Once Upon A Time Fairytales: Sleeping Beauty

di Aching heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The Princess ***
Capitolo 2: *** The Plot ***
Capitolo 3: *** Alone in the Forbidden Mountain Castle ***
Capitolo 4: *** Long live the new King ***
Capitolo 5: *** I'll come back ***
Capitolo 6: *** The King is Dead ***
Capitolo 7: *** Stay Strong ***
Capitolo 8: *** Fourteen years later ***
Capitolo 9: *** The play begins ***
Capitolo 10: *** Learning how to hunt... ***
Capitolo 11: *** ...learning how to love ***
Capitolo 12: *** First Impressions ***
Capitolo 13: *** So this is love ***
Capitolo 14: *** Return to the castle ***
Capitolo 15: *** Lock the last open door, my ghosts are gaining on me ***
Capitolo 16: *** The Moment of Truth (part I) ***
Capitolo 17: *** The Moment of Truth (part II) ***



Capitolo 1
*** The Princess ***


A mille ce n'è nel mio cuore di fiabe da narrar (da narrar)
Venite con me nel mio mondo fatato per sognar (per sognar)
Non serve l'obrello, il cappottino rosso, la cartella bella per venir con me
Basta un po' di fantasia e di bontà (e di bontà)

[Introduzione "Fiabe Sonore"]

 

1.The Princess

Carabosse aspettava pazientemente l’arrivo del suo insegnante di musica. Era una bella mattina di sole ed era una sofferenza restare chiusa nel castello, ma le sue lezioni andavano seguite se voleva essere una principessa degna di questo nome. Fin da quando poteva ricordare era stata educata ad essere l’immagine della regalità, e lei si era applicata con tutta se stessa perché si sentiva una principessa.
Si guardò allo specchio ed una compita bambina di dieci anni ricambiò il suo sguardo. I lunghi capelli castani erano sciolti tranne che per due trecce che partivano dall’attaccatura dei capelli alle tempie e si legavano insieme dietro alla nuca, e intorno alle quali si intrecciava un nastro dorato che passava sulla fronte. I grandi occhi verde chiaro avevano un’espressione seria, così come la piccola bocca rosea, ed erano messi in risalto dal lungo vestito di broccato color prugna dalle maniche svasate. Sono troppo seria, pensò. Una principessa doveva essere un misto di compostezza e gaiezza, perciò alzò leggermente gli angoli della bocca accentuando l’altezza degli zigomi ed estese il timido sorriso anche agli occhi. Ora sì che era perfetta.
Quando le sue attendenti bussarono alla porta della stanza lei stava ancora sorridendo. Cercando di risultare il più cortese possibile, diede loro il permesso di entrare. Le cameriere avanzarono nella stanza e fecero un profondo inchino.
- Altezza, il vostro maestro di musica è arrivato e vi attende per la lezione, e anche Sua Maestà la Regina presenzierà in Sala da Musica.
 Carabosse apprese con gioia e stupore quella notizia. Di solito a quell’ora sua madre era impegnata a dare udienza ai sudditi che avevano problemi o avevano subito ingiustizie e ricorrevano alla bontà della Regina per avere un aiuto. La Regina, dal canto suo, era di umili origini, quindi sapeva bene quanto fosse difficile la vita fuori da palazzo e senza denaro, e si adoperava come poteva per il benessere dei suoi sudditi. Riteneva indispensabile e doveroso incontrarli ogni giorno per sapere quali problemi avessero, perciò era un evento straordinario che rinunciasse a quelle due ore di dialogo con il popolo per assistere alla lezione di musica di sua figlia. Non che non fosse una buona madre, anzi, era fin troppo presente e affettuosa per le regole di corte. Suo marito il Re Thomas non era stato cresciuto da sua madre, ma dalle governanti; le poche volte in cui l’aveva vista quando era bambino era stato durante le occasioni ufficiali, e ogni dimostrazione d’affetto era bandita. Proprio per questo loro due insieme crescevano la loro figlia quasi come in una famiglia normale, esclusi gli impegni che dei reali devono necessariamente onorare.
Carabosse era molto orgogliosa di come suonava e cantava, era definita da tutti un usignolo, ma non era mai successo che sua madre la ascoltasse, perciò si impose di dare il meglio di sé. La Regina non era ancora arrivata e lei stava pizzicando le corde dell’arpa mentre riscaldava la voce. Il suo maestro si era dato alla frenetica ricerca degli spartiti che la principessa eseguiva meglio, quando nella stanza entrarono le dame della Regina che l’annunciarono.
Tutti i presenti si alzarono in piedi mentre Sua Maestà faceva il suo ingresso nella Sala; sorrise  benevola a Carabosse, che fece una riverenza e poi avanzò verso sua madre. Lei si chinò alla sua altezza e la baciò su entrambe le guance, poi la prese per mano e la riaccompagnò al suo sgabello, ma solo quando lei si fu seduta sulla sua poltrona la principessa e gli altri presenti si accomodarono.
- Carabosse, prima che la tua lezione inizi – esordì la Regina – voglio leggerti questa lettera che è appena arrivata. E’ di tuo padre.
Mia adorata Elsa,
ti scrivo un breve messaggio per farti sapere che la nostra missione è conclusa. Abbiamo ricacciato  al confine gli  Orchi, ma invece di dichiaragli guerra ho stipulato un trattato di pace con il loro capotribù, per essere certo che un evento simile non si ripeta. Gli Orchi hanno chiesto solo di considerarci alleati, di difenderli in caso di attacco esterno e di aiutarli in tempi di difficoltà, come si impegnano a fare con noi, e credo di aver fatto una cosa giusta ad aver accettato. Ci siamo già rimessi in marcia e, agli dei piacendo, saremo di ritorno fra una settimana.
Dai un bacio per me a nostra figlia. Tuo

Thomas

Carabosse non era sorpresa del tono informale della lettera, perché suo padre e sua madre si erano sempre scritti – e parlati – così. Era sorpresa, invece, e un po’ intimorita, della scelta di suo padre di stipulare un accordo con il capo degli Orchi. Quelle creature non erano note per essere pacifiche e leali, tutt’altro, e la principessa aveva sentito storie su di loro che le avevano fatto accapponare la pelle. Tuttavia era lieta che suo padre stesse tornando a casa e questo pensiero occupò la sua mente per tutta la durata della lezione e per il resto della settimana.

***

Lo squillo allegro delle trombe annunciò alla folla che si era riunita al castello l’arrivo del Re, evento per il quale in tutto il regno era festa grande.
La Regina e la principessa occupavano i loro rispettivi posti nella Sala del Trono, attorniate dal loro seguito e dalla moltitudine di persone che era impaziente di festeggiare lo scampato pericolo e il ritorno del loro sovrano.
Sua Maestà Elsa indossava un ricco abito di broccato blu con ricami in fili d’argento e perle e portava i gioielli in oro bianco e diamanti che aveva in occasione del suo matrimonio; i lunghi capelli biondi erano raccolti in cerchi molteplici di trecce sulla nuca ed erano sovrastati da una corona elaborata dalla quale partiva un lungo velo bianco-argenteo che scendeva in punte asimmetriche sulla schiena. Carabosse invece indossava un abito dorato con in vita una cintura arancione chiaro tempestata di ambra, portava i capelli completamente sciolti e una coroncina dorata con un piccolo pendente di topazio sulla fronte le cingeva la testa.
Il grande portone in quercia della Sala del Trono si spalancò e i trombettieri schierati in due file suonarono una fanfara. Re Thomas avanzò fiero e sorridente verso sua moglie e sua figlia che si alzarono insieme. Il Re era un uomo di circa trent’anni, con i capelli fra il biondo scuro e il castano chiaro e gli occhi azzurri – gli occhi verdi della bambina erano stati ereditati dalla madre. Portava un’armatura lucente e un mantello rosso vermiglio e dal fianco pendeva il fodero elaborato di una spada dal quale spuntava un’elsa dorata, e d’oro era la pesante corona tempestata di gemme che portava sul capo.
Quando giunse davanti alla Regina e alla principessa, queste si inchinarono finché, subito dopo, il Re fece cenno di rialzarsi per baciare sua moglie e poi prendere in braccio Carabosse e farla girare fino a farle quasi prendere il volo.
Carabosse rideva allegramente: adorava il suo papà e solo lui sapeva renderla così felice. E anche il popolo lo era. Aveva vissuto, durante il regno dei genitori del Re Thomas, un periodo di ristrettezze e miseria a causa dell’estrema avidità dei sovrani, mentre ora vivevano nel benessere e in un clima di serenità e amore, trasmesso anche dal modo del tutto nuovo in cui la famiglia reale si comportava e si faceva vedere.
Dopo averle salutate, Re Thomas si rivolse alla folla e tenne un appassionato discorso sulla missione compiuta, ma quando raccontò del trattato di pace stipulato con le tribù degli Orchi un mormorio stupito si levò dalla folla.
- Sappiamo cosa state pensando, nostri diletti sudditi. – continuò il Re – Gli Orchi non sono noti per essere pacifici e ligi alle regole, ma riteniamo che un trattato di pace sia migliore di una dichiarazione di guerra per il nostro regno, e abbiamo ragione di credere che gli Orchi abbiano interesse nel rispettare l’accordo che abbiamo stipulato. Questo accordo prevede solamente aiuto reciproco in termini economici e bellici in caso di difficoltà e state pur certi che nel caso in cui i nostri alleati dovessero rompere il patto o esigere più di quanto accordato, non esiteremmo a ritirarci dall’alleanza e muovere loro guerra.
 Queste parole furono accolte da un fragoroso applauso al quale il Re rispose con caldi sorrisi. Dopo qualche minuto alzò le mani e ritornò la quiete, così che potesse finire il discorso.
- Ma ora, nostri cari sudditi, è tempo di festeggiare.
Un nuovo applauso si levò dalla folla.

***

Carabosse adorava quel genere di banchetto. Nell’enorme giardino del castello erano state allestite enormi tavolate lunghe e strette, messe una dopo l’altra in modo da coprire tutto il perimetro del giardino, mentre al centro i musici suonavano e gli ospiti danzavano.
I tavoli erano colmi di ogni genere di prelibatezza ed erano stati allestiti dei gazebo per proteggere i commensali – nonché i cibi – dall’intenso calore di quella mattina di Primavera, e dappertutto c’erano brocche colme di bevande ghiacciate, in contrapposizione alle pietanze calde.
Ovunque sventolava il vessillo della casa reale: un arcolaio d’oro su campo rosso. Era stato il Re Thomas a cambiarlo, nel giorno del suo matrimonio. Quello era stato un evento memorabile: i festeggiamenti erano durati dieci giorni e ogni singolo abitante del regno vi aveva preso parte.
Questa volta non era diverso: fra gli invitati non si vedevano solo nobili e ricchi, ma anche gente comune, povera, che non sapeva come comportarsi in quelle occasioni e si avventava su tutto con voracità. Chi non era riuscito ad arrivare al castello per il banchetto festeggiava nelle proprie città, nelle quali erano stati distribuiti gratuitamente viveri ed altri generi di prima necessità. Non ce n’era più bisogno come un tempo, comunque. Da quando il Re Thomas e la Regina Elsa erano saliti al trono avevano provveduto meglio che potevano a che le condizioni disastrose in cui versava la maggior parte dei sudditi fossero migliorate. La povertà era stata quasi del tutto estinta, le condizioni di vita erano decisamente migliorate e persino la scuola era diventata pubblica, e questa era una grande novità davvero. Per fare ciò si era necessariamente dovuto togliere qualche privilegio ai nobili, e non tutti erano stati contenti di queste riforme.
Fra questi, c’era un giovane cavaliere di nome Uberto, ma era ben lungi dal dichiararlo. Negli ultimi tempi si era molto avvicinato al Re, ma sapeva di non essersi ancora guadagnato la sua fiducia e di non potersi permettere di contrariarlo in qualunque maniera. Tuttavia non poteva fare a meno di guardare con disgusto lo spettacolo che aveva davanti agli occhi: accattoni, straccioni, mendicanti che si abbuffavano di tutto ciò che era commestibile, di fianco a nobili come lui. Il Re stesso era un esempio di quell’indecenza, poiché aveva sposato la figlia di un mugnaio, e la bambina che era nata da quel matrimonio sedeva di fianco a suo padre in veste da principessa. Un giorno sarebbe diventata Regina, quella bambina dal sangue sporco che ai tempi del precedente Re non sarebbe stata neanche riconosciuta!
Per non parlare poi dell’ultima trovata del sovrano: il trattato di pace con gli Orchi. Quando, sul campo di battaglia, aveva sentito dire quella notizia , non sapeva se fosse impazzito lui o chi gliel’aveva riferita, e invece era vera. Il Re aveva perfino invitato alcuni ambasciatori Orchi nel Regno, e ora sedevano accanto al Re e alla Regina a prendere parte ad un banchetto che con i loro rozzi palati non sarebbero stati neanche in grado di apprezzare. Di fronte a loro, nella cerchia più stretta del Re, c’era lui, Uberto, insieme a suo figlio, che non era ancora stato presentato ai sovrani.
Solo dopo tre portate il momento delle presentazioni venne. Tutti cercavano di muoversi quanto più potevano, per cercare di digerire e di sgranchirsi le gambe. Il Re, la Regina e la principessa non facevano eccezione: stavano passeggiando affiancati per il giardino mentre intorno a loro cortigiani e nobili gareggiavano per avvicinarli e per poter parlare con loro. I più si complimentavano col Re per essere riuscito a trovare una situazione così pacifica, complimenti falsi come le loro espressioni di finta cortesia.
Finalmente Uberto si trovò davanti ai sovrani.
- Vostre Maestà – esordì inchinandosi.
- Messer Uberto, alzatevi, alzatevi – disse il re. Sebbene non avesse la sua fiducia, Uberto era un valoroso cavaliere e in più di un’occasione l’aveva visto combattere con notevole talento, perciò Re Thomas era convinto che meritasse almeno il suo rispetto e un buon posto a corte.
- E’ un piacere parlare con voi, messere – disse a sua volta la Regina con cortesia, nonostante quel cavaliere non le andasse a genio.
- Il piacere è mio, Altezza. La vostra bellezza illumina i presenti come neanche il sole riesce a fare.
- Voi mi lusingate. Ditemi, di grazia, è vostro figlio questo bambino?
- Sì, Vostra Maestà. Vi presento mio figlio Stefano. Ha tredici anni e ha già iniziato l’addestramento per diventare cavaliere.
Stefano si fece avanti e si inchinò. Mentre si rialzava puntò negli occhi Carabosse, e lei ebbe subito paura di quegli occhi verdi, ben più accesi dei suoi. Il ragazzino si rivolse subito ai sovrani con parole di rispetto, ma non disse nulla alla principessa e a lei fu subito chiaro il perché: la disprezzava. Non sapeva dire il motivo, ma Carabosse gliel’aveva letto negli occhi e nei modi altezzosi e arroganti, così come aveva sempre visto nello sguardo di Uberto disgusto e ambiguità. La principessa avrebbe voluto rimpicciolire fino a scomparire, ma poi si impose di darsi un contegno e di dimostrare a quel ragazzino impertinente chi comandava. Fino a prova contraria era lei la principessa, e nessuno tranne suo padre e sua madre poteva farla sentire inferiore. Perciò alzò il mento e rivolse a Stefano e a suo padre uno sguardo fiero e superbo che mandò subito in bestia il cavaliere, anche se non lo diede a vedere.
Odiava leccare i piedi a chi reputava inferiore a lui, e per di più quella stupida mocciosa osava sfidarlo così! Non poteva dire niente, ma dentro di sé giurò che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui si sarebbe fatto insultare in quel modo dalla principessa o da un membro qualsiasi della sua famiglia. 



*Angolo Autrice*
Salve
a tutti! E' la prima volta che pubblico qualcosa nella sezione "storie originali", ma in realtà questa è una reinterpretazione della fiaba della Bella Addormentata, quindi è una specie di fan-fiction. Come avrete letto, questa reinterpretazione si concentrerà di più sulla figura di Malefica, prendendo in esame la sua storia e su quello che potrebbe averla indotta ad odiare Aurora. La storia si dividerà quindi in due parti: la prima, sulla storia di Malefica, la seconda, sulla fiaba vera e propria, conosciuta da tutti. Farò una specie di remake fra la storia originale, la versione Disney e quella delle Fiabe Sonore, che sono state una parte importante della mia infanzia e che adoro tutt'ora. L'idea mi è venuta soprattutto guardando il telefilm Once Upon A Time, da cui ho preso parzialmente ispirazione per il titolo, in cui le fiabe vengono riconsiderate, insieme alle figure antagoniste. E' quello che farò anche io, ma in un modo un po' diverso (anche perchè OUAT non ci ha ancora presentato la sua versione della storia della Bella Addormentata, ma forse possiamo sperare nella terza stagione).
Bene, per quanto riguarda questo capitolo, so che è un po' noioso, ma è un capitolo di presentazione quindi non potevo fare altrimenti. Carabosse, avrete capito, è Malefica da piccola, e Uberto non è quello del cartone Disney, tranquilli.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto e che vi abbia incuriositi. Ci vediamo!
P.S. All'inizio del capitolo doveva esserci anche la citazione presa dal film della Disney che ho messo nell'introduzione della storia, ma non so per quale motivo EFP non me la dà. Voi comunque considerate anche quella come citazione, ok? Perché vedrete, ci starà benissimo.

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Capitolo 2
*** The Plot ***


2. The Plot

- Mio signore, sulla Montagna Proibita è tutto pronto – annunciò ad Uberto il suo fedele servitore, il nano Marbetto. La stanza di pietra del castello era quasi completamente immersa nell’oscurità eccezion fatta per le fiamme che ardevano nell’enorme caminetto acceso, davanti al quale il cavaliere sedeva comodamente su una sedia imbottita. I capelli biondo scuro e la barbetta ispida avevano riflessi rossicci per via delle fiamme.
Uberto era ancora al castello del Re. Erano passati due mesi dal banchetto per il ritorno del sovrano, ma lui ormai viveva lì: aveva un posto fisso a corte, un posto che presto sarebbe diventato molto di più di quel che era.
- Molto bene – rispose al nano, che era rimasto in attesa alle sue spalle. – Fa’ chiamare mio figlio dalla città e fa’ portare tutte le sue cose qui al castello. Veloce.
Marbetto si inchinò ed uscì dalla stanza.
 Stefano era in città a seguire il suo addestramento di cavaliere. Presto sarebbe stato in grado di maneggiare perfettamente qualsiasi arma, e lui ne era molto orgoglioso. Gli voleva un gran bene, e molto di quello che stava facendo lo faceva anche per lui, oltre che per la sua soddisfazione e il suo benessere personali. Il piano era dettagliato e geniale. Finalmente avrebbe dato una lezione a quelle popolane che occupavano i ruoli di Regina e principessa e occupato il posto che meritava.
 Lui era il figlio minore di un conte, perciò non era prevista alcuna eredità per lui: sposando la figlia di un marchese, la cui cospicua dote aveva provveduto a introdurlo in circoli di rango più elevato, aveva avuto fortuna, ma quando lei era morta, un anno dopo, dando alla luce Stefano, aveva necessariamente dovuto farsi cavaliere per vivere dignitosamente. Non rimpiangeva quella scelta, perché gli aveva permesso di arrivare a corte. E ora, era pronto a diventare Re.
 Non aveva alcun diritto sul trono, ma era convinto che innanzitutto il merito fosse il criterio per stabilire chi doveva regnare o no, e lui di meriti ne aveva molti. Aveva più volte osservato Re Thomas tirare di spada ed aveva constatato che il suo stile era esattamente uguale a quello di un qualsiasi cadetto, si vedeva che combattere non gli piaceva e che lo faceva solo per obbligo. In tutte le altre discipline fisiche Uberto aveva notato la stessa cosa: non aveva particolari abilità, aveva semplicemente ricevuto un buon addestramento che metteva in pratica senza passione. Il Re aveva interesse nella cultura, certo, ma da quando in qua le guerre di conquista si vincevano a colpi di tomi polverosi? Uberto era francamente stupito dal fatto che il Re avesse tirato avanti così per undici anni, permettendo prima ad una popolana di diventare Regina, e poi perfino di ammettere plebaglia come lei al castello. Tutto ciò era inaudito. Quello che serviva era un nuovo sovrano, un nuovo ordine, e il popolo e le donne avrebbero ricordato come stare al proprio posto. Lui era nato per ricoprire quel ruolo, ma nessuno della sua famiglia lo aveva mai apprezzato: il suo fratello maggiore era destinato ad essere conte e ad ereditare gli onori e le ricchezze del titolo, e lui era stato lasciato in disparte, sempre. Ma era arrivato il momento della sua ascesa, ed era scritto nel futuro. Una profezia gliel’aveva confermato. Sarebbe diventato Re, avrebbe deposto Thomas e sua moglie. Aveva già deciso cosa fare e come farlo, e sarebbe stato un colpo da maestro.

***

Stefano cavalcava il suo purosangue nero nella brezza fresca dell’alba. Solitamente andava al galoppo veloce, ma quella volta era rallentato dalle pesanti bisacce e borse che contenevano i suoi averi e dal servo che lo seguiva. L’impossibilità di soddisfare il suo desiderio di velocità lo irritava, ma ad avere quell’effetto su di lui era anche l’impazienza di giungere al castello, da suo padre. Chissà se lo avrebbero già incoronato principe, arrivato al maniero.
 Suo padre gli aveva parlato della sua ambizione e il suo progetto gli era sembrato infallibile, tanto più che era stato confermato dalla profezia di una fata, perciò non vedeva l’ora che l’attuale famiglia reale fosse scacciata. Come Uberto, era ambizioso e fermamente convinto che i suoi meriti lo rendessero degno della corona. Grazie a lui un giorno sarebbe diventato Re, ed era grato a suo padre dell’opportunità che gli stava dando.
 Fu con trepidazione che attese l’apertura dei cancelli del castello, e dalla calma che vi regnava capì che ancora non era stato fatto nulla, come gli fu confermato anche da suo padre, poco dopo.
- Agiremo domani. E’ tutto pronto, e presto sarai principe.

***

Carabosse era pronta per andare a dormire. Quella giornata era stata carica di tensione: Stefano era venuto al castello su richiesta di Uberto, e la principessa aveva avuto l’impressione che fosse diventato ancora più tronfio di quando l’aveva conosciuto, e aveva il sospetto che non se ne sarebbe andato tanto presto.
 Cercando di lasciare fuori dalla sua mente quei pensieri tutt’altro che piacevoli, si accoccolò sotto le coperte del suo letto a baldacchino mentre le cameriere uscivano dopo aver spento le candele nella sua stanza ed aver fatto una riverenza. La principessa sprofondò subito nel sonno.
 Le sembrò che fossero passati sì e no cinque minuti quando un rumore la destò. Aprì gli occhi e non vide nient’altro che il buio: doveva essere notte fonda. Poi ricordò di aver sentito un lieve rumore di passi e stava per credere di esserselo immaginato quando una mano le tappò la bocca e un braccio pesante la buttò giù dal letto. Carabosse cercò di divincolarsi e urlare ma il suo aggressore le aveva già infilato un pezzo di stoffa in bocca e un cappuccio nero sugli occhi. Poi la principessa si sentì sollevare e trasportare, mentre cercava di bombardare di calci e pugni il rapitore. Tutto inutile: l’uomo aveva una presa ferrea e non le permetteva alcun movimento, ma pur avendolo capito, Carabosse non si arrese, e continuò così per tutto il tragitto, finché quell’uomo non la mise giù. Non sapeva dire quanta strada avessero percorso o quanto tempo fosse passato, ma poco prima che l’energumeno la mettesse giù aveva avvertito una sensazione di freddo, come se fossero usciti all’aria aperta. Il rapitore le tolse cappuccio e stoffa dalla bocca e, senza dire una parola, la lasciò dove l’aveva portata e se ne andò chiudendo una cigolante porta di legno con delle sbarre.
- Carabosse? – chiesero delle voci preoccupate.
La bambina riconobbe le voci dei suoi genitori, ma non riusciva a vederli. Era buoi pesto; in lontananza, da una finestra, riusciva a vedere il bagliore di una fiaccola, ma era troppo distante perché le permettesse di vedere qualcosa. Non riusciva neanche a capire dove l’avevano portata.
- Madre? Padre? – chiese lei.
- Sì, piccola, eccoci – rispose Thomas, e finalmente le sue mani trovarono Carabosse e la strinsero al suo petto. Elsa si unì all’abbraccio.
 Nonostante il buio fosse rimasto impenetrabile, a Carabosse sembrava che, ora che lei e la sua famiglia erano insieme, ci fosse un po’ più di luce.
- Ma che cosa succede? – chiese lei con un tono di pianto nella voce.
- Non lo so, ma se siamo insieme possiamo affrontare qualsiasi difficoltà – disse la Regina.
All’improvviso furono sbalzati all’indietro e sentirono di essere in movimento. Dunque erano su un carro, uno di quelli usati per il trasporto dei prigionieri. Thomas non aveva idea di cosa stesse succedendo, sapeva solo che era stato sorpreso nel cuore della notte da un gruppo di uomini dalla forza incredibile e dal passo felpato che avevano trascinato fin lì e in gran segreto lui e sua moglie. Avevano temuto che la stessa cosa potesse accadere a Carabosse e così era stato. A quel punto,  Thomas aveva solo una spiegazione: quello era un complotto. Non sapeva chi era stato né come, e nemmeno gli importava; in quel momento si chiedeva solo perché non erano stati uccisi subito e se per caso chi aveva organizzato tutto non avesse in mente qualcosa di più spietato, e in un angolo remoto della sua mente si chiedeva anche che cosa fosse successo alle sue guardie.
 E per ricevere una risposta, dovette attendere una lunghissima settimana. Una settimana che la famiglia reale passò quasi sempre rannicchiata in un angolo cercando di scaldarsi il più possibile con le poche coperte che avevano dato loro. I pasti erano poveri e a malapena sufficienti e avvenivano sempre in movimento. Ormai il sobbalzare doloroso del carro era diventato così familiare ai sovrani e alla principessa che non ci facevano quasi più caso. Il carrettiere prendeva sempre strade secondarie e impervie, che evitavano le città e i luoghi troppo esposti. Dopo circa cinque giorni il panorama che riuscivano a intravedere dalle sbarre della finestrella sulla porta era diventato montuoso, e ormai tutti e tre i prigionieri avevano intuito dove stessero andando. Speravano solo di sbagliarsi. Speravano davvero che la loro meta non fosse la Montagna Proibita.
 Il settimo giorno, finalmente, il carro si fermò e i due carrettieri andarono ad aprire la porta. I due uomini, completamente vestiti di nero e dalle facce truci, presero i tre prigionieri e li fecero uscire, dopodiché legarono a tutti le mani dietro la schiena, li fecero mettere in fila e diedero loro l’ordine di marciare. Uno dei due aguzzini apriva la fila, seguivano Thomas, Elsa e Carabosse, e l’altro carrettiere chiudeva la fila.
 La principessa era terrorizzata: ora che non poteva più contare sulla presa e sullo sguardo rassicurante dei genitori, come avrebbe fatto a camminare per ore sul terreno impervio della montagna, scalza e con addosso solo una vestaglia leggera? Era già indolenzita a causa del viaggio trascorso sempre rannicchiata nel carro, e presto l’aria cominciò a mancarle. Come avrebbe fatto ad arrivare in cima alla Montagna Proibita? Perché ormai era certa, era lì che stavano andando; se Carabosse alzava lo sguardo poteva vedere la sua figura stagliarsi contro il cielo… ma, che strano, in cima alla montagna sembrava esserci un castello. Non c’erano mai stati castelli là. Che utilità potevano mai avere? Chi era così pazzo da voler vivere lì? A meno che… a meno che quel castello non fosse per loro. Carabosse si sentì un po’ rincuorata a quel pensiero, ma poi riprecipitò nello sconforto quando si ricordò dov’era. A quale scopo poteva essere stato costruito un castello lì, per loro, se non per quello di deriderli?

*Angolo Autrice*
Salve a tutti, eccomi tornata con un nuovo capitolo di questa storia... come vedete il complotto è il tema centrale del capitolo, e infatti il titolo significa proprio "Il complotto". E' un po' più corto del precedente, perché inizialmente questo era la prima parte del prossimo capitolo, ma rendendomi conto che sarebbe stato troppo lungo l'ho dovuto dividere. Vi chiedo scusa per l'obbrobrio che ne è uscito, ma sono dovuta andare un po' di fretta con le correzioni perché ho un'ora sola al pc e i miei sembrano essersi messi d'accordo per farmi perdere tempo e pazienza... se non aggiorno stasera potrei non averne la possibilità per le prossime due settimane, quindi...
Comunque, sono un po' di fretta, ma vi darò lo stesso qualche anticipazione: Carabosse e la sua famiglia sono stati portati sulla Montagna Proibita, sì, ma la situazione non è poi così disperata come sembra... e qui Uberto ha menzionato anche una profezia. Non è una cosa originalissima, lo so, ma che ci posso fare... nel prossimo capitolo dunque conosceremo il testo di questa profezia e anche chi l'ha scritta (preparatevi, perché con le cose in rima sono una frana XD).
Ringrazio Dora93 aver recensito e messo fra le preferite questa storia, e naturalmente ringrazio tutti i lettori "silenziosi", se ci sono.
Scusate ma sono veramente di fretta. A presto (spero)!

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Capitolo 3
*** Alone in the Forbidden Mountain Castle ***


3. Alone in the Forbidden Mountain Castle

I piedi  avevano smesso di sanguinare da un po’ grazie alle fasciature che aveva fatto sua madre, ma Carabosse era comunque preoccupata. Per sua madre. Per curare sua figlia, se stessa e il marito, Elsa aveva strappato dei brandelli di stoffa dalla sua camicia da notte, accorciandola notevolmente, e ora tremava visibilmente dal freddo. Si erano stretti tutti e tre assieme in un abbraccio per cercare di scaldarsi un po’, ma senza grossi risultati.
Si trovavano nel castello in cima alla Montagna Proibita; i due uomini li avevano lasciati nel grande atrio vuoto senza una parola, nonostante i tentativi di Thomas di cavare loro qualche informazione, e ora erano tutti e tre rannicchiati in un angolo della sala di pietra scura e cupa. Sebbene Carabosse fosse abituata alle linee gotiche degli edifici, esse avevano un’aria molto più inquietante in quel contesto, considerati il grigiore e il vuoto che dominavano nel castello e il desolato panorama che si vedeva dalle finestre a sesto acuto. Faceva un gran freddo e tanto Elsa quanto Thomas non aveva neanche la forza di muoversi per esplorare il maniero. Entrambi erano sfiancati dalla marcia e dalla scarsità del cibo, che avevano per la maggior parte ceduto alla figlia, e non tardarono ad addormentarsi. La principessina invece non sapeva cosa fare, l’aiuto e il cibo che i genitori le avevano dato durante la salita verso la cima della Montagna Proibita le avevano fatto risparmiare energia, e in ogni caso non sarebbe riuscita a dormire, attanagliata com’era dalla paura: tutte le fobie che aveva avuto in precedenza – quella del buio, degli Orchi o quella degli insetti – erano niente se paragonate alla paura di non farcela, di non sopravvivere fino al giorno successivo. Così addormentati i suoi stessi genitori sembravano morti, nonostante l’impercettibile rumore dei loro respiri, e lei non ce la faceva proprio a star loro vicino. Oltretutto stare sdraiata sulla nuda pietra avrebbe solo contribuito a farle sentire di più il freddo: doveva muoversi per riscaldarsi un po’ e allontanare almeno momentaneamente le preoccupazioni, perciò si mise cautamente in piedi. Le piccole ferite ai piedi le davano delle fitte ma il dolore era sopportabile, in più il bendaggio improvvisato impediva ai suoi piedi di congelare a contatto con la pietra scura. Per fortuna dalle finestre non entravano spifferi. Non aveva però idea di cosa fare per riscaldarsi: di girare in tondo per la stanza, come una pazza, con i suoi genitori lì sdraiati come cadaveri non le andava proprio… il suo sguardo si posò sull’enorme scalone che si diramava in due gradinate, una delle quali andava a destra e l’altra a sinistra, e la tentazione di andare in esplorazione fu grande. L’ignoto la spaventava, ma suo padre era solito ripeterle che il modo migliore per superare le proprie paure era affrontarle, e in fondo era una bambina molto curiosa. Ogni nuovo “mistero” era una sfida, il richiamo dell’esplorazione era più forte della paura, e alla fine Carabosse cedette. Salì piano le scale, senza produrre alcun rumore, come uno spettro, e mano a mano che andava avanti riusciva a scorgere qualche dettaglio  in più del castello. Arrivata al bivio, prese la scala di sinistra. Continuò a salire impavida, finché sbucò in un corridoio infinito disseminato di inquietanti armature lucide e pesanti. Vincendo la sensazione di essere osservata, la principessa proseguì lentamente ed ebbe percorso appena un paio di metri quando alle armature cominciarono ad alternarsi porte di quercia. Carabosse ne aprì una col cuore in gola, come se sapesse già che dentro avrebbe trovato ad attenderla qualcosa di spaventoso, ma quando entrò provò la prima vera sensazione positiva da quando era stata portata a forza su quel carro. Quella stanza era una biblioteca: era enorme, immensa; forse un po’ inquietante a causa dei gargoyle di pietra che sembravano stare per spiccare il volo dai capitelli delle colonne che sostenevano i numerosi archi, ma anche uno spettacolo rassicurante grazie agli innumerevoli scaffali in quercia ricolmi di tomi antichi e preziosi che dovevano valere una fortuna. C’erano anche un ampio tavolo e panche intorno ad esso e, affissa ad una parete, una carta geografica di tutti i regni delle Terre d’Oltreoceano incredibilmente vasta e dettagliata.
Appese qua e là sulle pareti c’erano delle torce accese, a distanza di sicurezza dai libri, e nel grande camino si sarebbe potuto accendere un fuoco, dato che c’era un cumulo di legna che aspettava solo di prendere fuoco. Carabosse decise a malincuore di andare avanti nella sua esplorazione e, dopo aver gettato un’ultima occhiata alla biblioteca, passò di porta in porta, scoprendo stanze più piccole con collezioni di vario genere. Una in particolare attirò la sua attenzione, perché conteneva il più vasto assortimento di armi e strumenti bellici che avesse mai visto in vita sua. Ciò che le interessava, comunque, erano le camere da letto, dove forse avrebbe trovato qualcosa con cui riscaldarsi, e lì non sembravano esserci, perciò decise di cambiare ala da esplorare. Ritornò indietro, allo scalone nell’atrio, e stavolta prese la gradinata di destra che la portò proprio dove voleva arrivare. Trovò varie camere da letto e si scelse quella che le piaceva di più, con un letto singolo dal baldacchino sontuoso. Vi entrava più luce che nelle altre stanze, e fu quello il motivo della sua scelta. Il camino sembrava la bocca di un enorme mostro ma ormai Carabosse non aveva più paura di quelle idiozie. La principessa aprì le ante dell’armadio, speranzosa, e trovò dei vestiti, tutti sulle tonalità del grigio ma molto caldi. Senza perdere troppo tempo ne infilò uno tenendo la camicia da notte come sottoveste, poi prese tutte le coperte che erano ripiegate sul fondo dell’armadio e si precipitò giù dai genitori. Stavano ancora dormendo, così scaricò le coperte a terra e li scosse energicamente. La prima a svegliarsi fu Elsa, seguita subito dopo dal marito. Erano ancora intontiti dal sonno e più infreddoliti di prima.
- Madre, padre, svegliatevi, guardate! – esclamò. Visto che i suoi genitori sembravano non stare capendo nulla, li avvolse lei con le coperte calde che aveva trovato.
- Carabosse, ma dove le hai trovate?  – fu la stupita domanda di suo padre.
- Sono andata in esplorazione. C’è un’infinità di camere, ci sono delle torce accese, legna nel caminetto, coperte, letti, vestiti, perfino libri! La situazione non è così disperata!
- Cosa? Tu sei andata in giro per il castello da sola?! Ti rendi conto che potevi farti male, potevi perderti, poteva succederti qualsiasi cosa? E…
Carabosse interruppe sua madre afferrandola per mano e invitando lei e suo padre a seguirla, a vedere cosa aveva scoperto. Li trascinò in giro per il castello, così i suoi genitori poterono vedere tutto con i loro occhi, e non se la sentirono più di rimproverare la piccola, anzi.
Si coprirono subito con indumenti caldi e utilizzarono quel che restava della camicia da notte di Elsa per fasciarsi ulteriormente i piedi, a mo’ di scarpe, decisero poi di fare economia spegnendo le torce nella maggior parte delle stanze e accendendone alcune nei corridoi. Dopodiché ne presero una per ciascuno ed andarono alla ricerca delle cucine, dove forse avrebbero trovato qualcosa da mangiare, tanto miracolosamente quanto avevano trovato tutto il resto. Il Re non sapeva ancora se quel castello fosse l’opera di un amico o di un nemico, c’erano troppe cose che non si spiegavano. Più di ogni altra cosa voleva sapere chi era l’artefice del complotto, chi poteva aver fatto una cosa simile. Guardò sua moglie e sua figlia e si sentì invadere dalla rabbia. Era lui il Re, era lui quello da eliminare per salire al trono, che senso aveva prendersela con una donna e una bambina? Quali problemi avrebbero mai potuto dare ad un usurpatore?
Con la mano libera cercò quella di Elsa, che si voltò verso di lui. Aveva uno sguardo incerto: come lui, non sapeva se sperare o meno. Tuttavia avvertì la tristezza e la rabbia di suo marito e per consolarlo si aprì in un debole sorriso e strinse la sua mano, poi entrambi guardarono la figura della loro bambina che avanzava sicura davanti a loro, la loro bambina che aveva una forza interiore pari solo all’amore che i suoi genitori nutrivano per lei.
Quel giorno la loro bambina era diventata grande.

***

- Dunque sarò Re? Anche se non appartengo alla famiglia reale? Anche se il Re e la Regina hanno già un figlio maschio?
La sorpresa, la gioia, l’ambizione nella voce di Uberto sono ben riconoscibili. I suoi sogni più grandi, le sue ambizioni più segrete e oscure potrebbero diventare realtà, se la profezia non sbaglia. Diventeranno realtà, perché non c’è profezia al mondo che non si avveri. 
- Voi sarete Re, ma…
- Ma cosa? Cosa devo fare per diventarlo?
La fata chiude gli occhi. E’ consapevole del fatto che si pentirà sempre di quello che sta dicendo, ma non può tirarsi indietro.
- E’ ancora lontano il momento in cui potrete sedere sul trono, dovranno passare anni prima che ciò accada. Voi non otterrete la corona con onore, la prenderete con l’inganno e col tradimento. Non ucciderete coloro ai quali essa appartiene di diritto, non verserete sangue. Se lo farete, il vostro regno sarà maledetto, e quel sangue ricadrà su voi e vi condurrà alla pazzia.
Uberto lo sa già questo. L’inganno è sempre stato il suo mezzo migliore. Lui non ha onore.
- Cosa dovrò fare allora? Se ruberò il trono al principe Thomas vorrà sempre vendicarsi, ucciderlo è l’unica soluzione.
- Voi non ucciderete! – l’urlo della fata riecheggia sulle pareti di pietra. – Non sarà il principe il vostro nemico! La sua discendenza, la discendenza del Drago costituirà sempre un pericolo per la vostra famiglia, e non c’è modo di evitarlo!
Céibhionn aprì gli occhi scacciando i ricordi. Arrotolò la pergamena che aveva in mano e la ripose insieme alle altre nella raccolta delle profezie. Era da molto tempo che non aveva premonizioni, cosa che apprezzava enormemente. Il fardello di essere la maggiore fra le sette fate, di fare da tramite fra il presente e il futuro, di essere a conoscenza di segreti che non potevano essere rivelati a nessun altro si faceva più pesante giorno per giorno: ben triste prospettiva, dal momento che aveva l’eternità davanti a sé.
Aveva appena riletto la sua ultima profezia, quella che le aveva causato il flashback, che risaliva a undici anni prima. Riguardava la successione al trono. Tempi bui erano in arrivo: il felice regno di Re Thomas era ormai finito e stava lasciando posto a quello di Uberto, il cavaliere traditore, troppo simile ai tirannici genitori del Re spodestato. La maggiore delle fate sospirò. Uberto aveva già provveduto tempo addietro a ingraziarsi le sue sorelle con ricchi doni, che esse avevano apprezzato maggiormente sapendo che era tutto ciò che il cavaliere aveva. I gioielli che tutte e sette avevano ricevuto erano di squisita fattura e sei di loro si erano subito dichiarate grate al cavaliere e disposte ad aiutarlo per qualunque cosa avesse avuto bisogno. Lei, la settima, aveva fatto lo stesso perché sapeva che quello era ciò che riservava il futuro, anche se a malincuore. Conoscere il futuro non voleva dire combatterlo; più e più volte aveva visto persone infelici cercare disperatamente di evitare che le profezie si avverassero e cadere vittime delle stesse precauzioni. Era proprio quello che era successo a lei.
Cèibhionn era tenuta a rispettare l’ordine delle cose, anche se ciò voleva dire andare contro le sue stesse idee, i suoi stessi sentimenti. Come la simpatia e la pietà per quella povera bambina, la principessa Carabosse. Le altre sei fate sapevano cosa Uberto aveva fatto per sbarazzarsi della famiglia reale ma non se ne curavano: ormai erano dalla sua parte. Le fate erano così: a ingraziarsele bastavano gioielli, oro, doni rari e ricercati, e rispetto.
Un profumo di brezza marina annunciò a Céibhionn l’arrivo nella stanza di Niamh, la minore delle sue sorelle.
- Ti disturbo, Céibhionn?
La fata si girò verso di lei. – Interrompi dei pensieri, Niamh.
La nuova arrivata non sembrò preoccuparsene. Probabilmente le era già capitato molte volte.
- Sei stata tu, vero? – chiese senza preamboli, sapendo che lei avrebbe capito.
 E infatti la domanda di Niamh non stupì Céibhionn. Lei sapeva molte più cose rispetto alle sue sorelle maggiori, era molto attiva e si curava più di tutte di ciò che accadeva nel mondo fuori dal loro palazzo, ed era anche molto intelligente.
- Sì, sono stata io.
Era stata lei, Cèibhionn, a trasformare il freddo castello di pietra che Uberto aveva fatto costruire per l’esilio della famiglia reale in un qualcosa di più simile ad una casa in cui vivere.
- Perché l’hai fatto? Gli accordi erano diversi.
- Sì, gli accordi erano diversi. Ma da quando, Niamh, noi fate dobbiamo sottostare ai voleri di un semplice essere umano? Lui ci ha mostrato rispetto e noi abbiamo deciso di aiutarlo, ma tu sai che io devo obbedire a forze più grandi di noi. Ciò che ho fatto era esattamente ciò che dovevo fare. Io non devo rendere conto né a te né tantomeno a Uberto delle mie azioni. Ora va’, e se qualcun’altra avrà delle obiezioni da fare, riferisci tu le mie parole, io non voglio essere disturbata.
Niamh annuì, non prima di averle gettato un’occhiata di amaro disprezzo,  poi la sua figura sfumò in un guizzo di bollicine e, fra l’aroma delle brezza marina, svanì.


