di fronte a lei.

“Perché sei venuta qui?”

“Per il mio popolo”.

Ianto inarcò le sopracciglia.

“Che intendi?”

“Mi hanno mandata per compiere una missione”.

“Cioè?”

“Prendere dei bambini”.

Jack spalancò la bocca incredulo. “E perché?”

Laetitia abbassò il capo. “Cosa ti importa saperlo? Tanto mi ucciderai”.

“Non ho detto che ti ucciderò”.

“Ma lo farai. In un modo o nell’altro”. La voce della Callaryana era pacata e tranquilla, sembrava non avere paura di essere stata catturata. O di venire uccisa. Lo diceva come fosse una cosa normale, come se le capitasse tutti i giorni.

“Ti lascerò tornare a casa. Ma prima dimmi: da quanto tempo sei qui?”

“Dieci anni”.

“E perché?”

“Per il mio popolo”.

Owen sbuffò. Così non si andava da nessuna parte.

“E le altre suore e il custode? Loro sanno che cosa sei? Da quanto tempo sono qui?”

“Loro fanno parte di un progetto ben più grande, possono benissimo essere sacrificati. Servono solo da tramite”. 

“Per cosa?”

“Per i bambini”.

Jack rimase un attimo a fissarla, poi ghignò in modo un po’ arrogante. “Allora, se ho capito bene, il tuo popolo vuole dei bambini. Hai allungato la vita di quelle suore per poterle sempre avere accanto”.

La Callaryana distese le labbra in quello che pareva essere un sorriso, un sorriso rassegnato, forse.

“Adesso puoi uccidermi”.

“Ho detto che non ti ucciderò. Dimmi qual è questo progetto. Cosa vuole il tuo popolo?”

Ma l’aliena non gli rispose. Spostò lo sguardo su Ianto che indietreggiò sotto i suoi occhi neri e scrutatori.
“Tu sanguini”, gli fece notare, riferendosi al suo braccio. Il ragazzo spostò lo sguardo sulla ferita dove c’era ancora del sangue, che però stava iniziando a seccarsi.

Improvvisamente, la creatura fece sparire le ali e la coda e tornò ad avere un aspetto completamente umano. O quasi. Allungò una mano verso le sbarre e, proprio nel momento in cui le toccò, una potentissima scarica elettrica la percosse, facendola gridare violentemente. Nessuno si era aspettato quel gesto, nessuno lo aveva previsto.

“No!” urlò Owen, premendo il pulsante per disattivare la gabbia. La Callaryana cadde a terra con gli occhi chiusi, il corpo scomposto, i capelli sparsi per terra.
Il dottore si chinò per toccarle il polso, poi alzò il capo verso i suoi amici con un’espressione affranta. “E’ morta”, disse solamente.
Jack sospirò, dispiaciuto più per non aver avuto le informazioni che voleva. Si avvicinò a Ianto e gli prese il braccio guardando la ferita. Anche se non era grave, era piuttosto profonda. Estrasse un fazzoletto dalla tasca e glielo legò per fermare il sangue.

 

“Ultimamente ti ferisci un po’ spesso, Ianto”, fu il commento di Owen quando finì di mettere i punti al braccio ferito dell’amico. Erano tornati alla base, con un’aria un po’ affranta, ma contenti che almeno quell’avventura si fosse conclusa.
Non erano riusciti a ritrovare i quattro bambini scomparsi e nemmeno togliersi il pensiero di un’altra possibile minaccia da parte di Callary, ma almeno i bambini di quell’orfanotrofio erano al sicuro, sotto la custodia delle altre suore che non si ricordavano niente di quello che era successo.
Owen passò un paio di giri di garza sull’avambraccio di Ianto e gli permise di andare.
Il ragazzo si diresse verso Jack, che lo stava aspettando vicino alle scale. Sembrava piuttosto stanco. Gli prese una mano e lo trasse a sé dandogli un bacio, cingendogli la vita con le braccia e stringendolo forte. Ianto lo lasciò fare, piacevolmente sorpreso da quella improvvisa dimostrazione d’affetto.
Infine, smisero di baciarsi ma non si separarono. Il giovane appoggiò la testa sulla spalla dell’altro, stancamente, godendosi il suo profumo, mentre il Capitano lo cullava e gli dava un bacio sulla fronte.

Intanto gli altri cominciarono a prepararsi per tornare a casa.

 

 

MILLY’S SPACE

Allora, solo alcune piccole note: questo potrebbe sembrarvi solo un’avventura come tante altre affrontate dal Torchwood, ma vi dico già che è piuttosto importante per gli avvenimenti futuri. Callary non ho idea se esista, non credo (^^). E’ una mia totale invenzione, così come l’Arrannya, quindi ne detengo i diritti d’autore u.u

Detto questo vi ringrazio per la cortese attenzione e spero che mi lascerete qualche recensione. Inoltre, non dimenticatevi di dare un’occhiata alla mia pagina face. https://www.facebook.com/MillysSpace

Bacioni : )

SWEETLADY98: ehi, spero che questo capitolo ti sia piaciuto altrettanto… sì, pure io adoro Rhiannon : ) be’, spero tu abbia tempo per lasciarmi una recensione e se no pazienza… bacioni, M.

PUFFOLA_LILY: eccolo qua, il capitolo ^^ sì, Jack è assolutamente fantastico. Anche io me lo sposerei, se non lo shippassi troppo con Ianto ^^ ahaha fatti risentire, un bacio. Milly

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Capitolo 8
*** Capitolo sette - E' passato ***


CAPITOLO SETTE - E' PASSATO

No, non può finire così,
la vita inventerò ancora per un po’.
No, non può finire così,
qualcuno troverò e rinascerò.

(Solo ieri, E.Ramazzotti)

Il letto scricchiolò sotto il suo peso, mentre vi si sedeva sul bordo, poggiando i piedi nudi sul freddo pavimento. Si accorse di avere addosso la maglietta azzurra di Jack, quando gli passarono per la mente le immagini di quello che aveva fatto la scorsa notte e lo sguardo gli corse subito dietro le spalle, dove il bel Capitano dormiva ancora pacificamente, il viso rilassato in un’espressione serena che raramente Ianto gli aveva visto dipinta in viso. Era strano che dormisse ancora, di solito era lui quello che si svegliava per primo, sempre vigile, sempre scattante.

Cercando di fare meno rumore possibile e scrollandosi di dosso i brividi rimastigli dall’incubo che aveva appena fatto, si alzò dal letto con un colpo di reni ma un’improvvisa nausea gli salì alla bocca dello stomaco. Chiuse gli occhi per qualche secondo, aspettando che gli passasse, e poi andò in bagno.
Era da un po’ di giorni che si svegliava con uno stano senso di vomito nello stomaco, sempre più forte. Poi gli passava per l’ora di pranzo. Ma non l’aveva ancora detto a Jack, non voleva farlo preoccupare. E in ogni caso, probabilmente era dovuto allo stress e alle poche ore di sonno che faceva.

Stava per prendere la schiuma da barba, quando sentì qualcuno abbracciarlo da dietro e tirarlo contro il proprio petto. Capì immediatamente che quel corpo caldo e quelle braccia forti appartenevano a Jack e un sorrisetto gli nacque spontaneo sulle labbra, mentre si lasciava cullare dal suo Capitano.

“Ti preparo la colazione?” gli sussurrò all’orecchio.

“Solo del caffè”.

“Quello lo fai meglio tu”.

Ianto ridacchiò e si districò dalle braccia del compagno. “D’accordo, vado a farlo io”. Posò la crema accanto al lavandino e fece per avviarsi alla porta. Ma non appena fece un passo, un forte capogiro lo assalì e dovette aggrapparsi al termosifone per non cadere.
Jack gli circondò la vita con un braccio e lo fissò preoccupato. “Ehi, che succede?”

“N… niente”, borbottò il ragazzo. “Mi gira solo la testa”.

Jack lo rimise dritto e gli tastò la fronte. “Sei sicuro di stare bene? Ti porto in ospedale o…”.

“No, Jack, no!” cercò di tranquillizzarlo l’altro. “Sto bene, davvero. Ora è passato”.

“Ma…”.

“Sto bene, Jack!” E se ne uscì a passo di marcia dal bagno, senza lasciare il tempo all’altro di aggiungere qualcosa.

Jack rimase a fissare la porta come bloccato. Sperava che non avesse niente di grave, forse tutto quel lavoro a contatto con alieni e altre robe strane poteva danneggiare l’organismo delle persone. Si augurava che non fosse così.

 

“Come andiamo, Tosh?”

Toshiko digitava freneticamente qualcosa al computer, quando Jack le si avvicinò alle spalle, fissando gli occhi sullo schermo.

“Sembra che qualcosa sia passato attraverso la fessura questa notte”, disse la ragazza. “Ma questa è l’unica attività che mi segna”.

“D’accordo, allora, non c’è niente di cui preoccuparsi. Continua a monitorarlo, però”.

“Va bene”.

“Ragazzi, c’è un pacco per noi”. La voce di Ianto, appena rientrato nel Nucleo, attirò l’attenzione di tutti. Gwen spense il cellulare, Owen abbandonò la sua sala medica, Tosh si girò con la sedia e Jack prese una piccola scatola dalle mani del compagno. La poggiò sul tavolo, l’aprì con un gesto secco e guardò dentro, imitato dagli altri. Vi era contenuto un piccolo specchio di forma rettangolare, sufficiente solo per vedere una parte del proprio viso, decorato con una cornice argentata piuttosto semplice.

“Chi l’ha mandato?” chiese Gwen.

“Non so”, le rispose Ianto. “Il fattorino ha detto che era per Torchwood e che il mittente era anonimo”.

“Guardate, ci sono delle scritte”, notò Toshiko, indicando con l’indice dei segni in un angolo. “Ma non è inglese”.

“Probabilmente è una lingua aliena”, ipotizzò Jack.

“Pensi che sia alieno?”

“Perché altrimenti ce lo avrebbero mandato?”

“Per specchiarci?” scherzò Owen, beccandosi un’occhiataccia da Gwen.

“Dobbiamo analizzarlo. Tosh, cerca di decifrare le scritte”.

Il team si mise subito all’opera, mentre il Capitano spariva nel suo ufficio. Poco dopo anche Ianto lo seguì.

“Ehi”, lo salutò Jack, seduto dietro la scrivania. “Stai bene?”

Ianto alzò gli occhi al cielo e si sedette sulla scrivania. “Sì, Jack, smettila di chiedermelo”.

“D’accordo, d’accordo”. Jack si buttò contro lo schienale della sedia e mostrò il suo solito sorrisetto sghembo.

“Comunque, quello specchio…”, iniziò il ragazzo per cambiare argomento, evitando di guardare quel sorrisetto dipinto sul volto dell’altro. “Mi è familiare”.

“In che senso?”

“Sono sicuro di averlo già visto da qualche parte, ma non ricordo dove”.

“Be’, è uno specchio abbastanza comune. Magari lo hai visto in un negozio”.

“Non saprei”. Ianto restò a fissare un punto invisibile sul muro di fronte a lui, senza aggiungere altro, e poi lasciò l’ufficio di Jack a passo di marcia. Raggiunse Owen nel suo studio e lo trovò indaffarato a studiare lo specchio. “Scoperto qualcosa?”

“Solo che è un affare alieno. Ma non ho idea a che cosa serva”. Il dottore si voltò per prendere qualche altro attrezzo e Ianto ne approfittò per avvicinarsi all’oggetto sul tavolo e guardarlo meglio. Vi si specchiò dentro, trovandoci riflesso solo il proprio occhio azzurro.
Eppure gli sembrava tanto familiare… terribilmente familiare.

Ma forse era solo una sua impressione.

Vide una scatola di biscotti poggiata sul tavolino e si accorse di avere fame. L’afferrò iniziando a mangiare il primo biscotto e andò a fare qualcosa.

 

“Cinque a tre per noi! Ve l’avevo detto che vi battevamo!”

Jack aiutò Ianto a scendere dal canestro al quale si era appeso dopo aver fatto un tiro al volo e gli diede un sonoro bacio sulle labbra.

“La partita non è ancora finita. Vedremo chi sarà ad esultare tra poco”, lo provocò Owen, lanciando ai due un’occhiata di sfida.

Quel pomeriggio, dopo pranzo, avevano deciso di andare a farsi una partitina a basket nel campo vicino, visto che non c’era molto da fare al Nucleo. Stavano giocando già da mezz’ora, Gwen e Owen contro Ianto e Jack. Tosh aveva deciso di rimanersene in disparte a tenere il punteggio e controllare sul portatile che si era portata dietro le eventuali attività della fessura, perfettamente conscia delle sue poche capacità sportive.

“Non sapevo fossi così bravo, Ianto”, commentò Gwen, osservando curiosa il ragazzo.

“Quando andavo al liceo ci ho giocato un po’ di volte”.

“Ragazzi, continuiamo?” si intromise Owen. “Dov’è la palla?”

Soltanto in quel momento si accorsero che la palla da basket era scomparsa, probabilmente rotolata chissà dove. D’un tratto, però, notarono una figura in piedi a poca distanza da loro. Reggeva in mano qualcosa di tondo e li osservava.

Ianto cominciò ad avvicinarsi, una specie di dejavù lo aveva colto tutto d’un colpo e gli pareva di aver già visto quella persona.
E le sue sensazioni furono confermate, quando le arrivò ad un metro di distanza. Il cuore cominciò a battergli a mille e rimase completamente paralizzato sul posto, senza parole e senza fiato. Sentiva la presenza dei suoi amici dietro di lui, increduli anche loro.

“Lisa!” esclamò lui, riuscendo a recuperare le parole da qualche parte nel fondo della gola.

“Ciao, Ianto”.

 

Lisa non era cambiata proprio per niente. Quella sua pelle color cioccolato, le curve, le gambe toniche e il corpo snello erano uguali a quando l’aveva conosciuta. Si era sentito attratto fin da subito, non solo dal suo corpo ma anche dal suo modo di fare, dalla sua personalità. E nemmeno quelli sembravano essere cambiati. Era perfettamente come la ricordava.

“Bene, quindi non sei una specie di clone e neanche un robot”, concluse Owen, poggiando sul tavolino il suo stetoscopio. “I tuoi organi funzionano perfettamente e non c’è traccia di decadimento fisico. Ciò significa che non sei nemmeno un vampiro o uno zombie. E a quanto pare neanche un alieno”.

Lisa alzò gli occhi al cielo e accavallò le gambe.

“Sono in ottima forma”, disse lei maliziosa. “Come sempre”. Si alzò dal tavolo del piccolo studio di Owen, sul quale il dottore l’aveva visitata e si mise a girovagare per il Nucleo, osservando gli oggetti che incontrava con fare curioso.

“Allora come sei arrivata qui?” le chiese Jack, poggiato alla ringhiera accanto a Ianto.

La ragazza si fermò accanto al divanetto sotto la scritta Torchwood. “Devo dire che questo posto fa molto… Futurama”, commentò, senza fare caso alla domanda del Capitano “Avete un sacco di cose interessanti. Chi lo ha arredato?”

“Come sei arrivata qui?” ripeté Jack, guardandola serio.

Lei si girò verso di lui e rimase  a osservarlo intensamente, come se volesse trasmettergli qualcosa attraverso lo sguardo.

“Che importanza ha?” fece lei allora, scendendo con passo elegante e avvicinandosi al Capitano. Si fermò di fronte a lui a fronteggiarlo, più bassa solo di qualche centimetro. “Ora sono qui. Non ho certo intenzione di uccidervi o conquistare la Terra”.

Ianto, fermo dietro a Jack, sorrise divertito e Lisa gli fece l’occhiolino. Il Capitano non se ne accorse o forse fece finta di non averlo visto. Continuò semplicemente a fissare la ragazza e ordinò in tono perentorio: “Ianto, rinchiudila nelle celle”.

 

“E così ora sei sotto gli ordini di quel belloccio”, fece Lisa, provocante. Ianto aprì la porta della cella vicina a quella di Janet e rimase fermo, aspettando che la ragazza ci entrasse. Sperava di non doverla convincere o buttare dentro a forza. Anche perché non era tanto sicuro di uscirne vincitore. Lisa era sempre stata una ragazza molto forte, in forma, sapeva persino praticare qualche arte marziale dal nome strano.  “E’ peggio di quella che avevamo al Torchwood di Londra”, aggiunse, cercando forse un modo per iniziare una conversazione.

“Entra”, disse semplicemente lui, senza guardarla. Lei spalancò gli occhi sbigottita. “Non puoi fare sul serio”.

“Mi dispiace, Lisa. Questi sono gli ordini”.

“Quand’è che sei diventato così accondiscendente?” chiese, in tono acido, avvicinandosi alla soglia della cella. “Una volta non eri così”.

“Sono cambiato”, rispose lui, alzando lo sguardo sul suo viso e poggiando una mano sul muro davanti.

“Sì, lo vedo”, ringhiò lei, facendo un’espressione quasi disgustata. “Ora sei diventato un bravo ragazzo. Ti vesti pure come se fossi… un cameriere”.

Ianto spostò lo sguardo, non avendo il coraggio di affrontare quello della ragazza. Sentiva come se le facesse un enorme torto, eppure non poteva fare altrimenti. Non poteva disobbedire a Jack e scappare via con Lisa, non solo perché Jack era il suo compagno e il suo capo, ma anche perché era lampante che c’era qualcosa di sbagliato. Lisa non doveva essere lì.
Però, l’altra vocina nella sua testa, quella che seguiva una volta, quando non si preoccupava di nessuna conseguenza, gli diceva che l’errore era rinchiudere Lisa in quella cella e considerarla un mostro. Dopotutto, non era una persone qualunque… era la sua Lisa, quella che aveva amato, che aveva condiviso con lui buona parte della sua vita, che lo aveva aiutato a superare i suoi problemi. Quante volte aveva sognato di poterla riabbracciare di nuovo, stringerla fra le sue braccia e ora, finalmente, poteva farlo. I miracoli a volte avvengono no?
In fondo, non aveva smesso di amarla, anche se adesso amava Jack. Ma si possono amare in ugual modo due persone contemporaneamente?

“Perché sei qui? Che cosa vuoi?” le chiese, riportando lo sguardo su di lei.

Lisa sbatté le sue lunghe ciglia e lo guardò con i suoi enormi occhi scuri e supplicanti. Ianto sentì dei brividi corrergli lungo la schiena, quei brividi che sentiva tutte le volte che guardava in quelle pozze profonde e aveva come l’impressione di potercisi perdere dentro.

“Voglio te”, sussurrò lei con voce dolce, prendendogli in mano la cravatta. “Ti amo”. E, senza lasciargli il tempo di dire niente, lo tirò per la cravatta verso le proprie labbra e lo baciò. Ianto non si ritrasse, anzi, completamente dimentico di dove si trovava, si avvicinò di più a Lisa e le circondò la vita con le braccia, mentre lei gli affondava la mano tra i capelli.
Si staccarono solo dopo un po’. Ianto si sentiva come se si fosse appena svegliato da un sogno impossibile, il cuore che batteva a mille. Lisa invece gli sorrideva contenta, come se avesse appena ottenuto ciò che voleva.
Ma, al contrario di ciò che si era aspettata, si vide spingere indietro dal ragazzo che subito richiuse la porta della cella lasciandola dentro. Lei si avvicinò al vetro e lo guardò incredula. “Ianto! Non puoi farmi questo!”

“Mi dispiace, Lisa”, disse lui, guardandola dispiaciuto. “Ma tu non dovresti essere qui”. Subito girò sui tacchi e si avviò all’uscita.

“Ianto!” chiamò di nuovo lei, ma l’altro fece finta di non udirla. “Cosa c’è tra te e quell’uomo?” chiese poi, con tono quasi disperato. Ianto si bloccò sul posto, come scottato. Sicuramente intendeva Jack. “Ho visto come lo guardi. Cosa c’è tra voi?”

 

Quanto Ianto tornò dalle celle trovò i suoi amici stranamente in silenzio. Owen stava mettendo in ordine i suoi attrezzi da medico, Gwen era seduta sul divano col cellulare in mano e Tosh e Jack se ne stavano davanti ai computer, lei impegnata a scrivere qualcosa mentre lui fissava lo schermo con sguardo vacuo.
Quando lo vide arrivare, il Capitano gli lanciò una strana occhiata e poi si diresse al suo ufficio.

Ianto si avvicinò alla giapponese e gli venne quasi un colpo quando vide la schermata delle celle aperta su uno dei computer. In un angolo c’era Lisa, seduta per terra col viso tra le ginocchia. Sicuramente Jack stava guardando quella videocamera da più tempo e probabilmente non solo lui.

Anche Tosh lo guardò con un’espressione che gli esprimeva una muta richiesta, ma lui non ci fece caso e corse dietro a Jack.
Entrato nell’ufficio, richiuse la porta dietro di sé e osservò la schiena di Jack fermo alla scrivania.

“Jack, hai visto…”, cominciò con voce incerta, ma si bloccò di colpo, sentendosi un po’ stupido. Ma certo che aveva visto! “Jack, io… mi dispiace. Non…”.

“Ianto!” esclamò il Capitano, girandosi improvvisamente verso il ragazzo, ancora appoggiato alla porta. “Non chiedere scusa se non sei dispiaciuto. E poi non m’importa. Sei libero di baciare chi vuoi”.

Ianto alzò il capo verso di lui guardandolo come se avesse detto una bestemmia. Poi gli si avvicinò lentamente, come se avesse paura che l’altro lo potesse picchiare da un momento all’altro.
“Ma io voglio baciare solo te”, gli sussurrò, mettendogli le mani sulle spalle.

“Allora baciami”, fece Jack, sensuale. 

Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e annullò tutte le distanze tra loro due, fiondandosi sulle labbra del Capitano quasi con disperazione. Con una mano si afferrò alla sua camicia, mentre sentiva quella di Jack corrergli lungo la schiena.
Si lasciò travolgere, come sempre, e il bacio di Lisa di poco fa gli parve un ricordo di tanti altri. Non poteva dire che quello della ragazza gli era stato indifferente, così come lei non gli era indifferente. Gli aveva portato alla memoria vecchi ricordi, lontane esperienze vissute con lei, le avventure che avevano sperimentato, le belle memorie che aveva, ma che erano al contempo amare. Era il passato.
Quello di Jack, invece, era… be’, era come Jack. Intenso, passionale, forte. Era tutto il contrario di quello di Lisa. Era come quei baci che puoi solo sognarti, uno di quei baci che ti ricordi per tutta la vita.
Ma, soprattutto, il bacio di Jack rappresentava il presente.

Quando si staccarono, rimasero a guardarsi per qualche secondo, come a volersi trasmettere con lo sguardo ciò che provavano.
Poi Jack si allontanò e mostrò un sorrisetto malizioso. “Mi sono ricordato di avere un impegno”.  E, senza spiegare nient’altro, afferrò il suo cappotto e uscì fuori dall’ufficio.

“Ehi, Jack, vai fuori?” chiese Owen, avvicinandosi al Capitano. “Ti accompagno. Ho scordato il cellulare in macchina”.

I due azionarono la ruota e si ritrovarono nell’ingresso con l’ascensore. Si misero a discutere del ritorno di Lisa e di come avrebbero risolto quella questione e si ritrovarono fuori, abbagliati dal sole.

“Owen?!” esclamò all’improvviso una voce di donna. Il dottore si voltò verso la direzione da cui l’aveva sentita provenire e sgranò gli occhi nel trovarsi davanti una ragazza bionda, affiancata da un uomo alto vestito in modo strano. “Katie?!”

 

“Non ho rilevato attività della Fessura e non ci sono altre tracce di attività aliena a Cardiff, eccetto qui al Nucleo”, disse Tosh quando lei e gli altri si erano seduti nella sala delle riunioni per discutere degli ultimi avvenimenti.

“Quindi è qualcosa di alieno?” chiese Gwen, guardando verso la collega.

“Da quello che mi risulta sì”, rispose lei, digitando qualcosa sul portatile.

“Questo significa che le persone che sono tornate c’entrano con questo posto. Lisa ha lavorato per Torchwood ed era la fidanzata di Ianto. Ma la ragazza bionda? E l’uomo?” fece di nuovo Gwen, spostando lo sguardo su tutti i presenti.
Owen fissava un punto indefinito sul tavolo, ancora sconvolto per il ritorno di Katie, Ianto era seduto sulla sedia, una gamba poggiata sul ginocchio con espressione quasi indifferente e Jack dava loro le spalle, fermo sulla soglia della porta, con aria tormentata.

“Inoltre c’è lo specchio. Tosh, sei riuscita ad analizzare le scritte?”

“Il computer sta ancora cercando. Presto dovremmo avere una risposta”.

“D’accordo. Che ne dite allora se…”.

“La ragazza bionda”, si intromise ad un tratto Owen, interrompendo il discorso di Gwen. “Era la mia fidanzata. Dovevamo sposarci, quando lei è morta perché… c’era un alieno nella sua testa”.

Sia Gwen che Tosh che Ianto spostarono lo sguardo sul dottore, guardandolo con aria sconvolta.

“Oh, Owen…”, sussurrò la giapponese, allungando una mano verso di lui. “Mi… mi dispiace”.
Lui alzò il capo verso di lei e le lanciò una strana occhiata.
Per qualche attimo nella sala cadde un pesante silenzio, nessuno sapeva cosa dire. Quella era forse l’esperienza peggiore che poteva loro capitare.

“E che mi dite dell’uomo? Qualcuno di voi lo conosce?” chiese a quel punto Gwen. Gli altri tre scrollarono le spalle come per dire che loro non avevano niente a che farci. “Jack?” chiamò allora la ragazza, guardando in direzione del Capitano, l’unico fino a quel momento che non si era espresso. Lui, però, rimase lì dov’era, lo sguardo vacuo fisso sullo stipite della porta, le mani in tasca. Anche gli altri si voltarono a guardarlo, intuendo che lui, invece, sapeva qualcosa.

“Quell’uomo”, iniziò lui, senza guardare nessuno dei compagni. “Si chiama Franklin. È… era mio padre. Ma è morto un sacco di tempo fa”.

Di nuovo piombarono tutti in silenzio. Ianto non sapeva se alzarsi e andare da lui per consolarlo o restare lì dov’era. Ma poi si rese conto che non avrebbe saputo cosa dirgli e che Jack non amava apparire fragile.

“Dovremmo interrogarli, forse loro sanno qualcosa”, concluse a quel punto Gwen.

“Usiamo Katie”, disse Jack, voltandosi verso gli altri e riprendendo la sua solita espressione di Capitano.

“Perché proprio lei?” si lamentò Owen, guardandolo male.

“Perché Lisa non ci dirà niente”, rispose lui, poggiando le mani sul tavolo. “E in quanto a Franklin… non ci conosce. Avevo solo dodici anni quando è morto, non mi riconoscerà. Katie si fida di te”. Non era una risposta del tutto logica, Jack lo sapeva, ma sperava che il suo tono convincente fosse riuscito a ingannarli, come succedeva sempre. La verità era che non voleva confrontarsi con suo padre.

“Vado a prenderla”, disse Ianto, alzandosi dalla sedia.

Il ragazzo scese nelle celle, ma evitò accuratamente di guardare in quella di Lisa e non si fermò nemmeno da quella di Katie. Piuttosto raggiunse l’ultima, quella dove c’era Franklin, e si fermò a osservarlo. Era molto simile a Jack, alto coi capelli castani, il fisico forte e la mascella dura. Ma non sembrava avere la stessa aria vissuta e tormentata del figlio, anche se un luccichio di malinconia c’era.

L’uomo, sentendosi osservato, alzò lo sguardo su di lui e inclinò il capo. “Sei venuto a uccidermi?” chiese con un tono rassegnato.

“No”, rispose subito Ianto. “Non vogliamo farvi del male”.

“Allora perché ci tenete qui dentro?”

“Perché…”, rimase un attimo a pensare a che cosa sarebbe stato meglio dire. “Perché dobbiamo capire il motivo per cui siete qui”.

Franklin abbassò il capo e sospirò.

“Signore?” lo chiamò Ianto. “Lei… lei ha dei figli?”

L’uomo alzò lo sguardo a guardarla, chiedendosi silenziosamente come mai gli facesse una domanda del genere. Poi sorrise teneramente. “Sì. Ne ho uno, si chiama Grey. Adesso ha sedici anni”.
Anche Ianto sorrise, ricordandosi che aveva già sentito quel nome. L’aveva detto John quando era venuto a trovare Jack. Lo sapeva che Grey era qualcuno di importante per il Capitano.

“E’ il suo unico figlio?”

Franklin, allora, si incupì di colpo. “No. Ne avevo un altro, un figlio più grande. Ma è morto durante un’invasione aliena. O almeno credo. È scomparso tentando di salvare il fratellino”.

Ianto capì che si riferiva a Jack ed era pronto a fargli altre domande, ma in quel momento vide arrivare proprio il Capitano che lo guardava con una faccia strana.

“Ianto, che fai? Ti stiamo aspettando”.

Il ragazzo sobbalzò e si allontanò velocemente dalla cella di Franklin, biascicando un “Arrivo”. Quando il Capitano si allontanò, aprì la cella di Katie e la invitò a seguirlo.

Salirono al piano superiore, dove la ragazza si buttò subito tra le braccia di Owen. “Owen! Ma che sta succedendo?!” esclamò lei, in tono spaventato. Il ragazzo la strinse, cercando di confortarla. “E’ quello che stiamo cercando di capire”. La fece accomodare su una sedia e lanciò un’occhiata di intesa a Jack.

“Che posto è questo?” chiese Katie, guardandosi attorno.

“Si chiama Torchwood”, le rispose il Capitano, studiandola con i suoi occhi chiari. “E’ la nostra base segreta dove rintracciamo la vita aliena”.

“Alieni!?” fece lei, guardando tutti i presenti come se fossero impazziti.

“Ascolta, Katie”, si intromise a quel punto Owen, stufo dei temporeggiamenti di Jack. Si inginocchiò di fronte alla ragazza e la guardò dolcemente. “Il punto è che… tu non dovresti essere qui. È successo qualcosa che non sappiamo spiegarci. Devi dirci che cos’hai fatto…”.

“Ma io non ho fatto niente. Mi sono trovata qui all’improvviso”. Alzò lo sguardo verso il Capitano, come se avesse intuito che era lui il capo lì e che bisognava convincere lui. “Ero appena tornata a casa dal supermercato e stavo mettendo a posto la spesa. Ho aperto il frigorifero e sono finita alla baia… e tu hai aperto la porta”.

“Ma il punto è che tu dovresti… dovresti essere morta”.

Lei spalancò gli occhi e lo guardò scioccata. “No, Owen, tu sei morto… avevi un tumore e…”.

Improvvisamente Owen si alzò e passò lo sguardo sui suoi compagni, notando una luce di comprensione negli occhi di Jack. Sembrava star pensando intensamente a qualcosa. Come punto da un ago, corse nel suo ufficio e, dopo appena pochi secondi, tornò indietro reggendo lo specchio che avevano ricevuto quella mattina.

“Questo non è uno specchio!” esclamò come fosse la cosa più ovvia del mondo. “Questo è un…”.

“Portale!” Una voce nascosta tra gli scaffali interruppe la frase di Jack concludendola per lui. Videro sbucare fuori la figura di Lisa che reggeva una pistola in mano e la puntava contro di loro. “Pensavo che l’avresti riconosciuto, Ianto”, continuò la ragazza, addolcendo il tono stavolta. “Te l’ho mostrato quando lavoravamo per il Torchwood di Londra. È stata l’unica cosa a rimanere integra dopo… be’, dopo tutto il caos dei cyberuomini”.
Ianto spalancò gli occhi, un ricordo improvviso che gli tornava a galla. “Ma non avevamo mai capito a cosa serviva”.

“No, ma io l’ho capito, basta tradurre le scritte sulla cornice”.

“E a che cosa serve?” chiese Gwen, impaziente.

“E’ come ha detto lei un portale”, rispose Jack. “Serve per portarti in un mondo parallelo”.

“Mondo parallelo?”

“Ci sono infiniti mondi e universi paralleli tra qui uno identico a questo. Solo che quelli che sono morti in questo mondo sono vivi in quello parallelo e viceversa”, spiegò il Capitano pazientemente, senza togliere gli occhi da Lisa.

“E così che sono tornata qua. Ero sicura che anche tu lavorassi per il Torchwood di Cardiss così ho inserito le coordinate e l’ho mandato attraverso la fessura. Non avevo previsto che arrivassero anche la donna e quell’altro uomo”.

A quel punto anche Gwen estrasse la pistola e la puntò contro la ragazza. Ianto però si mise in mezzo, cercando di avvicinarsi a Lisa cautamente. Lei però non abbassò la sua arma.

“Lisa…”.

“Pensavo che l’avresti riconosciuto”, ripeté lei, con voce leggermente rotta. “Pensavo che te lo ricordassi. Invece… invece ti sei dimenticato di tutto quello che abbiamo passato insieme”.

“No, Lisa, non è così”.

“Ah no? E allora lui?” Indicò Jack con la punta della pistola. Stavolta aveva lasciato che qualche lacrima le scivolasse lungo il viso. “Mi hai sostituita con lui. Ma lui non ti conosce come ti conosco io. Scommetto che lui non sa quello che ti ha fatto tuo padre, scommetto che non ti confidi con lui come ti confidavi con me”.

“Lisa!” la chiamò il ragazzo come per intimarle di non aggiungere altro. “Non è così. Non potrei mai sostituirti”. Allungò la mano per prendere la pistola. Lei però si allontanò di qualche passo. “Dammi la pistola. Non ti faremo del male”.

“No, ma volete mandarmi via. Io non voglio andarmene, sono venuta per te, perché ti amo”.

Ianto, allora, avvolse con la mano la punta della pistola, sicuro che lei non gli avrebbe sparato e se la fece consegnare. Poi si avvicinò a Lisa e l’abbracciò, mentre lei avvolgeva il suo collo con le braccia e affondava la testa nel suo petto. “Voglio solo che ricominciamo da capo, voglio che…”. Non riuscì a concludere la frase però, perché Owen, avvicinatosi velocemente senza che lei lo vedesse, le conficcò una siringa nel collo e le iniettò il liquido che vi era contenuto, probabilmente un sonnifero. Ianto sentì la ragazza crollare tra le sue braccia a peso morto.

“Possiamo invertire le coordinate e rispedire lo specchio nella Fessura. Se ne andranno come sono venuti”, disse Jack, senza guardare nessuno in particolare.

 

Ianto sedeva sulle scalette di ferro che portavano al piccolo laboratorio di Owen e osservava Lisa stesa sul lettino, legata alle sbarre con delle manette. Avevano pensato che fosse meglio così, non volevano correre il rischio che li sorprendesse di nuovo come aveva fatto prima.

Il ragazzo sentì i passi di Gwen avvicinarsi e poi percepì che si sedeva accanto a lui, ma non ci fece caso.
Gli mise una mano sul braccio e guardò anche lei in direzione di Lisa.

“Come ha fatto ad uscire dalla cella?” chiese, più per fare conversazione che per vera curiosità.

“Ha lavorato a Torchwood per tanti anni. Non sarà certo una porta blindata a fermarla”, rispose lui in un tono che pareva pieno di orgoglio.

“Sembra una tipa tosta”.

Ianto sorrise. “Sì, lo è. più che altro non le piace che le si dica ciò che può o non può fare”.

“Mi dispiace… per quello che le è successo, intendo”. Gwen sospirò. Non gliel’aveva mai detto, né gli aveva mai chiesto come si sentisse dopo la morte di Lisa. Per la verità non parlava molto con Ianto, lo conosceva così poco. Conosceva così poco di tutti loro e le dispiaceva. Ma forse era anche meglio.

 

Intanto Jack, seduto sul giaciglio nella cella accanto a Franklin, fissava una macchia nella parete di fronte a sé, in completo silenzio.

“Tra poco potrai tornare a casa”, disse dopo un po’, senza voltarsi a guardare l’uomo seduto accanto a lui.

“Non vedo l’ora di riabbracciare mio figlio”, disse questi, in tono sommesso, quasi commosso.

Il Capitano annuì, sorridendo malinconicamente. “Salutamelo. Salutami Grey”.

“Lo farò, puoi contarci”. Franklin si voltò verso di lui come per aggiungere qualcos’altro quando, resosi conto di quello che l’uomo gli aveva appena chiesto, lo guardò con una faccia un po’ perplessa. “Come… come fai a sapere che si chiama Grey?”

Anche Jack si girò nella sua direzione, guardandolo con occhi che cercavano di trattenere le lacrime. “Perché l’ho scelto io quel nome, ricordi? Grey… “.  Vide Franklin spalancare gli occhi, un improvviso bagliore di consapevolezza nello sguardo. Rimase a scrutarlo per qualche secondo, come per trovare una risposta alla sua muta domanda.

“J… figliolo?”

Il Capitano annuì col capo e l’uomo non ebbe bisogno di altro. Allargò le braccia e lo strinse in un forte abbraccio. Jack affondò il viso nell’incavo del suo collo, assaporandone il buon odore, quell’odore che gli era mancato terribilmente, e lasciò andare una lacrima.

“Devi raccontarmi tutto, tutto quello che hai fatto fino ad ora”, gli ordinò Franklin senza lasciarlo andare. “Lo sai che hai salvato la vita a Grey? Ti sei sacrificato per lui…”.

Già… era contento di sapere che almeno in un mondo parallelo le cose erano andate come sarebbero dovute andare.

 

“Tu sei completamente matto!” esclamò Katie, cercando di calmare le risate che l’avevano sconquassata fino a poco fa.  Diede un morso alla ciambella che teneva in mano e si buttò sopra ad una panchina. Owen si accomodò accanto a lei, spostandole una ciocca di capelli che le era caduta davanti agli occhi. Avevano deciso di uscire un po’, per trascorrere insieme quel paio di ore che avevano prima che lei se ne andasse. Anche se il ragazzo non sapeva quanto buona fosse stata quell’idea. Sarebbe decisamente stato arduo separarsene.

“Lo sai, non sei cambiato proprio per niente”, fece lei, guardandolo dolcemente.

“E ti dispiace?”

“No, affatto”. La ragazza diede un altro morso alla ciambella e si sistemò meglio, appoggiandosi al petto di Owen. “Sono contenta di averti rivisto, comunque. Anche se ora sarà difficile… andare avanti”.

“Dobbiamo farlo, però”.

“Non è stato facile per niente. Mi dicevano tutti che col tempo sarebbe tornato tutto come prima, ma non è così. Sento sempre una specie di… vuoto nel petto”.

Owen le accarezzava i capelli, ricordando come si era sentito lui dopo la morte di Katie. Gli sembrava che il mondo non potesse più andare avanti e che niente sarebbe più tornato come prima. Invece, un giorno era uscito di casa e fuori aveva visto che procedeva tutto come doveva procedere: le persone che camminavano frettolosamente, il sole che tramontava e sorgeva, i negozi che aprivano e chiudevano… e tutto quello gli era sembrato inaccettabile. Come potevano le cose essere normali, quando dentro di lui era tutto… morto?

“Hai trovato qualcun altro?” le chiese, cercando di mantenere il tono indifferente. Invece, sentiva che la risposta a quella domanda contava molto.

“Oh no!” esclamò lei, voltandosi a guardarlo. “Non… non me la sento”.

“Fallo”, le disse, giocando con una ciocca dei suoi capelli biondi. “Devi andare avanti. Trovare qualcun altro”.

Lei sembrò guardarlo con una tristezza infinita. “Solo se mi prometti che lo farai anche tu”.

 

Ianto mise le mani sui fianchi di Lisa e la guardò negli occhi.

“Sei sicuro che non possiamo farlo?” chiese lei, sbattendo le lunghe ciglia.

“Mi dispiace, Lisa. Lo sai anche tu che è sbagliato. I mondi paralleli…”.

“Sì, sì, conosco bene la regola”.

Il ragazzo ridacchiò vedendola alzare gli occhi al cielo con fare frustrato, ma avrebbe di gran lunga preferito lasciarsi andare al pianto. Nei suoi occhi, invece, non vide neanche una lacrima celata. Era questo che gli piaceva di Lisa, non piangeva mai.

“Ci eravamo promessi che noi non ci saremmo separati mai, qualsiasi cosa fosse accaduta, che saremmo andati ovunque per ritrovarci”.

Ianto non seppe che rispondere. Lei sapeva come farlo sentire bene in colpa. Si ricordava le loro promesse giovanili, fatte un po’ tra i discorsi scherzosi e un po’ tra quelli scherzosi.
Allora l’avvicinò di più a sé e la baciò, un bacio che aveva il sapore dell’addio. Lei ricambiò e chiuse gli occhi per lasciarsi completamente andare.

“Siamo pronti”, si sentì dire da Gwen.

I due si staccarono e rimasero a guardarsi un altro po’. “Ti amo, Ianto Jones”.

Lisa si avvicinò a Franklin e Katie, già pronti in posizione e un grande raggio luminoso li colpì. Gwen lanciò dentro il portale e, come nei film, i tre scomparvero, senza lasciare più alcuna traccia, se non il ricordo di ciò che erano stati.

 

Jack si stese nel letto accanto a Ianto, che gli dava le spalle, e lo circondò con un braccio, poggiando il proprio petto contro la sua schiena. il ragazzo non si mosse, ma il Capitano percepiva che era sveglio.

“La ami ancora?” gli chiese.

Ianto sospirò e si girò verso di lui.

“Lisa è stata una parte importante della mia vita. Con lei… lei mi ha aiutato nei momenti difficili”.

L’altro abbassò lo sguardo. Non aveva risposto alla sua domanda, ma aveva capito. L’amava ancora. Ma non sapeva dire se la cosa gli facesse male o no.

“Che cosa intendeva quando ho detto che io non so quello che ti ha fatto tuo padre?” gli chiese poi, ricordandosi quella frase della ragazza.
Il compagno però rimase muto, come se non sapesse bene che dire. “Niente… niente di che. Solo che… be’, sai che mio padre era un po’ violento”.
Jack annuì e gli accarezzò i capelli, anche se non del tutto convinto.

“Comunque, Jack”. Ianto riportò lo sguardo su di lui. “Lisa fa parte del passato. Adesso per me conti tu. E’ te che amo”.

Il Capitano lo spinse verso di sé e gli baciò la fronte. “Anche io ti amo”. Intanto il ragazzo premette il viso contro il petto dell’uomo, cercando di rilassarsi tra le sue braccia. C’erano ancora tante di quelle cose non dette, tanti segreti, tanti scheletri nell’armadio. Purtroppo aveva perso l’occasione di parlare con il padre di Jack. Ma forse era anche meglio così.
Che importava, ormai?
Domani era un altro giorno, c’era ancora tanto tempo.

 

  

MILLY’S SPACE

Salve a tutti!

Speravo di arrivare un po’ prima con questo capitolo, ma è stato piuttosto difficile da scrivere. Tutt’ora non saprei dire se ne sono soddisfatta, ma lascerò a voi i commenti.

Vorrei fare alcune piccole precisazioni, poi vi lascio in pace: uno, non so come sia Lisa caratterialmente, voglio dire, non so come l’abbia immaginata Russel Davies, ma io la vedo come una tipa tosta che non si lascia mettere i piedi in testa facilmente. Anche un po’ scontrosa e vanitosa.
Due, non so quale sia il nome vero di Jack (avevo letto in un’altra fanficton che è Jax, ma non sono sicura), perciò ho cercato di evitarlo. Forse la scena tra lui e il padre sarebbe potuta essere fatta meglio, ma ditemi voi.

E, ultima cosa poi me ne vado via sul serio, vi racconto un aneddoto (anche se sicuramente non ve ne frega un schnitzel): un giorno mia mamma stava lavando i piatti, quando io dal bagno la sento urlare come un’ossessa. Dice che c’è qualcosa nel lavello e io immediatamente penso: “Oddio! Uno Scarrol!” Così accorro in cucina e scopro che era solo una lucertola.
Va be’ -.-‘’

Adiòs,

Milly.

PUFFOLA_LILY: Ianto è un ragazzo fortunato, dici? Secondo me lo è Jack ^^ ma vedrai, vedrai… comunque sì, sono abbastanza teneri Ianto e Jack, anche se cerco di non farli troppo sdolcinati perché non è nel loro stile. Sono contenta comunque che la storia ti piaccia. Fatti risentire, un bacio. M.

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Capitolo 9
*** Capitolo otto - Una serata... indimenticabile ***


CAPITOLO OTTO – UNA SERATA… INDIMENTICABILE

Ho già capito chi sei, che cosa cerchi tu da me
che cosa vuoi di più da me
tu vuoi quel graffio al cuore che anch’io fortemente vorrei.

(Fuoco nel fuoco, E. Ramazzotti)

La ruota del Nucleo girò rumorosamente facendo spostare la porta di lato e Gwen entrò dentro quasi saltellando allegramente. Sembrava essere parecchio di buon umore quella mattina, forse una buona notizia o una piacevole nottata con Rhys.

“Buongiorno, ragazzi!” salutò in tono pimpante, ma tutto ciò che ricevette in cambio furono dei borbottii o dei grugniti. “Che allegria! Siete sempre così gioiosi?”

“La gioia è solo una effimera illusione di chi fugge dalla realtà”, sospirò Owen, concentrato a pulire i suoi attrezzi da lavoro e non facendo per niente caso a Gwen.

“Ci siamo dati al pessimismo Leopardiano, Owen?”

In quel momento la porta dell’ufficio di Jack si spalancò e ne uscirono Ianto e il Capitano. Quest’ultimo aveva uno strano sorrisetto sardonico dipinto sulle labbra, l’altro invece scese le scalette camminando a gambe larghe, una smorfia sulle labbra. Soltanto Gwen parve però accorgersene e a fatica trattenne una risata.

“Stamattina ho incontrato Andy”, sbottò allora la ragazza, sedendosi con un colpo di reni su un tavolino e accavallando le gambe.

“Oh adesso mi spiego il tuo buonumore”, la prese in giro Owen, uscendo dal suo laboratorio. “Rhys non ti basta più?”

Gwen gli lanciò un’occhiata omicida. “Idiota”, soffiò in direzione dell’amico, ma nemmeno la sua battuta le rovinò l’allegria. “Comunque, stavo dicendo…”, continuò allora, giocherellando con un cubo di Rubik. “Il dipartimento di polizia di Cardiff organizza una festa stasera e ci ha invitati”.

