Le nostre parole sono solo anidride carbonica.

di Cataclysm
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il problema è che sono stati asfaltati i prati e non i preti. ***
Capitolo 2: *** E invidiare le ciminiere perché hanno sempre da fumare. ***
Capitolo 3: *** Lunedì difettosi. ***



Capitolo 1
*** Il problema è che sono stati asfaltati i prati e non i preti. ***


Le luci natalizie facevano da stelle in quella città di merda.
Erano ore che guardavo i passanti correre da un negozio ad un altro, disperarsi per non aver trovato ancora il regalo giusto, oppure imbottirsi di dolci con la scusa che fosse festa.
Non capivo perché la gente aspettasse con tanta foga quel fatidico venticinque dicembre, ho sempre pensato che il Natale fosse una festa consumistica, dove la gente approfitta della nascita del loro inesistente Dio per soddisfare i propri vizi.
Mi affascinava l’idea di essere invisibile ai loro occhi, posati sulle vetrine offuscate dalla nebbia, mi piaceva non dover essere - almeno per una volta - l’oggetto delle chiacchiere di tutti.
La mia nominata non era mai stata una delle migliori, perché alla gente non interessava la mia personalità: per loro sarei sempre stato il tipo strano.
Per loro sarei sempre stato il figlio di mia madre, mi ripetevo.
Eppure, per quanto provassi a convincermi che la causa di tutto fosse lei, le mie accuse scivolavano sulla mia insanità mentale.
Era tutta colpa mia e dei miei stupidi attacchi.
Era tutta colpa mia e dei miei stupidi attacchi.
E’ colpa mia, mi crolla il mondo addosso e se ci penso, non me ne frega niente.

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Capitolo 2
*** E invidiare le ciminiere perché hanno sempre da fumare. ***


Presi qualcosa di commestibile al take away all’angolo, mentre tornavo a casa.
Ormai avevo perso qualsiasi speranza su una cena in famiglia; Anne era quasi sicuramente già chiusa in camera sua a scopare con chissà quale degenerato conosciuto in quel posto squallido in cui lavorava.
Anne. Anne era mia madre, convinta che il solo fatto di avermi messo al mondo l’avrebbe resa una madre modello; era una donna ignorante, che se la spassava ogni giorno con un uomo diverso, mentre io sgobbavo per pagarle gli alcolici e le sigarette che non erano mai abbastanza. Diceva che se non avrei iniziato a darmi da fare già da giovane sarei finito a lavorare in quel posto squallido anche io, e perché no, avrei continuato anche la sua carriera da puttana.
Non avevo mai dato molto peso alle sue parole, la maggior parte delle volte che provava a farmi da madre aveva sempre bevuto qualche b̶i̶c̶c̶h̶i̶e̶r̶e bottiglia di troppo.
Ma davvero ero destinato ad una vita vuota come la sua?
Davvero sarei diventato come la persona che odiavo di più in questo schifo di mondo?
 
Mangiai velocemente e mi chiusi in camera.
Misi su uno di quei vinili che ero riuscito a comprarmi risparmiando da mesi il trenta percento che mi spettava del mio stipendio.
Iniziavo a chiedermi perché continuassi a darle i miei soldi, forse ero davvero un deficiente, come diceva lei.
Sentii bussare la porta.
“Sarà un altro che scambia la mia camera per il cesso” pensai.
Ma al contrario di quanto mi aspettassi, era Eric, il mio migliore amico, o meglio, l’unica persona con cui riuscivo ad avere un dialogo.
“Come mai da questi parti?”
“Come mai non ti presenti a scuola da una settimana?” ribattè, sedendosi sul mio letto.
“Sono stato occupato con il lavoro” dissi chiudendo la porta e sedendomi al suo fianco “Una certa Emily è andata non-so-dove a trovare non-so-chi e serviva qualcuno che lavorasse di mattina”.
“Lavorerai anche la prossima settimana di mattina?”.
Feci cenno di ‘no’, e lui si fece scappare un sorriso.
Cacciò dalla tasca un pacco di sigarette, ed uscì di casa per andarsene a fumare una.
Lo seguii.
Eric non rappresentava lo stereotipo del solito migliore amico, se ne fotteva di come stessi, di come andassero le cose in famiglia o di come andassi a scuola; diceva che passare del tempo con me era come prendere una boccata d’aria fresca da tutta quella gente piatta che c’era in giro, nient’altro.
Ed io non potevo chiedere di meglio, perché i cazzi miei non avevo intenzione di raccontarli a nessuno.
Mi passò una sigaretta e ci sedemmo sulla gradinata del portico.
Commentammo a vanvera i nuovi cd che avevano messo sul mercato, finché non arrivammo ai filtri.
“Domani salto scuola” sospirò, alzandosi “e tu vieni con me.”

