Cor Mortem Ducens

di LaMicheCoria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #00. Prologo ***
Capitolo 2: *** #01. Avrei Potuto Salvarti? ***
Capitolo 3: *** #02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza ***
Capitolo 4: *** #03. Il Sakè del Tanuki ***
Capitolo 5: *** #04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge ***
Capitolo 6: *** #05. Deus Ex Machina ***
Capitolo 7: *** #06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni ***
Capitolo 8: *** #07. Pius Patiens ***
Capitolo 9: *** #8. Caninamente Latra ***
Capitolo 10: *** #09. Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che Svanisce ***
Capitolo 11: *** #10. American Beauty [ Epilogo ] ***



Capitolo 1
*** #00. Prologo ***


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Disclaimer: I personaggi non mi appartengono
Ma sono di proprietà della Marvel ©

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

.: Cor Mortem Ducens :.

 

 

 

 

 

 

Morte, inerzia di sonno.
Per te, silenzio di memoria, sempre.
{ Saffo }

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Le Tre Sorelle, a testa china, tessevano.
-A cosa arriveremo mai, se un barbaro ora siede…-
-Taci, taci, sorella! Non una parola di più!-
-Muoia nel Silenzio questo tuo sciocco cianciare! Torna al tuo stame e non t’impicciare oltre-
Cloto assottigliò le labbra, l’espressione contrariata: la ragnatela di rughe che dagli occhi infossati arrivava fino al mento si contrasse, le dita nodose giocherellarono col filo e lo alzarono e lo abbassarono e lo alzarono e abbassarono ancora e di nuovo, fino a quando la sorella di mezzo non si chinò a darle uno schiaffo sul dorso della mano. Cloto socchiuse le palpebre violacee e drizzò la schiena.
-Non colpirmi ancora, Lachesi- l’avvertì -Non vorrei mai che su quel tuo fuso s’arrotolasse un’altra guerra!
-Gli Dei non vogliano- gracchiò la voce della terza -Queste vecchie forbici finirebbero per spezzarsi e non è mia intenzione ricorrere ai denti, né potrei torcere quei vostri fili con la sola forza del polso. Troppi calli e troppe vesciche, taglia Atropo, taglia ancora ché Divinità vestite di cuoio tirato si divertono a gettare scompiglio nel già fragile mondo dei mortali. Ach!- Atropo contrasse la bocca e sputò un bolo nerastro di saliva accanto ai piedi di Cloto.
Questi le rivolse un’occhiata disgustata e sollevò la bocca marcescente, mostrando gengive pallide, denti lucidi di bava giallastra; arricciò il naso grifagno, si scostò di lato e pose il Filo della Vita sulle ginocchia, cominciando a centellinarlo e tocchignarlo e aggiustarlo sbavatura per sbavatura.
Lachesi tirò indietro il fuso che teneva alto in una mano, facendole sfuggire il lavoro dal grembo; la prima sorella ringhiò, Atropo si limitò a sogghignare dalla bocca sdentata, claudicare verso di loro e dare un bel taglio netto.
-Ti credevi forse Penelope, Cloto, che con tanto amore ti trastullavi col Filo? Cosa speravi di veder nascere, un sudario che narrasse delle imprese di Ilio? O quel tuo Pindaro e i suoi chitoni dalle mille pieghe?-
-Ridi, Atropo, ridi pure e insozza l’aria molesta dell’Ade col fiato rancido! Ben so io quanto anche tu avresti volute essere davvero ancella di nostra madre e cingerti la fronte con una ghirlandetta di fiori odorosi..!-
Lachesi fece per intromettersi nella discussione, quando una voce la interruppe a metà del suo intento.
-Cessate i vostri litigi degni d’Agamennone Signore di Uomini e d’Achille Pié Veloce, Ineluttabili Parche, figlie di Giove!
Ci fu uno sfarfallare improvviso di luce, mille bagliori si riflessero e si chiamarono l’un l’altro nel ventre della grotta, le pareti sgrossate piansero lacrime di arcobaleno; la nebbia grigiastra che dalle bocche dell’Ade serpeggiava ai piedi delle Sorelle tremolò tutta, s’arricciolò su stessa, sibilò, si ritrasse; il buio si disfece in stracci imbevuti d’ombra, vermi pallidi s’avvoltolarono nel terreno umido, legioni d’insetti zampettarono fino alle vesti delle Parche e si nascosero tra le pieghe pesanti e sgualcite del panneggio.
-Iride, figlia di Taumante. Cosa ti porta qui?
Il tono di Lachesi non era dei più cortesi, né Cloto e Atropo sembravano propense ad accogliere con maggior gioia la Messaggera, ma questa, se anche diede peso ai loro volti astiosi o al sibilare ferino tra i denti ritorti, non ne fece mostra. Mosse un passo, piegando le belle ali d’oro per un migliore ingresso nella dimora delle Sorelle; i capelli acconciati in morbidi riccioli le solleticarono la nuca quando si girò a fissare gli occhi celesti in quelli malati delle vecchie filatrici.
-Vi porto un messaggio da Giove, Padre degli Dei- sorrise Iride e il chitone risplendette e tintinnò di mille goccioline opalescenti -Dacché i Signori di Asgard sono intervenuti a progettare un nuovo scorrere dei giorni della Terra, molte trame del Destino sono state scosse: chi doveva morire ancora vive, chi aveva nell’animo un soffio di vita pari a quel di Sofocle, giace preda di cani e uccelli, oppure contempla con sguardo vitreo le paludi dello Stige.
Iride si portò una mano al cuore, il petto fremette d’indaco e violetto. Le Parche non emisero suono, ma si parlarono con sguardi eloquenti: Cloto schioccò la lingua contro il palato, Lachesi fece scorrere un’unghia spezzata e nera sui giri del fuso e Atropo osservò la Messaggera con occhi taglienti.
-Vostra Madre Temi, a consiglio con il Padre Giove e Odino, Re di Asgard, ha infine deliberato, la decisione è stata presa: Odino di Asgard è stato vittima di un grande e grave dolore, ha compiuto un lodevole sacrificio per ristabilire l’equilibrio che i mortali hanno infranto, e Apollo farà cantare anche l’Abisso perché il suo gesto non venga dimenticato. Ma è giusto che anche gli Uomini, ora, paghino il fio.
La Divinità sollevò il braccio e l’himation le scivolò fino alla spalla con un palpito di gemme rosse. Cloto emise un grido rauco quando il filo le sfuggì dalle mani ancora intente all'opera, Lachesi oppose resistenza al fuso fattosi d’improvviso bollente.
Atropo guardò la scena senza intervenire, né commentare. S’ingobbì, divenne ancor più livida e rugosa di quanto già non fosse, la bocca contratta quasi sparì tanto assottigliò le labbra.
-Questo è il filo che dovete tagliare perché l’Ordine e l’Equilibrio si ristabiliscano, giacché da troppo tempo il mortale cui appartiene deve un obolo a Caronte.
A librarsi sopra le sue mani, un unico filo, lungo ben oltre ciò che il Destino degli umani avrebbe voluto. Un filo intrecciato di cenere e ghiaccio.

 

Al Madison Square Garden le luci si spensero e la folla rumoreggiò d’aspettativa.
Un rombo di motori nel buio, la tensione che cresce, sorrisi di incoraggiamento dietro le quinte, espressioni ancora incredule. Nessuno di loro credeva davvero che lui avrebbe partecipato alla manifestazione, erano convinti fosse solo uno scherzo o un modo per avere più pubblico.
E invece era lì. E si sarebbe esibito con loro.
Incredibile.

 

Dall’alto del suo scranno d’ombra, il Dio sorrise.
 Lo spettacolo stava per avere inizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#00. Prologo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

Voi non avete idea di quanta gioia mi ha provocato scoprire che nell’Universo Marvel esiste anche l’Olimpo, con i suoi Dei e tutto. Oh meglio, forse lo sapete, per cui sapete già che follia ne uscirà fuori.
Speriamo in bene, dai! E’ un progetto folle, in effetti. Ma lo sapevo, lo sapevo che non dovevo cercare troppo nei meandri del Comics, certe cose mi fanno male.
Tutte le conoscenze a riguardo, comunque, vengono da una Wiki in inglese sulla Marvel, altri invenzioni o simil tali verranno tutte dalla mia testolina bacata.
Ah, salvo l’evento al Madison Square Garden. Ma di quello ve ne parlerò nel capitolo uno –Dove finalmente faranno la loro piena comparsa i nostri Vendicatori preferiti.
Il titolo viene da un verso della soundtrack “The Promise Land” (Final Fantasy VII Advent Children). Altre note...Giusto! Il riferimento a Pindaro è dovuto al fatto che, secondo l'interpretazione del poeta, erano le ancelle di Temi.
Alla prossima!

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Capitolo 2
*** #01. Avrei Potuto Salvarti? ***


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.:  *** :.

 

 

 

Cloto dilatò le narici, stizzita.
Prese un capo del filo con un polpastrello rosicchiato e lo tese ben bene dinanzi agli occhi cisposi, attenta che l’estremità fosse perfettamente tirata tra le dita dell’altra mano.
Un Mh roco e prolungato le proruppe della labbra livide, provocando un gran sconquasso di pelle cadente sotto il mento posticcio; socchiuse le palpebre, lo sguardo grigiastro divenne poco meno che riflesso d’acqua stagnante.
-Ach!- berciò, infine -Crea Cloto! Tessi, Cloto! Concedi nuovo respiro ai mortali, trame di vita per il loro fragile corpo! E per cosa, poi? Che promessa di splendore avevo intrecciato per costui ed ora debbo lasciarlo a te, fetida Atropo, perché tu possa reciderne lo stelo prima del tempo!- storse la bocca e snudò i denti lucidi di saliva, come una belva vecchia e ossuta -Che gli Dei facciano pure ciò che desiderano, s’affoghino d’ambrosia per quel che m’importa! Il Padre degli Dei così ha deciso? E sia! Che muoia pure costui, per un capriccio di Giove! Che le Arpie insozzino di lordume il mio lavoro ancora una volta!- puntò il dito nodoso verso la bocca della grotta, ora di nuovo tetra, scura, umida dopo che Iride le aveva lasciate in uno svolazzo d’impalpabile arcobaleno -Ma Cloto non s’inchina, Giove! Cloto non dimentica!-
-Basta ciance!- la rimproverò Lachesi, tendendo sbrigativa la mano -A me quel filo, cosicché possa ammirarne un’ultima volta l’opera! Quell’opera che, se Iride non ha appesantito di troppi, svenevoli vezzi le proprie parole, tanto ha sdegnato gli Dei, i soli, fra tutti, a render facezia il Destino dei mortali.

 
***

 

James “Honcho” MacDonald conosceva le moto fin da bambino, fin da quando suo padre gli regalava modellini in scala da far correre sul balcone del loro piccolo appartamento a Washington.
Una volta aveva chiesto a Reddy cosa fossero per lui le moto e quello lo aveva guardato per un po’ prima di rispondere, ciancicando il filtro della sigaretta smangiucchiata.
Le moto sono come la musica aveva detto, mentre annuiva e tossicchiava via un po’ di tabacco E la cassa toracica con quei suoi bum-bum l’amplificatore perfetto.
Stava indossando una maglietta scolorita dei Ruff Stuff quando se n’era uscito con quella pillola di saggezza da strada, nata durante i lunghi vagabondaggi attraverso gli orizzonti d’America, e la cosa aveva assunto un che di incontrovertibile e inconfutabile, una mistica aura da Vangelo. Wolf, con il volto bruno di cuoio tirato e la poca predisposizione alla cortesia tipica dei Californiani del vecchio mondo, aveva grugnito e la questione si era chiusa lì.
Erano i primi tempi del Team America, in fondo, non si poteva pretendere più di qualche discussione a senso unico –Soprattutto se ti chiami Honcho, hai un passato come Agente della C.I.A. e l’innata capacità di leggere nella testa delle persone come se fossero un libro esposto in vetrina.
Ma che fosse musica, un collegamento diretto tra mente e motore, o Il sole che brucia sull’infinita lingua d’asfalto californiana, secondo la borbottata risposta di Wolf, Honcho avrebbe riconosciuto la loro voce.
Ovunque.
Sorrise nell’avvertire un rombo arrampicarsi sulle pareti della galleria che li avrebbe condotti al centro del Madison Square; piegò appena il capo, scambiandosi uno sguardo d’intesa con Reddy già in sella alla moto, le dita che tamburellavano senza requie sul casco rosso.
Quella era il suono inconfondibile di una Harley-Davidson WLA Liberator, anno 1942. E a possederla era soltanto una persona.
-Capitano.
Capitan America sterzò e frenò, emergendo dal buio dell’androne e ponendosi con la moto in laterale rispetto a loro; si portò una mano alla fronte nel tipico saluto militare, quindi lanciò un sorriso e assottigliò le palpebre con fare cordiale. L’Harley-Davidson si acquietò dolcemente al suo tocco, come un cucciolo ben ammaestrato.
Wolf storse le labbra e Reddy –Reddy che aveva messo su quella faccia segaligna l’espressione più palesemente stupita e idiota mai vista- sollevò eloquente le sopracciglia. Per Wolf Capitan America poteva anche essere un semplice e disgustoso gringo bianco, la sua moto un rudere scatarrante, ma le ruote imponenti raccontavano ben altra storia, il verde militare della carrozzeria e gli impianti lucidi di metallo scaglionavano all’intorno ricordi di fango, di guerra, di sangue. Non era una moto, non era una Harley-Davidson, era la moto, la Harley-Davidson e tutto quello stava facendo vibrare la schiena di Honcho per l’eccitazione.
-Signori- il Capitano chinò il capo in un altro, rapido saluto -E’ un onore conoscervi.
Un onore. Per Capitan America era un onore conoscere loro. A James stava girando la testa.
-Winthrop Roan Jr, signore.
Honcho e Wolf sussultarono all’unisono: che Reddy palesasse il suo nome di battesimo era un evento da registrare negli annali. Forse i Maya ci avevano azzeccato con la storiella della Fine del Mondo, dopotutto.
-Ma tutti mi chiamano Reddy- concluse, stiracchiando un sorriso imbarazzato.
-E’ un onore, giovanotto- il Capitano annuì e spostò lo sguardo su James, che deglutì e si umettò le labbra.
-James MacDonald. Honcho- chiarì, dopo qualche istante -E lui- indicò Wolf, che si sarebbe fatto amputare il braccio destro piuttosto che salutare il gringo bianco -E’ Wolf. Solo Wolf.
Non c’era bisogno di rendere partecipe il Capitano di El Barrio, né dei Diablos –Honcho e Reddy sapevano bene come Wolf avesse taciuto anche a loro molte più cose di quanto fosse lecito. Ma non avevano mai chiesto oltre e James si era rifiutato di accedere alla database della C.I.A. per sanare la propria curiosità.
-Capitano, che scortesia. Sei così eccitato all’idea di esibirti da esserti dimenticato le buone maniere? Non mi presenti ai tuoi nuovi amici?
Honcho aveva visto Anthony Stark solo in televisione, mai dal vivo, e doveva ammettere che lo schermo gli regalava almeno due spanne in più d’altezza: smoking nero di manifattura italiana, camicia bianca che a occhio e croce valeva quanto il reddito del Principato di Monaco, scarpe scure e cravatta coordinata stretta con cerimoniosa perfezione, James faticava davvero a collegare quella figura tirata a lucido ad Iron Man. Si sarebbero dette due persone differenti.
Il Capitano accolse l’entrata in scena del magnate con un rassegnato roteare d’occhi e Reddy reagì alla cosa soffocando tra le labbra una risata nervosa. Wolf biascicò qualcosa, accompagnandolo ad un sogghigno divertito –Honcho preferì non chiedergli di ripetere.
-Bene, adesso che siamo tutti qui come un’allegra famigliola da pubblicità, direi che è ora di far iniziare lo spettacolo- Tony Stark si sfregò i palmi delle mani e rivolse loro un sorriso saputo, superandoli a grandi falcate -Mi raccomando, non fatemi fare brutte figure. Janet Van Dyne ha richiesto personalmente la vostra presenza per l’esibizione e spero non vi abbia scelto per puro canone estetico. Anche se ne dubito per due motivi, ossia la mia mancata partecipazione alla cosa e..- inarcò malizioso un sopracciglio, lo sguardo scivolato inequivocabilmente sulla figura di Wolf, che digrignò i denti e serrò la mascella, la fronte aggrottata sotto la fascia scarlatta –Comunque. La folla c’è, le ballerine pure, il Falco è appollaiato da qualche parte col suo becchime..
Reddy lanciò a James un’occhiata interrogativa, cui lui non seppe rispondere. Spostò invece l’attenzione su Capitan America: questi aveva annuito alle ultime parole di Stark, gli occhi improvvisamente scuri, seri, la tensione visibile nelle nocche  strette attorno al manubrio della moto.
-Signorine. Si va in scena.
E Honcho guardò Stark dar loro le spalle e allargare le braccia: mosse un passo in avanti e il Madison Square Garden lo accolse con un unico, roboante, scroscio di luci e applausi.

 

***

Lachesi mugolò una maledizione tra le labbra seriche.
Faceva scorrere il Filo tra le dita rinsecchite, giorni passati e presenti le graffiavano il palmo calloso in rigagnoli di sangue nero e memorie. Srotolava il fuso e ringhiava, si succhiava la bocca stretta tra moncherini di denti e gengive pallide, il polso scrocchiava di nervi ritorti, di muscoli marci. Gli occhiacci incolori si strinsero, le palpebre posticce tremolarono e da essere caddero ciglia e squame di pelle morta.
-Ach!- berciò, osservando con cipiglio funesto gli intrecci della propria opera -A che è servito, oh Lachesi, donare soli e lune a questo mortale, se con tale diletto Atropo si divertirà a reciderli uno per uno? Hai concesso a costui cieli azzurri, fango e dolore, ricchezza d’animo, virtù per mille volte mille uomini, ed ora guarda, ora ammira il taglio netto delle cesoie! Assisti in silenzio nel mentre che Atropo Maligna occhieggia con sguardo grifagno un’opera tanto succulenta, taci e non parlare, non dire di più, perché così il Padre degli Dei ha deciso, così ha deliberato! Lui ed il Barbaro Signore dei Corvi, che già troppo ha interferito con gli affari dell’Olimpo! Ach!-
Diede uno strattone ed il Filo che invano aveva tentato di riavvolgere attorno al fuso le si afflosciò sul ventre incavato. Ringhiò e latrò come una cagna, bestemmiò gli Dei e rivolse loro turpi parole: le dita lavoravano febbrili, le unghie nerastre, fetide strappavano e laceravano brano a brano ogni nodo si presentasse loro davanti.
-Vani sono stati i tramonti, vane le albe, vane perfino il nuovo affetto che ho intessuto per te, mortale! Ai vermi il tuo corpo, ai vermi le tue lagne! Lasciale per l’Ade, allo scroscio dello Stige e..-
-Che son queste ciance da vergini?- Atropo si drizzò in piedi, giganteggiando ingobbita per la furia -Che mai strillate e vi lamentate, come foste vecchie capre al pascolo? Vi devo forse percuotere con lo scudiscio? Basta piagnistei, Sorelle, ché se per ogni mortale dovessimo comporre un threnos, questa nostra grotta sarebbe adorna di tanti canti e tante lire da provocare l’ira d’Apollo Saettante! Soffocate il pianto, non vi s’addice! Frenate le lacrime od esse vi solcheranno il volto avvizzito con nuove rughe! Tacete, ora, cessate ogni grido! Silenzio, cosicché meglio si spanda il suono di queste mie cesoie fino al ventre flaccido dell’Ade!

 

***

Le luci del Madison Square Garden si raggranellavano quiete attorno al profilo di Tony, che arrivava agli occhi di Steve quasi del tutto immerso nella penombra. Il figlio di Howard teneva le braccia alzate, ogni tanto le abbassava e le tendeva al pubblico, un sorriso ghignante appeso alle labbra: si godeva gli applausi della gente e la gente si pasceva della sua presenza, poteva sentirne lo scalpitante brusio formicolare tutt’intorno alle gradinate.
Il Capitano scosse il capo e sorrise.
Da qualche parte, in alto o nascosto nella folla, tra i servizi di sicurezza o accanto alle ambulanza, l’Agente Barton controllava ogni cosa e nulla sfuggiva al suo sguardo. Vedova Nera non doveva essergli troppo distante, in contatto diretto con lo S.H.I.E.L.D. Non che si aspettassero un attacco a sorpresa di qualche supercattivo in astinenza dalle opinabili manie di protagonismo, ma..Anzi, più che non aspettarselo, speravano di poter avere pace anche il tempo di una sera.
Solo qualche ora in cui poter distendere in pace i nervi, senza dover pensare al Mandrillo, al Pensatore Pazzo –Che, a quanto riportavano i rapporti del Baxter Building era stato acciuffato da un Johnny Storm parecchio in forma, o ancora Testa d’Uovo oppure Wonder Man. Un anno prima la minaccia di Loki era stata la nascita dei Vendicatori, ma parimenti aveva dato l’avvio ad una più che cospicua ondata di criminali, uno sciamare di illegalità che aveva fatto vacillare la fiducia che il Capitano aveva cominciato a riporre giorno dopo giorno nella moralità del nuovo millennio.
A rendere meno semplice la questione, inoltre, c’erano voci che Heil, Hydra inneggiavano nell’ombra, ricordi nascosti dietro la tozza silhouette di un bidone dell’immondizia, occhi socchiusi, il baluginio di un ghigno appena sussurrato in mezzo al rumore assordante di locali di bassa lega.
Il passato pronto a balzargli addosso alla prima occasione.
Steve deglutì, imponendosi di tornare alla realtà presente. Tony doveva aver appena concluso il suo discorso di presentazione, con le mani faceva segno al pubblico di tacere, ma annuiva invitandoli a continuare; la signorina Van Dyne, vestita d’oro e di nero, applaudiva accanto a lui e sorrideva e rideva con la bocca e con gli occhi. Aveva un fascino particolare, una vitalità spontanea e contagiosa, qualità che Stark non aveva mancato di sottolineare più volte –Salvandosi dalla meritata conseguenza solo elencando difetti quali la smodata passione per l’impicciarsi negli affari altrui o l’incapacità congenita di rimanere in silenzio per un tempo superiore al secondo.
-Siete pronto, signore?
Il Capitano alzò gli occhi verso James MacDonald e annuì, scambiando con lui un cenno d’intesa.
Pronto? Non aspettava altro.
Le luci si spensero con un guizzo, la folla rumoreggiò d’aspettativa.
-Avanti, Team America!
La voce di MacDonald esplose nella galleria, seguito a ruota dal ringhio delle moto da corsa. Bianchi fasci tubolari ruggirono dai fanali, scrosciarono sulle pareti, troneggiarono nella bocca squadrata che si apriva sulla sabbia del Madison Square Garden. Il palpitare delle divise colpite dai riflettori, eccoli in pista, accolti dalle grida di incitamento del pubblico.
Steve attese qualche secondo, chiuse gli occhi a saggiare le reazioni silenziose dell’Harley-Davidson, ad ascoltare i battiti furiosi del cuore.
Hai intenzione di mettere dell’altra brillantina su quella chioma leggendaria o possiamo andare, Capitan Easy Rider?
Non è il momento adatto, Stark.
Lo è, invece. Sai quanto
adori essere in ritardo, ma non quando si tratta di eventi della Van Dyne. Se solo oso farti arrivare in ritardo, la prossima cosa che quella ragazza organizzerà sarà il mio funerale.
Un colpo di polso, il motore vibrò gorgogliando sotto le dita.
Aspetta. Non mi dirai che sei terrorizzato da una cosetta come esibirti davanti ad un..Ventimila persone, senza contare gli imbucati, vero?
Non si tratta di questo.
E di cosa, allora?

Il respiro sostò un istante sulla punta della lingua, scivolò bollente lungo la gola, si ramificò nei bronchi, incendiò i polmoni, gonfiò il petto.
La moto per me è come il laboratorio per te, Tony. In sella ad una moto sono pienamente me stesso. Non Capitan America, non l'eroe della leggenda, non il Capitano Rogers, non il super soldato senza tempo e senza età. Sono Steven Rogers e basta. La moto è la mia libertà.
Allora si può parlare col vero Steve Rogers solo su una moto?

Il gorgoglio del motore s’intensificò, i brividi lungo la schiena affondarono con forza nelle vertebre.
Io sono sempre Steve Rogers. Ma quando sono in sella ad una moto, essere Steve Rogers mi sembra più semplice. Tutto combacia, tutto ha un senso. Non mi sento diverso in sella ad un moto. Mi sento nel pieno della mia persona, mi sento...Quando costruisci, quando lavori sui tuoi progetti, quando siete solo tu, un cacciavite e il silenzio...Non provi mai un'inspiegabile sensazione di interezza?
Un istante. Un istante ancora. Aspetta. Attendi.
Fu il ricordo dell’espressione di Tony, gli occhi socchiusi ed un sorriso se non sincero, meno costruito di quelli che era solito addobbarsi la bocca, a dargli il segnale.
Devo ammettere che hai ragione, Capitano.
Diede gas.
La partenza gli strappò il fiato dal torace, la voce della gola. L’urlo dell’Harley-Davidson divenne il proprio grido di battaglia, la zampata di polvere che si sollevò alla brusca frenata di traverso che gli faceva da entrata coprì le gradinate e fu subito crivellata di applausi, incoraggiamenti, il nome ripetuto, lanciato, chiamato da una parte all’altra, esplodeva nelle luci, roboava nelle evoluzioni del Team America, si accordava al canto delle loro moto.
Steve colse di striscio l’espressione trionfante di Tony e l’occhiata estasiata della signorina Van Dyne, ma quando si lanciò verso una delle impalcature al centro dello stadio, quando la fedele moto capovolse il mondo, non gli sfuggì il cenno d’apprezzamento che Wolf gli rivolse dal capo opposto della sabbia.
E tanto bastò.
Il sangue affluì al cervello, un fiotto d’eccitazione si riversò nel petto e scrosciò tra le costole; il cuore balzò alla bocca, battè contro le tempie, la realtà esplose in una girandola di colori, le gomme trangugiavano metallo e polvere, Steve era la moto e la moto era Steve, una sola forza trascinava entrambi verso nuove vette, un solo richiamo riverberava tra loro e Honcho e Reddy e Wolf e li armonizzava, creava, costruiva nuove coreografia, destra, sinistra, un salto sopra il pubblico impazzito, il vento sotto i pneumatici, un’unica musica a suonare la marcia del trionfo: pistoni e benzina, benzina e pistoni, gas, ringhi, sbuffi, ruggiti e urla, urla, urla, urla.
Sentiva il sudore incollargli le tempie, rivoli gelidi colare sotto la divisa e scendere come lacrime fino al mento. Il caldo salì improvviso dal braccio sinistro al collo, crepitò nelle orbite e cozzò contro le pareti del cranio.
-Ahn..
Steve ansimò a denti stretti, sterzò e si fermò al centro dello stadio.
Mise un piede a terra, le dita della destra ancora strette al manubrio e drizzò la schiena; fece per alzare il braccio sinistro come a salutare la folla, a dire loro di non preoccuparsi, che andava tutto bene, perché mi guardi, Tony, nulla di grave, lo spettacolo riprende, applaudite, applaudite.
Con orrore, il Capitano si accorse di non riuscire a sollevare il braccio sinistro oltre la spalla.
Fece per dire qualcosa, ma la lingua pesava gonfia sui denti, stilettate bollenti mordevano ripetutamente i muscoli ed il petto.
Il battito cardiaco lo stava soffocando.

 

***

Le cesoie di Atropo scintillarono rugginose alla luce claudicante della grotta.
-Di che vi lamentate? Di che vi lagnate? Cosa piangete di questo mortale? Forse i bei occhi? Ditemi, allora, oh virginee Sorelle dal cuore di cagna, ditemi a cosa mai gli servirà il ceruleo dell’iride nel grigiore dell’Ade! A cosa i biondi capelli, filati dall’oro di Mida, Signore della Frigia? Inutili vezzi per chi presto sarà solo un teschio tra mille altri uguali, forse più bianco, forse più incrinato, ma con le medesime orbite dimora di ragni, lui, anima errabonda tra raminghi spiriti?
Le Parche si guardarono l’un l’altra, si fissarono negli occhi vuoti, nel volto magro, annuirono all’unisono.
Cloto tese il Filo da un capo, Lachesi ne prese la fine.
Atropo sollevò le cesoie.
-Per quanti anni la Vita s’è adornata di cotal gioiello! È giunta l’ora, oh Morte, che anche tu ti cinga la fronte d’una tiara marcescente! Vesti un chitone d’ossa, porta fiera ai polsi bracciali di scheletri, orecchini di denti! A noi, a Te, anche gli Dei s’inchinano! Piega le ginocchia, mortale, genuflettiti al nostro cospetto! Cloto ha deciso la tua nascita, Lachesi ha intessuto trame di esistenza, ora Atropo ti taglierà il respiro!

 

***

Il mondo si disfece in puntolini e bagliori. Il respiro si sollevò, tacque. Mancò del tutto.
La realtà divenne un peso troppo grande da sopportare. Le ginocchia cedettero. Gli occhi si impregnarono di nero, i muscoli ed il cuore di freddo.
Non esisteva più il sopra, non c’era il più sotto. Solo lacrime di esistenza che colavano ai lati del pensiero conscio, cancellando nella propria scia ogni traccia di realtà, ogni forma di pensiero.
Il cuore batté stancamente un’ultima volta.

 

Atropo recise il Filo.

 

***

 

Steve non fece in tempo a toccare il terreno, che già Tony era balzato giù dalla piattaforma elevata.
Janet gli fu subito dietro, ma il figlio di Howard non se ne accorse, non volle dargli peso. Il Team America fece ancora un giro prima di accorgersi di Capitan America stramazzato al suolo e se si fermò fu solo a causa dell’improvviso silenzio che era piombato, esploso, al Madison Square Garden.
-Barton!- latrò Stark, incurante della polvere che si attaccava all’orlo dei pantaloni, che gli graffiava le scarpe, che gli si aggrappava ai polmoni –Cosa è stato? Chi è stato? Lo hai visto?
Un ronzio dalla trasmittente, poi la voce accartocciata, distorta, asettica di Occhio di Falco.
Nessuno.
-Ma deve essere stato qualcuno! Chiunque! Trovami quel bastardo, Agente o io..
Non c’era nessuno, Stark. Nessuno.
Ma già Tony non lo ascoltava più: aveva raggiunto il corpo riverso di Steve, gli si era inginocchiato accanto, si era chinato a sentirne il battito.
Mai come in quel momento il silenzio gli era parso tanto assordante.
-No..- mormorò e Janet, di fianco a lui, si portò le mani al volto con un lampo dei guanti dorati.
-Tony..
Stark non le rivolse nemmeno un cenno. Si avventò su Rogers, lo prese per le spalle, gli assestò uno schiaffo sulla guancia.
Cristo.
-Andiamo! Andiamo, Capitano!- gli appoggiò le mani sul torace, tese le braccia e scaricò il peso sui palmi una, due, tre volte. Svegliati, Rogers. È un ordine, soldato!
Nulla. Gli occhi ridotti ad un filamento bianco dietro le palpebre socchiuse, la bocca semiaperta, il collo reclinato nella polvere, la guancia abbandonata contro la sabbia. Incrostazioni di saliva bianchiccia agli angoli delle labbra, il colorito sempre più livido, le guance sempre più incavate.
-Andiamo!- ringhiò -Andiamo!-
-Tony..- Janet tentò ancora, ma Stark la scacciò, le urlò qualcosa contro, cosa non aveva importanza, il pubblico, da muto che era cominciò a borbottare, bisbigliare, il panico si insinuò tra le gradinate come il più viscido serpente, qualcuno gridò, altri trattennero il respiro, c’era chi stava già piangendo. Tony si vide circondato dal Team America, ma li tenne lontani, che volevano? Che lo lasciassero in pace, che facessero qualcosa di utile! Muovetevi, forza! Chiamate qualcuno, il massaggio cardiaco non funziona, presto, perché siete ancora qui? Alzate i vostri maledetti culi da quelle cazzo di moto e aiutatemi! Aiutatelo!
-Andiamo, ragazzone! Non ci puoi mica lasciare così, eh! Guarda che è scortese, non te ne puoi andare. Non così..
Cristo. Cristo, Steve, apri gli occhi. Per l’amor del Cielo, se questo era un tentativo di scherzo, sappi che fai pena. Ottima recitazione, lo ammetto, ma pessimo tempismo: bocciato su tutta la linea. Allora, mi hai sentito? Bocciato, devi rifare il corso, presentati domani mattina alla Stark Tower, sette in punto.
Uno. Due. Tre.
Non arrivare in ritardo e portati pure dietro il takeaway cinese, così ci risparmiamo il pranzo, d’accordo? Ora però svegliati, amante del pilates, svegliati, apri gli occhi, guardami. Guardami. Steve, guardami, cazzo!
-Chiamate l’ambulanza!- abbaiò –Chiamate l’ambulanza!

 

***

Sull’Helicar nessuno aveva ancora detto una parola.
Nick Fury guardava davanti a sé, ma non vedeva nulla. L’Agente Hill aveva i pugni stretti sopra la propria postazione, la schiena rigida e lo sguardo vitreo. Gli altri membri dello S.H.I.E.L.D. non avevano nemmeno la forza di parlare, a stento si lanciavano qualche occhiata distrutta gli uni con gli altri.
I pannelli digitali e i computer erano come tasselli presi da un puzzle diverso, le immagini erano tutte in disaccordo tra loro, ognuno di essi mostrava sempre qualcosa di diverso e sempre in continuo movimento, statistiche, dati, Manhattan, il Baxter Building, un paesaggio di montagna, persino le fogne.
Non uno di essi era collegato al notiziario, ma la voce spezzata del presentatore riempiva comunque l’intera struttura, dal Ponte di Comando fino ai livelli più bassi.

 

 

 

 

Interrompiamo i programmi per una notizia di massima importanza.
È con la morte nel cuore che annuncio agli Stati Uniti tutti la scomparsa di Capitan America, avvenuta questa sera al Madison Square Garden durante l’esibizione di beneficenza organizzata da Janet Van Dyne.
Il supereroe nazionale è stato vittima di un malore improvviso, l’intervento dei paramedici ed il trasporto in ambulanza sono stati inutili. Si presume che il decesso sia avvenuto per circostante naturali, ma sono comunque previsti accertamenti.
Oggi non se ne è andato solo un pezzo di storia, non solo uomo, non solo un eroe. Oggi è morta la parte migliore dell’America, il suo simbolo, il suo cuore.
Il Presidente ha annunciato tre giorni di lutto nazionale, cui seguirà la cerimonia funebre in forma pubblica al cimitero di Arlington.
Grazie, Capitan America. Che Dio ti benedica.
Riposa in pace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#01. Avrei Potuto Salvarti?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

Ed ecco il primo capitolo vero e proprio! Ne sono soddisfatta, strano, vero?
Allora, prima di tutto due note sull’evento portante: l’esibizione di beneficenza al Madison Square Garden. L’unica nota originale della mia testolina bacata è che il tutto sia stato organizzato da Janet Van Dyne, alias Wasp –L’abito che indossa, inoltre, come colori ricorda la divisa da lei portata in Avengers-I Più Potenti Eroi della Terra, per il resto l’occasione è presa da “Capitan America – Una Mente Perduta”, un numero del 1982 che ho avuto la fortuna di trovare in una vecchia raccolta di Capitan America&I Vendicatori. Dunque nemmeno Honcho, Reddy e Wolf sono personaggi di mia invenzione, ma sono presenti all’interno della storia stessa (e di una produzione a sé stante che si è però esaurita dopo dodici numeri). Chi conosce il Team America saprà che in realtà in membri sono più di questi tre, ma avendo a disposizione unicamente il numero in cui compaiono Honcho&Co ho preferito non strafare e limitarmi alla loro sola apparizione.
Poi. Vediamo. Citazioni varie..Bhè, alcuni nemici della Marvel, il Baxter Building e I Fantastici Quattro e la rinascita dell’HYDRA nel nuovo millennio.
Il discorso tra Tony Stark e Steve Rogers sulla libertà e la moto proviene da una Role fatta col mio Tony Stark di fiducia!
Il Threnos è un canto funebre. Arlington è il cimitero dove viene sepolto Capitan America dopo la saga di Civil War SE non dico un’idiozia dovrebbe essere dopo la saga di Civil War. Che mi è arrivata giusto oggi. Ci piangerò sopra tutte le mie lacrime.

Il titolo del capitolo è la traduzione di un verso della canzone “For Blue Skies”
Per il resto, direi basta.
Ringrazio Alley (Vuoi tu prendermi come tua futura moglie?), _Kureiji e Essemcgregor per aver recensito il prologo, _Kureiji_ per aver messo la storia tra le preferite e alie13, Alley, Essemcgregor, Smith of Lies e _Kureiji_ per averla inserita tra le seguite!
Alla prossima!

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Capitolo 3
*** #02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza ***


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.:  *** :.

 

 

-Lady Virginia..
Pepper smise di massaggiarsi la tempia a punta di dita e rialzò gli occhi: le ci volle più di qualche secondo per mettere a fuoco il volto di Thor. Forse aveva fatto un movimento troppo brusco con la testa, forse era la stanchezza, ma il mondo le era traballato intorno in maniera scomoda e nauseante, cosa che contribuì a peggiorare il pulsare continuo alla fronte.
Si schiarì la voce e asciugò un’ombra di pianto proprio sopra lo zigomo, assottigliando le la labbra e cercando di rivolgere all’Asgardiano l’espressione più cordiale che le riuscisse; cosa in verità non facile, visto e considerando che aveva passato le ultime tre ore e mezza a discutere contrattare ufficializzare concordare proporre con una gamma di persone tanto variegata da averne ormai sono qualche ricordo frammentario. Aveva passato quaranta minuti buoni a discutere con l’ospedale sul perché e sul per come il corpo di Steven Rogers fosse stato spostato dall’obitorio alla Stark Tower, a decidere insieme alle autorità in che modo strutturare e rendere accessibile a chiunque l’esposizione pubblica della salma, a prendere accordi e stabilire che la Tower, tra tutti, fosse il luogo più adatto per allestire la camera ardente.
Aveva speso troppe parole, così tante da non averne più per sé, né per i Vendicatori, né per altri. Ad ogni telefonata, ad ogni e-mail letta dal palmare mentre col cellulare prendeva e dava disposizioni circa i fiori, la cerimonia, la stampa, la gente; ad ogni persona più o meno importante, più o meno conosciuta che ancora la cercava nonostante fosse abbondantemente passata la mezzanotte; ad ogni voce che chiedeva, sbraitava, ululava il nome di Tony, No, il signor Stark non è reperibile al momento; ad ogni minima cosa a Pepper sembrava di perdere un frammento di se stessa e della realtà.
Voleva solo sedersi in un angolo, affondare la testa fra le mani e piangere per Steve Rogers, per Tony, come ancora non era riuscita a fare. Concedersi anche solo un minuto, anche solo un attimo per elaborare il lutto che tutti gli altri continuavano a ricordarle, ma senza darle il permesso, né la possibilità di farvi realmente i conti.
Quando Thor era venuta a chiamarla, Virginia aveva appena attaccato il telefono –Forse con troppa irruenza, forse con troppa rabbia, forse con troppa frustrazione, in faccia ad una giornalista che continuava a sciorinare domande e teorie e ipotesi più o meno fantasiose, più o meno freudiane, più o meno scientifiche sul perché il signor Stark avesse reagito così malamente alla dipartita della leggenda d’America.
-Sì?- chiese, posando il cellulare sopra un tavolino basso e rivolgendo all’Asgardiano quella poca attenzione che ancora le era rimasta.
Thor diede qualche colpo di tosse, la guardò fisso e fece per metterle una mano sulla spalla, rinunciando all’ultimo istante.
-Sono consapevole di quanto io possa risultarle fastidioso, inopportuno, persino poco sensibile nei suoi confronti in questo momento di profondo dolore e rammarico. Tuttavia..- una pausa -Vorrei chiederle, a nome di tutti noi, se sarà possibile vedere Capitan America: vorremmo dargli l’addio che merita. Come eroe, ma soprattutto come amico.
Virginia deglutì e serrò le labbra, le lacrime che già pizzicavano le ciglia; inspirò a fondo e deglutì un singhiozzo prima di rispondere.
-Andrò a parlare con il signor Stark. Lo convincerò a..- la voce le mancò all’improvviso, un sussulto improvviso al petto le impedì di continuare. Thor non disse nulla ed annuì, ringraziandola con un sorriso.
Pepper si scusò e superò a grandi passi sia la divinità che il salone della Tower dove i Vendicatori si erano radunati dopo gli eventi del Madison Square Garden. Lanciò un’occhiata veloce all’interno: il dottor Banner si teneva la fronte con una mano, le spalle piegate ed il volto pallido, l’Agente Barton era di spalle contro la grande vetrata che dava sui tetti di Manhattan, Jane Foster, la nocca dell’indice stretta tra i denti e le guance lucide di lacrime, e infine Natasha, seduta accanto a Bruce. L’Agente Romanoff fu l’unica a sollevare gli occhi al suo passaggio, a darle una stilla di coraggio con un cenno appena percettibile della testa.
Pepper le fu grata e la rivolse un piccolo sorriso prima di continuare la propria strada verso il laboratorio.
Dacché Tony aveva portato Steve via dall’ospedale e si era rifugiato nel laboratorio del novantatreesimo piano, nessuno di loro l’aveva più visto. Non aveva permesso a nessuno di entrare, si era limitato a trasportare il Capitano in laboratorio, serrare la porta e oscurare i pannelli divisori.
A nulla erano serviti i tentativi della signorina Van Dyne, che aveva insistito per venire alla Tower insieme al compagno, il dottor Pym, e poi costretta a lasciarli in modo preparare una conferenza stampa per l’indomani mattina. A nulla i richiami di Natasha, né le preghiere di Jane o le richieste del Team America –Il signor MacDonald, alla fine, aveva convinto i compagni ad andarsene e a commemorare Steve Rogers come ogni buon motociclista avrebbe fatto, ossia trangugiando asfalto e conquistando orizzonti in suo onore.
Imprigionato nel lutto e nel mutismo, Tony Stark aveva rifiutato ogni mano, denigrato ogni aiuto.
Pepper sperava che almeno Rhodey riuscisse là dove gli altri avevano fallito, ma nel vederlo davanti al laboratorio, il pugno chiuso sopra il pannello elettronico e l’espressione truce, capì che riportare Tony alla realtà sarebbe stato più complicato del previsto.
-Rhodey- lo chiamò, ferma sull’ultimo scalino.
Jim scosse il capo e serrò la mano destra, le nocche contratte per la tensione.
-Ha cambiato il codice d’accesso- mormorò -Ho chiesto a J.A.R.V.I.S. di farmi entrare comunque, ma quell’idiota gli ha dato ordine tassativo di non aprire a nessuno. È talmente distrutto da essere più lucido di quanto si potrebbe pensare.
Virginia strinse le dita attorno al corrimano: il freddo del metallo irrorò una scossa gelida lungo i nervi, dandole uno scossone alla schiena. Esattamente ciò di cui aveva bisogno per compiere l’ultimo passo e avvicinarsi a Rhodes. Questi chiuse gli occhi e quando lei gli mise una mano sulla spalla, si lasciò andare in un sospiro.
-Non sarebbe dovuta andare così, Pepper-
-Lo so-
-Non vuole uscire. Non ci permette di entrare. Non so come aiutarlo, mi sento inutile. Non è come quando è mancato suo padre: è diverso. È tutto diverso e non so cosa fare-
-Va’ a casa, Rhodey- Pepper gli sorrise con dolcezza, la mano scivolò a sfiorare il braccio in una tenue carezza -Va’ a casa e riposa. Ti farò sapere se ci sono novità.
Detto questo, si soffermò sul pannello elettronico.
Incerta se tentare o meno la sorte, digitò lentamente le cifre del proprio codice d’accesso: temeva già di vedersi rifiutare l’entrata, un sospiro affranto sulle labbra. Ma lo schermo rettangolare lampeggiò un paio di volte, vibrò, un ronzio, Accesso garantito, benvenuta signorina Potts.
Rhodes sbuffò.
-Dovevo immaginarlo.

 

***

Ai topi lei non piaceva.
Lei sapeva di incenso, di ori, di polvere. Polvere brutta, polvere maligna, polvere grama, quella che sa di petali pestati e pizzica e pullula di robacce anfibie, di umori, di liquidi, di cantilene.
Lei non piaceva ai topi perché aveva gli occhi verdi di un gatto, si muoveva come un gatto, soffiava come un gatto. Scivolava sinuosa nel buio della fogna, i topi la sentivano arrivare e tic tic tic, zampettavano via, squit squit squit, urlacchiavano terrorizzati, gnik gnik gnik si rifugiavano nelle tubature, tra le pietre ed il lerciume.
Ai topi lei non piaceva e nemmeno a lui piaceva, a dire il vero, perché quando era apparsa aveva portato con sè l’altro. E l’altro puzzava di sangue, impregnato di vino fin dentro le ossa, ondeggiava e traballava e aveva sempre quel ghignetto subdolo, viscido e lo guardava senza dire una parola, ma lo derideva in silenzio, si rincantucciava da qualche parte con una bottiglia tra le mani, le ginocchia strette al petto smagrito, gli occhiacci neri, liquidi, e fissava lei, pendeva dalle sue labbra rosse, lei che non piaceva ai topi, lei che i topi odiavano detestavano fino alla punta della coda.
Ma lei era scesa fin nelle fogne per parlargli e quindi andava ascoltata, erano le buone maniere e le buone maniere esistevano anche nelle viscere insozzate di lordume di New York. Anzi, forse erano proprio le viscere insozzate di lordume di Nwe York l’ultimo baluardo delle buone maniere.
Per cui, lei era venuta, lui l’avrebbe ascoltata.
Certo, si era portato anche l’altro, ma finché l’altro se ne rimaneva nel suo angolino puzzolente e non si intrometteva e continuava a bere e pungersi il polpastrello con un ago tutto sporco di sangue marrone, secco, orrido, allora andava bene. Che stesse zitto e canticchiasse idiozie, a lui l’altro non interessava, interessava lei e i suoi discorsi e le sue parole e i gloriosi propositi di cui era messaggera.
Lei gli parlò di riscatto e i topi si rizzarono, interessanti, estasiati, i baffi sottili che vibravano per l’eccitazione.

 

***

 

-Tony..
Anthony Edward Stark, Iron Man, genio, miliardario, playboy, filantropo e altri sinonimi più o meno desueti, alzò la testa, torse il collo, la squadrò dalla testa ai piedi, si girò.
Restò in silenzio.
Pepper sospirò, chiudendosi la porta alle spalle con un singulto di aria compressa. Il laboratorio piombò nella penombra, il buio tagliato a metà unicamente dalla luce che dal centro della stanza bagnava di baci azzurri il profilo cinereo del magnate: un lungo tavolo di linoleum rialzato, asettico, quattro led agli angoli, e sopra di esso, Steve Rogers.
Così disteso con gli occhi chiusi e le mani fasciate nei guanti e intrecciate in grembo, dava l’impressione di essere immerso nel più profondo e pacifico dei sogni: non una ruga ad incrinare la fronte piana, nessuna tensione raccolta a lato della palpebra, né un’emozione a tendere i muscoli della bocca.
Le sopracciglia disegnavano una dolce linea sottile a partire dalla radice del naso e la loro ombra si proiettava fino alle tempie; la testa era reclinata sullo scudo –E la stella che gli sorreggeva la nuca sembrava richiamare con un palpito grigio quella che riposava sul torace- solo una debole, effimera piega incavata a mostrare la rigidità del collo. La curva del petto si alzava a seguire i segni delle costole, le strisce bianche e rosse, e poi ricadeva improvvisamente, pesantemente. senza respiro, e si affossava nel ventre, contro la fibbia rettangolare del cinturone. Pieghe macchiate di nero tappezzavano il kevlar là dove non arrivava il gelido tepore dei led, una barbaglio di luce rosseggiava in cima stivali.
Non portava più la maschera, notò Pepper.
Si portò inconsciamente una mano alla gola, come a convincersi a deglutire, a riprendere a respirare dentro quella bolla soffocante, in quell’atmosfera sospesa. L’aveva Tony, vide, la teneva tra le dita, la faceva scivolare avanti e indietro e indietro avanti sui polpastrelli, la toccava, la piegava, la stringeva, unico movimento visibile in tutta la sua persona.
Per il resto, era immobile. Come la salma che gli stava davanti e da cui, Virginia ne era sicura -lo vedeva dalle occhiaie, dai rigagnoli sanguigni che graffiavano arzigogolati la sclera, non aveva staccato gli occhi un solo momento.
-Tony- ripeté, sperando e pregando in una reazione che non le riuscì di ottenere.
Dovette deglutire un paio di volte, farsi coraggio, costringersi fisicamente ad andare avanti, ad affiancarsi a Stark. Ancora una volta, la propria presenza accanto a lui non sortì alcun effetto.
-Sono tutti preoccupati per te, Tony. Rhodey, Thor, Jane, il dottor Banner, l’Agente Barton e Natasha. Io sono preoccupata per te- sistemò con mano tremante il polsino destro del completo, assottigliò le labbra e le scoprì già bagnate di lacrime -Vogliono vederlo. Vogliono dirgli addio. Per favore. Per favore. Permetti loro di entrare..Esci di qui, Tony. Esci e..-
-Domani.
La voce del magnate era un’eco arrochita, le parole sapevano di metallo e come il metallo erano fredde ed impersonali.
-Domani ci sarà la camera ardente, no? Bene. Domani..-
-Domani verranno a..- Virginia si bloccò di nuovo, non per lasciare all’altro la possibilità di continuare, ma perché era lei a non avere più la forza. Sistemare la salma? A preparare il cadavere? Dio, Steve… -A prepararlo e..-
-E poi ci sarà l’esposizione pubblica e la camera ardente. Come ho detto, no? Come ho detto. Lo so. Non l’ho dimenticato. Ci sarà l’esposizione pubblica e tutti verranno a dirgli addio. E lo saluteranno e gli diranno, Addio, Capitan America, eri il mio idolo, la mia fonte di ispirazione, la mia fantasia preferita quando la connessione internet saltava, il mio futuro marito anche se non lo sapevi, a proposito, le hai mai ricevute le mie lettere? Ho contattato anche dei Wedding Planners, dicono che un matrimonio a tema rosa pesca sarebbe fa-vo-lo-so!
Tony storse la bocca e alzò la mani, il disgusto a contrargli i lineamenti del volto.
-Tutti lì ad adorarlo e idolatrarlo e a comportarsi come se fossero stati da sempre compagnucci di scorribande solo perché adesso è..- serrò le palpebre, strinse i pugni –Addio, Capitan America, e nemmeno lo conoscevano per davvero, neanche sapevano chi fosse in realtà, quanto gli piacesse mettere il miele nel caffè, per l’amor del Cielo era una cosa abominevole, il miele nel caffè, Pepper, capisci? Nel caffè! Il come sapesse a memoria le canzoni di Bing Crosby e le canticchiasse la mattina a colazione, prima di andare in palestra.
“Chi di loro sapeva che Capitan Kirk Skywalker scambiava Star Trek per Star Wars? O che il Grande Gatsby era il suo libro preferito? O che faceva letteralmente pena a poker, ma nonostante tutto si ritrovava a giocarci ogni mercoledì sera con Barton, Grimm e la sua fiammeggiante copia sputata, alias Johnny Storm?
Virginia si tese verso di lui, ma Stark si scostò con violenza e si portò una mano alla fronte.
-Domani allestiranno la camera ardente e allora potranno dirgli addio. Potranno dirgli addio tutte le volte che vorranno.
Fu allora che Pepper compì un gesto che per le circostanze, per la separazione, per orgoglio, non si concedeva da almeno sei mesi: si pose di fronte a Tony, piegò le ginocchia per quanto le permettesse la gonna del tailleur crema, gli prese il volto tra le mani e gli baciò piano, delicatamente la fronte. Chiuse gli occhi nel farlo, una lacrima appesa alle ciglia e il cuore che palpitava contro le labbra.
Stark non disse nulla, né si oppose. Aggrottò le sopracciglia, però, e Virginia poté quasi vedere la mascella di lui che si contraeva e i denti che si digrignavano, la perdita, la comprensione di essa che si raccoglieva in gola e poi scendeva a riempirgli il petto, i polmoni, il cuore.
-Sei tu a doverlo fare, Tony. Sei tu che devi dirgli addio.

 

***

 

Un Erote le sciolse le lunghe trecce e Venere reclinò il collo con un gemito.
Schiuse le labbra tumide, socchiuse gli occhi cerulei e lasciò scorrere le dita sottili tra le ciocche finalmente libere; un altro Erote, compagno del primo, le fece scivolare il pettinino d’oro tra la chiome, un terzo Amorino le dispose di modo che le cadessero ordinatamente sulle spalle candide.
Oh! A qual compito l’aveva chiamata Temi Sovrana, Giustizia Divina arroccata su un trono d’Oblio e Rifiuto!
La Dea piegò la bella schiena all’indietro, tese le braccia e subito gli Eroti le furono tutt’intorno: svolazzando e ridendo e chiacchierando come colombelle dagli occhietti vispi le tolsero anelli e bracciali, in un gran frullare d’ali e tintinnare di ninnoli.
Si mostravano l’un l’altro i gioielli chiusi nelle mani paffute, si rincorrevano nella stanza per avere questa o quella gemma, per cingersi la fronte con un tralcio di vite ad imitazione del rubicondo Bacco, o per finger schermaglie e accendere incensieri.
-Via, via, miei bimbi, miei adorati! Via, con questo baccano! Volete forse risvegliare quel burbero d’Efesto? Lasciatelo ai suoi lavori, alle sue incombenze! Che non ci disturbi! Se ci ritrovasse intenti alle nostre faccende, se ci vedesse mentre adempiamo all’opera che Temi ci ha ordinato..! Oh che scompiglio! Che tragedia ne farebbe!
Come le sovvenne il pensiero, Venere si rizzò in piedi: i capelli le scivolarono a coprire la curva dei seni e si arricciolarono scherzosi e maliziosi alla base della schiena, giocherellando, nascondendo, svelando l’incavatura dorata del pube. Con gesto imperioso, quasi stizzito, la Dea indicò il talamo e tre Amorini risposero con un trillo, gettandosi tra le coltri, saltellando e schiamazzando.
-Controllate bene, miei Eroti, canagliette dalle ali piumate! Se Efesto ha di nuovo nascosto anelli e reti nella mia alcova d’amore, ahimè! Il piano sarebbe disfatto e Temi contrariata! Giammai, giammai! Chissà quella vecchiaccia a che supplizio mi condannerebbe!- si portò una mano alla bianca fronte, finse un commosso mancare di sensi -E se rendesse Ares sgraziato? Apollo muto! Oppure se gli donasse una voce di corvo, proprio come quel barbaro guercio d’Odino, che ordina e sentenzia come se fosse Re, Sovrano di Giove? Ah, Urano, mio spumeggiante Padre! Se tu vedessi a cosa s’è ridotto anche l’Ade! Che disgrazia, che sfacelo!
Venere sorrise, sibillina e sensuale, a punta di dita sfiorò la linea del collo, scese al seno, disegnò la linea rosata dell’aureola, titillò il capezzolo bruno e gettò la testa all’indietro in un ruggito di fiamma dorata.
Lascia che sia il Caso a portare equilibrio nel mondo dei mortali, figlia di Urano così aveva ordinato Temi dall’alto dello scranno Trattieni il tuo amante, da’ tempo alla Sorte di agire per il meglio o per il peggio, com’Ella ritiene debba andare. Fa’ che scenda tra i mortali prima che il caduceo indichi e tracci il funereo cammino.
-Ah! Lascia che sia il Caso, lascia che sia la Sorte!- gorgheggiò e i polpastrelli scesero al ventre, all’incavo dei fianchi, un brivido strappato alla schiena, un gemito alla gola –Ah, Temi! Ai soli Olimpici ora tu ordini e comandi! I mortali ti sdegnano, per loro solo la Sorte esiste! Sorte, figlia mia! Vola, versa, gira la tua ruota senza tempo! Tu, viziata etera, gioiosa sgualdrina! Se solo più spesso mi fosse ordinato di aiutarti, che vita meravigliosa vivrei fra i nembi e l’ambrosia!-
Gli Amorini risero con lei e la Dea allargò le braccia, scoprendo il corpo in tutto il suo nudo splendore. Con mano leggera accarezzò lo specchio di bronzo, con l’unghia grattò le incisioni del kouros, stuzzicò il disegno della fascia stretta attorno al bacino. Se fossero stati veri nodi, si sarebbero arresi senza protesta al suo tocco sapiente.
Si diresse al talamo tra i gridolini eccitati degli Eroti, si umettò le labbra facendo scivolare la lingua lungo le forme turgide della bocca, si distese lentamente, con un che di misurato, ricercato sulle coltri, vi si immerse come al bagno e il corpo biancheggiò candido nelle curve piene, nel ventre fecondo, nel seno florido; lampeggiarono gli occhi cerulei come schegge di turchese tra le ciglia nere; la lunga chioma fu percorsa da una scossa rossa e oro. Piegò le gambe, poggiò la splendida nuca su una mano, con l’altra divise e allargò le ginocchia.
-Ermete..!- ansimò, reclinando la testa, gemendo, ridendo, chiamando -Ermete, mio amato! Ermete, mio sposo! Ermete mio, mio Ermete, ti chiamo, ti anelo! Non senti come mi struggo d’amore per te? Di desiderio, di brama? Vieni a me, Ermete! Lascia i defunti, devia dal sentiero dei morti! A me vieni, in me!
Socchiuse le palpebre, come gatta che soffia e pretende carezze, come regina che attende solo d’essere obbedita.

E mentre ti perderai nel calore del mio abbraccio, il Caso girerà la sua ruota, elargirà doni dalla sua cornucopia rigonfia! Grida il mio nome, amato Ermete, e sarà fatta la volontà di Temi!

 

***

-Detesto le fogne.
Lei  gli rivolse a malapena un’occhiata e un disinteressato arcuarsi del sopracciglio: che le importasse a malapena dei suoi commenti riguardo i meandri meno piacenti di Manhattan era evidente, ma nonostante questo continuò imperterrito a sbiascicare le proprie ragioni. Agitò la bottiglia di vino, il liquido rossastro sbatacchiò oleoso contro il vetro.
-E quello? Dai, è uno schifoso, lurido…topo. Se non squittisce è perché a quanto pare aveva dei cazzoni a lavorargli addosso, oppure degli intelligentoni tanto intelligentoni che quando hanno visto la boiata che stavano facendo hanno preso i soldi e se la sono svignata- ingollò un sorso e si asciugò le labbra col dorso martoriato della mano -Sai, magari sono andati a baldracche, con quei soldi. Anche perché se si sono messi a lavorare su una sottospecie di ratto cencioso, di donne non ne hanno proprio viste. Nemmeno su un porno.
La sua, più che una risata, parve un latrato scatarrante. Lei gli rivolse un’espressione infastidita e lui rispose sogghignando.
-E non mi guardare così. Che c’è, non ti piace come parlo? Deh, altolocata come sei..- e indicò con gesto da ubriaco la tiara che le cingeva la fronte e la veste pregiata, il cui tessuto raccoglieva e scaglionava all’intorno ogni sfumatura possibile o anche solo vagamente contemplata di verde.
-Sta’ pronto e attendi la mia venuta, mortale.
Un altro ghigno, gli occhi malevoli.
-Bhè, donna mia, se è di venire che stiamo parlando..
Ma neanche un istante e lei era già sparita in vortice di polvere luminescente. Sputò un grumo di saliva nel vicoletto buio, bestemmiando.
Troia.
Non fosse stato praticamente immune agli effetti del vino, avrebbe sin detto di essere così sbronzo da averla solo sognata.

 

***

Venere lo chiamava.
Venere distesa nuda sul talamo, gli occhi chiusi e la bocca gemente, lo chiamava.
Ansimava il suo nome, ogni fiato interrotto era un anello di più alla catena che Ermete sentiva stringere attorno alla gola e ai lombi.
Le ali dei calzari fremettero, ma Ermete tenne i piedi ben saldi a terra. Non si sarebbe avvicinato all’alcova di Venere, non era così folle: aveva un compito da portare a termine, un’anima da condurre, non si sarebbe fatto distrarre..Solo uno sguardo. Un’occhiata appena, giacché Venere discinta non era certo fenomeno da destar meraviglia, ma Venere che lo reclamava apertamente, senza terrore d’Efesto o dell’invidia d’Apollo Citaredo era un evento al cui confronto la sobrietà di Bacco sarebbe parsa una bazzecola, pura facezia.
Si avvicinò d’un passo, cauto. Tese l’orecchio, poiché temeva d’ingannarsi: non gli erano mancati gli incontri proibiti con Venere, ma ogni volta più che brama d’uomo gli era sembrata unicamente brama di desiderio. Il richiamo sensuale della carne da soddisfare con chiunque e in qualunque modo, un rimedio alla noia moraleggiante che la tediava quando era costretta ad incontrarsi con Artemide, conversare con Athena o intrattenersi con Vesta.
Soddisfare attraverso lui la sete del corpo, piuttosto che il piacere d’amore –A tanto, Ermete non aspirava. Non sarebbe mai stato Apollo, né poteva competere con Ares.
Tuttavia..tuttavia quel giorno la voce anelante di Venere lo struggeva di desiderio, gli piegava le ginocchia, gli faceva mancare il cuore. Si strinse al caduceo, lo usò come sostegno, le orecchie un ronzio, la lingua come pietra nella bocca arida. Più verde dell’erba si dissetava insaziabile dei gemiti di Venere.
Come avrebbe voluto avvicinarsi! Quanto, oh quanto la desiderava..!
No. No, per Giove! Uno sguardo, ricorda. Uno sguardo appena.
Ma poi Ermete vide il pube dorato scintillare e sfavillare alla luce del sole e tutto fu vano.
Preso d’amore per la bella Venere, ebbro di passione, dimentico d’ogni cosa, d’ogni compito, d’ogni dove, lasciò cadere il caduceo, si tolse i calzari e fu subito tra le sue braccia.