“E a cosa dobbiamo questo onore?” chiese ancora Owen che quella mattina sembrava grondare acido da tutti i pori quella mattina.

“Be’, dopotutto contribuiamo a tenere in ordine questo posto”, fu la risposta della ragazza che guardò in direzione di Jack ricevendo solo una scrollata di spalle. “Vi va di venire?”

“A una festa con degli sbirri sfigati?!” esclamò il dottore con fare sconvolto. “Non ci penso proprio”.

Gwen sbuffò, ma dopotutto non si aspettava certo che Owen accettasse di buon grado. “Tu, Jack?”

Il Capitano rimase un attimo a guardarla prima di rispondere. “Lo sai che la polizia non mi piace”.

“Ma anche io ero una poliziotta!”

Altra scrollata di spalle da parte di Jack.

“Tosh?” chiese questa volta la ex poliziotta, guardando in direzione di Toshiko e sperando di ricevere una risposta soddisfacente almeno da lei. Essendo anche lei una ragazza, contava nella complicità che correva tra ragazze.

“Le feste non fanno per me”, le rispose invece la giapponese, togliendosi gli occhiali da vista. E questa volta il buonumore di Gwen finì leggermente intaccato. “Immagino di non poter contare neanche su di te, Ianto”.

“Ho portato il mio completo migliore in tintoria la scorsa settimana”.

Certo, che avesse portato il suo completo migliore in tintoria ci stava, ma non credeva assolutamente che ne avesse solo uno. 

“Certo che siete proprio deprimenti”, concluse alla fine Gwen, scendo dal tavolo. “Pensate solo al lavoro. Potreste divertirvi una volta tanto”. Poi tirò fuori dalla tasca qualcosa di rettangolare e lo buttò sul tavolino. “Vi lascio qui i biglietti nel caso cambiaste idea”. E abbandonò la stanza a passo di marcia.

 

Ianto chiuse la comunicazione con la pizzeria da cui erano soliti ordinare il pranzo e poggiò il telefono sul tavolo più vicino. Poi vide i biglietti per la festa di polizia di quella sera e li prese in mano, osservandoli con attenzione.

“Però, non mi sembra una cattiva idea andare alla festa”, disse, dopo un po’. “Qui c’è scritto che sarà servito un buffet e che ci sarà una pista da ballo”.

“Ancora peggio. Non so ballare”, rispose Owen, seduto su una sedia a rigirarsi i pollici. Era indeciso tra il tornare a casa o il restare lì. Non c’era molto da fare quel giorno a Torchwood, la Fessura non aveva mostrato segnali di alcun genere e non c’erano stati avvistamenti di alieni o altro. Stava perdendo tempo lì. Però anche tornare a casa non avrebbe cambiato molto.

“Non devi ballare per forza”, gli fece notare Ianto. “E’ dai tempi del liceo che non vado a una festa in cui si balla”.

Jack, allora, distolse gli occhi da dei documenti che stava leggendo e li puntò sul compagno.

“Io all’ultimo ballo del liceo ci sono andato con una certa Jessica”, ricordò il dottore. “Ma poi mi sono fatto la sua migliore amica nei bagni della scuola”.
Ianto lo guardò con una strana espressione, ma non disse niente. si limitò a riporre i biglietti sul tavolo e a girare sui tacchi.

“Ianto!?” lo chiamò il Capitano, buttandosi contro lo schienale della sedia. “Vorresti andarci?”

“Intendi… alla festa della polizia?”

“Sì”.

Il ragazzo non seppe che cosa rispondere. Come mai Jack gli faceva quella domanda? Forse era una domanda a trabocchetto o qualcosa… alla fine, comunque, optò per la verità. “Be’, non mi dispiacerebbe. Ma non è così importante”. Poi si allontanò per andare a prendere le pizze.

 

Durante il pranzo, Owen si cimentò nel raccontare altri episodi dei tempi in cui andava al liceo, senza tralasciare niente, nemmeno quante ragazze si era fatto. Solo Gwen e Tosh lo stavano ascoltando, la prima divertita e l’altra piuttosto infastidita.
Jack sembrava perso nei suoi pensieri, mentre Ianto era troppo impegnato a divorare la sua pizza.

“E poi qualcuno aveva fatto uno scherzo a questa ragazza piena di brufoli, dicendole che io avevo una cotta per lei”, fece una pausa per mangiare un boccone di pizza, poi continuò. “e ha avuto il coraggio di chiedermi di uscire. Credo che abbia passato un’intera settimana a piangere, quando ha capito cosa le avevano fatto”.

“Sei proprio uno stronzo”, commentò Gwen cercando di trattenere le risate.

“Sì, lo ero. Ma da allora lei ha imparato a fidarsi meno della gente”.

Il dottore si zittì e nessun altro prese la parola. Dopo un po’, però, Jack scorse lo sguardo sui suoi compagni e assottigliò lo sguardo, perplesso. “Ianto, hai intenzione di mangiarti anche il cartone?”  Tutti gli sguardi si puntarono su Ianto che a sua volta alzò gli occhi con un pezzo di crosta in mano. Aveva mangiato tutta la sua pizza in poco tempo, cosa che faceva raramente perché l’avanzava quasi sempre, e ora si stava divorando anche le briciole.

“No, è solo che ho fame”.

Il Capitano non parve del tutto convinto, ma scrollò le spalle e decise di lasciar perdere.

“Spero che tu non sia troppo pieno. Andiamo a caccia di Weevil”.

 

“E’ da un quarto d’ora che camminiamo e ancora non ce n’è traccia”, si lamentò Ianto, puntando la torcia attorno a sé, sulle pareti sporche e piene di muffa.  Era divertente cacciare i  Weevil, ma non quando bisognava infilarsi nelle fognature. Poi doveva riempirsi di profumo per non puzzare di merda.

“Ne troveremo uno, vedrai”, cercò di incoraggiarlo Jack che apriva la strada camminando davanti, mentre l’altro seguiva lo svolazzo del suo lungo cappotto grigio.

“Certo. Non vedono l’ora di…”.

“Shhh!” lo zittì allora il Capitano, portando un indice alle labbra e tendendo le orecchie in ascolto. Anche Ianto si mise sull’attenti e gli parve di udire, a pochi metri da loro, il tipico ringhio basso dei Weevil. “Mi sa che ce n’è uno nei paraggi”, bisbigliò, appiattendosi contro il muro. Poi prese a camminare, sempre strisciando contro la parete, finché non arrivò a una svolta nel cui mezzo c’era proprio un Weevil intento ad annusare qualcosa.

“Ehi! Fermo là”.

L’alieno si guardò attorno come in preda al panico, cercando una via di fuga. Jack approfittò di quel momento per saltargli addosso. Cercò di dargli una scossa, ma quello lo disarmò con una potente manata e lo fece cadere a terra. Allora Jack lo prese per le gambe e lo buttò anche lui, salendogli a cavalcioni. Ma il Weevil non demordeva e si difendeva con tutte le sue forze. In poco tempo riuscì a mettere in difficoltà il suo assalitore e a invertire le posizioni. Proprio quando il Capitano si prese un pugno sulla mascella, Ianto afferrò il mostro per le spalle e lo allontanò da lui, lanciandolo contro il muro. Gli assestò un paio di pugni facendolo svenire.
Poi si voltò verso Jack e lo aiutò ad alzarsi.

“Bel lavoro”, gli disse il Capitano sorridendo, piegato in due per riprendere fiato.

“Tu hai fatto il grosso del lavoro”, rispose Ianto, avvicinandosi a lui e pulendogli con un dito il sangue che usciva da una ferita al labbro. Tanto in poco tempo sarebbe guarita. Jack gli prese il dito sporco in mano e leccò via il sangue in modo molto suadente, senza mai interrompere il contatto visivo col ragazzo che si sentì i brividi correre lungo la schiena e una piacevole sensazione nel basso ventre.

Cercò di allontanarsi velocemente ma ciò gli causò un leggero capogiro e gli parve che tutto il corridoio attorno a lui avesse preso a girare. Jack, accorgendosene, lo afferrò per le spalle e lo guardò preoccupato. “Stai bene?”

Ianto alzò gli occhi stanchi su di lui. “Sì, è stato solo un attimo”.

“Sicuro?”

“Certo! Sto bene”. Il ragazzo gli sorrise per rassicurarlo e poi andò verso il Weevil svenuto. Jack non fece altre domande anche se era chiaro che Ianto non stava bene. Era da un po’ di giorni che sembrava avere dei capogiri e rischiava di svenire. E poi gli si leggeva nello sguardo che qualcosa gli dava fastidio. Avrebbe dovuto insistere di più, fare qualcosa però…

“Forza! Andiamo via”.

 

I due uomini risalirono in superficie, Jack con il Weevil buttato su una spalla e Ianto che questa volta apriva la strada. Raggiunsero il Suv in completo silenzio e posarono l’alieno nel bagagliaio, legato come un salame.
Poi si accomodarono anche loro, il Capitano al posto di guida e il suo compagno accanto a lui dal lato del passeggero. Stava per allacciare la cintura, quando il più vecchio gli prese una mano e, avvicinatosi, lo baciò. Ianto, anche se non se lo era aspettato minimamente, lo lasciò fare e socchiuse la bocca per fargli spazio. Dopotutto non era raro che Jack lo baciasse così, senza alcun motivo, come se una vocina nella sua testa glielo ordinasse. O come se, dai suoi baci, dipendesse la sua intera esistenza.
Ma non si fermarono lì. Jack riuscì a slacciargli la cravatta senza che l’altro nemmeno se ne accorgesse, Ianto la vide soltanto volare contro il parabrezza. Poi cominciò ad armeggiare coi bottoni della sua camicia, scorrendogli la mano fredda sul petto.
Poi si ritrovarono sdraiati sul sedile posteriore, senza neanche ricordarsi di come ci erano arrivati, Ianto sotto e Jack sopra di lui. Si baciavano, si accarezzavano, si godevano ogni centimetro dei loro corpi e poco importava se si trovassero in un parcheggio dove, anche se a quell’ora poco affollato, correvano il rischio di essere visti. Non tralasciavano nessun preliminare, non lo facevano da quando… be’, da quando si erano messi insieme, ufficialmente. Perché ora non si trattava più di semplice sesso, non erano solo i loro corpi a unirsi. Era… tutto.

Il ragazzo si aggrappò con una mano ai capelli del Capitano, mentre questi gli mordicchiava il collo, e premette il naso contro la sua spalla, assaporandone il profumo, quel profumo che possedeva soltanto Jack, quel profumo che non se ne andava nemmeno quando odorava di sudore o di fognature. Ma lui non odorava mai di sudore o fognature, quel profumo era sempre lo stesso, inebriante, invadente, eccitante…
Si lasciò sfuggire un sospiro. Non avrebbe resistito ancora a lungo. E Jack, come se lo avesse capito, in poco tempo fu dentro di lui, completamente, senza lasciargli il tempo di prepararsi. Non lo faceva mai, lui era così: veloce e intenso.
Ianto cercò di tenere al minimo i gemiti. Accarezzava il petto del Capitano mentre questi si muoveva su e giù, delicatamente per non fargli male.

Infine, raggiunsero l’orgasmo nello stesso momento e fu come… come aver trovato qualcosa che cercavano da tanto tempo.
Jack si lasciò cadere sul compagno, una mano poggiata sulla sua spalla e la testa sul suo petto. “Ti amo, Ianto Jones”, gli soffiò all’orecchio. Ianto avrebbe tanto voluto piangere, piangere per la gioia, quella gioia talmente forte da essere addirittura opprimente, quella gioia che ti schiaccia sotto il suo peso.

Tutto andava bene, ora. Era con Jack, in quell’auto, c’erano soltanto loro due e tutto andava bene. Il loro mondo era racchiuso lì dentro.

 

Alla fine ci erano andati a quella festa alla centrale di polizia. Gwen ancora non aveva capito come avevano fatto a cambiare idea in così poco tempo, ma non era questo che contava. Non sapeva perché, ma nutriva grandi speranze per quella serata, come se qualcosa di speciale sarebbe dovuto avvenire.

La verità era che Ianto aveva solo espresso un piccolo desiderio di andarci e Jack, inspiegabilmente, aveva acconsentito ad accompagnarlo. Quel giorno il Capitano era stato particolarmente dolce e accondiscendente nei suoi confronti e, per quanto il ragazzo tentasse di non farci caso, non poteva fare a meno di pensare al perché e di sentirsi anche piuttosto contento.

Poi aveva deciso di unirsi anche Toshiko, tanto per conoscere altra gente, aveva detto. E infine si era convinto anche Owen, ma solo perché gli amici lo avevano provocato dicendogli che era asociale e che si vergognava.

E così avevano varcato la porta della centrale sotto gli occhi di tutti. In fondo, non accadeva tutti i giorni che il team di Torchwood si unisse alla gente comune. Tutti bene o male conoscevano quell’organizzazione e l’aura di mistero che vi alleggiava e c’era chi ne era piuttosto attratto e chi preferiva invece non porre troppe domande. Ma, quella sera, più di qualche occhio cadde sui cinque personaggi che, in qualche strano modo, si presentavano diversi dagli altri, e non tanto per i vestiti o per il modo di parlare, quelli erano assolutamente normali, ma per gli sguardi che avevano, per le espressioni, il modo di porsi, di affrontare quella determinata situazione quotidiana. Stonavano in mezzo a tutti quei poliziotti in borghese con i loro rispettivi compagni. O forse erano gli altri a stonare.

“Allora, Gwen, non mi presenti ai tuoi amici?” chiese un ragazzo biondino e piuttosto magro, avvicinandosi a Gwen e ai suoi compagni di lavoro.

“Oh, ciao, Andy. Loro sono Jack, Ianto, Toshiko e Owen. Ragazzi, lui è Andy”, presentò Gwen, contenta come una bimba il giorno di Natale.

“E così sei tu il famoso Andy!” esclamò Jack, esuberante come sempre, stringendo la mano al poliziotto.

“Famoso?”

“Certo. Sentiamo tanto parlare di te”, continuò ad infierire il Capitano, non badando affatto alle gomitate di Gwen.

“Davvero?” Il povero Andy aveva un’espressione proprio perplessa e incredula. Sembrava che questo fatto fosse per lui piuttosto improbabile. “E che cosa si dice di me?”

“Andy!” intervenne Gwen allora per non peggiorare la situazione e lanciò un’occhiata omicida a Jack dietro di lei. “Dov’è la tua accompagnatrice? Perché non me la presenti?”

Il ragazzo abbassò lo sguardo e si guardò i piedi come imbarazzato. “Ecco io… veramente… non sono venuto con nessuno”.

“Vuoi dire che sei qui da solo?!” esclamò la ragazza, esagerando l’espressione sconvolta. “Ma come?”

Ogni altra risposta o protesta venne interrotta in quel momento dall’arrivo di Rhys che teneva in mano due bicchieri di champagne. “Ragazzi, volete anche voi qualcosa?” chiese, più per essere educato che non perché volesse veramente andare a prendere qualcosa agli amici di sua moglie che, doveva confessarlo, non gli andavano molto a genio.

“Sì, vorrei uno di quei drink con l’oliva dentro, se non ti dispiace”, rispose Jack, guardando Rhys con sguardo quasi provocatorio. A volte si divertiva a prenderlo in giro o a farlo esasperare. Ianto alzò gli occhi al cielo. “Te lo porto io”, si offrì, più che altro per fuggire da tutta quella pantomima.

Raggiunse il tavolo del buffet destreggiandosi come un equilibrista tra le varie persone, cercando di non scontrarsi con nessuno, e tirò un sospiro di sollievo. E, completamente dimentico della bibita per Jack, si mise a mangiare tutto quello che gli capitava a tiro.
Forse non era stata una buona idea venire lì, pensò, mettendo in bocca un pezzettino di formaggio. C’erano troppe persone, la stanza era troppo affollata e a lui non erano mai piaciuti i luoghi troppo affollati, come non gli era mai piaciuto stare in mezzo a tanta gente.
Si infilò in bocca due o tre noccioline. Ma che cosa aveva sperato di ottenere? Una serata piacevole e romantica con Jack?
Sospirò tra sé e sé addentando un cetriolo.

“Ehi, hai parecchia fame oggi”, sentì esclamare una voce dietro di lui. Si voltò trovandosi davanti Tosh che gli sorrideva cordiale, come sempre.

Ianto abbassò lo sguardo sul cetriolo che teneva in mano. Non gli erano mai piaciuti i cetrioli, però quello era buono. Poi si accorse di aver finito anche tutto il piatto delle noccioline.
Forse doveva andarci piano col cibo.

Finì di mangiare quel cetriolo e si allontanò senza dire niente. Raggiunse di nuovo Jack, trovandolo circondato da un gruppetto di donne che lo guardavano affascinate e divertite mentre lo ascoltavano raccontare uno dei suoi aneddoti stravaganti. Ma probabilmente non capivano molto di quello che diceva, troppo impegnate a fare altro. Una si era addirittura slacciata il primo bottone della camicia.

A Ianto venne voglia di trascinarlo via per un orecchio. Non ci aveva messo molto a fare amicizia. Possibile che riuscisse ad attirare tutti quei sguardi in così poco tempo?

“Ne hai ancora per molto?” gli chiese in tono piuttosto acido e infastidito.

Jack si voltò verso di lui e lo guardò con cipiglio incuriosito. Poi appoggiò le mani sulle spalle di due donne e, guardandole provocante, sospirò: “Scusate, ma c’è qualcun altro che richiama la mia attenzione”. E, prendendo Ianto per la vita, lo baciò sotto gli sguardi di tutte quelle signore che rimasero piuttosto attonite e sconvolte.

 

Miriam uscì dalla toilette e si avvicinò al lavandino. Aprì il rubinetto dell’acqua lasciandola scorrere sulle mani e nel frattempo si dette un’occhiata allo specchio. La matita nera sotto l’occhio stava andando via, forse era meglio metterne ancora un po’. E magari sistemare il rossetto. Doveva ammettere che si stava piuttosto divertendo quella sera. Credeva che si sarebbe annoiata e che avrebbe dovuto sopportare battute dal pessimo gusto e donne che spettegolavano su ogni persona. E invece no, gli amici e i colleghi di David erano piuttosto simpatici.

Finì di lavarsi le mani e strappò un po’ di carta dall’aggeggio posto accanto al lavandino. Si sistemò il trucco e si rassettò un poco la gonna. Si voltò, pronta a tornare alla festa, quando rimase paralizzata sul posto nel vedere la figura che le stava in piedi davanti. Uno strano essere alto, magro, con uno smoking addosso, la testa ovale. Non aveva né gli occhi né la bocca, ma due lunghe corna in cima al capo su cui stavano due grosse pupille bianche.
Doveva essere una maschera, per forza.

“Chi…  chi sei?” chiese Miriam, con la bocca completamente secca per lo spavento appena preso. “Perché sei vestito così?”

Ma la creatura continuava a non rispondere. Se ne stava lì in piedi a osservarla come se la volesse analizzare per bene.

“Sei venuto con qualcuno? Vuoi che…”, continuò la ragazza, correndo con lo sguardo alla porta. Forse se si muoveva velocemente riusciva a fuggire. Ma cosa mai poteva essere? Sicuramente un uomo con la maschera, ma perché conciarsi così? Voleva uccidere qualcuno? Era un serial killer? O semplicemente voleva divertirsi alle spalle di qualcuno con un orribile scherzo.

Mosse un primo passo in laterale per fuggire via, ma quel mostro, improvvisamente, allungò una mano e la infilò dritta nel petto di Miriam, squarciandola come fosse fatta di cartapesta. La ragazza non fece in tempo nemmeno a tirare un ultimo respiro che quello le estrasse il cuore staccandolo da tutti i suoi tubi e canali e se lo portò alla bocca, addentandolo. Miriam cadde a terra come una bambola rotta, il sangue che sgorgava dal suo petto e dalla bocca.

 

Il capo del dipartimento era stato il primo ad accorrere, attirato dalle grida della moglie che aveva trovato il cadavere di una ragazza riverso sul pavimento del bagno e grondante sangue.
Quando vide che cos’era successo, cercò di tenere i curiosi il più lontano possibile. Anche il team di Torchwood aveva raggiunto il luogo del crimine, entrando subito all’opera. Owen, approfittando della confusione che si era creata, ebbe qualche minuto per esaminare il corpo.

“Non ha altre ferite oltre a questa sul petto. E oltretutto il taglio non sembra essere stato fatto da un bisturi, sembra più uno squarcio, la pelle è strappata. E le hanno portato via il cuore”. Alzò lo sguardo su Jack, come attendendo istruzioni.

“Sappiamo chi è la vittima?” chiese Toshiko.

“Si chiama Miriam”, rispose Ianto, appoggiato allo stipite della porta, completamente impassibile. ”Forse è la fidanzata di quel poliziotto biondo con la maglietta dei Rolling Stones”.

“David! Oh no!” esclamò Gwen, portandosi le mani alla bocca.

In quel momento sopraggiunse anche Andy. “Allora, è un caso per Torchwood?” chiese in tono sprezzante.

“Potrebbe esserlo”.

“Non fare la vaga con me, Gwen!” quasi gridò in direzione della ex collega.

“Cosa vuoi che ti dica, Andy! Ero giù con te, non so cosa sia successo!”

Un altro poliziotto, allora, ordinò anche a loro di allontanarsi da lì per lasciare le prove il più intatte possibile. Il capo era già andato a cercare di calmare gli altri. Non aveva intenzione di dire dell’omicidio, tanto la notizia sarebbe trapelata in ogni caso. Quelli che avevano raggiunto il bagno avevano visto la scena, o quantomeno avevano capito.
Si ipotizzava che l’assassino fosse ancora lì, magari uno dei presenti o qualcuno che si era infiltrato senza invito, perciò fino a nuovo ordine sarebbero dovuti rimanere tutti lì e non allontanarsi per nessun motivo.

 

La polizia si stava già dando da fare interrogando i presenti pur non contando di scoprire qualcosa. Anche Torchwood stava facendo la propria parte, a modo proprio. Owen e Ianto chiedevano agli invitati se avessero notato qualcosa di strano, studiando i loro volti per capire se in realtà qualcosa di strano era presente in loro, mentre Gwen, Jack e Tosh erano impegnati a guardare in giro.

La giapponese era entrata in quello che pareva essere un ufficio. Sicuramente ci lavoravano parecchi agenti, a giudicare dalla presenza di quattro scrivanie e del disordine che vi regnava. Rimase qualche secondo sulla soglia a guardarsi intorno. Poi si addentrò tra i tavoli a controllare, tanto per essere sicura che non ci fosse niente che non andava. Jack era convinto che si trattasse di un alieno, ma lei sperava che fosse solo un terribile serial killer. Almeno per una volta non sarebbe toccato a Torchwood risolvere tutto.
Ad un tratto, però, i suoi tacchi inciamparono in una sostanza appiccicaticcia, come una chewing gum. La ragazza tornò sui suoi passi e scoprì la suola sporca di nero. Si inginocchiò a terra e osservò la roba scura che macchiava il pavimento. Sembrava uno strano liquido, come una piccola macchia di petrolio. Invece, quando lo toccò, scoprì che era solido, anche se molle. Prese una provetta dalla borsa e ne raccolse un po’. In seguito sarebbe andata al suv per inserirlo nel computer e controllare di cosa si trattava.

 

“Allora, di cosa si tratta questa volta?” chiese Rhys con uno strano sorrisetto divertito sulle labbra. “Un alieno che mangia cuori? Un vampiro?”

“Rhys! Non esistono i vampiri!” gli ricordò Gwen in tono quasi sconvolto. Non capiva che cosa ci fosse di così divertente; una ragazza era appena morta e c’era un alieno che minacciava tutti loro. O forse era un serial killer. Il che era peggio. O magari no.

“Questo lo dici tu”.

La ragazza sbuffò e richiuse violentemente l’armadietto che aveva aperto. Quella ricerca si stava prospettando inconcludente. Che cosa speravano di trovare lì? Conosceva quasi tutti i poliziotti che lavoravano in quella centrale, non sospettava di nessuno di loro.

“Oh mio Dio! Chi è che legge queste riviste?!” esclamò ad un tratto suo marito, sfoggiandole davanti una rivista con una ragazza in bikini sulla copertina. “Scommetto che è di Andy”.

“Rhys, per favore, smettila. Non siamo qui per ficcare il naso nelle cose degli altri”, lo redarguì lei.

“A me invece sembra proprio di sì”.

 

“Signore, che ci fa qui?”

Jack si bloccò in mezzo al corridoio e si voltò verso l’uomo che l’aveva chiamato. Era il capo della polizia e non sembrava avere un’aria molto felice. 

 “Cercavo… ehm… il bagno”. Sorrise affabilmente il Capitano con l’espressione più innocente possibile.

“Non è su questo piano. E comunque nessuno le ha dato il permesso di muoversi”.

L’altro alzò gli occhi al cielo. Possibile che la polizia dovesse essere così noiosa? E soprattutto, perché doveva rispettare tutte queste regole? Grazie al cielo Gwen non era così.

“Sì, d’accordo”, rispose. “Vado”. E fece il saluto militare, senza smettere di sorridere. Almeno era riuscito a controllare quel piano. Per fortuna la centrale non era molto grande; contava in Gwen e Tosh.

 

“Jack!”

Jack si infilò in bocca una nocciolina, quando sentì una voce trafelata chiamarlo da dietro le spalle. Si voltò, incontrando la figura di Toshiko che gli veniva incontro con il portatile in mano.

“Avevi ragione. È un alieno!” quasi urlò la ragazza, ricordandosi all’ultimo momento di non parlare troppo forte perché la sala da ballo era piena di persone. Gli altri membri del Torchwood si radunarono attorno ai due. “Ho esaminato la sostanza che ho trovato e guarda un po’ cos’è uscito…”.

Il Capitano lesse velocemente i dati al computer e ad un tratto impallidì di colpo. “Non è possibile”.

“Che cosa?” chiese Ianto.

“Si tratta di un Wheepul”.

“Un che?!”

“Sono tra le creature più letali che ci siano nell’universo”.

“Li hai già visti?”

“Sì, ma credevo che non ce ne fossero più. Ti strappano il cuore dal petto con le loro stesse mani. Non conoscono emozioni né niente, sanno solo cos’è la carne. Non puoi scappare di fronte a loro, puoi solo ucciderli o… morire”.

“Ti strappano il cuore?!” esclamò Rhys sconvolto. Pareva che avesse afferrato soltanto quello della spiegazione. “Come sarebbe a dire che ti strappano il cuore? E per cosa?”

“Per mangiarselo”, rispose Jack come fosse la cosa più ovvia del mondo.

“Ehi, non sentite puzza di bruciato?” chiese ad un tratto la voce di un giovane poliziotto, fermo al centro della stanza.

Ad un tratto, come se quella fosse stata una parola d’ordine, comparve di nuovo la stessa creatura che aveva ucciso Miriam in quella maniera brutale. Era identico, alto, con lo smoking, senza occhi né bocca, le corna in cima alla testa.

Qualcuno urlò ma nessuno ebbe il coraggio di muoversi.

“State tutti fermi!” ordinò Jack gridando forte per farsi udire da tutti. “Non muovetevi se volete salvarvi”.

Ma il poliziotto che aveva parlato prima, ignorando completamente il suggerimento, cercò di filarsela via di corsa, terrorizzato come probabilmente non lo era mai stato in vita sua. Il Wheepul però non gli lasciò alcuno scampo: con un gesto quasi impercettibile, gli infilò la mano nel petto e gli estrasse il cuore.

Soltanto allora si scatenò il panico più completo; la gente cominciò a correre via spaventata, le donne urlavano, qualcuno cercava di riportare la calma, ma invano. Tutti si addossarono alle porte, le quali però parevano bloccate.

Il Capitano, notando che il Wheepul era parecchio confuso, estrasse la pistola e, con un colpo ben mirato, gli sparò in testa, spargendo ovunque il suo cervello. O quello che vi era contenuto.

 

“Be’, direi che poteva andare peggio”, commentò Gwen, alla fine della serata. Dopo quella brutta avventura con l’alieno, i partecipanti alla festa avevano deciso di tornarsene a casa e di dimenticare quell’esperienza. Due morti e un attacco alieno avevano tolto a tutti la voglia di festeggiare. Peccato però che fossero crollati tutti a dormire prima di poter raggiungere le proprie auto, colpa di un po’ di champagne e qualche pillola di Retcon.

“Avremo mai una giornata normale?” chiese Tosh, già indovinando la risposta.

“Sai il lavoro che facciamo. La normalità ormai non esiste più da noi”.

In quel momento li raggiunse anche Ianto, sedendosi accanto a Jack che lo guardò per qualche secondo e gli prese la mano.

“Tutto bene?” gli chiese, senza farsi udire dagli altri.

“Sì, sto bene”, rispose il ragazzo. Non vedeva l’ora, però, di tornarsene a casa e farsi una bella dormita.

 

 

MILLY’S SPACE

Buonasera, bella gente! Non mi dilungo troppo perché sto per uscire.

Vi ricordo solo di andare a visitare la mia pagina Facebook (Milly’s Space), ci trovate un sacco di cose carine, e di lasciarmi qualche recensione. Noto con dispiacere che sono diminuite. Spero ciò non sia dovuto al calo di interesse per questa storia, alla quale io tengo molto. Se così fosse ditemelo apertamente, accetto anche le critiche, lo sapete : )

Bacioni e alla prossima.

M.

PUFFOLA_LILY: io comica?? Ahaha, semmai lo era mia mamma xD Non ti preoccupare, presto si scoprirà qualcosa del passato di Ianto e hai ragione, non sarà affatto piacevole. Io però vorrei sapere di più anche del passato di Jack. Spero che Davies faccia una serie anche su di lui ^^ io non saprei dove metterci le mani, sinceramente. Spero di risentirti, un bacio. Milly.

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Capitolo 10
*** Capitolo nove - La macchina dei ricordi ***


CAPITOLO NOVE – LA MACCHINA DEI RICORDI

Basta un fiore solo in mezzo a un mucchio di rifiuti,
basta il po’ di cielo che quel fumo lascia ancora vedere,
basta il bianco polo, un pellicano sopra spiagge nere…
(Ancora vita, E.Ramazzotti)

Jack diede una leggera spinta verso l’alto alla porta del garage spalancando così l’uscio, dietro al quale una distesa enorme di oggetti accatastati sugli scaffali facevano bella mostra di sé.

Tosh piegò le labbra per dire qualcosa, ma nessun suono uscì dalla sua bocca. Rimase semplicemente imbambolata come un pesce lesso di fronte a tutto quel caos. E pensare che adesso si sarebbero dovuti mettere a cercare un oggetto di cui non sapevano manco il colore le faceva risalire i succhi gastrici dallo stomaco.

“Sei sicuro di non sapere come sia?” chiese a Jack, in piedi accanto a lei.

“No, mi spiace”, rispose lui, schioccando le labbra e addentrandosi nello spazio angusto. Pareva rilassato come se il fatto che dovessero cercare un oggetto extraterrestre di cui non sapevano nulla in mezzo a un centinaio di altri oggetti non lo toccasse affatto. Ma lui era così, pareva che nulla lo disturbasse. Era sempre rilassato. O prendeva dei psicofarmaci oppure era così di natura, unico nel suo genere. Be’, dopotutto era Jack e, visto che lavorava da tanti anni per Torchwood, doveva esserci abituato.

La ragazza sospirò rassegnata e seguì Jack dentro il garage. Che importava se quella mattina si era svegliata con la luna storta e avesse dovuto prendere due pastiglie contro il mal di pancia a causa del ciclo! Il lavoro non poteva aspettare.
Sperava solo che il tizio al quale apparteneva quel garage stesse via abbastanza a lungo per dare il tempo a loro di trovare quello che cercavano. Fortuna che avevano il radar con cui rintracciarlo, ma se non cercavano nei posti giusti nemmeno quello sarebbe stato tanto utile.

“Qui non ci sono segnali. Prova ad andare più in fondo”, disse all’amico, tenendo gli occhi fissi sullo schermo del radar. Il Capitano obbedì senza protestare e cominciò a rovistare in mezzo a degli scatoloni pieni di dischi in vinile.

“Questo tipo sembra essere un collezionista di oggetti vecchi ed inutili”, sbuffò l’uomo, storcendo il naso di fronte a quella che pareva essere una palla da basket sporca e completamente sgonfia.

“Potremmo lasciargli un biglietto con dei suggerimenti”, propose Tosh in tono scherzoso. “O mettergli a posto direttamente il garage”.

“Ah no, io non lo faccio!” esclamò Jack, alzando le mani e imitando una perfetta faccia sconvolta, facendo ridere la ragazza.
I due continuarono, senza dirsi niente, a rovistare tra i vari scatoloni, le mensole, gli scaffali e oggetti vari, ma dopo un paio di minuti Toshiko decise che non le andava di stare in silenzio. “Allora… tu e Ianto…”, cominciò, ma non sapeva esattamente che cosa voleva dire. Forse non era un discorso di cui gli andava di parlare, ma sempre meglio che parlare del tempo.

“Io e Ianto cosa?”

“Sì, insomma… come va tra te e Ianto?”

Jack assottigliò gli occhi in un’espressione perplessa. “Bene. Perché me lo chiedi?”

La ragazza si spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio imbarazzata e girò gli occhi per la stanza per evitare di guardare il collega. “No, così… tanto per parlare”.

“Be’, se vuoi posso parlarti di quello che facciamo a letto”, propose allora il Capitano, guardandola con un sorriso sghembo.

Tosh arrossì. “Oh no, no! Non serve!” si affrettò a rispondere e l’uomo ridacchiò divertito. “E tu piuttosto? Hai conquistato qualcuno?”

La giapponese si morse il labbro. “No, nessuno. Non è che abbia molto tempo per socializzare”. Probabilmente il discorso sarebbe continuato su quella direzione causando non pochi imbarazzi alla ragazza, ma all’improvviso il radar nelle mani di Toshiko emise un bip molto forte, facendo sobbalzare entrambi.

“Dovrebbe essere qui. Prova a spostare qualcosa”.

Jack prese in mano un vecchio cellulare con l’antenna ma lo mise da parte vedendo che non era l’oggetto incriminato. Lo stesso fece con una bambola di pezzo a cui mancavano un occhi e un braccio e con un sonaglio per bambini. Finché non prese in mano una vecchia macchina fotografica e il radar parve impazzire.

“E’ quello! A quanto pare è un oggetto molto potente”, constatò Tosh, spegnendo il radar.

“Sì, dobbiamo stare attenti”.

“Posso vederlo?”

Il Capitano lo passò nelle mani dell’amica che se lo rigirò tra le mani come per analizzarne bene la struttura. Premette un pulsante facendo aprire un piccolo sportello sul lato. “Guarda, c’è ancora il rullino”.
Jack si sporse per vedere, ma tutto d’un tratto le pareti del garage scomparvero e la stanza si riempì di rumori di passi, di persone che parlavano, di auto che andavano sulla strada, di clacson e strepiti di ogni tipo.
I due alzarono lo sguardo sbigottiti e increduli. Ad un tratto l’uomo spinse la ragazza per farla salire sul marciapiede ed evitarle un bel investimento da parte di un ciclista che sfrecciava veloce quasi quanto un auto.

“Oh mio Dio! Siamo in Giappone!” esclamò Tosh, riconoscendo i palazzi, le strade e le scritte in giapponese. Probabilmente erano a Tokyo, considerando il traffico e le persone che camminavano frettolosamente.

“Come ci siamo finiti qua?” chiese Jack, allontanandosi dal mezzo della strada e trascinandosi accanto ad un muro pieno di volantini.

“Forse è stato questo”. Guardarono la macchina fotografica con sguardo quasi spaventato. Poi la giapponese spostò gli occhi sull’amico e lo guardò con un misto di senso di colpa e dispiacere. La sua espressione non pareva molto contenta e ciò la lasciò un po’ basita; quando erano finiti nel periodo della seconda guerra mondiale lui ne pareva quasi felice, completamente a suo agio. Adesso invece sembrava così spaesato.

“E come ci torniamo a casa?”

“Non sembra che siamo finiti in un altro tempo. Forse ci ha solo spostati nello spazio, non nel tempo, quindi ci basta prendere un aereo se non capiamo come funziona”, rispose la ragazza, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

Jack si infilò le mani in tasca e si guardò attorno.

“O forse…”, riprese Tosh, guardando qualcosa a qualche metro di distanza da loro e che pareva aver attirato la sua attenzione. “O forse no”.

Tutto ad un tratto la giapponese si mise a correre verso qualcosa o qualcuno e Jack fu costretto a rincorrerla. “Toshiko!” gridò, ma lei non gli badò.

Raggiunsero una bambina di sette o otto anni che stava attraversando un portone massiccio di una palazzina e loro si infilarono dietro di lei, seguendola anche su per le scale. “Toshiko!” chiamò di nuovo Jack, aspettandosi che la bambina si fermasse o si girasse verso di loro, ma lei parve non averli nemmeno notati. Ma chi era? E perché Tosh la stava inseguendo?
Si fecero cinque rampe di scale sempre dietro alle calcagna di quella piccola sconosciuta e, arrivati all’ultimo pianerottolo, la seguirono pure dentro ad un appartamento dal quale provenivano due voci che parlavano in modo piuttosto concitato.

La bambina raggiunse le scale che conducevano al piano superiore, ma non salì in cima; si fermò a metà e si sedette sui gradini, attenta a quello che le due persone si stavano dicendo in giapponese.
Anche Jack e Tosh si accoccolarono sull’ultimo gradino.

“Tosh, si può sapere perché siamo arrivati fin qui?”

La ragazza non rispose subito, parve forse soppesare le parole da dire. “Quella bambina sono io”, sospirò infine, lasciando il Capitano leggermente scioccato. “e questa è una scena a cui ho assistito quando avevo otto anni. A quanto pare siamo finiti indietro nel tempo”.  

L’uomo avrebbe voluto chiederle qualcos’altro, ma le voci dell’uomo e della donna, di certo i genitori della bambina, fermi in mezzo alla cucina, si erano fatte più alte e ora si stavano decisamente gridando addosso. Non capiva che cosa si stavano dicendo, ma sicuramente non erano belle cose. Doveva essere un brutto litigio.
Alzò lo sguardo verso la versione piccola di Toshiko e la vide che si tappava le orecchie per non sentire. Poi cercò di guardare quella seduta accanto a lui, ma gli stava troppo in basso e non riusciva a vederla bene in viso. Tuttavia non disse niente e restò a guardare.

A un certo punto, l’uomo, preso sicuramente da un impulso, alzò il braccio e colpì la moglie su una guancia, facendole inclinare la testa e lasciandole il segno delle cinque dita. Lei lo guardò scioccata e con le lacrime agli occhi. Anche la piccola Toshiko si era spaventata, tanto che scappò nella sua stanza, anche se rimase a sbirciare dalla soglia.
Poi la donna giapponese prese a urlare qualcosa al marito completamente fuori di sé. Ma lui si limitò a voltarle le spalle, ad afferrare la giacca e a uscire fuori sbattendosi la porta di casa dietro le spalle.
Nella casa rimase soltanto il silenzio, interrotto dai singhiozzi della donna.    

Tutto d’un tratto, la casa cominciò a vorticare attorno ai due intrusi e davanti a loro si ricostruirono di nuovo le pareti del garage dal quale erano partiti, con tutti gli oggetti accatastati gli uni sugli altri.

I due restarono per qualche secondo in silenzio come a voler riprendere fiato.

“Stai bene, Tosh?” chiese Jack, aggrappandosi a un piccolo banchetto dietro di lui.

“Sì”, rispose la ragazza, cercando di asciugare le lacrime che già da un po’ avevano preso a scorrerle lungo le guance. “Sono solo… sono solo… sorpresa. Tutto qui. Avevo cercato di dimenticare quell’episodio”.

“Non serve che me lo racconti”.

Toshiko sospirò; era una fortuna che Jack non si impicciasse, non le andava di certo di raccontare come si era conclusa l’ennesima litigata tra i suoi genitori. Suo padre, dopo quell’episodio, era tornato a casa solo dopo due settimane e soltanto per dire che voleva il divorzio. La bambina di otto anni che era stata un tempo ne era rimasta parecchio traumatizzata e la ragazza di quasi trent’anni che era adesso non era ancora riuscita a superarlo.

“Forse è meglio se andiamo”, concluse il Capitano, dirigendosi verso l’uscita. La giapponese si asciugò le ultime lacrime e cercò di ridarsi un contegno.

“Tosh, sicura di stare bene?” chiese di nuovo Jack notando che la collega non lo stava seguendo.

“Sì, sì”, si affrettò a rispondere. Poi afferrò la macchina fotografica, stando bene attenta a come la toccava, e uscì alla luce del sole.

 

Quando i due rientrarono alla base trovarono già tutti al lavoro.

Jack scivolò dieto le spalle di Ianto che stava pulendo una tazza nella piccola cucina improvvisata, e gli poggiò le mani sui fianchi. “Mi sei mancato”, mugolò. Il più giovane sorrise; gli piacevano quelle attenzioni da parte del Capitano. “Che ne dici se mi fai quel tuo delizioso caffè e mi raggiungi in ufficio?” L’uomo non   attesa la risposta, tanto sapeva che l’altro avrebbe obbedito; si allontanò dal compagno e si defilò nel suo ufficio.

“Ianto, potresti mettere questo negli archivi?” chiese Tosh, poggiando la macchina fotografica aliena che lei e Jack avevano trovato quella mattina. Non le andava più di toccarla. Non ne capiva bene il motivo, ma era ancora piuttosto scossa per l’episodio della sua infanzia a cui aveva dovuto assistere, di nuovo. Pensava di averlo superato e invece non era così. L’aveva semplicemente nascosto in una parte recondita della sua mente e non aveva più osato pensarci. E ora, rivedendo di nuovo quella scena, ci stava male.
Si sedette al computer e cercò di distrarsi col lavoro. Dopotutto, lei faceva sempre così.

“Ci penso io, Ianto!” si intromise Owen, risalendo di corsa i gradini del suo studio e raggiungendo il tavolino su cui stava l’oggetto extraterrestre, poi insieme a Gwen andò giù per le scale.

Ianto aveva finito di preparare il caffè, sia per Jack che per Tosh. La ragazza lo ringraziò con un sorriso, ben contenta di quella bibita calda che sicuramente l’avrebbe rimessa un po’ in sesto. Poi il giovane andò verso l’ufficio di Jack ed entrò quasi timidamente.
Il Capitano stava seduto alla sua scrivania, leggendo delle carte. Ma non appena vide l’altro entrare, alzò lo sguardo e gli sorrise.

“Tutto apposto?”

“Certo!” Ianto gli passò la tazza e si sedette sulla scrivania. “Tu? Com’è andata la ricerca stamattina”.

“Abbastanza bene. Ma abbiamo scoperto anche qual è il suo potere”.

“E cioè?”

“Credo sia qualcosa come far rivivere dei ricordi spiacevoli a chi lo tiene in mano”.

“Molto… spiacevole”.

“Sì, Tosh è stata costretta a rivedere un litigio tra i suoi genitori”.

“L’avevo vista un po’ scossa”.

Jack allora si alzò dalla sedia e si avvicinò a Ianto, cingendogli i fianchi con le braccia. “Ma non parliamo di ricordi spiacevoli ora”, sussurrò, a pochi centimetri di distanza dalle sua bocca. Senza lasciargli il tempo di dire nulla, si fiondò sulle labbra del ragazzo e prese a baciarlo con desiderio.

“Forse non dovremmo. Qualcuno potrebbe entrare”, gli fece notare Ianto, ma Jack continuò come nulla fosse, slacciandogli la cravatta e infilandogli una mano sotto la camicia.

 

“Secondo te come funziona?” chiese Owen, appoggiato su una libreria nella penombra della stanza degli archivi. Gwen alzò lo sguardo su di lui, scorgendo soltanto una parte del suo viso illuminata da una fioca lampadina dall’altra parte della stanza.

“Sinceramente non mi va di saperlo”.

“Non sei curiosa neanche un po’?”

La ragazza si avvicinò a lui e puntò gli occhi sulla macchina fotografica che l’amico teneva in mano. “Prova a schiacciare qui”, gli suggerì indicando un grosso bottone. Owen obbedì e un piccolo sportellino si aprì sul lato. “No, niente”.

Ma prima che i due potessero fare qualsiasi altra cosa, gli scaffali della stanza degli archivi scomparvero e si rimodellarono tutto attorno a loro delle pareti bianche piene di poster di gruppi musicali e ragazze in bikini.

“Owen! Dove siamo?” chiese Gwen, spaventata. “Come ci siamo finiti qua?”

“Non ne ho la più pallida idea”, le rispose l’amico, guardandosi attorno con fare circospetto. Quel posto gli era molto familiare, così come quei poster e tutti quegli oggetti che c’erano nella stanza. Soltanto in quel momento si accorsero di un ragazzo seduto su un letto al centro della stanza. Doveva essere un adolescente. Era piuttosto attraente dall’aspetto, ma aveva un’aria da bad boy. Non pareva però aver notato i due intrusi.

“Lui non ci vede”, constatò Gwen. “Siamo come fantasmi. Ma chi è?”

Owen, resosi conto di quello che era appena capitato, spalancò gli occhi e si sentì rizzare i peli delle braccia. “Quello… quello sono io”.

L’amica lo guardò grave. “Che?”

“Siamo tornati indietro nel tempo. Siamo nel mio passato”.

Il giovane Owen si tolse le cuffie del walkman dalle orecchie e scese dal letto.

“Come facciamo a tornare indietro?” chiese allora la ragazza, rigirandosi di nuovo tra le mani quell’oggetto che li aveva portati fin lì.

“Non ne ho idea”.

Videro il ragazzo aprire la porta e Owen senior decise di seguirlo. Arrivarono fino al piano terra, dove una donna dall’aria piuttosto trasandata era buttata sul divano con gli occhi chiusi e una mano sulla fronte. Nel salotto sembrava essere caduta una bomba: c’erano bottiglie di alcolici sparse ovunque, alcune mezze vuote altre vuote completamente, vestiti sparsi dappertutto, piatti e bicchieri impilati sul tavolino…

La donna sul divano non dormiva affatto perché si accorse della presenza del ragazzo appena entrato. “Owen!” esclamò con voce roca. “Sei ancora qui? Che fai, perdi tempo come sempre? Perché non ti trovi un lavoro?”