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Capitolo 3
*** Lunedì difettosi. ***


Il fumo filtrava tra le sue labbra, si disperdeva tra la foschia di quell’insignificante mattinata d’inverno.
Le pupille gli si dilatavano, straripando nelle iridi verdastre, per poi confondersi con i suoi capelli corvini , eternamente nascosti da quei colli di lana scura usati a mo’ di cappello.
Un altro tiro. Scrollò le spalle, gettando lo sguardo sul mio album da disegno.
“Dai qui” disse, afferrandolo.
Abbassai lo sguardo, mi sentivo in completa soggezione quando qualcuno osservava i miei disegni.
Era come se tenesse sospesa tra le sue mani la mia vita, come se potesse decidere da un momento all’altro di gettarla via, o di darle fuoco.
Dicevano che fossi un libro aperto, che le mie emozioni traspirassero dai pori della pelle, si intravedessero tra le filature delle iridi. Ma quando Eric aveva tra le mani i miei disegni non gli serviva neanche guardarmi per capire cosa provassi, bastava dare un’occhiata a quello che gettavo su quei fogli.
“Chi è?” chiese.
Posai lo sguardo sulla ragazza, seduta sull’altro lato della strada.
Mormorò qualcosa che non riuscii a percepire, ma conoscendolo aveva di sicuro commentato il corpo perfetto e pallido della ragazza, che aveva catturato il suo sguardo prima dei suoi enormi occhi chiari o dei suoi eccentrici capelli tinti.
La ragazza iniziò a dirigersi verso di lui, accennando una camminata lenta e sicura, delineata dallo sguardo saldo di Eric.
“Hai da accendere?” sillabò, mettendo in risalto la voce schietta.
Eric distolse pigramente lo sguardo, posandolo sull’accendino che aveva tra le mani.
“Sei di qui?” disse, porgendoglielo.
Annuì, adocchiando l’involucro che Eric stringeva tra le labbra.
“Io sono Eric” sorrise “e lui è Chris”.
Alzai le sopracciglia, accennando un saluto.
Mi squadrò più insistentemente di quanto avessi voluto.
“Alice”.
Sprofondai tra le spalle, li lasciai parlare.
Non m’interessava di attaccare bottone, il mio concetto di bellezza coincideva perfettamente con quello di Eric, e sapevo che alla fine sarebbe stato lui a portarla a letto.
Non ero mai stato un buon partito per le ragazze, i loro canoni erano troppo alti per un miscuglio d’ossa gettate a caso, come me.
E a dirla tutta, non m’interessava neanche instaurare una qualsiasi relazione, sapevo che i miei fini erano altri, e di solito le ragazze del posto non erano così facili: aspiravano ad una di quelle storie d’amore da quei film melodrammatici di merda, ad avere una famiglia, un marito per bene e magari anche con un impegno fisso.
Quella roba non faceva per me, non ero in grado di gestire il mio bipolarismo, figuriamoci una ragazza nel pieno delle sue crisi ormonali, o addirittura una famiglia, con lattanti che non ti lasciano neanche quei cinque minuti a riflettere su cosa cazzo hai sbagliato nella tua esistenza.
Raccolsi la mia roba e accennai un saluto, prima di alzarmi dalla panchina.
“Dove vai, Chris?” chiese Alice.
“A casa, suppongo”.
“Io ed Eric pensavamo di andare a mangiare qualcosa, non ti unisci a noi?”.
Davvero sperava che avrei fatto da terzo incomodo per il resto della giornata?!
Eric si gettò la testa tra le mani, probabilmente sperando in un “no” come mia risposta.
“Devo andare a casa” l’accontentai, gettando lo sguardo sul polso, privo d’orologio “è tardi”.
 “Puoi renderci partecipe dei tuoi impegni, uomo di mondo?” Alice abbozzò una risata.
“Divertitevi” accennai un sorriso, evitando di trafilarle altre balle.
Mi allontanai lentamente, con le loro risate e le loro voci da fare da sottofondo ai miei passi insicuri.
Forse avrei dovuto iniziare a fregarmene anche io, smetterla di seguire Eric come fossi il suo cagnolino, smetterla di usare i miei disegni come suoi luridi vermi d’esca, smetterla di andarmene quando i pesci avevano abboccato al suo amo.
Eric mi usava. Ero il suo stupido tappabuchi, il suo compagno occasionale con cui annerirsi i polmoni, fondersi il cervello per poi non salutarsi tra i corridoi scolastici.
Eppure era come se non m’interessasse, io stavo bene così, o meglio, ero consapevole di non essere mai stato in condizioni migliori.
Perché nel suo menefreghismo e nel suo ottimismo, Eric, era come se mi completasse.
Avevo bisogno di passare le mie giornate ad annerirmi i polmoni con lui, avevo bisogno di poter parlare a ruota libera con qualcuno senza dar peso alle conseguenze delle mie poche ma dirette parole, avevo bisogno di lui.
Di non sentirmi tanto sbagliato almeno una volta. Dei suoi sorrisi a trentadue denti che foderavano le mie labbra malinconiche. Dei suoi monologhi interminabili che invadevano i miei silenzi scomodi.
Come se fosse l’ancora nella mia mareggiata di cinismo. Come un dirigibile nei miei temporali inconsolabili.

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