 

***

Pepper gli aveva consigliato di uscire dal laboratorio.
Bhè, lui non aveva alcuna intenzione di farlo. Fuori c’erano le rampe di scale, c’era Rhodey e i suoi occhi mesti, Jane e la sua bocca stretta negli inutili, patetici tentativi di non piangere, c’era Thor con le sue idiozie sulle Valchirie e il Valhalla e Brunilde, c’era Bruce che non avrebbe detto niente, l’avrebbe guardato e basta, e, accidenti a lui, avrebbe capito non quanto Pepper, perché Pepper aveva capito anche prima che ci arrivasse lui stesso, c’era Il Falco e la sua occhiata che tutto voleva dire se solo si aveva la capacità e la voglia di decifrarla, c’era Natasha e se c’era Natasha era anche peggio. Poi c’era Pepper e Pepper era l’unica cosa per cui sarebbe valsa la pena uscire dal laboratorio, ma, davvero, in quel momento non ne aveva proprio l’intenzione.
Pepper forse pensava di prenderlo per la gola, convinta che lì sotto non avesse alcolici cui ricorrere per colmare la solitudine ed il silenzio. Ah, santa Pepper che pensi sempre bene delle persone. C’era eccome una scorta di alcolici, tenuta appositamente per i casi di emergenza: non l’aveva mai sfruttata mentre lavorava, ma ogni tanto controllava che ci fosse ancora, che Ferrovecchio non avesse fatto danni come suo solito. Se era di buon umore poteva anche concedersi il lusso di alzare il bicchiere in onore alle cromature o al nuovo modello o come aveva sistemato il parafanghi di una delle sue adorate signore a quattro ruote.
Steve una volta l’aveva scoperta, aveva scovato la scorta segreta, trovato il sentiero per Shangri-La, lui e quel suo dannato fiuto figlio del Proibizionismo. Cosa non gli aveva urlato, cosa non aveva minacciato di fare..! Ma poi avevano risolto. Risolvevano sempre.
Risolvevano tutto.
Era stata la consapevolezza che da lì in poi nulla si sarebbe più risolto a fargli capire l’entità dell’emergenza. Un bicchiere dopo l’altro, un sorso, due sorsi, tre sorsi, aveva brindato a così tanto e così a lungo che per non pensare a come tutti quei brindisi erano ormai in memoria di aveva brindato ancora. Ancora e di nuovo, diluendo il dolore, centellinando i ricordi.
Aveva brindato a quando l’aveva visto per la prima volta, a quando Fury l’aveva portato nella super stanza segreta inviolabile, quella di cui aveva ricostruito perfettamente la planimetria in macchina, mentre mangiava un doppio cheeseburger e Happy gli chiedeva informazioni in merito a quella chiamata straordinaria dei Men In Black.
Aveva gli occhi chiusi, proprio come allora. Disteso su un tavolo anonimo, proprio come allora. Sembrava dormire, proprio come allora.
Non si sarebbe mai risvegliato. Non come allora.
E così aveva cancellato il ricordo con del buon whiskey e il liquore gli aveva bruciato la bocca ed il cuore. Memoria accartocciate come un foglio bruciato, gemiti di sguardi, grida di mani, cenere, cenere, solo cenere e whiskey, whiskey e cenere fino a che il whiskey non era finito, ma la cenere aveva continuato ad ardere e allora aveva afferrato lo scotch e aveva tentato anche con quello. E aveva funzionato..almeno per un po’. I ricordi sembravano tutti più forti dell’alcool, emergevano dall’intrico di fumi, si appostavano, lo fissavano, lo ammonivano, Saremo qui per sempre, Stark, gracchiavano, Non ce ne andremo, maledetti, maledetti, Sarò qui. Non me ne andrò.
Se solo avessi mentito, se solo avessi mentito..
Era già parecchio alticcio quando aveva cominciato a sentire lo scricchiolio. Non vi aveva dato peso, né vi aveva fatto troppo caso: forse quel cigolio altro non era che la disperazione delle bottiglie vuote o le lacrime infrante dei bicchieri rotti sul pavimento. Ma il rumore era continuato, si era fatto più forte, più pressante e così, preda del mal di testa, le tempie che pulsavano e la bocca che sapeva di alcool e nausea, Tony aveva alzato finalmente la testa.
E poco c’era mancato che gli venisse un colpo.
-Quanto sono ubriaco..?-
-In maniera soddisfacente, mortale, ma nulla che non abbia già veduto. Al confronto d’una menade sei poco più d’una vergine al primo sorso d’Ismarico.
Una donna emergeva bianca dalla luce dei led, sovrastando Steve –Il corpo, la salma di Steve, come una statua di marmo: la veste alla greca ribolliva, tremolava di mille pieghe mutevoli, dalle spalle fino alla cintola, ed una mantella pesante le tintinnava sopra i seni; volse il capo con studiata eleganza e la corona di mura guizzò d’azzurro, il velo che le copriva i capelli tirati sulle tempie sussultò. Teneva la mano destra su una ruotaUna ruota!, mentre sotto il braccio sinistro una cornucopia rigonfia vomitava doni e ninnoli e monete, che si riversavano a terra senza suono alcuno.
Tony deglutì e sgranò gli occhi; si alzò di scatto dalla sedia, provocando l’ilarità di..di chiunque fosse davanti a lui.
-Chi sei?-
-Io?- la bocca della donna si curvò in un sorriso -Io sono il Caso, sono la Sorte. Tyche è il nome che mi diedero i figli diletti di Deucalione e Pirra, ma osa anche solo chiamarmi come gli sciocchi discendenti d’ Enea e avrai di che pentirtene! Fortuna, ah!- il volto si contrasse in una smorfia irata -Mi avete trasformata in una porné dagli occhi bendati, io! Io, l’unica che ancora veglia su di voi!
Tyche abbassò gli occhi, osservando il Capitano con sguardo pietoso; alzò una mano come a volerlo appena sfiorare e il momentaneo stupore di Stark si mutò in rabbia.
-Allontanati da lui. Ora- ringhiò, gelido.
-Quanta virtù in un sol corpo- mormorò l’altra, ignorandolo -Che disgrazia. Che profonda disgrazia. Se il Destino fosse colpevole della sua dipartita certo potrei avere l’ardire di maledirlo, ma per tua fortuna così non è-
-Fortuna? Fortuna?
Dio, quella era la più strana e irritante allucinazione con cui si fosse mai trovato a discutere da ubriaco. Fortuna, la chiamava lei! Capitan America..fortuna! Oh, il non trovare inutili vasetti di brillantina ad occupare spazio prezioso nel mobiletto del bagno era un colpaccio, ma fortuna..!
-Esatto. Fortuna- replicò Tyche, la voce dura e le palpebre socchiuse –Esattamente nel deprecabile significato che voi intendete. Fortuna- lasciò cadere la mano-La morte di costui non è stata decisa volontariamente dal Fato: le Parche hanno avuto l’ordine di tagliare il Filo. Un falso messaggio, o una finta messaggera? Non è importante, non più. Alla causa non c’è modo di rimediare, ma è stato ritenuto lecito che si potesse porre un freno alle conseguenze.
Fato? Parche? E adesso cosa sarebbe successo? Sarebbero saltellati fuori Pena e Panico a chiedergli se aveva sete?
-Ascoltami- Tony alzò le braccia e scosse la testa, tentando il tono più conciliante possibile –Tu sei ovviamente un’allucinazione. Devi essere l’avvisaglia di un disturbo post-traumatico da stress oppure la prova che o il Bourbon era scaduto, oppure mi hanno venduto della melassa invece di whiskey. Per cui, seppelliamo l’ascia di guerra, firmiamo un trattato di non belligeranza e torniamocene ognuno ai propri angolini solitari, d’accordo? Tu..Sparisci, puff!, in una bolla rosa come gli elefanti di Dumbo, d’accordo? Porta i miei saluti a Megafusto, però. Io vedrò di rimediare alla cosa bagnandomi la lingua con—
-Taci!- il grido di Tyche rimbombò nel laboratorio come l’eco di mille voci, le luci tremarono, si ingigantirono, tutto divenne bianco e poi nero e lei dominava su ogni cosa, immensa, gli occhi di mille fiamme e mille colori e mille sguardi e mille volte mille esistenze –Taci, non osare una parola di più! Io sono Tyche, mortale! Le Parche tessono, filano, recidono lo strame, io disfo i nodi di Cloto, creo nuovi intrecci coi fili di Lachesi, se m’aggrada celo alla vista della sdentata Atropo le cesoie funeree! E sempre voi, oh miei caduchi avversari, voi io vinco al gioco eterno degli astragali, barattando la vostra vita con nuovi anni o nuove sofferenze o nuovi amori o nuove perdite, secondo il mio diletto!
Col fiato appeso alla gola, Stark indietreggiò. Cozzò contro la sedia e fu solo per miracolo che riuscì ad appoggiarsi allo schienale e non crollare a terra. Tyche assottigliò le labbra: un respiro e fu di nuovo alla sua forma originaria.
-Giove, Padre degli Dei, ha deliberato e deciso con Odino di Asgard, ma una voce..una menzogna è serpeggiata sibillina dal Concilio. Le Parche hanno ubbidito ad un ordine non vero: la morte di costui è frutto di una conoscenza ottenuta..- un veloce arcuarsi delle sopracciglia –Per caso.
-Per caso? Tu hai..
-Io- lo interruppe –Creo e disfo a mio disio, non mi curo di ciò che le mie azioni potrebbero provocare. Almeno fino a quando non si viene ad infrangere l’Ordine.
“Chi ha ingannato le Parche non ha interesse in tal senso, quel che per noi Olimpici è legge, per lui non è più importante d’un soffio di polvere. L’Equilibrio è stato infranto e gli Dei non permetteranno che questa situazione permanga: e come non succedeva dacché il Protettore di Uomini dominava la Terra, Temi, la Giustizia Divina che ora siede, ordina e dispone per i soli figli di Giove e Giove stesso e la sua consorte, Giunone dal bianco braccio, Temi, dicevo, mi ha affidato un compito. E io, Tyche, ho giurato obbedienza.
Tony si umettò le labbra, la fronte che bruciava, rivoli freddi a rabbrividire lungo le tempie. Era una follia. Un’allucinazione, doveva essere ammattito, quale altra spiegazione? Dei? Giove? Parche? Da quale angolo recondito della memoria erano usciti, perché si erano fatti vivi? E soprattutto..Perchè stava discutendo con un postumo da sbronza?
-Non ho idea di cosa tu stia parlando e..-
-Obbedirò una volta, mortale. Una volta sola mi piegherò e poi tornerò alle mie faccende, non importa quanto a lungo mi chiamerai o cercherai la mia presenza, anelerai al mio aiuto: non risponderò, a meno che non abbia io stesso voglia di risponderti- lo ammonì, la mano alzata ed il mento sollevato –Ti è stato concesso un privilegio. Pochi possono vantarsi d’aver avuto il medesimo dono e sarà loro che tu dovrai cercare.
“Un’unica occasione per ripristinare l’equilibrio: se fallirai, gli eventi prenderanno questo nuovo corso, seguiranno questo nuovo alveo e non vi si sarà più rimedio. Questa è l’unica volta in cui mi piegherò, la sola occasione che ti sarà data.
-Ma di che parli? Di che possibilità stai delirando?
Un sorriso baluginò negli occhi maliziosi della donna.
-Della possibilità di strappare questo mortale alle onde dello Stige. L’occasione riportarlo alla vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#02. Da Qualche Parte, nell’Amarezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

Se Efesto ha di nuovo nascosto anelli e reti nella mia alcova d’amore, ahimè” : Odissea, VIII 266-366. Efesto, per scoprire e punire gli amori di illeciti di Afrodite, nasconde nel talamo una rete d’anelli d’oro finissima: a venirne catturati saranno proprio la bella Afrodite e Ares, dio della guerra.

 
“Urano, mio spumeggiante Padre”: una versione del mito vede la nascita di Afrodite dalla spuma del mare mescolato allo sperma di Urano, finito in mare dopo che Crono lo aveva evirato.

 
Ermete è detto anche psicopompo, ossia colui che guida le anime nel cammino verso l’Ade.

 

Cito qui le abilità di Venere:
Venus has the power to project images or illusions of herself and to control the emotions of others, as well as the ability to fly at high speeds, shield herself from mortal sight, and shift her physical form into other beings. Before the retcon, she was considered to be an Olympian goddess, and thought to possess the enhanced physical characteristics typical of Olympian gods in the Marvel Universe, including superhuman stamina, durability, agility, and reflexes, extraordinary vitality, and virtual immortality.” (Wikipedia)

 

La Tyche (Caso/Sorte) è la “divinità laica” dell’Ellenismo, priva di predestinazione, non è un Destino scritto come quella cui invece, in epoca precedente, erano soggetti uomini e Dei. I Romani la chiamarono “Fortuna”, ma questo termine non ha nulla a che vedere col significato che gli viene dato oggi.

 
Porné: “Puttana” in greco antico.

 
Il Protettori di Uomini altro non è che Alessandro Magno (Alexandròs significa, letteralmente, proprio “Protettore di Uomini”) E’ con la sua morte che si apre l’epoca dell’Ellenismo ed il “dominio” della Tyche a regolare la vita degli uomini.

 

 

 

Note di Fine Capitolo

Otto pagine di roba. Otto. Pagine. Di. Roba. Potete ammazzarmi, davvero. Vi è lecito.
Che poi, penso abbiate notato tutti come si cambi dalla denominazione romana delle divinità (Afrodite-Venere) a quella puramente greca (Ares, Athena, etc): purtroppo è così che vengono chiamati personaggi all’interno degli Olimpici Marvel e, salvo per Tyche (che non esiste ed è dunque da considerarsi un mio OC), mi sono adeguata alla cosa Anche se le concezioni delle divinità romane e greche differiscono profondamente e non so davvero secondo quale delle due mi devo rapportare *La sedano*
Poi..La scena di Venere/Afrodite che si pettina i capelli è una forse/quasi/pseudo citazione dal proemio del III libro delle Argonautiche:
“Lasciando cadere da ambo le parti i capelli sopra le candide spalle, li ravviava col pettine d’oro, e ne faceva lunghissime trecce. Vedendole, smise e le chiamò dentro, e si levò dal suo trono, le fece sedere e sedette di nuovo anche lei, raccogliendo con le  mani le chiome non curate dal pettine.

La scena del poker con Ben Grimm (La Cosa), Barton, Johnny Storm e Capitan America viene dalla serie animata “Avengers – I più Potenti Eroi della Terra” (Dove però comparivano anche Hulk e T’Challa)
E con questo direi basta.
Tranne che il miele nel caffè è buono, checché ne dica Stark OH
Ringrazio la mia nuova mogliaH, Alley per la splendida recensione lasciatami al precedente capitolo! Grazie davvero, mogliaH mia, organizzerò un viaggio di nozze senza precedenti! *A*
Ringrazio poi: Eloise de Winter per aver messo la storia tra le preferite e Hikari_ e F13 per averla aggiunta alle seguite!
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** #03. Il Sakè del Tanuki ***


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.:  *** :.

 

 

 

 

Nick Fury poteva anche non sopportare la boria di Stark, trovare irritante il suo comportamento, considerare infantile il suo modus operandi, ma non aveva mai pensato veramente che fosse pazzo.
Era giunto il momento di ricredersi.
-Stark, ti assicuro che se continuerai con queste idiozie sarò costretto a prendere provvedimenti in merito. Provvedimenti immediati.
Dall’altra parte dello schermo, un pallido Tony Stark contrasse il volto, esasperato; pressò le nocche sulla fronte,  strinse la radice del naso fra le dita, scese a coprire la bocca e infine unì fra loro i palmi delle mani.
Il sopracciglio di Nick Fury schizzò oltre la cinghia della benda.
Da dietro le spalle di Iron Man l’Agente Romanoff rizzò gli occhi nella sua direzione ed egli capì come sotto ci fosse molto di più di un semplice esaurimento nervoso.
-Molto bene, Harlock- cominciò Stark e se il Direttore dello S.H.I.E.L.D. irrigidì la schiena per il soprannome non richiesto, la parte più pragmatica della propria persona scattò sul chi vive a quel tono conciliante -Prenotami pure un appuntamento dalla signorina Leland, è da tempo che non ci vediamo e sono sicuro che senta la mia mancanza, chi non la sentirebbe?, ma io troverò quelle persone, che ti piaccia o meno.
Fury socchiuse l’occhio buono, lo sguardo divenne tagliente.
Aveva discusso più volte con Maria Hill circa la possibilità di costringere i Vendicatori e gli altri Supereroi di New York a diventare parte integrante dello S.H.I.E.L.D., veri e propri Agenti stipendiati e tenuti sotto ferreo controllo, Per evitare che facciano il bello ed il cattivo tempo, signore. Per evitare che la loro totale mancanza di regole e discipline siano causa di mali ben peggiori di Loki.
Non l’aveva mai considerata una buona idea. Di nuovo, sembrava giunto il momento di tornare sulle proprie decisioni e tutto perché Stark si era messo in testa di andare nel Vecchio Continente a recuperare non si sa bene chi, non si sa bene come, non si sa bene dove, solo perché la personificazione della Sorte gli era apparsa e gli aveva ordinato di scendere nell’Ade, recuperare l’anima di Steve Rogers e ripristinare l’Equilibrio del mondo -Nemmeno nelle peggiori visioni mistiche succedevano cose del genere.
Il Capitano Rogers era morto -Un infarto, secondo quanto riportavano i referti medici, e Tony Stark aveva accusato il colpo nel peggiore dei modi: le assurdità su divinità dell’Olimpo e viaggi nell’Ade erano un chiaro sintomo delle sue attuali condizioni psichiche.
Dacché Thor era arrivato in New Mexico, lo S.H.I.E.L.D. aveva fatto passi da gigante in materia di nuovi mondi, complici anche gli appunti della dottoressa Foster riguardo al Ponte di Einstein-Rosen; gli studi sui Nove Regni procedevano quanto più speditamente possibile, sebbene limitati dalla materiale inattuabilità di un contatto più approfondito con altri Asgardiani e popoli loro affini.
Per quelle rare volte che si era prestato ad un informale interrogatorio, il Dio Norreno aveva speso poche e incomprensibili parole sul il Bifrost, il Ponte dell’Arcobaleno, forse il solo collegamento tra una dimensione e l’altra. Alla fine erano riusciti a ricavare unicamente due verità ineluttabili: il Bifrost era caduto e Thor non avrebbe mai portato nessun terrestre ad Asgard.
Nessuno tranne Jane Foster, ma Fury dubitava che la donna si sarebbe detta disponibile a fare da infiltrato. Nonostante alla conclusione della vicenda a Puerte Antiguo le fossero state restituite tutte le attrezzature e gli appunti e gli studi e le fosse stato offerto un tempestivo posto di lavoro all’Osservatorio per tenerla in totale sicurezza durante l’emergenza “Loki”, la dottoressa aveva ancora il dente avvelenato nei loro confronti.
Le condizioni per una maggiore e più ampia conoscenza dei Mondi oltre la Terra erano sfavorevoli e sebbene il Direttore non fosse tipo da escludere l’esistenza di qualcosa solo perché non poteva vederla fisicamente, trovava quei discorsi privi di senso, forse più per l’idea insita nei vagheggiamenti di Stark che per l’ipotesi di un’ulteriore cultura extradimensionale.
-Non andrai da nessuna parte, signorino.
La bocca di Tony fremette di un ghigno storto.
-Non puoi impedirmelo, monocolo.
Fury torse il collo ad incontrare lo sguardo dell’Agente Hill e da come lei assottigliò le labbra, capì che l’argomento “Registrazione” sarebbe stato il punto successivo di una giornata cominciata nel peggiore dei modi.
-Potrei sempre ordinare un perimetro attorno alla Tower e circondarti di Agenti armati di taser. Mi dicono che Supertata non sia ancora stato cancellato dal palinsesto-
-L’Agente Coulson sì, però-
-Barton, sta’ al tuo posto.
Tony, sorpreso dall’affermazione all’apparenza priva di contesto, si voltò verso Clint; questi aveva sollevato le spalle dal muro e stava fissando il figlio di Howard con espressione gelida, un angolo della bocca sollevato a scoprire i denti digrignati. Gli ci vollero alcuni secondi per recepire l’ordine e fu solo quando tornò ad appoggiarsi contro la parete che Fury si concesse una minima distensione.
-Mi ascolti, Direttore, so che le mie parole possono sembrare il delirio di un ubriaco e forse, forse il tasso alcolico nel mio sangue è un tantino superiore al limite di lucidità consentito, ma so cosa ho visto. So con chi ho parlato- Stark aggrottò la fronte e fece spallucce -Bhè, più o meno, ma il punto è…che ho la possibilità di andare a prendere Rogers e riportarlo qui. Posso farlo. E lo farò.
Con la coda dell’occhio, il Direttore vide l’Agente Barton all’angolo dello schermo tentare di prendere parola; sollevò allora una mano, ad impedirgli qualsiasi intromissione.
-Come?
Questa volta, le labbra di Iron Man si arricciarono in un sorrisetto compiaciuto.
-Si dà il Caso- e calcò il termine con irritante enfasi -Che la gentile…- tentennò –Divinità? Sì, facciamole un favore, la gentile Divinità con cui ho avuto un colloquio pocanzi mi abbia dato tutte le informazioni necessarie a…-
-Il Cantore, il Viaggiatore ed il Pio?- Fury non poté negarsi un moto di sarcasmo -Stark, queste non sono informazioni valide-
-Secondo l’Agente Romanoff potrebbero esserlo, invece. Agente Romanoff, vorrebbe venire avanti e rendersi palese all’occhio del suo superiore?
Vedova Nera avanzò senza dire una parola, il volto teso e duro, lo sguardo che mandava lampi in direzione di Stark; gli si affiancò, in modo da essere visibile davanti allo schermo, le braccia lungo i fianchi e le labbra rigidamente pressate l’una contro l’altra.
-Agente Romanoff. Parli pure- il Direttore si appoggiò allo schienale, le dita della mano destra a pizzicare la curva del mento.
-Orfeo, Odisseo ed Enea- spiegò lei, impassibile -Secondo la mitologia occidentale, essi sarebbero scesi fin dentro gli abissi dell’Inferno. Ognuno per scopi e motivazioni diverse, ma comunque la tradizione è concorde nell’affermare il loro viaggio nella Terra dei Morti-
Il Direttore scosse il capo.
No. Si era sfociati nel ridicolo. Aveva perso anche fin troppo tempo.
-E tu, Stark, vorresti trovare degli eroi mitologici appartenenti ad un ciclo di storie vecchio di duemila anni, solo perché un’allucinazione ti ha detto…-
-Anche Point Break  fa parte di un ciclo di storie vecchio di duemila anni, ma non mi sembra che la cosa ti stia dando problemi, non finchè ti permette di prendere a calci qualche supercattivo dai capelli unti- ribatté Tony, la voce più alta, irritata, furiosa -Puoi anche non crederci, ma quello che ho detto è...-
-Vero-
Tutti, da una parte e dall’altra dello schermo, trasalirono all’improvviso intervento di Thor: Vedova Nera si fece da parte appena se lo vide accanto e il figlio di Howard arcuò le sopracciglia.
-Sul serio?- il fatto che fosse stupito quanto il resto delle persone presenti non fu una buona impressione per Fury.
-L’Uomo di Ferro ha ragione- continuò la divinità e per quanto fosse stretto in una camicia a scacchi blu e rossi di una taglia più piccola, per quanto indossasse un paio di jeans scoloriti all’altezza del ginocchio e tenesse i capelli trattenuti alla base della nuca, lo sguardo cupo e il portamento fiero lo rendevano a tutti gli effetti un Principe di Asgard. Nick Fury non era tipo da impressionarsi facilmente, ma chiunque si sarebbe sentito a disagio al cospetto del Tonante Thor –Anche se vestito da mandriano.
-Spiegati meglio-
-Spesso Padre Odino ha avuto occasione di incontrare gli Dei dell’Olimpo: dovreste conoscerli bene, sono le divinità dei vostri avi-
-I miei avi erano Indiani Iowa, per cui me ne tiro fuori- Clint rivolse allo schermo un ghigno tagliente, che il Direttore fu veloce a spegnere grazie ad un’occhiata ammonitrice.
Thor corrugò la fronte e Jane, che si era avvicinata in silenzio, gli mise una mano sulla spalla per invitarlo a continuare; il Dio le coprì dolcemente le dita con le proprie, sorrise e tornò a guardare nello schermo.
-Giove, Giunone, Minerva, i loro figli, le loro mogli, i mariti e gli amanti vegliavano sull’Occidente quando il mondo era ancora giovane. Ma come il mio popolo, alla fine decisero di ritirarsi e arroccarsi nell’eternità dell’Olimpo, loro casa e loro sede.
“A differenza di noi Asgardiani, però, alcuni ancora amano scendere su Midgard e mescolarsi ai mortali: Venere è fra questi e da quello che ho potuto apprendere da mio padre molti secoli orsono, gli Dei che stanno sotto la terra mai hanno cessato il loro compito.
“Fra coloro che si fregiano del titolo di Divinità, gli Olimpici sono gli unici a non aver abbandonato, come essi sostengono, Midgard a se stessa. Si proclamano ancora suoi custodi, guardiani del suo Equilibrio, pur non intervenendo che in minima parte nel suo Destino.
-Se Nietzsche fosse qui gli prenderebbe una sincope-
Fury contrasse la mascella al commento a sproposito di Stark e Maria gli si fece più vicino, le spalle piegate in avanti. Entrambi sapevano che considerarsi l’unico popolo senziente nella vastità dell’Universo era peccare d’ orgoglio e demenza: non erano soli, esistevano degli altri e lo S.W.O.R.D. era stato creato proprio per tenere sotto controllo le mosse e le interferenze di altri nella vita terrestre.
Che altri camminassero indisturbati per Manhattan, mangiassero croissant a Parigi o passeggiassero lungo la Muraglia Cinese era un’ipotesi che non poteva rimanere senza dimostrazione. Non si trattava della trama di un romanzo o la sceneggiatura per un film fantascientifico: se questi altri erano fra loro e nessuno ancora ne aveva avuto notizia, Abigail Brand doveva esserne informata e le falle del sistema sanate.
-Molti degli Eroi- stava dicendo Thor, nel frattempo -Hanno deciso di rimanere a Midgard: alcuni, come Ercole, che sono fiero di aver conosciuto di persona, si sono allontanati dai loro luoghi d’origine per stabilirsi al di là del mare. Altri ancora hanno scelto di non abbandonare la propria casa, per quanto cambiata essa fosse. Anche se distrutta, anche se modificata fin nel profondo della loro essenza, si ergono a loro difesa contro lo sfacelo del tempo e della memoria. Ma sono rimasti in pochi, ormai, e senza l’aiuto della Giustizia, che è loro Dea Suprema secondo quanto mi è stato narrato, non possono nulla e le loro fila sono destinate ad assottigliarsi ogni giorno che passa. Sono stanchi e anelano il riposo eterno che solo la dimora di Giove è in grado di offrire-
-E le persone che ha citato Vedova Nera?- chiese Fury -Odisseo, Enea ed Orfeo? Loro dove sono?
Il Dio Norreno scosse il capo.
-Non so dirvi di Orfeo, né di Enea, ma di Odisseo Ercole parlava spesso e so per certo che si trova ancora ad Itaca-
-Bhè, è già qualcosa, no? Significa che non sono pazzo. Forse un po’ su di giri per la Vodka, ma…-
-Taci, Stark, non ho ancora deciso in merito alla tua sanità mentale. Thor, dobbiamo sapere il più possibile riguardo a questi Dei. A quando risale l’ultimo contatto avuto con loro?
Il Tonante, a quella domanda, parve tentennare. Deglutì, a disagio, e rimase qualche minuto in silenzio.
-Non molto dopo il mio ritorno ad Asgard, con Loki- ammise -Padre si è ritirato a concilio con Giove, ma non mi è stato permesso presiedere, né conoscere quanto è stato detto. So solo che in seguito al loro deliberare...- abbassò il capo, gli occhi cupi -Di mio fratello non si hanno avuto più notizie. Non è ad Asgard e Padre ha imposto il divieto di partire alla sua ricerca, quale che sia l’effetto che mi lega a lui. Era così stanco, così provato e addolorato da temere che il Sonno di Odino lo cogliesse prima del tempo-
-Il Sonno di Odino?-
-Niente che abbia a che vedere con questa storia.
E niente che abbia a che vedere con noi, ma questo Fury si astenne dal dirlo. Intrecciò le dita e posò il mento sulle nocche, sbiancate per la tensione.
-Stark, ora è il tuo turno: raccontaci ancora una volta quanto è successo nel laboratorio, e senza divagare, se ti riesce.
Il magnate roteò gli occhi al cielo.
-Te l’ho già detto, Mace Windu. Te l’ho detto e ripetuto. Mi è apparsa questa donna e ha detto di essere Tyche, la Sorte che “governa” il destino dei mortali- mimò le virgolette con le dita, a rendere chiaro a chiunque quanto trovasse ridicola quella parte della storia -Ha detto che le Parche hanno tagliato il Filo della Vita del Capitano, qualunque cosa sia, per un falso messaggio od una falsa messaggera, nemmeno lei sapeva dirlo-
-Le Parche?- Thor rivolse a Tony uno sguardo perplesso –Intendi le Norne?-
-Non lo so, non me ne intendo di vecchiette rancide che si passano l’un l’altra l’occhio buono per prevedere il futuro-
-Quelle sono le Graie- intervenne l’Agente Romanoff, sedendosi accanto ad una ancora sconvolta Virginia Potts e posando le mani in grembo.
-Sì, bhè, vedrò di mandare una lettera di reclamo alla Disney, posso andare avanti?
Accanto al Direttore, Maria Hill si schiarì la gola, ma Fury la ignorò: per quanto una dissertazione sulle incongruenze nei film Disney fosse l’ultima cosa che volesse sentire in quel momento, sperava ancora che il discorso di Stark portasse da qualche parte.
-Parche, Norne, Nonne, giovani o vecchie che siano, hanno tagliato questo filo perché qualcuno ha ordinato loro di farlo. Qualcuno che a quanto sembra non dovrebbe avere alcun potere decisionale a riguardo, qualcuno che per caso è arrivato a sapere di questa piccola scappatoia nell’Ordine normale delle cose- aggrottò la fronte, gli occhi scivolarono al Dio –Thor, voi Asgardiani ve ne intendete di Ordine?
La domanda lo sorprese.
-Che intendi dire, Uomo di Ferro?-
-Questo famigerato Equilibrio, questo tanto decantato Ordine che fa molto videogioco anni novanta o al limite sessione notturna di Dungeons&Dragons, e prima che lo chiediate, sì, ho avuto l’occasione di partecipare ad alcune di esse e no, non intendo parlarne, Pepper vedi di mantenere il segreto, insomma…E’ un concetto che Asgardiani e Olimpici dividono con pane e companatico oppure ognuno a casa propria?
Fury socchiuse la palpebre e sciolse l’intreccio delle dita; appoggiò un gomito al ginocchio, scambiandosi un’occhiata significativa con l’Agente Hill.
-Thor- prese la parola -Come hanno reagito gli Olimpici all’attacco di Loki? Visto che, come hai detto, si considerano i custodi della Terra, dubito abbiano apprezzato le azioni e le distruzioni di tuo fratello.

 

***

 

-Padre  non sarebbe mai arrivato a compiere un’azione tanto deplorevole!
Clint fu l’unico, nella stanza, a non sobbalzare allo scatto improvviso di Thor. Si sarebbe detto dotato di una tempra invidiabile, ma la verità era un’altra.
-Mi spiace, Point Break, ma voci di regia mi dicono che l’amore di un padre per i propri figli sia imprevedibile: se veramente gli Olimpici hanno portato via Loki per ristabilire quell’Ordine a voi tanto estraneo…
La verità è che tutta la situazione lo stava facendo ribollire dalla rabbia. Sentiva il sangue ringhiare nelle vene, lo stomaco torto da una furia gelida, era incapace di concentrarsi su qualsiasi cosa che non fosse il bisogno di scaraventare Stark contro una parete, o conficcargli una freccia nella giugulare.
-Padre non avrebbe mai ordito un piano tanto meschino! Ordinare la morte del Capitano per…per cosa? Dimmelo, Uomo di Ferro! Tu che sembri tanto saggio, dimmi per quale motivo lo avrebbe fatto!-
-Vendetta. Semplice, pura, paterna vendetta. Gli Olimpici si sono immischiati negli affari di Asgard in nome dell’Equilibrio? Quale presa di posizione migliore che interferire nell’Equilibrio stesso? Steve doveva morire settant’anni fa, quando l’aereo di Schmidt si è disintegrato a contatto con la calotta artica. Steve era l’esempio vivente di un Ordine che tornava bene solo quando lo volevano Giove e tutta la sua combriccola-
-Il Capitano era un mio un compagno…-
-Ma Loki era suo figlio, tuo fratello. Capisci la logica dietro a tutto questo, fulminato amico mio?
Barton roteò gli occhi al cielo e contrasse la mascella, ignorando lo sguardo di Natasha. Lei sapeva, oh, sapeva ogni cosa, sapeva come si sentiva e quanto quei discorsi, quella situazione, quella possibilità lo stessero facendo uscire di testa.
-L’unica logica che capisco io- intervenne, allora, prima che Vedova Nera o il buon senso –Che poi, a conti fatti, erano la stessa cosa, potessero impedirglielo -E’ quella del “Le relazioni tra colleghi non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate”.
Vide Stark irrigidirsi e Fury aggrottare la fronte dall’altra parte dello schermo. Rivolse ad entrambi un ghigno malevolo.
-Non ho nulla contro il Capitano. Era una persona come ne ho incontrate poche nella mia vita e lo stimavo. Lo stimavo davvero. Ma perché lui? Per quale motivo solo a Rogers è stata data la possibilità di tornare in vita? Perché tanti altri meritevoli quanto lui devono essere costretti a rimanere cibo per i vermi?
Le spalle di Tony cascarono con un sospiro e Clint quasi temette di aver lasciato trasparire troppo dal tono nervoso dell’arringa.
-Non lo so, Barton. L’unica ipotesi che ho a riguardo è questa: occhio per occhio, dente per dente, la sempre valida legge del taglione. Tu porti via mio figlio nel sacrosanto nome di un Ordine che solo voi potete capire? Ottimo, in nome di quel sacrosanto Ordine che solo voi potete capire vengo a mettervi un po’ i bastoni tra le ruote per farvi vedere che, no, con gli Asgardiani non si scherza- allargò le braccia -Dei, valli a capire.
Ma Thor non sembrava convinto. Nessuna in quella stanza sembrava convinto e Clint, nell’alzare gli occhi al volto del Direttore sullo schermo, capì che oltre a non esserne convinto nemmeno lui, stava pensando ad un modo per ottenere un contatto e dei collegamenti degni di questo nome con il nuovo popolo extradimensionale.
-Andrò ad Asgard- il Dio Norreno annuì a se stesso e ai presenti –Parlerò con Padre e lo convincerò a farmi avere un incontro anche con Giove-
-Ottimo!- Stark sfregò fra loro i palmi delle mani –Bene, si comincia la quest allora! Banner la voglio alla ricerca di Orfeo, non accetto un no come risposta-
Barton torse il collo, le sopracciglia corrugate: il dottore aveva l’aria parecchio perplessa e non era l’unico nella stanza. Pepper richiamò l’attenzione alzandosi in piedi e ricordando a tutti una questione fondamentale.
-Dovremmo pensare anche…- chiuse gli occhi un istante, ingoiando un singhiozzo silenzioso. Era pallida, esausta, sull’orlo delle lacrime -Alla camera…A Steve-
Barton avvertì distintamente l’occhio di Fury posarsi sulla propria persona. Dannazione, sapeva, sapeva di dover accettare la missione suicida in Latveria.
-Saranno un manipolo di Agenti, Barton e il mio Agente più fidato ad occuparsi di tutto.
Eccolo lì. Ottimo. Tanto valeva fare buon viso a cattivo gioco: sperava almeno che da uno, il mese di congedo si trasformasse magicamente in due.
-Sarà un piacere lavorare con l’Agente Hill- commentò, un sorriso parecchio tirato e parecchio falso sul volto livido.
-Non mi pare di aver menzionato l’Agente Hill, Barton.

 

***

 

All’angolo tra la Quinta e la Sesta c’era un ristorante giapponese, Il Sakè del Tanuki.
Un locale piccolo, intimo, nastro trasportatore per il sushi, buona varietà nel menù, stampe di geishe e samurai appese alle pareti. Il proprietario era un vecchio arzillo dagli occhietti infossati e baffetti bianchi a manubrio: Aritomo Watanabe, età indefinita tra i settant’anni e i centocinque anni, faccia da Shogun, lineamenti cinesi e perfetta parlata coreana –Dialetto del Nord o del Sud non aveva importanza, la voce era priva anche della più piccola contaminazione di Osaka. Era amato da tutti e da tutti un po’ odiato a causa di quella mescolanza etnico-culturale che rendeva tanto eclettica la sua persona.
Erano le sei del pomeriggio quando l’Agente scese dalla macchina nera ed entrò al Sakè del Tanuki: Aritomo lo vide, centellinò un saluto cortese tra le labbra seriche e gli si avvicinò a passetti strascicati.
-Konnichiwa, konnichiwa…!- esclamò, profondendosi in un inchino e lanciandogli un’occhiata divertita da sotto la bandana che copriva il cranio calvo -Tavolo per uno, sì?-
-Esatto. Non mi piace condividere il sashimi.
Il sorriso del vecchio Watanabe assunse una piega ferina, lo sguardo scintillò come freddo metallo.
-Prego, mi segua.
L’Agente e Aritomo superarono l’interno del locale in religioso silenzioso. Gli avventori erano pochi, per di più operai od impiegati che si godevano un pasto prima del turno di notte, qualche gruppetto di ragazzini, una signora distinta e solitaria che frugava a punta di bacchetta nella zuppa di miso. Ai camerieri che alzavano gli occhi su di lui, Watanabe annuiva con un gran rollio del collo tremolante e faceva cenno di tornare alle loro occupazioni; in cucina nessuno prestò loro attenzione, almeno finché non arrivarono alla cella frigorifera.
Lì il vecchino chiamò due ragazzi intenti a far nulla dinanzi al tavolo per preparare il sushi ed essi -Cui l’Agente avrebbe affibbiato qualsiasi occupazione, anche malavitosa, che contemplasse l’uso di un’arma da fuoco o al limite un taser, si piazzarono ai lati della poderosa porta in metallo, le braccia rigidamente incrociate al petto, gli occhi sottili e lo sguardo attento. Watanabe sorrise, aprì il portellone e fece cenno all’Agente di entrare.
E dentro la cella nessun tipo di pesce o carne congelata, né prodotti alimentari di vario tipo, ma pesanti lastroni in metallo a limitare e contenere quello che era a tutti gli effetti il vano di un ascensore; Aritomo sorrise ancora una volta e digitò alcune cifre su un pannello posto lateralmente rispetto al portellone d’entrata. Un bip d’accettazione, lo schermo rettangolare che si illuminava e poi un lieve scossone, che l’Agente ammortizzò dondolandosi appena sui talloni.
-Sono contento che sia tornato al lavoro, Agente. Sentivamo la sua mancanza- Watanabe soffocò una risatina sotto i baffetti curati, mostrando denti piccoli e anneriti.
-La missione a Wakanda è stata più dura del previsto, ma ci sono buone possibilità di riprendere i contatti nonostante le conseguenze dell’affare “Ulysses Klaw”. Il figlio di T’Chaka è tornato in patria per riprendersi il titolo di sovrano, speriamo di poter aprire con lui trattative in merito alle esportazioni di vibranio.
Se anche Aritomo era sul punto di chiedere altro, un trillo dell’ascensore li avvertì che la corsa era giunta al termine: le porte scorrevoli si aprirono e il riverbero dei neon contro le pareti intonacate di bianco li accecò entrambi per un istante.
Ritta in piedi accanto al vano una donna sulla trentina, capelli biondi e tailleur nero, li salutò con un cenno del capo. Dietro di lei si apriva un lungo corridoio, dove cinque porte incastonate nel cemento inghiottivano e sputavano a più riprese persone vestite in completi di camicia e pantaloni scuri –O tailleur nel caso di esponenti del sesso femminile. Alcuni, come la donna dai capelli biondi, tenevano in mano una cartelletta di pelle o fascicoli vari, altri si scambiavano opinioni a voce più o meno alta circa la possibilità di un’intelaiatura osseo-metallica più solida, c’era chi si scambiava bozze e schizzi anatomici o lodava le prospettive offerte dalle nuove tipologie di colorazione tirate fuori dai laboratori inferiori.
Watanabe azzardò un’occhiata curiosa a dei fogli che si intravedevano tra le mani di alcuni Agente più avanti, ma quando si accorse di avere la vista troppo indebolita dall’età vi rinunciò e si sciolse in un ultimo sorriso.
-La lascio in buone mani, allora.
L’Agente annuì e mosse un passo fuori dall’ascensore; si voltò a salutare con un cenno della testa il vecchio Aritomo e non appena i portelloni si furono richiusi, tornò a rivolgere la propria attenzione alla donna, che gli sorrise e tamburellò contro la cartelletta le unghie laccate di rosso.
-E’ un onore averla qui, signore. Io sono l’Agente Joan Lee, le do il benvenuto al Dipartimento L.M.D.

 

***

 

Tony chiuse la chiamata col Baxter Building, appallottolò lo schermo digitale, lo soppesò per qualche secondo sulla mano e poi lo gettò rabbioso in una configurazione a cestino che J.A.R.V.I.S. aveva fatto apparire appositamente per l’occasione.
Aveva riattivato l’illuminazione totale del laboratorio e la cosa, doveva ammetterlo, riusciva ancora ad infastidirlo parecchio. Avrebbe preferito continuare ad osservare il mondo dal chiarore soffuso e funereo dei led, i cui sbuffi bluastri riuscivano a dare l’illusione di un respiro nel corpo di Steve.
Si stropicciò il volto con una mano, per poi passare entrambe fra i capelli e risalire con un movimento circolare fino alla bocca; la nascose dietro i palmi, come ad impedirsi un qualsiasi commento a quella situazione assurda.
Perché era tutto assurdo, era il primo a pensarlo. Inutile girarci intorno, stava cominciando a convincersi che quanto era successo fosse stato solo frutto di un pesante postumo da sbornia. Certo, il fatto che Thor avesse sostenuto la causa era un passo in avanti e magari la si poteva considerare una prova, ma, ehi, Point Break era quello che per ricaricare il telecomando era ricorso ad una scarica di fulmini e l’aveva ridotto in poltiglia. Non faceva troppo affidamento sulle sue capacità mentali, per quanto fosse l’unico abbastanza impregnato di mitologia e altre stronzate simili da essere un annegato che cammina. Anche Natasha aveva trovato un senso alle parole sconclusionate che quella donnaccia con la cornucopia gli aveva lasciato e com’è che gli aveva detto lei una volta? Fallaces sunt rerum species o qualcosa del genere.
Accidenti al latino, Pepper aveva detto che era una lingua morta, no? E se nessuno, Agente Romanoff a parte, non la parlava più, allora perché non lo lasciava in pace? Latino, greco, divinità dell’Olimpo, gente pia e altra robaccia della stessa risma, perché, maledizione, non lo lasciavano ad affrontare il lutto nell’unico modo che conosceva? Aveva ancora del rhum nella riserva, doveva solo cercare con attenzione…
Afferrò un cacciavite posato lasciato di traverso sulla scrivania e cominciò a farlo roteare tra i palmi, a passarlo da una mano all’altra, a punzecchiarsi il dorso mentre si umettava le labbra e sospirava e respirava piano e cercava di allontanarsi da se stesso una volta per tutte.
-Sai, dovresti essere qui a dirmi che Per l’amor del cielo, Tony, l’alcool non è la soluzione- scrollò le spalle –Dovresti essere qui a sequestrarmi ogni bicchiere e ogni bottiglia. Dovresti essere qui a ricordarmi ancora una volta perché non posso buttarmi via.
Chiuse gli occhi. Deglutì.
Sbatté le palpebre un paio di volte, prima raggiungere il corpo di Rogers: lo sovrastò e tese una mano a sistemare i capelli biondi, di modo che non gli coprissero la fronte.
-Ti riporterò indietro, Steve. Non so se è una follia, se sia vero o solo immaginazione come pensa Capitan Harlock lassù, ma ti riporterò indietro. Ah, nota per il futuro: non credo affatto alla formula Finché morte non ci separi.
Un trillo ed un singulto d’aria compressa lo avvertirono che qualcuno era appena entrato, ovviamente non invitato, nel laboratorio. Stark si voltò, trovandosi faccia a faccia col grugno ben poco promettente dell’Agente Barton.
Clint socchiuse gli occhi, ma non disse una parola. Lo sguardo scivolò oltre, soffermandosi sulla salma del Capitano; un accenno di pentimento, di commozione, di qualcosa gli macchiò le iridi e gli contrasse la bocca.
-Tu va’ a fare quello che va fatto nell’Oltretomba, della terra dei vivi se ne occuperà lo S.H.I.E.L.D.-
-Fantastico- commentò Tony, sarcastico -A proposito, Barton- indurì la mascella e chiuse una mano a pugno -Cos’era quella battuta sulle relazioni tra colleghi?
Barton sogghignò, ma non c’era divertimento, né cattiveria ad avvelenargli la bocca: sembrava piuttosto un modo come un’altra per dare una parvenza di vita ad un volto che non conosceva più espressioni da troppo tempo.
-Io vedo tutto, Stark, quello che è reale e quello che non lo è. La cosa potrà anche risultarti parecchio indigesta, ma sei prevedibile. Più prevedibile di quanto tu sia disposto ad ammettere.

 

***

 

Il Dipartimento L.M.D. era un ricettacolo di stranezze e inusitato folklorismo, a partire da colei che lo dirigeva con pugno ferro: l’Agente Salmace Attis -All’anagrafe di Cipro, Stéphanos Agdistis.
L’Agente non aveva mai compreso il perché del soprannome “Gran Madre Cibele” che circolava all’interno dell’Helicar o del Quartier Generale quando si toccava l’argomento Life Model Decoy, ma nel vedersela arrivare davanti a grandi falcate, le labbra premute tra loro, la mascella serrata e prominente, la carnagione olivastra illividita e le narici dilatate per l’irritazione, allora…Bhè, allora capì esattamente perché gli Agenti che dovevano presentarsi al suo cospetto senza preavviso temevano di finire sbranati da un leone.
-Agente Attis…-
-Vedo che il modello ha funzionato a dovere- tagliò corto, squadrandolo accigliata da capo a piedi.
-Si può dire che mi abbia salvato la vita, sì-
-Cosa vuole Fury?-
A disagio, l’Agente si schiarì la voce.
L’atrio si era svuotato in men che non si dica ed era ovvio che in caso di assalto nessuno gli sarebbe corso in aiuto. Poteva ricorrere al taser, è vero, ma dubitava avrebbe funzionato: si vociferava che durante le cure ormonali per la transizione, Gran Madre Cibele si fosse iniettata in vena anche dei micro rinforzi cellulari al vibranio.
Cosa fossero i micro rinforzi cellulari al vibranio non era dato saperlo, ma secondo le comari della mensa –Tutti diventavano delle comari alla mensa, forse era colpa della zuppa di pomodoro, il nome era parecchio scientifico e quindi indiscutibilmente plausibile.
-Abbiamo bisogno di un Life Model Decoy. Per domani mattina.
Silenzio. Il mento di Attis tremolava e i denti, stretti stretti tra loro, scricchiolavano in maniera poco piacevole. Quello poteva essere classificato senza ombra di dubbio come pessimo segno di livello cinque.
Salmace Attis era a capo del Dipartimento L.M.D. per un motivo ben preciso: i suoi Life Model Decoy erano i migliori sul mercato
Era ancora un ragazzetto che girava scalzo per le vie di Cipro quando aveva scoperto l’amore per i modellini, o almeno così mormoravano le leggende a riguardo: di Attis si sapeva solo quanto Attis voleva si sapesse, e ciò includeva disastrosi tentativi da parte dei suoi genitori di tenerlo sulla via degli aeroplanini e  trenini, salvo poi arrendersi alla creta, das, fimo, qualunque cosa gli permettesse di creare riproduzione di corpi umani al limite della perfezione.
Ma erano immobili, inutili e nella sua testa pesavano le ombre dei racconti di Asimov, i cervelli positronici e gli androidi di Dick, che sognassero pecore e elettriche o meno.
Divorato dall’idea sempre più fissa e ossessiva di dare vita al suo Moderno Prometeo, Stéphanos aveva fatto proprie più nozioni scientifiche e fisiche possibili, raggiungendo risultati inaspettati e tanto all’avanguardia da essere sottoposti immediatamente all’attenzione dello S.H.I.E.L.D.
Entrata quindi a far parte dell’Organizzazione col nome di Salmace Attis, dotata delle più avanzate tecnologie e affiancata dai migliori scienziati allora in circolazione, non era passato molto tempo che già i suoi modelli avevano cominciato ad essere parte integrante della vita di ogni Agente.
A cinquant’anni, seppur supposti e mai verificati, Attis dirigeva il distaccamento e gli uffici satellite, teneva sotto controllo i laboratori, collaudava i nuovi sistemi di persona e sempre di persona studiava, teorizzava, elaborava costantemente ulteriori migliorie.
Pur con tutto questo alle spalle, con tutta la bravura e la tecnica e i mezzi a disposizione, però, l’Agente sapeva quanto lungo fosse un processo completo di costruzione e quanto fosse impensabile richiedere un L.M.D. per il giorno seguente. Ma gli ordini erano ordini e persino una persona col caratteraccio di Salmace “Gran Madre Cibele” Attis doveva chinare la testa.
-Agente, sa che è impossibile-
-Ne sono consapevole, ma il Direttore ha ordinato priorità assoluta-
Attis incassò la testa tra le spalle ampie, storcendo la bocca per il fastidio; scostò un ricciolo nero cascatole sulla fronte e dall’espressione seria l’Agente potè constatare compiaciuto che si era messa mentalmente al lavoro.
-Se può esserle di aiuto, si tratterà di lavorare solo con un po’ di fimo, come ai vecchi tempi.
Un sorriso perplesso, ma pur sempre un sorriso, le sorvolò le labbra; portò due dita alla trasmittente che teneva nell’orecchio e premette i polpastrelli sul sensore per attivarla.
-Sono Attis. Voglio gli Agenti Simon, Kirby, Ryal e Rough Stone nel Laboratorio T.C. in non più di tre minuti, strumenti alla mano e bozza del L.M.D. Sentinel of Liberty pronto per essere messo in opera- lanciò un’occhiata all’Agente e questi non si lasciò sfuggire l’occasione di chiedere ancora una cosa.
 -Il Life Model Decoy di Tony Stark è compreso nell’offerta o è a parte?-
Nick Fury aveva preventivato molte cose: tra queste, la sicurezza che la mancata presenza di Stark alla cerimonia funebre del Capitano avrebbe sollevato più di una domanda, portato a più di un’inchiesta. L’Agente non recriminava al Direttore la poca fiducia nei confronti della missione. Aveva giocato con la morte una volta, in fondo, ma non si era trattato di uno scontro ad armi pari.
Attis scosse il capo con finta rassegnazione e non ci fu bisogno di altre risposte: aveva capito fin nel minimo dettaglio quale fosse il compito richiestole.
-Agenti Lee, Lieber, Heck, Elric e Formigine al Laboratorio M.C. Due minuti, niente pausa per il caffè, ci sarà da lavorare parecchio: progetto L.M.D. Tales of Suspense.
Sebbene la situazione fosse tutt’altro che conclusa, l’Agente si permise un sospiro di sollievo: Salmace Attis aveva formalmente accettato l’incarico.
Restava solo un’ultima questione da affrontare.

 

***

 

Natasha si chinò sulla mappa digitale e le bastò toccare un punto perché esso venisse evidenziato con un palpitare cremisi. Raddrizzò la schiena, le braccia incrociate al seno e la testa piegata di lato; la bocca si inclinò pericolosamente verso il basso mentre toccava la superficie azzurra della cartina in corrispondenza di Dion-Olympos, nella pianura della Pieria.
-Hai già trovato i luoghi che ci interessano?
Vedova Nera annuì, girandosi quel tanto che bastava per mostrare il profilo al Dottor Banner; questi emerse cauto nella penombra della stanza vuota e sistemò gli occhiali sul naso.
-Vathy, capoluogo dell’isola di Itaca- la donna sfiorò uno dei segnacoli luminosi ed esso emerse direttamente dalla mappa, creando in una visione tridimensionale della zona –Cuma, in Campania- altra riproduzione in elevato –Dion, in Grecia. Rispettivamente i luoghi in cui dovremmo trovare Odisseo, Enea e Orfeo-
-Non ne sembri molto sicura.
Bruce la guardò con un quieto sorriso da dietro le lenti rettangolari e Natasha preferì non ribattere: diede invece una lunga, pensosa occhiata alla cartina, chiedendosi ancora una volta per quale assurdo motivo avesse accondisceso alla follia di Stark e si fosse proposta volontaria per la missione.
-Neanche io lo sono.
Alzò gli occhi su di lui e Banner si schiarì la voce, togliendosi gli occhiali e facendoli oscillare tra il pollice e l’indice della mano destra.
-Non staremo inseguendo una chimera?-
-Hai sentito anche tu le parole di Thor: gli Dei dell’Olimpo sono veri come veri sono gli abitanti di Asgard- replicò lei passando il palmo sulla mappa e appiattendo Vathy, Cuma e Dion –Forse dobbiamo solo abituarci all’idea-
-O forse dovremmo lasciar perdere. Stiamo parlando di scendere nell’Ade, Natasha, di riportare in vita i morti.
Ancora una volta, l’Agente Romanoff si rifugiò nel silenzio.
Avevano avuto a che fare con divinità in grado di controllare il cuore di un uomo col solo ausilio di uno scettro, con portali ed eserciti di mostri, Ponti dell’Arcobaleno e Distruttori –Clint aveva passato ore a narrarle quella storia al limite dell’incredibile, gli occhi sbarrati e le fiamme ad avvolgergli le iridi congelate dal panico.
E Bruce, poi…L’immagine di lui che si portava una pistola alla bocca e sputava la pallottola perché l’Altro non era dell’idea di porre fine alla vita di entrambi, certo non l’avrebbe lasciata sola tanto presto. L’Altro che la inseguiva lungo l’intrico di tubature dell’Helicar non interrompeva la sua corsa nemmeno nel sonno.
-Stark andrà ad Itaca per cercare Odisseo. Io e lei partiremo subito dopo alla volta di Dion-Olympos: in caso non Orfeo non sia lì,  Tony è convinto che sarà lo stesso Odisseo a darci informazioni in merito e allora agiremo di conseguenza.
“Salvo inconvenienti, il punto di ritrovo è a Cuma. Dopodomani.

 

***

 

L’Agente uscì con in mano un cartone del ristorante giapponese.
Il vecchio Watanabe non era solito confezionare cibo da asporto, ma c’erano situazioni e situazioni: quella, in particolare, aveva un grado di urgenza tale che un po’ di sashimi e dei gamberi in pastella erano un strappo alla regola sopportabile.
La notizia della morte di Capitan America gli era arrivata mentre cercava di passare incolume tra due guardie del sovrano di Wakanda e così, quando Fury lo aveva chiamato, sapeva già quale sarebbe stato il suo destino. In Africa lasciava i propri sottoposti nelle ottime mani dell’Agente Carter, perciò non era per loro che si preoccupava: ritornare a Manhattan dopo un anno che ne era mancato era un evento che non si sentiva pronto ad affrontare. Oltretutto, sapeva che il Direttore aveva taciuto ogni cosa riguardo la propria, connivente “scappatella”, il che rendeva le cose ancora più difficili.
Se la tragedia al Madison Square Garden non fosse mai avvenuta, forse ci sarebbe stata la possibilità di avvicinarsi pian piano al momento della riconciliazione, forse si sarebbe potuto sperare ad un ritorno in grande stile che non presupponesse una più che mai meritata freccia conficcata nella giugulare. Ma i “forse” allo S.H.I.E.L.D. non esistevano, esistevano le missioni e gli ordini e le motivazioni e i facilmente sacrificabili L.M.D.
L’aggiunta di un finto apparato sanguigno, dotato di arterie, vene e capillari era stato un accorgimento per cui l’Agente non avrebbe mai ringraziato Attis abbastanza.
L’unica cosa, non diciamo sciocchezze, una delle tante cose per cui provava rancore e rimorso era sapere che a livello puramente economico, la collezione aveva subito un calo incredibile –E sì che aveva fin chiesto a Fury di non esagerare, ma tant’è. Se si doveva essere credibili, bisognava esserlo fino in fondo, valore affettivo e valore vintage non erano variabili contemplate nell’equazione.
Una disdetta, davvero.
Un taxi lo superò scatarrando e l’Agente alzò la testa al tramonto che bagnava Manhattan: da qualche parte, sopra i tetti, l’Helicar ronzava silenzioso e i mille occhi dello S.H.I.E.L.D. erano puntati ognuno su un punto diverso del globo. Ma c’era un unico sguardo che gli interessava davvero, e l’Agente si chiese per quale motivo stesse tardando tanto a palesarsi.
Molto probabilmente stava ancora cercando di digerire la notizia, oppure di calmarsi e non ficcare una cuspide esplosiva nell’occhio ancora buono di Fury. L’ipotesi che non volesse più avere alcun contatto con lui l’aveva scartata a priori, non tanto per orgoglio o supponenza, piuttosto perché conosceva bene il carattere dell’altro e ancora meglio la sua testardaggine: in anni di missioni insieme aveva imparato su di lui molto più della posizione preferita per riposare o il motivetto mormorato a mezza bocca mentre puliva gli inserti dell’arco.
Il pigolio del telefono cellulare fu un’ulteriore conferma e una sorta di piccola vittoria.
-Mi hanno detto che lavoreremo di nuovo insieme, signore- la voce dell’Agente Barton fremeva di rabbia e più tentava di mantenerla sotto controllo, più l’ira pizzicava ogni singola sillaba –Sarà l’occasione perfetta per parlare di alcune questioni lasciate in sospeso un anno fa, non crede?
Phil Coulson sorrise.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#03. Il Sakè del Tanuki

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

  •   Lo S.W.O.R.D. (Sentient World Observation and Response Department) è l’agenzia di intelligence il cui scopo è affrontare le minacce extraterrestri in funzione della sicurezza mondiale. A tenerne le fila è l’Agente Abigail Brand.
  • Mace Windu: riferimento al ruolo interpretato da Samuel L. Jackson nella trilogia recente di Star Wars.
  • Il fatto che il Dipartimento L.M.D. (Life Model Decoy) si trovi nei sotterranei di un ristorante giapponese è una doppia citazione: a Captain America – Il Primo Vendicatore (dove il laboratorio in cui Steve si sottopone all’esperimento del Supersoldato si trova in un negozio di antiquariato) e allo S.H.I.E.L.D. vero e proprio, la cui entrata (nel Comicverse o comunque come si vede in The Avengers: Earth’s Mightiest Heroes ) è camuffata per sembrare la semplice bottega di un barbiere.
  •   Il Tanuki sono creature della mitologia giapponese, maestri del travestimento e mutaforma. Che simbolo migliore per il Dipartimento L.M.D.? ;D (Ho creato lo Aritomo Watanabe, col suo crogiuolo eclettico e indefinito, perché ricordasse in tutto e per tutto un Tanuki E’ pazza. Spero di esserci riuscita!)
  • Ulysses KlawT’Chaka: riferimenti al personaggio di T’Challa, alias Pantera Nera.
    Wakanda
    è l’immaginaria regione dell’Africa Settentrionale in cui si estrae e si lavora il vibranio; Latveria è lo Stato su cui il Dottor Destino governa quale monarca.
  • Vedo quel che è reale e quello che non lo è”, Clint Barton Ultimate.
  •   L’Agente Leland è ormai comparsa in più di una mia storia ed è l’Agente della sezione di Sostegno/Supporto dello S.H.I.E.L.D. che si occupa del recupero psicologico di Steve Rogers. L’Agente Elric, l’Agente Rough Stone e l’Agente Formigine sono invece una piccola citazione a delle splendide signorine con cui si ruola allegramente su Faccialibro.
    Joan Lee
    , invece, è il nome della moglie di Stan Lee.
  • L’Agente Salmace Attis è un OC che è nato da solo mentre stavo scrivendo questo capitolo E io la amo profondamente. MtF, il nome Stéphanos deriva dal sostantivo greco stéphanos, 'corona', che per la sua forma circolare aveva il significato religioso di perfezione della natura divina. Nell'antica Grecia lo stephanéforos, 'colui che porta la corona', era il sacerdote intermediario tra gli uomini e gli dei, addetto al culto delle divinità e 'portatore di regalità'. (Da QUI), Agdistis è il nome di un ermafrodito della mitologia greca.
    Salmace
    è il nome della ninfa che rifiutò l’obbligo di verginità impostole da Diana per unirsi al dio Ermafrodito (Da QUI), Attis è il giovane che, preso dall’euforia, si evirò per partecipare al culto della Gran Madre Cibele (Catullo, Carme 63. Ad esso fa riferimento anche la figura del leone, che Cibele ha mandato contro Attis quando questi, risvegliatosi dall’estasi, ha reso palese il proprio pentimento per l’essersi evirato)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

E’ tornato, è tornato!! *La sedano* Orbene, questo capitolo non riuscivo proprio a scriverlo. E infattiè uscito fuori di nove pagine FUUUUUUUUUUUUUUUUUUU. D’AAAAACCCCOOOOOORDO. Ormai non mi stupisco nemmeno più. Liberatevi di me, prima che sia troppo tardi.



PERO’ E’ TORNATO, E’ TORNATO! E’ TORNATO! Va bene la smetto
L’ipotesi di Tony sarà giusta o c’è qualcosa di ben più losco sotto? MUWAHAHAHAHAHA A voi l’ardua sentenza e i lambiccamenti mentali! *Si sente una brutta persona*
Ho lasciato qua e là citazioni varie e variegate perché sono una persona orribile, tipo a Civil War, vecchi titoli, citazioni ad altri film di Iron Man (come la citazione di Natasha, a sua volta da una sententia di Seneca), etc etc.
Con questo capitolo si conclude la parte introduttiva della storia: dal prossimo si viaggia, gente!
Ringrazio quella mia santa moglissima (?) della Alley e Hikari_ (Grazie per avermi fatto notare l’errore dei puntini! Maledetti stronzi affarini, spero che questa volta non me ne sia sfuggito nessuno!) per aver recensito!
Ringrazio inoltre Shi_Tsu_Geass per averla inserita tra le preferite e Black Air e Sharel per averla messa tra le seguite!
Alla prossima!

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Capitolo 5
*** #04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge ***


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Fu allora che Steve aprì gli occhi.
Si rialzò di scatto e ricadde all’indietro, scoprendo con sommo stupore di essere già in piedi. Gli occhi guizzarono da una parte all’altra e l’istinto del soldato prese il sopravvento sui tentacoli di panico che minacciavano di arroventargli lo stomaco. Per prima cosa, capire dove fosse finito. Quindi elaborare una strategia basandosi sull’ambiente circostante –Luoghi sopraelevati per una visione d’insieme, postazioni riparate dove nascondersi in caso di pericolo, indizi che lo aiutassero a costruire una mappa mentale, anche incompleta, anche grossolana, del posto.
Il fiato gli mancò nei polmoni.
Pur con l’esperienza accumulata durante la Guerra, pur dopo essere rimasto intrappolato settant’anni dentro un blocco di ghiaccio, pur avendo affrontato Loki e il suo esercito di Chitauri, il Capitano fu costretto ad ammettere di non avere la benché minima idea di dove si trovasse, né in che anno e soprattutto in che mondo.
Davanti, attorno, sotto di lui un’uniformità tanto grigia da sembrare solida: dava l’impressione di un cubo delimitato da spesse pareti metalliche, ma appena Steve socchiudeva le palpebre alla ricerca di un particolare in più, ecco che l’orizzonte si curvava e il soffitto lo sormontava come una cupola o l’abside di una chiesa. Non c’era nulla a sostenere la volta, non colonne o trabeazioni di alcun genere e forse nemmeno si trattava di una vera e propria volta, forse neanche di un vero e proprio soffitto. L’idea stessa di una delimitazione era illogica, quando il pavimento, o il terreno o in qualunque modo lo si volesse chiamare, si estendeva per miglia oltre lo sguardo e s’innalzava improvvisamente, staccando dal grigiore opprimente una corona di merli e cuspidi.
Un mondo di eterna fissità in continuo divenire.
Avanzare gli parve l’unica soluzione appetibile, salvo poi accorgersi di come non fosse lui a muoversi, ma l’intorno a balzagli addosso. D’un tratto non c’erano più né il sopra, né il sotto, nemmeno erano mai esistiti se non come preconcetti della propria mente: destra, sinistra, secondi e minuti, qualsiasi qualificazione e quantificazione si dimostrava vana in un luogo che sembrava trascendere ogni tentativo di modellarla al volere umano.
Camminò, camminò e camminò ancora. Grigio, sempre grigio, solo grigio.
Steve aveva la nausea. O meglio, sapeva di dover provare un senso di nausea. Anzi, sapeva di dover sentire e basta.
Un tremito, una lieve vertigine, un cerchio alla testa…Nulla. Cominciava persino a non avere più una percezione completa di sè, doveva concentrarsi per ricordare di possedere muscoli, nervi, ossa e sangue. Doveva accorgersi di esistere, il che non era normale: si esisteva e basta, di solito.
Il malore al Madison Square Garden era stato più forte del previsto se l’aveva condotto ad un simile stato confusionale –Perché altro non poteva essere, giusto?
Non che ricordasse con esattezza cosa fosse successo: le immagini si liquefacevano e scolorivano, diventavano grigie, piatte, si confondevano l’un l’altra, perdevano la voce, non avevano odori, nessun confine temporale. Per un attimo aveva sin pensato che a spedirlo in quel luogo fosse stato Loki, ma la minaccia di Loki risaliva ad un anno prima ed era impossibile che il Dio fosse presente allo spettacolo.
Confusione, spaesamento, probabili allucinazioni…Forse era sotto anestesia o forse avevano dovuto riempirlo di una dose più che massiccia di antidolorifici per scavalcare gli effetti del Siero. No, era un’opzione da scartare a priori: antidolorifici e anestesia con lui non funzionavano, non importavano i cc iniettati.
Una volta un membro dell’A.I.M. gli aveva piantato una pallottola nello stomaco e Tony aveva dovuto operarlo da cosciente; i ferri di J.A.R.V.I.S. dentro la carne non erano stati piacevoli e non si era morso la lingua solo grazie al tubo che Stark gli aveva piazzato malamente tra le mandibole.
Se era stato Tony ad operarlo, adesso ne stava dubitando.
Forse si era sbagliato e il proiettile lo aveva estratto un normale chirurgo. Però ricordava gli occhi del figlio di Howard: il terrore, l’angoscia, il sollievo, ma aveva mai indossato un camicie verde? E un membro dell’A.I.M. gli aveva mai davvero sparato o stava solo sovrapponendo alla memoria un episodio di C.S.I.?
Si portò una mano alla fronte, o almeno ebbe l’impressione di averlo fatto, perché sotto le dita non avvertì nulla, neanche la consistenza delle dita, né delle falangi, delle nocche e del polso, non avvertiva la consistenza di alcuna parte del corpo. Fu sul punto di trattenere il fiato, ma si accorse con orrore di non saper più come fare.
«E’ destabilizzante la prima volta che si arriva, lo so. Non ti preoccupare, ti ci abituerai presto»
La voce era rimbalzata da una parete all’altra, tracciando unghiate fumose su quello che il Capitano aveva arbitrariamente deciso di considerare “intonaco”; crepe e polvere insozzarono il terreno e s’accumularono un po’ ovunque, agglomerati nerastri come orbite d’un teschio brillarono livide un istante e l’attimo dopo erano già sparite, inghiottite da un borbottio informe.
«Dove sono?» Steve la domanda l’aveva solo pensata, ma le parole gli colarono lo stesso dalle labbra e da lì penzolarono indecise prima di prendere una forma effettiva, pallide viscere tra sterpaglie purulente. Si girò, ma si accorse che il Grigio aveva di nuovo voltato la faccia per lui.
«Sei tornato a casa: sei mancato più a lungo di quanto ti fosse lecito»
Il mantello svolazzò bianco sulle spalle e le ali che cingevano le tempie ebbero un fremito, causando un bagliore biondo sui capelli trattenuti dalla fascia scarlatta.
Il Capitano non aveva mai visto un Dio Greco, ma la figura che gli stava davanti aveva troppe rassomiglianze con le statue dei volumi d’arte della New York Public Library, perché le potesse ignorare deliberatamente.
Non c’era luce in quel luogo, ma Steve colse comunque il barbaglio bronzeo dei bracciali, la fibula rossa che tracciava linee d’ombra sul torace scoperto, mentre il gonnellino purpureo si piegava indolente contro le cosce, la cintura d’argento e l’orlo candido che palpitavano ad ogni passo dei sandali alati.
Capitan America fece il gesto di prendere lo scudo dalle cinghie che lo trattenevano alla schiena, ma non c’era più uno scudo cui aggrapparsi e non c’era nemmeno una schiena.
«Perdona il ritardo, mortale, ma nemmeno un Dio si negherebbe al desiderio di Venere. Io sono Ermete il Messaggero, figlio di Giove, Padre degli Olimpici»
Ermete tracciò una linea dritta con l’indice ed il medio tesi, lasciando un solco nero nello spazio: dai bordi slabbrati si srotolarono due serpenti che, sibilando, strisciarono e s’avvoltolarono attorno a quello che era divenuto un bastone vero e proprio, cesellato come il guscio di una tartaruga.
«Sono qui per te, Steven Rogers…» continuò, afferrando il caduceo. Lo osservò per lunghi istanti, quindi drizzò gli occhi verso di lui e Steve percepì chiaramente il poco sangue che ancora aveva nelle vene mutarsi in fumo.
Ma non ebbe paura.
Ogni terrore, ogni diffidenza e ogni dubbio si erano ritratti, rimpiccioliti fino a svanire: provava solo una gran spossatezza nel corpo, una quieta leggerezza nell’animo. Non sapeva se fosse sogno o meno l’uomo che aveva dinanzi, ma ne accettò la venuta, come un amico perso da lungo tempo, da tarda memoria atteso.
In qualunque luogo si trovasse, in qualunque tempo, sentiva che era giusto: doveva essere lì e da nessun’altra parte.
Ermete annuì, quasi avesse scorto i suoi pensieri, quindi girò il caduceo tra le dita e lo conficcò a terra con un lampo: s’udì attraverso il grigiore dell’etere un canto come di gallo e l’ambiente tremolò e si svegliò con esso. Un vibrare convulso di nebbia e poi lo scoppio.
Si dileguò il grigio in gemiti silenziosi, colò il non-essere dalle pareti curve e dai merli e dalle cuspidi, si sbriciolò l’abside, crollò la volta; spuntoni di roccia emersero affilati agli angoli della vista, speroni e denti lividi squarciarono la terra, pigolii di pietrisco tintinnarono l’un con l’altro nel depositarsi a disegnare uno stretto sentieri. Un ventre cavo nella pietra, caverna colma solo del costante filare di fuso, miasmi dall’imboccatura oltre le spalle di Ermete, un ingoiatoio ribollente che scendeva ed affondava, là, ben oltre l’umano.
Steve chiuse gli occhi e quando li riaprì si vide circondato di teschi candidi, tutti uguali, nessuno diverso: costeggiavano la via, non avevano espressione, guardavano fissi e tacevano. In un lontano non collocabile, il suono di uno scafo che fende l’acqua, spumeggiare di onde, le nenia di un fiume.
Il Dio Messaggero si affiancò al Capitano e gli mise una mano sulla spalla. Col caduceo indicò l’entrata nera e fuligginosa.
«…Sono qui, per condurti alla Dimora dell’Ade»

 

 

 

***

Jane avrebbe amato Asgard.
Le alte colonne del Palazzo, lame d’oro a sbalzo contro l’azzurro del cielo infinito, il mare dalle onde di nembi candidi e scintillanti tempeste di spuma, le rocche e le dimore dei guerrieri, gli archi bronzei sotto cui sostavano giovani e fanciulle, le risa che s’innalzavano in un tripudio di canti attraverso la maestosa Galleria delle Statue! I suoi dolci occhi si sarebbero abbeverati allo splendore di sguardi antichi quanto il mondo, l’udito colmo di voci di Dei e di Spiriti, di Vento e di Sole, la snella figura vestita di tessuti mai visti, impalpabili al tatto come brezza.
Thor diede di speroni e il sauro piegò il collo possente, la criniera un riflesso candido tra le dita.
L’avrebbe portata con sé, un giorno. Frigga avrebbe sorriso e le avrebbe teso una mano prima di posarle sulla fronte una corona di gemme e foglie d’argento; Lady Sif le avrebbe donato un cinturone da allacciarsi alla vita durante le cavalcate lungo il filo scarlatto del tramonto, una giubba di cuoio per stringersi al freddo della caccia, schinieri e spallacci di metallo smaltato per difendersi in un assalto d’allenamento -Perché, Thor ne era sicuro, Sif avrebbe amato Jane come una sorella, le avrebbe insegnato l’arte della spada, la danza dell’affondo e la preghiera del metallo-; Hogun le avrebbe concesso le sue poche, ma rare e preziose parole, l’espressione cupa un lontano ricordo al bagliore stellato degli occhi di lei; Fandral avrebbe zittito con la spada chiunque avesse insinuato qualcosa sul suo sangue mortale, e Volstagg l’avrebbe fatta sedere accanto a sé alla mensa di Odino, le avrebbe offerto idromele e cinghiale salato, onorato i suoi avi con larghe sorsate da un boccale intarsiato.
E Jane sarebbe stata sua fino ai giorni del Ragnarök ed anche oltre, perché senza di lei non avrebbe saputo immaginare nemmeno la Fine di Tutto. Vita o morte, le sarebbe stato accanto, sotto le volte del Palazzo o al riverbero degli scudi del Valhalla.
Ma i tempi non erano maturi, altre faccende richiedevano di essere risolte.
Thor aumentò l’andatura, gli zoccoli del cavallo che schioccavano veloci contro il sentiero opalescente che una volta era stato l’unica via per il Bifrost: il ponte dell’Arcobaleno ancora non era stato ricostruito, ma Heimdall continuava la sua veglia e certo aveva visto il suo arrivo prima di chiunque altro.  Il figlio di Odino si ripromise di andare a porgergli il proprio saluto non appena avesse discusso col Padre degli Dei e il Signore degli Olimpici.
Il corvo messaggero che lo aveva preceduto attraverso l’etere era scomparso e Thor corrugò la fronte. La perplessità divenne maggiore quando, arrivato alle scuderie antistanti il Palazzo, non trovò nessuno ad accoglierlo: i giardini erano vuoti, le acque silenziose, nessuna guardia od ancella alcuna. Il Dio smontò da cavallo e l’animale ebbe un moto di spavento, nitrì e recalcitrò fino a che il figlio di Odino non riuscì a calmarlo con una carezza e qualche sussurro; un brivido gli colò freddo per la colonna vertebrale, un rivolo di vento sogghignò tra gli stendardi color bronzo.
«Allora è vero…» sussurrò penosa una voce tra i rami scheletrici «Sei tornato ad Asgard»
Thor si girò di scatto e per un unico, folle attimo scambiò l’ombra sottile che scivolava verso di lui per la figura di Loki. Ma non fu l’amato fratello ad avvicinarsi, bensì una donna dal volto addolorato, i capelli biondi lasciati cadere sulle spalle, vestita di verde dal busto alla gonna a lamelle, dai bracciali che la coprivano sino al gomito alla tiara a guisa d’aquila che teneva alte le ciocche e le incorniciava le tempie.
«Incantatrice» esalò il figlio di Odino, stupito e finanche confuso «Amora!»
Lei gli fu accanto con pochi, aggraziati passi e solo allora Thor s’accorse del corvo stretto tra le unghie scarlatte. Il Dio corrugò la fronte e schiuse le labbra a domandarle il perché di un tale gesto; Amora serrò nervosamente la presa: l’uccello gracchiò tra le sue dita, tentò di liberarsi, sbatté le ali, roteò singhiozzando gli occhi impazziti.
«Non saresti dovuto venire, Thor, figlio di Odino» rispose l’Incantatrice, con voce rotta «Allora è vero, è vero! Non facezie di ancelle e serve! Thor, mio amato, ti prego! Ascolta la mia preghiera, torna a Midgard!»
Il Dio socchiuse gli occhi, diffidando del suo tono tanto appassionato.
«Cosa è vero? Cosa sai? Perché dovrei tornare indietro?»
«So tutto, figlio di Odino. So del guerriero tuo amico, del suo coraggio e della lealtà nei tuoi confronti. So quanto tenevi a lui e quanto la sua morte t’abbia arrecato dolore. So che sei venuto qui per chiedere udienza al Padre degli Dei, ma so anche del tuo duplice scopo: il guerriero e Loki, il fratello che ti è ancora così caro»
«Le mie azioni sono dunque tanto prevedibili?» Thor si permise di atteggiare il volto ad un sorriso sardonico e Amora scosse il capo, un bagliore disperato a tingerle l’iride.
«Il tuo cuore lo è, amore mio. Per questo ti dico: torna a Midgard. Ora, prima che sia troppo tardi»
«Troppo tardi per cosa…?»
La donna si umettò le belle labbra e alzò gli occhi tristi.
«Dacché ad Asgard si è diffusa la notizia della tua perdita, ho scrutato il cielo in attesa di questo messaggio» sollevò appena il corvo e l’animale provò un ultimo, disperato tentativo di levarsi in volo «Sapevo che saresti tornato, lo sapevamo tutti: così ho atteso. Per fermarti, amore mio, per salvarti in nome dell’affetto che provo per te…»
«Amora…» Thor cercò di dire qualcosa, ma l’Incantatrice lo fermò con un’occhiata gelida, d’improvviso furiosa.
«Lo so. La mortale» sputò quel nome come fosse il più terribile dei veleni «La midgardiana che ti ha rubato il cuore, come dimenticare? Ma come non si può impedire all’acqua di scorrere, nemmeno Padre Odino potrebbe impedirmi di amarti. Dunque fa’ silenzio e prendi di coscienza di quanto sia disperato il mio sentimento per te, se sono giunta a contrastare persino il Signore di Asgard» assottigliò lo sguardo, la voce ridotta ad un sussurro «La perdita di Loki lo ha sconvolto nel profondo, la sua mente ne è stata intaccata e ora è cieco anche nell’animo: ha contato i giorni della sua pena lacrima dopo lacrima, gemito dopo gemito, e a nulla è valso l’amore di tua Madre Frigga, non è rinsavito. Bada bene, ciò che ti dico si mormora appena nelle stanze del Palazzo, è proibito parlarne, e se io sono qui a riferirtelo è grazie all’amicizia che ancora lega Lady Sif e i Tre Guerrieri alla tua persona»
Thor era confuso.
Non aveva avuto sentore di tutto quello, il quadro che Amora stava dipingendo per lui mai gli era apparso alla vista: non era così stolto ed insensibile da pensare che Padre non avrebbe sofferto alla perdita di Loki, ma un simile regime di silenzio e paura, di intrighi, sembravano voler dire le parole non pronunciate, quando…? Quando Asgard era diventata un’alcova di timore e terrore?
«Non capisco»
L’Incantatrice gli fece cenno di avvicinarsi, quindi continuò.
«Mentre discorriamo, i tuoi compagni stanno volgendo altrove l’attenzione di Odino. Tuo Padre sapeva che saresti venuto qui non appena il soffio della vita avesse lasciato il petto del guerriero, sapeva che avresti ricollegato a lui la morte del tuo…»
Il Dio levò un braccio, inorridito, il cuore fattosi muto e il respiro marcio dentro i polmoni.
«No! E’ dunque vero? Padre ha…?»
«Ordinato la morte del tuo compagno?» concluse la donna «Esattamente. Il Padre degli Olimpici ha interferito una volta di troppo negli affari di Asgard e Odino, offuscato dalla rabbia e dalla perdita, ha deciso di portar via loro quanto è di più caro a Giove, così come Giove gli ha portato via il figlio ed il senno. Ma per impedire un tuo intervento che ripristini l’Equilibrio che egli ha volutamente infranto quale sorta di rappresaglia, Odino ha ordinato la tua cattura»
«Non mentire, Incantatrice!» tuonò Thor e Mjolnir comparve con un crepitare di fulmini nella sua mano «Già una volta mi è fatto stato credere il falso sulle decisioni del Padre degli Dei! Non accadrà ancora!»
Lo sguardo di Amora divenne affilato, le labbra si sollevarono a snudare i denti, le nocche sbiancarono contro le piume nere del corvo.
«Io non sono tuo fratello, Thor, non sono qui per ingannarti! Sono qui per aiutarti
«E come mai potresti fare, strega?» ringhiò e il Martello fremeva bollente tra le dita.
«Conducendoti dall’unica Divinità che potrebbe davvero darti udienza e ascolto. Fidati di me, Thor, amore mio, giacché non potrei in alcun modo ingannarti: non devi cercare l’aiuto del Padre, né quello di Giove –A meno che non sia tuo desiderio una nuova guerra tra Regni a parole legati da eterna alleanza»
Il figlio di Odino non rispose, il ricordo di Jotunheim –E di ciò che ne era seguito- una ferita ancora fresca nonostante il tempo e l’amore di Jane.
«E’ al cospetto del Signore degli Inferi che ti devi genuflettere, l’Ade è la meta che cerchi, l’ombra il sentiero che ti condurrà lì»
«Dimentichi che le porte del Regno Olimpico sono sotto lo stretto controllo di mio Padre, Incantatrice: due sole le guardie, mille occhi ed altrettante voci»
Un ghigno sibillino arcuò la bocca della donna e le unghie affondarono con un lampo rosso nel cuore piumato e ancora palpitante del corvo.
«E tu dimentichi, oh mio Principe, che molti sono i sentieri che conducono fuori da Asgard. E chi meglio dell’allieva di Karnilla, Regina delle Norne, potrebbe mai conoscere gli ingressi funebri celati finanche al Padre degli Dei?»