*Angolo Autrice*
Salve a tutti, rieccomi qui con un nuovo noiosissimo capitolo. In mia discolpa posso dire che era parte dello scorso capitolo che ho dovuto necessariamente tagliare e per questo qui non succede praticamente nulla di interessante, eccezion fatta per l'entrata in scena delle fate (o almeno spero che sia stata interessante). Probabilmente quando avrete letto del fatto che nel castello c'erano: biblioteca, vestiti, coperte, torce e quant'altro avrete pensato che io sia rimasta completamente priva di buonsenso, ma spero che si sia capito dopo che era stata Céibhionn a fornire il castello di tutte quelle cose. A proposito di Céibhionn voglio spendere due paroline: quando ho concepito l'dea del suo personaggio ho pensato a lei come un personaggio odioso e detestabile; ora, non so quale impressione abbia dato a voi, ma io posso dire di aver fallito miseramente su quel fronte nel momento in cui ho concepito anche la sua storia. Mi sa che qui quella davvero antipatica è Niamh, eh?
E parlando della profezia, la scorsa volta vi avevo già detto che io e le composizioni in versi non andiamo molto d'accordo, perciò dopo aver fatto un paio di tentativi disastrosi ho lasciato perdere e ho inserito la profezia con la parte in corsivo, che mi pare molto meglio. Magari alla fine di questa storia vi pubblicherò quello che ero riuscita a fare così potrete deridermi pubblicamente.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e/o messo fra le preferite/seguite/ricordate questa storia, e ringrazio anche Dora93 per aver recensito.
Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Long live the new King ***


4. Long live the new King

Gli ambasciatori degli Orchi erano inginocchiati e imprigionati dalle gogne allestite su un carro condotto lentamente per le vie della città, e lo sarebbero stati per altri tre giorni, sorvegliati dalle guardie mentre la gente li bersagliava con frutta marcia e altri cibi andati a male. Quegli esseri erano decisamente impopolari, tanto più adesso che avevano commesso tre orrendi omicidi, quelli del Re, della Regina e della principessina, senza contare quelli delle loro guardie.
Uberto rise della stupidità abissale della povera gente. Quella mattina tutto il castello era già in suo possesso, e nessuno ne sapeva niente. Dopo aver ricevuto la notizia che il rapimento era andato a buon fine, nel cuore della notte, si era seduto sul trono e aveva fatto portare al suo cospetto tutti i più influenti uomini di corte perché riconoscessero la sua autorità.  Gli insoddisfatti del governo di Re Thomas gli avevano subito giurato fedeltà, mentre coloro che si erano rifiutati di farlo erano stati passati a fil di spada, e così ora a corte tutti quelli che contavano erano ormai dalla sua parte. All’alba aveva quindi fatto diffondere dai suoi uomini la notizia che il Re, la Regina e la principessa insieme alle loro guardie e ad alcuni nobiluomini erano stati brutalmente uccisi dagli Orchi, e dal momento che ormai il castello era sotto il suo comando chi avrebbe potuto mettere in dubbio quella notizia, una volta diffusa in città?  Tutto il popolo ci aveva creduto, e gli Orchi, ignari di tutto, erano stati prelevati dalle loro stanze nelle, legati e gettati in una cella senza sapere perché.
I funerali dei sovrani si erano svolti quel giorno stesso, organizzati da Uberto. La città e il castello erano stati bardati a lutto con una velocità impressionante, e i funerali si erano tenuti in Piazza del Popolo, alla presenza di nobili e gente comune, in pompa magna. Uberto era in prima fila, vestito completamente di nero e con uno sguardo straziato mentre dentro di sé gioiva, col figlio accanto. Fino a quel momento aveva fatto un ottimo lavoro, ma il vero colpo da maestro era quello che stava per mettere a segno: lui era ufficiosamente il Re ora, perché aveva conquistato con la forza il favore dei nobili, ma adesso avrebbe conquistato senza sforzo alcuno il favore del popolo e sarebbe stato esso stesso a volerlo come nuovo sovrano. Aveva fatto portare nella piazza anche il carro con gli Orchi, che stavano lì, indolenziti e umiliati ancora senza sapere nulla. La gente aveva sfogato il suo rancore e ancora aveva voglia di farlo, ma adesso era giunto il momento del suo discorso. A funerale terminato, andò al centro della piazza, sul palco sopraelevato sul quale si erano svolti i riti funebri. Tutti bisbigliavano, mormoravano, inveivano contro gli Orchi presenti, ma ad un suo cenno ammutolirono.
- Amatissimi sudditi di un Re altrettanto amato e compianto, – esordì Uberto – vi ho visti, vi vedo oggi afflitti e pieni di rancore per la morte di un sovrano giusto e grande, che ha sempre messo il benessere del suo popolo prima di ogni altra cosa. Questo triste giorno sarebbe dovuto venire fra molti e lunghi anni, e gli dei mi siano testimoni del fatto che avrei preferito essere morto piuttosto che assistervi.
- Eppure siamo qui, col cuore gonfio di tristezza e amarezza, e non a causa dell’ineluttabilità della vecchiaia o della malattia, ma a causa di mostri orribili, che hanno assassinato a sangue freddo non solo una donna e una bambina innocenti, ma soprattutto un uomo che aveva mostrato loro compassione, che li aveva accolti nel suo castello e li aveva trattati come amici!
 La tensione crescente della folla esplose in un boato indirizzato verso gli Orchi che si agitavano invano, immobilizzati. Uberto alzò le mani e riportò la calma.
- E’ giusto il grido che sento levarsi da voi, che si leva dal mio stesso cuore, e che chiede giustizia. E giustizia sarà fatta! Fra tre giorni, durante i quali rimarranno alla gogna, questi indegni esseri verranno decapitati qui nella Piazza del Popolo, alla presenza di tutti. Ma ora dobbiamo piangere i nostri amati sovrani e rispettare quelle che sono certo sarebbero state le loro ultime volontà: oggi verranno distribuiti cibo e denaro ad ogni suddito, come Re Thomas, la sua anima riposi in pace, avrebbe sicuramente voluto. – Uberto fece una pausa per godersi l’effetto che le sue parole stavano facendo alla folla. Poi riprese – Ma  c’è ancora un’altra cosa di cui dovete essere informati. Il Re aveva riposto molta fiducia nella mia persona, e dal momento che sia la Regina che la principessa sono morte ed il trono è vuoto, toccherebbe a me occuparlo. Riconosco tuttavia che questa è una responsabilità troppo grande, nel Regno ci sono molti altri nobiluomini più meritevoli di me, e io non so se sarei all’altezza di questo ruolo. In ogni caso il Re amava il suo popolo più di ogni altra cosa, perciò lascio la scelta a voi. Io vi chiedo: è vostro volere che io salga al trono? Posso succedere all’amato Re Thomas con il consenso degli dei e del popolo?
Grida ed applausi favorevoli si levarono frastornanti dalla folla, conquistata dal discorso del cavaliere.
Ormai era fatta.

***

La cerimonia dell’incoronazione si tenne tre giorni dopo. Uberto fu incoronato nella Sala del Trono alla presenza degli uomini a lui fedeli e dei nobili più potenti del Regno, che gli offrirono fedeltà e doni, certi che lui avrebbe saputo ben ripagarli, in futuro. Dopo la cerimonia il nuovo Re fu scortato insieme alla sua corte nella Piazza del Popolo, dove era stato allestito un palco per l’esecuzione degli Orchi. Uberto fu prima acclamato dalla folla, ancora più numerosa di quella accorsa al funerale, e poi tenne un breve discorso che infiammò ancora di più gli animi. A quel punto, ordinò che i mostri fossero giustiziati, e il boia li decapitò uno dopo l’altro con una rozza ascia da boscaiolo che rese quella morte estremamente dolorosa.
Poi, in tutte le città del regno, fu nuovamente distribuito del cibo al popolo perché festeggiasse l’incoronazione del nuovo Re, mentre al castello Uberto e i suoi ospiti parteciparono a festeggiamenti in grande stile che si tennero in quello stesso giardino dove si era celebrata la pace con gli Orchi. Uberto aveva anche voluto adottare un nuovo stemma reale: un leone accovacciato pronto a balzare, con una corona sul capo e sullo sfondo una torre in rovina. Il nuovo stemma reale era stato cucito con molta cura su tutte le bandiere, e ora sventolava sulla torre più alta del castello.
Aveva così inizio il regno di Uberto, con la protezione delle sette fate, e il fatto che il primo gesto del nuovo Re fosse stato l’ordine di una decapitazione avrebbe dovuto far intuire a molti che regno sarebbe stato.

***

Era passata a stento una settimana dal giorno dell’incoronazione, che già Uberto annunciò la sua partenza. Aveva lasciato come reggente suo figlio Stefano – ovviamente con l’aiuto del suo fidato nano Marbetto – ed era partito con il seguito di dieci uomini armati verso la Montagna Proibita. A fare visita agli esiliati. Il viaggio era durato giorni attraverso le montagne ripide e pericolose, sulle quali gli animali che le popolavano erano gli unici sovrani, e alla fine erano giunti davanti al portone del castello.
Una guardia del Re scese da cavallo e bussò forte all’imponente portone e, dopo un po’ di tempo, Thomas riuscì ad aprire uno dei pesanti battenti di quercia. Dietro di lui, si vedevano le figure di Elsa e Carabosse, tutte vestite con pesanti abiti di lana grigia. Uberto non ci fece caso, ma dall’alto del cavallo si rivolse all’ormai deposto Re e alla sua faccia felice.
- Uberto, finalmente ci avete trovati! – esclamò ingenuamente.
Il nuovo Re si limitò a smontare da cavallo e a chiedere di poter entrare. Thomas, confuso, lo accompagnò all’interno, senza chiudere il portone, e lo condusse alla presenza delle due donne. Aveva notato il vestito nero ma molto ricco di quello che credeva ancora il suo cavaliere e anche la corona, e non se li spiegava.
Indicandoli, chiese:- Uberto, cosa…?
- Sono successe molte cose dalla vostra scomparsa, Vostra Maestà – iniziò lui con tono grave.
- Come ci avete trovati?
- Molto semplice: io sapevo dove eravate diretti, io sapevo tutto. Sono stato io ad organizzare il vostro rapimento e a far costruire questo castello.
- Cosa? Siete forse impazzito? – Thomas non riusciva a crederci, ma Elsa e Carabosse sì. Erano sempre state molto più diffidenti di lui nei suoi confronti.
Io credevo che voi lo foste, quando avete preso in moglie la figlia di un mugnaio, quando avete tolto privilegi ai nobili, quando avete avvantaggiato la plebe, quando avete stretto un’alleanza con gli Orchi! Eppure eravate stato consigliato dai vostri lord di fare diversamente, e adesso potete vedere le conseguenze delle vostre scelte sconsiderate, adesso che gli Orchi hanno assassinato voi e la vostra famiglia.
- Assassinato? Cosa diamine volete dire, Uberto?
- Una settimana fa sono stato incoronato Re per volere del popolo perché la famiglia reale era stata assassinata brutalmente dagli Orchi, Orchi che ho provveduto a far giustiziare. Sapete, la povera gente è talmente credulona…
- Voi! Voi siete un bugiardo traditore! – ruggì Thomas in preda alla furia.
- Ne sono consapevole, ma non potevo lasciare che qualcuno di così indegno regnasse mentre io, che avevo tutte le qualità di un vero sovrano, restavo in disparte... Ad ogni modo dovreste ringraziarmi: non vi ho uccisi né ho intenzione di farlo, vi ho solamente esiliati.
- E possiamo sapere a cosa dobbiamo la vostra magnanimità? – disse sarcastica Elsa, che nel frattempo si era avvicinata al marito.
- Diciamo che… una fatina buona mi ha convinto a lasciarvi vivere, vi basti questo. Quel che importa, mio caro Thomas, è che ora io ho il trono che mi merito, e voi avete l’indigenza a cui eravate così affezionato e a cui siete sicuramente più adatto, viste le attenzioni che riservavate alla plebe. E ora, se volete scusarmi, ho un castello a cui devo fare ritorno.
 Detto questo lanciò loro un’ultima occhiata trionfante, poi voltò loro le spalle e in pochi passi uscì dal castello, rimontò in sella al suo destriero e accompagnato dalla sua scorta si allontanò rapidamente da quel luogo.

***

Carabosse dormiva nella sua stanza. Era rimasta molto tempo a rimuginare su quello che aveva detto Uberto; era scioccata dalle motivazioni che lo avevano spinto a relegarli sulla Montagna Proibita. Non pensava che si potessero odiare a tal punto le persone solo perché non si comportavano esattamente come gli altri volevano, perché le loro origini non erano nobili e perché erano buone con chi era meno fortunato di loro. Quell’individuo era più marcio di quanto pensasse.
Anche Elsa e Thomas erano a letto, ma non riuscivano a dormire. Ognuno dei due si riteneva responsabile di ciò che era capitato: Elsa malediceva le proprie umili origini, Thomas la sua ingenuità e poca accortezza.  
Ad un tratto, il loro grave silenzio fu rotto da Thomas.
- Devo andare a parlare con il capotribù degli Orchi – disse voltandosi verso sua moglie. Lei si tirò immediatamente su  e lo guardò come se avesse perso il senno.
- Cosa?! No, non puoi farlo!
- Elsa, è l’unica possibilità che ci è rimasta per riportare le cose com’erano. Avevamo un patto, mi aveva promesso aiuto. Loro sono vittime tanto quanto noi, ci aiuteranno.
- Thomas, pensaci bene, loro hanno stipulato un accordo con te solo perché eri un Re che poteva annientarli in guerra, ti vedevano come una minaccia troppo grande da affrontare. Ora non hai più una corona o un esercito che possa far loro paura…
- Non c’è bisogno di ricordarmi che sono una nullità, Elsa – ribattè suo marito, ferito, distogliendo lo sguardo da lei.
Lei si rese conto di avergli fatto del male con le sue parole e, addolcita, gli si avvicino e lo abbracciò, stendendosi con la testa sul suo petto.
- Amore, non intendevo dire questo. Tu sei il Re perché lo sei fin dalla nascita, e soprattutto perché hai una nobiltà d’animo che nessuno avrà mai. Non hai bisogno di una corona per essere re, ma non puoi aspettarti che gli Orchi la pensino allo stesso modo. Sono creature ottuse e violente, e potrebbero essere più interessati a fare un favore ad Uberto che a rispettare un patto con te. Io voglio solo che tu stia attento.
- Lo sarò. Ma ti prometto che ci tirerò fuori da questa situazione; lo devo non solo a te, ma anche al mio popolo, non posso lasciarlo nelle mani di quel traditore, e soprattutto lo devo a nostra figlia.
- Ne sei proprio sicuro? Non c’è modo di farti cambiare idea?
- No, amore mio. Dormi ora – e con un bacio le diede la buonanotte.

Il mattino dopo Elsa si svegliò con gli stessi pensieri cupi con cui si era addormentata, angosciata ancora di più dagli incubi che aveva avuto per tutta la notte. Incubi in cui vedeva suo marito soffrire a causa di quei mostri, in cui lo uccidevano, lo portavano via da lei. Stava sognando che gli Orchi torturavano anche sua figlia quando si era svegliata. Doveva mancare poco all’alba.
 Nella penombra della stanza vide Thomas che si stava vestendo. Era dimagrito moltissimo e la sua pelle era troppo bianca. Sapeva di non essere in condizioni migliori, ma fra i due quella più abituata a sopportare patimenti e privazioni era proprio lei. Era assurdo, ma Elsa sentiva il bisogno di proteggere il marito da nemici oscuri e invisibili, quando sapeva che in realtà non poteva fare nulla.
Thomas finì di prepararsi e solo quando si voltò verso il letto ai accorse che sua moglie era già sveglia.
- Stai per partire – gli disse lei. Non era una domanda.
- Sì. Da qui alla caverna del capotribù degli Orchi ci sono molti giorni di cammino. Devo fare il più in fretta possibile.
- Ma sei troppo debole… aspetta almeno di rimetterti in forze, ti prego.
- Sono abbastanza in forze per questo. Non ti devi preoccupare, andrà tutto bene, ma ora devo andare.
- Allora promettimi che tornerai presto da me, mio Re – gli disse lei disperata, sull’orlo delle lacrime.
- Te lo prometto.


*Angolo Autrice*
Salve! So che vi starete meravigliando per un aggiornamento così veloce per i miei standard, ma sentivo il bisogno di festeggiare visto che ormai per me la scuola è finita e, non ce la faccio a non dirlo, all'ultimo compito di letteratura sono riuscita a prendere un bel 10!!! Lo so che non ve ne può fregare di meno, ma sopportatemi, vi prego!
Comunque non credo che questo capitolo sia un granché, ma le cose si stanno evolvendo... Uberto ha realizzato il suo piano e ora Thomas vuole addirittura andare da solo a parlare con il capotribù degli Orchi... beh, a qualcuno di voi l'avevo detto di non affezionarsi troppo alla bella famigliola felice, no? *risata malefica*
Non so esattamente quando riuscirò ad aggiornare di nuovo, forse il prossimo sabato. In ogni caso adesso avrò molto più tempo perché non ho più la zavorra della scuola e forse
riuscirò perfino a combinare qualcosa con l'altra mia storia, Lady and the Tramp in Storybrooke.
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito fra le ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e Dora93 e  capibaras93 per aver recensito.
Bene, ora vi saluto, e buon 2 giugno a tutti!


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Capitolo 5
*** I'll come back ***


                    5. I’ll come back

- Aspetta qui – grugnì minaccioso l’orco che Thomas aveva davanti, senza togliergli gli occhi di dosso.
Dopo aver viaggiato a piedi per una settimana fra le montagne inospitali, il Re era arrivato all’entrata del complesso di caverne sotterranee in cui gli orchi vivevano, con gli arti doloranti ma con la speranza intatta. L’accoglienza che gli era stata riservata, tuttavia, era stata ben diversa da quella dell’ultima volta che si era recato lì: allora Thomas veniva in veste di Re e la sua spada, la sua corona, la sua armatura imponente nonché il suo esercito incutevano un certo timore negli orchi; ora era coperto di stracci, debole, affaticato e soprattutto solo, ed era subito stato declassato ai loro occhi. Adesso era davanti alla caverna del capotribù, una creatura enorme, violenta e forte, e con un’intelligenza poco al di sopra della media dei suoi simili, ad attendere di essere ammesso alla sua presenza.
Pochi momenti dopo la guardia che era andata ad informare il capotribù della visita di Thomas ritornò nel corridoio dove lui attendeva.
- Puoi entrare – gli disse la guardia, senza abbandonare il suo fare guardingo, mettendo bene in mostra la sua grossa ascia.
Thomas entrò lentamente e avanzò verso l’orco seduto su un trono sbozzato nella roccia in fondo alla caverna; giunto davanti a lui si inginocchiò in segno di rispetto, abbassando il capo, sebbene odiasse esporsi in quel modo agli orchi, a maggior ragione adesso che era così indifeso.
- Cosa vuoi, Re-senza-corona? – chiese subito il capotribù con una voce bassa e roca che somigliava molto al verso di un animale.
- Sono qui per chiedere il vostro aiuto – disse Thomas alzando subito la testa e mostrandosi sicuro di sé e perfettamente a suo agio. Non doveva mostrare la minima esitazione e doveva fare appello a tutta la sua capacità oratoria se voleva avere successo: non che gli orchi badassero alla formalità della lingua, ma una singola parola sbagliata avrebbe potuto metterlo in guai seri. – Mi vedete qui senza corona, coperto di stracci, a causa di un traditore che con l’inganno ha fatto credere al mio popolo che fossi morto, mentre in realtà ero stato rapito, e che ha incolpato i vostri ambasciatori del crimine e li ha fatti uccidere. Ora quel traditore si è proclamato Re e non ha intenzione di rispettare l’alleanza che io ho stretto con voi. Vi chiedo dunque, in virtù di quel patto che abbiamo stipulato e nell’interesse di entrambi, di fornirmi gli aiuti necessari a destituirlo e a riprendermi il mio trono, Grande Capo.
 Il capotribù non si scompose molto, ma dopo qualche attimo di pausa rispose lentamente, trovando difficile parlare nella lingua di Thomas.
- Tue parole spiegano molte cose, Re-senza-corona, come queste.
Ad un segno dell’orco, la guardia che gli stava accanto sparì per un attimo in un pertugio dietro al trono di roccia, per ritornare subito dopo, esibendo tre teste di orco in putrefazione. Grazie al cielo, Thomas aveva un temperamento forte e non aveva mangiato quasi nulla durante il viaggio, altrimenti era sicuro che avrebbe dato di stomaco.
- Queste sono teste di ambasciatori partiti con te per tuo regno. Loro sono state mandate da parte di nuovo Re Uberto, e non sapevamo perché. Altri capitribù in tempi antichi scatenavano sanguinarie guerre per questi affronti, ma noi orchi non siamo più forti come in tempi di quei capitribù. Non possiamo fare guerra. Se il Re Uberto decide di combattere noi, noi siamo estinti. Non posso aiutare te.
- Ma… avete stretto un’alleanza con me, mi avevate promesso…
- Io ho promesso con un Re, non con te. Tu Re-senza-corona-e-senza-regno, e Re senza regno è niente.
Thomas strinse i pugni, cercando di mantenere la calma. – Cercate di capire. Se mi aiuterete ora, saprò ben ricompensarvi. Vi supporterò in qualunque guerra, vi aiuterò in caso di carestia, vi ospiterò nel mio regno se ne doveste avere bisogno…
- Tu non puoi promettere, potere non è in tue mani. Orchi sono pochi e non posso mandarli a morire con te – e così dicendo fece un cenno alle guardie che erano alle spalle di Thomas, che si inquietò – ma se noi consegniamo tua testa a nuovo Re Uberto, forse lui risparmierà noi. Mi dispiace, Re-senza-corona, tu devi morire per salvare noi.
A quelle parole le guardie, avvicinatesi a Thomas, alzarono le loro asce, pronte a colpire. L’uomo però, reso agile dalla sua magrezza, si alzò repentinamente e con un balzo arrivò di fianco al capotribù,  puntandogli al collo il pugnale che aveva tenuto nascosto sotto i suoi stracci e che era riuscito miracolosamente a salvare dai controlli all’ingresso.
- State indietro o lo ammazzo – minacciò le guardie, e per dare più enfasi alle sue parole premette la lama contro la carne del mostro, graffiandolo e facendo colare un rivolo di sangue nero – e non chiamate nessuno. Alzatevi e venite con me – disse poi al capotribù, che a fatica si alzò. Minacciato da Thomas avanzò con lui fino all’uscita della caverna, senza mai dare le spalle alle guardie. Una volta fuori, Thomas spostò velocemente il pugnale dal collo al fianco dell’orco e gli sussurrò:- State calmo e fate finta di niente, e arriveremo alla fine di questa storia sani e salvi tutti e due.
L’orco annuì e prese ad avanzare calmo fra i cunicoli sotterranei mentre Thomas, seminascosto dietro di lui e col pugnale ben saldo fra le mani, gli ordinava a mezza voce la direzione da prendere. Aveva un buon senso dell’orientamento e ricordava la strada fatta per giungere sino a lì; bastava ripercorrerla al contrario. Durante il tragitto incontrarono altri orchi che si battevano il petto al passaggio del loro capo, ma che non sembravano sospettare nulla vedendo anche Thomas al suo fianco. Stava andando tutto liscio, e il Re osava sperare che sarebbe riuscito a tornare dalla sua famiglia completamente illeso. Ormai insieme all’ostaggio aveva risalito tutta la galleria ed era arrivato nel primo, spazioso cunicolo, quello che dava all’esterno. All’uscita mancavano solo due o tre metri, ed era sorvegliata da due imponenti guardie. Poco prima di essa c’era quella che doveva essere una locanda, dove i pochi orchi che esercitavano la professione di mercante si fermavano per un bicchiere prima di partire per i loro viaggi o prima di tornare alle loro caverne, e fuori da essa era radunata una piccola folla di orchi con le loro merci. Quando videro avanzare il capotribù gli corsero incontro per poi prodigarsi in dimostrazioni di rispetto, forse per convincere lui e Thomas ad acquistare qualcosa da loro.
Ad un tratto, dal fondo del tunnel di pietra che avevano appena risalito, si sentì crescere il suono di un potente corno da guerra: le guardie avevano dato l’allarme.
Maledizione! Proprio ora!,  pensò Thomas, vedendo le guardie iniziare a richiudere l’unica uscita, compito non semplice in quanto dovevano, in due, far rotolare il masso più grande e più pesante mai visto davanti al buco che costituiva il suo passaporto per la salvezza . Vedendo che il resto della folla era ancora confusa per aver sentito suonare l’allarme, Thomas decise di tentare il tutto per tutto e di agire in fretta: spinse da parte l’ostaggio, corse verso alcuni cavalli di un mercante vicino, recise la corda che lo legava con il pugnale e vi balzò sopra, senza sella né briglie. L’animale nel sentirsi montare così improvvisamente si imbizzarrì e partì al galoppo, dritto verso l’uscita ancora aperta per metà, prima che qualcuno potesse fare qualsiasi cosa.

***

Carabosse era in biblioteca. Stranamente era una bella giornata, e i raggi solari filtravano dalle ampie vetrate delle finestre illuminando l’intera stanza, per quanto grande. La luce del sole entrava in fasci che  rendevano visibile i granelli di polvere che vorticava solitariamente e rendeva meno truci e meno spaventosi i gargoyle scolpiti nella pietra dei capitelli delle colonne. L’intera stanza sembrava ancora più grande e accogliente, e il silenzio che vi regnava veniva a malapena rotto dai fruscii prodotti dal vestito di Carabosse sul pavimento di pietra, acquisendo qualcosa di misterioso, quasi di magico. La principessa camminava lentamente accanto agli alti scaffali, facendo scorrere le dita sui dorsi dei libri man mano che avanzava. Avrebbe passato il suo tempo anche così, ad ammirare silenziosamente quella stanza piena di sapere, ma era andata lì alla ricerca di un libro nuovo, particolare, che la aiutasse a sentirsi meno sola ora che sua madre riposava un po'.
Erano giorni che suo padre era partito, ed Elsa era più irrequieta ogni ora che passava. Carabosse si occupava di lei, le faceva compagnia, facendosi carico delle angosce della madre oltre che delle sue, dimostrando ancora una volta una forza interiore notevole per i suoi dieci anni.
La principessa si fermò davanti ad uno scaffale che ospitava romanzi cavallereschi e accarezzò i libri di quella sezione con lo sguardo quando un volume attirò la sua attenzione. Non aveva una copertina particolare, anzi, sembrava abbastanza vecchio e malridotto, con la rilegatura quasi a pezzi e di color beige sbiadito, ma si sentiva inspiegabilmente attratta da quel tomo, quasi come se la stesse chiamando per nome. Afferrò il libro e cercò di tirarlo fuori dallo scaffale, ma nel momento in cui lo tirò scattò un meccanismo e quello scaffale si girò a metà, aprendo un passaggio segreto. Carabosse rimase un po’ stupita, non aspettandosi affatto di trovare un passaggio segreto, e anche un po’ meravigliata per averlo azionato inconsapevolmente al primo colpo. Guardò la scalinata che le stava di fronte e si disse che non era sicuro andarci, che avrebbe fatto meglio a richiudere il passaggio e a dimenticarsene, ma una parte di lei ne era ancora attratta come lo era per il libro. Alla fine la sua curiosità ebbe la meglio e la bambina imboccò la stretta scala a chiocciola, che la portò in una stanza molto più piccola della biblioteca e molto più buia, poiché le poche finestre erano coperte da pesanti tendaggi neri che sembravano cuciti insieme e l’unica luce veniva da qualche torcia solitaria appesa alle pareti. Anche questa stanza conteneva scaffali ricolmi di libri, ma questi erano molto meno numerosi rispetto all’altra sala, ma a prima vista sembravano molto più preziosi e antichi. Quasi tutti erano rilegati in pelle nera ed erano molto voluminosi e sebbene avessero un’aria un po’ inquietante, Carabosse li trovava affascinanti. Era come se emanassero un’energia strana, sconosciuta, potente, ma in qualche modo sbagliata. Era energia nera.

***

- No. Non è ancora il momento, Carabosse. Un giorno tutto questo sarà tutto ciò che ti è rimasto, ma è ancora presto – mormorò Céibhionn. La fata stava guardando Carabosse da uno specchio d’acqua di modeste dimensioni e dalla superficie assolutamente piatta che si trovava nel meraviglioso giardino del palazzo che condivideva con le sue sorelle. Quello era il suo angolo di giardino, quello più isolato che andava dal muro invaso da piante e fiori rampicanti al piccolo e armonioso padiglione di marmo in mezzo al quale sorgeva una piccola fontana di pietra. Era dall’acqua lì contenuta che guardava la piccola Carabosse nella stanza della biblioteca piena di libri sulla Magia Oscura. Era stata lei a crearla, consapevole star dando le basi a qualcosa di malvagio e dannoso. Sapeva che si stava creando una nemica, ma non poteva fare diversamente. Era destino. Solo che la principessa non doveva scoprirlo così in fretta.

***

Carabosse ritrasse la mano come se si fosse scottata. Voleva pendere uno di quei strani libri, che la incantavano, la attraevano, la ammaliavano. All’improvviso però aveva sentito nella sua testa come una voce che le ordinava di lasciar perdere, e lei aveva obbedito, abbassando la mano prima di toccarne uno, e se ne era andata. Era tornata nella camera da letto di sua madre e aveva scoperto che si era svegliata.
Ripensò per tutta la giornata a quello strano evento, non solo al ritrovamento del passaggio segreto e a quei libri che sembravano quasi avere una volontà propria, ma anche alla voce che aveva sentito nella sua testa.
Dev’essere stata la voce della mia coscienza, quella, pensò la bambina. Ma quelle che aveva sentito erano parole strane, che per quanto si sforzasse non riusciva a ricordare. Solo quando quella sera fu nel suo letto, dopo averci pensato tutto il giorno, quelle parole le ritornarono alla mente.
Non è ancora il momento, Carabosse. Un giorno tutto questo sarà tutto ciò che ti è rimasto, ma è ancora presto.
Sì, decisamente strano.


*Angolo Autrice*
Dunque, eccomi di nuovo qui. Stavolta non sono in un ritardo così spaventoso, no?
Io spero davvero che questo capitolo vi sia piaciuto, ma purtroppo temo che non sia così, perché scrivendolo ho fatto un lavoro orribile e correggendolo ho provato a rattopparlo come meglio potevo, e il risultato è un capitolo appena decente che sembra a malapena scritto da me. Comunque vi prometto che in futuro ci sarà di meglio, soprattutto quando Carabosse sarà cresciuta. E a proposito della nostra protagonista, che avventura che ha vissuto qui, eh? Scoprire un passaggio segreto non è cosa da tutti i giorni... e Céibhionn cosa avrà voluto dire con quella frase? Ma soprattutto, Thomas riuscirà a tornare a casa sano e salvo? Si aprono le scommese, signore e signori!
Ora, forse qualcuno si aspetterà che io garantisca un aggiornamento regolare per questa storia, ma mi dispiace dire che purtroppo non posso promettere nulla. Il prossimo capitolo potrebbe arrivare tanto fra due giorni quanto fra due settimane, perché in questo periodo diciamo che sostituisco mia madre nella gestione della casa e ho molto da fare ad imparare le parti del dramma che porteremo in scena si spera a breve, e oltretutto sto lentamente scrivendo il nuovo capitolo  della mia fanfiction Lady and the Tramp in Storybrooke (sì, lenta quanto una lumaca, ma lo sto scrivendo) e mi richiede molta concentrazione e molto tempo. 
Ringrazio come sempre chi ha aggiunto questa storia alle ricordate/seguite/preferite, i lettori silenziosi e Beauty (mi mancherà il tuo vecchio nickname!) per aver recensito.
Bye bye!

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Capitolo 6
*** The King is Dead ***


6. The King is dead

Thomas lanciò il cavallo ad un galoppo ancora più veloce. Non sapeva più neanche lui da quanto tempo stava scappando, aveva perso la cognizione del tempo. Sapeva solo che quando era uscito dalla caverna degli orchi il sole era ancora alto nel cielo, mentre ora era tramontato, lasciando pochissima luce. Il cavallo aveva continuato a galoppare ininterrottamente, ma Thomas sapeva che non avrebbe potuto continuare così ancora per molto. Doveva avere cura della sua unica cavalcatura, ma se aveva qualche speranza di sfuggire agli orchi era quella di sfruttare il più possibile il suo vantaggio. Quelle creature erano ottuse e disorganizzate, ci avevano di sicuro messo molto tempo a dare il via all’inseguimento e ce ne avrebbero messo altrettanto per raggiungerlo, ma una volta che l’avessero fatto sarebbero stati più di lui, più forti e decisamente meglio armati. Doveva giocarsi tutto su quel vantaggio che aveva, e dopo… dopo chissà. La sua direzione era la Montagna Proibita, ma non era sicuro di poterci andare. Se gli orchi fossero riusciti a stargli dietro, lui li avrebbe portati dritti dritti da Elsa e Carabosse, che si rifiutava di mettere in pericolo – ringraziava gli dei per l’accortezza che aveva avuto di non includere anche loro nel resoconto che aveva fatto al capotribù degli orchi–, tuttavia se fosse riuscito a raggiungere in tempo il castello avrebbe potuto organizzare una resistenza. Lì aveva armi a sufficienza e l’edificio, grazie alla sua collocazione, era a dir poco inespugnabile.
Improvvisamente Thomas udì il suono di corno da guerra, identico all’allarme che avevano lanciato gli orchi nella caverna, e voltandosi indietro riuscì a scorgere in lontananza un gran polverone, sollevato da zoccoli di cavalli al galoppo. Dunque l’avevano quasi raggiunto… maledizione! Fortunatamente uno dei suoi inseguitori era stato così stupido da suonare il corno, altrimenti non se ne sarebbe accorto.
Preoccupato, sentì l’andatura del suo cavallo rallentare leggermente. L’animale dava i primi segni di cedimento.

***

-Stupido idiota! – ringhiò il capitano del drappello di orchi che inseguivano Thomas non appena si furono fermati. L’insulto era rivolto ad una delle guardie che, ottusa com’era, aveva suonato il corno come se stessero andando in guerra contro i nemici. Loro il nemico lo stavano braccando, ma evidentemente solo lui riusciva a cogliere questa differenza. D’altronde, la sua intelligenza era superiore a quella dei suoi simili, era pari a quella di un essere umano. Era stato lui a migliorare l’organizzazione e l’efficienza delle sue guardie, permettendogli di partire subito all’inseguimento del fuggiasco; il Re-senza-corona aveva già molto vantaggio, ma erano riusciti, dopo ore di galoppo sfrenato, a distinguere la polvere alzata dal cavallo che aveva rubato. Quella nube di polvere si era fatta sempre più vicina man mano che si avvicinavano, ma poi la loro preda aveva accelerato fino a far perdere le sue tracce. Adesso erano arrivati al confine fra la loro terra e quella degli umani, e al capitano spettava decidere dove andare, anche se non ne aveva la più pallida idea: a parte il fatto che non sapeva se fosse prudente addentrarsi nel territorio degli umani e rischiare di dare un pretesto al nuovo Re Uberto per una guerra, non riusciva a scorgere la sagoma del fuggiasco ovunque guardasse, la semioscurità giocava a suo favore. Eppure doveva essere diretto a casa sua, no?
Fece un cenno all’orco alla sua destra, che smontò da cavallo – con qualche difficoltà, a causa della bassa statura tipica della sua razza – e si accovacciò a terra per studiare le impronte. Il terreno in quella zona era roccioso e quindi difficile da segnare con delle impronte, ma il leggero strato di polvere che ricopriva la superficie non lo era, quindi non c’era dubbio alcuno:
-Sono orme fresche. Il cavallo è andato da quella parte – disse l’orco alzando un braccio per indicare la loro sinistra. Rimontò a cavallo, sempre con difficoltà, mentre il capitano ragionava. Da quella parte, a sinistra, iniziava una foresta di rovi letale per chiunque non conoscesse bene il luogo, mentre andando dritto si andava incontro ad una imponente catena montuosa, nel regno degli umani. L’orco era certo che il Re-senza-corona lo sapesse: era stato lì già altre volte. E allora perché aveva fatto quel cambio di direzione? Li stava forse ingannando?
-Corno-stonato, Figlio-di-vacca e Ascia-che-sibila – disse in qualcosa simile ad un grugnito – con me: anticiperemo l’umano e lo spingeremo in un’imboscata; Spada-corta, Elmo-cornuto e Occhi-di-falco, voi andate avanti nel territorio degli umani e aiutateci a catturare il Re-senza-corona. Ah! – esclamò dando di talloni nei fianchi della sua povera cavalcatura che si lanciò nuovamente al galoppo mentre i suoi sottoposti si dividevano seguendo i suoi ordini.
Il capitano e i tre che aveva scelto proseguirono nella direzione della foresta di rovi, prendendo sentieri impervi attraverso le colline di roccia che avrebbero permesso loro di tagliare la strada a Thomas. Quando però sbucarono su un altopiano videro nuovamente, molto avanti a loro, il polverone sollevato dal cavallo che stavano inseguendo. Non erano riusciti ad anticiparlo, ma almeno il grosso vantaggio che aveva su di loro era stato ridotto di parecchio. E, stranamente, più loro avanzavano più il cavallo rallentava, finché non furono abbastanza vicini da essere certi della loro vittoria, certezza che sfumò quando si avvicinarono ancora di più e videro che in groppa al cavallo non c’era nessuno.

***

Thomas continuò ad avanzare, cauto. Non sapeva se il suo stratagemma avesse funzionato: quando era stato certo di essere inseguito e di non avere molte possibilità in groppa all’animale stanco l’aveva abbandonato, l’aveva lasciato libero di andare dove gli pareva con lo scopo di ingannare almeno temporaneamente i suoi inseguitori, mentre lui aveva proseguito a piedi oltrepassando il confine fra il territorio degli orchi e il suo. Camminava più velocemente che poteva ma con circospezione, sempre stando attento a non farsi scoprire. Era stanco e provato, ma doveva continuare ad andare avanti, e con un po’ di fortuna sarebbe arrivato sano e salvo sulla Montagna Proibita senza essere inseguito. Nonostante la luce fosse quasi del tutto scomparsa riusciva a vedere le sagome delle montagne, che gli dicevano che era quasi arrivato, e il suo udito affinato dalla caccia e dall’addestramento alla guerra gli portava il suono di acque che scorrevano, sicuramente prodotto dal fiume che scorreva vicino alla Montagna Proibita e che costituiva un suono rassicurante che gli infondeva speranza. I suoi abili sensi però gli dicevano anche qualcos’altro: la polvere che ricopriva la roccia e i sassolini disseminati qua e là vibravano impercettibilmente, e in lontananza poteva sentire un rumore regolare di qualcosa che sbatteva ripetutamente a terra. Pensò immediatamente ai suoi inseguitori e alzò il passo. Passarono dei minuti di marcia affrettata prima che Thomas potesse riconoscere, con il cuore in gola, che erano davvero i loro cavalli a produrre quel suono: le guardie erano dunque sulle sue tracce, nonostante il trucchetto.
Thomas non aveva scampo, ma non poteva arrendersi, non dopo essere arrivato fin lì. Se fosse riuscito a raggiungere il fiume avrebbe potuto salvarsi: gli orchi avevano un terrore primordiale dell’acqua, qualcosa di così potente che quelle creature riuscivano ad attraversare i corsi d’acqua solo al riparo dalla sua vista, in un luogo buio e chiuso, possibilmente tramortiti. Di certo non avrebbero passato il torrente a cavallo, e se non avessero avuto archi e frecce, armi troppo raffinate per loro, Thomas avrebbe potuto darsi sicuramente per salvo. Tutto stava nel raggiungerlo, il fiume.
Decise di giocare il tutto per tutto sfruttando il suo vantaggio e forzò le sue gambe ad una corsa disperata, ma in breve tempo gli orchi gli furono alle calcagna; con uno sforzo disumano Thomas accelerò ancora e riuscì a mettere un altro metro di distanza fra sé e gli inseguitori, anche se sapeva di non poter reggere quello sforzo ancora per molto. Ma il fiume era vicino, così vicino… ancora uno sforzo e avrebbe potuto tuffarvisi. Anche gli orchi lo sapevano, perciò affondarono con violenza i talloni nei fianchi dei loro cavalli per raggiungerlo, ma alla vista del fiume a cui si stavano avvicinando il loro coraggio iniziava a venire meno. Si sentivano ribollire il sangue nelle vene ed un istinto potente diceva loro di volgere i cavalli e darsi alla fuga più veloci che potevano. Indubbiamente Thomas voleva buttarsi nell’acqua, e una volta lì sarebbe stato al sicuro. Se volevano ucciderlo, dovevano fare in fretta.
Nello stesso momento in cui Thomas spiccò un salto per tuffarsi nel fiume, un coltellaccio lanciato da uno degli orchi gli si conficcò nella schiena, stroncando la potenza del suo tuffo e precipitandolo in balìa della corrente. All’impatto del corpo con l’acqua, alcuni schizzi bagnarono la porzione di braccio scoperto del lanciatore di coltelli, e la pelle iniziò a sfrigolare, riempendosi di vesciche e procurandogli lo stesso dolore di una scottatura, ma molto più profondo. Questo fece immediatamente indietreggiare gli altri due, mentre il terzo rimaneva immobile, indeciso sul da farsi. Guardò il corpo dell’uomo con il suo coltello piantato nella schiena che veniva portato via dalla corrente, poi la sua pelle martoriata dal contatto con l’acqua.
Tanto è già bell’e morto, pensò, e batté in ritirata insieme ai suoi compagni.

