Racconti dello Stige (Horror 365)

di Wendigo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo specchio della Nonna ***
Capitolo 2: *** Il Messaggio di Unlucky ***
Capitolo 3: *** La Pianta del Salotto ***
Capitolo 4: *** Il Dottore col Camice nero ***
Capitolo 5: *** Il Gioco del Tabù I-Pars ***
Capitolo 6: *** Il Gioco del Tabù II-Pars ***
Capitolo 7: *** L'orologio a Cucù ***
Capitolo 8: *** La Città dei Vegetali ***
Capitolo 9: *** Il Ragazzo dentro lo Specchio ***
Capitolo 10: *** La Sopravvissuta della Strage ***
Capitolo 11: *** L'ombra della Nebbia ***
Capitolo 12: *** I Testimoni del Portatore di Luce ***
Capitolo 13: *** La Bambola Sorry I-Pars ***
Capitolo 14: *** La Bambola Sorry II-Pars ***
Capitolo 15: *** Gli uomini bianchi I-Pars ***
Capitolo 16: *** Gli uomini bianchi II-Pars ***
Capitolo 17: *** Gli uomini bianchi III-Pars ***
Capitolo 18: *** Gli Occhi senza Padrone I-Pars ***
Capitolo 19: *** Gli Occhi senza Padrone II-Pars ***
Capitolo 20: *** Gli Accompagnati - Lui era tornato ***



Capitolo 1
*** Lo specchio della Nonna ***


In una città presso Firenze, una coppia di neosposi si stava trasferendo nella loro nuova abitazione che avevano comprato di recente. La loro ricerca era stata lunga e faticosa perché, per un motivo o per un altro, non erano mai riusciti a trovare una casa che andasse a genio ad entrambi ma, dopo tanti cataloghi ed agenzie mobiliari, era stata la casa stessa a trovare loro.
Infatti una strana sparizione di un’anziana ottantenne aveva portato i parenti più prossimi, che avevano naturalmente ereditato la proprietà, a non averci nulla a che fare con essa ed a venderla al miglior offerente ad un prezzo bassissimo, pur di chiudere in fretta l’intera faccenda. È fu così che i due sposini l’avevano comprata senza perdere neanche un secondo.
Arrivati lì, furono accolti dal vecchio recente padrone che, con un espressione felice e spavalda stampata sul volto, iniziò a mostrare orgoglioso le varie stanze della casa in ogni loro minimo particolare: in tutto c’erano due bagni, una cucina, un salotto e due camere da letto.
La casa appariva perfetta sotto qualsiasi punto di vista poiché era stata persino riaggiustata da poco dalla anziana padrona scomparsa. Di certo non si era minimamente aspettata di sparire nel nulla.
Finito il tour, la guida improvvisata sul momento cominciò a discutere assieme al nuovo (così almeno sperava quest’ultimo) proprietario Andrea sulle ultime formalità che andavano per forza completate, mentre la “nuova” padrona, Anna, preferì rimanere da sola nella sua futura camera da letto e distendersi sul letto. Il materasso era davvero comodo e soffice, e ci mancò poco che Anna non si addormentasse profondamente; ma prima volle dare un occhiata generale alla stanza.
Solo allora notò sulla parete di destra un gigantesco specchio: era alto forse quanto lei e poggiava direttamente sul pavimento. Si chiedeva da quanto tempo fosse lì ma soprattutto quando fu l’ultima che venne spolverato a dovere, visto che uno spesso strato di polvere lo ricopriva per intero.
Pulito o no, Anna giurò però di toglierlo un giorno o l’altro, e di sostituirlo con uno più piccolo che le avrebbe permesso di ricavare dello spazio per altri mobili. Questi infatti scarseggiavano lì dentro: escluso lo specchio e il letto, c’erano soltanto un comodino ed un armadio alla sua sinistra.
Fatti tutti questi ragionamenti su come arredare la stanza da letto, Anna si alzò dal letto ed andò dritta dal suo Andrea per chiedergli se avesse finito o no col proprietario per quelle ultime formalità
Lo vide mentre richiudeva la porta d’ingresso. Era solo ed in mano aveva soltanto un blocco di fogli ed un mazzo di chiavi. Andrea, come la scorse a sua volta, le andò incontro e, accogliendola tra le braccia, le diede dapprima un bacio ma poi le disse: – Anna, ti do la benvenuta a casa nostra –.
“Casa” pensò subito lei: il solo sentire di quella parola le faceva provare una sensazione di estrema felicità ma, stranamente bisogna dire, anche di paura, nonostante non capisse assolutamente perché.
– Non sei felice? –. Domandò perplesso Andrea ma poi questo pensò che la ragione fosse tutt’altra. – Ho capito cos’hai: senti pure tu una strana sensazione? Manca decisamente qualcosa ma non sai cosa. Penso però di averlo capito io: ci manca un bambino. Che dici: lo facciamo adesso, Anna? –.
La donna stava già per dirgli “che cosa?” e guardarlo storto, quando Andrea, presala in braccio, se la portò nella camera da letto, tra una risata e l’altra. Erano davvero una bella coppia dopotutto.
Raggiunta la stanza, i due sposini si buttarono sul letto dove poi cominciarono a scambiarsi a vicenda baci a non finire, ma, quando la donna osservò di sfuggito lo specchio, notò uno squarcio pulito nello strato di polvere. La cosa strana erano però due occhi azzurri che li fissavano curiosi.
Andrea le domandò cosa avesse e perché avesse improvvisamente smesso di baciarlo. Lei gli indicò allora lo specchio alle sue spalle ma questo, voltatosi a guardare, non notò nulla di strano: gli occhi azzurri erano già spariti e lo specchio, ancora sporco fino un attimo fa, era del tutto pulito adesso.

***

I due decisero che per il resto della giornata non sarebbero andati a svuotare gli scatoloni come avevano inizialmente programmato, ma sarebbero andati in giro per la piccola città, che dal quel momento in poi sarebbe entrato a far parte del loro mondo. Lo scopo era imparare ad orientarsi il prima possibile ma conoscere soprattutto i loro nuovi vicini di casa.
Questi si dimostravano sempre cordiali con loro e al tempo stesso molto curiosi a tal punto che li sommergevano di domande del genere “Da dove venite?”, “Perché siete venuti qui?” e cose così.
Tutti però avevano un qualcosa di sospetto: infatti, quando Anna ed Andrea attaccavano discorso sulla casa o sulla precedente padrona, nessuno più azzardava a parlare o si cercava in tutti i modi di cambiare assolutamente discorso, iniziando a discutere su cose del tutto fuori luogo oppure mettendo una qualsiasi scusa assurda per poi andarsene alla prima occasione.
I due sposini non capirono mai il perché di tali atteggiamenti ma non investigarono oltre, anche perché il sole era tramontato ed Andrea sentiva i morsi della fame. Decisero dunque di ritirarsi.
– Non ti è sembrato strano il loro comportamento, Andrea? –. Chiese Anna mentre cucinava la cena. Avevano deciso di mangiare un po’ di pollo che, benché la cuoca in questione non n’avesse ancora molta esperienza in merito, stava uscendo davvero bene e succulento.
– Probabilmente saranno ancora scossi per la sua improvvisa scomparsa. Prova ad immaginare –. Rispose meccanicamente Andrea, mentre preparava un po’ di insalata.
– Forse hai ragione –. Ma non era convinta.
Poco dopo aver cenato, entrambi andarono a dormire. Erano troppo stanchi per rimanere svegli.
Il letto era caldo e comodo, chiaro segno che la precedente padrona avesse avuto buon gusto per questo genere di cose o che si fosse preoccupata molto per il suo dormire. Tanto meglio per loro.

***

Erano ancora le tre di notte quando Anna si svegliò da uno spaventoso incubo: aveva sognato di essere nella camera da letto ma ogni parete era stata ricoperta da un’infinità di specchi. Il peggio era però l’ombra che veniva riflessa in ognuna di essi e che lentamente le si era avvicinata fino a quando non era uscito fuori e l’aveva afferrata per il collo. Dopodiché si era svegliata tra i sudori.
Le era parso così realistico ma sapeva bene che tutti gli incubi lo sono sempre.
Tuttavia credé ancora di sognare quando vide nello specchio la luce accesa della lampadina, posta sopra il comodino, mentre nella realtà era completamente spenta. Pensando di starsi immaginando tutto o che si trattasse solo semplice suggestione dovuta all’incubo, si rimise a dormire poco dopo.
Solo a quel punto sbucò fuori dentro lo specchio l’immagine di un’anziana signora, in atto di leggere un libro sul proprio letto, che la fissò per qualche secondo incuriosita per poi sparire di nuovo dentro lo specchio.
Un’ombra intanto fremeva dall’impazienza.

***

Il giorno seguente Anna raccontò tutto ciò a suo marito che, come se l’era aspettata, le rispose semplicemente che aveva sognato tutto quanto. Dopodiché le diede un bacio e corse via a lavoro.
Intanto Anna cercava di convincersi che fosse stato solo un sogno e ci stava pure riuscendo se non fosse che , dopo aver appena finito di rifare il loro letto, vide nello specchio le lenzuola ancora disfatte e i cuscini per terra. Riguardò il suo letto reale e quello dello specchio. Dopo urlò di paura.
Anna corse giù come non aveva mai fatto in vita sua e, bloccando con un forte stretta alla vita Andrea, che stava sul ciglio della porta d’ingresso, gli disse spaventata e tremante solo tre semplici parole. – Il letto… lo specchio… vieni… –.  
Lo costrinse a salire su con lei ed a vedere coi propri occhi la stranezza ma, arrivati lì, l’immagine del letto riflessa nello specchio era uguale a quello della realtà: cioè erano entrambi stati fatti. Andrea, preoccupato per sua moglie, cercò di tranquillizzarla dicendole che era solo spaventata o che si doveva ancora ambientare con la nuova casa e la nuova città. Infine, poiché vide di essere tremendamente in ritardo per il lavoro, diede un altro bacio, sulla sua fronte però, e corse subito via.
Anna lo seguì per un tratto, cercando di convincerlo di non essere impazzita o peggio.
Nello stesso momento in cui uscirono dalla stanza, passò per lo specchio l’immagine di una vecchia che, benché stanca, era contenta di aver rifatto il suo letto e di avere un servizio in meno da fare.

***

Anna, dopo essersi calmata, decise di passare quella giornata togliendo i vecchi effetti personali della precedente padrona da ogni mobile della casa. Questi infatti non erano stati ripresi dai parenti.
Tra le cianfrusaglie c’erano anche diverse sue foto dove poté notare i suoi meravigliosi occhi azzurri
Durante la cena Anna tentò nuovamente di parlare con Andrea sui fatti strani che le erano accaduti e che non riusciva a spiegare se non con un “Stavo sicuramente sognando ad occhi aperti”. Ma al marito non importò più di tanto e, eccetto per qualche monosillabica risposta, non parlò quasi mai.
Finita la cena, entrambi decisero di andare a dormire

***

Anna cominciò improvvisamente a sentire dei colpi provenire dalla porta; prima deboli (e pensò che si trattasse della sua immaginazione. D’altronde c’erano solo loro due in quella casa) ma poi sempre più forti finché Anna non decise di vedere che cosa stesse accadendo.
Un urlo accompagnò quel gesto e un risveglio di Andrea lo seguì subito dopo. La causa? C’era un’anziana signora nello specchio che stava bussando alla parte dello specchio e che li stava salutando felice. Anna, ricordandosi delle foto, la riconobbe: era la precedente padrona scomparsa.
I due non sapevano che fare: si guardarono prima tra loro alla ricerca di una reciproca risposta ma, non trovando niente se non paura, si fecero coraggio ed insieme si alzarono dal letto per osservarla più da vicino. Intanto l’anziana signora continuava a sorridere ed a salutare i due sposini.
Improvvisamente pero apparve un’ombra dietro la signora che, ignara dell’imminente pericolo, continuava ancora a salutare i due giovani. Questi provarono di avvisarla in tutti i modi possibili, indicandole di girarsi o urlandole di scappare via, finché non fu lei stessa ad indicare loro di voltarsi.
I due lo fecero paurosi e si ritrovarono quella stessa ombra che stava nello specchio fino a poco fa.
Il giorno seguente nessuno li vide più. Dopo una settimana i vicini decisero di chiamare la polizia ma questa, introdottasi dentro l’abitazione, non vi trovò nulla e ciò indusse alcuni a pensare che la casa fosse maledetta. La voce girò presto a girare nel piccolo paesino e nessuno osò più entrarci.
Solo quindici anni dopo quel fatto ci fu un temerario che ebbe il fegato di farlo, benché, passata una mezz’ora, tutti lo videro correre via da lì urlando a squarciagola.
Ci vollero interi giorni prima di riuscire a tranquillizzarlo ma, fattogli dire cosa aveva di tanto terrificante nella casa, tutti lo ritennero impazzito: aveva affermato e afferma tuttora di aver visto i due sposi, scomparsi quindi anni fa, dentro uno specchio della camera da letto da dove questi lo avrebbero salutato felici con un neonato in braccio.
Una cosa folle, non è vero? Sta di fatto però, che in quella casa non entrò più nessuno, o almeno ora.

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Capitolo 2
*** Il Messaggio di Unlucky ***


Il Messaggio di Unlucky

In una città presso Bari, viveva una ragazza di nome Giorgia. Questa era così popolare e aveva così tanti di amici, che si ritrovava ogni giorno invitata da qualcuno per una sua festa. Contrariamente a quello che credevano gli altri, non le pesava minimamente vivere in quella maniera, al contrario le piaceva molto stare costantemente in compagnia e odiava ritrovarsi da sola dal profondo del suo cuore.
Il motivo? Nulla di profondo in realtà. Amava semplicemente venir complimentata per la sua bellezza.
Inutile dire che, ritrovandosi nella rubrica telefonica di chiunque, riceveva quotidianamente moltissime chiamate e messaggi, tra cui le pure detestate catene telefoniche: non ci credeva molto sul loro potere, ma aveva sempre preferito evitare di metterle alla prova: si continuava a dire che era meglio spendere qualche messaggio gratuito, anziché rischiare.
Un sacrificio che pare insignificante agli occhi di chiunque, ma per la nostra Giorgia era come buttare via cinque euro. Tuttavia non si accinse mai a rischiare neppure se la catena richiedeva cinque o sei messaggi; o almeno fino al tredici marzo.
 

Era un giorno molto speciale per Giorgia perché quella notte si sarebbe tenuta non una semplice festa ma “LA” festa del suo ragazzo e la cosa si prospettava stupenda (i genitori non ci sarebbero stati per lavoro). Naturalmente lei rientrava tra gli invitati.
Durante il pomeriggio prese con sé due delle sue più recenti “discepole” sul campo della moda e le portò per tutti i negozi della città e dei dintorni fino a giungere a Barletta: Giorgia era fermamente decisa a trovare un vestito che le sarebbe stato divino.
La “caccia” durò solo sei ore, poche per la nostra protagonista rispetto alla nove ore a cui era solita fare d’estate e nei giorni festivi. Lo stesso non si poteva dire per le sue povere amiche le quali, distrutte, ebbero unicamente la possibilità di fermarsi per qualche secondo a un bar vicino prima di ritornare a Bari.
Lì le tre ragazze ordinarono dei caffè, che si dimostrarono indispensabili alle due discepole per non cadere a terra sfinite. Per la loro maestra invece fu semplicemente un qualcosa in più di cui ci si poteva fare a meno.
Fu quello il momento fatale: il cellulare squillò, la povera ragazza lo prese e aprì il messaggio appena mandatole da una sua amica. Era raffigurata il disegno di una ragazza con un lungo abito nero e gli occhi chiusi con sotto il seguente testo:
“C’è stata una ragazza di nome Unlucky nel sedicesimo secolo che venne bruciata viva e cavatele gli occhi affinché non facesse mai più il malocchio a nessuno dei poveri contadini. Tuttavia il suo fantasma vaga ancora per queste terre e ucciderà chiunque riceva questo messaggio. Se non vuoi essere la prossima vittima, invialo a tutta la tua rubrica telefonica entro le prossime 3 ore”
- MA STIAMO SCHERZANDO!? - urlò Giorgia in preda alla rabbia. La si poteva biasimare: c’erano più di mille persone in quella rubrica, ergo più di mille messaggi da spedire, un po’ troppi anche per lei. Di certo se ne avesse chiesto solo cinque, dieci, come al solito avrebbe ubbidito senza problemi: ma mille no.
- Fa come ti dice, Giorgia. Non si sa mai - disse una delle due venendo poi appoggiata dall’altra ragazza. A differenza della loro amica, le due ci credevano completamente a quei messaggi.
- Ma manco per idea! Lo sai quante persone ci sono nella mia rubrica! Ma siamo impazziti!? –
Le ragazze si zittirono: “inutile” pensarono “quando Giorgia ha deciso, non cambia più idea”. E avevano ragione poiché spense il cellulare e si rialzò, pronta per la seconda parte della caccia all’abito; purtroppo la giornata stava per finire, e a Giorgia parve inutile cercare un vestito se poi non sarebbe riuscita ad arrivare in tempo a quella festa.
Decisero ad una unanimità di tornare a casa.
 