Il giovane Owen non disse nulla, si limitò a raccogliere le stoviglie e a portarle in cucina. L’Owen adulto, invece, rimase a osservare la donna. Il suo alito odorante di alcool gli arrivava fin lì, benché fosse a qualche metro di distanza. Sua madre beveva talmente tanto che a volte si dimenticava persino del suo nome.

“Gwen, trova un modo per andarcene”, ordinò alla ragazza dietro di lui. Gwen cominciò ad armeggiare con la macchina fotografica, schiacciò tutti i bottoni, ma non successe nulla.

Owen junior tornò di nuovo in salotto, fece per prendere qualcos’altro, ma si vide volare una bottiglia di vodka accanto al viso e sfiorargli appena l’orecchio. Tuttavia non reagì in alcuna maniera. L’altra sua versione, invece, rimase paralizzata sul posto, i pugni stretti e il respiro che si faceva più frenetico.

“Portami una bottiglia di birra”, gridò la madre. “O vattene a morire come tuo padre”.

Ma il ragazzo non lo fece. Si avvicinò alla porta d’ingresso, afferrò la giacca e uscì, seguito dalle urla della madre che si udivano fino in cortile. L’altro Owen lo seguì e Gwen gli stette dietro. “Perché lo stiamo seguendo?” chiese.

“Non lo so”, le rispose l’amico. Ed effettivamente era vero, non sapeva perché lo stava seguendo. Era come se una vocina nella sua testa gli dicesse che doveva farlo, che era giusto così. Non sapeva che cos’era, ma non riusciva a resistere a questa sensazione.

Dopo pochi metri, arrivarono ad un’altra porta. Owen suonò il campanello e venne ad aprirgli una ragazza che doveva avere più o meno la sua età, molto graziosa anche se aveva gli occhi leggermente gonfi, probabilmente un residuo dell’essersi appena svegliata.

“Owen”, disse semplicemente e si spostò per farlo passare. Gwen e Owen adulto entrarono dietro all’adolescente. “Vuoi sederti?” chiese la ragazza. Indossava dei pantaloncini molto corti e una canottiera aderente. Il ragazzo si accomodò senza una parola. “Ti va qualcosa?” gli chiese, aprendo il frigorifero. Ma non ottenendo risposta, lo richiuse. Allora si sedette di fronte all’ospite e puntò gli occhi su di lui. Questi però non la guardava, teneva lo sguardo fisso a terra e aveva l’aria di una persona incredibilmente bisognosa di aiuto. “Tua madre ti ha lanciato di nuovo addosso qualcosa?”

Solo allora ci fu una reazione da parte del ragazzo, man non quella che ci si sarebbe aspettati: si allungò verso la ragazza e la baciò con violenza, senza alcuna passione o desiderio. Lei cercò di spingerlo via, ma lui continuava a volerla baciare. Si aggrappò persino alla sua maglietta, cercando di togliergliela.

“Basta, Owen!” gli gridò, riuscendo finalmente a toglierselo di dosso. Lui si allontanò e rimase a guardarla con sguardo vuoto. Lei intanto cercò di rimettersi a posto, ma sanguinava da un labbro, probabilmente un ricordino dei denti del ragazzo.

“Mi dispiace, Lucy”, sussurrò,  senza guardarla.

Lei sospirò e si diresse al lavello per pulirsi il sangue.

Gwen e l’altro Owen, fermi sulla soglia della porta, che erano rimasti a guardare la scena senza commentare, videro la stanza vorticare e tornare ad assumere le sembianze della stanza degli archivi di Torchwood.

La ragazza mise giù l’oggetto e si voltò in direzione dell’amico. Questi stava tremando e aveva lo sguardo vacuo fisso in un punto di fronte a sé.

“Ne vuoi parlare?” gli chiese, prendendogli una mano.

“Non c’è niente da dire”.

“Forse ti farebbe bene…”.

“No!” quasi gridò, puntando gli occhi su Gwen. Lei indietreggiò spaventata; quello sguardo era così pieno di odio, rabbia repressa, disperazione. Cercò però subito di calmarsi, accorgendosi della reazione dell’amica. “Scusami, Gwen… io… io sono solo… scosso, tutto qui”.

“Sicuro?”

“Sì, mi passerà”.

La ragazza non cercò di indagare oltre, anche perché sapeva che da un testardo come Owen non avrebbe ottenuto molto.
Così, si limitò a tornare di sopra, cercando di dimenticare quell’episodio. Ma una parte dell’odio e della rabbia che sentiva Owen la condivideva anche lei. Dopotutto, non era giusto che una madre trattasse il figlio così. Solo ora capiva perché Owen avesse certi comportamenti.

Nessuno dei due però si accorse di uno strano esserino che aveva preso a muoversi dentro all’obiettivo della macchina.

 

I componenti del Torchwood decisero di andare a pranzo insieme, ma né Toshiko né Owen parlarono di quello che era successo. Entrambi però parevano piuttosto assenti con la mente; sicuramente le brutte sensazioni che l’esperienza rivissuta aveva acceso in loro continuavano a tormentarli.

Quando rientrarono al Nucleo, tentarono di rimettersi al lavoro. Tosh notò un movimento anomalo della Fessura e richiamò i compagni perché lo esaminassero con lei sullo schermo del computer.
Solo Ianto non si unì, attardandosi a mettere in ordine qualcosa. Ma, passando vicino alla scrivania, vide la macchinetta fotografica che Jack e Toshiko avevano portato quella mattina poggiata sopra.
Eppure era convinto che Owen e Gwen l’avessero messa a posto.

“Ragazzi, che ne facciamo di questa?” chiese agli altri, brandendo in mano l’oggetto.

“No, mettilo giù”, gli gridò Jack, osservando che il ragazzo aveva un dito pericolosamente vicino al bottone maledetto.

Troppo tardi, però: Ianto per sbaglio premette quel pulsante e lo sportello a lato della fotocamera si aprì per la terza volta. Il Nucleo scomparve.

I cinque membri di Torchwood al completo vennero di nuovo catapultati in un vortice spazio-temporale che li fece finire, questa volta, in una strada deserta, nei pressi di un parco giochi piuttosto malridotto. Le altalene erano staccate, la scala per salire sullo scivolo era priva di alcuni gradini e l’erba cresceva incolta. Un pallone sgonfio e sporco era abbandonato nel mezzo, insieme ad alcune bottiglie di birra.

“Ma dove siamo?” chiese Tosh guardandosi intorno, ma non c’era niente, né casa, né segnale o cartellone pubblicitario che le facesse capire dove potessero trovarsi. Solo quel parco isolato e il cielo grigio sopra di loro.

“A Cardiff” le rispose Ianto, osservando qualcosa al centro del parco. “Nella zona più povera della città”.

“E tu come lo sai?” gli chiese Owen che sembrava star annusando l’aria con fare sospettoso.

“Guardate là!” esclamò Gwen attirando l’attenzione di tutti. Stava indicando col dito una panchina nel parco, l’unica panchina integra, dove era sdraiato un ragazzo, adolescente a giudicare dai lineamenti del viso. Aveva capelli scuri e leggermente lunghi, indossava un paio di jeans strappati e una felpa grigia a cui aveva arrotolato le maniche. Sembrava essere piuttosto magro per quanto larghi gli stavano quei vestiti. Teneva gli occhi chiusi, come se dormisse, le labbra distorte in un broncio e tra le dita stringeva una sigaretta.  

“Chi è?” chiese Tosh incuriosita.

“Ha un’aria familiare” le fece eco Owen. 

“Sono io”.

Tutti si voltarono verso Ianto con gli occhi sgranati. Tranne Jack che era rimasto impassibile a spostare lo sguardo dal Ianto adulto in piedi vicino a lui a quello adolescente sdraiato sulla panchina.

 

 

MILLY’S SPACE

Ebbene, spero vi sia piaciuto questo capitolo… ho deciso di rivivere un po’ il passato di alcuni personaggi perché da quello che ho notato Davies rimane molto sul vago quando si tratta dell’infanzia o dell’adolescenza dei suoi personaggi, il che un po’ mi dispiace. Ma non mi impedisce di crearmi delle storie ^^.

Nel prossimo capitolo assisteremo a quella di Ianto e vi consiglio di prepararvi: sarà piuttosto traumatico.
Purtroppo ho dovuto dividere il capitolo in più di una parte a causa della lunghezza, spero non vi dispiaccia.

Lasciatemi qualche recensione, mi raccomando e… ci vediamo presto : )

HELLOSWAG: sono contenta che ti piaccia. Fatti risentire, un bacio. M.

PUFFOLA_LILY: dici che potrei? Mah, chissà… posso sempre provarci. Dopotutto su Jack possiamo sbizzarrirci. Ianto ha decisamente qualcosa che non va, ma chissà cos’è?? ^^ non ti preoccupare, lo scoprirai presto. Ciau.

AMAYFOX91: se vuoi dirmi la tua teoria su quello che succederà puoi farlo, non c’è problema : ) e se non vuoi farlo nella recensione, puoi scrivermi nella mia pagina facebook https://www.facebook.com/MillysSpace sarei molto contenta di saperla : ) un bacione, Milly.

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Capitolo 11
*** Capitolo dieci - Tears ***


NELL’EPISODIO PRECEDENTE DI “HUMAN LOVE… AND NOT”: Jack e Toshiko hanno trovato una macchina fotografica aliena in grado di trasportare indietro nel tempo le persone che le stanno a contatto, precisamente nel periodo della loro vita che più li ha scossi, costringendoli ad assistere, come fantasmi, a ricordi che hanno cercato di dimenticare.
Tosh ha rivissuto la propria triste infanzia segnata dalla brusca separazione dei genitori mentre Owen ha assistito ai maltrattamenti da parte della perennemente ubriaca quando era adolescente. Ora tocca a Ianto… chissà cosa lo ha traumatizzato tanto…

N.B. questo capitolo è piuttosto forte, ne sconsiglierei la lettura ai minori di 15 anni.

CAPITOLO DIECI – TEARS

Ero una bandiera ferma, che aspettava il vento
come un sorso d’acqua pura che scorre in gola.
(Io prima di te, E. Ramazzotti)

I cinque membri di Torchwood al completo vennero di nuovo catapultati in un vortice spazio-temporale che li fece finire, questa volta, in una strada deserta, nei pressi di un parco giochi piuttosto malridotto. Le altalene erano staccate, la scala per salire sullo scivolo mancava di alcuni gradini e l’erba cresceva incolta. Un pallone sgonfio e sporco era abbandonato nel mezzo, insieme ad alcune bottiglie di birra.

“Ma dove siamo?” chiese Tosh guardandosi intorno; non c’era niente, né casa, né segnale o cartellone pubblicitario che le facesse capire dove potessero trovarsi. Solo quel parco isolato e il cielo grigio sopra di loro.

“A Cardiff” le rispose Ianto, osservando qualcosa al centro del parco. “Nella zona più povera della città”.

“E tu come lo sai?” gli chiese Owen che sembrava star annusando l’aria con fare sospettoso.

“Guardate là!” esclamò Gwen attirando l’attenzione di tutti. Stava indicando col dito una panchina nel parco, l’unica panchina integra, dove era sdraiato un ragazzo, adolescente a giudicare dai lineamenti del viso. Aveva capelli scuri e leggermente lunghi, indossava un paio di jeans strappati e una felpa grigia a cui aveva arrotolato le maniche. Sembrava essere piuttosto magro per quanto larghi gli stavano quei vestiti. Teneva gli occhi chiusi, come se dormisse, le labbra distorte in un broncio e tra le dita stringeva una sigaretta.  

“Chi è?” chiese Tosh incuriosita.

“Ha un’aria familiare” le fece eco Owen. 

“Sono io”.

Tutti si voltarono verso Ianto con gli occhi sgranati. Tranne Jack che era rimasto impassibile a spostare lo sguardo dal Ianto adulto in piedi vicino a lui a quello adolescente sdraiato sulla panchina.

“Cosa?!” esclamò il dottore. “Non ci credo”.

L’altro scrollò le spalle. “Libero di non credermi”.

“Ma se quello sei tu, allora… siamo nel tuo passato” concluse Tosh, guardando di nuovo in direzione del ragazzo.

“A quanto pare”.

Ianto non cambiava mai atteggiamento, né espressione. Rimaneva sempre impassibile, neutrale, posato… eppure Jack in quel momento riuscì a vedere un barlume di angoscia negli occhi azzurri del ragazzo, qualcosa che lo faceva terribilmente soffrire, qualcosa che già in altri momenti aveva notato ma che ora sembrava essere più forte. Forse era arrivato alla radice, forse adesso avrebbe potuto capire perché…

“Certo che avevi un’aria da ragazzaccio” constatò Owen.

Ianto adolescente a quanto pareva non stava dormendo. Aveva riaperto gli occhi al cielo nuvoloso e aveva tirato un paio di boccate dalla sigaretta.

“Eh già” sospirò quello grande.

Jack gli si avvicinò silenziosamente e intrecciò la propria mano con quella del compagno. Ianto si voltò sorpreso trovandosi i suoi occhi a poca distanza che lo guardavano decisi ma pieni di affetto. E il ragazzo si sentì subito confortato, al sicuro.
Finché c’era Jack neanche i suoi ricordi potevano fargli del male.

Ad un tratto videro arrivare un altro ragazzo. Doveva avere più o meno l’età del Ianto steso sulla panchina ed era vestito quasi allo stesso modo. Solo che aveva i capelli tagliati cortissimi e una cicatrice sul sopracciglio destro.
Si avvicinò al ragazzo nel parco, ma questi non sembrava averlo notato o sentito. O forse faceva finta. Il nuovo giunto perciò fu costretto a dargli un paio di colpi sul fianco per farsi notare. Soltanto a quel punto il giovane Ianto aprì gli occhi azzurri e guardò l’altro con espressione indifferente. Poi, con lentezza e calma, si tirò a sedere per fare posto all’amico.

“Guarda che ho trovato” gli disse questi, saltando tutti i convenevoli. Tirò fuori dalla tasca un piccolo sacchetto con della polvere bianca all’interno. “Me l’ha data Jimmy. Dice che è di ottima qualità”.

Ianto sbuffò. “Spero che non ti sia costata troppo, per quel che vale la parola di Jimmy”.

“Prova” lo esortò l’altro. Prese un fazzoletto, ci mise sopra la polvere, tirò fuori due cannucce e ne porse una al ragazzo accanto a lui.

I due ragazzi si chinarono e si cacciarono un po’ di quella roba nel naso. Subito si buttarono a terra, scoppiando a ridere.

“Aspetta, aspetta” borbottò l’altro tra una risata e l’altra. “Jimmy ha detto che ci mette un po’ a fare effetto. Non puoi essere già partito”.

Ianto tornò di nuovo serio e guardò in direzione dell’amico.

“Voglio fare una cosa” disse questi afferrando il fazzoletto e cacciandosi in bocca tutta la polverina rimasta. Poi si avvicinò a Ianto e gli diede un bacio sulle labbra. Ianto gli accarezzò una guancia, mentre l’altro gli metteva una mano tra i capelli per trarlo più vicino a sé.

Ianto adulto, invece, sentì la stretta di Jack sulla sua mano farsi più forte e tutto il suo corpo irrigidirsi mentre osservava la scena. A quanto pareva scoprire che c’erano stati altri ragazzi che aveva baciato con la stessa passione con cui baciava lui non gli faceva molto piacere.

I due ragazzi nel parco, nel frattempo, si erano separati e ora si guardavano a vicenda negli occhi.

“Un bacio alla cocaina? Wow!” esclamò Ianto, sempre col suo tono indifferente. A quanto pareva quella era una caratteristica che lo accompagnava da sempre.

“L’ho visto fare in un film. Figo, vero?” fece l’altro, pulendosi le labbra con la manica della giacca.

“Sì, figo”.

“Guarda, ho un’altra cosa”, disse ancora l’amico e, da una tasca interna della giacca, tirò fuori una siringa con un ago appuntito e piena di una sostanza giallognola. La mise di fronte a Ianto guardandolo eccitato. “Allora, che ne dici?”

“Cos’è?”

“Una bella dose di eroina”.

Ianto rimase leggermente sbigottito e passò lo sguardo dalla siringa all’amico.

“Te la regalo. Ma solo perché sei mio amico”.

Il ragazzo era ancora un po’ sbigottito, ma prese la droga con molta cautela, come se fosse la cosa più preziosa al mondo.

“Davvero ti facevi di quella roba?” esclamò Owen, spostando lo sguardo sul Ianto adulto vicino a lui. Come gli altri era rimasto a guardare tutta la scena scioccato, incredulo, stupito. Nessuno si aspettava che il calmo, gentile, pacato Ianto da ragazzino fosse stato… be’, un drogato.

“E non è tutto”. aggiunse l’interpellato. Forse era meglio prepararli, sicuramente non sarebbero usciti indifferenti da quella esperienza. E lui aveva come l’impressione che sarebbe durata ancora molto.

Tornarono a concentrarsi sui due ragazzi nel parco. Ianto adolescente si era intascato la sua eroina, con tanto di commento da parte di Owen (“spero che almeno sia sterilizzato quell’ago), mentre l’amico di cui ancora non si era scoperto il nome si era alzato porgendo la mano anche all’altro.

“Andiamo dagli altri. Ci stanno aspettando” gli disse, spolverandosi i pantaloni.

“Ray?” lo chiamò Ianto. L’altro, che si era già avviato, si voltò di nuovo inarcando un sopracciglio. “Hmm?”

L’amico sembrò ponderare su qualcosa, poi scrollò il capo. “No, niente”.

Ray ridacchiò. “Dai, andiamo”.

Ianto lo raggiunse, accendendosi un’altra sigaretta. I due si misero a camminare nella luce del tramonto.

Gli altri cinque li seguirono senza fiatare. Jack non aveva staccato la mano da quella di Ianto, ma questi sembrava non avere il coraggio di guardarlo. Teneva lo sguardo fisso sulla sua copia giovane.

Arrivarono in un parcheggio, probabilmente sul retro di un supermercato. I due adolescenti si avvicinarono ad un gruppetto di altri ragazzi, tutti più o meno della stessa età, adolescenti ma dalle espressioni per niente rassicuranti. C’era solo una ragazza tra di loro, vestita di borchie e pelle e piena di matita nera attorno agli occhi. Quasi tutti si stavano fumando una sigaretta e qualcuno stringeva delle bottiglie di birra in mano.

“Ray, Ianto!” li salutò uno di loro, con una bandana in testa, battendo i pugni.

I membri di Torchwood, intanto, si erano avvicinati, rimanendo comunque a debita distanza, nonostante gli altri non potessero vederli.

“Dov’eravate finiti?” chiese un altro, che indossava un cappellino da baseball.

“Ho dovuto recuperare questo qui nella Discarica” ridacchiò Ray indicando Ianto.

“Discarica?” gli fece eco Owen.

“Così chiamavamo il parco. Ci lasciavamo tutta la spazzatura”.

“Perché vai sempre in quel posto sudicio?” a parlare era stato di nuovo quello che li aveva salutati inizialmente. Sembrava essere il capo della banda.

“E’ tranquillo”.

“Io odio la tranquillità. È così… silenziosa, pesante…” questa volta fu l’unica ragazza presente a proferire quelle parole. Sembrava essere la più cattiva del gruppo, tutta vestita e truccata di nero, con lo sguardo da dura.

“Taci, nessuno ti ha chiesto la tua opinione, Betsy” la rimbeccò il capo con tono severo. Lei si zittì, ma lo guardò malissimo. “Ho voglia di fare qualcosa” aggiunse poi, guardando gli altri ragazzi.

“Andiamo alla spiaggia” propose quello col cappellino da baseball.

“E a fare che? Raccogliere conchiglie?”

“Perché non rubiamo in quel supermercato?” propose allora un biondino, l’unico che fino a quel momento se n’era rimasto in silenzio.

Il capobanda sorrise e lo guardò come se lo volesse mangiare.

“Bravo, Chris, allora vedo che il cervello ogni tanto lo usi”.

Chris lo guardò storto ma non disse niente. Finì solo di fumarsi la sua sigaretta.

“Andiamo!” li esortò allora l’altro. Ray, Betsy, Chris e quello col cappellino da baseball si alzarono per seguirlo. L’unico a rimanere fermo e impassibile fu Ianto.

“Che fai, Bambi, non vieni? Abbiamo bisogno delle tue mani magiche”.

Ianto sembrò esitare ancora un po’, ma alla fine si decise a seguirli.

“Bambi? Mani magiche?” commentò Owen, ridacchiando.

“Sta’ zitto!” gli intimò Ianto adulto, seguendo i ragazzi, sempre attaccato a Jack, come fosse la sua ancora. E probabilmente lo era.

Arrivarono davanti alla porta d’ingresso del supermercato, sbarrata e chiusa con un lucchetto. Ma ciò non sembrò demoralizzare il gruppetto.
Si misero a cerchio attorno alla porta, lasciando Ianto nel mezzo. Questi si chinò a osservare la serratura.

“Betsy”, disse poi.

La ragazza, come obbedendo a un ordine muto, allungò una mano tra i suoi capelli arruffati estraendone una forcina e porgendola poi all’amico. Sembrava che non fosse la prima volta che facevano quella cosa, erano troppo ben organizzati.

In alcune mosse il giovane Ianto, con uno schiocco secco, fece scattare la serratura. Tolse il lucchetto e la catena, aprendo la porta.

“Questo è il paradiso”, commentò il capogruppo con un sorrisetto soddisfatto. “Arraffate tutto quello che potete”.

I ragazzi non se lo fecero ripetere due volte. Si calarono i cappucci sul viso, per non essere visti dalle telecamere, ed entrarono dentro. Prima di seguire gli amici, però, il boss si avvicinò a Ianto e gli sussurrò in tono malizioso: “Spero che tu ci sappia fare altrettanto bene anche con le cerniere”.

Il ragazzo non disse niente, rimase impassibile, osservandolo sparire dentro. Dopo di che si decise a raggiungerli.

“Cazzo, eri anche un ladro!” esclamò Owen sempre più scioccato. A dire il vero erano tutti scioccati. Avevano già visto il passato più brutto degli altri, ma questo era quello che li stava lasciando più interdetti.

Dopo pochi minuti i ragazzi uscirono, ciascuno con la propria refurtiva. Ianto stringeva tra le mani solo una tavoletta di cioccolato che aveva già scartato, il ragazzo col cappellino da baseball invece si era riempito di riviste con modelle nude in copertina.

“Andiamo a nascondere questa roba. Ci possiamo rivedere più tardi”.

Ciascuno dei ragazzi se ne andò nella propria direzione, solo Ray e Ianto si allontanarono insieme.

“Usala solo se ti serve, quella siringa”, si raccomandò il giovane coi capelli corti. “L’ho pagata cara”.

“Certo”, lo tranquillizzò l’amico, accendendosi un’altra sigaretta.

Il resto del tragitto lo fecero nel più completo silenzio, seguiti dal Torchwood che rimase sempre dietro le loro spalle. Quando arrivarono davanti al cancelletto di una casa dal giardino disordinato e malcurato e i muri scrostati, si salutarono.

“Spero che mio padre sia già a letto”, disse Ianto prima che l’amico se ne andasse.

“Se hai problemi non esitare a chiamarmi”.

L’altro annuì. Poi cominciò a dirigersi verso la porta d’ingresso con sguardo da condannato. Aprì la porta il più silenziosamente possibile e, in punta di piedi, andò verso le scale prendendo a salirle, tallonato sempre dai cinque. Era completamente buio nella casa ed effettivamente era parecchio tardi, se c’era qualcuno probabilmente doveva già essere andato a dormire.

“Oh cazzo!” esclamò a quel punto Ianto adulto.

“Che c’è?” chiese Gwen che non aveva mai sentito l’amico dire le parolacce.

“No… non pensavo che… non ricordavo che fosse successo quel… giorno”.

“Successo cosa?” fece Jack che aveva intuito che stava per succedere qualcosa di brutto. Ianto si girò verso di lui guardandolo con due occhi che sembravano implorargli aiuto. Ma Jack non aveva idea di che cosa fare.

“Che cosa deve succedere?” insisté Owen. Anche lui aveva una brutta sensazione.

“Ragazzi, non avrei mai voluto che vedeste questa scena”.

Di nuovo il dottore fece per aprire bocca e chiedere delucidazioni, ma una voce baritonale accanto a lui lo interruppe.

“Ianto?”

Ianto giovane, giunto ormai quasi in cima agli scalini, si bloccò e sembrò maledire tutti i santi del paradiso.

“Papà” disse, senza alcuna espressione.

“Ti sembra questa l’ora di ritornare?”

Il giovane non rispose subito. Spostò lo sguardo nella direzione dove stavano i cinque, ma senza vederli. Poi tornò a guardare il padre.

“Hai bevuto… di nuovo” concluse solo, anche se non c’entrava niente con la domanda fattagli dall’uomo. Probabilmente voleva solo sviare il discorso.

“Qui le domande le faccio io, ragazzino!” gridò, allora, l’uomo. “E vieni qui”.

Ianto esitò, come prima al supermercato, ma poi scese i gradini e raggiunse il padre. Questi gli diede uno schiaffo in piano volto, facendolo voltare per il contraccolpo.

Tosh gridò per lo spavento e Ianto adulto strinse di più la presa sulla mano di Jack, come se il dolore lo potesse sentire lui.

“Tu non mi devi mancare di rispetto, mi sono spiegato?” gridò di nuovo l’uomo in faccia al ragazzo. Era ubriaco, chiaramente molto ubriaco e il figlio riusciva a sentirgli benissimo l’alito che sapeva di birra. Gli faceva venire la nausea. Il padre lo sbatté contro il muro. “Quelli come te vanno puniti, vanno presi a botte. Sei solo un finocchio di merda”, e gli diede un altro schiaffo.

“No” bofonchiò Ianto adulto. “Non lo voglio… non voglio vederlo”.

Jack lo strinse a sé cercando di farlo voltare, ma l’altro non riusciva più a staccare gli occhi dalla scena.

Ianto giovane, sotto a quel nuovo schiaffo, cadde a terra. Il padre gli diede un calcio nello stomaco mozzandogli il fiato, tant’è che non riuscì nemmeno ad urlare e la sua bocca si distorse in una smorfia di dolore. Poi l’uomo prese a slacciarsi le brache.
Gli altri credettero che volesse solo togliersi la cintura per picchiare il figlio e invece… aveva abbassato la cerniera, calatosi i pantaloni e le mutande esponendo il suo membro duro e turgido. Poi si abbassò verso il figlio prendendo a maneggiare coi suoi pantaloni.

I cinque rimasero a guardare la scena con gli occhi spalancati, colmi di disperato terrore e orrore. Non potevano crederci. La scena era davanti ai loro occhi eppure non potevano crederci. Era… era angosciante, terrificante… inaudito.

L’uomo mise in bella vista il didietro del figlio e, con un affondo secco, lo penetrò, senza neanche preoccuparsi di non fargli male. La cosa non gli importava, dopotutto.
Ianto gridò. Un urlo che si doveva essere sentito fino alla fine della via, un urlo lancinante. Eppure nessuno accorse a vedere che cosa stava succedendo, nessuno accorse ad aiutarlo.
Il ragazzo prese a dimenarsi sotto di lui, battere i pugni per terra cercando di sgusciare via, ma la prese del padre era troppo forte.

“Ti prego… ti prego… ti prego…” cominciò a supplicarlo, col volto pieno di lacrime. “Mi stai… facendo male… ti prego… ti prego”.

Le sue suppliche però sembrarono animare ancora di più l’uomo che prese a spingersi dentro di lui con ancora più forza, e perché smettesse di fare rumore gli bloccò le braccia al pavimento con le proprie mani, tenendolo in una morsa d’acciaio. Il ragazzo non aveva altra possibilità se non lasciare che l’altro lo violentasse, pregando di svenire per non sentire più quel dolore.

“Ti piace, eh, Finocchio? È questo che si meritano quelli come te”.

“Ti prego… basta… ti prego…” lo supplicò ancora Ianto, piangendo e urlando senza sosta, lo sguardo rivolto verso il salotto dal quale vedeva provenire la luce della tv accesa.

Anche gli altri presenti nella casa desideravano trovarsi ovunque tranne che in quella stanza, di fronte a quella scena. Eppure ancora non ne potevano uscire. Quanto ancora sarebbe durata quella tortura?
Tosh si era accucciata per terra in direzione della porta con le mani sulle orecchie per non dover sentire le suppliche e le grida del ragazzo e i gemiti di piacere del suo aggressore, il viso rigato di lacrime e il corpo scosso dai singhiozzi. Anche Owen e Gwen si erano voltati, lui con le braccia appoggiate al muro e il sudore che gli colava sulla fronte e lei col viso nascosto sulla sua spalla, a trattenere il pianto.
L’unico che aveva abbastanza sangue freddo per guardare era Jack che non si era mosso di un millimetro, le labbra strette in un’espressione dura e Ianto tra le braccia gli piangeva contro la spalla.

“Jack, fallo smettere… ti scongiuro, fallo smettere”.

Il Capitano si sentì stringere il cuore. Che cosa poteva fare? Per l’ennesima volta si sentiva impotente e stava di nuovo permettendo che qualcuno facesse del male al suo Ianto. Non poteva nemmeno avventarsi contro quell’uomo e prenderlo a pugni fino alla morte.

Finalmente, dopo un ultima spinta da parte dell’uomo e un altro grido mezzo strozzato da parte del ragazzo, la violenza si concluse. Il padre si staccò dal corpo del figlio e, senza fare né dire niente, si allontanò con espressione beata, contento del suo orgasmo e il membro ancora penzolante.

Ianto adolescente, invece, rimase lì, steso a terra e coi pantaloni ancora abbassati, piccoli singhiozzi scuotevano il suo corpo magro e gracile.
Voltò lo sguardo pieno di lacrime in direzione di Jack e al Capitano, per una frazione di secondo, parve che lo avesse visto. Si specchiò in quelle pozze azzurre e piene di dolore trovandovi il suo Ianto, quello che in quel momento stava stringendo tra le braccia. Erano identici, gli occhi erano identici, stesso taglio, stessa grandezza, stesso colore… e stesso dolore. Adesso capiva, adesso capiva molte cose, cose che prima aveva dato per scontato, a cui non aveva fatto caso. E si diede mentalmente dello stupido. Come aveva potuto essere così superficiale?

Dopo un po’ anche il giovane Ianto cominciò ad alzarsi da quel freddo e sudicio pavimento. Dapprima cercò di mettersi a quattro zampe ma una scossa di dolore lo colpì nella zona del fondoschiena facendolo quasi cadere di nuovo a terra. Trattenne a stento un grido.
Il ragazzo però non mollò e riuscì a mettersi in ginocchio, lasciando sgorgare una lacrima ad ogni movimento. Si tirò su i pantaloni e, con non poca fatica, riuscì in qualche modo ad alzarsi in piedi. Evidentemente aveva paura che il padre tornasse di nuovo e che lo violentasse ancora o chissà cos’altro.

Anche gli altri, notando che era calato il silenzio, si erano voltati per vedere che cosa stava succedendo. Il ragazzo aveva cominciato a salire le scale dovendosi reggere con tutte e due le mani sul corrimano e un paio di volte rischiò di cadere.

Jack era stato il primo a seguirlo, esortando gli altri e trascinandosi dietro un Ianto ancora in lacrime che gli si era aggrappato alla schiena.

Finalmente Ianto adolescente riuscì a raggiungere la sua stanza. I cinque di Torchwood entrarono dentro rapidamente prima che il ragazzo sbattesse la porta dietro di sé con un calcio. Quel gesto però gli fece perdere il già precario equilibrio e così rovinò di nuovo a terra cadendo su un fianco. Un singhiozzo gli scappò dalle labbra.
Gattonò verso l’armadio e ne tirò fuori un borsone vuoto nel quale cominciò ad infilare vestiti alla rinfusa che tirava fuori dai vari cassetti, e altri oggetti che trovava in giro, apparentemente a caso. E tutto questo senza dire niente, senza proferire fiato, se non gemiti di dolore.
Infine infilò la mano sotto il materasso e ne estrasse fuori un coltello dalla lama ben appuntita.

Il gruppetto che era lì impallidì a quella vista pensando a che cosa avrebbe potuto farci. Ma poi, quando lo videro metterlo in una tasca della valigia, tirarono un sospiro di sollievo.

Dopo aver fatto quell’operazione, Ianto salì sul letto e prese il cellulare. Digitò alcuni numeri ma prima di schiacciare il tasto di chiamata rimase a fissare il muro di fronte a lui, con il poster di Star Trek.
Ci ripensò e lo ripose via. Si tastò le tasche e tirò fuori la siringa di eroina che Ray gli aveva dato poco prima.
Accese la lampadina sul comodino, afferrò un laccio che trovò li vicino e se lo legò sul braccio sinistro, poco sopra il gomito. Questa volta non c’erano ripensamenti. Distese l’arto e, con un solo colpo, affondò l’ago dentro la vena. Se gli fece male non lo diede a vedere. Iniettò tutta la stanza spingendo lo stantuffo e, immediatamente, il suo viso assunse un’espressione rilassata. Quando ebbe finito buttò tutto quanto a terra, senza neanche disinfettare, mentre una macchiolina di sangue si faceva largo lì dove si era bucato.
Infine si buttò sul letto e chiuse gli occhi, aspettando che il sonno lo cogliesse.

Jack, Gwen, Owen, Tosh e Ianto adulto vennero di nuovo risucchiati nel vortice e scomparvero. Si ritrovarono a Torchwood, nella loro base, così familiare e così calda.

 

 

MILLY’S SPACE

Ebbene, questa volta non ci ho messo tanto : ) dopotutto avevo il capitolo già pronto… che ne dite? Lo so, lo so, ho esagerato molto le cose. Nel telefilm non si dice che Ianto si drogasse né che era stato violentato dal padre, per quanto questi fosse violento, ma la mia vena sadica non ha resistito. Spero abbiate apprezzato lo stesso, sentitevi liberi di dirmi quello che pensate.

Nel prossimo capitolo, che dovrebbe essere la terza e l’ultima parte, vedremo che cos’è successo in seguito e come ha fatto Ianto a superarlo.

Spero ci sarete.
Baci : )

Milly.  

HELLOWSWAG: be’, non ci ho messo molto… contenta : ) fammi sapere che ne pensi. Un bacio.

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Capitolo 12
*** Capitolo undici - Radici aliene ***


CAPITOLO UNDICIRADICI ALIENE

“Una lacrima sospesa che non voleva scendere,
un sorriso a denti stretti, questo prima di te,
prima di te…”
(Prima di te, E. Ramazzotti)

“Credevo… credevo di averne viste tante, di cose sconvolgenti, ma questa… questa le supera tutte” esordì Owen, appoggiandosi con le braccia al tavolo davanti a lui. Era sconvolto, parecchio sconvolto, e pallido. Erano tutti pallidi e sconvolti e Tosh aveva ancora il viso bagnato di lacrime.

Jack circondò Ianto per i fianchi con un braccio e lo accompagnò al divano facendolo sedere e accomodandosi poi accanto a lui. Il più giovane appoggiò la testa sul petto dell’altro, mentre il Capitano prendeva ad accarezzargli i capelli sulla fronte nel tentativo di farlo calmare.

“Tranquillo, sta’ tranquillo. È tutto ok adesso” gli sussurrò, poggiandogli un bacio tra i capelli.

Tutta la base sprofondò nel più totale silenzio, nessuno osava fiatare. Solo il ronzio dei computer e degli altri macchinari rompeva quella tranquillità.

Finalmente, dopo qualche minuto, Ianto sembrò essersi calmato, aveva smesso di piangere e singhiozzare e anche gli altri avevano recuperato un po’ di colore.

Gwen raggiunse i due fidanzati e si sedette accanto a loro. Poco dopo si avvicinarono anche Owen e Tosh. Volevano dire qualcosa a Ianto, rassicurarlo, confortarlo, ma non trovavano parole. Che cosa si poteva dire in quei casi? Mi dispiace? Ti capisco? Sì, certo, come no. A quanti era capitato di venire violentati dal proprio padre?

“Mi… mi dispiace, ragazzi” proferì Ianto, improvvisamente, senza guardare nessuno, rimanendo sempre abbracciato a Jack. “Non volevo… non volevo che assisteste a quella scena”.

“Oh no!” esclamò Tosh. “Non è certo colpa tua…” fece per dire qualcos’altro, ma alla fine rimase a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Aveva paura di dire qualcosa di troppo o di sbagliato.

“Ianto?” lo chiamò Gwen dolcemente, prendendogli una mano. “Che cos’hai fatto dopo? Lo hai detto a qualcuno? Lo hai denunciato?” sapeva che con quelle domande avrebbe potuto risvegliare altri ricordi brutti nella mente dell’amico, eppure aveva bisogno di sapere, doveva sapere come si erano risolte le cose infine, come aveva fatto il ragazzo a superare tutto quello. E anche gli altri volevano saperlo.

Ianto scosse il capo lentamente. “No, non l’ho detto a nessuno” sussurrò. “Non l’ho denunciato, non ne avevo il coraggio. E poi… anche se l’avessi fatto, lui avrebbe… avrebbe negato tutto e nessuno mi avrebbe creduto. Non godevo di buona fama e avrebbero pensato che mi fossi inventato tutto”.

Gli altri si guardarono tra di loro con espressioni sconvolte.

“E allora che cos’hai fatto?” insisté Owen, riportando lo sguardo sull’amico.

Ianto deglutì prima di ricominciare a raccontare. Si vedeva benissimo che tentava di non piangere. “Sono andato via di casa. Dopo quella sera mi sono alzato all’alba, ho preso la valigia e sono uscito senza dire niente a mio padre. Bobby, il ragazzo con la bandana che avete visto, aveva una specie di rifugio in una casa abbandonata. Lui viveva lì, dopo che i suoi l’hanno cacciato e ogni tanto ci ritrovavamo insieme ad altri, anche più grandi. Sono stato lì per alcuni mesi”. Fece una pausa, come per cercare di ricordare quella vita che sembrava appartenere a una persona totalmente diversa e non a quel ragazzo pacato che conoscevano tutti. “Stavo male, tutte le notti avevo degli incubi… tremendi. Però non volevo parlarne con nessuno, neanche con Ray che era il mio migliore amico… mi vergognavo troppo.
   C’era la droga, però… c’era solo quella. Mi ha aiutato, nell’unico modo in cui la droga poteva aiutarmi: confondendomi il cervello e i ricordi. Quasi tutte le sere qualcuno veniva con della roba nascosta nei pantaloni. Coca, marijuana, hashish, eroina… e alla fine ero talmente fatto che non mi ricordavo neanche il mio nome.
   Solo che poi me ne pentivo perché sapevo che mi stavo facendo male. Allora cercavo di vomitarla. Poi però stavo di nuovo male e ne prendevo ancora. Era un tunnel senza via d’uscita, non riuscivo più a controllarlo.
   Una sera ci eravamo fatti tutti quanti, alla grande… io mi ero addormentato tra le braccia di Ray, non ricordo perché, e la mattina dopo l’ho ritrovato accanto a me freddo e morto. Era andato in overdose, credo.
   Betsy era rimasta sconvolta, lei era sempre stata innamorata di Ray, e si era spaventata. Aveva paura che succedesse anche a lei. Così aveva deciso di smettere e aveva convinto anche  me. Io all’inizio non volevo… desideravo solo morire, come Ray. Almeno quella situazione sarebbe finita. Però lei era stata testarda”.

Jack alzò lo sguardo verso il soffitto ringraziando mentalmente Betsy.

Ianto continuò, nessuno osava interromperlo. “Era stato difficile, molto difficile. Stavamo per ricascarci, arrenderci. Però, alla fine, ci siamo riusciti. Abbiamo mollato la droga, le rapine nei negozi e anche la compagnia di Bobby. Volevamo rifarci una nuova vita.
   Così, quando eravamo abbastanza puliti, lei decise di andarsene da Londra, non le piaceva più stare lì, e io mi trovai un lavoretto per poter vivere decentemente per conto mio.
   Però avevo ancora il ricordo di quello che mi aveva fatto mio padre e gli incubi mi tormentavano”.

“Come hai fatto a superarlo?” gli chiese Gwen.

“Lisa” rispose Ianto. “L’ho conosciuta un giorno, per caso. Le raccontai tutto, tutto quanto. Mi ha aiutato lei, mi ha regalato i momenti più belli della mia vita. Così sono riuscito a non pensarci più. E mi ha fatto entrare a Torchwood”.

Gwen, Owen e Tosh lo guardarono dispiaciuti. Jack lo strinse più forte a sé.

“E tuo padre? Hai saputo più niente di lui?” chiese Tosh.

Ianto scosse il capo. “Non l’ho più cercato e nemmeno lui l’ha fatto. Un paio di anni fa è morto, solo come un cane”, l’ultima frase la disse in tono duro, pieno di odio e disprezzo, un tono che i suoi compagni non l’avevano mai sentito usare.

“Posso chiederti quanti anni avevi quando… sì, quando è successo?”

“Diciassette”.

Gli altri spalancarono gli occhi.
Sei anni… erano passati solo sei anni da tutta quella vicenda.

Ad un tratto Ianto si staccò dall’abbraccio di Jack e, senza guardare nessuno, bofonchiò un: “Scusate, devo andare in bagno” e si alzò allontanandosi velocemente, forse per non dover rispondere ad altre domande, forse per non vedere più le facce sconvolte e piene di pena dei suoi amici o per non dover più sentire il cuore di Jack battere fortissimo nel petto e tutto il suo corpo che tremava di rabbia, dolore o chissà cosa.

“Ragazzi!” esclamò Owen ad un tratto, alzandosi. “Non so come abbia fatto Ianto, ma io probabilmente mi sarei già ucciso. Cazzo! Non ha nemmeno usato il preservativo e Dio solo sa come abbia fatto a non prendersi l’HIV con tutti quegli aghi”.

“Io credo che non mi sarei nemmeno rialzata da quel pavimento”, aggiunse Tosh.

Anche Gwen si alzò, dando le spalle agli amici. “Non credevo… non credevo che gli potesse essere capitata una cosa del genere. Non credevo che a qualcuno che conosco possa essere successo qualcosa del genere”.

Owen le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla. La ragazza gliela accarezzò voltando il capo nella sua direzione.

“Jack!” esclamò Toshiko. “Tu… tu che cosa ne pensi?”

Il capitano inarcò le sopracciglia.

“Tu lo sapevi?” aggiunse Gwen, aspettandosi una risposta affermativa.

L’interpellato esitò un attimo prima di rispondere, fissando gli amici come se non li vedesse. Poi scosse il capo in un cenno di diniego.

“No. Non me lo ha mai raccontato”.

Nessuno però, dalla sua espressione, riusciva a capire che cosa provasse.

Ianto, nascosto dietro una porta, li guardava e li ascoltava. Non pensava che nella sua vita gli sarebbe capitato di rivivere quell’episodio che ormai aveva accantonato in un angolo remoto dei suoi ricordi e tantomeno si sarebbe potuto immaginare che anche i suoi amici, nonché i suoi colleghi di lavoro potessero venire a scoprirlo, persino vederlo. E la cosa non gli piaceva per niente. Non tanto per il fatto che ciò li aveva lasciati sconvolti, ma più perché ora sapeva che le cose sarebbero cambiate, ora lo avrebbero guardato con occhi diversi, forse trattato in modo diverso. Era come un terribile segreto che ora era venuto fuori, di fronte agli occhi di tutti. E faceva male pure a lui, di nuovo quel dolore, quella sofferenza che pensava di aver spento erano ritornati in lui, forti. Persino quella corazza di distaccata gentilezza e serenità sentiva che stava per cedere.
Che cosa sarebbe successo poi? Quanto ciò lo avrebbe danneggiato? Perché era sicuro che lo avrebbe danneggiato, profondamente. Già ora sentiva una crepa dentro di sé.

Lanciò un’occhiata a Jack… Jack, la sua ancora dopo Lisa. Lui avrebbe potuto aiutarlo nel caso fosse ricascato di nuovo in quel baratro? E che cosa aveva provato lui vedendo quella scena? Era rimasto sconvolto come gli altri? Forse per lui, che aveva vissuto tanti secoli, viaggiato in mondi diversi, visto cose aldilà del mondo, questo non era niente.

 

Torchwood si era messo di nuovo all’opera.
Se c’era qualcosa che avevano imparato da tutte le esperienze che avevano avuto era non lasciarsi abbattere né distrarre da niente. Avevano un lavoro, un compito importante da svolgere e non potevano distrarsi, dovevano tenere gli occhi puntati solo su quello e tutto il resto, i fatti personali, le emozioni, persino i sentimenti in taluni casi dovevano essere lasciati fuori.
Anche se non sempre era facile.

Tosh si era messa di nuovo ai suoi computer, a digitare bottoni, fissare lo schermo attraverso i suoi occhiali da vista, concentrata come sempre, Owen stava nel suo studio personale, a pulire i suoi attrezzi da lavoro e Gwen era seduta sul divano a guardare il cellulare, probabilmente scambiandosi messaggi con Rhys.
Jack, come al solito, era rinchiuso nel suo ufficio.

Tutto come al solito, apparentemente. Eppure era diverso. L’aria che si respirava e l’atmosfera erano diversi. C’erano ansia, inquietudine, la tensione si poteva tagliare con un coltello. E tutto giaceva nel silenzio, un silenzio spaventoso, si poteva quasi dire. Di solito Owen parlava ad alta voce quando faceva qualcosa, si faceva domande da solo e poi si rispondeva, faceva battute, scherzava, prendeva in giro. E Tosh correva sempre di qua e di là per la stanza cercando oggetti, carte, matite. Nemmeno Gwen stava mai zitta, rispondeva alle prese in giro di Owen, scambiava quattro parole con Toshiko.
Adesso, invece no. Sembrava che avessero perso tutti quanti l’uso della parola. E non sembravano molto concentrati sul lavoro, sembrava essere solo un buon modo per distrarsi, tutto qui.

