la finestra aperta

di eldarion
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una vita meravigliosa ***
Capitolo 2: *** La moglie del capitano ***
Capitolo 3: *** Lo strano ospite mancante ***
Capitolo 4: *** Luna Bugiarda ***
Capitolo 5: *** Non per gioco ***
Capitolo 6: *** Il vento scompiglia le pagine ***
Capitolo 7: *** Quasi a casa ***
Capitolo 8: *** La finestra chiusa ***
Capitolo 9: *** Il crollo di Tsubasa ***
Capitolo 10: *** Il sogno spezzato ***
Capitolo 11: *** L'alba di un nuovo giorno ***
Capitolo 12: *** Troppo tardi? ***
Capitolo 13: *** La finestra aperta ***



Capitolo 1
*** Una vita meravigliosa ***


Disclaimer

I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.

Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

 

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!

 

Una vita meravigliosa

 

“Mamma, mamma! Io non voglio fare il calciatore da grande, voglio fare lo scrittore!”

 

“Mamma! ... Però, uffa...però... Io, io non lo so cosa voglio fare da grande!”

 

Le voci concitate dei piccoli gemelli accompagnavano allegre gli attimi che precedono la nanna. 

Sfiniti dai giochi e cullati dalla nenia della mamma, Daibu e Hayate si acquietarono infine, sfumando le loro vivaci grida notturne nel silenzio ovattato del sonno. 

La giovane madre li osservava con un misto di paura e orgoglio, domandandosi nel profondo segreto del suo cuore cosa avrebbero fatto da grandi e se sarebbero stati felici e realizzati come Tsubasa oppure...

Oppure?

La moglie del capitano chiuse gli occhi mentre sentiva che le si spezzava qualcosa dentro con un dolore sordo che veniva da lontano, come un fantasma che d’improvviso si rivela agli sventati disturbatori delle vecchie case.

Sospirò come per prendere aria e tornare a vivere scacciando quella sensazione scura. 

Riaprì gli occhi per riaffondare nellla realtà e farla sua: la stanza era in ordine, anche se raccontava dei giochi dei due piccoli; Daibu e Hayate ormai dormivano e sognavano serenamente, ridevano e parlavano nel sonno. 

Sanae sorrise chiedendosi cosa stessero sognando. 

Sognavano del domani o sognavano dei momenti passati? 

Di nuovo la ragazza si sentì spezzare dentro. Non chiuse gli occhi però, voleva restare saldamente ancorata alla realtà e non perdersi nelle acque profonde di quel nuovo sentire che non le apparteneva. 

Aveva una vita meravigliosa, nulla era fuori posto; quel dolore no, non le si addiceva. Perché era venuto a disturbarla? 

I pensieri bui lei non doveva ascoltarli anzi non doveva nemmeno averne.

I pensieri bui non erano fatti per lei.  

Lei era contenta.

Lei aveva tutto.

Lei aveva una vita meravigliosa e niente pensieri bui.

Nessuna giornata vuota o notti solitarie.

Gli occhi di Sanae vagavano, un po’ smarriti, nella dolce oscurità della cameretta che sapeva di giochi e sorrisi di bambino.

“Giochi di bambino” mormorò inconsapevole, come una sonnambula. 

Era un po’ come un’intrusa in quel mondo di sogni infantili e zucchero filato, pensò scrollando la testa. 

Strinse i pugni. 

Non c’era nulla fuori posto, la sua vita era meravigliosa, si ripeté e, silenziosamente, uscì.

Sanae si richiuse piano la porta alle spalle e vi si poggiò, era molto stanca, come dopo un lungo viaggio a piedi.

Si sentiva come una una che viene da lontano.

La dolce primavera barcellonese stava scivolando verso un'estate afosa, almeno per lei, almeno in quel momento. 

Strano davvero! 

Lei adorava il caldo del sole, il caldo che si sente nelle città vicine al mare, quel caldo ventoso che sa di mare, di sole e di felicità estiva. 

Il caldo che rincuora, che ti prende e ti abbraccia per dirti che andrà tutto bene, che c’è il sole e la luce è tornata per parlare di vita e spazi aperti, di sorrisi e amori per sempre. 

Il caldo che la faceva sentire bene.

Nella penombra del salotto Sanae restò immobile fino a quando la voce del cronista alla Tv gridò entusiasta al goal del Barça

Si riscosse e raggiunse l’apparecchio acceso. 

Si sedette sul divano e si concentrò sulla partita.

Tsubasa era fantastico  da guardare, giocava senza forzature, con semplicità e gioia portando la sua squadra verso la vittoria, ma sapeva anche condurla nei momenti difficili. Ora però era bello ammirarlo mentre con la sua determinazione travolgeva gli avversari e lasciava volare i suoi compagni tirando le fila del gioco. 

Tsubasa era meraviglioso, era ciò che lei aveva sempre voluto. Mai aveva desiderato altro, solo lui, solo accompagnarlo nel suo sogno ed era felice di farlo. Stare con Tsubasa, conoscerlo e viverlo era magnifico e lui le dava tutto, a lei, proprio a lei...Era felice.

Erano felici! 

La sua vita era meravigliosa, nulla era fuori posto e quando lei lo guardava giocare, quando gli stava vicino si sentiva viva. Si percepiva ancora bambina per certi versi, come quando erano piccoli, lo ammirava per le parole che sapeva dire e per il coraggio che riusciva a infondere. Accanto a lui era possibile scacciare la paura e fare tutto, tutto quanto, anche ciò che pareva impossibile. I suoi compagni di squadra lo sapevano bene e anche lei, solo che lei...

Lei...

Lei non aveva mai provato a fare nulla.

Nulla tranne stare al fianco di Tsubasa e aiutarlo.

Nulla tranne desiderarlo.

Nulla tranne farlo felice.

Nulla di nulla...Solo bere la felicità che lui le dispensava. 

Mentre le immagini della partita scorrevano sotto i suoi occhi, Sanae tornò con la mente a quando era piccola e gridava il nome del capitano dagli spalti oppure lo guardava dalla finestra della scuola. 

Lo osservava in silenzio mentre giocava: entrava una luce particolare da quella finestra aperta sul cortile. 

Il sole pareva ancora più luminoso mentre lei guardava quel ragazzo.

Tsubasa pareva brillare di luce propria, come una stella, come il sole. 

Si sorprese a pensare che da quella finestra entrava un sole caldo, un sole tutto suo che riscaldava solo lei. 

Era bello essere scaldati da quel sole. 

Un sole infuocato, come quello estivo, che guarda il mondo colorarsi di fiori e allegria. 

Un sole affettuoso tutto per lei, e lei era ancora un po' bambina, la stessa che guardava il capitano dalla finestra e si ritraeva se lui si accorgeva dello sguardo che lo seguiva. 

Sanae godeva di quel sole che entrava dalla finestra. 

Entrava la luce dalla finestra aperta. La luce vera, quella pura del giorno, che la faceva vivere; e l'aria che la faceva respirare e sentire bene perché Tsubasa era il suo sole, lo era sempre stato e lo era ancora. 

Non aveva mai chiuso quella finestra Sanae e il sole continuava ad entrare senza pause, anche durante i giorni di pioggia, anche d’inverno. 

Lei aveva una vita meravigliosa, tutto a posto: niente sbavature, niente dubbi o incertezze, niente cieli oscuri né acque profonde. 

Dalla finestra aperta sul cielo entrava solo il sole senza ombre e l’aria che sa di mare e ti fa vivere. 

 

Continua...

 

N.B. dati gli impegni di studio e di...mamma...non posso garantire aggiornamenti regolari, settimanali o mensili, anche se mi piacerebbe. Vorrei però rassicurare chi leggerà queste mie righe che, nonostante gli aggiornamenti incostanti, la storia avrà un seguito e verrà portata a termine!

A presto

Eldarion

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Capitolo 2
*** La moglie del capitano ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
Buona lettura!