Presero il treno: le due amiche presero subito sonno per la stanchezza accumulata dalla maratona; Giorgia invece stava ammirando paesaggio di campagna, quando cominciò a sentire un rumore di passi nel vagone: peccato che loro tre fossero le uniche persone lì dentro. Il rumore era accompagnato da una voce femminile che debolmente diceva - Sta scadendo il tempo -.
“Al diavolo” imprecò tra sé Giorgia “sarà la mia immaginazione che mi sta facendo un brutto scherzo”. Alla fine il rumore cessò all’improvviso. “Vedi Giorgia non c’è nulla da pre…AH!”. Una ragazza, priva dei sui occhi e simile a quella della foto, le era apparsa per un istante davanti; ma ciò che le mise i brividi era che l’aveva vista sorridere.
L’urlo aveva fatto svegliare le due discepole ma queste non ci fecero troppo caso poiché il treno era giunto a destinazione. Scesero giù, si salutarono velocemente, promettendosi di rivedersi alla festa, e alla fine ognuna si diresse a casa sua.
Di tanto in tanto, durante il tragitto Giorgia si guardava attorno: iniziava a crederci un pochino a quella catena. Ma quel pochino se ne andò come giunse nella sua stanza dove si sentiva più al sicuro, anche dalle catene. Decise di provarsi l’abito che aveva comprato a Barletta: le stette benissimo come al negozio.
Squillò un’altra volta il cellulare: un nuovo messaggio da parte di un suo amico. Lo aprì e seccata rivide il messaggio-catena sulla storia di Unlucky. Decise di rispondere, scrivendoci - Non ci credo in queste cose - al suo emittente.
Stranamente, come lo mandò, ricevette un nuovo messaggio e questa volta da Unlucky stessa. Rimase paralizzata non appena aveva visto il mittente ma si fece coraggio e così lo aprì: “peggio per te”
L’immagine del messaggio (la stessa di prima) alzò improvvisamente le palpebre improvvisamente, prive sia di occhi che di vita. Giorgia per lo spavento emise un urlo.
“è la mia immaginazione” cercava ancora di convincersi “l’immagine non può aver preso vita”. Ma a questa avevano anche iniziato a muovere i capelli e a comparire altre parole sotto “tempo scaduto”.
La ragazza divenne subito bianca e si rimproverò di non aver ascoltato le sue amiche. Corse nelle altre stanze, cercando disperatamente qualcuno. Non trovando anima viva, decise di andare immediatamente alla festa del suo ragazzo. Si mise a correre.
Era ormai vicina alla sua meta, quando, attraversando la strada, venne presa da dietro e in pieno da una macchina. Il tutto avvenne ad una tale velocità che Giorgia non ebbe il tempo di accorgersi di nulla. Da entrambe le portiere scesero dei ragazzi semiubriachi.
- Che cosa abbiamo fatto, Matteo? - cominciò a dire uno dei due - è... morta? Presto chiama una ambulanza -
- Sei impazzito! Ci arresteranno. Dobbiamo nascondere il corpo e… -
Intanto Giorgia assisteva a quella terribile scena: vedeva i due che parlavano e litigavano sul da farsi; vedeva la macchina ammaccata sul davanti; ma soprattutto vedeva il suo corpo senza vita con accanto Unlucky - Ti avevo avvisata, Giorgia -. 

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Capitolo 3
*** La Pianta del Salotto ***


In una città presso Torino, viveva una famiglia del ricco politico De Gigantis. Questa era composta da quattro persone: lui, sua moglie Teresa e i loro due figli, Alba e Michele con cui era sempre un punzecchiarsi a vicenda.
Naturalmente la ricchezza aveva permesso loro una vita senza alcun problema, sacrificio o niente di tutto ciò: vivevano di fatti in una lussuosa villa, ognuno soddisfava i propri vizi per passare la giornata, ecc… ; per Michele il suo di vizio, ovvero giocare con i videogiochi, non era molto benvisto da sua madre, la quale si dedicava invece alla botanica.
Un giorno, una domenica per essere precisi, questa decise di condurlo fuori con sé in giro per negozi affinché non fosse per almeno qualche ora davanti a un computer o playstation. Inutile a dire che la notizia fu presa in modo traumatico tanto che, quando sua sorella venne per punzecchiarlo, questo non rispose minimamente, promettendo però fra sé che l’avrebbe fatta pagare tale offesa bruciandole le sue adorate bambole.
La gita fu terribile come se lo era immaginato: sua madre naturalmente lo tenne lontano dai negozi di videogiochi oppure da qualcosa che gli piacesse, ma lo tenne sempre vicino a sé, come per paura che questo sarebbe scappato alla prima occasione.
Dopo un via vai per venti o trenta negozi di vestiti, e dopo le terribile torture nel provarli, si ritrovarono davanti uno che vendeva piante esotiche. Inutile a dire che la madre fu attirata come il miele fa con le api.
Una volta entrati, la prima cosa che già fece innervosire Michele era di ritrovarsi un forte odore nell’aria che gli dava un senso di nausea. Al contrario sua madre lo respirava avidamente come l’ossigeno.
Apparì un uomo dietro il bancone - In cosa posso esservi utile? - chiese subito dopo.
- Vorrei comprare una pianta per il mio salotto. Non una qualunque: particolare, esotica. Veda lei -.
Il proprietario scomparì dietro la porta da cui era entrato per poi ritornare con un vaso e una pianta in mano. Sembrava molto simile a una stella di natale e difatti - Non ho mica chiesto una Stella di Natale! - rimproverò Teresa.
- E difatti, signora, questa non lo è. È una pianta del Messico molto particolare e rara, la quale è simile alla innocente Stella per attirare le sue prede - spiegò questo, cercando come una scusa.
Sua madre era indecisa. Non era una vera e propria esperta di piante e quindi non riusciva a capire se il venditore dicesse la verità oppure una menzogna solo per vendere; i soldi però non mancavano e non avrebbe pianto certamente a buttarne così qualcheduno. - Lo compro -.
Ritornati a casa, Michele corse subito sopra in camera sua, nel suo mondo, dopo esserne stato privato per tre ore interrotte. Riguardo a Teresa (la madre per chi se lo fosse scordato) decise di far vedere il suo nuovo acquisto a sua figlia, che, sebbene preferisse le bambole, era un po’ appassionata di botanica. Fu un successo, tanto che la bambina la volle nella sua stanza.
Durante la serata, Michele, ma anche coloro che si trovavano vicini alla stanza di Alba, cominciò a sentire dei rumori. Nessuno, però, si impegnò più di tanto ad alzarsi ed andare a vedere cosa fosse.
La mattinata seguente sua sorella era cambiata, strana: non lo punzecchiava, anzi lo trattava come un re e lo stesso fece con tutti. Provò durante il pranzo di convincere suo fratello a mettere quella pianta in camera sua ma invano: non voleva neppure un cane lì, se non lui. Comunque riuscì invece a farla portare nella stanza dei loro genitori.
Anche in quella serata si sentirono dei rumori. E come l’altra volta nessuno si mosse. Quel martedì i genitori cominciarono anche loro a essere un po’ strani ma pure meno fastidiosi. Per Michele fu una benedizione.
Durante quella giornata, stranamente, sua madre volle che Barbara, una delle cameriere, avesse quella pianta che fu portata immediatamente nella stanza di questa. E così successe anche il giorno dopo, e seguente.
La pianta, dopo un solo mese, era passata per tutte le stanze di ognuno, cambiandoli durante la sua permanenza in quel luogo. Solo quella di Michele faceva eccezione: infatti era stato l’unico che ancora non l’aveva avuto per una notte, e sinceramente da quel che avevo visto fare a tutti, era più deciso che mai.
Però, venne costretto dai genitori: in caso di no, niente videogiochi. “Che sarà mai?” si disse fra sé in quel momento. Accettò di tenerla solo per una notte.
Quella serata pose la pianta vicino alla finestra e andò a dormire. Stava sognando su un gioco di guerra che aveva finito qualche giorno fa, impersonandosi nel protagonista che aveva seguito nel corso della storia. Quando un tratto apparì all’improvviso un nemico che gli sparò addosso, facendolo svegliare.
Si sentì un po’ esausto e gli girava la testa. Eppure non aveva fatto niente che lo avesse potuto mettere in quelle condizioni, quando respirando notò qualcosa nel naso. Cercò di venirne a capo con l’uso delle mani, poi con la luce.
Si ritrovò la pianta sopra la pancia e una delle sue radici nel naso. Urlò, buttò le coperte assieme alla pianta a terra. Senti un tremendo dolore nel staccare quella radice. Si alzò, pensò di andare a chiamare qualcuno quando vide un ammasso di carne proprio di fianco a letto. Sebbene sembrasse incompleto, sapeva benissimo che cosa sarebbe diventato se non si fosse svegliato: lui.
Ebbe un lampo di fulmine capendo che era in pericolo. Prese il telefono e digitò 118: stava per risponderle qualcuno, quando l’oggetto smise di funzionare. Michele, non sapendo il perché, seguì con l’occhio il filo che lo alimentava con l’elettricità, trovando alla fine del percorso sua sorella con in mano una forbice con cui aveva appena tagliato la sua via di salvezza.
- Non doveva andare così - disse questa, mentre stavano entrando altre persone, tra cui i suoi genitori, nella sua stanza - Non volevamo farti soffrire - continuarono loro per lei - ma adesso saremo costretti a farlo purtroppo -.
Il giorno seguente, tutta famiglia De Gigantis, compreso Michele, andò a una festa di un’amica molto intima di Alba facendole un regalo speciale. Tutti erano incuriositi su cosa ci fosse in quella scatola, e, in particolar modo, la festeggiata, la quale non perse neppure un altro po’ di tempo ad aprirla: dentro c’era una pianta simile a una Stella di Natale. - Questo è per te, Francesca, da parte di tutta la mia famiglia. Spero che ti piaccia - disse Alba.
- Si, tanto che la metterò in camera mia sta sera -. Nessuno, in quel momento, si accorse che l’intera famiglia De Gigantis fece un piccolo sorriso.

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Capitolo 4
*** Il Dottore col Camice nero ***


In una città presso Roma, un ragazzo di nome Marco aveva fatto una terribile scoperta: un tumore al polmone destro, troppo sviluppato per esportarlo con una operazione chirurgica.
Tutto era iniziato qualche mese fa, durante gli allenamenti di calcio. Infatti durante una sua azione, aveva iniziato a sentirsi quasi mancare e non riusciva perfettamente a respirare: ciò però non lo preoccupò molto, essendo durato nemmeno per più di cinque secondi, che furono comunque tremendi.
Un mese fa, iniziò invece a sentire sempre più frequentemente questo problema e cominciò già a insospettirsi, quando ricevette il colpo finale durante l’ora di storia: ci fu uno schizzare il sangue con una forte tosse e infine lo svenimento di quest’ultimo. Inutile a dire che venne chiamato l’ospedale il quale mandò in fretta e in furia una delle sue ambulanze per prelevarlo.
I genitori furono avvertiti e lo trovarono su un letto di quell’istituzione pubblica. Non ebbero neppure il tempo di parlarsi che un dottore, entratovi nella stanza, diede la notizia del tumore, confermato dalle analisi appena fatte.
I giorni seguenti non furono meglio di quelli passati: Marco perse ogni ragione che gli permettesse di trascorrere serenamente un giornata; cominciò a cadere in depressione e a chiedere invano l’aiuto o un conforto da Dio. Infine iniziò a detestare chiunque, al contrario di lui, avesse un futuro, compresi i suoi stessi genitori.
Un settimana fa, i suoi passatempi divennero: guardare film, mangiare e piangere.
Sei giorni fa, cominciò a marinare la scuola e ciò lo spiegò ai suoi dicendo - Tanto che mi servirà andarci ora mai? -. Fece di nuovo i suoi soliti esami. Gli venne confermata un’altra settimana, massimo due di vita.
Più depressione. Più pianti. Era arrivato al limite: avrebbe fatto di tutto per poter vivere, anche vendere l’anima al diavolo. Il quale lo ascoltò.
Quattro giorni fa, prima di fare sempre quegli esami, che per lui erano oramai futili, sapendo come sarebbero finiti, gli venne comunicato che il dottore Russi, che era solito farglieli lui, non era disponibile perché ammalato. Cercarono uno che lo potesse sostituire e lo trovarono.
Dieci minuti ci vollero prima del suo arrivo: per Marco un dottore valeva l’altro ma, come gli apparve davanti, gli saltò subito all’occhio il suo camice color nero.
- Perché indossa un camice nero? - chiese Marco avvicinandosi all’infermiera, la quale negò di vedere un dottore con un camice simile, neppure dopo che il ragazzo le indicò dove guardare.
- Scusatemi per l’attesa - disse non appena arrivato - tu devi essere Marco Romano. Prego, dopo di te -. Era abbastanza inquietante ma il ragazzo non aveva alcun motivo per aver paura di lui, dopo tutto era un dottore.
Le analisi andarono come al solito e come al solito diedero sempre gli stessi risultati.
- Povero ragazzo - sospirò il dottore col camice nero - così giovane, eppure prossimo alla morte -. Iniziava a dargli sui nervi questo e sicuramente gli avrebbe dato un pugno in faccia se non avesse detto prima - ti piacerebbe poter vivere ancora? Ti non morire di cancro? -. “Cosa?” fu l’unica cosa che pensò Marco in quel momento.
- Allora si o no? - chiese con un tono più severo il dottore - rispondi -.
- Si - disse balbettando. Non sapeva se fosse una buona idea: “Al diavolo” pensò subito dopo “Voglio vivere”. – si – ridisse con più convinzione. Il dottore sorrise, come se avesse appena vinto alla lotteria.
- Bene. Uccidi qualcuno con questo pugnale entro questa sera e ti prometto che domani sarai completamente guarito dal tumore. Sano come un pesce -. Suonò il cellulare e il dottore rispose andando via. Solo allora comparì il solito dottore Russi ma a Marco non importò più di tanto. Dio aveva ascoltato le sue preghiere; ma anche se fosse stato il diavolo gli andava comunque bene.
Sicuramente poter vivere era ciò che aveva desiderato più di ogni altra cosa; ma chi gli diceva che uccidendo si sarebbe salvato davvero? Che sarebbe guarito? Risposta: nessuno.
La voce di quel dottore gli rimbombava in testa e qualcosa cominciò come a dirgli che avrebbe funzionato davvero. Era disperato ed era pronto anche ad uccidere tre di persone per potersi salvare.
Escogitò un piano, decise la vittima e scese la notte. Sebbene aveva calcolato ogni cosa, era lo stesso preoccupato per ciò che stava per fare, chi stava per uccidere: un suo fidato amico che, ricevuto un suo messaggio dove chiedeva di incontrarlo al parco, si era affrettato a venire. Non trovandovi però nessuno, l’ignaro si mise ad aspettare.
Marco cominciò ad avvicinarsi piano piano alla vittima designata, col pugnale di quel dottore tra quelle sue mani inesperte. Arrivatogli abbastanza vicino, lo colpì alla schiena una volta, due volte, tre volte, fino a quando non vide uscire più una sola goccia di sangue da quel corpo orribilmente mutilato. Ci fu una risata che rimbombò in quel parco. Ma non apparteneva né Marco e di certo neppure al suo amico.
Finito il lavoro corse in fretta e furia a casa sua. La mattinata seguente apparve più sereno e felice del solito, o per meglio dire, da quando aveva scoperto quel suo tumore. I genitori si rallegrarono.
Volle andare a verificare quella promessa e con suo grande stupore, accompagnato da quello del dottore Russi, scoprì che era realmente guarito: il cancro non c’era più.
Quella stessa giornata decise di fare una festa, che non si era mai vista a Roma. Invitò chiunque: amici, parenti, sconosciuti che aveva incontrato tornando a casa. E mentre se la stava godendo, felice di non avere più il cancro, ci fu un rumore, seguito da una calda sensazione lungo la sua pancia. Qualcuno l’aveva sparato e perdeva sangue.
- Questo è per mio fratello, sporco assassino - disse un ragazzo, che con la pistola in mano, stava piangendo. Marco lo riconobbe subito: era il fratello di quello stesso amico che aveva ucciso per poter vivere.
Perdendo sangue, cadde a terra stremato e, solo allora, vide tra la folla quello stesso dottore, avente sempre quel suo camice color nero. - Tu! - gli gridò Marco, come nel dire “non mi avevi promesso di farmi vivere?”. Questo avvicinatosi al povero morituro, si chinò per guardarlo dritto in quei occhi marroni che lentamente perdevano vigore.
- Ti avevo promesso di guarirti dal tumore, niente di più -. Gli occhi del ragazzo si chiusero, per l’ultima volta, immersi nelle lacrime.

