I'm in LAW with you

di IoNarrante
(/viewuser.php?uid=122990)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 (parte 1) ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9 (parte 2) ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 31: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 32: *** Capitolo 30 ***
Capitolo 33: *** Capitolo 31 ***
Capitolo 34: *** EPILOGO ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




PROLOGO

betato da Nes_sie
La pioggia battente imperversava come se non ci fosse un domani, mentre i miei stivali schiaffeggiavano l’acqua producendo un rumoroso ciaf. L’ombrello era pressoché inutilizzabile, viste le raffiche di vento che mi colpivano ogni volta svoltassi l’angolo, e conscia di essere zuppa fin dentro le ossa, l’avevo richiuso sbuffando, continuando poi a correre con la mia ventiquattr’ore sulla testa.
Della capitale inglese si poteva dire di tutto. C’era chi provava un amore sviscerato per quei lampioni in stile vittoriano, chi si perdeva tra le immensità dei suoi parchi; c’era chi addirittura preferiva percorrerla in bicicletta, assaporandone l’aria libera dalle polveri sottili. Io mi ero sempre schierata dalla sua parte, dal lato della città inglese, perché mi aveva fornito il trampolino di lancio per evadere da quella monotonia che era la mia vita. Adesso però, dopo essermi recentemente trasferita dall’Italia e dopo aver quasi finito tutti – e dico tutti – i cambi d’abito che mi ero portata in valigia a causa del mal tempo che non smetteva di colpire Londra da almeno una settimana intera, forse stavo lentamente cambiando le mie preferenze.
M’imbucai di corsa nella stazione di Lancaster Gate, cercando di non scivolare sul pavimento zuppo d’acqua e mi affannai a frugare nelle tasche del cappotto di tweed, alla ricerca della Oyster card per passare al tornello prima che si formasse una fila chilometrica dietro di me.
Purtroppo le mie tasche erano come la borsa di Mary Poppins.
Tirai fuori le cartacce di vecchi scontrini, il mazzo di chiavi del mio monolocale a Regent Park, persino una vecchia caramella appiccicaticcia, ma non c’era verso di estrarre il portadocumenti con l’abbonamento ai mezzi pubblici. Nel frattempo l’acqua mi gocciolava dai capelli corti, tagliati poco prima di trasferirmi, e rotolava direttamente lungo la spina dorsale, accompagnata da un intenso brivido di freddo.
«Can I…?» Una voce alle mie spalle mi fece girare di scatto e, come avevo sospettato, una piccola fila di persone si era formata dietro l’unico tornello occupato dalla sottoscritta.
Imprecai mentalmente e mi scostai di lato, non mancando di rifilare un’occhiataccia a quell’omaccione panciuto e impaziente. «Sorry.»
Già, sorry un corno!
Nel frattempo cercai quella maledetta card anche nella ventiquattr’ore, che però non voleva saperne di aprirsi. Cominciavo a perdere davvero la pazienza. Quella mattina era cominciata davvero male e rischiava di finire ancora peggio. Lo studio Abbot&Abbot di Londra era situato al centro di Regent Street, vicino all’incrocio con Oxford Street e per raggiungerlo avrei dovuto percorrere una decina di fermate della Tube.
Se solo avessi trovato quella stramaledettissima tessera…
«Eccola!» gridai sprizzante di gioia, tenendo tra pollice e indice l’oggetto della mia agognata ricerca. Ovviamente era finita nell’unico misero buchino nella fodera del cappotto ed era scivolata sempre più in basso, costringendo la sottoscritta ad improvvisarsi contorsionista del circo di Montecarlo.
Soddisfatta di aver finalmente ripreso in mano la mia vita, afferrai la tessera e la passai sul lettore magnetico, facendo scattare le porte e dirigendomi verso l’ascensore.
«Wait, please…!» implorai, dirigendomi verso le porte che stavano per chiudersi. La mia giornata non poteva susseguirsi in modo peggiore di quello. Ci mancava solo che perdessi anche la corsa dell’ascensore e, con quella, la probabile metropolitana che passava ogni cinque minuti.
Una mano si frappose tra le porte, incrociando il lettore ottico e facendole riaprire. Col fiatone e con ancora addosso i brividi di freddo, entrai nell’abitacolo e lasciai uno sguardo di ringraziamento al mio salvatore.
La mia attenzione si posò su un ragazzo poco più grande di me, vestito di un completo gessato grigio con il soprabito abbinato. Il primo pensiero che mi sovvenne fu Affascinante, ma ben presto cominciai a ricevere la visita del mio coinquilino preferito. Il mio Cervello.
Cominciamo bene, Ven. Sei qui da nemmeno una settimana e già metti il belloccio in giacca e cravatta al primo posto. Vuoi o non vuoi finire lo stage col massimo dei voti? Vuoi o non vuoi diventare socia dello studio?
Devo ricordarti tutto?
Aveva perfettamente ragione, e io stupida che ancora mi facevo condizionare da queste turbe adolescenziali che avrebbero solamente peggiorato la situazione. Ero arrivata a Londra unicamente per il master, per lavorare in uno degli studi di legge più famosi della capitale inglese, e non mi sarei fatta distrarre da nulla.
Strinsi saldamente il manico della mia ventiquattr’ore e cercai di ignorare lo sguardo perforante di quel ragazzo che mi aveva gentilmente lasciato aperto le porte. «Thanks,» mormorai, tentando di rimanere più normale possibile.
Non dovevo dare alcun segno d’interesse, altrimenti avrebbe avuto via libera per provarci con la sottoscritta. In quella grande città dovevo avere cent’occhi, mica uno. Una bella ragazza come me non passava di certo inosservata.
Ma soprattutto una ragazza con un Gran Cervello.
Hai detto bene.
Il ragazzo in giacca e cravatta mi fissò con quei suoi grandi occhi azzurri e per un attimo mi sentii profondamente a disagio. In effetti, era da parecchio tempo che non mi concedevo un’uscita con qualcuno che non fosse Robbeo il mangia-caccole o quell’altro decerebrato del fidanzato di Cel. Avevano provato più volte ad appiopparmi qualcuno, ma Venera Donati era di gusti difficili – anzi, impossibili! – e per accontentarmi non bastava certo un bel visino o un paio di occhi azzurri come quelli del ragazzo di fronte a me.
In risposta al mio ‘Grazie’, lui mi sorrise, poi le porte dell’ascensore si spalancarono dopo un dlin-dlon e il fiume di gente si riversò nei cunicoli che conducevano alla banchina dove sarebbe passata la Red Line di lì a pochi minuti. Cercai di uscire senza essere spintonata troppo, ma con sollievo sapevo che la cavalleria inglese non era solo una diceria. Al contrario di Roma, dove i ragazzi più erano vecchi e più ti avrebbero schiacciato con i loro stivali firmati pur di accaparrarsi il posto sulla scala mobile, a Londra si offrivano anche di cederti quello a sedere.
Ero rimasta sorpresa appena arrivata, ma adesso ci stavo pian piano facendo l’abitudine.
Please mind the doors. Doors closing.
La voce metallica di una donna avvertì la chiusura delle porte automatiche della Tube, così mi affrettai a salire sul vagone senza accorgermi che la Oyster mi era scivolata dalla tasca del cappotto di tweed. Me ne resi conto solo quando le porte si stavano chiudendo e fui presa dal panico. La tessera andava passata sia all’entrata che all’uscita dei tornelli, e se me la fossi persa sarei rimasta bloccata nella Tube a discutere per ore con gli addetti della vigilanza.
Sarei sicuramente arrivata in ritardo al mio appuntamento.
Allo stesso tempo, però, se fossi riuscita a uscire dal vagone per raccogliere la tessera, avrei perso la corsa e sarei comunque arrivata tardi. Rimasi totalmente imbambolata a fissare la banchina inumidita dalla pioggia che i passanti si erano trascinati dalla strada quando, con un movimento agile e veloce, vidi il ragazzo in giacca e cravatta raccogliere il portadocumenti ed entrare nel vagone prima che le porte si chiudessero.
Mi si avvicinò trionfante e mi porse l’astuccio con la Oyster dentro.
«Thanks, again,» dissi imbarazzata, visto che era la seconda volta che mi salvava dalla mia perenne sfortuna che sembrava perseguitarmi sin da quando ero atterrata a Londra.
Il ragazzo mi sorrise ed io ricambiai il gesto, ricordandomi sempre di non dare troppa confidenza perché avevo un obiettivo ben chiaro in mente e non potevo permettermi alcuna distrazione. Afferrai il portadocumenti e lo misi in tasca, anche se subito dopo preferii riporlo nella ventiquattr’ore visto lo spiacevole incidente di prima. Mi sentivo lievemente osservata dal ragazzo che si era improvvisato mio cavaliere per ben due volte, poi quando vidi che si era liberato un posto a sedere, preferii tirare fuori la mia copia di Mucchio d’ossa e continuare a leggere dal capitolo dodici.
Nonostante tentassi di tenere il segno con un dito, di tanto in tanto il mio sguardo vagava su quel misterioso ragazzo di poche parole. Era vestito molto elegante, questo valeva una decina di punti da parte della sottoscritta. Dopo aver passato l’intera adolescenza tra pantaloni a bracaloni, mutande di fuori, magliette talmente larghe e sbrindellate che avrebbero potuto improvvisare un tendone da circo, ero diventata amante del buon vestire.
Notai che preferiva portare un po’ di barba incolta, il che non guastava. Mi sentii notevolmente in sintonia con quel tipo, almeno apparentemente incarnava proprio il mio uomo ideale.
Devo forse ricordarti cosa siamo venuti a fare?
No! Aveva ragione il mio Cervello ed io dovevo dargli retta. Il tempo per l’altro sesso lo avrei trovato in seguito, ora avrei dovuto pensare solamente alla mia carriera perché era quello che desideravo più al mondo. La famiglia, come tutto il resto, sarebbe venuta in seguito.
Next Stop: Oxford Circus. Annunciò la voce metallica dell’alto parlante, così riposi il libro nella valigetta e mi apprestai ad uscire.
Il misterioso ragazzo sembrò non fare caso alla mia presenza, così fissai lo sguardo sulle luci del tunnel che sferzavano a gran velocità davanti ai miei occhi. Avrei dovuto impegnare tutta me stessa per far bella figura in ufficio. Avevo ideato già un piano, un modello di comportamento che sicuramente mi avrebbe fatta spiccare nel mezzo della infinita bolgia che c’era allo studio.
Per il tirocinio alla Abbot&Abbot eravamo stati assunti in cinque, e i miei quattro ‘adorati’ compagni tirocinanti non facevano altro che trasformare ogni mia giornata allo studio più infernale di quelle precedenti.
C’era in particolare una ragazza giapponese, Yuki, che ogni volta che mi vedeva, tentava sempre di mettermi i bastoni tra le ruote, non solo metaforicamente. Era Miss Perfezione, la maledetta, e il mio primo giorno di tirocinio mi aveva fatto lo sgambetto davanti a tutti ed io avevo finito col rovesciare il caffè sulla giacca del tailleur.
Una bastarda maledetta, ecco cos’era.
L’unica mia vera rivale, perché gli altri tre ragazzi erano più che altro figli di papà di Cambridge che passavano la maggior parte del tempo a fumare nei bagni e cazzeggiare con la macchina fotocopiatrice. Alla fine del tirocinio, lo studio avrebbe offerto a uno di noi il posto fisso come avvocato ed era una di quelle occasioni che capitano una volta nella vita.
La metro si fermò alla fermata di Oxford Circus, mentre le porte scorrevoli si aprivano con una lentezza disarmante. Strinsi la valigetta e posai il piede sulla banchina umida di pioggia per poi dirigermi ai tornelli e uscire finalmente in strada.
Prima di abbandonare il vagone, però, non riuscii a fare a meno di lanciare un’ultima occhiata al ragazzo in giacca e cravatta. Mi guardava.
Tentai di rimanere impassibile, nonostante mi avesse palesemente beccata a fissarlo, e mi diressi verso l’uscita, preparandomi psicologicamente all’umidità che avrei trovato una volta all’aperto. Fortunatamente lo studio si trovava nelle vicinanze, quindi non avrei dovuto bagnarmi più di quanto non lo fossi già.
Passai la Oyster sul lettore elettrico, dopodiché mi appropinquai a salire le scale che davano sulla piazza. Numerose persone mi sfilavano di fianco, precedendomi nella camminata, ed io maledissi mentalmente le mie gambe corte e il mio scarso metro e sessanta.
Avere origini siciliane non contribuiva certo alla fretta con cui si procedeva lì in città.
Una volta fuori dalla Tube, respirai l’aria pungente di quella giornata ottobrina e piovosa. Fortunatamente l’acquazzone si era acquietato, lasciando il posto ad una lieve pioggerellina. Mi guardai intorno e riconobbi immediatamente Regent Street, con i suoi grandi e lussuosi negozi, così mi immisi nella strada principale alla ricerca della sede della Abbot&Abbot.
Il mio passo era spedito sull’asfalto, nonostante gli stivali col tronchetto mi dessero leggermente fastidio. Non ero abituata a vestire in modo così elegante, ero sempre stata una ragazza da ‘tuta e scarpe da ginnastica’, invece mi ero ritrovata ad indossare completi per andare in ufficio, vista la concorrenza spietata che girava tra i tirocinanti.
Non lo avrei ammesso davanti a nessuno ma, ahimè, l’aspetto contava molto per il mondo del lavoro.
Passai davanti alla vetrina di Burberry e mi specchiai nel riflesso, rimanendo incantata a fissare un trench piuttosto elegante che avrei volentieri indossato. Peccato che costasse quanto l’affitto del mio monolocale. Sconfitta, tornai a camminare in direzione dello studio, ma mi accorsi di essere seguita.
Inizialmente feci finta di nulla, continuando a passeggiare impassibile e stringendo la valigetta nervosamente, poi tentai di guardarmi alle spalle.
Con la coda dell’occhio riuscii ad intravedere il ragazzo in giacca e cravatta. Che diavolo voleva da me?
Calma Ven, non lasciarti prendere dal panico. Non ti si addice.
Diedi ascolto al mio caro Cervello e proseguii senza dare alcun segno di preoccupazione. Regent Street era una delle strade più famose e affollate di Londra, era normale che venisse percorsa da un infinito numero di persone.
Non dovevo affatto preoccuparmi, visto che quel tipo non mi aveva minimamente rivolto la parola nonostante mi avesse aiutato per ben due volte.
Anzi, era pure un gran maleducato!
Ripassai mentalmente la strategia da adottare contro Yuki, visto che quella ragazza sarebbe passata addirittura sopra a suo padre pur di scavalcarmi nella corsa al posto fisso, e ignorai il barbuto dietro di me.
“Che poi non è nemmeno tutta ‘sta bellezza,” mi ritrovai a pensare, accavallando il caso di Thomas Crawford agli occhi blu dello sconosciuto della metro. Era impossibile riuscire a pensare lucidamente con tutti quei pensieri che mi vorticavano nella testa, ma per fortuna ero quasi giunta a destinazione.
Imboccai una traversa di Great Castle Street e mi diressi verso un appartamento signorile dove aveva sede lo studio. Mi sistemai il soprabito di tweed, sentendolo ancora umido della pioggia di quella stessa mattina, poi ravvivai un po’ i capelli a caschetto e mi decisi ad entrare.
Prima di varcare la soglia, però, lanciai un’occhiata in direzione di Regent Street e per poco non ebbi un attacco cardiaco quando vidi il ragazzo in giacca e cravatta sorridermi, mentre si avvicinava con passo deciso.
Okay, quella non era affatto una coincidenza.
Ignorai palesemente quel gesto amichevole che mi aveva rivolto e mi fiondai di corsa all’interno dello studio, sperando vivamente che non mi seguisse fin lì.
«Sei arrivata, finalmente.»
La voce fastidiosamente acuta di Yuki mi sorprese non appena misi un piede all’interno del suo territorio. Era la persona più odiosa che conoscessi, persino peggio della fidanzata del mangia-caccole.
Era incredibile come quell’ameba di Romeo Ciuccio, incubo della mia vita sin dall’età di dodici anni, fosse riuscito a, punto primo, sopravvivere tutti questi anni, punto secondo, a trovarsi uno schianto di ragazza che nemmeno i suoi sogni più arditi avrebbero potuto partorire.
Devo ricordarti il QI di Annalisa?
A tutto c’era una spiegazione, in fin dei conti.
«È piovuto tutto il giorno, ho trovato dei rallentamenti nella Tube,» le dissi, anche se non avevo alcuna ragione di darle delle spiegazioni.
Un suo sopracciglio alzato fu sufficiente a farmi capire che non gliene poteva importare nulla. Certo, ero l’unica dei tirocinanti che si serviva dei mezzi pubblici per andare a lavoro.
Tentai di ignorarla e di concentrarmi sul vero motivo per cui mi ero fiondata all’interno della palazzina neanche fossi inseguita da un’orda di cani randagi. Mi voltai appena e attraverso la porta a vetri riuscii a scorgerlo mentre saliva gli scalini dell’ingresso.
Oddio, ma che voleva?
Possibile che mi avesse inseguita fin lì solo per chiedermi di uscire? Che si fosse fatto tutta quella strada per un misero appuntamento?
«Chi è quello?» se ne uscì Yuki, fissando fuori dalla porta. «È carino.»
«Non farlo entrare!» la avvertii, ma non sapevo se mi avrebbe dato retta.
Nel frattempo mi tolsi il soprabito di tweed e lo misi sull’appendiabiti, lisciando le pieghe della gonna e sistemandomi meglio. Un fuggevole sguardo allo specchio mi diede la conferma che somigliavo ad un pulcino caduto in un pozzo, ma ebbi l’accortezza di aggiustarmi il mascara colato sotto gli occhi.
“Ma quindi lui mi ha vista in questo stato pietoso?” realizzai in ultimo, sentendomi davvero una sciocca.
«Miss Donati, buongiorno.»
La voce di Mr. Abbot, nonché uno dei due fratelli proprietari dello studio legale più importante di Londra, mi si presentò davanti con il suo solito charm e il completo impeccabile color grigio chiaro. Quell’uomo incarnava tutto ciò che avrei voluto essere, tranne il sesso ovviamente. Era bello, affascinante, un avvocato di successo e una persona di buone maniere e gentile.
«Buona giornata a lei, Mr. Abbot,» risposi, lisciandomi i capelli che ancora non ne volevano sapere di stare in piega.
«Ha trovato difficoltà a venire allo studio, stamane?» mi domandò sempre gentile e premuroso.
Stavo per rispondere con altrettanta cordialità, quando con la coda dell’occhio vidi Yuki che aveva fatto entrare lo sconosciuto in giacca e cravatta.
Maledetta! Lo aveva fatto apposta ed io me lo sarei dovuto aspettare da una persona infima come quella.
Stai calma, Ven. Ancora non sai cosa quel tipo vuole da te.
E se mi chiedesse il numero di telefono davanti al mio capo? No, sarebbe l’umiliazione peggiore della mia vita e mi giocherei il posto fisso allo studio.
Non poteva accadere. Ero andata via di casa con l’unico scopo di lavorare alla Abbot&Abbot e cinque anni di sacrifici, più un master in Diritto penale comparato non potevano essere gettati al vento.
«Ehm… no…» temporeggiai, per poi incrociare lo sguardo del ragazzo-stalker che sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarmi in pace.
Come una furia, mi precipitai verso di lui a passo sostenuto, prima che potesse avvicinarmi e screditarmi davanti a tutti gli altri miei colleghi. Forse apparii un po’ scortese agli occhi di Mr. Abbot, ma dovevo salvarmi il cosiddetto posteriore e mettere fine a quella farsa che era cominciata quella stessa mattina.
Il tipo mi fissò sorpreso, ma non ebbe il tempo di dire nulla che gli afferrai il braccio e feci per condurlo fuori dalla porta, senza la minima gentilezza. Se voleva il mio numero di telefono, non c’era alcun bisogno di chiederlo davanti al mio capo.
«Che fai?» chiese lui, sbigottito.
«Te ne devi andare, ora,» tuonai, sperando che Mr. Abbott non avesse visto la mia poca mancanza di professionalità. «È uno studio privato, non puoi fare così.»
«Così, come?» domandò divertito.
Ah, se la rideva anche!
«Ho capito cosa vuoi, ne discutiamo fuori di qui!»
«Hai qualcosa da nascondere, Spaghetti-Girl?» s’intromise anche la giapponese bastarda.
Le mimai un ‘Taci’ che avrei volentieri accompagnato con qualche bella espressione colorita che avevo imparato recentemente da quel troglodita calciatore fidanzato della mia migliore amica. Leonardo Sogno: un nome, un programma.
Purtroppo Mr. Abbott era rimasto a fissarmi incredulo, mentre si chiedeva quale razza di svitata aveva assunto per il suo tirocinio. Nel frattempo il ragazzo-stalker non la finiva di ostentare un sorriso sfacciato che non faceva altro che farmi saltare i nervi più del dovuto.
Gentilmente tolse la mia mano dalla sua giacca firmata e lisciò la porzione che avevo sgualcito col fervore delle mie azioni spropositate di poco prima.
«Zio Henry,» disse poi, rivolgendosi all’uomo alle mie spalle.
Sbiancai in trentatré secondi netti, elaborando solo troppo tardi le evidenti somiglianze tra il giovane che mi perseguitava e il proprietario di tutta la baracca. Yuki sogghignava sotto i folti baffi che pensava di aver tolto dall’estetista, mentre io non avevo nemmeno il coraggio di voltarmi.
Sapevo che un fired! urlato da Mr. Abbott non me lo avrebbe tolto nessuno. Ero rovinata.
Soltanto tu potevi scambiare il nipote del tuo capo per uno stalker!
Oh, non ti ci mettere anche tu adesso!
«James!» sorrise l’uomo, andando in contro al ragazzo e abbracciandolo con calore. «Ti aspettavo per questo pomeriggio.»
«Sì, ho fatto prima,» si giustificò. «Il treno da Canterbury è passato stranamente in orario.»
Cercai distintamente di mimetizzarmi con la tappezzeria dell’ingresso, ma lo sguardo azzurro brillante di Mr. Abbott mi immobilizzò sul posto.
«Conosci già una delle nostre tirocinanti?» disse al nipote, indicandomi.
Quel tale di nome James si allargò in un sorriso sincero. «Ho avuto questo onore.»
Lo zio rimase molto perplesso, ma non ci fece caso. Se avessi saputo che il ragazzo era niente poco di meno che il nipote del mio capo, avrei tentato di tutto per non fare un’infinità di figure di merda davanti a lui.
«È una ragazza brillante, una promessa. È italiana, sai?» e tentai di non arrossire dopo tutti i complimenti che Mr. Abbott stava elargendo, facendo diventare Yuki livida di rabbia.
«L’ho capito dal suo accento, anche se ha una pronuncia quasi impeccabile,» sorrise il tipo.
«Bene, bene,» disse compiaciuto il vecchio avvocato. «Spero proprio che andiate d’accordo, anche perché non è escluso che vi faccia collaborare d’ora in poi.»
«Zio, non sono arrivato allo studio nemmeno da un giorno e già vuoi sobbarcarmi di lavoro?» ridacchiò il ragazzo, trascinandomi in una risata finta come una banconota da 3 sterline.
Il vecchio Abbott sorrise. «A dire il vero, mi è capitato un caso interessante tra le mani di recente e vorrei proprio vedere come ve la cavate,» propose ed io continuai ad ascoltarlo.
Dentro di me non potevo che gioire come una bambina al parco giochi, mentre Yuki si contorceva le budella dalla rabbia. Avevo rischiato il licenziamento, questo dovevo ammetterlo, ma in compenso ora potevo addirittura occuparmi di un caso vero e proprio, anche se avrei dovuto dividerlo con il bellimbusto.
«Beh, non voglio stare qui ad annoiarvi. Torno in ufficio, ne parleremo meglio quando si presenterà l’occasione. Buona giornata e buon lavoro.» Così Mr. Abbott si congedò e mi lasciò da sola a specchiarmi nelle iridi azzurrine di quello strano ragazzo che avevo incontrato per caso quella mattina sulla Tube.
La mano del destino alle volte aveva un modo davvero curioso di agire, di muovere dei fili e di tirarne degli altri.
«Non mi sono ancora presentato a dovere,» disse lui, sorprendendomi. «Piacere, James Abbott. Per gli amici Jamie.»
Gli strinsi la mano con decisione, dopotutto si trattava pur sempre di un collega. Certo, il suo sorriso e quel suo sguardo erano disarmanti, ma io ero una professionista, non più una ragazzina alla sua prima cotta. Ero impassibile come un blocco di ghiaccio.
«Piacere mio. Vènera.» sospirai, marcando l’accento sulla prima ‘e’ del mio insolito nome.
Jamie, come da copione, spalancò gli occhi dalla sorpresa nel sentire la particolarità del mio nome di battesimo ed io pensai subito che scoppiasse a ridermi in faccia.
Non sarebbe stata la prima volta, dopo tutto.
Invece mi sorprese. «Bel nome, mi piacciono quelli particolari,» sorrise. «Sento già che sarà un piacere lavorare con te. Sei un tipetto niente male, suppongo.»
Avrei voluto rispondergli per le rime, ma dovevo mantenere un certo contegno. Ormai ero un avvocato e non sarebbe stato professionale perdere le staffe.
«Spero che tu sia bravo a parole tanto quanto ad attaccarti ai cavilli procedurali, altrimenti dovrò sobbarcarmi tutto il lavoro,» sghignazzai, sentendo di aver fatto centro. «Ora scusami, ma devo lavorare.»
Dopodiché mi avviai alla scrivania sentendo gli occhi di Jamie incollati alla schiena. Sorrisi dentro di me e pensai che dopo tutto la giornata non era iniziata poi tanto male.

***
Eccomi qui con una nuova originale (che pizza! ndr. i lettori)
Questa storia mi frullava da tempo in testa, precisamente da quando è entrato il personaggio di Venera nella originale a 4 mani Come in un Sogno. Diciamo che l'ho inquadrata subito, e che mi sarebbe piaciuto molto fare uno spin-off su di lei perché è determinata ed adoro il suo carattere. Come ho detto nella presentazione, non è affatto necessario aver letto CIUS per capire di cosa si parla, perché si svolge in un futuro ben lontano.
Beh, questo prologo introduttivo ci presenta il carattere della protagonista, che è molto determinata e ci consente di dare uno sguardo anche alla sua vita lavorativa nella capitale inglese e ci presenta alcuni suoi colleghi.
Uno in particolare.
Ovviamente questo personaggio è ispirato ad una persona reale, cioè la mia Wife, nonché beta, nonché tuttofare. I love u! Ovviamente il capitolo è dedicato anche alle altre mie Crudelie, che mi supportano sempre. Vi lovvo girls!
Spero proprio che vi susciti almeno un po' di curiosità. Ci rileggiamo al prossimo capitolo :33

Kiss, Marty

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


 CAPITOLO 1

betato da Nes_sie
 
Londra era un’enorme metropoli, colma di persone che si riversavano nelle strade come l’acqua di un fiume dopo una giornata di piena. Quando avevo lasciato l’Italia, più in particolare Tivoli, per intraprendere la carriera giuridica nella capitale inglese, non mi sarei mai aspettata di incappare in alcune mie vecchie – e soprattutto indesiderate – conoscenze.
Ma andiamo per ordine.
James Thomas Abbott era un ragazzo sulla venticinquina, alto, ben piazzato e con un paio di profondi occhi azzurri al cui interno era nascosto un lampo di furbizia che, a mio modesto parere, ogni avvocato in erba doveva possedere. Chiunque poteva iscriversi alla facoltà di legge, ma soltanto una cerchia eletta poteva definirsi ‘avvocato’.
E lui era tra questi.
Il giorno dopo aver fatto la sua conoscenza, nonostante inizialmente avessi pensato si trattasse di uno stalker maniaco, Jamie si era rivelato un valido membro dello studio, e non solo perché era il nipote di uno dei soci. In questa occasione, fui costretta a mettere da parte i pregiudizi sui cosiddetti “figli di papà” e a rimboccarmi le maniche perché il biondino ci sapeva fare.
Seppi da quell’arpia di Yuki che James aveva studiato a Cambridge e si era laureato prima del tempo con il massimo dei voti, specializzandosi poi in diritto di famiglia. Non ce lo vedevo come avvocato divorzista, sinceramente, ma chi ero io per giudicare?
Personalmente, mi immaginavo un giorno alla sbarra, urlando a squarciagola la mia arringa contro il Pubblico Ministero che voleva mandare in galera un povero innocente, quindi la carriera penalista era la mia prima scelta… purtroppo, quando Mr. Abbott ci chiamò nel suo studio, le mie aspettative si smontarono.
«Ti sei persa qualcosa stamattina nella Tube?» mi sorrise Jamie, ricordando il modo in cui ci eravamo conosciuti.
Feci un finto sorriso, di quelli strafottenti brevettati in cinque anni di liceo più altri cinque di università. «Per tua fortuna no, ma qualcuno si è dimenticato il cervello sul comodino e non sono io,» conclusi, soddisfatta della mia lingua tagliente.
Jamie fischiò e mi sorrise. Quei suoi occhi vispi e azzurri, con un po’ di quella barba incolta che gli dava qualche anno di più di quanto avesse riportato sulla carta d’identità gli conferivano un’aria talmente affascinante che rischiavo di rimanerne soggiogata.
Datti una svegliata, Ven! Obiettivo primario: diventare socio dello studio, anche a costo di passare con i tuoi stivali vintage sopra quel bel corpo muscoloso davanti a te.
E asciugati la bava, per l’amor di Dio!
Inconsciamente mi portai un dito all’angolo delle labbra ed effettivamente raccolsi un po’ di saliva che era rimasta sospesa dopo aver schiuso la bocca troppo a lungo, in contemplazione di quel corpo statuario davanti a me. Aveva ragione il mio fidato Cervello, era mio dovere pensare prima alla carriera, poi sarebbe venuto tutto il resto.
…e non solo quello.
«Quale caso credi che ci assegnerà tuo zio?» gli domandai, rimanendo saldamente sull’argomento lavoro-lavoro-lavoro-e-ancora-lavoro.
Lui si mise le mani nelle tasche dei pantaloni dal taglio elegante e ci pensò su. Mi ritrovai a pensare che anche ogni suo gesto più semplice sembrava calcolato e fatto con quella tipica eleganza inglese che io avevo sempre ammirato.
Per non parlare dell’accento, poi.
«Mio zio è un tipo un po’ bizzarro,» spiegò, ma feci fatica ad associare la parola “bizzarro” a Mr. Abbott. Sì, era un uomo alla mano e piuttosto gentile, al contrario del fratello – l’altro zio di James – ma addirittura definirlo bizzarro… «non so davvero quale caso potrebbe assegnarci, ma di sicuro ha fiducia nelle tue capacità. Presumo non sia nulla di semplice,» e sorrise, di nuovo.
Maledetto.
Non feci in tempo a gonfiare il petto d’orgoglio, sapendo quanto fossi brava nel mio lavoro, che la segretaria di Mr. Abbott, la signorina Austen, ci fece accomodare nello studio del socio anziano che subito ci accolse con il sorriso brevettato alla ‘Abbott’.
«Ragazzi miei, benvenuti!» E ci fece segno di accomodarci su due poltrone dall’aspetto molto comodo. Presi posto alla destra della scrivania, lisciandomi i pantaloni del completo e slacciando il bottone della giacchetta che indossavo. «Oggi c’è bel tempo, cosa rara qui a Londra, ed ho anche delle ottime notizie per voi due.»
Tralasciando il fatto che sembrava parlasse di noi non come team di colleghi ma come futuri sposini, aveva una strana luce d’eccitazione negli occhi ed io potevo solamente tradurla come qualcosa di brillante per il caso che ci avrebbe assegnato.
Il mio primo incarico come avvocato in erba ed ero stata assegnata niente di meno che al nipote di Mr. Abbott. Non potevo chiedere nulla di meglio.
«Dunque, stavo dicendo,» continuò Mr. Abbott, senza smettere di lanciarci occhiate ammiccanti. «Ieri vi avevo preannunciato di avere un caso per le mani niente male, in cui potrete collaborare e tirar fuori il meglio di voi.» Fece una pausa calcolata giusto il tempo per farmi agitare scompostamente sulla sedia che, nell’attesa, sembrava esser stata foderata di irti chiodi. Guardò prima il nipote e poi la sottoscritta. «Jamie, anche se sei arrivato da poco in questo studio, ripongo le mie aspettative nelle tue mani e poi ti ho assegnato una delle migliori tirocinanti che abbiamo qui allo studio, quindi sei in buone mani.»
Cercai di nascondere il rossore sulle guance ma non vi riuscii molto bene. Essere definita una delle migliori da Mr. Abbott valeva più di qualsiasi altro complimento che avessi mai ricevuto. Persino più della Laurea cum laude.
«E tu, mia cara Venera,» disse nella mia direzione. «Ci sei stata raccomandata così calorosamente che mi sento in dovere di darti un’opportunità. Sei arrivata sin qui dall’Italia, hai studiato un diverso sistema giuridico soltanto per lavorare con noi, quindi te lo meriti.»
«Zio, ma di cosa si tratta? Ci stai mettendo ansia,» sorrise James.
Mr. Abbott arricciò le labbra e lasciò che una sana risata gli sorgesse dal fondo della gola, poi ci guardò con quei suoi limpidi occhi azzurri. Aprì uno dei cassetti della sua scrivania e ne estrasse due cartellette che ruotò nelle nostre direzioni.
«Giorni fa, mi ha chiamato una mia vecchia conoscenza, chiedendomi aiuto per un suo cliente ed io ho preso in esame questo caso. Non è nulla di impossibile, ma vorrei che foste in due ad occuparvene perché si tratta di un personaggio di spicco e necessita una certa privacy attorno a questa storia.»
Afferrai la cartella con mani tremanti, quando James già stava esaminando i primi fogli. Non potevo crederci, il mio primo caso per lo studio Abbott&Abbott. Un sogno!
«Si può fare,» commentò il giovane Abbott ad una prima occhiata dei documenti.
Suo zio annuì soddisfatto. «Vi suggerisco di fare un salto dal vostro nuovo cliente, in modo da presentarvi e discutere meglio una linea d’azione. Mi aspetto il massimo della riservatezza, nonché una certa professionalità da parte vostra. Non si tratta di una persona del mondo dello spettacolo, ma è comunque un volto popolare, soprattutto qui nella capitale, ma anche nel resto del mondo.»
Okay, ero sufficientemente curiosa da divorarmi l’intero plico pur di riuscire a leggere il cognome del nostro assistito. Aprii con foga la cartellina, non accorgendomi che i fogli erano liberi di schizzare via, così riuscii a rovesciarne tutto il contenuto per terra.
Sprofondai in un completo imbarazzo. «M-Mi dispiace!» e mi affrettai a raccogliere tutti i fogli sparsi sul parquet come un mare di neve bianca.
Anche James si chinò ad aiutarmi, così in fretta e furia riuscii a risistemare i fogli alla bell’è meglio dentro la cartellina. Mr. Abbott non si scompose e rimase con quella sua solita espressione bonaria in viso.
«Bene, potete iniziare quando volete,» ci comunicò tranquillamente. «Vi ricordo solo di fare quella visita di presentazione, soprattutto a nome dello studio. Non ho parlato direttamente con il nostro cliente, ma con un suo, diciamo, ‘tutore’, quindi è bene che vi presentiate ufficialmente prima di esaminare le minuzie del caso.»
«Perfetto zio, ci organizzeremo al più presto.»
«Certamente,» mi aggiunsi anch’io, riacquistando un po’ di professionalità dopo la figuraccia che avevo fatto prima.
Mr. Abbott ci congedò subito dopo e io mi ritrovai nel corridoio a respirare come se non avessi ossigenato il cervello per tutto il tempo che ero stata nel suo ufficio. Non potevo crederci. Il primo caso assegnatomi niente di meno che da uno dei soci anziani dello studio in persona.
Certo, dovevo ammettere che Mr. Abbott mi aveva nominata assistente del nipote, il vero avvocato di questo caso, ma comunque era un’opportunità a cui non avrei rinunciato per niente al mondo.
«Va tutto bene? Sei bianca come un lenzuolo,» asserì James, posando una mano sulla mia spalla senza alcun secondo fine.
Deglutii e poi strinsi entrambe le mani sulla cartella. «Certo, sono solo emozionata per il caso.»
Jamie mi sorrise sincero, poi apparve uno degli avvocati dello studio e lo chiamò per qualcosa cui stava lavorando.
Rimasi immobile con ancora la sensazione del calore della sua mano sulla mia spalla e quell’eco di felicità che mi era rimasta addosso per la notizia di un nuovo ed entusiasmante lavoro.
«Stai cercando i tuoi neuroni?» domandò Yuki arcigna.
Rinsavii quel tanto da focalizzare la mia rivale per il posto fisso nello studio, e strinsi con forza la cartelletta contenente i documenti relativi al caso.
«Scusa, non ho proprio tempo di insultarti,» sorrisi mefistofelica. «Devo tornare a casa al più presto per dare un’occhiata ai documenti del mio primo caso assegnatomi da Mr. Abbott.»
Come previsto, Yuki sbiancò di colpo. «C-Ca-Cas… Quale caso?» domandò esterrefatta.
Non ebbi il tempo sufficiente per rispondere, perché James fece capolino dalla porta del suo ufficio e mi chiamò.
Chiusi metaforicamente la porta in faccia a Yuki e vidi Jamie Percival Abbot – anche io avevo fatto i miei compiti a casa – in piedi di fronte alla finestra che dava su una meravigliosa panoramica della City. Mi portavo ancora addosso gli strascichi dell’euforia di poco prima, ma tentai di contenerli.
«Ven, so che ci conosciamo da pochissimo tempo,» iniziò, senza distogliere lo sguardo dal panorama.
Oddio, mi vuole invitare ad uscire?
Ero troppo scombussolata da riuscire a pensare con lucidità, così sperai in un intervento in extremis del mio Cervello, ma anche lui sembrava essersi preso una momentanea vacanza.
Calma.
Poi Jamie si voltò ed io mi specchiai in quei suoi occhi profondi, adulti ed estremamente intelligenti. «Questo caso è molto importante per me, mio zio ha riposto in entrambi una fiducia che non possiamo permetterci di tradire, perciò mi sento in dovere di chiederti se sei pronta a metterci tutta l’anima in questa cartelletta.»
Strinse con forza il plico di fogli e mi guardò in attesa di una risposta. Era determinato quanto me a risolvere questo caso, ed io non potevo tirarmi indietro.
«Anche se dovessi passare tutte le notti in bianco da qui alla fine del caso, puoi contare su di me!» E gli sorrisi.
Jamie ricambiò il gesto e si avvicinò posandomi una mano sulla spalla. «Domani mattina andremo dal nostro cliente, tieniti pronta. Dobbiamo fare buona impressione.»
Annuii convinta e inspirai in cerca d’ossigeno. L’Hugo Boss di James mi riempiva le narici e non riuscivo ancora a pensare lucidamente.
Devo farcela.
 
Il ritorno a casa fu meno traumatico dell’andata. Alle 18.00 in punto, quando il Big Ben faceva sei rintocchi che riecheggiavano per tutta Parliament Square, la Tube si riempiva dei pendolari che, come la sottoscritta, facevano ritorno verso le proprie abitazioni.
Stavolta, però, all’interno della mia valigetta di pelle nera, c’era una cartella con i fogli più importanti che avessi mai stretto tra le mie mani. Non potevo ancora crederci. Non ero allo studio nemmeno da un mese, e Mr. Abbott mi aveva già affidato il mio primo caso.
Tecnicamente l’ha affidato a Mr. Occhiblu, tu sei solo la sua assistente.
Feci tacere mentalmente il mio Cervello e continuai a crogiolarmi nella beatitudine con un sorriso ebete stampato in faccia. Persino un vecchietto seduto di fronte a me cominciava a guardarmi male, ma poco m’importava.
Finalmente Venera Donati poteva dirsi realizzata nella vita.
Il monolocale in affitto di Oxford Street non era certo il plus ultra del lusso. Situato all’ultimo piano senza ascensore di una palazzina in puro stile vittoriano, per arrivarci il primo giorno mi ero dovuta caricare cinquanta chilogrammi di trolley su per sei rampe di scale, mentre il proprietario della palazzina rideva e mi osservava.
Purtroppo non avevo trovato di meglio e, almeno fin quando non fossi diventata socia, mi sarei dovuta accontentare. L’affitto era medio, ma almeno la fermata della Tube era vicina e raggiungibile a piedi in cinque minuti. In più, avevo Regent Park a pochi passi e innumerevoli negozietti di zona.
Entrai nell’androne e vi trovai Mr. Cabret che guardava la televisione a tutto volume dal suo gabbiotto. Era un uomo sulla cinquantina, tipicamente inglese. Indossava la stessa giacca di tweed per una settimana intera e Dio solo sapeva che odoraccio emanava quando si giungeva al Venerdì. Per il resto, sembrava apposto.
Aveva le gote sempre arrossate e in mano il classico bicchiere di whiskey con ghiaccio, invecchiato di chissà quanto. Avrei potuto quasi paragonarlo a mio padre, solo che al posto del tweed avrei messo la giacca di jeans consunta, con le toppe ai gomiti, e il Jack Daniel’s lo avrei sostituito con la grappa fatta in casa.
«Buonasera, Mr. Cabret,» sospirai, entrando esausta nell’androne della palazzina.
Il proprietario distolse appena lo sguardo dal televisore e mi fece un cenno con la mano. Dopodiché tornò a guardare la BBC.
Strinsi la valigetta e mi preparai ad affrontare le solite sei rampe di scale che, a lungo andare, mi avrebbero obbligata a mettermi un polmone d’acciaio. Mi tolsi le decolleté per evitare almeno eventuali vesciche, dopodiché posai i piedi fasciati da calze nere sulla moquette e cominciai a salire le scale.
Arrivata sino in cima, col fiato corto e delle goccioline di sudore che mi imperlavano la fronte, cominciai a frugare alla disperata ricerca delle chiavi. Una volta afferrate, le girai nella toppa e finalmente entrai nel mio monolocale.
L’appartamento era costituito da due stanze, se così si potevano chiamare. Una immensa, in cui c’era il letto e un piccolo angolo cottura, e uno spazio angusto che Mr. Cabret aveva avuto il coraggio di chiamare bagno.
Fortunatamente, grazie agli innumerevoli anni passati a giocare a Tetris, ero riuscita a far entrare tutti i miei effetti personali dentro quel misero appartamento che non raggiungeva nemmeno i metri quadri della mia vecchia stanza a Tivoli.
Lì vivevi in campagna, avevi un’intera magione.
Ringraziai mentalmente il mio Cervello, che non perdeva occasione di ricordarmi quanti sacrifici avessi fatto per raggiungere il mio vero obiettivo, e alla fine crollai esausta sul letto, senza togliermi nemmeno il trench.
Riuscii a sporgermi quel tanto da afferrare la valigetta ed estrarre i documenti per cominciare a leggermeli per bene, in vista di domani. Il mio pensieri non poté che vertere sul bel sorriso di James che mi avrebbe accolto una volta uscita dalla fermata della Tube, vicino all’indirizzo del nostro cliente.
Afferrai il plico e lo aprii, cominciando a scorrere la prima pagina alla ricerca del nome e dell’eventuale indirizzo dell’abitazione, ma con mio estremo sgomento mi accorsi che i documenti iniziavano subito a parlare del caso in questione.
C’erano alcune deposizioni, i fatti esposti sia da una parte che dall’altra, ma non v’era traccia né del nome del nostro cliente, né del suo indirizzo.
Calmati Ven, non sclerare. Sarà nella valigetta.
Mi alzai a sedere sul letto con uno scatto degno di un lottatore di Wrestling, dopodiché mi gettai a pesce verso la ventiquattr’ore e la saccheggiai senza ritegno, finendo col spargere tutto il suo contenuto sulla trapunta.
Sgranai gli occhi ed ebbi un tuffo al cuore.
Niente. Non c’era traccia di nessun foglio, di nessun appunto, nemmeno un misero post-it ed io ebbi davvero la speranza che Mr. Abbott si fosse dimenticato di allegare le generalità del cliente, ma poi mi diedi subito della sciocca.
James mi aveva chiaramente detto di presentarmi l’indomani mattina a quell’indirizzo, segno che lui l’aveva letto e che nella cartella era presente, almeno quando Mr. Abbott ce l’aveva consegnata.
Non ti sta sfuggendo qualcosa?
Forse avevo ignorato deliberatamente l’amara verità che sussisteva attorno al mistero del foglio sparito, anche perché equivaleva ad un’ammissione di estrema stupidità. Altro che i neuroni perduti di Yuki, avrei volentieri aperto la finestra e mi sarei lanciata di sotto.
Nell’ufficio di Mr. Abbott mi era caduto il plico con tutti i documenti, ed evidentemente, nella fretta di raccoglierli, ne avevo dimenticato uno. Quello più importante, poi.
«Maledizione!» imprecai, mettendomi le mani nei capelli.
Cercai il cellulare e sbloccai la tastiera, pensando di telefonare a James e farmi inviare quantomeno l’indirizzo, poi rimasi a fissare lo schermo come una scema. Ovviamente non avevo il suo numero, visto che l’avevo conosciuto il giorno prima.
«Cazzo.» Adesso ero davvero nei guai fino al collo. «Cazzo, cazzo, cazzo!»
Il mio primo caso in uno degli studi più importanti di Londra, associata niente poco di meno che al nipote del socio anziano, ed io ero riuscita a perdermi l’unico foglio che conteneva tutte le generalità del cliente.
Nemmeno se ti ci fossi impegnata, saresti riuscita a cacciarti in un guaio peggiore.
Ignorai quel pensiero e afferrai il telefono, pigiando con foga sui tasti e componendo il numero di telefono dello studio. C’era la speranza che qualcuno fosse rimasto, che magari Jamie si era trattenuto in ufficio per esaminare meglio il caso.
Pregai in tutti i modi che qualcuno rispondesse agli squilli, ma dopo un po’ persi la speranza.
«Salve!» era la voce di Mr. Abbott.
«Signore, mi dispiace chiamarla a quest’ora, ma è urgent-»
«Avete chiamato lo studio Abbott&Abbott, ma nessuno può rispondere. Lasciate un messaggio dopo il bip.»
Era la segreteria.
Con un tuffo al cuore, chiusi la chiamata e mi lasciai cadere sul letto. Non conoscevo l’indirizzo e non sapevo nemmeno in che zona di Londra abitasse. Non avevo il numero di telefono di James, né il nome o il cognome del cliente.
Come avrei fatto a trovarlo?
Quella notte la passai insonne. Mi rigirai più volte tra le lenzuola, non riuscendo ad impedire al mio cervello di pensare ad un modo per trovare quel dannato indirizzo. Rimasi a fissare il soffitto scuro e muffo per quasi tutta la notte, fin quando il sole non filtrò attraverso le pesanti tende dai motivi damascati.
Posso anche suicidarmi, adesso.
Mi alzai dal letto come uno zombie e mi trascinai fino alla cucina per preparare la macchinetta del caffè. Andai in bagno e l’immagine che mi restituì lo specchio era quella di una ragazza in piena crisi, che in meno di due ore era passata dalla più completa beatitudine ad una vena suicida.
Pensai allo sguardo di Yuki una volta che Mr. Abbott mi avrebbe sollevata dal caso per incompetenza, e m’immaginai gli occhi di James delusi. Gli avevo fatto un giuramento, e senza nemmeno accorgermene l’avevo infranto sin da subito.
«Sono proprio un’incompetente,» bofonchiai tra me e me.
Andai sino al comodino, sorseggiando il caffè bollente dall’unica tazza che mi ero portata da casa, afferrai il cellulare e lo accesi. Ero ancora intenta a maledirmi, quando il bip del messaggio mi sorprese. Pensai immediatamente che si trattasse di Mr. Abbott che mi diceva di fare le valigie e tornarmene a Roma con un volo diretto, invece notai che era di un numero sconosciuto:
 
‘Giorno collega!
Anche se posso sembrare pressante, ti ricordo che ci vediamo alle 9.30 a Piccadilly Circus. L’appartamento del nostro cliente si trova a pochi isolati da lì.
 
James.
 
La colonna sonora della mia vita, con We are the champions in sottofondo, cominciò a risuonare nella mia mente e se avessi avuto James davanti a me in quel momento di euforia, sicuramente lo avrei baciato. Guardai l’orologio con timore, ma erano ancora le 8.00 del mattino e avevo il tempo sufficiente per prepararmi in modo adeguato senza rischiare di sembrare una povera pazza.
Finalmente ero rientrata in carreggiata e potevo sognare ad occhi aperti di far parte dello studio, un giorno. Certo, avrei dovuto fotocopiarmi il foglio con le generalità, ma mi sarei fatta trovare a Piccadilly Circus alle 9.15 per non rischiare alcun ritardo.
In meno di cinque minuti riuscii a finire di prepararmi. Mi pettinai i corti capelli castani, mi passai su viso un velo di trucco, giusto per non sembrare un adolescente in piena tempesta ormonale, visto il mega brufolo sulla fronte che mi era spuntato quella mattina, e indossai il mio miglior tailleur.
Dovevo fare bella figura, sia con il cliente, ma soprattutto con James.
Ti sei presa una bella cotta, eh?
Zitto tu!
Detto ciò, dando una veloce occhiata all’appartamento che sembrava uscito fuori da un catalogo della ‘perfetta mogliettina’, uscii di casa e mi fiondai giù per le scale, attenta a non capitombolare per terra. Infilai una mano in tasca per controllare la Oyster, riposi le chiavi nella valigetta, controllai se c’era il plico con i restanti fogli del caso e salutai Mr. Cabret che ancora dormiva sulla sedia del suo gabbiotto.
Una volta uscita dalla palazzina, inspirai l’aria pungente di prima mattina e puntai lo sguardo verso il cielo plumbeo. Anche se il tempo era titubante e c’era in giro l’odore della pioggia, quella giornata si prospettava come una delle migliori di tutta la mia vita. Mi avviai verso la Tube e come ogni giorno, ripetei la classica routine che mi accompagnava fino in ufficio.
Anche la fermata era sempre la stessa, con l’unica differenza che all’uscita avrei trovato James ad aspettarmi.
Mi domandai se, nel caso ci sarebbero state altre visite al cliente, avrei potuto chiedergli di fare la strada insieme, dal momento che la prima volta che ci eravamo visti, lo avevo incontrato in metro. Attesi la Red Line con questo pensiero fisso nella mente, che mi accompagnò per tutto il viaggio d’andata. Ero euforica, elettrizzata, eccitata all’idea che finalmente avrei potuto mettere in atto tutto ciò per cui avevo studiato così tanto.
Una signora anziana mi si affiancò, così mi alzai per cederle il posto. «Prego.»
«Grazie, bella ragazza,» mi rispose lei sorridendo ed accomodandosi sul divanetto. «Com’è sei tutta raggiante? Stai andando dal fidanzato?» mi domandò curiosa.
A quella domanda normalmente sarei arrossita, oppure avrei cominciato col dirle che una donna in carriera come me non aveva bisogno di un uomo che la mantenesse, invece lì per lì mi uscì fuori un mezzo sorriso ebete.
«Una specie,» commentai, poi la voce metallica della Tube mi avvertì che la mia fermata sarebbe stata la prossima.
Salutai la vecchina e mi avvicinai alle porte scorrevoli, dopodiché, tra spintoni e calca, riuscii a raggiungere la scala mobile e a vedere l’angelo di Piccadilly Circus che svettava verso il cielo plumbeo di quella mattina.
Mi sentii leggera come una piuma e guardando l’orologio, mi accorsi di essere in perfetto orario. Alla fine tutto si era aggiustato, in un modo o nell’altro, e la fortuna era girata dalla mia parte ancora una volta. Mi guardai intorno alla ricerca di un paio di occhi azzurri, anche se ero ben consapevole di essere in netto anticipo, ma dopo un po’ mi sentii chiamare.
«Ehi, collega!»
Mi voltai e incontrai il sorriso a trentadue denti di James che mi accoglieva calorosamente, nonostante la giornata fosse un po’ fredda.
«Ehi!» gli risposi, con lo stesso entusiasmo.
L’occhio mi cadde subito sul suo montgomery nero, a doppio petto, che nascondeva un completo gessato grigio ed una cravatta azzurra, dello stesso colore dei suoi occhi.
Possiamo tornare sulla terra?
Scossi violentemente la testa e mi concentrai. Non c’era tempo per James, ma soltanto per il caso che avremmo dovuto affrontare.
«Pronta?» mi domandò.
Sfoderai un sorriso sghembo e mi portai una ciocca di corti capelli dietro l’orecchio. «Io sono nata pronta.»
James sorrise e mi fece strada, anche se ben presto realizzai di non aver letto nulla del caso. La sera prima ero stata troppo impegnata a cercare quel maledetto foglio per mettermi al corrente del resto, ma per fortuna si trattava più di una visita di cortesia che altro.
Non dovevo preoccuparmi.
L’appartamento effettivamente si trovava a pochi isolati da Piccadilly, nel quartiere di Soho. Camminammo per circa un quarto d’ora, ma alla fine riuscimmo a trovare l’indirizzo.
Anzi, James ci riuscì visto che io non sapevo nemmeno che cognome stessimo cercando.
Ci fermammo di fronte ad una palazzina bianca, con delle colonne ai lati della piccola scalinata. James salì e citofonò, io rimasi più in basso perché non c’era molto spazio per passare.
Il portone scattò senza che nessuno rispondesse, poi entrammo nell’ingresso e attendemmo l’arrivo dell’ascensore.
«È nell’attico,» mi disse James quando fummo dentro, poi spinse l’ultimo pulsante e la macchina si mosse chiudendo le porte in automatico.
Doveva trattarsi di un cliente con un sacco di soldi, finii col pensare. Abbott&Abbott era uno studio rinomato ed era più che logico che i suoi clienti fossero tra i personaggi di spicco della società inglese. Non mi stupii che alla porta ci potesse venire ad aprire un Magistrato, un Ministro o un membro della Curia di Westminster.
La verità era che ero rosa dalla curiosità.
James si fermò di fronte al portone e suonò il campanello, poi mi rivolse uno sguardo ed un sorriso smagliante. «Dai che lo conquisteremo, tigre!»
«Ovvio!» trillai entusiasta.
Fissai lo sguardo sul mogano della porta e mi domandai quanto tempo ci volesse per aprire, dal momento che gli avevamo già citofonato.
Calma, Ven. Non è il momento, né il luogo di andare in escandescenze.
Aspettai qualche altro secondo, cominciando a picchiettare il piede sul pavimento del pianerottolo quando il rumore di una serratura che scattava mi destò dalle maledizioni che stavo per lanciargli.
Chissà chi sarebbe apparso oltre l’anta.
Magari qualche attore di spicco di Hollywood.
«Buongiorno, Mr. Sogno. Siamo i suoi avvocati,» si presentò James ed io sbiancai.
In quell’esatto momento diventai dello stesso colore delle pareti: bianco latte. Appoggiato allo stipite della porta, con i capelli sparati in tutte le direzioni e vestito – se così si poteva dire – solo di un paio di pantaloni del pigiama a livello inguinale c’era niente poco di meno che uno dei miei acerrimi nemici.
«Che cazzo ci fai qui?» mi domandò Simone con la voce ancora impastata dal sonno.
Aveva ragione Celeste quando mi parlava di Karma e roba del genere. Forse c’era una ragione per la quale avevo smarrito il foglio con le generalità del cliente, forse non mi sarei mai dovuta presentare e non avrei mai dovuto accettare il caso.
Certo, ma ormai era troppo tardi.


***

Bene, benino!
Eccoci finalmente nel "vivo" della storia. Abbiamo finalmente dato una sbirciatina al caso che  la nostra Ven dovrà seguire sotto la stretta (:3 molto stretta) supervisione di Jamie però si sa ancora poco o niente. Ma l'evento fondamentale di questo primo capitolo è che finalmente abbiamo capito chi è il famigerato cliente di cui si debbono occupare.
TADAN!
Chi di voi se lo sarebbe mai aspettato? Eh? Eh? Eh?
Insomma non è facile liberarsi di un Sogno, non trovate? xD
Io personalmente adoro Simone, è un tipetto niente male e ho il vago sospetto che darà filo da torcere a quella poveraccia di Ven . (tanta pena per lei).
A questo punto mi metto (letteralmente) nelle vostre mani. Ditemi tutto!
Bacioni e alla prossima!

Ah, se volete ''sclerare'' con me aggiungetevi al gruppo Crudelie si nasce.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

betato da Nes_sie

Arrivava un momento nella vita di una persona in cui tutti i segnali le facevano capire di aver sbagliato strada, di dover invertire la rotta, magari fare qualche passo indietro e cambiare strada. Ecco, io avevo deliberatamente ignorato quei segnali.

Gli occhi marrone scuro di Simone mi squadravano da capo a piedi, aspettando ancora la risposta alla sua domanda. Anche Jamie si era sorpreso del tono del suo cliente, ed io ora mi trovavo in una posizione davvero compromettente.
Mai e poi mai avrei immaginato che il mio primo cliente, del primissimo caso assegnatomi dal mio primo datore di lavoro fosse nient’altro che il cugino di Mr. Rinoceronte Leonardo, nonché fidanzato della mia migliore amica.
E aggiungerei tuo nemico giurato.
Non mi rimase da fare altro che ignorare l’istinto di girare i tacchi e tornarmene a casa a maledire il karma, per riacquistare la mia aria di professionalità.
«Come ha detto il mio collega, siamo i tuoi avvocati,» risposi tranquillamente, senza dare spazio alla rabbia, o alla sorpresa.
Di tutti i milioni di abitanti che c’erano nella capitale inglese, possibile che mi fosse capitato l’unico con cui avevo avuto dei trascorsi ben poco piacevoli?
Ovvio che sì. Come avevo pensato in precedenza, alla Abbott&Abbott si rivolgevano unicamente personaggi di spicco e Simone Pisellino Sogno, stella dell’Arfanal, Artenal, Arghenal, o che so io, non poteva essere da meno.
«Ah,» bofonchiò il rinoceronte, sbadigliandoci di fronte senza premurarsi nemmeno di nasconderci la visuale di tutto il cavo orale. Riuscii anche a scorgere di che colore portava le mutande andando oltre le tonsille. «Comunque non mi serve nessun avvocato,» tagliò corto.
Stava per chiuderci la porta in faccia, quando James la bloccò e tirò immediatamente fuori la cartelletta coi documenti. «Suo fratello ci ha assunti per occuparci del suo caso, e siamo venuti a fare un sopraluogo appena abbiamo potuto,» si giustificò.
Fratello?
Cercai di togliermi dalla faccia quell’aria sorpresa, dal momento che avrei dovuto quantomeno dare un’occhiata a quel plico di fogli, ma rimasi sorpresa nell’apprendere che esisteva ancora un altro Sogno con cui fare i conti.
Cominciai col pensare che quella famiglia si riproducesse alla stessa velocità di un allevamento di conigli, poi feci il punto della situazione: c’era Leonardo Chicco Sogno, TermoSifone, la piccola Sofia e questo quarto membro X senza nome apparente.
La faccia di Simone, nell’apprendere la notizia, era impagabile.
Sbuffò contrariato, poi si spostò da un lato della porta e ci fece entrare. Non la finiva di guardarmi male, ma tentai di ignorarlo almeno per fare bella figura di fronte a James. In realtà, con tutta la collaborazione di Cervello, stavo pensando ad un escamotage per non vedere il mio cliente tranne che direttamente nell’aula di tribunale.
Per il quieto vivere è meglio se non incontro la sua faccia tanto spesso.
L’attico era arredato con gusto, ovviamente si vedeva che non era farina del suo sacco. D’altronde, con tutti i soldi che guadagnava rotolando dietro ad un pallone si poteva permettere uno di quegli arredatori gay con puzza sotto il naso.
Ci fece accomodare al bancone della cucina, su degli sgabelli altri da bar.
Ovviamente per salirci sopra, con le decolleté e il tailleur che mi impediva la maggior parte dei movimenti mi sentii un po’ goffa.
«Qualche difficoltà, Lil’elf?» mi apostrofò, rispolverando quel soprannome che mi aveva affibbiato uno dei natali passati quando per caso ci eravamo trovati alla stessa festa organizzata da Cel e Leo. «Potrei provare a vedere se la vicina ha da prestarmi un seggiolone…»
Dio quanto lo odiavo.
Riuscii ad issarmi finalmente sullo sgabello e gli scoccai un’occhiata fulminante. «No, grazie.»
Mi morsi la lingua per non aggiungere altro, altrimenti avrei potuto mandarlo direttamente a quel paese senza fare tanti complimenti. Dovevo essere professionale, almeno di fronte a Jamie.
Sei un avvocato, ricordatelo. Questo ragazzino te lo mangi a colazione.
Simone, oltre ad essere anagraficamente più giovane della sottoscritta, aveva anche dei lineamenti così delicati da farlo sembrare ancora un diciottenne. Sicuramente non avrebbe mai dovuto ricorrere al lifting.
«Suo fratello è venuto per parlarci del suo problema,» iniziò James serio, trasudando intelligenza e ormoni d’avvocato da ogni poro della sua meravigliosa pelle. «Stando ai documenti e alle prove fin ora raccolte, ci sono gli estremi per andare in tribunale e risolvere la questione senza che lei debba pagare alcunché alla signorina.»
Mi sentii in dovere almeno di aprire il plico, visto che non sapevo di cosa stesse parlando. I primi quattro fogli contenevano una breve esposizione dei fatti dal punto di vista del cliente, ma dopo alcune pagine, compresi di che cosa ci saremmo dovuti occupare.
«Che si prenda pure tutti i soldi che vuole, l’importante è che torni a giocare,» ringhiò Simone, appoggiando i palmi sul nero marmo della cucina e lasciando che il mio occhio cadesse sulle vene che serpeggiavano lungo i suoi avambracci.
James rimase sorpreso. «Mr. Sogno, suo fratello ci ha assunti perché vincessimo questa causa e non scenderemo a patti, almeno per il momento.»
Bravo, bello e determinato.
Un uomo da sposare, insomma.
«Tu cosa dici, Ven?» mi chiese poi, puntando quei grandi occhi azzurri su di me.
Considerando che avevo letto le prime cinque pagine del plico, non avrei davvero saputo come esprimermi ancora. Avrei dovuto attingere all’unica mia arma rimastomi a disposizione: la parlantina.
«Per me dovremmo raccogliere le deposizioni da ambo le parti, confermare le fonti e soprattutto vedere se si tratta davvero di un caso di dubbia paternità oppure di un tentativo di estorsione da parte della ragazza in questione.»
«Quel bambino non è mio!» si difese subito Simone, come se lo avessi accusato di qualcosa.
«Ne siamo più che sicuri, Mr. Sogno,» rispose prontamente James. «Purtroppo nell’80% dei casi, una giuria punirebbe il padre, o presunto tale, invece di assegnare la pena alla ragazza gravida. A meno che non si abbiano delle prove schiaccianti. Ma io e Ven le troveremo,» e mi sorrise facendomi perdere un battito.
Simone anche puntò lo sguardo su di me, ma io tentai di ignorarlo. Ancora non capiva per quale motivo fossi piombata nel suo appartamento, ma pensai di trovare del tempo per ficcare in quella sua zuccaccia vuota che non era stata affatto una scelta personale.
Se avessi potuto cambiare cliente o spararmi, lo avrei fatto.
«Quindi?» domandò il diretto interessato. «La società mi ha chiaramente fatto capire che finché non risolvo questa cosa,» e indicò i fogli sparsi sul bancone della cucina. «Non potrò tornare a giocare. E la Premier è già iniziata.»
James sospirò, ricontrollando ancora una volta alcune carte. «Mr. Sogno, posso solo dirle che ci impegneremo per risolvere questa cosa nel minor tempo possibile, solo che nel frattempo dovrebbe promettermi una cosa.»
Sia Simone che la sottoscritta ci voltammo all’unisono verso l’avvocato.
«Dovrebbe limitare gli incontri con l’altro sesso.» Fu spiccio e indolore.
«Cosa?» sbottò immediatamente il calciatore.
James annuì convinto, raccogliendo le carte. «Non sappiamo se la ragazza dice la verità o meno, come abbia inscenato il tutto, ma vogliamo evitare ulteriori scandali. Essendo lei un personaggio pubblico e di spicco, se i tabloid la vedessero in compagnia di una ragazza diversa giorno per giorno, sia lei che noi perderemmo credibilità di fronte ad un’ipotetica giuria. Quindi mi sento in dovere di suggerirle di non vedere nessuno per un po’ di tempo.»
Simone stava per scoppiare a ridergli in faccia, ma io lo anticipai. La risata mi uscì d’istinto, proprio dal centro del petto, e rotolò fuori sorprendendo sia il calciatore che Mr. Abbott junior.
«S-Scusate…» mi ripresi, asciugandomi le lacrime senza sbaffare il trucco. «È solo che non ci riuscirà mai!» e ricominciai a ridere.
James mi fissava allibito e spostava lo sguardo da me a Simone – che nel frattempo mi stava fulminando – come in una partita di tennis.
«Ma…» fece per dire, ma fu interrotto.
«Che ne sai tu, Miss ho-una-scopa-nel-culo, eh?» mi ringhiò contro.
Le risate si persero nell’aria, perché in quel momento c’era il set di coltelli vicino la mia mano sinistra che mi provocava inconsapevolmente.
«Lo so e basta!» tentai di tagliare corto, ricordandomi di essere professionale.
Ma Simone cercava rogna, e fin quando avesse continuato di quel passo, ero sicura che avrei commesso un omicidio, altro che caso di dubbia paternità.
«Ma voi due…» continuò James, tentando di frapporsi nella conversazione.
«Ah! Che ne vuoi sapere tu? Vuoi scommettere che potrei benissimo resistere?»
In quel momento, però, come se fosse il chiaro segno del destino, si sentirono dei rumori provenire dalla camera da letto e ben presto fece il suo ingresso in cucina una giraffona con uno stacco di cosce da più di un metro.
Tutti si ammutolirono.
Si trattava sicuramente di una modella, a giudicare dall’assenza di pancetta – che la sottoscritta doveva nascondere grazie ad un paio di calze contenitive – e all’altezza esagerata. Minimo un metro e ottanta, scartando il metro e venti costituito solo dalle sue lunghe gambe.
Io raggiungevo le due mele e qualche centimetro.
«Bonjour à tous,» sbadigliò la tipa, raggiungendo Simone e cingendogli il collo con entrambe le lunghe e flessuose braccia.
«Bonjour, ma petite fleur rose,» rispose lui, avvicinando il viso e cercando le labbra di lei.
Rimasi abbastanza sorpresa dalla fluente pronuncia francese di TermoSifone, vista la sua ignoranza in quasi tutte le materie basilari, escluso sessuologia. Lo spettacolo della slinguazzata, però, me lo risparmiai e preferii fissare lo sguardo sul cesto di frutta.
«Stavamo dicendo?» domandò poi, sorridendo. «Lei è di Tolosa,» ammiccò diretto a James, come se l’avere un pendolino in mezzo alle gambe equivalesse a dire che c’era solidarietà maschile.
L’avvocato, però, tossicchiò e tentò di rimanere serio. «Segua il mio consiglio, Mr. Sogno. Credo che la mia collega abbia ragione.»
«Chi? Lil’Elf?» domandò lui sprezzante.
«Ma vi conoscete, per caso?» chiese alla fine James, riuscendo a non essere interrotto.
«Sì, ma perché abbiamo degli amici in comune,» tagliai corto io, senza dare alcuna importanza alla cosa.
«Quindi non c’è un conflitto di interessi,» ipotizzò James, spostando lo sguardo da me a Simone e ignorando la modella che nel frattempo sgranocchiava un biscotto. «Voi non…» e lasciò la frase in sospeso di proposito.
Realizzammo all’unisono il significato di quei puntini di sospensione, e sgranammo gli occhi.
«NO!» tuonammo contemporaneamente, con le facce schifate.
«Preferirei Osama Bin Laden.»
«Andrei a letto con Angela Merkel.»
Rispondemmo ancora, sempre come se ci fossimo messi preventivamente d’accordo. James sembrava sempre più sorpreso. «Curioso, davvero curioso.»
Rimanemmo in silenzio, fino a quando la giraffona non lo interruppe con un «Vous voulez un café avec des croissants?»
«Bene, ora devo proprio scappare in ufficio,» tagliò corto James, raccogliendo i fogli e sistemandoli nella valigetta. «Ci risentiremo a breve, per ora segua il mio consiglio. A cominciare da oggi.» E scoccò un’occhiata alla francesina.
Imitai il mio collega e mi preparai ad uscire da quell’appartamento infernale, non mancando di fare l’ennesima figuraccia grazie a quel maledetto sgabello alto dodici chilometri che mi rischiava di farmi sfracellare al suolo.
Stavo per salutare Simone nel mio migliore dei modi, quando Jamie mi guardò. «Mi è venuta un’idea.»
Quella frase, fu l’inizio di tutta la storia, nonché della mia rovina.
«Ven, forse sarebbe meglio se tu venissi qui ogni giorno. Così potresti tenere al corrente Mr. Sogno dello svolgimento del caso e in particolare gli impediresti di cacciarsi in altri guai.»
«Ehm, cosa?» sbottai, visto che il mio cervello fu incapace di recepire l’ultima informazione.
Jamie sospirò e si passò una mano dietro la nuca, accarezzandosi i corti capelli castani. «Visto che vi conoscete e che fra di voi non sembra esserci mai stato nulla, non ho problemi ad affidarti ciecamente la tutela dell’integrità del nostro cliente, Venera. So che non è il compito che avresti sperato, ma mio zio è stato chiaro, dobbiamo limitare i danni che potrebbe fare la stampa venendo a conoscenza di qualche ulteriore pettegolezzo trapelato da una di queste ragazze,» e indicò la giraffona.
«Scusate!» s’intromise Simone, aggirando l’isola di marmo della cucina e raggiungendo Jamie. «Sento benissimo che state parlando di me, perciò non comprendo perché non vi fidiate del sottoscritto.» Poi mi lanciò un’occhiata di sbieco. «Non ho mica bisogno della babysitter.»
Trattenni a stento una risata, senza farmi beccare da Jamie. Era un miracolo se Simone riusciva ad allacciarsi le scarpe da solo e poi era rinomato che i Sogno non riuscissero ad essere fedeli nemmeno se legati ad un guinzaglio.
Forse Leonardo è l’unica eccezione, o forse è Celeste che ha stretto il cappio.
«Mi dispiace, Mr. Sogno,» insistette James, avviandosi alla porta. «Sono sicuro che Venera sarà discreta e non invaderà i suoi spazi, giusto?»
Alzai le mani e sorrisi. «Non c’è alcun pericolo: meno lo vedo, meglio mi sento.»
Jamie non comprese quella mia allusione, ma dall’occhiata assassina che mi rifilò Simone, compresi che in realtà era stata una frase soltanto per noi due.
«Allora ci rivediamo tra una settimana. Ven verrà qui ogni mattina a quest’ora, dopo essere passata in ufficio. La terrà aggiornato su tutto lo svolgimento delle indagini, fino al processo.»
«Okay,» smozzicò Simone, aprendo la porta dell’appartamento e accompagnando Jamie di fuori.
In realtà non avevo alcuna voglia di rimanere da sola con quel ragazzino squilibrato, ma non potevo nemmeno mettermi a fare la figura della codarda scongiurando James Abbott di assegnarmi qualsiasi altro incarico che non fosse assicurarmi che il pistolino di Mr. Sogno rimanesse segregato nel suoi jeans firmati.
Poveri noi.
Quando la porta si chiuse, rimasi a fissare il legno scuro dell’infisso mentre un silenzio innaturale e imbarazzante avvolgeva quell’attico al centro di Londra. Mi voltai quel tanto da trovarmi le iridi marrone scuro di Simone puntate diritte su di me. Era seccato, ma mai quanto la sottoscritta.
«Si può sapere perché cazzo mi perseguiti?» mi chiese stupito.
Rimasi completamente basita. «Cosa? Ma sei scemo? Ti pare che io mi metta a pedinare le persone, ma soprattutto che voglia pedinare te?» gli ringhiai contro.
Simone mi colpì con uno dei suoi sorrisi sghembi brevettati dalla Sogno&Co. «Sono pur sempre Simone Sogno, capocannoniere della Premier.»
«A campionato iniziato da poco più di due mesi…» mi sentii in dovere di aggiungere.
Simone aggrottò le sopracciglia, poi si ricordò della giraffona e la raggiunse, posandole le mani su quei fianchi ossuti da cui partivano chilometri di gambe affusolate che io non avrei mai avuto, nemmeno dopo torture di allungamento degli arti in puro stile medievale.
«Ma chérie, vous pouvez nous laissaur seuls?» le domandò, cercando le sue labbra.
«È laisser, ignorante,» lo corressi, scuotendo il capo.
Anche la giraffona sorrise di quell’errore, ed io mi vantai compiaciuta.
«Devi sempre essere così dannatamente irritante?» cominciò a sbraitarmi contro, stavolta in italiano.
«Tsk, sei tu che fai figure di merda ogni cinque secondi. Io sono qui per evitare che ti umili da solo più del dovuto.»
La francesina ci fissava allibita, non capendo nemmeno una parola di ciò che ci stavamo urlando addosso. Era risaputo che Simone non perdesse quasi mai il controllo, lo avevo visto sempre prendersi gioco degli altri – soprattutto del cugino – con una naturalezza disarmante, eppure ero l’unica a fargli perdere le staffe.
Cervello uno, Pisellino zero.
«Vedi di essere carina con me, sono pur sempre io che ti pago. Posso anche licenziarti,» mi minacciò serio.
Assottigliai lo sguardo comprendendo che aveva ragione. Quando si trattava di giocare sporco, quel ragazzino ci sapeva fare. «D’accordo,» dissi e gli porsi la mano. «Per quieto vivere non ci metteremo i bastoni tra le ruote come di solito facciamo ad ogni riunione di famiglia. Sarà solo ed esclusivamente un rapporto di lavoro,» conclusi.
Lui fissò la mia mano titubante, non sapendo se fidarsi o meno.
Sbuffai annoiata. «Guarda che non mordo mica!» sbottai.
Di punto in bianco, Simone colmò la distanza che si separava e mi strinse la mano con forza, fissandomi serio. «Affare fatto.»
Gli sorrisi di rimando, ma in modo molto malizioso. «A questo punto, devo adempire al mio dovere.» E mi precipitai verso la giraffona raccattando quei pochi vestiti che aveva in giro ed accompagnandola molto poco gentilmente verso la porta.
«Ehi, ehi!» tuonò Simone contrariato.
Gli puntai contro l’indice, con fare minaccioso. «Hai promesso. Devo fare il mio lavoro e tu non vedrai più un essere di sesso femminile fino a quando questo caso non sarà archiviato! Intesi?»
Il clangore metallico della porta, ci riportò alla realtà. L’attico era vuoto ed io avrei dovuto farmi trovare lì ogni santa mattina, dopo essere passata in ufficio, per impedire al ragazzino di cacciarsi nei guai.
«Nessuna è mai riuscita a tenermi al guinzaglio e di certo non ci riuscirai tu!» mi urlò contro, anche se quel viso delicato pareva tutto tranne che minaccioso.
«Perché non hai avuto a che fare con me, TermoSifone.» sghignazzai.
Simone incrociò le braccia a quel petto ampio e glabro, così bianco da sembrare quasi di porcellana. «Sai che ti sei messa contro la persona sbagliata, vero?»
«Staremo a vedere,» lo misi in guardia. «Questo è il primo caso che mi sia mai stato affidato e non ho alcuna intenzione di vedermelo portare via a causa di un poppante e dei suoi ormoni in subbuglio. Non sono io che faccio sesso non sicuro. Potevi pensarci prima!»
Simone si sentì attaccato dalla sottoscritta. «Non sai niente, quella si è inventata tutto.»
Mi spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Buon per te, allora. Ciò non toglie che dobbiamo tenere i giornalisti il più lontano possibile da te. Ergo, passerò ogni giorno e ti aggiornerò sul caso, assicurandomi che tu non abbia compagnia.»
L’idea di passare la maggior parte delle ventiquattro ore concesse da un giorno solare insieme, non piaceva a nessuno dei due, ma c’era ben poco da fare. Il caso aveva la massima importanza per me e se questo voleva dire passare delle tediose giornate insieme a Mr. Cel’hosoloio, allora avrei fatto questo sacrificio.
 
Tornai a casa alle otto di sera, stremata da un viaggio in metro schiacciata contro il finestrino. La strada dall’appartamento di TermoSifone sino al mio monolocale non era molta, però dopo una giornata passata a fare da babysitter a quell’individuo mi sentivo distrutta.
Posai le chiavi nella ciotola, poi mi tolsi le scarpe e mi massaggiai il collo. Dopo tutto il trambusto che era successo quel giorno, afferrai il cellulare e mi ricordai il messaggio di James. Chissà come aveva avuto il mio numero.
Sorrisi ingenuamente e mi avvicinai alla segreteria telefonica, vedendo lampeggiare ben tre messaggi. Spinsi il pulsante del riavvolgimento e ben presto sentii la voce di mia madre riempire i trenta metri quadri del piccolo appartamento.
“Tesoro, come va lì a Londra? Io e tuo padre vorremmo sentirti qualche volta, ma sappiamo che sei impegnata. Qui alla magione va tutto bene, quest’anno abbiamo avuto una buona stagione e l’uva è appena fatta. Ci manchi tanto, piccola. Non lavorare troppo.”
Sbuffai e cominciai a spogliarmi, pregustando una cena precotta riscaldata al microonde e una bella dormita. Era vero che non avevo mai tempo per telefonare ai miei, ma era anche giustificato dalla vita che avevo scelto. Non c’era nulla di male nell’abitare in campagna, ma la vita che sognavo era tutt’altra ed ora ero a pochi passi dal realizzare il mio sogno.
I miei pensieri furono interrotti dal bip del secondo messaggio.
“Ehi, amica!” era Celeste in tutta la sua squillante voce. “Come al solito non sei a casa ed è inutile che ti chiami al cellulare, tanto non rispondi. Lavoro, lavoro, lavoro. Qui va tutto bene, sto preparando la tesi mentre Leonardo fa di tutto per convincermi a venire a vederlo allo stadio Domenica prossima, ma se lo scorda. Non mi siedo in tribuna con quelle altre sgallettate, tutte silicone che non fanno altro che parlare al cellulare.”
Sorrisi, immaginandomi Cel tutta arruffata che si guardava intorno scandalizzata dalla superficialità di quel mondo in cui era piombata per puro caso. Essere la ragazza di un famoso calciatore non era tutto rosa e fiori.
“Comunque ti ho telefonato perché mi è venuta la malsana idea di venirti a trovare per Natale, che ne dici? Oppure veniamo direttamente l’8 dicembre, tanto è festa. Leo me l’appoggia, basta che non incontra Tu-sai-chi. Beh, richiamami quando hai tempo e fatti sentire qualche volta.”
Mi gettai sul letto e cominciai a stiracchiarmi, facendo scrocchiare qualche osso intirizzito proprio come una chiropratica esperta. L’idea che Celeste venisse qui a Londra mi allettava, ma allo stesso tempo non sapevo se avrei avuto del tempo sufficiente da dedicarle. Era Novembre inoltrato e avevo appena accettato il primo caso della mia futura carriera, Dicembre era vicinissimo e inoltre c’era il problema Simone.
Tra i due cugini Sogno non correva buon sangue e se la sottoscritta gli avrebbe fatto da balia, sicuramente le loro strade si sarebbero incrociate. Mi rigirai a pancia sotto ed abbracciai il cuscino. Era un gran bel dubbio da colmare, ma la colpa ricadeva sempre ed unicamente su una sola persona.
Perché il destino alle volte era così ingiusto?
Perché fra milioni di persone, doveva capitarmi proprio lui come cliente?
Un ultimo ‘bip’ mi avvertì che mancava ancora da ascoltare l’ultimo messaggio registrato in segreteria. Mi sorpresi, perché oltre mia madre e Cel, di solito non mi chiamava nessuno, a parte qualche Call Center.
“Ciao Spaghetti-girl!” la voce trillante di Jamie mi fece quasi rotolare giù dal letto. Afferrai con decisione la trapunta per mantenere almeno quel poco di dignità che mi rimaneva.
L’istinto di alzare la cornetta era forte, ma la mia parte razionale mi ricordò che si trattava solo di un messaggio registrato nella segreteria.
“Spero di non averti colto di sorpresa con la richiesta di questo pomeriggio. So che non è specificato nel tuo contratto di lavoro, ma preferirei tenere Mr. Sogno lontano dai guai il più possibile ed io so che mi posso fidare di te.”
Se mi avesse potuta vedere in quel momento, ero sicura di essere diventata bordeaux fino alla punta delle orecchie.
Non erano passate nemmeno quarantotto ore e lui affermava di potersi fidare ciecamente di una stagista appena conosciuta. Okay, dovevo ammettere che il ragazzo era un tipo alla mano, ma per sua fortuna aveva riposto la sua speranza in una botte di ferro.
Ti riferisci ai chili che hai messo su questo mese?
Ignorai il pensiero pungente del mio Cervello che mi ricordava, ormai molto spesso, che mangiare tutti i giorni al fast food non faceva bene né al mio fegato né al girovita delle gonne che dovevo indossare in ufficio.
“Bene, spero tu domani non mi uccida allo studio” ridacchiò e mai come in quel momento pensai che la voce di Jamie, anche attraverso il sottofondo gracchiante della segreteria, non poteva che essere meravigliosa. “Tieni d’occhio il tuo amico, per quanto possa aver capito di lui in soli quindici minuti, ha davvero bisogno di qualcuno con la testa sulle spalle. Ci si vede domani, notte Spaghetti-girl!”
Sorvolai sulla parola “amico” buttata lì nel bel mezzo della frase, a sottintendere il fatto che io e TermoSifone ci conoscevamo già, e rimasi a contemplare la segreteria. Sentivo il cuore che mi batteva forte nel petto. Avevo avuto il mio primo caso, il primo incarico datomi direttamente da Mr. Abbott in persona e non potevo chiedere di meglio.
Inoltre, come se non fossi già baciata dalla fortuna, il caso aveva voluto affiliarmi ad un avvocato in erba che di più brillanti, intelligenti e sexy in giro non ce n’erano, nemmeno se li avessi cercati col lanternino.
Stai dimenticando forse qualcosa?
Beh, stai sempre a puntualizzare!
L’unico, piccolo, insignificante, minuscolo, nanoproblema era rappresentato da quel calciatore da strapazzo, iper-vanitoso e talmente immaturo che anche una tartaruga ninja lo avrebbe superato in intelligenza. Dovevo rimanere calma. Il problema si poteva arginare tranquillamente.
Avrei semplicemente adempiuto al compito che mi era stato assegnato senza necessariamente andare in contro a chissà quali difficoltà. TermoSifone aveva il cervello di un criceto con la dissenteria, perciò sarebbe stato un gioco manovrarlo.
Sbuffai e mi lasciai nuovamente cadere sul materasso. L’indomani avrei cominciato il mio secondo lavoro: babysitter a tempo pieno. Solo l’idea mi faceva venire l’orticaria.
Ripassai mentalmente i programmi per il giorno dopo, poi i crampi allo stomaco mi ricordarono la cena che si stava scongelando nel lavandino.
La afferrai e la misi nel microonde, passandomi poi le mani tra i capelli.
Questi Sogno mi manderanno ai pazzi, me lo sento.
Volevi fare l’avvocato, Ven?
Beh, eccoti accontentata.

***
Anyways! Buona festa della mamma a tutte!!
Oggi è il compleanno di molte persone a me importanti, tra cui il prestavolto di questa storiella (alias Simone) cioè Francisco Lachowski che compie 21 anni. AUGURI!!!
Passiamo a cose serie, finalmente si ha un po' più di luce ne caso giudiziario di cui Ven e Jamie dovranno occuparsi, e il bell'avvocato inglese ha finalmente capito che quei due non gliela raccontano giusta! Infatti si conoscono da molto più tempo di quanto lui credeva.
Ma veniamo all'idea di mettere Ven alle calcagna di Simo per non fargli combinare altri guai appresso alle gonnelle delle modelle. Eh si, se ne vedranno delle belle! :33
Ringrazio le mie crudelie, fonte d'ispirazione e di spronamento (?) per questa storia, e soprattutto la mia Wife a cui è dedicata. Venera e tutta la sua acidità sono solo per te, my love!
Inoltre, ringrazio chiunque abbia messo la storia tra le preferite/seguite/ricordate, chi abbia lasciato un piccolo segno del suo passaggio o chi semplicemente l'ha letta spinto dalla curiosità. Grazie.

Al prossimo capitolo!
With love, Marty.

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);



Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***



CAPITOLO 3

betato da Nes_sie

Prendere la Tube dopo aver tracannato un doppio cappuccino con doppia schiuma, doppia panna e doppia razione di zucchero non era l’ideale nemmeno per il mio povero stomaco abituato alle lasagne fritte di zia Concetta.
Ero praticamente incollata ad uno dei pali piazzati al centro del vagone e ad ogni frenata del conducente, il mio stomaco riusciva a fare capolino dalla gola, salutando gli altri pendolari. Quella mattina ero talmente nervosa, che mi era stato impossibile non ingurgitare tutto ciò che mi ero trovata davanti al viso, così da ottenere il meraviglioso risultato di un’indigestione in piena regola.
Perché non mi dai mai ascolto?
Quando la voce metallica annunciò la fermata di Piccadilly Circus, quasi non riuscivo a credere di essere finalmente arrivata. Mi precipitai fuori dal vagone, attesi con impazienza l’ascensore e mi diressi a rotta di collo verso i tornelli per riuscire finalmente a inspirare l’aria fresca londinese.
Peccato che piovesse a dirotto.
Mi salvai dalla doccia prematura solo grazie alla tettoia che saggiamente riparava l’entrata della metropolitana, così ebbi il tempo di tirare fuori l’ombrello dalla ventiquattr’ore ed incamminarmi verso Oxford Street. Afferrai l’arnese che la mia migliore amica si era raccomandata di regalarmi prima che io partissi per l’Inghilterra e che io non avrei mai smesso di odiare, poi cercai di aprirlo.
È molto semplice, basta staccare lo stetch e pigiare sul pulsante. Comodo e veloce, così non ti bagnerai.
Celeste aveva avuto un pensiero molto gentile all’aeroporto, ma ero più che sicura che non si sarebbe mai immaginata di avermi fatto dono di un oggetto infernale.
Staccai la chiusura, poi allontani il manico per l’incolumità personale. I passanti mi fissavano come se fossi pazza, ma nessuno meglio di me sapeva che quello era l’ombrello del male. Dopo essermi messa a distanza di sicurezza, pigiai il pulsante come Celeste si era raccomandata ma quello che avvenne dopo fu drammatico.
La sicura scattò e il manico dell’aggeggio infernale si aprì con uno scatto talmente potente che nemmeno il rinculo di un fucile avrebbe potuto eguagliare la potenza del colpo. Subito la raggiera metallica si aprì e soltanto dopo quattro o cinque colpi di assestamento fui veramente sicura di poterlo tenere dritto sulla testa senza il pericolo di venir risucchiata al suo interno, come in una pianta carnivora.
Le persone attorno a me svanirono di colpo, forse troppo spaventate dal rumore di quell’ombrello satanico, dopodiché decisi che era venuto il momento di darmi una mossa, altrimenti non sarei arrivata da nessuna parte. Imboccai come al solito Regent Street e mi diressi verso lo studio a passo svelto, tentando inutilmente di evitare le pozzanghere che avevano ridotto le mie decolleté a delle spugne.
Una volta raggiunto il portone a vetri, mi precipitai all’interno venendo accolta dallo sguardo agghiacciante di Yuki che mi fissava dall’alto in basso con la sua solita aria snob.
«Hai perso di nuovo la metro?» domandò sarcastica, controllando un plico di documenti che aveva al braccio.
Ripresi fiato dopo il passo svelto che avevo mantenuto per tutto il percorso, dopodiché tentai di chiudere quel maledetto arnese con scarso successo.
«Per tua fortuna…» smozzicai tra un tentativo e l’altro. «…questa volta sono arrivata in orario. Un po’ bagnata, ma in orario.»
«Buongiorno, Spaghetti-girl!» mi sorprese Jamie, apparendomi alle spalle come un fantasma.
«’Giorno!» ringhiai, avvinghiandomi con entrambe le mani attorno a quel maledetto ombrello che non voleva saperne di chiudersi.
In un gesto talmente veloce e fluente che me ne accorsi soltanto grazie allo spostamento d’aria, James afferrò l’arnese indemoniato e in pochi attimi riuscì a chiuderlo con facilità, porgendomelo poi con un sorriso di soddisfazione stampato in faccia.
«Non si ottiene nulla con la violenza,» spiegò tranquillo.
Afferrai l’ombrello con un gesto di stizza e lo riposti nel portaombrelli. Cercai di essere più composta possibile, anche se l’umidità di quella giornata piovosa aveva ridotto i miei capelli a dei fili stoppacciosi di fieno. Diedi una fuggevole occhiata allo specchio: sembravo appena fuggita da Auschwitz.
Tentai di rassettarmi un po’, ma Jamie mi fece immediatamente cenno di seguirlo nel suo ufficio, così obbedii. Afferrai la ventiquattr’ore contenente il plico con i documenti del caso che stavamo seguendo e mi accomodai.
James Abbott si sedette alla sua scrivania, raccogliendo le mani davanti a sé e incrociandole sotto il mento. I suoi occhi blu mi fissavano intensi, concentrati, due laghi così profondi da riuscire a soffocare anche la mia testardaggine.
«Non so se hai ricevuto o meno il mio messaggio ieri sera,» cominciò ed io annuii solamente per non interromperlo. «So che non era mio dovere darti quella mansione, in fondo sei una ragazza brillante e sai fare il tuo lavoro, ma ti ho chiamata qui per spiegarti le mie ragioni. Farmi valere in questo studio per me è tutto. È stato sempre difficile distinguermi dalla massa visto che il mio cognome mi apriva le porte ancor prima che potessi parlare. Voglio solamente un’occasione per farmi valere senza che qualcuno interceda per me, soltanto con le mie forze.
E ovviamente con la tua collaborazione, Venera,» concluse.
Afferrò allora la cartelletta contenente i documenti del caso e l’aprì davanti a sé. «Ho fatto qualche indagine ieri, a casa, soltanto con l’utilizzo del pc ed ho scoperto che il nostro giovane Mr. Sogno si da spesso e volentieri alla pazza gioia, mostrandolo a tutto il mondo.» Si voltò appena per afferrare un portadocumenti e porgendomelo.
Chissà perché quella notizia riguardante TermoSifone non mi sconvolgeva più di tanto.
Afferrai la cartella e l’aprii. Al suo interno era pieno zeppo di pagine di tabloid che ritraevano Simone in atteggiamenti compromettenti e mostravano un suo comportamento tutt’altro che adulto. Feste, rave party, alcool, donne e chi più ne ha, più ne metta.
«La cosa non mi sorprende affatto,» conclusi, restituendo la cartella.
Jamie mi fissò con l’aria interrogativa e pensierosa allo stesso tempo. «Sei assolutamente sicura che non ci sia stato nulla…» e mi indicò con la penna stilografica. «Tra te e il calciatore?»
Sgranai gli occhi dalla sorpresa. Possibile che davvero la gente potesse credere che una persona razionale ed intelligente come la sottoscritta potesse anche minimamente prendere in considerazione quel ragazzino?
«Lo giuro sulla Corte Suprema, guarda. Lungi da me immischiarmi nella vita privata di quello lì,» risposi quasi disgustata.
James parve soddisfatto della mia risposta, così cominciò a sfogliare i documenti. «Allora, come avrai notato, è di vitale importanza tenere nascosta questa ingiunzione. Se la società dovesse venirne a conoscenza, c’è il rischio che Mr. Sogno non possa giocare per tutta la durata del processo. Inoltre, il tuo compito sarà quello di tenerlo il più lontano possibile dalla vita mondana a cui è abituato, a cominciare da oggi. Conti di farcela?» mi domandò dubbioso.
Deglutii a fatica, quasi come se qualcosa mi si fosse incollato al palato. Certo non avrei mai pensato di dover assolvere anche quel tipo di mansioni ma Jamie contava su di me e dovevo dare il meglio in qualsiasi circostanza.
Sai che potresti pentirtene, vero?
«Ce la farò, te lo prometto,» risposi, ignorando il Cervello.
 
Quella stessa mattina uscii dallo studio, in parte sollevata di non aver incontrato Abbott Senior nemmeno per dirgli “buongiorno”. Da una parte ammiravo quell’uomo, il suo lavoro, la sua dedizione e dovevo ammettere che si avvicinava il più possibile al modello di avvocato che sarei voluta diventare, ma dall’altra mi era impossibile pensare che a causa sua avevo dovuto fare nuovamente i conti con un capitolo della mia vita che pensavo ormai concluso da tempo.
Strinsi la valigetta con entrambe le mani e fui sollevata di notare che almeno il tempo mi aveva graziata. Una densa coltre di nuvole ricopriva interamente la città di Londra, si poteva sentire una certa elettricità nell’aria e ormai ero abbastanza brava a riconosce anche quando mancava poco al cadere della pioggia.
Per quella mattinata, almeno, avrebbe resistito.
Mi incamminai a ritroso per Regent Street, dovendo raggiungere necessariamente a piedi Piccadilly Circus. Soltanto il giorno prima ero stata guidata da James fino a casa di TermoSifone e grazie alla mia memoria fotografica avrei trovato il suo appartamento in men che non si dica.
Diedi un veloce sguardo all’orologio da polso con Paperino e rimasi sbigottita dal constatare quanto fosse tardi. Cominciai ad accelerare il passo, pensando che aspettare un bus sarebbe stata solo una perdita di tempo e tentai di ignorare la protesta dei miei poveri piedi fasciati dalle decolleté con il tacco alto.
Alzai lo sguardo sull’immensità di quella enorme strada, luogo di shopping sfrenato da parte di tutti i turisti in visita nella capitale, e mi resi lentamente conto che se non avessi fatto qualcosa sarei comunque arrivata in estremo ritardo.
Fu allora che iniziai a correre.
Guarda come ci siamo ridotti. Una laurea cum laude per correre dietro ad un ragazzino con troppe voglie.
Non potei fare a meno di appoggiare il commento sarcastico del mio Cervello. La sua perspicacia era illuminante, ma in quel momento mi concentrai sulla respirazione e su quelle pochissime volte in cui avevo fatto jogging con mio padre.
Odiavo qualsiasi sport, era così difficile capirlo? In particolare mi domandavo spesso e volentieri come le persone potessero starsene rinchiuse la Domenica pomeriggio a fissare un televisore con la bava alla bocca, sbraitando contro undici rinoceronti che rincorrevano il pallone.
Uomini, valli a capire.
Mentre correvo lungo tutta Regent Street pensai più volte di togliermi le scarpe e continuare a piedi nudi sull’asfalto, poi però pensai alla figura che avrei fatto una volta giunta a casa di Simone e decisi di tenermi il dolore e soffrire in silenzio. Non che me ne importasse niente di cosa pensava di me quel deficiente, ma dovevo mostrarmi una persona seria e diligente.
Proprio come James.
Inevitabilmente finii col pensare al bell’avvocato che mi era stato affiancato nel risolvere questo caso delicato, ma tentai di scacciare la sua immagine il più lontano possibile da me. Okay, non potevo negare che fosse affascinante, estremamente sexy e intelligente ma era pur sempre un mio collega e non potevo permettermi passi falsi.
Se fossi riuscita a portare in tribunale Simone e a risolvere il caso in breve tempo, ero più che sicura che Mr. Abbott non ci avrebbe pensato due volte a far fuori Yuki e a farmi diventare membro effettivo dello studio. Venera Donati sarebbe stata la prima giovane stagista a diventare socio di uno degli studi legali più famosi d’Inghilterra.
Arrivai a Oxford Circus proprio quando un lampo squarciò il cielo ed io alzai d’istinto lo sguardo pregando che tenesse per qualche altro minuto. Imboccai il quartiere di Soho a passo svelto, anche perché era talmente gremito di persone che era quasi impossibile mettersi a correre.
Sentivo il sudore che colava lentamente dietro la schiena, inumidendo la camicetta di lino e incollandomi i corti capelli del caschetto alla base del collo. Fortunatamente riuscii ad intravedere il portone dell’appartamento proprio quando le prime gocce di pioggia stavano bagnando l’asfalto per la seconda volta in quella mattinata infernale, così feci un lungo balzo verso la tettoia e mi fermai un momento per riprendere fiato.
Mi abbarbicai letteralmente sul citofono, strizzando gli occhi per azzeccare il bottone da pigiare. Non appena vidi Mr. Sogno scritto a lettere cubitali non potei fare a meno di pensare a quante manie di protagonismo poteva avere quel ragazzino.
Sbuffai e spinsi il pulsante, attendendo risposta.
Come la prima volta, nessuno si disturbò a chiedere chi fosse ma sentii unicamente il suono metallico del portone scattare automaticamente. Mi trascinai all’interno dell’androne e attesi l’arrivo dell’ascensore.
«Buongiorno,» mi sorprese una voce che mi fece sobbalzare.
Mi voltai spaventata e notai la presenza di un uomo vestito di tutto punto, con una divisa verde pisello e un berretto coordinato.
«Salve,» smozzicai, ancora provata dalla corsa.
«La devo annunciare?» mi chiese, prendendo in mano una sorta di telefono.
La prima volta che ero venuta in quell’appartamento non avevo affatto notato la presenza di un usciere, ma adesso quell’uomo stava aspettando una mia risposta che facevo persino fatica ad articolare.
«N-No, grazie. È una sorpresa,» sorrisi, mentendo spudoratamente.
Il vantaggio di studiare legge era il saper raccontare frottole a tutto spiano senza destare nell’altro il minimo sospetto. Avrei raggirato chiunque con la mia parlantina e di questo ne andavo più che fiera.
L’uomo mi sorrise e mise giù il telefono. Non appena lo fece, l’ascensore annunciò il suo arrivo con un sonoro din-dlon e subito lo vidi affaccendarsi per aprirmi la porta e lasciarmi entrare. Su una cosa ero più che certa: Simone era impaccato di soldi.
Rivolsi un grazie appena accennato ed entrai, ricordando perfettamente l’ubicazione dell’appartamento di Mr. Sogno. Schiacciai l’ultimo pulsante, quello dell’attico, e attesi che le porte si chiudessero. Non avrei dovuto essere poi tanto sorpresa dalla notizia delle facoltà di TermoSifone, in fondo, da quel poco che sapevo di quella famiglia, erano per lo più dei campioni che facevano del pallone la loro vita.
Mentre la povera sottoscritta non riusciva nemmeno a pagarsi un taxi per arrivare in orario in ufficio.
Lanciai un fuggevole sguardo allo specchio posto nella cabina dell’ascensore e per poco non rimasi pietrificata. Innanzitutto sembravo una specie di panda in via di estinzione, a causa del mascara che col sudore della corsa mi era colato sino al mento. Tentai in tutti i modi di sistemarmi, afferrando una salviettina umida e cominciando a sfregare, poi mi accorsi anche della piega disastrosa che come al solito avevano preso i miei capelli.
L’ascensore si fermò proprio quando stavo tentando inutilmente di appiattire quel crespo che si era addensato sulla nuca, in un misto di sudore e di umidità che avevano reso la mia povera capigliatura più simile a una balla di fieno nel selvaggio West.
Ormai è fatta.
Decisi di mandare al diavolo il mio aspetto e di svolgere il mio lavoro, che era di gran lunga più importante. Tanto avrei dovuto solamente monitorare quel bambino capriccioso rinchiuso nel corpo atletico di un giocatore di calcio ventunenne, mica sfilare per Giorgio Armani.
Anche perché i suoi vestiti non ti entrerebbero dopo il cheeseburger di ieri sera.
Inspirai profondamente l’aria che profumava di detersivo per pavimenti e posai un piede dolorante sul pianerottolo di fronte all’attico di Simone. Rimasi col dito a mezz’aria, indecisa se suonare una sola volta oppure attaccarmi al campanello come una pazza forsennata.
Stavolta come sarebbe venuto ad aprirmi? Completamente nudo?
Le svariate versioni di Simone che spalancava il portone di ingresso si susseguirono veloci ed imbarazzanti nella mia mente, infine decisi di darci un taglio e suonai il campanello.
Ero più che sicura che quel cialtrone non avesse minimamente dato ascolto agli avvertimenti di Jamie ed ero altrettanto certa che avesse rimorchiato la prima sgallettata e se la fosse portata a letto senza alcuna remora. Il mio istinto non sbagliava mai, era una cosa più che appurata.
Infatti, dopo nemmeno cinque minuti dal suono del campanello, il portone di casa Sogno si aprì rivelando la figura alta e snella di una biondina coi capelli ricci.
Lo sapevo. Maledetto bastardo.
Eppure James si era raccomandato di non creare ulteriori scandali e non dare altro materiale per far sì che l’accusa vincesse la causa senza nemmeno sforzarsi. Dio quanto era stupido quel marmocchio.
«Ciao!» trillò la ragazza, sorridendo. «Vieni, entra pure.»
Quantomeno stavolta aveva scelto una tipa apparentemente inglese e non si era trastullato con delle francesine. Il mio sguardo indagatore si soffermò sul corpo alto e snello della ragazza, sui suoi penetranti occhi azzurri e su quel sorriso apparentemente sincero e dolce.
Certo era bella, questo non potevo negarlo. Anche nei movimenti armoniosi del suo corpo, da come chiuse la porta e mi fece strada nel salotto, da ogni piccolo gesto si vedeva che era stata educata a dovere.
La mia domanda ora era logica: che cavolo ci faceva una come lei con quel deficiente?
«Vuoi qualcosa da bere? Un the?» mi chiese, cominciando ad aprire gli sportelli della cucina. Notai con quanta sicurezza si muoveva in quella casa e non feci a meno di pensare che non era la prima volta che si trovava lì.
Sarà una specie di “fidanzata”, anche se TermoSifone non è il tipo.
«No, grazie. Sto bene così,» risposi, continuando ad osservarla.
La ragazza mi sorrise, ma tirò fuori il bollitore comunque mettendolo sul fuoco. Ora toccava la parte più drastica di tutta la faccenda.
«Simone dov’è?» le domandai, venendo subito al sodo.
Lei mi guardò con quei grandi occhi color acquamarina e mi tolse un respiro. La sua ingenuità era palpabile, ma sentivo come un moto d’avvertimento. All’apparenza poteva avere l’aria della ragazza semplice e di buone maniere, ma era come se dietro quella maschera si nascondesse dell’altro.
Non sapevo spiegarlo bene.
«È sotto la doccia. Mi ha detto di aprirti perché sapeva che saresti venuta,» rispose lei.
Perfetto. Il bellimbusto si era lavato le mani e aveva lasciato la “patata bollente” alla sottoscritta. Sarebbe toccato a me spedire fuori da questo appartamento quella signorina dalle sembianze di un angelo.
Inspirai, pronta a mettere da parte quel forte senso di familiarità che mi impediva di prendere a pedate una delle tante ragazze che avrebbero potuto mandare a rotoli il primo vero caso a cui avrei lavorato.
«Senti, non so come dirtelo,» iniziai, mentre lei mi rivolse un altro di quei suoi sguardi brevettati. «Simone non avrebbe dovuto farti entrare, lo sapeva bene. Non posso spiegarti i dettagli, perché è una cosa della massima riservatezza, ma sarebbe molto meglio per entrambi se tu non ti facessi più vedere, né lo chiamassi.»
Stavolta un sorriso affiorò su quel bel volto pulito e genuino.
Era pazza forse?
Mi guardai in giro e notai la presenza di una borsa di Louis Vuitton adagiata sul divano, con uno scialle e un trench color avorio. Mossi qualche passo incerto nella direzione di quegli oggetti, con i piedi che ancora mi chiedevano pietà, e li afferrai spalancando poi la porta d’ingresso.
«Mi rincresce molto, davvero,» continuai, nella speranza che capisse cosa volessi intendere. Non potevo certo parlarle del fatto che il suo presunto compagno avesse in ballo una causa per dubbia paternità, perché altrimenti avrei compromesso il caso, ma potevo farle capire con le buone o con le cattive che doveva levare le tende. «Ti accompagno alla porta.»
Detto ciò l’afferrai per un braccio e mi feci strada verso l’ingresso, aggirando l’isola nel bel mezzo della cucina. La biondina mi seguiva senza protestare e per la prima volta pensai che almeno una cosa nella mia vita andava nel verso giusto.
Mi dispiaceva davvero per lei, sembrava una ragazza apposto, però James era stato chiaro e contava su di me. Non potevo deluderlo al mio primo, semplice incarico.
A costo di annodare l’uccello di quel deficiente.
Accompagnai la ragazza fuori dall’appartamento, ma proprio quando stavo per chiuderle gentilmente la porta in faccia, una mano grande e ruvida si avvolse attorno al mio polso ed io mi voltai.
«Che cazzo ti salta in mente?» mi apostrofò un Simone gocciolante appena uscito dalla doccia.
Rimasi a fissarlo con sgomento, pregando che avesse almeno avuto il buon senso di legarsi un asciugamano attorno alla vita.
Per fortuna non era così scemo.
«Lasciami!» gli intimai, strattonando il braccio dalla sua presa. Lo fissai furente, così come lui stava facendo con me. «Il tuo avvocato è stato chiaro. Niente ragazze fino a tutta la durata del processo. Sei stupido o cosa?»
A quel punto Simone sorrise, spiazzandomi del tutto.
C’era qualcosa nel suo volto giovane e pulito che vagamente mi ricordava la ragazza che ci guardava ferma sul pianerottolo.
«Stavolta hai preso un granchio, Lil’Elf» sghignazzò, affibbiandomi quell’odioso soprannome.
Okay, c’era qualcosa di relativamente importante che mi stava sfuggendo. Intanto, Simone si allontanò dal portone permettendomi una migliore visione del suo atletico posteriore fasciato unicamente da un asciugamano bianco e parecchio trasparente.
Distolsi immediatamente lo sguardo sentendomi avvampare.
Nel frattempo la biondina entrò nuovamente nell’appartamento ignorando i miei avvertimenti e posando la borsa sul mobile della cucina.
«Ma cosa…?» stavo per sbraitare contro Simone quando mi ritrovai la mano della ragazza a pochi centimetri dal viso.
«Piacere, Sofia,» mi disse tranquilla, inclinando il capo da un lato e facendo ondeggiare quella massa voluminosa di capelli ricci. «Sofia Sogno,» aggiunse, e mi fu tutto chiaro.
Le strinsi la mano quasi meccanicamente, pensando a quanto potessi essere sembrata stupida ai suoi occhi. Era la sorella, dannazione. Ecco spiegata quella estrema somiglianza che avevo visto nei tratti del suo volto.
«Simo mi ha parlato tanto di te,» aggiunse, tornando a controllare il bollitore che nel frattempo fischiava. «So che ti stai occupando del suo caso e sono molto felice. Leonardo mi ha detto che sei un avvocato in gamba, forse uno dei migliori.»
Il mio cervello ci mise un po’ ad elaborare tutti i tasselli de puzzle, ma alla fine ricordai perfettamente quel nome nascosto tra i miei ricordi.
«Certo, sei la cugina di Leonardo,» bofonchiai quasi incredula.
Sofia sorrise con sincerità ed ogni suo gesto sembrava quasi irradiare quella stanza di una luce armoniosa. Aveva un buonumore contagioso e anche la mia perpetua acidità stava risentendo di quell’influsso.
«Esatto.»
«Che effetto fa?» mi sorprese alle spalle Simone, facendomi venire un infarto.
Per grazia divina si era tolto l’asciugamano e si era infilato un paio di pantaloni di una tuta, ma era rimasto comunque mezzo gocciolante e a petto nudo.
«C-Cosa?» chiesi, ancora confusa.
«Il sentirsi dei perfetti idioti. Hai pensato davvero che Sofia potesse essere una delle mie ragazze?» e cominciò a ridere di gusto.
M’indispettii immediatamente e gli rifilai una gomitata nel costato per invitarlo a scollarsi da me.
«Cosa c’è di male, eh? È una bella ragazza!» mi giustificai, poi aggiunsi. «Anche se è troppo intelligente per stare con un cretino come te.»
Mi morsi la lingua pensando di suscitare qualche fastidio in Sofia, visto che era sua sorella, ma non appena sentii la sua risata cristallina, simile ad uno scampanellio, mi sentii più sollevata. Mi aggiunsi anche io alla risata e Simone mi fissò accigliato.
«Perché? Pensi che non potrei stare con una ragazza intelligente?» bofonchiò offeso.
Raggiunsi con fatica il divano e mi ci gettai di peso, ricordando solo allora quanto fossi stanca. «No, penso che la ragazza in questione, se avesse almeno un po’ di sale in zucca, preferirebbe farsi suora che stare con uno come te.»
«In effetti…» si aggiunse Sofia, continuando a ridere.
«Sofi! Ti ci metti pure tu!» urlò Simone offeso.
Pensai immediatamente che Sofia era forse l’unico membro della famiglia Sogno che sarei riuscita a sopportare. Era brillante, intelligente ed estremamente bella. In più, provava un gusto quasi perverso nel prendere in giro quel poveraccio di TermoSifone.
«Oh! È tardissimo!» trillò guardando l’orologio. «Ruben arriverà a momenti.»
«Chi? Quella specie di talpa?» sghignazzò Simone.
Sgranai gli occhi e sperai di aver capito male. «Un momento,» mormorai. «Intendi quel Ruben?»
Sofia si lasciò andare ad un languido sorriso mentre controllava i messaggi nel cellulare, poi il suo sguardo si alzò su di me.
«È stato un piacere conoscerti, Ven.» mormorò, quando non ricordavo affatto di averle detto il mio nome. «Ora devo proprio scappare. Mi raccomando, prenditi cura di mio fratello. Te lo affido.»
Mi alzai per salutarla quando lei mi corse in contro e mi abbracciò, sommergendomi con quella massa di capelli ricci e profumati. Con la stessa velocità sparì oltre la porta mentre sentivo chiaramente Simone che borbottava un “Non ho mica bisogno della balia, io”.
Sbuffai e tornai a sedermi, togliendomi le scarpe e dando sollievo ai miei poveri piedi. Dopo poco avvertii un leggero spostamento e vidi che Simone si era seduto al mio fianco.
«Che vuoi?» ringhiai, mentre sottostavo al suo sguardo indagatore.
Non avrei mai fatto l’abitudine a quello sguardo. Gli occhi marroni di Simone avevano un qualcosa di estremamente profondo e scuro, quasi magnetico. Anche se la sottoscritta aveva un debole per gli occhi chiari fin da quando avevo memoria, era la prima volta che qualcuno riuscisse a immobilizzarmi con uno sguardo.
«Ma che hai fatto? Sembri fuggita da un campo di concentramento,» sghignazzò, non perdendo occasione per umiliarmi.
Lo fulminai con lo sguardo, poi mi imposi un po’ di calma per non dare di matto di prima mattina.
«Al contrario di una certa persona, io stamane mi sono svegliata all’alba per andare al lavoro. Ho preso la metro nonostante la pioggia, mi sono fatta due chilometri di strada a piedi, ho sistemato i documenti del tuo processo e sono tornata indietro di corsa per evitare un acquazzone. Tutto questo mentre tu dormivi o ti facevi la doccia nella tranquillità del tuo lussuoso appartamento,» conclusi.
«Mi stai rimproverando per essere ricco e per avere un lavoro che non mi obbliga a prendere i mezzi pubblici?» domandò lui divertito.
Si poteva essere più idioti?
«No, ti sto dicendo che non tutti affrontano la vita allo stesso modo. Ecco.» Alla fine riuscii a tirare fuori il plico con i documenti e lo aprii sul tavolinetto di vetro del salotto.
Distrattamente mi massaggiai il collo, indolenzito dopo la lunga mattinata appena trascorsa.
«Vuoi che chiami Nina?» mi domandò Simone osservandomi.
«Nina?»
«La mia massaggiatrice russa,» rispose con noncuranza, tirando fuori dalla tasca della tuta il suo IPhone.
Per poco non lo afferrai e glielo lanciai dalla finestra. Pensai che alla fine di quella estenuante avventura lavorativa, come minimo mi sarei presa un anno sabbatico.
«Per l’amor del cielo, la vuoi smettere?» ringhiai.
«Di fare cosa?»
Senza trovare le parole adatte, lo indicai esausta. «Di essere te, almeno per un secondo. Ascolta quello che ho da dirti su questo caso e poi puoi tornare ad essere lo snob che sei.»
«Io non sono snob,» protestò lui, sottovoce.
Sbuffai, imponendomi di non continuare quella conversazione all’infinito o avrei veramente rischiato di buttarlo di sotto.
«Puoi andare a metterti qualcosa addosso?» gli chiesi, notando che era ancora con le “tette” al vento.
Simone sogghignò soddisfatto. «Ti senti minacciata dalla possenza del mio corpo?»
«Punto primo, non esiste possenza. Magari imperiosità, virilità, o qualsiasi altro sinonimo. Punto secondo, ti sto chiedendo di vestirti perché il mio sguardo sta tentando inutilmente di trovare un accenno di peluria in quel petto da quindicenne che ti ritrovi. Sicuro di non essere androgino?»
Venera 1, Simone 0.
Si alzò con uno scatto, assottigliando lo sguardo, poi sparì nell’altra stanza ciabattando rumorosamente. Sorrisi nel mio piccolo per la vittoria, poi continuai a sbirciare i documenti per fare un quadro della situazione.
Quando Simone tornò nel soggiorno, indossava un maglione a collo alto color ghiaccio che faceva risaltare ancora di più la sua carnagione perlacea. Alla luce plumbea di quella giornata uggiosa, la sua pelle sembrava quasi fatta di porcellana.
Sentii l’impulso di sfiorarla con una mano, ma mi trattenni per non sembrare completamente idiota.
«Che c’è? Non vado bene manco così?» osservò frustrato.
Feci spallucce e lo ignorai, soffocando anche quel bisogno di contatto che avevo avvertito nei posti più reconditi del mio corpo.
«Allora, sono stata incaricata di metterti al corrente di tutti gli sviluppi del caso, non che di tenerti alla larga da eventuali tentazioni,» cominciai, con tono professionale. «Adesso vorrei che tu mi raccontassi come sei potuto arrivare a questo punto. Non tralasciare nulla, perché anche il più piccolo particolare può esserci utile.»
Simone sospirò e si lasciò andare contro lo schienale del divano di pelle. Posò un braccio sugli occhi e schiuse quelle labbra così rosse in confronto al bianco niveo della sua pelle.
La smettiamo, o cosa?
Scossi violentemente la testa e mi imposi di pensare lucidamente. Lavorolavorolavorolavoro, esisteva unicamente quello.
«È successo una sera in un locale, il Bros, mi pare. Ho conosciuto Helena, così si chiama la ragazza, e mi è sembrata subito un tipetto tutto pepe che voleva unicamente divertirsi, se sai cosa intendo…» sorrise malizioso, spostando il braccio e aprendo pigramente un occhio.
Lo fissai seria e lui sbuffò.
«Mi dimentico sempre che sto parlando con Miss Scopanelculo,» commentò acido.
«Scopanelculo che tenta di salvare il tuo, di posteriore,» gli feci presente, cercando di non andare in escandescenze.
Simone mi ignorò deliberatamente e riprese il racconto. «Ovviamente abbiamo subito preso fuoco, ricordo che appena mi sono presentato mi è saltata letteralmente addosso.»
«Non mi meraviglio,» commentai.
Lui sfoderò un sorriso sghembo. «Finalmente hai capito quanto posso essere fantastico?»
Con calma quasi zen, gli posai una mano sulla gamba e cominciai a picchiettare, come si fa assecondando i pazzi. «Non ti è sembrato minimamente sospetto che quella ragazza si fosse scoperta improvvisamente così libertina non appena saputo il tuo nome? Sarà che ormai sono abituata a pensare male di tutto e di tutto, ma un po’ di sale in zucca.»
Simone mi fissò con gli occhi più grandi che avessi mai visto. «Dici che era tutto programmato?»
«Ci hai fatto sesso o no con questa tizia?» insistetti, altrimenti non avrei mai finito questo interrogatorio.
Il calciatore tornò al suo racconto, arrivando al momento fatidico e infarcendolo con i più minuziosi particolari. Lo avrei volentieri interrotto chiedendogli di risparmiarmi la sua performance sotto le lenzuola, ma era talmente infervorato dal racconto che fu quasi impossibile prendere la parola.
«…e poi, dopo un round durato addirittura un’ora e mezza mi sono accasciato sul letto esausto e pienamente soddisfatto!» trillò entusiasta.
«Wow, addirittura un’ora hai resistito?» chiesi sarcastica.
Mi era impossibile evitare di prenderlo in giro. Mi divertivo troppo.
Simone mi fissò di sbieco. «Almeno io lo faccio, sesso, tu da quant’è che sei in bianco Lil’Elf? Il caro e vecchio Santa Claus non ti soddisfa come dovrebbe?»
L’immagine di Babbo Natale in versione maestro sadomaso mi fece correre un lungo brivido dietro la schiena, così decisi che era meglio tornare ad occuparmi del caso. Il racconto corrispondeva ai fatti esposti dalla ragazza, ma su un piccolo particolare discordavano.
«Quindi tu sei assolutamente sicuro di aver messo le protezioni?» gli chiesi di nuovo, mettendolo agli atti.
Simone annuì convinto. «Sarò anche poco sveglio, ma non stupido fino a questo punto.»
«Ho dei seri dubbi in proposito,» commentai, acida come sempre.
«Ci provi così tanto gusto a sentirti superiore? Non sei l’unica ad avere cervello e anche se ti approfitti di me, non mi lascerò calpestare da una alta un metro e due mele.»
Lo fissai seria, affrontandolo. «Innanzitutto io sono superiore, sia per intelligenza che per maturità. Ho più anni di te, più esperienza, una laurea e non mi ritengo brava solo perché so correre dietro ad un pallone,» cominciai, facendo intravedere solo la punta dell’iceberg. «Inoltre, credo proprio che dovresti essere più rispettoso nei miei confronti, anche perché ti sto salvando le palle, se non sbaglio. Vuoi tornare a fare il bisonte decerebrato, oppure no?»
A quel punto Simone si alzò con uno scatto dal divano, sovrastandomi col suo corpo. «Hai solo tre anni più di me, non quaranta. E poi tu sei già vecchia dentro. Ripeto: ti servirebbe una bella scopata.» Detto questo se ne andò dal salone lasciandomi sola.
Magari se avessi usato un po’ più di tatto e non gli avessi dato del deficiente.
Ma lui è deficiente.
Sbuffai e mi lasciai cadere sul divano, completamente esausta. Col senno di poi, riflettei e pensai che forse non era stato proprio il caso fare quella scenata. Okay, TermoSifone non brillava certo in intelligenza e spesso e volentieri era talmente fastidioso da mandarmi fuori dai gangheri, ma si trattava pur sempre del mio cliente e gli dovevo rispetto.
Lo squillo del cellulare mi distolse dai miei pensieri.
Afferrai l’apparecchio e notai il nome di Jamie brillare tra i colori caleidoscopici dello schermo LCD. Persi un battito.
Mi affrettai a rispondere prima di perdere la chiamata come una sciocca.
«Pronto?»
«Come va, Spaghetti-girl? Hai riferito tutto a Mr. Sogno?»
«Ho giusto finito di raccogliere la sua versione dei fatti, sembra che corrisponda a quella della ragazza, salvo per il particolare dell’uso di protezioni. Lui dice di aver fatto sesso protetto, allora come si spiega la gravidanza?»
Sentii un silenzio pensieroso dall’altra parte e attesi.
«Beh, non voglio essere drastico ma credo proprio che il motivo ruoti attorno alla fama di Mr. Sogno. Ne ho studiati parecchi di questi casi, come quello recente di Cristiano Ronaldo, eppure dobbiamo andarci coi piedi di piombo. Se sosteniamo che la ragazza mente, dobbiamo essere sicuri al cento per cento che il test di paternità risulti negativo.»
«Altrimenti ne andrebbe la validità dello studio,» soffiai.
«Esatto,» rispose lui, serio. «Bene, continua ad indagare e tieni Mr. Sogno lontano dai guai e dagli sguardi indiscreti dei tabloid. Io vedrò di raccogliere altre informazioni, magari interrogando qualche persona che era presente nel pub quella sera. Ci aggiorniamo domani mattina. Bye!»
«Bye…» snocciolai, incapace di dire altro.
Posai il telefono sul tavolinetto di vetro, vicino ai documenti sparsi e disordinati. La situazione era più spinosa di quanto avessi mai pensato, soprattutto dopo aver sentito il tono di voce di James. Sarebbe stato molto difficile dimostrare l’innocenza di Simone, visti i suoi trascorsi poi. L’ultimo test sarebbe stato quello di paternità, ma prima di arrivare a quel punto, avremmo dovuto sostenere con tutti i mezzi possibili la sua innocenza.
Loro erano stati effettivamente a letto insieme quella notte, c’erano milioni di persone che li avevano visti andare via, eppure chiunque avrebbe potuto affibbiare una falsa gravidanza ad una persona famosa. Sarebbe bastato andare a letto con qualcun altro il giorno dopo, in fondo i test di gravidanza non erano così affidabili da determinare persino il giorno e l’ora del concepimento. C’era un ampio margine d’errore.
Sbuffai e mi tenni la testa tra le mani.
Il flusso dei miei ingarbugliati pensieri fu interrotto dall’ingresso rumoroso di Simone, ora completamente vestito con la tuta dell’Arsenal, il cappotto e il borsone. Mi fissava aspettando una mia reazione che non tardò ad arrivare.
«Dove vai?» gli chiesi, stupita.
Lui sorrise sornione e afferrò un mazzo di chiavi dalla ciotola vicino alla porta. «Agli allenamenti, mi pare ovvio,» commentò sarcastico.
Scattai in piedi allarmata, visto che ero stata presa completamente alla sprovvista.
«E io cosa dovrei fare?» gli chiesi, raccogliendo i documenti nel minor tempo possibile.
Simone fece spallucce e mi ignorò. «La cosa non mi riguarda,» disse semplicemente, aprendo il portone. «Se vuoi venire, vieni. Altrimenti ti chiudo dentro come un cane.»
Era ufficiale: lo odiavo con ogni fibra del mio corpo.
Stupido, arrogante bamboccio. Me l’avrebbe pagata!
«Aspettami!» gli dissi, tentando di infilarmi le scarpe che ormai erano diventate troppo strette per i miei poveri piedi gonfi.
«Il tempo è denaro!» disse, aprendo la porta e sparendo nell’ingresso.
Fui costretta a rincorrerlo con le vesciche che premevano pesantemente contro i bordi delle decolleté non perdendo occasione di maledirlo durante tutto il tragitto.

***
Buon sabato mattina a tutte!!
Il capitolo è un po' in ritardo per colpa di Torino e di Chris (l'ammore mio!) che mi ha trattenuta dopo il concerto e quindi non ho potuto pubblicare U.U
Insomma, Sofia ha fatto la sua entrata in scena trionfale, in tutta la sua fulgida bellezza (la adoro!)
Simone è scontroso come al solito e l'idea che Ven debba stargli alle calcagna non gli va a genio per niente, ma nemmeno a Ven poverina. Sono entrambi abbastanza insoddisfatti della soluzione adottata da Jamie.
Insomma, chissà cosa combineranno agli allenamenti dell'Arsenal? Ne vedremo sicuramente delle belle.
Ringrazio tantissimamente le mie Crudeliozze che mi spronano a continuare questa storiella così e cosà, a tutte le fanghérl impazzite sul gruppo Crudelie si nasce e le persone che hanno letto/recensito/ricordato/preferito I'm in law with you.
Vi adoro!

Storie consigliate:
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***



CAPITOLO 4

betato da Nes_sie
 
«Allacciati la cintura,» mi disse solamente Simone, gettando la borsa sui sedili posteriori della sua Cinquecento senza alcuna cura delle cose contenute dentro.
Lo fissai allibita e mi affrettai a fare come voleva, anche perché non avevo alcuna intenzione di finire spiaccicata contro il parabrezza. Non appena feci scattare la chiusura, TermoSifone chiuse lo sportello e girò la chiave nel cruscotto, facendo rombare il motore.
Non sapevo né dove stessimo andando né se sarei arrivata viva a destinazione, ma il mio compito ormai era quello di monitorare il ragazzino ventiquattr’ore su ventiquattro. Avrei dovuto sopportare anche un’eventuale settimana di stitichezza relativa a quel viaggio in quella specie di scatoletta che lui chiamava macchina.
«Ma dove andiamo di preciso?» provai a chiedergli.
Simone mi lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio senza darmi risposta. Fece però scattare la freccia e si immise lungo la strada che ci avrebbe condotti ai famosi allenamenti di questo Artenal, Arfenal, Afronal…
Nel frattempo la canzone dei Coldplay cominciò a suonare dall’interno dell’abitacolo. Rimasi piacevolmente sorpresa che un decerebrato come TermoSifone avesse dei gusti musicali quasi accettabili.
Lentamente la Cinquecento avanzava nelle strade ordinate di Londra, zigzagando nel traffico che era soltanto un pallido ricordo rispetto a quello rumoroso ed assordante di Roma. Non appena cominciammo ad allontanarci dal centro cittadino, Simone accelerò di rimando, facendomi sprofondare nel sedile del passeggero.
Mi artigliai letteralmente alla tappezzeria, per paura che quel poppante finisse col schiantarsi contro qualche muretto.
«Una domanda puramente a titolo informativo… sei neo-patentato?» domandai, visto che non sapevo nemmeno da quanto fosse maggiorenne.
Lui mi fulminò con lo sguardo e storse la bocca. «Non la finirai tanto presto di atteggiarti a “mammina” della situazione, eh?»
Alzai un sopracciglio, infastidita. «Mi stai dando della vecchia?»
Allora Simone stirò un sorriso sbieco. «Mi stai dando del ragazzino?»
Quanto ti odio.
Mi limitai ad incrociare le braccia al petto, per quanto quella guida spericolata da stuntman potesse concedermi. Ero stanca e non era nemmeno giunta l’ora di pranzo. Quella mattina ero stata schiacciata nella Tube, avevo discusso con Yuki per l’ennesima volta, James mi aveva ribadito quanto contasse sul mio aiuto per questo caso e, come se non bastasse, il moccioso aveva avuto la bella idea di andare agli allenamenti di quella sua stupida squadra.
Non poteva andare peggio di così.
Beh, potrebbe piovere.
E infatti dopo nemmeno cinque secondi delle goccioline si infransero sul vetro della Cinquecento di Simone, costringendolo a rallentare e ad azionare i tergicristalli.
Perfetto.
La giornata non poteva andare avanti meglio di così. Inoltre, non sapevo ancora quanto lontano fosse 'sto posto sperduto nel bel mezzo del nulla.
«Posso, di grazia, sapere dove stiamo andando?» gli chiesi infastidita, reggendomi al corrimano dopo che Simone prese una curva a tutta velocità.
Il calciatore rimase in silenzio per qualche secondo, mentre da Paradise si passava a Hurts like heavens.
«Mi vuoi ignorare per tutto il viaggio?» puntualizzai. Odiavo le persone che mi snobbavano, soprattutto quando volevo ottenere un’informazione importante come quella.
Simone allora sbuffò. «Ho tentato, ma è quasi impossibile farti stare zitta,» osservò piccato. «Comunque stiamo andando a Leafy Hertfordshire, a quarantacinque minuti dall’Emirates Stadium. Contenta?»
Premesso che non sapevo affatto dove si trovasse questo Emire-qualcosa, ero comunque soddisfatta di aver ottenuto quello che volevo. Alla faccia sua.
«Sì, ora posso avvertire i soccorsi nel caso ci schiantassimo. Visto che guidi come un ubriaco.»
Lui sgranò gli occhi e mi fissò allibito. «Ao’, tié!» mi fece, toccandosi in modo abbastanza vistoso il cavallo dei pantaloni. «Oltre che una rompicazzi, sei pure una iettatrice!»
Era la prima volta che gli sentivo abbandonare quell’accento tipicamente inglese che aveva appreso vivendo tutti questi anni qui a Londra. La parlata in dialetto romano non si addiceva al suo viso delicato, nonostante però non potei fermare un brivido che corse lungo tutta la spina dorsale.
In un attimo mi ripresi da quelle mie momentanee divagazioni.
«Ma vaffanculo!» gli risposi per le rime.
«Vaffanculo te! Non ho chiesto io di averti sempre intorno!» mi urlò contro, sbandando lievemente dalla carreggiata.
Rimanemmo in silenzio fin quando la macchina non riprese il suo assetto.
Per un attimo pensai davvero di aver influito lievemente sulla mano del destino, ma scacciai subito quel pensiero. Non avrei mai dato ragione a quel cretino.
Feci passare qualche secondo, in cui attesi che il mio cuore tornasse al battito regolare.
«Nemmeno io ho chiesto questo. Sappilo,» mormorai. «Non ho certo studiato tutti questi anni per ridurmi a fare da balia a te.»
«Non ho bisogno della babysitter.»
«No, infatti. Avresti bisogno della vasectomia,» sibilai acida.
Simone non fece in tempo a rispondermi che si accorse che eravamo finalmente giunti a destinazione, così lasciò la disputa e svoltò sulla sinistra.
Entrammo in un viale alberato, all’apparenza molto lussuoso e ben tenuto. A mano a mano che si avanzava sulla ghiaia che scrocchiava sotto le ruote della Cinquecento, cominciai ad intravedere due grandi campi da calcio, una sala pesi e una piscina al chiuso.
Eravamo giunti a Leafy Hertfordshire.
La Cinquecento si avvicinò ad un immenso parcheggio, sicuramente più grande di trenta miei monolocali messi in fila l’uno dietro l’altro, pieno di macchine lussuose. Di sicuro la più “economica” era la scatoletta di Simone...
Spense il motore ed uscì dalla macchina, nonostante fuori avesse cominciato a piovere a dirotto. Afferrai la valigetta coi documenti e l’aprii, afferrando l’ombrello killer. Soppesai l’idea di aprirlo o meno, considerato che la struttura fosse a pochi metri dalla macchina.
Alla fine Simone picchiettò sul vetro. «Te voi move?» sbraitò, mezzo fradicio.
Sbuffai e soffocai la voglia di sparargli dritto in faccia l’ombrello killer, col rischio di venir arrestata. Aprii lo sportello e sentii subito il freddo delle gocce di pioggia che s’insinuavano all’interno dell’impermeabile, facendomi rabbrividire.
Tenni la valigetta stretta al petto, tentando di correre verso la struttura con i tacchi delle decolleté nella ghiaia.
Appunto per il futuro: bruciare quelle cazzo di scarpe!
Fortunatamente riuscii a mettere un piede sul mattonato proprio quando sembrava che il temporale stesse peggiorando, ma non calcolai affatto l’attrito della suola liscia. Cominciai ad oscillare all’indietro, accorgendomi troppo tardi di star cadendo a terra come la proverbiale pera cotta.
Ci mancava solo che mi spaccassi la schiena, nel vero senso della parola.
Pensai già all’impatto che il mio povero sedere avrebbe avuto con la ghiaia e sperai con tutto il cuore di non rovinare il completo, anche perché era l’ultimo pulito che avevo, quando avvertii delle braccia che mi afferrarono al volo, impedendomi di cadere rovinosamente a terra.
Il mio cuore prese a battere velocemente.
«Oltre ad essere asfissiante, sei pure impedita!» mi apostrofò Simone ed io mi voltai appena, fissando il suo viso bagnato di pioggia.
Aveva i capelli appiccicati alla fronte, così come lo erano i miei, mentre rivoli d’acqua gli solcavano quel volto marmoreo. Mi riscossi quasi subito dai quei pensieri e lo scostai, riacquistando l’equilibrio.
«Prego, comunque,» disse acido, proseguendo verso la struttura.
Ignorai la punta di fastidio che sentivo alla bocca dello stomaco per non avergli saputo rispondere per le rime, poi decisi finalmente di togliermi da quella doccia naturale.
Odiavo il tempo inglese.
Una volta entrati dalla porta scorrevole, fui invasa da un getto piacevole di aria calda. Ci voleva proprio dopo tutta quell’umidità che avevo preso. La cosa che notai immediatamente dopo, furono innumerevoli corpi maschili mezzi nudi e sudaticci che pompavano i muscoli agli attrezzi della palestra.
Sono forse morta?
Deglutii a fatica un blocco di bile che mi si era incastrato in fondo alla gola, quando un signore ci corse in contro con degli asciugamani.
«Là fuori c’è un tempo da cani!» sorrise a Simone, permettendogli di asciugarsi.
Dopodiché passò alla sottoscritta. «Piacere, Henry,» mi disse cordiale, porgendomi la mano. «Vieni che ci asciughiamo.»
Mi fece fare un giro della sala pesi, dopodiché arrivammo fino ad una specie di tavolo da cui tirò fuori un morbido accappatoio e altri asciugamani. «Mettitelo addosso, così non sentirai freddo,» mi suggerì cordiale.
Gli sorrisi ringraziandolo, poi lasciai vagare lo sguardo su quel mare di addominali guizzanti e riuscii a mala pena a mettere due pensieri sensati l’uno di fila all’altro.
Che fine ha fatto la Ven calma e razionale?
È stata rapita da un Tarzan sudaticcio.
Non l’avrei ammesso nemmeno sotto tortura, ma forse quella giornata stava prendendo una piega davvero notevole. Per un momento persi di vista il mio obiettivo principale, poi lo trovai a chiacchierare animatamente con alcuni dei suoi compagni, mentre abbandonava la borsa sul pavimento e si spogliava.
Dopotutto non sarebbe stata una giornata noiosa.
Avvertii solo all’ultimo il telefono che vibrava nella tasca del pantalone. Lo presi con difficoltà, visto che addosso avevo ancora l’accappatoio, e lessi l’SMS.
Era di James.
 
Ehi, spaghetti-girl!
come va col nostro assistito? non ti stancare troppo, mi raccomando. mi servi pimpante per il processo.
 
Pensai per un momento di scrivergli che andava tutto per il verso sbagliato, che avrei volentieri fatto carte false per rimanere a fare le fotocopie in ufficio, ma alla fine rinunciai. Non potevo cominciare a lamentarmi dopo nemmeno un giorno.
Sarebbe stato poco professionale.
 
tutto a meraviglia. non preoccuparti.
stasera mi farò una sana dormita. :)
 
Inviai il messaggio di testo proprio quando un’ombra mi comparve alle spalle facendomi sobbalzare.
«Ciao piccolina, e tu chi saresti?» mi domandò un tizio che si era avvicinato incuriosito.
Lo fissai socchiudendo le palpebre. «Venera, piacere.»
Rimase stupito dalla particolarità del mio nome, come lo era ormai tutto il genere umano, ma non fece domande per fortuna. Il tipo all’apparenza sembrava apposto, aveva anche un bel paio di occhi talmente blu e talmente profondi che per un attimo mi ricordarono quelli di James.
«Piacere, Sebastian,» si presentò, baldanzoso, porgendomi la mano.
La fissai come se fosse stato uno degli otto arti di un polipo, ma alla fine mi decisi a stringerla a mia volta, per non sembrare scortese. Sapevo che gli inglesi se la prendevano per un nonnulla.
«Non ho potuto fare a meno di notare che sei venuta insieme a Simone,» osservò, ostentando un sorriso malandrino.
Sull’evidenza non potei mentire.
«Sì, mi ha accompagnata lui,» smozzicai, e sperai non insistesse.
Ero vincolata dal segreto professionale e non potevo certo sbandierare ai quattro venti di essere il suo avvocato e che il grande Mr. Sogno avesse un caso che gli pendeva sulla testa come una spada di Damocle.
Il sorriso sul bel volto di Sebastian si accentuò. «Sei la sua ragazza?»
A quella domanda trasalii e mi tesi come una corda di violino. «Certo che no!» sbottai incredula, alzando un tantinello di troppo il tono della mia voce.
Ovviamente tutta la sala pesi si voltò verso noi due, compreso Simone, e per la prima volta in tutta la mia vita ebbi almeno venti maschioni sudati e accaldati con gli occhi puntati su di me.
Il tipo che mi aveva interrogata sminuì quella mia risposta con una risatina, dopodiché notai lo sguardo che TermoSifone aveva rivolto a questo tale Sebastian.
Per fortuna l’ingresso di un signore anziano distolse l’intera squadra dalla sottoscritta.
«Allora? Non sento cigolare nessun macchinario, stiamo battendo la fiacca?» tuonò imperioso e autoritario.
Era alto, anzi altissimo e la sua folta capigliatura canuta gli conferiva un’aria affascinante, quasi come quella di Mr. Abbott. Sprofondai ancora di più nel mio accappatoio bianco, sentendo che pian piano riuscivo ad allontanare il senso d’umidità che la pioggia mi aveva lasciato addosso.
I macchinari della palestra ricominciarono la loro attività, così come i venti giocatori che ora si stavano allenando come potevano, viste le condizioni meteorologiche.
D’improvviso mi sentii osservata, e non da quel tipo fastidioso di nome Sebastian.
Un paio di vividi occhi azzurri mi penetrarono da parte a parte quando si accorsero della mia presenza. Il signore anziano mi si avvicinò e mentre camminava notai quanto fosse magro, oltre che alto.
Quasi come un fuso.
Pensai immediatamente di fare la disinvolta anche perché soltanto in quel momento notai di essere l’unico essere di sesso femminile presente in quella stanza.
Ecco spiegati gli sguardi indagatori di poco prima.
Purtroppo però, gli occhi penetranti dell’uomo mi fissavano dritti e non potevo di certo ignorarli. Si avvicinò studiandomi da capo a piedi, ed io rimasi immobile sotto quello sguardo intenso. Forse era la prima volta in assoluto che qualcuno riusciva a farmi un tale effetto.
«E lei sarebbe?» mi chiese, andando subito al dunque.
Incrociò le braccia al petto con fare meditativo, nonostante era chiaro quali intenzioni avesse. Mi stava studiando, osservando, chissà per quale assurdo motivo.
«Mi chiamo Venera Donati,» dissi, porgendogli la mano. «Sono venuta con…» e lì fui interrotta dallo sguardo tagliente che mi rivolse.
«Mi lasci indovinare,» fece il misterioso. «Simon!» urlò, con tono che non ammetteva repliche né dinieghi.
Dal fondo della sala si udì un mesto borbottio, seguito dal clangore di un bilanciere che venne abbandonato sulla panca per i pesi. Vidi Simone avvicinarsi con un’espressione sul volto tutt’altro che allegra.
«Sì, Mister?» chiese, massaggiandosi il collo indolenzito.
A quel punto compresi che l’uomo alto e allampanato che mi stava di fronte, altri non era che il famoso allenatore dell’Arfonal.
È Arsenal.
È uguale, una vale l’altra.
E poi cosa dici “famoso” se non sai pronunciare nemmeno il nome della squadra.
Taci.
«Quante volte ho ripetuto, quasi fino alla nausea, che è vietato portare le proprie fidanzate/sorelle/madri/parenti agli allenamenti? Siamo qui per chiacchierare? Vuoi preparare del the?»
Simone sgranò gli occhi. «Quella non è la mia ragazza. E tanto meno mia sorella,» disse schifato.
Sorvolai sull’utilizzo sfrontato di “quella” come appellativo verso la sottoscritta, e cominciai a sentire il bisogno di spiaccicare la faccia di TermoSifone contro la scrivania a pochi passi da me.
«Ah, no?» domandò allora il Mister.
«Certo che no!» obiettò ovviamente, quasi come se fosse chiaro come il sole che una come me non sarebbe potuta mai lontanamente essere imparentata con un Sogno.
«E allora cosa ci fa qui?» chiese l’allenatore, sempre più spazientito. «Sai bene quali sono le politiche della società. Avete bisogno di concentrazione, non di una ragazzina sculettante che se ne va in giro per tutto il comprensorio!»
Ragazzina sculettante?
Simone si sfiorò nervosamente i capelli dietro la nuca, più corti rispetto a quelli davanti che gli solleticavano il viso. «Lei è…» smozzicò.
Sgranai gli occhi con il timore che potesse davvero dire la verità, mandando a quel paese tutto il lavoro di segretezza che stavamo costruendo attorno a quella storia. Lo facevo stupido, ma non fino a questo punto.
Mi lanciai letteralmente su di lui, pronta a bloccarlo se avesse aggiunto anche solo una sillaba, quando fui afferrata al volo da quel tipo strano di nome Sebastian.
«Lei è la nostra mascotte, Mister,» disse coinciso, ridacchiando.
Simone ci pensò un po’ su, sorpreso, poi annuì con vigore.
«Confermo.»
Il tipo allampanato che chiamavano Mister mi fissò con dubbio, dalla testa ai piedi, notando quanto quell’accappatoio bianco che avevo addosso mi rendesse profondamente ridicola.
«Quindi tu saresti la ragazza che sostituisce Thomas?» domandò alla sottoscritta, anche se io non avevo idea di chi fosse questo tizio.
Sia Sebastian che Simone cominciarono a farmi degli strani cenni, muovendo la testa dall’alto verso il basso.
«S-Sì?» tentennai la risposta, poi il Mister si rilassò.
«Quindi da oggi indosserai il costume del drago per tifare i Gunners, giusto?» sorrise, senza alcuna traccia di sospetto questa volta.
Deglutii a fatica, realizzando immediatamente di essermi messa nei guai da sola.
«Domenica prossima sarà in campo con noi, Mister!» si aggiunse Sebastian, portando avanti quella pantomima assurda.
Ci mancava solo che mi trovassi un dopo-lavoro come mascotte di una squadra di cui non sapevo nemmeno pronunciare il nome.
Il signore alto e magro mi fissò un’ultima volta, apparentemente soddisfatto, poi si rivolse nuovamente alla sua squadra.
«Continuate ad allenarvi. Anche se oggi questo tempo vi ha graziati, domani non sarà tanto indulgente. Domenica ci sarà una partita importante e dobbiamo essere pronti,» comunicò serio, mentre ogni giocatore tornava a pompare i propri muscoli in palestra.
Tirai un sospiro di sollievo quando il Mister si allontanò dalla stanza, passando per la grande porta a vetri che la separava da un piccolo ingresso. Solo quando la situazione sembrava del tutto risolta, mi rivolsi a quel Sebastian con un diavolo per capello.
Fui però anticipata da Simone.
«Ma che diavolo t’è venuto in mente!» gli urlò contro, spazientito.
Sebastian fece spallucce, senza smettere di sorridermi. Mi faceva venire i brividi quella sua espressione maliziosa e, al tempo stesso, furba.
«L’importante è che ho evitato alla tua ragazza di passare il resto della giornata in macchina,» rispose tranquillamente, ignorando l’aria di sfida che Simone stava ostentando nei suoi confronti.
«Non sono la sua ragazza,» insistetti, constatando che quello era ormai diventato un pensiero piuttosto comune lì dentro.
Sebastian, allora, alzò un sopracciglio sorpreso, senza smettere quel sorriso sghembo che mi faceva correre un lungo brivido dietro la schiena. «Di bene in meglio,» commentò, quasi sarcastico.
Sentii Simone sbuffare, poi alzò le mani in segno di resa e si allontanò. Prima, però, mi rivolse uno sguardo di taglio. «Rimani lì e cerca di non fare altri casini,» mi disse coinciso.
Strinsi le mani a pugno con l’indescrivibile voglia di mettermi ad urlare.
Io? Casini? Ma se era unicamente colpa sua e di quel suo uccellaccio che non voleva saperne di restare nei pantaloni!
Ingoiai il magone di rabbia che lentamente si arrampicava lungo il mio esofago e decisi di sedermi in un angoletto, incrociando le braccia al petto e aspettando che quello sbarbatello finisse di pompare i bicipiti.
Calma Ven, in fondo non è successo nulla di grave.
Come no. Ero bagnata fin dentro le ossa, mi sentivo profondamente frustrata e infuriata perché di tutte le migliaia di persone che abitavano a Londra, doveva proprio capitarmi quella più odiosa. Inoltre, non mi ero nemmeno concentrata sul caso.
Quella storia faceva sempre più schifo e avevo il timore che sarebbe peggiorata.
 
Una volta conclusi gli allenamenti, Simone e il resto della squadra sparirono in un’altra stanza, che presumibilmente era lo spogliatoio, con docce e tutto il resto. Riconsegnai l’accappatoio a Henry, nonostante avessi ancora addosso i brividi di freddo a causa della pioggia che mi aveva inumidito i vestiti.
«Sicura che non preferisci cambiarti d’abito? Potresti ammalarti,» mi suggerì il custode.
Sorrisi per la sua premura. «Grazie del pensiero, ma appena torno a casa avevo in mente di passare in ufficio. Presentarmi con la tuta non sarebbe una grande idea,» spiegai.
Henry mi sorrise ed io ricambiai. Poi la gente sosteneva che gli inglesi non fossero cordiali, che avessero l’aria snob e la puzza sotto il naso.
Mai giudicare un libro dalla copertina.
Come tu hai sempre fatto con Simone?
Decisi che prima o poi avrei fatto un trapianto di Cervello, giusto per non sentirmi continuamente dire che stavo sbagliando. Sbadigliai annoiata da quella giornata, pregustando il momento di potermi finalmente mettere sotto le calde coperte del mio letto, nel monolocale vicino Regent Park.
L’idea di passare un’ultima volta in ufficio prima di tornare a casa non era nelle mie migliori aspettative, ma Jamie era stato tassativo. Dovevo fargli rapporto a fine giornata ed io ero una donna di parola.
Tornai a sedermi avvertendo un certo dolore alle gambe, fin dentro le ossa, e pensai si trattasse della stanchezza accumulata in quei due giorni di lavoro. Era incredibile, come avrei fatto a sostenere quel ritmo per tutta la durata del caso?
Ci farò l’abitudine.
Dopo mezz’ora di estenuante attesa, in cui rischiai di addormentarmi addosso alla parete puzzolente della palestra, mi sentii scuotere la spalla.
«Che…?» bofonchiai.
«Vuoi mettere radici o ce ne torniamo a casa?» mi domandò Simone, divertito.
Assottigliai lo sguardo e non gli risposi. Mi limitai ad alzarmi e raccattare le mie cose, sperando di arrivare il più presto possibile a destinazione. Non vedevo l’ora che quella giornata finisse, di poter finalmente tornare a casa e mettere la parola “fine” a quelle assurde ventiquattr’ore.
Seguii TermoSifone verso l’uscita della palestra, ma proprio quando stavo per mettere una mano sulla porta a vetri dell’ingresso, mi sentii chiamare.
«Ehi, piccola mascotte!» mi urlò una voce alle spalle.
Mi voltai quel tanto per scorgere gli occhi azzurri e vispi di Sebastian che mi fissavano altezzosi.
«Domani alla stessa ora?» mi domandò sarcastico.
Sbuffai sonoramente, roteando gli occhi. Ero troppo vecchia e troppo stanca per pensare a quelle cose, per sottostare a tutti quei giochetti fatti da ventenni col cervello di un dodicenne.
«Come no!» gli risposi, decidendo di uscire.
Simone era già partito verso la Cinquecento blu metallizzata che spiccava fra le innumerevoli automobili ed io mi appropinquai per seguirlo. Aprii lo sportello e mi gettai di peso sul sedile del passeggero, completamente esausta.
Non appena Simone si sedette al mio fianco, avvertii una nuvola di profumo invadere la macchina. Era zuccherino, dolce, e pensai immediatamente si trattasse di un qualche bagnoschiuma.
Simone mi lanciò uno sguardo interrogativo ed io feci finta di niente. Ero troppo stanca persino per litigare.
Girò la chiave nel cruscotto e fece marcia indietro. Imboccammo la strada al contrario e ci dirigemmo verso la capitale, mentre la macchina era immersa nel silenzio.
Posai la fronte sul finestrino, pensierosa, mentre mi massaggiavo le gambe che incominciavano ad indolenzirsi. Strinsi la valigetta tra le mie mani e pensai che una volta tornata a casa avrei dovuto almeno trascrivere la deposizione di Simone, per quello che potevo ricordare.
Sicuramente dovresti omettere tutti i suoi patetici tentativi di sembrare il maschio alfa della situazione.
Ovviamente.
«Domani rimarrai a casa,» disse di punto in bianco TermoSifone, perentorio.
«Ch-Che?» domandai, ancora cullata dal torpore dei miei pensieri.
Lui mi rivolse uno sguardo serio ed io rimasi impressionata da come potessero essere profonde quelle iridi scure. Un colore così anonimo, eppure talmente significativo da togliermi il fiato.
«Quella storia della mascotte è una balla, e mister Arsene non è un tipo che si inganna facilmente. Come hai visto, agli allenamenti non ho nessuna distrazione. Perciò tu domani rimani a casa,» ripeté, tornando a fissare la strada.
Nonostante il torpore che continuava a prendere pieno possesso della mia mente, il mio cervello era ancora in grado di elaborare le informazioni basilari: Marmocchio. Sta. Impartendo. Ordini.
A quel punto mi voltai quasi del tutto verso di lui, fissandolo seria. «Forse non hai capito bene il punto principale: non hai scelta!» sbottai. «Pensi davvero che a me faccia piacere seguirti in lungo e in largo come un cagnolino? Pensi che non abbia altro a cui pensare? Credi davvero che mi diverta a fissarti mentre rincorri un pallone come un deficiente e sottostare agli scherni dei tuoi stupidi compagni di squadra?»
Simone allora s’incupì. «Sebastian non ti stava prendendo in giro,» affermò solamente, cambiando discorso.
Tornai a sprofondare nel sedile della cinquecento. «Continua pure a fare di testa tua, non ti libererai di me tanto facilmente,» lo minacciai.
Il resto del viaggio passò in silenzio. Ci scambiammo solamente degli sguardi di traverso, carichi di tensione, mentre la macchina sfrecciava tra le vie del centro, in direzione del quartiere di Soho.
Simone trovò subito parcheggio in uno dei grandi garage vicino alla sua palazzina, così smontammo dalla Cinquecento per imboccare l’ascensore della palazzina da un’altra entrata laterale.
Mi trascinai letteralmente sulle decolleté, che una volta tornata sana e salva a casa, avrei bruciato senza nessuna remora. Quella giornata sembrava non voler arrivare alla conclusione.
Sbuffai e salii anche gli ultimi gradini, poi, sempre in silenzio, prendemmo l’ascensore fino a raggiungere l’attico della palazzina. Mi appoggiai alla parete di legno della cabina, sentendomi sempre più spossata e debole.
Dovresti fare sport, mi sembri una vecchietta con gli acciacchi.
Simone mi lanciò un’occhiata pigra, mentre si sistemava meglio il borsone sulla spalla. «Non hai una bella cera,» constatò semplicemente.
Subito m’indispettii. «Nemmeno tu sei Mr. Universo,» ringhiai.
Ero davvero troppo stufa di tutta quella storia, e mi scocciava maggiormente spendere la metà delle mie energie per litigare con quel ragazzino viziato.
Simone come al solito se la prese, così si voltò e mi ignorò del tutto.
Meglio così.
Attesi che le porte dell’ascensore si aprissero sul pianerottolo di fronte alla porta dell’attico, poi uscii per poi attendere che mi venisse aperto. Simone trotterellò in avanti e infilò una mano nelle tasche della tuta alla vana ricerca di un mazzo di chiavi.
Prima di poter inserirle nella toppa, si udì un rumore al di là della porta blindata e rimanemmo entrambi di sasso.
Sulla soglia ci venne ad aprire un uomo molto alto, dalla carnagione scura e dal taglio degli occhi molto simile a quello di Simone. Rimasi perplessa e confusa.
Quella casa era un via vai di gente?
«Ti ho chiamato cinquanta volte,» disse esasperato, rivolgendosi a Simone e ignorandomi del tutto.
Sbuffò sonoramente e ignorò l’altro, entrando prepotentemente nell’appartamento.
Mi sentii davvero di troppo in quel momento, così attesi fuori la porta come un cucciolo smarrito. Cosa avrei dovuto fare?
In soccorso mi arrivò lo sguardo del tipo sulla soglia. «E tu chi saresti?» mi domandò curioso.
Era già la seconda volta in quella giornata che mi veniva rivolta la stessa domanda. Quanto odiavo quella parte del mio lavoro.
Tesi la mano e sorrisi. «Venera Donati, piacere,» dissi, sicura di me.
L'uomo mi lanciò un’occhiata piuttosto interrogativa, poi mi strinse la mano con diffidenza.
«Gabe, tanto piacere.»
In seguito mi lasciò entrare, per poi rivolgersi a Simone che si stava togliendo il giacchetto lanciandolo scompostamente sul divano.
«Hai parlato coi tuoi avvocati? Non ti ricordi cosa ti hanno detto in proposito delle…» e fece una pausa. «…tue ampie compagnie?»
Simone gli scoccò un’occhiata di traverso, poi sorrise sornione. «Ho capito fin troppo bene. Mi hanno messo fido-bau alle calcagna,» sghignazzò indicandomi.
Gabe mi fissò allibito. «Sei il suo avvocato?» chiese dubbioso.
Io gonfiai il petto d’orgoglio. «Sono uno dei suoi avvocati, lavoro per lo studio di Mr. Abbott e affianco James Percival Abbott nel seguire il caso di Mr. Sogno.»
Fu a quel punto che quel tipo mi sorrise. «Ma quanti anni hai?» mi chiese.
Assottigliai lo sguardo offesa, come se la mia giovane età mi privasse delle stesse qualità che avrebbe avuto un avvocato più anziano.
«È più vecchia di quanto sembri, Bro’,» sghignazzò Simone.
«Aspettate un secondo,» dissi, completamente confusa, passando lo sguardo tra Gabe e Simone.
Fui però preceduta. «Io sono il fratello di Simone, quello che vi ha ingaggiati. Mi chiamo Gabriele.» Poi fece la solita pausa studiata. «Gabriele Sogno.»
E lì il mio mondo crollò in un’istante.
Premesso che già ero circondata da tutti i membri di quella stramba famiglia, ci mancava anche l’ultimo da conoscere.
«Siamo numerosi, lo so,» aggiunse ridacchiando. «Devo ricordarmi di telefonare ad August e complimentarmi con lui per la scelta dello staff. Fossero tutti così gli avvocati,» insinuò malizioso.
Era un complimento o un’offesa?
Direi un vano tentativo di flirt.
«Gabe, che cosa vuoi?» tagliò corto Simone, infastidito.
L’altro si mise le mani nelle tasche del completo firmato lo guardò. «Volevo assicurarmi che fossi in buone mani,» disse semplicemente. «E che Sabato fossi a pranzo da noi. È più di un mese che rimandi e Marianne si sta insospettendo. Ci sarà anche Sofi e quella specie di pseudo-fidanzato che si porta appresso.»
Simone sbuffò sonoramente, dando le spalle al fratello. «Domenica giochiamo contro il New Castle, non so.»
Gabriele gli si avvicinò, cercando un contatto visivo. Nel frattempo cominciai a sentirmi davvero stanca, così, senza interrompere nulla, mi avvicinai al divano e mi stesi sopra, appoggiando la testa sul bracciolo.
«Susanna vorrebbe vedere il suo zietto famoso. Le ho detto che ci sarai,» provò a convincerlo.
Zietto… allora era sposato ed aveva prole.
Davvero un’ottima deduzione, Sherlock.
Socchiusi le palpebre un paio di volte, sentendo che la stanchezza montava dentro e premeva per farmi riposare lì su quel comodo divano. Non potevo permettermelo, sarei dovuta passare da James per aggiornarlo della situazione, avrei dovuto trascrivere la deposizione.
Il sonno era per i deboli.
«Verrò, contento?» sbottò alla fine Simone, esasperato. «Sappi che ci sarà anche fido-bau, perché mi deve tenere sott’occhio.»
Vidi a mala pena Gabe fare un sorriso. «Dimmi che ti dispiace, allora,» insinuò.
Simone fece una faccia scandalizzata. «Ovvio! Non penserai mica che uno come me possa stare con quella cozza lì giù!»
«Ti ho sentito, stronzo!» lo redarguii, con un filo di voce.
Gabriele rimase davvero soddisfatto da quello scambio di battutine, però io mi sentivo davvero troppo stanca per aggiungere qualcosa, così mi adagiai definitivamente sul divano e chiusi gli occhi.
In quel lasso di tempo tra il sonno e la veglia udii delle frasi smozzicate e confuse.
Shhh, si è addormentata…
…abbiamo preso l’acqua, oggi…
Febbre…
Poi fu tutto un sonno privo di sogni.

***
Eh insomma, insomma.
Ven alla fine si è buscata una vera e propria influenza, poverina. Purtroppo il tempo londinese non è il massimo a chi è abituato a vivere in Italia, che comunque ha una temperatura piuttosto stabile, inoltre, fare da balia a Simone le porta via la maggior parte del tempo e non riesce mai a riposarsi.
Cosa dire di questo capitolo?
Un nuovo personaggio è comparso all'orizzonte (?) e devo ancora decidere bene se sarà o meno influente all'interno di tutta la trama. Non vorrei creare troppa confusione, ma Sebastian mi piace parecchio :33
Per quanto riguarda Ven, ormai si è ben capito che il bell'avvocato di nome James ha un forte ascendente su di lei, chissà che il futuro non riservi delle belle sorprese a quei due *sospira* ce li vedo troppo bene insieme, voi che dite?
Beh, non mi resta che lasciarvi alle vostre opinioni, con una bella recensione o un commento, che dite?

Ringrazio le persone che recensiscono/seguono/preferiscono/leggono questa storia, alle ragazze del gruppo Crudelie si nasce che mi sta dando sempre più soddisfazioni. Alle mie care crudelie più strette, che mi sostengono (col fucile puntato) ogni giorno affinché continui a scrivere e non mi sollazzi nella bambagia, ma soprattutto a Nessie (mia wifuccia) a cui è totalmente ispirato il personaggio di Venera.
Beh, alla prossima guys!
Bye Bye!
Marty

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***



CAPITOLO 5

betato da Nes_sie

Svegliati!
Ven, è ora di alzarti, devi andare a scuola…
Sei in ritardo, perderai la lezione!
«Altri cinque minuti,» bofonchiai senza alcuna forza.
Mi sentivo la testa pesante come un macigno e non riuscivo nemmeno a muovere un muscolo. D’improvviso avvertii delle dita calde sfiorare la mia fronte, che spostavano ciuffi di capelli, i quali ormai avevano raggiunto la consistenza della stoppa.
«Ha la febbre alta.» Udii una voce piuttosto familiare.
Non era certo quella di mia madre, come nel mio sogno appena concluso, e ci misi pochi secondi a ricordare tutto. Il mio tirocinio alla Abbott&Abbott, l’associazione niente di meno che al nipote del socio anziano dello studio, il mio primo caso come avvocato dopo la laurea e il master, e infine il viso strafottente di quel cretino di Simone.
«Dobbiamo portarla a casa.» Avvertii ancora quella voce, così mi decisi ad aprire pigramente un occhio.
La fisionomia di un viso mascolino, spigoloso e velato da un po’ di barba comparve davanti al mio sguardo avido di quella visione. James era qualcosa di ultraterreno, come se gli angeli fossero scesi sulla terra per scolpire dal marmo vergine quel suo corpo statuario.
E quegli occhi erano davvero capaci di sciogliermi.
«Ehi, spaghetti-girl,» mi sorrise, non appena si accorse che ero cosciente.
«D-Dove sono…?» bofonchiai esausta.
Mi faceva male il petto persino a parlare, non riuscivo nemmeno a muovermi e non avevo idea di quale virus avessi beccato.
«Stai lasciando la sindone sul mio divano, ecco dove sei!» La voce acida di Simone raggiunse il mio orecchio più tagliente di una lama. Non perdeva mai occasione di essere così “gentile” nei miei confronti.
«Fottiti…» gli risposi a monosillabi, poi mi ricordai che c’era anche James e arrossii.
«Credo che tu abbia preso troppa pioggia in questi giorni,» si aggiunse un’altra voce, che mi risuonava vagamente familiare. Nel mio campo visivo, infatti, rientrò anche Gabriele – l’altro Sogno. «Hai semplicemente qualche linea di febbre, nulla che un po’ di riposo non possa guarire,» sentenziò.
Jamie mi rivolse uno sguardo davvero preoccupato. «Dobbiamo portarla a casa,» annunciò agli altri.
Simone aveva le braccia incrociate e mi fissava talmente in cagnesco che se avesse potuto, mi avrebbe incenerita con lo sguardo.
«E cosa stai aspettando?» gli disse burbero.
Gabriele lanciò uno sguardo sbieco al fratello più piccolo, ammonendolo senza dire una parola.
Fu James allora a parlare. «Purtroppo non ho la macchina, o meglio, sono venuto con i mezzi questa mattina e non mi sembra saggio portarla fino al suo appartamento utilizzando un mezzo pubblico, con l’alto rischio di contagio.»
Simone sbuffò. «Ma avrà sì e no qualche linea di febbre, non l’aviaria!»
È stupido come una gallina.
L’hai scoperto ora?
«Mio fratello sarà felice di accompagnarvi fino all’appartamento della dolce Venera,» disse Gabriele con quello charme che Simone non avrebbe ereditato nemmeno tra un milione di anni.
«Cosa?» sbottò, infatti, quest’ultimo. «Io sono tornato ora, non puoi portarli tu?»
L’uomo, dai penetranti occhi azzurri, gli rivolse uno sguardo malizioso. «Ho una riunione con la società e devo organizzarti altre conferenze stampa. Sono il tuo manager, non il tuo autista.»
James a quel punto si alzò in piedi, lasciandomi con un’ultima carezza accennata. «Potrei chiamare un taxi, se il passaggio crea così tanto disturbo,» sospirò.
James Percival Abbott era stato davvero creato da un angelo.
Non solo era dotato di una bellezza e di un carattere da invidiare, ma era gentile, educato, cercava di non creare disturbo laddove la situazione si faceva spinosa.
Ven, stai delirando. È la febbre che ti fa parlare.
Simone e Jamie si scambiarono un fuggevole sguardo, ognuno pensando qualcosa che mi era impossibile capire in quelle condizioni. Era evidente che TermoSifone non avesse alcuna voglia di accompagnare la sottoscritta nel suo monolocale a Kensington Garden e tanto meno io avevo voglia di passare ancora del tempo con lui.
Nelle condizioni in cui mi trovavo, era persino difficile riuscire a pensare, figurarsi rispondere per le rime a quel pallone gonfiato. Mi sentivo debole, indifesa, alla completa mercé di quello sguardo che continuava a fissarmi scocciato.
«E va bene!» sbuffò, affondando le mani nelle tasche della tuta.
Sul volto di Jamie si allargò un sorriso sincero e cortese. «Grazie mille, davvero,» gli disse riconoscente, facendo per stringergli la mano.
Ovviamente quel cafone di Simone ignorò il gesto e si diresse verso la porta.
«Chiudi tu?» domandò a Gabe. «Visto che ti diverti ad entrare ed uscire da questa casa a tuo piacimento.»
Il maggiore dei due Sogno annuì, poi Simone si rivolse a me e a Jamie. «Andiamo?» mormorò spazientito.
L’avvocato, con uno dei sorrisi più belli che gli avessi mai visto in volto, mi aiutò ad alzarmi, portandosi un mio braccio attorno alle spalle. Dovevo avere un aspetto orrendo, ci pensai solo in ultimo, ma non me ne curai più di tanto. Facevo fatica persino a respirare, con i polmoni intrisi di catarro, e l’apparenza non aveva mai contato tanto per me.
«Ce la fai?» mi chiese James premuroso, fissandomi con quei suoi occhi.
Annuii debolmente, poi ci dirigemmo fuori dalla porta. Diedi una fuggevole occhiata a Gabriele prima di varcare la soglia, giusto per salutarlo, e lui mi fissò con quel suo solito sorriso malizioso.
Però devi ammettere che è un figo.
Ovvio che lo avrei ammesso, anche davanti alla corte marziale.
Gabriele aveva tutto: successo, fascino, avvenenza, buona educazione e non ci voleva soltanto un bel visino, come quello di Simone, per essere considerato l’uomo perfetto.
Impiegammo meno tempo dell’andata per giungere la Cinquecento blu metallizzata parcheggiata nel garage della palazzina. Spiegai quell’incongruenza con la poca forza che avevo nel tenere gli occhi aperti. Mi sembrò quasi un sogno quel viaggio; infatti, ricordai unicamente di aver mormorato il mio indirizzo all’orecchio di Jamie e il minuto successivo mi trovavo davanti alla porta d’ingresso del mio appartamento.
«Siamo arrivati,» annunciò Jamie trionfante.
«Era ora,» si aggiunse un’altra voce ed io mi sorpresi di avere ancora Simone alle spalle.
Mi voltai con difficoltà ed incrociai il suo sguardo. «C-Che ci fai ancora q-qui?»
Lui mi fissò in cagnesco e incrociò le braccia al petto. «Bel ringraziamento per averti risparmiato il taxi,» ringhiò.
Prima che potessi elaborare una risposta sensata a quel suo acido commento, Jamie riuscì a far girare la chiave nella toppa e fummo invasi dalla luce giallo-arancio della sera che filtrava dall’unica, grande finestra del monolocale.
Mi staccai da James per raggiungere in completa autonomia il letto, sedendomi di peso sopra di esso. Fissai allora lo sguardo sui miei due accompagnatori.
«Grazie mille, ora potete anche andare,» dissi, sperando mi lasciassero da sola a crogiolarmi in quel senso di spossatezza che solo l’influenza poteva dare.
Simone rimase appoggiato allo stipite della porta, fissandosi intorno stralunato. James, invece, entrò e si diresse nel bagno. Poco dopo lo sentii armeggiare con l’armadietto dei medicinali alla ricerca di un’aspirina.
Tornò di corsa e mi porse un bicchiere d’acqua e la pasticca.
«Ti sentirai subito meglio, vedrai,» mi sorrise.
«Ma tu non eri avvocato? Mo’ fai pure il dottore?» gli chiese Simone, scortese come sempre.
James rimase con la bocca dischiusa, incapace di proferire parola. E certo, con uno scemo del genere non bisognava nemmeno sprecare il fiato.
«Ignoralo,» dissi coincisa, ingoiando la pastiglia e bevendo l’acqua.
«Sai, non credevo che a Londra adibissero gli stanzini ad appartamenti,» continuò imperterrito Simone, tirando fuori quella parlantina velenosa da Mr-So-Tutto-Io. «Riesco persino a percorrerlo tutto in dieci secondi, guarda!» E si mise a cronometrare i suoi stessi passi con l’orologio.
Nel frattempo Jamie lo fissava quasi inorridito.
«Da quant’è che vi conoscete?» ci chiese, mentre mi aiutava a mettermi vestita sotto le pesanti coperte del letto matrimoniale.
Posai la testa sul cuscino, quasi completamente esausta. Ero davvero spossata da quella pesante giornata, ma pensai che dopo una bella e sana dormita, sarebbe passato tutto.
«Non è che ci conosciamo proprio,» arrancai, sospirando. Sentivo le guance scottare.
«Infatti!» rimarcò subito Simone, bighellonando nel mio piccolo appartamento. «Quello scemo di mio cugino s’è fidanzato con una sua amica, e alla fine ho avuto il piacere di incontrare anche lei.» E m’indicò con disprezzo.
«Non devi andare a guardarti video porno o altro?» gli chiesi stizzita.
Simone mi rifilò uno sguardo di sottecchi. «Va bene, ho capito. Sono di troppo.» E fece per andarsene dal monolocale.
Finalmente.
«Vieni, avvocato?» chiese in direzione di Jamie, aspettando una sua risposta e giocherellando con il mazzo di chiavi della Cinquecento.
James si alzò dalla posizione accovacciata che aveva assunto per mettermi a letto, poi spiegò il suo vestito elegante. Aveva classe, c’era ben poco da fare. Sicuramente il mio era un pensiero di parte, perché avevo un certo debole per gli inglesi, soprattutto quel loro accento particolare che mi faceva accapponare la pelle, ma il giovane Abbott era qualcosa che esulava da tutto ciò.
«Credo che prenderò i mezzi per il ritorno, grazie. Penso di rimanere un altro po’ qui, ad assicurarmi che Ven abbia tutto ciò che le occorre.» E sorrise, uno di quei gesti sinceri e inaspettati che avrebbero scaldato anche il più cinico dei cuori.
Simone fece spallucce e aprì la porta d’ingresso. «Fa un po’ come vuoi,» e fece per uscire, poi mi rivolse un ultimo sguardo. «Tornatene a Roma, non sei fatta per vivere qui,» e se ne andò.
Era forse una minaccia?
«Che razza di deficiente!» ringhiai infuriata, sentendo la gola pizzicarmi.
James si portò una mano alle labbra e soffocò una risata. «Non vi sopportate proprio,» commentò ironico. «È come se foste cane e gatto.»
Sbuffai e sprofondai nei morbidi cuscini dietro le mie spalle. «L’hai visto anche tu, no? È un bambino, nient’altro.»
«In effetti, è un po’ immaturo,» convenne, sedendosi sul bordo del letto. «Avrete qualche anno di differenza, giusto?»
Annuii sconsolata. «Tre, per l’esattezza.»
Jamie annuì pensieroso, poi si grattò il mento velato di barba. «Come ti senti?» mormorò, cambiando argomento.
«Molto meglio, grazie,» sorrisi, tentando di non arrossire.
Quello che accadde dopo, però, non lo avrei mai messo in conto. Senza alcun preavviso, James si sporse verso la sottoscritta, facendo perno sulle sue braccia che posò ai lati del mio corpo. Si avvicinò lentamente e con cautela, fissandomi con quei grandi occhi acquamarina.
Sentivo il mio cuore battere forte nella gabbia toracica, potevo avvertire le costole che stavano trattenendo a stento la potenza di quel muscolo involontario. Non sapevo se fossi accaldata a causa della febbre o per la stretta vicinanza dell’affascinante avvocato.
Chiusi gli occhi e tentai di respirare. In quel momento tutti i buoni propositi che avevo fatto prima di partire per la capitale inglese, come pensare unicamente al lavoro e diventare socio dello studio, si stavano lentamente spegnendo come quei poveri neuroni sopravvissuti alla febbre. Respiravo a fatica, avvertendo il battito accelerare ancora.
L’hai letta la circolare sui rapporti inter-ufficio?
Ignorai il mio cervello quando avvertii una nuvola di fiato caldo solleticarmi la pelle del viso. Stava per succedere, ormai non era quasi più un sogno.
Così come l’aspettativa del piacere, era già piacere essa stessa, così dopo che avvertii le sue labbra posarsi sulla mia fronte, rimasi quasi delusa. Schiusi lentamente le palpebre, per paura della reazione che avrei potuto avere, mentre il cuore non cessava di martellarmi in petto come una grancassa. Quel contatto fu così intimo, eppure altrettanto innocente.
Jamie si staccò quasi subito, sorridendomi come al solito. «La febbre sta scendendo,» disse soddisfatto.
Gli sorrisi di rimando, perché era quasi impossibile non farlo. Il suo buonumore era contagioso, così come quei modi affabili, gentili e sempre premurosi verso il prossimo, chiunque esso fosse.
«Bene, così domani potrò tornare a lavoro!» dissi raggiante, tossendo qualche minuto dopo a causa dell’euforia e dei polmoni ancora deboli.
Lo sguardo di James si fece all’improvviso preoccupato. «Assolutamente!» se ne uscì, allargando le braccia. «Tu domani ti riposi, rimani qui a casa, e penserò io a tutto il resto. Zio August sicuramente capirà.»
«Ma…» tentai di protestare, alzandomi dai cuscini e avvertendo in quel momento una fitta la petto.
«Ma niente,» disse perentorio. «Nel caso, puoi rileggere i documenti che ti ho portato dal lavoro, sulle deposizioni che ho raccolto quest’oggi direttamente dal barista. Vedi se riesci a capirci qualcosa.»
«Okay, le guarderò,» risposi sconsolata.
James afferrò la sua valigetta e mi porse un plico di documenti che aveva proprio l’aria di essere abbastanza noioso. In quel momento ricordai che avrei dovuto trascrivere la deposizione di Simone, prima che dimenticassi qualche particolare importante.
Tipo le svariate posizioni in cui l’hanno fatto?
Ovviamente no.
«Potresti passarmi quel blocco e la penna?» chiesi a James, approfittando della sua gentilezza.
Lui alzò un sopracciglio e mi fissò. «Cosa vuoi fare?»
Sbuffai per il solo fatto di non avere abbastanza forza per prenderlo da me. «Devo trascrivere la deposizione di Simone, altrimenti potrei non ricordarmi tutto.»
«Non l’hai registrata?» mi chiese con ovvietà.
A quel punto sbiancai, come un lenzuolo. Era raro che dimenticassi la procedura, avendo fatto mille simulazioni e avendo studiato più volte il materiale. Non avevo idea di come mi fosse potuto passare di mente. Era ovvio anche per un bambino che avrei dovuto necessariamente registrare una deposizione, in modo da non perdere nemmeno la minima informazione.
«Ehi, ehi, non preoccuparti,» mi sorrise James. «Ora riposati, domani trascrivi quello che ti ricordi, nel caso farai un altro incontro con Mr. Sogno. Bisogna comunque tenerlo d’occhio,» e ammiccò.
Già, quel pallone gonfiato non scarterebbe nemmeno una caramella senza che qualcuno lo faccia al suo posto.
«Va bene,» smozzicai, sentendo la stanchezza prendere possesso di ogni mia facoltà mentale.
James, vedendo che facevo fatica a tenere gli occhi aperti per più di cinque secondi, si alzò dal letto e afferrò la valigetta ormai vuota. «Bene, è il momento che mi ritiri,» scherzò.
«Grazie...» gli dissi con imbarazzo. «…di tutto,» aggiunsi, cercando di non arrossire a quel ricordo di poco prima. Mi aveva tolto dieci anni di vita, ma non era giusto farglielo pesare.
Lui mi sorrise ancora, poi si chinò e mi sfiorò una guancia con la mano. Un lungo brivido mi percorse la spina dorsale e rimasi totalmente imbambolata a fissare il vuoto.
«Ci sentiamo domani, spaghetti-girl,» mi disse, scherzando; poi uscì dalla porta ed io rimasi per qualche minuto in uno stato di trance.
Quella giornata era stata estenuante e da una parte ero contenta che stesse finalmente volgendo al termine. Diedi un ultimo sguardo alle pratiche sparpagliate sul mio letto, poi mi rannicchiai su me stessa, tentando di riposare.
Allora?
Allora, cosa?
Vuoi affrontare o no il fatto che ti stai prendendo una bella sbandata per l’avvocato sexy?
Il mio cervello riusciva ad essere fin troppo puntiglioso nei momenti meno opportuni della mia vita. Da una parte dovevo ammettere di non essere ormai indifferente di fronte al fascino di James, ma dall’altra non potevo ancora chiamare in altro modo quell’attrazione.
C’era chimica, lo sentivo, ma c’erano anche mille altre ragioni per cui quella storia non avrebbe nemmeno dovuto nascere. Jamie era il mio collega, io ero la sua associata, inoltre, come se non bastasse, lui era il nipote del socio anziano dello studio, mio unico garante per l’assunzione alla Abbott&Abbot. Avrei messo in gioco tutto quello per cui avevo lavorato duramente quegli anni.
Per ora non ne valeva la pena, anche se James incarnava ciò che avevo sempre sognato in un uomo.
Tranne quello sguardo penetrante che ti fa rabbrividire.
Quel tipo di sguardo lo avevo unicamente notato nella persona più odiosa di tutto l’universo, che avrei volentieri barattato con una gomma da masticare se ce ne fosse stata l’occasione.
Infilai le mani sotto il cuscino e chiusi gli occhi.
Domani sarebbe stato un altro giorno, magari utile per pensare e per rimediare alla terribile distrazione che avevo commesso non registrando la deposizione.
Chiusi gli occhi e mi abbandonai cullata dai sogni. Lentamente la febbre scendeva, avvolgendomi in un caldo bozzolo di stanchezza.
 
L’aula di tribunale era silenziosa, così come la giuria che pendeva dalle mie labbra durante l’arringa. Stringevo convulsamente la sbarra, senza mai distogliere lo sguardo dalla testimone che sedeva al banco degli imputati.
«…e con questo, ho concluso vostro onore!» dissi convinta.
Mi voltai quel tanto da incontrare lo sguardo del Giudice, con tanto di parrucca bianca e toga, quando il rumore del martelletto cominciò a perforarmi le orecchie. Non riuscivo a capire perché  continuasse a sbatterlo, nonostante non ci fosse nessun motivo apparente.
«Che sta succedendo?» chiesi, ma il rumore era assordante e mi costrinse a tapparmi le orecchie.
Se avesse continuato di questo passo, mi sarebbe esploso il cervello.
Spalancai gli occhi sentendo la testa pesante come un macigno, e brontolai qualcosa prima di avvertire un pizzicore in fondo alla gola che mi fece tossire. Mi sentivo come uno zombie dopo essere stato investito e malmenato.
Inoltre, il rumore assordante che avevo scambiato per il martelletto del giudice, non era altro che il bussare alla porta del mio monolocale.
«Chi è?» brontolai con voce roca, ricordando pian piano tutti gli avvenimenti del giorno prima.
C’era stata la pioggia, Simone, la litigata con Simone, la febbre, Jamie, ancora Simone, e infine Jamie che mi aveva lasciato un timido bacio sulla fronte.
Decisi di non arrossire, anche se la mia condizione di salute avrebbe facilmente mascherato quella pallida emozione.
«Sono io Ven, aprimi. Sono Sofi!» trillò una voce dall’altra parte dell’uscio.
Sgranai gli occhi e rimasi immobile per qualche secondo, metabolizzando ciò che le mie orecchie avevano appena udito. Cosa ci faceva qui Sofia? Come diavolo sapeva dove abitassi?
Ma cosa più importante, cosa vuole da noi?
Avrei potuto far finta di stare troppo male, di non riuscire ad aprire la porta, ma mi pareva una meschinità troppo grande. In fondo, quella Sofia non mi aveva fatto nulla di male. Il suo unico difetto era avere metà dei geni in comune con quel deficiente del fratello.
Quello più piccolo.
Ovvio, l’altro era una specie di semi-dio.
«Sto arrivando,» dissi, dirigendomi verso la porta con passo cadenzato, visto che avevo ancora tutti gli acciacchi della notte passata a sfebbrare.
Raggiunsi il portone e feci girare la maniglia; si aprì l’uscio e mi trovai davanti la chioma riccia e bionda di una ragazza sorridente come un raggio di sole.
Ovviamente c’era anche qualcun altro.
«Sei ancora più cessa del solito, Lil’Elf,» commentò arcigno Simone, fissando il mio aspetto stravolto.
Sofia lo fissò subito di traverso. «Simo! Ha avuto la febbre, povera piccola!» Si lanciò verso la sottoscritta e mi abbracciò senza alcun timore di essere contagiata. «Fortuna che Gabriele mi ha avvertita, così mi sono potuta liberare in sala registrazione per venirti a trovare,» sorrise.
Sala registrazione?
Senza che diedi il permesso di entrare a nessuno dei due, i fratelli Sogno si catapultarono nel mio piccolo monolocale, facendo come se fossero a casa loro. Era incredibile la facilità con cui non si facessero alcun problema, per loro gli spazi personali erano un optional.
«Ehm, scusate…?» chiesi, tentando di capire cosa diavolo ci facessero alle nove del mattino ad Oxford St.
Sofia si diresse immediatamente verso la finestra e spalancò la tenda, lasciando entrare tutta la luce possibile che quella giornata uggiosa avrebbe concesso alla capitale inglese.
«Per prima cosa, facciamo entrare un po’ di sole!» gridò estasiata.
«Ma se oggi danno temporale,» disse annoiato Simone, gettandosi di peso su una sedia e rimanendo in quell’angolo con le braccia incrociate e l’espressione scocciata.
La bella biondina ignorò il fratello e continuò a sfaccendare per casa. «Certo che è proprio angusto qui, riesco a mala pena a muovermi…» commentò poco dopo, urtando un piccolo porta scarpe.
«È quello che posso permettermi,» commentai, con voce rauca.
Sofia continuò a impilare i piatti sporchi nel lavello, tirandosi poi su le maniche e cominciando a far scorrere l’acqua.
«Ma non è necessario!» tentai di fermarla, prima che potesse versare il sapone per i piatti sulla spugnetta di rame.
Lei mi bloccò con uno sguardo. «Sì che lo è! Stai facendo molto per mio fratello ed è colpa sua se ti sei ammalata.»
«Ehi!» protestò immediatamente Simone. «È lei che ha voluto seguirmi come un cagnolino.»
«Se tu non avessi un debole per ogni paio di tette che ti passa davanti!» ringhiai, stufa quanto lui di tutta quella storia della babysitter.
«Beh, alla fine Simone abita tutto solo in quell’appartamento…» sospirò Sofia, al di sopra dello scrosciare dell’acqua nel lavello.
«E allora?» dicemmo entrambi all’unisono, fissandoci poi in cagnesco.
Sofia fece spallucce ed ignorò momentaneamente il nostro bisogno di sapere a cosa alludesse con quella frase sospetta. Ero sinceramente troppo stanca per star dietro anche alle pazzie della più piccola dei Sogno, davvero.
Fissai i documenti del caso sparsi sul mio letto sfatto e mi ricordai immediatamente che dovevo riscrivere la deposizione, ora che Simone era fortunatamente ad oziare nel mio appartamento.
«Senti, dovrei rifarti le domande dell’altro giorno,» cominciai, afferrando il registratore ed un blocco per gli appunti.
Simone alzò un sopracciglio e mi fissò annoiato. «Perché?»
Sbuffai infastidita da quelle sciocche domande.
Non vuoi ammettere che ti sei dimenticata di registrarlo.
Anche.
«Lo devo fare, e basta. Me l’ha detto Jamie,» sputai fuori, anche se non era del tutto vero.
«Jamie, eh? Siamo passati ai nomignoli. Lui come ti chiama, Lil’Elf?» mi domandò serio, mentre Sofia era impegnata a lavare le stoviglie.
«Che diavolo vuoi? Tu mi hai sempre affibbiato i peggiori soprannomi e questo non vuol dire che tra di noi ci sia qualcosa,» sputai fuori, sedendomi sul bordo del letto e aspettando che decidesse a rilasciarmi quella dannata deposizione.
«Io non conto. E poi pensi che non sappia che mi chiami TermoSifone?!» ringhiò.
Sghignazzai senza alcun controllo, chiedendomi come l’avesse scoperto. Non era colpa mia se quel deficiente mi ispirava così tanta violenza fisica.
«Almeno il mio è intelligente e arguto. “Piccolo Elfo” non significa nulla.» sbuffai.
«Meglio Jamie, allora,» tagliò corto.
«Sicuramente!» asserii, ripensando al giorno prima. Mi chiesi soltanto in quell’istante com’era possibile che il bell’avvocato fosse piombato in casa Sogno per riportarmi nel mio appartamento. Mi era completamente sfuggito di mente questo particolare. «Ma come ha fatto James a sapere che non mi sentivo bene?» gli chiesi.
Simone sembrò indeciso se rispondermi o meno, poi sbuffò contrariato, seguendo col dito indice i ghirigori della tovaglia. «Quando ti sei addormentata, il tuo cellulare non la finiva di squillare così ho risposto,» disse fissandomi, con quegli occhi scuri e tremendamente espressivi. «Era l’avvocato. Gli ho detto cosa avevi e subito dopo me lo sono ritrovato alla porta,» sbuffò. Incrociò le braccia dietro la testa e si sbracò sulla sedia come meglio poteva.
Arrossii immediatamente e non riuscii a fermarmi. Forse quella dimostrazione di ieri non era stata solo un caso fortuito, non si era trattato di un controllo di temperatura, forse Jamie provava qualcosa per me.
O forse ti stai facendo i filmini.
«Che cosa romantica…» sospirò Sofia, avendo origliato tutta la conversazione. Si asciugò le mani su uno strofinaccio e si sedette al mio fianco. «Questo James dev’essere bellissimo.»
«Non è tutto ‘sto granché,» commentò acido Simone.
«E non solo!» continuai io, da vera comare. «È anche così intelligente, gentile, di buone maniere, con quella tipica cavalleria inglese che in Italia puoi solo sognare.»
Tessevo le lodi di James come una ragazzina innamorata, ma ormai c’era ben poco da fare. Potevo ripetere al mio Cervello di non cadere in tentazione un milione di volte, ma mi ero scottata. Questo era certo.
«A me non sembra così bello,» insistette Simone, cercando attenzioni da me e dalla sorella. «Io sono meglio.»
Gli scoppiai a ridere in faccia, senza trattenermi.
Lo vidi accigliarsi talmente tanto che sul suo volto comparve una smorfia talmente divertente che non riuscii a smettere di ridere.
«Simo, lascia parlare Ven. Anche Gabe mi ha detto che questo Abbott è un gran bel ragazzo,» insistette Sofia.
«Innanzitutto James è un uomo,» e sottolineai quella parola con due ottave di voce più basse. «Non un ragazzino che corre dietro un pallone. Inoltre, lui è così maturo, serio, non un tipo che insegue le gonnelle come un lupo affamato.»
«Potrebbe essere un padre di famiglia!» sospirò Sofia estasiata.
«Certamente,» affermai con sicurezza.
«Sofi, ma si può sapere da che parte stai?» chiese Simone spazientito.
Sofia sorrise furba al fratello e si spostò i folti capelli ricci da una spalla. «Oh, non fare il guastafeste! Non puoi vincere sempre tu. Accetta la realtà e ammettilo che questo James Abbott è un gran figo.»
Simone incrociò le braccia al petto. «Facciamo ‘sta deposizione, va'!» preferì cambiare argomento piuttosto che continuare a parlare di Jamie.
Sorrisi senza riuscire a smettere di fissare quell’espressione seccata che il grande Simone Sogno aveva dipinta sul viso e non riuscii ad evitare di provare una strana sensazione. Cercai di scacciarla, di farne a meno, di spingerla via dal petto, ma quella tornava a prendere posizione in un piccolo angolino del mio cuore.
Non sapevo spiegarmi cosa fosse, era come se all’improvviso Simone non fosse più soltanto un cinico imbecille.
Era quasi... carino.
Mentre Sofia si dilettava nei lavori di casa, io riuscii finalmente a trascrivere per intero la deposizione di Simone, registrandola e archiviandola senza nessun pensiero. Finalmente potevo dire a Jamie di non essere un completo disastro.
«Finito, finalmente!» esultai, tirando fuori il cellulare da sotto le coperte e preparandomi a scrivere un SMS di vittoria all’indirizzo del mio avvocato preferito.
«Nemmeno hai concluso di scrivere, che già gli mandi un text?» osservò Simone piccato.
Innanzitutto la mia vita privata e lavorativa non erano affari suoi, secondo poi cosa voleva?
«Fatti gli affari tuoi. È lavoro,» sibilai acida.
«Sì, certo. Ti sei innamorata di quell’avvocatucolo da strapazzo» commentò, senza risparmiarsi per nessun motivo.
Riposi il cellulare sul tavolo e lo fissai in cagnesco. Stava oltrepassando il limite.
«Senti chi parla, Mr. Non-riesco-a-tenermelo-dentro-i-pantaloni-per-dieci-secondi!» ringhiai, stufa che fossi sempre l’oggetto della sua malalingua.
Sofia ci fissò allibita, sorridendo di tanto in tanto ai nostri battibecchi.
«Almeno io lo faccio. La tua cosa avrà le ragnatele lì sotto,» e indicò distrattamente le mie gambe.
Schiumai di rabbia, perché davvero non poteva venire in casa mia ad insultarmi come più gli pareva. «Tu! Sei solo un ragazzino con le smanie di onnipotenza! Ti credi tanto bello e tanto forte, secondo me è solo un modo per colmare la carenza di qualcos’altro!» e allusi chiaramente al soprannome Pisellino.
Simone a quel punto si alzò di scatto e mi sovrastò col suo corpo e la sua altezza. Aveva gli occhi che mandavano lampi e saette, così come i miei. Se cinque secondi prima avevo pensato che quel calciatore da strapazzo fosse quanto meno recuperabile, mi ero sbagliata di grosso.
Lo odiavo. Punto.
«Sembrate quasi una coppia sposata,» commentò Sofia divertita da tutta quella situazione.
Le scoccai un’occhiata in tralice. «Premesso che non ho alcuna intenzione di sposarmi prima di essere diventata socia dello studio, non vedo come questo stoccafisso possa mai diventare marito di qualcuno. Forse una povera ritardata!»
«Ah! Senti chi parla,» intervenne subito lui. «Secondo te quale persona sana di mente vorrebbe come moglie una maniaca del controllo, acida, rompicoglioni e bacchettona come te! Non sei manco tutta ‘sta bellezza!»
A quel punto avrei dovuto prenderlo per i capelli e sbatterlo fuori di casa, se soltanto non avrei rischiato di mandare tutto il mio lavoro a farsi benedire. C’era qualcosa in Simone che gli permetteva di avere così tanto successo nella vita, ma sicuramente non era quel suo carattere di merda.
«Stiamo calmi, ragazzi,» disse Sofi, vedendo che la situazione le era sfuggita di mano. «Che ne dite se esco un attimo a comprare qualcosa da mangiare? Pizza?» propose solare.
Annuii distrattamente e mi ributtai sul letto esausta, sapendo che non avrei potuto allontanare TermoSifone da me. Lo avrei dovuto controllare come una balia, giorno e notte, e se Maometto non poteva andare alla montagna, Simone sarebbe venuto nel mio appartamento.
Anche lui si lasciò andare sulla sedia, mentre la sorella raccoglieva il cappotto e la borsa e usciva per comprare delle vivande. Rimanemmo da soli a fissare reciprocamente il muro o il pavimento, anche perché non c’era nulla da aggiungere a quello che ci eravamo urlati contro fino ad ora.
«Non hai gli allenamenti?» gli chiesi, visto che come al solito non si lamentava di avermi sempre alle calcagna.
Simone ci mise un po’ a rispondere, forse ancora incazzato per ciò che gli avevo detto.
«Sì, ma sul tardi,» commentò svogliato.
Mi domandai per quale motivo fosse rimasto senza protestare ogni tre secondi e senza cercare una scusa buona per andar dietro alla sorella. In fondo, ci odiavamo dal primo momento che ci eravamo visti, era normale voler star separati.
«Perché vuoi aiutarmi?» mi domandò di punto in bianco, mentre ricopiavo in bella la deposizione.
«Scusami?» chiesi, pensando di aver capito male.
Simone sospirò e si passò una mano fra quei capelli castano scuro che giurai avessero la consistenza della seta.
Ti piacerebbe toccarli.
No, ma sei scemo?
«Dico,» continuò, attirando la mia attenzione in quegli occhi così scuri da inghiottire qualsiasi barlume di luce in tutta quella stanza. Era come se il mio mondo sparisse perso in quello sguardo. «Per quale motivo mi stai aiutando. Dovremmo odiarci io e te. Io di sicuro, perché non ti sopporto.»
Sorrisi dell’ingenuità di quel ragazzino. Pensava davvero che lo stessi facendo per lui? Per un qualche strano senso di pietà o per immedesimarmi in una buona samaritana?
«Credi davvero che ti stia aiutando perché ho scelta?» Sentivo che ormai la febbre mi aveva completamente abbandonata. «Lo faccio unicamente per sperare in un posto come socio della Abbott&Abbott e se risolvo il tuo stupido caso, ci sono buone possibilità che lo diventi. Ho studiato una vita intera solo per arrivare a questo momento, e certo non me lo farò sfuggire dalle mani da un ragazzino pieno di sé come te.»
Simone s’incupì, stranamente. Non era la risposta che forse aveva desiderato, ma poco importava. Era ancora troppo immaturo per credere che il mondo non fosse solo rosa e fiori, che non si riducesse tutto alla sua vita idilliaca da sexy calciatore.
«Sabato siamo stati invitati a pranzo da Gabriele,» mi ricordò ed io tentai vagamente di rimembrarmi quando mi era stata comunicata tale notizia.
«Non posso,» dissi subito. «C’è una riunione sabato.»
Il calciatore mi fissò con un sorriso beffardo. «Meno male, un giorno intero lontano da miss-ce-l’ho-solo-io.»
«La pianti di affibbiarmi questi soprannomi scadenti? Non fanno ridere nessuno.»
«Fanno ridere me.»
«Sei proprio un bambino,» sbuffai, scuotendo la testa.
Simone si alzò dalla sedia facendola strisciare rumorosamente sul pavimento, poi mi raggiunse a grandi falcate. Non che ci impiegò tanto a colmare la distanza tra di noi, visto che il mio monolocale era poco più che a norma di legge.
«Non sono un bambino,» mi ringhiò a pochi centimetri dal viso. «Ho una carriera, sono famoso, potrei avere qualunque donna ai miei piedi, basta che scocchi queste dita.» E mi mostrò pollice ed indice. «Sei l’unica che non mi porta il benché minimo di rispetto.»
«E questo ti da fastidio?» gli chiesi, con un sorriso beffardo.
«Tremendamente,» sibilò in un soffio.
Gli posai una mano sul petto, spingendo per allontanarlo da me. Nessuno poteva stare a più venticinque centimetri dalla sottoscritta.
Escluso Jamie.
Escluso Jamie.
Simone non smise nemmeno un secondo di fissarmi con un paio di iridi trasudanti d’odio e risentimento. Sembrava un bambino sull’orlo di un pianto isterico, quando gli si era negato un gioco. Ecco, lui era proprio così.
Lo avevo capito subito, non ci sarebbe di certo voluto un genio.
La famiglia Sogno non era certo famosa per avere dei futuri Einstein tra le loro fila – vedi  Leonardo –, piuttosto portava con sé, forse radicata sin dentro il proprio DNA, una specie di sindrome di Peter Pan che impediva loro di maturare.
Mentre da una parte c’ero io, ventitreenne in carriera con un affitto e delle scadenze sulle spalle, dall’altra c’erano Sofia, Simone, Gabriele e Leonardo che se la spassavano senza che la loro vita interferisse minimamente nei loro desideri. Avevano tutto ciò che desideravano e nessuno di loro aveva mai faticato quanto la sottoscritta.
C’era un abisso tra me e loro. Io ero stata costretta a maturare per tempo, andando via di casa già per lo stage e poi per iniziare questo tirocinio che mi stava sfiancando. Simone si alzava quando gli pareva, andava agli “allenamenti” e tirava due o tre calci al pallone.
Però guadagna il doppio.
E vive in una casa che è il quadruplo di questa, da solo.
Gli vorresti chiedere di convivere?
Ma nemmeno per sogno!
Sogno?
Ignorai quella tiritera del mio cervello quando sentii bussare alla porta. Glissai lo sguardo del calciatore e mi precipitai ad aprire a Sofia che rientrava con tre cartoni di pizza fumanti.
«Si mangia!» esultò la biondina. Entrò e fece spazio per pranzare.
Vidi Simone che si lanciò letteralmente sulla pizza, senza nemmeno aspettare che apparecchiassimo, poi ci distribuimmo attorno al piccolo tavolino e consumammo il pasto.
«Perché tu e Ven non dividete l’appartamento?» se ne uscì di punto in bianco Sofi, rischiando di farmi strozzare.
«C-Cofa?» urlò Simone.
«C-Che?» ringhiai io.
Sofia adagiò sul cartone il pezzo di pizza, poi si pulì l’angolo delle labbra. «Scusate, ma visto che Venera dev’essere la tua ombra e dato che casa tua è a pochi passi dal suo ufficio, non è comodo che lei venga a vivere con te?»
«Il mio appartamento è sacro! Col cavolo che lo divido con questa,» e mi indicò schifato.
«Nemmeno io voglio vivere con uno dei Teletubbies,» gli risposi per le rime.
Sofia non sembrava voler gettare la spugna. «Pensa ai soldi che risparmieresti, Ven! Non dovresti più prendere la Tube per andare a lavoro e bagnarti per poi farti venire l’influenza,» osservò intelligentemente. «Inoltre, fratellino,» disse rivolta a Simone, «lei potrebbe occuparsi della casa senza che ogni volta venga io a sistemarti tutto e farti la spesa.»
Rimanemmo entrambi in silenzio perché le argomentazioni della biondina non erano del tutto sbagliate. Da una parte c’era la prospettiva di mettere da parte un bel gruzzolo, senza bisogno di pagare l’affitto di quel buco in cui abitavo, dall’altra c’era il problema Simone.
E lui stava pensando la stessa. identica. cosa.
«Te che dici?» gli chiesi, lasciandogli la decisione.
Non avevo certo tempo per fare un trasloco, ma almeno potevo organizzarmi per il week-end, in modo da poter trasportare le poche cose che avevo.
Simone si stiracchiò le membra, chiudendo gli occhi e sbadigliando assonnato. «Anche se la prospettiva di averti intorno non mi alletta per niente…» sospirò annoiato. «Sembra proprio che dovrò abituarmi, visto che sei il mio avvocato.»
«Quindi è un sì?» trillò estasiata Sofia.
«È un forse,» specificai io. «Intanto vediamo come va.»
La piccola Sogno esplose in un gridolino di felicità che mi perforò un timpano, poi corse ad abbracciarmi. «Sono così felice!» gridò. «Finalmente saremo una famiglia!»
Lasciai libera interpretazione a quella frase, perché non ne avevo capito il senso.
Sofia Sogno mi era parsa inizialmente una ragazza semplice, gioiosa, ingenua e solare, ma lo sguardo che mi stava rivolgendo in quel momento, anzi, che ci stava rivolgendo, non prometteva nulla di buono.
Credo che Simone non sarà il tuo unico problema.

***
Beh, diciamo che con questo capitolo ho spiazzato un po' tutti.
Chi se lo sarebbe mai aspettato? Simo e Ven a dividere lo stesso appartamento, lo stesso spazio personale? Come la mettiamo? La situazione per la nostra Ven sta peggiorando sempre di più, ed io -da sadica di professione quale sono- rigiro il coltello nella piaga e non li lascio per niente in pace. Sono così pucci, li devo mettere a confronto l'uno con l'altro, senza dimenticare però James.
Lui è una parte importantissima di questa storia.
Bene, mi sottopongo ai vostri giudizi/opinioni/fucilate e quant'altro. Fatemi sapere, bella gente!

Ringrazio le persone che hanno recensito lo scorso capitolo (*-* così tante!), quelle che lo seguono/lo leggono/lo preferiscono. Vi adoro tutti allo stesso modo, e vi adora anche Simone. E' qui vicino a me, fa il bravo. CUCCIA!
Come al solito dedico questo capitolo a tutte le ragazze del gurppo Crudelie si nasce che mi sostengono ogni giorno e mi ricordano amorevolmente (ovvero con la cucchiara in mano e la lupara nell'altra) di aprire il foglio Word e continuare a scrivere fino a farmi sanguinare le dita. In particolar modo, ringrazio la mia wife che mi beta/sopporta/ascolta ogni giorno e corregge con freddezza le sparate che ogni tanto partorisco per la trama e che non c'entrano assolutamente NULLA con la storia. Sono proprio da internare.
Beh, baciozzi! Alla prossima!
Marty.

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***




CAPITOLO 6

betato da Nes_sie


Questo capitoletto è per la mia BiancaVeve
come in braccio alla bandana per la sua maturità.
We love U.

Avere uno spazio totalmente proprio, almeno per la sottoscritta, valeva più di ogni altra cosa al mondo. Me ne accorsi troppo tardi, purtroppo. Dopo che l’influenza fu passata del tutto, o quasi, infatti, erano rimasti i postumi, che mi costringevano ad andare in giro con un fazzoletto alla mano; cominciai  così a raccogliere parte delle mie cose per potermi trasferire a casa di TermoSifone.