***

Thomas cercava di nuotare, ma era debole, senza forze, e riusciva a malapena a tenersi a galla. Era completamente impotente, nelle mani della corrente che lo trascinava alla deriva. Iniziarono a cadere delle gocce di pioggia che bagnarono le sue labbra esangui, picchiettando dolcemente su di esse… la realtà iniziò a farsi più confusa, e gli sembrò che fosse giorno, con un sole splendente, e che Elsa lo stesse baciando. Sentì la sua voce che lo chiamava, e vide le sue mani affusolate tese verso di lui, che volevano aiutarlo, e con uno sforzo immane le afferrò, ma al tatto si accorse di non aver afferrato le mani di sua moglie, bensì i rami di alcuni arbusti che sporgevano sul fiume. Gemendo fece forza su di esse per trascinarsi fuori dall’acqua, ma tutto quello che riuscì a fare fu riaffiorare fino alla vita e accasciarsi sulla sponda sassosa. Nel farlo scorse la sagoma della Montagna Proibita e del castello, vicinissimi, ed espresse il suo ultimo desiderio: quello di poter rivedere un’ultima volta sua moglie e sua figlia, prima di andarsene.
Non aveva visto la sua disperata Elsa che correva giù per la discesa ripida della montagna seguita dalla piccola Carabosse, scioccata.
La bambina aveva visto dalla finestra a cui si era affacciata una sagoma scura e animata agitarsi nell’acqua del fiume e aveva chiamato sua madre, che aveva ricordato l’incubo che aveva avuto la notte scorsa, in cui ritrovava il cadavere di Thomas nel fiume, e aveva capito. Aveva urlato il nome del suo Re, ma lui non aveva avuto alcuna reazione. Poi entrambe si erano precipitate fuori dal castello, giù per il sentiero che portava al torrente, incuranti della pioggia, ed ecco Thomas, con un coltello nella schiena, abbandonato con la testa sul terreno. Aveva avuto la forza di trarsi in salvo dalla corrente e di tossire fuori dai polmoni l’acqua che gli era entrata dentro, ma aveva già perso molto sangue, e continuava a perderne.
Carabosse si fermò a pochi passi da suo padre, terrorizzata da ciò che avrebbe potuto vedere, mentre Elsa, singhiozzando, si inginocchiò di fianco al corpo del marito, estrasse il coltello dalla ferita e lo sollevò facendogli appoggiare la testa sulle sue gambe. Thomas respirava ancora, anche se a fatica, ed era cosciente, ma il suo viso aveva quella tranquillità di chi sa di essere prossimo alla morte. I suoi desideri però erano stati esauditi: sua moglie e sua figlia erano salve, e aveva avuto la possibilità di rivederle. Sorrise sereno ad Elsa, che stavolta era reale e non un’illusione, e da quel sorriso lei capì che non c’era più nulla da fare: aveva già visto gente morire, quando era giovane. Sapeva riconoscere il volto di un moribondo.
Non riuscì più a trattenere le lacrime, che scesero bollenti sul suo viso confondendosi con le fredde gocce di pioggia, ma Thomas sussurrò:- Non piangere…
-Non sto piangendo – rispose lei in un singhiozzo.
Thomas sorrise come ad una battuta che solo loro due conoscevano. Poi riprese a parlare: -Alla fine sono tornato da te… te lo avevo promesso.
-Sì, e hai mantenuto la tua promessa, come sempre – disse lei, e azzardò un sorriso per lui anche se la sua vista era offuscata dalle lacrime.
-Carabosse… - sussurrò poi Thomas, vedendo che la figlia si era avvicinata.
-Sì, papà – rispose. Anche lei piangeva.
-Sii forte, figlia mia. Sii sempre la principessa che sei. Io sono orgoglioso di te. Sarai una grande regina, un giorno.
-Certo, papà. Ti… ti voglio bene – riuscì a dire fra i singhiozzi.
E mentre Thomas tornava a posare lo sguardo sulla sua amata le forze lo abbandonarono e le sue palpebre si chiusero senza permettergli di vedere Elsa che si copriva la bocca con una mano per impedirsi di urlare, mentre il pianto e i singhiozzi la piegavano sul corpo ormai senza vita dell’uomo che amava.
Il Re era morto. 


*Angolo Autrice*
Bene, ho superato la crisi di EFP che ha deciso di impallarsi proprio quando dovevo aggiornare, ed eccomi qui. Sto aggiornando con le lacrime agli occhi per la morte di Thomas, che mi ha fatto piangere quando l'ho scritta ma anche tutte le altre volte in cui poi l'ho riletta. Magari non è nulla di commuovente e sono io troppo sensibile e piagnona, ma che ci posso fare ç_ç Quello che è certo è che quello di Thomas e degli orchi è il peggiore inseguimento che sia mai stato scritto. Avete tutto il mio sostegno e la mia solidarietà.
Stasera non mi dilungo troppo perché è davvero tardi e anche perché quando sono sull'orlo delle lacrime, come in questo caso, fatico molto a formulare pensieri sensati. Ringrazio tutti quelli che hanno inserito questa storia fra le ricordate/seguite/preferite, i lettori silenziosi e Beauty per aver recensito.
Buonanotte (e, se siete emotive come me, buon pianto) a tutti. Ciao!

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Capitolo 7
*** Stay Strong ***


7. Stay Strong

Piano, respira. Uno, due, lentamente. Inspira, espira, così.
Lentamente, Carabosse si tranquillizzò. Aveva ripreso a respirare e la sensazione di oppressione al petto andava scemando. Le lacrime, però, quelle non l’abbandonarono tanto presto.
Stava così da tre giorni, da quando aveva visto suo padre morire e tutto il mondo era sembrato crollarle addosso. Non aveva incubi la notte, non si sentiva paralizzata dal dolore, né lo avvertiva sempre… era come se suo padre fosse ancora in viaggio e lei lo stesse aspettando, ma poi, all’improvviso, realizzava che da quel viaggio non sarebbe tornato e che lei non l’avrebbe rivisto mai più, e il dolore la colpiva in pieno petto con la forza di un ariete, portandole via il respiro e riempiendole gli occhi di lacrime. Poteva succederle ovunque, in qualunque momento, e quando aveva quelle crisi si sentiva estraniata dal resto del mondo, sola in un grigio e freddo giorno di pioggia, e riviveva nella sua mente gli ultimi istanti di vita di suo padre.
Sua madre l’aveva aiutata. Quando era successo per la prima volta ed Elsa si era accorta che sua figlia stava ansimando vistosamente, l’aveva abbracciato e le aveva detto di respirare lentamente, dandole il ritmo. L’aveva cullata e l’aveva tranquillizzata come aveva potuto, e la crisi era passata, ma poi era tornata a tormentarla ancora e ancora e quando era sola Carabosse pensava alle istruzioni di sua madre per ritornare a respirare. Erano rari i momenti in cui era sola: in quei tre giorni lei e sua madre erano state quasi sempre insieme per sostenersi a vicenda. Anche se la Regina sembrava non aver bisogno di alcun sostegno. Al momento della morte del marito era stata travolta dalla debolezza, ma non era rimasta a lungo in quello stato. Si era imposta di essere forte per sua figlia, che aveva ancora bisogno di lei. Si era concessa un ultimo pianto quando, completamente sola, aveva sepolto il corpo di Thomas sotto un cumulo di pietre, ma dopo, ogni volta che sentiva di essere sull’orlo delle lacrime stringeva i pugni e si conficcava le unghie nei palmi delle mani finché il dolore fisico non diventava insopportabile: in quel modo riusciva a controllarsi, a non lasciarsi travolgere dal dolore causatole dalla morte del marito, e pensando a sua figlia si ripeteva “Sii forte per lei. Sii forte per lei”. In fondo era stata cresciuta in un mulino, da un rozzo popolano, prima di essere una regina: aveva dovuto imparare ad essere forte per non soccombere ad una vita di miseria, anche se ora le veniva richiesta un altro tipo di forza. Come i serpenti che per non soffocare dovevano mutare pelle, così lei per andare avanti e non farsi soffocare dal dolore doveva cambiare. Concentrò ogni suo sforzo, ogni suo pensiero, respiro, battito su sua figlia, spazzando via dal cuore e dalla mente ogni altra cosa che non fosse lei, lei così bella e fiera, così simile a Thomas. Se le era rimasta una certezza dopo la morte del marito, era che Carabosse meritava di meglio. Non avrebbe vissuto tutta la sua vita relegata lì sopra, quando fuori da lì c’era un regno che le spettava. Anche Thomas in punto di morte aveva detto che sarebbe stata una grande regina, ed Elsa avrebbe provveduto a far rispettare l’ultima volontà del marito… e l’avrebbe vendicato, anche. Sì, Uberto doveva pagare per tutto quello che aveva causato loro, e avrebbe pagato con la sua vita e con quella del figlio, quel ragazzino altezzoso, ora destinato ad un trono che non gli apparteneva.
Elsa non seppe mai dire, in seguito, quando precisamente il piano avesse preso forma nella sua testa, ma quando si fu formato le fece compagnia e le diede forza in ogni momento della sua vita. Tutto sarebbe stato perfetto: Carabosse, una volta completata la sua educazione e raggiunta l’età adatta, sarebbe partita per la capitale e avrebbe fatto in modo di sedurre Stefano, il rampollo di Uberto. Conquistata la sua fiducia, avrebbe ucciso lui e il padre e occupato il trono che le spettava di diritto. Non sapeva come, ma lei avrebbe fatto in modo che i suoi progetti si avverassero. Se gli dei l’avevano fatta vivere fino a quel momento, se l’avevano fatta diventare Regina da semplice mugnaia, se le avevano donato una figlia così meravigliosa allora l’avrebbero certamente esaudita. La giustizia c’era e sarebbe arrivata a tempo debito.

***

- Le mie congratulazioni, Vostra Maestà.
Uberto distolse lo sguardo dai rotoli di pergamena che stava leggendo e lo sollevò per vedere chi avesse parlato. I suoi occhi incontrarono quelli blu mare di Niamh, la settima fata. Era apparsa all’improvviso, senza far rumore, nella stanza dove si trovava il Re. Quest’ultimo si alzò immediatamente e portò i suoi rispetti alla fata. Sebbene odiasse riconoscere un’autorità al di sopra della sua, lui era niente di fronte a lei, ed era solo grazie alla protezione sua e delle sue sorelle se lui adesso era Re.
- Le vostre congratulazioni per cosa, mia signora?
- Ora siete davvero a tutti gli effetti il Re – rispose lei compiaciuta – Thomas è morto per mano degli orchi. Morto dopo aver cercato il loro aiuto.
- Ho sempre detto che l’alleanza con gli orchi sarebbe stata la sua rovina…
- Quelle bestie non si smentiscono mai – concordò Niamh.
- E voi, mia signora, siete venuta fin qui per darmi questa notizia di persona? Voi mi onorate troppo.
- Non è solo per darvi questo annuncio che sono qui, Uberto. Voglio darvi un avvertimento: ora Thomas è morto, ma non illudetevi di essere al sicuro. Lui non è mai stato un pericolo. Sua moglie e sua figlia sono da temere.
 Quelle parole riportarono alla mente di Uberto la profezia che, undici anni prima, Céibhionn gli aveva fatto: anche quella parte riguardante il fatto che Thomas non sarebbe stato un problema si era avverata… dunque avrebbe davvero dovuto temere la bambina?
- Sua moglie e sua figlia? – chiese poi a metà fra il canzonatorio e l’incredulo, per non far intendere di essere preoccupato.
Niamh lo guardò con occhi penetranti e disse:- Avete mai guardato negli occhi quella ragazzina, Carabosse? Forse voi non potete capirlo, ma per me non è stato difficile vedere quale forza celassero quegli occhi. Quella ragazzina è destinata a diventare molto potente, fidatevi di me. E sua madre…
- Eccellenza, Elsa non è altro che una mugnaia…
- E’ una donna – lo interruppe aspramente Niamh – e, come tutte le donne, vendicativa. Ora ha perso l’amore della sua vita, come credete che si senta? Lei sa che la colpa non è che vostra e non desidera altro che ammazzarvi.
- D’accordo, allora. Manderò dei sicari ad uccidere quelle due, così non mi seccheranno più.
- Questo è da escludere, Maestà. Per qualche motivo noto a lei sola, mia sorella Céibhionn ha preso a cuore la sorte di quella ragazzina e anche se ha permesso che il padre morisse non credo che guarderebbe lei o sua madre morire con altrettanta impassibilità.
- Devo preoccuparmi per questa simpatia della vostra sorella per le due esiliate?
- Per il momento no. Ma non abbassate mai la guardia: una donna ferita è una donna pericolosa.

***

Bracconieri, pensò con terrore Carabosse. Era fuori dal castello, vicino al fiume dove era morto suo padre; sua madre stava riposando, altrimenti Carabosse non si sarebbe mai azzardata ad andare lì. Da quel tragico evento Elsa era diventata più dura, protettiva… non fredda, ma strana. Si dava molto da fare e soprattutto faceva sì che lei fosse sempre occupata. Le dava lezioni di canto, di portamento, di letteratura, di scienze come se fossero ancora al palazzo reale. All’inizio Carabosse, anche se un po’ stupita, ne era stata contenta perché voleva dire che sua madre si stava impegnando a non lasciarsi andare come nei giorni di assenza di suo padre, ma alla lunga la cosa l’aveva fatta preoccupare. Sembrava che non le interessasse nient’altro… non che lì ci fosse qualcos’altro da fare, ma Carabosse riusciva a scorgere una luce febbrile negli occhi di sua madre che non le piaceva per niente. Con lei era affettuosa e amorevole come sempre, se non di più, ma le sembrava molto diversa. Si chiedeva con terrore se non stesse impazzendo, se dopo aver perso suo padre non avrebbe perso anche sua madre. Non aveva il coraggio di contestarla o di farle domande, ma quando Elsa dormiva Carabosse aveva preso l’abitudine di scendere nella piana circondata dal fiume e passare il tempo lì. Qualche volta, ricordando gli allenamenti dei cavalieri a cui qualche volta aveva assistito, cercava di fare quegli esercizi: mettendo in moto il corpo, la mente si placava. Le armi non le mancavano di certo.
Quel giorno aveva preso un arco ed una faretra piena di frecce e aveva iniziato a tirare a bersagli improvvisati. Non era un granché, ma con l’esercizio non poteva che migliorare, anche se non c’era nessuno a darle consigli, a insegnarle la tecnica e a correggere i suoi errori. Ed era stato mirando che aveva visto delle sagome scure avanzare. Istintivamente aveva pensato agli orchi ed era stata invasa dalla paura, ma poi aveva constatato che quelle sagome erano troppo alte. Erano umane. Ma che ci facevano degli uomini in un luogo così?
Carabosse si era nascosta al meglio fra i massi e gli arbusti e aveva incoccato la freccia, per sicurezza. Quando le sagome si erano fatte più vicine, aveva visto che si trattava di una carovana di uomini. Cacciatori, a giudicare dagli abiti e dalle armi. Ma fu solo quando la principessa vide un volto magro e allungato dal naso aquilino che capì che quelli erano bracconieri, cacciatori di frodo. Quella faccia era stata disegnata su dei manifesti che erano poi stati affissi in tutto il regno. L’uomo era un ricercato, e lei ricordava ancora quando era stato letto il bando che lo condannava ai lavori forzati per dieci anni, una volta che fosse stato catturato.
Incapace di muoversi per la paura, Carabosse rimase lì, pregando solo di non avere uno de suoi attacchi in quel momento. Fu allora che l’uomo che stava in testa alla carovana, un bell’uomo sulla trentina con capelli neri e barba neri striati di grigio e gli occhi blu, vide Carabosse nascondersi fra i corti e rachitici rami degli arbusti con l’arco teso. Non gli ci volle molto per capire che era una principiante e che non poteva  avere più di dieci anni. Fece segno agli altri di fermarsi e avanzò solo nella sua direzione. Carabosse, scoperta, fece qualche passo indietro, ma lui si fermò e alzò le mani dicendo:- Calma, non ho intenzione di farti del male.
Carabosse prese il coraggio a due mani e rispose:- Allora vattene e porta i tuoi amici il più lontano possibile da qui.
- Calma, volevo solo dare un’occhiata al tuo arco e alle tue frecce. Sembrano davvero ben fatti, sai? Me li fai vedere?
- E chi mi dice che tu non voglia rubarmeli?
- Hai ragione. Senti, facciamo così: io lascio a terra le mie armi, tu vieni avanti e parliamo meglio – detto questo si sfilò coltelli, arco e frecce e li scagliò ad almeno due metri lontano da lui. Rassicurata da quel gesto, Carabosse avanzò lasciandosi dietro il suo nascondiglio.
- Bene – riprese a parlare il bracconiere – ora, che ne dici di farmi un po’ vedere una di quelle frecce?
Lei ci pensò su un attimo, poi gli lanciò una freccia che lui prese al volo, dopodiché il bracconiere fece un rapido esame e decise che era perfetta.
- Va bene, mi interessa. Voglio tutta la faretra e anche l’arco. In cambio posso darti… due lepri, e un po’ di erbe medicinali, che ne pensi?
- Avete del miele? – chiese lei senza pensarci. Lui sorrise.
- Sì, abbiamo del miele. Visto che mi sei simpatica te ne darò un vasetto, ti sta bene? – Aspettò che Carabosse annuisse, poi fece cenno ai suoi che gli passarono un sacco di iuta in cui avevano messo la merce di scambio e riprese a parlare:- Al mio tre, ci lanciamo  la merce, va bene? Uno… due… tre!
Al tre, lui lanciò il sacco e Carabosse la faretra con dentro anche l’arco, ed entrambi presero al volo il proprio bottino. Soddisfatto, l’uomo sorrise alla ragazzina e la salutò, dicendole che se avesse voluto fare altri scambi il prossimo mese loro sarebbero ripassati da lì.
Carabosse aspettò di vedere allontanarsi la carovana prima di precipitarsi su per il sentiero che conduceva al castello e andare a svegliare sua madre.
Seguì una lunga ramanzina sulla gravità di ciò che Carabosse aveva fatto, sul pericolo che aveva corso, ma dopo che le fu fatto notare che lei stava bene, che prima o poi le provviste sarebbero finite e loro avevano bisogno di quegli scambi, Elsa si acquietò. 

*Angolo Autrice*
Eccomi qui, ce l'ho fatta ad aggiornare in tempo! Ho fatto più in fretta che potevo, perché la settimana prossima starò via e, non potendo aggiornare dalla casa al mare in cui andrò, non volevo farvi aspettare troppo a lungo. So che non succede nulla di particolare qui, ma ci tenevo a mostrarvi il modo in cui Carabosse e ed Elsa hanno reagito alla morte di Thomas, e anche come sono andate le cose da quel momento... Carabosse ha delle specie di attacchi di panico, invece Elsa si è indurita, e medita vendetta e, come ha giustamente detto Niamh, una donna ferita è una donna pericolosa... specie se questa ferita è dovuta dalla perdita del Vero Amore (Regina docet... attento, Uberto!). 
L'incontro con i bracconieri è necessario, perché loro saranno la principale fonte di approvigionamento di Carabosse ed Elsa (ci terrei a precisare che la Montagna Proibita e le montagne circostanti qui non sono proprio aride e prive di forme di vita come nel cartone Disney... lo diventeranno quando Carabosse sarà diventata Malefica), e avranno anche un ruolo particolare nell'educazione di Carabosse.
Ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto questa storia alle ricordate/seguite/ricordate, i lettori silenziosi e Princess Vanilla e Beauty per aver recensito.
Buonanotte, e a presto!

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Capitolo 8
*** Fourteen years later ***


8. Fourteen years later

- Mi avete fatto chiamare, padre? – chiese un giovane di non più di ventisette anni dalla chioma corvina e dagli occhi verdi, inchinandosi davanti al trono. Sulla testa portava una corona d’argento molto fine e sottile.
- Sì. Aiutami ad alzarmi – disse Uberto.
Era invecchiato in quei quattordici anni, ma era stata soprattutto la malattia che l’aveva colpito circa cinque anni prima a debilitarlo. Del suo fisico muscoloso non era rimasto quasi nulla, ora Uberto era impastoiato in un corpo debole e grasso che a stento riconosceva come suo, e anche il suo viso recava i segni dell’invecchiamento.
Stefano si alzò e si recò di fianco al trono, afferrò saldamente un braccio del padre e cercò di tirarlo su. Il Re fece forza sul braccio del trono e riuscì a sollevarsi. Si appoggiò tranquillamente al figlio per camminare e i due scesero insieme i gradini con qualche difficoltà. Anche una semplice passeggiata era una fatica per il sovrano, che appoggiava tutto il suo peso su Stefano, giovane e vigoroso. Lui gli ricordava tanto se stesso quando era giovane, non solo per gli addestramenti, i medesimi che aveva seguito lui per diventare cavaliere, non solo per i lineamenti che aveva preso da lui, ma anche per il carattere forte e pieno di sé, sicuro, autoritario. C’era chi avrebbe potuto definire tanto il principe quanto il Re come arroganti, ma Uberto pensava che invece il loro fosse un orgoglio più che giusto, dovuto ad un potere che si erano conquistati da soli, ad una forza che li distingueva dagli altri. Che gli invidiosi avessero da ridire era perfettamente normale.
Quella forza, comunque, ora per Uberto rimaneva un connotato puramente caratteriale, perché se di forte il suo fisico non aveva più nulla ad eccezione della taglia, di certo dentro rimaneva un tiranno nato, che riusciva a spaventare i servi con un solo sguardo, che si faceva temere dai suoi nobili e da tutti coloro che gli ronzavano intorno in cerca di favori. E Stefano era proprio come lui: si faceva rispettare e temere, si comportava con la dovuta freddezza con quelli di un rango inferiore al suo, trattava i sottoposti come meritavano, affrontava con la dovuta serietà le faccende burocratiche e aveva già più volte dato prova della sua abilità nel trattare con i Regni stranieri. Continuando così sarebbe diventato uno dei più grandi sovrani che la storia avesse mai conosciuto, tanto più ora che si stava avvicinando il momento di stringere un’alleanza che avrebbe fatto tremare di paura i Re stranieri.
 Quando Uberto e Stefano furono arrivati nel piccolo giardino privato degli appartamenti del Re, quest’ultimo fece un cenno alle guardie che stavano ritte ai lati dell’arco di pietra per il quale si entrava, e queste si ritirarono lasciando padre e figlio completamente soli. I due presero a passeggiare nel labirinto formato dalle siepi, senza che Uberto avesse detto ancora una sola parola. Ma a questo rimediò non appena si furono inoltrati fra le siepi.
-Come tu ben sai, Stefano, fin dal primo giorno che diventai Re fu mia grande preoccupazione quella di trovare una moglie per te, una futura Regina tale da non farti sfigurare, il cui Regno potesse essere un vantaggio per il nostro, e fin da quando seppi della nascita della principessa Helena della nobilissima casata Harrington, sigillai un accordo matrimoniale con il Re suo padre, fra di voi. Fra poco meno di un mese la principessa compirà sedici anni, l’età giusta per il matrimonio, e quel giorno, insieme alla festa in suo onore, si terrà la festa del vostro fidanzamento.
 Stefano non disse nulla. Da quando aveva tredici anni, da quando suo padre era diventato Re, sapeva che un giorno avrebbe sposato una principessa che non conosceva minimamente – o quasi: Stefano e Uberto avevano naturalmente preso parte tutti gli anni alle feste di compleanno della principessa Helena –  solo per ampliare il proprio potere, ma a quell’età non aveva mai potuto comprendere realmente che cosa  quest’obbligo avrebbe significato. Ora sì.
-Prima di allora, la principessa con la Regina sua madre verrà qui per una settimana, così avrete la possibilità di approfondire la vostra conoscenza. Questo è un gran privilegio, un’opportunità che molti sovrani prima di te non hanno avuto, ma non vuol dire che tu possa scegliere. – Il tono di Uberto si fece più severo – Ti piaccia o no, sarà lei tua moglie. Se poi avrai qualche altro interesse particolare, nessuno ti vieta di avere un’amante. O anche di più. Come si è sempre fatto.
 Uberto scrutò suo figlio per qualche secondo, per vedere come avrebbe reagito. Visto che non rispondeva, disse in tono più conciliante: – Tutto quello che ho fatto l’ho fatto anche per te, lo sai, vero? I complotti, gli accordi, i sacrifici, tutto perché un giorno tu potessi essere Re. Ho tenuto io lo scettro quando non potevi essere tu a farlo, ho salvaguardato il tuo regno e il tuo potere, e tra poco toccherà a te regnare e fare lo stesso per tuo figlio. Io sto per andarmene, devo sapere che tu sei abbastanza forte per essere Re, qualunque sacrificio questo comporti. Lo sei? – Stefano annuì – Bene. Rientriamo, ora.
Una volta riaccompagnato suo padre nella Sala del Trono, Stefano gli chiese il permesso di uscire da solo a caccia. Il permesso gli fu accordato e, cambiatosi d’abito e prese le sue armi, il principe montò in sella al suo stallone nero e partì al galoppo verso il bosco che circondava la capitale.

***

Requiescat in pace. Era una frase che Carabosse aveva letto una volta in uno dei tomi più polverosi della biblioteca del castello; voleva dire “riposi in pace”, ma sapeva che non era quello il caso. Non di sua madre, Elsa. Lei non avrebbe mai riposato in pace, mai, finché la vendetta che aveva imbastito e sognato per anni non fosse stata portata a compimento. Forse era stato proprio quel pensiero a consumarla, a corroderla dall’interno, a portarla alla morte. In fondo era una donna giovane e sana, non che le condizioni di vita sulla Montagna Proibita fossero l’ideale, ma Elsa ne aveva passate di peggiori in gioventù, e non si sarebbe certo lasciata sconfiggere questa volta dall’indigenza, ma aveva un tarlo che le rodeva il cuore. Alla fine era quasi impazzita.
Carabosse guardò con tristezza i due cumuli di pietre, fuori dal castello. Aveva seppellito sua madre accanto a suo padre. Almeno così sarebbero stati di nuovo insieme.
Una lacrima scese silenziosa lungo la guancia già rigata della ragazza, che non sapeva se stesse piangendo per il dolore causato dal lutto o se fosse invece il vento che le frustava il volto e le faceva svolazzare i lunghi capelli castani a far lacrimare i suoi occhi. Lei non piangeva più con facilità. Gli anni trascorsi nel castello sulla Montagna Proibita con una madre quasi pazza ed estremamente esigente l’avevano temprata. Per di più, non poteva cedere ai sentimenti se doveva vendicare suo padre. Elsa l’aveva fatta crescere con quell’idea, le aveva spiegato il suo piano, non le aveva fatto avere sogno all’infuori di quello. Carabosse si era sempre domandata se fosse giusto, anche se non aveva mai osato chiederglielo. Ma d’altra parte, era giusto ciò che aveva fatto Uberto? E non era forse suo dovere realizzare le ultime volontà di sua madre? Quel chiodo fisso che era diventato anche un po’ il suo… era davvero tutto ciò che le rimaneva da fare? Uccidere un uomo e suo figlio, e poi regnare al posto loro?
No, tu sei la Regina. Era questo ciò che doveva ricordare, ed effettivamente era vero. Quindi, doveva partire. Guardò il fagotto ai suoi piedi: conteneva i vestiti più pratici, le sue cose più importanti, sebbene abbandonasse a malincuore tutti i libri della biblioteca. Non riusciva ad accettare l’idea di non tornare mai più sulla Montagna Proibita: per quanto sua madre le avesse ripetuto che doveva odiare quel luogo, che la sua vera casa era il palazzo reale, lei ci era cresciuta, lì. Aveva passato una parte importante della sua vita, per quanto infelice potesse essere. Si chiedeva cosa avrebbe potuto provare al palazzo reale, ritornando lì da sola. Ma doveva farlo.
Raccolse il fagotto, diede un ultimo saluto alle tombe dei suoi genitori, ripromettendosi che una volta finito tutto li avrebbe fatti spostare nel posto che meritavano, e si diresse verso la giumenta dal manto color cioccolato legata poco più avanti, che scalpitava leggermente. Assicurando bene le cinghie della sella e delle bisacce che contenevano le sue provviste montò sulla giumenta; l’aveva barattata con i bracconieri in cambio di due intere armature. Le sarebbero mancati i bracconieri, ormai erano diventati grandi amici, ma se c’era una cosa buona del suo piano di diventare Regina era che avrebbe avuto il potere di graziarli.
 
Dopo tre o quattro giorni di galoppo e brevi pause necessarie sia alla cavalla che alla principessa per ristorarsi, Carabosse era finalmente ritornata nei confini del suo Regno; aveva poi proceduto ad un trotto veloce per un altro giorno per dirigersi verso il castello, verso casa sua, e adesso era quasi arrivata. Si trovava nel bosco che circondava la capitale e quindi il castello, e aveva deciso di sgranchirsi le gambe e riposarsi un po’ prima di mettere in atto il suo piano, soprattutto perché non sapeva quando ne avrebbe avuto di nuovo l’occasione. Si sarebbe appostata nei pressi del castello, attenta a non farsi scoprire dalle guardie reali, e avrebbe atteso che il principe uscisse da solo per poi attirare la sua attenzione, in qualche modo. Il piano presentava una grande incognita, da quel punto di vista, ma in fondo l’aveva sempre saputo e lei e sua madre avevano studiato mille modi per riuscire a far entrare Carabosse nel castello e abbindolare Stefano.
La ragazza scese da cavallo, avvertendo come previsto dei forti dolori alle sue povere gambe distrutte da quattro giorni quasi ininterrotti di galoppo. Certo, di notte riposava, ma solo il minimo indispensabile, e dormendo all’addiaccio doveva comunque rimanere vigile in caso di attacco di predatori animali o veri e propri predoni. Non era stato proprio il massimo… dopo la prima notte trascorsa all’aperto era più stanca di quanto non si fosse mai sentita in vita sua ed era tutta indolenzita, ma le gambe erano davvero martoriate, tanto che prima di riuscire di nuovo a salire a cavallo aveva dovuto sciogliere lentamente i muscoli camminando piano. Solo il pensiero di sua madre era riuscito a farle stringere i denti ignorando il dolore e a farla continuare imperterrita il suo viaggio. Certo, si era un po’ abituata, ma adesso aveva proprio bisogno di riposarsi.
Dopo aver fatto abituare nuovamente le gambe alla terraferma, si guardò finalmente intorno, e si rese conto di quanto le risultasse estraneo quel panorama rigoglioso e florido: non che le montagne fra le quali aveva vissuto fossero esattamente spoglie e desertiche, ma gli alberi erano abbastanza radi e di certo non lussureggianti come quelli della foresta in cui era. Con lo sguardo cercò un corso d’acqua che, se la memoria non la ingannava, avrebbe dovuto passare proprio lì vicino… e infatti scorse le acque che scorrevano infrangendosi su massi che emergevano dal letto sassoso; era un torrente più che un fiume, ma sarebbe andato benissimo. Tenendo la giumenta, la quale in quei giorni aveva preso confidenza con lei, per le redini, si avviò verso il torrente, e mentre la cavalcatura beveva lei si tolse i vestiti che portava per potersi lavare via dal corpo il sudore e la polvere del viaggio. Rimanendo solo con una leggera sottoveste di garza addosso, entrò in acqua, facendo attenzione ai sassi sotto i suoi piedi e rabbrividendo leggermente per la temperatura dell’acqua. Presto però si abituò e si sedette su un masso particolarmente sporgente con le gambe distese, lasciando che i piedi seguissero la corrente, ma tenendosi con le mani ben salda alla roccia scivolosa. Non sentì il fruscio dei rami né la sua giumenta sbuffare leggermente mentre alzava la testa, tendendo le orecchie: non si accorse minimamente della presenza di un’altra persona.

***

Stefano aveva preso due pernici, anche se aveva tirato molte frecce a vuoto: cosa abbastanza insolita per lui, anche se non amava particolarmente la caccia.
 Era agitato per quel che suo padre gli aveva detto. Da ragazzino aveva sempre saputo di essere destinato sì ad essere Re, ma anche a non avere voce in capitolo riguardo alle scelte che riguardavano la sua vita, tantomeno quelle che riguardavano il matrimonio. Quelle le avrebbe fatte suo padre per lui. Ed ora, a ventisette anni di cieca obbedienza al padre, provava il desiderio di mettere tutto in discussione.
Scosse la testa, sapendo che quella nascente ribellione non avrebbe portato a nulla di buono. Si sentì improvvisamente accaldato e, trovandosi lì vicino un torrente, decise che si sarebbe rinfrescato. Avanzò verso il corso d’acqua, ma tutt’a un tratto sentì dei rumori e d’istinto incoccò una freccia, tendendo la corda dell’arco. Avanzò acquattato facendo in modo da essere parzialmente nascosto dai cespugli ma sempre avendo una buona visuale del torrente. E fu allora che la vide.
Come una ninfa dei boschi, una ragazza dalla lunga chioma setosa color castano lucente era seduta su una roccia nel bel mezzo del fiumiciattolo, con indosso solo una leggera sottoveste bagnata e quindi semitrasparente, mentre con una mano che aveva immerso nell’acqua si rinfrescava il collo. Aveva le palpebre abbassate e la bocca rossa dischiusa come in estasi per la freschezza dell’acqua sulla pelle accaldata.
Che non avesse mai visto una tale bellezza era certo, e si dovette ancora ricredere quando la sconosciuta aprì gli occhi: le sue iridi erano di un verde così chiaro e delicato che illuminati dalla luce del sole sembravano quasi trasparenti.
Inavvertitamente, Stefano calpestò un rametto, facendo abbastanza rumore da essere sentito dalla ragazza – il suo cavallo aveva già avvertito la sua presenza. Lei lo trovò con lo sguardo e i loro occhi si incrociarono, come era già successo un’altra volta, solo che lui non aveva riconosciuto Carabosse.
Ma lei sì. Avrebbe riconosciuto fra mille quegli occhi di un verde così acceso che da piccola le incutevano timore. Le ci volle qualche istante per riprendersi da quello scambio di sguardi.
Alla fine l’aveva incontrato, l’uomo che avrebbe dovuto ingannare e uccidere.
Stefano.


*Angolo Autrice*
Dunque, rieccomi qui, in ritardo come sempre. Spero che con questo capitolo mi sia fatta perdonare da voi, perché a me piace davvero molto, rispetto agli altri che ho scritto.
Sì, sono passati quattordici anni ed è il momento per Carabosse di mettere in atto il piano materno, visto che Elsa è morta - visto, Beauty? Le tue supposizioni erano esatte - ma, come avete letto, dovrà sbrigarsi perché è in arrivo anche la principessa Helen...
Che incontro per i nostri protagonisti, eh? Bollente, proprio. Con queste premesse, che dite, ce la farà Carabosse a conquistare Stefano? 
Bene, ora devo andare, e ringrazio tutti quelli che hanno inserito fra le ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e Beauty per aver recensito.
A presto!

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Capitolo 9
*** The play begins ***


9. The play begins

Il primo impulso di Carabosse avrebbe dovuto essere quello di scappare via e nascondere il suo corpo dallo sguardo di Stefano, ma come sotto l’effetto di un incantesimo, non riusciva a muoversi. Il suo sguardo era intrappolato in quello smeraldino del principe, e sentiva che non avrebbe potuto liberarsene solo con la sua volontà. Arrabbiata per quel potere che lui sembrava avere su di lei nonostante fosse la sua nemesi, l’uomo che avrebbe dovuto uccidere per completare la sua vendetta, e nonostante come l’avesse trattata da bambina, Carabosse ricambiò il suo sguardo quasi con ferocia, piena d’orgoglio, perché lui non avrebbe mai potuto essere come lei, non avrebbe mai avuto un sangue nobile come il suo nelle vene, anche se per tutti era il principe. I suoi occhi lo trafissero come i suoi stavano facendo con lei, lo guardò con aria di sfida.
Lui ne fu immediatamente infastidito, ma ebbe anche una strana sensazione, come un déjà-vu . Gli sembrò di aver già vissuto una situazione simile, ma non riusciva a ricordare né dove né con chi. Quei chiarissimi occhi verdi, comunque, era certo di averli già visti.
Non aveva idea di chi fosse quella ragazza ma il suo coraggio e la sua stranezza lo lasciarono basito: lì le donne non si comportavano così. Un’altra ragazza avrebbe certamente urlato e sarebbe corsa a vestirsi, e poi avrebbe implorato perdono per quel comportamento da selvaggia davanti al principe con le guance in fiamme e gli occhi bassi; lei invece non si curava affatto di essere stata sorpresa a fare il bagno quasi nuda e lo sfidava apertamente, guardandolo come se fosse lui l’essere inferiore, quello che doveva chiedere perdono. Quell’atteggiamento irriverente lo lasciava, oltre che irritato, anche un po’spiazzato, perché non gli era mai capitato di dover tenere testa a qualcuno che dimostrava di avere un carattere così forte. E che bisogno ne avrebbe mai avuto? Lui era il principe: tutti gli altri ad eccezione di suo padre avrebbero dovuto temerlo, e se qualcuno che non fosse Uberto avesse mai osato guardarlo negli occhi con un decimo dell’arroganza di quella ragazza sarebbe già stato fustigato a dovere dai suoi soldati. Ma nonostante questo non riuscì a vincere quella lotta fatta di sguardi, e distolse il suo prima di perdersi inevitabilmente nelle iridi chiarissime della sconosciuta. In quell’attimo in cui lui guardò altrove, lei si alzò repentinamente e uscì a passi svelti dal fiume per afferrare il lungo vestito di tessuto grezzo che aveva posato sulla sella della sua giumenta e infilarselo svelta.
Quei movimenti subitanei attirarono di nuovo gli occhi di Stefano, che la osservò rivestirsi nascosta dal suo cavallo. Si accorse di avere ancora la freccia incoccata e la corda leggermente tesa solo quando la ragazza, ormai vestita di tutto punto e afferrate le redini del suo destriero, gli disse in tono sprezzante:- Se miri così ad una preda, non la prenderai né ora né mai.
Non un’allusione al fatto che l’avesse spiata, che l’avesse vista quasi totalmente senza veli, come se fosse una cosa da niente, come se lui non contasse nulla e lei fosse superiore a questo genere di cose. Lui non disse una parola, ma non si rilassò, anzi, tese ancora di più la corda dell’arco, inarcando un sopracciglio come ad attendere la sua reazione. Pensò che quel gesto avrebbe dovuto far sentire la ragazza in pericolo, ma lei per tutta risposta sbuffò con fare divertito.
- Ti avverto, mirando così non saresti mai in grado di colpirmi.
Quell’ennesima provocazione da parte di quell’irritante ragazza spinse Stefano a controbattere.
- Tu sai chi sono io? – disse abbastanza infastidito e un po’ minaccioso mentre rimetteva a posto arco e frecce nella faretra.
- No, e francamente non vedo perché dovrebbe importarmi. Qui si sta parlando della tua tecnica scadente.
- Non sei di qui, non è vero?
- Perspicace. – disse lei in un tono sarcastico che voleva far intendere che pensasse di lui il contrario di quello che aveva appena detto. – No, non sono di queste parti. Vengo da un posto molto lontano, che tu certamente non conosci, quindi è inutile che ti dica quale sia.
Indubbiamente quella ragazza aveva del fegato, ma Stefano pensava che qualcuno avrebbe dovuto insegnarle quando il coraggio diventava incoscienza, e soprattutto quando era opportuno tacere. In fondo una donna non avrebbe dovuto permettersi di parlare così a nessun uomo, di qualunque rango esso fosse; era vero che lei non avrebbe potuto sapere che lui era il principe, visto che era straniera e che comunque lui indossava gli abiti di un semplice cacciatore, ma non avrebbe dovuto permettersi di osare tanto.
- Molto lontano… – ripeté lui cercando di mantenere la calma. – E lì da dove vieni le donne sono abituate ad essere irrispettose e maleducate?
Lei sbuffò. – Tu confondi la maleducazione con il carattere, forse.
Lui ignorò quell’affermazione, dimostrando a sua volta la sua arroganza. – E, visto che hai criticato la mia tecnica, devo dedurre che tu ritieni di essere un’arciera migliore di me?
- Non lo penso, lo sono – disse lei, che nel frattempo aveva attraversato il torrente con la sua giumenta e lo aveva raggiunto.
- Quanta presunzione… - ribatté lui seccato, ma doveva ammettere di ammirare quella sconosciuta per quella sua lingua tagliente e per quella faccia tosta, oltre che incredibilmente graziosa. Decise di provare ad assecondarla. Essere trattato come un uomo qualunque non gli piaceva per niente, ma era una curiosa novità. Pensò che una volta tanto poteva provare a divertirsi a modo suo.
- Vedremo – rispose lei sorridendo. I suoi occhi si illuminarono ancora di più, anche se il sorriso era falso. – Propongo una sfida. – salì su un rialzo di roccia ricoperto da muschio e felci da cui aveva un’ottima visuale del lembo di foresta circostante e invitò Stefano a fare lo stesso. – Scegliamo un bersaglio da colpire e tiriamo tre volte ciascuno: chi si avvicina di più al bersaglio vince.
Stefano le si avvicinò fino quasi a rendere nulla la distanza fra loro due, e abbassandosi al suo orecchio, mormorò: - E un premio al vincitore lo vogliamo dare?
Lei si scostò guardandolo divertita. – E sia. Il vincitore potrà avere un premio a sua scelta.
- Molto bene… allora se vincerò io, dovrai darmi un bacio, così terrai chiusa quella bocca per un po’.
I suoi occhi si ridussero a due fessure e la sua bocca si piegò in un ghigno sprezzante. – Sai che non succederà mai?
- Staremo a vedere. Ora, che ne dici di rendere la sfida più interessante? Tireremo ad animali, bersagli mobili. Il primo che ne uccide uno, vince. – disse, convinto che quella sfrontata non avrebbe avuto alcuna possibilità contro di lui. Sembrava molto sicura di sé, ma quali che fossero le sue esperienze con gli archi, era sicuro che non fosse mai andata a caccia, oppure non avrebbe proposto una sfida con bersagli inanimati.
Il merlo è caduto nella rete, pensò con disprezzo Carabosse. Stefano non era cambiato, in quattordici anni: arrogante era ed arrogante era rimasto. Ma ci avrebbe pensato lei a sgonfiarlo per bene, sebbene avesse sentito un tumulto dentro di sé quando lui le si era avvicinato, oppure quando aveva proposto un bacio come premio. A quelle parole i suoi occhi erano caduti inevitabilmente sulle labbra del principe, ma aveva distolto subito lo sguardo. Quel ragazzino viziato non avrebbe vinto un bel niente.
- Io ci sto. A te la prima mossa.
Lui riprese la freccia dalla faretra, tese l’arco e mirò ad un nido di ghiandaie che sapeva esserci su uno dei rami più alti di un frassino lì accanto. Prima di tirare, però, non poté fare a meno di guardare, con la cosa dell’occhio, nella direzione della ragazza, che lo guardava con un sorriso divertito sul volto. Bastò quello a far perdere l’attimo a Stefano: scoccò il colpo un millesimo di secondo dopo che la ghiandaia ebbe preso il volo, e ovviamente la mancò. Stizzito, perché non poteva prendersela con nessuno se non con se stesso per quella misera figura, lasciò il posto alla ragazza. Lei prese la freccia e la incoccò con un movimento fluido; guardò bene fra l’erba alta della foresta prima di trovare la sua preda: abbastanza distante da lei, vicino alla sponda opposta del fiume, davanti ad una tana un coniglio selvatico cercava del cibo.
Sorrise fra sé, sicura che non avrebbe mancato il suo bersaglio, e prima di tirare lanciò un vero e proprio sguardo provocatorio a Stefano, ma in fin dei conti non ne aveva bisogno. Lui non riusciva a distogliere lo sguardo da lei: la sua figura era in perfetta armonia con il bosco e… e le sembrò ancora più bella e seducente quando si girò e si concentrò sul suo tiro. Scoccò la freccia, ed essa colpì il coniglio selvatico esattamente in un occhio, lasciando intatta la carne dell’animale.
 Stefano dovette ammettere a se stesso che la sconosciuta aveva molta classe ed eleganza e che la sua tecnica era impeccabile.
Lei saltò giù dal rialzo con un balzo aggraziato e corse leggiadramente a raccogliere il suo bottino di caccia, attraversando il torrente alzando lievemente l’orlo del vestito; in poco tempo fu di ritorno e con un sorriso tese il coniglio a Stefano tenendolo per la coda. Il suo sorriso questa volta non era né provocatorio né sarcastico né divertito, ma sincero e luminoso come Stefano non ne aveva mai visti.
- Credo di aver vinto – disse lei.
- Lo credo anch’io – sospirò lui, rassegnato.
- Quindi? Chi era ad essere presuntuoso?
- Il fatto che tu sia così abile non giustifica la tua superbia.
- Qualcuno qui è un moralista, eh? – disse Carabosse un po’ infastidita. Lui era forse l’ultimo uomo sulla faccia della Terra, dopo Uberto, a poter fare la morale a qualcuno.
- No, solo un po’ frustrato per la figuraccia – ammise inaspettatamente, e quest’affermazione fu in grado di distendere un po’ l’atmosfera, provocando delle risate sincere sia a lei che a lui stesso. – Posso sapere almeno come ti chiami?
- Rosaspina.