La moglie del capitano



I giorni per Sanae si susseguirono allegri, caldi e luminosi, privi di afa e pensieri bui.
La vita tornò a riempirsi di Tsubasa e dei bambini, di gite al parco, partite vittoriose, lunghi abbracci e sospiri notturni.
Il campionato si era finalmente concluso con la vittoria del Barça, una vittoria schiacciante ma non facile.
Tsubasa aveva avuto grandi momenti di tensione e Sanae, come sempre, era stata al suo fianco per sostenerlo.
Il giovane calciatore era salito decisamente in alto ma restarci non era certo uno scherzo e Sanae si era spesso domandata se il suo aiuto silenzioso e costante sarebbe stato sufficiente.
Era anche lei così preoccupata e sotto pressione che un giorno non poté fare a meno di farsi sfuggire poche semplici parole col marito.
"Tsubasa vorrei aiutarti ma...Non so che fare..."
Il ragazzo non si scompose minimamente e rispose con calma e convinzione
"Abbracciami."
In quell'abbraccio Sanae sentì che la tensione reciproca si scioglieva; si domandò come fosse possibile: possibile che a Tsubasa bastasse un abbraccio?
E a lei bastava?
Lui non chiedeva altro che perdersi nella tranquillità.
A lui bastava sentirsi a casa per affrontare le cose.
Finalmente tra qualche giorno tutto sarebbe stato lontano e avrebbero potuto rilassarsi insieme, magari da qualche parte, forse in barca e chissà, forse con loro sarebbero andati anche gli amici di sempre: Taro, Genzo, Ryo... Ryo e Yukari erano già a Barcellona.
Mancava solamente l'ultimo impegno, l'ennesima festa per la celebrazione della vittoria. Un party pieno di nomi blasonati, bottiglie di champagne, fotografi, bei discorsi sul campionato passato e sul campionato futuro e, naturalmente, i consueti sorrisi di circostanza.
Era un grande sforzo parteciparvi.
Tsubasa sfoderava il suo bel sorriso per far felici fotografi e giornalisti e lo accompagnava con gentili parole che descrivevano amabilmente l'evento mentre in realtà, il calciatore, non avrebbe voluto tanta gente intorno.
Per Sanae era la medesima cosa.
Era lavoro!
Tsubasa prendeva queste feste proprio così: lavoro, le considerava semplicemente la parte meno divertente del calcio.
"E' lavoro Sanae!...Stammi vicino coraggio!"
Diceva sempre.
Sosteneva che quell'idea, unita alla presenza di Sanae al suo fianco, era il solo modo per sopravvivere ai party; non ne aveva mai fatto mistero.
Le strane riflessioni che le invadevano la mente costrinsero la ragazza a sorridere.
Tutti sapevano che Tsubasa non amava il chiasso mondano ma tutti si aspettavano di vedercelo, almeno qualche volta; lui si presentava e lei con lui...E la festa aveva inizio: ognuno recitava la sua parte in modo magistrale, gli attori principali e le comparse.
Sanae si rabbuiò.
In fondo non era divertente, o meglio, forse all'inizio lo era; poi però quelle azioni così forzate che, è vero, non facevano male a nessuno e accontentavano tutti, sapevano di stantio ed erano anche molto tristi.
Era triste dover recitare.
La moglie del capitano sospirò mentre prendeva l'abito nero che avrebbe indossato.
Lo aveva comprato quel pomeriggio stesso.
Come al solito l'avevano riconosciuta come la moglie di Tsubasa Ozora e avevano cercato di accontentarla in ogni modo: meglio così, naturalmente, perché Sanae aveva un rapporto un po’ contraddittorio con gli abiti eleganti.
Doveva confessare che comprare abiti da sera la metteva in difficoltà, la facevano sentire a disagio esattamente come le feste dove li indossava; al contempo però non era poi così male sfoggiarli quei vestiti perché, era giusto ammetterlo, non erano comodi ma le stavano molto bene.
Lo indossò e, seguendo il filo dei suoi pensieri strambi, raggiunse il capitano.
Erano pronti.
Tsubasa stava parlando ai piccoli per salutarti e consolarli della serata senza di loro.
"Mamma! Papà! Quando possiamo venire anche noi alle feste?"
"Mamma uffa...Noi non abbiamo sonno vi aspettiamo..."
"Papà dai...Ancora un attimino!"
"Mammaaaa..."
La voci vivaci ma al tempo stesso un po' malinconiche e cantilenanti dei gemelli fecero sorridere la coppia, ormai tutta agghindata e in piedi sulla soglia di casa.
"Quando sarete più grandi! Fate i bravi con Ryo e Yukari mi raccomando."
Disse la giovane madre chinandosi verso di loro per salutarli ancora una volta.
Stava quasi per uscire quando Daibu si precipitò verso di lei.
"Mamma, mamma guarda! Guarda: l'ho fatto oggi all'asilo, per la festa di stasera...Tieni."
Era un fiorellino bianco di carta, molto piccolo e delicato.
"Grazie tesoro."
Sanae lo prese tra le mani, legò lo stelo del piccolo fiore al suo braccialetto d'oro e, dopo l’ennesimo bacio, uscì.
Persi nella dolcezza dei loro bambini Sanae e Tsubasa raggiunsero la festa e
si immersero nelle chiacchiere e nei brindisi.
"Lei è Sanae, mia moglie..."
Erano le ultime parole che aveva potuto sentire dalla bocca di Tsubasa che poi aveva perduto di vista, rapito dai giornalisti.
C'era molta confusione quella sera, più del solito, o esattamente come al solito solo che lei dimenticava in fretta come ci si sente alle feste dove sei solo una comparsa, dove sei solo la moglie di qualcuno che è più noto e importante, qualcuno che conta.
Sanae scrollò la testa mentre le capitava di pensare che Tsubasa la presentava sempre come Sanae, sua moglie, ma chissà per quale arcano
motivo nessuno ricordava mai il suo nome: lei diventava immancabilmente la moglie di...
Lei era la moglie di Tsubasa Ozora per la commessa che le aveva venduto il vestito, per le persone al parco che la riconoscevano mentre giocava con i suoi figli, per le maestre e per i genitori dell'asilo, per coloro che conosceva di volta in volta nel turbinio di celebrazioni che facevano seguito alle vittorie sportive.
Lei era la moglie di...
Pazienza se in Spagna, terra straniera, le persone non si ricordavano il suo nome; persino Tsubasa col suo grande talento aveva faticato, figurarsi lei che di talento non ne aveva alcuno.
Ciò che la disturbava davvero era constatare che lei non smetteva mai di essere la Moglie del capitano, neanche in Giappone.
Nemmeno nella sua terra natale, nella sua amata patria, lei possedeva un'identità propria.
Lei era la moglie dell'astro del Sol levante.
Una stella la cui luce era talmente intensa e brillante da non proiettare ombre; ma può la luce non proiettare ombre?
Quella luce era così accecante da inghiottire tutto, anche le ombre. Impediva la vista, cancellava l'orizzonte racchiudendo ogni cosa in sé.
Sanae si sentì mancare.
Cercò Tsubasa con lo sguardo, era lontano, circondato da molte persone.
In quella vista non trovò consolazione e nemmeno l'aria per respirare.
Un velo di lacrime le offuscò gli occhi.
Si voltò verso la grande finestra aperta.
Dai vetri spalancati sulla notte entrava l'aria scura del mare piena di sale e di freddo.
Uscì.
"Può la luce non proiettare ombre?" bisbigliò a se stessa.
No.
Non era possibile: dove c'è luce c'è sempre ombra.
Anche la luce più accecante porta con sé le ombre, delle ombre scurissime, tanto più buie quanto più la luce è forte.
Annaspò aggrappandosi alla ringhiera della terrazza.
Lei non aveva mai visto ombre.
Non poteva.
Semplicemente non poteva.
Semplicemente... Era lei ... L’ombra!

Continua...

Come avevo preannunciato è passato un sacco di tempo ma eccomi, ce l’ho fatta! :P
Grazie ancora a chi ha cominciato questa lettura senza farsi scoraggiare dalla mia lungaggine nell'aggiornare!





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Capitolo 3
*** Lo strano ospite mancante ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
Buona lettura!