 

 

***

La vecchia allargò la bocca, in modo dargli una chiara visione delle tonsille oltre la fila di denti mancanti.
…Affascinante ribrezzo.
«No, signora, non ha capito» Tony fece per metterle le mani sulle spalle, ma ci ripensò quando vide un batuffolo di polvere salutarlo con un tentacolo unticcio «Le sono grato per avermi dato la possibilità di osservare da vicino le condizioni in cui versa la sua gola dopo svariati attacchi di reflusso laringo faringeo, ma non sono un dottore. Sono un genio e conosco un dottore: non è un medico a tutti gli effetti, ma se la cava piuttosto bene quando si tratta di risistemarti le costole in un seguito all’abbraccio particolarmente affettuoso di un conglomerato rabbioso di raggi gamma, ma---No, signora, molto gentile, non voglio il pesce, io vorrei---»
Nulla da fare. La vecchina col fazzoletto in testa ciancicò qualche parola in greco tra i moncherini gengivali e gli piazzò una cesta di vimini sotto il naso; Stark ritrasse la testa all’indietro, schifato dal lezzo che mandava quel residuato branchiato del Mesozoico –Il pesce, eh, non la vecchia.
«Lasci perdere, guardi. Molto gentile ancora»
Tony sventolò una mano nella direzione dell’affabile anziana ed esalò un sospiro frustato. Scese per la viuzza lastricata che si gettava a capofitto verso il porto, il sole pomeridiano che tagliava di traverso i tetti rossi delle case.
A Vathy le persone erano gentili, non lo negava, peccato che non capissero nulla di americano o, quando fingevano di capirlo, non gli davano alcuna informazione utile. Era stato mandato, nell’ordine: in una libreria, in una biblioteca sgangherata, in un negozio di tatuaggi e a…In un altro posto. Gli abitanti erano affabili, per carità, ogni tanto gli offrivano anche della feta o del latte di capra, e il posto di per sè era parecchio tranquillo, bello, decisamente non lo si poteva escludere da un itinerario vacanziero. Ma era da quella mattina che girava in lungo e in largo il paese senza trovare traccia alcuna della presenza di Odisseo.
E Odisseo era lì, Thor l’aveva giurato e spergiurato mille volte sulla memoria di qualche avo defunto. E poi c’erano i resoconti congiunti di S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D.: basandosi su una traccia biologica non meglio definita -Ma su cui Tony avrebbe speso ben più di una notte, conclusa la faccenda della Catabasi- emessa proprio del Dio Norreno, le teste d’uovo delle due organizzazioni erano risaliti ad una seconda traccia, accostabile alla sua e del tutto differente da quella di un qualsiasi essere umano.
Il che era in qualche modo rassicurante.
Preparandosi psicologicamente ad un nuovo tour per i vicoli, Tony sistemò gli occhiali da sole ed il cappellino con visiera –Odiava dover indossare abiti dismessi per confondersi tra i turisti, ma in quel caso preferiva evitare di essere fermato da qualcuno che voleva una foto con lui o proporgli il progetto per un rivoluzionario tostapane a fissione nucleare.
Anche se forse un’eccezione per la biondina in shorts alla bancarella dei souvenir poteva anche farla.
«Allora? Chi cerchi?»
Oh, dannazione. No. Non ancora lui.
Iron Man roteò gli occhi al cielo e fu solo grazie alla propria coscienza –Che aveva l’inquietante tono di voce di J.A.R.V.I.S.- che decise di non ricorrere all’armatura, trasformata per l’occasione in una valigia rosso e oro, sul modello usato a Monaco.
Bei tempi, quelli.
Tranne per Vanko, ovvio. E il palladio, non dimentichiamoci del palladio. Brutta questione. I cruciverba non gli erano mai stati simpatici, i tatuaggi pure, figurarsi ritrovarsi entrambi a stampo sulla pelle.
Una vera tragedia.
«Allora? Chi cerchi?»
Da quando era arrivato sull’isola quel mendicante mezzo zoppo non aveva smesso un istante di dargli la caccia e la cosa iniziava ad infastidirlo parecchio. Non lo aveva abbandonato un minuto, era come un’ombra: lo aveva seguito al porto e tra le barche, alla biblioteca e alla libreria, e ogni volta che Stark si fermava a riprendere fiato, ecco che lo assillava con probabilmente l’unica frase che sapeva pronunciare in inglese.
«Allora? Chi cerchi?»
«Senti, non ho spiccioli con me, per cui…sciò. Via. Va’ dove vuoi, tranne in un bar: conciato come sei protesti bere l’intera cantina e io avrò bisogno di rimpinguare la mia scorta personale di alcool in un lasso di tempo variabile dai cinque minuti alle sei ore e mezza»
Il mendico piegò la testa sulla spalla, il naso adunco incrostato di salsedine.
Un istante di silenzio e poi…
«Allora? Chi cerchi?»
Sembrava un disco rotto e Tony provava un particolare piacere nell’immaginare quella sua linguaccia pallida staccata di netto dal fedele Ferrovecchio –Anche se Ferrovecchio era un pezzo di ferraglia inutile, quindi sarebbe stata più plausibile una scena in cui il braccio meccanico agitava un po’ ovunque un estintore debitamente carico. Se il suddetto estintore fosse finito sulla testa del mendico, allora poteva anche aggiungere una stellina d’oro sulla graduatoria dell’utilità di Ferrovecchio. Graduatoria che versava ancora in uno stato imbarazzante e desolato e soprattutto vuoto.
«Allora? Chi cerchi?»
«Odisseo, il leggendario Re di Itaca, va bene?»
Non era così folle da credere che il cencioso stalker sapesse qualcosa a riguardo, ma a parte un raggio fotonico in pieno petto non gli veniva in mente altra soluzione per toglierselo dai piedi.
«Mh» il mendicante prolungò il suono tra le labbra pressate, le nocche nodose schiacciate sul cappellaccio conico. Strizzò le palpebre rugose e l’Mh che ancora gli risuonava dentro la gola prese a fargli tremolare le pieghe di carne molliccia sotto il mento.
Uno spettacolo che aspettava solo di essere cancellato con un sorso di buon whiskey.
«No! Odisseo, no!» saltò su, gli stracci che sbuffavano sulle braccia magre e le spalle –Stranamente ampie per uno scricciolo del genere- curve in avanti «Nessuno, sì! Nessuno»
Tony si massaggiò le tempie con le dita, quindi si girò di nuovo verso la vecchietta.
«Signora, è ancora valida l’offerta del pesce?»

 

 

***

 

Un ruggito di fiamme ed un’altra anima tremula osservò sparuta le grandi spalle d’Eaco.
Il Giudice guardò dapprima Minosse, quindi Radamanto e insieme annuirono: un vento di cenere si levò dal nulla e mugghiò e nitrì e l’anima, terrorizzata oltre ogni limite, cadde in ginocchio e pregò e gemette. Radamanto non si fece intenerire e afferratolo per la collottola come si farebbe con la più bieca delle bestie, lo trascinò con sé verso il gorgo profondo del Tartaro. Urla di sadico giubilo dai Titani, gracchiare di catene, sghignazzanti effluvi mefitici, e del defunto, poi, più nulla.
Il Dio storse la bocca dall’alto dello scranno nero, il disgusto palese negli occhi e nel volto; la Regina Persefone pressò tra loro le labbra truccate di carminio, gli occhi d’ossidiana sputarono lampi di indignazione: scosse la testa con fare altero e a quel gesto le lunghe trecce tintinnarono di mille ninnoli sulle spalle e contro il seno. Il gallo ai suoi piedi le becchettò stizzito una cinghia dei sandali ed ella subito lo allontanò con gesto deciso, il lembo della veste che frusciava sibillino sulla cista.
«Ancora mi chiedo per quale motivo mai Giove, Padre degli Olimpici, abbia accettato un simile compromesso, per quale motivo mai abbia arrecato al nostro popolo una tale vergogna» sibilò, stringendo con forza le dita inanellate «Mio marito era il Signore dell’Ade, tu non sei altro che…»
«Taci!» l’ammonì il Dio, gli occhi socchiusi e la mascella serrata. Le puntò un dito contro, il collare a mezzaluna sul torace ebbe un guizzo «Tu non sai nulla, mia signora, del destino che mi era stato riservato! Pensi che sia felice di trovarmi qui? Tra le cenere e le anime perdute?»
Persefone dilatò le narici, irritata.
«Perché mai dovrei crederlo, giacché non passa un solo istante senza che le tue azioni me lo ricordino?»
La divinità masticò un’invettiva diretta alla donna e piegò il gomito sul bracciolo destro dello scranno. Le dita affusolate corsero a torturare il labbro inferiore, mentre la mano sinistra stringeva e torceva la presa attorno allo scettro. Era quello l’unico oggetto di Plutone che aveva tenuto per sé, rifiutando la patera ed il groviglio di serpenti ai piedi.
Tale scelta, la prima volta che s’era assiso sul trono dei Morti, aveva provocato un tale sconvolgimento nella gemmea Persefone che le spighe di grano intrecciate ai capelli erano appassite e torte, imbevute di nero mortale; s’era levata in piedi e per l’ira furibonda che la pervadeva aveva gettato nella pietraia il calato ed il grano, le unghie affondate con tanta ferocia nel melograno, che il frutto s’era raggrinzito in un sibilo di succo acidulo.
Non puoi rinunciare alle insegne del tuo potere!” aveva strillato, le guance scarlatte e gonfie e gli occhi globosi che donavano al suo volto un tocco ben poco divino e ben poco piacente “E’ grazie ad esse che i mortali ci riconoscono per chi siamo!
Sciocchezze! Idiozie! Avrebbe voluto gridarle e colpirla al viso e vederla in ginocchio a chiedere perdono, invocare querula la grazia. E i mortali avrebbero dovuto riconoscerlo unicamente per via d’una scodella od un intrico di serpi? Ah! Quale bestemmia in un luogo che Persefone giudicava tanto sacro! I mortali dovevano riconoscerlo per il timore che egli incuteva nei loro cuori, riconoscerlo come signore legittimo delle loro miserevoli esistenze!
Patere e serpenti, ah!
Il Dio emise un verso derisorio e non si fece scrupolo o remora ad indirizzare il proprio sguardo in quello di Persefone; la Regina deglutì a fatica e a fatica parve ricordarsi di quale fosse il ruolo impostole. Non disse più nulla e fissò gli occhi bagnati di rugiada e rabbia dinanzi a sé, al rigurgito di fiamme che annunciava la venuta di un nuovo defunto.
Per quanto gli costasse ammetterlo, però, la presenza della sposa di Ade al proprio fianco era un passatempo forzato, ma necessario: tre mesi era rimasta assente, perché scesa tra i mortali a donar loro la vigoria della primavera, e in quel lasso di tempo, il Dio non aveva avuto nessuno con cui conversare. Non coi tre Giudici, che poco avevano da dire nella loro lingua rozza e gracchiante, troppo impegnati ad accogliere, confabulare e decretare il Destino dei morti, troppo presi dal loro compito e dall’astio che provavano nei suoi confronti per intrattenersi a discorrere. Con chi altri, poi? I servi muti che preparavano un banchetto di leziose leccornie? Con lo sbavante segugio a tre teste?
Silenzio e defunti, defunti e silenzio, punizione peggiore non poteva esistere. Ma non aveva mai avuto in animo la predisposizione al compatirsi: nell’assenza di qualunque verbo, era stata la propria voce a riverberare senza freno e nell’intrico di pensieri aveva infine scorto il lume della vendetta.
«Mio marito non avrebbe mai permesso che una barbara s’accostasse alla nostra mensa» soffiò Persefone e il Dio sollevò il capo, un sorriso di perfida letizia ad arcuare le labbra seriche: la donna venne avanti, vestita di verde, la fronte cinta da una tiara di smeraldo, i capelli sciolti in morbide onde sulle spalle scoperte.
«Mio signore» cominciò, un ghigno compiaciuto a brillarle negli occhi ferini «E’ arrivato, proprio come avevi previsto»
«Una notizia che riempie il mio cuore di gioia!» esclamò lui, voltandosi in direzione della Regina; questa teneva la mascella contratta, piccoli semi di grano le cadevano tra le pieghe della veste «Per quale motivo mai questo livore nei miei confronti, Signora dei Defunti?» un’espressione beffarda, le palpebre socchiuse «Siete forse restia all’inganno? Ma non è proprio per mezzo di esso che vostro marito v’ha preso?» una risata gelida gli sgorgò dalle labbra e Persefone s’irrigidì, lo sguardo colmo di disprezzo.
Il Dio mosse la mano in un gesto vago, come a disfarsi di un insetto fastidioso; quando si concentrò di nuovo sulla donna, ogni traccia di divertimento era sparita dal suo viso: i tratti erano duri, la bocca una linea nera arroccata sulla mandibola illividita dalla tensione.
«Va’, ora: porta l’ordine ai tuoi servi mortali. In fondo, il ruolo di Messaggera abbiamo scoperto esserti piuttosto confacente»
Il fuoco di Radamanto si riflesse funereo negli occhi ferini.

 

 

***

 

«Salve, sono l’Agente Coulson. C’è qualche problema?»
A detta del fioraio portoricano, sì, c’era qualche problema. In primis le spese di trasporto, a seguire il ritorno in negozio, assolutamente impensabile, di corona e cuscinetto funebre, senza tenere conto dello stress cui le piante sarebbero state sottoposte a causa di un ulteriore e non pianificato viaggio, con conseguente impossibilità di riuso in altre occasioni del genere.
«Non sia mai che io stia augurando ad un povero diavolo di tirare le cuoia, s’intende, ma deve pensare al compenso, ai soldi, mi era stato chiesto esplicitamente---»
Phil alzò la mano e sorrise, calmo e cordiale come aveva imparato ad essere dopo anni di addestramento sul campo. Non si diventava Agenti S.H.I.E.L.D. unicamente grazie a mira, capacità diplomatiche o amene velleità quali lo spezzare il collo di un uomo con l’unico ausilio della mano sinistra -Difficile, dite voi? L’Agente Romanoff avrebbe qualcosa da ridire in proposito.
Ma comunque.
Essere Agenti S.H.I.E.L.D. significava possedere nervi in grado di sopportare carichi di pressione inimmaginabili ed un certo scompenso mentale che, nell’ottica dell’organizzazione, diventava normale e assolutamente indispensabile equilibrio psico-fisico. La pazienza non era una virtù, non era un dovere, era una missione e non c’era nessuno che sapesse portarla a termine meglio di Phil Coulson.
«Comprendo la questione» annuì, aprì un lembo dalla giacca e ne estrasse un rettangolino bianco e professionale. Sul biglietto da visita un semplice numero di telefono. Sul volto di Phil il più intransigente dei sorrisi «Chiami e un Agente si occuperà dell’indennizzo. La ringrazio per il lavoro svolto, sono sicuro che il Capitano avrebbe apprezzato le sue composizioni. Buona giornata»
Altra contrazione a livello della mandibola e Coulson fece segno ad alcuni sottoposti di accompagnare il gentile signore al camioncino dalla marmitta singhiozzante. Il portoricano guardò stralunato dapprima il biglietto da visita, poi Phil, ma non ebbe il tempo di replicare che già due Agenti si erano avvicinati per scortarlo al furgone.
Coulson resistette all’impulso di massaggiarsi le tempie: dacché erano iniziati i lavori di allestimento della camera ardente avevano dovuto rimandare indietro l’impresa di pompe funebri, due tipi del Bronx presentatisi come “Arredatori” -Al che Phil Coulson aveva inarcato un sopracciglio e portato una mano al taser con fare eloquente, perché, Fury o non Fury, non avrebbe mai lasciato la preparazione della stanza e l’esposizione del corpo di Steve Rogers a qualcuno che non fosse stato opportunamente schedato e controllato almeno tre volte dai suoi colleghi più fidati- e infine quattro fiorai diversi. Niente che non fosse stato prima approvato dallo S.H.I.E.L.D. poteva entrare: la corona con nastro da parte del Presidente era stato un caso a parte, per ovvi motivi –Sebbene fosse stata studiata e praticamente sezionata fino all’ultimo pistillo perché le venisse concordato il via libera.
L’Agente Attis gli aveva sorriso con un che di beffardo negli occhi scuri e Phil aveva risposto con un fulmineo sguardo omicida. Dannazione a lui e a quando le aveva permesso di assistere.
«Signore, il ragazzo è ancora lì»
«Mh?» Coulson aggrottò la fronte, sollevando il mento a cercare il giovane Parker: era lì da quella mattina, niente macchina fotografica, niente fiori, niente se non l’espressione desolata nella più completa solitudine. Non si era mosso, non si era allontanato, non si era spostato: ritto accanto all’entrata della Tower, aspettava nel trambusto e nel via vai degli Agenti S.H.I.E.L.D., ogni tanto telefonava, rassicurava la zia, riattaccava e taceva.
Phil decise di portargli un caffè non appena avesse avuto un minuto libero da dedicargli.
«Non si preoccupi, Agente Torelli. Il ragazzo può restare, si assicuri solo che non faccia foto»
Francamente dubitava che Peter avesse con sè una qualche digitale o si fosse messo in testa di usare un I-Phone di ultima generazione per gabbarli tutti e scattare delle foto in anteprima.
“Tu sei il fotografo di Jonah Jameson?”
“Ah…Sì, signore”
“Sei qui perché ti ha mandato il tuo capo? Se è così, devo chiederti di andartene: la stampa non è ammessa”
“N-No, signore. Io non---Io Sono qui perché…Perché non me la sento di stare da nessun’altra parte”

Coulson lo capiva benissimo.
Prima che l’Agente Torelli continuasse l’opera di consolidamento del perimetro, Phil gli mise una mano sul braccio.
«L’Agente Barton?» chiese.
Torelli si schiarì la gola, a disagio, e le sopracciglia di Phil schizzarono subito verso l’alto.
«Accanto al feretro, signore. Parla meno del solito oggi»
Coulson annuì e gli fece segno di andare, concedendosi finalmente il lusso di stringere la radice del naso tra le dita. L’Agente Barton che osserva la situazione dal piano terra e non dalle scale? Pessimo segno. Pessimo com’era stato il comportamento integerrimo che aveva tenuto nei suoi confronti fino a quel momento: chiariamo, il Falco era uno degli Agenti migliori dello S.H.I.E.L.D. e quando si trattava di portare a termine una missione i risultati erano sempre e comunque ottimali.
Operava spesso sopra le righe, però, e più di una volta Phil aveva dovuto riprendere il suo comportamento, quel suo ricorrere a metodi non proprio ortodossi e non del tutto approvati –Ma non aveva mai messo in pericolo i suoi compagni, né compromesso l’obiettivo da raggiungere, e di questo l’Agente ne era piuttosto fiero.
Clint solitamente rispondeva con un borbottio ai rimbrotti che gli propinava, prendeva una birra da portare al Nido oppure -E questo era il caso più frequente- si appollaiava sul divano di Coulson, decretandone l’avvenuta conquista -O il passaggio di proprietà, a seconda dell’umore.
Dal debrief sull’Helicar, Occhio di Falco non gli aveva rivolto una parola che non fosse una domanda o una precisazione o un chiarimento circa l’incarico assegnato. Sguardo freddo, voce atona, non era certo lo stesso Agente Barton che lo aveva iniziato ai misteri di Supertata al termine di una missione particolarmente dura in Mississippi. Esausti, erano crollati entrambi di traverso su un materasso bitorzoluto e con parecchie contusioni in parti del corpo che la scienza medica non aveva ancora scoperto, avevano finito con l’imbambolarsi davanti al canale della Fox, l’unico che la parabola del Motel ricevesse senza interferenze. Phil ricordava ancora i commenti dell’arciere, il modo in cui storceva l’angolo destro delle labbra quando stava per scoppiare impietosamente a ridere, la sensazione della cravatta allentata, la linea rilassata delle spalle di Clint e…
«Fa effetto vederlo così, vero?» Coulson intrecciò le dita dietro la schiena e assunse un’espressione di assoluta neutralità e compostezza.
Barton si decise ad alzare finalmente gli occhi su di lui –Nemmeno quando era entrato e gli si era accostato aveva dato segno di voler tenere in considerazione la sua presenza-, salvo poi riabbassarli sulla salma di Capitan America.
Il feretro era in legno scuro e rialzato su una base rettangolare di marmo; il coperchio della cassa, tenuto aperto, era una riproduzione fedele e dipinta a mano della bandiera americana, dai colori tanto lucidi e sgargianti che quando un gioco di sole li colpiva, ecco! Sembrava davvero di vederla garrire al vento. Steve Rogers indossava la divisa completa, la maschera a coprirgli il volto –Gli sarebbe poi stata tolta alla fine dei due giorni di esposizione, prima che la bara venisse chiusa e sigillata definitivamente; lo scudo era stato appoggiato contro la parte terminale del feretro e riposava, ormai inutile ed inutilizzabile, tra i fiori che gli Agenti S.H.I.E.L.D. avevano portato come un estremo saluto alla Sentinella della Libertà.
Il volto del Capitano era sereno, abbandonato ad una quiete più profonda del sonno, ed era su quell’accenno di sorriso che gli occhi di Clint si erano aggrappati con violenza. Che stesse vedendo tutt’altra persona, però, era oltre ogni dubbio.
«Quelli del L.M.D. hanno fatto un ottimo lavoro» commentò Occhio di Falco, dal nulla, e Coulson trasalì per la secca immediatezza della frase. Girò la testa per rispondere, ma l’arciere lo interruppe senza degnarlo di uno sguardo «Il sangue è stato un vero colpo di classe. Ha ingannato tutti sull’Helicar, signore»
Phil si ritenne fortunato che le parole non fossero in grado uccidere, perché il tono di voce dell’arciere non era stato poi così dissimile dalla scarica di un M-16. Tossicchiò prima che potesse anche solo ribattere, Clint si premurò di precederlo.
«Da quando lo S.H.I.E.L.D. si occupa di fotografi free-lance?» e fece un gesto in direzione dell’uscita: era chiaro come non gli fosse sfuggito nulla, né la conversazione avuta con Peter, né il perché, a conti fatti, Coulson gli avesse permesso di rimanere entro il perimetro della Tower.
«A dire il vero, lo S.H.I.E.L.D. è più interessato al suo strabiliante tempismo. Ti è mai capitato di vedere alcuni dei suoi scatti? Sembra essere sempre lì un momento prima che Spiderman faccia la propria, folkloristica comparsa»
Barton incrociò le braccia al petto e gli lanciò un’occhiata in tralice.
«Spiderman? Quanto avrà mai? Quindici? Sedici anni?»
«Non ne avevi molti di più quando sono stato mandato a reclutarti»
Questa volta la bocca di Clint si arricciò in un ghigno storto. Non un sorriso, ma un passo avanti rispetto all’espressione di gelido omicidio premeditato con cui Coulson si era ritrovato a fare i conti.
«Quel giorno Fury mi ha consegnato un biglietto per il Circo Tiboldt e io sono rimasto spiazzato. Pensavo fosse un modo carino di licenziarmi o una sorta di ultimo desiderio, perché avevo sbagliato chissà che cosa, forse le zollette di zucchero nel caffè» uno sbuffo divertito da parte di entrambi «”Mi serve un suo parere, Agente Coulson” mi ha detto, “Si vantano di avere il più grande tiratore scelto del mondo e l’Agente Houyi ne è giustamente risentito. Si goda lo spettacolo e poi faccia rapporto”.
“Da allora mando un cesto regalo al Direttore ogni Natale. Sai, per ringraziarlo. È stato il secondo ultimo desiderio migliore della mia vita»
Clint sbatté le palpebre, girandosi finalmente verso di lui e osservandolo con sguardo perplesso. Phil annuì, un po’ sorrise, un po’ gli brillò negli occhi una stilla di pentimento e di scuse.
«Il primo è stato di chiedergli di tornare, in un modo o nell’altro»

 

 

***

 

L’ultima volta che gli avevano dato una botta di Emo stava ancora a San Frediano, e al Sighieri sapevano metterti la mousse al cioccolato sul cono senza che colasse tutta da una parte. Ricordava Beatrice, un’ossuta cavalla la cui unica enfasi erotica era la quarta di seno che la costringeva a deambulare con le spalle chine in avanti.
La quarta di seno e l’assoluta mancanza di riflesso faringeo, ovviamente, e da come quel giorno stava leccando la cappella della cialda le sue intenzioni erano più che palesi -Così come era palese l’intenzione di Bruno di tenerla in ginocchio più tempo possibile e soffocare la sua cazzo di lisca di merda con ben altro impedimento fisico.
Ingoio-Beatrice succhiava chupa-chups che era una meraviglia, ma non era certo ricordata per la parlantina: solo il sentirla pronunciare la parola sesso avrebbe fatto ammosciare la Torre di Pisa.
Faceva il gentile, però, perché prima di accompagnarla dal Sighieri si era scolato una fiaschetta di rosso, e a Beatrice piaceva cercare un Principe Azzurro che ansimasse il suo nome mentre lei incrinava diligentemente le rotule. E allora aveva cominciato a dirle che era particolarmente carina -Balle, che era assolutamente deliziosa -Come no, che quel completino vinaccia la rendeva tremendamente sexy -Per Dio, sembrava una prostituta rachitica.
Beatrice aveva quasi finito il cono gelato e lui stava già pregustando un pompino al retrogusto di cannella, quando il fratello Pietro aveva fatto l’entrata in grande stile, cavalier servente al servizio di una virginea innocenza che puzzava più della merda in Arno.
Ehi tu, emo del cazzo! Sta’ lontano da mia sorella!
Bruno aveva sorriso, le dita ancora tra i capelli stopposi della ragazza, le cicatrici pallide un cordone bianco lungo l’avambraccio. Pietro aveva risposto al ghigno derisorio con voce grossa ed una risata imbecille: aveva continuato a ridere anche con la carotide recisa di netto, il sangue che ribolliva schiumoso tra le labbra torte in un’espressione stupida e sorpresa.
Da lì erano cominciati i guai, le fughe, l’Italia e la Francia e l’America, il vino perennemente in gola, il sangue sulle dita e cicatrici sempre diverse a ricamargli la pelle.
Bruno “Brunello” Chianti, quarantacinque anni d’aspetto e ventitre suonati da occhio e croce cinque minuti, si accasciò all’angolo di una viuzza coperta di piscio; si lasciò scivolare fino a terra, le ginocchia piegate al petto e la testa reclinata contro la spalla.
«Il sogno del Pisano è svegliarsi a mezzogiorno» gracchiò nel sollevare la bottiglia mezza vuota, ingollando poi una generosa sorsata di schifezza liquorosa «Americani del cazzo» sibilò, gli occhi incavati nell’orbita stretti per il disgusto «Manco buoni a fare il vino»
Forse con i soldi che aveva appena incassato poteva andare in un negozio di prodotti tipici italiani e arraffare del Monteregio come Dio comanda. Singhiozzò un latrato, appoggiò la bottiglia tra  le cicche di sigarette e un hot dog che aveva visto tempi migliori, quindi estrasse dal pastrano lercio un rotolo di banconote macchiate di rosso. Le contò tra un singulto ed una risata, le unghie nere che insozzavano gli angoli di terra e polvere e grumi di sangue secco.
Per essere un bambinello di quindici anni, di soldi ne aveva, il bastardo! Forse forse riusciva a mettere insieme abbastanza grana per un Morellino di Scansano, gloria al finocchietto e alla sua linguaccia lunga!
Affanculo, levati dai coglioni, fottuto emo di merda gli aveva ringhiato contro, mentre erano entrambi in fila per un po’ d’erba. Bruno lo aveva giustamente guardato come si guarderebbe un lombrico che si rotola nel lambrusco o un bulldog francese che si masturba -Aveva rivisto da poco Due Date, problemi?-: un misto di disgusto ed incredulità, finanche un pizzico di pena per l’umanità in generale.
Il frocetto aveva scambiato un’occhiatina saputa con la sua cricca di decerebrati, ritrovandosi pochi istanti dopo un sorrisone scarlatto contro la gola e il portafogli alleggerito.
Il grande cerchio della vita, no?
«Guardare verso il mare e non vedere più Livorno…!»
«Comincio a ricredermi sulla mia scelta, mortale. Dovrei cercare qualcuno che non sia così dedito all’amor del vino, cosa ne pensi?»
Bruno drizzò lo sguardo verso l’alto, un’espressione malevola a tirargli le labbra sporche; passò il dorso della mano sulla bocca, ripulendo la barba rossiccia e grattandosi poi il mento bombato. Si issò malamente in piedi, traballò e appoggiò la mano contro il muro lercio per non cadere in avanti. Ridacchiò, quindi rassettò con due colpi la camicia a righe e i pantaloni a coste sbiaditi e palesemente di proprietà di qualcun altro.
«In vino veritas, mia bella schizzata, anche se non so cosa c’entri in questo momento, ma so che il latino fa parecchio figo» tossicchiò, assunse una posizione più composta, sistemò il colletto del pastrano e rialzò gli occhialetti sul naso adunco. A quel gesto la manica destra del giaccone gli scivolò lungo il polso, rivelando un taglio ancora fresco sulla pelle, stille di sangue purpureo attaccate alla bell’e meglio ai lembi della ferita.
La donna contrasse la bocca, gli occhi due specchi vitrei e verdi.
«Non fare quella faccia, è il mio compleanno! Ce lo facciamo un goccetto per festeggiare? Se non ti piace il vino, ho altre gocce da farti ingoiare»
Il ritrovarsi da un momento all’altro a mezzo metro da terra, la schiena contro il muro e le unghie affilate conficcate nel collo, fece sorgere in Bruno il dubbio che forse, forse, la schizzata non aveva apprezzato la battuta.
«Rivolgiti a me con quel tono ancora una volta, abbi l’ardire di usare con me quelle parole e sarà l’ultima cosa che farai, mortale. Uno schiocco di dita e ti ritroveresti a strisciare a terra come il peggiore dei vermi»
«Mi è già successo, in realtà» esalò Bruno «Breccanecca, due anni fa. Te lo sconsiglio caldament---»
Ed eccolo, di nuovo in ginocchio tra il marcio e la muffa, il fiato conficcato a fatica nei polmoni. Lei era in piedi, gli stava di fronte e lo fissava col sopracciglio inarcato in una deliziosa smorfia di superiorità, la baldracca.
«Il momento è giunto. Tu e il ratto delle fogne fareste meglio a mettervi in opera, o l’ira mia e del mio signore vi colpirà con tale vigore da farvi desiderare d’esser morti ancor prima di nascere»
Fottuta troia, sgualdrina, cagna, te lo fo vedere io, io, cosa vuol dire desiderare di essere morti, puttana del cazzo. Bruno allargò le braccia e sogghignò, chinando le spalle in avanti ad imitare un inchino falso quanto grottesco.
«Come la mia dama desidera»
Sputò un bolo di saliva ai piedi della donna e la lingua picchiettò maligna contro i canini neri.

 

***

“Il liquore più forte che hai, voglio solo ubriacarmi e perdere conoscenza da qui fino a dopodomani. Anzi, fammelo doppio, così tiro avanti a sbavare almeno per una settimana”
“Dovresti provare il vino d’Ismaro,
mortale. Con Polifemo ha funzionato”
Tony uscì dal Karamela Cafè col fiato appeso alle labbra e lo sguardo allucinato della barista conficcato tra le costole.
D’accordo, forse non aveva dato la migliore impressione di sé alzandosi di scatto e correndo via come fosse stato appena punto da una tarantola, ma…Dannazione, chiunque avesse parlato aveva tirato fuori le parole magiche “mortale” e “Polifemo”. Non poteva lasciarsi sfuggire una simile occasione, non dopo una giornata spesa dietro a fantasmi e leggende e guide turistiche che lo guardavano come fosse sbronzo perso.
Il tizio, presumibilmente Odisseo, non poteva essere andato lontano: Tony era schizzato via non appena la voce era sfumata nella brezza salata che permeava il locale. Doveva essere ancora fuori, forse ad attenderlo, forse a guardare il mare, forse a ridere della battuta –Indecente, a dire il vero- che aveva fatto per attirare la sua attenzione.
Sul molo, però, non c’era nessuno.
I tavolini neri erano vuoti, non un turista sulle seggiole ricurve o marinaio sulle barche a vela placidamente cullate dalla corrente.
Col tramonto che lento bagnava la cresta delle onde e piangeva lacrime rosse sulle cime degli alberi e sopra i comignoli, Tony Stark si sentì improvvisamente solo.
Solo.
Inutile.
Idiota.
Si guardò attorno e Vathy gli sembrò d’un tratto insignificante.
Cosa diavolo era venuto a fare in quel posto? Chi era venuto a cercare. Odisseo? Davvero? Odisseo era un mito, era una leggenda. Una leggenda non-vivente, andava specificato, esisteva soltanto tra le pagine di un poema o su qualche vaso o come personaggio di un colossal italiano.
Aveva inseguito una chimera, o peggio: aveva inseguito il senso di colpa, un postumo da sbronza, il frutto di una fantasticheria creatasi dalla mancata elaborazione del lutto. Aveva condensato rifiuto-rabbia-patteggiamento-depressione dentro un paio di bicchieri di Scotch, scartando a priori la possibilità di accettare la…il fatto che Steve non fosse più tra loro. Alla Tower. Con lui. A sradicargli dal soffitto il sacco di sabbia un giorno sì e l’altro pure.
Con lui.
Il non riuscire a pronunciare la fatidica parola con la “m” nemmeno in un dialogo unilaterale con se stesso era abbastanza per capire e per comprendere. Era abbastanza per arrendersi. La cosa peggiore era l’essere stato tanto convincente da trascinare tutti, Direttore Bellosguardo compreso, nella propria crociata dei folli.
Prendere a calci il defunto fondoschiena di Rogers per riportarlo in vita? Cliché abusato da anni, signor Stark, si trovi una trama migliore da lanciare sul mercato e poi vediamo se vale la pena di pubblicarla.
Tony si passò una mano sul volto e cominciò a camminare sulla banchina, il sole che declinava all’orizzonte; alla fine del molo si sedette, le gambe lasciate a penzolare oltre il cemento e gli occhiali da sole calati sul naso.
La verità era che si era abituato a non essere più solo, ad avere qualcuno che gli ricordasse come ci fosse un mondo oltre le porte del laboratorio –Un mondo noioso, un mondo stupido, un mondo da salvare al primo starnuto radioattivo, ma pur sempre un mondo al dì di un’equazione e di una cromatura-, come ci fosse qualcuno in grado di vedere dentro e di vedere oltre il magnate della Stark Industries.
Prima Pepper e poi…
La baia sussurrava un canto di onde scarlatte e avanti e indietro e avanti si trascinava stancamente la spuma; lampi verdi dove il sole colpiva le imposte chiuse, tassello dopo tassello nel quieto mosaico di Vathy, adagiata nel golfo, circondata dall’azzurra distesa del mare.
Steve ne avrebbe ricavato uno schizzo perfetto.
Tony poteva quasi sentire la mano che scivolava sulla superficie ruvida del foglio, lo zampettare della grafite là dove passava e passava più volte la matita per ricreare il gioco movimentato delle foglie. Avrebbe aggiunto una barca, forse, una sola, con la vela bianca e lo scafo che si rifletteva nello specchio distorto dell’acqua, e infine due figure, piccole, indistinguibili, ma ferme, fisse, eterne, ad osservare l’orizzonte dal pontile. Un unico tratto nero per le mani di entrambi.
Rogers sapeva essere parecchio criptico quando voleva –Anche se non abbastanza da evitare l’occhio lungo di Barton.
Doveva guardare in faccia alla realtà: la ricerca era finita. Non gli restava che Manhattan e la camera ardente, il saluto, il cimitero, e poi il laboratorio e la solitudine. Una volta rientrato avrebbe potuto occuparsi degli ultimi dettagli riguardanti la veglia e il trasporto fino ad Arlington…Oh, e anche del problema dei ratti. Clint, durante l’ultima chiamata,  gli aveva riferito la comparsa di almeno tre esemplari, consigliandogli poi di procurarsi una domestica –E ignorando volutamente l’affermazione di Tony circa la dieta a base di sorci di qualunque rapaci che si rispetti.
«Molto bene, Stark» si grattò la nuca e storse la bocca «Sarà meglio tornare a casa, che dici? Puoi sempre farti un goccetto prima di andare, d’accordo, te lo sei meritato. Poi avvisiamo Pepper di mettere su qualche gallone di caffè, tanto per andare sul sicuro. Avvisare anche il Dottor Banner e l’Agente Romanoff di ammainare le vele e giare la prua?» arcuò le sopracciglia «Sì, potrei. Oppure potrei lasciarli soli a sfogare…E tu che ci fai qui?»
Il mendico-stalker, apparso chissà quando e chissà da dove, gli riserbò un sorriso a tutto denti, quindi cominciò a grattarsi insistentemente la coscia, un’espressione beata sul volto. Gli occhi di Tony scivolarono alla cicatrice bianca che l’altro continuava a tormentare, ma nel vedere la robaccia incrostata sotto le sue unghie decise che, no, aveva assistito anche troppo e che, ancora una volta assolutamente no, non aveva intenzione di scoprire un microcosmo di cheratina e divulgare tale notizia alla stampa nell’immediato futuro.
Affondò allora la mano nella tasca dei pantaloni e si portò il cellulare all’orecchio, con gesti resi impacciati dalla fretta e dalla spasmodica voglia di andarsene, pregando che Natasha rispondesse il più velocemente possibile. Un clic dall’altra parte e stava già levando un ringraziamento all’Alto dei Cieli, quando un ruggito, qualcosa –Mio Dio, ossa?- che si frantumava, un urlo, un grido -Hulk?-
Stark balzò in piedi e diede le spalle al mendico, abbaiando più volte il nome dell’Agente Romanoff, chiamando Banner, urlando e inveendo. Nulla. Silenzio.
La linea era interrotta.
Dio.
«Natasha! Banner! Cristo…!»
Doveva avvertire Fury, indossare l’armatura e partire alla volta di Dion-Olympos coi propulsori al massimo dell’energia. Doveva intervenire, doveva---
«Allora? Chi cerchi?»
---E no, ora basta. L’Agente Romanoff e il Dottore erano in pericolo per colpa sua, per l’idea del cazzo di girovacchiare per la Grecia come se di Dei e Divinità varie e variegate non ne avessero abbastanza, non aveva anche la pazienza adatta per sopportare la litania stridula del mendicante.
«Nessuno, ti va bene come risposta?»
Buttò la valigia-armatura sul pontile ed era già sul punto di avviare il meccanismo di vestizione con la sola pressione del piede che…
«Perfetto»  dietro di sè una voce profonda, eco lontano di mare e salsedine.
Tony sentì distintamente i capelli drizzarsi sulla nuca.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#04. Lo Zoppo Che Molto Si Volge

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

E dai che ve lo aspettavate che il mendico fosse Odisseo. Lo so, perché siete personcine care e vi voglio bene e avete riconosciuto il pilos e il fatto che si fosse presentato come mendicante mezzo matto e poi c’era la cosa della cicatrice E sto divagando. E’ apparsa Amora. Io amo, Amora. E Thor la tratta a pesci in faccia, povera.
…Oddio, non che sia uno stinco di santa, ma, ehi. Ha stile. Ciao Amora Ti lovvo.

Gallo, caduceo e tartaruga sono gli elementi iconografici di Ermete (il cui aspetto, però, si rifà a quello datoci dalla Marvel), così come il gallo, la cista mistica, le spighe e il catalo lo sono di Persefone. Eaco, Radamanto e Minosse sono i Giudici dell’Oltretomba.
La storia di Clint e del circo Timboldt vengono dalla biografia del canone principale e NON CREDO che sia lo stesso nell’Universo Ultimate, giacché non l’ho MAI LETTO. Perdonate.
Poi. San Frediano è un piccolo Comune sopra Pisa ed il Sighieri è una gelateria realmente esistente (Così come a Vathy esiste veramente un Karamela Cafè). E fa di quei gelati che sono una meraviglia! Se mai vi capita di passare a Cascina, ANDATE. ANDATE, MANGERETE UNO DEI GELATI MIGLIORI DELLA VOSTRA VITA. Breccanecca è un posto fra i monti dalle mie parti bel nome, vero?
Un appunto su Bruno “Brunello” Chianti. Prima ancora di scrivere il prologo di questa fan fiction, lui era un personaggio positivo. Poi è diventato…Bhè, quel che è diventato, ecco. Non è colpa mia E di chi, allora? E la canzoncina che canta su Pisa e Livorno…Sì, esiste. Vedete cosa si impara fuori sede? (?)
Il titolo del capitolo viene dal nome latino di “Ulisse”, che significa appunto “Lo Zoppo”, e dall’epiteto “Polytropon”, “Colui che molto si volge”.

E DAL PROSSIMO CAPITOLO BOTTE DA ORBI COME SE PIOVESSE! Chissà cosa mai sarà successo a Natasha e a Hulk. Mboh BOTTEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
OOOOOkay. Prima di continuare questo delirio, direi di ringraziare tutti voi che mi sopportate mi supportate non solo nella stesura di questa storia, ma anche di tutte le altre. Sono un mostro, non riesco a rispondere alle recensioni, ma vi giuro, vi giuro che leggo tutte, dalla prima all’ultima parola, e mi fate commuovere. Siete splendidi/e e vi ringrazio tutti, nessuno escluso. Vi voglio davvero bene.
Ringrazio Ghia9614, Shi_Tsu_Geass e Alley Vathy ti va bene come meta per il viaggio di nozze per le loro splendide recensioni! Spero che questo capitolo infinito non vi abbia pesato, ecco D:
Alla prossima!

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Capitolo 6
*** #05. Deus Ex Machina ***


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.:  *** :.

 

L’Onomaklutòn era universalmente riconosciuto dalla comunità LGBT quale vero e proprio Paradiso in terra.
Era un piccolo locale alla periferia di Dion, una sorta di disco-pub con pareti color carta da zucchero, pannelli a campitura nera e rossa che riproducevano le maggiori meraviglie della pittura vascolare greca, un juke-box dei bei tempi andati e un artista di punta che da solo valeva l’intera storia della musica, da Omero fino ai giorni nostri.
Il complesso era circondato da un fitto bosco, e una strada non asfaltata serpeggiava tra i tronchi e i cespugli spinosi, attraversando la selva buia, per poi aprirsi a ventaglio dinanzi l’entrata: colonnine doriche a venti scanalature, tre per lato, accompagnavano gli avventori oltre l’architrave e gli occhi assenti di Apollo, Calliope ed Eagro, a  rilievo contro il timpano. Il tutto -Interno ed esterno- contribuiva a dare l’idea di un sacro tempio dei bei tempi andati –Sebbene un po’ kitsch e ampollosamente retrò. 
A fare la fortuna dell’Onomaklutòn, però, era l’invulnerabilità di cui il locale pareva essere avvolto.
Nessuno sarebbe mai stato in grado di dire con esattezza quando avesse aperto, né chi fossero stati i primi proprietari: la famosa sera del 28 Giugno 1969, Sylvia Rivera stava scagliando la bottiglia contro uno dei poliziotti che avevano fatto irruzione allo Stonewall Inn, e il cantore dell’Onomaklutòn sussurrava parole d’amore col solo danzare dell’archetto. Nel 1940, quando i fascisti sciamarono a frotte tra le rocce dell’aspra Grecia, la direzione del locale venne ceduta proprio ad un soldato semplice del battaglione italiano. Sulla parete di destra, appena entrati, ancora oggi era possibile notare la foto incorniciata che ritraeva Gaetano Pasolini abbracciato al suo compagno di vita, l’allora diciassettenne Filoandro di Olimpia.
E prima di allora a tenere l’Onomaklutòn era stata una giovane tedesca che da Berlino era scappata a Dion per fuggire lo scandalo cui altrimenti avrebbe condannato la sua famiglia, e poi uno svizzero, una francese, finanche un turco…! Non c’era guerra, né movimento sociale o politico che fosse in grado di abbattere il locale: era un rifugio sicuro per gay, lesbiche, bisessuali e transgender, e tutti era pronti a scommettere che non avrebbe cessato di esserlo tanto presto.
Se non fosse stato impossibile si sarebbe detto nato dalla stessa terra o da una delle tante fonti che chiacchieravano e gorgogliavano in mille ruscelletti argentini.
«Forse il merito è anche dell’Artista, eh!» la giovane rise, portandosi il dolcetto alle labbra. Afferrò il quadretto di cioccolato bianco tra i denti e lo staccò di netto: alcune bricioline candide le caddero sul ginocchio accavallato e lei le rimosse dalle balze cremisi della gonna con gesto distratto.
Bruce osservò il movimento veloce delle dita, quindi si schiarì la voce e decise di sorseggiare il caffè ormai freddo prima che l’Altro prendesse il sopravvento perché Hulk noia. Hulk spacca e no, non sarebbe stato molto educato far scoppiare un pandemonio nel centro di Dion, tanto meno fracassare tavolini e seggiole del bar, visto e considerando quanto erano stati gentili i proprietari. Natasha -O sarebbe stato meglio parlare di Scarlett?- annotò qualche parola sul taccuino posto con diligenza davanti a sé, tra una brioche intoccata e dello yogurt greco lasciato a metà.
Stava interpretando il ruolo da giornalista a meraviglia e Bruce si chiese perché fosse così sciocco da stupirsene. Era probabile che a destabilizzarlo fosse la scioltezza e la disinvoltura con cui l’Agente Romanoff passava da un’identità all’altra, scindendole con tale perfezione da non correre mai il rischio di contaminarle: per uno come lui, che a stento riusciva a mantenere la propria, la cosa era impensabile.
«Una volta, mi hanno raccontato al locale, erano arrivati una decina di “attivisti”» la ragazza mimò le virgolette con le dita «Contro i diritti delle persone omosessuali. Ecco. Tutti pensavano che sarebbe successo il finimondo, e invece…!»
Lasciò la frase in sospeso e l’Agente Romanoff si chinò di riflesso in avanti, una nota interessata a piegarle l’angolo destro della labbra.
«E invece..?»
La giovane non si ritrasse, anzi, si piegò anche a lei, gli occhi che roteavano in giro con una buffissima aria cospiratoria.
«Invece ha proposto loro di rimanere per lo spettacolo del pomeriggio. Indovinate un po’? Ora sono clienti abituali dell’Onomaklutòn! Sembra quasi sia riuscito ad ammansirli…»
Natasha lanciò un’occhiata cui Bruce rispose con un quieto sollevarsi delle sopracciglia. Grazie ad una firma particolare riscontrata su Thor e su un uomo di Los Angeles che, a quanto pareva, altri non era che l’Ercole di cui aveva parlato il Dio, S.H.I.E.L.D. e S.W.O.R.D. erano stati capaci di circoscrivere un’area d’azione relativamente piccola dove poter cominciare le ricerche. Scoprire che Odisseo, Orfeo ed Enea potevano davvero trovarsi nei luoghi da loro selezionati –Più per disperazione che per altre motivazioni- era stata allo stesso tempo una sferza di ottimismo e una nota di perplessità.
Come se ci stessero aspettando aveva mormorato il Dottor Banner, analizzando i dati che Nick Fury aveva passato sui computer del Quinjet che stava portando lui e l’Agente Romanoff in Grecia.
Il problema fondamentale era trovare effettivamente il loro obiettivo, cosa che non era per nulla facile e sulla cui riuscita Bruce aveva ancora parecchi dubbi: Tony li aveva chiamati più volte per fare rapporto e tutte si erano rivelate essere un vero e proprio buco nell’acqua. Se Odisseo era ad Itaca come riportavano i controlli incrociati, non sembrava essere dell’idea di farsi trovare; allo stesso modo, scovare Orfeo dalla sua tana si stava rivelando ben più complicato di quanto il Dottore si era permesso di pensare appena sbarcato a Dion.
Natasha, dopo i primi tentativi andati a vuoto, aveva chiesto una ricerca attraverso parole chiave per restringere ulteriormente il campo e l’unica traccia era stata quella relativa all’Onomaklutòn. Caso volle –E dopo quello che Stark aveva raccontato loro, Bruce non sapeva se esserne felice o meno- che a Dion-Olympos stesse soggiornando la giovane che in quel momento stava finendo di sbocconcellare il quadratino di cioccolato.
Da quanto aveva capito dalle risposte monosillabiche dell’Agente Romanoff, Alley -Così si faceva chiamare- era una conoscenza di un’Agente di un non meglio specificato dipartimento dello S.H.I.E.L.D. ed era stato proprio questa Agente a permettere loro l’incontro con la studentessa al primo anno di Filosofia.
Natasha si era presentata come una giornalista venuta a Dion per scrivere un articolo sui locali pro-LGBT; il Dottor Banner le aveva stretto cortesemente la mano, smozzicando qualcosa riguardo un supporter/fotografo/agente di Scarlett: aveva passato così tanto tempo a nascondersi, isolarsi e abbandonare il proprio nome dietro le spalle, che doversi inventare una nuova identità e professione di punto in bianco era stato piuttosto complicato.
Un piccolo shock culturale ed emotivo, cui Hulk aveva risposto con un torcersi bollente delle budella e infiammarsi di neuroni. A Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere dimenticato, a Hulk non piaceva, non piaceva e basta, non piaceva, non piaceva, non piaceva…
Bruce deglutì e serrò la mano destra a pugno, le unghie conficcate nella carne. Il gesto non sfuggì all’Agente Romanoff, che subito roteò lo sguardo su di lui, riducendo la bocca ad un cordoncino nero e scarlatto. I muscoli agli angoli delle labbra ebbero uno spasmo impercettibile, ma come ogni volta che Hulk gli ringhiava nella testa, i sensi del Dottor Banner risposero agli stimoli più attivi che mai: poteva vedere un filo di sudore freddo brillare lungo la linea della tempia, colorando d’una tonalità sanguigna l’attaccatura rossa dei capelli, appena sopra l’orecchio. Vide il respiro scivolarle limaccioso lungo la gola e poi espandersi nei polmoni, sollevandole il petto oltre la scollatura circolare della maglietta. Le nocche appuntite erano livide attorno alla penna e una piccola crepa biancheggiava, traslucida, contro il tubicino pallidiccio contenente l’inchiostro.
L’odore della paura e della tensione era più acuto del profumo acidulo dello yogurt greco, più dolciastro del cioccolato bianco, più forte del sole battente sugli ombrelloni a fasce arancioni e gialle fuori dal bar, più denso del liquore che stava bevendo un anziano dietro loro, più acre del sudore che gli disegnava chiazze mollicce sotto le ascelle, più impertinente delle scarpette di vernice di una bambina contro il selciato che divideva i tavolinetti dalla strada e da un negozietto di casalinghi.
«Oh, dannazione! La lezione di maieutica!» l’urlo di Alley fu tanto improvviso che persino l’Altro grugnì, sorpreso e stupito, dando il tempo a Bruce di riprendere il controllo; Natasha si rilassò immediatamente e rivolse alla ragazza un sorriso impalpabile, mentre questa si alzava veloce e lasciava accanto al caffè due biglietti colorati.
«Ascoltate, questi sono per lo spettacolo delle quattro» spiegò, battendo con un’unghia smaltata di rosa pallido sul cartoncino «Il problema dell’Onomaklutòn è che ci puoi entrare se qualcuno ti invita. E’ inquietante, ti sembra di essere in un circolo privato o di partecipare a qualche culto misterico o che so io…» una risatina non troppo convinta, quindi si umettò il labbro superiore «Conosco il barista, con questi avete un lasciapassare sicuro. Per gli amici di Salmace questo ed altro! Non vi preoccupate per il conto, offro io, signorina Rushman, signor…?» la frase sfumò in un’evidente domanda.
«Ruffalo. Edward Ruffalo.» rispose Bruce, mettendosi in piedi e porgendole la mano. Alley ricambiò la stretta e modellò il nome sulla lingua, forse non troppo convinta del modo in cui i due nomi suonavano insieme. Bruce si chiese se la risata che sentiva vibrare sottopelle era l’ilarità non detta di Natasha oppure l’Altro che si prendeva una sana rivincita.
«Arrivederci e godetevi lo spettacolo!» li salutò la ragazza, sventolando allegra la mano e correndo via sulla stradicciola acciottolata bagnata di sole.
«Edward Ruffalo?» s’informò l’Agente Romanoff e inarcò il sopracciglio con palese divertimento. Il Dottor Banner si risedette, tossicchiando e allungò le dita a prendere i biglietti. Spese alcuni istanti a rigirargli con attenzione tra i polpastrelli, senza dire una parola di più.
«Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come un antivirus.» le rivolse un’occhiata spruzzata di lieve riso, la bocca che si sollevava a sottolineare la strana tranquillità che lo pervadeva nel vedere Natasha scuotere la testa, i riccioli che palpitavano contro le orecchie e le tempie, irrorati di cremisi e di sole, le palpebre socchiuse a lasciar intravedere una falce brillante d’iride.
Lei era l’unica che riuscisse a rilassarlo davvero, in quel luogo: a Dion si respiravano ovunque effluvi di calma, pizzicori di pace che risalivano inesorabilmente, inevitabilmente la carne, distendevano i nervi, pesavano sul respiro e illanguidivano il cuore. Come una musica che riverberasse ad infrasuoni e si diffondesse in creste e spuma di serenità sibillina, rigagnoli iridescenti di quiete a scorrere densi, caldi nelle vene al posto del sangue.
L’Agente Romanoff subiva a tratti l’effetto dell’atmosfera infida, Bruce lo vedeva da come ogni tanto abbandonava lo sguardo ad un orizzonte indefinito, l’espressione liquida e nebbiosa, la bocca schiusa, pesante, le dita che premevano per pura inerzia contro la ricetrasmittente all’orecchio. Ascoltava i resoconti di Tony in virtù di un senso del dovere radicato in lei più a fondo dell’atto stesso di respirare, ma dallo sguardo assente si capiva che del rapporto non le era rimasta alcuna traccia.
Su di lui quel ristagno dei sensi non aveva altra conseguenza che tendere i nervi tanto a lungo da strapparli, altro rischio che spingerlo al punto di non ritorno: Hulk avvertiva il tentativo di Dion di acquietarlo, di ammansirlo come una bieca bestia, e ciò lo infastidiva, lo rendeva furioso, lo faceva ringhiare e sbraitare, colpire le costole con poderosi pugni, mordere lo spirito, lacerare la coscienza brano dopo brano.
Osservare l’Agente Romanoff, la linea della nuca che scivolava a formare la curva delle spalle e della schiena, la clavicola che sporgeva dallo scollo, il profilo aguzzo delle scapole e i movimenti sicuri del polso, la danza delle dita, il canto delle nocche, tutto di lei riusciva a rilassarlo senza che l’Altro protestasse con la selvaggia veemenza che gli era propria –E questo, oltre a confonderlo, riusciva a renderlo paradossalmente inquieto.
«Natasha, non ha anche lei l’impressione che la ricerca si stia rivelando troppo…Facile?» le chiese, gli occhi fissi sulla lira e sul serpente intrecciati, stagliati contro il cartoncino azzurro.
Lei rimase in silenzio per alcuni istanti, l’unghia che percorreva a filo la trama a tralci di vite della tovaglia in plastica.
«Le è familiare il concetto di Deus Ex Machina, Dottore?» rispose con un’ulteriore domanda, ma senza dargli il tempo di parlare «Era un espediente usato dai tragediografi greci: quando la situazione si era fatta troppo intricata perché fosse possibile una via di uscita, arrivava la divinità a risolvere ogni cosa.»
Bruce aggrottò la fronte e Natasha continuò.
«Quale che sia il nostro Deus Ex Machina, sta operando in ogni modo per condurci all’Ade. Lui vuole farci arrivare lì, sempre che tutto questo non sia solo una fortunata serie di coincidenze al limite dell’insensato e della follia. Cosa di cui, lo ammetto, sto cominciando a dubitare seriamente.»
Il Dottor Banner annuì, per poi girare la testa a contemplare la placida Dion distesa sotto di loro, un labirinto di terrazze e cupole bianche cinto dalla lingua grigio-perla del litorale, il mare una fantasmagoria di sole e scaglie d’azzurro.
«Noi siamo attori, Agente Romanoff?»
«No, dottore. Noi siamo pedine.»  