Ancora stentavo a pronunciarlo ad alta voce. Mi limitavo a pensare.
E ad ammorbare il sottoscritto.
Sofia mi aveva convinta a lasciare il mio piccolo monolocale dislocato, in Oxoford Street, per dividere l’appartamento, o meglio, l’attico e il super attico di Simone in modo da non fare tardi a lavoro ogni santa mattina, rischiando di inzupparmi dalla testa ai piedi cinque volte su sei, ma soprattutto per monitorare Simone senza doverlo lasciare in balia dei suoi istinti primordiali.
A mio avviso, era vantaggioso. In fondo, l’affitto di quella specie di tana di coniglio si portava via metà del mio stipendio di tirocinante, mentre con Simone non avrei avuto problemi di soldi, visto che la casa era tutta sua.
Strano, che non abbia comprato tutto il palazzo.
O la via.
O l’intero quartiere.
Feci spallucce e incartai qualche fotografia, misi in valigia quei pochi completi che ero costretta a lavare la sera tardi e asciugare la mattina dopo col phon, onde evitare di andare a lavoro vestita come una stracciona, poi accantonai gli scatoloni vicino alla porta.
Tutte le mie cose si riducevano a quattro miseri contenitori.
Sospirai sonoramente e cercai fino alla fine cinque buoni motivi per lasciar perdere quell’idea assurda e ritornare sui miei passi. In fondo, ero partita col presupposto di farcela da sola, di vivere la mia vita in maniera indipendente, senza rendere conto a nessuno; invece mi sarei presto ritrovata a dover dividere il mio spazio personale con la persona più odiosa dell’universo.
Almeno potrai portare a termine il tuo lavoro di monitoraggio.
Quella era l’unica nota positiva di tutta la faccenda. Avendo Simone sott’occhio ventiquattr’ore su ventiquattro, se si escludevano magari gli allenamenti che avevo deciso di accantonare pur di non rivedere quell’insulso essere di nome Sebastian, avrei potuto assolvere egregiamente il compito che Jamie mi aveva assegnato, rimanendo comodamente in pantofole e vestaglia.
Eppure, c’era qualcosa che ancora non mi convinceva. Era come se stessi trascurando qualche particolare, un elemento importante che galleggiava proprio davanti ai miei occhi ma non riuscivo a vedere. C’era e non c’era, quasi come un’essenza nascosta.
Ti verrà in mente.
Gli addetti al trasloco sarebbero venuti a prendere le mie cose nel pomeriggio, così mi sistemai meglio la giacca del tailleur, controllai i documenti e la deposizione di Simone, con registrazione annessa, poi uscii dall’appartamento e mi diressi come ogni mattina a lavoro.
Mi sentivo ancora un po’ spossata dall’influenza, ma non potevo permettermi altre assenze perché James era stato sin troppo buono con me.
Arrossii automaticamente al ricordo delle sue labbra morbide sulla mia fronte e mi sentii una sciocca. Scossi energicamente la testa e mi diressi in strada, investita immediatamente da una folata di vento fin troppo freddo.
Avevo portato con me solo un borsone con qualche cambio, nel caso i traslocatori avessero fatto casino. La chiave del monolocale l’avevo restituita al proprietario che si sarebbe occupato di aprire quando fossero venuti gli addetti al trasloco. Ormai era tutto pianificato.
Raggiunsi la Tube del tutto illesa, con i capelli completamente stravolti ma per fortuna sana e salva. Con il meteo londinese non si doveva scherzare, per nessuno motivo, soprattutto se si era reduci da una lieve influenza. Non potevo permettermi altre assenze: c’erano sino troppi sciacalli che ambivano al mio posto.
Alle otto meno dieci mi trovavo davanti all’ufficio, così salii le scalette che conducevano all’ingresso e mi ritrovai immediatamente davanti Mr. Abbott. Senior ovviamente.
«B-Buongiorno!» salutai, aggiustandomi la tracolla del borsone come meglio potevo.
L’uomo in giacca e cravatta mi sorrise, spalancando quegli enormi occhi azzurri così simili a quelli di James.
«Stranamente non è in ritardo, Miss Donati,» ridacchiò, sorseggiando un tè caldo.
Abbozzai un mezzo sorriso. «Non è piovuto oggi,» mi giustificai alla bell’è meglio, sperando che non mi facesse domande sull’assenza di ieri.
«Sono contento di vedere che si è rimessa. È una donna in gamba, Miss Donati,» si complimentò. Mi salutò poi con un cenno del capo e afferrò distrattamente il Times ripiegato su un mobiletto.
Avvertii come un macigno che lentamente veniva sollevato dal mio povero cuore. Non mi sarei mai aspettata per nulla al mondo di impattare col socio anziano di prima mattina, reduce da una sfebbrata notturna che mi aveva lasciata senza forze.
«Ti sei data latitante, ieri?» trillò una voce alle mie spalle.
Senza voltarmi capii che si trattava niente meno di quell’arpia di Yuki che mi stava con il fiato sul collo.
Cercai di ignorarla. «Sono stata poco bene, ma adesso sono tornata,» tagliai corto.
Purtroppo la giapponesina era dura di comprendonio. «Girano voci sul fatto che te ne vai a zonzo tutto il giorno, seguendo un calciatore. È vero?» ridacchiò lei. «Sei una stalker, per caso?»
Premesso che meno notizie sul caso di Sogno trapelavano in giro – anche all’interno dello studio stesso – meglio era, per quale assurdo motivo avrei dovuto spiegarlo ad una deficiente come quella?
«Credi quello che vuoi.»
Nel frattempo afferrai la ventiquattr’ore e ne estrassi la deposizione di Simone da consegnare a Jamie. Puntai dritta il suo ufficio, quando Yuki mi si parò davanti come una muraglia cinese.
È giapponese.
Muraglia orientale?
«Cosa c’è in quel borsone? Un cadavere?» mi tampinò di domande, con quella vocetta acuta e insopportabile.
Chiusi gli occhi a fessure e mi preparai alla sfuriata. «Sì! Il tuo se non ti levi subito di mezzo!» le urlai quasi addosso.
In quel preciso istante, James aprì la porta del suo ufficio e mi fissò allibito. Non poteva scegliere momento peggiore per fare la sua comparsa, tanto che Yuki si defilò così velocemente com’era apparsa.
«Posso spiegare…» tentai di articolare qualche scusa, più che altro per non risultare una pazza esaltata che si mette ad urlare nell’ingresso di uno degli uffici più importanti della capitale inglese.
James però mi sorprese ancora una volta e sorrise. «Sei una sorpresa continua, spaghetti-girl,» soffiò con voce bassa, quasi maliziosa.
Se non avessi avuto ancora dei brividi di freddo, residui dell’influenza, mi sarei sentita accaldata.
James Abbott aveva un fascino che conquistava, ma soprattutto riusciva a smuovermi qualcosa dentro, a fare breccia nel mio cinismo e attraverso il muro che mi ero costruita attorno. Mi spiazzava, così come io sorprendevo lui.
«Forza, cominciamo!» disse poi, con rinnovato entusiasmo.
Per un attimo fui colta dal panico. Pensieri impuri cominciarono a riempire la mia povera mente da avvocato ventiquattrenne in crisi ormonale. «C-Cosa?»
Il ragazzo spalancò ancor di più quei pozzi marini che aveva al posto delle iridi. «Vieni dentro, così parliamo meglio della deposizione,» mi spiegò sorridendo e forse intuendo qualcosa.
Mi sarei volentieri sotterrata, se soltanto non avessi indossato l’unico completo pulito che avevo.
«Arrivo,» smozzicai, avvertendo soltanto in quel momento il mio cellulare che vibrava allegro nella tasca della giacca. «Un momento solo.»
Jamie si ritirò nel suo ufficio mentre io vidi un numero sconosciuto lampeggiare sul display, così pigiai il verde per rispondere alla chiamata.
«Pronto?»
«Dov’è la mia colazione?»
La voce dall’altra parte del telefono l’avrei riconosciuta tra milioni, nonostante fosse un po’ più greve e assonnata.
«Cosa? Che cavolo vuoi?» ringhiai, capendo che Simone si era fumato qualcosa per chiamarmi sul posto di lavoro, a quell’ora del mattino.
Passò qualche minuto di silenzio in cui avvertii dei grugniti animaleschi provenire dall’altro capo del telefono, infine un bel tonfo.
«Ahi! Tacci…» farfugliò, poi si avvertì solo un fruscio.
Decisi che ero troppo intelligente e occupata per preoccuparmi anche di che cosa avesse in mente quel bamboccio viziato, considerando anche il fatto di come si fosse procurato il mio numero di telefono.
Elenco telefonico?
...ma saprà leggere?
Rimasi con quell’interrogativo e interruppi la chiamata, dirigendomi a passo svelto verso l’ufficio di James e chiudendo la porta alle mie spalle. Jamie mi rivolse un sorriso non appena mi vide, alzando il capo da una valanga di scartoffie che riempivano la scrivania.
«Siediti,» disse, sistemando meglio i documenti. «Come vedi, un giorno senza la mia collega e sono perso!» sghignazzò, facendomi diventare bordeaux.
Calmati, Ven, non sclerare.
Avrei dovuto seguire un corso sull’auto-controllo, perché non potevo perdere la testa per un ragazzo – uomo – del genere, ogni santo minuto. Era un mio collega, anzi, un mio superiore ed era anche il nipote del socio anziano dello studio. Non potevo mandare tutti i miei sforzi a farsi benedire per un bel paio di occhi blu.
«Già,» risposi atona, chinandomi per raccogliere i documenti della deposizione. «Qui dentro c’è il resoconto fatto da Mr. Sogno nei riguardi della notte in questione. Ci sono orari approssimativi e nomi di possibili testimoni oculari. Ho messo tutto su nastro,» e gli porsi anche il cd.
«Ottimo,» rispose James, aprendo la cartelletta e dando sommariamente un’occhiata.
Nel frattempo avvertii il cellulare vibrare di nuovo, facendo un rumore assordante. Decisi di ignorarlo e fissare lo sguardo sulla bella pianta all’angolo dell’ufficio.
Jamie alzò lievemente lo sguardo, fissandomi interrogativo. «Non rispondi?»
Feci spallucce e tentai di ignorare ancora il problema Simone, ma il telefono non la finiva di vibrare e sentivo ormai il tailleur che tornava a vita propria.
«Scusami,» dissi mortificata a James, alzandomi in piedi e avvicinandomi alla finestra.
«Che vuoi?!» ringhiai in direzione della cornetta, abbassando la voce per non sembrare una pazza isterica.
«Cosa voglio?» Simone aveva riacquistato il suo solito tono di voce altezzoso e giurai che avesse stampato sul viso quel sorriso strafottente che ostentava ogni volta che ci vedevamo. «La mia colazione, ad esempio.»
«Cucinatela da solo,» risposi perentoria, cercando di non perdere la pazienza di fronte al mio collega.
Sentii uno sbuffo dall’altra parte del telefono. «E allora cosa ti trasferisci a fare qui? Devi sdebitarti in qualche modo…» e lasciò volutamente la frase in sospeso.
«Io non sarò mai la tua schiava, questo non era nei patti!» Ora mi stavo veramente alterando.
«C’è qualche problema?» intervenne James preoccupato.
Gli feci il cenno di attendere un altro minuto, in modo che potessi mandare a quel paese quel deficiente di Simone.
«Senti,» sibilai a denti stretti. «Finisco una cosa in ufficio e poi vengo da te. Sappi che questa è la prima e l’ultima volta che ti permetto di parlarmi in questo modo. Sono il tuo avvocato, non una delle sgallettate che ti porti a letto!»
«Muoviti, ho fame,» disse solamente, prima di chiudermi il telefono in faccia.
Se non avessi avuto assolutamente bisogno di quell’apparecchio per vivere, ero sicura che l’avrei lasciato contro il muro fino a ridurlo in mille pezzi. Mi limitai a stringerlo nella mano e a sbollire la rabbia che quel marmocchio mi faceva venire sottopelle.
Inspirai un paio di volte e tentai di tranquillizzarmi.
«Tutto bene?» mi chiese James preoccupato.
Mi lasciai andare ad un sorriso sincero, pensando a quanto quei due fossero l’uno l’opposto dell’altro. James incarnava tutto ciò che io desideravo e cercavo in un uomo, Simone non era nemmeno un uomo, quindi…
«Era Simone,» gli spiegai, evitando di aggiungere che mi aveva trattato come una pezza da piedi. «Mi ha offerto di trasferirmi da lui, così sono più vicina all’ufficio e posso monitorarlo ventiquattr’ore su ventiquattro,» dissi e tornai a sedermi.
«Hai accettato?» mi chiese sbalordito, storcendo il naso.
Il cambio d’espressione che fece mi spaventò, soprattutto perché non avevo mai visto James così… preoccupato.
«Mi è sembrata una buona offerta, visto che l’affitto che pagavo era anche alto,» dissi sincera, sperando di alleviare la tensione.
Invece Jamie si limitò a stirare le labbra in una linea dritta. «Avremmo potuto darti un anticipo,» aggiunse poco dopo.
Cos’era, un vano tentativo per dirmi che non condivideva la mia convivenza?
«Non credevo si potesse fare,» smozzicai, non sapendo davvero come comportarmi.
Ero in imbarazzo, ormai era un dato di fatto. Non riuscivo a capire se James fosse infastidito dalla notizia dell’appartamento oppure dal fatto che non gli avessi parlato dei miei problemi economici.
Jamie sospirò e tornò a maneggiare le scartoffie della deposizione. «Sei sicura che non ci sia nulla tra voi due?»
Ancora quelle insinuazioni. Avrei davvero voluto avere una confidenza maggiore con James solo per raccontargli quanto detestavo quell’insulso ragazzino senza cervello. Se solo lo avesse conosciuto come lo conoscevo io, non mi avrebbe mai rivolto quella domanda.
«Davvero, non c’è niente. E mai ci sarà,» mi sentii in dovere di aggiungere, per rimarcare il concetto.
James sospirò, ma sembrò abbastanza soddisfatto. «Ti credo,» concluse. «È solo che questo caso di dubbia paternità non è facile da gestire. Si tratta davvero di una situazione delicata e non vorrei dover spiegare alla giuria che il mio assistito è innocente, quando flirta con il suo avvocato nell’aula di tribunale.»
Già l’idea di flirt associato al volto di Simone era lungi dai miei standard di incubo notturno, ma la situazione si stava facendo davvero esagerata.
«Non capiterà, te lo giuro,» ripetei con più convinzione.
Io e Simone non avevamo passato, né presente e ancor meno avremmo avuto futuro. Questa convivenza infatti era più che altro un esperimento, presto o tardi ci saremmo resi conto che non si poteva fare.
«Mi fido di te, Ven,» disse poi, sorridendomi di nuovo.
Era la prima volta che mi chiamava col mio nome, senza nessun buffo appellativo.
 
Quando finalmente riuscii a liberarmi dalla marea di scartoffie e fotocopie in ufficio, feci un salto veloce da Starbucks per comprare un cappuccino e qualche ciambella. Sua maestà Ho-il-culo-pesante aveva pensato che sarei passata da lui prima di andare in ufficio solo per cucinargli qualcosa da mangiare.
Si sbagliava di grosso.
Nemmeno mia madre e mio padre erano a questi livelli, ed erano sposati da ventisei anni ormai.
Pur di non sentirlo lamentarsi una volta giunta finalmente nella mia nuova sistemazione, avevo deciso di portargli qualcosa di pronto, così ero passata in caffetteria ed ora mi trovavo in ascensore avvolta da un denso odore di muffin caldi.
Entrai sull’ormai familiare pianerottolo e guardai il campanello con indecisione, sistemandomi meglio la borsa tracolla su una spalla. Avevo ancora i capelli lievemente arruffati da quella mattina, ma non ci badai. In fondo si trattava pur sempre di TermoSifone.
Bastava avere un paio di tette ed essere alte un metro e novanta ed entravi subito nelle sue grazie.
Tu ne hai una su due.
Deviai immediatamente quei pensieri da un terreno estremamente scivoloso e decisi di suonare il campanello, ricordandomi di farmi un duplicato delle chiavi.
Avvertii un ciabattare annoiato dall’altra parte dell’uscio e poco dopo Simone fece la sua teatrale comparsa, indossando ancora il pigiama.
Lo fissai con un sopracciglio inarcato e un’espressione schifata.
«Fammi capire: sono le dieci e mezza del mattino e tu sei ancora in pigiama?» gli chiesi. Entrai nell’ingresso e posai la borsa sul pavimento.
Simone, in risposta, sbadigliò senza avere la premura di nascondere alla mia vista le sue belle tonsille. «Chi sei? Mia madre?» borbottò, poi gli sovvenne un pensiero birichino. «L’età è quella, però, il gusto nel vestire pure.» E se la rise da solo.
«Che arguzia, mamma mia…» commentai sarcastica, poi posai il sacchetto di Starbucks sul mobile della cucina.
Simone fissò quell’oggetto come un leone puntava la sua preda. Per un secondo, credetti che avesse persino fiutato le ciambelle.
«Che c’è lì dentro?» mi domandò con uno sguardo bramoso.
Pensai che essere più stupido di lui non esistesse al mondo. «Un braccio umano,» sospirai, afferrando di nuovo la borsa e sbirciando oltre il corridoio.
Non avevo mai girato per intero la casa, troppo impegnata a rimproverare Simone lì nell’ingresso. Era strano da pensare, ma quella sarebbe stata la mia casa per chissà quanto tempo.
«Qual è la mia stanza?» gli chiesi, osservandolo mentre si avventava con un balzo sulle cibarie che avevo comprato.
Ora che lo osservavo meglio, vidi che aveva i capelli sparati in ogni direzione, arruffati e senza alcuna piega. Inoltre, il pigiama con le nuvolette celesti che indossava era davvero ridicolo, ma non sembrava preoccuparsene più di tanto.
Quello che mi fece venir voglia di prendere il cellulare e postare su twitter la foto furono le ciabatte a forma di ippopotamo che aveva ai piedi.
«Che fe?» mi chiese, ingurgitando un pasticcino dopo l’altro.
«Carine…» gli feci mentre indicavo le pantofole.
Lui si limitò ad alzare un piede, piegando la stoffa in modo che il buffo animale assumesse un’espressione davvero buffa. «Regalo di Sofi,» tagliò corto e si incamminò verso l’altra parte della casa.
Mi affrettai a seguirlo, prima che potesse sparire in qualche corridoio nascosto in quell’appartamento immenso, fin quando non si fermò ed aprì una porta.
«Questo è uno dei bagni,» mi mostrò, schiudendo appena l’uscio. «Ce ne sono altri due, ma uso quasi sempre questo perché gli altri sono troppo lontani.»
«Oppure non ti ricordi nemmeno dove sono?» chiesi ridacchiando.
Simone mi ignorò di proposito e passò oltre. Sfilammo davanti ad un’altra porta chiusa, proprio in prossimità del bagno, e pensai si trattasse della sua camera da letto visto che non gli sfiorò nemmeno l’idea di aprirla per mostrarmela.
Sarà il covo degli orrori.
«Eccoci qui,» disse trionfante. Si portò un dito indice alle labbra e succhiò forte, ripulendolo dal cioccolato fuso.
Ma quanti anni ha, cinque?
Fissai il mio sguardo all’interno di una stanzetta angusta, buia e puzzolente, senza nemmeno l’ombra di una finestra. Pareva quasi…
«Ma questo è uno sgabuzzino!» protestai immediatamente e trovai quel suo sguardo divertito.
«No, è la tua stanza,» insistette lui, terribilmente serio.
Stavo cominciando davvero a perdere la pazienza e non amavo l’idea di essere presa per i fondelli alle dieci del mattino. Davvero credeva che mi sarei ridotta a vivere lì dentro?
«Come pretendi di farmi dormire lì?» ringhiai, cominciando ad alzare il tono di voce.
«È molto più grande di tutto il tuo ex appartamento, Fido-bau,» commentò sarcastico, puntando quelle iridi scure nelle mie e mettendomi addosso una soggezione che non riuscivo ad evitare.
Possibile che fosse così dannatamente bravo a tenermi testa?
«Facciamo così,» sospirai. Non avevo alcuna intenzione di dargliela vinta. «Tu dormi in questa specie di cuccia per cani, mentre io mi prendo la tua stanza,» decretai, anche se ero più che sicura che in quella casa immensa ci fossero almeno altre tre stanze da letto.
Lo aveva fatto di proposito, tutto per farmi uscire fuori dai gangheri.
«Tu non metterai piede da nessuna parte. Questa è sempre casa mia e le regole le faccio io,» sibilò serio.
Incrociai le braccia al petto e decisi di sostenere il suo sguardo. «Allora io mi impegno a farti andare in galera, fosse l’ultima cosa che faccio. Non giocherai a pallone mai più,» minacciai.
Fortunatamente avevo sempre un asso nella manica: infatti, Simone si accigliò sempre di più e ridusse gli occhi a fessure per fissarmi di traverso. Aveva voluto la guerra? Ci sarebbe stato tempo sufficiente per metterlo in riga e per fargli capire chi è che comandava.
Avere tre anni in più serviva a qualcosa, soprattutto quando la maturità di chi avevi di fronte rasentava l’inverosimile.
«Ucciderò Sofia,» disse solamente, chiudendo la porta dello sgabuzzino e curvando le spalle sconfitto. «Lei e questa stupida idea di metterti fra i miei piedi,» borbottò.
«Non credere che a me vada a genio questa convivenza,» aggiunsi, nel caso si fosse fatto strane idee.
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Seh, come no. Vitto e alloggio pagato, inoltre ti godi pure un bel panorama,» sogghignò.
«Ma quale panorama, se ci sono soltanto palazzi!» protestai.
Fu allora che Simone tirò fuori quel sorriso sbieco che mi faceva correre un singolo, lungo, brivido per la schiena. «Intendevo questo bel panorama,» sorrise, sollevandosi appena la maglietta e mostrandomi gli addominali scolpiti con tanto di V pubica che spariva al di sotto dell’elastico dei pantaloni.
Che razza di esibizionista del cavolo.
«Ti prego…» biascicai annoiata, afferrando la maglia del pigiama e tirandogliela verso il basso. «Ho appena mangiato, non ho voglia di vomitare.»
Certo non avrei ingannato nessuno, nemmeno me stessa. Simone poteva essere un cazzone, un deficiente, avere il cervello grosso quanto una nocciolina, ma, ahimè, era dannatamente bello e il suo corpo lo gridava ai quattro venti senza vergognarsene.
Il mio orgoglio veniva colpito e affondato ogni volta che cercava di accampare scuse su come quel fisico atletico non mi mandasse in orbita l’ormone, ma dovevo pur fare qualcosa o altrimenti avrebbe vinto!
«Allora avevo ragione,» disse pensieroso mentre avanzava lungo il corridoio.
«Su cosa?» chiesi, pensando a quale cazzata potesse sparare questa volta.
Simone si fermò proprio di fronte ad una porta socchiusa, spalancandola e mostrandomi l’interno di una stanza piuttosto anonima, con un letto a due piazze e tinte color pastello. Tutto sommato era accogliente.
«Che ti piace la Iolanda,» sogghignò soddisfatto, rimanendo a fissarmi appoggiato allo stipite della porta, con le braccia conserte.
Lo fissai di sbieco, poi entrai e cominciai a sistemare quelle poche cose che avevo. Non erano passati nemmeno cinque minuti e già non lo sopportavo più.
«Adesso solo perché non ti sbavo addosso, pensi che mi piacciono le donne?» gli domandai razionale, senza perdere la pazienza. Avevo capito che con Simone bastava affrontare il discorso ritorcendogli le sue stesse domande contro, lasciandolo perplesso e insoddisfatto.
«Ovvio,» affermò con sicurezza, squadrandomi dall’alto in basso. «Nessuna donna eterosessuale riesce a resistere al mio fascino animale,» sottolineò, stropicciandosi ancora quei capelli che avevano assunto una piega leonina.
Alzai un sopracciglio stupita. «Animale?» sghignazzai. «Ma se nemmeno ti fai la barba, la mattina! Sicuro di aver sviluppato?»
Simone accusò il colpo e quel sorrisetto strafottente scomparve dal suo bel viso liscio. La carta della mancata virilità funzionava sempre.
Uomini.
Sono più facili da leggere di un manuale di diritto civile.
Quel silenzio imbarazzante fu interrotto dalla serratura della porta che veniva aperta, mentre un rumore di tacchi riempiva il silenzio momentaneo dell’abitazione.
«Simo? Ven?» trillò una voce che mi mise addosso una cascata di brividi.
Sofia era in casa.
Vidi Simone roteare gli occhi al cielo e sbuffare sonoramente, prima di rispondere annoiato alla sorella. «Siamo qui in corridoio!» urlò di rimando. Lasciò lo stipite della mia stanza e ciabattò fino all’ingresso.
Rimasi da sola con il borsone sul letto e la chiusura lampo aperta per metà. Notai la presenza di una grande cassettiera e di un armadio a muro che avrebbe contenuto i miei pochi completi per il lavoro. Di spazio ce n’era in abbondanza. Quella stanza era grande quanto il mio intero monolocale di Oxford St.
È sempre una situazione provvisoria, mi ricordò il mio Cervello.
Quando avremmo affrontato e risolto il caso che pendeva sulla testa di Simone, avrei fatto nuovamente i bagagli e avrei cercato una nuova sistemazione. Con l’arrivo dell’aumento come socio effettivo della Abbott&Abbott mi sarei potuta permettere qualcosa di meglio.
Inoltre, avevo notato il fastidio di Simone nell’avermi intorno e mi domandai per quale assurdo motivo avesse accettato a dividere l’appartamento con la sottoscritta.
Feci spallucce e cominciai a piegare le mie cose, posizionandole nei cassetti.
Tirai fuori una vecchia fotografia incorniciata, che vedeva me, Celeste e Romeo stretti in un abbraccio forzato dalla strettezza dell’inquadratura. Era l’anno della maturità, lo ricordavo ancora e rimembravo perfettamente quanto tempo ci era voluto a Cel per convincermi ad apparire nella stessa istantanea di quel mangia-caccole.
«Ti sei sistemata?» mi domandò Sofia, apparendo sulla soglia della mia stanza con un sorriso serafico in volto. Indossava un paio di jeans stretti e un trench avana legato in vita. Con le ballerine ai piedi e quei lunghi, vaporosi capelli biondi sembrava una specie di ninfa dei boschi.
«Sto mettendo apposto queste poche cose. Nel pomeriggio dovrebbe arrivare il resto del carico,» le spiegai e poggai la cornice sul comodino.
«Leonardo mi ha raccontato molto di te, sai?» mi confessò all’improvviso ed io fui davvero curiosa di sapere cosa le avesse detto. Sicuramente le aveva parlato del fatto che fossi insopportabile, puntigliosa e sospettosa verso qualsiasi essere di sesso maschile. Quelle erano le prime caratteristiche che permettevano alle persone di giudicarmi.
«Ah, si?» feci curiosa.
Lei annuì e si sedette sul bordo del letto, accavallando le lunghe gambe affusolate. «Mi ha detto di come hai convinto Cel a venire qui a Londra per farli riappacificare. Di come nonostante non ti fidassi di mio cugino, gli hai comunque voluto dare un’altra possibilità.»
Rimasi con le mani a mezz’aria, metà all’interno del cassetto e metà fuori. Nessuno aveva mai detto cose positive su di me, sicuramente non qualcuno che mi conosceva così poco come Leotordo.
«L’ho fatto soprattutto per Celeste,» mi giustificai, sperando di poter cambiare argomento al più presto. Sofia non sembrava dello stesso avviso perché continuò ad insistere su quel punto come un martello pneumatico.
«Tu e Simo siete molto simili, sai?»
E adesso cosa c’entrava quel paragone?
Mi voltai di scatto verso di lei e la fissai come se fosse appena scesa da un’astronave. «Stai scherzando, vero?» sbottai incredula.
Sofia mi sorrise bonaria, quasi non si fosse resa conto dell’assurdità appena detta. «No, no!» insistette. «Voi due mostrate sempre una sola faccia del vostro vero carattere, quasi aveste paura di lasciare che gli altri scavino molto più a fondo,» disse soddisfatta.
Rimasi a pensare sulle sue parole, senza avere alcun argomento con cui controbattere. Non potevo certo dire di Simone, perché non lo conoscevo così a fondo, ma per quanto riguardava la sottoscritta, in parte la piccola Sogno aveva ragione.
«Preferisco che gli altri mi vedano come mi mostro. È molto più comodo.» conclusi, sperando davvero che questa volta fosse finita.
Odiavo parlare di me stessa, soprattutto davanti ad una sconosciuta.
«Prima, Simone non era così.» sospirò pensierosa. «Quando eravamo piccoli era diverso, molto meno presuntuoso di adesso. È come se il successo lo avesse reso quello che è ora.»
Avvertii una nota di tristezza nella sua voce e mi venne quasi voglia di abbracciare la piccola Sofia.
Quasi.
Infatti, rimasi immobile dov’ero.
«Capita,» le risposi, senza davvero sapere cosa dirle. Per me aveva ragione, Simone adesso era solamente un pallone gonfiato pieno di sé e se non avesse cambiato atteggiamento sarebbe durato molto poco.
Doveva maturare e crescere.
Sofia alzò il suo sguardo oltremare su di me e sorrise. «Tu invece sei così matura per la tua età,» confermò, quasi leggendo i miei pensieri.
Gongolai nel mio piccolo, anche se sapevo di essere una persona responsabile. «Sono dovuta crescere in fretta, fra Università, Master e poi il tirocinio in un’altra città. Diciamo che sono stata costretta.» le spiegai.
«Infatti ha già le rughe di una cinquantenne,» commentò Simone, apparendo nel momento meno opportuno. Come suo solito.
Lo fulminai con lo sguardo e tentai di ignorare quella sensazione che mi diceva di afferrare il primo oggetto contundente sotto mano e lanciarglielo addosso. Stava addentando felicemente una ciambella grondante di cioccolato, in barba a quelle come me che dovevano stare sempre a dieta continuando ad ingrassare solamente fissando quei dolci.
Si godeva quella prelibatezza quasi fosse un nettare afrodisiaco, portandosene dei pezzetti alle labbra e succhiandosi poi le dita come avrebbe fatto un adolescente.
Sa muovere bene quelle labbra.
In quel momento scossi violentemente la testa, pensando che il mio Cervello fosse stato improvvisamente scalzato da un altro coinquilino molto più pericoloso: Ormone.
Lo avevo messo a tacere esattamente un anno fa, proprio all’inizio del master a Cambridge e avevo deciso di concentrarmi unicamente sullo studio e sulla vita lavorativa, mettendo da parte il resto. Era rimasto buono, buono in un angolo, a farsi da parte, ma con l’arrivo di Jamie e di quella specie di pornodivo di dodici anni aveva preteso improvvisamente un po’ più di spazio.
«Quanto sei cattivo, fratellone,» lo rimproverò Sofia, alzandosi in piedi e raggiungendomi. «Venera è così bella, non vedi?» gli disse, indicandomi quasi fossi un oggetto messo all’asta. «Con questi occhioni blu, la vitina stretta, i capelli corti e sbarazzini…»
«…una lingua tagliente e un carattere insopportabile,» concluse lui, offendendomi.
«Senti chi parla!» sibilai e incrociai le braccia offesa.
«Tu sei molto peggio di me, inoltre sei anche frigida. Miss Ho-una-scopa-nel-culo!» mi ringhiò addosso, mandando giù l’ultimo pezzo di dolce.
Aveva le labbra completamente sporche di cioccolato scuro e denso.
Un lungo brivido mi percorse la schiena quando vidi quella piccola lingua rosa spuntare fuori dalle sue labbra e togliere tutta quella cioccolata. Simone socchiuse gli occhi, rapito dal piacere, ed io sentii l’improvviso bisogno di dissetarmi.
Non di acqua, però.
«Dovreste condurre uno show!» ridacchiò Sofia, divertita da tutta quella faccenda.
Alzai le mani in segno di resa, senza più riuscire a dare un senso a quello che mi circondava. Avevo messo un piede in quell’appartamento e stavo già svalvolando. La famiglia Sogno aveva uno strano potere su di me e forse non era stato proprio saggio dividere l’appartamento con il mio cliente.
«L’unica cosa che può condurre Simone è il suo Pisellino nella tazza del water,» sghignazzai, prendendomi la vendetta per i bollori che quel bell’imbusto mi aveva fatto venire poco fa.
Sofia cominciò a ridere, tenendosi la pancia.
Simone invece si accigliò fin quasi a far unire le sopracciglia l’una con l’altra. «Ancora questa storia!» sbuffò contrariato. «Ci metto poco a buttarti fuori di casa!»
«E io ci metto poco a farti perdere la causa!» gli risposi per le rime.
Nel frattempo la piccola Sogno assisteva estasiata a quello scambio di battute, mentre l’elettricità che c’era nell’aria cominciava a crepitare. Se avessi dovuto spendere tutte quelle energie in un solo giorno, anzi, in una mattinata, sarei arrivata alla sera con le pile completamente scariche.
Simone mi spossava, era estenuante. Mi succhiava via ogni briciolo di energia.
«Ah!» trillò la bionda all’improvviso. Raggiunse la borsetta che aveva lasciato sull’ampio letto a due piazze. Tornò verso di me con una lettera tra le mani. «Prima di venire qui sono passata al tuo appartamento per vedere se erano arrivati i traslocatori e ho trovato questo invito nella tua cassetta delle lettere. Sembra importante,» e mi porse la busta.
Me la rigirai tra le mani, impedendo la visuale a Simone che tentava in tutti i modi di sbirciare di cosa si trattasse. Prima di tutto, dovevo assicurarmi che non fosse una cosa imbarazzante, tipo qualche pubblicità sul Viagra o qualche marca di preservativi, come le e-mail che mi arrivavano ogni giorno sul pc.
Tastai la busta e notai che era rigida, di buona fattura. La voltai e sbiancai d’improvviso, non appena notai uno stemma a me familiare.
«Non è l’università di Cambridge?» mi chiese Sofia, sempre più incuriosita.
Annuii titubante, non capendo cosa mai volessero da me dopo che erano passati sei mesi dal Master che avevo conseguito.
Simone sghignazzò. «Magari c’è scritto che avevano sbagliato persona e che in realtà la tua laurea non vale un piffero!»
Gli rifilai una gomitata in pieno addome, visto che ormai si era posizionato alle mise spalle e lui tossicchiò dolorante. Gli stava bene.
Aprii la busta e ne estrassi una lettera scritta al computer, in una calligrafia da cerimonia quasi.
Lessi le prime righe e lentamente tirai un sospiro di sollievo, perché il mio master era salvo, ma allo stesso tempo sbiancai per un altro motivo.
 
La classe del 2013 la invita cordialmente ad una riunione scolastica per il 02 di Dicembre nei locali dell’Università. È obbligatorio l’abito scuro, così come un accompagnatore per il party che si terrà nei giardini coperti e nella sala del consiglio.
Cordiali saluti,
Il Rettore.
 
Queste erano le ultime righe della lettera, o almeno quelle che la mia mente era riuscita a leggere senza dare di matto. Innanzitutto non ci tenevo a rivedere le facce dei miei compagni di corso, tutti damerini snob senza alcuna attinenza allo studio; secondo poi non avevo alcun abito nero, se non i completi che usavo in ufficio e terza cosa… zero accompagnatore.
Il gridolino di Sofia permise al mio cervello di distrarsi, troppo impegnato ad impedire che diventassi sorda tutto d’un tratto.
«Una festa in abito lungo!» trillò estasiata, cominciando a saltellare per tutta la stanza.
Simone sbuffò, deluso dalla notizia che non gli avrebbe giovato per nulla. «Capirai,» si infilò le mani in tasca per poi trotterellare fuori dalla mia stanza.
«Non penso di andarci,» tagliai corto, rigirandomi la lettera tra le mani.
Sofia si fermò di scatto e mi fissò, con gli occhi sgranati. «Devi andarci!» insistette. «È una riunione di classe, per di più a Cambridge e in abito scuro! Quando ti ricapita un’occasione per far vedere come te la stai cavando? In fondo, sei o non sei l’avvocato di un famoso calciatore dell’Arsenal?» ridacchiò lei, puntando sul mio maledetto orgoglio.
L’idea di sbattere in faccia la mia brillante carriera a quei compagni di corso che mi vedevano solo come una campagnola italiana venuta in Inghilterra in cerca di fortuna era allettante. Ma come avrei fatto con l’accompagnatore?
«Non ho nessuno che mi ci porti,» le spiegai, sperando gettasse la spugna.
Sofia sorrise. Sembrava addirittura un elfo quando assumeva quell’espressione di chi vede più in là del proprio naso. «Potresti chiedere a James,» insinuò malandrina e l’idea non mi parve malaccio.
«Ascoltami,» insistette poi. «Io e te andiamo a fare shopping uno di questi giorni, ci prepariamo e nel frattempo tu studi un modo per chiedere al bell’avvocato se ti accompagna a questo ricevimento,» concluse lei per me.
«Ma è proprio necessario che io ci vada?» le chiesi un’ultima volta.
Sofia annuì convinta. «Devi!» insistette. «Ormai sei parte integrante della vita mondana londinese e devi fare notizia. Comincia da questa festa e poi sali lentamente la scala del successo. Vedrai che una volta vinta la causa, sarai sulla bocca di tutti.»
Il suo ragionamento non faceva una piega, inoltre, avrei avuto la scusa per poter vedere James fuori dall’orario di lavoro. Era una prospettiva piuttosto allettante a cui una con l’ego grosso come il mio non poteva rinunciare.
«Affare fatto!» annunciai, prima di avvertire il campanello suonare.
«Trasloco!» urlarono degli omaccioni al di là dell’uscio, così mi incamminai per raccogliere le mie cose prima che Simone avesse la scusa di buttarle fuori dalla finestra.

***
Allora, devo ancora rispondere alle recensioni dello scorso capitolo, ma conto di farlo dopo aver pubblicato. Non disperate!
Cosa dire?
Siamo arrivati a questo benedetto (?) sesto capitolo, un po' più movimentato, questo è certo. Vediamo una James dal comportamento sempre più sospetto, quasi come se si fosse preso una piccola sbandatella per Ven. Ma come biasimarlo, è una ragazza formidabile! *limona con Venera*
E dall'altra parte c'è Simone. Adorabile (odioso) Simone, che pretende che la nostra piccola avvocatessa diventi la sua nuova schiava personale. Ancora non ha capito con chi ha a che fare, poveraccio.
E c'è Sofi. Il mio personaggio più puccio e preferito. La amo! **
Diciamo che abbiamo visto solo la punta dell'iceberg di questa convivenza, tra un paio di capitoletti ci sarà davvero da divertirsi. E chissà come si evolverà tutta questa situazione. Chissà <3
Cosa ne dite del nuovo "banner"? Simone è sempre più gnocco. Lo amo.
Vabbé, alla prossima. Mi raccomando, c'è anche il booktrailer. Dategli uno sguardo.
Kiss, Marty.


Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***




CAPITOLO 7
betato da Nes_sie


 
Era esattamente di fronte a me, nudo, completamente ricoperto di finissimo cioccolato extra-fondente. Sembrava un cioccolatino ripieno pronto per essere assaggiato. L’unica cosa che si distingueva in mezzo a quel mare di cioccolato erano un paio di occhi scurissimi e profondi che mi fissavano ed un sorriso malizioso e sfrontato.
Simone si portò un dito sull’addome scolpito, premendolo e facendolo scorrere verso il basso; portò via una grossa porzione di cioccolato scuro che lasciò intravedere la sua pelle lattea al di sotto. I miei occhi tentarono più volte di non scendere al di sotto della cintura, ma era quasi impossibile deviare lo sguardo da quell’apoteosi di perfezione che era il suo corpo. Mi stupii che il mio Cervello non mi fosse già venuto in aiuto e mi sentii profondamente persa.
«Vuoi assaggiarmi?» Simone mi porse il dito indice grondante di cioccolato scuro.
D’improvviso mi sentii completamente priva di ogni facoltà mentale, come se tutte le nozioni che avevo studiato alla facoltà di Legge si fossero volatilizzate insieme al mio buon senso.
Simone si morse un labbro, assaggiando il cioccolato che ricopriva la sua pelle bianca. «Ho un buon sapore…» soffiò avvicinandomi con quella falange tentatrice che sporgeva verso di me. «Fuori amaro, dentro dolce,» aggiunse.
Non sapevo più che pesci pigliare con lui, perché sapevo di dovergli rispondere per le rime, prenderlo per la collottola, come un cucciolo, e calciarlo fuori dalla porta della mia stanza. Invece rimasi immobile come una statuina.
«Assaggiami, Ven… non te ne pentirai,» sussurrò malizioso, e a quel punto schiusi le labbra, ormai arrendevole.
 
Spalancai gli occhi di colpo, sentendomi accaldata.
Ci misi qualche secondo a capire che quello che avevo fatto era stato soltanto un sogno e la sensazione di sollievo che ne scaturì mi fece sentire come dopo un 30 e lode in Diritto Internazionale.
Sei salva.
Sbattei le palpebre un paio di volte per cominciare a recepire dove mi trovassi, non ricordando affatto di avere tutto quello spazio a disposizione nel mio vecchio appartamento. D’improvviso il trasloco, gli scatoloni, la proposta di Sofia mi tornarono alla mente, così sbuffai.
Mi ero trasferita a casa di Mr. Sono-un-bambino-che-puzza-ancora-di-latte.
In tutto quel trambusto sospeso tra sogno e realtà, non mi resi conto di essere osservata così mi voltai nel grande letto a due piazze e mi trovai un paio di iridi scure che mi fissavano curiose. Per poco non imprecai e caddi dal letto, ma per fortuna i miei riflessi mi permisero di aggrapparmi alle lenzuola e non capitombolare sul duro pavimento di linoleum.
«Che cazzo ci fai qui?» ringhiai, in direzione di Simone che mi fissava divertito.
In risposta scrollò le spalle e mi fissò col solito sorrisetto beffardo. «Certo che sei proprio strana quando dormi. Hai annegato il cuscino di bava... stavi sognando di mangiarti un intero pollo arrosto?»
Sbiancai, ringraziando il cielo che Simone non sapesse leggermi nel pensiero; infatti, scattai subito sulla difensiva.
«Non sono affari tuoi,» tagliai corto. «Piuttosto, cosa ci fai nella mia stanza?» chiesi di nuovo, cercando di non fargli evadere ancora la domanda.
«La colazione,» rispose solo, fissandomi con il mento appoggiato sul pugno chiuso. «Ho fame,» si lagnò.
Roteai gli occhi al cielo, cercando di non farmi prendere dalla furia mattutina delle 8.30. Possibile che fosse così deficiente?
Calmati, Ven, è soltanto il primo giorno. Alla fine di questa settimana nemmeno ti accorgerai di lui.
Ovvio, perché lo ammazzo!
Suvvia, ragazzi. Il gioco vale la candela, almeno può vederlo gironzolare nudo per tutta casa!
E tu chi saresti?
Ormone, è tornato. Non si fa vedere da un po' troppo tempo.
«Ohi, ho fame,» m’interruppe Simone, di nuovo.
A quel punto feci appello a tutto il mio autocontrollo, perché altrimenti lo avrei soffocato con il cuscino grondante di bava.
«Senti,» iniziai calma, tentando di appiattire il più possibile i capelli da letto che mi si erano spiaccicati a un angolo del viso. «Non so cosa tu abbia capito, ma io nella vita faccio l’avvocato non la cameriera, né tanto meno la tua schiava. Se vuoi la colazione, te la prepari da solo,» tagliai corto, senza uscire fuori di senno.
Almeno per il momento.
Simone mi fissò stordito, e solo in quel momento mi accorsi che anche lui si era svegliato da poco. I capelli castani erano sparati in ogni direzione, sembrava quasi un leone appena destato dal sonnellino pomeridiano. Si stropicciò un occhio e grugnì. «Sei assolutamente inutile.»
M’indispettii subito, visto che nessuno poteva permettersi di offendermi. Non era passato nemmeno un giorno e già rischiavo di lanciargli l’intero servizio di piatti addosso.
«Ma non hai due mani per prepararti 'sto dannato caffè? Come facevi fino a ieri?» gli chiesi, realizzando soltanto in quel momento che mi sarei dovuta preparare per andare in ufficio. Scostai le coperte e scesi dal letto.
Simone mi fissò sghignazzando. «Bel pigiama,» commentò, riferendosi ai porcellini rubicondi disegnati sopra la stoffa.
Grazie tante, mamma.
«Bello il tuo,» ringhiai di rimando, scoccando un’occhiata al suo.
«Mphf,» sbuffò annoiato. «Ieri me l’hai portata tu, la colazione, non ti ricordi?» mi fece presente, pensando di avermi zittita.
Ci voleva ben altro per far tacere un avvocato in erba come la sottoscritta.
«E l’altro ieri? Una settimana fa? Come cavolo hai fatto a sopravvivere tutti questi anni da solo?» gli chiesi stupita. Era grasso che cola se riusciva ad aprire le porte nel verso giusto, senza sbattersele sul naso.
In risposta, Simone si stiracchiò come un gatto, stendendosi a pancia sotto su quello che fino a prova contraria era il mio letto e alzando il sedere in alto, lasciando che la schiena si stirasse da sola.
Che chiappe…
Forse il tempestivo ingresso dell’altro mio coinquilino nella scatola cranica occupata solo da Cervello non era stato previsto, né programmato, ma da quando avevo incontrato Simone era come se una parte del mio raziocinio venisse lentamente bruciata e sostituita da qualcosa di incontrollabile.
Scossi violentemente la testa e feci per andarmene.
«Le ragazze che porto qui mi hanno sempre preparato la colazione, il giorno dopo,» disse malizioso, voltandosi e spaparanzandosi sul mio letto quasi come fosse il suo.
Tecnicamente lo è.
«Vuoi paragonarmi ad una di quelle sciacquette francesi?» lo provocai, volendo vedere fino a che punto si spingesse oltre.
Non aveva idea che stava giocando con il fuoco.
Simone finalmente si decise ad alzarsi, calzando quelle ormai famose pantofole a forma di ippopotamo. «Ovvio che no,» rispose, avvicinandomi e superandomi oltre la soglia.
Certo era alto, molto alto. Gli arrivavo a mala pena sopra l’ombelico e guardarlo in faccia era come favorire un bel torcicollo il giorno dopo.
«Io non mi porterei mai a letto una come te, senza offesa. Ti paragono più che altro…» e finse di pensare. «…a una delle due brutte sorellastre di Cenerentola, magari Genoveffa.»
Quello era davvero, oltre ogni modo, indiscutibilmente troppo.
«Sei proprio uno stronzo,» sibilai.
«E tu una racchia,» rispose di rimando.
Assottigliai gli occhi a fessure. «Sai che potrei sempre rinunciare a seguire il tuo caso e fare in modo che non giochi mai più, vero?» gli giocai sempre la carta del ricatto.
Simone ghignò. «Non lo faresti mai.»
Sbattei le palpebre sorpresa. «E cosa ne sai?»
«Perché Gabriele mi ha detto che sei soltanto in prova, che da questa causa dipende la tua carriera e tu devi vincerla per forza. Perciò non mi faresti mai affondare,» rispose soddisfatto.
Schiumai di rabbia e ponderai il modo per poter uccidere l’altro Sogno, quello che mi aveva venduta al miglior offerente. Simone era dannatamente furbo, nonostante puzzasse ancora di latte. L’avevo sottovalutato.
«Perciò…» continuò sorridendo. Passò un dito indice sulla mia spalla, facendolo scorrere lungo il pigiama provocandomi una scia di brividi lungo il braccio. «…la colazione?»
Imbufalita, scostai violentemente il braccio dalla mia persona e mi diressi a passo pesante verso la cucina, intenzionata a prepararmi il più velocemente possibile in modo da fuggire in ufficio, lontano da quella casa e da quel maledetto di Simone.
«Era un sì?» mi urlò dietro, mentre sparii dietro l’angolo.
«Vaffanculo!» ringhiai in risposta, sentendomi davvero una stupida.
Afferrai con violenza la macchinetta del caffè, aprendo poi ogni sportello e sbattendolo violentemente alla ricerca del barattolo contenente la miscela.
Brucia la sconfitta, eh?
Non ti ci mettere anche tu!
Devi ammettere che nessuno riesce a tenerti testa come fa quel piccoletto laggiù.
Inoltre, è pure gnocco.
La volete finire voi due?
«È davanti a te,» mi sorprese una voce alle spalle, facendomi trasalire.
«Cosa?» ringhiai infuriata.
Simone avanzò nella cucina e afferrò un sacchetto con su scritto “Caffè”. «Prima che mi distruggi la cucina…»
Glielo strappai di mano assottigliando lo sguardo, senza nemmeno dirgli grazie. Non si meritava nulla, né dalla sottoscritta né da nessun altro. Per quieto vivere lo avrei sopportato, ma nulla di più. Non appena la causa fosse stata archiviata, avrei trovato al più presto un’altra sistemazione.
Riempii la macchinetta e la misi sul fuoco, nel frattempo cercai il latte e lo versai in un pentolino per riscaldarlo. Aprii nuovamente gli sportelli, cercando cereali, biscotti o quant’altro, quando notai delle scatole poste proprio sopra gli ultimi ripiani della dispensa.
Cercai di arrampicarmi per afferrarli, ma erano troppo in alto per una di appena un metro e sessanta.
Dopo un paio di tentativi, sentii qualcuno ridacchiare al mio fianco.
«Lo trovi così divertente?» gli feci presente, incrociando le braccia al petto.
«In effetti sì,» affermò lui, sorridendo anche con gli occhi. «È la prima volta che vedo qualcuno faticare tanto per arrivare ad un pacco di biscotti,» sghignazzò.
M’indispettii immediatamente, scattando sulla difensiva. «Se non te ne stessi lì impalato a giudicare, forse potremmo fare colazione e finalmente riuscirei ad andare a lavoro.»
«Giselle ci arriva benissimo a prendermi i biscotti al cioccolato,» commentò, spostandosi dal bancone e raggiungendomi in quel lato della cucina.
Supposi che tale Giselle fosse la giraffona francese dell’altro giorno. «Quella è una pertica, ti credo che ci arriva. Io non posso allungarmi, purtroppo, sennò lo avrei già fatto da tempo.»
Simone ridacchiò sempre più divertito ed io pensai che fosse completamente scemo. Non c’erano altre spiegazioni.
Si posizionò alle mie spalle e mi fissò dall’alto in basso. «Sei proprio un piccolo elfo,» sghignazzò.
Infine si alzò in punta di piedi, schiacciandomi tra il suo corpo e il bancone della cucina, per afferrare quei dannati biscotti. Sgranai gli occhi e cominciai a boccheggiare. Per fortuna, o sfortuna, gli avevo dato le spalle, in modo che non potesse bearsi dell’espressione che in quel momento avevo dipinta in volto.
Sentivo tutto, ma proprio tutto.
In pochi attimi l’aria mi mancò tutta insieme ed io strinsi con forza il marmo della cucina fino a farmi diventare le dita bianche.
Pisellino non gli rende giustizia…
In quel momento mi sarei fatta volentieri una auto-lobotomia pur di non far svettare quei pensieri nella mia testa alla velocità della luce. Istintivamente sentii il bisogno di spostarmi e così feci, fingendo che il caffè stesse bruciando.
«Che ti prende?» mi chiese Simone sorpreso, anche se quella luce di malizia che aveva nello sguardo non me la raccontava giusta. Che avesse previsto tutto sin dall’inizio?
Non gli risposi, ma afferrai due tazze e vi versai una bella dose di latte e caffè, posandole sul tavolo e precipitandomi a consumare in fretta e furia la mia colazione. Se c’era una cosa che non sopportavo era mostrarmi imbarazzata di fronte a qualsiasi persona.
Che fosse Simone, era centomila volte peggio.
Lui si sedette di fronte a me e afferrò i biscotti al cioccolato, cominciando a sbocconcellarne qualcuno. Ogni volta che beveva una sorsata di latte e caffè, gli rimanevano degli sbaffi di latte su entrambe le labbra, quasi come avrei fatto io all’età di dieci anni.
Possibile che non fosse cresciuto?
«A che ora devi andare?» mi chiese d’improvviso, destandomi dai miei pensieri.
Lanciai uno sguardo al grande orologio a muro. «Fra mezz’ora devo essere in ufficio,» risposi.
«E ce la fai a restaurarti in così poco tempo?» sghignazzò lui. «Mia madre ci mette le ore per truccarsi. Sai, le rughe…»
Afferrai la prima cosa che mi capitò a tiro, ovvero il cacao in polvere che avevo aggiunto al caffè latte, e glielo soffiai addosso, facendolo diventare marrone.
«La prossima volta impari a stare al tuo posto!» dissi, vedendolo stropicciarsi gli occhi come un bambino per togliersi il cacao dal viso.
Si fissò le mani impiastricciate, così come la faccia, poi posò quei grandi occhi scuri su di me. «Poi sarei io il bambino,» sorrise, ma non diedi tempo al mio cervello di memorizzare quella meravigliosa espressione di Simone, perché volai subito in bagno a prepararmi.
Dopo un quarto d’ora – secondo più, secondo meno – uscii completamente pronta e truccata. Mi sentivo molto più riposata rispetto a due giorni prima, quando ancora mi ero portata dietro gli strascichi dell’influenza, così mi precipitai in cucina con la ventiquattr’ore pronta ad indossare il cappotto e uscire in strada.
Simone era ancora seduto a fare colazione.
Sgranai gli occhi quando mi accorsi che si era finito tutta la scatola di biscotti al cioccolato, oltre ai cereali che stava trangugiando in quel preciso istante.
Ma è una fogna!
«Che c'è?» mi domandò tranquillamente.
«Ancora stai mangiando?» gli chiesi dubbiosa. Come poteva mantenersi così in forma e mangiare così male allo stesso tempo.
Simone scrollò le spalle. «Metabolismo veloce. Ho sempre fame.»
Ignorai la voglia di soffocarlo solo perché io ero costretta a cibarmi di carote e sedano per farmi entrare quelle dannate gonne a vita alta che altrimenti mi sarebbero scoppiate, e raggiunsi l’attaccapanni, dove riposava il mio trench.
Lo indossai e mi preparai ad uscire, fin quando Simone non mi fermò sulla soglia.
«Oggi siamo a pranzo da mio fratello, te lo ricordi, vero?» mi disse, mentre io scavai nella mia memoria per ritrovare quell’informazione perduta.
Un paio di immagini di Gabe che faceva promettere a Simone di essere presente ad un pranzo con la sua famiglia cominciarono a diventare sempre più nitide, così sbuffai.
«Cercherò di fare in tempo,» tagliai corto, sperando che quel pranzo non si trasformasse in un vero e proprio incubo.
«Ci sarà anche Sofia,» disse ancora, mentre chiudevo la porta.
Mi ritrovai davanti allo specchio dell’ascensore con un’espressione in volto stravolta, pensando inorridita al momento in cui mi sarei ritrovata di fronte tutti e tre i fratelli Sogno.
 
«Miss Cloverfield ha fissato un incontro con il suo avvocato per discutere dell’udienza preliminare la prossima settimana,» mi annunciò Jamie non appena misi piede nel suo studio.
Afferrai la mia agenda dalla ventiquattr’ore e mi segnai precisamente il giorno dell’incontro con l’accusa. Era logico che prima di entrare in un’aula di tribunale le due parti coinvolte tentassero di trovare un punto d’accordo senza coinvolgere direttamente un giudice.
«Chi ha scelto come suo difensore?» chiesi a James, sempre più incuriosita.
I suoi occhi si fecero più scuri, quasi blu oltremare, e quell’espressione seria che aveva in volto non prometteva nulla di buono.
«St. James,» mormorò calmo. «Carl St. James,» aggiunse poi, tornando a fissare un plico di documenti.
Sbiancai di colpo e strinsi con forza la bic che avevo tra le mani. Non ero a conoscenza di tutti i nomi di spicco nel mondo dell’avvocatura lì nella capitale inglese, ma Carl St. James era un nome che pochi riuscivano a dimenticare.
Si era laureato a Oxford all’età di ventidue anni, col massimo dei voti ovviamente, e aveva subito preso la carriera facendo tirocinio prima lì alla Abbott&Abbott, poi, dopo aver assimilato il più possibile, si era “schierato” con lo studio rivale: George, Vicarot and Hewit.
«Merda,» imprecai, accorgendomi subito dopo che ero ancora di fronte a James.
Lui mi sorrise e finalmente riacquistò quella particolare luce che aveva in quei timidi occhi azzurri.
«Non avrei saputo esprimermi meglio,» commentò.
A quel punto la domanda mi scaturì logica. «Ma Miss Cloverfield come ha fatto a garantirsi l’appoggio di uno come St. James?» chiesi sorpresa.
Avevo dato per scontato, data la mia ignoranza in materia di gossip e quant’altro, che tale Miss Cloverfield fosse una delle tante sciacquette che TermoSifone si era portato a letto in una delle sue notti brave. Una delle tante tacche sul suo bastone delle scopate.
James cominciò a frugare in quella che sembrava un campo di battaglia di carta A4, e che invece doveva assomigliare ad una scrivania in mogano da ufficio. Ne ricavò un giornaletto che mi porse e sulla cui copertina spiccavano un paio di meravigliosi occhi scuri, labbra carnose, capelli castano biondo e un nasino appena accennato su un viso scarno, tipicamente da modella.
Alta un metro e cinquemila chilometri.
Una gnocca.
«Lei è Elizabeth Ginevra Cloverfield. È una delle top model inglesi più famose al mondo. Ha sfilato anche a Roma, se ti interessa,» mi sorrise James.
Premesso che non leggevo un giornale di gossip dai tempi di Cioè, un giornaletto per ragazzine del liceo, non avevo idea di chi quella ragazza fosse, anche se dalle foto in copertina appariva tanto sicura di sé, come una vera professionista.
«Ma allora lei non vuole i soldi da Simone!» me ne uscii all’improvviso, utilizzando il suo nome di battesimo sovra pensiero.
Vidi James storcere lievemente il naso, anche se non fui proprio sicura che si trattasse di una reazione dovuta alla nomina del calciatore.
«No, infatti,» mi confermò. «Inizialmente Miss Cloverfield non aveva dato le sue generalità e si sapeva unicamente di una modella che faceva causa per il riconoscimento dei doveri di paternità da parte di Mr. Sogno sul bambino che portava in grembo; successivamente St. James ha reso pubblica l’identità di Miss Cloverfield e da lì è caduta la mia ipotesi della finta gravidanza per un risarcimento in denaro.»
Guardai nuovamente la rivista, perplessa. Il volto della giovane donna appariva sicuro, sfacciato, così come quel corpo perfetto, slanciato, e soprattutto scheletrico.
Mi ritrovai a pensarla col pancione.
Le si spezzeranno le ginocchia col peso.
Poco ma sicuro, sembrava che avesse le ossa cave come gli uccelli e di punto in bianco potesse spiccare il volo. Come diavolo facevano a piacergli donne del genere a Simone?
E questa domanda?
Ignorala.
«E allora cosa vuole?» chiesi, visto che ormai eravamo in ballo.
Se volevano un incontro preliminare, sicuramente avrebbero messo a nudo le intenzioni di Miss Cloverfield, ma sarebbe stato più saggio arrivare all’appuntamento preparati a tutto. L’opzione soldi era scartata, visto che quella signorina guadagnava con una sfilata più di quanto io avrei risparmiato in cinque anni lì allo studio.
James sospirò, stendendosi con la schiena sulla poltrona dell’ufficio. Si mise le mani sulle tempie massaggiandole e stirò le labbra in una piega seria. Era talmente affascinante che nemmeno se ne rendeva conto. Rimasi a fissare la linea dura della mascella, così mascolina, con quel velo di barba spruzzato sopra e ne rimasi affascinata.
C’erano uomini e uomini. Io potevo dire di averne conosciuti abbastanza, certo non mi reputavo un’esperta, ma avevo sviluppato un buon occhio per quelle cose. James apparteneva ad una cerchia ristretta di persone, di quelle che si incontrano una volta nella vita, forse due.
Aveva una capacità innata di trasmettere sicurezza alle persone che aveva intorno, di calmarle, suscitava una strana empatia a chi gli era vicino e per un avvocato era forse una delle migliori qualità che si potessero desiderare. Lo invidiavo? Molto probabilmente no, non sarei riuscita a rimanere calma e controllata davanti a tutto e a tutti, senza mai perdere la calma.
Devo ricordarti la sfuriata di stamattina?
Appunto.
«Ancora non lo sappiamo con certezza,» mi rispose calmo, schiudendo le palpebre. Con la luce del tardo mattino che filtrava dalle tapparelle dell’ufficio, notai delle pagliuzze dorate brillare in quelle iridi e ne rimasi quasi estasiata nel contemplarle. «La cosa che mi preoccupa di più è che non avendo trovato il vero movente di questa accusa a carico di Mr. Sogno, l’unica cosa che mi rimane da ipotizzare è che la gravidanza sia vera,» sospirò.
Uno strano senso di fastidio s’insinuò sotto pelle e cominciò a darmi un leggero prurito.
«Conoscendo le abitudini, il carattere e i comportamenti di Mr. Sogno, non escluderei del tutto il fatto che tutta la storia sia vera. In fondo, l’hai visto anche tu che si comporta come un bambino,» aggiunse.
«Lui è un bambino,» lo corressi subito, sorridendo.
Eppure quella sensazione di fastidio sotto pelle non se ne andava. Rimaneva lì, a darmi il tormento, e più tentavo di porvi sollievo, magari accarezzandomi distrattamente un braccio, più quel prurito s’intensificava.
Non è che il bamboccio ti ha attaccato qualche malattia?
La Simonite?
James sorrise gentilmente e il suo viso s’illuminò come la prima giornata d’estate. Era bello, c’era poco da fare, e anche se non volessi ammetterlo a me stessa, mi stavo facendo coinvolgere sempre di più. Altro che tutto lavoro e niente vita privata.
Sei un essere umano.
No, io sono Venera e devo resistere!
«Comunque non è da escludere questa possibilità, visto il carattere del cliente. Poi tu lo conosci meglio di me, visto che ti sei trasferita a casa sua...» e lasciò la frase in sospeso di proposito, cosicché il silenzio che ne seguì crepitò nell’aria con un accenno di elettricità.
Avevo intuito che gli desse fastidio il fatto che avessi deciso di condividere l’appartamento con Simone, ma non riuscivo a comprenderne il motivo. In fondo, eravamo colleghi e ci conoscevamo da pochissimo tempo. Avevo il diritto di abitare dove volessi.
«Lasciamo perdere,» sospirai, incapace di nascondere il mio fastidio per tutta quella assurda situazione. A partire da quella stessa mattina.
Fissai distrattamente l’orologio da polso e sbiancai, notando che fosse quasi ora di pranzo e che mi aspettasse un appuntamento direttamente a casa Sogno.
«Cavolo, è tardissimo!» esclamai, alzandomi dalla poltroncina e cominciando a raccogliere tutti i documenti.
James mi aiutò senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «Dove devi andare?» mi chiese, cercando di non risultare troppo invasivo.
Adoravo le buone maniere inglesi. Altro che le scenate dei ragazzi con cui ero stata precedentemente.
A quel punto alzai lo sguardo e lo intrecciai col suo. Avrei potuto mentirgli, affermando di dover correre agli allenamenti con Simone oppure da qualsiasi altra parte il calciatore volesse andare, oppure affrontarlo e dirgli la verità.
In fondo non eravamo nulla l’uno per l’altra, per quale motivo avrei dovuto dire una bugia?
«Devo andare a pranzo da Gabriele, il fratello di Mr. Sogno,» dissi distrattamente, almeno fingendo che non me ne importasse un fico secco.
Fingendo?
Cioè, intendevo che non me ne fregava davvero nulla di quel maledetto pranzo.
«Capisco,» smozzicò lui, ed io avvertii una nota di... delusione?, nella sua voce.
Non sapevo come comportarmi con James. Sembrava un ragazzo a posto, all’apparenza semplice e di buone maniere, avevo avuto la presunzione di riuscire a capirlo come un libro aperto, eppure mi spiazzava ogni volta.
Cosa pretendeva? Mi aveva ordinato lui di essere l’ombra di Simone, di seguirlo dappertutto per impedirgli di cacciarsi nei guai ed ora mi metteva il muso?
«Hanno invitato Mr. Sogno perché a quanto pare non si fa mai vedere in famiglia, così mi sono dovuta accodare anche io,» dissi contrita, in modo da dimostrargli che non me ne fregava una ceppa di andare a quello stupido pranzo.
James mi sorrise. «Non devi darmi alcuna spiegazione.» E qui ci fu il primo, forte, colpo al cuore. Credetti quasi si spezzasse se non fosse ricoperto di ferro. «In fondo te l’ho chiesto io di tenerlo d’occhio, non devi giustificarti.»
Pensai davvero che si fosse offeso, che se mai ci fosse stata una qualche speranza di poter uscire insieme un giorno, per colpa di Simone era tutto andato a farsi benedire.
D’improvviso si udì il suono di un clacson provenire dalla strada di fronte all’ufficio, così ci avviammo verso l’ingresso, notando un nugolo di persone accalcate davanti alla porta a vetri. Il fastidioso suono del clacson proseguiva imperterrito, nonostante la maggior parte delle persone nei dintorni urlasse qualcosa del tipo “abbi un po’ di rispetto, giovanotto” oppure “qui si lavora!”.
Pensai a quale razza di deficiente potesse parcheggiare su Regent Street e cominciare a strombazzare senza curarsi minimamente dell’inquinamento acustico o del rispetto dell’altrui persona, poi mi avvicinai al vetro della porta d’ingresso e scorsi la cinquecento blu metallizzata di Simone.
Avevi forse dei dubbi?
No, infatti. Che deficiente.
«Oh, Gesù… aiutami…» sospirai, mettendomi letteralmente le mani nei capelli.
Si poteva essere più deficienti e immaturi di lui? Evidentemente no, perché non era normale richiamare con il clacson la mia attenzione quando esistevano i telefoni cellulari dal lontano 1997.
Era il massimo della cafoneria.
«M-Mr. Sogno?» chiese scioccato James, sgranando gli occhi in direzione del ragazzo con gli occhiali da sole e con un braccio fuori dal finestrino che continuava imperterrito a suonare.
Roteai gli occhi al cielo e pensai immediatamente di raggiungerlo, almeno per fargli smettere quel rumore assordante che avrebbe mandato chiunque ai pazzi. Almeno prima che arrivasse Abbott Senior dovevo assicurarmi che Simone sparisse.
«Certo che il tuo ragazzo è un vero cafone!» commentò acida Yuki.
Le lanciai un’occhiata di traverso per incenerirla, ma in quel momento avevo ben altre cose a cui pensare. Lei era sicuramente l’ultima dei miei infiniti problemi.
Scattai immediatamente verso la porta, scendendo i gradini ed uscendo in strada per raggiungere finalmente Simone che si tolse gli occhiali da sole e fece un gesto come a dire “era ora!”.
D’improvviso, però, mi sentii trattenere da qualcuno e, voltandomi, mi ritrovai gli occhi di James addosso, stupendi e più azzurri che mai.
Non sapevo cosa dire, né chiedere spiegazioni sul perché mi avesse fermato in mezzo alla strada. C’erano ancora gli altri colleghi dello studio a guardarci, nonché Simone e il suo sguardo scuro che mi perforava la schiena.
«Ti va di andare al Torsolo di Mela, stasera?» mi domandò quasi sottovoce, per non farsi udire dagli altri.
Il Torsolo di Mela era un ristorante-pub nelle vicinanze dell’ufficio, abbastanza carino ma popolato per lo più da coppiette che cenavano allegramente nel piccolo spazio che c’era in quel locale. Deglutii a fatica, non capendo esattamente le intenzioni del bell’avvocato.
«Così discutiamo meglio del caso, altrimenti non riesco mai a vederti con il problema di babysitting,» scherzò, tirando fuori un sorriso che avrebbe spento di colpo tutte le stelle del firmamento.
Stiracchiai un sorriso imbarazzato a mia volta, tentando di non arrossire. «Certo,» gli risposi tranquilla, forzandomi di pensare che non si trattasse di un appuntamento ma di qualcos’altro. Magari un incontro di lavoro post-orario.
Seh, come no!
Zitto, tu!
James mi sorrise, dopodiché il suo sguardo era come se mi suggerisse di raggiungere Simone prima che ricominciasse a suonare quel clacson fastidioso. Mi voltai per raggiungere la Cinquecento blu metallizzata e sentii ogni passo farsi sempre più leggero, quasi volteggiassi su quel marciapiede di roccia arenaria.
Sapevo di non dovermi fare strane idee, perché in fondo non si trattava di un vero e proprio appuntamento, ma quello slancio di James nei miei confronti proprio quando avevo pensato che non ci sarebbe più stata speranza per un noi, voleva dire tanto per la sottoscritta.
Raggiunsi il posto del passeggero e mi sedetti al fianco di Simone, che sembrava particolarmente scazzato. Nonostante avesse rotto le palle fino a cinque minuti prima, aveva un diavolo per capello.
«Che voleva quello?» mi domandò subito.
«Quello è il tuo avvocato, innanzitutto,» gli ricordai, visto che non aveva il minimo rispetto per il lavoro che stavamo facendo per salvargli il culo. «Secondo, poi, cosa ti importa? Hai fatto un casino con questo clacson senza curarti minimamente del disturbo pubblico che hai creato. Non è la tua città e tu non sei il padrone di questa strada, te lo vuoi mettere in testa?»
Simone si accigliò sempre di più, diventando scuro in volto. Non mi rispose, ma indossò di nuovo gli occhiali da sole e lasciò che la Cinquecento si immettesse in strada senza aggiungere una parola.
Non sapevo perché fosse così arrabbiato, visto che quella mattina aveva avuto la sua rivincita sulla sottoscritta. Odiavo dover indovinare l’umore della gente e sinceramente non mi importava granché visto che la mia mente per ora era occupata unicamente da James e dai suoi meravigliosi occhi blu.
Zigzagammo nel poco traffico dell’ora di pranzo fino a dirigerci nella zona di Marble Arch, vicino la parte settentrionale di Hyde Park. Era una zona verdeggiante e abbastanza abitabile, molto tranquilla.
Avevo visto un appartamento lì, prima di trasferirmi nel monolocale di Oxford Street, ma era troppo costoso per il budget che avevo messo da parte per l’appartamento.
Mi ritrovai a pensare a quale lavoro facesse Gabriele. L’avevo visto solo una volta, a casa di Simone, vestito di tutto punto.
Tutti e tre i fratelli Sogno, da quel poco che avevo intuito conoscendoli, erano persone distinte, molto signorili, dal portamento elegante; anche se Simone…
…è Simone, punto. Non si può descrivere uno così.
«Tuo fratello vive qui?» gli chiesi, osservando di nuovo il quartiere vicino Marble Arch. La strada costeggiava la piccola piazza dove troneggiava l’arco di marmo molto simile all’arco di Costantino che si trovava vicino al Colosseo.
«No, sto girando a vuoto da un’ora cercando parcheggio per poi prendere la Tube e andare fino a Greenwich dove abita realmente Gabe,» rispose Simone stizzito.
Cos’era? Sarcasmo?
«Oggi ti rode, eh?» osservai piccata.
Lui mi rivolse una mezza occhiataccia e continuò a gironzolare con la Cinquecento alla ricerca di un posto libero. Si vedeva che era più nervoso del solito, ma non pensai fosse colpa di James, anche se sembrava avercela a morte con l’avvocato. C’era qualcos’altro nei suoi gesti che gli metteva addosso una strana pressione e magari era per quello che evitava spesso e volentieri questi incontri ravvicinati con la sua famiglia.
Alla fine, anche tu fingi di avere il ciclo quando zia Guendalina ti invita a pranzo.
Gli amici te li scegli, ma i parenti ti toccano. Mai alcun detto fu più azzeccato di quello.
Non appena un parcheggio fu liberato da una Matiz, Simone svoltò velocemente e dopo un paio di manovre riuscì a mettere perfettamente la Cinquecento entro le strisce, in modo da evitare qualsiasi multa.
«Non è vicino quanto mi aspettassi, ma va bene,» disse, dopo aver controllato lo specchietto retrovisore.
«Ti pesa il culo?» lo apostrofai, decidendo di lasciare la ventiquattr’ore nella macchina.
Simone mi lanciò un’occhiataccia, poi però sorrise sornione. «A me no, ma il tuo è talmente grosso che ti ci vorrà una carriola per arrivare da Gabe,» sghignazzò.
Cercai di non prendermela perché sarebbe stato come sparare sulla croce rossa. Era così idiota.
«Ovvio che il mio sedere è grosso, visto che sei abituato a farti i manici di scopa senza nemmeno un filo di grasso a parte pelle e ossa,» commentai acida, soprattutto ricordando Miss Cloverfield.
«Meglio delle balene,» sibilò in risposta, uscendo dalla macchina.
Lo seguii per raggiungerlo sul marciapiede, mentre aumentava il passo di proposito con quelle sue lunghe e atletiche gambe da calciatore.
«Sicuramente si saranno vomitate pure il cervello dal naso per raggiungere quel peso,» commentai ancora, senza mai smettere di pungolarlo.
Era vero che quel discorso non ci avrebbe portato da nessuna parte, perché Simone era più testardo della sottoscritta, ma ero stufa di dover sempre smettere per prima. Avrei insistito finché Simone non si fosse arreso. Era una questione d’orgoglio.
«Bello l’avvocato, allora,» insistette lui, scoccandomi un’occhiata di traverso mentre aumentava il passo. Dovetti cominciare a correre per stargli dietro. Possibile che avesse una falcata di dieci metri?
«Perché? Hai qualcosa contro James?» gli feci incuriosita.
Si comportava in modo davvero strano e stava dando sfogo a tutto il nervosismo che gli avevo visto addosso. Stamattina non mi aveva dato modo di preoccuparmi in quel verso, anzi, era stato più tranquillo del solito.
Simone fece spallucce e proseguì, fermandosi poi di fronte ad un’alta palazzina in puro stile vittoriano. «Sembra mio nonno,» commentò.
Spinse il pulsante sul citofono e attese. In seguito il portone scattò ed entrammo velocemente nell’androne dove ci aspettava il portiere che ci salutò con un cenno del capo ed un Buon pomeriggio.
Attendemmo di fronte l’ascensore quando un dlin-dlon ci comunicò l’arrivo della cabina. Entrammo frettolosamente e Simone spinse il secondo piano.
«Comunque non è James ad essere vecchio,» continuai, riprendendo il discorso di prima. «Sei tu ad essere un marmocchio. È quella l’unica differenza.»
Simone mi fissò come se avessi appena detto chissà quale blasfemia. «Quello me pulisce ‘e scarpe!» sbottò in romano ed io avvertii nuovamente quel brivido e quello strano prurito su tutta la pelle.
Che diavolo mi stava succedendo?
Saranno i postumi dell’influenza?
«Quello ha una laurea e un master, inoltre è intelligente, forbito, educato,» sospirai. «Cose di cui tu non sai nemmeno l’etimologia della parola.»
«Lo dici tu, saccentona,» ringhiò offeso.
«Non lo conosci nemmeno!» sbottai, stufa di dover prendere le difese di James.
Non aveva alcun diritto di parlar male di lui, quando Simone era il primo ad avere mille mila difetti di cui non si preoccupava minimamente.
«Mi è bastato vederlo atteggiarsi a damerino dei miei stivali,» commentò, sempre più acido.
Ma cosa gli prendeva?
«Cosa ne sai tu, eh? Da che pulpito viene la predica,poi!» m’impuntai, stufa di quel suo comportamento da donna mestruata. «Sei l’unico che ha un Ego grosso quanto una casa e parla sempre di se stesso quasi fosse l’unico uomo sulla Terra. Capisco che sei pieno di te, che sei un pallone gonfiato, tronfio e insopportabile, ma almeno finiscila di fare la morale agli altri quando tu sei il primo a pavoneggiarti ogni santo giorno e ad atteggiarsi a damerino con la puzza sotto il naso!»
Simone sgranò gli occhi poco prima che le porte si aprissero col solito suono metallico.
Davanti a noi apparve una porta in mogano scura, con due belle piante di ficus ai lati a decorarne l’ingresso. Il pianerottolo era più piccolo di quello di Simone, ma già la palazzina di per sé trasudava antichità per le rifiniture e gli affreschi vittoriani su alcune delle pareti.
«Allora ti piace…» insinuò Simone, prima di suonare il campanello a tradimento.
Sgranai gli occhi sorpresa, cercando di non arrossire. «C-Cos-Chi?» sbottai, facendo la finta tonta.
Non ebbi mai la sua risposta perché sulla soglia apparve immediatamente una bambina di circa cinque-sei anni, con i capelli a caschetto castani e un paio di occhi grigi.
Sorrise, mostrandoci la finestrella di uno dei suoi dentini davanti, poi si lanciò letteralmente ad abbracciare una delle lunghe gambe di Simone.
«Zio Simo! Zio Simo! Zio Simoooooo!» gridò quasi come un’ossessa, abbarbicandosi all’arto come una piccola scimmietta.
Simone sorrise e fu come se tutta la tensione accumulata fino a qualche momento prima fosse volata via d’improvviso.
«Ehi, piccola peste!» le disse, afferrandola e portandola in braccio. La bambina gli si avvinghiò come un cucciolo di koala, ma la cosa che mi sconvolse maggiormente fu il sorriso di Simone. Non lo avevo mai visto sorridere in quel modo, con quello che veniva chiamato calore.
Sembrava ardere di affetto per quella piccola bambina, e davvero stentavo a riconoscerlo.
D’improvviso quel paio di occhi grigio-blu si posarono sulla sottoscritta. Il visino della bambina spuntò dalla spalla muscolosa di Simone e mi fissò di traverso. Era timida e dolce, la salutai con la mano e le sorrisi.
«Ciao!» le dissi poi, cercando di conquistarmi il suo favore.
Da principio la piccola si nascose ancor più contro il collo di suo zio – ancora mi faceva strano sentire questa parola ed associarla a Simone –, poi rialzò nuovamente lo sguardo.
«È la tua fidanzata, zio?» gli chiese, parlando correttamente in italiano.
Co-cosa? Io la fidanzata del bamboccio? Beata innocenza...
Stai sorvolando appositamente sul fatto che ormai tutti ti paragonino alla fidanzata di  TermoSifone?
Sto cercando di ignorarlo, sì.
Simone si voltò verso di me e sghignazzò divertito.
Stavo subito per risponderle di no, che ero solamente un’amica del caro zietto e che molto probabilmente non mi avrebbe mai più rivista, quando il calciatore ghignò, facendo sparire quel sorriso estasiato e irriconoscibile che gli avevo visto fare poco prima.
«Sì, tesoro,» le sussurrò all’orecchio in un italiano perfetto. Mi fissava mentre glielo diceva, mi fissava con quegli occhi scuri e maliziosi, ferini come quelli di un gatto. «Quella laggiù è la fidanzata di zio Simone. È bruttina, vero?» le chiese ed io m’inacidii subito.
Che razza di stronzo.
Vidi la bambina osservarmi meglio, spalancare quegli occhioni plumbei e squadrarmi dall’alto in basso come avrebbe fatto una persona adulta. Di certo non dovevo stupirmi, era una Sogno pure lei dopo tutto.
«Non è vero, zio,» disse con sincerità, sorprendendo anche Simone. Lo vidi spalancare quegli occhi scuri e tendere ogni porzione di quel viso liscio, quasi come quello della sua nipotina. Sembravano due bambini messi a confronto l’uno con l’altro.
Certo Simone sembra così giovane.
«Lei è bella. Molto più bella di quelle di prima,» sorrise, nascondendo poi il viso di nuovo nell’incavo della spalla del calciatore.
Ad interrompere quel momento di imbarazzo, intervenne una donna alta e posata. Sembrava uscita anche lei da una rivista di moda, ma di una di alta classe. Aveva i capelli raccolti in una crocchia elegante e ordinata, sul volto aveva appena un accenno di trucco e il suo sorriso era così cordiale che mi sembrò di essere di nuovo nella mia campagna di Tivoli.
«Benvenuti,» disse in un accento perfetto, che mi suggerì subito la sua appartenenza all’isola britannica. «Prego, venite in sala da pranzo e datemi pure i cappotti.»
Entrammo nel piccolo ingresso dell’abitazione mentre la piccola ancora si stringeva a Simone senza mai lasciarlo andare. La donna sorrise bonaria guardando la bambina.
«Susy, vuoi lasciar respirare tuo zio?» le chiese, tentando di scollarla da Simone.
La piccola in risposta si spiaccicò ancora di più contro il petto del calciatore. «No!» disse, facendo i capricci.
La donna sospirò con eleganza e si portò le mani in grembo. Pensai che qualsiasi gesto facesse, trasudava eleganza e buone maniere. Era così posata, tranquilla e solare. Quella era una delle caratteristiche che invidiavo maggiormente del popolo anglosassone, o, almeno, di quello più aristocratico.
Il suo sguardo infine si posò su di me. «Tanto piacere, il mio nome è Rose e sono la moglie di Gabriele,» disse, porgendomi la mano.
Immediatamente mi riscossi dai miei pensieri e le afferrai la mano con decisione. «Venera,» dissi impacciata. «Venera Donati,» aggiunsi.
Lei spalancò delicatamente gli occhi, poi mi sorrise. «Sei italiana anche tu,» e ammiccò a Simone.
Ma in quella famiglia giravano cospirazioni a mia insaputa?
Simone non afferrò subito quell’occhiata, perché distolse lo sguardo e si concentrò sulla piccola che aveva in braccio. La bambina, in risposta, si rivolse subito alla madre come se non aspettasse altro.
«Mamma, mamma!» le urlò, stavolta lasciando andare Simone e costringendolo a metterla giù. Si affrettò a raggiungere la gonna della madre e a tirarla con forza finché la donna non abbassò lo sguardo verso di lei. «Lo sai che lei è la fidanzata di zio Simone? Non è bellissima?»
Di colpo arrossii come se tutto l’imbarazzo che avevo cercato di nascondere poco prima, dilagasse sul mio viso senza alcun freno.
«Non è vero,» mi affrettai a rispondere, mettendo le mani avanti, sia metaforicamente che realmente.
Rose si limitò a sorridermi e a lanciare uno sguardo verso Simo che faceva l’indifferente. Anzi, sembrava proprio che quella situazione lo divertisse più del dovuto.
«Io non smentisco né confermo,» si limitò a rispondere e per poco non lo fulminai con lo sguardo.
Come se quella situazione non fosse già delle peggiori, Susanna cominciò a correre per tutto il corridoio della casa, urlando a squarciagola che suo zio Simone aveva portato la fidanzata a casa per conoscerla.
Ovviamente desiderai sprofondare nel pavimento oppure diventare un camaleonte come Pascal.
«Venite da questa parte,» ci propose Rose, invitandoci a proseguire lungo il corridoio percorso prima da Susanna.
La donna ci fece strada fino ad un grande salone già apparecchiato, con un centro tavola fatto di fiori freschi e profumati. Tutto l’ambiente era immacolato ed ordinato, ma soprattutto arredato con gusto e finezza. Mi ritrovai a pensare ancor più che Rose doveva essere una donna di gran classe, anche se mi pareva maleducazione chiederle cosa facesse di preciso per vivere.
Non appena mettemmo piede nel salone, subito sei paia di occhi ci furono addosso.
Tra le tante persone che erano sedute in salotto, riconobbi immediatamente Gabriele nel suo completo elegante, Sofia col suo sorriso elfico e quello sguardo malizioso che mi fissava e, infine, anche un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia, sospesi su un viso che somigliava vagamente a quello di una talpa.
Quel tizio l’ho già visto da qualche parte…
Sofia si alzò dalla poltroncina e mi corse incontro, saltellando allegra come poco prima aveva fatto Susanna. I suoi lunghi capelli biondi volteggiavano come una nuvola di sole e il suo profumo mi avvolse quando mi buttò letteralmente le braccia al collo.
«Che piacere rivederti!» mi disse estasiata.
Barcollai qualche passo più indietro, sostenendo l’impeto di quell’abbraccio, poi lo ricambiai.
«C-Ci siamo viste ieri, veramente,» le feci presente, ma lei mi ignorò.
Quando mi lasciò andare dal suo abbraccio soffocante, vidi alle sue spalle il ragazzo con gli occhiali timido che mi pareva di aver già visto da qualche parte. Si fece avanti, con la testa affossata nelle spalle e un’espressione che rasentava lo svenimento.
«C-Ciao, m-mi-mi chi-chia-chiamo, mi chiamo Ru-Rub-Ruben,» disse, porgendomi la mano. «N-No, No-Non so s-e-se-se ti ri-rico-ricordi d-di di me!» sputò poi, tutto d’un fiato.
In quel momento mi ricordai di quel ragazzo silenzioso e mite, il migliore amico di quel troglodita di Leonardo, nonché suo manager.
«Sì, mi ricordo!» dissi all’improvviso, quasi come un’epifania.
Lui mi sorrise, dopodiché vidi Sofia avvicinarsi a quella sottospecie di rospo con i binocoli al posto degli occhiali e stringergli amorevolmente la mano, tranquillizzandolo.
Che quei due stessero…?
Simone si chinò quel tanto da sfiorarmi l’orecchio con le labbra. «Mia sorella ha gusti raffinati,» mi sussurrò, facendomi rabbrividire. «Come vedi preferisce i troll alle persone normali.»
Avrei voluto assestargli una bella gomitata nell’addome lì davanti a tutti, ma quando un uomo sui cinquanta, vestito di tutto punto e con un sorriso davvero ammaliante mi si presentò di fronte, il mio cervello azzerò qualsiasi facoltà mentale.
Gli occhi scuri dell’uomo mi folgorarono. Dentro di essi vi si poteva leggere determinazione, sicurezza di sé, un potere sugli altri davvero disarmante.
Mi ricordarono molto quelli di Simone.
«Tanto piacere di conoscerti,» mi disse con garbo ed io gli porsi la mano.
Invece di stringerla come avrebbero fatto tanti, l’afferrò e chinandosi mi fece il baciamano, quasi fossi una dama d’un tempo.
Arrossii violentemente senza riuscire a controllarmi.
«Vuoi smetterla, pa’?» disse Simone, infastidito, frapponendosi tra me e il signore distinto che emanava un fascino magnetico e sensuale.
Davvero, era impossibile resistergli.
L’uomo sorrise e mise le mani nelle tasche del completo elegante, sfoderando poi un’espressione furbesca.
«Suvvia, Simone, non crederai mica che possa soffiarti la fidanzata,» e sogghignò nella mia direzione.
A quel punto rabbrividii perché compresi chi fosse realmente quell’uomo su cui momentaneamente avevo avuto delle fantasie poco caste.
Maledetti ormoni.
«Io sono Marco, il padre di Simone. Mio figlio è talmente scortese che non concepisce il concetto di buone maniere,» commentò sorridendo e trovando l’ulteriore scusa per farsi più vicino.
«Oh, lo so perfettamente.»
Quel commento mi sfuggì dalle labbra, anche se avevo l’intenzione di tenerlo per me. Fuoriuscì da solo, senza controllo, tanto che Mr. Sogno – senior – sorrise furbescamente.
«È diversa da tutte le altre che ci hai portato» disse, rivolto al figlio.
Simone fece spallucce e se ne disinteressò completamente. Anzi, mi mise un braccio sulla testa, quasi mi avesse scambiata per un comodino, o qualcosa del genere.
«Sarà l’altezza…» smozzicò.
Mi divincolai immediatamente da quella posizione imbarazzante, quando, indietreggiando, non mi scontrai con l’ultimo dei Sogno che mancavano all’appello.
«S-Scusa!» dissi, nuovamente rossa dall’imbarazzo.
Possibile che ogni due per tre dovessi fare una figura di merda?
Gabriele mi sorrise e mi aiutò a tornare in equilibrio, per quanto quelle decolleté scomode me lo consentissero. «Simone fa questo effetto certe volte,» commentò. «Riesce a far scappare le donne.»
«Non è vero!» protestò immediatamente lui, con il volto imbronciato.
«Sicuramente scapperanno per la cura con cui tiene la sua stanza da letto,» ridacchiai, trovandomi sempre meglio in quella famiglia così simpatica.
Simone mi fulminò con lo sguardo, ma gli sguardi di tutti erano puntati su di me. C’era la piccola Susanna che evidentemente mi aveva preso in simpatia, perché continuava a fissarmi con quei grandi occhi grigi, così come Sofia che aveva sempre quel taglio degli occhi enigmatico.
L’unico normale in quella famiglia doveva essere il povero Ruben che non rasentava la perfezione come tutti i membri dei Sogno.
«Sta' zitta che hai annegato il cuscino di bava questa mattina!» mi ringhiò contro lui, vendicandosi dell’allusione di poco prima.
La piccola Susanna cominciò a ridere a crepapelle, appoggiandosi alle gambe slanciate del padre. In seguito corse verso il nonno – e che gran bel pezzo di nonno – e gli tirò la giacca con vigore per attirare la sua attenzione.
«Nonno, nonno!» trillò estasiata.
«Che cosa c’è angelo mio?» le chiese il signor Marco, abbassandosi all’altezza della piccola.
Lei si nascose ancora al mio sguardo, affossando il volto nella giacca di Mr. Sogno, e mi lanciava delle occhiate divertite di tanto in tanto, arrossendo.
«Zio Simo e zia Ven dormono assieme!» trillò eccitata.
Sbiancai di colpo, come un candido lenzuolino lasciato ad asciugare al sole.
Sentii la risata cristallina di Sofia al mio fianco, fresca e pura come una sorgente d’acqua fresca. Anche Gabriele e Rose sorrisero, così come il signor Marco che ci fissò malizioso.
«N-No! È assolutamente falso!» cercai di mettere le mani avanti, sentendomi una perfetta idiota. «Diglielo anche tu!» mi rivolsi a Simone, ma lui era di tutt’altro avviso.
Infatti, si limitò a scrollare le spalle e a sedersi a tavola, ignorando tutti gli altri.
Mi voltai verso Sofia e scossi energicamente la testa. «È soltanto un equivoco,» mi giustificai.
«E come fa a sapere che stamattina hai inondato il cuscino di saliva?» sorrise Gabriele, sempre più divertito.
Quella famiglia mi avrebbe mandato ai pazzi.
«Quindi vivete assieme?» s’informò Mr. Sogno, prendendo in braccio la piccola nipotina.
Stavo prontamente per rispondere con un bel “NO” urlato a gran voce, quando Gabriele si intromise in quella conversazione, anticipandomi.
«Venera aveva bisogno di una sistemazione, e visto che Simo ha casa grande, si è offerto di ospitarla,» giustificò il maggiore dei fratelli Sogno.
«E cosa fai nella vita, tesoro?» mi chiese l’uomo, esercitando sempre quel fascino magnetico.
Questa volta mi preparai mentalmente un bel discorso sulla mia brillante carriera come futuro avvocato, inserendo anche la causa che stavo seguendo per conto del suo stesso figlio, quando fu Sofia ad intromettersi.
«Studia!» disse sbrigativa, facendo un cenno con lo sguardo verso Rose.
La donna comprese al volo e annunciò che era pronto in tavola, sparendo in cucina e cominciando a servire le diverse portate.
Mi stavano nascondendo qualcosa, ed evidentemente coinvolgeva il capofamiglia dei Sogno.
D’improvviso, come una nuvola di Chiffon e Chantel n°5, fece il suo ingresso in salotto una delle donne più affascinanti mai viste nella mia vita. Aveva una vita stretta, esile, così delicata da sembrare quasi una bambola di porcellana.
Un paio di occhi azzurri e vispi, molto simili a quelli di Sofia, si posarono sulla sottoscritta vi indugiarono più del dovuto.
«Mamma, era ora!» sbuffò Simone e subito la donna gli corse incontro abbracciandolo e sommergendolo di baci. «E dai, smettila!» protestò poi, tentando di lisciarsi i capelli che la donna aveva involontariamente scompigliato.
Poi il suo sguardo tornò a tormentarmi. Era così armonioso il suo portamento ma non c’era quella stessa dolcezza e sicurezza che invece avevo visto in Rose, la moglie di Gabriele.
«Mamma, lei è Venera,» s’intromise Sofia.
Quella donna era la madre di tutti e tre i fratelli Sogno e non me ne stupii più di tanto perché le caratteristiche genetiche ereditate c’erano tutte. Era una copia sputata della più piccola di famiglia.
La donna mi guardò e sorrise. Era bellissima.
«Tanto piacere, cara,» e mi porse la mano.
Mi alzai goffamente dalla sedia, visto che avevamo già preso posto pensando di dover iniziare a mangiare, e strinsi la sua sporgendomi un po’ troppo verso Simone.
«Il piacere è tutto mio,» dissi, sicura di me.
La signora Sogno mi studiò da capo a piedi, osservando ogni mio lineamento del viso e mi sentii lievemente in imbarazzo. Ero stata praticamente sondata dall’intera famiglia.
In seguito Rose arrivò con gli antipasti e la donna bionda si andò a sedere vicino a Mr. Sogno senior, il quale le rivolse solo un accenno di sorriso.
«Sono separati, se è questo che ti stai chiedendo,» borbottò Simone, allungandosi per afferrare una tartina.
«Veramente stavo pensando ad altro,» mentii, ma dal modo in cui il signor Marco e la madre di Simone si guardavano, era evidente che qualcosa tra di loro c’era stato. Forse erano rimasti in buoni rapporti.
«Marianne, vuoi della zucca?» le chiese gentilmente Rose, passandole un vassoio con altre tartine.
Simone si lanciò letteralmente su alcune di esse e ne afferrò una manciata intera, portandosela alla bocca come uno scimpanzé.
La madre per fortuna non rimase tanto scandalizzata. «No, grazie. Tu ne vuoi, Marco?» domandò al marito, o ex-marito.
Quella famiglia era peggio di Beautiful e me ne stavo accorgendo solo ora.
Con l’apparizione della mamma di Simone, mi ero completamente dimenticata di quel vano tentativo da parte di Gabriele e Sofia di sviare l’attenzione di Mr. Sogno dalla mia professione.
«Ma tuo padre sa dell’accusa che ti è stata rivolta?» chiesi a Simone sottovoce, tagliuzzando la mia tartina con forchetta e coltello.
Lui mi fissò allibito, mentre mi portavo una piccola porzione alle labbra. «Che c’è?»
Lui scrollò le spalle e fece l’indifferente. «Mangi pure come una vecchia,» commentò acido. «Comunque no, non lo sa. E per Gabe non lo deve sapere nemmeno la mamma. Sai, Marco non approva l’ambiente in cui mi trovo. Per lui è controproducente che faccia il calciatore, preferirebbe che avessi preso una laurea a Oxford come Gabriele,» borbottò, stavolta prendendo del toast bruscato e spalmandoci sopra della crema di olive.
Continuai ad inforchettare la tartina sul piatto, rimanendo imbambolata a seguire i ghirigori dei disegni. Quindi il padre di Simone non approvava il lavoro del figlio, nonostante fosse così famoso.
È tenerezza quella che percepisco?
Pena?
Non mi freghi, ero embrione insieme a te nella pancia di tua madre.
Sbuffai sonoramente e continuai a mangiare, infischiandomene dei chili che avrei preso e delle gonne che non mi sarebbero più entrate.
«Da quanto tempo state insieme, insomma?» mi domandò Marianne, così si chiamava.
Ovviamente la tartina incriminata mi andò immediatamente di traverso e tossi cinque o sei volte prima di prendere un bicchiere d’acqua e ritornare del mio colore naturale.
«Ti senti bene, cara?» mi chiese la donna preoccupata.
«Oh, non ti preoccupare,» intervenne Simone, dandomi due forti pacche sulle spalle. Lo aveva fatto di proposito quell’idiota. «Fa sempre così, anche a casa. Mangia e si strozza.»
«Lasciala in pace, Simo!» protestò subito Sofia, guardando male il fratello.
Mi ripresi giusto in tempo per mettere fine a quella assurda discussione.
«Credo sia giunto il momento di mettere fine a questa pantomima,» dissi in modo teatrale, facendo cadere il silenzio in tavola. Simone mi fissava divertito da tutta quella faccenda, ma non gli diedi troppo peso.
«Io non sono la ragazza di Simone, siamo soltanto coinquilini. Tutto qui,» dissi tranquillamente.
Era la pura verità, omettendo il particolare che fossi anche il suo avvocato.
Mr. Sogno mi fissava con quelle iridi ardenti come braci, mentre Marianne aveva uno sguardo glaciale. Quei due erano opposti come il cielo e la terra e non compresi fino in fondo come fossero potuti andare d’accordo tanto da sfornare ben tre figli.
«Zia Ven…» pigolò Susanna dal fondo della tavola. Mi voltai per vedere gli occhi della piccola ad un palmo dal bordo del tavolino, lievemente velati di lacrime.
«Sì, tesoro?» Mi ero completamente dimenticata della piccola Susanna e sperai con tutto il cuore che non si mettesse a piangere in quel preciso istante, rovinando il pranzo di famiglia.
Posò le piccole manine paffute sul bordo e si arrampicò meglio sulla sedia, scostandosi i capelli castani dalla fronte. «Tu non vuoi bene a zio Simo?» mi domandò sincera.
Avrei tenuto testa a chiunque in quella sala, se qualcuno avesse continuato a sostenere che io e quel troglodita di TermoSifone formavamo una coppia, ma lo sguardo di Susanna era così…
…così puro e innocente.
Un dito ossuto mi perforò il fianco ed io sobbalzai sorpresa. Il sorriso sghembo di Simone mi fissò divertito ed io avrei volentieri voluto strangolarlo.
«Allora, mi vuoi bene, zia Ven?» ridacchiò.
Strinsi le mani a pugni, conficcandomi le unghie nella carne. C’era una cosa che non sopportavo, oltre a perdere una causa: il lasciare l’ultima parola a quella specie di deficiente con il cervello di un babbuino.
«A casa facciamo i conti,» gli sibilai minacciosa.
Il suo sguardo scuro mi guardò prima verso l’alto, poi via via sempre più in basso, senza smettere di sorridere come un marpione. Mi sentii improvvisamente a nudo sotto quello sguardo, avvertendo di nuovo quel pizzicore sotto pelle.
Forse mi stavo davvero ammalando.
Mal d’Ormone.
«Allora, zia?» chiese la bambina, sempre più speranzosa.
Mi ritrovai tutti gli occhi puntati addosso, compresi quelli elfici di Sofia che sogghignava soddisfatta e stringeva teneramente la mano a Ruben.
Quella famiglia mi avrebbe fatto invecchiare a ventiquattr’anni.
Già ti si vede un capello bianco.
Ecco, appunto.
«Certo che voglio bene a zio Simone,» dissi, cercando di non essere troppo drammatica. La tensione sembrò sciogliersi e i sorrisi affiorarono alle labbra dei commensali. «Sarò la tua zia Ven se lo vorrai, ma io e Simo siamo amici. Tutto qui,» le dissi, sperando avesse capito.
Susanna sembrò ragionare su quelle mie parole e per fortuna non pianse. «Ho capito. Quindi siete come la Bella e la Bestia, vero?»
«Cosa vuoi dire, tesoro?» la esortò Gabriele, incuriosito con tutto il resto della famiglia.
La bambina attese qualche secondo per riordinare le idee. Sembrava me da bambina, quando provavo a vincere le battaglie verbali coi miei cugini più grandi.
Ovviamente ci riuscivo sempre.
«Loro vivono nello stesso castello, diventano amici, poi si sposano. Giusto?» ridacchiò, arrossendo e nascondendosi col tovagliolo.
Subito la sala fu invasa dalle risate di tutta la famiglia, a cui mi unii stiracchiando un sorrisetto preoccupato. Una caratteristica di quella famiglia era sicuramente il sapersi rigirare la frittata a proprio vantaggio.
«Bene, continuiamo a mangiare,» annunciò Rose, sparendo nuovamente in cucina.
 
Il resto del pranzo si svolse nella normalità e si parlò del più e del meno. Venni a sapere che Mr. Sogno Senior era stato per trent’anni assistente delegato in una azienda che si occupava della lavorazione ed esportazione di cellulosa in tutto il mondo, ma poi, stanco di rimanere chiuso in ufficio ventiquattr’ore su ventiquattro, aveva acquistato un’ampia distesa di terra in Toscana, nella valle del Chianti, dove aveva fondato un’azienda vinicola che esportava i prodotti in tutto il mondo, soprattutto in Inghilterra.
Venni a sapere poi, che Marianne e Marco si erano conosciuti ai tempi del college, quando lui studiava Economia e management e lei si dedicava alle pitture di Raffaello e Michelangelo, seguendo un corso d’Arte e Restauro.
Quando lei seppe che Marco era italiano, fu amore a prima vista.
Rimasi estasiata ad ascoltare le storie di vita di tutti i membri della famiglia Sogno, nonostante il continuo sbuffare di Simone al mio fianco mi distraesse dalla narrazione.
«Gabriele invece è il manager di Simone,» annunciò Marianne, fissando il figlio maggiore con orgoglio. «Non riesce proprio a stare lontano dal fratellino. Visto che Simone ha una propensione per cacciarsi nei guai, sono contenta che gli stia vicino.»
«Almeno gli impedisce di fare cavolate!» ridacchiò Marco, ma l’occhiata che gli lanciò il figlio minore non mi sfuggì affatto.
«Lei invece che lavoro fa?» chiesi a Rose, seduta a qualche posto di distanza.
Gli occhi della donna si addolcirono subito, così come il suo sorriso. «Ho aperto una scuola di danza; ci va anche Susy, vero tesoro?»
La piccola subito annuì e scese dal tavolo improvvisando qualche plié e qualche piroetta goffa.
Tutti i presenti sorrisero, soprattutto i nonni che sembravano stravedere per quella ragazzina così dolce e tremendamente gentile.
«Tu invece cosa studi?» mi domandò d’improvviso il signor Marco, fissandomi dritto negli occhi.
Quell’uomo aveva uno strano magnetismo, molto simile a quello che entrambi i suoi figli esercitavano purtroppo sulla sottoscritta.
Sarà una cosa genetica.
«Legge,» fu la prima cosa che mi venne in mente, e la più ovvia.
Avevo finito gli studi già da un pezzo, ma era come tornare indietro nel tempo e fingermi studentessa solo quando mi trovavo in compagnia dei genitori di Simone.
Ovvero mai più dopo quella infinita giornata.
«Molto interessante!» disse Marianne estasiata. «Si vede che sei una ragazza molto intelligente, oltre che bellissima.»
«Bellissima» sghignazzò Simone con sarcasmo, pensando non lo avesse sentito nessuno.
«Sei proprio un cafone!» lo apostrofò Sofia, tentando di dargli uno scappellotto al di là del tavolo.
La anticipai io, mollandogli un ceffone dietro la nuca. Di punto in bianco però mi pentii di quel gesto, perché mi trovavo pur sempre in terra “straniera”.
«Dovevi darglielo più forte!» sorrise Marianne.
«Certe volte dai solo aria alla bocca, Simo’!» intervenne anche Gabriele.
«La bellezza è soggettiva, figliolo. Ricordatelo,» si aggiunse anche Mr. Sogno, poi si zittì non appena un’occhiata gelida dell’ex-moglie lo raggiunse.
«Qualcuno vuole un caffè?» propose Rose, ormai avvezza alle tipiche tradizioni italiane.
Dopo aver quasi del tutto digerito l’abbondante pranzo che la cognata di Simone aveva diligentemente preparato, ci avviammo verso la porta perché si erano già fatte le cinque del pomeriggio ed era ora di andare.
Ci furono restituiti cappelli e cappotti, così proseguimmo verso il portone d’ingresso.
«Insomma, a quando la prossima rimpatriata?» domandò subito Gabe.
«Noi ci vediamo quasi sempre,» trillò Sofia estasiata, senza mai lasciare la mano di Ruben.
Marianne e Marco rimasero in disparte, sorridendo comunque. «È stato un vero piacere conoscerti, Venera,» disse la donna ed io non mi feci scrupoli e andai ad abbracciarla.
Alla fine le donne della famiglia Sogno non erano affatto male, forse la maledizione del cognome era valida solo per il gene Y.
«Grazie mille, anche per me,» risposi cordialmente.
Fu in quel preciso istante, proprio quando stavo per sciogliere l’abbraccio che le sentii dire qualcosa.
«Avrebbe proprio bisogno di una come te, mio figlio,» sussurrò, senza che nessun altro la sentisse.
Rimasi imbambolata a fissare le trame del tappeto quando mi sentii tirare la gonna dalla piccola Susanna. Mi abbassai quel tanto da stringerla tra le braccia e mi scostai i capelli dall’orecchio.
Doveva essere la serata delle confessioni quella.
«Zio Simo mi sembra un po’ triste, puoi aiutarlo vero?» mi chiese timidamente.
Annuii con un semplice cenno del capo e ben presto fummo fuori al pianerottolo, aspettando l’ascensore. Raggiungemmo la cinquecento blu metallizzata nel completo silenzio, anche se di cose ce ne sarebbero state da dire.
Avevo ancora tutta la rabbia da sfogare per la pantomima che quel cretino aveva messo in scena con la sua famiglia. Però quelle preoccupazioni volarono immediatamente via e mi alleggerirono il cuore con troppa fretta. Io ero un tipo che serbavo rancore, spesso per molto tempo, invece in quell’occasione mi sentii profondamente sollevata.
«Allora?» mi domandò, una volta entrati in macchina.
«Allora cosa?» chiesi.
Simone sbuffò e cominciò a fare manovra. «Cosa ne pensi, di loro?» e fece un cenno verso l’alto, indicando la palazzina da cui eravamo appena usciti.
Il tramonto stava calando sulla città e le nuvole all’orizzonte avevano acquistato il classico colore rosa-celeste che sfumava via via verso l’arancione. Tentai di ricordare come fosse il tramonto di Tivoli, ma rimasi sorpresa da quanto fossero confusi quei ricordi.
«Sono molto simpatici,» dissi brevemente.
«Nessun commento acido? O forse quelli li riservi solo per il sottoscritto?» mi disse, mesto.
«Sai che le imprecazioni sono tutte tue, è inutile che te lo ricordi,» sorrisi.
Ci immettemmo subito nel corso principale, attendendo al semaforo una coda di pendolari che rientravano nelle proprie case dal lavoro.
«Domani hai la partita?» chiesi distrattamente, ricordando un discorso fatto con Gabriele.
Simone annuì continuando a fissare la strada.
Gli lanciai un’occhiata di traverso, cercando di non farmi scoprire e ripensai alle parole di Marianne. Forse nemmeno Sofia aveva tutti i torti, dicendo che non conoscevo affatto il vero Simone. Magari era come me, si nascondeva dietro una scorza più dura e consumata di quanto volesse far credere.
Ti stai intenerendo o cosa?
«Pensano tutti che siamo fidanzati,» se ne uscì lui d’improvviso, facendomi sobbalzare sul sedile del passeggero. «Il Mister, quel cazzone di Sebastian, mio fratello, Sofia è convinta che presto ci sposeremo.»
Non sapevo cosa rispondergli, in compenso il mio Cervello era andato a farsi una bella vacanza lasciando il posto a quegli ormai consueti brividi che avvertivo lungo tutto il corpo. Il prurito cominciò ad insinuarsi sotto pelle e distrattamente cercai di pensare ad altro che non fossimo noi due e il suo sguardo dentro quella macchina.
Guardalo, ora.
No, non posso. Me ne pentirei.
Volta il viso e guardalo. Ti sta aspettando.
La voce dell’Ormone gridava dentro la mia testa ed io non riuscivo a soffocarla, in alcun modo. Sentivo come se il mio viso fosse attratto da una calamita perché sapevo che mi stava guardando. Lo sentivo.
«Evidentemente hanno capito che sei perso senza di me,» dissi, fissando ancora lo sguardo fuori il finestrino.
Dovevo evitarlo, il più possibile, come la peste.
Lo sentii ridere e per la prima volta sentii distintamente il mio cuore perdere un battito. Avvertii un sobbalzo e poi più niente.
«Hai sempre la battuta pronta. Mi piace,» disse.
Fu allora che feci l’errore più grande della mia vita e mi voltai. Sì, lo feci. Ignorai del tutto gli avvertimenti del mio raziocinio e seguii unicamente l’istinto, incrociando quel paio di occhi scuri che mi fecero subito correre un lungo brivido dietro la schiena.
Era impossibile resistere al suo fascino, nonostante fosse uno spocchioso arrogante.
Ci fu un istante in cui nessuno dei due parlò e il tempo parve sospeso in una bolla di vetro, lontana nello spazio. Isolata da ogni cosa e da ogni rumore che potesse interrompere quel contatto. Mi mancò il respiro per chissà quanto tempo, ancora adesso non saprei dirlo, eppure ero in apnea.
Non mi ero mai resa conto di quanto fossero scuri gli occhi di Simone fino a quel giorno e quante pagliuzze dorate contenesse il contorno dell’iride.
La linea delle labbra sottili, la mascella pronunciata e completamente liscia, la pelle lattea e il taglio degli occhi così esotico. Aveva tratti riconoscibili sia di Marco che di Marianne, ma sicuramente era più bello di entrambi.
Mayday, mayday, mayday!
D’improvviso il mio cellulare ebbe un sussulto, poi il suono di un messaggio interruppe quella magia di sguardi e mi fece tornare letteralmente coi piedi per terra. Con mani tremanti afferrai l’apparecchio e lessi il messaggio.
Era di James.
Mi diceva l’ora in cui mi sarebbe passato a prendere per vederci al Torsolo di Mela.
Per un attimo, soltanto un piccolo istante, sentii un moto di delusione avvolgersi lentamente attorno al mio cuore, poi alzai lo sguardo e vidi Simone che leggeva attentamente ogni parola dal mio telefono.
Senza dire nulla ingranò la prima marcia e scomparve nel traffico delle sei.


***
Okay, finalmente avete fatto la conoscenza ufficiale della famiglia Sogno! *che squillino le trombe e i tromboni! (?)*
Io dico e ripeto soltanto che amo Sofia, come devo ripeterlo? Basta, è una santa quella donna ed io la adoro. Per quanto riguarda Simo, è sempre il solito! Poi abbiamo fatto la conoscenza di quel piccolo amore che è Susanna, della moglie di Gabriele, Rose, e dei coniugi Sogno.
Chi più ne ha, più ne metta! Questo è davvero il capitolo delle presentazioni e della famiglia. Lo adoro.
E alla fine, il quadretto di Ven e Simone nella cinquecento blu metallizzata ci stava proprio bene. Chissà se veramente si sta smuovendo qualcosa tra quei due, oppure sono talmente cocciuti da non accorgersene. Mah...
Scusate il ritardo nel postare questo chappy, ma come ben sapete d'estate non si sta mai a casa >.< #scusedelcavolo.
Bene, mi rimetto ai vostri giudizi e vado a rispondere alla recensioni -anche quelle con immenso ritardo!-
Bacibaci!

Se volete scoprire i "volti" dei nostri protagonisti, vi invito a segnarvi al gruppo di cazzeggio! Ci sarà da divertirsi.

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Until my last step (Daphne921);
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 7
betato da Nes_sie

 
Quando rientrammo nell’appartamento di Soho, c’era come uno strano silenzio ad aspettare il nostro ritorno. Dall’arrivo dell’SMS 'incriminato', nessuno dei due aveva più detto una parola e alla fine era stato meglio così.
Non so cosa mi fosse preso dentro quella macchina. L’euforia di quel pranzo di famiglia mi aveva ricordato l’infanzia a Tivoli, con le lunghe tavolate piene di parenti, i pomeriggi passati a riposarsi al sole e le passeggiate in prossimità delle terme.
C’è aria di nostalgia…
Zittii immediatamente la mia voce interiore, pensando subito ai sacrifici che avevo fatto per andarmene via da quel paese che mi avrebbe altrimenti tarpato le ali e non mi avrebbe permesso di raggiungere il livello a cui avevo sempre aspirato. Certo, rimanendo in Italia avrei potuto trovare un normale impiego a Roma, la grande città più vicina, ma da sempre sognavo di trasferirmi all’estero e quella era stata una buona occasione.
Cambridge, poi, aveva cambiato ogni cosa.
Simone si chiuse la porta alle spalle e si tolse le scarpe, calciandole via in qualche parte indistinta del salone. Era già calato il crepuscolo e la penombra cominciava a scurire le pareti della stanza. La poca luce che ancora illuminava la grigia città di Londra filtrava attraverso le tapparelle delle persiane proiettandosi sulle pareti come delle lame.
Proseguii per la stanza e poggiai distrattamente la ventiquattr’ore sul divano dell’ingresso, poi mi diressi immediatamente nella mia stanza, pronta per mettere a soqquadro l’armadio alla disperata ricerca di un vestito decente da indossare.
Erano le sei del pomeriggio e James sarebbe passato esattamente tra un’ora e mezza. Giusto il tempo di farmi una doccia veloce e scegliere cosa indossare.
«Dove ti porterebbe, il tizio?» mi domandò Simone all’improvviso.
Mi voltai e lo vidi con le braccia conserte e una spalla contro il montante della porta. I capelli castano scuro erano disordinati, come sempre d’altronde, ma un ciuffo in particolare gli adombrava il viso, quasi a voler nascondere quello strano sguardo criptico.
Ero indecisa se rispondergli o meno, in fondo mica dovevo rendere conto a lui di ciò che facevo nella vita privata. Dovevo sempre tenere a mente il fatto che lui fosse mio cliente ed io il suo avvocato.
Ormai tendi troppo spesso a dimenticarlo.
«Andiamo a cena al Torsolo di Mela,» dissi senza dargli troppa importanza. Cominciai a tirare fuori dai cassetti qualche maglietta da abbinare all’unico paio di pantaloni taglio classico che ancora non avevo indossato in ufficio.
Il dramma di uscire a cena con il proprio collega – nonché avvocato sexy – era la scelta dell’abito adatto. Dovevo indossare ogni santissimo giorno dei tailleur o dei completi classici ed era davvero difficile riuscire a trovare qualcosa di semplice da poter indossare in una serata tranquilla.
Purtroppo da casa mi ero portata poche cose: contavo di tornare a prendere il resto una volta trasferitami definitivamente.
Simone grugnì qualcosa in cenno di assenso, ma non si scollò dalla porta. «Che altro vuoi?» insistetti, sperando non volesse rimanere lì impalato anche quando avessi deciso di farmi la doccia.
Perché ti dispiacerebbe, immagino.
Ovvio!
Il ragazzino si limitò a fissarmi dall’alto in basso, senza scomporsi minimamente. Ma non aveva di meglio da fare che stare a controllare ogni mio movimento? E poi non riuscivo a capire perché si fosse comportato in quel modo assurdo a casa del fratello: innanzitutto era impossibile evitare di vedere come fosse soggetto all’umore del padre, poi quella strana storia di nascondergli la causa in corso... In quella famiglia c’erano molti lati segreti, ma io non ero certo una persona che si metteva a giudicare.
Avranno i loro buoni motivi.
«Nulla,» mi fece, dopo aver distolto lo sguardo per osservarsi distrattamente le unghie della mano. «È solo che quel ristorante è pidocchioso.» Sfoderò poi quel solito sorriso sbieco che mi faceva accapponare la pelle.
Crepitare. Forse quella era la parola più azzeccata. Quando le labbra di Simone s’increspavano in quella strana piega diabolica, era come se percepissi ogni cellula del mio corpo vibrare.
Come se quel suo semplice gesto accendesse una miccia.
Afferrai distrattamente una blusa giallo limone e la appoggiai sul pantalone scuro, provando l’abbinamento. Non ci voleva certo Giorgio Armani per capire che faceva cagare.
Sbuffai infastidita sia dagli occhi di Simone che avevo incollati alla schiena, sia da quello stupido guardaroba che rimaneva sempre uguale, anche se avessi aperto l’armadio un centinaio di volte.
«Senti,» gli dissi, voltandomi esasperata e incollando gli occhi ai suoi. «Fatti gli affaracci tuoi e smamma, moccioso: non ho tempo da perdere con te,» gli dissi stizzita.
Vidi quelle iridi scure spalancarsi e lasciare che tutto lo stupore guizzasse fuori senza nulla a celarlo. Avevo ottenuto una piccola vittoria con quella risposta, me ne rendevo conto da sola, ma la guerra era ben lungi dall’essere vinta.
Simone, accortosi di aver lasciato trasparire più di quanto dovesse, ritornò ad indossare quella sua maschera fatta di strafottenza e a guardarmi di traverso.
«Ripeto: quel ristorante è pidocchioso,» concluse. Lasciò la mia stanza senza che potessi in alcun modo replicare. Stavo per fare un sospiro di sollievo, visto che la “piaga” aveva finalmente deciso di lasciarmi vivere in pace quei pochi minuti che mi rimanevano prima dell’arrivo di Jamie, quando lo vidi fare capolino nuovamente dalla porta.
«Ah, e comunque quella maglietta è orrenda.» Sparì in fretta e furia prima che potessi lanciargli qualsiasi tipo di oggetto contundente a portata di mano.
Non ebbi il coraggio di rincorrerlo unicamente perché, dopo aver dato un’ultima occhiata alla mise scelta per quella sera, non riuscii a contraddirlo. Avevo svuotato l’armadio già due volte, ma i vestiti erano sempre gli stessi, così come i possibili abbinamenti.
Come una furba, mi ero portata i completi per l’ufficio ed una stra-grande quantità di tute da casa, oppure di vestiti vintage che avrei messo unicamente per uscire la domenica, giorno non lavorativo.
Contavi di concentrarti unicamente sul lavoro, non sull’intingere la penna nel calamaio dell’ufficio.
Quando avevo preparato la valigia per Londra, il mio unico pensiero era stato quello di finire il master e buttarmi a capofitto nel tirocinio, sperando in un posto fisso allo studio. Il resto poteva anche aspettare. E così era stato, peccato che poi avevo incontrato James.
Ero stata presa in contropiede, non me lo sarei mai aspettato. Avevo sempre creduto di avere la situazione in mano sin dall’inizio, di aver programmato per intero la mia vita, studiandola sin nei minimi particolari.
C’era stata prima la laurea, la partenza, il master e poi il tirocinio. Ci sarebbe stato il posto fisso allo studio, l’avanzamento di carriera, l’acquisto della nuova e spaziosa casa e, forse alla fine, avrei trovato il tempo per una relazione.
Invece era stato tutto anticipato perché mai avrei pensato di prendermi una bella sbandata per un collega/capo.
Forse sarà il caso che ti vada a lavare, hai passato mezz’ora a fissare il giallo limone di quella blusa e a litigare col Termosifone. Jamie ti troverà ancora in pigiama.
O, peggio, vestita come stamattina.
Afferrai le poche cose che avevo per il bagno – quali spazzola e shampoo per capelli – e mi fiondai in uno dei due bagni di cui disponeva l’enorme casa di Simone. C’era quello in fondo al corridoio, vicino alla sua stanza, che supposi fosse off-limits, perciò girai i tacchi e con l’accappatoio rosa shocking ancora in mano, gironzolai per il resto della casa alla ricerca della seconda porta.
Aprii per sbagli due stanze, che si rivelarono uno studio arredato con tanto di piccola biblioteca in stile antico, con caminetto incluso, e un’altra camera da letto.
E quel cretino voleva rifilarti il ripostiglio.
Lo odio.
Come se non bastasse, in un fruscio di camicia e pantaloni da ginnastica, me lo ritrovai alle spalle mentre sbocconcellava un biscotto.
«Ti sei persa?» chiese divertito.
«Vedo che il tuo stomaco è come la tua testa,» dissi in risposta.
Fece finta di pensarci su, ma non capì. «Cioè?»
«Vuoto, cretino!» Spalancai stavolta la porta giusta e trovai il secondo bagno dell’appartamento.
Simone ghignò nonostante la batosta verbale che aveva ricevuto, ma non mi preoccupai della sua successiva reazione, perché gli sbattei la porta in faccia. Rialzai lo sguardo e me lo ritrovai riflesso nello specchio sopra il lavello. Tutto sommato quella casa non era arredata proprio malissimo, anzi, c’era un non-so-che di femminile e armonioso nella disposizione degli oggetti e nella scelta dei colori.
Si sarà trombato un’arredatrice.
Tutto può essere.
Cominciai a far scorrere l’acqua nella doccia, nel frattempo mi spogliai della camicetta e della gonna a vita alta e finalmente mi potei liberare di quelle odiosissime decolleté. Tolsi anche gli ultimi indumenti, afferrai il flacone di shampoo e la spazzola ed entrai di corsa nel box doccia perché cominciavo a sentire un po’ di freddo.
Non l’avessi mai fatto.
L’acqua era gelida, con tanto di vento siberiano che filtrava dalla finestra lasciata lievemente aperta. Schizzai letteralmente fuori dal box doccia e mi avvolsi immediatamente nell’accappatoio cercando di calmare i brividi che non accennavano a cessare.
Al di fuori del bagno avvertii una risata semi-soffocata.
Ovviamente divenni peggio di un toro di Pamplona con un’intera folla di ragazzi completamente vestiti di rosso. Avrei buttato giù la porta a testate.
«Che hai fatto?» ringhiai, spalancando l’infisso e dimenticandomi completamente di essere in accappatoio.
Lo sguardo di Simone fissò immediatamente la stoffa rosa che si apriva leggermente al di sopra della cintura, lasciando intravedere una piccola porzione di pelle.
«Io non ho fatto nulla,» si giustificò sorridendo e passandosi la lingua sul labbro inferiore.
Lo sta facendo davvero?
Deglutii a fatica, trovandomi immediatamente a corto di parole e persino di fiato. Cercai di fare appello all’ultimo briciolo di autocontrollo e mi sforzai di ricordare il motivo per cui fosse infuriata come una belva.
La doccia gelida.
«L’acqua è ghiacciata, sai spiegarlo?» ringhiai, coprendomi meglio con l’accappatoio e sbattendo sul pavimento con il piede fasciato da una tenera ciabattina di spugna piumosa.
Simone fissò lo sguardo su quello strano corredo, affiancandolo alla sua pantofola a forma di ippopotamo. «Ti ho detto che non è colpa mia. Quel bagno è rotto,» spiegò con tranquillità.
A quel punto rimasi di sasso. «Da quanto è rotto?»
Lui fece spallucce e afferrò un altro biscotto dalla scatola che ancora teneva in mano, trangugiandolo avidamente. «Da più di un mese,» buttò lì, come se fosse chissà quale ovvietà per lui.
Mi sforzai di non inarcare le sopracciglia tanto da unirle una con l’altra e sembrare lo Yeti delle nevi, ma con Simone ci voleva la pazienza di un’orda di santi.
«Quindi fammi capire: perché mi hai lasciata entrare sapendo che non c'era acqua calda, qui?» ringhiai imbufalita.
«Che ne sapevo, magari dovevi spegnere i bollori,» sghignazzò.
Lo fissai con gli occhi ridotti a fessure e un diavolo per capello, anzi, avevo le stalattiti al posto dei capelli, ma l’ora tarda non mi consentiva di indugiare troppo sui miei pensieri. Dovevo prepararmi in fretta e furia, altrimenti avrei fatto unicamente una figuraccia con Jamie.
«L’altro bagno funziona?» chiesi, con la voce a metà fra un ringhio e un’imprecazione.
Simone si limitò ad annuire, senza smettere di ingozzarsi come un maiale. Ma dove le metteva, tutte quelle schifezze?
Cercai di sorvolare sulla voglia di lanciargli la spazzola per capelli in pieno viso e raccolsi le mie cose per trasferirmi nell’altro bagno. Aprii la porta e mi trovai di fronte il putiferio.
Mother of God.
Non c’erano parole migliori per descrivere l’Armageddon che regnava in quel poco spazio. C’erano calzini sparsi ovunque, tranne che nel cesto della biancheria sporca, flaconi di bagnoschiuma vuoti, la vasca – separata dalla doccia – conteneva uno strano liquido giallognolo, coperto con un foglio di pellicola trasparente e tutto intorno si sentiva un dolce odore di limone.
Spalancai la porta, ritrovando ancora Simone che ciabattava verso la sua stanza. Si immobilizzò fissando la mia espressione furente, poi abbassò lievemente lo sguardo.
«Ti si vede una tetta,» commentò. Ingoiò un altro biscotto e masticò senza alcuna remora di farmi vedere la sua bella ortopanoramica. «Ah!» aggiunse, prima di sparire completamente nella sua stanza. «Non toccare il mio limoncello, è quasi pronto.» Dopodiché mi sbatté la porta in faccia.
Rimasi ferma sull’uscio con lo sguardo perso nel vuoto. Se non avessi avuto i minuti contati, avrei sfondato la porta della sua stanza e lo avrei affogato in quel maledetto limoncello.
Tornai in bagno decisa ad ignorare quel putiferio e mi gettai sotto la doccia, questa volta calda, e cercai di godermela il più possibile in santa pace.
Così feci e mi asciugai anche i capelli, cercando di pettinarli e di non urtare – nemmeno per sbaglio – una di quelle bombe H che la gente comune avrebbe chiamato calzini. Fra l’odore nauseabondo di quegli indumenti e l’aroma acre del limone, stavo per rimettere.
Ma avevo poco tempo, dovevo sbrigarmi.
Uscii dal bagno in una nuvola di profumo e bagnoschiuma, attenta a non incontrare nemmeno per sbaglio lo sguardo di Simone. Avevo i minuti contati e dovevo ancora trovare un abbinamento decente con le poche cose che mi ero portata dall’Italia. Decisi che era inutile rimuginare ancora sull’abbinamento e mi lasciai guidare dall’istinto, optando per un top morbido color blu oceano, un pantaloni dal taglio classico a sigaretta e una giacchina abbinata.
Inoltre mi sarei dovuta truccare.
Avrei infine indossato il solito trench, magari con uno scialle intonato.
Corsi allo specchio e cominciai a truccarmi velocemente, poi pettinai i capelli in modo da non farli sembrare appena passati con il phon e pregai tutti i santi in Paradiso di far scendere il livello d’umidità di quella notte, altrimenti sarei diventata paragonabile ad un barboncino.
Indossai il completo che avevo scelto, poi mi diedi una veloce occhiata allo specchio dell’armadio a muro.
Meglio di così non si può.
Mi rassegnai a ciò che l’evidenza mi mostrava, ma erano le sette meno cinque e non potevo permettermi altro tempo per indugiare.
Così la prossima volta impari a portare il trolley “medio”, preferendo i sandali alla schiava piuttosto che una bella Chanel tacco dodici.
Nel frattempo mi stavo ancora convincendo mentalmente che quello non fosse un appuntamento, bensì un incontro post-lavoro tra colleghi, magari per parlare ancora del caso e scambiare anche delle chiacchiere da salotto.
E io sono Napoleone.
Vive l’amour!
Afferrai la borsa – sola ed unica che mi ero portata da casa – e controllai che fosse presente tutto. Ovviamente l’unica cosa che mancava era un mazzo di chiavi del nuovo appartamento. Dato che ero sempre entrata ed uscita agli stessi orari di Simone, non avevo avuto l’accortezza di chiedergliene una copia, ma ora mi serviva.
Sgusciai in salotto camminando sulle mie decolleté, stavolta un paio diverso perché le altre mi avevano ridotto i piedi a dei colabrodi, e mi avviai verso la stanza di Simone, sperando di non incappare in qualche spettacolo poco gradito.
«Vai alla riunione condominiale?» mi raggelò una voce alle mie spalle.
Simone se ne stava appollaiato – sì, proprio appollaiato, infatti, sembrava un gufo su un trespolo – sul davanzale della cucina e mi fissava nella penombra della stanza.
«Risparmiati i commenti,» sospirai.
Non avevo né voglia e né tempo per ricominciare a litigare con lui. Era un esercizio stancante ormai e non mi divertiva quasi più. «Mi servono le chiavi di casa, non so a che ora torno,» tagliai corto.
Simone sfoderò un sorriso malizioso. «Hai intenzione di fare le ore piccole, eh?» sghignazzò divertito.
Lo fissai seria, sperando la smettesse di fare il bambino. Aveva ventuno anni e finalmente aveva la possibilità di bere alcolici legalmente, quando sarebbe cresciuto?
«Non tutti gli uomini hanno quel fine ultimo nella vita, sai? Ci sono anche altri interessi, una bella conversazione, del vino…» sospirai infastidita.
Simone scese dal davanzale e andò a rovistare dentro una ciotola sul mobiletto. «Fidati,» disse, sventolandomi il mazzo di chiavi davanti agli occhi. «Noi abbiamo in mente solo quello.»
Tentai di afferrarle ma Simone le scansò, più di una volta. Sfruttava la sua altezza, il maledetto, e non mi permetteva di appropriarmi del mazzo di chiavi senza fare il deficiente.
«Hai detto bene,» ridacchiai, poi mi ricordai delle sue chiavi abbandonate vicino al cesto della frutta. Le presi e me le rigirai tra le mani con aria trionfante. «Voi ragazzini pensate solo a quello, ma James è un uomo. Te lo ripeto, non puoi competere con uno come lui.»
E fu in quell’istante che il suo sguardo diventò di ghiaccio e impenetrabile. Era in quelle occasioni che perdeva quella sua strafottenza e tutti i lineamenti del viso si trasformavano a plasmare un’emozione diversa.
Lo avevo ferito nell’orgoglio e quando riuscivo a fare breccia in quella sua superficialità allora lui diventava un animale.
In poche falcate mi raggiunse vicino alla porta, piazzandoci una mano sopra e impedendomi di uscire. Il cellulare cominciò a suonare, ma non appena lo afferrai tra le mani, lui me lo strappò.
«Quello lì non vale nemmeno la metà di me, ficcatelo bene in testa,» disse furioso.
Era peggio di tutte le altre volte, non lo avevo mai visto così arrabbiato. «Non è me che devi convincere. Ridammi il telefono e lasciami uscire,» lo provocai.
Sapevo di star giocando con il fuoco, che Simone era un ragazzino, ma pesava ugualmente ottanta chili e ci avrebbe messo poco ad imporre la sua superiorità fisica. Eppure non riuscivo a smettere di fissarlo con aria di sfida, come se dovessi dimostrargli qualcosa.
Di una cosa ero certa: doveva abbassare la cresta e smetterla di comportarsi in maniera così infantile.
Il telefono vibrava e “strillava” nelle mani di Simone, ma lui non accennava a restituirmelo. Sarebbe stato capace di premere il tasto verde? Avrebbe avuto il coraggio di avventarsi contro James nonostante fosse il suo avvocato?
Erano tutti interrogativi che rimanevano privi di risposta, soprattutto quando avevo quegli occhi taglienti puntati contro. In certi momenti sembravano simili a quelli di Sofia, dal taglio esotico, quasi appartenenti ad un altro mondo, mentre in altri – come in quello – apparivano quasi “bestiali”.
C’era un mondo totalmente nuovo nascosto lì dietro, ne ero più che sicura perché riguardava anche me, eppure era possibile scorgerlo soltanto in momenti come questo.
Quando Simone perdeva il controllo, io potevo sbirciare un piccolo pezzo del suo vero io.
Si accorse che lo stavo osservando, allora si nascose di nuovo dietro la sua maschera di imperturbabilità accennando a quel sorriso borioso. Mi porse il cellulare e si allontanò dalla porta, come se non fosse successo nulla.
«Pronto?»
«Spaghetti-girl! Sei pronta? Sono proprio qui sotto, è la casa di Mr. Sogno, giusto?»
Notai la piega di fastidio, quando James pronunciò il nome di Simone, ma non gli diedi peso perché non potevo impazzire proprio ora. Simone si era seduto sul divano e aveva acceso la televisione, nonostante fosse sabato sera.
Tecnicamente avrei dovuto monitorarlo, ma a chiedermi di uscire era stato proprio il mio capo perciò non vedevo dove fosse il problema.
«Io vado,» gli dissi, poi chiusi la chiamata e aprii la porta.
«Torno prima di mezzanotte,» continuai ma subito dopo mi morsi la lingua. Cos’era? Mio padre? Avevo forse bisogno di dargli delle giustificazioni?
Simone non alzò nemmeno lo sguardo dalla tv. «Salutami le amiche del bridge,» disse con aria annoiata e indolente, e lo interpretai come un silenzioso invito a dileguarmi nel minor tempo possibile.
 
James mi aspettava fuori dal portone.
Lo vidi appoggiato contro il cancelletto, che precedeva i gradini dell’ingresso della palazzina nel quartiere di Soho, in tutta la sua eleganza. Indossava un cappotto leggero di tweed, ma il modo in cui gli scendeva sulle spalle, lo rendeva quasi un lord di altri tempi.
Alzò il suo sguardo acquamarina su di me e sorrise.
«Hi, spaghetti-girl!»
Sorrisi a mia volta, scendendo gli ultimi gradini che ci separavano e accogliendolo con un timido abbraccio, che lui rafforzò stringendomi energicamente al suo petto. Cercai di avvolgere goffamente le mani attorno alla sua vita, ma ancora non sapevo se quella serata sarebbe stata innocua o meno.
«Ti va?» mi disse Jamie, indicando la strada.
Non avevo visto nessuna macchina parcheggiata nei dintorni e sapevo perfettamente che Jamie prendeva la Tube tutti i giorni per recarsi a lavoro. Come la sottoscritta.
Come la sottoscritta prima di accamparsi a casa del bellimbusto, vorrai dire.
Zittii la voce della ragione e m’incamminai al fianco di James senza ancora riuscire a dire una parola. Era strano per me, visto che il difficile era farmi stare zitta, eppure con lui mi sentivo in soggezione. Magari era perché aveva trent’anni, era un uomo maturo, in carriera, completamente formato, e ciò mi rendeva ancora una ragazzina ai suoi occhi.
«Il Torsolo di Mela è qui vicino, è facilmente raggiungibile a piedi,» spiegò James, infilando le mani nel cappotto di tweed. «Quando posso, cerco sempre di utilizzare i mezzi, oppure la bicicletta, anche per salvaguardare questa bella città dall’inquinamento automobilistico.»
«Fai bene. Sei ammirevole,» confessai imbarazzata, stringendo la pochette con entrambe le mani.
Se avessi rivolto a Simone la sua stessa domanda, ero più che certa che mi avrebbe mandato a quel paese, rispondendomi che la bicicletta era da sfigati, così come i mezzi pubblici.
C’era un abisso infinito tra Simone e James, qualcosa come un baratro di dieci chilometri di profondità che li distanziava. Erano troppo diversi per poter collimare in qualche modo, ma a me andava bene così. Non avrei cercato di cambiare Simone, era troppo tardi per farlo, ma in compenso c’era James ed ero intenzionata a godermi quella serata il più possibile.
«Ci hai messo un po’ a rispondere,» notò il bell’avvocato, riferendosi alla chiamata di poco prima. «Ti ho forse sorpreso in un momentaccio? Avevi da fare questa sera?»
Subito mi affrettai a negare. «Assolutamente!» risposi sicura. «Quel deficiente di Simone mi aveva rubato il cellulare e non me lo voleva restituire. Certe volte è proprio un moccioso,» sospirai.
James mi osservò di sbieco, proseguendo silenziosamente per il quartiere di Soho, prima di immetterci nella grande piazza di Piccadilly.
Cambiammo subito argomento, così mi chiese cosa mi aveva portato in Inghilterra, visto che lui adorava l’Italia.
«Ci sono stato un anno,» raccontò, mentre ci avvicinavamo sempre più allo studio, dove si trovava anche il ristorante-pub. «Avevo convinto zio August a lasciarmi partire per trascorrere un periodo sabbatico post-laurea e così mi sono trasferito in un piccolo paesino in Umbria. Ancora oggi fatico a pronunciarne il nome. Monte.. Monteleo…» tentò di rimembrare.
Premesso che la mia conoscenza in geografia era pari a quella di Marco Polo quando pensava di aver trovato una tratta per le Indie, una lampadina si accese in fondo alla mia testa e di punto in bianco ricordai anche di aver visitato quel piccolo paesino.
«Monteleone di Spoleto?» tentai, sperando di non aver detto una castroneria.
A James gli si illuminarono gli occhi e stavolta persi davvero un battito. C’era qualcosa di magico nelle sue espressioni, soprattutto quando erano così genuine e gratuite. Aveva la stessa ingenuità di un bambino, ma contemporaneamente mi trasmetteva una sensazione di sicurezza.
«Esatto!» esultò. «Sono rimasto ospite di una famiglia, dei parenti alla lontana di zio August, e ho girato tutte le campagne circostanti, spingendomi fino in Toscana. L’Italia è davvero un altro Paese, meraviglioso.»
Ci fermammo di fronte all’insegna del Torsolo di Mela e James, da cavaliere qual era, mi fece entrare per prima. Al cameriere comunicò il cognome di prenotazione – Abbott, tavolo per due – e una volta all’interno della sala dalle luci soffuse, rimasi imbambolata a vedere quanto fosse intimo quel posto.
Non cominciare a farti strane idee. Colleghi, nipote del tuo capo... Ti dice niente?
Scossi energicamente la testa e mi lasciai guidare sino ad un tavolinetto apparecchiato con una tovaglia a quadri bianca e rossa, molto simile a quella di Luigi’s in Lilli e il Vagabondo.
«Ecco i menù. Buona serata,» ci disse il cameriere, con un forte accento italiano mascherato da un inglese appena cianciato.
«Credo sia tuo conterraneo,» sogghignò James, accorgendosi subito della differenza.
Annuii sorridendo. «Si sente. Noi italiani non riusciremo mai ad avere una pronuncia perfetta della vostra lingua,» ammisi, nonostante avessi frequentato le migliori scuole d’inglese sin da quando avevo dieci anni.
James aprì il menù e cominciò a sbirciare le pietanze. «Non è vero, tu hai un accento pressoché perfetto,» confessò, senza guardarmi in faccia.
Per fortuna, aggiungerei, perché avevo cominciato ad assumere un colorito aragosta. Sentivo le guance farsi sempre più calde, ma nascosi il viso e mi tuffai nel menù.
«Insomma,» proseguì poi lui, dopo aver messo da parte la lista delle vivande. «Perché hai lasciato il tuo meraviglioso Paese?» mi chiese incuriosito.
Ci sarebbe stata da fare una lunga filippica su quanto odiassi sentirmi così costretta in una cittadina rinomata unicamente per delle terme visitate ogni anno da milioni di ottantenni con le cataratte, ma tentai di alleggerirgli la pillola.
«Ho sempre desiderato andare in una grande città, allontanarmi da Tivoli e dalla tenuta dei miei genitori. Loro mi hanno sempre sostenuta sin dall’inizio, anche perché si erano aspettati che non avessi intenzione di prendere in mano l’azienda di famiglia, con capre, pecore, mucche e tutto il resto.»
James ascoltava attentamente; fissava quei suoi occhi blu su di me e mi faceva alle volte perdere il filo del racconto. Era magnetico. Aveva uno strano potere su di me, un’influenza che mi contagiava a poco a poco, come un tarlo che scava ossessivamente nel legno fino a divorarlo dall’interno.
«Quindi, hai deciso di andartene,» mi fece lui.
Annuii sospirando. «Sin da quando frequentai la facoltà di Legge a Roma, loro capirono che avrei lasciato casa ben presto e si adoperarono a non farmi mancare nulla. Mia madre ne soffrì un po’, devo ammetterlo, perché sono comunque la loro unica figlia, invece mio padre tentò di spronarmi il più possibile. Infatti, subito dopo la laurea, cominciammo ad informarci sui corsi che offriva l’università di Cambridge e così feci domanda, ottenendo anche una borsa di studio.»
Mi vergognavo un po’ ad elencare tutto il mio percorso di vita, come se fosse stata una delle dodici fatiche di Ercole. Era vero, i miei genitori non avevano mai avuto problemi di soldi, anzi, ma non mi andava di fare la parte della “mantenuta”.
Mio padre si era sempre offerto di mantenermi il piccolo monolocale che avevo trovato in Oxford Street, ma non avevo mai accettato i suoi soldi, rispedendoglieli indietro quando potevo. Il tirocinio mi dava le sue soddisfazioni e questo mi bastava.
Se Franco sapesse che dividi l’appartamento con uno dei suoi idoli…
Zittii quella fastidiosissima voce nella mia testa e attesi la prossima domanda.
Il cameriere però utilizzò proprio quel momento di stallo della conversazione per domandarci cosa avevamo scelto per la cena. In un inglese pessimo, spiegò cosa ci fosse nella famosa Spaghettata ai Torsoli, che già dal nome non prometteva bene.
«Due piatti di bucatini all’Amatriciana,» disse James alla fine, dopo che avevamo deciso. «Due bistecche ai ferri con contorno di patate e del buon vino.»
Il ragazzetto prese le ordinazioni e ritirò i menù, volatilizzandosi in cucina. Mi resi conto forse troppo tardi che quel gesto di James poteva essere equivocato. Aveva ordinato sia per lui che per me, come se stessimo insieme da tempo.
Ciack, si gira! Prima scena del film di Ven.
Non mi sto facendo nessuna fantasia!
Inquadrala meglio, su. Sarà un capolavoro!
«Quindi sei andata a Cambridge,» tornò all’argomento appena interrotto.
Annuii sbocconcellando un pezzo di pane che il cameriere aveva portato preventivamente. «Ho fatto la specialistica in Diritto Internazionale,» spiegai.
Come un fulmine a ciel sereno, in quel preciso istante ricordai della rimpatriata che si sarebbe tenuta nel cortile della facoltà la settimana prossima. Sprofondai nella più completa auto-commiserazione per non aver ancora pensato a come invitare James a quella dannata festa.
Certo, vedere le facce delle mie ex-compagne di corso che mi credevano una contadinotta venuta a Londra per cercar fortuna sarebbe stato impagabile, soprattutto dopo aver avuto al fianco niente di meno che James Percival Abbott, erede dell’impero di famiglia.
«Anche io ci sono stato, molto tempo prima di te però,» e sorrise.
Ovvio, avevamo sei anni di differenza. In quel momento pensai a com’era James quando era al college. Uno studente modello? Sicuramente. Lo vedevo con la divisa dell’università, magari giocando a polo o facendo canottaggio, corteggiato da tutte le ragazze dell’università e invidiato dai ragazzi.
«Odio le università private unicamente per quelle stupide feste di classe,» sbottai infastidita, ricordando la lettera di partecipazione che mi pendeva sulla testa.
James spalancò quei grandi occhi color cobalto. «Davvero? Hai ricevuto un invito?» mi chiese sorpreso.
Annuii mogia e desiderai di incenerire il rettore unicamente per essersi ricordato di quella piccola studentessa straniera dalla parlantina facile e dalla media alta. «La settimana prossima danno una festa per quelli del mio ex-corso. Ovviamente è in abito lungo e con accompagnatore,» sbuffai.
Gli inglesi non avevano niente di meglio da fare che organizzare feste su feste, senza preoccuparsi della gente normale che magari non poteva permettersi un vestito da cinquecento sterline da indossare una sola sera e poi buttarlo.
Con scarpe e borsa abbinate, arriverai a settecento sterline.
In pratica equivaleva a quasi due mesi di stipendio lì allo studio.
La mia placida confessione non era stato certo un tentativo di invito del bell’avvocato a quell’evento, anzi, glielo avevo confessato nella speranza che anche lui mi dicesse di rinunciare, che quelle feste erano fatte solamente per le pettegole.
«Potrei accompagnarti io, se non hai nulla in contrario,» si offrì. Sorrise e mi spiazzò al tempo stesso.
Cercai di non balbettare come quella talpa del fidanzato di Sofia, ma mi era quasi impossibile. Senza volerlo, ero riuscita ad ottenere un secondo appuntamento con l’avvocato che ormai condizionava ogni mia giornata, nel bene o nel male.
Al male ci pensa Simone.
Concordo.
«S-Sarebbe fantastico!» esultai e cercai a stento la voglia di lasciarmi addosso a lui per abbracciarlo. In poco tempo avevo risolto uno dei problemi più grossi che mi avrebbe afflitto quella settimana, non contando ovviamente la presenza di Simone.
«Magari ricordami l’indirizzo e l’orario, così ti passo a prendere,» sorrise. «Sarà una delle rare volte in cui prendo l’automobile.»
Il cameriere arrivò con il primo piatto, così ci mettemmo a mangiare e a scherzare sui tempi dell’università. Gli raccontai di come ero riuscita ad ottenere il posto come tirocinante lì allo studio, di Yuki e dei suoi continui tentativi di sabotaggio, gli raccontai di mia madre che mi telefonava ogni giorno, di Celeste e di come proseguiva la sua carriera di scrittrice.
All’arrivo del secondo piatto, ero già piena come un uovo. Cercai di sbocconcellare qualcosa, ma mi sentivo davvero satolla. In compenso James mangiava con gusto, anche se la pasta non era stata una fra le migliori che avessi mangiato.
«Credo di doverti portare un giorno ad Amatrice, è proprio una bella cittadina,» confessai, senza rendermi conto di quanto quella frase implicasse un noi.
James però non fece una piega, anzi, sembrò compiaciuto. «Mi piacerebbe prima vedere il posto in cui sei nata. Sono sicuro che è qualcosa di meraviglioso.»
C’erano tanti significati nascosti in quella frase, allegorie e segnali che forse una ragazza più esperta di me avrebbe interpretato come un flirt. Il problema era che non mi volevo lasciar coinvolgere.
Soprattutto da pensieri e da insinuazioni prive di fondamento. Io e James eravamo colleghi prima di tutto, anche se nel corso della serata non avevamo parlato minimamente del caso di Miss. Cloverfield, eppure c’era qualcos’altro che ci legava, qualcosa di sottile che non si era ancora manifestato.
Lasciai da parte la bistecca e ingurgitai qualche patatina, giusto per gola. Se ci fosse stato Simone ero sicura che mi avrebbe dato della balena.
«Come vi siete conosciuti?» mi chiese James d’improvviso, mentre assaggiava il filetto.
Per poco una patatina non mi andò di traverso. «C-Chi?» sbottai.
James ridacchiò di quel mio momento di panico, ma non si arrese. «Come vi siete conosciuti tu e Mr. Sogno? Sono proprio curioso di saperlo. Sembrate abbastanza affiatati,» disse, cercando di tenere un tono distaccato.
«Affiatati proprio no,» mi affrettai a rispondere, storcendo il naso.
«Ogni vostro battibecco è come se fosse il copione di una commedia. Avete la battuta pronta, mi piace,» sorrise lui.
Rimasi di sasso quando lo disse.
Hai sempre la battuta pronta, mi piace. Era la stessa frase che mi aveva detto Simone quel pomeriggio in macchina, le stesse identiche parole. Rimasi a guardare l’avvocato come se fosse appena sceso dall’astronave di Spielberg.
«Che c’è? Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese, visto che continuavo a boccheggiare come un pesce.
«N-No, non hai detto nulla,» dissi e tentai di mantenere un po’ di contegno. Ormai non avevo più scuse, dovevo raccontargli come io e quel moccioso di Simone c’eravamo conosciuti.
Ormai erano passati più di tre anni.
«Tre anni fa circa, sono venuta qui a Londra con la mia migliore amica, Celeste. La scrittrice,» incominciai, e James annuì facendomi cenno di proseguire. «Non so se lo sai, ma lei è fidanzata con un famoso calciatore della Roma, Leonardo.»
«Il cugino di Mr. Sogno? Dai, non lo sapevo!» si sorprese James. «Non sono bravo in materia di gossip, tranne quelli che riguardano i casi a cui lavoro.»
«Sì, sono fidanzati da quattro anni ormai. Cercano sempre di essere riservati, anche se stare insieme ad un calciatore famoso non dev’essere facile,» ammisi, cercando di non mettermi nei panni di Celeste.
Che dopo tutte quelle patatine che ti sei ingurgitata, ti starebbero sicuramente stretti.
«Insomma, eravamo andate a Londra col mangia-caccole... volevo dire con un nostro amico comune, con l’intenzione, almeno mia, di farla rimettere con quel troglodita senza cervello perché, nonostante tutto, quei due si appartenevano. La Roma era nella capitale inglese per una partita di non so quale campionato, non me ne intendo, e ovviamente la squadra avversaria era l’Arfenale.»
«L’Arsenal» mi corresse lui.
«Sì, quella lì,» tagliai corto, senza dargli troppa importanza. «Fatto sta che era solo questione di tempo prima che mi imbattessi nel cugino famoso di Leonardo, quello che si era trasferito in Inghilterra da quando era bambino e che, a detta dell’attaccante della Roma, era solo uno sbruffone. Quella fu l’unica volta che diedi ragione al fidanzato della mia migliore amica,» ammisi senza remora.
James sbuffò in una risata trattenuta, e anche io mi lasciai contagiare. «Diciamo che Mr. Sogno deve maturare,» disse, in quel modo tipicamente inglese di non offendere mai la persona di cui si parla. «Però sono convinto che ha buone possibilità, magari con il tuo aiuto. Quanti anni corrono tra voi due?»
Non capivo il motivo di tutto quest’interessamento per il TermoSifone, visto che quella cena fino a quel momento era andata nel migliore dei modi.
«Quattro, credo. Anno più anno meno,» risposi indifferente.
Non potevo certo rispondergli che avevamo esattamente tre anni e sei mesi di differenza, visto che utilizzavo quell’informazione per infierire su Simone ogni qual volta mi era possibile.
«Sei come una sorella maggiore per lui, quindi,» insinuò, sempre con quel tono disturbato che gli avevo visto utilizzare più volte da quando avevamo conosciuto Simone.
Se gli dava fastidio che condividessi la casa con il nostro maggior cliente, per quale motivo continuava ad insistere sull’argomento?
«Per fortuna una sorella ce l’ha.» Ricordai la piccola Sogno con i suoi occhi e le sue movenze da elfo dei boschi.
«Miss Sogno è una cantante fenomenale, nonostante sia poco conosciuta all’estero,» mormorò orgoglioso. «Ha uno stile musicale molto originale, diverso da quello delle artiste “commerciali”. Insomma, mi piace.»
James aveva un modo meraviglioso di descrivere le persone, soprattutto quelle per cui nutriva un certo rispetto. Riuscivo a sentire la passione per Sofia in ogni sua parola, quasi avesse passato tutti i pomeriggi della sua vita ad ascoltare le canzoni, percependone ogni minima sfumatura.
«Eh già, questi Sogno sono una sorpresa continua,» dissi atona, ricordando anche Gabriele, Mr. Marco e la bella Marianne.
«Com’è andato il pranzo di famiglia?» mi domandò James a bruciapelo.
Avevo completamente rimosso questo particolare, soprattutto non ricordavo affatto di averne parlato con lui. Evidentemente cominciavo a perdere colpi.
È la vecchiaia.
«Bene!» risposi allarmata. «Avrei preferito rimanere a casa, ma tutto sommato è andato bene.»
«Come mai?»
Le iridi curiose di James mi terrorizzarono per una frazione di secondo. Tutto questo suo interesse per Simone era quasi morboso e non riuscivo a capire se volesse informarsi su come era cresciuto il suo cliente o se fosse unicamente... geloso?
James era un continuo enigma.
«Mi sono sentita di troppo, diciamo,» confessai. Tanto valeva affrontare la verità, visto che non potevo fare altro. «La famiglia Sogno, almeno il ramo di Simone, è molto unita e si vede che si vogliono bene, tutti quanti. Anche i parenti acquisiti. Sono stati molto gentili con me, ma sentivo di non appartenervi.»
Era stato uno dei pomeriggi più belli da quando mi ero trasferita a Londra. Era come se avessi ritrovato quel calore familiare che mi ero lasciata alle spalle andando via da Tivoli, ma comunque non lo avevo fatto mio. Mi ero sentita un ospite in terra straniera.
«Ti capisco, non è mai facile appartenere a qualcuno. Lasciarsi andare completamente e mettersi nelle mani di sconosciuti. Per quanto cordiali possano essere,» mormorò.
Dovevo ammettere che James era capace di leggermi dentro, anche se non mi reputavo molto brava a nascondere le mie emozioni. Sofia lo aveva detto. Io e Simone ci eravamo costruiti attorno una piccola corazza dietro cui nascondere il nostro vero io, lasciando che gli altri assorbissero solo quella parte forte del nostro carattere.
James riusciva a grattare oltre la superficie e io gli permettevo di farlo, di guardare dentro.
«Già, non è mai facile dipendere da qualcuno, dopo che sono anni che conto unicamente sulle mie forze,» confessai, sempre più sovrappensiero.
Era come se mi stessi confidando con Celeste, quasi come se James fosse il mio nuovo migliore amico e mi capisse più di chiunque altro.
«Sei una piccola tigre,» mi disse, sfiorandomi di proposito la mano. «Lotti con le unghie e con i denti per quello che vuoi, ed è una cosa ammirevole. Conti unicamente sulle tue forze e non ti appoggi a nessuno. Sei tutto quello che io avrei sempre voluto essere,» mi disse ed io per poco non mi lasciai trasportare dalle emozioni.
Quell’idilliaco momento fu interrotto dall’arrivo del cameriere col conto. James non ne volle sapere di accettare la mia parte della cena e si offrì di pagare perché era stato lui ad invitarmi. Uscimmo dal Torsolo di Mela verso le undici e mezza della sera, così ci incamminammo verso casa di Simone.
Il giorno dopo non ci saremmo visti, dato che era Domenica, così cercammo di rimanere insieme il più possibile. Non sapevo ancora quale significato avesse quella cena. Avevamo parlato di tutto, tranne che del caso di Miss. Cloverfield.
Sentivo che quella lunga chiacchierata, durata due portate e mezzo, ci aveva maggiormente legati e non più solo come colleghi. Sicuramente da amici e confidenti.
James riusciva a capirmi, ed era raro che qualcuno ci riuscisse con così poco tempo di frequentazione. Spesso e volentieri tendevo a lasciare che gli altri vedessero solo il lato antipatico, irascibile e acido del mio carattere, soltanto pochi eletti potevano sapere come fosse fatta la vera Ven. Invece James l’aveva capito subito.
«Eccoci arrivati,» disse, una volta davanti al cancelletto in ferro battuto della palazzina.
«Grazie,» pronunciai, lievemente imbarazzata. «Della cena, della splendida serata e di avermi riaccompagnata a casa.»
Gli dovevo sembrare una liceale goffa e impacciata. Era inevitabile, quando qualcuno mi interessava riuscivo a passare per un’emerita imbecille.
«Grazie a te per aver accettato l’invito,» sorrise, rubandomi un battito.
A furia di lanciarmi quei colpi diretti al petto, ero sicura che avrei finito per essere ricoverata per attacco cardiaco.
Rimanemmo fermi in piedi, l’uno di fronte all’altra, senza sapere né cosa dire né cosa fare. Forse era davvero arrivata la fine della serata, magari avrei dovuto girare i tacchi e salire i gradini, per poi rivederlo lunedì in ufficio.
Eppure non me la sentivo di lasciarlo andare. C’era qualcosa in sospeso, qualcosa che doveva essere fatto, ma che non riuscivo a capire.
«Senti Ven,» cominciò lui. Si avvicinò di qualche passo e posò una mano sulla mia spalla. Rabbrividii a quel contatto, ricordando timidamente le sue labbra sulla mia fronte bollente. Averlo vicino era come sentirmi piena, finalmente completa di una metà che mancava da tempo. «Ti ho invitato per questa serata utilizzando la scusa del lavoro, ma non era così e credo l'avrai capito anche tu. So che è sbagliato quello che sto per dirti, soprattutto da uno che porta lo stesso cognome del titolare dello studio, ma non ho davvero incontrato nessuna come te.»
Sentivo il cuore ormai prossimo allo scoppio. Batteva talmente forte nel petto che temetti che James potesse udirlo.
«Sei arrivata come un treno, instancabile, e sei così solare e piena di energia che schiarisci anche questo cielo uggioso di Londra. Mi ricordi quell’anno passato in Italia e tutti i bei momenti legati a quella terra.»
Ero ufficialmente in trance, perché sapevo dove volesse andare a parare quel discorso. Lo avevo sperato sin da quando avevo ricevuto il suo invito e proprio nel momento in cui pensavo che il nostro rapporto si fosse logorato, lui aveva iniziato a dirmi quelle meravigliose parole.
«Io e te siamo colleghi, lavoriamo allo stesso caso e la politica dell’ufficio è rigida. Non per questo voglio forzarti, sei libera di decidere ciò che vuoi,» disse tranquillamente. «Puoi anche fermarmi, ora. Altrimenti farò quello che sto per fare.»
Deglutii quando il volto di James, così pulito e velato da un lieve filo di barba incolta, si avvicinava lentamente al mio. Vidi i suoi occhi risplendere di una luce ombrosa, le sue pupille farsi più larghe nella fioca illuminazione dei lampioni nella strada di Soho.
Si chinò lentamente e raggiunse il mio scarso metro e sessanta, in quelli che parvero minuti infiniti. Mi aveva detto che volendo mi sarei potuta scansare, per non mettere in pericolo tutto quello per cui avevamo lavorato.
Anche se avevo messo al primo posto la carriera, a dispetto di ogni altra cosa, l’idea di un qualcosa di proibito, nascosto agli occhi degli altri, mi allettava, soprattutto perché James era  quel qualcosa di nuovo che sentivo soltanto mio.
Non mi scostai. Sentii le sue morbide labbra e quella ruvidezza del viso solleticare la mia pelle che mi suscitò un brivido, il quale rotolò fin giù sulla spina dorsale. Era una fredda notte di novembre, ma il mio corpo era scosso dal calore di quel bacio.
Strinsi le mie dita attorno al ruvido cappotto di tweed, ancorando il mio corpo al suo, insieme alla speranza di qualcosa di più. Avevo sognato quel momento da sempre, baciarmi sotto la fioca luce di uno di quei lampioni vittoriani di Londra. Una storia era l’ultima cosa che mi ero aspettata lasciando casa, eppure eccomi lì, stretta da un paio di forti braccia e cullata dal sapore di quelle labbra.
James sapeva di buono, di caldarroste in un freddo pomeriggio di Ottobre, dell’odore di legna del camino, quando era inverno e ci rannicchiavamo davanti al focolare. James sapeva di casa, anche se tutto di lui non apparteneva minimamente alla mia terra.
Ci staccammo per riprendere fiato e ci scambiammo uno sguardo complice.
«Non ti sei scostata,» sorrise e mi accarezzò i capelli.
«No,» sorrisi io, imbarazzata.
Rimanere cullata nel suo abbraccio era forse una delle dieci cose da mettere nella lista dei preferiti, non contando il bacio di poco prima. Era stato un bacio casto, nulla di più, ma mi aveva scosso più di qualunque altra cosa.
«Quindi sei pronta a rischiare con me?» mi domandò. «Non hai paura di mettere a repentaglio la tua carriera?»
Certo che avevo paura, come avrei potuto non averla? Avevo sacrificato tutto per diventare un giorno socio dello studio, eppure in quel momento ogni altra cosa mi pareva del tutto superflua. Era troppo tempo che ero rimasta da sola, sentivo lo stomaco attorcigliato, il cuore palpitante e tutto il mio corpo si protendeva verso quelle sensazioni sopite da tempo.
Per quanto la mia mente desiderasse il contrario, il mio corpo voleva James.
«Certo che ho paura, ma non riesco a smettere di guardarti,» confessai, al limite del ridicolo.
Jamie era l’unico che riusciva a non farmi saltare i nervi per ogni cosa, a tirare fuori il meglio di me, in ogni occasione. Finalmente ero felice di non dovermi difendere in ogni discorso e in ogni gesto che facessi, come succedeva con Simone.
Con lui era una guerra continua, un’infinita battaglia.
«Nemmeno io riesco a smettere,» mi confessò, sfiorandomi la guancia fredda con il pollice.
«Si è fatto tardi,» gli dissi. «Meglio che torni a casa, o la Tube chiuderà.»
«Magari prenderò un taxi,» scherzò. «Torna dentro e copriti, sei un piccolo ghiacciolo. Ci vediamo lunedì, mi raccomando. Ah, e fammi sapere dove si svolgerà la festa a Cambridge: sarò il tuo cavaliere, te l’ho promesso.»
Arrossii d’istinto, senza nemmeno rendermene conto, ma ringraziai la temperatura rigida di Londra che confuse quei rossori con quelli del freddo.
«C-Certo!» esclamai sorpresa. «Mandami un SMS quando arrivi sano e salvo a casa,» gli chiesi, quasi come fossimo due “fidanzatini”.
«Contaci,» mi rispose lui, cercando ancora una volta le mie labbra.
Lo guardai allontanarsi e svoltare l’angolo, mentre continuavo a sorridere come un’ebete, così mi diressi verso la palazzina per ripararmi dal freddo di quella notte. Ero ancora su di giri, come se mi fossi ubriacata o altro. Mi sembrava di galleggiare sui miei stessi passi, ad un metro dal terreno. Ero leggera come una piuma, come se una brezza estiva fosse stata in grado di lasciarmi volteggiare nel cielo.
Sei contenta? Ora puoi anche buttare nel cesso la tua carriera.
Ignorai il commento pungente del mio Cervello e smanettai alla ricerca della chiave giusta per aprire il portone. Mi ricordai improvvisamente il modo brusco in cui ci eravamo lasciati io e Simone, prima che scendessi per l’appuntamento con James.
Mi era sembrato più incazzato del solito e avrei giurato di ritrovarmelo di fronte una volta aperta la porta. Sicuramente mi avrebbe vomitato addosso i peggio insulti, insistendo su quanto fosse inutile James e ridicolo.
L’unico ridicolo era lui.
Cominciai a ripetere mentalmente una quantità svariata di insulti e di parole poco carine da dirgli se soltanto avesse fatto qualche commento su James, quando spalancai la porta d’ingresso e mi trovai avvolta dal buio.
Non c’era nessuno.
La casa era completamente deserta, silenziosa come quando l’avevo lasciata. Sul divano c’era una coperta utilizzata da Simone quando si era messo a vedere la televisione e giaceva lì abbandonata come uno straccio. Fui sorpresa di non vederlo nei paraggi, soprattutto perché mi ero aspettata di dover lottare anche questa volta per rispedirlo al letto, magari con una serie di insulti che non avrebbe capito.
Posai le chiavi sul mobiletto e mi tolsi le scarpe, cercando di fare il minimo rumore.
Attraversai il piccolo ingresso e rivolsi lo sguardo verso la porta chiusa della stanza di Simone. C’era un grosso “Keep Out” scritto sopra, con un cartello.
Lo ignorai e proseguii verso la mia stanza, pensando ancora a James e al suo dolce bacio sotto le stelle.
Mi spogliai, mi lavai i denti e mi stesi sotto le coperte, sospirando. Ero troppo euforica per riuscire a dormire, così fissai il soffitto. Di tanto in tanto una macchina passava in strada, e i fari filtravano dalle persiane illuminando le pareti.
Certo, prima ti accusa di uscire e di fare le ore piccole, poi nemmeno ti aspetta per urlarti contro.
Infatti, è solo uno stupido ragazzino.
Inoltre, non può permettersi di giudicarti, visto che a lui non è permesso uscire con altre donne fino alla fine della causa, invece tu slinguazzi un tuo collega senza curartene minimamente.
Eh… cosa?
Hai capito bene.
Ma da che parte stai, si può sapere?
Dalla parte della Ragione, ovviamente.
Mandai al diavolo anche il mio Cervello, visto che era poco collaborativo come suo solito. Rimasi a fissare il soffitto per interminabili minuti, volgendo lo sguardo di tanto in tanto al corridoio.
Di punto in bianco sentii la porta della stanza di Simone spalancarsi e mi irrigidii sul letto. Chiusi gli occhi e finsi di dormire, dando le spalle alla stanza.
Lo sentii ciabattare sino in cucina, aprire l’acqua e afferrare un bicchiere. Poi nient’altro. Se ne tornò in camera e chiuse la porta.
Mi rigirai nuovamente supina, posai un braccio sugli occhi mentre sentivo il mio cuore palpitare nervosamente.
Avevi sperato che ti venisse a trovare? Magari sdraiandosi accanto a te come ha fatto questa stessa mattina?
Taci.
D’improvviso sentii il telefono vibrare sul comodino, così lo afferrai e sorrisi leggendo l’SMS di James:
 
Sono tornato a casa vivo, mylady.
Per tua fortuna la tube non ha chiuso, ma per tutto il tragitto ho discusso animatamente con un barbone sul prezzo del biglietto del circo delle pulci. è stato interessante.
Buona notte, spaghetti-girl e grazie per la serata.
Ps: e per il bacio.
 
Rimasi a fissare lo schermo per un tempo indeterminato, toccando l’LCD per non farlo oscurare. Rileggevo quelle parole più volte, e in ogni occasione mi emozionavano più di prima. Non riuscivo davvero a capire come avessi potuto anche solo pensare a Simone, quando ero riuscita a sfiorare le labbra dell’avvocato più sexy ed intelligente che avessi avuto la fortuna di conoscere.
E mi ricambiava.
Aveva detto che ero forte, che gli piacevo perché lottavo.
Avete sempre la battuta pronta, mi piace.
Hai sempre la battuta pronta, mi piace.
Mi addormentai con quelle due frasi quasi del tutto identiche che si sovrapponevano l’una con l’altra mentre, avrei giurato, che in un preciso momento della notte, tra il sonno e la veglia, in quel ritaglio di tempo dove l’onirico si fondeva con il reale, ci fosse qualcuno che mi osservava.
Uno sguardo cupo. Pensieroso.


***
Scusate enormemente per l'attesa di questo nuovo capitolo! *si prostra ai piedi dei lettori*
Purtroppo tra una settimana a Marsa Alam e altre 3 settimane tra mare e montagna, non ho potuto aggiornare né toccare il computer sotto lo sguardo fulminante di quei genitori negrieri che mi ritrovo -.-'
Comunque sono tornata, non vi libererete così facilmente di me! MUAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAAH *cade dalla sedia*
Detto ciò, so che molte di voi mi odieranno alla fine di questo capitolo, ma io rispondo loro con "abbiate pazienza!" in fondo la storia è appena agli inizi e non posso spiattellare tutto e subito, anche se vorrei u.u
Però la mia wife mi lincia xDD
Okkey, ora vi lascio alle INNUMEREVOLI recensioni che riceverò (seh seh, aspetta e spera LOL) e mi accingo a rispondere alle precendenti! Devo recuperare un sacco di cose >.<
Beh, vi lascio con un po' di link, ci si vede sul gruppo bedde!

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Until my last step (Daphne921);
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 (parte 1) ***




CAPITOLO 9
(parte 1)
betato da Nes_sie

 
Quella mattina mi svegliai con un forte mal di testa. Riuscii a mala pena a mettermi seduta, notando con disgusto che durante la notte non avevo riposto il telefono sul comodino e mi si era completamente incollato alla faccia.
Si staccò con un sonoro strash, finendo sul morbido materasso, ma lasciandomi la sensazione di avere un rettangolo stampato sulla guancia.
Una nottata infernale.
Non conoscevo il motivo del mio sonno tanto inquieto, visto che avevo limitato i bicchieri di vino al minimo ed eravamo tornati relativamente presto. Guardai l’orologio e notai che erano le 8.30 di Domenica mattina. La mia prima Domenica nel nuovo appartamento.
Una risata femminile mi distrasse dalla mia trance momentanea.
Dopo nemmeno cinque secondi, la porta della camera di Simone venne spalancata con un sonoro schiocco di maniglia, e il calciatore ciabattò per tutta la cucina cominciando a trafficare per preparare la colazione.
E così qualche volta riusciva anche a muoverlo quel culo secco, eh?
Quel bel culo secco.
Oh, finiscila!
Mi affrettai a scendere dal letto, districandomi dall’enorme quantità di coperte e piumoni disseminati in quel letto, e m’infilai le ciabatte per poi fiondarmi in cucina. Avevo già caricato il mio dito indice, pronto per puntarlo contro a quel deficiente senza cervello che giusto ventiquattr’ore prima mi aveva fatta diventare matta pur di fargli il caffè, ma poi mi bloccai.
Rimasi immobile sotto l’arco a muro, quello che divideva il corridoio dalla cucina, ad osservare un corpo magro e flessuoso che si affaccendava tra i fornelli.
Strizzai gli occhi, cercando di mettere a fuoco l’identità della persona, e mi accorsi subito che si trattava di una ragazza. Non era bionda, né riccia, quindi la piccola Sofia era esclusa.
Il livello di rabbia si stava lentamente accumulando, raggiungendo pericolosamente il livello delle ginocchia.
Ven, cerca di ricordare il corso di autocontrollo.
Autocontrollo un cazzo!
Quel deficiente me l’aveva fatta in barba, lo sapevo! Ecco perché non si era mosso dalla sua stanza, non era venuto ad inveire contro la sottoscritta. Si era portato una giraffona in casa, quando io ero uscita con Jamie ed aveva approfittato dell’appuntamento per godersi la seratina in santa pace. Nonostante mi fossi così tanto raccomandata di non andare dietro alle ragazze!
La giraffona in questione si voltò e mi sorrise spalancando quegli enormi occhi nocciola da Bambi della Disney.
«Bonjour!» trillò quella. Un’altra parigina, complimenti. Simone era davvero originale nelle scelte delle sue compagne di letto. «Gradivesti una scioccolata?» mi domandò, indicandomi il pentolino dove stava facendo sciogliere il latte.
Scioccolata?
«No, ti ringrazio,» grugnii, osservandola di sottecchi.
Quel pezzo di deficiente aveva buttato all’aria quell’intera settimana di astinenza forzata, e tra qualche giorno si sarebbe svolto anche l’incontro preliminare con St. James. Se la notizia di questa notte fosse trapelata su qualche tabloid, ero spacciata.
Addio carriera, addio studio, addio futuro come brillante avvocato.
Ma soprattutto, addio James. Mi avrebbe ripudiata, ne ero certa.
«Tu…» smozzicò la tipa curiosa, osservandomi da capo a piedi nel mio bellissimo pigiama coi maiali stampati sopra. «…sei la sorella di Simòn?» chiese.
Trattenni a stento una risata, poi mi interrogai su quale delle due cose avrei dovuto fare per prima: precipitarmi in camera di quel cretino con l’uccello al posto dei neuroni, o sbattere fuori di casa la giraffona prima che le tagliassi la testa di netto.
Optai per la seconda.
«No, sono il suo avvocato. Ed ora è il caso che tu prenda i tuoi quattro stracci striminziti e te ne vada immediatamente!» le ordinai ferrea, senza scompormi.
La tipa mi fissò come se fossi appena uscita dall’uovo di Pasqua. Mi sorrise titubante, come se fosse vittima di uno scherzo, ma quando non accennai nemmeno ad un sorrisetto, s’immobilizzò con la cioccolata ancora nel pentolino.
«Vado a prenderti le tue cose, e poi sloggi,» ringhiai, fiondandomi a passo pesante – elefantiaco, direi – verso la stanza di Simone che non si era nemmeno degnato di apparire in pubblico. Non mi premurai nemmeno di bussare, prima di spalancare la porta come se non ci fosse un domani.
Ero furiosa. Una bomba in procinto di esplodere, e anche se lo avessi trovato con il Pisellino al vento, poco me ne importava.
Che razza di piccolo ingrato!
«Mi hai portato la colazione a letto, mon amour?» brontolò da sotto dodici – e dico dodici! – strati di coperte, da cui spuntavano fuori unicamente ciuffi di capelli sparati in ogni direzione. Simone aprì pigramente un occhio e mise a fuoco la mia figura.
Il livello di rabbia adesso era arrivato ad altezza tette, molto vicino a farmi esplodere il cervello.
«Ah, sei tu,» grugnì infastidito. «Dov’è Francine?»
Strinsi le mani a pugno, sentendo le mezzelune delle unghie penetrare debolmente nel palmo. Se avessi avuto qualsiasi oggetto contundente a portata di lancio, glielo avrei tirato senza nessuna remora. Era proprio un imbecille viziato, un ragazzino immaturo e imprevedibile.
Cercai di non uscire fuori dai gangheri prima del previsto.
Simone si accorse immediatamente che avevo un diavolo per capello, e non solo quello: avevo l’interno inferno sopra la testa e non avrei esitato a spedirlo contro di lui. Non era possibile che dopo tutto quello che era successo, dopo il guaio in cui si era cacciato, avesse ancora il coraggio di fare lo sbruffone.
«Miss gambe secche sta per andare via, ha avuto un contrattempo,» sibilai, tentando di non far salire la rabbia a livello critico. Sondai il terreno con lo sguardo, cercando gli abiti succinti della giraffona, ma incappai unicamente in boxer usati, calzini scompagnati e magliette sparse ovunque senza nessuno ordine, nemmeno igienico.
Finalmente Simone riemerse dalle coltri e si mise a sedere sul letto, grattandosi la testa e fissandomi con gli occhi ancora socchiusi per la troppa luce che filtrava dalle tende. «Cosa? Ma se ieri mi ha detto che poteva rimanere tutta la domenica…» bofonchiò insonnolito.
A quel punto lo stava facendo apposta. Era così stupido da non ricordarsi nemmeno l’assoluto periodo di castità che doveva trascorrere durante il processo?
Ti stai davvero domandando se sia stupido? Credevo che la risposta già la sapessimo.
Già, che sciocca.
Finalmente individuai un micro vestitino di chiffon azzurro che pendeva da una sedia girevole, poi un paio di tacchi vertiginosi su cui era persino difficile stare in piedi, figurarsi camminare. Mi precipitai ad afferrarli entrambi, decisa a buttare fuori di casa l’ennesima francesina e poi fare una scenata epocale a quel deficiente sconsiderato.
Chissà le porcherie che avevano fatto quando io ero addormentata.
Pensi sempre a quello, eh?
Taci!
«Cosa stai facendo?» s’indispettì Simone, quando realizzò le mie intenzioni.
«A te cosa sembra?»
Individuai anche un piccolo montgomery nero che doveva appartenere alla modella. Sentivo gli occhi del calciatore sulla schiena, fissi come due laser che avevano l’unico scopo di incenerirmi all’istante.
«Non ti devi permettere!» disse, scostando le coperte e posando un piede nudo sul pavimento.
Mi voltai di scatto e mi trovai a sbattergli contro – contro il suo petto nudo, aggiungerei –, perché non indossava altro che un paio di boxer bianchi. Alzai lo sguardo e fui paralizzata da quegli occhi scuri, così anonimi eppure particolari. C’era la pupilla che non si distingueva dall’iride, nonostante quei pochi raggi di sole gli illuminassero metà volto, e i pensieri che di tanto in tanto riuscivo ad indovinare soltanto leggendo lo sguardo della gente, con Simone diventava un’impresa titanica.
Non sapevo mai cosa gli passasse nella testa.
«Avevamo un patto!» gli ricordai infuriata, continuando a raccogliere i vestiti e ignorandolo del tutto. Allora Simone mi afferrò il polso e lo strinse forte, costringendomi a incontrare di nuovo quei suoi occhi enigmatici.
«Tu sei solo un ospite qui, ricordalo,» cominciò a minacciarmi.
Non sa davvero contro chi si è messo.
Già di norma perdevo le staffe per un nonnulla, dal rinnovo della Oyster card alla fila al supermercato, ma quando alle persone balenava l’idea di minacciare la sottoscritta, allora era meglio che firmassero le carte per l’espatrio.
Fissai prima la sua mano stretta attorno al mio polso, poi lo affrontai. Strattonai la presa quel tanto da liberarmi e lo feci senza mai distogliere lo sguardo dal suo. Doveva ancora nascere chi era capace di mettermi i piedi in testa.
«Io sono il tuo avvocato, ficcatelo in quella testa bacata. Stai rischiando grosso a tenerti la tizia in casa, soprattutto quando a breve avremo un incontro con Miss Cloverfield,» sibilai, veramente infuriata dalla sua negligenza. «Non ti rendi conto che questo caso è molto delicato vero? Che rischi di pagare il risarcimento, perdendo sia una marea di soldi, sia la reputazione. Sei ancora troppo immaturo per capirlo.»
Simone continuò a fissarmi aprendo unicamente la bocca, ma senza rispondere.
Zittisci anche i logorroici.
Giustamente ero dalla parte della ragione, ma evidentemente quello zuccone non voleva darmela vinta. Era logico che i tabloid, se ne avessero avuto occasione, avrebbero sguazzato su quei gossip serviti su un piatto d’argento. Il nostro obiettivo era quello di far trapelare la notizia il meno possibile, James era stato chiaro.
James…
Di colpo arrossii al pensiero di quello che era successo la sera prima. Si era trattato semplicemente di una cena tra colleghi, anche se eravamo finiti col parlare di tutto tranne che di lavoro, e alla fine c’era stato il bacio.
Non sapevo cosa aspettarmi da tutto quello, ma James aveva fatto in modo di farmi capire che un suo coinvolgimento c’era.
E tu che eri quella frigida, tutta “casa e carriera”.
«Non abbiamo fatto niente,» mormorò subito Simone, giustificandosi.
«Ti prego, risparmiami i dettagli. Sinceramente non me ne frega nulla,» tagliai corto, raccogliendo le ultime cose per mandar via la francesina il più presto possibile.
«Dico sul serio!» continuò seguendomi e parlando rigorosamente italiano, soprattutto quando raggiungemmo la cucina dove c’era ancora Francine. «Diciamo che si è limitata a parlare» e sghignazzò da solo, come un povero deficiente. «È stato un incontro... orale,» continuò imperterrito, con quell’umorismo pornografico da quattro soldi.
Mi voltai per incenerirlo con uno sguardo. «Smettila, non mi interessa,» gli risposi nella nostra lingua, mentre la ragazza ci fissava allibita.
Quando Simone capì che non c’era verso di farmi infuriare ancora di più, mi rivolsi alla modella e le porsi i vestiti, spiegandole sommariamente che il calciatore era impegnato e che non poteva trattenersi oltre.
Anzi, sei stata troppo gentile.
Francine annuì un paio di volte, poi andò in bagno per sistemarsi e uscì di casa subito dopo, salutando Simone con un cenno della mano. Mi lanciava degli strani sguardi quella ragazza, quasi fosse intimidita da me. Le arrivavo all’incirca sotto il seno, a livello di altezza, eppure parevo Davide contro Golia.
Non appena la porta d’ingresso si chiuse con un tonfo, il silenzio calò nell’appartamento e mi accorsi che il mio livello di rabbia non era ancora scemato. Mi sentivo quasi tradita, non sapevo bene come spiegarlo ma avevo davvero pensato che Simone si fosse reso conto di aver fatto una cazzata con la storia della dubbia paternità e che finalmente avesse messo la testa apposto. Invece niente. Non era minimamente cambiato e non lo sarebbe mai stato.
«Senti Ven, davvero. Non è successo niente,» si giustificò ancora, portandosi una mano ai capelli e scompigliandoli ancora di più.
Mi voltai soltanto per guardarlo con profonda delusione. «Dopo tutto quello che stiamo facendo per te,» iniziai, trattenendo a stento la rabbia che stava per implodere. «Dopo quello che io e Jamie rischiamo ogni giorno, esaminando pratiche su pratiche, interrogando i testimoni, cercando a destra e a manca articoli che potrebbero provare la tua innocenza, tu rischi di rendere tutti questi sforzi vani unicamente per soddisfare la tua libido.»
«Ti ho detto che non è come pensi tu.» Stavolta il tono di voce si era alzato e una punta di rabbia si percepiva distintamente.
Sbuffai sonoramente, infastidita da quei suoi tentativi di darmi contro. Era dalla parte del torto, doveva riconoscere i suoi errori. «Non mi importa!» insistetti, quasi urlando. «Hai fatto un errore, probabilmente soltanto per farmi un dispetto. Ora ne pagherai le conseguenze. Se qualsiasi notizia trapelerà, sarà unicamente colpa tua.»
Non rispose, anzi, il silenzio calò inesorabile all’interno della cucina e lasciò crepitare l’elettricità tra di noi. Simone era ancora in mutande, anche se la rabbia ormai aveva offuscato persino i miei poveri ormoni che facevano di tutto per ricordarmi quel piccolo/grande particolare.
Il calciatore posò le mani sull’isola della cucina, e tese le braccia sbuffando nervoso. Il mio sguardo cadde immediatamente sulle vene sporgenti che serpeggiavano lungo l’epidermide e correvano sino ai bicipiti.
«Come ti è andata ieri la cena con l’avvocato?» mi chiese di punto in bianco, lasciando che le sue iridi castano scuro, incupite dalla rabbia, scivolassero sul mio corpo ancora coperto dal mio ridicolo pigiama coi maiali.
Di punto in bianco avvampai, tentando di rimuovere il nitido ricordo di quel bacio sotto il portico dell’appartamento. Era stato davvero una cosa inaspettata, per nulla prevista, eppure era successa.
E ti è anche piaciuta.
«È andata bene,» risposi monocorde, per non far nascere in Simone il pretesto di schernirmi ulteriormente.
Lui in risposta non schiodò lo sguardo dalla sottoscritta, anzi, assunse un’espressione sospetta e scocciata. In una frazione di secondo i nostri ruoli si erano invertiti ed ora era lui che mi faceva il terzo grado, anche se non ne aveva assolutamente il diritto.
«Secondo me gli piaci,» sentenziò plateale, quasi avesse fatto la scoperta del secolo.
Da bravo avvocato qual ero, tentai di mascherare ogni emotività che mi legasse al ricordo di quella sera, soprattutto alle parole di James che ancora mi riecheggiavano nella testa.
«Non dire scemenze,» lo anticipai, scrollando la mano come se avessi voluto cacciar via un pensiero ostile. «Jamie e io siamo solo colleghi che lavorano per salvare il tuo bel culetto.»
Fu allora che Simone sfoderò quel sorriso sghembo che mi metteva i brividi.
«Allora lo ammetti che ho un bel culo…» osservò divertito, cominciando a camminare per la cucina come se stesse sfilando per Armani.
In quanto ad ego, ce l’aveva talmente grande che da solo si sarebbe gasato ad un concerto dove cantava solamente lui.
«Sicuramente è meglio della faccia,» sghignazzai, per non dargliela vinta.
Stavo mentendo, era più che ovvio. Anche un cieco avrebbe riconosciuto la bellezza di Simone ad un miglio di distanza, ma il mio orgoglio valeva più di ogni altra ovvietà e perciò continuavo a mentirgli.
Simone s’incupì di nuovo, dopo lo smacco che gli avevo dato, ma non demorse. «Sei soltanto gelosa,» puntualizzò, cominciando a camminare verso la sua stanza.
Fino a pochi minuti prima discutevamo della sua irresponsabilità nei confronti miei e di Jamie come suoi avvocati, e dieci secondi dopo litigavamo e basta.
Lo seguii sin dentro la sua stanza con passo elefantiaco che significava soltanto una cosa: se avesse continuato di questo passo, lo avrei ucciso con le mie stesse mani. Erano un paio di notti che pensavo a dove poter nascondere il cadavere.
«Io? Gelosa? Di te?» ridacchiai, come se potesse mai esistere una possibilità del genere.
Simone parve offeso da quel mio scherno, ma non la smise. «Certo. Tu disprezzi tanto, ma se ne avessi l’occasione, ci usciresti con uno come me. Voi donne siete tutte uguali. Predicate tanto di trovare un uomo intelligente e gentile, ma se vi capita ‘sto pezzo de manzo davanti,» e si indicò quasi fosse l’ultimo uomo sulla terra. «Vi sfiderei a resistere.»
Quanto poteva essere odioso, non saprei spiegarlo. La sua vanità raggiungeva ogni giorno livelli inimmaginabili e più che smontargli l’ego, non sapevo più che pesci pigliare. Si vedeva lontano un miglio la differenza d’età tra James, un avvocato in carriera, gentleman, forbito ed educato, e Simone. Gli aggettivi per lui li avevo finiti.
«Non fare di tutta l’erba un fascio, bello,» frenai immediatamente il suo entusiasmo. «Non perché ci sono donne che si venderebbero l’anima pur di passare una notte con Simone Sogno…»
«Una mi ha offerto anche la sua villa al mare,» puntualizzò lui, interrompendomi.
Feci finta di non aver sentito, altrimenti la tentazione di spingerlo fuori dalla finestra cominciava a farmi prudere le mani dalla voglia.
«Stavo dicendo,» ripresi. «Non perché alcune donnette siano così poco rispettose di loro stesse da mettere in gioco tutto pur di passare una notte con te, significa che tutte lo debbano desiderare. Infatti, per me sarebbe un incubo,» conclusi.
«Te credo, sei lesbica,» osservò lui piccato.
Dopo quella risposta, un cuscino gli arrivò dritto in faccia con tutta la forza di cui ero capace. Va bene sopportare due o tre offese dette alle otto del mattino, un altro era arrivare al limite e far defluire la rabbia direttamente sotto forma di fumo dalle orecchie. Come una teiera che bolle.
«Ahia!» piagnucolò subito lui, tenendosi il naso.
Soddisfatta della mia mira, cominciai a schernirlo. «È solo un cuscino, non un sasso. Anche se avrei voluto fosse il contrario.»
Simone si sedette sul letto sempre tenendosi il naso. «Ftronfa, m’hai prefo con la chiufura lamfo!» si lamentò, spostando quel tanto la mano da lasciarmi intravedere rivoletti di sangue che gli colavano lungo il mento.
Non che stessi aspettando il momento più propizio, ma il mio lato di crocerossina provetta tentò di subentrare alla Ven cinica e distaccata, spodestandolo direttamente e facendomi correre nel bagno-barra-distilleria di Simone a cercare disperatamente qualcosa per tamponargli l’uscita di sangue.
L’odore pungente di limoncello mi fece girare la testa per un attimo, poi mi ripresi e cominciai a sbattere gli sportelli come una forsennata alla ricerca delle garze.
«Ftai ferfando fueste?» mi sorprese alle spalle, tenendosi ancora il naso e reggendo nell’altra una bustina con delle garze.
Afferrai le medicazioni con un gesto lampo, sorprendendomi addirittura di me stessa, poi afferrai Simone con forza e lo riportai nella sua stanza facendolo sedere sul bordo del letto per poi medicarlo.
Oddio, adesso se uccido il mio cliente, verrò sicuramente licenziata.
Non penso che un po’ di sangue dal naso possa ucciderlo.
Che ne sai? Magari è emofiliaco! Avrò tutta la squadra dei “Rossi” addosso, compreso lo studio Abbott&Abbott.
È l’Arsenal.
E in più la famiglia Sogno! Gabriele mi ucciderà, ne sono sicura. Sembra tanto un ragazzo per bene, ma sotto sotto è una specie di mafioso, vedi te.
Ora piantala di vaneggiare e vediamo di fermare il sangue.
Okay, hai ragione. Al massimo so già dove nascondere il cadavere.
«Non alzare la testa,» gli suggerii. Simone si lasciò guidare senza opporre resistenza e stranamente non se ne lamentò. Mi avvicinai con cautela, mentre lui allargava le gambe per permettermi di sfiorargli il viso con le mani e afferrare le garze.
Cominciai a tamponare il labbro e il mento, completamente inzuppati di sangue, e ripulii tutta la pelle che rimase comunque un po’ rossa. Mi feci guidare dall’istinto, dalle innumerevoli volte in cui Robbeo aveva fatto a cazzotti – cioè, le innumerevoli volte in cui il mangiacaccole le aveva prese di santa ragione dal tizio delle ragazze che 'stalkerava' – e tentai di fermare l’emorragia creando dei piccoli cilindri di garza che poi gli infilai in ognuna delle due narici.
Mentre gli medicavo il naso, tentai in tutti i modi di non fare caso al suo sguardo completamente rivolto alla sottoscritta. Non poteva essere altrimenti, visto che non poteva vedere nient’altro perché la testa doveva rimanere immobile, ma cominciai a sentirmi in soggezione.
Già di norma quegli occhi avevano qualcosa di strano, di nascosto, qualcosa che non sapevo spiegarmi. Eppure erano così anonimi, senza una particolare luce che brillasse. Erano quasi soltanto oscurità e nient’altro.
Deglutii continuano ad tamponare l’efflusso di sangue, ponendogli una mano alla base del viso e avvicinandomi ancor più al suo corpo. Percepivo distintamente la stoffa dei pantaloni del mio pigiama che strusciava contro le gambe nude di Simone e feci appello a tutto il mio autocontrollo per riuscire a non pensare al fatto che indossasse solo un paio di boxer.
Sotto il palmo della mia mano, avvertivo la mascella volitiva e la pelle liscia tanto che dovetti trattenermi dal lasciar scivolare la mano solo per scoprire se avesse o meno un filo di barba. Più lo osservavo da vicino, e più sembrava ancor più giovane di quanto dimostrasse.
Se uscissi con lui, ti arresterebbero per pedofilia.
Ha più di diciotto anni, quindi stai zitto.
Allora ammetti che vorresti uscirci insieme.
Mi sarei volentieri lobotomizzata in quel momento, perché il mio Cervello – sotto il sicuro appoggio dell’Ormone che era tornato a farsi sentire dopo cinque anni di assenza – non aiutava di certo, come non aiutavano le mani di Simone che di punto in bianco si posarono strette attorno alle mie gambe.
L’aria mi mancò tutta insieme, perché i suoi occhi adesso fissavano direttamente i miei senza alcun pudore. Quello sguardo mi avrebbe uccisa, ne ero più che certa, ormai ne ero soggetta quasi come i girasoli a mezzogiorno. Ovunque andavano quelle iridi, io le avrei seguite.
Mi morsi il labbro inferiore, indecisa se caricare il colpo e ammollargli un sonoro schiaffo che avrebbe fatto voltare anche i passanti di Soho, ma il vederlo sotto di me, con gli occhi spalancati e quella garza che gli usciva dal naso, mi fece rammollire.
Sembrava così indifeso, con il setto rosso e gonfio e tutto il viso ancora un po’ sporco.
Tentai di farmi forza e togliere la mano dalla sua mascella, reprimendo la voglia improvvisa che avevo di accarezzarlo. Intensi brividi mi attraversarono la spina dorsale, quando le mani di Simone cominciarono a viaggiare lentamente lungo le mie gambe ancora avvolte dalla stoffa del pigiama.
Perché mi faceva quell’effetto? Non ero solita perdere completamente il controllo di me, io che ero stata sempre una persona più che razionale.
Aveva ragione lui, siete soggette ad un bel corpo. Altro che uomini intelligenti e principi azzurri.
Avrei voluto urlargli che si sbagliava, che non mi interessava affatto un uomo tutto muscoli e niente cervello o peggio, un bambinone che aveva ancora bisogno del padre per radersi e che si portava a letto tutto ciò che respirava.
«Simo? Ven?»
La voce di Sofia mi ridestò immediatamente dai miei pensieri, e proprio nel momento in cui vidi la nuvola di capelli biondi come raggi di sole che irrompeva nella stanza del fratello, feci appello a tutte le mie forze e spinsi via Simone quasi non ci fosse un domani.
Gli sentii emettere un verso che era a metà fra un grugnito ed un lamento. Alla fine si ritrovò gambe all’aria mentre io mi spalmai sulla cassettiera, all’angolo opposto della stanza in cui si trovava il letto di Simone.
Sofia ci trovò entrambi arruffati e mezzi nudi – cioè, Simone era nudo-nudo, io ero diciamo “messa a nudo”, che è diverso – e le si stampò in viso un sorriso complice che mi fece rabbrividire. Altro che dolce e ingenua ragazza, ero più che sicura che Sofia avesse un cervello votato al Male sotto quel casco di folti capelli biondi.
«Ho interrotto qualcosa?» ridacchiò, cristallina come acqua di sorgente.
Simone tentò di rimettersi seduto senza sporcare il letto di sangue. «No! No!» mi affrettai a rispondere, raggiungendola sulla soglia e facendo per andarmene in camera, possibilmente a sotterrarmi da sola con una pala e tanta terra.
Sofia mi bloccò con lo sguardo. Sì, diciamo che non solo Simone era dotato di quella strana influenza visiva che aveva su di me. «Ma cosa è successo?» sorrise maliziosa, aspettando che le facessimo chissà quale confessione.
«Cofa crefi che fia fuffeffo?!» ringhiò Simone arrabbiato. Si tastò con le mani le condizioni del naso, poi mi fissò furente. «Quefta paffa mi ha lanfiato un cuffino adoffo e mi ha roffo il nafo!» protestò.
Roteai gli occhi al cielo e misi entrambe le mani sui fianchi. «Ti ho appena sfiorato, quale rotto! Tra dieci minuti avrai lo stesso naso orrendo che avevi prima che ti colpissi. Anzi, magari è pure migliorato!»
L’entusiasmo di Sofia si spense non appena comprese che stavamo litigando come il primo giorno, così sospirò sconfitta.
«La fenti, Fofi? E io dofrei fifere con quefta paffa che affenfa alla mia vifa?» cominciò a fare il melodrammatico. Mi passai una mano sul viso e cercai un po’ di conforto in Sofia. Almeno non era ritardata come il fratello.
«Spiegatemi cosa è successo,» disse lei confusa.
A quel punto mi parve giusto metterla al corrente anche della scappatella notturna di Simone con la francesina, puntualizzando immediatamente la negligenza di Mr. Sogno.
«Non abbiamo faffo nulla!» si giustificò lui.
Lo fulminai con lo sguardo. «È indifferente, scemo! Ad un giornale non interesseranno questi particolari. Riescono a montare storie assurde sul minimo sospetto, figuriamoci quando questo è più che fondato!»
Simone allora cercò aiuto dalla sorella. «Ha ragione, Simo. Sei stato superficiale.»
Soddisfatta gli lanciai uno sguardo da “Te l’avevo detto”, ma lui non abbandonò quell’espressione tradita che aveva avuto fin da quella stessa mattina, anzi, dal giorno prima nella sua cinquecento blu metallizzata.
«Questo non farebbe fuffeffo se tu non fossi uscita con l’avvocafo!» mi accusò senza alcuna remora. «Dovevi tenermi d’occhio, è colpa fua!»
Ah! Adesso stava letteralmente esagerando. Non era possibile che mi accusasse della sua notte brava solo perché io non ero rimasta a casa sua a fissarlo mentre dormiva.
Inconcepibile!
«Sei solo un bamboccio viziato! Scendi dal tuo piedistallo e cresci, Dio mio!»
Non era una risposta da avvocato, dovevo ammetterlo, ma ero arrivata ad un punto di non ritorno. Adesso mi immaginavo Simone direttamente nel sacco per cadaveri.
«Sei uscita davvero con James?» mi chiese Sofia, quasi delusa.
Simone ghignava soddisfatto, perché sicuramente un po’ di colpa era stata anche la mia, dovevo riconoscerlo. La mia uscita clandestina con James aveva quasi messo a repentaglio la riuscita del caso ed io non me lo sarei mai potuto permettere.
«Sì,» aggiungi, ammettendo la mia parte di colpa.
«Ah!» urlò Simone, puntandomi un dito accusatore contro.
Il suo entusiasmo però fu smorzato dal gridolino ultrasonico di Sofia che cominciò a saltellare per tutta la stanza come una molla impazzita. «Oddio! Oddio! Oddio!» gridò in preda all’estasi, poi si fermò e mi afferrò le mani.
I suoi occhi azzurri brillavano come due zaffiri nella notte. «E com’è andata? Di cosa avete parlato? Vi siete baciati?»
Lanciai uno sguardo a Simone che era rimasto col dito a mezz’aria, completamente pietrificato.
«Ma hai fentito che mi ha lasciato folo?» protestò, ma Sofi lo zittì con un gesto della mano.
«Sì, sì, ti voglio bene, Simo,» disse lei, senza dagli peso, poi tornò a fissarmi sempre con quell’euforia genuina. «Allora?»
Arrossii di colpo perché non mi ero minimamente preparata a dover fare il resoconto della mia serata a qualcuno. La mia “storia” con James, se mai si potesse definire in questo modo, doveva rimanere un segreto all’interno dell’ufficio, ma Sofia tecnicamente non ne faceva parte. E Celeste era così lontana.
A chi altri avrei potuto raccontarlo?
Purtroppo o sguardo furente di Simone m’impedì di concentrarmi.
«Possiamo parlarne da un’altra parte?» le chiesi, sorridendo.
Sofia annuì complice. «Vatti a vestire,» mi suggerì maliziosa.
«Perché?» le domandai scettica. Era domenica e l’unica cosa che avrei desiderato fare sarebbe stato rotolarmi nel letto fino alla sera.
«Cara la mia Ven,» disse Sofi misteriosa. «Oggi si va a fare shopping! Ti serve un vestito per il ballo di Cambridge e io so già dove andare.»
Le sorrisi sperando che quella giornata tra donne non si trasformasse in un vero e proprio interrogatorio sulla cena con James, ma non aggiunsi altro e mi chiusi in bagno per prepararmi.
 