Lo strano ospite mancante



Daibu e Hayate rimasero in piedi sconsolati a guardare la porta che Sanae, con decisione, si richiudeva alle spalle.
Nemmen
o stavolta erano riusciti a convincere i genitori a portarli con loro.
Tantomeno erano riusciti nell’intento di tenerli a casa.
I due gemelli, consapevoli degli impegni di mamma e papà, speravano però di averli fatti sentire in colpa almeno un pochino.
Gli sguardi tristi, le lamentele malinconiche e le lagne per rendere più dura la separazione erano una sorta di piccola vendetta per la solitudine che i bambini, loro malgrado, dovevano subire.
Una solitudine che non era poi tanto male in fondo; per questa volta era anche meglio del solito: con loro erano rimasti Ryo e Yukari, oltre a Saki, la donna che aiutava Sanae in casa e si prendeva cura dei piccoli quando restavano soli.
I gemelli amavano molto Saki, era dolce e sapeva farli divertire, ma Ryo e Yukari erano una bel diversivo per la serata.
Gli ingredienti per passare qualche ora in allegria e leggerezza c’erano tutti, Daibu e Hayate ne erano consapevoli.
Ciò nondimeno restava il dispiacere dell’assenza dei genitori.
Nè Sanae e Tsubasa, nè Yukari e Ryo, tantomeno Saki, si aspettavano che i gemelli andassero a letto presto: era la loro “serata”.
La serata senza papà e mamma, quella in cui fare qualche strappo alla regola!
Quando poi c’erano Ryo e Yukari...
La coppia faceva spesso visita agli amici a Barcellona e i due bimbi si erano molto affezionati alla simpatia di Ryo e alla spensieratezza di Yukari.
“Ecco fatto, bambini!...Ci sono torta e succo di frutta per voi!”
La voce squillante di Saki proveniva dalla cucina insieme a un tintinno di tazze, bicchieri e profumo di torta.
“Su muoviti Daibu, andiamo!”
Esortò Hayate risvegliato dalla fragranza del dolce.
Daibu non si mosse continuando a fissare la porta inebetito mentre il fratellino si diresse con decisione verso la sala dove Ryo e Yukari sedevano tranquillamente in attesa del loro caffè e della deliziosa torta preparata da Sanae poco prima.
Hayate si voltò perplesso verso il gemello. Daibu stava sempre in piedi con le mani conserte e continuava ostinatamente ad osservare la porta.
Hayate trovò strano il comportamento di Daibu: quest’ultimo era sempre stato molto goloso, anche più di lui, eppure ignorava completamente l’invito di Saki e sembrava pensieroso.
“Daibu...” insistette Hayate.
“Si, si...Arrivo.”
Disse staccandosi faticosamente dalla porta mentre un brivido gli attraversò la schiena.
L’umore di Daibu migliorò una volta raggiunti gli altri nella grande sala.
Stavano tutti già gustando il dolce ma i gemelli non lo toccarono, bensì scrollarono la testa guardando Saki con una sorta di delusione mista a rimprovero.
“L’hai dimenticata Saki... La fetta di torta e il succo dico.”
Spiegò Hayate.
Saki osservò attentamente sul tavolino: cinque fette di torta e due succhi di frutta. Spalancò gli occhi realizzando di aver scordato un commensale, uno un po’ particolare!
“Si, avete ragione, porto subito una porzione in più!”
Replicò dolcemente con un sorriso, anche lei era stata bambina.
Ryo e Yukari si guardarono, non capendo di cosa stessero parlando.
Saki tornò in un attimo.
Daibu allungò le mani per prendere piatto e bicchiere. Li poggiò poi con attenzione in un angolo del tavolo.
“Grazie Saki, adesso però non c’è, mangerà più tardi. mi raccomando di non togliere il piatto, anche se dovessi ritrovare tutto domattina, va bene?”
Saki acconsentì con un cenno del capo e si accomodò al suo posto per bere il caffè fumante. In fondo quel gioco le piaceva e, delle volte, aveva la strana impressione che non fosse solo un gioco infantile: c'era qualcosa di più profondo.
“Ma...Di chi parlate, chi è che manca?”
Interruppe Yukari un po’ stralunata.
“Il nostro amico! E’ molto goloso sai? Questa sera però non c’è, non giocherà con noi e farà tardi, molto tardi ha detto.”
Rispose prontamente Daibu e di nuovo un brivido gli percorse la schiena.
Yukari sorrise incuriosita e pensò di approfondire la conversazione con i piccoli Ozora.
“Ho capito. Avete un amico invisibile dunque.”
“Beh...Non è proprio invisibile. Noi lo vediamo quasi sempre, infatti noi giochiamo spesso insieme a lui. Però è vero che la maggior parte delle persone, specialmente i grandi, non lo possono vedere; è lui che non si fa vedere!”
Spiegò Hayate convinto e sicuro delle proprie parole.
Ryo non si trattenne e una risata spontanea e cristallina sgorgò fragorosamente dalla sua bocca.
Yukari lo guardò corrugando le sopracciglia con disapprovazione evidente.
Il ragazzo si ricompose chiedendo scusa e tentando di giustificarsi, d’altro canto era una storia decisamente originale e incredibile.
I gemelli non parvero turbati, e neppure offesi, dall'atteggiamento del povero Ryo e continuarono anzi la loro spiegazione.
“Si mostra quando vuole lui; solo a quelli che credono in lui e gli vogliono bene, oppure...Beh io non ho capito tanto, comunque dice che ci protegge. Certe volte fa dei discorsi un po’ difficili ma dice sempre che certe cose le capiremo. A lui piace stare con noi, nella nostra famiglia si trova bene ed è felice, per questo ha deciso di fermarsi.”
Precisò Daibu e poi continuò ancora con agitazione.
“Stasera però non poteva proprio restare, io gliel’ho chiesto più di una volta ma lui è stato irremovibile, ha detto che doveva andare. Doveva andare via per il nostro bene ha detto! Non dobbiamo avere paura qualsiasi cosa accada, ha detto anche. Era preoccupato, di solito è sempre allegro e dispettoso ma questa sera no era proprio di fretta e ansioso... Ha fatto preoccupare anche me.”
Yukari fu trafitta dallo sguardo supplicante di Daibu, era sincero e convinto di ciò che stava raccontando.
L’amica di Sanae gli credeva.
Non sapeva spiegarsi come ma in qualche modo credeva a quelle parole assurde e fuori dalla realtà, fuori da ogni logica.
Non solo, quel discorso le rammentava qualcosa, qualcosa che sapeva da bambina e aveva sepolto nei meandri della memoria.
Qualcosa che crescendo aveva perduto.
Qualcosa che non riusciva a ricordare cosa fosse ma c’era, c’era stata, era vera, esisteva o meglio era esistita.
Doveva solo scavare nei ricordi infantili, nelle voci, nei racconti, nelle leggende e farla nuovamente sua.
Ryo notò Yukari portarsi una mano alla tempia, come faceva sempre mentre rifletteva. La ragazza sembrava davvero impegnata in una profonda riflessione.
Anche il calciatore cominciò ad essere inquieto, lui conosceva Yukari: era chiaramente turbata.
Un grande e pesante silenzio calò improvvisamente nella stanza, tutti erano come in attesa.
Yukari continuava a fissare il pavimento con quella mano alla testa.
Non riusciva a ricordare, non ancora, e il discorso e lo sguardo dei gemelli, soprattutto del piccolo Daibu, l’avevano raggelata.
Non era un freddo solo fisico, era piuttosto un freddo che giungeva da dentro, un freddo decisamente strano che con dita lunghe e affusolate afferrava il cuore per stringerlo in sè.
Cercò di scacciare quei pensieri, anche per non impensierire ulteriormente i gemelli, in fondo poteva anche sbagliarsi.
“Ah... Sono certa che il vostro amico tornerà presto e qualsiasi cosa debba fare sarà all’altezza, non preoccupatevi. Intanto gli lasceremo la torta così quando sarà tornato potrà godersi il suo buon dolce, lo metterà certo di buon umore la vostra premura!”
Yukari cercò di essere il più rassicurante e convincente possibile e lo fu, dato lo sguardo attonito di Ryo che non poteva credere alle proprie orecchie. La ragazza sembrava un’altra, pareva anche lei una bambina ma la nota preoccupata della voce e degli occhi persistevano in lei.
Il calciatore non comprendeva cosa avesse turbato tanto la sua fidanzata ma decise di reggerle il gioco e aiutarla a rassicurare i piccoli.
“Dai su ragazzi! Giochiamo a nascondino non vorrete mica passare tutto il tempo qui seduti sul divano in attesa che vi venga sonno! E poi chissà: magari nel frattempo il vostro amico tornerà e magari anche io e Yukari potremo fare la sua conoscenza, che ne dite? Confesso che sono curioso!”
“Siiiiiiiii! ... Nascondiamociiiiiiii ... Sta sotto zia Yukari!”
La voce allegra e frizzante di Ryo spezzò quell'atmosfera soffocante che si era creata e riscosse l’entusiasmo di tutti.
In un baleno Daibu e Hayate cominciarono a correre alla ricerca di un nascondiglio.
Yukari regalò a Ryo uno splendido sorriso poi si coprì gli occhi e cominciò a contare a voce alta.
“ UNO... DUE... TRE...”
Mentre contava non poteva fare a meno di rimuginare sulle parole dei piccoli.
Forse aveva capito.
Frugando nelle memorie e nei racconti della nonna c’era qualcosa che stava ffiorando. Un vecchio ricordo, un amico scordato da tempo...Proprio così: Yukari ne era certa, certissima:c'era qualcuno, un amico, un piccolo ospite che poteva somigliare a quello che descrivevano i gemelli.
Lei lo sapeva bene.
Non tutte le famiglie erano così fortunate...E se era come pensava lei, allora c’era davvero un pericolo imminente, qualcosa che pesava, qualcosa di terribile da evitare ma cosa e chi...Chi mai poteva essere esposto a un tale pericolo?
Di nuovo un brivido la risvegliò dai suoi pensieri, doveva farsi coraggio e avere fiducia.
“VENTI!...Eccomi, chi è dentro è dentro e chi è fuori stia attento!”

Continua
 

E' un capitolo un po' strano, apparentemente si discosta dall'andamento della storia, ma è basilare ciò che accade in questo momento ai piccoli Ozora!
Grazie ancora a tutti coloro che mi leggono!

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Capitolo 4
*** Luna Bugiarda ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
Buona lettura!