Ianto si sedette sulle scale, dove nessuno lo avrebbe notato. Almeno sperava. Avrebbe tanto voluto avere qualcosa da fare per distrarsi, per non pensare… e poi… e poi sentiva tanto la necessità di un abbraccio, un abbraccio forte, sicuro, che gli dicesse che tutto sarebbe andato bene.
Forse Jack… guardò nella direzione del suo ufficio. Ma non aveva così tanta voglia di andare da lui, non con quello stato d’animo.

Non dovette starci a rimuginare molto. Fu Jack a venire da lui. O meglio, spalancò la porta dell’ufficio, facendogli fare un balzo sul posto, e si appoggiò con le mani sulla ringhiera guardando in basso, dove stava Toshiko.

“Tosh!” la chiamò. “Hai individuato segnali alieni?”

“No, è tutto piatto” rispose lei col suo solito tono vivace. “La macchina fotografica è immobile”.

Jack allora si voltò in direzione di Ianto e lo guardò con i suoi penetranti occhi chiari, come a volerlo sondare fin dentro l’anima. Poi gli regalò uno dei suoi soliti sorrisi sghembi per i quali Ianto impazziva sempre. Ma non in quel caso, il che faceva capire quanto a terra fosse il suo stato d’animo. E non solo quello.

“Mi prepari uno dei tuoi caffè?” gli chiese col tono più gentile possibile.

“Certo”, fece l’altro, contento di avere finalmente qualcosa da fare.

Scese giù rapidamente e si posizionò alla macchinetta del caffè, sentendosi gli sguardi degli altri addosso, ma fece finta di niente.

Rimase a osservare come il caffè bollente e fumante scendeva nella tazza. Aveva un colore stupendo secondo lui, quel marrone chiaro, quasi caramello. Per non parlare poi dell’odore: tiepido, inebriante… rassicurante.

Rassicurante.

Rassicurante.

Come le braccia di Jack.

Pensa alle braccia di Jack, Ianto, pensa alle braccia di Jack. Si imponeva di pensare. Ma era tutto vano.

Le sue grida, gli insulti di suo padre, il suo cazzo dentro di lui, il dolore, le lacrime… tutto gli tornò di nuovo fuori in un colpo solo.
Allora respirò profondamente e cercò di concentrarsi sulle voci degli altri che ora avevano preso a discutere di qualcosa. Ma non funzionò nemmeno quello, la voce di suo padre che gli urlava “Finocchio di merda” continuava ad echeggiargli nelle orecchie.

“Tu che ne pensi, Ianto?” sentì chiedere la voce di Gwen, ma sembrava provenire da molto lontano. “Ianto?” ripeté quando questi non rispose. Il ragazzo era rimasto a fissare un punto imprecisato di fronte a sé, il respiro leggermente accelerato.

“Ianto”.

Si sentì sfiorare una spalla e per poco non balzò in aria. Voltandosi, incontrò gli occhi di Jack che lo guardavano preoccupati. “Stai bene?” gli chiese questi.

Ianto annuì leggermente cercando di tornare a concentrarsi su quello che stava succedendo attorno.

“Ci stavamo chiedendo che potere potesse avere l’oggetto alieno, se è pericoloso. Tu cosa ne pensi?”

“Non lo so”, sussurrò il ragazzo, senza guardare nessuno dei compagni.

Allora Jack riprese in mano la situazione assumendo l’atteggiamento da Capitano e ordinò a tutti di mettersi al lavoro e provare ad analizzare la macchina fotografica. Infine disse a Ianto di venire nel suo ufficio. Quando questi entrò, chiuse la porta dietro di sé con uno sguardo parecchio afflitto.

“Che cosa vuoi?”

“Voglio che parliamo”, rispose il Capitano in tono perentorio, sedendosi dietro la sua scrivania.

“E di cosa?”

“Di mele e banane”.

Solo allora il ragazzo alzò lo sguardo verso il compagno per guardarlo confuso.

“Voglio che parliamo di quello che ti è successo”.

Ianto si avvicinò a lui e si sedette sulla scrivania. “Perché?”

“Perché tu non l’hai affatto superato, hai solo cercato di non pensarci. Devi parlarne con qualcuno”.

“Non voglio”.

In quel momento gli ricordava tanto un bambino capriccioso e a Jack veniva un po’ da ridere. Si alzò dalla sedia e poggiò le mani sui fianchi del ragazzo. “Perché non l’hai detto a tua sorella? Ti avrebbe aiutato”.

L’altro sospirò. “Perché… perché non volevo, lei aveva la sua vita e non poteva preoccuparsi di me. E poi ci vedevamo poco, non…”. Una lacrima gli scese lungo la guancia e il Capitano si affrettò ad asciugarla col pollice. Stava per aggiungere qualcosa, quando all’improvviso venne interrotto dall’urlo di Tosh.

I due si precipitarono immediatamente fuori dalla porta e quello che videro li lasciò paralizzati per qualche secondo: l’intera base era stata ricoperta di una strana pianta rampicante e piena di spine, come quelle delle rose, solo molto, molto più grosse e appuntite. Era andata ad annodarsi attorno alle ringhiere, alle scale e agli oggetti.
Gwen era schiacciata in un angolo, gli occhi pieni di paura puntati contro quelle strane radici, mentre di Owen non c’era traccia. Tosh invece era stata catturata dalla pianta che le si era attorcigliata su un piede. La ragazza cercava di districarsi, tenendosi con le mani avvinghiata alle gambe della sedia.

Jack corse subito ad aiutarla, seguito da Ianto.

“Dammi la mano, Tosh!” le gridò il Capitano. La ragazza afferrò la sua mano e cercò di tirare fuori il piede, ma più lei tirava più quella pianta si stringeva attorno a lei e ora le era già arrivata a metà coscia.
Allora Ianto tirò fuori la sua pistola e, tolta la sicura, la puntò contro la radice che teneva imprigionata l’amica e sparò qualche colpo. Quella si ritrasse subito e Tosh ne approfittò per spostarsi. Ma immediatamente un’altra radice spuntò da quella che Ianto aveva colpito.

“Andiamo via da qui!”

“Owen, dove sei?”

“Quaggiù!”

La testa di Owen spuntò da sopra le radici e la si vide spostarsi verso l’uscita. Si fermò però a dare una mano a Gwen. Quando tutti e cinque si furono ritrovati insieme, si diressero subito all’uscita richiudendo la ruota dietro di sé. Non si fermarono finché non uscirono in strada.

“Che diamine era quello?” chiese Owen, fermandosi in mezzo alla strada per riprendere fiato.

“Non lo so. Ma credo sia uscito dalla macchina fotografica”, rispose Gwen.

“Dove andiamo adesso? Il Nucleo è inaccessibile”.

“Possiamo andare nel mio appartamento”, propose Ianto. “E li decidiamo che fare”.

 

In poco tempo i membri del Torchwood raggiunsero l’appartamento di Ianto e lui li fece accomodare attorno al tavolo, offrendo da bere. Voleva tenersi occupato per non pensare.

“Allora, che facciamo?” chiese Gwen. “Qualcuno sa cos’è quella maledetta roba?”

“Ho dei libri di botanica, se a qualcuno va di dare un’occhiata”, propose Ianto in tono ironico.

“Non credo si parli di piante rampicanti aliene”, rispose Tosh. “Ma secondo voi sono anche carnivore”.

“Non ne ho idea e preferisco non saperlo”.

“Dobbiamo trovare un modo per liberarcene”, sbottò Owen, fissando intensamente il suo bicchiere.

“Tu che proponi?” fece Gwen.

“Il fuoco!”

Tutti gli sguardi si spostarono su Jack. Ianto fermò il suo andare avanti e indietro per la cucina.

“Come, scusa?”

“Di solito le piante si distruggono con il fuoco, specialmente quelle rampicanti. Insomma, non possiamo certo estirparla dal terreno”, spiegò lui.

“Ma non possiamo bruciare il Nucleo”, fece notare Ianto.

“Riflettiamo: quella pianta è cresciuta dopo che tre di noi l’hanno toccata e sono stati catapultati nei loro ricordi peggiori. Probabilmente si nutre della paura o del dolore che abbiamo provato in quei momenti, non solo dei nostri, ma anche di quelli che abbiamo provato vedendo i ricordi degli altri”. Il suo sguardo si spostò su Ianto. “E finché noi avremo in mene quei ricordi, quella pianta crescerà ancora”.

“Ne sei sicuro?”

“Sì”.

Calò qualche attimo di silenzio in cui ciascuno rimase immerso nelle proprie elucubrazioni.

“Io non… io non riesco a smettere di pensare a quello che ho visto”, concluse Gwen, evitando lo sguardo degli altri.

“Nemmeno io”, aggiunse Tosh.

“Dovete svuotare la mente, chiudetela. Non pensate a niente”.

Ianto chiuse gli occhi e provò a fare come Jack aveva detto, ma gli riusciva difficile.

“Come facciamo a ucciderla?”

“Ho un piano”.

 

Jack, Gwen, Owen, Ianto e Tosh tornarono di nuovo alla base, armati di lanciafiamme e qualche estintore. Parcheggiarono il Suv al solito posto e si diressero decisi alla baia.

“Allora, siete pronti?” chiese Jack voltandosi verso i suoi amici. Loro annuirono. Dopotutto, non si poteva fare molto altro.

“Ianto?” chiamò il Capitano, avvicinandosi al più giovane. “Sei sicuro? Puoi anche restare fuori”.

“No, vengo con voi”.

“Guarda che…”.

“Lo so, Jack. Ma voglio venire con voi”.

Era contento che Jack si preoccupasse per lui, ma non era un bambino e doveva affrontare le sue paure, soprattutto questa. Una volta per tutte.

“Mi raccomando, niente paura e niente ripensamenti. E speriamo che funzioni”.

Fecero girare la porta del Nucleo e si accorsero che i rampicanti erano ormai arrivati quasi all’uscita. Jack afferrò il lanciafiamme e lanciò un getto di fiamme contro le radici. Lasciarono che bruciasse un po’, poi Owen spense le fiamme spruzzandoci sopra la schiuma bianca dell’estintore. A quanto pareva il piano funzionava perché le radici si stavano ritraendo e non ricrescevano più.
Intanto, Gwen, Tosh e Ianto cercavano di tagliare la pianta per creare più spazio e permettere il passaggio.

A un tratto, però, Gwen, che era rimasta indietro, venne afferrata da una radice che le si attorcigliò attorno al braccio.
Ma rimase bloccata lì sul posto; le immagini che aveva visto nei ricordi di Owen e Ianto le tornarono alla mente prepotenti. L’odio di Owen verso una madre che non sopportava nemmeno la vista del figlio e il dolore e le lacrime di Ianto, ferito dal suo stesso padre. Sentì le lacrime affiorarle sul bordo degli occhi.

Improvvisamente, come era apparso, tutto scomparve e la sua mente tornò di nuovo al presnete.

“Tutto bene?” le chiese Ianto che, con il coltello, l’aveva liberata dalla pianta aliena.

Lei annuì e continuò col lavoro.
Allora era vero che si nutrivano del loro dolore.

 

In poco tempo riuscirono a disintegrare tutte le radici, giungendo fino alla loro radice, ovvero la macchina fotografica di quella mattina. Decisero di bruciare anche quella, tanto per non correre più rischi.
Non erano riusciti ad evitare però che il fuoco rovinasse qualcosa, anche se non c’erano stati danni troppo elevati.

Purtroppo, però, quella maledetta pianta aveva lasciato ovunque una sostanza violacea e appiccicaticcia e così dovettero passare gran parte del tempo e lavarla via.

“Direi che per oggi abbiamo fatto un buon lavoro”, concluse Gwen quando ebbero finito.

“In fondo non è stata così pericolosa. Forse non era nemmeno carnivora”.

“No, le piace semplicemente afferrare le persone”.

“Ho tanta voglia di tornare a casa a mangiarmi un bel piatto di pasta e farmi massaggiare i piedi da Rhys”, esalò Gwen, buttandosi sul divano.

“Beata te che hai qualcuno da cui tornare”, disse Tosh.

“Lo avrai anche tu, non ti preoccupare”.

Ianto, nel frattempo, si era allontanato dagli altri per raggiungere Jack nel suo ufficio. Il Capitano si stava infilando il cappotto.

“Torniamo a casa?” gli chiese. Il ragazzo annuì con aria stanca.

 

Quando Jack tornò in camera trovò Ianto seduto a gambe incrociate sul letto e lo sguardo perso nel vuoto con gli occhi che fissavano un punto indefinito delle lenzuola bianche.
Gli si sedette accanto, cercando di fare il più piano possibile, e gli prese una mano.

“Come stai?”

“Bene”, rispose l’altro anche se non sembrava molto convinto.

“A me puoi dire la verità?”

“Stavo solo pensando…”. Ianto tirò un sospiro e puntò gli occhi azzurri in quelli chiari di Jack. “A quello che ti ha fatto tuo padre?” chiese il Capitano.

“Anche”.

“Era a questo che si riferiva Lisa quando ha detto che io non sapevo cosa ti avesse fatto tuo padre?” Era già da un po’ che se lo domandava, aveva continuato a rimuginarci da quella volta che Lisa era tornata dal mondo parallelo ma non era riuscito a farsi un’idea. Sapeva che il padre di Ianto non era stato un grande esempio di padre e che più di una volta aveva maltrattato il figlio, ma non avrebbe mai immaginato che lo avesse anche violentato. Di solito non si intrometteva negli affari degli altri, non lo interessava e non lo riguardava, però adesso si trattava di Ianto, del suo ragazzo, e aveva il diritto di sapere che cosa lo turbava, i suoi segreti più dolorosi.

“Sì”, rispose il ragazzo debolmente. “Avrei dovuto dirtelo, ma…”.

“Ehi, ehi!” cercò di calmarlo l’uomo. “Sta’ tranquillo. Non è certo una cosa facile da dire, lo so e io non pretendo che mi racconti tutti i dettagli. Però dovresti parlarne con qualcuno, almeno con tua sorella”.

Ianto, a quelle parole, girò lo sguardo facendo intendere che non gli andava di affrontare quel discorso.

“Se tuo padre fosse vivo ti accompagnerei alla polizia per denunciarlo e lui la pagherebbe. E tua sorella ha il diritto di saperlo”.

“Non lo so, Jack”.

“Non serve a niente fare finta che non sia successo”, questa volta la voce del Capitano si era fatta più dura. “Tu hai solo messo da parte questo ricordo in un angolo del cervello e hai cercato di non pensarci, ma non funziona così”.

“E che vorresti fare? Mandarmi da uno strizzacervelli?” sbottò il ragazzo, allora, in tono provocatorio.

“Non ti manderò da nessuna parte se tu non lo vuoi. Puoi parlarne con me, se vuoi, quando te la sentirai. Ho visto le medicine che tieni in bagno”.

Ianto voltò improvvisamente il capo verso Jack e lo guardò leggermente sbigottito.

“Le prendo quando non riesco a dormire. Se dormo da solo ho gli incubi e, credimi, sono terribili. A volte cerco di restare sveglio per non farli”.

Il Capitano gli mostrò un sorriso dolce per rassicurarlo. “Ci sono io qui con te ora e non dovrai più dormire da solo. E se avrai paura potrai stringerti a me”. L’ultima frase la disse in un tono che fece scoppiare a ridere il povero Ianto che alla fine buttò le braccia attorno al collo di Jack che lo strinse in un forte abbraccio.

“Che ne dici se andiamo a dormire?” gli sussurrò all’orecchio.

“Ok”.

Quando si infilarono sotto le coperte, Ianto poggiò la testa sulla spalla di Jack usandola come cuscino e con una mano prese ad accarezzargli il petto, mentre il  Capitano lo strinse a sé, poggiandogli una mano sulla schiena.
E quella fu la prima notte, da quando vivevano insieme, in cui non fecero sesso. Semplicemente si addormentarono, ascoltando il rumore della pioggia che già da un paio d’ore aveva preso a battere sui tetti delle case.

 

 

MILLY’S SPACE

Hola, chicos!!

Ammetto che non sono pienamente soddisfatta di questo capitolo, ma le critiche preferisco lasciarle a voi. Spero recensirete in tanti.

Che altro posso dirvi? Volevo aggiornare prima ma purtroppo ho trascorso un periodo infernale e non ci sono riuscita. Spero che, ora che le vacanze stanno arrivando, troverò più tempo. Intanto vi auguro un buonissimo Natale, nel caso non riuscissimo a sentirci prima.

Un bacione,
Milly.

P.S. e non scordatevi di fare una capatina alla mia pagina facebook.

Bacioni.

AMAYAFOX91: eh sì, hai azzeccato il punto due, vediamo ora se hai azzeccato anche con il primo ^^ grazie mille per i complimenti, è importante per me rimanere in linea con i personaggi perché detesto quando sono troppo OOC. Spero di risentirti, un bacione. M.

HELLOSWAG: eh! Scusa per il ritardo, ma ho avuto tantissimi impegni. Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. Grazie mille per i complimenti. Pensavo di aver un po’ esagerato con la storia della violenza e della droga, ma la tua recensione positiva mi ha fatto cambiare idea. Grazie ancora. Un abbraccio, Milly.

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Capitolo 13
*** Capitolo dodici - Un colpo ***


CAPITOLO DODICI – UN COLPO

Ti vorrei, ti vorrei rivivere anche solo per un attimo,
io vorrei rivivere quella prima volta io e te.
(Ti vorrei rivivere, E.Ramazzotti)

Quando Ianto Jones si svegliò quella notte, circa alle due e un quarto, e tastò la parte del letto accanto a quella dove dormiva lui, la trovò vuota. Eppure si ricordava benissimo di essersi coricato insieme a Jack; avevano fatto sesso come al solito e lui si era addormentato tra le braccia del Capitano.
Buttò i piedi fuori dal letto e si stropicciò gli occhi. Nell’appartamento regnava il silenzio.
A fatica si alzò, per poi trascinarsi pesantemente verso il bagno. Fece tutto con estrema calma: svuotò la vescica, tirando qualche sbadiglio, si rialzò i pantaloni e si avvicinò al lavandino per lavarsi le mani, contemplando con sguardo un po’ schifato la propria immagine riflessa nello specchio. Aveva delle belle occhiaie ed era piuttosto pallido; sarebbe potuto andare bene per fare uno degli zombie nel video di Thriller. A quel pensiero, ridacchiò tra sé e sé. La verità era che aveva solo bisogno di dormire un po’ di più.
E aveva anche l’intenzione di tornare a letto, se non che un rumorino proveniente dal suo stomaco lo fece desistere. Solo in quel momento si accorse di avere fame e di avere voglia di cibo. Il letto avrebbe dovuto aspettare ancora un po’.
Si trascinò questa volta in cucina e guardò nella dispensa: c’era un pacco di cereali al cioccolato quasi vuoto. Sarebbe stato meglio finirlo. Ma poi vide anche un sacchetto di patatine ancora pieno e gli venne la tentazione di mangiare pure quelle. E, siccome non sapeva decidersi, li prese tutti e due, mangiando i cereali e le patatine insieme. Nel frattempo lanciò un’occhiata al salotto, guardando se tutto fosse in ordine. Il capotto di Jack non era appeso al solito posto, questo significava che era uscito. Be’, non era la prima volta che usciva nel cuore della notte, gli bastava che tornasse presto a scaldargli il letto.

Mise in bocca l’ultimo cereale rimasto, insieme a due o tre patatine, quando constatò che quelle schifezze non lo riempivano affatto.
Strano, ho cenato solo poche ore fa, si disse, aprendo il frigorifero e guardando che cosa c’era dentro. Purtroppo non era pieno come il suo stomaco avrebbe voluto, in quei giorni non aveva certo avuto il tempo di andare a fare la spesa, ma c’era della pancetta e della sua marca preferita.
Tirò fuori una padella e un po’ di olio da frittura, buttandoci dentro la pancetta e accendendo il fuoco. Non ci mise molto a prepararla e quando ebbe finito la mangiò direttamente dal forno, appoggiato al piano da lavoro. Ora il suo stomaco sembrava decisamente più soddisfatto.

Sentì qualcuno che girava la chiave nella serratura, seguito dal rumore delle scarpe di Jack sul pavimento dell’ingresso.

“Dove sei stato?” gli chiese quando lo vide affiorare sulla soglia della cucina.

“A fare un giro. Avevo bisogno di un po’ d’aria fresca”, rispose il Capitano guardandolo in modo strano. “Che stai facendo?”

“Mangio”, rispose Ianto, come se mangiare pancetta fritta alle due di notte fosse la cosa più normale del mondo.

“Pancetta a quest’ora?”

“Sì, ne vuoi un po’?”

“No, grazie”.

Il ragazzo mise in bocca l’ultimo boccone rimasto e si pulì le mani con uno straccio.

“Allora torno a letto”. Nel passargli accanto, però, venne bloccato da un braccio del Capitano che lo cinse per la vita. “Stai bene?” gli chiese.

Ianto lo guardò con un’espressione confusa. “Certo. Perché non dovrei stare bene?”

Jack gli sorrise dolcemente. “Chiedevo solo”. Gli diede un veloce bacio sulle labbra e lo lasciò andare. Quando il compagno si fu allontanato, prese un po’ d’acqua dal frigo e guardò la padella e il pacco vuoto di cereali.
Doveva confessare che era un po’ preoccupato per Ianto. Non era del tutto sicuro che avesse superato il trauma della violenza del padre; dopo quella volta non ne hanno più parlato e lui si ostinava a non volerlo dire a sua sorella. Avrebbe dovuto accorgersi prima che c’era qualcosa che lo tormentava; ogni volta che lo guardava negli occhi vi trovava tanta sofferenza, ma non ci aveva mai fatto molto caso e comunque lo aveva sempre attribuito alla perdita di Lisa. E non l’aveva mai visto ridere, nemmeno un sorriso. Ora si sentiva in colpa per non averlo capito prima e per non aver nemmeno tentato di capirlo. Non l’aveva mai visto ridere, nemmeno un sorriso.
Ma soprattutto, si sentiva impotente perché questa era una di quelle situazioni in cui non poteva fare niente per aiutare.

E perché diamine mangiava così tanto in quel periodo? Forse era solo un modo per sfogare il dolore.

 

Quella mattina la sveglia suonò alle sei e mezzo precise. Jack la spense con un colpo secco e mugolò qualcosa di incomprensibile.
Ianto si girò a pancia in su e rimase a fissare il soffitto, quando sentì qualcosa spingergli sulla bocca dello stomaco e dovette correre in bagno. Si abbassò sulla tazza del water e vomitò tutto quello che aveva mangiato quella notte.

“Ianto?” chiamò Jack dalla stanza accanto, insospettito dalla sua improvvisa fuga. Lo raggiunse in bagno, trovandolo abbracciato alla tazza. Si sedette sul bordo della vasca e gli passò un asciugamano per pulirsi. Rimase a guardarlo per qualche attimo, pensando a quanto fosse sexy anche quando vomitava, poi assunse la sua espressione seria e preoccupata. “Che succede?”

“Forse non era una buona idea mangiare pancetta alle due di notte”.

“Sarà solo un’influenza”, lo rassicurò il Capitano. “Perché non resti a casa oggi?”

“No, no. Sto bene”.

“Sicuro?”

“Sì, non ce la farei a restare a casa”.

Ianto si rialzò e, senza fare caso a Jack, ritornò in camera per vestirsi.

“Sei sicuro di stare bene?” gli chiese il Capitano, chiaramente preoccupato.

“Sì, certo!”  Ed era vero, non gli stava mentendo. Doveva essere stato un malessere momentaneo perché si sentiva benissimo. Aveva solo un po’ di fame.

 

“Stanotte la Fessura ha registrato un picco di energia”, disse Tosh leggendo dei fogli che aveva davanti a sé. Lei e gli altri membri della squadra si erano riuniti quella mattina nella sala delle riunioni e studiavano i movimenti della Fessura di quella notte.

“Sappiamo che cosa può essere passato?” chiese Jack, in piedi con le mani poggiate sul tavolo.

“No, ma è sicuramente qualcosa passato in entrata. Farò una ricerca su tutta la città per vedere se ci sono tracce aliene o di altri tempi”.

“D’accordo, Owen, hai…”.

“Jack!”

Gli sguardi di tutti si spostarono su Ianto che non sembrava avere per niente una bella cera.

“Credo che… credo che sto per vomitare”.

Fu una questione di secondi: Jack afferrò velocemente il cestino più vicino e lo passò a Ianto che vomitò dentro l’intera colazione.

“Dannazione, Ianto!” esclamò il Capitano. “E’ la seconda volta questa mattina! E poi mi dici che stai bene?”

“Che cosa?!” aggiunse Gwen.

Toshiko passò un fazzoletto a Ianto che si pulì e cercò di darsi un contegno. Se non ci fosse stato tutto quell’odore di caffè probabilmente il cibo non gli sarebbe tornato su. Ma da quando l’odore di caffè gli dava fastidio?

“Owen, fagli qualche controllo”, ordinò Jack in tono perentorio, portando via il cestino.

“Jack, io…”, tentò Ianto, ma fu interrotto bruscamente da un’occhiata torva del Capitano. “Non dire che stai bene perché non stai bene”.

Il ragazzo esalò un sospiro e seguì Owen senza protestare.

 

“Da quanto tempo hai queste nausee?”

“Da qualche giorno. Solo la mattina, poi all’ora di pranzo passano. Solo oggi mi è capitato di… vomitare”.

Owen infilò un ago nella vena di Ianto e gli fece un rapido prelievo di sangue.

“E hai qualche altro sintomo? Mal di stomaco? Diarrea? Stanchezza?”

“No”.

“Potrebbe essere una semplice influenza intestinale”.

Ianto guardò Jack con un’occhiata che sembrava dire: “Visto? Te l’avevo detto”.

“Non gli hai detto dell’appetito?” sbottò Jack in quel momento, appoggiato alla ringhiera sopra alla sala delle autopsie.

“Che cosa?”

“Ho notato che mangi molto ultimamente, anche a orari strani, come ieri notte”.

“E’ vero, l’ho notato pure io”, aggiunse Gwen.

“Interessante”, commentò Owen. “Quindi, nausee mattutine, appetito… sembrano i sintomi di una gravidanza”.

“Ma non dire idiozie!” sbottò Ianto, guardando il dottore come avesse detto la cosa più brutta del mondo. Jack e Gwen, invece, scoppiarono a ridere.

“Era una battuta. Comunque, controllerò il tuo sangue e cercherò di vedere che cos’hai che non va. Ma mi sembra il sintomo di una normale influenza, quindi ti consiglierei di andare in un ospedale”.

Ianto scese dal tavolo delle autopsie con uno sbuffo irritato; da quando in qua a loro accadeva qualcosa di normale. Sperava solo di non avere nulla di grave.
Si diresse verso le scalette, ma un tremendo capogiro lo colse e dovette appoggiarsi sulla prima cosa che trovò. Improvvisamente, sul muro di fronte comparve l’immagine del suo scheletro con un puntino verde proprio al centro del ventre.

“Che… che cosa?!” esclamò il giovane, guardando quell’immagine, sconvolto.

“Oh mio Dio!”

Jack gli si avvicinò cautamente e poggiò una mano sulla sua per impedirgli che la spostasse.

“Forse dovremmo riconsiderare la mia battuta”, disse Owen.

“Oh no!” fece Ianto, districandosi dalla presa di Jack e lasciando scomparire l’immagine “No, no, no, no!”

“Quella è una macchina della gravidanza”, gli fece notare il dottore.

“Stai insinuando che…”.

“Non sto insinuando niente. Sto cercando di capire!”

“Ianto!”

Ianto si girò verso Jack che con lo sguardo cercò di tranquillizzarlo. “Andrà tutto bene”.

“No! Non andrà bene”.

“Potresti avere qualsiasi cosa lì dentro”, riprese Owen. “Lasciami controllare”.

Il Capitano fece un cenno col capo e Ianto immediatamente si convinse.

Si sedette di nuovo sul lettino e aspettò che Owen tornasse dai sotterranei.

“Ok, questo è un classico e normalissimo ecografo”, spiegò, portandosi appresso un macchinario. “Sdraiati sul lettino e apri la camicia”.

Ianto obbedì, ma guardò Jack come se stesse andando sul patibolo.

Il dottore accese il macchinario e gli spalmò sulla pancia una specie di crema trasparente e fredda. Poi cominciò a passarci sopra uno strumento che somiglia a una specie di piccolo aspirapolvere. La macchina a cui era attaccato cominciò subito a mostrare delle immagini confuse.

“Accidenti! Eccolo!” esclamò Owen.

“Che cosa?”

“Il feto!”

“Che?!” gridò Ianto istericamente. Anche Jack guardava l’ecografo con un’espressione sconcertata.

“Eccolo qui”. Owen indicò qualcosa col dito. “Si vede molto bene e guarda… c’è pure il battito. È di quasi otto settimane”.  

“E’… meraviglioso”, sospirò Tosh. Anche lei e Gwen erano incantate a guardare quelle immagini.

Il ragazzo steso sul letto era incredulo. Sconvolto e incredulo. E no, ancora non ci credeva, benché vedesse anche lui l’immagine di quel feto e gli pareva pure di distinguere un certo battito cardiaco, ma… non era possibile. Non era fisicamente possibile.

“Spegni quel coso”, disse.

“Che cosa?”

“Spegni quel coso!”

Owen obbedì e spense tutto. Ianto si rialzò e richiuse la camicia. “Ora dimmi che diavolo c’è nel mio stomaco”.

Il dottore si guardò intorno come in cerca d’aiuto. “E’ un feto. Un bambino. Chiamalo come vuoi”.

“Non può essere!”

“Ianto, lavoriamo con gli alieni, tutto è possibile! Persino Gwen è rimasta incinta dopo essere stata morsa da un alieno”.

“Ma lui non è una donna”, fece notare Tosh.

Owen scrollò le spalle. “Probabilmente è successo qualcosa che ha fatto sì che… il suo organismo potesse… attuare una gravidanza”.

“Jack?” chiamò Ianto in un ultimo vano tentativo di ottenere la risposta che voleva.

“Owen ha ragione”, disse il Capitano, facendo spalancare gli occhi al compagni. “Però c’è un ultima cosa che possiamo fare per essere sicuri”.

“Cioè?”

“Fai un test”.

“Un test?”

“Di gravidanza”.

Ianto lo guardò come se stesse dicendo la cosa più assurda del mondo. Ed effettivamente tutta la situazione suonava assurda.

“Non abbiamo un test di gravidanza”, ricordò Owen.

“Te lo vado a comprare. Non ci metterò molto”. E detto quello, con uno svolazzo del cappotto, Jack uscì dalla base, come se volesse scappare.

 

“Allora?” sbottò Gwen appena vide uscire Ianto dal bagno.

“Non lo so. Non sono ancora passati due minuti”.

Il ragazzo si sedette sul divano accanto a Gwen, reggendo il bastoncino in mano. Jack continuava a guardare all’orologio. “Guarda adesso”.

Ianto ci mise un po’ a inquadrare il segno sul bastoncino, ma appena lo vide il suo cuore perse un battito. “Oh no!”

“Allora?!” ripeté Gwen, avvicinandosi all’amico. “Oh mio Dio! E’ positivo!”

“Ditemi che è uno scherzo!”

“Ma com’è possibile?” chiese Toshiko.

Owen scosse il capo come per dire che lui non ne aveva la più pallida idea.

“Forse è stato quando sei venuto a contatto con qualcosa di alieno come è successo a me”, tentò Gwen, voltandosi a guardare Ianto. “Ti ricordi se è successo qualcosa del genere?”

Il ragazzo rimase a pensarci per qualche secondo, poi tirò su la manica scoprendo l’avambraccio dove una piccola cicatrice bianca faceva ancora mostra di sé. “Quando siamo andati in quell’orfanotrofio”, iniziò. “una specie di verme mi ha morso”.

“I Callaryani!” esclamò Gwen.

“Ma certo!” aggiunse Jack. Ora finalmente tutto gli era chiaro. “Quel verme che ti ha morso era un verme della fecondazione. Gli basta un morso per rendere qualsiasi tipo di organismo favorevole a una gravidanza. Basta che quella persona faccia sesso, non importa come, e il gioco è fatto”.

“Quindi anche due uomini o due donne possono avere figli loro?” osservò Gwen.

“Sì”.

“Aspettate un attimo!” proferì Ianto in quel momento, scattando in piedi. “Quindi c’è una specie di alieno dentro di me?”

Il Capitano ridacchiò. “No, non proprio. In parte avrà le sembianze di un Callaryano, ma perlopiù sarà umano perché uscirà dal tuo grembo”.

“Vi rendete conto che questo potrebbe rivoluzionare la medicina?” fece Gwen allora. “Anche chi è sterile con questo può sperare di avere figli. E gli uomini che…”.

“No”, la interruppe Jack. “Non sappiamo come funziona e potrebbe essere rischioso”. Si avvicinò a Ianto guardandolo dritto negli occhi. “Devi abortire. Non voglio che tu corra pericoli, non sappiamo se questo… bambino possa nuocerti”.

Ianto annuì mestamente.

 

Gwen osservò Jack seduto nel suo ufficio con lo sguardo perso a contemplare un innocuo oggetto alieno e poi spostò lo sguardo su Ianto seduto sulle scale. Mise via il cellulare con cui aveva appena mandato un messaggio a Rhys e lo raggiunse con passo felpato. Gli si sedette accanto e gli prese una mano.

“Tutto bene?”

Lui si girò a guardarla con un’occhiata vagamente torva. “Tu che dici?”

La ragazza scoppiò a ridere. “Dai, non è poi così terribile”.

Lui riportò lo sguardo di fronte a sé. “Forse no”.

“Deduco che il bambino sia di Jack”.

“Già”.

Calò qualche secondo di silenzio tra i due, poi Gwen riprese. “Avere un bambino è una cosa… incredibile. È qualcosa che cambia il tuo modo di vedere le cose, è… spaventoso, ma al tempo stesso meraviglioso”.

“Tu dici?”

“Sì e secondo me non dovresti abortire”.

Ianto sospirò prendendosi la testa tra le mani. “Jack ha ragione! Potrebbe essere pericoloso e…”. Si interruppe, consapevole che non era questa la verità. “Non… non posso avere un bambino, Gwen. Come faccio? Questo lavoro e la mia vita… non sono fatti per avere un bambino”.

La ragazza gli strinse la mano più forte e lo guardò in volto. “Ma è pur sempre un bambino. C’è una vita che sta crescendo dentro di te ed è… incredibile, in tutti i sensi”.

“Ianto! Quando vuoi vieni”.

I due si voltarono verso Owen che armeggiava nel suo studio. No, Jack aveva ragione, si disse Ianto. Era sbagliato, tutto quello era sbagliato e qualsiasi cosa ci fosse nel suo corpo non doveva esserci.

Si alzò lentamente e raggiunse il dottore che, appena lo vide, gli mostrò una piccola pillola rosa. “Prendi questa pillola. Induce l’aborto fisiologico, poi ne dovrai prendere un’altra per espellere il feto”, spiegò il giovane. “L’aborto farmacologico mi sembra l’unica soluzione”.

Ianto prese la pillola e il bicchiere d’acqua che il collega gli passò. Si sedette sul tavolo chirurgico e osservò attentamente la pillola. Poi guardò la propria pancia e poi di nuovo la pillola. Era la cosa giusta da fare, non poteva avere un bambino, non era pronto e non lo era nemmeno Jack. Però… però anche Gwen aveva ragione, c’era una vita che cresceva dentro di lui e non poteva ucciderla così.
Ma portare avanti una gravidanza non era cosa da poco.

“Owen? Mi fai rivedere le immagini di prima?”

 

“Non posso farlo!” fu la prima cosa che Ianto pronunciò appena entrato nell’ufficio di Jack. Il Capitano alzò lo sguardo su di lui, perplesso. “Non posso farlo”, ripetè il ragazzo. “Non posso abortire”.

“Che cosa?”

“Mi dispiace, Jack, ma non ci riesco. È…”. Si avvicinò lentamente alla scrivania dietro la quale sedeva Jack. “Insomma, Jack, non ci riesco. Non posso farlo. È un bambino ed è nostro…”.

Jack poggiò le mani sulle spalle del compagno e lo guardò negli occhi. “Lo so, ma non possiamo rischiare. È pericoloso…”.

“Perché dovrebbe esserlo? Non è un alieno”. Tirò fuori la foto dell’ecografia che gli aveva fatto Ianto e la mostrò a Jack. Il capitano la prese in mano e osservò attentamente le linee confuse che delineavano quello che doveva esserci nel ventre di Ianto. Si poteva riconoscere benissimo che era un bambino. Improvvisamente sentì qualcosa raddolcirsi nel suo cuore; con un dito tracciò quelle linee e faticò a nascondere un sorriso.

“Non lo so, Ianto”, soffiò infine, riportando lo sguardo sul ragazzo. “Non sei una donna, le cose potrebbero andare male, il tuo corpo potrebbe non sopportarlo”.

“Voglio correre questo rischio”

Jack spostò lo sguardo verso il muro di fronte a sé e poi tornò di nuovo a guardare Ianto. “Non posso perderti, Ianto. Sei sicuro che lo vuoi?”

“Sì”.

Il Capitano si protese verso il compagno e poggiò le proprie labbra sulle sue. Ianto ricambiò il bacio, ma proprio quando si avvicinò di più all’altro e cercò di averne di più, questi si staccò e lo guardò in maniera strana.

Poi si allontanò bruscamente e afferrò il suo capotto. “Scusa, devo andare. Torno presto”. E senza lasciargli nemmeno il tempo di emanare un sospiro, uscì dall’ufficio e poi dalla base.

“Dov’è andato?” chiese Gwen vedendo Ianto tornare dall’ufficio di Jack.

“Non ne ho idea”, rispose il ragazzo. Jack faceva spesso così. Usciva senza dire dove andasse e doveva ammettere che talvolta gli dava un po’ fastidio.

 

Ed eccolo lì, in tutto il suo splendore nella divisa napoleonica. John Hart, l’autentica nemesi del Capitano Jack Harkness.

“Oh, Jack! Non credevo che avrei mai ricevuto una tua chiamata”, disse, non appena si materializzò con il suo manipolatore. “Ammettilo che non riesci a stare senza di me”.

Jack gli mostrò un sorriso sghembo. Dopotutto, gli piacevano il suo modo di flirtare e di pavoneggiarsi.

“Ho solo bisogno di chiederti una cosa”, specificò il Capitano, rimanendo ben distante dall’altro.

“Ma certo che vengo a letto con te”, ghignò John.

“Ti piacerebbe”.

“Oh sì, molto”.

Restarono a fissarsi per qualche tempo, come sfidandosi in un muto duello di sguardi.
Forse non è stata una buona idea chiamarlo, pensò Jack.
Se continua a guardarmi in quel modo lo violento qui sul posto, pensò John.

“Allora, per quale motivo mi hai fatto correre qui? Spero ne sia valsa la pena”.

Jack si avvicinò al bordo del tetto dell’edificio sul quale si trovavano e aspettò che l’altro lo raggiunse. “Una volta sei stato morso da uno di quei vermi della gravidanza di Callary”.

“Devi per forza ricordarmi quell’orribile esperienza?”

“E’ importante”.

John sospirò e incrociò le mani sul parapetto. “Sì”.

“E che è successo dopo?”

“Oh, mi hai visto anche tu! Ero più grosso di una balena spaziale”.

“No, intendo… com’era il bambino? Com’è stata la gravidanza?”

John aspettò un attimo prima di rispondere. “Il bambino era a posto, non aveva due teste o quaranta occhi se è questo che intendi. Mi somigliava molto”, l’ultima parte la disse con una certa vanità, come suo solito. “Comunque sono andato dalle infermiere – gatto per farlo nascere, mi hanno praticamente aperto in due”.

“E dopo che fine ha fatto?”

“L’ho lasciato a loro. Di certo non sono la persona migliore per fare il padre”.

“Non hai più avuto notizie?”

“No, ed è meglio così, per lui e per me”.

“Ma perché non hai abortito?”

“Oh, l’avrei fatto se avessi potuto”. Si interruppe, ma vedendo lo sguardo confuso di Jack fu costretto a spiegare. “Ci ho provato, in vari modi, ma il bambino sopravviveva sempre. Dopotutto, ha in parte geni Callaryani nel suo DNA e loro sono difficili da uccidere”.

Il Capitano annuì e tornò a guardare il panorama di fronte a sé. Le parole di John lo rassicuravano, ma non del tutto.

“Perché mi stai facendo queste domande?” chiese John.

“Semplice curiosità”.

“No!” L’ex agente del tempo si voltò completamente verso Jack e lo scrutò attentamente in volto per capire i suoi pensieri. “Aspetta! Non mi dirai che tu…”, non concluse la frase, ma spalancò la bocca in un moto di pura sorpresa.

“Ma che ti salta in mente!” gridò Jack, intuendo che cosa doveva essere saltato nella mente bacata dell’altro. “No! Non sono incinto!”

“Allora qualcuno della tua squadra! Chi?”

“Non è affar tuo! E la mia squadra non c’entra!” Jack cominciò ad allontanarsi con passo deciso, ma l’altro lo raggiunse di corsa. “Vattene via, John!”

“Eh no! Adesso mi hai chiamato e non ti libererai tanto facilmente di me”.

 

Quando Jack rientrò alla base accompagnato da John, gli altri membri del Torchwood non parvero molto contenti.

“Che ci fa lui qui?” esclamò Gwen, mettendo mano alla pistola.

“Oh, anche io sono contento di vederti”, commentò l’intruso mostrando un broncio tenero.

“Mi serviva per un consulto”, rispose Jack senza guardare nessuno, ma dirigendosi veloce verso il suo ufficio. “Ma ora non vuole più andarsene”.

“Se tu ti decidessi a passare un po’ di tempo con me, smetterei di darti fastidio!” gli gridò dietro John, ma il Capitano fece finta di non sentirlo e sparì nel suo ufficio. Ne riemerse però subito dopo, appoggiandosi alla ringhiera e guardando l’ex compagno con sguardo minaccioso. “Visto che ci tieni tanto a passare un po’ di tempo con me, accompagnami a cacciare i Weevil”.
L’altro non se lo fece ripetere due volte e fece per seguire Jack. Quando però si scontrò con Ianto che lo stava guardando in modo strano. “Oh, ciao, Occhi dolci”, lo salutò John con un sorrisetto sardonico, per poi allontanarsi sculettando.

Quando i due uscirono, gli altri rimasero a guardarsi l’un l’altro basiti. Ianto non era per niente contento; di solito Jack andava a caccia di Weevil con lui o al limite da solo, non l’aveva mai chiesto a qualcun altro. E poi… chissà cosa avrebbero fatto. Non gli era mai piaciuto John, non gli piaceva il suo flirtare con Jack e quella sua mania di professargli il proprio amore, un amore malato secondo lui. Era dura ammetterlo, ma sentiva il potente nodo della gelosia stringergli le viscere.

“Ma perché Jack lo ha fatto venire?” chiese Gwen, più a se stessa che agli altri.

“Se guadagnassi una sterlina per ogni sciocchezza inspiegabile che fa Jack ora sarei ricco”, rispose Owen, mettendo via il suo camicie da lavoro.

“Ragazzi!” chiamò a quel punto Tosh. “La Fessura ha registrato un eccesso di attività, deve essere passato qualcosa”.

“Dove?”

“Nella zona di Wickery Road. Adesso scansiono il posto”.

“D’accordo!” concluse Ianto, cercando di prendere in mano la situazione per non pensare a John e il Capitano. “Ci dirigiamo verso il posto e nel frattempo chiamiamo Jack”.

“Tosh, resta qui per indicarci eventuali spostamenti”, ordinò Gwen, afferrando il suo cappotto.

“Ma, Ianto…”, chiamò lei cercando l’amico con lo sguardo, ma i tre erano già usciti.

 

Quando Ianto, Gwen e Owen arrivarono al posto, una fabbrica di carta chiusa per motivi di manutenzione, Jack non si vedeva ancora.
I tre decisero di passare subito all’azione e la prima cosa contro cui si scontrarono fu un corpo steso scomposto a terra. Apparteneva ad un uomo di mezz’età, un povero malcapitato che si era trovato sulla strada di un terrificante alieno, sicuramente. O chissà che altro.

“E’ morto”, sussurrò Owen, inginocchiato accanto al cadavere.

Gwen e Ianto strinsero forte le pistole, pronti a premere il grilletto. “Restiamo uniti”, disse la ragazza.
Procedettero avanti per un po’, quando sentirono dei rumori provenire da una stanza in fondo al corridoio. Owen si avvicinò cercando di non fare rumore, e sbirciò dentro. “Guardate un po’ chi si rivede!” esclamò a bassa voce, seguendo il profilo di quello che all’apparenza pareva un normale uomo, con vestiti da motociclista. Se non fosse per la grossa testa rossa da pesce.

“Di nuovo quella creatura?” fece Gwen, abbassando la pistola.

“L’avete trovato?” chiese la voce di Tosh all’auricolare del trio.

“Sì, è il pesce palla”, le rispose Ianto, appoggiato allo stipite della porta.

“Adesso ci divertiamo”, concluse Owen, uscendo allo scoperto.

 

“Prendilo! E’ andato di là!” gridò Ianto, indicando con un dito la direzione che l’alieno aveva preso. Gwen gli corse dietro, ma quello era decisamente più veloce di lei. Allora sparò un paio di colpi dalla pistola, colpendo soltanto i muri. “Maledizione!” imprecò.

Il pesce palla sbucò in un altro corridoio, ma lì si scontrò con Owen che gli mollò una gomitata facendolo voltare su se stesso. Questi si riprese subito e si vendicò tirando un pugno in faccia al dottore che quasi svenne. Riuscì però a riprendersi subito e a dargli un calcio sulle ginocchia per farlo cadere a terra.
In quel momento sopraggiunse anche Ianto che cercò di tramortirlo con la pistola elettrica, ma quello si rialzò subito e gli saltò addosso. Ianto cadde di schiena seguito dalla creatura che cercava di prendergli la pistola. Owen cercò di aiutare l’amico, ma l’alieno gli mollò un altro pugno e il dottore sbatté contro il muro.
Per una frazione di secondo Ianto pensò di essere completamente spacciato, ma improvvisamente qualcuno glielo tolse di dosso e lui poté tornare a respirare. Si mise seduto, notando Jack e John che le davano di santa ragione a quell’alieno. Quando il pesce palla spinse il Capitano contro il muro, afferrandogli il collo con le mani, John gli sparò un proiettile nella schiena e quello crollò a terra. E in quel momento li raggiunse anche Gwen. “Ehi! L’avete sconfitto”.