Con la borsa in spalla, afferrai il giubbotto e mi diressi verso la porta d’ingresso aspettandomi Sofia nel suo bellissimo impermeabile rosso ciliegia.
Ovviamente mi sbagliai.
Oltre la bella cantante, c’era un Simone dall’aria annoiata e stizzita, con le mani nelle tasche del cappotto e i capelli più spettinati di quando si era svegliato. Aveva tolto le garze, ma il naso era ancora piuttosto rosso e gonfio. Sembrava che gli avessi dato un pugno.
È la vendetta del karma.
Grazie karma.
«E lui?» chiesi, indicandolo scioccata.
Sofia fece spallucce e continuò a guardarlo. «Ci serve un parere maschile per scegliere un vestito ed io non mi fido dei commessi gay di Abercrombie,» rispose spicciola.
Era una scusa piuttosto traballante, soprattutto perché qualsiasi ragazzo si sarebbe evirato pur di accompagnare la sorella e la sua amica a fare dello shopping di domenica mattina. C’era qualcosa sotto, lo sentivo.
«Andiamo?» domandò Sofi e noi annuimmo seguendola giù per l’ascensore.
Regent Street di domenica mattina era un fiume di gente. Era chiusa al traffico proprio perché conduceva ad Oxford Circus e a Piccadilly e lì si concentrava la maggior parte dei negozi più famosi della capitale.
Camminare sotto il sole tiepido di metà novembre mi fece ricordare quelle passeggiate lungo le vie di Roma, quando ancora andavamo al liceo, ed io, Cel e il Mangiacaccole facevamo una capatina da Giolitti [1] per mangiare il più buon gelato di tutta la città. Io adoravo il gelato, soprattutto l’inverno.
Zigzagare tra la gente era ormai uno sport che praticavo anche lì a Londra, soprattutto quando dovevo correre per prendere la Tube senza sgualcire uno dei pochi cambi che mi ero portata da casa.
Rimasi notevolmente sorpresa dalla tranquillità con cui i passanti guardavano fissi Sofia e Simone, sicuramente riconoscendoli come personaggi dello spettacolo e del mondo del calcio, ma senza tutto quel bisogno animalesco – tipicamente italiano – di urlare “Ao’ me posso fa ‘na foto?” e strattonare i propri divi costringendoli a pose ridicole e a richieste di dediche su ogni pezzo di carta disponibile, dallo scontrino alla carta igienica del water.
«A cosa pensi?» mi chiese Sofi, da dietro i suoi Chanel marrone chiaro.
Sospirai e mi lasciai cullare dal tepore di quell’insolita giornata soleggiata. «A come gli inglesi siano rispettosi dell’altrui persona,» le spiegai tranquilla. «A Roma sareste stati obbligati a girare con la scorta.»
Sofia annuì capendo quello che intendevo. «Anche se papà è italiano, io, Simo e Gabe siamo nati in Inghilterra e questo fa di noi degli inglesi D.O.C.,» disse, ed io mi sorpresi perché pensavo si fossero trasferiti da piccoli. «Però il più delle volte rimpiango questa cosa. Io amo l’Italia e penso che non c’è altro paese con più storia e più calore, se sai cosa intendo.»
«Credo di sì.»
«Sai, lo vedo già quando andiamo a trovare i nonni a Roma. Anche se non ci vedono mai, è come se non fossimo mai andati via da casa. Invece i genitori di mia madre sono freddi, così come lo è il clima di questo Paese,» sospirò.
Non avevo mai pensato a questo particolare. Sì, ero da poco a Londra anche se ci avevo studiato, ma un conto erano cinque o dieci anni, un altro era abitarci da una vita intera.
«Simo invece è diverso,» mi sussurrò di punto in bianco la biondina. Il calciatore camminava qualche passo dietro di noi, con le spalle curve e l’espressione da carcerato del braccio della morte. Non riuscivo a capire il perché fosse venuto con noi se non ne aveva voglia. Vederlo con quell’aria da cane bastonato mi toglieva tutta l’allegria.
«Cioè?»
Sofia mi sorrise. «Non so perché, ma è l’unico di noi tre che abbia ereditato quel calore e quella gioia di vivere tipici della tua penisola.»
«Non lo so proprio,» risposi, meravigliandomi di quella rivelazione.
«Sarà anche perché ogni occasione è buona per tornarci,» mi rivelò, senza abbandonare quel sorriso elfico ed enigmatico.
Lasciammo in sospeso quel discorso non appena Sofia si fermò davanti ad un grande negozio con le migliori marche d’abbigliamento ed entrammo senza indugi. D’improvviso fummo assalite – e non era una metafora – da tre commesse che avevano l’aria di essere amiche d’infanzia di Sofia, soprattutto dal modo in cui le parlavano.
«Quanto tempo, Sofi!»
«È da molto che non ti fai vedere!»
«Sei in tempo per la nuova collezione!»
E questi furono solamente i discorsi iniziali. Lanciai uno sguardo di sbieco a Simone che continuava a sbuffare con aria contrita.
«Si può sapere perché sei venuto?» gli chiesi, mentre la sorella continuava a scambiare convenevoli con quelle tipe.
Lui fece spallucce e non mi rispose.
Odioso.
Non appena smisi di parlare con Simone, mi ritrovai addosso quattro paia di occhi e le relative teste che confabulavano guardando nella mia direzione.
Fui pervasa da un senso di puro terrore.
«Tesoro, puoi venire da questa parte?» mi disse la prima commessa, bionda e oca.
Guardai Sofia per chiederle silenziosamente spiegazioni, ma lei si limitò ad annuire come se quello fosse parte di un “bene superiore” a cui non potevo sottrarmi.
«C-Cosa?» dissi, rivolgendomi allora a Simone che si limitò a seguirci e a sbracarsi su una delle poltroncine in pelle poste davanti ai camerini.
«Allora,» disse la seconda commessa, rivolgendosi però a Sofia e non alla sottoscritta. «Direi di cominciare con qualcosa di semplice, magari sui toni dell’azzurro così riprendono i suoi occhi, poi vedere qualcosa di più sofisticato.»
«Con gli accessori abbinati?» chiese Sofi preoccupata.
«Ovviamente!» le rispose l’altra sorridendo.
Sofia lasciò cadere la testa all’indietro e cominciò a ridere genuinamente. «Posso venire a sbirciare?» Dopodiché tutte e quattro svanirono dal reparto camerini e mi lasciarono sola con gli sbuffi di vento che provenivano da un Simone sempre più annoiato.
Mi sedetti accanto a lui completamente esausta, e nemmeno avevamo cominciato con le prove.
«Si può sapere che hai? Se sbuffi un altro po’ lanceranno l’allarme uragano.»
Lui però non sorrise, ma mi guardò fisso. «Non sono affari tuoi, assassina di nasi altrui,» rispose offeso.
«Ancora con quella storia? Mi dispiace, va bene?» sbottai infastidita.
D’accordo che la cuscinata che gli avevo tirato gli aveva quasi rotto il setto nasale, ma pareva un po’ troppo esagerato questo suo comportamento.
«Mpf, te le puoi tenere, le tue scuse,» disse nervoso.
«Quanto sei acido,» sibilai.
«E tu sei una bugiarda,» mi apostrofò lui.
Fu allora che non ci vidi più. Okay che quel negozio non era il luogo adatto per una scenata, però non mi sarei mai e poi mai fatta mettere i piedi in testa da TermoSifone.
«Ah, io?» ringhiai. «Non tu che ti sei scopato la francesina quando io dormivo nell’altra stanza, maiale!»
Lui si voltò verso di me con lo sguardo furente. «T’ho detto che non è successo nulla.»
«Non me ne importa niente, guarda.»
Simone però non demorse. «Almeno io dico la verità. Tu cosa hai fatto con l’avvocato, eh?»
Sgranai gli occhi completamente spiazzata dalla domanda. «È per questo che sei nervoso?» chiesi. «Perché non sai cosa sia successo tra me e James?»
Evidentemente era venuto solo per origliare la conversazione mia e di Sofia sulla cena con Jamie, ecco il motivo della sua disponibilità.
«Ma fammi il piacere!» sbottò ridendo. «Non credere di essere talmente importante da condizionare le mie giornate, Lil’Elf! Se sto così è per la partita di questa sera e per il naso che mi hai quasi rotto con i tuoi modi da camionista!»
A quel punto scattai in piedi pronta a inveire platealmente contro di lui, quando le tre commesse più Sofi tornarono con un carrello pieno di vestiti.
«Pronta a chiuderti in camerino per le prossime due ore?» sorrise una di quelle.
Oh, Dio, aiutaci tu.
Provai dapprima un vestito nero semplice, con la gonna che scendeva sotto il ginocchio. Aveva il taglio classico e mi piaceva parecchio, con una scollatura semplice che risaltava il seno. Uscii trionfante per aver trovato il vestito ideale al primo cambio, quando tutti mi fissarono sbalorditi.
«Che c’è?» sbottai.
«È un po’…» disse una commessa.
«Diciamo…» si aggiunse l’altra.
«Dovrei trovare le parole adatte…» sospirò l’ultima.
Sofia mi fissava ma non osava proferire parola. Possibile che nessuno sapesse dirmi cosa ne pensava?
«Te fa sembra’ ‘na novantenne!» commentò acido Simone, ancora seduto sulla poltroncina. Ovviamente soltanto Sofia capì l’allusione detta in romano.
«Simo!» lo rimproverò, ma io ero già rientrata nel camerino a provare il secondo vestito.
Ti fai condizionare così dal suo giudizio?
In effetti, mi stava male, non me ne frega niente di quello che dice Simone.
Uscii stavolta con un abito di tulle, fermato con una spilla sotto il seno a fascia e una gonna abbastanza ampia, ma sempre sopra il ginocchio.
Gli sguardi erano meno severi, questa volta.
«Carino.»
«Ti fa sembrare un confettino!»
«Molto elegante.»
Ormai sapevo però quale fosse il giudizio che contasse di più lì dentro. Anche se Simone aveva lo stesso tatto di una pentola a pressione, ahimè era l’unico capace di dirmi la verità.
«Sembra il tendone di un circo,» stavolta lo commentò in inglese.
Quello non fu l’unico vestito che mi bocciò nell’intera mattinata. Ne provai una quindicina, nell’arco di un’ora e mezza, e cominciavo ad essere stufa di sentirmi dire in continuazione che avevo un sedere che era una portaerei o che le mie caviglie fossero gonfie come quelle di nonna Annunziata o che, ancora, avessi la pancia di una donna incinta.
«Preferirei morire che uscire con una con quel vestito,» fu l’ultimo dei suoi commenti acidi da donna mestruata.
Okay che aveva una partita importante quella sera, per quanto me ne fregasse qualcosa, ma non aveva il diritto di umiliarmi in quel modo.
«Mi arrendo, andiamocene,» sbuffai, sedendomi accanto a Simone e cercando di appiattire la gonna a palloncino che si gonfiava ogni volta che mi sedevo.
«Sei sicura che non vuoi provare nient’altro?»
«Quello rosa ti stava bene.»
«A me piaceva quello color avorio»
Ero sinceramente stufa e mentalmente stanca di provare abiti da cinquecento sterline solo per andare a quella maledetta festa che odiavo. Soltanto perché James si era offerto di farmi da cavaliere ci sarei andata, altrimenti avrei volentieri rinunciato o mi sarei finta malata.
«Sicura di non voler provare nient’altro?» mi chiese Sofia, un po’ triste per non essere riuscita ad aiutarmi.
Scossi la testa sconsolata, lanciando uno sguardo a Simone che sicuramente avrebbe sorriso per schernirmi, visto che non mi stava mai bene niente. Invece notai che fissava uno dei manichini e i suoi occhi sondavano veloci il resto del negozio.
Per un momento sembrava aver abbandonato quell’aria annoiata e schiva. Pareva interessato a ciò che lo circondava.
«Direi di andarcene. Mi cambio e torniamo a casa,» dissi, alzandomi e dirigendomi verso il camerino. Le commesse allora presero lo stand con i vestiti scartati e si diressero a metterli apposto, mentre Sofia uscì un secondo dal negozio perché le squillava il cellulare.
«Aspetta,» mi disse Simone, fermandomi con un braccio.
Rimasi a fissarlo mentre si dirigeva verso la vetrina e spogliava letteralmente il manichino sotto lo sguardo basito di tutti i passanti.
«Che fai? Sei matto?» gli urlai, sperando che le commesse non lo denunciassero.
Tornò con un tubino nero aggricciato, di tulle trasparente foderato. In seguito sparì di nuovo e riapparì con una giacca color champagne dai bordini neri, un paio di scarpe aperte dietro a pois e una borsetta abbinata.
«Tieni,» mi disse, mollandomi in mano tutta quella roba e indicandomi il camerino con uno sguardo.
Rimasi pietrificata. Era stato per caso posseduto dal demone di Dolce&Gabbana? Da quando si interessava di moda?
Notando che lo guardavo come un alieno, Simone sbuffò e si rimise le mani in tasca. «Una tizia con cui uscivo faceva la consulente di moda per un’attrice. Ogni volta mi riempiva la casa di riviste e mi faceva una testa tanta con questi abbinamenti. Magari sono serviti a qualcosa i minuti in cui fingevo di ascoltarla.» E sorrise.
Un particolare di Simone ancor più disarmante del suo sguardo, era il sorriso. Ma non di quelli sghembi o monelli che faceva quando mi sfidava. No, quelli erano di routine e ormai non mi facevano più effetto. Io parlavo di quei sorrisi sinceri, di quando era divertito per una cosa, oppure semplicemente era felice.
Quei sorrisi.
Mi diressi nel camerino e cominciai a spogliarmi, abbandonando il vestito rosato che mi aveva proposto una di quelle commesse e che mi faceva sembrare una balena incinta. Scalciai via anche i tacchi e mi infilai le scarpe scelte da Simone, ammirandole allo specchio. Sicuramente mi slanciavano, soprattutto il colore e la forma. Finalmente qualcosa che mi facesse sembrare più alta di due pollici e mezzo.
Cominciai ad indossare anche il tubino, quando mi accorsi che non riuscivo a tirare su la chiusura lampo. Tentai a contorcermi e a saltellare come un artista circense, ma non c’era verso di farla arrivare fino in cima. Scostai delicatamente la tenda del camerino, ma nessuna delle ragazze era ancora tornata.
C’era solo Simone che sbuffava annoiato e picchiettava il piede per terra.
«Hai finito?» chiese dopo un po’.
«Qu-Quasi!» mi lamentai, tentando un’ultima volta di far salire quella maledetta zip.
Alla fine dovetti arrendermi all’evidenza, e per quanto mi scocciasse chiedere aiuto a quel decerebrato, ero costretta.
Con la testa spuntai fuori dal camerino e cercai il suo sguardo. «Mi aiuti?» gli dissi e lui sgranò gli occhi sorpreso.
Non era l’unico ad esserlo.
Si avvicinò constatando in cosa dovesse aiutarmi, così mi spinse lievemente in avanti ed entrò con me nel camerino. Le sue mani afferrarono la stoffa del vestito e la unirono per tirar su meglio la chiusura lampo.
Seguivo i suoi movimenti dallo specchio, così come la sua espressione concentrata nel fare una cosa così semplice. Sentii il rumore della zip che saliva e le sue mani che si allontanavano dalla stoffa per poi lasciarmi spazio. Mi guardai attentamente, spostandomi anche di profilo.
«Ti manca questa e questa,» mi disse lui, porgendomi la borsa e la giacca.
Le indossai e mi osservai di nuovo con tutto il completo addosso. Mi costava molto ammetterlo, ma Simone c’aveva preso. Gli era bastata soltanto un’occhiata al manichino in vetrina e mi aveva proposto un abbinamento che quelle tre sgallettate non si erano nemmeno sognate di partorire.
Salii con lo sguardo sino ad incontrare la mia figura intera riflessa nello specchio, con Simone alle mie spalle.
Sembrate una coppia.
Taci.
«Carino,» dissi, anche se avrei dovuto costruirgli una statua di bronzo per avermi trovato un vestito decente per la festa a Cambridge.
«È l’unico che non ti fa sembrare un Puffo.»
«Mi hai salvato per la festa, grazie,» gli dissi.
Sicuramente non si meritava un ringraziamento da parte mia, visto che aveva quasi mandato all’aria tutto il caso che stavamo seguendo per suo conto. In quell’occasione però, se lo meritava.
Lui fece spallucce, sempre con quell’aria nervosa.
Calò un silenzio imbarazzante in quel camerino, soprattutto perché non c’era più motivo che Simone vi rimanesse. Lo spazio era poco, l’aria ancora di meno, e stavo cominciando a sudare.
Che vuole ancora?
Che ne so, continua a fissarmi!
Secondo me aspetta che tu gli dica di toglierteli, quei vestiti.
Ma smettila!
Ammetti che quando ti accarezzava le gambe, ti eri sciolta come burro!
Burro? Magari, mi ero liquefatta a tempo record.
«Ti ci accompagna l’avvocato, alla festa?» chiese di punto in bianco, fissandomi attraverso il riflesso dello specchio.
Oscurità. Quella fu l’unica parola che mi venne in mente guardando i suoi occhi.
«Sì, me l’ha proposto ieri,» risposi tranquillamente, togliendomi la giacca prima che s’inzuppasse di sudore.
Vidi la mascella di Simone irrigidirsi, così come tutto il suo corpo. «Quindi non era una cena di lavoro.»
Alzai lo sguardo verso di lui completamente scioccata. Mi stava facendo il terzo grado? Chi si credeva, mio padre?
«È stato quel che è stato,» tagliai corto.
Non era a lui che dovevo spiegazioni. Simone Sogno era il mio cliente, il mio coinquilino ma niente di più. La mia vita privata doveva rimanere tale e lui non aveva alcun diritto di chiedere.
Come un crudele scherzo del destino, in quel momento d’imbarazzo totale il cellulare mandò un segno. Un sms in arrivo.
Afferrai la borsa da sotto la coltre di vestiti e lessi il testo:
 
Buongiorno spaghetti-girl!
Spero non ti abbia fatto fare troppo tardi ieri sera, altrimenti avrò il tuo riposo sulla coscienza. Ho delle notizie da darti in merito all’incontro con la Cloverfield. Te ne parlerò domani a lavoro.
Bye!
 
Ps: non vedo l’ora di rivederti.
 
Arrossii come una povera pazza e mi sentii in colpa sapendo che Jamie mi mandava quei messaggi di buongiorno mentre mi trovavo in uno spazio di pochi metri con uno dei calciatori più forti d’Inghilterra, nonché mio cliente e coinquilino.
Allora ammetti che te lo faresti.
Non sei d’aiuto. Per niente.
«È lui, vero?» chiese, con tono accusatorio.
Decidi di rispondere più tardi, anche perché Simone sembrava volermi incenerire il cellulare.
«Non sono affari tuoi,» tagliai corto. «Aprimi la zip così compro queste cose e ce ne andiamo.»
«Ti ha baciata, vero?» continuò con le domande, senza muovere un muscolo per fare ciò che gli avevo detto.
Mi voltai di scatto per guardalo direttamente in viso, senza l’ausilio dello specchio. «Che problemi hai con tutte queste domande? Se sei nervoso per la partita, non scassare le scatole a me!» gli dissi.
Non potevo ammettere di fronte a Simone che i suoi sospetti erano fondati, che James mi aveva baciata anche se la nostra relazione sarebbe stata clandestina.
«Tsk! Scommetto che non ha usato nemmeno la lingua!» mi schernì, sorridendo sghembo e abbandonando per un momento quell’aria nervosa.
Ecco come faceva. Usava le prese in giro e mi sfotteva per dimenticarsi dei suoi problemi reali, per evadere dalle sue preoccupazioni.
«Non sono affari tuoi! E poi che ne sai, tu, che sei soltanto un poppante,» gli rinfacciai, giocando la solita carta della differenza d’età.
Simone incassò il colpo, ma vidi che l’espressione sul suo viso era furente.
Si posizionò allora alle mie spalle e afferrò i lembi del vestito. Finalmente si era deciso a chiudere quella ciabatta e a fare il suo dovere.
Come Svestitore ufficiale?
Sentii le sue dita armeggiare con la chiusura lampo, poi il familiare rumore della zip che scendeva. Qualcosa però, sul finale, andò parecchio storto. Sentii il suo corpo farsi sempre più vicino e quel familiare calore umano, così come il suo odore fresco e selvatico. Odore di lupo, quasi.
Mi afferrò per le spalle nude, con entrambi i palmi poggiati stretti su di esse. Chiusi gli occhi per non guardare Simone, per non incrociare quel suo sguardo carico di lussuria che ogni volta mandava in tilt tutte le mie buone intenzioni.
Perché non me lo stavo scrollando di dosso?
Per quale motivo non stavo urlando?
Devo seriamente risponderti?
Sentii una mano scostarmi i corti capelli a caschetto dietro un orecchio, mentre un soffio leggero mi fece rabbrividire. Lo odiavo in quel momento, ma allo stesso tempo non riuscivo a muovermi. Aveva il vestito quasi completamente aperto e chiunque con un po’ di sale in zucca avrebbe capito costa stava per succedere.
La mente è forte…
Ti prego non finirla questa frase.
«Un poppante sarebbe capace di questo?» mi sussurrò all’orecchio, lasciando che una cascata di brividi rotolasse lungo la mia schiena parzialmente nuda. Lentamente avvertii qualcosa di bagnato solcare il mio padiglione esterno e non appena realizzai che si trattasse della lingua di Simone, rischiai quasi di svenire.
Perché doveva essere così impulsivo e stupido? Perché non rispettava gli spazi altrui e doveva fare sempre di testa sua?
Passò la lingua lentamente su tutta la carne, soffiando subito dopo e lasciando che il freddo mischiato al bagnato mi facessero increspare la pelle. Dio, volevo morire. In quel preciso istante desiderai che un fulmine mi colpisse perché avrei dovuto ammettere a me stessa che quello che mi stava facendo era piacevole.
«O questo…» continuò, costringendomi ad inclinare il collo e cominciando l’assalto anche in quella zona. Ero completamente fuori di me, il mio corpo non rispondeva più ai miei comandi e mi sentivo svuotata.
Se fossi andata in cerca dei miei neuroni, avrei trovato il cartello “Torno subito”, datato nel Febbraio 2008.
«S-Smettila…» riuscii a formulare in un attimo di lucidità, sperando mi ascoltasse.
Lo sentii ridere contro la mia pelle, poi scostarsi un poco, soffiandoci ancora. «Come se non ti piacesse…»
Lo odiavo, con tutta me stessa, ma odiavo ancor più me perché non riuscivo a ribellarmi, ad andarmene. Simone riusciva a impedirmi di pensare, era l’unico con cui mettevo da parte la Ven comporta e razionale e lasciavo uscire la parte istintiva di me. Era come se riuscisse a evadere quel muro che mi ero costruita attorno, che sapesse come provocarmi, come lasciar uscire la vera me stessa. E mi faceva paura.
Tanta paura.
Mai nessuno prima era riuscito a farlo, soltanto Celeste.
Nell’istante in cui sentii la sua lingua lambire la clavicola, mentre le sue mani si spostavano dalle spalle lungo i fianchi, sfiorando accidentalmente o di proposito – ormai non capivo nemmeno più dove fossi – il mio seno, mi preparai all’ormai evidente cosa che sarebbe successa di lì a poco.
Ormai è andata.
A quel punto però, nello stesso momento in cui avevo detto addio a tutti i miei neuroni, Simone si fermò e finì di tirare giù la zip del vestito.
Spalancai gli occhi allibita, aspettando una spiegazione, ma mi trovai davanti al solito Simone con lo sguardo birichino e l’espressione da monello. Bastardo.
«Sarai anche brava a parlare, a sparare sentenze a destra e a manca, ma quello che conta sono i fatti,» asserì con quel sorriso sghembo. «Ti saresti fatta fare di tutto…» mi ricordò, con quella voce melliflua. «Da quello che tu chiami poppante.»
Dopo aver detto quella frase plateale, uscì dal camerino lasciandomi senza fiato, con i capelli stravolti e il vestito calante.
Mi portai entrambe le mani al viso con l’intensa voglia di piangere dalla rabbia. Ero furiosa, ma non con Simone. Dovevo smetterla di essere così accondiscendente, di predicar bene ma razzolare male. Il giorno prima James mi aveva baciata e nemmeno ventiquattr’ore dopo ero pronta a lasciarmi divorare dai baci di Simone.
Non è che ti stai prendendo una cotta?
E tu dov’eri finito in tutto questo tempo?
Un po’ qua, un po’ là. Ti ho lasciato in compagnia però.
Avevo voglia di urlare, di lanciare qualcosa e fracassarla, ma mi limitai a cambiarmi e a far finta di nulla. Ormai ero particolarmente brava in quello. La prima cosa da fare sarebbe stata dimenticarsi ciò che era successo nel camerino.
Occhio non vede, cuore non duole.
Sarebbe più giusto, “Cervello non ricorda, cuore fa finta di niente”.
Odiavo il mio sarcastico Cervello e per di più odiavo Simone. Ma quello ormai era un dato di fatto.

***
Bene, bene, bene... Chi è sopravvissuto fin qui?
U__U diciamo che se il capitolo precedente era tutto su Jamie, qui Simo ha voluto la sua parte (ehehehehheheh)
Insomma,  vi chiederete il perché di quel ''parte 1'' ma purtroppo -o per fortuna- il capitolo era in origine di 35 pagine, tant'è che ho dovuto tagliarlo altrimenti vi addormentevate qui sopra. Orsù, chi ha notato la nuova immagine di copertina?
:3 Certe volte quei due mi ispirano troppo, perciò devo lavorarci su u.u
Detto questo, andrei nel mio personale camerino, con  il mio personale Simo che mi sussurra nell'orecchio... *si scioglie*
Tornando seri, qualcuno di voi sta seriamente seguendo il caso? Qua sembra sia andato in secondo piano, ma non è così! Aahahhaah ci sono degli indizi che nessuna di voi deve tralasciare U.U
Bene, bene, bene, detto questo, alla prossima! :D


Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Until my last step (Daphne921);
- Unexpected as you (_caline);
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 9 (parte 2) ***




CAPITOLO 9
(parte 2)
betato da Nes_sie

Accompagnai Sofia per il resto della mattinata a fare shopping. Simone se la squagliò il più in fretta possibile dicendo che doveva correre agli allenamenti pre-partita, per poi partire con il pullman della squadra fino all’Emirates Stadium.
La partita sarebbe iniziata alle cinque di quello stesso pomeriggio, così Sofia se la prese comoda. Ci fermammo a mangiare in una paninoteca molto pittoresca, vicino Covent Garden, ma notai subito che la sorella di Simone mi osservava sospettosa.
Cercai di ignorare i suoi occhi, ma non c’era verso di mangiare in santa pace senza sentirsi continuamente sotto osservazione.
«Vuoi chiedermi qualcosa?» le dissi, stufa di sentirmi un fenomeno da baraccone.
Lei mi sorrise e si scostò una ciocca di voluminosi capelli biondi dalla spalla. «Che è successo tra te e mio fratello?»
Diretta. Schietta. Senza giri di parole.
Sofia era la mia personale maledizione e mi fece quasi strozzare con il panino che stavo mangiando.
Sorseggiai un po’ d’acqua e tossicchiai. «N-Niente, perché me lo chiedi?»
Ci aveva forse visti? Magari c’erano delle telecamere all’interno di quella cabina prova e lei aveva visto le registrazioni!
Sì certo, fa parte della sicurezza o è un’investigatrice privata.
Può essere!
«Uhm, è strano da questa mattina,» disse pensierosa. «Ho provato a chiedergli cosa avesse, ma mi rispondeva sempre con “chiedilo al mio avvocato”.»
Avrei voluto strozzare Simone per più di un motivo, adesso che sapevo che continuava ad avercela con me e a fare l’offeso per quella storia di James. Era solamente un ragazzino, un bamboccio che voleva avere il controllo su tutto e tutti.
Qui l’unica che ha perso il controllo sei tu, Ven.
Noi. Non dimentichiamoci che c’eri pure tu nella mia testa quando quello mi slinguazzava.
«Non so a cosa si riferisca,» mentii e Sofia se ne accorse.
Quella ragazza poteva sembrare frivola, ad un occhio inesperto, ma c’era voluto poco per capire che era più furba di una volpe.
«Secondo me c’entra qualcosa Jamie, o sbaglio?» chiese sorridendo.
Un altro pezzo di panino mi andò di traverso. In quella mattinata avevo rischiato di morire tre volte:  due, soffocata, e una di crepacuore per colpa dei due fratelli.
Signore, salvami da questa famiglia di assassini.
«Senti, non è colpa mia se tuo fratello ha gli stessi comportamenti stralunati di una donna incinta. Ieri sono uscita con James, è vero, e non me ne pento. Ci siamo baciati. E la mattina dopo mi ritrovo l’ennesima francesina che gira nuda per casa. Poi lui viene a fare la morale a me, hai capito?» dissi demoralizzata.
Sofia sorrise, continuando a sorseggiare la sua bibita.
«È frustrante dover badare a lui tutto il giorno, è così immaturo! Vuole che tutto e tutti siano a sua disposizione e pretendeva che io rinunciassi all’appuntamento per fargli da balia. Ma per favore!»
Mi lasciai cadere sullo schienale della sedia, sbocconcellando il panino e fissandomi i piedi con aria corrucciata.
«Posso dirti quello che penso?» se ne uscì la bionda sorella di Simone.
«Spara,» sbuffai.
Tanto sapevo quali somme avrebbe tirato: eravamo entrambi da internare.
Rimase a fissarmi senza parlare, sorridendo di tanto in tanto. Mi sentivo completamente a nudo di fronte a quello sguardo, soprattutto quando era così intelligente e arguto. Si vedeva lontano un miglio che il cervello di Sofia stava elaborando le parole più adatte per esprimere quel suo pensiero.
Non era come Simone che dava aria alla bocca e sparava tutto quello che gli passava per la testa.
«Secondo me, anche se non lo ammetterete mai, nemmeno sotto corte marziale, avete sviluppato una sorta di simbiosi in questi giorni,» mormorò tranquillamente.
«Cioè? Sarei un fungo?»
Sofia sorrise di quella mia battuta, ma io davvero non capivo cosa volesse intendere. «Mi spiego meglio. Tu e mio fratello siete molto simili, ormai questo lo so per certo, perciò la convivenza non ha fatto altro che unirvi ancora di più e adesso siete legati con un filo sottilissimo, quasi se uno di voi dipendesse dall’altro. Anche in maniera inconsapevole, lui ti cerca. È una cosa naturale
«Mi fai sentire come un salvavita,» sorrisi.
«Una specie,» disse lei, guardando poi l’orologio. «Ti va di accompagnarmi allo stadio?» mi chiese speranzosa.
L’idea di incontrare Simone, anche a diecimila metri di distanza, mi faceva inorridire. «Veramente dovrei rivedere alcune carte, sistemare gli acquisti, vedere la televisione, pulire… andare a fare la missionaria in Cambogia.»
Sofia cominciò a ridere a crepapelle, lasciando che quei capelli lunghi e ricci brillassero come oro alla luce del timido sole di novembre. «E dai, ci divertiremo. Ci sarà pure Ruben!»
Detto ciò mi afferrò per un polso e mi trascinò via dalla paninoteca senza aver avuto nemmeno il tempo di risponderle ‘Sì’.
 
***
 
Nel corso di quei tre anni, nonostante Celeste mi avesse ripetuto più volte di accompagnarla ad una delle numerose partite del suo Leotordo, allo stadio Olimpico di Roma, avevo sempre rifiutato, trovando una delle più banali scuse a cui la mia amica si accontentava di credere.
La verità era che non sopportavo il caos che si respirava lì dentro, nelle tribune. Mi ero sempre rifiutata persino di partecipare a qualche gara scolastica, magari di qualche cugina, solo per non assistere al tifo cosiddetto “da stadio”.
Se ciò avveniva durante l’ora di pranzo, poi, il rischio di ricevere addosso valanghe di cibo pre-digerito era talmente alto che mi sarei dovuta portare preventivamente un ombrello, anche se la temperatura sfiorava i quaranta gradi centigradi e il sole spiccava in alto nel cielo.
Quel pomeriggio, però, fui presa alla sprovvista.
Avevo saputo della famigerata partita di quella domenica unicamente perché Simone se ne era lamentato tutta la settimana, sia con me – pensando lo ascoltassi... cosa che facevo di rado –, sia con suo fratello al telefono. Se Sofia si fosse presa la briga di avvertirmi che sarebbe andata a vederlo giocare, avrei potuto elaborare una scusa più convincente di un “credo mi sia presa un’insolazione”, considerando che quella giornata di metà novembre era stata sì soleggiata, ma non sufficientemente da causare quel tipo di influenza.
«Dai, che ti divertirai! Ci saranno anche le Ragazze, non vedo l’ora di presentartele!» trillò entusiasta la biondina, trascinandomi sempre più energicamente lungo Regent Street.
Non avevo idea di chi fossero queste fantomatiche tizie di cui continuava a ripetere i nomi, ma alla notizia che anche la Talpa avrebbe presenziato al match mi rincuorava. Almeno avrei potuto trovare conforto nel suo appoggio contro un’eventuale presa di posizione di Sofia.
Raggiungemmo a piedi un imbocco di Regent Street, poco più lontano di dove abitasse Simone. Non mi ero mai chiesta dove alloggiasse la più piccola dei Sogno. Considerando i suoi diciannove anni, presupposi che condividesse la casa con la madre Marianne, oppure col padre, ma non mi sembrava educato chiedere.
«Eccola lì!» trillò Sofia, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Nel bauletto dovrebbero esserci due caschi.»
Caschi? Un momento…
Rimasi di sasso osservando la sorella di TermoSifone che trotterellava con i quintali di buste che si era trascinata appresso tutto il giorno verso un trabiccolo rosso fiammante che si teneva in piedi per miracolo.
Cosa. Essere. Quello?
Assomiglia ad una Vespa.
La raggiunsi mentre con foga tirava fuori le chiavi dalla sua borsetta Prada e si affrettava ad aprire il bauletto rivelando i due caschi. Uno era rosa shocking, con disegnato il gatto di Hello Kitty, l’altro era bianco con la bandiera dell’Italia disegnata sopra.
«Ruben ha detto che posso prenderla quando voglio!» disse Sofia tutta eccitata. «Con questa faremo in un attimo, e non c’è nemmeno il problema del parcheggio!»
Deglutii a fatica, sperando scherzasse.
«Ma la sai guidare?» le chiesi perplessa.
Non avevo mai messo piede su un mezzo a due ruote, sia perché a Tivoli non c’era quel traffico intenso di Roma, sia perché ne ero stata terrorizzata sin dall’infanzia. Ora rischiavo di morire per andare a vedere una stupida partita di uno stupido calciatore di cui non me ne fregava un emerito fico secco.
Sofia mi sorrise. «Certamente! Prima di questa avevo il motorino,» disse sicura. «L’ho dato via quando Ruben si è trasferito qui. Diciamo che adesso sono quasi sempre a casa sua e lui mi permette di usare la Vespa.»
Involontariamente, Sofia aveva risposto alla mia domanda di prima. Quei due vivevano insieme già da qualche mese e nonostante lei avesse solo diciannove anni, i genitori non avevano fatto una piega e l’avevano lasciata convivere col suo pseudo-ragazzo. Pseudo stava per “umano”, perché ero sempre più convinta che fosse una talpa.
«Se lo dici tu…» dissi, anche se ero sempre meno convinta di salire su quel trabiccolo traballante.
«Non ti fidi?» scherzò lei, porgendomi uno dei caschi, quello dell’Italia.
D’improvviso interpellai Cervello alla ricerca di una qualunque scusa che m’impedisse di accompagnarla. Volevo solo tornarmene a casa, piangere sul mio portafoglio per il quantitativo di sterline che avevo speso in un solo abito che non avrei mai più messo e magari telefonare a James per rispondergli a quel messaggio.
Bene, bene, bene. Guarda chi è tornato strisciando.
Su, mi serve una scusa bella e buona per darmela a gambe ed evitare di vedere novanta minuti di noiosissima partita.
Uhm, la risposta non è ovvia? Le buste degli acquisti dove le mettete? Parcheggiate pure quelle?
Tombola!
«Dove mettiamo queste? Non conviene rimandare?» provai, nel tentativo di corromperla.
Sofia inizialmente non mi diede peso, troppo impegnata a indossare il casco e pettinarsi contemporaneamente i boccolosi capelli biondi, infine mi rivolse uno sguardo.
«Non c’è alcun problema,» sorrise, poi afferrò tutti i pacchettini, compresi i miei, e si diresse verso una Mercedes SLK rossa, parcheggiata poco più avanti. Fece scattare l’allarme e la macchina guaì, dopodiché aprì lo sportello e ci lasciò le buste dentro, tornando vittoriosa.
«Problema risolto,» disse trionfante.
Dannazione.
È più furba di quanto pensassi.
«Sicura che non pioverà?» tentai di nuovo, guardando il cielo che si stava annuvolando. Bagnarsi sotto la pioggia col motorino non era l’ideale per la mia salute ancora cagionevole.
Sofia roteò gli occhi al cielo, sbuffando. «Tieni, guasta feste. Ho guardato le previsioni e non piove, perciò smettila di trovare scuse!» disse tassativa.
Mi rigirai il casco tra le mani, non sapendo cos’altro provare. «E Ruben?» le chiesi, visto che aveva detto che ci sarebbe stato alla partita.
Lei fece spallucce. «È già lì, lo ha accompagnato Gabe.»
Sofia montò in sella alla Vespa e fece girare la chiave nel cruscotto, azionando il freno e pigiando sul tasto di accensione.
«E come fa a tornare?» insistetti, sperando di trovare qualsiasi appiglio che mi consentisse di rimanere a casa quel pomeriggio.
Ricevetti un’occhiata di traverso da parte della piccola Sogno. «Monta. Non c’è scusa che tenga, verrai alla partita. Ora allacciati il casco.»
Feci come mi disse, perché ormai avevo anche esaurito le cose da dire. Se avessi insistito, sarei risultata persino scontrosa e l'avrei anche offesa. Ciò non era giusto, dopo che aveva convinto Simone a dividere l’appartamento con me e a farmi risparmiare un po’ di soldi dell’affitto.
«Okay,» bofonchiai contro voglia. Montai sul posto dietro il sellino e mi strinsi forte alla vita sottile della sorella di Simone.
Lei mi sorrise da sopra la spalla, con quella solita espressione che solo un Sogno poteva confezionare. «Tieniti forte, si vola!» disse sgasando e immettendosi nel traffico.
Rimasi sconvolta dall’impatto e mi pentii sempre di più man mano che quel trabiccolo acquistava velocità.
Arriveremo a destinazione?
Se fossimo sopravvissuti anche a questo, ben poco sarebbe stato in grado di ucciderci d’ora in poi.
 
Zigzagammo nel traffico cittadino delle quattro e mezza del pomeriggio, con un cielo sempre più coperto sopra la testa. Mi reggevo il casco con una mano, troppo lento per riuscire a stare dritto da solo, e con l’altra avevo una presa salda sulla vita di Sofia.
Dovevo ammettere che la ragazza sapeva manovrare bene quel coso, ero saltata alle conclusioni troppo presto. Evidentemente era una delle poche donne a saper gestire bene una due ruote, peccato non si potesse dire lo stesso per tutto il genere femminile.
Ci immettemmo subito in Regent Street, evitando i semafori e il traffico interno, prendendo poi delle vie più nascoste e adibite solo al traffico pedonale e, appunto, ai ciclomotori. L’aria fresca di metà novembre mi solleticò le guance e mi pentii di non essermi portata un giacchetto più pesante.
Certo, se l’avessimo saputo.
A quel punto mi sarei portata direttamente il piumone, rubandolo dal letto a due piazze.
L’idea di passare l’intero pomeriggio allo stadio tornò a fare capolino nella mia testa e mentre Sofia continuava imperterrita ad evitare le macchine e trovare scorciatoie sempre più brevi, mi ritrovai a pensare a quanto potesse essere inutile andarci. Ero stata costretta, questo era vero. Alla fine mi convinsi che non avevo avuto scelta.
Passare l’intero pomeriggio seduta su uno di quegli scomodi sgabelli, guardando uno sport che non mi era mai minimamente interessato – eccezion fatta per la pallavolo, di cui andavo letteralmente pazza –, risultava al mio cervello allenato una vera e propria perdita di tempo. In quelle due ore, avrei potuto sistemare il bagno dell’appartamento, magari svuotando la vasca dai litri di limoncello che quel decerebrato di Simone ci aveva messo dentro, oppure pulire la cucina, rivedere le carte del processo.
Chiamare James.
Già, quella era la prima cosa che avrei fatto una volta scesa da lì.
Nonostante il giorno prima ci fossimo baciati, la domenica successiva non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello di cercarlo. Almeno avevo ricevuto un suo SMS sincero, a cui non avevo risposto.
Mi sentii davvero una merda.
Hai avuto il tuo bel da fare.
Certo, ero stata completamente distratta da Simone e dal suo frenetico tenore di vita che mi teneva impegnata come una balia con un infante. Pappette, sonno, pannolino, ruttini... io invece avevo giraffone da buttar fuori di casa, litigate a non finire, discussioni su James, e infine ci si metteva anche la partita.
Inoltre, una qualsiasi balia non sarebbe incappata nell’intera famiglia del neonato di cui si prendeva cura. Lei non avrebbe avuto a che fare con quel tornado dai capelli biondi che era Sofia.
«Siamo quasi arrivati!» mi annunciò, sbirciando la mia espressione oltre la sua spalla.
Voleva vedere come mi sentissi, se fossi volata via due semafori fa oppure stessi ancora sul sedile posteriore della Vespa. Anche se l’idea di darmela a gambe ogni volta che si fermava mi aveva allettato in più di un’occasione, preferii prenderla con maturità.
Ormai avevo dato la mia parola. Mi sarei sorbita quei novanta minuti di noia mortale, conditi con gli starnazzi della gente e le urla scimmiesche dei tifosi più accaniti, e finalmente sarei tornata a casa. In fondo, si trattava di un solo match, poi non avrei mai più visto lo stadio nemmeno in cartolina.
«B-Bene!» le risposi, rischiando quasi di ingoiare un insetto.
La Vespa borbottò quando Sofia rallentò la marcia, dopodiché si immise in un ampio parcheggio alberato su cui erano parcheggiati un fiume, anzi no, un mare immenso di scooter. La bella Sogno poggiò un piede fasciato da un paio di ballerine color beige sull’asfalto e cominciò a guardarsi intorno cercando un parcheggio adatto.
«Guarda se trovi un buco!» alzò la voce al di sopra del rombo del motore.
Mi adoperai allora a trovare un posto adatto per la Vespa di Ruben, quando notai in lontananza un luogo che faceva proprio al caso nostro.
«Lì!» le indicai, sperando si sbrigasse.
Nel frattempo vedevo altri scooter che gironzolavano attorno al parcheggio in cerca di un posto adatto dove lasciare il proprio mezzo. Sofia sgasò subito e si diresse verso il posteggio che occupò con maestria in appena due manovre. Scesi subito cominciando a slacciarmi il casco, mentre Sofia alzava il sellino della Vespa e ne prese la catena da passare attorno alla ruota.
Infine si tolse il casco, come feci anch’io, e li appoggiammo all’interno del bauletto.
«Sta per iniziare, andiamo,» mi fece lei, ravvivandosi i lunghi capelli ricci e biondi e incamminandosi verso quello stadio che da fuori sembrava davvero immenso.
La seguii senza fiatare, vedendo un fiume di gente dagli sgargianti colori bianchi e rossi che si riversava nella stradina che li avrebbe condotti fino ai tornelli. Sofia si mescolò tra i tifosi senza dare nell’occhio, come se fosse abituata a tutto quello.
E forse lo è, tu che ne dici? È pur sempre la sorella di Simone, andrà allo stadio da quando aveva cinque anni.
Era andata sicuramente così. Avevo notato come Sofia e Simone fossero legati, anche con Gabe ovviamente. Era come se tutti e tre i figli di Mr. Sogno avessero siglato un patto segreto che li obbligasse a sostenersi a vicenda, anche senza ricavarne alcunché di vantaggioso.
«Ven, sbirgati!» trillò Sofia, vedendomi sovrappensiero e afferrandomi una mano per incitarmi ad affrettare il passo. Non avevo mai visto tanta gente in tutta la mia vita, forse solamente ad un concerto di qualche famosa star internazionale.
C’erano persone di tutte le età, da anziani con le sciarpe che strillavano Go Gunners! a bambini sui cinque anni accompagnati dai entrambi i genitori vestiti in bianco e rosso. Rimasi sinceramente colpita da tutta la passione che il popolo inglese nutriva nei confronti di quello sport, e per un attimo pensai di essere stata troppo precipitosa nel giudicarlo.
Anche se Simone incarnava tutto ciò che odiavo, non era detto che il calcio fosse stata una sua sola prerogativa. Magari avrei anche potuto cominciare a simpatizzare per quello sport, ma ciò non mi avrebbe impedito di fare i bagagli lontano di Mr. Sogno una volta che il caso giudiziario fosse stato archiviato.
«Arrivo!» risposi, sentendomi letteralmente trascinata dall’impeto della giovane Sogno.
Cominciai a vedere la fine di quell’enorme strada che conduceva agli ingressi dell’Emirates Stadium, ma subito Sofia deviò e si allontanò dai tornelli.
«Dove stiamo andando?» le chiesi stupita.
Dopo tutta la strada che avevamo fatto per giungere alle entrate, lei se ne allontanava sempre di più.
Sofia si voltò lievemente e mi sorrise. Aveva quell’espressione da elfo che non prometteva nulla di buono. «Noi abbiamo l’entrata VIP,» mi rispose trionfante.
Raggiungemmo un ingresso posteriore, dove vi erano parcheggiati i pullman che avevano condotto le squadre fino all’ingresso dello stadio. Gli stuart che montavano la guardia erano numerosi, ma non appena Sofia li salutò, ognuno di essi sembrò conoscerla da una vita.
«Ehi, come va?»
«Quando uscirà il nuovo album?»
«Tuo fratello lo vedo in forma!»
«Gabriele è già entrato.»
Proseguimmo senza fermarci troppo a parlare con la polizia privata dello stadio e Sofia imboccò uno degli infiniti corridoi di quella struttura. Ammisi che se fossi stata da sola, mi sarei persa dopo nemmeno due minuti buoni, ma la giovane Sogno si muoveva tra quell’intricato dedalo di corridoi quasi come se avesse una mappa dell’intero stadio stampata nel cervello.
«Dove stiamo andando?» le chiesi, sempre più confusa da quel continuo sovrapporsi di pareti bianche tutte identiche per gli occhi inesperti della sottoscritta.
«Nello spogliatoio,» mi rispose sorridente. «Non vuoi augurare buona fortuna a Simo?»
Inchiodai letteralmente la marcia nel bel mezzo della corsia.
«Che c’è?» mi domandò lei, vedendo che non mi muovevo.
«Avevi detto che avremmo visto la partita. Non c’era nulla riguardo allo spogliatoio,» mormorai sincera.
C’era un limite a tutto, in particolar modo a quello. Strinsi i pugni al ricordo di ciò che Simone mi aveva fatto poco prima nel camerino di quel negozio e l’idea di rivederlo prima del tempo era lungi da me. Non potevo certo spiegare a Sofia il motivo del mio essere restia, ma dovevo impormi.
«Perché non vuoi vederlo?» mi chiese lei nella più completa ingenuità.
Certe volte quel suo comportamento era disarmante. Cinque minuti prima il suo sguardo poteva convincerti a dirle anche la password della tua carta di credito e del tuo conto in banca, due secondi dopo si comportava come se fosse appena caduta dalle nuvole.
«Preferirei evitare,» sospirai annoiata.
Sofia sembrò capire il mio disagio e stranamente non insistette. «Va bene, però passiamo un attimo lì davanti perché Ruben mi aspetta lì,» mi disse tranquilla.
Okay, avrei aspettato fuori. Avevo una probabilità su ventidue di beccare Simone in quei cinque minuti necessari a incontrare la talpa fuori dagli spogliatoi.
Proseguimmo diritte verso un bivio. Trovammo immediatamente alcune porte con riportato sopra la scritta “staff” e andammo avanti. Finalmente dopo pochi passi riuscimmo a individuare, fermo di fronte ad una porta rosso Borgogna, la figura mingherlina di Ruben che si sistemava di tanto in tanto gli occhiali sul naso con fare nervoso.
Vicino a lui c’era quel gran pezzo di gnocco di Gabriele.
«Eccoli!» trillò Sofia euforica, cominciando a correre in direzione del suo fidanzato.
Ruben si accorse all’ultimo dell’arrivo del ciclone biondo e fece appena in tempo ad allargare le braccia che lei gli si buttò al collo riempiendolo di baci ben poco casti.
Rimasi esterrefatta che una bella ragazza, famosa e ricca come Sofia, con un fratello calciatore e un altro manager potesse frequentare quella specie di rifiuto della società. Celeste mi aveva spiegato che Ruben e Leonardo erano amici sin dall’infanzia e che magari Sofia e la talpa erano cresciuti praticamente insieme.
Comunque ci voleva coraggio. E tanto.
«Siamo venute con la Vespa!» disse Sofia trionfante, staccandosi da Ruben ma senza lasciargli la mano.
«Davvero?» sorrise lui, sempre imbarazzato.
Era davvero curioso il modo in cui quel ragazzo, balbuziente cronico a detta di Celeste, riuscisse a smettere di tartagliare solo in compagnia della ragazza. Se la balbuzie era sintomo di nervosismo, era come se Ruben in compagnia di Sofia riuscisse a calmarsi.
«Sì! Come l’ho guidata, Ven?» mi chiese, tutta eccitata.
Mi spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio e sorrisi. «Benissimo.» Ed era la pura verità.
«Tuo fratello è nervoso oggi, non so cosa cazzo gli sia preso,» ringhiò Gabriele, raggiungendoci e imprecando mentre smanettava con il suo Galaxy.
Sofia spalancò quei grandi occhi celesti sorpresa. «Davvero?»
Gabe annuì, poi alzò lo sguardo. «Prima sono entrato un secondo per parlargli, a momenti mi prende a pugni. Ha un diavolo per capello.»
La piccola Sogno annuì. «Anche stamattina era sovrappensiero,» ammise.
«Ep-Eppu-Eppure n-non è una p-partita imp-impe-impegnativa!» commentò Ruben, balbettando solo quando si rivolgeva a Gabriele.
Lui gli restituì uno sguardo di superiorità. Era evidente che Ruben non andasse a genio al più grande dei fratelli Sogno. «Infatti,» commentò. «Ma il suo problema è di testa. Penso c’entri anche il caso di dubbia paternità. Ho saputo che questa settimana incontrerete Miss Cloverfield,» aggiunse abbassando la voce.
Annuii. «Un incontro preliminare col suo avvocato. Non so se anche lei sarà presente.»
Sofia mi restituì uno sguardo molto preoccupato. Era come se quella causa in corso pendesse come la spada di Damocle sull’intera famiglia, non soltanto su Simone.
«Speriamo bene. Anche se il New Castle non è una squadra da Champions League, ciò non vuol dire che possono permettersi di perdere questa partita, soprattutto con Simo titolare. Mr. Venger conta molto su di lui.»
Ricordai perfettamente la figura alta e allampanata dell’allenatore dell’Arsenal.
Oh, stavolta l’hai detto bene.
Grazie.
D’improvviso mi sentii afferrare per le spalle e un soffio leggero di fiato mi solleticò l’orecchio. Sgranai gli occhi terrorizzata, pensando si trattasse ancora di Simone e fui pronta a scrollarmelo di dosso prima che i suoi fratelli pensassero male.
Però una voce familiare mi fermò.
«Sei venuta a vedermi giocare, lil’Miss?»
Sebastian mi si affiancò come un’ombra che sbucava fuori dal nulla e mi fissò con quegli occhi azzurri vispi e quel sorriso strafottente. «Se lo avessi saputo, avrei ordinato dello champagne…» e lasciò la frase volutamente in sospeso.
Rabbrividii e tentai di scrollarmelo di dosso, riuscendoci solamente perché l’affascinante calciatore lasciò volutamente la presa sul mio corpo. Sia Gabriele che Sofia mi rivolsero uno sguardo che chiedeva spiegazioni, anzi, quello della piccola Sogno era una vera e propria occhiata accusatoria.
«Sebastian, cosa vuoi?» gli disse lei, come se lo conoscesse da una vita.
Il ragazzo alzò pigramente gli occhi verso Sofia, senza smettere quel sorriso arrogante. «Nulla che possa interessarti, Sofi,» rispose pacato. «Stavo solo facendo due chiacchiere con la fidanzatina del futuro capitano.»
Sgranai gli occhi totalmente colta alla sprovvista. «Io non…» tentai di correggerlo, anche se non sapevo a chi si riferisse con quel “futuro capitano”.
«Tieniti alla larga da Venera,» lo minacciò lei, ed io rimasi completamente di sasso scoprendo quel nuovo lato da leonessa di Sofia. Mi era sempre parsa una ragazza dolce, ingenua, all’occasione furba come una faina, ma non l’avevo mai vista così gelosa.
«V-Ve-Vedi di f-fa-fare c-co-come di-dice!» si aggiunse Ruben, venendo in soccorso della propria ragazza. Sebastian, trovatosi in netta minoranza rispetto a tutti i Sogno che c’erano in quel piccolo corridoio, decise di battere in ritirata, almeno per il momento.
Mi passò una mano sulla testa, accarezzandomi distrattamente i capelli. «Ci vediamo alla fine del primo tempo, piccola Miss,» sghignazzò, sparendo poi all’interno degli spogliatoi.
Soltanto in quel momento mi resi conto che non stavo affatto respirando, e solo quando Sebastian sparì dalla mia vista, ricominciai a far circolare l’aria nei polmoni.
Sofia subito mi fu addosso. «Quando lo hai conosciuto? Perché? Cosa vuole, eh, Ven?» sparò a raffica, senza darmi nemmeno il tempo di rispondere.
Ruben per fortuna capì la mia difficoltà a star dietro alla piccola Sogno versione belva inferocita. «A-Andiamo a pr-prendere po-posto,» mi suggerì, poi si rivolse a lei. «Non è successo nulla, stai tranquilla.» E le passò un braccio attorno alle spalle.
Gabriele ci fece cenno di proseguire, perché lui doveva ancora sistemare alcune cose, così cominciammo a salire i gradini che ci avrebbero condotti agli spalti. Davanti a me, Ruben e Sofia si tenevano reciprocamente stretti l’uno all’altra, con la testa di lei poggiata sulla spalla del giovane manager. Sembrava quasi incredibile che una ragazza dalla bellezza delicata e ricercata di Sofia avesse scelto, tra mille spasimanti (o forse di più), un tipo strano come Ruben.
I misteri della vita.
Già, proprio misteri, perché nemmeno un equipe di scienziati esperti saprebbe spiegare una cosa del genere.
Salii l’ultimo gradino, coprendomi il viso a causa dei fari che erano già stati accesi perché di lì a pochi minuti sarebbe sceso il crepuscolo, e poi l’oscurità. C’era troppa luce da quell’angolazione, così proseguii di qualche passo, cercando di non perdermi di vista Sofia e Ruben, ma non appena tolsi la mano riacquistando parzialmente la capacità di vedere, rimasi pietrificata di fronte alla maestosità di quella struttura.
Tutto intorno a me, gente vestita di colori bianco e rossi riempiva ogni spazio disponibile sugli spalti e i cori s’innalzavano già per tutto lo stadio, nonostante mancasse ancora un po’ all’inizio della partita. C’erano striscioni, bandiere, grida di gioia, per non parlare delle coreografie che le curve s’inventavano prima di ogni match.
Mi sentii la bocca asciutta, quasi del tutto priva di saliva e non riuscivo ad articolare la benché minima parola. Un conto era vedere quello spettacolo in televisione, quelle poche volte che Robbeo il Mangiacaccole monopolizzava l’apparecchio con quegli stupidi match inglesi, un altro era vivere tutto ciò che stavo vedendo.
E pensare che questa è la vita di Simone.
Lo cancellai immediatamente dalla testa, ricordandomi solo in quel momento che avrei dovuto cercare Sofia con lo sguardo. Provai ad alzare gli occhi tra la folla che riempiva il piccolo ingresso e la trovai che si sbracciava poco più in alto da dove mi ero bloccata.
«Ven, qui!» mi urlò, facendomi cenno di avvicinarmi.
Provai a passare lateralmente quel fiume di gente che cercava di occupare i posti scritti sul biglietto, e salii qualche gradino, raggiungendo i miei amici quasi del tutto incolume. Mi lasciai andare sulla poltroncina delle tribune con un sospiro esausto. Quella giornata era stata davvero stancante ed il pensiero che l’indomani sarei dovuta andare nuovamente a lavoro mi terrorizzava.
James.
«Allora, come ti sembra?» mi chiese Sofia, distraendomi da quel pensiero.
Avrei dovuto ammettere che era una delle poche cose che mi avevano tolto il fiato dopo essere atterrata a Londra e che forse c’era del vero nelle parole dei tifosi che intervistavano di tanto in tanto ai telegiornali. Avrei dovuto ammettere tutto quello, eppure non volli. Sarebbe stato come dichiarare la mia sconfitta in materia di calcio e calciatori.
«Carino…» spettacolare, indecente, da mozzare il fiato.
Sofia sembrò un po’ delusa da quel mio commento, ma non le diedi motivo di sospettare ancora. Avrei dovuto mantenere la faccia, ormai mi rimaneva solo quella.
Dopo alcuni minuti, vidi la gente cominciare a sedersi e i cori crescere ancor più d’intensità.
«Stanno entrando!» gridò Sofia eccitata. «Guarda, guarda, c’è Simone. Lo vedi, Ven?» mi disse lei, indicando furiosamente un puntino vestito di rosso che camminava in mezzo al campo.
Per me poteva essere Simone, come qualsiasi altro essere umano.
«L-Lo s-stan-stanno ri-rip-riprendendo su-sul maxi-scher-schermo!» mi venne in aiuto Ruben, indicando il grande monitor sopra lo stadio.
Alzai lo sguardo e vidi Simone ripreso di spalle, con il cognome “Sogno” stampato a grandi lettere bianche sulla maglia numero nove. Non lo avevo camminare così impettito, quasi nervoso. Di solito camminava con aria spavalda da prima donna, invece in quel momento mi parve quasi diverso…
…un guerriero.
Ma non diciamo sciocchezze. C’è una bella differenza tra il giocare una stupida partita rincorrendo un pallone come cani scodinzolanti e rischiare la propria vita in una guerra. Evitiamo questo genere di metafore.
Vidi che la squadra si disponeva in fila, seguita da quella avversaria in maglia bianco-nera. Il maxi-schermo riprendeva ancora Simone, ora voltato di fronte. Aveva uno sguardo serio, tesissimo, e stentai quasi a riconoscerlo senza quel solito sorriso strafottente stampato in volto.
«Ora parte l’inno,» mi spiegò Sofia.
Lo stadio calò nel più religioso silenzio, mentre il suono di una musica orecchiabile riempiva gli spalti dell’Emirates Stadium. Dopo qualche secondo, le voci di più di diecimila persone si sovrapposero alle note musicali, creando un’unica voce in sincrono.
Rabbrividii da tanta passione e rimasi sconcertata da me stessa. Solitamente non me ne sarebbe fregato nulla, ancor meno sapendo che sarei andata a vedere Simone giocare uno stupido match, ma tutto quel trasporto, quella passione che si respirava solamente nello stadio – ben diversa da quella in TV – aveva stravolto le mie prospettive.
Rivolsi lo sguardo al maxi-schermo e vidi Simone cantare a squarciagola.
Fu in quell’istante che capii quanto mi fossi sbagliata. Avevo dato per scontato che al giovane Sogno non interessasse altro che la fama e il successo, con gonnelle e giraffone annesse, invece c’era ben altro dietro. Amava quello sport ed era tutta la sua vita, mentre io ero stata troppo superficiale per capirlo.
D’improvviso sentii il cellulare squillare, così mi affaccendai a cercarlo nella borsa e a rispondere, proprio nell’istante in cui la musica cessò e si diede inizio al match.
«Pronto?»
«Spaghetti-girl!»
La voce di James per poco non mi fece cadere il cellulare dalle mani. Ero rimasta totalmente sconvolta da quella chiamata, soprattutto ricordando di non avergli ancora risposto all’SMS di questa mattina.
Sei una pessima pseudo-fidanzata.
Lo ammetto.
«C-Ciao James…» dissi, sperando di non risultare falsa.
Avevo gli occhi di Sofia addosso, quasi come quelli di un falco. Quelle sue iridi azzurrine mi mettevano in soggezione, soprattutto sapendo quanto fosse enigmatico il suo viso. Non sapevo mai se approvava la mia relazione con Jamie, oppure lo detestava.
Sicuramente Sebastian non le stava simpatico.
«Come va? Pensavo avessi perso il cellulare,» ridacchiò, per nulla nervoso. «Sai com’è, non ho ricevuto tue risposte dopo ieri sera. Pensavo…» e lasciò pericolosamente la frase in sospeso.
«NO!» mi affrettai a rispondere, sovrastando il caos dei tifosi che avevano ricominciato ad urlare e ad intonare cori come ossessi.
Sentii Jamie ridere dall’altro capo del telefono. «Sono andata a fare shopping stamattina e tra una prova e l’altra non ho potuto chiamarti. Mi dispiace,» gli dissi, sinceramente mortificata.
Per quanto Simone avesse potuto mettermi i bastoni tra le ruote, James non si meritava quel trattamento da parte mia, soprattutto dopo quel meraviglioso sabato sera passato insieme.
«Ho capito,» rispose lui tranquillo. «Volevo solo sentire come stavi.»
Adorabile. Era l’unica parola che mi sovvenne in quel momento per descrivere accuratamente il mio James.
Mio?
Beh, ormai non poteva essere che di nessun altro.
«Dove sei? Riesco a mala pena a sentire la tua voce!» chiese, urlando un po’ più forte quando le grida per l’inizio della partita divennero insopportabilmente acute.
Mi tappai l’altro orecchio con un dito, cercando di sentire le parole di James.
«Sono allo stadio,» dissi, quasi senza pensare.
Certo, non avevo alcun motivo per mentirgli, soprattutto quando la nostra non era nemmeno una relazione con la “R” maiuscola, però mi pentii quasi subito di quella risposta. L’avevo data con troppa ovvietà, come se fosse logico che stessi guardando una partita di calcio allo stadio, in compagnia della sorella del mio cliente e del suo fidanzato.
Il silenzio di James dall’altro capo del telefono non fu rassicurante. «Capisco,» si limitò a dire infine ed io sentii un certo morso alla bocca dello stomaco.
«Sofia mi ha praticamente costretta ed io mi sto annoiando a morte!» mi sentii in dovere di aggiungere, anche se parte di quelle parole erano solo un’emerita bugia. La noia era l’ultima sensazione che avevo provato da quando avevo messo piede all’Emirates.
Sentii Jamie ridere dall’altro capo del telefono. «Bene, bene. Io sono tifoso del Manchester, quindi sarei stato solamente un abile gufatore se ti avessi accompagnato,» disse dolcemente.
«Non ti preoccupare. Penso che sia la prima e l’ultima volta che varco la porta di uno stadio,» gli assicurai. «Preferisco starmene comoda sul divano del salotto.»
«Magari abbracciata ad un certo avvocato…» aggiunse lui maliziosamente.
Un lungo brivido rotolò per tutta la colonna vertebrale, lasciandomi una scia di pelle d’oca. D’improvviso mi si seccò la gola e rimasi a corto di parole. Era disarmante il modo in cui James era capace di zittirmi.
Un po’ come Simone nel camerino.
Scossi violentemente la testa cercando di scacciare quell’immagine dalla mia mente. Era ben diverso. Simone aveva approfittato di un mio momento di debolezza, di confusione, e utilizzava contro di me quel suo fascino magnetico da “cattivo ragazzo”. Per quanto potessi predicare bene, e dire che non avrei mai e poi mai avuto nulla a che fare con un poco di buono come Mr. Sogno, dovevo solamente sventolare bandiera bianca davanti a quel suo sorriso mozza fiato.
James, invece, non mi spiazzava certo con uno sguardo, ma sapeva quali tasti pigiare.
«Magari…» gli diedi corda, arrossendo.
Sofia seguiva ogni mia espressione del viso con uno sguardo da falco. Se Ruben di tanto in tanto non l’avesse distratta con qualche particolare azione degna di merito, ero sicura che si sarebbe appollaiata sulla poltroncina e sarebbe calata in picchiata sulla mia testa.
«Passi da me, dopo?» mi domandò James a bruciapelo.
Rimasi interdetta da quella richiesta, soprattutto perché non avevo mai visto l’appartamento del giovane avvocato. Non sapevo nemmeno dove abitasse, per la verità.
«Perché?» chiesi, ma mi morsi repentinamente la lingua. Ero stata troppo precipitosa. Domanda stupida e inopportuna.
James però la prese bene e ridacchiò. «Ho voglia di vederti. Mi sei mancata oggi,» disse dolcemente ed io mi sciolsi.
Il problema però era che sarei dovuta tornare in sella alla Vespa di Sofia e a giudicare dagli sguardi poco gentili che mi stava lanciando, avevo i miei dubbi che sarebbe stata contenta di accompagnarmi nella “tana del lupo”.
Decisi di provarci. O la va o la spacca, anche io avevo troppa voglia di rivedere James. Aspettare sino all’indomani era una tortura, soprattutto perché allo studio saremmo dovuti essere discreti. «Dammi l’indirizzo,» gli proposi, e la voce mi uscì più maliziosa di quanto avessi previsto all’inizio.
«Ti mando un SMS, non vedo l’ora di vederti,» disse ed io arrossii di nuovo. «Ti aspetto.»
«Okay,» risposi, poi chiusi la comunicazione e sospirai stringendo il cellulare tra le mani.
Ero ancora totalmente in trance, come se il mio cervello galleggiasse in una coltre di nuvole rosa a forma di cuoricini. Non ero mai stata un tipo romantico, di quelle che guardano il cielo e sospirano lanciando languide preghiere alla luna. Ero sempre stata realistica, una donna coi piedi per terra, eppure mi ritrovai a sognare come una scolaretta in piena tempesta ormonale.
Hai sopito per troppo tempo questa parte di te. Ora torna alla carica raddoppiata.
Forse Cervello non aveva poi così torto.
«Chi era?» mi domandò Sofia, con un’espressione mista tra il “lo incenerisco” e “stai tranquilla, saremo best friend forever, quindi puoi dirmi tutto”.
«James.» Non aveva senso mentire. Era evidente che la piccola Sogno già era a conoscenza della risposta. Il suo viso si rilassò.
«Ti ha chiesto di raggiungerlo?» mi domandò, stavolta con un sorriso sincero.
Era in quei momenti che mi chiedevo se Sofia tifasse per me e James oppure mi remasse contro. Era ambigua la ragazza.
Annuii distrattamente, sentendo il cellulare vibrare e aprendo l’SMS.
 
16, Craven Terrace, London. Interno 2B.
 
Il cuore perse un battito e mi sentii completamente svuotata da ogni forza fisica. Avevo una gran voglia di alzarmi da quelle poltroncine e correre all’impazzata fuori dallo stadio, pur di raggiungerlo, ma sembrò fortemente esagerato.
Ero una persona intelligente, un’avvocatessa, non una sciocca ragazzina da romanzi rosa.
Ci voleva ben altro per mandare il mio cervello in orbita.
«Voglio passare da lui, dopo la partita,» le dissi, senza tanti giri di parole.
Ero libera di prendere le mie decisioni e di passare la notte fuori, anche se Simone sarebbe rimasto solo un’altra volta. Sarei venuta meno al mio dovere, ancora, ma James ormai era diventato il mio complice in tutta questa storia e mi pareva giusto comportarmi così, in un certo senso.
Sofia sospirò e tornò a rivolgere lo sguardo verso il campo. «Sta giocando male,» disse solamente e non ci sarebbe voluto il binocolo per capire che i suoi occhi blu erano rivolti tutti a Simone.
Per un attimo tornai coi piedi per terra, nell’Emirates Stadium.
Vidi attorno a me un numero indefinito di personaggi famosi, tra cui politici, giornalisti, figure dello spettacolo e numerose donne che avevano riempito i rotocalchi londinesi. Alcune le associai al mondo del calcio, come mogli/fidanzate/amanti dei giocatori, altre non seppi collocarle di preciso.
Potevano essere benissimo cugine o sorelle, proprio come lo era Sofia, cantante di successo e sorella minore di una delle punte dell’Arsenal.
Mi complimento, è la seconda volta in ventiquattr’ore che ti sei ricordata la squadra.
Ho il fosforo, io.
«Perché?» le domandai. In fondo era strano pensare che uno spavaldo pallone gonfiato come Simone potesse avere una giornata storta.
Lei fece spallucce e si rannicchiò meglio contro Ruben, il quale le passò un braccio attorno alle spalle. Tutto sommato, erano una coppia carina.
«C-Cre-Credo c-che il p-pro-proces-processo c’entri qu-qual-qualcosa,» intervenne appunto Ruben, completando i pensieri della fidanzata. «Ga-Gab-Gabriele me n-ne ha p-pa-parlato. S-se-sembra c-che la so-soci-società sos-sospetti qu-qual-qualcosa.»
Dannazione, non ci voleva. Eppure eravamo stati così attenti a tenere tutto segreto, per quanto la voglia di Simone di rincorrere gonnelle fosse forte. Ero sicura che per il calcioscommesse, alcuni giocatori erano stato sospesi a tempo determinato dai campi di calcio, però ciò succedeva in Italia. Lì a Londra la giurisdizione era diversa, James mi aveva spiegato qualcosa in merito. Simone rischiava di dover abbandonare il calcio per tutta la durata del processo che lo vedeva invischiato in un caso di dubbia paternità.
Tutto per colpa del suo Pisellino iperattivo.
La prossima volta imparerà a tenerlo nelle mutande.
«E quindi?» chiesi io, piuttosto ignorante in materia.
Stavolta fu Sofia a rispondere. «Il mister ha messo Simone titolare da poco tempo dopo l’infortunio, è una sorta di fiducia che gli sta dando. Purtroppo, se vede che non è al meglio delle sue capacità –soprattutto mentalmente – alla fine del primo tempo, o subito dopo, lo sostituirà.»
«S-Sim-Simone non po-potrà sopportarlo,» aggiunse Ruben, estremamente serio.
Di punto in bianco, sentii la presenza di un’altra persona. Gabriele ci aveva finalmente raggiunti, così si sedette al mio fianco e afferrò il suo tablet cominciando a scrivere come un forsennato.
«È nervoso, dannazione,» imprecò, senza staccare gli occhi dallo schermo, ma era evidente che si rivolgesse a noi.
«Possibile che non si sia calmato da stamattina?» gli domandò Sofia. «Eppure l’ho portato con noi per farlo distrarre.»
Ecco spiegato il motivo per cui Simone ci aveva accompagnate a fare shopping.
«Ha la testa altrove, Sofi,» disse Gabe, alzando lo sguardo e incrociando quello della sorella. «Credo che non sia soltanto per la Cloverfield,» aggiunse poi.
Tutto quel mistero attorno al comportamento di Simone mi mise un po’ di curiosità addosso. Non sapevo davvero come comportarmi in merito, ma avevo soltanto stampato in mente il ricordo di quello che era quasi-successo nel camerino del negozio.
Forse lo aveva fatto per vendicarsi, per trovare in me una distrazione da ciò che lo circondava.
Era stato un cretino, punto.
Prima mi aveva fatto una testa tanta con la sua bravura, col suo talento, con il fatto che lo mettessero in panchina soltanto perché erano gelosi del suo dono innato e poi gli bastava una distrazione per permettergli di giocare così male.
Alzai lo sguardo sul campo proprio mentre perdeva un pallone e permetteva agli avversari di andare in contropiede. Era così immaturo, un bambino proprio.
«Penso chiederà il cambio lui stesso, alla fine del secondo tempo,» disse Gabriele con tono teatrale.
«Credo anche io,» si aggiunse Sofi.
«Quanto manca?» chiesi d’improvviso, come folgorata da un’illuminazione.
«A cosa?» domandò la biondissima Sogno.
«Alla fine del primo tempo,» chiesi, sempre più convinta di ciò che stavo facendo.
Ruben guardò il suo orologio da polso. «T-Tre m-minuti, ci-ci-circa,» balbettò, ma non diedi agli altri due il tempo di farmi ulteriori domande che mi ero già alzata per dirigermi verso gli spogliatoi.
Simone aveva il cervello bacato se pensava di chiedere una sostituzione in quel momento così delicato. Non poteva, doveva concentrarsi.
Al caso di dubbia paternità ci avremmo pensato io e James, lui doveva giocare. Punto.
Punto.
Da quando sei diventata la paladina delle cause calcistiche?
Da ora.
Diciamo dalla mattinata nel camerino.
Taci. Prima finisce questa partita, prima posso andare a casa di James.
Rimasi impalata di fronte alla porta degli spogliatoi, aspettando pazientemente che i tre minuti scadessero e che potessi incontrare Simone senza rischiare di incappare in un Sebastian nudo.
Immagino sia il tuo incubo più grande.
Uno dei tanti.
I bodyguard mi fissavano male, soprattutto perché pensavano che fossi una qualche fan impazzita che aspettava di fare la posta al suo idolo. Non sapevano che in realtà avevo in mente soltanto una lavata di capo per una certa persona troppo immatura per pensare razionalmente con quel suo cervellino menomato.
Sentii un duplice fischio, poi il mormorio della gente che si rilassava dopo una partita in pieno zero a zero. Dal tunnel in fondo al corridoio, cominciai ad intravedere figure maschili avvicinarsi agli spogliatoi, con i tacchetti degli scarpini che rumoreggiavano sul linoleum.
Mi feci da parte per lasciarli passare, soprattutto perché sembravano avere l’aria piuttosto stanca.
Finalmente, dopo una lunga processione di maglie bianche e nere, arrivò qualche giocatore rosso e bianco. Visi sconosciuti si susseguivano davanti ai miei occhi, mentre alcuni nomi registrati dietro le loro maglie mi riportarono qualche ricordo vago alla memoria.
Più che altro interventi alla CNN oppure articoli di giornale che finivano sempre in secondo piano nella mia scala di attenzione.
«Stavi aspettando me, Miss?» mi chiese una voce fastidiosa.
«No, Sebastian. È evidente che non sto aspettando te,» risposi acida.
Quel ragazzo mi faceva saltare ai nervi peggio di Simone. Che tutti i giocatori di quella squadra li facessero con lo stampino?
Sebastian fece il suo solito sorrisetto, nonostante non sortì lo stesso effetto perché il suo viso era sudato e accaldato dalla partita. «Sei in attesa di Sogno, vero? Non capisco cosa ci troviate di così speciale in lui. Tutte a morirgli dietro.»
Quella insinuazione mi diede molto più che semplice fastidio.
«Punto primo, togliti dalla testa quest’idea che tra me e TermoSifone ci sia qualcosa. Punto secondo, lo sto aspettando per dargli una strigliata, non per un autografo o cazzate simili. Punto terzo, se fossi un po’ meno borioso, forse le ragazze ti degnerebbero di considerazione,» commentai con sarcasmo.
Sebastian mi osservò con quei suoi placidi occhi azzurri, senza proferire parola. Era come se non mi avesse mai vista veramente, ma si limitasse a scoprirmi per la prima volta. Strano, davvero.
«Ora capisco perché Simone è così preso da te, Miss,» commentò solamente, avanzando di qualche passo ed entrando nello spogliatoio.
Mi voltai di scatto per chiedergli spiegazioni, ma lui era già sparito. Volatilizzato.
Preso?
Sì, hai capito bene.
S’è fumato un po’ d’erba del campo, il ragazzo.
Decisamente.
«Che cazzo ci fai qui?» disse una voce alle mie spalle.
Girai il viso per vedermi specchiata negli occhi scuri, furenti, iniettati di sangue di Simone, il quale aveva un’espressione stravolta e i capelli ancora più incasinati del solito. Ansimava, stanco e provato dal primo tempo, con la maglietta zuppa di sudore, i pantaloncini sporchi d’erba e terra. Aveva anche uno sbaffo di sporco su una guancia.
Gli dona l’aria trasandata.
«Innanzitutto, bel modo di accogliermi dopo che tua sorella mi ha quasi rapita per portarmi a vederti giocare,» dissi, offesa.
«Nessuno te l’ha chiesto,» disse nervoso.
Gli vidi passarsi una mano tra i capelli e scuotere ossessivamente gli scarpini sul pavimento, facendo cadere piccole zolle di terriccio. Non lo avevo mai visto così. Era teso come una corda di violino.
«Lo sto facendo per Sofia e per quelli che vedono come ti stai rovinando da solo con le tue mani,» gli feci osservare.
«Non capisco cosa vuoi dire,» sbuffò, tornando a guardarmi con quegli occhi che sembravano appartenere ad una galassia a parte.
Rabbrividii al pensiero di quale effetto potesse farmi il corpo possente e immenso di Simone lì fermo davanti al mio, piccolo e indifeso. La differenza d’altezza, il fatto che lui avesse un’espressione stravolta, il puzzo di sudore e testosterone che avvolgeva l’aria, impedendomi di ragionare lucidamente.
Poi l’immagine di noi nel camerino.
«Devi smetterla di fare il deficiente e pensare a giocare,» dissi coincisa, sperando di spicciarmi e tornarmene sugli spalti a respirare ossigeno non saturo di ormoni maschili.
«Non ho alcuna intenzione di fare qualcosa che mi ordina una nanetta,» sorrise spavaldo, tirando fuori ancora una volta quel suo comportamento arrogante.
Stava sulla difensiva.
Vidi gli sguardi degli altri giocatori e di alcuni giornalisti che ci fissavano incuriositi, così lo afferrai per una mano, trascinandolo il più lontano da lì. Ci mancava solo che qualche tabloid udisse casualmente del caso in cui era coinvolto Simone.
«Devo preoccuparmi?» ironizzò lui, quando vide la stanzetta dove ci eravamo rinchiusi.
Era la prima disponibile e l’unica che non fosse sorvegliata da dei bistecconi in giacca e cravatta, con auricolare all’orecchio.
«Piantala di fare il cretino,» lo ammonii, con le mani sui fianchi. «Devi smetterla di preoccuparti del caso, della squadra e di ciò che potranno farti se lo scoprono. James mi ha assicurato che hai la completa immunità, per quanto gli riguarda: riusciremo a farti giocare. Non ti terranno in panchina, fidati,» lo rassicurai.
Avrei fatto in modo di rispolverarmi tutti i libri di Diritto Internazionale alla ricerca di un cavillo che mi avrebbe permesso di farlo tornare in campo. La società non aveva alcun diritto di intromettersi in un caso che non aveva nulla a che fare con il calcio.
Le scommesse sulle partite erano un conto, un caso di dubbia paternità era tutt’altro paio di maniche.
«Non me ne frega niente delle accuse,» mentì Simone, abbandonandosi sulla prima sedia libera.
Si asciugò il sudore dalla fronte con il bordo della maglia, lasciando – volutamente o non – la porzione dell’addome scoperta, libera di essere assaltata dal mio sguardo ormai in balia dell’Ormone.
Smettila, dannazione!
Ma è così bello…
Tentai di tornare seria, almeno per non dare parvenza di essere completamente pazza. «Lo vedi come fai? Menti, eviti, non ammetti mai il tuo stato d’animo. Preferisci fare battutine da quattro soldi invece che affrontare le tue paure. È normale che tu sia spaventato da questo caso,» gli dissi comprensiva.
E chi non lo sarebbe stato?
Non era una quisquilia di tutti i giorni quella contro cui stavamo combattendo io e Jamie per suo conto. Se non fosse andato tutto come speravamo, una bella macchia nera sarebbe rimasta a imbrattare il suo impeccabile curriculum da stella inglese.
«E tu cosa ne vuoi sapere di me? Sei una contraddizione vivente e vieni a farmi la morale?» mi accusò, come sua unica arma di difesa.
Sospirai amaramente. «Non voglio litigare, perché tanto già so dove vuoi andare a parare. Ti dico solo di giocare, di non pensare a nient’altro, perché a pararti il culo ci saremo io e James. Fidati. Anche se fosse l’ultima cosa che faccio, vinceremo questa causa,» gli assicurai.
Simone ridusse gli occhi a fessure e mi guardò.
Con una sola occhiata riuscì a gelarmi il sangue nelle vene. Ero troppo soggetta alle sue reazioni, me ne resi conto troppo tardi. Non sapevo spiegarmene il motivo, eppure era come se lui esercitasse uno strano effetto su di me.
Io che non avevo mai permesso a nessuno di comandarmi.
Si alzò e mise di nuovo tra noi quel divario di altezza che mi faceva sentire ancor più in soggezione. Si avvicinò poco dopo ed io non sentii più nulla. C’erano momenti in cui il cervello di un essere umano era come se si riducesse ad un aggeggio superfluo, utile unicamente come contrappeso per tener dritta la testa. Ecco, quello era il mio caso.
«Va bene,» disse lui, stranamente sicuro.
«Va bene cosa?» domandai, completamente rincretinita dalla sua presenza.
Simone sghignazzò, soddisfatto che avessi perso il filo del discorso. Possibile che mi bastasse rendermi conto della sua prestanza fisica per disconnettere i neuroni?
Ti devo anche dare una risposta? Oppure preferiresti che mentissi?
Sei spietatamente sincero.
«Giocherò come si deve,» annunciò lui tranquillamente e pericolosamente vicino.
Camerinocamerinocamerinocamerino.
Quell’unica parola si ripeté in continuazione nella mia mente come una fastidiosissima litania insopportabile. Dovevo smetterla di ricorrere a quell’increscioso ricordo. Non era successo nulla, punto. Solo una stupida presa in giro.
«Perfetto, ora andiamocene prima che Sebastian dica in giro che ti ho rapito per stuprarti. Non si sa mai cosa gli passi per la testa,» sibilai acida.
Simone sembrò piuttosto divertito. «Sono queste le voci che circolano su noi due?» sghignazzò.
Lo fulminai con lo sguardo, dirigendomi verso la porta. «No, è solo il cervello malato di Sebastian che le può elaborare. Io e te siamo incompatibili, ricordalo. È solo per quieto vivere che ancora non ci siamo ammazzati a vicenda.»
Simone mi bloccò la mano sul pomello della porta.
Deglutii a fatica, sentendo il suo corpo accaldato e ansante a pochi centimetri dal mio. C’era troppa tensione, si percepiva nell’aria ed io non riuscivo a contenermi. Dovevo darmi una svegliata, altrimenti sarei passata per idiota.
Già nel camerino avevo fatto la figura della demente.
«Puzzi come una capra,» gli dissi, scrollandomelo di dosso.
Simone spense tutto l’entusiasmo con cui aveva provato a burlarsi di me per l’ennesima volta, e tornò in posizione d’attacco. «Parli di me o di te, lil’Elf?» sghignazzò.
«Sei tu quello sudaticcio,» osservai ovviamente.
Mi rivolse un ghigno compiaciuto. «Peccato che soltanto uno di noi due abbia quel tanfo di spocchiosa superiorità avvocatesca, che non si lava di dosso nemmeno con l’acido.»
«Spocchiosa superiorità?» ridacchiai ironica. «Ma bene! Abbiamo studiato il vocabolario nel tempo libero?» lo schernii.
Simone s’adombrò, evidentemente offeso. Non mi rispose ma fece pressione sul pomello e aprì la porta. Prima di uscire mi rivolse un ultimo sguardo. «Vincerò questa partita,» annunciò quasi profetico. «E tu dovrai liberarmi da Elizabeth.» Poi se ne andò ed io rimasi a fissare il pavimento udendo ancora il rimbombo dei tacchetti dei suoi scarpini sul linoleum.
Ritornai in pieno possesso delle mie facoltà mentali dopo dieci minuti buoni, così decisi di tornare in tribuna, dove Sofia mi aspettava in attesa di spiegazioni.
Mi sedetti di peso, tra Gabe che continuava a picchiettare le dita sul tablet, e Sofia che non la smetteva di fissarmi, con un sorrisetto che le increspava le labbra.
«Dove sei stata?» mi chiese con furbizia.
«A prendere da bere,» mentii.
«E com’è non hai né acqua, né aranciata in mano?» osservò sarcastica.
Imprecai mentalmente per quella svista. «Avevo sete e l’ho tracannata tutta.»
Un’ottima scusa, complimenti.
Grazie, il merito è anche tuo.
Quando si tratta di salvare il nostro compare laggiù, fasciato nelle mutande di pizzo che indossi.
Non indosso mutande di pizzo.
Sicura?
Sofia continuava a fissarmi con la coda dell’occhio, dando colpetti col gomito a Ruben che annuiva soddisfatto. Sembrava che quei due manovrassero i miei fili quasi fossi diventata Pinocchio senza accorgermene.
Fu Gabriele però ad interrompere quel silenzio, senza mai abbandonare gli occhi dall’aggeggio che aveva in mano. «Sai, vero, che sotto quella gradinata non c’è alcun bar?» mi disse con ovvietà ed io diventai bianca come un lenzuolo.
Appunto mentale per il futuro: studiare la planimetria dell’Emirates Stadium prima di mentire a qualsiasi membro della famiglia Sogno.
 
Il risultato finale fu di tre a zero per l’Arsenal, di cui una doppietta di Simone. Cominciai a scendere i gradini della scalinata con un po’ di soddisfazione, quasi avessi contribuito io stessa a giocare quella partita.
Magari l’allenatore avrebbe potuto assumermi come Mental-Coach.


Ed eccoci alla fine di questa seconda parte del non capitolo!
Okay, quante mani alzate da parte degli haters perché l'ho diviso? (*coro* IO!IO!IO!) U.U era troppo lungo, ammettiamolo.
Detto ciò, finalmente una bella partita dell'Arsenal ** ci voleva proprio! Adesso che è re-iniziato il campionato e che mi sento proprio nel vivo della questione, direi che ci sta a pennello!
E insomma, insomma. Sembra che la nostra Venuccia sia sempre più presa dal bell'avvocato dagli occhi di ghiaccio ma anche Simone sta guadagnando terreno, devo ammettere. Certo, c'è la complicità di tutto il resto della famiglia Sogno, ma vabbé xD
Bene, ora mi rimetto ai vostri giudizi e ci ribecchiamo al prossimo capitolo!
Nel frattempo posso rassicurarvi sul destino di Come in un Sogno, che trovate  nell'account di _Shantel. Lei non so che fine abbia fatto, però ho deciso di continuarla a mie spese, e concluderla. Non so quali potrebbero essere i risultati, ma almeno ci proviamo!

Baci a tutti!

Crudelie si nasce = gruppo d'auto(cazzeggio)re

Storie consigliate:
- Until my last step (Daphne921);
- Unexpected as you (_caline);  <--------------------------- VUOLESOSPENDERELASTORIA! DITEGLIENE 4!!!! (1. Wtf?? 2. Scrivi! 3. Ti picchio! 4. T.T tipregononuccidereAdam)
- In her shoes (HappyCloud);
- Il meraviglioso mondo di Alice (_Shantel);
- Secret's Blue (BlueSmoke);


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
betato da Nes_sie

|| Booktrailer ||
 
Quella notte non riuscii a dormire bene, anzi, non lo feci affatto.
Ogni due secondi mi svegliavo e controllavo il cellulare, in attesa di un SMS di risposta da parte di James, ma la casella rimaneva sempre vuota.
Mi odia.
D’altronde te la sei cercata, o no?
Mettici pure il carico da undici, tu.
Sto solo facendo una constatazione.
Passai l’intera nottata all’incirca in questo modo, arrovellandomi il cervello sui motivi che mi avevano spinta a rinunciare ad una serata in compagnia del mio bell’avvocato. Ovviamente non ne trovai di validi.
In compenso, il russare sonoro di Simone riusciva a penetrarmi nelle orecchie anche a due camere di distanza. Una cosa insopportabile. Riusciva ad infastidirmi anche senza volerlo. E pensare che soltanto per fargli compagnia avevo dato buca a James. Ancora adesso mi sarei morsa i gomiti a ripensarci.
Quel pallone gonfiato non si meritava niente. Tanto meno la mia compagnia.
Sbuffai fissando il soffitto e rigirandomi per l’ennesima volta sul grande materasso a due piazze. Di questo passo, l’indomani avrei avuto due occhiaie talmente scure da assomigliare ad uno zombie. Perché dovevo rendermi così ridicola senza alcuno sforzo?
Nessuno ci riusciva meglio della sottoscritta, dannazione.
Scostai le coperte e le feci aggrovigliare ai piedi del letto. Il pigiama coi porcellini mi faceva sudare, anche se il clima rigido di Novembre diceva il contrario.
Ronf Ronf
Dio, quanto rumore faceva! Com’era possibile che non lo avessi mai notato nelle notti precedenti? Certo, magari non avevo mai passato un’insonnia colossale come quella, eppure era estremamente seccante tentare di riaddormentarsi a forza con quel chiasso di sottofondo.
Dannato moccioso.
Vallo a svegliare.
Certo, così mi stacca la testa a morsi.
Allora trovati un passatempo. Non ho proprio voglia di dormire stanotte.
Anche il mio caro Cervello mi remava contro, ma d’altronde come potevo biasimarlo? Ci era voluta un’immensa dose di stupidità per rinunciare a quella nottata in compagnia di Jamie, dopo che avevo desiderato tanto uscire di nuovo con lui.
Non lo vedevo dalla sera della cena. E del bacio.
Arrossii e sentii ancora più caldo.
Ma aveva i riscaldamenti a quaranta gradi centigradi? Sembrava di stare nel Sahara!
Mi alzai definitivamente, rinunciando anche ad indossare le pantofole. Raggiunsi il timer del riscaldamento automatizzato e cercai di guardare la temperatura.
Segnava 77.0° Fahrenheit. Nulla più che venticinque normalissimi gradi.
Eppure stavo morendo.
Sbuffai infastidita anche da quell’inutile particolare, così decisi di recarmi in salone e accendere il televisore, tanto avrei passato la notte completamente in bianco. Mi rannicchiai sul divano di pelle bianca, immacolato stranamente – soprattutto conoscendo quel bambino di Simone – e afferrai il telecomando.
Alle 3.05 del mattino non c’era assolutamente niente.
Vidi la fine di un tg della CNN, cercai di sopportare i primi minuti di un vecchio film in bianco e nero datato 1950 ma cambiai quasi subito canale, infine optai per una specie di partita in differita. Calcio, ovviamente.
Anch’essa era molto vecchia, infatti, i colori erano sbiaditi e i calzoncini molto più corti di quanto ricordassi. Pensai che quella visione avrebbe funzionato meglio della valeriana o del sonnifero.
Posai la testa sul cuscino e segui ciò che diceva il telecronista.
Non mi ero accorta che il fastidioso ronfare s’era acquietato.
«Che cavolo fai?» disse una voce cupa e assonnata alle mie spalle.
Mi voltai scorgendo un Simone insonnolito che si grattava la testa, con gli occhi ridotti a fessure.
«Non riesco a dormire,» ammisi.
In fondo era la verità.
Lui grugnì infastidito, sedendosi sul bracciolo e stropicciandosi un occhio. «Allora hai deciso di non far dormire nemmeno me, eh?»
Lo fissai di sbieco. «Se fosse stata quella l’intenzione,» gli dissi sbadigliando. «Saresti sveglio da molto più tempo.»
Sì, era suonata proprio come una minaccia, ma non m’importava. Lui aveva contribuito alla mia insonnia col suo ronfare ed io avrei contribuito alla sua. Ben gli stava.
«Tsk,» soffiò. «Fammi spazio, rompicoglioni.»
Stava contribuendo a farmi incazzare, davvero. Alle tre del mattino non poteva – non era umanamente possibile – comportarsi da coglione come faceva lui.
«Fottiti,» gli risposi, rimanendo dov’ero.
Lui mi fissò dall’alto del bracciolo del divano (e ovviamente del suo metro e novanta). Aveva ancora gli occhi socchiusi, ma il suo aspetto stravolto mi fece un effetto davvero strano.
«Non abbassi mai la guardia, eh? Manco a st’ora?» ridacchiò, alzandosi e facendo il giro del tavolinetto per sedersi dalla parte opposta. Rannicchiò sul divano quelle sue chilometriche gambe, invadendo, come suo solito, anche il mio spazio.
«Se lo facessi, tu vinceresti. E non posso permetterlo,» lo avvertii.
Il telecronista continuava a raccontare ciò che succedeva in campo, mentre una delle due squadre che giocavano avanzò verso l’area di rigore. Sentii Simone sghignazzare.
«Com’è che ti vedi la finale di Coppa d’Inghilterra del ’72?» chiese, sbadigliando di nuovo, come un gatto.
Scrollai le spalle e posai di nuovo la testa contro il bracciolo. Cercai in tutti i modi di non sfiorarlo con la punta dei calzini, ma mi era quasi impossibile. Le gambe di Simone erano talmente lunghe che inevitabilmente s’intrecciavano alle mie, tozze e piccole.
«Non c’era nient’altro,» bofonchiai.
Simone allora allargò le braccia e le dispose lungo tutto lo schienale del divano, spaparanzandosi alla bell'e meglio. «’Sta partita me l’ha sempre raccontata zio. È stata una delle più memorabili dell’Arsenal.»
Ipotizzai che lo zio a cui si riferiva fosse il padre di Leotordo, visto che a Mr. Sogno senior non andava molto a genio che Simone giocasse. Chissà perché, poi.
«Mh, interessante,» sbadigliai.
«Non te ne frega niente, immagino.»
«Ma no! Cosa dici? Il calcio è il mio mondo, non vivo senza di lui,» esclamai sarcastica.
Simone mi fissò di traverso. «Sei davvero stronza.»
«E tu sei un bambino,» gli risposi.
Nessuno dei due parlò per il successivo quarto d’ora. Soltanto il rumore della televisione riempiva il salotto. Lentamente sentii le palpebre farsi più pesanti, come se quel brusio del telecronista in sottofondo riusciva a conciliarmi il sonno.
Cercai di rimanere sveglia, almeno per non addormentarmi sul divano. Ero a pochi centimetri da Simone, così alzai lentamente la testa per sbirciare cosa facesse.
Soffocai una risata quando gli vidi il capo completamente abbandonato sullo schienale del divano, con la bocca aperta, il rivolo di bava che gli colava ad un angolo e un russo lievemente accennato.
Aveva posato le lunghe gambe sul tavolinetto di fronte al divano e se la dormiva della grossa.
Forse quando dormiva era uno dei rari momenti in cui sembrava tenero, per non dire normale. Inoltre, in quella strana posa pareva ancora più piccolo di quanto sembrasse.
Cercai di allungarmi per prendere il telecomando e spegnere il televisore, ma mi arresi quando constatai che era troppo lontano. Ormai avevo i piedi incastrati sotto il sedere di Simone ed erano piacevolmente caldi.
Ti rendi conto di cosa hai appena pensato?
Misi a tacere il mio cervello con un sonoro sbadiglio. Grazie a quella partita riuscii a prendere finalmente sonno e perciò decisi di non pormi troppi problemi.
Almeno l’indomani mi sarei risparmiata delle tremende e nerissime occhiaie.
 
Una lama di luce filtrò dalle tende mal tirate, colpendo in pieno il mio viso. Cercai di girarmi da un’altra parte, riprendendo sonno, ma non c’era verso di far scomparire quel raggio di sole fastidiosissimo.
Avevo ancora la testa pesante, come se avessi preso la più colossale sbornia – e in vita mia era successo solo una volta, a Cambridge, durante il master. Ero una ragazza seria, io.
Poi sentivo un forte peso sullo stomaco, quasi come quella volta in cui il gatto scemo di Robbeo, Scorreggia, mi si era acciambellato sulla pancia e ronfava beato. Ero stata una settimana con la respirazione corta, perché nel sonno non mi ero accorta del felino.
Presi una lunga boccata d’ossigeno e spalancai gli occhi, focalizzando bene dove fossi.
Ricordavo vagamente cos’era successo la sera prima, ma fui disturbata subito dal rumore del televisore. C’era una televendita di coltelli, una cosa che nessuno si sarebbe mai comprato a meno che non fosse un appassionato di cucina. E quello non era il mio caso.
Mi ero addormentata in soggiorno, sul divano, e il forte mal di schiena provava quanto fosse scomodo quel luogo per addormentarsi.
Cercai di alzarmi per spegnere l’apparecchio, quando riuscii ad issarmi sui gomiti e scoprii cosa fosse la fonte di quel peso che sentivo alla bocca dello stomaco.
Sbattei le palpebre un paio di volte, giusto per essere sicura prima di urlare.
Mi ritrovai davanti agli occhi un ciuffo folto di capelli scuri, castano scuro per la precisione, completamente arruffati. Trovai conferme dei miei sospetti, quando mi sporsi lievemente più di lato, vedendo Simone completamente assorto in una dormita di quelle da neonato di due settimane.
Okay, calma. Non ti agitare, Ven, o ti parte un embolo.
Non sapevo come, ma durante la notte, tra uno spostamento e l’altro, io ero finita a pancia all’aria, con la testa sul bracciolo del divano e un principio di scoliosi, mentre Simone a pancia sotto, con il suo testone sul mio povero stomaco e le braccia ciondolanti.
Fra tre centesimi di secondo, urlo.
Così chiameranno la polizia, genio.
In tutto quel mio trambusto mentale, Simone continuava a dormire ignaro e beato, strofinando sempre di più quel suo capoccione sui miei poveri addominali (scesi, perché non avevo addominali).
Alzò una di quelle pale che aveva al posto delle mani e la infilò, senza nessuna remora, sotto la mia maglietta del pigiama.
Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Afferrai il cuscino che avevo sotto la testa, mi assicurai di prenderlo per la zip, in modo da non rompergli di nuovo il naso, e cominciai a colpirlo con forza, urlando maniacopervertitobastardo! senza mai fermarmi.
Simone si svegliò di soprassalto, sotto una valanga di cuscinate. «Fe... ma che... porca putt...!» disse, cercando di parare i colpi.
Continuai ad infierirglieli senza ritegno. «Ferma!» urlò, tentando di bloccare la mia furia omicida. «Li mortacci tua…»
Alla fine riuscì ad afferrarmi entrambi i polsi e a stringerli in una presa ferrea. Tentai più volte di strattonarli ma non ci riuscii.
Mi teneva bloccata, in ginocchio sul divano, con i polsi sopra la testa. Sottostavo al suo sguardo a metà tra l’irato e l’assonnato. Con la mano libera si stropicciò un occhio.
«Ora mi spieghi che cazzo ti è preso!» ringhiò infastidito.
Ridussi gli occhi a fessure, intenzionata a fargliela pagare. «Lasciami,» gli intimai.
Simone sbuffò in una risata. «Se, così riprendi a picchiarmi. Non sono così stupido.»
«Sicuro?» lo schernii.
Ora fu il suo turno di linciarmi. Se ne stava immobile, tenendomi ferma soltanto con una mano. La sua presa era di ferro. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse alto e... grosso. Se riusciva a bloccare ogni mio movimento soltanto con una mano, chissà di cos’altro sarebbe stato capace.
«Ti sei svegliata con il pepe ar culo?» ringhiò frustrato. «Cazzo, sei proprio svitata!»
Eh no! Adesso esagerava!
«Io? Ma se mi stavi molestando?» gli urlai addosso.
Lui fece una faccia piuttosto perplessa, poi sgranò quegli enormi occhi scuri. «Ma se mi sono soltanto addormentato!» si giustificò ridendo.
Alla fine mi lasciò andare e si alzò, raggiungendo la cucina. «Sei proprio una frustrata, fattelo di'. Avresti proprio bisogno di una sana, lenta, appagante scopata.»
Infastidita da tutta quella sua leggerezza nel trattare la questione, lo seguii puntellando i piedi sul pavimento. «Ripeterlo non ti darà ragione!» gli urlai addosso. «E poi sei proprio fissato col sesso. Ci sono altre cose al mondo, sai?»
«Tipo l’avvocato?» mi schernì.
Senza pensare gli diedi corda. «Tipo l’avvocat… ehi!» protestai subito dopo, capendo che stava parlando di Jamie.
Lo vidi cominciare a sghignazzare mentre afferrava i suoi cereali. Odiavo quando riusciva a spuntarla, soprattutto perché non c’era mai riuscito nessuno con la sottoscritta. Nei dibattiti ero infallibile.
«Ti ha dato buca ieri sera, eh? Ed ora ti scaldi tanto perché ti sei svegliata con un uomo tra le gambe. Dovresti esserne contenta,» asserì, associandosi al famoso uomo della frase.
Lo avrei fucilato. Se non era oggi, sarebbe stato domani. Era solo questione di tempo.
«Ma ti senti? Sei proprio un marmocchio con l’ego ingigantito. Non ti passa nemmeno per il cervello che io non sia minimamente attratta da te? Che magari qualcuna possa respingerti? Che finalmente tu prenda la batosta che ti meriti?»
Bugia.
«No,» rispose.
«E allora come spieghi il fatto che non mi fai alcun effetto?» gli chiesi beffarda. Avevo ragione, punto.
Simone si versò i cereali nella tazza e vi aggiunse del latte. «Sei lesbica, ecco perché. Ho visto con guardi mia sorella!» e mi puntò il cucchiaio contro.
Idiota.
Strinsi le mani a pugno e cercai di non strozzarlo con le mie stesse mani. Lì, seduta stante. Lo avrei ammazzato di botte un giorno o l’altro. Mi faceva prudere le mani.
Mi avrebbe mandata al manicomio.
«Ti odio,» mormorai, fissandolo seria. «Giuro che quando tutto questo finirà non vedo l’ora di andarmene e allontanarmi il più possibile da te. Aria.»
«Nessuno ti costringe a stare qui,» insistette lui.
Puntellai le mani sui fianchi. «Ah, sì? Così saresti libero di trombarti tutto quello che si muove, eh?»
Simone trangugiò una cucchiaiata di cereali. «Non proprio tutto quello che si muove. Gli elettrodomestici non li ho ancora ingravidati.»
Scossi la testa sconsolata. «Quanto sei stupido.»
«Acida.»
Mi allontanai per dirigermi in bagno e prepararmi per andare in ufficio. «Moccioso.»
«Gnappa.»
«Scemo.»
«Vecchia.»
«Dio, quanto ti odio!» sbottai.
Simone mi guardò sghignazzando, affacciato alla porta del bagno con la tazza di cereali in mano e le pantofole a forma di ippopotamo. «Sei sexy quando imprechi.»
Implosione di Venera tra due secondi.
«Sì? E sono sexy quando ti lancio questo?» gli ringhiai, afferrando la saponetta e centrandolo in fronte.
Dopodiché il resto fu solo una guerra.
 
In ufficio ci arrivai con un diavolo per capello, e non in senso metaforico. Avevo il caschetto stravolto. Più tentavo di pettinarlo da una parte e più l’altra schizzava verso il cielo quasi fossi passata in un campo di elettricità statica.
Tutta colpa di Simone che aveva cominciato a schizzarmi l’acqua del lavello addosso, inumidendoli. Non che il tempo di quel lunedì mattina aiutasse.
Oltre quel flebile raggio di sole che mi aveva svegliata, non c’era stato più nulla. Né sole, né cielo, ma solo una densa, impenetrabile coltre di nubi grigie e minacciose. Novembre stava dando il peggio di sé in quella stagione e non osavo pensare cosa sarebbe successo a Natale.
«Sono ritornati gli anni ’80 forse? La disco-music?» ironizzò Yuki, non appena mi vide.
Mi limitai a ringhiarle contro mentre mi toglievo il mio cappotto a doppio petto. Cercai con lo sguardo la presenza di James e mi sentii parecchio nervosa.
Di cosa, poi?
Era lui che non mi aveva più risposto dopo il messaggio della sera prima. Dopo che gli avevo dato buca per fare da babysitter a quel moccioso. Eppure era come se mi sentissi profondamente in colpa.
Non sei completamente innocente, agnellino.
Mi ricordò il mio Cervello. In effetti, col senno di poi, mi sentivo davvero una stupida ad aver rischiato di mandare all’aria quella pseudo-storia che sarebbe potuta nascere tra me e Mr. Abbott nella freddezza di quella città e di quell’ufficio.
Se fossi stata in James, mi sarei lasciata da sola. Anzi, avrei chiesto il trasferimento.
Intravidi Mark, un giovane tirocinante come me, nei corridoi. «Hai visto Mr. Abbott?» gli domandai, col cuore in gola.
È emigrato in Antartide pur di non vedere la tua brutta faccia.
Lui scrollò le spalle. «È andato ad una riunione stamattina,» rispose, indicandomi l’ufficio di Abbott senior, però.
Sorrisi imbarazzata. «Non lui,» sospirai. «L’altro Abbott.»
Cercai di non far cogliere a Mark la punta d’imbarazzo nella mia voce, anche perché nessuno in ufficio doveva sapere nulla di ciò che era successo tra noi due. Di certo, se avessi continuato a comportarmi in quel modo e a dargli buca, non ci sarebbe stato niente da nascondere.
«È arrivato stamattina presto. Sta in ufficio da allora, non è ancora uscito.»
Brutto segno. Bruttissimo.
«G-Grazie,» risposi e lo lasciai proseguire.
Ora avrei avuto davanti a me due possibilità: rimanermene in disparte, senza far nulla, e sperare che prima o poi sarebbe stato lui a cercarmi – se veramente gli importasse qualcosa di me –, oppure prendere il toro per le corna e affrontare la situazione.
Venera Donati prendeva di petto ogni avversità.
Mi incamminai verso l’ufficio di James, indugiando di fronte alla porta di legno scuro e posando una mano sul pomello. Ripensavo ancora a quanto fossi stata stupida a rinunciare a quella serata con lui e mi diedi mentalmente dell’idiota.
Ero fatta per stroncare le storie sul nascere. Avrei potuto vincere un premio per quello, se mai fosse esistito.
Campionessa mondiale di storie mandate a puttane!
Alla fine mi feci coraggio, in fondo non mi ero mai tirata indietro da nulla. Se James avesse troncato tutto, tanto meglio, avrei potuto concentrarmi unicamente sul lavoro e nient’altro. La pseudo-storia con lui era stata unicamente una gratifica.
Mi preparai a bussare alla porta, quando sentii l’anta dell’ufficio di Abbott Senior spalancarsi. Il capo canuto del mio boss fece capolino, inquadrandomi subito.
«Miss Donati?»
«Si?»
Mark aveva detto che Abbott era in riunione, cosa mai voleva dalla sottoscritta? Avrà saputo di me e James? Chi mai avrebbe potuto dirglielo? Che razza di spie c’erano in ufficio? Eravamo forse stati pedinati?
Sarò licenziata, me lo sento.
«Vorrei vedere te e James nel mio ufficio, tra poco. Va bene?» mi disse ed io annuii quasi meccanicamente. «Potresti chiamarlo?»
«C-Certo Mr. Abbott,» dissi.
Almeno avrei avuto una scusa plausibile per entrare nell’ufficio di James.
Sarei voluta sprofondare.
Il mio capo mi sorrise e si chiuse la porta alle spalle, tornando alla sua riunione. Il pericolo non era ancora passato. Sentivo come la strana sensazione che August Abbott sapesse qualcosa. Non potevo rischiare di perdere il lavoro quand’ero così vicina all’incontro preliminare con quel bastardo di St. James.
«Che ti ha detto August?» mi chiese Yuki con quella sua irritante vocetta.
Scrollai le spalle. «Non ti riguarda.»
Già dovevo litigare in privato, a casa, con quel marmocchio di Simone. Ci mancava anche la sua copia malvagia e al femminile. Yuki era una zecca, una pulce che continuava a succhiarti il sangue fino a lasciarti priva di sensi.
«Aria di guai in vista, eh?» insinuò, infastidendomi più del dovuto.
Mi voltai verso di lei e la fissai come si guarda un tacchino pronto per lo spiedo. «Dove vuoi arrivare?»
Lei scrollò le spalle e si tolse dalla spalla i lunghi capelli corvini. «Nulla…» e lasciò la frase volutamente in sospeso.
A quel punto avrebbe dovuto vuotare il sacco. «No, spiegati.»
Sentii dei passi dall’altra parte della porta, nell’ufficio di James. Non ci badai. Dovevo sapere se quella piccola strega giapponese sapesse troppo.
Lei ridacchiò e mi fissò assottigliando lo sguardo. «Sai cosa si dice in giro…» mormorò, senza aggiungere altro.
Ecco, lo sapevo! Come avevano fatto a capire tutto? Come facevano a sapere di me e James quando eravamo stati così attenti!
Ci eravamo visti solamente sabato sera, in un luogo abbastanza poco frequentato da quelli dell’ufficio. Eppure eravamo stati smascherati. Se quella voce di corridoio avesse preso piede, sarei stata messa alla porta alla velocità della luce.
«Parla chiaro, Yuki,» la minacciai.
Lei mi si avvicinò sbatacchiando sul parquet quel suo vertiginoso tacco dodici. Indietreggiai con il busto, ma lei riuscì comunque a raggiungere il mio orecchio.
«Sappiamo di te e il calciatore. Non appena avrò qualche notizia in più, sarai fregata. Non si possono intrattenere rapporti coi clienti. Articolo 18, paragrafo 3 della circolare passata in ufficio,» mi sussurrò, andandosene successivamente e lasciandomi impalata e interdetta davanti alla porta di James.
E tu che pensavi…
…che scema che sono stata.
Cominciai a sghignazzare senza rendermene conto. Quella cretina di Yuki, insieme agli altri tirocinanti deficienti e figli di papà avevano creduto sin dall’inizio che io me la intendessi con Simone. Che scemi.
Quei polli avevano preso un granchio enorme ed io avrei potuto tirare finalmente un sospiro di sollievo.
D’improvviso sentii la maniglia della porta scattare e mi voltai di riflesso. Ovviamente andai a sbattere contro James che sussultò sorpreso.
Era da un po’ che non facevi figure di merda, giusto?
Indietreggiai mortificata. «Scusami,» dissi, riprendendomi quasi subito. «Stavo per venire a chiamarti.»
Cercai di incrociare lo sguardo di Jamie, almeno per leggere attraverso il suo sguardo se fosse o meno infuriato con la sottoscritta. Aveva tutte le buone ragioni per esserlo.
Non vi lessi nulla. Era imperturbabile.
Cominciai davvero a temere di aver compromesso anche il nostro rapporto lavorativo, non solo quello sentimentale.
«Stavi origliando per caso?» chiese serio.
Deglutii a fatica e mi affrettai a dissentire. «No! Stavo parlando con Yuki qui fuori. Tuo zio ha detto che vuole vederci nel suo ufficio più tardi, stavo venendo a dirtelo.»
…e a dirti che mi dispiace averti dato buca ieri sera.
James si limitò ad annuire. «Sicuramente vorrà metterci in guardia per l’incontro preliminare di giovedì.»
Avevo completamente rimosso che quella stessa settimana avremmo riunito le due parti. Finalmente avrei visto questa famigerata Miss Cloverfield e il viscido St. James.
L’avvocato continuò a rimuginare. Sembrava scortese interrompere i suoi pensieri, ma presto o tardi avrei dovuto sapere il motivo per cui non mi aveva richiamata.
Era stata tutta colpa mia. Anzi, tutta colpa di quel deficiente di Simone.
«Senti James…» tentai di dirgli, anche se momentaneamente il mio Cervello era in sciopero. Non riuscivo a trovare le parole esatte per non sentirmi in colpa e cadere inevitabilmente dalla parte del torto.
Sei in torto.
Lui mi bloccò con un cenno della mano. Si guardò intorno con sospetto. «Vieni dentro, così parliamo meglio.»
Lo seguii con un groppo in gola, grande quanto una noce. Era una di quelle rare volte in cui Venera Donati rimaneva a corto di parole. Stavolta nemmeno tutto il codice civile sarebbe riuscito a darmi una mano ad uscirne.
Gesù, perché non ero andata a casa sua Domenica?
James si chiuse la porta alle spalle e tirò le tendine. Un po’ di privacy sicuramente avrebbe giovato a quello che di lì a poco mi avrebbe detto.
Venera, davvero. Sono rimasto molto deluso dal tuo comportamento, così poco adulto. Ho sbagliato, sei ancora troppo immatura per me.
Immatura. Ragazzina. Nessuno mi aveva mai additato quel soprannome.
Lo guardai. Quegli occhi azzurri erano così limpidi che dimenticai per un momento il motivo per cui c’eravamo chiusi nel suo ufficio.
«Ven, io…» cercò di iniziare lui, notevolmente imbarazzato.
Eccolo il momento. Adesso mi avrebbe detto che non c’era futuro per noi, che quel bacio dato sotto casa di Simone era stato solo uno sbaglio. Un castello di carte.
«Lo so cosa vuoi dirmi. Non ti biasimo. Sono stata proprio superficiale a rinunciare alla serata di ieri sera. Sono stata una sciocca. Se vuoi troncare, sono d’accordo,» sputai tutto d’un fiato.
Non c’era bisogno che cominciasse a dire “la colpa è solo mia, ma noi due non funzioniamo. Rimaniamo amici”. Ero fino troppo stufa di quelle scuse.
Rialzai lo sguardo e vidi Jamie fissarmi stupito. Dopo cinque secondi netti cominciò a ridere di cuore, tenendosi lo stomaco.
Mi stava forse prendendo in giro?
«Sappi che non è divertente…» commentai acida. Oltre il danno, anche la beffa?
Lui allora mi fermò, prima che potessi cominciare ad insultarlo. Che fosse il mio capo oppure no, poco m’importava. «Davvero pensi che voglia troncare tutto?» mi chiese stupito.
Annuii sempre più sospettosa. Cosa stava cercando di dirmi?
Si avvicinò lentamente, facendomi sussultare. Avrei dovuto fidarmi, oppure era tutto un pretesto per umiliarmi fino alla fine? In fondo, se si fosse vendicato, non lo avrei nemmeno biasimato.
Ero una persona infima.
Mi posò una mano sul capo, cominciando ad accarezzarmi i capelli. Il suo sguardo si addolcì di colpo ed io smisi di respirare.
Riusciva sempre a sorprendermi, a farmi uno strano effetto. Chiunque al suo posto mi avrebbe mandato letteralmente a quel paese dopo quel mio comportamento sconsiderato, ma James si dimostrava sempre più maturo e diligente.
Lui riusciva a prendersi le sue responsabilità, lui non s’infervorava per un nonnulla, non perdeva mai le staffe senza un motivo valido. Lui era maturo.
«Figurati se avrei rinunciato a te così presto, spaghetti-girl,» mi disse sorridendo e chinandosi sempre di più. Pericolosamente.
D’istinto chiusi gli occhi e cominciai a sentire caldo, avvolta nel mio maglioncino di cachemire color prugna. Non riuscivo più a fermare il cuore che sentivo correre, sempre più velocemente. La verità è che mi era mancata la compagnia di James, anzi, mi era mancato lui. Era come ritornare finalmente a casa, dopo esser stata catapultata in un altro mondo.
Come Dorothy dopo essere tornata nella sua casa nel Kansas, dal mondo di Oz.
Le sue labbra cercarono le mie, timidamente, senza alcuna invadenza. Il suo tocco era gentile, dolce, ma ben presto acquistò trasporto perché sentii dentro un forte bisogno di approfondire. Il suo profumo m’inebriava la mente, me l’annebbiava, così mi aggrappai con tutte le forze alla sua giacca firmata per non cadere.
Il mondo vorticava veloce attorno a me e mi sentivo parecchio strana. Era da tanto che non mi sentivo così a mio agio con qualcuno. Al college avevo avuto i miei flirt – rari, ma li avevo avuti – eppure era sempre venuta prima la mia carriera nei rispetti di tutto il resto.
Ora quella mia convinzione cominciava a vacillare.
Sentii la sua lingua farsi spazio, timida e tentatrice, tra le mie labbra dischiuse. La accolsi senza timore e mi lasciai finalmente andare senza pensare alle conseguenze. Ci sarebbe stato tempo per quelle.
Ci staccammo quando il fiato venne meno, ma James premette la fronte contro la mia e rimanemmo a fissarci negli occhi. Ritornai con la memoria a quand’era stata l’ultima volta che eravamo stati così vicini, e mi venne in mente quel pomeriggio nel mio appartamento, con la febbre alta.
Sorrisi senza quasi accorgermene.
«Che c’è?» mi domandò lui, curioso. «Bacio talmente male che ti vien da ridere?»
Scossi la testa. «No, scemo,» ridacchiai. «Ripensavo a quel pomeriggio nel mio appartamento, quando per colpa di Simone e del suo stupido allenamento mi ero beccata l’influenza.»
Tirare in ballo il calciatore in quel momento non fu una mossa abbastanza furba.
Lo sguardo di James deviò dal mio. Si andò a sedere su una delle due poltroncine per gli ospiti, di fronte alla sua scrivania.
Si picchiettò sulla gamba e m’invitò a sedermi. Era una cosa che m’imbarazzò subito, perché introduceva un livello d’intimità che ancora non avevamo raggiunto.
Decisi che in quella sarebbe stata la giornata del chissenefrega. Mi sedetti sulla gamba sinistra di James e tornai a guardare i suoi occhi. Ero stata proprio stupida a tirare in ballo Simone. Volente o nolente, quel moccioso riusciva sempre a rovinarmi i piani.
«È stato in quel momento che ho capito che provavo qualcosa nei tuoi confronti, Ven,» disse lui all’improvviso.
Rimasi a corto di parole, di sensazioni, di tutto. Mi sentii completamente vuota. Era sbagliato farsi strane idee, era inconcepibile che cominciassi già adesso a pensare il meglio di lui, ma tutto sembrava così perfetto.
«Quindi non sei arrabbiato per l’altra sera?» gli chiesi.
James mi sorrise. «Certo che no,» mormorò tranquillo. «Sono sicuro che hai avuto i tuoi problemi.»
Veramente era un solo problema, unico. E aveva anche un nome: Simone.
«E perché non hai risposto ai miei SMS?» gli domandai di getto.
Ci ripensai quasi subito, anche per il tono di voce preoccupato che avevo assunto. Parevo già una fidanzata gelosa sull’orlo di una crisi isterica.
L’avvocato, però, parve gongolare.
Mai farsi vedere così coinvolte di fronte ad un uomo. Devono sempre rimanere sulle spine.
Errore da principiante, davvero. Forse l’aver lasciato perdere le relazioni sociali in favore del master in Diritto Internazionale non era stata una così brillante idea.
«Si era scaricato e non so per quale motivo il carica batterie non voleva funzionare. Ho dovuto usare quello in ufficio stamattina,» e mi indicò il suo Blackberry in carica sulla scrivania.
Avrei voluto cominciare a ridere istericamente, ma preferii rinunciare. Mi ero proprio comportata da fidanzata gelosa e avevo fatto la figura della ragazzina immatura, visto e considerato che era stata la sottoscritta a dargli buca.
Mi spostai nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Già. Devo proprio esserti sembrata una stupida in questo momento,» gli confessai.
Alzai lo sguardo solo per incrociare i suoi occhi turchesi. «Non sono mai stata così.»
James sorrise teneramente. «Sono contento di essere il primo.»
In quel magico ed idilliaco momento, il cellulare che avevo nella tasca comincio a vibrare e la suoneria dei Queen riempì il piccolo studio di James.
«Scusami,» gli dissi, afferrandolo al volo dalla tasca dei pantaloni eleganti e leggendo il nome sul display.
Moccioso. Era la parola che continuava a lampeggiare ininterrottamente. Spinsi il pulsante rosso e lo ignorai bellamente. Poteva sopravvivere anche senza la sottoscritta, inoltre noi avremmo dovuto incontrare Mr. Abbott di lì a pochi minuti.
Jamse scosse la testa. «Potevi rispondere,» mormorò.
Gli sorrisi di rimando e cercai nuovamente le sue labbra. «Non era importante.»
Ci unimmo in un bacio casto. Avevamo soltanto bisogno di contatto fisico, di colmare quella distanza che c’era stata tra noi in quei giorni.
Sentire il calore di un corpo con l’altro.
Di un respiro caldo.
La carezza di capelli morbidi e setosi. Scuri come l’ebano.
Come quelli di Simone.
Mi staccai di colpo sentendo il pomello della porta scattare, così mi alzai in piedi più veloce di un fulmine e cercai di spiaccicarmi contro la parete alla velocità della luce.
Dalla porta dell’ufficio di James fece capolino la segretaria di Mr. Abbott, Lucy.
«Il signor August vi sta aspettando,» ci disse sorridendo, rivolgendo uno sguardo sin troppo languido al giovane avvocato.
«Arriviamo subito,» rispose lui, diplomatico.
La porta si richiuse alle sue spalle ed io tirai un sonoro sospiro di sollievo. «C’è mancato poco,» soffiai, con il cuore che mi batteva a mille.
James sorrise. «Quella telefonata ci ha salvati,» ridacchiò.
Per una volta concordai con lui e dovetti ricredermi su Simone. Il suo essere fastidioso a volte ci tornava utile.
Mi premurai di ringraziarlo quando sarebbe venuto il momento.
James si alzò e mi fece cenno di seguirlo. «Pronta ad affrontare la carica di zio August? È sicuro che vorrà metterci in guardia su St. James,» mi assicurò sorridendo e sfiorandomi la mano.
«Sono pronta,» dissi, sicura di me.
 
L’ufficio di Mr. Abbott profumava di pino. Notai che in un angolo della stanza c’era uno di quei profumini per l’ambiente automatici ed ebbi la risposta.
Ci fece accomodare sulle solite poltroncine antistanti la scrivania, mentre fissava lo sguardo fuori la finestra sorseggiando del the. Lanciai uno sguardo a James di sfuggita, lo feci di riflesso, senza pensare, e lo trovai ad osservarmi.
Ormai veniva naturale cercarci l’uno con l’altra.
Mr. Abbott si voltò improvvisamente, così tornai immediatamente nelle vesti di Venera Donati, avvocato senza macchia e senza paura.
Non era un cavaliere?
È uguale.
«Ragazzi,» mormorò, prendendo un altro assaggio di quella bevanda fumante e profumata. «Volevo sapere come vanno le ricerche in merito al caso di dubbia paternità di Mr. Sogno, siccome sono stato informato dell’incontro preliminare con St. James…» e lasciò volutamente la frase in sospeso.
Deglutii nervosa. Possibile che quell’avvocatuncolo da strapazzo riusciva a mettere pressione anche ad un grande uomo come uno dei fratelli Abbott?
James parlò per primo. «Abbiamo fatto un’indagine iniziale, interrogando i testimoni che quella sera erano presenti al bar e cercando conferme su orari e date,» disse, tirando fuori dalla cartellina un foglio con degli appunti. «Per ora segue la deposizione di Mr. Sogno, alla perfezione. Contiamo di proseguire da questo punto di vista ma ne sapremo di più solamente quando incontreremo l’accusa. Inoltre siamo intenzionati a richiedere il Test di paternità... Non abbiamo nulla da temere da St. James.»
Mr. Abbott annuì pensieroso. Prese un lento sospiro, poi si sedette alla scrivania e rivolse quei grandi occhi azzurri verso di me. Un lungo brivido mi corse lungo la spina dorsale.
«E lei cosa dice, Miss Donati? Ha ragione di credere di dover temere qualcosa da questo famigerato e giovane avvocato? Secondo lei cosa vuole Miss Cloverfield dal suo assistito?» mi chiese.
Premettendo che in quel lungo e angosciante week-end non avevo minimamente dato uno sguardo agli appunti e non mi ero occupata per nulla del caso, troppo impegnata a star dietro a James e a Simone contemporaneamente, cercai di fare mente locale.
In fondo, ero pur sempre una ragazza dalle doti brillanti.
E dalla bellezza nascosta.
Smettila!
Mi schiarii la voce, giusto per riordinare un po’ le idee. «Mi trovo completamente d’accordo col mio collega James,» iniziai, indecisa se appellarlo col nome di battesimo oppure col cognome. Sorvolai. «A parer mio non possiamo fare più di così per ora, dobbiamo necessariamente aspettare questo incontro preliminare e registrare cosa vogliono le parti. Sicuramente Miss Cloverfield ha le idee ben chiare, ecco perché si è avvalsa di Mr. St. James, ma le assicuro che non ha nulla da temere. James Abbott è egualmente valido.»
Suonava più come un elogio che come una vera e propria risposta alla domanda di Mr. Abbott, ma me la feci andare bene. Non ero ancora in grado di mandare indietro il tempo.
Per ora.
Mr. Abbott continuò a fissarmi con un’espressione riflessiva in volto. Chissà a cosa stava pensando.
Forse al modo per licenziarmi. Magari ero stata fin troppo gentile nei confronti di James e il vecchio sospettava qualcosa.
L’hai appena chiamato vecchio.
È vecchio. Ho detto solo la verità.
Infine sorrise. «Ho fatto proprio bene ad accoppiarvi. Sembrate molto affiatati e sicuri di voi. Lo studio ha proprio bisogno di una coppia così affiatata e non vedo l’ora che mi diate il resoconto dettagliato dell’incontro con St. James.»
Cercai di nascondere il rossore per quell’affermazione abbastanza ambigua. Se Mr. Abbott avesse saputo che il nostro non era solo un rapporto lavorativo, ero più che sicura che non sarebbe stato dello stesso avviso.
«Venera è un avvocato straordinario,» disse d’improvviso James, guardandomi e sorridendo.
C’era qualcosa di profondo dentro i suoi occhi, qualcosa che mi fece d’improvviso battere forte il cuore. Non era semplice attrazione fisica quella che sentivo, o almeno non la stessa che percepivo all’inizio. Era come se quel nostro strano rapporto evolvesse man mano che il caso di Simone prendeva piede.
Ad interrompere quel momento idilliaco ci pensò la mia suoneria dei Queen che riempì il silenzio di quell’ufficio profumato. Avvampai per l’imbarazzo, per essere stata talmente sciocca da non spegnere il telefono o almeno mettere la vibrazione, così mi affrettai a prenderlo per poi tentare di disattivarlo.
Mi bloccai quando lessi di nuovo il nome di Simone sul display.
Ma cos’era, una persecuzione per caso?
«Lo spengo subito!» dissi in preda al panico, rivolta a Mr. Abbott.
Pregai che James non avesse avuto la vista talmente lunga da capire chi era l’autore di tutte quelle telefonate. Maledetto marmocchio.
«No, prego. Faccia pure. Sarà sicuramente importante,» e mi sorrise bonario.
Nei suoi occhi azzurri rividi per un attimo quelli di James. Alla fine il “vecchio” era una persona davvero speciale e ne tenni conto.
«Avanti, rispondi,» aggiunse invece il giovane avvocato, lapidario.
Okay, aveva letto il nome sul display. Dannata vista di falco.
«Si tratta di Mr. Sogno. Ormai ha un rapporto davvero unico con la nostra Venera,» confessò in un attimo di follia.
Se prima mi aveva dato modo di pensare bene di lui, che fosse un ragazzo maturo e in pieno possesso delle proprie facoltà mentali, mi sbagliavo di grosso. Avrei dovuto aspettarmelo, in fondo era pur sempre un uomo.
Mr. Abbott fece una faccia sorpresa. «Allora risponda, presto!» mi incitò compiaciuto.
Alzai gli occhi al cielo, pregando che quel decerebrato di TermoSifone non avesse l’accortezza di gridare come un Gibbone durante la stagione degli amori. La stanza era talmente silenziosa che qualsiasi conversazione si sarebbe udita perfettamente.
Mi voltai verso la porta, tanto per avere l’impressione di tenermi un po’ di privacy.
Effimera illusione.
«Che vuoi?» chiesi. Avrei voluto aggiungere l’appellativo “cazzo” a quella domanda appena ringhiata, ma non mi pareva il caso di fronte al mio capo e al mio collega/ragazzo geloso.
Dall’altro capo del telefono sentii uno sbuffo annoiato. «Era ora che rispondessi, cazzo.» Il “cazzo” lo aveva aggiunto lui alla fine. Bene. «Sono tre ore che provo a chiamarti, manco fossi Obama.»
Feci appello a tutto il karma del mondo, anche a quello del Dalailama in persona pur di non frullare il telefono fuori dalla finestra. Perché? Cosa avevo fatto di male per meritarmi un deficiente come Simone?
«Senti, come devo ripetertelo che io lavoro? Non lo capisci che sto in ufficio, che non posso rispondere sempre al cellulare e starti dietro? Non. Sono. La. Tua. Schiava. Ficcatelo in testa!» ringhiai, poi sentii un tossicchiare alle mie spalle.
Forse l’ultima frase mi era uscita un po’ come una minaccia. C’era Mr. Abbott che fissava allibito il nipote chiedendo spiegazioni.
Dannazione.
Sicuramente stava pensando che ero una pazza maniaca, una decerebrata con una doppia personalità e che trattavo i nostri clienti a pesci in faccia!
«Certo che sei sempre così acida? Non ti stanchi mai? Sai che ti verranno le rughe tra qualche anno. Così sembrerai ancora più vecchia di quanto tu non lo sia già.»
Stupido moccioso. Avrei volentieri chiuso la comunicazione già da tempo, ma avevo gli occhi del mio capo e quelli di James incollati addosso.
«Senta, Mr. Sogno, cosa desidera di così importante da me per chiamarmi a quest’ora? Sono in riunion,» dissi, per quanto cordiale potessi sembrare.
Mr. Abbott sicuramente pensava che soffrissi di doppia personalità.
«Ma te sei bevuta il cervello?» sghignazzò Simone dall’altro capo del telefono.
«Insisto. La prego di dirmi cosa desidera,» sibilai.
Intanto le risate non finivano più. «Ma ti senti?» e rideva come un pazzo. «“La prego di dirmi cosa desidera”,» mi fece il verso. «Nemmeno fossi una di quelle promozioni telefoniche. Ah! Ah! Ah! Oddio, Ven, se fai così, ti chiamo tutti i giorni!»
La mia pazienza era arrivata ad un limite irragionevole. Un conto era sottostare alle sue angherie, ai suoi capricci da moccioso di cinque anni, un’altra era farsi deridere in quel modo. Non mi sarei mai fatta mettere i piedi in testa da nessuno, che fosse un uomo adulto o un ragazzino. Poco importava.
Mi rivolsi a Mr. Abbott e a James, cercando di mantenere la calma. «Credo che andrò qui fuori, è una questione piuttosto importante,» sussurrai e i due annuirono.
L’importanza era solo il come farla pagare a quel deficiente di Simone.
Aprii la porta dell’ufficio di Mr. Abbott e mi precipitai fuori, tenendo il cellulare stretto tra le mani, pronta a disintegrarlo. Non completamente a mio agio per riprendere la conversazione in corridoio, decisi di uscire proprio dall’edificio e riprendere la chiamata in strada.
Almeno mi avrebbero preso per una povera pazza sbraitante, ma avrei salvato la mia dignità all’interno dell’ufficio.
Così credevo.
«Senti,» ringhiai, stavolta libera da ogni costrizione morale. Lo avrei umiliato. «Credo proprio che siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Non ti sopporto più, davvero. Hai la maturità di uno scimpanzé con l’handicap e non so più cosa fare con te. Ti ho detto diecimila volte di non chiamarmi a lavoro, visto che ti sto salvando il cosiddetto culo, eppure a te non te ne frega niente. Continui a fare come ti pare e mi umili. Sei soltanto un moccioso e non vedo l’ora che tutto questo finisca, così posso liberarmi di te.»
Okay, ce l’avevo fatta. Finalmente avevo tirato fuori tutta la rabbia e mi sentivo più sollevata.
Attesi una risposta da Simone. Lo avevo lasciato senza parole.
Nessuno può fronteggiarti, Ven.
Fronteggiarci, caro Cervello.
Improvvisamente avvertii un rumore forte, quasi come se fosse un ciancicare sommesso, anzi, uno sgranocchiare. Aspettai con impazienza, anche se quel rumore non la smetteva di spaccarmi un timpano. Che diavolo stava facendo?
Dopo poco lo sentii parlare. O almeno, grugnire. «Fcufa, cofa hai deffo?» s’informo, ingurgitando quelle che soltanto dopo capii fossero patatine.
Mi portai una mano al viso e tentai di non andare in escandescenze. Anche se era fermamente impossibile visto il soggetto che avevo di fronte. Avrebbe mandato al manicomio anche un santo, ormai era solo questione di tempo.
«Cresci, per Dio!» sbottai, poi gli attaccai il telefono in faccia, esausta.
Cercai di fare pace col cervello e di darmi una regolata prima di rientrare in ufficio e prendere a morsi tutto ciò che si muoveva. Mi voltai e notai che alla finestra dell’ufficio era affacciata Yuki che mi fissava con un sorrisetto sornione.
Ci mancava solo la strega.
«Problemi in Paradiso?» ridacchiò. «Il tuo bel calciatore ti chiama molto spesso. Questi uomini sono così gelosi…» sospirò, sistemandosi una ciocca di lunghi capelli corvini dietro l’orecchio.
La fulminai con uno sguardo. «Non sai niente di me, ed è meglio che continui ad essere così.»
Era suonata molto come una minaccia, ma lasciai correre. Yuki s’indispettì subito di quella mia risposta, ma sorvolai.
Ormai quell’ufficio era diventato la mia casa, anche perché il luogo in cui vivevo ora non si poteva definire tale. Simone lo aveva trasformato nel suo territorio ed io ero soltanto la gazzella che attendeva inerme che il leone piombasse su di lei, con ferocia.
Salii i gradini che conducevano all’ingresso della Abbott&Abbott, poi spostai la porta a vetri. Ad attendermi, nell’androne, c’era James.
Mi si gelò il cuore a vederlo così serio. Non disse niente. Si limitò a fissarmi con quei suoi scurissimi occhi blu e a sospirare. Poi si voltò su sé stesso e si chiuse nel suo ufficio.
Le parole non dette, a volte, erano più dolorose di un grido levato verso il cielo.
Simone, ti odio. Me la pagherai.
Era un giuramento.

***
Mi scuso per l'enorme ritardo nell'aggiornamento, ma se siete nel gruppo delle Crudelie, saprete che questa settimana c'è la Klaine week e ho aderito scrivendo 7 One Shot per l'iniziativa :3
Sono molto fiera perché è la prima volta che mi butto in un fandom che non sia Originale/Supernatural [praticamente una rarità]
Poi c'è stato l'inconveniente del pc di wife, che ha dovuto portare a riparare, ma alla fine ce l'ho fatta! Sono riuscita a pubblicare alle 23.00 ma ce l'ho fatta! Visto che domani EFP svalvolerà un po', avete tutto il tempo di leggere xD
Non mi dilungo troppo sui saluti, anche perché ho da recuperare il sonno perduto, ergo vi do la buonanotte con Ven e Simo :3
Rassicuro anche chi segue CIUS, il capitolo è in fase di scrittura, a betarlo ci si mette pochissimo. Provvederò a sbrigarmi anche lì! Scriverò di notte se necessario >.<
Besos!

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 11 ***


CAPITOLO 11
Betato da Nes_sie

|| Booktrailer ||
 
Carl St. James era un quarantenne di bell’aspetto e di bella presenza. Aveva un po’ di barba incolta, di quella che nel duemiladodici andava di moda come le zeppe negli anni Novanta. Il particolare che lo contraddistingueva di più, però, era lo sguardo intelligente... anzi, furbo.
Le sue iridi, di un grigio plumbeo come il cielo di Londra d’inverno, nascondevano una luce che spesso e volentieri faceva venire il sospetto che sapesse più di quanto volesse far intendere.
James lo squadrò da capo a piedi senza dire nulla ed io mi limitai ad osservarlo.
Erano passati quattro giorni dall’incontro con Mr. Abbott e finalmente era arrivata la fatidica data del meeting preliminare con l’accusa. Quella mattina mi ero svegliata con la luna storta – come ogni volta in cui avevo qualcosa di davvero importante da fare – e Simone aveva contribuito a rendermi la giornata ancora più pesante.
Quella convivenza forzata stava diventando davvero insopportabile. Inoltre, l’ “allegra rimpatriata” con la mia vecchia classe di Cambridge si avvicinava inesorabile e James non ne aveva fatto più parola. Era come se avesse alzato una sorta di barriera protettiva tra noi due, anche se non mancava di sfiorarmi e di cercare ogni volta un contatto con me. Eppure lo sentivo più distante.
Magari ha capito che non può competere contro il calciatore.
Ma smettila! Non c’è proprio competizione tra lui e Simone. Quel marmocchio dovrebbe lustrargli le scarpe!
Non avrei mai cambiato opinione su questo, non c’erano dubbi. Simone Sogno, per quanto potesse essere affascinante, bello, magnetico, dal corpo statuario, famoso, ricco, pieno di talento…
Stai facendo la lista della spesa?
Lasciai perdere quei pensieri nel momento esatto in cui una donna alta, chilometrica!, fece il suo ingresso nella sala che ci era stata riservata per il meeting. Tutti i presenti si voltarono a fissarla, soltanto perché la sua figura rapiva lo sguardo.
Era bella, e molto. Questo dovetti ammetterlo. Anche se veniva classificata nella categoria “giraffone dalle gambe chilometriche” non potevo negare l’evidenza. Indossava un paio di occhiali da sole scuri e il soprabito color panna le fasciava armoniosamente i fianchi esili come se fosse stato disegnato apposta per lei.
Che fosse una modella, si vedeva lontano un miglio.
«Finalmente possiamo incominciare,» se ne uscì St. James, accogliendo Miss Cloverfield a braccia aperte, come se fossero amici di vecchia data.
Se soltanto avessero visto come la sottoscritta accoglieva TermoSifone... Da quel punto di vista ero poco professionale.
La giraffona mi si parò davanti, abbassando di poco quei televisori che le coprivano interamente la faccia incavata. Mostrò un bel paio di occhi verdi, maliziosi, poi sfoderò un sorrisetto da gatta morta e si rivolse a James, con voce melliflua.
«Piacere, Elizabeth Cloverfield,» cinguettò, mangiandosi il mio avvocato letteralmente con lo sguardo. Era bastata una veloce occhiata per capire di che pasta era fatta quella sottospecie di faina. Una mangiauomini, ecco cos’era.
Non c’era da stupirsi che fosse rimasta incinta, o almeno così dava a credere. Quella aveva le gambe da quando era nata.
James le strinse la mano cordialmente. «Piacere mio, Miss Cloverfield. Io mi chiamo James Abbott e sono l’avvocato di Mr. Sogno,» poi mi indicò. «Lei è la mia assistente, Venera Donati.»
Sorrisi falsamente in direzione della giraffona e lei mi restituì uno sguardo di sufficienza.
Nel frattempo anche St. James si avvicinò. «Noi già ci conosciamo,» disse rivolto a James, ma tra quei due scaturì subito un lampo di astio. Lo sguardo plumbeo dell’altro avvocato si posò sulla sottoscritta. Conoscevo il suo nome per fama, a Cambridge era sulla bocca di tutti e così le chiacchiere avevano costruito la sua reputazione.
Carl St. James era stato uno degli avvocati più brillanti della Abbott&Abbot, prima di fare il doppio gioco e voltare le spalle allo studio, diventando socio onorario della George, Vicarot and Hewit. Un colpo basso che nessuno dei due fratelli Abbott aveva digerito.
«Molto piacere, signorina,» sorrise mellifluo, porgendomi la mano. Feci per stringergliela quando lui me l’afferrò e ne baciò il dorso, nemmeno fossi la regina d’Inghilterra.
Con la coda dell’occhio vidi James storcere il naso. «Vogliamo iniziare?» chiese, interrompendo quel gesto.
Fu allora che ci accomodammo attorno al tavolo in radica di noce, liscio e lucido come appena lavorato. La signorina Cloverfield si accomodò con eleganza, dopo essersi disfatta del cappotto color neve ed averlo gentilmente porto a Carl che lo posò sull’appendiabiti.
Qualsiasi cosa quella giraffona facesse, sembrava studiata a tavolino e ripetuta un’infinità di volte quasi come un saggio di danza.
«Posso chiedervi perché il vostro assistito non è presente a questo incontro preliminare?» domandò mirato St. James, sogghignando con lo sguardo. Sapevo che avrebbero subito puntato su quello, ma avevo tentato in tutti i modi di convincere quel testone di Simone a venire, senza alcun risultato.
“Non voglio rivedere quell’arpia!” si era impuntato il pomeriggio prima, quando gli avevo gentilmente chiesto il motivo per cui ci dovevamo recare al meeting senza di lui. Avrebbe anche potuto saltare gli allenamenti per una volta.
«Mr. Sogno è momentaneamente indisposto,» tagliò corto James, aprendo il plico con tutti i documenti relativi al caso e spiegandolo sul grande tavolo.
Vidi Miss Cloverfield sorridere melliflua. «Peccato che io non possa utilizzare la sua stessa scusa, ormai,» e si accarezzò distrattamente l’addome ancora piatto.
Era forse una frecciatina? Quella tizia mi stava già sui cosiddetti e non era nemmeno passata mezz’ora da quando ci eravamo conosciuti. Mi chiesi immediatamente cosa quel caprone di Simone ci aveva trovato in quella sgallettata sui tacchi a spillo per costringerlo a passarci una notte insieme.
Alla fine pensai che si trattava pur sempre di TermoSifone e mi ripromisi di non farmi più domande di quel genere.
St. James sorrise alla sua assistita. «Bene, direi di cominciare,» sospirò, imitando anche lui i movimenti di James e tirando fuori una cartellina contenente i documenti. «Vi dispiace se registro?» ci chiese, mostrandoci l’avanzato cellulare iper-tecnologico che aveva in mano.
Jamie lo squadrò sospettoso. «No. Fa' pure,» tagliò corto.
Nei numerosi casi che avevo studiato a Cambridge, come quello di Garrett contro Hamilton, non avevo mai sentito di conversazioni registrate durante incontri preliminari. In fondo ero lì per imparare, quindi non misi bocca.
«Oggi 18 Novembre 2012, ore 9.15 del mattino, ci troviamo nell’Hotel Hilton di Tooley St. per discutere del caso Cloverfield contro Sogno con gli avvocati della difesa,» pronunciò con voce solenne.
Forse mi ero persa qualche passaggio. La tattica di St. James era quella dell’apparenza, questa era una cosa risaputa ormai nel mondo dell’avvocatura. Aveva vinto molte delle sue cause perché puntava ad impressionare la giuria, così come gli avvocati della controparte. Mirava a neutralizzare mentalmente l’avversario prima ancora di andare in giudizio.
«Bene,» disse James, rivolgendo uno sguardo nervoso al telefono/registratore. «Lo scopo di questo incontro è raggiungere un accordo e nel caso evitare di andare in Tribunale, risolvendo le discordie prima ancora di coinvolgere un giudice. Il mio studio rappresenta Mr. Sogno e anche se lui oggi non è potuto essere qui, mi ha chiesto di domandare il motivo per cui lei, Miss Cloverfield, ha indotto questa causa contro il mio cliente.»
Breve, coinciso, esauriente. James Abbott era nato per fare l’avvocato, ormai era più che un dato di fatto. Anche semplicemente nei modi in cui si poneva, nelle parole più adatte che sceglieva per esporre i fatti senza lasciare che l’accusa desse troppo peso a vocaboli sbagliati e alludenti. Lui era legato a questo mondo ed io da lui potevo imparare molto.
Carl St. James si limitò a trascrivere qualcosa su un blocco di appunti. In seguito si schiarì la voce e puntò i suoi occhi grigi verso di noi.
«Come ben sapete dalla citazione in giudizio della mia cliente, Elizabeth ha ritenuto opportuno intentare una causa nei confronti di Mr. Sogno per la sua negligenza,» iniziò, utilizzando quel tono fastidiosamente plateale che ogni avvocato dovrebbe risparmiarsi unicamente per l’arringa. «La mia cliente ha avuto un incontro speciale con il vostro assistito, da cui, secondo appurati referti medici, la signorina è rimasta piacevolmente in attesa di una benedizione del Cielo.»
Ovviamente Carl St. James non mancò di accompagnare quelle parole finte-religiose con gesti che nemmeno il pastore più accanito sarebbe stato in grado di partorire.
L’aula di tribunale, con lui, si sarebbe trasformata in una specie di palco il cui ospite principale sarebbe stato proprio lui stesso. Un circo i cui spettatori non erano altro che una giuria sottomessa alla sua parlantina e ai suoi modi insulsi.
«Ergo, la mia cliente chiede che Mr. Sogno riconosca legalmente il bambino, si assuma tutte le responsabilità e si obblighi a provvedere ai bisogni della madre del bambino per il periodo della gravidanza.»
E dopo quelle parole rimasi completamente pietrificata.
Voleva proprio incastrarlo per bene, eh?
James sospirò. «Io credo che sia più conveniente, da ambo le parti, che si giunga ad un accordo a metà strada. Da quanto ho capito, le intenzioni di Mr. Sogno non sono così chiare ed onorevoli come dite voi, inoltre, mi pare corretto e saggio procedere per gradi,» disse con calma.
«Ammesso che questo bambino sia del mio cliente. Per cui, se avete intenzione di procedere contro il nostro cliente, chiederemo al Tribunale che sia eseguito il test di paternità,» aggiunse poi.
Fu in quel momento che Elizabeth, dal nulla, scoppiò in un pianto misto tra l’isterico e il disperato. Rimasi a fissarla con la bocca spalancata e lo sguardo stralunato.
«I-Io… I-Io…» singhiozzò, aspettando che St. James le porgesse prontamente un fazzoletto per asciugarsi le lacrime. «S-Simone mi ama… n-ne so-sono più che si-sicura…» continuò a frignare. «Me lo di-disse quella no-notte, mentre facevamo l’a-amore!»
Quella tizia era di sicuro un’invasata, c’era poco da fare.
Per prima cosa, trovai davvero incredibile – se non impossibile – che tale Simone Sogno avesse mai detto le due più famose paroline del mondo ad una tizia semi-sconosciuta rimorchiata in un bar una sera. Secondo, poi, davvero credeva che il maschio italiano medio, mettendoci pure il fatto che fosse un calciatore senza cervello se non ai piani bassi, potesse davvero prendersi una responsabilità del genere?
Questa deve ancora capire come va la vita.
Se deve da’ una svegliata.
«Bene, devo dire che la mia cliente ha espresso chiaramente le sue intenzioni. La poverina è scossa dal rifiuto e dall’indifferenza che Mr. Sogno sta mostrando nei suoi confronti, ma crediamo sia più che accettabile portare a termine questo test del DNA,» acconsentì St. James.
James e io avevamo messo in conto qualche perplessità da parte dell’accusa nell’accettare quella soluzione che avrebbe altrimenti tolto qualsiasi dubbio sulla paternità del bambino, eppure né St. James né Miss Cloverfield fecero una piega alla nostra richiesta.
Nel frattempo, il frignare della modella stava cominciando a darmi sui nervi.
«La mia cliente chiede a Mr. Sogno di prendersi le sue responsabilità e provvedere in qualche modo a lei e al bambino. Questa è la nostra richiesta e non torneremo indietro, a costo di portare questa faccenda in Tribunale.»
James sapeva che quello voleva dire soltanto più pubblicità. I tabloid e i giornali ci si sarebbero attaccati come cozze ad uno scoglio e allora tenere la faccenda segreta sarebbe stato quasi impossibile.
Forse era proprio questo a cui puntava Mr. Avvocato e la rinsecchita frignona lì accanto. Sicuramente tutta quella pubblicità avrebbe mandato la popolarità della biondina alle stelle, così come quella dell’impavido avvocato difensore.
Fu allora che mi alzai in piedi, proprio quando sembrava che l’incontro dovesse avere termine. Il registratore era già stato spento, così mi dissi “o la va, o la spacca”.
St. James mi sorrise mellifluo, fissandomi intensamente. «Sì?»
Mi schiarii la voce e torturai un lembo del blocco che avevo sotto mano. Ero nervosa, ma dovevo farmi valere soprattutto perché da quella causa ne valeva il mio futuro.
«Credo che sia prematuro parlare di richieste, quando nessuno sa ancora se il bambino è effettivamente del nostro assistito,» sibilai, innervosita dallo sguardo di Miss Cloverfield che aveva cominciato a lanciarmi saette.
Carl St. James sembrò annaspare. «Stia attenta, signorina,» mi avvertì, senza mai smettere di sorridere. «Un conto sono le prove, un altro sono le congetture.»
James mi afferrò per un braccio, come a dirmi di non parlare troppo. Purtroppo tenere a freno la mia lingua d’avvocato era quasi impossibile.
«Dovrebbe stare attento lei,» stavolta mi era uscita proprio come una minaccia. «Sa quanti casi di dubbia paternità si sono risolti con un semplice test del DNA? Posso citarle Ferguson contro Gibbott, Lawrence contro Mc.Hardy, se vuole posso continuare all’infinito…» e lasciai volutamente la frase in sospeso.
Le mie supposizioni non avevano alcun fondamento, anche perché non sapevo se Simone fosse o no effettivamente il padre di quel bambino. Eppure non riuscivo a fidarmi del tutto. Era troppo ben architettato per essere un caso fortuito questa gravidanza.
Mi ripromisi di fare alcune indagini una volta tornati a casa.
St. James ghignò. «Si tenga le sue supposizioni, signorina,» disse con sicurezza. «Saranno i fatti a parlare.» Poi si rivolse a James porgendogli la mano. «Ci vedremo in Tribunale Mr. Abbott.»
Si voltò a fissarmi negli occhi. Sentii un brivido rotolarmi lungo la spina dorsale. «Devo ammettere che la Abbott&Abbott riesce sempre a sfornare i migliori avvocati,» e mi strinse la mano.
Era forse una specie di complimento?
Miss Cloverfield si alzò con eleganza e mi rivolse uno sguardo pieno di astio, da dietro quelle folte ciglia e quegli occhi arrossati. Era pur vero che ormai avevo sviluppato una specie di sesto senso verso le giraffone, ma sentivo che lei nascondeva qualcosa.
«Arrivederci,» disse, asciugandosi ancora le lacrime.
Rimanemmo soltanto io e James a sistemare le carte, per poi tornare verso lo studio. Scendemmo le scale dell’Hilton Hotel e poi ci riversammo in strada, vedendo in lontananza il Tower Bridge che tagliava come la lama di una spada il cielo limpido di quella mattina novembrina.
Ci ritrovammo a camminare fianco a fianco, mentre si udiva solamente il rumore del traffico e i nostri passi cadenzati.
Pensai così alla strana tensione che si percepiva tra noi due. Non c’era più la spensieratezza di due colleghi, come all’inizio di tutta quella storia. Come al solito, l’amore aveva complicato le cose ed io mi maledii mentalmente per essere stata così sciocca da cedervi.
James e io avremmo formato una coppia di avvocati esplosiva se soltanto le cose tra di noi non fossero state così tese. E la colpa era solo di Simone e delle sue stupide telefonate.
Ci fermammo in prossimità della fermata di London Bridge della Tube.
Faceva piuttosto freddo quella mattina, anche se la giornata si preannunciava limpida.
«Senti Ven,» cominciò lui, stringendo nervosamente il manico di pelle della sua ventriquattr’ore. Era arrivato finalmente il fatidico momento. Mi avrebbe lasciata, avrebbe chiesto di cambiare partner per quel caso, soprattutto dopo il mio indelicato intervento di poco prima.
Brava, Ven. Te lo sei meritato. Così impari a non mettere il lavoro al primo posto.
«Lo so,» lo bloccai sul nascere. Ero a conoscenza di cosa avevo fatto, della situazione in cui eravamo. Non ero proprio dell’umore adatto per sentirmi dire “è finita”. «Non avevo alcun diritto di intervenire prima, ne sono consapevole. Il mio compito è soltanto assisterti, visto che non sono nemmeno un avvocato a tutti gli effetti, perciò non ti biasimo se vuoi sostituirmi.»
Vidi un sorriso affiorare sul volto di James. «Non si tratta di questo, anzi,» disse compiaciuto. «Volevo farti i complimenti per l’intervento perché hai spiazzato St. James. Anche io sono dello stesso avviso, è troppo per essere tutto una mera coincidenza. Quello di cui volevo parlarti, però, riguarda noi due.»
OramilasciaOramilasciaOramiliascia.
«Dimmi,» sospirai, preparandomi al peggio.
James si accarezzò nervosamente la nuca, dove i corti capelli castano chiaro cominciavano a crescergli più folti. «Venera, io ci tengo moltissimo a te. Non so come altro spiegartelo, ma non ho mai conosciuto una ragazza, una donna come te. Sei forte, intelligente, piena di risorse – come hai dimostrato oggi stesso – e credo che questa relazione piena di sotterfugi non ci faccia bene,» mormorò serio.
OramilasciaOramilasciaOramiliascia.
«Quindi volevo chiederti se puoi aspettarmi,» sorrise.
Aspettarlo? Cosa intendeva con quelle parole?
«Aspettarti?» infatti gli chiesi.
James mi sorrise ancora, più bello del sole d’Agosto. «Sì. Non dico che sto troncando con te, perché sarebbe solo una bugia. Mi piaci, e tanto, ma non posso mettere a rischio la tua carriera intraprendendo questa relazione clandestina con te. Voglio che gli altri ci guardino, ci invidino, voglio che siamo liberi di camminare per strada mano nella mano. Non voglio nascondermi con te. Perciò ti chiedo di aspettare. Dopo che questa causa sarà finita, mi farò trasferire ad un altro ufficio e potremmo frequentarci senza alcun problema,» spiegò, più sereno. «Ce la farai ad attendere?»
In un certo senso mi stava lasciando, ma lo stava facendo in previsione di qualcosa di più grande. In effetti, James aveva affrontato la questione con maturità. Uno come Simone avrebbe continuato la tresca senza porsi minimamente il problema.
Questa era la differenza che più contava per me.
Sorrisi e gli afferrai la mano, senza imbarazzo stavolta. «Sì, ti aspetterò,» gli promisi.
L’idea di poter finalmente costruire qualcosa di serio e di solido con una persona matura e intelligente come James valeva l’attesa.
«Ah, questo non cambierà la mia promessa,» aggiunse lui. «Ti accompagnerò comunque a Cambridge e magari per quella sera potremmo anche far finta che la causa sia finita da un pezzo.»
Quello era forse un sorriso malizioso?
Arrossii di riflesso e mi sentii davvero sciocca, quasi come il giorno della mia prima cotta. James Abbott era capace di conquistarmi in diversi modi, che si trattasse della sua maturità, intelletto e semplicemente con uno di quei sorrisi disarmanti.
Mentre scendevamo le scale che ci conducevano alla Tube, mi accorsi che il sentimento che nutrivo per il bell’avvocato stava lentamente consolidandosi. Anche se non stavamo tecnicamente più insieme, ero sicura che nessuno avrebbe mai sostituito quello che nutrivo nei suoi confronti.
 
«Mbè?»
Quelle furono le uniche tre lettere con cui Simone mi accolse in casa una volta che fui rientrata dall’incontro preliminare. Sedeva sul bordo del bancone della cucina, con le pantofole a forma di ippopotamo che ciondolavano attaccate ai suoi piedi e un paio di pantaloni striminziti che gli coprivano a mala pena le nudità.
Era sudato.
«Cosa?» sospirai, stanca per tutto il viaggio e per l’incontro stressante che avevo appena fatto.
Simone scese dal bancone e mi raggiunse, ciucciando un succo di frutta dal cartone di tetrapak.
«Che ti hanno detto?» chiese ancora.
Solo allora mi accorsi che la sua acconciatura era più disordinata del solito e che anche il suo petto era decisamente sudato.
«Ma che ti è successo?» domandai, posando il cappotto.
Il calciatore scrollò le spalle e continuò a succhiare la bevanda più rumorosamente. «Ero nervoso, così mi sono messo ad ammazzarmi di addominali.»
E il mio sguardo non poté evitare di piazzarsi proprio in quella zona al confine con l’elastico dei pantaloncini bianchi e rossi della divisa.
Dio. Santissimo.
Tentai di essere il più indifferente possibile, ma sentii chiaramente le mie ovaie cominciare a ballare la conga, mentre il Cervello aveva abbandonato la nave da tempo.
Dannato Simone che girava mezzo nudo per casa!
«Allora niente, ho conosciuto la mamma del tuo pargolo…» commentai sarcastica.
Simone s’indispettì subito. «Non è mio, te l’ho detto! Mica sono così scemo da ingravidare tutte quelle che me la danno. A quest’ora sarei pieno di marmocchi.»
«C’è sempre una prima volta,» gli feci osservare.
Mi diressi verso la mia stanza, decisa a liberarmi di quel tailleur fastidioso e a mettermi un paio di comode pantofole. Il calciatore mi si mise alle calcagna come un segugio.
«E lei come ti sembra? È gnocca, eh?» sghignazzò.
Lo fulminai con un’occhiataccia. «Ci manca solo che te la scopi un’altra volta. Così facciamo filotto,» ringhiai infastidita. «Sappi solo che non siamo riusciti a raggiungere un patteggiamento, perciò si va in Tribunale e i giornali ci andranno a nozze con questa storia.»
Vidi Simone impallidire. «Maledetta zoccola,» sibilò.
Mi tolsi la giacca e cominciai a sbottonarmi la camicetta. «Non è lei la zoccola, decerebrato. È il tuo Pisellino che non vede l’ora di ficcarsi in qualsiasi essere dotato di un buco. E per qualsiasi, intendo anche gli oggetti inanimati,» commentai acida.
Simone scandagliò il mio corpo con quegli occhi improvvisamente diventati più scuri. «Non sono così materialista,» si giustificò.
«Ah no?» chiesi sarcastica, liberandomi anche della camicia.
Avevo ancora indosso la canottiera bianca e la gonna, mentre Simone non aveva alcuna intenzione di andarsene. Almeno ero riuscita a mettermi le pantofole.
«Ti dispiace?» gli dissi, alludendo alla sua presenza di troppo.
«No,» commentò, rimanendo impalato contro lo stipite della porta.
Era proprio un bamboccio. «Senti, ho avuto una mattinata pesante. Vorrei liberarmi di questi vestiti, stendermi sul letto e chiudere gli occhi per qualche secondo.»
Il calciatore allora mosse qualche passo all’interno della stanza e si sdraiò sul mio letto, picchiettando la porzione di materasso accanto a lui. «Ecco.»
Mi stava forse pigliando per il culo?
«Intendevo da sola,» ringhiai.
Simone allora si puntellò sui gomiti e mi sorrise. Stava facendo quello sguardo, quella tipica occhiata che aveva il brevetto della famiglia Sogno al completo e che avevo visto fare a Leotordo un miliardo e mezzo di volte.
«Senti, non volevo arrivare a questo,» sghignazzò. «Non è la prima volta che ti vedo svestita, sai. Diciamo che non sempre chiudi bene la porta del bagno. Ormai non mi scandalizzo più, in fondo c’è di peggio in giro…»
Okay, stavo per ammazzarlo. «Tu, cosa?» ringhiai. Ci mancava solo che mi uscisse il fumo dalle narici.
«Sei messa bene, nonostante dimostri trentacinque anni invece di ventiquattro. Hai un bel culo.» ridacchiò con maliziosità.
Avevo gli occhi larghi come due piattini da caffè. Il mio corpo era completamente pietrificato e l’unico ordine che mi arrivava dal cervello era: uccidere calciatore, uccidere calciatore, sotterrare il cadavere, uccidere Simone.
«Dovrebbe essere una specie di complimento?» domandai, ad un passo dall’esplodere.
Simone si ributtò sul letto, con entrambe le braccia sotto la testa. «Voglio solo sapere cosa ti hanno detto quei due, tutto qui. Se ti va di dirmelo, sennò telefono all’avvocato con la scopa nel culo.»
Che ovviamente era James.
Stranamente sentii la rabbia scemare, così rapidamente com’era venuta. Sicuramente da quando ero andata a vivere con Simone, avevo acquistato più self-control. Prima perdevo il senno per qualsiasi nonnulla, ora tentavo di controllarmi.
Ormai Simone non mi scandalizzava più di tanto.
Mi tolsi la gonna e indossai distrattamente la vestaglia di raso che avevo portato dall’Italia. Mi stesi sul letto di fianco al calciatore e sospirai. Finalmente un po’ di riposo.
Lui si voltò verso di me, attendendo una risposta, ma non ebbi il coraggio di guardarlo. Era da un po’ di tempo che mi faceva uno strano effetto averlo così vicino. Era come se sentissi l’influsso di quello sguardo, come se condizionasse il mio umore.
Forse era solamente a causa del suo bell’aspetto, magari si trattava di pura attrazione fisica. In fondo, Vanity Fair l’aveva classificato con uno dei dieci calciatori più sexy del mondo. Chiunque avrebbe pagato per trovarsi al mio posto in quel letto.
Però la sottoscritta non lo trovava minimamente attraente. Non mi faceva alcun effetto.
Fino ad ora.
«’Sto St. Jared com’è?» mi domandò.
Fu allora che dovetti obbligatoriamente incrociare i suoi occhi. «Si chiama St. James,» gli dissi. «È bravo comunque, per tua sfortuna.»
«Più bravo di Mr. Ho-una-scopa-nel-culo?»
Roteai gli occhi e tentai di non inveire contro di lui. «James è bravo, fidati. Magari ce ne fossero di più di persone come lui.»
Simone scrollò le spalle. «Non è niente di speciale. Troppo perfettino, alle donne piace il ragazzo indomabile.»
Spostò lo sguardo verso di me, utilizzando uno di quei sorrisi brevettati da rivista di moda. Purtroppo per lui incontrò uno dei miei migliori sguardi scettici. «Hai finito di dire minchiate?»
«Con te non ho mai alcuna soddisfazione. Sei frigida,» sbuffò, ritornando a sdraiarsi sul materasso. «Tutte le mie tecniche di seduzione vanno a farsi benedire.»
Gongolai di me stessa. Finalmente aveva afferrato che non avrebbe mai avuto effetto alcuno su di me. Ci voleva ben altro per conquistarmi.
«Diciamo che mi ritengo una donna dai gusti difficili,» mormorai con sicurezza. «Non basta certo un bel fisico e un faccino grazioso per farmi strisciare ai tuoi piedi,» commentai sprezzante.
Simone cercò di nuovo i miei occhi. «Però l’avvocatuncolo ti piace,» insinuò serio.
Scrollai le spalle ricordando il discorso che avevamo affrontato poco prima. «Sì, ma per ora non basta. Ci sono troppe cose che ci remano contro, perciò abbiamo deciso di rallentare la cosa.»
Da quando parlavo con Simone dei miei problemi sentimentali?
Da quando Celeste è dall’altra parte d’Europa?
Il calciatore si spostò su un fianco, mettendosi una mano sotto la testa. «Vi siete lasciati?» disse con enfasi, senza evitare di fare il cretino.
Mi spostai anche io, assumendo la sua stessa posizione. «Diciamo che non siamo mai stati insieme. Ti è più chiaro?»
«Ma non hai più l’età per una tresca, Ven! Sei vecchietta ormai…»
«Ci metto due secondi a darti un calcio e farti cadere dal letto, capito?» sibilai.
Simone cominciò a ridere di cuore. «Okay, okay, scherzavo.» Poi riaprì quei grandi occhi marroni. «Mi piace farti arrabbiare. Soprattutto perché mi sai rispondere, e non stai mai zitta.»
Primo battito perso.
Dai Ven concentrati, caccia via quelle farfalle nel tuo stomaco!
«Ti credo, sono un avvocato. Se stessi zitta non vedrei il becco di un quattrino!» dissi con ovvietà.
Lui rise ancora e mi resi conto soltanto in quel momento quanto fosse bella la sua risata. Oddio, cosa diavolo mi stava succedendo?
«Ecco, intendevo proprio questo. Sei mai capace di dare agli altri l’ultima parola?» mi provocò.
Feci finta di pensarci su. «No. Non se la meritano. Soprattutto se sparano stronzate come te.»
Becca in carta e porta a casa!
Simone si fece improvvisamente serio, tanto che temetti si fosse arrabbiato od offeso. Per un momento l’aria mi mancò tutta assieme, soprattutto quando fece per avvicinarsi. Cosa diavolo voleva? Picchiarmi? Ero pur sempre il suo avvocato e non capii davvero cosa ci fosse di tanto offensivo in quello che avevo appena detto. In fondo, ci punzecchiavamo a vicenda da quasi un mese, ormai.
Anzi, da quando ci eravamo conosciuti la prima volta.
«Forse ho trovato il modo per avere l’ultima parola…» sospirò, avvicinandosi sempre di più.
Dischiusi le labbra senza accorgermene, avvertendo la secchezza del palato. Compresi troppo tardi cosa voleva fare e davvero non potevo permetterglielo. Ero più che sicura che mi stesse prendendo in giro, che lo facesse unicamente per poi rinfacciarmelo a vita. Eppure non riuscii a muovermi.
Avrei dovuto scostarmi, rifilargli un bel ceffone in pieno viso, invece rimasi immobile, ipnotizzata da quello sguardo scuro ed enigmatico.
Da quando Simone riusciva a farmi un tale effetto?
Io che l’avevo sempre etichettato come un marmocchio, come un bambino mai cresciuto, il Peter Pan moderno.
Ed io ero la Wendy che ci stava cascando con tutte le scarpe.
Oramai mancava poco affinché le nostre labbra si toccassero, potevo avvertire il profumo della sua pelle ancora umida di sudore, quell’aroma pungente che soltanto un uomo poteva avere.
Ti prego non farlo…
Non potevo permettermi di rimanere invischiata in qualcos’altro, ora che la mia vita sembrava aver riacquistato il precedente equilibrio. Non che si trattasse di un tradimento nei confronti di James, ma non potevo, non dovevo.
Venera Donati non era la protagonista di un libro per adolescenti, dove si sviluppava il classico triangolo amoroso tra la bella/sfigata della situazione e i due gnocchi personaggi coprotagonisti. Non c’era spazio per quello, avevo cose troppo importanti sul fuoco per desistere.
Eppure una parte di me desiderava lasciarsi andare.
Soltanto un bacio.
E fu il rumore insistente del citofono che mi salvò, che interruppe quell’incantesimo di cui ero diventata schiava e da cui non riuscivo più a sottrarmi. Scattai immediatamente in piedi, ignorando Simone e il suo sguardo corrucciato.
«Vado ad aprire,» dissi monocorde.
Camminai come se fossi diventata improvvisamente un automa, mentre sentivo ancora i brividi che mi percorrevano lentamente le membra. Davvero stavo per baciare Simone Sogno? Ero completamente fuori di testa?
Col senno di poi mi diedi mentalmente della cretina, visto e considerato che non solo era il mio cliente e il mio peggior nemico. Lui aveva in ballo una causa di dubbia paternità ed io ero la responsabile della sua “castità” fino alla data definitiva del processo.
Come potevo fare la parte della sua amante?
Ven, hai rischiato grosso stavolta.
Andai sino al citofono e lo osannai mentalmente, perché se non avesse suonato a quest’ora potevo dire addio al mio lavoro.
«Chi è?» chiesi, senza prendermi il disturbo di dire che non ero Simone.
Dall’altro capo del citofono si sentì qualcuno sospirare. «Sei la bella avvocatessa?» per un attimo sbiancai, poi sentii un uomo ridere. «Suvvia, tranquilla! Sono Marco, il papà di Simone. Mi apri?»
Mr. Sogno senior in persona!
«C-Certamente…» annaspai, poi spinsi il pulsante.
Se lo avessi ripetuto ad alta voce non ci avrei mai creduto. Per la mia salvezza e quella del mio lavoro avrei dovuto ringraziare il padre della persona che aveva rischiato di mandare tutto a puttane.
Sentii una presenza avanzare alle mie spalle, così mi voltai.
«Chi era?»
«Tuo padre,» risposi tranquillamente.
Simone s’incupì ancora di più. «E gli hai aperto?»
Che cosa voleva dire? «No guarda, lo lasciavo fuori sul marciapiede.»
«Merda,» sibilò. «Digli che non ci sono, io mi vado a chiudere in camera,» tagliò corto.
«Perché dovrei mentirgli, scusa?» domandai scettica.
Aveva qualcosa da nascondere al padre? Cos’è che voleva evitare?
Simone si avvicinò serio e mi sovrastò con il suo 1.90 di altezza. «Tu fallo e basta,» tagliò corto, dirigendosi verso la sua stanza. «Non ho voglia di vederlo, tutto qui.»
Sbatté la porta con forza, tanto che sentii i muri tremare. C’era qualcosa di strano nel rapporto padre figlio, come se ci fossero degli asti di vecchia data che ancora portavano le cicatrici su Simone.
Non ebbi tanto tempo per rimuginare, perché sentii suonare il campanello dopo alcuni minuti. Mi accorsi di essere ancora semi-svestita e in vestaglia. Così corsi a rimettermi quantomeno la camicetta per non sembrare completamente una sciattona.
Mi precipitai alla porta d’ingresso sperando che il signor Marco non mettesse le radici fuori dalla porta.
Aprii e mi ritrovai un sorriso seducente che mi colpì dritta al cuore. Quell’uomo era fascino puro, niente da dire in merito.
«Ci rivediamo, avvocato,» sussurrò sensuale.
Se il figlio non era riuscito a sciogliermi del tutto, ci avrebbe pensato il dolce papà. Ma perché quella famiglia era così… così!
«S-Salve, Mr. Sogno,» dissi, sempre più nel panico. Non sapevo il perché quell’uomo dovesse farmi uno strano effetto. Forse perché era così tremendamente simile a Simone.
«Chiamami pure Marco. Mio figlio è in casa?» mi domandò, entrando e guardandosi intorno mentre si toglieva i guanti di pelle nera.
E quello era il momento di mentire. Non avevo mai detto le bugie per conto di nessuno, anche se ero un avvocato. La mia professione mi obbligava la maggior parte delle volte a traviare un po’ la verità, ma mai mi ero ritrovata sul punto di mentire per conto di qualcuno.
Soprattutto di Simone.
«È uscito. Non so a che ora torna,» risposi, apparendo sicura di me stessa.
La prima regola era mai impappinarsi. Bisognava seguire l’improvvisazione e mai contraddirsi, altrimenti la bugia perdeva la propria validità.
Il signor Marco si spogliò del suo montgomery nero, e mi fissò con quelle iridi altrettanto scure. Lo stesso sguardo del figlio, era impressionante.
«Come al solito mi evita,» sospirò, dirigendosi verso il divano. «Non so più che devo fare per farmi accettare da quel ragazzo.»
Sapevo che non erano affari miei, ma arrivati a quel punto potevo soltanto dar corda alla conversazione per non far vertere la questione su altri argomenti. Tipo il processo.
Mi accomodai di fronte a lui, sostenendo il suo sguardo. «Deve dare tempo al tempo, con Simone funziona sempre. Anche se non conosco il motivo del vostro allontanamento,» commentai, cercando di non risultare troppo invasiva.
Apparentemente funzionò, perché Mr. Sogno mi sorrise benevolo. «Lo conosci molto bene mio figlio. Sono contento che finalmente abbia trovato qualcuna che non sia semplicemente un corpo e nient’altro.»
Arrossii senza nemmeno accorgermene. «Ehm. Le ripeto che io e suo figlio dividiamo unicamente questo appartamento, non c’è niente tra di noi,» puntualizzai.
Era come se ormai il mondo intero avesse dato per scontato che io e Simone stessimo insieme. Ma che ce l’avevo scritto in fronte?
Mr. Sogno sorrise. «Anche sua madre all’inizio era così, come te. Mi detestava,» mormorò, entrando nel viale dei ricordi.
Sembrava come se quel divano e quel salotto fosse una specie di confessionale dove la gente raccontava il meglio di sé. «Diciamo che noi Sogno abbiamo il fascino un po’ tardivo. Le donne si innamorano dopo un po’. Quindi direi che posso riutilizzare il tuo stesso consiglio e dirti di dare tempo al tempo,» e ammiccò.
Cosa diavolo c’era da ammiccare?
«Ehm…» tentai di fermare sul nascere quelle insinuazioni, ma lo sguardo del signor Marco era irremovibile. Che forse sospettasse qualcosa?
Ma poi cosa c’era da sospettare, dico io?
Nulla.
Infatti.
Fuorché un quasi-bacio.
«Insomma, Gabriele mi ha detto che hai studiato a Cambridge. Davvero prestigioso, devo ammetterlo. Sei così giovane, poi…» alluse.
Ebbi come la strana sensazione che ci stesse provando, ma mi augurai fermamente di no. Ci mancavano solo le avance di un altro Sogno per completare il quadretto perfetto della mia splendida vita che avrebbe fatto invidia alla soap di Beautiful.
«Ho frequentato Cambridge solo per un master,» lo bloccai subito. «Diciamo che ho dedicato la maggior parte della mia vita allo studio, perché vorrei diventare socio della Abbott&Abbott più di ogni altra cosa,» ammisi, determinata.
Mr. Sogno sorrise compiaciuto. «Mi piace questa tua fermezza. In una donna è una qualità apprezzabile, soprattutto quando e se si ha un rapporto con un’altra persona.»
Ancora quelle frecciatine… ma lo faceva apposta?
«Immagino tu riesca a tenere a bada mio figlio. Gli dai del filo da torcere, eh?» ridacchiò.
Sorrisi falsamente, tesa come una corda di violino. Dove voleva andare a parare?
«Diciamo che non mi faccio mettere i piedi in testa,» dissi coincisa.
Mi piace farti arrabbiare. Soprattutto perché mi sai rispondere, e non stai mai zitta.
Dio quella voce che continuava a rimbombare nella mia testa. Tacere! Doveva assolutamente tacere prima di farmi impazzire del tutto.
«Interessante,» commentò l’uomo seduto di fronte a me. «E Simone come la prende? Ha smesso di correre dietro alle modelle? Oppure continua a fare tutto ciò che la testa gli dice?»
Con quelle domande, Mr. Sogno mi parve un po’ prevenuto nei confronti del figlio e mi piacque ben poco. Certo, ero la prima a dire che Simone fosse una testa calda, un ragazzino con il moccio al naso, ma sentirlo dire dal padre aveva tutt’altro effetto.
«Diciamo che sta mettendo la testa apposto,» dissi sincera.
Evitai di aggiungere “per merito mio” altrimenti mi sarei scavata la fossa da sola senza alcun bisogno nemmeno di una vanga.
«Ne sono felice,» disse il padre. «Anche se so che Simone non riprenderà mai gli studi come avrei voluto, sono contento che finalmente abbia smesso di bighellonare. Anche se ha solo ventuno anni, dovrebbe pensare con la sua testa e non…» poi si guardò i piani bassi per non essere troppo scortese nei miei confronti.
Tale padre…
«Già, è quello che gli ripeto sempre,» commentai, tentando di far volar via quella tensione indesiderata.
Avrei dovuto inventarmi qualcosa per mandarlo via, anche perché Simone non poteva rimanere chiuso in camera per quattro ore.
«Vuole qualcosa da bere?» chiesi gentilmente, anche per non sembrare scortese.
In fondo, si trattava pur sempre di un ospite. Per quanto fosse indesiderato.
Mr. Sogno scosse la testa, alzandosi. «No, grazie. Devo andare. Ero passato solo per salutare Simone, ma visto che non c’è. Direi di togliere il disturbo.»
Per fortuna non avevo dovuto insistere tanto per sbarazzarmi di lui. «Ma non si preoccupi.»
Afferrò cappotto e guanti, poi si incamminò verso la porta. Si infilò il montgomery poi mi sorrise.
«Sei davvero una donna in gamba, avvocato,» mi sorrise sincero. «Credo che mio figlio capirà presto cosa ha sotto gli occhi, prima di quanto tu te ne accorga. Anzi, scommetterei la mia vigna che già lo sa, ma sta trovando il modo per non farsi odiare da te.»
Quelle insinuazioni non fecero altro che confondermi ancora di più. Nella mia testa ormai albergavano dei sentimenti contrastanti, delle sensazioni che mai mi ero aspettata di provare. Inoltre, questo continuo ripetermi dagli altri che Simone era più di quanto appariva mi faceva vacillare. Ricercavo le loro parole dietro quei suoi occhi scuri e a mano a mano mi ci perdevo.
«Arrivederci, Mr. Sogno,» dissi, sperando di chiudere lì quella conversazione.
Lui mi sorrise, poi uscì dalla porta cominciando ad indossare i guanti mentre si avviava giù per le scale del palazzo.
Rimasi sulla soglia a vederlo scomparire nell’atrio, domandandomi se per caso fossi io quella cieca in tutta questa storia. Stavo obbligando me stessa a non vedere, oppure erano gli altri che ricamavano troppo?
Cercai di non pensare a quelle congetture, non adesso che dovevo assolutamente concentrarmi sul caso. Una volta archiviato, niente più Simone e bentornato James. Così doveva andare.
«Finalmente…» bofonchiò una voce alle mie spalle che mi fece sussultare.
Mi voltai sbattendo la porta per chiuderla, stizzita da quel suo comportamento infantile. «Sei proprio un codardo.» sibilai.
Simone si passò una mano tra i capelli sempre più spettinati e mi guardò sorpreso. «Perché?»
Lo fulminai. «Ah, me lo chiedi pure? Ho dovuto intrattenere TUO padre mentre tu ti nascondevi in camera come un bambino di cinque anni. Questa, a casa mia, si chiama “fifa”»
A quel punto lo vidi assottigliare lo sguardo e stare sulla difensiva. «Tu non sai un bel niente e continui ad atteggiarti a sapientona dei miei stivali. Come se fossi una donna di mondo. Non  hai vissuto né provato nulla, quindi non farmi la predica.»
«Sono nata prima di te, io!»
«Non c’è bisogno di dirlo,» sorrise, fissandomi dall’alto in basso. «Si vede.»
Strinsi le mani a pugno col chiaro intento di cominciare a picchiarlo. Se non fosse stato così alto mi sarei appesa ai suoi capelli come uno scimpanzé.
«Sei proprio uno stronzo,» ringhiai. «E immaturo. Invece di affrontare tuo padre e i vostri problemi, ti nascondi. Questo è un chiaro segno di maturità. Bravo.»
Simone si diresse verso il frigo e tirò fuori il cartone del latte. Se ne versò un bicchiere. «E tu sei una sputasentenze che parla senza sapere.»
«Se magari mi parlassi, allora potrei consigliarti senza sentirmi insultare ogni volta,» specificai con ovvietà.
Lui sorseggiò il latte fissandomi con quello sguardo.
Era capace di smuovere le montagne soltanto con una semplice occhiata.
Ma quale montagne, semmai ti smuoveva quelle ovaie impigrite che ti ritrovi!
«Magari un giorno,» mormorò, con i baffi bianchi del latte sulla parte superiore delle labbra.
Le stesse labbra che hai quasi baciato.
Ecco, fermiamoci sul quasi.
«Allora aspetterò quel giorno. Per adesso posso straparlare finché voglio,» m’impuntai.
Lo sentii ridere, mentre se ne tornava nella sua stanza a fare Dio sa che cosa. Da una parte mi aveva messo un po’ di curiosità con tutta quella storia, soprattutto perché era evidente che c’erano ben altri problemi sotto la superficie.
Magari se avessi avuto pazienza, costanza, avrei scavato. Centimetro dopo centimetro sarei riuscita a scalfire quella corazza e a scoprire dove si celasse il vero Simone.
 
 ***
Crudelie del mio corazòn!
No, non sono morta ma tra università, palestra (sì, vado anche in palestra ò_ò) e il resto, diciamo che la real life mi risucchia. In più, iella ha voluto che alla mia wifuccia le si rompesse il piccì e abbiamo dovuto attendere ù_ù
Bene. Eccoci tornati con l'undicesimo capitolozzo! *Q*
Abbiamo conosciuto Carl St. James e quella pruttona di Elizabeth, che per me ha questo volto qui.
Comunque, mi metterò a lavoro con la stesura del capitolo 17, per poi riprendere Come in un Sogno :3
Lo so, sono lenta come una lumachina çç ma voi appettatemi! >.<

Un beso, Marty

|| Crudelie si nasce - Le originali ||
Si accede tramite MP ad una delle amministratrici del gruppo
IoNarrante Efp | Nessie Efp | Annamaria Caline Raneli | Rosita Capizzi

Il messaggio è obbligatorio, dovete scriverci il motivo per cui volete entrare
ed essere partecipativi :3

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 12 ***


CAPITOLO 12
Betato da nes_sie
 
Quel Sabato mattina mi ero svegliata con la luna storta, come ogni giorno da quando mi ero trasferita al 126B di Soho St. Stavolta, però, il mio coinquilino nonché padrone di casa, Mr. Simone Sogno, non c’entrava nulla col mio malumore.
Era tutta colpa di quell'invito alla maledetta riunione di classe che avevo ricevuto qualche tempo prima. Come una vera sciocca, mi ero lasciata convincere da Sofia – anzi, da Volpia – ad andare nonostante non avessi un cavaliere. Per fortuna che poi il problema si era risolto con l’arrivo di James che mi aveva proposto la sua compagnia, la sera del nostro primo bacio.
 
La classe del 2013 la invita cordialmente ad una riunione scolastica per il 02 di Dicembre nei locali dell’Università. È obbligatorio l’abito scuro, così come un accompagnatore per il party che si terrà nei giardini coperti e nella Sala del Consiglio.
Cordiali saluti,
Il Rettore.
 
Ora mi ritrovavo a fissare intensamente quell’invito, incastrato tra la cornice dello specchio, e a pensare a quanto fossi stata stupida ad accettare tutto quello. Io che ero fermamente contraria a feste e balli, a ridicole riunioni di classe che servivano unicamente a vantarsi di ciò che si era, oppure a mortificarsi per quello che avevi potuto raggiungere.
Venera Donati aveva addirittura mollato il ballo scolastico dell’ultimo anno, per cui...
Ma chi me l’ha fatto fare?
Magari pensala come una serata di svago, in cui non farai altro che bearti del tuo bel cavaliere.
Il mio Cervello, alle volte, funzionava alla perfezione e quando si pronunciava in questa maniera c’era quasi da lodarlo. In effetti, mi stavo preoccupando troppo. Era pur vero che io e James avevamo in qualche modo “rotto”, anche se non eravamo mai stati insieme, eppure lui non aveva disdetto questa serata, segno che voleva ancora passarla con la sottoscritta.
Mi aveva chiesto di aspettarlo, di attendere la fine del processo in cui eravamo coinvolti per poter chiedere il trasferimento ad un altro studio e poter finalmente stare insieme come una coppia normale. Ed io avevo accettato.
In fondo, come non avrei potuto? James era forse la persona che più si avvicinava al mio ipotetico ragazzo perfetto, sia nei suoi modi eleganti ed educati, sia nell’essere così maturo ed intelligente. Due o tre mesi non avrebbero fatto la differenza, ne ero più che sicura. Sapevo che una volta messa la parola 'fine' a tutta quella storia, finalmente anche io avrei potuto godermi la vita.
Giovane socio della Abbott&Abbott e fidanzata di uno dei nipoti, erede dell’intero impero legale della famiglia.
Da quando sei così materialista?
Non si trattava di essere materialisti o altro. Avrei scelto James anche se fosse stato un anonimo impiegato della nettezza urbana. I suoi occhi mi avevano affascinato, così come la sua presenza e il suo bell’aspetto.
Sospirai, slacciando lo sguardo da quell’invito che ormai mi aveva imbambolata in pensieri futili. Avevo già indosso i collant, così come la biancheria intima e quel poco di canottierina che potevo indossare per evitare di sentire l’effetto della temperatura rigida di quella notte col vestito che Simone aveva scelto per me.
Detta così suona malissimo.
Sgranai gli occhi.
Okay, tecnicamente lui mi aveva aiutata a scegliere quel vestito, visto che l’accoppiata commesse del negozio più Sofia non avevano partorito altro che abiti dal dubbio gusto. In fondo, me l’ero pagato a mie spese, se me lo avesse regalato Simone era un altro conto.
Me lo figurai con un pacco in mano, come in uno di quegli smielati film romantici, che mi faceva recapitare il vestito per il ballo sul letto della mia stanza, con un biglietto sdolcinato.
Simone e romantico non potevano esistere nella stessa frase.
Mi alzai dalla sedia, rendendomi finalmente conto che dovevo darmi una mossa o sarei arrivata in ritardo a Cambridge. Ci volevano una ventina di minuti in auto, e presentarsi in ritardo ad una riunione di classe con il tuo ex-rettore non era il massimo dell’educazione.
Afferrai il vestito che stava sulla stampella, lo presi e cominciai ad indossarlo, saltellando su una gamba e poi sull’altra. Mi avvicinai al lungo specchio a parete, rimirando quel pezzo di stoffa nero che mi era costato quasi l’intero affitto del mio ex-monolocale.
E la gente spendeva davvero cifre assurde per abiti che sicuramente indossavano una sola volta nella vita. Un vero spreco.
Perfetto. Il riflesso che l’oggetto appeso al muro mi restituì fu quello di una ventiquattrenne con i capelli a caschetto, lo sguardo azzurro spento e stressato ed un paio di borse sotto gli occhi che avrei dovuto coprire con quintali di fondotinta. Ora dovevo solo allacciarmi la zip e poi sarei stata ufficialmente pronta ad aspettare James.
A quel nome il mio cuore rispose con la perdita di un piccolo battito, quasi a confermare che quel qualcosa di cui parlavo prima c’era ancora, che sicuramente sarei riuscita ad aspettare la fine del processo. Ormai mi ero invaghita di lui, c’era ben poco da fare.
Cominciai a far salire la zip dal basso, rispolverando le mie tecniche da contorsionista brevettate. Il vestito si chiuse sino a metà schiena, ora sarebbe arrivata la parte più difficile. Far salire la chiusura alle spalle era forse il tour de force di ogni ragazza che contava soltanto su sé stessa e che non aveva un uomo disposto a chiudere la zip, finendo poi col posarle un bacio sulla spalla.
Fantasia portami via.
L’immagine di James che si materializzava alle mie spalle mormorando un “Aspetta, ti aiuto io” sensuale e roco mi fece rabbrividire. L’astinenza mi giocava davvero dei brutti scherzi, ed era forse la prima volta che riuscivo a dare ragione a Simone. Non era stata una grande idea quella di mettere da parte la vita sentimentale e il divertimento per concentrarmi unicamente sulla carriera. Avevo finito con l’avere le allucinazioni, perfetto.
Tentai di afferrare la zip con la mano posta oltre la spalla, spingendola indietro anche con l’altro braccio, ma ero troppo poco allenata per riuscire a farcelo arrivare. Inoltre, nemmeno dal fianco riuscivo ad afferrarla.
Ora non potevo tirare su la zip, ma nemmeno riabbassarla. Era rimasta in quella metà della mia schiena dove mi era completamente impossibile liberarmene.
Sarò costretta ad andare in giro col vestito aperto. Gesù.
Potresti sempre farti aiutare da James.
Certo, così si renderà conto di quanto io sia imbranata nella vita di tutti i giorni. Lui si aspetta che io sia una sorta di superdonna, una a cui niente e nessuno riuscirebbe a mettere i piedi in testa, invece ero anche io un essere umano.
Okay, fa niente. Guardai la giacca color champagne adagiata sul copriletto e pensai che per una volta un semplice accessorio come quello mi avrebbe salvata dall’imbarazzo fin quando non fossimo arrivati al guardaroba. Lì avrei dovuto chiedere a James di tirarmi su la zip del vestito.
E magari ci sarebbe stato il tempo di girare un ciack erotico negli spogliatoi dell’università.
Taci.
Decisi che nel frattempo sarei andata a darmi una sistematina a quelle occhiaie, per farle sparire definitivamente. Indossai le decolleté col vertiginoso tacco dodici e credetti davvero di poter morire. Da quell’altezza riuscivo a vedere le cose da un’altra prospettiva, tipo la quantità di polvere che c’era sopra la cassettiera.
«Che schifo…» commentai, passando un dito sul mobile.
«Hai detto qualcosa?» Simone passò davanti alla mia stanza in quell’esatto momento, con un asciugamano stretto in vita ed uno a mo’ di turbante in testa.
Sembrava Alibabà.
Riuscii a stento a trattenermi dal ridere. Nemmeno io e Celeste riuscivamo a raggiungere quel livello di ridicolaggine con soli due asciugamani.
«N-No...» sghignazzai.
Il calciatore s’indispettì subito, nemmeno gli avessi già messo la pulce nell’orecchio. «Mi trovi ridicolo? Che hai tanto da ridere, eh?»
E allora rilasciai tutta la tensione accumulata per quella serata, cominciando a guaire come un cane.
«Il tu-turbante… ah ah ah!» e continuai a ridere come se non ci fosse un domani.
Simone incrociò le braccia al petto, trasformando per un attimo quella pelle lattea in due pagnotte gonfie e muscolose. Smisi di ridere quando fissai lo sguardo su una gocciolina d’acqua che serpeggiò lungo tutto il suo petto glabro, finendogli al di sotto dell’asciugamano stretto in vita.
Maledetta goccia.
«Mr. Avvocato non è ancora arrivato?» mi chiese, sciogliendo il turbante e cominciando a strofinarsi i capelli con la spugna.
Scossi la testa e andai a controllare il cellulare, mostrandogli la schiena. Effettivamente era strano che non mi avesse ancora chiamata, né mi avesse comunicato l’orario in cui mi sarebbe passato a prendere. Forse avevo dato troppo per scontata la sua presenza, ma cercai di non farmi venire le paranoie.
Afferrai il blackberry e sbloccai lo schermo, accorgendomi solo in quel momento che c’era un messaggio nella segreteria che lampeggiava. Spinsi il pulsante per ascoltarlo e avvicinai l’apparecchio.
 
Ciao spaghetti-girl!
Ti lascio un messaggio per scusarmi e per dirti che mi dispiace, ma stasera sono stato trattenuto ad una riunione con zio August e non posso accompagnarti a Cambridge. Ti mando un’auto a prenderti, potrei raggiungerti verso le undici, poi ti faccio sapere. Divertiti e soprattutto non vedo l’ora di vedere il vestito che indosserai.
Aspettami.
 
Rimasi di sasso a guardare una macchia d’umidità sul muro bianco della mia stanza. Era troppo bello per essere vero, sarebbe stato un sogno ad occhi aperti se davvero James avesse trovato il tempo e la voglia di accompagnarmi a quella stupida festa.
Ora avevo preso l’impegno e ci sarei dovuta andare da sola. Come una sfigata.
Meglio soli che male accompagnati.
I miei ex-compagni ci sarebbero andati a nozze, capirai.
Ero sovrappensiero e non mi accorsi di un paio di mani umide e grandi che si posarono sulle mie spalle. Rabbrividii. Alzai lo sguardo sullo specchio e mi trovai Simone alle spalle, intento a chiudermi la zip del vestito senza che gli avessi chiesto nulla.
Come quella volta nel camerino.
Sussultai e cominciai a sentire davvero caldo, perché solo al ricordo del quasi-bacio di qualche giorno prima, su quello stesso letto dove io stessa dormivo, mi sentivo svenire. Mi feci forza per rimanere impassibile sotto quel tocco delicato.
Non potevo, non dovevo pensare cose del genere, soprattutto di Simone. Sapevo com’era fatto, conoscevo ogni suo lato del carattere e ogni suo vizio. Era un donnaiolo, immaturo, sciocco, uno a cui piaceva unicamente giocare con le donne.
Ormai era inevitabile che quella convivenza forzata aveva contribuito ad avvicinarci, in un senso che io non avevo programmato, ma per me si trattava unicamente di attrazione fisica. Evidentemente ero solo un’altra delle prede che si era prefissato, semmai gli interessassi davvero.
Magari si era limitato solo a scommettere con quell’altro scemo di Sebastian che sarebbe riuscito a portarmi a letto prima di Natale. Quante volte avevo sentito quella storia?
Troppe.
Quando sentii la zip chiudersi e le mani di Simone abbottonare l’ultimo lembo del vestito, scattai il più lontano possibile da lui e mormorai un frettoloso Grazie.
«Scusami, ma devo andare,» tagliai corto, cominciando a prendere le cose e a riempire la piccola pochette che avevo comprato insieme al vestito.
Simone mi guardò sorpreso. «E il tuo cavaliere? È andato a sostituire la scopa nel culo?» e sghignazzò come uno scemo.
Lo fulminai con lo sguardo. «Ha un impegno, mi raggiungerà dopo,» dissi, fingendo che non fosse un problema.
Invece lo era eccome. Sapevo alla perfezione chi o cosa avrei incontrato a quella maledetta riunione di classe. Sophie McAvy era soltanto uno dei venti nomi di una lista nera che avevo redatto lungo tutta la durata del master.
«Ti ha dato buca, eh?» constatò il calciatore, senza smettere quell’odioso sorriso da te-l’avevo-detto.
Sentivo gli occhi bruciarmi, così come una lacrima che premeva per uscire all’angolo dell’occhio destro. Era frustrante dover dar ragione al marmocchio, ma ero rimasta profondamente delusa dal comportamento di James. Era pur vero che l’avvocato era stato trattenuto da un impegno, ma io ci tenevo così tanto al suo supporto, soprattutto per quella riunione che odiavo.
«Ti prego, non adesso.» La voce che uscì dalle mie labbra era incrinata da un pianto imminente.
Mi feci forza per non piangere. Non dovevo dare a nessuno dei due quella soddisfazione, perché Venera Donati era una persona forte, una ragazza intaccabile, niente e nessuno era capace di ferirmi.
Ma a chi vuoi darla a bere?
«Scusami, vado ad aspettare la macchina giù,» gli dissi, indossando la giacca e dirigendomi verso la porta dell’ingresso.
Chiusi l’uscio alle mie spalle, lasciando che l’eco si diffondesse per tutto il pianerottolo. Cercai di non lasciarmi andare mentre entravo nell’ascensore e spingevo il pulsante T. C’erano troppe cose che erano andate storte nella mia vita, ed io non mi ero mai persa d’animo. Quella cosa della riunione di classe era una sciocchezza, non dovevo prendermela tanto.
E poi mi aveva detto che mi avrebbe raggiunto.
Aspettami. Così mi aveva suggerito, di nuovo.
«Buonasera, signorina,» mi salutò il portiere del palazzo, aprendomi la porta.
Scesi i gradini antistanti la palazzina e mi riversai in strada, col freddo pungente che rischiava di farmi venire una polmonite. Il 2 di Dicembre non era adatto per indossare un vestitino striminzito e una giacchetta leggera.
Forse ero uscita troppo frettolosamente di casa. Non avevo alcuna intenzione di tornare lì dentro, però. Non volevo. Affrontare di nuovo lo sguardo di Simone che mi ricordava quanto fossi stata stupida a credere davvero di poter far affidamento su qualcuno era troppo da sopportare.
Ero davvero stufa di dover fare i conti con lui e con James. Con uno che mi ammoniva sull’immaturità dell’altro e viceversa.
Niente più consigli. Per ora avrei dovuto contare unicamente sulle mie sole forze.
La macchina tardava ad arrivare ed io mi stavo letteralmente congelando. Non sapevo quanto avrei resistito, se l’indomani mi sarei buscata una nuova influenza coi fiocchi. Il tempo di Londra non era clemente come quello della penisola che avevo lasciato per inseguire i miei sogni d’avvocato.
Poi la vidi. Una limousine nera che percorreva Soho St. e metteva la freccia per accostare direttamente sotto il palazzo.
Ti tratta bene l’avvocato.
D’improvviso mi sentii più sollevata, anche perché cominciai a riacquistare un po’ di sicurezza. Sarei andata da sola alla riunione, ma poco m’importava. In fondo, avevo sempre contato soltanto sulle mie sole forze, e non era la prima volta che qualcuno mi deludeva.
Ci sarebbe stato tempo per riprendersi.
L’autista scese e mi aprì la portiera, salutandomi con un cordiale buonasera.
Feci per salire sull’auto, dotata di tutti i comfort e lusso sfrenato, quando sentii una voce che diceva all’autista di attendere.
Cercai di capire chi fosse, con lo strano sospetto di dovermi aspettare qualcosa di davvero indesiderato. Dieci secondi dopo, a due centimetri dalla sottoscritta, c’era seduto Simone vestito in smoking e con i capelli stranamente, e ripeto stranamente, pettinati.
«E tu cosa ci fai qui?» sbottai incredula.
Il calciatore mi sorrise, poi diede l’ordine all’autista di partire. Si lasciò andare sullo schienale della macchina e sbuffò. «Sono il tuo accompagnatore, non è ovvio?»
Quella sì che si sarebbe preannunciata una serata molto strana.
 
Imboccammo l’autostrada che ci avrebbe condotti a Cambridge verso le 8.10 della sera, in perfetto orario per l’inizio della festa. Avevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino da quando la limousine era partita da Soho. Sentivo la presenza di Simone accanto a me come se ardesse, allo stesso modo della brace che si consumava lentamente in una stufa.
Quel marmocchio doveva fare sempre di testa sua, chissà cosa gli aveva detto il cervello per convincerlo ad accompagnarmi. Che avesse in mente di ridicolizzarmi pubblicamente?
Non penso, in fondo sei sempre il suo avvocato.
Infatti. Sarebbe troppo stupido per lui umiliarmi e poi presentarsi in un aula di tribunale sapendo che avrei potuto trascinarlo con me nella fossa. Eravamo legati l’uno all’altra da un filo sottilissimo e sperai sul serio che avesse sufficiente sale in zucca da non mandare tutto all’aria.
Lo guardai con la coda dell’occhio, tentando di non farmi scoprire.
Si stava trastullando con il cellulare, sghignazzando mentre digitava qualcosa che pensai fosse un SMS oppure un tweet. Era ovvio che un personaggio dello spettacolo come lui avesse in qualche modo una pagina fan, o milioni di ragazzine infoiate che gli mandavano messaggini adoranti.
Patetico.
«Potresti essere arrestato per pedofilia,» commentai acida, senza riuscire a trattenermi da tutto quel picchiettare le unghie sullo schermo.
Simone alzò lo sguardo dal telefono con ancora in volto quel sorriso scemo. Capì che mi riferivo alle sue fan solo quando notò il mio sguardo inceneritore rivolto alla pagina di twitter aperta sul suo iPhone.
«Si tratta soltanto di post innocenti,» sorrise angelico. «Finché si parla, è permesso tutto no?»
Scrollai le spalle innervosita. «Fai come ti pare. Una causa, due, ormai chi le conta più!» esagerai.
Simone si mise a ridacchiare di gusto, continuando imperterrito con quei fastidiosissimi tweet.
«Non sto facendo nulla di male,» continuò a giustificarsi.
«Sai che ti dico? Chissenefrega.» sibilai.
Avevo ben altre cose a cui pensare, come ad esempio la vista di Cambridge da lontano, tutta illuminata. Stavamo per arrivare ed io avevo addosso una rabbia e un nervoso che mi avrebbe fatto esplodere di lì a qualche minuto.
«Sei gelosa, per caso?» insinuò lui, mettendo da parte il telefono e sporgendosi verso di me.
Lo fissai con uno sguardo di sufficienza. «Se ciò dovrà mai accadere, sparami,» commentai.
Simone continuò imperterrito a sfoggiare quel sorrisetto fastidioso e a guardarmi in quel modo. Lo odiavo quando faceva così, mi sentivo strana e turbata. Ciò mi sconvolgeva perché il 90% delle volte avevo il pieno controllo di me stessa.
«Comunque il discorso della pedofilia è valido anche per te, mia cara vecchietta.»
E no, ora era troppo!
«Guarda che James ha trent’anni, bello. Non cinque come te!» gli feci presente, sottolineando quell’importante disparità tra i due.
Il calciatore non si sconvolse più di tanto. Cominciò a fissarsi le unghie e a lucidarle distrattamente sulla giacca nera. «Peccato che alla festa non ti accompagni James.»
Colpita e affondata.
Non ebbi altro da aggiungere e non gli diedi nemmeno soddisfazione di vedermi turbata in qualche modo da quello che aveva detto. Accidenti a lui, riusciva sempre a mettermi in difficoltà. Avevo sempre pensato che i calciatori fossero rinoceronti decerebrati senza il minimo accenno di materia grigia, come diceva sempre Celeste, ma Simone era diverso.
Furbo e svelto come una faina.
La limousine si fermò al cancello principale della struttura, dopo aver attraversato l’immenso viale che conduceva all’ingresso dell’università. Anche da lì si poteva ammirare lo stile gotico in cui era costruito quasi ogni edificio e i ricordi cominciarono a sopraggiungermi alla mente. Ricordai come mi ero sentita smarrita il primo giorno, ma fermamente determinata a proseguire.
Volevo a tutti i costi prendere quel master e provare il tirocinio alla Abbott&Abbott. C’ero quasi riuscita, il mio percorso sarebbe stato ben presto completo.
«Signori, da questa parte,» ci disse una ragazza in abito lungo che reggeva una lista.
«Bel posticino...» commentò sarcastico, abbassandosi quel tanto che gli permise di arrivare al mio orecchio.
Con quei dodici centimetri di tacco gli arrivavo alla spalla. Magra consolazione.
«Venera Donati,» dissi alla signorina, mostrandole l’invito. Lei controllò la lista, poi mi sorrise.
«Prego. Lei e il suo accompagnatore siete i benvenuti alla riunione di classe. Più avanti c’è il guardaroba, poi la sala con gli altri ospiti. Buon divertimento.»
Le sorrisi e proseguii, con Simone che mi ciondolava al fianco.
«Certo che era gnocca, l’inglesina,» commentò, con lo stesso tatto di un tostapane.
Gli rifilai un’occhiataccia. «Smettila o giuro che ti rimando a casa con la limousine.»
Simone mi rispose tirando fuori la lingua.
Cretino.
Posai la giacca nel guardaroba e Simone gli diede il suo cappotto. Seguimmo il resto degli invitati in una sala enorme, che ricordai come l’aula magna. Era stata adibita a sala da ballo con, a ridosso delle pareti, grandi tavolate piene di cibo.
C’era anche un quartetto d’archi che suonava dal vivo.
Gli inglesi avevano un modo tutto loro di organizzare le feste, ed io davvero rimanevo sorpresa ogni volta. Se si fosse trattato di una riunione di classe in Italia, ero più che sicura che non avrebbe avuto la stessa classe.
«Certo che qui non badano a spese,» continuò Simone, guardandosi attorno. «Sembra di stare ad uno di quei gala a cui mi invitano solamente per piazzarmi con qualche rampolla di buona famiglia.»
«Donne di poco cervello,» aggiunsi, meritandomi un’occhiata dal calciatore.
Si mise le mani in tasca e cominciò ad adocchiare il buffet. «Insomma… sarebbe questa la festa? Annamo a magna'?» disse di punto in bianco, in un dialetto che era impossibile evitare di riconoscere.
Altro brivido.
Perché mi faceva questo dannato effetto? Eppure non avevo mai sopportato quelle persone che da noi venivano etichettate come “coatte”. Certo, Simone non si poteva proprio definire tale.
Lo osservai ancora.
Dovevo ammettere che lo smoking gli donava molto. Gli conferiva un’eleganza che pochi uomini potevano vantarsi di avere. In fondo era sì un calciatore, ma non di quelli con il corpo massiccio e muscoloso. Diciamo che Simone era fine, elegante, quasi delicato.
Di quella bellezza femminea che apparteneva propriamente ad un tipo letterario come Dorian Grey.
«Ma chi si vede!» trillò una voce alle mie spalle.
Una cascata di brividi mi fece trasalire, soprattutto perché sapevo a chi apparteneva quella voce.
Sophia McAvy. Laureata a soli ventidue anni, con ben due semestri d’anticipo, aveva frequentato il mio stesso master con l’intento di lavorare all’ambasciata statunitense. Era figlia del giudice McAvy, perciò aveva la strada lavorativa davanti a sé completamente spianata.
Soltanto io avevo dovuto lottare con le unghie e con i denti per quel maledetto tirocinio.
«Sophia!» esclamai, fingendo di essere felice di rivedere quella antipatica. «Come stai?»
Notai che il suo sguardo smeraldino si era posato sul mio vestito e sulle scarpe abbinate. Era alquanto sorpresa dal mio aspetto.
«Io benissimo, ma vedo che anche tu ti sei data una bella restaurata!»
Restaurata? Ma anvedi questa!
«Eh si, diciamo che per questa sera mi sono vestita elegante e un po’ fuori dai miei soliti schemi,» le risposi, trattenendo a stento la voglia di mandarla a quel paese.
«Sì, infatti! Ricordo perfettamente che venivi a lezione con quei ridicoli pantaloni con le pences e quei dolcevita da mercatino dell’usato!»
Premettendo che quei maglioncini ancora li avevo, strinsi con forza la mia pochette e mi imposi fermamente di non tirargliela in testa, almeno fino a quando la festa non fosse finita.
Dio quanto la odiavo.
Ad interrompere quello sciorinare di insulti, arrivo un uomo sulla trentina. Lo riconobbi perché era stato uno dei nostri supplenti al corso. Mr. Antony Brown era stato il sogno proibito di ogni singola studentessa nel corso di quelle due lunghe ed intense settimane come rimpiazzo.
«Come va, tesoro?» disse rivolto a Sophia, posandole una mano sul fianco
La rossa mi sorrise malignamente, fissandomi dritta negli occhi. «Ti ricordi di Venera? Quella ragazza italiana che veniva da un piccolo paese sperduto chissà dove?» chiese, rivolgendosi al compagno.
Il professor Brown mi fissò attentamente, poi sorrise. «Ne ho visti tanti di studenti, amore. Ricordo solo il tuo di volto.» E la baciò.
Ora potevo ufficialmente dare di stomaco. L’idea di partecipare a quella ridicola riunione di classe stava diventando ancora più imbarazzante di quanto mi fossi immaginata.
«Sai, io e Antony abbiamo iniziato ad uscire una volta conseguito il master. Diciamo che si è trattato di amore a prima vista,» trillò lei estasiata.
Lui annuì sorridente.
Che quadretto disgustosamente stucchevole. Dov’era il bagno per poter vomitare?
«Tu sei venuta da sola, invece? Mi dispiace, ma vedrai che l’uomo giusto ti aspetta all’angolo, magari vicino al buffet!» e mi strizzò l’occhiolino, alludendo ad un uomo piuttosto obeso che continuava ad ingurgitare bignè di San Giuseppe come se fossero patatine.
«Già,» sospirai.
«Vuoi qualcosa?» mi disse una voce, mentre un piatto strabordante di rustici apparve davanti al mio viso.
Simone continuava a masticare senza curarsi della presenza di Sophia e del professor Brown. E subito dopo era piuttosto concentrato se prendere un rustico ripieno di prosciutto cotto oppure di zucchine. Scelta ardua, davvero.
«No grazie, mangiali tu,» gli dissi, spostando il piatto da davanti il mio viso.
Lui fece spallucce e continuò a mangiare, accorgendosi solo allora della presenza degli altri due interlocutori. Si pulì distrattamente la mano su un tovagliolo e la porse al professore.
«Piacere, Simone,» disse impeccabile.
Afferrai al volo un flute di champagne da uno dei camerieri che passavano, magari cominciare a bere mi avrebbe aiutato a dimenticare quella serata già cominciata male.
Simone però me lo strappò di mano e ne bevve il contenuto rimasto.
«Grazie!» sospirò infine, poi si rivolse a Sophia, sfoderando uno dei suoi sorrisi sexy brevettati.
«Piacere mademoiselle, je suis Simon…» aggiunse, prendendole la mano e baciandone il dorso. «Enchanté.»
Lo fissai allibita, con la bocca semi-aperta e lo sguardo da triglia lessa. Possibile che fosse impossessato? Mi sarei dovuta preoccupare?
Sophia era sconvolta tanto quanto la sottoscritta. «Piacere. Ma tu non sei quel giocatore famoso? Quello che si vede a tutti i notiziari?» domandò lei sorridente.
Era come se improvvisamente il professor Antony fosse sparito dalla faccia della terra. Ovviamente Simone stava sguazzando nella sua popolarità, era quello che gli riusciva meglio.
Ed io che avevo pensato di passare inosservata.
«Sì sono proprio io e sì, anche un calciatore di fama mondiale che ogni tanto si reca in una delle università più prestigiose al mondo,» cominciò ad auto-compiacersi.
Cercai di rifilargli una gomitata per far sì che evitasse di rendersi ridicolo, ma poco dopo mi bloccai perché attorno a noi si era creata una sorta di piccola folla di fans.
Possibile che insieme a Simone fosse tutto così imprevedibile?
«Con chi sei venuto?»
«Anche tu hai frequentato qualche corso?»
«Hai portato qualche top model con te?»
«Domenica hai giocato divinamente!»
Queste furono più o meno le domande che si accavallarono l’un l’altra nei successivi venti minuti, e per fortuna Sophia fu allontanata dalla sottoscritta.
Alla fine è stata una fortuna che si sia offerto di accompagnarti.
La prossima volta che ci sarà una riunione di classe – a cui ovviamente NON parteciperò – terrò presente le doti nascoste di Simone.
«Ho frequentato anche io Cambridge,» disse lui sorridente e quella notizia mi giunse nuova. Stava forse scherzando? «Ho dovuto mollare per inseguire il mio sogno più grande, che si è realizzato tre anni fa, quando sono diventato titolare dell’Arsenal. Ora sono qui in veste di accompagnatore della mia Venera.»
C’erano un paio di cosucce che non quadravano affatto in quella frase. Numero uno, davvero uno come lui era riuscito ad entrare a Cambridge? Numero due, aveva davvero detto “mia Venera”, senza aggiungere qualche altro nome dispregiativo?
La piccola folla di fans mi fissò come se fossi appena diventata la Madonna di Fatima, con tanto di miracolo in corso. Si trattava di Simone Sogno, non Johnny Depp!
Scostai poco delicatamente le mani che il calciatore mi aveva poggiato sulle spalle nude. «Okay, gente. È stato davvero un piacere rivedervi, ora ho bisogno di bere,» dissi plateale, cercando di raggiungere il buffet.
Intercettai Sophia qualche fila di persone più in là, che sorrideva compiaciuta e continuava imperterrita a spettegolare con altre quattro comari. Ero sicura al cento per cento che stessero lanciando malignità contro la sottoscritta e mi ripromisi mentalmente di non andare mai più ad una di queste buffonate.
Passare il sabato sera a guardarsi l’intera seconda stagione di Law&Order, quello sì che era un passatempo costruttivo!
Raggiunsi il tavolo con le bevande prima di quanto avessi sperato, così mi fiondai su del poche che aveva vagamente l’aspetto alcolico. Non che volessi ubriacarmi, anche se ci avessi provato non ci sarei riuscita. Avevo passato l’intero periodo universitario sui libri, perciò avevo tentato di tutto pur di guadagnare quelle tre ore di sonno che mi permettessero di ricaricarmi.
La sbronza era stata una delle soluzioni.
Perciò ero diventata quasi del tutto immune all’alcool, ma di tanto in tanto ne sentivo il bisogno. Soprattutto quando la scena ti veniva completamente rubata da un calciatore che non avevi nemmeno programmato di incontrare, e che ora era il tuo cliente nonché accompagnatore.
Scandagliai la sala in cerca di un posto tranquillo dove nascondermi per le prossime due ore, almeno fino all’arrivo di James che ero sicura mi avrebbe salvata.
Vidi la finestra che dava sul cortile leggermente aperta e decisi di sfidare il freddo. Di sicuro non avrei trovato nessuno che mi importunasse lì.
Potevo stare lontana dal chiacchiericcio e dalla vita mondana per un po’.
Mi assottigliai quel tanto da poter riuscire a passare al di là della finestra semi dischiusa e mi ritrovai davanti il paesaggio dell’intero campus universitario. La prima neve della stagione non era ancora scesa, ma ne percepii l’odore nell’aria. Ormai mancava poco e anche se non ero una londinese doc, avevo sviluppato una sorta di sesto senso.
Rabbrividii. Il freddo era pungente in quella stagione, ma quello vero doveva ancora arrivare. A me sarebbe bastato sfuggire a quella serata e magari affrontare l’indomani senza ulteriori intoppi.
Uno di questi sarebbe stato il processo.
Mi appoggiai con le mani alla balaustra di pietra, fissando lo sguardo oltre l’orizzonte ammantato di buio. C’erano i lampioni vittoriani che illuminavano gli edifici principali della città universitaria e ricordai vagamente come fosse vivere lì.
Soltanto una cosa mi tornò alla mente, ed era la nostalgia di casa.
«Sapevo che ti avrei trovata qui,» disse Simone, apparendo alle mie spalle. Doveva sempre fare il guastafeste, anche quando non ne aveva l’intenzione. C’era un motivo se le persone cercavano di starsene un po’ sole con i propri pensieri.
«Già stanco della folla?» lo schernii, voltandomi per incontrare il suo sorriso beffardo.
Non c’era, o perlomeno non era uno di quei sorrisi.
Mi porse un cappotto di pelliccia bianco, con un paio di guanti ed una morbida sciarpa. Lui già indossava il suo, quello che aveva depositato nel guardaroba.
«E questo dove l’hai preso?» domandai, assumendo immediatamente quel cipiglio ammonitore.
Simone fece spallucce e mi fissò con l’aria di un bambino che ne aveva appena combinata una delle sue. «Diciamo che è per gentil concessione di una certa Sophia. Per ora non le serve, visto che sta “discutendo” con Antony e con il suo essere solo un misero professore di Diritto.»
Cercai di trattenere un sorriso di trionfo, ma non ci riuscii.
«Eccolo lì!» indicò Simone, riferendosi al mio gesto divertito. «Allora anche gli avvocati sanno ridere! Pensavo foste tutti d’un pezzo, che vi forgiassero con lo stampino.»
«Non sei divertente,» mormorai, senza smettere di sorridere. Il buonumore di Simone era maledettamente contagioso. «E anche se il tuo gesto è stato stranamente galante, non posso rubare il cappotto di Sophia.»
«Non lo stai rubando, è un prestito,» si giustificò lui.
Gli rifilai uno sguardo serio, da avvocato. «È meglio riportarlo dentro,» dissi, facendo per entrare.
Simone però mi sbarrò la strada posando un braccio sulla portafinestra. I suoi occhi erano più scuri di quel cielo dicembrino ed io rabbrividii, ma non per il freddo. Mi sentivo di nuovo strana, come ormai succedeva fin molto spesso.
«Andiamo,» disse lui, serio.
Era una delle rare volte in cui non faceva lo scemo o il ragazzino. Rimasi spiazzata da tutta quella sua sicurezza.
«Dove?» chiesi ingenuamente. Mi ero ripromessa di non cadere nel suo stupido gioco, ma mi era quasi impossibile non dargli corda.
Simone allora sorrise e non uscì più fiato dalle mie labbra congelate. «Fammi vedere dov’è che ti nascondevi dal mondo,» pronunciò solamente, lasciando la portafinestra e dirigendosi giù per dei gradini che conducevano al grande giardino antistante il rettorato.
A quel punto avevo due scelte di fronte a me: indossare quella eco-pelliccia rubata ad una stronza di cui non mi importava nulla e seguirlo, oppure tornare dentro, restituire il cappotto e svuotare l’angolo dei liquori.
Decisi che per quella sera sarei rimasta sobria.
 