***

- Non si è mai vista stoffa più bella, Vostra Maestà, ve lo assicuro.
- Così sembra – disse la Regina Mariah con tono compiaciuto passando la mano su una stoffa preziosissima che pareva quasi fatta d’oro.
- Ne faremo un vestito degno di Sua Altezza la principessa – disse il sarto rivolgendo un piccolo inchino alla principessa Helena che si teneva in disparte.
- Allora procedete a prendere le misure. La principessa dovrà avere un intero guardaroba nuovo per il viaggio dal suo promesso sposo, dovrà essere splendida, e non c’è tempo da perdere. Dobbiamo solo decidere, Helena – continuò la Regina, stavolta rivolgendosi alla figlia – in quale occasione indosserai quest’abito. Senza dubbio alcuno la festa del tuo fidanzamento sarà l’occasione più importante da qui fino al matrimonio, ma anche il tuo primo incontro con il principe Stefano non è da sottovalutare… fare una superba prima impressione è fondamentale e…
Sua madre continuava a parlare, ma Helena ascoltava a stento. Si limitava a fissarla senza in realtà vederla, annuendo di tanto in tanto, mentre il sarto le ronzava intorno prendendole le misure. Da settimane passava la maggior parte del suo tempo così, a fissare il vuoto mentre gli altri parlavano di cose che alle sue orecchie sembravano senza senso. Avrebbe compiuto sedici anni a breve, e insieme al suo compleanno avrebbe festeggiato il fidanzamento, in una terra straniera, con un uomo che non conosceva se non di nome. Era ancora una ragazzina, anche se non era certo questo a pesarle. Non era mai stata veramente bambina, lei che era stata cresciuta da una nutrice e aveva dovuto abbandonare ben presto l’infanzia per seguire la sua educazione principesca; ciò che la preoccupava davvero era il suo futuro marito. Sapeva fin troppo bene che quei matrimoni combinati si rivelavano già dai primi giorni nient’altro che una trappola in cui nessuno dei due coniugi sarebbe stato davvero felice, ma almeno il marito, il Re, avrebbe avuto più libertà; la moglie, la Regina, sarebbe invece stata costretta ad una vita infelice, come rinchiusa in una gabbia. Il matrimonio dei suoi stessi genitori ne era una prova. Suo padre, il Re Maurice, era di vent’anni più vecchio della Regina, e l’aveva sposata quand’ella era appena una quindicenne; era un uomo dall’animo gretto, sebbene fosse di nobili natali, e la Regina Mariah aveva molto faticato nei primi anni del suo matrimonio a nascondere il suo disgusto per il consorte, ma non aveva avuto scelta: aveva dovuto sposarlo per evitare una guerra d’annessione che il suo Regno avrebbe sicuramente perso. Il Re e la Regina, agli occhi di Helena, potevano essere paragonati a due estranei costretti a convivere e che si rapportavano l’uno all’altro per pura e semplice cortesia e formalità. Suo padre aveva una gran quantità di amanti e questo non era certo un mistero; non rivolgeva quasi mai la parola a sua moglie se non in occasioni mondane come balli e feste, e con sua figlia era praticamente inesistente: Helena non ricordava quale fosse stata l’ultima volta che l’aveva visto al di fuori delle occasioni ufficiali, o se avesse mai ricevuto una parola dolce da parte sua. Sua madre, per contro, era fin troppo presente, ma il suo rapporto con lei era altrettanto vuoto e spesso aveva la sensazione che la Regina la trattasse come si tratta un animaletto domestico. Ma in fondo cosa poteva aspettarsi lei, un’insignificante figlia femmina, buona solo da esibire ai balli come bellezza del Regno? Suo padre aveva ardentemente desiderato un maschio, lo sapeva, un erede forte che avrebbe conquistato potere e ricchezze con l’acciaio di una spada, e invece gli era toccata una femmina, che non solo voleva dire avere l’onere di farle avere una ricca dote, ma anche che il suo Regno sarebbe stato annesso a quello di qualcun altro. Helena non aveva mai ricevuto una parola sgarbata da nessuno dei sue genitori, ma il disprezzo glielo leggeva negli occhi. Oh, sua madre era rimasta incinta altre volte dopo di lei, sì, ma tutte le gravidanze erano finite con un aborto spontaneo. Lei era stata l’unica abbastanza fortunata da venire alla luce, e avrebbe volentieri rinunciato a quella fortuna in favore di uno dei suoi fratellini morti, ma le cose erano andate diversamente. E ora, dopo un’infanzia inesistente e un’adolescenza infelice, l’aspettava la prospettiva di un matrimonio altrettanto sterile e vuoto. Sì, temeva che anche Stefano sarebbe stato così, come suo padre. Temeva di ridursi come sua madre, che faceva finta di non sapere e di non vedere ciò che era sotto gli occhi di tutta la corte e che, forse per ripicca o per reagire in qualche modo a quella vita, era insopportabile con tutti.
Quegli ultimi giorni di “libertà” che le erano rimasti sembravano passare troppo in fretta, come in un sogno, come se lei fosse solo una spettatrice della sua vita, fra prove d’abiti, danze, lezioni della nuova lingua e delle tradizioni di quella che sarebbe diventata la sua nuova patria, con sua madre che decideva tutto al posto suo.
Ad un tratto, il monologo della Regina fu interrotto dal bussare sulla porta di quercia della règia sartoria. Una delle dame della Regina andò ad aprire e il messaggero di Re Uberto che avevano precedentemente incontrato entrò nella stanza con un inchino alla sovrana e alla principessa.
- Vostre Altezze Reali, ho l’onore di riferirvi da parte del principe Stefano che egli ha accolto con gioia la proposta di Vostra Maestà di ospitare Sua Altezza la principessa nel suo castello per una settimana prima della festa di fidanzamento.
- Magnifico. Riferite al principe che abbiamo ricevuto il suo messaggio e che la principessa Helena è estasiata dalla prospettiva del suo viaggio – disse Mariah e, dopo aver congedato il messaggero, tornò a rivolgersi a sua figlia. – Vedrai, mia cara. Si dice che il principe Stefano sia un giovane di rara bellezza, e il suo è un Regno molto antico, molto ricco. Sarai una Regina molto felice e assolutamente perfetta. Non ho alcun dubbio.
- Neanch’io, madre – rispose Helena quasi sospirando.

***

Carabosse non era sicura di aver fatto la cosa giusta, comportandosi come si era comportata. Non aveva idea, avendo vissuto per i suoi ventiquattro anni lontana dalla vita della gente comune e in particolare negli ultimi quattordici anni lontana dalla vita in generale, di come si comportassero le ragazze quando volevano sedurre un uomo. La sua indole era buona e timida, e per portare a termine la sua vendetta avrebbe dovuto fingersi la ragazza seduttrice che non era, avrebbe dovuto fingersi forte e sicura di sé, quando non lo era neanche un po’. Lei era fragile, e quando aveva incontrato Stefano, una decina di minuti prima, non era sicura che sarebbe riuscita a comportarsi come sua madre avrebbe voluto, invece a quanto pareva era stata credibile; certo, era stata anche aiutata dal rancore che negli anni aveva covato nei confronti di quel traditore di Uberto e anche di suo figlio. Dopo il suo pungente scambio di battute con Stefano e il suo tiro da maestra – merito degli insegnamenti dei bracconieri – si erano detti i loro nomi, e Carabosse si era presentata come Rosaspina. Di certo non poteva dire il suo vero nome, altrimenti Stefano l’avrebbe immediatamente smascherata. Lui le aveva detto di essere un cacciatore, sebbene fosse evidente che non aveva molta esperienza o abilità. Lei aveva poi dovuto scegliere un premio, e aveva scelto di fare un giro per la città, accompagnata da lui; non le era sfuggito il lampo di soddisfazione che era passato in quel momento negli occhi del principe. Adesso erano a cavallo, Stefano davanti sul suo stallone nero e Carabosse un po’ indietro sulla sua giumenta color cioccolato, e cavalcavano nella foresta diretti alla città. Chissà se l’avrebbe riconosciuta, chissà se era cambiata… lei ricordava una grande e bella città sempre in movimento, ricordava che la piazza era enorme e sempre gremita di gente, ricordava l’enorme fontana di marmo al centro esatto della città… sarebbe stato strano ritornarci da estranea.
Ancora per poco. Non sarai più un’estranea, dopo che avrai completato il tuo lavoro, le disse una vocina nella sua mente, che stranamente suonava proprio come quella di Elsa, sua madre. I suoi occhi caddero sul ragazzo davanti a lei, che in quel momento cavalcava beatamente senza sapere quale pericolo corresse, e sentì quasi un tuffo al cuore al pensiero di doverlo uccidere. Quasi.
Come se avesse avvertito il suo sguardo, Stefano si girò verso di lei, cogliendola un po’ alla sprovvista.
- Ci siamo quasi – disse il principe, sorridendo. Dopo che lui aveva ammesso che lei era più brava di lui e aveva disteso un po’ l’atmosfera, i due si erano un po’ sciolti e avevano addolcito un po’ il tono con cui si parlavano, anche se Carabosse continuava a rimanere un po’ sulle sue. La ragazza non trovò nulla da dire a quell’affermazione e annuì. Effettivamente dopo qualche minuto gli alberi iniziarono a diradarsi e alle loro orecchie iniziarono a giungere gli echi di schiamazzi e rumori vari. Andando ancora avanti giunsero davanti alle mura delle città, alte e imponenti. Le porte erano aperte, ma presidiate dalle guardie. Quando queste riconobbero il loro principe fecero per porgergli i loro rispetti, ma Stefano li fermò con un solo sguardo. Voleva continuare a mantenere l’anonimato con Rosaspina, perciò si limitò a salutare con un cortese “Buona giornata” le sentinelle come fece anche lei, mentre i due uomini armati si guardavano dubbiosi e incerti su cosa fare. Quando furono entrati fu come se Carabosse fosse entrata in un altro mondo, a lei sconosciuto. Si sentì un po’ stordita: la città era caotica, affollata, piena di movimento… era da quattordici anni che non vedeva tanta gente tutta insieme, ma soprattutto, quella era la sua gente. Inspirò a fondo quell’aria densa di vita che non respirava ormai da troppo tempo. Osservava tutto dall’alto della sua giumenta mentre lei e Stefano avanzavano lentamente sui cavalli, senza accorgersi di essere a sua volta osservata dal principe.
In ogni passante cercava disperatamente qualcosa, una traccia, uno sguardo che le dicesse che lì qualcosa della sua precedente vita era rimasta, che loro non si erano scordati del Re Thomas e della Regina Elsa, ma tutte le persone che incrociavano il loro cammino tenevano i visi bassi e sparivano via troppo velocemente perché lei potesse guardare meglio. I più alzavano di sfuggita lo sguardo sui cavalli e sui cavalieri per poi abbassarlo nuovamente e farsi da parte per fare strada quasi fosse un gesto automatico. Nessuno fece segno di riconoscere Carabosse, né lei riconobbe alcun viso di quelli vide, per quanto si sforzasse… non che avesse avuto molti contatti con la gente comune, da bambina; comunque poteva affermare con certezza che sotto il regno di suo padre la gente sembrava molto più felice.
- Ti senti bene? – Carabosse si sentì chiedere da Stefano. Si girò verso di lui e vide sul suo viso un’espressione sinceramente preoccupata, cosa che le sembrò strana visto come lei l’aveva umiliato nel bosco.
- Sì. Sono solo un po’ disorientata… - rispose lei. Era davvero spaesata e confusa da quella situazione totalmente nuova, e addio alla maschera da ragazza sicura di sé. Stefano però non sembrò farci caso e continuò a parlare senza infierire.
- La città può fare quest’effetto, quando non si è abituati – disse, ricordando quanto lui stesso si sentisse disorientato quando, da ragazzino, suo padre lo aveva portato a stare nella città, mentre aveva sempre vissuto in campagna.
- Già...
- Quindi vieni da un piccolo villaggio? –. Carabosse annuì, con sguardo perso che vagava da una parte all’altra. – E come mai sei qui? Voglio dire, hai viaggiato da sola per giorni… perché?
- Ero… in fuga – rispose lei senza pensarci.
- Fuga. Capisco. Verso dove?
- Non lo so ancora. Non ho una meta precisa. Ma questo Regno mi piace.
- Quindi ti serve un posto dove stare.
Carabosse si riscosse, accorgendosi di stare sprecando un’occasione preziosa per farlo cadere nella sua trappola. Carabosse la sfrontata, ritorna in scena!, si disse.
- E’ per caso un tentativo di abbordarmi, il tuo?
- No, era premura, ma se tu vuoi intenderla così… effettivamente se non fossi stato il gentiluomo che sono un tentativo con una così bella ragazza lo avrei fatto – rispose lui, stupendo perfino se stesso. Carabosse rise, soddisfatta.
- Allora ti ringrazio per la tua premura, ma preferisco evitare di alloggiare in casa di un perfetto sconosciuto… sai com’è, potresti non resistere alla tentazione.
- Non sono quel genere di uomo, ma comunque non intendevo a casa mia. Un mio amico ha una locanda e… mi deve un favore… potrei chiedere a lui…
- E tu sprecheresti così un favore, per una sconosciuta?
- Ehi, io sono un gentiluomo! – protestò per gioco, sempre più divertito. Doveva ammettere che passare un po’ di tempo senza una corona in testa stava avendo i suoi vantaggi.
- Sì, un gentiluomo che spia le ragazze fare il bagno. In ogni caso, ti ringrazio – disse Carabosse ammiccando.
- Ecco, siamo arrivati – disse Stefano indicandole una locanda che, a giudicare dall’insegna e dalla facciata, doveva essere abbastanza lussuosa. – Aspettami qui, vado a parlare con il mio amico. Entrambi scesero da cavallo e mentre Stefano entrava nella locanda, Carabosse legava entrambi i destrieri all’apposito recinto completo di abbeveratoio su un lato dell’edificio. Si guardò intorno avida di scene di vita quotidiana, di normalità. Vide il fornaio che metteva il pane a raffreddare su un alto davanzale, vide una donna che tornava a casa con un cesto pieno di verdure, vide un uomo che conduceva una carro pieno di fieno, vide i bambini che giocavano nella strada. La sua attenzione fu catturata da loro. Ricordò quando una volta, a quattro o cinque anni, era scappata dalla sua balia ed era riuscita ad eludere la sorveglianza delle guardie per andare in città, a giocare con gli altri bambini. La sua fuga era durata poco più di una ventina di minuti, ma si era divertita tantissimo: l’avevano riportata al castello con gli abiti sporchi di fango e i capelli scarmigliati, al cospetto di suo padre e di sua madre, preoccupatissimi, che dopo aver ascoltato la sua versione dei fatti ed essersi accertati che non si era fatta niente erano scoppiati inspiegabilmente a ridere e le avevano promesso che le avrebbero permesso di giocare con altri bambini al castello, per scongiurare il pericolo di un’altra fuga. Scacciò quel ricordo e si concentrò su tutto il resto.
 I bambini stavano giocando a campana, ridendo e schiamazzando, ignorando una bimbetta più piccola che cercava di imitarli e di unirsi a loro. Gli altri non fecero caso a lei finché uno di loro, infastidito, le disse: “E smettila di starmi sempre fra i piedi!”, e la spinse indietro con troppa forza, perché la piccola, sbilanciata, cadde a terra e rimase lì, in lacrime. Carabosse aspettò che si facesse avanti qualcuno a soccorrerla e a dare uno scappellotto al ragazzino, ma nessuno fece niente. Qualche donna si girò per osservare la scena ma dopo aver visto cos’era la causa del rumore tornò alle proprie faccende come se nulla fosse. Allora, indignata, si fece avanti lei e si accovacciò accanto alla bambina, che smise di piangere per guardarla meglio. Era visibilmente stupita: probabilmente a casa sua non doveva ricevere molte attenzioni. Carabosse guardò quegli occhioni blu arrossati dal pianto, quel visetto sporco e rigato dalle lacrime e d’istinto abbracciò la piccola.

***

- Tutto chiaro?
- Certo, Vostra Altezza. Vi assicuro che la vostra ospite sarà trattata come una principessa qui da noi.
- Mi raccomando, massima segretezza. Lei non deve sapere né del pagamento né il mio nome – ricordò Stefano all’oste che aveva di fronte.
- Naturalmente, Vostra Altezza.
- E voglio che sia tutto perfetto – detto questo, Stefano uscì credendo di trovare Rosaspina sull’uscio ad aspettarlo, ma non c’era. Preoccupato, si guardò intorno, e la vide più avanti accovacciata per terra di fianco ad una bambina di quattro o cinque anni. Rosaspina sorrideva in modo rassicurante e la accarezzava. La stava consolando. Le vide scambiarsi qualche parola, poi Rosaspina prese la bimba in braccio e la portò verso i cavalli, legati davanti ad un abbeveratoio. Lei non l’aveva visto, perciò la ragazza sobbalzò quando se lo ritrovò davanti.
- Stefano! Mi hai spaventata – disse ridendo, del tutto dimentica di quel tono duro che aveva usato con lui nelle precedenti conversazioni. Poi, indicando la bambina, disse: - Stefano, ti presento Aurora; Aurora, ti presento Stefano, il mio primo amico da quando sono qui.
Lui la guardò incredulo sentendosi definire come amico, ma lei sembrava tutta un’altra persona rispetto a quando l’aveva conosciuta… eppure non era passata nemmeno un’ora!
La fissò attentamente negli occhi e vi scorse una luce speciale. Dolce. Una luce che non aveva mai visto negli occhi nessun altro al mondo, tantomeno con lui.
- Piacere di conoscerti, piccola Aurora. Come mai i tuoi occhi sono rossi? Non avrai pianto! Le belle bambine come te non devono piangere! – cercò di comportarsi come Rosaspina con quella bimba, anche se con i bambini non aveva molta esperienza.
- C’erano dei bambini cattivi che mi hanno fatto male, ma Rosaspina gli ha dato uno scappellotto e li ha rimproverati, e mi ha promesso un giro sul suo cavallo.
- Prego, principessa, il tuo cavaliere e la tua damigella ti aiuteranno durante la cavalcata – disse stando al gioco, e dopo aver fatto un inchino scherzoso aiutò Rosaspina ad issare Aurora sulla sua giumenta.
- Dove ti portiamo? – chiese Rosaspina tenendo una mano sulla schiena di Aurora per sostenerla mentre Stefano guidava la cavalcatura tenendola per le redini.
- A casa – esclamò indicando la direzione col dito.
- Armiamoci e partiamo all’avventura, dunque! – esclamò Stefano, suscitando le risate sia della bambina che della ragazza.
La piccola si divertiva moltissimo a cavalcare e la sua allegria contagiava anche Rosaspina e Stefano che di tanto in tanto non potevano fare a meno di cercare l’uno lo sguardo dell’altra. Attiravano l’attenzione di tutti, ma nessuno sembrò riconoscere il figlio del Re o la principessa Carabosse. Quando furono arrivati, Stefano fece scendere Aurora dal cavallo prendendola in braccio e la piccola diede un bacio a lui e alla sua paladina, dopodiché fu riconsegnata alle braccia materne.
- Bene, ora torniamo indietro, ti faccio vedere il posto in cui alloggerai in questi giorni – disse Stefano a Rosaspina non appena si fu chiusa la porta della casa. Lei, dal canto suo, riprese a recitare il suo ruolo.
- Guarda che non sono tipa da buttarsi ai piedi di un uomo per qualche gentilezza – rispose, e continuarono con quella specie di cordiale battibecco per tutta la strada finché non furono ritornati alla locanda. Lì, legata nuovamente la giumenta alla staccionata, lei gli voltò le spalle e sia avviò all’entrata, ma Stefano la fermò per qualche secondo da dietro, afferrandole entrambi i polsi con le mani. Avvicinò leggermente la testa alla sua e le sussurrò all’orecchio: - E comunque… puoi fare la parte della dura quanto vuoi, ma ormai ti ho smascherata. Sei la dolcezza fatta persona.
Un brivido corse lungo la schiena di Carabosse, ma prima che lei dire qualsiasi cosa lui la lasciò, la superò e le lanciò uno sguardo divertito prima di precederla nel locale. Lei esitò solo un secondo, poi lo seguì.


*Angolo Autrice*
Allora, ecco il nuovo capitolo! Dopo il primo incontro da ustione, come definito da Beauty, Carabosse e Stefano si affrontano... ognuno dei due ha un bel caratterino, sarà difficile per Carabosse riuscire nella sua missione, ma non si sa mai cosa può accadere *muahahahahah*. Dunque, spero che non sia troppo inverosimile o scontato come primo incontro... ah, tenete d'occhio la piccola Aurora, ok?
Ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto alle rcordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e Beauty per aver recensito. Alla prossima!

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Capitolo 10
*** Learning how to hunt... ***


10. Learnign how to hunt…
Dopo averle mostrato il suo alloggio, Stefano era rimasto tutto il giorno in compagnia di Rosaspina: le aveva fatto visitare la città, le aveva spiegato alcune delle tradizioni del regno e parte della sua storia – evitando accuratamente quella che riguardava lui come principe. Usurpatore, per di più – sorprendendo perfino se stesso con quell’insolita premura. Non sapeva a cosa fosse dovuta… insomma, lui, un principe, abituato ad un rispetto reverenziale e ad essere servito e riverito, si ritrovava a fare da cavalier servente ad una qualunque contadinella che per di più lo aveva umiliato e gli aveva mancato di rispetto fin dalla prima occhiata che si erano scambiati. Eppure, dopo aver giocato con quella bambina, la piccola Aurora, sembrava quasi che entrambi si fossero ammorbiditi, a dispetto dei toni sarcastici e delle parole taglienti con cui si erano parlati fin dall’inizio.
Forse il principe era spinto dall’orgoglio di mostrarle quella magnifica città per poi rivelarle di esserne il futuro sovrano – una parte di lui pregustava già l’espressione che avrebbe assunto il viso di Rosaspina una volta saputa quella notizia – o forse voleva dimostrarle che, in barba a quanto lei insinuava, lui era davvero un cavaliere… o forse voleva solo tentare di rimediare al loro rocambolesco primo incontro, nel bosco, e ripartire con il piede giusto. Qualcosa però gli diceva che lui avrebbe potuto metterci tutta la buona volontà che aveva, fare mille sforzi in quella direzione, ma Rosaspina non avrebbe semplicemente voltato pagina e ricominciato a scrivere il loro incontro daccapo, lei non avrebbe messo da parte la sua antipatia e sarebbe rimasta convinta e irriverente, pronta a tirare fuori quell’episodio e rinfacciarglielo quando lo avrebbe ritenuto più opportuno. Ma tutto quello che lui voleva era davvero trascorrere del tempo serenamente, per una volta che era lontano dal palazzo e poteva essere se stesso, senza obblighi né aspettative che incombevano su di lui – o almeno poteva provarci; tutto quello che voleva era stare in compagnia di quella strana ragazza che, senza saperlo, gli stava facendo un favore immenso a trattarlo come un qualunque cacciatore e forse anche peggio; tutto quello che chiedeva era di poter stare ancora un po’ in sua compagnia e lasciare da parte per un giorno l’ansia e la frustrazione dell’imminente matrimonio. Tutto quello che voleva era rivedere ancora una volta quella sconfinata dolcezza negli occhi di Rosaspina, anche solo per un momento: una semplice, fugace apparizione di quella dolcezza gli sarebbe bastata, se avesse saputo che era dovuta a lui e destinata a lui.
E forse, più di tutti gli altri, era stato quello il motivo che lo aveva spinto ad accompagnarla ovunque andasse per tutto il giorno, ma non aveva avuto i risultati sperati. A dispetto della frase che le aveva sussurrato prima di entrare nella locanda, “sei la dolcezza fatta persona”, non era del tutto convinto che fosse vero. Rosaspina aveva continuato con il suo atteggiamento sostenuto e adorabilmente ribelle per tutto il pomeriggio e gli aveva riservato non pochi dei suoi commenti sarcastici, e sebbene il principe percepisse che si era ammorbidita si era ritrovato a chiedersi se per caso non si fosse del tutto immaginato la ragazza dolce che lo aveva guardato insieme ad Aurora. Si era quindi rassegnato a non rivedere quella parte di lei – vergognandosi anche, perché lui era un principe, diamine, non un moccioso in cerca dello sguardo rassicurante della madre. Lui era forte, orgoglioso e indipendente, e non si sarebbe messo a elemosinare sguardi come una servetta innamorata – e aveva ripreso a ricambiare le sue battute mordaci con altrettanta combattività, ma stavolta provava quasi gusto nel farlo.
Avevano camminato per le vie della capitale, fermandosi ai banchetti di legno dei venditori delle merci più disparate, con Rosaspina che sembrava avere interesse in qualsiasi piccola cosa. Si guardava intorno con palese interesse e nulla sfuggiva al suo sguardo, e andava da una parte all’altra del mercato con un entusiasmo degno della piccola Aurora. Molto probabilmente non si era neanche accorta di avere il suo sguardo puntato addosso, sinceramente curioso di tutto quello che riguardava lei. Quella ragazza era un mistero umano, un enigma vivente… non che si fosse mai preoccupato di decifrare le personalità di coloro che lo circondavano, a palazzo, ma col tempo aveva imparato benissimo a quale categoria appartenessero: leccapiedi, adulatori, persone meschine che cercavano solo di entrare nelle sue grazie, con uno spessore psicologico praticamente nullo. Ci aveva fatto l’abitudine e, per carità, non gliene era mai importato granché, da loro pretendeva solo il dovuto rispetto, e quelli glielo dimostravano ampiamente. Era addirittura compiaciuto dal loro gareggiare per i suoi favori e si divertiva nel vederli affaticarsi appresso a lui quando sapeva che mai e poi avrebbe concesso loro il più piccolo privilegio. Poi, col passare degli anni, perfino lui era maturato e aveva perso gusto nel tormentare così i suoi cortigiani, che erano considerati alla stregua di  animali da compagnia di cui si era stancato, ed era sprofondato in una specie di apatia nella quale la sua arroganza e la sua boria spiccavano ancora più nettamente. Certo, il fatto che suo padre sembrava essere contento di quel suo comportamento non lo aveva aiutato a cambiare.
E invece Rosaspina lo provocava, risvegliava la sua curiosità, dimostrava di avere una personalità forte, complessa, affascinante, tutta da scoprire… e c’era qualcosa che gli sfuggiva, perché in fondo non era abituato a decifrare sguardi e comportamenti, ma sentiva che tutto ciò di cui aveva bisogno era più tempo in sua compagnia per poterla capire. Ci avrebbe potuto mettere mesi, ma sentiva, assurdamente, il bisogno di farlo. Forse perché era stata l’unica, fino a quel momento, ad essere riuscita a riportarlo indietro dal suo stato di apatia quasi perenne, e voleva capire come aveva fatto. Come poteva una ragazza qualunque, e soprattutto, una donna avere quel potere su di lui? Ne era affascinato, certo, ma non l’avrebbe mai ammesso.
Perciò fu a malincuore che, al calare del sole, lui la riportò indietro alla locanda e la salutò. Anche lei non sembrò essere troppo contenta di doversi separare da lui, ma credette di esserselo immaginato, perché quella ragazza sembrava essere davvero immune al suo fascino.
Quello avrebbe dovuto essere un addio, perché per quale motivo lui sarebbe dovuto andare a trovarla? Avrebbe voluto dire ammettere qualcosa, non sapeva neanche lui esattamente cosa, ma anche solo il pensiero di dare all’altra quel piccolissimo, insignificante vantaggio offendeva a morte il suo orgoglio. E poi lui era il principe, non poteva sparire in eterno dal castello per passare del tempo con quella sconosciuta. L’aveva incontrata, l’aveva aiutata facendo il suo dovere e le aveva fatto compagnia come un perfetto cavaliere, ora non c’era più nulla che potesse o dovesse fare e avrebbe dovuto lasciarla proseguire per la sua strada, esattamente come avrebbe fatto lui. Lei si sarebbe fermata forse per un po’ nel regno, ma poi avrebbe ripreso il suo viaggio alla ricerca di qualcosa che fosse abbastanza da convincerla a fermarsi, e si sarebbe stabilita in un luogo che lui non avrebbe mai saputo. Avrebbe messo radici e si sarebbe sposata, avrebbe avuto una famiglia… si ritrovò a sbuffare a quell’idea, mentre lo stomaco si stringeva con una contrazione ben poco piacevole. Prima di dover ammettere a se stesso qualcosa, qualsiasi piccolissima cosa, la voce del suo orgoglio intervenne, suggerendo che quel fastidio era semplice e pura incredulità, perché quella ragazza non avrebbe mai potuto trovare un posto nel mondo che andasse bene per lei, né tantomeno si sarebbe sposata e avrebbe avuto una famiglia come tutte le donne comuni. Era troppo fuori dall’ordinario, troppo… troppo, per una vita normale. Ma non era cosa che riguardasse lui: Stefano avrebbe vissuto la sua vita da principe quale era, lei avrebbe visto cosa fare della propria.
Perciò la questione avrebbe dovuta essere risolta… già, avrebbe dovuto. La cosa lo fece pensare e rigirare nel letto per tutta la notte, e fu così che la mattina dopo Rosaspina se lo ritrovò davanti mentre usciva dalla locanda per andare a fare una cavalcata, con arco e faretra in spalla, il suo stallone tenuto per le redini e lo sguardo che si sforzava di essere assolutamente impassibile.
Perfino lei stentò a nascondere un sorrisetto soddisfatto che a Stefano non piacque per niente – non perché non fosse effettivamente bello, anzi, un bagliore così a prima mattina poteva essere davvero dannoso all’autocontrollo di un qualunque uomo – ma stranamente non fece commenti di sorta. Si limitò a salutarlo e lui le propose una nuova sfida con l’arco, e lei stavolta non si preoccupò di nascondere il suo sorriso, che aveva una sfumatura vittoriosa e compiaciuta, come se non avesse aspettato altro… o come se sapesse già che avrebbe vinto. Orgoglio ferito a parte, Stefano non si sentiva propriamente di darle torto, e probabilmente in un’altra occasione avrebbe dato via la propria corona piuttosto che umiliarsi una seconda volta in quel modo di propria spontanea volontà, ma era l’unica scusa che gli fosse venuta in mente per rivedere Carabosse.
E così la giornata si era ripetuta quasi uguale alla precedente: la sfida e le successive rivincite erano state vinte da Rosaspina, con grande scorno di Stefano, poi lui si era offerto di farle compagnia ed erano ritornati in città e dopo aver mangiato insieme alla locanda (Stefano aveva detto che viveva completamente solo e non aveva nessuno da cui fare ritorno a casa) erano andati ad esplorare le parti della città che ancora lei non aveva visto.
Quella volta, al momento di separarsi, ognuno dei sue aveva rivolto all’altro uno sguardo furbo e consapevole, perché entrambi sapevano che quella giornata era stata piacevole ma nessuno dei due l’avrebbe ammesso, e perché sapevano che l’indomani si sarebbero visti nuovamente.
Infatti il mattino dopo  Stefano fu di nuovo da lei, e lo stesso il mattino dopo, e quello dopo ancora, e tutte le giornate scorrevano uguali alle precedenti ma sempre con qualche elemento nuovo. Per esempio, entrambi stavano imparando qualcosa di più sull’altro tramite domande interessate mascherate da uno strato di indifferenza; Stefano passava sempre qualche secondo di più ad osservare la figura sinuosa ed elegante di Rosaspina mentre tirava con l’arco e gli importava sempre meno delle sue sconfitte, anche se non rinunciava a dar voce al suo orgoglio ferito; tutti e due continuavano a rapportarsi all’altro usando il sarcasmo e l’ironia, ma quei battibecchi avevano assunto una connotazione più intima… quasi amichevole; Stefano riusciva ogni giorno di più a inquadrare meglio la personalità della ragazza e aveva capito con precisione cosa poteva dirle per farla arrabbiare, dando il via ad una delle tante schermaglie di parole taglienti che tuttavia, stranamente, lo confortavano; Rosaspina sembrava sapere benissimo cosa invece lei poteva dire per provocare lui e, a volte, metterlo a tacere. Era come se tutti e due volessero intensamente quello scambio di parole in origine acuminate che venivano costantemente smussate ogni volta che si parlavano: era qualcosa di strano e completamente nuovo per entrambi, e Stefano sapeva che mentre con lei quasi anelava questo strano rapporto che ancora non aveva ben identificato, se qualcun altro si fosse mai permesso di parlagli così lo avrebbe punito immediatamente. Ma quella ragazza era riuscita, non sapeva come, ad affascinarlo in una maniera tale da volere di più anche di quell’irriverenza sconfinata.
Era un gioco a cui giocavano in due, sebbene con scopi diversi.
Uberto aveva notato quelle assenze, ma non aveva fatto domande né aveva rimproverato suo figlio: aveva accettato di buon grado che Stefano si prendesse dei giorni per sé, di liberta, se questo significava che lui si era rassegnato al matrimonio. Non che avesse altra scelta, d’altra parte.
Ma quelle poche volte in cui riusciva a vederlo, durante la cena, sembrava preso da tutt’altre cose e non aveva mostrato la minima ribellione, né si era lamentato. Anzi, sembrava piuttosto soddisfatto e stranamente su di giri, come se gli fosse capitata una piacevole esperienza che era impaziente di ripetere. Forse aveva trovato una donna con cui sfogare la sua tensione e la sua frustrazione, e di questo Uberto era soddisfatto: Stefano aveva certamente capito che quel matrimonio non avrebbe voluto dire nulla di importante per lui. Se la sua futura moglie non gli fosse piaciuta avrebbe avuto centinaia di donne a disposizione per consolarlo, l’avere un anello al dito sarebbe stato irrilevante. Non lo sfiorava neanche l’idea che suo figlio potesse aver trovato quell’entusiasmo nella compagnia di una contadinella, semplice compagnia senza doppi fini: per lui era un’idea così assurda, uno scenario così estraneo da non ritenerlo neanche possibile.
E così, non frenato in alcun modo dall’autorità paterna, Stefano tornava ogni giorno da Rosaspina e se ne separava sempre al calar del sole. A volte, in città, si erano nuovamente imbattuti nella piccola Aurora e avevano giocato con lei. In quei momenti entrambi accantonavano i rispettivi caratteri forti per dedicarsi alla bambina, alla quale si affezionavano sempre di più. Era davvero impossibile non volerle bene, con quella sua gioia e tenerezza insite dentro di lei, con quei boccoletti biondi e le guanciotte rosee; era molto bella e in salute per essere una semplice popolana e si vedeva che era la beniamina di molte massaie del vicinato, sebbene nella sua famiglia non venisse considerata che un peso. Del resto, a cosa poteva servire la sua bellezza? Solo ad attirare guai.
Loro però la coccolavano e giocavano amorevolmente con lei, entrambi pensando a come sarebbe stato avere una sorellina più piccola; Carabosse però spesso si incupiva durante quelle riflessioni, pensando che fosse stato un bene non averne avuta una, perché probabilmente una bambina più piccola di lei non avrebbe retto la vita sulla Montagna Proibita. Quando pensava ciò, non poteva fare a meno di voltarsi con occhi accusatori verso Stefano, che fortunatamente non vedeva quasi mai quelle occhiate che lei gli rivolgeva, ma ogni volta era sempre più difficile credere davvero nel suo odio per lui. Quando lo vedeva giocare con Aurora, sorridente, dolce, intenerito, con una luce speciale negli occhi – quella stessa luce che, a sua insaputa, lui ricercava in lei – sentiva come se una massa scura e ghiacciata attorno al suo cuore si stesse lentamente sciogliendo, e in pochi secondi abbandonava i pensieri cupi per lasciarsi coinvolgere nel loro entusiasmo. Capitava spesso che si sfiorassero, e Rosaspina riusciva a stento a reprimere i brividi che le davano quei contatti; a differenza di lui, non aveva problemi ad ammettere che lo attraesse fisicamente, insomma, quello che le stava davanti non era più un ragazzino ma un uomo fatto, alto, quasi statuario, con le spalle ampie, le braccia forti,  i capelli corvini ondulati lunghi fino al collo, e quando i suoi occhi color smeraldo, che da bambina l’avevano inquietata, sorridevano con lui – quasi sempre a causa di Aurora – non poteva fare a meno di pensare che quelli fossero gli occhi più belli che avesse mai visto, gli unici in cui valesse la pena perdersi per non riaffiorare alla realtà mai più. Ma lui era solo una pedina, solo uno strumento per giungere alla sua vendetta, e lei non lo dimenticava mai: poteva trovarlo attraente, ma non poteva permettersi di provare nulla nei suoi confronti che non fosse qualcosa di negativo, e tuttavia diventava ogni giorno più difficile vedere in lui lo stesso ragazzino arrogante che la disprezzava, era difficile vedere in lui il figlio di Uberto.
Passava tutti i suoi giorni in sua compagnia, e ognuno di loro si stava pian piano assuefacendo alla presenza dell’altro, tanto da non riuscire più a pensare ad una giornata che non comprendesse una delle loro gare con l’arco o almeno una loro litigata.
 