Luna bugiarda


Dopo un attimo di smarrimento in cui si sentì mancare Sanae si calmò.
La maestosa villa del presidente della società si stagliava ammaliante e solitaria su un'alta e ripida scogliera che formava un'insenatura appartata.
La moglie del capitano, dall'ampia terrazza, osservò rapita lo spettacolo che le si parava dinanzi: il mare nobile e tenebroso, visto con gli occhi della notte, pareva tutt'uno col cielo scuro ammantato di stelle.
Le acque e il cielo sembravano fondersi in un abbraccio senza fine.
Chissà se c'era calore in quell'abbraccio o se era solo un freddo contatto voluto da un gioco della natura, si domandò.
Il cielo e il mare dovevano abbracciarsi, non avevano scelta alcuna: il cielo non poteva scegliere doveva abbracciare il mare e il mare, dal canto suo, farsi cingere dalla volta celeste.
Era così e basta.
Chissà se c'era amore negli abbracci del cielo alle acque e alla terra; e che amore poteva esserci se, in fondo, non era una libera scelta.
Sanae scrollò il capo e rise di se stessa ad alta voce.
"Sciocca Sanae!" si schernì.
Come poteva pensare che il cielo, il mare, la natura avessero dei sentimenti umani? Essi non pensavano, erano nati così, creati per essere belli e utili agli esseri viventi.
Tuttavia in una cosa tanto meravigliosa doveva esserci pure un barlume di affetto, pensò mentre se ne stava là, assorta col capo chino e le mani sul petto, nel vento che spirava dal mare.
La brezza fresca, quasi pungente, non le dava fastidio, al contrario. Sanae si sentiva a suo agio sola e avvolta dal manto del buio illuminato dalla luce tenue della luna.
La flebile luna si specchiava, elegante, nelle acque del mare.
La ragazza cominciò a passeggiare seguendo la ringhiera della terrazza.
Vide dei gradini che scendevano verso il giardino, il quale, privo di protezioni, spariva tuffandosi nel vuoto della scogliera.
Scese, incurante della festa e incurante di Tsubasa.
Raggiunse, temeraria, il bordo del dirupo dal cui fondo sentiva urlare le onde del mare che si frantumavano contro le pietre appuntite della costa.
Si lamentava il mare.
Gridava malinconica e sola, la voce delle onde che sbattevano contro la dura parete di roccia.
La ragazza si mise in ascolto.
Parlava il mare, parlava la luna e Sanae ascoltava, ascoltava i pensieri bui.
La discreta luce lunare le piaceva, per certi versi sembrava meglio della luce del sole. Una luce, quest'ultima, delle volte troppo forte dalla quale spesso bisognava proteggersi.
Forse la luna, con la sua luce riflessa, era meglio per lei.
Meglio del sole, più sicura.
Le si addiceva, concluse, del resto pure la luna era una sorta di comparsa.
Anche la luna, seppure bella ed elegante nel suo splendore argenteo, era un'ombra.
La luna non era altro che l'ombra del sole.
La luna andava bene per i poeti, con la sua inconsistenza andava bene per le poesie.
Era perfetta per mescolare le parole con i voli della fantasia.
Il suo silenzio era per gli artisti che vegliavano la notte, non restava altro però, non lasciava nulla la luna se non il ricordo delle liriche antiche.
Non spettava nulla alla luna solo gli sguardi distratti dei passanti.
La luna era quel che rimane del sole ormai tramontato.
Quel che resta mentre il sole riposa.
Al mattino però, il sole ritorna e tutti scordano la dolce luna che spezza le tenebre col suo pallore.
Sanae si convinse infine, lei era proprio come la luna: non era altro che l'ombra del suo sole, il sole che tanto amava.
Viveva illuminata dal sole, godeva di quel sole ma non possedeva una luce propria.
Lei era la pallida luna discreta.
Lei era la luna che di giorno, quando si deve vivere, scompare, offuscata dal sole, e riappare nel cielo notturno fuggevole come un sussurro.
Tsubasa era l'astro splendente e lei era la sua luna.
Di nuovo quella sensazione che qualcosa le si spezzasse dentro si impadronì di Sanae e l'amaro pensiero le invase l'anima.
Era bello essere la luna?
Bello o no, Lei era la luna.
Non aveva alternative, così come il cielo e il mare dovevano abbracciarsi senza scegliere, lei era la luna.
A cosa serviva la luna?
Emana poca luce e non si vede bene di notte, con la luna. Serve una luce più forte se vuoi esser certo di non inciampare.
E la luna poi, non è mai la stessa, cambia e delle volte nemmeno si fa vedere.
Lei era la luna che vive di luce riflessa.
La luna bugiarda.
"Bugiarda che non sei altro! Non hai luce, tu la rubi al sole! Bugiarda! Stupida, stupida luna...Luna bugiarda, falsa! Falsa e inutile Luna!"
Sanae, gridando quelle parole folli alla luna, picchiò i pugni contro se stessa: lei era una bugiarda!
Credeva di essere Sanae ma era solo la moglie di Tsubasa Ozora.
Credeva di essere qualcuno ma era nessuno.
Credeva di essere una persona ma era un'ombra.
Semplicemente lei... Non era.
Guardò nel vuoto.
Si mise di nuovo in ascolto, avida di sensazioni.
Percepiva la voce disperata del mare, le parole urlate delle onde sgretolate dagli scogli.
Nemmeno il cielo, con il suo tenero abbraccio, poteva lenire lo strazio delle onde costrette a scontrarsi con la pietra.
Fece un passo Sanae, ipnotizzata dalle voci.
La chiamavano le onde.
La chiamava il vuoto.
Guardò giù nell'abisso allettante, solo la paura avrebbe potuto difenderla, solo le vertigini trattenerla.
Bastava un passo.
Un passo e sarebbe stata tutt’uno col cielo e il mare e così avrebbe saputo se c’era amore nel loro abbraccio.
Un passo e avrebbe punito quella sciocca e stupida Luna per la sua inconsistenza.
Un passo e la Luna bugiarda avrebbe smesso di mentire.
“Un passo Sanae, un solo piccolo passo; sii coraggiosa per una volta cara.”
Si esortò con un filo di voce.

Continua...

Ce l’ho fatta! ... Prima di partire per le tanto desiderate vacanze ho completato un nuovo capitolo, è un po’ drammatico forse, nemmeno io pensavo che la storia prendesse questa piega...Dove sarò non so come sono messi con internet quindi potrei non rispondervi tanto presto :(
Comunque Buone vacanze e buon riposo a tutti: lettori, recensori e autori che seguono questa storia!
A presto!

Eldarion

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Capitolo 5
*** Non per gioco ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
 
Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
Buona lettura!


 
Non per gioco

 
 