Con le mani affondate nelle tasche e la sciarpa che faceva tre giri completi attorno al mio collo, mi incamminai verso il grande lago dove si teneva l’annuale gara di canottaggio tra gli atenei rivali di Oxford e Cambridge.
Simone mi camminava al fianco, stranamente silenzioso.
Avvolto nel suo cappotto nero, dal taglio classico, assomigliava ad uno di quei modelli da atelier newyorkese. Ce lo avrei proprio visto a sfilare in passerella.
«E così anche tu hai studiato qui.» Ecco, lo avevo detto.
Sicuramente mi avrebbe liquidata con un “fatti i cazzi tuoi, nanerottola” ma la mia curiosità genetica, aumentata a dismisura a causa della professione di avvocato, non mi impedì di tacere.
Simone la prese bene, e sbuffò in una risata. «Non ce la fai proprio a resistere, eh?» mi chiese divertito.
Lo fissai imbronciata. «Se non vuoi dirmelo, pazienza. Sopravvivrò.»
«Sì certo, come no. Comincerai a farti tremila strane idee su di me e sul motivo per cui ho lasciato questa università, compresa qualche gravidanza straordinaria.»
«Perché? Ho forse torto? Ti ricordo il motivo per cui mi hai assunta,» gli rinfacciai.
Adesso s’incupì. C’erano modi e modi per affrontare una conversazione così delicata, ma io e Simone affrontavamo i problemi sempre nel peggiore di tutti i modi possibili.
Calò di nuovo il silenzio mentre continuavamo a camminare sulla passerella fatta di ciottoli che conduceva sino alla sponda del lago. C’era un po’ di bruma quella sera. Una densa foschia si era appoggiata sulla superficie e dava un aspetto lugubre a quel luogo. Con le guglie in stile gotico che spuntavano all’orizzonte, era il paesaggio perfetto in cui ambientare un film horror.
«Mio padre mi ha iscritto, ha pagato la retta per un anno intero. Io non ho mai frequentato,» disse lui di punto in bianco, sorprendendomi.
Incrociai il suo sguardo per puro caso, ma lo distolsi subito. Non volevo che cambiasse argomento. Non ora.
«E perché?» chiesi, cercando di non risultare troppo invasiva.
Simone si riscaldò le mani con uno sbuffo di fiato. «Era il suo sogno, non il mio. Io volevo soltanto giocare a pallone. Ancora adesso mi rinfaccia i tempi di Cambridge.»
Era strano come si fosse aperto con me, senza che io gli chiedessi nulla. Da una parte avevo intuito che non scorresse buon sangue tra di loro, anche quando il signor Marco era venuto a trovarlo e lui si era nascosto in camera. Ero più che sicura che ci fosse dell’altro, ma forse questo per ora bastava.
«Invece la tua vita qui era perfetta, immagino,» commentò subito dopo, sarcastico. «Miss trenta e lode. I professori facevano a cazzotti per averti nei loro corsi.»
La verità sulla mia vita, detta così, poteva suonare davvero idilliaca, ma lui non aveva idea di che calvario era stato mantenere una media decente per arrivare sin dove ero ora.
«Non credere che la mia vita sia stata rosa e fiori. Di certo mio padre non aveva soldi da buttare per iscrivermi ad una università che poi non avrei frequentato.»
Forse ero stata troppo dura, ma anche lui mi aveva attaccata.
Infatti, ci scambiammo uno sguardo che avrebbe congelato anche il Sahara.
Poi lui sdrammatizzò. «Hai sempre la battuta pronta, Lil’Elf.»
«Non capisco perché continui ad affibbiarmi quel ridicolo soprannome. È stupido, e soprattutto mancano ancora venti giorni a Natale.»
Ci avvicinammo ad un piccolo gazebo rialzato, a cui si accedeva tramite la piattaforma di ciottoli che conduceva al grande lago.
«Così, assomigli ad uno di quei piccoli e paffuti elfi di Babbo Natale. Quelli che si mettono nei giardini delle case di periferia durante le feste.»
Affondai il viso nella sciarpa e lo fissai di sbieco. «Guarda che non sono io ad essere bassa, ma sei tu ad essere spropositatamente alto.»
Simone scoppiò in una fragorosa risata che mi scaldò il petto. Possibile che un suo semplice gesto così spontaneo riuscisse ad influenzarmi tanto?
«Questa è la giustificazione più scema che abbia mai sentito,» commentò.
«Perché non ascolti le tue,» sibilai, offesa.
Le mie scuse erano valide, anzi, potevo anche prendere il diploma da scusologa se solo fosse esistita tale scuola.
Arrivammo al gazebo e puntammo lo sguardo verso il lago avvolto dalla bruma. L’Inghilterra mi piaceva, dovevo ammetterlo, aveva dei paesaggi stupendi e delle atmosfere davvero sensazionali. Ma non era casa.
«Com’è che siamo qui?» mi chiese lui, nascondendo il naso rosso nel bavero del cappotto.
Vidi filari di edera completamente spogli, perché il freddo dell’inverno incombeva su tutta la vegetazione ormai. «Volevi vedere il posto dove mi nascondevo dal mondo?»
Non ci furono più bisogno di parole, gli occhi del calciatore parlarono per lui. La mia vita non era stata che un tour de force passato sui libri, per rincorrere quella media che mi avrebbe permesso di partecipare al programma di tirocinio alla Abbott&Abbott.
Era in quel gazebo che passavo i miei pomeriggi, sottolineando e trascrivendo appunti, facendo schemi, riascoltando le lezioni mentre tutto il resto del mondo mi scorreva intorno.
Simone passò un dito sul legno rovinato della struttura. Una volta doveva essere bianco, ora c’era solo le croste rialzate di vernice e il legno inumidito dal tempo.
«Ti manca casa tua?» mi domandò di punto in bianco, guardandomi fisso.
C’erano persone che riuscivo a leggere dentro e fuori, che riuscivo a decifrare prima ancora di conoscerle. Faceva parte della mia persona, del mio carattere, e mi era sempre tornato utile nel mio lavoro.
Simone non era una di quelle. Era come un punto interrogativo, un cerchio sfocato che cambiava da qualunque angolazione lo si vedesse.
Un enigma insolvibile.
«Che domande fai?» sorrisi, nervosa.
Il calciatore si avvicinò, senza mai smettere di guardarmi. «Tu non sei nata qui, come me. Ti ho chiesto se ti manca l’Italia.»
Come ci riusciva? Com’era in grado di percepire il mio disagio così facilmente, dopo tutta la fatica che avevo fatto per costruirmi questo muro attorno.
Fissai un pesce che saltò al centro del lago, spruzzando l’acqua tutta attorno. «Mi piace stare qui e amo il mio lavoro,» dissi sincera. «Ho sempre sognato di vivere a Londra, di andarmene dal mio paese perché era troppo piccolo e opprimente, troppo tradizionale. Sapevo che rimanere in Italia mi avrebbe limitata.»
Perché lo stavo facendo? Per quale motivo mi stavo aprendo con lui? Non lo sopportavo. Non c’era giorno che desiderassi farlo fuori per il suo disordine e la sua immaturità. Eppure non riuscivo a fermarmi.
«Però…?» incalzò lui.
«Già, però,» ripetei, alzando lo sguardo e incontrando i suoi occhi. «Immagino che nemmeno per te sarebbe facile vivere lontano dalla tua famiglia. Siete così uniti.»
E per chi sarebbe stato facile?
Simone infatti annuì e tornò a fissare le acque del lago. Cercai il mio telefono nella pochette e vidi che si erano già fatte le 21.40 di sera. Alla fine sarebbe mancata qualche ora e finalmente saremmo potuti tornare a casa. In fondo, avevamo fatto presenza e questo era quello che contava.
Vidi un messaggio lampeggiare sul display. Sapevo già di chi fosse prima ancora di aprirlo e qualcosa tradì il mio sguardo perché Simone se ne accorse.
«Non viene, eh?» mormorò tranquillo.
Lessi le poche parole dell’SMS, poi rimisi a posto il telefono. Non doveva darmi alcuna giustificazione, non stavamo insieme.
Improvvisamente il telefono mi fu strappato dalle mani. Tentai di protestare, ma il metro e novanta di Simone mise una bella distanza tra me e l’apparecchio.
«Questo lo sequestro io, così per una volta la smetti di sbavargli dietro,» disse irremovibile.
«Io non sbavo dietro a nessuno!» m’impuntai ma lui si avvicinò talmente tanto da fermarsi a pochi centimetri dal mio viso.
Sentii le guance andare in auto-combustione. «Seh, come no,» ridacchiò.
Lo spinsi via senza fare troppi complimenti, anche perché quella confidenza che stava pian piano prendendo nei miei confronti non mi piaceva per niente.
«Smettila di fare il bambino. È come se prendessi la vita come un gioco,» lo rimproverai.
Lui si stiracchiò le braccia e si mise il mio telefono in tasca. «Forse sarebbe più semplice se si riducesse il tutto ad una partita di calcio, non trovi?»
Cos’era? Il momento filosofico di Simone Sogno?
«Pensa un po’, pensa se tutto si potesse risolvere con un goal, con un’azione da un punto. Se ogni problema durasse solo novanta minuti.»
Posò entrambe le mani sul corrimano scorticato.
«Sarebbe bello, certo,» lo appoggiai. «Ma quel lasso di tempo riguarderebbe sia le gioie che i dolori. Saresti disposto a barattare la tua felicità?»
Bisognava affrontare la realtà di petto, non attaccarsi a quelle misere quisquilie. Soltanto un ragazzo immaturo come Simone si sarebbe potuto attaccare ad un discorso del genere. Come se sfuggire ai propri problemi fosse così semplice.
Mi cercò con la coda dell’occhio. Sorrise.
«Ci sono molti piaceri che possono durare anche meno di novanta minuti,» mormorò malizioso, cambiando discorso.
Roteai gli occhi al cielo. Sempre il solito marpione, non c’era nulla da aggiungere. Non si potevano fare discorsi seri con lui, non se finiva sempre col ridurre il tutto ad uno scherzo.
«Sei sempre il solito. Non esiste soltanto il sesso al mondo, ci sono molte piccole gioie che durano nel tempo – come veder crescere i propri figli, vederli imparare a conoscere il mondo – che non possono durare novanta miseri minuti!»
Simone ci pensò su, o almeno fece finta. Era come se per lui la vita stessa fosse un luna park, che prendesse ogni cosa sotto gamba, che affrontasse la vita come se ruotasse sul tabellone di un gioco da tavolo.
Tira i dadi, ora tocca a te.
«Sì, ma per mettere al mondo dei figli, devi fare quello che dicevo io, giusto Miss trenta-e-lode?» osservò.
Lo odiavo. Era vero quello che diceva, ma c’era bisogno di ribadirlo con quel tono da saputello dei miei stivali?
«Ehi, voi due!» una voce in lontananza ci sorprese.
Era un uomo anziano con una torcia che si dimenava e sbraitava nella nostra direzione. «Cosa ci fate lì? È pericolante! Andatevene o chiamo la vigilanza!»
«Chi è?» domandò Simone, afferrandomi d’istinto una mano.
«Non lo so, sarà un custode!» gli risposi, non capendo il perché di tutto quell’allarmismo. Okay, il gazebo era pericolante, ma sarebbe bastato scendere.
«Al mio tre, inizia a correre,» mi sussurrò lui, incredibilmente vicino.
Intanto il signore anziano continuava a sbraitare di allontanarci da quella costruzione pericolante.
Fissai Simone allibita. «Con dodici centimetri di tacco?»
Era completamente fuori di senno. Uno, non c’era assolutamente bisogno di correre, visto che quel vecchio non era né Bolt né un killer pronto ad assassinarci; Secondo, soltanto un uomo poteva dirti di metterti a correre con un paio di scarpe come quelle.
«Toglile,» mi suggerì lui, sbrigativo.
«Stai scherzando.»
«Dai toglile. Sbrigati, sta arrivando.»
Simone si era drogato, ormai non c’era altra spiegazione. «Scordatelo.»
«Eddai, Ven. possibile che tu debba sempre essere così fastidiosamente perfezionista? Non hai mai fatto una cosa scema tanto per fare?»
E feci l’errore di incontrare i suoi occhi. C’era una strana luce, come quella di uno sguardo che prometteva avventure, magari qualche pazzia. Il mio cuore cominciò a battere frenetico, mentre tentavo in tutti i modi di dare un senso a quello che fino ad ora avevo fatto.
Avevo mai avuto il coraggio di osare? Effettivamente, mi ero mai lasciata andare?
C’era poco tempo per decidere, così seguii l’istinto e mi sfilai le scarpe velocemente, precedendo Simone nella corsa. Certo, lui era un calciatore allenato, perciò mi raggiunse in poco tempo.
Mi voltai per vedere a che punto fosse il vecchio custode e nonostante l’età notai che ci stava alle calcagna.
«Corri Ven, corri più forte che puoi,» mi disse Simone sorridendo.
E così feci. Strinsi con forza le scarpe che mi erano costate l’ammontare di duecentocinquanta sterline e corsi, sporcandomi le calze nel fango e nell’umido.
Chissà cosa avrebbe detto Sophia vedendomi rientrare sporca e sudata, col suo cappotto di eco-pelliccia per giunta. In quel momento m’importava soltanto del vento che mi sferzava forte sulle guance e l’aria fredda che sentivo scendere giù per la gola, bruciandola.
Simone teneva il mio stesso passo, anche se sapevo che avrebbe potuto fare molto di più. Lo avevo visto giocare, era veramente bravo.
«Da questa parte!» mi disse, afferrandomi il polso e trascinandomi dietro le gradinate divelte del campo di lacrosse.
Ci nascondemmo in uno spazio strettissimo, a mala pena riuscivamo a respirare. Simone si addentrò ancora di più, per sfuggire alla luce di un lampione che altrimenti ci avrebbe fatti scoprire. Non sapevo perché stavamo facendo tutto quello, in fondo eravamo ospiti mica infiltrati.
Eppure questa volta non avevo voglia di contraddire.
Il custode arrancò poco tempo dopo, puntando la torcia elettrica lungo tutto il campo di erba verde. Aveva il fiatone ed era parecchio stanco, ma scandagliò minuziosamente tutto il prato.
«Dannati ragazzacci!» grugnì poco dopo, tenendosi il petto per il fiato corto e cominciando a fare dietro front.
Sentivo il cuore di Simone battere contro il mio orecchio, anche con tutti gli strati di stoffa che ci dividevano. Avevo riottenuto il mio metro e sessantadue scarso, perciò non gli arrivavo più alle spalle, ma quella posizione striminzita mi fece comunque ascoltare il suo battito.
Era lento, regolare, come se la corsa non gli avesse fatto il minimo effetto. Io invece stavo per morire infartuata.
D’altronde che pretendi, corre dietro ad una palla dall’età di cinque anni.
Touché.
«Credo che se ne sia andato,» disse lui, sporgendosi oltre la balaustra.
Potevo chiaramente percepire l’odore dell’acqua di colonia che di tanto in tanto avvertivo nel bagno. Rimaneva di quel profumo per giorni interi dopo che se l’era messa. La indossava soltanto quando usciva con le giraffone.
Ti sei auto-promossa giraffona?
Simone tornò a guardarmi e solo allora mi accorsi di quanto fossimo vicini, praticamente appiccicati. Quegli occhi neri erano tutt’uno con l’oscurità che ci avvolgeva e soltanto una piccola lama di luce gli illuminava poco meno di metà del volto.
Quella serata non doveva finire così, non avevo minimamente programmato che si concludesse in quel modo. Innanzitutto, Simone non ci sarebbe dovuto essere. Simone era stato il tassello del domino che aveva fatto crollare l’intero ingranaggio.
Mi guardava. Stava adottando quell’espressione che ormai gli avevo visto fare milioni di volte e che non sopportavo. Non riuscivo a sfuggire a quello sguardo, era troppo intenso.
«Smettila,» dissi, slacciando lo sguardo dal suo.
Non potevo, non ancora. Mi ero appena districata da una semi-relazione con un mio collega, nonché superiore, per il bene della mia carriera e della causa di cui mi stavo occupando. Non dovevo caderci di nuovo.
Intrattenere rapporti con un proprio cliente era doppiamente sbagliato!
«Di fare cosa?» ridacchiò Simone, notevolmente divertito da tutta quella situazione imbarazzante.
«Di guardarmi così.» risposi, ritornando in trappola.
Erano come una calamita per me quegli occhi, come sabbie mobili. Più tentavo di sfuggire, e più affondavo, lentamente, verso una morte lenta e soffocante.
Il calciatore continuò a sorridere. «Perché? Com’è che ti guardo?»
Ora stava diventando davvero imbarazzante, anche quella posizione scomoda. Tentai di liberarmi e vi riuscii, camminando imperterrita per raggiungere di nuovo il rettorato.
Con i piedi sporchi o meno, poco m’importava.
«Ehi!» disse lui. Gli fu sufficiente un passo per raggiungermi, poi mi afferrò per un polso e mi costrinse a girarmi. «Vuoi dirmi cosa diavolo ti prende ora? Perché mi dici di smetterla di guardarti?»
Possibile che fosse così ottuso? Come faceva a conquistare quelle giraffone se nemmeno si rendeva conto di esercitare quello strano magnetismo su di loro.
«Oh! Come se non lo sapessi, eh? Sguardo magnetico, ti dice niente?» lo rimbeccai.
Ero sporca di terra, infreddolita, ma non fessa.
Simone sembrò davvero adottare una faccia piuttosto perplessa. «Ora stai cominciando a spaventarmi,» asserì.
Non voleva proprio capire, faceva il finto tonto!
«Senti, non mi interessa minimamente quale tecnica adotti con le tue belle modelle senza cervello, ma io non soccomberò a quel tuo fascino da calciatore consumato che ti ritrovi!» esclamai, facendo una scenata plateale.
Allora il calciatore scoppiò a ridere. Rimasi allibita nel vederlo contorcersi e divertirsi alle mie spalle. Decisi di riprendere da dove avevo cominciato e dirigermi verso il rettorato. Non era stata affatto una buona idea seguirlo. Nossignore!
«Ferma, dove vai?» disse lui, ricomponendosi. «Pensi davvero che ci stessi provando prima?»
Lo guardai scettica. «Sai, non sono nata ieri. Me lo rinfacci ogni santo giorno, per cui...»
Simone colmò la distanza che ci divideva con due lunghi passi e mi sovrastò con la sua altezza. Ora i lampioni di tutto il giardino gli illuminavano pienamente il viso, facendo brillare di bianco quella sua pelle chiara e delicata.
«Se avessi voluto provarci…» soffiò, alzando una mano e cominciando ad accarezzarmi i capelli. «…ti avrei sfiorato la guancia accaldata e ti avrei sussurrato parole smielate.»
Poco dopo si abbassò e avvicinò le sue labbra al mio orecchio. Rabbrividii sentendo di nuovo il suo respiro sulla mia pelle, come quella volta nel camerino del negozio. Non potevo permettergli di manovrarmi come un burattino, non lo avevo mai lasciato fare a nessuno.
Io sono padrona della mia vita.
Schiuse le labbra e soffiò lentamente. «Tu non sei come le altre,» disse, poi si allontanò leggermente, liberando anche l’altro orecchio dall’ingombro dei capelli a caschetto. «Non ho mai conosciuto nessuna con la tua stessa forza, con la tua determinazione. Sei capace di zittirmi.»
Si scostò ancora, stavolta guardandomi negli occhi. Ormai sentivo distintamente i battiti del mio cuore che rimbombavano nella gabbia toracica, un cavallo impazzito che galoppava veloce.
Avrei dovuto fermarlo. O adesso, oppure mai più.
«Ti prego non farlo…» smozzicai con la voce appena udibile. Avvertii di nuovo le lacrime di quella sera che continuavano a spingere agli angoli degli occhi, ed io che mi obbligavo a ricacciarle indietro. Dovevo essere forte.
Simone si stupì di quella mia richiesta, ma non l’ascoltò. Posò entrambe le sue grandi mani dietro la mia nuca e mi guardò. «Non posso più fermarmi,» mormorò solamente, prima di chinarsi e annullare completamente la nostra distanza.
Fu strano, diverso da come me l’ero aspettato. Baciare Simone fu come un’esplosione d’energia all’interno del mio corpo, sentii distintamente tutta la tensione e la rabbia che provavo nei suoi confronti fluire via dal mio corpo.
Il suo profumo, la sua pelle, tutto mi stava entrando lentamente dentro. Mi aggrappai con forza al risvolto del suo cappotto, come se fosse l’unico appiglio per non sprofondare ancora più in basso, verso l’ignoto, dritta in un punto di non ritorno.
L’avevo fatto. Avevo ceduto.
Non ci sarebbero stati sufficienti gironi dell’Inferno dantesco per giustificare quello che avevo fatto, io che mi ritenevo una ragazza ligia al dovere. Prima James, adesso Simone.
Ma lui sta scavando dentro la tua anima.
Ci staccammo quel tanto per riprendere fiato. Occhi negli occhi. Lo afferrai forte per paura che mi sfuggisse, che si trasformasse in fumo e mi abbandonasse. Affondai le mani nei suoi capelli, quelli che avevo sempre immaginato avere la stessa consistenza della seta.
Ed erano morbidi allo stesso modo.
Ebbi più volte l’opportunità d’interrompere, di smetterla con quella farsa, di troncare il tutto sul nascere. Anche perché non c’era e non ci sarebbe stato nessun “tutto”. Era un bacio, fine della storia.
Eppure non mi scostai, non lo fermai neppure una volta. Non negai nemmeno il suo invito ad andarcene prima dalla festa, ad abbandonare tutto, compreso il cappotto di Sophia, e tornare a Soho. Quella notte sarebbe stata una parentesi aperta e poi subito richiusa, ne ero più che certa. Avevamo aperto una finestra sul mondo che nessuno dei due poteva permettersi, perciò andava richiusa al più presto.
«Ven…» soffiò lui, sulle mie labbra. Non ci eravamo quasi mai staccati da quando avevamo lasciato Cambridge con direzione Londra.
«Si?» chiesi imbarazzata.
Ora mi avrebbe detto che non ci sarebbe mai stato nulla tra noi, che dovevamo troncarla qui ed io avrei annuito. Era solo attrazione fisica, tutto qui. Venera Donati e l’Astinenza non andavano molto d’accordo.
Lo sguardo di Simone era sempre più scuro, ombrato dalla passione e dall’impeto con cui avevamo dato sfogo a tutto quello.
«Smettila di pensare.» Poi si riappropriò delle mie labbra e persi il conto dei minuti e delle ore.
 


Beh.. non so quanto possa essere lunga la nota a fine capitolo, perché penso che questo - e lo confermeranno anche le mie due fanghérl d'eccezione - rimane uno dei capitoli più belli che abbia scritto. Il primo bacio non si scorda mai, e penso che nemmeno Ven e la sua acidità riusciranno ad obliare quanto dolce sia stato Simone oggi.
Dopo aver appreso l'ahimé triste notizia della gravidanza di Jessian (aka Cessian) aka fidanzata di Chico, la mia amata wife spera soltanto nella trama di questa storia, perché vada diversamente da com'è la realtà #sob
Detto ciò, non mi prolungo in note inutili che tanto nessuno legge. Ci becchiamo sul gruppo:
Crudelie - Le originali (diffidate dalle imitazioni)ricordandovi di mandarmi un MP tramite facebook, altrimenti non possiamo farvi entrare (su fb sono IoNarrante Efp - non potete sbagliarvi).
Bacioni e alla prossima :3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 13 ***


CAPITOLO 13
 
Avevo fatto uno strano sogno quella notte, davvero bizzarro. Ricordavo vagamente di essere andata alla famosa riunione di classe a Cambridge, di aver preso una lussuosissima limousine, mandatami da James, ma che di lui non ve n’era stata traccia. Inoltre, come se non bastasse, mi parve distintamente di aver sporcato le calze di nylon che avevo acquistato di recente e di averle completamente rovinate.
Mi sfuggiva il motivo però. Ricordavo unicamente una grande corsa, a rotta di collo, per sfuggire a qualcuno che ci inseguiva sbraitando, con una torcia elettrica tra le mani nodose.
Ci inseguiva.
Me e Simone.
Di punto in bianco ricordai le sue labbra premute sulle mie, quella timida carezza che avevo avvertito dietro la nuca e i suoi polpastrelli che mi solleticavano i capelli.
Spalancai gli occhi e mi rizzai a sedere con uno scatto di addominali che mi avrebbe invidiato persino Yuri Chechi. Cercai di migliorare la mia vista ancora appannata dal sonno, stropicciandomi gli occhi e mi ritrovai nella mia solita stanza da letto.
O meglio, in una delle stanze dell’enorme appartamento di Mr. Sogno.
Calmati Ven, è stato solo un sogno. Non è successo niente, si è trattato di una fantasia come quando l’hai sognato completamente ricoperto di cioccolato.
Ebbi il terrore di spostare lo sguardo sul posto di fianco al mio, nel grande letto a due piazze. Se avessi visto il volto di Simone o un ciuffo dei suoi capelli castani spuntare fuori dalla trapunta, mi sarei messa ad urlare.
Fortunatamente non c’era nessuno. Il letto era intatto ed io tirai un profondo sospiro di sollievo, fin quando non sentii un intenso profumo di caffè provenire dalla cucina. Mi accorsi solo in quel momento di essere affamata, anche perché la sera prima non avevo toccato quasi nulla a quella festa.
Ora la domanda era una sola: era stato un sogno oppure la realtà?
Devi smetterla di rifugiarti dietro le tue fantasie.
Scostai le coperte e cercai di indossare le mie pantofole, con gli occhi che ancora mi si chiudevano dal sonno. Che ora avevamo fatto ieri sera? Possibile che fossi così stanca?
Scendendo dal letto, notai di avere ancora indosso il vestito elegante della sera prima, ma per fortuna avevo avuto l’accortezza di sfilarmi le calze sporche, almeno per preservare le lenzuola.
Sicura di essere stata tu a spogliarti?
Quel pensiero si insinuò nel mio cervello come un tarlo che cominciò a scavare sempre più profondamente, e con più forza. Lo sentivo grattare sulla scatola cranica, intaccarne la superficie e annidarsi al di sotto.
Scossi violentemente la testa e mi accorsi che erano già le nove di domenica mattina. Avevo dormito troppo.
Mi diressi a passo veloce seguendo il profumo di caffè che inondava la casa intera, e lì per lì mi domandai chi potesse aver messo su la macchinetta senza bruciarsi. Simone non riusciva nemmeno ad allacciarsi le scarpe, era impossibile che si fosse svegliato di punto in bianco.
Superai il lungo corridoio e notai che la sua stanza aveva la porta socchiusa. Forse stava ancora dormendo, magari Sofia aveva avuto la magnifica idea di presentarsi presto quella mattina e sondare il terreno. In fondo era da un po’ che avevo il sospetto che la dolce sorellina di Simone mi spingesse, in qualche modo, tra le braccia del fratello più grande.
Come la stessa Susanna.
Come Gabriele.
E magari anche come Mr. Marco.
Possibile che tutti volevano me e Simone felici e contenti?
Assurdo. Eravamo troppo distanti per stare insieme, non ci sarebbe mai stato un punto d’incontro tra noi due. Vivevamo su due lunghezze d’onda differenti, su due mondi distanti anni luce.
E con immensa sorpresa lo vidi davanti la macchina del gas, con le spalle perennemente nude e i muscoli che guizzavano ad ogni suo movimento.
Stava preparando davvero la colazione.
Fissai fuori dalla finestra e vidi un timido sole spuntare dalle tende color arancio spento. Era davvero un evento raro, quasi come vedere una bella giornata nel mese di Dicembre.
«Sei un miraggio?» gli chiesi, ridacchiando.
Simone si accorse della mia presenza e si voltò, sorridendo. «Non ti ci abituare.» disse, versando poi il caffè nelle due tazze che aveva precedentemente preparato.
Mi avvicinai all’isola della cucina e mi sedetti –o meglio, mi arrampicai– su uno degli sgabelli aspettando che il cameriere mi servisse la colazione.
«Credevo non fossi capace nemmeno a cuocerti un uovo al tegamino,» commentai, avvicinando la tazza alle labbra e soffiandoci sopra.
Simone sogghignò. «Sono molte le mie doti nascoste.»
Ridussi gli occhi a fessure, alzando un sopracciglio per la sorpresa. «E allora perché mi rompevi sempre per prepararti la colazione, visto che sei capace?» gli feci notare con ovvietà.
Il calciatore prese a stiracchiarsi come un gatto, sbadigliando sonoramente e permettendomi di fargli una visita di ortodonzia. Infine, fece spallucce. «Perché mi diverto a punzecchiarti.» rispose tranquillo, cominciando a ingurgitare una serie infinita di biscotti al cioccolato.
Lo fissai senza trovare le parole per replicare. Era un bambino, punto. Un ragazzino intrappolato nel corpo di un ventenne, non c’era altra spiegazione.
«Contento te.» smozzicai, fingendo indifferenza.
In realtà ero tesa come una corda di violino, perché più guardavo i suoi occhi scuri, più ero convinta che quello che era successo l’altra notte alla festa non era stato affatto un sogno. Eh no. Le immagini si inseguivano nitide nella mia testa, quasi come se la bobina di un film si stesse srotolando nel mio cervello.
Il gazebo pericolante sul lago, la corsa fino al campo di lacrosse, il nascondiglio dietro gli spalti di ferro e l’attesa che il guardiano se ne andasse via. Era come se stessi rivivendo tutto una seconda volta, mentre stringevo con forza le mani sulla tazza. Sotto i polpastrelli percepivo ancora il battito accelerato del cuore di Simone.
«Se lo guardi intensamente non si raffredda di certo.» mi disse lui con ovvietà. «Se vuoi c’è del latte in frigo.»
Mi riscossi da quei pensieri come se qualcosa mi avesse punto il posteriore e mi ritrovai a fissare gli occhi intensi di Simone, quasi li vedessi per la prima volta. Di punto in bianco arrossii senza nemmeno accorgermene, così afferrai la scatola dei biscotti per tenermi occupata in qualche modo.
Possibile che lui non ricordasse niente? Che non ne facesse parola?
Era quasi come se la sua mente fosse stata assente, oppure riusciva a fingere molto bene. Di sicuro non sarei stata la prima ad ammettere quello che avevamo fatto la sera prima. Nossignore!
Anche perché per me non aveva significato un bel niente.
Come non ti importa di James, giusto? A te interessa solo il tuo lavoro.
Esatto.
Ora come ora, però, quelle parole mi sembravano prive di senso. Io e Jamie ci eravamo allontanati affinché la nostra storia potesse avere un futuro migliore, senza sotterfugi né bugie, ma alla prima occasione mi ero gettata tra le braccia di un altro.
Anche se tecnicamente era stato lui a baciarmi. Almeno da quanto ricordassi.
Forse hai davvero sognato.
Dall’indifferenza con cui Simone continuava a mangiare e a fissare la scatola dei biscotti, sembrava che non fosse accaduto nulla. Eravamo tornati a due giorni prima, dei completi sconosciuti che condividevano l’appartamento, nulla più.
«Oggi ho la partita.» disse infine, sorseggiando il caffelatte. Alzò i suoi occhi scuri su di me ed io avvertii di nuovo quel brivido rotolarmi giù per la schiena. Deglutii a fatica, senza riuscire a parlare. Sentivo le frasi appiccicate al palato, ma non riuscivo a staccarle da lì.
«Verrai a vedermi giocare?» mi domandò, tranquillo.
Okay, ora quella storia stava suonando davvero ridicola. Ormai era più che sicuro che quello che era successo a Cambridge non era stato un sogno, bensì la nuda e cruda realtà, ma l’indifferenza di Simone mi feriva, dovevo ammetterlo. Era pur vero che se avessimo affrontato quel discorso, avrei cominciato a sbraitare come una pazza inferocita, però mi faceva ancora più male quel silenzio.
Poi lui se ne usciva con una richiesta del genere, ed io mi ritrovavo senza respiro.
Perché era sempre così dannatamente impulsivo?
James, bene o male, riusciva ad essere sempre prevedibile per la sottoscritta, quasi come un libro aperto, perché in fondo eravamo uguali. Simone invece era indecifrabile.
Cercai di ricacciare in avanti la vecchia e cara Venera. «Perché dovrei, scusa? L’altra volta tua sorella mi ha incastrato. Ho di meglio da fare che vederti rincorrere una palla.» sibilai acida.
Non avevo alcun motivo di prendermela con lui, non mi aveva fatto nulla di male ma quel silenzio mi distruggeva nell’anima. Era evidente che non gliene fregava niente né di me, né della festa.
Simone abbassò lo sguardo. Per un attimo mi parve deluso, poi però sfoderò quel suo solito ghignetto da bastardo. «Devi scodinzolare appresso a quel fallito, vero?» sorrise malizioso.
C’era una luce diversa nei suoi occhi. Era evidente che diceva quelle malignità unicamente per ferirmi, ma era come se non ne fosse veramente intenzionato.
Lasciai da parte quei miei sospetti e diedi retta unicamente alle frasi velenose che sputava la sua bocca.
«Lascia James fuori da tutta questa storia.» ringhiai, infastidita.
Possibile che qualsiasi cosa gli rispondessi, tirava sempre fuori l’argomento James? Era come se la sua stessa esistenza gli desse fastidio.
«Dì la verità, ti piace essere sottomessa da quel pinguino con la lingua lunga. Da quel vecchio.» sibilò, sempre più arrabbiato.
D’improvviso non capii perché si fosse alterato tanto, eppure quella stessa mattina mi era sembrato stranamente servizievole. I cambiamenti d’umore di Simone stavano cominciando a darmi sui nervi, soprattutto quando inveiva contro il mio collega senza alcuna ragione valida. Noi stavamo lavorando per lui, per aiutarlo e tirarlo fuori da quella scomoda situazione, eppure era come se lui non fosse riconoscente.
«Non sono affari tuoi.» tagliai corto. «Se vuoi, chiama l’ufficio e fatti assegnare un altro avvocato.»
Ecco, lo avevo detto. Finalmente avevo tirato fuori quello che era il mio più profondo pensiero, ormai stufa di tutte quelle angherie nei confronti di James. Lui non gli aveva fatto niente, Simone lo odiava senza alcun motivo.
Il calciatore mi fissò assottigliando gli occhi. «Bene. Voglio che sia tu il mio avvocato, senza quel cretino al seguito. Soltanto te.» insistette.
Roteai gli occhi al cielo, cercando di nascondere il fatto di sentirmi stranamente lusingata da quella richiesta. «Sono solo una tirocinante, non mi affideranno mai il tuo caso. Testone! Lo vuoi capire o no che non tutti hanno le tue fortune?» dissi sprezzante.
Simone allora strinse forte i pugni. «Non voglio averlo tra i piedi. Odio che gironzoli attorno alle mie cose.» sibilò.
Alle sue cose? Intendeva forse il suo appartamento? Gli dava fastidio che di tanto in tanto gli era piombato in casa? Ormai non succedeva da tempo.
«Gli dirò di tenersi lontano da casa tua, se ti da fastidio.» risposi calma.
Era geloso del suo appartamento? Del suo spazio personale? Perfetto, bastava che James si tenesse alla larga da Soho e il gioco era fatto.
Il calciatore però scosse la testa irritato. Si alzò e svuotò il resto della colazione nel lavello, facendola colare giù per lo scarico. Infine riempì la tazza di acqua e posò le mani sul bordo del lavandino.
«Per quanto tu possa essere intelligente,» disse serio. «Alle volte le cose più ovvie ti sfuggono da davanti il naso.» poi si allontanò verso la sua stanza.
Quali cose ovvie?
«Che vuoi dire?» gli urlai dietro, ma lui si chiuse la porta alle spalle.
Mi alzai di scatto e raggiunsi la sua stanza. Irritata, cominciai a bussare forte. «Dimmelo! Non puoi sempre uscirtene con queste frasi e poi nasconderti come un coniglio! Che vuoi dire?»
Ovviamente non ottenni risposta, anzi, Simone accese lo stereo e piazzò una canzone a tutto volume, in modo che coprisse i miei schiamazzi.
Quanto era stupido e infantile. Possibile che mi irritasse in quel modo? Prima faceva lo gnorri riguardo il bacio della sera prima, come se non fosse accaduto nulla, e poi si permetteva anche di fare l’offeso?
L’unica parte lesa di tutta quella storia era la sottoscritta. Punto.
Mi recai nella mia stanza con passo pesante e infuriato. Altro che partita di calcio, avrei rivisto Simone unicamente se l’avessi incrociato nel corridoio, nient’altro. Questa volta non l’avrebbe passata liscia.
Con rabbia, mi gettai sul letto e fissai il soffitto. Ripensai più volte alle parole di Simone, ma non ne venni a capo. Ero sicura che mi stava sfuggendo qualcosa di relativamente importante, ma il nesso tra le sue cose e James non riuscivo a trovarlo.
Che fosse una cosa tra uomini? Magari io che avevo le ovaie non riuscivo a coglierla.
Uomini. L’idea di associare quella parola a Simone mi faceva sorridere, soprattutto vedendo il modo infantile in cui si comportava. Avrebbe dato filo da torcere persino a Peter Pan.
Non voglio averlo tra i piedi. Odio che gironzoli attorno alle mie cose.
Mah, chissà cosa aveva voluto dire.
 
Quello stesso pomeriggio, con casa finalmente libera dalla presenza di Simone, decisi di dare una ripulita. Cominciai dal bagno e dalla vasca che ancora profumava di limoncello, imbottigliato qualche giorno prima. Mi stupii di come un ragazzo come Simone Sogno riuscisse davvero ad impegnarsi in una cosa tanto sciocca come distillarsi da solo quella bevanda.
Il freezer ora era stracolmo di fiaschette gialle.
Mi armai di prodotti per la casa, quelli che riuscii a trovare in cucina e nello sgabuzzino, poi cominciai a strigliare la vasca e i sanitari. Tutto sommato non era tanto sporco il bagno, ma per una perfezionista come me, anche un capello arrotolato sul pavimento consisteva in un possibile focolaio di batteri.
Dopo aver dato una sistemata in bagno e dopo essermi appuntata il numero dell’idraulico su un post-it, per l’altra doccia, mi fermai di fronte alla stanza di Simone.
«A noi due!» pronunciai con enfasi.
Non ero sicura di cosa avrei trovato al di là di quella porta bianca, visto e considerato che ero entrata una volta sola nella sua stanza, per raccattare i vestiti succinti dell’ennesima giraffona che si era portato a letto. Mi feci forza e posai una mano sulla maniglia, pigiando verso il basso ed entrando nella tana del mostro.
Innanzitutto notai che aveva lasciato le tende tirate, perciò quella poca luce che illuminava il cielo grigio di dicembre riusciva a filtrare a mala pena dalle pesanti tende che coprivano i vetri delle finestre. Mi diressi subito verso di esse, tirandole e spalancando gli infissi.
Almeno quel puzzo di chiuso sarebbe andato via, così come l’odore pungente di maschio.
Per non dire di sudore.
Già.
Vidi il letto ancora sfatto e storsi il naso. Passai lo sguardo sul resto della stanza, cercando di non indugiare troppo sulle riviste di calcio sparse qua e là sul pavimento e dei libri ammassati sul comodino. Curiosa mi avvicinai, scorgendo titoli interessanti quali “Il Miglio Verde” oppure “Il nome della Rosa” tra i titoli più quotati.
Rimasi stranamente sorpresa e compiaciuta da quella scoperta. In fondo pensavo che Simone fosse uno di quegli sportivi tutto muscoli e niente cervello, così fui felice di essermi sbagliata.
Magari sono di Sofia.
Poteva anche essere, ma dentro di me rimasi convinta che fosse stato lui a divorarli, in quelle poche notti in cui non era occupato a mettere incinta qualche sgallettata da passerella.
Cominciai a rassettare la sua stanza, cercando di buttare solo ciò che non gli era davvero necessario. Notai un vecchio pallone bucato, quasi del tutto sgonfio. La pelle che lo ricopriva era quasi completamente scrostata, così come il colore. Un tempo sarebbe stato rosso, oppure magenta, ma adesso non rimaneva altro che uno sbiadito rosa pallido.
Lo presi e me lo rigirai tra le mani. Notai che sul retro c’era una scritta altrettanto sbiadita. Non si riusciva a leggere nulla e mi domandai perché non si fosse ancora disfatto di quel cumulo di sporcizia. Posai il pallone vicino alla busta con le cose da buttare, poi passai a rassettagli il letto.
Una volta finito di sistemare tutto, mi gettai esausta sul divano.
Sentii la chiave girare nella toppa, giusto il tempo necessario a togliermi una specie di bandana che mi ero messa in testa. La gettai scompostamente sul tavolino prima di vedere il viso elfico di Sofia fare capolino dalla porta d’ingresso.
«Ciao!» mi sorrise lei, guardandosi intorno. «Pulizie di primavera?» mi chiese radiosa.
Scossi la testa, percependo la stanchezza addosso. «Rassettamento d’inverno.» ridacchiai, indicando l’enorme busta colma di spazzatura e cose del tutto inutili.
Sofia fissò la mondezza, ma il suo sguardo cristallino si soffermò sul vecchio pallone da calcio sdrucito. Rimase a contemplarlo per un po’, poi si chinò a raccoglierlo.
«Se glielo avessi buttato, ti avrebbe cacciata fuori di casa.» disse semplicemente, avanzando nel salotto con gli stivali che ticchettavano sul pavimento. Si diresse verso la camera del fratello, ne aprì la porta e poi vi gettò dentro il pallone.
Lo sentii rimbalzare e poi sbattere da qualche parte, probabilmente contro l’anta dell’armadio.
Sofia tornò in salone e si sedette sul tavolino di fronte al divano, fissandomi intensamente. C’era qualcosa di enigmatico dietro il suo sguardo, nascosto oltre quel sorriso fino che ostentava perennemente.
Mi domandai cosa avesse di così importante quell’oggetto muffito e mezzo rotto. In fondo si trattava soltanto di un pallone. Non qualcosa di estremamente prezioso.
«Ieri com’è andata?» mi domandò Sofia a bruciapelo.
Incespicai subito nella risposta, mordendomi più volte la lingua. Non sapevo da dove iniziare, né cosa dire. Sarebbe stato corretto parlarle di quello che era realmente successo? Oppure dovevo fingere come faceva Simone?
«Bene.» smozzicai, guardando ovunque tranne che negli occhi azzurri di Sofia.
Lei ovviamente non si accontentò di quella mia mezza risposta, così mi afferrò le mani con trasporto e mi costrinse a guardarla. «James alla fine è arrivato?» chiese ingenuamente.
Quella sua naturalezza nel fare domande, secondo me nascondeva un’attenta premeditazione. Anche se poteva parere innocente, Sofia Sogno nascondeva più di quanto volesse far vedere agli altri.
Scossi la testa, incapace di scollare una risposta dal palato.
Sofia fissò ancor più intensamente il suo sguardo nel mio ed allora notai la profonda somiglianza tra lei e Marianne. Erano quasi come due gocce d’acqua. «Simone mi ha detto che ti ha accompagnata.» parlò infine, sorridendo.
Questa volta la sua innocenza parve stranamente reale, come se dietro non vi fosse alcuna macchinazione o doppio fine. Era semplicemente felice per Simone.
Finalmente riuscii ad articolare qualche parola di senso compiuto. «Sì,» pigolai, quasi per paura di ammetterlo ad alta voce. «Si è offerto all’ultimo minuto.»
Era la prima volta, da ieri sera, che parlavo di Cambridge. Fino ad allora erano state solo elucubrazioni mentali e lotte con il mio Cervello, nient’altro. Mi sentivo profondamente esposta e sondata dallo sguardo della sorella di Simone.
Lei si limitò a sorridere.
«Che c’è?» le chiesi, curiosa di quella sua reazione. Avrei giurato che mi avrebbe tempestata di domande una volta ammessa la presenza del fratello alla festa.
Sofia scosse il capo, con quella cascata di capelli biondi e ricci che brillavano alla luce fioca del sole. «Niente,» smozzicò, alzandosi e dirigendosi verso una foto sul comodino. L’avevo vista appena arrivata, ritraeva lei, Simone e Gabriele quando erano piccoli. La sfiorò con la punta delle dita, come se fosse persa nei ricordi. In seguito cercò di nuovo il mio sguardo. «È solo che…» si prese tempo per utilizzare le parole giuste. «Non me lo sarei mai aspettato da Simo.» sospirò alla fine.
Okay, ora ero davvero sconcertata. Mi alzai, stiracchiandomi le membra. «Sarà stato spinto da un gesto di pietà,» spiegai, giustificandolo.
Prima ci saremmo allontanate da quell’argomento spinoso, prima sarei potuta tornare alla mia vita. Quella senza il ricordo delle labbra di Simone sulle mie.
La biondina scosse la testa, ridacchiando. «Se fosse stato per pietà, non me l’avrebbe detto. Mi ha mandato un SMS ieri sera sul tardi. Ha detto che ti eri addormentata come un sasso subito dopo rincasati.»
Fu lì che persi un battito. Nel momento in cui le parole di Sofia colpirono dritto per dritto il mio cuore già seviziato da quella serata. Per quale motivo aveva informato la sorella di quella notizia? Che bisogno c’era di farle sapere che mi aveva accompagnata?
Sentii la mano di Sofia stringersi attorno alla mia spalla. «Prova a parlargli di questo quando ritornerà dalla partita. Fidati. Se cambierà argomento, allora non l’ha fatto per pietà.»
Rimasi a fissare il muro per il resto del pomeriggio, riflettendo sulle parole di Sofia. Da una parte il mio inconscio le dava ragione, ma l’altra parte mi teneva sempre in guardia. Mi ripetevo in continuazione di non farmi illusioni, che Simone sarebbe rimasto sempre un dongiovanni immaturo, che sarebbe corso dietro alle giraffone non appena fosse stato libero dal processo che lo costringeva ad una vita casta.
Non farti illusioni.
Aspettai il suo ritorno, ma non glielo chiesi. Lo vidi rientrare dalla porta d’ingresso, con il solito borsone a tracolla e l’aria soddisfatta di sé ma le parole non mi uscirono dalle labbra. Era forse uno di quei rari casi in cui ne rimanevo a corto, per un avvocato come me sarebbe stata una tragedia se fosse successo in un’aula di tribunale.
Decisi di far passare i giorni, poi le settimane, senza mai tornare più su quell’argomento. Simone pareva averlo completamente rimosso, ed io mi adeguai di conseguenza. Magari anche lui aveva capito che quel bacio avrebbe solamente compromesso il nostro rapporto avvocato-cliente, oppure, molto più semplicemente, non gliene importava un fico secco.
Magari vuole che tu faccia il primo passo.
O magari no.
Me ne ritornai in ufficio e mi buttai a capofitto nel lavoro, tentando di dimenticare quello che era successo a Cambridge. James, dal canto suo, mi aiutava perché dopo l’incontro preliminare con St. James e Miss Cloverfield, il signor Abbott ci aveva messo ai ferri pur di trovare dei punti deboli nel caso. Apparentemente non ce n’erano, ma noi non ci arrendevamo.
Così, spesso e volentieri, finivo col fare le nove di sera in ufficio, sommersa dalle scartoffie e dai libri di testo dell’università, mentre James andava fino allo Starbucks più vicino per prendere due caffè.
«Non mi hai più detto com’è andata la festa a Cambridge.» se ne uscì di punto in bianco una di quelle sere, quando la luce fioca della lampada da scrivania stava rischiando di rendermi cieca come una talpa.
Sobbalzai dallo spavento, soprattutto perché non mi ero minimamente aspettata una domanda del genere ad una settimana e più dall’evento. Me n’ero quasi dimenticata, grazie anche all’indifferenza totale di Simone.
«Uhm...» temporeggiai, trovando le parole adatte. «Bene.»
Cos’altro avrei dovuto dirgli? Certo, lui stesso mi aveva promesso che ci sarebbe stato, poi mi aveva dato buca per ben due volte nel corso della serata, ma non sembrava mortificato. D’altronde mi ero trovata un sostituto, in un modo o nell’altro.
Ti sei consolata per bene.
Scacciai via ancora una volta l’immagine di Simone che mi stringeva forte in quel campo di lacrosse, prima che il rossore s’impadronisse completamente delle mie guance e lasciasse intendere all’avvocato più del dovuto.
James si passò una mano sugli occhi stanchi. «Senti, non te l’ho mai detto perché non trovavo le parole adatte. Mi è dispiaciuto molto non averti potuta accompagnare, mi sono sentito un verme.» smozzicò, fissandomi con quegli occhi blu che alla luce gialla della notte divennero color oro.
«Non fa niente, davvero. Me la sono cavata comunque.» dissi, sperando non insistesse.
Nel frattempo mi rigiravo tra le mani un plico di fogli che contenevano alcuni casi simili a quello di Simone che avremmo potuto citare in tribunale. Ne avevo letti solo alcuni, il lavoro era ancora lungo.
James però allungò una mano e la posò sulla mia. «Se mi fossi potuto liberare da mio zio, ci sarei stato. Sai quanto tengo a te.» mormorò, fissandomi serio.
Deglutii a fatica perché non poteva comportarsi in questo modo, dopo che ci eravamo messi d’accordo di non complicare le cose fino alla fine del processo.     Quel suo viso pulito, quegli occhi grandi e limpidi che mi fissavano e quelle labbra che erano come un faro nella notte per il mio cuore ancora confuso.
Ti sei andata ad impelagare in un bel triangolo. Eppure sei sempre stata brava in geometria.
Non è un triangolo, anche perché Simone non m’interessa. E a quanto pare nemmeno io gli interesso.
«Lo so.» dissi, scostando delicatamente la mano dal suo tocco per evitare ulteriori fraintendimenti. «Diciamo che me la sono cavata comunque. Grazie per la macchina, a proposito.» gli dissi.
Jamie sorrise, anche se non potei fare a meno di notare che rimase deluso dal mancato contatto. «Era il minimo che potessi fare, dopo che sei andata senza accompagnatore.» mormorò.
Beh, tecnicamente non era vero. Forse avrei dovuto dirglielo, quello era il momento adatto per farlo, ma poi mi ripetei che non v’era alcuna ragione. Per prima cosa, io e James non stavamo più insieme, almeno fino alla fine del processo, seconda cosa, non gli sarebbe cambiato nulla sapere del calciatore o meno. Quello che era accaduto a Cambridge sarebbe morto lì, perché io non avevo alcuna intenzione di ricacciarlo fuori.
Dopo alcuni momenti di silenzio, James si decise a mettere tutto in ordine e si preparò per tornare a casa. «Per oggi può bastare,» mormorò, afferrando il cappotto e avvolgendosi la sciarpa di Burberry attorno al collo.
Io gli sorrisi, ma avevo ancora una cosa da finire. «Trascrivo questi poi vado,» gli dissi, cominciando a ricopiare gli ultimi appunti che avevo distrattamente segnato su un foglio volante. Non avrei perso di nuovo una deposizione o altro. Un passo falso equivaleva ad un invito diretto per la porta ed io non potevo permetterlo, non dopo tutti quei sacrifici.
James mi guardò dubbioso. «Chiudi tu?» mi disse, indicando le chiavi dell’ufficio sulla scrivania.
Annuii sorridente e continuai a lavorare senza interrompermi. Non vedevo l’ora di tornare a casa e di stendermi finalmente sul letto, visto e considerato che tra una settimana o poco più sarebbe stato Natale.
Il tempo volava davvero in quel periodo, soprattutto da quando era caduta la prima neve.
«Buonanotte, allora.» mi disse James, chinandosi e posando le sue labbra sulla mia fronte. Poi se ne andò.
Rimasi a fissarlo uscire, con il cuore che mi batteva forte nella gabbia toracica e l’impressione che la nostra “finta indifferenza” sarebbe durata ben poco, a quei ritmi. Tra me e James c’era attrazione, forse anche più di quanta ce ne fosse con Simone.
Anzi, lui era meglio cancellarlo totalmente dalla testa. Tanto si era trattato di un episodio isolato.
In un’ora scarsa riuscii a trascrivere tutto il materiale, così riordinai l’ufficio e mi vestii per uscire in strada.
Una brezza fredda mi fece rabbrividire nel mio cappotto e accucciare la testa affondandola nella sciarpa. La neve scrocchiò subito sotto la suola dei miei stivali, così mi apprestai a chiudere in fretta per poi tornarmene a casa.
Di notte, Regent Street era deserta. Il venti di Dicembre, nonostante le luci natalizie e i finti “Santa Claus” fuori dai negozi che intonavano Jingle Bells, faceva troppo freddo perché si vedesse tanta gente oltre le nove di sera. Quel giorno, poi, non aveva smesso un attimo di nevicare e ancora dei piccoli fiocchi continuavano a cadere dal cielo ricoperto completamente di nubi.
Mi tirai su il cappuccio, poi m’incamminai verso il quartiere di Soho. Non appena notai la completa assenza di persone lungo la strada principale dello shopping londinese, mi pentii quasi subito di non essere uscita con James.
Di solito non ero una fifona ma quella strada di notte mi metteva ansia. Un taxi passò nelle vicinanze, con le catene che schioccavano sulla neve fresca. Sembrava non ci fosse nessuno nei paraggi, così aumentai il passo per raggiungere il più in fretta possibile l’appartamento Sogno.
Okay, calmati. In fondo non c’è nessuno che vuole stuprarti.
Per ora.
Infilai le mani in tasca e strinsi forte la borsa, continuando a camminare. Superai un vicoletto dove c’erano dei secchioni dell’immondizia, poi proseguii senza guardarmi troppo intorno. Era come se vedessi delle ombre muoversi a destra e a sinistra, quando poi si trattava unicamente della mia immaginazione.
Quando svoltai su Piccadilly Circus, avvertii dei passi dietro di me. Cercai di sbirciare con la coda dell’occhio, ma notai soltanto un’ombra incappucciata. Anzi, mi parve fossero due.
Accelerai il passo, mentre il silenzio di quella notte era intervallato solamente dalle note di un White Christmas in lontananza, sicuramente qualche carillon natalizio appeso ad un negozio. Deglutii a fatica sentendo il cuore che mi pompava veloce nel petto, quasi del tutto impazzito.
A Tivoli non mi era mai capitato di sentirmi così piccola e sperduta. Lì si conoscevano tutti ed io mi ero sempre potuta muovere in completa libertà, senza la paura di dover essere derubata o peggio.
Se vedi le brutte, inizia a correre.
Il mio Cervello mi suggerì bene, ma constatai che la neve avrebbe rallentato il mio passo di molto. Li sentivo ancora alle mie spalle, i loro stivali che scricchiolavano sulla neve e il respiro pesante. Immaginai i loro volti, contratti dalla cattiveria e dai pensieri di quello che mi avrebbero fatto.
Dovevo stare calma. Ero pur sempre un avvocato.
La situazione andava gestita nel migliore dei modi. Frugai all’interno del cappotto alla ricerca del cellulare, poi, senza vedere, sbloccai la tastiera e digitai il 999. Il servizio d’emergenza.
Alzai lo sguardo e divenni bianca come un lenzuolo.
In fondo alla strada, proprio vicino all’imboccatura con il quartiere di Soho, c’era una figura sempre ammantata di nero, con il cappuccio tirato, che avanzava verso di me.
Cazzo, ero circondata.
Mi guardai intorno alla disperata ricerca di una via di fuga. Avrei potuto attraversare, correre in mezzo alla strada. Non passava nemmeno una macchina a quell’ora, soprattutto con tutta la neve che cadeva giù. Avrei corso fino all’appartamento.
La figura di fronte a me sembrò fissarmi per un momento, poi avanzò con passo più sostenuto. Era altissimo. Si stagliava nell’oscurità come un’ombra ed io cominciai davvero a pensare di essere spacciata. In due falcate, o anche meno, mi avrebbe raggiunta.
Sentii i passi dietro di me accelerare, così feci lo stesso, andando incontro alla figura di fronte a me. Avrei deviato all’ultimo momento, così sarebbe rimasto disorientato per qualche secondo e io avrei approfittato di quella sua indecisione per correre.
Piano perfetto.
Mancavano pochi passi, così accelerai. Ormai era questione di secondi, mentre sentivo il cuore battere insistentemente nella gabbia toracica. Per un momento pensai a James e mi pentii di non essere uscita con lui. Mi avrebbe riaccompagnata a casa, ne ero più che certa, ma il mio bisogno di essere indipendente aveva avuto la meglio.
Fu proprio quando alzai lo sguardo, decisa ad evitare quella figura incappucciata, che vidi il suo volto.
Ormai il mio corpo aveva preso il comando, così cercai di deviare, ma la mano di Simone mi agguantò un polso, bloccandomi la fuga.
Mi voltai per vedere le figure dei due uomini dietro di me che si bloccavano, poi attraversarono la strada sparendo per uno dei vicoli di Piccadilly.
Allora mi stavano seguendo per davvero.
«Si può sapere che fine avevi fatto?» ringhiò Simone, senza mai distogliere lo sguardo da quegli uomini. Lo vidi fissarli con gli occhi ridotti a fessure, quei due pozzi scuri che inghiottivano perfino le luci dei lampioni vittoriani.
«Ho lavorato.» mi giustificai, senza che pensasse che me ne fossi andata a zonzo.
Ora il suo sguardo era su di me. «A quest’ora non te ne devi andare in giro da sola, quei tipi ti stavano seguendo. Non te ne sei accorta?»
Suonava molto come un rimprovero quella sua domanda, ma ero troppo sollevata di vederlo per prendermela del suo tono accusatorio. Non ero più da sola su quella strada enorme e ricoperta di neve, la notte sembrava meno paurosa ora che Simone era con me.
«Sì che me ne sono accorta, stavo chiamando il numero d’emergenza!» mi giustificai, tirando fuori il cellulare e mostrandogli il “999” sul display.
Simone roteò gli occhi al cielo. «Perché quei tizi ti avrebbero lasciata telefonare, certo.» sbuffò. «Qui non siamo in Italia, non sei nel tuo piccolo paesino innocente. Qui la gente viene derubata, o peggio…»
E lasciò volutamente la frase in sospeso, mettendomi addosso una strana ansia. Solo allora mi accorsi che stavo tremando. Non sapevo se fosse per la paura o per il freddo, fatto sta che Simone se ne accorse.
Si sbottonò il cappotto e mi fece cenno di stringermi a lui. «Forza che stai tremando. Vuoi buscarti di nuovo la febbre?» mi ammonì.
Lo fissai come se fosse una qualche specie di alieno venuto per rapirmi. «Com’è tutta questa galanteria?» sorrisi, sentendomi lievemente meglio dopo quello spiacevole accaduto.
Ero ancora titubante, soprattutto perché erano passate settimane dalla serata a Cambridge ed io e Simone non avevamo ancora affrontato l’argomento “bacio”. Per lui era come se non fosse mai accaduto, ed io mi ero adeguata, ma era in qualche modo inevitabile per me non pensarci. Ricordavo ancora le sue carezze, la consistenza dei suoi capelli sotto le mie dita. Sentii improvvisamente la gola secca.
«Ti muovi? Oppure vuoi far congelare anche me?» sbottò.
Decisi che avrei avuto tempo per farmi le pippe mentali, perciò allargai le braccia e circondai la vita sottile del calciatore, mentre lui avvolgeva il suo pack intorno ad entrambi. Subito un senso di sicurezza mi pervase le membra, così come il calore del suo corpo.
Poco dopo smisi di tremare, mentre ci stavamo avvicinando all’appartamento di Soho. Solo allora mi resi conto che Simone era sceso appositamente per cercarmi.
Alzai lo sguardo verso di lui, con il cappuccio calcato sulla testa, ma non ebbi il coraggio di chiederglielo. Mi sentivo insolitamente bene avvolta in quell’abbraccio, come un bozzolo sicuro dove potermi rifugiare.
La neve continuava a cadere, ma era come se non mi sfiorasse.
Salimmo i gradini del pianerottolo, poi Simone tirò fuori dalla tasca le chiavi del portone ed aprì.
Entrammo nella hall, dove il portiere sonnecchiava beato nel box, e ci dirigemmo verso l’ascensore. Avvertivo ancora il suo calore addosso, nonostante ci fossimo separati e non riuscii a fare a meno di arrossire.
Simone era capace di farmi qualcosa senza che io me ne accorgessi, utilizzando solamente l’istinto. Mentre James era un tipo da sfioramenti, da carezze studiate, da sguardi premeditati, Simone no. Lui agiva, senza pensare, faceva quello che gli diceva la testa e non si preoccupava minimamente delle conseguenze.
Era il mio opposto.
L’ascensore saliva troppo lento per i miei gusti e il silenzio che si era creato all’interno dell’abitacolo era imbarazzante.
«Cerca di lavorare ad un orario più decente la prossima volta,» borbottò lui, rigirandosi le chiavi tra le mani.
Subito m’indispettii. «Come se potessi scegliermeli gli orari! Io e James abbiamo dovuto sistemare le scartoffie del tuo caso, visto che hai combinato un pasticcio con quella lì.»
Al sentire il nome dell’avvocato, lo sguardo di Simone si adombrò. Non era colpa mia se lavoravamo insieme e se lui aveva sviluppato una qualche antipatia nel suoi confronti. Ancora non avevo risolto il mistero delle “sue cose”, come aveva detto qualche tempo prima.
D’improvviso ricordai le parole di Sofia.
«Ma…» iniziai, proprio quando le porte dell’ascensore si spalancarono davanti la porta dell’attico. Simone si diresse ad aprire ed io gli fui immediatamente dietro. «Hai chiamato tua sorella la sera che siamo tornati da Cambridge?»
Ecco, lo avevo detto. Sofia mi aveva messo addosso una strana curiosità, insistendo su quanto quella serata fosse stata importante per entrambi, a dispetto dell’indifferenza che il calciatore dimostrava.
Lui spalancò la porta ed entrò, posando le chiavi nella ciotola. «No.» mentì. «Perché avrei dovuto?»
Prova a parlargli di questo quando ritornerà dalla partita. Fidati. Se cambierà argomento, allora non l’ha fatto per pietà.
Avevo aspettato più tempo del dovuto, ma il risultato era sempre lo stesso.
«Senti, sono stanco. Vado a dormire.» tagliò corto lui, cambiando argomento. Anzi, evitandolo del tutto.
«Aspetta.» dissi, senza nemmeno accorgermi di aver aperto bocca.
Simone si voltò sorpreso. Non avevamo nemmeno acceso le luci del salotto. C’era solo la pallida luce dei lampioni in strada che illuminavano pacatamente il suo viso. Quel volto così dannatamente giovane per essere quello di un padre.
Mi feci coraggio, giusto perché ero una persona che non si tirava mai indietro. «Grazie,» mormorai. «Per prima.» aggiunsi un po’ imbarazzata.
Di solito ero abituata a prenderlo a parolacce, ad insultarlo, a prendermi gioco di lui. Non ero pronta a ringraziarlo.
Simone sgranò quei grandi occhi scuri, poi sorrise. Oh sì, sorrise veramente.
«Diciamo che l’ho fatto perché altrimenti sarei rimasto senza avvocato, visto che l’altro mi sta parecchio antipatico.» scherzò. Non si poteva essere seri con Simone, per lui era tutto un gioco.
Sorrisi a mia volta. «A parte gli scherzi, sono in debito con te. Due volte.» ammisi.
C’era anche la festa, non dovevo dimenticarlo.
«Per cosa?» chiese lui stupito.
«Stasera, la festa di Cambridge… diciamo che mi hai salvato il culo in più occasioni.» smozzicai. Era dura ammettere di essere in debito con un tipo immaturo come Simone, ma ero una donna di parola.
Il calciatore mi sorrise, avvicinandosi. «Siamo pari. Ti ricordo che mi hai fatto la lavata di testa per la partita quella domenica. E chi se lo scorda. Mi hai preso e mi hai trascinato nello sgabuzzino alla fine del primo tempo. Pensavo davvero che volessi stuprarmi!» e ridacchiò come un’imbecille.
Alla fine fui contagiata dalla sua risata. «Fidati, non sei proprio il mio tipo.» dissi senza pensare.
Mi morsi la lingua due secondi dopo, quando i suoi occhi si spalancarono.
C’era qualcosa dietro quel suo comportamento enigmatico, un particolare che mi sfuggiva. Alle volte sembrava non importargli nulla di nulla, soprattutto di Cambridge e del bacio, ma quando la mia boccaccia sparava velenosità a raffica, senza che ne avessi davvero l’intenzione, pareva proprio che lo colpissi con una freccia avvelenata. Dritto al cuore.
Magari tiene a te più di quanto voglia far sembrare agli altri.
«Cioè… non intendevo…» tentai di riprendermi, ma ormai sembrava troppo tardi.
Simone avanzò con passo sicuro, facendomi indietreggiare e costringendomi a posare le spalle contro il muro del salotto. Era ancora buio. Di tanto in tanto una macchina passava in strada e i fari riflettevano la loro luce sulla finestre, illuminando l’espressione seria sul volto del calciatore.
I suoi occhi erano scuri, molto più del solito. Sembravano quasi affamati.
«Senti… io credevo che non ti importasse,» iniziai, sperando di fermarlo. Non sapevo cosa volesse farmi, se aveva un piano per vendicarsi di quello che gli avevo detto. «Abbiamo fatto finta di niente, no? Si è trattato solo di uno stupido errore.»
Sparavo parole a raffica, ovviamente riferendomi a Cambridge, ma lui sembrava assorbirle senza che gli facessero il minimo effetto.
«Anche questo diventerà un errore?» ringhiò, afferrandomi il viso e premendo con forza le labbra sulle mie. Erano passate settimane da quella sera, ma il profumo che mi assalì alle narici fu come se non mi avesse mai abbandonata.
Le sue labbra erano così morbide sulle mie, mentre tenevo gli occhi serrati. Ero immobile, ancora dovevo capacitarmi di cosa stava succedendo. Nel frattempo le mani di Simone mi stringevano forte il viso. Era come se avesse paura di lasciarmi andare.
«E questo?» mi soffiò poi sulle labbra, più calmo. Schiuse la bocca e tirò fuori la lingua che lentamente andò a sfiorare il mio labbro inferiore.
Ero totalmente in balia del suo sguardo e di quello che stava accadendo. Non riuscivo a sottrarmi, non adesso che era forte il bisogno che avevo di lui. Alzai le mani titubante e gli spostai un ciuffo di capelli castani dalla fronte. Mi presi del tempo per carezzargli gli zigomi, le guance, sfiorando quei tratti così femminili e delicati.
Lui si limitò a fissarmi, attendendo. Non aveva fretta, il tempo era dalla nostra parte. O almeno era quello che credetti fino a quando non sentii il campanello della porta suonare.
Sobbalzammo entrambi dallo spavento, poi ci scostammo imbarazzati.
Chi cavolo era a quell’ora di notte?
«Apri tu o apro io?» chiese lui, mentre riacquistava quel suo solito cipiglio da “figo” della situazione.
Non dissi nulla, ma mi limitai ad aprire il portone.
Di fronte a me vidi le ultime due persone che mi sarei mai aspettata di incontrare, soprattutto dopo lo sconvolgimento che stava subendo la mia vita.
«Sorpresa!» trillò la voce di una ragazza bionda, che sprizzava energia da tutti i pori. Vidi le valigie, vidi i cappotti e due paia di occhi: Celeste e Leonardo sorridevano sul pianerottolo di casa Sogno.


Mi prendo uno spazietto per scusarmi per il ritardo e per il mancato aggiornamento di CIUS, ma è l'ultimo capitolo e ci devo lavorare su bene, e soprattutto per augurarvi buone feste, perché mi siete state/i sempre molto vicini - sia qui che nel gruppo - e vi ringrazio.
Ve ne meritereste due di capitoli, magari per il 27 potrei betare il 14, chissà :3
Comunque, ma quanto sono dolci Ven e Simo? Di solito non rileggo mai i capitoli, ma Nessa è partita ed io non potevo lasciarvi senza aggionramento, così me lo sono self-betato (se ci sono errori, od ORRORI, è solo colpa mia xD).
E l'arrivo di Cel e Leo? Uahahahahaahah! Non potevo resistere, davvero, dovevo farli arrivare almeno per le vacanze di Natale, che poi, io suggerirei a Simone di staccare il campanello, perché tra Mr. Marco e Leonardo, cercano proprio il momento adatto per interromperli poveretti! è.é

Vabbuò, mi rimetto nelle vostre mani, nel frattempo cerco di rispondere alle recensioni. (forse xD)
Intanto BUON NATALE, e spero davvero di riuscire a preparare il capitolo 14 per potervelo dare prima di Capodanno, anche se quello di Capodanno-Capodanno è skvnslkvndkjvnfdkjnvdfkjvndkjvndfkvjndfvk e quando lo leggerete, penso che imploderete like me :3
Vi lascio, un bacione!
Marty

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 14 ***


CAPITOLO 14
betato da quella figaH di nes_sie
 
Rimasi a fissare il volto sorridente della mia migliore amica nella penombra del salotto. Da quando ero tornata, accompagnata da Simone vista l’ora tarda, non avevo minimamente pensato di accendere la luce.
Anche perché eri impegnata a fare qualcos’altro.
Persi un battito al ricordo di ciò che io e Simone avevamo fatto poco prima e di cosa sarei stata capace di fare, se Celeste e Leotordo non fossero intervenuti. Come quella volta con Mr. Sogno. Prima che iniziasse tutto, insomma.
«Allora?» domandò Celeste, un po’ irritata. «Ci fai rimanere sulla porta?» sorrise.
Lanciai uno sguardo di traverso al mio coinquilino visto che, fino a prova contraria, l’appartamento era il suo. TermoSifone aveva un’espressione ombrosa in volto e non la smetteva di fissare Leonardo con circospezione.
«Vuoi lasciare quel campione di tuo cugino a dormire sul marciapiede con questo tempo?» sorrise l’altro calciatore. A differenza di Simone, Leonardo non metteva malizia in queste prese in giro.
Il giovane Sogno si limitò a spostarsi da un lato e a lasciar passare il cugino con Celeste. I due entrarono al caldo dell’appartamento, con una grande valigia che racchiudeva lo stretto necessario per i giorni che sarebbero rimasti qui da noi.
«Allora, come mai questa visita?» chiesi, tentando di rimanere sul vago.
Nel frattempo aiutai Celeste a districarsi da sciarpe, guanti e cappello. Era imbacuccata sino alla punta dei capelli, così mi lasciai andare ad un piccolo sorriso e finalmente sentii quel calore e quella gioia nel riavere finalmente al fianco la mia migliore amica.
«Ti avevo accennato che venivamo per Natale,» bofonchiò, liberandosi dello sciarpone di lana. Leonardo si stava spogliando davanti allo sguardo attento di Simone. Lo fissava come un leone guarda un altro maschio che è entrato nel suo territorio.
Ricordai vagamente un messaggio lasciato in segreteria dalla mia migliore amica, ma con estrema sincerità mi ero quasi dimenticata.
«Giusto, così avete deciso di imbarcarvi sul primo volo?» domandai, sperando di non risultare troppo polemica. In fondo, sarebbe bastata un’altra telefonata prima di partire, giusto il tempo per organizzarci.
Leonardo si liberò di un enorme cappello di lana con le orecchie. «Appena il Mister ci ha dato il via libera, siamo saliti sul primo aereo. Cel non vedeva l’ora di riabbracciarti ed io sentivo la mancanza del resto del parentado,» sghignazzò, lanciando un’occhiata a Simone che se ne stava stranamente in silenzio.
Era strano che ancora non avessi visto all’opera quei due, che Simone non avesse una delle sue battute pronte. Molto sospetto, soprattutto dopo che il cugino gli era piombato in casa senza avvertirlo minimamente. Persino io provavo un certo fastidio, e la casa non era nemmeno mia.
«Sofia sarà felicissima di vederti,» mugugnò. Prima parola da quando erano arrivati.
«E quella peste di Susy?» domandò Leonardo. Notai come gli brillarono gli occhi quando iniziò a parlare della nipotina. Quei grandi occhi verdi, così diversi dal marrone scuro e ombroso di Simone.
Fece spallucce e si diresse verso le camere da letto. Anche se lo conoscevo da poco tempo, sapevo che era arrabbiato per qualcosa, ma non riuscivo a capire cosa.
Se ti spremi, magari ci arrivi. Cosa stavate facendo?
Scossi violentemente la testa e mi forzai di non arrossire davanti alla mia migliore amica. C’ero cascata due volte, la prima alla serata a Cambridge, la seconda poco tempo fa. Se la prima volta era stato solamente un caso, per la seconda non potevo utilizzare la medesima spiegazione.
Mi stava succedendo qualcosa ed io dovevo darci un taglio prima che il tutto mi sfuggisse di mano. Un conto era la storia con James, in fondo era pur sempre un collega di lavoro e una volta concluso il caso non ci sarebbero stati ostacoli alla nostra frequentazione, ma Simone… fino a qualche ora prima lo avrei volentieri preso a badilate.
«Ma…» se ne uscì Leonardo, rivolgendosi alla sottoscritta. «Tu cosa ci fai a casa di Simo? Noi avevamo pensato di venire qui perché casa sua è completamente vuota. Non stavi in un buco di appartamento vicino Regent Street?»
A quel punto si sentì lo schiocco di un ceffone da parte di Celeste. «Possibile che hai lo stesso tatto di una pentola a pressione?» Poi si rivolse a me. «Scusalo, ma ha la stessa sfera emotiva di un sasso. Comunque, ti sei trasferita qui da Simone?» chiese, ammiccando.
Soltanto io che la conoscevo da anni potevo capire che anche se aveva sgridato Leonardo, in segreto anche lei moriva dalla voglia di sapere il motivo per cui mi avevano trovata a casa del piccolo Sogno.
Non sapevo se avrei dovuto parlar loro del caso giudiziario in cui era coinvolto Simone, visto e considerato che nemmeno Mr. Marco ne era a conoscenza, perciò tentai di risolvere la questione in modo diplomatico. «L’affitto era troppo alto, così Simone si è offerto di ospitarmi ed io mi sdebito facendogli qualche lavoretto per casa,» tagliai corto.
Celeste rimase notevolmente sorpresa da quella mia giustificazione, perché lei sapeva che il mio orgoglio non mi avrebbe mai permesso di abbassarmi a fare la massaia di un bamboccio come Simone, ma si sarebbe dovuta accontentare, almeno per ora. Non potevo mettere a rischio la causa nemmeno con la mia migliore amica.
Il giovane Sogno fece la sua comparsa proprio al momento giusto. «La camera da letto è occupata dalla nanetta, perciò è rimasto il divano del salotto,» lo indicò con il dito indice. «Oppure la sala hobby che ha un comodo tappeto persiano e il camino.»
Sorvolai sull’ennesimo soprannome e mi sentii in dovere di intervenire. «Non preoccupatevi, vi cederò la mia stanza ed io dormirò sul divano. Voi siete in due e di là c’è un comodo letto a due piazze, non voglio che dormiate rannicchiati,» dissi decisa.
«Ma cosa dici! Siamo noi che ci siamo presentati senza avvisare, è giusto che dormiamo sul divano,» intervenne Celeste.
Leonardo le diede dei colpetti sul fianco. «Ma sei scema? Così mi sveglio con la schiena incriccata. Visto che la tua amica è così gentile…» mi sorrise ammaliante.
Simone si sentì subito in dovere di intervenire. «Oppure Celeste e Lil’Elf potrebbero dormire nel letto a due piazze e tu sul divano… oppure sullo zerbino di fronte alla porta, eh?» ghignò.
Era tornato quello di sempre.
Leonardo si accigliò dopo pochissimo. «Perché invece tu non cedi la tua stanza e da bravo padrone di casa non vai a farti fottere?»
Simone si limitò a sfoderare quel sorriso malandrino che rifilava anche alla sottoscritta i primi giorni lì a Londra. Oramai avevo capito che era soltanto uno schermo dietro cui si riparava.
«Ti piacerebbe,» rispose. «Prova a telefonare all’Hilton, magari hanno una camera libera per uno dei calciatori più famosi d’Italia,» ridacchiò.
«Il ventidue di Dicembre non c’è posto nemmeno alla Caritas,» gli feci osservare.
Simone spense quel sorriso amaro. «Perché lui non è nessuno, ecco perché.»
«Sentite!» intervenni io, prima che Leonardo potesse mettere mano all’enorme valigia, tirandola in testa a Simone che se lo sarebbe meritato appieno. «Voi due dormite nella mia stanza, io dormo sul divano. Per stanotte ci arrangiamo così, domani si vedrà,» dissi decisa.
Ero un avvocato e queste baruffe familiari erano pane per i miei denti. In fondo, gli ospiti andavano trattati con riguardo e non potevo permettere che la mia migliore amica dormisse scomoda e stretta con quel colosso di Leonardo che l’avrebbe schiacciata contro il divano.
«Sei sicura?» mi chiese Cel, preoccupata.
Le sorrisi e annuii. «In fondo, non è peggio che dormire nel mio vecchio monolocale! Fidati, ci sono abituata. Alle volte dormivo pure sui sedili della Tube.»
La mia migliore amica si sentì più sollevata, così li accompagnai entrambi verso la mia stanza, mostrando loro dove fossero le lenzuola pulite. Presi solamente le cose che mi servivano per la notte, una coperta, un cuscino e poi mi preparai per andare a dormire.
Mentre mi dirigevo in salotto, sbirciai verso la stanza di Simone, trovando la porta già sigillata. Era andato a dormire senza degnarsi di nessuno. Un’egoista, ecco cos’era.
Decisi che l’indomani avrei fatto di tutto per obbligarlo a dormire sul tappeto della sala hobby, visto che quello che si meritava era solo un intenso mal di schiena, ma la stanchezza di quella giornata di lavoro mi aveva talmente sfibrata che mi lanciai di peso sul divano, chiudendo gli occhi all’istante.
Non avevo minimamente considerato che senza il piumone del grande letto a due piazze, alle tre del mattino mi sarei svegliata scossa dai brividi.
Aprii gli occhi di colpo per il rumore dei miei stessi denti che battevano. Mi tirai su la coperta ma era comunque troppo leggera e mi sentivo davvero congelare. Guardai l’orologio e pensai di entrare nella mia vecchia stanza per prendermi almeno una felpa, poi realizzai che magari avrei svegliato Celeste, a causa del suo sonno leggero, e che lei si sarebbe ancor più sentita in colpa sapendo che mi aveva fatto passare una notte al gelo.
Avvicinai le mani e ci soffiai sopra un po’ di fiato caldo, sentendo di nuovo la sensibilità alle dita. Nonostante ci fosse il riscaldamento, la nevicata di quella notte aveva fatto abbassare la temperatura di almeno dieci gradi ed io adesso stavo letteralmente congelando.
Forza Ven, ricordati che ne hai passate di peggiori. Come al campeggio.
Ricordavo perfettamente quella famosa estate in cui i miei genitori mi avevano spedito ad una specie di campeggio estivo in non so quale paese sperduto tra i monti. Grazie alla mia fortuna sfacciata, beccai l’unica settimana di diluvio universale a Luglio. Non mi ero portata quasi nulla di pesante, tranne una felpa. Fu l’unica volta in tutta la mia vita che misi lo stesso indumento per sette giorni e notti consecutive a causa del freddo che faceva.
Un’esperienza irripetibile.
Decisi di rigirarmi più volte, in modo che un po’ di movimento mi avrebbe scaldata, ma servì a ben poco. Non appena mi fermavo, sentivo proprio la morsa del gelo che mi si attanagliava addosso. Di questo passo avrei passato la nottata in bianco e il giorno dopo, a lavoro, prima delle vacanze natalizie, sarei assomigliata ad uno zombie.
Ero sul punto di alzarmi e prepararmi qualcosa di caldo, come un the, quando avvertii la porta di una delle stanze aprirsi e un rumore di pantofole sul pavimento. Socchiusi gli occhi, fingendo di dormire, ma tra le ciglia tentai di sbirciare di chi si trattasse.
Non fu difficile capirlo. Il metro e novanta di Simone Sogno era inconfondibile anche al buio, così mi sentii libera di aprire gli occhi. Se si fosse sentito in colpa per la mia notte quasi insonne, tanto meglio.
Si avvicinò al bancone della cucina e ne tirò fuori una bottiglia d’acqua, stappandola e bevendo direttamente da essa. Il solito cafone, non c’era altro modo per descriverlo. Quattro persone in quell’appartamento e tre di esse dovevano bere la sua saliva.
«Non lo sai usare il bicchiere?» gli domandai, con la voce roca.
Sentivo un certo pizzicare alla gola e attribuii quel fastidio al freddo che avevo sentito dormendo senza quasi accorgermene.
Simone sussultò, poi si voltò verso di me. «Mi stavi spiando?» chiese.
A quel punto mi alzai a sedere, avvolgendomi la coperta tutta intorno al corpo come fosse un bozzolo caldo. «Ho di meglio da fare che passare il mio tempo a fissarti,» bofonchiai insonnolita.
Simone prese un altro sorso d’acqua direttamente dalla bottiglia. «Conti le pecore?»
Non persi nemmeno tempo ad elaborare una risposta, tanto sarebbe stato inutile. Inoltre, avevo troppo sonno ed ero infreddolita. Il mio Cervello era andato un attimino in pausa.
Rimanemmo a scrutarci nella notte, mentre si sentivano alcuni passi in strada che scricchiolavano sulla neve fresca. L’indomani mattina sarebbe stato quasi impossibile raggiungere lo studio con un mezzo, perciò mi ritenevo abbastanza fortunata a percorrere la strada a piedi.
«Non riesci a dormire?» mi chiese lui dopo poco, posando la bottiglia d’acqua.
Scossi la testa sbadigliando. «Fa troppo freddo stanotte,» dissi.
Simone parve sorpreso, anzi, direi quasi preoccupato. «Vado ad alzare il riscaldamento,» mormorò, sparendo dietro il corridoio.
Pensai che in fondo non era stato poi uno spiacevole incontro quello di quella notte, visto che Simone era sembrato più servizievole del solito.
Tornò dopo qualche minuto. «È al massimo,» disse mortificato. «Evidentemente siamo andati molto sotto lo zero stanotte,» constatò.
«Già,» bofonchiai delusa, preparandomi a dover fare esercizi tutta la notte pur di non congelarmi. Ero un tipo piuttosto freddoloso, dovevo ammetterlo.
«Ti porto un’altra coperta?» mi chiese, ed io lo fissai come se fosse appena sceso da un’astronave. Possibile che fosse lo stesso Simone di due minuti fa?
Sorrisi. «Alle tre del mattino sei stranamente gentile, lo sai?» gli dissi compiaciuta.
Lui si indispettì subito, tornando sulla difensiva. «Sei tu che mi prendi a parolacce e mi offendi dalla mattina alla sera. Io mi difendo soltanto.»
«Sì, certo,» ridacchiai.
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, nel frattempo ricominciai a sentire freddo. Era l’immobilità che mi fregava, ma non potevo certo mettermi a fare gli addominali alle tre del mattino!
«Comunque…» se ne uscì Simone, staccandosi dal mobile della cucina su cui era appoggiato. «In camera mia c’è la trapunta con le piume d’oca.»
Rimasi a fissarlo nell’oscurità col cuore che mi batteva all’impazzata. Avrei dovuto tirargli immediatamente qualcosa addosso oppure urlargli contro male parole, ma non ci riuscii. Era come se dentro di me, nella parte più remota del mio essere, io mi aspettavo quella domanda. Dopo quello che Celeste e Leonardo avevano interrotto, era più che lecito che il passo successivo sarebbe stato quello.
Ricorda il motivo per cui sei andata via di casa.
L’indipendenza, il lavoro dei miei sogni, diventare una donna in carriera e non una casalinga come mia madre.
«Preferisco affittare il cartone di un barbone, grazie,» gli risposi piccata, ma lui se lo aspettava così si limitò a sorridermi e a portami una coperta in più. Non ci poteva essere alcuna storia d’amore tra noi due, anzi, i nomi Simone e Venera non potevano sostare più di cinque minuti nella stessa frase. Due persone in antitesi, due opposti. I nostri caratteri erano troppo forti per stare insieme, prima o poi saremmo esplosi.
Celeste e Leonardo invece si completavano. Lei era una donna di carattere, forte, intelligente, mentre lui era buono, comprensivo, un po’ egocentrico ma in fondo si trattava pur sempre di un calciatore.
Lo ringraziai e gli diedi la buonanotte, rimettendomi a dormire. Ovviamente ci riuscii ben poco. Prendevo sonno ma dopo due minuti mi risvegliavo, un po’ meno per il freddo ma più che altro per i pensieri che mi vorticavano in testa. Celeste era la mia migliore amica e per come la conoscevo, mai mi sarei immaginata che sarebbe finita con un ragazzo come Leonardo.
Eppure avevo fatto male i conti con entrambi.
Il loro rapporto, anche se iniziato sulla base di una grossa menzogna, e dopo aver attraversato degli alti e dei bassi dovuti anche al carattere intrattabile della mia migliore amica, ora sembrava andare per il meglio. A quanto mi raccontava, Celeste si era quasi abituata alla vita della ribalta. Certo, all’inizio era stato difficile fare i conti coi paparazzi, con i giornalisti che ti seguivano un po’ ovunque, ma io stessa le avevo spiegato che se un rapporto era nato per durare, avrebbe superato tutto, anche quelle piccole difficoltà.
E così era stato.
Rigirandomi da una parte all’altra del divano, cominciai a fare strani pensieri. Tra i brividi di freddo di quella notte, paragonai la mia vita a quella della mia migliore amica, riflettendo se io stessa sarei riuscita a vivere quel genere di vita.
Con Simone sarebbe lo stesso.
Rabbrividii quando il suo viso e quei suoi occhi scuri mi perforarono la veglia, facendomi spalancare gli occhi. Per quanto mi sforzassi di non pensarci, di non pensare a lui, era come un boomerang e lui tornava sempre indietro.
Con James non era mai successo, lui non era riuscito a penetrare tanto a fondo soltanto con un’occhiata. Magari era perché ormai eravamo conviventi, era più di un mese che stavamo a contatto ogni giorno e anche il più piccolo angolo di quell’appartamento mi ricordava Simone.
Non volevo ammetterlo, era più forte di me ma ancora non riuscivo a farlo. Sarebbe stato da ipocrita predicare bene e poi razzolare male, dire di lui peste e corna ma poi soccombere al suo fascino come una di quelle giraffone qualsiasi.
O forse lui ha davvero fascino. È riuscito perfino ad ammaliare una col cuore di ghiaccio come il tuo.
Scossi la testa e guardai il soffitto. Decisi di alzarmi, tanto non avrei chiuso occhio per il resto della notte continuando a fare quei pensieri.
Mi diressi in bagno, l’unico funzionante, e passai di fronte alla mia vecchia stanza. La porta era lievemente socchiusa, così la curiosità ebbe il sopravvento e nonostante la mia coscienza mi dicesse di proseguire e farmi gli affari miei, mi avvicinai all’infisso e lo spostai con delicatezza.
Lentamente la porta si aprì, senza cigolare, e sbirciai nella penombra della stanza. Riconobbi le sagome del cassettone dove avevo riposto i miei pochi vestiti, i comodini e il grande letto a baldacchino. Coperti dalla pesante trapunta che avevo rimpianto quella notte c’erano Leonardo e Celeste, l’uno abbracciato all’altra.
Dormivano profondamente e nel loro abbraccio era come se i due corpi si fondessero in uno solo, donandosi calore e sicurezza. Sorrisi a quella scena perché ricordai la prima volta che lei mi parlò del calciatore. All’inizio Celeste lo aveva disprezzato, quasi odiato, pur non sapendo quale professione esercitasse, come la sottoscritta.
L’unica differenza è che io sapevo bene chi fosse Simone Sogno.
All’improvviso un lungo brivido di freddo mi rotolò lungo la spina dorsale, facendomi correre la pelle d’oca. Sentivo il respiro farsi più pesante e un forte disagio proprio al centro del petto. Pensai subito che mi stesse venendo una specie di infarto, ma poi mi diedi immediatamente della sciocca.
Prima di partire avevo fatto tutte le analisi possibili immaginabili, nel giro di un solo mese non era cambiato nulla.
Richiusi la porta e andai in bagno, poi mi diressi di nuovo verso il mio freddo cantuccio. Mi bloccai però davanti alla stanza di Simone, quasi come se i miei piedi mi avessero condotto lì senza il mio volere.
Forse ero sonnambula ma il mio Cervello era fin troppo vigile per essere assopito.
Cosa diavolo stavo facendo?
Dovevo resistere, farmi forza, non cedere alla tentazione della carne come avevano fatto tutte le ragazze che quel cretino immaturo di Simone si era portato a letto. Io ero Venera Donati, quasi socio della Abbott&Abbott di Londra, avvocato in erba e giovane donna in cerca di un uomo maturo che le desse una certa stabilità emotiva.
Non un bamboccio a cui avrei dovuto cambiare il pannolino.
Ma tutti questi pensieri non bastarono a fermare la mia mano che si posò quasi automaticamente sulla maniglia della porta. Rimasi un po’ di tempo ferma a pensare, in attesa che succedesse qualcosa, che anche il più piccolo rumore potesse distrarmi e farmi rinsavire.
Poi feci un po’ di pressione e la porta si aprì lentamente.
La stanza era avvolta nel buio, tranne che per la luce flebile di un lampione in strada che filtrava attraverso le tende tirate male. Il disordine regnava sovrano in quella stanza, nonostante più volte lo avessi rimproverato di dare una sistemata, ma in quel momento stranamente non mi diede troppo fastidio. Il mio sguardo era totalmente rapito dalla figura assopita di Simone, rigirato su un fianco, che occupava metà del letto e dormiva profondamente.
Nel silenzio della stanza cominciai ad udire distintamente qualcosa tamburellarmi al centro del petto e solo quando mi resi conto che non stavo respirando, mi accorsi che si trattava del mio cuore. Mi strinsi le braccia al petto mentre un brivido di freddo mi colpiva a tradimento, così non indugiai troppo e mi avvicinai al grande letto a due piazze.
Non mi feci troppe domande e il mio Cervello era evidentemente fin troppo intorpidito dalla notte quasi insonne, così non ricevetti alcun ammonimento in ciò che stavo per fare. Avrei dovuto riflettere meglio sulle conseguenze, prevedere che quel gesto avrebbe mescolato per bene le carte in tavola. Finalmente avevo messo in chiaro le cose con James, di comune accordo avevamo deciso di smetterla di mentire agli altri, di fare le cose di nascosto per via di questo lavoro che era diventata la mia stessa vita, ed ora, dopo nemmeno una settimana, ecco che mi infilavo di nascosto nel letto della stessa persona che avrei dovuto difendere in tribunale.
Mi fermai davanti al letto e indugiai. Simone dormiva profondamente. Aveva le labbra dischiuse e il respiro pesante, con quei capelli perennemente spettinati e sparsi su tutto il cuscino. Dovetti ammettere a me stessa che per quanto fosse superficiale, immaturo e stronzo, nulla toglieva alla sua bellezza, soprattutto quando lo vedevo così innocente.
Finché la sua bocca non tirava fuori qualche offesa o stupido soprannome, avrebbe battuto James su tutti i fronti. Mi costò molto ammetterlo, anche perché fino a poco tempo fa mai avrei immaginato di poter dire certe cose, eppure eccomi lì, al bordo del suo letto, elemosinando un posto caldo e accogliente.
Scostai delicatamente la trapunta di piume d’oca, mi tolsi le pantofole col pelo e posai lentamente un ginocchio sul materasso, facendolo inclinare di poco. Avevo paura di svegliarlo, di trovarmi davanti agli occhi quelle iridi scure, quasi come quella stessa stanza che permetteva a mala pena di scorgere i contorni degli oggetti da arredo.
Posai lentamente la testa sul cuscino, tirandomi su la trapunta fin quasi a coprire le orecchie, poi mi rannicchiai guardando verso Simone. Si era limitato solo a chiudere le labbra mentre il suo tranquillo respirare riempiva il silenzio di quella strana notte. Finalmente la temperatura del mio corpo si stava stabilizzando così cominciai a chiudere lentamente le palpebre preparandomi ad una lunga notte di sonno.
«Ti stavo aspettando,» disse all’improvviso una voce ed io spalancai gli occhi quasi allarmata, trovandomi a guardare Simone dritto in faccia.
Tentai di non arrossire, ma fu quasi del tutto inutile. Col beneficio del buio però, sperai che il calciatore non se ne accorgesse.
Simone mi sorrise e dal suo sguardo stranamente vigile pensai che non si fosse addormentato per nulla dalla nostra chiacchierata in cucina di poco tempo prima. Aveva capito che sarei venuta da lui e mi stava aspettando sveglio.
Rabbrividii al pensiero di quanto fossi stata sciocca e prevedibile. Però non me ne dispiacque.
«Ce ne hai messo di tempo per decidere,» sussurrò, distendendo le lunghe gambe sul grande materasso.
Senza smettere di fissarlo dritto negli occhi, per quanto il suo sguardo mi stesse mettendo in soggezione, sbuffai infastidita. Ovviamente si trattava solo di una scenata, nulla di più.
Solo per non dargliela vinta.
«Ho creduto opportuno non ammalarmi ancora, visto che domani è il mio ultimo giorno di lavoro prima del ponte natalizio,» spiegai diplomatica.
Sbirciai la reazione di Simone da sotto le mie ciglia, abbassando un po’ lo sguardo e fingendo sonnolenza, ma lui non fece una piega, anzi, sorrise. Aveva forse capito che il mio era soltanto un bluff? Che alla fine, come tutte quelle giraffone che mi stavano tanto sul cavolo, anche io avevo ceduto al suo strano fascino?
«Sono felice che tu sia così responsabile.» Allungò una mano e scostandomi un ciuffo di capelli davanti al viso. «Buonanotte, avvocato.» Si voltò dall’altra parte del letto, dandomi le spalle.
Rimasi a fissare la sua schiena per i successivi dieci minuti, col cuore che batteva all’impazzata all’interno della gabbia toracica e una strana sensazione di calore in tutto il corpo. Non seppi se si era trattato della trapunta di piume d’oca o di qualcos’altro.
Magari la nuova sensazione di avere qualcuno accanto, di essere importante, di poter condividere qualcosa non solo per interesse.
Buonanotte, Simo.
Mi addormentai col pensiero che per quanto quel ragazzino fosse insopportabile, immaturo, incosciente e tutti gli annessi e connessi, ormai era difficile continuare a dire che non mi fossi inspiegabilmente legata a lui.
C’era qualcosa che mi aveva colpito, dalla sera della festa a Cambridge, ed era come se fossi finita in una specie di rete: più tentavo di districarmi, di dimenticarlo, di separarmi da lui, e più le maglie mi si stringevano addosso, intrappolandomi.
 
Se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella volta non si trattò affatto di una buona giornata. Mi svegliai con un forte mal di testa, a causa della notte passata a vagare per tutta la casa, inoltre era come se mi sentissi oppressa da qualcosa.
Spalancai le palpebre e mi stropicciai gli occhi, non riconoscendo affatto i contorni della mia stanza da letto. Magliette lanciate sopra le sedie, calzini sparsi a terra, riviste che penzolavano dagli scaffali. Quella specie di tugurio poteva appartenere ad una sola persona: Simone.
Non appena realizzai cosa fosse successo la notte prima, sentii una forte scarica di adrenalina in tutto il corpo e mi accorsi finalmente di avere un altro essere umano avvinghiato addosso. Con la coda dell’occhio scorsi un ciuffo di capelli di Simone che mi solleticavano la nuca e infatti quel demente mi si era appiccicato durante il sonno come un cucciolo di koala.
Ci sarebbe voluta soltanto tutta la mia forza di volontà per non rovesciargli addosso tutto il letto, facendo svegliare Celeste di soprassalto.
Perché dovevano capitare tutte a me? Non era bastato l’imbarazzo della sera prima? Evidentemente il karma si era accanito contro di me per qualche assurdo motivo.
Con un enorme sforzo, tentai di girarmi in modo da non dargli le spalle e di divincolarmi da quell’abbraccio da piovra. Ci riuscii al terzo tentativo, facendo traballare un po’ il materasso ma Simone sembrò non accorgersene.
Dormiva come un ghiro.
Purtroppo non avevo fatto i conti con l’effetto del suo viso con la prima luce del mattino. Quando dormiva, dimostrava ancora meno anni. Sembrava che il tempo non fosse mai passato per lui, che l’avesse congelato all’età di diciassette anni e lì si fosse fermato, dandogli per sempre l’aspetto di un adolescente.
Le labbra semi dischiuse a lasciare intravedere il bianco degli incisivi, un ciuffo di capelli castani che gli ricadeva sul viso addormentato e quelle grandi mani avvolte sui miei fianchi. Potevo sentirne il calore attraverso la stoffa del pigiama, quasi a bruciarmi la pelle e a marchiarla.
D’improvviso persi un battito perché lo sentii muoversi leggermente, ma subito dopo sembrò di nuovo addormentato. Evidentemente era stato un movimento involontario durante il sonno.
Con la gola secca, mi trovai ad osservarlo ancora, sempre più vicino.
Mi sentivo in colpa per quello che stavo facendo, per l’ingordigia con cui il mio sguardo sondava ogni suo particolare. Dalle spalle larghe alle braccia lunghe e affusolate, con le vene sporgenti che sparivano al di sotto della trapunta, a stretto contatto col mio corpo.
Con James non avevo mai raggiunto questo tipo d’intimità, perché non ce n’era stata occasione. O meglio, una volta mi aveva invitato a casa sua ma Simone mi aveva fatto cambiare idea senza chiedermi nulla. Soltanto il suo sguardo afflitto mi era bastato a rinunciare a quell’invito.
Era come se il calciatore avesse uno strano potere sulla sottoscritta, nonostante avessi sempre creduto di poterlo rigirare a mio piacimento. Avevo dato per scontato che la sua professione lo rendesse un po’ a corto di acume, invece lui avrebbe anche potuto frequentare Cambridge, come la sottoscritta, ma la passione per quello sport lo aveva condotto da un’altra parte.
Liberai una mano da sotto le coperte e la passai impercettibilmente sul suo viso, studiandone i contorni ancora una volta, quasi come se fosse impossibile resistere a toccare quella pelle così liscia e bianca, quasi di porcellana.
Gli scostai quella ciocca ribelle di capelli dal viso e avvertii distintamente il suo profumo sparso sul cuscino. Non si trattava di qualche fragranza famosa, come Calvin Klein o roba simile, ma proprio l’odore che emanava la sua pelle, quel tipo di sostanza che inizialmente contraddistingue la persona, ma poi diventa un’abitudine sentirla attorno a sé.
A cosa stai pensando, Ven? Ti piacerebbe non sentire più quel profumo?
Quel pensiero pungente mi fece ritrarre immediatamente la mano dal viso di Simone, perché altrimenti mi sarei potuta bruciare con le mie stesse mani. Mi faceva male tutto quello, tutta la situazione che si stava instaurando tra me e Simone. Stavo mettendo tremendamente a rischio tutto il mio lavoro, tutto ciò per cui avevo fatto degli enormi sacrifici e avevo lasciato la mia stessa casa.
Per cosa, poi? Avrei mandato la mia carriera a rotoli per qualcuno che non sapeva nemmeno prendersi le proprie responsabilità, che in ballo aveva una causa di dubbia paternità?
Io avevo bisogno di stabilità, di qualcuno capace di darmi una certa sicurezza. Ormai ero troppo grande per vivere ancora sul filo del rasoio, di una relazione altalenante.
Decisi di alzarmi, di allontanarmi di lì il più presto possibile prima che potessi impantanarmi ancora di più con le mie stesse mani. Quella situazione mi stava sfuggendo di mano, con Simone non riuscivo ad essere me stessa, a tirare fuori quel muro che mi permetteva di essere così fredda e distaccata.
Era come se lui riuscisse a scavalcarlo, a passarvi oltre senza alcuna difficoltà.
Proprio quando mi voltai per scendere dal letto, sentii le sue braccia stringere con forza trattenendomi al mio posto. Divenni letteralmente una statua, completamente immobile, soprattutto quando Simone si avvicinò con tutto il suo corpo, facendolo aderire al mio.
«Buongiorno,» mi soffiò nell’orecchio, facendomi venire la pelle d’oca. «Dove pensavi di scappare?» ridacchiò.
Tentai di sfuggire al suo sguardo ma non ci riuscii. Lo cercai poco dopo qualche secondo, troppo affamata da quegli occhi incredibilmente scuri ed espressivi. Stava diventando un’ossessione, una droga a cui non riuscivo a resistere.
«Devo andare al bagno,» mentii, pur di andarmene da lì.
Sapevo che se fossi rimasta almeno qualche altro minuto gli avrei dato la possibilità di scorgere un lato di Venera che non avevo mai fatto vedere a nessuno. Ero troppo debole, avrei dovuto riprendermi e riacquistare un po’ della mia consueta acidità.
«Bugia,» disse lui, ridendo e fissandomi con quei maledetti occhi.
Lo odiavo. In quel momento avrei voluto urlargli contro di lasciarmi stare, di togliere quelle mani calde e accoglienti dal mio corpo. Lo avrei voluto maledire di essersi rivolto al mio stesso studio. Per colpa sua mi stavo lentamente disintegrando.
Mi guardò ancora una volta, ma serio. Era così bello, perfino la mattina appena sveglio e con lo sguardo assonnato.
Senza aggiungere nient’altro si avvicinò lentamente e premette le sue labbra sulle mie, senza forzarmi. Lo fece di proposito, perché aspettava una mia reazione negativa che ovviamente non arrivò. Era impossibile che arrivasse.
Da quando eravamo stati interrotti dall’arrivo improvviso di Leonardo e Celeste, era come se mi fosse mancato qualcosa.
Allungai una mano e intrecciai le dita con i suoi capelli, così morbidi e setosi, mentre arrendevole schiudevo le labbra e gli permettevo di infilare la lingua che andò subito a lambire la mia. Nessuna parte di me si ribellò a quell’intrusione, non ve n’era motivo, non dopo che segretamente avevo serbato quel desiderio da tempo.
Il suo profumo mi penetrò con forza nelle narici, ottenebrandomi i pensieri, mentre le nostre bocche si rincorrevano tra i baci. Simone si fece più intraprendente e mi schiacciò sotto di sé, non facendo tanta pressione.
Si scostò da me per prendere fiato e per guardarmi negli occhi, quasi sicuramente annebbiati dalla passione.
«Devo prendere nota che la mattina presto sei decisamente più arrendevole,» ironizzò malizioso, sfoderando un sorriso birichino.
Sorrisi anche io, visto che ormai non potevo più nascondere l’attrazione che provavo nei suoi confronti. «Sarà che il sonno m’intontisce. Ti consiglio di approfittarne.»
Cosa hai fatto alla vecchia Ven, quella responsabile e matura? Chi è quest’essere malizioso e arrendevole?
Ignorai il mio Cervello e accolsi di nuovo le labbra di Simone sulle mie, la sua lingua calda che si muoveva tra le mie labbra affamate. Sentivo tutto il peso del suo corpo sul mio e non mi dispiacque, anzi. Era davvero troppo tempo che non mi buttavo in una qualsiasi relazione e per quanto fossi stata impegnata col lavoro, adesso ne avrei pagato le conseguenze.
Il mio corpo bramava quel peso e quel calore più di ogni altra cosa, quasi si protendesse verso di lui a cercarlo quando mancava.
Ma in quel momento, mi domandai, perché tutto quello non era successo prima con James? Per quale motivo non avevo avvertito lo stesso bisogno, quasi animale, di lanciarmi tra le sue braccia. Forse perché Simone era qualcosa di instabile, di proibito, qualcosa da cui mi ero sempre ben vista?
Tra un bacio e l’altro avvertii le mani di Simone che si facevano spazio tra le pieghe del mio pigiama, sollevandone il bordo e cercando avide il contatto con la mia pelle.
Erano bollenti e tutto il mio corpo reagì con un lungo e profondo brivido.
Simone spostò le labbra e andò a torturare un lembo della mia pelle direttamente sotto l’orecchio. Incapace perfino di pensare, mi limitai a fissare il soffitto in balia delle sue mani morbide, ricordandomi solo di respirare.
Ero in affanno e sentivo che prima o poi il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto.
«D-Dovremmo fer-fermarci…» annaspai, in un momento di lucidità che svanì quasi subito.
«No,» rispose lui secco, dicendomelo direttamente nell’orecchio come a volermi far intendere quella parola alla perfezione.
Avrei dovuto insistere, anche perché ero l’unica che rischiava grosso da tutta quella storia.
«L-La causa,» riuscii ad aggiungere, cercando di fargli ritrovare un po’ di sale in zucca.
Simone si avventò con forza e decisione sulle mie labbra, facendomi tacere a suon di baci caldi e umidi. Non mi sarei aspettata che si mettesse da parte, che, come James, razionalizzasse sul problema e trovasse una decisione diplomatica.
Lui era puro istinto e nient’altro.
«Ti voglio,» disse imperativo, arrivando a slacciarmi perfino il reggiseno. «Ora.» Gli permisi di alzarmi la maglietta, di cominciare a lasciare una scia di baci umidi che partiva dal mio ombelico e risaliva fino a lambirne il seno.
Lanciai un urlo muto verso il cielo quando le sue labbra toccarono quel bottoncino di carne delicato e inarcai la schiena, cercando con le mani i suoi capelli e affondandovi le dita con forza. Stavo rischiando troppo, gli stavo concedendo una libertà che difficilmente avevo dato ad un ragazzo.
Ma lui non è uno qualsiasi.
Era piombato nella mia vita come un uragano, e con la stessa intensità aveva spazzato via ogni mia fermezza. Aveva scavalcato il muro ed era riuscito ad arrivare a me.
«S-Simo…» gemetti affannata, senza sapere cosa dire né cosa fare. Era come tornare alla mia prima volta, tra l’imbarazzo di non saper dove mettere le mani.
Invece lui era così esperto, così sicuro di sé nei movimenti e nelle reazioni che il mio corpo avrebbe avuto. Perché Simone ci era abituato, con tutte quelle che si portava a letto quasi ogni sera.
Sentii il mio cuore fare un tuffo verso il basso, realizzando che sarei potuta essere semplicemente uno dei suoi passatempi. Una valvola di sfogo per quella specie di castità che suo fratello e James gli avevano imposto.
Senza che me ne accorgessi, una lacrima rotolò giù dal mio occhio sinistro, infrangendosi sul dorso della mano di Simone che subito si fermò e cercò i miei occhi.
Si avvicinò e mi posò un bacio sul mento, poi sul naso e infine in fronte.
«Che hai?» mi chiese preoccupato ed io rimasi quasi totalmente imbambolata da quel suo strano comportamento.
«Niente,» mentii, asciugandomi velocemente l’angolo dell’occhio. Non avrei certo potuto ammettere che avevo paura di essere una delle sue tante giraffone, anche se non ero né una modella, né tanto meno una bellezza da copertina.
Simone si accigliò, così si accomodò meglio sul mio corpo, posando la testa sul mio seno scoperto.
«Stai mentendo, ormai lo capisco quando mi racconti bugie,» disse sicuro, neanche fossimo sposati da dieci anni.
Come pretendeva di conoscermi dopo nemmeno un mese di convivenza? Cosa ne poteva sapere di me?
«Ti ho detto che non è niente, poi non devo certo spiegarlo a uno come te,» sibilai, senza pensare. Non sapevo nemmeno cosa volesse da me, se il suo scopo era solamente quello di portarmi a letto e nient’altro, se ero solo un’altra tacca sul suo bastone delle scopate. E lui pretendeva di conoscermi?
Simone s’indispettì, sollevandosi dal mio corpo e guardandomi. «Uno come me?» mormorò offeso. «Vorresti dire che non sono alla tua altezza?»
C’era aria di litigio quella mattina, così mi alzai a sedere anche io, abbassandomi la maglietta del pigiama e riallacciandomi il reggiseno. Simone non aveva capito che il problema era proprio l’inverso, che io stessa avevo il terrore che mi stesse usando.
«Sei abituato ad un certo tipo di donne, o sbaglio?» gli rinfacciai piccata.
Simone s’adombrò, fissandomi da sotto quelle lunghe ciglia scure. Aveva ancora i capelli spettinati dalla furia con cui mi ci ero aggrappata e il respiro affannato.
«Anche tu sei abituata ad un certo tipo di uomini…» lasciò la frase in sospeso di proposito, riferendosi a James.
Dio, quanto lo odiavo, quando faceva lo stupido in questo modo! Possibile che non ci arrivasse? Che pensasse davvero di non essere alla mia altezza?
«Senti, finiamola qui sennò svegliamo anche tuo cugino e Celeste,» dissi io, diplomatica, scendendo dal letto.
«Sai che mi importa,» mormorò incazzato.
«Sei proprio un bamboccio capriccioso,» gli dissi, per l’ennesima volta.
Lui mi fulminò con lo sguardo. «E tu sei una vecchia acida che entrerà in menopausa a trent’anni. Sbrigati a fare figli, altrimenti le tue ovaie andranno in sciopero preventivo.»
Soltanto noi potevamo svegliarci tra i baci e finire a fare colazione lanciandoci parolacce e maledizioni.
«Quanto sei cretino.»
«Acida.»
«Vedi di crescere.»
«E tu tieni a bada Pisellino se non vuoi ritrovarti ragazzo padre.»
Simone sorrise malizioso, inchiodandomi sulla soglia della porta semiaperta. Si abbassò quel tanto da immobilizzarmi con quel suo sguardo brevettato.
«Fino a poco tempo fa non ti dispiaceva,» sussurrò malizioso.
Gli posai una mano sul petto per allontanarlo, anche se in verità non riuscivo a smuoverlo di un millimetro.
«Nemmeno a te dispiaceva,» risposi sprezzante. «“Ti voglio. Ora”» gli scimmiottai dietro, prendendolo in giro.
Lui mi guardò di traverso, cercando il modo di rispondermi per le rime, quando aprii del tutto la porta e ci ritrovammo davanti gli occhi azzurri e vispi di un’anziana signora dai candidi capelli bianchi.
Aveva un volto familiare ma non mi era mai capitato di incontrarla. Continuava a guardarci con un sorriso smagliante che andava da orecchio ad orecchio.
Simone era bianco come un lenzuolo. «Nonna,» disse solamente, quasi come un lamento ed io rimasi immobile.
Nonna? Ma quella casa era una specie di via vai di parenti?
Gli occhi azzurri dell’anziana donna si spalancarono colmi di felicità. «Pisellino della nonna! Ho preso il primo aereo e sono subito passata a trovare il mio bel nipote!» trillò estasiata, aprendo le braccia e avvinghiandosi al metro e novanta di Simone.
Lui mi guardò terrorizzato, sperando corressi in suo aiuto ma non sapevo davvero cosa fare. Celeste mi aveva parlato della famosa nonna Annunziata, la proprietaria del negozio di fiori in cui Leonardo aveva detto di lavorare all’inizio della loro storia, ma non mi sarei mai immaginata di trovarmela davanti agli occhi, per giunta con la piacevole sveglia di quella mattina.
«Nonna, per favore…» si lagnò Simone, tentando di divincolarsi dalla stretta della donna, ma il poveretto sembrava rinchiuso in una morsa d’acciaio.
«Oh, lascia ad un’anziana signora i suoi diletti. Non ti vedo da quest’estate!» si lamentò, allentando la stretta.
Simone si massaggiò le braccia indolenzite. Sapevo bene come potevano essere spossanti gli abbracci di una nonna, anche io a Tivoli ne avevo lasciate due ben intenzionate e rivedermi almeno due volte l’anno.
«Nonna lo sai che la squadra mi tiene impegnato,» si giustificò lui.
Nonna Annunziata scosse la testa convinta. «No, no. Ormai non me la bevo più la scusa del lavoro, bello mio.» Spostò quei profondi occhi azzurri su di me e sorrise. Quel gesto mi ricordò molto quello di Sofia. «Ora capisco il perché non hai mai tempo per la tua nonnina,» sorrise. «Mi vuoi presentare questa bella signorina?»
Sorrisi per la scenetta comica, soprattutto quando notai che Simone era all’apice dell’imbarazzo. Non lo avevo mai visto così e mi fece molta tenerezza.
Era proprio un bambinone.
Sentimmo lo scatto metallico della porta in fondo al corridoio e ben presto Celeste e Leonardo fecero la loro comparsa.
«Nonna!» gridò la mia migliore amica, appena vide l’anziana donna. Le corse in contro euforica, gettandole le braccia al collo e dicendole che non si sarebbe mai aspettata di trovarla lì.
«Chicco e la mia piccola Celeste!» mormorò la nonna estasiata. «Finalmente passeremo delle vacanze natalizie tutte in famiglia.»
Ci spostammo poco dopo a fare colazione, mentre nonna Annunziata, per nulla stanca del viaggio, si mise ai fornelli e cominciò a preparare le sue famose frittelle. Celeste era al settimo cielo e non la finiva di raccontare all’anziana donna la tesi che aveva dato da qualche mese.
Leonardo si infilava tre frittelle in bocca contemporaneamente, spruzzandosi la cioccolata direttamente dal tubetto. Evidentemente il fatto di essere fighi nella famiglia Sogno era direttamente proporzionale alla quantità di cibo che si ingeriva.
L’unico che aveva un’aria da funerale era Simone. Se ne stava ad un angolo del tavolo e continuava a giocherellare col cibo, senza mangiarne nemmeno un pezzetto.
Era troppo strano.
«Insomma, tesoro,» disse Annunziata rivolgendosi a me, «da quant’è che tu e il mio piccolo maschietto state insieme?» mi chiese ed io per poco non mi strozzai con la colazione.
Tossii un paio di volte, anzi, anche tre, poi mi avventai sulla tazza di latte per cercare di mandar giù il boccone senza vomitare.
Simone non riuscì a trattenere una risatina. Evidentemente aspettava solo una mia figura di merda per ritrovare il buonumore. Maledetto.
Celeste, invece, parve sorpresa. «Perché dici così, nonna?» le domandò incuriosita.
La donna girò le tre frittelle che aveva sul fuoco, facendole roteare per aria come una cuoca provetta, poi tornò a sbattere le uova. «Beh, stamattina li ho incontrati che uscivano dalla stanza di Pisellino, ho pensato che convivessero visto che avevano dormito insieme,» rispose semplicemente.
«Nonna, non mi chiamare così!» disse Simone, infastidito.
Leonardo cominciò a ridere a crepapelle, poi rischiò di strozzarsi con una frittella.
La mia migliore amica mi fissò con quei grandi occhi azzurri completamente sgranati. «Dice davvero?»
«Te la fai con le secchione, cuginetto?» ridacchiò Leonardo, rivolgendosi a Simone che gli lanciò uno sguardo glaciale.
Né io né lui avevamo modo di rispondere a quella domanda. Ci guardammo per un attimo e per quanto fosse difficile, rimasi a corto di parole. Cosa avrei potuto dire a Celeste? Che nonna Annunziata si stava inventando tutto? Ci aveva sorpresi ad uscire dalla stanza di Simone, dopo che avevamo dormito insieme – e non solo –, ma se le avessi detto la verità avrei anche dovuto ammettere che provavo una qualche specie di attrazione per il calciatore.
Che razza di persona ero diventata?
«Ven era venuta a svegliarmi, tutto qui. Ha dormito sul divano stanotte,» concluse Simone, molto più rapido e più sveglio di me ad inventare una scusa.
Nonna Annunziata sembrò quasi delusa da quella notizia, ma lo nascose quasi subito. «Quindi non state insieme?» s’informò la mia migliore amica.
Simone sfoderò quel solito sorriso sbieco. «Ti pare che Simone Sogno possa abbassarsi a frequentare una nerd che passa la maggior parte del tempo a sgobbare sui libri o ad ammazzarsi di lavoro? Tutta movida qui, sorella.»
Celeste rimase di sasso per la superficialità di Simone. Le avrei voluto tanto dire che alla fine ci si sarebbe abituata, era fatto così e non poteva cambiare.
«Sorella?» ripeté sbigottita.
«Lascialo perdere,» le dissi io, tornando a mangiare.
Mi ritrovai ben presto a fissare lo sguardo azzurrissimo di nonna Annunziata, che mi scrutava attentamente senza aggiungere una parola. Era come se al posto delle iridi avesse due raggi X con cui riusciva a leggermi dentro con una facilità disarmante.
Lo sa. Non si è bevuta la scusa di Simone, lei sa che tra voi due c’è dell’altro.
Ora ne avevo la conferma.
Il suono del citofono interruppe i miei pensieri, così andai ad aprire e la voce squillante di Sofia per poco non mi fece perdere l’udito. Poco dopo suonò il campanello e non appena il portone si aprì, la piccola furia bionda si precipitò a salutare Celeste e Leonardo.
Dietro di lei apparve un Ruben abbastanza imbarazzato. La dolcezza di quel ragazzo era merce rara e anche se ancora mi era difficile credere che una ragazza come Sofia potesse stare insieme a quella specie di talpa, i due sembravano perfetti.
«Sofi!» gridò la mia migliore amica, abbracciando la cugina del suo ragazzo.
«Cel, cuginetto!» trillò lei, saltando addosso ad entrambi.
«Sofia!»
Dopo una serie di convenevoli, tra cui una scena di commozione durante l’incontro tra Ruben e Leonardo che era da un po’ che non si rivedevano, tornammo a fare colazione.
«Posso fare due osservazioni?» se ne uscì Simone.
«Che vicino a te siede un bel ragazzo, nonché calciatore in lizza per il Pallone d’Oro?»
Il cugino più piccolo lo linciò con un’occhiata. «Ti piacerebbe.» rispose piccato. «Mi è sorto un dubbio. Sbaglio o questa casa è diventata una sorta di albergo? Prima che l’elfo venisse ad abitare qui, me ne stavo tranquillo e beato nella mia solitudine. Ora, un giorno sì e l’altro pure mi ritrovo la casa stracolma di gente!» protestò.
«Simone William Marco Aurelio Sogno!» gridò la nonna sconvolta. «È così che tratti la tua famiglia? Dovresti essere contento e ringraziare questa bella signorina che ti ha permesso di riavvicinarti a tutto il tuo parentado!»
«Giusto!» sorrisi io.
«In effetti, prima dell’arrivo di Ven venivo soltanto io a trovarti. Molto spesso trovavo l’appartamento vuoto e me ne ritornavo indietro senza nemmeno averti visto,» aggiunse Sofia.
«Davvero sei così orso, Simone?» domandò Celeste curiosa.
Lui si sentì attaccato, così comincio ad issare su, mattone dopo mattone, quel grande muro che ormai era il mio e il suo marchio di fabbrica.
«Non sono un orso. È questa famiglia che mi opprime. Leonardo non fa testo, lui è figlio unico quindi non puoi capire,» rispose sincero.
«Vuoi dire che ti opprimiamo?» chiese Sofia, offesa.
Simone sbuffò stufo. Cominciava a intravedersi un lato di lui che raramente permetteva di trapelare.
«Lasciamo perdere,» tagliò corto, alzandosi dalla sedia e tornandosene in camera.
«Ehi, cugino!» intervenne Leonardo, fermandolo a metà strada.
«Che vuoi?»
«Qual era la seconda cosa?» gli chiese. «Hai detto di dover fare due osservazioni.»
Simone parve ricordarsi soltanto in quel momento di averlo detto. Sfoderò un sorriso malandrino e mi fissò. «L’altra osservazione è che sono le nove meno un quarto, Lil’Elf.»
Sconvolta mi voltai verso il grande orologio a muro e divenni bianca come un fantasma.
«Porca miseria!»
Mi fiondai verso il bagno per prepararmi prima che Mr. Abbott trovasse una scusa valida per licenziarmi.


Allur, mi nascondo immediatamente perché vi PROMISI (?) il capitolo tipo 516516516146 mesi fa (mercoledì)
e invece sto qui a postarvelo Sabbbbbbato   VEGGOGNA!
Cmq
, direi che la situazione in casa Sogno è più movimentata del solito e la povera Vennie si ritrova in mezzo a "due fuochi"
che sarebbero Leonardo e Simone (però io li adoro XD)
Ma quanto è cucciolo quando la chiama Lil'Elf?? ç_ç vorrei tanto che Simo fosse vero e non solo di carta e inchiostro!
Babbé, smettiamola di compiangerci...
Dopo mi metto d'impegno e rispondo alle recensioni e PRIMA O POI riuscirò a scrivere l'ultimo capitolo di CIUS
anche se comprendo che è stato abbandonato, vabbé.
Gli voglio cmq dare una degna conclusione :3

Se di tanto in tanto vedere che pubblico spornazzate, non preoccupatevi! C'è il p0rn!fest *sia benedetto* indetto da fanficitalia
e alcuni prompt sono talmente awwwwwwwwwwwwww che devo scriverci ù_ù
Bene, alla proxxxxima! E BUON ANNO A TUTTE! (in anticipo)
-Marty

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 15 ***


CAPITOLO 15
betato da quella santa donna di nes_sie
 
L’ultimo giorno di lavoro prima delle vacanze natalizie fu un caos. C’erano pratiche da archiviare ovunque, la fotocopiatrice era impazzita e noi stagisti venivamo mandati a destra e a manca neanche fossimo stati ad una maratona.
Yuki era sudata e appiccicosa, infatti di tanto in tanto cercava di tamponarsi le chiazze di sudore sulla camicetta con dei fazzolettini profumati. Gli altri soci dello studio avevano passato troppo tempo a bighellonare, ed ora ci ritrovavamo in ritardo con alcune archiviazioni da fare entro la fine dell’anno corrente. Il Tribunale le aveva richieste e così eravamo stati avvertiti che quel giorno sarebbe stato l’ultimo per la scadenza di quei contratti.
«Clarck contro Van Bier va fotocopiato e inserito nella banca dati,» mi disse Geoffrey, l’avvocato penalista che alle volte prendeva anche le veci di Mr. Abbott.
«Faccio subito,» dissi, aggiungendo il plico alla pila che mi portavo dietro da quella mattina.
Per fortuna ero riuscita a prepararmi in tempo, sfiorando il record, e mi ero diretta in ufficio quasi correndo. Appena entrata era scoppiato il putiferio.
Avevo avuto pochissimo tempo per respirare, visto che le scadenze andavano rispettate obbligatoriamente, così non ero nemmeno passata nell’ufficio di James per salutarlo. Più volte avevo posato la mano sul pomello della porta, ma ero stata sempre bloccata da qualcuno che necessitava il mio aiuto.
L’intera mattinata passò in questo modo e anche gran parte del pomeriggio. Verso l’ora del the, noi assistenti ci ritrovammo nel salottino relax con le gambe gonfie e il fiatone, completamente distrutti.
«Dovrebbero pagarci di più,» si lamentò uno.
«Non ho sudato tanto nemmeno alla finale di Badminton al circolo,» borbottò un altro.
«Per me dovreste ringraziare di essere stati almeno presi,» intervenne Yuki, tirando fuori l’ultima salviettina rinfrescante del pacchetto. «Questo è uno degli uffici più importanti di Londra e c’è chi farebbe carte false pur di entrare.»
Roteai gli occhi verso l’alto, sventolandomi con un volantino. L’idea di tornare a casa era allettante, soprattutto visto che l’indomani sarebbe stata la Vigilia di Natale, ma quando ricordai che casa di Simone era diventata il ritrovo della famiglia Sogno allargata, mi passò la voglia.
Ero felice di riavere la mia migliore amica con me, su questo non discutevo, ma avevo bisogno dei miei spazi e quelle feste si stavano trasformando in una specie di incubo.
Niente più privacy, niente più segreti.
E niente più risvegli come quello di questa mattina.
La gola mi si seccò tutta insieme e annaspai in cerca d’aria. La stanza divenne improvvisamente più calda, così aumentai la forza con cui muovevo il volantino. Lo sguardo scuro di Simone era come se fosse tatuato per sempre nella mia memoria, perfetto.
Sentivo ancora la sua lingua sulla mia pelle, i suoi baci delicati e quel suo respiro caldo che mi aveva solleticato l’orecchio. Non avrei dovuto farmi distrarre da certe fantasie, soprattutto in quel periodo stressante; eppure da quando avevo lasciato perdere la storia con James, Simone era subentrato come uno tsunami.
«Ven, stai bene? Sei tremendamente rossa in viso. Forse dovresti prenderti il pomeriggio libero,» mi suggerì Matt, ed io tentai di nascondere quell’evidente imbarazzo.
«Sì certo, sono solo accaldata!» mi affrettai a scusarmi.
Avrei dovuto essere più accorta, soprattutto quando si trattava di mettere a nudo la mia vita privata. Dovevo tenere a mente che sia per colpa di Simone che di Jamie, il mio praticantato era sospeso su un filo sottilissimo che rischiava di spezzarsi da un momento all’altro.
Se soltanto uno di questi individui avesse sospettato qualcosa, avrei finito per tornarmene a Roma con il primo volo disponibile.
D’improvviso la porta della sala ricreazione si aprì e James fece il suo ingresso senza indossare la giacca, con le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci.
«Lì fuori è una giungla!» sorrise, rivolgendomi uno sguardo sincero.
Il resto degli stagisti annuì convinto, mentre all’interno della saletta calò un silenzio imbarazzante intervallato unicamente dallo sventolio del mio volantino.
Feci di tutto per evitare di incrociare lo sguardo di James, soprattutto quella mattina che ero ancora piuttosto vulnerabile. Da quando ci eravamo ufficialmente lasciati, dopo essere stati insieme di nascosto, non avevo perso tempo e quel tira e molla con Simone era andato sempre più peggiorando.
Il pensiero che Celeste potesse scoprire ogni cosa mi terrorizzava.
Non tanto perché mi avrebbe potuta giudicare, in fondo si trattava della mia migliore amica, avrebbe capito. Piuttosto ero spaventata da come avrebbe potuto reagire, soprattutto dopo questa lontananza. Noi che eravamo abituate a sentirci ogni giorno, per raccontarci anche le più autentiche cazzate. Ora io le avevo nascosto tre delle cose più importanti da quando mi ero trasferita lì.
Avevo paura che ciò avrebbe incrinato per sempre il nostro rapporto.
Dopo qualche minuto si sentì la voce infuriata di uno dei soci dello studio, che richiamava all’ordine gli stagisti che avevano esaurito la pausa.
Feci per alzarmi, visto che facevo parte della “troupe” che in quel venerdì nero – se così si poteva chiamare – avrebbe svolto altri milioni di fotocopie, quando fui trattenuta da James.
L’avvocato richiuse la porta dopo che gli altri se ne furono andati e mi sorrise, genuino. Fu una stilettata dritta al cuore, proprio perché non mi sarei mai aspettata che James potesse ancora avere tutto questo effetto su di me.
Ora che hai Simo dalla tua parte.
No! Quella storia era solo uno sbaglio, iniziata nel peggiore dei modi e avrei dovuto troncarla immediatamente, appena tornata a casa.
«Oggi è l’ultimo giorno,» sorrise James, lievemente imbarazzato. «Cosa fai durante queste vacanze? Tornerai a casa?» mi chiese.
Scossi la testa, guardano fuori dalla finestra. Tutto per non incontrare quelle iridi azzurre che mi avrebbero fatta capitolare. «Non penso. Ho troppo da fare qui a Londra, poi sono arrivati degli amici che non vedo da tanto tempo.»
«Capisco.»
Il silenzio tornò a governare quelle quattro pareti tinteggiate di giallo pallido, ed io non feci nulla per interromperlo. Cosa avrei potuto aggiungere? Davvero voleva che gli chiedessi di passare il giorno di Natale con me?
«Io credo che tornerò a Liverpool,» smozzicò lui. «Zio August e papà organizzano la solita rimpatriata con tutti gli Abbott sparsi per l’Inghilterra. Spero di sentirti il giorno di Natale, o la vigilia…» e lasciò appositamente la frase in sospeso.
Per quale motivo, dopo tutto questo tempo, James riusciva ancora a condizionare le mie emozioni utilizzando frasi così semplici e innocenti?
Niente “Ti voglio”, nessun morso o incontro violento di labbra.
Con lui era tutto fatto di sguardi e di frasi a modo, come un vecchio corteggiatore d’altri tempi.
«Certo, ci sentiremo,» gli dissi sicura.
Una telefonata non significava certo una promessa di matrimonio.
James si avvicinò di qualche passo ed il mio cuore cominciò a battere molto più velocemente di quanto mi sarei aspettata. Forse i sentimenti che provavo per lui non si erano del tutto sopiti, forse quella pausa che ci eravamo presi non sarebbe servita poi a tanto.
Per quanto potessi ignorarlo, buttarmi tra le braccia di Simone soltanto per lenire quella sua assenza, era del tutto inutile. Prima avrei finito il caso, prima saremmo potuti tornare insieme.
James si fermò quando fu davanti a me e frugò qualcosa nella tasca del suo completo elegante. Aveva ancora quello sguardo semi-imbarazzato di poco prima, che lo faceva somigliare ad un bambino troppo cresciuto.
Ne tirò fuori una scatolina di velluto rosso, con un grande fiocco argentato sopra. Me la porse sorridendo e augurandomi un timido “Buon Natale, spaghetti-girl”.
Afferrai il regalo con mani tremanti, realizzando forse troppo tardi che io non avevo nulla per ricambiare.
«N-Non dovevi…» soffiai imbarazzata.
Lui si portò una mano dietro la nuca e sorrise nervoso. «Ma dai, è una sciocchezza! Aprilo,» mi invitò.
Feci come mi aveva suggerito e aprii il cofanetto, rivelando un piccolo braccialetto d’oro bianco con un singolo ciondolo. Lo tolsi dalla scatola per osservarlo meglio e notai che il gioiello rivelava la forma di un piccolo martelletto da giudice.
«Così mi penserai anche quando saremo lontani,» mi disse lui, posandomi una mano sulla spalla.
«È bellissimo…» sospirai senza parole e lo indossai subito.
James allora ne approfittò e mi prese il mento tra le mani, abbassandosi quel tanto da sfiorare le mie labbra con le sue. Fu un bacio veloce, quasi impercettibile. Eravamo ancora in ufficio e chiunque sarebbe potuto entrare e scoprirci.
Però fu abbastanza.
Ritrovai quel suo calore, l’odore pungente del dopobarba e la morbidezza di quelle labbra che non aveva nulla a che vedere con quelle di Simone.
Stai facendo dei paragoni?
No, non ce n’era alcun bisogno. Ci sarebbe stato sempre prima James, prima di tutto ed io lo avrei aspettato. In qualche modo glielo avevo promesso.
«Buon Natale, Venera,» soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Gli carezzai la nuca con la punta delle dita. «Buon Natale, James.»
 
La Abbott&Abbott chiuse esattamente alle dodici spaccate, e tutti gli avvocati dello studio si salutarono e si augurarono buone vacanze sul porticciolo dell’edificio. Quella mattina erano caduti altri cinque centimetri di neve, facendo arrivare quel manto bianco fino a bagnarmi l’orlo dei pantaloni, infilati sapientemente dentro un comodo paio di doposci.
«Allora ci rivediamo il 28,» disse Carl.
«Buon Natale a tutti!»
Ognuno prese strade diverse. Io imboccai come mio solito Regent Street, diretta all’incrocio con Oxford Circus. Non vedevo l’ora di tornare a casa, di avvolgermi in una comoda coperta di pile e di sbracarmi sul divano pronta per una maratona di The Deep End.
Poi ricordai che a casa di Simone era arrivato l’uragano “Sogno”, con tanto di nonna Annunziata impicciona e paladina delle storie d’amore celate.
Sbuffai sonoramente e m’incamminai a passo svelto. Nonostante la neve, era una bella giornata e le temperature rasentavano i -5°C. Del resto, Londra imbiancata dalla neve era uno spettacolo inimmaginabile e per quanto adorassi la mia città natale, la capitale inglese era al secondo posto, se non addirittura a pari-merito.
Svoltai su Piccadilly Circus, stando attenta a non capitombolare su un grosso lastrone di ghiaccio e mi incamminai verso la palazzina. Frugai all’interno della borsa per cercare le chiavi, quando sentii il braccialetto di James tintinnare.
Mi fermai per un attimo ad osservarlo.
Era bello e molto di classe. James mi aveva fatto dono di quel pensiero incondizionatamente, senza che ce ne fosse motivo. Lo aveva fatto per lasciarmi un ricordo di sé, un segno del suo passaggio per quando sarebbe partito per Liverpool.
Ed io invece di aspettarlo lo avevo tradito.
Ehi, svegliati. Mica state insieme!
Nonostante gli avvertimenti del mio Cervello, mi sentii comunque in colpa e sempre più determinata a troncare di netto qualsiasi cosa potesse nascere con Simone.
D’altronde era pur sempre un Sogno, quindi sinonimo di inaffidabilità. Io ero il suo avvocato e lui aveva una causa di dubbia paternità in corso.
Realizzai che nemmeno Beautiful sarebbe stato in grado di eguagliare la mia vita.
Scorsi il portone della palazzina dietro l’angolo, così mi apprestai ad accelerare il passo, quando vidi una figura incappucciata fino alla punta dei capelli che usciva di gran corsa.
Quello strano cappello con le orecchie lo avevo già visto da qualche parte…
«Simone!» gridai, andandogli in contro e fermandolo.
Il ragazzo imbacuccato si bloccò di colpo, mi fissò attraverso gli spessi occhiali da sole, poi come se nulla fosse proseguì di gran lena. Mi ritrovai ben presto a scapicollarmi pur di stargli alle costole, con quelle gambe magre e chilometriche faceva dei passi talmente lunghi che cominciai a sudare.
«Fermati deficiente! Dove cavolo stai andando?» gli urlai dietro, col fiato corto.
Dio, ero troppo vecchia per star dietro a quel moccioso.
Simone non accennava a rallentare il passo, nonostante di tanto in tanto si voltasse a vedere se fossi ancora viva. Grazie tante!
«Smettila di seguirmi!» mi intimò, da dietro lo spesso strato di lana della sciarpa.
«Voglio sapere dove… stai andando!» ansimai.
Dopo tre secondi netti lo mandai a quel paese e mi bloccai nel bel mezzo del marciapiede, decisa a riprendere fiato. Sentivo l’aria gelida di quel Venerdì pomeriggio che mi graffiava fortemente la gola. Quel cretino non si meritava affatto la mia considerazione.
«Vatti a schiantare!» gli urlai dietro col fiatone.
Fu allora che Simone si bloccò e tornò indietro, sincerandosi se fossi morta o meno. «Hai resistito parecchio,» constatò divertito. «Considerata l’angolatura misera delle tue gambe.»
«Fottiti, spilungone,» ringhiai offesa.
Oltre ad avermi fatto fare la sudata più epica di tutta la mia intera esistenza, aveva davvero il coraggio di infierire?
Simone rovesciò la testa all’indietro e scoppiò a ridere fragorosamente. Lo fissai di traverso e per poco non gli diedi una spinta solo per farlo cadere.
Se lo sarebbe meritato, quel deficiente.
«Si può sapere dove cavolo te ne stavi andando? Lo sai che non puoi uscire a fare i tuoi porci comodi, sei sotto la mia supervisione!» gli ricordai.
Simone fece spallucce e continuò a sghignazzare. «Non sopportavo più di stare lì dentro. Odio il Natale,» bofonchiò.
«Ma come! È la festa preferita dai marmocchi!» ridacchiai, rispolverando una tenera allusione.
Il calciatore mi fulminò con uno sguardo. «Ciao,» disse e fece per andarsene ma io mi aggrappai al suo braccio neanche fossi un koala.
«Eh no! Ora ce ne torniamo su a casa, che sono esausta,» gli dissi.
Lui scosse la testa e tentò di liberarsi dalla mia stretta. «Non ci torno lì  dentro, con mia nonna che fa la comare con la tua amica e con mia sorella. Hanno costretto Leonardo ad addobbare l’albero e Ruben sta facendo i biscotti allo zenzero.» Fece una pausa. «Okay, forse Ruben è l’unico che si sta divertendo,» constatò.
Sgranai gli occhi immaginandomi perfettamente il mio ingresso nell’appartamento, con Celeste che mi piombava addosso pregandomi di aiutarla a scegliere quale punta sarebbe stata più adatta in cima a quello splendido abete di plastica.
Orrore.
«Okay, battiamocela,» dissi, incamminandomi al fianco di Simone lungo la strada innevata.
Riuscimmo a raggiungere Westminster Bridge a piedi piuttosto in fretta e non sentii nemmeno troppa stanchezza. Magari mi ero abituata a camminare con tutta quella neve sotto gli scarponi. Ci affacciammo sul ponte proprio quando il Big Ben segnalò che erano le dodici e mezza.
«Ho fame,» sentenziò Simone.
«E cosa ti posso fare io?» borbottai.
Simone si guardò in giro, poi vide una specie di chiosco aperto vicino al London Eye. «Vieni!» disse. Mi afferrò la mano e attraversammo la strada incurante delle poche macchine che attraversavano il famoso ponte.
«Ehi!» protestai, ma era del tutto inutile cercare di far cambiare idea a Simone.
Lui era come un uragano che ti travolgeva e ti strappava via dal tuo stesso corpo. Era impeto, istinto, sentimento allo stato puro.
Era un qualcosa che non si poteva imprigionare.
Me ne sarei resa conto soltanto col tempo. Ecco perché non era facile che si legasse profondamente a qualcuno. Lui sfuggiva ai legami perché non era fatto per essere intrappolato, costretto in qualche spazio angusto.
Le donne lo volevano tutto per loro, un trofeo da tenere nascosto e custodito. Invece lui aveva bisogno d’aria, aveva bisogno di volare, e quella situazione che lo vedeva costretto a casa lo faceva sentire come un canarino in gabbia che guardava il cielo attraverso le sbarre dorate.
Nessuno era capace di rinchiudere un’anima nata libera.
«Tieni!» mi disse eccitato, porgendomi una specie di wurstel infilzato in un bastoncino e cosparso di senape.
Lo fissai inorridita. «Che diavolo è?»
Simone fece spallucce. «Carne. È buono,» insistette, spingendolo sempre di più verso la mia bocca. Non sapevo se fidarmi di lui o meno. Lo annusai e dall’odore che emanava il mio stomaco reagì con un brontolio ben poco sommesso.
Lo addentai e tutto sommato era commestibile. Simone mi guardò e sorrise compiaciuto, continuando a mangiare il suo.
Mi ritrovai a pensare che tutto sommato la sua compagnia non era così spiacevole. Anche se il più delle volte lo trovavo davvero irritante, ero arrivata ad un punto in cui non riuscivo più a razionalizzare le mie emozioni.
Se mi trovavo in compagnia di James, Simone mi sembrava così inadatto, sbagliato, fortemente ingiusto e pendevo dalla parte dell’avvocato.
Se, invece, avevo Simone al mio fianco… a James non pensavo affatto.
«Ti va di andare lì sopra?» mi chiese d’improvviso lui, indicando con uno sguardo l’enorme ruota panoramica.
Deglutii a fatica un pezzo di quel gigantesco wurstel e le parole mi morirono in gola. «No?» chiesi dubbiosa.
Non è che soffrivo di vertigini, anzi, di solito l’altezza non mi faceva alcun effetto. Sentire però il cigolio sinistro di quella struttura mi metteva leggermente un po’ d’ansia addosso e Simone sembrò non tenerne per nulla conto.
«Dai, fifona!» sorrise, afferrandomi di nuovo la mano e trascinandomi su quel trabiccolo.
Comprò i biglietti e l’addetto ci aprì la cabina, invitandoci a sedere senza sporgerci troppo dal finestrino.
Non che ne avessi la minima intenzione, ovviamente.
«Pronta?» mi domandò il calciatore, eccitato.
Annuii con un enorme groppo in gola, poi la giostra partì cominciando lentamente a salire e permettendoci di ammirare l’intera panoramica della città.
Dovevo ammettere che era stupenda.
«Vieni Ven, guarda si vede casa nostra!» disse Simone, tirandomi forte verso il finestrino e facendomi spiaccicare la faccia sul vetro.
Era vero, si vedeva il balcone dove solitamente mi affacciavo per vedere la gente in strada.
Casa nostra.
Come una reminiscenza lontana, il mio Cervello mi ripropose quel particolare che evidentemente mi era sfuggito. Aveva davvero detto “Casa nostra”? Nostra, non sua… non casa, generico.
Nostra. Mia e sua.
Lo fissai con gli occhi sgranati e un enorme peso sul cuore. Quella situazione andava chiarita, doveva essere chiarita.
«Che hai?» mi chiese lui stupito. «Ho detto qualcosa di sbagliato?»
Abbassai lo sguardo e tornai a sedere. «Dobbiamo parlare,» gli dissi chiara.
Fu allora che Simone si tolse tutto il bardamento, compreso di cappello con le orecchie del cugino. Se lo rigirò tra le mani nervosamente, poi annuì.
«Tanto lo so cosa stai per dire, perciò è inutile che ne parliamo,» sospirò fissandomi truce.
«Ah sì? E cosa dovrei dire, di grazia?» lo rimbeccai.
Pensava davvero di poter risolvere tutto così? Prima urlandoci addosso, poi rischiando quasi di fare l’amore, poi litigando furiosamente di nuovo.
Simone spostò lo sguardo verso il soffitto della cabina, poi sbuffò. «“Quello che è successo stamattina è stato un errore”,» citò, imitando il mio tono di voce. «“Io sono un avvocato, tu sei il mio cliente, dobbiamo mantenere le distanze, limitarci ad un rapporto professionale”»
Assottigliai lo sguardo. «Io non parlo così,» bofonchiai.
Gli occhi di Simone però mi inchiodarono al mio posto, così scuri come mai avrei potuto dimenticare. «Dimmi se ho torto, allora.»
Mi lasciai andare contro lo schienale della cabina. «Cosa vuoi che dica, allora? È la verità!» dissi a mia difesa.
«Non puoi venire in camera mia e poi fare finta che non ti interesso!»
Rimasi spiazzata da quella reazione. Sembrava quasi che gli importasse qualcosa e che non si trattasse unicamente di un gioco.
«Vuoi dire che per te è una cosa seria? Davvero?» risi sarcastica.
Simone s’indispettì quasi subito, tornando sulla difensiva. «No che non lo è!» si giustificò. «Solo che non sopporto che tu mi usi.»
«Anche tu lo fai,» gli dissi in mia difesa.
Rimanemmo a fissarci di traverso per un bel po’, mentre il paesaggio della City scorreva davanti ai nostri occhi infuriati. Ecco cos’era Simone: fuoco.
Non avrei saputo trovare paragone migliore. Una fiamma che ardeva perpetua, che s’incendiava per qualsiasi cosa, che fosse rabbia, passione, sentimento.
Era impossibile imprigionare una fiamma senza spegnerla. Se la si fosse messa sotto una campana di vetro, senza ossigeno, si sarebbe spenta.
E così era lui, incapace di smettere di ardere fino a quando qualcuno non lo avesse privato dell’aria.
«Per me è diverso,» aggiunse poi lui, interrompendo il silenzio.
«Sì, certo,» bofonchiai, come se per quel marmocchio la vita fosse piena di giustificazioni.
«No, davvero,» mi disse sicuro, incrociando il mio sguardo. «Io gioco da una vita coi sentimenti degli altri, ormai so distinguere l’amore dal sesso. Tu no. Tu credi di sapere le regole, ma è come se giocassi ad occhi bendati.»
Non sapevo cosa intendesse dire con quel paragone, se fosse un’accusa o una critica al mio modo di comportarmi, fatto sta che non gli diedi peso.
«Ciò non toglie che tu sei libero di fare quello che ti pare, mentre non la smetti mai di sparare giudizi su James e me,» gli feci presente.
Simone rimase interdetto da quella mia risposta e si zittì. Rimanemmo a fissare fuori dal vetro per tutto il tempo necessario alla ruota per compiere un giro completo, poi scendemmo. Finalmente a terra, finalmente libera da quello spazio troppo stretto e troppo saturo di risentimento.
Era evidente che ci fosse qualcosa che non andava, che inevitabilmente avevo contribuito a gettare benzina sul fuoco. Quello che c’era stato tra me e Simone doveva finire lì, in quell’istante. Subito. Prima che gettassimo tutto allo sfacelo.
Attraversammo di nuovo il Westminster Bridge ed io mi appigliai al bordo del ponte come fosse un ancora ed io stessi per crollare a terra. Sentivo la presenza di Simone al mio fianco ma ancora le sue parole non mi erano chiare.
A quale gioco aveva fatto riferimento? Per quale motivo aveva insinuato che non conoscessi le regole? Che andassi avanti senza curarmi delle conseguenze?
«Senti, per quello che è successo lì sopra…» iniziai, sperando non cambiasse discorso.
Dovevamo affrontare quella situazione al più presto, prima di rientrare in casa e ritrovare tutti quei parenti che non ci avrebbero tolto gli occhi di dosso.
Simone mi zittì subito con un cenno della mano. «Non serve che aggiungi altro, ho capito. Come prima,» sentenziò guardandomi.
Infilai le tasche nel giubbotto invernale e sospirai calciando via un ciottolo ricoperto di neve. In fondo chi mai avrebbe potuto credere ad una coppia come la nostra? Nemmeno un miliardario arabo che buttava i propri soldi in mediocri squadre di calcio di serie C avrebbe scommesso su di noi.
No. Simone doveva stare con una modella, magari un po’ meno debosciata ed io avrei puntato tutto sul lavoro e poi mi sarei trovata un bravo ragazzo.
È così che sarebbero dovute andare le cose.
«Ehi voi due, ehi!» trillò una voce alle nostre spalle.
Ci voltammo quasi all’unisono – io presa da una sconfortante sensazione di aver riconosciuto quella voce come quella di Sofia. E infatti si trattava di lei. Solo che stavolta c’era sommata anche la mia cara amica Celeste, il suo bel fidanzato Leonardo e quel poveraccio di Ruben completamente surgelato.
«Hai finito i biscottini, Barrichello?» ridacchiò Simone, appoggiato con un gomito al bordo del ponte.
Il povero fidanzato di Sofia tentò di aggiustarsi meglio la scoppola sui capelli color giallo spento. «S-So-Sono v-ve-venuti b-bene!» protestò e la bionda cantante si premurò di lanciare un’occhiataccia al fratello maggiore.
«Vuoi lasciarlo in pace?» Leonardo andò in difesa dell’amico.
«Oh! Volete mettere in piedi una scenata qui? Davvero?» intervenni, inframmezzandomi tra quei due colossi. «Devo ricordarvi che siete due personaggi pubblici?» Anche se stento a crederlo – avrei voluto aggiungere, ma lo tenni per me stessa.
I due si lanciarono un ultimo sguardo di sfida, poi grugnirono e si allontanarono.
«Che ne dite se ce ne andiamo a mangiare da qualche parte?» propose Celeste, scaldandosi le mani l’una contro l’altra. Evidentemente non si era ancora temprata al clima rigido londinese.
Leonardo le si avvicinò, le prese le mani e se le infilò in tasca, trovando la scusa perfetta per abbracciarla. Fu un gesto spontaneo, quasi fossero abituati a farlo. Ne rimasi totalmente folgorata, mentre una punta d’invidia si diramava lentamente dal mio cuore, a macchia d’olio.
Dovevo piantarla. Non c’era motivo di essere gelosa della mia migliore amica.
«Piuttosto, cosa ci fate tutti qui?» chiese stizzito Simone.
«Vuoi dire perché ti abbiamo seguito dopo che hai sapientemente tagliato la corda?» lo corresse la sorella.
Simone bofonchiò qualcosa sotto voce.
«Diciamo che nonna Annunziata non vuole essere disturbata mentre prepara il cenone,» si aggiunse Celeste, stretta in un abbraccio caldo da Leotordo.
«Ma la vigilia è domani sera!» sbottai incredula.
Sofia, Simone e Leonardo scossero la testa all’unisono. «T-Tu-Tu-T-Tu…» tentò di dire Ruben.
«Vuole dire che tu non conosci di cosa è capace la nonna,» tagliò corto Leonardo, altrimenti ci avremmo fatto notte.
Quella notizia non mi rese particolarmente tranquilla.
«Bene, dove vogliamo andare?» trillò Sofia.
 
Il lauto pranzo nel più vicino pub disponibile mi rese la camminata difficile per il resto del giorno. Diciamo che “rotolare” sarebbe stato di gran lunga più semplice.
«Sto scoppiando!» esalai, sentendo il bottone della gonna che stava per cedere.
«Ti credo, hai mangiato come se non ci fosse un domani,» osservò Simone.
Lo linciai. «Ma se ti sei finito anche la mia roba!»
Sghignazzò divertito. «Metabolismo lampo. Appena il cibo tocca la mia bocca, viene disintegrato in men che non si dica. Ergo, niente ciccia.»
Maledetto stronzo.
«È una battaglia persa, Ven,» mi disse Celeste, prendendomi sotto braccio.
Passeggiavamo per le vie di Londra col chiaro intento di raggiungere Trafalgar Square e a dire dal traffico cittadino ci stavamo avvicinando.
«Perché?» le chiesi con ovvietà.
La mia migliore amica mi sorrise e si scostò dal viso una ciocca di capelli sfuggita al cappellino rosa col ponpon. «Anche Leonardo mangia come se fosse digiuno da settimane. Sarà lo sport,» sospirò, facendo qualche altro passo avanti per distanziare il resto del gruppo.
Mi sentii improvvisamente “rapita” dalla mia migliore amica. Mi accorsi troppo tardi che il suo piano era stato quello sin dall’inizio.
Era una chiara mossa perché aveva intenzione di parlare.
«Cel, mi stai facendo male,» le dissi, riferendomi alla presa d’acciaio che aveva sul mio braccio.
Lei si scusò subito, ridacchiando, ma quegli occhi vispi ed azzurri non abbandonarono i miei.
«Ho saputo una cosa oggi,» se ne uscì, prendendo la cosiddetta curva larga. «Diciamo che qualcuno ha chiamato quando tu eri fuori con Simone,» sorrise malandrina, fissandomi insistentemente il polso.
D’istinto tirai giù la manica del cappotto, per nascondere il regalo di James. «A-Ah sì?» dissi ingenuamente.
«C’è qualcosa che devi dirmi, Venera?» disse perentoria, scandendo bene le parole.
C’era forse qualcosa che avrei nascosto alla mia migliore amica? Ovviamente avrei dovuto cominciare dal principio, da quando ero giunta lì a Londra e avevo incontrato James sulla Tube, oppure attaccare dal giorno in cui capii che Simone sarebbe stato mio cliente, o da quando mi ero trasferita a casa sua.
Da dove avrei dovuto cominciare?
Inspirai forte l’aria pungente di quel primo pomeriggio innevato. «Senti, Cel, davvero. Ci sono un mucchio di cose che vorrei dirti, ma forse dovresti aspettare un po’ perché devo fare chiarezza prima,» le smozzicai, sperando capisse.
Lei annuì comprensiva. «Lo so, questo. Sei sempre stata la più forte tra noi due, quella che si teneva tutto dentro, senza mai esporsi,» sorrise, poi si avvicino e mi picchiettò piano sul petto con il pugno chiuso. «Anche se tenti di essere forte, prima o poi tutti hanno bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi.»
Soppesai le sue parole per tutto il resto della giornata, cedendo qualche volta alla tentazione di confidarle tutto. Il problema era che non sapevo da dove cominciare, come spiegarmi, come giustificare il mio comportamento.
E se lei mi avesse chiesto chi fosse più importante tra James e il mio lavoro? E se mi avesse domandato chi avrei dovuto scegliere tra Jamie e Simo?
Ovviamente James.
Ovviamente.
Perché Simone era un caso chiuso.
Archiviato.
Fotocopiato e riposto accuratamente in una cartelletta sepolta in fondo al mio cuore, con polvere annessa.
 
«Non hai parlato per tutto il pomeriggio,» osservò Simone, prendendomi di sorpresa e sedendosi accanto a me sul divano.
Nonna Annunziata era andata con Ruben e Sofia a dormire nel loro appartamento, mentre Cel e Leonardo si erano già rintanati in casa. E così il salotto era di nuovo vuoto, tranne che per il rumore della radiocronaca su SkySport.
«E ciò non ti fa piacere?» gli chiesi, rannicchiandomi su me stessa e sperando che quel noioso programma finisse al più presto.
Simone fece spallucce. «È strano,» si limitò a commentare.
Rimanemmo a guardare la TV per quasi tutta la notte, senza mai sentire il peso della stanchezza. Potevo avvertire il calore che emanava il corpo di Simone, quel tepore che mi aveva attratta la notte prima come una falena.
Spostai lo sguardo su di lui, senza farmi scorgere e seppellendo dentro di me quella vocina che mi ricordava di dimenticarlo. Caso chiuso.
Se Simone era davvero la fiamma, io ero soltanto una farfalla pronta a bruciarmi.
«Senti, stanotte il divano lo prendo io. Tu vai in camera. Ho cambiato le lenzuola, così non rompi e dici che puzzo,» borbottò, stendendosi sul sofà.
Rimasi annichilita. «Come mai tutta questa galanteria?» chiesi scettica.
Simone sbadigliò e si stiracchiò come un gatto. «Considerala un anticipo sul regalo di Natale. Io ne approfitterei Lil’Elf.»
Mi alzai e mi diressi verso la sua stanza, fermandomi appena sull’uscio del salotto. Sapevo di essere una persona incoerente e che avevo senza dubbio bisogno di uno specialista, e di corsa, però non riuscii a fare a meno di guardarlo.
«Si?» mi chiese, pensando volessi qualcosa.
«’Notte,» dissi solamente, sparendo poi nel corridoio.
Non aspettai una sua risposta, né una sua qualsiasi reazione. Non c’era niente da dire, né da fare. Decisi che avrei vissuto le cose giorno per giorno e quando avessi fatto più chiarezza nella mia testa, mi sarei decisa anche a parlarne con Celeste.
Non si meritava questo silenzio, ma ancora non ero pronta.
Pronta a cosa, poi?
Ad ammettere, finalmente, che anche la Regina dei Ghiacci aveva un cuore.
 
***
 
La Vigilia di Natale arrivò così velocemente che non riuscii nemmeno a rendermi conto del tempo che passò tra la colazione e la cena.
Mi ritrovai seduta al grande tavolo da pranzo di Gabriele, vestita di un abito di lana rosso e circondata da una miriade di parenti chiacchieroni. La tavola era imbandita e colma di tutte le più svariate leccornie, mentre il vociare degli invitati finì per sovrastare anche i miei stessi pensieri.
«Mi passi quel vassoio di scampi?»
«Allunga un po’ di vino!»
«Ehi! Lasciamene un po’ anche a me!»
Quelle erano le liti che più o meno si accendevano da più di un quarto d’ora tra i cugini più piccoli dei Sogno. Si litigavano il cibo come due cani randagi.
«Quando apriamo i regali, mamma?» chiese Susy, in direzione della signora Sogno.
La donna, quella sera vestita con estrema eleganza, le sorrise e le sussurrò di aspettare almeno la fine della cena.
«A mezzanotte, Susy» si aggiunse Mr. Marco, facendo brillare gli occhi della bambina.
Dopo poco però la piccola s’imbronciò. «Ma io vado a letto alle nove e mezza!» protestò sveglia.
Tutti scoppiarono in una fragorosa risata, compresi quei due testoni di Simone e Leotordo. Nonna Annunziata faceva un andirivieni tra il salotto e la cucina, portando ogni volta un vassoio di cibo che avrebbe fatto invidia alla FAO.
«Ancora un po’ di purè, tesoro?» mi chiese Miss Sogno, con quei capelli biondi così soffici e cotonati.
Declinai educatamente. «Non ho più posto, davvero,» sorrisi.
«Se continua a mangiare così, dovrò allargare le porte di casa,» sghignazzò Simone, con il tatto di un sasso.
Gli rifilai una dolorosa gomitata nel costato, mentre Susanna rideva come una pazza assistendo a tutte le nostre scaramucce. Agli occhi degli altri sembravamo una vecchia coppia di fidanzati che si stuzzicava.
Di male in peggio.
Dopo una quindicina di dolci, tra panettoni, pandori, torroni e quant’altro, cominciammo a sparecchiare la tavola e a sistemare i regali sotto l’albero del salotto.
Susanna ci seguiva come un falco. Quella bambina riusciva a mettermi un’ansia addosso che davvero sfiorava l’incredibile.
«Posso?» chiese, leggendo il bigliettino del primo regalo.
Rose cercò lo sguardo del marito, sorridendo e chiedendo silenziosamente il permesso. Gabriele guardò la figlia con un amore negli occhi che di rado si poteva leggere nello sguardo di un uomo. Soprattutto di un tipo così bello.
«Dai Susy, aprili pure,» disse.
La piccola cominciò a leggere i bigliettini applicati sui pacchi, mentre tutti noi sorridevamo vedendola schizzare da una parte all’altra del salotto distribuendo i doni ai legittimi proprietari. Ruben regalò a Sofia un plettro in avorio, autografato da un famosissimo cantante country a me del tutto sconosciuto, mentre lei gli donò un vecchio libro. Una prima edizione di Hemingway.
Rose e Gabriele si regalarono a vicenda dei bracciali con i loro nomi incisi sopra, identici e di una finezza unica, mentre Susanna quasi urlò quando scartò la sua Barbie nuova di zecca.
Vedere come la magia del Natale rendeva tutti un po’ più felici, mi fece improvvisamente sentire una forte nostalgia di casa.
Mi alzai un attimo, con la scusa del bagno, e mi rintanai in camera della piccola. C’era una finestra, così mi affacciai fuori e spiai le strade deserte in quella notte magica per quasi tutto il mondo. Tirai fuori il cellulare dalla tasca e lo esaminai per qualche tempo.
Forse avrei dovuto telefonare, almeno lasciare un messaggio.
Il ricordo di tutti quei Natali passati a Tivoli, nell’immenso salotto della tenuta di mio padre, con i nonni e tutto il parentato. Dovevo ammettere che in fondo mi mancava la mia famiglia.
«Si può?» chiese una voce, facendomi sobbalzare.
Mi voltai e incrociai gli occhi verdi di Leonardo. Rimasi di sasso perché mai mi sarei aspettata di trovarmelo di fronte.
«Certo, entra pure. È la camera di tua nipote,» gli dissi con ovvietà.
Lui si infilò le mani nelle tasche dei jeans e mi raggiunse vicino alla finestra. Guardò fuori, senza dire nulla. Anche perché non c’era nulla da dire.
«Ti ha mandato Cel?» gli chiesi allora io, rompendo il silenzio.
Leonardo scosse la testa, sorridendo. «Ho notato che hai il mio stesso sguardo, quando penso a casa,» smozzicò, stavolta puntando quelle iridi verdi nelle mie.
«Ah…» ammisi, senza contraddirlo.
Lui mi osservò dietro quelle folte ciglia brune. «Sarà che Simone è troppo preso da sé stesso, ma è evidente che ti senti sola in quella casa enorme. Non ci vuole un genio per capirlo.»
La discussione stava prendendo una brutta piega.
Mi spostai a sedere sul letto della bambina, tutto per allontanarmi da quella finestra. «Non è come pensi. Alla fine ho scelto io di trasferirmi qui. È solo che durante le feste è normale sentire la mancanza della propria famiglia,» mi giustificai.
«Soprattutto se ne hai una così numerosa davanti agli occhi,» ridacchiò lui.
Da una parte Simone e Leonardo si somigliavano, ma avevano qualcosa di profondamente diverso che li divideva. Oltre che gli anni.
Leonardo adesso sapeva condividere e non pensava più solo a sé stesso.
Di questo doveva ringraziare soprattutto Celeste.
«Sai, quand’ero piccolo odiavo venire qui per Natale. Non sopportavo Simone e l’idea di passare le vacanze con lui,» mi confessò imbarazzato.
«E cos’è cambiato da allora?» ridacchiai io, alludendo alle attuali litigate tra lui e il cugino.
Anche il calciatore sorrise. «Hai ragione, ma adesso sento che non è più come prima. Sarà che da quando sto con Celeste, il mondo mi sembra sempre un posto migliore. Nemmeno Simone riesce a rovinarmi le giornate.»
«Già, dev’essere bello,» commentai malinconica.
«Comunque devo ammettere una cosa,» disse lui, guardandomi. «Ho trovato mio cugino meno irritante del solito. Magari è perché ha te come valvola di sfogo?» ridacchiò.
Quel suo commento mi fece arrossire, soprattutto perché nonostante avessi tentato più volte di ignorare il calciatore dell’Arsenal, lui tornava e ritornava indietro verso di me, come un boomerang.
Abbassai lo sguardo e mi fissai insistentemente le Chanel color vernice che Sofia mi aveva prestato per quell’occasione, senza sapere cosa dire.
«Forse,» bofonchiai, a corto di parole.
Strano.
Già.
Leonardo non sembrò troppo convinto da quella mia mezza risposta, però non ebbe tempo di approfondire perché la figura di Simone apparve sulla soglia.
«Bene, bene, bene, l’Altro Sogno fa conoscenza con l’avvocato tascabile. Cugino, prendi nota, potrebbe servirti un giorno, quando divorzierai.»
In quel momento avrei volentieri spiattellato tutto il caso, soltanto per fargliela pagare alla lingua lunga di Simone e a tutta la sua arroganza, ma mi zittii.
«Taci, deficiente. Dovresti soltanto ringraziare che c’è zio di là, sennò ti avrei già gonfiato.»
«Provaci.»
«Mi stai provocando?»
Roteai gli occhi verso l’alto, stufa di tutta quella dimostrazione di testosterone. Stavo per alzarmi e andarmene, lasciandoli a loro stessi, quando la piccola Susanna entrò nella stanzetta come un treno in corsa.
Saltellò euforica tra le lunghissime gambe di Simone, urlandogli «Zietto! Zietto! Zietto!» e porgendogli un pacchetto che avrei riconosciuto anche senza le lenti a contatto.
Quand’è che ti sei data allo shopping?
Simone fissò l’involucro di carta rossa con un’espressione stralunata. «È petté! È petté!» gridò la bambina, col fiatone a causa della corsa.
Il calciatore allora si abbassò e afferrò il pacchetto tra le mani, mentre Susanna gli si avvicinò all’orecchio. Riuscii a recepire solo un “È da parte di…” e poi più niente, ma gli occhi scuri e sgranati di Simone fecero tutto il resto.
Era stata Sofia a costringermi ad accompagnarla per gli ultimi regali di Natale ed io avevo acconsentito, di mala voglia. Quella ragazza era capace di farmi fare di tutto, soltanto con uno sguardo. Ed era stato in quella bottega, lì su Portobello Road che la ragazza mi aveva dato un colpetto sul gomito e mi aveva indicato una vetrinetta nascosta.
Su di un piedistallo di plastica spiccava la copertina, un po’ sbiadita, di un vecchio album dei Queen, forse uno dei più rari in commercio.
Lo sguardo di Sofia era totalmente rapito da quell’oggetto e pensai lo volesse acquistare, ma lei mi sorrise e disse solamente «A Simo piacerebbe molto.»
Dopo cinque minuti ero uscita dal negozio con centoventi sterline in meno e un regalo per quel brontolone che non si meritava un bel niente dalla sottoscritta.
Ed ora i suoi occhi mi scrutavano guardinghi, quasi come se non si fidassero del pacco sottile che teneva tra le mani.
Leonardo prese Susy tra le braccia e, con una scusa qualsiasi, si allontanarono quando la tensione si riuscì a tagliare anche con un coltello.
«Perché.» disse solamente, ma senza punto di domanda. Era un’affermazione più che altro.
Era logico che volesse sapere il motivo per cui avevo speso tanti soldi per lui, per una persona che avrei dovuto ignorare.
Feci spallucce e mi avvicinai di nuovo alla finestra, come se quello spicchio di cielo fosse una qualche specie di rifugio, di via d’uscita per fuggire.
«Mi hai dato una casa senza che ti dessi nulla in cambio, era il minimo,» mi giustificai.
Beh, avevo avuto tempo per studiarmela bene.
A Simone ovviamente quella risposta non piacque.
«Bugiarda. Perché mi hai fatto questo regalo, proprio questo, quando soltanto ieri hai detto che tra noi non ci sarà mai un cazzo di niente?»
Aveva cominciato ad alzare la voce. Nessuno doveva accorgersi di questa discussione, tanto meno suo padre. C’erano troppe cose in ballo, troppi segreti e bugie.
«Smettila di urlare,» lo redarguii.
«Non sto urlando,» insistette lui.
Ci fissammo per quelli che parvero interi minuti, senza dire una parola.
«Sofia mi ha dato la dritta, altrimenti ti avrei regalato la solita cazzata. Non leggerci nulla tra le righe perché non c’è niente,» tagliai corto, spicciola.
Simone indietreggiò, ferito. «Allora non c’era bisogno mi regalassi nulla. Hai solo buttato i soldi.» Gettò il vinile sul letto della nipote.
«Ehi! Quel coso vale mezzo stipendio!» gridai arrabbiata.
Dopo tutto quello che avevo fatto per lui, questo era il ringraziamento?
Simone colmò in pochi passi la distanza che ci separava, afferrandomi il viso con forza e schiacciandomi sul vetro della finestra. Lo sentii incrinarsi e gracchiare. Temetti che si potesse rompere.
I suoi occhi erano come due tizzoni di brace, infuocati. Tutto il suo corpo ardeva di rabbia a contatto col mio ed io pensai davvero di ardere.
La fiamma e la falena.
«Solo una cosa volevo da te, e tu me l’hai negata. Sono stufo dei tuoi giochetti, dei tuoi subdoli tentativi. Simone Sogno non si fa abbindolare da una cosina come te!» minacciò.
Cosina?
«Ha parlato Mr. LeFrancesiCeL’hannoProfumata,» lo stuzzicai, anche se ero nella posizione meno adatta per sfidarlo.
«Ehi,» ci interruppe Sofia, mentre Simone si allontanava velocemente da me e spariva nel corridoio. La biondina mi corse in contro, pretendendo delle spiegazioni.
«È solo nervoso,» lo giustificai, afferrando il vinile abbandonato sul letto.
Sofia allora lo prese e mi sorrise. «Vedrai che capirà, gli ci vuole soltanto tempo.»
Le avrei voluto chiedere cosa ci fosse da capire, ma la famiglia Sogno richiedeva la mia presenza per un mega-torneo al Mercante in fiera, così dovetti rimandare.
 
La chiave girò nella toppa di casa Sogno alle due del mattino, con il resto della truppa che a mala pena si reggeva in piedi.
Quando entrammo in salotto, fummo accolti dalle lucette intermittenti e fastidiose dell’albero di Natale che nonna Annunziata ci aveva costretto a montare per forza, dicendo è la tradizione!.
«Beh, ragazzi, Buon Natale,» sbadigliò Leonardo, puntando la camera da letto.
Celeste mi sorrise e lo seguì, lasciando me e Simone nella penombra della stanza.
In quel silenzio c’erano una miriade di parole non dette e di frasi smozzicate a metà, così tagliai la testa al toro.
«’Notte,» e mi diressi verso il divano.
Simone allora mi bloccò, senza muoversi. «Non dovevi.»
Sbuffai infastidita, pensando volesse ricominciare l’ambaradan di prima. «Ho detto che è una sciocchezza, e poi non ti pago nemmeno l’affitto…»
«No,» mi fermò lui. «Dico che non dovevi, perché io non ti ho fatto nulla,» ammise imbarazzato.
Alla fine Sofia era riuscita a fargli accettare il disco dei Queen, così mi ero sentita più leggera, così come il mio povero portafogli.
«L’ho fatto perché mi andava, non per ricevere qualcosa in cambio,» gli spiegai, manco avesse quattro anni.
Di punto in bianco parve proprio imbronciarsi. «Ma io volevo regalarti qualcosa… solo non sapevo cosa…» incespicò.
Vedere Simone così imbarazzato mi fece tremare il cuore. Lo sentii caldo contro il mio petto e pensai che ormai il suo muro si era quasi del tutto abbassato, lasciandomelo vedere per davvero.
Persa nei miei pensieri, non mi accorsi nemmeno che si era pericolosamente avvicinato, sfiorando le mie labbra appena appena.
Fu un tocco leggero, quasi impercettibile, come quando la neve tocca il terreno. Nessun rumore.
Eppure mi sembrò che l’orchestra sinfonica stesse suonando la nona di Beethoven.
«Un bacio,» soffiò a pochi centimetri dalle mie labbra.
Chiusi gli occhi e assaporai quel momento. «Non avresti dovuto darmelo?» gli domandai, aprendo la mano e facendo un chiaro riferimento al ditale di Peter e Wendy.
Simo afferrò l’occasione al volo, perché non era stupido. «Questo è un bacio vero, Peter,» disse, ridacchiando.
Non riuscii a nascondere un sorriso imbarazzato, mentre lui mi dava la buonanotte e spariva nella sua stanza. Poco dopo udii le note di “Princess of the Universe” che risuonavano per tutta la casa.
 
Il venticinque e il ventisei di Dicembre si susseguirono più o meno uguali alla Vigilia, con l’unica differenza dei chili in più che stavo mettendo. Ero più che sicura che l’ago della bilancia mi stesse prendendo in giro, perché ero più larga che lunga.
«Hai finito lì dentro?» urlò Simone infastidito.
«Un attimo!» ringhiai, salendo di nuovo sulla bilancia.
Niente, segnava sempre un miliardo di chili in più di quando ero partita dall’Italia. Maledetto stress del lavoro e maledette vacanze!
«Guarda che per quante volte tu salga e scenda da lì, sarai sempre una balena,» ridacchiò divertito.
Brutto deficiente.
Il Natale, passando, si era portato via quel po’ di zucchero che io e il calciatore avevamo condiviso quel ventiquattro a sera, lasciandoci letteralmente con l’amaro in bocca. Ci ignoravamo a vicenda, come doveva essere e come sarebbe sempre stato.
Prima che ritornassi a lavoro, l’argomento centrale di ogni nostra giornata era diventato il famigerato Capodanno.
C’era chi – come Leonardo – lo avrebbe voluto passare in strada, vedendo i fuochi artificiali da Westminster Bridge e il Big Ben che segnava la mezzanotte, chi – come Sofia – che avrebbe voluto partecipare a qualche bella festa oppure chi – come la sottoscritta – sarebbe rimasta volentieri in casa ad urlare contro le cazzate che sparavano in televisione.
«Insomma? Avete trovato qualcosa?» chiese Celeste, sorseggiando del caffè.
Sofia continuò a digitare sul suo tablet. «Conosco un paio di persone che potrebbero farci entrare, ma è in abito lungo e non so quanto siate disposti a mettervi in tiro…» rispose mogia.
«Ah no! Io da pinguino non me ce vesto!» protestò immediatamente Leonardo.
In fondo alla sala si udì la lunga sghignazzata di Simone.
Erano un continuo battibeccare quei due, peggio di me e il calciatore poco tempo prima…
…prima di cosa?
Rabbrividii e mi concentrai sul discorso delle ragazze.
«Non c’è una via di mezzo?» domandò Celeste dispiaciuta.
Lei e Leonardo sarebbero ripartiti il primo Gennaio, perciò le sarebbe dispiaciuto non passare il Capodanno più indimenticabile di sempre.
«Stasera potremmo provare questo locale qui, se è carino prenotiamo anche per il 31. Che ne dici?» propose la biondina. «Tu e Simo ci state?»
Visto e considerato che il giorno successivo avrei ricominciato il tirocinio, non sarebbe stata una saggia idea frequentare un disco-pub fino a tarda notte.
«Io passo, mi fido di voi,» tagliai corto.
Simone aveva sentito tutto, così si aggregò perché era lampante come la luce del giorno che non aveva alcuna voglia di passare la serata con Leonardo e Ruben.
Li definiva “La mummia e lo sfigato”.
Quella sera nessuno, nemmeno i meteorologi, si sarebbero mai aspettati una nevicata di quella portata. Alle nove di sera cominciò ad alzarsi il vento, così Celeste e gli altri si bardarono nel vero senso della parola, preparandosi ad uscire.
L’idea di rimanere sola in casa con Simone non mi allettava, ma il calciatore si era chiuso in camera da un po’, perciò mi preparai con cura le repliche di Law&Order con una bella cofana di pop-corn.
«Sicura che non vuoi venire?» mi domandò per la centesima volta la mia migliore amica.
Sapevo che era sempre un’occasione per stare insieme, prima che lei partisse. Purtroppo non avevo proprio voglia di uscire.
«Giuro che a Capodanno sarò l’anima della festa!» le sorrisi.
Li vidi uscire dal portico e prendere un taxi, mentre fuori il vento faceva fischiare i vetri delle finestre. Non sapevo spiegarne il motivo, ma un brivido di freddo mi attraversò la schiena.
Mi avvolsi nelle coperte, accoccolandomi sul divano, e spingendo “play” sul lettore DVD. Finalmente una serata made in Venera, era da tanto che volevo dedicare un po’ di tempo a me stessa.
«Ma non l’hai già visto?»
Ovviamente avevo parlato troppo presto.
Mi voltai per vedere Simone che sbocconcellava un pacchetto di patatine. Non gli era bastato mangiare come uno sfondato per tutte le vacanze di Natale?
«E anche se fosse?» sibilai.
Law&Order era una serie che seguivo da tutta una vita, ed era grazie a lei che avevo coltivato il sogno di diventare avvocato. Sapevo ogni episodio a memoria e non mancavo di fare una maratona fino a notte fonda pur di ricordare gli episodi salienti.
Il calciatore sgranocchiò una patatina e si sedette vicino a me. «Stasera c’è la bufera,» disse, guardando fuori dalla finestra.
«Non credo…» sospirai, sperando che davvero non si mettesse a nevicare di brutto.
Celeste, Sofia e gli altri erano ancora a quel disco-pub. Non so davvero come sarebbe potuta finire se le previsioni di Simone si fossero avverate.
Passò un’ora, poi altre due. Le puntate della serie tv si susseguivano l’una dopo l’altra e così finirono ben presto tutti i pop-corn, soprattutto a causa dell’Ingordo.
Proprio quando la notte sembrava troppo oltre per dar luogo alla famosa nevicata, il vento s’alzo all’improvviso e la bufera arrivò. Fu un cambiamento repentino, del tutto inaspettato.
Le luci cominciarono a tremolare, mentre dalle fessure delle finestre si udiva chiaramente il fischio del vento che ululava come infuriato. Guardai fuori e fiocchi di neve grandi come noccioline che picchiavano forte sul vetro, così mi spaventai e raggiunsi il cellulare.
«Cazzo, come faranno a tornare a casa?» imprecai, riferendomi a Celeste e gli altri.
Simone andò a sigillare meglio i vetri e spense subito il televisore. «Non puoi fare molto da qui,» rispose risoluto.
Digitai il numero della mia migliore amica, ma un sms mi bloccò dal premere il tasto “chiama”.
 
Ven fuori c’è l’ira divina.
Rimaniamo al pub finché non migliora. Tranquilla.
‘Notte.
 
Era un messaggio scritto in tutta fretta, l’evidenza non lo negava, ma mi sentii più sollevata. Almeno erano al chiuso.
Simone mi fu subito alle spalle. «Ti pare che quella genia della tua amica rimaneva in mezzo alla strada?» Contribuì, forse senza saperlo, a farmi sentire bene.
Purtroppo durò poco, perché passati tre minuti esatti la corrente saltò lasciandoci completamente al buio.
«Ma che cazzo…?» imprecò subito Simone, muovendosi a tastoni lungo tutto il suo appartamento. «Uno paga trecento sterline al mese di elettricità e questo è il risultato! Siamo a Londra non in Burundi, porco cazzo!»
Sorrisi. In fondo era divertente sentirlo smadonnare in questo modo.
Era come se lo rendesse più… umano.
Ci dirigemmo verso la stanza meno usata della casa, ovvero la sala hobby o “studio” – l’unico problema è che lì non ci aveva mai studiato nessuno. Dopo aver recuperato una torcia elettrica, Simone mandò al diavolo cinque o sei volte gli alari che non volevano saperne di disporsi parallelamente e si adoperò per accendere il fuoco.
Anche perché si stava gelando.
I termosifoni funzionavano ad elettricità, un po’ come gli scaldini a presa, e non essendoci più corrente da un’ora, la casa era diventata un blocco di ghiaccio.
«Sicuro di esserne in grado?» gli chiesi, dopo che il quindicesimo cerino si ruppe per il troppo entusiasmo – per non dire ira – che ci stava mettendo per accenderlo.
«Cosa credi?»
Alzai le mani in segno di scuse, sorridendo. «Non ti facevo molto stile Evervood[1]» ridacchiai.
Simone sbuffò e finalmente riuscì a dar fuoco ad un pezzo di diavolina che usò per appiccare la legna.
«Tu e le tue stupide serie TV,» bofonchiò poco dopo, soddisfatto dal risultato.
Ci sedemmo comodamente sul tappeto persiano che si trovava sotto il divano. Posai la schiena proprio su quest’ultimo, per avvicinarmi meglio al tepore del camino. Avevamo entrambi una trapunta addosso, trafugata dai letti ormai vuoti e ce ne stavamo in silenzio a vedere le fiamme che lentamente crescevano d’intensità.
Quelle fiamme che mi ricordavano troppo Simone.
Senza quasi accorgermene, sentii il peso del regalo di Jamie che mi pesava enormemente al polso. Era come avere una catena, un’incudine che era sempre lì presente a ricordarmi quanto fossi stata meschina nei suoi confronti.
Così penserai a me anche quando non ci sono.
Oppure mi sarei dimenticata di lui.
«Guarda che l’ho visto, non c’è bisogno che lo nascondi,» commentò Simone, fissando il fuoco.
Lo guardai e le sue iridi si erano tinte di arancione, quasi come se inghiottissero le fiamme quasi a nutrirsene. Lui era il fuoco e da esso traeva la forza.
«Non lo stavo nascondendo,» mi giustificai, fissando le trame del tappeto.
Sospirò. «Te l’ha regalato l’avvocato, vero?» mi domandò, anche se sapeva quale fosse la risposta. Infatti, non mi lasciò nemmeno il tempo di parlare. «È sempre un passo avanti a me.»
«Non è mica una gara!» sbottai, stufa di quei continui paragoni con James. «Nessuno di voi due è in competizione per qualcosa, e avete rotto di farvi la guerra!»
Il calciatore mi rivolse uno sguardo stupito. «Quindi anche Mr. Scopa-nel-culo si mette in guardia, eh? Sa che Simonator è in azione!»
Lo fissai allibita. «Simonator?» chiesi, quasi avendo paura della risposta.
Simone annuì sempre più convinto. «È forte… tipo terminator.»
«È ridicolo,» commentai, avvolgendomi meglio nella trapunta.
«Mh, meglio di TermoSifone è…» borbottò, guardandomi. «Hai freddo?» mi chiese poi.
«Sto gelando.»
La maledetta elettricità non voleva saperne di tornare, mentre fuori si continuavano ad udire i sibili della tempesta di neve che aveva afflitto Londra quella notte. Il fuoco non bastava a riscaldarmi.
«Vieni qui,» mi disse all’improvviso, aprendo la trapunta e invitandomi a rannicchiarmi contro il suo corpo.
Sta scherzando, spero!
Lo guardai come se fosse un marziano che abitava su Venere.
Lui s’indispettì. «Ehi! Non ho secondi fini, se è questo che pensi…» si lagnò, come un bambino di cinque anni.
Cercai di fidarmi, o per lo meno ci provai. Il suo corpo era caldo, bollente a contatto col mio e nella mia testa c’era sempre quella piccola voce che mi raccontava ancora la storia della falena e della fiamma. Forse mi sarei bruciata, ma era così caldo.
«Okay forse magari potrei avere dei secondi fini…» sghignazzò ed io gli rifilai un pizzicotto sulla pancia. «Ahi!»
«Te lo meriti!» sorrisi, inspirando il suo odore attraverso la lana del maglione rosso.
Rimanemmo in silenzio per qualche tempo, guardando il fuoco che danzava davanti ai nostri occhi. Era bello sentirsi al sicuro dentro quella stanza, con solo la luce del camino ad illuminare il volto cesellato di Simone.
Un volto giovane, da ragazzo, ma estremamente affascinante.
Sentii la gola farsi secca e il respiro diventare pesante. Mi alzai la manica del maglioncino per toccare il braccialetto di James, come monito per non commettere stupidaggini.
«Lo ami?» mi chiese Simone di punto in bianco.
Sgranai gli occhi e lo fissai. «Come ti viene in mente?»
Lui scrollò le spalle.
Lo guardai di sbieco, mentre ravvivava il fuoco con un altro legnetto. C’era qualcosa in lui di diverso, come se stesse smettendo quella maschera da spocchione ormai indossata da sempre.
«Per te è così?» gli chiesi.
I suoi occhi scuri m’inchiodarono. «Non è fatto per stare con te,» disse sicuro.
Risi ad alta voce, credendo mi stesse prendendo in giro. «Ah, davvero? E allora chi sarebbe adatto a stare con me, sentiamo,» lo provocai.
Ero più che sicura che avrebbe detto una frase del tipo “Il sottoscritto, ovviamente” oppure “Qualcuno con cotesta gnoccaggine” e si sarebbe indicato senza pudore.
Invece tornò a guardare il fuoco. «Qualcuno a cui non serva comprarti,» soffiò.
Fu in quell’istante che sentii qualcosa dentro di me fare crack, rompersi, disintegrarsi in mille pezzi. Il peso del braccialetto era diventato insostenibile, perciò lo tolsi e lo posai su un tavolinetto lì accanto. Simone non aveva indicato sé stesso, non era stato egoista, ma aveva detto solo la pura verità.
Non ero fatta per essere comprata da regali, viaggi, ville megagalattiche. Cose che entrambi potevano darmi senza difficoltà.
No, lui aveva centrato il punto. Al mio fianco ci sarebbe stato soltanto colui che non aveva alcun bisogno di spendere fior fior di soldi per avermi. Sapeva bene che non una poco di buono, una a cui bastava la notorietà per concedersi.
Ero diversa. Una donna con la testa sulle spalle.
Allora mi avvicinai e cercai le sue labbra. La prima volta in assoluto che prendevo l’iniziativa, perché ne sentivo il bisogno e non potevo più resistere. Era da tempo che andava avanti tutta quella storia e per quanto lo negassi a me stessa, mi ero bruciata.
Ora le mie ali stavano prendendo fuoco, mentre le braccia di Simone si avvolsero attorno alla mia vita, mentre le sue mani esplorarono la mia carne, toccandola e marchiandola come se avesse paura di perdermi.
I baci si rincorrevano l’uno dopo l’altro, le lingue si lambivano e così i sospiri.
«Toglila…» soffiò contro la mia pelle, strattonando la maglietta con disegnata sopra una renna buffissima.
Mi scostai quel tanto da liberarmi subito dell’indumento, poi andai a reclamare la sua. L’odore di Simone era così forte da farmi girare la testa, impedirmi quasi di respirare.
Stai bruciando, non c’è più ossigeno attorno a te.
Non me ne importava. Fuori c’era la tempesta, il mondo intero avrebbe anche potuto essere spazzato via in quell’istante.
Le sue labbra erano così morbide, così gonfie e tumide di baci. Gli afferrai i capelli e li scostai dal viso, guardandolo. Era così bello da far male.
«Sei bellissimo,» mi sfuggì, quasi senza riflettere.
Lui sorrise e parve arrossire. «Lo so,» rispose però strafottente.
Per dispetto gli morsi il labbro inferiore ma subito dopo lo vezzeggiai con una carezza di lingua, per scusarmi. Simone ne approfittò per assalire il mio collo e annusarmi.
«Anche tu lo sei, Ven,» sussurrò dolcemente.
«Non è vero,» lo contraddetti, rovesciando la testa all’indietro e sospirando in balia delle sue carezze esperte.
Fu allora che il gancio del reggiseno fu slacciato, che le sue mani si mossero così bene e così veloci che non capii più niente. La sua bocca era ancora sul mio orecchio.
Una cascata di brividi mai provata prima.
Era fuoco che lentamente mi avvolgeva.
«Oh, credimi, non puoi capire l’effetto che mi fai,» sussurrò ancora, facendomi sentire in qualche modo speciale.
Fu il momento per me di sfoderare le mie, quasi inesistenti, tecniche di seduzione, così cominciai a baciarlo ovunque. Iniziai dalla clavicola, da quella pelle bianchissima e da quei muscoli così definiti. Pensai a quante donne avevano amato quel corpo, a quante prima di me lui aveva sussurrato quelle parole.
Mi sentii male.
Lo sentii sospirare, ma una sua carezza mi riportò alla realtà. Incrociai quegli occhi così scuri da inghiottire qualsiasi fonte di luce presente in quella stanza. Sapeva bene come attirare l’attenzione.
«Continua…» smozzicò lui, guardandomi. Mi diede un bacio d’incoraggiamento, accarezzandomi il viso. «Lasciati andare.»
Sarei davvero riuscita a farlo? Che fine aveva fatto la Ven fredda e razionale?
Gli afferrai la mano, ferma sulla mia guancia. Avrei potuto scostarla, alzarmi e tornarmene in salotto. Sarei potuta sopravvivere a tutto quello, sfuggirgli.
Ma era troppo tardi.
Così i vestiti sparirono e fummo nudi, circondati dal buio e dal rumore del vento.
Gli fui immediatamente sopra, quasi a volerlo travolgere, soffocare, come se volessi impormi prima che lui mi spezzasse. Voleva prendersi tutto da me, anche il respiro.
«Vuoi condurre i giochi?» ridacchiò malizioso, afferrandomi il labbro tra i denti.
Lo zitti tirandogli i capelli dietro la nuca e baciandolo a modo mio.
Violento.
Stare con lui mi trasformava in una persona diversa, mi privava del controllo. Cercai di tenere le redini, ma sapevo di stare cadendo, di star precipitando in un baratro sempre più profondo.
Per quanto fossi convinta che Simone fosse lungi dai miei interessi, non riuscivo a stargli lontano. Non solo fisicamente.
Ne ero dipendente.
Il sesso era sempre stato al secondo piano nella mia vita, quasi una sfumatura di contorno. Ora ne sentivo l’assenza, ora che quel vuoto era stato colmato.
«Muoviti… così…» Mi artigliò i fianchi e mi incitò ad aumentare il ritmo.
Rovesciai la testa all’indietro mentre sentivo il calore del fuoco che mi bruciava la schiena. Le fiamme reali e quelle di Simone che mi stavano lentamente consumando, annientando, che mi stavano portando via anche l’ultimo briciolo d’aria.
«Simo... ah... ne...» gemetti, artigliandomi alle sue spalle e stringendo il suo viso al mio petto.
Aveva rannicchiato il volto contro di esso, lo aveva avvicinato al viso, e continuava a sussurrarmi all’orecchio parole dolci, frasi di canzoni ormai senza tempo.
Continuai ad aumentare d’intensità, rincorrendo un piacere che da troppo tempo mi era mancato mentre anche il suo corpo vibrava.
Sentii le sue labbra lambire la mia pelle e incendiarla centimetro dopo centimetro, semplicemente da quel contatto. Avvertii dei brividi sconvolgermi le membra. Ormai mancava poco tempo e il piacere stava diventando del tutto insostenibile.
«N-No.. non ce la fac-cio…» gridai, quasi, sconvolta da quelle meravigliose sensazioni.
Non ebbi tempo di pensare, razionalizzare o riflettere su cosa dire. Riuscivo soltanto ad essere guidata da qualcosa che rischiava di esplodermi dentro.
«Non fermarti… mh…» soffiò lui, e per la prima volta lo percepii al di fuori del muro.
Posai la testa sulla sua spalla mentre sentii un grido raschiarmi la gola e Simone accompagnò quel piacere con delle spinte lente e delicate.
Nemmeno due secondi dopo cercai le sue labbra disperatamente, e muovendomi involontariamente gli mandai una scarica di piacere.
Lui sibilò e strizzò gli occhi.
«Scusa.» sorrisi, imbarazzata.
Distolsi lo sguardo immediatamente, per non farmi scorgere da lui. Era davvero troppo farsi vedere così debole, così vulnerabile.
I suoi occhi erano lì, pronti ad essere accarezzati. Non riuscii a resistere lontano dal loro tocco, perché erano parte di quel fascino che ormai mi aveva assoggettata. Mi davano dipendenza.
Così mi scostai quel tanto da scendere dalle sue gambe.
Ora era davvero nelle mie mani, ora le parti si erano invertite ed io avrei fatto di lui ciò che volevo. Lo accompagnai verso l’orgasmo senza mai smettere di fissare il suo viso, ogni sfumatura delle sue espressioni.
La verità era che entrambi odiavamo i legami, ognuno di noi rincorreva la libertà, l’indipendenza, quasi servisse per respirare.
Ed ora ci eravamo trovati. Due persone libere, insieme.
Simone allora mi spostò i capelli dietro un orecchio, sorridendo. Lo baciai perché non potevo davvero farne a meno.
Non in quel momento. Non più.
Stai lì e guardami bruciare, ma va bene perché mi piace il modo in cui fa male.


Trullallero, trullallà, il capitolo l'ho aggiornato più di un mese fa...
Tralasciando la filastrocca mongola, mi nascondo per aver scritto questa specie di pornazzo natalizio, tra l'altro partorito a Ottobre/Novembre mi pare XD Solo io riesco a scrivere pornazzi di Natale.
Comunque, le feste sono passate #sigh e al loro posto sono arrivati gli esami #sob, ma io e Nessa ce l'abbiamo fatta ad aggiornare questa storiella con un capitolo piccantO **
Detto ciò mi aspetto come minimo delle fanghérlate o qui o sul gruppo - me lo dovete perché non mi farò più vedere dalla veGGogna - per dirmi come vi aspettate stia andando in porto questa storia.
Bene? Male? Ci vorrei esse io al posto di quella scema di Ven? (sì)

Baciotti esamosi (?) Marty :3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Capitolo 16 ***


 
CAPITOLO 16

betata da nes_sie

Mi svegliai sul divano del salotto, con alcuni pop-corn incollati alla perfezione sulla guancia, quasi come tatuati, feci colazione e mi vestii per andare al lavoro.
La bufera era passata, anzi, sembrava non ci fosse nemmeno stata.
I Bobcat spalavano la neve ad un ritmo costante, liberando le strade della capitale inglese. Tutto funzionava alla perfezione.
Passai davanti alla stanza di Simone. La porta era ovviamente sigillata.
Né Celeste, né Leonardo erano rincasati a causa della tempesta. La mia migliore amica non mi aveva fatto sapere più nulla e sperai che avessero trovato una qualche sistemazione, anche improvvisata.
Invece tu te ne sei stata al calduccio, nevvero?
Il mio Cervello, di prima mattina, sapeva essere tedioso come pochi. D’accordo, era impossibile rimuovere ciò che era successo la notte prima, quello che aveva fatto.
Avevamo…
Sì, giusto. Quel “noi” che mi perseguitava.
Strinsi il colletto della camicia con forza, mi aggiustai la gonna, mentre l’odore del caffè riempì la cucina. Ero in orario. Presto mi sarei diretta verso l’ufficio della Abbott&Abbott e avrei inseguito il mio sogno.
Con la S minuscola.
Erano finiti i tempi dei giochi. Quella sera avevo oltrepassato un limite che mai mi sarei aspettata di varcare ed era arrivato il momento di metterci una bella pietra sopra, un freno.
Prima che fosse troppo tardi.
Feci colazione e ricontrollai i documenti che James mi aveva chiesto di esaminare durante le vacanze, poi vidi gli appuntamenti nell’agenda.
I passi di Simone riecheggiarono nel corridoio facendomi venire la pelle d’oca.
Non riuscii ad alzare lo sguardo dal telefono. Avevo paura che se avessi incontrato di nuovo quegli occhi, i miei buoni propositi sarebbero sfumati.
Lui d’altro canto non disse nulla. Si limitò a circumnavigare l’isola della cucina e tirò dritto verso il caffè, versandosene un po’ nella tazza.
Lo sciabordio del liquido versato fu l’unico rumore che si udì nella stanza.
Cercai di concentrarmi sul meeting che avrebbe avuto luogo quella mattina stessa, prima del nuovo anno. Affrontare il 2013 senza essere nemmeno riuscita a riesaminare il caso, non era certo una buona prospettiva.
Inoltre, era chiaro come il sole che Mr. Abbott aveva la chiara intenzione di stracciare St. James accaparrandosi il Caso dell’anno – qualora fosse stato reso noto.
Un brivido mi attraversò la schiena.
Quella mattina avrei incontrato il mio collega, nonché ex-presunto-fidanzato, e con quale faccia sarei riuscita a parlargli?
Il suo braccialetto è ancora nella sala hobby, dopo che te la sei svignata mentre il bello addormentato sonnecchiava.
Sentii la gola improvvisamente ricoperta di sabbia.
Ci eravamo addormentati dopo averlo fatto, lì, su quel divano di fronte al fuoco che stava lentamente spegnendosi. Verso le due del mattino, mi ero svegliata e mi era sembrato più che logico tornarmene nella mia “stanza” provvisoria.
Simone aveva fatto lo stesso.
Se Celeste e Leonardo fossero tornati all’improvviso, cosa avrebbero detto altrimenti?
E così me l’ero svignata di soppiatto neanche fossi stata l’amante di qualcuno.
Posai il cellulare sul ripiano della cucina e cominciai a cercare il mio mazzo di chiavi, per poi uscire dalla porta dritta filata, senza nemmeno alzare lo sguardo.
«A che ora torni?» mi chiese lui con noncuranza.
Cazzo.
Perché se ne usciva con quelle domande idiote proprio quanto stavo facendo di tutto per evitarlo?
Frugai nella ciotola delle chiavi, facendo volontariamente rumore.
«Non lo so,» risposi distrattamente. «Ho una riunione.»
Sperai che non indagasse ancora, altrimenti avrei ceduto. Era maledettamente difficile comunicare con qualcuno senza guardarlo negli occhi.
Quegli occhi che mi avevano bruciata viva.
«Mh…» sbuffò e lo sentii succhiare volontariamente il caffè dalla tazza.
Alle volte si comportava come un bambino, senza alcuna difficoltà. Inoltre, quelle maledette chiavi non ne volevano sapere di essere trovate.
«Le tue chiavi sono lì,» disse Simone improvvisamente.
D’istinto, senza riflettere, alzai lo sguardo su di lui e lo vidi indicarmi il divano. Il mazzo di chiavi era finito tra le pieghe dei due cuscini e non lo avrei trovato nemmeno volendo.
Ciò non toglieva nulla alle iridi del calciatore che ora mi scrutavano soddisfatte.
«Che vuoi?» risposi brusca, afferrando il mazzo con una mano e la valigetta con l’altra.
Ora mancava soltanto il cappotto e sarei stata libera.
Lo indossai proprio quando Simone iniziò a mangiare un Ringo. Dio, soltanto lui poteva mangiare un dannato biscotto in quel modo.
Guardò prima il biscotto con attenzione, quasi contemplandolo, poi fece un po’ di pressione, ruotandolo leggermente, e separò le due metà. Mangiò subito il biscotto senza ripieno, leccandosi le labbra e godendo di quel piccolo piacere.
Dannato, dannato, dannato!
Quel piccolo infido maledetto bastardo sapeva che lo stavo guardando! E stavolta non si trattava nemmeno di un sogno.
In seguito si dedicò all’altra metà del biscotto, leccando via tutta la cioccolata e sporcandosi gli angoli delle labbra. Quando passò al secondo dolce, decisi che o me ne sarei andata di lì in fretta e furia, oppure tanto valeva che chiamassi l’ufficio.
«Nemmeno saluti?» commentò, non appena posai la mano sul pomello della porta.
Ero rigida come un pezzo di ghiaccio. «A dopo, ciao,» tagliai corto.
In un soffio mi fu dietro. Sentii lo spostamento d’aria e quel suo profumo che mi riportò a quella notte appena passata senza nemmeno bisogno del teletrasporto.
Simone mi voltò con impeto, bloccandomi ogni via d’uscita.
«Intendevo un saluto come si deve,» ghignò, carezzandomi il labbro inferiore con il pollice.
Voleva che facessi la prima mossa. Subdolo figlio di puttana.
E poi lo sguardo mi cadde su quelle macchie di cioccolato all’angolo della sua bocca. Ne aveva anche un po’ sul mento.
Fu quel particolare che mi fece perdere del tutto la ragione.
Al diavolo il lavoro, al diavolo la riunione, chissenefrega di Celeste o Leonardo, oppure di James che mi avrebbe giudicata. Poco m’importava.
Con una lappata gli portai via la cioccolata sul mento, poi mi appropriai di nuovo delle sue labbra.
Riuscii ad arrivare allo studio con dieci minuti di ritardo.
Ed eri in orario.
 
«Passate bene le vacanze?» trillò la voce acida ed odiosa di Yuki.
Per l’occasione, indossava una gonna a scacchi rossa e una camicetta bianca. Sembrava appena uscita da un manga.
«Benissimo,» le risposi.
James mi affiancò subito, salutando la giapponese e richiedendo immediatamente la mia presenza con la massima urgenza. Cosa aveva da dirmi?
Un “bip” mi avvertì del messaggio appena ricevuto sul cellulare. Ebbi il tempo di leggerlo appena prima di entrare nell’ufficio di James.
 
stamattina ti sei fatta perdonare.
sappi che nessuno molla simone sogno sgattaiolando alle due del mattino.
 
-simonator
 
Rimasi allibita. Era davvero così cretino?
Ma soprattutto, si era davvero firmato Simonator?
Pregai tutti i santi in paradiso che avesse sbagliato numero, poi nascosi il cellulare in fretta e furia prima che James se ne accorgesse. Ci mancava solo una brutta figura con lui.
«Come va?» mi chiese sorridente, scartabellando tra alcuni fogli.
Feci spallucce. «Bene.»
Considerando che hai appena fatto sesso con colui che dovresti difendere.
Si udì un fruscio di carta. «Hai passato al meglio il Natale? Io a Liverpool mi sono annoiato.» Sghignazzò. «Quando si ha una famiglia numerosa, è sempre un gran trambusto.»
Oh, lo so benissimo.
Visto e considerato che casa Sogno era stata invasa da tutti i suoi elementi in una sola giornata.
«Già. Comunque è andato tutto benissimo, grazie.»
«Sono contento,» sorrise.
Quel gesto mi scaldò il cuore. Per quanto odiassi me stessa per quei pensieri così puerili, per quel comportamento che lentamente mi stava facendo somigliare alle persone che più odiavo al mondo, mi ritrovai a pensare quanto James fosse importante per me.
E molto.
Un altro “bip” mi riportò alla realtà.
 
quando torni, prendimi una ciambella.
 