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Capitolo 5
*** Il Gioco del Tabù I-Pars ***


In una città presso Cagliari, esisteva un negozio temuto da tutti i cittadini del luogo per via delle numerose leggende sul suo conto: chi ci credeva,  aveva persino tentato un’azione legale per toglierselo dai piedi, mentre chi pensava che fossero solo storielle per spaventare i bambini cattivi, faceva finta che non esistesse neppure un negozio simile. Ad ogni modo, nessuno aveva più messo piede lì dentro dopo il fatto del 42 di Rosa Croce.
Questa era stata la prima e ultima cliente. La prima perché, a quei tempi, il negozio era stato appena aperto; l’ultima perché il giorno seguente scomparì. Tutti senza nemmeno rimuginarci sopra allungo diedero la colpa al proprietario del negozio. Il quale si era salvato dall’intervento della polizia e dal carcere, grazie a un documento dove la signora Rosa aveva testimoniato di essere al corrente del pericolo dei suoi giochi.
La storia, sfortunatamente, ha il brutto vizio di ripetersi nel corso del tempo. Questa parla di un normale ragazzo di nome Giovanni, per i suoi amici Gianni. Contrariamente a loro, non credeva affatto a qualcosa che non potesse spiegare scientificamente o che non avesse mai visto. Una sorta di San Tommaso, o forse più scettico.
Un giorno come gli altri, mentre discuteva con alcuni dei suoi coetanei, saltò in ballo per l’ennesima volta il negozio “Stige”. Nessuno aveva il coraggio però di entrare nei dettagli in un tema come quello, eccetto lui, il nostro ragazzo che, come al solito, accusò tutti di codardia, non avendo neppure il coraggio di parlarne.
Una parola troppo grossa era stata usata; l’effetto: una scommessa: tutti sarebbero dovuti andare lì per dimostrare il contrario, ma Gianni avrebbe dovuto fare di più, avendo difatti lui accusato tutti di essere dei fifoni: entrare dentro e infine comprare un cosa qualunque.
La sfida venne accettata. L’ora prefissata. E il luogo d’incontro scelto. C’erano tutti. Nessuno mancava all’appello. “Bene” pensò Giovanni “almeno non sono proprio dei polli, come credevo”.
Aspettarono che il negozio venisse aperto. Pure l’orario, a dir la verità, aveva contribuito molto ad allargare la convinzione su quelle leggende: chi mai aprirebbe il suo negozio di giocattoli alle nove di sera? Posso capire un pub o un nightclub.
Finalmente videro la luce accendersi e una mano che girava il cartello esponendo la parte su cui c’era scritto “Aperto” all’esterno. Iniziarono a muoversi verso quella direzione: fino ad ora tutto tranquillo. Inutile dirlo che Gianni iniziò come a vantarsi di quella piccola vittoria: difatti si diceva in giro che, chiunque si fosse avvicinato al negozio, si sarebbe ucciso con le proprie mani. Peccato però che loro fossero ancora tutti vivi e vegeti.
Ciò diede più coraggio ai ragazzi di quel gruppo, sebbene ci fosse sempre qualche d’uno ancora titubante a continuare l’impresa; tuttavia questi preferivano rischiare anziché sentirsi poi dietro le spalle - Pollo! -. Potete capire che ci andava di mezzo il loro orgoglio.
Arrivarono davanti alla porta. Ebbero tutti dei brividi, eccetto Giovanni che era sempre guidato dal suo scetticismo, per  via dell’iscrizione di un altro cartello, appena sotto a quello del “aperto”. - Se volete morire, siete i benvenuti -. A quel punto alcuni proposero di tornare indietro, essendo ancora in tempo di poterlo fare.
- Lo fa solo per spaventarci, non abbiate paura - disse Gianni per poi continuare - ma non vi costringerò ad entrare. Se volete, potete tornare a casa, polli -. La paura svanì all’improvviso: tutti si diedero una calmata. Il nostro protagonista sapeva essere proprio persuadente quando lo voleva.
Aprirono la porta: all’interno non sembrava per niente inquietante o anche lontanamente strano, ma solo un normale negozio di giochi per bambini. C’erano bambole, di cui una su cui era inciso il nome Sorry, pupazzi, statuine e infine giochi da tavolo.
Il cuore di ciascuno per poco non volò via per la bocca, quando il proprietario dello “Stige” non comparì all’improvviso e con un tono, non per niente adatto a uno di quella professione (troppo autoritaria), chiese - Che cosa volete, mocciosi? -.
Nessuno rispose. Ciò mise ancore più rabbia a quella persona - Comprare un gioco da tavolo - disse infine Giovanni, indicandone uno proprio vicino a lui. L’uomo andò a prenderlo, ci passò sopra la sua mano per togliere la polvere che in tutti quegli anni si era accumulata, e la diede al ragazzo. - Fanno 13 euro, moccioso -. Il ragazzo pagò.
Stavano già per uscire tutti in fretta e furia, quando sempre il proprietario non li fermò, mettendo davanti a loro dei fogli, delle liberatorie dove lo avrebbero esonerato da qualunque danno causato dai suoi giochi. Non permise a nessuno di uscire se non avesse prima filmato quel documento. Gianni fu il primo a farlo e ad uscire da lì e, alla fine, anche gli altri.
Decisero di voler vedere cosa si trattava: era una scatola di color nero con inciso di bianco sopra il nome del gioco, Tabù. Nel momento in cui pronunciarono quella parola, il lampione più vicino a loro si spense. La paura generale aumentò.
Cominciarono dunque ad allontanarsi da lì. Andarono verso la casa di un loro amico, dove i genitori, solo per quella serata, sarebbero stati fuori fino all’alba. Si misero nel salotto e aprirono la scatola nera: dentro c’erano solo dei bigliettini, in tutto sette, lo stesso numero dei ragazzi.
Gianni prese le istruzioni e cominciò a citarli ad alta voce - Regola numero uno: ognuno prende un biglietto e senza farlo vedere a un altro giocatore dovrà leggere la parola in alto. Regola numero due: ognuno dovrà far indovinare ad almeno un giocatore tale parola senza usare le parole scritte sotto. Pena: la morte. Come la morte? -.
Si guardarono fra di loro. Alcuni sembrava dire “siamo ancora in tempo”. - Regola numero tre: ognuno, a partire dal più grande d’età, avrà mezz’ora di tempo per far indovinare la propria parola. Se si fallisce la pena è comunque la morte. Regola numero cinque: vince chi sopravvive al proprio turno -. Giovanni smise di leggere - Tutto qui. Adesso possiamo iniziare -.
Continua…
 
Un po’ di suspense farà bene a tutti. Mi dispiace che l’ho dovuto dividerlo in due parti ma sarebbe uscito troppo lungo. Ad ogni modo vi avviso che il capitolo Il Lupo di Nebida è stato cancellato perché, come mi ha fatto notare Hellister, l’avevo come preso da un video che avevo bensì visto ma che non me lo ricordavo più. Le mie storie devono essere almeno del 90% originali, questa è la mia condizione. Un grazie a chi mi ha recensito: Hellister, LadyGuns56 e Little Aleph Un grazie a chi ha messo la mia storia tra i seguiti: Gnesina, LadyGuns56, NY_Nicki

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Capitolo 6
*** Il Gioco del Tabù II-Pars ***


Tutti si guardarono nuovamente fra loro. C’era una certa atmosfera di incertezza, che però non sembrava minimamente incombere sul nostro Gianni, l’unico ad essere ancora convinto di quello che stava facendo. - allora chi è il primo? - domandò.
Nessuno si proponeva. L’incertezza aumentò ancora di più e sembrava non volersene andare, quando il campanello suonò. Uno si alzò a vedere chi fosse e ad aprirgli; o per meglio dire ad aprirle: difatti era la sorella gemella dell’amico che gli stava ospitando, la quale si chiamava Angela.
Inutile a dire che il fratello, come al solito, sbuffò: non erano proprio armoniosi insieme, anzi, come potevano, si azzuffavano tra loro. Questa, ad ogni modo, fece finta di niente, avanzò nel salotto dove c’erano tutti e, dopo un saluto generale, notò la scatola sul tavolo. Chiesta cos’era e lette le regole, insistette per poter fare anche lei una partita a quel intrigante gioco.
Presero tutti il proprio biglietto. - Sarà per la prossima volta - rispose il fratello, Antonio - come vedi ce ne sono solo sette e noi, esclusa te, siamo proprio sette -. La ragazza sembrava cedere per una volta tanto il terreno, però - Qui c’è un altro biglietto! Antonio, mi volevi di nuovo fregarmi!? Quando capirai che non si può liberare facilmente di me? - disse, o forse è meglio dire urlò, la ragazza andando in direzione della scatola.
Nessuno rimase immutato davanti a quella rivelazione: tutti avevano visto bene che c’erano solo sette e non otto in quella scatola. Ma questa, messo la mano lì, lo prese e lo mostrò a tutti ma dove non c’era scritta la parola da indovinare.
Quest’ultima stranezza fece aumentare ancora di più la paura preesistente in quei ragazzi. Uno, in particolare, non ebbe più il fegato di andare avanti: buttò il suo biglietto a terra e, prendendo la giacca, aprì la porta.
Neppure un secondo passò che un ondata di sangue schizzasse sui muri. Non si capiva cosa fosse successo ma nessuno era ottimista. Andarono a vedere: il corpo del quello era disteso a terra, sporco di sangue. Questo però non fu niente in confronto, quando vennero a sapere da dove proveniva il sangue fuoriuscito: dalla testa, o per meglio dire da quello che ne rimaneva, perché sembrava come scoppiata dall’interno. La ragazza cacciò un urlo. Si scatenò il caos fra i ragazzi. Alcuni cominciarono a prendere anche loro la giacca per poter prendere il corpo dell’amico e condurlo, sebbene invano, all’ospedale.
Effetto: scoppio di altre due teste. Stesso procedimento, stessa fine. I rimanenti cinque chiusero la porta: ci si domandavano perché fossero morti i loro amici. La risposta arrivò subito dopo da Angela che, con in mano il foglio delle istruzione, lesse nel retro un’altra regola, la sesta - regola numero sei: chi tocca il biglietto del Tabù, gioca. Rinunciare vuol dire morire -.
- Cosa facciamo? - chiese uno, Stefano. - Giochiamo - gli venne risposto. Si misero in cerchio, ognuno lesse la propria parola segreta e quelle proibite. Vincenzo, l’ultimo di cui non era stato svelato il nome, gli venne in mente di far leggere agli altri le proprie, così che da poter concludere il gioco con cinque vittorie. La risposta arrivò come il fulmine segue il baleno - NO! -. La paura era di morire se l’avessero fatto, ma non ci fu nemmeno più questa opzione: le schede erano divenute bianche, non c’era scritto più niente.
All’improvviso si sentì il rintocco di un orologio; peccato che in casa di Antonio e Angela non ce ne fosse uno che rintoccava. Capirono che il tempo a disposizione aveva appena iniziato a scemare, quello del turno di Stefano, essendo lui il più grande fra i presenti.
La parola: Albero. Le proibite: foglia, radici, verde, prato, fotosintesi, tronco, legno, e poi? Non aveva avuto il tempo di leggerle tutte. Era in difficoltà, ricordandosi che se avesse detta anche solo una, sarebbe morto come i due amici. Pensò cosa dire: escluse altre parole che gli parvero delle possibili proibite. Ma ogni qual volta ne eliminava una, la speranza lo abbandonava assieme al tempo che gli restava a disposizione.
- In autunno - cominciò a dire  dopo venti minuti buoni - succede sempre un fatto -. Tutti dissero qualcosa, ma nessuno si avvicinò lontanamente a ciò che pensava l’amico. E come biasimarli: in autunno accadevano tante di quelle cose, che forse si faceva prima a dire cosa non avveniva in quel momento dell’anno.
- No. no. - ripeté Stefano dopo un altro po’ - perché fa freddo -. Altre parole spuntarono fuori: ma ancora niente e il tempo rimasto era di meno di 5 minuti. Stava per perdere la calma il povero amico. Gli mancava poco per impazzire. O per commettere uno sbaglio, - è verde e ha… -, che gli costò la vita. La sua testa esplose comunicando a tutti che il concorrente Stefano aveva appena perso la partita. Angela si mise a piangere e suo fratello le si mise vicino cercando di consolarla.
Gianni intanto raccolse il biglietto del amico. Era di nuovo pieno di parole e tra queste una era stata scritta in rosso: verde, una di quelle proibite. Risuonò l’orologio invisibile: era scattato il turno di un altro. Ma di chi? I più grandi ancora rimasti in vita dopo Stefano erano Angela e Antonio, i quali erano gemelli. Alla fine decisero di giocare insieme.
Le parole: Neve e Scuola. Le proibite di Angela: acqua, ghiaccio, freddo, inverno, gennaio, dicembre, natale, capodanno, sale, bianco, e così via.  Le proibite di Antonio: libro/i, insegnante, professore, esame, compiti in classe, matematica, ecc…
Ci pensarono entrambi su un po’. Ma Angela sembrava convinta di farcela e la ragione si capì dopo. Non perse che cinque minuti per trovare un modo che le parve buono per vincere. - Allora: è piccolo, è - all’improvviso non pronunciò più niente, sebbene le labbra di lei continuavano a muoversi. Sembrava assurdo ma era divenuta muta. Intuimmo subito che anche questa dovesse essere una condizione del gioco del Tabù.
Appariva agitata e stava già per gettare la spugna, quando venne in mente al fratello la soluzione: scrivere su un foglio ciò che voleva dire. Lo fece. Gli indizi parvero chiari. - Neve. È questa la parola? – rispose Antonio. Non ci volle la conferma da parte di Angela, perché la risposta arrivò dal suo biglietto che, non appena fu detta la parola nascosta, prese fuoco fino a scomparire.
Al fratello non andò tuttavia meglio. Provava e provava ma non riuscivano a capire la sua parola. All’improvviso però, la sua faccia mutò con un sorriso - Ma certo! Come non avevo fatto a pensarci? Sentite tutti la parola inizia con la - accadde la stessa cosa di prima: era divenuto muto. Gli prendemmo un foglio in fretta, stando il tempo a disposizione per scadere.
Lo stava per scrivere, quando messa la penna sul foglio si bloccò. Iniziò a guardare con curiosità la penna e il foglio che aveva in mano, come se non ricordasse cosa fossero, anzi come se no ne avesse mai visti in vita sua. L’orologio rintoccò e la testa del povero Antonio fece la fine delle altre prima di lui. - Noooooooooo - urlava Angela, in preda alle lacrime - stavamo per farcela -.
Per più di qualche secondo mise la sua testa sopra il ventre di quel cadavere, una volta suo fratello; poi la rialzò, sporca del suo sangue, guardando minacciosamente Gianni. - Tu! Sei stato tu a portarci quel dannato gioco qui, io ti uccido! - si alzò di scatto, afferrando il collo di questo. Lo stava realmente strozzando.
La vita lo stava lentamente abbandonando, quando questa gli ritornò tutta in una volta. Il motivo? La ragazza era stava colpita alla testa da Vincenzo e si era messa a dormire distesa a poca distanza da Giovanni. Per fortuna che almeno qualcun altro avesse mantenuto la calma oltre lui. Ma non la testa la quale scoppiò come le altre. Gianni non riusciva a capire il perché, ma poi, risentendo i rintocchi, ne venne a capo: quello era stato il turno di Vincenzo e, gli vennero i brividi, adesso era il suo. Ma l’unica che poteva salvarlo, indovinando la sua parola, era la svenuta Angela. Si arrese all’evidenza: lui sarebbe stato dunque il prossimo a morire; non rimuginò neppure un secondo su come avrebbe potuto vincere. Semplicemente si sedette su una poltrona, aspettando l’inevitabile.
La mattina seguente i genitori dei gemelli ritornarono. Come videro i cadaveri e la loro figlia sporca di sangue, chiamarono la polizia. Ciò portò una marea di folla davanti all’abitazione: nessuno sapeva che cosa fosse accaduto, eccetto uno, il proprietario dello Stige.
Sbuffò, - E io che pensavo che almeno quel ragazzo, a cui ho dato la scatola, avrebbe vinto -, per poi andarsene verso il suo amato negozio.
 
Scusate se è uscita lunga ma il progetto originale era ancora più grosso. Ho dovuto infatti togliere dei personaggi e dettagli ma credo di aver fatto comunque un buon lavoro.

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Capitolo 7
*** L'orologio a Cucù ***


In una città presso Palermo, una famiglia stava facendo l’abituale colazione a base di cornetti. Questa in totale era composta da quattro persone: due adulti e i loro due figli, Simone e Luca, aventi rispettivamente tredici e cinque anni.
La colazione stava andando come al solito. Tutto sembrava dire normalità, oppure monotonia, in quella casa, quando il campanello suonò. Il padre, infastidito nel doversi alzare, andò a vedere chi fosse e, dopo averlo visto attraverso l’occhio magico, aprì la porta al postino con faccia curiosa. Questo difatti aveva sotto le proprie braccia un pacco di raccomandata per loro, a cui, una volta ricevuta la firma, lo diede senza perdere neppure un secondo di più: infatti la porta non era stata neppure chiusa del tutto che già quello avesse acceso il motorino e fosse andato via per le altre consegne.
Ad ogni modo l’uomo di casa, una volta ritornato in cucina e circondato da tutti, cominciò ad analizzare il biglietto messo sopra il pacco: non c’era scritto nulla se non il destinatario e la via di casa loro. Ma niente che gli facesse capire chi e da dove l’avesse mandato.
Decisero di aprirlo trovandovi solo un orologio, simile a quello che avevano già in cucina: unica differenza era che quello del pacco faceva uscire un pupazzo di un uccello dal proprio interno ad ogni ora. - Oh, che idea carina che hanno avuto! - cominciò a dire l’unica donna di casa - che dici Leo lo mettiamo qui l’orologio? -.
Il bambino rispose di si. Il marito confermò il voto della maggioranza e la decisione fu effettuata: il vecchio orologio venne tolto e buttato nell’immondizia. Quello nuovo fu messo a suo posto: stranamente uscì persino intonato con il colore di quella stanza, come se, chi l’avesse spedito, avesse immaginato dove l’avrebbero messo.
Una coincidenza che fece venire un po’ di brividi a Simone. Questo tuttavia non ebbe altro tempo per rimuginarsi sopra dovendo andare a scuola, ovvero il suo inferno quotidiano dove entrava di mattina pieno di vigore e poi vi usciva distrutto, psicologicamente però.
Quel giorno fu terribile: un compito in classe a sorpresa, il bagno guasto e un brutto voto in matematica. “Peggio di così non può andare” pensò cercandosi di consolarsi un po’ sebbene subito dopo arrivò il preside annunciando che quell’anno non ci sarebbe stata neppure una gita.
Solo quando ritornò a casa, si distese sul letto, e sprofondò sotto le coperte, poté avere un attimo di pace. Una attimo appunto, prima che l’orologio facesse il recente cucu facendolo saltare in aria per lo spavento. La giornata tuttavia non andò ulteriormente peggio.
La mattinata seguente, Simone, dopo essersi lavato e vestito, scese come al solito per la colazione, di nuovo, a base di cornetti. “Strano” si disse, prima di notare che l’orologio a cucu era scomparso. “L’avranno tolto mamma e papà”.
Si sedette al suo posto, prese un cornetto e cominciò a mangiare, quando suonò il campanello. Il padre si alzò, andò alla porta, aprendola al postino. Simone lo aveva capito dal tono della voce.
Dopo qualche secondo, rivide comparire suo padre e con lui una scatola uguale a quella di ieri. “Sarà una coincidenza” cercò di convincersi. Ma non vi riuscì, come sentì che non c’era il nome dell’emittente e il luogo da dove era stato spedito. “Non può essere quello di ieri”. Peccato che dentro vi era l’orologio a cucù.
- Oh, che idea carina che hanno avuto - cominciò a dire l’unica donna di casa - che dici Leo lo mettiamo qui l’orologio? -. Il bambino disse di si e lo stava anche per dire il marito quando - No! - urlò Simone - Buttiamolo via - venendo guardato da tutti i presenti per quell’atteggiamento abbastanza insolito. Lo capì pure lui e cercò di darsi una calmata. - Volevo dire che non sappiamo chi ce l’abbia mandato -.
- Suvvia tesoro! - sbuffò la madre - è solo un orologio, mica una bomba -. Detto questo, il padre lo rimise come aveva fatto il giorno avanti. La giornata, come si era aspettato Simone, fu uguale a quella di prima.
Verso sera, dopo essersi coricato sotto le coperte, sperò, addormentandosi, che quello fosse solo stato un brutto sogno. Ma non fu così e l’orologio rintoccò.
La mattinata seguente riaccadde tutto, come la giornata di prima. Il tredicenne iniziò ad aver paura e, una volta fattasi sera, andò zitto zitto in cucina dove con un coltello distrusse quel marchingegno diabolico. Ne diete tre, quattro coltellate: le molle saltavano in ogni parte di quella stanza.
Il ragazzo si sentì molto meglio, una volta creduto di aver fatto abbastanza. Andò a dormire, senza accorgendosi però di un debole rintocco.
Arrivò la mattinata seguente, Simone, felice, fece tutto in fretta, come se non vedesse l’ora di andare a scuola. In realtà voleva solo controllare se ci fosse ancora l’orologio distrutto: ma era sparito. Sperava che i suoi avessero tolto il cadavere prima del suo arrivo, quando un suono di campanello lo rattristò: era di nuovo il postino con il pacco e, questa volta, anche con una lettera per Simone.
Allontanatosi dagli altri, i quali, come nelle giornate di prima, fecero le stesse esclamazioni, domande e azioni, aprì la lettera. Non c’era l’emittente ma solo il suo nome per destinatario.
“Non ti azzardare più a distruggere l’orologio a cucu, Simone. Questo è il primo e ultimo avvertimento”. Il viso di lui divenne bianco per la paura. Fece vedere la lettera ai suoi ma nulla: gli dissero che probabilmente era uno scherzo perché lui non aveva mai distrutto quell’orologio.
Ad ogni modo l’avvertimento non venne trascurato. Il ragazzo, nei giorni seguenti, fece finta di nulla, come se in realtà fosse tutto nuovo per lui, mentre in realtà non lo era affatto.
Dopo due settimane, credeva, decise che quella non era vita: cominciò quindi a rompere quella routine, facendo tutto ciò che gli era proibito dai suoi genitori o dallo stato, come: rubare, uccidere, ecc….
Dopo tre mesi anche questa tattica iniziò a vacillare: volle morire per smettere di vivere così. Ogni giorno provava un nuovo modo per togliersi la vita, ma dopo si ritrovava sempre sdraiato sul suo letto con il sole della mattina in faccia.
Dopo un anno, credeva, arrivò allo stremo: fattasi sera, prese il coltello più grande che c’era in cucina, distrusse facendolo in tanti pezzettini l’orologio; dopo di che lo prese e lo mise dentro il forno, acceso, lasciandolo lì per tutta la notte.
Mise le dita incrociate, pregando Dio che domani fosse un nuovo giorno anche per lui. Peccato che forse in quel momento non lo stava ascoltando.
La giornata iniziò come le altre del giorno avanti. Tutto si ripeté come era ormai da un anno: l’intera famiglia scese per fare colazione; Il campanello suonò e il pacco fu portato dentro.
Tutto si stava ripetendo, sebbene questa volta nessuno in quella famiglia si ricordasse più chi fosse Simone Roccia, né che fosse nato, cosa che difatti non era mai avvenuta.
 