Sanae si riscosse destata da un nuovo terrore: non era sola là fuori nell’oscurità.
C’era qualcuno e sembrava danzare sull’orlo del precipizio. 
Il buio non le consentiva di distinguere bene il volto ma chiunque fosse era di corporatura minuta.
Il petto le si strinse e l’angoscia la invase come un fiume in piena scacciando i pensieri bui di poco prima e le voci che la chiamavano dal profondo del mare.
Era un bambino!
Dall'altro lato del giardino che dava sullo strapiombo c’era un bambino. 
Egli giocava da solo correndo sul bordo dell'alta scogliera e pareva divertirsi molto anche. 
Di nuovo ebbe l’impressione che quella piccola figura stesse tranquillamente danzando nel vento della notte, incurante del pericolo che correva.
Era una visione stupenda, quasi ipnotica, molto poetica e dolce; se solo la scena non si fosse svolta sul margine di una scogliera scoscesa e aguzza, Sanae avrebbe volentieri goduto di quella meravigliosa immagine che le rapiva gli occhi e il cuore.
Il bimbo si fermò e la guardò come se avesse intuito i pensieri della ragazza.
Sanae si sentì trafitta dallo sguardo, anche se non poteva distinguere né il viso né i lineamenti del piccolo, la moglie del capitano sentiva che quegli occhi sconosciuti la scrutavano nel profondo. 
Il bambino distolse lo sguardo quasi subito e tornò al proprio gioco.
Voltò le spalle a Sanae, ignorandola completamente, mentre cercava di scendere verso il fondo del dirupo. 
Sanae abbandonò immediatamente l’estasi della visione: cosa ci faceva un bambino là fuori solo, come mai nessuno si occupava di lui, nessuno lo proteggeva dai suoi giochi spregiudicati?
Doveva fermarlo: era troppo pericoloso, lo sarebbe stato per un adulto, figurasi per un bambino. Se i suoi genitori non erano con lui ci avrebbe pensato lei e poi...Poi li avrebbe cercati e avrebbe preteso spiegazioni! Non perse tempo...
“BAMBINO!!!...EHI, TU PICCOLO, FERMATI; FERMATI!!!! BAMBINO ASCOLTAAAA”
Mentre cercava affannosamente di raggiungere il lato opposto del giardino, Sanae gridava con tutta la voce di cui era capace. 
Possibile che nessuno sentisse?
Poco male, lei avrebbe continuato a urlare ed esortare il bimbo a desistere dall’impresa, ormai sembrava vicino.
Egli però trovò una via, uno stretto e ripidissimo sentiero che scendeva  verso l'oscurità del mare, e fuggì avanti imperterrito.
"Che incosciente e non ha nemmeno paura! Ma cosa vuole scendere a fare laggiù!" 
Pensò Sanae mentre, trafelata, anche lei aveva imboccato quel sentiero scosceso che si tuffava giù dove le onde si sgretolavano a terra. 
Fortunatamente si era abituata al buio e vedeva abbastanza bene, il piccolo era agile come un capriolo e ormai stava per raggiungere il fondo. 
Non ne era certa, ma da quello che vedeva pareva esserci una piccola zona sabbiosa circondata da alcuni scogli acuminati che scendevano decisi nel mare. 
Le onde bagnavano tutto e si frantumavano contro la corona di scogli che proteggeva un poco il fazzoletto di terra nel quale turbinava l'alta marea. 
Era pericoloso, le onde sembravano molto forti, alcune avrebbero potuto far perdere l'equilibrio al piccolo e portarselo via, nell'oscuro blu del mare profondo. 
Alla ragazza pareva di averlo quasi raggiunto.
"Aspetta! Aspetta!"
Angosciata, Sanae cominciò di nuovo a gridare mentre allungava un braccio verso la figura che la precedeva.
Il bambino però era ancora troppo lontano e continuava a scendere velocemente, probabilmente non la sentiva nemmeno: erano completamente immersi nel fragore del mare.
Il bimbo giunse tra le rocce e da lì nel piccolo fazzoletto di terra, dove cominciò a giocare con l'acqua. 
Le onde che si abbattevano sugli scogli lo sovrastavano, bagnandolo, con gli spruzzi di schiuma. Il piccolo saltava tra una pozza e l'altra mentre cercava di afferrare la schiuma delle grandi onde. 
Finalmente Sanae lo raggiunse.
"Ehi! ma cosa ti è saltato in mente! Scendere fin quaggiù da un sentiero così esposto e pericoloso solo per giocare con l'acqua! Più in là c'è una spiaggia, sono certa che ha anche un comodo passaggio e non è così esposta e pericolosa!"
Il bambino si fermò guardandola in silenzio.
Sanae tutta bagnata, a piedi scalzi con il vestito strappato e un'espressione a metà tra il sollevato e il rabbioso continuò esasperata.
"Sto parlando con te! Non hai nulla da dire?...Ehi!..."
Il piccolo, incurante delle onde che lo bagnavano e del pericolo corso, la squadrò da capo a piedi poi, con tranquillità osservò:
"Non sono sceso per giocare con l'acqua!"
La risposta fu disarmante ma nella sua semplicità fu anche irritante. 
Sanae non ce la faceva più e avrebbe voluto gridare la sua angoscia e preoccupazione, ma si appellò a tutta la calma che possedeva.
"Mi spiegherai più tardi cosa volevi fare, andiamo via ora: è pericoloso, le onde sono molti forti, coraggio, ti aiuto io!"
Con un gesto della mano lo invitò a muoversi senza attendere una risposta e lo aiutò a risalire.
I due non si dissero nulla: il bambino camminava avanti a Sanae senza timore e lei lo seguiva consigliandolo sul percorso.
Arrivati sulla cima, prima che Sanae prendesse coscienza del fatto di essere al sicuro, il bimbo la prese per mano.
"Andiamo, vieni. Laggiù potremo asciugarci e parlare."
Le spiegò.
Il piccolo parlava sicuro, come se fosse padrone della situazione totalmente, e indicava una dependance della villa.
La ragazza lo seguì dimentica della festa, di Tsubasa e di tutti i suoi pensieri bui. 
La mano del piccolo era calda e la stretta decisa. Infondeva calma e sicurezza. Era lui che la guidava ora.
Sanae aveva la chiara impressione che, con determinazione e oculatezza, il bambino tentasse di occuparsi di lei guidandola verso quella casa. 
Sembrava molto più adulto dei sei, sette anni che dimostrava. 
Era uno strano bambino davvero.
Giunti alla porta, il bimbo bussò mentre entrando chiedeva permesso. Dominava perfettamente la situazione.
Sanae si fermò sulla soglia.
Nella stanza illuminata appena da una lampada e da un camino, stranamente acceso data la stagione, non c’era nessuno. L’ambiente era accogliente e, malgrado non fossero attesi, sul tavolo erano posate due tazze fumanti e dei biscotti al burro la cui fragranza pervadeva la stanza. Sulle sedie di legno accostate al tavolo erano adagiati dei vestiti asciutti e puliti.
“Coraggio entra, non avere paura, conosco bene la persona che abita qui. E’ gentile e, anche se ora non c’è, avrà piacere di aiutarci.”
La invitò il bimbo sconosciuto.
Sanae si convinse, si avvicinò al tavolo, vi si poggiò con le mani chinando il capo e la schiena come schiacciata da una grande stanchezza. 
Chiuse gli occhi un istante e quando li riaprì si rivolse al piccolo spericolato.
“Perchè giocavi sul bordo del precipizio? Cosa volevi fare laggiù tra le onde? Potevi morire lo sai?”
Il bambino finì di cambiarsi, pose i vestiti bagnati vicino al camino, e poi guardò la moglie del capitano dritta negli occhi.
“Non stavo giocando. Non era per gioco: io sono sceso per salvare te...Sanae.”
 
Continua...

E rieccomi dopo la lunga pausa estiva, l'avventura di Sanae è solo all'inizio, si può dire che inizia ora...
Grazie a tutti quelli che mi seguono!

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Capitolo 6
*** Il vento scompiglia le pagine ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!
 

Il vento scompiglia le pagine

 