Jack corse immediatamente da Ianto, aiutandolo a rialzarsi. “Stai bene?” gli chiese, controllando che non fosse ferito. “Sì”, rispose il ragazzo. “Non saresti dovuto venire”, lo rimproverò il Capitano. Poi si voltò verso la sua nemesi. “Grazie per l’aiuto”.
“Figurati”, fece quello. “Almeno adesso ti deciderai a passare un po’ di tempo con me?”
Jack sospirò esasperato. “John, io non voglio passare del tempo con te!” gli gridò, a pochi passi da lui. “Non voglio stare con te né per un giorno né per un’ora. Non mi interessi, anzi, non voglio più vederti. Ti ho chiamato solo per quell’informazione e ora che me l’hai data te ne puoi anche andare al diavolo!”
Se non fosse stato così presuntuoso e pieno di sé, qualcuno avrebbe potuto dire che qualcosa dentro a John si ruppe. Abbassò lo sguardo, come a voler nascondere qualcosa, ma subito dopo lo rialzò, guardando il Capitano con furia e odio. Alzò la pistola puntandogliela contro. “Quindi le cose stanno così ora?” ringhiò. “Ti sei dimenticato quello che eravamo? Quello che abbiamo fatto insieme? Non ti importa più nulla?”

“No, non mi importa. Che vuoi fare? Spararmi?”

“Lo so che sarebbe inutile ucciderti”, soffiò in tono sottile. Un sorrisetto sadico gli spuntò sulle labbra. “Ma posso uccidere lui”. E prima che qualcuno lo potesse fermare, spostò la pistola in direzione di Ianto e sparò un colpo, solo uno, che colpì il ragazzo dritto nello stomaco.

“Ianto!” gridò Jack, correndo incontro al compagno prima che cadesse a terra. “Ianto”.

“Jack”, soffiò l’altro, una mano poggiata sulla ferita sanguinante, gli occhi azzurri fissi in quelli del Capitano.  

***

MILLY’S SPACE

Hola!
Speravo di aggiornare prima, ma sono stata impegnata con la stesura di un’altra storia per un concorso, quindi non ho avuto molto tempo per dedicarmi alle fanfiction.
Avete passato bene le vacanze? Non avete fatto indigestione, vero? In ogni caso, vi auguro un buon ritorno a scuola, lavoro e quant’altro. Io non ne ho voglia per niente, ma questa è la vita.
Che mi dite? Piaciuto il capitolo?
Una delle mie lettrici aveva ipotizzato che Ianto fosse incinto e a quanto pare ha indovinato ^^ ahahaha xD be’ dai, non era difficile. Penso, almeno.

Moh, basta con le ciance. Spero di ricevere i vostri commenti. Purtroppo la pigrizia e la mancanza di tempo mi impediscono di rileggere il capitolo, pertanto se ci sono errori, ripetizioni e altri obbrobri, perdonatemi.

Un bacione e buon anno nuovo : )

Milly.

HELLOSWAG: ehi, mi dispiace averti fatto attendere. Comunque, sono d’accordo con te, infatti non sono molto soddisfatta dello scorso capitolo e anche se avessi aspettato per farmi venire l’ispirazione, non credo sarebbe uscito qualcosa di meglio. Confesso anche che volevo concentrarmi perlopiù su Ianto e Jack e quello che è successo a Ianto, quindi il “problema alieno” era solo un contorno. Tuttavia, spero di aver rimediato con questo capitolo. Fammi sapere.
Un bacione, M.

AMAYAFOX91: grazie per i consigli, ho cercato di usarli in questo capitolo. La verità è che non cerco mai di far trapelare troppo i sentimenti di Jack perché neanche nella serie sono troppo chiari, e cerco anche di mantenere quella patina di mistero che lo contraddistingue. Sono contenta comunque che lo scorso capitolo ti sia piaciuto. Spero anche questo : )

P.S. so che non tutti possono apprezzare una gravidanza maschile e se così fosse sentitevi liberi di dirmelo. Se sarete in tanti, vedrò di fare qualcosa. A me l’idea piace e scrivo perlopiù per diletto mio, ma se non ci sono i lettori non avrebbe neanche molto senso, per cui qualche sacrificio lo faccio volentieri ^^

 

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Capitolo 14
*** Capitolo tredici - L'amore cura tutto ***


CAPITOLO TREDICI – L’AMORE CURA TUTTO

“E ci sei adesso tu
a dare un senso ai giorni miei,
va tutto bene dal momento che ci sei”.
(Adesso tu, E. Ramazzotti)

“Ianto!” esclamò Jack scrollando il compagno tra le braccia perché rimanesse sveglio. Owen si precipitò dai due e cercò subito di fare qualcosa per bloccare la fuoriuscita di sangue. Il Capitano allora lo affidò alle cure del medico e si precipitò su John; una furia lo aveva pervaso di colpo ed era sicuro che lo avrebbe ammazzato con le proprie mani.

“Bastardo!” gli gridò, afferrandolo per il bavero della giacca e facendolo sbattere violentemente contro il muro. John non nascose una smorfia di dolore quando la sua testa cozzò contro la parete e temette un trauma cranico. Non aveva mai visto Jack così arrabbiato, mai. Il suo sguardo era… faceva paura e probabilmente questa volta non ne sarebbe uscito vivo. Ma cosa gli era saltato in mente? Si era pentito del suo gesto non appena era partito il colpo della pistola.

“Jack!” urlò Gwen quando l’amico mollò un pugno in faccia alla sua vittima. Voleva fermarlo perché era sicura anche lei che lo avrebbe ucciso.

“Jack, vieni a vedere!” fece allora Owen, osservando Ianto. Soltanto allora il Capitano rivolse l’attenzione ai propri compagni. “Che succede?”
“Guarda!”

Con una spinta fece cadere John a terra e si inginocchiò di nuovo accanto a Ianto. Owen gli aveva tirato su la camicia esponendo il buco che il proiettile gli aveva provocato nello stomaco. Ma le ferite slabbrate improvvisamente avevano preso a rimarginarsi da sole e, quando la ferita si richiuse, il proiettile uscì fuori da solo, come se una bocca l’avesse sputato. Tutti erano rimasti a osservare increduli e senza parole, persino Ianto che era riuscito a non perdere conoscenza. Alla fine, tutto ciò che rimase, fu una macchia di sangue sulla camicia.

“Che diamine…” iniziò Jack, senza sapere cosa dire.

“Forse è il bambino”, sussurrò Owen guardando il Capitano dritto in volto. “Forse ha qualche potere di guarigione. O avrà ereditato il tuo”.

“Il mio? Non può essere! Non funziona così!”

John riuscì ad alzarsi, la manica premuta contro il naso sanguinante. “Quindi eri tu!” Ora gli era chiaro perché a Jack interessava tanto la sua gravidanza.

 “Torniamo al Nucleo!” disse a quel punto il Capitano senza perdere altro tempo e aiutando Ianto a rimettersi in piedi. “E tu vieni con noi”, concluse, guardando John di sbieco.

 

“Il bambino sta bene”, concluse Owen, puntando l’indice sullo schermo dell’ecografo per mostrare la piccola immagine di un bambino ancora troppo piccolo per essere chiamato bambino ma pur sempre un bambino.
Ianto tirò un sospiro di sollievo e strinse più forte la mano di Jack che gli stava accanto, in piedi. Anche lui era nettamente più sollevato. Aveva temuto il peggio, lo doveva ammettere, aveva temuto di perdere Ianto e il bambino in un colpo solo e, per quanto si ostinasse a dirsi che non gliene importava niente, quel bambino per lui era importante, invece. Era suo… suo e di Ianto.

“Certo che sta bene”, sbottò John a quel punto, seduto su una sedia e ammanettato alla ringhiera, con Gwen inginocchiata di fronte a lui che cercava di curargli il naso. “I Callaryani hanno poteri di guarigione e il bambino li ha già sviluppati. Ha protetto anche te, Occhi dolci. È per questo che non puoi nemmeno abortire”.

Sentendo quelle ultime parole, Ianto scattò a sedere. “Che cosa?!”

“Non gliel’hai detto?”

Il ragazzo spostò lo sguardo sul Capitano guardandolo intensamente per chiedergli informazioni, come fecero anche gli altri. Jack restò a boccheggiare senza sapere che dire.

“E tu come fai a saperlo?” chiese Gwen, attenuando la tensione che si era venuta a creare.

“E’ successo anche a me”.

“Sul serio? Tu sei rimasto incinto?!” la ragazza scoppiò a ridere e premette il fazzoletto sul naso ferito di John, dimentica di stare attenta a non fargli male. L’ex agente del tempo gridò per il dolore.

 

John scivolò dentro all’ufficio del Capitano, silenzioso come una piuma. Osservò la perfetta figura dell’uomo, soffermandosi sul sedere, prima di sbottare: “Mi dispiace”.
Jack, che non l’aveva affatto sentito entrare, fece quasi un balzo. Poi ritrovò il contegno e lo guardò duramente.

“Mi dispiace per aver sparato a Ianto”, ripeté, ma non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi. “Non pensavo… non pensavo fosse così importante per te”.

L’altro restò a guardarlo ma non disse nulla.

“Lo ami?” gli chiese allora John, puntando i propri occhi in quelli dell’amato. Il Capitano parve soppesare le parole da dire, ma alla fine esalò un semplice: “Sì”. 
John abbassò il capo. Gli fu difficile non lasciar trapelare sul volto le emozioni che provava in quel momento. Avrebbe voluto che non gliene importasse niente e invece non era così. Amava ancora Jack, lo amava tanto e… lui non era più disponibile, era andato avanti. E stava bene.

“Voglio che te ne vai”, pronunciò il Capitano, scandendo bene ogni parola. “Voglio che te ne vai e che non torni più. Dimenticati di me, dimenticati di Torchwood e vattene per la tua strada”.

L’altro cercò di aggiungere qualcosa, ma alla fine rimase semplicemente a bocca aperta con le parole incastrate in gola. Non c’era niente che potesse dire in realtà, non sarebbe servito a niente. Così, non gli restò altro che rassegnarsi. “D’accordo. Come vuoi, Jack”. E uscì dalla porta, come un cane con la coda tra le gambe. Una cosa era sicura però: non si sarebbe mai scordato di quell’uomo che… che gli ha fatto battere forte il cuore.

 

Quando Jack era rientrato a casa con la spesa, aveva trovato Ianto seduto sul divano a gambe incrociate, lo sguardo perso nel vuoto.
Decise di riporre prima i sacchetti sul tavolo della cucina e poi di andare da lui. Si tolse il lungo cappotto e gli si sedette accanto, ma senza dire neanche una parola. Si piegò e cominciò a baciarlo nell’incavo del collo, facendogli un po’ di solletico, al che Ianto sorrise. Poi il giovane si voltò verso l’altro che smise di baciargli il collo per occuparsi delle sue labbra. Si scambiarono un profondo e passionale bacio, quasi non si vedessero da tanto tempo.

“Che c’è che non va?” chiese il Capitano quando lasciò andare la bocca del compagno.

“Niente”, rispose Ianto un po’ troppo frettolosamente.

“Non mentire”.

Il giovane gallese alzò lo sguardo verso quello del compagno e restò a guardarlo per qualche tempo prima di sospirare: “Quindi… avremo un bambino”.
Jack annuì mestamente e in quel momento qualcosa in lui scattò; soltanto ora si rendeva conto del fatto che Ianto era veramente incinto e che di lì a nove mesi avrebbero avuto un bambino e sarebbe stato il loro bambino e l’avrebbero dovuto crescere e… tutto il resto.

“Non so se riuscirò a farcela”, concluse Ianto dando voce, con quell’unica frase, a tutte le preoccupazioni che l’avevano attanagliato in quell’ultima ora. Il Capitano assottigliò gli occhi come per chiedergli altre spiegazioni.
“Insomma, io non so come si fa a fare il padre, il mio di certo non è stato un buon esempio e…”. Si interruppe nel vedere l’altro che sorrideva intenerito. “Se ci fosse un libro di istruzioni sarebbe più facile. Ma non ci sono delle regole da seguire per essere un buon genitore”.
“Ma tu hai più esperienza di me”.
Jack si morse il labbro inferiore; certo, forse aveva più esperienza, ma nemmeno lui era stato un padre eccezionale con Alice.

“Ianto”, lo chiamò alla fine, guardandolo intensamente negli occhi azzurri. “Sono sicuro che sarai un padre fantastico, lo saremo entrambi. Ti verrà spontaneo, vedrai”.

“Ma tu lo vuoi? Eri tu che volevi che abortissi”.

Il Capitano sospirò, soppesando bene le parole da dire. “Sì. Il fatto è che non lo vedevo come un bambino, per me era qualcosa…”, non sapeva come spiegarsi, aveva paura di dire qualcosa di sbagliato e in quel momento non gli andava di litigare. 

“Pensavi che fosse un alieno?” gli corse in aiuto Ianto.

Jack sospirò. “Sì. Però ora ho la conferma che si tratta di un bambino ed è il nostro bambino e lo ameremo tanto. Solo…”.

“Solo cosa?”

“Non voglio che tu corra rischi. Io non posso rinunciare a te e prima di tutto voglio che tu stia bene”.

Quelle parole erano forse le più belle che gli avesse mai detto, pensò il giovane e quasi gli venne da piangere. Maledetti ormoni della gravidanza! Tuttavia non riuscì a trattenersi dallo stringere il Capitano in un forte abbraccio, circondandogli il collo con le braccia e poggiando la fronte contro la sua spalla. L’altro ricambiò, accarezzandogli la spina dorsale.

“Ti amo, Jack”, gli sussurrò all’orecchio con voce commossa.

“Anche io ti amo”.

 

Quando Gwen quella sera tornò a casa, pimpante e allegra, si buttò subito tra le braccia di Rhys che  stava seduto sul divano a guardare una partita di football. Lui non si aspettava quel saluto, però lo accettò più che volentieri e diede un lungo bacio alla moglie.

“Non crederai mai a ciò che è successo oggi!” esclamò la ragazza guardandolo con occhi che quasi luccicavano. L’uomo si mise subito sull’attenti, sicuro che gli avrebbe raccontato qualcosa di emozionante, come faceva sempre quando tornava dal lavoro.

“Cosa?” le chiese.

“Ianto è incinto!”

Rhys strabuzzò gli occhi e la guardò come se fosse ammattita. “Non prendermi in giro”.

“Non ti sto prendendo in giro!” esclamò Gwen sforzandosi per non scoppiare a ridere di fronte alla sua espressione. “E’ vero!”

“Come?!”

“Ti ricordi quando siamo andati in quell’orfanotrofio dove scomparivano dei bambini?”

Il marito annuì, impaziente di sentire il resto della storia.

“Ecco, un alieno lo ha morso e lui adesso è incinto”.

“Quindi è incinto di un alieno”.

“A dire il vero no. Il bambino è di Jack”.

Ok, ora non ci capiva più nulla, si trovò costretto a confessare Rhys a sé stesso. O sua moglie era ammattita sul serio oppure pesce d’aprile era arrivato un po’ prima.

“Continuo a non capire, Gwen”.

La ragazza sbuffò e si appoggiò meglio sui cuscini del divano. “L’alieno che lo ha morso ha fatto sì che il suo organismo potesse sostenere una gravidanza. Non sappiamo come abbia fatto però è successo. E ora lui aspetta un bambino, da Jack”.

“Oh”, fu l’unica cosa che riuscì a dire Rhys, mentre abbassava lo sguardo pensieroso. “Ma due uomini non possono… fare bambini”.

“Ehi! Con Torchwood niente è impossibile, dovresti averlo capito!” gli ricordò lei, dandogli un buffetto sul naso.

L’uomo, però, tutto d’un tratto si fece cupo e spostò lo sguardo verso il tappetto ai suoi piedi. Gwen se ne accorse subito e temette di aver detto qualcosa di sbagliato.

“Che c’è, tesoro?”

“Niente, è solo che…”.

“Solo che?”

“Ianto e Jack stanno per avere un bambino”.

“Sì”. La ragazza non capiva dove il marito volesse andare a parare constatando l’ovvio.

Improvvisamente Rhys alzò lo sguardo su di lei e le puntò addosso i suoi occhi scuri, scrutandola in viso con intensità. “E noi quando ne avremo uno?”

Gwen si passò la lingua sul labbro superiore, muovendo il capo su e giù ma senza sapere che dire. Era sempre quello il discorso, ormai Rhys non faceva altro che nominare la questione bambini e lei cominciava anche ad esserne un po’ stufa. Certo, lui non aveva tutti i torti, avrebbero anche dovuto parlarne, ma… il fatto era che non sapeva cosa dirgli. Anche lei voleva avere dei figli ma il suo lavoro non glielo permetteva e non poteva nemmeno mostrarsi egoista nei confronti del marito.

“Dobbiamo parlarne stasera?”

“Abbiamo già rimandato troppo”.

 

Riuscì solo a togliersi le scarpe appena entrata in casa prima di buttarsi sul divano, esausta. Toshiko tirò un sospiro e si raggomitolò, stringendosi nel suo cappotto. Faceva leggermente freddo nel suo appartamento. Be, dopotutto non ci stava tanto e di certo non accendeva molto spesso il riscaldamento.

Era stanca quella sera, particolarmente stanca. Fortuna che quel giorno non avevano avuto missioni particolari da compiere né qualche inevitabile disgrazia da affrontare. Be’, eccetto per Ianto, ma grazie al cielo era finito tutto bene.

Ianto incinto. E chi se lo sarebbe mai aspettato? Chissà come stava prendendo la cosa, non sembrava molto felice quando l’aveva scoperto. Ma sicuramente adesso era a casa sua, con Jack che gli faceva le coccole e tutte quelle altre cose che loro due facevano.
Non l’avrebbe mai confessato ad alta voce, ma li invidiava. Molto. Anche lei avrebbe tanto voluto avere qualcuno da cui tornare a casa, qualcuno che l’accogliesse a braccia aperte con la cena pronta come, ad esempio, faceva Rhys con Gwen, e qualcuno che le massaggiasse i piedi, che l’ascoltasse mentre lei si sfogava e poi la baciava e… perché non riusciva a trovare nessuno? Ah già, Torchwood portava via un sacco di tempo alla sua vita sociale. Quel lavoro era la cosa migliore ma al tempo stesso la peggiore che le fosse capitata.
O perché piuttosto non poteva essere disinvolta e insensibile come Owen, che sicuramente ora era in qualche locale a flirtare con qualche bella biondina dalle tette più grandi della testa?

Owen… era proprio una ragazza stupida. Innamorarsi di Owen… stupida, stupida Tosh. Non l’avrebbe mai ricambiata, questo era sicuro.
Eppure al cuor non si comanda. La vita sarebbe troppo semplice se così fosse.

No, doveva smettere di piangersi addosso. Lui non meritava di certo le sue lacrime e in ogni caso ciò non avrebbe portato da nessuna parte.

Si alzò in piedi piuttosto faticosamente e si tolse la giacca. Poi si preparò per farsi la doccia. L’acqua calda le avrebbe rinfrescato un po’ le idee e dopo qualche ora di sonno avrebbe iniziato a vedere le cose da un’altra prospettiva.
Sì… sì…

 

Ianto, steso sul letto sotto Jack, inarcò leggermente la schiena per chiedere di più. Il Capitano gli stava mordicchiando il capezzolo destro ed era una cosa che lo faceva impazzire. Oh, lui sapeva come stuzzicarlo, lo sapeva bene. Poi però scese fino al suo addome, lasciandogli piccoli bacetti ovunque. Infine infilò la punta della lingua nel suo ombelico, girandoci un po’ attorno e salì a leccargli il centro della pancia fino allo sterno.

Il giovane sentiva l’erezione crescere e non si sarebbe accontentato solo di quello. Sperava che Jack si sbrigasse, per quanto gli piacessero i preliminari.

Il Capitano, però, d’improvviso si fermò e poggiò il mento sulla pancia del compagno. “Jack”, lo chiamò Ianto dolcemente, ma dal suo tono traspariva una certa impazienza. “Che stai facendo?”

“Cercavo di capire”.

“Che cosa?”

“Secondo te facciamo del male al bambino se giochiamo un po’?”

Il più giovane cercò di non scoppiare a ridere. “Non penso. Il proiettile non l’ha nemmeno sfiorato per cui possiamo stare tranquilli”.

“Sì, forse hai ragione”.

Jack, allora, si tolse velocemente i pantaloni buttandoli da qualche parte per terra, e aprì le gambe del compagno preparandosi a penetrarlo.
Non appena sentì il suo sesso entrare dentro di lui, Ianto provò un certo fastidio, ma quello sarebbe stato ben compensato in seguito. Il Capitano si spinse ancora più dentro senza preoccuparsi troppo, ormai conosceva bene il corpo del fidanzato e sapeva come fare. Prese a muoversi, dapprima lentamente, poi aumentando sempre di più la velocità. Strinse le mani attorno alle cosce di Ianto, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare. L’altro, invece, muoveva il bacino seguendo il ritmo di Jack, gli occhi lucidi per il piacere. L’orgasmo era lì, gli bastava solo un altro po’.

Il sesso con Jack era fantastico, semplicemente fantastico. Jack era fantastico. Non c’era niente da fare, si sentiva completamente in sua balia, corpo e anima.

E quell’orgasmo… quell’orgasmo era uno dei migliori che avesse mai provato.

Il Capitano venne subito dopo di lui, disperdendo il seme nel suo corpo, poi gli si stese sopra, cercando di non buttargli addosso tutto il proprio peso. Poggiò la testa sul suo petto, ascoltando il ritmo un po’ accelerato del suo cuore e cullato dal ritmo del suo torace che si abbassava e si alzava nel respirare.
Ianto, invece, prese a passargli le dita tra i capelli, sentendosi felice. Per la prima volta in vita sua era veramente felice.

 

 

MILLY’S SPACE

È incredibile che io alla sera riesca a trovare tempo ed ispirazione per scrivere. Di solito lo studio mi esauriva troppo, ma adesso sto cercando di organizzarmi per bene e pare che per il momento funzioni. Speriamo ^^

Va bene, detto questo passiamo al capitolo. Non ho molto da dire, solo che è un tantino più corto degli altri, ma spero che il contenuto compensi. Ditemi voi cosa ne pensate.

Invece, per chi di voi segue anche il telefilm Sherlock, sto pubblicando una fanfiction anche lì, se vi va dateci un’occhiata. Si intitola “It’s elementary, Watson. The fact that I love you”. E fate un salto anche sulla mia pagina facebook, Milly’s Space.

Un bacione,
Milly.

P.S. secondo voi, il bambino di Jack e Ianto sarà un maschio o una femmina? Si aprono le scommesse xD

HELLOSWAG: Ianto sta bene, il bimbo sta bene e tutti sono felici e contenti. Be’, eccetto John. Ti confesso che a me invece come personaggio piace, ha una sua psicologia e profondità secondo me ed è molto simile a Jack. È la sua parte cattiva, diciamo. Be’, sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, fammi sapere cosa ne pensi di questo. E non ti preoccupare, sei sana, sei sana quanto lo sono io ^^

LAPI: wow, allora è un onore per me ricevere la tua recensione. Pure io recensisco molto poco, la pigrizia è sempre molto forte però mi rendo conto quanto i commenti siano importanti. Eh, va be’. Per rispondere alla tua domanda, diciamo che Jack si rende conto di quello che sta succedendo solo in un secondo momento o almeno così è nella mia storia ^^ Non ti preoccupare, più avanti vedrai che non è così insensibile. O forse no. Boh ^^ Un bacione, M.

AMAYAFOX91: eh, brava la mia detective ^^ sei quasi brava quanto Sherlock xD fatti risentire, kisssss. M.

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Capitolo 15
*** Capitolo quattordici - Fear ***


CAPITOLO QUATTORDICI - FEAR

“It’s crystal clear, I hear your voice
and all the darkness disappears”
(I belong to you, E.Ramazzotti e Anastacia)

“Non posso non dirglielo, Jack. È mia sorella”.

“E come le spieghi una cosa del genere?”

“Be’, le dirò la verità. Tanto sa già quello che facciamo. Più o meno”.

“Se ne sei sicuro”.

Il capitano parcheggiò il suv a ridosso del marciapiede, di fronte ai cancelli sbarrati di un edificio. Una volta spento, scese velocemente dal veicolo, seguito da Ianto.

“Certo che ne sono sicuro”. Il ragazzo gli si affiancò e rimase a guardare l’insegna spenta del Rose’s Hotel. “E’ questo il posto?”

“Direi di sì”.

Prima di addentrarsi dentro all’albergo, entrambi rimasero a guardarlo per un po’, come se lo stessero ascoltando. A prima vista sembrava un innocuo Hotel come ce n’erano tanto a cardiff. Non era particolarmente di lusso, ma non era nemmeno un bed and breakfast da quattro soldi. L’unica pecca che aveva erano i muri scrostati e le porte chiuse col catenaccio, segno che era stato chiuso da un po’. Precisamente da quattro anni, si erano informati Jack e Ianto prima di venire lì. Sarebbe stato molto più utile se l’avessero trasformato in un palazzo di appartamenti o se l’avessero demolito per costruirci un parco, ma la gente aveva paura, paura di quello che c’era dentro. Qualcuno giurava di sentire delle voci, delle grida provenire da lì, e che ogni tanto le luci si accendevano. La gente era convinta che ci fossero dei fantasmi. E in quegli ultimi tempi questi fenomeni sembravano accadere sempre più spesso.
Per questo Torchwood si era attivato. Dopotutto, loro risolvevano problemi di quel genere.

“Andiamo?” chiese Jack porgendo un braccio al proprio compagno come un vero cavaliere. Ianto gli sorrise e ci infilò il proprio sotto. I due, poi, salirono i pochi gradini che li separava dall’ingresso.
Al Capitano ci volle poco per scassinare il lucchetto con gli attrezzi giusti e, non appena spinsero la porta, vennero pervasi dall’odore stantio e muffoso che pervadeva quell’ambiente, chiaro segno che quel posto veramente non veniva aperto da un po’.
Davanti a loro si estendeva un corridoio che portava al bancone della reception, proprio di fronte alle porte, mentre sulla destra c’erano un basso tavolino circondato da delle poltrone. Il tutto coperto rigorosamente da teli di stoffa bianchi e pieni di polvere. Accanto al bancone, c’era una rampa di scale che si muoveva a spirale e che di certo portava alle stanze al piano di sopra.

Ianto tirò fuori da una borsa che portava a tracolla lo strumento di solito utilizzato da Toshiko per captare segnali alieni e lo accese puntandolo in varie direzioni. Ma lo strumento non emetteva alcun rumore.

“Pare non ci sia niente”.

“Aspetta. Dovremmo controllare tutta la zona”.

“Andiamo di sopra?”

Jack si era già avviato verso le scale quando, prima che Ianto potesse raggiungerlo, sembrò cambiare improvvisamente idea perché torno indietro. “Prendiamo l’ascensore”. Prese il compagno per una mano e lo trascinò fino all’ascensore che ricordava tanto lo stile degli ascensori negli anni venti.
Ianto non capiva quell’improvvisa decisione ma non cercò di indagare.

Una volta dentro, il Capitano schiacciò il numero uno e chiuse i cancelli dell’ascensore. Ianto invece notò che c’erano ben venti piani in quell’hotel e il solo pensiero che forse gli avrebbero dovuti controllare tutti gli fece salire la nausea. Letteralmente. Ma riuscì a spingerla indietro. 

L’ascensore si fermò al primo piano con un suono metallico e aprì le porte. Jack fu il primo ad uscire e immediatamente diede una rapida occhiata in entrambe le direzioni. C’era un lungo corridoio, piuttosto stretto anche, e su entrambe le pareti facevano bella mostra di sé diverse porte, tutte uguali, tutte sicuramente chiuse a chiave, ma contrassegnate da numeri differenti.

“Dobbiamo controllare tutte le stanze?” chiese Ianto.

“Solo quelle che trovi aperte. Se ne trovi”. Come per dare una mostra di ciò che aveva appena detto, Jack cercò di aprire la prima porta ma senza successo. Avrebbe potuto usare i suoi strumenti da scasso, ma non gli andava di farlo per ognuna. “Senti, perché non ci dividiamo? Tu resti qui, io vado di sopra. Se trovi qualcosa, dimmelo”. E per fargli capire come, portò la mano verso il proprio auricolare che teneva all’orecchio e ci schiacciò un bottone. Ianto lo guardò andare via con l’ascensore, quasi dispiaciuto che se ne andasse, e poi cercò di darsi un contegno. Non poteva essere nervoso. Non ce n’era bisogno. Era soltanto un’altra giornata di lavoro normale, come tutte le altre. E Jack sarebbe tornato.

Si incamminò lungo il corridoio stringendo forte il radar cerca-alieni. La nausea lo disturbava ancora e aveva paura che da un momento all’altro si trovasse piegato in un angolo a vomitare tutta la colazione. Ma sul serio le donne incinte sopportavano questo?
Cercò di non pensarci e di concentrarsi solo sulla missione affidatagli da Jack. Si avvicinò ad una delle tante porte e tentò di aprirla. Ma niente.
Allora continuò ad andare avanti, svoltando dietro ad un muro. Improvvisamente, gli sembrò di sentire una presenza alle proprie spalle. Si voltò lentamente, sperando di cogliere chiunque fosse in flagrante. Ma non c’era nessuno. Tirò un sospiro di sollievo dicendosi che era stata solo una sua sensazione. Stava diventando troppo suscettibile.

Mise avanti un altro piede per continuare la sua esplorazione attraverso l’hotel, quando gli parve di scorgere un’ombra strana provenire da una stanza a pochi metri da lui. Si incamminò in quella direzione e, più si avvicinava, più quell’ombra prendeva le sembianze di una figura umana. Il radar tuttavia non segnava niente di anomalo. Allora lo mise via ed estrasse la pistola. Gli ultimi due passi li percorse con cautela, il cuore che batteva a mille. Si parò dinanzi alla stanza aperta con la pistola ben puntata di fronte a sé, ma di nuovo scoprì che non c’era niente. E quell’ombra che lui aveva scambiato per una figura umana era nient’altro che l’ombra di una statua che doveva rappresentare una qualche dea.
Quasi rise di se stesso.

“Jack, qui non c’è niente”, disse all’auricolare legato al suo orecchio destro.

“Nemmeno qui”, si sentì rispondere dalla voce del Capitano. “Torna al pianoterra così decidiamo cosa fare”.

Ianto obbedì subito praticamente correndo verso l’ascensore. Non vedeva l’ora di ricongiungersi con Jack e di uscire da lì; aveva una brutta sensazione addosso.
Quando giunse al luogo del ritrovo, però, il Capitano non c’era ancora. La reception era sempre lì, così come le poltrone e il tavolino.
Raggiunse il bancone per dare un’occhiata al registro o scoprire qualcosa, quando dei passi dietro di lui lo fecero sobbalzare. Si voltò di scatto scoprendo che era solo Jack che scendeva le scale.

“Stai bene?” gli chiese questi, riponendo la propria pistola.

“Sì”, rispose il ragazzo ma non ne era tanto sicuro.

“Torniamo alla base e controlliamo meglio la mappa dell’hotel. Magari veniamo insieme a Gwen e Owen la prossima volta”.

“D’accordo”. Ianto, contento che stessero per abbandonare quel posto, cominciò ad andare verso la porta, quando si bloccò sul posto come paralizzato, il volto che mostrava un’orripilata espressione di panico. “Jack, dov’è la porta?”

“Cosa?!”

La porta d’ingresso dalla quale erano entrati era sparita, dissolta, come se non ci fosse mai stata. Al suo posto c’era soltanto una parete, bianca come tutte le altre. Jack le corse incontro poggiandoci sopra le mani, come per cercare una porta segreta o comunicare con il muro.
Ianto, invece, afferrò un vaso che stava dietro il bancone e ci vomitò dentro.

Poi le luci al neon sul soffitto presero ad accendersi e spegnersi.

“Chi siete? Come avete fatto ad entrare?”

Sia il Capitano sia il gallese sobbalzarono entrambi al sentire quelle voci ed estrassero contemporaneamente la pistola, puntandola contro cinque persone appena giunte lì, senza che loro li avessero sentiti arrivare. Questi alzarono immediatamente le mani, spaventati.

“Non sparate!” gridò un ragazzo vestito in stile metallaro, pieno di borchie e piercing, i capelli acconciati in una corta cresta in cima alla testa.

Ianto e Jack si lanciarono un’occhiata, come per comunicarsi qualcosa in silenzio, e poi abbassarono le armi così come le avevano tirate fuori.

Gli altri quattro, invece, erano un uomo sulla trentina vestito in modo particolare, con una camicia bianca, le bretelle, i pantaloni eleganti e una lunga giacca di stoffa rossa con bottoni elaborati e le maniche avevano una parte lavorata in pizzo. I suoi capelli, poi, erano pettinati in modo ancora più strano, lunghi riccioli biondi che gli scendevano fino alle spalle che sembravano appena stati sistemati da una parrucchiera. Sembrava venire da un altro secolo.
Poi c’era una donna vestita di semplici jeans e una felpa. Era piuttosto carina, con quei capelli rossi e gli occhi verdi. Il terzo uomo era invece piuttosto avanti con l’età, il volto era già segnato da rughe e i capelli bianchi si stavano diradando. Tuttavia, nemmeno lui pareva appartenere molto a quell’epoca.
Il quinto personaggio, era, invece, una bambina. Indossava un vestitino che le arrivava alle ginocchia, i capelli erano raccolti in due codine alte ai lati della testa e aveva le ginocchia sbucciate. I suoi enormi occhi marroni fissavano i due uomini con enorme terrore.

“Come siete arrivati qui?” chiese la donna in tono sorpreso.

“Dalla porta. Come voi, immagino”.

“Quale porta?” fece il ragazzo metallaro.

Già, quella era una bella domanda.

“Quella che ora è scomparso”, disse Ianto con voce piuttosto disperata. Non gli andava per niente di restare bloccato lì dentro.

“Chi siete voi?” domandò Jack col tono che di solito usava per dare ordini. E ciò probabilmente indusse la ragazza dai capelli rossi a rispondere subito. “Io mi chiamo Chiara Toniazzi e loro sono Jacob” e indicò il metallaro. “Il Signor Wilson” puntò il dito contro l’uomo più anziano “Oliver Quinn e Emma”. Il giovane che sembrava provenire da un altro secolo fece una riverenza e la bambina si nascose dietro le gambe di Chiara.

“Io sono il Capitano Jack Harkness e lui è Ianto Jones. Siamo di Torchwood”.

“Torchwood? Mai sentito”, bofonchiò Oliver con sguardo pensieroso. Ianto e Jack si guardarono; tutti a Cardiff avevano sentito nominare Torchwood almeno una volta benché loro cercassero di mantenerlo segreto il più possibile. Sicuramente non era del posto.

“D’accordo”, fece allora Jack cercando di prendere in mano la situazione. “Potreste dirci che posto è questo?”

“E’ un hotel maledetto”, iniziò Jacob con aria teatrale e voce spiritata. “Non potete nemmeno immaginare che cosa c’è qui dentro”.

La ragazza dai capelli rossi sospirò e fece un passo avanti. Sembrava essere la più pratica lì dentro, nonché la più collaborativa. “E’ strano. Ci sono delle cose qui… nascoste nelle stanze”.

“Quali cose?”

“Non lo so. Sono spaventose, comunque e non sappiamo come combatterle. Né come uscire da qua”.

Jack iniziò a percorrere la hall dell’albergo a grandi passi, aprendo cassetti e spulciando dietro i mobili e addirittura dietro ai quadri. Ianto invece si lasciò andare contro una poltrona coperta.

“Da quanto siete qui?”

“Non saprei. Non da molto. Ma è impossibile uscire ora”.

Il Capitano bloccò la sua andatura di colpo, rimanendo immobile di fronte ai cinque con le labbra piegate in un sorriso piuttosto furbesco. “Niente è impossibile. Non per me”. Poi corse al bancone, aprì una teca di vetro e prese un grosso mazzo di chiavi. “Ianto!” chiamò poi. Il ragazzo lo raggiunse, sicuro che aveva qualcosa in mente. “Ti prometto che ti tirerò fuori di qui”, gli sussurrò all’orecchio senza che gli altri lo potessero udire. Poi gli diede un veloce bacio a stampo. E Ianto seppe subito che così sarebbe stato. Infine Jack si rivolse di nuovo agli altri cinque che erano rimasti a guardarli curiosi. “Oliver, Jacob, voi verrete con me e Ianto. Voialtri andate a esplorare dove meglio credete e se trovate qualcosa, tirate un urlo”.

“E cosa dobbiamo cercare?” chiese il metallaro.

“Qualsiasi cosa. Non ho intenzione di rimanere qui”.

Tutti quanti sembravano aver capito che non c’era verso di contestare quelle parole, né tantomeno mettersi contro il Capitano. Così obbedirono subito agli ordini. E in ogni caso, non potevano dargli torto.

Ianto, Jack, Jacob e Oliver presero l’ascensore fino all’ultimo piano, mentre gli altri andarono a piedi partendo dal primo.

 

“Non trovate anche voi che quella fanciulla, Chiara, sia vestita in modo un po’ fuori dall’ordinario?” chiese Olver, camminando dietro gli altri tre uomini lungo il corridoio stretto dell’ultimo piano dell’hotel. “Non ho mai visto una donna portare i pantaloni?” Gli altri erano troppo distratti per stupirsi o interessarsi alle sue parole e quindi nemmeno si degnarono di rispondere, il che parve offendere leggermente il biondo.

Ianto si avvicinò ad una porta e notò che il rilevatore che teneva tra le mani si era acceso di una luce verde fosforescente, indicando un pericolo alieno.

“Jack?” chiamò il ragazzo, avvicinandosi di più alla porta.

“C’è qualcosa?”

“Non lo so”.

Il Capitano pose una mano sulla maniglia e fece per spingerla in giù. Quando ad un tratto sentirono un grido provenire da uno dei piani di sotto, sicuramente appartenente a Chiara oppure a Emma.

Jack non ci pensò due volte prima di girarsi e correre verso le scale, lasciando che il cappotto gli sbattesse contro le gambe. Scese velocemente le scale, quasi fosse inseguito da uno pterodattilo, e arrivò al quindicesimo piano dove vide Chiara inginocchiata per terra che si reggeva la testa tra le mani. Emma era nascosta dietro il muro, mentre il Signor Wilson tentava di confortarla.

“Che cos’è successo?” chiese Jack allarmato, abbassandosi al livello della ragazza.

“Non lo so. Ha aperto quella porta e ha solo urlato. Ma io non ho visto niente”, spiegò l’anziano, l’espressione che lasciava trapelare tutta la sua paura.

“Chiara?” la chiamò l’uomo prendendola per le braccia. Voleva cercare di vederla in viso. “Adesso sei al sicuro. Nessuno ti farà del male”. Quelle parole parvero confortarla immediatamente, perché smise di tremare e abbassò le mani, poggiandole sulle ginocchia. Tuttavia non alzò lo sguardo. “Che cos’hai visto?”
Chiara a quel punto rivolse il viso verso il Capitano rivolgendogli i suoi occhi scuri pieni di lacrime e puro terrore. “Era spaventoso”, esalò con una voce debolissima, tanto che si faticò a sentirla. “Enorme, più grande di me e aveva delle zanne… voleva mangiarmi”.

Il Signor Wilson lanciò un’occhiata confusa all’uomo accanto a lui, indeciso se iniziare ad avere paura o semplicemente concludere che la ragazza era impazzita tutto d’un colpo e aveva le allucinazioni.
Il volto di Jack invece… il suo volto improvvisamente si era illuminato di una luce di comprensione. Forse iniziava a capire.

Improvvisamente, si udirono altri passi dietro di loro arrivare di corsa e Ianto, Jacob e Oliver fecero la loro comparsa.

“Che cos’è successo?”

“Dobbiamo controllare le altre stanze”, ordinò Jack, rialzandosi.

“Ma non potete!” esclamò Chiara. “Il mostro… il mostro vi mangerà”.

Il Capitano le sorrise rassicurante. “Non sono tanto buono. Non mi mangerà”.

Ianto invece non esitò un attimo e cercò di aprire tutte le porte di quel piano. Si rese conto di essersi allontanato dal gruppo solo dopo un po’, ma continuò ad andare avanti.
Finalmente giunse ad una porta che doveva nascondere qualcosa, visto che il suo radar si era messo addirittura a suonare.

Allungò lentamente la mano verso la maniglia e, con molta cautela, il cuore in gola, la spinse verso il basso. La porta si aprì e un fastidioso cigolio di cardini attraverso il corridoio. Il ragazzo la spalancò ma era completamente immersa nell’oscurità.
Allora si decise a varcare la soglia, a passi molto piccoli, e a tentoni cercò l’interruttore della luce. Quando lo trovò e la stanza venne illuminata da una psichedelica lampada al neon appesa al soffitto, Ianto rimase paralizzato per ciò che vide: c’era Jack steso sul letto… o meglio, c’era il suo corpo buttato scomposto sul letto, le braccia allungate sopra la testa e le gambe piegate oltre il bordo. I suoi occhi erano spalancati ma non vedevano niente ed erano ancora più chiari del normale. Dalla bocca gli scendeva un rivolo di sangue. Anche sul suo corpo c’era del sangue, ce n’era tantissimo, gli macchiava la camicia bianca e il cappotto, il suo bellissimo cappotto. E c’era del sangue persino sui muri e sul soffitto e per terra.

Ianto cercò di urlare ma nemmeno una debole sillaba gli uscì dalla bocca. I suoi occhi erano pieni di terrore e di panico. Come poteva essere lì Jack? Se poco fa lo aveva visto insieme agli altri vivo e vegeto. Oltretutto lui non poteva morire. Si sarebbe svegliato, presto… sì… ma allora perché non si alzava? Forse qualcuno lo aveva dissanguato e non poteva più tornare indietro.

All’improvviso sentì un botto dietro di lui e con orrore si rese conto che la porta si era chiusa. Le si buttò contro per aprirla ma qualcuno l’aveva chiusa da fuori.
Ma chi? Forse uno di quei cinque che avevano conosciuto nell’hotel? Che gli volessero fare uno scherzo.

Si voltò di nuovo verso il letto, ma Jack continuava a giacere lì, lo sguardo cieco rivolto verso di lui.
Ad un tratto vide un’ombra uscire da dietro l’armadio. Era un’ombra molto grossa e molto… minacciosa. Solo quando quella fu uscita completamente allo scoperto, Ianto si rese conto di conoscere benissimo la figura che lo sovrastava. Era… era suo padre. Suo padre, molto più grosso e alto di quanto se lo ricordasse. E tutto d’un colpo gli passò davanti agli occhi la sua immagine diciassettenne che tentava di scappare a tutte le vessazioni e le botte di suo padre.

“Ciao, figliolo”, lo salutò l’uomo con un ghigno completamente inumano. In realtà non sembrava molto suo padre, sembrava più una maschera di suo padre realizzata male. Ma soprattutto realizzata per riempirlo di terrore. “Hai visto cosa ho fatto?” ringhiò, indicando con un cenno del capo il corpo di Jack steso sul letto. “Voi checche meritate solo questo. E adesso ucciderò pure te e poi mi prenderò quell’obbrobrio che porti nel ventre”.

Ianto si voltò verso la porta e cominciò a battere forte perché qualcuno, chiunque, lo liberasse. La paura lo aveva completamente attanagliato e non riuscivo a provare nient’altro. Sentiva che sarebbe morto lì all’istante, ancora prima che il padre potesse mettergli le mani addosso.

“Fatemi uscire!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola. “Vi prego! Liberatemi!!!”

“Non serve a niente urlare. Nessuno ti può sentire”.

Il ragazzo sentiva l’uomo avvicinarsi a lui sempre di più sebbene non udisse i suoi passi. Gli mancavano solo pochi centimetri ed era sicuro che gli avrebbe mollato uno dei suoi fortissimi pugni in testa. Allora si preparò a ricevere il colpo, rassegnato al fatto che nessuno sarebbe venuto a salvarlo, nemmeno Jack. Perché Jack era morto.  E questo faceva ancora più male delle botte di suo padre.
Lasciò che le lacrime gli inondassero il viso.

Sentì il padre urlare dietro di lui, alzare il braccio e…

C’era un profumo, un profumo dolcissimo, un profumo… familiare che gli aveva inebriato tutte le narici. E poi c’erano delle braccia forti, muscolose, calde… lo tenevano al sicuro, lo stringevano forte facendogli capire che tutto sarebbe andato bene.

Alzò lo sguardo per incontrare due chiari occhi vivi e attenti, pieni di preoccupazione e paura, ma vivi.

“Jack”, sussurrò il ragazzo con un debole sorriso di contentezza.

“Che cos’è successo?” gli chiese il Capitano allontanandolo dalla porta.

Ianto non sapeva come spiegarglielo. Tutto quello che aveva vissuto fino a poco fa ora non gli sembrava altro che un bruttissimo incubo eppure se ci ripensava poteva ancora vedere chiaramente le immagini e ricordare le sensazioni che aveva provato, il terrore, il dolore…

“C’era… c’eri tu. Eri morto”.

Jack lo dovette lasciar andare per controllare nella stanza ancora aperta. Eppure quando entrò non vide niente di sospetto. C’erano solo un letto, un armadio, una finestra e due comodini. Controllò persino dentro all’armadio ma non trovò niente.

Quando uscì, vide Ianto seduto per terra, la schiena appoggiata contro il muro e un ginocchio piegato.

“Che cosa hai visto?” gli chiese, inginocchiandoglisi accanto.

“Te. Eri su quel letto… m… morto. E c’era mio padre che… che…”.

Il Capitano si protese verso di lui per stringerlo forte contro di sé. Il ragazzo affondò il viso contro il suo petto e si lasciò cullare, aggrappandosi alla sua camicia.

“Non c’è niente. Sei al sicuro adesso, nessuno ti farà del male”, continuava a sussurrargli per confortarlo. “E io sono qui con te”. E gli diede un bacio tra i capelli.