Perlomeno questa volta non si era firmato. Un notevole passo avanti.
Mi sentii in dovere di rispondergli un Non sono la tua serva. Scendi e compratele da solo. quando la segretaria ci annunciò che la riunione stava per iniziare.
Bene. Almeno avrei avuto la scusa per spegnere il cellulare.
Mr. Abbott era già nella sala, mentre all’appello vidi che mancavano alcuni soci importanti dello studio. James mi aveva detto che era di routine fare un meeting prima del nuovo anno, una sorta di bilancio del 2012 che se ne andava.
«Accomodatevi,» ci disse il signor August, rivolgendo un sorriso bonario al nipote.
Nervosa mi sedetti vicino a James, senza proferire parola.
Non avevo idea degli argomenti che sarebbero stati trattati, eppure mi sentivo come se stessi affrontando uno degli esami di Sheperd, a Cambridge.
«Siamo in attesa di Mark e Carl,» sorrise Mr. Abbott. «Nel frattempo, posso chiedervi come sta andando con il caso di Mr. Sogno. Ci tengo particolarmente, visto che Marco è un mio carissimo amico, anche se non lo sento da tempo.»
E ci credo bene. Non sapeva nemmeno che suo figlio fosse citato in giudizio!
James prese la parola. «Miss Cloverfield ha fatto sapere, tramite il suo avvocato, che non intende scendere ad alcun tipo di patteggiamento. Ha detto che vuole la paternità del piccolo e ha aggiunto che Mr. Sogno deve prendersi la responsabilità di ciò che ha fatto.»
Rabbrividii.
Lentamente la possibilità che Simone fosse davvero il padre del bambino cominciò a insinuarsi dentro di me, facendomi tremare.
Dovevo tagliare i ponti il più presto possibile. Ero ancora in tempo, in fondo avevamo scopato solo una volta.
Ecchessaràmai!
Mr. Abbott annuì pensieroso. «Mh, capisco. C’era da aspettarselo,» commentò, poi alzò quegli occhi azzurri su di me. «Lei cosa ne pensa, Miss Donati. Come dovrebbe agire lo studio?»
Ed ecco la mia occasione.
C’era chi aspettava da una vita di riceverla, chi ci sperava ogni giorno. Prima facevo parte anche io di quella cerchia. Finalmente era giunto il momento per riscattarmi, ma era caduto nel periodo sbagliato. Proprio quando le “vacanze” mi avevano portato via del tempo per rivedere gli appunti.
«Beh…» arrancai, cercando James. «Miss Cloverfield è stata chiara. Non credo si possa giungere ad un accordo.»
«Questo lo sapevamo, vada avanti,» mi spronò l’avvocato.
La verità era che non sapevo cosa dire. Gli avrei potuto raccontare dell’arrivo di Celeste, del timballo di melanzane di nonna Annunziata, della quantità infinita di Barbie di Susanna e di quanto fosse bella Londra dalla ruota panoramica.
Del caso, invece, sapevo poco e niente.
«Forse…» tentò di salvarmi James in corner.
Mr. Abbott alzò una mano interrompendolo. «Lascia parlare la ragazza,» s’impose.
E il silenzio ripiombò nuovamente nella sala riunioni. Mi sentii come quando fui interrogata per la prima volta, alle elementari. Avvertii lo stesso groppo alla gola, le parole che si aggrappavano alla faringe senza riuscire ad uscire.
Potevo anche dire addio al posto nello studio, ora.
«August, eccoci,» disse Carl, salvandomi.
I due soci arrivarono proprio nel momento adatto, distraendo Mr. Abbott e facendogli momentaneamente perdere la concentrazione. Avvertii immediatamente la mano di James stringersi alla mia e infondermi forza.
Era fredda.
Dopo qualche secondo non riuscii più a sopportarla.
«Vado un attimo alla toilette,» gli sussurrai, a riunione iniziata.
James annuì distrattamente, troppo concentrato ad ascoltare ciò che i suoi colleghi avevano da dire sul piano annuale dello studio.
Corsi a perdifiato per l’edificio, alla ricerca di ossigeno. Scesi le scalette e mi riversai in strada, sentendo un forte peso che mi opprimeva il cuore.
Caddi sulle ginocchia, con le calze di nylon a stretto contatto con la neve fredda.
Cercai il cielo solo per sfuggire da quella morsa che lentamente mi stava offuscando anche la vista. Avevo rischiato troppo per la mia negligenza. Lentamente e senza quasi accorgermene stavo mandando a rotoli tutto ciò per cui avevo lavorato con tanta fatica.
Per cosa poi?
Nemmeno una relazione seria sarebbe valsa il sacrificio. Quella con James non era nemmeno cominciata e con Simone… era solo sesso.
«Ehi…»
Una voce familiare mi riportò alla realtà, così alzai lo sguardo e trovai gli occhi azzurri della mia migliore amica.
«E voi cosa ci fate qui?»
Leonardo rispose per lei, sorridendo. «È da quando siamo arrivati che vuole vedere dove lavori. Visto che il locale di ieri sera era qui vicino, ce l’ho portata.»
Ovviamente.
«Che bella sorpresa, non sapevo conoscessi l’indirizzo dello studio,» dissi, rialzandomi in piedi e aggiustandomi il tailleur.
Celeste sorrise. «Infatti, non lo sapevamo, ma abbiamo incontrato Simone da Starbucks, che comprava una ciambella.»
Che fortuna sfacciata.
«Eccolo che arriva,» sbuffò Leonardo, con le mani in tasca.
La mia migliore amica mi fissò con occhi brillanti. «Ci ha accompagnati fin qui, è stato carino. no?»
«Adorabile,» grugnii scettica, mentre il sorriso di quel demente si allargava da orecchio a orecchio.
Simone fece il suo solito ingresso trionfale, col petto in fuori e quell’espressione sul viso che diceva solamente “ammiratemi”.
Che razza di pallone gonfiato.
Mi fissò con sufficienza, ingurgitando la ciambella da cui uscivano chili e chili di burro. Ma dove metteva tutta quella roba?
«Alla fine sono dovuto uscire,» bofonchiò acido.
«Ti facesse male…» borbottai.
Neanche l’avessi programmato, non appena fummo tutti impalati di fronte al mio ufficio, sentii la porta cigolare e un paio di scarpe eleganti che si muovevano frettolosamente sul selciato. Mi voltai e James mi restituì uno sguardo preoccupato.
Non disse nulla. Aveva visto Simone.
«Ero venuto a vedere come stavi,» sospirò, cercando di ignorare il calciatore. «Sei scappata via nemmeno la stanza avesse cominciato a bruciare.»
Avvampai di colpo. Non mi ero resa minimamente conto dell’effetto che avevo dato scappando via così, magari Mr. Abbott c’era rimasto di stucco.
«Avevo bisogno d’aria,» risposi.
«Tu devi essere James,» disse Celeste, avanzando di qualche passo e tendendo la mano al bell’avvocato. «Ho sentito un tuo messaggio in segreteria.»
Da gentleman qual era, James si fiondò a stringere la mano alla mia migliore amica, sorridendole con garbo. Più lo guardavo e più sembrava un uomo d’altri tempi.
«Piacere mio,» sorrise, mentre Leonardo lo linciava da lontano. «Tu sei…?»
«Celeste, la migliore amica di Ven,» sorrise, lanciandomi uno sguardo furbo.
Vidi i due cugini Sogno sul ciglio della strada innevata. Stavano mangiando le rispettive ciambelle con sincronismo e non la smettevano di fissare James con l’aria di chi lo avrebbe ucciso a morsi. Quei due erano terribilmente simili, mi trovai a pensare, ma non mi sarei mai azzardata a dirlo ad alta voce, altrimenti avrei scatenato l’inferno sulla terra.
Leonardo si decise a muoversi. «Io so’ Leonardo. Er ragazzo suo,» grugnì in un forte accento romano.
James ci mise un po’ a decifrare, ma tutto sommato capì. Era un uomo dalle mille risorse.
«Oh, sei l’altro calciatore!» disse innocentemente.
Simone sghignazzò, mentre Leonardo diventò davvero color aragosta. Decisi di intervenire prima di ritrovarmi senza un avvocato che potesse spalleggiarmi durante il caso Sogno-Cloverfield.
«Dobbiamo tornare in riunione, ci vediamo a casa,» dissi, prendendo James sottobraccio. Quel mio gesto non sfuggì allo sguardo scuro di Simo.
S’irrigidì tutto d’un tratto ed io provai un profondo brivido, come se mi sentissi in colpa.
Okay, avevamo fatto sesso una volta – forse due –, e il nostro rapporto si era evoluto, ma nessuno aveva parlato di legami.
Eppure sentivo come un fastidio.
Ignorai Simone e salutai la mia migliore amica, tornando a lavoro.
Dovevo darmi una svegliata, altrimenti c’era il rischio che davvero mettessi in secondo piano il lavoro. Prima c’era stato James a distrarmi, ora Simone. Si rincorrevano l’un l’altro nei miei pensieri, mandandomi ai pazzi.
Li lasciai a guardarmi rientrare lì nel vicolo, su un marciapiede sporcato dalla neve di quella notte. Una notte che difficilmente avrei dimenticato.
James si fermò nell’atrio. «Dovremmo parlare,» disse ed io rabbrividii.
«Mi servirebbe un incontro con Mr. Sogno. È arrivato il momento di rimboccarci le maniche e lavorare sul serio, fino a tardi, coi libri del college sotto mano. Non ci hanno ancora fissato il giudice al processo, ma penso che col nuovo anno arriveranno altre brutte notizie.»
Feci un mentale sospiro di sollievo, perché James si riferiva al caso, ovviamente.
«Hai ragione. Le cose mi sono sfuggite di mano ultimamente.»
Diciamo che di mano, non ti è sfuggito poi tanto.
James sorrise. «Non preoccuparti, è vacanza. Ti capisco,» mormorò, gentile come sempre. «Però ho come la vaga impressione che Mr. Sogno abbia una certa confidenza con te, forse sarei di troppo?»
Deglutii a fatica. «Macché!» sbottai, mettendo le mani avanti. Possibile che avessi scritto in faccia “Hofattosessoconuncalciatore”? «Figurati se io e quello lì potremmo mai andare d’accordo.»
Fuori dal letto.
Sì, nessuno è perfetto.
«Okay, mi fido,» sorrise, posandomi una mano sulla spalla.
Sembrava imbarazzato, come se volesse dirmi qualcosa ma non sapeva se fosse il momento o il luogo adatto. Gli afferrai gentilmente il polso.
«C’è qualcosa che vuoi chiedermi?» lo incitai.
James sgranò quei grandi occhioni blu che mi fermarono il cuore. «Beh, veramente…» soffiò imbarazzato. Era raro che perdesse il controllo. «La notte di San Silvestro, mia zia organizza un party. Zio August mi ha chiesto se volevo invitarti e beh…» temporeggiò ancora.
L’ossigeno sparì in tre nanosecondi.
«Io vorrei invitarti,» concluse, fissandomi serio.
Mayday, mayday, mayday. Schianto previsto tra un minuto.
Non sapevo cosa dire, né cosa rispondere. Celeste stava organizzando quella notte da tempo, erano addirittura rimasti intrappolati in quel disco-pub pur di andare ad informarsi, con Sofi, ed ora io mi trovavo ad un bivio.
Sapevo che Simone non aveva alcuna voglia di passare il Capodanno fuori, non ora che non poteva trombarsi tutto ciò che si muoveva, ma non avevo idea di quali fossero i suoi programmi.
Davvero ti interessa?
No.
Bugiarda.
«Volevo passare il Capodanno con Celeste. Lei il giorno dopo tornerà a Roma,» spiegai, cercando di non ferirlo.
James abbassò lo sguardo. «Capisco.» Poi cercò di nuovo il mio. «Nel caso potremmo raggiungerli verso le ventidue, così abbiamo la scusa perfetta per mollare la noiosissima festa di zio August.» E sorrise.
Bellissimo.
Non potei fare a meno di vedere soltanto lui in quel contesto. «Perfetto. Allora possiamo andare alla festa dai tuoi, poi passare dai miei amici,» ricapitolai.
Soltanto dopo averlo detto, mi accorsi che suonava molto da fidanzatini. Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro.
Il sorriso di James mi scaldò il cuore. «Sarà una serata stupenda,» poi aggiunse sotto voce. «Perché ci sarai tu con me.»
Ven, sei una zoccola.
Amen.
 
La trama fitta della carta da parati non era mai stata così interessante come in quel momento. Avevo sparsi sul divano tutti i fogli riguardanti il caso di cui dovevo occuparmi, compresi i file di Miss Cloverfield che James si era fatto passare dal suo avvocato.
Ovviamente il compromesso ormai era da escludere. L’importante sarebbe stato arrivare al processo senza ulteriori scandali, sia per la carriera della ragazza che per quella di Simone.
Se non si fosse raggiunto un accordo, ci sarebbe stato il test del DNA. Era l’ultima spiaggia a cui potevamo appellarci e sia io che James contavamo sulla risoluzione del caso molto prima di quell’asso nella manica.
Persa in questi pensieri, mi ero ritrovata a fissare i ghirigori della carta da parati e a riflettere su quanto era successo in quegli ultimi giorni.
C’era stato un bacio, poi un altro, infine c’era stata una pioggia di baci, carezze, effusioni. Infine c’era stato il sesso.
Ora però mi trovavo schiacciata tra due fuochi, senza avere la minima idea di cosa fare. Ero partita dall’Italia con la chiara intenzione di fiondarmi di petto nel lavoro, senza lasciare spazio a tutto il resto, poi però avevo incontrato James e poi Simo.
Simone che mi era entrato dentro e si era rannicchiato in un piccolo angolino, proprio lì vicino al cuore.
James, invece, c’era sempre stato.
Ed ora? Farai la fine di Bella o delle classiche eroine dei romanzi d’Ammmore?
Il problema non era il classico triangolo di cui aveva parlato anche Renato Zero. La verità era che non c’erano le basi per costruire chissà quale idea.
I fatti erano presenti, d’accordo. Mi era piaciuto fare sesso con Simone, due volte, e l’avrei rifatto. Era solo attrazione fisica, nient’altro.
James, invece... tutt’altro paio di maniche. Era come se finalmente fossi riuscita a trovare qualcuno che mi completasse, ma non potevo starci insieme.
Non fin quando il processo non si fosse concluso.
Mi ero cacciata in un bel guaio accettando l’invito per Capodanno, soprattutto perché avrei dovuto trovare il coraggio di dirlo alla mia migliore amica. Una serata tutta per noi, che io avrei diviso con un uomo.
Non era mai successo che ci separassimo per un ragazzo.
Ero stata proprio una sciocca.
«Ehi.»
La voce di Sofia mi sorprese, così balzai a sedere senza nemmeno accorgermene. I suoi occhi azzurri, grandi come due piattini da caffè, erano talmente limpidi che mi ci potevo specchiare dentro.
«Ehi,» le risposi, sorridendo.
Sofia si accomodò vicino a me, spostando qualche scartoffia sul tavolino.
«A quanto ricordo, questo divano è stato sempre scomodo. Come fai a dormirci?» mi domandò incuriosita.
Scrollai le spalle. «Dopo un po’ ci si fa l’abitudine,» smozzicai, rimettendo in ordine i documenti prima che li perdessi un’altra volta.
Sofia guardò con interesse ogni mio movimento. La sua pelle era così chiara e le sue labbra così rosa che pensai fosse davvero la Biancaneve bionda delle mie favole di bambina.
«Sai che è come se ci fosse qualcosa di nuovo in te?» mi sorprese. «Come un taglio di capelli, un nuovo profumo addosso… una ventata di novità, insomma.»
Rabbrividii. Se Sofia avesse lavorato per Scotland Yard, l’FBI o la CIA, a quest’ora non ci sarebbero più terroristi in giro per il mondo.
Cercai di cambiare discorso, o almeno ci provai.
«Sarà l’arrivo dell’anno nuovo?» ridacchiai nervosa.
Sofia mi sorrise divertita, nonostante avesse ancora quella luce furbesca negli occhi.
Cadde il silenzio e mi sentii in dovere di cominciare pur da qualcuno, così parlai e decisi di vuotare il sacco, almeno per liberarmi da quel “peso”.
«James mi ha invitata ad un party per Capodanno,» sputai tutto in una volta.
Era un sollievo riuscire a dirlo finalmente, almeno prima di affrontare direttamente la mia migliore amica. La biondina mi fissò allibita. «E tu cosa gli hai risposto?» chiese poi.
Guardai verso il basso, le mie dita intrecciate che torturavano un lembo del pullover.
«Ho accettato,» smozzicai imbarazzata. «Però ha promesso che andremo via per le ventidue. Vi raggiungeremo prima della mezzanotte,» aggiunsi immediatamente, come se mi sentissi in dovere di dare delle spiegazioni.
Sofia però non smise quell’aria sorpresa. «Ah,» disse. Si afferrò una ciocca di capelli biondi e se la rigirò tra le dita, nervosa.
Era strano vederla così seria, lei che aveva sempre stampata l’ombra di un sorriso in volto.
Abbassò lo sguardo. «Beh, contavamo molto sulla tua presenza,» mormorò. «Ero riuscita a convincere anche Simone, dicendo che venivi. Ora non penso voglia più partecipare.»
Mi sentii doppiamente in colpa dopo quella confessione, quasi come se avessi commesso chissà quale grave reato. Mi diedi mentalmente dell’idiota e mi maledetti per aver accettato quello stupido invito.
«Sono ancora in tempo per disdire…» smozzicai, dispiaciuta.
Sofia scosse la testa e ritrovò il sorriso, anche se era forzato. «Alla fine è giusto che James ti abbia qualche volta, in fondo è il tuo principe azzurro,» spiegò cheta.
James non era di sicuro un principe, ma sia i modi che il suo aspetto lo facevano somigliare molto ad un nobile d’altri tempi.
«Tenterò di convincere Simo,» aggiunse infine.
In quel momento mi sentii come sotterrata da un masso. Una pietra gigante che mi schiacciò l’animo e mi fece assomigliare ad una vera merda.
«Ci parlo io con Simone,» dissi di punto in bianco, come se quello avrebbe cambiato le cose.
Già mi immaginavo la scena del “Ciao Simo, vieni alla festa di Capodanno che io vi raggiungo con James a braccetto prima della mezzanotte. Giusto in tempo per slinguazzarci di fronte a te!”
Fantastico.
Gli occhi di Sofia brillarono di felicità. «Davvero lo faresti? Sarebbe fantastico… non passiamo un Capodanno insieme da anni,» soffiò amareggiata.
Era chiaro. Simone non si sarebbe perso una festa nemmeno per tutto l’oro del mondo e di sicuro non l’avrebbe passata con sua sorella, o con la sua famiglia.
Tutto ciò prima del caso in cui era stato citato.
Capivo benissimo come poteva sentirsi Sofia, com’era doloroso stare lontano dalla propria famiglia in quel clima di festività. Se poi il “lontano” era inteso in senso metaforico, il dolore raddoppiava. Era evidente che il calciatore non si rendeva conto della sofferenza che infliggeva agli altri, soltanto un occhio esterno come il mio poteva accorgersene.
E ormai ero legata a quella famiglia in un modo che mai avrei immaginato.
«Ci proverò,» le dissi sorridendo.
Mi erano entrati dentro con la forza, tutti quanti. Erano riusciti a penetrare questo muro di cinismo, di ostilità e vi si erano annidati. Erano degli inquilini abusivi.
A partire dalla piccola Susanna e col finire con nonna Annunziata. Tutti quanti.
Forse sarebbe stato più semplice separarmi da loro, rinunciare a tutto quello. Dire addio a James, troncare tutto, lasciare indietro Simone e vederlo unicamente per il tribunale.
Forse sarei dovuta tornare al monolocale, riprendere in mano la mia vecchia vita. Forse avrei dovuto dire “basta” prima che fosse troppo tardi per tornare indietro.
«Cosa state confabulando?»
La voce di Simone mi fece sobbalzare.
E poi incontravo quegli occhi ed era difficile ragionare con la mente lucida.
Sofia prese la cosiddetta palla al balzo e si alzò in piedi. «Si è fatto tardi, Ruben mi passerà a prendere tra poco, quindi vi lascio a questioni ben più importanti.» E mi fece l’occhiolino.
Un occhiolino davvero insistente.
Quella scenetta da sit-com poteva davvero sembrare divertente ad un occhio esterno, peccato però che stavo raggiungendo l’apice dell’imbarazzo.
Simone poi, con quel sorrisetto arrogante stampato in faccia non aiutava per niente.
«Che hai da sghignazzare?» gli feci inviperita.
Lui scosse la testa e si spostò distrattamente i capelli dal viso. Gesù, quel gesto era sempre da infarto. Ogni. Singola. Volta.
«Niente,» borbottò. «Mi piace quando sei in imbarazzo.»
Lo disse così, senza curarsene, ma non avrebbe mai immaginato che il mio cuore facesse un doppio salto mortale carpiato all’indietro. Odiavo questa sua spontaneità, il suo essere così maledettamente diretto.
Come un bambino.
Un poppante.
Un marmocchio.
Bamboccione.
«Smettila!» gli dissi, nascondendo l’imbarazzo e cercando di fare qualsiasi altra cosa. Qualsiasi!
Mi alzai diretta in cucina e cominciai a rovistare tra gli scaffali. Sentivo il suo sguardo addosso che mi accarezzava quasi fosse tangibile, ed io ci stetti troppo male.
Come faceva ad influenzarmi tanto facilmente?
Sospirai, tanto per scacciare quei brutti, bruttissimi, pensieri. Cercai il suo sguardo che subito si allacciò al mio, quasi come due calamite.
«Dobbiamo parlare,» dissi di punto in bianco.
Era meglio tagliare la testa al toro subito, prima di rimuginarci troppo sopra. Sarebbe stato controproducente e non avrebbe portato da nessuna parte.
Chiaro e tondo: James, io, Capodanno. Stop.
Simone sulle prime non mi prese sul serio. Si avvicinò come un predatore avrebbe fatto con un succulento boccone e mi posò le mani sui fianchi. Rabbrividii immediatamente a quel contatto. Mi mancavano troppo quelle mani.
Avrei davvero voluto cedere, permettergli di fare di me quello che voleva, ma avevo fatto una promessa a Sofia. Via il dente, via il dolore. La sua presenza al party di Capodanno era fondamentale, anche per la sottoscritta.
Ero un’egoista, e lo sapevo bene. Li volevo entrambi la notte di San Silvestro, tutti e due sotto lo stesso tetto.
Gli bloccai le mani che nel frattempo erano andate a solleticare la pelle sotto il pullover.
«Davvero, dobbiamo parlare,» dissi decisa, guardandolo con serietà.
Simone allora capì che c’era qualcosa di fondo in tutta quella storia, così sorrise e mi baciò la punta del naso. «Dopo. Prima devo portarti in un posto,» disse, in tutta naturalezza.
C’erano volte in cui pensavo di aver inquadrato un tipo come Simone, un ragazzo giovane, bello, che aveva tutto dalla vita. E poi c’erano volte in cui agiva così, d’istinto, e mi trascinava dentro il suo vortice senza che io potessi sottrarmi.
«Promesso che dopo parliamo?» gli chiesi a conferma. Tanto non mi sarebbe sfuggito.
Lui mi guardò con quelle iridi scure e profonde. Due opali. «Promesso. Vieni.»
Mi prese per mano e mi condusse fuori dall’appartamento, verso la sua cinquecento blu metallizzata parcheggiata in garage.
Il tempo non era dei migliori, ma i meteorologi non avevano messo nevicate in programma per quella serata. Il viaggio fu piuttosto lungo, anche perché sembrava ci stessimo dirigendo fuori città, oltre la periferia di Greenwich. C’erano tanti quartieri alla periferia di Londra, posti che avevo visto soltanto sul pullman quando ero arrivata dall’aeroporto di Gatwick.
Case in mattoni rossi, a schiera, con piccoli giardini sul retro e sul davanti. I comignoli accesi che fumavano, le loro strutture sviluppate in altezza, il rosso scuro dei mattoni che spiccava in contrasto con la neve candida.
Sembrava quasi il quadro perfetto, degno di una cartolina.
«Dove stiamo andando?» chiesi.
Era legittima come domanda, visto che l’ultima volta in macchina con lui mi ero buscata un bel raffreddore da dimenticare. Simone teneva gli occhi incollati alla strada. Quegli occhi che più volte mi avevano mangiata viva.
Mi morsi il labbro e tentai – davvero, ci provai con tutta me stessa – di non pensare a quello che avevamo fatto, ma per ovvie ragioni i ricordi si riversarono nella mia mente come uno tsunami.
«Aspetta e vedrai,» disse misterioso, ed io incrociai le braccia.
Perché doveva tenermi nascoste le cose? Sapeva che non riuscivo a resistere dal curiosare, era più forte di me!
«Mi stai portando al mare? Ad un ristorante? Alla villa dei tuoi antenati morti?» provai, anche se quella mia ultima uscita lo fece sorridere.
Mi guardò tenendo le mani sul volante. Sorrise. «Non te lo dico. È inutile che insisti,» soffiò, avvicinandosi pericolosamente.
Eravamo su una strada secondaria, ma pur sempre una strada. Cosa diavolo gli era venuto in mente? Possibile che fosse così ritardato?
«Guarda davanti a te,» gli dissi, preoccupata.
Lui tolse una mano dal volante e la posò sulla mia gamba fasciata dai jeans. «So guidare, Lil’Elf,» mi ricordò.
Lo fissai di traverso. «Anche se non metto in dubbio il livello di preparazione della motorizzazione anglosassone, già l’idea di essere sul lato sbagliato della strada mi mette a disagio…» mi lagnai.
Okay, la mia metà cagasotto stava uscendo fuori senza alcun controllo.
Simone scoppiò in una fragorosa risata e tornò a guardare la strada con più attenzione. «Certe volte mi spiazzi proprio,» commento tra una risata e l’altra.
Inclinai la testa da un lato, non afferrando pienamente il suo riferimento. «Cosa ho fatto, si può sapere?» chiesi irritata.
Ed ecco che ci guardammo di nuovo. Se qualcuno avesse cronometrato il tempo delle nostre occhiate, ero sicura che sarebbe trascorso pochissimo tra un battito di ciglia e l’altro.
Due calamite che si rincorrevano.
«Qualche volta è come se ti avessi inquadrato,» disse, cambiando marcia e accelerando un po’. «Poi è come se avessi un’altra persona davanti a me. Sei come un camaleonte,» concluse.
Sorrisi. In fondo era una specie di complimento ed io pensavo quasi la stessa cosa di lui. «Prima mi chiami vecchia, poi piccolo elfo, nanetta ed infine camaleonte… si può sapere quanti soprannomi ho?» borbottai, fingendo di fare l’offesa.
Era divertente stuzzicarlo in quel modo. Non ero mai riuscita a fare lo stesso con James.
Simone scrollò le spalle. «Tanti, suppongo.»
«Anche io te ne ho affibbiati tanti,» realizzai. «E pensare che non ho mai dato soprannomi a nessuno, se non una semplice abbreviazione di un nome.»
Il calciatore accelerò ancora, facendomi voltare verso la strada. «Nemmeno io ne ho mai dati,» concluse conciso.
C’erano tante cose che a mano a mano stavamo facendo diventar nostre e forse era sbagliato. Niente era giusto di quello che stavo combinando con Simone. Dal sesso, alla frequentazione, al rischio di mandare tutto il lavoro e il tirocinio all’aria.
E quei maledetti soprannomi, poi.
«Allora ce la vogliamo far arrivare la nave in porto, Capitano?» sorrise lui, guardandomi complice.
Purtroppo era impossibile resistere. «A vele spiegate, Marinaio,» risposi.
 
***
 
Arrivammo ad Aton prima del previsto e gironzolammo un po’ per trovare un parcheggio che non desse troppo nell’occhio. Simone aveva in mente un posto preciso, perciò cercò di posteggiare la Cinquecento il più vicino possibile.
Ancora non sapevo dove mi stesse portando o cosa volesse mostrarmi.
Era un continuo enigma passare il tempo con lui, soprattutto quando non mi trovavo nel suo ambiente. Le partite erano un conto, gli allenamenti anche, ma a tutto questo non ero abituata.
E poi faceva dannatamente freddo.
In campagna, o periferia, senza lo smog che creava una specie di “cappa” sulle case, i meno cinque gradi di quella giornata si sentivano tutti perfettamente. Rabbrividii subito e mi rannicchiai nel cappotto.
Allora Simone afferrò una delle mie mani e la strinse, infilandosela nella tasca del piumino.
Lo guardai stranita.
«Che c’è? Non posso essere gentile?» ironizzò, fissandomi divertito.
Non poteva comportarsi così. No! Era scorretto! «Mi dici dove stiamo andando?» chiesi stufa di tutti quei suoi giochetti da marmocchio.
Simone continuò a camminare, poi m’indicò con un cenno del capo un piccolo parco recintato.
Ci avvicinammo ed entrammo in un cancelletto nero, in ferro battuto. C’era una pace in quel posto da sembrare quasi una finzione.
«E questo sarebbe…?» dissi, tentando di cavargli le parole fuori dalla bocca.
Era più difficile di quanto pensassi, soprattutto per una che avrebbe dovuto fare l’avvocato.
«Un posto,» mormorò lui.
Arrivammo fino ad un campetto da calcio dall’aria trasandata. L’erba era incolta, poco curata e la neve aveva ghiacciato la maggior parte dell’area.
C’era una panchina abbastanza pulita su cui potersi sedere.
Rimanemmo in silenzio a sentire il vento che frusciava tra le fronde degli alberi. Di tanto in tanto passava un barbone, o un senzatetto, con un fagotto dei suoi averi che ci ignorava.
Simone teneva ancora la mia mano nella sua tasca e l’accarezzava. Mi sentii a disagio in quel momento, con quella verità che ancora dovevo svelargli.
«Senti…» tentai di dire, visto che ormai non c’era quasi più tempo.
«È qui che è cominciato tutto,» disse lui, interrompendomi.
«Tutto?» chiesi.
Simone annuì e sospirò. «Dove ho scoperto che un pallone poteva dare mille emozioni diverse.»
Un pallone… dove aveva scoperto che il calcio era la sua vita.
«Prima abitavate qui,» realizzai in ultimo.
«Sì, all’inizio non eravamo una famiglia piena di soldi e di successo. Più o meno come il papà di Leonardo. Si tirava avanti,» raccontò.
Non sapevo perché mi stesse confidando tutto quello, per quale motivo avesse deciso di aprirsi con me di punto in bianco. Fatto sta che non lo fermai, non ne ebbi il coraggio né la voglia. Dovevo sapere più di lui, dovevo abbattere quel muro o perlomeno provare a scalarlo.
«Quel pallone che ho in camera, quello rovinato che Sofia ha miracolosamente salvato dal tuo tornado di pulizie,» ridacchiò guardandomi. «Sì, me l’ha detto,» aggiunse.
«Quel pallone è stato il primo che mio nonno mi ha regalato, anzi, ci. A me e a Leonardo, un Natale di non so quanto tempo fa. È l’unico ricordo che abbiamo di lui ed è come un portafortuna.»
«Anche Leonardo ne ha uno uguale?» chiesi.
Lui annuì. «Almeno dovrebbe. Non so se l’ha conservato o se l’ha gettato via. Sono passati dieci anni da quando nonno è morto.»
Sì, Celeste me ne aveva parlato qualche tempo fa. Nonna Annunziata era rimasta vedova abbastanza giovane e non si era mai risposata. Una donna dal carattere forte e davvero ammirevole.
«Quindi, questo campetto è una specie di rifugio per te?» gli domandai, sentendo le sue carezze affievolirsi fino a smettere del tutto.
Si prese un po’ di tempo per elaborare il tutto. C’era un Simone diverso di fronte a me, un Simone che credevo non potesse esistere.
«Diciamo che è dove ho capito cosa volevo fare della mia vita,» mi corresse lui.
«E cosa c’entra il pallone?» domandai ovviamente.
Lui si alzò in piedi e cominciò a camminare verso le porte da calcio, con le reti scucite e penzolanti. C’era tutta la ruggine sui pali, dove un tempo spiccava la vernice bianca. Ormai vi erano rimasti soltanto dei residui cadenti e semi-incrostati.
Lo seguii perché era chiaro che voleva dirmi dell’altro.
Si infilò le mani in tasca e trotterellò lungo tutta la linea del campo, seguendo il bordo dell’area. Mi misi dietro di lui, come i vagoni di un treno sulle rotaie.
Il cielo si preannunciava sempre più nero e in lontananza si sentivano i tuoni squarciare il cielo.
«Mio nonno è stato come un padre per me e per Leonardo. Era l’unico che riusciva a tenerci uniti e il calcio, in uno strano modo che ancora non so spiegarmi, ci ha aiutato anche in questo.»
«Ma se vi linciate in campo!» sbottai, incredula.
Simone si voltò soltanto un pochino, giusto lo spazio per guardarmi. «Si fa quel che si può,» rispose con un sorriso simile ad un ghigno.
Continuammo a girare in tondo per un po’ di tempo, mentre Simone continuava a cianciare roba sul suo passato. Anche se tra lui e il cugino non correva buon sangue, ne avevano passate di avventure quei due. L’unica cosa che avevo compreso a fine discorso, era l’importanza di nonno Sogno e di quel pallone scucito.
«E così mi hai portato qui perché finalmente posso immedesimarmi in quella tua testolina e comprenderti?» gli chiesi sorridendo.
Lui mi guardò sincero. Quel tipo di sguardo che leggeva l’anima. «No,» rispose tranquillo. «Ti ho portato qui soltanto per farti vedere il mio mondo da un’altra prospettiva. Non il successo, non le donne, non gli autografi o gli sponsor. Soltanto io, un pallone e un vecchio campetto da calcio.»
In quel momento pensai che se fossimo stati in un altro luogo, in un altro momento, se lui non fosse stato Simone Sogno ed io non avessi la sua causa per dubbia paternità che oscillava pericolosamente sulla mia testa… beh, forse se non fossimo stati noi, avrei potuto amarlo.
Forse.
Iniziò a piovere in quel momento, proprio quando c’era l’occasione per parlare, per dire qualcosa e finalmente affrontare il famoso discorso del Capodanno. Evidentemente nemmeno madre natura era dalla mia parte.
«Cazzo!» imprecò Simone, coprendosi con il bavero del cappotto.
«Dobbiamo tornare alla macchina!» urlai.
Lui mi afferrò la mano e cominciammo a correre, ma in direzione opposta a dove avevamo parcheggiato la Cinquecento.
Non sapevo dove mi stesse portando e non avevo nemmeno il fiato per chiederglielo. La pioggia aveva cominciato a penetrare sui vestiti, bagnandomi fin dentro le ossa. Corremmo sotto l’acqua, slittando con gli stivali sulla neve e sul ghiaccio che c’erano ancora per la strada, finché non imboccammo un vicolo.
La stretta di Simone era sempre forte, ma il fiato cominciava a scarseggiare.
Avevo i capelli appiccicati al viso e l’acqua che mi galleggiava nelle scarpe. Odiavo essere così bagnata ma vivendo a Londra da quasi quattro mesi, ci avevo fatto un po’ l’abitudine.
«Ehi… aspe-aspetta!» esalai, cercando un modo di farlo fermare. D’accordo che lui era allenato, ma io non muovevo un passo dal liceo ormai.
Simone rallentò, ma continuò a camminare tirandomi dietro. «Siamo quasi arrivati,» disse.
«Ma dove?» sbottai io, stufa.
Dopo aver girato a destra due volte e un’ultima a sinistra, in un piccolo vicolo poco illuminato ma grazioso, c’era una locanda. Le gocce di pioggia erano poche, i tetti fitti, ma l’umidità e la temperatura di quella giornata mi fecero rabbrividire.
Simone mi sorrise e mi condusse all’interno del locale.
Un caldo tepore mi invase appena misi piede lì dentro, avvolgendomi come un abbraccio caldo di una madre. Il campanello tintinnò al nostro ingresso, così una donna corpulenta e piuttosto bassa, con le tipiche guance rosse anglosassoni ci accolse con un sorriso sincero.
«Benvenuti alla Blue Rose,» disse accogliente. «Cosa posso fare per voi?»
Notò subito le condizioni pietose in cui eravamo, così si adoperò immediatamente per portarci due calde coperte di pile.
«Oh Cielo, questo tempaccio!» protestò, attizzando il fuoco con qualche altro ciocco di legna. «Non ci voleva proprio un temporale così, soprattutto con la neve dell’altro giorno!»
«Le previsioni non avevano detto…» intervenni.
«Tesoro, ormai noi inglesi non diamo più retta a quello che dice il televisore,» ridacchiò.
Rimasi sorpresa. «Come fa a sapere che non sono di qui? È per l’accento?»
Simone mi guardò sorridente, senza aggiungere nulla.
«Senza offesa, tesoro,» mormorò la donna. «Ma in settantadue anni di vita, so riconoscere la mia gente. Inoltre, il tuo inglese è perfetto. Penso sia una questione di pelle, non so come spiegarlo. E poi le abitudini…»
«Invece lui è inglese?» chiesi, indicando Simone.
Non sapevo se la donna seguisse il calcio, oppure avesse visto Simo su qualche rivista. Tentai ugualmente.
La signora rotondetta mi sorrise. Una volta aveva i capelli rossi, i suoi tratti somatici me lo suggerirono anche attraverso quella semi-oscurità.
«Sei così dolce, tesoro. Mr. Sogno è fortunato ad averti trovato,» sorrise.
«Allora lo conosce!» esclamai, riferendomi al fatto che probabilmente lo avesse visto in televisione, anche se aveva detto che non seguiva molto i programmi.
Sentii la risata di Simone uscire così sincera e limpida, da riscaldarmi.
«Da quando aveva due anni, credo,» sospirò la donna. «E anche allora era un piccolo sciupafemmine!»
Rimasi lievemente perplessa. «Vuol dire che…?» azzardai.
Finalmente Simone si sentì in dovere di intervenire. «Ti presento mia nonna Eleonor.»
La donna subito mise le mani sui fianchi. «Quante volte ti ho detto di non chiamarmi nonna? Mi fai sentire vecchia, ma sono nel fior fiore dei miei anni!» trillò estasiata.
Quindi era l’altra nonna di Simone, quella materna. La nonna inglese.
«Tanto piacere. Io sono Venera,» dissi, porgendole la mano.
Lei me la strinse e mi invitò ad abbracciarla. Mi sentii lievemente in imbarazzo, ma non mi sottrassi a quel gesto, non potevo. Io che i nonni non li avevo più.
«Tanto piacere, Vennie,» ridacchiò l’anziana signora. «Che ne dite di fermarvi qui, eh? L’inverno Aton diventa un posto desolato e alla Rosa Blu non c’è quasi mai nessuno. Inoltre è quasi buio ed è pericoloso tornare a Londra con il maltempo.»
Stavo per protestare, quando Simone bloccò le mie parole sul nascere.
«La solita stanza?» sorrise.
La donna gli restituì lo stesso gesto con malizia. «La numero sei.» E andò a prendergli un mazzo di chiavi dall’aspetto piuttosto vecchio.
Con “solita” cosa aveva voluto dire? Che ci portava tutte le sue sgualdrinelle? Che sua nonna coprisse le scopate clandestine che si faceva con le giraffone per non destare scandalo?
Il mio Cervello cominciò a farsi i peggiori filmini. Nemmeno Federico Fellini lo avrebbe eguagliato.
Salutai la nonna e ci incamminammo verso una stretta rampa di scale. Diciamo che la visuale del sedere di Simone che ondeggiava davanti al mio visto, aveva momentaneamente dissipato ogni problema precedentemente sorto.
Tra cui il famoso Capodanno.
«Questo posto cos’è? Il locale segreto dove porti le tue amanti?» chiesi, provocandolo volontariamente.
Simone non rispose. Si limitò a infilare la chiave nella toppa e a girarla, aprendo la porta e facendomi entrare. Nel mentre, tirai fuori il cellulare dalla borsa per avvertire Celeste che non saremmo tornati.
Aprii la casella dei messaggi, ma mi bloccai.
Cosa avrei potuto scriverle? Era ovvio che tutto ciò sembrasse fin troppo ambiguo, proprio quando la mia migliore amica aveva conosciuto James.
Fu di punto in bianco che Simone mi afferrò il cellulare. «Ehi!» protestai.
Lo spense e se lo infilò in tasca. «Non manderai messaggini romantici a quel baccalà in giacca e cravatta.»
Roteai gli occhi al cielo. «Stavo avvertendo Celeste che non saremmo rientrati, testone!» ringhiai. A volte era proprio un moccioso.
Simone ghignò ugualmente. «Meglio se non lo sanno, così si faranno strane idee su di noi,» mi provocò.
Arrossii d’istinto, ma abbassai prontamente lo sguardo per nasconderlo.
«Tra noi non c’è nulla, e nulla da nascondere,» dissi chiara.
Ovviamente lui nemmeno mi ascoltò. Anzi, si tolse la coperta, il cappotto e cominciò lentamente a spogliarsi. Un po’ troppo lentamente.
E mi fissava.
«Hai capito male,» misi subito le cose in chiaro. Non poteva rapirmi, farmi conoscere sua nonna e dopo pretendere di fare sesso senza che nessuno sapesse dove fossimo.
E dovresti dirgli anche di James.
Ecco!
«Io mi sto solo spogliando per fare una doccia calda e rilassante. Vuoi unirti?» mi chiese.
«No!» ringhiai, poi mi misi seduta di peso sul letto –che ovviamente era matrimoniale.
Simone allora si liberò del maglione, della maglietta sottostante, appoggiandoli ad una poltrona, poi cominciò a slacciarsi i jeans.
Anche se le sue nudità non erano una novità per la sottoscritta, ed era dura anche ammetterlo, riusciva sempre a colpirmi. Era perfetto, in ogni cosa. Nemmeno Michelangelo con il suo marmo e il suo scalpello avrebbe potuto riprodurre qualcosa di meglio.
«Lo rivuoi, il tuo telefono?» mi chiese, facendomelo dondolare davanti agli occhi.
Era rimasto in boxer. Quelli arancioni a pois viola che gli aveva regalato Sofia per Natale. Il pensiero di aver riconosciuto i suoi indumenti intimi per un nanosecondo mi terrorizzò.
«Dammelo,» gli intimai.
Simone sfoderò quel sorriso sghembo che tanto odiavo, poi allargò l’elastico dei boxer e ci fece cadere dentro il blackberry.
Ero ufficialmente fottuta.
«Ora vienilo a prendere,» sghignazzò ed io maledissi quel tempaccio di merda fino alla fine dei miei giorni.
   


Bene, bene, bene!
Ce l'ho fatta a pubblicare! #dovevaabdicareilpapaperchéciriuscisse ma ce l'ho comunque fatta! Dopo mesi e mesi di estenuante attesa, ora potete sapere cosa è successo ''dopo'' il fattaccio dello scorso capitolo. Mi sono anche prodigata a rispondere a tutte le recensioni arretrate #bravaragazza, nonostante ho dovuto smollare una marea di esami e recuperare gli episodi delle millemila serie tv che seguo ù_ù
*magari se ne seguissi di meno*
*magari se ti facessi gli affaracci tuoi*
Dopo questo teatrino, mi ritiro prima che mi internino al manicomio più vicino. Sono davvero felice che nonostante i miei ritardi (mentali) nel pubblicare voi fanZZ-tunZ vi fate comunque sentire, sia qui, sia nel gruppo facebook (Crudelie). Grazie davvero.
Mi ritaglio un ultimo pezzettino *angolo pubblicitario* per segnalarvi due storielle pubblicate di recente:

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Capitolo 17 ***



CAPITOLO 17
betato da nes_sie
Il telefono ovviamente era stato requisito e portato nel bagno, dove ora si sentiva lo scrosciare intenso dell’acqua della doccia. Me ne stavo spaparanzata sul letto, udivo i tuoni in lontananza che squarciavano il cielo e pensavo.
Pensai a quello che stava succedendo.
Ricordai i primi giorni a Londra, quando mi ero appena trasferita in via definitiva. Mi ricordai del caos della Tube, del mio piccolo appartamento a soqquadro, delle corse per arrivare in tempo in ufficio.
Sembrava una vita diversa da quella che avevo ora.
La fine del vecchio anno si avvicinava inesorabile e mai mi ero sentita così ansiosa che ciò non accadesse. Ero partita decisa con l’intenzione di mettere fine a quella specie di tresca che si era instaurata tra me e il calciatore – cliente, tra l’altro – e di metterlo immediatamente al corrente dell’appuntamento con James.
Avevo fallito su entrambi i fronti.
Mi alzai in piedi decisa ad ignorare quei pensieri che avrebbero altrimenti finito per mandarmi ai pazzi, così cominciai a girare per la stanza a grandi passi, cercando qualsiasi cosa da fare. Fuori era buio e le verdi campagne del Sussex venivano illuminate di tanto in tanto da uno sporadico lampo che squarciava il cielo.
Raggiunsi il davanzale e vi posai le mani sopra.
Mi cadde lo sguardo sui vestiti di Simone abbandonati malamente sulla sedia lì accanto, accartocciati come giornali vecchi. Sbuffai e roteai gli occhi al cielo, per poi cominciare a piegargli i pantaloni e tentaredi lisciarli il più possibile.
Neanche fossi sua madre, mamma mia. Gli ci voleva la balia ventiquattr’ore al giorno!
Non appena afferrai il maglioncino a righe firmato Ralph Lauren, una zaffata di profumo mi assalì le narici ed io rimasi completamente pietrificata. Era la stessa, identica fragranza di quella notte, di quando smise la maschera del calciatore arrogante, di quando aveva, per un attimo, fatto crollare il muro.
Senza pensarci, lo avvicinai alle narici, quasi guidata da quell’odore pieno di ricordi.
«Stai annusando il mio maglione?» mi sorprese la voce di Simone ed io sobbalzai per lo spavento.
Si era mosso furtivo, quasi come una pantera. Non mi ero minimamente accorta che la porta del bagno si fosse aperta.
Presa in contropiede, strinsi tra le mani l’indumento incriminato.
Dovevo inventarmi una scusa alla svelta, oppure avrei segnato la mia fine. Secoli e secoli di prese in giro made in Simone Sogno.
Non sarei sopravvissuta alla prima settimana.
«Certo che no!» sbottai, forse un po’ troppo forte. «Stavo solo controllando che fosse 100% cotone. Sai, queste cose sintetiche possono far irritare la pelle…» e cominciai a rigirare il maglione tra le mani.
Simone mi fissò esterrefatto. «Davvero pensi che me la beva?»
Ovviamente no. Certo, Mr. Furbetto non poteva credere alla cazzata del secolo. Sbuffai e lanciai il maglione sulla poltrona. «Credi quello che vuoi,» tagliai corto, pur di non dargliela vinta.
Era chiaro che avessi mentito, ma per principio non gli avrei mai dato ragione. Si era trattato solo di una debolezza, di qualcosa di incontrollato. Non si sarebbe mai più verificato un evento del genere, questo era certo.
Voltai lo sguardo per incrociare il suo e mi accorsi solo in quell’istante il mini-mini-mini-davveromini asciugamano, praticamente un insulto agli asciugamani, fissato alla vita di Simone. Era ciò che avrebbe dovuto coprirgli il Santonoré, ma che falliva miseramente il suo intento.
Ovviamente lui ghignò soddisfatto, come se lo avesse fatto di proposito.
Lo ha fatto di proposito.
Ma va?
«Vorresti un assaggino di Simo tuo, eh?» ridacchiò soddisfatto, slacciandosi lentamente il nodo. «Basta una parola, e lo lascio cadere…»
L’Ormone si svegliò d’improvviso, pregandomi in ginocchio di parlare.
Tentai di fare forza su me stessa, perché lo avevo accontentato fin troppo, impelagandomi in quell’incresciosa situazione.
«Tieni a freno il fagiolino laggiù,» gli intimai tagliente.
Lui mi fissò stupito e si risistemò l’asciugamano. «È tornata la Regina Delle Nevi,» asserì. «Sei più divertente dopo un orgasmo.»
Linciai Simone con uno sguardo che avrebbe incendiato mezza foresta pluviale. «Dobbiamo parlare, se ben ricordi.»
Fu allora che Simone, in barba al suo corpo ancora umido della doccia, si spaparanzò sul letto, incrociando le braccia dietro la nuca e fissandomi sorridente. «Parliamo, allora. Anche se con questo,» e indicò il suo corpo. «Potremmo fare molto altro.»
Roteai gli occhi al cielo e mi sedetti sulla sponda opposta del letto, il più lontano possibile da lui.
Per non cadere in tentazione.
Amen.
Rimanemmo però in un imbarazzante silenzio. Avrei dovuto trovare le parole adatte per quello, per introdurre la faccenda di James e spiegare il perché continuassi ad oscillare tra l’uno e l’altro senza mai decidere.
«Dobbiamo smetterla,» cominciai, decisa. Simone arcuò un sopracciglio. «Smettere con tutto questo, col vederci al di fuori delle questioni che riguardano l’ufficio,» precisai.
Lui scrollò le spalle. «Pensavo fossero degli extra concessi dalla Abbott&Abbott.»
«Cretino!» ringhiai. «Fai il serio per un momento.»
Simone allora tornò quella persona che di rado riuscivo a scorgere. Quella di quando c’era il padre, di quando doveva affrontare le sue partite, quel ragazzo che forse era il vero Simone Sogno.
«Va bene,» disse solamente, con un tono menefreghista. «Per me possiamo anche far finta che  non sia successo nulla. Sai quante volte l’ho fatto.»
Rimasi estremamente delusa da quella sua risposta.
Certo non mi sarei aspettata i pianti disperati o i vani tentativi di concedergli una seconda occasione, ma quella risposta fu uno schiaffo in piena faccia.
È evidente che ti ha soltanto usata.
Lo sapevo, eppure ci rimasi male.
Una strana sensazione di fastidio cominciò ad impossessarsi del mio corpo, e non riuscii a sopprimerla. Avevo voglia di urlargli addosso, di dirgli quanto potesse essere immaturo e stupido questo suo comportamento, però mi feci forza e tacqui. In fondo era ciò che volevo: separarmi da Simone.
«Perfetto,» sentenziai. «Allora non ha alcuna importanza se ti dico che a Capodanno andrò alla villa di James,» buttai fuori in un sol colpo.
Era una granata pronta ad esplodere, me lo suggerì lo sguardo di fuoco del calciatore.
Strinse la mascella. «Fai come cazzo ti pare.»
Mi presi quella piccola rivincita e nel frattempo riuscii finalmente a confessargli quel piccolo “segreto” di James, se così si poteva chiamare.
«Mi farò vedere al locale prima della mezzanotte. Me l’ha promesso,» spiegai, arrivando poi al punto in cui avrei dovuto convincerlo ad andare comunque, altrimenti Sofia mi avrebbe ammazzata.
Simone scrollò le spalle e si alzò dal letto con stizza. «Non devi dirlo a me. È mia sorella che ci tiene.»
Camminò lungo tutta la stanza, soffermandosi davanti una cassettiera. Ne prese un bel pigiama lungo, di seta sembrava, e cominciò a slacciarsi l’asciugamano in vita.
Stavo per fermarlo, o almeno per coprirmi gli occhi, quando la stoffa umida cadde sul pavimento di parquet.
Cercai di non far indugiare il mio sguardo sulle natiche sode o su quelle spalle nude e possenti. Ovviamente fallii su tutta la linea.
Simone indossò i boxer puliti che aveva afferrato dal comò e il pigiama, sempre dandomi la schiena, senza parlare. Non c’era nulla da dire e nient’altro da aggiungere. Finalmente avevo ottenuto ciò che volevo, una pausa da tutto quel tornado di avvenimenti che mi aveva travolta.
«Ho promesso a Sofia che dovrai esserci al locale la notte del 31,» aggiunsi, sperando non mi lanciasse qualcosa in faccia.
Lui si limitò ad indossare la maglia del pigiama che gli spettinò ancora di più quei capelli ribelli che si ritrovava, poi mi sorrise. «Ti pare che mi possa perdere un’occasione per rimorchiare?»
Assottigliai lo sguardo. «C’è sempre quel piccolo accordo di non correre dietro alle gonnelle fino a processo concluso…» gli ricordai.
«Ovviamente esclusa la tua, di gonnella,» commentò lapidario.
«Io porto i pantaloni,» replicai.
Rimanemmo in silenzio a fissarci reciprocamente, senza aggiungere altro. C’era della tensione irrisolta tra di noi, che era sfociata in qualcosa di fisico e penosamente immaturo. Ci ero cascata un paio di volte, ci eravamo divertiti, okay. Ora basta, sarei tornata alla realtà.
Stai convincendo me, oppure te stessa?
Entrambi.
Dovevo farlo per forza, altrimenti non sarei sopravvissuta. Era troppo difficile per me relazionarmi a qualcuno, figurarsi un calciatore che aveva ancora il cervello di un quattordicenne.
Simone si infilò sotto le coperte, voltandosi dalla parte opposta alla mia.
«Non mi hai ancora detto cos’è questo luogo,» gli chiesi, cercando di fare un po’ di conversazione.
Mi serviva una distrazione per non pensare al fatto che avremmo passato la notte insieme, di nuovo, dormendo e basta.
Lo sentii sbuffare annoiato. «È una pensione. Cosa c’è da capire?»
In quel momento lo avrei volentieri preso a cuscinate. «Grazie, genio! Intendevo perché tua nonna ti riserva questa stanza. Ci porti forse le tue giraffone preferite? È una sottospecie di bordello non autorizzato?» ipotizzai.
Simone si voltò di scatto e mi fissò malissimo. «Nonna Eleonor è una donna rispettabile,» ringhiò.
Alzai le mani in segno di scuse. «Stavo solo scherzando, calmati.»
Il calciatore allora distese i nervi e posò la testa sul palmo, con l’avambraccio piegato. Mi fissava con quegli occhi neri così dannatamente espressivi. Sembravano scuri tanto quanto il cielo di quella notte.
«Non è un luogo di perdizione come pensi tu,» iniziò sospirando, poi si distese a guardare il soffitto. «Diciamo che i primi tempi in cui divenni famoso, non sopportavo tutta la pressione che mi faceva Gabriele, i giornalisti, l’allenatore e i fans. Allora, di tanto in tanto, prendevo la macchina e mi rifugiavo qui ad Aton, da nonna Eleonor. È una sorta di scappatoia dalla realtà. Soddisfatta?»
No. Non ero per nulla soddisfatta.
Il vedere questo Simone mi rendeva ancor più inquieta rispetto a quando l’avevo conosciuto. Sarebbe stato tutto più semplice se lui fosse stato quello proprio ciò che appariva. Invece no. Quando tirava fuori questo suo lato più maturo, lo detestavo.
«Non era la storia che mi aspettavo,» ammisi, delusa.
Simone sbuffò. «Trai sempre conclusioni affrettate e spari giudizi su tutti prima di conoscerli,» mi ammonì subito.
Stava cominciando a farmi la morale?
«Non è vero!» protestai.
Fu allora che incrociai di nuovo il suo sguardo. «Allora credi ciò che vuoi. Non fai altro che sparare sentenze su qualsiasi persona tu conosca. Sei proprio un avvocato nell’anima.»
«Perché forse tu non sei viziato e arrogante? Non sei un bambino capriccioso e immaturo? Correggimi se sbagli,» lo pungolai.
C’era un limite a tutto. Voleva la guerra? Beh, l’avrebbe avuta.
«Non ti correggo, è vero. E ne vado fiero,» asserì sicuro. Era stramaledettamente insopportabile questa sua arroganza e spavalderia.
«Sei irrecuperabile,» sbuffai.
«E te sei lunatica.»
Sgranai gli occhi esterrefatta. «Prego?»
«L.U.N.A.T.I.C.A.» sillabò lui. «Significa che cambi idea ogni tre secondi, che sei volubile come un’ape.»
«So cosa significa, idiota. E poi che c’entra l’ape?»
Simone ghignò. «Voli di fiore in fiore,» alluse maliziosamente.
Rimasi a fissarlo con gli occhi socchiusi che mandavano saette intimidatorie. Come si permetteva di appellarmi a quel modo? Lui che cambiava ragazza più spesso di quanto si lavasse i denti!
«Senti chi parla,» lo apostrofai.
«Beh, io almeno lo ammetto. Tu fai tutta la santarellina, poi mi usi e mi getti via. Hai spezzato il mio tenero cuoricino, sai?» ridacchiò.
«Certo, come no,» bofonchiai.
Simone allora si chinò a terra e raccolse un oggetto che poi mi porse. Era il mio telefono cellulare.
«L’hai sterilizzato?» gli chiesi con una smorfia.
Lui ridacchiò. «Tranquilla, se avessi qualche malattia te la saresti già beccata.»
Era un ovvia allusione a quello che avevamo fatto, ma la sottoscritta era superiore e avrebbe sorvolato.
Per ora.
Afferrai il cellulare e lessi i cinque messaggi che lampeggiavano sul display a cristalli liquidi. Si trattava di due chiamate perse da Celeste, una da Sofia e ben due messaggi in segreteria. Chiamai il 42050 e li ascoltai.
Simone non la smetteva di fissarmi divertito.
Il primo messaggio mi fece sussultare all’improvviso. Era la voce di James.
 
Ciao spaghetti-girl! Dove sei finita? Ho provato al tuo appartamento, ma Celeste mi ha risposto che avresti passato la notte fuori. Nemmeno lei sapeva dove ti trovassi. Stai per caso facendo la vagabonda? Sentii una risata imbarazzata.
Chiamami appena senti questo messaggio Poi ci fu il bip che segnalava la fine della telefonata.
 
Simone grugnì infastidito. «Ma non ti scoccia la sua pedanteria?» commentò. «Si accolla…»
Lo linciai con un’occhiataccia. «Almeno lui dimostra che ci tiene, a differenza di qualcun altro,» sibilai, alludendo ovviamente al suo comportamento perennemente menefreghista.
Simone alzò un sopracciglio e indicò il telefono. «Davvero vorresti uno che ti scassa le palle continuamente come Mr. Avvocatuncolo?» mi chiese esterrefatto.
Ignorai quel pensiero e ascoltai il secondo messaggio.
Era Cel questa volta.
 
Amica! Si può sapere che fine hai fatto? Leonardo sta vagando da ore e ore su e giù per la cucina perché il frigorifero è vuoto. Credo che andremo a cena fuori, tu cosa fai? Chiamami.
 
Mi sentii in colpa per non aver avvertito la mia migliore amica, ma più di tutto sentii una rabbia montarmi dentro perché era unicamente colpa di quel marmocchio infantile che ora sedeva accanto a me.
«Devo fare alcune telefonate,» dissi perentoria, alzandomi dal letto e dirigendomi verso il corridoio.
«Ed è necessario uscire dalla stanza?» mi chiese lui sospettoso.
Ignorai palesemente quel commento infimo. Posai la mano sulla maniglia della grande porta laccata di bianco e mi precipitai all’ingresso.
Simone si alzò a sedere sul materasso e mi fissò ombroso. «Detesto quando fai così,» mugugnò.
«Così come?» chiesi dubbiosa, prima di accostare l’infisso.
Simone sospirò. «Quando mi nascondi le cose.»
Ignorai quella punta di delusione che lentamente si stava facendo strada nel mio petto e non gli risposi. Mi limitai a socchiudere l’uscio e ad avvicinare il cellulare all’orecchio prima di voltare le spalle alla stanza numero 6.
Meglio così, tanto avete tagliato i ponti giusto?
Giustissimo.
 
Finii il mio giro di telefonate quando ormai l’orologio da polso segnava mezzanotte e ventitré. Dopo un lungo e umido sbadiglio, decisi che era venuto il momento di meritarmi un po’ di riposo, così rientrai nella stanza prenotata da Simone e mi diressi verso il grande letto matrimoniale.
Avremmo dovuto dormire insieme, a quanto pareva, ma questa volta non fui tanto polemica.
Per ovvi motivi.
Soppressi i pensieri del mio Cervello e mi tolsi il maglione, optando per la maglietta a maniche lunghe che indossavo sotto e un paio di culotte post-ciclo che mettevo unicamente per spaventare eventuali maniaci.
Simone dormiva profondamente.
Mi mossi furtiva e scostai le coperte per poi prepararmi ad una lunga notte di sonno. Dovevo ammettere che il caso che stavo seguendo mi stava succhiando parecchie energie, per non contare i litigi estenuanti con Simone a causa di James, della sua famiglia, poi di nuovo James, Leonardo, Sebastian e tutto il mondo contro cui litigava ogni giorno.
Posai la testa sul cuscino e mi rivolsi verso di lui. Era di schiena, ma anche se non potevo vederlo riuscii ad immaginare perfettamente il suo volto rilassato. L’avevo visto dormire tante di quelle volte da quando condividevamo lo stesso appartamento, eppure quel pensiero non mi fece vergognare.
Sapevo di doverla pensare diversamente, anzi, di non dover pensare affatto. Purtroppo mi aveva fatto qualcosa quel marmocchio, una specie di macumba.
È riuscito a scavarsi un piccolo rifugio dentro di te.
Sì, ma devo riuscire a farlo sloggiare.
«Possibile che devi essere così?» sussurrai.
Allungai una mano soltanto per stiracchiarmi, per distendere la schiena che era completamente annodata a causa della tensione di quei giorni. Rivolsi lo sguardo al soffitto e chiusi gli occhi. Immediatamente si materializzò davanti al mio viso il volto sorridente di James.
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata e forse quello fu un chiaro segno di come si sarebbero svolte le cose di lì in futuro.
James era davanti a me, era l’uomo della mia vita. Lo sapevo, ne ero certa.
Anche se Simone dormiva nel mio stesso letto, anche se le sue mani erano state in punti del mio corpo che avevo permesso a pochi di raggiungere, anche se quando ero con lui, spesso e volentieri il resto del mondo si fermava, anche se tutto questo mi legava profondamente a lui, sapevo che il mio futuro era con James.
Era come quando leggevo un libro e sapevo già come sarebbe andato a finire.
La mia storia era già scritta, mancava solamente la parte centrale.
Aprii nuovamente gli occhi, sentendo che la stanchezza volava via con la stessa velocità con cui mi aveva appesantito le membra. Tutta la stanza profumava di Simone. Sentivo il suo odore sul cuscino, sulle federe, ormai anche su di me.
E lo detestavo.
«Non riesco nemmeno a dormire. Bene,» bofonchiai acida.
«Se non la smetti di cianciare, non riesco nemmeno io,» brontolò il calciatore.
Sussultai a quella risposta perché non mi aspettavo che fosse sveglio. In quel preciso istante desiderai sotterrarmi, scavarmi una tomba e poi seppellirmi al suo interno.
«Scusa,» dissi solamente, mortificata.
Sentii Simone agitarsi nel letto e poi voltarsi nella mia direzione, aprendo quei meravigliosi pozzi scuri che erano i suoi occhi d’ebano.
«Non puoi cambiarmi, se è questo che intendevi prima,» disse sicuro.
«Cosa?»
Sbuffò. «Prima mi hai chiesto perché devo essere così. Ebbene, non voglio cambiare. Mi piace come sono e non intendo modificare nulla. La perfezione ormai è insita nel mio stesso essere. O prendi tutto il pacchetto, o niente.»
La risposta era fin troppo ovvia. «Credo che opterò per il “niente”, grazie. Buonanotte,» tagliai corto.
Simone allora grugnì infastidito da quella mia imposizione, poi avvertii le sue mani che si facevano strada, senza alcun timore, verso i miei fianchi.
Spalancai gli occhi e lo fissai furibonda. «Che cazzo pensi di fare?» lo ammonii.
«Dormo, mi sembra ovvio,» commentò lui, sbadigliando subito dopo.
Mi beai di tutta la sua giugulare, fino alle tonsille. «E queste?» ringhiai, indicando le sue manone avvinghiate attorno ai miei fianchi coperti appena da quelle culotte in puro stile Bridget Jones.
«Sono abituato a dormire con un corpo di donna schiacciato contro. Anche se il tuo non può nemmeno avvicinarsi a quello di Francine o Bernadette… per stavolta mi accontento,» sorrise.
Ovviamente si meritò un ceffone ben assestato su quell’enorme testone.
«Ahi! Ahi! Okay!» protestò, alzando le mani. «Pensavo fosse un premio d’addio.»
«Ti do un calcio come regalo, va bene?» lo minacciai. «Rimani al tuo posto.»
Simone non la finiva di fissarmi con quel solito ghigno arrogante in volto, ma io tentai di ignorarlo.
«E ora dormi,» ordinai.
«Va bene, mammina,» ridacchiò lui.
 
Il giorno dopo mi ritrovai stretta in una morsa d’acciaio, completamente spalmata contro il corpo di Simone.
Maledetto moccioso.
 
***
 
«Dove passerai il capodanno, eh, Ven?» domandò la voce acuta e petulante di Yuki.
Stavo riordinando delle pratiche per conto di Mr. Abbott quando me l’ero ritrovata alle spalle come un avvoltoio pronto a colpire.
O a nutrirsi della tua carcassa.
«Con degli amici,» risposi distrattamente.
Era incredibile la quantità di doppie copie che ogni cartelletta conteneva, così mi era stato chiesto di ridurre drasticamente la quantità di carta straccia e mettere un po’ d’ordine nell’archivio.
«Io sono invitata ad un party a Londra, alta società... non puoi capire,» sospirò, sistemandosi i capelli dietro le orecchie elfiche.
«Mh…» commentai distrattamente.
«Chissà, magari riesco ad incrociare James.»
Sussultai a quel nome e mi voltai alla ricerca degli occhi a mandorla della Giapponese. «Come?»
Lei sorrise melliflua. «Pensi davvero che, essendo la sua assistente, lui abbia dei favoritismi nei tuoi confronti?» ridacchiò. «Mio padre ha detto che Jamie è uno dei rampolli della famiglia Abbott, erede di quasi tutto il patrimonio della famiglia. Ergo, un pesce appetibile per i Nakatomo.»
Ovviamente si riferiva alla sua facoltosa famiglia.
Cercai di sorvolare, anche perché per un attimo avevo avuto il sentore che la ragazza conoscesse il mio segreto.
«Auguri,» smozzicai, tornando ad occuparmi delle pratiche.
Fare finta di niente era il mio secondo mestiere. Sapevo nascondere le mie paure e i miei sentimenti fin quasi a credere di non provarli nemmeno. La tecnica del “muro” funzionava alla perfezione in questi casi delicati.
Il problema sorgeva quando tale barriera veniva abbattuta.
«E con il calciatore come ti va?» s’impicciò la Giapponese.
Sbuffai infastidita. «Simone è un mio cliente, come devo ripetertelo?» ringhiai. «シモーヌは私のクライアントである. Va meglio?»
Yuki sgranò gli occhi ed io mi presi una piccola rivincita. Sapevo sì e no quattro parole in Giapponese, ma quello che mi premeva di più era fargliela pagare.
Ringraziai mentalmente Mrs. Chiaki – la donna delle pulizie del vecchio palazzo –, che mi aveva costretta a seguire un corso on-line soltanto per comunicarle ogni volta di non allagare il bagno.
Altri due tirocinanti entrarono nella stanza per accatastare altre pratiche da riordinare.
«Non finirò mai!» sbuffai incredula.
Carl sogghignò. «Il signor Abbott ha specificato di farle riordinare a te,» disse.
Per quale motivo dovevo essere punita in questo modo? Possibile che avessi dato una così cattiva impressione a quel meeting prima di Natale?
«Okay,» sospirai. Ormai era più che certo che quella sera sarei rientrata non prima delle 21.00.
Yuki mi lasciò finalmente al mio lavoro, portandosi dietro anche quelle altre due iene che mi avevano appioppato tutte quelle cartelle.
Frugai nella tasca della giacca e afferrai il cellulare.
Rimasi interdetta a fissare lo schermo a cristalli liquidi, indecisa se scrivere o meno l’SMS. Cominciai a digitare:
faccio tardi in ufficio. non ci sono per cena.
 
L’idea iniziale era quella di mandarlo a Simone, visto che l’ultima volta mi era venuto a raccattare direttamente in ufficio, eppure mi bloccai.
Come conti di tagliare i ponti se continui a cercarlo?
Perfettamente logico.
Cambiai il numero del destinatario e lo inviai a Celeste, sapendo che la mia migliore amica avrebbe avvertito tutti per mio conto. A cena erano stati invitati anche Sofia e Ruben, con nonna Annunziata, ma purtroppo avevo quel compito da portare a termine prima della fine dell’anno.
«Casi del 2009 a noi! Vi riordinerò come Dio comanda!» minacciai il plico di fogli.
L’orologio indicava le 20.35 quando notai che il mucchio di scartoffie da riordinare era diminuito soltanto della metà. Inspirai profondamente e tentai di non urlare. Di quel passo mi sarei dovuta portare il lavoro a casa, e non era mia intenzione.
«Si può?» mi chiese una voce, facendomi voltare.
James mi sorrise sulla soglia dell’ufficio ed io mi sentii molto più sollevata.
«Certo,» gli dissi esausta. «Sto finendo questo noiosissimo riordinamento di pratiche.»
L’avvocato mi si avvicinò e diede uno sguardo al cassetto di metallo dove erano archiviate, in ordine alfabetico, tutte i vecchi casi risolti dallo studio.
«Zio August ti ha messo ai lavori forzati, eh?» ridacchiò.
Io sorrisi di rimando. «Sarà una specie di punizione per non avergli risposto in modo adeguato l’ultima volta. L’avrò sicuramente deluso.»
James avvicinò il suo dito indice alla punta del mio naso, accarezzandola. «Secondo me ti sta mandando un segnale,» disse sicuro. «Zio August non fa mai nulla per caso.»
Guardai esterrefatta le cartelle tra le mie mani, poi notai le fotocopie da buttare che avevo accatastato in un angolo della stanza.
Vuoi vedere che…?
«Potrebbe essere un suggerimento per il nostro caso!» trillai eccitata, tuffandomi a pesce su quei fogli e cominciando a controllarli.
James si sedette sul pavimento accanto a me, con le gambe incrociate. Sembravamo dei ragazzini con dei Lego.
«Grayson contro Lawsheld?» chiese lui, mostrandomi un foglio.
Scossi la testa. «Lei si era inventata tutto, è bastato un semplice esame delle urine,» dissi.
Continuammo a cercare. Dopo quello che mi aveva detto Jamie, ero più che sicura che tra queste vecchie scartoffie ci fosse un caso analogo a quello di Simone.
Magari sarei riuscita a risolverlo da sola, prendendomi quasi tutto il merito.
«Mc Pherson e Carlson contro Yewitt?» domandò ancora.
«Non penso,» sospirai. «Dobbiamo trovare qualcosa di molto simile, che riguardi due persone potenzialmente famose.»
James smise per un attimo di cercare e mi guardò. «Il giudice ha approvato il test di paternità. Con l’inizio dell’anno Mr. Simone dovrà presentarsi in clinica e depositare il suo DNA.»
Non mi aspettai quella notizia, ma tutto sommato era di buon auspicio.
«Bene!» esclamai, posando le pratiche “inutili” in una pila diversa da quelle ancora “utili”.
James abbassò lo sguardo. «Già. Sarebbe fin troppo facile se il test risultasse negativo,» commentò.
Tentai di carpire qualcosa da quel suo comportamento. «Lo abbiamo richiesto noi, o sbaglio?»
L’avvocato annuì e cominciò a riordinare i documenti all’interno della cartelletta. «Sì, è la prima cosa da fare per togliersi ogni dubbio. Certo che…» e lasciò la conversazione a metà.
La pendola nel corridoio suonò le 21.30.
«Si è fatto tardi,» concluse infine James, alzandosi da terra e tendendomi una mano per aiutarmi a venir fuori da quel mare di carta stampata.
«Devo finire qui,» spiegai, mostrandogli l’archivio in disordine. «Non posso lasciare tutto in questo modo. Tuo zio mi ucciderà!» sospirai.
L’avvocato sorrise e si accucciò vicino a me. «Metterò io una buona parola per te,» e mi strizzò l’occhiolino.
Sorrisi di rimando, forse un po’ nervosa. Anche se mi sarei voluta abbandonare all’abbraccio malizioso degli occhi di James, avevo come qualcosa che mi pizzicava dietro l’orecchio. Non sapevo se si trattasse di irritazione cutanea, rosolia, zecche o quanto altro ma era davvero fastidiosa.
«Grazie dell’offerta, ma preferisco finire,» dissi gentilmente.
James non rimase per nulla deluso dall’essere metaforicamente respinto, anzi.
«Ci conto per il 31,» mi ricordò, posandomi una mano sulla guancia e spostando un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Si chinò quasi impercettibilmente a sfiorare le mie labbra, poi, in un fruscio di vestiti si alzò ed uscì dalla stanza dell’archivio.
Rimasi a fissare la porta da cui era appena uscito il giovane avvocato mentre il mio cervello registrava gli ultimi eventi. Dapprima mi soffermai ancora su ciò che era appena successo. Portai due dita alle labbra e vi sentii impresso sopra il calore di quelle di James.
Non sapevo se fossi innamorata o meno, se quello si potesse in qualche modo definire infatuazione, quello che era certo è che ne sentivo profondamente la mancanza.
C’era un lato di James di cui non potevo fare a meno. Quella sua gentilezza, i suoi modi riservati, l’essere sempre cauto e accorto.
E allora perché Simone?
Lasciai scivolare via il pensiero del calciatore, prima che potessi in qualche modo crucciarmi più del dovuto. Era finita? Okay, perfetto.
Ci avrei messo una pietra sopra.
Tanto nemmeno a lui sembravo interessare. Era stato solo un gioco. Una cosa stuzzicante.
«Bene, mettiamoci al lavoro!» esclamai, continuando a frugare nei vecchi casi giudiziari.
 
Non mi accorsi nemmeno del tempo che passò, persa tra un Geoffrey Hummel – donnaiolo incallito – che era riuscito a dimostrare che Miss Van Hauten non solo aspettava il figlio di un altro, ma che tal Tizio non era altri che suo fratello, quando il cellulare cominciò a vibrare insistentemente.
Cercai di recuperarlo in mezzo al caos che regnava su quel pavimento, quando vidi comparire sul display il nome di Simone, ribattezzato amorevolmente Pisellino sul mio BlackBerry.
Sentii il cuore farmi una specie di mezza capriola all’indietro.
Inspirai forte, poi espirai e premetti il tasto “Ignora chiamata” tornando al mio solito impiego. L’orologio segnava le 21.55 e la pila di scartoffie non sembrava diminuire.
Continuai imperterrita ad esaminare documento per documento.
Brrr Brrr Brrr
Il telefono ricominciò a vibrare e a muoversi per tutto il pavimento, con più insistenza di prima.
Guarda se quel decerebrato capisce che deve piantarla di tormentarmi!
Magari è solo preoccupato…
Il mio buon senso mi mise in guardia. Più di una volta lo avevo giudicato male e se si fosse trattata dell’ennesima volta? Se davvero stesse chiamando solo per sentire se stavo bene?
Decisi di dargli un terzo tentativo.
Ignorai nuovamente il telefono, stavolta lasciandolo squillare a vuoto. Nel frattempo mi saltò all’occhio un documento interessante:
 
Sanders vs Hardy
 
Il giorno 09 – 10 – 2003, il giudice Henry Mills ha liberato da ogni obbligo e vincolo di parentela Mr. Kevin Micheal Hardy, giocatore professionista di golf, nei confronti di miss Samantah Juliett Sanders, attrice riconosciuta all’Albert Hall.
Dopo aver invalidato il test di paternità, richiesto dagli avvocati dell’accusa, a causa  di un’anomalia genetica presente nel corredo di Mr. Hardy e assente in quella del feto, il giudice Mills ha così dichiarato chiuso il caso di dubbia paternità Sanders-Hardy.
[…]
 
Era un buon inizio da cui partire. Mi tenni a mente di chiedere a Simone o a Sofia se casualmente la loro famiglia soffrisse di una particolare anomalia genetica, o qualsiasi particolare che potesse essere utile ai fini del caso.
Brrr Brrr Brrr
Ecco la terza telefonata.
Ora dovresti rispondere, mi suggerì il caro e acuto Cervello.
Afferrai il BlackBerry con stizza, poi premetti il tasto Rispondi. «Che c’è!» ringhiai, infastidita da quella serie di telefonate a raffica che mi avevano distratta proprio quando il caso mi aveva fatto trovare quel documento così importante.
All’altro capo del telefono, però, mi rispose una vocina esitante. «Z-Zia Vennie?» cinguettò una voce di bambina.
Sgranai gli occhi quando mi resi conto che si trattava di Susanna.
Porca di una tro… ta.
«C-Ciao tesoro…» smozzicai imbarazzata. Cosa diavolo ci faceva col telefono di quel babbeo di Simone?
La bambina sembrò ritrovare più serenità. «Zio Simo mi ha detto di telefonarti,» mormorò tranquilla. «Mentre ti viene a prendere ha detto di tenerti compagnia.»
«A p-prendere?» domandai confusa.
Udii una voce in sottofondo che sembrava suggerire le battute alla piccola. «Sì. Ha detto,» e qui finse di imitare la voce di Simone. Tentativo buffo, aggiungerei. «Possibile che debba star via fino a quest’ora? Cosa vuole che le diano, la medaglia? Ora la trascino fuori di lì!»
Sorrisi per l’intraprendenza di Susanna e me la immaginai con le guance arrossate e l’espressione concentrata nell’imitare alla perfezione la voce del suo giovane zio.
«E ti ho telefonato per farti compagnia, mentre zio Simeone viene a prenderti!» ridacchiò.
Mi scappò una risata genuina. «SimEone, eh?»
Susanna allora riempì quella telefonata con il suono squillante della sua voce, di quella risata dolce che possiedono soltanto i bambini.
«Da quanto tempo è uscito?» le domandai, così da evitare tutto quel trambusto e tornarmene a casa per conto mio.
Susanna rimase in silenzio per un po’, probabilmente rifletteva. «Da tanto tempo. Tu non rispondevi e zia Sofi ha continuato telefonarti. Ha detto “se vede il numero di zio Simo, risponderà di sicuro!”» e lì aveva imitato la voce della giovane Sogno.
«Capisco,» risposi, maledicendo quella testaccia dura del calciatore. Che bisogno c’era di venirmi a prendere? In fondo avevo avvertito che avrei fatto tardi. «Allora che mi racconti, piccola Susy?» le chiesi, ingannando l’attesa.
Tanto era più che sicuro che di lì a poco Simone avrebbe sfondato la porta a suon di testate.
O l’avrebbe buttata giù a colpi di arroganza.
O di vanteria.
...perché non di narcisismo?
La voce della piccola mi riportò alla realtà. «Quando avrò un cuginetto?» mi domandò a bruciapelo.
Cosa intendeva per “cugino”?
Cosa potrebbe mai intendere una bambina di cinque anni, genio?
Gli occhi mi si spalancarono e divennero grandi come piattini da caffè. «Direi che è un po’ presto per zia Sofi e zio Ruben, no? Sono giovani…»
La piccola ridacchiò. «No zio Puré e zia Fofi!» ripeté stupita. «Io voglio un cuginetto da te e da Simeone,» e continuò a ridere storpiando tutti i nomi.
Il sangue mi si gelò nelle vene. Premesso che per una bambina così piccola era del tutto fuori luogo che si pensasse a quella parola che iniziava per S…
Ti ha chiesto un cuginetto, non le analisi ginecologiche.
Finsi di ridere. «Vedremo, vedremo…» Vedremo un corno!
«Tu fai ridere zio Simone!» disse sinceramente la piccola Sofi.
Rimasi spiazzata da quell’affermazione, ma non potei approfondire perché udii distintamente qualcuno bussare alla porta dell’ufficio.
«Tesoro, credo sia arrivato. Ci vediamo a casa!» dissi alla piccola.
«Dai un bacio a zio Simone. L’ho visto tritte tritte.»
Quella sensazione di disagio andò aumentando. «Te lo prometto.» E riagganciai la chiamata.
Mi alzai dallo scomodo pavimento e mi diressi verso il portone. La prima immagine che mi si presentò davanti, attraverso la porta a vetri, fu un Simone dall’aria scocciata con indosso un enorme giaccone di piume d’oca, un paio di pantaloni della tuta e, calcato sulla testa, un berretto di pelo con le orecchie svolazzanti.
Da dove è uscito? Dal paese di Oz?
Era troppo buffo.
Soffocai una risata nel vederlo e tentai anche di non farmi scorgere, ma i suoi occhi scuri mi beccarono subito.
«Muoviti che mi sto congelando!» Picchiettò sul vetro.
«Arrivo!» sghignazzai, recandomi alla porta e sbloccando la serratura.
Non appena Simone entrò all’interno dello studio Abbott&Abbott, emise un sospiro di sollievo che gli fece sbuffare una nuvola di fiato dalle labbra intorpidite.
«Cazzo, si gela lì fuori!» imprecò.
«Se ti fossi vestito più adeguatamente…» commentai, guardando soprattutto le ciabatte a forma di animale.
Lui sbuffò. «Avevo fretta, va bene? Ti rendi conto di che ore sono? Potevi portarti il sacco a pelo già che c’eri…»
Scrollai le spalle. «Devo lavorare, sono indietro con le pratiche,» spiegai, tornando nella sala dell’archivio e tentando di dare almeno un po’ d’ordine a quelle scartoffie.
Simone mi seguì incuriosito. In fondo, che io sapessi, non era mai entrato nel palazzo ed ora si trovava ad esplorare quel luogo “inospitale” che denigrava giorno per giorno ma che gli avrebbe salvato il culo.
«Allora…» bofonchiò, appoggiato allo stipite della porta.
Mi voltai squadrandolo minacciosa. «Metto in ordine, poi possiamo andare,» dissi.
Lui continuò a fissare le pareti interessato. «È l’ufficio del finocchio inglese, questo?» chiese ghignando.
E te pareva che non mettesse in mezzo Jamie. «No. È un archivio, come vedi.» Gli indicai i mobili dai grandi cassettoni che contenevano tutte le vecchie pratiche archiviate.
Passò qualche minuto di silenzio che adoperai per finire di impilare i documenti da rivedere. Rimisi apposto tutti quelli che non mi sarebbero stati di alcuna utilità.
Dopo cinque o sei sbuffi, Simone parlò di nuovo. «Dov’è?»
«Dov’è cosa?» domandai.
Il calciatore roteò gli occhi annoiato. «La tana del coniglio! L’ufficio di quel rammollito, dove sta?»
Alle volte era davvero scortese e fastidioso. Insopportabile.
«Quanto sei palloso, mamma mia!» sbottai, gettando le ultime cartelle nel mucchio e camminando stizzita verso l’ufficio del mio collega – non che capo.
Sentii i suoi passi dietro le spalle.
Aprii la porta girando la chiave ed entrai. Tutto era in ordine, compresa la cancelleria sulla scrivania in mogano.
«Soddisfatto?» brontolai.
Simone si guardò intorno incuriosito, quasi come un appassionato d’arte alla sua prima mostra di Dalì. Sondò il terreno con attenzione, studiando tutti i particolari, addirittura sfiorando i contorni dei mobili con la punta delle dita.
Quelle dita sottili e affusolate.
Capaci di fare grandi magie.
«Conclusioni?» insistetti, incrociando le braccia al petto.
Simone si fermò di fronte alla scrivania, poi mi sorrise – anzi, ghignò – prima di buttare tutto a terra con un semplice movimento del braccio.
«Che diav- …?» imprecai sconcertata, ma Simone colmò brevemente la distanza tra di noi, tirandomi per la giacca e gettandomi di peso sul tavolo di legno.
Il suo corpo mi fu sopra in pochi secondi, così come quelle mani sulla vita della gonna.
«È da una vita che sogno di farlo qui sopra,» disse, poi si avventò sulle mie labbra.



Okay, potete ufficialmente uccidemi *si offre volontaria come tributo!* (HG quotes).
Scherzi a parte, HO AGGIORNATO! 1) Perché ho iniziato a scrivere il capitolo 2O e quindi tento sempre di mantenere uno o due capitoli di distanza per quando ci sono giorni di "magra" e 2) Perché è quasi Pasqua e mi pareva brutto XD
Tra un pochito vado a rispondere alle recensioni arretrate, che sono TANTERRIME *.*, dovrei farlo volta per volta, ma sono pigra #js
Comunque! Insomma questi due sono un continuo tira e molla, ma alla fine dei conti finiscono sempre per avvinghiarsi l'uno all'altro come polipetti! E come biasimarli? Sono così pucci-pucci. Dunque, spero proprio che questo con questo capitolo mi sia guadagnata la vostra clemenza #spero e che mi diate un po' di respiro!
UHAAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH (tranne nessa e rosie che sono le mie stalker personali :3)

Bai Bai!
Alla prossima!

Non dimenticate di passare qui 
dove vi aspetta l'ultimo capitolo di Come in un Sogno (manca solo l'epilogo #sob).
Basiotti! E auguri per chi è credente (io no LOL) <3

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Capitolo 18 ***



CAPITOLO 18

betato da quella Tonna paziente di nes_sie
 
Mi svegliai di soprassalto con la strana sensazione di essermi persa qualcosa. Avevo ancora la mente annebbiata e confusa dagli avvenimenti del giorno prima, soprattutto riguardo a quelle pratiche che ancora dovevo mettere in ordine.
Sentivo attraverso le ossa la spiacevole sensazione di aver tralasciato qualcosa di importante. Ma cosa?
Fatti una cura di fosforo!
Già, come nonna Gelsomina mi raccomandava sempre.
Ripiombai con la testa sul cuscino, voltandomi e ritrovando i contorni del tiepido salotto dell’appartamento. Non ricordavo nemmeno di esserci arrivata la sera prima, l’unico flash che la mia mente ancora assonnata mi permetteva di metabolizzare era un sonoro e piacevole ceffone che avevo rifilato a Simone.
Mi crogiolai nel suono echeggiante dello schiocco sulla sua pelle e delle sue successive lamentele su quanto fosse poco adatto per una ragazza essere così violenta. La prossima volta ci avrebbe pensato bene prima di stuprarmi sulla scrivania di James.
Io non mi appellerei a quel capo d’accusa…
Arrossii violentemente e nascosi il volto tra le pieghe del divano. Dannazione al mio Cervello e al suo essere così maledettamente realistico. C’era stato forse un momento, un nano-secondo, una particella di tempo infinitesimale in cui avrei anche accettato la proposta del calciatore.
Insomma… ero pur sempre un essere umano con le sue debolezze!
Per fortuna la mia parte razionale aveva avuto il sopravvento, anche perché tra me e Simone non ci sarebbe stato più nulla. Lo avevamo chiarito in quella camera d’hotel e mi sentivo sempre più sicura di quella mia decisione.
Era stata un’avventura, una scopata e via.
Più di una…
Non essere puntiglioso!
Sbuffai e guardai l’orologio. Erano appena le sette del mattino, ma non avevo alcuna voglia di alzarmi. Era come se quella coperta costituisse una specie di bozzolo protettivo che mi isolava dal resto del mondo, dalla festa di Capodanno a casa degli Abbott, alle promesse fatte a Sofia.
«Stiamo poltrendo?»
Una voce mi sorprese e mi fece sobbalzare, poi incrociai il mio sguardo con quello di Leonardo. Aveva un’espressione proprio buffa, sembrava quasi quella di Simone appena sveglio. Riflettei che i due cugini, anche se non lo avrebbero mai ammesso, si somigliavano molto.
I capelli di Leo, per quanto corti e ricci, erano sparati in ogni direzione, mentre con una mano chiusa a pugno si stropicciava l’occhio sinistro.
«Com’è, in piedi a quest’ora?» chiesi, notevolmente stupita.
Era raro vedere un ragazzo di vent’anni e passa in piedi alle sette spaccate del mattino, fatta eccezione per la sottoscritta che voleva passare in ufficio a prendere in prestito le pratiche da riordinare in modo da poterle esaminare meglio nella tranquillità di casa propria.
Leonardo sbadigliò sonoramente, lasciandomi osservare bene le sue fauci e le tonsille. Aveva un bel colorito gengivale.
«Celeste russa come un trombone, non la sopporto.» Si sedette sul primo sgabello disponibile e posò la testa scarmigliata sul braccio. «Credo che oggi mi sparerò un litro di caffè via endovena.»
Sorrisi. In effetti, dovevo ammettere che nelle poche occasioni in cui io e la mia migliore amica avevamo condiviso la stanza, la maggior parte delle volte l’avevo passata in bianco – magari in compagnia di un bel libro.
«Non è colpa sua, lo sai…» dissi in sua difesa. «Ha il setto nasale deviato.»
Leonardo sbadigliò una seconda volta. «Se continua così, glielo raddrizzo con un pugno…» piagnucolò.
«Non fare l’esagerato!» lo redarguii e mi decisi finalmente ad alzarmi.
Lo raggiunsi e cominciai a tirare fuori gli utensili per preparare un’abbondante colazione. Di sicuro avrei messo su ben due macchinette del caffè. Sapevo alla perfezione che quella serata l’avrei passata in bianco, a scartabellare ogni appunto pur di trovare qualcosa di simile nelle passate deposizioni.
«Insomma ieri avete fatto tardi tu e Microcefalo,» mi domandò il calciatore.
Mi spuntò subito un sorrisetto. «Microcefalo non l’avevo mai sentita…» ridacchiai.
Leonardo sorrise di rimando, gonfiando il petto come il proverbiale galletto. «Devo ammettere di avere fantasia quando si tratta di offendere Simone. È uno dei miei passatempi preferiti.»
«Ti capisco benissimo.» Cominciai a preparare la moka.
Seguì un silenzio intervallato unicamente dai rumori del metallo che veniva chiuso e del fornello acceso. Non mi ero mai trovata da sola col ragazzo della mia migliore amica, personaggio famoso oltretutto, perciò ero davvero in crisi. Non sapevo né cosa dire, né cosa fare.
Alla fine, l’unico argomento in comune era quel bamboccio di Simone. Di sicuro non avevo alcuna intenzione di parlare ancora di lui.
«Credo che tu gli piaccia,» commentò d’improvviso, facendomi voltare di scatto.
«Eh?!» sbottai, incapace di aggiungere altro. «Non prendermi in giro, per piacere. A quello già ci pensa tuo cugino tutti i santi giorni.»
Sentii Leonardo ridacchiare. «Sai, Ven…» sospirò e si alzò per prendere una delle tazze che erano riposte vicino al lavello. «Conosco Simone da quando è nato e, per un certo verso, posso dire che siamo cresciuti insieme, che ci hanno influenzato le stesse cose e che – in fin dei conti – io e lui ci assomigliamo più di quanto io voglia ammettere,» confessò.
«Pensavo non lo avresti mai ammesso,» gli dissi sincera.
Leonardo sorrise sghembo. In quella frazione di secondo si notò quanto i due cugini si somigliassero, sia nei tratti giovanili del viso, sia in quella strana luce magnetica che avevano negli occhi, proprio vicino all’iride, talvolta nascosta dalle lunghe ciglia socchiuse.
«So che è difficile da dire, soprattutto per me che ho avuto contrasti con Simone da tutta una vita. È da sempre che ci facciamo la guerra, che cerchiamo di primeggiare l’uno sull’altro, ma lo facciamo da quando ne ho memoria e francamente ho anche dimenticato il perché.»
Sentii l’acqua del caffè cominciare a bollire, coprendo un poco il silenzio che a mano a mano si era creato tra me e di Celeste. Mi accorsi che c’era un abisso tra lui e Simone e quei tre o quattro anni di differenza tra i due cugini si vedevano proprio in questi momenti di confessioni.
Leonardo, per quanto avesse fatto una valanga di cazzate in tutta la sua vita, era molto più maturo e soprattutto riusciva ad ammettere i propri sbagli, anche se ancora non avevo capito dove volesse andare a parare.
«È pronto,» dissi, afferrando con la presina la moka e cominciando a dividere il caffè in due tazze.
Almeno avevo interrotto un possibile argomento pericoloso. Non era la prima volta che un membro della famiglia Sogno mi dicesse che Simone nutriva qualcosa di più che semplice attrazione fisica per me, ma ancora non volevo crederci.
Ad Aton si era incredibilmente aperto con me, lasciandomi vedere una parte del suo carattere che non sapevo nemmeno potesse esistere, però poi gli avevo raccontato del Capodanno con James e lui non aveva fatto una piega.
Aveva silenziosamente accettato di farsi da parte.
Afferrai la tazza con dita tremanti e cominciai a sorseggiare il caffè bollente, senza sapere cosa dire. Avrei dovuto dimenticare tutta quella storia e prendere la palla al balzo con l’offerta pacifica del giovane Abbott di passare la sera del 31 tutti assieme, eppure mi ritrovavo sempre a girare attorno a Simone, volente o nolente.
Mi era venuto a prendere la sera precedente e se non avessi avuto sufficiente autocontrollo, di sicuro sarei finita con il fare l’amore con lui un’altra volta.
L’ennesima, aggiungerei.
Taci.
«Buongiorno, ragazzi…» bofonchiò una Celeste assonnata e scarmigliata, mentre avanzava in cucina vestita di un enorme pigiamone con le nuvolette e i capelli perennemente in disordine.
«’Giorno, amo’» Leonardo la raggiunse e si chinò per cercare le sue labbra.
Distolsi lo sguardo quasi senza pensarci, eppure non avrebbe dovuto darmi fastidio. L’idea che la mia migliore amica fosse felice, mi avrebbe dovuta far sentire contenta a mia volta.
«Sei stato mattiniero, com’è possibile?» s’informò sospettosa. Raggiunse il lavello e preparò nuovamente la macchinetta dopo averla sciacquata accuratamente.
Leonardo scrollò le spalle. «Avevo troppi pensieri per la testa, e poi si avvicina la notte di Capodanno e, con essa, il rientro a casa. È finita la pacchia!»
Io e Celeste ridemmo all’unisono. Di certo, Leonardo era un tipo divertente e scherzoso, non antipatico e musone come il cugino.
«Simone dorme?» s’informò la mia migliore amica, guardandomi con un sorrisetto poco rassicurante.
«E che ne so, io? Per me potrebbe anche essersi gettato dalla finestra,» sentenziai e finii di fare colazione.
«No, ho pensato che visto ieri sera…» e lasciò che i puntini di sospensione completassero il suo pensiero allusivo.
Ridussi gli occhi a due fessure sottilissime, da cui scaturirono dei lampi assassini. «Ieri sera non è successo assolutamente nulla, è inutile che insistete a farmi l’interrogatorio!»
Celeste e Leonardo si cercarono. «Anche tu glielo hai chiesto?» sbottò lei.
«Ho pensato che poteva aprirsi con uno che condivideva lo stesso suo odio per Simone, scusa!» si giustificò.
La mia migliore amica puntò il famoso indice pungolatore contro il suo ragazzo. «E tu pensi che verrebbe a dire una cosa così privata a te – sconosciuto calciatore e parente di Simone – piuttosto che alla sua migliore amica dalla nascita?» sbottò.
«Chi deve dire cosa?»
D’improvviso la voce semi-assonnata di Simone ci fece gelare a tutti quanti.
Rimanemmo immobili e in silenzio per qualche minuto, voltandoci solamente quando Simone cominciò a ciabattare per il soggiorno.
Con le ciabatte a forma di ippopotamo.
Ovviamente.
Si sedette sullo sgabello accanto a Cel, lanciandole un sorriso mellifluo che nemmeno il più viscido abitante del sottosuolo sarebbe stato capace di emulare. «Giorno, cuginetta,» ridacchiò.
«Lasciala in pace, cretino,» sibilò Leonardo, monitorandolo da lontano quasi come una leonessa controllava i suoi cuccioli che giocavano troppo vicino ad uno stagno pieno di alligatori.
«Taci, babbeo.» rispose per le rime Simone, poi si guardò intorno notando l’assenza della sua colazione. «Ehi, pinguino in smoking, dove sono i miei CocoPops?» ordinò, neanche fosse stato il principe del Galles.
«Dove sono da quando li abbiamo comprati, Genio. Nella dispensa!» gli risposi, innervosita.
Avrei dovuto già essere pronta, lavata e vestita nel mio completo da lavoro, invece mi ritrovavo lì a litigare con Simone di prima mattina.
Per fortuna questa volta avevo due testimoni che mi avrebbero impedito di ucciderlo. Cioè, Celeste me lo avrebbe impedito, Leonardo sarebbe stato mio complice.
«Sì, ma perché non si trovano a galleggiare nel mio latte, all’interno della tazza a forma di Grande Puffo?» specificò, fissandomi con quegli occhi neri e imperiosi.
Di sicuro, in una vita precedente, Simone era stato un qualche imperatore oppure re medievale, talmente viziato da finire alla ghigliottina prima di emanare il suo primo proclama come sovrano.
«Ma fa sempre così?» chiese Leonardo stupito.
Scossi la testa e cercai di afferrare la scatola di cereali posta in alto. «Di solito è anche peggio,» risposi, allungandomi il più possibile.
Nel frattempo sentivo gli occhi di Simone addosso. Mi bruciavano dietro la schiena quasi come avesse dei laser al posto delle iridi.
Finalmente riuscii ad afferrare la scatola con la punta delle dita e la tirai giù, sbuffando e aggiustandomi il pigiama che si era tutto aggrovigliato. Mi voltai trovandomi Simone con un sorriso beffardo in volto.
«Ecco i tuoi stupidi cereali,» ringhiai, posandoglieli davanti agli occhi. «Ed ecco la tua stupida tazza da poppante. Il latte vallo a prendere da solo.»
«Devi prepararmi la colazione, Ven. Sennò come potresti ricambiare il fatto che ti ho ospitato in casa mia senza chiederti nulla in cambio?»
Celeste lo fissava inorridita.
«Dai Simo’, dacci un taglio,» lo ammonì Leonardo.
Loro non erano abituati a vedere il lato peggiore di Simone, mentre io ormai ci avevo fatto il callo. Poco m’importava se mi trattava da schiava, ma quella mattina avevo ben altro a cui pensare.
«Va bene,» dissi e mi diressi verso il frigorifero per prendere il cartone del latte.
Lo posai sul bancone, misi la tazza al centro della tovaglietta e afferrai la busta con i cereali che scrocchiavano al suo interno. Dopodiché feci cenno a Simone di avvicinarsi.
«Guarda come si prepara una colazione, perché è la prima ed ultima volta che lo faccio,» gli spiegai.
Simone, allora, pensando di aver vinto con facilità quella battaglia, mi sorrise sornione e si avvicinò quel tanto da sporgersi sul bancone.
«Devi prendere il latte e versarlo nel recipiente, poi aggiungerci i cereali e mescolare il tutto,» dissi, concentrandomi nel suo sguardo e tentando di distrarlo. Riuscii ad avvicinarmi quanto bastava per sfruttare il suo momentaneo intorpidimento post-sonno, così gli rovesciai mezzo cartone di latte gelido nel pigiama e lui subito scattò in piedi imprecando.
«Ma che cazz-…?» ringhiò.
Afferrai una manciata di cereali avvicinandomi.
«Sei uscita fuori di testa, porca miseria?» urlò ancora.
A quel punto gli posai una mano sul petto, lasciando cadere i cereali nel pigiama ormai completamente zuppo. «Te lo ripeto per l’ultima volta: io non sono una delle tue servette.»
E mi diressi in bagno per prepararmi.
Prima di svoltare l’angolo, udii un grido di trionfo da parte di Leonardo.
«Cugì, mi dispiace ma la tappetta ti tiene per le palle!» e continuò a sganasciarsi fino a quando fui troppo lontana per sentirlo tessere le mie lodi.
 
Riuscii ad arrivare in ufficio prima che piovesse a dirotto. Erano un po’ di giorni che la temperatura si era alzata di qualche grado e impediva alla neve di scendere ancora, rendendo le strade di Londra completamente inagibili.
«Sei venuta anche oggi?» chiese la voce di Yuki alle mie spalle.
Roteai gli occhi al cielo e mi liberai del cappotto umido delle prime gocce di pioggia. «Devo soltanto prendere dei documenti, poi levo le tende e non mi rivedrai fino al 6 Gennaio,» tagliai corto.
La giapponese mi sorrise. «Ti hanno dato parecchi giorni di ferie…» insinuò.
Mi sentii presa in giro. «Cosa vorresti dire?»
Yuki fece spallucce. «Nulla, è solo che noi tirocinanti torniamo tutti il 2 Gennaio, non so perché te debba tornare il 6. Evidentemente la tua presenza qui non è poi tanto necessaria…»
Rimasi di stucco a quella notizia. Possibile che dovevo essere sempre l’ultima a sapere le cose?
«Ci sarà una spiegazione, e ora scusami,» tagliai corto, raggiungendo l’archivio per procurarmi finalmente quei documenti da esaminare.
A metà del corridoio, però, come in un perfetto film americano di serie B, andai a sbattere contro James.
«Oh, scusa!» dissi mortificata.
Il sorriso dell’avvocato mi avvolse come una calda coperta in un giorno d’inverno. «Andiamo di fretta, eh? Indaffarata per i preparativi di domani?»
Scossi la testa. «No, è che volevo subito controllare alcune cose. Credo che mi porterò un po’ di lavoro a casa, visto che ci dovrò rimanere fino al 6 di Gennaio,» sbuffai.
James non mutò espressione.
A quel punto mi sentii in dovere di confessargli la mia paura. Alla fine, Yuki era riuscita a mettermi la pulce nell’orecchio e adesso non facevo che pensare a Mr. Abbott che si rendeva conto della mia inutilità come tirocinante.
«Cosa ti preoccupa?» mi chiese lui, afferrandomi per le spalle e conducendo entrambi nell’archivio.
«Nulla, ho saputo che sono l’unica che tornerà il 6, mentre gli altri tirocinanti riattaccano il turno il 2. Credo di non aver fatto poi una così buona impressione a tuo zio,» confessai amareggiata.
James a quel punto scoppiò a ridere.
Mi sentii profondamente offesa da quella sua reazione. «La mia vita da sfigata ti fa divertire?» gli chiesi, inarcando un sopracciglio.
«No, no, non è nulla del genere.» Ammorbidì la sua espressione con un altro di quei sorrisi splendidi. «Diciamo che sono un po’ responsabile di questa tua “vacanza prolungata”,» mormorò enigmatico.
Rimasi completamente esterrefatta da quella confessione.
«Prima prendi i documenti, poi andiamo nel mio ufficio e ti spiego tutto,» sussurrò misterioso. «Ti aspetto lì.»
Con perplessità crescente, mi adoperai per recuperare le pratiche dagli anni ’90 fino all’inizio del 2012. Ero sicura che tra uno di quei fascicoli avrei trovato qualche riscontro su una caso abbastanza simile a quello di Cloverfield contro Sogno. Ci doveva essere per forza qualcosa tra gli archivi che mi aiutasse a venirne a capo.
Tra poco ci sarebbe stato il test del DNA, e per quanto credessi alla parola di Simone, viste le nostre recenti attività, ero parecchio in dubbio sulla riuscita di quel test.
E se fosse risultato positivo? Se davvero il bambino della Cloverfield era di Simo?
Non avevo idee in merito, ma più di tutto non avevo alcuna intenzione di perdere la causa e di giocarmi il praticantato.
Infilai i documenti nella valigetta che mi ero portata da casa – e che ora pesava peggio di un macigno –, poi mi diressi verso l’ufficio di James e bussai.
Chissà quale fosse il motivo che si celava dietro il mio rientro ritardato in ufficio.
«Posso?» chiesi intimorita.
«Entra, entra!» mi fece James. Quando fui dentro il suo ufficio, rimasi allibita fissando il giovane avvocato che tentava di rimettere in ordine le penne e i fogli sparsi sul pavimento.
I suoi occhi azzurri mi bloccarono. «Scusa il disordine, ma credo che la donna delle pulizie abbia urtato la scrivania senza accorgersene. Stamattina ho trovato tutto messo a soqquadro.»
Il colore di un pomodoro maturo non si avvicinava nemmeno lontanamente al rossore che ora si era dipinto sul mio viso. Sentivo le guance in fiamme e rimanere ferma in quelle quattro mura, non faceva altro che farmi rimbombare nella testa le parole di Simo.
È una vita che sogno di farlo qui sopra.
Rabbrividii.
Possibile che ogni mio ricordo più imbarazzante doveva essere inspiegabilmente legato a quel marmocchio? Volente o nolente era la fonte inesauribile di tutti i miei problemi, partendo con il caso giudiziario che mi aveva costretta a dividere l’appartamento con lui e finendo con i nostri “incontri” al di là del rapporto puramente professionale.
«B-Bene… di cosa volevi parlarmi riguardo il mio rientro?» cercai di chiedergli, evadendo la scrivania del giovane Abbott come se fosse stata fabbricata dal diavolo in persona.
James finì di riordinare i fogli, poi mi sorrise. «È una cosa piuttosto imbarazzante, a dire la verità…» cominciò.
Oh, questo non sa davvero cosa sia l’imbarazzo. Vogliamo dirgli che sta posando le mani dove tu e il tuo cliente avete quasi trombato ieri sera?
Tu non esisti. La tua voce è frutto solo della mia immaginazione. Non devo ascoltarti.
«Dimmi pure,» sorrisi.
Ero sempre più preoccupata da cosa James trovasse “imbarazzante”. Quel termine non gli si addiceva, anche perché era un uomo per bene e non un ragazzino talentuoso e immaturo che non perdeva occasione di farsi paparazzare e ridicolizzare sui tabloid.
«Beh, diciamo che ho chiesto io a zio August di prolungare la tua vacanza,» sospirò. «Da quando hai accettato di passare il Capodanno con me, non ho resistito. Ho pensato che dovevo fare qualcosa per ricambiare, per farti capire quanto io tenga a te nonostante ci sia di mezzo questo caso che mi impedisce di trattarti come meriteresti.»
Mi stavano tremando le gambe. Non sapevo cosa aspettarmi da James perché era capace di sorprenderti con questi gesti d’affetto incondizionato, senza ricevere null’altro in cambio.
«C-Cosa stai cercando di dirmi?» soffiai.
James allora si avvicinò e mi posò entrambe le mani sulle spalle. «Ho pensato che sarebbe stato bello tornare con i tuoi amici a Roma, prenderti qualche giorno per andare a trovare la tua famiglia,» disse.
Non appena realizzai cosa aveva fatto, sentii le lacrime pungermi agli angoli degli occhi.
«Dimmi che stai scherzando…» gli feci, senza sembrare scortese.
L’idea di tornare a casa l’avevo scartata dapprincipio, proprio perché ero invischiata in questo caso che mi succhiava via tutte le energie.
«Ti ho comprato un biglietto per tornare con lo stesso volo dei tuoi amici. Non preoccuparti, anche zio August era d’accordo. Per cinque giorni posso sopravvivere anche da solo. Riposati, vai a trovare la tua famiglia e goditi questo periodo accanto ai tuoi cari,» mormorò.
Ecco, in quel preciso istante mi innamorai di nuovo di lui.
James Abbott era forse la persona più gentile e altruista che avevo mai conosciuto. Non solo c’era sempre per me, ma nonostante avessimo deciso di prenderci una pausa, almeno fino alla fine dell’udienza, lui si era sempre preoccupato per me.
«Grazie ma non posso accettare…» dissi, allontanandomi.
«Insisto,» continuò lui. «Ti serve una vacanza, Ven, lo sai anche tu. Non so se si tratta di Mr. Sogno o del caso che stai seguendo, ma ti vedo molto più distratta. Non vorrei che questo influisse sul tuo lavoro. Perciò meglio prevenire, non pensi?»
Il suo ragionamento non faceva una piega.
«S-Sì ma… come potrò mai ripagarti?» gli chiesi.
Il giovane Abbott sorrise. «Mi ripagherai quando vinceremo questa maledetta causa e finalmente potrò chiedere il trasferimento ad un altro ufficio,» disse, poi si abbassò raggiungendo il mio orecchio. «Mi ripagherai quando finalmente potremmo stare insieme alla luce del giorno.»
 
***
 
Non avrei mai creduto che il giorno di San Silvestro fosse addirittura più caotico del famoso Venerdì Nero. I supermercati erano stati presi d’assalto, quasi fosse stato previsto l’arrivo di un uragano che avrebbe reso inagibile l’isola per le successive due settimane.
«Credi che riusciremmo a comprare qualcosa per domani?» domandò scettica Celeste.
Leonardo fissava basito due vecchiette che litigavano per la stessa passata di pomodoro. «Magari ordiniamo una pizza?»
«No, ho appurato che gli inglesi saranno pure bravi a fare il the, ma la pizza lasciamola agli italiani, così come la pasta,» dissentii.
Quella volta con Simone mi era bastata. Per digerire la pasta di quella pizza mi ci erano volute due settimane e un blister di compresse analgesiche.
«E allora che si fa? Qui non è rimasto praticamente niente!» domandò la mia amica allarmata.
«Non disperate, mi sono trovata in situazioni peggiori,» dissi, con il tono che avrebbe utilizzato un sergente veterano dei Marines.
«Sì, forse al mercato ortofrutticolo di Vattelappesca, in provincia di Burinocity,» disse Simone.
Lo fulminai. «Mi ricordi il motivo per cui sei venuto? Visto che tu non vai mai, e sottolineo MAI a fare la spesa?»
Simone sbuffò e si aggiustò un ciuffo ribelle di capelli con una mano. «Mi assicuro che tu non rovesci addosso a poveri malcapitati un’intera colazione soltanto perché è il tuo periodo del mese,» rispose. «Se ti girano le ovaie, prenditela con madre natura!»
«Punto primo: non ho il ciclo; punto secondo: non starnazzare come un maledetto gallo del pollaio! È pieno di gente, vuoi attirare altra cattiva pubblicità su di te?» ringhiai.
«Altra?» chiesero all’unisono Leo e Cel.
Non mi ero affatto resa conto che loro due non sapessero ancora nulla del caso giudiziario di cui mi stavo occupando per conto di quel mammalucco di Simone.
Me lo ritrovai vicino, con lo sguardo da “l’hai fatta grossa, eheheheheh”.
Gli rifilai una gomitata nel costato giusto per prendermi una qualche specie di rivincita. «Sì, sapete com’è fatto. L’altra volta si è ritrovato a flirtare con un trans e non se n’è nemmeno reso conto,» ghignai, mentre Leonardo non faceva che ridacchiare.
«Ma non è vero!» protestò lui.
«T’oh, vedo una passata di pomodoro non ancora presa d’assalto!» urlai, distraendoli tutti da Simone che continuava a lagnarsi su quanto fosse abile nel riconoscere una donna quando ne incontrava una.
 
«Stasera cosa hai intenzione di metterti?» mi domandò Sofia, mentre giocherellava con quei riccioli biondi.
Io ero alle prese con i documenti che mi ero portata a casa. Stavo rivedendo un vecchio caso del ’98, precisamente McAvery contro Spencer in cui il test del DNA era risultato positivo nonostante il padre continuasse a portare avanti la sua innocenza.
Leggendo le deposizioni e rifacendomi al processo, alla fine si venne a scoprire che il bambino era effettivamente di Mr. Spencer, solo che dopo l’abuso di sostanze stupefacenti aveva completamente rimosso di essere andato a letto con Miss McAvery. Infatti, anche il test della macchina della verità era risultato positivo, confermando che il signor Spencer era innocente, o almeno non ricordava nulla di ciò che aveva fatto.
Simone usa droghe pesanti?
Credo che sniffi pure la colla per la carta da parati, cretino com’è.
«Mi ascolti, Ven?» continuò Sofia, vedendomi assorta nel lavoro.
Scossi la testa. «Scusami, mi ero persa in queste deposizioni,» e le sorrisi.
Gli occhi azzurri di Sofia mi squadrarono. Aveva gli occhi di un felino, e come essi, avevo sempre la sensazione che riuscissero a scavare molto più a fondo di quanto permettessi loro.
«Stai lavorando troppo, avresti bisogno di una vacanza,» disse dolcemente.
Era la seconda persona che me lo diceva nel giro di quarantotto ore.
«Beh, credo di poter rimediare,» dissi, tanto valeva vuotare il sacco. Lo avevo detto unicamente a Celeste e Leonardo. Simone ancora non ne sapeva nulla.
«Dimmi tutto!» disse eccitata.
«Nulla, James mi ha comprato un biglietto aereo per Roma. Starò dai miei fino al 6 di Gennaio, quando tornerò a lavoro,» sospirai.
Gli occhi di Sofia s’illuminarono. «Ma è fantastico! Ti farebbe bene staccare un po’ la spina da tutto questo.»
«Già,» asserii.
Strinsi con forza le dita attorno a quei documenti. Di sicuro avrei fatto delle copie per portarmeli dietro fino a Tivoli. Non avevo alcuna intenzione di staccare completamente dal lavoro.
«E Simone cosa ha detto?» mi chiese lei, d’improvviso.
Mi morsi a sangue il labbro inferiore. Avrei dovuto aspettarmelo, anche perché Sofia era sua sorella – tanto per cambiare. Mi ritrovavo circondata dalla famiglia Sogno, e non potevo fare altro che mentire.
«Non lo sa,» affermai sicura, senza che la voce mi tremasse.
«Capisco,» soffiò Sofia, torturandosi le mani in grembo. «In fondo non sei tenuta a dirgli niente, visto che non c’è nulla tra di voi…»
Non sapevo se quello fosse un patetico tentativo di farmi ammettere che, dopo tutto, qualcosa c’era stato – e forse anche di più –, oppure fosse davvero sincera.
Sofia era un enigma ed io mi sentivo sempre più strana a parlare con lei. Alle volte la sua sincerità sembrava finta, quasi fittizia e volta unicamente ad ottenere qualcosa di molto più radicato. Avevo quasi la sensazione di essere solamente un burattino nelle sue abile mani.
Una Mangiafuoco dai capelli biondi e gli occhi chiarissimi.
«Diciamo che non è esatto,» ammisi, con riluttanza.
Gli occhi di Sofia s’illuminarono. «Vuoi dire che...?»
Alzai le mani per tranquillizzarla. Per fortuna Simone era uscito con Leonardo e Celeste si stava facendo una doccia in previsione della serata.
«Calma i bollenti spiriti. Questa cosa è morta prima ancora di cominciare e non ho intenzione di parlarne. Inoltre, credo che questa vacanza mi farà bene anche per staccare da… sì, ehm… per allontanarmi da lui,» ammisi.
Sofia annuì e si fece più vicina. «Tranquilla, non lo difendo. So com’è fatto mio fratello e so che può raggiungere dei livelli di idiozia incredibili. Non ti chiedo di spiegarmi tutto, lo farai quando sarai pronta e se lo vorrai. Solo che…» e s’interruppe.
«Solo che?» la incalzai.
Sbuffò e si spostò i capelli biondi dalla fronte. «Niente, fai finta che non abbia detto nulla.» E sorrise.
Cercai di non crucciarmi sulla strana reazione avuta da Sofia. Per fortuna, qualche minuto dopo i ragazzi rientrarono, accompagnati da Ruben. Subito la biondina gli gettò le braccia al collo, cercando le sue labbra sotto lo sguardo schifato di Simone.
Mi alzai e andai a tirargli platealmente un orecchio perché non si meritava di giudicare le persone con cui sua sorella desiderasse stare.
«Ahi, ahi, ahi!» si lamentò.
«Te lo meriti, antipatico!»
Il pomeriggio trascorse organizzando cosa avremmo dovuto preparare per pranzo il giorno dopo con quelle quattro cose contate che eravamo riusciti a saccheggiare al supermarket. Alla fine fummo costretti a telefonare a casa di Rose, dove si era trasferita nonna Annunziata, e invocare il suo sommo aiuto culinario.
Una volta terminato, noi ragazze ci chiudemmo nella mia stanza, barra quella di Cel e Leo, per svuotare i nostri armadi metaforici e cercare qualcosa di decente da indossare per Capodanno. Sofia optò per un bel vestito color verde acqua, di chiffon, abbastanza corto da lasciarle scoperta la caviglia e quel meraviglioso sandalo che aveva trovato scontato su e-bay.
«Mi sono innamorata di queste scarpe!» trillò estasiata.
L’oro del sandalo riprendeva meravigliosamente il colore dei suoi capelli, così da renderla quasi una sacerdotessa del passato.
«Sono stupende, davvero. Ti sta tutto benissimo,» le disse Cel sorridendo.
«Anche tu sei stupenda,» rispose la piccola Sogno.
In effetti, persino la mia migliore amica era lungi da come la ricordavo. Aveva finalmente dismesso i jeans sdruciti da studentessa universitaria e aveva optato per un paio di pantaloni neri a vita alta, con la gamba larga, quasi a palazzo.
Le stavano divinamente con la camicia di pizzo, da cui uscivano dei merletti.
Entrambe parevano delle modelle ed io mi sentii particolarmente fuori luogo. Ci sarebbe mancata solo la fidanzata puzza-sotto-al-naso di quel cretino di Robbeo per completare il quadretto di Ven la sfigata.
Quella sera a Cambridge non eri male…
Caso fortuito.
«Ora dobbiamo occuparci di te,» ridacchiò Sofia.
Alzai le mani in segno di resa. «La mia idea era quella di riciclare il vestito della sera a Cambridge, visto che non posso permettermene altri,» ridacchiai.
Sofia sorrise. No, non sorrise, ghignò. «E a cosa ti servo io? Per fortuna ho dei negozi che mi mandano sempre dei “campioni” gratuiti affinché li indossi a qualche festa famosa, al fine di pubblicizzarli,» spiegò, andando verso uno degli armadi di quella stanza che non avevo mai aperto. «Li lascio qui da Simo perché altrimenti io e Ruben non avremmo tanto spazio.»
Aprì quella specie di tempio dell’alta moda e rimasi completamente intorpidita.
«Devi solamente scegliere,» disse sorridente.
«I-Io…» soffiai, allungando le dita verso della stoffa rossa che aveva particolarmente attirato la mia attenzione.
Celeste si avvicinò e mi posò le mani sulle spalle. «È l’ultima notte dell’anno. Per una volta potresti lasciarti andare.»
 
Lasciarmi andare.
Quelle due parole erano di troppo per me. Ci pensai per il resto del pomeriggio, mentre mi ero provata decine di vestiti e di scarpe, senza mai smettere di credere che la mia occasione l’avevo già avuta.
Mi ero già lasciata andare. Fin troppo.
Prima con James, nonostante il rapporto inter-ufficio fosse proibito, poi con Simone, il che era ancora più grave perché era mio cliente. Entrai in bagno solo per sciacquarmi il viso. C’erano ancora troppi interrogativi cui avrei dovuto rispondere.
James mi aveva appena mandato un text:
sto arrivando. ti aspetto al portone.
L’idea di passare la prima parte di Capodanno nella grande villa degli Abbott non aveva allettato nessuno, soprattutto Sofia che aveva creduto sino in ultimo di avermi tutta per sé.
Purtroppo, o per fortuna, non aveva detto nulla riguardo alla mia imminente partenza per Roma.
Nemmeno Ruben sembrava sapesse.
Avevo passato quasi tutta la notte in bianco a chiedermi se fosse giusto farlo sapere a Simone oppure comunicarglielo il giorno stesso. Cosa doveva importargli in fondo? Non sarei nemmeno partica con James, lui mi aveva comprato solo un biglietto e non mi avrebbe accompagnata.
Era stato altruista. Un gesto che sicuramente uno come Simone non avrebbe compreso.
Il suono del citofono mi riscosse dai miei pensieri.
«Veeeen! James ti aspetta di sotto con la macchina.»
Finii di truccarmi, se quell’affare che avevo sul viso si poteva definire “trucco”, poi uscii dalla porta del bagno, trovandomi davanti Simone.
Rimasi totalmente pietrificata, con tanto di pochette in mano.
«Devo andare,» tagliai corto.
Lo sguardo di Simone mi sondò da capo a piedi. «Non sentirai freddo vestita così?» sibilò.
Dalla piega che aveva preso il suo tono di voce, credetti fosse infastidito. Mi osservai. «Staremo al chiuso, grazie per esserti interessato alla mia salute.»
Lui ghignò. «L’ho fatto solo perché voglio evitare che mi smoccioli per tutta casa.»
Lo fissai come a volerlo incenerire. Possibile che dovesse farmi incazzare pure la sera di Capodanno? Sarebbe passato un giorno senza che riuscissimo ad evitare di litigare?
«Non preoccuparti, non ci sarà questo problema. Si dia il caso che domani pomeriggio parto insieme a Leo e Cel, vado a trovare i miei per qualche giorno. James mi ha fatto un regalo davvero gradito.»
Forse quello non era stato né il luogo né il momento adatto per confessargli tutto quanto, eppure quel suo sguardo mi aveva infastidita. Come si permetteva di giudicarmi in quel modo?
Simone arricciò le labbra quasi in un ringhio. «Divertiti pure con Mr. Scopa-nel-culo a Roma.»
Cominciai a ridere. «Ci andrò da sola! James mi ha pagato soltanto UN biglietto. Non tutti hanno secondi fini come te, testone!» e me ne andai indignata, spingendolo da una parte.
Sofia si affacciò alla porta e mi fissò esterrefatta.
«Scusami, è che non lo sopporto,» mi giustificai, indossando il cappotto e salutando tutti il più velocemente possibile.
Volevo andarmene da quella casa, da quella famiglia, da quella persona che stava infrangendo ogni mia difesa. Riusciva sempre a strappare ogni briciolo di buon senso e raziocinio che avevo, frantumava la persona che ero sempre stata e mi trasformava in qualcosa che odiavo dal più profondo del cuore.
Voglio andarmene via da qui.
Voglio andarmene via da lui.
Aprii il portone, augurando buon anno al portiere del palazzo che mi sorrise, poi vidi James e tutte le preoccupazioni volarono via.
«Sei bellissima,» mi disse, facendomi arrossire e accompagnandomi alla macchina.
Per tutto il viaggio, sino alle brughiere attorno Londra, pensai allo sguardo di Simone. Era furioso e non ci voleva un genio per capirlo. Questa volta l’avevo fatta grossa e non sapevo se fosse mai stato in grado di perdonarmi quell’affronto.
In fondo era meglio così, avevamo tagliato i ponti anche se lui continuava a farsi sotto, probabilmente solo per gioco.
Era tutto un immenso parco giochi per Simone Sogno. Io ero soltanto una di quelle fantastiche giostre su cui, almeno una volta nella vita, chiunque avrebbe voluto farsi un giro. Ma appena il Luna Park avesse inaugurato una nuova giostra, ecco che sarei subito passata in secondo piano.
Ero la novità, nient’altro.
Per uno abituato a frequentare soltanto modelle, non poi tanto sveglie, tentare un approccio con una donna con un po’ di spessore, e una laurea in legge, doveva essere stato stuzzicante per lui.
«Sei nervosa?» mi chiese James, cercando la mia mano senza timore.
La strinsi nella mia e sospirai. Come potevo dirgli che il mio nervosismo non era causato affatto dall’imminente incontro con tutto il parentato Abbott, bensì da un calciatore da strapazzo che non avrei nemmeno mai dovuto considerare.
«Un po’,» ammisi, senza sapere cosa dire.
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio, mano nella mano. Ci sarebbero state troppe cose da dire, eppure non riuscivo a scollarmi quelle parole dal palato. Avrei potuto iniziare con un semplice “Grazie” per quel biglietto d’aereo e per quelle ferie concesse soltanto perché James aveva detto di amarmi. Ed io cosa avevo fatto per lui?
Lo avevo tradito con Simone e avevo messo a rischio il caso andando a letto con il nostro cliente. Ero solo una persona orribile, niente di più, niente di meno.
Arrivammo proprio quando i miei pensieri stavano lentamente logorando le pareti della mia testa, grattandone via la superficie e scavando fino a quando non mi avrebbero svuotata del tutto.
James mi tese la mano per aiutarmi ad uscire dall’auto ed io l’accettai sorridendo.
Non si accorse di quanto quel mio gesto fosse stato sforzato. Ormai ero costretta persino a sorridere pur di nascondere l’amarezza che serbavo dentro. Ero solo una doppiogiochista, una persona infima che approfittava della sua benevolenza e si aggrappava, con gli artigli degni di una chimera, con forza alle sue braccia pur di non sprofondare verso quella verità che altrimenti mi avrebbe annientata.
Mentre salivo le scalinate di una vecchia casa in stile vittoriano, rimanendo rapita dagli alti finestroni e dall’immensità di quella struttura, finalmente capii di non essere più la Venera che era arrivata lì a Londra con il primo volo, dopo aver vinto la borsa di studio per Cambridge.
No, non ero più lei. Mi ero lentamente trasformata in una di quelle donne che avevo sempre disprezzato, che anteponevano il loro guadagno a tutto e in questo caso mi riferivo alla bellezza e all’affabilità di Simone.
Dopo tutto quello che avevo studiato e visto nella mia carriera di avvocato, nonostante tutte le liti a cui avevo assistito durante le simulazioni in tribunale, a dispetto di tutto quello che mi ero ripromessa dopo la mia ultima “relazione”, se così si poteva chiamare, avevo finito per comportarmi come una qualsiasi adolescente in piena crisi ormonale.
Neanche avessi quindici anni.
«Sei pronta?» mi domandò l’avvocato, stringendomi a sé.
Il freddo pungente di quella serata mi fece rabbrividire, perciò pensai di avvicinarmi ancor più a lui e comunicargli silenziosamente che apprezzavo quel suo gesto. James pensava fossi nervosa a causa dell’incontro con la sua famiglia, e se non avessi avuto altri problemi per la testa, sicuramente sarebbe stata la principale causa di una mia nevrosi, eppure pensavo solamente allo sguardo furioso di Simone quando lo avevo lasciato a casa.
Di sicuro non si sarebbe fatto vedere al locale.
Ero più che certa che avrebbe aspettato un’ora al massimo, poi se ne sarebbe tornato a casa, probabilmente a ubriacarsi fino a quando non si fosse addormentato.
«Sono pronta,» gli comunicai.
La porta ci venne aperta dal classico maggiordomo in smoking, sulla cinquantina e di bell’aspetto, che con un sorriso bonario ci chiese se potevamo dargli i cappotti. Era evidente che quell’uomo conoscesse Jamie, perché i due si scambiarono uno sguardo di muta complicità.
«Sono felice di rivedere il signore,» disse sorridendo.
«Alfred, ne è passato di tempo dall’ultima volta che sono stato qui,» rispose tranquillamente James.
Dedussi da quella breve conversazione che l’avvocato, come Simone, non frequentasse spesso la propria famiglia. Ma che avevano tutti? Soltanto la sottoscritta non vedeva l’ora di montare sul primo aereo per tornare a Tivoli?
Ti ricordo che anche tu sei scappata da lì.
Ne ero conscia, non avevo certo bisogno che la mia coscienza me lo ricordasse. Per quanto odiassi quel paese, quel piccolo buco di mondo che mi aveva sempre tarpato le ali, impedendomi di volare alto, sentivo innegabilmente la mancanza della mia famiglia, delle persone che mi avevano cresciuta rendendomi la persona che ero oggi.
«Non ti piace molto stare qui,» dissi a James, sorridendo.
Lui mi guardò con comprensione, poi sorrise. «Diciamo che i miei genitori sono un po’ all’antica e hanno un modo di pensare che io non condivido. Zio August è diverso, e nonostante sia il fratello di mio padre, mi ha sempre trattato come un suo pari,» mormorò.
Compresi subito il suo punto di vista e lo condivisi. Non appena lasciai che Alfred prendesse il mio cappotto, rimasi piacevolmente colpita dai soffitti a volta che aveva quella villa, mentre un piccolo corridoio ci conduceva verso la sala principale dove si sarebbe svolta la festa.
James era rapito da tutt’altro.
Trovai il suo sguardo azzurro, lievemente scurito dalle iridi che si erano piacevolmente allargate quasi come quelle di un gatto immerso nell’oscurità, che mi fissavano.
«Che c’è?» chiesi imbarazzata.
L’avvocato si mordicchiò il labbro quasi inconsapevolmente. «Questo vestito ti sta divinamente,» soffiò, con un filo di voce.
Arrossii d’istinto e per un nanosecondo la mia mente mi giocò il brutto scherzo di rivivere per un attimo il ricordo di Simone ed io che uscivo dal bagno. Lo stesso identico sguardo, solo che gli occhi del calciatore erano da sempre stati due pozzi neri in cui annegare e non avevo potuto distinguere il desiderio.
«G-Grazie…» risposi, sentendomi lusingata.
Non ero abituata ai complimenti, soprattutto perché ero cresciuta insieme a quella testa di zucchina che era Robbeo. I nostri battibecchi sul mio aspetto esteriore mi avevano portata ad essere cinica e acida, e le mie aspettative avevano sempre rasentato il fondo.
Diciamo che non mi ero mai soffermata davanti allo specchio dicendo “sono carina”.
Ci era voluto James a ricordarlo.
«Dovrei conoscere la tua stilista,» sorrise, strizzandomi l’occhiolino.
«Se te lo dicessi, dopo dovrei ucciderti,» ridacchiai.
James si chinò e mi sfiorò la fronte con le labbra. Il cuore fece una capriola nel mio petto e rabbrividii. Anche se il mio corpo si protendeva sempre più verso Simone, incapace di resistere al suo fascino magnetico, James era capace di farmi rimanere senza respiro.
Un perfetto principe moderno.
Mi prese sottobraccio e insieme ci avviammo verso l’ingresso della sala addobbata con decorazioni rosso e oro. C’era un immenso lampadario di cristallo che troneggiava al centro del soffitto a cassettoni, affrescato probabilmente durante l’età della regina Vittoria.
Ai lati della sala erano disposte delle grandi tavolate con sopra ogni tipo di vettovaglia. Ad un angolo, era disposta l’orchestra che suonava musica classica dal vivo mentre gli invitati erano sparsi ogni dove e chiacchieravano senza curarsi del nostro arrivo.
Soltanto una signora molto elegante, fasciata in un lungo abito nero di pizzo, ci si avvicinò e posò una mano sull’avambraccio di James.
«Sono contenta di vederti, Jamie,» sorrise, poi spostò gli occhi azzurrissimi su di me.
Quelle erano le iridi degli Abbott.
«Mamma, ti presento Venera, una mia collega,» disse James, facendo le classiche presentazioni.
Tesi la mano allarmata. Il panico era arrivato tutto insieme, anche perché durante il viaggio ero stata rapita da ben altri pensieri.
Ero sempre stata accolta a braccia aperte dal parentato dei miei precedenti ragazzi, ma in questo caso non sapevo come comportarmi. Punto primo, James non era il mio fidanzato, anche se ci eravamo andati molto vicino; Punto secondo, quella donna apparteneva ad una classe sociale elevata ed io mi sentivo parecchio fuori luogo.
«Molto piacere, Mrs. Abbott,» mormorai, nervosa.
Lei mi sorrise e si avvicinò per salutarmi alla classica maniera italiana, ovvero con baci schioccanti sulle guance.
Anche James rimase piacevolmente sorpreso.
«Non sei inglese, vero?» mi chiese la donna benevola.
Scossi la testa. «No, vengo da Tivoli,» risposi.
Mrs. Abbott spalancò quegli zaffiri che aveva al posto degli occhi. «Dove ci sono le terme! Ma è meraviglioso!» cinguettò.
«Già,» sorrisi anche io.
Sinceramente era la prima persona che conoscesse il mio paese così bene. C’era Viterbo che aveva molta più popolarità visto che era stata da sempre la città dei Papi. Mrs. Abbott mi parve immediatamente una donna molto socievole e gentile, pensai subito che James avesse preso da lei quel suo meraviglioso carattere.
«Credo che Venera abbia sete, ci puoi scusare mamma?» tagliò corto lui.
La donna lo guardò intensamente. «Non dimenticare di salutare tuo padre,» gli ricordò.
Jamie mi strappò quasi letteralmente da quella conversazione, avvicinandosi al tavolo dove un altro cameriere ci servì due flute di champagne.
Sulle prime non riuscii a capire il perché James fosse così nervoso e riluttante a frequentare quel luogo così meraviglioso.
«Tua madre è molto simpatica,» dissi, per rompere quel silenzio che stava diventando asfissiante.
James cercò il mio sguardo e lo incatenò al suo. «Non diresti così se la conoscessi bene,» sibilò.
Feci un’espressione piuttosto perplessa, ma non riuscii ad indagare oltre perché un uomo barbuto ci si avvicinò sorridente.
«Il figliol prodigo è tornato!» ridacchiò, colpendo forte la schiena di James con delle pacche energiche.
Per poco non si strozzò con lo champagne. «P-Papà!» tossì, infatti, cercando di respirare di nuovo.
«Oh scusa, caro,» sghignazzò, rivolgendomi un sorriso genuino. «Non sei più abituato a ricevere le patte dal tuo vecchio, eh?»
«Patte?» chiesi allibita. Ero più che sicura di sapere qualsiasi termine inglese, anche perché avevo fatto un corso preparatorio con una madrelingua pur di acquisirne anche l’accento. Ma quella parola mi era sfuggita.
James intervenne. «Diciamo che il termine “patta” è di invenzione di papà, significa quando dai delle pacche sulle spalle energicamente, mozzandomi quasi il respiro,» ridacchiò.
«Eh, ma quanto siamo esagerati, Jamie!» lo ammonì bonariamente.
Rimasi sorpresa dal conoscere finalmente l’altro Abbott socio dello studio. Sinceramente me lo ero sempre immaginato come il signor August: gentile ma tutto d’un pezzo. Il papà di James, invece, sembrava quasi italiano, per quanto il suo carattere allegro e mattacchione mostrasse.
«Lei è la ragazza di cui Gugu parla tanto, vero?» chiese al figlio.
Gugu?
James annuì. «Sì, lei è la mia collega Venera, direttamente dall’Italia. Zio August dice sempre che ha un grande potenziale.»
«Piacere di conoscerla,» dissi, allungando la mano.
Gli occhi azzurri di Mr. Abbott mi sondarono, con una luce negli occhi che feci fatica a riconoscere. Sembrava che mi stesse analizzando, quasi come se fossi su un letto d’ospedale, sottoposta alla macchina dei raggi X.
«Credo proprio che prenderò in parola August e ti terrò d’occhio, signorina,» sorrise, stringendomi energicamente la mano. «Beh, divertitevi ragazzi!» e ci lasciò al nostro champagne mentre andava a salutare gli altri ospiti distribuendo “patte” energiche sulle schiene di tutti i poveri malcapitati.
James sospirò. «Mio padre è un po’ strano,» ridacchiò.
«Perché non hai conosciuto il mio…» smozzicai, quasi senza pensare.
Il livello d’imbarazzo che riusciva a farmi raggiungere Alberto, il mio caro e vecchio papà, non aveva limiti. Celeste ne sapeva qualcosa quel giorno che era entrata in bagno senza bussare. Le si era bloccata la crescita.
«Mi piacerebbe incontrare la tua famiglia,» soffiò, quasi in un sussurro.
Spostai lo sguardo verso di lui e lo trovai tremendamente sincero. Alla fine io ero stata ospite dei suoi genitori, avevo conosciuto gran parte della sua famiglia – così come quella di Simone – invece la mia vita rimaneva ben sigillata all’interno del mio cuore.
Soltanto Celeste era riuscita a connettere il resto del mondo con il mio passato.
Non che mi vergognassi della famiglia Donati, anzi. Mio padre era stato un uomo che si era fatto da solo, che aveva tirato su un’azienda tutto da solo, iniziando col seminare, arare e innaffiare fin da quando aveva quindici anni.
D’accordo, forse i miei genitori non avevano nessuna laurea, non possedevano una villa come questa e non organizzavano feste memorabili per la notte di San Silvestro, ma erano riusciti a crescermi nonostante tutte le difficoltà.
«Sicuro che non vuoi venire anche tu domani?» chiesi, quasi senza riflettere.
James rimase sorpreso da quella proposta, poi sorrise. «Ne sarei davvero onorato, ma per adesso devo pensare al nostro caro Mr. Sogno,» ridacchiò.
Avrei voluto scomparire in quel preciso istante. Non solo avevo chiesto ad uno sconosciuto, o quasi, di prendere il primo aereo con me per andare a conoscere i miei genitori dall’altra parte d’Europa, ma addirittura mi ero totalmente dimenticata che Simone non ne sapeva ancora assolutamente nulla.
«Vado un secondo alla toilette,» dissi, sentendo le gambe tremare.
«Certo, è in fondo a destra,» mi disse, indicando un piccolo corridoio.
Camminai instabilmente su quelle scarpe che non ero abituata a portare, però riuscii a raggiungere il bagno senza cadere rovinosamente per terra.
Mi chiusi la porta alle spalle e cominciai a respirare affannosamente. Avrei voluto vomitare. Sentivo chiaramente il conato crescere, la pancia ribollire e mi sentivo profondamente debole. Non sapevo da cosa fosse causato tutto quello, ma non riuscivo ad evitarlo.
Calmati Ven, sei soltanto ansiosa.
Ansia. Paura. Mi sentivo in colpa.
In colpa verso Simone.
Perché? Per quale assurdo motivo continuavo a struggermi per una persona che non aveva mostrato il minimo interesse, che alla prima richiesta di interrompere tutto, aveva accettato senza combattere. Senza nemmeno lottare.
Tutto questo quando avevo James al mio fianco, quando avevo di fronte un’opportunità irripetibile che chiunque avrebbe preso al volo. Cosa me ne facevo di un ragazzino, per giunta più piccolo di me, famoso e arrogante, con una causa per dubbia paternità che gli pendeva tra capo e collo quando potevo avere un famoso avvocato trentenne, affascinante e ricco?
Il cellulare vibrò rumorosamente nella mia borsetta.
Lo afferrai sperando si trattasse di Celeste che richiedeva immediatamente la mia presenza alla festa, in modo da poter lasciare quel bagno senza che la paura si prendesse ancora gioco di me.
Si trattava di un tweet.
@TermoSifone: @SourLawyer: Ti si è gelato il polo sud?
Rimasi a fissare allibita quel tweet. Possibile che di tutti quanti i follower che avevo al mondo (non fare la melodrammatica che hai 35 follower e 30 sono tuoi parenti), doveva capitarmi proprio Simone che rompeva, tanto per cambiare?
Mi sedetti sulla tavoletta del water e risposi. Tanto non sarei uscita di lì tanto presto.
@SourLawyer: @TermoSifone: Pensa al tuo di Polo. Ho conosciuto la famiglia di James. Gente molto educata, inglese.
Certo, su twitter, per quanto fosse comodo e tutto quanto, non si poteva sforare.
@TermoSifone: @SourLawyer: Il mio Polo sta benissimo, anzi, è da quando sei uscita dal bagno che sta aspettando di scongelarsi.
Arrossii.
Possibile che riuscisse ad essere così estremamente volgare e maniaco anche scrivendo dei semplici tweet ambigui su un social network?
Dio quanto lo odiavo.
Eppure vorresti essere lì, adesso.
@SourLaywer: @TermoSifone: Vedi di rimetterlo nel freezer, perché non ci sarà nessun scongelamento, tranne forse a causa dell’effetto serra.
Lapidaria e geniale. Dovevo ammettere che il mio sarcasmo riusciva ad essere trasmesso perfettamente anche via chat. Mi sentii molto soddisfatta di me stessa.
A quel punto non giunsero più tweet e rimasi a fissare il telefono con il cuore in gola. Non che mi importasse se Simone aveva di meglio da fare piuttosto che rimanere incollato al cellulare. Sbuffai e chiusi gli occhi.
Prima o poi sarei dovuta uscire da quel bagno, altrimenti James avrebbe pensato che mi sentivo male. In effetti, il capogiro mi era passato ma la nausea rimaneva. Non avevo toccato cibo, solo un po’ di champagne.
Possibile che fossi già andata fuori di testa?
D’improvviso il mio BlackBerry cominciò a vibrare nelle mie mani e sul display notai il nome di Leonardo che lampeggiava insistente. Da quando il ragazzo della mia migliore amica mi chiamava? D’accordo, c’eravamo scambiati i numeri nel caso servisse, ma quello mi pareva troppo.
Decisi di rispondere.
«Pronto?»
«Ce l’hai fatta, dannazione! Qua non si sente un cazzo!» ringhiò una voce ovattata dal rumore della musica tecno in sottofondo.
Ovviamente era Simone.
«Vai in bagno, tonto,» gli urlai, quasi.
«Non c’è bisogno che tu me lo dica, ci arrivavo da solo. Cretina!»
Dopo un po’ sentii la musica farsi meno forte e dedussi che il calciatore era riuscito a rinchiudersi da qualche parte in modo da poter parlare.
«Ho fregato il telefono a quel demente di mio cugino,» ridacchiò. «Il mio si era scaricato. Quei cazzo di cellulari non valgono niente.»
«L’avevo intuito quando mi è comparso il nome di Leonardo,» bofonchiai.
Seguì un attimo di silenzio in cui nessuno dei due seppe cosa dire. Per quale motivo mi aveva chiamato? Perché io gli avevo risposto? Per quale assurda ragione ce ne stavamo rinchiusi nel bagno, quando tutti gli altri si divertivano la notte di Capodanno?
Perché siete due anime separate che sperano soltanto di incontrarsi.
«Perché mi hai chiamato?»
Fui io a rompere il ghiaccio. Tanto valeva fare un tentativo.
«Mi annoiavo,» rispose lui. Sincero.
«E il fatto di annoiarti ti autorizza ad interrompere la mia serata con James?» chiesi, senza puntualizzare il fatto di essermi isolata da un bel po’.
«Se ti stessi divertendo con l’avvocatuncolo, non avresti risposto,» sentenziò.
Cazzo.
Quello stupido ragazzino era più furbo di quanto pensassi e un moto di rabbia e fastidio cominciò ad aggrovigliarmi le viscere.
«Pensavo fosse urgente,» mentii, pur di non dargli alcuna soddisfazione.
Lo sentii ridere dall’altro capo del telefono. «Sappiamo entrambi che non è vero, anzi. Se ti conosco bene ora sei in bagno, seduta sul copri-water, con i piedi doloranti e un forte mal di testa. Ovviamente non vedi l’ora di tornartene a casa,» disse, analizzando la situazione.
Odiavo quando aveva ragione. Anzi, lo odiavo e basta.
«Ti sbagli, caro,» sibilai. Mi alzai ad aprire la finestra, in modo che i suoni della notte confondessero le idee che si era fatto su di me. «Sono nell’enorme giardino della tenuta, avvolta dalle stelle che questa notte si vedono benissimo e aspetto James che è andato a prendermi da bene. Come un vero gentleman.»
«Stai mentendo.»
«Credi quello che ti pare, ti ho risposto solo perché pensavo fosse Leonardo.»
Il silenzio intervallò quella conversazione che si stava trasformando in una lite via aere. Riuscivo ad incazzarmi con lui pure tramite cellulare, era incredibile.
«Vieni qui,» disse dopo un po’, dopo che quasi credetti avesse abbandonato la conversazione.
Lo sentii respirare forte.
«Cosa?» chiesi, credendo di aver capito male.
Simone sospirò spazientito. «Ti sto chiedendo di venire qui, di raggiungermi,» ripeté.
«Tra un po’. L’ho detto a Sofia, nella seconda parte della serata vi raggiungiamo. Non ti preoccupare,» sbuffai.
Continuò ad esserci solo silenzio all’altro capo del telefono. «Io ti voglio qui. Adesso.»
Un brivido rotolò giù lungo tutta la colonna vertebrale e s’infranse nella pancia. Quella dannata voce mi avrebbe mandato al manicomio, ne ero più che certa.
La cosa più sconvolgente, poi, era il fatto che avessi davvero preso in considerazione l’idea di lasciare il party per raggiungerlo. Quasi come un pifferaio che mi aveva incantato col dolce suono della sua voce.
«Cresci, Dio santo!» sbuffai. «Non sono una delle tue sciacquette che risponde ai tuoi ordini come un cane ben addestrato. Hai capito che abbiamo chiuso? Anche tu c’eri quando l’ho detto e hai subito accettato. Cos’altro vuoi da me?»
Dovevo sottolineare il fatto che aveva rinunciato a quel “noi” malato e ingiusto troppo presto. Anche se non avrei mai aggiunto che mi aveva fatto soffrire, e tanto.
«Ho mentito.» disse infine, quasi sussurrandolo.
Il cuore mi salì fino in gola e se non avessi deglutito in quel preciso istante, ero più che sicura che avrebbe fatto capolino.
Subito si corresse. «Scusami, devo andare. Fai come ti pare. Ciao.» eMi chiuse il telefono in faccia.
Rimasi a fissare lo schermo del BlackBerry con uno sguardo assorto, quasi sperando che squillasse di nuovo. Non sapevo se la mia mente mi stesse giocando dei brutti scherzi, se quello che aveva detto Simone corrispondeva alla realtà o meno.
Avevo soltanto un forte desiderio di vederlo. Ora.
Non riuscivo a resistere. Mi faceva male il cuore ad immaginarlo chiuso in uno degli stanzini di quel locale, magari seduto sul pavimento, con le mani nei capelli a maledirsi per essere stato così debole.
Come facevo a saperlo? Perché lui era come me ed io avrei reagito allo stesso modo.
«Tutto bene lì dentro?» domandò la voce di Mrs. Abbott.
Mi riscossi dai miei pensieri e corsi alla porta. Chissà da quanto tempo ero rimasta lì dentro, probabilmente James si era preoccupato.
«Mi scusi tanto,» dissi, uscendo dal bagno.
Gli occhi della signora mi squadrarono. C’era qualcosa nascosto dentro quello sguardo, avevo una strana sensazione riguardo a quella donna, anche se mi era sembrata molto socievole a primo avviso.
«Ero preoccupata, cara. Non uscivi più di lì. Ti senti bene?» mi chiese benevola.
Annuii. «Ho avuto solo un giramento di testa,» dissi.
In parte era vero, togliendo la nausea e la conversazione terribile che avevo avuto con Simone al telefono. Ero scossa, dovevo ammetterlo.
Non sapevo se quel “Ho mentito” che aveva detto, si riferiva al fatto che mi volesse lì con lui o all’ammissione da parte sua di interrompere quella nostra specie di relazione malsana.
Perché era dannatamente ambiguo?
«Torno di là, mi scusi.» Cercai di raggiungere James.
La donna, però, mi afferrò un polso. Cercai il suo sguardo e compresi che quel sospetto che avevo avuto su di lei fosse reale.
«Senti, ho capito qual è il tuo piano e fin da subito ti avverto: stai lontana da James,» intimò.
«Come, scusi?» domandai allibita.
Mrs. Abbott si avvicinò, stringendomi il polso in una morsa. «Le conosco bene le ragazzine come te. Lascia in pace mio figlio, da lui non otterrai né una carriera né tantomeno il permesso di soggiorno. Sei soltanto un’immigrata. Tornatene da dove sei venuta e lascia in pace James!» minacciò.
Quella donna era completamente fuori di testa!
«Se non mi lascia immediatamente, la denuncio,» sibilai.
Poteva trattarsi pure della Regina Elisabetta in persona. Nessuno mi si sarebbe rivolto in questi termini, soprattutto se mi si accusava di essere solo un’opportunista.
Mrs. Abbott mi lasciò subito andare, senza mai smettere di linciarmi. «Ti avverto…»
«No, l’avverto io,» la interruppi. «Ci sono gli estremi per far scattare una denuncia, ma lascerò correre. Per sua informazione, ho la carta verde come studentessa e presto richiederò di avere la doppia cittadinanza. Non ho certo bisogno di suo figlio per rimanere in Inghilterra, signora. Né tantomeno per avanzare di carriera,» le risposi, lasciandola senza fiato.
Mi diressi verso il salone principale, cercando di rimuovere la rabbia che quella donna mi aveva fatto montare senza riuscire poi a placarla. Ma che razza di persona pensava che fossi? Ma soprattutto, quali tipi di ragazza aveva frequentato James per indurre la propria madre a comportarsi così?
Desideravo andarmene. Al più presto.
Trovai James che conversava con un altro signore, riguardo ad un vecchio caso di sfratto nelle campagne Londinesi, e attirai la sua attenzione sfiorandogli il braccio.
«Dov’eri finita?» si preoccupò.
Gli sorrisi. «Non mi sento molto bene, vorrei andare dai miei amici,» dissi sincera, senza mezzi termini.
James comprese subito che qualcosa non andava. Si scusò con il suo interlocutore e mi accompagnò a prendere i cappotti. La macchina era ancora fuori e ci sarebbe stata per tutto il resto della notte. La premura con cui l’avvocato mi posò il giaccone sulle spalle, la apprezzai molto.
Non mi chiese la fonte di quel mio strano comportamento, ma lo sentivo che si stava comportando in modo cauto. Forse aveva effettivamente immaginato che mi fosse accaduto qualcosa, che mi sentissi male, ma non aveva insistito per sapere.
Anche questo era ciò che più amavo di lui.
Ci sedemmo nell’auto e James gli comunicò il nome del locale dove il resto della famiglia Sogno ci avrebbe aspettati.
Rimanemmo in silenzio per il resto del viaggio, io che ancora stringevo nervosamente in BlackBerry tra le dita tremanti. Non sapevo se essere più scossa per il comportamento di Mrs. Abbott, oppure per ciò che mi aveva detto Simone.
James non c’entrava nulla con quella famiglia, e adesso intuivo il motivo per cui gli faceva visita di rado. Magari un giorno gli avrei parlato di quello spiacevole incontro con la madre, ma per ora non me la sentivo.
Era stato un episodio poco rilevante, almeno per la sottoscritta.
Strinsi ancora più forte le dita attorno al telefono, sentendolo scricchiolare. James se ne accorse e afferrò una delle mie mani e la cullò tra le sue.
«Mi dispiace,» disse, senza sapere veramente di cosa scusarsi.
«Non devi dire così,» sussurrai. Non sapeva il vero motivo per cui mi sentivo così frustrata. La ragione che mi aveva ridotto uno straccio.
«Sì, invece!» insistette. «L’idea di portarti qui è stata pessima. Avremmo dovuto raggiungere i tuoi amici direttamente, senza venire in questa specie di casa degli orrori
Lasciai andare il BlackBerry nella borsetta e mi voltai verso di lui. Cercai il suo viso e lo accarezzai con il palmo della mano.
«James, non devi scusarti di nulla. Mi ha fatto piacere conoscere la tua famiglia, vedere la casa in cui sei cresciuto. Davvero…» mormorai. «È solo che non sono ancora pronta, tutto questo non fa per me.»
L’avvocato mi sorrise. «Ecco perché sono innamorato di te, Spaghetti Girl.»
Quella confessione mi colpì al cuore come un mazzo di pugnalate. Avrei dovuto dirgli la reale ragione per cui me n’ero andata di corsa da quella casa, il vero motivo per il quale sentivo un bisogno quasi morboso di vedere Simone.
La verità è che rimanere separata da lui per più di un’ora mi faceva star male. Era dura ammetterlo, soprattutto dopo avergli chiesto di chiudere tutto, ma era la verità.
C’era qualcosa che mi teneva incatenata a lui, che rendeva le nostre due essenze legate in un modo indissolubile.
«Non dire così, ti prego,» lo implorai e mi scostai da lui.
Lui mi spostò un ciuffo di capelli davanti al viso. «È la verità, non posso farci nulla. Per quanto questo lavoro mi divida da te, ormai è troppo difficile offuscare i miei sentimenti, Ven,» continuò.
Doveva smetterla. Finirla di essere così tremendamente dolce e perfetto. Sarebbe stato tutto più semplice se, come in una commedia americana, si fosse rivelato lo stronzo di turno, se nella realtà dei fatti avesse frequentato altre mille donne oltre la sottoscritta.
Invece sapevo che diceva la verità, che il suo sguardo era puro.
La badass di questa storia ero solamente io, Venera Donati. L’unica che il pubblico avrebbe dovuto odiare perché prendevo in giro una persona meravigliosa come quella.
Ma con una madre adoratrice del Diavolo.
Sono d’accordo.
«Vorrei che questo caso fosse già concluso, così avrei una scusa più che valida per baciarti,» mi disse, imbarazzato.
Ed io mi sentii ancora più male. «Nessuno verrà mai a saperlo,» soffiai, quasi senza pensarci.
Mi avvicinai a lui e così fece James. I nostri volti si cercarono e si trovarono quasi subito, come se avessero stampato nella mente una mappa.
Lo baciai nel sedile posteriore di quella macchina, viaggiando a tutta velocità per raggiungere il disco-pub dove mi aspettava Simone. Schiusi le labbra e accolsi la sua lingua curiosa, il sapore di James era come un Earl-Green sorseggiato in un giorno di pioggia, davanti ad un camino scoppiettante.
Sapeva di campagne verdeggianti, di pascoli e di vite d’altri tempi. James aveva racchiusa in sé l’essenza dell’Inghilterra e assaporando quella sua bocca era come tuffarmi in un mondo che ancora non mi apparteneva.
«Scusami,» disse lui, scostandosi. «Forse dovrei smetterla di sostenere di rimanere solo colleghi, e poi saltarti addosso,» ridacchiò.
«Non è solo colpa tua,» arrossii.
Guardai d’istinto l’orologio e mi accorsi che erano già le 23.30. Mancava soltanto mezz’ora all’inizio del nuovo anno ed io temetti di passare lo scoccare della mezzanotte in quella macchina.
«Arriveremo in tempo,» mi tranquillizzò James.
Sorrisi riconoscente. Sapeva sempre quando e cosa dire per rendermi serena. Con lui non riuscivo ad arrabbiarmi, anzi. Era rarissimo che litigassimo noi due.
L’avvocato era sempre pronto a spalleggiarmi, a confortarmi e a rendere le mie giornate più rilassanti.
Tutto il contrario di Simone.
Fissai lo sguardo fuori dal finestrino, mentre l’Audi nera imboccava l’autostrada che ci avrebbe condotti di nuovo nella metropoli. Un senso d’ansia mi attanagliò lo stomaco, facendomi risorgere quel senso di nausea ma tentai di ignorarlo.
Ero nervosa, ma non sapevo il motivo.
Decisi di preoccuparmi in seguito di cosa avrei dovuto dire o fare una volta che avessi raggiunto Simone. Per adesso dovevo godermi il resto del viaggio senza vomitare alla prima occasione.
 
Arrivammo davanti all’Headen quando mancavano dieci minuti esatti alla mezzanotte.
«Scendiamo, cercare il parcheggio non è un problema,» mi disse James, facendomi cenno di uscire dalla vettura.
Scesi nel freddo di quella notte di Dicembre, anzi, quasi Gennaio ormai, e sentii i brividi scuotere il mio corpo intorpidito. Subito fui abbracciata dalle forti braccia dell’avvocato che mi condussero verso l’ingresso del locale.
Il bodyguard all’ingresso ci chiese i nostri nomi, poi controllò sulla lista.
Ci fece passare senza alcun problema non appena notò che eravamo associati al cognome “Sogno”. James si accigliò parecchio, ma non disse nulla.
Sapevo quanto fosse difficile per lui passare una nottata come quella in compagnia di uno dei suoi clienti, quando avremmo dovuto intrattenere un rapporto puramente professionale. Non era colpa mia se, però, la mia migliore amica Celeste era fidanzata con una di loro e se Sofia, mia nuova confidente, fosse la sorella del nostro assistito.
Di certo, i Sogno stavano lentamente conquistando il mondo.
«Finalmente ce l’avete fatta!» mi urlò quasi nell’orecchio Sofia, corsa ad abbracciarmi.
Era un po’ accaldata, lo dimostravano i lunghi capelli biondi scarmigliati e incollati al viso. Ruben non era in condizioni migliori.
«Abbiamo ballato fino adesso!» gridò, nel tentativo di sovrastare la musica assordante.
«Noi siamo andati via dalla festa poco fa,» le dissi all’orecchio, poi tentai di individuare la mia migliore amica in quel groviglio di corpi che si strusciavano l’uno con l’altro.
«Celeste è laggiù che balla con Leonardo, credo sia un po’ brilla,» ridacchiò Sofia.
Notai che anche lei non era in condizioni migliori, ma in fondo era la notte di Capodanno e ci si poteva lasciare andare almeno per una volta. «Venite qui al centro della pista, tra un po’ fanno il count-down.»
La seguimmo, cercando di farci spazio tra i corpi sudati di ballerini improvvisati per quella serata di festa. Con lo sguardo vagai per il locale dalle luci al neon, cercando qualcuno che ovviamente non voleva farsi trovare.
James di tanto in tanto mi osservava, senza però aggiungere nulla.
Non sapevo se avesse intuito chi stavo cercando così ossessivamente, oppure se fosse semplicemente preoccupato che potessi sentirmi male. La calca era quasi insopportabile, ma dopo qualche secondo la musica s’interruppe e lo speaker prese la parola.
«Gooooooodnight to everybody!» gridò, poi un urlo seguì quell’intro da discoteca.
«Are you ready for the count-down… for 2013 year?» urlò ancora.
Un boato si levò dalla sala. «YES!»
«I don’t hear you, guys. EVERYBODY SCREAM!»
«YEEEEEEEEES!»
Lo speaker sorrise divertito da quel giochetto, e sentii James avvolgere un braccio attorno alle mie spalle.
«And now…» cominciò, mentre si levò il rullo dei tamburi. «TEN… NINE…!» urlò ancora, imitato dal resto delle persone che affollavano il locale.
Notai Celeste poco più avanti, con lo sguardo rivolto verso di me. Mi sorrise. Era felice che fossimo tutti lì, come se il tempo non fosse passato per nulla.
Anche Sofia e Ruben sorridevano, stretti l’uno all’altra.
Eravamo tutti felici, accoppiati, uniti a coloro che ormai erano diventati una parte importante della nostra vita.
Non dire cazzate.
«EIGHT… SEVEN…!»
Sondai il locale per l’ennesima volta, senza riuscire a scorgere Simone. Come avevo sospettato, di sicuro aveva lasciato il locale per andare a sbronzarsi a casa, o magari rimorchiare qualcuna in un bar. In fondo, non ero lì con lui a controllare che non si mettesse ancor più nei guai.
Lo avevo lasciato solo per stare con James, il suo avvocato.
Mi sentii una stupida, una vera deficiente. Avrei dovuto capire dal suo tono di voce al telefono che aveva fatto il sacrificio di venire a quello stupido Capodanno soltanto perché glielo avevo chiesto, perché Sofia ci teneva.
Ed io gli avevo fatto la stupida promessa che sarei stata lì, almeno prima della mezzanotte.
E adesso, mentre aspettavo che i secondi passassero, mentre James mi stringeva ancora di più al suo petto, aspettando la mezzanotte per potermi baciare, per poter coronare quella specie di superstizione durante l’ultimo dell’anno, Simone non c’era.
«SIX… FIVE… FOUR…!»
Ed io mi sentivo completamente sola, nonostante fossi circondata da tutta quella gente. Facevo fatica a respirare lì dentro e il desiderio di tornare a casa era forte. Ma non potevo. Sarei rimasta almeno per Celeste e Sofia.
«Potrei baciarti di fronte a tutta questa gente? Tu che dici?» mi sussurrò James all’orecchio.
Arrossii, nonostante me l’aspettassi.
«D’accordo.»
Tanto di Simone non c’era traccia, per cui non avevo alcun motivo per sottrarmi a quel gesto che per un momento mi avrebbe fatto dimenticare lui. L’avvocato mi sorrise e continuò a stringermi, mentre dai maxischermi distribuiti nel locale il pubblico era rapito dall’immagine del Big Ben in attesa che scoccasse la mezzanotte per salutare il 2013 in arrivo.
«THREE… TWO… ONE…!»
E tra l’ultimo secondo, tra l’attesa di gridare al nuovo anno, tra lo sguardo di James che puntava le mie labbra, sentii una mano stringersi forte e cercare la mia. Non ebbi nemmeno il bisogno di voltarmi per capire a chi appartenesse.
Già lo sapevo.
Quel gesto fu sufficiente a farmi spostare quel tanto perché le labbra del giovane avvocato andassero a sfiorare la mia guancia, invece che infrangersi sulle mie labbra.
«HAPPY NEW YEAR!» gridarono tutti in coro, mentre strinsi ancor più la presa attorno alla mano di Simone che avevo paura sfuggisse via come un sogno.
La musica tecno ripartì ancora più assordante di prima, mentre la gente attorno a noi ricominciò a muoversi, separando me e James quasi senza volerlo.
L’avvocato cercò di raggiungermi, ma fu spinto verso un angolo del locale, così mi mimò con le labbra “ci sentiamo dopo” e venne inghiottito dal mare di gente che affollava l’Heaven.
Io fui trascinata invece dall’altra parte della struttura, ma non a causa della calca. La mano che stringeva la mia continuava a condurmi verso l’uscita, quasi come se le mie gambe si muovessero da sole sospinte da una flebile brezza.
Eppure faceva caldo in quel locale. Troppo.
D’improvviso mi trovai il muro davanti agli occhi e vi posai le mani con i palmi aperti, mentre il corpo di Simone si schiacciava contro il mio, alle mie spalle. Sentivo il suo odore dappertutto, mi soffocava.
Il suo petto caldo a contatto con la mia schiena seminuda e le sue mani che si erano strette con bramosia attorno alla mia vita. La sua presa era sinonimo di possesso ed io singhiozzai.
«Sei venuta…» mi soffiò contro l’orecchio.
Gemetti senza vergogna, tanto la musica era talmente assordante che non mi avrebbe sentito nessuno. I capelli mi si erano appiccicati al viso, così come la mia pelle… la sentivo scivolosa.
«H-Ho dovuto,» smozzicai, mentre mi voltai quel tanto da scorgere il viso di Simo attraverso i capelli talmente disordinati da coprirmi la visuale.
Simone ne approfittò per baciarmi e non ci fu nulla dell’amichevole gesto che James aveva fatto poco prima. C’era urgenza, bisogno, desiderio di rimediare a quell’assenza e a quell’odio che in quei giorni ci aveva allontanati.
Simone spinse violentemente la lingua nel mio palato, facendomi mugolare dal fastidio ma anche dal piacere. Ero ancora schiacciata contro il muro, con il volto quasi premuto su quelle fredde mattonelle ma non mi importava.
Potevo sentire tutto il suo corpo schiacciato su di me, potevo sentire il modo in cui mi desiderava.
«Non voglio nemmeno sapere cosa hai fatto con quell’avvocatucolo…» Portò le mani verso il basso e sollevò di poco il mio vestito. «Ucciderò mia sorella per averti fatto indossare una cosa del genere,» insistette, con la voce roca e frammezzata. «Lui ti ha visto con questo addosso. Ti hanno guardata e desiderata a causa di questo vestito…»
Gli scostai gentilmente le mani e mi voltai, per prendergli il viso. Tolsi i capelli sudati che gli nascondevano quegli occhi talmente scuri da sembrare quelli di un demonio. Lo accarezzai per tranquillizzarlo, per comunicargli silenziosamente che nonostante tutto ero tornata da lui.
Alla fine dovevo ammettere a me stessa di essere quel cane scodinzolante che tanto denigravo.
«Non dovevo dirti quelle cose… al telefono,» mi sussurrò all’orecchio. «Abbiamo fatto un accordo io e te,» aggiunse.
L’accordo cui si riferiva era ovviamente quella mia richiesta di interrompere quella specie di “relazione” clandestina che continuavamo a portare avanti nonostante tutto.
Cercai la sua mano e la strinsi. «Andiamo a casa,» dissi solamente, conducendolo verso l’uscita. La macchina di James ci aspettava dall’altro lato della strada e vedendomi arrivare con un altro uomo, l’autista s’indispettì.
«Si sente male, lo accompagno a casa,» mentii.
L’uomo sembrò credermi e mi sorpresi di quanto stesse diventando naturale per me dire le bugie. Certo, la mia professione spesso e volentieri mi obbligava, ma adesso stavo sfiorando l’incredibile.
Oramai mentivo a James, a Sofia, persino alla mia migliore amica Celeste con una naturalezza che mi spiazzava.
L’unico che ancora si salvava – o quasi, visto che ancora non sapeva che l’indomani sarei partita per Roma – era Simo.
L’autista ci accompagnò a casa e dopo averlo ringraziato, cominciai a rovistare nella pochette in cerca delle chiavi di casa. Entrammo nell’ascensore e non feci in tempo a sollevare lo sguardo che Simone mi fu addosso. Mi prese il mento tra pollice ed indice, inducendomi a schiudere le labbra.
Succhiò, morse, dilaniò le mie labbra come a rimarcare quanto fossimo stati lontani. Poi posò la fronte sulla mia, incatenando il mio sguardo.
«Cosa diremo agli altri?» soffiò.
«Ho mandato un SMS a Sofia,» risposi. «Credo che le ci voglia poco per fare due più due, ma sono sicura che sarà discreta,» dissi, poi cercai di nuovo le sue labbra.
L’ascensore si fermò con un ‘plin’ che sorprese entrambi e ci ritrovammo subito sul pianerottolo di casa Sogno. Mi avvicinai con le chiavi in mano mentre Simo mi seguiva come un’ombra, senza mai smetterla di fissarmi.
«Mi consumi a forza di squadrarmi in questo modo,» dissi maliziosa, aprendo il portone.
Feci per accendere la luce ma lui mi bloccò. «Devi indossarlo più spesso, mette in mostra delle doti che non sapevo avessi…» sussurrò malizioso.
Ridacchiai come una quindicenne.
«Anzi no, non lo indossare. Non voglio che Jacob ti veda ancora vestita così, non voglio abbia altri pretesti per desiderarti.»
«James, si chiama James.»
«Non m’importa.»
Fui guidata dalle sue mani attraverso il buio di quella stanza che evidentemente Simone conosceva a memoria. Ero felice che l’oscurità ci avvolgesse, non ero ancora pronta a vedere fino a quanto gli occhi di Simone sarebbero stati in grado di assuefarmi.
Non avevo nemmeno voglia di pensare a quante altre ragazze avesse riservato lo stesso trattamento, a quante scene di sesso avesse assistito quella casa. I muri impregnati dei gemiti delle ragazze che soleva portarsi a casa, gli specchi riempiti dell’immagine dei loro corpi uniti.
Ripresi a respirare.
Ero ancora in tempo per fermarmi, per recuperare quel poco di dignità che mi rimaneva.
L’odore di Simone era forte, mi annebbiava il pensiero. Ebbi l’egoistica idea che se avessi continuato a strusciarmi addosso a lui, forse un po’ di quell’odore si sarebbe trasferito anche su di me, così da renderci l’uno parte dell’altro.
Poi mi diedi della sciocca.
Sentii le mani di Simone stringersi attorno alle mie cosce e sollevarmi in un sol colpo per posarmi sopra il bancone della cucina, per rimediare alla differenza d’altezza.
«Altrimenti divento gobbo…» ridacchiò contro il mio collo, prendendo a mordicchiarlo.
«Scemo!» sorrisi.
Alla fine era riuscito a prendersi gioco di me rimanendo pur sempre gentile. La verità era che quella telefonata mi aveva sconvolta, mi aveva ridotta uno straccio e soltanto ora, dopo che il nuovo anno era arrivato ed ero stretta tra le sue braccia, potevo sentirmi bene.
Senza più un brutto pensiero ad attraversarmi la mente.
«D-Dicevi sul serio…» smozzicai, gemendo non appena sentii le sue mani sollevarmi d’impeto la gonna del vestito.
Ringrazia Sofia che ti ha costretta ad indossare un intimo decente, e non il pannolone di zia Argia.
Simone si staccò dal mio collo, per guardarmi serio, attraverso l’oscurità. I suoi occhi bruciavano forse ancora di più quando erano avvolti dal buio, il suo elemento naturale.
«Quando?» chiese, con voce strozzata dal piacere.
Nel frattempo mi sentii un po’ inutile mentre avvertivo le sue mani viaggiare bramose su tutto il corpo, così strinsi con forza le gambe attorno alla sua vita e presi ad armeggiare con la cintura dei suoi pantaloni.
Lo sentii sospirare forte.
«Al telefono… quando hai detto di aver mentito. Su cosa? Sul fatto che non mi volevi qui?» chiesi ingenuamente.
Sapevo di non avere alcun diritto di chiederglielo, non dopo aver sostenuto di chiuderla lì. Eppure sentivo lo strano bisogno di chiarire quella faccenda, almeno per non aver capito fischi per fiaschi.
Simone rimase in silenzio, con le mani immobili.
Io invece non mi fermai, anzi. Riuscii a togliergli la cintura e a sbottonare il jeans, facendo calare la zip con un rumore intenso che mi fece venire i brividi.
Lo desideravo con un’intensità mai provata prima.
«Dimmelo,» gli intimai, stringendo con forza la sua intimità ancora coperta dal sottile tessuto dei boxer.
Simone affondò il viso nell’incavo del mio collo.
Avevo come il bisogno di certezze, dovevo sapere se non mi ero immaginata tutto. Sentivo la necessità di ricevere conferme.
«Ven io…» tentò di dire, mentre la mia manco continuava a muoversi su di lui. I suoi occhi continuarono a sostenere il mio sguardo, anche se il suo labbro inferiore era intrappolato tra i denti per sopperire al piacere che dilagava lento dentro di lui.
«Devo sapere…» lo implorai, cominciando a solleticare la porzione di pelle vicino l’elastico dei boxer.
Simone gemette e inspirò forte. Strinse con forza le mani attorno alle mie cosce, spalancandole senza alcuna grazia. C’era soltanto il desiderio a fare da padrone in quella cucina, su quel bancone di marmo freddo, scaldato soltanto dall’unione dei nostri corpi accaldati.
Mentre in lontananza si udivano gli scoppi dei fuochi artificiali, io venivo rapita da quelli che il tocco esperto di Simone mi faceva scorgere dietro le palpebre chiuse e la testa reclinata all’indietro a cercare il piacere.
«Ho mentito, sì…» Strattonò con forza il mio intimo. Avevamo bisogno, entrambi, ed io mi sollevai quel poco per permettergli di togliermi l’ultimo indumento che ci separava. Simone si scosto quel tanto da sfilarlo, poi, senza alcuna vergogna, se lo infilò in tasca.
Cos’era? Una specie di premio?
«Te lo riconsegno dopo… non sia mai che quel coglione di mio cugino lo trovi sparso in giro,» soffiò contro il mio orecchio.
Fu il mio turno di abbassargli lievemente i boxer, prendendo a stimolare lentamente l’erezione che svettava fuori dai jeans semi-abbassati.
«Ven.. ah!» gemette forte ed io cercai di non arrossire.
Lo desideravo troppo. Misi a zittire persino il mio Cervello che continuava a ricordarmi che i miei amici sarebbero potuti tornare in qualsiasi momento e trovarci lì.
Strinsi ancora di più le cosce attorno alla sua vita, poi mi avvicinai strusciandomi.
I nostri sguardi si incrociarono proprio nel momento in cui la sua mano si unì alla mia, per condurre il gioco. Non mi persi nemmeno la minima mutazione del suo viso, quando da sofferente si trasformava in puro piacere intenso.
Dopodiché affondai il viso nella sua maglia soffocando un grido.
Simone attese qualche minuti che mi abituassi a quell’intrusione, poi lasciò che mi avvicinassi ancora di più a lui, spingendomi verso il bordo e allacciando le gambe attorno alla sua vita, in una muta richiesta di iniziare a spingere.
E lui spinse. Spinse forte.
«S-Simo… neAh!» gemetti, quando affondò con accuratezza in modo da mandarmi un brivido di piacere che mi spezzò in due.
«Ho mentito. Ho mentito. Ho mentito,» ripeteva lui, quasi come una filastrocca nel mio orecchio, a ritmo con quei movimenti mirati che mi spedivano sempre di più in orbita.
C’eravamo caduti ancora una volta e ormai non ero più sicura che sarebbe stata l’ultima. Lo desideravo. Per quanto ripetessi a me stessa che tutto quello fosse sbagliato, non riuscivo a resistergli.
Simone incarnava tutto ciò che mi era proibito, e appunto per quello lo desideravo.
Gli afferrai con forza i capelli, posando la fronte contro la sua e respirando affannosamente mentre i suoi movimenti intensi venivano proiettati dalle luci dei lampioni di fuori sulle pareti della cucina e del salotto. Era come se fossimo circondati da specchi ed io mi eccitai ancora di più.
Più del possibile.
Sentivo che ormai mancava pochissimo e dal modo in cui Simone si muoveva meccanicamente, senza un ritmo preciso, compresi che eravamo al limite. Eravamo durati poco entrambi, perché il desiderio ci aveva consumati.
Ma lui si fermò, si immobilizzò solo per un attimo. «Ho mentito,» sussurrò sulle mie labbra. «Non credo di poter smettere. Ci ho provato, ma ti voglio. Sei come una cazzo di droga ed io ormai sono fottuto,» poi imprecò, nascondendosi al mio sguardo.
Lo riportai verso di me, catturando la sua attenzione con un lungo bacio. «Fanculo il patto,» dissi, poi ricominciai a muovermi da sola su di lui e lo sentii sibilare forte perché non si aspettava questo tipo di disinibizione da parte mia.
Oh, ancora deve sapere di cosa sei capace.
Lo strinsi più forte e lui mi artigliò le natiche seppellendosi sempre di più dentro di me, aumentando il ritmo, conducendomi verso luoghi che nemmeno riuscivo ad immaginare.
La soglia del piacere era vicina.
Fu allora che affondai le unghie nella sua schiena, sotto la maglietta, graffiandola e raggiungendo il suo orecchio con disperato bisogno.
«Vieni con me…» gli urlai, quasi.
Simone si agitò sorpreso, così decisi di spiegarmi. Non ce la facevo più, non sapevo quanto avrei resistito ma sentivo soltanto che fosse giusto.
In un malsano e malato modo di vedere le cose, io e Simone eravamo destinati a stare insieme.
«Domani torno a casa… a Roma, fino al sei Gennaio,» sussurrai, mentre lui continuava a muoversi più lentamente dentro di me. Voleva sapere ed io ero stata codarda ad aspettare sino a quel momento prima di dirglielo.
«Devo essere sempre l’ultimo a… mh… sapere le cose…» sibilò, imponendosi di non accelerare.
Lo strinsi forte, lo avvicinai a me e lo accolsi tutto quanto. Accolsi tutto ciò che aveva da darmi.
«Vieni con me, ti prego,» lo implorai, ferendolo.
Lui gridò di dolore, di piacere. Gridò un’affermazione che non seppi se si riferiva alla mia proposta di condividere quella vacanza oppure al fatto che fosse venuto.
Che avessimo finalmente raggiunto il piacere, entrambi.
I respiri affannati riempirono le pareti di quella cucina ed entrambi ci prendemmo il nostro tempo per regolarizzare i battiti.
In seguito Simone mi sollevò dal bancone della cucina senza nessuno sforzo ed io mi aggrappai a lui come se fosse l’ultima speranza rimasta. La speranza di non precipitare verso un vuoto che mi avrebbe annientata.
Non insistetti. Non gli chiesi se sarebbe venuto con me a Roma, se mi avrebbe accompagnata in un viaggio che sentivo di dover fare da tempo.
Avevo fatto la stessa domanda a James, ma lui aveva rifiutato.
Sentii la forte voglia di piangere, perché come al solito avevo lasciato che Simone fosse solamente la ruota di scorta, fosse secondo all’avvocato che reputavo perfetto in tutto.
«D-Dove stiamo andando?» chiesi, accoccolandomi contro il suo corpo.
Simone mi accarezzò i capelli. «A scambiare i nostri sogni, soltanto per questa notte,» disse ed io non seppi mai se avesse detto o meno la verità.


Sorratemi (?) il ritardo di questa pubblicascìon ma ho avuto i miei perché (tra cui l'immancabile voglia di non fare un tubo).
Mi prendo un pochino di tempo per ringraziare quella povera (e santa) Tonna di Wife che si è dovuta betare 24 pagine di capitolo per 2 volte, perché nella prima occasione il file word si era volatilizzato dal suo piccì.
Credo che Simo gliel'abbia requisito. Cmq, che ne dite?
So che è il 15 Aprile e che Capodanno è passato da un pezzo, ma questo capitolo lo scrissi proprio a Gennaio e mi sentivo abbastanza ispirata e in tema. Dunque, come procede la storia tra questi due poracci? Gli lascerò mai un po' di pace?
La risposta è ovviamente NO.
Diciamo che questa storia, come l'avevo pensata all'inizio, già era abbastanza lunga e intricata e vi avverto che non siamo nemmeno entrati nel clou. Io che sono un tipo che si impegna poco, mi sono andata ad impelagare proprio bene! Siete fortunate/i che ho le mie Crudelie che mi spronano (col fucile) con i pon pon tutti i giorni, così da non lasciare che mi 'adagi' troppo :3

Bene, bene!
Ho pubblicato di Lunedì perché Mecoledì parto e vado a Londra a rapire Simone con i parents per cui sarò abbastanza impegnata per tutto il fine settimana! Ci volevo tornare da tanto tempo, la amo quella città!
Chissà che al mio ritorno non mi senta nuovamente ispirata per una carrellata di nuovi capitoli :3
Un bacione!
//marty
 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Capitolo 19 ***


CAPITOLO 19
 
La vibrazione del cellulare sul comodino mi destò da un sonno totalmente privo di sogni. Ricordavo unicamente di essere crollata non appena avevo messo la testa sul cuscino, ed ero sicura che il complice di quella stanchezza fosse stato quello strano Capodanno di cui ricordavo poco o niente.
Una cosa però mi appariva stranamente chiara: il mio corpo appiccicato a quello di Simone nella cucina.
Mi svegliai di soprassalto, mettendomi a sedere con uno scatto, simile a quello dei vampiri risvegliatosi dalle proprie bare, e per poco non persi l’equilibrio rotolando rovinosamente giù dal letto.
Lo evitai soltanto perché qualcuno riuscì ad agguantarmi in tempo.
«È mai possibile che ogni volta tenti sempre di sgattaiolare via dal mio letto?» mi rimbeccò Simone, facendo capolino dalla nuvola di coltri con quei capelli neri perennemente spettinati.
Un lieve velo di barba sfatta gli adombrava il viso, rendendolo “leggermente” più maturo ai miei occhi.
Leggermente, s’intende. Aveva pur sempre quattro anni in meno della sottoscritta.
«Se non l’avessi notato, stavo cadendo… idiota.» sibilai, liberandomi dalla sua presa.
Ovviamente mi accorsi soltanto in ultimo di essere completamente nuda, e solo quando il lenzuolo si abbassò del tutto e mi ritrovai uno sguardo di fuoco di Simone addosso, caddi nel più completo imbarazzo.
Immediatamente mi schiacciai le mani al petto, indignata. «La smetti di fissarmi come un maniaco?» Tentai di coprirmi alle bell’è meglio.
Simone sghignazzò divertito da tutta quella mia pantomima.
«Che hai da ridere, eh? Ti diverte mettermi in imbarazzo?»
Ero stufa di essere presa per i fondelli, soprattutto da un ragazzino impertinente, viziato – stupendamentebravoaletto – e immaturo.
Simone scosse la testa. «Mi diverte il fatto che tu stia facendo tanto per coprirti, quando ieri notte mi hai mostrato più di quanto tu voglia ammettere…» sussurrò malizioso, avvicinandosi.
A quel punto, la vecchia Venera gli avrebbe rifilato un bel ceffone sonoro e avrebbe rimesso il ragazzino in riga, al suo posto, dove avrebbe dovuto essere.
Ma la vecchia Ven non c’era più, ormai era un dato di fatto.
La sera prima, nonostante fossi andata al party con James, avessi condiviso un ballo e una limousine con lui, avevo pensato solo ed esclusivamente a Simone. A quanto mi mancava, a quel vuoto che lentamente si allargava come una voragine nel mio stomaco, a causa della sua lontananza.
Simone continuò ad avvicinarsi lentamente, fermandosi ad un soffio dalle mie labbra.
Con una mano scostò i capelli arruffati che avevo davanti agli occhi, incastrandoli dietro l’orecchio poi mi guardò intensamente.
I suoi occhi bruciavano come la prima volta che lo avevo visto.
«S-Sme-Smettila…» soffiai, stringendomi il cotone del lenzuolo al petto e sentendo le guance tingersi di rosso.
Riusciva sempre a farmi uno strano effetto, a far sì che le mie difese crollassero come un castello di carte. Lui riusciva sempre a trovare l’asso di cuori, alla base della piramide e, sfilandolo, rompeva il muro che mi ero così faticosamente costruita attorno.
«Di fare cosa?» continuò lui, sfiorando con il pollice la mia guancia e cominciando ad accarezzarla.
Una cascata di brividi mi percorse la pelle, increspandola. Era odiosamente strano il modo in cui, con un gesto così semplice, Simone riuscisse a rendermi innocua.
Afferrai saldamente il suo polso e lo bloccai. Mi era rimasto ancora un barlume di lucidità dalla sera precedente e avrei dovuto sfruttarlo.
«Di fissarmi come se fossi una bistecca e tu un lupo affamato da giorni!» Gli scostai bruscamente la mano.
Simone non si offese, né sembrò arrabbiarsi. Sorrise, anzi.
«Auuuuuuuuuuuuuuu!» ululò, rovesciando la testa all’indietro, spiazzandomi completamente.
Un accenno di sorriso affiorò alle mie labbra. Anche se tentavo in tutti i modi di mantenere una maschera di serietà, controllo, di maturità nei suoi confronti, non riuscivo a resistere. Per quanto Simo si comportasse da ragazzino immaturo, certi suoi comportamenti mi facevano sentire più leggera.
«Stai sorridendo,» disse, indicandomi l’angolo delle labbra.
«Chi? Io? No, ti sbagli!» mentii subito, anche se stentavo ancora a trattenermi dal ridere.
«Eccolo! Lo vedo!» ridacchiò felice lui.
Era da tempo che non lo vedevo così spensierato. L’ombra che in quegli ultimi giorni aveva coperto il suo sguardo si era lentamente dissolta.
«Ti sbagli.» Incrociai le braccia al petto. «Magari sto solo ridendo di te,» puntualizzai.
Lui si accigliò giusto un attimo, poi continuò il suo assalto mirato. «Beh allora meriti una punizione…»
E a quel punto mi si avventò letteralmente addosso, imponendo il suo corpo sul mio e costringendomi a “soccombere” sotto di lui.
«Lasciami andare,» gli intimai, seria.
Nessuno mi aveva mai sottomessa in quel modo, soprattutto perché mi reputavo una donna di carattere e capace di tenere i maschietti nel proprio pugno – seppur piccolo.
«No.» Simone era dannatamente serio e quegli occhi non la finivano di sondare il mio corpo con una bramosia che ci mise ben poco a scaldarmi.
Eravamo così noi due, ormai non potevo più negarlo. Due scintille che al primo contatto prendevano fuoco e sarebbero riuscite ad incendiare interi ettari di terreno attorno a loro, facendo terra bruciata di tutto.
Così saremmo finiti noi due, con solo il deserto attorno a noi.
«Simo…» soffiai, sulle sue labbra che lentamente scendevano e si avvicinavano alle mie.
«Ho pensato a quello che mi hai chiesto…» mormorò, fissandomi intensamente.
Sgranai gli occhi rendendomi conto di ciò che gli avevo chiesto la sera prima, quando, nell’ebbro della passione, lo avevo quasi implorato di venire a Tivoli con me.
Ti stai proprio rammollendo…
Avrei voluto scavarmi la fossa da sola e sprofondarci dentro, perché avevo servito a Simone il coltello dalla parte del manico ed ora avrebbe potuto incidermi il petto e cavarne fuori il mio cuore senza alcuna difficoltà.
La mia forza si stava trasformando in una debolezza sin troppo evidente e controproducente.
«…ah sì?» cercai di fare l’indifferente, ma arrivati a quel punto non sapevo quanto ancora sarei stata credibile.
Infatti, Simone mi lanciò subito un’occhiata di rimprovero.
Ormai non riuscivo ad ingannare più nessuno, nemmeno me stessa. Bastava ammetterlo, essere coerenti: mi ero presa una sbandata per un calciatore, nonché mio cliente. Per Simone.
Una cosa che andava contro tutti i miei principi e ciò che avevo sempre sostenuto. Mi eri persa nel mio stesso bicchiere d’acqua.
«Guarda, non hai nessun obbligo verso di me… se non v-» ma lui mi zittì con un profondo e umido bacio. Mi costrinse a schiudere le labbra, ad accogliere la sua lingua calda e a giocarci maliziosamente, cominciando a mugolare di piacere.
Perché era tutto istinto con Simone. Il cervello poteva benissimo essere messo da parte.
Ci staccammo solo dopo alcuni lunghi minuti di coccole. Mi sentivo bene, stranamente bene, come non mi sentivo da anni ormai.
«Dovresti pensare di meno e agire di più,» commentò lui, con un sorriso.
«Me l’hai già detto,» precisai.
I suoi occhi scuri non mi abbandonarono mai e mi sentii leggermente in soggezione sotto quello sguardo così intenso. A dirla tutta, avevo paura. Timore che, come James, Simone avrebbe potuto rifiutare quel mio invito, facendomi tornare a casa da sola.
Non che un ritorno del ‘figliol prodigo’ mi mettesse qualche pressione, solo che avrei preferito affrontarlo con qualcuno accanto. C’era sempre mio padre che non condivideva quella mia scelta di vivere all’estero, lontano dalla famiglia quasi come se lo avessi fatto apposta.
Loro non avevano colpe, era solo che avevo sempre desiderato lasciare l’Italia per qualcosa di più grande, qualcosa che avrei potuto gestire a modo mio.
«Verrò.» Se ne uscì di punto in bianco Simone, stendendosi su di me e appoggiando la testa sul mio petto. Il calore del suo corpo era piacevole contro il mio, così cominciai distrattamente ad accarezzargli i capelli.
«Ti dico subito che se lo stai facendo per pietà, preferisco che tu non venga…» precisai.
Simone alzò di poco la testa, posando il mento nell’incavo del mio seno e mi fissò. «Possibile che non possa mai far qualcosa senza un secondo fine? Mi credi così subdolo?» sorrise.
Feci finta di pensare qualche secondo. «Uhm… sì,» conclusi, ridendo anche io.
Simone, allora, per vendicarsi, cominciò a baciarmi il seno, facendomi rabbrividire e tentai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, ma la verità era un’altra. Ero felice che avesse deciso di accompagnarmi, forse lo ero ancora di più di quanto lo fossi stata se anche James lo avesse fatto.
Non sapevo ancora spiegare cosa provassi per il calciatore, mi sentivo confusa.
Eppure ero sicura che qualcosa c’era. Qualcosa di bello, che mi faceva sorridere, e questo a me bastava.
 
«Si può sapere dov’è finito Leonardo?» sbraitò Celeste per la quattordicesima volta.
Sbuffai e tentai di calmarla. «Ha detto che andava a vedere qualcosa al negozio di souvenir, al centro dell’aeroporto. Tornerà presto…» la rassicurai.
La mia migliore amica sembrava una pazza. Aveva i chiari segni del nervosismo a fior di pelle e in quel caso era sempre meglio starle alla larga: punto primo, capelli in disordine e completamente arruffati, punto secondo, occhi spiritati come quelli di Gollum; punto terzo, la voce stridula che raggiungeva gli ultrasuoni.
«Manca un quarto d’ora all’imbarco! Possibile che dobbiamo sempre farci riconoscere? Come se già non sapessero chi siamo!» sbraitò, per l’ennesima volta.
«Celardo?» suggerì Simone, riemergendo dall’imbacuccamento di quel freddissimo primo Gennaio.
Sia io che Cel gli lanciammo uno sguardo di fuoco.
«Ma tua nonna dov’è?» gli chiesi, notando che alle sue spalle, oltre ai bagagli a mano che avevamo accumulato in un angolo, non c’era nemmeno l’ombra della signora Annunziata.
Simone mi restituì uno sguardo abbastanza confuso. Poi fece spallucce.
Celeste non la finiva di andare avanti e indietro lungo tutta la sala d’aspetto. «Eh, ma quando ritorna, mi sente! Stavolta lo lascio di sicuro… anzi, gli lascio l’orma del mio stivale sulla faccia!» borbottava tra sé e sé.
In quello stato, se le avessi fatto presente che anche la nonnina Sogno mancava all’appello, le sarebbe venuto un esaurimento. Mi sedetti sbuffando sulle poltrone, accanto a Simone di cui s’intravedeva unicamente un ciuffo di capelli castano scuro e un paio di occhi. Aveva la sciarpa dell’Arsenal tutta avvolta attorno alla faccia e il cappello con le orecchie ben calcato sulla testa.
«Ti rendi almeno conto di essere quantomeno ridicolo?» gli domandai, cercando di ignorare i borbottii della mia migliore amica.
Simone sbuffò, o almeno credetti lo facesse. Non si vedeva nulla a parte gli occhi e quel dannato ciuffo di capelli.
Sorrisi.
Anche se era la situazione più strana che avessi mai vissuto, lì a Heathrow, aspettare il volo 28671 Londra – Roma era qualcosa che mi riempiva il cuore di gioia e di aspettativa. Erano sei mesi che non tornavo a casa.
Un po’ avevo paura, dovevo ammetterlo. Avrei rivisto i miei genitori dopo così tanto tempo, dopo averli sentiti unicamente con delle fredde telefonate, anche durante gli auguri di Natale. Avevo sempre detto loro di avere troppo lavoro da sbrigare per poter scendere, eppure adesso mi ritrovavo qualche giorno libero da poter passare in famiglia.
E allora cosa c’entrava Simone?
Il mio cuore fece una lunga capriola all’indietro ed io rimasi con la bocca asciutta.
In effetti, non era sbagliato quel pensiero. Avevo conosciuto il calciatore quasi cinque anni prima, quando con Celeste e Robbeo eravamo volati a Londra per riuscire a ricucire quella specie di relazione tra lei e Leonardo, ma non era successo nulla tra di noi.
Anche perché lui era ancora più immaturo di adesso, pensa te…
Simone era quasi uno sconosciuto, un ragazzo che avevo incontrato per caso dopo tanti anni e con cui mi ero ritrovata costretta a condividere la casa, il lavoro e ogni minuto libero del mio tempo. Di certo non faceva parte della mia famiglia.
«Il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9, ripeto, il volo 28671 procederà con l’imbarco al gate 9» trillò la voce metallica dell’altoparlante.
L’unica cosa che sentimmo io e Simo, invece, fu lo strillo nevrotico di Celeste che avrebbe mandato giù tutte le Madonne del cielo, se nonna Annunziata non fosse spuntata in fondo al corridoio, tenendo suo nipote per un orecchio mentre lo trascinava verso di noi.
«Te l’ho riportato, raggio di sole,» sorrise la vecchina, imbacuccata tanto quanto il nipote più giovane.
Celeste la abbracciò. «Grazie, grazie!» sospirò felice, poi rivolse un’occhiata gelida al povero Leonardo. «Con te facciamo i conti dopo,» ringhiò.
Mi alzai dalla poltroncina e afferrai il bagaglio a mano, con il biglietto. Mi misi in fila insieme agli altri, seguita dall’omino della michelin – aka Simone – che sembrava dovesse partire per il Polo Nord.
«Ma non ti sei coperto un po’ troppo? A Roma non fa così freddo…» osservai, lanciandogli un’occhiata scettica.
Lui tentò di rispondermi, ma ne uscì unicamente un farfugliamento ostruito da quella sciarpa avvolta attorno alla faccia una quindicina di volte. Dentro di me mi chiesi quanto potesse essere lunga…
«Lo fa per nascondersi dalla “folla”,» intervenne per lui Leonardo, massaggiandosi l’orecchio destro che la nonna prima, e la fidanzata dopo, gli avevano massacrato. Era diventato più rosso di un pomodoro maturo e sospettosamente gonfio.
«Ha paura che tutti gli chiedano un autografo, che lo fermino al rullo dei bagagli, che lo assalgano con le foto… non si rende conto che per gli italiani è quasi uno sconosciuto.» ridacchiò.
Simone tentò invano di protestare, ma quello che uscì dalla sua coltre di indumenti fu solo una serie di borbottii attutiti dalla lana e dagli strati del piumino che aveva addosso.
«Come volere tu, uomo delle nevi!» lo derise Leonardo, massaggiandosi ancora l’orecchio dolorante e raggiungendo Celeste che non mancò di rifilargli un’occhiataccia.
Rigirandomi la carta d’identità tra le mani, pensai a ciò che aveva appena detto Leo. Non avevo minimamente pensato alla reazione che gli altri avrebbero potuto avere vedendo Simone, a cosa, un paese piccolo come Tivoli, avrebbe potuto fargli una volta scoperta la sua identità.
Non ci avevo pensato, perché per me lui era prima di tutto Simone, poi il resto.
Ormai non era più Mr. Sogno, oppure il calciatore di fama mondiale che giocava in uno dei club più esclusivi della capitale inglese. Avevamo condiviso troppe cose insieme, perché potesse ridursi tutto a quello.
Lo guardai con la coda dell’occhio, pentendomi per un attimo per averlo costretto a seguirmi. Lui non mi doveva niente, non eravamo nulla noi due: né fidanzati, né innamorati… forse amanti e basta.
Simone vedendomi pensierosa si abbassò leggermente due dei dodici strati della sciarpa che gli copriva il volto. «Ti sta frullando qualcosa qui dentro…» insinuò, abbassandosi e picchiettando l’indice insistentemente sulla mia tempia. «Piantala per un attimo di pensare, okay? Lo so che ti stai pentendo di avermi chiesto di venire, te lo leggo negli occhi,» sospirò.
Mi vergognai come una ladra per essere così facilmente leggibile da uno come Simone, eppure ormai era come se fossimo sulla stessa lunghezza d’onda. Mi capitava sempre più spesso di intuire il suo umore e lui il mio.
Si chiama “essere anime gemelle”, ciccia.
Scossi la testa violentemente. NO! C’era una bella differenza tra lo scopare come conigli giorno e notte e in ogni luogo di quell’appartamento, ed essere anime gemelle. Un’enorme differenza. Io e Simone avevamo chimica, ormai era innegabile, ma non ero innamorata di lui.
Nossignore.
Anche perché, se ciò fosse stato vero, avrebbe segnato la mia condanna a morte. Venera Donati non poteva permettersi nessun tipo di relazione fino a quando non fosse diventata socia della Abbott&Abbott, e per far ciò avrei dovuto vincere la causa di dubbia paternità di Simone.
A proposito della causa…
«Ma il test di paternità?» domandai di punto in bianco a Simo, cambiando abilmente discorso.
Lui mi sorrise. «Rimandato,» sghignazzò. «Ho detto che avevo degli impegni che non potevo assolutamente saltare… degli impegni che mi costringevano a letto per qualche giorno…» e mi sorrise malizioso, soltanto con gli occhi visto che spuntavano solo quelli dalla sciarpa e dal cappello.
«Sei un maiale,» lo apostrofai.
«Ronf!» ridacchiò lui, manco avesse cinque anni.
«Prego,» mormorò la signorina, così le porsi il biglietto aereo e la carta d’identità. Controllò i miei dati, poi mi congedò con un sorriso augurandomi buon viaggio.
Oltrepassai il tornello e aspettai Simone. Non seppi nemmeno il motivo per cui avrei dovuto farlo, mi sembrava di essere tornata al liceo, quando attendevo Celeste in un angoletto perché dovevamo fare tutto insieme.
La hostess controllò i documenti di Simone, poi gli sorrise melliflua.
Alzai un sopracciglio quando il suddetto calciatore si abbassò la sciarpa con fare da dongiovanni e le sussurrò qualcosa che non riuscii a capire. In ultimo, soltanto mezzo secondo prima che lo liquidasse, Simone si accorse che lo stavo fissando ed impallidì.
A quel punto mi diressi a cercare il mio posto a sedere. Che si fottesse lui e quella sciarpa di merda.
Sentii i suoi passi goffi dietro di me, ma non rallentai. Anzi, la mia bassa statura e l’assenza dell’ingombro del piumino che aveva il calciatore, mi permisero di zigzagare tra la folla dei passeggeri che posizionavano i loro bagagli nello stipetto sopra i sedili.
Avvistai il numero “48” proprio vicino all’uscita di emergenza e mi ci fiondai prima che Simone potesse raggiungermi. Per fortuna vidi che nonna Annunziata occupava uno dei tre sedili, quello vicino al finestrino. Almeno avrei avuto una “testimone” che avrebbe cucito la bocca a Simone senza che io stessi lì a sentire tutte le sue stupide scuse puerili.
Non stavamo insieme, d’accordo, ma almeno avrebbe potuto evitare di fare il coglione con tutte le creature di sesso femminile presenti sulla faccia della terra!
Sei troppo esagerata, gli stai soltanto gettando benzina sul fuoco. Così si sentirà ancora più importante e ciò gli darà il diritto di trattarti a pesci in faccia.
Dov’è finita la Venera di ghiaccio?
Aveva ragione il mio Cervello. Il mio buon caro e vecchio Cervello che per buona parte delle vacanze invernali si era assopito, forse zittito dai quintali di dolci che avevo ingurgitato in baffo alla dieta.
«Sei emozionata per il rientro a casa, cara?» mi domandò la nonna.
Annuii sorridendo. «Sono sei mesi che non li vedo…» sospirai.
Lei a quel punto mi strinse la mano e mi sorrise, facendomi forza. Anche se dall’esterno potevo sembrare una donna forte, capace di sopravvivere a tutto e ignorare le proprie emozioni, persino una vecchina era riuscita a capire come mi sentissi nervosa in quel momento.
«Andrà tutto bene, poi ci sarà Pisellino al tuo fianco,» insinuò, strizzando l’occhiolino.
Rimasi a fissarla basita, incapace di capire se dovessi sorridere o meno. In quel momento, avrei voluto volentieri prenderlo a badilate sui denti, ma tentai di trattenermi.
Il diretto interessato arrivò con un po’ di ritardo, riuscendo a mettersi seduto nonostante l’ingombro di quel cappotto e di quella sciarpa chilometrica. Finalmente, dopo quasi due ore che era imbacuccato in quel modo, si tolse il cappello e si sbottonò il giubbino.
«Caaaaaldo!» sospirò, esausto.
Nemmeno gli risposi, anche se avrei voluto infierire.
Dovevo stare calma. Il Cervello mi aveva ben suggerito di fregarmene di tutta quella faccenda, altrimenti gli avrei unicamente dato una soddisfazione in più. Già si sentiva Mr. Ho-l’ego-più-grosso-di-uno-stato-indipendente, figurarsi se avesse saputo di rendermi gelosa della prima hostess che gli fosse ronzata attorno.
Giammai!
«Tesoro, non ti fa bene coprirti così. Poi ti ammali,» lo rimproverò la nonna.
Simone sbuffò e agitò le mani. «Devo mantenere l’incognito, altrimenti quando arriverò a Roma non potrò nemmeno camminare in pace. Ragazze che mi fermano ad ogni angolo… che vogliono una foto con il sottoscritto, o magari un bacio…» e lì mi lanciò un’occhiata per vedere la mia reazione.
Il nulla.
Rimasi impassibile afferrando uno dei miei libri da leggere – Storia del diritto medievale e moderno – ma non feci una piega. Notai con soddisfazione che rimase leggermente deluso da quella mia freddezza, ma decisi di continuare a non dargliela vinta.
«Buongiorno a tutti, qui è il comandante che vi parla. Siete sul volo 28671, con partenza da Heathrow Londra e diretto a Roma Fiumicino. L’equipaggio vi augura un buon volo e un soggiorno piacevole.»
In seguito, le due hostess e lo stewart cominciarono a spiegare i movimenti base in caso di emergenza. Ero completamente immersa nel capitolo quattordici del volume che mi ero portata come lettura leggera in aereo, quando fu il momento di allacciare le cinture.
Notai che nonna Annunziata si era portata qualcosa da fare a maglia, mentre Simone era assorto nello studiare la macchia ignota che era sul copri testa del sedile di fronte.
I motori del boeing cominciarono a rombrare, così come l’aereo che iniziò a muoversi lungo l’aeroporto, raggiungendo la pista che gli spettava. Non ero nervosa, anzi. L’aereo non mi aveva mai dato problemi, più che altro ero ancora intenta a non fare passi falsi con Simone.
Pensava davvero che mi desse fastidio il fatto che ci provasse con metà della popolazione femminile? Ancora non sapeva con chi avesse a che fare.
Venera Donati non si era mai fatta mettere sotto da nessuno!
Non in senso letterale… visto che stamattina…
Non nel senso strettamente letterale.
Dopo due giri di pista a vuoto, il boeing si posizionò sulla pista nove e cominciò a rullare più forte. Misi da parte il tomo, giusto per non perdermi la partenza, e attesi. Poco dopo cominciò a partire, decollando a poco a poco ed io sentii quella familiare sensazione di compressione allo stomaco.
La pressione che iniziava a salire, le orecchie che si otturavano e il respiro sempre più corto.
Simone, accanto a me, non fece una piega, come la nonna dall’altra parte. In fondo erano abituati, pensai. Leonardo aveva accennato a Cel che da piccoli spesso erano costretti a viaggiare molto per riunire le due famiglie che abitavano così lontane.
Il papà di Simo e di Leo erano fratelli, e anche se i genitori di Simone si erano separati, questo non significava che i cugini non dovessero più incontrarsi.
Dopo poco, per fortuna, apparve il segnale di slacciare le cinture e di poter accendere gli apparecchi elettronici purché in modalità offline. Con mia grande sorpresa, nonna Annunziata tirò fuori l’ultimo modello di lettore mp3 della Apple e inforcò gli auricolari, cominciando a scegliere la playlist.
Simone sorrise. «Da quando papà glielo ha regalato, non si scolla più da quell’affare,» commentò.
Rimasi basita nel vedere una settantenne così a suo agio con quella tecnologia, contando il fatto che per insegnare a mia nonna ad usare il cellulare, ci avevamo messo tre o quattro anni.
E ancora adesso le partivano le telefonate a casaccio.
«È sorprendente!» dissi.
Ripresi la mia lettura leggera, ignorando palesemente Simone che tentava di stabilire un contatto visivo con la sottoscritta. Nel frattempo, sul sedile posteriore, si sentivano gli schiamazzi di Leonardo e Celeste che litigavano riguardo a qualcosa.
«Sembrano una coppia sposata,» sbuffò il piccolo Sogno.
«Chi?» chiesi distrattamente.
Nel frattempo, di sottofondo, partì la canzone “Highway to hell” degli ACDC dall’i-pod della vecchina. Rimasi sempre più sconcertata dai gusti della nonna di Simone.
«Quel carciofo di mio cugino e l’amica tua,» sbottò, come se non ci arrivassi da sola. Ero completamente immersa in feudi e acri di terreno!
«Stanno sempre a battibeccare, a discutere, ad urlare… non li sopporto,» aggiunse lui, cominciando a grattare la macchia sul copri testa di fronte.
Lo fissai disgustata.
«È normale, quando si sta insieme. Di solito, discutere rafforza il legame,» dissi, anche se le mie storie precedenti non erano durate abbastanza, nemmeno da essere definite “storie”.
Simone sbuffò. «Il nostro no,» disse di punto in bianco.
Segnai il rigo cui ero arrivata con l’indice, poi specchiai i miei occhi nei suoi. «Punto primo, stiamo sempre a litigare, anzi, a scannarci, dal primo giorno che ci siamo incontrati,» sospirai esausta. «Punto secondo, noi non siamo una coppia,» conclusi.
Colpito e affondato.
Avevo decido di non concedere terreno a Simone, di non fargli capire che fosse importante per me. Anche se la sera prima avrei fatto di tutto pur di vederlo, anzi, mi ero quasi sentita male a causa della sua assenza, lui questo non doveva saperlo.
Conoscevo quelli come lui, i ragazzi viziati e belli, quelli che avevano sempre tutto dalla vita. Se lo avessi accontentato subito, si sarebbe stufato di me come di un giocattolo ormai vecchio, e ne avrebbe cercato uno nuovo, abbandonandomi in una vecchia soffitta polverosa.
E nessuno doveva permettersi di usarmi.
Simone rimase dieci minuti buoni a fissarmi.
«Che vuoi?» dissi, continuando a leggere senza nemmeno restituirgli lo sguardo.
Lui si affossò nella poltrona e grugnì. «Niente!» con un’espressione imbronciata.
Lo lasciai crogiolarsi nella sua rabbia, e continuai ad immergermi nella lettura. Ero soddisfatta di come avevo affrontato la questione, anche perché con Simone bisognava avere sempre il guinzaglio tirato. Mai dargli corda.
«Caffè o succo di frutta?»
Mi voltai distrattamente verso la hostess che si era avvicinata col carrello delle bevande, porgendomi un bicchiere di plastica. Simone mi fece cenno di chiedere anche a nonna Annunziata se voleva qualcosa.
Le diedi un colpetto al gomito, interrompendo “Romeo & Juliet” dei Deep Purple, ma lei negò subito l’offerta della hostess.
«Io un caffè, grazie,» dissi, mentre mi veniva versato il solito bibitone – come lo chiamavo io – degli inglesi che conteneva due grammi di caffeina e dodici litri d’acqua.
La signorina mi porse il bicchiere, poi rivolse a Simone un sorriso da gatta in calore. Roteai gli occhi al cielo. Era mai possibile che esistesse almeno un essere dotato di vagina che non ci provasse con quel microcefalo?
«Lei cosa desidera… Mister…?» e ridacchiò.
Per Simone, era come se lo avessero invitato a ballare direttamente un tango orizzontale nel bagno dell’aereo, così cominciò a flirtare liberamente con la hostess, quasi io fossi invisibile.
In un certo senso, me l’ero cercata.
Avevo chiaramente detto al calciatore che non c’era nulla tra noi, e che i suoi patetici tentativi di abbordaggio non mi facevano né caldo né freddo. In verità, mi stava dando un fastidio che rischiava di farmi venire un forte prurito alla pelle.
«Se non le dispiace, anche io un bel caffè… con molto zucchero. Amo le cose dolci…» e lasciò la frase in sospeso di proposito.
Che razza di marpione. Dio mio! Quelle battute patetiche non avrebbero fatto effetto nemmeno sulla più stupida delle galline in gonnella, eppure la hostess bionda continuava a ridacchiare. Bene, dagli pure la soddisfazione di essere un bravo corteggiatore… perfetto!
Ecco perché i ragazzi d’oggi non sanno più cosa sia la galanteria.
Se la prima sciacquetta che incontrano è già pronta ad allargare le gambe con una simile battuta priva di qualsiasi charme…
Devo ricordarti chi di noi, tra i presenti, ha “aperto le gambe” nemmeno ventiquattr’ore fa?
Tornai al mio bel capitolo sui feudi, ignorando palesemente sia le battutine semi-pornografiche che si scambiavano quei due, sia il Cervello che cominciava a fare di testa sua.
Meglio studiare, prepararsi e continuare a mantenere la mente allenata. Si trattava di una vacanza, questo sì, ma sarebbe stata breve.
Passati quei giorni di “festa” sarei subito rientrata in pista al fianco di James, contro St. James e la Cloverfield che voleva unicamente una fetta della notorietà di Simone.
«Sentito, Ven?» mi disse d’improvviso Simone, distogliendomi dalle mie riflessioni.
«Cosa?»
Lui sorrise alla hostess. «È sempre nel suo mondo, troppo intelligente la mia piccolina!» ridacchiò strofinandomi il palmo sulla testa.
Piccolina? Mia? Ma da quand’è che mi apostrofava con parole che non erano “nanetta” oppure “miss acidona duemilatredici”?
«Siete proprio una bella coppia,» sorrise la signorina, salutandoci e proseguendo con gli altri ospiti del volo.
Mi ero persa praticamente tutto il discorso. «Che cavolo le hai detto?» ringhiai, scostandogli bruscamente la mano che era ancora rimasta artigliata alla mia testa.
Simone sghignazzò. «Nulla che non fosse vero,» disse tranquillo.
Mi preoccupai di quella sua asserzione. Possibile che mi fossi immersa a tal punto nei miei pensieri, da non accorgermi che stesse sparlando di me?
Chiusi il libro e minacciai Simone con 384 pagine di Diritto medievale. «Cosa. Le. Hai. Detto.,» ringhiai minacciosa.
Lui fissò prima me, poi il tomo dall’aspetto minaccioso ed estremamente polveroso. «Vuoi farmi morire d’allergia?» chiese.
Lo fissai assottigliando lo sguardo. «No, ma posso sempre colpirti con il bordo e farti spuntare un bernoccolo al centro della fronte!» sibilai.
Simone alzò le mani in segno di resa. «Ma niente, la signorina è stata così gentile da offrirsi di togliermi questa macchia,» e si indicò i pantaloni con un evidente macchiolina di marmellata che si era sbrodolato mangiando una crostatina, «nel bagno dell’aereo, ma le ho detto che ci avrebbe pensato volentieri la mia fidanzata.»
Sgranai gli occhi. «L-La t-tua cosa?» balbettai.
«Ma adesso parli come quel coglione del fidanzato di mia sorella?» sbottò lui.
Gli afferrai il polso e strinsi, come se non ci fosse un domani. «Vuoi che ti ripeta anche in francese quello che ti ho detto prima riguardo al nostro “rapporto”?» ripetei.
Era qualcosa che dovevo chiarire. Alla fin fine eravamo stati a letto insieme, ma trattandosi di Simone, avevo sempre creduto che non ci saremmo spinti oltre dall’essere friends with benefits.
Stranamente, però, il modo in cui Simone aveva liquidato la hostess mi faceva sentire lusingata.
Non devi adagiarti sugli allori. Ricorda, guinzaglio tirato.
Giusto, non dovevo dargliela vinta altrimenti mi avrebbe rigirato come un calzino.
Simone sprofondò ancor di più nella poltrona. «Non sei divertente quando fai l’acida in questo modo. Stamattina lo eri molto di più,» brontolò, giocando con il laccio del suo cappotto.
Mi si strinse il cuore a vederlo così afflitto. Come al solito, dando retta alla Ven “razionale” avevo spinto da parte e sigillato quella parte umana di me. Simone era un dongiovanni, questo lo avevo capito sin da subito, ma per arrivare fin dove mi ero spinta con lui, avevo visto qualcosa oltre quella maschera che ostentava con tutti.
Controllai che nonna Annunziata fosse ben intenta a finire la sciarpa di lana e che nessuno stesse guardando nella nostra direzione. Mentre aprivo il libro per finire il capitolo, lo lasciai sulle ginocchia e con la mano cercai quella di Simone, intrecciando le nostre dita.
Lui sussultò a quel contatto ma non si scostò.
Con la coda dell’occhio lo vidi sorridere e sorrisi a mia volta.
Eravamo strani, lo ammetto, ma di una stranezza che cominciava a piacermi e a cui mi stavo lentamente abituando.
 