Sanae rimase impassibile; sembrava non avesse udito le strane parole appena pronunciate dal bimbo.
L'atmosfera immobile e calda si ruppe: dalla stanza adiacente fece il suo ingresso un vecchio dal sorriso cordiale, portava altri biscotti e stringeva sotto il braccio un libro sgualcito. Egli salutò con un cenno del volto, per nulla stupito di vedere Sanae. Posò i biscotti, si sedette su una poltrona accanto al camino, apri  il libro dalla copertina di pelle rossa, e cominciò a sfogliarlo. 
Del tutto dimentico dei due ospiti, si immerse nel suo mondo.
Dalla finestra aperta giungeva il fragore lontano delle onde incessanti e disperate.
Alla moglie del capitano pareva una nenia e, nel torpore che le procurava il rumore, ella soppesava pensosa le frasi del piccolo che le stava di fronte.
La bocca si piegò in un sorriso mentre il volto assumeva un'espressione più divertita che incredula.
"Per salvarmi...Certo, certo...Ma se mi sono quasi rotta l'osso del collo per venirti in aiuto!"
Sanae, inconsapevolmente, alzò la voce.
Il bambino, per nulla stupito dall'affermazione, riprese.
"Sii sincera, avevi una cosa in mente e non l'hai fatta!"
La ragazza rise di nuovo buttando indietro la testa.
"E cosa avrei avuto in mente? Sono curiosa, sentiamo!"
Il bambino continuò a scrutarla con attenzione e, per nulla scoraggiato dalla piega che stava prendendo il discorso, continuò.
"Il suicidio Sanae, il suicidio: tu volevi buttarti e io dovevo impedirtelo. Ho colto il tuo pensiero e ho deciso di scendere dal dirupo. Sapevo bene che se mi avessi visto in pericolo saresti corsa in mio aiuto abbandonando il tuo sciocco proposito. Ecco come ti ho salvata!"
La giovane si fece seria ma non perse il suo sarcasmo e replicò in tono divertito ma teso.
"Mmmhh...Già, già...Interessante."
Le labbra della ragazza mantennero la sfumatura canzonatoria che avevano acquisito sin dall'inizio dello strano dialogo. 
Il piccolo la stuzzicò ancora.
"Ti sei graffiata Sanae, guarda: ti sanguina la gamba. E hai ancora indosso il tuo vestito tutto bagnato e strappato...Ti prenderai un malanno."
La moglie del capitano osservò la sua ferita poi alzò lo sguardo ma non per vedere con gli occhi: ella prese a vagare nel nulla. Quella frase così innocente la turbò. Cominciò a rincorrere i suoi pensieri che, con un filo di voce che si faceva sempre più sottile, si rivelarono.
"Già...Un malanno...Ma che importa? Sono un'ombra io. A chi interessa quello che succede alle ombre quando scompaiono scacciate dal fulgore del sole. Dove vanno? E...Soffrono? Soffrono mentre il sole le cancella con la sua luce? Il sole le ferisce e le scaccia; nessuno le vede più, nessuno le cerca. Se ne stanno sole e accartocciate in un angolo. E poi muoiono...Poi muoiono forse. Oppure continuano a vivere nell'indifferenza, un'esistenza tale e quale alla morte!"
Il piccolo sussultò. Quell'ombra nel cuore di Sanae era ben radicata, non sarebbe stato facile impedire ai fantasmi della giovane di obnubilarle la mente e rapirle l'anima stanca.
"Sanae! Non parlare così, tu non sai quello che dici! E' ridicolo che tu possa pensare di andartene in questo modo, buttando la tua vita con tanta leggerezza!...SANAE!"
Non fu l'espressione di rimprovero a risvegliare l'attenzione della ragazza, né le parole brusche e schiette pronunciate d'un fiato. Fu il suo nome, Sanae, quel nome che nessuno ricordava mai.
"Il mio nome!...Ehi un momento, come sai il mio nome?"
Il bimbo sorrise trionfante: aveva fatto centro, la donna era di nuovo con lui, sulla terra, nella realtà. Doveva stare molto attento però.  Sanae era debole e vulnerabile più che mai: una parola sbagliata o un gesto di troppo avrebbero potuto sconvolgere il suo fragile equilibrio costringendola a rifugiarsi nei bui meandri che la frustrazione aveva silenziosamente scavato in lei. 
Era la notte decisiva e non doveva perderla!
"Io so tutto di te, conosco la tua vita nei dettagli, da sempre: fin da quando eri piccola. Sono un angelo, sono qui per salvarti Sanae."
Ella scosse la testa, voleva ridere ma nello stesso tempo voleva avere fiducia. Solo poco prima era stata sul punto di farsi catturare dalla voce del vuoto perché dunque non poteva ascoltare ora la voce di un angelo? Voleva disperatamente fidarsi ma scelse di difendersi. Chiuse gli occhi istintivamente mentre parole amare e pungenti, che non sapeva fermare, uscivano dalle sue labbra.
"Ma che bella storia!...E...Sentiamo dai...Angelo, dove sono le ali?"
Il piccolo sospirò ma non si perse d'animo e ignorò completamente le dure parole che come pietre gli aveva scagliato addosso. La ragazza che gli stava dinanzi lo voleva ferire. In fondo lui, un angelo, le vedeva nel cuore e l'aveva sorpresa in un momento intimo, nel suo momento di massima debolezza, del quale, certo, non andava orgogliosa.
"Ascolta...E' molto bella la luna Sanae, silenziosa e dolce si attarda nella notte per illuminare la via di coloro che vagano al buio, e li consola. La luna non è affatto stupida e insulsa: tramonta piano al sorgere del sole per non lasciarlo solo, e si perde con lui in un lungo abbraccio mentre la notte sfuma lentamente nel luminoso giorno. Il sole, solitario, splende alto nel cielo e attende. Attende il tramonto per scolorare nel buio della notte abbracciando nuovamente la sua luna. Il sole e la luna si amano, si compensano e si aiutano Sanae."
Erano delle parole stupende, senza dubbio. 
Tuttavia non placarono la moglie del capitano anzi, anche in quelle frasi piene di speranza e amore ella non seppe trovare altro che tutta la sua inutilità e il suo essere luna e ombra.
"Come sai questa cosa della luna?!...Ah lascia perdere...Non posso nemmeno essere la luna dunque: magnifico ho pure sbagliato paragone! Nemmeno questo so fare. Io...Io sono inutile, a che serve una persona della quale nemmeno ci si ricorda il nome?"
Non terminò la frase e strinse le labbra in una smorfia. Si girò dando le spalle al piccolo: non voleva guardarlo. Lui sapeva troppe cose, sapeva più di quanto non sapesse lei. Era solo un bambino, angelo o demone che fosse non le importava; ciò che era vero e la infastidiva era tutto quello che sapeva e che diceva. Conosceva e vedeva molte cose della sua vita, molte più di lei. Con la sua innocenza e la semplicità delle parole che usava Sanae aveva la sgradevole impressione di essere nuda e senza difese sotto il suo sguardo indagatore. L'esile figura della giovane si fece ancora più sottile mentre accostava le braccia al petto nascondendovi il viso e lasciando intuire le sue lacrime.
Il bimbo si rattristò ma non le diede tregua.
"E tu Sanae?...Tu lo dici mai il tuo nome alle persone? Se non sbaglio è Tsubasa che dice il tuo nome, lo fa sempre, egli ti presenta come sua moglie Sanae e tu poi non parli. Lasci che sia lui a condurre, lui si occupa di te e ti presenta. Ti presenta anche quando non è con te, quando ti chiedono, per esempio per strada, se sei sua moglie. Cosa rispondi tu? Nulla, annuisci fiera e ti culli in quella notorietà riflessa. Ti piace essere riconosciuta, e non c'e nulla di male in questo Sanae, ma se vuoi essere qualcuno devi dire chi sei. Devi dirlo tu, non lasciare che lo dicano gli altri per te perché...beh...Le persone potrebbero non conoscere mai il tuo nome...Pensaci su ma prima...Forse il tuo nome lo devi dire prima a te stessa."
La moglie del calciatore si voltò di scatto sconvolta.
Non traspariva dolcezza dagli occhi bensì rancore. 
Sanae percepiva in sé un'immensa rabbia pronta ad esplodere, quel bambino la faceva sentire a disagio  con le sue presunte verità su di lei e il confronto diventava snervante.
"BASTA! Stai zitto!...E cosi Tsubasa mi fa da papà secondo te e io sono una sorta d'impiccio. Hai visto? Avevo ragione io: non dovevi fermarmi, forse per lui sarebbe stato meglio! Si forse sarebbe meglio se io mi levassi di torno!"
Sanae picchiò ripetutamente i pugni sul tavolo e urlò sfogando tutta la frustrazione a lungo sopita. Poi prese a camminare. Si agitava percorrendo avanti e indietro la stanza come una tigre in gabbia.
"Ah...non sarà facile" constatò il piccolo volgendo gli occhi al vecchio sulla poltrona: Sanae sapeva rigirare tutto a modo suo. Distorceva ogni cosa, ai suoi occhi un sorriso poteva tramutarsi in un orribile ghigno e le parole di speranza divenivano veleno nelle sue orecchie per alimentare la sua assurda convinzione riguardo alla vita che aveva vissuto.
Tuttavia, per quanto cercasse di offenderlo, doveva andare fino in fondo. Lui incalzò.
"Davvero pensi che uccidendoti risolveresti qualcosa? Pensi che coloro che ti stanno vicino si sentirebbero meglio? Di certo tutti saprebbero il tuo nome, per un giorno, e poi? Esso verrebbe spazzato via dai titoli dei giornali del giorno dopo e tu ritorneresti nell'ombra o, peggio, verresti inghiottita dal nulla per sempre!"
Sanae si fermò guardandolo con ebbra soddisfazione: aveva vinto lei, lei era un ombra, lei era la luna, l'ombra del sole! E tale sarebbe rimasta. Persino lui, l'angelo, aveva dovuto ammetterlo. Lei sarebbe stata inghiottita dal nulla in ogni caso!
"Lo vedi? L'ombra e l'oblio sono il mio destino, io non ho nome, io non esisto. Non esiste una persona che non viene ricordata col suo nome! Vai a salvare qualcun'altra, non sei l'angelo per me, ti sarai sbagliato. Sono nata per non esistere, ma perché poi sono nata...Sarebbe stato meglio non ..."
Interruppe la frase. 
Rise ad alta voce ma in quel riso non vi era gioia. Era amarezza quella che provava. Chissà che non fosse proprio quella la sensazione che avvertivano le ombre divorate dal sole, o la luna oscurata dall'astro nascente mentre le strappava via la poca luce che ella aveva osato rubargli. 
Il bimbo strinse i pugni e chiese, curandosi di scandire bene le parole.
"Che hai detto Sanae?"
La ragazza era un fiume in piena e, con il volto ormai trasfigurato dalla pena e dalla rabbia che covavano in lei, sottolineò priva d'intonazione
"Dico che sarebbe stato meglio non fossi mai nata!"
Trafitto da quelle parole il piccolo dapprima si rabbuiò poi intuì in esse la via.
"Che ne dici? Non è una cattiva idea, potrebbe anche funzionare..."
Parlando si rivolse nuovamente al vecchio che poco prima era entrato.
Dalla finestra aperta irruppe un vento gelido e sibilante.
Le ante cominciarono a sbattere e le lunghe tende, mosse dalla violenza dell'aria, cominciarono una danza impetuosa che riempiva la stanza.
A Sanae pareva che non fosse il comune sibilo del vento. Il vento urlava; urlava con voci di persone e sapeva di ricordi perduti e dolori vissuti. 
Voci di genti lontane e pianti di bambini si mescolavano sfregiando l’aria col loro lamento.
Il vecchio era scomparso e il libro, abbandonato sulla poltrona, si aprì d'improvviso. Il segnalibro volò via volteggiando mentre il turbinio del vento scompigliava le pagine inermi. 
Un freddo innaturale penetrò nelle ossa della ragazza e, per un istante, fu sul punto di soffocare come se mani invisibili le schiacciassero il petto e le stringessero la gola stritolandola in un abbraccio mortale.
Un malinconico pianto fu l'ultima cosa che ella udì, poi il vento tacque e tutto si fermò: l'aria, le tende, le ante delle finestre, le pagine del libro. 
L'amichevole caldo del camino si diffuse abbracciando ogni cosa.
L'angelo levò lo sguardo su di lei e, imperioso e sicuro, parlò

"Sei esaudita Sanae, tu non sei mai nata!"