Chiedo scusa se mi sono fatto attendere ma mi sono ritrovato con molte cose da fare e difatti non ho neppure visto bene la storia. Perciò chiedo clemenza in fatto di errori grammaticali

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Capitolo 8
*** La Città dei Vegetali ***


Era passato un anno da quando la famiglia De Gigantis aveva comprato una pianta simile a una comune Stella di Natale che, da quel momento in poi, era passata di mano in mano, tanto che, alla fine, in quella città rimase un’unica famiglia a fare l’eccezione, i Verbaro: una famiglia piuttosto semplice la loro, composta solamente da due adulti e da un unico figlio di tredici anni, Andrea.
Un giorno ebbero la notizia di stare per ricevere un onorificenza dal sindaco in persona, fissata per la giornata seguente. I Verbaro rimasero colpiti da ciò, soprattutto perché non sapevano il motivo di tale onore. Lo stesso Andrea ci rimuginò sopra per un paio di minuti, prima di arrendersi e decidere di aspettare domani per scoprirlo.
Come programmato l’onorificenza si tenne il giorno seguente: c’era tutta la cittadinanza ad assistere l’evento. Il sindaco, dopo aver ammutolito i presenti con un severo gesto di mano, si avvicinò ai genitori di Andrea, porgendo a questi un scrigno di grosse dimensioni come dono. I due, curiosi, lo aprirono immediatamente, vedendo al suo interno una pianta, la famosa stella di natale. Capirono che quello era stato solo uno stratagemma per dargliela. Nonostante ciò, fecero finta di essere sorpresi, e soprattutto felici; dopo di che diedero i dovuti ringraziamenti al primo cittadino.
Ritornati a casa, i genitori presero la pianta e decisero di metterla sopra il caminetto, dove difatti si adattava perfettamente al colore rosso fenice del muro. Alla fine ognuno tornò ai propri interessi: Andrea salì in camera sua, dove accese la sua playstation 3 e si mise a giocare ininterrottamente per tutto il pomeriggio. O almeno così avrebbe fatto, se sua madre non fosse entrata, spegnendogli la console e costringendolo ad uscire un po’ per cambiare aria.
- Non avrei mai creduto di dovertelo ordinare! - disse a un certo punto la madre - un mese fa, stavi quasi tutta la giornata fuori casa mentre adesso continuamente dentro -.
- E cosa dovrei fare? Tutti i miei amici sono diventati strani: non fanno altro che andare in quel “Futuri” dove coltivano sempre e solo piante! - rispose lui, in sua difesa, non venendo, però, per nulla ascoltato dalla madre, la quale se ne era già andata via da lì.
Decise che era meglio non farla arrabbiare. Prese una giacca, tirò fuori la sua bicicletta dal garage e iniziò a pedalare per il suo viale: ma questo non gli sembrava più suo. Ogni persona era cambiata. Anche i suoi amici non fecero eccezione: uno dopo l’altro avevano cominciato, prima ad isolarsi da quelli ancora salvi, dopo, quando ne furono divenuti molti, ad andare ogni giorno al “Futuri”, un edificio che era rimasto abbandonato per parecchi anni.
“In cosa ci troveranno di divertente quelli nel piantare delle Stelle di Natale per tutto il giorno, non lo capirò mai?” pensò tra sé Andrea.
La giornata seguente, domenica per la precisione, il ragazzo volle riprovare ad unirsi in quella compagnia passata. Ma, una volta passato davanti al salotto, non vi trovò la pianta ricevuta dal sindaco. Guardò attentamente invano intorno: non aveva modo di sapere che in quel momento la pianta si trovasse di fianco ai cadaveri dei suoi vecchi genitori e di fianco ai corpi di quelli nuovi.
Arrivato al “Futuri”, si pentì della scelta fatta poc’anzi, ma questo non lo fermò ad entrarvi: c’era un enorme campo di Stelle di natale di cui ognuna aveva almeno tre o quattro ragazzi da farle da balia. Tutti, come dei robot, alzarono il volto contemporaneamente per vedere chi fosse, e, dopo aver capito che non era uno di loro, un ragazzo, il più vicino ad Andrea, gli si avvicinò ordinando di dover immediatamente uscire da lì.
Il ragazzo non capiva il perché di tale richiesta ma, non volendo fare casini, decise di ubbidire, inciampando sfortunatamente in una buca lì vicina. Cadendo a terra, piantò il suo sedere sopra una delle tante Stelle presenti. A quel punto ogni persona dentro il locale gli andò incontro, prendendolo e bloccandolo per le braccia.
Immobilizzato completamente, venne trascinato dentro una stanza priva di luce, venendovi infine rinchiuso. “Tutto questo solo per aver distrutto una pianta!!!???”. Fu allora che si sentì essere toccato alle gambe: si abbassò per capire cosa fosse. Gli pareva una sorta di corda, sebbene più spinosa e con qualche foglia.
Sentì una sorta di verso: proveniva alla sua sinistra, da dove sembrava provenire la stessa corda. Giratosi sentì un fruscio di foglie. “Curiosa la faccenda” si disse. Solo allora si ricordò di avere un accendino in tasca: lo prese e lo accese. Sarebbe stato meglio non farlo poiché davanti a sé c’era una stella di natale, che muoveva quella che gli pareva una radice, la stessa, credeva il ragazzo, che aveva prima toccato.
Ma quello non era la cosa più terrificante della pianta: difatti ciò, che per poco non lo fece svenire, era che questa possedesse due occhi, che lo stavano, per giunta, fissando. Il ragazzo, forse per paura, o per autodifesa, lanciò l’accendino contro la pianta, la quale prese subito fuoco.
I ragazzi di fuori, tuttavia, non rimasero a guardare l’intera scena e che una di loro andasse a fuoco: di conseguenza vi irruppero portandosi con loro dei secchi pieni d’acqua. Sembravano essersi dimenticati del prigioniero Andrea, che intanto ne approfittò per scappare da quel inferno.
Ma, mentre correva via, pensò che era meglio distruggere quelle dannate piante: riprese l’accendino, che fortunatamente era riuscito a recuperare, cominciando a mettere tutto a ferro e fuoco.
La scena attirò l’attenzione di quegli stessi ragazzi di prima, i quali con dei secchi buttavano acqua da per tutto, seppur invano. E mentre loro era impegnati nel salvataggio delle Stelle, Andrea correva sempre più velocemente verso l’uscita: ad un certo punto della corsa, cadde a terra. Pensò per via di un’altra buca, ma non era così: l’impedimento questa volta era stato una radice di una Stella. Il ragazzo cercò di svincolarsi ma altre Stelle cominciarono a legarlo.
E intanto l’edificio andava in fiamme. Nessuno si salvò: la notizia venne riportata in tutti i giornali della regione.
- Chi avrebbe mai pensato che un ragazzo come quello potesse quasi mandarci in fumo il nostro piano - disse il signore De Gigantis.
- Per fortuna che abbiamo altre otto coltivazioni in città, di cui tre pronte per l’esportazione - rispose la clona della signora Verbaro.
- Eccellente. Davvero eccellente -.
 
Scusate se ieri non ho messo niente come storia, ma la scuola è un vero e proprio problema! Recensite, mi raccomando!

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Capitolo 9
*** Il Ragazzo dentro lo Specchio ***


Erano passati più di dieci anni dalla scomparsa dei signori Fenice. È vero che nessuno li avesse più visti dall’ora, ma molti con il passare del tempo cominciarono comunque a mettere in dubbio le storie che si dicevano al riguardo. Tanto che alla fine la casa venne nuovamente messa in vendita e, come accadde quella volta, una coppia la comprò subito.
Sebbene lì non ci avesse più abitato nessuno, la casa era sempre in perfette condizioni, avente solo uno strato di polvere da per tutto ma per quello bastava semplicemente rimboccarsi le maniche con le pulizie. Inoltre, a differenza dei vecchi scomparsi padroni, gli acquirenti avevano già un figlio di nome Nicola, un bambino autistico di soli sette anni.
- è praticamente perfetta, tesoro! - disse Alessandra, la quale venne risposta con un accenno di testa dal marito, anch’egli contento per l’acquisto fatto. loro figlio correva già al piano di sopra verso la sua nuova grande camera da letto. Alla fine i genitori finirono le ultime formalità per potersi in seguito godere la loro nuova casa.
La cucina era molto grande, a tal punto da poter ospitare un intero squadrone di chef al lavoro. Era inoltre molto fornita per qualsiasi cibo potesse mai venirle in mente con attrezzi di cui alcuni neppure fosse a conoscenza.
Il salone anch’esso era gigantesco, nonostante ci fossero già due divani, una televisione, tre piante e vari mobili aventi piatti di porcellana e altre diavolerie. Aveva inoltre il parquet come pavimento, seppur anch’esso ricoperto con uno strato di polvere alto un metro.
Fatto il tour al piano di sotto, decisero i due che era giunto il momento di salire su a vedere le camere da letto: come avevano detto i parenti dei Fenice, nella loro stanza vi trovarono uno specchio enorme, per cui, secondo le storie, scomparirono misteriosamente i due ex proprietari. Ma non avevano mai detto qualcosa riguardo uno specchio presente anche nella stanza del figlio, uguale a quell’altro.
Per esortazione del marito Luigi proposero di liberarsene la giornata seguente, dopo aver pulito un po’.
Come programmato chiamarono delle persone affinché togliessero quei due specchi tanto temuti da tutti. Peccato che come Alessandra ne parlò, questi chiusero subito la cornetta, quasi terrorizzati e sorpresi di un secondo nella camera di suo figlio. Preferì non rimuginarsi troppo: si sarebbe fatta aiutare dal marito e, insieme, li avrebbero tolti entrambi. Semplice.
Stava per andare in cucina per preparare qualcosa di buono, quando vide Nicola disegnare delle figure su un foglio: c’erano due bambini che giocavano insieme, uno con i capelli biondi e l’altro bruni. Non ci volle un genio per capire che quest’ultimo fosse proprio suo figlio, ma chi era il suo compagno?
- Bel disegno, amore mio. Ma chi sarebbe quel bambino affianco a te? - chiese la madre, nascondendo quella curiosità pressante in lei.
- è il mio nuovo amico. Si chiama Luca -.
- Luca, eh? -. La madre, credendo che quello fosse solo un nuovo amico immaginario di suo figlio, uscì senza perdere neppure un secondo. Così facendo non poté, però, né sentire Nicola dire - L’ho incontrato ieri nello specchio -, né vedere appunto un ragazzo, verso gli undici anni, apparire proprio lì, sorridendo e accolto dal suo nuovo amico di giochi.
Durante la cena, i tre parlarono fra loro su ciò che avrebbero fatto il giorno dopo: per lo più pulire ancora la casa, e fare un giro per la città e per la scuola dove sarebbe andato il figlioletto. Dopo di che andarono tutti a dormire.
Messasi nel letto, Alessandra si ricordò di alcune storie sentite in città e decise di verificarle: la luce della lampadina sopra il comodino era accesa e lo stesso valeva per l’immagine nello specchio. “L’avevamo detto noi che le storie raccontate qui erano tutte fandonie”. La spense e si addormentò, senza accorgersi però che quella riflessa era rimasta comunque accesa.
La giornata seguente fecero tutto ciò che avevano programmato prima e, una volta fatte, ritornarono a casa. Il bambino, come vi entrò, corse subito in camere sua, chiudendo la porta: i genitori non ci badarono più di tanto, essendo impegnati con le loro faccende.
Chiusa la porta, il bambino guardò verso lo specchio della sua camera dove apparì di nuovo quel ragazzo biondo conosciuto ieri. - Pensavo che non saresti ritornato - disse Nicola.
Il ragazzo sorrise: sembrava adorare quella ingenuità. Prese un pennarello nero cominciando a scrivere: infatti ieri aveva quest’ultimo provato inutilmente a parlare con il settenne ma non era come muto; di conseguenza scrivere era stato l’unico modo per poter comunicare.
Il bambino fece un po’ di fatica a capire ma era sicuro che ci fosse scritto qualcosa come “Vorresti venire a giocare con me questa volta?”. Nicola sembrava restio a dire di sì: sua madre gli aveva insegnato a stare sempre attento con gli sconosciuti, seppur ragazzi o bambini come lui.
Stava per dire - Aspetta. Chiedo prima a mia madre - quando il biondo cominciò di nuovo a scrivere qualcosa tipo “Verranno anche i tuoi dopo”. Il bambino fu convinto e fece un sì con la testa.
Il biondo gli fece il gesto di mettersi davanti allo specchio. Fu subito fatto. Dietro al ragazzo cominciò a comparire un’ombra che si avvicinò sempre di più. Nicola provò paura, prima di venir rassicurato dal suo amico.
Erano passate cinque ore da quando Nicola si era chiuso in camera sua; la madre, insospettita, salì le scale e bussò alla porta: nessuna risposta. Lo chiamò quindi per nome: nulla. Lo intimò ad aprirle: di nuovo nulla.
Spaventata, urlò subito al marito di venire da lei e, una volta arrivato, questo non perse tempo a buttare la porta a terra, non trovandovi dentro però nessuno. Guardarono meglio, pensando giustamente che non era possibile che loro figlio scomparisse così, senza lasciare una minima traccia. La madre ebbe come un colpo, quando osservando lo specchio, lo vide assieme a quel ragazzo del disegno. A contrario Nicola li salutò felice, prima di indicare a loro dietro dove difatti era ricomparsa l’ombra di prima.
Da allora nessuno vide più quella famiglia: il terrore di quella maledizione accrebbe per la città, a tal punto che si decise questa volta di demolirla una volta per tutte. La richiesta arrivò al sindaco che, sebbene non ci credesse, accordò la faccenda, essendo in tempo di elezioni.
E così, il giorno dopo, fu fatto ciò, mandando in frantumi quegli specchi da dove era possibile vedere le due famiglie vivere insieme con i loro due figlioli.