 

***

 

Thor si strinse nel mantello e il respiro si condensò in piccole nuvole ghiacciate.
Roteò gli occhi verso l’alto, a contemplare le insignificanti, fastidiose gocce marrognole che da uno spunzone della roccia s’infrangevano a terra. Plic plic plic, un ritmato conteggio di secondi che il figlio di Odino da un tempo non più quantificabile aveva smesso di trasformare in minuti e poi in ore.
La via che l’aveva condotto lì era deserta, sconosciuta ai più, un acciottolato di nebbia e miasmi nel ventre stesso di Asgard. A Thor venne spontaneo chiedersi se Padre sospettasse dell’esistenza di quel luogo o se la memoria fosse divenuta nebbia con lo scorrere dei secoli: nulla poteva sottrarsi alla vista di Odino, o così il Dio del Tuono aveva sempre creduto –Poi erano arrivati gli Jotunheim e tutto ciò in cui aveva creduto fino a quel momento era stato fatto a pezzi.
Loki…Forse, forse Loki conosceva quel luogo, forse aveva già attraversato la via impervia di liquami e mormorii durante i lunghi vagabondaggi negli anni dell’adolescenza. Forse era proprio per quella via che aveva trovato la salvezza dopo il colloquio tra Odino e il Signore dell’Olimpo, forse attendeva ancora dietro una lugubre ansa l’occasione per tornare, la possibilità di redimersi. Forse…Forse Thor si stava solo illudendo.
Ovunque suo fratello fosse andato, ovunque l’avessero esiliato, trovarlo non sarebbe stata un’impresa semplice, neppure fattibile. Loki era disperso.
Per quel che ne sapeva, Loki poteva anche essere morto.
«Quali funerei pensieri occupano la tua mente ed il tuo cuore, amore mio?»
Il figlio di Odino sollevò il capo e Amora si palesò, calando il cappuccio della mantella. I capelli ebbero un barbaglio d’oro nel posarlesi sulle spalle e la bocca scarlatta si piegò in un bieco sorriso, piena d’amore e d’orgoglio, enfia di un sentimento che Thor non riuscì a definire.
«Hai fatto attenzione che nessuno ti seguisse, Incantatrice?» l’apostrofò il Dio, le braccia incrociate al petto e la voce diffidente. Lo sguardo della donna s’irrigidì a quelle parole, ma si trattenne dal rispondere e lo precedette per la stretta gola che conduceva ancora più a fondo nei meandri di Asgard.
Uno strapiombo gorgogliante di buio si gettava suicida nel nulla ai loro piedi, grossi denti rocciosi saettavano all’improvviso fuori dalla nebbia che ribolliva asmatica entro fenditure e graffi litici; il loro sentiero s’incuneò più volte in spazi angusti e strettoie al limite della claustrofobia, dove traballare anche un istante col peso squilibrato verso destra –O sinistra, a seconda delle curve- significava una caduta senza ritorno dentro l’abisso. Non c’erano sterpi, né segno di vegetazione o corsi d’acqua, neanche la più labile traccia di vita. Ovunque respiri e sussurri di granito, alcuna luce se non la sfera violacea che gravitava sul palmo di Amora, nient’altro che i loro passi scricchiolanti lungo la via sempre più fredda.
Scendevano e scendevano e scendevano, tanto che Thor si chiese quanto avrebbero impiegato a risalire e se mai l’avrebbero fatto: si fidava e allo stesso tempo non si fidava dell’Incantatrice, sia per la passione incontrastabile che ella provava nei suoi confronti, sia perché nessuno che possedesse il più miserevole granello di saggezza si sarebbe mai affidato completamente ad una strega allieva delle Norne. Conosceva quella strada unicamente grazie al retaggio funereo sulla quali aveva costruito le arti magiche che padroneggiava con deplorevole maestria: il nero strisciante che si appollaiava gracchiando di massi caduti accanto e sopra e sotto di loro era per lei un animale da compagnia, da nutrire ed allevare con cure premurose, da tenere al seno e allattare con formule e rituali oscuri quanto gli occhi di Hela.
Amora era l’unica speranza che al figlio di Odino era rimasta per accedere all’Ade senza che il Padre di Tutto venisse a saperlo, ma non ne era felice. Da ciò che gli aveva detto Amora, poi, Sif e i Tre Guerrieri stavano sviando le loro tracce, conducendo le guardie e i corvi di Odino per ben altre strade, più accessibili e meno dimenticate, dominio del Re e sottostanti le sue leggi. Tornare indietro avrebbe significato vanificare ogni sforzo e condurli più inesorabilmente –O forse sarebbe stato meglio dire più velocemente ?- alla condanna e, forse, all’esilio.
Quanto e in che modo il dolore avesse piegato Padre, Thor non sapeva dirlo, ma una volta tornato dagli Inferi Olimpici avrebbe dato se stesso pur di fargli tornare il senno.
Era ancora immerso in riflessioni di tal genere, quando s’accorse che la via, ora, procedeva retta e senza più ostacoli, una lingua grigia e nera che si stendeva dritta fino all’orizzonte; ai lati del sentiero si ergevano fianchi di terra lucida, bagnati, tanto alti e livellati da dare l’impressione di essere rinchiusi tra le pareti di un enorme pozzo. Un’eco d’acqua frullava tra le pieghe dell’etere, unito ad un soffocato zampettare e sdrucciolare di sassi, scrosciare di onde e battere d’ali. Un riverbero perlato baluginava alla fine della strada, come pagliuzze di luna adagiate sulle creste del mare; da terra si levava un odore indefinito di latte cagliato, sangue e viscere di animali, e Thor poté sentire il robusto sapore del vino macchiargli distintamente la bocca.
«Amora…» tentò di domandare, ma l’Incantatrice torse il collo verso di lui, fece segno di tacere e continuò imperterrita a camminare.
Più si avvicinavano all’inconsueto bagliore, più l’olezzo aumentava e intorno si rincorreva un salmodiare lamentoso quanto antico: nenie di donne, lacrime di fanciulli, grida di guerrieri tuonavano contro la roccia e la roccia ripeteva i loro nomi, le loro preghiere, i loro pianti all’infinito, perché la terra ne avesse costante memoria. Cominciarono a profilarsi rami di piante rachitiche, bassi contorcimenti di radici grossolane e occhi smeraldini di belva dietro il soffio gelido di guaiti infantili.
Amora s’arrestò, la sfera di luce che gettava riflessi lividi sulla corona smaltata; alzò il braccio e indicò solenne davanti a sé.
«Ecco il tuo passaggio per il mondo dei morti, figlio di Odino.»
Thor la superò e fu lui, questa volta, a non rispondere. Stracci di vento e bave di refoli gli si appiccicarono alle caviglie, ma il Dio del Tuono non si diede per vinto e non si fermò fino a che non fu davanti ad una porta.
Non aveva serrature, non aveva cardini né infissi: era un semplice, seppur perfetto nella sua geometria, ritaglio della roccia. La fascia scarlatta spessa più di cinque dita, intramezzata da due cornici dorate più sottili, era sormontata ed affiancata, sul lato superiore e sui due laterali, da triangoli a campitura azzurra, gialla e rossa; a destra e a sinistra due pannelli ciascuno, uno sull’altro, con figure umane in alto e scene di animali e belve feroci sui due più in basso. Un uomo a cavallo con un palafreniere ad aprire la via ed un cucciolo maculato sul dorso del baio, si dirigeva verso il lato destro della porta e sul pannello opposto un secondo cavaliere attendeva il suo arrivo con le briglie ben strette in una mano.
Oltre la porta doveva esserci un altro luogo, ma era indistinto, indefinito, una girandola grottesca di fumi e odore di fango. Ogni tanto si avvertiva un rumore come uno starnazzo e un battito d’ali sull’increspatura dell’acqua, ma oltre a quello ed il profumo umido d’un rivo, non esisteva altro.
Il figlio di Odino sfiorò a punta di dita il profilo della creatura alata dal volto umano che veniva aggredita da un leone con criniera gialla e puntinata, il pelo viola e il ventre cremisi.
«Le Norne mi spiegarono…» e Thor trasalì alla voce improvvisamente vicina dell’Incantatrice, di nuovo al proprio fianco «Che il Padre degli Olimpici possedeva più nomi tra i mortali, sebbene per loro fosse stato designato solamente un destino ultimo. Questa…» e passò un palmo nello spazio etereo e vuoto della porta, che al suo tocco s’animò di mille cerchi concentrici «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»

 

 

***

«Quelle persone sembrano sotto l’effetto di stupefacenti: guarda la dilatazione della pupilla.»
Natasha non commentò la diagnosi del Dottor Banner: che qualcosa non andasse nel locale e in coloro che lo frequentavano le era stato chiaro non appena superata la soglia d’ingresso.
Un’atmosfera strana ristagnava all’interno della stanza, un’attesa languente, una calma fangosa intessuta d’invisibili fumi d’oppiacei, una pace artificiosa dell’animo che a Vedova Nera sembrava la conseguenza dell’hashish descritta da Baudelaire che qualche bicchiere di troppo. Gli avventori stavano in silenzio con le teste reclinate su una spalla, lo sguardo perso in lontananza ed un respiro sempre appeso alle labbra. Sospiravano in continuazione, non per noia, non per dolore, non era un gemito di dolore, né frustrazione. Semplicemente…sospiravano. Estatici. Osservavano un mondo oltre l’umano, si sarebbe detto, immersi fin dentro le ossa in una realtà sconosciuta e impenetrabile per chiunque non avesse ricevuto l’invito a penetrare i loro segreti più reconditi.
Una sospensione, un’attesa misterica che a Natasha faceva salire i brividi lungo la schiena.
Lei e Bruce scelsero un tavolino in ombra, sotto la stampa che riproduceva una pittura vascolare a figure rosse; un cono di luce soffusa si adagiava pigramente sulla curva delle sedie metalliche e una piccola candela ardeva entro una sfera di plastica verde tagliata sulla sommità. Nessuno venne a chiedere loro l’ordinazione, per quanto il barista sembrasse il più ricettivo tra i presenti.
Il Dottor Banner le rivolse un’occhiata interrogativa, cui la Romanoff rispose con un sollevarsi perplesso del sopracciglio. Non avevano molte scelte, l’unica cosa che potevano fare era aspettare.
E così fecero, ascoltando i sospiri degli uomini, i fruscii delle gonne, il singhiozzare palpitante delle candele. Non c’erano orologi, sicché l’aria era ancora più pesante, opprimente e non esisteva modo di dire quanti minuti fossero passati, né se all’Onomaklutòn esistesse una effettiva quantificazione temporale. Era un mondo a parte, un microcosmo di bottiglie lucide e bicchieri colmi di un liquore che nessuno beveva, di dita intrecciate senza convinzione, mani strette palmo contro palmo, ma prive di un vero contatto umano.
Il liquame si smosse quando quello che Alley aveva chiamato l’Artista salì sul minuscolo palco addossato alla parete di fondo. Natasha e Bruce trasalirono all’apparizione improvvisa, perché non un rumore, non una voce o un balbettare di passi avevano annunciato l’arrivo dell’uomo. Nessuno lo aveva presentato e lui si fermò con tranquilla noncuranza al centro della scena, fasci tubolari di luci che chiazzavano di bianco le spalle appuntite del soprabito nero.
Dinoccolato, col viso rettangolare e dai tratti lunghi, rigidi, decisi, l’Artista appoggiò una custodia di pelle scura sullo sgabello al suo fianco; i led affondarono negli zigomi alti e affilati, che sporgevano da sotto gli occhi come perfette cuspidi triangolari. Le iridi grigio-verdi, sovrastate da spesse sopracciglia brune, quasi rosse, scandagliarono con freddezza l’intorno, le labbra piene incurvate in un’inflessibile espressione di superiorità. I capelli scendevano in un ruggito di riccioli neri dietro alle orecchie e s’arrestavano appena sopra la nuca, mentre sulla fronte curvavano a formare un’onda che andava a solleticare, in parte, la terminazione dell’occhio destro.
La sciarpa antracite gli cingeva ferrea la gola, scomparendo all’altezza del petto nel colletto triangolare tenuto alzato sulle spalle. La camicia bianca s’intravide appena nel momento in cui sollevò il violino e lo pose elegantemente sulla clavicola, l’archetto alto sopra la testa, le dita affusolate ne trattenevano con dolce costrizione crine e corpo ligneo.
Sorrise con un ghigno di vuoto divertimento e un riverbero d’eccitazione vibrò crocchiolando per tutta la sala.
L’Artista accarezzò le corde e Natasha tornò Natalia in un singhiozzo bianco di neve.
C’era la penombra della platea, una lunga mano nera stretta al velluto dei sedili; una donna in prima fila, una folta pelliccia nera attorno al collo bianco da cigno, bocca carminia stretta a delineare la forma di un cuore trasudante sensualità e bellezza; i capelli erano tirati in una crocchia ramata di diamanti, alta sulla testa. Come tanti lumini, come tante stelle, la tiara le ricadeva sulle tempie e sulla fronte in tante gocce dalle cento e mille sfaccettature. Ogni angolo del gioiello catturava il luminoso brulichio delle lampade a gas, il canto arancio della fiammella, e sfarfallava all’intorno meravigliosi giochi rubicondi, colando con un che di misterioso e attraente negli occhi scuri, concedendo un malizioso buffetto di colore alle gote appena spruzzate di belletto.
Natalia si nascose ancora e di nuovo, il tremito del sipario arabescato a ridacchiarle dietro le spalle. Sentiva il cuore in gola, le ginocchia come fango: era sgraziata, era priva di talento, perché, oh, perché il Bol'šoj aveva voluto farla prima ballerina? Ah! Mamma, povera mamma, guarda con che scherno la Russia ancora si prende gioco di noi, della nostra famiglia decaduta! Dell’ultima figlia degli Zar hanno fatto una bambola vestita di puntolini luminescenti, l’hanno imbellettata come una di quelle poco di buono che agli angoli delle strade si svendono alle pance della Nomenklatura, oh, mamma, povera mamma! Sangue di regina muffito di trecento anni, ecco cos’è Natalia Alianovna Romanova! Credevo fosse un sogno e invece…! Il sangue che macchia la Mano asperge ghignando le mie dita e forse questo non è che un ricordo, forse non è che illusione, e la donna dalla tiara paradisiaca è solo un ultimo, mero disgregarsi dei sensi.
Però com’è bella, mamma. Mi ricorda te, la stessa alterigia, la stessa bellezza della più splendida delle donne russe, tu, Sovrana del vento, Duchessa della steppa. Vorrei che fossi qui a vedermi ballare, che sia sogno o realtà non importa, perché la tua mancanza trascende finanche il disfarsi del vero.
Quando il sipario rivelò la sua schiena bianca, Natalia aveva ancora le mani giunte al petto e l’espressione persa agli attrezzi di scena sopra la testa, quel labirinto di ruggenti mostri metallici. Il violino le urlò nelle orecchie e le scorse nelle vene, nuovo sangue e nuovo spirito: spiegò le braccia e sulle ali della melodia girò il viso ai mali del mondo. Con gli occhi socchiusi e ottenebrati di bellezza, non c’erano né incendi né fiamme, non calci di pistole e tanto meno addestramenti tanto duri da desiderare la morte, cadere e non più svegliarsi, dormire un sonno infinito senza colori e senza suoni.
Esisteva solo la musica e le scarpette che sfioravano in un turbine impercettibile di gesso le assi del palco e le dita di Natalia che disegnavano l’amore del Cigno, i polsi che con un schioccante roteare dei legamenti ne preannunciavano l’ultimo canto, la dolce, serena disperazione, mille occhi di vecchi passati, vestigia antiche, bicchieri di cristallo che brindavano alla Russia, alla Guerra più fredda del ghiaccio, e no, non pensare, Natalia, lascia che il violino parli per te e per te canti e urli e gridi e immagini altri mondi e altri universi e altri amori e altre vite! Un passo ancora nel boato della musica, le unghie artigliate al tessuto dell’esistenza, a strappare e squarciare i toni cupi del mondo, a sostituirli con armonie di albe e sussurri di tramonti e bisbigli sorridenti di stelle e baci caldi di luna, le carezze del sole al ventre e sopra il seno. Una piroetta, il torace spinto in avanti, il palco che si allarga, la luce che esplode e deflagra nel salto finale in tanti rigagnoli palpitanti.
La Regina in prima fila si alza e, oh, meraviglia delle meraviglie! Natalia-ballerina osserva e anela con sguardo estatico gli occhi amorevoli di Natalia-Sovrana e nessuno più comanda, nessuno più ordina, le catene dei capi si sciolgono con un clangore di libertà e la pace si diffonde e ramifica nel petto. Natalia si fonde a se stessa, chiude gli occhi, s’abbandona.
La musica scema, il violino permane e crea per lei una culla di pentagrammi, un cuscino di note. Il mondo, ah, che importa del mondo? Si spengono le luci del Bol'šoj, cala lento il sipario, si allontanano gli attori e l’orchestra depone gli strumenti. Resta solo il violinista dagli occhi grigio-verdi, ritto e splendido nello sfolgorio di un lampo misterico. Non parla, ma le rivela ogni cosa ed ogni parola, e ogni amplesso tra archetto e violino è una nuova onda di pace che le monta nel cuore e le scivola via dalle labbra aperte in un guaito di piacevole sconfitta.
Continua a suonare, Artista, suona ancora, suona per sempre, cancella il dolore e la rabbia, suona e sgretola la nota rossa, il sangue purpureo, l’obbligazione e l’amore, cancella anche me e suona, suona per sempre, suona ancora, suona e annullami, annullami e rendimi musica, rendimi musica e…
«Natasha…»
Vedova Nera sussultò e riemerse in un rombare di brividi. La carne fremette, i nervi s’accartocciarono e s’avvoltolarono attorno alle ossa piegate, gemendo e piangendo una litania disperata di rimpianto e costernazione. L’Artista stava ancora suonando, ma la sua melodia era divenuta meno di un sussurro alle orecchie di Natasha, ora pieni del battito frenetico del proprio cuore.
Sbatté le palpebre più volte, per schiarirsi la vista e la mente, quindi si girò ad osservare il volto esangue del Dottor Banner: era provato da una strenua resistenza, lo vedeva dal colorito livido delle guance e dell’orbita, dalla linea dura della mascella, da come il respiro claudicava nella gola a causa della deglutizione forzata. Dietro le lenti rettangolari, gli occhi erano tinti d’un verde intenso, segno che una parte di lui –Hulk, la bestia, il mostro- lottava senza requie contro l’annullamento e l’incanto. 
A cosa si fosse appigliato per evitare la trasformazione, Natasha non seppe dirlo fino a che non si accorse delle dita di Banner strette con violenza alle proprie.

 

***

 

Clint sollevò la freccia, rigirando l’asta metallica tra le dita e sollevando il mento per meglio controllare la cosa da ogni angolazione possibile. Il ratto conficcato nella cuspide ebbe un ultimo spasmo e infine si rilassò con un unico, rigido distendersi delle zampette pallide. Le vibrisse si afflosciarono sul muso triangolare, gli occhi liquidi scolorirono, virando da un nero intenso a un insignificante grigio slavato.
L’Agente pressò le labbra fino a ridurle ad una linea tagliente sul volto cupo, quindi esalò un respiro, tolse l’animale dalla punta della freccia e lo lanciò di malagrazia nel mucchietto di roditori poco distante; si piegò sulle ginocchia e col braccio teso dietro alla schiena rimise il dardo nella faretra. Sotto di lui, la camera ardente era solo un ritaglio obliquo dalla penombra delle scale, un frammento poligonale di teste e occhi, mani tremule di donne strette al fazzoletto, dita sicure di Agenti a sfiorare prudentemente il calcio della pistola.
Aveva già riferito a Stark dell’allegra brigata squittente –Sorvolando sul fatto che l’arciere migliore dello S.H.I.E.L.D. fosse stato costretto ad improvvisarsi Pifferaio di Hamelin-, ma quello che all’inizio era passato per una semplice necessità di derattizzazione, da alcune ore aveva cominciato ad assumere tratti appena appena inquietanti: vero che voci non confermate –Pepper- avevano più volte raccontato di Sandwich redivivi che sgambettavano felici e gioiosi nel laboratorio di Stark, ma a tutto c’era un limite. Soprattutto se il “tutto” ed il “limite” erano la stessa cosa, ossia la stanza dove Capitan America dormiva il suo ultimo sonno.
Due topi erano una facile battuta, cinque una raccomandata espressa al servizio di igiene statale, dieci qualcosa che non quadrava né nel cerchio, né oltre.
Undici si corresse Barton, voltandosi di scatto, la freccia già incoccata. Un istante, clock, il sibilo, uno squittio sommesso e un grumo d’ombra dove l’animale si era appena accasciato.
«Signore» Clint portò due dita a premere la ricetrasmittente che teneva nell’orecchio «Venga, abbiamo un problema»
Coulson impiegò esattamente tre minuti e cinquantotto secondi ad arrivare e in quell’impercettibile lasso, l’arciere aveva fatto in tempo a colpire un altro ratto.
Dodici pensò, lanciando la bestiola verso il mucchietto peloso che già aveva cominciato a sollevare un odore parecchio fastidioso. Che l’odore fosse vero e proprio tanfo, Occhio di Falco lo sospettò da come Phil si fermò sull’ultimo scalino, sbatté le palpebre e deglutì con esasperata lentezza quel poco di ossigeno depurato proveniente dalla camera sottostante.
«Cosa succede?» chiese poi, la voce arrochita e gli occhi lucidi per lo sgradevole olezzo.
«Mi spiace averla distolta dal suo animato dialogo con la signorina Danvers» a quelle parole, Coulson rispose col più eloquente inarcamento sopraccigliare del repertorio «Ma temo che loro non siano sulla lista degli invitati» e indicò col pollice la grottesca piramide.
Clint se ne stette in un angolo mentre il superiore procedeva all’ispezione: questi, per prima cosa, afferrò i pantaloni a livello delle ginocchia e ne alzò l’orlo, quindi piegò la gamba destra e sottili grinze si crearono sul dorso della scarpa quando la fece scivolare piano dietro di sé. Con un ginocchio a terra e l’altro poggiato contro l’addome, Coulson chinò la schiena in avanti: rigature profonde incidevano la fronte altrimenti piana, le labbra erano appena schiuse nell’atto di concentrare ogni sforzo a capire come tanti, ma pur sempre topi, potessero costituire un problema, il pelo irto degli animaletti che si genufletteva al tocco metodico dei polpastrelli.
«Cos’hai in mente, Barton?» domandò, alla fine l’avambraccio abbandonato sul ginocchio. Il Falco passò una nocca sulla punta del naso, per poi puntare l’indice contro l’ammasso di ratti.
«Vermin.» rispose e annuì a se stesso con un movimento convinto del capo.
Phil, sbalordito, lo guardò e tornò ad osservare il mucchio ispido di cadaveri. Scrollò il capo e tolse un po’ di polvere dalla spalla, ma Barton conosceva l’uomo abbastanza bene per capire come quel gesto servisse solo a dargli la possibilità di connettere quanti più particolari possibili, il tutto ad una velocità disarmante.
Stark era bravo, dannatamente bravo, a sciorinare ipotesi e proporre teorie che nemmeno Sherlock Holmes della BBC, ma Phil era…strabiliante, non esisteva maniera diversa per definirlo. Tony Stark poteva anche essere il Robert Downey Jr. della situazione, ma Coulson era uscito direttamente dall’inchiostro di Sir Arthur Conan Doyle –E per il comportamento, la lealtà, il coraggio, per il suo essere così dannatamente Phil Coulson, Barton lo accostava senza problemi a Watson, o, ancora meglio, lo considerava la perfetta, esplosiva miscela tra i due. Sebbene Phil non avesse nulla di Jude Law e nemmeno di Martin Freeman.
Se solo non avesse avuto quell’aria paciosa di perenne buontempone, forse la gente -Villains o meno che fossero- avrebbe cominciato a prenderlo più sul serio e meno per i fondelli. Sebbene, a onor del vero, l’essere minacciati da quel suo sorrisetto mefistofelico era parecchio terrorizzante.
Oh, non che Clint avesse pensato chissà quale meraviglia nell’incontrarlo la prima volta. Chi avrebbe mai preso sul serio un tizio qualunque del pubblico che dal niente lanciava una monetina in aria, sfidandolo in maniera plateale a colpirla e a dimostrare di essere davvero Il più grande tiratore scelto del mondo.
“Sono l’Agente Coulson, signor Barton. Dallo S.H.I.E.L.D. E lei mi deve un nichelino
«Vermin è un caso archiviato anni fa, Agente, e si trattava di pedinamento, nulla di più. Non avrebbe motivo di appostare i suoi amichetti qui.»
Occhio di Falco non disse nulla.
Si alzò. Sganciò l’arco dalle spalle. Sfiorò a punta di dita l’impennaggio ferreo della freccia mentre la sfilava dalla faretra. Incoccò.
Un singulto d’aria.
Phil non si mosse, nemmeno quando la cuspide del dardo gli passò tanto vicino da disegnare un’ombra scura sulla tempia.
«Allora consiglierei di portare qui qualche gatto, signore.»
L’ennesimo topo scricchiolò gemendo contro il pavimento.
Tredici.
Il prossimo che si alza sarà il primo a morire.

Coulson gettò un’occhiata veloce al minuscolo cadavere. Quindi si rimise in piedi.
Il cuore di Barton perse istantaneamente un battito.

 

 

***

L’Artista chiuse la porticina dietro le spalle e rimase per qualche secondo con le dita attorno al pomello. Sollevò le sopracciglia rosso-bruno, sospirò e quindi, inarcando un poco le spalle all’indietro, girò il volto a fissare un punto preciso tra le ombre chiazzate di rosso che dominavano il retro dell’ Onomaklutòn.
«E’ probabile che non sappia bene come rapportarmi con i miei…come li chiamate, oggi? Fans…? Ma non vedo alcun bisogno di nascondersi. Prego, venite avanti.»
Bruce stette a fissare la schiena di Natasha che si allontanava dal loro nascondiglio, salvo poi seguirla con una certa e quanto mai palpabile riluttanza. Affondò i pugni nelle tasche del giaccone, la testa incassata tra le spalle, ben sapendo di assomigliare così ad una sottospecie di bozzolo bitorzoluto e infagottato dentro una sgualcita camicia a quadri.
L’Agente Romanoff fece qualche passo in avanti e Hulk si agitò in un angolo recondito del suo animo: dacché lo spettacolo si era concluso, Natasha non pareva essersi ripresa del tutto dagli effetti del violino. Traballava incerta sulle gambe, ogni tanto, e perdeva il filo dei discorsi e dei propri pensieri; lui, invece, era riuscito a mantenere la presa su di sé grazie al moto di ribellione dell’Altro, per nulla disposto a lasciarsi domare come un leone da circo.
L’Artista pressò le labbra e pose la custodia sul gradino che scendeva dall’uscita di servizio, sedendosi poi accanto ad essa. Appoggiò i palmi delle mani uno contro l’altro, la bocca schiusa a mostrare la fila di denti superiori e i lati degli indici che sfioravano la punta del naso.
«Dunque, donna
L’appellativo fece scattare qualcosa dentro Natasha, che si fermò proprio davanti all’Artista e mise le braccia conserte al petto. A prima vista sembrava aver assunto la stessa aria con cui gli si era presentata in India, pensò Bruce, eppure c’era una nota profondamente diversa: nella catapecchia l’atteggiamento denotava comunque una lieve apertura, una pacifica prospettiva di dialogo. In quel momento a regnare era solo il gelo.
«Tale astio da parte sua non è necessario» mormorò, piegando appena la testa sulla spalla «Non sono una Menade, non è mia intenzione farla a pezzi.»
Banner notò la pupilla dell’Artista dilatarsi per la sorpresa e per una sorta di piacere inaspettato, quasi quella notizia fosse per lui un delizioso passatempo.
«Dunque è così!» esclamò, abbassando le braccia e posizionando la custodia sulle ginocchia «Le voci dell’etere non erano menzogne! L’Ade si concede ad un mortale, come la peggiore delle puttane!»
L’Agente Romanoff arcuò un sopracciglio mentre Orfeo continuava nel suo soliloquio e giocherellava con la doppia chiusura della custodia. Hulk ringhiò un avvertimento sordo nel cervello di Bruce, che dovette portarsi una mano alla tempia per attutire il dolore e la confusione improvvisa.
«Ma i ruscelli parlavano di un uomo vestito di ferro, un morto che cammina fra di noi. Cosa mi mandano gli Dei, invece? Una donna e tu» Banner alzò la testa, chiamato in causa senza che riuscisse a comprenderne il motivo «Un uomo i cui occhi non sono quelli di chi ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato un barlume di speranza!» Orfeo ghignò, malevolo, e prese il violino fra le mani, la custodia di nuovo a terra «Ma chiunque voi siate, qualunque sia la vostra missione, non potete concluderla da soli: avete bisogno di un segugio a tre teste che vi conduca ai Templi Acherontei» pose lo strumento sulla spalla, l’archetto già pronto sulle corde «E venite qui, alla mia Dimora, venite a disturbare i miei Riti Misterici, gli ultimi, forse, che ancora si celebrano in questo luogo di vestigia polverose!» rise di una risata fredda, tanto vuota e impersonale da pizzicare la colonna vertebrale con brividi irosi «Venite qui e pensate che io vi accordi il mio aiuto senza questione alcuna, piegando il capo e Sì, dicendo, sì, verrò! Vi guiderò alle ombre che hanno preso la mia sposa! Alla morte che ha trasformato il suo bel volto in un teschio, in una casa di vermi e di fango! Sì, sì, verrò!» si levò in piedi, gli occhi socchiusi, le iridi frammenti di specchio, vitrei e scuri.
Il ringhio di Hulk nel torace si fece più forte, tanto da coprire ogni altro rumore.
 «Troppe preoccupazioni nel vostro cuore, mortali. Lasciate che Orfeo ponga loro fine…»
E Bruce avrebbe voluto gridare a Natasha di stare attenta, Natasha che già guardava un mondo che non apparteneva ad altri che a lei, Natasha che aveva lasciato cadere le spalle non appena la prima nota aveva piroettato sulle corde del violino, Natasha che era la persona per cui non ficcarsi un’altra volta la canna della pistola tra i denti.
Avrebbe voluto gridare, ma ciò che gli proruppe dalla gola fu un ruggito di rabbia, un convulso vomitare di ira e furia cieca. Il fuoco divampò nei polmoni, l’Altro gli afferrò le costole e le aprì come avrebbe fatto con le sbarre di una gabbia, gli ruppe il petto, fuoriuscì con un ennesimo urlo, Hulk spacca! Hulk vendica! perchè a Hulk non piaceva essere messo da parte, a Hulk non piaceva essere addomesticato, a Hulk non piaceva essere domato, a Hulk non piaceva che Natasha fissasse il vuoto, a Hulk piaceva Natasha viva, a Hulk non piaceva un involucro vuoto di carne e respiro.
Hulk si abbatté su di Orfeo e lo scaraventò con un pugno oltre il retro del locale. Snudò i denti lucidi di saliva e si batté il petto, strappandosi di dosso gli ultimi resti della camicia; si piegò sulle ginocchia, saltò in avanti, ruggì e latrò, mentre il piccolo uomo col violino rotolava tra il fogliame e tentava malamente di rimettersi in piedi. Lo raggiunse con un balzo, lo colpì al viso con le nocche e lo mandò contro un albero: la corteccia scricchiolò e s’infranse in un tripudio di schegge, il tronco gemette, si sfaldò, il piccolo uomo col violino si aggrappò al ceppo dentellato, rialzò gli occhi sgranati e Hulk gli fu addosso, di nuovo e ancora, lo afferrò per il colletto e lo lanciò lontano, quasi fosse una marionetta o meno di un giocattolo, lo lanciò contro i rami e le sterpaglie e sterpaglie e rami gli lacerarono il soprabito e gli graffiarono il volto e quando atterrò sul piazzale, Hulk era già pronto ad assalirlo un’altra volta.
Il violino del piccolo uomo era ancora integro e questo fece ribollire Hulk di rabbia: la voce fastidiosa e ronzante di Banner gli disse all’orecchio che era il violino a rendere Natasha non più Natasha, a farlo innervosire, perché il violino poteva ammansire le belve, placare gli animali, ma lui non era un animale, non era una belva, era Hulk e Hulk era meglio di una bestia, era più di un essere umano e sapeva, sapeva bene che il violino era da distruggere e spaccare e fare a pezzi e lo avrebbe fatto a pezzi, spaccato, distrutto, doveva solo mettergli le mani addosso.
Ruggì, le vene del collo sul limite di scoppiare, i denti che stridevano e strillavano l’uno contro l’altro, e Natasha era dietro di lui e lo chiamava, Bruce! Bruce! Diceva e pregava, ma Hulk non sarebbe tornato Banner, perché Banner era debole e si sarebbe ammansito, ma Hulk no e se Hulk non si ammansiva poteva difendere Natasha, poteva proteggerla dal piccolo uomo col violino, poteva difenderla dal suono di zanzara che le appiattiva gli occhi e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge!
Il piccolo uomo col violino gattonò in avanti, ma Hulk non gli permise di allontanarsi oltre: lo sollevò, gli strappò il soprabito sporco e lercio e lurido, lo scosse più e più volte, con molta, tanta forza fino a che il violino del piccolo uomo non cadde a terra e tintinnò e l’archetto lo raggiunse, e allora Hulk ragliò soddisfatto e abbaiò divertito e la faccia del piccolo uomo era pallida e viola e lo guardava ed era terrorizzato e aveva paura di Hulk e Hulk sentiva ancora Natasha che lo chiamava e gli diceva di farlo scendere, perché l’avrebbe ucciso e a loro serviva, ma Hulk non voleva ucciderlo, voleva solo giocare col piccolo uomo, fargli vedere e capire che non poteva ammansire e addestrare nessuno e che lui, Hulk, non glielo avrebbe permesso, perché il suo violino era fastidioso, era una zanzara, era un insetto e gli insetti si schiacciano e Hulk spacca! Hulk vendica! Hulk protegge! e non lo avrebbe fatto suonare di nuovo, a Hulk non piaceva, come non gli piaceva quel posto, non gli piaceva quel bosco, quell’aria di pace che lo imprigionava e tentava di rimpicciolirlo e ridimensionarlo e Hulk non ci stava, Hulk non sarebbe stato zitto, Hulk avrebbe urlato e gridato e gridato e urlato perché lui c’era, lui esisteva e Banner voleva solo rinchiuderlo e lui non voleva e Banner non l’avrebbe mai fatto, mai, neanche in quel posto, neanche in quel bosco, neanche con quel violino che tutto placava.
«Hulk! Hulk, lascialo! Hulk, lo stai uccidendo!»
Hulk. Lascialo. Senti Natasha, non è vero? Lo stai uccidendo. Non possiamo ucciderlo. Non possiamo.
Hulk roteò il piccolo uomo sopra la testa, ignorandone il gemito strozzato.
Banner sta zitto, Banner non dice nulla, Banner vuole solo prendere il posto di Hulk, Hulk no, lascialo, ora. Lascia spazio a me, Hulk, Hulk non vuole essere dimenticato, Banner dimentica e frena Hulk e lo soffoca e lo tiene nascosto e Hulk, per favore, per favore fammi tornare. Lo stai uccidendo. Natasha non vuole che lo uccidiamo. Fammi tornare, Hulk, per favore, perché Banner dimentica Hulk e lo crede un mostro e una belva, per favore, Hulk!
«Hulk!»
Hulk grugnì e lanciò il piccolo uomo contro un albero. Vide la testa del piccolo uomo rimbalzare, blop blop, sul petto, e sangue sulla fronte e sulla faccia bianchiccia e cadere come un bambolotto senza fili ai piedi del tronco. Rimase lì e non si mosse, ma Hulk poteva sentire ancora il suo fiato, lo sentiva, puzzava di sudore e di paura e di cosa viva morta già da un po’ di tempo, non era cadavere, ma in qualche era morto, ma ad Hulk non importava, non l’aveva ucciso perché Natasha aveva detto di non farlo e Natasha ora aveva la mano sul suo braccio e il tocco era leggero, le dita erano sottili e belle, i polpastrelli carezzavano con dolcezza la pelle nuda. La voce era gentile, un sussurro appena, un quieto sussurro di vento e di brezza, una nenia rassicurante, il nome modellato avanti e indietro, indietro e avanti, piano, con calma, con calma, piano…
Bruce perse l’equilibrio, il cervello una pasta filamentosa di pensieri contorti, lontano il riverbero e l’eco dell’ultimo ruggito di Hulk.
Sarebbe caduto in avanti se non ci fossero state le braccia dell’Agente Romanoff a sostenerlo.

 

***

 

«S.H.I.E.L.D.» Bruno sputò fuori quel nome con rabbia, accompagnandolo ad un bolo di saliva e ad un rigurgito di vino acido. Si passò il dorso della mano sulle labbra, per poi lanciare un’occhiata sprezzante al sudicio compagno accoccolato poco più avanti: avvolto in stracci che puzzavano peggio dei liquami dell’Arno, la sottospecie di pantegana umana rantolava piagnistei soffocati e si torceva le dita luride e biascicava qualche porcheria tra i denti gialli ed innaturalmente appuntiti.
«Erano ratti, per Dio! Ratti. Chissenefrega se sono crepati»
L’abitante delle fogne scattò in piedi e gli fu addosso in un balzo, le unghie artigliate al pastrano e il naso gocciolante a pochi centimetri dal suo; l’italiano storse le labbra, piantandogli una mano in mezzo alla faccia rognosa e rispendendolo indietro. Vermin zampettò e s’accucciò in un angolo, masticando poltiglia non meglio identificata tra le guance pelose.
«Ratti? Tu dici, ratti?» sibilò «Senza quei ratti, tu non avresti mai scoperto di…» un gesto vago con il braccio avvizzito «Loro!»
Bruno sollevò le sopracciglia. E che cazzo, ma certa gente viveva sulla Terra unicamente per rubare ossigeno?
«S.H.I.E.L.D. » spiegò, rimettendosi in piedi e togliendosi con fare schifato un rimasuglio di tampax dalla manica destra «Strategic Homeland Intervention, Enforcement and Logistic Division. Cristo, ma era ancora zeppo di sangue!»
Vermin rivolse su di lui gli occhietti acquosi, le narici dilatate e, Bruno ne era praticamente certo, le orecchie triangolari ben ritte contro le tempie.
«Tu non hai mai avuto problemi con la Cura, vero, sorcio amico mio?» un sorriso storto mentre si accovaccia a raccogliere la fedele bottiglia di vino e se la portava alle labbra «Buon per te»
Lui, oh, lui sì che aveva avuto la sfortuna di incappare nelle conseguenze che quegli idioti della Worthington avevano tirato su con la loro idea geniale di sopprimere il gene mutante. Magneto aveva fatto i suoi bei casini con la storia della rivolta, l’italiano non diceva di no, ma almeno aveva avuto il buon gusto di sparire dagli schermi per, uhm, facevano sette anni ormai, giusto? e non lasciare nulla dietro di sé.
La casa farmaceutica, invece, non aveva cancellato proprio tutti tutti i file relativi alla Cura –Che fossero stati tanti idioti da tenerla in serbo per quando i tempi fossero stati maturi e la gente ancora più cretina?- e lo S.H.I.E.L.D. non si era fatto certo scappare la possibilità di metterci le mani sopra.
Figurarsi.
A quei capoccioni non governativi avere dei mutanti dalla propria parte poteva ancora far comodo, ma gli schizzoidi fuori legge e potenzialmente pericolosi dovevano essere eliminati prima che fosse troppo tardi. E Bruno era un mutante schizzoide, che giocherellava col sangue in maniera non potenzialmente, ma decisamente pericolosa: ritrovarsi con un mandato di cattura tra capo e collo era stato più logico di quando avevano cercato di portarlo in gattabuia, dopo aver sgozzato il docente di Letteratura Latina.
Se non fosse stato per il senatore McCoy –Dannazione, quella Bestia aveva un fiuto niente male- e la sua ferrea opposizione all’uso della Cura come inibitore criminale, lui sarebbe stato ancora costretto a correre da una parte all’altra di Manhattan per sfuggire agli Agenti, ad accartocciarsi in qualche lurido pisciatoio, a non mangiare per giorni e a farsi venire il torcicollo a suon di guardare il cielo o a tendersi alla ricerca di un suono, uno scalpiccio di piede, il singulto di una pallottola.
Una vita ancora più di Inferno di quanto già non fosse e tutta per colpa loro, di quei bastardi vestiti di kevlar o simil pelle o che cazzo era. Tutta colpa loro. Di uno in particolare, quello che lo stanava dodici volte su dieci, che l’aveva trascinato in un bugigattolo rancido, che era arrivato ad un passo dal piantargli un ago in vena e che si era fermato giusto giusto perché dai piani alti era giunta la novella del Senatore Blu.
Bruno sorrise, un ghigno grottesco a tagliargli obliquamente la bocca.
Quella baldracca. Gli aveva parlato di vendetta, quando era venuta a reclutarlo.
Mannaggia a lei. Ne sapeva una più del demonio.
«Brindo a te, Phil Coulson» ridacchiò, stringendo le labbra della bottiglia tra i denti storti «E a quando ti taglierò di netto lingua e gola, figlio di puttana che non sei altro»

 

 

***

Orfeo tamponò la ferita alla bocca con un angolo del fazzoletto.
Una macchia rossa dai bordi slabbrati sbocciò liquida sulla stoffa, colando con un che di appiccicoso contro le dita serrate e pallide dell’Artista. Bruce corse con lo sguardo sui rimasugli di sangue che ancora gli incrostavano il volto all’altezza dello zigomo destro, un bozzo livido alla tempia e l’occhio sinistro cerchiato di nero-violaceo. Orfeo stirò le labbra sottili in un sorrisetto derisorio e la minuscola ferita all’angolo della bocca si riaprì, stillando una gocciolina gonfia di riflessi lividi.
«Contempli la tua opera, Uomo-Belva?»
Banner non raccolse la provocazione e si strinse negli abiti dannatamente larghi che l’altro si era fatto procurare dal barista dell’Onomaklutòn, quasi accucciandosi e rintanandosi dentro le falde del maglione più grande di due taglie. I muscoli urlavano e le ossa gemevano, il sangue sgomitava contro le pareti delle arterie spossate per farsi un po’ di strada nel di nuovo ristretto apparato circolatorio.
Aveva smesso di tremare, il che era un bene, ma le ginocchia si rifiutavano ostinatamente di reggere il suo peso, disfatte come un gomitolo di lana: oltre che debole, si sentiva inutile, e la cosa non migliorava certo il proprio umore –Già storto di per sé a causa della trasformazione inversa da Hulk a Banner. L’Altro non era mai felice di tornare alle dimensioni di essere umano e glielo faceva presente, glielo faceva pesare ogni volta lasciandosi dietro nausea, giramenti di testa, problemi alla vista, e soprattutto un palpabile senso di rabbia vertiginosa, di impotenza, di umiliazione.
In simili condizioni non era la compagnia più adatta, neanche dopo lo scontro che aveva convinto Orfeo ad unirsi, seppur con qualche palese ritrosia, alla loro causa: aveva quindi suggerito a Natasha ad allontanarsi per informare Tony sul risultato della missione, mentre lui rimaneva di guardia, il violino ben lontano dal suo proprietario.
Bruce tamburellò con le dita sulla custodia di pelle, il tump tump tump cadenzato dei polpastrelli che cominciava ad accordarsi al battito più regolare del cuore; l’Artista, seduto su un ceppo sbranato dalla furia di Hulk, contorse la bocca a formare una smorfia sogghignante e saputa, cui il Dottore, ancora volta, evitò accuratamente di rispondere. Torse invece il collo ad osservare l’Agente Romanoff, in piedi nella piazzola antistante l’entrata dell’Onomaklutòn.
La circondava la luce soffusa delle torce fuori dal locale, accesesi non appena il sole aveva levato un ultimo braccio rossastro contro l’orizzonte. Il tramonto si era spento con un guizzo e sul bosco gran parte distrutto giganteggiava il cielo scuro, velato a metà tra notte e crepuscolo; i capelli di Natasha erano una calotta di fiamme tremule sotto quei bagliori soffocati, gli occhi s’intravedevano appena all’ombra delle sopracciglia aggrottate. Il braccio destro era piegato, la linea polso-gomito un segmento nero praticamente rettilineo all’orecchio; la curva del seno e del petto s’affossava rigida nell’incavatura del ventre, aprendosi infine nelle gambe divaricate, l’ombra un proseguo indistinto della sua figura ancora all’erta.
Ancora una volta, Bruce si chiese se non fosse controproducente, se non fosse morboso e a tratti persino perverso aggrapparsi a lei, al profilo delle ciglia, del naso e delle labbra quale fonte di quiete in una realtà che sembrava solo volerlo trasformato in una bestia verde e urlante. Provò a porre il quesito persino ad Hulk, ma questi non gli diede risposta, segno che la tempesta era ormai passata e lui si stava preparando per l’agguato e l’assalto successivi.
«Come già ti dissi, non hai gli occhi di un uomo che ha perso l’Amore della propria esistenza, ma di colui che ha appena ritrovato un barlume di speranza. Ahimè, quale disdetta. Somigli tanto al cuore mio, al mio dolce Calais, possa Eracle ancora soffrire per ciò che gli ha fatto.»
La voce canzonatoria di Orfeo ebbe l’effetto di scuotere l’Altro dai ben poco pacifici piani di conquista della coscienza, oppure, considerò Banner, era lui a trovarlo insopportabile e fastidioso senza che l’Altro ci mettesse del proprio per fargli saltare i nervi.
«Non capisco di cosa lei stia parlando.»
L’Artista ghignò di nuovo, posando il braccio sul ginocchio piegato.
«Dovresti interrogare la Belva, Uomo. Pare abbia compreso molto più di te.»
Bruce fu sul punto di ribattere, ma Natasha li raggiunse e la sua presenza distolse entrambi dall’inscenare un nuovo, inutile e disfattivo. Dalle mani strette ai fianchi e la piega dura della bocca, il Dottor Banner capì che qualcosa, durante la conversazione con Tony, aveva preso una brutta piega. Brutta, se non addirittura pessima.
«L’incontro è sempre per domani, a Cuma.» esordì, scoccando ad Orfeo un’occhiata che prometteva le più terribili torture, forse peggiori di quelle inflittegli dalle Menadi, se avesse anche osato pensare di fuggire o compromettere il loro viaggio «La notizia buona è che ha trovato Odisseo. Quella cattiva è che al momento si trova a Termini Imerese. In Sicilia.»
«Come…?» Banner corrugò la fronte. Di tutti i momenti che Tony poteva scegliere per andare in vacanza al mare, quello era sicuramente meno adatto. «Cosa ci fa a…?»
«Ah…» esalò Orfeo, reclinando deliziato il capo all’indietro.
Sia Bruce che Natasha si voltarono nella sua direzione: l’Artista risollevò la testa, il volto contratto nel sorriso di chi tutto si aspettava dalle circostanze, tranne quanto era appena successo.
«Avrei dovuto immaginarlo, sapete? Ah, Laerziade, Odisseo Che Molto Si Volge, perché ancora mi sorprendo? Perché ancora mi stupisco?» il sorriso trasmutò in un ghigno sardonico «L’Erebo gli aprirà le porte e i morti parleranno a lui con voce di sangue.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#05. Deus Ex Machina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note :

 

·         Moti di Stonewall

 

·         «Avevo pensato anche a Norton, ma dubito che l’Altro avrebbe apprezzato l’ironia di chiamarsi come un antivirus.» : Dovete sapere che quelli della Marvel sono dei trolloni assurdi. Soprattutto nelle ultime testate (Ultimates comprese) ci cacciano riferimenti agli attori che hanno interpretato i nostri eroi preferiti al cinema (Lo stesso Robert Downey Jr. cita se stesso in Iron Man 3!).
Dunque troviamo Natasha con falso nome di “Scarlett” riferimento alla Johansson e un giochetto stupido sui due interpreti di Bruce Banner: Mark Ruffalo e Edward Norton.
Allo stesso modo, quel trollone del Falco cita Robert Downey Jr. in rapporto al suo ruolo come Sherlock Holmes nella saga di Ritchie.

 

·         «E’ la via di Tinia dei Rasna, il Giove dei Tyrsenoi.»: quando dico che studiare troppo mi fa male. Andavo giusto preparandomi per l’esame di Etruscologia quando, oh meraviglia, oh portento! mi è venuto in mente questa cazzata idea. Visto e considerando che Amora sta conducendo Thor per una via traversa perché non scomodare gli Etruschi? La loro religione, infatti, ha subito una forte contaminazione dai contatti coi Greci e visto che ho inserito anche il personaggio di Enea nella storia nell’accezione del suo personaggio dell’Eneide, perché escludere la stirpe di Tarconte?
Tinia altro non è che il nome etrusco di Zeus, Rasna il nome con cui gli Etruschi chiamavano se stessi, Tyrsenoi il nome dato loro dai Greci.
La porta descritta esiste veramente e si trova nella Tomba Campana a Veio: è la prima in cui si trova la porta quale elemento centrale, fulcro attorno al quale ruota la decorazione, discrime tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

 

·         La nostra Natasha ha la bellezza di settant’anni ed è l’ultima discendente della famiglia Romanov, nonché prima ballerina del Bol’soj Mica pizza e fichi.

 

·         Carol Danvers è la nostra cara Mrs. Marvel.

 

·         Vermin

 

·         Quel coglione Quel bezugo Bruno, parlando della Cura e della soppressione del Gene Mutante, fa riferimento agli eventi del film X-Men: Conflitto Finale (2006). L’acronimo S.H.I.E.L.D. in realtà sta per Strategic Hazard Intervention, Espionage and Logistics Directorate, ma ho qui riportato la versione che ne dà Phil Coulson nel primo Iron Man.

 

·           Orfeo ha la nota più lunga, ecco perché l’ho lasciato per ultimo. Non perché mi stia sulle balle Un po’ sì, però, dai
Dunque, per prima cosa vi rimando alla
pagina di Wikipedia a lui dedicata, ché è sempre una cosa molto utile (?) Onomaklutòn è il termine con cui Ibico si riferisce a lui in un frammento del VI secolo, mentre Apollo, Calliope ed Eagro sono tre personaggi legati alla sua nascita. Calais è il giovane che egli amò dopo la morte di Euridice (Orfeo è, infatti, colui che lasciò da parte i riti di Bacco e promosse l’amore omosessuale, venendo poi fatto a pezzi dalle Menadi, per questo). Tutto, anche i particolari delle lira e del serpente sul biglietto, rimandano a lui e alla sua storia.
Poi…Cosa che credo di non aver mai fatto in altre storie, ma qui ha un prestavolto preciso. Spero solo si sia capito, ecco. Spero di averlo descritto in maniera decente.
Per chi se lo chiedesse, ho impunemente usato Benedict Cumberbatch nella sua veste di Sherlock Holmes, nella famosa serie della BBC.
Non so per quale motivo, ma pensando ad Orfeo mi è venuto in mente lui Altra prova che non sono normale, alèèèè

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

 

AVVISO! DAL 1 LUGLIO AL 16 AGOSTO SONO VIA PER UNO SCAVO E NONOSTANTE IL WEEK-END IO SIA A CASA, DUBITO DI RIUSCIRE A POSTARE UN NUOVO CAPITOLO. CERCHERO’ DI METTERLO PRIMA DELLA PARTENZA, MA NON VI ASSICURO NULLA.

 
Boia c’è Hulk. Io non ho mai descritto Hulk. Non mi sono mai infilata nella sua testa. Che dite? Plausibile o bocciata su tutta la linea?
Via, stavolta non mi dilungo, ché sto capitolo mi ha spossata del tutto XD
Ringrazio mia mogliaH Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito! E poi bunnybenny per aver messo la storia tra le seguite!
Alla prossima!

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Capitolo 7
*** #06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni ***


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.:  *** :.

 

 

 

Il montone dondolò il muso, recalcitrò e gemette un belato sdegnoso, o forse solo debitamente terrorizzato; Tony arrotolò la cavezza attorno alle nocche, sacramentando tra i denti gli insulti più terribili contro quell’insulsa bestiaccia appestata di pulci e puzzo. L’animale arretrò e roteò gli occhi sanguigni verso l’alto, verso il basso, verso destra, verso sinistra, grattò il terreno molle con lo zoccolo, ma affondò con un singulto strozzato di fango ed erba, quasi fossero tutti intrappolati nelle sabbie mobili, trattenuti da nebbiose catene d’argilla.
«Sta’ buono, Obadiah!» lo richiamò il magnate e gli sovvenne il pensiero che, più della paura –Paura di cosa, poi? Cosa avvertiva che a lui era sconosciuto?- fosse il nome a mandarlo su di giri. E non in senso buono, ovviamente. Nessuno avrebbe voluto chiamarsi Obadiah, forse nemmeno lo stesso Obadiah avrebbe voluto continuare a chiamarsi così dopo quello che aveva fatto.
O magari sì, chi lo sapeva. Tony aveva rinunciato a capire Obadiah nel momento stesso in cui quello aveva cercato di arrostirlo in maniera tanto efficiente quanto maleducata. Parecchio maleducata.
Il carrettino che Odisseo aveva trascinato lungo il declivio scricchiolò e canticchiò una lugubre nenia di legno rachitico: Stark deglutì, serrando le labbra e cominciando a capire, almeno in parte, a cosa si dovesse l’agitazione del montone.
Fino al casolare la notte era stata limpida e quieta, il cielo terso, le stelle visibili. Poi dal fogliame improvvisamente irrancidito era spuntata quell’orrida struttura, quel bubbone di cemento a parallelepipedo, un’escrescenza grigia, sporca, malarica in mezzo all’erba rattrappita, che sapeva di marcio e muffa. Tony aveva creduto di trovarsi davanti ad una vecchia colonia fascista, ma qualcosa, nelle viscere della catapecchia incrostata di lerciume, l’aveva convinto del contrario.
Le voci, in primo luogo. Striscianti sussurri smoccolati, serpi sibilline come suoni sbocconcellati, subdoli sentieri strascicati, srotolatisi sulle piastrelle sbeccate, sulle finestre spaccate, su stradicciole smarrite di sassolini e singulti d’ovatta. Non avevano forma, non erano parole precise. Si rincorrevano l’una l’altra tra i lividi batuffoli di polvere, i sacchi accartocciati della spazzatura, cicche di sigaretta, scontrini mangiucchiati dai ratti, tappeti smembrati, giornali ammonticchiati, tende sbranate, siringhe, cartucce, stoffe, ceramiche, tumescenze di cera, candele di sego. Non si fermavano, non avevano calma, né requie, sghignazzavano nell’ombra, si torcevano alla luce pallida e unticcia del fiammifero che Odisseo tratteneva paziente tra i polpastrelli imbiancati dalla tensione.
Tony le aveva sentite infilarsi, ridacchiando, nelle orecchie, scivolare lungo la gola, impiastrargli le narici; avevano creato un ingorgo litanieggiante all’altezza delle corde vocali –Corde vocali che avevano preso a liquefare, sciogliere, imbastire, annodare a loro piacimento, fino a sminuzzarle, fino a renderle mute; si erano accovacciate nei polmoni e lì erano rimaste, gnaulando e miagolando un lugubre coro di pianti.
Perché cantavano, sì, su questo Stark non aveva dubbio alcuno: cantavano di nuvole e nebbia, di vino e di miele, di acqua che scorre e tempo che sgretola, di amore che nasce e dolore che prolifera, una montante marea di cupa oggettività che il magnate sentiva appiccicarsi alle ossa come tante goccioline di rugiada acida e corrosiva.
Cosa dicono? Aveva domandato ad Odisseo, mentre entrambi stavano passando sotto un architrave dentellato.
Sono gli spiriti dei Cimmeri(1), non dar loro ascolto. Volgi la tua mente a ben altri pensieri, che il tuo cuore si colmi di vita e non di morte. L’eroe gli aveva quindi voltato le spalle, cominciando a rovistare con le dita lunghe e nodose –Così simili al legno di un albero maestro- tra le pieghe di una tenda polverosa e bitorzoluta, tinta d’una cupa tonalità vinaccia.
Accompagnato dal dleng dleng delle nocche di Odisseo che andavano a sbattere contro corpi ceramici non meglio identificati, Tony aveva seriamente tentato di concentrarsi su qualcosa che non fossero i rimbrotti purulenti di qualche anima spersa nella polvere. Non gli era sembrato un compito tanto difficile, giacché avrebbe dato l’anima pur di trovarsi in un altro posto, dentro un’altra casa, sopra un’altra terra.
Immaginò il cielo, un’estensione azzurra a picco sul mare –Dacché si erano lasciati il tramonto alle spalle, non un rigagnolo di luce era colato a bagnare il sentiero ai loro piedi: quel luogo tetro pareva immerso in un fetore costante di ombre. Ma nella sua testa, ecco…! Un nuovo orizzonte, un sole brumoso a sfumare con le dita i primi vagiti dell’alba.
Sognò di un pavimento splendente, le cui piastrelle, sospirando, variavano languide dal grigio ferro al blu metallizzato; le pareti, alte, sfiorate appena dal tocco incolore del neon, si incontravano ai quattro angoli del soffitto a lastroni pallidi. Lo specchio a muro raccoglieva l’immagine rialzata del letto, i vestiti acciambellati a terra, e rifletteva ancora anse e movimenti, i giochi di bagliori addosso alle spalle, nell’incavo delle gambe, sul retro delle ginocchia, lungo la curva della schiena inarcata.   
Inspirò a pieni polmoni l’odore pungente della santa trinità a tre esse –Sesso, sudore e sale- che inumidivano la bocca ed il ventre, la punta delle dita e il profilo aguzzo delle ultime vertebre, ogni piega rigonfia delle lenzuola incredibilmente bianche, deliziosamente sfatte.
Si crogiolò nel tepore di una vetrata aperta sull’estate, si nutrì il cuore dell’invitante tremolio del caffè che gorgheggiava a un corridoio di distanza, ritrovò coi polpastrelli l’incavarsi del materasso nel punto preciso dove un altro corpo era rimasto disteso fino a pochi attimi prima.
S’umettò le labbra col sapore dolce-amaro di una pelle calda, tesa con uno spasmo sotto la lingua; la bocca arsa della carne che riempie palpitando le mani, del respiro che si mozza nell’armonia gutturale d’un roco ansimare.
Ma nulla era più vero, di quell’immagine. Nulla più esisteva –Era bastato un filo reciso, era stato sufficiente un arresto a cardiaco.
Bave di ragnatele caddero suicide dal soffitto, ruggì la polvere a ricoprire il mobilio, ad insozzare le lenzuola, a graffiare maligna la superficie dello specchio; la mente protestò e si ribellò e crollò il cielo, il sole, l’estate, si disfece il pavimento e la realtà all’intorno: non più il bubbolio ridacchiante del caffè, ma soffi, sibili, litanie, ingiurie, preghiere, lacrime e canti e tutto fu nebbia e tutto fu grigio e la perdita ghignò, sorrise, latrò, divenne mefitica e Tony non riusciva più a trovare la vita, vedeva solo la morte e la toccava la mano e la rifuggiva e la riabbracciava, la accompagnava in un giro di valzer e poi l’abbandonava sul ciglio dell’esistenza e subito pentito era in ginocchio da lei e le baciava le ossa imputridite e la pregava, la implorava di sostituire al teschio deforme un volto ben modellato, alle orbite vuote cortesi iridi azzurre, alla non-vita la più importante delle esistenze. Soffocava per lacrime che non credeva di avere, urlava grida che credeva di possedere, sprofondava in un’agonia che non credeva di provare.
Avrebbe continuato a vagabondare nel delirio dei Cimmeri, non fosse stato per la presa salda di Odisseo sulla spalla destra.
Ricordi, Uomo di Ferro? Vita, t’ho detto! I Cimmeri, custodi dell’Erebo, si nutrono della morte, giacché non altro gli è rimasto: non vino, non latte, non datteri od offerte le sopracciglia cespugliose si erano arcuate fino ad agganciarsi all’attaccatura dei capelli Guarda! Osserva come la nebbia ci si è gonfiata all’intorno e come brulicano i loro occhi attraverso i tralci della tua disperazione. Non pensare a chi stai andando a salvare, Uomo di Ferro, ma chi è rimasto ad aspettarti, a salvarti, oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi avvolte(2).
Stark aveva annuito, forse deglutito –Aveva faticato anche solo per ricordare dove si trovasse e in qualche condizione e perché fosse lì, intirizzito dal terrore e dalla nebbia.
Erano usciti nel giardino incolto da una porta scrostata e dai cardini in parte divelti, Tony che si guardava circospetto alle spalle, la camicia incollata alla schiena per colpa d’un gelido reticolo di sudore freddo; Odisseo che avanzava lesto tra l’erba alta, le sterpaglie e la gramigna.
Se i ricordi alla Tower erano più un intralcio che un sollievo, Stark decise di aggrapparsi all’unica persona ancora in grado di tenerlo vivo: Pepper gli arrivò accanto, un’eco di dolce pazienza, addosso il profumo tiepido di quell’intruglio alla cannella che si ostinava a bere prima di iniziare a lavorare; un leggero retrogusto di Vodka Martini a donare una stilla divertita agli occhi gentili, i capelli che cadevano dalla spalla destra in un singhiozzo rosso-biondo e si arricciolavano come un sorriso appena sotto la curva del seno.
Gli aveva dato un bacio sulla fronte, prima che partisse per Vathy, e lo aveva abbracciato. Gli aveva chiesto scusa, lo aveva stretto più forte.
Tony aveva riconsiderato le proprie storielle e scappatelle varie da parecchi punti di vista, ma con Pepper la situazione era diversa. Pepper non era stata una storia, non era stata un’esperienza…Era stata una vita e per questo Stark ancora la ringraziava –Arrivando persino a scegliere di persona il suo regalo di compleanno. Di persona con Steve, ma era pur sempre un dettaglio tranquillamente trascurabile.
Fuori dal casolare fatiscente lui ed Odisseo avevano seguito una staccionata smangiucchiata dalle intemperie, fino a raggiungere un recinto squadrato e in buona parte ricoperto da fogliame incolto; al centro un montone nero e una pecora dagli occhi acquosi, immobili, come in attesa. Senza dire una parola, l’eroe omerico aveva tratto via un carrettino cigolante dall’ingorgo di sterpaglie che gli era accanto, vi aveva depositato il sacco di juta in cui aveva messo…il qualunque cosa avesse tratto dalla tenda bitorzoluta, tre anfore ancora piene –Aveva sentito del liquido scrosciare rumoreggiando in ognuna di esse - ed una più piccola, che sapeva di miele odoroso –Ma com’era possibile che fossero lì? Che fossero ancora pieni? Perché erano lì? Perché erano ancora pieni? Perché non erano marciti e, dannazione, perché tutto, tutto sembrava predisposto da tempo immemore per la loro venuta?
Odisseo aveva poi legato i due animali e cominciato a salire lungo il profilo della collina, attraverso sentieri che non esistevano e deviazioni coperte di spine e rami cenciosi. Si muoveva con la sicurezza di chi avesse il percorso tracciato non nella mente, ma nel sangue.
Quante volte sei già stato qui?
Una sola, Uomo di Ferro. Ma una visita a questi luoghi è bastevole per una vita intera.

Più si addentravano nel ventre guasto di quel luogo dimenticato da Dio –Da qualunque pantheon provenisse-, più il miasma pallidiccio s’infittiva e le nenie crocchiolanti s’alzavano di volume e malinconia; Tony aveva spesso torto il collo a cercare la ghirlanda luminosa che era Termini Imerese, addormentata nella conca dei declivi, ma della cittadina italiana non era rimasto che un pigolio vacuo oltre la nebbia melmosa.
«Di’, ma cosa ne dobbiamo fare di Obadiah e della tua pecorella?»
Odisseo sulle prime non rispose, intento com’era a sfilare dal sacco alcune coppe piuttosto profonde, dotate di due anse orizzontali all’altezza dell’orlo e sulla pancia una decorazione tanto affastellata di elementi che Stark non sapeva dove porre lo sguardo.
«Di cosa credi si nutrano le divinità ctonie, Uomo di Ferro?» lo rimbeccò, aprendo le anfore a svelare il loro contenuto di latte cagliato, acqua e vino dolce.
«Take Away cinese?»
L’eroe lo fissò per alcuni istanti, prima di scoppiare a ridere e rivelare la chiostra bianca dei denti.
Non era più il pazzo arzillo che aveva incontrato a Vathy: aveva abbandonato le spoglie da mendico per spalle larghe, torace ampio, pelle cotta dal sole e ingemmata di cristalli di salsedine; i capelli rosso-bruni gli arrivavano fino alle orecchie e coprivano il mento volitivo con una sottile peluria della tonalità del bronzo, più folta sotto il naso adunco e rada all’altezza degli zigomi, due spessi triangoli come d’argilla che sporgevano a sostenere gli occhi obliqui e verdi, colmi di mare e sapienza. Delle vesti con cui gli si era presentato aveva mantenuto unicamente il cappellaccio conico, mentre la corta veste blu scuro, trattenuta in vita da una cucitura rosso squillante, aveva ben altro aspetto ora che non recava più traccia di polvere e sporco.
«Ehi, non giudicarlo prima di---»
«Scava una fossa cubitale, Uomo di Ferro. Mantieni nel tuo cuore, però, ancora il soffio di allegria di questa tua facezia, giacché ciò che vedrai ha sfiancato spiriti più audaci del tuo»
Odisseo parlava poco, ma le sue frasi erano una meno comprensibile della precedente. La cosa peggiore, però, era la traccia di inquietudine che esse lasciavano addosso, un sentore inevitabile e terrore, brividi sotto pelle, fiato bollente ad attanagliare la gola.
Tony fece quel che l’eroe gli aveva detto, spiando le sue mosse con la coda dell’occhio: lo video estrarre da una piega della veste un coltellaccio a costola curva; il montone e la pecora scalpitarono e belarono, qualcosa tremò, vibrò sotto la terra.
Stark scattò in piedi e s’allontanò con un salto nel vedere un dito ricurvo spuntare dall’ultima zolla smossa, artigliare l’aria, torcersi e quindi svanire come fiammella spenta da un soffio di fiato; si voltò a cercare Odisseo con sguardo allucinato e le tempie sbiancate dal terrore; l’eroe sorrise d’un ghigno superiore e lontano, slegò la cavezza, avvicinò il carrettino e strattonò gli animali in avanti, per poi consegnare corde e coltellaccio nelle mani del magnate. S’inginocchiò nel fango a saggiarne la profondità con le unghie incrostate di rimasugli violacei, quindi si rialzò e prese la prima delle anfore, versò il contenuto nelle basse coppe e lo gettò dentro la fossa.
Il latte si frantumò ruggendo contro le pareti bombate, l’odore si mescolò nauseabondo al lezzo crescente di putrefazione e ossa divelte; ad esso seguì una lacrima di miele ambrato, dolce come l’ultimo abbraccio dei cari, e poi vino profumato di zucchero e spezie, asprigno, stucchevole, calice alzato alla memoria del defunto. Infine l’acqua, a cancellare e mescere, a comporre e distruggere, e la terra assorbì le libagioni con un risucchio di gengive insalivate e bocca di vecchio, l’erba ebbe un guizzo di fuoco e smeraldo, il freddo irrigidì finanche le stelle.
«Divinità dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò in quest’impresa da infiniti tramonti non più tentata, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte.»
Obadiah gettò un urlo d’orrore, la pecorella scalpitò, ma Tony era troppo paralizzato per accorgersi di qualcosa che non fosse il fluire delle offerte in rigagnoli pestilenziali o la voce di Odisseo, profondo rombare d’Oltretomba.
« E per…» l’eroe sollevò gli occhi di baratro nero ad incontrare gli occhi di Stark e questi avvertì la risposta uscire di propria sponte dalla bocca contratta.
«Steven Grant Rogers» mormorò, con un sussurro intorpidito che non gli apparteneva.
«…Steven Gran Rogers a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.(3)»
E prima che potesse protestare, prima che potesse capire, Odisseo artigliò con dita ferine le corde che trattenevano gli animali e il montone fu il primo a cadere. Un lampo del coltello, il filo della lama pianse gocce vischiose di sangue fumoso e cedettero le ginocchia coperte di vello e svennero gli occhi marroni nell’orbita infossata del muso triangolare. Un urlo di sordo giubilo squarciò il ventre del mondo, la nebbia fremette, s’arricciolò, cantò entusiasta e volti senza viso di uomini antichi si acquattarono attorno al perimetro della fossa, esseri fatti di goccioline e ragnatele, esseri che non conoscevano il sole, esseri avvolti dai nembi eterni e senza fine –I Cimmeri.
La pecorella tentò di saltare oltre il bordo, ma Odisseo fu veloce e l’agguantò e le disegnò un sorriso purpureo sul collo lanoso. Sprizzarono ovunque filamenti rossi e trine vermiglie, pioggia carminia e ululati gorgoglianti, strascicare di vesti, tendersi di nervi, strascinarsi di piedi, versi arrochiti di stomaci contratti dalla fame di vita, dalla sete di sangue.
Odisseo si levò, Tony arretrò, i Cimmeri esultarono.
I morti apparvero.