Continua...

N.B. Grazie a tutti coloro che hanno letto e a chi ha recensito. In particolare vorrei dedicare questo capitolo a Khrys e Shike, grazie alle loro parole ho compreso meglio cosa far dire al piccolo Angelo o...demone...chissà! 

A presto

Eldarion

 

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Capitolo 7
*** Quasi a casa ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!
 

Quasi a casa


 

 “Tu non sei mai nata!”


La voce dell’angelo, limpida e dura come un diamante, echeggiò nella stanza riempiendola.
Quelle poche semplici parole risuonavano ancora tra le pareti e nelle orecchie di Sanae.
Ella, impassibile, non si mosse minimamente.
Restò a fissare il vuoto respirando appena, la sua esile figura pareva confondersi con la calma stagnante della sala.
La ragazza, nonostante quella frase, non aveva l’impressione che la vita le fosse stata strappata via, anzi, si sentiva esattamente come prima, né più né meno. Era la stessa, la stessa persona inutile.
La moglie del capitano cominciò a ridere nervosamente, di nuovo!
Non era come pensava. Si sarebbe aspettata di scomparire e invece era ancora là, poteva stare in piedi, udire, respirare e parlare. Poteva persino ridere, ridere ancora e ancora...Ridere di lei, dell’Angelo e della sua sciocca vita anche.
“Non sono nata eh...Davvero?...AH già...Il vento! Dimmi: è stata la tua piccola bufera a cancellarmi? AH AH...AH...C’era bisogno di fare tanto chiasso...Angelo?”
Lo sguardo di Sanae era carico di sfida.
Il piccolo continuava a tacere senza badare al sarcasmo col quale Sanae lo sfregiava continuamente; quella giovane donna era davvero un osso duro, pensava. Sorrise però, un sorriso indulgente: conosceva bene, lui, la fragile durezza della ragazza che gli stava dinanzi.
Le si avvicinò e, puntando il suo sguardo dritto negli occhi  scuri di lei, disse solamente
“Non ti sanguina più la gamba Sanae.”
A quelle parole, apparentemente così stupide e prive d’importanza, la moglie del capitano si destò dal torpore che l’aveva colta e cominciò ad osservarsi.
Era vero: la gamba non sanguinava più e non solo anche le scarpe erano come nuove, il vestito asciutto e pulito e i capelli in ordine. Non v’era sul suo corpo nè sugli abiti alcuna traccia di graffi, sabbia e salsedine. Stette in silenzio con la bocca semi socchiusa cercando invano una spiegazione.
“Già...Che strano.”
Disse rassegnata con un filo di voce.
Il piccolo intervenne per farle comprendere meglio ciò che accadeva.
“Non stupirti Sanae, è naturale: tu non sei nata, non esisti, non sei mai scesa in fondo alla scogliera per salvarmi, dunque non sei ferita, né bagnata.”
Sanae si tastò nuovamente l’abito e si carezzò la gamba in corrispondenza della ferita ormai scomparsa. Poi alzò gli occhi sul bimbo e di nuovo rise. Ella stessa si sorprese del suo modo di comportarsi, non rideva mai così tanto, non in quel modo cos' pieno di ansia, rabbia e dolore. Rideva certo ma la sua risata era sempre stata limpida e cristaòlina, una risata piena di gioia che invadeva il cuore e scaldava l'aria ora invece quelle sue risa erano solo un modo per ferire quel piccolo, per sfuggirgli forse... Sanae sapeva tutto ciò ma non riusciva a cambiare il suo modo di porsi in quella strana situazione.
E ancora schernì l'Angelo che, paziente, era sempre lì ad ascoltarla.
 “Insomma...Sono come nuova! Bel lavoro, bravo, bravo Angelo...Notevole, notevole davvero...AH AH AH...Non so come tu abbia fatto ma ora sono stanca, voglio tornare alla festa, voglio bere! Ho bisogno di bere qualcosa. Il gioco è finito, vieni con me piccolo, basta scherzare ora; magari troveremo anche i tuoi genitori...Ma come...Come ti chiami?”
Il bambino sospirò, il confronto con la giovane era decisamente snervante e impegnativo. Era una donna forte e fragile al tempo stesso.
“Warashi, il mio nome è Warashi”
Poi la prese per mano e la condusse fuori nel grande giardino.
A Sanae parve che la fioca luce delle fiaccole accese nel parco avvolgesse la villa in un dolce alone di malinconia. Lentamente si avvicinavano alla balconata, mano nella mano, e la ragazza aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di stonato, non sembrava la stessa festa, la stessa serata che aveva abbandonato poco prima.
Una volta di più si diede della sciocca: evidentemente si era fatta suggestionare dalle parole del piccolo che diceva di essere un Angelo, doveva comunque ammetterlo: il bimbo aveva orchestrato una bella illusione.
Salì i gradini dell’ampia balconata e, sempre insieme al suo piccolo accompagnatore, entrò nel salone della festa.
Si guardò intorno cercando Tsubasa, non lo vide.
Si fece strada anelando a un volto conosciuto ma tutti le parevano diversi, indifferenti e ignoti; erano altre persone, erano poche persone e sembravano molto tese. Non erano là per festeggiare, l’atmosfera sembrava più quella di una riunione di affari e non una festa per la vittoria.
Sanae aveva la gola secca.
Istintivamente lasciò la mano dell'Angelo e si avvicinò a un cameriere che portava dei bicchieri; ne prese uno. Lo bevve d’un fiato, era alcolico ma non sentì alcun sapore, capì solo che era forte e che Tsubasa era scomparso, non lo vedeva da nessuna parte.
Il cuore cominciò a battere incontrollato quando, finalmente, smise di galoppare. Vicino alla finestra aperta c'era qualcuno, un volto conosciuto: poco lontano c’era Rivault, solo, sorseggiava qualcosa pensoso.
La moglie del capitano si fece coraggio e lo raggiunse, lui l’aveva vista ma non le sorrise, restò granitico e inespressivo mentre la guardava avvicinarsi.
Sanae aveva la sensazione di essere completamente fuori posto, ma si fece coraggio e salutò il calciatore con tutta la naturalezza che possedeva.
“Ciao Rivault, come va? Immagino sarai euforico anche tu per la vittoria; sto cercando Tsubasa, sai dove posso raggiungerlo?”
Sanae era partita parlando velocemente e con sicurezza, tuttavia le parole le morirono in gola piano piano mentre osservando lo stupore crescente del ragazzo si rendeva conto che lui non aveva la minima idea di cosa lei stesse dicendo.
Non si sbagliava, la risposta di lui la raggelò in un istante.
“Vittoria?! Non so di che parla signorina, io non la conosco e non ... Tsubasa, Tsubasa ... Se sta parlando del giapponese non gioca con noi. Ma lei chi è?”
Sanae per la prima volta si sentì persa, era davvero una sconosciuta agli occhi di Rivault! 
Ecco!
Ecco la sensazione di sentirsi nessuno, invisibile, inutile, inesistente, un’intrusa.
Le mancava il fiato e le girava la testa. Respirava ma non prendeva ossigeno, l’aria entrava col respiro affannato e le bloccava lo stomaco che cominciava a dolere.
La serata non era la serata alla quale lei aveva accompagnato Tsubasa, nemmeno c’erano le stesse persone, nemmeno c’era una vittoria da celebrare, nemmeno c’era Tsubasa, nemmeno sapevano chi fosse!
Seppure visibilmente turbata, Sanae insistette, non era possibile, lei lo conosceva quel calciatore avevano parlato tante volte, era persino stata a casa sua, doveva ricordarsi di lei, della moglie di Tsubasa Ozora! 
Si rianimò e continuò imperterrita il suo discorso.
“Come chi sono?! Ma sono Sanae, Sanae Nakazawa la moglie di Tsubasa Ozora. Possibile che non ti ricordi di me, sono stata anche a casa tua, a cena e più di una volta...”
Lo sguardo cupo, a tratti sconcertato, di Rivault lasciava chiaramente intendere che no, lui non la conosceva affatto!
“Ma che sta raccontando? Signorina, non so chi sia lei, e non conosco Tsubasa Ozora non abbiamo mai giocato insieme, lui era nella squadra B e non ci è rimasto per molto ... Non so chi sia lei né come sia entrata qui ma la avviso: questa è una riunione privata, lei non è stata invitata e dovrebbe andarsene!“ 
Le parole glaciali dell’uomo furono come una stilettata nel petto: non la conosceva e non giocava con Tsubasa!
Com'era possibile? 
Sanae, in preda alla paura, si lasciò andare un'ultima volta nel tentativo disperato di farsi riconoscere.
“Io sono Sanae devi ricordarti! Rivault, Rivault ti prego, ascolta, dimmi dove si trova Tsubasa...”
Il tono concitato e al contempo supplichevole della ragazza attirò l’attenzione degli altri ospiti.
Nel giro di pochi minuti Sanae si trovò circondata dagli incaricati della sicurezza che le facevano domande su chi fosse e come fosse entrata. A poco valeva il suo nome e a nulla serviva menzionare Ozora: non lo conoscevano, lui non era mai stato là, mai!
Sanae ebbe l’impulso di scappare e cercò di aprirsi una strada.
Tutti la guardavano come fosse una pazza.
“LASCIATEMI! Lasciatemi andare, voglio andare via ...Non è necessario chiamare la polizia me ne vado ... Lasciatemi ho detto ... Warashi! WARASHI...dove sei?”
Il piccolo apparve d’improvviso.
“Sono qui, dammi la mano”
Il bambino la prese e la portò via.
Sanae non sapeva spiegarselo ma il muro di persone che la circondava solo poco prima era svanito, tutti si spostarono lasciandoli passare.
Uscirono. 
La ragazza si diresse verso quello che ricordava essere il parcheggio.
Giunti nello spiazzo il bambino la fermò con decisione.
“Che cosa vuoi fare?”
Era chiaro che la moglie del capitano continuava a voler vivere la vita che aveva, non aveva capito o non voleva rendersi conto di come stavano davvero le cose per lei.
La giovane rispose con leggerezza alla domanda e senza guardarsi intorno.
“Che domande fai, voglio prendere la macchina! Come credi che possiamo andarcene da qui? Ho io le chiavi, Tsubasa ha parcheggiato e me le ha lasciate.”
Mentre parlava scrutava il parcheggio.
Non poteva essere vero: non v’era traccia della sua auto! 
Sanae di nuovo senti l’agitazione impadronirsi di lei, un immenso insopportabile calore la invase.
L’auto non c’era! 
“Non capisco, sono certa che l’aveva lasciata qui...L’avrà presa Tsubasa, avrà avuto le chiavi di riserva, ma perchè andarsene così... Perché mi ha lasciata qui, sola...”
Pronunciava quelle parole per dare sfogo all’angoscia che la attanagliava, e forse per darsi conforto anche. Non ci credeva però, non credeva a ciò che stava dicendo e non comprendeva cosa stesse accadendo.
“Forse sono pazza”.
Ammise amaramente a se stessa mentre guardava continuamente e incessantemente nello spiazzo e poi nella borsetta alla ricerca delle chiavi.
“Non le hai!”
Il piccolo, perentorio, si sentì di interrompere il penoso turbinio che si era impossessato della ragazza. Quest’ultima si bloccò.
“Non ho cosa, scusa?”
L'angelo scosse la testa.
 “Le chiavi dell’auto, non hai un’auto, tu non esisti Sanae, ricordi? Non esisti, non hai preoccupazioni, non hai amici né conoscenti.”
Sanae lo guardò e una volta di più pensò di essere caduta in una trappola e chissà quale era lo scopo del bambino e chi orchestrava le scene che stava vivendo.
Magari era uno scherzo, un brutto scherzo che stava durando anche troppo. chissà... Forse era un'idea di Tsubasa! Se era stato lui non l’avrebbe passata liscia!
Comunque fosse doveva uscirne, avrebbe lottato: lei non era pazza, sapeva bene chi era!
Distolse lo sguardo e parlò, secca rivolta al bambino.
 “BASTA! Basta io me ne vado, voglio tornare a casa, andrò a piedi! Non so chi sei e che ruolo hai in tutto ciò che sta accadendo ma... Beh...Se tu non hai un posto dove stare ti conviene seguirmi piccolo!”
Gli prese la mano e corse verso il cancello, fuori.
Non sapeva nulla di quel bambino, se fosse un Angelo, un demone o, più semplicemente, un imbroglione che voleva spillare dei soldi.
Chiunque fosse e cosa volesse non aveva poi tanta importanza, ciò che contava era che non si sentiva di separarsi da lui.
Senza nascondere la preoccupazione e le lacrime Sanae prese a camminare lungo la discesa in direzione di Barcellona, in silenzio e singhiozzando.
Le facevano male i piedi e le bruciavano gli occhi, avrebbe dato qualsiasi cosa per stare accanto a Tsubasa a casa sua e non vedeva l’ora di arrivarci. Mentre pensava a come sarebbe stato bello riabbracciare il capitano e perdersi nei suoi abbracci e tra le le parole che si sarebbero detti, vide un Taxi che si avvicinava.
“Ah...Siamo fortunati, un taxi!”
Sanae fece cenno al conducente che si fermò.
Salirono e lei diede l’indirizzo della sua amata casa nel centro di Barcellona.
L’auto ripartì.
Sanae si sentiva già meglio, più sollevata, era quasi a casa ormai...