-Non mi hai ancora detto perché sei in fuga dal tuo villaggio – disse Stefano a Rosapina circa una settimana dopo il loro primo incontro. Erano nel bosco, a dimostrare l’un l’altro le proprie abilità venatorie: Rosaspina, sempre facendo sfoggio della sua superiorità e non perdendo mai occasione per umiliarlo, gli aveva dato qualche consiglio e lui stava visibilmente migliorando, sebbene già di suo fosse un discreto arciere.
-Diciamo che… mi stava troppo stretto, ecco. Non l’ho mai sentito come casa mia. Avevo bisogno di andarmene e trovare la mia strada, che non era lì. C’erano cose da cui volevo scappare – disse in tono grave. Quella era una delle rarissime confidenze pure e sincere che lei gli faceva. Si conoscevano solo da pochi giorni e lei sembrava essere un tipo abbastanza diffidente, sì, ma questo non toglieva che lui fosse l’unica persona che conoscesse lì con cui potersi aprire. Del resto, Stefano pensava che tutti avessero bisogno di qualcuno per sfogare il proprio dolore; a tenersi tutto dentro, come aveva sempre fatto lui, si finiva per soccombere e trasformarsi in qualcuno che non si era. – Certo, non avrei mai immaginato che la mia strada fosse tanto  impervia e dissestata da condurmi in un regno primitivo nel quale i cacciatori non sanno cacciare e pensano che le donne siano esseri inferiori – buttò lì con ironia riappropriandosi del suo consueto modo di fare.
Stefano però non aveva intenzione di lasciar correre quel momento in cui l’aveva sentita, per una volta, del tutto sincera e senza riserve, così decise di donarle a sua volta un momento di assoluta sincerità. – Sai qual è la cosa strana? Che prima di incontrare te davvero pensavo che fosse vero… adesso che ho incontrato te, invece, la penso diversamente.
-Avevi proprio bisogno di ricevere una bella lezione, insomma – disse lei, apparentemente incurante del fatto che lui avesse detto ciò che pensava senza preoccuparsi di nasconderlo con ironia o boria, come al suo solito.
Sebbene effettivamente ciò che aveva detto Rosaspina fosse vero, a Stefano quella frase provocò un moto di irritazione, ma del resto era per quello che continuava a cercare la sua compagnia: per la capacità che aveva di tenergli testa e trattarlo come un qualunque asino dalla testa dura. Anche se non l’avrebbe mai ammesso.
-Dove hai imparato a tirare così bene? – le chiese cambiando argomento, dopo un suo tiro particolarmente aggraziato.
-Da alcuni amici particolari, molto particolari. Non credo ti andrebbero a genio.
-Ah sì? Perché? – chiese con giusto un pizzico di gelosia.
-Se proprio lo vuoi sapere… erano bracconieri.
-Non ci credo!- esclamò incredulo. Quella ragazza era una continua sorpresa... e doveva avere un qualche problema particolare con le convenzioni, dal momento che si comportava sempre in maniera diametralmente opposta a come ci si aspettava che una ragazza della sua età si comportasse. Ma non aveva proprio alcun pudore né timore per la propria incolumità?!
-Non crederci. Resta il fatto che sono comunque un’arciera migliore di te – proferì con un immancabile sguardo provocatore.
-E la tua famiglia… come ha reagito sapendo che imparavi a cacciare dai bracconieri? I tuoi genitori non sono andati su tutte le furie?
-Non lo sapevano – rispose lei semplicemente.
Seguì una pausa in cui nessuno dei due seppe cosa dire, finché Stefano parlò di nuovo, con voce leggermente tremante, sembrando quasi reduce di un veloce conflitto interiore.
-Com’è? La tua famiglia, intendo.
***
Com’è? La tua famiglia, intendo.
Ecco l’ultima domanda che Carabosse si sarebbe mai aspettata da Stefano. Si stava dimostrando gentile e completamente diverso da come lo ricordava, ovvero un ragazzino borioso e del tutto disinteressato a coloro che lo circondavano, come fra l’altro gli si era presentato una settimana prima. Eppure, man mano che i giorni che passavano insieme aumentavano, lui si rivelava poco a poco così diverso… Non sapeva dire, tuttavia, se quella gentilezza e quel riguardo fossero la dimostrazione che la sua tattica di seduzione stava avendo successo.
E la sua famiglia era in assoluto l’ultimo argomento di cui avrebbe potuto – e voluto – parlare con Stefano.
-Nulla di speciale, una famiglia come tutte le altre… genitori contadini, un sacco di fratelli e sorelle – disse quasi con noncuranza, distogliendo subito gli occhi da lui. Era davvero ironico che lui le chiedesse notizie della sua famiglia, quando suo padre l’aveva distrutta, eppure si sentiva lei quella in colpa. Aveva potuto avvertire dal tono della sua voce che lo reputava un argomento molto delicato e c’era qualcosa dietro – tristezza, amarezza, forse perfino dolore – che gliela aveva fatta incrinare, ma lei gli stava mentendo senza ritegno, per di più dicendo cose che non potevano essere più lontane dalla realtà dei fatti. Si sentiva quasi sporca, indegna, nel dire quella menzogna, come se stesse gettando fango sulla memoria dei suoi genitori, anche se era necessario per mandare avanti la messa in scena.
Tuttavia, per quanto velocemente i suoi occhi avessero rifuggito lo sguardo del principe, egli qualcosa doveva avervi letto, perché le si fece più vicino. – Scusa, forse non avrei dovuto chiedertelo. Immagino sia una cosa troppo personale – le disse, e lei riusciva a percepire che era davvero, davvero dispiaciuto. Si stava scusando sinceramente, cosa che non avrebbe mai creduto possibile per lui. Quanto ancora quel ragazzo l’avrebbe lasciata spiazzata, senza parole; quanto ancora si sarebbe dimostrato diverso da quello che pensava?
-Io… l’ho solo chiesto perché… ero curioso. Non volevo rivangare ricordi poco piacevoli, te lo assicuro, e se così è stato ti chiedo perdono, ma… io non ho alcun ricordo di mia madre – confessò infine, lo sguardo basso, infinitamente triste. – E’ morta quando avevo due anni, a causa delle febbre rossa, e da allora sono rimasto solo con mio padre. Io… mi sento così in colpa per non riuscire a ricordare nulla di lei…
Carabosse sentì i suoi occhi farsi pericolosamente lucidi; era assurdo che si sentisse così tanto coinvolta nel dolore di chi, a conti fatti, era suo nemico, ma non poteva estraniarsene. Non ci riusciva, perché sebbene lei non avesse perso sua madre prematuramente, il suo dolore era comunque gemello a quello di lui. Sapeva cosa stava provando in quel momento, e sapeva, perché lei era come lui, quanto gli costasse parlarne con qualcuno… e allora perché lo stava facendo? Perché con lei?
-Mi dispiace – fu tutto quello che riuscì a dire. – Io posso capire come ti senti…
-No, non puoi – la interruppe subito Stefano, il tono amaro e tagliente, pensando a suo padre e a come era stato vivere solo con lui: a volte era stato certo di non farcela.
Quelle parole furono come una frustata, e riuscirono a immobilizzare e a far tacere una attonita Rosaspina, riecheggiando fra loro due, congelando entrambi e mettendo immediatamente le distanze fra principe e contadinella, una distanza che per qualche secondo erano riusciti a colmare. Ma Stefano non voleva permettere che fra loro si ricreasse quel vuoto.
Forse era ancora scosso per essersi lasciato sfuggire quella confidenza, forse era ancora amareggiato dai ricordi poco piacevoli della sua infanzia, turbato da ciò che aveva detto sulla morte di sua madre, ma sentì il bisogno di avere Rosaspina vicina a lui. Non sapeva come rimediare alle sue ultime parole, perciò le prese dolcemente una mano, sperando che capisse il suo bisogno e le scuse che le stava porgendo con quel gesto e che non gli negasse quel contatto. Lei non glielo negò, e quando la mano del principe si avvolse gentilmente sulla sua un brivido corse sulla schiena di entrambi, come una scarica che si era diramata dalle loro mani, dal loro contatto, lungo tutto il corpo. Tutti e due avevano gli occhi lucidi e lo sguardo di chi nasconde qualcosa di doloroso dentro, qualcosa che poteva essere visto solo da chi era come loro.
Il cuore di Carabosse batteva forte, molto più velocemente del normale, e quello non era un buon segno, decisamente no. Le lacrime premevano per uscire e lei si chiedeva perché, dopo tutto quello che aveva passato, stesse per piangere proprio in quel momento, quando per anni aveva tenuto un controllo tale da farle sembrare di essere stata temprata nel ghiaccio. Il suo corpo fu presto scosso da tremiti di freddo, ma non un freddo naturale, perché si irradiava da dentro di lei, e sentiva che fosse quanto di più insopportabile ci fosse al mondo, perché a poca distanza da lei c’era Stefano, caldo e con il suo stesso dolore negli occhi, che rappresentava quanto di più simile ci fosse ad una presenza rassicurante, un porto sicuro. Ma era assurdo, perché Uberto era stato la causa del dolore della sua famiglia, e allo stesso tempo non lo era, perché paradossalmente lo era stato anche del dolore di suo figlio.
-Io ho perso tutti quelli che amavo – disse lei in un soffio,  e non sapeva se lo avesse detto per rispondere a lui che l’aveva accusata di non poter capire il suo dolore, o semplicemente perché era stata sola per troppo tempo, e quel peso andava condiviso con qualcuno.
Non appena lo ebbe detto sentì più freddo che mai, ma fu solo un attimo, perché anche l’altra mano di Stefano andò a cercare la sua, che gli andò incontro. Si fecero ancora più vicini e i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri; il respiro di Carabosse accelerò sempre di più finché non si mozzò del tutto, e sentì chiaramente che qualcosa si agitava nel suo petto, risvegliandosi dal profondo del suo cuore e mettendolo sotto assedio dall’interno, stritolandolo in una morsa gelida e ferrea. Quel giorno aveva rivissuto troppo del suo passato, che invece doveva essere tenuto sotto chiave e attentamente sorvegliato fino ad essere quasi dimenticato, e  gli occhi del principe non la aiutarono di certo. Provò irrazionalmente paura, non sapeva neanche lei di cosa.
Anche Stefano appariva angosciato, e fu con un’espressione tormentata, quasi con disperato bisogno, che si chinò su di lei e cercò le sue labbra. Rosaspina, immobile, sapeva cosa stava succedendo, ma non voleva che accadesse, non ora che si sentiva così fragile da poter andare in pezzi al minimo movimento, e quando avvertì le labbra del principe vicine alle sue sentì la terra sotto i piedi mancarle, tutto il mondo iniziare a girare vorticosamente, e trovò la forza di sottrarsi a quell’attrazione che la spingeva inesorabilmente verso Stefano. Tutto era confuso, guardava senza vedere ciò che le stava intorno, il cuore batteva così forte da farla star male e per quanto si sforzasse di respirare non aveva aria, non ne trovava.
Realizzò con disperazione che stava avendo una delle sue crisi e si voltò, nascondendosi allo sguardo deluso e confuso di Stefano. Non voleva che la vedesse così, non doveva vedere quanto grande fosse la sua debolezza, perché lei avrebbe dovuto ucciderlo. Quale assassino mostra i suoi punti deboli alla propria vittima?
Cercò di scappare via, senza prestare attenzione alla mano di Stefano che si serrava attorno al suo polso, cercando di farla voltare, e che mormorava le sue scuse. Non c’era spazio per lui in quel momento. Trovò la forza di sottrarsi completamente alla sua stretta e corse via nel bosco, quasi alla cieca, perché non aveva davvero importanza dove stesse andando. Doveva solo allontanarsi.
Stefano rimase a guardarla dileguarsi fra gli alberi solo per qualche secondo, poi scattò al suo inseguimento.
Non era mai stato un gran cacciatore, ma questa volta non poteva permettersi di lasciarsi scappare la sua preda.
Quella era una caccia nuova, e lui ne stava imparando le regole.


*Angolo Autrice*
Sì, ce l'ho fatta finalmente. Vi avviso che questo capitolo ha visto la luce con innumerevoli difficoltà e molto tempo passato davati allo schermo di un pc; ci ho buttato sangue, come si suol dire, e ho fatto una bella fatica, ma spero ne sia valsa la pena. Anche se non lo fosse, temo che dovrete accontentarvi, perché questo è il meglio che so fare.
Dunque, nella prima parte del capitolo c'è un po' un riassunto di quella che sta diventando routine per Stefano e Carabosse (a proprosito, spero che si sia capito nel testo quando e perché Stefano ha chiamato lei "Rosaspina". Ad ogni modo, se vaete dubbi, chiedete, chiedete pure), principalmente per due motivi: questa storia sta prendendo pieghe piuttosto lunghe e ancora ne devono accadere delle belle, e io non voglio  rompervi l'anima con venotordici capitoli, perciò devo velocizzarmi un po'; e poi perché sono una mezza cartuccia nel descrivere gli innamoramenti, come accadono, come si evolvono ecc. ecc. Per questo ho preferito risolvere in questa maniera; spero almeno che per il resto il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Per quant riguarda l'ultima parte, beh... non avrete creduto davvero che li avrei fatti baciare così presto e così facilmente? Eh no, prima ne devono passare, di acque sotto ai ponti... 
Allora, alcuni di voi già ne fanno parte, ma per chi non lo sapesse ho creato un gruppo su Facebook per questa storia e per quelle e venire della stessa saga, in cui fare sondaggi, scambiarsi opinioni, leggere spoiler sulla storia ecc. ecc. Per chi volesse, il gruppo si chiama Once Upon a Time Fiarytales: Sleeping Beauty, e potete trovarlo qui: https://www.facebook.com/groups/633954589962852/.  Sul gruppo ho già pubblicato i primi volti dei personaggi, quindi, per chi non può essere presente su Facebook, li metto anche qui. E' importante ricordare che è praticamente impossibile trovare attori che rispecchino in tutto e per tutto i personaggi, e non ho neanche il tempo o la capacità di usare Photoshop, perciò se ci saranno colori di capelli o di occhi diversi lavorate di fantsia, ok?
Dunque, per questo "primo round" abbiamo: Blàthnaid McKeown, ovvero Carabosse da piccola:

Jonathan Rhys-Meyers, che presta il volto a Thomas:

e Annabelle Wallis, ovvero Elsa:


Prossimamente arriverann anche gli altri personaggi. Penso di aver detto tutto e comunque se anche così non fosse sono stanchissima, perciò volente o nolente devo ritirarmi.
Ringrazio quelli che hanno aggiunto alle ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e vanessa_loves1D e Beauty per aver recensito.
A presto!

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Capitolo 11
*** ...learning how to love ***


11. …learning how to love
Carabosse aveva avuto la forza, non sapeva come, di allontanarsi quasi correndo da Stefano, ma aveva fatto l’errore di scappare nel cuore della foresta in quelle condizioni, senza riuscire a vedere dove metteva i piedi, con difficoltà a respirare, e sempre più spaesata e impaurita. Presto l’ansia si impossessò totalmente del suo corpo, pietrificandola, e lei non poté fare altro che accasciarsi a terra, inerme, mentre era percorsa da spasmi e con il respiro sempre più affannoso.
Rannicchiata, con le braccia che cingevano le ginocchia, Carabosse cercava disperatamente di calmarsi, ma senza risultati: persino seguire le istruzioni che le impartiva sua madre in quelle situazioni si stava rivelando del tutto inutile, e quella crisi stava durando più di ogni altra che avesse mai avuto. Aveva passato un periodo relativamente tranquillo, in cui si era illusa – perché sapeva che un problema come quello non si sarebbe mai risolto così spontaneamente – di essersi finalmente liberata di quel fardello, ma adesso era come se una giustizia divina volesse essere compensata di quel periodo di pace prolungando la sua sofferenza in quel preciso momento.
La situazione peggiorò quando Carabosse sentì la voce di Stefano chiamare il suo nome.
Ormai la ragione era stata annichilita dalla confusione che regnava sovrana dentro di lei durante le crisi, e in mezzo al vorticare indistinto di tutto il suo mondo, nel soffocamento e nel buio, la voce di Stefano apparve come stella polare, la sola stella fissa, la sola via da seguire per tornare a casa, al sicuro; apparve come un agognato soffio vitale, come luce rassicurante e calda.
Stefano era tutto ciò di cui aveva bisogno, e quella consapevolezza la colpì con violenza al petto, lasciandola basita per la sua ovvietà e per la sua potenza. Voleva chiamarlo, attirarlo a sé e fargli porre fine al suo supplizio, ma un residuo della sua parte razionale, quasi del tutto soggiogata, le impedì di fare qualsiasi cosa che non fosse chiudere gli occhi, stringere i denti e rannicchiarsi contro un enorme tronco secolare, sperando che la crisi passasse da sola. Ma sapeva che non sarebbe mai avvenuto, perché il suo salvatore era là vicino, e lui era l’unico che potesse rassicurarla.
Dentro di lei si scontrarono due speranze, quella di voler essere trovata e quella opposta, di essere lasciata lì a morire.
-Rosaspina! – la chiamò nuovamente Stefano, la sua voce si faceva più vicina. La stava cercando.
E alla fine la trovò.
Nel vederla così indifesa e vulnerabile, così debole, sentì una stretta al cuore e un senso di impotenza che lo fece sprofondare in una sorta di sconforto, di dolore sordo. Non sapeva cosa fare, non si era mai ritrovato in una situazione simile: lui, principe viziato ed arrogante, non era mai stato responsabile di qualcuno come in quel momento. Se in qualsiasi altro momento si fosse trovato in quella situazione, ci sarebbe stato qualcun altro a risolverla, e se così non fosse stato nessuno avrebbe mai potuto biasimarlo, perché lui era il principe, semplicemente; ma ora era lì, solo, e forse da lui dipendeva la vita di quella ragazza a cui teneva, teneva forse troppo.
Si inginocchiò vicino a lei e la strinse forte a sé, mormorandole parole rassicuranti, sperando che bastasse. Lei, vinta completamente dal bisogno e da quel contatto, si abbandonò fra le sue braccia, cercandovi rifugio e salvezza, mentre il principe le accarezzava lentamente la testa, facendo scorrere dolcemente la mano sui suoi lunghi capelli castani, ad un ritmo costante.
Rimasero così per degli istanti senza tempo, che entrambi avrebbero definito eterni, mentre una  Carabosse sempre più stupita tornava a respirare regolarmente e riprendeva il controllo su se stessa. Tuttavia, nonostante stesse meglio, rimase lì a farsi abbracciare e accarezzare da Stefano, rimproverandosi senza enfasi per la sua debolezza, per il suo indugiare fra le braccia assuefacenti del nemico.
Quando Stefano si fu accertato che lei si era ripresa, le sollevò dolcemente il mento con le dita, in modo che potessero guardarsi negli occhi.
-Stai meglio, ora?  – le chiese.
Carabosse annuì, non sentendosi ancora troppo sicura della sua voce per rispondere. Stefano esitò prima di continuare.
-E’… stata colpa mia? – chiese. Carabosse capì a cosa si riferiva.
Sì, è stata colpa tua. Perché io devo ucciderti e tu invece mi fai questo, qualunque cosa sia.
-No – rispose piano, con la voce arrochita. – E’ una cosa mia, un mio problema, che ho da quando avevo dieci anni. Attacchi di panico.
-Mi dispiace… anche per prima, intendo. Non avrei dovuto…
Carabosse accennò un sorriso, che aveva un qualcosa di amaro. – Direi che non hai bisogno di scusarti: molto probabilmente mi hai salvato la vita.
Quale assurda ironia, essere salvata proprio da lui che avrebbe dovuto uccidere; quale bizzarro tiro del destino dovere la propria vita a qualcuno a cui l’avrebbe dovuta togliere. Come avrebbe potuto? Uccidere colui che la stava tenendo fra le braccia apparve immediatamente come un gesto orribile. Le aveva regalato la pace, strappandola al buio totale del suo abisso. Non sapeva quanto sarebbe durato quell’effetto, ma in quel momento volle pensare che sarebbe stato per sempre.
-Forse è meglio tornare alla locanda, che ne dici? Così potrai riposarti e farti visitare da uno speziale… – disse, ma Carabosse lo rassicurò sul fatto che non ce ne sarebbe stato bisogno, che un po’ di riposo sarebbe stato sufficiente. Solo quando entrambi tacquero si resero conto della sconvenienza della loro posizione, l’una fra le braccia dell’altro con il viso fra le sue mani, quasi sdraiati sul terreno. Carabosse arrossì inevitabilmente, e distolse subito lo sguardo dagli occhi magnetici del principe, che cercò di ricomporsi a sua volta, e la aiutò ad alzarsi.
Tornarono indietro, dove avevano lasciato i cavalli, senza dire solo una parola, mentre l’imbarazzo permeava l’aria fra loro. Entrambi avevano parecchio su cui riflettere, ed essendo i loro pensieri incentrati principalmente sulle sensazioni che l’altro suscitava, temevano quasi che ciò che stavano rimuginando fosse perfettamente leggibile sui loro volti, ragion per cui evitarono accuratamente di guardarsi durante il tragitto.
Tuttavia il silenzio venne abbondantemente spezzato una volta raggiunte le loro cavalcature:  Stefano insisteva perché Carabosse salisse sul suo stallone insieme a lui, legando poi le redini di Jamila (la giumenta della ragazza) alle fibbie della sella di Kalth (lo stallone di Stefano) in modo da guidarla, ma Carabosse, ormai ripresasi e ritrovata la sua indipendenza e la sua antica combattività, non ne voleva sapere, e continuava a dire che sarebbe tornata alla locanda sulla sua sella.
-Rosaspina, non impuntarti, ragiona! E se dovessi avere un altro attacco durante la cavalcata, e cadessi da cavallo? Potresti farti molto male, sai, perché credo che solo la tua testa sia fatta di coccio: il resto del tuo corpo no!
-Molto divertente – disse lei, con l’aria di chi non si divertiva per niente –  Non cadrò da cavallo, Stefano. E’ escluso che avrò un altro attacco dopo così poco tempo, non è così che funziona, perciò non c’è motivo per cui io debba cavalcare con te.
La verità era che il suo corpo era elettrizzato all’idea di cavalcare col principe, le loro pelli a contatto, solo un soffio a separarli… ma era proprio per questo che lei voleva mantenere le distanze. Si era ripresa, stava meglio, ora doveva solo riprendere il controllo su sé stessa, e di certo l’atteggiamento di Stefano non l’aiutava.
-Insisto. Che ne sarebbe della mia reputazione nascente di cavaliere se si sapesse che ho permesso ad una damigella in difficoltà di cavalcare da sola per il bosco? – chiese lui facendo sfoggio della sua ironia.
-Io mi chiedo che ne sarebbe della tua reputazione se si sapesse che il cavaliere ha provato per un momento ad approfittarsi della damigella in difficoltà – disse Carabosse con un misto di malizia e acidità, riferendosi al mancato bacio.
-Che strano… non avevate detto, madamigella, che era acqua passata? –  La sua espressione mostrava chiaramente quanto si stesse divertendo.  
Carabosse, piuttosto riluttante, dovette ammettere che aveva ragione.
-Dunque, ora mi dovete delle scuse, siete in debito con me. Quindi… dopo di voi, prego – disse ironicamente, facendo un mezzo inchino per scherzo e indicandole il suo stallone nero.
Carabosse si riservò solo un momento per lanciare al ragazzo uno sguardo truce, poi si arrese e montò in sella. Dopo aver assicurato le redini di Jamila alle fibbie della sella di Kalth, Stefano la raggiunse e diede di talloni nei fianchi dell’animale senza preoccuparsi di nascondere a Carabosse la sua espressione vittoriosa, mentre entrambi godevano segretamente delle sensazioni che il loro contatto suscitava.
***
I giorni passavano, e Carabosse era sempre più certa di essere ad un passo dal compimento del suo piano, vista la crescente intimità che lei e Stefano avevano sviluppato dopo quella vicenda, sebbene nessuno dei due vi avesse mai più fatto cenno, eppure c’era qualcosa che la preoccupava: il fatto che non riusciva più ad immaginare le sue giornate senza il bel principe. Si diceva che era così solo perché non era abituata a stare lì, era la prima persona con cui aveva rapporti fissi da quando era tronata città, era naturale che al momento non riuscisse a pensare ad un altro modo di passare il suo tempo. E quando queste spiegazioni le sembravano insufficienti e le sembrava che il suo stomaco si attorcigliasse al pensiero dell’uccisione vera e propria, le bastava pensare che aveva ancora del tempo davanti a sé prima dell’adempimento ai suoi piani, perché il nodo provocato dall’ansia si sciogliesse.
Ma su quest’ultimo punto, Carabosse si sbagliava, perché di tempo ne aveva poco. Lei non lo sapeva, ma le nozze di Stefano con la principessa Helena si avvicinavano, come Uberto non mancò di ricordare al figlio, una sera in cui lui era di ritorno da una semplice scampagnata con Carabosse. Quella era sembrata ad entrambi molto più di una semplice scampagnata fra amici, perché tutte le emozioni represse che provavano l’uno nei confronti dell’altra, di qualunque natura essi fossero, si erano palesati in un’atmosfera di tensione nella quale ogni scambio si sguardi, ogni sfiorarsi di mani era sufficiente a far irradiare brividi lungo tutta la schiena.
 Stefano era ancora intento ad indugiare sul ricordo di quei particolari quando un paggio gli annunciò che il Re lo mandava a chiamare. Non ebbe neanche il tempo di cambiarsi, e dovette presentarsi a suo padre così come era vestito, con gli abiti sporchi di un qualunque cacciatore dopo una giornata fra i boschi, cosa che il Re notò immediatamente.
-Il principe ereditario… vestito come un qualunque popolano – osservò con disappunto mentre Stefano si rialzava dall’inchino. Suo padre era seduto sul trono, come sempre.
-Chiedo perdono, padre. Ero…
-Non m’importa – lo interruppe Uberto, innervosito. – Non voglio sapere dove sei stato. Spero solo che tu abbia goduto quanto più possibile della libertà che ti è stata concessa in questi giorni, perché da domani le cose saranno diverse, come tu ben sai.
-Perdonatemi, padre, ma non ho il piacere di comprendervi.
Uberto inarcò pericolosamente le sopracciglia. Non era un buon segno quando lo faceva. – Domani la principessa Helena della nobile casata Harrington sarà qui insieme a buona parte della sua corte e a sua madre la Regina. Come ti ho detto in un’altra occasione, rimarranno qui per una settimana al termine della quale avrà luogo la festa di fidanzamento. Per quanto mi sembri inutile farti delle raccomandazioni, non voglio lasciare nulla al caso, quindi ascoltami attentamente: durante questa settimana dovrai occuparti della tua futura moglie. Non voglio che la lasci sola a meno che non sia lei a chiederlo esplicitamente. La porterai in giro per la capitale, le farai vedere il palazzo, parteciperete a feste e banchetti: farai tutto quello che l’etichetta e lei richiedono, e in ogni cosa mi aspetto che tu ti comporti da perfetto cavaliere quale sei. Questo matrimonio è estremamente importante per il nostro Regno, spero che te ne renda conto. Non dovrai fare passi falsi, e in questa settimana ti proibisco di fare qualunque cosa tu abbia fatto in questi giorni liberi, che tu abbia frequentato bordelli o altro. No, non mi interrompere – disse alzando una mano quando vide che Stefano era sul punto di parlare – Voglio la tua parola d’onore che ti impegnerai a concludere questa faccenda nel modo migliore possibile.
Sebbene a malincuore, Stefano rispose:- L’avete, padre. Avete la mia parola d’onore.
Uberto parve rilassarsi notevolmente. – Bene. Sai che non mi piace essere così duro con te, ma da quando abbiamo parlato di questa faccenda del matrimonio ti vedo strano. Ti ho lasciato libero dagli allenamenti e dai tuoi incarichi in questi giorni per permetterti di accettare a tuo modo questo cambiamento, ma ora devi impegnarti. D’altronde, non ti sei mai tirato indietro quando si è trattato di faticare per il bene tuo e del Regno; questa volta non è diverso. Pensa, Stefano, al potere che otterrai quando tu e Helena avrete unito regni e ricchezze! Occuperai una situazione di netta superiorità nell’assetto territoriale ed economico delle Terre d’Oltreoceano: gli altri reali potranno solo invidiarti, non arriverebbero mai neanche alla metà del tuo potere. E’ un grande progetto, che richiede grandi sacrifici, ma ci stiamo lavorando da sempre e io lo so che tu lo vuoi almeno quanto lo voglio io.
Uberto finì il suo discorso infervorato. Rieccolo, suo padre, l’uomo che si animava nel parlare di intrighi, complotti, strategie, che aveva lavorato per tutta una vita per arrivare fin dove era ora; l’uomo che per quei quattordici anni aveva creduto perso sotto gli strati di grasso e lussi, e severità nei suoi confronti. Ecco, di nuovo, il padre che amava e che aveva sempre reso orgoglioso.
Stefano annuì davanti alla sua espressione accesa, per poi rabbrividire subito dopo, senza sapere neanche lui perché. Sapeva solo che avrebbe fatto di tutto per quel padre che amava, e si ritrovò a chiedersi spaventato che cosa quel “tutto” avrebbe significato, ma soprattutto si chiese cosa lui sarebbe stato disposto a sacrificare per soddisfare la sua stessa ambizione, il suo desiderio di arrivare più in alto, dove nessun altro era mai arrivato. Il Re più potente di tutte le Terre d’Oltreoceano, ecco cosa sarebbe diventato col matrimonio… e militarmente avrebbe anche potuto conquistare ancora  nuovi territori, creando perfino un impero…
Si beò per un momento della visione di se stesso sul trono di suo padre e bardato lussuosamente con i simboli del potere regio: era sempre stato ambizioso, e adesso che la posta in gioco era così alta il suo entusiasmo era completamente risvegliato.
Era troppo attaccato a quelle idee di potere per abbandonarle, e sapeva di non volerlo nemmeno. D’altronde, non aveva nemmeno scelta, quindi non aveva senso farsi tutti quei problemi… per chi, poi? Per delle strane sensazioni che una contadinella, la prima venuta, gli aveva suscitato… ma appena ebbe finito di formulare quel pensiero una parte di lui si ribellò, facendogli notare che Rosaspina era molto di più di una semplice contadinella.
In qualche strano, inspiegabile modo, lei gli stava insegnando ad amare.


*Angolo Autrice*
Spero che questo capitolo vi piaccia... per me è stato abbastanza facile da scrivere (inaspettatamente), ma la situazione si complica....
Dunque, nel gruppo Facebook della storia ho inserito le immagini di altri personaggi, ora òe inserisco anche qui per chi non è nel gruppo.
Stefano da bambino, Dylan Schmid: 

http://images6.fanpop.com/image/photos/35200000/Dylan-Schmid-dylan-schmid-35268063-640-642.jpg
Uberto, Steven Waddington:
https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcTGUp88kFo5FpXqlPemdlgWi5fNCBaWb50jbXTak8e8jl5xGsQyjA

La piccola Aurora, Kate Duggan:
http://files.mymovies.dk/Photos/82359302-8001-416a-a3f4-e923dcfe39aa.jpg
Carabosse, Megan Fox:
http://static.fanpage.it/donnafanpage/wp-content/uploads/gallery/megan-fox-da-giovane/megan_fox_da_giovane05.jpg
Stefano, Kim Rossi Stuart:
https://encrypted-tbn2.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcSBz5oPUY3aD391lKL3mz2CjebbJBmI1LCpyqWnGMW0g4iWJqbNpg
Spero che gli attori scelti vi piacciano. Fatemi sapere cosa pensate del capitolo, anche se fa schifo, ditemelo.
Ringrazio quelli che hanno inserito fra le ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e Beauty e Homicidal Maniac per aver recensito.
A presto!
P.S. Segnalatemi eventuai errori che avrò commesso sicuramente, perché sto pubblicando praticamente ad occhi chiusi per il sonno.

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Capitolo 12
*** First Impressions ***


12. First Impressions

-Dicono che la principessa Helena abbia i capelli d’oro… - disse un uomo - un boscaiolo, a giudicare dall’accetta che portava appesa in spalla - mentre mangiava la sua minestra, seduto ad uno dei tanti tavoli di legno della locanda. Carabosse sedeva pochi tavoli più in là, sola, e non avendo nient’altro da fare, ascoltava le chiacchiere degli avventori.
-Sì, e pietre preziose al posto degli occhi – lo prese in giro il suo compagno, uno dei tanti seduto a quel tavolo. Era rosso in viso, segno che doveva avere già bevuto molto, ma continuava a tracannare vino. – Smettila di dare retta a queste chiacchiere da comari, Smith, sei troppo credulone. Parola mia, è impossibile che tutte le nobildonne e le principesse di questo mondo siano così belle come vengono descritte… altrimenti i loro mariti non metterebbero al mondo tanti bastardi di sangue blu! – concluse con una possente risata, e svuotò in un sorso il suo bicchiere, dopodiché tornò a riempirlo.
-Santo cielo, Patrick, sta’ zitto, vuoi farci mettere alla gogna? Si tratta della nostra futura Regina, porta un po’ di rispetto, prima che le tue chiacchiere giungano alle orecchie sbagliate! – sibilò l’altro, Smith. 
A sentir parlare di future Regine, l’attenzione di Carabosse fu fulmineamente ridestata. La principessa alzò lo sguardo su di loro e tese le orecchie. Non sapeva se aveva sentito male o frainteso le parole, ma si rifiutava di ammettere che significassero proprio quel che pensava lei. Grazie al cielo quella sera la locanda non era affollata come al solito, anche se c’era un bel via vai, così non dovette sforzarsi particolarmente per sentire il resto del discorso dei boscaioli.
-Andiamo, Smith, fatti una risata o prima o poi creperai d’ansia! Come vuoi che le mie parole arrivino al Re o al principe, eh? Quelli hanno altro da fare che dare retta a quelli come noi, fidati. – altro sorso di vino – E poi, se anche il principe Stefano in persona passasse di qua, scommetto quello che vuoi che mi darebbe ragione, butterebbe giù un bicchiere e si consolerebbe con una donna… magari con quella là – disse indicando Carabosse, alle spalle di Smith. Questi si girò verso di lei con un’espressione di scuse, mentre Patrick alzava il bicchiere al suo indirizzo con un’espressione troppo allegra. Lei gli gettò uno sguardo di disprezzo, sperando che bastasse a fargli capire che non doveva tirare la corda con lei, ma per tutta risposta il rozzo boscaiolo rise.
-Vuoi un goccio, bellezza? – urlò dal suo tavolo. Lei si girò dall’altra parte come se non l’avesse sentito, e uno dei compagni di baldoria di Patrick, che guardava divertiti la scena, gridò al suo amico: “Ehi, Patrick, mi sa che preferirebbe il principe!”, suscitando l’ilarità generale. Per fortuna il boscaiolo era così sbronzo da non insistere, e presto rivolse le sue attenzioni ad una delle cameriere la quale, purtroppo, non poté rifiutarle. Carabosse si allontanò in fretta da lì e si diresse verso il banco dell’oste, decisa a saperne di più su quella fantomatica principessa Helena, e scoprì che l’uomo aveva ancora gli occhi puntati sul gruppo di taglialegna, lieto che lei si fosse tirata fuori da sola da quella situazione poco piacevole senza che dovesse intervenire lui. Sebbene avesse promesso al principe di vigliare sulla ragazza, infatti, non ci teneva a perdere gli altri clienti o addirittura a metterseli contro.
 Carabosse rimase lì qualche minuto in silenzio, chiedendosi come avrebbe potuto formulare la domanda in modo che sembrasse perfettamente disinteressata, ma alla fine mandò al diavolo tutte quelle precauzioni e chiese all’oste chi fosse la principessa Helena e che cosa c’entrasse col principe Stefano. L’uomo la guardò preoccupato, non sapendo se dirle tutto o meno, chiedendosi se forse qualcosa di quello che avrebbe detto l’avrebbe messo nei guai con il principe, ma poi si disse che non aveva ricevuto alcun divieto in merito al dare alla ragazza quelle informazioni, e le rispose che la principessa Helena Harrington era una delle principesse più belle, ricche e giovani delle Terre d’Oltreoceano ed era attesa in città per l’indomani, in quanto promessa sposa del principe Stefano. Tuttavia, quando vide il lampo poco rassicurante che era passato negli occhi di Carabosse, si maledisse per aver aperto bocca. Dannazione, quella ragazza gli avrebbe fatto perdere dieci anni di vita per l'ansia!
Carabosse, da parte sua, non disse niente, ma si limitò a ringraziare l’oste per quelle informazioni e senza aggiungere altro salì nella sua stanza, poi si buttò sul letto imbottito di piume, il migliore di tutta la locanda. Non sapeva cosa pensare.
Stefano era passato un paio d’ore prima, molto di fretta, per avvisarla che la settimana seguente lui non avrebbe potuto farle compagnia a causa di un viaggio che doveva compiere. Carabosse aveva pensato che avesse impegni al castello, ma mai avrebbe immaginato che avrebbe dovuto accogliere la sua futura sposa, di cui lei non sapeva nemmeno l’esistenza e che sinceramente avrebbe preferito continuare a ignorare. Sicuramente quell’imprevisto avrebbe rappresentato un grande ostacolo per il suo progetto. E pensare che c’era così vicina… tutto quello di cui aveva bisogno era un altro po’ di tempo, e invece il tempo era proprio ciò che le mancava. Forse però non tutto era perduto: Stefano si era giustificato per una sola settimana, forse le nozze sarebbero avvenute più tardi. Forse non avrebbe dovuto gettare la spugna così in fretta, ma aveva bisogno di una nuova strategia, perché in ogni caso il tempo stringeva e lei non poteva aspettare più a lungo.
La prossima volta che si sarebbero incontrati, la mossa avrebbe dovuto essere decisiva.
Facendo del suo meglio per ignorare quella fastidiosa sensazione alla bocca dello stomaco che la assaliva al pensiero di Stefano con una principessa dal volto sconosciuto che sarebbe diventata sua moglie, Carabosse cerò di dormire.
***
-Guarda, tesoro, che meraviglioso spettacolo… e presto sarà tutto tuo.
La Regina Mariah guardava il panorama dal finestrino della carrozza, invitando sua figlia Helena a fare lo stesso, senza vedere che lei lo stava già facendo da un pezzo. 
Dopo quasi una settimana di viaggio finalmente stavano per giungere a destinazione, in una carrozza più simile ad una casa su ruote e scortate da file interminabili di cavalieri e dame di corte che non potevano godere delle loro stesse comodità e dovevano viaggiare a cavallo.
Helena doveva ammettere che di fronte alla rigogliosa bellezza dei prati sterminati e dei boschi lussureggianti le sue preoccupazioni riguardo al matrimonio svanivano quasi del tutto. Quasi. Di certo non poteva dimenticarle, con sua madre che le ricordava ogni cinque minuti quanto fosse fortunata Helena per andare in sposa ad un principe così bello, così nobile, così potente e quant’altro. La principessa non poteva fare a meno di pensare, con una punta di veleno, a quali risposte avrebbe voluto dare a sua madre, ma continuava a tacere e a guardare fuori dal finestrino. Adesso riusciva a vedere le sagome di alcune torri che svettavano alte e fiere sulla foresta circostante, e doveva averle viste anche sua madre, perché iniziò ad enumerare le meraviglie della Fortezza del Drago, come il castello era stato chiamato nei secoli successivi alla sua costruzione, dimenticandosi che sua figlia aveva già dovuto studiare tutto lo scibile al riguardo.
Ad un tratto la Regina, rendendosi conto di essere ormai prossima alla capitale, prese a chiamare le cameriere che viaggiavano con loro nella carrozza perché dessero una rinfrescata a Helena, che si ritrovò suo malgrado circondata da serve che le acconciavano i capelli, le sistemavano il vestito e le ripassavano sul viso tutti i belletti necessari per nascondere i segni della stanchezza causata dal viaggio. Dopo che esse ebbero finito sia con la principessa che con la Regina, la carrozza con tutto il corteo era già entrata nei sobborghi della città e attirava lo sguardo degli abitanti, che si misero a seguire la carrozza fino al castello.
Lì attendeva l'arrivo delle regali ospiti una gran folla, controllata dalle guardie cittadine, e ovunque erano appesi ghirlande di fiori e stendardi della Casa Harrington, una luna bianca su campo blu, e di quella Westeros, un leone dorato pronto al balzo con una corona sul capo e sullo sfondo una torre in rovina. Helena si sentì molto meglio nel vedere la folla esultante: si sentiva bene accetta, amata da quelli che sarebbero diventati i suoi sudditi. Ingenua com’era, non pensava che la distribuzione di viveri o la minaccia di essere fustigati bastassero a far esultare una folla affamata e impaurita per il primo venuto, chiunque esso fosse.
Il popolo continuò ad acclamare lungo tutto il tragitto che portava al castello, finché la carrozza non si fu fermata davanti alla scalinata del castello. In cima ad essa si trovavano il Re, il principe e tutta la corte: Uberto, che a causa delsuo fisico ormai appesantito e debilitato non aveva più la resistenza di un tempo, aveva dato ordine che il trono fosse portato fuori, e vi sedeva comodamente, attorniato dalle guardie reali e affiancato da suo figlio Stefano. Tutt’intorno, in piedi, prendevano posto le dame e i lord della corte.
Quando la carrozza si fu fermata, un banditore annunciò i nomi della Regina Mariah e della principessa Helena, poi i trombettieri disposti sulla scalinata suonarono e un paggetto aprì la porta alle reali. La prima a scendere fu la Regina, che si guardò attorno con aria compiaciuta, poi fu il turno della principessa, e la prima cosa che vide fu la scalinata di pietra adorna di suonatori in vesti dorate e scarlatte. In cima vedeva le figure di quelli che dovevano essere il suo promesso sposo e suo padre, ma non riusciva a distinguerne i lineamenti. Sentiva la tensione nello stomaco: prese un bel respiro e salì con sua madre lungo la scalinata. Schiena eretta, mento alto, portamento elegante: questo si ripeteva Helena mentre avanzava verso la sua futura famiglia e, anche se lei non lo sentiva, il popolo aveva già iniziato a parlare fitto fitto su entrambe le nuove arrivate. 
Una volta arrivata in cima, Helena mantenne gli occhi sempre e solo sul Re, come da protocollo. Lei e sua madre gli furono presentate e, dopo i regolamentari inchini, poté finalmente conoscetr Stefano. Posò gli occhi su di lui, un po’ timorosa, e fu sorpresa di scoprire che sua madre aveva ragione: il principe era davvero molto bello. Era più grande di lei, sì, ma era comunque giovane e forte. I capelli corvini ondulati gli incorniciavano il viso fino al collo, gli occhi verdi erano accesi come le foglie degli alberi di quel rigoglioso regno, e la mascella squadrata del volto glabro gli dava un’aria affascinante. Da come il giovane stava eretto e composto si poteva capire che aveva ricevuto un buon addestramento, e il suo fisico doveva essere vigoroso ed atletico. Helena si aprì in un sorriso sincero prima di fare una riverenza che lui ricambiò con un inchino, anche se non manifestò i suoi sentimenti in alcuna maniera, anzi, ad Helena sembrava che avesse uno sguardo un po’ duro. 
Dopo l’adempimento di tutte le formalità, i reali e le loro corti entrarono nel castello dove un sontuoso banchetto li attendeva: Stefano porse il braccio ad Helena e si incamminarono seguendo la Regina Mariah che a sua volta era preceduta da Uberto. I trombettieri si ritirarono, il trono venne sollevato dai portatori e ricollocato all'interno del castello e anche i sudditi si ritirarono alle proprie case e alle loro abituali faccende.
***
Stefano si guardò intorno con aria palesemente annoiata. Non sapeva più neanche lui da quanto andasse avanti quel banchetto, ma il sole era tramontato e i candelabri erano stati accesi, e tutta quella gente continuava comunque a rimpinzarsi. I commensali, tutti troppo stanchi per badare all'etichetta e comunque troppo pieni di cibo e di vino per farci caso, ridevano, parlavano ad alta voce, e alcuni si comportavano in maniera decisamente poco adatta all’ambiente di corte. Davanti a lui, dame e cavalieri ballavano. Erano stati lui e la sua promessa sposa ad aprire le danze. Promessa sposa. Quelle due parole infastidivano ancora Stefano quando le pensava o le sentiva pronunciare. Non si era abituato, né pensava che ci sarebbe riuscito tanto presto. Tecnicamente non erano ancora ufficialmente fidanzati, però erano promessi. E in quel momento la sua dama sedeva accanto a lui con un’aria un po’ delusa e un po’ imbarazzata, forse perché lui la stava ignorando da più di mezz’ora, o forse perché si trovava in un ambiente estraneo. Qualunque fosse il motivo, Stefano non ne era granché toccato, anzi, sentiva qualcosa di molto simile al risentimento nei suoi confronti, anche se di certo non era colpa sua se si sarebbero dovuti sposare. Però lei non era Rosaspina, e questo ai suoi occhi la rendeva odiosa, in un certo modo. Se l’avesse conosciuta prima avrebbe potuto dire che era una gran bellezza, ma ormai non era più così, perché i suoi capelli biondo scuro non erano quelli castano lucente di Rosaspina; i suoi occhi blu potevano anche ricordare il mare o il cielo, ma era alle foreste che lui era legato, alle foreste piene di vita degli occhi di Rosaspina; il suo fisico poteva anche essere aggraziato, ma non lo era quanto quello di Rosaspina, né aveva la stessa agilità, la stessa prontezza. Quanto al carattere, il paragone non era nemmeno possibile: erano diametralmente opposti. La principessa Helena aveva pronunciato pochissime parole da quando erano stati presentati, e tutto ciò che aveva detto era dovuto a pura e semplice educazione. Di ogni cosa che avevano parlato lo avevano fatto con una freddezza tale da far rimpiangere amaramente a Stefano persino i silenzi fra lui e la sua compagna di caccia, e da nulla di ciò che la principessa aveva detto aveva potuto capire qualcosa della sua personalità. Sempre che ne avesse una: il principe non era tanto sicuro nemmeno di questo.
Aveva notato il sorriso di Helena quando si era inchinata, ma non aveva potuto ricambiarlo, né apprezzava gli sguardi si ammirazione sognanti che di tanto in tanto gli rivolgeva la principessa, per qualche motivo. Probabilmente perché non erano i suoi occhi sognanti che voleva vedere: Rosaspina non l’aveva mai guardato così e invece lui lo voleva, adesso se ne rendeva conto.
Anche la giovane età della principessa lo infastidiva, mentre per altri forse sarebbe stato un vantaggio. Quindici anni, quasi sedici. Poco più di una bambina, e come tale la vedeva: impossibile pensare a lei come ad una moglie.
Lei lo guardò. Di nuovo. Forse pensava che lui non se ne accorgesse, o forse sperava che lo facesse e le dedicasse qualche attenzione, così alla fine le rivolse la parola, a malincuore. Le chiese se le piaceva andare a cavallo e, come previsto, la risposta fu negativa: sapeva a malapena rimanere in sella con un portamento accettabile. Altro punto a suo sfavore, ma forse Stefano avrebbe dovuto smetterla di contarli, visto che probabilmente sarebbero stati infiniti e in ogni caso non aveva scelta. O lei, o lei. Punto.
Sapeva di avere lo sguardo di suo padre addosso, e che questi non era per nulla contento, anche se in quel momento non poteva rimproverarlo. Lo stava deludendo. Così, per quanta irritazione gli costasse quella decisione, decise di invitarla nuovamente a ballare e lei accettò con un ampio sorriso. A suo favore, Stefano poté notare che era molto più graziosa quando sorrideva, ma subito gli ritornò alla mente quella volta in cui Rosaspina gli aveva sorriso, quando lui era andato a trovarla alla locanda la mattina dopo il loro primo incontro, e al confronto il sorriso della principessa perse ogni luminosità. Mentre ballavano, Stefano pensava solamente a lei, a dove fosse, a cosa aveva fatto, se era rimasta alla locanda o se era andata al bosco, al loro bosco. Chissà se l’aveva pensato, se aveva sentito la sua mancanza, anche minimamente. All’improvviso lo colse il timore che lei fosse fra la folla e lo avesse visto con Helena e sapesse che si sarebbero sposati. Aveva avvertito l’oste di spingerla a non uscire, quel giorno, o quantomeno di spingerla ad andare nel bosco, o in qualunque luogo purché non fosse il castello, ma non poteva sapere se lei avesse seguito quel consiglio. E il non saperlo lo frustrava terribilmente, come se non fosse già abbastanza irritato.
***
Carabosse aveva visto tutto. E tutto, di quella giornata, le era risultato sgradito. Già il solo pensiero di non avere più molto tempo per il suo piano l’aveva messa di malumore, figurarsi poi vedere quella principessa essere acclamata dal popolo – il suo popolo! – al posto suo. Ma lei sapeva che erano acclamazioni false, lo aveva sentito e lo aveva visto nei loro occhi; magari lei ci aveva anche creduto. L’aveva vista in faccia, era una ragazzina, per di più le sembrava una di quelle viziate e cresciute in una gabbia d’oro. Quando era piccola ne aveva vista qualcuna così, e sapeva che erano le principesse più scialbe e insopportabili. Che cosa mai poteva avere a che fare col suo popolo una principessa straniera? Lei non sapeva cosa avevano passato, qual era la loro storia. Carabosse sì. Apparteneva a loro come loro appartenevano a lei. Helena non sapeva quale oscura storia nascondesse il trono al quale aveva la presunzione di aspirare, non sapeva chi fosse realmente Uberto né tantomeno Stefano.
Nel pensare a lui, Carabosse fu travolta di nuovo da quella sgradevolissima sensazione, come se il sangue le stesse ribollendo nelle vene, come se un acido stesse corrodendo i suoi organi vitali. Era gelosia? Forse. Ormai non aveva più senso tentare di dissimulare ciò che non poteva: vedere Stefano in compagnia di un’altra, della sua futura sposa… l’aveva fatta sentire male. Non le era piaciuto proprio per niente, e la cosa peggiore era il non poter parlare con lui.
Se anche fosse andata a palazzo le guardie non l’avrebbero fatta passare… e comunque, cosa avrebbe detto a Stefano? Ma soprattutto, lui cosa provava per quella lì? Le balenò in mente solo per qualche istante il pensiero che non avrebbe dovuto provare certe cose, visto che il suo intento iniziale era quello di ucciderlo, ma poi pensò che probabilmente non l’avrebbe mai più rivisto e allora mandò all’aria ogni residuo di dubbio e senso di colpa, ammettendo che lei provava qualcosa per il principe. Amore? Quella parola le faceva paura, ri rifiutava di accettarlo. Ma di sicuro era attratta da lui… gli si era affezionata, e già aver passato una giornata senza di lui era stata una bella sofferenza. Ora le si prospettava una settimana e forse una vita intera senza di lui. E allora come avrebbe fatto?
Quell’unica giornata di lontananza l’uno dall’altra era stata un tormento per entrambi.