***
 
Una volta scesi dall’aereo, raggiungemmo il rullo dove sarebbero stati distribuiti i nostri bagagli. Ovviamente, da che mondo e mondo, chiunque sa che l’aeroporto di Fiumicino è famoso per la caratteristica dei giorni interi passati a fissare il rullo prima di avere indietro i propri bagagli.
Mi ricordo un anno, forse il viaggio della maturità, in cui attendemmo due ore e mezza prima che ci fossero rese tutte le valigie. Una cosa del tutto inaudita. Era durato meno il volo aereo, che il ritiro bagagli.
«Mettiti comodo,» suggerii a Simone, trovando un gradino che sembrava piuttosto accogliente.
Lui mi fissò perplesso. «Perché?»
Sorrisi quasi per la sua ingenuità. «Non lo sai che i nostri bagagli arriveranno come minimo tra un’ora? Se ci va bene, poi…» gli dissi.
Simone stranamente non sembrò sconvolto da quella verità. Mi porse gentilmente la mano. «Alzati e vieni con me,» sorrise enigmatico.
Notai che anche Celeste seguiva Leonardo, così come nonna Annunziata che procedeva dietro di loro. Rimasi sconvolta nel constatare che ci stavamo dirigendo nel gabbiotto dove c’era la sicurezza. Pensai subito che si fossero ammattiti, o peggio.
«Cosa vuoi fare?»
Simone non disse nulla, si limitò a farci entrare nella stanzetta dove un paio di poliziotti, con cani lupo al guinzaglio, scortavano i nostri bagagli intonsi. Anzi, per un nanosecondo pensai li avessero persino lucidati…
«Li abbiamo controllati, è tutto apposto,» disse il capo della sicurezza a Leonardo. «Sei pulito, campiò!» orrise, stringendogli la mano.
Capii quella specie di “mafia” aereoportuale soltanto alla fine di tutta quella pantomima. I poliziotti ridevano e scherzavano coi due cugini Sogno, lasciandosi fare delle foto e degli autografi solo per aver consegnato loro i bagagli prima degli altri comuni mortali.
Rimasi completamente scioccata da tutto quello. Essere famoso ti spianava delle strade che altrimenti sarebbero state sbarrate ad un tipo come me, ad esempio. Celeste sembrava abituata, infatti, non faceva che sorridere e scherzare con gli agenti.
Nel frattempo accesi il telefono, e scoprii che avevo due messaggi non letti: uno di James e l’altro…
 
hi, spaghetti girl!
sei atterrata? come va lì? fa freddo? fammi sapere se va tutto bene.
xoxo
jamie.
 
Fissai quel messaggio come se fossi caduta in trance. Lo avevo liquidato con un “ci sentiamo” la sera precedente, ma non mi ero nemmeno ricordata di fargli una telefonata o dirgli che fine avevo fatto.
Certo, magari dicendo “ciao collega, sono andata via dal party per trombarmi selvaggiamente il nostro cliente – cosa che faccio ormai da tre settimane”.
Il mio Cervello era particolarmente sarcastico in quel periodo di vacanze.
L’altro messaggio non seppi se fosse il caso di leggerlo o meno. Non sentivo il mittente da quando avevo lasciato Tivoli e la cosa lo avrebbe fatto arrabbiare molto. Eppure sapeva del mio arrivo. Di sicuro, mia madre ci aveva messo lo zampino.
Decisi di togliermi quella curiosità.
 
guarda te se ho dovuto sapere da tua madre che venivi in questi giorni!
sei incredibile, vennie. sappi che te la farò pagare in modi che nemmeno conosci. intanto verrò a prenderti alla stazione dei pulmann.
sto qui dalle sette di questa mattina, a congelarmi tra l’altro.
avrai la mia salute sulla coscienza.
 
-m.
 
Già questa la diceva lunga su chi mi sarei trovata di fronte persino prima di mettere ufficialmente piede a Tivoli.
Simone mi si avvicinò di soppiatto. «Chi è?» chiese, sospettoso. Notò che mettevo via il cellulare con una certa fretta e cominciò ad accigliarsi. «Di nuovo l’avvocatuncolo? Ma lo sa che ci sono anche io? Sarebbe bene avvertirlo…» ghignò.
Sospirai sonoramente alzando gli occhi al cielo. «La tua virilità rimarrà intaccata. Era Jamie ma voleva solo sapere se fossi atterrata e questo è un altro messaggio che non ti riguarda,» tagliai corto, afferrando il mio trolley e dirigendomi verso le fermate dei pulmann.
Simone mi raggiunse con due falcate. «Tutto ciò che c’è su quel telefono mi riguarda,» disse serio.
Gli rivolsi uno sguardo strano. Non sapevo se stesse facendo sul serio o era soltanto un modo per vedere se mi arrabbiavo. Davvero era così geloso degli sms che ricevevo?
Notai che i suoi occhi diventavano sempre più scuri, man mano che continuavo a nascondergli la verità. Forse quella specie di cosa che c’era tra noi due, si stava sempre più allontanando dal modo giocoso con cui era iniziato tutto.
Cercai di tagliare la discussione il più in fretta possibile. «È solo un’amica,» sospirai, omettendo un particolare un po’ spinoso di cui non avevo fatto mai parola con nessuno. «Ci aspetta all’arrivo dei pulmann a Tivoli,» gli spiegai.
Simone parve subito ringalluzzito. Aveva tirato su la testa, lucidato la sua cresta da gallo cedrone e pettinato il bargiglio che gli penzolava dal mento.
Esibizionista.
«È carina, questa tua amica?»  ammiccò.
Riflettei sul particolare che gli avevo omesso, poi pensai di divertirmi alle sue spalle. «Molto carina, ma non è il tuo tipo,» aggiunsi.
Nel frattempo, Leonardo e Celeste ci avevano raggiunti con nonna Annunziata. Sapevamo bene che le nostre strade, da quel punto in poi, si sarebbero divise. Dovevamo salutarci.
«Come, non è il mio tipo?» protestò subito Simone. «Tutte le ragazze sono il mio tipo!» disse con ovvietà.
Riuscii a trattenermi dal ridere a stento. Era troppo facile prendersi gioco di Simone, solo che cercai di rimanere nel personaggio il più possibile. Cosa c’era di male a prendersi gioco di lui nell’attesa del breve viaggio che ci avrebbe aspettato?
Nulla.
Infatti.
«Tesoro, stammi bene durante questa breve vacanza. Può essere che convinca Leo a salire un po’ da te, chissà…» sorrise Celeste, abbracciandomi.
La strinsi a mia volta. «Mi casa es tu casa,» ridacchiai.
Lei mi guardò un po’ apprensiva. Nei suoi occhi blu lessi molto più di ciò che voleva dirmi a parole, però si limitò a mettermi in guardia. «Stai attenta,» e lanciò uno sguardo esaustivo verso Simone che salutava sua nonna e prendeva a cazzotti Leonardo.
Lo guardai anche io, sospirando. «Lo farò,» le promisi.
Non sapevo quanto la mia migliore amica avesse intuito, ma era chiaro come il sole che ormai c’era qualcosa tra me e il calciatore. Era innegabile. Quegli sguardi, quegli sfioramenti e le battutine erano inequivocabili ormai.
Avevamo fatto il “salto” che ci aveva permesso di passare da acerrimi nemici a focosi amanti.
Salutai Leonardo e nonna Annunziata, che mi promise di passarmi presto tutta la sua playlist dell’i-pod, poi ci dirigemmo con i trolley al seguito verso la stazione dei pulmann.
«Dobbiamo prendere il 547,» dissi, controllando bene il biglietto che avevo fatto su internet prima di partire.
Simone sbuffò e alzò la mano. Il taxi bianco inchiodò di fronte a noi e per poco non mi mise sotto le ruote. «Che cazz…?» imprecai.
Simone aprì la portiera e mi fece cenno di entrare. «Io non prendo i mezzi pubblici,» commentò, poi mi strappò la valigia dalle mani e mi spinse letteralmente dentro l’abitacolo dell’auto.
Scambiò due parole col tassista, poi si sedette accanto a me e partimmo.
«Dunque, un campione come lei cosa ci va a fare a Tivoli? Vuole rilassarsi alle terme?» chiese l’autista. Si sa che i tassisti, soprattutto quelli romani, sono i più chiacchieroni e impiccioni di tutto l’universo.
Simone sorrise e mi passò un braccio attorno alle spalle. «Sono stato invitato a casa della mia ragazza,» ridacchiò, facendomi arrossire.
Immediatamente l’uomo cominciò a farmi domande, ad interessarsi alla mia professione e si sorprese di sapere che non ero nessun tipo di modella, bensì un quasi-avvocato. Mi fece piacere parlare con quell’uomo, rese il viaggio molto più leggero.
Mi dimenticai persino che Simone avesse speso quasi un patrimonio per portarci da Fiumicino a Tivoli con il taxi. Era una cosa incredibile e se fossi stata completamente in me, mi sarei infuriata.
Soprattutto perché avevo buttato le sette sterline del pulmann che avevo prenotato tramite internet.
«Dunque, da quanto state insieme, se posso chiederlo?» domandò, imboccando finalmente l’uscita che dal raccordo conduceva sino a Tivoli.
Cercai di rispondere per prima, per evitare imbarazzi, ma Simone mi precedette. «Da ieri, è stata una cosa piuttosto improvvisa.»
«Oh! Un amore giovane, allora! Congratulazioni. E mi dica, signorina, com’è stare con una star del calcio come il signor Sogno?» domandò ancora.
Sembrava di stare sotto interrogatorio. Stavolta sentii gli occhi di Simone addosso, come due calamite d’onice. Aspettava che rispondessi, il maledetto.
«Non più strano di quanto sembri. Alla fine, la fama non è poi tutto questo granché,» commentai, con la mia solita inflessione di acidità.
Il tassista sorrise, Simone no.
Intravidi un’ombra di broncio fanciullesco sul suo viso e mi compiacqui. Voleva il gioco duro? Allora doveva essere abituato anche ai colpi bassi come quello. Si vantava a destra e a manca che fossi la sua fidanzata, quando nessuno aveva deciso questo, così mi divertivo anche io alle sue spalle.
«Com’è che siete diretti alla stazione dei pulmann?» s’informò il tassista.
«Un’amica ci viene a prendere, che cara…» sorrise Simone, fissandomi. Assomigliava stranamente a Jim Carrey nel “Il grinch” con quel suo aspetto malvagio.
Ridacchiai a mia volta. «Già, un’amica.»
«Beh, allora siamo quasi arrivati,» annunciò il tassista.
Simone mi si lanciò completamente addosso, spalmandosi sul finestrino opposto per sbirciare se riusciva ad intravedere la mia famosa “amica” dell’sms.
«Spostati!» gli urlai, soffocando da tutti gli strati di stoffa che si era messo addosso. Sembrava addobbato come un albero di natale!
«È quella biondina laggiù? O la moretta lì in fondo? Spero per te che non si tratti di quella laggiù perché è un mostro…» cominciò a criticare.
«Levati di dosso, maledetto idiota!» sbraitai, poi finalmente il tassista parcheggiò e mi concesse di scendere e di riacquistare la capacità di respirare.
Simone lo pagò e smontammo i bagagli dal lato posteriore della vettura, dopodiché il calciatore mi si affiancò, vedendo che sondavo le persone presenti nell’ampio parcheggio.
«È lei?» mi disse, quasi accecandomi per indicare una ragazza bionda e alta.
«No!» ringhiai, afferrando il cellulare dalla tasca per sicurezza.
«Lei?» chiese di nuovo, indicandomene un’altra.
«No, te lo dico io quando si avvicina,» lo rassicurai.
Sondai bene tutti i dintorni, cercando di riconoscere tra la gente chi avrebbe dovuto “scortarci” fino a casa e mi sorpresi di incrociare il suo sguardo subito dopo.
Sorrisi.
«Andiamo,» comunicai a Simone e cominciai a camminare verso un punto preciso del grande parcheggio. Era lì, avvolto in quel vecchio pastrano che avevo visto un milione di volte, con quella kefiah da anticonformista che si addiceva proprio al suo personaggio.
«Ehi, ‘spetta!» si lagnò Simone, seguendomi. Cominciò a notare con disappunto il particolare che fino a quel momento gli avevo saccentemente nascosto. «Guarda che in quella direzione ci sta solo un coglione con le basette di Barbossa, eh…» osservò piccato.
Ignorai la sua protesta e mi avvicinai al suddetto ragazzo, che mi restituì un sorriso lungo da orecchio a orecchio. Allargò le braccia ed io lasciai andare la valigia per tuffarmici dentro e affondare in quel vecchio cappotto che ancora odorava delle prime sigarette che ci eravamo fumati insieme.
«Sei arrivata, finalmente,» mormorò sorridente.
«E tu hai mantenuto la parola e mi sei venuto a prendere.»
Lo sguardo del ragazzo si spostò perplesso da me a Simone, poi di nuovo sulla sottoscritta. Simone mi fissava come se avessi appena fatto sesso in pubblico con il mio migliore amico. Era nero, cupo, arrabbiato e deluso.
«Sarebbe lui la tua amica?» indicò il ragazzo con un indice.
Feci spallucce. «Lo avevo detto che non era il tuo tipo…» gli feci notare. «Comunque lui è Mario, Mario, questo è Simone,» feci le dovute presentazioni nel più breve tempo possibile.
Via il dente, via il dolore.
Simone e Mario si lanciarono un’occhiataccia gelida e si squadrarono, come due cervi pronti a prendersi a cornate per il territorio.
Mario allungò la mano per primo. «Tu sei quel calciatore dell’Arsenal… giusto? Mi pare di averti visto in televisione…» sorrise.
Simone gli strinse la mano, forte. Forse un po’ troppo forte. «Sono io, peccato che non possa dire lo stesso di te, visto che mi sei sconosciuto.»
Inspirai forte.
Cominciamo bene, quei due si conoscevano da meno di due secondi e già tirava aria di tempesta. Mario era il mio migliore amico da sempre, da quando ne avevo memoria. Non ne avevo mai parlato con Simone, perché ormai non ci sentivamo da mesi, da quando ero partita. Soltanto Celeste sapeva quanto io e lui fossimo legati.
Era come mio fratello maggiore.
Sarebbe stato meglio che avessi fatto una premessa a Simone, dicendogli che tra me e Mario non c’era mai stato nulla – nonostante ci avessimo provato, davvero – eppure ci avevamo riso sopra, perché il legame che si era instaurato tra di noi era del tutto fraterno e inscindibile.
Ma chi ero io per privarmi di uno spettacolo simile?
Divertirmi alle spalle di Simone per quasi una settimana, vedendolo rodersi il fegato e facendosi chissà quali filmini mentali su me e Mario che ci davamo dentro come conigli… imperdibile.
«Bene, bando alle ciance. Andiamo a casa, sono esausta,» sospirai.
Veloce come un fulmine, Mario afferrò il trolley e mi scortò verso la sua auto, ridacchiando.
«Posto davanti? Come sempre?» sorrise ed io ricambiai.
«Come sempre!»
Dietro di me, giurai di aver sentito Simone cominciare a fare il verso, borbottando un “Come sempre” piuttosto infastidito.
Oh, quella sarebbe stata una vacanza memorabile!





*si prostra ai piedi delle sue fanzzzzz*
Avete tutto il diritto di picchiarmi/legarmi/seviziarmi/frustarmi *sembra una scena di 5O sfumature* perché non ho scusanti stavolta! Avrei dovuto rispondere alle recensioni, ma non l'ho fatto. SONO PIGRA! T_T
E' grasso che cola che mi metta a scrivere di tanto in tanto #fugge.
Comunque, è stato di recente il mio compleanno - per non dire "comple-vecchiaggine" visto che ormai (alla veneranda età di diciott'...ehm ventidu... ehm... VENTICINQUE anni) non riesco minimamente ancora ad organizzarmi. No, no.
Vi giuro che mi ci metto, visto che fuori piove. Debbo recuperare il tempo perso e mandare avanti questa storiella *w*
Come ringraziarvi per le 15 recensioni dello scorso capitolo??? *BALLA LA CONGA* il record!

Ora non mi siedo assolutamente sugli allori, ma vado avanti per la mia strada! -ESAMI PERMETTENDO - TT_TT
Bai bai gente! Al prossimo capitolo! :3
//marty


Ah! Ieri ho pubblicato la prima OS partecipante alla challenge che abbiamo indetto io e wifuccia [x], ovviamente su Arrow.
Non c'è scadenza né premi. Libertà totale! :3

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Capitolo 20 ***


CAPITOLO 20
betato da  nes_sie
 
Non avrei mai e poi mai creduto di poter vedere Simone in quello stato. Con l’aiuto dello specchietto retrovisore, notai il suo sguardo cupo e l’espressione imbronciata.
Era davvero insolito trovargli una smorfia diversa da quella pre-stampata sulla sua faccia da viziato arrogante, e la cosa mi fece parecchio sorridere. Avevo il sospetto che Mario c’entrasse qualcosa, soprattutto il fatto che avesse scoperto che non si trattava di un’amica, bensì di un ventiquattr’enne alto un metro e ottanta, con barba, capelli e spalle da giocatore di rugby.
Gli è andata male, eh?
Concordo.
«Avete fatto buon viaggio?» ci chiese Mario, sorridendo con i suoi soliti modi affabili. Anche se propriamente gli abitanti di Roma ci definivano “campagnoli” soltanto perché abitavamo in provincia, Mario era diverso.
Non aveva studiato; cioè, si era limitato a finire i cinque anni all’istituto agrario più vicino e poi si era soltanto lasciato rapire dalla sua passione infinita per la musica. Per mantenersi, lavorava con il padre, nel caseificio di famiglia, e giorno dopo giorno si prendeva cura anche dei capi di bestiame con cui facevano delle deliziose forme di formaggio.
A parte questo, Mario non aveva quella tipica cadenza di paese nel linguaggio. Quel tipo di persona dura di comprendonio e attaccata visceralmente alle proprie origini, era ben lontana dalla sua persona.
Da Mario, che metteva i soldi da parte per comprarsi uno stereo, una chitarra, un amplificatore, da quello stesso ragazzo che per Natale o per il compleanno mi chiedeva sempre di regalargli un disco di vinile molto raro.
«Sì, non ci sono state turbolenze,» risposi tranquilla, sorvolando accuratamente su tutta la parte in cui io e Simone ci eravamo accidentalmente sfiorati le mani.
«Anche il tuo amico là dietro, mh?» domandò, fissando lo sguardo nello specchietto e cercando gli occhi del calciatore che, senza mezzi termini, lo incenerirono.
Sì. Se Simone fosse stato Ciclope, quello degli X-men per intenderci, di Mario non sarebbe rimasto altro che un mucchietto di polvere da raccogliere in un sacchetto di plastica.
«Mpf!» sbuffò in risposta, incrociando le braccia al petto e cominciando a fissare la sua attenzione fuori dal finestrino.
La strada sterrata che portava a casa mia cominciò in quell’esatto istante, ed avendo una semplice Panda un po’ arrugginita, Mario dovette sterzare un paio di volte in più per evitare le voragini presenti su quella strada malandata.
«Chi ti ha dato la patente, un ubriaco?» disse Simone, dopo aver battuto la testa sul tettuccio dell’auto perché era troppo alto per quella macchina.
«Simone!» ringhiai, rimproverandolo.
Mario ridacchiò. «Sei un topo di città, amico. L’aria di campagna è un po’ troppo pulita per i tuoi polmoni pieni di smog, right
Fissai malamente pure Mario. Cos’era? Una guerra al testosterone?
«Evidentemente l’aria rarefatta qui sui monti di lillà ti ha assottigliato quel poco cervello che avevi, man,» sibilò subito Simone. «Sarai abituato a trattare con le pecore e le mucche, ma non con gli esseri umani.»
«Simone, taci!» gli urlai, prima di dover litigare sia con l’uno che con l’altro
Mario però sembrava averla presa con filosofia. «Ven, ma davvero stai con questo tizio? Cioè, d’accordo che è un calciatore e tutto il resto… ma non ti ci facevo…» mi rimproverò, sogghignando.
Ovviamente aveva riconosciuto il mitico Simone Sogno senza che gli spiegassi che diavolo di lavoro facesse il mio quasi-ragazzo-barra-amante-barra-cliente.
«Non stiamo insieme!» rispondemmo prontamente all’unisono io e Simo.
Il mio migliore amico si voltò, senza mai perdere la concentrazione alla guida, e i suoi occhi blu incrociarono prima i miei, poi quelli dell’altro presente nell’auto.
Okay, magari io e Simone stavamo tentando di darla a bere a chiunque, persino a noi stessi, ma Mario aveva una sorta di superpotere, ce lo aveva sempre avuto, sin da quando eravamo piccoli, ed ovviamente ci aveva sgamati.
«Viennetta, vuoi mentire a me? Sul serio?» ridacchiò.
«Viennetta?»
Sbuffai. «È il soprannome che mi ha affibbiato quando avevamo cinque anni, perché il mio nome era troppo difficile, vero Mammio?» lo presi in giro anche io.
Ridemmo per i successivi cinque minuti, mentre sentivo lo sguardo di Simone che mi sondava la nuca. La sua aura aveva creato una sorta di alone nero attorno a lui, quasi come quello dei cartoni di animazione.
«Le piaceva tanto quel gelato. Ti ho chiamato Viennetta, Ven, perché una volta te ne sei finita una confezione intera!» infierì ancora.
«Perché la cosa non mi stupisce?» disse sarcastico Simone.
«Zitto tu!» lo fulminai, imbarazzata.
La conversazione stava raggiungendo vette davvero imbarazzanti, e se non avessi voluto finire a ricordare gli anni del liceo insieme a Mario, sarebbe stato meglio cambiare discorso, e alla svelta!
«Hai composto qualcosa di nuovo in tutto questo tempo?»
Inversione di rotta completa!
E così Mario cominciò un excursus sui progressi che aveva fatto col suo gruppo e alle serate che aveva in programma in quel lungo week end nei dintorni del Lazio.
«Stasera suoniamo al NewPort, che ne dici di venirmi a sentire, mh?» mi propose, mentre svoltò una curva un po’ insidiosa per mostrarci finalmente le mura della mia vecchia casa.
«Vedremo,» gli sorrisi, poi Simone si sporse violentemente tra i due sedili come se volesse uscire fuori dal parabrezza.
«M-Ma che…?» blaterai, indignata.
«Quella è casa tua?»
Simone vide la tenuta dei miei genitori che era piuttosto, sì, abbastanza grande in effetti, se paragonata ai miseri appartamenti di Londra.
«È casa dei miei genitori,» puntualizzai.
Mario sogghignò. «Pensavi di esserti messo con una campagnola che viveva in una vecchia soffitta sudicia e polverosa?»
Ovviamente frenai Simone prima che potesse strozzare Mario con le sue stesse mani.
 
Parcheggiata la Panda sul vialetto di casa Donati, scendemmo per recuperare le valigie. Simone perse parecchio tempo ad osservare intorno.
Era una bella giornata, nonostante la temperatura rigida di Gennaio, ma il sole di quella mattina illuminava i vasti campi arati per la semina che sarebbe arrivata di lì a qualche mese.
«Ma non finisce più?» mi chiese lui, chinandosi a raccogliere il manico del trolley.
Sorrisi ingenuamente. Alle volte pareva così puro e bambino che mi spiazzava questo suo comportamento.
Mi avvicinai e gli presi un braccio, facendogli indicare l’orizzonte.
«Vedi quella macchia di alberi laggiù?»
Simo annuì, così gli spostai il braccio sino al confine opposto. «Ecco, conta anche quel pezzo di terra laggiù e quelli sono all’incirca i confini della tenuta.»
Gli occhi di Simone si allargarono più del possibile, diventando così scuri da riflettere il cielo limpido nelle sue stesse iridi.
«Sorpreso, topo cittadino?» ridacchiò Mario, facendo strada all’interno della casa.
Notai come Simone lo fissò con un certo fastidio.
«Certo, ormai è abituato a fare da Cicerone.»
«Cosa intendi?»
Scrollò le spalle con indifferenza. «Nulla. Si comporta come se questa fosse casa sua. E non lo è. È la tua, dei tuoi genitori, non di un perfetto sconosciuto con le basette alla motociclista di Harley Davidson.»
Gelosia portami via.
«Ma smettila!» sbottai.
L’idea che in quel momento mi terrorizzava di più, in realtà, era l’incontro tanto atteso con i miei genitori. Ero certa che avrebbero preso d’assalto la figliol prodiga tornata a casa per passare il resto delle vacanze con la famiglia, ma ero anche più che sicura che avrebbero assalito, non metaforicamente, il povero Simone.
Entrai in salotto, lasciando la valigia nell’ingresso e mi diressi subito in cucina.
Sapevo di trovare mia madre lì. Lei era sempre ai fornelli, sia che cucinasse il pranzo o la cena, che facesse le marmellate, la conserva per l’inverno, che scaldasse il sego per i formaggi…
Il suo intero mondo ruotava attorno alla cucina.
E, infatti, la trovai proprio lì, con mestolo e pentola tra le mani, mentre Mario sorrideva e le raccontava qualcosa di estremamente divertente.
«TE.SO.RO!» trillò non appena mi vide.
Lanciò tutto all’aria, schizzando di sugo perfino il povero Mario, e mi corse in contro stritolandomi in uno dei suoi abbracci brevettati che toglievano l’ossigeno.
Eh sì. Mia madre non era proprio una persona esile, diciamo. Lo era stata, certo, alla mia età di sicuro, ma con gli anni aveva acquistato qualche chilo in più, favorito soprattutto dalla sua favolosa cucina.
«M-Mamma… s-sto soffocando…» le dissi, coi polmoni completamente svuotati d’aria.
Subito si scostò. «Oh, sì, sì, scusami! Com’è andato il viaggio? È atterrato in ritardo? Sei stanca? Vuoi andare a riposare?»
Ovviamente quelle erano le domande a raffica post-arrivo che soleva rifilarmi tutte insieme in un nano-secondo.
Pretendeva una risposta a tutte queste domande.
«Il viaggio è andato bene, sì. Non ha fatto ritardo l’aereo per fortuna e forse andrò a riposare più tardi. Che stai cucinando?» tergiversai.
Mia madre scrollò le spalle e agitò il mestolo. Evitai le macchie di sugo come Neo aveva evitato i proiettili in Matrix.
«Solo una cosetta per pranzo… a proposito!» se ne uscì. «Il tuo ospite mangia tutto? Non è che è uno di quei tizi strambi venuti dalla città che non mangiano roba vivente o uccisa, vero?»
«Vegetariani, mamma. No, Simone mangia tutto.»
Soprattutto i biscotti al cioccolato, pensai ma frenai la lingua altrimenti mia madre ne avrebbe sfornati per un esercito intero.
«Si può?»
Ed eccolo. Simone fece la sua entrata trionfante con il metro e novanta di altezza, per poco non sfiorava il soffitto a botte della cucina.
Gli occhi di mia madre divennero grandi come piattini da caffè.
Ammetto che messi vicini, io e Simone sembravamo formare una sorta di “Io”. La “I” era lui, magro e alto come un palo della luce, mentre, ahimé, la “o” era la sottoscritta. Bassa, un po’ morbida ma soprattutto minuscola se messa a confronto con il calciatore.
«C-Certo! Caro, entra pure!» si rinsavì mia madre, per fortuna. «Piacere, io sono Francesca, la mamma di Venera, ma questo tu già lo sai. Hai fame? Posso prepararti un po’ di porchetta se vuoi…»
«Mamma, sono le dieci del mattino!» sbottai, imbarazzata.
Possibile che mia madre risolvesse tutto con del buon cibo servito ad orari improbabili?
Lei mi fissò incredula. «E allora? Hai sempre mangiato la porchetta di mattina, tesoro. Ricordi? Tuo padre ti chiamava Oink-Poink.»
Ed ora potevo anche prendere la vanga in giardino e cominciare a scavarmi la tomba.
Mario ridacchiava come uno scemo.
«Mamma!» gridai, all’apice dell’imbarazzo.
Promemoria per il futuro: dire a tutti quelli che conosco che sono orfana, non ho genitori, e soprattutto non ho una madre che riesce a metterti in imbarazzo di fronte ad un tuo cliente, nonché amante provvisorio.
«Ammetto di essere tentato…» ridacchiò Simone, fissandomi divertito. «Solo che preferirei aspettare, ho ancora un po’ di mal d’aereo.»
Sì, certo, come no!
Ci sedemmo attorno al tavolo della cucina, mentre mia madre continuava imperterrita a preparare il sugo.
«Dunque, che lavoro fai caro? Studi?» gli chiese, ovviamente invadendo la privacy senza alcun riserbo.
Simone cercò prima il mio sguardo, poi s’imbatté in quello di Mario.
Mia madre, che di calcio sapeva poco o niente, non si accorse nemmeno di avere di fronte uno dei calciatori italiani più famosi all’estero.
«Diciamo che Simone è uno sportivo…» ridacchiò il mio migliore amico, beccandosi un’occhiataccia dal calciatore.
«E come vi siete conosciuti? Da quanto state insieme?»
«Whoa! Mamma, vacci piano con le domande. Primo, non tartassare le persone come tuo solito; secondo, dagli tempo di respirare.»
Simone sorrise. «Tranquilla, non mi dà fastidio,» mormorò. «Dunque, gioco a calcio per vivere e mi riesce piuttosto bene, devo ammetterlo,» qui ci fu l’occhiata di gelo tra lui e Mario, con tanto di sbuffo da parte mia. «Ho conosciuto Venera perché mi serviva un avvocato per un piccolo disguido giudiziario, e il suo studio mi ha assegnato lei…»
«Veramente siamo in collaborazione, io e James.»
«Chi è ‘sto James?» domandò subito mia madre, che appena udiva un nome straniero andava in allarme preventivo.
«Un pallone gonfiato,» rispose subito Simone.
Gli diedi una forte gomitata nel costato che lo fece lamentare. «Zitto tu!»
«Venera!»
«Mamma!»
«Dio che male!»
«Venni-Anna tutta panna!»
La voce di mio padre sovrastò tutte le altre e ci voltammo all’unisono. Vedere mio padre dopo tutto quel tempo passato lontano dalla famiglia, mi fece salire un groppo in gola.
«Papà!» e corsi verso di lui, abbracciandolo.
Mi sentii sollevare da terra, proprio come quando faceva da bambina, e girare attorno alla cucina come una trottola.
«Come stai?» mi chiese infine, mettendomi giù.
«Benissimo,» gli sorrisi.
«Caro, tua figlia ha portato un ospite. Fa il giocatore di pallacanestro, o qualcosa del genere…» disse, ma fu quando gli occhi di Alberto Donati e Simone Sogno s’incontrarono, che ebbe inizio la più bella storia d’amore mai raccontata.
«Tu sei…» e non riuscì a completare la frase.
Mio padre, a differenza mia e di Celeste, amava follemente il calcio. Aveva fatto installare un mega-schermo in una sala adibita solo alla sua passione folle per quello sport. Da giovane aveva anche giocato nelle giovanili della Roma, ma per un infortunio al ginocchio aveva smesso.
Quando si trovò davanti uno dei giocatori più famosi del mondo, rischiò di avere un infarto.
«Piacere signore, mi chiamo…»
Corse subito a stringergli la mano. «Dio mio non posso crederci!» sbottò, quasi come se Simone fosse improvvisamente diventato suo figlio. «T-Tu… T-Tu sei Sogno… Simone Sogno! Il più grande centro-avanti dell’Arsenal… in casa mia! FRANCESCA! Dio mio, guarda chi c’è nella nostra cucina!»
Mia madre annuì poco convinta.
Finalmente mio padre tornò a guardarmi, ed indicò Simone. Era troppo emozionato per chiedermi a parole com’era finito in casa sua un personaggio del genere.
Sbuffai infastidita da tutto quel successo.
Mio padre era mio, appunto. Non di Simone, ma mio! «È una storia lunga…» tentai, un po’ malamente.
«Caro, questo ragazzo è cliente di nostra figlia. Lei è il suo avvocato!» si pavoneggiò la mamma.
Alberto per poco non strabuzzò gli occhi. «D-Davvero?»
«Perché lui ha qualche causa in corso… magari calcio-scommesse…» s’intrufolò Mario, solo per il gusto di prendere Simone per i fondelli.
Ovviamente il calciatore abboccò all’amo. «Non gli dia retta, c’è dell’altro oltre il fatto che sua figlia è il mio avvocato…» disse.
Lo pregai con lo sguardo, cercai di fargli cenno di “no” con la testa, che non era necessario spiattellare tutta la verità in un solo momento, anche perché non sapevo come avrebbe reagito mio padre.
«Io e sua figlia usciamo insieme, adesso,» sentenziò, passandomi un braccio attorno alle spalle e spiaccicandomi la faccia sul suo petto, fissando di sbieco Mario.
Simone geloso non era per nulla divertente!
Mio padre prima spalancò gli occhi per la sorpresa, poi sorrise, poi quasi pianse, ed infine si decise a parlare. «Ben venuto a casa, figliolo!» e si prese sotto braccio Simone portandoselo dietro quasi come se fossero diventati improvvisamente migliori amici.
«F-Figliolo?» balbettai.
«Tuo padre aspettava da tanto un genero degno di questo nome, tesoro,» rispose distrattamente mia madre, che non capiva cosa ci fosse di così speciale in Simone oltre l’altezza smisurata.
«Sarà una vacanza piuttosto divertente…» ridacchiò Mario, con piacere.
Ora mi trovavo ufficialmente tra due fuochi: da una parte dovevo tenere a bada Mario, che sapevo ne avrebbe combinata una delle sue per “testare” se Simone fosse adatto o meno alla sottoscritta, e dall’altra dovevo controllare che mio padre non mi mettesse in imbarazzo più del necessario.
Come se fosse possibile dopo la storia della porchetta…
 
«Ci credi che tuo padre ha il pallone originale dei mondiali dell’82?» disse Simone tutto eccitato.
Era seduto sulla sponda del letto, anche perché mio padre aveva insistito tanto a farci dormire nella stessa stanza, la mia vecchia stanza poi.
«Mh-mh, interessante…» gli diedi corda, piegando con accuratezza i vestiti prima che si sgualcissero rimanendo in valigia.
«E il gagliardetto del 1929? Te l’ho detto?» continuò.
«Tipo per la ventesima volta…»
«Oddio, se soltanto mio padre fosse così appassionato di calcio come lo è il tuo!» disse tutto emozionato. «Abbiamo parlato per ore. Ore, ci credi?»
Cercai il suo sguardo per un attimo e lo vidi tremendamente sincero. Forse quella fuga da Londra avrebbe giovato più a lui che a me, di questo ne ero sicura.
«Vedo che non è poi così male l’aria di campagna, eh?» ridacchiai.
Simone subito sfoderò il sorriso arrogante che mi faceva sempre rabbrividire. «E come la metti col fantastico piano di rientrare nelle grazie del tuo meraviglioso papà per farci dormire insieme, mh?»
Roteai gli occhi. «Certo, perché era un tuo piano sin dall’inizio…»
«No, però quando ha acconsentito, diciamo che mi sono venute certe idee in mente…»
Frenai subito i suoi bollenti spiriti. «Non lo faremo sotto lo stesso tetto dei miei genitori, intesi?»
Simone mi guardò perplesso. «Vuoi farlo fuori? Io non monterò più sulla sudicia macchina di quel tuo amico, che tra l’altro non sopporto per niente…»
«Ma davvero? Non me ne ero accorta… comunque, no, in questa vacanza non lo faremo. Per niente, non voglio rischiare di essere scoperta dai miei genitori. Ho già avuto la mia dose di imbarazzo in una sola giornata,» sentenziai.
Simone mi restituì uno sguardo divertito. «I tuoi sono davvero simpatici,» sorvolò sull’argomento castità-durante-il-soggiorno-a-casa-di-Venera.
«Mh,» borbottai, ripiegando le camicette. «Ne riparliamo quando dovrai viverci per ventiquattro anni a stretto contatto…»
Il calciatore rotolò, letteralmente, sul materasso fino a raggiungermi e mi fissò dal basso verso l’alto con due occhi languidi. «È una muta richiesta?» insinuò.
Per poco gli occhi non mi rotolarono fuori dalle orbite. «Richiesta di cosa, scusa?»
Si stava sfiorando il ridicolo adesso?
Simone prese a stiracchiarsi sul letto come un gatto, occupando tutto il materasso e rischiando di farmi cadere la valigia per terra. «Ehi!» lo redarguii.
«La richiesta di passare il resto della vita insieme a te,» propose, furbo.
Ci mancò davvero un soffio all’infarto. «Tu sei tutto suonato! Figurati se io e te potremmo sopportarci più dello stretto necessario.»
«Eddai, che un po’ mi vuoi bene…» ridacchiò, punzecchiandomi con una mano come avrebbe fatto un gatto, per l’appunto.
«No, per niente,» risposi sicura.
Lo faceva di proposito a punzecchiarmi in quella maniera. Voleva che ammettessi la mia dipendenza da lui, il fatto che, volente o nolente, il suo bell’aspetto mi costringeva a comportarmi come una qualsiasi delle giraffone che si era portato a letto.
Con l’unica differenza che io avevo un master.
Non si scompose, anzi.
Si alzò a sedere e cercò il mio sguardo serio, notando che proprio in quel momento stavo togliendo la biancheria intima dalla mia valigia. I suoi occhi divennero ancora più scuri ed io arrossii. Ci provai, davvero, a rimanere impassibile di fronte a quel Simone che diventava predatore, ma ormai avrei mentito soltanto a me stessa.
Dopo che ci hai fatto sesso per chissà quante volte…
Tre! O forse quattro… non sapevo se quella volta nella vasca da bagno contasse.
«Smettila,» lo ammonii.
«Di fare cosa? Stai facendo tutto da sola…» puntualizzò.
Sì certo, come se non conoscessi ormai quello sguardo. «Ti ho detto che è proibito, punto. Io avrò la mia stanza, tu avrai la tua e tutti vivremo questa “vacanza” nel migliore dei modi, per poi tornare tranquillamente a Londra e continuare a lavorare al tuo caso di dubbia paternità,» precisai.
Simone sbuffò. «Guarda, sei talmente noiosa che me l’hai fatto ammosciare…»
«Dio, come sei volgare!»
Simone tirò fuori quel ghignetto che utilizzava soltanto i primi giorni di convivenza, quelli in cui cercava di farsi odiare per liberarsi della sottoscritta. «Di sicuro, so essere più gentleman di quel campagnolo…»
Roteai gli occhi al cielo. «Possibile che tu non riesca a fare a meno di vedere cose dove non ci sono?» sbuffai.
Lui fece spallucce. «Vorresti dire che non avevo ragione su James?»
«Cosa c’entra James, adesso?»
Dovevamo finire per litigare, ormai non c’era alcuna via di scampo. Quando insinuava cose che non esistevano, arrivavo ad un limite della sopportazione inaudito. L’avrei ucciso, era questione di millisecondi.
«L’avvocatuncolo c’entra sempre,» concluse.
Posai la pila di maglioni sul comodino e misi le mani sui fianchi. «Senti, non puoi paragonare Mario a James. Con lui è diverso,» poi mi corressi quasi in automatico. «Con lui è stato diverso, ma Mario è il mio migliore amico, è come un fratello, perciò smettila di continuare ad insinuare cose che non esistono e che non stanno né in cielo né in terra.»
Simone si alzò dal letto a sua volta, imboccando la porta. «Sappi solo che tu non c’entri nulla, io lo faccio perché quel tipo mi ha sfidato, ha chiaramente messo in dubbio la prestanza di Simone Sogno ed io non posso tollerarlo. Non lo permetto nemmeno a mio cugino, sangue del mio sangue, figurarsi a quella sottospecie di contadino.»
«È un musicista,» precisai.
«Pifferaio dei miei stivali,» detto questo uscì dalla mia stanza e si chiuse la porta alle spalle, sparendo chissà dove, visto che non sapevo nemmeno se i miei gli avessero davvero preparato una stanza a parte.
Conoscendo mio padre, gli avrebbe concesso la mia mano anche se fosse stato un serial killer. Se era in grado di far rotolare un pallone, era di famiglia.
«Ultima precisazione,» disse Simone, tornando a fare capolino nella camera.
«Mh?» Alla fine non ero riuscita nemmeno a svuotare completamente la valigia per colpa di quel calciatore da strapazzo e le sue assurde fisime mentali.
«Con o senza permesso dei tuoi genitori, stanotte sgattaiolerò nel tuo letto.» Ed aggiunse uno di quei sorrisi furbi in cui alzava soltanto uno degli angoli delle labbra.
Nemmeno ebbi la forza di lanciargli un cuscino dietro, perché ormai ero abbastanza sicura che avrei fatto lo stesso se fossi stata al suo posto.
Scacco matto.
 
La sera ci riunimmo tutti a cena, salvo “Mister calciatore dei miei stivali”, che arrivò con ritardo principesco perché aveva bisogno di calmare i nervi sotto la doccia.
«Scusate, ma il jet-lag mi ha distrutto,» commentò.
«Ma quale jet-lag, deficiente!» lo rimbeccai subito. «Tra Roma e Londra non c’è manco un’ora di differenza e tu tiri fuori la storia del fuso orario?»
Mia madre mi fissò scandalizzata.
A mio padre venne quasi un infarto, tant’è che si posò una mano sul cuore. «Non sa quello che dice, scusala,» gli sentii sussurrare piano a Simone.
Dio, che odio!
Simone mi sorrise beffardo. «Sarà, ma io mi stanco facilmente. Non posso permettermi di tornare a Londra non al pieno delle mie forze. Insomma, c’è un girone di ritorno del campionato che è abbastanza tosto…» sostenne, come se fosse una scusa plausibile.
«La prima è contro il Manchester, se non sbaglio.»
«Papà!» ringhiai.
Invece di essere dalla mia parte, la mia famiglia sembrava non fare altro che pendere dalla parte di Simone, ignorandomi completamente.
«Tesoro, potevi dircelo che il tuo fidanzato era così cagionevole…» cinguettò mia madre preoccupata.
Dire che avevo gli occhi ridotti a due misere fessure sarebbe stato solo un eufemismo. Finii di mangiare i miei piatti in silenzio, tanto qualsiasi cosa avessi detto sarebbe stata ribattuta senza darmi il minimo di sostegno.
«Non è il fio fifanfafo!» sbottai, addentando una patata al forno intrisa di olio.
Calorie, uccidetemi pure prima che lo faccia quel cretino di Simone!
«Tesoro…» mia madre era rivoltata dal fatto che stessi mangiando come un camionista disperso nel Sahara per una settimana. Non m’importava!
Quel ritorno a casa per le feste natalizie si stava trasformando in un incubo.
«Stasera dove lo porterai di bello?» mi domandò mio padre, con sincero interesse. «C’è il campetto comunale, di notte è illuminato e dicono sia un posto molto romantico…» sospirò.
Simone sorrise. Sembrava sincero questa volta.
«E pensare che ancora ricordo il primo appuntamento con suo padre,» cominciò a raccontare la mamma. Roteai gli occhi al cielo soltanto perché avevo sentito ripeterle quella storia un milione di volte. «Mi ha portato ad una partita di pallone, pensa!» ridacchiò.
«Come se ci fosse posto più romantico dei sedili sporchi dello Stadio Olimpico…» borbottai.
«Gli stadi di Londra sono più puliti,» aggiunse mio padre, come se il problema fosse davvero l’igiene dei seggiolini.
Simone ci fissava l’un l’altro molto divertito e soddisfatto. «Anche il nostro primo appuntamento, si può dire, è avvenuto in uno stadio. Ricordi, mh?»
Divenni paonazza. Non c’era altro modo per descrivere il io colore in quel momento.
Rossa, bordeaux, color pomodoro maturo? Tutti sinonimi perfetti. Dovetti abbassare lo sguardo, tossire e fingere di bere una sorsata d’acqua per riuscire a cambiare discorso.
Ovviamente fallii.
Mia madre era fuori di sé dalla gioia. «Oddio, Vennie, racconta, racconta!»
Cercai di riacquistare una normale respirazione, poi guardai Simone di sbieco. «Punto primo, non era un appuntamento…» sibilai.
«Punto secondo,» mi interruppe lui. «Sei venuta a guardarmi giocare e mi hai fatto un discorso incoraggiante a metà partita. Non era un appuntamento ufficiale, ma è come se lo fosse stato…» insinuò.
Sentii un gridolino acuto provenire alla mia sinistra e pensai si fosse rotta la valvola del termosifone, oppure che si fossero dimenticati un bollitore del the sul fuoco… invece era mia madre che produceva quella specie di suono assordante.
«Oddio, che cosa romantica!» cinguettò entusiasta.
In quel momento desiderai con tutto il cuore di avere l’anello di Bilbo Beggins e poter sparire da quella cucina in un battito di ciglia.
Potevo umiliarmi più di questa mattina con la storia della porchetta? Ovviamente sì.
Mi alzai di scatto facendo strusciare sonoramente la sedia dal pavimento. «Okay, andiamo o faremo tardi!»
Simone mi fissò confuso. «Tardi per co-che… ahi!»
Lo afferrai prepotentemente per la maglietta e tentai di farlo alzare, ma il suo metro e novanta mi impediva la maggior parte dei movimenti.
«Ricordi? Dobbiamo uscire o ti perderai le magnificenze di questa città di notte!» dissi con ovvietà, ma il mio tono era palesemente sarcastico.
«Vennie, ma Simone deve ancora finire il pasto…» protestò mia madre.
Simone sfoderò uno sguardo da cucciolo. «Non ho nemmeno assaggiato le patate…»
Fissai furente prima lui, poi mia madre ed infine le patate. Presi il cucchiaio e con forza lo caricai di tuberi per poi schiacciare le guance di Simone, facendogli aprire la bocca, e rimpinzandolo di patate quasi stessi riempiendo il tacchino per il Ringraziamento.
«Finirai per soffocarlo!»
«Dio mio, Alberto, ferma tua figlia!»
«Contento?» sibilai, vedendo il volto Simone tutto sporco d’olio e lievemente terrorizzato da quello che avrei potuto fargli se avesse protestato ancora. «Vuoi qualcos’altro?»
Lui scosse violentemente la testa.
«Mamma. Papà,» dissi solennemente. «Io e Simone usciamo, non aspettateci alzati.»
Praticamente ci scapicollammo fuori dalla porta di casa, uscendo nel portico illuminato debolmente dai lampioni che costeggiavano il giardino.
Simone era palesemente imbronciato.
«Scusa, ma non ce la facevo più a reggere tutta quella tensione. Mi sembrava stessero facendo il terzo grado,» mi giustificai.
«Volevano soltanto sapere cosa avevi fatto tutto questo tempo lontana da casa, non mi sembrava chiedessero molto.»
Odiavo da morire quando mi prendeva in giro, ma ancora di più detestavo l’idea che avesse ragione. Quando succedeva – di rado, s’intende – il mio inconscio faceva di tutto per trovare un escamotage, una qualsiasi scusa valida per vanificare le sue teorie.
«Sono solo impiccioni, soprattutto mia madre. Non hanno il diritto di intromettersi nella mia vita privata, e soprattutto in quella del mio cliente.»
«…che casualmente, almeno per metà, combacia con la tua,» si sentì in dovere di aggiungere.
Non dissi altro.
Come al solito anche con quelle quattro parole messe in fila a stento, riusciva comunque ad essere dalla parte della ragione.
«Dovremmo pensare seriamente a risolvere questo caso,» gli ricordai.
«Direi che se non ci riesci tu, sono completamente fottuto,» ridacchiò. «Io? Padre? Mi ci vedi davvero con un neonato tra le braccia?»
«Un ragazzino che cresce un altro ragazzino… la fine del mondo,» ironizzai.
«Ah. Ah. Ah,» finse lui. «Dunque, dobbiamo congelarci oppure hai intenzione di andarlo a vedere davvero quel campetto da calcio?»
«Ma non ci penso neppure!» esclamai. «Basta calcio, ho un’idea migliore…»
E l’idea migliore ovviamente non rientrava nei gusti del bel calciatore, e quando mise piede nell’unico, sperduto, pub del paese per poco non gli prese un infarto. Considerato che al bancone del bar ci fosse Mario, con tanto di canottiera scollacciata a causa del caldo del locale, macchie d’acqua sparse sulla maglia e capelli ricci e fluenti completamente scompigliati, sentii chiaramente i denti del calciatore stridere l’un l’altro.
«A questo punto penso sia meglio tornare a casa, o faremo impensierire i tuoi,» tentò.
«Simo’, sono le dieci di sera… non le due!» lo rimproverai.
«Eddai, prima che ci veda! Altrimenti mi toccherà passare quasi dodici ore in compagnia di quel tuo amico primitivo, sommandoci anche la mattinata,» si lagnò.
«Come sei scorbutico, Mario è fantastico!»
«E allora potevi evitarmi questo supplizio e lasciarmi a Londra.»
«Nessuno ti ha obbligato a venire.»
Simone sfoderò un sorrisetto furbo. «Davvero? Vuoti che ti ripeta le esatte parole di quella notte?»
«Stronzo.»
Per fortuna proprio Mario venne a salvarmi da quella situazione che sarebbe potuta precipitare da un momento all’altro.
«Ehi! Ven!» urlò, dall’altro capo del pub.
«Adiamo a salutarlo, su. Non fare il cafone…» puntualizzai.
Ovviamente sentii una serie di imprecazioni indirizzate al mio migliore amico ma cercai di non dar loro peso. Ci sedemmo sugli sgabelli proprio di fronte alla postazione di Mario.
«Che si dice? Cosa c’era per cena?» s’informò subito, sorridendo sprezzante a Simone che gli rifilò unicamente un’occhiataccia.
Feci spallucce e sbuffai, soprattutto ripensando a ciò che era successo. Altro che terzo grado, mi chiedevo se i miei genitori, in una vita passata, fossero state delle spie del KGB.
«Le solite cose… sai, mia madre fa sempre da mangiare per un esercito,» commentai.
«Sì, peccato che non abbia avuto il piacere di assaggiare tutto,» protestò subito Simone.
Mario lo guardò sorpreso. «Lascialo perdere, è arrabbiato perché l’ho “strappato” dal suo degustare le patate al forno,» dissi, con ovvietà.
Il mio migliore amico scoppiò a ridere. «Le patate al forno di Carla Vanoni sono qualcosa di sublime, ti rimangono attaccate al palato quasi fossero farcite di burro caldo e denso…»
Il che non era da escludere, visto il vizio di mia madre di stra-condire qualsiasi pietanza avesse davanti agli occhi. Mi ricordo di una cappuccina che di verde alla fine non aveva più nulla, visto che nell’insalatiera c’erano finite olive, mais, carote, cetrioli, sedano, olio quasi a far galleggiare il tutto e aceto da farti strizzare gli occhi e tossire.
Mi accorsi di Simone che pasteggiava mentre sentiva Mario descrivere quella pietanza con tanta accuratezza. Gli scorsi persino un rivolo di bava all’angolo delle labbra…
Poi il suo sguardo inquisitorio si posò su di me. «La prossima volta non mi trascinerai via così facilmente da tua madre!» minacciò, puntandomi il dito contro.
Incrociai le braccia al petto. «Sposatela, allora,» lo rimbeccai.
Mario nel frattempo si godeva i nostri battibecchi mentre preparava alcuni cocktail per i clienti del pub.
Simone mi fissò di sbieco. «Lo farei se non avesse sposato tuo padre, quell’uomo ha la maglietta autografata di Roberto Baggio quando sbagliò il rigore nei mondiali USA del ’94!»
E qui intervenne il mio migliore amico. «Dio, quanto gliela invidio!»
Forse avevano trovato una passione in comune: quel benedettissimo gioco che io tanto detestavo.
«Certo, interessante,» dissi, fingendo uno sbadiglio.
«Vennie, con tutto il rispetto, ma è come se tuo padre possedesse la penna con cui fu firmata la dichiarazione d’indipendenza americana!» mi suggerì Mario, ma la cosa mi parve alquanto esagerata.
«Per una volta potrei darti anche ragione,» gli rispose Simone, fissandolo per la prima volta come se non volesse mangiarselo per colazione.
Mario gli restituì uno sguardo altrettanto neutro. «Io ho sempre ragione,» gongolò.
Ecco il nocciolo della questione, il nodo a cui sarei dovuta arrivare nell’immediato. Il fatto che quei due non si sopportassero era chiaro, come lo era il motivo per cui Mario fosse il mio migliore amico fin da quando avevamo un anno ciascuno.
Si somigliavano troppo quei due: nei comportamenti, nel modo di parlare, in quello di atteggiarsi. L’uno era un calciatore, l’altro un musicista, ma per il resto sarebbero stati come due gemelli separati dalla nascita.
«Bene, cosa vi posso offrire, ragazzi?» chiese Mario, stemperando quell’atmosfera di calma che sembrava quasi irreale. «Aspettate, siete venuti a piedi vero?» s’informò.
«Mi ci ha costretto,» brontolò subito Simo.
«Dannazione, sono due isolati… DUE. Io non so come tu possa definirti uno sportivo, se ti lamenti di un chilometro a piedi,» sbuffai contrariata.
Mario ridacchiò.
«Direi due birre, grazie. Comunque non è il fatto di essere sportivi o meno, solo che ormai sono abituato ad un certo tipo di comodità,» puntualizzò Simone, fissandomi serio.
«Certo,» rincarai la dose. «Dormi fino alle dieci del mattino, non pulisci e mandi in giro per casa le tue giraffone mezze nude.»
Le birre per poco non caddero di mano a Mario. «G-Giraffone?»
«Fattelo spiegare dal ragazzino qui…» sbuffai.
«È storia vecchia, e lo sai,» intervenne subito Simone. «Odio quando mi chiami così, piantala.»
Arrivò il momento adatto per punzecchiare Simone. Era da un po’ di tempo che non mi divertivo a burlarmi di lui, e adesso avevo anche Mario dalla mia parte.
«È la verità.»
Mario servì le birre in due bei boccali di vetro, così iniziai a sorseggiarla senza staccare lo sguardo da quello cupo di Simone.
«Fatemi capire bene,» s’intromise il mio migliore amico. In seguito indicò il calciatore. «Tu quanti anni hai, scusa?»
La questione dell’età di Simone era qualcosa di cui non andava estremamente fiero. Seppur fosse uno dei calciatori più giovani e più famosi d’Inghilterra, questa cosa di essere etichettato come “ragazzino” lo faceva infuriare.
«Fatti i cavoli tuoi, lavapiatti,» sputò fuori.
Sperai che Mario non reagisse troppo d’impulso, e per fortuna lo giudicai bene. Sorrise furbo al calciatore, poi cominciò a lucidare alcuni boccali. «Da questa risposta, presumo che la cara Vennie si sia fatto un toy-boy. Giusto?» si rivolse alla sottoscritta.
Beh, forse avevo fatto male i miei calcoli.
«Non è il mio ragazzo, chiariamo questa cosa una volta per tutte. Simone è qui come mio cliente, mi sto occupando del suo caso, condividiamo l’appartamento perché gli affitti erano troppo cari… tutto qui,» tagliai corto.
Mario mi sorrise beffardo. «E allora cosa ci fa qui?»
«Mh?» domandai stranita.
«Il pastore vorrebbe sapere per quale motivo sono qui se non in veste di tuo “non ufficiale” uomo di letto,» rincarò la dose l’altro.
Già, quello che di sicuro avrebbe dormito in un’altra stanza, se non addirittura in un’altra casa!
«Uomo di cosa? Ma voi siete entrambi fuori!» sbottai.
Sia Mario che Simone sembrarono abbastanza soddisfatti di avermi messo in completo imbarazzo. Ero stufa di essere il giullare di ogni situazione, sia a casa, con i miei, sia qui con gli amici. Continuai a sorseggiare la birra e a linciarli entrambi.
«Dunque, cosa avete da fare domani mattina?» chiese Mario, servendo due Sex on the beach alla ragazza che subito li andò a servire ai tavoli.
Guardai prima Simone, poi Mario. «Dormire.» «Lavorare.» dicemmo all’unisono io e il calciatore. Due risposte ovvie da due personaggi altrettanto ovvi.
Mario sorrise. «Bene, allora non vi dispiacerà accompagnarmi a fare una corsetta in giro per il paese, almeno così avrò la scusa di fare da Cicerone.»
«Io lo conosco già, il paese,» brontolai. L’idea di andare a correre era totalmente fuori discussione, soprattutto perché non facevo un po’ di moto da quando avevo superato il master a Cambridge.
«Io voglio dormire…» si lagnò Mr. Attività.
Il mio migliore amico adottò il ricatto, come sapeva ben fare da tempo. Non c’era modo di trattare con due tipi ostinati come me e Simone.
«Vorrà dire che dovrò spargere voce tra il paese di un certo calciatore e una certa avvocatessa che intrattengono una specie di relazione semi-illegale?»
«Sei un traditore, altro che migliore amico!» sbottai.
«Fortuna che te li sai scegliere gli amici, eh?» mi apostrofò Simone.
Mario si godette la scena, quasi come se avesse appena vinto alla lotteria. «Allora vi aspetto domani alle 7. Passo sotto casa di Vennie.»
«Ma la sera non fa buio presto, qui?» s’informò Simone.
«Alle sette del mattino, idiota!» gli urlai addosso.
Simone sgranò gli occhi quando ebbe realizzato che ciò comportava alzarsi prima che il sole fosse completamente sorto.
«Voi due siete dei pazzi, io a quell’ora non mi sveglio nemmeno per andare agli allenamenti!»
Lo fissai con un sopracciglio alzato. «Non avevo dubbi.»
«Allora è fatta, a meno che Simone non si tiri indietro. Non so, magari non regge il ritmo di noi “gente di paese”,» gli disse, provocandolo.
Simone assottigliò lo sguardo. «Il ritmo lo detto io. Domani alle 19 in punto.»
«Sono le sette del mattino, porca miseria!»
 
Quella notte rincasammo sul tardi. Alla fine avevamo passato quasi tutta la serata al pub di Mario, ed io ero rimasta pressoché tutta la sera a sorseggiare birra mentre vedevo quei due ringhiarsi a vicenda come se si stessero litigando l’ultimo pezzo di carne avanzato.
In verità, sospettavo la ragione per cui il calciatore si comportava guardingo nei confronti di tutto l’universo maschile che mi girava intorno, alla fine la dinamica di pensiero degli uomini era piuttosto limitata.
È geloso.
Per quanto Simone potesse essere diverso da tutti i ragazzi con cui ero uscita, uomini che avevo conosciuto a Cambridge, oppure a Roma durante il periodo universitario, c’era quella caratteristica comune un po’ a tutti i possessori del cromosoma Y.
Celeste una volta mi aveva detto di associare gli uomini a degli animali, e proprio come in natura essi si comportano in modo possessivo verso ciò cui appartiene loro: che siano cuccioli, territorio o compagne di vita.
E così ero rimasta a sbuffare tutto il tempo in attesa che quei due finissero di linciarsi.
Premettendo che Mario stuzzicava Simone di proposito, di tanto in tanto gli lanciavo delle occhiate espressive per suggerirgli di farla finita, almeno sarei potuta andare a dormire prima della “scampagnata” mattutina a cui avevo aderito contro il mio volere.
«Bene, si è fatta una certa ora,» aveva annunciato d’improvviso il mio migliore amico e così finalmente ero scattata in piedi dallo sgabello su cui mi stavo addormentando tipo gufo di Bambi, e avevo afferrato Simone per il collo del maglione trascinandolo fuori dal locale senza nemmeno salutare Mario.
«Ehi, aspetta!» mi brontolò dietro il calciatore, cercando di infilarsi il cappotto e camminare contemporaneamente.
Gli rifilai un’occhiata gelida anche attraverso il buio di quella nottata. «Muoviti,» ringhiai.
Simone si vestì in fretta e furia seguendomi. Gli bastarono quattro lunghi passi per raggiungermi con quelle sue gambe chilometriche e mi fu subito al fianco.
Rabbrividii per l’umidità che circondava la zona, in aperta campagna, così di punto in bianco avvertii la sua mano posarsi sulla spalla e avvicinarmi a sé. Scattai subito sulla difensiva fissandolo torvo.
Simone alzò un sopracciglio. «Oh, ma andiamo!» sbottò stanco. «Siamo andati a letto insieme fino a ieri pomeriggio ed ora ti scandalizzi se cerco di tenerti al caldo?» mi rimbeccò.
Cominciai a mordicchiarmi il labbro nervosamente. Era una di quelle rare volte in cui mi trovavo a corto di parole nonostante fossi un’avvocatessa in erba.
«Ti ho detto che non voglio che ci scambiamo effusioni in casa dei miei,» precisai, sicura.
Continuammo a camminare fianco a fianco, ma ebbi la netta sensazione che con Simone non era ancora finita. «Teoricamente non siamo ancora dentro casa…» sussurrò malizioso, fissandomi con quegli occhi neri che riuscivano persino ad inghiottire il buio di quella notte.
Stavolta il brivido che mi serpeggiò lungo la schiena non fu di freddo. «Smettila,» gli intimai. «Siamo venuti qui soltanto per svagarci, per far passare un periodo di tempo prima del processo che sono sicura ci impegnerà entrambi. Non voglio allarmarti, ma la tua cara Lizzie è decisa a chiedere la tua mano pur di non far scoppiare lo scandalo sui tabloid.»
Simone si irrigidì. Mi accorsi soltanto allora che era una delle rare volte in cui parlavo con lui di Elizabeth Cloverfield. Era la controparte nel mio primo caso da assistente alla Abbott&Abbott ma con Simone non ne avevo mai realmente parlato.
Lui aveva sempre sostenuto di averla sì abbordata quella notte, ma che fosse finita lì.
«Non dovevo essere così diretta, scusa,» dissi, rimangiandomi l’ultima frase detta.
Certe volte la vecchia e cara acidità di Venera usciva fuori senza che riuscissi a controllarla pienamente, ma vidi Simone scrollare le spalle e infilarsi le mani nel cappotto lungo.
«Non devi scusarti,» borbottò, sbuffando fiato caldo dalle labbra carnose. «Hai detto soltanto la verità, in fondo. Per quanto possa ricordarmi di quella notte, sono piuttosto sicuro di aver preso precauzioni, ma spesso e volentieri mi lascio prendere dalla passione e…»
Qui i puntini di sospensione lasciarono cadere un silenzio che mi fece arrossire. Era ovvio che si riferiva a noi due, a quello che era successo la notte di Natale e a quello che sarebbe ancora dovuto succedere. Deglutii a fatica, perché per quanto avessi predicato bene all’inizio di tutta quella storia, alla fine ci ero caduta con tutte le scarpe.
Relazione con il proprio collega, relazione con il proprio cliente e nessuna di queste due cose mi aveva minimamente fermata. Soprattutto la seconda.
«A… A proposito di questo,» tentai di dire, ma ci trovammo inaspettatamente sotto il portone di casa Donati.
Simone mi fissò aspettando che aprissi l’uscio per poi rifugiarci dall’umidità che ci aveva praticamente aggrediti quella notte.
Trafficai con le cose che avevo dentro la borsa, facendo più rumore di quanto avessi previsto. Ero nervosa, sia perché il discorso che volevo intraprendere era sempre lo stesso, sia perché sapevo che non avrebbe portato da nessuna parte.
«Eccole!» dissi trionfante, mostrandogli il mazzo di chiavi.
Lui mi restituì un sorriso che riuscì ad accartocciarmi il cuore come un pezzo di carta straccia. Mi afferrò la mano prima che potessi inserire la chiave nella toppa e mi fissò con quegli occhi neri.
Gli occhi di un demone.
Mia nonna mi ripeteva sempre da piccola i significati del colore negli occhi delle persone, ed ogni volta che giungeva il momento del colore “nero” lei mi metteva sempre in guardia.
 
“Mia cara, gli occhi neri sono sintomo di coraggio, di forza e di sicurezza. Essi rivelano un grande desiderio di autoaffermazione e un forte bisogno di mettersi in mostra per paura di passare inosservati. Talvolta è sintomo di durezza d’animo e di freddezza.”
 
Ed era proprio quella la descrizione che corrispondeva a Simone. Troppo impegnato a mettersi in mostra per poter lavorare davvero sulla propria personalità, troppo attento a compiacere gli altri, ad essere il migliore, a cogliere le sfide laddove si presentavano.
«Aspetta,» disse serio, fissandomi.
Non forzai la sua presa, perché dentro di me volevo sapere cosa aveva da dirmi. Ora ogni sua parola mi appariva piena di significato, quando prima tentavo in tutti i modi di non ascoltarlo. Lui che era stato la mia opportunità e adesso era la mia condanna.
Si chinò senza dire nulla e catturò le mie labbra in un bacio casto, appena accennato. Mi sorrise, forse un po’ impacciato. «Adesso possiamo entrare,» aggiunse.
Per quanto odiasse il mio continuo ciarlare e ripetere regole su regole, aveva ascoltato. Non volevo che ci fossero scambi di effusioni tra di noi dentro casa dei miei genitori, un po’ per rispetto verso di loro, e lui mi aveva baciata sulla soglia di casa.
Non aveva infranto la mia regola.
Senza pensarci due volte, mi aggrappai ai lembi del suo cappotto scuro, alzandomi in punta di piedi e cercando ancora le sue labbra. Un’ultima volta, per un bacio più profondo.
Continuavo a ripetermi di essere devota al suo corpo, alla bellezza che innegabilmente Simone aveva, come tutta la famiglia Sogno, ma per quanto queste parole continuavano a ronzarmi in testa, dentro di me sentivo che le carte stavano cambiando.
All’inizio di quella partita avevo in mano una coppia di picche. Contavo di poter bluffare, vincere la mano utilizzando l’astuzia oppure passare quando ne avrei avuta l’occasione. Ora, invece, alla coppia di picche si erano aggiunte tre carte di cuori.
Full.
 
La mattina seguente fui svegliata dal suo no sordo di qualcuno che bussava insistentemente alla porta della mia stanza. Pensai si trattasse di un incubo, così mi voltai dalla parte opposta sotterrando la testa sotto il cuscino.
Inservibile.
Il rumore si fece più intenso e martellante.
«Che diavolo vuoi!» ringhiai, e dopo nemmeno due minuti mi ritrovai Simone già vestito e pettinato nella mia stanza.
Avevo gli occhi gonfi dalla sera prima, nonostante fossi abituata a svegliarmi presto per andare a lavorare, invece il calciatore sembrava fresco e profumato come una rosa. Eppure la mattina dormiva sempre fino a tardi.
«Ancora non sei vestita?»
Guardai l’orologio digitale che segnava le 06.55. In quel momento avrei volentieri soffocato Simone con il cuscino e se fosse avanzato del tempo, avrei ucciso anche Mario, perché no.
«Sai a quante ferie ha diritto un tirocinante?» gli chiesi sbadigliando e scendendo dal letto controvoglia.
Simone arcuò il labbro e fece spallucce.
«A nessuna! Diciamo che questa breve pausa mi è stata concessa per grazia divina e tu e quel cretino di un musicista dovete togliermi delle preziose ore di sonno di bellezza per andare a lisciarvi il piumaggio!»
Sbattei la porta del bagno con forza, in modo che potesse capire quanto fossi infuriata.
«Non l’ho proposta io questa cosa,» aggiunse lui dall’altra parte dell’uscio. «E poi a te non serve il sonno di bellezza…» sussurrò malizioso.
Schiusi la porta soltanto per sorridergli. «Perché?» lo incitai.
Perché sei già bellissima così.
Perché non ti serve.
Perché ti amerei anche se passassi le notti in bianco a fare l’amore con me.
Simone mi accarezzò il viso. «Perché quelle occhiaie ti si vedranno comunque, e poi l’età avanza. Ti suggerirei di cominciare ad usare la crema anti-rughe,» sentenziò obiettivo.
Si allontanò gongolando prima che potessi lanciargli addosso tutto il contenuto del mio beauty-case.
Mi preparai in fretta e furia, indossando un paio di pantaloni da ginnastica che risalivano al mio periodo da liceale. Preferii un giubbino impermeabile alla felpa che avevo trovato nel cassetto, visto che raffigurava una Hello Kitty enorme e spaventosamente rosa.
Scesi in fretta, trovando Mario e Simone che si squadravano in silenzio.
«Buongiorno, principessa!» ridacchiò il mio migliore amico e subito l’altro “maschio” drizzò la cresta in segno di sfida.
«Vacci piano, bello,» ringhiò. «Siamo qui per correre o per chiacchierare?»
Posai una mano sul petto di Simone, cercando di frenare i suoi spiriti battaglieri. «Calma, Mario mi chiama così da quando abbiamo visto insieme “La vita è bella”,» gli spiegai.
Il calciatore parve poco convinto.
«Senza ulteriori indugi, partiamo?» propose il mio migliore amico.
Annuimmo entrambi, io un po’ meno convinta in effetti.
Quella giornata iniziò nel peggiore dei modi, e forse si concluse anche peggio. Se quello fosse stato uno dei capitoli della mia vita lo avrei intitolato Le dodici fatiche di Ven: la prima sarebbe stata “sopportare Simone e i suoi attacchi di gelosia”.
Girammo subito a destra, imboccando la piccola salita che conduceva al cimitero del paese. I due ragazzi schizzarono letteralmente in avanti, correndo l’uno di fianco all’altro e squadrandosi da capo a piedi. Nessuno di loro si voltò a sincerarsi delle mie condizioni.
Decisi di acquisire un ritmo costante, lento certo, ma costante. Altrimenti sarei spirata dopo nemmeno due metri. Visto e considerato che non facevo sport dal lontano 2011, mi meravigliai quando, passata mezz’ora, avvertivo soltanto un po’ di stanchezza.
Davanti a noi si stagliava una lunga salita irta di sassolini che rendevano la corsa più pesante e soltanto dopo averla superata avremmo svoltato sulla destra per proseguire lungo il Viale delle more. Era chiamato così perché c’erano rovi di more ovunque e verso la fine di Settembre si vedevano tutte le anziane del paese che le raccoglievano per poi farne una deliziosa marmellata.
Non potei nemmeno raccontare quell’aneddoto a Simone, perché lui e Mario avevano oltrepassato il viale continuando a correre come dei forsennati.
Rallentai un po’ il passo fissando il sole. Dovevano essere le otto e mezza ormai, a giudicare dall’altezza dell’astro e al periodo dell’anno in cui ci trovavamo.
Quelli erano piccoli trucchi che mio nonno mi aveva insegnato da piccola.
Verso la metà della salita, quando avevo ormai il fiato corto ed ero rimasta completamente sola e abbandonata a me stessa, mandai mentalmente a quel paese i due ragazzi e cominciai a camminare.
Mi presi alcuni momenti per riflettere, mentre il calore piacevole del sole mi scaldava le membra ancora intorpidite dalla corsa.
Cosa conti di fare una volta tornata a Londra?
Di tanto in tanto, nei momenti di maggior stimolo, anche il mio Cervello tornava a farsi sentire con le sue domande ben poco mirate.
Direi di ricominciare da dove ho interrotto. Ho deciso che passerò molto più tempo in ufficio e molto meno a casa, in modo da rallentare questa cosa con Simone e non destare sospetti.
Era un piano perfetto. Sapevo che una volta tornati, sarebbe anche arrivato il risultato degli esami che Simone aveva fatto prima di partire. Esami del DNA.
Davvero credi ancora di non essere completamente assuefatta?
Quella domanda mi fece trasalire.
Se il mio cervello avesse avuto un paio di occhi – e nella mia mente era vestito come Margaret Thatcher – a quest’ora li avrebbe roteati spazientito.
Sono mesi che ti ripeti questa cosa, che dici di lasciarlo, di prenderti una pausa, che sei devota unicamente al lavoro. Guarda in faccia la realtà, Venera. In fondo, io sono parte integrante del tuo corpo e so come funzioni.
Continuai a camminare, a passo più sostenuto.
L’adrenalina della corsa aveva evidentemente surriscaldato il mio cervello che non faceva altro che inviarmi immagini ben poco piacevoli. Una verità con cui dovevo fare i conti da tempo.
Perché non ne avevo parlato con Celeste? Per quale motivo continuavo a tenermi tutto dentro, nonostante ormai fosse chiaro pure ai sassi che mi stavo lentamente innamorando di Simone.
Innamorando.
Quella era una parola pressoché sconosciuta nel mio vocabolario.
Di Simone.
Quest’altra era addirittura in arabo.
Mi fermai un attimo per riprendere fiato, poggiandomi al tronco di un albero. Posai una mano all’altezza del petto, sentendo come il cuore galoppava forte battendo contro la gabbia toracica. Lì per lì pensai di avere un infarto, ma poi mi diedi della sciocca.
 
L’unico dolore del cuore dei ventenni è il mal d’amore.
 
Odiavo quando le parole di mia nonna mi ridondavano nella mente insinuandosi nelle pieghe del tessuto come dei parassiti. E odiavo ancor di più il fatto che avesse maledettamente ragione.
Altro che allontanamento, altro che separazione… ieri notte ne era stata la prova. Oltre quel corpo muscoloso e atletico c’era dell’altro, c’era un ragazzo cresciuto inseguendo un sogno a dispetto di ciò in cui credeva la sua famiglia.
Un ragazzo con un padre che non lo rispettava pienamente, che non gli dava gioie e soddisfazioni, un ragazzo che non aveva mai amato nessuno al di fuori di sé stesso.
«Venera?»
Una voce femminile mi sorprese ed io mi voltai di scatto.
Riconobbi una mia vecchia amicizia, prima di Celeste, di quando ero bambina.
«Elisa, ciao!» sorrisi, avvicinandomi alla mia coetanea che, con un bastone alla mano e un carrello nell’altra, portava la spesa a casa.
Ci salutammo e ci scambiammo i soliti convenevoli.
«Come va? Tutto bene?» mi chiese. «Ho saputo che ti sei trasferita in Inghilterra e che sei un avvocato. Complimenti!»
Arrossii, anche perché non ero abituata a sentirmi così al centro dell’attenzione. «Non sono ancora avvocato, ma faccio tirocinio in uno degli studi più importanti di Londra. Conto di diventare socia un giorno.»
Elisa mi sorrise radiosa.
Ricordavo ancora i nostri pomeriggi insieme a fingere di cucinare, di portare i bambolotti dal dottore e a rassettare case invisibili.
«Tu, invece? Che mi racconti?» le domandai, notando la spesa. «Aspetta, ti do una mano a portare almeno un sacchetto.»
«Grazie.» E me ne porse uno.
Ci incamminammo fianco al fianco risalendo il pendio per poi girare lungo il viale delle more. Elisa mi raccontò che al terzo anno dell’istituto agrario aveva incontrato Tommaso, e che dopo aver finito la scuola si erano sposati.
Lui mandava avanti l’azienda casearia del padre, allevando le bufale da latte. Lei si era sempre occupata della casa, soprattutto dei loro figli.
«Figli?» le chiesi stupita.
Elisa mi sorrise. «Ne ho tre, due maschi e una femmina.»
Il mio cervello fece rapido qualche calcolo e mi resi conto che a ventiquattro anni avere già tre figli faceva molto anni '20.
«Complimenti,» aggiunsi nervosa.
Non avrei mai voluto ammettere che forse era un po’ troppo giovane per avere già una famiglia così numerosa e lei parve intuire i miei pensieri.
«So cosa stai pensando, Ven. Ti capisco,» asserì sincera. «Tu hai fatto le tue scelte, hai preso un aereo, hai studiato, sei andata in un altro paese ad inseguire i tuoi sogni d’indipendenza e di una carriera redditizia,» snocciolò, apparendo molto più saggia della maggior parte dei laureati di Cambridge. «Anche io ho fatto la mia. Amo Tommaso e ho amato ogni singolo bagliore di vita che lui mi ha donato, compresi i bambini che sono venuti dal nostro matrimonio forse un po’ forzato dal destino.»
«Non avevo alcuna intenzione di giudicarti,» le dissi subito, per paura di averla offesa.
Elisa mi sorrise, tranquillizzandomi. «Non preoccuparti. Siamo nel 2014 ed è normale che la gente si sposi più tardi, che metta su famiglia alla soglia dei trent’anni, visto tutto il tempo che ci si impiega per laurearsi e poi cercare lavoro. Qui siamo rimasti un po’ indietro, e forse è anche un bene,» commentò.
Arrivammo al paese limitrofo, dove si trovava la casa di Elisa.
«Mi ha fatto molto piacere rivederti,» disse, prendendo l’altro sacchetto. «Spero che un giorno tornerai qui per farmi conoscere la tua famiglia.»
«S-Sicuro,» smozzicai.
Io che alla famiglia non avevo minimamente pensato.
Camminai ancora per qualche chilometro, prima di intravedere Simone che mi veniva in contro correndo. Pensai che era del tutto instancabile, nonostante fosse zuppo di sudore.
«Ehi!» mi raggiunse. «Pensavamo ti avessero rapita,» disse sorridente.
Dal modo in cui si pavoneggiava intuii che aveva vinto la corsa. «Mario?» gli chiesi.
«Ad un certo punto mi ha detto che doveva prepararsi per andare a lavoro, così ha mollato,» ridacchiò.
Lo fissai divertita. «Quindi hai vinto per abbandono?»
Simone subito mi fissò di sbieco. «Ero comunque in vantaggio,» sibilò contrariato.
Infilai le mani nelle tasche della giacca a vento. «Ciò non toglie che hai vinto per abbandono,» ripetei.
L’euforia con cui mi aveva raggiunto si era smorzata del tutto. «Possibile che tu non mi dia mai alcuna soddisfazione?» brontolò offeso.
Fu allora che un pensiero galeotto sfuggì alla mia mente sempre rigorosa.
Come sarebbe stato Simone come padre?
Lui mi restituì uno sguardo carico d’aspettativa nell’attesa che io gli dicessi qualcosa in merito al fatto che avevo smontato il suo ego. L’incontro con Elisa mi aveva turbata in un modo che non avevo previsto. L’idea di avere una famiglia non mi si era mai presentata, anche perché mi era sempre mancata una materia prima valida.
Simone non era certo l’esempio di maturità, di responsabilità, da ciò che avevo letto sul dossier stilato da James, di certo non era candidato come padre dell’anno, vista la causa con Miss Cloverfield.
Eppure per una frazione di secondo vidi me e lui davanti al fuoco, come quella famosa notte di Natale. C’era un'altra persona accanto a noi. Un bambino.
Scossi violentemente la testa e diedi colpa alla stanchezza.
Mi strinsi al braccio di Simone accerchiandolo, e cercando un contatto più profondo che mi mancava da un po’. Lui abbassò lo sguardo sorpreso.
«Per te mi sono sorbita novanta minuti di calcio, uno sport che odio. No ti basta?» gli sorrisi.
Simone cercò di trattenere una risata e si voltò addirittura dalla parte opposta pur di non farmi scorgere quel barlume di felicità che inconsapevolmente gli avevo donato.
Oh sì, quello era proprio amore.
 
***
 
I giorni passarono in fretta lì a Tivoli. Mio padre insisté per farci fare una passeggiata a cavallo nei boschi, per farci fare un’escursione nei monti lì vicino, mentre la sera eravamo sempre ospiti del gruppo di Mario.
Alla fin fine lui e Simone avevano fatto amicizia.
In paese lo avevano riconosciuto e subito era corsa la voce della presenza di uno dei calciatori d’oltreoceano in casa Donati. I bambini che incrociavano Simone per strada gli chiedevano un autografo o una firma sul loro pallone da calcio.
Si prestò perfino a farsi fare delle foto con la squadra del paese.
«Sono molto diversi dagli hooligans inglesi,» mi confessò un pomeriggio, spaparanzato sul mio letto mentre io riguardavo gli appunti del caso. «Mi ero dimenticato che aria si respirasse qui in Italia.»
«Non sei nato qui, scusa?» gli chiesi, incuriosita.
In fondo, Simone non si era mai scucito in merito alla sua infanzia. Le cose che avevo scoperto, o me le aveva raccontate Sofia oppure le avevo intuite dai loro discorsi in famiglia.
Simone mi guardò serio. «Mio fratello Gabe è nato qui, e anche io. Ma ci siamo trasferiti quasi subito, infatti Sofia è nata a Londra,» disse. «Conosco l’italiano soltanto perché mio padre lo parlava e anche quel cazzone di Leonardo. Mia madre, invece, odiava il fatto che lui ce l’avesse insegnato.»
«E perché?»
Misi da parte gli appunti e lo raggiunsi nel grande letto ad una piazza e mezza. L’idea di sapere di più sul suo passato mi faceva morire di curiosità.
Simone allargò le braccia ed io mi accucciai contro il suo petto, posando l’orecchio al centro di esso. Mi piaceva sentire la vibrazione della sua voce attraverso la stoffa del maglione blu.
«Lei è inglese di nascita e per quanto abbia amato mio padre, è cresciuta con una rigida educazione che le ha impedito di continuare ad essere sposata ad un uomo che ha lasciato il proprio lavoro, redditizio e di buon nome, per ritirarsi a fare l’agricoltore dall’altro capo del mondo. Non lo ha mai perdonato. Inoltre, non sopporta il modo “allegro” con cui gli italiani storpiano la sua lingua,» disse.
D’improvviso mi resi conto di quanto si era trattenuta quando aveva sentito il mio accento, accurato ma evidentemente non di madre lingua.
«Chissà che orribile impressione le ho fatto,» dissi mogia.
Lui prese ad accarezzarmi i capelli distrattamente. «Scherzi? Pendeva dalle tue labbra. Sofia mi ha detto che quando siamo andati via, ha continuato a tessere le tue lodi e a ripetere quanto fosse fiera che suo figlio stesse con una donna di cervello.»
Già, quando c’era stata quella riunione di famiglia tutti avevano pensato che fossi la ragazza di Simone.
E in seguito lo ero diventata davvero.
Mi voltai appena per guardarlo in faccia. I capelli un po’ più lunghi sparsi sul cuscino, la barba leggermente incolta. In quelle occasioni sembrava addirittura più grande dei suoi vent’anni e per un attimo mi crogiolavo a pensare come sarebbe stato se ci fossimo incontrati in ben altre circostanze.
«Hai mai pensato cosa sarebbe successo se non ci fossimo incontrati così?» gli chiesi, senza timore che mi ridesse in faccia.
Si portò una mano dietro la nuca per rialzarsi e guardarmi meglio. «Se tu non fossi stata il mio avvocato?» chiese.
Annuii pensierosa. «Probabilmente non mi avresti degnata di uno sguardo,» riflettei.
«Probabilmente,» constatò, ed io subito gli pizzicai il fianco per punirlo. «Ahi!»
«Colpa mia!» e sorrisi birichina.
Simone per vendicarsi mi afferrò per i polsi e mi sovrastò con il suo corpo, bloccandomi contro il materasso. I miei erano usciti per delle commissioni e la casa era silenziosa. Dovevo ammettere che il suo corpo mi era mancato, e tanto. L’averlo a così poca distanza dal mio non faceva altro che aumentarne il desiderio.
«Ma sarebbe stata solo questione di tempo,» disse, avvicinandosi lentamente.
«D-Di cosa?» arrancai, troppo eccitata.
Simone si lasciò andare completamente sul mio corpo, schiacciandomi piacevolmente con tutto il suo peso. Sì, decisamente ne avevo decisamente sentito la mancanza.
«Uhm, sono convinto che prima o poi mi sarei accorto di te. Magari al compleanno di Leonardo, oppure di qualcuno dei nostri amici in comune. Direi che mi sei rimasta impressa quattro anni fa, in positivo,» smozzicò, roco anche lui.
«Ora che ne dici se rompessimo una delle regole di questa casa?» mi sussurrò malizioso.
Intrecciai le braccia dietro il suo collo e lo tirai giù. «Battezziamo anche questa camera da letto,» ridacchiai.


Sorratemi il ritardooooo!!!
Dunque, come scusa principale dirò che sono in periodo esamoso (seh, come no!) oppure dovrei mettermi a scrivere i nuovi capitoli - anche - e vi faccio dannare per questi rimasti. SONO IMPERDONABILE!
Frustatemi se volete :3 #sadomaso.
Detto ciò, devo ancora rispondere alle recensioni degli scorsi capitoli. Praticamente su EFP non ci entro quasi mai puLLtroppo T_T
Infine, la moglie di Chicuccio ha partorito, sfornando quell'ammmmore di Milo che assomiglia tutto alla mamma (spero cambi, crescendo). Il prossimo pargolo lo sfornerà la mia wifuccia :3

Infine, ma quanto è dolce la famiglia di Ven?? *.*
Personalmente li adoro, perché sono un po' matti come la mia stessa famiglia. Devo dire che papà Donati è più fanghérl di tutte noi messe assieme e gli aggrada parecchio avere un genero così famoso!
E di Mario che mi dite?
Maaaaaaaaaaaaaaaaaarioooooooooooooo! :3
Lo amo!


Mi rimetto ai vostri giudizi!
Intanto se ve lo siete perso, qui c'è l'epilogo di Come in un Sogno, il prequel di questa :3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Capitolo 21 ***



Capitolo 21
betato da nes_sie 

Mi ero appena abituata alle lamentele di mia madre e al fatto che cucinasse per un esercito in preparazione di una battaglia, che per noi arrivò il momento di tornare a Londra. Simone quasi non volle credermi.

«Ma dobbiamo proprio?» mi chiese con il broncio.
Annuii decisa, cominciando a preparare la mia valigia. Sapevo perfettamente che dopo mi sarebbe toccato preparare anche la sua, visto che Mr. Fatichello non si sarebbe scomodato nemmeno se gli avessi messo delle braci ardenti sotto il deretano.
«Sì che dobbiamo. Forse tu non ricordi, ma io sono il tuo avvocato e dovrei guadagnarmi il posto come socio dello studio risolvendo il tuo caso di dubbia paternità. O sbaglio?» puntualizzai.
Simone abbassò la testa mogio, torturandosi le labbra con i denti.
A dirla tutta, rifugiarsi per qualche giorno a casa non era stato così terribile. Mia madre a parte, avevo rivisto Mario ed ero riuscita ad evadere un po’ da quella realtà londinese che mi soffocava.
Diciamo che James mi aveva fatto un grande regalo.
James.
Scacciai via quel nome dalla mia mente come una vespa fastidiosa. Cercavo di fuggire da quella realtà ormai da tempo, eppure più mi si ripresentava davanti e più mi comportavo da codarda. La notte di Capodanno era ancora vivida nei miei ricordi, ed anche il discorso che mi aveva fatto la madre di James.
Io non appartenevo a nessuno dei due mondi, né a quello ricco e altolocato di James, con le loro feste, i loro incontri e i loro saloni da ballo; né a quello di Simone, fatto di fama, di paparazzi e di continue fughe verso una realtà che non facesse il giro del mondo su dei giornali da qualche sterlina.
«Hai preso tutto, tesoro?»
Fu mia madre a svegliarmi da quei brutti pensieri, chiedendomi – ancora una volta – se fosse tutto a posto. Da quella stessa mattina si era chiusa in cucina per prepararci un pranzo a portar via, dato che quello sull’aereo, per sua convinzione, era poco salutare e sicuramente non appetitoso come qualcosa cucinato con otto chili di burro…
«Certo, ho quasi finito,» le risposi.
Simone era seduto sul mio letto, con le gambe che stranamente ciondolavano dal materasso. Sorrise a mia madre e lei parve quasi arrossire.
«È un vero peccato che dobbiate andare così presto…» insistette, rimanendo sulla soglia.
«Purtroppo Ven deve tornare a lavoro,» rispose il calciatore, anticipandomi. Rimasi sorpresa dal suo tono piuttosto deciso, avevo contato che mi implorasse di rimanere lì, magari facendo leva sui miei genitori.
Per quanto amasse Londra e la sua squadra, sapevo bene come ci si sentiva così lontani dalla propria casa, dai doveri e dalle responsabilità che avrebbe dovuto affrontare una volta tornati nella capitale inglese.
Mia madre annuì. «Capisco,» e si asciugò le mani sul grembiule. «Spero proprio che quest’estate abbiate qualche giorno libero per tornare. Io e il papà di Ven vi aspettiamo anche senza preavviso. Prendete il primo aereo e venite qui. Le stanze non ci mancano in questa grande casa sempre troppo vuota.»
Mi si strinse il cuore a vedere mia madre così. Le avevo sempre detto di desiderare altro nella vita, di stabilirmi in un’altra città, una metropoli, così da costruirmi una carriera degna dei miei studi, e lei non si era mai opposta a questo mio desiderio. Eppure, adesso capivo quanto lei e mio padre si sentissero soli nella magione. Essendo figlia unica, li avevo lasciati da soli per inseguire la mia carriera altrove.
Non dovresti sentirti in colpa… stai inseguendo il tuo sogno.
Sì, era vero. Ma stavo anche sbagliando, visto che frequentavo uno dei miei clienti senza alcun riserbo per l'etica professionale.
La mia vita stava diventando sempre più ingarbugliata e di certo Simone non mi aiutava a mantenere quel compito piuttosto facile. Il fatto che mi fossi invaghita di lui, era piuttosto strano, dato il mio difficile gusto in fatto di uomini.
Purtroppo Simone non era uno dei tanti, e prima facevo i conti con questa cosa, prima mi sarei messa il cuore in pace.
«Certo, verremo di sicuro,» la rassicurò Simone con un sorriso.
Mia madre tornò ai suoi impieghi canticchiando, piuttosto allegra, ed io lanciai uno sguardo eloquente a quel ragazzino dalla lingua troppo lunga.
«Che c’è?» sbottò infastidito, allungandosi sul materasso come una pelle d’orso.
Sbuffai. «Non puoi promettere una cosa che non sai mantenere…» gli dissi piccata. «Così illudi solamente le persone, ed è quello che sai fare meglio, dongiovanni.»
Simone assottigliò quei grandi e intensi occhi neri. «Non so chi sia questo Giovanni… però non sto illudendo nessuno. Sono stato davvero bene qui dai tuoi, e vorrei tornarci.»
In quel momento il mio cuore fece una dolorosa capriola in avanti e fui costretta a prendermi qualche minuto per riordinare le idee. Mancavano sei mesi a Giugno, all’estate, e alla promessa di tornare giù a Tivoli, eppure lui non si era posto minimamente il problema del “saremmo stati ancora assieme”. Aveva acconsentito, punto.
Non sapevo se prenderlo come un buon segno, una dimostrazione di impegno per il futuro, oppure semplicemente una cosa detta senza pensare.
Opterei più per la seconda…
«Mh,» commentai. «Sai già che da qui a sei mesi noi ci vedremo ancora?» gli chiesi, forse un po’ troppo bruscamente.
Avevo tirato fuori di nuovo il mio “tono da avvocato”, quello inquisitorio che in genere faceva fuggire tutte le persone che interloquivano con me. Non era colpa mia, in fondo quella professione mi calzava a pennello.
Simone mi guardò serio, stringendo le labbra in una linea dura. «Non lo so,» ammise, e quella confessione mi fece più male di quanto avessi programmato in precedenza. «Però magari farò un salto qui, giusto per salutare i tuoi genitori.»
Rimasi sorpresa, tanto che mi si smorzarono tutte le parole in bocca. Da una parte mi ero aspettata una risposta del genere, dall’altra mi ero così abituata ad averlo intorno notte e giorno che immaginarmi di nuovo nel mio mini-appartamento subaffittato mi stringeva il cuore in una morsa.
Finii di preparare la valigia senza rispondergli, ma intanto pensavo a come avrei affrontato la cosa una volta che quel caso giudiziario fosse stato risolto. Avrei lasciato l’appartamento di Simone, sarei tornata alla mia vecchia vita di prima, senza tutto quello, ai miei impegni, al mio libro del sabato sera e a quella segreteria abbandonata sul comodino.
Anche se era dura ammetterlo, la convivenza forzata con Simone aveva riempito le mie giornate da cinquantenne single prematura, sostituendo cene fredde riscaldate al microonde con pasti non troppo elaborati ma consumati in cucina, con il rumore di sottofondo della televisione e la sua voce che imprecava contro il telecronista di turno.
Eventi quotidiani che a dirla tutta mi sarebbero mancati.
«Bene, sei pronta?»
Riemersi dai miei pensieri scuotendo la testa. «Per cosa?» gli chiesi.
Simone sorrise e indicò il corridoio. «Ti aspetta un’altra bella valigia da preparare, su!» gongolò soddisfatto.
Per poco non gli lanciai una delle mie scarpe. «Non sono la tua schiava!» sibilai contrariata.
Il calciatore mi si avvicinò malizioso, gattonando sul letto. «Ammettilo che non vedi l’ora di rovistare tra le mie mutande…»
Roteai gli occhi al cielo e lasciai la stanza, cercando di sopprimere la voglia che avevo di ucciderlo.
 
I posti che ci avevano assegnato sul volo di ritorno, erano piuttosto scomodi e stretti. Anche se l’aereo era di linea, e non uno di quei voli low-cost dove avevi le ginocchia in gola, mi sentii scomoda comunque.
Avevamo salutato i miei genitori prima di pranzo, e mia madre ci aveva consegnato una valigia di manicaretti che avrebbero sfamato metà della popolazione del terzo mondo.
«Pensi che al ceck-in ce li faranno passare?» mi aveva domandato Simone dubbioso.
Io avevo guardato prima lui, poi il trolley stra-colmo di roba da mangiare. «Questa è una bomba batteriologica, altro che cibo.»
E, infatti, il poliziotto che ci controllò il bagaglio a mano rimase piuttosto perplesso riguardo al carico. Ci fece un po’ di domande e lo vidi parlottare ridacchiando con i suoi colleghi. Ovviamente mia madre non la smetteva di farmi fare figure di merda anche quando non era presente.
Continuai a muovermi senza trovare pace sul sedile del boeing.
«La finisci? Sto traballando da dieci minuti, nemmeno fossi nell’idromassaggio…» borbottò subito Simone, che poi finse di ignorarmi quando la hostess di volo giunse per assicurarsi che avessimo le cinture allacciate.
Il comandante annunciò la partenza in perfetto orario, dall’aeroporto di Fiumicino in direzione di Heatrow, Londra.
A dire al verità, ero un po’ nervosa.
Sentivo come una pressione all’altezza del petto, un peso che ero riuscita a spostare durante quei giorni di “vacanza” ma che adesso dovevo tornare a sollevare.
Si tratta di lavoro.
Oppure di James.
Magari del lavoro e di James, conclusi.
«Non avevi gli allenamenti in questi giorni?» chiesi, una volta superato il momento del “allacciare le cinture di sicurezza”.
Simone scrollò le spalle e sbocconcellò alcune noccioline. «Più o meno.»
Roteai gli occhi al cielo. Era impossibile ottenere una risposta coerente da uno come lui, eppure avrei dovuto farci l’abitudine, oramai.
«Ho sentito dire che il campionato inglese non si ferma per le vacanze,» chiarii subito.
Era un’informazione che avevo assorbito per osmosi.
Una di quelle notizie che non mi interessavano minimamente e che avrei fatto meglio a dimenticare al più presto, ma che mi era entrata nel cervello magari ascoltando una radio, oppure leggendo il giornale distrattamente.
«Mh,» risposte il calciatore, ignorandomi.
Era stranamente interessato a lanciare sguardi ammiccanti verso la hostess. Sia all’andata che al ritorno, aveva fatto lo scemo con le assistenti di volo…
E tu continui a smollargliela.
Non era mia la colpa se avevo una Iolanda dotata di vita propria!
«Almeno datti un po’ di contegno, cielo!» sbraitai inacidita, aprendo la rivista che era in dotazione nell’aereo e sbatacchiandola rumorosamente.
Eravamo tornati all’odierna routine. La fuga dalla realtà mi aveva fatto bene, dovevo ammetterlo, ma era come se avesse trasformato Simone ai miei occhi, facendolo apparire diverso dal solito. Avevo dimenticato quanto potesse essere irritante.
«La gelosia è una brutta cosa,» commentò lui, sghignazzando.
«Non sono gelosa,» precisai. «Solo dovresti evitare di fare piazzate di questo tipo. Sei pur sempre una persona famosa, dovresti dare il buon esempio.»
La cazzata del secolo.
Non me ne fregava un accidenti di cosa pensasse la gente di Simone Sogno, mi importava solamente che la smettesse di civettare con quella arpia ossigenata. Ovviamente non lo avrei ammesso nemmeno sotto corte marziale.
«Come vuoi…» tagliò corto lui. «Stasera ho voglia di frittelle, me le prepari?» chiese, di punto in bianco.
Lo fissai furente. «Sei almeno consapevole di sfidare la mia pazienza, o lo fai di proposito? Non ti cucinerò niente, né stasera, né mai. Devo lavorare, perciò conta pure su te stesso, mio caro, oppure muori di fame!» e incrociai le braccia al petto, stizzita.
Quel gesto decretava la fine della conversazione.
Simone sbuffò e tirò fuori il telefono, giocando con qualche applicazione.
Dopo un po’ lo vidi sghignazzare.
«Che c’è?» ringhiai, furiosa.
Ridacchiò, poi si lasciò scivolare lungo la poltrona, fino a che le ginocchia non toccarono il posto di fronte. Soltanto in quel modo il suo viso si trovò pericolosamente vicino al mio.
Il suo naso si fece sempre più vicino, strusciandosi dolcemente sulla mia tempia.
Non avevo la forza di guardarlo. Dovevo mantenere la “facciata” arrabbiata.
«Adoro vederti gelosa di me…» soffiò malizioso, facendomi rabbrividire.
«Ti ho detto ch-…»
«Lo so, ma adoro lo stesso questo tuo non-essere-gelosa.»
 
Riabituarsi all’andirivieni londinese non fu affatto facile i primi giorni. Premesso che ero abituata a svegliarmi più tardi delle 7.30, la mattina sembravo sempre uno zombie.
«Le chiavi!» mi avvertì Simone, prima che uscissi dimenticandomele.
«Grazie, a stasera!» gridai uscendo.
Mentre mi incamminavo verso la fermata della metro, mi venne da ripensare a ciò che gli avevo detto. Gesù, suonava così scontato.
Una frase da coppietta sposata o convivente.
Tesoro, a stasera!
Rabbrividii.
Sul lavoro andò meglio. Yuki a parte. Era sempre pronta a stuzzicarmi e a rigirare metaforicamente il dito nella piaga in qualsiasi occasione le capitasse a tiro.
Soprattutto in presenza di Mr. Abbott.
«Jamie mi ha detto che ti ha quasi costretta a tornare a casa per le vacanze. Come sei stata? Ti confesso che amo l’Italia, ma non sono mai andato…» mi sorrise l’uomo.
Arrossii, soprattutto perché James gli aveva parlato di me. In privato.
«Sono stata bene. Diciamo che ci voleva una vacanza,» risposi cordiale.
Mr. Abbott mi sorrise e mi strinse una spalla, delicatamente. «Ora sarai pronta a rimetterti in carreggiata.»
Dovevo ammettere che tutto sommato non mi dispiaceva essere tornata. Per quanto quella gita a Tivoli mi avesse fatto capire che la mia famiglia sarebbe sempre rimasta parte della mia vita, così come Mario, ormai quella era la realtà in cui vivevo.
Avevo il mio capo, il mio partner e i miei colleghi. Simpatici o meno che fossero.
«Dunque sei sparita per una settimana,» constatò Yuki.
Mi voltai fulminandola. «Vedo che sai contare.»
SDANG! Colpita e affondata.
Gli occhi a mandorla si assottigliarono ancora di più. «Ovvio. Spero soltanto che anche tu ti sia fatta due conti, perché non potrai essere una tirocinante a vita.»
Mi lasciò a rimuginare su quella sua insinuazione, riguardante soprattutto il mio futuro che era appeso ad un filo. Se non avessi risolto il caso di dubbia paternità, la possibilità di essere assunta in quello studio legale svaniva come fumo tra le dita.
Dovevo impegnarmi al massimo in quegli ultimi mesi.
«Sono felice di rivederti.»
Quello che davvero non mi aspettavo, o meglio, con cui non avevo ancora fatto i conti mentalmente, era rivedere James.
Lo stesso uomo che era diventato prima mio collega, nonché mentore, dopodiché si era instaurato una sorta di legame tra di noi, ma destinato ad assopirsi, mentre adesso ci ritrovavamo a condividere qualcosa che stava nel mezzo.
Una cosa a cui ancora stentavo a dare un nome.
«Anche io,» ammisi imbarazzata.
Jamie era forse ancora più bello di quanto ricordassi.
«Sei stata bene? I tuoi come stanno?» s’informò, cordiale come sempre. Era meraviglioso il modo in cui domandava discretamente le cose, cercando sempre di essere poco invadente.
Sorrisi spensierata. «Tutto bene. È stata una vacanza perfetta.»
Quando mi aveva dato quel biglietto d’aereo, assicurandosi che staccassi la spina per un po’, gli avevo chiesto di venire con me. Non lo avevo implorato, certo, ma lui aveva rifiutato.
Poi ero andata da Simone.
Quel pensiero mi fece tremare impercettibilmente.
«Ho provato a contattare Mr. Sogno, ma suo fratello mi ha comunicato che era partito per qualche giorno. Tu ne sai qualcosa? Spero solo non si sia messo in qualche altro guaio…» rimuginò.
Non sapevo se si trattasse di una sorta di test o meno. Mi sembrava parecchio strano che James fosse così ingenuo e non avesse pensato a farsi due conti.
Decisi che era meglio optare per la verità. «Mr. Sogno è venuto con me, a Tivoli. L’ho tenuto d’occhio tutto il tempo, non preoccuparti,» sorrisi.
Cercai di farla apparire come una gita normale e innocente, ma James rimase perplesso.
«Ti sei portata il lavoro a casa, dunque,» ironizzò, tornando apparentemente alla normalità.
Mi sentivo dannatamente in colpa, anche se non avrei dovuto esserlo.
C’era un confine netto tra ciò che io, James e Simone rappresentavamo l’uno per l’altra, in questo triangolo strano e incasinato. Nessuno di noi l'aveva messo in conto.
Anzi, tra me e James si era risolto tutto piuttosto chiaramente.
«Non pensare male…» tentai di dissuaderlo, ma Jamie mi sorrise.
«Tranquilla,» mormorò. «Mi fido di te.»
Diciamo che quella fu la stangata finale. Se qualcuno avesse dovuto sentirsi un pezzo di merda, quella era la sottoscritta.
 
La casa senza Celeste e Leonardo appariva sempre un po’ vuota. Era come se tutta l’energia che la mia migliore amica aveva impiegato per rendere quelle vacanze sempre più incasinate, fosse volata via improvvisamente, lasciando una casa anonima e vuota.
Simone era lo stesso di sempre.
«Come vanno gli allenamenti?» gli chiesi una sera, tre giorni dopo il nostro ritorno.
Lui lasciò andare il cucchiaio sorpreso. «Davvero ti interessa?»
Magari ero una persona un po’ acida, che si alterava per un nonnulla e spesso andava in escandescenze anche se non c’era un vero motivo di fondo, ma non ero mica un’arpia!
«Anche se il calcio fondamentalmente non mi interessa, questo non vuol dire che me ne debba fregare della tua giornata,» sibilai un po’ offesa.
Lo vidi sorridere. Sorridere veramente, stavolta. Senza alcuna ombra di malizia oppure di scherno.
«Bene,» commentò, riprendendo a mangiare la zuppa di fagioli. «Sebastian è convinto che qualcuno stia portando il malocchio alla squadra, e così se ne va in giro con cinque collanine al collo, vari cornetti della fortuna e si butta il sale dietro le spalle ad ogni occasione. Il mister pensa che sia esaurito, poraccio
Non potei fare a meno di sogghignare.
Avevo conosciuto il suo compagno di squadra in altre circostanze, quando ancora la storia tra me e Simone non poteva affatto definirsi tale. Non c’era nulla se non l’odio e il fastidio che provavo per lui, ancora presente dopotutto, ma affievolito da qualcos’altro.
Amore?
Che idiozia.
«E perché questo malocchio?» chiesi, senza bisogno di fingermi interessata.
Era da un po’ di tempo a quella parte che il silenzio di quella casa mi stava asfissiando, così ogni scusa era buona per fare un po’ di conversazione.
Simone finì la zuppa, tintinnando rumorosamente il cucchiaio sul fondo del piatto. «Alcuni nostri compagni si sono infortunati, poi metti anche gli errori arbitrali e le traverse che abbiamo preso… Sebastian ha subito pensato a qualcosa che ha a che fare con il karma, ma io non do peso a queste stupidaggini,» disse convinto.
In effetti, nemmeno io avevo mai dato peso al “destino”, anche se più volte mi era capitato di pensare a quante possibilità ci fossero che Simone diventasse il mio primo cliente.
Davvero poche.
«E l’avvocatuncolo?» chiese lui, di rimando.
Non capivo dove volesse arrivare. «Che vuoi sapere?»
Simone si alzò e posò il piatto nel lavello, afferrando la prima scatola di biscotti che gli capitasse sotto mano e trangugiandola, senza pensare a farmi vedere tutta la sua arcata dentaria.
«Fe fi fa ancora foffo!» borbottò.
Premesso che non erano affatto affari suoi, non avevo nulla da dire. Oltre il lavoro, io e James continuavamo a vivere un’esistenza separata. Forse ammettere di essermi portata via Simone aveva allentato maggiormente quel legame già lesionato.
«Siamo solo colleghi. Punto,» insistei, seria. «E poi non sono cose che ti riguardano.»
Mi alzai a mia volta, posando le stoviglie nel lavello e passando un po’ di sapone su una pezzuola.
Di punto in bianco avvertii le sue mani solleticarmi i fianchi e tentai di scacciarlo, con scarsi risultati ovviamente.
Il suo corpo si adagiò contro il mio, schiacciato sul lavello della cucina. Ogni sua forma combaciava perfettamente con la mia, come pezzi di un puzzle che si incastravano al primo tentativo.
Le sue dita lunghe e affusolate mi scostarono una ciocca di capelli da una parte, mentre le sue labbra si avvicinarono pericolosamente all’orecchio.
«Mi riguardano eccome,» soffiò, facendomi rabbrividire.
L’unico rumore nella stanza era lo scrosciare dell’acqua nel lavello e le mie mani completamente insaponate che non potevano muoversi senza imbrattare tutto di schiuma.
«Smettila,» lo pregai, ma con poca enfasi.
La realtà era che ormai la sua presenza non era più un fastidio. Mi ero abituata ad averlo intorno, a contatto, non mi infastidiva più il fatto che mi sfiorasse anche senza alcun secondo fine. Ed era la cosa che mi terrorizzava di più.
L’abituarsi ad una persona, era come ammetterlo nella propria quotidianità. Quando e se sarebbe andato via, la mia vita non avrebbe avuto più lo stesso sapore.
«Fino a prova contraria, stiamo insieme…» insistette, lasciando una piacevole scia di baci lungo il collo.
La pelle d’oca salì sugli avambracci, facendomi rabbrividire.
«Questo chi l’ha deciso?» lo provocai.
Alla fine nessuno di noi aveva messo dei paletti. Quello che era successo, era accaduto senza cognizione di causa, tanto perché doveva accadere. Non avevamo parlato, non avevamo deciso, non c’erano etichette nella nostra storia, se così si poteva chiamare.
Simone mi strinse i fianchi con possessione, strusciandosi piacevolmente sul mio sedere.
Potevo sentire la sua eccitazione crescere.
«Non c’è bisogno di decidere, è così e basta,» tuonò, forse un po’ troppo autoritario. Fu allora che decisi di chiudere l’acqua, asciugarmi le mani e allontanarlo.
«Sai che non è una buona idea, vero?» gli feci, mettendo una certa distanza tra di noi.
Sapevo bene che nella maggior parte dei casi, erano i nostri ormoni a parlare. Quella cosa dello “stare insieme” avrebbe funzionato a stento, tanto valeva chiarirsi prima.
Simone sbuffò sonoramente. «Con te è tutto un enorme problema, eh? Possibile che non possiamo goderci la vita e basta?»
Mi prese in contropiede questo suo accanimento. «Scusami, Mr. Padre Dell’Anno, se sono un po’ dubbiosa riguardo il tuo problema di “impegnarti”!» ringhiai furiosa.
Il calciatore mi fissò arrabbiato. Scosse la testa. «Sono stanco di provarci, basta. Tanto con te è sempre un rifiuto. Mi fai credere che ci sia una speranza, poi ti tiri indietro. Bene, allora vai da quell’avvocato da strapazzo e fatti scopare da lui invece di usarmi.»
Bene, da una conversazione tenera e amorevole si era passati alla litigata del secolo.
«James non è il tipo che pensi tu. Inoltre, io non ti ho usato! Semmai è successo il contrario, visto che dovevi tenere a bada gli ormoni,» precisai.
Lo vidi gettarsi di peso sul divano e accendere la televisione, quasi fossi trasparente.
«Molto maturo, davvero,» ringhiai.
Simone puntò quei grandi occhi neri, scuriti forse ancora di più dalla rabbia che provava nei miei confronti.
«Io non ti ho mai usata, che sia chiaro. Di te non posso dire la stessa cosa, dato che hai due piedi in una scarpa,» precisò, rigirando il dito nella piaga.
Quell’affermazione non fece altro che farmi infuriare ancora di più.
«Con te è inutile ragionare, buonanotte!» tagliai corto, fuggendo nella mia stanza.
Finalmente potevo sbattere la porta senza che orecchie indiscrete potessero giudicarci. Celeste non mi aveva detto nulla riguardo a Simone e all’impressione che le avevo fatto, ma di certo non era stupida. Persino i muri avevano capito che tra me e il calciatore c'era qualcosa.
Il problema era proprio quello: cosa c’era?
Mi stesi sul letto supina, guardando il soffitto e interrogandomi sugli eventi trascorsi. Era cominciata come una banalissima storia fatta di sesso e fin lì potevo anche starci.
Il vero problema era giunto dopo.
Avevo avuto molte scelte davanti a me, come James, la carriera, concentrarmi unicamente sul mio obiettivo di diventare socio dello studio… eppure, avevo sempre scelto Simone. In ogni singola occasione che mi era capitata a tiro, alla fine ero corsa da lui.
Non sapevo se questo si poteva tradurre in amore, o altro. Di sicuro era qualcosa che mai avevo provato prima, perché mi rendeva vulnerabile, confusa e arrabbiata più del solito. Era irritante il modo con cui Simone voleva necessariamente definirci.
A me bastava quello che eravamo, senza etichette.
Fidanzati? Amanti? Amici? Clienti? Non m’importava.
L’unico mio vero interesse, per quanto stupido fosse ammetterlo, era chiedergli ogni sera com’era andata la sua giornata. Aspettare con pazienza che arrivasse la Domenica oppure il Sabato per vederlo giocare alla televisione, anche se quando rientrava gli mentivo, dicendogli di essermi chiusa in stanza a lavorare oppure di aver visto un film scadente.
Sofia che mi telefonava quando suo fratello faceva un goal, infilandosi la mano sotto la maglia e imitando un cuore che batte, convinta che non fossi sintonizzata sul canale di Sky.
…e invece avevo esultato molto tempo prima.
Ti sei fregata, lo sai questo?
Forse sarebbe stato meglio ammetterlo a sé stessi, come primo passo. I problemi – gli altri – li avrei affrontati a tempo debito.
Mi raggomitolai su me stessa, dopo aver avvertito un brivido di freddo.
Cinque secondi dopo sentii il materasso inclinarsi da un lato e le braccia grandi e forti di Simo che cercavano di incastrarsi sui miei fianchi, attirandomi a lui.
All’inizio cercai di fare un po’ l’offesa, tanto per non dargliela vinta subito, poi però cedetti.
«Sei ancora arrabbiata per il fatto che non dovremmo stare insieme?» mi chiese, affondando il viso nell’incavo del mio collo e inspirando forte l’odore della pelle.
Ero di schiena ancora, e non mi sarei voltata per nulla al mondo. Troppo imbarazzo.
«Sai che non è per quello che mi sono arrabbiata.»
Lo sentii ridacchiare. «D’accordo, allora da oggi in poi non cercherò di etichettare quello che siamo. Ai miei amici dirò che vado a cena fuori con la mia coinquilina, che festeggerò San Valentino con l’amica della ragazza di mio cugino scemo, che faccio regolarmente sesso con il mio avvocato… quale scegli?»
La stupidità di Simone era contagiosa, così come la sua risata.
A quel punto mi voltai, perché era inutile resistere a quello sguardo da cucciolo che sicuramente aveva dipinto in faccia.
Simone allargò le braccia per farmi più spazio, stringendomi a sé. Lo guardai come se lo vedessi per la prima volta, dopo tutto quello che ci era successo.
«Non mi sei mai piaciuto, sai? Dalla prima volta che ti ho visto. Eri troppo presuntuoso, pallone gonfiato e immaturo. Tutto ciò che odiavo in un ragazzo,» cominciai, ricordando la prima volta a Londra con Celeste.
«Nemmeno tu mi sei stata simpatica,» aggiunse lui, baciandomi a tradimento. «Spocchiosa, acida e permalosa. Non sopportavo il modo in cui giudicavi la gente dall’alto in basso, solo perché eri laureata e saccente.»
In effetti, detta così non ci sarebbe proprio dovuta essere alcuna interazione tra di noi.
«Eppure…» cominciai.
«Eppure eccoci qui,» concluse Simone. «Non so cosa diavolo mi hai fatto, ma adesso ti trovo quasi sopportabile,» ridacchiò.
Gli mollai un bel pizzicotto sul braccio. «Solo quasi?»
«Ahi! Okay, okay, diciamo che sei sopportabile.» Si massaggiò la parte lesa.
Rimanemmo a fissarci per qualche minuto, incapaci di aggiungere altro. I tratti di Simone nel buio della stanza parevano ancora più elfici. La sua pelle bianca e liscia era come fatta di porcellana e cominciai a sfiorarla senza nemmeno accorgermene.
«Perché?» mi ritrovai a chiedere, scostandogli i capelli scuri dagli occhi.
«Cosa?»
Scossi la testa, sentendomi stupida. Avrei voluto chiedergli perché un calciatore di fama mondiale come Simone Sogno, che una volta risolto il caso avrebbe potuto avere ogni donna ai suoi piedi, perdeva tempo con me. Inoltre, mi odiava, lo aveva detto lui.
«Niente. Rimani qui stanotte,» gli dissi invece, sperando non insistesse sull’altro discorso.
Ero ancora troppo insicura di tutto quello per espormi, c’erano troppi “forse” che dovevano tramutarsi in certezze prima o poi.
«Va bene,» mi rispose.
Mi voltai di nuovo tra le sue braccia, dandogli la schiena. Ci incastrammo in modo quasi perfetto, infilandoci sotto la calda trapunta e chiudendo gli occhi. C’era ancora qualcosa di sbagliato che aleggiava nell’aria, come se avessi un qualche presentimento distruttivo, ma non sapevo dire cosa.
Ovviamente ancora doveva succedere il peggio.
 
***
 
«Ven, dobbiamo parlare.»
La voce di James quella mattina non era squillante come al solito, anzi. Appariva piuttosto preoccupato e mogio. Stritolai malamente i documenti che avrei dovuto fotocopiare, anche perché sentivo che c’era qualcosa che doveva dirmi.
Si trattava forse di Simone? Aveva scoperto la nostra tresca? Avrebbe detto tutto a suo zio per vendetta?
Che idee stupide.
Infatti, James era un galantuomo e sicuramente non avrebbe adottato queste bassezze per liberarsi di me. Mi avrebbe parlato, fatto ragionare e magari indotto a lasciare il lavoro di mia spontanea volontà.
«Siediti pure,» disse ed io mi preoccupai davvero.
«Cosa c’è? Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiesi nervosa, forse un po’ troppo. Le parole mi uscirono a raffica dalla bocca, senza passare prima per il cervello.
Dovevo stare molto attenta a ciò che dicevo, ne valeva la mia integrità morale.
James stiracchiò un sorriso. «Non si tratta di te, tranquilla,» mormorò, tirando fuori un plico di fogli con lo stemma di una clinica ospedaliera privata. «Dobbiamo parlare del nostro cliente.»
Ero nel panico più totale.
Forse in quei giorni post-vacanza non avevo ancora recuperato del tutto. Mi erano sfuggite parecchie cose in ufficio, forse per distrazione o perché ero sovrappensiero…
…o perché il tuo cervello era rimasto attaccato agli addominali di un calciatore.
«Ci sono novità?» chiesi, intimorita.
L’avvocato sfilò uno dei fogli, voltandolo sulla scrivania e porgendomelo. «Purtroppo non sono buone come speravo,» concluse.
Fissai il foglio pieno di segni colorati, di sbarrette con diverse colorazioni poste in due tabelle differenti. Appariva molto come uno di quei documenti visti nelle serie televisive poliziesche.
«Leggi sotto,» mi indicò.
Velocemente i miei occhi arrivarono alle indicazioni finali, ma quando lessi il cognome “Cloverfield” associato a quello di Sogno, con un segno POSITIVE MATCH vicino, mi sentii svenire.
«C-Che…» balbettai, senza capire.
James si accorse che non mi sentivo tanto bene, così si avvicinò preoccupato. «Calmati, Ven, non è niente. Prima di Capodanno ho fatto fare a Mr. Sogno il test di paternità a questa clinica di fiducia, visto che non mi fidavo dei risultati portati in aula da St. James,» spiegò con calma e chiarezza. «Diciamo che mi sarei aspettato un risultato diverso, però non è stato così.»
Tornai ad osservare il foglio col desiderio di sparire seduta stante.
Non ci voleva un biologo o un medico per capire cosa significasse quel documento. «Il…» tentai di articolare le parole, ma non volevano uscire fuori.
James mi guardo costernato. «Il bambino è suo, sì. Il test di paternità è corretto e Miss Cloverfield ha tutte le ragioni per citare in giudizio il nostro assistito. Fino a prova contraria, se non troviamo una strategia adatta per lenire al minimo i danni, lei ha tutti i diritti del caso.»
Volevo morire.
A quel punto non mi importava nulla del caso, del mio tirocinio, del fatto che avremmo risolto o meno il caso. Volevo andarmene da lì e sparire. Adesso sarebbe cambiato tutto…
«Non ci ha detto la verità…» sussurrai, più a me stessa che a James.
Lui scosse la testa. «Non puoi dirlo. Mr. Sogno ha detto di non essere sicuro di come si erano svolti gli eventi quella sera. Si è confuso, può succedere,» mormorò in sua difesa.
Cercai i suoi occhi cerulei con disperazione. «È finita,» deglutii.
L’avvocato non riusciva a capire. «Troveremo un modo, vedrai. In fondo, ci saranno sicuramente dei cavilli giudiziari a cui potremmo appellarci per limitare i danni. Non permetteremo a St. James di avere la meglio, non può costringere il nostro assistito ad adempiere ai suoi doveri verso il bambino con il matrimonio.»
Il problema era uno solo: io non stavo parlando del caso.
«D-Devo riflettere…» mormorai confusa, sentendo dei giramenti di testa troppo forti.
«Attenta!» mi disse, vedendo che barcollavo.
Caddi tra le sue braccia con la sola voglia di piangere a dirotto, ma mi trattenni. Sapevo che non era colpa di Simone, che non avrebbe mai fatto una cosa del genere e poi sostenuto il contrario soltanto per pararsi il sedere. Era evidente che ci si era messo il destino di mezzo.
Eppure non potevo pensare ad altro che a noi. A come sarebbe cambiato tutto adesso.
«Scusami, vado a fare due passi,» dissi a James, che non la smetteva di fissarmi preoccupato.
«Vuoi che ti accompagni?» mi chiese, sempre gentile.
Scossi la testa e mi avviai verso il portone.
Sentivo il bisogno di stare per conto mio, senza nessuno che mi gironzolasse attorno. Lasciai il documento incriminante sulla scrivania di James e mi diressi lungo Regent Street a passo svelto.
Avrei voluto sedermi ovunque, anche sui gradini di una tavola calda, per poi scoppiare a piangere. Era strano che mi sentissi in questo modo, in fondo avrei dovuto aspettarmelo.
Un momento volevo urlare, quello dopo ridere istericamente. Per tutto il tempo che ero stata con Simone, in quella bolla di sapone chiusa al mondo esterno, era come se avessi vissuto in una terra parallela, dove non c’erano i problemi di tutti i giorni da affrontare.
Non mi era passato minimamente per la testa che il test di paternità potesse risultare positivo. Non mi ero posta alcun problema e, di conseguenza, nemmeno nessuna soluzione.
Presi il mio Blackberry e lo fissai come si fissa il vuoto.
Continuai a camminare fino a quando non raggiunsi Hyde Park, sedendomi sulla prima panchina disponibile e osservando le persone che pattinavano sulla pista ghiacciata al centro del parco.
Faceva ancora troppo freddo.
Mi rannicchiai su me stessa cercando calore, mentre i piccioni becchettavano qua e là alla ricerca di alcune molliche di pane.
Cosa avrei fatto adesso? Come mi sarei comportata con Simone?
L’idea di tornare a casa mi metteva ansia. Sentii vibrare il telefono e notai subito che il diretto interessato mi stava chiamando.
Lo ignorai.
Il mio monolocale era ancora in sub-affitto, anche se vuoto, ma l’idea di tornarmene lì da sola era ancora più triste che dover affrontare il calciatore. Avrei potuto anche chiamare Sofia, spiegarle tutto, farmi consigliare da lei… ma non ne avevo la forza.
Un bambino.
Simone sarebbe diventato padre. Avrebbe avuto un figlio da una donna la cui gamba sinistra era lunga tanto quanto la sottoscritta.
Il mio cervello si proiettò subito in un futuro immediato, dove la mia vita con Simone prendeva una piega quotidiana, nonostante lui dovesse dividersi tra me, il suo lavoro e il figlio a cui doveva badare.
O il matrimonio dell'anno tra Simone Sogno e giraffona Cloverfield.
No, non ci sarebbe stato alcun futuro per loro due.
«Dovevo aspettarmelo…» borbottai tra me e me, incastrando la testa tra le mani.
Hai chiuso fuori i tuoi problemi per paura di doverli affrontare.
Già, non ci vuole un genio per capirlo.
Era come se avessi accantonato quei particolari scottanti in un cassetti, lo avessi chiuso a chiave e mai più aperto, fino a quando non era esploso riversando tutto il contenuto su di me, quasi come un’onda in piena.
Il telefono squillò di nuovo. Stavolta si trattava di un sms.
 
ehi! che fine hai fatto?
sto preparando una specie di torta, ma credo somigli più ad un vulcano in eruzione. mi aiuteresti?
 
ps. mi manchi.
simonator.
 
Avrei volentieri schiantato il telefono contro un albero, ma mi trattenni. Sarei davvero stata capace di dividere Simone? Di lasciarlo andare? Ne ero in grado? Anche se la causa di dubbia paternità fosse stata risolta al minimo danno, ovvero con visite stabilite e gli alimenti pagati adeguatamente, sarei davvero riuscita a digerire tutto quanto?
Come sarebbe cresciuto questo bambino, poi?
Aveva una mamma – gnocca tra l’altro – un papà (anch’esso appetibile), e la fidanzata del padre che somigliava ad uno gnomo da giardino.
Volevo morire.
 
Non appena girai la chiave nella toppa, vidi Simone che mi attendeva nel salotto con un’espressione piuttosto sconsolata.
«Che è successo?» gli chiesi, tentando di rimanere impassibile.
Lui scrollò le spalle. «Si è ammosciata.» Indicò la torta che aveva assunto una forma concava piuttosto brutta.
«Hai aperto il forno durante la cottura?» mi informai, togliendomi sciarpa e cappotto.
Simone mi fissò come se mi avesse vista per la prima volta. «Hai pianto?» chiese preoccupato.
Non seppi davvero come fece ad accorgersene, ma il mio primo istinto fu quello di mentire. «Ma cosa dici?» ridacchiai, avvicinandomi alla torta. «Si può ancora recuperare. Basta tagliarla a metà e spalmarci della cioccolata. Vedrai che è buona lo stesso.»
Simone però non si fece distrarre, anzi, mi raggiunse e mi strinse forte.
«Smettila di dire cazzate,» mi ammonì severo. «Che è successo?»
Fu allora che sentii un groppo alla gola esplodere. Tentai di fermare le lacrime, davvero, ci provai. Feci appello a tutte le mie forze, ma una riuscì a rotolare giù lungo la guancia, bagnandogli le dita.
«S-Sono arrivati i risultati del test…» smozzicai, insicura.
Non volevo farmi vedere così debole da lui, soprattutto perché significava che mi importasse davvero tanto quello che c’era tra di noi.
Furono sufficienti quelle parole per Simone, che fece soffocare i miei singhiozzi nel suo maglione.
«Mi dispiace,» disse, stringendomi forte. «Sono stato un coglione, un deficiente… se potessi tornare indietro…»
E lo allontanai da me. «Ma non puoi!» urlai, stanca.
Forse mi stavo comportando in un modo troppo infantile, ma non riuscivo a controllare i mei ormoni. «Avresti dovuto pensarci prima di scoparti qualsiasi cosa, anche quella giraffona! Un figlio, Cristo Santo!»
Simone non sapeva cosa dire. Continuava a guardarmi contrito, dispiaciuto, senza aggiungere altro che “Mi dispiace”, ripetuto come una nenia fastidiosa.
Tentò di sfiorarmi un braccio, ma io mi ritirai. «Ti prego…» mi disse, dispiaciuto.
Come avrei dovuto comportarmi a quel punto?
Lo fissai disperata. «Sai che non possiamo… non più, ormai.»
«Non dire così, smettila!» stavolta fu il suo turno di gridare. «Cazzo, non sto mica morendo! Sai quante persone convivono con una famiglia allargata?»
Lo sapevo, certo. Ovviamente si riferiva anche alla sua.
«Non è la stessa cosa,» lo fermai subito. «Abbiamo sbagliato a cominciare qualsiasi cosa questa sia, perché non doveva accadere. Ora ho capito il motivo. È arrivato il momento che tu ti prenda le tue responsabilità… per quanto sia successo ingenuamente, ormai il dado è tratto.»
«Falla finita!» ringhiò, arrabbiato. «Possibile che per ogni minima cosa ti tiri indietro? È evidente che non ti importa nulla di tenere a galla questa relazione, altrimenti avresti lottato!»
«Non dare a me la colpa per una cosa che hai fatto tu!» sbraitai. «Come dovrei sentirmi? Felice? Al settimo cielo perché il mio ragazzo avrà un figlio da un’altra?»
Stavo facendo una tragedia greca, e lo sapevo.
Ero il suo avvocato in fondo, ero sempre stata al corrente di ciò che sarebbe potuto succedere eppure, venire a patti con la realtà era stato devastante.
«Perché mi fai sentire come se ti avessi tradita?» mi accusò, con gli occhi che lentamente si arrossavano. «Non stavamo insieme quando è successo tutto questo, e non so nemmeno se stiamo insieme adesso… pensi che io sia felice di vederti così? Se potessi tornare indietro, cancellerei tutto, va bene? Rinuncerei a tutte le donne del mondo se questo servisse a farti smettere di soffrire…»
L’aveva detto quasi senza pensare, e, infatti, fu come se si rendesse conto di quello troppo tardi.
«Io…» tentò di rimediare.
Ero stata stupida ed egoista. Non avevo minimamente fatto i conti con quello che avrebbe provato Simone sapendo della notizia. La sua carriera e la sua vita sarebbero cambiate per sempre, cambiamento che io avrei subito solo in parte.
Avere un figlio era una grossa responsabilità. Enorme, direi.
Ero stata idiota a mettere al primo posto i miei bisogni, a pensare soltanto a me stessa, quando a Simone era piombata addosso una verità che lo aveva distrutto.
«Mi dispiace,» dissi, sinceramente colpita.
Invece di sostenerlo, lo avevo attaccato.
Simone sgranò gli occhi e tentò di avvicinarsi. «Non dirmi che vuoi rinunciare così presto, senza combattere…» chiese preoccupato.
Davvero volevo mollare tutto? Dopo aver quasi mandato a quel paese la mia carriera, preso in giro James, raccontato bugie persino alla mia migliore amica, avrei rinunciato a tutto quello?
Mi fiondai tra le braccia di Simone, stringendolo forte, facendogli mancare il respiro.
«Non credo di potercela fare…» ammisi.
Lui mi accarezzò i capelli dolcemente. «Shhh, vedrai che ce la faremo. In qualche modo supereremo anche questa cosa. Insieme.»
Avrei voluto piangere, ma sarebbe stato da deboli. Non era la fine del mondo, almeno. Avrei dovuto fare di tutto, impegnarmi al massimo perché a Simone fossero riconosciuti tutti i diritti sul bambino.
Alzai lo sguardo asciugandomi gli occhi. «Vuoi riconoscerlo?» gli chiesi, forse troppo direttamente.
Forse, dentro di me, speravo che rinunciasse e si lasciasse quella storia alle spalle. Un pensiero egoista, lo ammetto. Poi però, con cognizione di causa, mi sentii una stupida ad averglielo chiesto.
«Ovviamente,» mi rispose lui, sorridendo. «So che non sarò eletto padre dell’anno, ma almeno voglio provarci. Così la finisci di chiamarmi 'ragazzino',» mi rimbeccò.
Sorrisi, anche se sentivo una profonda tristezza dentro.
Sapevo che da quel giorno in avanti le cose sarebbero radicalmente cambiate. Sarebbe stato tutto diverso, per quanto ci sforzassimo di rendere la realtà quotidiana.
Ci sedemmo sul divano, ancora abbracciati.
«Lo dirai ai tuoi genitori?» gli chiesi, indagando.
Gabe non aveva voluto divulgare la notizia all’interno della famiglia, troppo preoccupato della reazione di Marco. Adesso le carte in tavola erano cambiate, forse sarebbe stato opportuno affrontare la verità.
Simone annuì, senza smettere di accarezzarmi un fianco. «Sarò io a dirlo a mio padre. Devo farlo.»
«Almeno non è la prima volta che diventa nonno…» ironizzai, pensando a Susy. Era da Natale che non sentivo quella bambina, e un po’ mi mancava.
Simone ridacchiò, poi s’incupì di nuovo. «Hai fame, preparo qualcosa?» chiese stranamente, senza ordinarmi di fare nulla.
Strizzai un occhio. «Non ti ci vedo così servizievole… non sembri più tu.»
Lui si stiracchiò come un gatto. «È arrivato il momento di crescere…» disse, come se non avesse compiuto appena ventun’anni.
«Te ne sei accorto presto…» lo presi in giro, poi lui mi tirò ancora più contro il suo corpo.
Allargò le gambe e mi fece accoccolare nel mezzo, con l’orecchio destro sul suo petto.
«Credi davvero che riuscirò ad essere un buon padre?» se ne uscì, serio.
Soppesai i diversi modi in cui ci eravamo scontrati e a quante volte gli avessi dato dell’immaturo, testone e arrogante. La verità era che ancora non lo avevo conosciuto abbastanza, mi ero basata soltanto su come appariva.
Sorrisi, disegnando cerchietti immaginari sulla sua T-shirt. «Credo che tu ci possa lavorare.»



Orsù buon pomeriggio a tutte/i!
Premetto che il ritardo nel postaggio-capitolo è dovuto al fatto che dal 22 luglio non sono tornata a Roma per niente, per cui - volente o nolente- non potevo proprio postarlo XD
Appena sono tornata, ho messo sotto torchio la mia wifuccia che mi ha betato il chap a tempo di record ed eccolo qui per voi! :3
E' un capitolo di svolta, niente più passaggi. Ora si affronta la verità dei fatti e ci si scontra con i problemi che sorgeranno dal fatto che il test di paternità è positivo. Reale. Che non si tratta più di una macchinazione, bensì della nuda e cruda verità.
Che fareste voi al posto di Venera?

Lascio questa domanda in sospeso U_U
Attendo risposta mentre rispondo, pian piano, alle recensioni... sono una marea e sono rimasta indietro T_T PEDDONO!! Cmq ce la farò, tra un impegno e l'altro :3
//marty

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22
betato da nes_sie
 
Quella mattina, in ufficio, fu un vero disastro e, da quando il risultato del test del DNA era stato reso noto anche a Mr. Abbott, io e James passavamo la maggior parte del tempo chiusi in ufficio a cercare di studiare una strategia per il processo.
«Anche se Simone è il vero padre,» esaminai i documenti. «Questo non vuol dire che Miss Cloverfield abbia certi diritti su di lui…» azzardai.
James alzò lo sguardo dai fogli.
Un paio di occhi azzurri curiosi mi squadrarono. Ancora non avevo esattamente spiegato bene la relazione che si era instaurata tra me e Simone, ma avevo il sospetto che Jamie avesse intuito qualcosa. In fondo, era un uomo estremamente intelligente e arguto.
«Ven,»  sospirò, contrito. «Per quanto possiamo arginare questo enorme danno, il Giudice non darà mai ragione a Mr. Sogno. Essere padre comporta delle responsabilità, come tu ben sai. Mr. Sogno dovrà assumersi le responsabilità delle sue azioni, pagare eventualmente gli alimenti a Miss Cloverfield ed essere presente per il bambino. Saranno stabilite delle visite, magari durante il week-end, ma il massimo che possiamo fare e tenere a bada la stampa fino alla data del processo.»
Volevo morire.
Sebbene avessi fatto capire a Simone che ero ben disposta ad aiutarlo, anche se sarebbe diventato presto un ragazzo-padre, tutto ciò ancora mi sconvolgeva. Già era difficile tenere in piedi una relazione “clandestina” tra avvocato e cliente, e ora c’era di mezzo definitivamente Elizabeth.
Cosa avevo fatto di male per immischiarmi in una situazione del genere?
Ti sei innamorata.
«Tutto bene?» mi chiese James, vedendo che scuotevo la testa come un puledro con la sua criniera.
«Certo!» risposi di fretta, per non sembrare stupida più del necessario. «Sto solo cercando di riacquistare la concentrazione…»
James allora si alzò dalla sua scrivania, e andò a sedersi sul bracciolo della mia poltroncina. Ci guardammo negli occhi per secondi che parvero interminabili, poi lui mi posò una mano sul braccio. Delicatamente.
«So quanto tu ci tenga al nostro cliente e so che tra di voi c’è un qualche legame speciale, anche se tu lo negherai,» mi fissò serio. «Purtroppo mio zio è stato abbastanza chiaro. Dobbiamo arginare i danni il più possibile, visto il risultato del test del DNA. Per cui ti pregherei di mettere da parte i sentimenti.»
Suonava molto come un rimprovero, ma lo presi con professionalità. «Hai perfettamente ragione, scusami,» dissi mortificata.
Dov’era finita la Ven che pensava soltanto al lavoro?
Simone l’ha gettata  nel water.
«In questi giorni sono stata distratta e confusa, ma prometto che da adesso in poi le cose cambieranno. Devo rimanere concentrata,» affermai.
James sorrise e mi lasciò una carezza leggera sui capelli. «Brava la mia spaghetti-girl.»
 
La data del processo era fissata per il 4 Febbraio 2013 e ci arrivò la comunicazione qualche tempo dopo, in ufficio. Yuki cominciò a starnazzare come un’oca in preda al panico, portando comunicati a destra e a manca pur di tenersi occupata.
Non era il suo caso, questo è vero, ma quello mio e di James era forse il processo più “atteso” dell’anno. La notizia non era ancora stata divulgata, ma parecchi tabloid e notiziari gossip avevano ipotizzato qualche turbamento nell’ordinaria vita sociale di Simone Sogno.
Si diceva che la stella dell’Arsenal rimanesse quasi tutto il tempo in casa, senza più farsi vedere in giro per i locali di Londra. Cercavo sempre di tenermi informata il più possibile, ma per fortuna, i giornalisti pensavano solamente ad una nuova fiamma dell’atleta che voleva rimanere nascosta al pubblico inglese.
E in parte avevano ragione.
«La lista dei testimoni è stata stilata?» urlò James dal corridoio.
Era la prima volta in assoluto che lo vedevo così agitato. Mancavano pochi giorni all'udienza, per cui il clima nello studio era totalmente caotico.
«Eccola!» gli risposi, correndo. Per fortuna in ufficio avevo sempre un paio di scarpe di ricambio, al posto del tacco dodici che ero obbligata ad indossare in qualsiasi aula di Tribunale. Sia Mr. Abbott che James non avevano trovato nulla da ridire sulle mie “ballerine da ufficio”, almeno per ora.
Da un mese a quella parte, di frequente mi ritrovavo a rincasare dopo l’ora di cena, con immenso disappunto da parte del mio coinquilino-barra-fidanzato-barra-concubino. Simone sapeva che rimanevo tutto il tempo a lavorare, ad esaminare fogli su fogli per un salario minimo, da tirocinante, eppure il suo sguardo scuro sembrava rimproverarmi.
Inoltre, erano un paio di mattine che mi svegliavo con lo stomaco in subbuglio e andavo al lavoro cercando di trattenere uno spiacevole senso di nausea.
È lo stress.
Quella sera, rincasai verso le 21.30, trovando la cena preparata da Simone che mi aspettava sul tavolo della cucina. Ovviamente fredda.
Posai le chiavi sul tavolinetto, nell’apposita ciotola, e notai un certo silenzio. Il calciatore era sdraiato sul divano, completamente esausto dagli allenamenti avuti quello stesso giorno. Addirittura non si era neppure spogliato e indossava la tuta dell’Arsenal.
A mio malgrado, sorrisi. Per quanto fosse anti-igienico che non avesse nemmeno aperto l’acqua della doccia, quella scena mi fece scaldare il cuore. Simone assomigliava sempre di più ad un eterno bambino, un ragazzo cui dovevi stare sempre dietro, come una madre amorevole col proprio figlio.
E presto anche lui avrebbe avuto un bambino di cui occuparsi.
Mi avvicinai al divano e chiusi il televisore, rimasto acceso sul canale dello sport. Accarezzai lentamente il suo viso, scostandogli delle ciocche di capelli troppo lunghe sul davanti. La vecchia Ven si sarebbe sentita una stupida rimanendo lì imbambolata a fissare un ragazzo, eppure a quella nuova piaceva…
Prima di andare a lavoro, la mattina, rimanevo a fissare Simone che dormiva nel mio letto – nostro – e alle volte finivo addirittura col fare tardi.
Se avessi vissuto in un film d’animazione della Disney, a quest’ora Tamburino mi avrebbe detto di essere rincitrullulita[1].
Simone mugugnò qualcosa nel sonno, poi di scatto aprì gli occhi e mi sorrise. Rimasi allibita da quel suo gesto, perché appena aveva aperto gli occhi e mi aveva vista, l’istinto gli aveva suggerito di sorridermi.
Sono. Fottuta.
«Buonasera, bell’addormentato…» scherzai, facendo riferimento anche all’orario, piuttosto presto per coricarsi.
Per tutta risposta, Simo si stiracchiò, diventando addirittura più alto di quanto non fosse già. «Volevo aspettarti, ma mi sono abbioccato,» ridacchiò. «Oggi il mister ci ha massacrati. Ho bisogno assolutamente di coccole!» si lagnò, allungando le braccia in una muta richiesta di stringermi accanto a lui.
Avrei sicuramente storto il naso se si fosse trattato di qualsiasi altro ragazzo, eppure Simone mi faceva un effetto completamente diverso. Quel suo essere ancora immaturo, gli conferiva un fascino che non avevo mai sperimentato prima, troppo fredda e cinica per relazionarmi con qualsiasi persona non fosse al mio stesso livello di maturità.
«Forse dovresti prima farti la doccia, non credi?» lo punzecchiai, riferendomi all’odore.
Simone tirò fuori un broncio degno di sua nipote Susy. «Dopo! Prima coccole!» e si allungò ancora, con quelle braccia che avrebbero potuto stringere due Ven.
Sbuffai.
«Va bene, ma io dovrei anche mangiare ti faccio presente.» Così mi posizionai tra le sue gambe,  accoccolata al suo petto.
Rimanemmo in silenzio, mentre Simone mi accarezzava lentamente i capelli. Avrei voluto parlare un po’ dell’imminente udienza, ma non sapevo davvero come fare per introdurre l’argomento.
«Come va lo stomaco?» mi chiese lui, interrompendo il silenzio.
Scrollai le spalle. «Per adesso, bene. Secondo me è lo stress di questi giorni in ufficio. Stanno diventando tutti pazzi, tranne Yuki che già lo era,» ridacchiai.
Anche Simone sorrise. «E l’avvocatucolo, che dice?»
Sapevo che quando si entrava in territorio “James” era pericolosa qualsiasi risposta. Ormai era pressoché evidente che Simo fosse geloso dell’avvocato, del tempo che passavamo insieme e dei precedenti che c’erano stati tra di noi. Nonostante lo avessi rassicurato più volte, visto quello che ormai sussisteva tra me e Simone, lui non demordeva.
«Nulla, stiamo impazzendo per via del 4 Febbraio…» e lì mi stavo avventurando in un terreno fragile.
Sentii Simone irrigidirsi. «È già ora, vero?» mi chiese, preoccupato.
Annuii. «L'udienza è fissato per quel giorno. Dovrai presentarti in aula, dove ci sarà anche Elizabeth e St. James.»
Lui si alzò leggermente e mi prese il viso tra le mani. «Tu ci sarai?» domandò.
Avrei voluto rassicurarlo, ma la verità era che non mi sentivo affatto sicura. Dopo l’esito del test del DNA, tutte le mie ricerche riguardo soluzioni da casi precedenti si erano rivelate solo un enorme buco nell’acqua.
«Sarò seduta appena dietro di te,» dissi, tranquilla.
Simone fece un’espressione perplessa. «Quindi dovrò affidarmi a quello lì…» mugugnò offeso.
Cercai il suo sguardo infilandomi prepotentemente nel suo campo visivo. «Ascolta, per quanto tu non lo sopporti, James è un avvocato fantastico, mentre io sono solo una tirocinante. Vuoi passare il resto della tua vita incatenato a quella giraffona?» gli chiesi.
Sembrò riflettere sulle mie parole, poi mi sorrise. «È da un po’ di tempo a questa parte, che preferisco le tartarughine…»
Mi ci vollero meno di cinque secondi per comprendere il paragone.
«Un altro soprannome? Davvero? Quanti me ne hai affibbiati da quando ci conosciamo?» sbottai, fingendomi offesa.
Simone si divertiva troppo a punzecchiarmi. «Ma sono nomignoli d’affetto, non soprannomi…» si giustificò.
«E immagino che “tartaruga” stia per il fatto che sono bassa, lenta e goffa?»
«Non è colpa mia se sei addirittura più lenta di quel tuo amico paesano…» commentò, alzandosi dal divano.
Ovviamente aveva insultato anche Mario, in modo indiretto. «Ti conviene sparire sotto la doccia, oppure ti lancio addosso le mie scarpe d’avvocato!» sibilai.
Oramai, litigare per queste quisquilie era diventata una routine che rendeva la nostra convivenza sempre interessante. Diciamo che la nostra non sarebbe mai stata una coppia di quelle che si tenevano per mano e si baciavano in ogni occasione.
Certo, il sesso c’era… forse anche troppo.
«Vieni con me?» aggiunse lui, malizioso. Ecco, per l’appunto.
«C’è la cena…» mi giustificai, tentando di non fissarlo negli occhi. Avevo scoperto che lo sguardo scuro di Simone era un afrodisiaco fin troppo efficace.
Lui mi tirò per il braccio, facendomi alzare e obbligandomi a seguirlo. «Aspetterà.»
 
***
 
Uscii dall’ufficio per la pausa pranzo, constatando che, nonostante fossero i primi di Febbraio, c’era un tiepido e piacevole sole.
«Io rimango a rivedere queste carte,» mi disse James assorto. «Tu vai pure.»
Avrei voluto chiedergli di unirsi a me per il pranzo, ma da un po’ di tempo a quella parte avevo notato che il nostro rapporto si era parecchio allentato. Tutto era andato a rotoli dalla festa di Capodanno, e da quel giorno sempre peggio.
Con James avevo un rapporto di lavoro, d’accordo, ma essere fianco a fianco con una persona che sì era gentile, ma distaccata, mi infastidiva. In fondo, la colpa era soltanto mia. Avevo voluto osare, intraprendere una relazione con lui, e poi con Simone.
Come se fosse una cosa facile.
«Okay…» mormorai, uscendo dalla Abbott&Abbott.
Subito dopo avvertii dei passi dietro di me e mi voltai. Yuki era in cima alle scalette dell’ufficio, con un sorriso fiero stampato in volto.
«E così te la intendi con un tuo cliente, eh?» sputò fuori subito, quasi come veleno dalla bocca di un serpente.
Rimasi allibita. «Come, prego?» chiesi, incredula.
La giapponese si spostò una ciocca di lunghi capelli corvini dalla spalla, con nonchalance. «Non fare la finta tonta, Vennie cara,» sibilò, con un tono sempre più accusatorio. Cominciò a scendere le scale con una lentezza estenuante, senza mai staccarmi gli occhi di dosso. «All’inizio non riuscivo a capire cosa ci fosse di diverso in te, e soprattutto tra te e Abbott Jr. Dopo un paio di conti ho capito. Non sono mica stupida, sai? Tutti questi tuoi strani comportamenti, le apparizioni di Mr. Sogno qui allo studio, senza alcun apparente motivo giudiziario… state insieme, non mentire!» urlò.
Okay, non bastava il primo appello contro St. James tra pochi giorni… ora ci si metteva anche la bomba atomica di Hiroshima.
«Non so di cosa tu stia parlando, Yuki,» tagliai corto. Avevo una pausa pranzo breve, e non avevo alcuna intenzione di passarla a difendermi dalle accuse di una pazza.
Anche se c’era del vero nelle sue parole.
Lei si mise a ridere istericamente. «Forse non ho le prove, questo è vero, ma lo so. Un avvocato non può intrattenere una relazione con un cliente. Se riesco a smascherarti, Ven, il posto alla Abbott&Abbott sarà mio. È una promessa.»
Dopo quella minaccia alla “Il Padrino”, rimasi inebetita a fissare la porta automatica richiudersi.
Yuki aveva ragione, ma non possedeva delle prove, lo aveva ammesso lei stessa. Quanto tempo le sarebbe occorso per procurarsele e farmi fuori?
Dentro di me avevo sempre saputo che con Simone stavo rischiando, mandando all’aria una carriera che era iniziata nel migliore dei modi… eppure avevo provato a separarmi da lui. Era stato tutto inutile, per cui decisi di stare molto più in guardia.
«Ven?»
Una voce femminile alle mie spalle, mi riscosse dai miei pensieri. Mi voltai e trovai il viso dolce e luminoso di Sofia, che mi sorrise.
«Qual buon vento!» ridacchiai, andandole incontro. Notai che c’era anche la moglie di Gabe con lei, Rosie si chiamava.
«Io e Rose stavamo passeggiando qui per Regent Street e casualmente ti abbiamo vista! Che coincidenza, non credi?» trillò entusiasta.
«Che ne dici di unirti a noi per pranzo?» mi propose Rose.
Annuii volentieri. «Ho giusto una mezz’ora di pausa.»
Andammo in uno di quei ristoranti fai da te, con il vassoio da riempire e alla fine c’era la cassa a cui potevi pagare il tuo pranzo. C’era parecchia confusione, ma trovammo un tavolo abbastanza tranquillo e appartato.
Scartai la mia insalata e la condii.
Sofi mi sorrise. «Allora, come va con Simo?» chiese, andando subito al dunque.
Tentai di sviare. «Il caso va per il meglio, tra due giorni abbiamo l'udienza e Simone dovrà prepararsi ad una specie di tortura psicologica,» le spiegai, sorvolando l’altro argomento.
Ovviamente la piccola Sogno era tutt’altro che stupida. «Certo, certo, ma io intendevo come va con mio fratello… a letto.»
E lì mi strozzai. Tossii e sputacchiai pezzi di insalata per dieci minuti buoni, tracannando acqua dalla bottiglietta come se fossi una naufraga.
«P-Puoi ripetere?»
A quel punto, Rosie mi venne in aiuto. «Almeno falla finire di mangiare,» sorrise.
Constatai che le donne della famiglia Sogno, che fossero consanguinee o meno, erano dotate di una furbizia contenuta  nel secondo cromosoma X. Non c’era altra spiegazione.
Mi chiesi perfino se lo possedessi anche io.
«Non c’è nulla tra me e Simone, se non sul piano professionale…» mentii. Potevo darla a bere a Yuki, forse, ma non di certo a Sofia che mi fissò come se avessi appena ammesso che il sole girava attorno alla Terra.
«E questo “nulla” sta prima o dopo l’esserci andata a letto?» rincarò la dose lei.
Ormai era del tutto inutile continuare ad insistere su quel piano. «Va bene, lo ammetto,» sbuffai. «Ma è una cosa temporanea e… strana. Insomma, è la prima volta che mi capita una cosa del genere, in più non posso nemmeno farne parola con nessuno.»
Rose e Sofia mi ascoltarono con attenzione. Con la partenza di Celeste, loro erano la cosa più vicina ad un’amica o confidente che potessi avere. Inoltre, Rosie era sposata per cui aveva una marea di consigli da poter dispensare.
Raccontai loro di come mi ero ingarbugliata in quella storia, di come avevo tentato di liberarmene senza successo e, infine, del viaggio a Tivoli. Ovviamente non menzionai particolari riguardanti nel dettaglio la nostra vita privata, ma loro parvero intuirli senza che nemmeno li nominassi.
«Quindi Simo ti ha addirittura portato dalla nonna?» chiese conferma Sofi, riferendosi all’altra anziana donna.
Annuii e presi dell'altra insalata.
Le due donne di fronte a me si guardarono, complici. È come se comunicassero tramite gli sguardi.
«Potrei essere coinvolta in questa silenziosa conversazione?» chiesi loro, sentendomi esclusa. La pausa pranzo era quasi finita, ed io avevo già ingurgitato l’insalata, il taco con le verdure, un pezzo di pizza, una bottiglietta di coca cola e stavo puntando una fetta di torta al cioccolato come un avvoltoio.
Sofia dispiegò il tovagliolo sul tavolino come se fosse un fazzoletto pregiato, stando attenta ad assottigliare ogni piega. «Questa situazione non è facile…» cominciò. Vedere Sofia Sogno senza la sua solita aria spensierata, mi mise in agitazione. «La verità è che tu e Simone avete qualcosa di speciale, sicuramente. Qualcosa che nessuno dei due si aspettava.»
Rose intervenne. «So quanto sia difficile condividere la propria vita con una persona di rilievo. Gabe alla fine è solo un manager, ma questo è sufficiente a tenerlo lontano da casa anche per una settimana intera,» spiegò.
Sofi mi strinse la mano. «Quando tutto questo sarà finito, dovrai prepararti ad una vita non facile. Io lo vedo con Ruben, e lui era già abituato con mio cugino Leonardo.»
Tutto questo… intendevano il processo.
Di punto in bianco, mi resi conto che nessuno di loro sapeva del test positivo del DNA. Né Sofi e neppure Rose erano a conoscenza del risultato, del fatto che Simone sarebbe diventato padre a soli ventuno anni.
La mia vita poteva riassumersi benissimo in una stagione di Beautiful.
«Me ne rendo conto,» risposi mogia. E non so come affrontare quello che mi aspetterà.
«Dai, su con la vita!» esultò Sofia, ritrovando il sorriso. «E festeggiamo la nostra nuova “sorella” con una mega-fetta di dolce al cioccolato. L’ho visto come lo guardavi,» ridacchiò complice.
Mi abbuffai di cioccolata, quasi fosse l’ultimo pasto, poi salutai le mie due nuove amiche e tornai in ufficio, abbastanza appesantita.
 
Il giorno del processo ero un fascio di nervi.
Mancavano circa quattro ore, ed io ero ancora chiusa in bagno a vomitare. Mi ero svegliata con il forte senso di nausea e non riuscivo più ad alzarmi dal water.
Simone mi era seduto accanto, mezzo vestito.
«Tieni, è camomilla. Vedrai che ti senti meglio,» mi disse, porgendomi una tazza.
Avevo un aspetto stravolto, eppure lui non sembrò farci caso. «Cazzo, sarò uno straccio oggi.»
«Vedrai che andrai alla grande nel supportare coso
«James,» lo corressi.
Simone storse il naso. «Sì, quello lì.» Se ne andò stizzito.
Non potei fare a meno di sorridere. Per quanto il mio aspetto fosse moribondo e avessi lo stomaco in subbuglio, mi sentivo in via di guarigione.
L’aula sarebbe stata aperta alle due del pomeriggio, ma il manipolo di avvocati si sarebbe presentato almeno con mezz’ora di anticipo. Io, James e Simo ci ritrovammo in perfetto orario, vestiti eleganti.
Mi specchiai contro la porta a vetri, notando quanto sembrassi pallida ed emaciata.
«Tutto bene?» mi domandò Jamie preoccupato, sfiorandomi il braccio.
A quel contatto, Simone scattò quasi come uno scorpione pronto a difendere la sua tana. «Sta bene,» sibilò.
La tensione e il nervosismo erano alle stelle, e non sapevo quanto avremmo retto senza dare di matto. Per fortuna, Yuki non era presente. Non credo avrei potuto sopportare anche gli sguardi inquisitori della mia collega di tirocinio.
«Il Giudice Simmons ci vuole in aula alle 13.50. Ci sarà pochissima gente, e abbiamo tentato di sviare i giornalisti. Purtroppo c’è il rischio che domani troverete il caso sulle prime pagine dei quotidiani,» ci avvertì subito James.
«Sono pronto a prendermi le mie responsabilità,» rispose Simo, dando prova di grande maturità.
James lo guardò serio. «Non so quanto questo fatto danneggerà la tua carriera, ma possiamo benissimo appellarci ad altri casi, quali quelli di Cristiano Ronaldo e Mario Balotelli, per cui puoi stare tranquillo che ciò non influirà sulla tua carriera calcistica.»
Purtroppo io avevo ben capito cosa preoccupasse realmente Simone.
La paternità non rappresentava davvero un ostacolo per la sua carriera, ma il danno psicologico sarebbe stato più rilevante. Diventare padre a ventuno anni, per l’errore di una notte… avrebbe condizionato chiunque.
Quando James si recò dal giudice per chiedere informazioni, d’istinto strinsi la mano di Simone. Fu più un gesto per rassicurare me, piuttosto che lui. Parve funzionare.
«Andrà tutto bene,» gli dissi sincera.
«Lo so,» mi sorprese lui.
Non mi era mai capitato di essere così nervosa per un processo. Sin da quando avevo iniziato a frequentare l’università, mi ero sempre sentita elettrizzata. Avrei affrontato qualsiasi difficoltà a testa alta, me l’ero sempre ripetuto, giorno dopo giorno, eppure, adesso che c’era il futuro di Simone in gioco, mi sentivo terribilmente insicura.
«Possiamo entrare,» ci disse James e fu allora che inspirai forte.
Ci dirigemmo nell’aula di tribunale senza ancora sapere cosa ci avrebbe aspettato. Vidi immediatamente Elizabeth seduta in fondo all’aula, con un vestito piuttosto ampio per nascondere la gravidanza. Accanto a lei, in un completo gessato, c’era Carl St. James.
«Benvenuti e salve,» disse cordialmente, stringendo la mano a tutti i presenti con un tono professionale.
Anche la stenografa si aggiunse, prendendo poi posto alla sua scrivania.
Il giudice chiamò entrambi gli avvocati alla sbarra. James mi fece cenno di avvicinarmi, in quanto sua partner, ed io mi emozionai ancora di più.
Trattenni a stento un altro conato di vomito.
Il Giudice Simmons era un uomo rotondetto sulla settantina, ma conservava ancora una mente brillante a quanto si diceva. I suoi occhi azzurri e vispi mi osservarono compiaciuti, poi si rivolse a Carl e Jamie.
«Bene, oggi è la prima udienza, vorrei da voi un comportamento professionale. La giuria terrà conto di entrambe le parti, dei testimoni e di tutte le prove che porterete,» spiegò. «Ho saputo che avete il risultato del test di paternità, quello che ho approvato tempo addietro.»
Entrambi gli avvocati annuirono.
Simmons assentì. «Bene, mi direte l’esito durante il processo. Vi premetto che ho vietato l’ingresso alla stampa, ma non sono del tutto sicuro che non invieranno delle “talpe”.»
«Ne sono consapevole, Vostro Onore,» affermò subito James. «Il mio cliente ha ammesso che non è un problema la stampa.»
«Anche Miss Cloverfield è d’accordo,» aggiunse St. James.
Ovvio. Quella gallina spennacchiata non aspettava altro che aggiungere una nuova stella al suo già famoso curriculum. Madre del primogenito di Simone Sogno, il calciatore più brillante del campionato inglese.
L’uomo sulla sessantina sembrò notare la mia espressione corrucciata. «Lei cos’ha da aggiungere, avvocato?» mi chiese.
Avrei voluto rispondergli che ero ancora una tirocinante, ma la vecchia Ven ebbe il sopravvento.
«Lo aggiungerò a tempo debito, Vostro Onore. Ho le mie teorie che riguardano le argomentazioni che muoverà la controparte,» mormorai, in modo altamente professionale.
Sia Simmons che Jamie rimasero sorpresi, infatti.
Tornammo al tavolo, dove Simone aveva preso posto.
Lo vedevo scostante e nervoso, nonostante mi avesse detto di stare bene. Di tanto in tanto, lanciava occhiate ad Elizabeth, la quale rispondeva unicamente con un sorriso. In apparenza, quella donna aveva tutte le ragioni per citare in giudizio Simone, per mancate responsabilità nei suoi confronti, eppure c’era qualcosa sotto.
Me lo sentivo.
Era come una sensazione sotto pelle, quasi di pericolo. Un sesto senso, ecco.
Poteva trattarsi di una semplice coincidenza, quella di trovarsi nello stesso bar frequentato da Simone Sogno e riuscire ad intrattenerlo sotto le lenzuola, rimediandoci anche un biglietto di prima classe per una fama a vita.
Ora sì che ragioni da avvocato.
Da parte mia, era piuttosto insensibile paragonare una vita ad un piano così ben architettato, purtroppo avevo avuto tempo a sufficienza per studiare casi simili. E non era la prima volta che una donna aveva fatto questo.
«L'udienza inizierà tra poco,» gli comunicò James, tranquillo. «Vedrai che passerà velocemente, anche perché bisognerà esporre i fatti d’accapo e si tratterà unicamente di un grosso e lungo riepilogo.»
«Capisco,» mugugnò, ma era ben lungi dall’essere tranquillo.
Provai a mettermi nei suoi panni, ma l’idea fu pessima. Pensare a quanto sarebbe stata difficile la sua vita una volta raggiunta la sentenza, mi faceva venire i brividi. E pensare che bastava così poco per mettere al mondo un figlio, per donare la vita, ma quell’attimo avrebbe avuto ripercussioni su tutta la nostra esistenza.
La giuria entrò poco dopo, prendendo posizione alla nostra destra.
Esaminai gli onesti cittadini di Londra, ma era difficile capirne l’indole unicamente da uno sguardo. C’era chi poteva sembrare irascibile o fortemente impressionabile, ma invece nella realtà era un pezzo di pane.
Chi, invece, era paragonabile ad una serpe in seno.
Notai che anche James li stava osservando. In fin dei conti, entrambi avevamo il gene dell’avvocato dentro di noi ed eravamo acuti osservatori. St. James, invece, sembrava totalmente sicuro di sé ed assorto nel ridacchiare insieme a Simmons, quasi fossero amici di vecchia data.
«Cos’hanno da parlottare, quei due?» chiesi al mio collega, insospettita.
James sospirò. «Simmons è un grande amico del padre di Carl Mason St. James e sicuramente staranno parlando dei tempi andati. Non sono l’unico che ha un nome importante nel mondo dell’avvocatura,» disse contrariato.
«Sì, ma a differenza sua tu cerchi di non farti strada attraverso di esso,» osservai.
James mi sorrise sincero, e non feci troppo caso allo sguardo assassino che gli lanciò Simone. Sapevo che da quel momento in poi, tra me e James sarebbe nata una profonda e bellissima collaborazione.
 
Non appena l’aula si fu riempita, il Giudice Simmons richiamò i presenti all’ordine dando l’inizio ufficiale della seduta giuridica. Mi guardai intorno alla ricerca di qualche giornalista infiltrato, magari con un telefono o un taccuino in mano.
Il problema era che tutti ormai avevano un cellulare. Chi per lavoro, chi per svago, ed era quasi impossibile capire quale di loro lo stesse usando per una funzione o per l’altra. Avrebbero potuto registrare l’intero processo a nostra insaputa e poi scriverne un dettagliato articolo.
«Avremmo dovuto richiedere la sentenza a porte chiuse,» suggerii a James, sporgendomi oltre la sbarra di legno.
Lui scosse la testa. «Ci vogliono dei permessi e delle motivazioni speciali per una cosa del genere,»
E addio alla privacy.
«Ordine in aula,» disse Simmons, indossando la parrucca e la toga richieste dalla legge inglese. «Oggi presentiamo il caso Cloverfield contro Sogno. Avvocati presenti sono Mr. Carl St. James, dello studio Covent&Finnick e Mr. James Percival Abbott, dello studio Abbott&Abbott, con la partecipazione di Miss Venera Donati.»
Era la prima volta che un giudice dicesse il mio nome e mi sentii emozionata.
Il mio primo caso, finalmente.
St. James partì subito in quarta, esponendo più o meno i fatti alla giuria che aveva giusto una sommaria infarinatura del caso. Parlò bene della sua cliente, di come fosse una modella di fama mondiale, quasi una “top”, e di come questo incidente le avrebbe condizionato la carriera.
Simone osservava silenzioso.
Strinsi forte una mano contro l’altra, per reprimere la voglia di intervenire. Chiamare “incidente” un bambino non ancora nato era un abominio, persino per una serpe come quella. Se lo reputava un ostacolo alla sua carriera, mi chiesi per quale motivo non fosse ricorsa all’aborto.
Segnatelo!
E così feci, infatti. Sarebbe stato un altro punto interrogativo da porre qualora fosse salita sul banco dei testimoni.
«Ebbene, Vostro Onore, Giuria, e persone qui presenti in aula,» concluse. «La mia cliente chiede soltanto un certo impegno da parte di Mr. Sogno, nel provvedere a lei e al bambino appena nato.»
Simmons lo interruppe. «Che genere di impegno St. James, si spieghi.»
Carl sorrise mellifluo. Quella sua espressione viscida e calcolatrice mi metteva i brividi addosso.
«Sicuramente, la mia cliente dovrà mettere da parte il lavoro per un tempo indeterminato. Avrà bisogno di denaro per il sostentamento suo e del bambino, inoltre dovrebbe esigere la presenza del padre, quantomeno tre giorni la settimana…»
«Obiezione, Vostro Onore!» intervenne subito James.
Quello era proprio fuori di testa. Come poteva pretendere tutto questo da Simone, quando quei due non avevano null’altro da spartirsi se non una notte di sesso!
Simmons lo guardò. «Accolta.»
James si sistemò meglio la cravatta. «Il mio cliente ha sicuramente delle enormi responsabilità verso Miss Cloverfield,» iniziò, stoico come sempre. «Ma ha anche una responsabilità verso i suoi datori di lavoro, in quanto deve essere disponibile quasi tutti i giorni della settimana, soprattutto i week-end per le preparazioni delle partite. Ora, posso comprendere il dolore di crescere senza un padre accanto, ma Mr. Sogno non ha chiesto questo…»
«Nemmeno io!» urlò Elizabeth, alzandosi in piedi con le lacrime agli occhi.
Subito Simmons batté il martelletto, richiamando all’ordine. «St. James, calmi la sua cliente per piacere.»
Carl andò subito da Elizabeth, tranquillizzandola. Da una parte, la sua reazione mi era parsa abbastanza realistica, eppure non riuscivo a fidarmi del tutto.
«Dunque, abbiamo ascoltato l’accusa, ora lascio lo spazio a Mr. Abbott che rappresenta la parte citata in giudizio.»
James affrontò la giuria con maturità e calma. Esplicò il punto di vista di Simone, parlando del suo lavoro, della fama, delle responsabilità nei confronti del club e tanto altro. Si riferì soprattutto alla giovane età, agli “errori” che si commettono in quegli anni e i giurati sembrarono comprendere dove fosse il nocciolo del problema.
Tuttavia, per quanto l’esposizione di Jamie fosse accurata, non era molto solida.
Il problema era soprattutto nel tempo che Simone avrebbe dovuto dedicare alla Cloverfield, che sarebbe stato necessariamente sottratto alla sua vita privata (cioè io) e a quella lavorativa (cioè la squadra).
Sarebbe stato decisivo il test del DNA, qualora fosse risultato negativo.
«Bene,» lo interruppe Simmons. «Cinque minuti di pausa, poi riprendiamo.»
Uscimmo dall’aula rifugiandoci nel fresco corridoio esterno. Simone si gettò di peso sulla panchina più vicina, allentandosi con stizza la cravatta.
«Io non voglio passare nemmeno un minuto con quella lì,» mormorò stanco.
Avrei voluto urlargli “potevi pensarci mesi fa”, ma non mi pareva il caso, almeno non in quel contesto.
«Vado a prendere un caffè, volete qualcosa?» chiese cordialmente James.
Scuotemmo la testa all’unisono. Quando il giovane avvocato svoltò l’angolo, mi lasciai sedere accanto a Simone. Non sapevo cosa dire per tranquillizzarlo, avrei soltanto potuto prepararlo al “dopo”.
«So che questa donna in qualche modo ti ha incastrato, me lo sento,» iniziai, attirando la sua attenzione. «Eppure quel test di paternità è una prova schiacciante contro cui potremmo solo patteggiare ora come ora. Per cui, anche se odi Elizabeth e quello che ti ha fatto, non puoi odiare il figlio che porta in grembo.»
Quei discorsi seri non mi si addicevano, ma dovevo fare qualcosa per risollevarlo.
«Ha comunque la metà dei tuoi geni, e gli devi un po’ del tuo tempo…»
Simone pareva poco convinto. Ne avevamo parlato in quei giorni, eppure non riusciva ancora a rientrare nell’ottica del padre.
«Ci proverò…»
James tornò con un bicchiere di caffè fumante e caldo. Lo bevve scostandosi la cravatta, senza rischio di sporcarsi. Rivedemmo insieme alcuni dati, e gli feci notare l’appunto sull’aborto. Ormai eravamo in ballo, tanto valeva ballare.
Non appena fummo di nuovo in aula, St. James ci fissò come se fossimo degli scarafaggi sul suo cammino. Scarafaggi da voler schiacciare…
Il Giudice Simmons prese posto e picchiò il martelletto. «Bene, veniamo al dunque. So per certo di aver autorizzato un test di paternità prima dell’appello, e mi è stato comunicato dell’arrivo per tempo dei risultati,» disse.
Era arrivato subito al dunque.
«Mr. Abbott, Mr. St. James, potreste illustrare alla Giuria?»
Avrei voluto avere occasione di inserire il discorso sull’aborto, ma evidentemente Simmons andava di fretta per chissà quale motivo personale.
Carl si posizionò al centro della sala con dei documenti, seguito da Jamie. «Secondo la clinica ospedaliera St. Margaret, Mr. Sogno ha il 90% di compatibilità cromosomica con il feto preso in esame. Per cui, direi che il riscontro è quantomeno lampante.»
Simmons ascoltò con cura tutta l’esposizione del genoma, anche se io ne capii la metà, e fece altrettanto la Giuria. Mi torturai le mani in grembo per tutto il tempo, senza staccare gli occhi da Simone.
James mi aveva detto del test, certo, ma sentire con le proprie orecchie come quella prova fosse inconfutabile, mi fece sprofondare nella depressione.
Come avremmo fatto a risolvere questa incresciosa situazione?
«Dunque, Signor Giudice, signori della Giuria…» concluse St. James. «Credo che ormai sia inconfutabile la paternità di Mr. Sogno e la controparte potrà concorrere in un patteggiamento sulle condizioni indette dalla mia cliente.»
Odioso!
«Obiezione, Vostro Onore. L’accusa trae conclusioni affrettate,» intervenne subito James, cercando di non farsi scavalcare. «Ammesso che quel test del DNA sia vero, cosa che non posso confermare essendo il Saint Margaret una clinica privata sul libro paga di Miss Cloverfield, ci sono da esaminare ancora molti elementi prima di giungere ad una tale e inconfutabile constatazione.»
Jamie era proprio un avvocato con i fiocchi.
St. James si sentì subito in dovere di intervenire. «Cosa vorresti insinuare, Abbott?»
Il giudice, per fortuna, anticipò una qualsiasi rissa verbale. «Silenzio in aula!» gridò, infastidito. «Mr. St. James, lasci parlare il suo collega per piacere. Ha già avuto il suo turno.»
La strategia di Jamie non era male.
Non ci avevo affatto pensato, eppure poteva funzionare. Almeno ci avrebbe fatto guadagnare tempo. I test di paternità venivano effettuati da cliniche private, con tempi più o meno brevi. Noi avremmo puntato sulla strategia del “falso” test.
Essendo il Saint Margaret una clinica di cui Elizabeth era cliente da anni, di sicuro avrebbero potuto prendere degli accordi, oppure alterare i risultati. Mi meravigliai che St. James non avesse previsto una tale possibilità.
Andava accordata una struttura previa richiesta del test, o almeno era quello che avrebbe fatto la sottoscritta.
James si prese del tempo. «Non dico che le prove presentate dall’accusa siano prive di fondamento, ma il mio cliente esige che il test venga effettuato nuovamente in una clinica scelta da entrambi, senza alcun condizionamento delle parti.»
«È una cosa inaudita!» sbottò St. James, scatenando il rumore del martelletto.
«Calma, avvocato!»
Per un momento, nell’aula si era creato il panico. Era bastata una piccola svista da parte dell’accusa, e il processo si era quasi rivoltato in nostro favore. Quasi.
Il nuovo test sarebbe risultato positivo, ne ero più che certa. Il problema era come utilizzare al meglio il tempo che il giudice ci avrebbe concesso.
«Avvocati, avvicinatevi al banco,» ordinò Simmons, piuttosto offeso.
James mi fece cenno di seguirlo. In fondo, ero stata presentata come avvocato – o assistente – e il giudice mi volle accanto a James.
«Vi prego un po’ di contegno, siamo in un’aula di tribunale.»
St. James era paonazzo. «Signor Giudice, qui si mette in dubbio la autenticità del test, ridicolizzando davanti alla corte la mia cliente. Non è possibile prendere in considerazione queste fandonie!»
«Vostro Onore…» tentò James, ma Simmons lo bloccò.
Posò quegli occhi vecchi e stanchi sulla sottoscritta. «Voglio sentire cosa ha da dire l’avvocato della parte di Mr Sogno. L’altro avvocato
Era arrivato il mio momento.
Dalla risposta che avrei dato al giudice, sarebbe dipeso gran parte del processo. Avrei potuto appellarmi sicuramente alla poca veridicità di un test fatto in una clinica privata, magari convenzionata dalla stessa famiglia Cloverfield.
Eppure continuava a lampeggiarmi in testa il problema “aborto”.
«Vostro Onore,» tentai, arrancando. Sentii gli occhi di James posarsi su di me e tentai di riacquistare sicurezza. «Non ho potuto fare a meno di notare l’enfasi con cui Miss Cloverfield ha sostenuto che il mio cliente non le avesse dato alcuna scelta per quanto riguardasse la gravidanza. Comprendo perfettamente cosa voglia dire sacrificare la propria carriera per un figlio, eppure mi sono chiesta per quale motivo non sia ricorsa a metodi… drastici.»
Era un azzardo.
Non sapevo se Simmons fosse cattolico o meno, se credesse in qualche modo ai valori della Chiesa. Parlare di aborto era forse come camminare su una sottile lastra di ghiaccio, col rischio di spezzarsi da un momento all’altro.
Simmons sembrò soppesare attentamente le mie parole. «Avvocato Donati,» mormorò, assottigliando le labbra. Era giunto il momento della verità. «Credo che sarebbe più appropriato tenere questo dettaglio per sé, e magari aggiungerlo ad un’eventuale arringa.»
In seguito puntò il suo sguardo su St. James. «Lei dovrebbe stare più attento ai particolari e a gestire la sua cliente. La seduta è stata rinviata alla prossima udienza. La data vi verrà comunicata a breve.»
E sbatté il martelletto.
Quei tre forti suoni sul legno, furono come un canto di libertà.
 
Ci ritrovammo quella sera stessa ad un pub, per “festeggiare”.
Simone aveva insistito per portarci fuori, compreso James. Il colpo fu talmente duro da digerire, che per sicurezza glielo chiesi quattro volte.
Sei sicuro?
Sì.
Ma sicuro sicuro?
Ven, smettila.
E così bevemmo da classici boccali di birra londinesi, facendoci caldo l’un l’altro stipati in uno stretto spazietto.
«A Ven, che ha saputo guardare nel dettaglio!» intonò James.
Subito Simone gli andò dietro. «A lei che mi ha salvato il culo, un’altra volta.»
Mi sentii in dovere di aggiungere “per poco”, visto che comunque si trattava di un rinvio ad un altro appello successivo. Ci aveva dato più tempo, tutto qui.
Una volta che Simo avesse fatto nuovamente il test, avremmo ricominciato tutto d’accapo.
Difatti, il buonumore calò quasi subito.
«Credo che alla fine mi converrebbe accettare subito il patteggiamento, senza farvi sprecare tempo,» mormorò Simone, sconfitto.
James sospirò. «Per quanto voglia ottenere la vittoria di questo caso, debbo arrendermi all’evidenza. Il test potrebbe anche essere contraffatto, ma se risultasse positivo di nuovo, rischieremmo credibilità.»
Come potevo spiegare loro che quella Elizabeth non me la raccontava giusta? A pelle, diciamo?
«Sarà… ma io sono fissata con questa storia dell’aborto. Se fossi nei panni di una modella famosa, che lavora con il corpo, e trovassi i “risultati” di una notte brava… non ci penserei due volte a fare una visita ospedaliera.»
I due ragazzi alzarono lo sguardo incuriositi.
«Non tutti reagiamo allo stesso modo, Ven,» spiegò James. «Per quanto tu possa immedesimarti, se non ti trovi nella stessa, identica situazione, non potrai mai sapere come reagire. Certo, dalla tua parte c’è stata la reazione della Cloverfield…»
«Almeno il giudice ha rinviato,» aggiunse Simone.
… già, ma non sapevamo se questo fosse un bene oppure un male.


*ATTENTION*
Mi scuso profondamente per questo ritardo. Diciamo che prima avevo molti capitoli già pronti, per cui postavo con più frequenza, mentre ora li ho finiti *sob* e devo iniziare a scrivere i capitoli, sperando di trovare un po' di ispirazione/tempo tra tutto quello che debbo fare. E' l'ultimo anno di università, ho un po' di casini per le mani e sto quasi sempre là. In più debbo studiare.. e_e (compatitemi!)
Cercherò di aggiornare prima, e di scrivere il più velocemente possibile. La storia nella mia testa è praticamente conclusa, l'unico problema è trasporla su carta ah.ah.ah.
Chi mi fa da scribacchina? XD
Bene, spero mi perdoniate nonostante io sia una persona orribile v_v
In qualche modo riuscirò a concluderla così come ho concluso CIUS *pugno in alto nel cielo* ISPIRAZIONE AMMéé!
Ringrazio tutti i fans che mi supportano nel gruppo e le mie amate Crudelie che ogni giorno mi ricordano che dovrei anche scrivere, oltre che cazzeggiare all day!

Mi raccomando iscrivetevi in tante e soprattutto non abbandonate Simo :3
#campagnacontrol'abbandonodiSimonuccio**
//marty

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Capitolo 23 ***


Direi di iniziare con un "Nelle puntate precedenti di ILWY" oppure ''Previously on ILWY" perché è passato un bel po' di tempo da quando ho lasciato l'ultimo capitolo in sospeso.
Rimando il resto delle note a fine capitolo, comunque riassumiamo ciò che è successo:
C'è stata l'udienza preliminare per il caso di dubbia paternità Cloverfield - Sogno, e il giudice Simmons lo ha rinviato grazie a Ven, la quale ha avuto la brillante idea di far notare le vacillanti motivazioni di Elizabeth nel ricorrere all'aborto, visto che per lei questo bambino sarebbe stato un grande impegno per la carriera.
Venera e Simone continuano a frequentarsi, nonostante la quasi-sicura paternità del calciatore. Jamie si è fatto da parte e per ora continua a rimanere accanto a Ven, come mentore e collega. Insieme intendono scagionare il nome della famiglia Sogno, senza far trapelare nulla ai giornali inglesi.

Diciamo che più o meno è tutto, almeno la parte rilevante.
A dopo! :3


CAPITOLO 22
betato da nes_sie

La mattina era sempre piacevole svegliarsi nel tepore di una bella giornata di riposo. La domenica era un giorno sacro per la sottoscritta, anche se ultimamente ne passavo la maggior parte china sulle scartoffie, lavorando al caso. Il rinvio a giudizio indetto da Simmons era solo un colpo di fortuna, una soluzione temporanea, ma James era stato chiaro sin dall’inizio: bisognava rimboccarsi le maniche in qualche modo. Mi alzai dal letto infilandomi pantofole e vestaglia. Rimasi sorpresa non trovando Simone che dormiva al mio fianco e, devo ammettere, ne fui anche un po’ delusa. Oramai era nostra abitudine svegliarci assieme, darci il primo “buongiorno” della giornata. Allungai la mano nella sua metà del letto e la trovai fredda.
Forse dovrei abituarmi, mi dissi. L’idea che Simone potesse allontanarsi dalla mia vita cominciava lentamente a farsi spazio nella mia testa. Un figlio – riconosciuto o meno – gli avrebbe totalmente stravolto la vita.
Lasciai la stanza da letto ma avvertii subito un forte giramento di testa, quasi come un mancamento. Respirai e stabilizzai l’equilibrio, pensando subito ad un aumento di temperatura. Cercai il termometro e mi diressi in cucina, scansando l’idea di potermi ammalare. Non potevo concedermi quel lusso, non in quel periodo così delicato. Sia James che Mr. Abbott contavano sulla sottoscritta e dovevo rimboccarmi le maniche fin oltre le spalle per venire fuori da quella situazione ingarbugliata. Mi diressi in cucina, accompagnata dal piacevole odore di caffè che si avvertiva in tutta la stanza. C’erano anche numerosi biscotti disposti sul tavolo, come se fossero lì a darmi la dolce accoglienza che era mancata. Notai infine anche un biglietto, scritto di fretta. Era quasi impossibile evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso quando vedevo la calligrafia infantile ed essenziale di Simone:

sono uscito prima per andare agli allenamenti.
il mister ci ha convocati per la partita di questo pomeriggio. ti ho lasciato i biglietti sotto la tazza per la colazione.
spero ci sarai :)
 
Se non fossi stata un completo fascio di nervi da quando mi ero alzata, sempre a causa di quella giraffona rinsecchita della Cloverfield, mi sarei perfino emozionata per quella premura. Era da un po’ di tempo che mi sentivo piuttosto strana, quasi meno… acida.
Non ero abituata, poi, a ricevere tutte quelle attenzioni, ad essere parte di un “qualcosa” che andava oltre un caffè freddo consumato sui sedili della Tube. Mi ero persino dimenticata come ci si sentisse a vivere da soli, nonostante fossero passati solo quattro mesi o poco più da quando avevo abbandonato il mio monolocale.
Scaldai un po’ di latte nel microonde, mentre misuravo la temperatura corporea. L’idea di prenotare una visita di routine dal dottor Ross mi solleticò la mente. Il mal di stomaco giornaliero e quei capogiri improvvisi non presagivano nulla di buono. Magari un controllo preventivo sarebbe stato utile, il dottore avrebbe potuto prescrivermi qualche tisana o rimedio naturale contro lo stress.
Tolsi il termometro e notai con sollievo che si trattava soltanto di una normale alterazione, niente di più. Accesi il telefono cellulare, controllando subito la posta elettronica e i vari SMS. Uno in particolare attirò la mia attenzione: James mi comunicava che la clinica pubblica St. Charles Bradbury aveva accettato la sua richiesta per il test di paternità. Era sarebbe bastato solamente fissare un appuntamento e attendere i risultati.
Rabbrividii fissando quel semplice messaggio lampeggiare sul display, perché per la sottoscritta aveva una quantità infinita di significati.
Sorseggiai il caffè-latte ricordandomi solo in quel momento dei biglietti per lo stadio. Spero ci sarai :) aveva scritto e l’idea di passare l’intero pomeriggio a rileggere deposizioni su deposizioni mi sembrò abbastanza stupido e banale. In fondo, cosa avrei potuto trovare che già non avessi esaminato minuziosamente?
D’improvviso mi saltò alla mente l’idea di chiamare James. Non era geniale come mossa, visti i nostri trascorsi sentimentali e i successivi attriti con Simone, ma avevo il bisogno di sentire e vedere qualcuno che subiva le mie stesse condizioni di stress.
Composi il numero e lasciai squillare.
Era una di quelle domeniche uggiose, quando le nuvole grigie si trovavano sospese tra l’arrivo di un nubifragio e una schiarita. Era una giornata tipo londinese, per cui non mi sentii nemmeno in colpa a sottrarre l’avvocato da qualche impegno mondano di maggior rilievo.
Potrebbe essere a casa con un’amica… suggerì arguto il mio subconscio.
«Pronto?»
Mi riscossi immediatamente dai miei pensieri. Assorta com’ero nelle mie riflessioni, non avevo nemmeno fatto caso agli squilli del telefono. «Buongiorno!» esultai. Che ore erano? Lo avevo svegliato, per caso? Possibile che nemmeno mi era passato per la mente che potesse dormire fino a tardi la domenica mattina? «Ti ho svegliato?» chiesi mortificata.
Dall’altro capo del telefono giunse un sorriso sbuffato. «Be tranquil, spaghetti-girl!» rise, facendomi tirare un sospiro di sollievo. «Ero già in piedi a rivedere alcune cose. Hai letto il messaggio del St. Charles?»
Risposi affermativamente ma non c’era alcuna nota allegra nella mia voce. James prontamente se ne accorse, anche senza guardarmi negli occhi. «Vedrai che da qualche parte c’è una soluzione, anche se ben nascosta,» mormorò, tranquillizzandomi, poi decise di cambiare discorso: «come mai questa telefonata?»
In poche parole gli spiegai che Simone mi aveva lasciato due biglietti per la partita di quel pomeriggio e implicitamente gli chiesi se fosse o meno opportuno andarci insieme – da amici, si intende.
«Cara Ven, ti confesso un piccolo segreto,» mormorò. Non avevo alcun secondo fine, lo ammetto, ma la paura che James potesse equivocare la nostra situazione cominciò a farsi strada dentro di me.
«Q-Quale?»
«Anche se l’Arsenal non è la mia squadra del cuore, penso comunque di accettare il tuo invito!» disse eccitato. Sorrisi perché, nonostante tutto, era riuscito a farmi dimenticare i miei problemi con un semplice gesto gentile.
«Ti passo a prendere verso le 14.30, così abbiamo tutto il tempo di raggiungere lo stadio, che ne dici?» mi propose, svelto.
«D’accordo, perfetto!» acconsentii.
Prima di chiudere la chiamata, aggiunse: «Comunque grazie di aver pensato a me per l’invito.»
E in quell’istante non trovai altre parole da dirgli se non un “Prego” stiracchiato e pronunciato a labbra socchiuse.
 
***
 
Segnai sull’agenda l’appuntamento dal medico, che avevo prenotato per quello stesso lunedì. La segretaria del dottor Ross era parsa piuttosto infastidita dalla mia telefonata domenicale, soprattutto perché non si trattava di un’emergenza, ma poco importava. Sentivo che c’era qualcosa di diverso nel mio fisico, come se non fossi al cento per cento delle mie facoltà, e sperai con tutta me stessa di non aver contratto qualche virus stagionale.
Ci mancava solo l’influenza a completare quel quadro di sfiga colossale.
Simone mi telefonò verso metà mattina, chiedendomi come stavo e se avessi intenzione di raggiungerlo allo stadio il pomeriggio per vederlo giocare. La sua premura per le mie condizioni di salute mi fece un po’ arrossire, soprattutto perché la nostra “relazione” alternava momenti di tenera vita di coppia – come quelli – a litigate furiose per le più grandi sciocchezze.
«Con chi vieni?» mi domandò, sul finale della telefonata.
Temporeggiai, pensando se fosse o meno il caso di dirgli che sarei andata con James. Sinceramente pensai ci fossero fin troppe bugie che vorticavano attorno alla mia vita, per cui preferii essere sincera. «James mi passa a prendere dopo pranzo.»
Come avevo immaginato, dall’altro capo del telefono ci fu silenzio. «Simo? Ci sei?» chiesi, pensando mi avesse appena riappeso in faccia. Giurai a me stessa che nel caso lo avesse fatto davvero, quella sarebbe stata la volta buona che gli avrei impedito di diventare padre per il resto della sua esistenza.
«Mhm, bene. Vi ho messi vicino a Sofia e Ruben, spero non vi dispiaccia,» mugugnò.
Se dovevo essere estremamente sincera, il saperlo geloso di James non mi disturbava affatto. Significava ci tenesse alla sottoscritta e al nostro “qualcosa”, privo ancora di una definizione. D’altra parte, però, mi dispiaceva arrecargli ulteriori preoccupazioni. Già aveva abbastanza pensieri suoi per la testa con tutta quella storia della paternità.
«Tranquillo, l’ho invitato anche perché ci hanno appena confermato il test all’ospedale St. Charles e volevo discuterne bene a quattr’occhi. Due piccioni con una fava,» dissi.
Lo sentii sospirare pesantemente dall’altro capo del telefono. «Okay, scusami ma ora devo andare. Il mister ci chiama.»
Nessuno ci fornisce le istruzioni per vivere una vita di coppia, per essere genitori o per affrontare al meglio un nuovo lavoro. Non è come leggere una ricetta, dove ti vengono fornite le dosi e ti basta seguire il procedimento per dar vita ad una vera delizia, un capolavoro per il palato. A me nessuno aveva detto come si gestisse una relazione e le mie mancate esperienze contribuivano a farmi annaspare nell’acqua sempre più alta.
Conciliare vita private e lavoro non era facile, soprattutto se bisognava lottare con le unghie e con i denti per un salario minimo in attesa di una qualche risposta da parte dei piani alti.
Sospirai, posando il Blackberry.
Lavai i piatti nel lavello e decisi di mettermi un po’ a lavoro, riordinando le scartoffie che popolavano il salotto di casa Sogno. Accesi il portatile e lo posai in grembo, decisa a rileggere una serie di vecchi articoli e casi passati che presentavano più o meno le stesse situazioni giuridiche.
Lo schermo LCD mandava una piacevole luce azzurrina, mentre i fogli cominciavano ad accumularsi sul divano e sul tavolinetto da caffè. Passai l’intera mattinata a leggere. Appuntai tutto il necessario su un block-notes giallo limone, riempiendolo di notizie apparentemente interessanti, ma rileggendo in ultimo le mie scoperte non avevo racimolato granché.
Lessi di una giovane donna e della sua relazione con un musicista. Lui non aveva riconosciuto il bambino nato da questo amore per cui erano finiti in tribunale. L’idea di un simile suggerimento mi pietrificò. Anche se poteva essere una strategia utile e dal punto di vista legale sarebbe stato lecito, sapevo che Simone non era codardo a tal punto da tirarsi indietro.
Era un puro atto di codardia.
Scartai a priori quella soluzione e passai avanti. Di figli indesiderati ne era pieno il mondo – a dimostrazione che a farli ci voleva davvero poco, poi il resto era tutt’altra storia – e internet straripava di casi analoghi. Filtrai la ricerca come meglio potevo, rifacendomi ai suggerimenti del professor Richardson: “limitatevi ad una sola parola chiave a cui ricondurre il nocciolo della vostra indagine, solo così potrete focalizzare l’attenzione sul colore, ignorando le sfumature.”
E constatai per l’appunto che il fulcro del caso era proprio in quel test del DNA.
L’unica e vera prova inconfutabile su cui faceva perno l’accusa era la convinzione che Simone fosse il padre del bambino, e fino ad ora avevano avuto loro le redini del caso. Indagai se ci fosse un modo per contraffarli e il metodo più accreditato era quello dello scambio di provette prima dell’analisi. Certo, sarebbe stata necessaria una collaborazione dall’interno e fornire una prova falsa in tribunale era un reato gravissimo.
Cercai di mettere da parte questo sospetto. Ammettendo che il test fosse vero, non c’era alcun modo di contraffarlo artificialmente, perché era quasi impossibile far combaciare gli alleli di entrambi i genitori, fornendo un campione falso.
Enorme buco nell’acqua, mi ripetei.
Alla seconda tazza di caffè della mattinata, decisi di cambiare metodo di ricerca. Afferrai la cartella con alcuni dei vecchi casi presi in esame dalla Abbott&Abbott e li riguardai uno alla volta, anche quelli che avevo precedentemente messo da parte. Alcuni erano addirittura stati archiviati da August in persona e mi sentii in soggezione a “spiare” il suo modus operandi.
Trovai un esempio piuttosto curioso, ma non ebbi tempo di esaminarlo a fondo perché non mi ero minimamente accorta di che ore fossero. Non avevo nemmeno pranzato ed ero vestita per metà.
Cucinai qualcosa al volo, finendomi di vestire mentre ancora trangugiavo una fetta di pane tostato con la marmellata. Entrai in camera di Simone come una furia – ormai era la camera in cui mi costringeva a dormire ogni notte, ma mi faceva strano chiamarla “mia” – e arraffai la prima cosa dell’Arsenal che mi capitò a tiro.
Presi una delle sue magliette, probabilmente una del set con cui faceva gli allenamenti, che sembrava più piccola delle altre, e la indossai sopra il maglioncino rimanendo piacevolmente sorpresa dall’odore che sprigionò sulla mia pelle. Rimasi ferma a crogiolarmi nel suo profumo quando il telefono iniziò a squillare. Riattivai in pochi secondi le mie facoltà mentali e capii che effettivamente ero in ritardo.
Afferrai chiavi e borsa, senza realmente guardare ciò che c’era dentro, ma riuscii prontamente ad afferrare il fascicolo da sottoporre all’attenzione di James. Avrei approfittato della sua presenza per parlargli e chiedergli consiglio, perché ogni attimo era prezioso a quel punto del caso. Il successo o meno di quella sentenza non valeva soltanto più il mio posto alla Abbott&Abbott, ma molto di più. Significava la libertà di Simone e la speranza di costruire qualcosa che non partisse già con il freno a mano tirato.
Scesi di corsa le scale caracollando come una forsennata, tant’è che il portiere tentennò a darmi il buongiorno, impaurito da una mia possibile reazione. James mi aspettava al portone d’ingresso, stranamente abbigliato in modo molto casual per i suoi standard. Il cappotto di tweed era stato sostituito da una giacca a vento sportiva e al posto del completo gessato, portava un paio di jeans che gli fasciavano le gambe nei punti giusti.
E che punti… intervenne Cervello.
Taci o è la volta buona che mi ubriaco fino a spappolarti!
A completare quell’outfit casual, c’era l’immancabile sciarpa bianca e rossa dell’Arsenal.
«Sono in ritardo?» chiesi, pronta a scusarmi.
Lui mi sorrise raggiante. «No, sono in anticipo. Ho fatto presto per assicurarmi di non essere in ritardo, pensa te,» ridacchiò. «Sono stato invitato e non è cosa buona presentarsi ad un orario non consono per un appuntamento.»
Alla parola “appuntamento” sbiancai leggermente, ma dall’espressione tranquilla dell’avvocato era più che evidente quale fosse il vero significato di quella parola. C’erano stati dei trascorsi, questo è vero, però avevo tutta l’intenzione di recuperare la nostra amicizia.
«I biglietti ci sono, le chiavi le ho prese, il telefono c’è…» elencai, facendo mente locale e constatando di aver preso almeno le cose essenziali per tornare a casa. «Direi che possiamo anche andare!»
«Forza Gunners!» esultò lui, prendendomi sottobraccio e uscendo dal portone.
 