 

***

Nel muovere un passo in avanti, la pietruzza si staccò da sotto la suola del calzare e rotolò tintinnando in acqua. Il trampoliere(4) sollevò il collo flessuoso e girò verso di lui il becco appuntito; rimase ad osservarlo per alcuni istanti, gli occhietti neri socchiusi –Sospettosi, persino-, quindi battè le ali e s’involò con uno scatto liquido, la punta candida delle piume che gettava all’intorno schizzi e gocce grigiastre.
Gli uccelli erano ovunque, tanti puntini bianchi tra i canneti incolori e il rimestare limaccioso dei fiumi: Thor ne vide uno percorso da venuzze rigide, come cristalli o graffiti di ghiaccio, un secondo limpido, a specchio, che lasciava intravedere il fondo di ciottoli sgrossati e appiccicosi di melma verdastra; ve n’era anche un terzo, un tripudio di fiamme, cenere e lapilli, il cui convulso scorrere lavico era accompagnato da un singhiozzare continuo, costante(5).
Il Dio tese il collo in avanti, non osando avvicinarsi di più, né cercare una facile discesa alle rive bollenti.
«Per Odino…!» esclamò, ritraendosi «Sono uomini, quelli immersi!»
Ed era vero, lo sguardo non l’aveva ingannato: tra i flutti di fuoco emerse un cranio ustionato, la pelle una crosta nera e ributtante sulle ossa roventi; dei bulbi oculari non era rimasta che una poltiglia di lacrime e muco, della bocca carne untuosa, pustole e bubboni cancerosi –Eppure possedevano ancora la forza, o la maledizione?, di poter piangere, di poter urlare, di poter implorare la salvezza.
«Non ti curar di loro, amore mio» l’Incantatrice gli mise una mano sulla spalla «Parricidi e matricidi, poco più che bestie.»
Thor era sul punto di ribattere, quando un suono, un belato, risuonò in invisibili cerchi sopra le loro teste e tutta l’aria –Fino a quel momento intrisa del sapore di vino, miele e latte cagliato- s’impregnò di metallo e sangue; il Dio alzò la testa e corrugò la fronte quando vide i trampolieri levarsi in un sol gesto nel medesimo istante, un unico corpo di penne e guaiti stridenti.
Nell’avvoltolarsi stagnante dell’acqua sollevata dalle loro zampe, presero forma figure oblunghe con teste ovali, arti allungati e corpi molli, stracci penduli dalle braccia gommose e attorcigliate attorno a caviglie tremolanti. Claudicavano ondeggiando verso il punto in cui il fiume di fiamme e il rivo striato di gelo si univano a formare una lingua d’acque fumose: era sorto una specie di rigonfiamento, in quella zona, formatosi dall’accumulo di sostanze vischiose, bianche, rosse e ambrate, dal lezzo maleodorante, infetto. Le anime immerse nella lava tentarono di uscire, aggrappandosi agli orli appiccicosi degli altri spiriti, ma appena uno riusciva nell’impresa ecco…! Uno dei trampolieri gli volava affianco e gli strappava le dita con una beccata; le creature lattee, in qualche modo richiamate dal gesto dei parricidi, facevano ricadere il cranio sul petto bombato e piegavano le gambe esili, come ad inginocchiarsi. Di nuovo, l’uccello interveniva ad impedire ogni contatto, afferrando tra gli artigli la veste pallida dello spirito e traendolo via, riconducendolo alla lunga, lenta processione.
Il Dio del Tuono sarebbe rimasto ancora per molto tempo ad osservare la litania di anime mugolanti procedere senza scopo comprensibile, soprattutto perché esse, una volta arrivate sull’escrescenza rialzata, tendevano le falangi tubolari alle pareti coniche del pozzo roccioso e poi svanivano, in un soffio di polvere e cristalli. Avrebbe voluto, questa volta, scendere per osservare più da vicino, ma Amora doveva avere per lui altri progetti: lo afferrò per un lembo del mantello e lo costrinse a scendere per una viuzza screpolata, a stento bastevole per far passare entrambi in fila indiana.
Si tennero lontani dalle rive dei tre fiumi, ma Thor poteva comunque sentire ragnatele di zolfo e carne bruciata incrostargli le narici e il fiato gelido degli spiriti colare denso sul retro del collo; l’Incantatrice quasi correva, i capelli biondi ridotti a filamenti grigiastri per la luce non-luce di quel posto infame.
«Amora» la chiamò il figlio di Odino «Amora, dove stiamo…?»
La donna si girò veloce, lo sguardo che ostentava una sicurezza inesistente, la bocca che cercava di nascondere il tremore impaurito della mascella; le spalle candide erano scosse dai brividi, il petto florido s’alzava e s’abbassava non per la corsa, ma per il panico del cervo che si sa braccato dal cacciatore, pur non vedendolo negli angoli che svolta e snida. Torse il collo a cercare dietro di sé, strinse le labbra truccate di carminio e fece scivolare le dita sinuose tra quelle di Thor; questi arretrò, ma in cuor proprio non poteva negare come, in assenza di Lady Jane, avrebbe trattenuto con gioia la mano dell’Incantatrice contro il palmo.
«Dobbiamo sbrigarci, amore mio.» lo avvertì e portò una nocca al labbro inferiore «Siamo stranieri in questo luogo, non scordarlo. Se ci trovassero…» s’interruppe di colpo e gli occhi sgranarono; il Dio stava per chiederle di continuare, quando una voce alle spalle palesò il motivo di tanto terrore.
«Se vi trovassimo, prima vi interrogheremmo. In seguito vi conficcheremmo la nostra picca nel costato»
Thor si girò, cauto, il braccio destro già teso lungo il fianco, pronto a richiamare Mjolnir; appena ebbe posato lo sguardo su chi aveva parlato, poi, il figlio di Odino capì di essere al cospetto di propri pari.
Erano due ed erano a cavallo: nudi entrambi tranne che per un mantello tinto di porpora ed un copricapo a guisa di guscio calato tra i riccioli neri, acconciati ai lati delle tempie in trecce sottili, lucide d’olio. Un balteo di cuoio abbellito di borchie in argento attraversava loro il torace, a sostenere sulla schiena una picca di frassino, e sulla fronte algida fiammeggiava una stella iridescente. Guardandoli nella fretta e nell’apprensione, a Thor i due gemelli -Perché altro non avrebbero potuto essere- erano sembrati identici in ogni dettaglio, ma osservandoli meglio notò che gli occhi di uno avevano il colore della terra bagnata, del limo fecondo, del fango che straripa fertile dalle bocche del fiume; le iridi dell’altro, invece, avevano la splendida, meravigliosa lucentezza del cielo terso che circondava anche Asgard, l’azzurro divino dell’orizzonte più terso, della più pura volta celeste. La pelle di quest’ultimo, inoltre, era come intessuta d’oro e le carni del secondo fratello, a confronto, ne uscivano smorte, pallidicce, malate. I muscoli non erano così scattanti, né delineati, la bocca non così rossa, le gambe non così forti –Se qualcuno glielo avesse chiesto, il figlio di Odino avrebbe detto che ad uno era stato concesso al dono dell’immortalità, all’altro negato per natura di sangue.
«Attento, cuore mio» bisbigliò Amora al suo orecchio «Costoro sono custodi dell’Oltretomba. Essi sono gemelli, nati da un uovo di cigno. Ma ricorda, uno solo di essi…»
«Taci!» gridò il fratello dagli occhi di terra, tirando le briglie tintinnanti «Polluce(6), anche tu lo senti? L’odore che li appesta, il lezzo che mi attanaglia lo stomaco» socchiuse le palpebre, storcendo la bocca in un’espressione di sommo disgusto «Paglia impregnata di barbarico piscio, barbaro idromele e sangue barbaro. Dite, stranieri, riuscireste a pronunciare i nostri nomi senza arrotolare balbettando le vostre lingue balbuzienti(7)
Thor ringhiò, la faccia stravolta dall’ira e dalla vergogna; le vene del collo pulsarono, i denti scricchiolarono tanto prese a digrignarli.
«Via, Castore, non intrattenerti oltre con loro» lo riprese Polluce, ma sul suo viso non c’era alcuna intenzione di porre fine alla tensione «Di certo, avranno una spiegazione per questo comportamento, vero? Del perché si sono introdotti come i peggiori dei ladri nella Dimora dell’Ade, del perché Cerbero non ringhia e non latra più dall’oscuro ventre del suo antro. Oppure…Oppure, proprio come quel cane d’Odino, Signore della Fetenza, venite qui pensando di poter disporre dell’Ade, solo perché ora---»
Non gli riuscì di concludere la frase, che già il Principe di Asgard lo aveva colpito allo zigomo col potente Mjolnir: un gran scoppiettare di tuoni e scricchiolare di lampi accompagnò la caduta di Polluce, tra gli schizzi di fango e rametti bavosi incastrati tra i ricci ben modellati. Il cavallo, privo di cavaliere, nitrì, s’imbizzarrì, mosse impazzito gli zoccoli al vento; Castore gli fu incontro, spingendogli davanti la propria cavalcatura con una ginocchiata nei reni.
Infuriato oltre ogni limite, girò la testa e tese la picca.
«Pagherai col sangue quest’affronto, cane barbaro.»

 

***

Steve smise di parlare e gli venne il dubbio di non aver nemmeno mai iniziato.
Ricordava l’ingresso nel gorgo nero, affiancato da Ermete, il cicaleccio cigolante del fuso e le dita che strimpellavano rancide nenie su un filo ben teso e il morso rugginoso d’un paio di cesoie farsi lontano e confuso; ricordava la strada in discesa e il buio sempre più fitto, ma che per gli occhi non era causa di fastidio alcuno: il Capitano vedeva bene come fosse stato giorno, per quanto, a onor del vero, da osservare e rimirare ci fosse ben poco.
Ermete era l’unica fonte di luce nel grigiame della galleria, il bagliore delle vesti e della fascia alata che gli cingeva la fronte creava ai suoi piedi un alone d’oro bianco capace di allontanare qualsiasi ombra avesse cercato di sopraffarlo. E di ombre, in quel luogo, ce n’erano in abbondanza: ombre negli angoli della roccia, nei tumori tufacei della pietra, tra le noci di ghiaino e le erbacce scheletriche, ombre nel reflusso sonoro di acque lontane, ombre ad infiacchire la voce, a sbriciolare i ricordi.
Steve non le temeva, il che lo inquietava parecchio. Più avanzava attraverso il rigurgito stagnante, più cominciava a sentirsi a proprio agio in mezzo a quei nugoli mormoranti e un senso di pace lo ineluttabile lo invadeva dalla cima della testa alle punte dei piedi.
E lentamente, inesorabilmente, iniziava a dimenticare.
Schiacciato dalla pesantezza dei miasmi e dal silenzio corroborante, Steve aveva deciso di raccontare qualunque cosa gli fosse venuta in mente, con la sensazione, così, di non perdere se stesso: aveva detto ad Ermete del Madison Square Garden, della folla e delle luci, del ringhio del motore sotto le dita; gli aveva presentato James “Honcho” MacDonald, Reddy e Wolf, descrivendo la vivacità del primo, l’emozione del secondo e la sospettosa serietà dell’ultimo, di tipico stampo californiano; aveva taciuto del pre-spettacolo, però, degli occhi di Stark riflessi nello specchio del bagno della Tower, il suo completo lucido –Armani, naturalmente-, la cravatta ancora allentata, la testa piegata appena sulla spalla destra e le braccia incrociate sotto il petto. Come avesse appoggiato la schiena allo stipite della porta e l’avesse osservato mentre si sistemava i capelli con la brillantina che il magnate tanto detestava. Come gli avesse sorriso di quel suo sorriso particolare, che a malapena la gente avrebbe catalogato sotto la voce Ghigno non troppo derisorio.
Avrebbe volentieri taciuto altro, ma ad ogni parola che pronunciava un filo di memoria veniva reciso con un singulto strozzato e allora Steve parlava, parlava, parlava ancora e di nuovo, e raccontava e narrava in uno scrosciare di memorie impastate l’una con l’altra, una fanghiglia di immagini dove il prima ed il dopo non avevano significato, e il vero si mescolava al falso, il giorno al sogno.
Tornava indietro, sempre più indietro, tornava a Peggy e al calore del suo sguardo, al vestito scarlatto nel baluginio polveroso del locale, al suo sapore che sapeva di lacrime e gioia e buona fortuna sulla bocca, e poi  Bucky, come scordare Bucky? Bucky, l’amico, il fratello, il compagno, e la sua mano tesa e il suo sguardo rassicurante e la sua caduta nel vuoto e nella neve, l’ultimo urlo svanito nella tormenta e il volto contratto nel laboratorio di Zola e la sua risata sminuzzata dai lumini singhiozzanti di ConeyIsland.
Col fiato corto e il respiro inacidito in gola, il Capitano aveva continuato a correre sul sentiero dell’esistenza passata, fino a quando le storie erano finite e la voce si era spenta.
Allora era arrivato il languore e l’inerzia, una forza-non forza a sospingerlo in avanti con molle fermezza, il passo zoppicante, la testa a ciondoloni, le palpebre cadenti. Non gli importava più di parlare, giacché non avrebbe più saputo cosa dire. Non gli importava più di ricordare, giacché anche la memoria lo aveva abbandonato.
Non viveva più, ormai, a che serviva rivangare ciò che era stato? Aveva abbandonato il passato e perso il futuro, tra le mani di biacca bluastra gli rimaneva il viscido presente dell’Ade e avrebbe fatto bene a tenerselo stretto, prima che la follia gli tarlasse brano a brano quel poco di pace che era riuscito a conquistare –Sebbene a costo di un’esistenza che, ora, era meno d’un vago miraggio.
Era vecchio. Vecchio e stanco.
Ora poteva smettere di affaccendarsi. Ora poteva riposare.
«Presto arriveremo alle rive dello Stige» lo avvertì Ermete, degnandolo di un’occhiata impersonale, di chi aveva ripetuto la medesima frase per mille volte mille secoli «Lì ti consegnerò un obolo: quando richiesto, lo darai a Caronte, affinché…» il volto etero del Dio s’accartocciò, un reticolo di rughe comparve a raggrinzirgli la fronte piana.
Con un flaccido movimento del collo, il Capitano reclinò la nuca all’indietro: latte cagliato e vino, sapor d’acqua e di miele giallognolo gli intorpidirono la lingua, appallottolandosi entro la cavità delle guance e scavando, scavando a fondo, a ritrovare la carne e i nervi, le vene, lo spirito. Esplosero con un boato dentro il torace, lo stomaco si torse e reclamò qualcosa di più del cibo, stremato da qualcosa di ben più forte della sete.
Le pareti del ventre arsero, furibonde e roventi, ogni fibra del corpo di Steve urlò a gran voce la vita perduta, la mente tuonò uno schiocco di vita nel cranio altrimenti vibrante di silenzio; la voce sgorgò a fiotti liquidi dalla bocca pervasa dall’indolenza, il respiro grattò i polmoni muffiti e il fiato era caldo ed era buono, il richiamo tanto forte da piegare le ginocchia.
Rogers non colse l’espressione stupita del Dio, né si curò di come l’Ade, all’improvviso, si fosse animato di mille e più fiammelle lattee: il corpo rispose al suo bisogno, le gambe si mossero da sole e si lanciarono in avanti, i piedi nudi cozzarono a contatto col pietrisco, scivolarono e sdrucciolarono, ma il Capitano non perse l’equilibrio, non perse la presa –Non perse la speranza.
Corse lungo la riva di un fiume turbinoso d’onde schiumanti, guidato dalla fame che lo divorava dall’interno. Vide spiriti e foschia e lamelle di ghiaccio ed un rialzo grottesco di libagioni; non si fermò quando un trampoliere gli tagliò la strada in un gran frullare d’ali, né quando un ruggito di zoccoli rovinò fragoroso all’intorno e un grido e un urlo risposero loro con barbaro rimbombo di lampi.
Ermete lo seguiva in volo, perplesso e confuso, ne avvertiva la presenza alle spalle mentre si librava di una spanna almeno sopra il pietrisco della sponda; Steve s’arrampicò sull’ammasso globulare e stette in piedi a rimirare verso l’alto, ebbro di un’attesa che credeva non poter provare mai –Che credeva non avrebbe più provato: sopra di lui le pareti ben delineate del pozzo scintillavano per le gocce bianche del latte e sanguinavano lacrime di dolce vino rosso; blasoni di miele colavano accanto ad un pigro ruscellare d’acqua e su, ancora più su, dove prima il soffitto era un’unica volta di pietra impenetrabile, un ritaglio squadrato franava luce grigia e palpabile nebbia grigio-perla.
Il profumo metallico del sangue gli bruciava le viscere, le rigirava sulla punta di un coltellaccio bollente, e mordeva e bestemmiava –Aveva sete, una sete insopportabile. Sete di vita, sete di sangue, sete di parole.
Sentiva una voce, il Capitano, qualcuno che lo chiamava, qualcuno che lo pregava di tornare e di mostrarsi, di farsi vedere, di dimostrare come fosse ancora presente e non divorato dall’annullamento dell’Ade.
Steve chiuse gli occhi ed inspirò piano, inspirò a fondo.
Quando sollevò di nuovo le palpebre ed espirò un lungo, pesante sospiro, Tony era davanti a lui.

 

***

«Quindi ora lo prendo e lo porto a casa, giusto? Una sorta di pacco espresso per le Stark Industries?»
Odisseo, ombroso e cupo in volto, scosse la testa. Aveva le mani ancora lucide di sangue e un’immane stanchezza negli occhi antichi; Tony, immobile sul ciglio della fossa, lo sguardo che ne rincorreva di quando in quando il perimetro per cogliere un’avvisaglia dell’arrivo di Steve, si girò a fissarlo con la mandibola contratta.
«Ma allora…» soffiò, le palpebre strette, le dita chiuse a pugno «A cosa è servito venire---»
«Non puoi portare via i morti dall’Erebo, Uomo di Ferro –Esso, infatti, ancora mi deve tre abbracci alla cara e defunta madre» l’eroe omerico si rimise in piedi «Ti è concesso, però, dialogare con loro. In questo caso, di avvertire colui che tanto scompiglio ha creato nell’Olimpo e persino ad Asgard»
Stark si massaggiò le tempie con le dita, pregando a denti stretti che qualcuno –Possibilmente vivo- gli portasse qualcosa da bere. Qualcosa di molto, molto forte e di molto, molto adatto a sedare l’istinto omicida che gli stava montando in corpo.
«Di cosa dovrei avvertirlo? Non lo so, magari di fare attenzione all’umidità? Oh, ti capisco, la sua chioma è l’invidia dei Nove Regni, come direbbe Point Break, ma sei giustamente preoccupato che sottoterra qualche ricciolo ribelle possa sfuggire alla patriottica impalcatura di brillantina con cui li doma ogni giorno. Molto carino da parte, davvero» annuì, sarcastico, e batté le mani «Ora, se la finissi con i consigli da Hairstylist e ti decidessi ad essere più chiaro e meno--»
«Avvertilo di non bere le acque del Lete o dimenticherà tutto.»
«---Ascolta, riguardo questa tua mania di interrompermi. Dovremmo lavorarci sopra, che ne dici?
“…Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono nell’Acheronte insieme al Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne berrà anche un solo sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà incatenato eternamente all’Ade.»
Tony serrò le labbra e deglutì, indeciso se trovare la cosa di pessimo gusto, poco credibile oppure entrambe.
«Okay, d’accordo. Niente shot di questo…Fiume o qualunque cosa sia. Dio, lo sapevo che Rogers doveva avere più contatto fisico con la Vodka e meno col sacco di sabbia.»
«Inoltre» continuò l’eroe, del tutto incurante dei commenti del magnate «Ordinagli di parlare, sempre e comunque. Di parlare e di ricordare, le situazioni minime e insignificanti, un suono, un colore, un brivido. Digli di ricordare per se stesso e non per gli Dei o per lo psicopompo che lo accompagnerà oltre lo Stige: i primi perché con un sol gesto li mutano in polvere, per impedire il rimpianto dei morti e la loro pazzia. I secondi perché assorbono tali ricordi, alla disperata ricerca dei propri, abbandonati troppi anni addietro per poterli riavere. »
«Lasciatelo dire, tutto questo è inquietante» messo in allerta da un rumore come di stoffa impigliata in arbusti, Tony si girò verso la fossa.
E sbiancò.
«Rettifico. Questo è inquietante»
Una colonna di spettri pallidi e impaludati di foschia lattea erano comparsi dal nulla, stretti e ondeggianti nel perimetro cubitale dove Odisseo aveva gettato le libagioni e fatto scorrere il sangue dei due animali. Oscillavano a destra, dondolavano a sinistra, barcollavano indietro, ciondolavano in avanti, agitavano le lunghe braccia a forma di tubo, annuivano con le grandi teste bitorzolute e prive di qualsiasi tratto somatico.
L’eroe scattò in avanti e saltò dentro la fossa, il braccio destro a tenere lontane le anime con la punta del coltello, l’altro ad accennare a Stark perché lo seguisse.
«Non lasciarli avvicinare, Uomo di Ferro. Essi vogliono parlare, vogliono essere ricordati e respirare di nuovo l’aria del mondo, ma non c’è abbastanza sangue per tutti loro: fa’ che venga a te solo Steven Grant Rogers, e nessun altro.»
Il figlio di Howard annuì, convinto di poter riconoscere lo spirito di Steve da qualunque altro gli si fosse presentato davanti. Fu con sommo orrore che scoprì come ogni anima fosse identica a quella accanto, a quella davanti, a quella dietro ad un grado di perfezione tale da farlo uscire matto. Erano disgraziate tutte allo stesso modo, bianche allo stesso modo, gnaulanti allo stesso modo: nessuno presentava un dettaglio diverso che gli permettesse di ricollegarlo al Capitano.   
Andiamo pensò, nella più totale disperazione Andiamo, Steve. Vedi di arrivare, di tornare, di farti vedere. Dimostrami che non sei ancora stato inghiottito da questo marasma teologico in cui hai deciso di ficcarti solo perché, bhé, non so, c’è già stato il finale di stagione di Grey’s Anatomy? Sia chiaro, non è un buon motivo comunque, eh, ma ti giuro, ti giuro, è da due giorni che continuo a dirmi che deve esistere una spiegazione logica a quanto è accaduto, perché non te ne puoi essere andato così, dal nulla, senza avvertirmi, senza darmi il tempo di prepararmi alla cosa, senza… prese un respiro profondo, deglutendo il vomito logorroico che gli aveva appena gonfiato la bocca Fatti vedere, Steve. Ti prego. Smetterò anche di bere, intesi? Ti va bene come accordo? Tu…Tu esci fuori da quella tana per ratti e io disdico tutti gli appuntamenti in agenda con madama Vodka e mister Rhum. Anche quelli non agenda. Anche quelli su Twitter o i Poke su Facebook. Dico davvero stavolta. Ma tu…tu devi tornare, però. Torna. Ti prego…”
«…Torna»
La voce gli morì sulle labbra.
«Steve» riuscì solo a pronunciare quando vide il corpo del Capitano emergere dall’ammasso scomposto di spiriti.
Rogers avanzò piano, l’espressione vacua sul viso innaturalmente pallido. Il corpo era nudo, ma sembrava avvolto nella stessa guaina scivolosa delle seppie, appiccicosa come quella dei calamari; pareva che avessero costretto le sue carni in guanto di lattice tanto era bianchiccia e trasparente la pelle, tanto erano slavati gli occhi impolverati. Le dita erano bitorzolute, sgraziate, le unghie bluastre; i capelli erano paglia e il biondo era marcito fino a prendere un nauseabondo colorito verdognolo, le sopracciglia si erano assottigliate all’inverosimile, sparendo nell’ampia fronte, colante sudore e biacca.
«Tony» disse Steve e il tono era incolore, come incolore erano la bocca e le vene, striature d’un rosa malato a tessere ragnatele appena visibili sui polsi sgrossati ed il collo enfio «Cosa ci fai qui?»
Sulle prime, Tony nemmeno capì. Storse la bocca, scosse la testa, uno scintillio furioso gli bruciò lo sguardo.
«Che ci faccio qui? Che ci faccio qui? Non so come funzioni il sistema di notizie nell’Ade, Capitano, ma si dà il caso che io mi sia spezzato la schiena pur di venire a tirarti fuori da questo piattume greco e tu…»
«Io sono morto, Tony. I morti devono rimanere coi morti. Noi non apparteniamo alla vita. Noi apparteniamo all’Ade. Non abbiamo più passato, non c’è concesso futuro. Possediamo solo il presente. E il presente è nell’Ade. Insieme ai morti. Noi non apparteniamo alla vita. I morti devono rimanere coi morti. Io sono morto, Tony.»
«E considerati fortunato ad esserlo, altrimenti ti avrei---» Stark non ebbe il tempo di concludere la propria ingiuria, che Odisseo aveva steso un braccio ad impedire una probabile ritorsione fisica nei confronti di Rogers –Perché ci sarebbe stata, sì, Tony lo avrebbe volentieri preso a pugni fino ad ucciderlo di persona, lui e quei suoi dannati discorsi sui morti che dovevano rimanere tali. Idiozie! Balle! Gli avrebbe ficcato in testa a suon di destri e ganci che Anthony Edward Stark non si era arreso alla morte una volta, né avrebbe scelto proprio quel momento per cominciare.
«Il sangue curerà il suo intelletto, Uomo di Ferro» lo rassicurò l’eroe omerico, il volto sereno, placido «Guarda»
Il figlio di Howard deglutì a forza, ma si impose di non intervenire fino a quando Steve non avesse recuperato il senno di sua volontà –In caso contrario, ci avrebbe pensato lui a riportarlo in carreggiata.
Il Capitano sgranò gli occhi, d’improvviso famelici, e ignorò entrambi per inginocchiarsi sul rigagnolo purpureo che ancora fumava attorno alla gola del montone: schiuse le labbra e affondò le dita nel sangue, lo sollevò tra le mani chiuse a coppa, ansimò come un animale e bevve. Bevve, succhiò, sospirò estatico, si mise in piedi.
Un rivolo caldo ruscellò vermiglio dalla bocca lungo tutto l’esofago, ramificandosi all’altezza del torace, ricostruendo vie, sentieri e vita. Il colore sbocciò sulle guance terree, deflagrò negli occhi di nuovo azzurri e barbagliò d’oro tra i capelli; le labbra si tinsero d’un violento carminio, le carni s’animarono e scintillarono e le dita erano di nuovo forti e s’aprivano e si chiudevano a pugno e il petto si sollevava, s’abbassava, e Stark credette di morire dinanzi a quello spettacolo. Il sangue arterioso sprizzò dai polsi e dalle caviglie, le avviluppò e ricadde, si mescolò e modellò a ricreare il morbido tessuto dei guanti e degli stivali, mentre il sangue venoso pompava lento a stendere sulla sua pelle il caldo blu scuro della divisa in spandex.
Steve rimase alcuni secondi ad inspirare aria a pieni polmoni, quindi sorrise e aprì lentamente le palpebre.
«Tony» mormorò e c’era tanto tepore in quell’unica parola, che il magnate temette di poter andare a fuoco da un momento all’altro.
«Ehi, ragazzone» lo salutò allora, quasi si fossero lasciati non più di cinque minuti al tavolo del bar «Bentornato»
Rogers sorrise ancora, sorrise più ampio e dolce e quieto, si avvicinò e tese la mano verso di lui.
Tony sapeva cosa sarebbe successo, sapeva perfettamente cosa significava quel gesto: un battito appena di cuore e avrebbe avvertito le nocche di Steve sfiorargli delicate –Ma non più incerte, non più titubanti- il volto, dallo zigomo fino alla bocca; lì, poi, si sarebbero aperte e avrebbero accarezzato, disegnato il profilo delle labbra con la punta dei polpastrelli.
Perché Steve lo toccava, lo sfiorava, lo accarezzava spesso e sempre e tutte le volte che ne aveva l’occasione: non gli aveva mai chiesto il motivo di tanta attenzione per il contatto fisico, ma Stark era convinto che lo facesse per meglio imprimersi nella memoria e nel sangue ogni piega, ansa, sfumatura del suo corpo, per riportarla su un foglio di carta bianca o anche solo per trattenerla dentro di sé quando una missione li costringeva a stare separati per parecchio tempo –Gli ordini erano ordini, dopotutto.
Anche la prima volta che aveva condiviso il letto, che lo avevano condiviso davvero e non si erano limitati a dormire l’uno accanto all’altro, le dita intrecciate, i respiri incatenati, raggomitolati insieme sotto le lenzuola azzurro pastello del letto di Tony –Per arrivare al punto di dormire insieme, comunque, erano stati necessari due passi avanti ed uno indietro e non solo da parte di Rogers, che, a conti fatti, era più spaventato dall’idea di abituarsi alle usanze del nuovo millennio che da quella di avere una relazione, seppur segreta, con un uomo-, la prima volta, il figlio di Howard lo ricordava bene, a farla da padrone erano state le mani di Steve, i palmi di Steve, le dita di Steve, i polpastrelli di Steve.
Non gli era possibile scordare come il compagno gli avesse racchiuso il volto tra le mani, come si fosse chinato sulle sue labbra a raggiungere bocca e respiro, come si fosse spinto contro il suo torace, in pieno contatto con il Reattore Arc. Tony aveva chiuso gli occhi quando le dita di Rogers erano salite al collo, oltre le spalle, a delineare le fasce muscolari delle braccia fino a colmarsi i palmi coi suoi fianchi; le mani, ricordava Stark, erano scivolate veloci sotto la maglietta nera che stava indossando a mo’ di pigiama e subito si erano ritratte, quasi un simile gesto avesse avuto il potere di bruciargli la pelle.
Il figlio di Howard, alla fine, non aveva capito più nulla –E con una certa soddisfazione poteva ben dire che anche per il Capitano la situazione era stata la stessa: le dita aggrappate alle gambe, le mani che scivolavano sulla schiena, passavano sotto le braccia, i baci mormorati all’orecchio, sussurrati al collo, bisbigliati al basso ventre, il battito cardiaco che scalpitava, ansimava, correva, galoppava, il sudore sul torace, i polpastrelli che cercavano le costole e le vertebre, la bocca che richiamava sé fiato e respiro, denti che siglavano possessione e sottomissione sullo sterno, sulla clavicola, nell’incavo dei gomiti, sui polsi, la lingua che saettava a cingere umida la dolce profondità dell’ombelico, sangue che pulsava nelle gambe e nella colonna vertebrale, girandole di colori e dolore e carne tesa e pelle arrossata e piacere, piacere, piacere, piacere, piacere, piacere…
Ma per quanto potesse essere stato intimo e profondo quel loro primo, forse anche goffo, forse anche inesperto cercarsi -Tony Stark conosceva perfettamente il corpo delle donne, le rotondità dei fianchi, la curva dei seni, la linea dolce e sensuale del collo e delle spalle, l’incunearsi del ventre sotto il minuscolo cerchio dell’ombelico. Non c’erano segreti nel modo in cui inarcavano la schiena e piegavano la testa all’indietro,nel mento che si sporgeva verso l’alto e le labbra che si schiudevano in un battere scarlatto di rossetto, il guizzo della lingua, il barbaglio bianco dei denti che si sgretolava e si scioglieva in un gemito liquido. Il corpo di Steve tra le dita, al contrario, era stata la sorpresa, l’ignoranza, la scoperta-, per quanto potesse essere stato così vicino a quanto aveva sperimentato e provato con Pepper –Sebbene ciò che era stato con Pepper era stato solo e soltanto con Pepper e nulla, nulla mai sarebbe potuto rassomigliargli od eguagliarlo, nel bene e nel male-, per quanto, si diceva, potesse essere stato così…tanto, era nulla rispetto a quando Steve era arrivato a baciare con cauta, rispettosa lentezza il Reattore impiantato nelle costole.
Niente avrebbe potuto far presagire un simile gesto, perché Tony gli si era presentato, divertito e gongolante, ammanettato alla testiera del letto –Avevano guardato da poco Sherlock Holmes, a sua discolpa, e Stark si era autonomamente imposto come istitutore sessuale dell’obsoleto Capitano, di cui era probabile che la fantasia erotica più vertiginosa coinvolgesse Betty Boop in giarrettiera e reggicalze- e Rogers aveva cominciato a mostrare deliziosi progressi e unghie ben affilate.
Poi c’era stato quell’attimo di sospensione e il lento bacio e gli occhi chiusi e le dita della mano destra ferme contro il costato, quelle della sinistra sospese sul fianco.
Tony si era chiesto per un istante e forse anche per due, come fosse possibile costringere un uomo –Un ragazzo di neanche trent’anni- come Steven Rogers alla guerra,  lui con quel suo sguardo azzurro e il bel sorriso e i modi gentili –Poi erano arrivati i graffi e i morsi, e allora aveva dovuto ricredersi.
Forse, forse aveva sublimato l’idea di un Capitan America terrorizzato dal sesso ai livelli di una pudica fanciullina del Trecento fino a farlo diventare un vero e proprio kink. D’accordo. Era plausibile.
Quando la mattina dopo si era ritrovato con la schiena rigata di graffi rossi e gonfi, l’adorabile e quanto mai eccitante fantasia era andata in pezzi –Sulle sue ceneri, però, ne erano sorte molte e di ben altro genere, in cui manette e giochi di ruolo erano sempre accetti.
Rogers era stato nell’esercito, in fondo. Stark aveva dovuto seriamente ricredersi sulla sua ormai confutabile negazione sessuale –Non che la cosa gli fosse dispiaciuta o ancora lo dispiacesse, naturalmente. Anzi, aveva dato alla loro relazione quel pizzico in più che…
A ricordare le proprie speculazioni psico-sessuali su Steve, Tony sorrise, ma fu un’espressione che durò assai poco. Corrugò la fronte, aggrottando le sopracciglia: non aveva sentito alcun tocco sulla guancia e per un folle momento ebbe il sospetto l’altro fosse scomparso.
Riaprì allora gli occhi e lo vide contemplarsi le mani con sguardo confuso, rimirare e rigirare le dita da una parte e dall’altra, salvo poi serrarle fino far sbiancare le nocche. Nello sguardo guizzarono frustrazione e rabbia, la stessa che gli era costata un rapporto in piena regola segnato in nero su bianco nei file dello S.H.I.E.L.D. –Dovrebbe imparare a controllare la rabbia(8), scriveva di lui Nick Fury e anche se Tony non avrebbe dovuto leggerlo, perché, ehi, erano dati segreti o altra robaccia del genere, lo aveva letto comunque, perché i sistemi di difesa dei computer dello S.H.I.E.L.D. erano penosi e lui faceva solo che un favore a Mace Widu, se le incursioni non richieste nel database servivano a migliorare un po’ le cose.
Però si era detto d’accordo con quell’affermazione.
Steve aveva così rabbia dentro, che un congegno dell’HYDRA non avrebbe potuto provocare scoppio peggiore o più rumoroso. Il Capitano tendeva a non mostrare quella rabbia, se era in compagnia –In sua compagnia, in particolar modo- ma c’era, esisteva e premeva, e Stark la vedeva negli occhi e nel cuore, nel modo in cui contraeva la mascella e guardava il mondo quasi fosse troppo nuovo per un vecchio come lui e il proprio riflesso quasi fosse troppo vecchio per un mondo nuovo come quello all’intorno.
Tony conosceva quel tipo di rabbia, perché ne era oppresso alla stessa maniera: lui cercava rifugio nell’alcool, Steve in un sacco di sabbia. Entrambi si erano votati all’autodistruzione e ne recavano i segni, chi per il colorito giallastro del viso, chi per le nocche costantemente sbucciate e cosparse di ecchimosi –Per entrambi cercare rifugio l’uno nell’altro era un effetto placebo parecchio rassicurante.
«Perché? Perché non posso toccarlo?» soffiò il Capitano, serrando le palpebre.
«Ai vivi non è concesso toccare i morti e ai morti non è concesso toccare i vivi. Lo hai detto tu stesso, no? I morti devono rimanere coi morti»
«Oh, perfetto, ci mancava un altro Village People» Stark alzò gli occhi al cielo, ma il Dio che era appena apparso sembrò non aver udito –Oppure, al contrario, lo aveva deliberatamente ignorato.
«Laerziade…Chi altri avrebbe potuto portar qui il mortale?»
«Ermete, mio signore» Odisseo chinò la testa e una ciocca di capelli si curvò a coprire un ghigno astuto «Faccio solo ciò che mi è stato ordinato»
«L’Ade è sguarnito, Laerziade. Nelle profondità della sua tana, Cerbero più non latra e i Dioscuri sono inquieti.»
«Così si dice»
«Sì, bene, molto carino ed edificante, ora possiamo tornare al problema principale?» Tony si frappose fra Ermete e l’eroe omerico, le braccia alzate a chiedere una sorta di time out –Steve, dietro di lui, si lasciò sfuggire una risata breve, ma ben udibile «Ovvero, portarvi via il qui presente Capitano e reintegrarlo nel mondo dei vivi»
Ermete sollevò l’angolo destro delle labbra e le ali che gli cingevano la fronte ebbero un battito bianco.
«E cosa ti fa credere di poter riuscire nell’impresa, mortale?» lo dileggiò, lo sguardo macchiato di derisione.
Stark rispose alla frecciatina con un’occhiata ironica e sollevò tranquillo le spalle.
«Perché mi chiamo Anthony Edward Stark, sono un genio, miliardario, playboy, filantropo, occasionalmente salvo anche il mondo…» strinse le palpebre «E l’ho già salvato dall’eternità una volta. Non vedo perché un paio di leggende incartapecorite come voi dovrebbero impedirmelo una seconda»
Il Dio emise uno sbuffo contrariato, scuotendo il capo.
«Sei colmo di hybris, mortale. Trasudi tracotanza da ogni parola che pronunci da quella bocca empia. Ma permettimi di ricordarti le sagge parole di Dario: la hybris, fiorendo, suole dare un frutto di ate, da cui si raccoglie una messe di pianto(9)»
«Bella, d’impatto. Dove l’hai letta? Su un biscotto della fortuna?»
«Tony…» provò a richiamarlo il Capitano, ma il figlio di Howard gli si rivoltò contro come una serpe, la frustrazione e l’impotenza chiaramente leggibili sul volto affaticato.
«No! No, Steve! Lo sai, ho sempre avuto un rapporto poco convenzionale con la religione, adesso io e lei siamo arrivati ai ferri corti. Mi sono stancato e sono deciso più di prima a riportarti indietro. Non ho mai creduto a un Dio, o forse sì, quand’ero ragazzo, quand’ero bambino, e anche allora portava alternativamente il nome tuo o di mio padre, a seconda di come mi alzavo la mattina.
“La maggior parte delle volte era il tuo, giusto per informarti»
Steve tentò di bloccarlo, ma Tony continuò nell’arringa. Ci teneva a dimostrare quanto poco avesse cura di quei fantomatici Dei che giocavano con loro come bambini annoiati, che gioiscono del nuovo balocco e tempo un giorno e già lo hanno abbandonato per qualcosa di meglio e meno noioso.
«Di solito sei tu quello dedito alla preghiera, fra noi due. E no, non fare quella faccia, Rogie. Ti ho visto e ti ho sentito mentre mugugnavi qualche salmo alla luce dell’abat-jour, cosa credi?»
Che il Capitano avesse una concezione religiosa molto diversa dalla propria, Stark lo sapeva senza dover per forza seguirlo ogni domenica per vedere dove andasse, se alla palestra del vecchio Stan o alla chiesetta a tre isolati di distanza dalla Tower. Un’anonima e minuscola accozzaglia di mattoncini rossi, un rosone di dimensioni discutibili, sgangherate panche di legno e una croce di metallo bubbonico piantato tra le tegole brune; l’altare era carino, però, il pulpito si reggeva bene in piedi e l’ostensorio era l’unico, pregiato oggetto coperto in foglia d’oro di tutto il ciarpame della navata e della sagrestia.
…Sì, va bene, una volta Tony l’aveva seguito per vedere dove andasse, e si era nascosto all’ombra di una colonna, dietro le spalle l’incombente presenza di San Sebastiano; aveva pensato che il profilo di Steve, attorniato dal bagliore delle candele, fosse particolarmente bello, ma aveva subito fatto marcia indietro quando gli era sembrato di avvertire su di sé gli occhi un poco…canzonatori del Cristo in Croce.
Suggestione, probabilmente –Insomma, un Cristo in Croce che ti squadra divertito mentre imbastisci pensieri poco casti riguardo al tuo compagno, il tutto tra le pareti della Santa Madre Chiesa? Solo in Doctor Who.
E forse neanche in quello.
Mio padre era irlandese(10) gli aveva raccontato Steve, una sera soffusa e lontana, in cui tra loro c’era solo una vaschetta di gelato alla fragola, parecchi non-detti e alla televisione passavano l’inguardabile What’s Your Number?(11) –Una settimana dopo nella vecchia palestra di Stan a provare qualche passo di danza e le labbra del Capitano posate sulle proprie con una naturalezza disarmante, Tony aveva compreso che il gelato alla fragola e l’orrido film erano solo un inconscio pretesto alla reciproca compagnia Mi ha passato un po’ della sua Fede cattolica.
Non aveva mai dato peso alla cosa, almeno fino a quando non si era ritrovato in un letto d’ospedale a combattere tra la vita e la morte, e tutto perché un membro dell’A.I.M. aveva avuto la malsana idea di tirargli una granata tra capo e collo. Nel delirio della febbre, Tony aveva aperto gli occhi nella pastosa realtà di una notte indefinita e aveva avvertito la presenza di Steve accanto a sé: non avendo forze per girare la testa, si era limitato a lasciarsi cullare dalla litania rassicurante della sua voce –Arrivando poi a comprendere il significato delle sue parole nei giorni successivi.
Signore, lo so, lo so che non dovrei avere nemmeno l’ardire di pregarti, non dopo quanto è successo tra me e lui –Dicono che è sbagliato, Signore, che ai Tuoi occhi questa relazione è peccato, questo sentimento è male,  ma per una volta, una volta soltanto voglio essere così superbo da ritenere che nulla di amore, ai Tuoi occhi, possa essere abominio.
Perché io lo amo, Signore.
Mi è caro. Caro più della vita. E se è sbagliato non importa, non m’importa nemmeno se è peccato, se è male o abominio: Tu lo hai portato a me e Tu hai portato me a lui, ci hai messo a confronto, ci hai messo a disposizione l’uno dell’altro e non mi sento sbagliato, peccaminoso, malefico, né abominevole quando sono con lui, Signore. E forse in questo sta il mio peccato maggiore: non accorgermi, forse, di quanto sia orribile questo mio amore. Forse il vero peccato è la mia mancanza di coraggio, la mia impossibilità di dirglielo apertamente, così irretito come sono da paura e incertezze.
Ma non credo che il sentimento che provo sia orribile. Di nuovo, sono convinto che se Tu hai predisposto ogni cosa perché ci incontrassimo, allora nulla di cattivo può nascere dalla nostra relazione. Perché, ne sono sicuro ogni volta che lo guardo, ogni volta che lo respiro, Tu già sapevi cosa sarebbe successo.
Per cui, ti prego. Ti prego, Signore. Salvalo. Salvagli la vita.
Ti prego. Fa’ che si risvegli. Ti prego.
Ho bisogno di lui.
Mi è caro, Signore.
Ti prego.
Salvalo.

Tony non ne aveva mai fatto parola con nessuno, soprattutto con Steve. Anche quando, alla Tower, si era svegliato di soprassalto da un sogno che non ricordava, che non aveva importanza, e nel riflesso dello specchio aveva visto il compagno inginocchiato sulla sponda del letto, i gomiti affondati nel materasso, le dita chiuse e appoggiate sulla fronte.
Recitava il Padre Nostro e lo recitava in latino.
Perché proprio in latino? Non aveva potuto non chiedere, la mattina dopo.
Rogers era sobbalzato sulla seggiola di cucina, macchiando la tovaglia col caffè; le orecchie erano divenute tizzoni ardenti, come ogni volta che si imbarazzava o era colto in flagrante nel mezzo di qualche attività che nessuno avrebbe ritenuta degna di Steven Capitan America Rogers.
In Italia…Durante la guerra, sai? Capitava che finissimo in qualche paesino sperduto tra le colline e i parroci non ci hanno mai negato una Messa o anche solo una preghiera. Le dicevano in latino e mi sono rimaste nel cuore.(12)
Avrebbe voluto chiedere di più, tornare alla preghiera di tanti mesi prima, domandargli di…Di quello, delle paure e dell’incertezza, ma si era accorto di come gli bastasse così. La cucina immacolata, la colazione, Steve che sorrideva ad un piccolo ricordo –Non gli interessava sapere se avesse avuto qualche “passionale trasporto” per altri uomini o unicamente per le donne, né se lui, Tony Stark, fosse l’unico uomo per cui avesse mai provato quel sentimento, o che altro. Per il figlio di Howard era più facile: sfidare le convenzioni della società era parte intrinseca del suo essere, anche se fino a quel momento non aveva mai pensato che il contatto con un uomo sarebbe mai effettivamente andato oltre una stretta di mano o una pacca sulla spalla.
Gli bastava sapere che, quella particolare mattina, oltre a lui, Tony Stark, non esisteva nessun altro e l’unico su cui Steve si fosse mai permesso un commento era Robert Downey Jr. E’ che ti somiglia davvero tanto si era giustificato, sfuggendo i suoi occhi divertiti.
Nient’altro. Non importava. Non importava davvero.
«Hai presente il Salmo, no? Quello famoso, dai, che recitano sempre nei telefilm. Ecco. Non mi interessano i pastori, né essere una pecora –Guarda, poi, la considerazione che hanno gli Dei di quei poveri animali» Stark indicò il montone rattrappito ai loro piedi «Per quel che mi riguarda, è grazie a te se non manco di nulla. Pascoli erbosi, acque tranquille…Ti sembro forse un texano? Mi basta sapere di tornare alla Tower vivo, con te al mio fianco, stravaccarmi sul divano a guardare qualsiasi baggianata passino in televisione solo per poterti osservare mentre leggi un libro –Cristo Santo, Steve, i kindle li hanno inventati per un motivo!-, con la testa appoggiata sulle mie ginocchia. Sarò fazioso e di parte, lo ammetto, ma ad avermi tirato fuori dalla “valle oscura”» mimò le virgolette con le dita «Dell’alcool sei stato di nuovo tu. Sei sempre tu. Ad apparecchiare la mia mensa, a cospargermi d’olio –E qui ci fermiamo per amor della tua pudicizia- sei sempre tu. E’ nella tua casa che voglio abitare per lunghissimi anni…» riprese fiato e alzò gli occhi ad incontrare gli occhi di Steve «Che ne dici? Secondo me farebbe un figurone come promessa»
E da come l’altro lo guardò esterrefatto, Tony capì di essersi fatto sfuggire troppo nell’enfasi del momento. Si morse la lingua e si schiarì la voce, ma era già troppo tardi.
«Tony. La tua era una pro---»
«---vocazione. Ti sfido a restare rintracciabile fintantoché…» corrugò la fronte «Steve»
Il Capitano dovette cogliere la preoccupazione della sua voce, perché abbassò gli occhi e subito arretrò, un’esclamazione sorpresa appesa alla bocca: gli stivali si stavano liquefacendo e così i guanti e la divisa, macchie incolori s’allargavano a dismisura sul petto, sulle gambe, le vene si ritraevano con un sibilo guizzante e al loro posto serpeggiavano di nuovo le liane rosate e malaticce.
«Cosa…» Rogers diede due poderose manate alle chiazze oleose che andavano impadronendosi del suo corpo, della sua volontà, ma invece di rallentare il processo, finì col peggiorarlo «No! No! No!»
«Il tuo tempo è finito, Steven.» Ermete gli fu accanto, con velocità pigra ed indolente –Di chi sa, di chi può ogni cosa solo schioccando le dita. «Hai ingannato l’Ade troppo a lungo, Caronte attende il suo obolo»
È troppo presto! Avrebbe voluto replicare Stark, ma il vuoto gli aveva attanagliato il cuore e distrutto lo spirito e la voce non usciva Non mi avete fatto parlare con lui non un attimo, non un minuto, non un istante! Non portatelo via! Non ancora!
«Non bere!» urlò, invece, per sovrastare il roboante silenzio dentro al petto «Se berrai la loro acqua dimenticherai ogni cosa e allora, a quanto pare, non potrò più salvarti –Bello sapere le cose in tempo utile, no?» un sogghigno nervoso «E continua a parlare. Non smettere. Parla a te stesso, parla con me, ma con nessun altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti.
“Te lo prometto, Steve. Ti porterò via da qui.»
Un quieto sorriso sollevò la bocca del Capitano, di cui non erano rimasti che gli occhi cerulei e labbra –Tutto il resto era pallore e morte.
«Qui? Dov’è qui? E’ un sogno, vero? Dimmi che lo è, Tony, dimmi che puoi svegliarmi. Dimmi che non morirò nel sonno. Non permettere a questo vecchio soldato di svanire così…(13)»
Steve allungò la mano e Tony quasi cadde nel tentativo di stringerla, di trarla a sé un’ultima volta: crollò carponi nel fango con le dita che annaspavano e artigliavano e s’aggrappavano al vuoto, all’aria e all’assenza. Si chiuse nelle spalle con un sospiro e se ne stette in quella posizione per attimi che gli parvero giorni e mesi e anni. Nemmeno Odisseo osò turbare il dolore di cui era preda e per questo Stark gliene fu grato.
Se sollevò la testa, fu solo per una voce flautata e rosa dal rimpianto allo stesso tempo, una voce che il magnate non udiva da troppo tempo.
«Tony? Oh, bambino mio…!»
«…Mamma.»

 

***

Castore lo aveva colpito al petto, affondato la picca proprio come aveva detto.
O forse era stato Polluce? Ah, non ricordava. Tutto era vago, tutto era confuso tranne il dolore che montava all’altezza del cuore, un cerchio di fiamme ad arrostire, incenerire lo sterno e i bronchi.
Se non fosse stato per quella voce sconosciuta, tonante nel ventre della terra, forse lo avrebbero ucciso. Era così debole, in quel luogo. Non se n’era accorto fin quando il braccio che teneva Mjolnir non s’era irrigidito e le dita non s’erano piagate, ogni falange coperta da un’escrescenza di liquido pus biancastro. Era crollato in ginocchio e la vergogna era stata più forte del ferro che uno dei gemelli gli aveva conficcato nella profondità delle carni.
Sarebbe morto, sarebbe morto davvero se i due non fossero stati richiamati da un comando più grande del loro volere –Non ne erano stati contenti, comunque. L’odio e la rabbia trasparivano come veleno dai volti altrimenti belli e giovanili.
Anche gli Incantesimi di Amora non erano serviti e…Amora! Amora? Dov’era, Amora? L’aveva trascinato lei, lei da sola, fino alla sponda del fiume, al riparo dai trampolieri e dagli spettri lattei, dall’odore pungente del vino e del sangue. Lei sola, fragile fanciulla, sposa di Incanti, s’era sobbarcata il suo peso di guerriero e l’infamia di non aver saputo difendere con onore il nome di Odino e di Asgard.
«Amora…!» la chiamò, ma la voce tonante era più debole d’un ridicolo pigolio di pulcini. Le parole erano ingarbugliate col sangue, i suoni con saliva e ristagno fetido di polmoni. Le gambe erano immobili, le braccia prive di ogni forza. Il mondo non era più grigio, ma verteva ad ogni istante ad un nero cupo, fumoso, che partiva dall’angolo dell’occhio e s’allungava su tutta la cornea.
«Amora…!»
«Sono qui. Sono qui, amore mio. Shh…Fa’ silenzio, mio cuore.» c’era forse qualcosa di più bello, in Asgard, a Midgard, nei Nove Regni, del suo sorriso incorniciato dall’oro fiammeggiante dei capelli?
…Il sorriso di Jane, sì. Il sorriso di Jane era più bello del sole, più splendido del cielo e delle cupole a specchio del Palazzo. Il suo volto di bambina, la sua voglia di sapere, il suo amore per le stelle, tutto in lei aveva la bellezza divina della mortalità.
Ma non erano di Jane le mani che gli sfioravano le guance, non di Jane le dita che gli sollevavano la testa per fargli appoggiare le labbra sull’orlo di una coppa gelida e sbeccata.
«Bevi, bevi, Thor, Figlio di Odino» lo invitò sibillina l’Incantatrice, ogni sorsata dell’acqua limpida un cerchio alla fronte e un dolore in meno al cuore «Bevi e scorda ogni vergogna. Bevi e dimentica ogni affanno…»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#06. E Vivrò Nella Tua Casa Per Lunghissimi Anni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note di Fine Capitolo

 

(1) Per Omero i Cimmeri sono gli abitanti di una mitica terra oltre l'Oceano - collocata forse nell'estremo settentrione - perennemente avvolta dalle nebbie, dove non arriva mai il sole. Su indicazione di Circe, Ulisse nel suo peregrinare per mare, vi si reca con i suoi compagni, per la nékyia (= l'evocazione dei morti). Infatti, giunto in quella terra inospitale e tetra, dopo aver celebrato un sacrificio in loro onore, Ulisse incontra le anime dei morti risalite dall'Erebo attirate dal sangue dei sacrifici eseguiti e interrogherà lo spettro dell'antico indovino Tiresia che gli rivelerà il suo futuro. (Wikipedia)

 

(2)oltre il popolo e la città, di nebbia e nubi avvolte” (Omero)

 

(3)La frase è ripresa dal Kolossal di Franco Rossi: “Divinità dell’Ade e voi, morti che abitate questi luoghi senza speranza, se mai riuscirò a ritornare ad Itaca, io prometto di immolarvi la più grassa delle vacche sterili e di colmare il rogo di ricche offerte. E per Tiresia a parte sacrificherò un montone dal vello nero, il più bello e forte dei nostri greggi.”, a sua volta facente capo ai versi dell’XI Libro dell’Odissea:

 

Addotto in su l’arena il buon naviglio,
E il montone, e la pecora sbarcati,25
Alla corrente dell’Oceano in riva
Camminavam, finchè venimmo ai lochi,
Che la Dea c’insegnò. Quivi per mano
Euriloco teneano e Perimede
Le due vittime; ed io, fuor tratto il brando,30
Scavai la fossa cubitale, e mele
Con vino, indi vin puro, e lucid’onda
Versaivi, a onor de’ trapassati, intorno,
E di bianche farine il tutto aspersi.
Poi degli estinti le debili teste35
Pregai, promisi lor, che nel mio tetto,
Entrato con la nave in porto appena,
Vacca infeconda, dell’armento fiore,
Lor sagrificherei, di doni il rogo
Rïempiendo; e che al sol Tiresia, e a parte,40
Immolerei nerissimo arïete,
Che della greggia mia pasca il più bello.

 

(4)Secondo la credenza etrusca, i trampolieri sono animali psicopompi.

 

(5) I fiumi Cocito, Lete e Piriflegetonte, confluenti dell’Acheronte, un ramo dello Stige. Nel Piriflegetonte, secondo quando ci racconta Platone, erano immersi i parricidi e i matricidi.
Circe, nell’Odissea, ordina all’eroe di compiere il sacrificio ai defunti nei punto in cui si uniscono Cocito e Piriflegetonte.

 

(6) Castore e Polluce sono i fratelli di Elena, figli di Zeus e Leda –O, secondo un’altra versione del mito, anche di Tindaro. Per questo, solo Polluce ed Elena sarebbero veri immortali, Castore, invece, sarebbe no.
Sono rappresentati come giovani nudi, tranne che per il pilos sul capo, a cavallo, con una stella sulla fronte e dotati di lancia.
Che siano custodi dell’Oltretomba è un espediente ripreso dalla cultura etrusca.

 

(7) Il termine “barbaros” …Bhè, si rifà effettivamente all’atto di “balbettare”, ossia l’incapacità degli stranieri di pronunciare a dovere le parole in lingua greca!

 

(8) Secret War

 

(9) I Persiani, Eschilo. III Episodio.

La Hybris è la tracotanza, l’Ate la disgrazia.

 

(10)  Marvel Now!Capitan America #1

 

(11) Da noi in Italia “Sex List”. Film inguardabile…Tranne per Chris Evans!

 

(12) La Messa in latino è stata tolta solo nel 1969.

 

(13) Where is here? Is this /a dream/? Tell me it /is/, Tony. Tell me you can /wake me/. Tell me I'm not /going/ to die in my sleep.
Don't let this old soldier just /fade away/... (Captain America v1, #437)

[ https://www.facebook.com/photo.php?fbid=198418630282598&set=pb.188901724567622.-2207520000.1377550334.&type=3&src=https%3A%2F%2Ffbcdn-sphotos-d-a.akamaihd.net%2Fhphotos-ak-prn1%2F68530_198418630282598_1619872740_n.jpg&size=538%2C800 ]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

YEEEEH! Sono tornata! Vi sono mancata, vero?

Oddio, sono così stravolta dalla stesura di questo capitolo da essermi dimenticata quello che vi volevo dire, a parte che le due scene R-18 narrate vengono da due role con la mia Tony Stark di fiducia e che non intendo mancare di rispetto a credenti o meno, intesi? E’ un’opera di fantasia, cosa e chi rappresenti il mio pensiero religioso è un segreto di Stato che non deve andare a lederà la storia, ma soprattutto la vostra sensibilità : )
Ringrazio Alley e Shi_Tsu_Geass per aver recensito!
Alla prossima!
(Che sarà fra un po’ visto che a Settembre parto per altre due settimane di scavo.
OOOOOPS.)

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Capitolo 8
*** #07. Pius Patiens ***


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Manhattan cantò un rintocco di mezzanotte e Clint sollevò gli occhi dalla freccia che teneva tra le mani.
Aveva disposto le cocche ordinatamente davanti a sé, tutte le cuspidi perfettamente allineate, tutti gli impennaggi rigidamente affiancati, due linee simmetricamente parallele a racchiudere i fusti in un rettangolo preciso. Non aveva fatto altro dacché la camera ardente era stata chiusa al pubblico, a fine giornata.
Lo S.H.I.E.L.D. aveva messo a disposizione degli Agenti di guardia una brandina, lenzuola, cuscini e viveri, perfino un thermos di caffè e uno di acqua calda, accompagnato da bustine di thé o integratori di vitamine. Barton, però, non aveva toccato nulla: aveva rifiutato cena e bevande e materasso, aveva afferrato in silenzio alcune coperte ed era tornato nel proprio rifugio sulle scale. Aveva poi accartocciato le lenzuola e le aveva pigiate fino a ridurle in cerchi concentrici, bitorzoluti, con una zona concava e morbida proprio nel centro, dove potersi comodamente accovacciare col petto appoggiato sulle ginocchia, la schiena curva in avanti, la testa incassata nelle spalle. A fargli compagnia, quel lavoro tanto meticoloso quanto monotono per occupare le ore che lo separavano dall’alba e dall’ultimo giorno di veglia.
Ormai il tempo era scaduto.
Ancora ventiquattro ore e il corpo di Steve Rogers avrebbe lasciato la Stark Tower per un eterno, onorato riposo nel cimitero di Arlington. Un sonno senza sogni cinto di corone funebri e cuscini di velluto e lettere di bronzo e una lapide di marmo. Stark sarebbe tornato senza nulla tra le mani se non il rimpianto ed il fallimento e con dita tremanti da vecchio avrebbe afferrato i fianchi del pulpito, vi si sarebbe aggrappato come ad un’ancora di salvezza e Il Signore è il mio Pastore avrebbe biascicato, ubriaco fino al midollo di dolore, perdita, lacrime Non manco di nulla e Amazing Grace avrebbe cantato la folla How sweet the sound ed ogni voce sarebbe sfumata nel sospiro affranto del giorno, nella pioggia incolore, l’orizzonte bagnato d’una soffocata tonalità tra il bronzo ed il seppia. Un’ultima eco di gospel in mille occhi e in mille bocche aperte nella sofferenza d’un solo canto, forte, potente, disperato, picchi di meravigliosa angoscia in un frammento d’America alla forsennata ricerca dell’alba.
Tutto si sarebbe spento e la luce sarebbe scomparsa con un guizzo nero.
Tutto sarebbe tornato buio come quando era cominciato e i fari del Madison Square Garden s’erano abbassati a bruciare il corpo scomposto del Capitano, parzialmente celato dalla schiena curva di Tony Stark, dalle sue mani strette alla divisa gelida.
Clint scosse la testa, passando i polpastrelli a sfiorare uno per uno gli impennaggi metallici delle frecce.
Che quella sottospecie di missione non avrebbe portato a niente, lo sapeva chiunque. Avevano cercato di ingannarsi, ognuno a proprio modo, ma alla fine il fallimento li avevi colti proprio all’apice della menzogna. Non ci sarebbe stata nessuna divinità, nessun risveglio miracolato, e Barton sollevò l’ultima freccia, storse la bocca, serrò le palpebre e la scagliò con un rude movimento del braccio. Si prese la testa tra le mani, le dita premute tanto violentemente sul cranio da vedere scoppi cremisi dietro gli occhi chiusi.
La fronte doleva, le tempie pulsavano e avrebbe volentieri vomitato l’anima se allo S.H.I.E.L.D. non avesse imparato a sopportare la tensione senza fare mostra di succhi gastrici e compagnia bella. La nausea gli montò serpentina lungo la mandibola, s’avvoltolò alla mascella, macchiò la punta della lingua, s’incastrò fra i denti e lì rimase, acciambellata come un gatto pasciuto e sornione.
Dannazione pensò, chiudendosi ancora di più nelle spalle –Un gesto che non compiva più dai tempi del Circo, quando fuori ruggivano i tuoni e sbattevano i tendoni e l’intorno era paura, l’intorno era terrore Dannazione.
«Faresti meglio a mangiare qualcosa.»
Barton alzò la testa di scatto e il mondo gli rimbalzò dentro la cassa cranica un paio di volte prima di risistemarsi, equilibrarsi negli occhi gentili di Coulson, inginocchiato accanto a lui. Clint sbatté le palpebre, confuso, allibito, perché se davvero non l’aveva sentito arrivare, allora era davvero, ma davvero messo male.
«Ecco» continuò Phil nel porgergli un pacchettino di plastica tubolare «Prendile.»
Occhio di Falco non potè nascondere un accenno di divertimento una volta che ebbe i dolcetti in mano.
«Frosted Donuts» recitò, il sopracciglio destro inarcato «Settantacinque centesimi.» schioccò la lingua contro il palato e si voltò verso il proprio superiore. Lo fissò in silenzio, tamburellando le dita sulle ciambelline al cioccolato e non smise fino a quando Coulson, ridendo, non affondò la mano nella tasca del completo, rivelando l’esistenza di una seconda confezioncina di dolciumi.
«Powdered Donuts!» esultò Clint «Unwarp a smile in the morning!»
«Non sono riuscito a decidere(1)» commentò Phil a mo’ di scusa –Barton, però, era già troppo occupato a scartare le ciambelle zuccherate per prestargli attenzione.
«Notizie dalla mandria di topi?»
«Nessuna, signore. Spariti come sono comparsi.»
Prese un soffice morso, masticò a lungo la consistenza appiccicaticcia e decisamente poco salutare dello snack, ingoiò con un tremito contento dello stomaco ed emise un verso soddisfatto, la tensione meno visibile a livello delle spalle, meno tangibile nella piega dura della bocca. Il problema, considerò Occhio di Falco mentre afferrava un altro dolcetto, E’ che sa esattamente come prendermi.
Destabilizzante, per molti versi. Un sicuro punto debole per chiunque l’avesse scoperto, senza ombra dubbio.
Forse non lo faceva neanche apposta, Coulson, di conoscere ogni piega del suo carattere e del suo essere, da come passasse le notti in un bozzolo di coltri più simili ad un nido che ad un letto, a come avesse chiamato Belthronding(2) il primo arco mai tenuto in mano, quando era ancora giovane, dormiva con una copia de Il Signore Degli Anelli sotto il cuscino della cuccetta e Portland era un orizzonte inghirlandato di gloria e promesse.
Riusciva a comprenderlo, lo capiva dai silenzi e dai gesti, e lo guardava con l’espressione di chi sa tutto, ma vorrebbe scavare a fondo, sempre più a fondo, per non avere più segreti ed essere una cosa sola, un unico pensiero con l’altra persona.
Perché questo, soprattutto, aveva distinto Coulson da qualsiasi altro Ufficiale Sovrintendente Clint avesse mai avuto a che fare. Phil lo considerava una persona, un essere umano e non un fenomeno da baraccone.
L’Agente Mariner aveva tentato l’approccio simpatico, convinto che l’atteggiamento da clown buontempone lo avrebbe aiutato ad inserirsi in maniera meno traumatica nel mondo di Nick Fury. Una settimana dopo Barton gli aveva fatto gentilmente trovare una parrucca arcobaleno ed un naso rosso sulla scrivania, invitandolo ad indossarli per la lezione di autodifesa del pomeriggio, così da risultare molto più credibile.
L’Agente Ti-Farò-Una-Offerta-Che-Non-Potrai-Rifiutare Everett aveva deciso di essere la brutta copia del Padrino e come tale si era comportato nei cinque giorni seguenti all’allontanamento di Mariner. Alla mattina del sesto giorno, i suoi colleghi l’avevano visto correre via dalla propria stanza urlando, dopo essersi ritrovato una testa di cavallo nel letto. Clint aveva avuto un bel daffare per spiegare che trafugata da una giostra in disuso a Coney Island, ma ogni giustificazione era stata inutile con quella testa rognosa di Sitwell…Fino a che non era venuto Coulson a dargli il cambio.
Coulson che aveva scartabellato svogliatamente il dossier ed era scoppiato a ridere e aveva riso, riso così tanto e così a lungo da doversi asciugare le lacrime, assicurandogli che in tanti anni di onorato servizio non aveva mai assistito ad una scena più splendida dell’urlante Agente Everett in boxer giallo canarino e paraocchi di satin nero e che per questo gli avrebbe volentieri offerto una cena, tempo di avvertire Fury e gli avrebbe fatto assaggiare la miglior aragosta della Costa, perché gli piaceva l’aragosta, no? No? Allora una Caesar Salad sarebbe andata benissimo comunque.
Coulson che gli incerottava le dita dopo dieci ore consecutive al poligono di tiro, Coulson che gli stava accanto la sera della notizia della morte dei genitori di Dick Grayson, Coulson che gli aveva fatto capire come in quel mondo di spie ci fosse posto anche per lui, Coulson che solo per lui e lui soltanto aveva varcato in nudità eroica il sacrosanto Rubicone del Le relazioni tra colleghi non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, sciogliendo le cinghie del parabraccio, sfiorando con labbra ingemmate di sangue rappreso lividi e bubboni violacei, sostenendogli la nuca e la schiena mentre scivolavano entrambi sul materasso bitorzoluto di un dimenticato Motel nel Mississippi.
Coulson che continuava a fissarlo e aveva il braccio vicino, oh così vicino al proprio, che Clint poteva avvertirne il tessuto ridacchiargli ruvido contro la pelle: la bocca era schiusa, in procinto di dire qualcosa, ma senza il coraggio di dar voce alle domande, né alle possibili risposte; tra le sopracciglia era andata formandosi una ruga arzigogolata, profonda, un tocco d’età sulla fronte altrimenti piana e tranquilla, le dita aggrappate ai cordoni stropicciati delle lenzuola affastellate.
«Non so nemmeno se sei tu.» esalò Barton, girando di scatto la testa per non doverlo più guardare in faccia.
Sotto di lui Steve Rogers dormiva il suo sonno senza battiti, circondato da un profusione mai vista di fiori e coccarde e biglietti e action figures e disegni e sciarpe e non li avrebbe mai visti, mai, non li avrebbe mai toccati, sfiorati, sorriso dei tratti deliziosamente rozzi che la mano amorevole di un bambino aveva usato per colorargli la divisa, teso le dita a stringere la spalla d’un vecchio amico di guerra dagli occhi cisposi bagnati di lacrime grigie di polvere da sparo e cenere. Non si sarebbe alzato, non l’avrebbe fatto mai, perché il terzo giorno era iniziato e Tony sarebbe caduto, affogato in un lutto di petrolio, parimenti nero, parimenti vischioso, parimenti velenoso: gli sarebbe penetrato nelle vene, a fondo, ancora più a fondo, sempre più a fondo, e in una mano avrebbe tenuto un file che mai avrebbe avuto la forza di chiudere e nell’altra una bottiglia di liquore che mai sarebbe stato in grado di aprire. Perso a dibattersi in un limbo di vuoto e solitudine e l’unica persona che avrebbe potuto salvarlo sarebbe stata metri e metri sottoterra, gli occhi divenuti erba, il cuore radici.
«Fury ha fatto entrare solo me, all’obitorio» continuò Clint, consapevole di come quelle sensazioni che presagiva per Stark le avesse provate tutte sulla propria pelle «Nessun altro.» uno sbuffo «Ti ho preso a pugni. Ti ho preso a pugni, poi è arrivata Natasha. E mi ha tirato uno schiaffo.» si massaggiò istintivamente la guancia destra, un finto sorriso ad arricciare l’angolo destro della bocca «Poi non ricordo. Non ricordo nemmeno il funerale. C’erano delle persone e c’ero io. Ero in mezzo a loro e Nat mi teneva la mano. Non ricordo neanche che tempo fosse, né se le sue dita fossero calde o fredde, se stesse piovendo o se ci fosse tanto sole da abbacinarmi...»
«Clint, ascolta…»
«Su chi ho pianto, signore?» sibilò Occhio di Falco, rivoltandosi contro di lui «Per chi ho affrontato le missioni più suicide?» digrignò i denti, inspirò forte «Per chi ho smesso di pensare? Per un Life Model Decoy? È per questo che Fury ha voluto che vedessi il suo cadavere? Per sapere se l’Agente Attis aveva fatto un buon lavoro? Ingannare me era la prova più sicura.» si coprì gli occhi con la mano «Se invece quello non era un Life Model Decoy…Allora con chi sto parlando, adesso?» lo osservò di sbieco, tra le dita appena aperte «Lei chi è? Una motivazione? Al caro Nick non va più bene che il suo pupillo pennuto continui sulla via dell’autodistruzione e ha pensato bene di dargli una ragione per uscire dal tunnel? Un bel robottino fedele, perfetto in ogni dettaglio? Se volevo un action figures, sarei andato in un Comic Store…!»
«Non posso convincerti che non sono un Life Model Decoy, lo so.» c’era freddezza, nelle parole di Coulson, nei tratti del volto improvvisamente rigidi, nello sguardo completamente incolore «I modelli di Attis sono…Perfetti. La scansione del cervello non ha falla alcuna. Io so di essere l’originale…»
«…Ma lo direbbe qualsiasi Life Model Decoy di nuova generazione.» continuò Clint, per lui.
Phil annuì. Stette in silenzio.
Lo fissò.
«Tu vedi tutto, Barton. Quel che è reale e quel che non lo è. Cosa vedi, quando guardi me?»
L’arciere si ritrasse, allibito, a quella domanda. Sbarrò gli occhi e rimase alcuni secondi a fissare il proprio superiore come se fosse impazzito da un secondo all’altro.
Cosa vedeva? Cosa vedeva?
«Vedo…» tentennò «Che non ha dormito almeno tre giorni e ha cercato di coprire le occhiaie con del correttore. Ma si fidi, quello non è il suo colore: fa a pugni con la carnagione.» smozzicò un sorriso incerto «Vedo che, ovunque sia stato per tutto quest’anno, ha preso un bel po’ di sole: le è rimasto il segno delle lenti.» segnò sul proprio volto una linea immaginaria che dall’arcata sopraccigliare tondeggiava attorno agli occhi per chiudersi alla radice del naso.
«Wakanda» specificò Phil con una risata soffocata, divertita e Clint gli fu quasi grato per essere avvicinato un poco di più, per poterlo osservare meglio, per poterlo di nuovo guardare e constatare che era sempre lui, solo più vecchio di un anno, solo addolorato di una morte di più.
«Wakanda? Bel posto dove passare le vacanze. Le fabbricano ancora le palline di neve o i portachiavi a forma di pantere?»
«Non credo abbiano mai iniziato.»
«Ecco perché le Agenzie Di Viaggio non lo consigliano mai come meta turistica…»
Coulson sorrise e Barton sfiorò a punta di dita la fossetta incuneata sulla guancia sinistra.
«Vedo che ha appena deglutito per il nervosismo.»
Scese lentamente a disegnare la linea della clavicola, il profilo del colletto bianco, soffermandosi sul nodo scuro della cravatta.
«Vedo che le si sono dilatate le pupille»
Scivolò ancora di più verso il basso e segnò uno per uno i bottoni della giacca, appoggiò il palmo aperto all’altezza del cuore.
«Vedo che le si sono dilatati anche i vasi sanguigni.»
Un’inequivocabile striatura rossastra era andata ad incidere gli zigomi di Coulson che, cosa piuttosto ridicola, stava ancora cercando di mantenere un certo contegno. Ma l’iride era stata completamente inghiottita dal nero ingigantirsi della pupilla, il respiro era accelerato, il fiato fischiava tra i denti contratti, il battito cardiaco rimbombava d’eco e scalpiccii galoppanti dentro la cassa toracica.
Clint fece leva sulla mano premuta sul petto di Phil per spingersi verso e su di lui. Soffiò piano sulla sua bocca, cinse di respiro la bocca resa arida dalla vicinanza, perché, Dio, Attis poteva fare tutto, anche l’impossibile, ma non avrebbe mai e poi mai potuto sapere di certe reazioni a stimoli tanto collaudati da loro due. Non poteva saperlo.
«Vedo…Che ha le labbra piuttosto secche, signore.»
Non poteva, vero?