Angolo Autrice: Perdonatemi per non essermi più fatta viva, ma ultimamente faccio fatica a star dietro a tutto. Ad ogni modo credo di aver fatto un bel ritorno col botto, perché qui non solo la nostra Carabosse è gelosa (mi piacciono troppo i personaggi delle storie quando sono gelosi! Muahahahaha), ma entrambi i nostri piccioncini hanno ammesso di provare qualcosa di più profondo della semplice amicizia l'uno per l'altra (ed era pure ora!).
Per quanto riguarda l'ultimissima parte del capitolo, ci tengo a fare una precisazione: quando dico che per Stefano e Carabosse stare lontani è una sofferenza, non voglio certo farli assomigliare ai protagonisti di un qualunque romanzetto harmony da quattro soldi. Loro due posso stare lontani e vivere la loro vita come due persone normali, eh!
Un'ultima cosa: forse per qualcuno appassionato, come me, di Game of Thrones, ci saranno delle note familiari in questo capitolo... sì, sono deliberatamente ispirate al caplavoro creato da Martin, onore a lui nei secoli dei secoli (se non ucciderà tutti gli Stark). Amen.
Note di servizio:
-nel prossimo capitolo ci sarà un avvenimento bomba, ma non vi dico qual è perché sono taaaanto cattiva :-P
-per chi segue anche la mia long Lady and the Tramp in Storybrooke... abbiate fede, il nuovo capitolo arriverà
-per chi fosse interessato, ultimamente ho pubblicato una OS nel fandom di Harry Potter, ecco il link: 
http://www.efpfanfic.net/viewstoryv.php?sid=2360491&i=1 
E con questo è tutto... ringrazio, come al solito, chi ha inserito questa storia fra le ricordate/seguite/preferite, i lettori silenziosi e x_LucyW, Princess Vanilla e Homicidal Maniac per aver recensito. 
A presto!

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Capitolo 13
*** So this is love ***


13. So this is love

Terzo giorno di supplizio.
Stefano era seriamente stupito dal fatto che non avesse ancora perso completamente il controllo: fra le feste, le prove degli abiti, i banchetti, gli sguardi attenti di Uberto, quelli avidi della Regina Mariah e quelli sognanti di Helena si sentiva sul punto di esplodere. Per contro, il ferreo controllo che s’imponeva per non mandare tutti al diavolo e dare di matto lo faceva apparire impassibile e rigido ad occhi esterni, e tuttavia questa freddezza non sembrava avere il benché minimo effetto sull’entusiasmo della principessa. Una vera fortuna, nell’ottica di Uberto; una vera scocciatura, in quella di Stefano.
-Vostra Altezza? Ehm… Vostra Altezza, vi… vi sentite bene?
La voce del servitore riscosse Stefano, che si accorse di star fissando il vuoto, completamente assente. Annuì meccanicamente al servo che, un po’ intimorito e un po’ confuso, gli comunicò che era stato mandato dalla principessa Helena, a dirgli che era suo desiderio visitare i boschi nei dintorni della capitale. Per Stefano era un dovere accompagnarla, perciò con molta flemma disse al ragazzo di riferire la sua disponibilità alla principessa. Il servo annuì, s’inchinò e poi uscì dalla stanza del principe, lasciandolo nuovamente solo a rimuginare sulla spiacevole situazione in cui si trovava. Adesso Helena voleva anche essere accompagnata a fare una scampagnata nel bosco! Doveva fare da balia a quella principessa viziata, e portarla nel luogo che era suo e di Rosaspina!
Colto da un impeto di rabbia, rovesciò a terra ciò che si trovava sulla sua scrivania, mandando in frantumi boccette d’inchiostro e spargendo fogli di pergamena tutt’intorno. Poi sospirò e si sedette sul suo letto, con la testa fra le mani, pentito di quell’attacco di rabbia. Era meglio non alimentare quella collera, altrimenti gli sarebbe riuscito difficile trattenersi, in presenza di Helena. L’ultima cosa che gli serviva era che desse a suo padre un motivo per rimproverarlo, quando già sapeva che lo stava deludendo. Ma, davvero, non riusciva a credere che la principessa potesse rendersi così insopportabile! A causa sua accumulava nervosismo da giorni e, anche se involontariamente, sembrava fare di tutto per peggiorare la situazione.
Con gesti meccanici si rialzò, salvò alcune pergamene ancora immacolate e altre, invece, scritte dalla pozza d’inchiostro nero che si era formata, si ricompose velocemente e lasciò la sua camera per dirigersi verso le stalle, dove si assicurò che Kalth fosse ben sellato e fece preparare un cavallo anche per la principessa. Con una punta di compiacimento, Stefano pensò che quella bambina viziata si sarebbe dovuta adattare a cavalcare, se voleva davvero vedere il bosco.
Decise di attenderla leggendo un trattato di scherma orientale, ed aveva già letto parecchie pagine quando, finalmente, udì un fruscio di lunghe vesti avvicinarsi. Alzò gli occhi e vide la principessa Helena, accompagnata da alcune delle sue dame e tre delle sue guardie. Ovviamente non avrebbero viaggiato soli, c’era da aspettarselo. In fondo era meglio così: per quanto detestasse l’idea di portare persone estranee nel suo adorato bosco, la loro presenza avrebbe impedito il crearsi di qualsivoglia atmosfera romantica che avrebbe potuto trarre ancora di più in inganno la principessa.
-Mia signora – la salutò cercando di essere il più freddamente cortese possibile – Vogliamo andare?
-Certo, mio signore. Spero di non avervi fatto attendere troppo.
-Vi assicuro, principessa, di aver trascorso il tempo in maniera così piacevole da essermi sembrato estremamente breve  – le rispose, porgendole un braccio, che lei accettò.
Una volta giunti fuori, Stefano gustò segretamente l’espressione di Helena quando vide l’elegante puledra attenderla, tenuta per le redini da un palafreniere.
-Spero che questa puledra sia di vostro gradimento, mia signora. E’ fra le meglio addestrate del regno. – le disse, e lui stesso montò sul suo stallone.
-E’ proprio necessario, mio signore? Non si potrebbe usare un altro mezzo per raggiungere la foresta? – rispose lei, in visibile difficoltà.
-Mi dispiace, ma non è possibile inoltrarsi nella foresta con una carrozza o una portantina, principessa. Cavalcare è l’unico modo. – Quella fu la prima volta in tre giorni che Stefano sorrise perché davvero si stava divertendo.
Ci volle tutto l’aiuto dello stalliere e del palafreniere per far riuscire ad issare la principessa sul proprio destriero, ma alla fine ce la fecero. Helena cercava di non dimostrarsi imbarazzata, ma era consapevole di aver fatto una pessima figura, soprattutto perché sapeva quando Stefano amasse cavalcare. Fortunatamente la sua puledra era davvero molto obbediente, così non ebbe problemi a comandarla.
Quando furono giunti nel bosco, il sollievo della principessa fu palese. Chiese al principe di potersi fermare per ristorarsi, e lui, suo malgrado, dovette acconsentire. Il seguito dei due rampolli reali smontò da cavallo e cominciò a darsi da fare per allestire un piccolo campo per i due principi. Le attendenti di Helena si erano portate dietro una gran quantità di vivande, soprattutto dolci, e anche un menestrello per allietare il loro rinfresco con qualche ballata. Fu una sofferenza tanto per Stefano quanto per le guardie: quella che avrebbe potuto essere una quantomeno piacevole escursione si era trasformata in una stucchevole scampagnata da ballata romantica, buona solo per le dame sognatrici. Presto il principe ne ebbe davvero abbastanza, così propose alla principessa di accompagnarlo mentre passeggiava per il bosco. Sperava che rifiutasse, così sarebbe stato libero, fosse stato anche soltanto per mezz’ora, ma Helena, per quanto non fosse portata per le passeggiate, accettò l’offerta e si aggrappò al braccio del suo principe ben decisa a non lasciarlo neanche per un secondo. Uno dei soldati della principessa rimase al campo improvvisato con le dame e le attendenti, mentre gli altri – alcuni di Helena, altri di Stefano – scortarono i principi mentre si addentravano nella selva. Man mano che avanzavano, gli alberi si facevano più fitti, alti e rigogliosi, tanto che i rami si intrecciavano fra loro e le radici sbucavano fuori dal terreno, creando dossi e avvallamenti insidiosi per la principessa, la quale si stringeva sempre più forte al suo cavaliere. Ogni volta che la stretta sul suo braccio aumentava, faceva lo stesso anche il disprezzo di Stefano.  
Il principe, tuttavia, aveva cose più importanti a cui pensare: era seriamente preoccupato, poiché le probabilità che Rosaspina si trovasse nella foresta erano davvero alte. In quale altro posto sarebbe potuta andare, da sola? La conosceva fin troppo bene, lei adorava il bosco. Si ritrovò a maledire quella stupida idea di Helena; avrebbe dovuto trovare una scusa, ma d’altra parte sapeva che suo padre non vi avrebbe creduto e avrebbe capito che c’era qualcosa sotto. Era con le mani legate, stretto tra due fuochi.
D’un tratto, poco distante da loro, Stefano udì un sibilo acuto e poi un tonfo. Anche le guardie avevano sentito, e senza attendere ordini gli uomini del principe andarono in avanscoperta nella direzione da cui era venuto il suono, mentre Helena aveva serrato talmente tanto la presa sul braccio di Stefano che gli si sarebbe fermata la circolazione. Era letteralmente terrorizzata, ma contava sul fatto che il suo principe l’avrebbe difesa a costo della vita. Stefano, invece, le disse che era suo dovere andare a controllare con i suoi uomini, perciò lasciò la fidanzata con le altre due guardie e seguì i suoi a spada sguainata. Non credeva che ce ne fosse davvero bisogno, ma stringere l’acciaio nella sua mano lo rassicurava: la sua paura infatti era che fosse stata Rosaspina a produrre quei rumori, essendo andata a caccia senza di lui, e ora avrebbe potuto scoprire tutto.
Mentre marciava fra le felci, i massi e le radici, non si era accorto del respiro affannato di Helena che lo stava seguendo: la ragazzina aveva troppa paura per restare nel bosco senza di lui, vicina ad un potenziale pericolo, e non appena Stefano si era allontanato, era guizzata al suo inseguimento, seguita a sua volta dalla scorta. Aveva poco vantaggio sui soldati, ma erano pur sempre uomini in armatura e lei una ragazzina lesta e minuta. Si era però resa conto ben presto che il vestito la rallentava e che correre in un bosco non era come correre su una superficie perfettamente piana, infatti aveva rischiato di inciampare più volte, ma si impose un ultimo sforzo. Aveva quasi raggiunto Stefano: sentiva la sua voce. Stava parlando con le guardie.

***

Stefano stava parlando con le guardie. Come temeva, avevano preso Rosaspina e la tenevano per le braccia, costrette dietro la schiena. Ai suoi piedi c’erano il suo inseparabile arco e delle frecce cadute dalla faretra rovesciata, mentre poco distante da lei c’era uno sparviero abbattuto da una sua freccia. Rosaspina non faceva nessun tentativo di liberarsi, ma guardava Stefano furente.
-Altezza, questa ragazza stava cacciando illegalmente, deve essere portata nelle prigioni, secondo la legge del Re! – protestò uno dei due uomini armati contro l’ordine di Stefano di lasciarla andare.
-No – disse lui – ho dato io il permesso a questa ragazza di cacciare nel bosco. Lasciatela.
-Ma, Vostra Altezza…
-Lasciatela, ho detto. E che mio padre non sappia nulla di tutto questo.
-Ai vostri ordini, mio signore.
Le guardie si allontanarono, e Stefano e Carabosse rimasero così, uno di fronte all'alta, a fissarsi, a lanciarsi occhiate di fuoco. A interrompere quel duello di sguardi roventi fu l'arrivo di Helena, trafelata, preoccupata, che inciampò in una radice e fu salvata da una rovinosa caduta a terra solo da Stefano, che per prenderla dovette serrare un braccio attorno alla vita di lei e stringerla a sé. Quel gesto fece illuminare gli occhi di Helena e oscurare quelli di Carabosse. Stefano si voltò immediatamente verso di lei per vedere come avesse reagito, ma Rosaspina aveva già distolto lo sguardo. Quella vista le era insopportabile.
Quando Helena si fu rimessa in piedi sulle sue gambe, chiese a Stefano cosa stesse succedendo.
-Le guardie hanno catturato per errore questa ragazza – disse, atono, senza distogliere lo sguardo da Rosaspina – ma ora è tutto a posto. E’ libera, può andare.
-Vi ringrazio, Vostra Altezza -  rispose lei con freddezza, insistendo con tono sarcastico sulle ultime due parole. Approfittò della riverenza per lanciargli uno sguardo obliquo, penetrante, che fece sentire il principe estremamente a disagio fin dopo che lei ebbe girato le spalle verso di lui e se ne fu andata con la sua preda e le sue inseparabili armi.
***

Le massaie stavano facendo il bucato alla fontana e Carabosse lì in mezzo era decisamente di troppo. Di troppo come nel bosco, del resto, dove Stefano aveva portato la sua sposina. Dei, che tortura era stata vedere quella ragazzina viziata aggrappata al collo del suo Stefano!  E pensare che lui l’avrebbe sposata, che quella piccola smorfiosa lo avrebbe avuto accanto per il resto della sua vita, avrebbe condiviso il suo letto con lui, e portato in grembo i suoi figli… Diamine, no, si rifiutava di stare male per lui! Una bestia destinata al macello, ecco cosa doveva rappresentare per lei, solo che… per quanto si sforzasse, non era così.
Guardò il suo riflesso sulla superficie increspata dell’acqua. Aveva un’aria quasi sconvolta, ma non aveva versato una sola lacrima.
Era seduta sul bordo di pietra e sapeva di avere addosso gli sguardi sospettosi di molte di quelle donne. Aveva addosso i suoi abiti da caccia, se ne stava lì comportandosi come una mezza matta, alloggiava da sola in una locanda, girava per la città e spesso andava per i boschi come se fosse un uomo: era sufficiente perché venisse evitata come la peste da tutti. Non si sarebbe stupita se avessero iniziato ad additarla come strega.
-Ehm, scusate… - disse una voce alle sue spalle, facendola voltare. Era una donna con sottobraccio una cesta piena di panni sporchi. Ma Carabosse l’aveva già vista: era la madre di Aurora. – Scusate, dovrei lavare i panni…
-Ma certo – rispose la ragazza alzandosi subito e lasciando spazio alla donna. Facendosi da parte, Carabosse vide proprio la piccola Aurora, che si nascondeva dietro la gonna di sua madre. Si avvicinò e si fece vedere.
-Ciao Aurora – le disse con il sorriso migliore che le riuscisse in quel momento.
-Rosaspina! – esclamò la bambina e la abbracciò di slancio. Poi si rivolse alla madre: - Mamma, posso andare a giocare con Rosaspina? Posso?
La donna rimase per un attimo interdetta: Carabosse capì che non si fidava molto di lei, probabilmente per le malelingue che giravano in città, ma evidentemente la donna si ricordava di quando lei le aveva riportato Aurora a cavallo, perché alla fine le diede il permesso. La bambina, felice, prese Carabosse per mano e la trascinò verso casa sua.
-Voglio farti vedere i miei giocattoli.
Carabosse si lasciò trascinare da quella vivace bambina dolcissima.
La casa di Aurora non era che un’unica grande stanza, dalla quale i genitori avevano ricavato più ambienti separandoli con delle tende improvvisate, che separavano i letti dalla sala in cui cucinavano e passavano il giorno. La bambina si diresse verso una grande cassapanca accostata ad una parete, e ne tirò fuori dei giocattoli: un rozzo cavalluccio intagliato nel legno, una bambolina di pezza, una palla di cuoio un po’ sformata e una corda per saltare.
-Con cosa vuoi giocare? – chiese Aurora a Carabosse.
-Non so, decidi tu – le rispose la ragazza.
-Non sei molto felice, vero?
Erano disarmanti la schiettezza e l’intuito dei bambini.
-Non molto. A dire la verità sono un po’ triste…
-Scommetto che è perché ti manca il tuo amico.
-E tu come fai a saperlo? – chiese Carabosse davvero stupita.
-Si vede. Quando ti ho vista, quando stavi con lui, eri molto felice e sorridevi… adesso invece lui non c’è e hai gli occhi tristi.
Carabosse sospirò:- Sì, hai ragione.
-Quando io sono triste oppure ho paura, stringo sempre la mia bambolina. Si chiama Mary, vedi? – e le mostrò la bambolina di pezza. – E’ la mia migliore amica e con lei non sono mai sola. Tu non hai qualcosa che ti faccia compagnia quando sei sola?
-No, purtroppo non ho nessuna Mary.
Aurora sembrò pensarci un po’ su, poi disse: - Allora te la regalo.
Carabosse fu molto sorpresa. – Ma no, tienila, non potrei… tu come faresti senza?
-Io ho altri giocattoli, e amici con cui giocare… e poi Mary mi ha fatto compagnia tante volte… vuole venire a stare con te adesso, me l’ha detto. La senti?
-Certo che la sento – la assecondò Carabosse, intenerita e commossa dalla dolcezza della bambina. – Per me è un piacere ospitare Mary. Grazie, avrò cura di lei.
-Tu però devi promettermi una cosa: che andrai dal tuo amico e gli dirai che non deve lasciarti mai più sola.
-Non posso, Aurora.
-Perché? Lui è tuo amico, no?
-Sì, ma non è così semplice… a volte le persone che ci vogliono bene, che ci sono amiche, sono costrette a lasciarci sole. Ad andarsene.
-Ma tu sei triste.
-Passerà.
-Lui ti piace, vero?
-Cosa? – chiese Carabosse presa alla sprovvista, arrossendo vistosamente. – No, cosa te lo fa pensare?
-Sei diventata tutta rossa… anche a mia sorella piace un ragazzo, e quando ci parla diventa sempre tutta rossa.
-Diciamo di sì, ma… non dirlo a nessuno, Aurora. E’ un segreto; lo sai mantenere un segreto?
-Io sì, ma tu glielo devi dire.
-Non posso. Probabilmente non lo rivedrò mai più.
-Secondo me sì, invece. Quando quella volta mi avete riportata a casa, la mia mamma mi ha detto che noi sembravamo una famiglia… capisci, sembrava che voi eravate i miei genitori e io vostra figlia. Voi sembrate innamorati.
Carabosse non seppe cosa dire.
-Vai da lui – incalzò la bambina.
-Ma… non so neanche dove…
-Tu cercalo: lo troverai.
-Va bene – mentì Carabosse. Non l’avrebbe fatto. – Ti accompagno da tua madre e poi andrò a cercarlo.
Tutta contenta per la buona azione, Aurora balzò in piedi sorridendo e le tese la manina.

***

Stefano era sul suo cavallo, fermo davanti alla locanda.
Era sera, il vento soffiava e faceva svolazzare il suo mantello nero. Aveva freddo e anche il suo cavallo tremava e dava segni di irrequietezza, ma lui continuava a non muoversi. Rimaneva lì, indeciso su cosa fare, chiedendosi se fosse il caso di entrare ed andare da Rosaspina o no.
Si era liberato della sua promessa sposa, di suo padre e della corte appena aveva potuto, inventando un malessere improvviso, poi si era precipitato subito alla locanda, ma non si era deciso a entrare, stava lì fuori a interrogarsi sul perché l’avesse fatto. O forse lo sapeva e semplicemente stava prendendo tempo, perché ammetterlo lo spaventava.
Avrebbe preferito essersi cavato gli occhi che aver visto lo sguardo deluso e irato di Rosaspina, ed aveva sentito il suo cuore sgretolarsi all’idea di poterla perdere per la menzogna che lui le aveva detto. Era dunque così che ci si sentiva ad essere innamorati? Preferire mille volte soffrire, che veder soffrire la persona amata? Provare dolore quando lei provava dolore, essere felice quando lei era felice?
Considerati i progetti di suo padre per lui, forse lasciare tutto come stava sarebbe stata la cosa migliore da fare. Lui avrebbe sposato Helena, quindi troncare ogni rapporto con Rosaspina era necessario, e visto l’episodio che era accaduto quale occasione migliore di quella? Lei aveva saputo qual era la sua vera identità, che era fidanzato e probabilmente ora non voleva più vederlo. Lui avrebbe potuto continuare a vivere nella sua coltre di dubbio, senza porsi domande scomode. Poteva non fare nulla, lasciare che lei lo odiasse e non si sarebbe posto nessun problema. Eppure non voleva. Non poteva. Perché sentiva il bisogno di andare da lei e spiegarle tutto, giustificarsi, ridarle il sorriso. Perderla così era l’ultima cosa che voleva: se dopo la sua spiegazione lei avrebbe deciso di lasciarlo perdere, avrebbe rispettato la sua decisione, o almeno ci avrebbe provato, ma prima voleva sapere se anche lei provava ciò che provava lui. Perciò smontò da cavallo, lo legò al palo all’entrata e si rifugiò da quel vento freddo. Mantenne il cappuccio sollevato per non correre il rischio di farsi riconoscere; incaricò un garzone di portare il cavallo legato fuori nella stalla, poi si avvicinò all’oste e, dopo che questi l’ebbe identificato come il principe Stefano, gli chiese quale fosse la stanza della sua protetta.
L’oste si offrì di accompagnarlo, ma lui preferì andarci da solo, una volta ottenute le informazioni che voleva: la camera di Rosaspina era la terza porta a destra, contrassegnata dall’incisione un giglio. Non fu difficile trovarla. Quando vi si trovò davanti, prese un bel respiro e bussò. Non ebbe nessuna risposta.
-Rosaspina – chiamò allora, bussando di nuovo. Stavolta sentì un rumore provenire dall’interno della stanza. – Rosaspina, so che sei lì dentro. Apri, per favore. Devo parlarti.
Si aspettava di dover insistere molto di più, e invece sentì dei passi venire verso di lui e il rumore di una chiave che girava nella toppa. Un secondo dopo la porta si aprì.
***
Carabosse si trovò davanti uno Stefano molto diverso da quello che si era aspettata di trovare. Aveva preferito andare ad aprire subito la porta per chiarire tutto in fretta e dare un taglio a quella faccenda. Lui era venuto sicuramente a dirle addio, e allora lei avrebbe detto addio anche alla vendetta. Ucciderlo a sangue freddo, lì, non ce l’avrebbe fatta, e per di più non l’avrebbe portata in alcun modo sul trono.
Si era aspettato di vederlo duro, freddo, determinato, e invece sembrava distrutto, a pezzi. Ma anche se una parte di lei provava pietà per lui, un’altra parte ne godeva, per il colpo che lui le aveva inflitto quella mattina, con Helena. La gelosia l’aveva divorata da quel momento, non l’aveva lasciata in pace un attimo, e lui si presentava lì a quell’ora.
Non gli disse una parola, ma aspettò che lui la seguisse dentro, poi chiuse la porta e gli si mise di fronte, guardandolo fisso negli occhi. Rimasero in silenzio finché non fu lei a cominciare, fredda e sarcastica, mentre dentro veniva divorata dalle fiamme.
Poteva un fuoco essere ghiacciato?
-Allora, Vostra Maestà, di cosa dovete parlarmi?
Per Stefano fu come se lei gli avesse scagliato una pietra. – No, Rosaspina, non chiamarmi così. Sono sempre io, anche se…
-Anche se oggi ho scoperto che sei il principe, e che… - non continuò la frase. – Quando pensavi di dirmelo? – chiese infine.
-Non lo so, ma questo non cambia le cose.
-Questo cambia tutto – ribatté lei. Sentì la sua voce incrinarsi, e no, non dipendeva dal fatto che si sentisse in colpa perché era lei che meritava quel discorso, che stava continuando con la sua recita.
-Ascoltami, ti ricordi quando ti ho chiesto perché stavi scappando dal tuo villaggio? Tu mi hai risposto che ti stava troppo stretto. E’ lo stesso per me, capisci? Ad un tratto ho sentito che il castello e il mio ruolo mi stavano troppo stretti, e sono andato per boschi… e ho incontrato te. Una persona che non mi conosceva, che non sapeva chi ero. Una persona con cui poter essere me stesso. Con te è stato naturale…
-Cosa, mentire? – lo attaccò lei, e no, non era per nascondere quanto quelle parole l’avessero commossa.
-E’ questo il punto, non capisci? – le disse, quasi disperato. Le afferrò le spalle con veemenza. – Tu credi che ti abbia mentito, ma l’ho fatto solo su quello che riguardava la mia identità, nient’altro. Con te sono stato più sincero che con qualsiasi altra persona al mondo.
Carabosse assaporò in segreto quelle parole, poi sfoderò l’ultima arma. – E quella Helena? La tua futura moglie? Quella che oggi hai abbracciato con tanta prontezza?
-Mio padre mi ha imposto il matrimonio, lei non è nulla per me…
-Ah, davvero? Oggi non sembrava – ribatté, e no, non era gelosa. Era tremendamente gelosa.
-Ti giuro che è così. Non sai come mi sono sentito quando hai visto quella scena che… era tutta un equivoco!
-Tu? – gridò Carabosse, gli occhi lucidi. – Tu?! E io allora? Come credi che mi sia sentita, eh? Io mi sono sentita morire!
Carabosse fece appena in tempo a finire di parlare che si ritrovò le labbra di Stefano sulle sue,  le mani sulla schiena a stringerla a sé, per non farla scappare. Ma stavolta lei non aveva intenzione di andarsene. Ricambiò il bacio, che non aveva nulla di dolce e delicato come quelli descritti nelle ballate romantiche. Questo bacio era furioso, era passionale, era disperato, come Stefano che le lambiva le labbra con i denti, come Carabosse che si aggrappava alle sue spalle forti, come i loro ansiti e i loro respiri affannati.
Stefano si staccò dalle labbra di Rosaspina solo quando gli sembrò che i suoi polmoni stessero scoppiando per la mancanza d’aria. La guardò in viso, con i capelli scompigliati e le labbra rosse e turgide di morsi e baci, e la trovò la cosa più bella che gli fosse mai capitata. Spostò una lunga ciocca di capelli castani dal viso della ragazza e gliela sistemò dietro l’orecchio, poi le accarezzò dolcemente la guancia.
-Ti amo – le disse. – E ferirti è l’ultima cosa che vorrei al mondo… perché ti amo, ti amo, ti amo.
Stavolta fu lei a baciarlo, più delicata, più dolce, e in quel bacio c’era la sua risposta. Perché per quanto in cuor suo desiderasse potergli dire che lo ricambiava, dirgli ti amo mentre per lui era ancora una contadinella di nome Rosaspina
 sarebbe stata la peggiore delle bugie. 




Angolo Autrice: Dunque.
Ormai è assodato: sono una schiappa nel descivere baci, innamoramenti e scene romantiche in generale. Sarà che non fa parte del mio DNA. 
Comunque, vi avevo promesso un evento bomba, e spero che questo sia stato bomba abbastanza :3 I due piccioncini hanno finalmente ammesso cosa provano e hanno sfogato un po' la loro frustrazione, ma qua i problemi non sono mica finiti u.u
Nel prossimo capitolo vedremo il ritorno delle fate, vi sono mancate?
Bene, c'era una cosa importante che vi dovevo dire, ma me la sono scordata XD Intanto pubblicizzo ancora il gruppo FB dedicato alla storia (prossimamente cercherò anche di iscrivermi su Twitter), per chi se lo fosse perso: https://www.facebook.com/groups/633954589962852/  
Ringrazio chi ha messo la storia fra le ricordate/seguite/preferite, i lettori silenziosi e Homicidal Maniac e Beauty per aver recensito.
Ora la smetto di sproloquiare e mi ritiro.
A presto!

 

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Capitolo 14
*** Return to the castle ***


14. Return to the castle

I raggi solari filtravano dalle tende in tenui fasci dorati che inondavano di luce la figura addormentata di Rosaspina. Stefano la guardava dormire, accarezzandole dolcemente il capo. Nel sonno era serena e docile come durante la veglia era inquieta e indomabile. Con le palpebre abbassate, il viso rilassato, le labbra leggermente dischiuse e i lunghi capelli sparsi sul cuscino, immersa nella luce mattutina, sembrava una figura eterea, fatata. Stefano sentiva di non meritarla. Lei, così coraggiosa, desiderosa di libertà, aveva lasciato la sua realtà per poter essere se stessa e se l’era cavata da sola, con una forza che quasi nessuno avrebbe avuto… e lui? Lui non aveva il coraggio di opporsi a suo padre per una scelta che riguardava la sua vita, la sua felicità… che forse ora coincideva con quella di Rosaspina.
Non ingannare te stesso, almeno. Tu vuoi quella corona, per quanto alto possa essere il prezzo.
Il principe scosse la testa, come se, così facendo, avesse potuto scuotere via dalla sua mente anche quel pensiero. Amava sinceramente Rosaspina, questo nessuno avrebbe potuto metterlo in dubbio…
…ma amo anche essere me stesso, il principe Stefano della casata Westeros, futuro Re di questo regno. Cosa farò quando i miei due amori mi metteranno nella condizione di dover scegliere fra uno solo di loro?
L’interrogativo del principe rimase irrisolto, per quella mattina, con enorme sollievo di Stefano, che aveva francamente paura della risposta. La salvezza gli era giunta, paradossalmente, da Rosaspina stessa, risvegliatasi dal suo dolce sonno.