***
 
Una delle più grandi comodità di Londra era proprio la Tube. Le linee coprivano molte zone della città, compresa la periferia. La Black Line, ad esempio, raggiungeva persino la zona di Greenwich e l’osservatorio, disposti fuori la City.
L’Emirates si trovava lungo la Piccadilly Line, in direzione nord. Bastava scendere alla fermata “Hollywood Road”, fare una decida di passi a piedi e trovarsi subito l’ingresso davanti agli occhi. Prendere la macchina non era un crimine per i cittadini inglesi, ma sia io che James eravamo più che propensi ad usufruire della Oyster Card. Inoltre, sul treno diretto allo stadio già si percepiva l’aria festaiola degli hooligans.
Il nostro primo incontro, poi, non avrei potuto dimenticarlo. Il mio primo giorno di tirocinio e ci eravamo incontrati nello stesso vagone diretto a Oxford Street, quasi fosse un segno del destino.
«Cos’hai in quella cartella?» mi domandò curioso, riscuotendomi dai ricordi. Il vagone si muoveva a tutta velocità, con i tifosi che inneggiavano già i cori della loro squadra. La voce metallica che annunciava le fermate si riusciva a percepire a mala pena.
Cercai di superare il frastuono avvicinandomi. «Ho trovato una cosa interessante frugando tra i casi di tuo zio August,» dissi gongolando. «Mi ci sono messa d’impegno stamattina.»
James spalancò i grandi e luminosi occhi azzurri. «Dimmi, sono tutto orecchi!»
Utilizzai quei quindici minuti di viaggio per esporgli brevemente le mie scoperte: in pratica, diversi anni addietro scoppiò uno scandalo a Cambridge, quando un noto professore – giovane e dal futuro promettente – un certo Gary Chauser che scoprì di essere stato citato in giudizio da una sua studentessa.
«Il professor Chauser aveva da poco ottenuto la cattedra di Lettere antiche, uno di quei concorsi del ’98 che permisero a molti giovani promettenti di rimanere tra le mura dell’università e insegnare, ma questa ragazza – Sally Clarckson – a fine semestre mise in giro la voce che l’aitante professore, oltre ad averle dato la lode nel suo corso di studi, le aveva anche “lasciato” qualcos’altro.»
James era immobile, attento anche al più piccolo particolare. «Mi domando come mi sia potuto sfuggire un’analogia del genere. All’epoca fu abbastanza seguito dai media.»
Annuii convinta. «Tuo zio ottenne subito il caso e si incaricò della difesa del professor Chauser, il quale rischiava di perdere la cattedra appena ottenuta e, più importante, di vedere la sua reputazione completamente infangata.»
L’altoparlante annunciò la nostra fermata, così mi alzai e mi diressi alle porte automatiche.
«E come andò a finire?» domando l’avvocato, completamente a corto di memoria.
Sorrisi perché la peculiarità di quel caso stava proprio nella sua soluzione. Mi ero presa la briga di indagare soltanto sui casi risolti, sperando in qualche illuminazione da parte di qualcuno che prima di me aveva avuto più fortuna, invece non avevo ampliato i miei orizzonti.
Stavolta ho dato importanza alle sfumature, professor Richardson.
«Tuo zio non ha mai risolto questo caso, ha perso la causa,» ammisi, con un po’ di rammarico. «Fu una delle rare volte in cui lo studio dovette farsi carico delle proprie responsabilità e arginare il più possibile i danni. Si scoprì che il professore aveva avuto davvero una relazione clandestina con quella studentessa, dunque finì col perdere tutto ciò per cui aveva lavorato sodo.»
Scendemmo dal vagone e ci dirigemmo ai tornelli, inserendo nuovamente la tessera.
James mi guardava dubbioso. «E tutto questo come potrebbe tornarci utile?»
Era il motivo per cui avevo scartato di netto i casi irrisolti, impilandoli in una serie di carte che non erano degne della minima attenzione. Invece, al loro interno, nascondevano ben altro in serbo per noi.
«Beh, è semplice,» rivelai. «Sally Clarckson non è stata sempre incinta.»
 
L’Emirates Stadium era sempre uno spettacolo per chi non era abituato a vedere tutta quella gente seduta sugli spalti. La sottoscritta, poi, non conosceva proprio il concetto di “tifo”, o meglio, credevo si potesse tradurre in una pratica tribale e quasi incivile.
Urlare e spintonarsi come pazzi per dieci uomini che correvano dietro a un pallone…
Alla fine, però, mi ero fatta influenzare in qualche modo. L’atmosfera di allegria e coinvolgimento che si respirava era stimolante, riusciva stranamente a distrarmi dai pensieri e ad aprirmi la mente.
«Ehi, Vennie!» mi sentii chiamare.
A qualche fila di sedili più in basso notai la testa bionda e riccioluta di Sofia. Accanto a lei, l’immancabile Ruben dallo sguardo sveglio e vigile: una triglia in pratica.
«Arriviamo!» le dissi, facendomi largo tra i tifosi che se ne stavano in piedi senza decidere cosa fare. Alla fine sbottai un “Permesso” molto infastidito, rivolgendomi a James e sbuffando: «Possibile che nessuno trovi i propri posti a sedere qui? Eppure sono numerati!»
James sorrise divertito.
Allora lo fulminai con lo sguardo. «Cosa c’è da ridere?»
Dovevo ammettere di essere più acida del solito in quel periodo. L’avvocato prontamente si scusò, da vero gentleman e poi aggiunse: «Sugli spalti, tra gli abbonati, si crea una sorta di “legame familiare”. Avere una passione in comune, ritrovarsi ogni maledetta domenica [1] seduti allo stesso posto… è come se fossero riuniti in un grande salotto in attesa del brunch.»
Soppesai le sue parole, tentando di dargli un senso, ma mi arresi alzando le spalle.
Non avrei mai capito il calcio, c’era poco da fare. Magari avrei potuto anche vederlo, sopportarlo, ma impiegare più del 5% del mio intelletto era già un grande regalo.
Alla fine raggiungemmo Sofia e Ruben.
«Ce l’avete fatta! Sono contenta,» ammise, lanciandomi uno sguardo perplesso quando si accorse effettivamente di chi fosse il mio accompagnatore. Le sorrisi, rimandando possibilmente la questione a un “ne parliamo dopo”. Per mia fortuna, l’inno della squadra di casa riempì gli altoparlanti dello stadio, seguita dal coro di tifosi agguerriti.
«Eccoli, stanno entrando!» esultò la biondina, indicando dei piccoli puntini in maglia rossa e calzoncini bianchi che si disponevano in campo per il riscaldamento. «Simo dovrebbe partire da titolare.»
Mi sorse spontanea una domanda. «Di solito non lo è?»
Sapevo che Simone Sogno era una specie di ragazzo prodigio, per cui mi parve piuttosto strano che il suo allenatore non lo sfruttasse sin dai primi minuti di gioco.
Sia Ruben che Sofia si scambiarono uno sguardo dubbioso, ma fu Jamie ad intervenire. «Mi sono tenuto informato. Ultimamente i quotidiani sportivi hanno penalizzato di molto il rendimento in campo di Mr. Sogno. Non avendo alcun indizio sul caso giudiziario di cui è protagonista, i giornalisti hanno ipotizzato ad una pessima condizione fisica e nelle ultime due partite è stato sostituito.»
Rimasi allibita. Passavo ogni momento della mia giornata al suo fianco, sia per questioni di lavoro che di piacere, ma non si era mai preso la briga di parlarmi dei suoi problemi.
…e tu nemmeno glielo hai domandato.
Un conto era condividere il letto e la casa, un altro era affrontare i propri problemi anche quando esulavano dalla questione della paternità.
«Quindi… è una buona cosa?» chiesi, titubante.
Mi rimproverai mentalmente per non essere stata in grado di accorgermi dei suoi problemi, troppo concentrata su quelli che pensavo fossero fondamentali.
Sofia mi sorrise. «Significa che in allenamento ha dimostrato qualcosa e gli hanno dato un’occasione per riscattarsi, penso.»
Spostai lo sguardo sul campo da gioco e fissai gli omini al centro del campo. Anche se sapevo poco o niente delle regole del gioco non m’importava, ero decisa a fare il tifo. Sapevo che non avrebbe fatto la differenza tra tutte quelle urla, che Simone non avrebbe mai sentito l’urlo d’incitamento della tribuna, eppure durante tutto il match gridai con quanto più fiato avessi in corpo.
James mi supportò in tutto e per tutto, lasciandomi meno sola.
Alla fine dei primi quarantacinque minuti di gioco, il risultato era ancora fermo sullo zero a zero, ma c’erano state numerose azioni da ambo le parti. Due, in particolare, mi avevano addirittura fatto venire le palpitazioni per quanto fossi in ansia.
Dovevo ammettere che la sensazione era piuttosto piacevole, dopotutto. Una specie di antico furore battagliero che si risvegliava prepotente dalle mie viscere contorte dallo stress. Fui quasi tentata di dare ragione a mio padre, ma tornai sui miei passi ricordando l’imbarazzo che mi suscitava quell’uomo.
Durante l’intervallo, Ruben tornò con qualche bel panino farcito e biscotti di varia natura che arraffai il più velocemente possibile. Non era da me quell’aria famelica, ma avrei pensato alla linea più tardi, verso l’estate magari.
Attribuii tutto quell’appetito alla foga con cui mi sbracciavo per migliorare la mia tifoseria.
«Sofi, posso farti una domanda?» dissi infine, alla sorella del mio quasi-ragazzo. «In che settore ci troviamo esattamente?»
Avevo notato la presenza attorno a noi di giovani donne con tanti bambini. Avevo pensato all’inizio che si trattasse di una specie di camping, un evento sportivo che prevedeva una gita allo stadio, ma Ruben intervenne. «In questo settore, in genere, vengono ospiti le famiglie e gli amici dei giocatori,» spiegò, senza alcun tentennamento. In presenza di Sofia era quasi impossibile sentirlo balbettare, quasi si trattasse di un’altra persona. «I bambini che vedi sono i figli oppure i nipoti dei calciatori.»
Mi guardai meglio attorno, ma ne rimasi delusa. Nessuno di loro sembrava realmente interessato alla partita, come se si trovassero al campetto parrocchiale. Le ragazze passavano quasi tutto il tempo al telefono, o anche utilizzando tablet per farsi foto indecenti che poi avrebbero postato in qualche social network solo per farsi ammirare. Ridicole.
I bambini venivano lasciati a loro stessi: alcuni piangevano, altri si annoiavano, nessuna delle mamme che si prendeva la briga di ricordare loro quale fosse il papà che aveva appena fatto un’azione da gol.
«A cosa stai pensando, Ven?» mi chiese James, vedendomi assorta.
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. «A niente. In televisione sembra sempre che le vite private di questi personaggi famosi siano tutte rose e fiori, invece qui noto soltanto menefreghismo e falsità.»
L’avvocato sorrise. «Oh, spaghetti-girl,» mormorò sincero. «Sei una ragazza unica. Penso che chiunque riesca ad acchiapparti, deve tenerti davvero stretta per non lasciarti andare.»
Un brivido mi corse lungo la spina dorsale, ascoltando quelle parole. Alla fine, io e James eravamo sempre stati attratti l’uno dall’altra e avevamo condiviso anche un certo tipo di legame. Non potevo rimanere indifferente a quelle sue parole.
Tentai di non pensarci e decisi di fare un patto con me stessa: se mai fossi rimasta al fianco di Simone, aiutandolo anche a crescere come padre, di sicuro non mi sarei comportata come le altre donne lì presenti. Avrei fatto di tutto per dimostrare al futuro bambino o bambina quanta meraviglia ci fosse nell’avere un papà del genere.
 
La partita si concluse con un gol da parte di Simone nei minuti finali di recupero. Si udì un boato che partì dalla curva dei tifosi più accaniti, fino alle tribune dove sedevamo. Fu come una specie di risveglio, perché le mogli annoiate e impegnate con i loro dispositivi elettronici parvero rianimarsi e trasformarsi improvvisamente tifose di prim’ordine.
Tutta apparenza per le grandi telecamere e la cronaca rosa.
Tornammo a casa decisamente più leggeri, dopo quella vittoria personale che mancava ormai da tempo per Simone – date le ultime notizie dei giornali sportivi. Mi premurai di fare qualcosa, almeno di affrontare l’argomento una volta che fosse rientrato, e decisi di passare al supermarket per cucinare qualcosa di sfizioso in occasione della grande serata.
James si offrì di aiutarmi con le pesanti buste di carta.
«Hai deciso di festeggiare, insomma.»
Annuii convinta. «O almeno ci provo. Diciamo che non mi sono mai distinta come cuoca, a quello ci pensa sempre mia madre.»
Il ricordo della signora Francesca che in occasione del pic-nic di Ferragosto iniziava due settimane prima ad impanare le fettine da friggere, mi fece rabbrividire. Che infanzia traumatica che avevo avuto!
«Sono sicuro che sarà una cena deliziosa,» mi rassicurò l’avvocato.
Pensai di invitarlo, visto che era stato così gentile da accompagnarmi e da aiutarmi con i lavori più pesanti eppure quell’offerta mi si bloccò sulla punta della lingua. Rimase lì ad indugiare, quasi come un tuffatore sul trampolino di lancio.
Salimmo nell’appartamento e posammo gli ingredienti sul tavolo della cucina. «Qui sembra tutto in ordine,» pronunciò James sorridente. «Il mio compito qui è finito, e si è fatto anche tardi. Penso che tornerò a casa a pensare a ciò che mi hai detto sul caso Chauser-Clarckson.»
Sorrisi. «Se vuoi posso farti una copia del fascicolo,» proposi.
Lui declinò. «Ho tutto salvato nell’hard disk, il mio problema è stata la negligenza. Ho scartato subito quei casi che non erano stati risolti, per paura di perdere tempo e fare un enorme buco nell’acqua,» poi si prese un momento per elaborare meglio i pensieri.
Si avvicinò sicuro, posandomi una mano sulla spalla e chinandosi. Avrei voluto chiudere gli occhi d’istinto, più che altro per paura che potesse aver frainteso qualcosa, ma le sue parole mi frenarono.
«Sono contento di avere te come comandante in seconda,» mi disse, tranquillo. «All’inizio pensavo fossi interessata soltanto al posto fisso nello studio, come la maggior parte dei tuoi colleghi, eppure adesso vedo l'estrema passione che ci metti in quello che fai. Le ricerche fino a notte fonda, la vita privata messa da parte per la carriera, ne ho parlato con mio zio August e lui si rivede molto in te. Ha detto che gli ricordi lui i primi anni da avvocato. La passione, in questo lavoro, è tutto e tu ne sei piena.»
Infine si chinò per lasciarmi un casto bacio sullo zigomo. «Con te al mio fianco, sono sicuro che riusciremo a venire fuori da questa situazione.»
Sorrisi. «Ne sono certa.»
E ne ero davvero sicura, quasi al cento per cento. Quella nuova svolta nel caso ci permetteva almeno di sperare, cosa che dopo il risultato del test di paternità ci era quasi stata proibita. Arginare i danni era tutto ciò che eravamo in grado di fare, ma adesso c’era dell’altro.
«Credo sia meglio che vada, non vorrei che Mr. Sogno mi trovasse nei suoi appartamenti a discutere di tutto tranne che di lavoro!» ridacchiò.
Lo accompagnai alla porta, salutandolo. «Ti ringrazio per avermi fatto compagnia oggi, James.» era forse una delle rare volte che usavo il suo nome per intero, senza “Jamie” oppure “ehi, collega!”.
Lui non sembrò rammaricarsene. «Ringrazio io te, per l’invito. Mi sono divertito molto oggi, soprattutto perché non ho mai tempo per questo tipo di svago. Inoltre, al tuo fianco il tempo passa molto più leggero e mi ha fatto bene staccare dal ritmo frenetico del nostro lavoro.»
«Ogni tanto ci vuole, infatti.»
L’avvocato mi sorrise e fece per imboccare l’uscio quando, presa da chissà qualche ispirazione, lo fermai. I suoi occhi incrociarono i miei, dubbiosi. «Senti,» incespicai. Non sapevo nemmeno io la ragione per cui avvertii il bisogno di chiederglielo. Forse perché avevamo in comune più di quanto volessi ammettere, oppure perché non avevo voglia di creare a Simone ulteriori pensieri, per cui lo feci, senza indugiare oltre.
«Domani avrei una visita di controllo dal mio dottore, niente di che, non preoccuparti,» lo anticipai, vedendo la sua espressione preoccupata. «Ultimamente lo stress mi sta uccidendo, così ho pensato di farmi prescrivere qualcosa di naturale, come una tisana.»
James sembrò comprendermi. «Succede anche a me, ma non devi stancarti troppo per il lavoro!»
Sorrisi per la sua premura. «Tranquillo, volevo soltanto chiederti se ti andava di accompagnarmi dopo la giornata allo studio, diciamo verso le 18.00. Se hai altri impegni, posso capire…»
«Ci sarò,» disse sincero.
Ci salutammo definitivamente e mi adoperai subito per preparare un bellissimo e gustoso dolce per il rientro di Simone. Non ero il tipo da fare cose sdolcinate, come la maggior parte delle ragazze quando erano innamorate…
non sono innamorata, sia chiaro!
Eppure sperai che almeno apprezzasse lo sforzo. «“Scaldare il latte in un pentolino e poi unirlo al composto poco alla volta, continuando a mescolare, per non lasciare grumi.”» recitai, seguendo alla lettera la ricetta che avevo trovato su internet.
Notai che effettivamente si era fatto piuttosto tardi, per cui decisi che avrei saltato giusto qualche passaggio della ricetta per sbrigarmi. Era di vitale importanza che finissi di cuocere il dolce prima che Simone tornasse dalla partita, almeno per fargli una sorpresa. Il composto sembrava avere la giusta consistenza, anche se appariva lievemente bitorzoluto per via dei grumi di farina che continuavano ad esplodere ogni volta che li toccavo, sollevando una nuvola di polvere bianca.
Vennie cara, vuoi davvero servirgli quella porcheria?
La voce di mia madre si fece largo nella mia testa e, come un tarlo, inserì lentamente un dubbio dopo l’altro facendo vacillare la mia sicurezza. Avrei davvero avuto il coraggio di servire quella roba? Io che non sapevo nemmeno cucinarmi un uovo?
Nella fretta di impastare, avevo perfino dimenticato di aggiungerci il lievito. Lo feci in ultimo, mescolando alla bell’è meglio, ma non appena sentii il rumore di passi sul pianerottolo schiaffai velocemente la teglia nel forno lanciandola come un’atleta delle olimpiadi.
Alzai la temperatura attorno ai duecento gradi, tanto per velocizzare i processo.
Sapevo che la pasticceria era un’arte, che la temperatura del forno non andava mai aumentata oltre i 180°, eppure decisi di rischiare.
Conscia di avere un aspetto terribile, con il grembiule annodato in vita e la faccia sporca di farina, tentai di darmi la rassettata dell’ultimo minuto.
Simone entrò in casa qualche secondo dopo. «Credo che i signori del piano di sotto stiano cucinando. Si sente un odorino…»
«Veramente…» tentennai, asciugando le mani su uno strofinaccio.
Per poco Simo non ci rimase secco, vedendo la cucina sporca di farina. «Hai invitato mia madre, per caso?» domandò allarmato.
«No, perché?» domandai sorpresa.
Lui alzò le mani. «Spero che tu non abbia detto a qualcuno di venire, perché sono stremato e non ho alcuna voglia di mettermi in ghingeri,» sbottò.
Il nervosismo tornò a tormentarmi. «Senti, non ho invitato anima viva. Volevo soltanto fare qualcosa visto che oggi hai segnato, ma evidentemente non sei dell’umore giusto per cui ho soltanto perso tempo.»
Gli occhi scuri di Simone si allargarono come pozze di petrolio sull’asfalto. «H-Hai fatto tutto questo per me?» chiese, quasi sbigottito.
Di certo, detto in quel modo, sembrava quasi un comportamento smielato. Mi affrettai a negare ogni cosa, tanto per rimanere in territorio neutrale. «Direi che l’ho fatto per me, avevo voglia di dolce.»
La giustificazione del mio egoismo non resse molto, perché ben presto sentii le grandi mani di Simo cingermi la vita e schiacciarmi tra il bancone della cucina e il suo corpo.
Scostai il viso, giusto per cercare il suo sguardo, e lo trovai così diverso dal solito, così espressivo.
«Potrei abituarmi ad essere viziato così,» sogghignò.
A quel punto l’atmosfera scottante si ruppe ed io ebbi il tempo di rifilargli una piccola gomitata all’addome per liberarmi dalla sua stretta. «Non ti ci abituare, dovrei essere io quella viziata.»
Era quantomeno normale che ogni donna dovesse sentirsi apprezzata e coccolata.
Simone ci pensò su. «I biglietti dello stato te li ho regalati, potevo farti benissimo pagare…» ipotizzò.
Lo fulminai con un’occhiataccia. «Ma se te li danno gratis!» sbottai.
Lui cominciò a ridere della mia reazione, come al solito esagerata, ed io capii che stava facendo di tutto per farmi arrabbiare, proprio perché quei teatrini tra di noi, per quanto fossero sfiancanti, alla fine riuscivano a toglierci molti pensieri.
D’improvviso ebbi come l’impressione di essermi dimenticata qualcosa di molto importante.
«Non senti anche tu una lieve puzza di bruciato?» sorrise il calciatore.
Spalancai gli occhi in preda al panico, afferrando le presine di corsa e aprendo il forno elettrico da cui usciva un filino di fumo nero. La teglia andava letteralmente a fuoco e rischiai anche di bruciarmi due dita, ma per fortuna riuscii a cavarne fuori ciò che rimaneva del dolce.
Simone assistette a tutta la scena, con un’espressione particolarmente divertita.
«Che hai da ridere?» ringhiai.
«Niente,» disse lui, facendo spallucce.
Gli puntai il dito contro, minacciosa. «Sappi che se si è rovinata, è solo colpa tua!»
Per una volta che avevo pasticciato un po’ in cucina, impegnandomi più del dovuto in una cosa non necessaria, Simone aveva mandato tutto a rotoli.
«Mia?» ridacchiò. «E perché mai?»
Riuscii a trovare un piatto da dolce e guardai rammaricata la torta che cominciava a prendere un colorito molto scuro… quasi abbronzato. Se quel calciatore da strapazzo non mi avesse distratto, avrei calcolato benissimo i tempi di cottura. Alla perfezione!
«Ti sei messo a blaterare e mi hai distratto.»
Non capivo per quale motivo Simone Sogno trovasse divertente tutta quella situazione. Era una cosa grave, soprattutto per la puzza di bruciato che adesso si stava diffondendo per tutto l’appartamento.
«Ridi di meno e vai ad aprire le finestre, sennò asfissiamo qui dentro,» sbottai.
Fece come gli avevo chiesto, poi fu subito al mio fianco per aiutarmi. «Faccio io, altrimenti ti bruci,» disse, afferrando il guanto da forno.
Con un movimento fluido riuscì a staccare la torta dalla teglia e a depositarla sul piatto da dolce. Per fortuna l’impasto non si sgretolò, ma l’aspetto generale della torta era pessimo.
Variava da un colorito giallo oro, al marrone più scuro – quasi nero – ai bordi. Di sicuro era dura come un mattone ed io non avevo alcuna voglia di essere presa ulteriormente per i fondelli, per cui feci per afferrare il dolce e lanciarlo direttamente nella spazzatura.
Simone però mi bloccò entrambe le mani. «Che fai?» chiese allarmato.
«Dai, è immangiabile. Siamo realistici,» sbuffai.
Il suo sguardo sembrava piuttosto serio, irremovibile. «Questo dolce lo hai fatto per me o no?» chiese, sorprendendomi con quella domanda.
Annuii.
«Allora, se permetti, voglio mangiarlo. Lo hai cucinato per me, quindi è mio. Non puoi buttarlo,» mormorò convinto. Afferrò il piatto e lo rimise sul bancone, cercando un coltello abbastanza grande (e resistente, soprattutto) per affettare la torta.
Quel suo comportamento mi lasciò di stucco. Mai avrei pensato che un gesto così semplice e istintivo da parte mia, riuscisse a far breccia in quel calciatore egoista e spocchioso. Mi sedetti al suo fianco e lo osservai dare il primo morso.
Sapevo che aveva un aspetto orribile, ma Simo non lo diede a vedere.
Mangiò tutta la fetta, fino all’ultima briciola, senza aggiungere una parola. Non mi sentii nemmeno di insistere per buttarlo, visto che ci teneva così tanto.
«Tutto sommato, è buono,» se ne uscì, alla fine.
«Non serve mentire, lo so che ha un sapore orribile.»
Simone allora ne strappò un pezzo con le mani e me lo avvicinò alle labbra. «Assaggia e smettila di blaterare per una volta.»
Stavo per rispondere piccata, quando mi ficcò letteralmente il pezzo di dolce in bocca.
Sulle prime si avvertì subito il sapore forte di bruciato, magari eliminando la parte più scura si sarebbe potuto salvare il resto dell’impasto, ma dovevo ammettere che aveva un buon sapore vanigliato.
«Allora?» chiese.
Ammisi a me stessa che forse, qualche volta, avrei dovuto dargli ragione. «Non è male.»
Sorrise soddisfatto di sé stesso, poi si allungò prendendomi il viso tra le mani e cercando subito le mie labbra, ancora sporche di briciole.
Sulle prime fui sorpresa, poi intrecciai le mani tra i suoi folti capelli scuri e il mondo sembrò sparire attorno a me. Simone era capace di farmi dimenticare tutto, ogni preoccupazione si dileguava nel momento in cui le nostre bocche si sfioravano. Aveva un potere annullatore, quasi annichilente. Percepii distintamente il sapore di vaniglia, il mio stesso dolce che si mischiava tra le nostre labbra e diventava parte di noi ad ogni bacio.
«Grazie,» disse lui, infine. «Per la torta.»
Risi come un’ebete. «Capirai... l’ho anche bruciata. Per colpa tua, ovviamente,» puntualizzai.
Lui, per tutta risposta, allungò una mano e mi spettinò i capelli.
«Ehi!» protestai. Il giorno dopo sarei dovuta andare in ufficio, non potevo presentarmi come una sciattona, ecco.
«Smettila di polemizzare su tutto e accetta un complimento, una buona volta,» mi rimproverò. «Nessuna ragazza ha mai cucinato per me, forse perché le modelle erano troppo impegnate a non mangiare per pensare al sottoscritto.»
Non ci avevo pensato minimamente. Avevo sottovalutato questo aspetto in una relazione, il piacere di fare un piacere a qualcuno, un semplice gesto – come un dolce riuscito male – che aveva un significato tutto personale. Magari non sarei stata in grado di partecipare a Masterchef, però adesso ero sicura di aver fatto un buon investimento del mio tempo.
«Tecnicamente anche io sono una donna in carriera,» chiarii subito, specificando i miei numerosi impegni. «Inoltre, non avevo mai cucinato un dolce.»
«Sono felice di essere stato la tua prima volta,» ridacchiò, calcando molto il tono quando si parlava di prime volte.
In quell’occasione mi rifiutai categoricamente di fare la bacchettona, visto che la battuta ci stava ed era anche molto carina. Gli sorrisi un po’ complice.
«Insomma? Ti sei divertita con l’avvocato?»
Ovviamente quel clima di festosità doveva per forza interrompersi citando la persona che più creava disagio tra di noi. Sbuffai. «Sì, ma non è come pensi. Siamo solo amici.»
«Colleghi, vorrai dire,» specificò lui. «Anzi, tecnicamente lui è il tuo capo.»
Odiavo quando doveva necessariamente mettere tutti i puntini alle i, sottolineando il fatto che fosse infastidito enormemente dalla presenza dell’avvocato. Purtroppo non potevo semplicemente smettere di frequentarlo, come avrei potuto fare con un altro ipotetico ragazzo. James era il mio capo, il mio mentore nel periodo di tirocinio alla Abbot&Abbot, era anche una specie di “ex”, perché ci eravamo frequentati per un certo periodo ed era il nipote del titolare dello studio.
Cosa avrei potuto fare?
«Smettila di fare il bambino, lo sai che dobbiamo risolvere questo caso,» gli ricordai.
«E dopo?» s’imbronciò lui.
«Dopo cosa?»
Simone si alzò dalla sedia per lanciarsi di peso sul divano del salotto. Mi fissò da lontano, rimanendo estremamente serio. Alla fine mi fece cenno di sedermi accanto a lui.
«Insomma?» insistetti, aspettando che mi cingesse le spalle con un braccio, avvicinandomi al suo corpo.
Aveva il cuore che batteva forte, anche se il battito era chiaro e regolare. Quasi ipnotico. «Mi chiedevo se dopo che tutto questo sarà finito,» disse, riferendosi ovviamente alla causa Cloverfield-Sogno. «Tu e lui… insomma, potresti anche cambiare partner di lavoro. Magari trasferirti in qualche altro studio?»
Mi stava forse chiedendo di rinunciare al mio sogno, soltanto per una questione di gelosia? Era forse impazzito?
Tentai di fare dei grandi e lunghi respiri, giusto per non sbottargli come una pazza isterica. «Innanzitutto, è inutile fasciarsi la testa prima di romperla,» anticipai. «Ancora non sappiamo nulla di questa causa, e non vorrei portarmi sfiga. Essere socia della Abbott&Abbott è stato sempre il mio sogno più grande, da quando sono venuta a studiare qui a Londra. È come se io ti chiedessi di non giocare, o di cambiare squadra perché me ne voglio tornare a Roma. Tu lo faresti? Rinunceresti ai tuoi sogni per un’altra persona?»
Lui ragionò sulle mie parole. «Dipende dalla situazione,» disse infine.
Sapevo che avevamo un modo di vedere le cose totalmente diverso, soprattutto in relazione alla carriera. La storia dell’imminente paternità tornò a tormentarmi, come un tarlo che continuava imperterrito a scavarsi una tana profonda nel mio cervello.
Dipende dalla situazione.
La storia con Elizabeth sarebbe stata una ragione sufficiente da farlo rallentare? Avere degli obblighi nei confronti di un’altra donna avrebbe potuto minare quella nostra strana convivenza?
A quel punto decisi di espormi.
«Io non ti chiederei mai di rinunciare ai tuoi sogni per me,» dissi. «Penso che più tieni ad una persona e più desideri il meglio per lei, qualunque esso sia e qualsiasi sacrificio comporti per te. Almeno è quello che io penso.»
Simone mi guardò intensamente, recependo il significato delle mie parole, una per una. Notai come imparasse giorno dopo giorno ad essere un po’ più adulto, e ripensai a quando lo avevo conosciuto, qualche anno fa, insieme a Celeste, e a quanto fosse cambiato. Fui orgogliosa dei suoi cambiamenti, soprattutto vista l’imminente paternità.
Ero quasi sicura che se la sarebbe cavata egregiamente, in qualsiasi situazione.
«Hai ragione, non dovevo chiederti quelle cose,» ammise infine.
Sghignazzai. «Simone Sogno che ammette che ho ragione! Domani succederà il finimondo!»
Vedendo come mi ero aggrappata a quella scusa per prenderlo in giro, si vendicò con una massiccia dose di solletico.
Mi costrinse a sdraiarmi di schiena sul grande divano in salotto, con lui prepotentemente schiacciato sopra di me che infieriva senza alcuna pietà. Fui costretta ad arrendermi alla fine, anche se il mio orgoglio ne sarebbe uscito duramente sconfitto.
«Basta! Basta ti prego!» riuscii ad implorarlo, tra una risata e l’altra.
Simone obbedì, senza però alzarsi. «Nessuno è superiore al sottoscritto. Sono perfetto e bellissimo.»
Gli afferrai il viso tra le mani e cominciai a stropicciargli la faccia, quasi fosse fatta di pasta modellabile. Ridacchiai ad ogni espressione demente che veniva fuori dalle sue boccacce, pensando che nonostante tutto, rimaneva comunque il ragazzo più bello che avessi mai conosciuto.
Mi viene da vomitare, asserì il mio Cervello, pensando a quanto fossi diventata sdolcinata.
Lo zitti mentalmente perché non avevo voglia di rimproverarmi per qualcosa che ormai sentivo così naturale. Lentamente, giorno dopo giorno, avevo imparato a conoscere Simone, a vedere ciò che c’era oltre la superficie, al di là di quella maschera spocchiosa e arrogante che si costringeva ad indossare per proteggersi dagli altri.
«Non mi fenfo più le guanfe!» protestò lui, con la bocca a pesce palla.
Sorrisi. «Esagerato, ti lamenti per qualche buffetto innocente!»
Si liberò dalla mia presa ferrea, cercando le mie labbra in un bacio veloce. «Io con questa ci lavoro,» e si indicò la faccia. «Sai quante pubblicità ho fatto? Tsé, meglio di Cristiano Ronaldo.»
«Pensavo facessi il calciatore, non il modello,» puntualizzai.
Lui ci pensò un po’ su, poi mi sorrise malizioso. «Ho svariati talenti, a dire la verità.»
A quel punto decisi di assecondare quella situazione equivoca. «E mi dica, Mr. Sogno, in quale altro ambito spaziano i suoi numerosi talenti?»
Non mi rispose, ma vidi le sue grandi mani intente a liberare, una alla volta, le asole dai bottoni del mio golfino. Il resto, lo si può tranquillamente immaginare.

[1] si riferisce all'omonimo film con Al Pacino.


Bene, eccoci arrivati a fine capitolo!
Vi devo delle profondissime scuse, in quanto ci ho messo un sacco di tempo per sfornare sto capitolo, ma non avevo ispirazione. L'ho iniziato più volte e mai concluso, perché adesso la situazione si sta infittendo e devo mettere bene in tavola tutte le carte e dare un certo senso alla faccenda. Mi ci vuole del tempo, poi tra tutti gli altri impegni ne ho avuto poco.
Comunque ringrazio chi mi ha sostenuto sempre, anche nel gruppo, postando foto e ricordandomi ogni tanto che c'era da scrivere una nuova avventura per Simone e Venera, e anche su ask.
Sì, ammetto che anche gli anon sono stati abbastanza utili per rimboccarsi le maniche :3
Bene, cosa dire? Idee su come possa svolgersi il resto della storia?
Ammetto che non intendo tirarla ancor più per le lunghe. Sono già tanti capitoli e belli corposi, per cui questo caso si sta trascinando anche troppo oltre (poi rischiamo di finire in Italia eh!).



Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Capitolo 24 ***


 
*Tenta invano di evitare il lancio di pomodori e ortaggi di qualsiasi specie*
SALVE!! Sono letteralmente secoli (tipo 2 anni) che non aggiorno più questa storia e sinceramente capisco che alcuni di voi vogliano seriamente linciarmi in questo momento. Meglio tardi che mai!!
Per chi di voi ha perso il filo della storia, meglio che se la vada a rileggere (LOL), ma soprattutto eravamo arrivati ad un risvolto epico della trama. Ven deve capire l'origine di quei suoi problemi fisici, per questo si reca dal Dottor Ross, e allo stesso tempo deve trovare qualsiasi fonte la possa aiutare nel caso di Simone.
Ce la farà? Leggete e lo saprete. MUAHAHAHAH Crudelia is back, bitches! :3



 
Capitolo 24
 
La giornata in ufficio era cominciata furiosa come suo solito. Yuki correva su e giù per il corridoio, cercando di adempire alle mansioni che Mr. Abbott le aveva dato, non capendo però che le stava soltanto chiedendo di fare delle fotocopie.
«Fate largo, scusate, toglietevi tutti!!» urlava a squarciagola, sommersa dai fogli che le svolazzavano attorno ai lunghi capelli neri.
Mi sentivo totalmente frastornata. Seduta, insieme a James, nell’ufficio a vetri di Mr. Abbott percepivo ogni suono o rumore attorno a me completamente ovattato. Quella mattina mi ero sentita poco bene, più del solito, ma l’esigenza di andare in ufficio era stata preponderante. Quel pomeriggio avevo anche la visita dal dottor Ross, per cui avevo preso nota di quasi tutti i sintomi che avevo riscontrato in modo da poter porre fine a quelle giornate che iniziavano nel peggiore dei modi.
«Zio, io e la signorina Donati volevamo chiederti delle informazioni in merito a un caso giudiziario che hai seguito tu stesso qualche anno fa ormai,» iniziò James, rivolto all’uomo seduto al di là della scrivania in mogano.
Gli occhi di ghiaccio di Mr. Abbott scrutarono entrambi pensierosi.
«Cosa vuoi chiedermi, James Percival?» gli domandò, ignorando completamente la sottoscritta e rivolgendosi al nipote con aria molto formale.
James era teso. Una raffica di pensieri si intravedevano al di là di quegli occhi azzurri che tanto mi avevano colpito la prima volta, e mi sentii in dovere di intervenire.
«Mr. Abbott,» dissi, catturando l’attenzione dell’uomo che aveva in mano il mio futuro lavorativo. «Ieri mi è capitato di effettuare una ricerca tra i casi irrisolti dello studio, e mi è saltato all’occhio questo.» e gli porsi la cartellina con i documenti risalenti al caso Chauser-Clarckson.
August diede soltanto un’occhiata rapida ai vari fogli, poi si concentrò su di me con aria corrucciata. «Signorina Donati,» iniziò. «Non so dove voglia andare a parare presentandomi queste scartoffie. Qui alla Abbott&Abbott il nostro unico obiettivo è vincere le cause dei nostri clienti, ad ogni costo, e presentare uno dei pochi fallimenti dello studio non può far altro che metterla in cattiva luce ai miei occhi.»
James fece per intervenire, ma lo fermai. Ingoiai il rospo e mi presi il rischio di tutta quella faccenda, che alla fine era partita dalla sottoscritta. «Signor Abbott, mi permetta,» insistei. «Non le ho sottoposto questo caso per mancarle di rispetto, assolutamente. Abbiamo esaminato migliaia di casi simili a quello di Mr. Sogno, cercando una qualche via d’uscita oltre il nuovo test del DNA, ma abbiamo soltanto fatto buchi nell’acqua.»
«Enormi buchi nell’acqua,» aggiunse James.
Gli diedi un’occhiata d’intesa, poi continuai. La soluzione era non permettere a Mr. Abbott di replicare prima di aver sentito tutto ciò che avevamo da dirgli. «Il caso Chauser-Clarckson, che lei stesso ha seguito e di cui si è occupato, presenta delle enormi somiglianze con quello che abbiamo in carico io e il mio collega,» spiegai. Gli occhi di August mi fissavano penetranti. «Siamo venuti questa mattina proprio per chiederle più informazioni possibili su questa causa, in modo da poter evitare eventuali errori che si potrebbero ripercuotere nel presente.»
L’uomo seduto di fronte a me si prese qualche minuto per riflettere, poi rivolse la sua attenzione al nipote. «James tu cosa ne pensi?»
«Credo che Venera abbia in mente qualcosa, ma abbiamo veramente bisogno di una tua consulenza zio. Altrimenti ho paura che non se ne verrà fuori.»
Il responso della clinica di St. Charles poteva essere negativo come positivo, avevamo esattamente il 50% di possibilità di vincere la causa.
Oppure di perderla.
Ci serviva ogni aiuto possibile.
Mr. Abbott aggrottò le sopracciglia, unì gli indici delle mani posandoli sotto il mento e respirò profondamente, fissandoci in maniera alternata.
«Odio parlare di questo caso,» iniziò. «È stato uno dei miei più grandi fallimenti, miei e dello studio, e non vi auguro mai di provare quello che ho passato io stesso. Per tale ragione risponderò a ogni vostra domanda e spero di aiutarvi in qualche modo.»
Finalmente tornai a respirare. Non che avessi troppa soggezione di Mr. Abbott, ma era comunque uno degli avvocati più temuti e rispettati di Londra, trasudava imponenza come fosse il mio sudore all’ora di ginnastica.
«Grazie mille, zio,» esordì James sorridente.
«Ora partiamo con le domande,» disse subito l’uomo, mettendosi alla nostra completa disponibilità. Bisognava perdere il meno tempo possibile, il giorno dell’udienza e del test alla clinica si avvicinava, dopo quella carta non ne avevamo più altre da giocare. Fine della corsa.
«Mr. Abbott,» iniziai, leggendo alcune domande che mi ero preventivamente scritta. «Partiamo subito dalla fine, ci può dire cosa ha definitivamente messo fine alla causa? Qual è stato il verdetto finale e le prove schiaccianti che ha portato l’accusa?»
August sospirò. «Innanzitutto dovete partire dal fatto che non sempre la “difesa” è dalla parte del giusto. Non conosco esattamente le dinamiche del caso di Mr. Sogno, ma posso dirvi con certezza che il signor Gary Chauser aveva effettivamente intrapreso una relazione extra-coniugale con quella studentessa,» e a quel punto arrivò la prima mazzata. Avevo preventivato che la causa era stata effettivamente persa proprio perché non c’era più nulla da fare, se il test del DNA combaciava, se le prove portavano tutte al signor Chauser, la giuria aveva ben poco da decidere.
«Quindi nulla di fatto?» chiese James preoccupato.
Suo zio lo fermò con un cenno della mano. «A quanto mi era stato detto in confidenza dal professor Chauser, la relazione c’era effettivamente stata ma era tutto scaturito proprio dalla stessa ragazza.» Ci fu un momento di silenzio dove tutti metabolizzammo le parole di Mr. Abbott. «C’erano delle attenuanti, insomma. Mr. Chauser teneva il corso di Lettere Antiche, se non ricordo male, e Miss Clarckson ambiva ad essere la prima della classe. Una storia vecchia di secoli, insomma.»
«La classica ragazza che sfrutta la sua bellezza per ottenere ben altro,» dissi sconcertata.
Associare Miss Clarckson a Miss Cloverfield non mi fu tanto difficile. Le storie collimavano più di quanto mi sarei aspettata, solo che nello specifico caso di Simone in mezzo non c’era una bella A+ nel corso di lettere ma tantissime sterline.
«Esattamente,» confermò il signor August. «Inoltre, il professore ammise di essere stato in qualche modo “spinto” ad intraprendere la relazione, in quanto venne fuori che una sera era stato abbindolato con dell’alcol – o droga, adesso non ricordo con precisione – e gli erano state scattate delle fotografie compromettenti che avrebbero mandato all’aria il suo imminente matrimonio.»
«Questo non è scritto da nessuna parte, zio,» intervenne Jamie.
«Mi è stato detto in via confidenziale, non ho potuto nemmeno utilizzarlo in tribunale perché dopo il test di paternità la giuria è stata irremovibile.»
Dannazione.
Tutto veniva ricondotto unicamente alla prova schiacciante del DNA. D’altronde, contro la scienza non si poteva fare nulla. «E come andò a finire?» chiesi.
L’uomo sospirò. «La verità si trova sempre nel mezzo, mia cara Miss Donati,» spiegò Mr. Abbott. «Io conoscevo quella del mio cliente, ma non era detto che fosse la verità come quella affermata dalla signorina Clarckson. Soltanto chi è stato artefice delle sue azioni conosce esattamente come si sono svolte le faccende. Ho fatto del mio meglio con questo caso, ma spesso sono gli stessi clienti – non avendo fiducia nei propri avvocati – che mandano a rotoli l’intero processo.»
«Cosa vuoi dire?» chiese James.
«Caro James,» disse. «Il professor Chauser era stato sincero con il sottoscritto fino ad un certo punto, un punto cruciale se vogliamo essere precisi. Aveva ammesso di essere stato sedotto, magari con l’aiuto di alcol o droghe, ma aveva fatto un giuramento. Ho perso la causa quel giorno e ancora me ne pento, avrei dovuto fidarmi meno ciecamente del mio cliente e basarmi più sui fatti, per questo vi do questo consiglio. Non si era parlato di nessun bambino in quella relazione, è venuto fuori ovviamente troppo tardi e dalle bocche dell’accusa proprio durante il processo. Quella ragazza era rimasta incinta, non so se dalla prima e forse unica notte che avevano avuto insieme o da altri episodi, fatto sta che quando eravamo sul piede di guerra, pronti a denunciare la signorina Clarckson per ricatto e altre imputazioni, l’accusa ha mostrato il test del DNA e lì non si è potuto fare più niente.»
«Purtroppo l’uomo in un caso del genere ha sempre torto,» dissi quasi senza pensare.
«Esattamente.»
Ennesimo buco nell’acqua. Erano stati inutili i nostri sforzi per cercare di ricavare qualcosa da quell’esperienza passata, di imparare dagli errori. Eravamo di nuovo d’accapo. Il bagliore che avevo intravisto in mezzo a quel buio si era trattato soltanto di un futile abbaglio.
«Quindi non caviamo un ragno dal buco,» sbuffò James.
Suo zio si sporse in avanti, posando i gomiti sulla scrivania. «Quello che voglio consigliarvi è di indagare per conto vostro,» spiegò. «Il lavoro dell’avvocato non è soltanto scartoffie e belle paroline, dovete recarvi in strada, parlare con la gente, chiedere a chiunque sia coinvolto nel caso notizie sempre più fresche. L’obiettivo è stare sempre un passo avanti all’accusa.»
Indagare.
Mr. Abbott aveva pienamente ragione. Fino ad ora ci eravamo basati soltanto sui fatti, sulle prove effettivamente scritte su carta, niente di più. Bisognava andare in giro, cercare qualche testimone, qualche notizia che ci potesse far sperare in una vita d’uscita.
Guardai James. «Potremmo andare al locale dove Simone e la Cloverfield si sono incontrati!» dissi trionfante.
Lui mi restituì uno sguardo trionfante.
Entrambi vedemmo Mr. Abbott sorridente e soddisfatto. Non avremmo ripetuto i suoi stessi errori, anzi, avremmo riscattato il buon nome dello studio a tutti i costi, anche andando a bussare porta a porta per tutta Londra.
 
Il Desire appariva molto più spoglio di giorno, rispetto alle fotografie che io e Jamie avevamo visionato su internet. Non appena entrammo, il locale si presentava molto buio. Soltanto qualche filo di luce filtrava debole dalle finestre intarsiate con vetri colorati, quasi come quelli che si trovano in chiesa.
Il tutto doveva dare un’atmosfera gotica e soft all’ambiente ma lo rappresentava piuttosto squallido a mio avviso. Il mio cervello associò subito Simone a quel posto. Era come se fosse lì con me e l’avvocato, potevo immaginarmelo bene mentre girava attorno al locale, guardandosi circospetto e pavoneggiandosi.
Il solito pallone gonfiato.
Una punta di fastidio mi invase.
Al solo pensiero che fino a qualche mese fa potesse essere davvero lì, in cerca di una qualsiasi ragazza – magari una modella – da portarsi a letto mi creava un profondo senso di disagio. Strinsi i pugni cercando di concentrarmi su altro, ma era del tutto impossibile. Ormai lo conoscevo così bene da immaginarmi perfino un primo approccio, un “ehi bella” sussurrato sensualmente all’orecchio e le mie unghie che lentamente affondavano nelle palme delle mie mani.
«Buongiorno, posso esservi utile?» ci sorrise il barman, mentre  lucidava i bicchieri.
James con il suo solito charme si fece avanti per primo. «Buongiorno a lei, io e la mia collega siamo venuti qui per conto di un nostro cliente,» disse, riuscendo a mantenere l’anonimato. «E vorremmo sapere da lei chi fosse di turno la sera del…» ricontrollò gli appunti del caso. «28 Settembre scorso.»
Il giovane barman, di circa una trentina d’anni, sparì dietro il bancone e tornò con un taccuino. «Dunque, è passato un bel po’ di tempo,» disse pensieroso. «Credo ci fossi proprio io quel giorno ma qui teniamo conto di tutti i turni per cui potrò dirvelo con esattezza, attendente un secondo… eccolo! Sì, esattamente il 28 Settembre ho chiuso il locale verso le 5 del mattino più o meno. Cosa vi serviva sapere?»
Ci guardò con curiosità, ma anche con un’aria sospetta. Giustamente non gli avevamo fatto sapere in quale veste ci presentavamo. Poteva pensare fossimo poliziotti, anche se la sottoscritta – alta una mela e poco più – dell’agente in borghese aveva ben poco.
«Che fortuna!» esultò il mio collega. «Dunque, vorremmo sapere con un po’ di discrezione se quella sera si ricorda la presenza di una persona di spicco nel suo locale,» continuò l’avvocato. «Un personaggio del mondo calcistico, per intenderci…»
Mi affrettai ad intervenire. «Ha per caso riconosciuto qualcuno a lei familiare?»
Non potevamo esporci troppo. Era evidente che il barman avrebbe saputo di Simone, avrebbe capito che qualcosa girava attorno al suo nome ma dovevamo tradirci il meno possibile.
«Credo ci fosse Mr. Sogno, il calciatore.»
«Perfetto!» esultai, ma James mi mise subito una mano sul braccio teso, come a spegnere la mia euforia. I suoi occhi azzurri parevano dire “affrontiamo le cose con calma, non far trapelare nulla” e aveva ragione.
Con nonchalance, l’avvocato continuò con le domande. «Si ricorda per caso cosa ha bevuto? Se era da solo oppure in compagnia?»
Ci pensò un po’ su. «Ricordo vagamente. So per certo di averlo visto perché sono un fan sfegatato dei Gunners e non mi sembrava vero, gli ho chiesto anche un autografo. Mi pare sia entrato da solo, ma poi è andato via in compagnia di una ragazza molto alta… e bionda. Ma posso chiedervi il perché di tutte queste domande?»
Io e James ci scambiammo uno sguardo vago. «Domande di routine, nulla di importante,» tagliò corto l’avvocato. «Se si ricorda altro, le lascio il mio numero di telefono così può contattarmi quando vuole. La ringrazio moltissimo.»
Feci un sorriso al barman e seguii James fuori dal locale.
«Potevamo insistere con altre domande,» dissi contrariata.
Lui mi guardò intensamente, spiazzandomi come sempre. Era strano come il mio corpo reagisse ancora così ai suoi sguardi, anche se ormai avevo dedicato anima e corpo a quel disgraziato di Simone.
«Diamo tempo al tempo, spaghetti-girl,» mormorò. «Se avessimo insistito, di sicuro si sarebbe insospettito troppo e magari avrebbe cominciato a spargere la voce in giro. Oltre vincere questa causa, dobbiamo cercare di mantenere il maggior riserbo possibile oppure il nome di Mr. Sogno sarebbe in pasto ai media.»
Aveva pienamente ragione, ma la voglia di conoscere la verità era troppa. Memorizzai il locale in una delle vie adiacenti al quartiere di Soho e mi ripromisi di ritornarci, magari in compagnia di Sofi. Quel barman era il testimone perfetto per l’accusa, aveva visto Simone entrare da solo e uscire con la Cloverfield per cui avrebbe soltanto messo un altro pesante macigno sulla soluzione di questo caso.
O aveva altro da aggiungere alla sua testimonianza, oppure avevamo fatto un ennesimo buco nell’acqua.
«E ora che cosa abbiamo di concreto?» chiesi, sbuffando.
James si stiracchiò. «Abbiamo la certezza che Mr. Sogno ha lasciato il locale in compagnia di una donna che rispecchia l’aspetto della signorina Elizabeth ma dobbiamo appurare se effettivamente sono andati nel suo appartamento. Quindi dove ci porta la nostra indagine?»
«Potremmo fare qualche domanda ai residenti del palazzo,» proposi.
James mi sorrise, soddisfatto che avessi capito subito la prossima mossa. Bisognava ripercorrere quella notte passo dopo passo, ricostruendo la vicenda e non tralasciando nessun dettaglio.
«Quindi andiamo all’appartamento?» domandai.
Lui scosse la testa e mi sorprese. «Hai forse dimenticato di avere una visita dal medico, o sbaglio?»
Avevo completamente rimosso l’appuntamento con il dottor Ross quello stesso pomeriggio, anche perché, dopo i giramenti di testa della mattina, il mio fisico si sentiva abbastanza bene. Anzi, avevo anche piuttosto fame.
«Direi di trovare la fermata della Tube più vicina, dove hai detto che ha lo studio?» chiese.
«Seguimi.»
 
***
 
Lo studio si trovava a una delle fermate di Kensington Garden, precisamente a pochi passi da Lancaster Gate. Era ubicato in una delle tipiche palazzine inglesi, quelle strutture strette e alte composte da gradini altrettanto piccoli e piuttosto ripidi. Appena entrammo ci accolse subito la segretaria del medico.
«Buon giorno ragazzi, sono Miss Violet. Vi prego di accomodarvi in sala d’attesa, intanto potete dirmi il cognome così memorizzo l’appuntamento…»
Mi feci avanti. «Donati, Venera Donati. Ho chiamato ieri per una visita di controllo.»
La segretaria riconobbe subito la mia fastidiosa telefonata domenicale e storse il labbro. «Ah, eccovi qui. Prego, accomodatevi pure.»
Ci sedemmo in una piccola stanza con il camino acceso che donava all’ambiente la tipica atmosfera natalizia londinese, con tanto di vecchietta seduta nell’angolo a lavorare a maglia.
«Come ti senti?» mi chiese premuroso James.
Gli sorrisi. «Bene, bene, adesso sono in pienissima forma. Il problema è che appena mi sveglio ho forti giramenti di testa e mal di stomaco. Forse si tratterà di qualche virus stagionale, non saprei. Di solito non mi ammalo mai.»
Sentii la mano di James stringersi attorno alla mia. Un brivido mi corse lungo la schiena e in quell’esatto momento pensai che forse non era stata una buona idea chiedergli di accompagnarmi quel pomeriggio.
Cosa penserebbe il calciatore se entrasse in questo momento e vedesse quella scena?
Come al solito il mio cervello aveva ragione. Forse con quell’innocente invito avevo riaperto uno spiraglio che da parte mia rimaneva completamente sigillato, invece di migliorare la situazione e tenere le distanze, stavo affondando sempre di più.
Sfilai la mano appena in tempo.
«Venera! Prego!» Il dottor Ross fece la sua comparsa nella sala d’aspetto e mi invitò ad entrare. James si alzò solo per cortesia e fortunatamente non diede nessun segno di intenzione a seguirmi.
Il dottore era un uomo di circa sessant’anni, quasi calvo ma dallo sguardo dolce e simpatico. Aveva una barbetta che gli piaceva stuzzicare, soprattutto quando esaminava le cartelle dei suoi pazienti. Era il mio medico di fiducia da quando mi ero trasferita a Londra, ma lo avevo visto circa due volte perché era davvero difficile che mi ammalassi.
«Bene, bene,» disse pensieroso. «Come mai hai chiesto questa visita urgente?» mi domandò.
Gli spiegai in breve i giramenti e tutti i disturbi che si presentavano quasi ogni mattina dall’inizio di questo mese e aggiunsi che con il mio lavoro non potevo prendermi troppi giorni di riposo.
«Io penso sia soprattutto lo stress,» conclusi infine.
«Lasci a me la diagnosi, signorina,» sorrise. «Mi ha detto che ha queste vertigini e queste nausee solo la mattina. Le capita anche di rimettere?»
Ci pensai su. «Sì, anche se non sempre. Le ripeto che sono in un periodo della mia vita piuttosto frenetico e sto affrontando una causa molto estenuante. Forse potrebbe prescrivermi qualche pillola omeopatica o una pastiglia per dormire meglio.»
Avevo fretta di risolvere al più presto quel fastidio che non faceva altro che contribuire al ritardo nei giorni di lavoro. Inoltre, non potevo permettermi di stare male. Quella causa valeva la mia carriera lavorativa e coinvolgeva la persona che avevo scelto per stare al mio fianco. Il carico di stress era davvero alto da sopportare.
Il dottor Ross mi esaminò. Misurò la pressione, controllò le ghiandole e mi auscultò il cuore. La solita routine. Aspettavo soltanto mi prescrivesse le mie medicine per poter tornare subito a lavoro con James.
Tornò alla scrivania per prendere un blocco e cominciò a scribacchiare qualcosa. Pensai si trattasse della prescrizione per le pastiglie ma vidi che era una vera e propria lista.
«Le vorrei fare qualche domanda,» iniziò. Annuii, anche se non mi pareva di avere altro da aggiungere ai sintomi già descritti. «Quando ha avuto l’ultimo rapporto sessuale?»
Sbiancai.
Anzi, prima divenni rossa e gialla come la bandiera di non so quale squadra di calcio e poi bianca come un lenzuolo. «P-Prego?»
Non capivo. Non riuscivo davvero a comprendere cosa c’entrasse la mia vita sessuale con i disagi che avvertivo fisicamente. Il dottore mi fissò serio, aspettandosi una risposta celere.
«Signorina Donati, riformulo la domanda» sospirò. «Questo mese corrente ha avuto il suo periodo mestruale?»
Panico 2.0.
Ero stata sempre una ragazza precisa e meticolosa, tanto da tenere d’occhio il mio ciclo periodicamente. Con tutto quello che mi era capitato in quei pochi mesi avevo completamente perso di vista quel piccolo particolare.
«Ecco, come sospettavo,» e continuò a scribacchiare velocemente.
«Cosa sta annotando?» chiesi, un po’ infastidita. Non riuscivo ancora a capire cosa volesse dire tutto quello, anche se in fondo in fondo il mio subconscio aveva afferrato quella verità che forse tutti avrebbero scacciato in quel preciso momento della loro vita.
«È una lista di analisi del sangue, in particolare il Beta-HCG ci darà la risposta che vogliamo. Nel giro di 5-7 giorni lo sapremo per certo ma se vuole fare un test…»
«Sapremo cosa? Quale test?»
Oddio Ven!! Ma sei di coccio??
Punto primo: niente mestruazioni. Punto secondo: nausee mattutine e giramenti di testa. Punto terzo: sesso senza alcuna protezione. Risultato? Hai una laurea e un master, svegliati!!
«S-Sono i-incint-incinta?» Ecco, ora parlavo anche come Ruben.
Il dottor Ross mi sorrise. «C’è una forte possibilità, ma non la certezza al massimo della percentuale. Diciamo 40%, congratulazioni!»
Strabuzzai gli occhi. «De che?!?» e uscì la parte più romana della sottoscritta.
Mi alzai dalla poltroncina presa dal panico. Ero stata talmente stupida da avere più rapporti con Simone senza alcun utilizzo di protezioni, senza stare minimamente attenti dopo che lui rischiava di essere già padre di un altro bimbo.
No, no, no, e no!
«Ne è sicuro? Non potrebbe trattarsi di aviaria? Mucca pazza? Qualsiasi tipo di malattia mortale? Ebola?» gridai, presa dal panico.
Il dottore tentò di calmarmi in qualche modo. «Signorina non ne ho la piena certezza, ma sono sicuro che il suo compagno sarà felice di sapere la lieta novella. Se vuole posso dargli io la notizia, visto che è qui fuori.»
Doppiamente panico. Giustamente il dottor Ross aveva pensato che James fosse il padre del bambino, visto che mi aveva accompagnata alla visita, ma non conosceva tutta la verità.
«Non è lui il padre.»
«Ah.»
Si creò un imbarazzo silenzioso, soltanto dopo capii che ci potessero essere ulteriori malintesi, del tipo che io stavo con James ma il bambino era di un altro e quindi io ero una qualche tipo di sgualdrina…
«Devo sedermi.» Mi stava esplodendo la testa.
Come avevo fatto ad essere così negligente? A permettere di farmi contagiare dall’ingenuità di Simone e a farmi trasportare da lui senza riflettere. È vero, non era successo sempre. Alcuni rapporti li avevamo avuti protetti, altri no ma a quanto ricordassi eravamo sempre stati attenti, proprio per evitare questo.
E mi sfiorai l’addome.
Okay, non era ancora sicuro al 100%.
«Dottore,» dissi, alzandomi in piedi. «È corretto che se queste analisi risultano negative io non sono incinta, giusto?»
L’uomo annuì un po’ spaventato. «Potrebbe essere in dolce attesa per il 40% delle possibilità signorina, altrimenti dovremo fare altre a-analisi.»
Annuii convinta. Sicuramente si era sbagliato, si trattava di qualcos’altro, qualcosa che soltanto uno specialista avrebbe capito. Avrei fatto quelle analisi il più presto possibile e mi sarei messa l’anima in pace, scacciando qualsiasi dubbio. Simone poteva anche non saperlo, anzi sicuramente era meglio lasciarlo all’oscuro. Già aveva una sgallettata pazza a cui pensare, ci mancava anche questo pensiero.
Sicuramente negativo, come il risultato del Beta-HCG.
Ringraziai il dottor Ross e uscii dalla stanza, promettendo di inviargli al più presto tramite e-mail una copia delle analisi in modo da velocizzare il processo. Mi avrebbe dato una risposta telefonica appena lette.
«La ringrazio, dottore,» dissi uscendo e incontrai subito lo sguardo caldo e rassicurante di James che mi aspettava in piedi un po' preoccupato. Gli sorrisi, almeno per tranquillizzarlo giusto il tempo di evitare una qualsiasi piazzata nello studio del medico.
È davvero necessario che l'avvocato lo sappia? Tecnicamente James non era al corrente di nulla, né del rapporto che avevo con Simone né della natura della nostra relazione. Era stato meglio mantenere tale segreto, anche perché non sapevo come avrebbe reagito. Intrattenere relazioni tra avvocato e cliente era severamente proibito, forse più che tra colleghi. Avevo rinunciato alla storia con James anche per questo impedimento, ma ero caduta dalla cosiddetta padella alla brace.
«Spaghetti-girl, tutto bene? Cosa ti ha detto il medico?»
Sarebbe stato difficile guardarlo per l’ennesima volta negli occhi, in quelle iridi chiare ed espressive, continuando a mentire come se non avessi fatto altro nella mia vita. E la mia professione me lo permetteva piuttosto spesso. Per quanto non avessi voluto coinvolgere James ancor più nella mia vita, avrei dovuto dirlo a qualcuno. Una persona che possibilmente non avesse alcun legame di parentela con Simone.
«Uhm, sto bene» dissi titubante.
Avrei dovuto cominciare dall’inizio, trovare le parole esatte, le più corrette per poter affrontare quell’argomento per intero. Non sapevo quali sarebbero state le reazioni di James e francamente avevo paura. Ormai c’era rispetto reciproco tra di noi, una sorta di complicità che andava oltre un semplice rapporto tra colleghi. Avevo paura di deluderlo, di dargli un impressione completamente sbagliata di me.
Ormai è troppo tardi.
Ero divisa tra due fuochi: da una parte avrei potuto far finta di niente, fingere una semplice emicrania e continuare con la mia vita fin quando non avessi saputo per certo i risultati degli esami del sangue, dall’altra c’era l’affrontare la nuda e cruda verità.
Ora e subito, prima che fosse troppo tardi.
Magari era meglio sputare il tutto senza prendere fiato, dirgli la verità e sperare che non si alterasse ma sapevo da sola che sarebbe stato impossibile.
Uscimmo dalla clinica del dottor Ross e ci mettemmo a passeggiare per le vie di Londra, mentre il pomeriggio si trasformava lentamente in sera quasi senza che me ne accorgessi. C’era un momento della giornata che amavo, quando il sole spariva dietro i palazzi della City e smetteva di baciare con i suoi raggi le sponde del Tamigi era lì, in quel preciso istante, quando la notte abbracciava ancora il giorno che mi sentivo più viva. E presi coraggio.
Trovammo un piccolo parco, piuttosto appartato.
Avevo preso la mia decisione ed era meglio approfittarne prima di tornare definitivamente indietro e fare la codarda. Convivere con i propri pensieri era un conto, magari avrei resistito a tenere nascosta la mia storia con Simone, ma effettivamente quanto ancora sarei potuta andare avanti? Se non mi fossi confidata con qualcuno, una persona a me vicina ma allo stesso tempo lontana dal calciatore sarei esplosa.
Mi sarebbero crollati i nervi.
Andai proprio ai giardini di Kensington, sedendomi sulla prima panchina disponibile e crollandoci letteralmente sopra.
«Come va? Ti senti bene? Hai un altro giramento?» mi chiese allarmato James. Poi aggiunse: «Mi stai facendo preoccupare, cos’hai?»
Era giunto il momento tanto atteso.
«Siediti James, devo dirti una cosa.»
Vidi il panico dipinto sul suo volto, aveva la schiena dritta come un fuso. Il suo nervosismo si stava trasferendo anche alla sottoscritta e per un millesimo di secondo tentai di ripensarci. Sarebbe bastato tenere la bocca chiusa, affrontare questo “problema” da sola, ma sentii subito il bisogno di sfogarmi con qualcuno. Della mia storia con Simone ne erano a conoscenza in pochi, ma erano persone discrete e di cui potevo fidarmi. James era un punto interrogativo: avrebbe potuto arrabbiarsi, cosa che avrei fatto anche io, ma l’importante era che mantenesse il segreto perché la stampa non avrebbe mai tollerato una storia del genere.
Calciatore famoso, causa in corso per dubbia paternità, storia con il suo avvocato e figlio in arrivo, ero sicura che non avrei sopportato le malelingue e le storpiature dei giornalisti. Magari avrebbero potuto anche affermare che Simone stesse con me soltanto per usarmi, ai fini della causa che lo tirava in gioco.
Non volevo nemmeno pensare ad una cosa del genere.
C’erano troppe cose in ballo. Il riserbo per il caso giudiziario che stavo seguendo avrei potuto mantenerlo, ma la storia complicata che avevo con il mio stesso cliente, nonché personaggio di spicco della Londra mondana e moderna mi avrebbe ucciso prima o poi. Avevo la necessità di confidarmi.
«Sto bene, James,» dissi, guardandolo seria. Punto primo lo rassicurai, anche perché ci sarebbe mancato soltanto un infarto per causa mia. «Ma dopo la cosa che sento il dovere di dirti non so come potresti reagire.»
«Mi stai spaventando, Ven.»
Lo so, stavo peggiorando nettamente le cose dandogli quel genere di premesse ma non riuscivo ad evitare di “prepararmi” il terreno.
«Il dottore mi ha messo al corrente di ciò che potrei avere, ma puoi star sicuro che non si tratta di qualcosa di grave,» lo rassicurai subito. «Diciamo che non sono nemmeno sicura sia vero, ma per adesso calcolo la notizia come per certa.»
Lo sguardo di James era sempre più confuso. Non gli stavo dando nessuna informazione certa, anzi, parlavo per lo più per enigmi, forse per ritardare il momento in cui avrebbe saputo l’amara verità. Oltre il problema che dovevamo affrontare quotidianamente per questo caso giudiziario, ora Simone rischiava di essere papà per davvero.
Tutto a causa di una nostra negligenza.
O forse solo tua, d’altronde da quel gallinaceo senza cervello cosa potresti aspettarti!
Non è stupido, taci!
Ero finita a difendere Simone dai miei stessi pensieri acidi e maliziosi.
«Okay, te lo dico,» sospirai. «C'è un 40% di possibilità che io...»
«Che tu?» mi incalzò James.
Era giunto il momento del giudizio, come l’avrebbe presa l’avvocato? Dovevo comprarmi una bella vanga per scavarmi la tomba da sola, oppure semplicemente sarebbe stato comprensivo e mi avrebbe aiutata?
«Che io aspetti un bambino.» Finalmente ce l'avevo fatta, avevo avuto il coraggio di sputare fuori la notizia tutto d'un fiato.
Chiusi gli occhi automaticamente, aspettando la sfuriata che sicuramente avrei avuto da un genitore piuttosto apprensivo. Riaprii gli occhi soltanto quando udii un sospiro da parte di James.
Più che arrabbiato, l’avvocato pareva molto deluso.
«Avevo il sospetto già da tempo che mi nascondessi qualcosa, spaghetti-girl,» quel nomignolo lo pronunciò con una voce quasi tremante.
«Non era mia intenzione ma…»
Mi fermò. «Lasciami finire,» disse deciso. «Non voglio chiederti nemmeno di chi sia il bambino, perché la risposta, in fondo, l’ho sempre saputa. Era inevitabile che succedesse, un po’ è anche stata colpa mia  e della decisione di mandarti a vivere là per tenerlo sott’occhio.»
Il nome di Simone non era mai uscito dalle mie labbra, ma James aveva subito intuito chi fosse il padre di questo presunto 40%. Era così evidente? Come avevo fatto a mantenere il segreto tutto quel tempo se la maggioranza dei nostri conoscenti sapeva cosa ci fosse tra di noi?
«Mi dispiace che tu sia arrabbiato,» mormorai, come una bambina che si scusa di una marachella.
James fissò il suo bellissimo sguardo oltremare sull’erba verde che brillava dell’umidità della sera. «Non sono arrabbiato Venera,» stavolta aveva usato il mio nome per interno, niente nomignoli o diminutivi. Fu un colpo al cuore. «Più che altro sono deluso. Mi aspettavo un determinato comportamento da te, pensavo di averti inquadrata, che fossi una persona seria e che avresti portato la Abbott&Abbott ad un altro tipo di livello.»
Ecco, proprio le parole che non volevo sentire.
«Io sono ancora quella persona!» insistetti, quasi con un tono disperato.
In quel momento mi resi conto che forse non era stata una buona idea dirgli la verità, l’aveva presa piuttosto male.
L’avvocato si alzò dalla panchina, non riuscendo nemmeno a guardarmi. «Dovrò prendermi del tempo per riflettere,» disse sospirando. «So che mi hai fatto questa confessione in amicizia, ma sappi che io sono il tuo tutor e in un certo senso sono il tuo capo, perciò dovrò anche tenere conto dell’azione che hai compiuto ai danni dello studio.»
Cominciai a tremare.
«Ti prego James, pensaci!» urlai.
Non mi resi conto che la gente che passeggiava nel parco ci fissava come fossimo dei fenomeni da baraccone. Perché ero stata cosi incosciente? Per quale motivo mi ero fidata ciecamente di James, pensando mi avesse compresa e aiutata?
«Lo sai che sono severamente proibiti i rapporti personali tra colleghi,» cominciò, tornando a fissarmi con gli occhi lucidi. «Credevo fosse per questo motivo che ci eravamo allontanati. Ora invece capisco che non era il lavoro la ragione della nostra rottura, ma Mr. Sogno che è riuscito ad irretirti.»
«Simone non ha irretito nessuno,» lo corressi velocemente.
Ormai avevo finito per difenderlo a spada tratta, qualsiasi maldicenza gli si dicesse contro. Penso sia normale essere dalla parte della persona con cui si sta insieme.
Il padre del proprio figlio.
«Ho sbagliato anche io,» continuò l’avvocato. «L’idea di farti trasferire in quella casa e la tua inesperienza hanno contribuito a creare una situazione d’intimità che ti avevo pregato di evitare con le altre, solo che mai avrei pensato potesse accaderti. Per questo sono rimasto notevolmente deluso.»
Troppe volte aveva tirato fuori quella parola ed io mi sentivo così male. Era come se me lo stesse dicendo mio padre, provavo la stessa identica sensazione di quando gli avevo detto che sarei andata a vivere a Londra lasciando Tivoli.
«Il dottore ha detto che non è sicuro,» tentai di giustificarmi.
Lui mi fissò glaciale. «Al di là della gravidanza, l’errore che hai fatto è stato frequentarti con un cliente dello studio. Se mio zio fosse a conoscenza di questo segreto, non ci penserebbe due volte a sbatterti fuori.»
Tutto il mondo mi stava crollando addosso. Avevo un grande bisogno di piangere ma non riuscivo a lasciarmi andare. Quello sarebbe stato un forte segno di debolezza che non potevo permettermi, non davanti all’uomo che pensavo fosse mio amico.
«Ho sbagliato, lo ammetto,» dissi. Avrei anche potuto giustificarmi e rassicurarlo che non sarebbe più successo, che una volta arrivata a casa avrei lasciato Simone seduta stante pur di mantenere il posto da tirocinante alla Abbott&Abbott.
«Allora rimedia.»
Sospirai. «Non posso,» ammisi tristemente. Ora avevo davvero gli occhi lucidi ed ero sul punto di piangere. Mi ci era voluto James per capire quanto tenessi davvero a Simone, con tutti i suoi difetti. «A questo punto mettere fine a questa storia mi riesce impossibile.»
Ennesima delusione negli occhi dell’avvocato.
Se prima avevo qualche possibilità di rimanere a studio, adesso me le ero bruciate proprio tutte. Al di là della gravidanza, che speravo fosse soltanto uno sbalzo ormonale, avrei dovuto mettere fine alla storia con il calciatore, cosa che ormai mi pareva quasi inconcepibile.
«Devo pensare,» disse James allontanandosi.
«Mi dispiace,» gli sussurrai dietro.
Lui si voltò quel tanto da intravedere il blu delle sue iridi espressive. «Dispiace più a me, Ven, fidati,» e se ne andò con le mani in tasca, camminando nell’imbrunire.
 
***
 
Tornai a casa completamente stravolta.
Tra la giornata passata in ufficio, il primo pomeriggio a investigare come Sherlock e la passeggiata dal dottor Ross non avevo più un briciolo di energia. Inoltre, mi sentivo svuotata dopo la chiacchierata con James.
«Ehi, non hai una bella cera.»
Il "benvenuto" di Simone completò quella giornata quasi completamente da dimenticare.
Alzai lo sguardo stravolto, sperando non si accorgesse di quanto stessi male.
«Grazie tante, genio. Sono esausta dal lavoro. Potresti essere anche un po' più gentile visto che ti sto salvando il sedere.»
«Un sedere che non ti dispiace poi così tanto...» ironizzò, sorridendomi beffardo.
Sorrisi. Per quanto la battuta fosse scadente e la mia giornata fosse stata cosi maledettamente pesante, Simone riusciva sempre a strapparmi un sorriso.
«Pallone gonfiato, tanto è del tutto inutile che io ti faccia dei complimenti, già ci pensi da solo a farteli,» puntualizzai.
Simone scese agilmente dallo sgabello della cucina dove era seduto e mi raggiunse, seguendomi in camera da letto dove iniziai a spogliarmi. Si piazzò proprio dietro alle mie spalle, abbracciandomi di sorpresa.
Mi fece piacere quel gesto istintivo, dopo quello che James mi aveva detto l’unica cosa che poteva sollevarmi il morale era lui. «A cosa devo tutta questa premura?» gli chiesi imbarazzata.
Simo sbuffò sul mio collo, lasciandoci poi un piccolo bacio. «Nulla. Mi sei mancata oggi.»
Quelle parole contribuirono a farmi sentire ancora più il tepore del suo abbraccio. Da quando Simone era entrato nella mia vita, magari un po' di prepotenza, ero cambiata. Avevo modificato il mio modo di percepire la gente, di giudicare ancor prima di conoscere e di capire che effettivamente dietro una persona di bell'aspetto, poteva nascondersi anche un cuore altrettanto meraviglioso.
«Anche tu, anche tu,» lo rassicurai, voltandomi e fissandolo in quegli occhi che tanto mi avevano fatto dannare. Simone era allo stesso tempo una persona problematica, da cui tenersi alla larga, ma aveva quel potere nascosto di attrarmi e di farmi tremare come nessuno era mai riuscito a farlo nella mia intera vita. Se avessi cercato per altri cinquant'anni in giro per il mondo, mai sarei riuscita a trovare occhi altrettanto penetranti.
Come avrei potuto mettere fine a tutto quello? Se James mi avesse chiesto di scegliere tra Simone e il mio lavoro, cosa avrei potuto rispondergli?
Erano due cose che amavo con tutta me stessa.
«Voglio che mi racconti la tua giornata,» disse, prendendomi per mano.
«Stai dicendo sul serio o ti sei drogato? Guarda che il doping è illegale, eh.»
«Ah, ah, ah, davvero spiritosa. Vieni,» e mi condusse sul divano del salotto dove ci accoccolammo per guardarci un po' di televisione in pace.
Quelle tranquille scene di convivenza mi fecero quasi dimenticare del tutto la visita dal dottor Ross, le domande fatte al barman del Desire, la conversazione di quella mattina con Mr. Abbott e la sfuriata finale di James. Era come se le braccia di Simone costituissero una "zona-franca" dove potersi rifugiare nei momenti bui, dove scacciare i brutti pensieri e riposarsi da una giornata stancante.
«Insomma? Come procede?» mi chiese sinceramente interessato.
Gli sorrisi. «Oggi abbiamo parlato con Mr. Abbott riguardo un vecchio caso molto simile al tuo, per conoscere bene le dinamiche di un processo di questa portata.»
«Cosa avete scoperto?»
Leggevo nel suo sguardo molta preoccupazione, ma gli sfiorai il braccio per tranquillizzarlo. «Non è facile, ma Mr. Abbott ci ha suggerito di ripercorrere il caso da cima a fondo, indagando proprio come dei detective.»
Simone scoppiò in una fragorosa risata.
Alzai un sopracciglio contrariata. «Beh? Che vuoi?»
«Nulla, scusami,» e continuò a ridacchiare. «Per un attimo mi sono immaginato te vestita da Sherlock Holmes, alta poco più di mezzo metro, che andavi in giro per Londra a fare domande, ahahahahah!»
Avevi l'opportunità di ucciderlo molto tempo fa, io ti avevo avvertita!
Per quanto mi dessero fastidio i suoi commenti sarcastici, stiracchiai una risata e tornai a guardare il telegiornale. Simone si accorse subito del mio stato d’animo non proprio normale.
«Ehi, tutto okay?»
«Sì, certo.»
Simone alzò un sopracciglio, poco convinto. «Voi ragazze dite sempre così, ma si vede benissimo che nascondi qualcosa.»
Il panico dilagò sul mio volto e dovetti subito pensare a qualcosa pur di non fargli scoprire l’amara verità di quel pomeriggio.
«Ven, dimmi cos’hai? Perché devi sempre tenere i segreti!»
«Non sono segreti,» mi giustificai. «Ognuno ha i propri pensieri e non sempre posso condividerli col mondo intero. D’altronde non tutti hanno una vita il cui unico scopo è tirare due calci a una palla!»
Okay, forse avevo esagerato. Ogni volta che mi sentivo attaccata usciva fuori il mio carattere acido e scontroso.
Simone mi fissò deluso. Bene, quella giornata di merda non era ancora finita e io già avevo distrutto l’umore di ben due persone a cui tenevo. Maledetta boccaccia!
«Scusa se mi preoccupo per te, meglio che mi faccio gli affari miei,» disse scocciato, allontanandosi da me.
«Mi dispiace, è che sono nervosa. Scusami,» gli dissi, ma fu un commento irrecuperabile.
Simone si voltò. «Non puoi sempre chiudermi fuori dalla tua vita,» pronunciò deciso, molto più incisivo del solito. In quel preciso istante mi parve proprio come l’uomo che era, un ragazzo deciso ad essere parte integrante della vita della sua compagna. «Sappi che non mi sono mai interessato a nessuna, non ho mai fatto domande, volevo solo scopare. Per una volta potresti essere meno scontrosa.»
Mi sentii doppiamente in colpa.
Di corsa mi alzai per andare ad abbracciarlo, anche se lui rimase fermo come una statua.
Affondai il viso nella sua maglietta che sprigionò proprio l’odore familiare che speravo. «Ho avuto una giornata tremenda,» sussurrai, arrendendomi alla verità del mio umore. «Ti prego, non mi allontanare.»
E sentii le sue braccia avvolgersi attorno a me, infondendomi sicurezza e tranquillità. La sua mano grande avvolse la mia nuca, accarezzandomi dolcemente. «Sai che puoi fidarti di me.»
Quelle poche parole migliorarono la mia giornata. «Sì, lo so.»

 
***

Eccomi tornata dopo una LUNGHERRIMA assenza.
In questo periodo lontano da EFP, ne sono successe di cotte e di crude - chi di voi che mi conosce "personalmente" sa già tutto, gli altri si dovranno aggiornare - eheheheheh. Dunque, vi aspettavate una notizia del genere?
So che alcune di voi avevano quasi indovinato, ma c'è ancora molto altro in serbo. Vi anticipo subito che la storia è FINITA, quindi dovrò soltanto impaginare e pubblicare i capitoli. State tranquilli, non vi abbandonerò e vedrete la fine della storia tra Simone e Venera.
Ne approfitto per comunicarvi una piccola decisione che ho preso, insieme al mio gruppo di fans namber uan (ovvero le altre crudelie). Per rispetto di tutti coloro che mi hanno sempre seguita, come ho già detto, pubblicherò l'intera storia qui su EFP perché voglio dare una degna conclusione a questa storia che mi è ritornata nel cuore, ancora più forte di prima. Quando avrò pubblicato l'epilogo, lascerò la storia su EFP per due settimane/un mese circa, dopodiché la cancellerò dal sito perché sto già operando un lavoro di ristrutturazione e correzione. La mia idea è quella di auto-pubblicarmi, cosa che mi è stata molto consigliata, per cui vorrei intraprendere questa idea anche per non lasciare "ignoti" personaggi divertenti come Simo e Ven. 
Detto ciò, spero vi sia piaciuto questo ritorno.
Baci e grazie di avermi sempre seguita :3

Marty-Pooh.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25
 
 
Il cielo quella mattina prometteva pioggia.
Che novità? A Londra era difficile, se non quasi impossibile, trovare una giornata invernale completamente priva di temporali. Mi ritrovai davanti alla Abbott&Abbott con il mio ombrello a pois, completamente umida e con i capelli sparati in ogni direzione. Ero indecisa sul da farsi.
Entrare o non entrare?
La questione non era ancora risolta. Non avevo avuto alcun messaggio da James, nemmeno una telefonata per dirmi se il giorno successivo mi sarei dovuta presentare a studio o meno. Mi morsicai il labbro, nervosa.
«Stai aspettando una visione?»
La voce stridula e fastidiosa di Yuki mi destò dai miei pensieri. Ovviamente non poteva che capitarmi lei nel momento meno opportuno.
Feci finta di niente. «James mi ha dato appuntamento qui fuori,» mentii.
Cos’altro potevo fare? Dire a quella vipera che molto probabilmente Mr. Abbott mi avrebbe licenziata, aumentando le sue chance di diventare socia dello studio, era completamente da escludere. Per cui mi rifugiai dentro la solita bugia.
«James,» mi canzonò. «Ormai siete diventati intimi
Era davvero troppo irritante!
«Ti stai sbagliando,» le dissi, trattenendo a stento la rabbia.
Lei si scostò una ciocca di lunghi capelli neri, fissandomi attraverso quelle fessure che aveva al posto degli occhi. Sì, con lei diventavo addirittura un po’ razzista!
«Ho capito che tipo di persona sei, Donati,» sibilò. «Tutti gli altri la pensano come me, e vedrai che grazie al tuo bel faccino non riuscirai a superarci e a ottenere il contratto. Mi batterò con tutta me stessa per impedire a tipe come te di sminuire i nostri sacrifici!»
Rimasi allibita.
Bel faccino? Ma questa aveva preso lucciole per lanterne!
«Tu sei pazza,» ribadii, magari non aveva ancora compreso il concetto. «Stai insinuando delle cose assolutamente non vere, e potrei anche denunciarti.»
Aveva rotto i cosiddetti. Voleva sfidarmi? Bene. Avrebbe avuto pane per i suoi denti. Se soltanto avesse nuovamente insinuato che non meritavo di essere socia dello studio perché non abbastanza preparata, le avrei fatto rimpiangere di avermi conosciuta. Tutti gli anni che avevo passato fuori casa, tutte le amicizie perdute a causa dello studio e della carriera, avevo messo la mia intera vita sociale da parte per questo lavoro. Non poteva permettersi di insinuare una cosa del genere.
Sorrise beffarda. «Vorresti dirmi che tra te e Mr. Abbott Junior non c’è mai stato assolutamente nulla?» insinuò.
Mi si gelò il sangue. Yuki forse sapeva qualcosa? Era a conoscenza del segreto che tanto avevamo faticato a tenere nascosto, oppure stava solo bluffando? Capitava che negli uffici girassero voci, ma c’era differenza tra semplici chiacchiere e i fatti. Già me la stavo rischiando con la storia di Simone, ci mancava anche il ricatto da parte di Yuki e della mia tresca con James.
«Sei completamente fuori strada, Kamigawa,» la frenai. Era sciocco continuare quella conversazione quando ancora non sapevo se avrei lavorato lì. «Ripeto, stai passando il limite.»
«Buongiorno.»
Una voce alle nostre spalle mise fine a quella discussione. James si fece avanti tra la pioggia, con il suo solito completo gessato e lo sguardo grigio come il cielo di quella mattina. Non avevo il coraggio di guardarlo in faccia. Avevo paura di leggervi dentro l’amara verità che tanto avevo scacciato quella notte, travolta dai pensieri. Cosa dovevo aspettarmi da lui? Compassione, forse? Pietà per ciò in cui mi ero andata a cacciare consapevole dei rischi e delle conseguenze?
L’avvocato salì le scalette della palazzina dove era ubicato lo studio e aprì, dando libero accesso a tutti i soci e i tirocinanti. Rimasi bloccata in fondo alle scale, quasi di pietra. Yuki mi fissava con superiorità, forse già sapendo il mio destino. Il bello è che non riuscivo ad odiarla fino in fondo, perché maledicevo me stessa e il mio essere stata così ingenua. Che fine aveva fatto la vera Venera? Quella ragazza che aveva abbandonato casa per inseguire un sogno?
Che genere di Sogno?
Mi faceva male il cuore, perché ormai era spezzato a metà. La ragione mi diceva di aver fatto il più grosso errore della mia vita, iniziando una relazione con un cliente, ma l’altra parte, quella sentimentale che soltanto di recente avevo scoperto, mi diceva che nessuna scelta fatta in passato era sbagliata. Onestamente alla domanda “rimpiangi di aver scelto Simone?” avrei risposto altre mille volte “no”.
Non devo rimpiangere il mio passato e le mie scelte.
«Non vieni?»
La voce di James mi destò dai miei mille pensieri. Quasi come scossa da un sogno, capii che forse ero stata precipitosa con i miei pensieri. «I-Io?»
L’acqua scrosciava sempre più forte, picchiettando sulle grondaie delle case e formando dei piccoli fiumiciattoli attorno agli angoli dei vicoli di Londra. Alzai lo sguardo oltre l’ombrello a pois e finalmente incrociai gli occhi di James, ancora tristi.
«Vieni dentro,» mi disse semplicemente ed io obbedii.
 
L’ufficio era un via vai di gente appena vi misi piede, nonostante avesse aperto da qualche minuto. Ognuno aveva un compito preciso, che lo volesse o meno, bisognava collaborare per un fine comune. La maggior parte dei tirocinanti veniva impiegato per delle ricerche, oppure per svolgere le mansioni più fastidiose per gli “anziani” dello studio ma ogni piccola azione aveva il suo peso. Per la prima volta da quando avevo iniziato quel tirocinio, vidi le cose in un modo diverso. Da esterno. Mi immedesimai come se già avessi perso tutto quello. Ogni minima possibilità di fare parte di quel mondo.
«Accomodati nel mio ufficio,» pronunciò James, sempre insolitamente serio. Avevo paura di un licenziamento ufficiale, magari anche con una lettera formale di dimissioni.  L’ansia mi salì tutta insieme.
«Siediti pure.»
«Dammi tempo di raccogliere le mie cose…» tentai di dire, ma lui mi fermò subito con un cenno della mano.
 «Non prendere decisioni affrettate,» disse subito, mettendosi seduto di fronte a me. Non sapevo come decifrare il suo sguardo enigmatico. Per la prima volta vedevo James come un estraneo e non come il ragazzo per cui avevo preso una sbandata appena messo piede in ufficio.
«Lasciami parlare. Per prima cosa ti posso assicurare che non ho informato mio zio delle confidenze di ieri, quindi sei ancora tirocinante alla Abbott&Abbott e devi ugualmente impegnarti come prima,» tirai un sospiro di sollievo. «Però non posso nemmeno assicurarti che in futuro mio zio non sia messo al corrente di questo fatto. Devo ammettere che mi servi, sei brava, brillante, ti impegni e ami il tuo lavoro e a me serve una persona con il carisma e la grinta che hai tu. Dobbiamo vincere questa causa, a prescindere dalle ragioni che ci spingono a farlo.»
«James io…»
Volevo giustificarmi, volevo dirgli che io stessa mi impegnavo in quella causa principalmente per lo studio, per un posto alla Abbott&Abbott e soltanto in secondo piano per le mie motivazioni personali.
È una bugia.
«Venera, ti prego,» disse sospirando. «Stai mentendo soltanto a te stessa continuando con questo comportamento. Capisco che tieni molto a questo studio e a questo lavoro, si vede e per questo non ho informato nessuno della tua storia, ma devi prenderti le responsabilità delle tue azioni e le conseguenze che ne scaturiranno.»
Aveva ragione. Confidandogli la mia storia con Simone e la notizia ricevuta dal dottor Ross, non avevo immaginato conseguenze di questo genere.
Davvero avresti pensato che James si sarebbe limitato a stringerti la mano e a farti le congratulazioni?
Ovviamente ero stata ingenua.
«Sì, certo,» dissi mortificata. «Hai tutte le ragioni per licenziarmi o per mettere al corrente Mr. Abbott di questo torto che ho fatto allo studio.»
«Hai centrato il punto, con il tuo comportamento hai offeso il mio nome e quello di mio zio. Se i tabloid inglesi venissero a conoscenza di questa tua relazione e di ciò che ne potrebbe scaturire…»
«Ti prego, non aggiungere altro.»
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, pensando a ciò che era successo tra di noi nel giro di meno di ventiquattro ore. Avevo sbagliato su tutta la linea, avevo pensato troppo con il cuore e agito d’istinto senza prendere in considerazione le conseguenze che ora mi stavano piovendo addosso.
«Devi farmi una promessa,» mi disse serio.
«Tutto quello che vuoi.»
Pur di avere una seconda chance nello studio, nonostante tutto, sarei stata disposta a fare qualunque cosa.
«Sei sicura?»
Cominciai ad avere paura di ciò che James stava per chiedermi. Forse dentro di me sapevo già quale sarebbe stata la condizione per rimanere tirocinante dello studio. D’improvviso avvertii una fitta al cuore, più forte delle altre, come se l’umidità di quella grigia giornata penetrasse fin dentro le ossa. Ossa ormai fragili.
«Sappiamo entrambi che non puoi avere entrambe le cose, almeno per adesso,» disse tristemente. «Ammesso che mio zio non sappia mai di questa storia, devi porvi fine finché sei ancora in tempo. Sono onorato che tu mi abbia confidato questo segreto, ma proprio da amico, e collega, devo darti questa brutta notizia.»
«Non puoi chiedermelo,» sussurrai, sentendo le lacrime pizzicare agli angoli degli occhi.
«È per il tuo bene, per lo studio e per il tuo futuro. Se qualcuno dovesse scoprirlo non potrei più fare nulla per te e butteresti al vento tutti i sacrifici fatti in questi anni. Non dico di abbandonare per sempre ciò che hai coltivato con Mr. Sogno,» e qui cambiò il tono della sua voce perché ancora soffriva per questa storia. «So qual è la tua situazione attuale, ma nell’interesse di questa causa dovresti sospendere. Una volta finita questa storia, potrai affrontare la tua vita sentimentale e privata come meglio credi.»
Non faceva una piega.
«Promettimi che ci penserai,» mi disse e io annuii.
«Credo di non avere altra scelta.»
 
***
 
La clinica di St. Charles si trovava dall’altra parte del Tamigi. Avevo trovato le indicazioni su internet e mi era bastato camminare per circa dieci minuti dopo la fermata della Tube per trovarmelo davanti.
Avevo prenotato le analisi esattamente un giorno prima e per fortuna, dato che si trattava di una clinica convenzionata a pagamento, gli appuntamenti furono presi con ventiquattro ore di anticipo. Avrei avuto le risposte quanto prima, da girare al dottor Ross in attesa di una risposta.
Mi recai in accettazione, visto che avevo poco tempo durante la pausa pranzo.
«Buon giorno,» dissi alla segretaria.
«Salve, mi dica pure il suo nome.»
Diedi i miei estremi alla ragazza che subito li inserì nel computer, dicendomi di attendere una decina di minuti nella sala di attesa. Mi avrebbe chiamato direttamente la signorina dei prelievi, quindi decisi di attendere magari sfogliando una rivista. Cominciai a riflettere su ciò che mi era successo in quei pochi giorni e a quante sale d’attesa avrei dovuto visitare ancora.
Quella della sala maternità.
Scacciai quel pensiero perché non potevo permettermi ulteriori distrazioni. Pensai alle parole di James e a quello che avrei dovuto fare per mantenere il posto da tirocinante allo studio. Lasciare in sospeso la storia con Simone mi parve una cosa del tutto insormontabile, quasi come scalare l’Everest, mi avrebbe lasciata con la stessa carenza d’ossigeno. Inoltre, come avrei potuto dirglielo?
Era stata soltanto colpa mia se ora mi trovavo in questa situazione spinosa. Tutto ciò si sarebbe tranquillamente potuto evitare o prevedere, adesso sarebbe stato difficile per chiunque mettere la parola “fine” a tutto questo. Simone non avrebbe mai compreso questa scelta. Ero sicura che spiegandogli la situazione si sarebbe arrabbiato, senza comprendere quanto fosse importante per me questo lavoro. Però avrei dovuto parlargli, trovare un modo semplice per allontanarmi e spiegargli che si tratta solo di una cosa temporanea. Il tempo necessario per vincere questa causa e trovare il mio posto nel mondo del lavoro.
Sarebbe stata un’impresa titanica.
«Miss Donati?»
Entrai nella saletta e attesi che la dottoressa mi facesse il prelievo.
«Beta-HCG?» mi chiese sorpresa, vedendo le etichette nella lista delle analisi da effettuare sul mio campione di sangue.
Arrossii.
«Si tratta soltanto di una misura di sicurezza, niente di più.»
Cominciavo sinceramente ad odiare quella sigla.
Non provai molto dolore quando infilò l’ago, anche perché sentivo molta più pena dentro. Ormai mi ero abituata ad avere Simone intorno e l’idea di non vederlo più ogni giorno mi faceva stare male.
Forse è il caso che torni nel tuo monolocale.
D’improvviso ci fu quel pensiero che mi balenò in testa. Avevo ancora il mio monolocale affittato fino alla fine dell’anno corrente e l’idea di tornare in un posto che fosse tutto mio, un luogo rassicurante e lontano da quei problemi che mi affliggevano forse mi avrebbe fatto bene.
«I risultati dovrebbero arrivare domani,» mi disse la signorina sorridendo. «In caso, congratulazioni.»
Stiracchiai un sorriso e fuggii letteralmente da quella clinica. Dal momento che St. Charles era convenzionata con lo studio, anche perché era la stessa struttura ospedaliera utilizzata per le contro-analisi della giraffona, l’assicurazione sanitaria mi avrebbe coperto quasi tutte le spese.
Uscii in strada, constatando che ben presto sarebbe piovuto di nuovo.
Nemmeno il cielo collaborava quel giorno e cominciai a sentirmi influenzata anche dal meteo.
Ci manca solo una settimana intera di pioggia, per completare la giornata.
Sarei dovuta tornare a studio in breve tempo, anche perché con James avevamo deciso di recarci nella palazzina dove abitava Simone e chiedere in giro cosa ricordassero di quella famosa sera insieme alla Cloverfield. Dovevamo raccogliere più informazioni possibili, per poi analizzarle ed essere sicuri di non aver tralasciato nessun dettaglio.
Mi trovai a passeggiare nella zona del Globe Theatre, al di là del Tamigi, dove era stato ricostruita la struttura ispirata a Shakespeare, distrutta dopo l’incendio del 1666 che rovinò quasi tutti i monumenti di Londra. Fissai le tipiche pareti bianche adornate da strutture in legno scuro che caratterizzavano il teatro e lo facevano spiccare rispetto alle costruzioni più nuove e moderne. Ricordai come anche a Roma avessero “imitato” questo stile, costruendo loro stessi un Globe ispirato al drammaturgo inglese dove venivano rappresentate le sue più famose opere.
Non ho mai avuto occasione di vederlo all’interno.
Anni vissuti tra Roma e Londra e mi ero persa quasi tutte le rarità che nascondevano entrambe le città. Forse mi ero concentrata troppo sull’unico obiettivo nella mia vita che avevo preso in considerazione, accantonando tutto il resto. Un po’ come il buon caro vecchio Sherlock che non sapeva nemmeno le basi dell’astronomia, perché troppo irrilevanti da tenere a mente. Lui ricordava tutto ciò inerente al suo lavoro ed eliminava il resto.
Un po’ come me.
Promisi a me stessa che una volta conclusa quella storia ed essermi assicurata un posto nella società lavorativa, avrei dedicato del tempo a me stessa senza pormi alcun limite. Per quanto avessi criticato all’inizio Simone, quei mesi passati insieme mi avevano insegnato che vivere giorno per giorno, quasi come se fosse l’ultimo, non era poi così sbagliato.
Mi fermai quando la prima goccia di pioggia mi cadde sulla punta del naso.
Quanto mi sarebbe mancato condividere ogni pensiero con lui? Tornare a casa dopo una sfiancante giornata a lavoro e trovarlo lì, sempre con il sorriso sulla faccia, pronto a tirarmi su il morale. Sapevo che sarebbe stato per poco tempo, la causa si sarebbe risolta di lì al massimo un paio di mesi ma una volta abituati a condividere ogni momento della giornata, anche solo un paio di giorni sarebbero stati infiniti.
Non puoi parlargli nemmeno di quello.
Aprii l’ombrello prima di bagnarmi completamente e mi incamminai verso la Tube, pensando alle ragioni per cui avrei dovuto tenere nascoste le analisi a Simone. Non c’era molto su cui rimuginare. La scelta migliore era quella di tacere fino a quando non avessi saputo per certo quali erano i risultati delle analisi. Non mi conveniva aggiungere problemi laddove mi rendevo conto fossero già insormontabili. Purtroppo quella causa si stava rivelando più spinosa del previsto e per quanto non sopportassi Elizabeth e quello che aveva fatto a Simo, un po’ la comprendevo.
Se fosse successo a me?
Se mi fossi ritrovata incinta, come probabilmente ero, senza alcun appoggio da parte né della mia famiglia né del padre di mio figlio, cosa avrei fatto? Forse mi sarei comportata allo stesso modo, avrei preteso quell’attenzione, soprattutto per quel bambino che non aveva alcuna colpa.
Stai davvero difendendo la giraffona?
Mi sedetti sul primo posto libero, accanto a una signora anziana che leggeva il Times, senza smettere di pensare a quelle che realmente erano le ragioni che avevano spinto la Cloverfield ad intentare una causa contro Simone. Perché una creatura che ancora doveva nascere avrebbe dovuto pagare per l’errore di una notte?
Non mi ero mai immedesimata nei suoi panni, finché io stessa non avevo dovuto affrontare un problema simile. E se una volta data la notizia a Simone, mi avrebbe rifiutata come aveva fatto con lei? Se fosse stato allergico alla paternità di natura?
Magari non voleva proprio dei figli.
Cominciai a farmi salire l’ansia senza volerlo.
Uscii dal vagone un paio di fermate prima dell’arrivo, solo per fiondarmi fuori all’aria aperta e sentire il fresco della pioggia che mi scivolava sulla pelle. Fui presa dal terrore, tutto insieme. Mille paure si susseguirono nella mia mente, facendomi realmente riflettere sul percorso che stavo intraprendendo e su quello in cui mi stavo lanciando senza paracadute.
E se non avesse accettato la mia situazione?
Per quale motivo avevo dato per scontato che una volta vinta la causa – ammesso che ciò sarebbe successo – una volta tornati insieme, sarebbe stato contento di ricevere una notizia di quel tipo? I libri ci avevano sempre insegnato che ogni favola aveva il proprio lieto fine, ma se il mio fosse stato leggermente diverso? Come avrei potuto affrontare tutto quello da sola? Quale sarebbe stata la decisione più logica?
Aborto.
C’era una semplice parola che racchiudeva la soluzione a molti degli inconvenienti di questo tipo. Una cosa che nel caso della Cloverfield avevo considerato scontata, ma a conti fatti, se al posto della giraffona ci fosse stata la sottoscritta, avrei preso molto più tempo per riflettere.
«Ti senti bene?»
Mi ritrovai James davanti, nascosto sotto il suo ombrello nero e visibilmente preoccupato. Non mi ero accorta di aver camminato un paio di chilometri sotto la pioggia e adesso mi ritrovavo davanti alla Abbott&Abbott completamente stravolta e fradicia.
«Più o meno,» mentii.
Avevamo appuntamento alle 14.00, per recarci appunto alla palazzina dove abitava Simone e fare un giro dei condomini chiedendo informazioni. Vedendomi in quello stato, James decise di accompagnarmi subito a casa.
«Sbrighiamoci, altrimenti prenderai un raffreddore,» disse. Non era cambiato molto l’avvocato, sempre premuroso verso chi ne avesse davvero bisogno. Mi dispiaceva averlo deluso in quel modo, costringendolo a mentire a suo zio, il suo stesso mentore e ispirazione, pur di coprire ciò che avevo fatto alle sue spalle, sia dal punto di vista lavorativo che sentimentale.
Tra di noi c’era stato qualcosa, ma non avevo minimamente pensato a quale effetto avrebbe avuto su di lui.
«Mi dispiace,» gli sussurrai, mentre mi teneva stretta al suo fianco per ripararmi dalla pioggia che ormai mi aveva bagnato anche l’anima.
James mi guardò comprensivo. «Vedrai che andrà tutto bene. Mr. Sogno capirà le tue esigenze e ti aiuterà in qualche modo,» mormorò, rassicurandomi. «Anche io ci sarò sempre per te.»
Avrei voluto soltanto piangere in quel momento, lasciarmi andare allo sconforto per ciò che si era abbattuto su di me con la stessa forza di un uragano. Mi chiesi cosa avessi fatto di sbagliato per meritarmi tutto quello, perché mi era stato dato questo indietro, soltanto per essermi lasciata andare una volta.
«Ho sbagliato tutto,» dissi più a me stessa che a James.
Ci incamminammo verso casa, sotto la pioggia che cadeva incessante e non dava un attimo di respiro ai poveri londinesi che tentavano di sbrigare le loro faccende quotidiane. C’era chi tentava di aprire l’automobile senza bagnarsi, chi si alzava il risvolto del completo per non rovinarlo e chi tornava a casa con le buste della spesa, fatte di carta riciclabile, che puntualmente appena prendevano una goccia d’acqua si sgretolavano come fossero fatte d’argilla.
Entrammo nel portone d’ingresso, proprio nel momento in cui un fragoroso tuono fece scattare l’allarme di un paio di automobili e ci rifugiammo in ascensore.
«Appena in tempo,» mormorò James. Anche lui si era bagnato una manica del cappotto di tweed, dato che aveva diviso il suo ombrello con me, tenendomi stretta affinché non mi bagnassi ulteriormente. «Ora ti fai una doccia, ti metti qualcosa di asciutto addosso e andiamo a fare il giro dei condomini.»
Ebbi come la sensazione che in quel momento tutto ciò che era successo in quei giorni non fosse mai accaduto. James sembrava tornato quello di sempre, ma decisi di non lasciarmi ingannare dal momento.
«Sì,» risposi triste.
L’avvocato mi guardò intensamente, quasi come se avesse intuito ciò che stavo pensando. Mi dispiaceva averlo deluso, dovevo riscattarmi in qualche modo da quel mio comportamento ma non sapevo come agire.
Girai la chiave nella toppa, conscia di non trovare nessuno a casa. Simone era agli allenamenti e sarebbe rincasato soltanto la sera. Feci accomodare James nel salotto, posando chiavi e cappotto.
«Mi dispiace,» esordii. Non avevo ancora avuto occasione di scusarmi sul serio, soprattutto con lui. Avevo fatto un torto allo studio e ne sarebbe valso il mio futuro lavorativo ma soprattutto avevo preso in giro la persona che mi era sempre stata vicina, nonostante tutto. «Devo chiederti scusa per quello che ho fatto, per il segreto che ti ho tenuto nascosto, al di là dello sgarro che ho fatto allo studio. Ti chiedo perdono come amico.»
Credo che James apprezzò quello che avevo detto. Forse si aspettava da molto tempo queste scuse, magari se gli avessi parlato prima della mia situazione con Simone, mi avrebbe potuto consigliare meglio.
«Lo apprezzo molto, ma ciò non cambia quello che ti ho detto stamani.»
«Lo so.»
Troncare temporaneamente con Simone sarebbe stato inevitabile, ma avevo paura soprattutto delle notizie che mi avrebbero potuto dare dopo le analisi. Forse mi avrebbe fatto bene dire tutto a Jamie.
«Ho soltanto paura,» ammisi. I capelli mi gocciolavano sul pavimento e nonostante cominciassi a sentire freddo, non smisi di cercare un barlume di calore dallo sguardo dell’avvocato. Avevo bisogno che qualcuno mi dicesse “andrà tutto bene”, nonostante ciò che mi aspettava sarebbe stato molto difficile. Forse necessitavo di una bugia.
Jamie si alzò in piedi e mi posò una mano sulla spalla dandomi il conforto che cercavo. «So che sarà difficile, ma vedrai che alla fine si risolverà tutto.»
Mi lasciai cadere sulla sedia più vicina, sprofondando nel dispiacere. «Non ho chiesto io tutto questo, è capitato!» sbottai, frustrata. «Amo il mio lavoro, ho sacrificato tutto per arrivare a questo punto, ma amo anche Simone!»
Soltanto in ultimo mi resi conto di ciò che avevo ammesso ad alta voce, persino di fronte a James stesso. Cos’era successo? Il mio buon senso era andato a farsi friggere tutto insieme?
Avevo il terrore di guardare l’avvocato e leggervi ancora delusione nel suo sguardo. «C-Cioè, volevo dire…»
«Ven, non mentire a te stessa,» mi anticipò lui. «Posso anche sembrarti duro imponendoti questa decisione, ma sono ormai consapevole della tua scelta. Mr. Sogno ha qualcosa che io non possiedo e forse non potrò mai darti quello che ti ha offerto lui, ma non per questo devi mentire a te stessa.»
Jamie riusciva sempre ad essere razionale e comprensivo, nonostante il torto che gli avevo arrecato. Rendendolo consapevole di quella tresca, gli avevo imposto di tenere un segreto senza dargli la possibilità di scegliere. Lo stava facendo per aiutarmi, per non mettere fine alla mia carriera ancor prima che iniziasse e invece di essergli grata, riuscivo soltanto a farlo soffrire ancora.
«Sono capace soltanto di renderti infelice,» dissi mortificata.
James sorrise. «Non è assolutamente vero. Quando abbiamo deciso di comune accordo di mettere fine alla nostra piccola avventura, mi ero reso conto che non avrei potuto mai darti ciò che cercavi. Sono felice che lo hai trovato in qualcun altro, ma proprio per questo non voglio che rovini tutto ciò per cui hai lavorato. Come ti ho detto stamattina, basta che sospendi la cosa per qualche mese, tanto da darci il tempo materiale di separare lo studio da Mr. Sogno.»
Il problema non consisteva soltanto in quello. Sapevo che Simone non avrebbe mai accettato la separazione, anche momentanea, perché avrebbe pensato subito che James tramasse qualcosa. Non si fidava dell’avvocato, quando invece avrebbe dovuto solo che ringraziarlo.
«Ho fatto le analisi del sangue oggi,» mormorai, togliendomi anche quel peso.
James sgranò gli occhi. «Ora capisco perché sei così bianca! Perché non ti sei presa mezza giornata?»
Scossi la testa. «Lavorare mi distrae dai miei pensieri.»
«Beh, com’è andata?»
Scoppiai in lacrime senza alcun cenno di preavviso. Forse fu una mossa sbagliata, magari avrei svelato una debolezza del mio carattere che pochi conoscevano, ma non resistetti. Fu come se James avesse finalmente allentato la valvola che permetteva a tutte le mie emozioni di fluire liberamente attraverso il mio corpo, e da troppo tempo erano racchiuse e stipate strette al suo interno.
«Calmati, Ven,» disse abbracciandomi. Forse era la prima volta dopo anni che mi lasciavo andare alle emozioni. Era liberatorio.
«S-Scusa…» singhiozzai. «N-Non voglio d-darti altri p-pensieri, s-solo che…» e ricominciai a piangere perché non avevo la forza di pensarci. La sola idea che Simone potesse rifiutarmi dopo la notizia della gravidanza mi distruggeva.
«Se non mi dici cosa ti turba, come posso aiutarti?»
La persona meno indicata per dare consigli su quella mia illogica situazione era James ma allo stesso tempo era l’unico che conosceva tutta la storia. Il solo che razionalmente poteva darmi una mano.
«C-Credo di non aver ancora r-realizzato la mia situazione,» ammisi, cercando di calmarmi e scandire le parole. Confidai a James tutti i miei pensieri, dal primo all’ultimo, dal più positivo a quello più negativo. Gli raccontai di Miss Cloverfield, di come mi sarei sentita se Simone si fosse comportato allo stesso modo con me, dell’idea di prendere in considerazione l’aborto e del non coinvolgere il calciatore per il momento.
James ascoltò paziente, annotò le varie informazioni a mente e fece il punto della situazione. Anche io avrei agito allo stesso modo, ma ormai ero talmente coinvolta da non riuscire a ragionare razionalmente.
«È normale che ti senti così amareggiata,» iniziò. «Se fossi al tuo posto avrei gli stessi identici dubbi, visto che la vostra storia è ancora agli inizi. Non conosco Mr. Sogno nel privato e sinceramente non saprei dirti se si comporterebbe allo stesso modo, posso soltanto analizzare i fatti: con Miss Cloverfield si è trattata di un’avventura di una notte, almeno è quello che appare agli atti, mentre mi pare di aver capito che voi due convivete ormai.»
Fino a stasera.
L’idea di affrontare la separazione da Simone mi fece risalire un singulto. Cercai di calmarmi e di ascoltare ciò che James aveva da dirmi.
«Ho avuto molte storie, spaghetti-girl,» sorrise. «Avendo più esperienza posso dirti come gira la vita e a volte ciò che ci sembra impossibile si trasforma in una prova che possiamo affrontare. Forse non condivido appieno le tue scelte, ma posso dirti di non demoralizzarti. Sono sicuro che se Mr. Sogno fosse a conoscenza del dono che sta per ricevere, una volta confermate le analisi, reagirebbe in modo diverso da ciò che hai pronosticato.»
Quelle parole mi diedero un po’ di respiro. «Lo pensi veramente?»
Sorrise. «Se mi trovassi al suo posto, sarei entusiasta di avere un figlio da te, Ven.»
Il mio cuore mancò di un battito e mi ritrovai a pensare per un momento come sarebbe andata la storia se fossi rimasta con James. Avrei evitato molte più sofferenze, avrei evitato di provare dolore e di lottare fin quasi allo sfinimento contro qualcuno che non rispecchiava per niente il mio carattere.
«Ci tieni ancora a me, James?»
Avevo il terrore di quella risposta. «Sempre.»
 
Una volta fatta la doccia ed essermi resa presentabile, ci recammo sul pianerottolo dell’appartamento pronti ad investigare porta a porta. Bussammo inizialmente a Mrs. Finchel, una signora sugli ottant’anni rimasta vedova e senza figli. La sua casa era un mausoleo dedicato ai gatti, di cui possedeva diciotto esemplari vivi che ti fissavano con aria di sufficienza.
Conoscevo di persona quasi tutti i condomini, visto che abitavo con Simone ormai da quattro mesi, per cui non fu difficile farci accogliere.
«Prego, prego, accomodatevi,» disse la vecchietta. «Posso offrirvi del the?»
«No grazie, siamo venuti solo per una breve visita e per qualche domanda,» risposi prontamente.
«Vi prego, non viene mai nessuno a trovarmi, fatemi questa cortesia…»
«Volentieri signora, del the sarebbe gradito,» intervenne James.
Mrs. Finchel era la classico donna inglese di una borghesi d’altri tempi, di quelle tutte ingioiellate che anche se non aspettavano visite si facevano sempre trovare impeccabili.
L’avvocato si sedette al mio fianco, scansando uno dei gatti che miagolò infastidito. «Cosa pensi possa dirci questa vecchina? Per me non ha nemmeno idea di chi sia Simone Sogno.»
«Non dubitare,» dissi. Sapendo che la signora avrebbe impiegato una buona mezz’ora a fare il the, feci cenno a James di seguirmi in fondo al corridoio.
«Ven ma noi non…»
Lo zittii e lui infine decise di seguirmi.
Sparse per tutto l’appartamento, c’erano ciotole piene di croccantini e lettiere parzialmente usate. Gomitoli di lana, tira-graffi e topi di gomma riempivano il pavimento insieme al lamentarsi dei gatti che ci vedevano come intrusi.
«È irrispettoso girare per l’appartamento senza la proprietaria!» insistette l’avvocato. «Non vorrei pensasse male.»
Gli feci cenno di entrare nell’ultima stanza a destra. «Ora mi darai ragione,» dissi trionfante.
Una volta dentro, James spalanco occhi e bocca. La camera era piena di poster, oggetti e bandiere dei Gunners dal 1970 in poi. Sapevo che il Mr. Finchel, prima di morire, era un appassionato di questa squadra e da quando era venuto a mancare sua moglie non aveva toccato nulla di quella piccola collezione privata.
«Come facevi a…?»
Scrollai le spalle. «Mi è capitato che scendevo le scale con Simone una volta e Mrs. Finchel lo invitò ad entrare. Era sua abitudine invitarlo qualche volta a casa, quando c’era anche il marito, per coronare un po’ il sogno di quel vecchio fan. Così conobbi tutta la storia e la passione di quell’uomo per l’Arsenal e i piccoli gesti che mai mi sarei aspettata da uno come Simone Sogno,» gli confessai.
«Un gesto nobile per una persona nobile,» aggiunse.
Sì, anche se a quel tempo non me ne rendevo conto.
Tornammo nel salotto giusto in tempo per gustare il famoso the inglese.
«Cosa volevate domandarmi, cari?» ci chiese sorridendo.
James le chiese di quella notte, se magari avesse sentito una voce di donna o avesse intravisto la persona con cui Mr. Sogno si era incontrato.
La signora Finchel fece un enorme sforzo per ricordare. «La memoria ultimamente non mi assiste,» si scusò.
Volevamo fare appello a qualsiasi particolare ci suggerisse che l’accusa si fosse sbagliata. Magari Simone aveva portato a casa un’altra, magari nessuno visto che non si ricordava nulla di quella notte.
Le strinsi la mano, nervosa. «La prego, cerchi di ricordare, è importante
«Va bene, tesoro.»
Si prese qualche minuto per rimuginare, mentre sorseggiava la bevanda calda. Mi ricordò un po’ quel rituale indiano dove ci si sedeva attorno ad un fuoco, dentro la tenda tipica della tribù di appartenenza, e si sorseggiava il famoso the della memoria.
«In effetti ricordo qualcosa,» le mie speranze si alimentarono. «Mi pare di aver sentito delle risate nell’atrio, proprio quando il signor Simone rientrava a tarda notte. Mi sono affrettata a guardare dallo spioncino, giusto per capire la fonte di quel chiasso, e vidi nettamente che era accompagnato da una donna bionda.»
Il mondo mi crollò addosso in un istante.
Allora ci era arrivata davvero a casa sua quella notte, era successo tutto ciò che St. James aveva descritto nel verbale d’accusa.
«Ammetto di aver pensato che fosse troppo vecchia per lui,» ridacchiò. «L’ho riconosciuta subito perché avevo letto pochi giorni prima un articolo che la riguardava, qualcosa su un giornale di gossip che però era passato subito in secondo piano.»
«Ne è sicura?» disse James.
La donna annuì. «Adesso che mi ci avete fatto riflettere, di solito mi dimentico le pillole per la pressione ma quando leggo qualcosa che mi interessa mi rimane stampato nella memoria!»
«Ha ancora quella rivista per caso?» domandai ansiosa.
La signora ci pensò su. «Credo che sia qui da qualche parte,» disse, mostrandoci l’immenso salone dove erano sparsi tutti i gatti e vari fogli di giornale piazzati sul pavimento per non sporcare.
Mi prese un accidente. «Ne è assolutamente sicura?»
La vecchietta annuì ammiccante.
Passammo il resto del pomeriggio, fin quasi a tarda sera, ad analizzare minuziosamente ogni foglio delle riviste sparse a terra. Rischiai più volte di essere graffiata o azzannata dai gatti della signora Finchel e verso le 19.00 stavo quasi per gettare la spugna.
«Io vado a mangiare, sto morendo,» sussurrai a James, chino come me sui pezzi di carta.
«In effetti è più dura di quanto pensassi,» ammise.
«Bisogna vedere se effettivamente questo articolo esiste,» sospirai. Non che dessi poca fiducia alla vecchietta, ma poteva anche aver travisato tutto.
Stavamo per mollare tutto, quando uno dei gatti della signora si spostò pigramente dalla cuccia da cui scaturì un pezzetto di foglio dove riconobbi il nome della Cloverfield. «Eureka!» gridai.
Strinsi tra le mani l’articolo di cui ci aveva parlato Mrs. Finchel e non potevo credere che esistesse davvero. Come mai ci era sfuggito? Per quale motivo nessuno aveva sentito parlare di questa rivista prima?
«Leggi cosa dice,» mi incalzò James.
Forse eravamo arrivati finalmente ad un punto di svolta, magari proprio per quella nostra minuziosità nell’analizzare passo per passo i movimenti di Simone avevamo trovato un escamotage.
Leggemmo frettolosamente l'articolo, scoprendo l'amara verità che forse avrebbe dato una svolta al nostro caso. «Guarda qui,» mi disse l'avvocato e lessi essattamente il paragrafo che indicava.
 
[...] e dopo un lungo processo per dubbia paternità, durato all'incirca un anno e concluso con la vittoria della difesa, Miss Cloverfiel fu costretta a ritirarsi un po' dalle scene, ritornando ad essere la ragazza del Kent di cui nessuno aveva sentito parlare.
 
«Pazzesco,» esclamai.
Non solo la giraffona pretendeva di spillare ancora più soldi e fama da Simo, approfittando di una notte in cui era stato poco furbo, ma addirittura si era permessa di rifare una cosa di cui già si era pentita in passato.
Andammo avanti a leggere ma la pagina si era interrotta con uno strappo. «E ora?»
James piegò con cura il foglio di quella rivista e se lo mise all’interno del giaccone di tweed. «Ora non ci resta che trovare lui,» suggerì, riferendosi al poveraccio che quella arpia aveva tentato di rovinare.
Dal momento che l’articolo non forniva alcun particolare giudiziario, sarebbe stato compito nostro risalire alla faccenda passo per passo. Mi sentii notevolmente sollevata, quasi eccitata, perché dopo eterne settimane passate a cercare tra i vecchi casi e trovando soltanto mondezza, finalmente qualcosa di positivo ci si prospettava davanti.
«Dove pensi di trovarlo?» chiesi.
Nell’articolo compariva soltanto un nome di fantasia, John Voight, ma sapevamo entrambi che era stato messo lì per dare un soggetto vago allo scandalo. «Potremmo risalire a lui contattando direttamente il giornalista che ha scritto tutto ciò.»
Salutammo e ringraziamo Mrs. Finchel, tendando di fare uno slalom olimpionico tra tutti quei gatti che sembravano fare a gara per farti capitombolare per terra. Non volli perdere altro tempo e senza nemmeno prendere borsa e cappotto, ci dirigemmo di corsa allo studio per fare una ricerca mirata su un certo Bastian Force.

 

Benvenuti/e al nuovo aggiornamento del Lunedì!
Prometto di essere sempre puntuale d'ora in poi, anche perché la storia è finita e deve solamente essere pubblicata. Vi invito ad iscrivervi al gruppo "Crudelie le originali - diffidate delle imitazioni" dove saranno linkati tutti gli aggiornamenti, ci saranno spoiler dei prossimi capitoli, sondaggi e tanto altro! 
Insomma, vi è piaciuta Mrs. Finchel e il marito tifoso dell'Arsenal? Il mistero attorno alla Cloverfield si sta infittendo, soprattutto perché pare che sia più finta di quanto sembri. Ven e Jamie andranno fino in fondo? 
Scopriamolo insieme nei prossimi capitoli! 

Un bacio, 
Marty.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26
 
«Mr. Force vi riceverà appena possibile, vi prego di aspettare in sala.» La segretaria del Daily Voice era piuttosto scorbutica, e anche brutta a dire la verità. Appena avevamo saputo dove questo giornalista prestava servizio e quale fosse il nome della rivista, io e Jamie ci eravamo fiondati alla sede senza perdere un attimo di tempo.
Ogni minuto era prezioso ormai.
«Spero non ci faccia aspettare in eterno,» sbuffai, fissando lo schermo del cellulare.
«Non possiamo saperlo,» sospirò James. «In fondo gli siamo piombati a lavoro senza alcun preavviso, avrebbe tutte le ragioni di scansarci.»
L’idea di tornare a casa a mani vuote mi gelò il sangue. Più tempo avremmo perso giorno dopo giorno, più il processo si sarebbe avvicinato e se non avessimo trovato qualcosa di concreto per quella data, Simone avrebbe perso la causa e si sarebbe dovuto accollare Miss. Cloverfield e la sua sete di fama.
Per non parlare di te…
Il mio subconscio riusciva sempre a mettermi di malumore. Ho già preso la mia decisione, ribadii più a me stessa che a quella parte di me che ancora insisteva ad essere così acida e scontrosa.
«A cosa pensi?» mi chiese l’avvocato, vedendomi un po’ assente.
Scrollai le spalle. Ormai potevo fidarmi di James, tutto ciò che aveva detto lo aveva fatto nel  mio interesse e non perché lui stesso ci avrebbe ricavato qualcosa. «A tutto questo,» dissi, mostrandogli ciò che mi circondava. «Non avrei mai pensato di amare questo lavoro ancora più di quanto avessi immaginato, ma è così.»
«È un gran bel lavoro,» sorrise l’avvocato.
Sospirai, abbassando lo sguardo. «Ed è proprio per questo che devo lottare e mettere da parte tutto il resto.»
Mi riferivo a Simone, ciò era piuttosto ovvio. Non avrei mai immaginato, un anno fa, che rinunciare ad un ragazzo per inseguire il mio sogno sarebbe stato così difficile. Appena conosciuto, Simone non era mai stato nulla per me. Lo avrei volentieri venduto al primo offerente se non fosse stato per la causa in corso che mi avrebbe permesso di diventare socia dello studio. Da quel giorno a questa parte, era cambiato tutto.
«Spaghetti-girl,» sorrise Jamie, mettendo una mano sulle mie e guardandomi comprensivo. «Non devi rinunciare per sempre, ricordalo.»
Stiracchiai un sorriso. Non sarebbe stato un addio definitivo, ma sapevo che il calciatore l’avrebbe presa molto male. Mi aveva sempre accusata di pensare più al mio lavoro che alla famiglia, visto che non avevo pensato due volte ad andarmene di casa alla prima occasione. Ma appunto per quello avrebbe dovuto comprendere quanti sacrifici avevo fatto per giungere sino a quel punto, scegliendo lui avrei buttato anni fuori casa per non ottenere nulla.
«Non capirà, James. Sentirà soltanto ciò che vorrà udire.»
L’avvocato non riuscì a darmi una risposta perché la segretaria del signor Force ci fece accomodare nell’ufficio del giornalista. Vidi un enorme iMac dietro al quale si nascondeva un omino piuttosto insignificante, con un paio di occhiali altrettanto sproporzionati al suo piccolo visetto.
«Buongiorno, a cosa devo questa visita improvvisa?» ci domandò.
Mi guardai attorno e notai che ogni oggetto presente in quelle quattro mura era di dimensioni esagerate, come se la carenza d’altezza di Bastian Force dovesse essere compensata da una miriade di cose enormi.
«Sono James Abbott e questa è la mia collega Venera Donati,» ci presentò subito James, stringendogli la mano. «Siamo venuti qui per farle delle domande in merito a questo,» e spiegò l’articolo di giornale sulla scrivania del signor Force.
L’omino afferrò il foglio con le dita tozze e corte, poi si sistemò gli occhiali sulla punta del naso e sorrise. «Dove siete andati a ripescarlo?» chiese allegro.
Ci guardammo un po’ perplessi. «Da una nostra conoscente,» arrabattai io. Bisognava comunque mantenere il riserbo sul caso di Simone. Bastian Force era un giornalista, si occupava di cronaca mondana e il Daily Voice era uno delle testate scandalistiche più famose di tutta Londra. Ci trovavamo nella tana del lupo e bisognava giocare d’astuzia.
L’omino sorrise furbescamente. «Cosa vorreste sapere e perché?»
Era evidente che aveva capito che sotto c’era qualcosa. James Abbott, per quanto fosse il membro più giovane dello studio tra tutti i suoi parenti, portava un cognome che brillava come un faro nella notte. Mr. Force aveva inteso tutto, o quasi.
«Signor Force,» incominciò James. «Siamo venuti per chiederle informazioni sulla notizia che lei ha pubblicato circa cinque anni fa su una rivista, dal momento che non riusciamo a trovare alcuna informazione in merito nei nostri archivi.»
E questa era la cosa più strana.
Se la Cloverfield era comunque giunta in tribunale, avremmo quantomeno dovuto conoscere qualche stralcio di quella faccenda. Invece sembrava del tutto cancellata dalla storia, quasi insabbiata.
Mr. Force unì le dita l’una all’altra, facendo combaciare i polpastrelli con una lentezza quasi snervante. «Tutto ha un prezzo, miei cari,» sibilò, come il rettile infimo che era.
Strinsi le mani nei pugni, trattenendo a stento la voglia di strozzarlo davanti a James. In ballo c’era molto, perché se avessimo conosciuto nei dettagli questa storia magari saremmo potuti venire a capo della causa, ma quale prezzo avremmo dovuto pagare?
Gettare Simone in pasto alle testate giornalistiche era un’azione di pura vigliaccheria.
«Ci dica qual è il suo,» lo incalzò James.
Mi voltai verso l’avvocato pregandolo con lo sguardo che non dicesse sul serio. Al di là del fatto che avremmo sempre dovuto tenere tutto nascosto sin dall’inizio, come da contratto, a Simone tenevo più di me stessa e non potevo essere complice di questo.
«James,» gli sussurrai, stringendogli un polso.
Ti prego non farlo…
Mr. Force se la rideva sotto i folti ed enormi baffi. «Vorrei conoscere il motivo per cui state indagando su Miss Cloverfield,» disse serafico. «Ho sempre avuto una passione per quella piccola strega e da una parte ammiro la sua caparbietà nel farsi strada in questo mondo.»
Sgranai gli occhi. Davvero quella serpe ammirava addirittura Elizabeth? «Se lo può scordare,» iniziai ma vidi che James subito mi fece cenno di smettere.
«Va bene,» disse ed io sentii il sangue gelarsi nelle vene. «Però alle nostre condizioni.»
 
«Sei completamente fuori di testa?!» urlai.
Eravamo rimasti io e James nell’ufficio del mezz’uomo, come avrebbe detto Gandalf, mentre attendevamo dei documenti da firmare per la riservatezza.
«Calmati Ven, ho tutto sotto controllo.»
Per quanto mi fossi sempre fidata di James e del suo giudizio, quella volta ogni fibra del mio corpo mi stava urlando “cazzata!”. Era rischioso, troppo. Anche se le condizioni di riservatezza avrebbero obbligato Mr. Force ad avere l’esclusiva soltanto dopo la conclusione del processo, era pur sempre un giornalista.
Questi erano gente che pur di ottenere una prima pagina si sarebbero venduti persino la propria madre al mercato nero. La peggior specie che esisteva al mondo.
«Non possiamo fidarci di lui,» insistetti. «Tuo zio è stato chiaro su questo. Avremmo dovuto tenere fuori Simone e la Cloverfield dalle chiacchiere.»
«Dobbiamo per forza, Ven,» mormorò quasi disperato. «Non voglio mentirti, ma questa è l’ultima occasione che abbiamo per avere qualche speranza di vincere la causa!»
Per quale motivo era nel panico? In fondo non eravamo poi così disperati, eppure dalla sua voce e dal suo sguardo traspariva soltanto questo.
«D-Devi dirmi qualcosa, Jamie?»
In quel preciso istante fece il suo ingresso Mr. Force, trotterellando e tentando di mettersi a fatica seduto sull’ampia sedia.
«Qui abbiamo un accordo di riservatezza dove il Daily Voice e il sottoscritto si impegnano a non divulgare le informazioni ricevute prima del lasciapassare della Abbott&Abbott, a conclusione del processo.»
James afferrò il documento e lo lesse fino in fondo, nei minimi dettagli. «Bene.»
L’ometto sorrise. «Mr. Abbott una firmetta qui e qui, e una sigla in fondo.»
Ad ogni riga tracciata dalla Biro di James sentii il cuore tremare. Sapevo che l’avvocato stava facendo tutto quello nel bene di Simone e della causa, ma il mio intuito mi diceva che stavamo sbagliando. Forse c’era un altro modo per affrontare quella difficoltà.
«Ora è arrivato il momento di un buon the,» e chiamò la segretaria per ordinare. «Dobbiamo festeggiare questa nuova e conveniente collaborazione, non credete?»
«Preferirei passare ai fatti,» rispose perentorio James.
Mr. Force sorrise furbo. «Cosa volete sapere, esattamente?»
Questa volta decisi di intervenire. «Tutto,» ringhiai. Avevamo venduto Simone e la sua vita privata alla stampa e per quel motivo avrei preteso fino all’ultimo particolare di quella storia. «Cominci dal principio.»
L’ometto si voltò per raggiungere l’archivio. Frugò tra le scartoffie con le dita corte e tozze, scartabellando ogni piccola cartellina che aveva e ne tirò fuori una dal color verde bottiglia. «Eccoci qui,» disse, posando i fogli sulla sua immensa scrivania. «Cominciamo dall’inizio, signorina.»
 
***
 
Passammo l’intero pomeriggio, fin dopo cena, ad ascoltare, trascrivere e segnare ciò che il giornalista aveva scoperto in anni di indagini. Venne fuori che Miss Cloverfield aveva un passato di ragazza semplice, nelle campagne del Kent, e che il suo primo desiderio era stato sfondare nel mondo dello spettacolo.
«La cosa che più desidera al mondo è la fama,» disse Mr. Force. «Partite dal presupposto che farebbe di tutto per ottenere notorietà e non le importa il modo.»
Questa non era una notizia, sin da quando l’avevo conosciuta mi era parsa una persona scialba e senza alcuna personalità. Viveva solamente in base al suo aspetto e sui poveracci che poteva sfruttare sino a succhiargli via il midollo.
«La peggior specie,» sibilai schifata.
Il giornalista continuò elencando gli scatti di carriera della ragazza, una volta arrivata nella grande città, ma notammo che si arrestarono subito in quanto l’unico talento che possedeva era la bellezza.
«Qui capì che da sola non ce l’avrebbe fatta a sfondare,» disse l’uomo, indicando un vecchio articolo risalente al 2005, dove era riportata una foto della Cloverfield in compagnia di un giovane attore.
«Lui chi è?» chiesi, dal momento che non ero molto informata di gossip e star londinesi.
James mi guardò sorpreso. «Non sai davvero chi è George Wright?»
Scossi la testa dubbiosa.
«È stato uno dei più giovani attori ad aver recitato in una serie famosa della BBC che ha vinto numerosi e prestigiosi premi televisivi,» rispose Force. «Ha vinto anche il titolo di sex symbol britannico dell’anno.»
 Guardando la foto rimasi perplessa. Simone era molto più bello di quello lì, pensai ma due secondi dopo mi ritrovai ad arrossire perché mi rendevo conto di non riuscire a pensare ad altro che al calciatore.
«E cosa è successo dopo?» chiesi.
«Dopo viene il bello, ragazza mia,» rispose l’ometto.
Scoprimmo che la Cloverfield e il signor Wright si erano conosciuti in un locale di Londra, il Desire, frequentato quasi sempre da personaggi famosi.
È lo stesso pub dove ha incontrato Simone. Oltre ad essere una fagiana reale, era addirittura più stupida di quanto avessi mai immaginato. Andava a catturare le sue “prede” sempre nello stesso posto.
Mr. Wright e la giraffona erano usciti insieme per un paio di mesi poi lui, per motivi personali, aveva deciso di troncare la storia e dopo nemmeno una settimana aveva ricevuto la convocazione in tribunale.
«Agisce sempre allo stesso modo,» rifletté James.
Gli occhietti di Mr. Force si illuminarono, pregustando informazioni sul caso attuale che riguardava Miss Cloverfield.
«Quindi ci ha riprovato?» tentò di chiedere.
James lo ignorò, come la sottoscritta. «E dunque perché tutto ciò non compare negli archivi del tribunale statale?»
L’ometto sorrise. «Anche se Miss Elizabeth può sembrare una donna priva di materia celebrale, ha fatto i suoi compiti a casa. Molto spesso avere conoscenze in alto è molto più utile di avere un QI sopra i centodieci punti.»
«Vorrebbe dire che…»
«Non posso provarlo, Mr. Abbott,» lo fermò subito il giornalista. «Detto con sincerità ho provato ad indagare, anche utilizzando metodi poco ortodossi e al limite della legalità, ma ogni foglio, notizia o dato di quel famoso processo che mentalmente molti ricordano, è sparito. Non è rimasta traccia concreta di nulla.»
James si mise le mani tra i capelli. «Come faremo a dimostrare queste notizie se non esiste alcuna prova?» domandò disperato.
Mr. Force tornò all’archivio, frugando ancora tra le scartoffie. «Questo e l’unico documento che sono riuscito a recuperare dal tribunale ed è una copia originale del processo sbobinato e trascritto. Non ci sono altri documenti esistenti ma questo porta il sigillo del giudice Major, che all’epoca seguì il processo, e che potrebbe testimoniare. Miss Cloverfield si è adoperata per cancellare ogni ombra scura incombesse sul suo passato, anche i suoi stessi errori, ma la mia tenacia ha fatto sì di poter pubblicare l’articolo che avete trovato senza alcuna denuncia di diffamazione,» concluse. [da rivedere]
«E come mai soltanto il vostro giornale ha trattato questo argomento?» domandai. Se la notizia era reale e dimostrabile, per quale motivo soltanto la rivista per cui aveva lavorato Force cinque anni fa era uscita con quel pezzo?
Il giornalista sospirò. «All’epoca non possedevo tutto questo,» disse, facendoci notare il suo salto di carriera e di importanza. «Il giornale per cui lavoravo a suo tempo era poco conosciuto e io stesso ancora dovevo farmi un nome nel mondo del giornalismo,» sospirò. «Riuscii ad ottenere un titolo sulla copertina solamente perché ogni parola che scrissi era dimostrata dai fatti o dai documenti che avevo riportato, cosa che nessun mio collega era riuscito ad ottenere. Riuscimmo ad avere l’esclusiva di quel pezzo, ma andò quasi del tutto perso tra gli altri gossip più noti.»
In quel momento compresi lo stato d’animo di Mr. Force. Cinque anni fa era agli inizi della sua carriera, un po’ come me, era ancora onesto e lavoratore, un tipo che si era diviso il quattro pur di poter scrivere un articolo degno di nota. Il suo impegno non era stato premiato all’epoca e forse la Cloverfield non aveva dato alcun peso a quelle poche righe stampate su un giornale che nessuno avrebbe mai letto o comprato.
«Miss Cloverfield la denunciò?» chiese James, annotando tutto.
Force scosse la testa. «Ci arrivò una querela in ufficio, ma quando presentammo i documenti in tribunale pronti ad affrontare il processo, Miss Elizabeth si offrì di pagarmi pur di ritirare quel piccolo neo che macchiava la sua intera carriera come giovane attrice.»
Spalancai gli occhi. Era davvero una vipera quella donna.
«All’epoca ero puro di cuore e non accettai, ma ora come ora mi pento di aver rifiutato quelle 100.000 sterline che mi prometteva. Se avessi saputo che quei miei sforzi non avrebbero portato a nulla…» ridacchiò.
«Beh, meglio per noi,» disse James soddisfatto. «Oppure adesso non avremmo tutto questo materiale da analizzare e sfruttare a nostro vantaggio.»
Notai il nome di John Voight all’interno dell’articolo, cosa che mi aveva sorpreso appena letto. «Chi è John Voight?»
Il giornalista sorrise. «Cinque anni fa ricevetti una telefonata dall’avvocato di Mr. Wright,» disse sollevato. «Erano venuti a conoscenza dell’articolo che stavo per pubblicare e si adoperarono per limitare i danni già causati dalla ragazza. Mi chiesero di utilizzare possibilmente un nome di fantasia, e per quella volta accettai.»
Mi parve piuttosto logico, anche se non riuscii davvero a credere che quel piccolo essere approfittatore si fosse lasciato convincere da un semplice “ti prego”.
«Ovviamente lo feci sotto compenso,» ridacchiò.
E ti pareva!
«Quindi, ricapitolando,» analizzò James, rileggendo gli appunti. «Quando Mr. Wright si è reso conto di voler troncare la relazione con Miss Elizabeth, tempo una settimana e viene citato in tribunale per una causa…»
«…di dubbia paternità,» concluse Mr. Force.
Non fa una piega.
«Miss. Cloverfield affermava che l’attore l’avesse voluta abbandonare una volta scoperta la gravidanza di lei, per questo si era sentita in dovere di proteggere la sua persona e la creatura che portava in grembo.»
Strinsi ancora di più i pugni, conficcandomi le unghie nei palmi. Venire a conoscenza di quella storia che si ripeteva nel tempo mi mandò su tutte le furie. Come poteva agire in modo così meschino? Per quale ragione quella donna sfruttava la gente soltanto per ottenere una cosa futile come la notorietà?
La fama è qualcosa di passeggero.
«E come si concluse il processo?» chiesi, anche se nell’articolo avevo letto qualche anticipazione.
Il giornalista si allisciò i folti baffi castani. «Ricordo che seguii il processo in prima persona. Non avevo ancora le idee chiare sul mio articolo, ma quella vicenda mi incuriosì molto. Si svolse in circa due anni, in quanto la prima volta vennero smarrite misteriosamente delle cartelle mediche, ricomparse soltanto dopo, e ci furono numerosi rinvii per lo stato di salute della ragazza. Ricordo che dopo il quarto mese non fu quasi mai presente in aula e soltanto quando venne a galla la verità, perché Mr. Wright aveva assunto addirittura un investigatore privato, si capì che era tutta una farsa.»
«Quindi non era incinta?» chiese James.
Il giornalista scosse il capo.
«Una volta che la difesa ebbe la brillante idea di chiedere la conferma del DNA ad una clinica fidata e convenzionata con lo studio, venne fuori che le analisi presentate dall’accusa erano soltanto un falso.»
Quella storia era passo dopo passo sempre più simile a ciò che ci stava accadendo. In pratica avevano compiuto le nostre stesse mosse, senza che noi conoscessimo nulla di questa vicenda. D’altronde avevano agito come qualsiasi bravo avvocato avrebbe fatto.
«E quale fu il risultato?» domandai.
Mr. Forse annuì compiaciuto. «Aveva falsificato le analisi del sangue e i test relativi al DNA, alterando dei valori con la collaborazione di qualcuno che alla stampa non fu mai rivelato. Quella ragazza ha sempre un asso nella manica, ma ovviamente non poteva prevedere che il giudice accordasse una riprova del test in un’altra clinica. A quel punto non poté fare assolutamente nulla e si scoprì l’inganno.»
A distanza di cinque anni c’erano due casi prettamente identici di cui non si sapeva quasi assolutamente nulla. Forse anche Mr. Wright, all’epoca, esigeva la stessa privacy che avevamo riservato a Simone. Una vicenda che avrebbe fatto scalpore se portata alla luce e confermata dai fatti, e per fortuna – per una volta – la stampa era stata utile a quel proposito.
«Ora tocca a voi, miei cari. A cosa devo il rilascio di queste preziose informazioni?»
 
Una volta in strada, fuori dagli uffici del Daily Voice, non riuscii più a trattenere le emozioni. Avevo l’adrenalina che mi scorreva in corpo, un po’ perché finalmente il caso aveva trovato un punto di svolta un po’ perché non sopportavo il fatto di aver in qualche modo tradito la fiducia di Simone, consegnando la sua vita privata in mano a quella serpe.
«Perché abbiamo dovuto farlo?» sbottai, fissando James preoccupata.
Lui mi restituì uno sguardo spento. «Mi dispiace ma era l’unico modo. Hai visto quante informazioni abbiamo ottenuto da Force e senza qualcosa in cambio non avrebbe aperto bocca.»
«Ma tuo zio è stato chiaro, dovevamo mantenere il riserbo su questa storia!»
Tirai fuori la balla di Mr. Abbott, ma sapevamo entrambi che la mia preoccupazione verteva unicamente sul calciatore.
James si avvicinò posandomi una mano sulla spalla. «Non ti ho detto tutto Venera,» sospirò.
Odiavo il modo in cui pronunciava il mio nome per intero. Significava solo una marea di guai in arrivo, un po’come faceva mia madre quando trovava la mia stanza in disordine.
«Ho dovuto firmare il patto di riservatezza perché qualche giorno fa è arrivata la riprova delle analisi del St. Charles e non sono buone notizie,» sospirò. «Al contrario di ciò che è accaduto a Mr. Wright, questa volta i risultati sono positivi e non c’è giudice che possa evitare di tenere conto di questo. O Miss Cloverfield si è fatta più furba, oppure ciò che dice è vero.»
Mi crollò il mondo letteralmente addosso. Tentai di spostarmi poco più in là, ma l’onda d’urto mi colpì con la potenza di un uragano. Con tutta me stessa avrei voluto cancellare le parole di James, ma era del tutto inutile.
«L’articolo di Force era l’unico modo per andare avanti,» sospirò. «Anche se mi dispiace averti fatto un torto.»
Sospirai. «Se avessi saputo, avrei fatto lo stesso. Non ti preoccupare.»
Ci incamminammo verso Courtney Road rimanendo in silenzio. La pioggia di quella giornata si era calmata, lasciando spazio alla luce della sera che piano piano si allontanava. I tramonti del nord Europa erano molto diversi da quelli che ammiravo nella mia terra. Le giornate estive infinite, i climi miti e le belle giornate primaverili, con il tepore del sole che riscaldava le mattinate. Qui a Londra mi ero abituata ad uscire sempre di casa armata di sciarpa e ombrello. Il tempo cambiava repentino e i giorni in cui mettere gli shorts o le gonne senza le calze si potevano contare sulle dita di una mano.
«Forse è meglio che ne parli tu a Mr. Sogno,» disse James, interrompendo il silenzio. «Credo tu sia la persona più adatta da cui ricevere questo tipo di notizia.»
Annuii. Certo sarebbe stato un duro colpo per Simone ricevere quella notizia, anche se ormai avrebbe dovuto farci l’abitudine. Nessuno gli aveva detto che quel test fosse infallibile, una possibilità c’era e si era confermata.
Non sarebbe stato facile accettare nulla di quello che gli avrei dovuto dire, ma da qualche parte avrei dovuto iniziare. Certo la nostra indagine per fortuna era arrivata ad un punto di svolta, ma non era affatto detto che si trattasse solo di una farsa.
È quello che speri tu.
Speravo con tutto il cuore si trattasse di un ingegnoso piano organizzato da St. James, con la complicità di quella infima giraffona, ma le possibilità si assottigliavano sempre di più.
«Ora come faremo a dimostrare ciò che abbiamo scoperto al Daily?» dissi scoraggiata.
Senza alcuna prova documentata del processo avvenuto cinque anni fa ai danni di Mr. Wright, avremmo presentato in aula soltanto delle prove circostanziali. Nessun giudice avrebbe ammesso quelle notizie come certe.
«Non ne ho davvero idea,» sbuffò James con le mani in tasca.
Aveva le spalle curve, sconfitte, quasi come se si rendesse conto che il prezzo che aveva pagato per quelle notizie fosse stato del tutto vano. Pensai alle parole di Mr. Force, a ciò che Elizabeth era stata in grado di fare insabbiando tutto e al fatto che il giornalista era andato fino in fondo per scoprire la benché minima prova, mettendo letteralmente a ferro e fuoco il tribunale, eppure mi sfuggiva una cosa essenziale.
«Forse ho avuto un’idea!» dissi trionfante, fermando James in mezzo alla strada.
«Quale?»
Gli puntai il dito indice contro, ottenendo tutta l’attenzione che meritavo. La vecchia Ven era tornata, la ragazza che non si sarebbe fermata di fronte a nulla aveva temporaneamente sostituito la Venera più sentimentale e lunatica. «Dovremmo fare una chiacchierata con Mr. Wright. In fondo, chi meglio di lui – che ha vissuto la storia in prima persona – conosce tutti i particolari? Magari i suoi avvocati hanno conservato qualcosa, potrebbero esserci delle prove o a limite una testimonianza!»
L’attimo di eccitazione dell’avvocato si spense all’improvviso. «Non ha nemmeno voluto essere citato in prima persona nell’articolo, come pensi possiamo convincerlo a testimoniare?»
«Dobbiamo tentare,» dissi. Mr. Wright costituiva la nostra ultima speranza per avere qualche possibilità di vincere la causa.
 
***
 
Tornare a casa dopo una giornata fredda e umida era sempre un piacere, soprattutto se ad attendervi c’era un ragazzone alto più di un metro e novanta completamente insonnolito sul divano. Entrai delicatamente in casa, attenta a non svegliarlo, ma non appena Simone udì le chiavi tintinnare alzò la testa fissandomi insonnolito.
«Dove scei scitata?» biascicò, con i capelli sparati in tutte le direzioni.
Erano appena le 23.00, eppure non mi ero resa conto di quanto tempo avessi passato con James cercando di rintracciare l’equipe di Mr. Wright in modo da fissare un appuntamento. Quell’uomo era diventato quasi introvabile.
«Lavoro, lavoro e lavoro!» sbuffai, togliendomi sciarpa e cappotto.
Lanciai letteralmente le scarpe senza nemmeno curarmi di dove andassero a finire e mi trascinai letteralmente tra le sue braccia. Quel giorno avevo fatto anche il prelievo e i sintomi di sonnolenza si fecero sentire molto presto. Purtroppo c’erano ancora molte cose in sospeso che mi impedirono di prendere sonno subito.
«Passi molto più tempo con quello che con me,» infierì Simone, cominciando a fare la sua solita sceneggiata gelosa da bambino di cinque anni.
A questo punto, se le analisi risultano corrette, dovrai crescerne due di bambini, anziché uno solo!
La prospettiva non era delle più allettanti, in effetti.
«Smettila di essere così infantile, te l’ho spiegato un’infinità di volte che dobbiamo lavorare insieme perché siamo un team. Lui è il mio tutor e mi affianca in questo tirocinio, per me è molto importante questo lavoro. È l’opportunità che sogno da sempre.»
Sperai di fargli capire una buona volta quali fossero le mie priorità e le mie ambizioni.
Simone posò la testa sul mio grembo, fissando il pavimento.
Cominciai ad allisciargli i folti capelli bruni, tentando di dare un senso a tutto quel disordine ma rinunciai quasi immediatamente.
«Il tuo lavoro viene prima di tutto, l’ho capito,» mormorò serio. «Anche prima di me.»
Sapevo che saremmo andati a finire di male in peggio quella sera. Lo costrinsi ad alzarsi e a fissarmi negli occhi, ma fu l’errore più grande della mia vita. Non avevo mai visto Simone Sogno così espressivo. I suoi occhi erano una marea di oro nero liquido in cui annegare, come la pece ed io ero la gabbianella che non riusciva più a volare.
Riusciva sempre ad intrappolare ogni mio pensiero, a far vacillare le mie certezze.
«Devo dirti una cosa,» mormorai. Non ero ancora pronta a lasciarlo andare. «Riguarda il caso.»
Simone si raddrizzò meglio. Cominciò a torcersi nervosamente le dita, mangiucchiandosi un unghia e sospirando ansioso. «Bella o brutta?» chiese solamente ma già dalla mia espressione aveva avuto il sospetto che non si trattava di buone nuove.
«Il secondo test del DNA che abbiamo richiesto noi alla St. Charles è risultato anch’esso positivo,» sospirai. «A livello scientifico tu sei indubbiamente padre della creatura che Miss Cloverfield porta in grembo.»
Tentai di essere più professionale possibile, evitando strafalcioni o nomignoli. Per quanto odiassi quella donna, dovevo rimanere calma per Simo. Non era una situazione facile né per me né per lui, ma per adesso avrei mantenuto il mio segreto.
«Dannazione,» ringhiò, mettendosi le mani tra i capelli. «Stupido! Stupido! Stupido!» gridò, picchiandosi violentemente la fronte. Cercai di fermarlo in tutti i modi, di evitare che si facesse male così lo strinsi forte al petto evitando che infierisse su se stesso.
«SMETTILA!» urlai disperata. Sentii le lacrime salirmi agli occhi perché non avrei mai immaginato una reazione del genere. Simone era sempre stato quello sorridente, quello che ironizzava su tutto e addirittura trovava il lato positivo e scherzoso di ogni cosa. Io ero la metà più realistica, tragica e addirittura noiosa.
Il calciatore si calmò, stringendomi a sua volta. «Mi dispiace,» sussurrò.
«Non fa niente, tranquillo, sono cose che capitano. Basta che non lo ripeti mai più perché mi hai spaventato.»
«No,» ripeté serio, alzando lo sguardo. «Mi dispiace per te.»
Cosa voleva dire con quelle parole? Non capii di cosa si stesse scusando e frettolosamente ripensai a qualunque cosa fosse successa.
«Non capisco…»
Mi prese il viso con una mano, accarezzandomi con il pollice delicatamente. «Se solo ti avessi incontrata prima,» mi confessò. Avevo il cuore che mi batteva a mille e lo stomaco completamente attorcigliato su sé stesso. «Sarebbe stato tutto diverso e non mi sarei trovato in mezzo a questo casino. Mi dispiace soprattutto per te Ven, che nonostante i nostri alti e bassi e il mio carattere di merda continui a supportarmi.»
Si era ammattito tutto insieme? Lo avevano forse rapito gli alieni? Sedato? Magari gli avevano fatto il lavaggio del cervello!
Devi ammettere che questa versione ti piace…
Sorrisi, con gli occhi lucidi. «Non devi scusarti,» replicai. «Innanzitutto non ci conoscevamo quindi se la situazione si fosse svolta in modo differente magari a quest’ora saremmo stati dei completi estranei. Inoltre, non puoi cambiare il passato e in questo caso possiamo soltanto rimediare agli errori, anzi ti dirò che forse non è nemmeno totalmente colpa tua.»
Lui alzò un sopracciglio dubbioso. «Cioè?»
Spiegai a Simone quello che avevamo scoperto io e Jamie quei giorni di intensa attività investigativa. Gli parlai del giornalista, di Mr. Wright e di quello che era successo cinque anni fa e di cui nessuno sapeva praticamente nulla.
«Hai capito la stronza…» concluse lui, esprimendo appieno anche i miei pensieri.
«Non cantare vittoria,» lo fermai subito. «Questo caso ha troppe somiglianze con quello precedente ma purtroppo non possediamo alcuna prova concreta. Domani dovremmo incontrare Mr. Wright e speriamo ci possa dare qualche informazione in più. A questo punto tutto può essere, non dobbiamo escludere a priori la possibilità che la Cloverfield non sia davvero incinta.»
Simone scosse il capo. «Se solo ricordassi qualcosa di quella dannata notte!» ringhiò.
Gli dissi pure del Desire e di Mrs. Finchel, di come tutto quadrasse con ciò che aveva detto la giraffona. «Abbiamo due testimoni che hanno visto te ed Elizabeth insieme quella sera, per cui fino a prova contraria l’hai condotta nel tuo appartamento.»
Cominciarono ad affiorare brutti pensieri associati a quella notte. Immaginai Simone ed Elizabeth insieme, avvinghiati l’uno all’altra, mentre facevano l’amore per tutto l’appartamento.
Magari anche sul divano dove sei seduta te.
Rabbrividii e decisi di alzarmi e andare in cucina per prendermi una tisana. Di sicuro mi avrebbe calmato i nervi.
«Sicura che va tutto bene?» mi chiese di nuovo, vedendomi strana.
Ormai era impossibile nascondergli qualcosa. Simone riusciva a percepire ogni variazione del mio umore, anche il più piccolo tremolio della voce, per cui era quasi inutile mentire.
«Nulla di importante,» tagliai corto.
Dovevo evitare di tirare fuori il mio lato da ragazzina gelosa, soprattutto dopo mesi passati a vivere insieme in quell’appartamento. La verità era che mai avevo pensato così nello specifico a quella notte. Per me era come se non fosse mai accaduta, se fosse stata unicamente la fantasia di una pazza.
Simone decise di raggiungermi e piazzarsi tra me e il bancone della cucina. «Venera,» disse serio, enfatizzando il mio nome particolare. Era già la seconda persona in quella giornata che mi chiamava per intero, facendomi capire quanto importante fosse quel momento.
«Presente!» sdrammatizzai, ridacchiando.
Anche lui si fece una risata, ma fu appena un accenno. «Stronzate a parte, vuoi dirmi perché ti sei incupita tutta insieme?»
Scrollai le spalle con il broncio, fissando il pavimento nemmeno fossi una bimba di cinque anni. Ero triste per il processo, per le analisi, per quello che avrei dovuto dirgli in merito al mio lavoro e per quello che c’era stato tra lui e la giraffona. Mi urtava. Provavo un immenso fastidio perché era palese che voleva soltanto approfittarsi di lui e se l’avessi avuta tra le mani, giuro su Dio che l’avrei strangolata.
«Veeeeeeeeeen!» m’incalzò il calciatore.
Sbuffai sonoramente, irritandomi. «Sono infastidita da quella, da tutto! Dal perché l’hai portata a casa, l’hai baciata, ci sei andato a letto. Mi da fastidio che quella maledetta ti sfrutti senza pagare e non provi alcun rimorso per quello che ha fatto. La odio!»
Ecco, quello era un degno riassunto – un po’ caotico – di tutte le mie sensazioni al momento.
Simone sbarrò gli occhi, alzando le mani in segno di resa. «Okay, diamoci una calmata. È meglio che forse ne prepari due litri di quella tisana. Ti deve forse venire il ciclo?»
A quella parola sbiancai. «Ehm, no, n-non credo, che dici?»
Sorrise. «Era tanto per dire, eh. Mi sembri abbastanza nervosetta.»
Tirai un sospiro di sollievo. Per un attimo avevo pensato che Simone possedesse davvero un quoziente intellettivo tale da permettersi di fare due conti e capire che non c’era stata nessuna pausa tra i nostri rapporti intimi dovuta alle mie cose.
Beati gli uomini che riescono ad avere un pensiero alla volta, massimo.
Simone sembrò divertito da tutta quella situazione. «Che hai da ridere sotto i baffi?» gli chiesi sospettosa. Possibile che trovasse quel mio sfogo così divertente? Forse mi ero esposta troppo lasciandomi andare ai sentimenti…
«Oh piccola Vennie-Pooh,» disse, abbracciandomi stretta. I nostri fianchi si sfiorarono provocandomi un brivido. «Mi piace saperti gelosa.»
Se non mi avesse tenuta stretta al suo corpo, giuro che lo avrei preso a schiaffi. L’essere così fragile non era da me, non ero abituata nemmeno a quegli scatti improvvisi o cambi d’umore. Forse stavo cambiando anche caratterialmente, mi stavo aprendo di più. Ben presto le parole di James mi tornarono alla mente e pensai che presto o tardi avrei dovuto affrontare la questione della separazione momentanea. Mi lasciai andare tra le braccia di Simone, soffocando tutte quelle voci che mi dicevano di prendere in mano la mia vita e trovare il coraggio solo che in quel momento non ne ebbi la forza. Prima o poi sarebbe arrivato quel giorno, ma non era oggi.
Lo sentii sbadigliare sonoramente e alzai lo sguardo oltre il suo petto. «Vuoi andare a nanna, eh, piccolino?» ridacchiai, prendendolo anche un po’ in giro. Lui mi fissò con quegli occhi che parevano appartenere ad un altro mondo, non al nostro.
Senza dire una parola, mi prese per mano e mi condusse verso il corridoio, in direzione della camera da letto. L’idea di dormire mi allettava, anche perché dopo quella giornata piena ero sinceramente esausta. Dentro di me, però, ancora si muoveva qualcosa. Era come se, sotto la pancia, avvertissi un calore inaspettato, come se una creatura antica e dormiente si stesse svegliando all’improvviso donandomi una strana voglia.
«Sono esausto,» sbadigliò Simo, cominciando a spogliarsi. Il vederlo al centro della camera da letto, la nostra ormai, con indosso soltanto un paio di slip mentre nella penombra della stanza potevo intravedere ogni singolo muscolo che guizzava sotto la pelle chiara e delicata mi fece rabbrividire. Quel famoso mostro che abitava dentro di me incominciò a prendere ulteriormente possesso del mio corpo.
Che ti è preso stasera?
Non ero mai stata un tipo voglioso. Le mie relazioni le avevo avute, certo, anche se si potevano contare sulle dita di una singola mano, eppure non avevo mai incontrato nessuno che mi scatenasse tutte quelle pulsioni. E in quelle ultime settimane erano notevolmente aumentate, senza che mi spiegassi il perché.
C’è sempre un problemino che stai trascurando…
Zittii il mio cervello e pensai che era giunto il momento che si facesse un po’ di affari suoi. Spensi ogni funzione cognitiva perché volevo godermi quel momento, anche se non avevo mai preso l’iniziativa in ogni rapporto che avevamo avuto.
Finsi uno sbadiglio. «Awwwwwwwwwnche io!» e mi coricai velocemente sotto il piumone per tentare di spegnere l’imbarazzo. Simone poteva anche non avere idea di cosa stessi pensando, ma la mia mente andava a briglia sciolta. Pensai alle più svariate trame, degne di un film di Tinto Brass, ma avrei dovuto raccogliere molto coraggio per metterle in atto. Nel frattempo, il mostro nella mia pancia continuava a scalpitare inquieto.
Simone mi fissò perplesso. «Stai proprio diventando vecchia!» e si riparò immediatamente alzando un gomito perché, prevedendo un’offesa partita da quella bocca da piccola serpe, avevo afferrato una pantofola e gliel’avevo lanciata dritta in faccia.
«La prossima volta miro in mezzo alle gambe e ti eviro!» sibilai offesa.
Simo mi fissò con quegli occhi da gatto persiano e iniziò a gattonare sul letto, in maniera davvero provocante. Riusciva a sorprendermi in ogni suo comportamento, sia che fosse serio o triste, sia quando prendeva l’iniziativa nella nostra relazione.
Era una sorpresa continua.
«Non ti conviene, so che ormai tu e lui siete diventati migliori amici…» insinuò, facendomi rabbrividire. Sentii ogni cellula del mio corpo vibrare a quelle sue parole e d’istinto chiusi le gambe avvertendo i miei lombi pulsare di desiderio.
«Smettila di darti tante arie,» lo rimproverai.
Per quanto avesse ragione su ciò che stava dicendo, dovevo mantenere il controllo. Volentieri mi sarei lasciata andare quella notte, forse anche prima che Simone si svegliasse, ma il mio carattere mi imponeva di tenergli sempre testa senza mai lasciarmi andare.
Il calciatore si infilò sotto il piumone, facendo finta di essere offeso. Capitava spesso che smorzassi il suo desiderio comportandomi in maniera così acida e scontrosa, però avevo deciso che quella notte sarebbe stato di nuovo mio, a tutti i costi. Almeno prima di raccontargli cosa lo studio mi avrebbe costretta a fare, dovevo soddisfare – forse egoisticamente – un mio bisogno fisico e personale di lui. In verità, mi sarebbe mancato in tutto ma non potevo dirglielo o la separazione sarebbe stata impossibile.
«Ti sei offeso?» gli dissi, strisciando piano piano sotto le coperte.
«Pfffff,» disse imbronciato, scostandosi.
Sapevo che lo stava facendo apposta. Per quanto poco conoscessi gli uomini, capivo quando Simone aveva bisogno di attenzioni, peggio di una ragazza. «E dai,» insistetti, facendomi sempre più vicina e allungando le mani verso i suoi fianchi atletici. «Non tenermi il broncio oppure divento triste…»
Quella sceneggiata diventava sempre più divertente. Era come se i nostri ruoli si fossero invertiti, come se Simone fosse la ragazza offesa e irritabile, che non voleva fare sesso, mentre io ero il ragazzo arrapato fradicio.
Cosa che in realtà sei per davvero, da ben una mezz’ora.
La fortuna di noi ragazze, per l’appunto, era proprio quella. Nonostante fossimo notevolmente eccitate, nulla di visibile poteva dimostrarlo ad un occhio inesperto.
Simone smise di muoversi, anche perché il materasso era giunto alla fine.
A quel punto avrei dovuto attaccare, senza ulteriori indugi, altrimenti quella sera sarei andata in bianco e a giudicare dal mostro della mia pancia non potevo affatto permettermelo.
«Cosa c’è qui?» dissi sorridendo.
Simone poteva fare l’arrabbiato quanto voleva, avrebbe potuto tenermi il broncio a vita, non rivolgermi mai la parola, tenermi lontana ma le reazioni del suo corpo lo avrebbero sempre tradito. Non appena la mia mano aveva accarezzato dolcemente i suoi fianchi, scivolando sul pube, aveva trovato con soddisfazione un’erezione impossibile da nascondere.
E lui sussultò subito a quel tocco, voltandosi e incontrando il mio viso.
Aveva gli occhi lucidi, le iridi tipiche di chi era in uno stato di eccitazione quasi incontrollabile. Oserei dire animale. Nessuno aveva mai reagito al mio corpo in quel modo, nessuno mi desiderava così tanto che addirittura il saperlo mi provocava dolore.
Si voltò stringendomi e cercando subito le mie labbra. Mi morse per violare la mia bocca con la sua lingua, in fretta, quasi come se avessimo un tempo limite per consumare quella notte d’amore. E in effetti mi sentii proprio braccata. Era come se quella fosse l’ultima volta in cui potevamo essere felici, in cui avremmo potuto goderci la nostra passione senza che la realtà ci piovesse addosso come un’incudine.
Il rumore di baci tiepidi riempì la stanza, insieme ai gemiti che lentamente uscivano dalla mia bocca non appena lui trovò le mie mutandine umide. Il mostro nella mia pancia cominciava ad essere soddisfatto, ma voleva di più.
Tornai con la mano a stuzzicare la sua erezione, sempre più grande e turgida, tanto che riusciva ad uscire da sola dagli slip, senza alcun bisogno di toglierli. «Hai visto che effetto mi fai?» mi disse, con le labbra gonfie di baci e di morsi e i capelli completamente stravolti.
Non gli risposi.
Anzi, lo spinsi supino sul materasso e mi sedetti a cavalcioni su di lui imponendo la mia supremazia come il mostro mi aveva suggerito. Quella notte mi sarei presa tutto da Simone, lo avrei consumato fino all’ultima goccia vitale che aveva da offrirmi. Mi comportai come se quella fosse l’ultima notte che avremmo passato insieme.
Mi sedetti sulla sua erezione, rabbrividendo quando entrò in contatto con la mia intimità. Ci fu un contatto elettrico che mi diede quasi la scossa, ma non persi tempo e mi chinai a cercare le sue labbra per distruggerle ancora.
Avvertii le sue mani sul mio sedere, lo stringevano forte quasi a lasciarmi dei lividi ma non mi importava. Simone mi offrì la sua lingua ed io la succhiai dal fondo verso la punta, simulando un rapporto orale che lo fece mugolare di desiderio. «Mi stai uccidendo,» disse con voce strozzata.
Per un attimo decisi di mettere da parte la vecchia Venera e di spegnere per un attimo il cervello, lasciandomi andare solamente all’istinto. «Voglio farti tutto quello che vuoi,» gli sussurrai all’orecchio, cominciando a dondolare sulla sua erezione procurandogli brividi di piacere. «Ordinami quello che vuoi ed io lo farò.»
Mai nella mia intera esistenza avevo permesso ad un uomo di comandarmi, né a mio padre né tantomeno ai miei amici o ai miei fidanzati. Quella notte volli provare per la prima volta a lasciarmi andare, a sottostare a degli ordini come spesso piaceva agli uomini.
Potevi dargli direttamente il frustino o il gatto a nove code.
Scossi la testa. Non si trattava di sadomaso o altre pratiche piuttosto ridicole, volevo soltanto compiacere Simone fino ad ogni sua piccola fantasia più recondita.
Sentii le sue mani stringermi le natiche, allargarle per fare spazio all’erezione che avvertii pulsare. «Sicura di ciò che hai detto?» mi chiese, dandomi la possibilità di tornare sui miei passi.
Mi bastò un colpo di fianchi per farlo sibilare e soffrire. «Se me lo chiedi di nuovo ti lascio qui con il problema da risolvere cinque contro uno, eh,» lo minacciai.
Non serviva che mi chiedesse conferma di ogni cosa che dicevo. Ero adulta e vaccinata, sarei andata in contro alle conseguenze che quella decisione avrebbe comportato. Come, del resto, tutte le scelte che avevo intrapreso nella mia vita.
Mi fece cenno di abbassarmi così mi chinai per raggiungere con l’orecchio la sua bocca. Sentii l’umido della saliva circondare la conchiglia e rabbrividii. In seguito Simone prese il lobo del mio orecchio tra le labbra e lo succhiò. La mia mente non poté che immaginare quelle morbide labbra attorno alla mia intimità, mentre erano occupate a farmi urlare di piacere.
«Voglio leccarti, Vennie-Pooh,» sussurrò con voce roca. «Voglio assaggiare il tuo miele.»
Alzai lo sguardo solo per bearmi di quegli occhi lucidi e di quelle guance arrossate che suggerivano uno stato di eccitazione mai raggiunto prima.
«Tutto quello che vuoi,» dissi, scendendo dai suoi fianchi e mettendomi a mia volta supina sul grande letto a due piazze. Simone mi fu subito sopra, alzando la maglia del pigiama e cominciando a baciarmi il ventre.
D’istinto mi coprii quella parte, quasi fosse più importante della mia stessa intimità o del seno, ma la percepii come vulnerabile. Pensai come se da un semplice contatto, Simone potesse accorgersi o capire che c’era qualcosa di diverso in me, anzi, che lì in mezzo a noi ci fosse qualcuno.
«Ehi,» mi disse, cercando il mio sguardo.
«Mh?» mugugnai, imbarazzata.
Scivolò su di me per regalarmi un tenero bacio. «Devi fidarti, dopo tutto questo tempo è ora che ti fidi di me.»
Il cuore mi batté all’impazzata perché non sapevo come reagire. Ben presto tutti quei pensieri negativi, il caso giudiziario, la giraffona, le analisi del sangue e la separazione da Simone sembrarono sciocchezze rispetto a ciò che stavo provando. Il mio cervello si spense nel momento esatto in cui la sua lingua umida si posò sul mio clitoride bollente.
Fu in quel momento che il mio cervello si spense definitivamente e non pensai ad altro che a godere. Eliminai ogni tipo di stress, ogni preoccupazione o pensiero che potesse rovinare quel momento di estasi in cui avvertivo soltanto le mie grida nel silenzio dell’appartamento.
Simone mi fissava soddisfatto dal basso, con le labbra intente a succhiare, mordere, seviziare la mia intimità senza alcuna pausa. Allungò la mano soltanto per carpire il mio seno e strizzarlo, mentre io stessa mi occupavo dell’altro cercando di non fare troppo rumore.
Ma era difficile.
Come avevo sempre sostenuto, Simone era bravo ad usare la lingua.
Che si trattasse di offendere, sputare sentenze, auto elogiarsi oppure praticare sesso orale, ci sapeva davvero fare.
«Oddio ti prego, lì, continua ti prego.»
Non riuscivo nemmeno più a collegare il cervello alla bocca. Mi venivano in mente soltanto quelle tre parole che ripetevo di continuo, a volte anche senza filo logico.
Simone sorrise e mi afferrò una mano, portandosela tra i capelli scompigliati.
«Stringi,» mi impose.
Quel particolare contribuì ad eccitarmi ancora di più. Voleva che gli tirassi i capelli, che gli spingessi violentemente la testa tra le mie gambe ed esigessi di più. Ancora una volta i ruoli si erano invertiti, ma forse in una coppia c’era questo bisogno di primeggiare una volta per uno, dando una scossa al rapporto.
Obbedii. Passai lentamente le dita tra i suoi morbidi capelli, poi strinsi forte. Avevo paura di fargli male, ma quando avvertii un mugolio di piacere capii che tutto ciò che avrei dovuto fare era stringere e donargli ancora più brividi.
«Se continui così, vengo,» lo avvertii.
Simone smise soltanto quell’attimo necessario per guardarmi. «Meglio,» e poi più nulla. Rovesciai gli occhi all’indietro e avvertii quel tipico calore nel basso ventre. Portando una mano alla bocca, sperando che i vicini non sentissero le mie grida, arcuai la schiena e raggiunsi l’orgasmo tanto agognato.
Simo continuò a massaggiarmi, lasciandomi lente e piacevoli ondate di piacere.
«Come va?» sorrise.
Aveva le labbra gonfie e umide, ma non m’importò. Raccolsi le ultime energie che avevo e cercai la sua bocca tentando di ringraziarlo silenziosamente. Ormai avevo imparato che un rapporto doveva funzionare per il 50% fuori dal letto e per l’altra metà dentro. Il troppo dell’uno o dell’altro avrebbe rovinato l’equilibrio.
«Mmmm,» mugugnai soddisfatta, avvinghiandomi a lui come un koala.
«Mi merito il momento coccoloso?» ridacchiò.
Sorrisi beffarda, quasi un po’ come lui mi aveva insegnato. «Oh beh, se ti accontenti soltanto di quello…»
Avevo voglia di torturarlo ancora un po’, facendo la difficile. Sapevo di avere un “conto in sospeso” con lui, soprattutto dopo le meravigliose sensazioni che mi aveva dato, ma adoravo vederlo imbronciarsi.
«Eh no, ora non scappi!» ridacchiò, cercando di farmi il solletico.
Sgusciai fuori dal letto e mi misi a correre attorno alla stanza in prenda all’isteria, urlando come una bambina. Con lui mi sentivo così, come se avessi ancora cinque anni e credo proprio che stare in sintonia con una persona significasse proprio quello.
Anime gemelle.
Mi distrassi quel millesimo di secondo per perdere di vista Simone. Con due falcate mi raggiunse e mi schiacciò tra lui e il letto, sghignazzando. «Presa.»
E a quel punto ricambiai molti e molti favori, anche se non glieli dovevo.

 
Dunque, dunque!
Eccoci a lunedì, eccoci con un nuovo capitolo! Dalle recensioni ricevute, molte mi hanno chiesto quanti capitoli mancano e siamo a 26/31, quindi ne mancano 5 più o meno.
Beh cosa dite? Vi è piaciuto? State apprezzando il risvolto ''investigativo'' della storia? Io sinceramente sto continuando ad amare Simone e Venera, il loro percorso, come sono cresciuti e come sono cambiati caratterialmente dall'inizio della storia. Voi?
Fatemi sapere :3
Ci vediamo a lunedì prossimo!

Marty 

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Capitolo 27 ***


Capitolo 27
 
Sesso.
Sesso, sesso, sesso, fame, fame, sesso, sesso, dormire, sesso, fame, sesso.
Le uniche cose a cui riuscivo a pensare in quei giorni successivi mi stavano mandando ai matti. D’accordo che la notte trascorsa insieme a Simone era stata wow, non potevo di certo lamentarmi, ma non mi era mai capitato di avere più della metà della mia concentrazione completamente assorbita dal sesso.
«Smettila!» dissi alla me stessa riflessa allo specchio, un po’ sudaticcia.
Ero alla Abbott&Abbott da quella mattina alle 8, ma era come se fosse piena estate. Nemmeno quando mia madre aveva attraversato il suo periodo di menopausa aveva avuto tante vampate, inoltre pensavo a Simone ogni istante della mia giornata.
Persino stamattina la marmellata sulla fetta biscottata che stavo mangiando aveva una parvenza del suo sguardo più ammiccante.
Sto impazzendo.
Uscii dal bagno sperando che la mia giornata migliorasse. Saremmo dovuto andare da George Wright, nella speranza che alcuni dei suoi avvocati avessero avuto il buon senso di conservare delle carte probabilmente non giunte nelle grinfie della Cloverfield.
«Ehi, spaghetti-girl tutto bene?» mi domandò James, comparendo alle mie spalle.
Per poco non mi strozzai con un po’ di saliva. «C-Certo, benissimo!» ridacchiai nervosa.
Ci dirigemmo nel suo ufficio, cercando di sistemare al meglio le carte e organizzare le giuste domande da fare all’attore senza incappare in delle figuracce da principianti.
«Tutto risolto?» mi domandò di punto in bianco l’avvocato.
Alzai un sopracciglio confusa. Non sapevo se si stesse riferendo alle carte, oppure a qualcos’altro. «Cosa intendi?»
James si fece serio. «Beh lo sai, mi riferisco a quella faccenda che è meglio che non si sappia,» specificò, mormorando l’ultima frase a bassa voce. Quando tentavo in tutti i modi di scacciare quel pensiero, Jamie tornava a tormentarmi proprio come avrebbe fatto il grillo parlante con Pinocchio.
Era un po’ la voce della ragione, quella parte di Ven che avevo smarrito stando a stretto contatto con quel decerebrato di Simo.
Che però ti scopa da Dio!
Dannazione smettila!
«Ci sto lavorando,» mentii.
James si accontentò ben poco di quella risposta solo che avrebbe dovuto anche capire che non era facile. Non potevo entrare in casa e dire a Simone che era meglio non vedersi più, almeno fino alla fine del processo, perché altrimenti il mio capo avrebbe potuto licenziarmi.
«Spero che risolverai presto.»
Sarebbe stato tutto da vedere. Purtroppo l’intenzione di fare qualcosa c’era, ma una volta che mi trovavo faccia a faccia con il calciatore ogni mia sicurezza vacillava e il mio intero essere si abbandonava a lui senza lasciarmi scampo. Era come una droga. Tante volte avrei ripetuto a me stessa di prendermi questa pausa, di “smettere” con Simone, ma ogni singola occasione era buona per ricascarci.
You’re an addict.
«Te lo prometto,» lo rassicurai.
James mi stava facendo un grandissimo favore comportandosi in questo modo, facendo sì che avessi ancora una chance di diventare socia dello studio ma non potevo sfidare troppo la fortuna. Già avevo Yuki che mi alitava sul collo, figuriamoci se qualcuno dei tirocinanti avesse scoperto qualcosa e lo avesse detto a Mr. Abbott.
Non avrei avuto scampo.
«Tutto pronto? Andiamo.»
Uscimmo dall’ufficio diretti a Chelsea, uno dei quartieri nuovi e più in della Londra borghese. Le palazzine bianche sfilavano l’una accanto all’altra, quasi si tenessero per mano, ed ognuna aveva una piccola scalinata con tanto di corrimano, protetta da un cancelletto in ferro battuto.
Tutte ville identiche l’una all’altra, quasi progettate in serie.
Tra tutte quelle case pressoché identiche ne spiccò una in particolare, diversa dalle altre, costruita in puro stile underground con i tipici mattoni rossi.
«Eccoci qui,» disse James, controllando meglio l’indirizzo sullo smartphone.
«Abita qui?!» domandai sorpresa.
L’avvocato annuì. Non era certo stupito quanto la sottoscritta ma ero abituata all’idea che le star vivessero tutte quante in mega ville con tanto di piscina olimpionica. Feci spallucce e decisi di seguire James fino alla porta d’ingresso.
Ad aprirci fu un maggiordomo tutt’altro che “normale”: aveva una lunga e folta barba brizzolata, quasi come un motociclista di Harley Davison americane, ed era completamente pelato. Indossava addirittura un gilet di pelle ed era a petto nudo. Diciamo che la vista di quell’uomo mi aiutò a superare le vampate di calore di quella mattina.
«Siamo qui per Mr. Wright,» disse James cordialmente.
Pensai che se alla porta si fosse presentata la regina madre in bikini, Jamie non avrebbe ugualmente battuto ciglio. Era una statua di sale quando si trattava di lavoro, era come se smettesse i panni bonari da ragazzo inglese di buona famiglia e si vestisse soltanto da avvocato.
«Seguitemi,» mormorò l’uomo-motociclista.
«Per quale motivo è conciato così?» chiesi sotto voce a James, sperando che il tizio non mi sentisse.
Lui ridacchiò divertito. «Si vocifera che George Wright abbia attraversato numerosi “periodi” della sua vita, ognuno dei quali caratterizzato da uno stile diverso. Si circondava addirittura ogni volta di persone affini all’ambiente che lui stesso aveva scelto.»
«Una sorta di Picasso dei giorni nostri,» pensai. «Solo che al posto dei colori, ha scelto l’underground.»
Il particolare maggiordomo che il signor Wright aveva assunto ci fece fare quasi tutto il giro della casa, fino a raggiungere lo studio dell’attore. Avevo letto che dopo essere stato sulle copertine di ogni giornale grazie all’impennata che ebbe recitando per una famosa serie tv della BBC, si ritirò quasi a vita privata e nessuno ne sapeva il motivo…
…tranne me, James e Bastian Force.
«Prego,» disse l’ometto, bussando alla porta.
Dall’altra parte si udì una voce che disse “Avanti” e non indugiammo oltre.
L’ufficio del signor Wright non era proprio come me lo aspettavo. Non che avessi mai conosciuto un attore famoso, ma mi ero sempre immaginata un’abitazione piena di poster dei più grandi successi ottenuti, insieme a premi, riconoscimenti e quant’altro. Lì invece gli unici trofei presenti erano disgustose teste di animali impagliati, schizzi di tatuaggi sparsi sul pavimento e un nauseabondo puzzo di sigaro.
«Quale piacere!» ridacchiò un uomo seduto dietro una grande scrivania di legno, su cui aveva poggiato i piedi fasciati da enormi stivali di pelle. «Conosco tuo zio da un sacco di anni ma non mi aveva mai parlato di te, James.»
Rimasi allibita, era come se si conoscessero da anni. «Mr. Wright, sono riconoscente che abbia accettato ad incontrarci, nonostante i suoi impegni.»
George Wright era innegabilmente un bell’uomo, o almeno lo era stato. Di tempo ne era passato poco, perché cinque anni non cambiano radicalmente un uomo, ma nelle foto che avevo visto era molto più curato. I capelli non avevano taglio e si cominciavano ad intravedere delle striature bianche, per non parlare poi della bandana di cattivo gusto con cui li aveva acconciati.
Pareva un pirata.
Stessa cosa la barba: era un principio di nido per uccelli, con tanto di rametti incastrati tra i riccioli. Tutto ciò non sembrò affatto turbare James, che come al solito rimase pressoché impassibile.
«Prego sedetevi,» ci disse cordiale, poi si rivolse al “maggiordomo”. «Charles, potresti portare qualche bottiglia di birra e del brandy? Oggi ci sono degli ospiti importanti, bisogna festeggiare con roba buona!»
Sgranai gli occhi. Non erano nemmeno le undici del mattino e quel pazzo già beveva del brandy? Scossi la testa completamente stupita.
«Bene, bene,» gli occhi dell’attore si posarono su di me. «E tu chi saresti, splendida creatura?»
Un brivido mi percorse lungo la schiena. «V-Venera Donati, signore.»
Mr. Wright scoppiò in una rauca e forte risata che rimbombò per tutta la casa. Mi fece addirittura saltare sulla sedia dallo spavento. «Signore?» e continuò a ridere senza sosta.
Cosa avevo detto di male, tentavo di essere cortese.
«Hai sentito James? Per caso quanti anni mi da questa qui!»
Ecco, da “splendida creatura” ero passata a “questa qui” in un battito di ciglia.
James tentò di intervenire. «Venera viene dall’Italia e quando si è trasferita qui a Londra non conosceva molto la cronaca mondana.»
Mr. Wright mi analizzò con lo sguardo. Nonostante l’aspetto trasandato e cespuglioso, le sue iridi erano molto espressive. Di un grigio-verde quasi color fumo, pensai fossero occhi che ne avevano viste tante, anche se non aveva molti più anni di me.
«Sono una collega di Mr. Abbott, comunque,» puntualizzai, sperando di non passare in secondo piano. «Lavoro per lo stesso studio.»
O comunque ci spero.
George Wright unì i polpastrelli delle dita l’uno all’altro, osservandomi. Sperai davvero di aver recuperato punti ai suoi occhi, dal momento che quello sarebbe stato il testimone chiave per la riuscita del nostro processo.
«E mi dica, signorina, a cosa devo questa visita?»
Di punto in bianco smise di rivolgersi a James e fu come se fossimo soltanto io e lui nella stanza, faccia a faccia. Era un test ed io lo sapevo. Cominciai ad essere nervosa, a torturarmi il labbro con piccoli morsi ma dentro di me sapevo che quella sarebbe stata l’unica chance di concludere qualcosa.
Prima di rispondere fece il suo ingresso Charles con tre Corona e un bicchiere di Brandy con il ghiaccio su un vassoio. Pensai per un attimo che una bibita fresca mi avrebbe schiarito le idee, perciò afferrai fulminea la bottiglia per portarla alle labbra ma la mano di James si frappose.
Lo guardai esterrefatta.
«Tranquillo, avvocato,» ridacchiò rocamente Wright. «La signorina ha ventun’anni e nessuno di noi andrà in galera per una birra.»
Jamie mi ammonì con lo sguardo. «Fino a quando non avrai quei risultati, questa la prendo io.»
A quella parola, compresi l’apprensione dell’avvocato. Non che fossi molto pratica, ma in genere alle donne in stato interessante era caldamente consigliato evitare di bere o di fumare. A tal proposito, stavo per infrangere la prima regola.
Wright sembrò non capire quel nostro linguaggio fatto di sguardi.
«Torniamo a noi,» disse sbrigativo. «Qual è il motivo per cui siete qui?»
L’espressione bonaria e scherzosa che l’attore aveva adottato all’inizio, stava lentamente scomparendo. Era come se la nostra presenza gli sottraesse del tempo prezioso, quasi doveva fare chissà che cosa.
James intervenne. «Siamo qui per farle delle domande riguardo Miss Elizabeth Cloverfield.»
A quel punto vidi nettamente il cambio di luce negli occhi di Wright. L’allegria iniziale era del tutto scomparsa, lasciando il posto all’ira cieca di un uomo che ancora non ha superato un tradimento.
«Fuori!» ringhiò, senza nemmeno darci il tempo di spiegare.
«Ma signor Wrigth…» lo invitò James, implorandolo di ragionare.
«Charles! Accompagna i signori alla porta e sprangala per bene!»
Una reazione di quel genere non me la sarei mai aspettata, soprattutto da qualcuno che era sempre stato abituato a trattare con il pubblico. Vidi la mia unica speranza di aiutare Simone scivolare per sempre dalle mie mani senza che potessi fare nulla per stringerla. Vidi il maggiordomo alternativo accompagnarci alla porta, l’ultimo sguardo all’androne dove l’attore ci guardava con occhi furenti e il volto di James sconfitto.
«La prego!» implorai, ma fu del tutto inutile.
Non appena il portone blu cobalto ci venne sbattuto letteralmente in faccia, realizzai che ogni speranza che avevo nutrito per quell’incontro era stata vana.
«Non avrei mai potuto immaginare che fosse ancora così scosso,» ammise James.
Nessuno dei due riusciva a scostarsi dal pianerottolo. «Dunque, è finita?» chiesi, terrorizzata dalla risposta.
L’avvocato mi fissò con quelle iridi piene di rammarico. «Mi dispiace Ven, ma non possiamo insistere. Potrebbe denunciarci…»
I personaggi dello spettacolo avevano molte armi dalla loro parte, tra cui le famose querele o denunce se per caso si violava la loro privacy. Ricordo di aver studiato molti casi di fotografi un po’ troppo curiosi, che si erano appunto beccati dei richiami in tribunale. James, poi, non poteva permettersi nulla di ciò altrimenti il nome dello studio ci sarebbe andato di mezzo e niente come la cattiva pubblicità distruggeva le piccole imprese.
Sospirai sconfitta. «E ora che facciamo?»
Se anche ci fosse stata la benché minima speranza di chiedere a George Wright di testimoniare, non appena avevamo nominato il processo di cinque anni fa, l’attore aveva avuto una reazione spropositata. Nemmeno tra mille anni avrebbe testimoniato. Avrei dovuto fare qualcosa, trovare una soluzione. Avevo detto a Simo che eravamo ad un punto di svolta, soprattutto dopo aver saputo che i risultati del St. Charles confermavano la tesi dell’accusa.
Mi veniva da piangere. Devo trovare qualsiasi cosa.
Sentii la mano di James stringersi attorno al mio polso tremante. «Non c’è più niente da fare, se Mr. Wright non ha intenzione di testimoniare o non possiede alcun documento che risalga a quel processo, siamo d’accapo. Credo che a questo punto sia meglio tornare a studio.»
Tornare alla Abbott&Abbott equivaleva ad una sconfitta per me. Con quale coraggio avrei detto a Simone che era tutto perduto? Quale forza avrei avuto di lasciarlo senza alcuna garanzia per il suo futuro? E poi avrei avuto le chance minime di diventare socia dello studio, una volta persa la causa.
Quella storia era tutto per me, valeva troppe cose.
«Vieni con me?» mi chiese James, dirigendosi verso la fermata della Tube.
Scossi il capo, un po’ forse impuntandomi come una ragazzina. «Io non mollo, James. Ho troppe cose in ballo per questa storia. Al di là della causa o del mio posto nello studio, lo devo a Simone. Gliel’ho promesso.»
James parve comprendere. «È fortunato,» sospirò solamente. «Molto fortunato.»
 
Era appena passata l’ora di pranzo e la fame cominciava a farsi sentire. Presi un kebab dietro l’angolo e continuai a tenere sotto osservazione la palazzina di Mr. Wright. Sapevo che sarebbe uscito prima o poi, il problema era solo quando. Dovevo tentare a tutti i costi, anche se fossi parsa una stalker o altro. James non poteva prendersi denunce, ma io ero solo una tirocinante e non m’importava. Avrei fatto di tutto per vincere quella causa, per avere una speranza in più di farla pagare ad una donna che nemmeno meritava di essere nella mia stessa categoria.
«Uscirà, me lo sento,» dissi a me stessa, infondendomi coraggio.
Il sole di metà giornata mi riscaldava tiepidamente, lì sulla panchina dov’ero seduta e mi misi a pensare. La notte appena trascorsa era stata magica, così decisi di scrivere a Simone un messaggio che gli ricordasse quanto fosse stato straordinario.
Erano cose che si facevano, oppure no?
Evitai di indugiare oltre e afferrai il mio Blackberry, scoprendo amaramente che la batteria era completamente scarica. Talmente travolta dalle sensazioni della notte prima che avevo dimenticato di mettere sotto carica il cellulare.
Dannazione.
Per fortuna non aspettavo nessun tipo di telefonata importante, salvo forse i risultati delle analisi ma al momento non ricordavo quale indirizzo o numero di telefono avessi lasciato alla clinica.
«Ven! Cosa ci fai qui?»
Una voce familiare mi riscosse dai miei pensieri. Alzai lo sguardo e vidi una donna alta, con i capelli castani raccolti in un piccolo chignon e un sorriso talmente cordiale che era impossibile non rimanere imbambolati a fissarla.
«R-Rose?» dissi incredula.
La cognata di Simone mi sorrise ancora più raggiante. Era come se avesse visto chissà quale apparizione incontrandomi, e forse un po’ avevo dimenticato quale fosse il calore che univa per davvero la famiglia Sogno.
«È da parecchio tempo che non ci vediamo, forse Natale? Come va il lavoro? La convivenza? Tutto bene con Simone?»
Quella valanga di domande mi fecero smarrire. Non sapevo quanto Sofia avesse detto di noi ai suoi parenti, ma ormai mi ero stufata di mentire. Era innegabile che io e Simone stavamo insieme, per quanto poco potesse durare, alla fine lo avevo ammesso anche a me stessa.
«A casa tutto bene, diciamo,» cominciai, stiracchiando le risposte. «La causa è un po’ in stand-by, io e James ci stiamo lavorando, ma speriamo di risolvere al più presto.»
Gli occhi da cerbiatta di Rose sembravano come avere il potere di sciogliere il ghiaccio attorno al mio cuore e riuscivano a guardarvi dentro, senza nemmeno chiedere. «Capisco,» disse solamente.
Non sapevo se avesse intuito dalle mie parole che eravamo ad un punto morto con la causa di suo cognato, ma sperai con tutto il cuore che non mettesse il fratello di Simo al corrente della nostra disfatta.
«Tranquilla,» continuò, sedendosi più vicina e mettendo una sua mano piccola e delicata sulla mia, sporca di salsa del kebab. «Comunque vada questa storia, sei parte della famiglia e noi non ti abbandoneremo.»
In quel momento volevo soltanto piangere. In tutta sincerità non ero mai stata un tipo da lacrima facile, ma da qualche settimana a questa parte ogni mio cambiamento d’umore era rapidissimo e quasi doppiamente intenso.
«G-grazie, » risposi, un po’ con la voce rotta, ma non sapevo sinceramente cosa dire. Era la prima volta che mi sentivo “a casa” pur essendo così lontana da Tivoli e dalla mia vera famiglia. In Simone avevo trovato un compagno, qualcuno che mi sostenesse anche nei momenti più bui della mia giornata, ma nella sua famiglia avevo addirittura trovato quei fratelli che i miei genitori non erano stati in grado di darmi.
Rose sorrise e mi accarezzò le spalle, infondendomi sicurezza. «Una di queste sere potreste venire a cena da noi, Susanna mi chiede sempre della “zia con il nome strano”,» e ridacchiò sincera.
«Volentieri,» dissi, anche se d’improvviso mi tornarono alla mente le parole di James e la separazione che avrei dovuto affrontare per salvare la mia carriera. Un’ombra s’impadronì del mio sguardo e feci di tutto per allontanarla, in modo da non turbare l’armonia di Rose.
«Tutto bene?» mi domandò sinceramente preoccupata.
Scossi la testa. Nessuno doveva sapere di questa cosa, altrimenti avrebbero avvertito Simone e lui non mi avrebbe mai lasciata andare. Dovevo allontanarlo a modo mio, dandogli un motivo più che valido per odiarmi e poi sperare che mi desse ugualmente il suo perdono più avanti.
«Sto bene,» dissi subito, cercando di dissimulare la tristezza. Parlai della prima cosa che mi venne in mente. «Sono stata dal dottor Ross.»
Forse ero passata dalla padella alla brace. Gli occhi di Rosie si illuminarono, quasi potessero diventare più castani di quanto non lo fossero già di natura. Non capii il perché di tutto quell’entusiasmo, in fondo le avevo soltanto detto di essere andata da un medico.
«Qualche novità?» insistette.
Feci spallucce. «Niente di nuovo, mi ha solo prescritto delle analisi di routine, sai, con il lavoro, lo stress e tutto il resto. Magari mi ci vuole una vacanza!» sdrammatizzai.
Rose parve un po’ delusa, in effetti. Erano due le motivazioni: o sperava stessi per morire, ma era totalmente da escludere, oppure aveva capito qualcosa della mia probabile condizione ancor prima che io stessa me ne accorgessi.
Anche lei è mamma, genio. Avrà riconosciuto i sintomi.
Annaspai in cerca d’aria. Forse avevo detto troppo e mi stavo rovinando con le mie stesse mani. Per fortuna, proprio in quel momento critico, il portone blu della palazzina in mattoni rossi si aprì, rivelando un trasandato Mr. Wright che usciva per una passeggiata.
Per un attimo Rose scomparve completamente dalla mia attenzione. Ero totalmente focalizzata sull’attore e sul modo più razionale che avessi di chiedergli un’altra volta udienza.
«Ven?» mi chiese lei, ma la sua voce mi parve quasi un brusio lontano.
«S-Scusami, devo andare assolutamente,» dissi, attraversando la strada senza nemmeno guardare se arrivassero autovetture.
Mr. Wright era solo. Camminava a testa bassa, con la solita bandana calcata sul capo e la barba incolta che svolazzava ad ogni suo passo.
«Signor Wright!» gridai, quasi come una di quelle groupie che rincorrevano le star.
Un po’ mi era dispiaciuto lasciare Rose da sola senza alcuna spiegazione, ma ottenere un’altra possibilità con George Wright era di vitale importanza per la causa. Dovevo convincerlo a darci qualsiasi informazione utile e tangibile da portare in tribunale contro quella strega.
L’attore si voltò e non appena mi riconobbe, cambiò direzione. «Le ho già detto che non abbiamo niente da dirci,» insistette, adottando un passo veloce.
Velocizzai anche io i miei movimenti, cercando di raggiungerlo in breve tempo. «La prego Mr. Wright,» insistetti, ero determinata ad ottenere ciò che volevo, anche se mi fosse costata una denuncia per stalking. «Ci serve assolutamente la sua testimonianza per un processo, il nostro cliente si trova nella sua stessa situazione di cinque anni fa. Miss Cloverfield ha riprodotto la storia un’altra volta, senza fare alcun errore con il DNA, quindi siamo senza alcuna prova tangibile della sua colpevolezza,» spiegai.
«Non mi interessa,» insistette l’attore.
Tentai di raggiungere il suo stesso passo, almeno per guardarlo in faccia mentre parlavo. «Ha l’opportunità di dare giustizia a qualcun altro, come l’ha avuta lei in passato!»
D’improvviso l’attore si fermò, fissandomi ferino. «Io? Giustizia? Cosa le fa pensare che abbia ottenuto quello che volevo da quella stupida vicenda?» ringhiò. «Lei non sa proprio un bel niente!»
A quel punto avrei potuto demordere, gettare la spugna, tornarmene allo studio come aveva fatto James, sconfitta e con la coda tra le gambe. Ma cosa avrei raccontato a Simone? Che non avrebbe avuto speranze? Che senza una prova concreta del piano che aveva architettato la Cloverfield, il suo destino era versare un assegno mensile per occuparsi di un bambino che probabilmente nemmeno esisteva?
No, avrei lottato fino all’ultimo.
«Mi aiuti a capire, allora!» gridai, attirando l’attenzione dei passanti. La gente che si riversava in strada quel pomeriggio assisteva ad una scena assai singolare. Un uomo barbuto e una ragazza discutibilmente alta che litigavano in mezzo a Walpole Street.
George Wright parve ancora di più su tutte le furie. «Non può capire,» si limitò a dire, scavalcandomi e proseguendo diritto. Raggiungemmo Burtons Court senza nemmeno accorgercene, passo dopo passo, litigata dopo litigata, alché l’attore si rifugiò dentro un piccolo caffè poco conosciuto.
Lo seguii senza indugiare.
«Chiamo la polizia,» minacciò, senza ulteriori preamboli. «Potrei denunciarla per stalking, signorina. Non mi sfidi a farlo. Non è né la prima né l’ultima, già qualche anno fa ho dovuto sistemare per bene un giornalista ficcanaso!»
Forse si riferiva a Bastian Force, il quale ci aveva avvertito che l’attore era molto cambiato da quando era sulle copertine di tutte le riviste.
«Ha detto bene,» continuai, ferma sulla mia linea. «Io non sono una giornalista, sono un avvocato. Non ho alcuna intenzione di speculare sulla sua vicenda, di ricavarne guadagno o venderla a chicchessia. Voglio soltanto aiutare il mio cliente, un ragazzo che non ha alcuna colpa se non quella di essere troppo ingenuo. Se non fossimo davvero così disperati, non insisterei tanto. Ho rispetto per lei, per quello che ha passato, per il suo lavoro. Capisco che non sia facile. Proprio per questo motivo, la imploro.»
Era la prima volta che mi lasciavo cadere così in basso. A causa del mio orgoglio, non avevo mai chiesto aiuto a nessuno, nemmeno all’università, mi ero sempre rimboccata le maniche per fare tutto da sola. Contavo unicamente su me stessa.
Quella volta però, sarei stata disposta a tutto per Simone.
Mr. Wright parve cambiare espressione. «Non ho alcuna intenzione di collaborare, non mi interessa!»
Ero all’ultimo giro di boa, dovevo tirare fuori gli assi nella manica. «Almeno mi consenta di raccontarle la storia, lei deve soltanto ascoltare e poi deciderà il da farsi. Purtroppo se non fosse l’ultima speranza che ci è rimasta, non avrei rischiato una denuncia. Stia sicuro.»
Dovevo tentare qualsiasi cosa, anche la più folle. Magari se avesse ascoltato per filo e per segno la vicenda, si sarebbe convinto che aiutare Simone sarebbe stata la cosa giusta da fare. Oppure mi avrebbe mandato semplicemente a quel paese.
L’uomo sospirò sconfitto. «D’accordo, ma sappi che non cambierò idea, e tu te ne andrai da dove sei venuta o chiamerò la polizia.»
Sperai che andasse tutto per il verso giusto. Iniziai da quando ero giunta alla Abbott&Abbott, gli parlai di Simone, della sua professione, di ciò che era diventato faticando e di quella famosa notte in cui la sua vita aveva preso una piega totalmente diversa da ciò che si era premeditato. Gli raccontai del processo, del test del DNA e di tutte le riprove che la difesa aveva chiesto, addirittura utilizzando la clinica privata convenzionata allo studio legale. Tentai di fargli capire che lui consisteva nella nostra ultima speranza, perché avevamo parlato con Force e non c’era alcuna prova scritta di quella vicenda, dal momento che l’attore aveva preferito non far associare il suo nome a tutto quello.
Cercai di trattenere l’emozione, ma a mano a mano che raccontavo, la verità si faceva sempre più vicina e l’idea di perdere tutto era troppo dura da affrontare. «Se soltanto avessimo una prova di ciò che è accaduto cinque anni fa, potremmo far cadere ogni documento presentato dall’accusa. Ogni loro punto di forza vacillerebbe perché questa storia ha delle evidenti coincidenze con il processo che l’ha riguardata,» conclusi.
George Wright analizzò mentalmente tutto ciò che gli avevo detto. Quei minuti parvero interminabili, proprio perché dalla decisione dell’attore ne sarebbe valso l’intero processo, il futuro di Simo e la mia carriera.
«Mi dispiace molto per la sua situazione,» disse sincero. «Ma purtroppo non posso aiutarla. Quella donna ha rovinato la mia vita e la mia carriera, il mio futuro. Ho dovuto sopravvivere in questi anni, tenendomi lontano da questa storia. Devo evitare di ricaderci, scusatemi.»
Si alzò dal tavolo, bevve il caffè tutto d’un sorso e si allontanò.
Il mondo intero stava per crollarmi addosso. Avevo aspettato parecchie ore davanti casa sua per tentare il tutto per tutto, ma non era servito a nulla. Eravamo punto e a capo, senza nulla in mano che potesse darci qualche speranza di risolvere quel casino. L’unica opportunità ci era sfuggita di mano, certo non per colpa nostra. Quella donna, volente o nolente, era riuscita a metterci i bastoni tra le ruote senza nemmeno prodigarsi più di tanto. Mr. Wright era rimasto talmente traumatizzato dalla giraffona che nemmeno voleva più sentirne parlare.
Sbattei violentemente i pugni sul tavolo, mordendomi il labbro per trattenere le lacrime. Ancora non riuscivo a crederci che non c’era alcun modo di arginare il problema, non avevamo più frecce da mettere al nostro arco. Era finita. Sarei dovuta tornare a casa e dare la brutta notizia a Simo, costringendolo ad un esistenza legata a quella serpe senza cuore.
«Ordina un altro caffè, stavolta amaro.»
Alzai lo sguardo ormai lucido e trovai nuovamente George Wright davanti ai miei occhi, con la stessa barba incolta di qualche minuto prima.
«S-Subito!» dissi.
Quasi non potevo crederci, forse tutto non era perduto.
 
***
 
George Wright alla fine si era convinto ad aiutarci. Parlando del più e del meno riuscii a convincerlo almeno a darci una sua testimonianza scritta e siglata. Non sapevo se fosse stato sufficiente o meno, però ci aveva garantito la sua piena collaborazione e aveva risposto a tutte le domande che gli avevo posto.
Ero corsa subito a casa, dato che il telefono era definitivamente passato a miglior vita, dovevo necessariamente trovare un apparecchio con cui avvertire James della svolta.
«Bonasera,» disse una voce, ben poco allegra.
Mi fiondai direttamente verso l’apparecchio, non curandomi affatto di Simone. La prima cosa da fare era comunicare con l’avvocato e avvertirlo della buona notizia. Alzai la cornetta e composi il numero dell’ufficio, sperando che ci fosse ancora qualcuno a cui poter lasciare un messaggio.
Il suono che avvertii fu come se non ci fosse linea.
«Per caso ci siamo dimenticati di pagare le bollette?» chiesi, rivolgendo finalmente la mia attenzione a Simone che mi fissava arrabbiato con in mano il cavo del telefono.
«Finalmente!» sospirò. «Credevo ti fossi completamente dimenticata che esisto.»
Odiavo le sue manie di protagonismo, era peggio di stare con una prima donna. Abituato ad avere attenzioni da tutti, fan e collaboratori, si sentiva sempre trascurato e ci andava di mezzo la sottoscritta.
«Dai non fare il bambino, fammi fare questa telefonata che è importante,» dissi, senza repliche.
«E a chi devi fare questa telefonata?» chiese.
Sapevo che stava cercando dei pretesti per litigare. «James e lo studio devono essere messi al corrente di una nuova svolta nel caso. Forse abbiamo la possibilità di vin-…» nemmeno mi fece finire la frase.
«James, James, James… esiste soltanto lui. È tutto il giorno che provo a chiamarti ma trovo il telefono spento. Il tuo primo pensiero quando rientri a casa è di chiamare lui!»
Okay, stavolta era davvero arrabbiato.
Partendo dal presupposto che avevo il telefono scarico, l’urgenza di comunicare con l’avvocato era prettamente lavorativa. «Devo soltanto dirgli di Mr. Wright e quello che ho ottenuto parlandogli,» spiegai. «Non è lui il mio primo pensiero. Smettila di fare l’infantile!»
Simone sbottò. «E certo! Adesso soltanto perché sono più piccolo devo sempre passare per quello immaturo!»
Mi stropicciai gli occhi esausta. «Non rigirarti la frittata, Simone,» cominciai anche io ad alzare la voce perché tutta quella storia doveva finire. Essere geloso di James era fattibile ma non doveva esagerare. «Se hai così poca fiducia in me, dovremmo farci due domande.»
Ecco, non volendo stavamo litigando di brutto.
Era vero che avevo promesso all’avvocato di allontanarmi temporaneamente dal calciatore, per il bene della mia carriera e della causa, ma mi ero immaginato una discussione adulta e razionale. Credevo ci saremmo messi d’accordo, perché Simone avrebbe compreso quanto fosse importante per me la carriera.
«La stai distruggendo la fiducia,» insistette. «Sto fuori tutto il giorno agli allenamenti, ci vediamo pochissimo e mai una volta che mi dimostri che per te sono importante! C’è sempre quello di mezzo!»
Okay, adesso stava sfiorando il ridicolo. «Ma ti senti come parli? Nemmeno tua nipote Susanna farebbe questi discorsi. Se ti fidi di me, devi farlo appieno. Con James ti assicuro che non c’è più nulla, per cui o ti fai andare bene questa cosa oppure è meglio che ci diamo un taglio.»
Stavo sbagliando, me ne rendevo conto.
Sentivo di dover evitare di metterlo alle strette, ma quella storia mi aveva davvero scocciato. Era tutto il giorno che mi facevo in quattro per lui, per permettergli di vivere una storia normale e magari poter stare insieme anche in futuro, eppure sembrava non apprezzare tutti i miei sforzi.
Simone si alzò, riattaccò il cavo del telefono e mi guardò fisso. I suoi occhi lampeggiavano ancora per la rabbia, era come se quella situazione fosse addirittura più ardua da sopportare rispetto al caso giudiziario che pendeva sulla sua testa.
«Ecco, ora puoi fare tutte le telefonate che vuoi,» ringhiò, lasciando la stanza e sbattendo la porta della camera da letto.
Ancora dovevo realizzare cosa fosse successo. Le immagini scorrevano ancora a rallentatore davanti ai miei occhi e pensai si trattasse soltanto di un incubo. Mi ero immaginata di tornare a casa e dargli la buona notizia, ricevere uno dei suoi meravigliosi sorrisi in cambio, invece avevo soltanto peggiorato le cose.
Ma non era colpa mia.
La possibilità di rimediare c’era. Sarebbe bastato entrare nella sua stanza, cercare un contatto, aspettare che la rabbia del momento svanisse e chiedere una seconda possibilità perché sapevo bene che l’indomani si sarebbe pentito di ciò che aveva fatto. Contro ogni fibra del mio corpo, strinsi i pugni e mi morsi la lingua. Avrei dovuto approfittare di quell’occasione per troncare tutto, per dare retta al consiglio di James e allontanarmi da Simone il più in fretta possibile, per non rischiare.
Sarebbe stata dura, era prevedibile.
Probabilmente se avessi continuato sui miei passi, non ci sarebbe stata più nessuna occasione di rimediare a quello che era successo. Lo feci principalmente per il mio e per il suo bene, perché adesso l’unica cosa che contava era farla pagare al nemico che ci accomunava e che non meritava di passarla liscia. Una volta archiviata la causa, una volta sciolto il legame che univa Simone allo studio dove lavoravo, avrei potuto pensare ad una soluzione.
Lasciai andare la cornetta del telefono e afferrai la borsa.
Per abitudine presi le chiavi dell’appartamento dalla ciotola vicino la porta d’ingresso, ma le lasciai ricadere subito dopo. Dovevo limitare tutte le opportunità di ritornare in quella casa, di riavvicinarmi a lui dopo la decisione che avevo preso.
Oltrepassai la soglia sentendo le lacrime che spingevano per uscire ai lati degli occhi.
Dopo quel passo non potevo più tornare indietro. Sarebbe stata una decisione definitiva su cui avevo avuto tempo per ponderare, ma vigliaccamente avevo sfruttato la prima occasione per ottenere lo stesso risultato. Sarebbe stato tutto più facile in questo modo.
Chiusi la porta d’ingresso alle mie spalle e quel clangore segnò la fine di tutto.
Avrei visto Simone soltanto negli incontri formali allo studio, niente di più. Mi doleva abbandonare tutto, non rivedere più Sofia, Rosie e anche la nonna. Avrei dovuto ripetere mentalmente che lo facevo solo per lui e per dare un senso a quella via che avevo deciso di intraprendere, senza buttare all’aria tutti i sacrifici fatti in passato.
Posai una mano sullo stipite, quasi immaginando che fosse la pelle di Simone.
«Lo faccio per noi,» dissi, più a me stessa che a una sua versione immaginaria. Non sapevo come sarebbe andata a finire, se il futuro ci avesse riservato qualcosa, ma sperai davvero che tutto non si riducesse soltanto a quello.
Avevo cominciato a sperare che valessimo molto di più.