 

***

 

Nel Lago d’Averno(3) si specchiavano il sole e l’incontrastata bellezza circostante: filari di tralci e foglie verdi, campi arati, un sentiero di ghiaino che ne percorreva ad anello l’intero perimetro ed infine il profilo declinante dei bassi colli. Pareva difficile pensare a quel luogo come l’entrata dell’Ade, a quel verde smeraldo come il preludio a viali di lava fumante, a quel cielo come principio di cenere e lapilli. Odisseo così aveva detto e Tony non aveva più motivo di credere il contrario.
Il magnate scostò una fronda dal proprio cammino e rimase fermo sul ciglio dell’altura sporgente, una mano a stringere il ramo, l’altro braccio abbandonato lungo il fianco. Si chiese quanti, tra gli abitanti, conoscessero i segreti dell’Ade, chi, fra loro, ne fosse custode, se ai bambini che si rincorrevano nei giardini venisse insegnato a tenersi lontano dal boschetto incappucciato di foglie nerastre, via dalla fenditura purulenta della roccia immensa, selvaggia, che dominava vista e non vista all’insieme la distesa d’acqua.
L’aria sapeva di leggende dimenticate, un retrogusto rancido nel vento, terra brulla sotto le suole bagnate di fertile fango.
«Sono quasi arrivati» Odisseo gli si affiancò, antico e millenario alla luce radente del sole «Ascolta il battito d’ali degli uccelli. E’ la presenza di Orfeo che lo rende tanto armonico da far piangere il cuore.»
Tony annuì, ma non disse nulla.
Non c’era nessuno oltre a loro, solo un carretto di panini sgangherato sulla stradicciola sottostante, uno sconquassato aggeggio di lamiere imbastite un po’ alla buona e che spandeva all’intorno una musichetta allegra e sciocca, da come Stark poteva capire seguendo il testo italiano.
Ho settant’anni, mi chiamo Pio e oggi vado al mare gracchiava l’autoradio ed era tutto così ridicolo, tutto così in contrasto con quanto il magnate avvertiva rodergli il cuore che urlare sarebbe stato il minimo.
«Stai ancora pensando a quanto detto dallo spirito di tua madre, Uomo di Ferro?» lo interrogò l’eroe omerico, la testa piegata nella sua direzione.
«Le profezie dei morti sono davvero infallibili?»
«Lo sono.»
«Allora sì.»
Non parlò oltre, Tony, e lasciò ricadere il ramo in un gran frusciare di foglie.
Scese dal punto d’osservazione per un sentiero smangiato dal sottobosco, non curandosi della presenza o meno di Odisseo al proprio fianco. Se anche l’eroe aveva deciso di non seguirlo fino al pianoro antistante al lago –Lì, dove c’era uno slargo abbastanza ampio per far atterrare il Quinjet in tutta sicurezza-, sapeva che sarebbe riapparso dall’etere non appena Natasha e Bruce li avessero raggiunti col loro prezioso carico.
Oltre la curva udiva ancora la stonata canzonetta Ho settant’anni, mi chiamo Pio, c’è mi chi mi chiama vecchio e Stark superò lo scassato furgoncino senza degnarlo di uno sguardo, l’asfalto bollente sotto le scarpe, lo scafandro in formato valigetta che batteva inquieto contro la coscia Sarà forse un regalo di Dio non vedersi gli anni nello specchio.
Non dovette aspettare molto prima che il Quinjet desse mostra di sé, brontolando e sbuffando astioso nell’aria vulcanica risalente dal Lago. I pannelli retroriflettori, considerò il magnate ammiccando soddisfatto ad un’ape di passaggio, funzionavano a dovere: persino il Blackbird di Xavier, che pure era un upgrade del Blackbird RS-150 dello S.H.I.E.L.D., avrebbe sfigurato al confronto, come un carretto bestiame accanto ad una Maserati.
L’erba sfoggiò contorcimenti del verde più brillante nel mentre che il jet scendeva invisibilmente di quota, lo sfiatatoio che rovesciava sul terreno vomiti di vento e rigurgiti di terra divelta. Tony si staccò dalla staccionata su cui s’era appoggiato nell’attesa e allargò le braccia quando il ponte s’aprì in uno stappo d’aria compressa, coricandosi piano al suolo. Nessuno dei tre occupanti corse a salutare come il gesto avrebbe voluto intendere e Stark roteò infastidito gli occhi al cielo, prima di puntarli contro l’allampanato individuo che procedeva, impettito e borioso, dietro Bruce e Natasha.
«Vi avevo chiesto di portarmi Orfeo, non Sherlock Holmes.» li salutò, dando una pacca amichevole sulla spalla di Banner.
Questi aggiustò le lenti cascate sul naso e aggrottò la fronte.
«Come?»
«Colpa di Clint e della sua mania per i programmi della BBC, Dottore(4).» intervenne Vedova Nera.
Al che, Tony sorrise, deliziato e malizioso, salvo poi passare indice e pollice premuti tra loro lungo la linea delle labbra, a mo’ di chiudere una zip –L’occhiata di Natasha avrebbe gelato l’Antartico.
Orfeo sollevò il mento e inarcò il sopracciglio; l’espressione si sciolse quando Odisseo gli si palesò davanti, il capo chino, il pugno chiuso contro il cuore.
«Onomaklutòn.»
«Figlio di Laerte…! Polytropon!» esclamò il Cantore, la voce colma di rispetto e finanche un accenno di gioia «I gabbiani d’Itaca piangono la tua prigionia, perché più non viaggi? Perché più non prosegui il cammino, amico mio?»
L’eroe omerico raddrizzò le spalle, sul volto un’espressione di serena amarezza.
«Ho visto ogni cosa, mi sono inoltrato in ogni bosco e sentiero che Gea ha creato per saziare la mia eterna curiosità. Ora l’unica strada che potrei mai seguire è quella che mi porterebbe nella casa degli astri.»
«E mescolarti così ai mortali che hanno insozzato con sudicio piè il bel volto di Selene?»
«Per tua informazione si chiama allunaggio» s’intromise il magnate, infastidito «Ed eviterei di toccare l’argomento con una conterranea di Gagarin.» indicò Natasha col pollice, beccandosi un altro sguardo omicida e una promessa non poi così velata di futuri scorticamenti senza anestesia. «Ora, per cortesia, potremmo proseguire? È già il terzo giorno, non abbiamo più tempo.»
«L’Uomo di Ferro ha ragione.» annuì Odisseo «Venite, Enea attende. E… Cantore, mi è lecito chiedere per quale motivo non hai con te il tuo strumento, struggimento ligneo di belve e mortali?»
Orfeo strinse stizzito la sciarpa attorno alla gola, torcendo il collo a squadrare eloquente la figura improvvisamente cupa di Bruce. Le labbra seriche disegnarono un ghigno mellifluo sulla bocca sottile, gli occhi lampeggiarono di liquida irriverenza.
«Il caro Dottore ha così deciso, per il meglio di sé e della sua…» irrigidirsi schifato della mascella «Impudica compagna.»
«Uh. Caro Dottore» commentò Tony «Qualcuno qui si è preso una cotta per te, Banner.»
Il Dottore incassò la testa nelle spalle, un riflesso verdastro dietro gli occhiali squadrati; la custodia in pelle nera che portava sulla schiena ebbe un sobbalzo.
«E pensa che prima si rivolgeva a me come “Uomo Belva”.»
«Già ai nomignoli? Che romanticheria, così d’un tratto…!»
«Stark, io non metterei troppo il dito nella piaga» lo avvertì Natasha, superandolo ad ampie, decise, decisamente furiose falcate «L’Altro è molto suscettibile.»
Il magnate era convinto che Orfeo e Odisseo li avrebbero condotti  dentro una grotta, su per una rupe scoscesa, in mezzo alle sabbie mobili, a dondolare dalle liane, persino. Lo stupore fu quindi giustificato quando li vide dirigersi verso il cigolante chiosco a quattro ruote.
«D’accordo, forse ho un certo languorino e non disdegnerei un doppio cheeseburger, però…»
«Oh, ma non tace mai?» sbottò il Cantore «Laerziade, non un mortale stiamo conducendo alla dimora dell’Ade, ma il figlio illegittimo d’Eco!»
«Giuro su Dio, una volta finita la quest gli spacco il naso con un pugno.» rimbrottò Tony, ignorando il ghigno divertito di Natasha e i fallimentari tentativi di Bruce per trattenere una risata ben poco compassionevole.
Ricordo del tempo che è passato cianciava l’autoradio, scatarrando smoccoli e versi tranciati a metà da disturbi intermittenti Solo guardando gli altri. Il proprietario del catorcio era chino a prendere qualcosa da sotto il bancone e di lui si vedeva soltanto qualche sparuto ciuffo di capelli neri, una giacca marrone sporco e una sciarpa verde polvere ammonticchiata, raggrumata tra le scapole; l’odore delle cipolle era tanto forte da dare la nausea e quello della porchetta non era da meno; l’olio friggeva e rimbalzava, il pane caldo sfrigolava contento dietro i vetri protettivi, appannati di condensa. “Pius Patiens” recitava il nome sulla parte superiore del camioncino, aperto in obliquo in modo da fungere anche da parasole, e le due parole erano inscritte su di una striscia di pergamena retta da una coppia di colombe.
«Cosa volete ordinare?» giunse loro la domanda del proprietario, ancora nascosto dietro le piastre.
«Io dello Shawar---» esordì Stark, ma Orfeo, più veloce e sdegnoso, lo precedette.
«Una focaccia di miele ed erbe.»
L’assurda canzonetta si zittì.
La zazzera nera s’alzò, comparve la fronte prominente, due sopracciglia folte a sormontare occhi sottili, allungati, un naso aquilino ad ombreggiare la curva del labbro inferiore, aperto per modulare una sorpresa palesemente fasulla.
«Onomaklutòn» quindi spostò lo sguardo sulla figura di Odisseo e a Tony non sfuggì il lampo di disprezzo «Polymetis.(5)»
«Dunque giammai mi salverò dal tuo odio?» un sorriso scaltro si cicatrizzò sulla bocca inclinata dell’eroe omerico.
«Se non fosse stato per te, polymèkanos(5), Ilio dalle bianche mura sarebbe ancora in piedi e la dolce Creusa, sposa adorata del mio cuore stanco, ancora in vita.»
«Se non fosse stato per te, Elissa non avrebbe il petto trafitto del tuo amorevole dono, Pius Aeneas.»
«Cosa?!» domandò Stark, sgomento «Il nostro terzo eroe è un paninaro
«Io ho solo fatto ciò che gli Dei chiedevano da me, sozzo cane di Itaca!» sibilò Enea, curvandosi al di sopra delle pietanze ormai bruciate.
«Parli sicuro, giacché senza ordini come mai potresti muoverti, lurido troiano, anima invereconda?» replicò Odisseo, l’indice teso al volto contratto dell’avversario.
«Ora basta!» Orfeo si mise in mezzo «Tacete! Il figlio di Calliope lo ordina!»
Occorse ben più di un’ora prima che gli spiriti s’acquietassero ed erano già sul sentiero che costeggiava il Lago, quando finalmente Enea si decise ad interrompere l’ostinato mutismo.
«Mia Madre, Venere Citerèa, mandò a me due colombe ed un messaggio: elle avrebbe trattenuto Mercurio, affinché il mortale di Ferro potesse incontrare il soldato defunto e dargli avvertimenti.» scostò un ramo, procedendo spedito verso la roccia che s’impennava feroce davanti ai loro occhi «Nulla che sia amore sfugge mia Madre, né lei fugge Amore.»
«Meno chiacchiere e più scarpinate.» lo spronò Tony, che aveva già indossato l’armatura e velocizzato il passo, onde eviyare gli occhi di Natasha piantati tra le scapole o il convulso cercare di Bruce di guardare da un’altra parte.
Orfeo e Odisseo chiudevano la fila, il primo che dall’aggraziato incedere sembrava intento ad una soave, tranquilla passeggiata, il secondo che lo affiancava, molto più attento, molto più all’erta, già pronto all’attacco se il caso l’avesse richiesto.
Enea s’issò sul fianco del sentiero e stette ritto a rimirare la fenditura della parete che li affiancava, sdrucciolosa, malamente intagliata, con costoloni frananti e mille volte mille bocche aperte ad emettere un rumore senza suono e mai richiuse. Brancicava un bosco, accanto all’entrata maggiore, e si estendeva cupo senza che se ne riuscisse a vedere la fine, selva sconfinata a chiudere in claustrofobiche ombre tutte le convalli. Il suolo esalava soffioni rancidi e sbuffi velenosi.
«A voi presento la soglia, l’antica dimora della Sibilla» il figlio di Venere accennò col mento ai filari scuri incappucciati di nebbia gorgogliante «Là, tra cortecce e spine, si nasconde un ramo d’oro, dono bramato da Proserpina. Privi di esso, l’accesso all’Averno ci è negato, non ne si può trovare la strada.(7)»
Ma il magnate l’ascoltava a metà. Gli tremavano le ginocchia, la fatica della camminata e delle notti insonni, del dolore, della perdita, del lutto e della speranza squilibrata gli pesavano sulla schiena, obbligandolo a sbilanciarsi in avanti, senza più presa, senza più coscienza.
I vapori sulfurei gli facevano girare la testa, annebbiando la vista e il buon senso.
Ringhiava il sole tra le fronde, gli saettava un ruggito di dolore tre le tempie, scoppiava il cuore tra le costole; un lampo bianco-oro più forte degli altri costrinse Tony ad appoggiare una mano sul tronco d’albero più vicino. Gonfiò il petto, riempì i polmoni d’un respiro ristoratore, ma nella gola passarono solo effluvi sibillini e s’incrostarono ai bronchi mille voci di rocce e antri dimenticati.
Stark chinò la fronte e s’accorse di non indossare più l’armatura: era a piedi nudi, immerso fino alle caviglie da foglie, un mare, un oceano, una vastità di foglie dai molteplici, innumerevoli colori, un caleidoscopio di forme e dimensioni, fin dove l’occhio poteva arrivare. La superficie di esse, poi, non portava segni del tempo, né morsi di bruchi o altri insetti. Vi era stato scritto qualcosa, sopra, frasi, parole, numeri e l’inchiostro non era inchiostro, pareva più sangue o l’essenza stessa della terra.
«Cosa diavolo…?» il magnate si piegò a raccogliere una foglia, su cui il suo sguardo era caduto con una casualità che definire predestinata sarebbe stato concedersi un ingiustificabile eufemismo.
La strinse fra le dita –Anch’esse prive della protezione data dalle manopole- e corrugò la fronte.
Stamford recitava la grafia infiocchettata di volute e linee e curve.
Tony ne afferrò un’altra, più lontana almeno di quattro passi dalla prima.
Legge.
Quarantadue, una terza.
Registrazione. La quarta.
Nova. La quinta.
«Odisseo» lo chiamò, l’ultima foglia ancora appoggiata sul palmo «Che sta…?»
Alzò gli occhi e il fogliame gli si riverserò addosso, turbinò di una danza senza freni, estatica, orgiastica, frantumò il tessuto della realtà e a nulla servì il tentativo di ripararsi con le mani alzate. Il mondo si disfece nel ciclone di lettere e scritte e ammonimenti, scomparvero i colori, franò l’orizzonte, si rovesciò l’umana concezione del tempo. A palpebre socchiuse Tony cercò di intravedere qualcosa oltre l’infrangersi di fronde, ma non scorgeva altro che vento e foglie, foglie e vento, ovunque, dappertutto, sopra e sotto, dentro la bocca, tra le mani, infilate a forza nei polmoni.
Tossì e dalla bocca uscirono densi fumi odorosi, riccioli, anelli, condense, esalazioni d’incenso. Lo stomaco si torse, si contrasse, vomitò saliva, parole, urla, preghiera, si rivoltarono gli occhi nelle orbite, cadde carponi, crollò a terra, le foglie gli invasero le narici, gli tapparono la gola, pianse lacrime nere di sangue ed eventi futuri scioltisi nell’incomprensione presente.
Poi, come tutto era cominciato, finì.
O meglio, si sospese.
Un respiro di quiete e il fogliame ricadde, s’adagiò sul sentiero e lì rimase. Muto e immobile.
Sputando fango e bestemmie, Stark arrancò, sfiatò fino a mettersi a quattro zampe, serrò le palpebre. Riuscì a fatica a rimettersi in piedi e quando ebbe abbastanza fortuna da mantenersi in equilibrio, lo colse un capogiro e dovette di nuovo appoggiarsi sulle ginocchia per non cadere.
L’albero su cui si era sostenuto prima era scomparso, così come erano scomparsi Natasha, Bruce, Odisseo, Orfeo ed Enea: era solo, nel centro esatto di una navata infinita, affiancata da pilastri d’appoggio per volte e vele e croci. Panche di legno sfilavano sul pavimento in marmo bianco e nero e ognuna di esse era decorata con un mazzo d’organza trapuntata d’argento, impalpabile come bruma; dal soffitto a botte pendevano candelabri a foggia di steli, tralci d’oro ad abbracciare il busto levigato delle candele, lo stoppino un coito bruciante, l’atmosfera un ansimo corale di fiammelle vermiglie. Dall’abside un Cristo in mandorla lo guardava fisso, gli occhi pacificatori, eterni, le dita benedicenti, un sorriso di pacata gioia sul volto barbato; illuminato dal fulgore divino della corona a raggiera, l’altare splendeva bianco, arabescato di fiori, le cui composizioni tenui, così deliziose e semplici, richiamavano il cuscinetto matrimoniale brulicante di luci accanto alla Bibbia già aperta. Le fedi matrimoniali, appoggiate sulla stoffa morbida, intessuta di perle e ricami a chiacchierino, erano teneramente unite da un piccolo fiocco candido.
Il matrimonio di Capitan America chiocciò una vocetta femminile, fuori campo, Dicono che la sposa sarà bellissima.
Il cuore bombardò aritmico il costato e Tony deglutì, un passo all’indietro, lo sguardo del Cristo conficcato nell’orbita, l’incredulità che ingoiava respiro, fiato e polmoni, costringendo il petto al vuoto più assoluto. Biglietti ed inviti nuziali cinguettarono e svolazzarono, gettandosi dai fusti scanalati delle colonne e spettegolando di torte e cerimonie e abiti e persone importanti e chi avrebbe preso il bouquet e Stark si vide circondato, premuto, graffiato, trafitto da quegli odiosi cartoncini color panna, stretto alla gola dai cascanti motivi del Monotype Corsiva. Artigliò il collare di vezzi e rampicanti che gli aveva cinto improvvisamente la carotide, si divincolò, lo strappò con violenza, diede le spalle alla navata centrale e corse, crollò sugli ampi battenti, spinse.
Uscì.
Il sole lo abbagliò, la nenia delle onde lo cullò, la sabbia mormorava bollente tra le dita dei piedi nudi. Il magnate abbassò il braccio con cui si era protetto gli occhi e s’accorse di essere sulla spiaggia privata che aveva comprato qualche anno prima, non ricordava neanche bene per quale motivo –Non sapeva perché fosse così sicuro di trovarsi sulla propria spiaggia privata: non esisteva nulla che lo provasse. Solo l’orizzonte ingioiellato di spuma e il distendersi sospirante dei flutti sulla battigia crocchiolante di sassolini.
Si girò, convinto di trovarsi alle spalle l’entrata della chiesa, ma dietro esisteva solo altra sabbia, altro bianco, altro sole e altre cielo. Non case, non persone, non montagne o colline di sorta. Non c’erano nemmeno le nuvole.
Voltò la testa, allora, e lo stupore lo colse nel trovarsi di fronte ad un’arcata straripante petali porpora e oro, intervallati bocciolo dopo bocciolo da coccarde bianche, rosse e blu, le due code rettangolari a motivi alternati di stelle e strisce. Una stuoia a listelli cremisi era stata srotolata sulla spiaggia soffice e sedie dallo schienale tondeggiante, più o meno una ventina, erano state disposte carinamente all’intorno.
Spirava una brezza ridente e Pepper mosse passi sussurranti sulla schiuma biancastra: la mano destra sollevava la gonna turchese all’altezza dei fianchi, perché l’acqua non vi giocherellasse troppo, né le rovinasse l’orlo con uno spruzzo irriverente. I capelli erano raccolti in una treccia, chiusa alla nuca in uno chignon; gli spilloni balbettavano bisbigli tintinnanti di gocce opalescenti, ciocche biondo-rosso sfuggivano volutamente dall’acconciatura per accarezzarle il collo flessuoso e le spalle nude. L’abito, di ricercata sartoria, non aveva spalline, ma un rettangolo di stoffa alta quattro dita a sostenere il corpetto, passante poco sotto la clavicola. Le scarpe col tacco era abbandonate poco distante, sandali raffinati adagiati in mezzo a insignificanti dune di sabbia: Tony vide se stesso, sorridente, inguainato in uno smoking nero, raccoglierle e porgerle alla loro legittima proprietaria, dopo averla raggiunta al limitare ridacchiante delle onde.
E’ triste, signorina Potts?
Lei sporse appena le labbra, quindi sorrise.
No. Sono solo molto, molto contenta per voi due.
Disse altro, ma le sue parole vennero ridotte a brandelli da un bubbolio irato di tuono. Stark gettò lo sguardo oltre le due figure sulla battigia, ora immobili come statue di sale, e il panico lo travolse allo stessa maniera della saetta che si piantò ed esplose in acqua, scarnificando creste e flutti, giganteggiando sul mare, innalzando onde mastodontiche. Il volto di Thor tracimò distorto nel ventre convesso del cavallone, Goliath(8) barrì un lamento funebre, ricadde all’indietro, si disintegrarono i marosi contro la sabbia, un fascio di fulmini lampeggiò roboante e il risucchio d’aria della denotazione lo investì e il magnate si tappò le orecchie con le mani, premette tanto forte da sentir scricchiolare le tempie, il cranio comprimersi, il cervello strizzarsi, rinsecchirsi mentre perdeva umori e ricordi. Serrò le palpebre, s’accucciò al riparo dell’arcata, in posizione fetale, aprì la bocca ed urlò e il vento gli rubò anche la voce, lo travolse e ripeté il grido dieci cento mille volte e quando piombò di nuovo il silenzio, si ritrovò in uno spiazzo circolare, illuminato da un barlume effimero, tremulo, proveniente da chissà dove; l’ambiente non aveva confini di sorta, né punti da usare per orientarsi.
Unico oggetto era un tripode di bronzo, sormontato da una lastra circolare. Su di essa un ramo d’alloro, a raccogliere i richiami della luce e frangerli all’intorno in una nenia continua di bisbigli e barbagli.
In assenza di idee buone o anche passabili, Tony s’avvicinò al tripode e afferrò il rametto tra due dita. Una stilla rosso-arancio comparve allora sulla cima dell’alloro: filamenti di luci s’allungarono dal centro pulsante e la loro intensità aumentava e diminuiva, preda d’inspiegabili cali di tensione, come un programma che cercasse di sintonizzarsi sulla giusta frequenza.
Stark era sul punto di rimettere il ramo al suo posto, quando notò un particolare decisamente strano ed inquietante: accompagnata da un tintinnare di voci e brusii d’attesa, una curva scarlatta e blu si staccò dalla stilla, rimbalzò al suolo, assunse forma umana, s’ingrandì, avanzò oltre il tripode e si piazzò al centro dello slargo, elevato a palco immaginario; la piccola sfera si sollevò dall’alloro, mutandosi in riflettore. A Tony non ci volle molto per riconoscere nella visione ora più definita il costume di Spiderman, l’aracnide stilizzato al centro del petto, la ragnatela che da esso si stendeva sulle spalle e lungo lo sterno.
«Spiderman…?» tentò il magnate, confuso e anche vagamente terrorizzato dallo spettacolo cui stava assistendo.
L’eroe non parve averlo sentito e si portò le mani guantate al retro della testa, nel punto della nuca dove la maschera si univa al resto del costume; fece passare le dita oltre l’orlo divisorio e si tolse il cappuccio di spandex colorato, mostrandosi al mondo per quel che era davvero: un ragazzo di poco più di vent’anni, coi capelli castani mossi e un viso giovane dagli occhi tristi. Disse qualcosa ad una folla inesistente e pur non sentendolo, perché privo di voce, Stark ne colse l’atteggiamento ostinato, tenace, a tratti persino provocatorio.
L’immagine si contrasse ed implose, frantumandosi in brandelli e cristalli e perle e Tony, col cuore ancora gonfio, retrocedette d’un passo per poterle vedere tutte, osservarne ogni piega, ascoltare ogni sussurro. Vide un boato di fiamme ed una statua commemorativa, vide volti alieni, squadrati, verdastri, rugosi, e poi il Tesseract, Teschio Rosso e liste di supereroi e mani tese e un electron-scambler e Devil e trenta denari d’argento.
«Cos’era? Cosa ho visto?»
«Il futuro» mormorò una voce fumosa «Foglie.»
«Perché?»
«Il futuro è scritto nelle foglie.»
Dita e tentacoli di nebbia spuntarono da sotto il tripode, s’attorcigliarono e s’avvoltolarono tra loro, crebbero, allampanate, si riversarono sulla piattaforma dove prima riposava il ramo d’alloro, sollevando schizzi pallidi e soffi di polvere cinerea. Comparve quindi una donna, una ragazzina dal volto di pietra e lo sguardo languido, le pupille dilatate da mistici effluvi; i capelli rosso-bruni, raccolti sulla nuca in morbide onde, le ricadevano in una melodia di ninnoli e fermagli sulle spalle, la sinistra nuda, la destra coperta da un panneggio zafferano che le cingeva trasversalmente il petto florido, abbellito da un fiocco a tre lobi e sopra l’incavo dei seni da una rosa di granato; la vita era stretta da un fazzoletto porpora, così come sopra al gomito era chiusa una mantella blu scuro, intiepidita di riflessi viola. Si sedette sulla piattaforma con movimento aggraziato e la veste nascose in un rigonfio luminescente di pieghe le gambe snelle, le caviglie ben modellate, i piedi calzati in sandali di preziosi.
«Chi sei?» chiese Stark ed ella rise e divenne più vecchia d’un anno.
«Deifobe di Glauco» rispose e unghiate rugose le comparvero ai lati delle palpebre «Amphrysia mi chiamò il Mantovano» il collo tremolò di pelle cadente «Sacerdotessa d’Apollo, Sibilla di Cuma.»
«Sono ubriaco, vero?»
«Chiedilo alle foglie.» mormorò lei e le dita torte di corteccia sollevarono con un sol gesto, con un sol ordine stracci di fogliame e verdeggiare di fronde.
Tony le scacciò con un gesto irato.
«Ascoltami, signorina---»
«Il futuro è scritto nelle foglie.» ripetè Deifobe, gracchiante «Perché non vuoi leggerlo?»
Inspirando con violenza, il magnate afferrò stizzito una manciata di foglie e s’accontentò di gettare l’occhio sull’unica  rimasta.
«Non ne vale la pena» mormorò, quindi alzò la testa e scosse il capo «Non vuol dire nulla.»
«E’ una conseguenza.» lo corresse la Sibilla, più gobba e rachitica.
«Di cosa?»
«Di una scelta.»
«Di una---» il magnate impietrì, gelando al ricordo di quanto gli aveva detto sua madre sul ciglio dell’Erebo.
Non dovevi venire figlio mio. Oh! Una decisione ti ha portato qui…
«Non ha senso» ripetè «Non ha proprio senso.»
Intanto, di Deifobe non era rimasta che una megera dal volto grifagno, col naso adunco e palpebre cispose. Modulò una risata garrula, da vecchio avvoltoio, la voce lasciva e sbavante tra le gengive prive di denti: la bellezza che aveva visto la sua nascita aveva lasciato il posto ad una bruttezza imponente, il possente orrore di una cuffietta di stracci lerci sul cranio calvo, seni enfi, cadenti, acciambellati in una veste blu, impolverata, ridicola nel patetico impreziosirsi con un filare d’oro lungo il petto. I piedi grossi, artritici, dalle unghie larghe e coperte di fango, spuntavano da sotto un manto grossolano, giallo con riflessi arancio, e le braccia erano nude, un reticolato ripugnante di vene, inguardabili e turgide.
«Il futuro ha senso solo nel presente.»
«Ora è il presente!» protestò Tony.
«No.» replicò la Sibilla, ghignando «Ora è passato
Singhiozzò un singulto divertito e le vestiti si sollevarono e le si rovesciarono addosso e la coprirono e scomparvero. Sottili sbarre antracite si chiusero, clang, all’apice di una gabbia: dentro di essa pigolò una cicala cigolante. Stark si chinò fino ad avere gli occhi all’altezza dell’insettino e questi saltellò via contento, fuggendo a grandi balzi.
Siete guerrieri, con armi e ideali e cose per cui combattere rimbalzò la voce effimera di Deifobe, persa nel disfarsi del carapace in mille frammenti di bronzo Cose per cui morire.(9)
Tony la rincorse, seguì l’eco fino a che un cono di luce gli esplose davanti ed egli avvertì il cuore bloccarsi in gola.
Appoggiato mollemente al tronco di un albero, un giovinetto lo squadrava divertito. Era nudo, dalle membra ancora acerbe, i riccioli biondi tenuti alti sulla fronte da una fascia candida; la linea del corpo fanciullesco era morbida, flessuosa, il piede alzato ad incontrare il tallone destro in una soave armonia di forma e proporzioni, la gamba sinistra deliziosamente rilassata, abbandonata ad un aggraziato languore. Tra le dita della mano destra teneva un lungo stilo, sottile, e vi giocherellava nel tentativo di trafiggere una lucertola verde smeraldo.
«La vostra è presunzione» lo canzonò il ragazzino, conficcando la cuspide nella carne dell’animale «La presunzione che vi fa credere di essere sempre i buoni e di lottare contro i cattivi.» la lucertola ebbe un spasmo, tremò tutta e rimase inerte, appesa alla corteccia come una farfalla inquadrata nel vetro.
Il giovinetto abbandonò la freccia con indolenza e mosse un passo in avanti –Per contro, Tony ne fece uno indietro. Il cono di luce divenne liquido e s’arrotolò attorno alla gola dell’altro, divenne un mantello, rovesciato sul braccio teso in avanti in un gesto imperioso. Il corpo esplose in uno sfolgorare di splendore inaudito, i muscoli divennero pieni, perfetti, la fascia si slegò e i riccioli palpitarono liberi attorno al collo. Boccoli biondo-oro s’avvoltolarono a crocchia, alti sulla nuca, trattenuti e raccolti da un nastro dai riflessi brucianti come il sole.(1)
«In una guerra non ci sono i buoni e i cattivi.» gridò e nella mano destra gli apparve un arco, già la sinistra stava tirando la corda e la freccia incoccata «Ci sono soltanto forze nemiche.»
Scagliò il dardo e Tony lo sentì distintamente trapassargli il Reattore Arc, infilarsi nei tessuti, uscire schioccando dalla schiena, disintegrando midollo e vertebre. La nuca si ribaltò all’indietro, il mondo ebbe uno scossone in avanti, deflagrò la nausea e la pioggia gli bagnò il viso Raccontate le storie delle sue imprese pregava una voce Ai vostri figli esplosero mattoni e crani e bambini Ai vostri nipoti macerie e fumo E Steve Rogers saliva, sputo, rancore della madre come fiele per l’assassino Capitan America, non morirà mai.
Tony Non sai come gestirli, vero? Tony L’angoscia, il dolore. La perdita…Tony, mi senti? Quindi hai cercato di fare la cosa che ti riesce meglio…Un affare. Tony, per l’amor di Dio! Hai cercato di fare uno scambio che facesse sparire tutto Tony! Svegliati! Ma non puoi Tony!
«Io verrò a prendervi…!» gridò e il volto di Natasha s’allontanò bruscamente dal proprio campo visivo.
Tony esalò un respiro gonfio, un singhiozzo rotto, e si portò una mano al volto. Gli girava ancora la testa, aveva nausea, voleva solo vomitare. Sentiva la bocca asciutta, una debolezza mai provata in tutto il corpo, brividi a mordergli le ossa ed i muscoli, gli occhi mettevano a fuoco un istante e già quello dopo ogni cosa  era coperta da una patina molliccia, di bitume biancastro. Tremava e non riusciva a smettere, aveva freddo eppure era di nuovo coperto, indossava di nuovo l’armatura, nessuna freccia l’aveva colpito.
Era nel bosco, sì, ma non era solo, c’era Natasha sopra di lui e Bruce che gli abbassava professionalmente la palpebra inferiore.
«Che…Che è successo?» domandò, roco, scostandosi dal tocco di Banner e storcendo la bocca per il fastidio.
«Sei svenuto» rispose Vedova Nera, pragmatica «Sei crollato a peso morto sull’erba e hai cominciato ad agitarti e a tenderti.»
«Come un attacco epilettico» spiegò Bruce, levandosi in piedi e dandosi alcune pacche sulle ginocchia per
togliere ogni residuo di terra. «Ma parlavi.»
Stark corrugò la fronte.
«E cosa dicevo?»
Il dottore fece spallucce.
«Qualcosa a proposito di una guerra. Di Giuda e dei Trenta Denari. Chiedevi una soluzione, sciorinavi una sequela di nomi, parti e motivazioni. Hai parlato di Steve…Hai parlato con Steve» si corresse «Una cosa che avresti dovuto dirgli, ma ormai non potevi più.»
«Io---»
«Hai vaticinato.»
Il magnate inarcò un sopracciglio e fissò Odisseo di sbieco, gli occhi assottigliati.
«Non ho vaticinato.» replicò «Sono una persona educata, non faccio queste cose.»
Orfeo, rimasto fino a quel momento a fissarlo seduto su un sasso, allargò le braccia e sputò un insulto esasperato in madrelingua. Enea, al suo fianco, sistemò la sciarpa sulle spalle e assunse un’espressione schifata, di palese disgusto.
«Hai vaticinato. Significa che hai predetto il futuro» chiarì Odisseo, paziente «Questa era la sede di Deifobe, la---»
«---La Sibilla Cumana.» completò Tony, ingegnandosi per stare alzato senza dare di stomaco.
«L’hai incontrata?» Enea si tese verso di lui, ansante, impaziente «L’hai vista?»
«Non intendo parlarne, paninaro
«Non immaginavo tu ne fossi in grado.» al suo sguardo perplesso, il sovrano di Itaca roteò il polso «Predire il futuro, intendo.»
«Sono un inventore.» il magnate si chinò a riprendere il casco dell’armatura, che gli altri dovevano avergli levato perché non andasse a comprimere la gola «Posso vedere come sarà il mondo e posso vedere di cosa il mondo avrà bisogno perché quel futuro meriti di essere vissuto. Vedo quello di cui avremo bisogno e invento quello che ci porterà là.»(11)
«E cosa hai visto, Uomo di Ferro?»
Tony ficcò gli occhi nel proprio riflesso e questi gli restituì un’immagine affranta, un uomo dai capelli lunghi, incolti, sporchi, borse livide e cadenti giù, lunghe, pesanti, fino agli zigomi, sclera arrossata di pianto, mascella serrata e denti digrignati, arrabbiati, distrutti; la pelle era esangue, chiazzata sulle guance e attorno alla bocca da macchie violacee, le tempie bianche di freddo, rigagnolate di sudore, le labbra spruzzate di blu cianotico tanto erano feroci i singhiozzi, violente le lacrime che scorrevano agli angoli delle palpebre serrate. Modulava urla angosciose di scuse, grida inudibili e il sangue scrosciava attorno a lui, sipario ormai chiuso di tragedia. Il livello della marea scarlatta salì e salì, cancellò ogni cosa, disfece ogni membra, divenne condensa, si solidificò, tornò ad essere semplice lega di titanio e oro cromati.
«Non ho visto nulla.» tagliò corto.
La guerra cantò metallica la profezia di un cicala La guerra s’unirono al coro il cigno dagli acuti gorgheggi e l’ululato indistinto del lupo La guerra gracchiò il corvo, mentre il falco, sopra di lui, scendeva elegante e La guerra strideva ad ogni cerchio La guerra sibilò infine un serpente verde e marrone, scivolando via in un singulto di squame luminescenti.
«Andiamo.» Stark re-indossò il casco e il clangore rassicurante della chiusura ermetica coprì amorevole il sospiro che gli era sfuggito dalle labbra «J.A.R.V.I.S., sei attivo?»
«Per lei sempre, signore.»
«Molto bene. Allora diamoci al giardinaggio.»
La guerra ammise a se stesso e non seppe dire se la voce fosse la propria, o quella della Sibilla o del Dio che l’aveva trafitto So che ci saremo. So cosa vuol dire. So cosa succederà. So esattamente chi sarà da una parte e chi dall’altra. So come la penserò io. I dati s’affaccendarono dentro lo schermo della calotta, ma Tony non li vedeva, o meglio, vedeva oltre, vedeva un volto, vedeva sangue So come la penserai tu. Vedeva un foro all’addome. So che ci saremo.
Sentiva distintamente il morso della proiettile bruciargli la carne.

 

***

 

“Ora sei convinto del fatto che non sono un Life Model Decoy?”
«Signore, non che io mi stia permettendo di farle la ramanzina, ma non le sembra…Inappropriato sorridere a quella maniera? È pur sempre la camera ardente di Capitan America.»
“Non lo so, signore. Forse ho bisogno di qualche prova in più. Giusto per essere sicuro e non lasciare nulla al caso”
«Ha ragione, Woo. Non si scusi.»
«Ha ricevuto belle notizie stanotte, signore? Mentre noi dormivano saporitamente?»
«Sitwell(12), una parola di più e non esiterò a farle rapporto per oltraggio ad un suo superiore.»
Invece di appuntarsi sulla faccia l’espressione più contrita del repertorio, Jasper gli rivolse un ghignetto sornione, cui Coulson rispose con un eloquente inarcarsi delle sopracciglia.
Sitwell si sistemò allora gli occhiali sul naso, si schiarì la gola e tornò ad irrigidire compitamente la schiena. Phil annuì, soddisfatto, e osservò il via vai di gente venuta a dare l’estremo saluto alla Sentinella della Libertà –Non prima, però, di aver lanciato un’occhiata veloce alle scale, lì dove sapeva essere l’Agente Barton. Accucciato e vigile, la testa incassata nelle spalle, l’arco accanto, gli avambracci posati sulle ginocchia, Coulson avrebbe potuto descrivere senza fatica od errore alcuno finanche il modo in cui la luce azzurra dei neon s’appoggiava alla piega del naso o gli baciava la curva ferrea della bocca, lasciando in ombra il collo e parte del petto.
Al solo ricordare la pelle calda di Clint contro la propria, represse un brivido. S’umettò veloce le labbra, ben sapendo che Barton stava sicuramente sorridendo, mefistofelico.
Santa pace, alle volte gli sembrava di avere a che fare con un bambino, non con un Agente fatto e finito di Livello 7. Professionalità o meno, Occhio di Falco non avrebbe mai e poi mai mancato un’occasione di metterlo in delizioso imbarazzo, come era solito dire, soprattutto quando si trovavano in un’intimità sospesa e tranquilla, e ogniqualvolta, poi, dovevano abbandonarla per tornare ai rispettivi ruoli.
Una delle sicurezze della mia esistenza considerò Phil, scostandosi appena per controllare una figura curva, gobba, tanto intabarrata in scialli e pastrani da zingara da far scorgere a stento un volto appuntito, ingrigito Come il non essere un L.M.D.
Perché Coulson ne era sicuro, sicuro come mai: lui era l’originale. Non era un Life Model Decoy. I ricordi, i pensieri gli appartenevano, non erano memorie digitalizzate, né comportamenti pre impostati. Attis non avrebbe mai potuto progettare il gesto lieve con cui aveva disegnato le fasce muscolari di Barton, dal polso fino alla spalla, lungo l’avambraccio, nell’incavo del gomito; non il calore che gli era montato nello stomaco nel mordergli la clavicola, nel baciargli lo sterno, nel perdersi a contare, contemplare le vecchie ferite e le nuove cicatrici, disegnandone il contorno, avvertendone il bianco gonfiore contro la lingua.
Non avrebbe mai potuto arrivare a tanto. E lui lo sapeva. Lo sapeva anche Clint. E tanto bastava. Non era un Life Model Decoy. Era l’originale Phil Coulson. Nulla gli era stato impiantato. La propria era vera carne, veri nervi. Vero sangue, non olio di motore. Vera pelle, non rivestimento di lamiera.
Era l’originale.
Non sarebbe mai stato altro.
«Signore…?»
«Mh?»
Peter Parker gli era appena comparso al fianco, il volto terreo e gli occhi che guizzavano da una parte all’altra della stanza, in allerta; Phil divenne vigile all’istante, uno sguardo d’intesa con Sitwell e Woo ed entrambi erano sull’attenti, Occhio di Falco, contro ogni lecito dubbio, con un braccio piegato e le dita a sfiorare attente l’impennaggio delle frecce.
Il ragazzo succhiò le labbra, a disagio.
«Ho come un presentimento…» confessò, il respiro veloce e un rivolo di sudore freddo a scurire l’attaccatura alle tempie.
“Siete ancora convinti che il free-lance di Jameson sia Spiderman?” gli aveva chiesto Clint, bocconi su di lui, le dita intrecciate sotto il mento, il corpo nudo che s’intravede a sprazzi di linee e curve nel buio ovattato.
“Hai mai notato che quando lui non è intorno, Spiderman è lì a fare la propria, buffonesca entrata?”
“Signore, secondo questa logica io potrei benissimo essere Batman. Ci ha mai visti insieme della stessa stanza?”
“Mi spiace per te, Barton, ma sappiamo esattamente chi si nasconde dietro la maschera del Pipistrello.”
“E Robin era
(13) un mio collega. Non giochiamo a chi conosce gente più in alto di chi, signore. Posso stracciarla in due mosse.”
Checché ne dicesse Clint, Coulson aveva fiducia nella teoria che legava Parker a Spiderman. Il presentimento come il giovane aveva chiamato l’agitazione di cui era preda, era la medesima percezione extrasensoriale che, secondo Fury, possedevano i ragni per non essere schiacciati sulle piastrelle del bagno.(14)
«Che tipo di presentimento?»
«Ecco, io…»
Uno strillo isterico lacerò l’aria.
Phil si voltò appena in tempo per vedere una figura allampanata e sporca crollare miserevole ai piedi del feretro, prendendo a pugni il pavimento più e più volte, smoccolando bestemmie e pianti liquidi, scivolosi di moccio e lacrime appiccicose.
 «Perché?!» ululò, bestiale «Perché?! Oh! Un così brav’uomo! Un così brav’uomo!»
«Sta’ indietro, Peter»
Le persone, invece che stringersi attorno a tanta, folle disperazione, invece di unirsi al cordoglio di quel miserando palesemente ubriaco e fuori di sé, si erano ritratte, si guardavano, si portavano la mano alla bocca, si sussurravano stupore, meraviglia, Che spettacolo increscioso! Esclamavano alcuni Oh, poverino! Gemevano i più caritatevoli, pur non osando avvicinarsi, rimirando da lontano i piagnistei e gli strilli e i colpi. L’unica ad essere rimasta al limitare del capannello, la più vicina fra tutti i presenti, era l’anziana intabarrata e grigia, tremebonda sotto i lunghissimi scialli impolverati, il fiato un fischio, un sibilo –Un ringhio, quasi?
«Adesso calmati, ragazzo» Phil s’avvicinò cauto, lento, le mani alzate, un’espressione cordiale e accondiscendente sul viso. S’inginocchiò piano accanto al ragazzo, che intanto s’era curvato su se stesso, la testa incassata nel colletto del trench grigio; a fare capolino era solo una zazzera disordinata di cappelli rossicci «So che sei sconvolto, ma…»
«No! No, lei non capisce…!» fu il latrato di risposta, strappato a forza dalla gola, un boato d’inglese marcato da un accento…Un accento che Coulson non sentiva per la prima volta, no. Ma dove…Dove…? «Senza di lui, senza Capitan America, non vale nemmeno più la pena di vivere…!» e detto questo, in un gesto teatrale al limite del grottesco, Phil si vide scacciato via in malo modo con una manata poderosa e improvvisa.
Meno di un istante per riprendersi dalla sorpresa e già l’altro s’era alzato in piedi, poco stabile sulle gambe: il braccio destro era alto sopra la testa, a sollevare un trofeo invisibile; le dita della mano sinistra, piegate come artigli ritorti, s’aggrapparono alla manica della camicia, troppa larga per un polso tanto sottile, smagrito, pallido e malarico. Era di spalle e Coulson non aveva modo di vederlo in faccia o riconoscerlo. Quando, però, il folle squarciò il tessuto a righe lungo l’avambraccio fino al gomito, rivelando un’amorfa cicatrice spessa quanto un cordone per tutto il tratto di pelle, Phil gelò.
Aprì la bocca per urlare un avvertimento, ma a soffocare il proprio grido ci pensò un sibilo, Hiiiiisssss---!, prolungato e poi squittii e zampetti e schioccare di piccole mandibole e tremare di vibrisse: la vecchia avvolta di scialli si strappò gli indumenti di dosso ed era Vermin, Vermin dalla schiena gobba, il volto triangolare e il cranio bombato, Vermin con la testa coperta d’ispida peluria grigia, gli occhietti rossi e cattivi, di brace fumante, i denti allungati, ingialliti di saliva e spazzatura, il fiato mefitico, Vermin che era saltato in mezza alla folla, richiamando a sé un esercito di roditori e la gente urlava e scappava e Vermin gettava il mondo nel caos, nel panico, saltava, ringhiava, soffiava, il tuono della pallottola, Sitwell aveva estratto la pistola, Woo strillava ordini, Fuoco di copertura Jasper, fuoco di copertura! e metteva i presenti in salvo, li costringeva fuori dall’edificio e la Stark Tower vomitava topi e ratti e roditori e fischiavano le frecce e gioiva d’ebbra vittoria il mutante ubriaco.
Coulson scacciò di dosso le bestiacce arrampicatesi sui pantaloni e sulla giacca del completo, si girò, Vermin gli balzò contro, una cocca esplosiva gli deflagrò davanti al muso e lo costrinse a retrocedere con un guaito, a grattare via la cenere dagli occhi, dal naso appuntito. Phil mise mano alla fondina, un pugno fratturò lo zigomo, le ossa s’incrinarono e gemettero, lasciandolo spaesato e tramortito.
«Ah-ah-ah!» lo redarguì  una voce sarcastica «Molto male!» esclamò in italiano e Coulson serrò il pugno.
«Bruno Chianti.» sibilò e il mutante rise, gettando indietro la testa.
La manica destra era ancora alzata a mostrare la cicatrice bianca che dal polso seguiva l’andamento sinuoso della vena fino al gomito, lì dove camicia e trench erano stati arrotolati per scoprire la pelle; l’aspetto era malandato, trasandato, la bocca uno squarcio folle in mezzo alla barba rossiccia, così lunga da coprire la carne rinsecchita delle guance incavate, il mento bombato e parte del collo sottile. C’erano macchie di vino, sulla camicia come sui pantaloni, e una bottiglia verde scura, riempita quasi all’orlo gli spuntava direttamente dal tascone sfondato del pastrano.
«Felice che si ricordi del vecchio Lambrusco, capo.» sogghignò e scostò un lembo del pastrano. I topi vi lanciarono attraverso e Phil scartò di lato, imprecò, venne preso d’assalto, s’agitò e la risata di Bruno sovrastava famelica il suono sudicio dei ratti, lo strisciare delle code, le mandibole in costante movimento. Coulson s’abbassò ad evitare un’ulteriore ondata di quegli odiosi animali, si coprì la testa col braccio: al di là del mutante, Woo cercava invano di avvicinarsi al feretro di Capitan America, Sitwell di farsi strada  a suon di colpi, e Clint doveva molto probabilmente essere occupato a liberare il campo dalla quantità indegna di topi che si stava riversando sulle scale, in uno sciamare di pelame grigio, squittii ed artigli. Vermin era davanti alla bara, le braccia spigolose a dirigere l’attacco come un bestiale direttore d’orchestra, le vertebre che spuntavano aguzze dalla schiena curva, le orecchie appiattite sul cranio, grumi di bava borbottante e rabbiosa ai lati delle gengive bianchicce, snudate, gli occhi folli, iniettati di sangue.
«Abbiamo un conto in sospeso, io e te» Bruno lo richiamò alla realtà «Una siringa, io ricordo.»
«E io un atto che mi ha impedito di renderti innocuo.» Phil afferrò la pistola, mirò, fece fuoco.
Ma nel tempo che gli occorse per quel gesto, il mutante aveva già affondato due dita nel braccio scoperto, squarciato la pelle, scavato nella carne; un movimento preciso, collaudato, e passò la mano davanti al volto: un fiotto di sangue schizzò dalla vena recisa, palpitò qualche istante, in piena sospensione dinanzi gli occhi di Lambrusco, quindi si gelò, concretizzò a formare uno scudo vermiglio su cui la pallottola finì la sua corsa, andando in frantumi.
Il fischio d’una freccia e Bruno appoggiò le mani sul vetro smerigliato di porpora: un risucchio come di ventosa ed ecco! l’aveva sposato alla propria sinistra, riparandosi dal dardo scagliato da Barton–Coulson aveva colto uno scuotersi d’ombra sopra le scale, il barbaglio della cuspide e poi la figura di Occhio di Falco di nuovo sommersa dall’orda di Vermin.
«Che dice, capo? Me la cavo ancora come una volta?» abbaiò Bruno e incassò il polso in uno stonare liquido d’ossa e legamenti: la vena cefalica partorì faticosamente, claudicando e gemendo, un coltellaccio dalla lama sgrossata, un bubbone marcescente di robaccia vischiosa, lucida, nera e marrone. L’arma scivolò fedele e ubbidiente fino al palmo del mutante, che strinse le nocche pallide attorno all’elsa scura. Chiuse a pugno la mano destra, riducendo il vetro a brandelli. Piccole particelle di sangue rotearono leziose davanti a lui, condensandosi, contraendosi, mutandosi in sferette lisce, lustre, dalla superficie perfettamente curva.
Phil s’aggrappò al calcio della pistola.
«Bona cisi~»(15) cinguettò Lambrusco e distese le dita, sparandogli contro i proiettili scarlatti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#07 Pius Patiens

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

(1) Sia la marca delle ciambelline che il commento di Coulson vengono da : « A Funny Thing Happened on the Way to Thor's Hammer » (http://www.youtube.com/watch?v=QAMgkpQYOSQ )

 

(2)« Belthronding was an enchanted bow of black yew wood. This bow belonged to Beleg Cuthalion. Beleg might have gotten the name "Strongbow" from Belthronding. It was buried with him by Túrin and Gwindor after the accidental slaying of Beleg at the hands of Túrin, his friend.» (The Lord of The Rings Wiki)

 

(3) «Il lago d'Averno è un lago vulcanico che si trova nel comune di Pozzuoli e precisamente tra la frazione Lucrino e Cuma, in Campania. Il lago prende nome da una oscura e profonda voragine (attualmente non identificata) presente nelle sue vicinanze ed emanante vapori sulfurei, la quale, secondo la religione greca e poi romana, era un accesso all'Oltretomba, regno del dio Plutone. Per tal motivo gli inferi romani (l'Ade greco) si chiamano anche Averno. Infatti anche il poeta Virgilio nel sesto libro dell'Eneide colloca vicino a tale lago l'ingresso mistico agli Inferi, dove l'eroe Enea deve recarsi (scrupea, tuta lacu nigro nemorumque tenebris VI, 238). Il nome Avernus deriva dal greco άορνος ('senza uccelli') poiché gli uccelli che volavano sopra tale voragine morivano a causa delle sue esalazioni sulfuree.» (Wikipedia)

 

(4) L’aspetto di Orfeo è modellato su Sherlock Holmes, della serie della BBC “Sherlock”, dove il personaggio è interpretato da Benedict Cumberbatch.

 

(5)-(6) Altri epiteti di Odisseo, rispettivamente “Dal Molto Ingengno/Astuzia” e “Dalle Molte Menzogne/Molte Arti”

(7) Eneide, Libro VI

(8) «William Barrett Foster, più noto come Bill Foster, è un personaggio dei fumetti creato da Stan Lee (testi) e Don Heck (disegni) nel 1966, pubblicato dalla Marvel Comics. La sua prima apparizione è in The Avengers (prima serie) n. 32 (settembre 1966).» (Wikipedia)

(9) «Il titolo di Sibilla Cumana era detenuto dalla somma sacerdotessa dell'oracolo di Apollo (divinità solare ellenica) e di Ecate (antica dea lunare pre-ellenica), oracolo situato nella città magnogreca di Cuma. Ella svolgeva la sua attività oracolare nei pressi del Lago d'Averno, in una caverna conosciuta come l'"Antro della Sibilla" dove la sacerdotessa, ispirata dalla divinità, trascriveva in esametri i suoi vaticini su foglie di palma le quali, alla fine della predizione, erano mischiate dai venti provenienti dalle cento aperture, rendendo i vaticini "sibillini”.
Nel libro VI dell'Eneide, Virgilio, che la rappresenta "vegliarda", la chiama «Deifobe di Glauco» e «Amphrysia», appellativo originato dal fiume tessalo Amfriso, presso il quale Apollo custodì il gregge di Admeto. Lla sua figura è anche legata una leggenda: “Apollo innamorato di lei le offrì qualsiasi cosa purché ella diventasse la sua sacerdotessa, ed essa gli chiese l'immortalità. Ma si dimenticò di chiedere la giovinezza e, quindi, invecchiò sempre più finché, addirittura, il corpo divenne piccolo e consumato come quello di una cicala. Così decisero di metterla in una gabbietta nel tempio di Apollo, finché il corpo non scomparve e rimase solo la voce. Apollo comunque le diede una possibilità: se lei fosse diventata completamente sua, egli le avrebbe dato la giovinezza. Però ella, per non rinunciare alla sua castità, decise di rifiutare”»
Le immagini di riferimento sono:

Apollo e la Sibilla Cumana, del Cerrini per Deifobe giovinetta.
La Sibilla Cumana di Michelangelo, nella Cappella Sistina, per Deifobe anziana.

(10) I modelli di riferimento per la figura d’Apollo sono:

Apollo Sauroctono di (si presume) Prassitele;

Apollo del Belvedere, di Canova.

(11) Tratto da La Confessione.

(12) Jasper Sitwell e James Woo sono due agenti dello S.H.I.E.L.D. rispettivamente di Livello 5 e Livello 8.

 (13) http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2032661&i=1

 (14) «Parker sviluppò un “sesto senso”, che lo avvertiva dei potenziali pericoli, un “senso di ragno”, se preferite. Si può solo ipotizzare che Stan Lee, frustrato dai tentativi non riusciti di uccidere dei ragni veri in bagno, avesse dedotto che gli aracnidi usino la percezione extrasensoriale per non essere schiacciati.» (La Fisica dei Supereroi, James Kakalios)

 (15) Formula dialettale, credo traducibile con un “Ciao, ci vediamo!”

 

 

 

 

Le ciance senza senso della Neme Note Di Fine Capitolo

 

E sono tornata! Sì lo so, potevo anche restare nel mio piccolo antro a coltivare bruschette, ma ehi, il richiamo della foresta della tastiera!
Ordunque! Il Blackbird è il jet degli X-Men, la canzone che ascolta Orfeo è Pio di Marcello Pieri, l’aggettivo “Patiens” riferito ad Enea lo indica come eroe sottomesso al fato e al volere degli Dei, al contrario di Odisseo che è eroe agens, il lupo, la cicala, il falco, il serpente e gli animaletti che parlano della guerra sono i simboli di Apollo, e vorrei tanto tanto tanto dirvi da dove sono prese le citazioni della Sibilla, di Apollo e dei pensieri finali di Tony Stark, così come vorrei dirvi che c'entrano la Chiesa e Bill Foster, ma ehm, sarebbe spoiler, ahimè. Anche se sono sicura che molti di voi le hanno riconosciute E già vogliono farmi la pelle
Detto questo…Io non devo più scrivere quando ho l’influenza.
Ringrazio la mia Pellissima mogliaH Alley e tutti coloro che hanno aggiunto la mia storia alle seguite/preferite/ricordate! Vi slinguazzerei tutti, dal primo all’ultimo!
Se volete, qui c’è una fantapignoserrimo trailer della fan fiction, ad opera della mia Tony di fiducia!
http://www.youtube.com/watch?v=P5trewzsL9g
BONA CISI----!

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Capitolo 9
*** #8. Caninamente Latra ***


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.:  *** :.

Steve si guardò le mani e le dita riflessero come specchi l’immoto grigiore circostante.
Immaginò, allora, che le pietre si mutassero in rigagnoli di roccia fusa, che il rivoletto s’avvoltolasse ubbidiente all’anulare e si solidificasse a formare una fasciolina non più spessa di qualche millimetro.
Osservò quel nastrino con l’occhio della mente, quasi si trovasse davvero al proprio dito e non racchiuso nel bandolo intricato della fantasia: era un pensiero rincuorante, una speranza fondamentale per quanto improvvisa, e il Capitano vi si aggrappò quale ultimo appiglio a quella realtà, a quel vero, a quel mondo ora così lontano, ora così simile ad un mero soffio di menzogna.
Anche davvero, davvero, gli risultava ancora difficile credere a quanto era appena successo. A quanto il compagno gli aveva appena chiesto. Proposto.
Forse era stato solo frutto del momento. Della situazione in generale. Enfasi, costrizione, ansia, paura…Eppure…
Il volto di Tony, in un prima che poteva essere secondi ed ere all’insieme, gli era sembrato tanto tangibile, la sua voce tanto ferma da fargli male al cuore. Le parole che il compagno gli aveva urlato mentre veniva inghiottito in un murmure nero di ombre gli avevano restituito un fiato di vita ancora palpabile, una scheggia di calore ben impressa nel sangue: non era veloce, era fangoso, sdrucciolante, goffo, ma un po’ scorreva ancora, sciacquettava borbottando entro le vene, scavava di volta in volta più a fondo a rannicchiarsi e ricordargli che ancora viveva e avrebbe potuto vivere di nuovo se solo avesse avuto la forza di aspettare e non perdersi.
E continua a parlare. Non smettere. gli ricordò Stark, il suo volto contratto, i suoi occhi spalancati Parla a te stesso, parla a me, ma con nessun altro. Rimani attaccato a questa vita o non sarò più capace di ritrovarti, ma Steve era sicuro, oh, così sicuro che non ci sarebbe stato tempo né luogo in grado di fermare la testardaggine incontrastata dell’uomo, che avrebbe prosciugato mari e disciolto la calotta artica pur di trovare quel maledetto filo spinato e di tagliarlo una volta per tutte Te lo prometto, Steve. Ti porterò via di qui.
«E lo farai.» si era ripetuto il Capitano «So che lo farai.» gli aveva sussurrato nell’antro ogivale degli Inferi, con la voce che si rincorreva da una pietra all’altra e faceva aggrottare la fronte di Ermete, portava le altre anime a volgere la testa bombata nella loro direzione -Avessero avuto ancora occhi per palesare la perplessità e bocche per esprimerla, Steve non dubitava sarebbe stato travolto nell’immediato da domande e dubbi e chiarificazioni e preghiere, Insegnaci di nuovo a parlare! Avrebbero piagnucolato Insegnaci di nuovo a sperare!
«Non servirà a nulla.» era la costante protesta del Dio, due passi davanti a lui, una figura altera e irraggiungibile, contrita e furiosa «Molti hanno tentato di aggirare il fato comune dell’uomo, nessuno ci è mai riuscito. Il prezzo, se qualcuno portasse mai a termine l’impresa, sarebbe insostenibile.»
Ma Rogers non lo ascoltava e mentre oltrepassavano archi di ragnatele e colonne di teschi tutti uguali nella correttezza della Morte, si diceva di continuare a camminare, di continuare a ricordare, di continuare a parlare, di non cercare altro interlocutore se non se stesso.
Pareva funzionare, comunque, giacchè l’oscurità gli arrivava alle narici in zaffate insopportabili di marciume sudicio, decomposizione malarica, viscere ed intestini crogiolatisi marcescenti al più tremendo dei solleoni. Gli risultava impossibile sopportare la polvere e la ghiaia incolore, e la compagnia d’Ermete lo irritava, le pareti infinite ai lati dello sguardo lo schiacciavano di inspiegabile angoscia. Se prima dell’incontro con Tony quel luogo aveva cominciato a far germogliare dentro di lui la convinzione di appartenere ai ciuffi d’erba pallida, allo zolfo appena percettibile dallo scroscio di fiamme lontane, al dolciastro profumo di loto che si sprigionava da un fiume piatto poco distante, dopo il loro breve dialogo aveva più che mai capito come l’unico posto cui appartenesse davvero era un grosso, orribile edificio al centro di New York.
Le rocce non gli restituivano la voce e Steve ne era sollevato: l’eco avrebbe significato la perdita delle parole, dei ricordi. Il silenzio dell’Ade era la prova inconfutabile che non si stava più perdendo, che aveva finalmente trovato un appiglio e un luogo sicuro per mantenere se stesso.
Non gli importava di Ermete, né del percorso che ormai li aveva condotti alle sponde d’un fiume ributtante di fango e grumi di cenere pastosa. Filari di anime dondolavano sul posto e il Capitano non poté fare a meno di chiedersi se il lamento che sentiva vibrare fin dentro lo stomaco appartenesse a loro o a lui, in risposta a quello spettacolo penoso.
Il Dio lo squadrò con sufficienza da sopra la spalla cinta di polvere d’oro, si voltò e gli prese il polso con un movimento talmente veloce che Steve si ritrovò sul palmo una moneta senza essersi accorto di nulla.
«L’obolo.» spiegò Ermete, chiudendogli le dita sopra il dischetto metallico –Inaspettatamente, quel gesto fu colmo di una gentilezza quasi paterna «Consegnalo al nocchiero ed egli ti traghetterà alla seconda riva dell’Acheronte, ultimo fiume che mai varcherai. Il mio viaggio al tuo fianco si conclude qui, Steven Rogers, ma nel proseguo del tuo cammino non sarai solo: un’altra anima, leale compagno di esistenza e di vita, sarà con te fino al Giudizio di Radamanto, Eaco e Minosse.»
Steve schiuse le labbra e non fece in tempo a chiedere di più, dimentico dell’avviso di Stark -Leale compagno di esistenza? Bucky? Stava forse parlando di lui? L’avrebbe dunque rivisto? Avrebbe potuto scusarsi, crollare in ginocchio e chiedergli perdono per non averlo salvato, per non essere stato abbastanza?- che, ecco, vi fu un rudere stridere di remi e onde ciangottanti.
Un grido feroce cavalcò il corso dell’Acheronte e le anime si ritirarono, in un gesto di stizza e preoccupazione genuinamente umano: l’acqua putrida era schizzata fuori dall’alveo ed essi erano indietreggiati, una mano filamentosa lì dove una volta c’era il petto, dove una volta si nascondeva il cuore, avevano reclinato la schiena e la veste per timore di vederla insozzarsi di schiuma grigia.
Una simile preoccupazione scatenò nell’immediato l’ilarità del nocchiero, piegato da risa e latrati su un legno assai piccolo di primo acchito, eppure sorprendentemente vasto se si guardavano lunghe panche al centro e ai fianchi della bagnarola, umida e fetida. Il nocchiero berciò insulti in lingua aspra, sporcandosi di saliva la lunga barba già incrostata di sale nero e polvere; curvo sul bastone immerso nell’Acheronte, li fissava uno dopo l’altro coi grandi occhi di fiamma rubizza, strascinava i denti, strascicava nuove bestemmie ed insulti; apertosi la via fino alla sponda sabbiosa, raddrizzò infine le spalle e quello che al Capitano non era parso più d’un vecchio ubriacone coperto di panni logori, si rivelò un marinaio dalle ampie spalle, con le guance infuocate e i segni del mare sulle nocche e sulle braccia cosparse di vene rigonfie. Il mantello annodato al collo scivolò di lato, a dar mostra dei muscoli ben delineati, incontrastabili a vedersi.
«Venite! Venite, dunque!» li richiamò e le anime si strinsero, minuscoli, tra loro, e insieme si avvicinarono alla barca con passo da gregge tremante.
Steve contrasse la mascella, il cuore –Che non sperava più di poter sentir battere contro le costole- ebbe uno sgroppo inquieto.
«Io non appartengo a questo luogo.» disse, girandosi a guardare Ermete negli occhi azzurri.
La Divinità sollevò orgoglioso il mento e inarcò il sopracciglio, un barbaglio di luce gli scivolò tra i capelli.
«Tutti i mortali appartengono a questo luogo.» lo corresse «Anelate l’immortalità. E non v’è immortalità più eterna dell’Ade che tutti v’accoglie.»
Il Capitano tornò a fissare la propria attenzione su Caronte e il gruppo di spiriti che ormai s’erano seduti e acquietati nei posti loro assegnati da un Destino più alto della volontà: rimaneva, ora, una sola panca vuota, che spiccava nera nel biancore palpitante delle anime. Il nocchiero ghignò, in segno di sfida, accennando al posto con un pacato alzarsi della testa.