***

Carabosse aprì gli occhi e per un istante fu abbagliata dalla luce del sole; poi, quando vi ebbe fatto l’abitudine, notò Stefano di fianco a lei, e i ricordi della sera prima scorsero veloci nella sua mente. I baci – dei onnipotenti, aveva baciato Stefano! -, la tenera dichiarazione d’amore, i discorsi che le erano seguiti, e il sonno in cui erano caduti senza accorgersene, mentre parlavano, e il senso di colpa, strisciante, che non l’aveva abbandonata.
-Buongiorno – le disse Stefano con un sorriso che non avrebbe saputo definire che… grato.
-Buongiorno – rispose lei. Puntellandosi sulle braccia, si mise a sedere, sentendosi addosso quella sensazione di disagio che provava le rare volte in cui le capitava di addormentarsi vestita.
Stefano fu rapido nel chinarsi su di lei e rubarle un bacio a fior di labbra, e lei fu felice che avesse fatto lui il primo passo. Era talmente imbarazzata per quel che era successo che davvero non avrebbe saputo come comportarsi con lui, ma sotto il tocco delle sue labbra riacquisì la confidenza e la fiducia che aveva temporaneamente smarrito.
Sii te stessa. Almeno nella misura che il tuo ruolo ti permette.
Quando si staccarono sorrisero entrambi, e rimasero fronte contro fronte, in un gesto che sapeva di intimità più dei baci che si erano scambiati.
-Come ti senti? – le chiese il principe.
-Potrei sentirmi meglio solo se… - ma si rese conto che non poteva dire quali condizioni l’avrebbero fatta sentire ancora meglio, così mentì. – Non potrei. Non potrei sentirmi meglio di così.
Un altro sorriso, un altro bacio.
-Nulla potrebbe rendermi più felice di te. Solo l’annullamento del matrimonio da parte di mio padre potrebbe.
-Tuo padre… cosa dirà per la tua assenza di questa notte? Come ti giustificherai?
-Probabilmente non avrò bisogno di giustificazioni. Lui crede che io frequenti bordelli. Anche se mi ha vietato di farlo, per riguardo alla principessa Helena, crederà che io sia così annoiato da non poterne fare a meno.
La tristezza e la delusione nella sua voce non fecero altro che alimentare l’odio di Carabosse per Uberto. Se anche aveva perdonato Stefano, per l’amore che gli portava, non avrebbe mai perdonato lui, mai.
 -Non ci saranno gravi conseguenze per te, vero? Non sarai punito a causa mia?
-Suppongo di no: mio padre non è mai stato molto propenso verso le punizioni corporali, ma anche se fosse, Rosa, non mi importerebbe. Io voglio te, il resto non conta.
-E’ lo stesso, per me. So che non rischio tanto quanto te, ma credimi se ti dico che…
Stefano non le permise di continuare, perché la zittì con un bacio appassionato.
-Vieni con me al castello – le sussurrò, tenendole il volto fra le mani.
Carabosse si ritrasse, spaventata. Era l’ultima cosa che si aspettava. E se per caso qualcuno l’avesse riconosciuta? Uberto non avrebbe avuto pietà con lei, neanche se avesse saputo che suo figlio l’amava. Anzi, questo forse l’avrebbe reso ancor più risoluto nell’ucciderla. Sarebbe stato capace di strapparle il cuore a mani nude.
-Mio padre non verrà mai a saperlo – cercò di convincerla. – Il castello è immenso, e lui ne frequenta solo determinate ali: se saremo attenti non saprà neanche della tua esistenza.
-E come faremo con la tua promessa sposa? Ti rendi conto che vivremo nello stesso castello, che dovrai passare tutto il tuo tempo con lei, fra impegni, visite e balli? Se io rimango qui, a te basterà dire che vuoi andare a caccia per venirmi a trovare, ma nel castello, con tuo padre e Helena alle costole, credi davvero che riusciresti a trovare del tempo per me?
-Nessuno potrà tenermi separato da te troppo a lungo, sapendo che sei solo a pochi corridoi da me. E non permetterò a nessuno di trovarti né di farti del male, questo te lo prometto.
-Ma Helena… - provò ancora a protestare Carabosse e, ancora, fu interrotta da Stefano.
-A me non importa niente di lei, Rosa! E’ stato mio padre a sceglierla, non io, e questo mi è sufficiente per mettere da parte i doveri che ho verso di lei. Come potrei esserle fedele se ancora non siamo sposati, ma soprattutto se non la amo? Come potrebbe lei pretendere qualcosa di diverso? Ti prego, Rosa, vieni con me.
Continuare a resistere sarebbe stato inutile, comprese Carabosse. Certo, quanto a testardaggine Stefano era un suo degno rivale, e purtroppo lei non era neanche nel pieno delle sue facoltà mentali – colpevoli i baci, o la preoccupazione, o gli occhi imploranti di Stefano, o tutte e tre le cose insieme – così, alla fine, cedette al desiderio del principe.
Ma era troppo facile incolpare solo Stefano; doveva ammetterlo: era anche lei che desiderava andare con lui al castello. Non c’era paragone fra l’aspettare il suo uomo in una locanda e aspettarlo sotto il suo stesso tetto, solo di qualche stanza distante da lui. Carabosse non era una sciocca, sapeva, perché era lei stessa una principessa, che Stefano non sarebbe potuto rimanere a lungo con lei anche se fosse andata a vivere con lui, tuttavia la vicinanza gli avrebbe permesso di sfruttare ogni momento libero, e poi c’era la nuova prospettiva delle notti che avrebbero potuto passare insieme… Senza contare il richiamo della sua casa natia. In quel castello era nata e cresciuta, vi aveva passato i momenti più felici della sua esistenza, e ai dolci ricordi custoditi per lei da quelle mura avrebbe potuto aggiungerne degli altri, momenti di vita con Stefano.
Quella è casa mia. Non permetterò a Uberto né tantomeno ad una principessina viziata di obbligarmi a starvi lontana più a lungo, decise infine.
Accettò quindi la proposta di Stefano che, al colmo dell’euforia, indossò la sua giacca e precedette Carabosse al piano di sotto, lasciando all’oste una sacchetto di monete d’oro per l’alloggio della ragazza ma soprattutto per il suo silenzio, e facendo preparare i loro cavalli.
Quello verso il castello fu un viaggio silenzioso. Ognuno era perso nei propri pensieri: Stefano pensava a come sistemare la sua amata senza farle correre alcun rischio, immaginava come sarebbero stati i giorni a venire insieme a lei, cercava di escogitare piani per poter ottenere più momenti da passare insieme; Carabosse invece pensava alla propria famiglia, a suo padre e a sua madre. Non era pentita della sua decisione, ma non poteva fare a meno di chiedersi se loro l’avrebbero mai approvata, se fossero stati lì. Il cuore le tremava al pensiero di star deludendo i suoi genitori, soprattutto sua madre, che aveva consumato se stessa nel desiderio di vendetta. Forse, da qualche parte, Elsa la stava davvero guardando e la stava rimproverando per quel gesto sconsiderato che aveva mandato all’aria quattordici anni di piani, progetti e sofferenza. In quel modo si era negata la vendetta, sì, ma aveva trovato qualcosa di più importante e in fondo, forse, Elsa avrebbe potuto capire. Era pur sempre sua madre e aveva avuto a cuore la sua felicità, l’aveva amata. Magari se fosse stata lì le avrebbe detto che non importava di chi fosse figlio Stefano: se era lui il suo Vero Amore, allora dovevano essere felici insieme.
Sì, Stefano non aveva nulla a che fare con suo padre, era completamente diverso da Uberto, e di certo non aveva alcuna colpa nel complotto che era stato ordito contro la sua famiglia. Aveva solo tredici anni all’epoca, cosa avrebbe potuto fare?
-A cosa pensi, Rosa? – le chiese ad un tratto il principe.
-Sono preoccupata – confessò lei.
Lui scosse la testa. – Dovresti smetterla di preoccuparti tanto. Ti fa solo male.
-Il punto è che… stiamo rischiando veramente molto – cercò di spiegare, ma le sarebbe stato impossibile fargli capire quanto, senza dirgli la verità su di lei.
-Capisco che tu sia preoccupata, ma io conosco mio padre. Se staremo attenti, non correremo pericoli. Almeno per ora.
-Per ora, esattamente. E poi cosa succederà?
-Non ho ancora fatto piani, ma vedrai che ce la caveremo. – Carabosse non gli rispose. Vedendola ancora preoccupata, decise, a modo suo, di distoglierla da pensieri che avrebbero solo potuto farle del male. – Tutte queste preoccupazioni finiranno per appesantirti a tal punto che non riuscirai più a stare in sella al tuo cavallo.
Con quelle parole, ebbe la sua piena attenzione. – Ah, è così che la pensi? – rispose, assottigliando lo sguardo. L’odore della sfida aleggiava nell’aria.
-Dimostrami che non ho ragione – fece lui, provocante, prima di lanciare il suo cavallo al galoppo fra gli alberi.
-Questo non è leale! – gli urlò dietro, ridendo. Partì a sua volta al galoppo e non tardò a recuperare il vantaggio che il principe aveva su di lei; presto raggiunsero la strada maestra, che li guidò prima fra i sobborghi e poi nella città vera e propria. Lì dovettero necessariamente cambiare andatura, per non travolgere i passanti né le bancherelle disposte per le strade, e per non destare l’attenzione delle guardie cittadine, il cui compito era mantenere l’ordine.
A entrambi sembrò essere passata un’eternità quando finalmente si trovarono davanti alle mura del palazzo. Il cortile era brulicante di servi impegnati nei più svariati lavori, la grata sollevata, ma le guardie all’ingresso vollero esaminare attentamente il volto di Stefano per accertarsi che fosse il principe prima di lasciarlo passare, lanciando occhiate diffidenti a Carabosse, che pure era sotto la sua protezione.
Trovandosi lì davanti, la principessa comprese davvero per la prima volta da quando sua madre le aveva illustrato il suo progetto, cosa significasse tornare nella propria casa da estranea, perlustrare la folla con lo sguardo per trovare volti amici ma allo stesso tempo avere paura di farlo per timore di essere riconosciuta, cercare ovunque i dettagli che ricordava per vedere se qualche cosa del suo passato era sopravvissuta ai cambiamenti, e scorgere invece i piccoli segni che testimoniavano che il passato era morto e sepolto, e che il peso del presente minacciava di schiacciare anche i vivi come quel passato.
All’apparenza tutto era uguale: l’imponente edificio di pietra, le armature delle guardie, le case disposte intorno alle mura del castello; l’unica eccezione erano i vessilli che si spiegavano al vento, che ora raffiguravano l’emblema della Casa Westeros. Se però si guardava bene, con occhi attenti come i suoi, in realtà molto si rivelava cambiato, dal modo di dare gli ordini agli sguardi dei passanti e dei servi. Su questo Carabosse non poteva sbagliarsi: anche se erano passati quattordici anni, lei ricordava bene che quando i suoi genitori regnavano, i servi erano, se non felici, almeno sereni, e di sicuro più sani di quanto lo fossero adesso. Ricordava bene il rispetto sincero, autentico, con cui tutti si rivolgevano a suo padre, a sua madre e a lei stessa, non forzato dalla loro superiorità di rango, né dal denaro o dalla minaccia di punizioni e torture.
Ma oramai questo era solo un ricordo, perché quei volti, un tempo sorridenti e sani, ora erano smunti, pallidi, malaticci, e i corpi erano troppo magri… gli sguardi erano bassi, gli occhi colmi solo di rassegnazione e, di tanto in tanto, di paura: assomigliavano a quei cani randagi che si trascinano mezzi morti per la strada, scacciati da tutti, che non danno fastidio a nessuno ma conoscono la violenza ingiustificata di cui gli uomini sono capaci.
Che razza di Re è Uberto? Per quale motivo si è dato tanta pena per ottenere il trono, se poi non si cura minimamente delle condizioni in cui sono coloro che il trono lo sorreggono sulle loro spalle?
Per suo padre, la corona aveva significato responsabilità, dovere. Era evidente che Uberto non la pensasse allo stesso modo. Per lui la corona significava solo una cosa: potere.
-Rosaspina? – la richiamò Stefano, vedendo il suo sguardo pensoso, nonostante i suoi sforzi. -Siamo arrivati.
Erano nelle scuderie reali, dove lasciarono i cavalli nelle mani del vecchio stalliere, che fece un inchino a Stefano e poi guardò incuriosito Carabosse, mentre lei sganciava la sacca contenente i suoi averi dalla sella e se la metteva in spalla. L’uomo aveva la sensazione di averla già vista… sì, aveva un’aria familiare. La guardò bene negli occhi chiari, scavando nella memoria, e capì: quella ragazza somigliava in maniera impressionante alla piccola principessa, la figlia del defunto Re Thomas. Anche Carabosse si ricordava di lui: era stato molto fedele a suo padre, e un buon amico, per quanto gli era stato possibile. Lui le aveva dato le sue prime lezioni di equitazione, e con lui aveva passato numerosi pomeriggi, quando si rifugiava nelle scuderie per sfuggire alla monotonia del castello. La principessa lottò con se stessa per non cedere ai ricordi e mettersi in pericolo: mentre stava per girarsi di spalle e seguire Stefano, vide che lo stalliere aveva sgranato gli occhi e stava per aprire la bocca, come per chiamarla. Capendo che aveva intuito qualcosa, Carabosse lo precedette.
-Rosaspina – disse. –E’ questo il mio nome.
Lo stalliere rimase per un attimo interdetto, poi annuì.
-Rosa, vieni? – la chiamò Stefano, ormai arrivato davanti al portone che conduceva all’ala riservata alla servitù, alle cucine e alla lavanderia. Lei si affrettò a seguirlo. Quella era l’ala del castello che Carabosse conosceva di meno: c’era stata solo poche volte da bambina.
I due passarono per corridoio di pietra che sembrava immenso. La principessa ricordò di esservi andata una volta mentre giocava con i figli delle dama di compagnia di sua madre. Loro facevano finta di essere le guardie reali di Carabosse, scesa nelle prigioni per interrogare un temibile brigante accusato di tradimento. Sorrise tristemente a quel ricordo, mentre Stefano, ignaro del suo tormento, le faceva da guida.
-Questo corridoio porta alle stanze della servitù, ma tu non starai lì. Ho pensato di sistemarti in una delle vecchie stanze delle dame di corte; per arrivarci senza insospettire nessuno useremo un passaggio segreto che dovrebbe essere più o meno… qui! – esclamò il principe, vagando con lo sguardo sulle pareti di pietra per poi fermarsi sicuro sul sostegno vuoto di una torcia. – Vediamo se la memoria non m’inganna… - borbottò, abbassando la leva.
Evidentemente la memoria non lo ingannava, perché la parete si aprì con un rumore grave e profondo e, dopo qualche attimo di polvere che si sollevava, apparve davanti a loro una stretta scalinata alquanto buia. Ecco, questo passaggio era una delle cose del castello che Carabosse non sapeva affatto.
Stefano prese una delle torce affisse alle pareti e si avventurò nel passaggio, seguito da Carabosse, richiudendo le pareti di pietra alle loro spalle. La scala si rivelò essere fredda e  angusta, e il silenzio era tale che si poteva sentire con chiarezza ogni spiffero di corrente gelida, ogni zampettare dei topi, ogni stridio delle chiavi che strisciavano l’una sull’altra, appese alla cintura di Stefano.
Carabosse si ritrovò a tremare, non sapeva se per il freddo o per l’emozione, e a desiderare di arrivare presto nella sua nuova stanza.
Dopo un tempo che le parve interminabile, Stefano le fece cenno di fermarsi e, facendo pressione su una lastra di pietra nella parete dinnanzi a loro, azionò l’apertura del passaggio. Sollevata, la principessa seguì Stefano fuori da quel corridoio algido e si ritrovò stipata in uno stretto spazio fra la parete di pietra dietro di loro, ormai chiusa, e un pesante arazzo vermiglio.
Il principe sbirciò fuori dall’arazzo con prudenza e, non vedendo nessuno nei paraggi, diede il via libera a Carabosse. Lei, pur riconoscendo la zona del castello in cui si trovavano, dovette limitarsi a seguirlo con passo incerto, perché lo avrebbe insospettito troppo se avesse mostrato di conoscere i luoghi con sicurezza.  
-Vieni – le disse Stefano prendendola per mano. – Ti guido io.
Riuscirono a non incontrare nessuno per tutto il tragitto, che terminò davanti ad una porta di quercia chiusa. Il principe slegò dalla cintura il mazzo di chiavi e, dopo averne esaminate un paio, ne infilò una nel chiavistello e aprì la stanza. Certo di stare offrendo a Rosaspina la camera più bella e lussuosa che avesse mai visto in tutta la sua vita, la invitò ad entrare con un sorriso orgoglioso e soddisfatto che a Carabosse fece venir voglia di sorridere a sua volta. Entrò nella camera con titubanza, e non riconobbe nulla, nulla che potesse esserle familiare. Si sforzò di mostrarsi entusiasta per Stefano, che capì ugualmente dai suoi occhi che c’era qualcosa che non andava, ma credette che Rosaspina fosse solo nervosa e preoccupata per quel grande passo che avevano fatto.
-Allora, cosa te ne pare? – le chiese.
-E’… bellissima. Una stanza bellissima.
-E’ un grande cambiamento, lo so. Sei fuggita dal tuo villaggio e probabilmente hai cambiato casa moltissime volte… so che per te è difficile, ma vedrai che andrà tutto bene. Quello di cui hai bisogno è stabilità, e cosa c’è di più stabile della pietra? – replicò Stefano tentando di strapparle un sorriso, battendo le nocche sulla dura pietra delle pareti.
Carabosse non rispose. Era preoccupata e tesa, e si vedeva.
-Vieni qui – le disse allora Stefano, aprendo le braccia, e lei vi si tuffò, nascondendo il volto sul suo petto. Si concesse, per quella volta, di essere debole e bisognosa di protezione. Si concesse di cercare il suo aiuto, ripromettendosi di recuperare la sua forza interiore al più presto.
Lui l’abbracciò e le pose un bacio sulla fronte, per tranquillizzarla.
-Va tutto bene, non c’è motivo di preoccuparsi. Andrà tutto bene.
-Sì – rispose lei, senza però crederci veramente.
Lui si staccò dall’abbraccio e decise di lasciarle un po’ di tempo da sola per ambientarsi e ritrovare la calma.
- Ti lascio disfare il tuo bagaglio, io dovrò assentarmi per un impegno con mio padre, ma non farò molto tardi.
Carabosse annuì. Lui si voltò verso la porta, poi parve ripensarci e si voltò nuovamente verso di lei.
-E… Rosa?
-Sì?
-Ti amo.
Quelle due semplici parole furono in grado di farla sorridere davvero e Stefano capì di aver fatto bene a ricordarglielo, così, senza attendere risposta, uscì dalla sua stanza per andare incontro ai suoi obblighi, lasciando Carabosse da sola con i suoi ricordi.

***

Erano passati quattordici anni da quando Céibhionn aveva osservato e ammonito Carabosse dalla sua fontana nel giardino del palazzo incantato, ma lì nulla era cambiato. Sembrava non essere passato neanche un giorno da allora: non una foglia era caduta dagli alberi, non un petalo era appassito, né un’ape si era nutrita del polline di quei fiori meravigliosi. Tutto era rimasto fermo a com’era sempre stato, nella sua rigogliosa, sempreverde e disgustante bellezza. Da bambina, Céibhionn aveva amato la natura, ma a stento riusciva a sopportare quel giardino senza un filo d’erba mosso dal vento e quel palazzo senza una crepa, così come odiava la sua sterile eterna giovinezza. Una gabbia d’oro, ecco cos’era per lei quel palazzo fatto di marmo, e non era mai riuscita a comprendere come le sue sorelle riuscissero ad amare la vita lì dentro. Ma a loro non pesava. Loro erano nate per quella vita, le loro menti non avrebbero mai potuto concepire l’idea di una che fosse diversa: era nella loro natura. Un po’ Céibhionn le invidiava, perché se era vero che le considerava esseri vuoti, volubili, capricciosi, senza alcun sentimento, era anche vero che, proprio in virtù della loro natura, loro non conoscevano l’odio, il tormento, il dolore che ben conosceva lei. Céibhionn sospirò. A cosa serviva indugiare ancora su quei pensieri?
Il suo sguardo si posò sulla scena che si svolgeva davanti a lei. Le sue sorelle erano riunite tutte insieme nella grande veranda argentea della loro dimora, ognuna intenta a dilettarsi come meglio credeva. Vide Aideen e Sheena volteggiare leggiadre, danzando insieme sulla musica ultraterrena suonata da Ceara alla sua arpa. Moira le accompagnava con la sua voce soave, cantando una dolce melodia senza parole. Fiona, l’unica fra le sorelle a possedere una cascata di riccioli di colore rosso acceso, era adagiata su una sedia, intenta a leggere un grosso volume; Niamh invece era in disparte, e dipingeva quella scena, che ad occhi umani sarebbe apparsa magnifica.
Céibhionn si accomodò di fianco a Fiona, e quest’ultima distolse l’attenzione dal suo volume di storia per guardarla attentamente, come a volerla esaminare. Poi, con espressione maliziosa e innocente al tempo stesso, si rivolse alla sorella.
 -Sai, Céibhionn, penso che tu abbia ragione a voler tenere d’occhio le vite degli umani nostri protetti, si vengono a sapere molte cose interessanti. Questa mattina, per esempio, davo un’occhiata al castello di Uberto… si sta organizzando un matrimonio, fra Stefano ed una principessa straniera… il principe tuttavia sembra avere altri interessi, verso una ragazza, una contadinella che si fa chiamare Rosaspina. Sai qual è la cosa buffa? Che questa contadinella non è altri che la tua protetta, la principessa spodestata… Carabosse.
Fiona sorrise candidamente, certa di suscitare una reazione stupita e sconvolta. Di certo stupite e sconvolte lo furono  le altre cinque fate, che smisero di fare quello che stavano facendo per guardare nella loro direzione, ma Céibhionn non ebbe  alcuna reazione.
Loro non si interessavano quasi mai della vita al di fuori del loro palazzo incantato, perché ritenevano le faccende  degli uomini roba di poco conto, assolutamente insignificanti, ma quando decidevano di offrire la loro protezione ad un umano prendevano molto a cuore le sue scelte e le sue azioni, e il fatto che il figlio del loro favorito amasse la sua nemica era per loro qualcosa di inconcepibile. Il sentimento stesso dell’amore lo era, perché loro non amavano nessuno al di fuori di loro stesse.
La più sorpresa e anche la meno contenta di quella notizia fu Niamh.
-Sì, lo so – rispose la maggiore alla domanda di Fiona.
-Dici davvero?
-Io ho sempre saputo che sarebbe successo, era destino.
-Era questa la parte della profezia che non avevi svelato a nessuno, allora…
-Non ce l’hai mai detto – intervenne Niamh con tono accusatorio, alzandosi e andando incontro a Céibhionn. – L’hai sempre saputo e non ci hai mai detto niente.
Guardò la sorella con gli occhi quasi a ridotti a fessure. In realtà sapevano tutte che quell’omissione non era poi così grave, ma sapevano altrettanto bene che qualsiasi scaramuccia diventava motivo di astio fra Céibhionn e Niamh. Era una questione personale.
-Che senso avrebbe avuto dirvelo? – chiese Céibhionn alzandosi a sua volta. – Avrebbe cambiato le cose? Forse sareste intervenute, e non avreste dovuto. Te l’ho già ripetuto molte volte, Niamh, che ci sono regole che anche noi siamo tenute a rispettare. Noi non dobbiamo intrometterci nelle vite degli umani per far andare le cose diversamente da come è stato stabilito.
-Quindi immagino di non poter nemmeno avvisare il Re di questo, non è vero?
-Nessuna di  noi deve intromettersi in questa storia. Questo è quanto.
Anche se so che tu, Niamh, lo farai, con o senza il mio permesso.





Angolo Autrice: Avete aspettato tutto questo tempo per un semplicissimo capitolo filler. Lo so, lo so che siete arrabbiate. Posso farmi perdonare in qualche modo? :3
 Questo capitolo è quello che mi convince meno di tutta la storia, fino ad adesso. Non mi piace molto, ma non volevo farvi aspettare ancora di più, così l'ho pubblicato lo stesso, sperando che abbiate ancora voglia di leggere.
Faccio giusto un paio di precisazioni riguardo alle fate: quando loro si chiamano "sorelle" non è perché lo sono davvero. Nessuna fata, ad eccezione di Céibhionn (e un giorno, forse, scoprirete perché), ha una famiglia o la prospettiva di crearsene una, quindi si chiamano "sorelle" solo per consuetudine. Il rapporto astioso di Céibhionn e Niamh verrà chiarito in futuro.
Ora devo proprio scappare; ci tengo però a ringraziare quelli che ancora mi seguono nonostante i miei numerosi ritardi. Grazie di cuore :3
A presto (spero!)

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Capitolo 15
*** Lock the last open door, my ghosts are gaining on me ***


15. Lock the last open door, my ghosts are gaining on me

Negli ultimi due giorni Carabosse si era considerata oltremodo fortunata, visto che lei e Stefano non erano ancora stati scoperti nonostante l’entusiasmo e l’insistenza del principe nel farle fare un giro del castello. Lui ci teneva a far conoscere alla sua amata casa sua, aveva un bisogno quasi disperato che lei entrasse a far parte della sua vita, della sua quotidianità, ma Carabosse era stata costantemente tormentata dalla paura di farsi scoprire.
Doveva ammettere, però, che nonostante all’inizio fosse restia anche solo all’idea di trasferirsi nel castello, quella scelta si era rivelata la migliore per loro due. Stefano sfruttava ogni momento libero per vedere Carabosse, e riusciva a sorprenderla con romantiche passeggiate negli angoli più remoti e selvaggi dei giardini, esplorazioni nei meandri del castello e incursioni segrete nell’armeria, dove a volte si sfidavano a duello. Le mancavano le loro lunghe cavalcate nel bosco, ora impossibili, ma era pur sempre a casa sua, con l’uomo che amava.
Erano stati i due giorni più felici che vivesse da molto tempo, ma adesso li stava pagando molto cari in frustrazione, ansia e gelosia. Di lì a poche ore si sarebbe tenuta la festa di compleanno della principessa Helena e, insieme, quella di fidanzamento fra lei e Stefano, e Carabosse ci pensava da tutta la notte. Era riuscita a dormire pochissimo, tormentata da quel pensiero, rigirandosi per ore nel letto. Si era svegliata che non si sentiva per nulla riposata e non riusciva a pensare ad altro, e anche se trovava insopportabile rimanere a letto a rimuginare, non riusciva a trovare il coraggio per alzarsi ed affrontare quella che si prospettava una giornata orribile. Sentiva tanto di quel veleno in corpo che sarebbe bastato per uccidere tutta la corte, e se solo pensava a quella principessina viziata che civettava con il suo Stefano, oltretutto con un anello di fidanzamento al dito, un potente desiderio di distruzione iniziava a farsi strada dentro di lei.
Carabosse si alzò di scatto dal letto, pungolata da quei pensieri, e buttò nervosamente le coperte da un lato. Ormai poteva dire addio alla sua pace interiore e alla tranquillità, almeno fino alla fine di quella disgraziata giornata. Guardò l’altra piazza del letto, vuota, ma che recava l’impronta recente di un corpo. Stefano doveva essersene andato molto prima, forse all’alba, perché lei non lo aveva sentito. Quella notte aveva dormito con lei per provare a calmarla. Tutto inutile.
Rassegnata, aprì le tende, lasciando che la luce del sole invadesse la stanza. Guardò fuori dalla finestra che si affacciava sul cortile del castello e vide un gran trambusto di servitori affaccendati e animali che correvano per il cortile, cercando di sfuggire alla loro triste sorte, quella di essere immolati per il banchetto della principessa Helena. L’ultima volta che aveva visto una confusione simile era stata nell’occasione del ritorno di suo padre dalla spedizione nel territorio degli Orchi, un ricordo non proprio piacevole, considerato ciò che era successo dopo.
Dopo che si fu lavata e vestita decise di scendere nelle cucine per vedere di riuscire a mangiare qualcosa. Stefano l’aveva presentata il giorno prima all’uomo a capo della servitù come una sua ospite, perciò non avrebbe dovuto avere problemi. Nessuno fece caso a lei per le scale o nei corridoi, tutti erano troppo oberati di lavoro per prestare attenzione ad una qualsiasi cortigiana, i servi si limitavano a scostarsi ed abbassare il capo quando le passavano accanto.
Quando giunse in prossimità della cucina fu investita da una zaffata di aromi e profumi deliziosi. Senza dubbio i cuochi dovevano essere al lavoro da ore per preparare il banchetto.
Entrare in quell’enorme sala dal soffitto basso e dalle pareti di pietra le riportò alla mente ricordi d’infanzia, di pomeriggi passati a nascondersi dalla balia fra quelle stesse pareti e di dolci rubati dalle dispense. Non poteva perdersi nei suoi pensieri, altrimenti avrebbe corso il rischio di venire travolta dalle domestiche che si aggiravano e per la cucina con le braccia colme di  stoviglie, vivande e quant’altro, però non perse l’occasione di osservare l’ambiente intorno a lei, e vide che poco o niente era cambiato lì dentro. Solo le persone erano diverse da quelle che ricordava. La cuoca, per esempio, le era sconosciuta, e anche gli sguatteri che si affaccendavano intorno all’enorme tavolo per spennare polli e anatre, affettare carote, sedani, cipolle, trinciare carni.
In quella confusione riuscì ad individuare l’uomo a cui era stata presentata il giorno prima, Maurice. Si diresse verso di lui, ma quando la scorse fu lui a venirle incontro. Le si inchinò e le chiese in che cosa potesse esserle utile.
-Sono scesa per fare colazione, se è possibile.
-Certamente, mia signora. Mi perdonerete se non vi servo personalmente, ma c’è molto lavoro da fare oggi e io sono necessario. Tessa! – chiamò poi.
Un’anziana domestica smise di affettare ortaggi e si avvicinò, facendo una riverenza a Carabosse. Quest’ultima si rese conto di riconoscerla: era al castello da tempo immemorabile, aveva visto Thomas ed Elsa sposarsi e lei nascere, ed era stata sua complice in alcuni degli scherzi e giochi che aveva fatto da bambina. Ebbe uno spasmo quando se ne ricordò, ma passò inosservato.
-Tessa, prepara la colazione all’ospite del principe, assicurati che sia completamente soddisfatta.
L’anziana donna annuì e guardò Carabosse con occhi penetranti, come se stesse cercando di leggere dentro di lei; non ebbe moti di stupore né di curiosità, ma in qualche modo la principessa seppe che anche lei ricordava.
Con un ultimo inchino Maurice tornò al suo lavoro e Tessa sgombrò una porzione dell’enorme tavolo per la colazione di Carabosse.
-Cosa desiderate mangiare, mia signora? – le chiese.
-Quello che c’è di pronto, non voglio creare troppo disturbo, con tutto il lavoro che c’è da fare.
Tessa prese una grossa forma di pane, tagliò alcune fette e le imburrò per poi stenderci sopra una generosa quantità di marmellata; mentre Carabosse iniziava a mangiare riempì una ciotola di latte e  vi mise due cucchiai di miele, poi estrasse alcuni dolci dalla dispensa e le preparò un piatto colmo di varie leccornie. Carabosse fu attratta da un profumo in particolare, che non sentiva da anni ed anni. Prese uno dei biscotti nel piatto e lo annusò, poi disse:- Biscotti allo zenzero… era da un’eternità che non ne vedevo uno.
Lo assaggiò e le sembrò di essere tornata indietro nel tempo.
-Buonissimo, come… - ma si interruppe. Stava per dire “come sempre”, ma era riuscita a fermarsi in tempo.
Tessa la osservò di nuovo molto attentamente, poi disse in tono appena udibile:- Sapete, voi mi ricordate molto la mia vecchia padroncina. Se vivesse dovrebbe essere proprio come voi.
Carabosse deglutì. – Se vivesse?
-Perdonate, sono solo ricordi di una povera vecchia. La mia padroncina era la principessa Carabosse, è morta a dieci anni, povera piccola. – Tessa sembrò commuoversi. – Uccisa insieme ai suoi genitori dagli Orchi.
Carabosse strinse i pugni. –Una triste fine.
-Triste, molto triste, mia signora.
-Ed è stato allora che Re Uberto è salito al trono, se non erro.
-Siete nel giusto, mia signora.
-Le stanze della principessina sono state poi occupate dal principe Stefano?
-Oh, no, il principe ha occupato un’altra stanza… i vecchi appartamenti reali sono rimasti inutilizzati. Credo che nulla sia cambiato da quando la famiglia reale ci viveva.
La conversazione non poté proseguire, perché Tessa fu richiamata al lavoro e Carabosse dovette finire la colazione da sola. Non se ne dispiacque, però, perché nel giro di pochi secondi aveva preso una decisione che doveva essere attentamente esaminata. Appena aveva sentito che le sue stanze e quelle dei suoi genitori erano rimaste intoccate aveva avvertito l’impulso di tornarvi. Era una decisione un po’ avventata, ma d’altra parte la tentazione era forte, e se avesse calcolato bene i rischi forse ne sarebbe venuto fuori che non era poi così pericoloso, né tanto difficile. Probabilmente la sorveglianza da quelle parti del castello non era neanche molta, se Uberto e Stefano alloggiavano in un’altra ala… avrebbe potuto facilmente sgaiattolare lungo i corridoi senza farsi notare… e poi quale occasione migliore per passare inosservata di quella, quando tutti erano impegnati ad organizzare un fidanzamento reale?
Si convinse che non sarebbe stato un rischio troppo alto, e appena finì di mangiare lasciò le cucine e camminò velocemente fino a giungere nella zona riservata alla corte e non più ai servitori; lì dovette fare più attenzione, ma ancora passò inosservata. Come aveva previsto, la zona in cui si trovavano i vecchi appartamenti reali era sorvegliata poco e niente, e per il resto era completamente deserta. A Carabosse bastò attendere che la guardia all’inizio del corridoio si distraesse un attimo – e a dire il vero si distraeva spesso – per sgusciare verso la sua meta furtiva come un’ombra.
Col cuore in gola si fermò davanti alla porta della sua camera e con mano tremante abbassò la maniglia. La porta cigolò aprendosi e la principessa percepì l’odore di chiuso e abbandono: evidentemente le domestiche non consideravano importante pulire delle stanze che non sarebbero più state utilizzate. La mobilia era coperta da lenzuola impolverate, e la polvere formava anche un leggero strato sul pavimento, attutendo il rumore dei passi di Carabosse. La luce che filtrava a stento dalle tende lasciava la stanza in una penombra quasi mistica. Essere lì le risultava strano, quasi surreale; non le sembrava per nulla la sua vecchia camera, era così diversa da come la ricordava, così buia, impolverata e abbandonata…
Ebbe paura. Cosa rimaneva di lei e della sua famiglia ormai? Solo ricordi che presto sarebbero morti insieme a quei pochi che li custodivano. Non voleva credere di appartenere ad un’epoca ormai conclusa e lontana, ma dentro di sé sentiva che era proprio così, e che non sarebbe mai più potuta tornare. Fu assalita dal terrore che non avrebbe mai trovato il suo posto, perché sarebbe appartenuta per sempre a quella camera impolverata e dimenticata dal resto del mondo. Sarebbe rimasta ai margini, lontana dalla vita che voleva riavere indietro. Non poteva accettarlo.
Con un moto di stizza afferrò le lenzuola e le gettò a terra, sollevando nuvole di polvere. Ora che i mobili erano di nuovo visibili la stanza le sembrava un po’ meno estranea. Si appoggiò ad una delle colonne del letto a baldacchino, poi accarezzò le coperte del letto rifatto dopo quella notte in cui era stata portata via. Si guardò intorno e andò verso la sua elegante specchiera, al cui sgabello si sedette. Le spazzole, i pettini, i nastri, i fermagli, erano tutti dove ricordava; lo scrigno portagioie invece era vuoto, probabilmente i suoi gioielli ora erano custoditi insieme al resto del tesoro reale, e anche le boccette contenenti essenze floreali erano state svuotate. Si guardò allo specchio rovinato da macchie nere dovute al tempo ed ebbe una fugace  visione di se stessa da bambina quando, per prepararsi, si guardava in quello stesso specchio. Quanta ingenuità, quanta felicità, quanta speranza c’erano in quello sguardo, ed adesso erano state spazzate via…
 Ancora più addolorata, fuggì il suo stesso riflesso e guardò altrove: i suoi occhi caddero sull’enorme baule ai piedi del letto. Lo aprì e vide tutti i suoi vestiti riposti ordinatamente, come se dovessero ancora servire a qualcosa. Li tirò fuori tutti e li adagiò sul letto, accarezzandoli affettuosamente.  Il più appariscente di tutti era l’abito dorato che aveva indossato al banchetto in onore del ritorno del ritorno di suo padre… la prima volta che aveva visto Stefano. Ogni abito portava il suo carico di ricordi, ma Carabosse non riuscì a piangere. Si era rassegnata ad aver perso la sua infanzia molto, molto tempo fa.
Rimase lì a lungo, a guardare le cose che un tempo le erano appartenute e a rivangare i ricordi che vi erano legati, ma poi si ricordò della stanza de suoi genitori. La strada di quella non la conosceva  bene come la propria, ma alla fine ricordò dov’era.
I suoi avevano sempre dormito insieme, una delle tante cose di loro che andava contro l’etichetta di corte.
In quella stanza Carabosse fece lo stesso che nella sua, tolse via le lenzuola, esplorò l’ambiente, esaminò i mobili. Quella camera le era abbastanza estranea, ci era stata pochissime volte, aveva scarsi ricordi di sua madre e suo padre  lì. L’arredamento non le diceva molto, ma c’era altro che ricordava. Aprì il baule e guardò con affetto i vestiti che conteneva, l’ultimo ricordo dei suoi genitori. Senza curarsi degli occhi che cominciavano a farsi lucidi, tirò fuori l’abito blu di sua madre, il suo preferito, e quello bianco e oro che suo padre portava quando era stato incoronato, e li dispose sul letto. Si chinò su di loro con fare protettivo, amorevole, e li annusò per vedere se era rimasta ancora qualche traccia del loro profumo, ma era sparito. Una prima lacrima cadde sulla gonna blu di broccato, e poi una seconda e una terza, prima che la principessa tentasse di asciugarsi gli occhi. Ma la nostalgia era troppo forte, e il senso di abbandono la soffocava. Le mancavano i suoi genitori, le mancavano terribilmente, e le pareva di rivederli nei loro vestiti adagiati sul letto: guardandoli, sembrava che Elsa e Thomas fossero per un’ultima volta ancora lì, insieme. Presto il pianto si fece impossibile da trattenere e i singhiozzi la costrinsero a nascondere la faccia fra le mani, per non vedere nulla di quello che le arrecava dolore. Pianse disperatamente finché via via non si acquietò, finché Carabosse non fu pervasa da una strana calma che le ridiede un po’ di lucidità.
Non poteva più rimanere lì. Non aveva senso rimanere ancora in un luogo che le faceva così male. Doveva tornare nella sua nuova camera, dove forse Stefano sarebbe passato a trovarla prima della cerimonia, e lei sapeva quanto bisogno avesse di lui.
Raccolse le sue forze e rimise tutto al suo posto, come aveva fatto nella sua stanza prima di andarsene, e poi uscì chiudendosi la porta alle spalle, non senza un’ultima occhiata di addio.

***

-Non sei emozionata, tesoro mio? – chiese Mariah.
-Molto, madre – rispose Helena, in piedi mentre le cameriere finivano di vestirla.
L’eccitazione nella stanza era palpabile, lei quasi non riusciva a stare ferma. Quel giorno non solo avrebbe compiuto sedici anni, ma si sarebbe anche fidanzata con l’uomo più bello e affascinante che avesse mai visto. Che fosse più grande di lei non la spaventava più: lui era così assolutamente perfetto che Helena non avrebbe potuto desiderare di meglio. Presto sarebbe stata sua moglie e la sua felicità sarebbe stata completa, nulla sarebbe potuto andare storto. Quello che fino a poco tempo fa considerava un incubo si stava trasformando in un  sogno meraviglioso… non c’era più nulla che desiderasse al mondo, salvo che Stefano non avesse più quell’aria fredda e distante.  D’altra parte lo comprendeva, aveva un carattere più serio e chiuso del suo e molte responsabilità, era normale che fosse così freddo, a volte. Ma avrebbero avuto tempo per conoscersi, una vita intera, e lui avrebbe imparato ad amarla. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Sua madre e chiunque l’avesse conosciuta le ripeteva che era bellissima e desiderabile.
Ingenua e viziata qual era non avrebbe mai immaginato che ci si potesse innamorare non della bellezza esteriore ma di quella interiore, era giovane e superficiale, e confondeva l’attrazione fisica con l’amore. Non immaginava neanche che il suo adorato principe fosse innamorato di un’altra, né l’avrebbe mai ritenuto possibile. Perciò non vedeva l’ora che giungesse il momento del fidanzamento, e si perdeva in sogni ad occhi aperti su come sarebbe stato bello Stefano e in mille aspettative sulla sua cerimonia. Il banchetto sarebbe iniziato entro tre ore e la festa sarebbe durata  tutta la giornata; avrebbe preferito una cerimonia più fastosa, ma sapeva che i festeggiamenti per il matrimonio sarebbero durati molto più a lungo e che l’avrebbero ben ripagata delle aspettative.

***

Ritornare nella stanza che Stefano le aveva dato era stato come ritornare a respirare dopo essere stata in bilico fra la vita e la morte, ma l’eco del dolore che aveva provato non l’abbandonava.
Da una parte essersi immersa di nuovo nel suo passato la estraniava dal resto del mondo, facendo sembrare il fidanzamento di Stefano qualcosa di lontano e remoto, quasi senza importanza; dall’altra se ripensava a quello che sarebbe successo entro poche ore, era invece la sua immersione nei ricordi a perdere importanza: il passato era passato, ora bisognava pensare al presente. 
La cosa peggiore sarebbe stata starsene rinchiusa in quella camera tutto il giorno senza fare niente, sola in preda al dolore e al tormento dei fantasmi del passato che aveva rivangato.
Ma Stefano, dov’era Stefano? Le aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per riuscire a passare da lei prima dell’inizio di quella tortura, e invece di lui neanche l’ombra. Carabosse sapeva che non doveva essere arrabbiata con lui per quella sua mancanza, era ovvio che non sarebbe riuscito a liberarsi per andare da lei, ma stava accumulando nervosismo e inquietudine, e aveva bisogno di lui.
Si sdraiò sul letto pensando a cosa avrebbe potuto fare per ingannare il tempo e la mente, anche se sapeva che probabilmente non si sarebbe neanche alzata dal letto. Neanche dieci minuti dopo, sentì bussare alla sua porta.
Rianimata, si rizzò a sedere. –Stefano, sei tu?
-Chi altri vuoi che sia, Rosa? Certo che sono io.
Lei si precipitò ad aprire e si  trovò di fronte Stefano. La rabbia scomparve immediatamente, sostituita dalla gioia per averlo lì in quel momento, nonostante tutto. Gli si buttò con le braccia al collo e lo baciò con trasporto. Lui seppur colto di sorpresa per un attimo le strinse un braccio attorno alla vita, ricambiando il bacio, e con l’altro braccio chiuse la porta dietro di sé. Rimasero avvinghiati l’uno all’altra per un po’, poi finalmente Carabosse si staccò da lui, ma Stefano non le permise di allontanarsi da lui e rimasero abbracciati teneramente.
-Ammetto di non essermi aspettato un’accoglienza così calorosa oggi… pensavo che tu ce l’avessi con me, ma a quanto pare dovrei organizzare feste di fidanzamento più spesso, se la tua reazione è questa.
-Non dirlo nemmeno per scherzo – lo redarguì Carabosse. – In effetti ero molto arrabbiata con te, ma non riesco a resisterti, pensa un po’ tu che fortuna sfacciata. – Entrambi sorrisero, ma poi Carabosse tornò seria. – Stefano, io ho bisogno di te.
Lui la accarezzò dolcemente. – Ti prometto che questa giornata passerà presto, poi Helena ritornerà nel suo regno e non sentiremo più parlare di lei per mesi.
-Non mi riferisco solo a questa giornata, per quanto brutta sarà. – disse lei scuotendo la testa.
Aveva bisogno di Stefano per scacciare i suoi fantasmi, e gliel’aveva dimostrato quando era riuscito a farle passare la crisi di panico solo con un suo abbraccio, o quando, quella mattina, il pensiero di lui l’aveva spinta ad andarsene dalla camera dei suoi, sottraendosi al dolore. Sì, aveva bisogno di lui, ma lui non avrebbe mai potuto comprendere quanto finché non avrebbe saputo chi era lei veramente. Ma avrebbe potuto rivelarglielo? L’unica cosa che le impediva di dirgli la verità era la paura di come avrebbe reagito. Se lui l’avesse rifiutata una volta saputo chi era, se non avesse più voluto vederla, Carabosse non sapeva se sarebbe riuscita a sopportarlo. D’altra parte continuare a mentirgli avrebbe solamente peggiorato il momento in cui gli avrebbe detto la verità, perché prima o poi lo avrebbe fatto. Lei lo amava, e non poteva continuare a mentirgli ancora a lungo. Forse se fosse stata lucida non avrebbe mai preso quella decisione, ma in quel momento riusciva solo a pensare a come sarebbe stato bello, finalmente, poter gettare la maschera, a come sarebbe stato bello se Stefano avesse potuto consolarla sapendo del suo passato tragico.
Si staccò dall’abbraccio di Stefano, prendendo le distanze e un respiro profondo.
-C’è una cosa di me che non ti ho detto e che devi sapere…
-Ti ascolto.
Lei aprì la bocca per parlare, ma esitò, e negli istanti di silenzio che seguirono, Carabosse e Stefano udirono dei passi fuori dalla stanza e delle voci.
-Vostra Altezza – si sentiva chiamare dal corridoio.
-Accidenti! – esclamò Stefano a bassa voce – Devono avermi seguito. Mi dispiace, Rosa, devo andare. Parleremo dopo, va bene?
-Ma… - cercò di protestare lei, ma gli uomini che cercavano Stefano si avvicinavano sempre di più: il principe doveva andare. Lui le diede un veloce bacio e si precipitò fuori, prima che gli attendenti arrivassero alla stanza di Carabosse.
-…è importante –  disse alla stanza ormai vuota, guardando verso la porta da dove era uscito Stefano.
Rassegnata, si abbandonò nuovamente sul letto e rimase a fissare il baldacchino sopra di lei.





Angolo Autrice: Ormai le mie scuse per il ritardo ad aggiornare sono diventate ripetitive, me ne rendo conto. Però vi prometto che il ritmo degli aggiornamenti cambierà, ora che ho finito la scuola e ho a disposizione molto più tempo libero. Per chi segue le altre mie long: cercherò di aggiornare presto anche loro, non disperate.
Dunque, spero che vi sia piaciuto il capitolo. Non si era proprio capito che mi piace l'angst, eh? Verso la fine abbiamo quasi avuto la rivelazione del segreto di Cara a Stefano, ma è stato un falso allarme. Però preparatevi per il prossimo capitolo, ché vedremo Carabosse alle prese con nientepopodimeno che... Uberto!
Ringrazio Sylphs per aver iniziato a seguire la storia e per aver recensito, e tutti quelli che seguono la storia nonostante i miei ritardi.
Un'ultima cosa: il titolo è una frase della canzone All that I'm living for degli Evanescence. L'ho trovata adatta.
Un bacio a tutti!

 

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Capitolo 16
*** The Moment of Truth (part I) ***


16. The moment of truth (part I)

Nell’enorme salone del castello tutti aspettavano con impazienza, a dire il vero più per l’ansia di mettere qualche boccone prelibato sotto i denti che per il desiderio di assistere al fidanzamento. I lunghi tavoli erano disposti a ricoprire l’intero perimetro della sala, e su di essi erano deposti  posate, piatti e bicchieri ancora irrimediabilmente vuoti. I giocolieri e il giullare di corte facevano del loro meglio per intrattenere gli ospiti e distogliere la loro attenzione dall’attesa, ma nulla potevano contro il rimedio per eccellenza alla noia: il pettegolezzo. Nessun reale si era ancora presentato alla cerimonia, e si vociferava che ciò fosse dovuto al fatto che nessuno sapeva dove il principe Stefano fosse andato a finire. Questa era un’assenza alquanto ghiotta per le dame di corte, poiché non faceva che renderle assolutamente certe dei sospetti che serpeggiavano fra di loro fin dall’arrivo della principessa Helena. Esse sospettavano – senza neanche dover sforzare la loro immaginazione, per giunta – che il principe non fosse per nulla entusiasta del suo imminente matrimonio e che preferisse dedicarsi ad attività più piacevoli e con altre compagnie piuttosto che con quella della sua promessa sposa. E per quanto i mariti di tali nobildonne avessero impegni ben più importanti che stare ad ascoltare le loro fantasie, pure non potevano non constatare che il principe Stefano era più che disinteressato alla principessa Helena. In breve, tutti i nobili della corte erano convinti che il principe avrebbe presto messo al mondo più bastardi che eredi.
Solamente l’ingresso – finalmente – dei reali fu in grado di mettere momentaneamente a tacere il frivolo vociare dei commensali. I tonfi delle sedie e delle panche che venivano spostate e i fruscii degli inchini non furono in grado di coprire la voce del ciambellano che annunciava Re Uberto, la Regina Mariah e la coppia reale. Quali che fossero i sospetti generali o i desideri del principe, Stefano porgeva il braccio a Helena con un’aria di naturalezza, e la principessa sorrideva soddisfatta. Si dovettero tuttavia separare a causa dell’assegnazione dei posti, che li vedevano rispettivamente a destra e a sinistra del Re, mentre la Regina era seduta accanto a sua figlia.
Prima di dare inizio al banchetto, Uberto guardò in modo eloquente suo figlio, che seppe cosa doveva fare. Il principe si alzò e prese un respiro profondo, segno equivocabile di grande emozione o di grande insofferenza, e si rivolse alla sua fidanzata.
-Mia adorata, non sorprendetevi se quanto sto per fare non tiene alcun conto del cerimoniale di corte, ma in quanto vostro promesso sposo non posso che desiderare di essere il primo ad offrirvi il mio dono, che spero sarà un degno pegno del mio affetto.
A quelle parole un paggio si recò di fronte alla principessa, reggendo un piccolo vassoio cosparso di petali di rosa sul quale troneggiava uno scrigno in oro e intarsi di madreperla. Helena, alzatasi a sua volta, si protese ad aprire lo scrigno, che rivelò contenere un meraviglioso anello nunziale d’oro, sormontato da un diamante finemente tagliato e contornato da piccoli zaffiri. I suoi occhi si illuminarono a quella vista, ma l’emozione rischiò di sopraffarla solo quando Stefano riprese a parlare.
-Permettetemi di offrirvi questo anello e con esso la promessa del mio cuore e della mia corona.
-Principe Stefano, mi fate l’onore più grande che possa esistere. Accetto il vostro pegno, e vi offro insieme il mio cuore e la mia corona.
Lo scrigno fu richiuso e portato al sicuro nella stanza della principessa, mentre il banchetto aveva finalmente inizio, con gioia di ognuno meno che di Stefano. Non poteva non pensare a Carabosse e sentirsi colpevole, e il disagio lo rese silenzioso e inappetente.  Ad ogni modo, quando si fu abbandonato sulla sua sedia, il padre gli accarezzò affettuosamente la mano adagiata  sulla tovaglia. Uberto era soddisfatto.