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Capitolo 10
*** La Sopravvissuta della Strage ***


In una città presso Bolzano, in una notte d’agosto, si udì per le strade l’urlo di vari ragazzi. Tutti vi accorsero per vedere cosa fosse successo, trovandovi semplicemente un campo di cadaveri mutilati e dissanguati. Solo una ragazza, impaurita e accovacciata al muro, era apparentemente riuscita a scampare al massacro. Stava piangendo a dirotto e non si faceva toccare da nessuno intento ad aiutarla, come se fossero proprio loro gli assassini.
Uno, uno psichiatra per la precisione, affermò senz’ombra di dubbio che la ragazza fosse ancora sotto shock. E chi mai non si sarebbe trovato in quelle condizioni se avesse visto una strage davanti ai suoi occhi?
Ad ogni modo, la gente, raggruppatasi lì, riuscì alla fine a tranquillizzarla e a condurla in un ospedale, dove, pochi minuti dopo, arrivò anche la polizia con l’intento di interrogarla, sebbene alcuni fossero contrari. Sfortunatamente la ragazza, probabilmente per via dello shock, non riusciva a ricordare la faccia dell’assassino ma solamente di vedere sangue schizzarle tra le mani.
Non ottenuto nulla di concreto e temendo inoltre che l’omicida sarebbe potuto ritornare per mettere tutto a tacere, a due carabinieri fu ordinato di rimanere e tener d’occhio la situazione; dopo di che il sovrintendente assieme a tutti gli altri suoi colleghi fece uscire la calcagna dalla stanza, lasciando soli quei tre.
Durante quella stessa notte, un uomo inviato da Roma vi si aggirò per le strade con dei coltelli in mano.
La giornata seguente la notizia di quella ragazza, che adesso era chiamata da tutti “la sopravvissuta”, si sparse per la città. Si cercò di trovare il colpevole, ma senza alcun tipo di successo: sembrava come se fosse sparito nel nulla. Neppure l’arma del delitto venne trovata.
La ragazza, la quale si chiamava Nicole, venne intanto accompagnata dallo stesso psichiatra della giornata avanti, che, avendo visto anche lui la scena, poteva avere più probabilità di scoprire qualcosa a riguardo. Vi passarono intere ore ma ad ogni domanda Nicole non seppe dar risposta, se non con un “non lo so”, “non me lo ricordo”, “no”.
Ad un certo punto lo psichiatra volle tentare con un’altra tattica: l’ipnosi. Infatti, sebbene la ragazza non si ricordasse nulla per via dello shock subito, le informazioni e i ricordi di quella serata erano pur sempre nel suo cervello. Bastava solo riportarle alla luce.
Nicole non si rifiutò di venir sottoposta al nuovo trattamento ma, con stupore dei presenti, anche questa mossa fallì, visto che non faceva altro che versi e muoversi come una pazza, graffiando qualcosa del passato.
Si fecero le cinque del pomeriggio, e loro erano in quello studio bensì dalle otto di mattina. Di conseguenza stavano tutti per cadere a terra per la stanchezza comune, persino lo stesso sovrintendente che era conosciuto dai cittadini proprio per la sua ostinatezza nel cercare i criminali.
Si propose che per oggi poteva pure bastare e che Nicole avrebbe continuato domani: la proposta prese potere e nessuno obiettò, tanto che in meno di un minuto era già fuori. Anche lo stesso misterioso personaggio col coltello, che si era messo ad osservare l’intera visita della ragazza, se ne andò per la sua strada.
Passarono giorni, poi settimane, e infine mesi da quel accaduto, non venendo però mai a sapere fondamentalmente nulla, che alla fine dei conti era stato pure dimenticato dalla cittadinanza mentre messo tra i casi irrisolti dalla polizia.
Inutile dire che anche Nicole, nonostante tutto, superò quel tragico fatto, rifacendosi una nuova vita con i suoi genitori addottivi, poiché quelli naturali non vennero mai a prenderla. E per la precisione divenne molto popolare.
Solo uno non si era dimenticato della strage e aveva continuato a pedinare la ragazza con un coltello nel soprabito.
Arrivò una sera, che Nicole si ritrovò ancora fuori con alcune sue amiche. Era la prima volta, da quel che ricordava, di trovarsi ancora alzata nel bel mezzo della notte. Nel cielo c’era una bella luna piena, argentea.
La ragazza, attirata da tanta bellezza, vi diede un’occhiata ma sentendosi subito strana: cominciava a sentire freddo, ad avvertire un dolore ai denti e a percepire l’odore del sangue caldo nelle sue amiche. E infine una tremenda sete, che sapeva di poterla placare solo in modo: proprio con il sangue.
Le sue amiche intanto non si accorsero nulla di quello che era capitato a Nicole, la quale si avvicinava sempre di più zitta zitta. Era sul punto di mordere la prima vittima, quando un coltello volò all’improvviso, centrandole la sua mano.
Le ragazze urlarono per la paura, dovuta per quel apparizione improvvisa sia dell’arma che di un uomo, il pedinatore.
- Avevo ricevuto ordini di tenerti d’occhio. Come al solito hanno visto giusto i miei superiori, Nicole. O ti devo chiamare vampira? -.
Nella mente della ragazza riaffiorarono frammenti di memoria che erano spariti dal giorno in cui l’avevano trovata tutti in quella strage: si ricordò del vampiro che l’aveva morsa quella sera stessa, la sensazione nel aver ucciso per la prima i suoi amici per bere il loro sangue e infine di essersi rannicchiata al muro del tutto “ubriaca”, avendo bevuto troppo. Pensò che probabilmente per via di quest’ultima che si era dimenticata tutto.
- Non mi scapperai, mostra - disse intanto quell’uomo che corse subito all’attacco. Nicole, vista la situazione, si preparò a combattere, mostrando i denti e gli artigli che le erano cresciuti.
Lo scontro non durò molto: le amiche della vampira erano rimaste semplicemente a guardare incredule quello spettacolo impossibile e irreale. Tutto, dopo un quarto d’ora, ebbe fine.
Le ragazze tremanti chiamarono Nicole, la quale bensì rispose, ma con la bocca macchiata di sangue. Queste urlarono nuovamente, sebbene non servì a molto.
La gente accorse nel luogo da dove credevano di aver sentito il rumore, trovandovi una tremante Nicole in una pozzanghera di sangue e ferita ad una mano. Le persone non capivano come si potesse essere ferita, fino a quando non vi trovarono quell’emissario di Roma, che però scambiarono per il criminale di questo e dell’altro massacro.
La polizia vi arrivò subito dopo, portandola, come aveva fatto qualche mese fa, in ospedale come Nicole aveva sperato e programmato.  
 
Scusatemi sia per l’orario in cui la pubblico e sia per gli eventuali errori. Mi raccomando, recensite!

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Capitolo 11
*** L'ombra della Nebbia ***


In una città presso Milano, una ragazza stava camminando con alcune delle sue amiche in una strada poco frequentata. Era tardi, tutti si stavano ritirando nelle loro case, eccetto loro, così che divennero in pochi minuti le uniche ancora sveglie della città. Perché avrebbero dovuto smettere di divertirsi?
Inutile dire che erano ubriache e che riuscivano appena a reggersi, problema accentuato dai tacchi. Tuttavia in un modo o nel altro riuscirono a camminare, arrivando in una piccola piazzetta. Si sedettero sulla prima panchina che trovarono lì e si misero a scherzare fra loro, quando ad un certo punto iniziò a crearsi un po’ di nebbia, che con il passare dei secondi si infittiva sempre di più, fino a fare vedere ben poco di tutto.
Sentirono un rumore di passi: qualcuno stava correndo. Ci fu una caduta e infine delle urla che cessarono quasi nello stesso secondo in cui si iniziò a sentirle. Le ragazze, in parte ubriache, in parte curiose, vollero andare a vedere cosa fosse successo, dirigendosi verso il punto in cui credevano di aver sentito quelle urla.
Fecero qualche passo in avanti, quando videro delle gocce di sangue a terra: lo ignorarono. Andarono ancora più avanti, trovando il corpo di un adolescente disteso a terra, mutilato al torace. Una delle ragazze, di nome Iris, urlò, un’altra, di nome Maria, prese il cellulare chiamando la polizia e l’ultima rimasta, di nome Serena, osservò con attenzione il corpo, poi nei dintorni, vedendo, alla fine, davanti a lei l’ombra di qualcuno che non riuscì proprio a vederlo nitidamente per via della nebbia.
Sembrava come se li stesse anche lui osservando. Tale sensazione svanì, come sentirono il suono delle sirene di polizia. Assieme a quella sensazione sparì anche l’ombra. Le ragazze furono trattenute interi minuti per l’interrogatorio, raccontando tutto ciò che avevano visto, compreso l’ombra. Tuttavia nessuno credé a quest’ultima parte.
La giornata seguente la notizia si sparse per la piccola città: chi diceva che l’assassino avrebbe ucciso ancora; chi invece era stato solo un branco di cani, chi invece pensava fosse Satana. Ma nessuno diceva che era stata un’ombra.
La serata arrivò con la stessa velocità con cui era arrivata la giornata. Le ragazze preferirono questa volta non uscire ma non per questo divertirsi: decisero di stare a casa di Serena.
Iris era quella che abitava più lontano e anche l’unica che non avesse ancora la macchina né qualcuno che la potesse accompagnare. Ed era tardi fuori.
Questa si mise a camminare con un passo alquanto accelerato per restare il meno possibile fuori e arrivare prima a casa della sua amica. Aveva paura di stare da sola lì.
All’improvviso cominciò a uscire un po’ di nebbia e la povera Iris si ritrovò dentro: la strada iniziò a sparirle, come il resto di ogni cosa, eccetto un’ombra che comparì dietro di lei.
La ragazza si voltò e la vide. Pensò di chiedere aiuto ma l’idea venne bocciata come vide una sorta di coltello nella figura di quella ombra. Iniziò dunque a correre.
Cercava come poteva di orientarsi ma le risultava difficile, e intanto il pericolo le si avvicinava sempre di più. Correva e correva ma nulla: l’uomo la stava raggiungendo. O per meglio dire era lei a raggiungerlo: infatti se lo ritrovò improvvisamente davanti, a bloccarle la strada. Si girò indietro ma se la ritrovò di nuovo davanti.
“Sono due!” pensò Iris, ma, non appena si guardò dietro nell’intento di vedere cosa stesse facendo l’altro, capì che si sbagliava perché non c’era nulla. Intanto quella davanti cominciò ad avvicinarsi.
La ragazza indietreggiò, chiedendo pietà. Nessuna risposta, e adesso che ci pensava non sentiva neppure rumore di passi. L’ombra le si avvicinò sempre di più e un urlo per quelle strade si levò al cielo.
Maria era appena uscita di casa e, a differenza della sua amica, con una bella macchina tutta per lei.
Stava guidando per una via del tutto deserta, quando vide crearsi un po’ di nebbia che, alla fine, la costrinse a rallentare di un bel po’. Ma non per questo la velocità era sotto i venti chilometri all’ora.
Nonostante tutto la nebbia si stava rivelando l’unico intoppo della serata. La ragazza prese il suo cellulare per avvisare la sua amica che sarebbe arrivata in ritardo, quando per la strada comparì un ombra. La ragazza svoltò con una rapida manovra andando a sbattere con un edificio.
Il davanti della macchina fu completamente distrutta. Ma almeno Maria ne uscì solo con qualche ferita alla sua bella faccia, ricolma di rabbia intenta a sfogarla sull’imbecille che aveva, per un soffio, evitato di prenderlo. Ma non dovette andarlo a cercare perché l’ombra di quella dannata persona era ancora lì, in mezzo alla strada.
La ragazza uscì dalla portiera e si avviò verso la colpa di quell’incidente ma, una volta avvicinatosi abbastanza, non vi trovò nessuno se non un’ombra nella nebbia, che all’improvviso alzò il coltello che aveva in mano. Un urlo si sentì dopo, niente più.
Serena intanto stava aspettando le sue due amiche. Aveva da poco ricevuto il messaggio di Maria riguardo che avrebbe fatto un po’ di ritardo. Peccato che erano passate almeno due ore.
Decise di andarle a cercare, dopo aver invano tentato di contattarle entrambe. A quel punto però suonò il campanello: erano loro finalmente. Andò ad aprire non trovandoci nessuno ma solo qualcosa a terra, che per via di una nebbia appena fattasi, non riusciva proprio a capire cosa fossero di preciso.
Si abbassò a raccoglierle urlando e cadendo a terra per il disgusto: era le teste di Maria e di Iris. Si guardò attorno scorgendo solo allora che, dall’altra parte della strada, c’era quell’ombra del giorno avanti, la quale sembrò come inchinarsi, per poi dileguarsi.
La ragazza cercò di alzarsi, chiamare la polizia, ma alla fine svenne, come vide scritto sulla strada con delle sangue - tu, un giorno, sarai la prossima e io, nascosto nella nebbia, aspetterò quel giorno -.
 
Spero che vi piaccia questa storia! Se si allora recensite, vi raccomando. Alla prossima!

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Capitolo 12
*** I Testimoni del Portatore di Luce ***


In una città presso Torino, cominciarono a sparire delle persone in intervalli di pochi giorni. Prima si era pensato a qualche caso isolato, ma poi con la scomparsa di ben 13 ragazze, tutte della stessa scuola, portò a presupporre a qualche complotto o roba del genere. Inutile dire che la colpa venne attribuita agli stranieri giunti da poco in città: ma dopo una attenta perquisizione, non si trovò neppure una macchia su quella brava gente. Il caso rimase dunque irrisolto.
Mentre serpeggiava per la città questa atmosfera di paura, una ragazza di nome Eliana si era da poco trasferita da alcuni suoi zii, mentre i suoi genitori risolvevano una questione chiamata “divorzio”: difatti il problema stava a chi si sarebbe presa la casa, che costava un patrimonio e che di conseguenza nessuno dei due voleva cedere all’altro.
Naturalmente non essendo di lì ma di Aosta, dovette anche cambiare la scuola. Le sembrò come se qualcuno l’avesse appena uccisa: il pensiero che più le dava fastidio era infatti essere la nuova per tutti. Anzi, era di ritrovarsi in una sorta di zoo: bulli, astucci o roba del genere lanciati da ogni direzione, foto, filmini, dormiglioni e così via.
Neppure i professori erano un granché: quello di latino avrebbe fatto dormire persino il caffè in persona; quello di matematica per spiegare una cosa semplice come 2+2=4, te la rendeva complicato quanto un equazione; ecc…
La sua prima giornata non era stata dunque per niente facile, anzi se avesse potuto, si sarebbe suicidata senza pensarci due volte. L’unico lato positivo poteva forse essere un ragazzo, che sin dalla prima ora, l’aveva salutata e osservata con i suoi occhi azzurri, e che aveva provato ad attaccarle parola durante la ricreazione, senza riuscirvi molto nell’impresa.
La giornata seguente, circolò per la scuola la notizia di un’altra scomparsa: molte ragazze raccontavano inoltre che il sindaco aveva mobilitato tutta la polizia e chiesto degli aiuti anche dalla regione. Inutile anche a dire che tra le ragazze incombeva la paura di poter essere la prossima della lista.
Eliana, non sapendo molto della situazione in città, cercava di capirne qualcosa, venendo però ogni volta isolata, come se un’appestata: sapeva però che il motivo era semplicemente di essere la nuova.
- Non ti diranno mai niente di niente, Eliana - disse all’improvviso uno dietro. La ragazza si girò per guardare, trovandosi davanti il ragazzo del giorno avanti; gli stava per chiedere come facesse a sapere il suo nome, quando si ricordò che si trovavano entrambi nella stessa classe e che quindi l’aveva semplicemente sentito durante l’appello. Ma anche se non fosse stato così, non ci voleva uno sforzo titanico per scoprire come si chiama uno.
- Lo so, ma odio essere all’oscuro di qualcosa, soprattutto se potrebbe aver a che fare con me - sbottò quella, in risposta della affermazione di “capitan Ovvio”. Ma in cuor suo si sentiva un po’ più felice di avere qualcuno con cui parlare, escludendo i suoi zii.
- Se vuoi, te lo dirò io - propose lui - ma solo se accetti di fare quattro passi con me - rivelando così le sue vere intenzioni. “Furbo il ragazzo” pensò in quel momento Eliana la quale accettò, troppo incuriosita per poter rifiutare un offerta simile.
La passeggiata non fu proprio tremenda: il ragazzo, oltre a raccontarle i fatti della città, riusciva a farla divertire con le sue battute o figuracce pubbliche, in cui avrebbe preferito non trovarsi vicino a lui per l’imbarazzo. Sembravano a tutti una coppia di fidanzati. E così divenne la settimana dopo: Eliana credé che fosse stata una fortuna, in fin dei conti, il divorzio dei suoi, avendo così potuto incontrare Luigi.
Un giorno, mentre guardavano un film a cinema, il fidanzato le chiese se voleva vedere il suo rifugio da tutto e da tutti. La ragazza titubò un po’, indecisa se era opportuno andare da qualche parte a quell’ora del giorno: infatti dal momento in cui si erano incontrati, le sparizioni non si erano bloccate. Ma non era da sola; avrebbe avuto un ragazzo a fianco. - Andiamo - disse.
Ci misero più di qualche ora per arrivare in quel rifugio e per farlo dovettero prendere la macchina del padre di Luigi. Eliana, in parte, fu presa dalla curiosità di vedere la casa del suo fidanzato e soprattutto di conoscere i suoi genitori, ma si stava facendo tardi e non c’era tempo da perdere.
Arrivati al posto designato, i due si ritrovarono in un posto di aperta campagna, da dove emergeva l’entrata di una grotta. Luigi le fece coraggio ed entrambi vi entrarono: la ragazza più andava avanti, più cominciava a sentire degli strani suoni, ritrovandosi dopo un cinque minuti di scendere, delle persone in tuniche nere che adoravano un uomo al centro. Sembrava un dottore, sebbene questo avesse un camice color nero e non bianco.
- Finalmente sei arrivato servo Luigi - disse l’uomo al centro. Eliana non ci capiva più nulla: quello che aveva davanti era un rito satanico? La risposta pensò essere sì, come sentì, sempre dal dottore, che era il suo turno di sacrificare una ragazza al Portatore di Luce. In latino Lucifero.
La ragazza si girò di scatto verso l’uscita, venendo però bloccata dal suo fidanzato, o forse meglio dire ex fidanzato? Ad ogni modo anche gli altri andarono ad aiutarlo, riuscendo a portarla sull’altare in mezzo.
Il dottore di prima le si avvicinò e la odorò, come estasiato dal profumo di lei. - Avete, come sempre, rispettato i patti: domani vivrete ancora - disse in tono solenne, facendo esultare tutti dalla gioia, compreso Luigi.
- Perché? Perché?! PERCHE’ LUIGI?! - chiese la ragazza immersa nelle sue lacrime.
Il dottore le si avvicinò assieme all’amato. Ma fu il primo a prendere la parola - Il tuo amato Luigi ha fatto un patto con me trecento anni fa, per poter vivere in eterno e semplicemente oggi era il suo turno nel dover portare un sacrificio -.
- Niente di personale Eliana - disse alla fine quello, infilzandola con un pugnale. Eliana in quel attimo aveva capito solamente che si era proprio sbagliata: il divorzio dei suoi non era stata una fortuna.