 

***

Lunghe ombre si tendevano al diramarsi dei sentieri.
Natasha piegò la testa e torse il collo a guardarsi indietro: nessuno che la seguisse, nessuno che ripetesse i suoi passi dacché s’erano divisi per cercare il ramo d’oro. Non che si sentisse sola, ma non poteva negare che il buio intessuto tra i tronchi degli alberi e sopra il proprio capo le stesse gettando addosso un fastidioso senso di claustrofobia.
L’Antro della Sibilla era sempre al loro fianco, che lo aggirassero o meno. Sembrava seguirli, osservarli ghignando dal mezzo delle fronde, divertendosi alle loro spalle e godendo del patetico susseguirsi di gesti e ordini. Cammina, cerca, trova. Ma più camminavano e cercavano, meno trovavano.
Ad essere sinceri, l’idea di prendere ognuno una strada a sè era stata di Stark: Vendicatori, divisi aveva sibilato, la voce resa tagliente dal sintetizzatore. Odisseo aveva cercato di blandirlo e di convincerlo ad aspettare, nel mentre che Enea rimaneva ritto al centro dello spiazzo dinanzi le porte dell’Averno. Con gli occhi chiusi e il volto al cielo, il figlio di Priamo mormorava e sussurrava in latino in un salmodiare tanto basso e concitato che non le era riuscito di carpirne il senso. Orfeo, sdegnoso e sdegnato dalla loro presenza, non aveva detto una parola di più: s’era seduto su di un cuscinetto di d’erba morbida proprio accanto ad Enea e lo sguardo s’era cristallizzato sulla sua figura, non l’aveva abbandonata un solo istante.
L’aria aveva cominciato a vibrare e Tony, ancora teso e nervoso, aveva imposto loro di eseguire l’ordine senza controbattere. Ne aveva abbastanza di Dei e litanie, aveva sbottato, dando le spalle al capannello e scomparendo accompagnato dal trambusto dei fusti schiacciati sotto gli stivali dello scafandro.
Lei aveva guardato Bruce e Bruce aveva scosso la testa. Natasha aveva annuito, prendendo la propria via e sperando nella buona stella che sapeva non possedere.
La ricerca, fino a quel momento, era stata infruttuosa, non un barlume d’oro aveva sghignazzato ai lati degli occhi. Le foglie si chiudevano a cupola nera sopra di lei, i rami rachitici la stringevano in un abbraccio soffocante, gli arbusti ai lati del sentiero le afferravano le caviglie, s’avvoltolavano ai polpacci e le spezzavano le ginocchia. La voce della Sibilla cantava una melodia funerea, di fumi sulfurei da far girare la testa, e il sopra era sotto e il passato presente, il futuro un groviglio maleodorante di scelte sbagliate e sangue rappreso.
Perché la sensazione di vuoto e il cerchio alla fronte s’attutissero, Natasha dovette portarsi i palmi delle mani alle tempie, le dita artigliate ai capelli, i polpastrelli premuti contro la sommità del cranio. Respirò forte e le foglie, ghignanti, le gettarono in faccia la neve di Mosca, la steppa le urlò nelle orecchie, il vento le fece sbattere le articolazioni contro la carne, in un gran clamore e clang clang di ossa e vertebre scompaginate. Guardò ai propri piedi e una macchia di luce oleosa, verdastra, le bagnò la punta delle scarpe, trasudò marcescente dalla terra; al centro si palesò un’ombra liquida, sospesa in vitro e cristalli di ghiaccio. Era l’Inverno, ecco cos’era, il rintocco d’uno sparo, il riflesso d’un arto meccanico, un bacio che sapeva di ferro e di America lontana, ma mai dimenticata. Ricordi di ieri che prendevano piede, si ramificavano nell’oggi, tagliavano uno squarcio di traverso nel volto del domani. L’Inverno sarebbe tornato, Vedova Nera non sapeva come, eppure era sicura che sarebbe successo e stella bianca e stella rossa, l’una contro l’altra, in uno sprizzare di scintille e di lacrime, asfalto divelto, fumo, occhi azzurri e occhi grigi, pienezza e vuoto, lealtà e tradimento, amicizia e disperazione, e poi morte, morte, morte, morte, morte, morte, morte, morte.
«Natasha!»
Vedova Nera si riscosse nel sentirsi chiamare e si levò in piedi, sorpresa di essere caduta in ginocchio.
Bruce le era accanto, arrivato da chissà dove e da chissà quanto, e lei nemmeno ne aveva avuto sentore, non se n’era accorta. Tutto il proprio essere era stato riempito dei più terribili presagi, aveva perso la presa e adesso neppure riusciva a ricordare cosa avesse visto, non era in grado di rimettere insieme i frammenti di quelle visioni prima tanto violente da far male.
La donna si ricompose con un veloce schiarirsi di gola e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio; inspirò forte, chiuse gli occhi e, una volta pronta ad affrontare di nuovo la realtà presente, si voltò verso il dottore con un quieto sorriso sulle labbra.
«Non è nulla, Bruce. Grazie per l’interessamento.»
Dal modo professionale ed emotivamente coinvolto in cui la stava guardando, Natasha capì che l’altro non aveva creduto ad una sola parola –Se non al Grazie finale, ma non se ne diede pena. Cosa le fosse accaduto non era di competenza del dottore, quindi spendere tempo a cercare una giustificazione plausibile era inutile, oltre che dannoso.
Banner contrasse la mascella e pressò le labbra, gli occhi abbassatisi un istante e quello subito dopo già alti ad incontrare i propri.
«Io ho…Visto il mio esilio.» le rivelò, la bocca sollevata in un sorriso impacciato, traballante. L’espressione che aveva indosso pareva quasi una scusa per l’attimo di debolezza che l’aveva portato a parlare «Questa foresta ci farà impazzire. Torniamo indietro.»
Vedova Nera si limitò ad annuire e stettero entrambi in silenzio fino a che non raggiunsero di nuovo lo spiazzo dove avevano lasciato le tre guide. Non si dissero nulla, ma procedettero vicini, le nocche di Natasha che sfioravano il dorso della mano di Bruce, il polso di lui ad accarezzare piano quello di lei, le spalle che si toccavano, gli sguardi che si cercavano facendo finta di trovare il giusto sentiero.
Camminarono insieme nella compagnia reciproca della propria solitudine.
Tony fu il primo ad accorgersi del loro arrivo, pur non dicendo nulla, né commentando qualcosa a proposito. Era discostato dagli altri, la calotta dell’armatura stretta sotto il braccio e il volto corrucciato, quasi rabbioso. Se fosse stato per l’inutilità della sua ricerca o per le visioni che dovevano averlo colto all’improvviso nella prigione di alberi e fumi, Natasha non avrebbe saputo dirlo -Da come, però, Odisseo lo guardava con sincera apprensione e Orfeo con delizioso interesse, era più che mai propensa a vertere sulla seconda ipotesi.
«Attendevamo con ansia la vostra venuta.» il Cantore sollevò le sopracciglia e indossò una sottile espressione derisoria «Ero sicuro, oh mio caro dottore, del mio canto: m’è bastato pronunciare il tuo nome sul dorso d’una foglia e la sua infinita eco ti ha riportata a me.»
Bruce tossicchiò e Natasha lodò mentalmente la sua forza d’animo nel passare la frase sotto silenzio; un sorriso le nacque spontaneo all’angolo della bocca, ma s’affrettò a nasconderlo nell’inflessione rigida della voce quando si rivolse direttamente ad Enea, ancora fermo nella posizione in cui l’avevano lasciato almeno una trentina di minuti prima.
«Non abbiamo trovato alcun ramo d’oro, in questa foresta.»
«E’ perché non siete in grado di vedere» replicò il prode guerriero d’Ilio, uno scintillio ghignante dei denti bianchi.
«Abbiamo battuto la zona qui intorno fino ad ora.» rimbeccò Vedova Nera, tagliente.
«E’ perché non siete in grado di aspettare.»
Stark emise un verso stizzito, Natasha stava già per replicare e un doppio frullo d’ali li colse entrambi impreparati. Da una breccia delle fronde discesero due colombe bianche, con gli occhi di lucido nero e i becchi di bronzo; cinguettando e urlettando il loro tubare pigolante, s’appollaiarono ognuna su una spalla di Enea e strofinarono le testoline candide nell’incavo asciutto delle sue guance.
«Novelle mi giungono dal ventre dell’Ade» annunciò il figlio di Priamo «Lo spirito che cercate ha pagato l’obolo a Caronte e ha già messo piede sulla riva opposta dell’Acheronte.»
A quelle parole, Tony drizzò il capo e spalancò gli occhi, la schiena tesa in avanti, il respiro ratto in gola e sulla lingua. Odisseo gli fece cenno di non muoversi, né dire di più, così che Enea potè proseguire e, invitate le colombe a levarsi in volo, far risuonare la foresta della sua limpida voce.
«Siate le mie guide, se c'è un qualche sentiero e per l'aria dirigete il volo nei boschi, dove l'aureo ramo ombreggia la pingue terra! E tu, o madre divina, non abbandonarmi in questa incerta impresa!(1)»
Un battito d’ali appena e gli uccelli erano già un lampo nel ventre della selva. Ignorando le proteste di Stark circa l’insensatezza di seguire un paio di piccioni candeggiati allevati da un paninaro, il gruppo andò loro dietro e la via, che prima era parsa ostile e piena di tranelli, si snodò facile al cammino e non rocce, né buche li trassero un inganno, ma sentieri sicuri e calde coperte d’erba, cuscini di foglie e fiori odorosi.
Natasha non si concesse nemmeno l’idea di abbandonarsi ad un tale senso di pace, le bastava vedere gli occhi di Bruce e i barbagli verdi scaglionati dall’agitarsi della Bestia dentro di lui per infonderle sospetto e attenzione; Tony aveva indossato nuovamente il casco e li precedeva, subito alle spalle di Odisseo, mentre Orfeo ed Enea aprivano la fila.
Presto, l’aria pura diede spazio a reflussi nauseabondi, lezzo di decomposizione e misture deplorevoli di zolfo e carne irrancidita; l’ingresso dell’Averno era maleodorante, oscuro come fauci di belva. Le colombe si librarono dinanzi alla bocca sdentata degli Inferi e l’affiancarono per condurli attraverso una viuzza infinitesimale, una lingua di sassolini che s’inerpicava stretta stretta proprio accanto l’apertura principale.
Oltre uno sperone appuntito e bassi rovi, un arco roccioso s’inarcava sopra una curva ridotta, tanto sottile da essere costretti a procedere con la schiena e i palmi appoggiati alla parete dell’Antro.
«Vi dirò» Bruce girò il viso verso Natasha e le rivolse un’occhiata ironica «Questo non mi aiuta a mantenere i nervi saldi.»
«Andrà tutto bene, dottore.» Vedova Nera annui e i capelli rossi caddero a coprire una striatura di terra sulla guancia sinistra «Abbiamo affrontato di peggio.»
«Loki?» l’uomo proruppe in un guaito amaro «Almeno lui potevo farlo schiantare contro il pavimento.»
Le colombe raccolsero il bisbiglio della risata di Natasha e li sparsero all’intorno, agitando l’aria a punta d’ali; ferme a mezz’aria, attesero che ognuno di loro avesse passato indenne il sentiero, e sfrecciarono tubando allegre oltre la piega della via.
Lì svettava maestoso l’albero aureo.
Le radici nodose, larghe quanto un uomo, si piegavano, curvavano, inarcavano sopra la terra, si conficcavano poderose in essa e vi s’aggrappavano come artigli; il fusto rigagnolava di bave di linfa e strisce aguzze di corteccia dorata, i rami, protesi verso il cielo, erano immersi nel tripudio canterino delle foglie lucide, tempestate di gocce luminose e bacche di preziosi.
Enea raggiunse il tronco, mise il piede in un incavo fatto su misura per lui e vi si issò, il braccio disteso in avanti. S’udì uno schiocco melodico e il ramo d’oro fu finalmente nelle loro mani.

 

***

«Non mi hanno permesso di portarti il liquore. Mi dispiace, Steven.»
«Professor Erskine…?»
Il medico di Augsburg arricciò divertito le labbra e annuì. Gli occhialetti tondi mandarono un riflesso ridente mentre intrecciava le dita dietro la schiena e raddrizzava le spalle, coperte dal sempiterno camice bianco. Era proprio come lo ricordava Steve, posato e paterno, la zazzera brizzolata scomposta e più scura sulla nuca, la barba lunga di qualche giorno e l’onnipresente gilet borgogna sulla camicia candida e la cravatta beige.
«Credo ti abbiano detto di me, dall’altra riva» tese un braccio ad indicare la sponda opposta dell’Acheronte, nascosta da un soffuso banco di nebbia «Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici.»
Il Capitano torse il collo a guardarsi le spalle, puntò lo sguardo all’intorno e setacciò ogni zona d’ombra fin dove l’occhio poteva arrivare: sperava nella comparsa di un secondo volto, di un ghigno sicuro e sorvolato di strafottenza, sopracciglia sempre pronte ad inarcarsi in un’espressione saputa, una mano a stringere la spalla in segno di vicinanza e conforto.
«Cerchi forse qualcuno in particolare, Steven?»
«Io…» Steve aprì la bocca, la richiuse, scosse il capo «Un vecchio amico.»
«La via è ancora lunga, ragazzo mio, non sei ancora arrivato. Sono qui per condurti al cospetto dei tre Giudici» ripetè, pacato «Chissà che una volta attraversata la Prateria Degli Asfodeli tu non finisca per ritrovarlo mentre danza nelle eterne musiche degli Elisi. Andiamo, mh?»
Con un sospiro stanco sulle labbra, il Capitano gettò un ultimo sguardo dietro di sé e si apprestò a seguire il medico lungo la strada che si srotolava incolore ai loro piedi.
«Sapevo saresti arrivato» gli confidò Erskine, appoggiandogli una mano sulla schiena «L’ho visto due volte. Per i defunti il futuro dei vivi è di immediata conoscenza, a dispetto del loro presente.»
Il viale proseguiva per alcune miglia, brevi come pochi passi: un boschetto di pioppi e salici li accolse con applausi e scrosci di foglie, i tronchi che si susseguivano a lato del sentiero come tante sentinelle sull’attenti. Non c’erano suoni, persino il loro fiato era silenzioso: il medico parlava, ma la sua voce non produceva eco alcuna, piombava a terra non appena cadeva dalla bocca gentile e abbandonava la memoria. Avesse dovuto raccontare a qualcuno il monologo di Erskine –Giacché, fedele al monito di Tony, non dava all’altro spunto per cominciare un dialogo-, Steve non sarebbe stato capace di trovare un inizio o una fine, tantomeno il punto focale del discorso. Era come se non esistesse, come se non avesse avuto un punto di partenza e neanche uno di arrivo.
Appena fuori dal bosco, giganteggiò davanti a loro un’immensa porta dai cardini possenti, di legno spesso e nero, senza intarsi o chiavistello; sulla sinistra uno slargo tenebroso, dove le pareti aggettanti dell’Ade si piegavano a creare una semi abside di roccia grigia. Sparsi a terra chiazze di sangue nero, pozze di bava secca, stracci penduli e resti arrugginiti d’ armature, spade spezzate e scudi fracassati. Sul metallo erano visibili depressioni affilate, causate dal morso feroce di alcune zanne.
«La dimora di Cerbero.» spiegò Erskine «Solitamente il suo latrato si sente fino all’Erebo. Da tre giorni almeno, però, si ode solo lo schiamazzo delle Erinni. Le tre teste hanno lasciato l’Ade e nessuno sa quando faranno ritorno.»
Steve promise a se stesso che, una volta tornato sulla Terra -Perché sarebbe tornato sulla Terra, non c’era ragione di credere il contrario. O meglio, ragioni per credere il contrario ve n’erano in sovrannumero a cominciare da Erskine che lo precedeva e appoggiava la mano destra sulla porta, aprendovi una breccia abbastanza larga per far passare entrambi. Era un’esagerazione di ragioni per credere il contrario, una lista infinita che s’aggiornava passo dopo passo e non aveva alcuna intenzione di smettere di raccogliere ulteriori motivazioni. Ciò lo avrebbe comunque fermato dallo sperare di aprire gli occhi e ritrovarsi nel proprio letto, alla Tower, un mattino come tanti? No. Sarebbe stata perfetta finanche una mattina uggiosa e carica di pioggia unticcia, pur di svegliarsi e accorgersi con un sospiro di sollievo che aveva ceduto ai mormorii sibillini dell’incubo, che s’era fatto giocare da un sogno di troppo, da un presentimento ingiustificato. Qualsiasi tempo atmosferico, qualsiasi giorno della settimana, qualsiasi mese. Non aveva importanza. Doveva soltanto svegliarsi. Solo quello.
Non soffiava un alito di vento, eppure Steve si convinse che gli asfodeli intorno a lui si stesse muovendo come accarezzati da una brezza leggera, i pistilli arancioni che tremolavano e fiammeggiavano baluginando al tocco d’un respiro. Aguzzò la vista, nel procedere al seguito del medico di Augsburg, e nel biancheggiare luminoso dei petali ebbe la fugace impressione di un guerriero dal volto spigoloso, il cimiero rosso-brunito e l’armatura lamellare, mentre portava alla bocca grigia una coppa priva di decori: il pomo d’Adamo s’alzò e ricadde, due rivoli cremisi, unica nota di colore, scivolarono a segnare la linea degli zigomi e la piega del collo.
«Antichi eroi» lo prevenne Erskine, annuendo «Bevono il sangue delle offerte.»
Il Capitano deglutì a vuoto, avvertendo sulla pelle il gelido ridacchiare di brividi e tremori. Ai lati degli occhi, ora, si susseguivano, si inseguivano spiriti a guisa di pipistrelli, dai volti umani e le ali di bestia, parole di uomo e squittii di ratto. Si gettavano rumoreggiando tra gli asfodeli, si dibattevano tra le radici, sollevavano spruzzi di polline e ghirlande di terriccio.
«Non qui, non ancora, Steven!» lo richiamò l’altro e gli fece cenno di proseguire «Là, vedi, mh? E’ la che dobbiamo andare.»
Indicò la facciata di un castello privo d’età o di tempo, una struttura che raccoglieva in sé tutte le epoche del mondo, tutti i modi che l’uomo aveva imparato per erigere la grandezza della propria civiltà. I bastioni erano protetti da alte mura e sulla cima di esse strillavano tre figure alate di donna, dai corpi ingobbiti, enfi di crudeltà; la loro testa un nido di serpi, la bocca un’alcova di urla disumane e sangue marcescente. Agitavano torce e fruste, squassavano con tizzoni ardenti corpi ormai logori, scuoiati, orrendamente gettati tra gli interstizi dei merli. Ai lati del grande mastio centrale erano cresciuti due cipressi dalle foglie bianche e il tronco niveo, di splendore sopraffino: dalle loro radici prendevano vita due fonti, una dall’odore aromatico, quasi stucchevole, del loto, capace di avvolgere mente e cuore, lenire gli affanni e acquietare l’animo nel cullante oblio dei sensi; l’altra riportava alla memoria del Capitano i ricordi più belli, i profumi più amati.
E quando, evitando per mera fortuna la caduta accidentale di viscere e altri liquami stomachevoli, Steve era certo di aver ormai visto tutto e di essere preparato al peggio, ecco che gli si palesarono di fronte tre forme abbruttite di giganti, ritti a bloccare il passo per i tre sentieri alle loro spalle. Uno aveva un’alta corona a torrioni e un’urna al fianco; il secondo, con grosse chiavi tra le dita sgraziate, lo fissò in silenzio con gli occhi di giaietto; l’ultimo, seduto su uno scranno di pietra e con uno scettro rozzo, bronzeo nella sinistra, distolse noncurante lo sguardo.
Il Capitano si schiarì la gola e guardò Erskine, in cerca di aiuto su come procedere; il medico lo osservò di rimando, guardò i tre Giudici, tornò a fissare Steve, quindi sbocconcellò qualche parola in tedesco, lo prese per le spalle e lo spintonò in avanti.
«Su, su, andiamo Steven. Presentati. Le buone maniere. Ricordi ancora come si fa, mh?»
«Certo. Certo, ahm.» il Capitano si portò le dita alla fronte, la schiena dritta e lo sguardo il più fermo possibile «Capitan Steven Grant Rogers.»
«Ah! Il soldato!»
Una voce leziosa deflagrò nel ventre dell’Ade, zittì il gracchiare sanguinolento delle Erinni e costrinse i tre giganti ad incassare le teste tra le spalle bombate. Erskine arretrò, il colore risucchiato dal volto allibito, gli occhi stravolti dietro le lenti ora di traverso sul naso; l’orrore si fece strada sul viso altrimenti pacifico, lo sguardo s’appigliò, vitreo di terrore e incomprensione agli occhi di Steve. Questi boccheggiò, il fiato frantumato, disintegrato nei polmoni contratti; ansimò e sputò imprecazioni e veleno nell’inalare viticci di nebbia verdastra, serpenti sibilanti che s’appiccicavano ai denti, incollavano la lingua al palato e oscuravano la vista.
Il Capitano cadde in ginocchio con l’urlo di Erskine a rombare nelle orecchie trafitte dalla voce melliflua; afferrò il cordone di fumo strettosi alla carotide, cercò di tirarlo via prima che lo soffocasse, prima che lo uccidesse per la seconda volta. Nel momento esatto in cui esso gli si sciolse tra le dita, Steve capì che non era stato per mano propria: non si trovava più al cospetto dei Giudici, bensì in un ampio salone colmo del riverbero di danzati bracieri; tavolate di biondo grano e succosi melograni erano disposti contro le pareti laterali, chiusa a ferro di cavallo su quella di fondo. Brocche di vino denso come liquore cantavano litanie di miele ed erbe tra orci straripanti datteri e olive; un cospicuo numero di fette di pane occhieggiavano spugnose, immerse fin nella crosta dentro gli intingoli più disparati; coppe d’uva e altra frutta zuccherina sbiadivano per colore e lucentezza al confronto della cacciagione e dei dolci spruzzati di sesamo.
«…L’uomo senza tempo.»
Steve voltò il capo alla propria sinistra e negli induriti dall’odio guizzarono lingue di fuoco e fiamme.

 

***

Tony poteva ancora sentire su di sé lo sguardo assente della Malattia.
Il volto emaciato, tirato sugli zigomi sporgenti, gli era rimasto nella memoria come riflesso di sé in uno specchio: si era osservato, si era visto in quel corpo smagrito, imbevuto d’alcool fin negli stracci logori, penduli sulle spalle aguzze e sulle braccia scheletriche; la Malattia aveva modellato il suo nome con le labbra seriche, inspirato dalle narici del naso adunco l’odore della sua paura e ne avevo riso, i denti snudati e scivolosi di bava, unti di liquore. Il Lutto aveva allungato il collo d’avvoltoio, svegliato dal latrato della compagna, e s’era fatto avanti vestito d’un completo nero ingrigito di polvere, la cravatta allentata e le palpebre cispose di pianto, sali di lacrime a balbettare sulle ciglia, la barba sfatta, lunga e annodata, le mani tremule di mille tormenti.
«Non sono molto lusinghiere.» aveva commentato Stark, rivolto ad Odisseo «Non mi fanno il naso giusto.»
L’eroe omerico non aveva riso e al posto suo era stato Enea a parlare.
«Questo è il primo ingresso dell’Orco.» e la voce era serpeggiata nelle tane, gli spiriti si erano ritirati, l’avevano fissato con odio e sibilato nella sua direzione «Lutto ed Affanni, Malattia, Vecchiaia» e il fatto che Tony non avesse notato alcun se stesso coi capelli canuti e la schiena gobba lo aveva messo abbastanza sul chi vive, come un cattivo presagio «La Paura, la Fame, la Miseria, la Morte» qui il guerriero si era inchinato ad un’ombra passata loro davanti in un tintinnio di monete e chiodi, una visione fuggevole avvolta in un sudario di porpora «E il Dolore.(2)»
Stark dovette compiere un immenso sforzo per distogliere la propria attenzione dall’immagine del Capitano, di traverso in un angolo, il collo innaturalmente reclinato all’indietro, la mascella dislocata e le orbite un nido di vermi e carne necrotica.
Si sentiva nervoso, messo alle strette: quell’accozzaglia infinita di spiriti ed esseri lo infastidiva, così come i brividi che non era in grado di soffocare od il morso gelido allo stomaco che non pareva intenzionato ad allentare la presa. Erano nell’Ade, nell’Oltretomba, nel Regno dei Morti, Cristo Santo! Se non ci fosse stato il visore dell’armatura a scandagliare ogni elemento circostante, ad analizzarlo e sezionarlo sottoforma di codici e nastri numerici, avrebbe dato sicuramente di matto.
Era palese che l’Ade non li volesse, che l’atmosfera soffocante, il terrore sordo alle ginocchia e alle vene intirizzite di freddo cadaverico fosse una reazione istintiva del luogo, un monito ringhiante a chi non aveva alcun diritto di essere lì, non con il respiro ancora sulle labbra e il canto del cuore entro la gabbia toracica. Era autoinvitarsi ad una bisca clandestina di mafiosi russi: Tony si sentiva un agente sottocopertura e, non fosse stato per il collega invischiato a suo malgrado nella questione e con in mano una coppia di due, non ci avrebbe pensato due volte a girare le spalle e andarsene il più velocemente possibile.
Enea indicò loro il Sonno languidamente adagiato in un sarcofago imbottito di velluto, i Piaceri dell’Animo -«Di questi sono un esperto» aveva ghignato Tony, rivolgendo al baccanale di spiriti il miglior sorriso complice del repertorio-, quindi la Guerra che batteva la lancia sullo scudo, letti di ferro e una vecchia folle con vipere che le sibilavano sul cranio coperto di chiazze marroni, le iridi opache e gli occhi pazzi, lampeggianti sotto le bande insanguinate che le fasciavano la fronte –La Discordia.
Giunti ai piedi di un olmo malarico, cinto d’una corona di foglie smunte, Enea disse loro di sporgersi un poco oltre lo spiazzo elevato dove si trovavano e non prestare attenzione agli schiamazzi e ai ruggiti e agli urli e agli strepiti –Il che, considerò Tony, era parecchio difficile e parecchio stupido. Anche senza girare la testa, le orrende creatura che dimoravano l’Ade si affollavano e affannavano attorno a loro, li scrollavano, li scuotevano, strillavano nelle orecchie, mordevano le carni, tiravano i capelli, riempivano la testa di versi lugubri, parole astiose dal significato incomprensibile, nenie di morte e litanie funebri.
Ancora una volta, il magnate ringraziò la visuale periferica di J.A.R.V.I.S. e la professionalità con cui l’AI catalogava ogni essere, presentava per ognuno una breve descrizione e poi lo costringeva nella banca dati perché la smettesse di fare i capricci.
Un santo, J.A.R.V.I.S. era un santo.
«Quel palazzo che vedete alla fine del vostro sguardo» cominciò Enea, indicando l’orizzonte nero davanti a loro «E’ la meta del vostro viaggio.»
«J.A.R.V.I.S., uno zoom per favore?»
Subito, signore.
«Mh.» Tony annuì, mentre l’interno della calotta gli restituiva l’immagine tridimensionale di una struttura composta da un corpo centrale a piante rettangolare, elegante susseguirsi di colonne da un lato e un cortile in posizione occidentale. Il tutto, orientato a nord-sud, era circondato da alte mura decisamente poco propense ad essere espugnate «Non male. Un po’ vintage, se volete la mia opinione. Consiglierei al padrone di casa un giro veloce sul sito dell’Ikea.»
Odisseo lo redarguì con uno sguardo silenzioso, Orfeo lo fissò truce e contrasse la mascella, la bocca storta in una smorfia irata.
«Non oltrepasseremo l’Acheronte sulla barca di Caronte, fedele nocchiero.» continuò il Guerriero «Io e i miei compagni vi condurremo su ben altro sentiero, per passi nascosti e ascosi alla conoscenza dei defunti.»
«Quando torniamo, ricordami di dire a Fury che voglio un aumento.» Tony s’accostò a Natasha e lei gli rivolse un’occhiata in tralice.
«Il Direttore non ti paga alcuno stipendio, Stark.»
«Per questo è meglio iniziare a trattare fin da subito.»
Scesero per una via laterale, lasciandosi alle spalle l’olmo ed il vestibolo, coi suoi spiriti e le sue minacce; l’Ade si fece, se possibile, ancor più silenzioso, nonostante il ciangottare delle acque negli alvei antichi e il battere d’ali dei trampolieri. Gocce di pallido latte cadevano dall’invisibile soffitto sopra le loro teste e s’infrangevano a terra in un mulinare frammentario di sangue e miele; le sterpaglie rabbrividivano al loro passaggio, ma non emettevano alcun suono.
«Come va il tuo Senso Verde, dottor Banner?» lo canzonò Tony, al solo fine di smuovere l’aria pesante che infiacchiva piedi e spirito.
«Ahm, non sono l’Uomo Ragno» scherzò Bruce, con un sorriso di scuse sul volto sudato «Ma Hulk non è tranquillo.» da dietro le lenti calate sul naso, i suoi occhi si posarono diffidenti sul terzetto che li precedeva –S’erano fatti silenziosi, schivi, si guardavano intorno come se stessero drizzando le orecchie a suoni inudibili, le narici allargate ad ingoiare odori indistinguibili «C’è del pericolo. Qualcosa di brutto sta per accadere.»
«Dimmi qualcosa che non so.» commentò il magnate, permettendo sia a lui che a Vedova Nera di aggrapparglisi alle spalle per superare indenni –E asciutti- il corso fangoso dell’Acheronte.
Da sotto il casco, la fronte di Tony s’aggrottò: Enea, Orfeo ed Odisseo non avevano saltato, né trovato una secca grazie cui attraversare il fiume infernale, eppure erano già sulla riva opposta ancor prima che egli formulasse l’ipotesi di raggiungerli in volo.
«I pantaloni dell’Altro non sono stati modificati con le particelle Pym.»
«Dannazione. Dovrò pagare a Richards quella maledetta cena al Ritz.»
«Potreste per cortesia smetterla di comportarvi da bambini?» lo rimproverò Natasha, stizzita «Qualcosa non va.»
La via s’era improvvisamente aperta su di uno slargo immenso, circolare, sulla sinistra di una porta immane, priva di cardini e serrature.
Le loro guide erano ferme al centro esatto dell’area e l’aria era elettrica.
Un ringhio raggiunse le labbra di Bruce, la cui pelle già aveva assunto una sfumatura verdastra sulle guance e alla base del collo; Natasha sistemò il ramo d’oro alla cintura e Tony fece un passo in avanti.
«J.A.R.V.I.S. Assetto da battaglia.»
Il ronzio dell’energia che s’accumulava nei repulsi e nel Reattore impiantato al centro del petto gli scagliarono una scarica d’adrenalina direttamente in vena e lungo la spina dorsale; l’oppressione che fino a quel momento lo aveva imprigionato nel corpo tremante d’un bambino spaventanto, svanì nel calore combattivo dell’armatura.
«L’Antro di Cerbero.» osservò Orfeo, girandosi lentamente verso di loro. Un ghigno famelico gli attraversava di sbieco la bocca ora priva di labbra, le gengive scoperte e i denti aguzzi.
«Figlio di Tifone e di Echidna, custode dell’Averno.» Odisseo, sulla destra di Enea ancora di spalle, piegò orrendo la testa e si voltò per guardarli in viso: la cornea era completamente tinta di nero, le dita ingrossate ricoperte di pelame scuro, ispido.
«Canis praegrandis, teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus oblatrans faucibus mortuos» per ultimo, il figlio di Priamo latrò e sghignazzò, mostrando loro il collo rubizzo, il petto ansante «Ante ipsum limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat vacuam Ditis domum.(3)»
Le ultime parole si spensero in un ruggito tale da far sanguinare le orecchie: i sensori dell’armatura fischiarono e lo schermo del visore traballò, sputò insensatezze intramezzate da interferenze sconosciute. Il terreno si scosse, vibrò, la roccia restituì cento e mille volte l’abbaiare poderoso.
I corpi dei tre si fusero in uno solo, spalle gigantesche s’innestarono su quattro zampe vigorose, di lucido pelo nero e dotate di artigli ricurvi, affilati e letali; la coda immensa spazzò l’intorno con un fragore d’aria divelta e pietra sconquassata; dal principio della schiena si flessero tre colli massicci, fauci possenti e allungate, con zanne delle dimensioni d’un braccio e l’alito fetido. I nasi umidi, palpitanti, soffiavano e sbuffavano come froge d’un cavallo in corsa, gli occhi di tizzoni ardenti avevano il dominio su ogni cosa si muovesse al loro cospetto, alle orecchie triangolari, ritte sul muso sbavante, non sfuggiva alcun rumore.
«...D’accordo» fu il commento di Tony «Questa non me l’aspettavo.»
Cerbero piegò le zampe anteriori e saltò in avanti.
Stark aveva già le braccia sollevate e i palmi aperti per scaricargli addosso una buone dose di riflesso pavloviano al retrogusto di repulsori, che una sottospecie di bomba verde si schiantò contro il fianco della creatura; il cane a tre teste guaì molto probabilmente più per la sorpresa che per il dolore, e venne sbalzato di lato.
Hulk atterrò in piedi e non gli diede il tempo di rialzarsi, gli fu addosso in un grido brutale; Iron Man stava per far partire un colpo in aiuto, quando all’improvviso Vedova Nera –Spuntata dal nulla come suo solito- gli piazzò in mano il ramo d’oro.
«Corri al Palazzo di Persefone.» gli ordinò, le sopracciglia sollevate «Ci pensiamo noi a lui.»
«Ma…!» fece per protestare il magnate, mentre già Natasha era scattata in avanti «Aspetta!»
«Mi ringrazierai servendo gli alcolici gratis al rinfresco!»
Senza avere la benché minima idea di come l’altra avesse avuto anche solo il sentore di quella questione, Tony fece rientrare i razzi innestati sulle spalle e si lanciò in volo.
«Vedete di tornare sani e salvi.» pur avendo davanti soltanto l’icona di Vedova Nera collegata alla trasmittente, Stark poté giurare che la donna stesse sorridendo –Era l’unica in grado di ridere come una bambina sulle montagne russe quando si lanciava in caduta libera da un aereo, in fondo(4).
«Nel caso, porteremo la festa da te, Stark.»
Un ghigno ben visibile all’angolo della bocca, il magnate si gettò a capofitto oltre l’immensa porta, sulla cui superficie era comparso un rettangolo abbastanza grande da permettergli di passare in tutta comodità. Sorvolò una vasta prateria d’asfodeli, punteggiata d’ombre e pipistrelli rivoltanti, e superò senza fatica le teste mastodontiche di tre giganti; ormai convinto di poter entrare nel palazzo senza fatica, una fiammata scaturita alla propria destra lo rese poco educatamente edotto del contrario.
Fece appena in tempo a girarsi e una donna alata, rachitica, lo agguantò per le spalle, agitando una frusta al cui confronto quella di Indiana Jones sarebbe sembrata un elastico un giocattolino da Sexy-Shop.
«Mi dispiace, signora, quest’oggi Iron Man non effettua servizio viaggiatori» così dicendo le appoggiò una mano sul ventre e lasciò partire un raggio repulsore: la creatura gemette ed ululò, la frusta schioccò inutile mentre crollava sibilando al suolo.  Prima che le sorelle di Miss Simpatia giungessero a darle man forte, Tony aveva fatto saltare i merli su cui erano appollaiate: le mura  si disintegrarono in un tripudio di mattoni divelti e corpi smembrati, dondolio cigolante di catene e schizzare pastoso di carne e sangue.
Stark s’immise nella breccia così aperta e, grazie alla planimetria che J.A.R.V.I.S. era stato in grado di elaborare tramite modelli e fonti letterarie e archeologiche(5) -Non fosse stato troppo scontato, il magnate avrebbe detto qualcosa riguardo il Wi-Fi negli Inferi- riuscì a trovare uno degli ingressi laterali del palazzo; non attese l’arrivo di guardie o di chissà che altro aveva la casa delle vacanze nelle vicinanze, e si lanciò attraverso il corridoio.
«Trova il Capitano, J.A.R.V.I.S.! Trovalo!» gridò, accanto a lui una sfilata infinita vani e porte e magazzini. Lo schermo del casco gli mostrò mappature e sovrapposizioni di firme, calcolò e calibrò gli elementi dell’ambienti connettendoli a quella che era la traccia fisica di Steve, cancellò e ridisegnò, aggiornò la planimetria, ma ogni tentativo –Come, del resto, Tony avrebbe dovuto supporre, si rivelò inutile.
«Dannazione! Dannazione!»
Signore?
La voce dell’AI aveva avuto un tentennamento sostanziale per una coscienza elettronica, cosa che era sempre foriera di notizie pessime e guai non da poco.
Ho rilevato una firma specifica, già presente negli archivi. Ma non è quella del signor Rogers.
Quando il risultato dell’AI comparve sullo schermo, Tony fu indeciso se scoppiare a ridere o schiantarsi direttamente contro il muro laterale; visto e considerando che non aveva del liquore in giro con cui giustificare l’istinto suicida, optò per la terza opzione, ossia seguire quella…Assurdità per vedere dove l’avrebbe condotto.
Dovette salire al primo piano per avere una risposta degna di questo nome, sul lato settentrionale della corte centrale: una sala per i banchetti, abbastanza ampia da farci entrare lo staff delle Stark Industries al completo per la canonica cena di Natale. Le fiamme dei bracieri, dimentiche delle fondamentali leggi della rifrazione, gettavano la loro luce a cuneo nel centro esatto della stanza, a fargli capire che era lì, in quel punto preciso che era necessario si concentrasse la propria attenzione.
Non che avrebbe potuto rivolgerla ad altro, comunque.
In ginocchio a terra, i polsi e le caviglie trattenuti da viticci verde smeraldo, il capo chino e il petto ansante per rabbia a stento trattenuta, stava il Capitano, nella posa d’un agnello pronto ad essere sacrificato.
«Steve!» lo chiamò Tony, atterrando davanti a lui in un barbaglio di cromature rosso e oro.
Questi sollevò la testa e negli occhi slavati, ma vivi, il riconoscimento fu così forte, feroce nella sua intensità, che Stark avvertì distintamente il respiro spezzarsi per una sì, no, forse commozione che non avrebbe mai ammesso.
«Tony!» e la voce del compagno era distorta, la carne traslucida e non più livida, tinta appena d’un pallore rosato attorno alle palpebre, la bocca spruzzata di rosso diluito.
«Va tutto bene» lo rassicurò il magnate «Va tutto bene, d’accordo? Sono qui. Ci sono io. Adesso ti porto fuori, andrà tutto bene. Sei salvo.»
«C’è lui dietro a tutto questo, Tony!» esclamò Steve, cercando di sollevare le spalle e digrignando i denti per lo sforzo «E’ tutta opera sua!»
«Dai ascolto al soldato, Uomo di Ferro.»
Forse ricordandosi dell’esistenza della fisica, la sala deflagrò di luce per il fuoco improvvisamente alto, improvvisamente violento.
Dietro la schiena ingobbita del Capitano, si palesarono due troni affiancati, i cui occupanti, però, non potevano essere più distanti e diversi: assisa su quello di destra una donna dal seno prosperoso, gli occhi d’ossidiana e le mille trecce sonanti di ninnoli e spighe di grano, una cista ai piedi, un gallo in grembo –Persefone, considerò Tony, chi altri poteva essere?
La figura alla sua sinistra allargò le braccia, si levò in piedi con la mezzaluna sul petto che spandeva bagliori e lo stesso fece Stark, serrando i pugni e facendo stridere le giunture di metallo.
«Ti va un drink?» propose, divertito e crudele, il nuovo Signore dell’Ade.
«Tu…» fu l’unica cosa che Iron Man si concesse di sibilare.
Dall’alto del suo scranno, Loki sorrise.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#08 Caninamente Latra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

(1) Eneide, Libro VI, vv. 190-211

(2) Eneide, Libro VI, vv. 268-294

(3) Canis praegrandis, teriugo et satis amplo capite praeditus, immanis et formidabilis, tonantibus oblatrans faucibus mortuos, quibus iam nil mali potest facere, frustra territando ante ipsum limen et atra atria Proserpinae semper excubans servat vacuam Ditis domum ("un cane enorme, con una triplice testa in proporzione, gigantesco e terribile, che con fauci tonanti latra contro i morti, cui peraltro, non può fare alcun male; cercando di terrorizzarli senza motivo, e standosene sempre tra la soglia e le oscure stanze di Proserpina, custodisce la vuota dimora di Dite"), da “La Favola Di Amore e Psiche” in “L’Asino d’Oro”, Apuleio.

(4) Capitan America presenta: Il Soldato d’Inverno, #2

(5) L’architettura del palazzo dell’Ade è ripresa dal Palazzo di Cnosso.

 

Per maggiori informazioni sulla struttura dell’Ade, vi rimando a questo sito: http://www.saint-seiya.it/sito1/mitologia/grecoromana/strutturaade.html

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note finali:

E’ da Ottobre che non posto un nuovo capitolo e quando mi ripresento lo faccio con uno schifoso e noioso capitolo di passaggio. Potete uccidermi, ne avete facoltà.
Prometto che il prossimo sarà degno (?) delle vostre aspettative e mi farò perdonare.
Ringrazio Alley per aver recensito con santa ed immane pazienza, e tutti coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate! Spero non vi pentiate, dopo questo ;A;

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Capitolo 10
*** #09. Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che Svanisce ***


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Una volta zia May aveva lanciato la pantofola sinistra contro un ragno.
La cosa più strana non era tanto il fatto che zia May avesse lanciato una pantofola –Quando si trattava di artropodi e/o insetti, zia May poteva usare a proprio vantaggio qualsiasi oggetto utile presente nelle vicinanze, dalla pirofila ancora insaponata allo spillone da maglia- quanto la rapidità con cui l’esserino ad otto zampe era sgambettato via, ciondolando il didietro bulboso e squadrando la donna con aria di palese rimprovero negli occhietti striminziti.
Tralasciando il genuino moto d’affetto che Peter aveva provato per l’eroico arrampica-muri –E Il netto disagio misto a terrore al pensiero che uno degli schizzati con cui era solito avere a che fare, un giorno o l’altro gli avrebbe scagliato contro una pantofola gigante per mettere fine alla sua carriera di vigilante mascherato-, zia May aveva dato prova, di nuovo e come solo lei sapeva fare, di una profonda saggezza: aveva infatti supposto che il ragnetto, in barba a qualunque legge fisica e paranormale di sorta, possedesse una percezione extrasensoriale che gli aveva appena impedito di diventare un esponente di spicco dei Macchiaioli –Nozione che, a parare del giovane Parker, avevano un po’ troppi, al mondo.(1)
Dopo aver debitamente ringraziato il Signore Iddio per avergli concesso il Senso di Ragno e non la Ragnatela Rettale, Peter approfittò del pizzicorico dono per scagliare lontano da sé la saccoccia di fibra collante in cui aveva appena rinchiuso le pallottole dirette a Phil Coulson.
Non era stato facile, a seguito della rivelazione di Vermin e dell’assalto dei ratti alla camera ardente, svicolare via dalla folla in un punto abbastanza nascosto –Soprattutto ad Occhio Di Falco, della cui vista potenzialmente letale aveva sentito parlare diffusamente- per levarsi di dosso gli abiti civili e fare un’entrata degna di Superman…Ops, Spiderman.
Neanche il tempo di gettare via il pacco espresso e sanguinolento, che il Mutante aveva serrato la mano a pugno, ringhiato e poi emesso un latrato abbastanza forte che dovevano averlo sentito anche ad Hell’s Kitchen –E un po’ Peter ci sperava: l’aiuto di Devil o Luke Cage non sarebbe stato da snobbare, in quel momento. Gli sarebbe andato bene anche Gordon Ramsay, tanto era disperato.
La sacca aveva tremolato, percorsa di venatura purpuree e poi era esplosa in un fragore di minuscole scagliette e pagliuzze rosse.
L’arrampica-muri s’appese a testa in giù, la nuca appena curva alle spalle per avere una migliore prospettiva della situazione: Vermin continuava a dirigere l’esercito squittente, i due colleghi di Coulson erano sommersi dai topi e intanto cercavano di proteggere le ultime persone rimaste imprigionate a causa dell’assalto, Agente aveva appena lanciato la corona commemorativa del sindaco contro un gruppo di ratti, e il Mutante, appena compiuto un passo verso il feretro di Capitan America, era stato rispedito indietro da una freccia a carica esplosiva. Dalla traiettoria, però, Peter non faticò ad immaginare la difficoltà che doveva aver avuto Occhio Di Falco nel scoccarla.
Assediato com’era da quegli esserini squittenti e fastidiosi, Barton non era in grado di dare la copertura necessaria a mantenere lo scontro in equilibrio stabile. Necessitava di qualcosa che fungesse da barriera, da torrione in cui rifugiarsi e mirare e scagliare con chiarezza e assoluta distanza dal resto del mondo, una bolla, una feritoia sopraelevata come quelle degli antichi castelli.
Peter, sei un genio! si lodò Spiderman.
Fatto partire un getto di ragnatele e poi un altro ed un altro ancora, sospeso a mezz’aria nell’ultimo salto che lo separava dal pianerottolo dove era accucciato Occhio di Falco, l’arrampica-muri cominciò a bombardare le orde di topi con boli di fibre compatte, in modo da tenerli a distanza. S’affiancò all’Agente e, intanto che questi cercava di allontanare Vermin dalla bara -Perché, poi, tanto interesse per la salma di Capitan America? Collezionismo? Feticismo?, e il Mutante da Phil Coulson, cominciò a costruire per lui due pareti a doppio, triplo, quadruplo strato di ragnatela.
«Con questi dovresti essere okay per un po’» lo avvisò Spiderman, levando il pollice.
Occhio Di Falco gli indirizzò uno sguardo di sbieco e un sorriso pericoloso a fior di labbra -–Peter s’appuntò mentalmente di non farlo mai infuriare, o comunque, nel caso, di togliergli dalle mani qualsiasi utensile avrebbe potuto usare come sostituto di arco e frecce.
«Vai, amichevole Renzo Piano di quartiere.» lo canzonò, un guizzo metallico negli occhi chiari «Mickey Mouse è tutto tuo.»
E il ragazzo, che non aspettava altro, si buttò oltre il nido improvvisato per il compagno di squadra.
«Metterai una buona parola coi Vendicatori?» strillò, allungando un braccio e schiacciando coi polpastrelli il meccanismo per far partire le ragnatele.
«Contaci!»
Considerando, però, che le Leggi di Murphy regolavano il suo mondo più che quella di Gravitazione Universale, Spiderman annoverò lo sparo e il grido sotto di lui nell’elenco di conseguenze a sfavore in vista dell’arruolamento nel corpo scelto di tutine in spandex e giocattolini in vibranio.
La visione dell’italiano che teneva Phil Coulson in ostaggio fu un non richiesto dissiparsi di ogni lecito dubbio sull’andamento dei propri buoni propositi.

 

***

 

Loki si levò in piedi dallo scranno e il collare a mezza luna si tinse d’oro e di fiamma. La presa sul lungo scettro si strinse possessiva, un sorriso appena accennato s’adagiò soddisfatto contro le labbra seriche: gli occhi, da verde intenso, parvero scurirsi, tingersi d’ombra al punto tale da mutarsi in amigdale di giaietto; scostò piano la lunga mantella che, nell’alzarsi, s’era avvoltolata al ginocchio sinistro, e le dita affusolate brillarono bianche alla luce calda dei bracieri. Gli spallacci e i bracciali si venarono di mille sfumature cremisi, le fasce di pelle nera al torace si piegarono al lungo, affilato respiro, e barbagliarono di bisbigli traslucidi; i tasselli bronzei al fianco sinistro risero, eloquenti, di quella risata beffarda che vibrava palesemente in tutto il corpo di Loki, ma questi non si faceva in alcun modo sfuggire.
Preferiva, al contrario, dimostrare il beffardo e l’irridente sottoforma di canzonante cortesia, di inchini annunciati dall’arco garbato della bocca e da inviti ospitali sprizzanti ironia e sarcasmo nella pupilla dilatata per il crescente diletto.
Iron Man chiuse la manopola destra a pugno -Non fossero state progettate e curate fino al minimo dettaglio, le giunture avrebbero cominciato a scricchiolare per la rabbia con cui si ritrovarono accartocciate su stesse. Il ramo d’oro baluginò, guaendo, senza tuttavia piegarsi o deformarsi. Il magnate poteva avvertire lo sguardo furente di Steve addosso, l’ira e l’impotenza di essere meno che uno spirito, intangibile, intoccabile e per questo fondamentalmente inutile.
«Prego, prego» sogghignò il fratellastro di Thor, allargando le braccia ad accoglierlo in un benvenuto che grondava del più pesante scherno «Non sia mai che uno dei miei ospiti più attesi rimanga in piedi, alla mia corte e al mio cospetto. Seggiole o banchine, scegli pure, Uomo Di Ferro» socchiuse le palpebre, i denti brillarono affilati, conficcati nelle gengive pallide «Serviti pure di ogni leccornia, non tralasciare alcun intingolo: la mia mensa, oggi, è a tua disposizione. Basta anche solo un morso di quella succulenta cacciagione, perché la tua anima rimanga imprigionata nell’Ade, al fianco di colui che tanto ami.» una breve risata, udibile un istante e quello dopo già perso nel roco ansimare del fuoco «Non è così, oh Persefone? Dimmi, forse sbaglio sulla tua triste sorte, sul tuo infernale destino?»
Sul trono accanto a quello di Loki, la Dea pressò le labbra e le guance si contrassero: la forma ovale del viso, accentuata dalla complicata capigliatura a quattro filari di chiocciole e perle, risultò gonfia, grottesca, nella rabbia incontenibile che giganteggiava nei tratti imperiosi. Gli orecchini a cerchio balbettarono di luce contro il collo teso, dall’aspetto innaturalmente lungo e, a confronto della figura meschina e flessuosa di Loki, persino sgraziato. I seni tondi, di sotto le pieghe dell’ampia veste e della mantellina sottile, intessuta di nebbia e filamenti di rugiada, tuonarono nel prendere una furiosa boccata d’ossigeno, gli occhi già enfi spalancati, le narici del naso schiacciato dilatate per l’ira crescente.
Ai suoi piedi, il gallo arruffò le penne e i semi e le granaglie che le caddero dalle trecce non fecero in tempo terra che già erano irranciditi.
Pur avendo ogni perso ogni mastodontica e regale bellezza, Tony non potè fare a meno di sentirsi schiacciato dalla rabbia e dall’indignazione della Dea -Sensazione che, solitamente, provava soltanto al cospetto di Pepper quando ce l’aveva a morte con lui e quando Natura Matrigna ci metteva mensilmente lo zampino.
Il figlio di Howard si piazzò dinanzi a Steve, in un moto spontaneo di difesa. Una volta tornati sulla Terra -Perché sarebbero tornati sulla Terra, nessuna obiezione- il Capitano non avrebbe fatto altro che ricordarglielo fino alla fine dei suoi giorni o fino a che lo stesso Stark non lo avesse piacevolmente zittito, intimandogli di smetterla di dar aria alla bocca senza che ci fosse lui a concedergli l’apporto di fiato necessario.
«Cosa ci fai qui, Amleto?» lo apostrofò -E anche non avesse avuto in sintetizzatore vocale, la voce non sarebbe potuta uscirgli più metallica, fredda e tagliente di così.
«Oh, un’idea del Padre Odino» rispose tranquillo Loki, un sorriso ferino e l’aria di chi stesse parlando delle nuove offerte al supermercato «Per evitare che facessi ancora del male agli Uomini che suo figlio» il tono si mutò in veleno, gli occhi assunsero il colore polveroso del serpentino «Tanto ama, ecco, ha deciso di farmi Re: Signore Dei Morti, Sovrano dell’Ade.»
«La Regina Persefone non sembra essere molto dell’idea» intervenne il Capitano, sprezzante e finanche derisorio -Tony si sentì un maestro piuttosto orgoglioso «Né pare d’accordo con te»
Il Dio Norreno sollevò l’angolo sinistro della bocca, in una smorfia contrariata, di disgusto.
«Cielo, Soldato, non ti hanno mai insegnato la disciplina?»
Loki sollevò elegantemente la mano e schioccò le dita: un borbottio e strisciare di legacci verdastri, un gemito di protesta da parte Steve ed Iron Man non ebbe neanche il tempo di elaborare l’azione, che un cordone spesso due dita, compatto, s’era accresciuto tra il palato e la lingua del Capitano, chiuso al retro della nuca per impedirgli di parlare.
«Ora va meglio.» commentò il Dio, alzando il mento con evidente soddisfazione.
Il figlio di Howard, gettato uno sguardo celato e coperto dalla maschera dell’armatura al morso conficcato con violenza entro la bocca di Steve, tese le braccia verso Loki e aprì i palmi: s’accordarono immediatamente il ronzio di energia in carica ai repulsori, lo schermo entro la calotta andato a posizionare uno sfolgorante mirino bluastro dritto dritto sulla faccia dell’avversario.
«Ora ascoltami, Diva Repressa(2): non mi interessa se qualcuno ti ha spento i capelli, se i tuoi leccapiedi indossano articoli firmati o  se le Parche ti hanno parlato in rima(3)» sibilò «Fa’ il bravo e rendimi l’anima del Capitano.»
«Non c’è fretta, Uomo Di Ferro, non c’è fretta» Loki sventolò noncurante la mano «Non c’è fretta, né possibilità che tu esca da qui.»
Esistevano parecchie, parecchie cose che infastidivano Anthony Edward Stark abbastanza da farlo uscire completamente matto: i cibi ipocalorici, ad esempio, la dieta salutista, Justin e Justine Hammer, suo padre, essere scambiato per suo padre, Hugh Jackman e ogni tanto Wolverine, quando ne riscontrava la somiglianza col suddetto Huch Jackman(4).
Però nulla, nulla riusciva a torcergli, arroventargli i nervi quanto l’espressione di assoluto compiacimento sul volto del Dio, la sua insopportabile strafottenza e aria di superiorità che lo rendevano più altezzoso, tronfio di un imperator romano o di un gatto che avesse appena sottomesso il genero umano al proprio volere.
«Sono stanco dei tuoi giochetti, Loki. Rendimi l’anima del Capitano, ora
In tutta risposta, il Dio appoggiò il piede destro sul primo gradino della scalinata che permetteva la discesa dal podio al pavimento a lastroni; il taglio degli occhi divenne affilato, la voce gelida.
«Come osi anche solo pensare di potermi dare ordini, Stark?» sputò «L’unico che può dare ordini, qui, sono io e le anime dei morti eseguono ogni mio comando!»
«Mi dispiace, Coriolano, Arthas ha molto più stile come Signore dei Lych.(5)»
Lo sguardo dell’avversario divenne un pozzo di cocente odio.
«Ridi, scherza, motteggia pure con me, Uomo Di Ferro» la mascella si contrasse, illividì «Sei esattamente dove volevo che fossi.»
La perplessità, se non direttamente lo stupore ed anche un gelido morso alla bocca dello stomaco, ebbero il potere di zittire Stark per un paio di secondi: non aveva nemmeno considerato l’idea che la sua discesa all’Ade fosse in realtà una trappola atta e costruita da un Dio Norreno soggetto a frequenti sbalzi d’umore e disturbi dissociativi. In effetti, il fatto che suddetto Dio Norreno soggetto a frequenti sbalzi d’umore e disturbi dissociativi, stando a quanto riportato dall’Armadio Dell’Ikea che gli era più o meno fratello, era rinchiuso da qualche parte, non si sa bene dove, non si sa bene per quanto a lungo, in una cella di Asgard aveva contribuito all’assoluta certezza che non ci fosse alcun piano contorto dietro la morte di Steve. Più o meno, visto e considerando lo sproloquio di Tyche. Ma comunque.
Se Thor non era in grado di accendere il microonde senza far partire un complicato sistema di autodistruzione di cui nemmeno Pepper era a conoscenza, allora Tony aveva decretato unilateralmente con se stesso che non c’era da preoccuparsi: il loro compagno Tonante non avrebbe mai potuto mentire su una cosa del genere come la prigionia di Loki.
Forse, doveva riconsiderare il significato di rapporto fraterno oppure ventilare l’ipotesi che Odino avesse più segreti di Nick Fury.
Ora, un brivido poco da Stark alla colonna vertebrale stava suggerendogli poco gentilmente di essere cascato nel tranello con tutte le scarpe, scafandro compreso.
«La mia rivelazione pare sorprenderti, Uomo di Ferro.»
E Iron Man, che ormai, in quanto a nervi, poteva fare invidia Ms. Bennet di Orgoglio E Pregiudizio –Pepper sia sempre dannata, lei e la sua passione per Laurence Olivier- concordò con se stesso che il Cervo A Primavera aveva parlato anche troppo. Ignorando il mugolio di protesta –Avvertimento? da parte di Steve, caricò al massimo i repulsi e lanciò il primo colpo.
Loki non fece altro che passare lo scettro davanti a sé per innalzare uno scudo protettivo, ma Tony non aspettava che quella mossa: scattò e si proiettò in avanti.
Non arrivò mai a prendere il Dio dritto nel grugno: un ruggito di fulmini, un rombare di tuoni, un cozzare di metallo contro metallo, il fianco destro della scafandro che azzannava il bacino e parte del torace nel suo appallottolarsi improvviso e la netta, netta constatazione che le cose non stessero affatto andando per il verso giusto.

 

***

Natasha rotolò di lato, ma il riverbero della zampata sul terreno le urlò comunque lungo le terminazioni nervose, schizzando da muscolo a muscolo e risuonandole bollente nelle ossa. Lo spostamento d’aria causato da Hulk le diede il tempo di levarsi di nuovo in piedi, afferrare uno degli scudi spezzati poco distante e lanciarlo dietro di sé con una feroce rotazione del polso: Cerbero, uggiolando per la mole di Banner proiettata contro lo stomaco, subì il colpo al muso centrale, che serrò di riflesso le palpebre unte mentre le restanti teste ringhiavano e sbavavano.
Hulk, battendo le nocche poderose, si gettò contro il Cane col pugno verde ben alto al cielo -Prima, però, le aveva scoccato un’occhiata tanto complice che per Vedova Nera non era stato difficile cogliere l’animo del dottore in quel breve lasso d’umanità. Steve non sarà contento di essere stato imitato le era sembrato scorgere, in un lampo divertito. Natasha non aveva potuto esimersi dall’arricciare le labbra in un sorriso. Lottare al fianco di Hulk contro il mitologico Cerbero non era come lanciarsi da un aereo senza paracadute, ma andava bene lo stesso. Avrebbe avuto comunque qualcosa con cui spaventare le matricole alla mensa dello S.H.I.E.L.D.
Prendendo la rincorsa, la spia russa corse in allungo verso il Cane A Tre Teste. Agguantò rapida una spada rugginosa, con nervatura centrale e spezzata poco al di sotto della lama -Lo slabbro metallico, ad un esame veloce, presentava un’affilatura abbastanza appuntita per recare ancora qualche danno-, e, mentre Hulk teneva a bada i musi della bestia, saltò sulla zampa posteriore di Cerbero e da lì, al momento adatto, il secondo perfetto, s’appese alla coda e la usò come un trapezio per atterrare, con grazia da vera prima ballerina del Bol’šoj, sulla leggera incavatura delle vertebre toraciche.
Un ginocchio piegato tra i pelo lercio di sangue e polvere, Vedova Nera si prese meno di un istante per recuperare fiato e sollevare la fronte, la mano libera aggrappata ad alcuni ciuffi nerastri per non essere sbalzata via.
Il muso di destra, avvertita l’estranea presenza, si era girato per azzannarla: i denti schioccarono inutili e bavosi e un guaito proruppe dalle zanne giallastre. Soddisfatta, Natasha si servì dell’attenzione di Cerbero rivolta ad Hulk per salire fino al collo e, con le braccia a cingere il collo della testa centrale, assicurarsi poco al disotto della sommità del cranio.
Mantenere l’equilibrio non era per nulla semplice: Hulk manteneva l’attenzione del Cane su di sé con calci e pugni e ruggiti, sottoponendo così la spia a più di una capriola e torcimenti dorsali per rimanere in piedi. Cerbero arretrava, scuoteva le enormi teste e le spalle, sia per le ferite che andavano via via aprendosi sui nasi palpitanti e tra gli occhi infuocati, sia per levarsi lei di dosso.
Ogni volta che il Cane rispondeva agli attacchi di Banner, poi, i muscoli colossali si tendevano, si gonfiavano e rilasciavano immediatamente il morso o la zampata con un mastodontico contraccolpo dell’intera struttura ossea. Il che costringeva Natasha ad evoluzioni degne di un arrampicatore di roccia.
Hulk tirò le braccia gigantesche all’indietro e allungò il collo rigonfio di vene verso Cerbero. Vedova Nera, dalla posizione in cui si trovava, lo vide aprire la bocca grottesca in un grido di guerra e rabbia, selvaggio, di belva. Piegandosi e flettendo le ginocchia, Hulk si diede la spinta e spiccò un balzo contro il Cane a Tre Teste: questi, di conseguenza, ritrasse i musi e reclinò le nuche all’indietro.
Come ad un segnale che nessuno dei due aveva convenuto, appena dottor Banner avvolse la gola di destra in una stretta soffocante, Vedova Nera alzò la spada e la conficcò tra le vertebre della testa centrale. Spinse con violenza la lama entro la carne molle, nel mezzo delle fasce muscolari, il sistema circolatorio, i processi articolari, giù, sempre più giù, fino a raggiungere e tranciare di netto il midollo spinale.
Cerbero ululò un lungo, strascicato uggiolio: il corpo imponente ebbe un tremito e perse forza, le zampe non ressero più alcun peso, la coda ricadde tuonando a terra, le spalle si sbilanciarono verso sinistra. Hulk seguì lo squilibrio del Cane e vi accordò una pressione in direzione dell’unica testa ancora funzionante; questa, incapace di sostenere da sola l’intero assetto della creatura, torse il collo e guaì rantolando tutta la sua pena. Natasha abbandonò l’arma ancora piantata nella colonna vertebrale di Cerbero e scattò, le scapole dell’animale come trampolino di lancio.
L’onda d’urto che seguì il crollo del Cane fu tale che rimase in piedi per puro miracolo. Col fiato ratto in gola e il sudore che le incollava i capelli alla base della nuca, si voltò a controllare che la situazione fosse stabile –Sperò anche totalmente sicura: la massa inerte di Cerbero giaceva distesa su un fianco, riversa tra rimasugli materiali di anime e pozze di sangue secco; Hulk stava abbandonando proprio in quel momento la presa attorno al collo della terza testa. A giudicare da come gli occhi spiccavano, prominenti e spalancati, dall’orbita  e da come la lingua penzolava enfia dalla mandibola mollemente aperta, Natasha intuì che doveva essere già morta soffocata prima di toccare terra.
Vedova Nera si passò il dorso della mano sulla fronte e si concesse un sospiro. Hulk le si affiancò, girandosi poi verso di lei e rimanendo in silenzio.
Un lieve guizzo agli angoli della bocca: la spia si ritrovò ad indirizzargli un sorriso di ringraziamento, un sorriso incoraggiante e caldo senza essere riuscita a bloccarlo, a congelarlo in un’espressione meno ferrea del volto o in un tono più scuro degli occhi seri. Lentamente, gli sfiorò il braccio e annuì.
«Andiamo.» disse soltanto.
E Hulk la seguì.