***

Carabosse aprì lentamente gli occhi, la mente annebbiata dal sonno. Si rese conto di essersi addormentata nella stessa posizione in cui si era gettata sul letto, ore prima, e adesso si sentiva indolenzita e a corto d’aria a causa del corpetto. Si alzò con la testa che le girava leggermente. Doveva aver dormito un bel po’, perché dalla finestra non entrava più alcuna luce, se non il debole bagliore delle torce accese nel cortile. Si affacciò e osservò l’insistente via vai di servitori, cocchieri e stallieri. Non era diminuito rispetto al mattino, sebbene ormai la festa dovesse essere iniziata da ore. Chissà per quanto ancora sarebbe andata avanti, mentre lei era come prigioniera, lassù.
Sebbene gran parte dell’ansia e del nervosismo le fossero stati risparmiati dal sonno, la colse un fastidioso malessere al pensiero di Stefano, piani più giù, fra le braccia della sua inconsapevole rivale. Il non vederli era un sollievo, certo, ma allo stesso tempo acuiva la sua gelosia, facendole immaginare il peggio. La tentazione di infiltrarsi al banchetto era forte. Aveva promesso a Stefano che sarebbe rimasta nella sua stanza, era vero, ma come sarebbe riuscita a mantenere la parola data? Del resto era abile a nascondersi, a passare inosservata. Sarebbe stato facile…
Carabosse cercò di opporsi a quell’idea, ma l’alternativa – rimanere all’oscuro di tutto, divorata dalla gelosia, mentre l’uomo che amava festeggiava il suo fidanzamento – la spingeva ancora di più ad agire. Non era fatta per stare in gabbia, lo sapeva fin troppo bene dopo anni di prigionia sulla Montagna Proibita. Stefano non poteva impedirle di essere libera di andare dove le pareva, a casa sua, per giunta.
Carabosse non perse altro tempo ed abbandonò la stanza, diretta verso la sala della festa.

***

Il banchetto era prevedibilmente degenerato. Nel salone disseminato di possenti candelabri in ferro battuto l’atmosfera era calda, festosa e invitante. La musica era allegra e frenetica: molti ballavano, e i pochi rimasti seduti eccedevano col vino e con le chiacchiere, mentre i buffoni di corte, decisamente ubriachi, pensavano a divertirsi con le serve.
L’unica a sembrare sobria come all’inizio della festa era la Regina Mariah, che era stata troppo impegnata a supervisionare quanto e cosa mangiasse e bevesse sua figlia per godersi il banchetto.
Uberto si stava momentaneamente dilettando con un grasso e succulento tacchino, abbondantemente innaffiato da del buon vino rosso, e con la vista di suo figlio che ballava con Helena. Da quando le danze erano state aperte quasi non avevano fatto altro, e almeno l’assenza di allegria sul volto di Stefano poteva essere scambiata per stanchezza.
Il Re non avrebbe mai creduto che si potesse essere così sciocchi da credere alle false professioni d’affetto di Stefano: si sarebbe visto lontano un miglio che il principe stava fingendo spudoratamente, ma finché Helena e soprattutto sua madre fossero state soddisfatte lo sarebbe stato anche lui.
Portò ancora una volta il calice alla bocca e constatò che era vuoto; si guardò intorno alla ricerca del suo attendente, ma non ne vide traccia. Uberto decise di rimandare al giorno dopo la punizione, così si sporse sul tavolo e allungò il braccio pesante verso la caraffa, versandone il contenuto nel suo calice. Fu allora, mentre aveva la testa rivolta verso il basso, che Uberto percepì una strana sensazione, come se qualcuno lo stesse osservando così insistentemente da perforargli la nuca con lo sguardo. I rimasugli del suo antico addestramento da cavaliere lo misero in allerta, e lui si guardò intorno con circospezione, ma non vide nessuno finché non si girò e riconobbe immediatamente, sebbene non la vedesse ormai da quattordici anni, la fata Niamh. La sua figura si stagliava poco distante, ma nessuno a parte lui sembrava vederla. Lei lo guardò in maniera eloquente, e il Re si alzò per raggiungerla. Niamh tuttavia non rimase lì dov’era, ma lo condusse in una stanzetta attigua, pressoché vuota, in penombra.  
Quando si trovarono uno di fronte all’altra, Uberto si inchinò alla fata, che rispose con un cenno del capo.
-Vostra Eccellenza, quale onore. Sono anni che non ho il piacere di una vostra visita.
-E ancora ne avreste fatto a meno, Uberto, se non fosse per una vicenda ben poco piacevole, per voi almeno. Ma prima, voglio congratularmi per questa cerimonia… era da molto tempo che non ne vedevo una così fastosa.
Uberto capì dove la fata voleva andare a parare e si affrettò a rispondere:- Voi mi lusingate, ma nulla di questa festa è così elegante da poter essere ritenuto degno della vostra presenza, mia signora… ma il matrimonio di mio figlio, quello sarà senz’altro un evento tale da poter essere ricordato negli anni a venire, se voi e le vostre sorelle avrete la compiacenza di volervi prendere parte. Sarebbe un immenso onore.
Niamh rise brevemente. – State tranquillo, Uberto, sappiamo bene quale alta considerazione avete di noi. Saremmo liete di prendere parte ai festeggiamenti del matrimonio di vostro figlio, se… se essi si terranno, effettivamente.
-Temo di non comprendervi, mia signora – fu la preoccupata e un po’ minacciosa risposta di Uberto.
-Ditemi, vostro figlio è convinto di questo matrimonio? E’ assolutamente disposto a sposare una ragazza che voi avete scelto per lui?
-Mio figlio non ha voce in capitolo. Forse il matrimonio con la principessa Helena Harrington non è ciò che desidera, ma la sposerà comunque, perché questo è il suo dovere. E in ogni caso non ho timori, Eccellenza: mio figlio ha già dato prova della sua sottomissione alla mia autorità. Sono soddisfatto del suo comportamento.
-Davvero? E lo sareste anche se sapeste che vostro figlio ha un’amante, qui nel castello?
Uberto rimase impassibile. – Farà comunque il suo dovere. Se egli desidera un’amante, io di certo non gli vieterò di averne.
-Oh, ma l’amante di Stefano è molto particolare… sì, speciale. Credo di poter affermare a ragione che potrebbe persino indurlo a venir meno ai suoi doveri.
-Cosa ve lo fa pensare?
Ma Niamh non diede subito soddisfazione alla sua curiosità Anzi, rispose alla sua domanda con un’altra domanda. – Ditemi, Uberto, avete notizia di Elsa e di sua figlia?
Uberto, leggermente confuso dal repentino cambio di discorso, rispose:- No, Eccellenza, nessuna notizia. Per quanto ne so potrebbero benissimo essere morte entrambe.
-Ci siete andato vicino. Elsa è morta. Sua figlia no.
-Poco importa. Sulla Montagna Proibita, da sola, non sopravvivrà a lungo.
-Temo che siate in errore. Carabosse adesso è ben lontana dalla Montagna Proibita, sapete.
-Impossibile! Come ha fatto ad andarsene?!  – esclamò con rabbia, ma poi parve riflettere e calmarsi. – Per quale motivo avete tirato in ballo quella ragazzina? Credevo che voleste parlarmi di mio figlio e della sua amante…
-Oh, è così. Ma si dà il caso che quella ragazzina, come la chiamate voi, e l’amante di vostro figlio… siano la stessa persona.
-Non è possibile – fu la lapidaria risposta del Re.
-Io vi avevo avvertito, Uberto. Ve l’avevo detto:  una donna ferita è una donna pericolosa. E questo non vale meno per la figlia che per la madre. Elsa ha imbastito la vendetta, Carabosse la porterà a compimento. E’ riuscita a circuire vostro figlio a tal punto da farsi portare al castello, e non mi stupirei se riuscisse a convincerlo ad opporsi alla vostra volontà.
Uberto espirò sonoramente, con indignazione e rabbia. – Non permetterò che accada.
-Faccio affidamento sulla vostra risolutezza – rispose la fata, poi prese congedo. – Avrei desiderato che le circostanze del nostro incontro fossero più piacevoli, ma…
-Non ha importanza, Eccellenza, lo saranno la prossima volta. Lo saranno senz’altro.

***

La testa di Carabosse fece capolino da dietro un’imponente colonna di pietra del salone. Nessuno si era accorto della sua presenza, erano tutti troppo impegnati a divertirsi per prestare attenzione ad una ragazza – all’apparenza una cortigiana – come tante.
Non aveva fatto fatica ad individuare Stefano, che ballava con Helena. Da quando era scesa dalla sua stanza non l’aveva visto fare altro, quei due erano sempre insieme, e per quanto fosse dolorosa quella visione, Carabosse non riusciva a distaccarvi lo sguardo. Li fissava come ipnotizzata. E quando, finalmente, si guardò un po’ intorno, scoprì di aver completamente perso di vista Uberto. Non era più seduto al suo posto, ma non sembrava neanche essere in qualche altra parte della sala… Carabosse iniziò a temere sul serio: se lì c’era qualcuno in grado di riconoscerla, ne era sicura, quello era Uberto.
Si spostò da una colonna ad un’altra, dove aveva una visuale migliore sulla sala, ma intuì di aver commesso un passo falso: il via vai dei servi era più attivo in quella zona, quindi era d’intralcio, e ciò significava più possibilità di essere notata.
Rimase indecisa sul da farsi per qualche momento e poi stabilì di tornare indietro, ma era giunta quasi a destinazione quando con suo sommo orrore scorse Uberto trascinarsi pesantemente verso la colonna che lei aveva quasi raggiunto. Non sembrava averla vista, ma di certo non poteva rischiare che le passasse di fianco.
Il malessere che provava da quando si era svegliata crebbe d’intensità mentre il terrore l’attanagliava. Chiuse gli occhi e pregò il cielo di restituirle la sua lucidità, ma il cuore non faceva che battere sempre più forte, mentre sudori freddi colavano lungo la sua schiena. La posta in gioco era più alta che mai: non era più Stefano, era la sua stessa vita. Come in un incubo sentì il suo respiro farsi affannoso e riconobbe che stava avendo un’altra crisi di panico. Il terrore, il malessere la stavano letteralmente paralizzando, ma man mano che Uberto si faceva più vicino era quanto mai vitale muoversi. Intraprese una lotta con se stessa per il controllo del proprio corpo e sembrò vincere: riuscì a fare un passettino indietro, alla cieca, e andò tutto bene, così continuò a indietreggiare, mentre un leggero tremito iniziava a scuoterle le mani.
Ad un tratto sentì di urtare qualcosa, sentì un’imprecazione, dei rumori… cercò di voltarsi e l’unica cosa che ottenne fu quella di ritrovarsi a terra, in mezzo a coppe e piatti sporchi destinati alla cucina, mentre un servo che evidentemente Carabosse aveva urtato stava in piedi, bianco in volto per il pensiero che sarebbe stato punito, e poi rosso per la rabbia, perché non era stata colpa sua.
-Non è possibile, guarda cos’hai fatto! – le urlò contro, mentre lei rimaneva a terra. L’urto l’aveva rallentata, aveva attirato l’attenzione su di lei, ma il suo effetto fu benefico. – Tutto a terra, e mi hai anche macchiato la camicia… - continuò a gridare il ragazzo, ma le sue grida la riportavano alla realtà, istigavano la sua rabbia, la spingevano a reagire. Improvvisamente, però, il ragazzo ammutolì.
-Cosa succede qui? – tuonò una voce alle spalle di Carabosse, che sgranò gli occhi e trattenne il respiro.
-Vostra Maestà – si mise in ginocchio il servo, di colpo piagnucoloso – Non è stata colpa mia, Maestà, è stata questa ragazza, mi è venuta addosso… ha scaraventato tutto a terra…
Una calma glaciale scese su Carabosse. Di colpo sparì tutto: il respiro affaticato, il battito accelerato, il tremore alle mani. Rimasero solo lei e la sua rabbia spietata. Si levò in piedi, ma ancora diede le spalle ad Uberto.
-Chi sei tu che neanche mostri rispetto al tuo sovrano?! – ruggì il Re.
Carabosse si voltò lentamente e guardò l’uomo negli occhi. Non c’era modo di nascondersi, non più, ma non lei non ebbe paura. E quando Uberto vide i suoi occhi verdi e sprezzanti, la riconobbe immediatamente.
-Tu! – esclamò, gonfiandosi per la rabbia. Carabosse lo guardò con sfida e disgusto. Qualunque cosa provasse per Stefano, Uberto rimaneva un essere spregevole che non meritava altro che il suo disprezzo. Lei era la principessa, lui il traditore, l’usurpatore. – Come osi presentarti qui?! Saresti dovuta morire su quella montagna! – continuò Uberto, quasi ringhiando.
Il servo che si era inginocchiato sgaiattolò via, impaurito, approfittando del fatto che Uberto se la stesse prendendo con la ragazza.
-Sei solo uno sporco traditore – sibilò Carabosse, con gli occhi che mandavano lampi.
A quelle parole la rabbia di Uberto esplose. Con un ringhiò alzò il braccio e le tirò un possente schiaffo.
Carabosse non ebbe neanche il tempo di chiudere gli occhi, prima che il colpo si abbattesse su di lei… ma il dolore che si aspettava non arrivò. All’inizio non riuscì a collegare le immagini nella sua mente, ma dopo un istante fu tutto chiaro e il cuore prese a batterle di nuovo forte come non mai.
Stefano aveva fermato suo padre.

***

Stefano aveva ballato tutta la sera con Helena e non ne poteva davvero più, così al termine dell’ultimo ballo si era inchinato e le aveva chiesto di perdonarla, ma lui avrebbe preferito riposare. Lei aveva risposto con dovuta cortesia, per nulla scontenta, perché quel giorno era stato denso di gioia per lei, e in fondo anche lei si sentiva stanca, gracile com’era.
Una volta tornati a tavola, Helena era stata assorbita dalle domande di sua madre, così il principe era stato liberato dalla prospettiva di essere costretto a parlare con quella ragazzina che ormai riteneva odiosa. Tuttavia guardandosi intorno aveva scorto Carabosse e, davanti a lei, suo padre. Era stato invaso dal terrore: non sentiva quello che le diceva, ma le sue espressioni e i suoi gesti erano inequivocabili. Si era alzato e si era diretto verso di loro, appena in tempo, perché suo padre si era sdegnato con lei a tal punto da alzare il braccio, per caricare un colpo. Aveva temuto per la sua amata, in quel momento avrebbe fatto qualsiasi cosa perché non le venisse fatto del male. Aveva coperto in un attimo quel che restava da percorrere ed aveva bloccato con notevole forza il braccio del padre proprio mentre stava calando.  
Dentro di sé aveva un miscuglio di emozioni: sollievo perché a Carabosse non era stato fatto del male, paura per essersi opposto a suo padre, ma soprattutto rabbia verso di lui per aver cercato di colpirla. Tanta era la rabbia che tremava, mentre ancora teneva saldamente il braccio del padre, che era incredulo, deluso ed arrabbiato. Non avrebbe creduto che Stefano sarebbe arrivato a tanto per quella sgualdrinella, ma evidentemente Niamh aveva ragione. Chissà cos’altro avrebbe potuto fare, sotto la sua influenza.
-Padre, vi prego di abbassare questo braccio – disse Stefano a denti stretti.
Uberto si sottrasse dalla presa del figlio e lo guardò come se fosse pazzo.
-Ti rendi conto di quello che hai fatto? Di come hai sfidato tuo padre? E per chi, per giunta!
-Per la donna che amo – ribadì il principe, frapponendosi fra il padre e Carabosse, che lo guardava con gli occhi lucidi.
-Che ami – sbuffò Uberto. – L’amore è ingannevole, Stefano, e dannoso. Ed è solo un’illusione.
Stefano decise che quella era una discussione che dovevano affrontare lui e suo padre da soli, così si voltò indietro verso Carabosse e le disse: - Ritorna in camera tua, ti raggiungo presto.
-Oh, no – intervenne Uberto, sprezzante – falla rimanere, vedrai che avrà molte cose interessanti da dire.
Il principe non gli diede ascolto, ma insistette perché lei tornasse in camera, e stavolta Uberto non fece altro che mandare due guardie con lei per sorvegliarla.
-Semplice precauzione – disse in risposta allo sguardo di suo figlio. – Quando avremo parlato capirai.
-Parliamo, allora.
-Non qui –  disse contrariato, guardandosi attorno. Avevano già dato troppo spettacolo, anche se sembrava che in pochi si fossero accorti della scena. La musica continuava, in molti ballavano e fortunatamente Helena e Mariah sembravano ancora intente nella loro conversazione. – Seguimi – gli disse, e lo guidò nella stessa sala dove poco fa aveva parlato con Niamh.
Carabosse non era ancora giunta in cima alla scalinata quando si volò indietro e guardò Stefano seguire suo padre con sicurezza, ma sapeva che non sarebbe durata a lungo. Uberto gli avrebbe detto tutto, lei aveva perso la sua occasione. I suoi occhi già lucidi si riempirono di lacrime di disperazione.
Quando le guardie la obbligarono a voltarsi e a continuare a salire, lei non oppose neanche resistenza, ma si lasciò trascinare.
Era finita.






Angolo Autrice: Sì, in ritardo come al solito. Non ho scusanti, spero solo che il capitolo vi piaccia. Ho dovuto dividerlo in due parti altrimenti sarebbe stato troppo lungo. La "grande rivelazione", quindi, avverrà nel prossimo capitolo. Come la prenderà Stefano? Si accettano scommesse :3
So che pubblico sempre con molta distanza da un capitolo all'altro e che questo può infastidirvi,  ma mi piacerebbe ricevere un vostro parere sulla storia e sui capitoli in particolare. Sarebbe davvero un toccasana per la mia misera autostima.
Ringrazio quelli che hanno messo fra le ricordate/seguite/preferite questa storia, i lettori silenziosi e VanEss per aver recensito.
Alla prossima!

 

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Capitolo 17
*** The Moment of Truth (part II) ***


17. The moment of truth (part II)

Stefano chiuse la porta dietro di sé con un tonfo che riecheggiò nella stanza quasi vuota. L’aria era densa di tensione, era percepibile nelle spalle contratte del principe e nella sua mascella serrata, e nel respiro affannoso e indignato del Re, nel suo sguardo irato. Mai, mai Uberto aveva guardato suo figlio con tanto disgusto negli occhi, mai ne era stato tanto deluso. E per niente al mondo Stefano avrebbe osato comportarsi a quel modo, se non per Rosaspina. Per lei, solo per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa, e solo per lei trovò la forza di soffocare il dispiacere per aver deluso suo padre, guardarlo negli occhi e ribadire la sua posizione.
-Non ho intenzione di chiedere il vostro perdono, padre. Non sento di doverlo chiedere.
Uberto fremette dalla collera. – Tu dovresti implorarlo, il mio perdono, per ciò che hai osato fare!
-Siete stato voi a dirmi che potevo avere un’amante! Cosa vi dà fastidio, quindi? Che io la ami? Che io sia felice, finalmente, dopo anni passati ad ubbidirvi e a leggere il disprezzo nei vostri occhi ogni volta che provavo ad essere qualcosa di diverso da ciò che voi volevate?
-Io ti ho cresciuto per essere Re! – urlò Uberto – Quello che volevo era un figlio degno di sedere su un trono, e ti ho insegnato il dovere, ti ho insegnato l’obbedienza, ti ho insegnato che l’amore è una sciocca chimera che chiunque può permettersi di inseguire, tranne un sovrano! Guarda al passato, Stefano, e dimmi perché piccole casate che hanno stroncato illusioni come l’amore nei propri figli hanno prosperato e sono diventate grandi, e dimmi perché invece un uomo potente come Thomas, un Re, che ha dato ascolto ad un capriccio sposando una popolana è andato incontro alla morte prima del suo tempo! E’ questo ciò che non riesci a capire. Non mi sarebbe importato nulla se tu avessi anche un harem al castello, sotto il naso di Helena, ma il problema è quella ragazza, che ti ha manipolato così abilmente da non farti neanche rendere conto di chi ti stessi portando a letto!
Stefano strinse i pugni, ignorando le insinuazioni di Uberto – perché anche se desiderava Rosaspina con tutto se stesso aveva resistito, aveva salvaguardato la sua purezza, perché nonostante ciò che poteva pensare suo padre, lui sapeva che non avrebbe potuto darle nessun futuro onorevole.
-Forse voi sapete meglio di me chi è Rosaspina, padre? – chiese con sarcasmo.
Uberto proruppe in una falsa risata, una risata di scherno. – Rosaspina, è così che si è fatta chiamare? Oh, un nome degno di una principessa, devo riconoscerlo…
-Questo cosa vorrebbe dire?
L’usurpatore gli si rivolse bruscamente. – Ti prego, dammi una prova del fatto che l’intelligenza di mio figlio non è stata solo una mia illusione per anni: quando l’hai vista per la prima volta, non mi interessa né come né quando, ti sei almeno reso conto di averla già incontrata?
Stefano rimase per un attimo spiazzato.
I suoi occhi lo trafissero come i suoi stavano facendo con lei, lo guardò con aria di sfida.
Lui ne fu immediatamente infastidito, ma ebbe anche una strana sensazione, come un déjà-vu . Gli sembrò di aver già vissuto una situazione simile, ma non riusciva a ricordare né dove né con chi. Quei chiarissimi occhi verdi, comunque, era certo di averli già visti.
Ricordò quella sensazione del loro primo incontro, quella strana familiarità che aveva provato guardando gli occhi verdi di Rosaspina, quel pungolo nella sua mente, come se dovesse ricordarsi qualcosa, ma non sapeva cosa.
-Come potete saperlo?
-Bene, almeno mio figlio non è un completo idiota. Ma non sei comunque riuscito a riconoscerla, sebbene per certi versi sia cambiata pochissimo. Ha offuscato la tua mente fino a questo punto? Deve proprio saperci fare…
-Padre, smettetela con queste allusioni – disse con decisione. Uberto tuttavia lo ignorò.
-Non avrei mai pensato che si sarebbe abbassata a tanto, che sua madre le avrebbe permesso di umiliarsi in questo modo. Ma del resto, è questa la fine che fanno spesso le bastarde reali, non è vero? Si riducono a sgualdrine. E per quanto il nome che si è scelta possa essere principesco, questo non cambierà mai ciò che è…
-Non una parola di più, padre!
-…la figlia di un Re, è vero, ma soprattutto la figlia di una mugnaia – concluse Uberto, gustandosi le ultime parole.
La verità colpì Stefano con la forza di un ariete.
-La figlia di un Re e di una mugnaia… - ripeté.
-Lo hai capito, finalmente. Quella ragazza è…
-…Carabosse – concluse lui, come pietrificato. – Non è possibile. Non può essere lei –  mormorò, cercando di ricordare quella bambina odiosa che tanto disprezzava da piccolo.
-Davvero? Stessi capelli castani, stessi occhi verdi, persino il carattere è rimasto lo stesso: io dico che è lei. Ma se la mia parola e quella di una fata, colei che me l’ha rivelato, non ti persuadono, nel castello ci sono numerosi ritratti di Carabosse e dei suoi genitori. Potrai facilmente notare la somiglianza con la tua Rosaspina.
Stefano non ne ebbe bisogno: sapeva che suo padre non gli avrebbe mai fornito delle prove da controllare se non fosse stato sicuro della sua ragione. E se anche questo non fosse bastato, adesso Stefano capì il perché della familiarità degli occhi di Rosaspina; e adesso che suo padre lo faceva riflettere sulle somiglianze, le vedeva anche lui. Il naso delicato, all’insù, la bocca carnosa, con quella forma particolare... e quello sguardo fiero e altezzoso, lo sguardo con cui lo sfidava, era rimasto lo stesso negli anni. Quanto era stato cieco a non accorgersene prima! Quanto doveva esserle sembrato sciocco, mentre la baciava, mentre le professava il suo amore, mentre beveva tutte le sue menzogne su di sé, sulla sua famiglia, su tutto. Su tutto? Anche quando lo baciava, e intrecciava le braccia attorno al suo corpo come se non volesse lasciarlo andare mai più, e tremava contro di lui, e sospirava e gemeva di desiderio, anche allora mentiva? Quando stava piangendo perché credeva che lui fosse innamorato di Helena, era una finzione anche quella? E i suoi sentimenti…
Ah, si disse con amarezza, ma lei non ha mai detto di amarti.
-E a che scopo, questa messinscena?
-Non lo immagini? Ti ha ingannato e sedotto con il trono come unico obbiettivo, e una volta raggiunto avrebbe di sicuro ucciso entrambi. Alla fine era questa la vendetta di Elsa… e Niamh mi aveva ben avvertito!
-Non posso credere che mirasse davvero ad uccidermi.
-Magari il suo piano era quello di irretirti a tal punto da spingerti ad uccidermi, e poi ti avrebbe tenuto come animale da compagnia, ti avrebbe fatto eseguire i suoi ordini e ti avrebbe usato quando avrebbe avuto voglia di divertirsi… - insinuò malignamente Uberto.
Stefano si sentì umiliato come mai in vita sua. C’era una parte di lui che si sarebbe battuto ancora con suo padre, che avrebbe giurato sull’innocenza di Rosaspina, non ritenendola capace di azioni così malvage, ma doveva rendersi conto che la realtà era un’altra. La realtà era che Rosaspina non esisteva, era stata creata da quella che si poteva considerare la sua più acerrima nemica per ingannarlo, e il motivo più plausibile era appunto per vendetta. E, di fatto, non sapeva cosa Carabosse fosse o non fosse in grado di fare.
Sentiva come se un vuoto fosse stato creato dentro di lui, come se all’improvviso gli fosse venuta a mancare la terra sotto ai piedi. Non poteva dire di conoscere Rosaspina da molto, ma lo stesso lei gli era entrata dentro con una facilità disarmante, e lui si era innamorato senza neanche rendersene conto. Adesso, sapendo che la donna di cui si era innamorato non esisteva, si sentiva estraniato, perduto, come se mancasse una parte di sé.
Pensò a tutto quello che c’era stato fra loro: tutto falso.

Si inginocchiò vicino a lei e la strinse forte a sé, mormorandole parole rassicuranti, sperando che bastasse. Lei, vinta completamente dal bisogno e da quel contatto, si abbandonò fra le sue braccia, cercandovi rifugio e salvezza, mentre il principe le accarezzava lentamente la testa, facendo scorrere dolcemente la mano sui suoi lunghi capelli castani, ad un ritmo costante.

Falso.

-Mio padre mi ha imposto il matrimonio, lei non è nulla per me…
-Ah, davvero? Oggi non sembrava!
-Ti giuro che è così. Non sai come mi sono sentito quando hai visto quella scena che… era tutta un equivoco!
-Tu? Tu?! E io allora? Come credi che mi sia sentita, eh? Io mi sono sentita morire!

Tutto falso.

Strinse i pugni con tanta veemenza da affondare le unghie nella carne, tanto che probabilmente i palmi delle mani avrebbero sanguinato.
Si sentiva tradito, umiliato, ferito. Con quale coraggio lei aveva potuto guardarlo negli occhi e fargli una predica, quando aveva “scoperto” che lui era un principe? Aveva finto magistralmente, anche perché lei doveva sapere chi era lui. Come aveva fatto a dirgli quelle parole, quando avrebbero dovuto essere destinate a lei?
Uberto vide la reazione di Stefano, l’incredulità e la rabbia nei suoi occhi, la tensione nel suo corpo, e se ne compiacque, certo di averlo convinto. Si rilassò notevolmente, e parlò con tono vittorioso.
-Ringraziando gli dei, non è successo nulla. Stiamo entrambi bene e il piano di quella sgualdrinella è stato sventato. Questa notte darò ordine alle guardie di portarla nel bosco, ucciderla e seppellirla. E’ opportuno che vada anche io, per accertarmi che…
-No – intervenne bruscamente Stefano. Uberto non riusciva a capacitarsene, come poteva suo figlio difendere ancora quella piccola bastarda, dopo tutto quello che gli aveva detto? Ma Stefano continuò a parlare. – Non è abbastanza.
Il Re lo guardò stupito, poi sul suo viso si fece strada un sorriso di pura perfidia, e subito dopo stava ridendo di gusto, ridendo con cattiveria. Per suo figlio, la morte di quella sgualdrinella non era abbastanza. Si sentì di nuovo fiero e orgoglioso di lui.
-Dunque cosa proponi, figlio mio?
-Voglio vendicarmi – disse in tono glaciale. – Lei mi ha ingannato, deriso, umiliato. Merita una punizione esemplare, e voglio essere io a darle ciò che si merita.
Uberto lo squadrò attentamente, e nei suoi occhi vide ferrea decisione. – Molto bene. Hai un giorno. Un giorno per vendicarti, per fare di lei quello che vuoi. Dopodiché ci libereremo di quella seccatura per sempre.
Stefano abbassò la testa, in segno di rispetto. Sembrò raccogliere le forze per qualcosa, poi si inginocchiò davanti ad Uberto. – Padre, vi chiedo perdono per ciò che ho fatto. Non avrei mai dovuto sfidare la vostra autorità, per niente al mondo.
La soddisfazione del Re raggiunse l’apice. – Sei perdonato. Ma ricorda bene, Stefano: tu mi devi obbedienza, sempre, perché sono tuo padre e perché sono il tuo Re. E quando un giorno sarai tu a regnare, dovrai esigere lo stesso. Tu sei nato con grandi potenzialità, io ti ho insegnato come sfruttarle al meglio, ti ho dato i mezzi per essere potente. Non lasciare mai più che i sentimenti si frappongano fra te e il trono che meriti.
-Ve lo giuro, padre.
-Adesso va’, ritorna da Helena e fa’ il tuo dovere.  
Stefano si alzò, fece un inchino e poi uscì dalla stanza, lasciando suo padre da solo.
Uberto non poté trattenere un ghigno. La piccola principessa era di nuovo in gabbia, ma stavolta ci avrebbe pensato lui a mettere fine alla sua prigionia, una volta per tutte.
***
Nello stato pietoso in cui versava Carabosse, a malapena si accorse di quando una delle guardie poste davanti alla sua stanza entrò per lasciarle una brocca d’acqua e un piatto con del pane. Ignorò la guardia anche mentre usciva e le lanciava uno sguardo curioso, come a chiedersi cosa potesse aver fatto una ragazza del genere per dover essere sorvegliata, tuttavia non poté ignorare allo stesso modo il cibo che le era stato portato. Non mangiava nulla da quella mattina, si sentiva debole e stanca, e il suo stomaco brontolava fastidiosamente, perciò si avventò sul piatto e in poco tempo lo svuotò, sorte che toccò anche alla brocca d’acqua. Si sentì leggermente meglio dopo aver mangiato, ma era ancora spossata e disperata.
Carabosse ipotizzò che quello di mandarle un pasto così misero, un pasto da detenuta, fosse un’idea di Uberto: se fosse stato Stefano ad occuparsene le avrebbe mandato molto di più, perché la amava e si preoccupava per lei, oppure non le avrebbe mandato nulla, perché era arrabbiato per le sue menzogne e in preda alla furia. Ma quella crudele sottigliezza di ragionamento era propria di Uberto.
Solo a pensare a Stefano, Carabosse sentì una stretta al cuore e gli occhi farsi lucidi. Adesso lui doveva sapere tutto, e chissà come avrebbe reagito. Voleva sapere cosa provava, se era deluso, arrabbiato, se la odiava, o se invece l’aveva perdonata, se aveva capito perché lo aveva ingannato, se la amava ancora. Improvvisamente si rese conto che forse Stefano non avrebbe più voluto vederla. A quel pensiero si sentì sprofondare in un abisso. Non poter più vedere il suo viso, i suoi occhi, non poter più udire la sua voce, che aveva il potere di farla tornare indietro dal suo baratro di dolore, e dover invece attendere che Uberto decidesse la sua sorte!
Lacrime calde iniziarono a cadere dai suoi occhi verdi, e lei sentì di aver toccato il fondo. Guardò il suo riflesso nello specchio, e vide gli occhi arrossati e colmi di lacrime, il viso mortalmente pallido, le labbra morse per la preoccupazione, e il corpo scosso da tremiti e singhiozzi silenziosi.
Era patetica.
Era patetica ad essersi ridotta così per qualcuno che avrebbe dovuto uccidere, per qualcuno che insieme a suo padre aveva reso la sua vita una distesa di cenere e rovine, era patetica perché poteva incolpare solo se stessa se adesso stava piangendo, era patetica perché nonostante tutto aveva ancora fiducia in Stefano, sperava ancora che lui sarebbe venuto a salvarla.
Era patetica.
Una stupida.
Un’ingrata.
Una traditrice del suo stesso sangue.
Lo strisciante senso di colpa che provava non faceva che demolirla fisicamente ed emotivamente. Sentiva di aver tradito i suoi genitori, innamorandosi di Stefano, ma soprattutto disperandosi così per lui. Sapeva che Uberto l’avrebbe uccisa, presto o tardi, ma non se ne curava, perché tutto il suo dolore era per Stefano, e sentiva che fosse un oltraggio alla memoria dei genitori.
 
“Tu?
Tu?! E io allora? Come credi che mi sia sentita, eh? Io mi sono sentita morire!”

Una stupida…

“Sii forte per lei. Sii forte per lei.”

 …un’ingrata…

“Sii forte, figlia mia. Sii sempre la principessa che sei. Io sono orgoglioso di te. Sarai una grande Regina, un giorno.”

…una traditrice del mio stesso sangue.

Carabosse si rannicchiò e si prese la testa fra le mani, e iniziò a dondolarsi piano, cercando di ricreare il dolce cullare di sua madre, ma non c’era niente che potesse fare per evitare quei ricordi. C’erano demoni nel suo cuore che non potevano essere messi a tacere.
La speranza che Stefano venisse a salvarla rimase vana per un’altra ora, durante la quale tutto il suo oceano di angoscia e ricordi spiacevoli ruppe gli argini e la travolse.
Fu con fatica che si alzò ed aprì il baule ai piedi del letto.  Scavò fra i vestiti ed estrasse un involto di stoffa nera che srotolò, portando alla luce un pugnale dalla lama lucida ed affilata con una gemma scura incastonata fra l’elsa e l’impugnatura. Lo osservò bene, e con il dito percorse la lama, giocando con il bordo affilato. Le sarebbe bastato un taglio netto sul polso, o un colpo ben assestato nel ventre, e avrebbe smesso di soffrire, e si sarebbe sottratta dalle grinfie di Uberto. Sarebbe morta comunque, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di essere lui ad ucciderla.
Osservò di nuovo il suo riflesso, devastato come prima, ma stavolta con un pugnale in mano, e capì che non lo avrebbe fatto. Si sentiva esausta, languida, ma il fuoco che aveva dentro non si era spento. Le braci erano ancora vive, e sarebbe bastato riattizzarle perché le fiamme guizzassero vivide come una volta. C’era ancora voglia di lottare in lei, e forza per lottare.
Non era il suo sangue che voleva veder scorrere.
All’improvviso sentì dei passi fuori dalla porta. Erano liberi dal clangore metallico e dalla pesantezza dell’armatura. Era una camminata agile ma decisa, e lei la riconobbe come quella di Stefano. Era venuto, alla fine. La domanda era: cosa avrebbe fatto lei? Come in risposta, strinse il pugnale nella sua mano. Ormai aveva perso Stefano per sempre: adesso lui sapeva chi era, e l’avrebbe sicuramente odiata. Si detestavano fin da bambini, in fondo. Erano nemici, lo erano sempre stati, non c’era altra verità. Se mai l’avesse davvero amata, aveva di sicuro soffocato quel sentimento con la collera per essere stato ingannato, e cosa avrebbe fatto lei?
Decise che almeno avrebbe vendicato i suoi genitori.
Carabosse sentì il principe mandar via le guardie, poi udì il cigolio della porta che si apriva. Lei era ancora in piedi, dando le spalle a Stefano, con il pugnale stretto in mano e nascosto dalla sua vista. Lo sentì entrare e chiudersi la porta alle spalle, lo sentì respirare, sentì il suo sguardo su di sé, ma non sentì la sua voce, così fu lei la prima a parlare.
-Ora sai tutto.
-Sì – rispose Stefano. Attese una sua reazione, ma nemmeno un fremito scosse Carabosse. – E dopo tutto quello che tu avresti dovuto dirmi e che invece mi ha rivelato mio padre, dopo come mi hai ingannato, non dovrei sentirmi così. Come se dopotutto tu fossi l’unica cosa che conta. Come se tu fossi una parte di me senza la quale non potrei vivere, e non importa quanto costerà averti accanto.
Questa volta, questa volta Carabosse tremò.
-E non mi odi? – chiese con la voce quasi spezzata.
-Potrei farti la stessa domanda. Non mi odi?
-Sì –  rispose flebilmente.
-E allora, Carabosse, prendi la tua vendetta.
Lei si voltò, alzando il braccio con cui reggeva il pugnale, che scintillò pericolosamente. Il suo volto era come scolpito nella pietra, non recava tracce di alcuna emozione. Eppure anche così aveva una bellezza letale che fece rabbrividire Stefano. Non disse nulla mentre la vedeva avanzare. Non si mosse da lì, neanche quando lei giunse così vicina da avere il pugnale ad un soffio dalla sua gola.
-Dovrei ucciderti. – Gli occhi le si fecero improvvisamente lucidi. – Solo che… solo che non ce la faccio. Non ci riesco – sussurrò mentre lasciava andare il pugnale, che cadde a terra tintinnando.
In quello stesso istante Stefano afferrò la sua mano, poi la afferrò per la vita e la strinse a sé, e la baciò. Lei rispose mentre si aggrappava a lui. Fu un bacio che sapeva di dolore e di disperazione, fu  pathos allo stato puro. Si allontanarono per un secondo, per riprendere fiato.
-Io non posso farti del male – disse lei. – Farti del male mi ucciderebbe.
-E allora non farlo – sussurrò lui. – Non te ne darò motivo.
Si baciarono di nuovo, disperati allo stesso modo, con ancora più trasporto. Lui passò la mano fra i lunghi capelli di Carabosse e poi li strinse, quasi con spietatezza, per legarla a sé e non lasciarla mai più andare via. Quei baci diventarono sempre più profondi e lunghi, mentre il cuore di Carabosse batteva sempre più velocemente. Il braccio che Stefano aveva avvolto attorno alla sua vita salì sulla schiena, a stringerla ancora di più, anche se erano ormai schiacciati l’uno contro l’altra. Le tirò i capelli, facendole alzare la testa, mentre le labbra di lui scendevano piano verso il mento e poi sul collo, tracciando una scia di baci bollenti. Il suo respiro sulla pelle fece rabbrividire Carabosse, e i brividi scesero lungo il suo corpo, e lei sentì nascere un languore nel ventre che aveva provato altre volte con Stefano, ma mai così intensamente. Lui non si fermò, ma continuò la sua discesa lungo il collo, sfiorando la pelle candida con le proprie labbra, finché non giunse al solco fra i seni, lasciato scoperto dalla scollatura del vestito. Lì iniziò a lasciare baci veri e propri, leccando lembi di pelle, e stavolta fu Carabosse ad afferrare i suoi capelli, e a spingere più giù la testa di Stefano, mentre un lento pulsare cresceva d’intensità fra le gambe. Quando si lasciò sfuggire una serie di gemiti lievi, Stefano parve perdere il controllo, ritornò sulla sua bocca mordendo famelico le sue labbra, e la spinse contro una colonna del baldacchino, schiacciandosi il più possibile contro di lei, per sentirla, per sentire la sua pelle sulla propria, mentre le sue mani dai fianchi di lei salivano al ventre, ai seni. Stavolta fu lei a cercare un maggiore contatto, afferrandolo per il bavero della giacca e avvicinandolo, ma quando fu chiaro che ormai solo i vestiti li separavano, prese a sbottonare la giacca con crescente frenesia, mentre le mani di lui scendevano sotto la gonna, e poi risalivano lungo le sue gambe facendola tremare sempre di più man mano che si avvicinavano al punto in cui sentiva crescere un calore travolgente. Quando sentì le sue dita proprio , dove una specie di piccolo cuore palpitava furiosamente, emise un gemito acuto, seguito da un sospiro, e si aggrappò ancora più furiosamente alle spalle di Stefano, come se ne andasse della sua vita. Più le sue mani si muovevano, più il piacere cresceva, ma prima che lei potesse arrivare al culmine lui tolse le dita con un sorriso malizioso, facendola sentire terribilmente incompleta. Ma Stefano non aveva intenzione di farla sentire così ancora per molto, perché avvolse Carabosse fra le sue braccia e poi l’adagiò sul letto, sovrastandola. Istintivamente lei aprì le gambe per accoglierlo, e lui vi si incuneò, mentre si chinava a baciarla e iniziava a sciogliere i lacci del vestito e lei faceva lo stesso con la camicia di lui. Presto anche la camicia finì sul pavimento con la giacca. Rimasto a torso nudo, Stefano ribaltò la situazione, portando Carabosse sopra di lui, per facilitarsi il compito di liberarla da quel fastidioso corpetto, e lei si chinò sul suo corpo fino a baciarlo, assaporando il gusto della sua pelle, dalla bocca al collo, e dal collo fin giù, sul petto scolpito da anni di allenamenti. Alla fine, anche se con un po’ di difficoltà, lei si ritrovò con addosso solo una leggera sottoveste e, come in un gioco, Stefano ribaltò nuovamente la situazione, spingendola sotto di lui.
Continuarono con quel tira e molla finché entrambi non furono completamente spogliati degli abiti che li separavano dall’unirsi in tutto e per tutto, e allora, finalmente, si amarono. 




Angolo Autrice (molto imbarazzata): Salve, spero di non avervi fatto aspettare troppo  con questo aggiornamento. Mi sono messa d'impegno perché questo per me è l'ultimo giorno di libertà. Domani ricomincia la scuola, e si prospetta un anno da incubo, peggiore dell'anno scorso. 
Questo capitolo è stato un parto. Podalico, aggiungerei. Mi incartavo ad ogni battuta, non sapevo come andare avanti e rendere bene le emozioni dei personaggi. Per non parlare dell'ultima parte del capitolo che... beh, è la seconda scena "erotica" che scrivo, e penso che faccia schifo quanto la prima, se non di più. Purtroppo - lo so, è la millesima volta che lo dico - sono una frana con tutto ciò che riguarda romanticismo ed erotismo. Penso che questo sia il meglio che sono in grado di fare, perciò chiuderò questo capitolo in un angolino della mia mente e farò finta che non esiste. Chi è con me?
Bene, io ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto la storia fra le ricordate/seguite/preferite, i lettori silenziosi e Sylphs per aver recensito.
Mi raccomando, fatemi sapere cosa pensate del capitolo!
A presto!

 

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