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Capitolo 13
*** La Bambola Sorry I-Pars ***


Sbuffò, - E io che pensavo che almeno quel ragazzo, a cui ho dato la scatola, avrebbe vinto -, per poi andarsene verso il suo amato negozio.
Il giorno seguente, si sparse per la città la voce di quella tragedia, della morte di tutti i ragazzi presenti, ad eccezione di una, Angela, la quale era sfortunatamente impazzita, avendo detto che erano morti per via di un gioco, che effettivamente venne rinvenuto lì, ma che, una volta aver fatto una prova, non accadde nulla di anormale. Venne quindi mandata nel reparto psichiatrico sotto stretta vigilanza della polizia.
Nella loro scuola non si parlò d’altro: alcuni pensavano che fosse stata proprio Angela ad ucciderli tutti; altri che facessero parte di qualche club satanico e si fossero suicidati per via di un loro rito. Solo pochissimi invece cercavano una spiegazione che non macchiasse l’onore di quei poveri ragazzi, di cui alcuni anche loro amici.
Tra quest’ultimi vi era difatti un’amica della superstite, Claudia, la quale la riteneva innocente. Decise dunque di informarsi su ogni fatto accadutole dal momento in cui l’aveva lasciata per tornare a casa propria.
Girò per la città. Scoprì che l’amica era tornata a casa dove in quel momento, secondo la testimonianza di Angela, stavano tutti giocando a un gioco del negozio “Stige”. “Un gioco di quel negozio” si ripeté sbalordita quella tra sé e il motivo è piuttosto semplice da capire: tutti sapevano quanto fosse pericolo e cosa avesse fatto nel ’48.
Si fece sera e si promise di continuare le ricerche il giorno dopo.
Era domenica: di solito quel giorno lo spendeva andando in giro con Angela, ma ormai ciò era divenuto una cosa del passato. Lei era sola mentre la sua amica era in una reparto psichiatrico sotto vigilanza della polizia. L’unico modo per farla uscire da lì era provare la sua innocenza. Ma come?
Sperava di scoprire l’assassino (neppure lei credeva tanto alla storia del gioco omicida). Si diresse quindi verso il negozio temuto, arrivandoci in poco tempo. Si avvicinò alla porta e si fece coraggio.
Entrò chiedendo con un tono flebile - c’è qualcuno? -. Nessuna risposta: richiese. Niente di nuovo.
Si risolvette di riprovare in un secondo momento, sperando di trovarlo, quando, girandosi in direzione della porta, si ritrovò dinanzi la figura di un uomo, ovvero del proprietario. - Cosa vuoi? - chiese, come seccato nel avere una possibile cliente, non venendo però risposto. - Allora! Cosa vuoi? - domandò nuovamente con tono più duro.
Claudia cercò di riprendersi: non aveva mai visto quell’uomo per la città. Gli raccontò ciò che era accaduto, della sua amica e infine il motivo che l’aveva spinta a venir lì. Inutile dire che il proprietario la ascoltò, questo era vero, ma senza seguire neppure una parola. Difatti, dopo che la ragazza finì di parlare, non perse neppure un secondo per dire - Se non vuoi comprare nulla, puoi anche andartene -.
La ragazza rimase un po’ stupita dal menefreghismo di quell’uomo: che avesse un cuore di ghiaccio? Su questo non ci pioveva. Ma aveva bisogno di quelle informazioni per scoprire cosa fosse realmente successo quella serata; peccato che non la volesse aiutare volontariamente: allora lo avrebbe fatto senza volerlo.
- Si vorrei quella bambola con il nome Sorry -. Disse indicandogliela. Gliela prese, disse il prezzo, si fece pagare e si fece dare, come era successo a quei ragazzi, una firma su una liberatoria. Dopo di che la costrinse ad uscire, chiudendo, come la ragazza lo fece, il negozio.
Avuto le informazioni che voleva, o per meglio dire il mezzo per ottenerle, si diresse verso casa. Il suo piano era semplice: aveva pensato a una strana coincidenza che c’era tra il caso del ’48 e quello attuale, ovvero che le vittime avevano sempre comprato un articolo da quel negozio nella sera in cui era morti. Pensava che almeno così avrebbe potuto scoprire la verità e, con un po’ di fortuna, uscirne viva per raccontarlo alla polizia e aiutare la sua amica.
Arrivò a destinazione. La stavano tutti aspettando, compresa sua sorella Sara, la quale era appena ritornata dall’università di Bologna per via del compleanno di loro madre. La sorpresa tuttavia fu anche per gli altri. Claudia, che aveva ancora la bambola in mano, la buttò sul divano senza accorgersi di averlo fatto. Si sedette in tavola e cominciò a parlare con Sara.
Finita la cena ognuno si diresse nelle proprie stanze e andò a dormire. Credo sia futile dire che le sorelle avessero la stessa camera da letto.
Una volta arrivate lì, la sorella maggiore cominciò a parlarle - Non volevo dirlo davanti ai nostri genitori, ma mi dispiace per quello che è successo alla tua amica, Claudia. Se c’è qualcosa che posso fare… - non concludendo tuttavia la frase.
- L’hai già fatto venendo qui - si diresse verso il proprio letto – ma adesso che me lo dici, una cosa ci sarebbe -.
- E sarebbe? - chiese incuriosita la sorella.
- Spegni tu la luce al posto mio -. Rispose per poi coricarsi sotto le coperte ridendo e pian piano addormentandosi. Lo stesso fece pure Sara sbuffando come per dire “ma quando crescerai?”.
Intanto sotto, al piano inferiore, una bambola si era appena risvegliata da un lungo sonno. Si alzò dirigendosi in cucina dove poi prese il primo coltello che riuscì a trovare.
Fatto ciò, fece un piccolo sorriso e, dirigendosi verso il piano di sopra disse ridacchiando - Sto venendo a giocare con voi -.
 
Sembra una sorta di maledizione non riuscire a mettere le mie storie in un unico capitolo XD. Ma un altro po’ di suspense vi terrà buoni fino a domani. Inoltre chiedo sempre clemenza per gli errori grammaticali ma mi trovo in una situazione piena di compiti in classe. Vi saluto con una piccola domanda per voi “Cosa succederà adesso?”

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Capitolo 14
*** La Bambola Sorry II-Pars ***


Si sentì un rumore per il corridoio che svegliò la povera Claudia. - Hai sentito anche tu un rumore, Sara? - chiese questa turbata. Ma il russare di quella le diede la risposta. - Ho capito - disse alla fine la nostra protagonista.
Decise di andare a fare una controllata: si alzò, sebbene il corpo le stesse ordinando di tornare a letto, e aprì la porta trovandosi davanti la bambola che aveva comprato allo “Stige” avente un coltello affianco, sporco di sangue. Inutile dire che il primo pensiero della ragazza fu come diavolo avesse fatto a trovarsi lì, essendosi ricordata di averla lasciata sotto. Riguardo al coltello non si spaventò più di tanto, perché per cena sua madre aveva cucinato bistecche e quindi il sangue doveva provenire lì.
Prese la bambola, e la mise sul comodino vicino al suo letto, dopo di che si avviò in cucina per mettere a posto quello aggeggio, che, se lasciato nel corridoio, poteva fare male a qualcuno. Una volta fatto ciò, ritornò sotto le sue coperte calde.
Probabilmente se avesse acceso la luce anziché camminare nel buio si sarebbe accorta della scia di sangue provenire invece in bagno, dove difatti sua madre aveva avuto un piccolo incontro con Sorry prima.
Erano le due di mattina, tutti, eccetto la prima vittima, stavano dormendo tranquilli, ignari del pericolo imminente. Intanto la bambola tornò come nuovamente in vita. Sorrise maliziosamente, non essendo stata scoperta.
Si alzò, cercando un qualsiasi cosa che le potesse fare da arma: trovò solo una forbice sulla scrivania di Claudia. Presa, si diresse verso il letto più vicino, quello di Sara. Si arrampicò per le coperte e, arrivatavi, si diresse verso la gola della moritura.
Camminando però, rese sempre più forte l’odore di sangue, che era schizzato, sporcandola, con la mutilazione in bagno, a tal punto che, una volta arrivata vicina al collo e pronta per tagliarlo, la ragazza si svegliò, scorgendo subito la bambola in procinto ad ucciderla. Urlò, cercando di reagire, ma era troppo tardi per potersi salvare, sebbene così riuscì a svegliare la sorella.
Questa stava ancora un po’ assonnata, quando vide Sara senza vita con il collo tagliato. La bambola era sparita però. Claudia urlò indietreggiando verso la parete.
Per via dell’urlo, venne svegliato questa volta il padre, che immediatamente si alzò, da solo, dirigendosi verso sua figlia. Lungo il percorso vi trovò però, una bambola con delle forbici a fianco, impregnate di sangue: lo sfortunato si abbassò abbastanza per permettere alla bambola di tagliargli, come aveva fatto alla figlia, la gola.
Con il sangue che usciva, si accasciò lentamente a terra, mentre la bambola si alzò sghignazzando felice e diretta verso la stanza di Claudia, la quale intanto era corsa fuori nel corridoio.
Questa vide l’orripilante scena: il padre morto e la bambola viva con in mano le sue forbici della scuola, adesso l’arma di quei delitti. E la colpa era sola sua, avendo portato lei la morte in casa.
Corse dentro la prima stanza che trovò (il bagno), come vide la bambola correrle contro. Ma una volta entrata, vide l’altro spettacolo con la madre e, urlando come una matta, aprì improvvisamente la porta, gettando la bambola via a causa dell’urto e correndo al piano di sotto.
Lì prese il telefono e digitò il 118, venendo in pochi secondi risposta da un utente. Ebbe solo il tempo di dire il suo indirizzo, prima di vedere di nuovo la bambola scendere anche lei. Claudia dunque si staccò dall’apparecchio e corse in cucina, dove prese il coltello di prima, sapendo solo adesso il motivo per cui l’aveva trovato sopra.
Chiuse la porta, sentendosi al sicuro. Si accovacciò nell’angolo più lontano e si mise a piangere con la testa tra le ginocchia. La finestra della cucina era aperta. E anche quella del salone dove vi era Sorry era aperta.
Mentre stava ancora piangendo, la luce si spense. La ragazza, per timore di stare all’oscuro con una bambola assassina nella stanza affianco, si alzò cercando a tastoni l’interruttore.
Come la accese, si ritrovò la bambola davanti, la quale non perse neppure uno di quei secondi per aggredirla, facendola cadere all’indietro. La ragazza urlò, allontanandosela poi con un poderoso calcio, e corse subito a prendere il coltello caduto gliela in quella azione.
Aveva la mano che le sanguinava copiosamente ma cercava di ignorare il dolore, riuscendoci in parte grazie a tutta quella adrenalina che le circolava in corpo. Preso nuovamente un arma tra le mani, corse verso il salone, inseguita dalla bambola.
- Perché scappi? - chiese Sorry con un tono alquanto frustato - Dobbiamo giocare -.
Quelle parole furono per Claudia come un elisir della forza: la rabbia iniziò a circolarle per le vene. Sorry aveva ucciso i suoi cari solo per gioco. Per gioco!.
Si girò indietro, correndo incontro la porta della cucina. La bambola stava per passarci, quando Claudia con una forte spallata la chiuse, non del tutto, bloccando però a sufficienza la bambola.
- Prendi questo! - urlò la ragazza dando una pugnalata a Sorry che venne tagliata in due.
La ragazza all’improvviso si sentì stanca, come se l’avessero svuotato di tutta la forza rimaste gliele. Fuori intanto sentiva il suono di qualche sirena e, in men che non si dica, la polizia arrivò. Sapeva che non l’avrebbero creduta se l’avesse raccontata, come era successo alla sua amica.
Perciò mentì, dicendo che era entrato un ladro che, essendosi sua madre svegliata, aveva iniziato a uccidere i possibili testimoni. Naturalmente dovette dare anche un risposta per la bambola intrappolata tra la porta e tagliata in due. Ne trovò una, che fu creduta vera.
Venne così scortata dalla polizia, dove, una volta arrivata lì, cercò di dare la colpa a questo “ladro” dicendo che questo le avesse confessato di aver ucciso lui quei ragazzini. Ciò permise di scagionare l’amica Angela e alla stesso tempo di far credere a tutti che, avendo avuto un terribile trauma, il cervello di lei avesse rielaborato tutto, facendole credere sa qualcos’altro non vero.
Ma, mentre Claudia si trovava lì, quella stessa bambola si risvegliò e, con gli occhi divenuti rossi per la rabbia, disse – Come ti sei permessa, mocciosa?! -.
 
Scusatemi se ieri non ho messo la storia ma è meglio non dirlo in che condizioni mi sono ritrovato con la scuola XD. Clemenza con gli errori grammaticali. E spero che vi piaccia. La prossima storia si intitola “La Televisione 3D”

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Capitolo 15
*** Gli uomini bianchi I-Pars ***


Gli uomini bianchi

In una città presso Perugia, circolavano delle strane voci su un edificio abbandonato ai margini di un bosco. L’edificio era proprietà di una ditta andata in fallimento verso gli anni del crollo della borsa newyorchese: non essendoci di conseguenza i soldi per gli operai, fu chiuso in un battibaleno fino a giorni odierni.
Il fatto strano non era questo, bensì che, dopo la sua chiusura, chiunque vi entrava dopo le nove di notte veniva sempre ritrovato morto il giorno seguente, ma in tanti piccoli pezzettini. I tagli erano precisi e fatti in modo netto come un macellaio esperto nel tagliare la sua carne di maiale: nella peggiore dei casi i pezzi superarono la ventina, mentre nelle migliori (per modo di dire essendoci sempre un morto) massimo tre o quattro.
Si venne a pensare così di un assassino o di un pazzo o di un pazzo assassino. Questo soprattutto nei casi di Alessandro Mosca (il primo cadavere) o di Marta Cogli (la seconda). Ma l’ipotesi venne meno nel momento in cui uno sconsiderato miscredente della tesi si appostò per tutta una notte a meno di dieci metri dall’edificio e ritornò vivo il giorno dopo. Tuttavia non aveva messo piede al suo interno neppure una volta.
Il fatto si fece così più inspiegabile: si ipotizzarono altre possibilità come la presenza di una fonte di gas allucinogeni o persino di fantasmi dentro l’edificio. Sta di fatto che la risposta non fu mai trovata e i casi aumentavano per via di altri sconsiderati amanti del pericolo.
Alla fine il sindaco della città, spinto dalle pressioni di alcuni cittadini, mandò l’ordinanza di chiudere l’edificio (si preferì non raderlo al suolo per evitare di propagare il suo male per la città). I casi cominciarono a diminuire e infine cessarono. Fu allora che si cercò di dimenticare la storia.
Ma le voci su quel luogo circolavano ininterrotte fino ai giorni nostri e non sembravano voler smettere: la gente, nonostante cinquant’anni senza cadaveri mutilati, aveva ancora paura della cosiddetta “maledizione”, tant’è che insegnarono ai ragazzi di non andarci mai.
Tuttavia le regole, come si sa, sono fatte per essere infrante e così accadde l’episodio che sto per raccontarvi.
Un gruppo di ragazzi, tre femmine e due maschi, si era riunito a pochi passi dall’edificio “senza ritorno” (veniva ormai chiamato così dalla nuova generazione). Avevano deciso il giorno avanti di festeggiare il compleanno di Lucia (ovvero una delle tre ragazze) presso sto luogo: il tema della festa era una prova di coraggio che consisteva nel trascorrere un’intera nottata lì dentro.
Il posto dava davvero i brividi: l’edificio era semidistrutto e sembrava in procinto di crollare. Le finestre, sbarrate con degli assi di legno, erano tutto rotte o erano diventate opache per la polvere.
Alcuni erano ancora dubitanti a ignorare i consigli dei loro genitori. Si dicevano che se erano così impauriti un qualche motivi o veridicità ci doveva essere; ma i due ragazzi ed Anna, la più intraprendente, erano invece convinti che quelle voci erano solo storielle per spaventare i bambini. In fondo non c’erano prove, ergo nessuna ragione nel doverle credere.
Convinti anche questi, il gruppo si diresse verso l’ingresso: alle porte erano stati lasciati due enormi lucchetti ormai del tutto arrugginiti, il ché semplificò il lavoro di Andrea, uno dei due ragazzi. Infatti, avendo pensato ad un eventuale possibilità, si era attrezzato con un ed ecco che in pochi secondi il passaggio era aperto a tutti.
Lucia notò poco prima di entrare ufficialmente nel luogo maledetto, di sentirsi costantemente osservata. Si disse che non poteva essere, poiché le uniche persone lì presenti erano i suoi amici i quali erano già dentro: così entrò anche lei.
In realtà su una cosa si sbagliava di grosso e l’errore l’avrebbe provato fra poco sulla sua pelle: non erano da soli e, a dir la verità, il loro arrivo era già stato notato.