“Ragazzi!” esclamò la voce di Chiara che era arrivata di corsa in quel momento. “State bene?”

“Sì”, rispose Jack aiutando il compagno ad alzarsi. “Torniamo di sotto”.

La ragazza rimase ad indugiare con lo sguardo sui due, ma alla fine li seguì verso l’ascensore. Il Capitano premette il pulsante del piano terra e le porte si chiusero con uno schiocco. Ianto si appoggiò alla parete dietro di lui, gli occhi puntati sulla schiena di Jack, quando un improvviso e lancinante dolore gli trafisse lo stomaco. Si piegò in due e faticò a trattenere un gemito.

“Che succede?” fece Jack allarmato.

“Ho dei crampi”, biascicò il ragazzo, le braccia strette attorno alla pancia.

“Merda!”

Quando l’ascensore si fermò e le porte si furono di nuovo aperte, Jack e Chiara trascinarono Ianto fino all’atrio e lo fecero accomodare su un divano. “Lascia, faccio io”, disse la ragazza, fermando le mani del Capitano che cercavano di aprire la camicia del ragazzo. “Sono un’infermiera”. Puntò i suoi occhi su di lui per fargli capire che si poteva fidare.
“D’accordo”, concluse l’uomo. “Ti lascio nelle sue mani. Se hai bisogno di me, chiama”. Ianto annuì e lo guardò andare via, mentre un altro crampo gli faceva soffocare un gemito di dolore.

Chiara gli sbottonò la camicia scoprendogli il petto e la pancia lisci. “Quanto sono forti i crampi?”

“Abbastanza”, rispose Ianto con voce rotta.

“Hai qualche disturbo particolare?”

“Non mi crederai mai se te lo dico”.

L’infermiera dai capelli rossi rise divertita. “Siamo bloccati in un albergo senza porte né finestre con strane creature e poco fa sono stata quasi uccisa da un enorme mastino con gli occhi aguzzi. Davvero pensi che non possa credere a qualsiasi cosa hai da dirmi?”

Se non avesse avuto quei crampi dolorosi anche il gallese sarebbe scoppiato a ridere. Chiara aveva ragione, ormai pure nella sua vita aveva visto tante di quelle stranezze che niente l’avrebbe più stupito.

“Aspetto un bambino”, le disse.

“Oh!”

“Già”.

“Ok… ehm… comunque non stai avendo un aborto, non c’è sangue. Deve essere lo stress, dovresti stare un po’ tranquillo”.

Restarono per un po’ di tempo a guardarsi, Chiara leggermente imbarazzata e piena di domande da chiedergli e Ianto piuttosto sollevato perché i crampi erano passati. “Com’è successo?” gli chiese lei.

“E’ lunga da spiegare. E complicato”.

“E’ come questo?”

“Sì, diciamo che ne fa parte”.

“E’ di Jack?”

Le labbra di Ianto si piegarono in un sorriso. “Si capisce così tanto?”

“Abbastanza”, ridacchiò Chiara. “Si vede che vi amate”.

Il ragazzo spostò lo sguardo verso il profilo del Capitano, in piedi appoggiato al  bancone a leggere dei fogli.

“Comunque state bene insieme”.

“Grazie”.

“Siete sposati?”

“Oh no!”  

“Avete intenzione di farlo?”

“Non… non lo so”. Sposarsi con Jack? Non ci aveva mai pensato e a dire la verità non credeva affatto che fosse una cosa contemplata nella loro vita di coppia. Jack di certo non era tipo da matrimoni anche se era già stato sposato. “E tu?” chiese poi a Chiara per cambiare argomento.

“Magari! Sono single da un bel po’. Diciamo che non ho molta fortuna con gli uomini. Sono venuta qui anche per questo, volevo farmi una bella vacanza e magari conoscere un bel ragazzo gallese”.

“Di dove sei?”

“Vengo dall’Italia”.

“Deve essere un bel posto”.

“Sì, abbastanza. Ma nemmeno il Galles non è male”. Entrambi si sorrisero teneramente, quasi fossero complici di un segreto. Poi qualcuno dietro le spalle della ragazza tossicchiò attirando l’attenzione dei due.

“Posso parlare da solo con Ianto?”

Chiara si alzò dal divano mentre il ragazzo si richiudeva la camicia. Certo, il bambino era sopravvissuto ad una pallottola, ma non gli andava di fargli prendere freddo.

“Che succede?”

Il Capitano si mise comodo di fronte al compagno e gli prese una mano. “Ho controllato i registri dell’albergo, persino quelli vecchi”.

“Quindi?”

“Quest’hotel esiste dai primi anni del 1800”.

“Sì, lo so”. Non capendo dove Jack volesse andare a parare, Ianto lo esortò con lo sguardo a continuare.

“Oliver Quinn è stato registrato come ospite di questo albergo nel 1867, mentre il Signor Wilson è stato qui nel 1943”.

Ianto sgranò gli occhi sorpreso.

“Chiara Toniazzi pare essere stata qui cinque anni fa, mentre Jacob una settimana prima di lei. C’è anche una Emma McKeagan registrata nel 1976. E non è finita. Ho trovato anche dei documenti che attestavano la morte di tutte queste persone, deceduti in circostanze misteriose”.

“Come sarebbe a dire? Sono dei fantasmi?”

“Non lo so. Forse. O forse qualcosa li tiene bloccati qui”.

“Ma quindi? Che cos’è questo posto? E quello che ho visto?”

Jack, anziché rispondere, si alzò e si allontanò dal divano andando fino al bancone. Fece un piccolo balzo e si sedette sulla superficie liscia del mobile.

“Signore e signori!” chiamò per attirare l’attenzione. Tutti perciò rivolsero gli sguardi verso di lui. “Ascoltatemi attentamente. Tutti quanti voi avete aperto la porta di almeno una di quelle stanze e avete visto qualcosa. Giusto?”

“Sì”, confermò Jacob.

“Qualcosa che vi ha fatto molta paura”.

“Esatto!”

“Vi ricordate che cos’è successo dopo?”

Nella stanza calò il silenzio, un silenzio carico di tensione.

“Io sono svenuto. E quando mi sono risvegliato non c’era più nessuno e non riuscivo ad andarmene”, rispose Oliver con uno sguardo stralunato.

Non eri svenuto. Eri morto.

“Penso di aver capito che cosa ci minaccia”, annunciò alla fine il Capitano e, se prima non l’aveva fatto, ora aveva attirato veramente l’attenzione di tutti.

“Di cosa si tratta?”

“Delle nostre paure. Quello che vedete nelle stanze che aprite rappresenta la vostra paura più forte, la vostra paura nascosta, quella che non sapete nemmeno voi di avere”.

“Come?!”

“Ma questo è assurdo?”

“Sarebbe una maledizione?” chiese Oliver.

“Oh no! Non è affatto una maledizione”, lo contraddisse Jack. “E’ un alieno”.

“Un alieno!” esclamò il Signor Wilson. “Come può essere?”

“Un alieno che si nutre della paura delle persone. E deve essere molto potente”.

I presenti si guardavano tutti fra loro, indecisi se credere a quello strano tizio che parlava di alieni o dargli del matto. Jack, non facendoci minimamente caso, si avvicinò nell’angolo dove sedeva Emma e si piegò accanto a lei.

“Ciao, piccolina”.

Lei lo scrutò con i suoi enormi occhi spaventati ma non disse nulla.

“Tu che cosa hai visto nella tua stanza?”

La bimba abbassò lo sguardo verso la punta delle proprie scarpe. “Ho visto il buio”.

“Il buio?”

“Sì. Mi entrava nelle orecchie e nel naso”.

“Capisco. E i tuoi genitori?”

“Loro… non lo so. Non li trovo più”.

Il Capitano le diede un tenero buffetto sul naso sospirando. Purtroppo per lei non li avrebbe trovati più.

“Tu ci salverai?” chiese Emma riportando di nuovo lo sguardo sull’uomo accanto a lei. “Ci libererai da quell’alieno?”

Jack le sorrise. “Certo, tesoro. Te lo prometto”.  Non rifiutava mai di aiutare una persona quando questa glielo chiedeva. Era una cosa che aveva imparato da una persona fantastica, parecchio tempo fa. E poi, come poter dire di  no a una bambina così dolce come Emma?

Ianto, seduto ancora sul divano, fissava un punto imprecisato davanti a lui. E così lui e Jack erano in compagnia di cinque fantasmi, oltretutto provenienti da secoli diversi. Avrebbe voluto bombardare Oliver di mille domande sulla sua epoca, l’età vittoriana l’aveva sempre affascinata, ma non poteva certo rivelargli che si trovavano nel ventunesimo secolo e che lui era morto.
E dire che inizialmente aveva pensato fosse semplicemente un tipo un po’ fuori di testa.

 

“Dove pensate possa trovarsi?” chiese Jacob osservando la mappa dell’albergo aperta sul bancone della reception.

“Allora…”, iniziò Jack tracciando delle linee con un dito. “Questi sono tutti i piani delle stanze, quindi escluderei che si possa trovare qui. Questo che cos’è?”

“Deve essere la caldaia?” rispose il signor Wilson, riconoscendo il disegno dei tubi e di strani macchinari che stava indicando Jack.

“Forse è lì”.

“Può darsi. È un posto caldo. Allora direi di controllare prima lì”.

Il Capitano richiuse la mappa e fece un balzo oltre il bancone.

“Ma come si sconfigge?” domandò Chiara, legandosi i capelli in una coda.

“Se il mostro si nutre delle paure, allora serve un opposto che lo sconfigga”, ipotizzò Jacob.

“Esattamente”.

“Il coraggio?”

“No, quello non basta”.

“E allora che cosa?”

“La fede”.

A quella parola di Jack tutti gli altri si scambiarono uno sguardo confusi.

“Jack!” chiamò Ianto avvicinandosi all’uomo. “Ma come sono morti queste persone?” fece, a bassa voce perché gli altri non lo sentissero.

“Di paura”.

“Paura?”

“Sì”.

“Accidenti. E con cosa lo uccideremo?”

“Non lo so. Improvviserò qualcosa. In ogni caso, tu non vieni con me”.

“Cosa?”

Jack spinse Ianto contro un muro e lo guardò dritto negli occhi azzurri. Non aveva intenzione di portarlo con sé, già poco fa aveva rischiato di perderlo. Sarebbe morto anche lui di paura se non fosse venuto a salvarlo e questa volta il bambino che portava in grembo non l’avrebbe potuto salvare. Perciò non aveva alcuna intenzione di trascinarlo dritto nella tana del lupo.

Dovette insistere parecchio però perché il ragazzo si decidesse a rimanere. Alla fine lo convinse, promettendogli che sarebbe tornato presto. Il Capitano se ne andò nella stanza della caldaia, che stava in un’ala un po’ isolata, insieme a Oliver e Jacob, mentre Ianto se ne rimase nella hall con Chiara, il Signor Wilson e Emma, ripetendosi quanto detestasse quando Jack lo escludeva così benché fosse per il suo bene.

 

“Ragazzi! State bene?” urlò Jack guardandosi attorno. Lui e i due che l’avevano accompagnato erano appena stati attaccati da un alieno viscido e bavoso che li aveva stesi tutti quanti a terra senza che avessero nemmeno il tempo di urlare. Era molto più grosso e forte di quello che il Capitano aveva previsto e non sarebbe stato facile.

“Ho preso un colpo alla testa, ma sto bene!” gli rispose la voce di Jacob. Certo che stava bene, dopotutto era già morto e non poteva morire un’altra volta.

“Anche io sto bene”, aggiunse Oliver.

Jack si mosse di nuovo verso l’entrata della stanza dove era custodita la caldaia e sbirciò attentamente il mostro che stava dentro. Avevano svegliato il drago…
L’alieno, una creatura che somigliava a un tirannosauro Rex, solo con qualche occhio in più, lo stava fissando da un angolino nel quale si era rintanato e sicuramente preparava un attacco.

“Ricordatevi, ragazzi! Non dovete temerlo!” ricordò Jack agli altri due. “E se vi mostra qualcosa, ricordatevi che sono solo illusioni, non c’è niente di vero”. Poi afferrò una sbarra di ferro e gli si lanciò contro. Ma sapeva che non era quello il modo per ucciderlo. C’era solo una maniera con qui avrebbe potuto farlo fuori, una sola e non era certo una sbarra di ferro.

Il mostro lo spinse con la testa facendolo volare in mezzo a delle assi di legno. “Ahia”, si lamentò il Capitano, toccando una sostanza appiccicosa e rossastra che gli stava sporcando la camicia.

“Jack!” sentì urlare qualcuno. Ma non era né la voce di Jacob né tantomeno quella di Oliver. Era… era Ianto. Maledizione! Ma che ci faceva lì? Gli aveva detto di rimanere al piano terra.

“Ianto!” Jack cercò di alzarsi, non senza fatica, e strisciando contro il muro si diresse nella direzione da cui aveva sentito provenire la voce. Trovò il ragazzo fermo immobile di fronte al muso dell’alieno, l’espressione terrorizzata. “Ianto! Non avere paura. È questo che lo uccide, non devi avere paura!”

“Jaaaaaack!!!”

Jack allora saltò per afferrare la coda del mostro; gli si aggrappò come un koala e cercò di dirigerlo via dal compagno. Ma quello continuava ad agitarsi come un toro imbufalito e rischiava di far mollare la presa al suo assalitore.

Ianto invece afferrò la pistola e la puntò l’alieno. Gli sparò un paio di colpi in bocca ma ciò non servì a niente se non a farlo arrabbiare ancora di più. la creatura gli si avvicinò ancora di più e col muso lo spinse forte contro il muro. Il ragazzo sbatté la testa piuttosto violentemente e immediatamente la stanza prese a vorticargli attorno. La voce di Jack gli arrivava attutita alle orecchie e sentiva che pian piano stava perdendo coscienza.
L’alieno però non aveva intenzione di lasciarlo perdere; con le zanne protese gli ringhiava addosso.

“Ianto!” gridò Jack, in ginocchio dall’altra parte della stanza. “Ianto!”

“Jack”, sussurrò il ragazzo, senza voce. Allungò una mano per raggiungere la pistola che gli era scivolata quand’era caduto, ma non riuscì nemmeno a sfiorarla. “Jack. Ti amo”. Se stava per morire lì, in quel modo, che almeno quelle fossero le sue ultime parole. Non aveva paura, perché c’era Jack lì con lui e Jack lo amava e lo avrebbe salvato, lo faceva sempre, perciò lo avrebbe fatto anche questa volta.
Lui amava Jack e Jack amava lui.

 

“Fai piano, hai sbattuto la testa”.

Ianto aprì piano gli occhi per lasciarli abituare alla luce che, anche se debole, gli dava piuttosto fastidio. Si portò una mano alla nuca dolorante e si guardò attorno. Era steso sul divano della hall dell’albergo e Jack sedeva per terra accanto a lui. Aveva la camicia sporca di sangue ma stava bene. E anche lui stava bene, a parte il mal di testa.

“Che… che è successo?”

“Ci siamo appena scontrati con un orribile mostro alieno che voleva mangiarci”, gli rispose il Capitano con un sorrisetto furbesco.

“Oh”. Ianto si mise seduto, le ossa del corpo che gli dolevano tutte. “Adesso dov’è?”

“L’abbiamo… l’hai sconfitto”.

“Io?”

“Sì”.

“E come?”

Jack abbassò lo sguardo e assunse un’espressione strana, pensierosa. “Non lo so”.

“E che fine hanno fatto gli altri?”

“Si sono dissolti. Erano solo delle proiezioni psichiche tenute in quest’albergo dall’alieno che si nutriva delle loro paure. Se l’hotel non fosse stato chiuso avrebbe continuato a mietere vittime”.

“Ma nessun’altro poteva vederlo?”

“No, è visibile solo in questa dimensione”.

“Quindi questa è un’altra dimensione?”

“In un certo senso sì”.

“Oh”.

“Dai, andiamo via”.

 

Jack e Ianto si precipitarono subito verso il Suv senza guardarsi indietro, desiderosi solo di lasciarsi quel posto alle spalle. Il sole stava ormai tramontando dietro l’orizzonte e sicuramente gli altri dovevano essere preoccupati.

“Jack?” chiamò il ragazzo voltandosi verso il compagno.

“Dimmi”.

“Tu di cosa hai paura?”

Jack mise in moto l’auto e sistemò lo specchietto retrovisore. “Di niente. Uno che non può mai morire di cosa potrebbe avere paura?”

“Tutti hanno paura di qualcosa”.

 

 

MILLY’S SPACE

Eccoci qui. Probabilmente qualcuno di voi avrà notato una certa somiglianza tra questo capitolo e l’episodio di Doctor Who ambientato in un albergo dove c’era una creatura che si nutriva della “fede” delle persone. Effettivamente, mi sono ispirata proprio a quella puntata ^^ be’, che ne dite?

Comunque anche a me piacerebbe incontrare una persona vissuta durante l’età vittoriana o magari fare un viaggio nel tempo e andare a vederla coi miei occhi. È un’epoca che mi ha sempre molto affascinata ^^ ma mi sa che il mio sogno non si realizzerà mai : (  eh, pazienza.

Prima di chiudere vi faccio sapere che un po’ di giorni fa ho pubblicato una breve oneshot in questo fandom, si intitola “In the arms of an Angel” e se vi va andate  a leggerla : )

Detto questo, vi ricordo di lasciarmi qualche recensione.

Un bacione,

Milly.

HELLOSWAG: la tua minaccia mi ha parecchio spaventata, perciò ho fatto di tutto per aggiornare abbastanza presto ^^ non pensavo comunque di aver reso lo scorso capitolo così flaff. Cercò di non uscire mai troppo dai personaggi e credo che la dolcezza non sia contemplata tra le caratteristiche di Jack, però a volte non ne posso fare a meno : ) spero di risentirti, un abbraccio. M.

AMAYAFOX91: John è un personaggio che piace pure a me e in fondo non credo sia cattivo, semplicemente a volte fa scelte sbagliate. Spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. Ciao. Milly.

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Capitolo 16
*** Capitolo quindici - Abbiamo tempo ***


CAPITOLO QUINDICI – ABBIAMO TEMPO

Il tempo non ha limiti,
non passa per dividerci
è un pretesto sai che non basta mai
per dividerci.
(Il tempo tra di noi, E. Ramazzotti)

Jack l’aveva lasciato a casa quella mattina e non aveva voluto saperne di lasciarlo lavorare. Ianto gli aveva assicurato che non sarebbe andato in missione, che avrebbe potuto aiutarli restando alla base senza correre alcun rischio, però lui comunque non aveva voluto. Da quando era incinto si comportava con lui come se fosse fatto di porcellana e lo accudiva più del solito. Non che gli dispiacesse, certo, però lo faceva sentire un po’ strano. Jack non era mai stato apprensivo, non si preoccupava mai dei rischi e alle conseguenze ci pensava solo quando accadevano. E poi quel bambino era più forte di quanto pensassero, era riuscito a sopravvivere a un proiettile, insomma…

Sospirò alzandosi da tavola e portando i piatti al lavello. Adesso si sarebbe dovuto trovare qualcosa da fare in casa per non annoiarsi. Detestava annoiarsi, in quei casi pensava troppo.
Accese l’acqua calda e prese una spugna incominciando a lavare il coltello che aveva usato per spalmare il burro.
Forse era l’occasione buona per pulire un po’ la casa o magari guardare la tv o leggere qualche libro visto che di solito non aveva mai tempo per farlo. Ma ormai aveva persino dimenticato come si facevano queste normali cose quotidiane. La sua vita era tutt’altro che quotidiana.

Improvvisamente sentì suonare il campanello della porta. Si sciacquò velocemente le mani e le asciugò in uno straccio, poi si trascinò verso la porta.
Non appena aprì l’uscio, si trovò davanti il sorriso allegro di sua sorella che aprì le braccia per stringerlo in uno dei suoi abbracci da orsi. Ianto non si sorprese più di tanto nel vederla lì, visto che solo poco fa le aveva mandato un messaggio dicendole che poteva venire a trovarlo quel giorno, ma non se l’aspettava così presto.

“E’ appena avvenuto un miracolo, fratellino!”

“Cioè?” le chiese il ragazzo chiudendo la porta quando lei fu entrata.

“Mi hai detto che potevo venire a trovarti”, rispose la donna ridacchiando.

“Ahaha! Spiritosa”.

Rhiannon si guardò un po’ attorno, come per voler controllare se qualcosa fosse cambiato, poi si accomodò sul divano, davanti al televisore spento. “Dov’è Jack?” chiese, notando che l’uomo non c’era.

“E’ al lavoro”.

“E tu come mai sei a casa?”

Ianto esitò un attimo sul corridoio d’ingresso, indeciso se dirle quello che era successo oppure no. Ma alla fine si decise a farlo, era sua sorella dopotutto. Avrebbe capito. Rhiannon, dal canto suo, lesse qualcosa di sospetto nell’espressione del fratello.

“Rhian, devo dirti una cosa”, annunciò lui, sedendosi accanto a lei sul divano. “Anzi, due”.

“Devo preoccuparmi?”

“Be’ no, non proprio”. Incrociò le gambe e si voltò completamente verso di lei, per essere più comodo. “Ecco, io…”, iniziò, ma non sapeva esattamente che parole usare per rendere la cosa meno scioccante. Ma alla fine si rese conto che quello che stava per dirle sarebbe stato sconvolgente in ogni caso, perciò si decise a concludere. “Io e Jack aspettiamo un bambino”. Rhiannon dapprima lo guardò come se le avesse appena detto che voleva volare fino alla luna con l’ombrello. Poi si portò le mani alla bocca e spalancò gli occhi. “Oh mio Dio! Avete deciso di adottare un bambino? O avete fatto l’inseminazione…”.

“No!” esclamò il ragazzo interrompendola. Sarebbe stato più difficile del previsto. “No, no, niente di tutto questo”. Abbassò lo sguardo alla ricerca delle parole giuste. “Io aspetto un bambino. Letteralmente”. E si portò le mani alla pancia per sottolineare il concetto.

Rhiannon assottigliò gli occhi confusa. “Aspetta… mi stai dicendo che tu… che tu sei…”.

“Incinto, sì”, concluse lui per lei, aspettandosi un qualche tipo di reazione esagerata come era tipico di sua sorella.

“Ma… ma…”.

Ianto sospirò pazientemente e cominciò a spiegarle. “Tu sai che lavoro con gli alieni, no?” La donna annuì, l’attenzione completamente catturata dalle sue parole. “Ecco, è successo che un alieno mi ha morso e… sono rimasto incinto”.

“Quindi il bambino è un alieno”.

“No. Quell’alieno ha solo fatto in modo che io potessi… sì, insomma, hai capito. Il bambino è di Jack”.

“Ok”. Rhiannon prese un grande respiro cercando di assimilare la rivelazione. Suo fratello le aveva detto che lavorava con gli alieni e già quello era stato abbastanza scioccante, però questo… “Ok”, ripeté. “Ok”.

Ianto la guardava con espressione tesa, non sapendo se fosse contenta o… chissà cos’altro. “Guarda”, disse poi, alzandosi per prendere qualcosa dal cassetto. Quando tornò da lei le portò la foto di un’ecografia. “L’ha stampata Owen, un mio collega”.

Rhiannon la prese in mano delicatamente e la osservò in ogni particolare. Le sue labbra però si piegarono in un piccolo sorriso intenerito quando vide la piccola creatura ritratta al centro. “E’ bellissimo”.

“Davvero?”

“Sì. È un bambino, è ovvio che è bellissimo”.

Il ragazzo rilassò la schiena sullo schienale del divano, contento che la sorella non avesse reagito male. Rhiannon riportò di nuovo lo sguardo su di lui e gli sorrise. “Sono contenta per voi e soprattutto per te. Avere un bambino ti cambia la vita in meglio, anche se ci sono molte difficoltà da affrontare”.

“Lo so. Ti confesso che ho un po’ di paura”.

La sorella gli prese una mano tra le sue, accarezzandogli il dorso. “E’ normale, ma vedrai che andrà tutto bene. Sarai un bravo padre e lo sarà anche Jack. E in ogni caso, potete chiedermi aiuto quando volete”.

“Grazie”.

Rhiannon si protese ad abbracciarlo di nuovo, poggiando il mento sulla sua spalla. “Ma avete pensato che con questo potreste aver rivoluzionato la medicina?”

“Sì, ma non è così semplice”, le rispose sciogliendosi dall’abbraccio. “Non sappiamo ancora come sia né se ci sarà qualche… effetto collaterale. E in ogni caso non credo che il mondo sia pronto per accettare una cosa del genere”.

“Be’, certo. Ma prima di tutto voglio che pensi a te”.

“Non ti preoccupare, a quello ci pensa già Jack”.

“Misha e David saranno contenti di sapere che avranno un nuovo cuginetto. O una cuginetta”.

Ianto assottigliò le labbra in una smorfia non molto piacevole. “A proposito di questo… magari non dire a John proprio ciò che ti ho detto”.

La donna scoppiò a ridere divertita. “D’accordo. Come vuoi”.

Dopotutto, era contento che fosse venuta a trovarlo. A volte sentiva la sua mancanza e gli sarebbe piaciuto poter trascorrere con lei pomeriggi interi in cui si confidavano segreti e ridevano delle cose più stupide esattamente come facevano quando erano più piccoli.

“Qual è l’altra cosa che dovevi dirmi?” chiese Rhiannon ad un tratto. Ianto se n’era quasi scordato e improvvisamente il buon umore di poco fa scomparve. Ora non era più tanto sicuro di volerglielo dire.  Jack aveva insistito perché lo facesse e anche lui si era convinto. Ma adesso…

“Non so se dovrei dirtelo”.

“Ehi”, lo chiamò stringendogli più forte la mano. “Lo sai che a me puoi dire tutto”.

“Questa cosa non ti piacerà”.

“Non importa. Voglio che me lo dici”.

Ianto alzò lo sguardo e la guardò dritto negli occhi. “Ok, però promettimi che non ti lascerai influenzare da quello che ti dirò e che ti comporterai con me come hai sempre fatto”.

“Certo”, promise lei ma sentiva la preoccupazione e la paura crescerle un poco alla volta. Che cosa mai poteva esserci di così brutto?

“Ti ricordi che nostro padre non era venuto al mio diploma?”

“Sì, me lo ricordo”.

“Lui non era venuto perché era da quasi un anno che non ci vedevamo. Ero andato via di casa”.

“Cosa?!” esclamò lei spalancando la bocca sorpresa. “Cosa era successo?”

“Be’, non stavo più bene lì dentro. Dopo che te ne eri andata ha iniziato a comportarsi sempre peggio, mi picchiava sempre più spesso e per delle sciocchezze, si ubriacava quasi tutte le sere… non ce la facevo più”.

La sorella avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma le parole non le venivano fuori. E poi intuiva che c’era anche dell’altro. “Ti ha fatto qualcos’altro? Oltre a picchiarti, intendo”.

“Be’…”. Ora arrivava la parte più difficile. Ianto spostò lo sguardo da un’altra parte per non doverla guardare. “Una sera ero tornato a casa più tardi e lui era più ubriaco del solito e…”.

“E?”

Il ragazzo intrecciò le dita con quelle della sorella. “Mi ha… ha fatto una cosa molto brutta”. Si sedette sul bordo del divano e si spettinò i capelli. Il cuore gli batteva a mille e sentiva che tutto quello che aveva provato la notte che suo padre lo aveva violentato stava riaffiorando.
Rhiannon si protese verso di lui e si appoggiò contro la sua schiena, abbracciandolo da dietro e poggiando la guancia contro la sua spalla. “Cosa ti ha fatto? Ti prego, devi dirmelo”.

“Non ci riesco”.

“Ok, allora scrivilo”.

La donna afferrò la sua borsetta e ne tirò fuori una penna e un piccolo block notes. Poi li passò a Ianto e lo incitò a scriverlo.
Il ragazzo era un po’ titubante, ma alla fine si decise a obbedire. In fondo, scriverlo era più facile che dirlo. Lo scrisse con una calligrafia tremante, dopotutto tutto il suo corpo stava tremando, e diede di nuovo il block notes e la penna a sua sorella.
Lei lo prese in mano e lo lesse. Lo lesse una volta e subito non capì, come se quelle parole improvvisamente le fossero diventate sconosciute. Poi lo lesse di nuovo, finché non le rimasero incollate negli occhi.

Mi ha violentato.

Infine abbassò il foglio e rimase a guardare il fratello. “Stai scherzando?”

“Lo vorrei tanto. Ma ti giuro che è vero. Lo ha fatto e io…”.

Di nuovo si allungò verso di lui e lo abbracciò stringendolo questa volta più forte di prima. “Oh, tesoro! Perché non me l’hai detto? Perché non mi hai chiamata?”

“Perché non volevo disturbarti. E poi, avrei dovuto raccontartelo e non volevo. Mi… mi vergognavo troppo e avevo paura”.

“Ma io sono tua sorella. Ti sarei venuta a prendere e ti avrei portato da me e John”.

I due rimasero abbracciati per un po’, cullandosi l’uno tra le braccia dell’altro proprio come facevano da piccoli quando erano tristi o avevano paura. Si staccarono solo quando il corpo cominciò a dolere per quella posizione.

“Dove sei andato dopo?”

“Da alcuni amici”.

“Ti sei drogato?”

Ianto esitò un attimo prima di risponderle. “Sì”.

Rhiannon sospirò. “L’avevo intuito quando ti ho visto al diploma, ma ho fatto finta di non vederlo. Mi sarei dovuta prendere cura di te e invece ti ho lasciato con quel vigliacco. Mi dispiace. Non sono stata una brava sorella”.

“Questo non è vero!”.

“Sì, invece. Ti dovevo portare con me quando sono andata via con Johnny. E invece ho solo pensato a me stessa”.

“Hai fatto bene a pensare a te stessa. Ti sei sempre presa cura tu della mamma e di me quando ero piccolo. Era giusto così”.

“Ma se avessi fatto come avrei dovuto, tutto questo non sarebbe successo e papà non ti avrebbe…”.

“Non importa. Ormai è successo, è inutile piangere sul latte versato”.

Rimasero di nuovo in silenzio ripensando alla loro infanzia e a tutto quello che avevano passato a causa di quel padre violento. Non era stato facile per loro e tantomeno lo era stato per Ianto, però eccoli lì, ancora insieme, cresciuti e con le loro vite.

“Perché me lo dici proprio adesso?”

“Jack ha insistito. Pensava che tu dovessi saperlo”.

“Jack lo sa?”

“Sì, anche se lo ha scoperto per caso. Stavamo lavorando su un oggetto alieno che riporta le persone a rivivere i momenti peggiori della loro vita. Praticamente abbiamo visto tutta la scena”.

A Rhiannon quasi venne un colpo. Non solo suo fratello era stato violentato quando aveva diciassette anni dal loro padre, ma era pure stato costretto a rivivere la scena una seconda volta. Era normale che fosse caduto nella droga.

“Hai smesso con la droga, vero?”

Il ragazzo ridacchiò. “Sì, certo. Da un po’”.

“Ti voglio bene, lo sai?”

“Lo so. Anche io te ne voglio, Rhian”.

 

Ianto era in bagno che svuotava la lavatrice quando vide Jack entrare e sedersi sul bordo della vasca.

“Non è che per caso sai se c’è una fessura spazio temporale anche nella lavatrice? No, perché è strano che i calzini spariscano così”.

Il Capitano sorrise divertito ma non disse niente. Si inginocchiò sul pavimento e abbracciò il compagno da dietro, baciandolo sul collo. Il ragazzo sentì dei brividi di piacere corrergli lungo la schiena e smise immediatamente di fare quello che stava facendo per mettere le proprie mani su quelle di Jack, poggiate sulla sua pancia.

“Jack? Che cosa c’è?”

“Mi sei mancato oggi”, gli sussurrò il Capitano senza smettere di baciargli il collo. Ianto sorrise e si piegò perché l’altro potesse baciarlo meglio. Intanto le mani di Jack si strinsero di più attorno alla sua pancia. “Come sta il nostro pargolo?”

“Sta benissimo”, rispose il ragazzo, intenerito alla parola pargolo. Jack gli stava veramente mostrando un lato di sé che non credeva esistesse.
Improvvisamente però si staccò e si alzò in piedi come se l’avesse punto qualcosa. “Mettiti qualcosa di carino. Voglio portare te e il pargolo fuori a cena”.

Ianto strabuzzò gli occhi sorpreso. “Davvero?”

“Certo! Sempre se ti va”.

“Sì!” rispose il giovane un po’ frettolosamente. “Sì. Vado”. E corse in camera a cambiarsi, completamente dimentico dei vestiti che dovevano essere messi ad asciugare e dei calzini scomparsi.

 

“Hai ancora fame?”

Ianto bevve un sorso di acqua e osservò il suo piatto vuoto. Ora era decisamente sazio. “No, direi di no”.

“Ti va il dessert?” chiese ancora Jack.

Effettivamente un dolce ci poteva stare. Di solito queste cose non gli piacevano e non era uno che mangiava tanto, ma quel bambino era esigente e gli faceva venire persino le voglie più stravaganti.

“Sì, ok”.

Il cameriere arrivò per portare via i piatti dei due e loro ne approfittarono per chiedergli due fette di tiramisù. Erano in quel ristorante già da un paio di ore e se la stavano proprio godendo. Non capitava spesso di avere una serata libera e di potersene stare in pace senza pericolo di attacchi alieni o persone da salvare. Non avevano altri pensieri per la testa se non quella serata, la cena e l’atmosfera.
Si sentivano bene, entrambi.

“Oggi è venuta mia sorella”, disse ad un tratto Ianto dopo aver addentato il primo boccone di dolce. “Le ho detto del bambino”.

“E come l’ha presa?”

“E’ rimasta un po’ scioccata all’inizio, ma poi ha detto che è contenta per noi”. Il ragazzo arrivò a metà dolce quando smise di mangiare e alzò di colpo gli occhi su Jack. “E le ho detto anche quell’altra cosa”.

“Quella… di tuo padre?” fece il Capitano guardandolo incerto.

“Sì”.

“E?”

Ianto esitò un attimo abbassando lo sguardo. “Niente. Diciamo che si è data la colpa per non essere stata abbastanza presente”.

Jack non aggiunse altro, dopotutto non aveva idea di che cosa potesse dire. Non era bravo nei discorsi seri né in quelli che riguardavano i sentimenti.
Perciò decise di fare quello che sapeva fare meglio.

“Quella signora dietro di te ci sta guardando da almeno un’ora”.

Ianto si voltò leggermente per vedere chi era questa signora ed effettivamente notò che una donna sulla mezza età, dai capelli tinti di un rosso slavato e il viso truccato esageratamente li stava guardando con cipiglio scontento. Ma non appena vide che lui l’aveva notata, girò lo sguardo e fece finta di bere.

“Sembra che non approvi”, commentò Ianto indifferente. Ormai non si faceva più problemi ad uscire insieme a Jack e a dire che stava con lui. Vivevano in un paese libero, dopotutto.

“Le mostriamo una cosa?” chiese allora Jack guardandolo con occhi provocanti. Il ragazzo si domandò che cosa potesse essere, quando all’improvviso vide il Capitano venirgli incontro e baciarlo sulle labbra senza lasciargli il tempo di pronunciare neanche una sillaba. Subito le loro lingue si trovarono intrecciate; Ianto portò una mano dietro la nuca di Jack mentre questi gli mise le mani sui fianchi.
Nessuno nel ristorante parve averli notati, o comunque anche se lo avevano fatto, fecero finta di niente. Invece la signora che li aveva guardati poco prima si era alzata di colpo e se ne era andata via lanciando loro un’occhiata schifata mentre il marito la seguiva di corsa.

Infine, quando si staccarono, Ianto e Jack scoppiarono a ridere.

 

E mentre passeggiavano al parco, Ianto stava ancora ridendo, solo che stavolta era per una storia divertente che il Capitano gli aveva appena raccontato. Si dovette sedere su una panchina perché non riusciva più a reggersi in piedi. Quando finalmente si calmò, si rilassò contro lo schienale e restò a guardare il cielo stellato sopra di sé, col fiatone.

“Dovresti ridere più spesso”, gli sussurrò Jack quando si fu seduto accanto a lui. “Sei più bello”.

Ianto spostò lo sguardo su di lui e lo guardò dolcemente. “Presto però non ti piacerò più”, disse scherzoso.

“E perché mai?”

“Perché diventerò grosso come un barile e mi toccherà rotolare per spostarmi”.

Jack rise divertito e prese una mano del compagno. “Tu mi piaceresti anche se avessi una gamba di legno e un occhio di vetro”.

Il ragazzo lo guardò intensamente negli occhi e vi lesse la sincerità. Ancora continuava a stupirsi di tutto quello, della sua relazione con Jack. Era strano, all’inizio c’era solo sesso e pensava che sarebbe stato così per sempre. Però allo stesso tempo aveva paura, sentiva una strana sensazione. Non avrebbe saputo descriverla, però gli opprimeva lo stomaco già da un po’.

Sicuramente erano solo stupide paranoie dovute agli ormoni della gravidanza.

“E magari insieme alla pancia ti cresceranno anche le tette”, scherzò Jack posando le mani sul suo petto.

Ianto gli diede un pugno leggero sul braccio e lo guardò sconvolto. “Idiota!”  Allora il Capitano lo avvicinò a sé e lo fece stendere con la testa sul proprio grembo. Con una mano prese ad accarezzargli i capelli mentre l’altra gliela poggiò sulla pancia.

“Dovremmo pensare a dei nomi”, sospirò il ragazzo mettendo anche la propria mano su quella del compagno.

“Abbiamo tempo”.

Forse era proprio questo che gli faceva paura.   

 

 

MILLY’S SPACE

Questo sì che è un capitolo fluff… spero non sia troppo OOC. Comunque io cerco di dare un po’ di spazio anche agli altri personaggi, ma proprio non ci riesco. Jack e Ianto mi sono entrati nel cuore e non c’è più niente da fare. Però voi ditemi pure se volete che dedichi più anche a Gwen e Rhys, Owen e Tosh.

Va bene, spero vi sia piaciuto il capitolo. Lasciatemi qualche recensione, please anche perché l’altra volta ho commesso uno strafalcione e se Amayafox91 non me l’avesse fatto notare sarebbe rimasto ancora lì. Perciò vedete che le recensioni servono a qualcosa ^^

Un bacione.
M.

P.S. se siete fan del fandom date un’occhiata alla mia fanfiction su Sherlock (BBC),

P.P.S. mia mamma si lamenta sempre del fatto che i calzini spariscano nella lavatrice, perciò a me viene sul serio il dubbio che possa esserci una fessura spazio temporale che se li porta via ^^

AMAYAFOX91: ma che pignola, effettivamente ho commesso un errore anche abbastanza serio. Ti ringrazio ancora : ) spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. Baci, Milly.

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Capitolo 17
*** Capitolo sedici - Maledetto Torchwood! ***


CAPITOLO SEDICI – MALEDETTO TORCHWOOD!

Quanta luce, quanto cielo,
orizzonti da guardare.

(Silver e Missie, E. Ramazzotti)

“Benvenuti alla casa degli orrori!”

“Non essere così terrificante!”

“Be’, ma scusa, guarda che posto!”

Quando Rhys e Gwen uscirono dalla loro auto, Jack entrava con una manovra da professionista nel cortile  di un’imponente villa e parcheggiava il Suv accanto alla macchina dei primi due arrivati. Effettivamente suo marito non aveva tutti i torti, dovette concedergli Gwen, la villa era terrificante. Certo, era grande e non affatto banale, con tutti quei aggetti e quelle decorazioni in stile gotico, ma non faceva affatto per lei. Qualcosa nell’aspetto di quel posto le metteva i brividi soltanto a guardarla, forse per il fatto che aveva trovato quello stile sempre molto inquietante; in quel momento avrebbe voluto risalire in auto e tornare al sicuro nel suo modesto ma confortevole appartamento.
Tuttavia il lavoro chiamava e lo sguardo deciso di Jack non ammetteva repliche.

“Be’, che aspettiamo?” chiese Owen, aprendo la strada a tutto il gruppo e salendo i pochi gradini che lo separavano dal portone d’ingresso. Gli altri lo seguirono senza fiatare e il Capitano inserì la grossa chiave nella serratura girando un paio di volte finché non udì lo scatto.

“Wow!” esclamò Rhys non appena ebbe varcato la soglia. Il suo sguardo corse immediatamente attraverso la stanza cadendo su ogni dettaglio: i quadri appesi alle pareti che mostravano i mezzi busti di personaggi sicuramente importanti, le teste d’angelo che ornavano quasi ogni angolo, dai soprammobili sugli scaffali alle maniglie delle mensole, il lampadario enorme che faceva bella mostra di sé in salotto, i tappeti con fantasie complicate, la scala dal corrimano elegante che portava al piano superiore… se il piano inferiore era così, chissà come erano le altre stanze! E la polvere e le ragnatele di certo non nascondevano tutta quella ricchezza, appartenuta a chissà quale erede di una famiglia importante.

Rhys appoggiò le valigie vicino al basso tavolino in salotto e si buttò sulla prima poltrona che gli capitò a tiro, saggiandone la comodità e la morbidezza. “Non ti piacerebbe vivere in un posto del genere?” chiese eccitato rivolto a Gwen. “Mi accontento anche di qualcosa di più modesto. Qui sarebbe troppo silenzioso”, gli rispose la ragazza accomodandosi accanto a lui. “Be’, gli schiamazzi e le risate dei bambini la riempirebbero”, fu la sua contro-risposta, ma Gwen a quelle parole si rabbuiò un po’ ed evitò il suo sguardo.
Entrambi furono distratti da Jack che aveva spalancato le imposte delle finestre per far passare un po’ di luce e aria, non aspettandosi che queste emettessero tutto quel cigolio. Dopotutto, era da un po’ che non venivano aperte.

“L’ultimo proprietario di questa residenza era stato un certo Sir John Mallerick”, iniziò Tosh tenendo il cellulare di fronte a sé “figlio di un eminente personaggio politico dal quale l’ha ereditata negli anni venti. Il padre a sua volta l’ha ereditata dalla famiglia e così fino al milleseicento, quando la villa è stata costruita. Adesso è di proprietà di questo comune del Galles che ha cercato di venderla più di una volta, senza mai riuscirci, a causa di certe storie sui fantasmi che girano”.

“E che a quanto pare non sono infondate”, aggiunse Owen osservando i soprammobili sul caminetto. “Tutti quelli che hanno trascorso qui la notte giurano di aver sentito grida di bambini e non hanno più voluto metterci piede”.

“Quindi avremo ancora a che fare coi fantasmi?” chiese Ianto, ricordando la sua ultima esperienze con qualcosa di simile e subito sentì i brividi corrergli lungo la schiena.

“I fantasmi non esistono”, lo rassicurò Jack dandogli una pacca sulla schiena e afferrando la propria valigia insieme a quella del compagno. “E ora andiamo a prenderci le stanze”.

Le stanze, come tutti avevano immaginato, rendevano giustizia al piano inferiore: ogni stanza aveva un piccolo caminetto e un letto a baldacchino sorretto da colonne a intarsio. E, tanto per non essere da meno, anche lì c’erano teste d’angelo che ornavano quasi tutti i mobili, la testiera del letto, l’armadio, i cassetti… ricordavano vagamente i visi dei bambini.

Il gruppo si riunì in cucina, decisamente meno ricca rispetto alle altre stanze della sala, per cenare e discutere della missione. I sofisticati computer che tenevano al Nucleo avevano rilevato un picco di energia della Fessura in quegli ultimi giorni e così avevano deciso di farci una capatina per quel fine settimana. A Jack non ci era voluto niente nel farsi dare le chiavi dal custode.
Purtroppo per lui anche Rhys aveva deciso di unirsi, il quale, da quando Gwen gliene aveva parlato, non aveva voluto sentire ragioni e aveva rimarcato diverse volte che sarebbe stato divertente e che era da un po’ che non passavano un fine settimana insieme, lontano da casa. La moglie gli aveva detto che si trattava solo di lavoro e che non sarebbero comunque restati da soli, visto che c’era tutto il team, ma per Rhys faceva lo stesso e aveva detto che sarebbe stato divertente comunque. E che una caccia agli alieni o a qualche altra strana creatura misteriosa era quello che gli ci voleva.

“Allora, pensi che troveremo qualcosa di interessante in questo posto?” chiese Ianto, sdraiandosi sul letto accanto al Capitano, una volta che i due si furono ritrovati da soli nella propria stanza.

“Non saprei. Promette bene”, fu la risposta sommessa dell’altro, intento a guardare il baldacchino sopra di sé. Creava un’atmosfera decisamente romantica.

Il ragazzo si voltò verso di lui e rimase a osservare il suo profilo. “Che c’è che non va?”

Jack lo guardò confuso. “Perché pensi ci sia qualcosa che non va?”

“Sei pensieroso”.

“Non mi hai mai visto pensieroso?”

Ianto sorrise dolcemente. “Sì, ma non così”.

Jack, allora, per scongelare la situazione e creare un’atmosfera più favorevole, una di quelle che piacevano a lui, si sollevò di scatto e si mise a cavalcioni sopra il compagno, evitando di poggiarcisi con tutto il peso. Poi calò sul collo di Ianto e cominciò a baciarlo.

“Jack?” lo chiamò questi con voce roca. Faticò a trattenere una risatina quando questi gli solleticò un lembo di pelle con la propria lingua. Il Capitano si mise a slacciargli i bottoni della camicia e, quando arrivò all’ultimo, gliela aprì ben bene scoprendo il suo petto pallido e liscio. Poi cominciò a baciarlo anche lì, saggiandone ogni pezzo finché non arrivò alla pancia dove un piccolo rigonfiamento faceva bella mostra di sé. Jack baciò anche quella, delicatamente, e Ianto gli affondò una mano tra i capelli, gustandosi la loro consistenza tra le dita. L’altro, allora, smise di baciarlo e rimase col mento appoggiato sopra all’ombelico.

“Spero si sbrighi ad uscire”, sussurrò ma nel silenzio della stanza era perfettamente udibile.

“Sei così impaziente?” gli chiese Ianto sorridendo.