 

***

 

Clint Barton possedeva alcune convinzioni che erano il ciclopico fondamento della propria esistenza: la storiella della memoria degli elefanti era una emerita cazzata, dato che Boris si scordava ogni santo giorno di defecare nella zona specifica che Occhio Di Falco gli aveva costruito con tanto amore -E per evitare di dover, ogni volta, giocare ad una maleodorante caccia al tesoro; Christopher Eccleston era un Dottore fantastico e lo sarebbe sempre stato; Natasha era la progenie del diavolo, ma si sarebbe evirato di propria sponte piuttosto che dirglielo in faccia…E Phil Coulson non era un Life Model Decoy.
Anche gettando da parte qualsiasi ciancia strabordante romanticume, l’uomo con cui aveva passato la notte, con cui aveva fatto sesso, l’uomo che s’era nutrito di ogni suo gemito quale ossigeno per un nuovo respiro, l’uomo che l’aveva stretto, amato e venerato, quell’uomo non poteva essere una fredda macchina carica di upgrade e dati e memoria digitale. Non poteva esserlo, Clint ne era sicuro.
Per quanto sofisticato, un androide, o qualunque fosse il giusto aggettivo da affibbiare alle action figure semoventi dello S.H.I.E.L.D., non sarebbe mai stato in grado di simulare il lucore liquido degli occhi di Coulson nel momento in cui, carezza dopo sfiorarsi, lo aveva lasciato a torace nudo, le cicatrici come gemme bianche contro la pelle. Le aveva toccate, baciate una per una, pregato, mormorato e pianto su e per ognuna di esse, con una disperazione, con una desolazione di anima e corpo che non si sarebbe potuta replicare in alcun modo.
C’era tanto, troppo, era tutto Phil, in una maniera così totalizzante da non poter essere, per nessuna ragione, in un nessun Universo, un semplice impianto di personalità digitalizzata.
Il problema, era che ora Clint Barton avrebbe dato la zampa anteriore sinistra ed entrambi i reni per avere davanti un Life Model Decoy: il Mutante teneva Coulson dinanzi a sé, alla stregua di uno scudo umano, il braccio sinistro saldamente stretto alla sua gola, la mano destra -Quella che impugnava il coltellaccio- con la punta perfettamente appoggiata allo stomaco dell’Agente.
Spiderman aveva creato per lui due paramenti di ragnatele perché fosse protetto da entrambi i lati, e Clint si trovava con la corda già tesa e la freccia incoccata, al sicuro nello spazio triangolare tra gradini e piano superiore, gli occhi fissi in quelli sgranati, eppure straordinariamente calmi di Phil.
Il Mutante sapeva, maledetto lui e tutta la sua stirpe, che essere centrato significava che Coulson avrebbe condiviso la sua sorte, di qualunque sorte si fosse trattata. Colpire lui voleva dire colpire Phil e questo era una possibilità che Occhio Di Falco non avrebbe mai messo in conto, neanche sotto tortura –Una fitta alle tempie, un lampo verde-azzurro, il ricordo bruciante della voce di Loki che suadente sussurrava bisbigli all’orecchio e al cervello, l’obbedienza come il veleno più dolce, zuccherino e letale che all’arciere fosse capitato di ingerire.
Scosse con violenza il capo e ringhiò, rigettando nel fondo della memoria la vergogna, l’ira e la frustrazione che ancora portava sulle spalle e nel cuore. Ingoiò un profondo respiro, ossigenò mente e sangue, le nocche sbiancarono sul riser dell’arma.
Il fatto che il tempo si fosse fermato, attorno a lui, nei ruscelli bianchi del nido intessuto di luce liquida, non era che un’illusione repentina dei sensi: la sospensione era un accorgimento effimero del cervello, stremato e affaccendato alla ricerca di una soluzione, di un compromesso che gli permettesse di salvare Coulson e catturare il Mutante -Ma il cervello sbatteva senza sosta contro il cranio, impattava e cozzava contro le pareti ossee, non trovava via di scampo, non trovava via di uscita.
Spiderman dondolava sul soffitto, saltava e balzava, sparava ragnatele ad intrappolare quanti più topi possibile, si scuoteva i ratti di dosso, cercava di assalire Vermin da ogni angolo, da ogni parte, si frapponeva tra le orde di pelo ispido e le persone che non era riuscite a fuggire dalla Camera Ardente, affiancava Woo, salvava le chiappe a Sitwell, ruotava la schiena ed era di nuovo attaccato alle pareti e poi in volo sospeso sopra tutti loro, il costume uno scaglionare convulso, ritmico di blu e rosso, il ragno al petto che pareva vivo tanto erano veloci i suoi movimenti.
Ai piedi del Mutante, il feretro aperto di Steve Rogers, il volto pacifico nel riverbero plastico della morte.
In una preghiera al limite della follia, Clint chiese a chiunque ci fosse più in alto di loro, più dell’Helicarrier e di Fury, di ridare vita a quella salma immota perché imbracciasse lo scudo e tagliasse a metà il ventre di quello stronzo italiano.
E mettere lui, Occhio Di Falco, in una spiacevole situazione di stallo.
Le relazioni tra colleghi non possono e non devono essere in alcun modo incoraggiate, Agente Barton e quasi gli venne da ridere ricordando il momento esatto in cui Phil glielo aveva detto, sotto di lui, il viso congestionato e il collo rubizzo, in una notte lontana in Mississippi, un attimo prima di sgretolare languido il suo nome nel cocente liquefarsi dell’orgasmo.
Non poteva, dannazione, non poteva scagliare la freccia esplosiva, non poteva, sarebbe scoppiata a pochi centimetri dal volto di Coulson…
«Barton!» il grido di Phil ebbe il potere di fargli drizzare il collo, le dita alla cocca del dardo livide per lo sforzo di mantenerle in tensione.
L’Agente si agitò nella stretta del Mutante che, da parte sua, gli circondò con ancor più forza e violenza la trachea: il colore sulle guance di Phil esalò in un sussulto livido, l’uomo rantolò e boccheggiò, deglutì –E nonostante tutto, non perse il contegno e l’aria di chi aveva comunque ogni cosa sotto controllo, inconfutabile marchio di fabbrica della sua persona.
«Colpisci, Barton!» ansimò, la voce roca e spezzata dalla mancanza di fiato «Sono un Life Model Decoy! Non sono il vero Coulson! Sono un Life Model Decoy! Fury ti ha mentito! Ha mentito a tutti voi!» la disperazione trasfigurò il volto gemente dell’uomo, le narici si dilatarono e la mandibola si contrasse a deglutire un singhiozzo agonizzante «Colpisci, Barton! Colpisci!»
Il cuore di Clint raggrinzì cigolando nel petto.
«Colpisci, Barton! E’ un ordine
E, proprio malgrado, Occhio Di Falco obbedì.

 

***

 

«Sei impazzito, Point Break?» inveì Tony, un pugno a terra per darsi almeno un punto d’appoggio da cui partire e suonarle di santa ragione James Hunt(6) in mantella e martello.
Cristo Dio, non gli aveva più visto addosso un’espressione tanto furibonda dal giorno in cui aveva iniziato la sua santa crociata a Candy Crush.
Thor gli puntò contro Mjolnir e, da come socchiuse le palpebre e lo sovrastò con astio innaturale, Iron Man capì che la situazione non stava volgendo a proprio favore.
«Sta’ lontano da mio fratello, mortale.»
D’accordo, se si tralasciava il Sta’ lontano ed il Mortale ancora ancora lo si riusciva ad accostare al biondone che cucinava uova strapazzate la mattina insieme a Steve. Peccato che due parole non facessero una frase, ergo quello che aveva dinanzi a sé o non era Thor oppure era un Thor con qualche valvola in sovraccarico –Ecco cosa succede a giocare troppo con l’elettricità.
«Raperonzolo, non so se ti hanno avvertito, ma tuo fratello è quello che in gergo comune si chiama Caotico Malvagio.»
A conti fatti, il ritrovarsi d’improvviso con la schiena pressata contro le pareti in stucco e la mano poco gentile del norreno arpionata alla giugulare era il chiaro segnale che Caotico Malvagio non era stata la scelta di termini più felice. Per la violenza del gesto, inoltre, il ramo d’oro gli cadde di mano, rilucendo e cantando.
Attraverso le interferenze singhiozzanti dello schermo, Tony vide il Capitano tentare di divincolarsi dai legacci che lo costringevano in ginocchio: muoveva e tendeva le spalle, gli occhi spalancati per l’ira e per lo sforzo, la voce e gli ansimi che si spezzavano, sfracellandosi, disintegrandosi a contatto col cordone che Loki aveva fatto comparire per zittirlo.
Il Grande Principe Della Foresta, sommamente deliziato da come si stavano svolgendo gli eventi, scese i gradini del podio e s’avvicinò al fratello con movenze leziose da serpente a sonagli; dietro di lui –E Iron Man corrugò la fronte da sotto la calotta dell’armatura- Persefone lo fissava con occhi di brace. La Dea non s’era alzata dallo scranno, colossale e plastica nella sua posa regale, eppure qualcosa in lei stava cominciando a muoversi: chicchi di grano e sementi le cadevano sempre più copiosi dai seni, rimbalzavano scampanellando sulla cista e il gallo che le era compagno, singultando e ruzzolando, li raccoglieva uno per uno per ammonticchiarli con ordine sui lastroni della pavimentazione.
Tony sarebbe rimasto a guardare ancora per un bel pezzo quello spettacolo per carpirne le dinamiche, ma la voce di Loki lo costrinse a rivolgere l’attenzione su di lui –E sul di lui fratello.
«Temo che il mio povero fratello abbia sofferto di qualche problema di memoria, negli ultimi tempi» soffiò, appoggiando le dita sottili sullo spallaccio di Thor «Aveva la gola secca, oh, così secca, e non vi è nulla di più dissetante delle acque del Fiume Lete.»
Il Reattore Arc ebbe un sobbalzo e Stark avvertì distintamente il fiato attraversargli gelido i polmoni contratti.

 

«Avvertilo di non bere le acque del Lete o dimenticherà tutto.»
«--- …Il Lete?»
«Le acque dell’oblio, che confluiscono nell’Acheronte insieme al Cocito e al Piriflegetonte. Se Steven Grant Rogers ne berrà anche un solo sorso, dimenticherà ogni cosa di questa terra e sarà incatenato eternamente all’Ade.»

 

«Complimenti, Francis-Scott Fitzgerald(7)» sputò Iron Man –E, oh diavolo, le nocche di Thor attorno alla gola della scafandro s’erano strette con un gran stridere e ribellare delle giunture, oh, diavolo «Sei ancora più schizzato di quel che ricordassi.»
«E tu mi hai deluso, Uomo Di Ferro» Loki corrucciò le labbra, nella grottesca pantomima di un bimbo arrabbiato «L’unico mortale per cui provassi un minimo di rispetto…»
«Sì, molto probabilmente lo stesso che avresti per un pesce rosso o un altro animaletto domestico.»
Loki non perse il sorriso mefistofelico e alzò innocente le spalle.
«Sempre di rispetto si tratta» mostrò quindi i denti, in un sogghigno malevolo «E invece. E’ bastata un’esca, una semplice, patetica esca per farvi accorrere tutti qui come un gregge ignorante. E come un gregge ignorante, eccovi pronti a farvi sgozzare sull’altare della mia gloria.» sollevò le sopracciglia, la bocca storta in una smorfia cinica, amareggiata «E’ forse amore, Stark?»
«No. Del gran, buon sesso.»
Venire sballottato da un Dio Nordico del peso complessivo di centoventi kili –Mjolnir escluso- fu annoverato immediatamente nella lista di esperienze da provare una volta sola nella vita e poi cancellarle per evitare traumi sicuri e futuri.
Tony si ritrovò steso ai piedi di Steve senza avere la benché minima idea di come ci fosse arrivato. Poi Thor lo afferrò malamente per il collo, lo scagliò più o meno come una marionetta disarticolata verso il podio rialzato e allora capì.
I sistemi dell’armatura stridettero e si diedero alla pazza gioia, J.A.R.V.I.S. lo riprese, lo ammonì, gli disse qualcosa, ma Iron Man era troppo occupato a scatenare un lampo di repulsori in direzione del Dio del Tuono per stare ad ascoltare i consigli della balia di turno. 
Thor non sembrò così disturbato dal colpo ricevuto, anzi. Piegatosi appena su stesso per un breve interludio e riflesso automatico, roteò il Martello, accompagnato da un gran frastuono di saette e fischiare di fulmini; un vento rauco di polvere e cenere s’avvoltolò attorno alla testa di Mjolnir, ma –E Tony si chiese per quale accidente di motivo si fosse appena concentrato su un particolare tanto stupido- il gallo di Persefone non interruppe il proprio lavoro. Né e granaglie si spostarono d’un soffio, a quel turbine in vitro: al contrario, le vide in qualche modo…Sparire, come risucchiate da un foro della pavimentazione. O forse era soltanto una propria impressione.
Impressione o gioco di luci che fosse, perse ogni attrattiva nel momento stesso in cui Thor si lanciò a volo d’angelo verso di lui.
«Fatti avanti, cocco bello.» lo sfidò Tony, ignorando ogni buonsenso.
Prima della palla da biliardo verde alta due metri che ebbe la meravigliosa idea di scaraventare Thor oltre le banchine, addosso a cacciagione grondanti miele e innaffiate di vino odoroso, prima, dunque, di quello spettacolo al limite della risata isterica, Iron Man colse il volto di Loki irrigidirsi e farsi livido. Poi la stanza rimbombò del grido famelico di Hulk e un’ondata di giusta soddisfazione karmica scorse nelle vene del magnate come nuovo sangue.
«Ce ne avete messo di tempo» Tony si voltò a guardare Natasha con un sorriso di sbieco che lei sicuramente non poteva vedere, aa di cui era certo ne avesse intuito l’esistenza dal tono.
La spia socchiuse le palpebre con finta aria stizzita, un ghigno a brillare cremisi sull’angolo destro delle labbra.
«Chiedo scusa, siamo stati ingaggiati per fare i dog-sitter.»
Il figlio di Howard si concesse una breve risata, i palmi già rivolti a Loki –Hulk, intanto, aveva preso Thor per i capelli e lo aveva colpito allo stomaco con un diretto tale che Iron Man si stupì di non vedere le divine interiora del norreno schizzare via dalla schiena insieme ai reni.
«Allora, Profondo Mare Azzurro(8)» altro inveire mentale, questa volta contro Steve e la sua mania di vedere ogni creazione video ludica riguardante Seconda Guerra Mondiale e affini «Questa è l’ultima volta che te lo ripeto. Consegnami l’anima del Capitano e forse passerò sopra il fatto che lo hai brutalmente ammazzato per costringerci a venire tutti per il tuo infernale, in tutti i sensi, thé delle cinque.»
«Ammazzato?» ripeté il Norreno, per nulla interessato che Hulk avesse appena costretto Thor in ginocchio, Mjolnir lontano da sé e la grossa mano sulla sua testa per tenerlo fermo «Che termine orribile. Io non l’ho ammazzato. Le Parche hanno tagliato il filo.»
«Su tuo ordine, presumo.»
«Ordine?» il tono adirato di Persefone sovrastò qualunque altro rumore, qualunque altro sussurro  «Le Parche non agiscono per ordine di nessuno!» proseguì, collerica «Se non di loro stesse!»
«Oh.» Loki si portò una mano al cuore e si girò verso di lei, inscenando un profondo, confutabile rammarico «Temo che alcune cose siano cambiate nei tre mesi in cui sei stata lontana, mia signora. Iride ha fatto loro una visita, di recente.»
«Iride? E da quando Iride serve ed obbedisce ai comandi d’un sozzo barbaro usurpatore?»
«Da quando il suo sangue divino nutre fiori rigogliosi sulle rive dell’Acheronte.»
Tony Stark non aveva scordato la magnifica, irraggiungibile bellezza di Tyche, ma essa era nulla al confronto dei bagliori di baleno che sgorgavano a fiotti celesti dallo sguardo della divinità comparsa accanto a Steve, in uno sfolgorante tripudio di fumo verde.
Quell’accorgimento stilistico da ghiaccio secco, considerò Iron Man, non doveva essere stato particolarmente apprezzato da Persefone che, al contrario loro, era gelata sul trono come una statua di sale, il corpo un’unica vibrazione d’orrore inesprimibile.
Le ali d’oro d’Iride sorvolarono con grazia i capelli di Steve e gli sfiorarono a punta di piuma la spalla ed il braccio: ogni bellezza, ogni meraviglia e splendore scomparvero dall’idea che Tony s’era fatto di lei nel momento preciso in cui il Capitano si tese e si incurvò con uno spasmo, vomitando un urlo di dolore soffocato dal cordone morso con violenza dai denti tremanti.
Iride gettò la testa all’indietro ed un lampo bianco cancellò dalla sua figura qualsiasi traccia della veste impalpabile, dello scialle azzurro tintinnante di rugiada, dei calzari di vento. Al suo posto, ora, l’algida forma di una donna dai lunghi capelli biondi, il seno florido ed il ventre piatto fasciati da un busto a scaglie verdi, terminante in sottili frange ridacchianti; bracciali di metallo smaltato le arrivavano a coprire parte del dorso della mano con una punta a becco. La fantasia di cerchi continui e verticali sulle calze nere sfrigolava di serpentino alla luce venerante dei bracieri, le cui fiamme scintillavano languide sull’alta tiara malachite che ella portava alla fronte.
«Amora…!» esalò Thor, con tono appassionato e la donna piegò compiaciuta le labbra scarlatte.
Steve ansimò, boccheggiò, un’ustione butterata e purulenta a gemere liquida lungo l’avambraccio. Iron Man alzò la fronte e non dovette nemmeno chiedere, Loki rispose con gaudio alla domanda inespressa.
«La prima discepola di Karnilla, Signora delle Norne.» stese la bocca in un sorriso tagliente «Fa’ dei morti ciò che lei più desidera.»
«E di Thor il più devoto degli amanti» Amora sollevò aggraziata la mano sinistra, le dita avvolte da una poco promettente opalescenza giallastra «E del vostro mostro, il più fedele dei servi.»
Filamenti dorati scoppiettarono e palpitarono dall’improvviso negli occhi di Hulk, che alzò il capo ciondolante e squadrò gli astanti con sguardo appannato.
«Attacca» fu l’unico ordine e se Tony non venne travolto da quel voltagabbana di Banner fu perché Natasha lo superò con un salto e piantò nella faccia dell’omone verde il tacco dieci. Grugnendo, Hulk si ritrasse, l’afferrò per la caviglia e la lasciò andare e cozzare contro il filare processionale dipinto a stucco sulle pareti. Se Iron Man non intervenne in aiuto della spia, fu perché troppo preso dal non farsi sfarinare le costole dopo che Mjolnir, richiamato da Thor nel momento di stasi seguita alla ribellione repentina di Hulk, lo aveva preso con perfezione millimetrica al centro del Reattore.  
Una ghironda di amici contro nemici, di confusione, di caos, di cui Loki si pasceva con un gran sorriso sulla bocca trionfante. E loro, come stupidi, come idioti, non avevano fatto caso a nulla, non aveva pensato a niente. Avevano, anzi, contribuito a nutrire il suo ego ipertrofico, a scatenare un’entropia senza precedenti.
Sbalzato all’indietro, il magnate cercò di rialzarsi più in fretta che poté. A gettarlo di nuovo schiena a terra, però, fu il grido e l’onda d’urto propagatasi da Persefone in piedi dinanzi al trono, il braccio levato in gesto di comando.
Davanti al podio il pavimento crollò, a rivelare una scala ad angolo retto infossata direttamente al di sotto dei lastroni(9). Un frastuono d’acqua che risaliva e ribolliva, poi l’emergere serpentesco di due essersi dal volto barbato e un’immensa coda a pesce: tenevano le braccia allungate dinanzi a sé e sulle mani, forti e venose, solcate da rughe e intagli salmastri, nacquero ciascuna un uovo alto quanto un essere umano.
Il gallo di Persefone svolazzò e frullò le ali rosso-brunite sulla schiena squamosa dei tritoni, da lì al capo coperto di ciocche lanose e infine beccò una volta, una volta sola, entrambe le uova sulla sommità.
Rigature arzigogolate comparvero a segnare e incidere la loro superficie liscia, abbagliante. Un tumultuare di galoppo palpitò entro il guscio e, quando questi esplosero con un fragore di battaglia, i tritoni drizzarono la testa, aprirono maggiormente i palmi e innalzarono a curva la parte centrale del dorso. Le squame e le scaglie ondeggiarono d’azzurro e turchese, di bianco e di spuma; le vesti, dalle spalle e sotto le ascelle, gorgheggiarono e s’agitarono come le creste roboanti del maelstrom.  
Incredibile a dirsi, allucinante a vedersi, le creature marine sostenevano ora due giovani a cavallo, con una stella in fronte, i capelli acconciati in trecce sottili e un balteo di cuoio di traverso sul torace.
«Voi!» esclamò Thor, girandosi nella loro direzione e distogliendo l’attenzione da Tony –Che ringraziò qualsiasi divinità occidentale di avergli appena salvato la vita.
Il giovane con gli occhi celesti, con le carni intessute d’oro, fece impennare il cavallo e saltò via dalle mani del tritone. Impugnata la picca, il volto contratto dall’ira, alzò l’arma e si diresse gridando verso il Dio Norreno.
«La vendetta di Polluce ti colpirà, ora, cane di Asgard!» e nel mentre che prorompeva in quell’urlo, Tony notò il guizzo rossastro, livido all’altezza dello zigomo.
Con la coda dell’occhio, ad Iron Man parve cogliere un movimento da parte di Loki, un piegarsi veloce delle ginocchia come se stesse per correre in avanti lui stesso. Che fosse realtà o meno, tuttavia, quell’immagine fugace perse qualsivoglia importanza: Amora, all’ultimo istante, s’era frapposta rapida tra la divinità chiamata da Persefone e il Principe di Asgard.
Col petto fieramente sporto alla mercé della lama, non un grido le sfuggì dalla bocca, nemmeno nell’attimo in cui il metallo le trapassò le carni ed il cuore.
L’unico verso straziante e straziato che s’udì fu l’urlo di Thor mentre la prendeva, cadente, tra le braccia –E anche il suo lamento venne coperto dal sonagliare delle briglie dell’altro giovane che, smontato da cavallo, aveva raggiunto il silenzioso Loki e lo aveva colpito al volto con l’asta lignea della picca.

 

***

 

Phil Coulson avvertì la punta del coltello farsi strada nelle viscere, prima della ventata ardente che gli azzannò il volto e gli incendiò cornea, palpebre e ciglia.  Esalò un conato di vomito e dolore, due lingue vischiose a rigagnolare appiccicose dagli angoli della bocca; le ginocchia gemettero, scricchiolarono, ma non toccarono subito terra: ci pensò Bruno, con uno spintone, a gettarlo contro il pavimento.
Con la testa roboante di silenzio ovattato, Phil attorcigliò le labbra in un sorriso compiaciuto, orgoglioso: una freccia esplosiva. Ottimo lavoro, Agente Barton.
Non seppe per quale grazia divina, ma Coulson raccolse abbastanza coscienza da portarsi le mani al ventre e premere contro il borbottio sanguinolento dello stomaco. Oh, dannazione, pensò con una punta di autoironia che in quel momento diagnosticava una lucidità mentale non proprio ai massimi livelli, Dovrei chiedere un aumento al Direttore.
Sentiva davvero il bisogno di un’altra cicatrice. Come se il cordoncino a punto catenella che Loki gli aveva cortesemente lasciato al petto non fosse già abbastanza riempitivo: cominciava a credere che i supercriminali fossero degli esagitati maniaci dell’horror vacui.
Dio, pensò di nuovo, Sto sragionando.
E il fatto che ne fosse consapevole, che si fosse accorto delle strane deviazioni, delle svolte improvvise del cervello era molto probabilmente il primo segnale di un nefasto disturbo dissociativo. O, forse, stava andando incontro alla morte molto più velocemente di quanto avesse preventivato quando aveva ordinato a Clint di scagliare la freccia.
L’importante, però, era che Chianti era stato colpito ed che stesse collassando a non troppa distanza da lui. Pur con la vista appannata dal dolore e dai residui di fumo, Coulson poteva vederne il volto ustionato, un crogiuolo ributtante di pus e carne scarlatta, paonazza, costellata di vesciche ciangottanti liquido biancastro. I vestiti cadenti fumavano di cenere, ridotti a pezzi, brandelli di tessuto puntolate di sghignazzanti occhietti rossi.
La propria, di situazione, non doveva essere migliore, ma era una cosa su cui Phil Coulson si sentiva in grado di passare sopra.
Non che si sentisse in grado di fare molto altro, in verità, se non scuotere il capo dolorante e gemere per gli artigli di fiamma che a quel gesto avevano scavato unghiate bollenti nella guancia, scuoiando e spolpando la carne a mani nude. I nervi palpitavano e s’attorcigliavano, abbrustoliti, vibranti, il sangue colava a fiotti a macchiare camicia e falangi -Oh, dannazione, ci teneva a quella camicia. E il completo era nuovo, preso appositamente per l’occasione. Un po’ spiegazzato dopo che Clint l’aveva tirato contro il muro, la notte prima, però non importava. Gli accartocciamenti si vedevano appena ed era quasi felice della loro esistenza. L’aveva ripreso, ovviamente, rimbrottato e brontolato, ma poiché erano opera di Clint, delle sue mani, delle sue dita, allora andavano bene. Erano perfetti. Erano meravigliosi, regalavano ai vestiti uno splendore che freschi di lavanderia non avrebbero mai avuto.
Una consistenza gommosa, morbida -Una mano? Un guanto?, scivolarono a sostenergli la nuca e a sollevargli piano la testa.
«Tranquillo, P.C.» gli arrivò la voce fosca di Spiderman, da qualche parte sopra la fronte «Adesso arriva la cavalleria, veda di tener duro.»
Coulson gli indirizzò un sorriso non troppo convinto, le dita affondate nel ventre flaccido, unto e umido di umore e consistenze gonfie, bavose che una parte atrofizzata della propria mente riconobbe fin troppo facilmente quali boli oleosi di intestini e secrezioni acide da parte dello stomaco forato.
«Vermin…?» s’informò, biascicando mozziconi incomprensibili di suoni e fonemi.
«Non ha apprezzato troppo l’esplosione» rispose l’arrampica-muri e mentre parlava, Phil avvertì una mucosa compatta, fredda appoggiarsi e incollarsi all’altezza del ventre. Ramificazioni piacevoli, come tanti sussurri di ghiaccio, si acquattarono e acciambellarono sulle palpitazioni febbricitanti della carne lesa, lenendo in parte la sofferenza e lo strazio. «Se ne sta occupando il suo Dinamico Duo.»
Coulson portò le mani alla pancia e i polpastrelli entrarono a contatto con un rigonfio fibroso, in alcuni punti ancora un poco umido, bagnato.
«L’ho imparato dagli scout.»
Phil fece anche un tentativo di reagire allo scherzo, magari con una risata a fior di labbra che non sembrasse uno sbuffo morente o un colpo di tosse mal riuscito, tuttavia quello che ottenne fu soltanto un verso imprecisato, a metà tra la  preghiera e l’imprecazione.
Seguì un suono inarticolato, un rumore di risucchio e un rigetto: la bocca si macchiò di nauseante metallo, si riempì di grumi soffocanti, impossibili da inghiottire, che saldarono fra loro le arcate dentarie come mastice. Girandosi di scatto sul fianco opposto a dove, presupponeva, si trovava Spiderman, Coulson ansimò un conato di vomito ed ebbe la netta sensazione –Anche dallo scroscio che udì esplodere contro il pavimento- che le viscere bloccate dalla ragnatela dell’eroe avessero deciso di uscire attraverso la gola. Nel fischio che precedette il mutismo assoluto dell’interno e la nebbia più nera che l’Agente avesse mai visto, lo raggiunse l’affilata bestemmia di Clint, lontana, soffocata, l’urlo di Spiderman, lo starnazzo agonizzante di Bruno e il frastuono di tessuto lacerato.
Poi tra le mani e nella testa non gli restò che buio e silenzio.

 

***

 

«Ho comunque vinto.»
«Che vuoi dire?»
Tony mosse un passo per affiancarsi a Steve, che nel frattempo aveva sollevato di scatto la testa e stava fissando con orrore il ghigno malevolo di Loki. Non appena questi era stato messo con le spalle al muro, l’incanto che aveva gettato sul Capitano era svanito.
Sentirlo parlare, sentirsi riprendere perché Mio Dio, Tony, sei un irresponsabile, era più di quanto il magnate si era permesso di sperare.  
Il fratello di Thor raddrizzò le spalle e assunse un atteggiamento regale –A nulla valse la pressione che esercitarono Castore e Polluce per farlo di nuovo inginocchiare a terra: in quel momento il Dio aveva l’espressione esultante di chi avesse appena gettato il proprio dominio sull’intero Creato. Non sembrava sconfitto. Al contrario, sebbene non avesse raggiunto lo scopo di eliminarli uno dopo l’altro, conservava una spregevole aria di deliziata vittoria.
«Prenditi pure la sua anima, Uomo Di Ferro» sorrise, mellifluo «Non farai in tempo a tornare sulla Terra, che il Soldato non avrà più un corpo cui appartenere.»

 

***

 

Fu con uno sforzo che nessuno avrebbe creduto possibile che Bruno Chianti agguantò il bordo del feretro e vi si trascinò sopra, ubriaco ed esangue. Gli doleva la testa, le tempie tremavano ed era consapevole che sarebbe morto di lì a poco.
Che vita di merda, rigagnolò un ruscelletto di pensiero nel soffuso soccombere della coscienza, Tante vale concludere in bellezza.
In fondo, era riuscito a conficcare il coltellaccio nello stomaco di Coulson, era già di per sé una conquista. Però, perché fermarsi? Sarebbe crepato comunque, perché non finire il lavoro affidatogli da Amora?
Voleva prendersi una rivincita, su di lei e sul mondo.
Quella baldracca svervegese lo aveva raccattato per la strada come farebbe un barbone tra la spazzatura, non si era mai fidato di lui e gli aveva dato quel compito semplicemente perché era un signor Nessuno abbastanza disperato da accettare qualsiasi incarico gli procurasse moneta e vino.
Anche il mondo pensava che Bruno Lambrusco Chianti fosse un buono a nulla, no? Un essere disprezzato e disprezzabile capace solo di ingurgitare cospicue sorsate di rosso per mantenere il sangue sempre attivo e utile.
Bhè, era arrivato il momento che Babbo Natale si segnasse definitivamente il suo nome nella lista dei cattivi e all’Inferno Lucifero gli preparasse una tavola come si deve tra gli Omicidi e i Predoni del Primo Girone. Certo, avrebbe passato l’eternità a crogiolarsi nel sangue bollente, ma persino le frecce dei Minotauri erano meglio delle saccognate della polizia o di qualche Agentucolo in giacca e cravatta intenzionato ad infilzarlo come un punta spilli per togliergli i poteri Mutanti.
Questione di punti di vista, d’accordo, però chissene. Alla fin fine, stava per lasciarci le penne.
Facendo leva sulle ginocchia lorde di rosso, bestemmiando per ogni guizzo della faccia stravolta dal fuoco, Bruno Chianti alzò il coltellaccio sopra la testa -Stava morendo, stava perdendo il controllo ed anche il manico andava liquefacendosi ogni istante di più, la lama una pasta filamentosa tra le dita insensibili.
Ruggì un ultimo monito a se stesso e al mondo, quindi diede il primo affondo.
Quando la pallottola lo raggiunse, Bruno Chianti aveva squarciato il petto di Steve Rogers fino all’ombelico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#09 Puoi Scegliere Ciò Che Resta E Ciò Che Svanisce

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali

 

(1) http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2223167&i=1
(2) https://www.facebook.com/pages/Gli-attacchi-isterici-repressi-da-diva-incompresa-di-Loki-Laufeyson/500768069964422?fref=ts
(3) Citazioni da Hercules
(4) https://www.youtube.com/watch?v=YSVpfkBDOfU
(5) World of Warcraft
(6) Ruolo interpretato da Hermswoth in “Rush”
(7) Ruolo interpretato da Hiddleston in “Midnight In Paris”
(8) Film in cui recita Tom Hiddleston
(9) Ispirazione molto vaga dei bacini lustrali dei palazzi minoici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Di Fine Capitolo

Il titolo viene dalla canzone “No light, No light” dei Florence and The Machine. L'apparizione dei Dioscuri riprende gli acroteri del Tempio Ionico di Locri.
Alla Anthony Edward e alla Cap, che sono finalmente tornate! *A*
Signore.
Signori.
Il prossimo è l’ultimo capitolo.

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Capitolo 11
*** #10. American Beauty [ Epilogo ] ***


cmdep.

Un tremito lo colse e il freddo delle lastre sotto i piedi nudi dissipò ogni mormorio nella testa e tra le tempie.
Bruce scosse il capo, si piantò i palmi sopra le orecchie, li pressò al punto di avvertire il battito iroso del cuore contro lo zigomo, la mascella, le orbite, la fronte.
Digrignò i denti, macchiò gengive e lingua e palato di sangue metallico, allargò le narici, ingoiò una poderosa sorsata d’ossigeno e contò i rigagnoli lividi e i ritorcimenti rossastri che s’agitavano dietro le palpebre serrate.
Le vertigini bubbolarono alla bocca dello stomaco, l’Altro gli afferrò con presa bestiale le viscere, gli intestini, ne fece un nodo, batté un pugno sullo sterno, frantumò le costole tra le nocche, si spinse sulle vertebre e si lanciò di petto fino alla gola.
Banner, facendo appello alla nausea e al gelo infernale che gli mordeva ogni tratto di pelle nuda, deglutì Hulk e le sue proteste, i suoi ringhi e latrati; si sostenne il volto con una mano, le ginocchia si piegarono fino a toccare terra e le rotule gemettero per il dolore. I nervi emisero un versetto indignato, il dolore ruscellò nelle vene e contrasse i muscoli in uno spasimo rantolante.
La voce che aveva udito, il canto nebbioso di sirena che aveva trasformato i compagni in un nugolo grottesco di animali e nemici e avversarie Hulk, spacca! non era più d’un ricordo blasfemo, un’impronta di peccato che i secondi e gli istanti e i minuti contribuivano a cancellare, onda dopo onda, respiro dopo respiro.
Riprendendo di nuovo una boccata d’aria, Bruce si permise d’aprire gli occhi e il lucore fiammeggiante dei bracieri lo accecò.
Conficcò le dita nelle orbite, si chiuse nelle spalle e incurvò la schiena, un rivolo di sudore appiccicò catrame e lerciume sul cranio palpitante. Annaspò in cerca di nuovo fiato, scrollò la testa come mulo recalcitrante, quindi sollevò mollemente il collo, osservando, frugando l’intorno tra gli spazi tremuli delle falangi.
C’era Thor, poco più avanti, col corpo di una donna stretto tra le braccia: non poteva vedere completamente il viso del Dio, giacché lo teneva nascosto nell’incavo della spalla di lei, lo celava dietro la sua guancia bella e cadaverica, oltre il viso abbandonato ad un sopore più tremendo del sonno.
Loki guardava la scena con alterigia al limite dello sprezzante –Forse troppo, troppo sprezzante, una caricatura per deviare gli occhi e i sospetti altrui-, mentre i due efebi col balteo gli serravano uno la spalla sinistra, l’altro il braccio destro. Tony aveva gli occhi puntati nella figura mastodontica di Persefone e Steve aveva abbassato il capo, l’aveva spostato appena di lato e chiuso le palpebre.
E Natasha…Natasha?
Il cuore affondò nel petto.
Vedova Nera giaceva distesa tra frammenti di intonaco, i capelli scarlatti insozzati da polveri e lacrime di affresco; un braccio allungato in maniera innaturale dinanzi al volto, il bacino ruotato e sollevato, una gamba ripiegata sotto il ventre, se respirasse o meno il dottore non avrebbe saputo dirlo.
Banner si levò faticosamente in piedi, traballò e quasi cadde, ma una forza innominata –Insapettata- gli rese le gambe più salde, innalzò la colonna, gli fece bruciare nuova vita nel petto. E mentre procedeva a passi incerti verso la donna, capì che era Hulk, che era l’Altro, a sospingerlo verso di lei: il mostro non avrebbe mai chiesto aiuto, non lo avrebbe mai fatto, soprattutto a lui, eppure in quel momento gli stava consegnando le ultime briciole di potere e vigore che ancora possedeva e avrebbe potuto usare per riprendere il controllo. Gliele passava, sì, gliele donava per raggiungere ed arrivare indenne a Natasha, per salvare l’unica persona, l’unico essere umano per cui valesse la pena vivere, anche se rinchiuso nel corpo rachitico, debole e patetico dell’omuncolo di Dayton.
«Natasha…» mormorò Bruce, crollandole accanto, le braccia allungate, tese a sfiorare a punta di dita la curva inerte della schiena. «Natasha, ti prego…»
Un tremito percorse la spina dorsale della donna.
Vedova Nera spalancò gli occhi pallidi di terrore e si ritrasse, vomitò un gemito dalla bocca macchiata di sangue.
«Natasha» ripetè «Natasha, sono io.»
Lei socchiuse gli occhi, il seno che s’alzava e s’abbassava al tamburellare aritmico della sorpresa e dell’allerta. Lo squadrava guardingo, cercava in lui in segni del Mostro, della follia; le pupille si dilatavano e si restringevano, mettevano a fuoco un particolare, si perdevano a sondare angoli e recessi –A ritrovare un briciolo anche minuscolo di fiducia.
Banner sfiatò un sospiro esausto, una mano a coprirsi gli occhi.
«Bruce…»
Poi furono solo le braccia di Natasha ed il profumo rassicurante dei suoi capelli.

 

***

«Tu! Tu! L’hai uccisa! È morta per colpa tua!»
Loki reclinò sfrontato la testa, un ghigno metallico gli tagliò di traverso la bocca. Arrogante, conscio di sé e del potere di cui era Maestro.
«Oh, no, fratello.» sussurrò «E’ tua strabiliante prerogativa perdere le persone che ami.»
Steve avrebbe voluto intervenire, magari mettendo una mano sulla spalla di Thor –Magari tirando un pugno a Loki-, tuttavia si trattenne. Il fatto che non fosse più di uno spirito incapace di toccare ed essere toccato era una ragione da non sottovalutare.
«Non ti preoccupare.» la voce di Tony, ora accanto a lui, lo fece trasalire «Lo rimetteremo in sesto» il figlio di Howard accennò col mento alla figura desolante di Thor, al suo volto contratto e alla disperazione che deflagrava dal respiro ansante.
Stark atteggiò le labbra in una smorfia.
«E se non ci riusciremo noi, lo farà la sua sventola con un ceffone ben piazzato.»
Il Capitano annuì ed il sorriso scivolò via dai suoi occhi, risucchiato dentro di lui dall’atmosfera di addio che gli infiacchiva le ossa e gli indolenziva i muscoli. Il cuore era intirizzito ed era consapevole che quel poco di sangue della libagione stava ormai finendo il suo effetto: dalla punta delle dita il gelo ramificava nelle braccia e qualsiasi parvenza di fiato diveniva pallida, ogni volta più distante dalla precedente, ogni volta più rarefatta, ogni volta più fasulla.
Presto, lo sapeva, avrebbe guardato Tony e non lo avrebbe visto. Avrebbe sentito le sue parole, ma non le avrebbe ascoltate. Avrebbe avvertito il suo amore, ma esso non lo avrebbe raggiunto.
«E’ un po’ uno smacco, eh?» riprese Stark, socchiudendo le palpebre «Insomma, niente Cancelli Dorati, niente Angeli con le Arpe o tizi barbuti che ti sventolano un paio di chiavi davanti al naso» alzata di spalle «Mi rassicura sapere che non mi ritroverò davanti un tizio con la testa di sciacallo o un bellimbusto fasciato e con la faccia verde, questo sì.»
Steve rise e quel suono riverberò nel Salone con una luminescenza argentina. I bracieri si scossero, muovendo frementi le lingue aranciate.
«Non importa, Tony.» il Capitano si voltò –A stento ingoiò l’istinto di alzare il braccio e passare le dita fra i capelli che erano caduti a coprirgli la fronte «Io continuo ad avere Fede. Non mi ha mai tradito.»
Stark abbassò gli occhi, sviò il suo sguardo.
«Hai Fede in me?»
«Sempre.»
Un refolo di vento costrinse entrambi ad alzare la testa: era giunto a loro un sottile canto di primavera, che a Steve aveva ricordato il rumoreggiare dell’erba di Central Park, il sapore amarognolo della pioggia sulla pelle e lo schiudersi silenzioso di una corolla.
Persefone li aveva raggiunti e sua era la tenerezza della Madre, nell’aspetto e nell’aura che emanava. Aveva abbandonato il peplo e i ninnoli tra i capelli e l’alto polos: i riccioli castano scuro  erano divisi alla sommità della fronte da una scriminatura centrale, stretti alla nuca da un laccio nero. La veste era un tramestio di pieghe, un alternarsi fumoso di sbalzi di luce, di grigio ferro e baleni di tormalina.1
Nella semplicità degli occhi liquidi, neri come terra bagnata, e nella piega carnosa delle labbra scarlatte, era una Fanciulla più bella di qualunque Dea.
«Non temere» bisbigliò, rivolta a Stark «Egli è destinato ai Campi Elisi.»
«No» replicò il figlio di Howard «Il Capitano verrà con me.»
La moglie di Plutone spalancò le palpebre.
«Che dici?»
«Rendimi la sua anima.»
«Tony» intervenne Steve, avvertendo l’incredulità e l’incomprensione singultargli in gola «A cosa servirebbe? Hai sentito Loki, non ho più un…»
Stark lo ignorò, lo sguardo conficcato in quello di Persefone.
«Rendimi la sua anima.» scandì.
La Dea, accigliata, corrucciò le labbra e la mandibola si contrasse. Emanava una potenza ed una regalità talmente forti che le ginocchia del Capitano tremarono; pur mantenendo l’illusione di essere alta al pari di un essere umano, Steve la vedeva giganteggiare sopra le loro teste e ciò che ordinava così sarebbe stato.
«In virtù di cosa?»
«Della nostra impresa.»
Natasha claudicò in avanti, un braccio attorno alle spalle nude di Banner ed una mano del dottore a sorreggerle la vita. Un rivolo di sangue le colava sopra l’occhio destro, i capelli, scarmigliati ed unti, erano coperti di polvere e terra; la divisa nera era stracciata sotto il seno ed un graffio rossastro si intravedeva già paonazzo sulla pelle bianca. Bruce la teneva in piedi e la guardava con preoccupazione e profondo affetto.
«Siamo scesi…Fino alle tue porte per portare via il Capitano» proseguì la russa, il tono debole e affaticato «Lascia tentare anche noi, esattamente come fece Orfeo.»
E così dicendo, scostandosi di un poco da Banner, Vedova Nera incespicò fino alla Dea e le porse il ramo d’oro, stretto tra le dita spellate.
Persefone non rispose, ma con una lacrima a scintillare tra le ciglia fini, prese il dono e sorrise.
Il Capitano non seppe spiegarselo, eppure le tenebre dell’Ade furono strappate e stracciate: i capelli della Dea erano biondi di grano e lei era bella come l’estate, meravigliosa e viva come la primavera. Scintillava la rugiada sulle sue guance truccate di porpora ed il ventre era cinto da fiori candidi, gli occhi avevano assunto il colore del miele.
Attoniti e strabiliati, stavano assistendo al miracolo della Rinascita e lei era Persefone prima che l’Ade la ghermisse e l’Inverno innevasse il suo cuore traboccante di linfa.
«E sia» accordò, sorridendo teneramente.
Una luce fioca segnò il cammino di un sentiero scosceso, di arduo cammino ed immane fatica.
«Proseguite avanti e non vi fermate. Non guardatevi indietro, mai, fino a quando non sarete usciti al sole ed al mondo dei mortali: se verrete meno a questo, la sua anima sarà persa per sempre.»

 

***

 

Clint non era famoso per la propria pazienza e quella volta era sicuro che un richiamo non glielo avrebbe tolto nessuno. Come se avesse importanza, come se una nota di demerito o una tirata d’orecchi potesse cambiare la situazione o anche solo avere un peso su quanto sentiva gridare e urlare e sbraitare dentro la cassa toracica e nel fondo dello stomaco.
Sbraitare contro Streiten chiamandolo “Vecchiaccio della malora”, inveire perché facesse presto, maledirlo, bestemmiare in ogni lingua padroneggiata -Ed erano tante, sebbene non paragonabili alla lista praticamente infinita di Natasha-, farsi perforare l’orecchio dall’ordine della Hill aggiuntasi non richiesta alla conversazione…
In poche parole, la situazione non volgeva a favore di un rientro pacifico all’Hub.
Il problema non si poneva, comunque, giacché Clint aveva deciso a priori che non si sarebbe fatto vedere all’Hub, a meno di non avere un vivo e vegeto Phil Coulson accanto. Qualsiasi rapporto, qualsiasi scempiaggine burocratica poteva e doveva aspettare quando in bilico c’era la vita dell’Agente. Lo aveva lasciato morire una volta, non sarebbe successo di nuovo.
Scansando i malconci Sitwell e Woo, ignorando le proteste degli infermieri e gettando un’occhiata assassina ai poliziotti che avevano tentato di fermarlo, rispondendo a male parole persino alla squadra di recupero venuta per scortare Vermin a Ryker’s Island in pompa magna e il Mutante direttamente all’obitorio, Occhio Di Falco montò sull’ambulanza e s’appollaiò sulla panca laterale.
Gli pareva tutto così goffo l’affaccendarsi del personale medico attorno alla barella di Coulson, tutto così approssimativo e poco professionale.
Poteva scorgere il sudore intingere di rigagnoli umidi del colletto e delle maniche della donna -Come sarebbe riuscita a salvarlo, se non era nemmeno in grado di mantenere la calma?, e il ragazzo che si stava occupando della ferita al ventre di Phil era troppo, troppo giovane, sicuramente inesperto e aveva il polso che tremava e aveva gli occhi appannati dalla tensione ed era bianco sulle tempie e rosso sulle mani, lì dove la pelle veniva a contatto col sangue copioso, bollente.
Il colore fluiva dal volto di Phil allo squarcio irregolare allo stomaco e in un attimo di sbandamento, di follia, Clint si chiese se non sarebbe bastato mettere le dita a coppa sulla ferita perché non fuoriuscisse, si fermasse, perché il fiato, il respiro non abbandonassero i polmoni e il bronchi si dilatassero a far passare boccate d’ossigeno una più profonda della precedente. Scacciò quel pensiero con uno scossone stizzito della testa, la nausea che incollava i denti come mastice.
Occhio di Falco si portò le mani alla testa e conficcò i polsi nelle tempie, strizzò le palpebre, contrasse la mandibola. Se prima i rumori gli erano arrivati alle orecchie ovattati e privi di contesto, se prima il tremolio dell’asfalto sotto le ruote era stato meno di un rollio costante, se le mosse dei due davanti a sé possedevano la gommosa ottusità del sogno, ora il reale stava prendendo di nuovo piede e il tempo aveva cominciato a scorrere di nuovo e in fretta, troppo in fretta.
Boccheggiando, Barton ingoiò un ansimo e poi un altro ancora e ancora e di nuovo fino a quando la fronte non ondeggiò e l’intontimento gli permise di approcciarsi con maggior lucidità, per quanto fosse un controsenso evidente, a ciò che succedeva.
Il pigolio ripetuto e affilato delle macchine gli affondò nel cervello, la goccia pallida della flebo singhiozzò un singulto bianco mentre scorreva fangoso dalla saccoccia fino al polso di Coulson.
L’arciere reclinò appena la testa sulla spalla, giacchè non si ricordava proprio che le vene dell’uomo fossero tanto striminzite, come graffi appena accennati, incisioni timide, un poco abbozzate sulla carne. Le aveva baciate un numero infinito di volte, era stato in grado di sentire il palpito del sangue sulle labbra e sulle lingue, eppure era certo, dolorosamente certo, che se vi avesse appoggiato l’orecchio a malapena avrebbe colto l’armonia cadenzata del battito cardiaco.
«Signore…» mormorò Clint, scendendo dalla propria postazione e avvicinandosi al capezzale traballante di Phil «Andiamo.» torse appena il collo ed ebbe coscienza dello stato pietoso in cui doveva versare soltanto dalla maniera in cui la donna, sul punto di intimargli di stare indietro, aveva contratto le labbra e s’era fatta da parte, perché potesse sistemarsi meglio senza disturbare nessuno «Andiamo, non mi lasci così.»
«Barton» esalò Coulson, in un sussulto roco, e tale fu lo stupore di Occhio di Falco che quasi si dimenticò di respirare –Rispondere era una reazione troppo al di là delle poche facoltà mentale di cui si trovava in possesso. «Barton, parlami.»
«Signore! Phil!» esclamò «Dio sia ringraziato!»
«Credevo…» continuò l’Agente, socchiudendo le palpebre e lasciando intravedere un frammento unto di iride «Credevo che non credessi in Dio.»
«Credo nel Dottore, che è un po’ la stessa cosa.»
Phil arricciò la bocca in quello che doveva essere un sorriso, ma l’attimo dopo s’era già trasfigurato in un gemito di dolore: sollevò i fianchi, lo stomaco eruttò un conato sanguinolento, costringendo il paramedico ad intervenire e Clint a retrocedere.
Dai piedi della barella, ora, Barton intravedeva le labbra pendule, macchiate di salive giallastra, dell’altro, il mento incurvato grottesco contro lo sterno nel tentativo di assumere una posizione che gli permettesse di guardarlo negli occhi senza ricadere con la nuca all’indietro. Operazione non facile, però, considerando l’impedimento costituito dal collare cervicale e da…Clint si impose di non far scorrere lo sguardo più in basso del petto dell’uomo, si costrinse a mantenerlo dritto nelle sue pupille offuscate –Ma Occhio Di Falco vede tutto, vede ogni cosa, e per quanto cercasse di mantenere la concentrazione sulle rughe affaticate che accartocciavano la fronte di Coulson, per quanto si fosse messo d’impegno a contare gli slabbri già rimarginati alle guance e sotto gli zigomi, il segno indelebile della coltellata dell’italiano era qualcosa che non poteva in alcun modo cancellare. Esisteva, dannazione, e il bubbolio del sangue a contatto con le fasciature non smetteva di ricordarglielo.
«Dovresti essere all’Hub.»
«Non la lascio solo un’altra volta, signore.»
Phil sbuffò una risata frammista a colpi di tosse.
«Non sei stato tu, Clint. Non sei mai stato tu.» smozzicò, le parole rese scivolose e claudicanti dai farmaci e dalla coscienza palesemente sempre più labile.
«Allora mi permetta di esserle accanto adesso
Coulson s’arrischiò a lanciargli un veloce sorrisetto, poco convinto e poco vitale. Le cicatrici purulente che gli insozzavano il volto si contrassero e uggiolarono, scricchiolanti, creando un accartocciamento grottesco e nauseante.
«L’Agente Attis diventerà una furia» ridacchiò e tossì «Il suo LMD si è rotto in mille pezzi.»
Clint avvertì distintamente un moto di rabbia bruciargli la bocca dello stomaco: inveire contro Phil era l’ultima cosa da farsi, in una situazione come quella, pur tuttavia non riuscì a trattenersi e il ringhio, il grido, gli uscirono dalla bocca come vomito e come bile.
«La smetta di dire cazzate!» abbaiò «Lei non è un LMD! È per questo che mi sono fidato!» la donna gli lanciò un’occhiata di fuoco, cui Barton reagì snudando i denti e soffiando iroso «Nessun LMD avrebbe mai confessato di esserlo! Lei è vero, Phil! Lei non è un LMD!»
«…Oh.» sussurrò l’altro, abbandonando la nuca all’indietro, l’iride che scompariva, opaca e vitrea, dietro le palpebre sempre più basse «Ma io non stavo parlando di me…»

 

***

«Sai, Reed stava quasi per farsela nelle mutande.»
«Johnny.»
«E’ vero! Sue ha pensato gli sarebbe venuto un colpo apoplettico, io e Ben abbiamo scommesso si sarebbe bagnato i pantaloni prima di svenire.»
«Johnny, ricordami un po’ perché sei salito con noi, per cortesia?»
La Torcia Umana fece spallucce e appoggiò la schiena alla parete dell’ascensore, passandosi la punta della lingua sulla piega irridente della bocca. Richards lo fulminò con lo sguardo e Tony, dal canto proprio, non ebbe il cuore di trattenersi da una breve, liberatoria risata.
Sapeva che Reed era in ebollizione e probabilmente non aveva neanche dormito, ma la cosa, invece di fargli pietà, contribuiva ad aumentare quel senso di euforia e gioia indomabile che esplodeva nel petto ad ogni battito del cuore. Non erano passati nemmeno cinque minuti dacché l’anima di Steve era deflagrata in una luminescenza accecante e lui era ripartito in volo alla volta di Manhattan, che J.A.R.V.I.S. lo aveva avvertito di una chiamata del Baxter Bulding. Era stato quasi di tentato di non rispondere, in verità, poi un pizzico di egocentrica filantropia e il tono costernato, affrettato, incredulo di Richards era rimbalzata da una curva all’altra del casco.
Abbassa la voce, Reed! Lo aveva ripreso Tony, ridendo ed esultando, ogni parvenza di serietà scomparsa dal volto affaticato e incredibilmente eccitato Così divento sordo!
Richards aveva preteso venisse subito al Baxter Building, ma il magnate aveva rifiutato l’invito: aveva una cosa da fare, prima. Aveva chiuso la comunicazione prima che lo scienziato potesse sciorinare repliche e spiegazioni e balbettii e mani nei capelli e Tutto questo non ha senso, Tony! e, quando finalmente aveva appoggiato il piede sulla piattaforma d’atterraggio della Tower, si era disfatto in fretta dell’armatura, correndo fino al salone dell’attico.
Pepper, seduta sui cuscini del divano con una tazza di the fumante in mano e gli occhi ancora rossi, aveva alzato di scatto la testa e si era levata immediatamente in piedi. Tony era rimasto fermo, sulla soglia, ad osservarla per lunghi minuti, senza il coraggio né la forza di dire nulla, di interrompere quell’attimo di eterna sospensione che poteva e avrebbe significato ogni cosa.
Non sapendo neanche come, si era ritrovato stretto nell’abbraccio di Virginia. Il suo profumo nelle narici, sottopelle, i suoi singhiozzi e la sua presenza erano stati una rassicurazione più calda del sangue.
Avevano trascorso la serata e la notte così, in silenzio, Stark allungato e protetto contro e da Pepper, le dita di lei che scivolavano piano tra i suoi capelli.  
Neil film fanno sempre vedere quei flash-forward al limite dell’ansiogeno, con le nuvole che si rincorrono e sdrucciolano e si sfilacciano e si rompono contro un cielo azzurro arancione rosso grigio blu, tutto conficcato di stelle, tutto punteggiato, smerigliato e ingentilito appena da qualche goccia di pioggia e dal mosaico luminoso delle finestre e dei palazzi. E la gente parla e parla e parla, vomita eterni discorsi di incredibili, pindarici confessioni e l’Universo potrebbe anche mettersi il cuore in pace, l’ONU dichiarare la cessazione di ogni conflitto se solo simili discorsi potessero farsi davvero, se solo simili discorsi davvero esistessero.
Niente di questo accadde, insieme a Pepper.
Il minuti si trascinarono lenti, il mattino si fece attendere come una diva non ancora pronta a mostrarsi sul filo sospeso dell’orizzonte. Non si erano detti nulla, se non un Ora devi andare mormorato, bisbigliato nel dormiveglia degli occhi spalancati sui primi balbettii dell’alba.
E adesso che Tony era stato lasciato solo e Johnny aveva convinto Reed a concedergli un po’ di privacy –A volte quel ragazzo lo stupiva: dietro la dabbenaggine perfettamente inscenata nascondeva una profonda umanità di pensieri che al confronto persino Steve avrebbe sfigurato-, il magnate ringraziò mentalmente Pepper per il caldo tepore della presenza che ancora aleggiava attorno a lui.
Con le proprie, uniche forze, altrimenti, non sarebbe mai stato in grado di affrontare il passo oltre la soglia, il lampo luminoso dei macchinari contro il viso nell’istante in cui le porte scorrevoli gli avevano accordato l’accesso.
La stanza era bianca. Immota.
Pannelli bianchi alle pareti. Lastroni bianchi del pavimento. Rettangoli bianchi incassati al soffitto. Finestre sottilissime e oblunghe, incorniciate di bianco. Macchinari pigolanti e bianchi.
Un letto, bianco, nel centro –Un corpo disteso, vestito d’un camicie azzurro tenue.
Lenzuola ruvide. Bianche –Due mani, appoggiate su di esse, spolverate di pallido rosa. 
Cuscino bianco –Capelli biondo cenere, ciglia finissime, spruzzate di pulviscolo dorato, labbra soffuse di rosso.
Susan aveva posizionato una seggiola blu proprio accanto al materasso, sotto i computer. Il loro pigolio era così intenso che Tony sentì il cuore comprimersi nel petto. Sugli schermi neri passavano e sfilavano nastri di dati, segmenti di battiti, pulsazioni e respiri; srotolavano incessanti il cammino della vita, mettevano prepotentemente in mostra l’esplodere inconfutabile dell’esistenza.
Stark avanzò di un passo e poi un altro, un altro ancora, punta di dita sfiorò il dorso di quella mano adagiata sulla coperta: il calore che emanava la pelle era appena percettibile, ma per il figlio di Howard era come se andasse a fuoco.
La sentì arroventargli la carne attraverso lo spazio e l’aria e l’ossigeno, quel barlume di calore scoccò simile a fiamma lungo le vene e si sostituì al sangue, gli diede nuova forza.
Si accomodò sulla sedia, accavallò le gambe.
Un singulto dei macchinari ed un tremito delle palpebre chiuse. Un suono roco dalle profondità della gola, di chi è sul punto di svegliarsi da un sonno pesante, di chi si sta liberando faticosamente dalle catene del sogno. Sulla bocca di Tony affiorò un sorriso.
Alle labbra di Steve arrivò un respiro talmente profondo che l’altro lo avvertì fin dentro le ossa.
«Buongiorno, Capitano.» lo salutò Stark, innegabilmente divertito.
E fiero, anche. E soddisfatto. Usare un Life Model Decoy per la camera ardente e tenere Steve in refrigerazione forzata al Baxter Building per evitare qualsiasi processo di decomposizione -Nonché il controllo medico costante di Reeds, che nonostante la somma genialità di cui era in possesso faticava a coordinare pensieri logici complessi- era stata un’idea al limite del patetico. E, visti i risultati, piuttosto azzeccata.
Il primo che gli ricordava di avere una lieve tendenza al sovra-reagire sarebbe stato mandato al diavolo senza possibilità di appello e calciato via in un punto imprecisato del globo terracqueo.
Possibilmente Timbuctù.
Steve emise un gemito disfatto, aggrottando la fronte. Deglutì un paio di volte prima di riuscire a prendere parola, le nocche che si flettevano per far ripartire la circolazione. Piegò la testa sul guanciale, inspirò a fondo. Una contrazione agli angoli delle palpebre, il tremolio delle ciglia e finalmente, Dio, finalmente il Capitano riaprì gli occhi sul mondo.
Il fiato di Tony s’incrinò.
Come diceva il ragazzo schizzato di American Beauty?
A volte c’è così tanta bellezza nel mondo, che non riesco ad accettarla…Il mio cuore sta per franare.
Un sorriso stanco si profilò nello sguardo e nell’espressione serena, esausta, tranquilla e scanzonata di Steve.
«Per favore.» mormorò «Dimmi che nessuno mi ha baciato.»
«Bhè. A questo, Capitano, possiamo sempre porre rimedio.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cor Mortem Ducens
#10 American Beauty

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Persefone, di Rossetti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio processo cancellazione dati.

 

«Sto parlando da solo.
Volevo dettare una volontà o qualcosa del genere, ma sono molto lontano dall’essere in grado di intendere e di volere. Anzi…Nella mia testa non è rimasto molto.*»

 

Processo cancellazione dati.

Avvio.

 

«Sembra ci siamo solo io e te, amico. Tu ed io contro il mondo.*»

 

Avvio registrazione.

 

[ Crepitio. ]

[ Interferenze. ]

[ Compare un volto. Stanco. Emaciato. Sudato. Barba incolta. Occhi folli. Sguardo spaesato. È Tony Stark o una parvenza di ciò che Tony Stark è stato e forse non sarà più. Tiene un microfono in mano. Cavi ovunque. ]

 

«Sono convinto che…Sia cominciato tutto con la morte di Clint. Non chiedermi da dove mi venga questa certezza. Non lo so. Non so più niente.
L’ho dimenticato.
Qualcosa mi dice che è così e io non posso negarlo.
Lo ricordo, sai? Il viso di Coulson. Se avesse pianto sarebbe stato meglio. Se avesse gridato avrebbe esorcizzato l’orrore e reso i nostri cuori meno pesanti.
Ma credo non ci fosse più voce in lui. Solo silenzio.
Ha lasciato i ranghi. Ha dato il benservito a Fury.
Il dolore lo ha fatto uscire pazzo. Vaneggiava della Casata Maximoff, dei Mutanti, di Clint. Diceva che era vivo, che l’aveva visto, che abitavano insieme in una casa a Long Island. Parole senza senso.
A che pro ascoltarlo? Delirava.»

 

[ Tony Stark si stringe la radice del naso tra le dita. Ha le nocche sbucciate. I polsi tremano. ]

 

«Non mi andava di ricordarlo così, però. Preferisco pensare ad Agente mentre alza il bicchiere di Pepsi e annuncia l’imminente matrimonio con Barton.
Quando è stato, Steve?
Eravamo in qualche locale bislacco, sì, dopo una missione contro Viper e i suoi sgherri.
Due giorni dopo mi sono cimentato in un comizio logorroico e magniloquente davanti alle Nazioni Unite.
E Agente tirava indietro la sedia, Barton roteava gli occhi pesti a guardarlo da sottinsù.
Due giorni dopo, ubriaco come una spugna senza aver bevuto un goccio di alcool, ho minacciato l’insigne delegato di Latveria.
“Ci sposiamo.”
Due giorno dopo, Clint mi ha voltato le spalle, tu sei stato l’unico a credermi.
“Tu e chi?”
Due giorni dopo, la Tower è esplosa.
“Io e Clint.”
Due giorni dopo, Barton è morto.»

 

[ La voce si interrompe. Tony Stark contrae la mandibola. ]

 

«Non volevo ricordarlo così.
Non volevo.
Dio, quanto erano stupide e felici le loro facce.»

 

[ Sta piangendo. Non se ne accorge. ]

 

«Non importa. Tanto non lo ricorderò.
Clint è morto.
Quando è stato, Steve? Anni? Ore? Minuti? Settimane?
L’ho dimenticato.
L’ho dimenticato, tuttavia è stato il mio campanello d’allarme.
Perché no. Non è iniziato tutto con la morte di Clint. È iniziato prima e dalla morte di Clint il tempo è franato e non riuscivo a raggiungerlo, lo rincorrevo senza posa, ma era sempre davanti a me, mai dietro.
Ricordo lo spirito di mia madre, sul ciglio dell’Ade.
Impalpabile come nella mia memoria. Intangibile come lo è stata nella mia vita.»

 

[ Gli occhi si perdono appena, lo sguardo si offusca. Un ronzio del microfono, scintille dai cavi. Il nastro non fa rumore. ]

 

«Ti ho sposato con la sua maledetta profezia nel petto. Ce l’hai fatta, hai visto, a farti mettere un anello al dito? Eravamo sulla spiaggia e Pepper camminava sulla battigia, si teneva il vestito per timore di bagnarlo. Come nella mia visione.
Il cielo era sgombro, non c’era tempesta, ma quell’azzurro era solo illusione.»

 

[ Qualcosa si incrina e la figura di Tony Stark si accartoccia, come quella di un bambino che cerca protezione in se stesso e difesa contro il mondo nelle spalle chiuse. ]

 

«La morte di Clint è stato il primo boato.
Quando Nitro è esploso, la pioggia stava cadendo su di noi già da tempo.
Guardo il servizio al televisore, quando tu arrivi. Non hai vestiti addosso, il bagliore dello schermo ti si rifrange sulla pelle. Abbiamo fatto l’amore, hai ancora il mio odore addosso –Putrefazione, lo sento. Colpa, lo ammetto.
Hai graffi sulla schiena, io un livido sul collo.
Sono nervoso. I battibecchi sono più pesanti.
Sta arrivando, Steve. Cosa? Non lo so. E intanto Stamford brucia.
Non aveva nome, lo avvertivo. Sapevo cosa sarebbe successo, non avevo previsto in che modo. Non ho voluto affrontare le conseguenze. Non le ho messe in conto Ho peccato.
Perdonami, Capitano, perché ho peccato e ora sbriciolo tra le dita una messe di pianto, di ricordi che perdo e dimentico di possedere.»

 

[ Tony Stark sospira. Un gemito di dolore gli accartoccia il viso. Una goccia di sudore gli scivola alla tempia sinistra. ]

 

«”Cosa succede?”, mi chiedi.
Nulla. Prendi la mia mano. Andiamo a letto. Narcotizziamoci di baci e di ansimi. Addormentiamoci.
Stretti sotto una coltre cieca, il mondo non ci vedrà.
“E’ cominciata” dico.
E’ finita, concludo.
È finita e non mi ricordo quando è iniziata.
Ricordo solo il tuo volto, Steve, ed è bello. Troppa bellezza nei tuoi occhi, fammi morire, fammi morire, Steve, fammi morire, perché io possa assaporare in eterno la bellezza della tua vita che ora mi è preclusa.»

 

[ Tony Stark si passa il pugno sugli occhi chiusi. Quando lo sposta, la sclera è rossa, un intrico di arzigogoli scarlatti. ]

 

«Registro un messaggio, nessuno lo ascolterà.
Incido una preghiera sulla mia pelle, leggila nel mio sangue.
Apri le braccia, quando arriverò. Fammi appoggiare la testa sul tuo cuore. Sarò stanco. Riposerò di una morte più dolce della vita intera.
Con la tua voce cancella le oscure parole di mia madre. Strappa i cavi che ho sulla nuca. Affonda le dita nella mia mente vuota. Illumina col tuo affetto i miei occhi grigi.
Guarda il mio corpo privo di significato. Guarda le mie labbra bianche, le mie palpebre chiuse.
Chiedimi: “Ne è valsa la pena?”
Me lo hai già chiesto. Quando ti ho risposto, non potevi più sentirmi. Troppo tardi.
Il tempo era davanti a me. Non ero stato capace di fermarlo.
Ma presto non lo ricorderò.
Non lo ricordo più.
Ci sono cose nella mente di cui i cattivi vogliono impossessarsi. Quindi più tempo passo attaccato ai generatori a repulsori…E più tempo durerà il processo di cancellazione della memoria…Significa che non sto solo perdendo le mie conoscenze. Ma anche i miei ricordi*.
Cancello ogni cosa, sono l’orma che il mare trascina con sé.
Non ci sono passi, dietro di me.
Sono stanco, ma per quello che ricordo, ossia sempre meno, ormai nulla, sono sempre stato fermo.
Immobile.»

 

[ Un singhiozzo gli sale alla gola, ma Tony Stark lo reprime. Poi non lo nasconde e lo lascia libero. Trema. ]

 

«Eri bello, Steve, quando ti ho sposato. Vorrei sposarti dieci, cento, mille volte. Solo per dire Sì. E sentirti rispondere.
Ricordo il tuo viso.
Sta svanendo.
Nebbia.
Impalpabile.
Intangibile.
…Quegli occhi---»

 

 

Registrazione interrotta.

 

Attenzione: dati corrotti.

 

Impossibile salvare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non dovevi venire, figlio mio.
Oh! Una decisione ti ha portato qui…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una decisione lo farà tornare nell'Ade.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note Finali
(Questa volta per davvero)

 

 

 

 

(*)  Iron Man Requiem, Gennaio 2010

 

 

E quindi.
Cor Mortem Ducens si è conclusa.
Ringrazio Alley dal profondo del cuore, perché è una mogliaH bellissima e adesso mi vorrà uccidere.
Ringrazio Ino Chan, bunnybenny, cory94, Crissoluv, Iceathena, Irina_Yermolayeva, Iron_Lady, Kighto, Lakky, s t r e g a t t o, The_Lazy_Fangirl, Lady White Witch, Alpha Hydrae, Bee S, Black Air, dandelionandburdock, Endimione, F 13, GretaJackson16, ipp0po, Julia 98_8, LightCross, Lori Liesmith, Misako 90, Nanna 12345, Nemenorse, Runarvisa, Saeros25, Selvy, Shannara_Sharel e Zia Enne.
Grazie a tutti voi.

 

 

 

 

 

Fin.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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