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Capitolo 16
*** Gli uomini bianchi II-Pars ***


Era inutile: la strana sensazione di essere costantemente osservata non voleva darle tregua. Ma dovunque Lucia posava il suo sguardo alla ricerca del colpevole, trovava solo i suoi amici. Amici che si erano già intrufolati dentro il vecchio edificio, come tanti bambini eccitati per la giostra nuova.
Se poi non bastasse, il cielo che era sereno e privo di nuvole fino a un attimo fa, si era improvvisamente annuvolato e, poiché tuonava, faceva presagire alla nostra Lucia un’abbondante pioggia. Che pessima serata stava per diventare: Lucia si morse il labbro per aver dato ascolto ad Andrea.
- Lucia, ti sbrighi o no? – le urlarono ad unisono le due amiche con aria spavalda, benché prima avessero tremato più di un ipotermico. La festeggiata ci sorvolò assieme alla fastidiosa sensazione e, a passo svelto, raggiunse il gruppo.
Andrea, il ragazzo che si era portato il piede di porco, aveva estratto delle torce dal proprio zaino che distribuì successivamente a ciascuno di loro. Dopo di ché si era dato all’esplorazione del luogo maledetto assieme al suo amico Francesco, immedesimandosi nelle vesti di Indiana Jones.
Riguardo Francesco, basta sapere che, fisicamente, aveva un anno in più di tutti ma, mentalmente parlando, era più infantile di un bimbo di sei anni. Fu soprattutto per questo suo comportamento che Andrea e Francesco andavano d’accordo ed erano diventati amici.
Intanto le due ex-tremanti (così le definiva di nascosto Lucia), non appena avevano trovato delle vecchie sedie (che seppure scricchiolanti erano ancora buone), se ne erano approfittate per sedersi a parlare, andando da argomenti come la marca di un rossetto fino alla questioni ragazzi.
Comunque i loro nomi erano Sara ed Anna: si erano conosciute per la prima volta alle scuole elementari e da quel momento in poi erano diventate così inseparabili che neppure un’operazione chirurgica le avrebbe potuto staccarle.
Lucia aveva deciso di appoggiarsi ad una finestra del primo piano per ammirare il paesaggio che si era trasformato in una enorme palude per via della pioggia: non si sarebbe sorpresa se le pozzanghere l’avessero inghiottita senza problemi.
Tutto normale quindi. O almeno finché la stessa Lucia non vide un uomo a pochi metri dall’ingresso: non riusciva a scorgere nulla del tizio appena comparso, se non la sagoma stessa. Più o meno capì che si trattava di un uomo.
Non chiamò nessuno dei suoi amici, decidendo piuttosto di rimanere in silenzio e osservare in tutta tranquillità cosa avrebbe fatto: questo si avvicinò all’ingresso e prendendo qualcosa lo puntò ad una delle porte spalancate.
Fu in quel momento che Lucia vide un ghigno emergere sulla faccia dell’uomo, e sempre in quel momento a capire le sue intenzioni: li stava per chiudere dentro.
La ragazza balzò subito in piedi, si diresse verso le scale, scendendole in un lampo, e corse verso l’ingresso, urlando a squarciagola alle ex-tremanti (che erano più vicine) di non fargli chiudere la porta.
Non ci riuscirono: poco prima che Sara e Anna si fossero risvegliate dai loro discorsi, l’uomo misterioso aveva già serrato tutto. Adesso erano in trappola come topi.
- Conta fino a dieci prima di parlare! Conta fino a dieci prima di parlare! - continuava a dirsi Lucia, non appena le raggiunse, trattenendo strenuamente sia la rabbia che un paio di ceffoni alle due.
- Non è colpa nostra! – risposero ad unisono le ragazze – qui tutto puzza perciò non si sente bene! -.
“Che cosa c’entra l’odore con le orecchie?!” stava per urlarle per la rabbia Lucia ma decise di non farlo. Questo perché in quel momento aveva riecheggiato un urlo per i corridoi. Le ragazze si compattarono.
- Cosa è stato? – chiese a sottovoce Sara, senza smettere di tremare.
- Non lo so – rispose Anna stringendo più forte la mano della sua inseparabile amica – ma proveniva dal corridoio dove sono andati Francesco e Andrea -.
Dobbiamo andare a vedere! – propose Lucia come riprese un po’ del suo coraggio. Le ci volle dei minuti prima di staccarsi completamente dal duo, prendere una torcia e inoltrarsi nel corridoio; non si aspettò di venir raggiunta.
 
 
Il corridoio era immerso nell’assoluta oscurità e solo la tenue luce della torcia permetteva a Lucia di orientarsi. Fortunatamente il corridoio non si annidava per più vie, il ché risparmiò alla ragazza un sacco di problemi.
Passarono interi minuti, quando Lucia vide un puntino luminoso più avanti. Corse verso quella direzione, trovandovi, una volta giunta, una delle torce di Andrea a terra: non era un buon segno.
Andò avanti, sicché passarono altri minuti, forse dieci ma lì dentro era difficile dirlo con certezza. In seguito cominciò a sentire come dei pianti: in silenzio tese l’orecchio e, cercando di capire da dove provenisse, si mosse in quella oscurità.
Passarono infine cinque minuti, quando vide una seconda luce davanti a sé, con la sola differenza che questa si muoveva. Corse nuovamente seguendo la fonte luminosa, trovandosi questa volta anche un impaurito Francesco: stava annidato alla parete e stava piangendo a dirotto.
Non capiva il perché, ma le bastò guardarsi un po’ intorno per riuscirci: alla parete opposta c’era il corpo, nudo e mutilato del povero Andrea; gli mancava un braccio e parte dell’addome destro.
Ma la cosa più agghiacciante era la scritta di sangue a suo fianco: soggetto 32 – terminato.  

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Capitolo 17
*** Gli uomini bianchi III-Pars ***


Lucia osservava in silenzio il raccapricciante spettacolo: il corpo di Andrea, nudo e mutilato, era stato inchiodato al muro, all’altezza delle spalle e del bacino. Ricoperto di sangue in ogni punto, il suo sguardo privo di vita dava i brividi quanto la strana scritta al suo fianco.
La ragazza avrebbe voluto urlare, rannicchiarsi al muro e sperare che tutto ciò fosse soltanto un incubo, come stava facendo in quell’esatto momento Francesco; ma era certa che, se si fosse abbandonata alla paura e alla disperazione, non ne sarebbe mai uscita viva, al contrario avrebbe solo facilitato il gioco malato dell’assassino. Si promise di vendere cara la sua pelle.
Cominciò dunque a ragionare sul significato della scritta, che, a suo parere, le avrebbe permesso di capire qualcosa sulla loro situazione. – “Soggetto 32” – lesse.
– è tutto inutile – urlò il ragazzo: benché fosse ancora rannicchiato a terra, aveva smesso di piangere. – Moriremo tutti! Loro verranno a prenderci e ci uccideranno! –.
Lucia corse verso l’amico e, come ne ebbe la possibilità, gli tappò la bocca con la mano libera. Dopodiché si inginocchiò e con tono fermo e deciso gli domandò – Come “loro”? vuoi dire che non ce n’era solo uno? –.
Francesco parve essersi calmato. La ragazza iniziò lentamente a togliergli la mano dalla bocca per lasciarlo rispondere ma, come lo fece, il ragazzo urlò nuovamente. Lucia indietreggiò per lo spavento e l’amico approfittò del momento per scappare via.
– Dobbiamo restare uniti! – gli disse Lucia, ma Francesco non volle darle ascolto e infine scomparve nell’oscurità del corridoio.
Stava per inseguirlo, quando un altro urlo, proveniente dalla parte opposta, attirò la sua attenzione – Maledizione! Sara e Anna, sono in pericolo –.
 
 
Le ci vollero cinque minuti per ritornare all’ingresso dove aveva lasciato da sole le due amiche; e altri dieci minuti per trovare i loro cadaveri in uno dei corridoi, appesi al muro nella stessa maniera e posizione di Andrea.
Solamente le parti mutilate e le scritte di sangue erano diverse: a Sara mancavano la testa e le gambe, mentre ad Anna i seni e il ginocchio sinistro. Mentre sul muro era stato scritto stavolta: soggetti 33 e 34 – terminate.
Stava per mettersi alla ricerca dell’ultimo amico vivo quando, improvvisamente, vide la luce di una torcia muoversi da lontano. Pensava, credeva, sperava che fosse Francesco, ma poi si ricordò di come questo fosse scappato senza una torcia.
Capì che si trattava degli assassini. Il suo buonsenso le diceva di voltarsi ed allontanarsi in silenzio, ma per la paura la ragazza fece l’esatto opposto: si mise a correre e così attirò la loro attenzione.
Lucia correva il più velocemente possibile ma, nonostante ciò, non riusciva mai a seminarli. Provò dunque di rifugiarsi dentro una stanza ma le porte erano tutte chiuse a chiave. Eccetto una, che una volta aperta, la richiuse col tutto il corpo.
Pensava di essere finalmente o per il momento in salvo finché non vide incredula un gruppo di persone bianche e con un solo occhio. Stavano intorno ad un tavolo di ferro su cui era stato messo il cadavere di Francesco.
– è il soggetto 36 – disse uno in mezzo a quel gruppo – perché è qui?! – chiese minacciosamente un altro. Gli uomini si guardarono fra loro coll’unico occhio di cui disponevano, come impreparati ad una simile eventualità.
La porta cominciò ad essere spinta dagli esseri di fuori, e, come si aprì un varco, spuntò un bianco braccio mal forme. Il tutto era accompagnato da dei versi agghiaccianti simili a quelli di un cane affamato.
– Richiamate i segugi! – ordinò uno del gruppo; le persone ubbidirono e improvvisamente i cosiddetti segugi smisero di spingere. O almeno la maggior parte: infatti qualcuno sembrava non voler assolutamente abbandonare la caccia e così, dopo un’altra spinta poderosa, era riuscito ad entrare.
Lucia non credé ai propri occhi: il segugio disubbidiente era Andrea; le parti mancanti erano state sostituite con dei pezzi metallici, mentre il resto del corpo era diventato bianco e quasi decomposto. Camminando a quattro zampe, l’amico si accostò al tizio con un solo occhio e venne accarezzato alla testa come un padrone fa al proprio cane.
Entrarono dentro anche le due amiche morte fino a poco tempo fa.
– Non ti preoccupare, soggetto 36 – disse lo stesso tizio di prima – tra poco starai nuovamente insieme ai tuoi amici –.

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Capitolo 18
*** Gli Occhi senza Padrone I-Pars ***


In una città presso Napoli, una ragazza stava seduta in silenzio in una stanza della polizia locale. Era completamente sola: nessuno la stava tenendo d’occhio, o più semplicemente le teneva compagnia, dopo tutto quello che aveva dovuto affrontare nelle ultime 24 ore.
La ragazza era però certa di essere sotto osservazione in qualche modo: doveva solo scoprire come. Cominciò dunque a guardarsi attorno finché non notò due enormi specchi alla sua sinistra, simili a quelli che si vedono di solito nei film polizieschi e che non permettono al criminale di vedere dall’altra parte del muro.
Si chiese quindi se qualcuno la stesse osservando. Quanto odiava l’idea di non vedere a sua volta il suo (o i suoi? Era difficile a dirlo) “ammiratore”! Persino un animale allo zoo, si disse, vantava di un tale lusso.
Se poi si fosse sbagliata e se dall’altra parte della parete non ci fosse davvero nessuno a controllarla, la sua situazione non sarebbe minimamente cambiata, poiché era comunque stata istallata in quella stanza una telecamera. Questa, benché fosse da quattro soldi (comprata senza dubbio a prezzo scontato in un semplice negozio) e persino più vecchia di lei, pareva funzionare quanto bastava per svolgere il suo lavoro. E dove c’era una telecamera, c’era sicuramente un operatore a vigilare dietro le quinte. O almeno dovrebbe essere.
Dopotutto era normale che la tenessero sottocchio: era l’unica testimone dell’uccisione della sua amica, l’assassino era ancora a piede libero per chissà dove, ed era stato commesso un omicidio privo di senso.
La polizia non poteva quindi rilasciarla così, ai quattro venti, come se niente fosse. Non serviva infatti un genio per capire che l’assassino avrebbe tentato di finire l’opera mettendola a “tacere” in maniera definitiva.
Ma la ragazza, benché tutte quelle precauzioni, sapeva benissimo che neppure la stessa FBI sarebbe riuscita a salvarla dalla follia omicida di lui. Sapeva che sarebbe morta e, se non quel giorno, non si prospettava viva oltre il dopodomani. L’unica domanda che si poneva ormai era “Per quanto tempo dovrò ancora aspettare?”
Improvvisamente avvertì un rumore di passi oltre la porta. lento e costante, chiaro segno che, chiunque stesse arrivando, era tranquillo. Il rumore si fece sempre più forte, finché non cesso del tutto. Sentì una chiave venir messa dentro la serratura, poi vide la maniglia della porta ruotare e infine la porta venir aperta. La ragazza si chiese se si trattasse di lui ma poi ricordò che a lui non servivano chiavi per entrare.
La luce proveniente da fuori penetrò violentemente e illuminò il tutto come il sole illumina il nuovo mattino. La ragazza non riusciva però a reggere a tanta luminosità, essendo rimasta diverse ore lì dentro dove la più potente fonte di illuminazione era il suo stesso cellulare, e, porgendosi quindi la mano destra davanti agli occhi, pregò al suo nuovo “amico” di chiudere immediatamente la porta.
La persona obbedì e la stanza ritornò nuovamente ad essere illuminata soltanto dalla fioca luce emessa dalla lampadina a risparmio energetico. Nel frattempo la ragazza si era ripresa dallo shock visivo e si era subito messa ad identificare il misterioso tizio: non era lui bensì un uomo sui quarant’anni. Non n’era però certa a causa di qualche ciuffo bianco sparso qua e là che lo faceva apparire più vecchio; almeno il viso non era dilaniato dalle rughe né sembrava che ne avrebbe avuto, al contrario mostrava uno sguardo fiero e dotato di due oscuri occhi neri che, non appena li incrociò, le incussero terrore. Le ricordavano molto gli occhi di lui.
Indossava una semplice camicia celeste e un paio di pantaloni color nero. Fumava una sigaretta dall’odore rivoltante, nonostante fosse scritto a caratteri cubitali “VIETATO FUMARE” su un cartello posto davanti alla porta. Questo prese semplicemente una sedia messa al muro e la trascinò alla parte opposta del tavolo.
Fu lì che si sedette infine.
- Elisa Ragolo -. Lesse su un documento che teneva in mano, mentre privò alla bocca del suo ossigeno grigio per qualche istante. - Età 16 anni. capelli castani, occhi celesti, nata a **** e bla bla bla. Capisci adesso perché sono dovuto venire direttamente da te? -. Il solo sguardo incompreso della ragazza basto come risposta. - Non c’è nulla di concreto per le indagini, eccetto che ti hanno ritrovato tutta sporca di sangue accanto al cadavere della tua amica, Rosalia se non mi sbaglio. È tutto corretto? -.
Elisa non gli rispose nemmeno. Si limitò a far cenno di sì col capo per dargli conferma.
- Adesso capisci? Tu sei l’unica che mi può dare delle vere informazioni su questo caso -. Posò il documento sul tavolo. - Anche se mi hanno detto che sei tu stessa a non volerci dire niente, eccetto queste str*****e ovviamente. Mi chiedo perché: chi stai coprendo? -. Tuttavia Elisa continuava a tacere.
- Ebbene? -. Ritentò il misterioso tizio, in parte curioso, in parte impaziente di risposte.
- Sarebbe meglio che non lo sapesse -. Rispose infine, abbassando nello stesso momento lo sguardo: temeva che, incrociando i suoi occhi neri simili a lui, avrebbe facilmente ceduto e spifferato tutto sull’accaduto.
- Questo non è un gioco, lo vuoi capire!? -. L’uomo si alzò di scatto dal proprio posto e sbatté con forza le mani sul tavolo. - La tua amica è morta e, come se non fosse bastato, le ha persino cavato gli occhi! Mi dici come speri di venir aiutata, se non ci dici ciò che sai?! Così metti solamente la tua vita più in pericolo! -.
L’uomo recuperò un po’ di selfcontrol, dopodiché si risedette educatamente al proprio posto. Aspettava che la sua ramanzina facesse effetto e, da come stava reagendo la ragazza, intuì che non ci voleva molto. Infatti Elisa alzava ed abbassava lo sguardo, girava senza tregua le dita fra loro segnando diversi invisibili cerchi nell’aria, cercava di mettersi a proprio agio sulla sedia ma alla fine, - D’accordo -, gli disse fissandolo dritto negli occhi. - Le dirò tutto quello che so ma l’avverto che … -.
- Ragazzina non ho tempo da perdere! Parla! -.