“E’ mio figlio, ovvio che sono impaziente”.

Suo figlio… era la prima volta che Jack lo diceva e forse la prima volta che lo considerava tale. E Ianto lo adorava. Gli piaceva quando diceva certe cose e gli piaceva il modo in cui le diceva. Non credeva si sarebbe mai innamorato così intensamente, non dopo Lisa. Eppure…

“Potrebbe anche essere una bambina”, lo contraddisse cercando di non mostrare tutta l’emozione che provava.

“E’ lo stesso. Basta che mi somigli”.

“Non abbiamo ancora pensato a un nome”.

A quella constatazione Jack ammutolì di colpo e assunse di nuovo la sua espressione misteriosa. “Prima o poi ci verrà in mente qualcosa”, concluse poi, tornando a sdraiarsi sul letto affianco a Ianto, una mano poggiata sulla sua pancia scoperta.

Rimasero per un po’ in silenzio, ascoltando solo il rumore del vento che sbatteva contro le finestre. “Jack?”

“Hmmm?”

“Ti amo”.

Jack, che aveva chiuso gli occhi, li riaprì di colpo e li puntò in quelli altrettanto chiari del compagno. “Non dirlo con quel tono”.

“Che tono?”

“Quello che hai appena usato. Come se fosse l’ultima volta che me lo dici”.

Ianto sospirò. “Be’, chi lo sa… con quello che facciamo non si sa mai cosa può succedere”.

“Sta’ zitto!” gli intimò il Capitano affondando il viso nella sua spalla. “Non dire queste cose. Non dire più che mi ami”.

“E perché no?”

“Perché di no”.

Il ragazzo prese ad accarezzare la schiena dell’altro sentendo diverse sensazioni agitarsi dentro di lui. Quand’è che Jack era diventato così dolce? Quella era forse la prima vera dimostrazione del fatto che a lui ci teneva, che ci teneva davvero.

“D’accordo”, concluse infine, stringendosi di più a lui.

 

Gwen sedeva e fissava il proprio riflesso nello specchio posto sopra a uno di quei tavolini di legno che servivano per il trucco. Aveva trovato una vecchia spazzola in uno dei cassetti, non una spazzola comune, ma una di quelle da antiquariato. Doveva essere appartenuta alla padrona della villa.
La prese in mano e cominciò a pettinarsi delicatamente i capelli, sentendosi proprio come lei. Provò a immaginarsela, seduta lì davanti allo specchio a pettinarsi i suoi splendidi capelli, magari biondi e lunghi, proprio come stava facendo lei in quel momento. Sicuramente aveva avuto una bellissima pelle chiara e liscia, come quella delle bambole di porcellana. E di certo indossava dei bellissimi vestiti eleganti e gioielli preziosi.
Accarezzò delicatamente il retro della spazzola e l’immagine della donna le passò davanti agli occhi come un lampo che illumina il cielo.

Improvvisamente Rhys aprì la porta della stanza facendo prendere un colpo a Gwen che balzò sulla sedia. L’uomo non si accorse di nulla.
“Questo posto è strepitoso. Ci sono un sacco di stanze, ci vorrà un’intera giornata per visitarle tutte”.
Gwen si voltò a guardarlo con una strana espressione, come se lui non dovesse essere lì.
“Che c’è tesoro? Stai bene?” le chiese il marito, accorgendosi del suo viso diventato improvvisamente pallido. Lei non gli rispose subito. Dopo un po’ però gli sorrise rassicurante, mostrando la sua dentatura bianca. “Sì, sto bene. sono solo un po’ stanca”.

“Andiamo a dormire”, suggerò Rhys allora, scostando le coperte del grande letto a baldacchino. “Domani ci aspetta una lunga giornata”.

I due si infilarono sotto le coperte, rabbrividendo contro le lenzuola fredde. Poi spensero le lampadine sui comodini e si strinsero l’uno all’altro, aspettando che Morfeo li cogliesse tra le braccia.
Le testoline d’angelo che decoravano il letto e gli altri mobili li guardavano con i loro occhi di marmo nell’oscurità. Ma Gwen e Rhys non potevano vederli.

 

Tosh camminava per i  corridoi della villa, reggendo una candela in mano. Non aveva idea di dove fosse l’interruttore delle luci e in ogni caso non le andava di accenderle, rischiando di svegliare tutti. Così ora vagava come un fantasma, in pigiama e a piedi nudi. Ridacchiò tra sé e sé per la situazione piuttosto comica.
Si sentiva come dentro a uno di quei film horror che parlano di spiriti e lei ne era la protagonista. 

Improvvisamente sentì uno soffio di aria fredda colpirle il viso e rimase bloccata sul posto, rabbrividendo. Le sembrava che ci fosse qualcosa dietro di lei e non aveva il coraggio di girarsi. La fiamma della candela si spostò verso sinistra e minacciò di spegnersi.

Allora Tosh, molto lentamente, girò il capo verso destra e si accorse che una delle finestre era aperta. Esalò un sospiro di sollievo. Il soffio d’aria che aveva sentito era il vento che stava soffiando fuori e che stava facendo sbattere le tende.
Si stava lasciando suggestionare un po’ troppo; non era da lei.

Posò la candela sul davanzale e chiuse velocemente la finestra. Poi proseguì la sua esplorazione, affrettandosi ad attraversare il corridoio.
Non si accorse, però, che un paio di occhi freddi la stavano scrutando dall’alto.

Una volta raggiunto il salotto, Tosh si imbatté in Owen, seduto sul divano al buio. Per poco non le venne un colpo e immediatamente si portò una mano alla maglia del pigiama. Non si aspettava di trovare il ragazzo lì, altrimenti si sarebbe messa qualcosa di un po’ più carino e non quell’orribile pigiama di flanella appartenuto a sua nonna.
Possibile che dovesse sempre vederla in situazioni imbarazzanti?

“Tosh!” esclamò lui. “Che ci fai qui?”

“Non riuscivo a dormire”.

“E perché hai una candela in mano?”

La ragazza non sapeva come ribattere a questa domanda, così si limitò a posarla sul tavolino davanti al divano e a sedersi in una piccola poltrona raccogliendo le gambe contro il petto. Sembrava che avesse davanti uno sconosciuto poco affidabile, anziché Owen.

“Questa casa mette i brividi”, commentò lei, cercando di fare una battuta e togliere quel silenzio imbarazzante.

“Già”, fu l’unica risposta da parte dell’amico che non la stava neanche guardando. Probabilmente non era in vena di chiacchiere. L’unica luce che illuminava la stanza era quella della candela, perciò gran parte della stanza era immersa nell’oscurità. Tuttavia riusciva a scorgere il profilo di Owen e si accorse che era seduto in una posizione piuttosto rigida, la schiena dritta, le mani poggiate sulle gambe e lo sguardo perso a guardare qualcosa di fronte a sé.

“Ti va un bicchiere di latte?” chiese allora Toshiko, tanto per avere qualcosa da fare.

“Si, perché no?” Finalmente il ragazzo si era girato nella sua direzione e le stava mostrando un po’ di interesse.

“Vado a prenderlo in cucina”.

La ragazza si alzò con uno scatto e cominciò a camminare in direzione della cucina. Ma proprio quando stava per superare la soglia, un grido perforò le pareti della casa.
Tornò in salotto di corsa e rimase a guardarsi attorno. “Che cos’è stato?”

“Non lo so. Proveniva dal piano superiore!” esclamò Owen precipitandosi verso le scale.

 

Jack e Ianto si erano appena addormentati quando avevano sentito qualcuno urlare. Proveniva dalla stanza di Gwen e Rhys e sembrava proprio che fosse stata la ragazza ad aver gridato.

Il Capitano raggiunse la loro porta per primo e cercò di entrare, ma quella era chiusa a chiave.

“Aprite!” gridò ai due che erano chiusi dentro, battendo i pugni sul duro legno. In quel momento vennero raggiunti anche da Owen e Toshiko. Sentirono dei passi avvicinarsi alla porta e qualcuno che girava il chiavistello. Jack tentò un’altra volta di aprire la porta. Ma ancora niente. “Aprite questa dannata porta!”

“Non si apre!” gli gridò di rimando la forte voce di Rhys.

“Spostati!” fece Owen, spingendo il Capitano di lato. Cominciò a tirare la maniglia verso di sé cercando di romperla e, quando non ci riuscì, prese a dare spallate alla porta.

“Così ti fai male, Owen!” gli fece notare Tosh, la voce spezzata dal panico. Stava succedendo qualcosa in quella stanza e loro non riuscivano a capire cosa.
Improvvisamente, Gwen lanciò un altro grido e tutti rimasero raggelati. Owen riprese a colpire la porta, questa volta con i calci.
A quel punto il chiavistello scattò e la porta si spalancò facendo ruzzolare il ragazzo a terra.

Jack, Ianto e Tosh si precipitarono dentro posando subito gli occhi su Gwen che se ne stava seduta sul letto, pallida e sudata, gli occhi scuri spalancati verso il soffitto.

 

“Che cos’è successo?” chiese Ianto sedendosi di fronte a Gwen e sporgendosi verso di lei. Si erano di nuovo riuniti tutti in cucina; la ragazza sedeva al tavolo con un bicchiere di latte in mano. Sembrava più tranquilla e aveva recuperato un po’ di colore, ma tremava ancora.

Alzò lo sguardo su Ianto e puntò i suoi occhi scuri in quelli chiari di lui. “C’erano… c’era qualcosa nella stanza”.

“Che cosa?”

“Come… come dei fantasmi”.

Gli altri presenti si lanciarono degli sguardi confusi, come se si stessero dicendo mentalmente che Gwen tutto d’un tratto fosse impazzita.

“Non sto scherzando. C’era una faccia nel mio cuscino”.

“Che tipo di faccia?”

“Non lo so. Era come coperta da un lenzuolo, ma potevo distinguerne il profilo. E poi qualcosa è passato sul soffitto. Una… una persona, non lo so. È stato tutto molto veloce. Ma c’era qualcosa, dovete credermi!”

“Ti credo!” esclamò Jack e lei si voltò a guardarlo con espressione grata, come se sapesse che adesso tutto si sarebbe sistemato.

Rhys si sedette accanto alla moglie e le pose un braccio attorno alle spalle. Lei lasciò andare la testa contro la sua spalla.

“Che cosa sarà stato, Jack?” chiese Ianto rivolto al compagno.

“Non ne ho idea. Ma lo scopriremo!”

Senza aspettare nessuno, il Capitano corse verso le scale, diretto al piano superiore. Tosh fu l’unica a seguirlo, mentre Owen e Ianto si diressero in salotto.

“Owen, cerchiamo anche noi qualcosa”, disse Ianto, guardandosi attorno con fare circospetto.

“E cosa vuoi che cerchiamo?”

“Non lo so, qualsiasi cosa. Guarda nei cassetti, negli armadi… vedi se trovi qualcosa di sospetto”.

“Potremmo metterci tutta la vita, visto quanto è grande questo posto”, si lamentò il dottore, tuttavia fece come aveva detto Ianto e cominciò ad aprire dei cassetti. L’altro, invece, si avvicinò al camino, attirato dai putti che lo decoravano. Erano sparsi per tutta la casa, quei cosi, c’erano quasi in ogni angolo. Dovevano essere stati la decorazione preferita dei vecchi proprietari. Solo che quelli sul camino erano diversi, sembravano… Ianto si abbassò per guardarne uno da vicino, soffermandosi sugli occhi di marmo, quando a un tratto gli parve di veder muoversi qualcosa.
Scosse il capo cercando di tornare in sé. Doveva essere stata la stanchezza a causargli l’allucinazione.

Lanciò un’occhiata all’interno del camino dove c’erano ancora della cenere e dei ciocchi di legno e scorse qualcosa che spuntava dalla cenere grigia. Non era un ciocco di legno.
Si inginocchiò e immerse le mani nella cenere. Ce n’era parecchia.

“Ianto, hai finito di giocare con la sabbia? Ho trovato qualcosa”, fece Owen, chiudendo di scatto un cassetto.

“Anche io credo di aver trovato qualcosa”.

Il dottore raggiunse l’amico e prese in mano quello che il collega gli porgeva: era qualcosa di lungo e liscio, con una forma concava.

“Che cos’è?”

“Dimmelo tu”, soffiò Ianto mentre un terribile sospetto gli stava passando per la testa. Scavò ancora nella sabbia per vedere se c’era altro e ne tirò fuori quella che sembrava essere una mano. O meglio, lo scheletro di una mano, una mano molto piccola a cui mancavano un paio di dita, però era proprio una mano.
Ianto la lasciò cadere e si tirò indietro con uno scatto.
In quel momento l’orologio a pendolo batté l’una ed entrambi i ragazzi balzarono sul posto.

“Cristo!” esclamò Owen osservando la mano. “Qui è decisamente successo qualcosa”.

“Vai a chiamare Jack”.

 

“Avete trovato qualcosa?” chiese il Capitano non appena ebbe sceso le scale.

“Abbiamo trovato delle ossa nella cenere del camino”, lo informò Ianto.

“E io ho trovato delle foto”, aggiunse Owen buttando sul tavolo le suddette foto.

Jack le prese in mano le foto e le guardò attentamente: erano in bianco e nero, molto vecchie, tant’è che tutte erano un po’ rovinate, macchiate qui e là e coi bordi frastagliati. Tuttavia le figure si vedevano ancora bene e chiaramente rappresentavano quella che doveva essere una famiglia, con i due genitori e i figli. La cosa strana, però, era che in ogni foto c’era dei bambini diversi.

“Che significa?” chiese Jack guardando il suo team.

“I due adulti nelle foto sono gli ultimi proprietari della casa”, iniziò a spiegare Owen. “Ma chi sono tutti quei bambini?”

“Ho fatto una rapida ricerca”, aggiunse Gwen. “E ho trovato degli articoli che dicevano che i Mallerick avevano avuto dei figli, alcuni che sono nati morti e altri deceduti a causa di malattie o incidenti domestici. In ogni caso, nessuno di loro è riuscito a superare i sette anni”.

“Ma io pensavo che la moglie del Signor Mallerick non potesse avere figli”, la contraddisse Tosh.

“Questo era quello che dicevano. A quanto pare non volevano che queste disgrazie si venissero a sapere. Ho trovato quegli articoli in mezzo ad alcuni file molto riservati”.

“Jack!” chiamò Ianto, fermo vicino al camino. “Lo scheletro della mano che abbiamo trovato sembra essere quella di un bambino”.

Il Capitano si avvicinò al camino e osservò la mano che era stata posata in un angolo. Poi rovistò tra la cenere, finché non scoprì un piccolo anello circolare di ferro arrugginito. Lo tirò verso di sé aprendo una piccola porticina quadrata che celava una specie pozzo o nascondiglio.

“E’ una botola? Quella è una botola?” esclamò Rhys con gli occhi spalancati. “Una botola nel camino!?”

“C’è una scala”, notò Jack ignorando le parole di Rhys. “Vado a vedere cosa c’è lì sotto. Voi restate qui”.

“Vengo con te, Jack”, disse Ianto afferrando subito una torcia. Jack gli lanciò una strana occhiata, ma non disse niente. Scese le scale fino in fondo e poi aiutò il compagno. Quando entrambi toccarono il terreno, il Capitano accese la torcia e si guardò attorno.

“Sembra un sotterraneo”, osservò il gallese, osservando le pareti di roccia piene di muffa e umidità. Davanti a loro si estendeva un lungo corridoio piuttosto buio e stretto. “Perché improvvisamente mi sembra di essere entrato in una storia di Edgar Allan Poe?”

“Dai, andiamo”, lo incitò Jack, precedendolo lungo il tunnel.

Per un po’ camminarono in silenzio, concentrati più che altro su eventuali rumori e su quello che c’era attorno a loro. Ma a Ianto non piaceva tutta quella calma, perciò sbottò di nuovo: “Perché ti sei cambiato?” Il ragazzo solo in quel momento aveva notato che Jack aveva di nuovo indossato i suoi soliti vestiti da soldato; doveva averlo fatto quando era tornato al piano superiore con Tosh. Lui invece era rimasto con la sua tenuta da notte.

L’altro lo guardò come se avesse chiesto la cosa più stupida del mondo. “Preferivi che andassi in esplorazione in pigiama?”

“Be’, io sono in pigiama”.

“Sì. E ti sta anche bene. Sei sexy”.

Ianto sorrise tra sé e sé e non disse altro.  Era sempre il solito, Jack, mai una volta che lo prendesse sul serio. Non che la cosa gli dispiacesse…

A dispetto di quello che sembrava, non dovettero camminare a lungo. Salirono qualche rampa di scale e poi giunsero ad una piccola porta in metallo, molto vecchia ma ancora resistente. Era chiusa a chiave così Jack dovette colpire la maniglia con la porta per romperla e far scattare la serratura.
La prima cosa che saltò loro agli occhi fu la quantità di scheletri e ossa sparse per la stanza. Non erano tantissimi, ma abbastanza per impressionarli. La cosa ancora più terrificante era che sembravano appartenere a dei bambini. E al centro della stanza c’era una specie di enorme boiler che quasi sfiorava il soffitto.

“Che cos’è?” chiese Ianto.

“Sembra essere un amplificatore di energia”, rispose il Capitano, gli occhi puntati sull’oggetto.

 

“Io non ci sto capendo niente”, sbottò Rhys frustrato, buttandosi sul divano con un sospiro.

Gli altri si scambiarono diversi sguardi ma nessuno disse niente. Gwen, seduta accanto al marito, si passò una mano sul viso stancamente.

Calò di nuovo il silenzio nel salotto, interrotto solo dal ticchettio ritmato del pendolo. Si respirava un’aria pesante.
A un tratto Owen si alzò in piedi e si stropicciò i capelli. “Non ce la faccio più a stare qui. Vado da Jack e Ianto”.

“Owen!” lo chiamò Tosh, ma lo sguardo, anziché guardare lui, era posato sul mobiletto di fronte a lei. “Quegli angeli si sono mossi”.

“Cosa?”

“E’ vero!” concordò Gwen, avvicinandosi ai putti che decoravano i cassetti del mobile. “Avevano la testa girata dall’altra parte prima”. Proprio nel momento in cui lo disse, una figura trasparente che aveva chiaramente le sembianze di una persona, sbucò dall’angelo e le venne addosso. La ragazza urlò e cadde a terra.

“Gwen!” gridò Rhys cercando di raggiungerla, ma un’altra figura uguale alla precedente lo bloccò volandogli tutt’intorno. Anche gli altri vennero attaccati da quelle strane creature dalle sembianze umane che volavano ed emettevano una strana luce fluorescente, come un’aureola. Sembravano dei veri e propri fantasmi. Ed erano centinaia.

Tosh e Gwen si avvicinarono l’una all’altra cercando di proteggersi, mentre Owen si buttò per terra e sparò due colpi con la pistola per cercare di colpirne qualcuno. Ma come aveva immaginato, i proiettili li trapassarono.

“Voi ci avete disturbati!” dicevano le creature con voce sibilante. “Andate via! Andate via! Andate via!”

“O vi uccideremo tutti”.

Uno dei fantasmi si fiondò su Gwen e spalancò la bocca in un urlo disumano a poca distanza dalla sua faccia. La ragazza impallidì di colpo e rimase paralizzata dalla paura.
Gli oggetti nella stanza cominciarono a volare dappertutto, sollevati dal vento che stavano causando gli spettri volando velocemente attorno al lampadario. Continuavano a sghignazzare con le loro voci stridule.

“Vi uccideremo tutti!”

Improvvisamente dei colpi di pistola sconquassarono le pareti della stanza e i fantasmi, come spaventati da qualcosa, si dileguarono alla velocità della luce attraversando i muri. I ragazzi si voltarono nella direzione da cui avevano sentito provenire il colpo, aspettandosi un’altra minaccia; invece trovarono solo Jack e Ianto, il primo con la pistola ancora puntata al soffitto e l’altro con uno sguardo raggelato.  

Ci volle qualche attimo perché tutti quanti riuscissero a riprendersi. Owen si massaggiò la testa dove l’aveva sbattuta e Tosh si sistemò la maglietta del pigiama. “Che cosa diamine erano quei cosi?”

“Fantasmi?”

“No, non credo fossero fantasmi”, disse Jack, riponendo la pistola nella fondina e piazzandosi in mezzo alla stanza, le mani sui fianchi. “Io e Ianto abbiamo trovato un amplificatore di energia. Non so che cosa esattamente ci facessero i proprietari ma è uno di quelli che vengono usati nelle navi spaziali. E poi…”, si interruppe per lanciare un’occhiata d’intesa al compagno, al che il giovane gallese poggiò sul tavolo una specie di piccolo taccuino in cuoio nero. “… abbiamo trovato questo diario. Apparteneva al Signor Mallerick e ci annotava… annotava il nome dei suoi figli e il modo in cui sono morti. A quanto pare era lui ad ucciderli”.

“Che cosa?! Uccideva i suoi figli?!” esclamò Tosh con espressione sconvolta e disgustata.

“Sì, ma sembra che fosse stato costretto. E forse questi fant… queste creature c’entrano qualcosa”. 

“Dobbiamo scoprire cosa sono e perché sono qui”, sbottò Owen in tono deciso.

“Forse sono gli spiriti di quei bambini che…”, ipotizzò Tosh ancora tremante.

“Non esistono i fantasmi!” la interruppe il dottore sgarbatamente.

“Ragazzi…”, chiamò allora Rhys.

“Probabilmente sono alieni, se pensiamo all’amplificatore di energia”, proseguì Jack.

“Ragazzi…”.

“Sì, ma… che razza di alieni possono…”.

“Ragazzi!” urlò a quel punto Rhys spazientito.

“Che c’è?” Il Capitano lo guardò con espressione frustrata.

“Gwen ha qualcosa che non va”. Solo allora Jack cominciò a prestargli attenzione. Gwen era seduta sulla poltrona, lo sguardo puntato in avanti, in un punto indefinito. Sembrava essere caduta in trance. L’uomo le si avvicinò, scostando il marito piuttosto sgarbatamente. “Gwen?” la chiamò scandendo bene il suo nome. “Gwen, mi senti?” Le schioccò due dita davanti al viso, ma lei non reagì.

“Gwen, tesoro?” fece Rhys.

A quel punto Gwen spostò gli occhi dal punto che aveva continuato a fissare e li posò su Jack. La sua espressione era fredda e glaciale. Piegò le labbra in un sorriso sghembo, malvagio. “La vostra Gwen se n’è andata”.

Tutti i presenti spalancarono gli occhi, spaventati. “Questo non è divertente, Gwen!” la rimbeccò Owen, inginocchiandosi accanto a lei.

“Sta’ zitto! Non vedi che è posseduta?” gli urlò Rhys, furioso. Aveva le lacrime agli occhi e un’espressione disperata. Maledetto Torchwood! Era sempre colpa sua. “Fa’ qualcosa, Jack!”

Gwen scoppiò in una risata malvagia. “Poveri illusi. Siete così ingenui”.

“Chi siete?”

“Non lo sai?” la testa della ragazza si piegò di lato, gli occhi erano ridotti a due fessure che sembravano pronti a mandare lampi. Chiaramente non era più lei. “Siamo caduti qui, con la nostra nave. E abbiamo fatto il meglio che abbiamo potuto. Per sopravvivere”.

“Sopravvivere? Come?” Jack la teneva per le spalle; temeva che gli sarebbe sfuggita.

“Avevamo bisogno di corpi, corpi caldi e vivi”. La voce di Gwen si era trasformata in un sibilo serpentesco che stava mettendo i brividi a tutti quanti.

Jack alzò lo sguardo sui suoi compagni; una luce di comprensione gli aveva improvvisamente illuminato gli occhi. “I bambini! Avete posseduto i bambini dei Mallerick! Il Signor Mallerick però se n’era accorto per questo li aveva uccisi tutti”.

“Quell’inutile umano continuava a intralciarci”.

“Ma perché siete rimasti qui? Questa casa è disabitata da anni”.

Gwen storse la bocca, disgustata. Evidentemente considerava quella domanda stupida e inutile. “Perché non eravamo abbastanza forti per uscire fuori. Ma adesso…”. Di nuovo mise su l’espressione di malvagia soddisfazione. “Adesso lo siamo. E usciremo fuori per occupare i corpi di tutti quei stupidi umani”.

Delle risate malefiche si levarono da ogni angolo della casa e le creature fluorescenti comparvero nella stanza, uscendo dalle pareti o dai mobili, per mettersi a girare intorno alla stanza. Infine, si riunirono attorno al soffitto e lo oltrepassarono.
Anche Gwen, spingendo via Jack affinché le lasciasse le spalle, sparì in un fascio di luce azzurrognola.

“Dov’è andata?” chiese Rhys, mal celando la sua paura e la sua preoccupazione.

“Penso di sapere dove sia andata”.

Senza aggiungere altre spiegazioni, Jack corse verso le scale, seguito dagli altri che avevano già iniziato a preparare le armi.
Percorsero tutto il corridoio fino a giungere ad una porta più piccola delle altre. “Qui abbiamo trovato l’amplificatore di energia!” spiegò Jack. “Hanno bisogno di questo per uscire”. Dalla stanza si sentiva provenire un suono di voci, risate e strani sibili e rumori meccanici.

“Dannazione! Ha chiuso la porta!” esclamò il Capitano, tirando la maniglia.

“Fai provare me!” Rhys lo scostò e si mise a martellare contro la porta. “Gwen, apri questa porta!”

“Non è Gwen. Non ti darà ascolto!”

“Ma riusciremo a recuperarla, vero? Lei non è… non è…”.

Jack non poté fare a meno di vedere l’espressione disperata e sconvolta dell’uomo, tuttavia non  seppe come rispondergli. Non aveva idea di cosa facessero quegli alieni una volta entrati dentro il corpo di qualcuno. Poteva solo sperare che tutto si risolvesse per il meglio.

“Tieni, Jack! Usa questo!” Tosh gli passò un piccolo oggetto quadrato con strani ganci attaccati ai lati. Lui lo prese in mano e lo poggiò sulla porta.

“Che cos’è?” chiese Rhys.

“E’ un artefatto alieno che abbiamo trovato in un vecchio magazzino. Può aprire tutte le porte, di ogni tipo”, spiegò la giapponesina.

“Anche quelle blindate?”

“Certo”.  

Jack schiacciò qualche pulsante e la porta si aprì con un cigolio. In mezzo alla stanza trovarono quell’amplificatore a forma di boiler e Gwen che schiacciava dei pulsanti posti sopra di esso. Tutt’intorno a lei volteggiavano le creature.

“Fermati!”

“E perché dovrei?”

“Non ci penso proprio!”

Il Capitano si voltò verso Rhys e lo guardò con l’espressione più dispiaciuta che fosse in grado di fare. In quel momento sembrava essere crollata la sua corazza imperturbabile e i suoi occhi mostrarono la loro vera età e tutto ciò che avevano visto. “Mi dispiace”. Tirò fuori un coltello dalla tasca e, lanciatosi addosso a Gwen, la prese da dietro stringendola forte con le braccia. Infine, con un colpo deciso, piantò il coltello nel suo stomaco facendola boccheggiare. Il suo corpo si illuminò di una luce azzurra e l’alieno che l’aveva posseduta la lasciò andare, unendosi ai suoi compagni che stavano ancora volando per la stanza.

“Owen, pensaci tu!” gridò Jack, lasciando Gwen nelle mani del dottore.

“Tu puoi fermare quella macchina?” chiese il ragazzo, guardando la macchina con occhi preoccupati. Questa aveva cominciato ad emettere sbuffi e sibili e sembrava che stesse per scoppiare. “Sì!” esclamò Jack, voltandosi completamente verso il suo team. “Ma voi dovete uscire da qui il più in fretta possibile”.
Gli altri non se lo fecero ripetere due volte e abbandonarono la stanza, Owen e Rhys che sorreggevano Gwen. Soltanto Ianto esitò, ma un’occhiata decisa del Capitano lo convinse a seguire gli altri.

Rimasto solo, Jack si inginocchiò sul pavimento e infilò la testa sotto l’amplificatore, trovando proprio quello che cercava: il serbatoio. Ed era pieno di benzina.
Estrasse un accendino dalla tasca e lo accese, puntando la fiammella proprio al centro del serbatoio. Gli alieni, capendo il suo piano, cercarono di impedirglielo, lanciando oggetti contro di lui, ma il Capitano riuscì ad evitarli tutti.
Infine, strisciò fuori chiudendo la porta dietro di sé. Corse verso le scale, mentre la stanza dietro di lui esplodeva in un gran boato e potenti fiamme.

 

I cinque membri del Torchwood insieme a Rhys guardavano la villa divorata dal fuoco. Le fiamme l’avevano abbracciata piuttosto in fretta e le finestre e il tetto avevano cominciato a crollare. Presto non ne sarebbe rimasto più niente. E insieme a lei sarebbero morti anche le creature intrappolate lì dentro, mentre loro erano al sicuro, lontano da essa.

“State tutti bene?” chiese Jack. “Gwen stai bene?”

“Sì”, rispose la ragazza appoggiata al Suv perché Owen le potesse curare la ferita.

“No che non sta bene, figlio di puttana!” gridò Rhys guardando Jack con sguardo omicida. “L’hai accoltellata. L’hai quasi ammazzata”.

“Rhys!” lo chiamò la moglie. “Lascialo stare. Non poteva fare altro”.

“Questo lo crede lui”.

“Mi dispiace, Rhys”.

Forse Rhys aveva ragione, ma quella era stata l’unica soluzione che gli era venuta in mente, per fermare il disastro e anche per far uscire quell’entità dal corpo di Gwen. Dopotutto, aveva cercato di non colpirla in un punto troppo vitale.

 

Ianto mise l’acqua del tè sul forno e si asciugò le mani con uno straccio. “Una cosa che mi chiedo”, sbottò ad un tratto voltandosi verso Jack che se ne stava seduto al tavolo da pranzo. L’uomo alzò gli occhi su di lui con fare curioso. “Perché seppelliva i suoi figli in casa. Il signor Mallerick, intendo”.

“Forse perché erano i suoi figli e non voleva separarsene”.

Il ragazzo rabbrividì al ricordo degli scheletri che avevano trovato. “Che coraggio, però, ammazzare i propri figli. Insomma, era proprio necessario? Gwen non è dovuta morire per esserne liberata”.

“Probabilmente pensava che fossero posseduti dal demonio e che l’unico modo per liberarsene fosse ucciderli. L’hai letto anche tu il suo diario, stava impazzendo”.

“Già, sarà così”. Ianto lasciò il tè a bollire e si sedette accanto a Jack. Questi gli mise una mano attorno alle spalle, lasciandolo poggiare la testa sulla sua spalla, e portò una mano ad accarezzargli la pancia di quasi cinque mesi.
Il cielo fuori dalla finestra si stava rannuvolando; forse quel giorno avrebbe piovuto.

 


MILLY’S SPACE

Buonsalve, sì, lo so, è da un secolo che non aggiorno. Ma ho avuto così tanti impegni. Non posso far altro che porgervi le mie più sentite scuse, sperando che questo capitolo vi sia piaciuto e che abbia compensato la mia assenza.

Non voglio tediarvi troppo, perciò vi lascio andare. Volevo solo provi un quesito: secondo voi sarà un maschio o una femmina? Intendo il bambino di Jack e Ianto. Sono curiosa di sapere che cosa pensate voi. Provate a sparare, vediamo ^^ tanto io ho già deciso.
E ricordatevi anche di venirmi a trovare sulla mia pagina facebook che si chiama Milly’s Space. Potete lasciarmi lì le vostre recensioncine, se volete. O parlarmi di qualsiasi altra cosa, sono sempre disponibile ad ascoltare : )

Un bacione,
M.

LORI LIESMITH: wow, allora considero la tua recensione un vero onore. Scusami se ti ho fatta attendere. Fammi sapere. Un bacio, Milly.

HELLOSWAG: oddio, metti via quel coltello ^^ ho aggiornato, un po’ in ritardo, ma ho aggiornato. Eh sì, Jack e Ianto sono dolcissimi. Purtroppo non riesco a evitare di inserire scene fluff, ma cerco comunque di rimanere abbastanza nei caratteri dei pg. Anche se forse non ci riesco del tutto. Va be’, dimmi che ne pensi. Un Bacio, M.

AMAYAFOX91: mi sarebbe piaciuto vedere uno sviluppo simile nella serie, comunque. Potrei telefonare a Davies e propormi di scrivere la sceneggiatura per la quinta stagione di Torchwood ^^ troverei un modo per far tornare Ianto. Ahaha. Un abbraccio, M.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciassette - Nubi aliene, corse e calci ***


CAPITOLO DICIASSETTE - NUBI ALIENE, CORSE E CALCI

Penso che tra me e te
meglio un pugno che un addio,
come sai non ti ho mai detto una parola in più
(Infinitamente, E. Ramazzotti)

Ianto si svegliò lentamente notando subito lo spazio del letto vuoto accanto al suo. Jack doveva essere andato al lavoro già da un po’ e non lo aveva nemmeno svegliato. No, la cosa strana era che lui non si fosse svegliato, considerando il sonno leggero che lo contraddistingueva.
Si girò a pancia all’aria scontrandosi con quella specie di palla rotonda e dura che lo faceva pesare il doppio del normale e che cominciava davvero a piacergli sempre meno; tuttavia vi pose lo stesso una mano sopra, accarezzandola teneramente. In fondo c’era il loro bambino lì dentro e lui non vedeva l’ora che uscisse fuori. Ma avrebbe dovuto pazientare ancora per un paio di mesi.

Posò i piedi per terra e a fatica si alzò dal letto, sempre tenendo una mano sul pancione e l’altra dietro la schiena. Diamine, era difficile essere incinti! Come facevano le donne a voler partorire anche più di un bambino? Dopo quello, lui non aveva alcuna intenzione di farne un altro e semmai avessero deciso di dare un fratellino o una sorellina al nascituro, sarebbe toccato a Jack.
Ma che stava dicendo? Già sarebbe stato faticoso con un bambino solo, figurarsi con due. Lui non aveva ancora alcuna idea di che razza di padre sarebbe stato, non aveva nemmeno idea se sapesse come si cambiano i pannolini. Certo, sapeva che l’avrebbe amato, quel bambino, e che avrebbe cercato di renderlo felice, ma un conto era avere dei buoni propositi, un altro era saperli mettere in pratica.

Troppe paranoie, Ianto, vai a fare colazione.

 

“Dov’è andato?”

“Da quella parte!”

“Andiamo!”

Jack, Gwen e Owen stavano correndo a perdifiato in un parcheggio sotterraneo all’inseguimento di un uomo posseduto da una strana creatura aliena informe che somigliava a una scura nube fatta di gas.
Il Capitano estrasse la pistola quando se lo ritrovò a un paio di metri di distanza, con l’intenzione di ferirlo a una gamba per rallentarlo, quando a un tratto vide il tizio crollare in ginocchio, inarcare la schiena e spalancare la bocca verso il soffitto mentre la nube aliena abbandonava il suo corpo e si disperdeva attraverso le pareti. L’uomo poi cadde a terra svenuto.

“Che diavolo è successo?” chiese Gwen, sopraggiunta in quel momento assieme a Owen.

“Owen, controlla il tizio e assicurati che stia bene”, ordinò Jack per poi premere un pulsante sull’auricolare che teneva all’orecchio. “Tosh, mi sai dire dov’è andato?”

Si udì un concitato ticchettio di tasti prima che la voce della ragazza rispondesse all’orecchio di Jack. “In superficie. Esattamente sopra di voi”.

“Andiamo, Gwen”.

L’ex poliziotta alzò gli occhi al cielo stanca per la corsa, ma seguì il cappotto svolazzante del Capitano senza protestare.
Arrivati in superfice, i due si guardarono attorno. “Non lo vedo, Tosh”.

“E’ nel vicolo alla vostra destra”.

Jack si voltò nella direzione indicatagli e vide una donna bionda che fissava la strada in maniera strana. Capì subito che questa volta l’alieno si era impossessato di lei. Quando si voltò verso i due membri del Torchwood, emise uno strano stridio con la bocca e cominciò a correre.

“Ma possibile che tutti gli alieni debbano sempre correre?”

“Ringraziami quando Rhys apprezzerà le tue gambe toniche”.

 

Ianto avrebbe desiderato fortemente trovarsi al lavoro in quel momento ma Jack gli aveva categoricamente vietato di farlo, sebbene il gallese gli avesse assicurato che se ne sarebbe rimasto buono buono nella base senza dare la caccia ad alcun alieno e senza mettere nei guai sé stesso o il bambino. Non che poi al bambino potesse succedere qualcosa, ma il Capitano stranamente era diventato iperprotettivo e qualsiasi cosa gli dicesse non lo faceva cambiare idea. Lo voleva far soffrire, era questo il suo piano malefico. Perché Ianto odiava stare a casa, non riusciva mai a trovare niente che lo intrattenesse abbastanza. E uscire a fare la spesa o una passeggiata al parco non era un’idea saggia perché la gente lo avrebbe guardato strano.

Così si sedette sul divano con un pacco di biscotti e prese il telefono, cercando il numero di sua sorella nella rubrica.

“Pronto?”

“Rhiannon?”

“Ianto? Oh mio Dio! La seconda chiamata in una settimana! Che ne hai fatto di mio fratello?”

Ianto piegò le labbra in una smorfia infastidita. “Spiritosa. Mi stavo solo annoiando”.

“Jack ti ha lasciato di nuovo a casa”.

“Sì e lo odio per questo”.

“E io invece penso che abbia fatto bene. Il tuo non è uno dei lavori più sicuri”.

Il ragazzo sospirò e si stese sul divano. “Sì, ma che cosa faccio io chiuso in casa?”

“Leggi un libro, guardi la tv, fai il bucato, ti rilassi”.

“La tv è noiosa, il bucato l’ho fatto ieri, ho finito i libri da leggere e credo di essere già abbastanza rilassato”. Dopo aver finito di parlare, in tono piuttosto scocciato, sentì la sorella ridere dall’altra parte della linea.

“Fratellino, verrei volentieri a tenerti compagnia ma Misha è a casa con la febbre”.

“Davvero? Oh, spero non stia troppo male”.

“Ma figurati! E’ contenta di poter rimanere a casa da scuola”.

Toccò a Ianto ridacchiare questa volta. “Come la capisco”.

“Oh, già. Anche tu eri sempre contento quando non dovevi andare a scuola”.

“Sì, ma solo finché c’era la mamma”.

Rhiannon improvvisamente si zittì, conscia di aver tirato fuori un argomento piuttosto spinoso. Era meglio virare su un’altra strada al più presto.

“Allora, avete già scelto il nome?”

 

Jack e Gwen si arrestarono appena in tempo prima di andare a sbattere contro il muro di un vicolo cieco. La donna che avevano inseguito per tutto quel tempo li aveva superati di un bel po’ e tentare di raggiungerla era ormai inutile.
Restarono entrambi piegati in due, le mani poggiate sulle ginocchia, cercando di recuperare fiato.

“Ragazzi, l’ho persa. I computer non la segnano più”, sentirono dire Tosh dall’auricolare.     

“L’abbiamo persa anche noi”, la informò Jack mentre di sottecchi guardava Gwen per vedere se stava bene.

“Che facciamo, Jack?”

“Torniamo alla base e ci riorganizziamo”. Il Capitano si sistemò il collare del cappotto e girò sui tacchi per tornare sulla strada dalla quale erano arrivati. “Owen?” chiamò.

“Sì, Jack?”

“Come sta l’uomo?”

“Un po’ confuso. Ho chiamato un’ambulanza perché lo vengano a prendere”.

“Si ricorda qualcosa?”

“No, nulla”.

“Bene, ti veniamo a prendere”.

Jack e Gwen arrivarono al Suv e vi salirono sopra; il Capitano mise in moto e cominciò a guidare verso il parcheggio in cui avevano lasciato Owen. Poi virarono verso la baia.

 

Ianto alla fine si era deciso ad andare alla base lo stesso, giusto per fare un saluto e vedere come se la stavano cavando i suoi colleghi senza di lui e il suo caffè.
Quando varcò la soglia trovò solo Toshiko seduta davanti al computer con una mappa satellitare aperta sullo schermo.

“Ciao, Tosh”.

“Ianto!” esclamò la ragazza voltandosi verso di lui sorpresa. “Pensavo che oggi non venissi”.

“Ho cambiato idea”. Il ragazzo si appoggiò alla scrivania e si grattò la pancia, quando in quel momento vide sopraggiungere Jack dagli archivi. Questi lo guardò con un’occhiata storta. “Tu che ci fai qui? Non ti avevo detto di restare a casa?”

“Sì, me lo avevi detto, ma fortunatamente godo ancora del libero arbitrio”.

Il Capitano stava per aggiungere altro ma venne improvvisamente interrotto da Gwen. “Ianto! Grazie a Dio sei arrivato! Ho veramente bisogno di una buona e forte dose di caffeina”.

Il ragazzo le sorrise e annuì. “Caffeina in arrivo”. E, dando un ultimo sguardo a Jack, come per intimargli di non dire niente, si diresse verso la macchina del caffè.

“A proposito, Ianto, come stai?” gli chiese Tosh.

“Come una balena spiaggiata. Non faccio che alzarmi la notte per svuotare la vescica che sembra essere diventata più piccola di una nocciolina”.

“Tu non hai niente da lamentarti”, si intromise Jack a quel punto, fermo sulle scale che conducevano al suo ufficio. “Non sei tu quello che è costretto ad andare al supermercato alle ore più improponibili per comprarti caramelle e barattoli di Nutella”.  

“Caramelle e barattoli di Nutella?” ripeté Gwen, spostando lo sguardo da Jack a Ianto e cercando di non scoppiare a ridere loro in faccia.

“Pensa che la settimana scorsa mi ha chiesto di andare a prendergli un’anguria. E siamo in pieno inverno”.

Ianto piegò in fuori il labbro inferiore in un broncio che lo fece apparire ancora più adorabile e disse: “Non lamentarti con me. Lamentati con tuo figlio”.

“Oddio, sembrate una vecchia coppia sposata”, fece notar loro Gwen. Il gallese si voltò a guardarla con aria di sfida. “Gwen, ci vuoi anche della cicuta nel tuo caffè?”

“Oh, no grazie, va benissimo così”. La ragazza si precipitò verso l’amico per prendersi la sua tazza di caffè e, non appena lo ebbe tra le mani, ne bevve un sorso leccandosi i baffi. Era decisamente quello che le serviva dopo quella corsa sfrenata.
Ianto nel frattempo iniziò a prepararlo anche per sé.

“Ma perché non volete sapere il sesso del vostro bambino?”

“Perché vogliamo che sia una sorpresa”.

“Io morirei dalla voglia di saperlo”.

“Basta con le chiacchiere!” li interruppe Jack con voce di comando. “Abbiamo del lavoro da fare”.

“Agli ordini, capo!” esclamò Gwen scherzosa e si diresse verso la sala riunioni. Prima di seguirla, però, il Capitano raggiunse il compagno e gli mostrò un sorrisetto furbesco. “Questa la prendo io”, disse, prendendogli la tazza di caffè dalle mani.

Ianto rimase di stucco mentre lo guardava allontanarsi col suo caffè. “E che dovrei bere io?”

“Che ne dici di una tazza di tè?”

“Tè?!” Il ragazzo assunse un’espressione schifata. “Non sono un fottuto inglese”.

“Oh, no. Sei un gallese. Un gallese molto, molto sexy”.

Il ragazzo sospirò rassegnato; c’erano momenti in cui davvero non sapeva se prendere Jack a schiaffi oppure sbatterlo contro un muro e baciarlo come se non ci fosse un domani. Solo lui gli faceva quell’effetto.

 

Ianto non si era nemmeno accorto di essersi addormentato. Ricordava di essersi steso sul divano della base e di aver chiuso gli occhi per qualche secondo, poi il sonno doveva essere venuto da sé. Fantastico, proprio fantastico.
Ma si accorse solo in un secondo momento che c’era qualcosa a pesargli addosso, qualcosa di confortevolmente caldo e… con un odore molto familiare e molto delizioso. Quei feromoni del cinquantunesimo secolo erano inconfondibili. Jack lo aveva coperto con il suo cappotto e a un tale pensiero gli venne da arrossire. Ancora non riusciva a capacitarsi di quanto Jack fosse diventato così… amorevole? Dolce? Delicato?
Mah…

Vagò con lo sguardo in giro per la stanza, notando solo Owen che girava attorno a una donna bionda stesa e ammanettata sul tavolo delle biopsie, benché sembrasse essere in un coma profondo, e si alzò reggendo il cappotto in mano.
Piano, entrò nell’ufficio di Jack. Il Capitano stava in piedi dietro la scrivania e si slacciava la camicia bianca al cui centro faceva bella mostra una grossa macchia rossa.

Sangue, pensò Ianto che non ci mise a fare due più due.

“Jack!”

L’uomo alzò lo sguardo sul giovane e gli sorrise. “Ti sei svegliato”.

“Che diamine hai fatto?” ringhiò il gallese, una strana sensazione di paura e preoccupazione che si agitava dentro di lui.

“Non so di che stai parlando”.

Ianto gli indicò con gli occhi la macchia sulla camicia incrociando le braccia. “Ti sei fatto sparare. Di nuovo”.

“Non mi sono fatto sparare. Mi hanno sparato”.

“E sei morto”.

Jack fece il giro della scrivania per avvicinarsi al compagno la cui agitazione gli sembrava del tutto inutile. “E sono tornato. Di che ti preoccupi?” Lanciò la camicia sporca su una sedia vuota.

“Di che mi preoccupo?” Sembrava proprio che il ragazzo avesse voglia di litigare, o quantomeno di affrontare una discussione piuttosto importante, il che tra loro non era mai capitato. Be’, non prima del bambino. “Jack, sei troppo avventato e la facilità con cui lasci che ti sparino mi fa pensare che non ti importi. Dai per scontato che tornerai, ma se un giorno… se un giorno questo meccanismo o qualsiasi cosa sia si bloccasse? Se tu non tornassi più”.

Jack poggiò le mani sui fianchi di Ianto e lo attirò a sé, lasciando che la sua pancia gonfia si appoggiasse alla sua, piatta, liscia e nuda.

“Io non potrei farcela senza di te. Non adesso, non con… il bambino”.