Buonasera!!!
Allora, l'aggiornamento è avvenuto codesta sera perché domani dovrei partire e non so se posso reperire il capitolo XD
Detto ciò, sul gruppo Crudelie - Le originali (diffidate dalle imitazioni) ho lasciato uno spoiler di questo capitolo e ho promesso che se fosse arrivato ad un cospicuo numero di likes avrei pubblicato il capitolo.
ECCOLO QUI!!! 
Adoro quando mi seguite ovunque *^*

Dunque, siamo arrivati un po' al ''nocciolo'' della storia, ci addentriamo finalmente nella parte finale. Che dite? Come procede secondo voi la trama? Ho bisogno più che altro che mi diate un po' di conferme, così da capire bene se ne vale la pena pubblicarla o meno XD
Al prossimo lunedì dunque! (sperando riesca a pubblicare) LOL
Un bacione a tutti/e

Marty

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28
 
Il monolocale di Regent Park somigliava più ad una scatola che a un vero e proprio posto in cui poter vivere. L’attico di Simone avrebbe comodamente ospitato cinque di quelli che vendevano come appartamenti, eppure mi sentii stranamente a casa. Erano ormai quattro mesi che non vi mettevo piede, saltuariamente mi era capitato di passarci, per prendere a mano a mano un po’ della mia roba, ma ciò avveniva sempre più di rado.
Adesso dovrai fare l’abitudine a stare sola.
Ci ero stata tutta una vita, non sarebbe cambiato molto. Sin da piccola, le compagnie dei miei amici si limitavano soltanto alle uscite del sabato sera e a qualche eccezione, ma adoravo stare nella mia stanza, organizzare gli studi, programmare la mia settimana. Mi era capitato di farlo anche nel monolocale, quando mi ero trasferita a Londra per il tirocinio, ma poi era arrivato Simone.
Il calciatore aveva sconvolto completamente la mia vita, facendomi cadere in un vortice da cui era impossibile uscire. Viveva sempre alla giornata, decidendo minuto dopo minuto ciò che aveva intenzione di fare e non aveva la minima organizzazione nemmeno nel gestire la sua carriera. La verità era che tutto ciò cominciava già a mancarmi.
«Forza Ven,» mi dissi sospirando. «Diamo una parvenza di ordine a questo posto.»
Decisi di rivoluzionare il piccolo appartamento facendo sì che trasmettesse un po’ di calore e conforto, che non fosse sterile come l’ufficio della Abbott&Abbott. Volevo che sapesse un po’ di casa.
Non mi ero portata via molte cose dall’appartamento di Simone, anche perché la maggior parte dei miei completi da lavoro si trovavano ancora nell’armadio del piccolo monolocale. Avrei avuto tempo per farci un salto, prima o poi. Magari anche accompagnata da James. Rifeci il letto ad una piazza e mezza, mettendo lenzuola e coperte pulite che sapevano di bucato, poi decisi di riordinare la piccola cucina e di organizzare meglio la scrivania piena di post-it.
Quando venne il turno dell’armadio, notai con rammarico che la maggior parte delle scarpe che avevo lasciato nel mio vecchio appartamento fossero dannatamente scomode. Sospirai sonoramente, cercando di non farmi abbattere dallo sconforto. Rimescolai i vari tailleur, accoppiandoli alle rispettive gonne o pantaloni e tentai di dare un senso logico agli abbinamenti. Frugando proprio in fondo all’armadio, qualcosa di rosso e bianco spuntò dall’angolo di una mia vecchia borsa dimenticata.
«E questo che cavolo è?» mi chiesi, tirando il pezzo di stoffa incriminato.
Il dolore più grande che non potevo affrontare in quel  momento sarebbe stato trovare qualsiasi cosa mi ricordasse Simone, il suo essere così dannatamente irritante, il suo profumo e qualunque oggetto si riferisse a lui. Trovare la maglia dell’Arsenal in fondo all’armadio, quella della prima partita che ero andata a vedere invitata da lui, mi fece male al cuore. Ebbi come una fitta.
L’infarto è vicino.
Purtroppo non si trattava nemmeno di quello. Era soltanto senso di colpa perché sapevo di aver fatto un errore a lasciarlo là da solo, senza nessuna spiegazione plausibile. Afferrai la stoffa rossa e la stesi sul letto, a faccia in giù, in modo che si leggesse bene il nome “Sogno” dietro le spalle. E arrivò il momento in cui finalmente elaborai tutto e mi lasciai andare in un pianto quasi a dirotto. Le lacrime mi offuscavano la vista, non riuscivo nemmeno a muovermi o a continuare il riordino. Mi lasciai cadere sul letto, avvolta da quella stupida maglia e dal suo profumo che ancora vi era rimasto intrappolato dentro, come una cicatrice che non sarebbe mai andata via dalla mia mente.
Avevo sacrificato Simone per il mio lavoro, per ottenere quello per cui in tutti quegli anni avevo faticato, e alla prima difficoltà ero riuscita a scaricare quel “problema” che per me era il meno grave.
Mi sbagliavo di grosso.
Portai le mani agli occhi, stropicciandoli e probabilmente spalmando tutto il mascara e l’ombretto lungo il viso.
«Non ce la posso fare,» dissi a me stessa. La mia voce parve rimbombare in quella stanza vuota mettendomi ancora di più la depressione addosso.
Rimasi tutta la sera accoccolata nella maglietta di Simone, mi addormentai stringendola al petto senza mai lasciarne un lembo. Era una sorta di coperta di Linus, anche se sapevo che prima mi fossi staccata da quei ricordi, più facile sarebbe stato affrontare la separazione.
 
La sveglia suonò esattamente alle 7.00. Il trillo risuonò nella mia testa con lo stesso effetto di migliaia di aghi che pungevano ogni parte del mio corpo. Avevo mal di testa, la bocca secca e impastata dalle lacrime e il viso completamente stravolto. Per non parlare dei capelli.
Tra un’ora devi essere in ufficio, mi ricordò il mio caro Cervello.
Ebbi numerosi flash della notte appena trascorsa e mi dissi di non ripetere più lo stesso errore. Ormai la decisione era stata presa, per quanto stupida potesse essere, lo avevo fatto unicamente per il bene di Simone. Finché la questione della Cloverfield non fosse stata risolta, dovevo agire in quel modo e tenere le distanze.
Non avevo neppure avuto il tempo di chiamare James e avvertirlo di ciò che ero riuscita ad ottenere da Mr. Wright, così mi buttai sotto la doccia e tentai di prepararmi nel minor tempo possibile. Dovevo presentarmi in ufficio subito, in modo da preparare una linea di difesa adatta per il processo che sarebbe dovuto svolgersi tra qualche giorno.
Prima di uscire diedi un’occhiata alle e-mail, aprendo al volo il PC.
Una valanga di pubblicità venne accuratamente spostata nella casella Cestino, ma notai subito l’indirizzo di posta elettronica della clinica St. Charles.
Il mio cuore mancò di un battito.
Feci doppio click sul link e mi si aprì un documento in .PDF dove venivano elencati i valori delle analisi del sangue. Notai una miriade di sigle senza alcun significato ma quella che cercavo in primis era il Beta-HCG.
Alla fine della seconda pagina lo trovai.
Positive.
Il mondo parve iniziare a girare velocemente, senza che avessi l’opportunità di aggrapparmi a qualcosa per non vomitare. Corsi in bagno e rigettai tutto ciò che avevo ingerito per colazione, ma quando rialzai la testa dalla tazza del wc, mi accorsi che quella era solo una conferma del mio stato.
Ero incinta.
Volevo mettermi a piangere un’altra volta ma non c’era tempo. Per quanto fossi sconvolta dalla notizia, ebbi la forza di chiudere il computer, afferrare la valigetta e le chiavi di casa, per poi recarmi in strada e raggiungere la fermata di Lancaster. Volente o nolente, con tutti i problemi e i pensieri che affliggevano la mia vita, avrei portato avanti il mio lavoro. Ero determinata a tirare Simone fuori dai guai, soprattutto dopo aver saputo che i miei sospetti sulla Cloverfield erano più che confermati.
La Tube era stracolma quella mattina. Ormai ero abituata a recarmi a lavoro praticamente a piedi, visto che l’attico di Simo si trovava in centro.
Forse è più salutare se la smetti di associare ogni tua azione a lui.
Aveva ragione Cervello. Se il mio obiettivo era concentrarmi unicamente sul caso, senza ulteriori distrazioni, avrei dovuto relegare in un angolo della mia mente il calciatore e tutti i problemi che ne seguivano. Dovevo soltanto  pensare a me stessa, a dare una conclusione a questa causa senza possibilmente dare un motivo in più a Yuki per umiliarmi.
Scesi alla fermata tra Regent Street e Oxford Street, imboccando immediatamente la grande e famosa via londinese dello shopping. Avrei voluto concedermi un po’ di sano relax quei giorni, magari facendo una passeggiata per qualche grande centro commerciale, ma quel periodo era troppo delicato. Con la testimonianza di Mr. Wright si aprivano una miriade di possibilità, e non ci dovevamo far trovare impreparati. Finalmente eravamo riusciti a sbrogliare un caso che sembrava irrisolvibile, soprattutto dopo la conferma da parte del St. Charles delle analisi di Elizabeth.
Come ha fatto a falsificarle?
Per tutta la strada che mi divideva dalla fermata di Piccadilly fino a Great Castle Street, mi domandai come la Cloverfield avesse fatto ad ottenere delle analisi così cristalline senza essere incinta.
Erano due le cose: o portava davvero in grembo il figlio di Simone, quindi si era fatta mettere incinta per evitare di perdere la causa come cinque anni prima, oppure aveva delle conoscenze anche all’interno dell’ospedale.
Arrivai alla Abbott&Abbott che James mi aspettava fuori dalla porta d’ingresso.
I suoi occhi azzurri mi avvolsero metaforicamente, scaldandomi poi con quel sorriso che soltanto un uomo di altri tempi sembrava possedere.
«Ven!» trillò entusiasta. «Sei sparita ieri, ho provato a chiamarti ma avevi sempre il telefono spento e anche quello di casa era staccato.»
Non mi ero nemmeno ricordata di mettere sotto carica il Blackberry.
«Mi dispiace,» dissi, abbassando lo sguardo e portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio in segno di nervosismo. «Ieri sono successe un po’ di cose, ti dico solo che sono tornata nel mio vecchio appartamento quindi puoi cercarmi lì.»
Non ci furono parole per far capire a James in che stato penoso mi trovassi.
Si vedeva lontano un miglio che mi avrebbe voluta abbracciare, confortare, dirmi che, alla fine, tutto si sarebbe risolto ma non poteva. Già Yuki insinuava che ci fosse qualcosa di tenero tra di noi, non potevamo dare spago ad altri pettegolezzi.
«Hai fatto la cosa giusta,» mormorò solamente, posandomi una mano sulla spalla.
Quel gesto mi infuse un calore e una sicurezza che sembravo aver perso durante la notte, dopo essermi lasciata completamente andare allo sconforto. «Ora andiamo a lavorare.»
Salimmo le piccole scalette dell’ufficio e non mi trattenni dal dirgli che avevo delle importanti novità su Mr. Wright.
James sorrise. «Anche io, vieni.»
Mi accompagnò fin dentro lo studio, salutando gli altri colleghi e i tirocinanti con un cenno del capo. Yuki si trovava affiancata da Thomas, a mio parere uno dei membri meno brillanti della Abbott&Abbott e lei lo sapeva. La sorte a volte girava per il verso giusto. La vidi in fondo al corridoio, con un plico di fotocopie in mano, senza parvenza di avere un compito davvero importante.
Il giovane Abbott mi fece spazio all’interno del suo studio.
Mi premurai io stessa di chiudere la porta, in modo che la giapponesina vedesse per filo e per segno chi delle due avrebbe avuto più chances di entrare come socio all’interno della compagnia.
James era già seduto alla scrivania, intento a sistemare meglio dei fogli.
«Inizio io!» dissi spumeggiante. Per un attimo dimenticai tutta la depressione accumulata la notte appena trascorsa. Era proprio vero che buttarsi a capofitto sul lavoro avrebbe aiutato molto. Tirai fuori dalla cartella la deposizione di Mr. Wright firmata e siglata dalla sottoscritta, in modo da autenticare il documento. «Ora puoi anche dire a tuo zio che può preparare la mia targhetta!» scherzai.
James mi fissò come se fossi del tutto impazzita.
Si prese il tempo necessario ad esaminare il documento, foglio per foglio, immergendosi nella lettura. Parola dopo parola, vidi i suoi occhi aprirsi lentamente e acquistare la stessa luce radiosa e sicura che io avevo perso la sera appena passata. Quella in cui avevo detto temporaneamente addio ad una parte fondamentale della mia vita.
«Non posso crederci,» disse, fissandomi serio. «Come ci sei riuscita?»
Sorrisi soddisfatta di quella sua reazione. Mi ero preposta un obiettivo e a costo di essere rimasta tutto il giorno appostata di fronte a casa dell’attore, ero riuscita ad ottenere una sua collaborazione.
«Ho rischiato di tornarmene a casa a mani vuote,» ammisi, raccontandogli della riluttanza di Mr. Wright a venire nuovamente coinvolto in quella storia. «Alla fine l’ho convinto, gli ho parlato di Simone e di tutta la storia che c’era dietro. Credo si sia immedesimato un po’.»
James era al settimo cielo, non riusciva a stare fermo sulla sedia. «Il processo è stato fissato per dopodomani, forse riusciremo ad organizzare bene tutto quanto e, se necessario, a richiedere anche una testimonianza a Mr. Wright di persona.»
«Forse non oserei troppo,» dissi, ricordando le reazioni spropositate che l’attore aveva avuto. Di certo, tutta quella storia aveva incasinato le poche rotelle che si trovava in testa, non potevo biasimarlo.
Per un attimo mi venne in mente Simone. Un Simone “futuro”, molto simile a George Wright con tutti i problemi che ne sarebbero derivati. Potrebbe aver anche smesso di giocare a calcio…
Era impossibile immaginarlo lontano da un pallone.
Sarebbe stato come separare lo Ying dallo Yang, il pane dalla nutella, oppure le fave dal pecorino, una cosa inimmaginabile!
Okay, ora mi è venuta fame.
«Comunque, dopodomani c’è il processo? Come mai non ho ricevuto alcuna comunicazione?»
L’avvocato nemmeno alzò gli occhi dalla deposizione, era troppo contento di ciò che ero riuscita ad ottenere. «Ho provato a cercarti, ma hai sempre il telefono spento. Adesso che sei tornata nel tuo monolocale posso lasciarti un messaggio in segreteria,» disse, poi si sentì in dovere di aggiungere altro. «Davvero Ven, hai fatto la cosa giusta. Vedrai che le cose alla fine si aggiusteranno.»
Feci un sorriso stiracchiato, ma nonostante tutti mi continuassero a ripetere quelle cose, sapevo che con Simone non sarebbe stato facile. Entrambi eravamo molto orgogliosi, nessuno dei due avrebbe ceduto per primo. Alla fine lo avevo lasciato soltanto perché, come al solito, aveva avuto una delle sue reazioni esagerate da prima donna. Non sapeva che in realtà era nato tutto dal bisogno che avevo di questo lavoro.
«Grazie.»
James sorrise, stavolta guardandomi. «Bene, ci aspettano due notti molto intense. Dobbiamo preparare una difesa infallibile
Pronti alle dosi di caffeina oltre la norma che avrei dovuto assumere, mi tolsi le decolté per stare più comoda e trovai il mio posto accanto a James. Dopo tutto ciò che avevo sacrificato, quel processo valeva più della mia stessa vita. Mi sarei impegnata fino all’ultimo minuto disponibile per salvare Simone da tutta quella situazione.
Il resto sarebbe venuto dopo.
Mi domandai per un attimo se fosse giusto dire a James che le analisi avevano dato esito positivo, ma decisi di tenermi quel segreto ancora per qualche giorno. Almeno in quel momento mi sembrava una decisione corretta.
«Al lavoro!»
 
***
 
Quella stessa notte tornai a casa alle tre del mattino.
Decidemmo di prenderci qualche ora di sonno ma l’ufficio di James non era proprio il luogo adatto dove riposare. Aveva dei mobili troppo scomodi, magari lo zio li aveva comprati proprio con lo scopo di non far sonnecchiare i suoi soci.
Aprii la porta del mio monolocale, completamente distrutta.
Nemmeno la più piccola fibra del mio corpo si sarebbe ulteriormente mossa oltre la soglia, non riuscivo nemmeno a spogliarmi.
Almeno sei già pronta per domani.
Giustamente Cervello faceva delle ottime osservazioni quando era quasi completamente rincoglionito. Feci un paio di passi, strusciando i talloni nudi sul pavimento. Mi ero tolta le scarpe sulla moquette delle scale e la palazzina, essendo sprovvista di ascensore, mi aveva dato il colpo di grazia.
«Morirò in quello studio,» mi lagnai.
Massaggiai il collo con la mano, provando un po’ di sollievo e decisi mentalmente se fosse il caso di farmi una doccia oppure di svenire direttamente sul letto. Prima di perdere completamente conoscenza a causa della stanchezza, vidi dei segni rossi sul telefono segno che c’erano dei messaggi in segreteria.
Ne ascoltai il primo.
Primo messaggio, disse la voce registrata.
 
Dobbiamo parlare.
 
Riconobbi immediatamente la voce, senza alcun dubbio. Simone aveva immaginato che fossi tornata al mio appartamento ma non mi aveva trovata. Tremai. La stanchezza se ne andò tutta insieme e tornò quell’enorme senso di malessere che a stento riuscivo a ricordare di aver mai provato prima. Cosa significava “Dobbiamo parlare?”. Non avevo alcuna idea di ciò che mi avrebbe potuto dire, ma mi ero ripromessa di limitare i nostri incontri ad un contesto puramente professionale.
Secondo messaggio.
 
Ovviamente non ci sei mai.
Come al solito starai lavorando, tanto conta soltanto quello per te, me lo hai detto un milione di volte all’inizio. Sono stata troppo stupido a credere che contassi qualcosa per te. Per una volta che mi sono esposto, ho pagato. Adesso capisco cosa si prova a stare anche dall’altra parte, dal lato di quelli rifiutati.
Grazie per avermelo fatto capire prima che fosse troppo tar-…
 
Alzai la cornetta urlando un enorme «No!» credendo che Simone fosse ancora dall’altra parte della linea. Quando udii soltanto il classico tu-tu-tu del telefono, mi prese lo sconforto. Rimasi completamente rigida. Sembrò quasi che la stanchezza che avevo accumulato in quella giornata appena trascorsa, fosse volata via. Di sicuro avrei passato l’ennesima notte in bianco, scossa dai pensieri.
Puoi davvero biasimarlo? Te ne sei andata senza dargli alcuna spiegazione.
Da quando sei dalla sua parte?
Finii di ascoltare i messaggi in segreteria, che erano tre in tutto.
Terzo messaggio.
 
Mi manchi.
 
Lasciai cadere il telefono sul tavolo, trattenendo a stento l’impulso di prendere le chiavi di casa, correre di notte a piedi fino a raggiungere Soho. Volevo tornare da Simone, ogni fibra del mio corpo me lo stava suggerendo. Ormai lui era necessario per il mio fisico, quasi come respirare l’aria oppure fare la fotosintesi, un processo naturale.
Corri da lui.
Quella notte il mio Cervello remava contro di me.
«Sai che non posso, proprio adesso che sono così vicina.»
Mancava soltanto un giorno e poi ci sarebbe stato il processo. Molto probabilmente il giudice sarebbe arrivato anche al verdetto finale, ma non ne ero totalmente certa. Ormai non si poteva più rimandare oltre, tra ventiquattro ore o poco più ognuno avrebbe rivelato la propria mano.
Posai le mani sul tavolino, aggrappandomi al legno come fosse l’ultimo appiglio che mi avrebbe sostenuta. Mi forzai di spogliarmi, infilarmi il pigiama e almeno chiudere gli occhi per qualche minuto. Pensai al processo, al giorno che avrei rivisto Simone dopo quello che era successo, senza dargli alcuna spiegazione.
Senza dirgli nemmeno che sarebbe diventato padre.
O meglio, che c’era la possibilità che lo diventasse.
Scacciai quella realtà che avrebbe solo contribuito a impedirmi di dormire. Ancora non avevo deciso cosa fare, non avevo parlato a nessuno di quella gravidanza, giusto un accenno a James. Nessuno sapeva, avrei potuto tranquillamente recarmi ad un centro apposito e concludere tutto.
Non avrei mai avuto la forza di farlo.
E se lui non lo accettasse?
Mi assumerei comunque la mia parte di responsabilità, a costo di rimanere da sola. Non ero contraria all’aborto, anche perché c’erano molte ragazze con problemi – sia economici che psicologici – a cui avrebbe peggiorato la vita avere anche un bambino di cui occuparsi. Io per fortuna me l’ero sempre cavata bene da sola, non avrebbe fatto alcuna differenza.
Accarezzai inconsciamente la pancia, come se il feto non ancora del tutto formato potesse davvero avvertire la mia presenza. «Tu non hai colpe,» gli dissi, poi cominciai a fantasticare se fosse diventata una Lei.
Ricordai di mettere sotto carica il cellulare e visto che ormai quella notte era quasi completamente andata a farsi benedire, girai anche l’e-mail del laboratorio analisi del St. Charles al dottor Ross.
Magari nemmeno avrei avuto bisogno della sua conferma.
Era come se lo sentissi, come se lo avessi sempre saputo ma il mio cervello si era rifiutato di elaborare quella possibilità. Non ero mai stata così negligente, anzi, avevo sempre etichettato quelle persone poco attente come gente che un po’ se l’era “cercata”.
E ora ci sei tu da questo lato, invece. Ti senti stupida?
Abbastanza.
Era difficile per me ammettere una cosa del genere, soprattutto perché ero sempre stata abituata ad avere tutto sotto controllo. Sin dalle elementari sapevo che sarei diventata avvocato, mi ero posta un obiettivo da raggiungere. Avevo contato gli anni delle medie, quelli del liceo, poi mi ero trasferita a Londra per frequentare l’Università e conseguire i master necessari a farmi fare il tirocinio alla Abbot&Abbott.
C’era stata solamente una piccola deviazione che prendeva il nome di Simone Sogno.
 
Non mi accorsi nemmeno di essermi addormentata, la sveglia suonò puntuale alle 7.00 del mattino per avvertirmi di andare a lavoro. Avevo tutto il tempo necessario per farmi una doccia, vestirmi, truccarmi e dare una qualche sistemata a quei capelli che cominciavano a diventare un po’ troppo ribelli per i miei gusti. Quando finii di farmi la doccia, la macchinetta del caffè borbottava allegramente sul fornello così mi concessi quei cinque minuti di relax sufficienti ad assaporare bene la bevanda.
La pausa caffè, per un italiano soprattutto, era sacra. Per quanto avessi tentato di allontanarmi il più possibile dalle “etichette” che gli stranieri ci appiccicavano addosso nemmeno fossimo degli emarginati, al caffè Espresso non avrei mai potuto rinunciare.
Rimasi imbambolata a fissare il pavimento, pensando mentalmente a ciò che avrei dovuto fare in quella giornata. Innanzitutto, io e James avremmo dovuto rivedere tutti i documenti relativi al processo e rileggere le azioni da svolgere in tribunale. Avevamo pianificato tutto, ogni possibile contrattacco di St. James e ad ogni sua azione avevamo corrisposto una contromossa adeguata. Non ci sarebbero dovuti essere margini d’errore.
Notai che la segreteria telefonica brillava ancora.
Presa dall’angoscia della sera prima, avevo dimenticato di cancellare i messaggi di Simone, o non ne avevo avuto il coraggio. Posai la tazzina del caffè vuota nel lavello e andai a lavarmi i denti e a finirmi di preparare.
Quella mattina il cielo sembrava più limpido del solito. Sapevo che il meteo Londinese era piuttosto standard, sia nei mesi invernali che in quelli estivi, ma quando si avvicinava il mese di Aprile, si poteva quasi parlare di Primavera. Inspirai a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante della città, dirigendomi verso la fermata di Lancaster Gate per poi scendere a Piccadilly. Avevo dimenticato come fosse prendere i mezzi pubblici per andare a lavoro, abituata da mesi a recarmici a piedi. Attesi il dlin dlon meccanico e la voce robotica che annunciava tutte le fermate che la Red Line avrebbe dovuto toccare e fissai la mia attenzione sulle luci che si alternavano veloci nel buio dei tunnel sotterranei.
Ricordi il primo giorno?
E come potevo dimenticarlo? Mi ritrovavo a percorrere gli stessi passi e gli stessi tempi d’attesa, solo che non avevo James al mio fianco. Era stato un caso conoscerlo proprio il primo giorno di tirocinio, visto e considerato che anche per lui era la prima volta nello studio dello zio. Si era trattato di destino.
Così come Simo.
Anche quella di Simone era stata una bella sorpresa. Non mi sarei mai aspettata una cosa del genere, che il mio primo caso riguardasse proprio una persona del mio passato, e che adesso aveva cominciato a fare parte anche del mio futuro.
«Prossima fermata, Piccadilly Circus,» disse la voce meccanica di una donna.
Mi apprestai a scendere, sostando davanti alle porte scorrevoli di uscita. Ripercorsi cosa fosse successo da quando avevo iniziato quel tirocinio fino ad ora, alternando i momenti più bui a quelli più felici della mia vita e provai anche una punta di nostalgia. Quando avevo preso la decisione di lasciare l’appartamento di Simone, senza dargli alcun tipo di spiegazione, non avevo pensato a questo. Era stata una scelta presa di fretta, dettata soprattutto dalle parole di James che mi avevano messo paura. Come avrei potuto sacrificare tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento per un uomo? La Venera del liceo, la ragazza determinata e convinta a tutti i costi di realizzare il suo sogno non avrebbe mai permesso ad un ragazzo di infrangerlo.
Spesso i sogni cambiano…
Quella mattina Cervello era più poetico del solito. Riflettei su ciò che aveva detto, ma tentai di non farmi tentare da quella proposta. Nella vita potevano accadere tante cose, questo lo avevo sempre messo in conto, ma addirittura stravolgere completamente i propri piani per un’altra persona, mi pareva esagerato. Provai a immaginare la mia vita da un’altra prospettiva, quella che prevedeva un minor avanzo di carriera finalizzato alla cura della famiglia di cui avrei fatto parte.
Mentre camminavo verso l’uscita, inserendo la Oyster Card e passando il tornello, mi resi conto che quello era il futuro che anche mia madre aveva scelto. Si era dedicata più alla famiglia che a sé stessa, magari rinunciando ai suoi sogni di diventare pasticcera.
Ha preferito fare le sue torte a casa, per la famiglia, piuttosto che seguire un corso in Francia e lasciare da solo te e tuo padre.
Era una delle cose che da piccola avevo giurato di non fare, sacrificarmi per gli altri. Avevo fatto una sorta di patto con me stessa, che non sarei diventata come mia madre e avrei rinunciato a ciò che volevo diventare nella vita soltanto per paura di non saper gestire due cose insieme. E l’occasione mi si presentava davanti agli occhi in quel momento.
«Ehi spaghetti-girl, pronta per oggi?» la voce di James mi riscosse dai miei pensieri. Lo avevo incontrato a metà strada, quella per recarmi verso l’ufficio, ma nemmeno mi ero accorta della sua presenza, troppo concentrata sui miei pensieri.
«Certo collega!» ironizzai, ma mi risultò un po’ difficile essere troppo allegra.
I messaggi che ieri Simo aveva lasciato nella mia segreteria telefonica mi avevano completamente destabilizzata e non riuscivo a scollarmi di dosso il pensiero che quando lo avrei rivisto per il processo, non avrei potuto farcela.
James si accorse del mio umore. «Problemi con la casa?» mi domandò, pensando avessi riscontrato qualche difficoltà a riottenere il contratto di affitto con Mr. Cabret, il proprietario della palazzina.
Scossi la testa, indecisa se parlargli o meno di quello che mi stava succedendo. Se gli avessi raccontato di Simone, avrei dovuto anche aggiungere le analisi che avevo ritirato dal St. Charles. Forse sarebbe stato anche troppo per lui, ma come quando gli avevo parlato della mia storia con il calciatore, avvertii lo stesso bisogno di sfogarmi con qualcuno.
Celeste non era lì con me, non potevo nemmeno coinvolgerla troppo oppure avrebbe preso il primo aereo pur di aiutarmi e magari lasciare tutta la sua vita a Roma. Avrei dovuto trovare una soluzione alternativa e in quel momento James sembrava il candidato più opinabile.
«Non si tratta della casa,» sospirai, cercando di stare al passo con l’avvocato. «Diciamo che è un insieme di cose che mi stanno mandando ai matti.»
James sgranò gli occhi. «Lo sai che domani siamo in aula, vero? Non possiamo farci distrarre dalla nostra vita privata.»
Non seppi identificare se si trattasse di una ramanzina, raccomandazione oppure semplicemente un consiglio. Annuii senza saper cosa dire. «Mi sono arrivati i risultati delle analisi che ho fatto giorni fa, le ho già inoltrate al dottor Ross, ma penso di sapere quale sia la diagnosi,» sputai fuori, tutto insieme.
Pensai che in fondo, se lo avessi detto tutto in una volta, sarebbe risultato meno doloroso. Mi sbagliai di grosso. Dire a voce alta quello a cui la vita mi stava sottoponendo rendeva il tutto ancora più reale e spaventoso.
«Cosa stai cercando di dirmi Venera?» chiese sbigottito.
Sbuffai. «Quello che temevo di più.»
James si fermò in mezzo a Regent Street, tirando fuori le mani dalle tasche del Montgomery e tirandosi su il bavero in un gesto nervoso. «Calma,» sospirò, posandomi le mani sulle spalle. Era quasi come se quello in dolce attesa fosse stato lui a momenti. Non lo avevo mai visto così preoccupato.
«Il nostro cliente lo sa?»
Quella fu la prima domanda. Era ovvio che fosse così, anche perché a meno di ventiquattro ore ci sarebbe stato il processo e bisognava anche prevedere le reazioni che avrebbe avuto Simone di fronte al giudice e a quella serpe di St. James.
Scossi la testa. «Non lo sa nessuno. A dire la verità credo che soltanto tu conosci questo segreto, anche la storia che c’era tra me e Mr. Sogno.»
Lo dissi quasi fosse una vergogna e James lo capì.
«Risolveremo tutto, tranquilla. Per prima cosa dobbiamo vincere la causa di domani, spaccare in aula e tornare in ufficio a testa alta,» spiegò, dandomi la carica. «Il resto lo affronteremo insieme una volta finita questa odissea interminabile.»
Sorrisi. «Hai ragione.»
E proprio lì, in mezzo ad una strada che lentamente si stava riempiendo di gente – un po’ che si recava a lavoro, un po’ che attendeva l’apertura dei diversi negozi in centro – James Percival Abbott mi abbracciò.
Ritrovai un calore e un profumo persi da tempo, quasi mi commossi.
Avevo provato troppo dolore in quei giorni e finalmente qualcuno si era offerto di darmi quel conforto che mi mancava. «E poi, Ven,» continuò, scostandomi e guardandomi negli occhi. «Anche se sarà difficile, hai preso la decisione giusta ed è comunque una bellissima notizia. Per cui, congratulazioni e tieni duro!»
Era innegabile che James c’era sempre stato, sin dall’inizio. Era stato l’unico e il primo che aveva creduto nelle mie potenzialità, che mi aveva dato un’occasione anche se aveva inevitabilmente contribuito a far avvicinare me e Simone.
È colpa sua se ti trovi in questo casino.
Scacciai via quel pensiero, perché nonostante fosse vero che la convivenza forzata tra me e il calciatore aveva dato via a quel susseguirsi infinito di eventi, James si era sempre offerto di supportarmi e darmi una mano qualora ne avessi avuto bisogno.
«Grazie,» dissi sorridendo, poi insieme ci dirigemmo verso l’ingresso della Abbott&Abbott.
 

 
Eccomi!!
Scusate per questo ritardo nell'aggiornamento ma sono un po' incasinata con l'organizzazione delle mie ferie e quelle della mia famiglia (LOL). Dunque, questo capitolo è un po' di passaggio - lo ammetto - ma serviva un punto di congiunzione che legasse ciò che era successo nel 27 e ciò che Ven sta affrontando. Per ora, al primo posto, c'è il processo imminente e poi verrà tutto il resto.
Che ne pensate?
Come si evolverà secondo voi la situazione?

Fatemi sapere, un bacione e buone vacanze a tutte.
PS. Spero di essere precisa con i capitoli, comunque non disperate al massimo ritarderanno o anticiperanno qualche giorno per via delle partenze XD

Baci, Marty.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29
 
 
La facciata del Royal Court of Justice mi aveva sempre suscitato una grande emozione, sin da quando ne avevo sentito parlare nei libri più famosi di Storia del Diritto Medievale e Moderno. Aveva l’aspetto molto simile a Westminster Abbey, ovvero quel caratteristico stile gotico inglese, sparso un po’ in tutta la città, e nessun turista si sarebbe mai immaginato che all’interno di un edificio del genere, che magari poteva assomigliare benissimo ad una abbazia, si svolgessero la maggior parte dei processi per cause civili di tutta Londra.
Inspirai l’aria pungente di quella mattina e tentai di non lasciarmi impressionare dall’imponenza di quell’edificio.
Già lo hai visto una decina di volte, datti un contegno!
Come al solito, il mio Cervello aveva ragione e non potevo che dargli retta. Avevamo già svolto l’udienza preliminare in una di quelle stanze, ed era stata rinviata a causa del test del DNA. I risultati ci erano poi stati inviati dai collaboratori di St. James, perché ogni nuova prova portata in tribunale doveva essere presa in esame privatamente dalle due parti. Anche al St. Charles la signorina Elizabeth risultava incinta, per cui avremmo dovuto affrontare una causa che già partiva con un punteggio avvantaggiato per l’accusa.
«Dovrebbe essere già qui,» disse spazientito James, guardando l’orologio.
Era evidente come anche il giovane avvocato fosse nervoso, soprattutto perché il nostro cliente ancora non si era palesato. Mancavano soltanto dieci minuti all’inizio del processo e Miss Elizabeth si era già accomodata in aula.
Mi aveva rivolto una breve occhiata di disgusto, tanto per marcare la questione di essere superiore a qualsiasi persona di sesso femminile.
«Vedrai che arriverà,» gli dissi per rassicurarlo.
A dire il vero, non ero tanto sicura delle mie parole. Da quando avevo lasciato l’appartamento di Simone, l’idea di rivederlo mi metteva un terrore addosso che non sapevo descrivere. Questo perché ero colpevole e me ne rendevo conto ogni giorno che passavo lontano da lui.
Ero stata codarda ad approfittare di quel suo sfogo di gelosia per andarmene. Mi ero allontanata senza nemmeno avere il coraggio di dirgli il reale motivo. Dentro di me ero divisa a metà: una parte voleva che Simone si presentasse in aula, almeno per avere più chance di vincere il processo; l’altra parte avrebbe fatto volentieri a meno.
Cosa gli avrei potuto dire una volta che lo avessi avuto davanti?
Mi aveva lasciato un messaggio in cui mi diceva che gli mancavo. Quelle parole mi avevano fatto male come mille coltelli lanciati simultaneamente contro il mio cuore. E nonostante ciò, non lo avevo richiamato.
James mi fissò seriamente in ansia. «Lo sai che se non si presenta, perderemo credibilità di fronte al giudice?»
Lo sapevo benissimo.
Il primo passo per ammettere il torto era proprio quello di “evitare” la persona a cui lo si era fatto. Un po’ come mi stavo comportando io stessa con lui. Dentro di me pregai che riuscisse ad arrivare in tempo, perché altrimenti tutta la sofferenza che stavo provando in quel momento sarebbe stata vana.
Avremmo perso la causa, avrei perso l’opportunità di diventare socia dello studio e non avrei nemmeno più avuto il coraggio di presentarmi davanti a lui.
«Sono sicura che ci sarà,» insistetti.
Aspettammo qualche altro minuto e proprio quando l’usciere del tribunale si affacciò per avvertirci che il giudice aveva richiamato gli avvocati in aula, la riconoscibile cinquecento blu metallizzato si palesò all’orizzonte.
Fui sollevata nel vederla perché almeno avevamo una chance in più di vincere.
James mi guardò tirando un sospiro di sollievo. «Io vado dentro, tu aspetta Mr. Sogno e accompagnalo dentro.»
PANICO.
Stava accadendo proprio ciò che temevo, ovvero rimanere da sola con lui. Mi ero creata nella mente una sorta di alibi, una scusa per non essere a tu per tu con il ragazzo che avevo lasciato senza nemmeno una misera spiegazione. Mi sentivo un verme.
«A-Aspett-…» tentai di aggrapparmi a James.
«Sono sicuro che ce la farai, conto su di te!» e scomparve all’interno del Royal Court of Justice.
Dannazione. Maledizione. Cazzo.
Che linguaggio scurrile.
La cinquecento blu era appena stata parcheggiata nell’area riservata ai clienti e tentai di non fissare troppo il posto del guidatore. Avevo troppa paura di scorgere le iridi scure e infuriate di Simone, avevo il terrore che quel suo sguardo mi avrebbe completamente destabilizzata.
Fissai il marciapiede con rinnovato interesse.
Mentalmente cominciai a ripetere passo dopo passo tutte le mosse che avevamo studiato assieme a James la sera prima, in modo da non dimenticare nulla. Per prima cosa, ci sarebbe stata l’esaminazione da parte del giudice dei risultati ottenuti dalla clinica, eravamo più che sicuri che St. James aveva puntato tutto su quello, senza approfondire null’altro. A quel punto saremmo intervenuti noi, con la storia di Mr. Wright, la sua testimonianza e le “strane” coincidenze che avrebbero fatto dubitare chiunque dell’innocenza della Cloverfield.
«Ehi Veeeeeen!»
La voce squillante di Sofia mi destò dalla mia concentrazione e fui costretta ad alzare lo sguardo. Dietro la bellissima Sogno, con la sua immancabile cascata di capelli voluminosi e biondi, c’era Simone.
Era bellissimo.
Forse ancora di più di quanto lo ricordavo. Aveva indossato un completo stavolta, un gessato grigio scuro con la camicia celeste e la cravatta abbinata. Sembrava quasi più grande, come se in quei tre giorni fosse invecchiato.
Anche le profonde occhiaie gli davano qualche anno in più.
Che gli sarà successo?
Appena dietro di lui, vidi Gabriele. Era impeccabile anche lui, come sempre, ma gli occhi azzurri del fratello più grande trasudavano nervosismo. Erano scuri in volto, quasi devastati da quella causa che ormai si protraeva per troppo tempo.
«Come sei bella!» mi disse Sofia, felice e sorridente come sempre.
«Grazie,» le risposi imbarazzata.
Lentamente la distanza che divideva me e Simone si stava assottigliando. Ogni fibra del mio corpo voleva evitare quel momento perché sapevo di essere nel torto. Non dovevo dargli occasione di parlare.
«Presto, ci stanno aspettando,» dissi, cominciando a salire le scale.
Gli diedi le spalle senza nemmeno salutarlo. Fu un gesto da vigliacca, lo ammetto, ma c’erano in ballo troppe cose e volevo evitare di venire mentalmente deconcentrata da Simone.
«Spero che abbiate studiato una linea migliore dell’altra volta,» sospirò Gabe, evidentemente spazientito. «Questa storia non sta facendo altro che influire negativamente sul rendimento di Simone.»
Rimasi quasi pietrificata. Serrai i pugni e mi costrinsi a proseguire senza mai voltarmi indietro. Cosa aveva voluto dire?
«Entrate, presto.»
Lasciai passare i fratelli Sogno all’interno dell’aula, poi sentii una pressione insostenibile alla bocca dello stomaco e fui costretta a correre nel primo bagno disponibile. Per fortuna era deserto, così rimisi tutta la colazione di quella mattina.
Mi sentivo uno straccio.
Accasciata completamente sul pavimento del bagno, attesi che il mio stomaco la smettesse di ballare la rumba.
«Tutto bene?»
La voce di Sofia mi colse un’altra volta di sorpresa. Tentai di rimettermi in piedi a fatica e a darmi una sistemata. «S-Sì, sì!»
Avevo paura potesse scoprire la mia condizione fisica, oppure il penoso stato d’animo in cui mi trovavo in quel momento. Avevo troppe cose in ballo, troppe emozioni da gestire che prima o poi mi avrebbero mandato ai matti.
Sofia si affacciò per sincerarsi della mia condizione e vedendomi con le lacrime agli occhi, il trucco sbaffato e le labbra gonfie si impietosì. Sorrise dolcemente e si inginocchiò accanto a me, cominciando a pulirmi il viso con una salviettina umida.
Come avrebbe fatto mia madre.
«Non puoi accollarti tutti i problemi del mondo senza mai chiedere l’aiuto di nessuno,» disse di punto in bianco, quasi avesse avuto la facoltà di leggermi nella mente. «Prima o poi ti senti male.»
Le sorrisi senza aggiungere altro, anche perché ero già in ritardo per il processo. Dovevo essere in aula ad aiutare James invece che sul pavimento del bagno a piangermi addosso.
«Devo darmi una sistemata,» dissi, rialzandomi e tentando di aggiustare il mio aspetto.
Sofia mi aiutò, sempre disponibile.
Alla fine sembrò quasi che non avessi avuto quel piccolo attacco di panico, ma avevo comunque un aspetto semi-stravolto. Vedere Simone ridotto in quello stato mi aveva distrutta, sia fisicamente che psicologicamente.
«Grazie,» dissi in direzione della più piccola dei fratelli Sogno. «Cercherò di sdebitarmi in qualche modo.»
Sofia mi sorrise e mi trattenne per una mano, diventando stranamente seria.
«Non so cosa sia successo tra te e Simo,» disse. Cercai in tutti i modi ad isolarmi da quel discorso perché non volevo prediche. Avrei preferito mille volte tornare in aula e andare direttamente in pasto a St. James. «Ma sappi che io farò sempre il tifo per voi due, come quando è iniziato tutto questo.»
Rimasi spiazzata da quella ammissione.
Era strano capire che non solo eravamo importanti l’uno per l’altra, ma c’erano anche terze persone coinvolte nella nostra storia. Allontanandomi da Simone, avevo soltanto pensato al suo stato di salute e al mio, ma vedere Sofia ancora con la speranza di vederci insieme alla fine di tutto mi diede un po’ di carica.
 
L’aula del tribunale dove si sarebbe dovuto tenere il processo era la stessa della volta precedente. Entrai silenziosamente per trovare subito il mio posto accanto a James, senza creare ulteriori imbarazzi per essere arrivata in ritardo.
«Tutto bene?» mi chiese lui, vedendomi un po’ stravolta.
Annuii silenziosamente cominciando a disporre sulla scrivania tutti i documenti e il piano d’azione che avevamo studiato per quel processo. Simone era seduto accanto a James con lo sguardo perso nel vuoto. Era evidente come tra di noi ci fosse un muro invalicabile, un silenzio carico di mille parole inespresse, ma quello non era né il momento né il luogo per esprimerci.
Il giudice entrò in aula, facendo alzare in piedi tutti i presenti.
Rivolsi un’occhiata a St. James che tirava fuori il petto in modo pomposo, quasi fosse sicuro del tutto di portarsi a casa la vittoria. Lo odiavo a pelle, soprattutto perché andava contro la mia etica professionale. Se davvero Miss Cloverfield aveva truffato Simone, Carl St. James ne era al corrente e aveva portato avanti quella messa in scena senza alcun pudore.
«Buongiorno a tutti,» disse il giudice Simmons, accomodandosi sulla sua grande poltrona rossa. «Bene, oggi riesaminiamo il caso Cloverfield-Sogno, rinviato a causa di una mancata conferma per il test di paternità fatto dall’accusa. Dunque, chiedo ad entrambe le parti se siete stati messi al corrente dei risultati?»
James annuì, prendendo la parola. «Vostro Onore, la difesa è venuta a conoscenza del risultato del test, effettuato presso la clinica di St. Charles, convenzionata dallo studio Abbott&Abbott di cui sono rappresentante,» iniziò, senza tralasciare nulla. Il giudice parve molto attento. «Vorrei porre all’esame di questa corte, però, una questione di cui siamo venuti a conoscenza soltanto da poco tempo.»
Vidi St. James sbiancare di colpo. «Obiezione, vostro onore. L’accusa non è stata messa al corrente di questi nuovi risvolti e quindi non possiamo controbattere.»
Il giudice Simmons osservò entrambe le parti. «Avvocato St. James, può capitare che una delle due parti non abbia tempo materiale per presentare i documenti relativi ad un nuovo risvolto del caso, sentiamo prima cosa ha da dire il suo collega. Al massimo vi concederò qualche ora per riorganizzare un piano valido.»
St. James non poté replicare in alcun modo.
Sorrisi alla piccola vittoria che aveva ottenuto la nostra “squadra”. Mi ritrovai a pensare come io e James stessimo combattendo, uniti come non mai per un obiettivo comune e mi ritrovai a pensare a Simone, a quello che faceva per vivere.
Magari non è solo uno stupido troglodita che corre appresso ad un pallone.
Forse anche lui aveva degli obiettivi.
«Grazie, Vostro Onore,» continuò James. «Recentemente, io e la mia collega, abbiamo indagato passo per passo sugli spostamenti del nostro cliente la sera del 29 settembre 2014 e ci è capitato di trovare un vecchio articolo di giornale che parlava di un evento mondano successo non più di cinque anni prima.»
Quello era il momento clou della storia. Eravamo partiti col botto, come da copione, ma era inevitabile. Vidi la Cloverfield cominciare a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi avesse qualcosa da nascondere. Forse avevamo scavato nel punto giusto, finalmente cominciavano a saltare fuori i vecchi scheletri nell’armadio.
«Per spiegare meglio tale situazione, chiamo la mia collega per esporre i fatti in quanto si è occupata personalmente della deposizione firmata ed autenticata del nostro testimone chiave,» mi sorprese James.
Non si era parlato di questo! Non ero ancora pronta per affrontare tutto il processo da sola, soprattutto non avrei potuto concedermi il minimo margine d’errore.
«Prego, Venera,» mi disse, sorridendo per incoraggiarmi.
Inspirai forte e decisi di prendere la situazione in mano. Ero una tirocinante e forse quella sarebbe stata la mia prima e ultima occasione per dimostrare quanto realmente valessi. Dovevo meritarmi il posto nello studio, altrimenti tutto ciò che avevo sacrificato in quei giorni sarebbe stato vano.
Mi alzai in piedi, lisciandomi bene le pieghe della gonna. Arginai il tavolo dove erano sparse le pratiche e afferrai la deposizione di Mr. Wright, giusto per avere un punto di riferimento. Cercai di non guardare Simone direttamente negli occhi, altrimenti avrei perso tutta la sicurezza che avevo acquistato in quei pochi momenti.
«Vostro Onore, vorrei iniziare con una storia davvero curiosa e affascinante. Partirei da una sera, una come tante, e il soggetto della nostra storia sarà un famoso attore che ha appena vinto numerosi e prestigiosi premi,» iniziai.
Le facce del giudice Simmons, di Carl St. James e di Elizabeth erano quasi sconvolte, eppure sia Sofia che Gabriele parevano abbastanza incuriositi da quel mio racconto.
«Chiedo obiezione, Vostro Onore, il racconto dell’avvocato Donati non mi pare pertinente al caso,» intervenne St. James, tanto per mettermi i bastoni tra le ruote.
Simmons batté più volte il martelletto, chiedendo ordine in aula. «Avvocato St. James, sentiamo prima tutta la storia e poi giudicheremo la pertinenza o meno per questo caso.»
Ringraziai il giudice con un cenno del capo, poi proseguii. Dovevo utilizzare il massimo della mia professionalità, soprattutto per dimostrare a Simone cos’ero in grado di fare e il perché avevo avuto bisogno di quel periodo lontani.
Lo hai fatto per lui.
Lentamente nella mia testa cominciò a formarsi l’idea, inconscia, che tutte le azioni che avevo compiuto, giustificate con il fatto che dovessi a tutti i costi diventare socia della Abbott&Abbott, erano state compiute unicamente con lo scopo di vincere la causa. Certo, tale risultato mi avrebbe dato più chance di diventare un avvocato a tutti gli effetti, ma trionfare su St. James avrebbe soprattutto liberato Simone dalle catene che la Cloverfield aveva intenzione di mettergli a vita.
Una vera e propria estorsione sotto forma di gravidanza.
«Tale sera in questione, una sera “X”, questo attore incontra in un locale abbastanza frequentato da personalità di spicco una ragazza le cui fattezze abbiamo riscontrato corrispondono a quelle di Miss Cloverfield,» proseguii.
«Obiezione, Vostro Onore!» ormai St. James sapeva dire soltanto quello.
Simmons roteò gli occhi al cielo. «Per cosa, di grazia?»
L’avvocato dell’accusa aveva pochi pesci da pigliare. «L’avvocato Donati sta insinuando cose sulla mia cliente senza presentare un minimo straccio di prova.»
A quel punto era giunto il momento di passare ai fatti. «Riportato a pagina sei del documento che Mr. Abbott vi sta consegnando,» dissi, mentre James si adoperava per far avere al giudice e a St. James una copia ben impaginata della deposizione di Mr. Wright. «Potete trovare una fotocopia dell’articolo scritto da Bastian Force, attuale capo redattore del Daily Voice. Secondo la sua testimonianza, quella sera la signorina Elizabeth Cloverfield ha avvicinato il nostro testimone chiave e lo ha sedotto. Secondo alcuni testimoni, tale storia d’amore facoltosa comparve su tutti i tabloid inglesi dell’epoca, anche se adesso non vi si trova alcuna traccia. L’allora Miss Cloverfield, cito dal Mondane Paper, “era una graziosa e anonima ragazza del Sussex”»
E a quel punto Elizabeth non trattenne la rabbia. «Sono soltanto menzogne!!» urlò.
Simmons parve svegliarsi da un torpore momentaneo, pronto a sbattere il martelletto sul legno con veemenza. «Avvocato St. James! Tenga a bada la sua cliente! Siamo in un’aula di tribunale, santo cielo, mica a Portobello!»
Sorrisi dentro di me, pregustando la vittoria. Cercai di non guardare Simone, ma fu più difficile del previsto. Con la coda dell’occhio tentai di individuare il suo volto, ma lo trovai a capo chino intento a fissarsi le scarpe. Era difficile per me vederlo in quello stato, soprattutto perché da sempre era stato quello più spensierato e allegro dei due. Ero io quella coi piedi per terra.
Ignorai quella brutta sensazione. «Si riconosce in questo articolo, Miss Cloverfield?» le dissi, camminando lentamente verso il posto in cui era seduta e mostrandole esattamente la foto che la ritraeva in uno dei vecchi giornali mondani che aveva dimenticato di “comprare”.
Gli occhi azzurri e guizzanti di rabbia della ragazza mi fulminarono da parte a parte. Se al posto delle lunghe unghie laccate di rosso avesse avuto un coltello affilato, ero sicura mi avrebbe tappato la bocca per sempre.
Questo lo faccio soltanto per te, Simo.
«La signorina Cloverfield, dopo mesi di fidanzamento con il nostro testimone, ha pensato bene che la fama che aveva acquisito non fosse abbastanza, per cui, qualche settimana dopo, uscì la notizia di una sua improvvisa gravidanza,» e lì ci fu il colpo di scena.
St. James si voltò verso la sua cliente, senza più assi nella manica.
Mi sentivo piuttosto trionfante. «Tale gravidanza non fu mai riconosciuta dal nostro cliente, alché la storia si concluse in un processo civile, coincidenza alquanto incredibile, ma al momento della riprova del test del DNA, i risultati riscontrati furono del tutto negativi e la signorina Cloverfield perse la causa di allora, senza ottenere alcun beneficio economico. Si tenne soltanto la fama acquisita con lo scandalo,» conclusi.
Avevo spiegato per filo e per segno tutto ciò che mi aveva confessato Mr. Wright, ma ciò non toglieva che l’accusa aveva ancora il test dalla loro parte. Io e James avevamo tentato il tutto per tutto, studiato ogni singola via di fuga per poter arginare quel particolare, purtroppo rimaneva la  prova più schiacciante.
Il giudice Simmons si lisciò i folti baffi grigi. «Bene avvocato Donati,» sospirò. «Ho ascoltato questa storia davvero affascinante sulla signorina Cloverfield ma per quanto possa risultare davvero troppo piena di coincidenze, rimane ugualmente una storia
Chiusi gli occhi, tentando di non entrare nel panico. «Vostro Onore, il nostro testimone ha rilasciato questa dichiarazione nonostante volesse rimanere totalmente anonimo. Ogni notizia di questa vicenda è stata insabbiata e nemmeno Mr. Force, che abbiamo contattato personalmente, a suo tempo è riuscito a trovare qualche traccia di questo processo negli archivi del tribunale. È troppo sospetto per essere lasciato al caso,» insistetti.
James ed io avevamo calcolato anche quella possibilità.
Magari se Mr. Wright si fosse presentato di persona, come testimone chiave, sarebbe risultato tutto molto più credibile rispetto ad una dichiarazione firmata su un foglio.
Simmons alzò una mano per creare silenzio. «Su un piano logico, avete tutte le ragioni per sospettare di questo caso, ma come dice lei, avvocato, se non sussistono prove concrete della colpevolezza di Miss Cloverfield per frode ai danni di questo vostro testimone, io non posso fare nulla.»
James si alzò in piedi, deciso ad intervenire. «Questa testimonianza scredita la veridicità di ciò che la signorina afferma. Come possiamo pensare che ciò che dice corrisponda al vero, dopo che appena cinque anni fa è successo lo stesso? Come allora, potrebbe aver falsificato i risultati clinici.»
St. James pareva aver riacquistato di nuovo colore. «Come ha affermato il giudice Simmons, non ci sono prove che dimostrino ciò che voi state dicendo. Potrebbero essere delle menzogne che ha inventato quel giornalista, se non avete nemmeno un testimone da presentare alla corte, potreste aver inventato tutto voi. Dal momento che la prova che l’accusa ha fornito è schiacciante, sarebbe stata l’unica vostra soluzione, appellarvi ad un ragionevole dubbio.»
Era prevedibile succedesse una cosa del genere, ma non avevamo nient’altro in mano. Molto dipendeva anche dal giudice che si aveva di fronte, che fosse comprensivo o meno. Simmons pareva abbastanza realista nelle sue decisioni ed ora saremmo dovuti passare al piano B.
«Concedo una pausa di un paio di ore per riorganizzare le due parti,» disse, sbattendo con il martelletto. «Voi portatemi delle prove oppure sarò costretto a prendere una decisione definitiva. Questo processo si è dilungato anche troppo per i miei gusti.»
 
***
 
«Dobbiamo contattare Wright!» si allarmò James, appena fuori l’aula. Armeggiava con il cellulare nella speranza che l’attore potesse essere disponibile per una apparizione in extremis.
Mi accasciai su una panchina poco distante, completamente priva di forze. L’adrenalina che avevo accumulato dopo che James mi aveva lasciato in mano le redini del caso, stava esaurendo ogni mia forza. Ero completamente svuotata.
«Non è detto che si presenti in aula,» gli ricordai, conoscendo bene George Wright. La sua smania di privacy lo aveva ridotto ad una specie di eremita-mezzo metallaro che insisteva a starsene tutto il giorno rintanato nel suo appartamento.
L’avvocato mi fissò in tralice. «Non dobbiamo assolutamente arrenderci, tu contatta il giornalista, magari può esserci utile anche lui!»
Era davvero preso dal panico, soprattutto perché ormai ci trovavamo alle ultime battute. Nel giro di quella giornata avremmo vinto o perso, non c’era più molto da fare. Avremmo dovuto giocare tutte le nostre carte.
Gabriele intervenne. «Ma com’è possibile che ogni documento di quella causa sia andato perduto?»
Sospirai. «Pare che la ragazza che tuo fratello ha deciso di rimorchiare,» spiegai, con una voce piuttosto acida. «Fosse una specie di James Bond e che conoscesse mezzo mondo all’interno dell’alta borghesia inglese. Ha insabbiato ogni cosa pur di mantenere la sua apparenza.»
Sofia era sconvolta. «Incredibile.»
Simone sembrava un fantasma. Appoggiato contro lo stipite della grande porta d’ingresso della Royal Court of Justice, osservava come le nuvole correvano veloci senza dare apparente attenzione a ciò che lo circondasse. Era quasi invisibile.
Magari ha perso la speranza.
Scacciai quel pensiero perché davvero non volevo crederci. Io e James stavamo tentando in tutti i modi di poter trovare una soluzione, ma se Simone si era già arreso sarebbe stato tutto inutile.
«Non risponde, dobbiamo andare da lui!» disse James, completamente preso dal panico.
Annuii convinta e cercai di fare mente locale. Dovevamo trovare la strada più breve per il suo appartamento e poi convincerlo a testimoniare. Uscimmo in fretta e furia dal tribunale, voltandoci per cercare la fermata della Tube più vicina.
«Farete prima con la macchina di Simo!» suggerì Sofia, ovviamente.
L’idea di coinvolgere Simone in quella piccola gita mi terrorizzò. Non sapevo come avrebbe reagito, soprattutto perché ci ritrovavamo sempre stretti nel solito triangolo che tanto lo faceva arrabbiare.
Senza scomporsi, frugò tra le tasche del bellissimo completo e lanciò le chiavi in direzione di James. Non aggiunse una parola. Era come se di Simone Sogno fosse rimasto soltanto l’involucro vuoto, senza nessuna luce nello sguardo.
«Andiamo,» suggerì James, trascinandomi verso la piccola autovettura.
Lo seguii quasi riluttante. Da una parte avrei voluto occuparmi personalmente di Mr. Wright ma dall’altra mi faceva male lasciare Simone in quello stato.
È colpa tua se è ridotto così.
Ignorai ancora una volta la cosa giusta da fare e seguii James, salendo in auto. Quella tappezzeria profumava esattamente come Simone e la nostalgia mi assalì tutta insieme. Era strano quanto facessero male i ricordi, soprattutto quando la persona con cui saresti voluta essere era a pochi passi da te.
«Devi proseguire dritto e girare alla prima a destra,» dissi, rendendomi utile e seguendo le indicazioni del navigatore. Dovevamo raggiungere la casa dell’attore nel minor tempo possibile, anche perché non sarebbe stato affatto facile convincerlo a presentarsi in aula.
Ci mettemmo circa una mezz’ora di viaggio per arrivare, cosa che magari ci fece ritardare molto sulla tabella di marcia. Forse avremmo dovuto calcolare un risvolto del genere e contattare qualche giorno prima Mr. Wright in modo da prepararlo psicologicamente a quella presentazione.
«Dobbiamo sbrigarci,» disse James affannato, suonando il campanello.
Come al solito, lo strano maggiordomo dell’attore ci venne ad aprire e, una volta riconosciuti, sbuffò chiamando il proprio capo.
George Wright si palesò all’ingresso vestito unicamente di un paio di mutande striminzite. Cercai di guardare ovunque tranne nella sua direzione, era pressoché ridicolo.
«Ancora voi due! Cosa volete stavolta? Un assegno? Un rene? La mia vita?» sbuffò infastidito.
Decisi di intervenire anche perché avevamo poco tempo. «Ci serve la sua testimonianza, Mr. Wright. La sua presenza in carne ed ossa perché il giudice richiede delle prove più concrete.»
L’attore non parve affatto contento. «Ve lo potete scordare,» scosse il capo. «Non ci penso proprio a rivivere quell’incubo d’accapo.»
Ora cominciava davvero ad infastidirmi. «Non voglio essere scortese,» iniziai, ma quel preambolo significava soltanto che lo sarei stata senza alcun ombra di dubbio. «Come le ho spiegato l’altra volta, il nostro cliente, un ragazzo molto giovane per giunta, rischia di rovinarsi la vita, la carriera e il futuro per colpa di una donna senza scrupoli. Ora, so che è difficile rivivere le cose che ha passato, ma pensi a questo ragazzo che potrebbe aiutare soltanto raccontando la sua vicenda.»
Mi pareva di essere stata abbastanza chiara e piuttosto appassionata. Sentivo il cuore battere a mille, soprattutto ricordando il volto di Simone emaciato e deperito. In che modo avrebbe affrontato il futuro se avessimo perso la causa? Una vita costretta a pagare quella donna e l’umiliazione dei media una volta scoperto cosa avesse fatto.
Mr. Wright parve soppesare le mie parole. «Magari se avessi avuto all’epoca un avvocato come lei, signorina, non mi sarei ridotto in questo stato.»
Fui notevolmente sorpresa di quel complimento. «C-Come?»
«Acconsentirò a testimoniare soltanto se lei risponde ad una mia semplice domanda. Voglio capire il motivo per cui ci tiene così tanto.»
Avrei fatto qualunque cosa pur di riuscire a vincere quella causa.
«Va bene,» risposi.
George Wright sorrise e nonostante fosse completamente in mutande, aveva un’aria piuttosto riflessiva. «Signorina Donati, è o non è innamorata del suo cliente?»
James sgranò gli occhi ed io per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. «P-Prego?»
«Questa domanda non è pertinente con il caso,» intervenne James.
L’attore scosse il capo. «Il patto è valido soltanto se la signorina risponde sinceramente a questa domanda. Sono un attore, capisco quando la gente mente.»
Rimasi un attimo a pensare sul da farsi, ragionando sulla risposta più adatta che Wright avrebbe voluto sentirsi dire. Il tempo scorreva inesorabile, molto probabilmente saremmo arrivati al tribunale senza nemmeno aver tempo sufficiente per studiare una strategia alternativa ma l’importante era avere l’attore al banco dei testimoni.
Avrei potuto mentire, dirgli che Simone mi stava a cuore ma che non ne ero innamorata, ma sapevo che mi avrebbe scoperta. Addirittura James aveva capito quanto per me il calciatore fosse importante ora come ora, per cui diedi la risposta più logica.
«Sì,» risposi sincera, fissando dritta negli occhi dell’attore. Volevo vi leggesse esattamente la verità, quella sincerità che non avevo mai avuto nemmeno con me stessa. Mai avevo affrontato a tu per tu questo genere di emozioni, giustificandole sempre con altri motivi che legavano la mia vita e quella di Simone ad uno scopo puramente legale. Non mi ero mai seduta a pensare quanto in realtà fosse radicato il sentimento che nutrivo verso di lui, ma il mio inconscio si era sempre difeso. Avevo giustificato ogni mia azione al fine di ottenere quel posto alla Abbott&Abbott ma i due risultati coincidevano per un motivo.
Tu lo ami, anche per questo non gli hai detto del bambino.
«Sì, cosa, mia cara?» cercò Wright, visto che non ero stata molto chiara.
Inspirai a pieni polmoni, cercando il coraggio per ammettere finalmente ciò che mi stava succedendo. «Sì, sono innamorata del mio cliente,» ammisi, più a me stessa che alle persone lì presenti. «Ed è proprio per questo motivo che tengo tanto alla causa, a vincerla e a permettere alla persona che amo di passare il resto della sua vita in tranquillità, senza dover essere schiavo di una donna senza scrupoli.»
James al mio fianco era teso come una corda di violino. Era stato lui a suggerirmi di finire quella storia, soprattutto ai fini della mia carriera, ma in quel momento sapevo che l’ammissione dei miei sentimenti davanti a tutti sarebbero stati come una doccia fredda per lui.
Wright si voltò e sparì in una stanza.
Presa dal panico, pensai che stesse scappando di nuovo nonostante gli avessi detto ciò che si voleva sentir dire. «Ehi!» gridai, un po’ come un camionista calabrese.
Il maggiordomo mi si parò davanti. «Mr. Wright è andato a prepararsi, prego di aspettare qui nell’androne.»
L’importante era l’obiettivo che avevamo raggiunto. Un conto sarebbe stato sprecare un’ora intera per poi tornare a mani vuote, un altro era rientrare con il famoso testimone chiave del processo. Anche se la parola di Wright non era accompagnata da nessuna prova, in quanto io e James non eravamo riusciti a ricavarne nessuna, sarebbe stata una testimonianza più tangibile rispetto a quella scritta su un effimero foglio di carta.
James mi guardò di sottecchi. «Ti senti bene?» mi chiese.
Ma avevo per caso un’espressione moribonda? Pareva che ogni essere che incontravo per strada capisse il mio stato emotivo e mi consolasse.
Sorrisi. «Tutto bene, grazie.»
L’avvocato mise le mani in tasca, ammazzando il tempo di attesa. «Sulla strada del ritorno dovremo preparare Mr. Wright alle possibili domande di St. James,» mi ricordò.
«Ci penso io,» affermai con sicurezza.
Era abbastanza evidente che gli occhi cerulei del bell’avvocato erano indirizzati alla sottoscritta per ben altri motivi. Non sapevo se provasse o meno dei sentimenti per me, dopo tutto quel tempo passato insieme, ma sentirsi dire che amavo un altro sarebbe stato un duro colpo per tutti.
«Senti,» iniziai, non sopportando più quel silenzio di cortesia. «Mi dispiace per quello che ho detto, ma voglio soltanto vincere questa causa e dare fine all’incubo che ormai mi sta perseguitando da mesi.»
James annuì. «Non devi scusarti,» sospirò, aggiustandosi meglio la cravatta color grigio antracite. «Se è quello che provi veramente, non hai scusanti. Nessuno può comandare ciò che prova, anche se ho tentato in tutti i modi di suggerirtelo. Adesso capisco che è una cosa impossibile ed è stata una vigliaccata suggerirti ciò che ti ho chiesto.»
Rimasi a guardarlo confusa. «Avevi ragione, James!» gli dissi convinta. Grazie alla separazione momentanea con Simone eravamo arrivati fino a quel punto di svolta e molto probabilmente avremmo vinto la causa. «Era una decisione che avrei dovuto prendere io stessa molto tempo fa.»
L’avvocato scosse il capo e afferrò delicatamente una mia mano, portandomi a fissarlo in quegli occhi sinceri. «La soluzione che ti ho suggerito era sì logica,» ammise contrito. «Ma per lo più era dettata da un’istantanea gelosia che non ho saputo sopprimere nel mio animo e che mi ha portato ad importi una decisione del genere. Mi dispiace, Venera. È colpa mia se ti sta succedendo tutto questo.»
Apprezzai moltissimo la confessione di James e proprio per questo motivo fui contenta di averlo ancora al mio fianco, come amico prima di tutto. Gli sorrisi per rassicurarlo, anche perché mi era capitato tante volte di sbagliare, proprio come lui.
«Indipendentemente dai motivi che ti hanno spinto a suggerirmi questo, era una cosa che ho deciso io stessa, senza alcuna condizione. Il mio lavoro è stato sempre importante per me, ma adesso sto capendo che ci sono anche altre priorità nella vita ed è forse proprio grazie a questa separazione che mi hai importo, che posso dire di aver fatto chiarezza.»
Mi meravigliai di me stessa, soprattutto per non essermi lasciata trasportare troppo dall’emozione e inveire stupidamente contro James. Non aveva colpa di nulla, proprio perché quella lontananza e quel dolore che stavo provando mi avevano aiutato a capire quanto tenessi a Simone.
Mi avevano permesso di scegliere.
«Dunque, dove si trova questo tribunale?» chiese Mr. Wright, completamente rimesso a nuovo.
Sgranai gli occhi e per poco la mascella non mi cadde sul pavimento. Al posto della barba lunga e dei capelli incolti, trovammo una peluria abilmente scorciata e curata, insieme ad una pettinatura all’indietro curata e con molto gel. Si era addirittura vestito di tutto punto, con un paio di pantaloni eleganti dal taglio classico, una camicia finemente stirata e un gilet elegante.
«Da questa parte, prego,» disse James che aveva riacquistato l’uso della parola notevolmente prima della sottoscritta.
Uscimmo dall’appartamento di Mr. Wright per dirigerci verso la piccola cinquecento blu metallizzata di Simone. Durante il viaggio di ritorno, preparai alla bell’è meglio il nostro testimone chiave sulle domande che avrebbe potuto ricevere da St. James. Era consuetudine da parte dell’accusa trovare quelle domande uguali e contrarie che avrebbero messo dei dubbi al giudice riguardo la veridicità degli eventi appena descritti.
Domande vere e non vere.
Tentai di citargliene qualcuna, ma avremmo dovuto fare appello alla sorte in quel caso perché era del tutto impossibile prevedere ogni singola questione che l’accusa avrebbe presentato al banco dei testimoni.
«Eccoci arrivati,» annunciò James, parcheggiando di fronte la Royal Court of Justice. Tentai di scorgere il volto triste ed emaciato di Simone che ci aspettava, ma vidi soltanto Gabriele che camminava avanti e indietro nervosamente.
«Era ora!» disse burbero.
«Questo è il nostro testimone, George Wright,» dissi, facendo le presentazioni.
Gabe parve finalmente riconoscere la figura dell’attore, sparito dalla vita mondana londinese ormai da anni.
«Mr. Wright è un immenso piacere,» disse estasiato.
«Quanto tempo ci è rimasto?» chiesi allarmata. «E dove sono tutti?»
Con quel “tutti” ovviamente mi riferivo soltanto a Simone. Mi ero spaventata trovandolo così a pezzi, sia emotivamente che fisicamente. Non vedevo l’ora che questo incubo finisse per potergli spiegare la situazione.
Gli dirai tutte le tue verità?
Per gradi gli avrei parlato di ogni cosa, passo dopo passo avremmo affrontato tutto insieme.
Gabriele mi fissò stranito. «Manca mezz’ora e il giudice richiamerà tutti in aula, spero per voi che Mr. Wright risolva questa enorme truffa. Perché se si tratta di questo, la signorina Cloverfield farebbe bene a cambiare nome, cognome e addirittura pianeta
Appoggiai in pieno la conclusione del fratello maggiore di Simo, questa volta la giraffona non avrebbe insabbiato tutto. Bisognava portare la verità a galla il più presto possibile.
«Presto, entriamo.»
Ci dirigemmo nel corridoio di fronte all’aula di tribunale che avrebbe ospitato l’altra metà del processo di lì a pochi minuti. L’obiettivo mio e di James era di non far incrociare Miss Cloverfield con Mr. Wright prima dell’inizio della causa altrimenti si sarebbero potuti creare degli attriti che non volevamo condizionassero la testimonianza dell’attore.
«Lei aspetti qui,» disse James, muovendosi in lungo e in largo per andare a organizzare un minimo di piano d’azione per dopo.
Mi sedetti vicino a Mr. Wright, cercando disperatamente con lo sguardo la presenza di Simone che sembrava essersi volatilizzata. Cominciai davvero a preoccuparmi, soprattutto perché nessuno di noi aveva calcolato la possibile assenza di una delle due parti al processo.
«Sei preoccupata, chérie?» mi chiese Wright, vedendo com’ero seduta al bordo della panchina, completamente tesa.
Annuii distrattamente. «Non lo vedo da nessuna parte,» gli confessai preoccupata.
Gabriele fece il suo ingresso qualche minuto dopo, seguito a ruota dai suoi due fratelli. Per fortuna, avrei sempre potuto contare su di lui visto quanto ci teneva a tenere alto il nome della sua famiglia.
«Grazie al Cielo!» sospirai a bassa voce, anche per non farmi vedere troppo entusiasta di vederlo comparire nell’edificio. Era una sorta di gioco di espressioni, visto che nessuno dei due sembrava cedere per primo.
Simone pareva un po’ più riposato, forse era riuscito a distendere i nervi e a fare qualcosa che gli permettesse di essere meno ansioso.
«Ora posso dire con certezza che quello che mi ha detto corrisponde alla realtà, Miss Donati,» disse l’attore sorridendo.
Lo guardai confusa. «Prego?»
Avrei voluto chiedere più spiegazioni in merito alle affermazioni enigmatiche che Mr. Wright stava facendo, purtroppo il giudice richiamò tutti in aula. Procedetti a passo spedito, appena dopo James e ci sedemmo alla scrivania dove Simone aveva già preso posto.  Oltre alla sua espressione corrucciata, una nuvola nera e intensa sembrava lo circondasse quasi ad esternare ancora di più il dolore che stava provando. Mi sentii profondamente in colpa, ma cercai di guardare oltre.
Mi ringrazierà dopo, dissi a me stessa.
Se mai ti vorrà rivolgere la parola.
«Avvocato St. James, avvocato Abbott,» iniziò Simmons, richiamando subito al banco i due rappresentanti della legge. «Avete avuto tempo sufficiente per riconsiderare la testimonianza? Avete raggiunto un compromesso? Ci sono nuove svolte in questo caso che pare infinito?» sospirò.
James si avvicinò con aria raggiante. «Vostro Onore, chiamiamo il signor George Wright come testimone chiave a sostegno della prova che abbiamo portato all’attenzione della corte in precedenza.»
St. James non si scompose e nemmeno la Cloverfield.
Simmons parve sorpreso invece. In fondo, Mr. Wright anche se era scomparso dalle scene per parecchio tempo, rimaneva comunque una figura di spicco. «Prego Mr. Wright, venga pure avanti,» gli disse.
L’attore prese posto di fianco al giudice, al banco dei testimoni. In un processo civile, spesso e volentieri era difficile fossero presi in considerazione addirittura “terze parti” ma in quel caso sarebbe stato obbligatorio. Non vi erano ulteriori prove documentate che confermassero ciò che era accaduto a Mr. Wright e lui rappresentava la colonna portante della nostra tesi.
«Bene avvocato Abbott, a lei il teste,» disse il giudice.
James inspirò e si preparò mentalmente le domande giuste. «Signor Wright,» iniziò. «Cinque anni fa lei è stata vittima di una vicenda davvero spiacevole. Vorrei gentilmente chiederle di riassumerci tale situazione e soprattutto indicare, se possibile, qui in aula l’autrice di tale “raggiro”, se così può essere chiamato.»
George Wright annuì, piuttosto calmo. Rispetto a quando lo avevo conosciuto il primo giorno, si stava comportando piuttosto razionalmente. Possibile che era bastato così poco a convincerlo a collaborare?
«Il mio incubo ebbe inizio cinque anni fa e la protagonista di questa vicenda confermo che si trova qui in aula,» iniziò l’attore, dando anche troppa enfasi al racconto, quasi la stesse recitando.
Raccontò la sua storia per tutto il resto del tempo, si prese ogni minuto possibile pur di chiarire qualsiasi punto confuso ci fosse. Raccontò di come era avvenuto l’incontro con Elizabeth, di quanto bella fosse e di come lo attirasse fisicamente, poi passò al periodo di vita “felice” che avevano passato insieme. Sembrò sinceramente dispiaciuto e compresi che magari si era impegnato davvero in quella storia, ci credeva, ma era svanito tutto e nel giro di poco tempo aveva visto ogni suo sogno frantumarsi in mille pezzi.
Tutto per colpa di un obiettivo che Elizabeth voleva a tutti i costi.
Mi ricorda un po’ qualcuno.
No, questa volta il mio cervello aveva preso un abbaglio. Per quanto all’epoca ero sicura di me stessa e dell’obiettivo che volevo raggiungere nella vita, sicura che sarei passata sopra a chiunque pur di ottenerlo, adesso ci avrei pensato bene due volte. Simone non era più una cotta, ormai. Lui era molto di più.
«E quindi, mi corregga, si è ritrovato ad avere una ex-fidanzata che affermava di portare in grembo suo figlio e pretendeva da lei una sorta di risarcimento,» intervenne James.
L’attore annuì. «Le avevo anche proposto di sposarmi, per via del bambino, ma era ovvio che non volesse. Si era giustificata dicendo che tra noi non poteva funzionare, ma avrei dovuto assicurare un futuro a mio figlio. Un figlio che non è mai realmente esistito tra l’altro.»
Se soltanto pensavo a cosa sarebbe successo a Simone se non avessimo scoperto la storia di Mr. Wright, mi si accapponava la pelle. Una vita costretta a risarcire una donna che avrebbe sperperato tutti quei soldi illegalmente guadagnati. Magari alla fine avrebbe addirittura ammesso di aver perso il bambino, visto che non poteva portare avanti quella farsa per troppo tempo, ma di sicuro avrebbe finito col rovinare la vita di Simone.
La detestavo. Non c’era maniera più infima che sfruttare un uomo per ottenere soldi e successo. Non avrebbe mai potuto contare su sé stessa, come io avevo sempre fatto, perché Elizabeth Cloverfield era una donna di poca sostanza. Evidentemente il suo unico talento era fregare gli altri.
L’attore continuò il suo racconto, fino a quando non giunse a descrivere tutto il processo e l’infinità di scartoffie che dovette presentare in tribunale. «I miei avvocati giocarono subito la carta del test, chiedendo una riprova, dal momento che Miss Cloverfield si reputava tanto sicura della sua situazione fisica. I risultati, però, si rivelarono negativi ed io vinsi la causa, dopodiché non seppi il motivo dell’insabbiamento.»
Nessuno di noi realmente lo sapeva. Per quale motivo quella donna aveva fatto di tutto per nascondere ciò che era successo? Forse il suo desiderio di sfondare nella vita mondana di Londra l’aveva portata a pensare che ripulire il proprio passato l’avrebbe aiutata.
«Avvocato, ha altro da aggiungere?» chiese Simmons, in direzione dell’accusa.
St. James a quel punto si alzò in piedi. Era calmo, disteso, sembrava ancora avere del tutto in mano la situazione. Quella sua espressione decisa e rilassata mi mise molta ansia.
«Siamo davvero colpiti dal suo illustre racconto, Mr. Wright,» iniziò, camminando avanti e indietro per tutta la lunghezza dell’aula. Mi faceva venire il nervoso! «Per quanto le sue parole siano commoventi e risentite, in quest’aula di tribunale si sta affrontando una questione completamente diversa che esula da questa vicenda conclusasi cinque anni orsono.»
«Vostro Onore…» tentò di insistere James, ma il giudice lo zittì con un cenno della mano.
Carl St. James sorrise di quella piccola vittoria. «Dunque, questa testimonianza ha un valore puramente etico, perché per quanto il giudice Simmons possa prendere in considerazione quanto udito in quest’aula, le mancate prove empiriche a tale teoria scagionano completamente la mia cliente dall’essere coinvolta. Come avete detto voi poc’anzi, avvocato Abbott, ogni traccia di questa vicenda è stata “cancellata” dagli archivi del tribunale e per quanto possiamo essere comprensivi,» e qui tirò fuori un sorriso mellifluo che mi fece saltare completamente i nervi. «Mancano le prove, e fino a prova contraria sono quelle che valgono nella legge moderna.»
Aveva ragione, per quanto la testimonianza di Mr. Wright aveva apportato un minimo di veridicità a quella storia, rimaneva pur sempre tale. Qualcosa di “raccontato” a voce e non sostenuto da documenti, fotocopie, file o quant’altro.
Non avete nulla in mano.
«È qui che si sbaglia, avvocato,» disse l’attore, alzandosi in piedi e richiamando l’attenzione del suo maggiordomo che non avevo idea di come avesse fatto a raggiungere la Royal Court of Justice.
L’uomo vestito in stile metal, portò una cartella carica di documenti in direzione di James che, stravolto, tentò di dare un senso a tutto ciò che stava succedendo e che prima o poi ci sarebbe sfuggito di mano.
«Cosa sta succedendo avvocato Abbott? Può dare una spiegazione alla corte?» il giudice Simmons pareva piuttosto alterato.
James non sapeva cosa rispondere.
«Questa è tutta la documentazione del caso Wright-Cloverfield di cinque anni fa, che ho richiesto dagli archivi privati dei miei avvocati,» spiegò l’attore.  Dentro di me sembrò quasi che un macigno fosse stato spostato dal mio cuore e ringraziai mentalmente quel colpo di scena che aveva un po’ risollevato la situazione.
St. James era bianco come un lenzuolo.
Aveva avuto un paio d’ore per riorganizzare la sua linea di attacco, ma evidentemente Elizabeth gli aveva assicurato di aver fatto piazza pulita di tutti i documenti. Poco dopo l’avvocato guardò la sua cliente rimproverandola con gli occhi.
 Il giudice Simmons si fece passare i documenti dall’usciere. «Questi fogli sono siglati dal tribunale stesso, possibile che non ci sono copie autenticate nei nostri archivi?»
Adesso era realmente alterato. La Cloverfield non rischiava solamente di perdere la causa, ma addirittura di venir indagata per oltraggio alla corte e falsificazione di documenti.
St. James cercò di arginare la situazione. «Vostro Onore, proprio perché non esistono documenti corrispondenti negli archivi del tribunale, quelli presentati da Mr. Wright potrebbero essere dei falsi!» insinuò.
Quella situazione si giocava tutta sull’incolpare l’uno o l’altro di falsa testimonianza. Cominciavo davvero ad essere scocciata da tutta quella situazione, soprattutto perché Simone pareva come al solito assente. Era quasi come se tutta quella storia non lo riguardasse, se stesse lì soltanto per tenere il posto a qualcuno che sarebbe venuto dopo di lui. Mi faceva profondamente soffrire vederlo in quello stato.
Intanto in aula imperversava il caos. St. James accusava Mr. Wright di aver portato dei documenti falsi, Jamie tentava in tutti i modi di dare credito al suo testimone e la Cloverfield gridava solamente “bugiardo!” in direzione dell’attore. Ormai si era giunti ad un livello di intollerabilità che nemmeno ad un mercato il sabato mattina.
«ORDINE! ORDINE!» gridò Simmons, sbattendo violentemente il martelletto sul tavolo. «Avvocati, richiamate all’ordine i vostri assistiti altrimenti dovrò accusarvi di oltraggio alla corte!»
Finalmente si riuscì ad ottenere una situazione di calma apparente.
«Avvocato Abbott, terrò conto della testimonianza di Mr. Wright ma e sicuramente aprirò un caso sulla “misteriosa” sparizione di questi documenti,» disse poco convinto. «Tornando alla questione del caso Sogno-Cloverfield, nonostante le coincidenze della storia di Mr. Wright siano alquanto sospette, nulla può screditare il test positivo di paternità ottenuto dalla clinica St. Charles.»
Per quanto eravamo riusciti a mettere in discussione la veridicità della Cloverfield e a far indagare sul suo discutibile passato, la prova schiacciante che l’accusa aveva presentato sin dal primo giorno era del tutto inattaccabile.
«Se la difesa non ha altre prove o altri tester da presentare, direi di procedere con la sentenza per questo caso che finalmente è giunto al termine,» sospirò.
Il mondo intero parve crollarmi addosso in quel momento. Avevamo studiato il caso per quarantotto ore quasi ininterrotte e non eravamo riusciti a trovare nulla che screditasse davvero la questione del test di paternità. L’unica variazione a cui potevamo appellarci, era la clemenza della corte per un ragionevole dubbio che avrebbe ridiscusso tutto il caso. Ma ciò che avevamo auspicato per Simone, non era avvenuto.
«Avvocato Abbott, avvocato Donati, avete da presentare qualcosa?» ci esortò ancora.
Sentii il peso del globo intero gravarmi sulle ginocchia, che stavano per cedermi. Avvertii la sconfitta che letteralmente mi spense, chiuse qualsiasi contatto con il mondo esterno e l’unica cosa che desideravo in quel momento era scomparire. Ogni sacrificio era stato fatto pur di ottenere il massimo dalla riuscita di quella causa, eppure, come ogni finale che non appartenesse ad una fiaba d’altri tempi, fece molto male. Mi resi conto che non solo avevo perso il lavoro, la causa e la credibilità, ma soprattutto mi ero lasciata alle spalle l’unica persona che si era affidata completamente alla sottoscritta.
In quel momento volevo soltanto affondare tra le sue braccia, sentirmi protetta e rassicurata. Accarezzata. Avrei voluto dirgli tante cose, ma qualsiasi parola mi pareva insufficiente rispetto a ciò che provavo nei suoi confronti. Adesso che nulla aveva più importanza, mi rimaneva ciò che era sempre importato davvero.
«Vostro Onore!»
Un’altra irruzione in aula mi destò completamente dalle mie riflessioni, facendomi trasalire. Yuki Kamigawa fece il suo ingresso alla Royal Court of Justice, seguita da una signora che non avevo mai visto.
Ci mancava soltanto lei a completare il quadro!
«James, ma…» tentai di intervenire, ma l’avvocato mi fermò.
«È tutto okay, Ven. La stavo aspettando.»
Cosa? Da quando James e Yuki collaboravano? Per quale motivo quella giapponesina aveva preso il mio posto?
Rimasi completamente basita e il terrore che potessi essere sostituita all’ultimo, soprattutto per la mia inadempienza, fece crollare ogni mia certezza. Vidi Yuki che attraversava tutto il corridoio fino a giungere davanti a James e a porgergli un fascicolo che riportava il simbolo del St. Charles.
Lo riconobbi bene perché era identico a quello che mi era stato consegnato pochi giorni prima.
«Avvocato Abbott? La prego di fare chiarezza a questa Corte,» disse Simmons ormai al limite della pazienza.
James aprì la cartelletta e ne tirò fuori un foglio che subito presentò al giudice. «Chiamo a testimoniare Mary Toldson, infermiera presso la clinica St. Charles.»
Non sapevo da che parte guardare. Possibile che James mi avesse tirato un colpo così basso? Nemmeno ero stata messa al corrente di questa svolta del caso. Contavo meno di zero ormai.
Credo che l’avvocato ti abbia tirato un colpo basso.
Mi augurai proprio di no.
Vidi la Cloverfield alzarsi di scatto e capii che finalmente James aveva giocato il suo asso nella manica. Aveva aspettato l’ultimo secondo utile, ma forse ci era riuscito.
«Grazie ad una collaboratrice del nostro studio,» iniziò James, riferendosi immediatamente a Yuki che sorrideva serafica. «Il cui padre lavora nella clinica appena citata, siamo riusciti a scoprire un caso di “corruzione” all’interno di questo istituto. Signora Toldson, ci racconti per favore cosa è successo.»
La donna seduta al banco dei testimoni aveva circa una sessantina di anni, i capelli grigi e corti suggerivano che era una persona frettolosa, non aveva da perder tempo in acconciature oppure nel trucco.
«Mi chiamo Mary Toldson e sono un’infermiera addetta al reparto di maternità della clinica privata di St. Charles, nel West-side di Londra,» iniziò. «Ho trattato personalmente il caso di Miss Cloverfield, la quale si è presentata da me qualche giorno dopo l’invio dei campioni a laboratorio.»
James approfittò del silenzio della donna. «Quindi conferma che Miss Elizabeth Cloverfield, la donna seduta in quest’aula, dopo che i campioni le erano stati inviati in forma anonima, si è presentata comunque alla clinica?»
La donna annuì. «Devo aggiungere che la signorina ha offerto una lauta ricompensa se avessi fatto in modo di “alterare” tali risultati, che aveva la facoltà di darmi un bonus sul mio stipendio,» ammise.
Era evidentemente dispiaciuta per ciò che aveva fatto, ma in quel momento ero livida di rabbia. Per colpa di quella persona che aveva tradito l’etica del proprio lavoro, Simone aveva rischiato di perdere la propria libertà.
Simmons pareva allibito. «È vero ciò che dice questa donna?» chiese.
A quel punto, Yuki intervenne. «Mio padre lavora come medico all’interno di quella struttura e tramite voci di corridoio è venuto a conoscenza di questo scandalo. Da chirurgo qualificato, si è sentito in dovere di fare pressioni su Mrs. Toldson.»
Ora mi era chiara ogni cosa.
Mr. Kamigawa aveva chiesto ben poco gentilmente all’infermiera di testimoniare, altrimenti sarebbero stati presi seri provvedimenti.
«Qui c’è una lettera firmata dal dottor Kamigawa, questa invece è la testimonianza firmata della signora che ammette di aver ricevuto dei soldi per alterare i risultati delle analisi del sangue,» precisò James.
L’avvocato della controparte non sapeva cosa dire. «Vostro Onore…» tentò ma Simmons lo stroncò sul nascere.
«La prego St. James,» disse, continuando a leggere i documenti. «Non peggiori la situazione della sua cliente, la vedo già bella ingarbugliata.»
Ormai era quasi fatta, mancava soltanto la sentenza ufficiale del giudice.
James si avvicinò lentamente. «Mi dispiace non averti avvertita per tempo Ven,» sussurrò, scusandosi. «Quando sei arrivata con la notizia di Mr. Wright avevo mandato Yuki a verificare se le voci di corridoio che mi aveva riferito fossero vere. Mi sono concentrato unicamente sulla testimonianza del nostro attore, perdendo momentaneamente di vista la storia dell’infermiera.»
«Che invece si è rivelata essere la più concreta,» sorrisi.
Per un singolo istante avevo pensato che James avesse preferito mettermi da parte, visto come il caso ci stava lentamente sfuggendo di mano. In realtà anche lui aveva completamente rimosso quella variazione.
Il giudice Simmons si alzò in piedi, brandendo il martelletto. «Alla luce degli eventi oggi descritti, la Corte dichiara l’imputato Simone Giacomo Sogno innocente da tutte le accuse. La signorina Cloverfield, invece, dovrà rispondere alle accuse di frode, corruzione e falsa testimonianza e verrà indagata per “occultamento di prove”.»
I colpi del martello che picchiavano il legno furono come una liberazione per le mie orecchie.
Finalmente è finita!
Non c’erano più nottate da passare in ufficio, rivedendo mille volte le stesse scartoffie, non ci sarebbe più stata la faccia arcigna di St. James che pensava di avere tutto il mondo ai suoi piedi e finalmente Elizabeth aveva pagato, sia per ciò che in passato aveva fatto a Wright, sia per ciò che avrebbe fatto passare a Simo.
Fu proprio l’attore che mi venne incontro sorridendo. «Alla fine è andato tutto per il meglio e mi avete reso giustizia ancora una volta!»
Nonostante fossero passati cinque anni, quella donna aveva finalmente imparato la lezione e mi augurai che non avrebbe mai più compiuto azioni del genere.
Cercai con lo sguardo James, troppo impegnato a ricevere i complimenti da parte di Gabriele e di Sofia. Yuki era al suo fianco, raggiante. Alla fine si era rivelata più utile di quanto avessi pensato in principio.
Con lo sguardo cercai la persona che in quel momento aveva la mia completa attenzione. Simone era improvvisamente scomparso dall’aula, nessuno riusciva più a trovarlo da nessuna parte. Mi avvicinai a Sofia, cercando di non sembrare troppo isterica. «Hai visto Simo?» le domandai, ma lei scosse la folta chioma riccioluta.
«Credo sia uscito, Miss,» mi rispose il “maggiordomo” strambo di Mr. Wright.
Mi fiondai fuori dall’aula, correndo nonostante le decolté ormai erano fuse con i miei poveri piedi doloranti. Non sentivo nulla, né il dolore delle scarpe, né i morsi della fame e neppure l’usciere che mi diceva di non correre.
Volevo solamente riabbracciare Simo. Volevo dirgli che l’incubo era finito, che finalmente avremmo potuto affrontare la nostra vita insieme nel modo più tranquillo e avremmo smesso di soffrire.
Lo vidi appena fuori dalla Royal Court of Justice. Si era fermato sul primo gradino, osservando il cielo che si era ingrigito tutto d’un botto e aveva cominciato a tuonare. Le prime gocce di pioggia inumidirono la scalinata bianca ed io mi avvicinai quasi in punta di piedi, per paura che fuggisse.
Era una scena piuttosto strana, quasi come se Simone fosse un animale furastico che poteva scappare da un momento all’altro non appena avrebbe avvertito il pericolo.
«Hai un passo leggero come quello di un’elefantessa obesa,» sibilò, spietato come sempre.
«Non devo mica diventare prima ballerina della Scala,» osservai piccata.
Simone si mise le mani in tasca, osservando la pioggia aumentare d’intensità. «È finita allora?» sospirò.
Annuii anche se non poteva vedermi. «Finalmente potrai goderti il resto della tua vita senza che qualche donna senza scrupoli possa rovinartela.»
Fu in quel momento che si voltò ed io vidi gli occhi completamente lucidi e provati di Simone. Le occhiaie scure che rovinavano quel suo sguardo tenue, mi fecero quasi paura. Sembrava malato.
«Hai ragione, nessuna donna riuscirà più a rovinarmi la vita,» disse, dopodiché si diresse verso la sua macchina noncurante della pioggia che batteva.
Lo seguii perché non poteva finire in questo modo. «Aspetta!» gridai, rischiando di scivolare sui gradini.
Simone non si fermò, anzi, attraversò la strada senza nemmeno guardare.
«Fermati, ti prego!» gli dissi, strattonandogli la manica del completo elegante. Nonostante il suo viso emaciato e il suo aspetto completamente stravolto, Simone era ancora in grado di togliermi il fiato.
«Cosa vuoi ancora da me? Non ti basta ciò che mi hai fatto? Ciò che mi hai tolto?» gridò, mentre i passanti si voltavano spaventati.
Cercai di calmarlo. «Ascolta, mi sono comportata da stupida, ma è stata una scelta fatta solamente nel tuo interesse…»
«Oh! Davvero?» sbottò, completamente impazzito. Si avvicinò al mio viso, quasi soffiando sopra le mie labbra la sua rabbia. «Venera in questi tre giorni non ti sei fatta viva, non hai risposto ai messaggi che ti ho inviato e ti sei comportata come se non mi conoscessi. Mi hai trattato come se non fossi mai esistito, come se non fossi stato altro che “uno dei tanti”, un ragazzo con cui divertirsi fino a quando c’era tempo. Ora non dirmi che lo hai fatto per me.»
Non resistetti oltre. «Ho dovuto farlo!» gridai, incurante di ciò che potesse pensare la gente. «Avrei rischiato il licenziamento se non avessi smesso di vederti. Dovevo sospendere tutto fino alla fine di questo incubo e adesso è finita!»
Simone mi fissò austero. «Hai ragione Venera, come sempre,» disse. «Adesso è proprio finita.»
Lo vidi salire in auto senza alcuna possibilità di ribattere. Fece manovra e si immise nel traffico londinese mentre io rimanevo immobile sul ciglio della strada, mentre sentivo l’acqua e il gelo penetrarmi fin dentro le ossa.
Non mi accorsi nemmeno dell’arrivo di Mr. Wright che mi posò la sua giacca sulle spalle, con l’intento di riscaldarmi, e nemmeno di James che mi coprì con il suo ombrello. Scorreva tutto a rallentatore. Ogni ricordo e ogni momento passato con Simone diventò la colonna sonora di quel finale che forse mi sarei dovuta aspettare già da tempo.
Avrei ammesso i miei errori per la prima volta nella mia vita, perché di quello si era trattato. Pensando di fare del bene agli altri, avevo soltanto agito come un’egoista. Ora che finalmente avevo capito di amare Simone, lui, allo stesso modo, aveva smesso di farlo.


Eccoci qui!
Scusate per la lunga assenza ma ero partita e non avevo dietro il piccì, #sob
So... questo è il CAPITOLO tanto atteso, quello del processo, che ha messo bene in chiaro il succo della storia. Ora ci resta solamente una domanda: ''Cosa farà Ven?"
Staremo a vedere.
Voglio comunque augurarvi buone vacanze, anche se x alcuni sono finite #ri-sob e si ricomincia! Manca pochissimo alla fine di questa storia, mi commoziono troppo! Dopo mi aspetta una LUUUNGA fase di rilettura çç

Al prossimo capitolo <3
Marty.

 
 
 
 
 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Capitolo 30 ***


Capitolo 30
 
Non avevo mai notato quella piccola macchia di muffa nell’angolo in basso a destra del mio appartamento, esattamente sulla parete di fronte al grande letto matrimoniale. Eppure era lì, anche piuttosto visibile. Si notava lo strato di umidità al di sopra di essa, quegli angoli più scuri al centro e più chiari a mano a mano che la parete veniva letteralmente “mangiata” da quello strano essere vivente.
Ed io mi sentivo come quel povero muro, soggetto alla trascuratezza e abbandonato a sé stesso, incurante dei segni del tempo e della natura.
Erano passati tre giorni da quanto si era concluso il processo, o meglio, da quando Simone era letteralmente scappato dalla sottoscritta lasciandola sola sotto la pioggia. James si era offerto di accompagnarmi a casa e tenermi un po’ di compagnia, Mr. Wright addirittura mi aveva invitato ad una cena evento organizzata a suo nome, proprio perché aveva deciso di smettere di rintanarsi in casa dopo che io stessa gli avevo fatto capire che era controproducente. Avevo rifiutato ogni tipo di offerta.
Ricevevo chiamate su chiamate, tanto che avevo deciso di staccare il telefono per un po’. Avevo bisogno di tempo per elaborare ciò che era successo, per dare un senso e una spiegazione alle mie azioni e a ciò che ne era conseguito.
Davvero hai creduto che Simone potesse fare finta di nulla?
No, infatti.
I miei più grandi timori si erano concretizzati ed ero rimasta sola, come avevo sempre desiderato sin dall’inizio. Adesso posso dedicarmi alla mia carriera.
Mi rigirai nel letto, dando le spalle a quella macchia di muffa che ricordava lo stato di decomposizione in cui verteva il mio corpo in quel momento. Mi sentivo distrutta, incapace di riprendere in mano la mia vita e ricominciare laddove l’avevo lasciata pochi giorni prima.
Se non fai qualcosa, oltre a Simone perderai anche il tuo lavoro.
E così facendo avrei buttato al vento tutti i sacrifici che avevo fatto.
«Voglio scomparire,» sospirai, stropicciandomi gli occhi ancora carichi del trucco del giorno del processo. Una volta rientrata a casa, nemmeno mi ero spogliata. Il letto era diventato il mio primo amante, l’unico che sapesse davvero accogliermi e comprendere silenziosamente come mi sentissi in quel momento.
Ti sei forse già arresa?
«Ho rovinato tutto,» risposi ad alta voce, quasi per concretizzare quella conversazione con me stessa.
E rimanere a letto tutto il giorno, risolverà qualcosa?
Scossi la testa che mi doleva. «No, ma non ho la forza di fare niente. Mi sento apatica.»
Era tutto vero. Più volte in quei giorni avevo pensato di farmi una bella doccia e almeno recarmi al lavoro, giusto per dare un segno di vita anche a James, ma l’idea di mettere un piede fuori dalla porta mi terrorizzava.
Di cosa hai paura?
«Non lo so,» piagnucolai, incapace di dare una spiegazione a quella miriade di sensazioni che contribuivano solamente a farmi stare peggio. «Non ho mai provato un dolore così grande, non ce la faccio ad andare avanti.»
E tu saresti quella che fino a poco tempo fa si permetteva di fare lezioni di vita a tutti? Eri quella che ha sempre dato a Simone dell’immaturo e del ragazzino? Non ti sembra di star facendo lo stesso?
Il pensiero di Simone mi fece salire subito un conato di vomito.
Mi alzai dal letto soltanto per correre in bagno, prima che rigettassi su tutto il pavimento della casa. A completare il quadro di depressione, c’era anche il pensiero fisso della gravidanza che mi accompagnava ogni momento. Avevo promesso a me stessa, molto prima del processo, che se le cose fossero andate male e Simone non avesse accettato l’idea del bambino, me ne sarei presa cura io stessa, con le mie forze, perché non volevo arrendermi a nessun costo.
Quei giorni erano stati sufficienti a mettere in dubbio ogni mia convinzione.
«All’epoca era diverso,» biascicai, stesa sulla tazza del water. Mi tenevo la testa altrimenti ciondolante e tentai di asciugarmi le lacrime. «Lui non mi vuole più vedere ed io non ce la farò mai da sola.»
Ma ti senti? Ricorda i tempi in cui c’eri soltanto tu, quando contavi solo su te stessa senza appoggiarti a nessuno e com’eri determinata!
Cervello aveva ragione, c’era stato un tempo in cui avevo preso delle decisioni, ero riuscita a trascinarmi fuori di casa per intraprendere un’avventura in una città diversa. C’era stato un momento in cui avevo inseguito un sogno, a tutti i costi, ma che adesso rischiavo di farmelo sfuggire di mano.
Quale tipo di Sogno?
Ricominciai a piangere quasi senza rendermene conto. Avevo assolutamente bisogno di sentire qualcuno che fosse vicino, qualsiasi persona mi comprendesse all’istante senza chiedermi nulla in cambio. Ci sarebbe stata Sofia, ma non volevo coinvolgere un membro della famiglia così vicino a Simone, le avrei dovuto spiegare anche della gravidanza e non avevo voglia di dirlo troppo in giro. James sarebbe stato la seconda scelta, lui metà della storia già la conosceva ma sarebbe stato un grosso errore parlargli: innanzitutto avrei dovuto spiegargli il perché ero sparita, lasciandolo solo a riempire scartoffie in ufficio; in secondo luogo, lo avevo coinvolto fin troppo, mettendo a rischio anche la sua posizione.
Non ti sei fatta molti amici, ultimamente.
Di fare nuove amicizie, non ne avevo avuto il tempo, ma avrei potuto “rispolverare” una vecchia conoscenza senza nemmeno sentirmi a disagio. Mi alzai da terra, decisa a fare qualcosa, così mi lavai il viso, ripulendolo dal trucco, diedi una sistemata ai capelli e accesi il computer. Skype era una delle applicazioni più usate per chi abitava all’estero, così decisi di inviare un messaggio a Celeste per dirle se poteva collegarsi.
Il suo lavoro come scrittrice, mentre si laureava, veniva svolto per lo più a casa, quindi era frequente che la mia migliore amica rimanesse nel suo appartamento per lavorare. Attesi la risposta che non tardò ad arrivare.
Dopo pochi minuti, vidi il pallino verde accanto al suo nome, così la contattai.
Il suono caratteristico del programma diede il via alla schermata nera, da cui comparve il volto rilassato e sorridente della mia migliore amica.
«Ehi Ven!! È da un secolo che non ci sentiamo! Come stai?»
I suoi occhi azzurri e grandissimi mi trasmisero quella sicurezza che in quei giorni avevo perso. «Ciao amica,» sorrisi. «Diciamo che sono in una situazione un po’ particolare, ma una parte della mia vita si può dire che va bene.»
Lo sguardo di Celeste si fece più serio. «Raccontami bene tutto, altrimenti non posso aiutarti,» mi disse e allora iniziai dal principio. Partii da quando mi era stato affidato il caso giudiziario di Simone, le pregai di non farne parola con il suo fidanzato, dal momento che Simone ci teneva molto alla sua immagine nei confronti del cugino, e poi andai in ordine. Le parlai del flirt che c’era stato con il mio collega James, le dissi della festa del college, le parlai della famiglia di Simone e del calore che mi aveva lasciato. Si stupì molto di quel mio racconto, soprattutto quando affrontai la parte del cambiamento che avevo avuto nei confronti del calciatore.
«E così anche tu hai ceduto,» sorrise, forse anche un po’ contenta di quella mia ammissione. Inizialmente si arrabbiò, soprattutto perché pensava di essere più importante e che quella confessione sarebbe stata una delle prime cose che le avrei detto, ma alla fine comprese la mia posizione. Non potevo parlarle del caso finché non fosse finito, non potevo dire nulla di me e Simone, perché già era una storia clandestina e meno persone ne fossero venute a conoscenza, meglio sarebbe stato per la sua immagine e per quella dello studio in cui lavoravo.
«Le cose sono peggiorate quando ho detto tutto a James, anche perché avevo dei continui mal di testa e delle nausee. Quindi mi sono recata dal dottore,» le dissi, tirando fuori l’argomento più spinoso di tutti.
Celeste rilassò il viso, sempre più sconcertata. «Parla!» mi ordinò.
Le raccontai dei risultati delle analisi che avevo ritirato alla clinica, alla conferma che avevo inviato al mio medico di fiducia e alle reazioni di James. Le dissi che mi aveva suggerito di chiudere temporaneamente la storia con Simone, per il bene dello studio, ed io avevo preso in parola ciò che aveva detto.
Le troppe informazioni recepite dalla mia migliore amica, sul momento, la mandarono in confusione. Non sapeva a quale di esse dare la priorità, così prese un lungo e silenzioso respiro per poi fare il punto della situazione. La sua immagine, sul monitor del pc, non era molto nitida e spesso, per problemi legati alla connessione lenta, le sue parole arrivavano in ritardo rispetto alla mimica del volto.
Non ci diedi troppo peso.
«Premetto che ti odio!» anticipò, lasciandomi di sasso. «Sono la tua migliore amica e diventerò presto zia, come ti è saltato in mente di dirmelo soltanto adesso?!»
«Mi dispiace,» mi giustificai ma non c’era molto da dire. Ero stata una stupida a non affidarmi a Celeste, che mi aveva supportato da quando eravamo adolescenti al liceo. Aveva tutte le ragioni per essere incazzata con me. «Ti autorizzo ad odiarmi e a non parlarmi più, se vuoi,» ma dentro di me pregai che non desse peso a quelle mie parole.
Il volto corrucciato della mia amica si distese. «Non dire cazzate!» ridacchiò. «Più che altro mi chiedo come hai potuto essere così stupida?»
«Cioè?» le domandai stupita. «A quale parte ti riferisci?»
Pensai dicesse riguardo all’uso di precauzioni, soprattutto perché entrambe eravamo sempre state intransigenti su questo punto.
Scosse la testa energicamente. «Come hai potuto dare retta a ciò che ti ha detto James?» mi chiese stupita. «Se mi fossi trovata nella tua situazione, non avrei potuto farcela.»
Le mie salde motivazioni cominciarono a vacillare. «Avrei perso l’opportunità di lavorare allo studio, non potevo rischiare che scoprissero la mia tresca,» mi giustificai.
Celeste parve sconfitta. «Ven, Ven, Ven, sei troppo razionale! Se fosse stato un buon amico quanto dici, James non avrebbe mai fatto la spia né ti avrebbe detto di lasciare Simone. Inoltre, anche se il suo pensiero era mosso da tutte le migliori ragioni del mondo, io stessa non avrei mai seguito quel consiglio, a costo di rischiare tutto. Da quello che mi hai raccontato, amica mia, capisco che ti sei presa proprio una bella cotta per il cuginetto di Leo, ma ti sei comportata molto male nei suoi confronti.»
Aveva pienamente ragione, non mi sarebbe nemmeno servita la video-chat con lei. Erano parole che già mi ero ripetuta mille volte nella mente, ma mi serviva qualcuno dall’esterno che me le urlasse contro, affinché capissi una buona volta di aver fatto una cazzata.
La sentii sospirare, vedendo l’espressione sul mio viso diventare funerea. «Venera, tesoro,» disse sorridendo. «Nulla è perduto ancora, ognuno di noi ha avuto la sua occasione e magari se l’è lasciata sfuggire ma la vita ne è piena di queste opportunità. Vedrai che il treno passerà di nuovo, ma tu devi essere pronta a salirci sopra.»
«Cosa mi suggerisci di fare?»
Ci pensò su, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Innanzitutto devi riprendere in mano la tua vita, cominciando da una bella doccia. Sistemati e vai allo studio, fatti vedere, prenditi i tuoi meriti per il caso che hai risolto e continua ad essere te stessa. Le cose si aggiusteranno, vedrai.»
Apprezzai molto il suo consiglio. Mi aveva fatto davvero bene sentirla e soprattutto farmi aiutare come un tempo. «Grazie.»
Celeste ridacchiò. «Ricordati che ci sono sempre, anche se non mi coinvolgi più nella tua vita. Rimarrò sempre ad aspettarti e non sparire! Voglio sapere ogni cosa sul mio nipotino e comincerò subito a convincere Leo a partire di nuovo per venire a trovarti!»
Finalmente avevo trovato quella spensieratezza perduta in quei giorni di fossilizzazione. Salutai la mia migliore amica e decisi di seguire il suo consiglio alla lettera, cominciando dalla doccia e dal sistemare il mio appartamento. Mi sarei recata in ufficio subito dopo la pausa pranzo, così tirai fuori uno dei miei soliti completi da lavoro, mi truccai velocemente e uscii subito di casa.
Mentre mi recavo verso la fermata, accesi il cellulare.
Sul display vidi lampeggiare una scia infinita di messaggi e telefonate perse. C’era James che mi chiedeva che fine avessi fatto, Sofia che aveva tentato più volte di telefonarmi per chiedermi come stavo, addirittura trovai una chiamata persa di Gabe.
Ti ha chiamato perfino il fratello-figo.
Mi ero isolata dal mondo proprio per sfuggire a tutta quella sfilza di domande e di compatimenti che ne sarebbero seguiti. Odiavo la gente che provava pena per me, soprattutto chi era a conoscenza della mia situazione fisica. Anche se sola, ero comunque la stessa ragazza forte e determinata di prima e sarei riuscita a ottenere tutto quanto se mi fossi impegnata al massimo.
Anche Simone?
La sua questione era ancora una spina che mi faceva sanguinare, ma l’avrei affrontata a tempo debito. A costo di farmi sbattere la porta in faccia, avrei provato a spiegare le mie motivazioni anche a lui. Gli avrei semplicemente detto ciò che era successo, esponendo bene i fatti come il mio lavoro mi aveva insegnato, e avrei atteso un suo giudizio. In fondo, non poteva andare peggio di così.
Ignorai il telefono cellulare ed entrai nella fermata di Lancaster Gate.
 
Avevo paura ad entrare in ufficio, soprattutto dopo essere sparita per ben tre giorni senza dare alcuna notizia a nessuno. Sostai un po’ di fronte all’entrata, poi raccolsi il coraggio e decisi di presentarmi in ufficio.
Alle 14.20 di Giovedì, la Abbott&Abbott era un fiume di persone che non riuscivano a stare minimamente ferme. Riconobbi gli altri quattro tirocinanti, compresa Yuki, alle prese con decine e decine di scartoffie da sistemare, per non parlare dei telefoni che squillavano come fossero impazziti.
«Chi non muore, si rivede!» osservò Yuki piccata, sorpassandomi e andando a svolgere le sue faccende.
Tentai di ignorare quell’impulso di ucciderla seduta stante, così tentai di prendere una decisione concreta e mi recai nell’ufficio di James. Bussai timidamente, quasi con il timore di poter sfondare la porta.
«Avanti!» si udì distintamente dall’altra parte, così avanzai.
Trovai il bell’avvocato alle prese con il suo pc, intento a digitare qualcosa di davvero importante perché non distolse lo sguardo dal monitor nemmeno per vedere chi fosse entrato. Quando se ne accorse, rimase molto stupito.
Si alzò in piedi di scatto e corse ad abbracciarmi. «Ero preoccupatissimo,» mi confessò. Arrossii a quella premura, soprattutto perché avevo immaginato una reazione diversa. James era pur sempre la persona galante ed educata che avevo conosciuto quel primo giorno di lavoro sulla Tube.
«Mi dispiace, mi serviva del tempo,» mi giustificai.
Lui sospirò comprensivo. «Ho detto a mio zio che non ti eri sentita bene, ha capito. Comunque è un comportamento che non è passato inosservato qui in ufficio,» mi spiegò.
Compresi il punto di vista di August Abbott, soprattutto quando, alla conclusione di un lungo e dispendioso processo, una delle tirocinanti incaricate di occuparsene spariva da un giorno all’altro.
«Rimedierò,» dissi sicura, rimboccandomi metaforicamente le maniche.
James sorrise. «D’ora in poi voglio vederti così motivata a studio, cerca di lasciare i brutti pensieri al di là di quella porta,» disse, indicando quella del suo ufficio. «Ricordati che qui con me sei al sicuro
Provai una strana sensazione in quel momento, anche se apprezzavo le parole dell’avvocato. Mi sentii profondamente a disagio, come se mi trovassi improvvisamente in un luogo a cui non appartenevo. Tentai di scrollarmi quella sensazione di dosso, ma il modo in cui mi fissava James mi metteva ancor più in soggezione.
Stiracchiai un sorriso e mi allontanai, tanto per rimarcare una zona di separazione tra di noi. «Bene, cosa ci è rimasto da fare?» chiesi.
James tornò a sedersi alla propria scrivania, finendo di scrivere. «Sto redigendo il rapporto sul caso che si è appena concluso, ma bisogna occuparci immediatamente di una questione piuttosto spinosa. È uscita l’altra mattina in edicola,» disse, prendendo una rivista e girandomela di fronte agli occhi.
Appena lessi il nome Daily Voice ebbi un brivido di terrore.
Essendo completamente assorbita da ciò che era successo in quei giorni, compreso il processo, avevo del tutto rimosso il “patto” che James aveva firmato con quel giornalista, Bastian Force, affinché gli rilasciasse le informazioni necessarie per trovare il misterioso testimone dell’articolo che aveva redatto cinque anni prima.
Afferrai la copertina di quel giornale, rimanendo piuttosto confusa.
Titoli come “Fuoco e polveri tra i Gunners” e “Il popolare Sogno fa ancora parlare di sé” spiccavano come fari nella notte rispetto alle altre notizie contenute nella rivista. Rimasi basita e allo stesso tempo terrorizzata.
«N-Non capisco,» tentai di dire, anche se c’erano ben poche parole che potessero esprimere lo stupore di quel momento.
James mi rivolse subito l’attenzione. «Quel bastardo di Force non ha rispettato del tutto il patto di riservatezza che abbiamo siglato,» disse ed io imprecai a bassa voce. Dannati giornalisti a caccia dello scoop, tutti affamati di vendite. «Anche se ha atteso, come pattuito, la fine del processo, non abbiamo nemmeno avuto modo di avvertire la società e di contattare la stampa per avvertirli che fosse tutto risolto. Avremmo potuto porre un margine alla fuga di notizie, adesso sarà il caos completo.»
Rimasi imbambolata a fissare quel giornale.
«Come dovremmo muoverci adesso?» chiesi, incapace di elaborare qualsiasi soluzione.
L’avvocato mi fissò determinato. «Direi per prima cosa di stilare una lettera di reclamo indirizzata al Daily Voice, visto che in un paio di punti Mr. Force ha violato l’accordo che avevamo stabilito. In secondo luogo, se ti senti pronta, direi che puoi metterti al telefono e contattare subito le principali testate giornalistiche e avvertirle dello sgarro fatto da Force, in modo che non diano peso a queste esagerazioni. Bisogna giocare d’anticipo, in fondo siamo ancora gli avvocati di Mr. Sogno.»
Mi porse una lista con dei numeri di telefono e dei nomi. Annuii convinta e determinata, soprattutto perché avrei contribuito ancora una volta ad aiutare Simone. Anche se non direttamente, potevo sentirmi ancora una volta vicina a lui.
«Let’s start it!»
 
***
 
Nel giro di un paio di giorni, io e James riuscimmo ad arginare il danno fatto volontariamente da quell’approfittatore meschino di Bastian Force. Come avvocati di Mr. Sogno, avevamo citato il giornale per diffamazione, soprattutto in relazione alle presunte illazioni che si facevano ai danni di Simone e della squadra.
Insomma, la notizia di fondo era vera ma Force aveva portato ogni particolare all’estremo creando una vera e propria distorsione della realtà.
I rapporti telefonici con Simone li aveva avuti esclusivamente James, ma non per mia scelta. Da una parte, mi ero sentita sollevata che Mr. Abbott Senior avesse preferito in questo modo ma dall’altra avevo sperato di avere una qualsiasi scusa per vederlo. La verità è che mi mancava molto, forse più di quanto dessi a vedere.
Quel giorno mi ero recata alla sede commerciale dell’Arsenal, proprio per consegnare dei documenti relativi alla nuova causa che il nostro studio aveva intentato contro il Daily Voice per diffamazione. Dal momento che la società calcistica era stata nominata e quindi coinvolta, era premura della Abbott&Abbott chiarire ogni singolo punto della vicenda e non compromettere la carriera dell’assistito.
James aveva saputo, tramite le sue fonti, che Mr. Wenger si era messo in contatto con Simone proprio per chiedergli spiegazioni in merito. Avendo un passato discutibile, fatto appunto di gossip, l’allenatore dell’Arsenal voleva assicurarsi che il suo diamante brillasse solamente per i suoi meriti di calciatore.
Insomma avrei dovuto screditare il Daily Voice alla sede della società.
Mi feci ricevere subito da uno dei dirigenti, in modo da spiegare in modo chiaro e coinciso quali erano state le motivazioni che avevano spinto il nostro studio a siglare il patto di riservatezza. Chiarii tutti i punti e feci una corretta distinzione tra quelli reali e quelli che Force aveva “gonfiato” a causa di tutti quei paroloni che aveva inserito all’interno dell’articolo.
«In questo punto, ad esempio, si enfatizza come il nostro cliente sia stato ben disposto a portarsi a casa una perfetta sconosciuta,» spiegai, indicando esattamente la riga.
Claude Van Bürer, uno dei dirigenti, mi guardò piuttosto concentrato. La riga scura che aveva sulla fronte indicava un certo fastidio, soprattutto perché la società era stata tirata in ballo a causa di uno sciocco pettegolezzo.
«E qui,» cambiai pagina. «Dove vede scritto “negligenza e inadeguatezza alla figura paterna”, sono soltanto delle supposizioni che Mr. Force ha dedotto da non so quale fonte. In nessun rapporto del tribunale troverà un commento di questo genere.»
L’uomo aveva un’espressione in viso indecifrabile. Lo guardai per un attimo, giusto per capire se mi stesse ascoltando e avesse capito tutto.
«Credo possa bastare,» disse, chiudendo il plico con tutte le pratiche all’interno.
Per un attimo fui presa dal panico. E se non avessero trovato le nostre motivazioni sufficienti? Se avessero preso delle decisioni in merito al futuro di Simone? Sapevo che l’idea di siglare un patto con quell’antipatico di Bastian Force sarebbe stata una pessima idea.
«Signor Van Bürer,» tentai, come ultimo appello. Non sapevo nemmeno cosa volesse dirmi, però avevo una strana sensazione. L’uomo alzò un sopracciglio, infastidito. «Non deve dare credito a ciò che scrivono i giornali. Le assicuro che Mr. Sogno non è assolutamente come viene descritto in questo articolo ma c’è dell’altro. È una persona che ama il suo lavoro e vale molto di più.»
Neanche fossi stata la sua manager, gli avrei fatto tutta questa pubblicità positiva.
Il dirigente non si scompose. Sembrava quasi fatto di marmo per quanto fosse dura la sua espressione, quasi granitica.
«La ringrazio per il suo tempo, prenderemo le misure adeguate a questa spiacevole situazione ma non deve preoccuparsi,» disse in modo tranquillo. «Il suo cliente non verrà emarginato soltanto per uno spiacevole disguido come questo.»
In un modo un po’ brusco e serioso, Van Bürer mi aveva rassicurata.
«Grazie a lei e buon lavoro,» dissi sorridente.
E fuori due.
Uno alla volta, io e James ci eravamo personalmente occupati di tutte le principali testate giornalistiche, le società e gli altri enti a cui era associato il nome di Simone. In modo particolare gli sponsor.
Ancora una volta, avevamo risolto prontamente una brutta situazione.
Uscii di fretta dagli uffici di direzione e mi recai in strada.
Volevo telefonare subito a James per dargli la bella notizia, ma fui interrotta proprio mentre digitavo il numero di telefono.
«Ehi Ven!»
Riconobbi la voce di Sofia anche se ancora era lontana.
Inspirai lentamente e cercai di rallentare il battito cardiaco. Avevo il terrore di voltarmi, soprattutto perché sarebbe potuta essere in compagnia del fratello.
Non sei ancora pronta.
Fortunatamente, la bionda sorella di Simone era sola.
«Ciao, come stai?» le dissi.
Lei mi guardò accigliata. Era difficile decifrare quel suo sguardo da elfo, ma non l’avevo mai vista così risentita. «Ho provato a chiamarti un sacco di volte.»
Fissai il pavimento, mortificata. «Hai ragione ma mi serviva del tempo per riordinare le idee e fare chiarezza nella mia vita,» le spiegai.
Sul momento pensai fosse sufficiente come giustificazione, ma Sofia sembrò spegnersi ancora di più. Non avrei mai pensato di vederla in quello stato, soprattutto dopo che mi ero abituata alla sua allegria contagiosa.
«Pensavo ci tenessi di più,» disse mogia.
«A cosa?» chiesi, forse stupidamente.
Sofia si sistemò meglio la tracolla sulla spalla.
Aveva con se dei fogli, in una cartelletta, che tentò nervosamente di spostarsi da una mano all’altra.
«Credevo che lottassi per mio fratello, forse ho visto male.»
Non mi aspettavo di ricevere quella doccia fredda, soprattutto da una persona che era stata sempre dalla mia parte. Fin dall’inizio aveva tifato per me e Simone, ma adesso sembrava sconfitta anche lei. Non sapevo cosa fare, né come giustificarmi. Avevo preferito rintanarmi nel mio appartamento, nascondermi, smettere di lottare per riconquistare quella persona che pensavo stesse bene al mio fianco.
«Non è come pensi,» tentai di fermarla. Cercai di riorganizzare le idee e dirle che si sbagliava. «Ho avuto bisogno di stare un po’ da sola, dovevo pensare, ma non mi sono arresa. Anche se lui non vuole nemmeno vedermi.»
Le avrei voluto dire che Simone non aveva intrattenuto più contatti con me, voleva parlare solo con James. Nonostante lo avesse sempre odiato sin dal principio, adesso era addirittura più sopportabile di me.
Sofia sospirò tristemente. «Simone a parte, ci siamo sempre noi,» disse dispiaciuta. «Pensavo di essere tua amica, che ti avrei potuto supportare!»
Mi ero comportata come con Celeste. La mia brutta abitudine di contare solo su me stessa, spesso e volentieri mi isolava dal resto del mondo. Invece di farmi sostenere da una persona dolce e sincera come Sofia, pur essendo la sorella di Simone, avevo preferito piangermi addosso.
«Hai ragione Sofi, non ho scuse,» ammisi.
Il primo passo lo hai fatto.
«Adesso ho capito che non posso farcela da sola e vorrei chiederti di perdonarmi.»
Eravamo a Russel Square, vicino al British Museum, in mezzo alle persone che camminavano da un lato all’altro della strada per raggiungere i loro posti di lavoro. Era come se fossimo trasparenti, se appartenessimo ad un’altra epoca.
Sofia mi guardò intensamente. Quegli occhi azzurri, così simili ad un essere appartenente ad una fiaba, mi scrutarono quasi fino nell’anima. Sospirò lentamente, aggiustandosi ancora la tracolla della borsa sulla spalla.
«Io ho sempre tifato per voi due, sappilo,» mi confessò.
Lì, in mezzo alla strada, avrei voluto raccontarle tutto: come mi sentivo, i problemi con il lavoro, la mia condizione fisica. Resistetti soltanto perché mi sentivo troppo osservata dai passanti.
«Hai tempo?» le chiesi, forse sorprendendola.
Sofia parve rilassarsi. «Ho un’oretta prima di rientrare in sala registrazioni.»
Colsi la palla al balzo e decisi di coinvolgerla completamente anche perché ormai era arrivato il punto di fidarsi anche delle altre persone.
«Vieni, c’è una cosa che devo dirti.»
Ci recammo ad un caffè lì vicino, il Cappuccino, e notai subito che era stracolmo di studenti. Ricordai che proprio nei dintorni di quella piazza c’erano numerose facoltà universitarie, un po’ come vicino la Stazione Termini a Roma. Ci sedemmo all’interno del locale, ordinando subito qualcosa.
Sofia non era ancora del tutto rilassata, c’era qualcosa che la innervosiva.
Aveva tutte le ragioni di “odiarmi”, mi ero comportata proprio come un’egoista e peccando di superbia, credendo che potessi contare solamente su me stessa, avevo lasciato indietro le persone che contavano su di me.
«Devi promettermi una cosa,» iniziai. Era giunto il momento di rendere Sofia partecipe del mio grande segreto. Mi sentivo un po’ Spiderman, qualche supereroe che doveva nascondere la propria identità agli amici pur di proteggerli.
Sofia annuì. «Prima dovrei saper di cosa si tratta.»
Annuii tristemente. «Si tratta di una questione complicata, che devo affrontare in primis con tuo fratello. Per adesso ho deciso di occuparmi fino alla fine della sua causa, dopodiché, quando riuscirò a parlargliene, cercherò di risolvere.»
La più piccola dei Sogno parve preoccupata. «Ven, di cosa si tratta?»
Inspirai profondamente. Nel frattempo erano arrivate le ordinazioni, così cominciai a sorseggiare il mio latte caldo macchiato. «Sono incinta,» sputai così, tutto d’un fiato.
Per poco Sofia non si strozzò con il cornetto che stava assaggiando. Dopo aver sputacchiato alcuni pezzi in un tovagliolo, si asciugò le lacrime. «C-Cosa?»
Mi trattenni dal ridere.
Anche se Sofia mi era sembrata sempre più delicata e dolce del fratello, in quei rari momenti si assomigliavano talmente tanto che ebbi un moto di nostalgia.
«Hai capito bene, aspetto un bambino.»
La piccola Sogno sgranò quegli enormi occhi azzurri che possedeva. Si pulì le labbra con un tovagliolo, assimilando la notizia. «E… e lui lo sa?»
Scossi energicamente la testa.
Le spiegai che lo avevo scoperto quando ancora c’era da affrontare l’udienza finale, così avevo deciso di tenerlo per me fino a quando non fossi stata pronta. C’era stata poi la litigata, le varie incomprensioni e infine il processo. Non avevo avuto modo e occasione di dirglielo, anche perché avevo paura di una sua reazione.
Sofia ascoltò ogni parola, senza intervenire.
Non espresse giudizi, né consigli. Lei attese che finissi il mio racconto e mi supportò con lo sguardo in ogni mio alto e basso. A fine racconto, si prese qualche minuto per elaborare l’importanza della notizia.
«Ti prego, non dirglielo per adesso,» le chiesi come favore personale.
Se c’era una persona che doveva dire a Simone che sarebbe diventato padre, sarei dovuta essere io.
Lei annuì d’accordo.
Alla fine sul suo viso le si allargò un sorriso talmente grande che tornai a provare quel piacevole calore che sentivo ogni volta che vedevo un membro della famiglia Sogno.
«Diventerò zia!» trillò allegra, alzandosi per abbracciarmi. In quel momento parve tutto tornato come a una settimana prima, senza alcuna tempesta né bufera in vista. Si ricompose giusto in tempo per darmi i suoi consigli.
«Ti prometto che non ne parlerò con mio fratello, ma non puoi aspettare molto. Simone, anche se immaturo, rimane comunque il padre e deve avere la possibilità di scegliere.»
Annuii, abbassando la testa.
«Ho paura a dirglielo,» ammisi. Era forse la prima volta che mi esponevo così tanto con un’altra persona, ammettendo le mie debolezze ad alta voce.
«Di cosa?»
«Che possa dirmi di no, che non riesca ad accettare la cosa.»
Sofia rifletté attentamente sulle mie parole. «È una possibilità, certo,» constatò. «Ma devi comunque tentare. Io non posso intercedere per mio fratello, anche perché non si è mai trovato in una situazione del genere, ma so che ti ama Ven, per cui prova!»
La passione con cui la piccola Sogno credeva nel sentimento che c’era tra me e Simone mi commosse. Forse credeva più lei in un nostro riavvicinamento, che io stessa, ma avrei dovuto cambiare punto di vista.
Per rispetto, devi dirglielo. Anche se non lo ha scelto, rimane comunque il padre.
«Devo prima pensare ad un modo per riavvicinarmi,» le dissi, studiando una specie di piano d’azione. Non potevo piombare in casa di Simone per poi scaricargli addosso quel genere di responsabilità, sarebbe stato come metterlo con le spalle al muro.
Sofia concordò. «Prova a telefonargli, almeno cerca di strappargli una parola,» mi consigliò con la voce un po’ incrinata. «Ci sono passata questa mattina e non sta bene.»
Quella notizia mi ferì più di qualsiasi altra cosa, quasi avessi ricevuto un pugno direttamente alla bocca dello stomaco. Fu un forte impatto. Sapere che Simone soffriva, soprattutto per colpa mia, mi faceva sentire ancora più colpevole di averlo trattato in quel modo.
A conti fatti, lasciarlo per mantenere il posto allo studio, ora come ora, sembrava la decisione più stupida ed egoista che avessi mai preso.
Io non lo avrei mai fatto, le parole di Celeste continuavano a rimbombarmi nel cervello.
Nessuna persona sana di mente lo avrebbe fatto.
Eppure adesso non potevo più tornare indietro, ma solo rimediare agli errori commessi in passato. Forse sarebbe stato saggio seguire i consigli di Sofi.
«Mi dispiace davvero tanto, ho rovinato tutto!» sbuffai, rendendomi sempre più conto di aver fatto una cazzata allontanandomi da lui.
Sofia mi guardò comprensiva. Finalmente aveva assunto di nuovo lo sguardo di sempre,  solare e spensierato. «Vedrai che si aggiusterà tutto.»
 
Tornai al mio appartamento che erano le 19.00. La luce del giorno era sparita da un pezzo e i lampioni sparsi per le strade cominciavano ad accendersi uno ad uno.
Tirava un fresco venticello in strada così mi tirai meglio il bavero del trench, aggiustando la sciarpa che avevo indossato quella mattina. Ci mancava solamente che mi ammalassi, non era proprio il caso. Camminai lungo Bayswater Road, osservando gli uccelli che tornavano ai propri nidi, dove molto probabilmente c'erano le loro piccole uova da accudire.
Tra un po' tornerai anche tu al tuo nido, dal tuo piccolo.
Quella associazione di idee mi fece emozionare. Continuai a camminare mentre la notte prendeva il posto di quella giornata, che alla fine dei conti era stata piuttosto profiqua. Mi ero confessata con le mie due migliori amiche, una vecchia e una appena acquistata, e adesso mi sentivo un po' più libera e in pace con me stessa.
Ora devi trovare il modo di parlare con il diretto interessato.
Già, era inutile girari attorno. L'unica persona che doveva sapere, era ancora all'oscuro di tutto e avevo anche fatto promettere che nessuno avrebbe dovuto informarlo se non la sottoscritta. Anche perché sarebbe stato giusto così.
Senza nemmeno accorgermene, arrivai fino al portone del mio appartamento rimanendo piuttosto sorpresa di trovarvi James. Lo vidi all'esterno dell'edificio, con il bavero del cappotto di tweed alzato e le mani affondate nelle tasche. Sembrava pensieroso.
«Ehi, cosa ci fai qui?» gli chiesi, piuttosto sorpresa.
Un sorriso sincero gli illuminò il volto. La sensazione strana provata qualche giorno prima nel suo ufficio tornò a stuzzicarmi. Era come un campanello d'allarme che mi metteva in guardia su qualcosa che stava cambiando.
«Ho pensato di festeggiare, visto che ormai il processo e le sue derivazioni son giunti al termine,» disse, tirando fuori da sotto il cappotto una bottiglia di succo di frutta all'albicocca.
Lo guardai sorpresa. «E vogliamo brindare con un'apricot juice?» ridacchiai.
Gli occhi furbi e ferini di James mi misero i brividi. «Non ci provare Ven, non come da Mr. Wright. Sei incinta e non puoi bere alcolici.»
Annuii, confermando la mia stupidità. «A volte mi dimentico della mia condizione,» confessai, forse un po' ingenuamente. «Dai saliamo, così non ci congeliamo qui fuori.»
Aprii il portone della caratteristica palazzina signorile inglese e feci largo a James. Salimmo le quattro rampe di scale, io personalmente con un po' di fiatone, e raggiungemmo il pianerottolo del mio appartamento. Mi fece strano trovarmi ad invitare un uomo dentro casa, anche se si trattava semplicemente di James. In quell'appartamento ero sempre stata soltanto io, era una sorta di rifugio dalla vita stacanovista che avevo scelto. Sia l'avvocato che Simone c'erano già stati, ma si era trattato di un fortuito caso isolato. Quella era la prima volta che invitavo qualcuno a condividere un piccolo pezzo della mia vita.
«Prego, e non fare caso al disordine.»
Per quanto quella casa potesse essere piccola, la quantità di roba che vi era stipata superava forse gli stessi metri quadri dell'appartamento.
James sorrise. «Perché non hai visto il mio.»
Mi fece piacere sapere quella cosa, soprattutto perché l'avvocato era una figura talmente precisa e professionale che pensavo non potesse avere difetti di qesto genere. Conoscere anche le piccole debolezze degli altri, li rendeva più umani ai miei occhi.
Decidemmo di ordinare una cena a domicilio, cinese per la precisione.
Ormai era consuetudine all'estero cibarsi anche di queste pietanze multietniche e nonostante l'Italia fosse rinomata per la gastronomia, anche lì stavano prendendo piede queste nuove usanze.
«Mia madre non mangerebbe mai una cosa del genere,» constatai, tirando fuori dal cartoncino una manciata di noodles con le bacchette di legno.
L'avvocato afferrò un involtino primavera e se lo infilò per metà in bocca. Era molto buffo in quel momento ed io ne approfittai per lasciarmi andare ad una genuina risata.
Sgranò gli occhi estremamente azzurri. «Che fè?» chiese, mentre tentava di masticare.
«Nulla, è che...» tentai di dire, ma le parole mi morirono tra le labbra.
Assomigli tanto a Simone.
Non ebbi il coraggio di finire quella frase, non ci riuscivo. Fu così naturale per la mia mente fare quel tipo di associazione, che quasi mi meravigliai. Era come se, nonostante tutto quello che era successo, lui facesse ancora parte integrante della mia vita ed io mi sentivo libera di associare ogni aspetto della mia quotidianità a lui. Quasi dividessimo ancora l'appartamento.
James si accorse che il mio umore era cambiato. «Ho fatto qualcosa che ti ha infastidito?» chiese timoroso.
Scossi la testa, cercando di farmi passare gli occhi lucidi. «Semplice associazione di idee,» confessai. «Ormai è quasi impossibile evitare di fare paragoni con Simone. Ogni cosa a cui penso ha lui come punto di riferimento.»
L'avvocato rifletté molto sulle mie parole. «Ti manca molto?»
Annuii. Ormai era impossibile continuare a mentire, oltre che controproducente. «Ho deciso che quando la "bufera" mediatica sarà passata, cercherò di guadagnarmi una possibilità.»
Era una cosa che avevo sempre saputo, ma non avevo avuto il coraggio di ammettere. Amavo Simone, ormai era piuttosto palese, ma ero anche terrorizzata da una sua possibile reazione negativa alla mia condizione.
«Il problema più grande che mi frena è che potrebbe non accettarmi,» confessai, addentando un boccone di pollo alle mandorle.
Nonostante l'argomento piuttosto serio, l'appetito vedo che non ti manca!
Ovvio, sono pur sempre incinta!
Jamie mi diede supporto, come meglio sapeva fare. «E' impossibile che non ti accetti, spaghetti-girl. Sei una ragazza fantastica, solare, dinamica, molto intelligente e anche bella. Non tutte hanno le tue qualità, la tua bellezza e il cervello che ti ritrovi! Come puoi pensare che qualcuno non possa accettarti?!»
Concordo la parte sul Cervello!
Scossi la testa per far smettere di parlare la parte più razionale di me. «Non è per questo,» lo corressi subito. «Credo che non possa accettare il bambino.»
Quella era forse la parte che mi rendeva più insicura e titubante. Dal momento che Simone non aveva mai accettato la condizione della Cloverfield, sin dall'inizio non aveva avuto nulla a che fare con lei, la mia logica mi imponeva di fare gli stessi paragoni con il mio caso.
L'avvocato rifletté molto sulle mie parole. «Hai paura di affrontare tutto questo da sola?» mi chiese ed io annuii.
Ero sicura di volerlo quel bambino, che magari sarei anche stata in grado di lavorare e crescerlo io stessa, senza l'aiuto di nessuno, come avevo sempre fatto, ma nonostante ciò avevo paura.
Vidi negli occhi di James un bagliore che non avevo mai notato in precedenza. Sembravano addirittura più "saggi" e riflessivi di quanto non lo erano mai stati in passato, da quando lo conoscevo. Il giovane avvocato mi aveva sempre trasmesso una certa sicurezza, un qualche tipo di stabilità, ed ora era sempre pronto a dispensare consigli.
Inspirò profondamente, ancora immerso nei suoi pensieri. «Credo che si possa escludere questa possibilità,» disse conciso. «Ma se dovesse verificarsi un evento del genere, sappi che io ci sono sempre.»
Fui felice di quel suo gesto, soprattutto nel darmi sempre supporto. «Ti ringrazio, so che posso sempre contare su di te e su un buon consiglio.»
Eravamo giunti alla fine della cena, James aveva finito ogni sua pietanza e teoricamente avremmo dovuto festeggiare con il succo di albicocca che aveva portato. Quando gli dissi quelle ultime parole, vidi qualcosa cambiare nel suo sguardo.
«Che hai?»
L'avvocato parve quasi dispiaciuto. «Credo tu abbia sottovalutato il genere di aiuto che io voglio darti, Ven,» tentò di spiegare.
Lo guardai ancora più perplessa. Possibile che avessi frainteso cosa voleva dire? Che altro genere di supporto avrebbe potuto propormi?
«Non capisco.»
James si alzò dalla sedia che gli avevo dato, facendo il giro del piccolo appartamento e sedendosi a bordo del grande letto matrimoniale, accanto alla sottoscritta. In quell'esatto istante, provai una stranissima sensazione, quasi se tutto il mio corpo mi stesse suggerendo di stare in guardia.
Mentre all'inizio, James costituiva una specie di "porto sicuro" dove mi rifugiavo e chiedevo consigli, un mentore a cui fare riferimento sia nella vita lavorativa che in quella reale, adesso stava tornando tutto a come quando ci frequentavamo.
Mi prese per mano, facendomi sussultare. «Sai che posso starti accanto e darti un supporto quando ne avrai più bisogno, anche economico.»
Qual era il significato delle sue parole? Per quale motivo mi sembrava d'improvviso tutto così pericoloso, quasi dovessi sentirmi in guardia dalle parole di James?
«Ti ringrazio, ma penso di farcela da sola...»
Tentai di mantenere i toni di amicizia che c'erano tra di noi, senza opportunamente entrare in tutt'altro territorio. Anche se l'avvocato lo stava facendo in buona fede, in amicizia, quella situazione mi stava mettendo a disagio.
«Non sarebbe un problema per me, anzi,» sorrise, sempre osservandomi con quello sguardo strano. «Forse il mio appartamento sembrerebbe meno vuoto con le risate di un bimbo che riecheggiano al suo interno.»
Questo si fa le canne.
Forse il cibo cinese era avariato?
Magari sono i primi segni di salmonellosi.
Ora lo butto fuori di casa.
«Ti senti bene?» gli chiesi, un po' spaventata.
Fu allora che lui serrò meglio la presa sul mio polso, avvicinandosi sempre di più con lo sguardo ferino. «Pensaci Ven, alla fine ci siamo frequentati e siamo molto simili di carattere. Abbiamo le stesse passioni, le stesse ambizioni ed io ti trovo praticamente perfetta. Lo sai che io ci sarei sempre per te e sarei disposto a riconoscere il bambino in caso dovesse finire male con Mr. Sogno.»
Tentai di divincolarmi. «Ma ti senti come parli? Ti sei drogato?»
Lui scosse la testa e tentò ancor più di coinvolgermi. «Venera io ti chiederei di sposarmi, anche domani!»
Okay, questo ha bevuto. Si è fatto un cicchetto prima di venire qui.
Oppure aveva semplicemente dato di matto.
Cercai in tutti i modi di scrollarmelo di dosso, essendo possibilmente poco violenta, ma dal momento che non voleva capire fui costretta ad assestargli un bel ceffone in pieno viso.
Vidi James subire il colpo e rinsavire.
Mi guardò come se fosse appena capitato in quella stanza, senza ricordarsi neppure come ci fosse arrivato. Nei suoi limpidi occhi blu c'era solamente panico. Si alzò subito dal letto e tentò di scusarsi.
«Non so che mi sia preso, mi dispiace,» iniziò, gesticolando nervosamente. «Davvero, perdonami. Ora me ne vado e ti lascio subito, così evito di fare altre cazzate.»
Capii subito che si era trattato di una debolezza del momento.
Compresi anche come poteva essersi sentito. Si vedeva quanto ci tenesse alla sottoscritta, era disposto anche a sposarmi e a riconoscere il bambino pur non avendo alcun legame di parentela con lui, ma questa soluzione non era contemplata.
«Fermati, ti prego,» gli dissi, prima che scappasse via mortificato. Mi avvicinai e gli diedi un forte abbraccio, affondando il viso nella sua camicia di lino profumata. «Ti ringrazio tanto e mi dispiace di non provare gli stessi sentimenti.»
Era evidente che fosse ancora innamorato, magari non aveva mai smesso di esserlo e mi era stato comunque accanto, pur sapendo che mi frequentavo con Simone e addirittura ero rimasta incinta. Era stato un brutto colpo anche per lui.
Lo sentii sospirare. «Dispiace molto anche a me, ma non ho scuse per il mio comportamento di poc'anzi.»
Alzai lo sguardo e gli sorrisi. «Eccesso di frenesia, avvocato.»
Lui ridacchiò. «Hai ragione, come sempre.»
Dopo aver finalmente chiarito quali erano le nostre rispettive posizioni, per quanto apprezzassi il fatto che James ci sarebbe sempre stato per me, lo congedai in modo da poter riflettere su ciò che era appena successo.
Hai rifiutato un porto sicuro.
Ho soltanto seguito ciò che era più giusto da fare, non più conveniente.
Simone doveva sapere cosa mi stava succedendo, dovevo dargli una possibilità di scelta, senza bruciarlo in partenza, ma indipendentemente da ciò che avrebbe deciso, avrei contato solo sulle mie forze. Non ero una che semplicemente sarebbe campata sulle spalle di altri.
Sarei stata comunque fedele ai miei principi.
 
Buongiorno!
Scusate il ritardo - stavolta soltanto di un giorno (eheheheh) - sulla tabella di marcia ma siamo praticamente agli sgoccioli di questa storia. Mancano soltanto pochi capitoli e finalmente vedremo conclusa una delle storie che mi ha impegnata e coinvolta di più di tutti, perché forse la sento più mia e rispecchia la mia ''maturità'' anche come scrittrice.
Spero davvero che soddisfi ogni vostra aspettativa!
Nel frattempo fatemi sapere anche questo capitolo di passaggio come vi sembra. Non vi preoccupate, il prossimo lunedì dovrò essere puntuale, sennò mi punisco con il cilicio v.v

Alla prossima!
Marty

 

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Capitolo 31 ***


Vorrei dire due parole prima di lasciarvi all' "Ultimo Capitolo" - ho i brividi a scriverlo - di ILWY. Vorrei ringraziare in particolare le mie migliori amiche, le quali non hanno paura di dirmi in faccia che se una cosa fa cagare, fa realmente cagare XD e che mi hanno SPRONATO a continuare e concludere questa fantastica storia che meritava di avere la parola "fine". 
Ringrazio tutti coloro che hanno creduto in me, alle persone che mi hanno sempre sostenuto nel gruppo di Facebook e nei nuovi "fan" che magari approderanno in futuro, sapendo che la storia è finita.
Vi rubo solo un altro attimo, per dirvi che ci sarà un piccolo Epilogo. 

Grazie di cuore a tutti :')
Marty


Capitolo 31
 
La mattina seguente, Venerdì per la precisione, mi recai a lavoro come sempre, soprattutto per seguire da vicino le fasi finali del processo Sogno contro Cloverfield. In ufficio giravano numerose voci, soprattutto per quanto riguardava la scelta che Mr. Abbott avrebbe fatto allo scadere del nostro tirocinio.
Avevo saputo che Yuki era ormai piuttosto sicura della sua vittoria, ma avrei tanto voluto affrontarla faccia a faccia per dirle che si sbagliava di grosso. Nonostante avesse dato un contributo non indifferente alla nostra causa, sfruttando le conoscenze di suo padre, a lei non era stato affidato un compito così rilevante come alla sottoscritta.
Abbiamo lo stipendio in tasca.
Fiera del percorso lavorativo che avevo intrapreso fino a quel momento, camminai quasi tutto il tempo a testa alta. Tette in fuori, pancia in dentro! Un po’ come soleva dire mia madre nel vano tentativo di apparire più magra nelle foto di famiglia. Mi sentivo diversa, quasi più “matura”.
Ripensai a ciò che era successo la sera prima con James e mi sentii in forte imbarazzo. Magari era stata anche colpa mia, quasi sicuramente gli avevo lasciato intendere una certa disponibilità da parte mia che in realtà non c’era.
Era disposto a sposarti, mi ricordò Cervello.
Ma tu ami un altro, si unì Ormone.
Diciamo che non era proprio Ormone, ma più Cuore ormai. Avevo preferito essere onesta, sin da subito, come mi avevano insegnato i miei genitori. Avrei potuto sfruttare la situazione, in fondo, avevo sempre provato qualcosa per l’avvocato e a lungo andare, nel corso del tempo, avrei anche finito per innamorarmi di nuovo di lui ma finché Simone occupava un posto fisso nel mio cuore, pensare anche solo ad un altro in quel modo mi faceva stare male.
Non avrei mai tradito i miei principi e i miei valori, non sarei mai riuscita ad essere opportunista e sfruttatrice come quella Elizabeth.
Infatti, alla fine i nodi vanno sempre al pettine.
Mentre camminavo a passo lento su Regent Street, mi ritrovai a pensare che non tutti al mondo erano stati così “fortunati”. Spesso, o per ristrettezze economiche, oppure perché semplicemente non volevano farsi trascinare in una causa dalla durata indefinita, molte persone erano vittima di queste donne (o uomini anche), e venivano silenziosamente sfruttati ogni giorno.
A volte senza nemmeno accorgersene, solo per ingenuità o semplicemente perché non volevano vedere. Si accontentavano di vivere in una finzione.
Anche se avessi dovuto affrontare la gravidanza da sola, senza l’aiuto di un uomo accanto a me, non avrei mai potuto sopportare l’illusione di una vita perfetta accanto a James rendendomi conto ogni giorno di più che si trattava soltanto di apparenza. Certo, non sarei stata etichettata come “ragazza madre”, oppure non avrei cresciuto mio figlio da sola senza una figura di riferimento paterna, ma comunque non sarei stata coerente con me stessa e con quello che mi avevano sempre insegnato.
Mi ritrovai davanti all’ufficio, con la testa piena di riflessioni.
È giunto il momento.
Salii appena il primo gradino e mi ritrovai di fronte lo sguardo felino di Yuki. Gli occhi a mandorla della giapponesina, socchiusi e sorridenti, mi misero uno strano brivido addosso. Avvertii lentamente la pelle d’oca che mi fece preoccupare.
Quella ragazza era peggio di un film horror, solo la sua presenza bastava ad innervosirmi.
«Buon giorno, Venera,» disse melliflua, lisciandosi i lunghi capelli corvini.
La fissai stranita. «Che vuoi?»
Okay, magari come al solito mi comportavo da ragazza acida in piena sindome pre-mestruale, ma rispondere coerentemente a quella tritapalle era impossibile.
Yuki si accigliò, ma non perse quell’aria di finta superiorità. «Ti ho aspettata proprio qui per farti le mie congratulazioni,» sorrise, poi tentò di avvicinarsi e allargare le braccia.
Dapprima feci un passo indietro, letteralmente inorridita, poi compresi che voleva soltanto abbracciarmi così la lasciai fare, rimanendo immobile come il proverbiale stoccafisso. Rabbrividii.
«O-Okay, stai fuori,» le dissi, riferendomi al suo stato mentale.
Ti si vorrà allisciare in merito al tuo progresso di carriera.
Ebbi l’illuminazione proprio grazie a quel pensiero e finalmente mi rilassai. Era evidente, vipera com’era, che Yuki aveva pensato bene di entrare nelle grazie della sottoscritta proprio perché aveva sentito in giro ciò che si vociferava.
Un moto di gioia inespressa cominciò a crescere nella mia pancia. Era come se avessi una piccola me che ballava la conga tutto il tempo, letteralmente una vera e propria festa!
«Comunque grazie, collega,» le dissi, dandole quell’appellativo come “contentino” per essere arrivata seconda. Le passai di fianco e sorrisi. «Sono sicura che ci sarà una seconda possibilità per la Abbott&Abbott.»
Almeno le avevo dato una specie di rassicurazione. Ovviamente finta.
Yuki mi fissò sempre più sorridente. La sua espressione aveva qualcosa di troppo “soddisfatto” per essere stata scartata al mio posto ma feci spallucce e continuai il mio ingresso alla Abbott.
«Penso di no, invece,» ridacchiò.
Bene, è pure felice che l’hanno scartata. Credo sia completamente pazza!
Concordo.
Entrai nell’ingresso, trovando il solito via-vai di personale indaffarato a compiere le più disparate faccende. Mi accorsi di non trovare più le facce degli altri tre tirocinanti, quelli assunti insieme a me e a Yuki, ma non mi soffermai troppo a pensare. Andai verso l’ufficio di James per fare il punto della situazione e ricevere eventuali aggiornamenti.
Non potevo ufficialmente esultare, ancora.
Yuki era stata abbastanza chiara, malgrado il suo strambo comportamento, per cui avrei dovuto solamente attendere la chiamata di August Abbott e firmare il contratto come socio dello studio.
Avevo lo stomaco in subbuglio.
Tutto sommato, anche se la storia con Simo era ancora tutta da risolvere, forse una parte della mia vita stava andando per il verso giusto.
Bussai all’ufficio di James, senza ricevere risposta.
Tentai di nuovo, magari un po’ più forte, ma non perveniva alcun suono all’interno. Aprii la maniglia ma notai con stupore che la porta era chiusa a chiave. Che James fosse arrivato in ritardo? Era totalmente impossibile.
Mi voltai in corridoio alla ricerca della Segretaria, ma trovai soltanto Yuki che mi fissava sorridente.
Oddio, è peggio di una stalker! Ma che vuole?
Tentai di farmi passare il brivido intenso dietro le spalle, così cambiai ufficio e mi recai in quello di Robert, un altro socio.
Bussai e ricevetti un “Avanti” frettoloso e coinciso.
«Ehi Robert, sai dov’è finito James?» chiesi, un po’ preoccupata.
Lo vidi impegnato in una telefonata, così mise in attesa momentaneamente il cliente e mi guardò confuso. «James se n’è andato, tu cosa ci fai ancora qui?»
Cominciavo a non capire un bel niente di ciò che stava accadendo a studio. Era come se tutti facessero finta di niente e nessuno aveva il coraggio di dirmi bene quello che era successo.
Robert mi fissò preoccupato. «Forse è meglio che ti rechi da August,» mi consigliò.
Lasciai l’ufficio del mio collega e cominciai ad avere una brutta sensazione. L’euforia iniziale per la possibile notizia del posto fisso si stava lentamente spegnendo, lasciando spazio ad un presentimento più nefasto.
Cosa cazzo sta succedendo?
L’ufficio di August Abbott era di fronte all’ufficio che avevo appena visitato. La porta aveva i vetri offuscati, ma si vedeva chiaramente all’interno la presenza di uno dei due soci anziani dello studio. Con il cuore in gola, bussai.
Dovevo prendere coraggio e capire finalmente cosa stesse accadendo, visto che sia Yuki che Robert parevano totalmente impazziti.
«Posso?» chiesi, bussando sullo stipite.
Attesi la risposta che non tardò ad arrivare. «Prego, Miss Donati entri pure.»
Aspettai di trovarmi il solito sguardo sereno ed ottimista di Mr. August Abbott, lo zio di Jamie, ma seduto al suo posto c’era un uomo che non avevo mai visto. Aveva uno sguardo che conoscevo bene, gli stessi tratti somatici del ragazzo che mi aveva affiancato in questo tirocinio semestrale, ma era molto più vecchio.
L’uomo si alzò in piedi, tendendomi la mano. «Buon giorno, signorina, mi chiamo Francis Thomas Abbott, l’altro socio anziano dello studio. Credo che io e lei non ci siamo mai visti, o sbaglio?»
Rabbrividii. Francis Abbott era da sempre conosciuto come uno degli avvocati più duri e determinati di tutta Londra, e la sua presenza a studio non fece altro che alimentare le mie preoccupazioni.
«N-No, non ho mai avuto il piacere,» dissi, tentando di mantenere un contegno e stringendogli a mia volta la mano.
Francis Abbott accennò un sorriso, puramente cordiale. «Prego, si accomodi.»
Mi sedetti nella poltroncina di fronte alla scrivania, quasi come se fosse fatta di chiodi. Ero tesa come una corda di violino e non sapevo cosa aspettarmi da quella conversazione. L’assenza di James, poi, contribuiva a rendermi nervosa.
L’avvocato anziano aprì un fascicolo e mi osservò di sottecchi. «Leggo il suo fascicolo, Miss Donati, e mi compiaccio dell’eccellente percorso di studio che ha effettuato. Non mi sorprende che mio fratello l’abbia scelta come tirocinante nel nostro studio e che le abbia affidato la causa di Mr. Sogno,» disse, per lo più elogiandomi.
Avrei voluto tirare un sospiro di sollievo, ma qualcosa mi diceva che quella era solo la punta dell’iceberg. Il peggio sarebbe arrivato di lì a pochi minuti.
«Ha una carriera brillante davanti a sé, signorina,» sospirò, chiudendo la cartelletta. Raccolse le mani sotto al mento, tendendo gli indici e posandoli sulle labbra rosee. «È proprio per questo suo brillante passato, che mi rincresce doverle dare una brutta notizia.»
E in quel momento compresi appieno cosa stesse accadendo.
Scossi il capo. «N-Non capisco,» tentai di dire, ma le parole cominciavano a morirmi tra le labbra. Da quando avevo messo piede in quell’ufficio, il mio inconscio si era reso conto che il sogno di una vita si sarebbe infranto. «M-Mi sta mandando via?»
Francis Abbott scosse la testa. «Non mettiamola in questi termini,» iniziò, utilizzando la classica tecnica avvocatesca del “indorare” la pillola. «Il suo percorso di studi è impeccabile, così come i suoi master e il lavoro che ha svolto qui a studio, occupandosi di aiutare mio figlio con una delle cause civili più rilevanti che avevamo in carico. Ammetto che lei sarebbe stata il nome in cima alla lista per il posto come giovane socio della Abbott, ma purtroppo abbiamo dovuto metterla in secondo piano.»
Mi tornò alla mente il sorriso di Yuki, l’assenza degli altri tirocinanti e il volto soddisfatto della giapponesina. Hanno preso lei. L’hanno assunta al mio posto.
Sentii le lacrime spingere agli angoli degli occhi. Mi trattenni per mantenere alto il mio profilo professionale. «Perché?» domandai solamente.
Volevo sentir dire a quell’uomo, che tanto ammiravo e stimavo come professionista, il motivo reale per cui venivo scartata. Soprattutto dopo aver messo da parte ogni cosa per quel lavoro.
L’avvocato sospirò, lisciando la copertina del mio curriculum. «Diciamo che ci sono pervenute delle notizie recenti, sul suo stato di salute, che ci hanno fatto riconsiderare la sua candidatura. Lo studio in questo momento non può permettersi di assumere un giovane avvocato con la prospettiva che tra qualche mese sarà di nuovo assente. Ci troveremmo a doverla rimpiazzare con altri tirocinanti, con un enorme spesa di tempo e denaro,» spiegò.
Sentii la terra crollare letteralmente sotto i miei piedi. Mi chiesi solamente come avessero fatto a scoprire il mio stato interessante, chi avesse potuto tradirmi in questo modo. Il mio primo pensiero andò a James. Dopo la scenata della sera prima, non si era nemmeno presentato in ufficio e per un attimo credetti che si era vendicato del mio rifiuto.
Sei proprio cretina.
E infatti mi diedi subito della stupida per aver pensato una cosa del genere. James Abbott mi era stato sempre accanto, mi aveva addirittura consigliato di interrompere momentaneamente la storia con Simone pur di non creare malintesi in ufficio. A conti fatti, avrebbe potuto “tradirmi” tanto tempo prima.
«Signorina Donati, posso dirle con certezza che una volta concluso il suo percorso educativo con la sua prole, il nostro staff potrebbe aver bisogno di una persona qualificata e preparata come lei. La invito a ricandidarsi qui tra un anno, un anno e mezzo.»
In quel momento gli avrei volentieri lanciato la mia tesi di laurea in faccia.
Mi stava dicendo che avrei avuto un’altra occasione ma che se ne parlava dopo la gravidanza.
Volevo morire.
Mi alzai, trattenendo le lacrime a stento. «La ringrazio Mr. Abbott dell’opportunità che mi ha dato in questo tirocinio, soprattutto per la collaborazione con suo figlio. Per quanto riguarda la ricandidatura, le prometto che ci penserò,» dissi, nel modo più educato possibile.
L’uomo si alzò a sua volta, stringendomi la mano. «Allora è un arrivederci, signorina Donati.»
Sarei voluta uscire dallo studio correndo, lasciandomi andare completamente alle emozioni e urlando. Tutto ciò che avevo fatto fino a quel momento, le persone che avevo sacrificato, il tempo e gli hobby che avevo messo da parte per raggiungere il mio più grande obiettivo era stato del tutto inutile.
Alla fine aveva vinto qualcun altro.
Mi recai fuori dall’ufficio a passo svelto, tentando di raggiungere l’uscita. Il corridoio mi sembrò infinito, quasi una camminata della vergogna per la sottoscritta. Sperai di non incontrare nessuno, di non guardare in faccia i colleghi e vedervi riflesso dentro il motivo del mio fallimento.
«Ancora auguri!» mi gridò dietro Yuki, risultando ancora più antipatica.
Seppi che le “congratulazioni” a cui si era riferita all’inizio, appena entrata, erano riguardo alla mia gravidanza e non al mio posto di lavoro.
Anche lei sa.
Trattenei ancora per poco le lacrime, così affrontai l’ultimo pezzo di corridoio correndo sulle mie decolté ormai consumate. Volevo gettarmi in strada, tornare a casa e piangere. Sapevo che non avrei dovuto gettarmi in depressione, sarebbe stato controproducente, ma quella era stata una vera e propria doccia fredda.
Non appena uscii da quello che sarebbe stato il mio ex-posto di lavoro, sentii subito la pungente aria mattutina. Avvertii come un blocco provenire all’interno delle mie corde vocali, pronto per scoppiare in un pianto disperato, ma notai la presenza di qualcuno.
«Che ci fai qui?»
Avevo dimenticato come fossero scuri gli occhi di Simone, ormai abituata soltanto a vedere quelli di James. Eppure erano entrambi lì, fuori dalla Abbott&Abbott, tutti e due vestiti in modo casual e sportivo.
Il turbinio di emozioni contrastanti che provai in quell’istante, mi scombussolò.
Davvero non riuscivo a capire come sia Simone che James potessero sostare sullo stesso marciapiede senza scannarsi.
L’avvocato si fece avanti per primo. «Sono andato a casa di Mr. Sogno, insieme abbiamo deciso di cercarti e questo è il primo posto dove abbiamo pensato di passare.»
Sentii le lacrime cominciare a scendere, una dopo l’altra, sempre con più intensità.
Non sapevo se stessi piangendo per il posto di lavoro, per il fatto che avevo perso il controllo sulla mia vita o perché finalmente potevo rivedere Simone.
Piangevo e basta.
James si avvicinò, sincerandosi delle mie condizioni.
Il calciatore, invece, pareva sempre immobile. Era come se qualcuno lo avesse trascinato fuori dal letto e teletrasportato in un posto dove non voleva andare.
Ebbi il terrore che anche lui potesse rifiutarmi. Sarebbe stato un colpo troppo duro da sopportare.
«Ven, come ti senti?» mi chiese James, preoccupato.
Tentai di asciugarmi le lacrime, ma continuavano ad uscire. Tutta quella situazione era assurda, quasi incredibile. Era come se tutte le certezze su cui avevo sempre contato si stessero sfaldando una dopo l’altra.
«Su, andiamo a prenderci qualcosa di caldo,» suggerì, facendo cenno a Simone di dirigerci verso il caffè più vicino.
 
Dopo la seconda tazza di latte caldo e miele, riuscii a tranquillizzarmi.
Simone si era preso il solito cioccolato caldo, con tanto di torta al caffè – tanto lui non ingrassava mai – e James aveva optato per il classico thè verde.
«Mio padre te lo ha detto, vero?» mi chiese, quando testò la mia emotività.
Annuii. Cominciai a sentire di nuovo le lacrime che premevano per uscire, ma le ricacciai indietro. «Sinceramente non capisco come sia riuscito a saperlo,» riflettei.
Fu in quel preciso istante che ricordai che Simone era all’oscuro di tutto. Sgranai gli occhi terrorizzata.
Lo vidi concentrato, aveva lo sguardo intenso e mi fissava diversamente rispetto all’ultima volta che ci eravamo visti. Era come se mi stessi innamorando di lui per la seconda volta.
«So tutto, stai tranquilla,» disse.
Le prime parole pronunciate dopo chissà quanto tempo. Sembrava fossero passati mesi e non giorni dall’ultima volta che ci eravamo visti.
Fui presa dal panico, guardai subito James pensando glielo avesse detto lui. «C-Come, c-cosa?» poi ricordai anche Sofia.
Simone mise subito fine alle mie curiosità. «Il dottor Ross ha lasciato un messaggio in segreteria, si vede che gli avevi dato il mio numero di casa e ho saputo dei risultati delle analisi.»
Mi diedi mentalmente della stupida, proprio perché inconsciamente ero stata io ad inviare le analisi al dottor Ross, senza ricordarmi di avergli dato il numero di telefono sbagliato.
Era destino.
Non avevo mai creduto a queste scemenze, soprattutto agli oroscopi o a quelle cazzate lì eppure riflettei sulle coincidenze che ci avevano portato fino a quel punto.
«Quando lo hai saputo?» gli domandai.
Simone si passò una mano tra i capelli e improvvisamente mi pervenne l’impulso di toccare quella morbidezza.
«Qualche giorno fa, a dire il vero,» sospirò. «Mi ci è voluto un po’ per elaborare la notizia e capire per quale motivo non me lo avessi detto.»
Fui presa dal panico. Pensai subito che si potesse offendere, che potesse trovare un altro pretesto per odiarmi. «Stavo per dirtelo, solo che dovevo risolvere prima il problema del lavoro,» mi giustificai. «Che come hai visto, si è concluso nel peggiore dei modi.»
Lo vidi trasalire.
«È stata Yuki,» intervenne James, agganciandosi al mio argomento. «Suo padre lavora nell’ospedale dove hai fatto le analisi e mentre stava indagando per mio conto sulla Cloverfield, ha saputo anche di te. Mi dispiace, è stata colpa mia,» disse mortificato.
Scossi subito la testa e lo fermai. «Non dire stupidaggini, sarebbe successo prima o poi. Tuo padre ha visto l’interesse dello studio, come è giusto che sia. Sarebbe davvero illogico assumere una ragazza che tra qualche mese comunque sarebbe stata sostituita. È un dispendio non indifferente.»
Quelle parole uscirono così limpide e chiare dalla mia bocca. Riflettei immediatamente sul significato di esse e mi misi nei panni di Francis e August Abbott, a come avrei gestito personalmente il mio studio e come mi sarei comportata.
Hanno preso la decisione più logica.
James scosse il capo. «Non mi sono trovato d’accordo con la decisione di mio padre e di mio zio, per questo me ne sono andato.»
Sgranai gli occhi e lo fissai allibita. «C-Cosa? Che stai dicendo, sei pazzo?» gridai. Non potevo permettergli di rimettere la sua carriera soltanto per ciò che mi era successo. «Ora torni allo studio e ti fai riassumere.»
L’avvocato scrollò il capo. «Ne ho parlato anche con Mr. Sogno, e si è trovato d’accordo con la mia decisione.»
Quella confessione mi suonò a dir poco incredibile. «Come? Da quando voi due parlate e andate d’amore e d’accordo?»
Sentii Simone sbuffare, poi lo vidi abbassare lo sguardo e affondare il viso nel collo del suo maglione. Stava cercando di nascondere l’imbarazzo.
James sorrise. «Quando questa mattina l’ho chiamato per dirgli cosa ti sarebbe successo allo studio, ci siamo ritrovati piuttosto abili a collaborare.»
Sorrisi a quella piccola confessione.
Uno dei principali motivi che aveva scatenato l’allontanamento mio e di Simo, era stato proprio James. Sapere che quei due avevano anche la minima possibilità di sopportarsi l’un l’altro mi fece rilassare.
Poi ricordai di ciò che era appena successo e a quello che avrei fatto della mia vita.
Sbuffai. «Domani mi sveglierò e non saprò cosa fare,» dissi mogia.
«Potremo sempre lavorare a qualche caso interessante io e te, insieme,» suggerì l’avvocato ed io vidi subito Simone diventare rigido sulla sedia.
Ridacchiai, un po’ più rilassata. «E come faremmo?»
«Beh io ho la licenza, potremmo lavorare come avvocati free-lance per il momento, poi chissà. Da qui a un anno succederanno un sacco di cose,» disse James. «Potremmo anche fondare lo studio Donati-Abbott!»
Quel nome non suonava nemmeno tanto male.
«E, di grazia, dove riceviamo i clienti?» domandai, sempre più incredula.
James ci pensò su. «Beh, il mio appartamento è praticamente vuoto, quindi…»
Fu in quel momento che Simone si alzò in piedi, puntando un dito contro l’avvocato. Ebbi il terrore che potesse fare una scenata delle sue. «Eh no!» disse deciso. «Se in futuro dovrò sopportare questo avvocato stoccafisso che ti gira intorno, almeno lavorerete sotto i miei occhi. Quindi riceverete i clienti a casa mia!»
Rimasi allibita.
Era come se tutto ciò che era successo sino a quel momento, non fosse mai accaduto, quasi se gli screzi e i dispetti che ci facevamo l’un l’altro non fossero mai smessi.
James sorrise. «Non avevo intenzione di…»
Gli posai una mano sull’avambraccio. «Lascialo stare, Jamie. Il suo unico neurone soffre di solitudine e di tanto in tanto svalvola.»
La reazione di Simo non si fece attendere. «Sei meglio te, con quell’aria da so-tutto-io vedi di abbassare la testa e fare ciò che ti dico. Visto che metà di me è dentro di te, comando io!»
Roteai gli occhi al cielo. «Convinto te…»
 
***
 
James si congedò qualche minuto dopo, dicendo che doveva sbrigare delle cose a casa, soprattutto riguardanti il suo congedo dallo studio. Rimasi sola con Simone, forse ero ancora un po’ imbarazzata per tutto quello che era successo.
In fondo, tutte le questioni rimaste in sospeso non si erano ancora risolte. Avremmo dovuto farci una lunga e sana chiacchierata.
«Beh, che vuoi fare?» mi chiese, sorprendendomi.
Feci spallucce. Ormai avrei avuto tempo a buttar via, visto che ero disoccupata. Ci pensai meglio, anche perché avrei voluto fare davvero qualcosa di bello insieme a lui, una sorta di “ricominciamo”.
«Vorrei tornare a casa,» conclusi.
Lui parve sorpreso, poi si rattristò. «Se vuoi ti accompagno.»
Mi fece male vederlo in quello stato, soprattutto perché mi ricordava quel giorno in tribunale quando lo avevo visto proprio spento.
Mi alzai in piedi e gli tesi la mano. «Cosa hai capito? Voglio che andiamo a casa nostra
Gli occhi di Simo ripresero quella luce che tanto mi era mancata in quei giorni, gli esatti riflessi dorati che tanto mi facevano battere il cuore.
Uscimmo dal caffè per gettarci di nuovo in strada, ma non ci eravamo accorti che il tempo era cambiato e, come al solito, era iniziato a piovere.
«Chiamiamo un taxi?» suggerii, almeno non ci saremmo bagnati, ma Simone mi guardò con una passione che riuscii a mala pena a reggermi in piedi.
«Vieni,» mi disse, afferrando la mia mano e iniziando a correre.
Premetto che non ero mai stata brava in ginnastica, anzi, erano più le volte che sostavo giorni e giorni sul divano, chiusa in casa a studiare, rispetto a quelli passati all’aria aperta. Quella volta fu tutto diverso.
Ero felice di correre con Simone, mano nella mano, mentre la pioggia ci bagnava i vestiti e ce li faceva appiccicare addosso, stoffa contro pelle. Percorremmo tutta Regent Street, sorpassando passanti infastiditi che venivano schizzati dai nostri passi sul marciapiede bagnato dalla pioggia.
Sentivo il cuore martellarmi nel petto, le scarpe farmi male e il sudore che lentamente si mischiava all’acqua piovana ma non mi importava. Sentivo soltanto il contatto con la mano di Simone e cercai in tutti i modi di non lasciarla mai scivolare via.
Non lo farai scappare di nuovo.
Non lo lascerò più andare via.
Anche se non avevo ottenuto il posto alla Abbott&Abbott, forse la mia vita non sarebbe stata poi tanto male d’ora in poi. Magari era ora di rivalutare le mie priorità, di cambiare il mio punto di vista, di affrontare una piccola diramazione rispetto alla via principale che avevo stabilito per il mio futuro.
Da quando Simone era entrato prepotentemente nella mia vita, forse anche dal primo giorno, avevo cominciato a riconsiderare le mie priorità. Ovviamente il mio sogno sarebbe comunque rimasto quello di lavorare in uno studio legale, di fare l’avvocato, ma nella vita di una persona c’erano tanti altri piccoli sogni che a poco a poco si sarebbero realizzati.
Arrivammo sotto il portone di casa con il fiatone.
Cioè, perlomeno io lo avevo. Simone, a parte l’acqua piovana che gli aveva scompigliato quei meravigliosi capelli, sembrava fresco e riposato come una rosa.
«Sembri un panda,» ridacchiò.
Effettivamente avevo dimenticato il trucco di quella mattina, ma ormai non mi importava più di tanto. Tesi le mani per afferrargli il viso e portarlo sempre di più al mio. Simone chiuse gli occhi e attese, ma quando scoprì che il mio unico intento era strusciare la mia faccia sulla sua, tentò di allontanarmi indispettito.
«Ma dai! Che schifo!» si lamentò.
Sghignazzai soddisfatta. «Così siamo due panda!»
Simone tentò di togliersi il mascara nero dalle guance, ma non fece altro che assomigliare a uno di quei giocatori di football americano. Era troppo buffo!
Mi fissò sorridente, poi però mi afferrò il mento con due dita e mi baciò.
Era da troppo tempo che desideravo quel bacio, sembrava passata quasi un’eternità. Mi erano mancate troppo quelle labbra soffici, quel sapore amaro ma allo stesso tempo piacevole che ogni volta mi suscitava nuovi brividi intensi.
Amavo e odiavo ogni cosa di Simone, ogni piccolo comportamento.
Mi infastidiva che mi prendesse sempre in giro, che fosse pieno di sé e che non si curasse minimamente degli altri, ma allo stesso tempo amavo quei suoi difetti.
Rimanemmo sotto la pioggia fino a quando una folata di vento non mi fece rabbrividire.
«Entriamo,» suggerì Simo ed io lo seguii.
L’appartamento era come lo ricordavo, sembrava come se Simone non avesse nemmeno mai rassettato da quando me n’ero andata.
Un momento.
«Ma è una settimana che non pulisci?» domandai scandalizzata
Il calciatore alzò le spalle. «Non mi pareva opportuno, ancora non puzza.»
Storsi il naso e trattenni a stento un conato di vomito. «Dannazione fai schifo, chi me lo ha fatto fare!» sbraitai.
Simo non perse tempo e mi trascinò letteralmente verso il bagno, senza nemmeno il tempo di continuare a sgridarlo. In effetti, non era molto salutare rimanere con quei vestiti fradici addosso.
Aprì l’acqua della vasca da bagno, facendola scorrere e scaldare, dopodiché mise il tappo e nell’attesa che si riempisse, cominciò a spogliarsi. Lo guardai allibita perché era successo tutto così in fretta che dovevo ancora metabolizzare.
Alzò lo sguardo su di me, con una faccia perplessa. «Mbé? Te voi spojà o no?»
Ringraziai il corso di Yoga che avevo frequentato l’anno prima, perché mi avrebbe aiutato a non commettere un omicidio seduta stante. Come poteva un essere umano essere così estremamente romantico l’attimo prima, e totalmente deficiente un secondo dopo.
Sbuffai sfilandomi il cappotto. «Credevo che ci saremmo spogliati a vicenda,» rimarcai l’ovvietà.
Simone lasciò i jeans abbottonati a metà. «Cazzo, non è una cattiva idea.»
È tornato Sherlock…
«Dai tranquillo, meglio che ci sbrighiamo sennò ci viene qualche malanno,» dissi sbrigativa, sbottonandomi la camicia e rimanendo in reggiseno.»
Mi sarei dovuta abituare alla mancanza di tatto di Simo. Il suo sesso e la differenza d’età contribuivano enormemente al divarico tra quelli che erano i nostri bisogni e le nostre priorità ma in quel momento mi bastava stargli accanto.
D’improvviso avvertii le sue calde mani sulle mie spalle, ancora umide.
Alzai lo sguardo e mi ritrovai a specchiarmi in quelle gocce di petrolio che erano i suoi occhi. C’era tanta differenza di altezza tra di noi, era anche per questo che mi aveva sempre soprannominata Lil’elf. A me non importava.
La sua mano scese a scostare la bretellina del reggiseno, facendola calare lentamente sulle mie spalle e lasciandomi un brivido. Chiusi gli occhi assaporando quel momento. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevo sentito il suo tocco, mi sembrava un’eternità.
Le sue lunghe dita affusolate, leggere come la carezza di una piuma sulla pelle, scesero ad accarezzarmi il seno, delicatamente, a liberarmi di quella “gabbia” che mi opprimeva il respiro. Sospirai lentamente, sentendo ogni muscolo del mio corpo che si protendeva verso di lui.
«Simo…» gemetti, ma non sapevo cos’altro aggiungere.
Avevo così tanto bisogno di lui, che tutte le parole del vocabolario non sarebbero bastate ad esprimere quello che provavo in quel momento.
Non disse niente, si limitò a spostare le sue carezze ancora più in basso. Si fermò esattamente sulla mia pancia, mettendosi in ginocchio e stringendomi forte a sé. Forse quella era la prima volta che lo osservavo dall’alto in basso e apprezzai così tanto quel suo gesto che stavo quasi per commuovermi.
Gli accarezzai la testa, cercando i suoi occhi. «Ehi,» gli sorrisi.
Era piacevole vedere il suo sguardo luminoso, quasi felino. Aprì e chiuse le palpebre osservandomi come avrebbe fatto un gatto, sembrava quasi mi stesse facendo le fusa.
Poi posò le labbra sulla mia pancia ed io mi portai una mano alla bocca.
Non piangere!
«Credi che giocherà bene a pallone?» mi chiese, soffiandomi sulla pelle.
Inspirai per non cedere. «Credo che sarà un ottimo avvocato.»
Vidi Simo scattare all’indietro, sorpreso. «Eh no! Sappi che non transigo su questa cosa. Mio figlio giocherà a pallone e diventerà più forte del suo papà!»
Il fatto che avesse usato quell’ironia per trasmettermi sicurezza, mi diede una forza incredibile. Quasi tutte le paure che avevo accumulato fino a quel giorno sembravano completamente sparite.
«E se fosse una femmina?» lo rimbeccai.
Simone aprì la bocca per ribattere, poi rimase muto come un pesce. Anche con la medesima espressione.
Cominciai a ridere senza nemmeno accorgermene.
Era talmente buffo che sarebbe stato difficile arrabbiarsi con lui, soprattutto quando finalmente potevamo vivere un’atmosfera casalinga e serena come quella.
Entrammo nella vasca, visto che altrimenti la pioggia si sarebbe asciugata sulla nostra pelle. Fu così piacevole rilassarmi tra le sue braccia, perdere finalmente la cognizione del tempo e dello spazio e rifugiarmi in un posto felice.
«Mi piace tornare a casa,» gli confessai serena.
Sentii la sua stretta farsi ancora più forte. «Anche a me. Voglio tornare dagli allenamenti tutte le sere e trovarti sul divano ad aspettarmi. Magari senza che bruci la cena!» ridacchiò, ricordando quella volta che avevo tentato di preparargli un dolce, senza successo.
Gli assestai un bel pizzico sul braccio.
«Ahi!» si lamentò.
«Così ti impari!»
Sarebbe stato sempre così tra di noi, ormai lo sapevo. Non sarebbe mai stato un rapporto tra due persone adulte, ma tra ragazzi che sarebbero cresciuti assieme giorno dopo giorno, contribuendo a tirare su anche un bambino.
Rimanemmo in silenzio per qualche momento. Pensai alle cose che avrei dovuto fare l’indomani, al lavoro che avevo perso e a quelle faccende che avrei dovuto sbrigare a mano a mano che portavo avanti la gravidanza.
Poi pensai sempre a Simone e a come aveva accettato silenziosamente di essere padre.
«Vuoi davvero diventare papà?»
Simo mi guardò, scostandomi il viso di lato. «Cosa vuoi dire?»
Dalla mia recente esperienza, avevo capito che con gli uomini bisognava essere elementari e precisi. Altrimenti avrebbero capito fischi per fiaschi.
Deglutii a fatica, cercando di essere più chiara possibile. «In questi giorni che sono stata da sola, ho avuto paura di dirti la verità su ciò che mi stava succedendo anche perché ero terrorizzata che potessi dirmi di no.»
Il calciatore cambiò espressione, diventando più duro. «Davvero pensi questo di me? Spiegati.»
Sapevo che era pericoloso addentrarsi in un argomento del genere, ma dovevo metterlo alla prova. Essere completamente sicura che fosse pronto e che non mi abbandonasse nel momento del bisogno. Non ce l’avrei fatta a sopportarlo.
«Voglio dire che non hai mai mostrato propensione ad assumerti le tue responsabilità con la Cloverfield, avevo paura che se ti avessi detto che aspettavo un figlio, avresti reagito allo stesso modo,» spiegai.
Simone mi scostò quel tanto da potermi tenere il viso tra le mani. Eravamo occhi dentro agli occhi, il mio sguardo completamente incatenato al suo.
«Io non ti lascerò mai, se è questo che pensi,» iniziò, facendomi rabbrividire. «Con Elizabeth era tutto diverso, si era trattato di una svista. E poi…»
«E poi?»
Cosa voleva dirmi? Perché d’improvviso era diventato così maledettamente nervoso?
Si lasciò andare contro il bordo della vasca, tirando indietro i capelli neri con una manciata di acqua calda. Si sciacquò bene il viso, lasciandomi in completa balia della curiosità.
L’acqua scendeva lenta incorniciandogli il viso e rendendo le sue ciglia ancora più folte e scure. Ogni piccolo particolare del suo corpo diventava meraviglioso ai suoi occhi e anche se Simone non fosse stato così maledettamente bello, lo avrei amato allo stesso modo.
«Ti amo, stupido elfo.»
Rimasi allibita. Avevo sempre provato quelle cose per Simone, ma sentirsele dire ad alta voce, a pochi centimetri di distanza dal suo corpo, mi fece esplodere il cuore di gioia.
Mi lanciai letteralmente tra le sue braccia, svuotando per metà la vasca e l’acqua si andò a spargere su tutto il pavimento.
«Ti muovi peggio di un pachiderma!» urlò lui, ancora terrorizzato dalla mia reazione.
Non mi importava. Lo fissai con un sorriso a trentadue denti, senza alcuna intenzione di lasciarlo andare dalla mia morsa ferrea.
«Ti amo anche io, capoccione,» gli risposi e forse fu più facile a dirlo che a realizzarlo. Era stato un processo piuttosto lungo, in fondo all’inizio ci odiavamo, ma il sentimento era a mano a mano cresciuto trasformandosi in qualcosa di talmente forte che era stato impossibile da spezzare.
Simone sorrise a sua volta, bello come la prima volta che lo avevo incontrato.
«Non devi avere paura,» mi disse. «Nella vita sono sempre stato istintivo e sinceramente non mi importava molto del domani. Ma adesso sono sicuro di una cosa.»
«Quale?»
Mi sorprese con un bacio che mi tolse il fiato.
Ormai non sentivo nemmeno più il cuore che mi batteva nel petto, tante erano le emozioni che si accavallavano una sopra l’altra.
«Voglio passare il resto della mia vita con te, e con Lil’Elf che nascerà tra qualche mese.»
Capii che era sincero, che finalmente avrei potuto fidarmi di una persona e contare su di essa senza pensare di essere sola, di cavarmela con le mie forse. Era piacevole poter affidarsi agli altri, riporre il proprio cuore nelle mani di qualcun altro.
«Lo sai che ricomincerò a lavorare molto presto,» gli dissi, sapendo che non sarei mai riuscita a fare la vita della “mantenuta”.
Simone dapprima stava per ribattere, poi ingoiò il rospo e ci ripensò. «Hai ragione, in fondo sei sprecata per stare a casa a stirare e piegare magliette. Inoltre, non è che tu sia una grande cuoca…»
E lì si meritò il secondo pizzico, stavolta sul pettorale sinistro.
«Ahi! Sei violenta!» si lamentò.
Sorrisi trionfante. «E nemmeno potrai vendicarti, perché sono incinta!»
Lui comprese di essere spacciato. «E quanto dura questa, questa specie di malattia che hai?» ridacchiò.
Decisi che era arrivato il momento di giocare un po’ con l’acqua, a ripulire il bagno ci avrei pensato dopo.
«Non preoccuparti, sarà il tempo necessario a distruggerti!» gridai, cominciando a schizzarlo negli occhi.
E così andammo avanti per un’ora buona, devastando completamente il pavimento e lo specchio ma divertendoci come matti. Da quell’esperienza avevo ricavato molto, soprattutto avevo imparato che nella vita di una donna non c’è soltanto spazio per un solo obiettivo e che spesso, alcuni nostri desideri nascono quando meno ce lo aspettiamo.
Fuggii dal bagno con il sapone ancora tra i capelli.
«Lo sai che adesso mi vendico, vero?» mi urlò dietro, ma io continuai a correre per tutto il corridoio, sapendo che anche se fossi scivolata Simone sarebbe stato lì, pronto ad afferrarmi al volo e salvarmi. Era bello poter dividere le proprie paure e i propri sogni con qualcuno, anche se avevamo diversi interessi.
«Prima devi riuscire a prendermi!» gli urlai.
Ma la verità era che lui mi aveva già catturato, molto tempo fa. Forse proprio quel giorno di due anni fa, nella hall di quell’hotel a Londra, quando i nostri occhi si erano incrociati per la prima volta, o magari quella notte di Capodanno.
Ci sarebbe stato tempo per capirlo e magari per innamorarmi ancora di lui, un giorno dopo l’altro.

Fine.


Eccoci giunti finalmente!
Dopo tipo 2651232356153613651313651 anni, sono riuscita a scrivere il finale di questa storia e pubblicarlo. Spero davvero che vi sia piaciuto, che vi abbia coinvolto e - ahimé - purtroppo non posso farlo durare per sempre come molte di voi mi hanno chiesto, anche perché diventerebbe molto morboso. Di sicuro potrei pensare di creare qualche OS, quando mi andrà nuovamente di entrare nella vita coniugale di Ven e Simo, i miei due bimbi che non abbandonerò mai.

Questa storia è l'essenza di quello che sono, perché anche se Venera non mi rispecchia pienamente di carattere, molti dei suoi comportamenti li ho anche io, come anche Simo. Sono un po' due miei ''figli'' che ho voluto trasferire su carta e che poi - fortunatamente - si sono innamorati. Devo dire che è anche meglio che la storia si sia "interrotta" perché ho acquisito la maturità e l'esperienza di "coppia" che prima mi mancava e suppongo che questa seconda parte sia un po' più matura della prima.
Dopo questo immenso sproloquio, sono TRISTISSIMA che questa storia si sia conclusa, perché mi mancheranno i personaggi e mi mancherete voi con le vostre recensioni e la passione nel gruppo di Facebook, ma è giunto il momento.
Spero davvero di riuscire a coronare il mio Sogno (LOL) di ricavarne un libro e che questo finale vi piaccia. 
Grazie a tutti coloro che mi hanno seguito sin da CIUS, da quelli che sono approdati prima su ILWY e da quelli che verranno. Grazie a Venera cche mi ha dato un po' del suo coraggio, a Simone che mi ha fatto agire senza pensare troppo alle conseguenze, grazie a Sofia che mi ha fatto sperare nella bontà del prossimo e a Ruben che ''la speranza è l'ultima a morire''. 
Infine grazie a James, anche se è sempre stato un odi et amo, mi hai insegnato che i principi azzurri ancora esistono se si sa cercarli, ma non sempre sono quello che vogliamo davvero.

Grazie a questo meraviglioso viaggio e a voi che mi avete accompagnata passo dopo passo.
Grazie a Venera (quella vera), ad Anna (la mia motivatrice) e a Rosie - come vedete molti nomi che ho usato sono i loro perché le ammmmmmmmmmo <3 - che sono state le prime, le sole e le uniche vere ''autrici'' di questa storia, io ho solo messo su carta i loro desideri.
Grazie a tutti <3

Marty
       

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** EPILOGO ***


EPILOGO
 


All’interno dell’Emirates Stadium si udivano soltanto i tamburi riecheggiare nel silenzio e voci di uomini e donne che sembravano fusi in un’unica entità. La curva era dipinta di bianco e di rosso, sciarpe e bandiere venivano sventolate in maniera forsennata mentre lo speaker di turno stava urlando un nome dietro l’altro.
«Francesco, ehi, torna subito qui!» urlai, tentando di non urtare uno degli addetti alla sicurezza. Erano davvero persone spaventose. Indossavano gli occhiali perfino quando era notte, davvero delle persone strambe.
Di certo non hanno azzardato quel colore di capelli.
Tentai di ignorare Cervello, ormai mi stavo abituando a vivere senza una coscienza ma alle volte mi risultava difficile. Mi pettinai accuratamente la frangia all’indietro, fissando bene le forcine e corsi dietro ad un bambino moro di circa tre anni.
Lo afferrai appena in tempo, per il cappuccio del piumino, prima che potesse lanciarsi direttamente in mezzo al campo.
«Signora, non può entrare ancora,» mi ricordò uno degli addetti alla sicurezza, con quel vocione antipatico.
«Sì, ha ragione, mi scusi,» dissi.
I miei movimenti erano ancora impacciati, soprattutto perché mi risultava difficile rimanere in equilibrio su tacchi anche modesti e vestita di tutto punto.
Il bimbo si voltò, fissandomi con un paio di occhi talmente blu che rimasi incantata.
«Momy, vojo vere papà!»
Prendo Google traduttore?
Sorrisi e mi accovacciai, sistemandogli meglio il giubottino.
Francesco aveva preso gli stessi capelli di Simone, perennemente spettinati e sparati in tutte le direzioni mentre gli occhi… beh, quelli erano una sorta di mescolanza. I miei erano di un celeste chiaro mentre quelli del papà nerissimi. Lui era uscito fuori con un iride blu come l’oceano più profondo.
«Tra poco papà torna, piccolo. Se aspettiamo qui, sicuro ti porterà uno di quei palloni con le stelle.»
Come aveva pronosticato Simo, il piccolo Francesco era nato con l’amore incondizionato per quella cosa rotonda per cui il papà veniva pagato profumatamente. Dal canto mio, stavo ancora cercando di fargli imparare correttamente l’alfabeto italiano in modo che potesse arrivare alle scuole primarie già pronto.
Gli occhi parvero illuminarglisi come stelle. «Palla!» urlò, mettendosi a saltellare.
Hai scatenato la peste, lo sai vero?
Era difficile tenere a freno la vivacità di quel bambino, soprattutto quando faceva di cognome Sogno.
«Allora ce l’hai fatta a venire, eh?» mi domandò una voce alle mie spalle.
Sorrisi, riconoscendo subito mia cognata.
«Sì, sono riuscita a liberarmi allo studio e sono corsa qui. Rose si è offerta di portare anche Francesco,» le spiegai.
Era consuetudine che mio figlio passasse molto tempo in compagnia della sua piccola cuginetta Susy. Almeno sapevo che giocava con una bambina piuttosto furba e intelligente e poi era nelle mani di una mamma perfetta e bellissima come Rosie.
Abbracciai Sofia e notai anche la presenza, effimera, di quella talpa di Ruben.
In quei tre anni non era cambiato di una virgola, forse si era fatto crescere una rada peluria che voleva assomigliare vagamente ad un pizzetto.
«Ciao Ruben!» lo salutai.
Lui mi sorrise timido. «C-Ci-Cia-Ci-C-Cia-Ci-C-Cia-… Salve!»
Dai, ci ha messo solo cinque minuti. Sta migliorando!
Poveraccio.
La piccola Sogno gli sorrise, quasi come se avesse visto chissà quale splendida creatura. Era proprio vero che l’amore non aveva né età, né colore e non guardava l’aspetto fisico. Di certo aiutava, ma non era fondamentale.
«Tra quanto faranno la premiazione?» mi chiese.
Guardai l’orologio da polso. «Penso che sia già iniziata.»
Ci trovavamo tutti lì, allo stadio, perché l’Arsenal era riuscita a vincere il campionato e Simone sarebbe stato premiato come capo cannoniere di quella stagione. Mi sentivo molto orgogliosa, soprattutto stando in mezzo a tutte quelle altre donne piuttosto vuote ed annoiate da una vita in cui potevano avere tutto e non traevano nessuna gioia personale.
Ecco perché avevo subito ricominciato a lavorare.
«E con 20 gol in questa stagione,» disse lo speaker, mentre le urla dei tifosi riuscivano addirittura a coprire la voce del microfono. «Viene nominato capo cannoniere di questa stagione calcistica 2015-2016…»
Presi per mano Francesco giusto in tempo per sporgermi al di fuori del tunnel d’ingresso. Volevo assistere al momento in cui gli avrebbero consegnato la medaglia, uno degli altri mille trofei che avrebbero riempito casa.
«Momy, is he moy papa?» mi chiese.
Sorrisi alla sua pronuncia per metà inglese e metà italiana. D’altronde, sarebbe diventato uno di quei bambini che sapevano alla perfezione due lingue.
Un piccolo genio.
Come la mamma.
Presi in braccio Francesco con un enorme sforzo. Dal momento che ero alta un metro e due mele, feci perno sulle gambe e me lo poggiai su un fianco, indicando verso Simone che saliva su un piccolo podio.
«Vedi amore, quello laggiù è papà,» gli dissi e i piccoli occhi blu divennero luminosi.
«Simone…» urlò lo speaker.
«SOGNO, SOGNO, SOGNO!» gridarono tutti i tifosi, sventolando le sciarpe e le bandiere mentre vidi Simone che lanciava baci e ringraziamenti verso la telecamera. D’altronde era una continua soddisfazione per lui, raggiungere quel vertice di carriera così giovane e con tutta la vita ancora davanti a sé.
Ogni giorno che passava lo amavo sempre di più, e amavo il piccolo batuffolo di ciccia che tenevo al fianco.
Subito dopo la premiazione ci furono i festeggiamenti, così i calciatori tornarono verso il bordo del campo per prendere in braccio la propria prole e concedere delle foto dolci e felici alla stampa inglese. La bufera del caso di tre anni fa si era spenta come un fuoco in una tempesta, era durata fino all’estate successiva e a settembre non interessava più a nessuno.
Fu però sostituita dalla notizia della famiglia Sogno e del matrimonio più romantico della storia: lei, giovane avvocato senza un becco di un quattrino e lui, calciatore famoso e bellissimo che si era innamorato.
Il genere di storie inciuciose di cui gli inglesi campavano.
Notai Simone che mi correva incontro. Non appena mi vide, gli sorrise lo sguardo e mi baciò, anche se Francesco subito si mise nel mezzo.
«Papa! Papa! Papa! No eat momy! Plis.»
Stavo trattenendo a stento le risate. Simone mi guardò stralunato. «È tuo figlio, non stupirti,» gli dissi subito, alzando le mani.
Lui però lo prese in braccio e mi baciò di nuovo, cingendomi la vita e stringendomi a sé. Non mi ribellai, anche se era sudato fradicio, perché adoravo sentirlo mio anche in quei momenti pubblici.
«Sono felice che sei riuscita a passare,» disse, schioccandomi un altro bacio. «Faccio due foto con Chicco e poi ce ne torniamo tutti a casa.»
Annuii, sorridendo come una scema.
«Ti amo,» gli dissi e lui lo mimò con le labbra perché già stava scappando dai fotografi. Rimasi a guardarlo correre, forse la prima cosa che mi aveva fatto innamorare davvero di lui. Lo avevo sempre giudicato come un ragazzo privo di interessi, un egoista, una persona che pensava soltanto al proprio tornaconto, senza alcun tipo di ambizione. Invece avevo visto che in lui c’era qualcosa, un amore verso quello sport che non ero riuscita a capire all’inizio.
«Beh, congratulazioni,» mi disse una voce ed io sussultai.
Sebastian era apparso al mio fianco, materializzato da chissà dove. Era raro che venissi agli allenamenti di Simone per cui non avevo occasione di vedere i suoi colleghi con frequenza. Dovevo ammettere che Sebastian in particolare, mi inquietava.
«G-Grazie,» risposi titubante.
Secondo me è una specie di stalker.
«Siamo già al secondo eh, quanti pensate di sfornarne?» mi domandò, forse poco opportunamente.
D’istinto mi accarezzai il piccolo rigonfiamento sull’addome.
Non che fosse programmato, ma ormai avevo imparato da Simo ad essere più istintiva e a godermi i piccoli regali che la vita mi stava dando. Avevo già le mie soddisfazioni sul posto di lavoro, con James che era sempre pronto ad aiutarmi, e una volta rientrata a casa ne trovavo delle altre.
Magari non avevo coronato il sogno di lavorare alla Abbott&Abbott, ma mi sentivo ugualmente realizzata.
«Non sono affari tuoi, Sebastian,» gli dissi, il più cordiale possibile.
L’uomo mi guardò lanciandomi un sorriso sghembo. «Simone ha davvero trovato una piccola miniera d’oro.»
Io mi allontanerei molto lentamente.
Approvo!
Ne approfittai per raggiungere Sofia e Ruben, intenti a chiacchierare con alcuni manager della squadra.
«Ven, mamma ti ha chiamato per avvertirti del pranzo di domani?» mi domandò.
Sgranai gli occhi. Me n’ero completamente dimenticata. «Ehm, a dire il vero…» annaspai. Andare a pranzo da mia suocera non era poi così pesante, il problema era soltanto coniugare gli impegni di lavoro, a Francesco e agli allenamenti di Simone. C’erano volte in cui non riuscivamo nemmeno a vederci per ventiquattro ore filate.
«Te ne sei dimenticata,» concluse Sofi, sorridendo. «Non fa niente, dico alla mamma di rimandare, tanto lei è disponibile.»
Tirai un sospiro di sollievo. «Sarebbe perfetto, domani ho la giornata completamente piena!»
«Tranquilla, faccio tutto io!»
Sofia era davvero una ragazza d’oro, proprio il contrario di quel debosciato del fratello.
«Momy, momy, can ai eve a fotografica cotté?» mi urlò dietro Francesco, correndomi incontro. Simone lo seguiva a distanza, evidentemente stanco.
Dopo l’ultima partita di campionato, aveva a mala pena avuto il tempo di farsi una doccia e poi era scattata la premiazione. Nei due giorni successivi avrebbe dovuto festeggiare con la squadra e con i tifosi, come di consuetudine.
«Amore, papà è in modalità zombie. Che ne dici se torniamo a casa e facciamo la nanna?» chiesi al piccolo Francesco che fortunatamente capì e fece di “sì” con il suo faccino rotondo.
«Piccola, torniamo a casa?» mi chiese Simone, salutando poi la sorella e il cognato.
La talpa.
L’uomo di neanderthal.
L’astrolopiteco.
Sì, insomma, Ruben.
«Andiamo.»
Camminando nei corridoi dell’Emirates Stadium e fermandoci ogni minuto per permettere a Simone di fare foto e firmare autografi, Francesco si era addormentato sulla sua spalla. Mi inteneriva ogni volta vedere padre e figlio che si somigliavano così tanto.
«Che c’è?» chiese mio marito, vedendo che lo osservavo.
Ancora mi faceva strano etichettarlo in quel modo.
«Nulla,» sorrisi, facendo spallucce. «È che sono così orgogliosa di te.»
Simone annullò la distanza che c’era tra di noi e la colmò con un lungo ed intenso bacio. Mi strinse a lui e al piccolo Francesco, che dormiva beato e mi chiese all’orecchio come mi sentivo.
«Sto bene, anche lui o lei sta bene,» dissi, riferendomi al pancione.
Allora mi prese per mano e continuammo a camminare dirigendoci verso il parcheggio.
«Sei felice?» mi chiese poi, prima di entrare in macchina.
Lo guardai sorridendo. Era una domanda piuttosto ovvia, ma ogni volta che me la faceva era come se mi innamorassi di lui per la prima volta.
«Con te,» gli risposi, come facevo ogni volta. «Con te, sono felice.»

 

Che dire?
Ci ho messo un secolo e mezzo anche a pubblicare questo ''epilogo'', nonostante la storia fosse conclusa ho voluto farvi ''sbirciare'' un po' nel futuro di Simo e Ven. E' stato un periodo un po' impegnativo questo, non ho avuto molto tempo nemmeno per fare modifiche e correzioni ai capitoli precedenti, in vista di una pubblicazione futura, ma quando sarò pienamente soddisfatta del risultato, vi terrò aggiornate.
Detto questo,
Simo e Ven mi mancheranno tantissimo. Sono stati sia protagonisti della mia storia, sia compagni di viaggio per dei periodi della mia vita che mi hanno vista crescere. Erano lì quando ho fatto dei cambiamenti radicali nel mio stile di vita, quando ho fatto determinate scelte, quando ancora non sapevo cosa si provasse ad essere ''innamorati'' e quando finalmente ho capito cosa Ven e Simo mi trasmettessero attraverso le parole. Durante il corso della storia, abbiamo visto Venera cambiare radicalmente, accettare il fatto che la vita non è solo ''Cervello'' e che non si può comandare al cuore quando e dove innamorarsi. Succede e basta. Abbiamo visto anche Simo cambiare, fare dei sacrifici, capire passo dopo passo cosa volesse dire assumersi le responsabilità delle proprie azioni ed essere pronti a rinunciare a tutto pur di stare al fianco della persona che si ama, se ne vale davvero la pena.
Perché l'amore non è altro che mettere il bene dell'altro prima del proprio.
L'antitesi dell'essere egoista.

Spero che questa storia vi abbia insegnato qualcosa, oltre ad avervi fatto ridere e perdere qualche ora del vostro tempo.
Che vi abbia aperto gli occhi anche su questo ''crescere insieme'' che, secondo me, è la parte più bella di una relazione. Uno che insegna ciò che sa all'altro, in modo da costruirsi un futuro.

Detto questo mi mancheranno questi due, mi mancherà tornare a scrivere.
Vorrei ringraziare tantissimo la mia ''FAMIGGHIA'', di cui non basterebbero mille pagine di ringraziamenti per esprimere ciò che devo loro. Wife che mi ha sopportato betando e correggendo tutte le porcate che scrivevo, Annucciah che - con molto garbo *inserire ironia qui* - mi diceva chiaramente cosa faceva cagare e cosa no, e Rosie che con il suo entusiasmo (e stalkeraggio) mi spronava a finire questa storia a cui si era affezionata da morire.
Vi lascio con un enorme GRAZIE, ma so già che vi dovrò sfruttare ancora (PURTROPPO PER VOI MUAHAHAHA).

Ai lettori di EFP che mi hanno seguito da due/tre anni a questa parte, 
ringrazio anche voi che avete supportato i miei alti e bassi, che nonostante abbia aggiornato una volta l'anno (quasi), non avete mai smesso di seguirmi e scrivermi (anche nel gruppo). Vi ringrazio di tutto e spero vi siate divertiti a leggere questa storia così come io mi sono divertita da morire a scrivere di Venera e Simone.
Alla prossima storia (se ci sarà).
Un mega-bacio,

Marty <3

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1046233