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Capitolo 19
*** Gli Occhi senza Padrone II-Pars ***


<< Tutto… >>. Silenzio. << Tutto… >>. Di nuovo silenzio. Un silenzio quasi anormale, a tal punto che Elisa riusciva a sentire il cuore dello strano individuo battere nonostante un intero tavolo si interponeva tra loro. Tanto silenzio che le pareva improvvisamente tangibile. E la stava soffocando. Non le serviva lui, si disse.
“È  inutile” pensava in quegli istanti “non ci riesco”. Non riusciva a crederci ma era così. Si sentiva debole e indifesa, priva di ogni protezione come un perla priva del suo guscio. Se chiudeva gli occhi, vedeva ancora l’immagine dilui che la fissava con i suoi occhi rosso sangue nel buio ma neri alla luce. Strano, vero?
Aprì gli occhi. Adesso c’era solo quell’uomo che sperava, o imponeva, di voler sentire la sua storia. Alzò lo sguardo sperando di trovare un po’ di coraggio come prima. E fu allora che rivide la strana somiglianza.
Perché erano così simili a quelli di lui? Solo perché le facevano accapponare la pelle come lui? No, c’era qualcosa altro sotto, ma le sfuggiva. Non aveva però il lusso di perdere tempo con simili sciocchezze: adesso doveva solo parlare.   
<< Allora? Devo aspettare di morire prima di sentire qualcosa?! >>. Urlò rudemente il tizio, sbattendo involontariamente una gamba contro il tavolo. Non si scusò neanche, ma a nessuno dei due importò molto.
 << Tutto è iniziato quando Rosalia ha finito di leggere l’ennesima rivista di moda che tengo in camera mia >>. Nonostante fossero poche parole, Elisa già si sentì più leggera, e libera. Non si sentiva così da quando il suo incubo era incominciato. << Io e lei avevamo deciso di uscire a divertirci ma, quando è arrivava a casa mia, ha iniziato a piovere. Abbiamo così deciso di aspettare che finisse >>.
<< Quindi mi confermi che non siete più uscite da casa tua fino al momento dell’omicidio? >>. Il tizio aveva recuperato il controllo ed aveva anche cominciato ad annotare le diverse informazioni su un taccuino.
<< Si. Non siamo più uscite fino alla morte di … >>. Le veniva da piangere. Le stava già scendendo una lacrima per il volto e quell’uomo le stava già urlando di non fermarsi, quando Elisa ricominciò a parlare. << Abbiamo cercato qualcosa da fare: io ho preso il mio computer portatile e ho navigato in rete per tutto il tempo, mentre lei ha preso le mie riviste di moda e si è messa leggere. Erano le uniche cose che Rosalia leggeva. Però dopo averne letto due o tre mi ha chiesto se potevamo fare qualcosa insieme >>.
Per un breve attimo la luce si spense. L’uomo si stava già alzando a controllare la lampadina da quattro soldi tra uno sbraitare e l’altro, ma la luce ritornò poco dopo senza problemi. Elisa aveva capito cosa voleva dire.
<< È successa la stessa cosa quel giorno -. Riprese a dire - quando abbiamo trovato il baule di mia nonna >>.
<< Quale baule?! Sul documento non si accenna a nessun baule. E cosa c’entra il baule con l’omicidio? >>.
<< Ricapitolando: Rosalia mi aveva chiesto cosa avremmo fatto insieme >>. Elisa ignorò completamente la domanda del detective. << Neppure io sapevo però come passare il tempo ma infine le ho proposto di andare su in soffitta >>.
<< Il luogo dell’omicidio. In quel momento hai visto qualcuno o qualcosa di sospetto, ad esempio porte o finestre alzate? >>. Elisa fece cenno di no.
<< Rosalia non era proprio entusiasta, anzi aveva un po’ di paura. Non le piacevano luoghi chiusi come la soffitta ma l’ho convinta alla fine. Ricordo i vari commenti di Rosalia su quanta polvere o cianfrusaglia ci fosse >>. Elisa si bloccò per un attimo. << Abbiamo cercato tra la roba di mia nonna, morta da diversi anni (avevo solo 6 anni quando è successo) trovando così questo baule: era vecchio e malridotto, più di quella telecamera >>. Elisa indicò con l’indice a cosa si riferisse. << A differenza di ogni altro oggetto lì presente, non aveva un foglietto attaccato sopra che indicasse cosa ci fosse dentro. Rosalia mi chiese il permesso di aprirlo: dopotutto quel baule era pur sempre appartenuto a mia nonna >>.
<< Ripeto la domanda: cosa c’entra il baule con l’omicidio di Rosalia? Non dirmi che l’assassino era nascosto lì dentro, perché non so se riuscirei a crederti >>.
<< È vicino >>. Rispose Elisa. << Dopo aver preso il baule, l’abbiamo immediatamente aperto. Come gli ho detto prima, ci fu un breve calo di corrente che abbiamo subito associato al tempaccio di fuori. Ritornata la luce, abbiamo scoperto il perché del foglio mancante: dentro non c’era nulla >>. Elisa si guardò attorno, ma ancora nessuna traccia di lui. << Comunque l’incubo è iniziato proprio da quel momento in poi. Capito di aver preso un granchio, abbiamo chiuso il baule e abbiamo deciso di andare giù in cucina a prepararci qualcosa, quando vidi dietro le spalle di Rosalia due puntini rossi fissarci e poi muoversi. Iniziai a sudare freddo per il terrore >>.
Il detective smise di scrivere e prestò ancora più attenzione di prima.
<< La stavo per dirle che c’era qualcuno dietro le sue spalle, ma non feci in tempo perché Rosalia venne trascinata improvvisamente per le gambe verso quegli occhi rossi. La sentii urlare, combattere per la sua vita ma poi smise e una scia di sangue comparve poco dopo. Piansi per la paura: credevo che sarei morta ma gli occhi rossi mi fissavano e basta >>.
<< Perché non ti ha ucciso in quel momento? >>. Domandò il detective, curioso.
<< Penso per via di mia madre: era appena ritornata. Ma se aveva ucciso Rosalia senza problemi, non capisco perché sia rimasto intimorito di mia madre: avrebbe potuto uccidere anche lei, giusto? >>. Un altro breve calo di corrente. << Guardai il corpo di Rosalia: i vestiti non erano rovinati, non aveva graffi od altro da nessuna parte ma i suoi occhi erano spariti >>.
<< Ha detto qualcosa l’assassino prima di andarsene? >>.
<< Sì, solo una frase: “Non parlare di Lui ad anima viva” >>.
<< Può bastare. Sappiamo già il resto da tua madre >>. Disse il detective che, alzatosi, posò la sedia dove l’aveva presa e infine uscì. Elisa tirò un sospiro, sperando tutto si sarebbe concluso alla svelta.

***

Improvvisamente ci fu un altro calo di corrente. Si guardò attorno e, con estremo terrore, scorse i due occhi rossi, gli stessi che aveva visto in soffitta, gli stessi che avevano ucciso la sua amica.
<< Chi sei? >>. Gli urlò Elisa poco convinta, e già singhiozzante. << Perché ce l’hai con me?! >>.
Gli occhi rossi cominciarono a muoversi ed a diventare neri man mano che l’assassino usciva allo scoperto e veniva illuminato dalla luce della lampadina. Elisa non riusciva a crederci ma quegli occhi erano di Rosalia. Come poteva essere ancora viva! L’aveva vista morire!
<< Non avremmo mai dovuto aprire il baule >>. Cominciò a dire, come in trance. << Ma lui è disposto a perdonarti. Devi solo dargli una cosa, una piccola cosa. Lui vuole i tuoi occhi >>.

***

Il detective aprì la porta dell’interrogatorio; stava per comunicare ad Elisa che era tornata sua madre a prenderla assieme ad una scorta, quando la ritrovò stesa a terra e senza occhi.
Mise due dita sul suo collo: niente battito. Era morta.
Stava per chiamare aiuto quando la porta si chiuse da sola. Ci fu un altro calo di corrente. Al detective non importò molto, finché non gli comparvero poco dopo due occhi rossi dall’altra parte della stanza. E fu allora che il detective … sorrise.
<< Sei arrivata, finalmente >>. Cominciò a dire il detective, come se stesse parlando ad un amico. << Mi hai fatto aspettare troppo, Rosalia >>. Dopodiché le si avvicinò, tendendole la mano destra.
Questa, come risposta al suo gesto, lasciò cadere sopra due bulbi oculari, quelli di Elisa.
<< Per fortuna la tua amica non aveva ancora parlato di Lui ad anima viva ed io ho fatto il modo che nessuno le si avvicinasse per lasciarglielo fare: mi devi un grosso favore, sai? >>. Detto questo, il detective le voltò le spalle per poi avviarsi verso l’uscita, mentre i suoi occhi diventarono rosso sangue, come quelli di Elisa. << Andiamo a dargli la buona notizia >>.

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Capitolo 20
*** Gli Accompagnati - Lui era tornato ***


Drin. Drin. Drin. Che fastidioso telefono.
È da quando sono stata portata qui che non fa altro che squillare ininterrottamente: all’inizio non mi dava molto fastidio, cercavo di ignorarlo e basta. Ma, giorno dopo giorno, ho iniziato a non farcela più. Mi sta facendo impazzire.
Che qualcuno lo faccia smettere! Chiunque mi andrebbe bene, basta che lo faccia! Anche tu che stai leggendo la mia storia! Ti supplico! Fallo, dannazione! Che aspetti?! Perché non lo zittisci?!
Oh, è vero: non puoi zittirlo perché tu non sei realmente qui. Che strana cosa aver appena parlato con un foglio…
Sto davvero impazzendo, non credi?
Però devo fare davvero qualcosa. Come vorrei semplicemente rispondere o scaraventare l’intero apparecchio contro il muro! Ma ho paura che, se lo facessi realmente, l’incubo da cui sono uscita si ripeterebbe; e sinceramente non so se sopravvivrei ancora.
Devo resistere, mi ripeto ormai da giorni, devo scriverti la mia storia. Devo farcela. Poi accada quel che accada: sarò pronta.
Ricorda intanto queste parole mentre leggerai la mia vita: non è una favola quella che sto per raccontarti, per tenerti buoni i bambini o farli andare a letto. Né è frutto della mia fantasia, come tutti stanno cercando di farmi credere da una settimana, senza riuscirci tra l’altro.
È accaduta realmente ed accadrà di nuovo se qualcuno non porrà la parola fine. Se qualcuno non fermerà lui. E ogni volta che succederà, uno dovrà morire. Dolorosamente, lentamente, inevitabilmente. Spero quindi che, scrivendola su questo foglio di carta, tu, chiunque tu sia, abbia il buon senso di credermi. Così una persona saprà la verità e la mia disgrazia avrà avuto un significato.
Okay. Cominciamo.
Lo so che ti sembrerà assurdo già da adesso, ma tutto è iniziato con una semplice telefonata.
Era un sabato sera e, come spesso accadeva, ero fortemente indecisa su come trascorrerlo, se con un film e dei popcorn oppure con un’uscita romantica assieme a mio marito. C'era anche la terza opzione di chiamare una o due mie amiche e di fare invece una serata tra donne, ma decisi di scartarla quasi subito poiché desideravo passare del tempo con Marco. Viceversa mio marito aveva scartato la seconda opzione, dato che, con la coda dell’occhio, lo scorsi già con un vassoio pieno di popcorn in mano.
“Vada per il film”. Mi dissi e, dopo aver acceso il televisore, cominciai a cercare tra i canali televisivi un film che andasse a genio ad entrambi. Marco non sopportava ad esempio i film rosa mentre io gli horror. Due categorie, purtroppo, ampiamente usate.
E fu proprio mentre io girovagavo tra quei canali, che il telefono cominciò improvvisamente a squillare.
Vista l’ora, credevo che si trattasse di mia suocera, che era sempre preoccupata per suo figlio, oppure di un nostro amico che aveva invece scelto la terza opzione. Allora non potevo sapere che era invece lui a telefonarmi.
Andai a rispondere. Come desidero non averlo mai fatto.
<< Pronto? >>. Già mi aspettavo di sentire la voce stridula di mia suocera o familiare di un nostro amico, e invece niente. Il silenzio più assoluto. << Pronto? >>. Ripetei. Niente di nuovo.
Si sentiva solo un flebile rumore di vento. Anzi no, mi dissi subito dopo: era il suono di un respiro. C’era quindi qualcuno dall’altra parte del telefono. Perché non rispondeva? Aveva forse sbagliato numero? << Pronto?! >>. Il misterioso individuo riattaccò.
<< Chi era, Siso? >>. Mi chiese curioso Marco, sedendosi affianco a me sul divano.
Prima di fraintendere oltre, sappiate che Siso è il nomignolo con cui mi chiama mio marito. Non chiedetemi il perché e il come gli è venuta. Il mio vero nome è Anna.
<< Non lo so: ha riattaccato senza rispondermi >>.
<< Non fa niente. Piuttosto hai scelto un film da vedere? >>.
Gli stavo per dire di no, quando il telefono ricominciò a squillare. Stavolta Marco mi consigliò di ignorare la telefonata e di goderci la serata.
Dopo pochi secondi però scattò la segreteria, dove la mia voce preregistrata pregava la persona di richiamarci più tardi oppure di lasciarci un messaggio dopo il segnale acustico. Fin qui tutto normale. Niente che mi facesse capire che si trattava di lui.
Scattò poi il bip. << Scusami per il ritardo, Siso, adesso vengo ad ammazzarti! Sii un altro po’ paziente >>.
Rimasi letteralmente pietrificata e lo stesso dicasi per mio marito che, azzerato il volume del televisore, mi chiese di riavviare il messaggio. Ubbidii senza perdere tempo: avevamo per forza sentito male. Lo riascoltammo, ma purtroppo avevamo sentito benissimo.
Il fatto più strano era, però, che la voce registrata dopo il bip era simile alla mia. Anzi era proprio la mia.
<< È uno scherzo, Siso? Non fa ridere >>. Mi domandò giustamente Marco, ma poi, vedendo il mio volto confuso e terrorizzato, capì che non era così. Ciò nonostante, volle essere pienamente sicuro << È uno scherzo o no? >>. Mi domandò nuovamente, mentre mi afferrò con forza entrambe le braccia. Era terrorizzato. Bastava vederlo per capirlo immediatamente.
“Ma che razza di uomo sei?”. Pensai prima di svincolarmi dalla sua morsa ed afferrare la cornetta del telefono. << Chiamo la polizia, per sicurezza >>. Digitai il 113 e mi misi in attesa. Cercavo di mostrarmi tranquilla ai suoi occhi. Non serviva che andassi nel panico pure io.
Passarono pochi (e interminabili) secondi prima che qualcuno alzasse la cornetta dall’altro lato e mi rispondesse.
<< Pronto? Devo denunciare un…. >>
<< Mi dispiace >>. Cominciò a dire una voce, sempre identica alla mia. << Le linee sono tutte intasate. Se desidera lasciare un messaggio premere uno, se desidera morire premere due >>. Urlai. << Siso, credevi davvero che ti avrei permesso di telefonare la polizia o a chicchessia? >>.
Mollai la cornetta. Ora ero davvero terrorizzata. << Che facciamo, Marco? >>
Sentimmo un rumore di vetri rompersi.
La luce venne meno.
Un blackout? Ci osservammo a vicenda, ognuno cercando un coraggio inesistente dall'altro.
<< Che facciamo?! >>. Gli chiesi quasi urlando stavolta.
<< Vado… vado a vedere. Tu resta qui, okay? Se noti qualcosa di strano, tu corri nella camera da letto e aspettami lì >>. Gli feci cenno di sì. Marco prese il primo oggetto affilato che trovò e si avviò verso la cucina.
Intanto il telefono squillò. Che avrei dovuto fare? Cosa sarebbe stato peggio: rispondere o no? La mano mi tremava.
<< Pronto? >>
<< Non avresti dovuto mandarmi Marco >>. Ancora la mia voce. << Ora sarò costretta ad ammazzarlo. Che peccato, ci piaceva tanto, Siso >>.
Sentii delle urla di dolore provenire dalla cucina. Poi silenzio. E infine un rumore di
passi pesanti, troppo pesanti per appartenere al mio Marco. Lui era dentro casa mia!
<< Ora vengo da te >>.
Scappai. Scappai come non avevo mai fatto in vita mia verso la camera da letto.
Chiusi subito la porta a chiave, presi un tagliacarte dal mio comodino e mi raggomitolai in un angolo della stanza, piangendo. Desideravo che fosse solo un incubo o, se proprio doveva essere reale, che fosse un scherzo di pessimo gusto.
Squillò nuovamente il telefono e, poiché non risposi, scattò infine la segreteria.
<< Perché scappi? Tanto morirai che tu lo voglia o no. Non sai da quanto tempo ho aspettato questo momento! Dal momento in cui ti ho vista per la prima volta, non ho fatto altro che seguirti ogni giorno, a lavoro, a casa, al cinema, dovunque. Ho persino fatto un’operazione in via sperimentale per avere la tua voce. Ma non mi basta, non mi è mai bastato! Mi capisci, vero? >>
Mi feci un po’ di coraggio e alzai la cornetta. << Chi sei?! Perché fai tutto questo!? >>
<< Davvero non l’hai capito? Ma anche se capissi adesso, non importerebbe più >>. Smise di parlare per qualche istante. << Guarda alla tua destra >>. Lo feci ma, invece di ritrovarmi faccia a faccia con un estraneo armato e minaccioso, vidi solo la mia immagine riflessa da uno specchio. Cosa voleva significare? Che il maniaco ero io stessa? Era ridicolo! << Prima ero troppo emozionato per parlarti, così ho riattaccato; ma adesso posso dirtelo: io sono lui ma voglio essere te! E prima ancora che tu me lo chieda: sì, sono arrivato >>.
<< Sei solo un pazzo! >>. Ebbi il coraggio di dirgli.
La maniglia della porta cominciò a muoversi freneticamente ma, per fortuna, la porta rimaneva chiusa. La maniglia iniziò quindi a muoversi più velocemente, con impeto sempre più maggiore.
Capii allora due cose: che lui non mi avrebbe mai lasciata in pace poiché la sua ossessione nei miei confronti era troppo grande per lasciarsi fermare ora da una semplice banale porta di legno; e che lo dovevo combattere di persona, se volevo uscirne viva quella notte.
Strinsi di più il tagliacarte, mi diressi lentamente verso la porta e girai la chiave.
La maniglia aveva smesso di muoversi, come se lui mi stesse aspettando.
L’afferrai, spalancai la porta e con un rapido gesto infilzai lui col tagliacarte. Sentivo il suo caldo sangue toccarmi le dita. E la sola idea mi accapponò la pelle.
Avevo appena ucciso una persona! Ero un’assassina!
<< Perché l’hai fatto, Siso? >>. Gli stavo per rispondere con un “Muori, bastardo!” ma c’era qualcosa che non andava con la sua voce: non era uguale alla mia! Ebbi un dubbio. Alzai quindi lo sguardo verso il suo volto e in quel momento capii di aver appena piantato il tagliacarte nel petto di Marco.
Poco dopo si accasciò a terra, era pallido come un cadavere. Forse lo era già.
<< Credevi davvero che fossi io? Credevi davvero che mi sarei fatto uccidere con quel tagliacarte? Sei un ingenua! >>. Riprese fiato. << Che bel modo di uccidere, non credi, Siso? Sei un’assassina! Ma non ti preoccupare troppo: hai già chiamato la polizia e hai confessato il tuo omicidio. Tra poco verranno a prenderti. Naturalmente ho fatto tutto io a posto tuo, ma, avendo la stessa voce, è stato come se l’avessi fatto direttamente tu in realtà. Arrivederci, Siso >>.
Lui  riattaccò.
Poco dopo arrivò davvero la polizia, ma ciò che vide fu solo una donna immersa nel sangue del proprio marito, e vicina all’arma del delitto pieno delle sue impronte digitali. Provai a convincere i poliziotti che il colpevole non ero io ma lui, però non mi crederono.
A causa della mia versione dei fatti, venni persino etichettata pazza e rinchiusa in un manicomio vicino. Non oso dirti cosa ho dovuto passare qui dentro ma cercavo di consolarmi col fatto che non ci fossero telefoni nel manicomio, almeno non dove stavano le “celle” dei pazzi.
Un giorno, però, me ne portarono uno per ordine del mio psicologo che credeva si trattasse soltanto di fobia. Pensava che l’avrei superata in questo modo e che mi sarei definitivamente convinta dell’inesistenza del mio maniaco. D'altronde il telefono era anche sconnesso, quindi nessuno poteva chiamarmi.
Eppure, dopo che venni lasciata da sola, il telefono cominciò a squillare. Lui era tornato.

 
 

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