Il Capitano gli mostrò un sorriso dolce e gli fece appoggiare la testa sulla sua spalla, cullandolo come un bambino. “Io non ho intenzione di andare da nessuna parte”, gli sussurrò. “Resterò qui con te e il bambino. Non potrei mai lasciarvi”.

“Sì, ma…”.

“Niente ma. Smettila di preoccuparti per me”. Fece allontanare Ianto da sé per potersi inginocchiare ed essere all’altezza del pancione. “Piuttosto, cerca di sbrigarti a farlo uscire”.

Il ragazzo si accarezzò la pancia attraverso la maglietta più grande di due taglie, uno dei pochi indumenti che riusciva ancora a indossare. “Lasciagli il suo tempo”.

“Non vedo l’ora di vederlo”.

“O di vederla. Potrebbe essere una femmina”.

“E’ lo stesso”.

I due restarono a guardarsi per un po’ senza dirsi nulla, godendosi il momento d’intimità, finché Ianto non emise un gemito spalancando la bocca in un’espressione di dolore.

“Che c’è?” chiese Jack preoccupato. Era troppo chiedere che qualche stranezza non rovinasse quel momento?

“Credo… credo che mi abbia appena dato un calcio”.

“Davvero?”

“Sì”.

Il Capitano poggiò un orecchio sul pancione del compagno e si mise in ascolto, sperando con tutto il cuore che si facesse risentire. E le sue preghiere vennero esaudite perché il bambino diede un altro calcio, come se avesse percepito che i genitori stavano parlando di lui e volesse far presente la sua presenza e che la cosa gli faceva piacere.

“L’hai sentito?”

“Oh sì”.

Jack posò un morbido bacio sulla pancia di Ianto pensando che tutto ciò gli piaceva un sacco. Non pensava che si sarebbe di nuovo sentito così un giorno, non dopo la nascita di Alice o il matrimonio con sua madre, eppure eccolo lì… quasi commosso perché stava per avere un altro bambino. Sperava solo di non combinare un totale casino anche con questo.

La porta dell’ufficio si spalancò e la testa di Owen fece capolino. “Scusate se interrompo questo intimo quadretto famigliare ma devo parlarti della donna posseduta”.

“Dimmi, Owen”, fece Jack rialzandosi e assumendo di nuovo la sua aria professionale, come se nulla nel frattempo fosse successo.

“La creatura si mescola con il sangue delle vittime, per questo le fa comportare in maniera aggressiva e violenta. Ma temo che la donna non riuscirà a sopportarlo ancora a lungo. Non possiamo salvarli entrambi; o uccidiamo lei o la creatura”.

Jack rimase in silenzio per qualche istante, lo sguardo pensieroso. “Hai ancora l’antidoto che usiamo contro le infezioni aliene?”

“Sì”.

“Bene, prova a iniettarglielo e vediamo se funziona”.

“Ci avevo pensato anche io”.

 

La giornata si concluse tranquillamente, per essere stata una giornata alla Torchwood. L’antidoto aveva funzionato sulla donna, la creatura era stata sconfitta e lei retconizzata e rimandata a casa. Null’altro era successo.
A dire il vero, tutti i giorni di quell’ultimo periodo erano stati piuttosto tranquilli - non avevano dovuto affrontare alieni particolarmente pericolosi o mortali - il che non prometteva mai nulla di buono. Di solito la calma precede una tempesta.
Ma a nessuno di loro andava di pensarla in questo modo, non volevano essere pessimisti, così semplicemente cercavano di godersela e di approfittare di ogni momento libero. Non sempre le cose dovevano andare male.

Dopo aver mandato gli altri tre a casa, Jack e Ianto si stavano dirigendo per ultimi verso l’auto di quest’ultimo, discutendo su quello che avrebbero mangiato per cena. Il ragazzo stava per entrare in macchina, sul lato del passeggero, quando vide gli occhi del Capitano fissi su qualcosa in lontananza. Si voltò in quella direzione, notando una cabina blu della polizia vicino all’angolo della strada.
Da dove poteva essere spuntata, si chiese. Non c’era stata prima.

“Che cos’è?”

“E’ il Tardis”, gli rispose Jack senza smettere di fissare quell’oggetto. “La cabina del Dottore”.

“Dottore?” fece Ianto leggermente confuso. Ma non gli ci volle molto per capire. “Intendi il tuo Dottore?”

Finalmente il Capitano spostò lo sguardo sul gallese, ma lo guardò in maniera strana, come se stesse cercando di comunicargli qualcosa attraverso gli occhi.
Ianto sembrò intuirlo perché lo guardò anche lui e infine sospirò. “D’accordo. Immagino sia una cosa tra voi due”.

Jack gli sorrise, contento che lo avesse capito. “Ti prometto che tornerò presto”.

“Me lo auguro”.

“Tornerò ancora prima che tu te ne accorga”.

“Intanto preparo la cena”.

Il Capitano gli lanciò le chiavi, gli diede un veloce bacio sulle labbra e corse in direzione della cabina.
Ianto entrò in auto e mise in moto. Sperava davvero che Jack tornasse presto perché non gli andava di cenare da solo.

 

 

MILLY’S SPACE

È vergognoso che io mi presenti solo ora, lo so. Di quanto sono in ritardo? Non lo voglio neanche sapere.
E’ che ho appena iniziato l’università in una nuova città e, tra le mille cose da fare e la poca ispirazione, ho messo in pausa tutte le mie fic.
Ma eccomi di nuovo qui.
Posso dire che questo è un capitolo di passaggio e che dopo di questo ci sarà una specie di seconda parte, benché sia una fic unica. Ma non importa, lo vedrete e spero di non metterci troppo.

Comunque, sapete, stavo guardando uno dei tanti panel di John Barrowman (tra l’altro ho comprato il suo nuovo cd e vi consiglio di fare altrettanto perché è meraviglioso) e non avevo idea che volesse avere dei bambini. Wow!
Che c’entra questo con la storia? Assolutamente nulla ^^ ma è tardi e sto straparlando. Meglio che vi lasci.

Notte e a tutti,

Milly.

P.S. siete ancora in tempo per dirmi se pensate che sia un maschio o una femmina ^^

P.P.S. non ho voglia di rileggere il capitolo perciò se ci sono errori abominevoli ditemelo.

LORI LIESMITH: cara, scusami veramente tanto per questa attesa. Non so cosa dire per farmi perdonare. Spero almeno che il capitolo ti sia piaciuto e mi raccomando, non urlacchiare che se no dopo i tuoi genitori pensano che tu sia pazza e danno la colpa a me ^^ un bacio, M.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciotto - Abigail ***


Nota: ho come l’impressione che dopo questo capitolo verrò linciata. Tuttavia, buona lettura : )

CAPITOLO DICIOTTO - ABIGAIL

So, this is me swallowing my pride,
standing in front of you,
saying I’m sorry for that night.
(Back to Dececember, T.Swift)

Cinque anni dopo.

“Sei pronta per andare a scuola?”

“Posso finire di vedere i cartoni?”

“Mi sa che non abbiamo tempo per vederli tutti”.

“Solo questo”.

“D’accordo”.

La bambina teneva gli occhi fissi sullo schermo della televisione e un biscotto mezzo mordicchiato in mano, mentre il padre si era rimboccato le maniche per lavare i piatti sporchi nel lavello, ma ogni tanto lanciava occhiate alla figlia sorridendo tra sé e sé di fronte a quello sguardo così innocente e affascinato.

Sua figlia era la cosa più bella che gli fosse capitata e in quegli ultimi anni era stata la sua forza per andare avanti. Ormai viveva soltanto per lei e faceva tutto ciò che c’era da fare soltanto per lei.

Sulla televisione comparvero i titoli di coda che segnavano la fine del cartone e la bambina mise in bocca il resto del biscotto, mandandolo giù con un paio di sorsi di latte.

“Adesso sei pronta per andare?”

“Sì, papà”.

La bambina scattò dalla sedia e corse in camera a prendere zaino e cappotto. Il padre l’aiutò a indossarli e poi afferrò le chiavi dell’auto e quelle della casa.

“Buongiorno!” li salutò la voce dell’anziana signora che abitava nell’appartamento di fronte al loro e che aveva preso in particolare simpatia i due, soprattutto la bambina, visto che spesso le faceva da baby-sitter.

“Buongiorno, Signora Brook”, ricambiò l’uomo mentre chiudeva la porta di casa. “Come sta oggi?”

“Al solito, l’artrite che ogni tanto fa scricchiolare qualche povero osso”, si lamentò lei, ma sempre con un sorriso dolce stampato in volto. “Significa che oggi pioverà”.

“Grazie per l’avvertimento. Ora io e Abby dobbiamo andare, siamo in ritardo”.

“Ma certo, ma certo. Buona giornata”.

“Anche a lei, Signora Brook”. L’uomo allungò una mano in direzione della figlia e la bambina si aggrappò ad essa, trotterellando a fianco del padre, lungo il corridoio, verso le scale.

 

Qualche ora prima…

Jack si lanciò praticamente fuori dal Tardis e non si voltò nemmeno indietro per vedere la cabina ripartire o salutare l’uomo al suo interno.

Corse lungo la baia e raggiunse il parapetto che lo separava dal mare, appoggiandovi sopra le mani. Lasciò vagare lo sguardo in giro, verso l’orizzonte dove il sole pian piano cominciava a spuntare e faceva disperdere una luce rosea e pallida che andava a illuminare il cielo e a coprire le stelle.
Nulla era cambiato, tutto sembrava essere rimasto come ricordava lui.

Eppure…

Eppure aveva una terribile sensazione.

Raggiunse in rapide falcate una panchina dove aveva visto il giornale e cercò subito la data. Il suo cuore mancò un battito.
Non poteva essere…
Non voleva crederci…
Ci doveva essere un errore…
Adesso avrebbe richiamato il Dottore e gli avrebbe chiesto di aggiustare quella cosa perché lui non poteva essere lì, non poteva aver perso tutto quel tempo.

Si lasciò cadere sulla panchina e affondò la faccia nelle mani.
Ma chi voleva ingannare? Era tutto giusto, era tornato nel momento giusto, almeno nella sua linea temporale, solo… ora ci sarebbero state delle conseguenze e non sarebbero state affatto piacevoli.

Voltò il capo e i suoi occhi incontrarono la base del Torchwood tre, ancora lì, intoccata e come lui l’aveva lasciata.
Ma questo non significava che in quei cinque anni non fosse cambiato nulla, anzi.

A passo lento e con lo svolazzo del lungo cappotto, si diresse verso l’entrata. Una volta dentro, rimase fermo in silenzio per sentire dei rumori o delle voci, ma non c’era nessuno. Era ancora presto, dopotutto.
Si mise a passeggiare in giro, constatando che nemmeno lì era cambiato molto, eccetto qualche nuovo oggetto alieno lasciato in giro, un computer nuovo di Tosh, fogli di carta e cose così. Persino nel suo ufficio le cose erano rimaste come erano. Chissà se qualcuno lo aveva usato, magari Gwen. Ma ne dubitava.

Scese al piano inferiore e si scontrò con la macchina del caffè, pulita e lucidata.
Ianto…
Il suo cuore accelerò immediatamente i battiti al pensiero del ragazzo. Come avrebbe fatto a spiegargli? Come si sarebbe giustificato con lui? E, soprattutto, stava bene?
Gli venne da piangere, ma si trattenne.
Era contento di essere tornato a casa, ma aveva anche paura e questa era una sensazione nuova per il Capitano.

Salì di nuovo al piano superiore e si sedette sul divano, chiudendo gli occhi.

 

Gwen, Tosh e Owen arrivarono insieme alla baia al solito orario ed entrarono subito alla base di Torchwood, attraverso la grande ruota rumorosa. Ma non appena misero piede dentro, capirono che c’era qualcosa di strano, a cominciare dalle luci accese.

Contemporaneamente estrassero le pistole e cominciarono a guardarsi attorno sospettosi, riflettendo su quale fosse il miglior modo per accogliere l’indesiderato visitatore, chiunque esso fosse. Di certo non si aspettavano di trovare Jack addormentato sul divano.

Gwen lo scosse per un braccio piuttosto bruscamente e l’uomo scattò subito a sedere, trovandosi due pistole puntate davanti agli occhi.

“Dannazione! Mettete giù quelle pistole!” ringhiò il Capitano, alzandosi in piedi.

“E perché dovremmo?” fece Gwen in tono scontroso.

“Non vorrete mica spararmi”.

“Servirebbe a qualcosa?” chiese Owen, il capo inclinato da un lato e gli occhi assottigliati a formare due fessure minacciose.

“Certo, non mi aspettavo un bentornato caloroso ma questo mi sembra troppo”. 

Restarono tutti quanti in silenzio per un po’, come riflettendo sul da farsi, ma poi Gwen e Owen misero via le pistole, anche se la mano rimase sull’impugnatura. Infine restarono a fissare il Capitano di fronte a loro, gli sguardi seri e impenetrabili. Solo quello di Tosh sembrava emanare una certa sorpresa.

“Quando sei tornato?” chiese Gwen, questa volta più rilassata ma sempre sull’attenti.

“Poche ore fa”.

“Perché sei tornato?” Questa volta fu Owen a porre la domanda. “Dopo cinque anni, pensavamo che non saresti più tornato”.

“Ecco…”, iniziò Jack senza sapere come continuare. Da dove avrebbe dovuto iniziare? “Io… posso spiegarvi”.

“Già, come hai fatto l’ultima volta”.

Il Capitano stava per aggiungere qualcos’altro, ma qualsiasi parola stesse per pronunciare venne bloccata dal rumore della ruota che girava di nuovo per aprire la porta e lasciar entrare l’ultimo membro della squadra che ancora non era arrivato.
Ianto fece il suo ingresso camminando con passo sicuro, buttando la giacca sul primo attaccapanni che trovò a portata di mano.

“Scusate il ritardo, ho accompagnato Abby a scuola”.

Gli altri rimasero in silenzio, gli occhi rivolti al ragazzo, aspettando solo il momento in cui si sarebbe accorto della presenza di Jack. Il cuore di quest’ultimo batteva all’impazzata. Come avrebbe reagito, si chiedeva.

Anche Ianto salì al piano superiore ma, soltanto quando si accorse dello strano silenzio che regnava nella stanza, alzò lo sguardo sugli amici, bloccandosi sul posto al vedere Jack davanti a lui.
Nessuno disse niente, non una mosca interruppe il silenzio carico di tensione che si era venuto a creare.
Jack non sapeva che fare; avrebbe voluto buttarsi addosso al ragazzo, stringerlo in un abbraccio, baciarlo e dirgli quanto gli dispiaceva, ma non gli sembrava una buona idea, almeno per il momento. Perciò lasciò che fosse l’altro a fare il primo passo.

“Bentornato”, sibilò Ianto. “Spero che il viaggio sia stato… piacevole”. Il suo tono era indifferente, disinteressato. E a Jack fece male. Avrebbe preferito l’odio, la rabbia, qualsiasi altra cosa sarebbe andata meglio dell’indifferenza.

“Ianto…”.

“Vado a fare il caffè. Non l’ho ancora preso stamattina”, lo interruppe il ragazzo, tornando di nuovo al piano inferiore.

Anche gli altri finalmente si decisero a reagire e si allontanarono dal Capitano. Solo Gwen si voltò verso di lui. “Subito nella sala riunioni. Tu ci devi delle spiegazioni”.

 

Quando i quattro membri del Torchwood Tre si radunarono attorno al grande tavolo nella sala riunioni, Jack lasciò vagare lo sguardo su tutti loro, cercando dei segni sui loro volti che gli indicassero che erano veramente passati cinque anni. Perché ancora non riusciva a crederci.
Non erano cambiati molto, nessuno di loro. Gwen aveva solo un nuovo taglio di capelli, non portava più la frangetta.

Ianto distribuì il caffè ai suoi colleghi, ma non a Jack. Non alzò nemmeno lo sguardo su di lui. Il Capitano lo osservò, cercando di capire, cercando di trovare le parole giuste da dire. Perché in fondo era solo di lui che gli importava; non gli interessava che gli altri fossero arrabbiati con lui o che lo odiassero. Solo Ianto contava in quel momento.
Ma Ianto era… distante. Ed era… diverso. Non portava più il completo, ma un semplice paio di jeans e una maglietta. E gli sembrava stanco, affaticato.

“Allora, Jack!” esclamò Gwen, distraendo il Capitano che riportò lo sguardo sulla donna, seduta a capotavola esattamente di fronte a lui. “Attendiamo le spiegazioni”.

“Io…”, iniziò l’uomo, facendo di nuovo scorrere lo sguardo sui presenti. La verità. La verità era sempre la soluzione giusta. “Io ero col Dottore. Stavamo viaggiando, abbiamo visitato diversi posti. Avrebbe dovuto riportarmi indietro al momento in cui sono partito, ma… qualcosa è andato storto”.

“Che cosa?”

“Il Tardis… la sua astronave è rimasta incastrata in un anello temporale. Ci abbiamo impiegato due settimane a uscirne fuori”.

“Due settimane?”

“Due settimane nell’anello… ma cinque anni qui sulla Terra”. Lo sguardo gli cadde di nuovo su Ianto il quale continuava a tenere gli occhi fissi sul tavolo le labbra serrate, la schiena appoggiata allo schienale.

“E non potevi mandarci un messaggio o qualche segnale? Tanto per capire se stavi bene o che non ti eri scordato di noi”.

“Ogni comunicazione era interrotta. Non potevamo parlare con nessuno. Mi è già capitato una volta, con John Hart. Ma credetemi, col Dottore è persino peggio. Non fa che lamentarsi”. Jack piegò le labbra in un sorriso cercando di sdrammatizzare, ma non sortì alcun effetto. “Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto. Non avrei mai voluto che succedesse”.

Dopo le sue parole, nella stanza calò il silenzio. Da quel momento in poi, Jack era sicuro che avrebbe odiato il silenzio. Forse loro aspettavano che aggiungesse qualcos’altro, ma lui non sapeva più che altro dire. Quella era in sostanza tutta la storia: due settimane bloccato nel Tardis col Dottore e avrebbe dato qualsiasi cosa per tornare indietro e non essere mai partito.

A un certo punto lo stridio di una sedia che graffia sul pavimento sbloccò la situazione e Ianto si alzò in piedi.

“Scusate, ho un sacco di scartoffie da mettere in ordine”, disse, uscendo dalla stanza a passo spedito, senza guardare nessuno. Subito dopo venne seguito anche da Tosh e Owen.

“Ho un corpo da dissezionare”, mormorò il medico.

“Io devo controllare delle cose al computer”.

Solo Gwen rimase ancora lì insieme a Jack. Aspettò qualche istante, però, prima di alzarsi anche lei e dirigersi verso il Capitano. Restò a guardarlo per un po’, con quei suoi occhi scuri ma vispi e dopo, con un incredibile slancio, buttò le braccia attorno al collo dell’uomo e lo abbracciò forte. Jack aveva pensato che gli avrebbe dato uno schiaffo oppure un pugno ed era già pronto a incassare.

“Mi sei mancato, Jack”, gli sussurrò all’orecchio, affondando il viso nell’incavo del suo collo e inspirandone l’odore, quei famosi feromoni del cinquantunesimo secolo.

“Anche voi mi siete mancati. Tutti quanti”.

Si staccarono e Gwen gli sorrise. “Sono comunque ancora arrabbiata con te”.

“Lo capisco”.

Esitarono.

“Come sta Rhys?”

“Sta bene. In fondo, non è cambiato molto qui dentro. Le nostre vite sono sempre le stesse”.

“Sono contento che stiate bene”.

“Ce la siamo vista brutta”.

“Ma ve la siete cavata alla grande”.

“Sì, direi di sì”.

Lasciarono che di nuovo il silenzio li avvolgesse, senza sapere più che dirsi. Jack era contento di avere almeno Gwen su cui poter contare. La donna dal canto suo era contenta di rivedere il Capitano; loro quattro se l’erano cavata bene, però si era sentita molto la mancanza dell’uomo. Cinque anni erano tanti. Ma non aveva la più pallida idea se le cose sarebbero tornate come prima oppure no. L’ultima volta che era sparito così era stato via solo un paio di mesi, ma adesso… adesso tante cose erano cambiate, loro erano cambiati e in fondo, per quanto ognuno di loro fosse bravo nel suo lavoro, addestrato e allenato, erano stati lasciati senza una bussola, senza una guida.
Nessuno di loro lo avrebbe ammesso, ma Jack contava molto nel team.

“Dagli tempo”, sbottò Gwen a un tratto. “A Ianto”, aggiunse, notando il sopracciglio alzato del Capitano di fronte a lei. “Parlagli, ma dagli tempo. Col tempo forse le cose tra di voi si sistemeranno”.

Non gli sembrava molto convinta delle sue parole e nemmeno Jack lo era. Ianto lo avrebbe mai perdonato?
Non ne aveva idea ma ci avrebbe provato, a farsi perdonare. Perciò disse a Gwen di mettersi al lavoro, di fare quello che doveva fare e lui corse giù per le scale diretto agli archivi, dove sapeva avrebbe trovato il giovane gallese.
Infatti, non appena aprì la porta, vide Ianto impegnato vicino ad un tavolo a riordinare alcuni fogli.

Gli si avvicinò silenziosamente e restò a guardarlo per un po’, indeciso su come annunciarsi.

“Che cosa vuoi?” gli arrivò la voce forte e glaciale del giovane che gli stava dando le spalle.

“Ianto…”. Prese un respiro profondo. “Ti trovo bene”.

Idiota! Non lo trovava bene affatto.

Ianto non rispose.

“Stai bene anche in jeans, comunque. Come mai niente completo?”

“Si sono rovinati tutto. Me ne è rimasto uno solo che conservo per il mio funerale”.

Jack si sentì stringere il cuore e lo stomaco. In realtà si sentì stringere tutti gli organi interni. Non avrebbe saputo dire se gli avesse dato più fastidio la frase che Ianto aveva detto o il tono con cui l’aveva detta. Probabilmente tutte e due.
Gli si avvicinò di più da dietro le spalle e gli poggiò una mano sul fianco. Il ragazzo si scostò bruscamente.

“Jack, ho del lavoro da fare”.

“Mi dispiace”, pronunciò il Capitano guardandosi i piedi. “Mi dispiace davvero tanto, Ianto”. Vide il ragazzo irrigidirsi e stringere in mano un foglio.

“Tutto qui quello che hai da dirmi?”

“Davvero, Ianto. Se ci fosse un modo, anzi, se ci fossero mille modi per farmi perdonare, per riuscire a rimediare a quello che ho fatto ti giuro che li userei tutti. Io non volevo che succedesse…”.

“Però è successo. E immagino che tu non possa riportare indietro il tempo, Jack”.

Il Capitano tremò al sentir pronunciare il suo nome in quel tono così rabbioso e per di più da una delle bocche che amava di più al mondo.
Ma la frase detta da Ianto sembrava dannatamente ironica in quel contesto. Uno pensa che avere una macchina del tempo renda tutto più facile, invece non è così. Ci sono comunque tantissime regole che se non vengono rispettate potrebbero causare grossi danni irreparabili, linee del tempo che si cancellano e punti fissi nel tempo e nello spazio che sballano tutto.

“Spero tu ti sia divertito con il Dottore. Cinque anni è tanto tempo, immagino tu non l’abbia sprecato”.

“Per me sono state due settimane…”.

“E per me sono stati cinque anni, dannazione!” Finalmente Ianto alzò il capo su Jack, puntandogli davanti i suoi occhi azzurri in quel momento pieni di rabbia e furore. “Cinque anni in cui…”. Abbassò di nuovo lo sguardo e sospirò. “Lasciamo perdere”.

Ianto chiuse con forza un fascicolo e  si rimise a sistemare le carte.

“Lo so che sei arrabbiato con me e va bene, non ti biasimo. Nei hai tutto il diritto. Però… vorrei sapere del bambino. Ti prego, almeno questo”.

“Non c’è nessun bambino”.

A Jack venne un colpo e per una frazione di secondo gli sembrò che la stanza avesse preso a girare.

“Che… che cosa intendi?”

“Non c’è nessun bambino, Jack. È una bambina”.

“E come si chiama?”

“Abigail. L’ho chiamata Abigail, come mia madre”.

“E’ un bel nome”.

“Sì, lo è. E lei è una bambina bellissima”.

“Avrà preso da te”.

“Immagino di sì. Ma non voglio parlarne ora”.

Una bambina. E così avevano avuto una bambina. In altre circostanze Jack ne sarebbe stato felicissimo. Si era immaginato molte volte la sua nascita, quanto sarebbe stato felice vedendola per la prima volta, come l’avrebbero cresciuta e tutto il resto. Ma questo era stato prima,  prima di quei fottuti cinque anni.
Adesso… adesso non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Voleva essere felice, felice perché aveva avuto una bambina, felice perché era tornato, felice perché poteva avere di nuovo Ianto con sé. E invece non ci riusciva.

“D’accordo, ti lascio lavorare”.

E uscì. Si sentiva tremendamente vigliacco e stupido.

Andò da Owen. Il dottore era impegnato a dissezionare uno strano corpo scuro, viscido che emanava un odore piuttosto sgradevole.

“Wow! Cos’è?”

“Non ne ho la minima idea. L’ha trovato Gwen due giorni fa in una discarica. Emanava una forte energia aliena, così per sicurezza controllo di che sostanze è composto”, spiegò il ragazzo, senza distogliere l’attenzione dal suo lavoro. Almeno lui sembrava avere voglia di parlare.

“Senti, Owen…”.

“Che c’è, Jack?”

“Potresti dirmi qualcosa di Abigail? Intendo, di quando è nata? Com’è… andata?”

“Non dovresti chiederlo a Ianto?”

“Non mi vuole parlare”.

“Puoi forse biasimarlo?”

“Ti prego, Owen”. Aveva perso il conto di quante volte aveva detto ti prego in quell’ultima mezz’ora.

Owen posò lo sguardo sul Capitano e si sentì sciogliere; quello che aveva davanti non era il solito Jack, spavaldo e sicuro di sé. Era un Jack quasi disperato, che non sapeva più che fare.

“La gravidanza era andata bene e quando è arrivato il momento di farla nascere l’ho tirata fuori senza alcun problema. Era una bambina bellissima, perfettamente in salute, anche se non completamente umana”.

Ma, c’era un ma sulla punta della lingua di Owen ed era quello a spaventare il Capitano.

“Ianto, invece… Ianto ha avuto un’emorragia. L’ho dovuto aprire per bloccarla e non avevo molti mezzi a disposizione. L’ho salvato per miracolo”.

Jack dovette sedersi, così si lasciò cadere sui gradini di ferro cercando di non far notare che stava tremando. “Grazie”.

“Non ringraziarmi. Il guaio è che ora Ianto non potrà più avere bambini. Né da te né da nessun altro”.

C’era qualcosa che avrebbe potuto farlo stare peggio di come stava in quel momento? Probabilmente no.
Ianto doveva averne passate tante e lui non c’era. Non c’era nel momento più importante della sua vita, delle loro vite.
Non sarebbe mai dovuto entrare dentro il Tardis. O forse non sarebbe mai dovuto tornare.

 

La mattinata trascorse tranquilla per Torchwood, ognuno lavorò per conto proprio e tutti furono molto silenziosi.
Jack rimase chiuso nel suo ufficio per tutto il tempo, constatando che lì niente era cambiato, nessuno aveva toccato niente. Infatti, c’era parecchia polvere.
Ianto quasi non uscì dagli archivi, ma tutti sapevano che voleva soltanto evitare Jack. Verso l’ora di pranzo si decise a lasciare il lavoro che stava facendo per andare a sbrigare qualcosa di molto importante, ma non disse cosa e Jack non fece altro che chiederselo. Almeno fino a quando il ragazzo non si ripresentò dopo un’ora, in compagnia.

Il Capitano voleva andare a controllare le celle, per vedere se ci fossero ancora i Weevil o qualche altra creatura, quando si imbatté in un paio di grandissimi occhi chiari che restarono a guardarlo per qualche istante, come se avessero di fronte a sé una strana creatura. Appartenevano a una bambina piuttosto minuta ma molto graziosa, con i capelli scuri raccolte in due lunghe trecce.

“Ciao”, lo salutò lei.

“Ciao”, rispose Jack, abbassandosi alla sua altezza.

“Io sono Abigail. Tu chi sei?”

Jack per poco non si sentì mancare.
Abigail… quella era Abigail. La sua bambina.

“Io sono Jack”.

“Io ti ho già visto”.

“Davvero?”

“Sì, in una foto di papà”.

“Abby, tesoro!” la voce di Ianto li distrasse entrambi e la bambina si voltò verso il fondo della stanza. “Vieni a finire i compiti”.

Abigail corse via, lasciando Jack completamente spiazzato. Voleva piangere. Aveva un’incredibile voglia di piangere.
Ma non poteva farlo.


MILLY'S SPACE

Sì, sono una cattiva persona. Sia per non aver aggiornato per così tanto tempo sia per quello che ho fatto succedere in questo capitolo. Avete il permesso di lanciarmi addosso la verdura *apre ombrello*.
Sono stata veramente molto impegnata in questo periodo, voi non ci crederete neanche. Ma non ho intenzione di propinarvi le solite scuse che tanto non vi interessano ^^.
Parliamo solo di cose serie. 
Perciò... che posso dire? Così è andata e così doveva andare. Possiamo considerare questo capitolo come l'inizio di una seconda parte della storia, una seconda fase. Siete curiosi di sapere come andrà a finire? Be', continuate a seguirmi.
Ma, cosa più importante, lasciatemi qualche recensione. Ho bisogno di conoscere le vostre opinioni.
Un bacione,
Milly.

LORIE_LIESMITH: mi dispiace, a quanto pare le cose non sono andate come avevi immaginato tu. Per quanto riguarda i viaggi col Dottore, ne saprai qualcosa nei prossimi capitoli. Intanto, spero ti sia piaciuto questo e spero che tu non ti sia dimenticata della storia.
Un grosso abbraccio. M.

P.S. non ho riletto il capitolo perché è davvero molto tardi e sono stanchissima, ma ci tenevo ad aggiornare. Quindi, se c'è qualche errore segnalatemelo pure.

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Capitolo 20
*** Capitolo diciannove - Forgive me ***


CAPITOLO DICIANNOVE – FORGIVE ME

And it’s two a.m. and I’m cursing your name…
(The way I loved you, T.Swift)

“Papà?”

“Sì, tesoro?”

“Un giorno mi porti allo zoo?”

Ianto mostrò un sorriso dolce alla sua bambina e si risedette di nuovo sul suo letto. “Appena avrò un po’ di tempo libero lo farò. Te lo prometto”.

“E quando lo avrai?”

“Non lo so. Lo sai che papà fa un lavoro… complicato”.

“Lo so. Però è figo il tuo lavoro”.

“Abbastanza”.

“Vorrei poterlo dire anche ai miei amici”.

Ianto sospirò e le prese una mano tra le sue, accarezzandole il dorso. “Mi dispiace, piccola. Non voglio che tu sia costretta a mentire però…”.

“Oh, ma a me non importa. Tanto loro non capirebbero”.

L’uomo ridacchiò. Poi si chinò per posarle un bacio sulla fronte. “Ti adoro, Abigail”.

“Ti adoro anche io, papà”.

“Buonanotte”.

“Buonanotte”.

Si alzò per spegnere la luce. Poi, dopo aver controllato Abigail un’ultima volta, uscì dalla stanza e trascinò la porta con sé, ma la chiuse solo a metà.
Si diresse nell’altro lato dell’appartamento e lì iniziò a rimettere in ordine la cucina, a lavare i piatti della cena e a sistemare i giocattoli sparsi per il salotto. La sua vita in fondo era diventata così, una routine costante; sistemare, riordinare, occuparsi di Abby. E poi c’era il lavoro. Quello non era proprio una routine, ogni giorno succedeva qualcosa di strano. Ma forse qualcun altro l’avrebbe pensata così. Invece per lui, che ormai ci era abituato, era una routine anche quello. Cercava solo di non farsi troppo male, di non mettere in pericolo la sua vita perché adesso c’era Abby e se lui fosse morto chi si sarebbe occupato di lei? Sua sorella? Certo, ma non poteva lasciarla orfana. L’ultima volta che se l’era vista brutta era finito all’ospedale con un braccio e un paio di costole rotte. Nulla di troppo grave ma si era spaventato a morte. Da allora Owen, Tosh e Gwen si sono incaricati di andare nelle missioni pericolose. A loro non costava nulla, dicevano, ma non gli piaceva rimanere in disparte e guardare i suoi amici rischiare la vita.

Però anche quella ormai era la routine. Era la sua vita…

Fino a quel giorno. Finché Jack non si è di nuovo ripresentato. Ed era meglio se non lo avesse fatto. Era riuscito a costruirsi un equilibrio, a trovare una pace interiore.
Certo, i primi giorni della sua assenza erano stati terribili, anche dopo che era nata la bambina. Continuava a pensare a lui, a chiedersi che fine avesse fatto e aveva davvero pensato che gli fosse successo qualcosa di terribile. Ma poi si era detto “è Jack, a lui non succedono cose terribili e anche se gli succedono lui ne esce sempre fuori”. E quindi aveva concluso che in realtà Jack non voleva tornare. Tutto quello per lui si era fatto troppo difficile, per lui che non amava le cose stabili, che non voleva nemmeno chiamare la loro relazione una relazione. Ma lo aveva fatto solo perché così era più facile. E una volta convintosi di questo, pian piano aveva incominciato ad andare avanti; dopotutto, non c’era altro che avesse potuto fare. C’era voluto anche tutto l’aiuto di Rhiannon e dei suoi colleghi… e poi Abigail. Quando la guardava negli occhi si diceva che era per lei che doveva andare avanti. Come una madre che improvvisamente si ritrova vedova.
E si era abituato, all’assenza di Jack. Quasi.

Invece adesso eccolo che ritorna. Come il figliol prodigo, come l’eroe acclamato che torna da un’importante impresa. Eccolo che ritorna a sconvolgere di nuovo tutti i suoi equilibri, come ha sempre fatto, dopotutto.
Avrebbe di nuovo dovuto ricostruire la sua routine. Perché sapeva per certo che, anche se avesse deciso di non perdonarlo e di tenerlo a distanza, avrebbe comunque sconquassato tutto.
Abigail in fondo era anche sua figlia ed era certo che Jack questo non lo avrebbe mai rinnegato. In fondo, Jack non era un completo bastardo.

Non è un bastardo, si ripeté Ianto per l’ennesima volta mentre piegava la coperta sul divano. Anche se era arrabbiato con lui questo non lo avrebbe mai potuto dire. E non per i sentimenti che aveva nutrito per lui ma perché era un semplice dato di fatto.

Un improvviso suonare alla sua porta lo distrasse. Ianto lanciò un’occhiata all’orologio chiedendosi chi mai potesse essere a quell’ora.
Si precipitò ad aprire la porta e imprecò sottovoce quando vide chi lo aveva disturbato. Come si dice “parli del diavolo e spuntano le corna”.

Fece per sbattergli la porta in faccia ma Jack ci mise un piede in mezzo per impedirglielo.

“Aspetta, Ianto! Lasciami spiegare”.

Ianto lo guardò come se avesse davanti l’uomo peggiore del mondo. “Bene, parla!” lo incitò quando vide che esitava.

“Posso almeno entrare?”

Il più giovane si guardò attorno come se temesse l’arrivo di qualcuno. Poi aprì la porta per farlo passare.

“Parla piano che la bambina dorme”.

Jack continuava a fregarsi le mani, nervoso. Non si era mai sentito così prima d’ora. Non che lui ricordasse almeno.

“Ianto, a me dispiace veramente tanto. So che niente di quello che dirò potrà convincerti o… farmi perdonare per davvero, però. Io non so che fare. Vorrei poter tornare indietro nel tempo e…”.

“Perché non lo fai?” lo interruppe Ianto bruscamente. “Eri un agente del tempo, sai manipolarlo”.

“Non è così facile. Ci sono delle regole…”.

“Già, niente è facile con te”. Gli voltò le spalle, appoggiandosi al ripiano della cucina.

Il Capitano ebbe un tremito; non stava andando affatto bene.

“Senti… lo so che non è stato facile per te. Ci sarei dovuto essere, per te, per Abigail… e invece ho rovinato tutto, come sempre. Ma vorrei rimediare e ti prometto che non ti deluderò più. Ti prometto che tutto sarà come deve essere”.

Jack smise di parlare. Cadde il silenzio.

“Hai finito?” gli chiese Ianto.

“Sì”.

Finalmente il ragazzo si voltò a fronteggiarlo.

“Bene, ora puoi andare”.

“Ianto…”. Jack sembrava veramente sull’orlo di una crisi di pianto.

“Ianto cosa?!” esplose a quel punto l’altro. “Hai ripetuto il mio nome non so quante volte oggi e sinceramente sono stanco. Davvero stanco. Di te e di… tutto quello che mi tiri addosso. Tu non sai un bel niente di quello che ho passato io, quindi non hai nemmeno il diritto di parlare. Per te potranno anche essere state due settimane, ma per me e Abby sono passati cinque anni. E Jack, ci sono persone che… che hanno una vita normale, che fanno cose normali e che non godono dell’immortalità per cui possono permettersi di rovinare tutto, di tagliare i rapporti perché tanto avranno un sacco di tempo per costruirsene altri”. Fece una pausa per riprendersi, poi proseguì: “Dio solo sa come ho fatto a innamorarmi di te. Vorrei non averti mai conosciuto. E ora, ti prego, se non hai altro da dire, vattene. E per quel che mi riguarda puoi anche tornartene col tuo Dottore”. E gli voltò di nuovo le spalle.

Jack abbassò lo sguardo come un cane bastonato. Qualcosa dentro di lui era appena crollato con un sonoro rumore. Restò a fissare la schiena di Ianto per qualche altro tempo, pensando a delle parole efficaci da dire. Ma non ce n’erano. Non ce n’erano più. Non ce n’erano mai state.

A passo lento si diresse verso la porta, l’aprì e lasciò l’appartamento.

Ianto, non appena sentì la porta dietro di lui chiudersi, batté un pugno sul tavolo. Poi cercò di darsi un contegno. Ritornò verso la camera di Abigail e restò sulla soglia a osservare la sua piccola bambina che dormiva placidamente, abbracciata al suo orsacchiotto di peluche preferito, ignara di tutto. Era uguale a Jack, aveva i suoi stessi occhi, il suo stesso naso, persino la stessa fossetta sul mento. Quando l’aveva vista per la prima volta questa somiglianza l’aveva quasi spaventato. Come avrebbe fatto a dimenticare se avrebbe visto l’uomo in ogni dettagli di sua figlia? Per non parlare della sua vivacità e del suo ottimismo. Erano tutte cose che appartenevano a Jack.

Jack… al mondo non sarebbe esistito un altro uomo uguale a lui. Nel mondo? Nell’universo semmai.

 

Non appena ebbe richiuso la porta dell’appartamento di Ianto, il Capitano si ritrovò a scivolarci contro finendo col sedere sul freddo pavimento dell’atrio.
Piegò le ginocchia al petto e vi sprofondò il viso solcato dalle lacrime. Non era riuscito a trattenerle, ringraziava soltanto di non essersi messo a frignare di fronte al compagno… ex compagno. Dio, non riusciva neanche a pensarci.

Aveva rovinato tutto! Aveva rovinato tutto! Ed era solo colpa sua. Voleva strapparsi i capelli per questo, prendere il muro a testate ma a cosa sarebbe servito? Non a ridargli Ianto e nemmeno la loro bambina.     

E quelle parole che gli aveva detto… vorrei non averti mai conosciuto. Quelle parole facevano dannatamente male, erano come lame arroventate.
Ma che altro poteva fare? Che altro?

Perciò restò così, seduto sul freddo pavimento del pianerottolo, col viso solcato dalle lacrime.

 

Il giorno dopo…

“Abbey, tesoro, sei pronta?”

“Sì, papà!”

Abigail indossò velocemente la giacca a vento e afferrò lo zaino azzurro con le margherite. Mentre Ianto era ancora impegnato a infilarsi in tasca il portafogli e le chiavi dell’auto, la bambina aprì la porta e uscì in corridoio. Ma rimase di stucco nel vedere una figura rannicchiata in posizione fetale vicino alla porta del loro appartamento e che sembrava essere profondamente addormentata.

“Papà, c’è un uomo che dorme qua fuori”, gridò.

“Che cosa?”

“C’è un uomo steso qua fuori. E’ quello che era ieri al lavoro”.

Ianto si precipitò fuori a vedere e sgranò gli occhi nel trovarsi davanti Jack che, a causa delle grida di Abigail, si era svegliato.

“Jack, che diavolo ci fai qua?” lo aggredì l’uomo più giovane.

Il Capitano lo guardò leggermente confuso; sembrava nache lui leggermente sorpreso di trovarsi lì. “Ecco, io… mi sono addormentato”.

Jones sospirò grattandosi la testa. “Uff… senti, rischiamo di arrivare tardi. Entra in casa e aspetto finché non torno, ok?”

“Ok”.

Jack non fece in tempo ad aggiungere altro che lo vide allontanarsi tenendo loro figlia per mano. Lei girò la testolina per guardarlo, una luce curiosa negli occhi, e lui le sorrise. Lei ricambiò.

 

Il Capitano era intento a osservare gli oggetti e i soprammobili presenti nell’appartamento di Ianto. Non era cambiato molto quel luogo, aveva solo aggiunto qualche foto di Abbey e cambiato il divano.  Aveva persino dato una sbirciatina nella stanza della bambina; era una stanza come tutte le altre, piena di bambole, peluches, libri e altri giocattoli vari.

Poi sentì la chiave girare nella toppa e si precipitò in salotto.

Ianto aprì la porta e si tolse la giacca. Posò le chiavi sul mobiletto e restò a guardare Jack.

“Che ci facevi davanti alla mia porta?”

“Mi sono addormentato dopo che… dopo che abbiamo parlato”.

“Hai dormito lì tutta la notte?” C’era stupore nel tono del giovane.

“Be’, più o meno…”.

“Hai mal di schiena?”

“Nah… noi immortali abbiamo la fortuna di non soffrire mai”, scherzò Jack cercando di sdrammatizzare. La preoccupazione di Ianto gli aveva fatto piacere.

“Evviva!” Ianto, senza mostrare alcun divertimento, si diresse verso il piano cottura e si versò altro caffè in una tazza.

“Hai accompagnato Abigail a scuola?” gli chiese allora il Capitano, dato che l’altro non accennava ad aggiungere qualcosa.

“Sì”.

“Mi parli un po’ di lei?”

Ianto gli lanciò una strana occhiata e subito dopo spostò lo sguardo. “E’… molto allegra, dolce e ubbidiente. È anche intelligente e più matura per la sua età. Ma questo penso sia dovuto al suo avere, in parte, DNA alieno. Per il resto è normale, comunque, Owen l’ha controllata spesso da quando è nata”.

Jack lo aveva visto sorridere, finalmente, da quando si era messo a parlare di Abigail e c’era una luce serena nei suoi occhi. Ciò gli accese un moto di speranza; quantomeno per Ianto non era stato tutto orribile.

“Ti somiglia”.

“Somiglia di più a te, a dire il vero. Te ne saresti accorto se l’avessi guardata meglio”, disse Ianto. Forse non avrebbe mai smesso di tirargli addosso parole velenose. Il Capitano provò a prendergli una mano ma il ragazzo si ritrasse.

“Posso… posso chiederti cosa… le hai detto di me?”

Il ragazzo si diresse al lavello per lavare la tazza che aveva usato. “Niente. Lei crede di essere nata come tutti gli altri bambini. Mi sono inventato una storia… che sua madre è morta in un incidente poco dopo che lei è nata e che si chiamava Amy. Non ho aggiunto altro”. Si voltò di nuovo verso l’uomo più vecchio e vide il suo volto scioccato e abbattuto. “Senti, Jack… non sapevo che fare. Non sapevo nemmeno se saresti tornato. Ed è troppo piccola per capire certe cose”.

“Sì, va bene… lo capisco, davvero”. Jack si alzò di colpo; non si era nemmeno accorto di essersi seduto. “Non ti preoccupare”.

“Dovremmo andare al lavoro. Siamo già in ritardo”.

“Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto. Continuerò a ripeterlo anche se so che non basterà. Mi dispiace di essermene andato, di essere stato via per cinque anni e… mi dispiace che tu… che tu non possa avere altri bambini”.

“Te l’ha detto Owen, immagino”. Ianto scrollò le spalle e abbassò lo sguardo. “Non importa. In ogni caso non ne voglio altri. Abbey mi basta”.  

“Ok”.

“Ok”.

Restarono a guardarsi per un po’ in silenzio, come pensando a cosa dovevano dirsi arrivati a questo punto.

“E’ meglio se andiamo”, esordì Ianto allora.

“Posso darti un passaggio. Ho il Suv parcheggiato di sotto”.

“Preferirei di no”.

Jack annuì mesto. “D’accordo”. Poi prese il suo cappotto e andò alla porta. “Non mi perdonerai mai, vero, Ianto?”

Ianto non disse nulla.
Il Capitano aprì la porta e se ne andò.

 

 

MILLY’S SPACE

Ed eccoci qui, a questo nuovo capitolo.
Le cose per Jack e Ianto non stanno andando bene. Come si concluderà? Ianto riuscirà a perdonare Jack e a rimettersi con lui? Oppure si lasceranno definitivamente?

Mi dispiace di non riuscire ad aggiornare le mie fanfiction più assiduamente, ma sono un po’ presa da tante altre faccende e sto anche scrivendo cose… di genere un po’ diverso ^^
Spero che abbiate pazienza e che non vi scordiate delle mie storie. Nel frattempo godetevi l’estate e andate a fare qualche bagno al mare che con questo caldo ci sta. E ricordatevi di lasciarmi qualche recensione che io voglio sapere cosa ne pensate.

Un bacio,
Milly.

FEFI97: ciaooooo!!! Che bello, una nuova lettrice *-* mi fa moooolto piacere che la storia ti piaccia. Sì, Ianto e Jack sono la mia otp in assoluto. Comunque, non si sa se Ianto riuscirà a perdonare Jack ma sicuramente non sarà facile. Continua a seguirmi, mi raccomando. Un bacione, Milly.

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