 

Continua...

N.B. Eccomi, scusate il ritardo è stato un periodo molto pieno, spero ci siate ancora! 
E' un capitolo forse un po' angosciante, la nostra Sanae inizia il suo viaggio, speriamo bene!
Ora vi saluto e grazie a tutti coloro che continuano a seguirmi :)
Vi auguro un Felice Natale, che vi porti serenità!

A presto 
Eldarion

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Capitolo 8
*** La finestra chiusa ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!
 



La finestra chiusa

 

 

Sanae e il piccolo Warashi si accomodarono sui sedili del taxi.
Non si guardarono e nulla si dissero per tutto il tragitto: pareva loro di non poter infrangere la quieta cortina silenziosa che, come un incantesimo, li avvolgeva.
Il piccolo si limitò a osservare la moglie del capitano. 
I capelli neri incorniciavano il volto teso, ma bello. Gli occhi lucidi guardavano distrattamente le forme che fuggivano via dal finestrino inghiottite dalle ombre. Le mani intrecciate e strette al petto come a cingere il corpo in un abbraccio consolatore. Il respiro appena accennato. 
Cullata dal movimento dell’auto nella notte scura, la ragazza piombò in un sonno profondo e buio, completamente privo di sogni ristoratori. 
Le mani della giovane si arresero infine alla stanchezza slacciandosi piano e scivolando sul sedile.
Warashi sospirò carezzandole lievemente le dita affusolate.
Per tutto il tempo egli tenne la sua piccola mano innocente poggiata sopra quella di Sanae, la sentiva ghiacciata e non si scaldò.
“Ehi...Signorina, signorina siamo arrivati.”
Il breve viaggio era terminato: la voce del taxista risvegliò la moglie del capitano.
“Si, si...Scusi, ecco ora...Io...”
Non terminò la frase restando con la bocca aperta mentre frugava nella borsetta. Non c’erano i soldi...Non c’erano più.
“Non capisco, li ho perduti...”
“No Sanae, li hai dati a me, ci penso io, non temere.”
Il provvidenziale intervento di Warashi alleggerì l’angoscia della giovane.  Scesero senza parlarsi, la ragazza sapeva perfettamente di non aver dato alcuna cosa al bambino. 
L’auto ripartì.
Nell’atmosfera surreale, Sanae mosse qualche passo verso il cancello della sua casa e si irrigidì. 
Non la riconosceva, niente, assolutamente niente, raccontava la sua storia e quella della sua famiglia. Non c’erano voci, né luci ad illuminare le finestre e il grande giardino. Al contrario, solo i freddi lampioni sulla strada le consentivano di riconoscere il cancello arrugginito legato con una vecchia catena che nessuno aveva provveduto a fissare con un lucchetto. Il resto, l’interno del giardino e la casa, erano inermi sagome dimenticate da molti anni.
Non domandò spiegazioni al piccolo, anzi, nemmeno lo degnò di uno sguardo mentre, indifferente, scioglieva il nodo del catenaccio e spingeva il cancello che cigolava stridulo ferendo la quiete della nottata barcellonese.
Si addentrò tra l’erba alta e i rovi che ormai avevano invaso ogni angolo del terreno.
“Come può essere.” Mormorò a se stessa.
La casa era vuota, ricoperta di muschio e altre sterpaglie, i vetri rotti, i muri scrostati e la porta d’ingresso mezza aperta. 
Ormai abituata all’oscurità, la ragazza varcò la soglia dell’abitazione disturbando uno spesso strato di polvere e terra che scricchiolavano sotto i suoi piedi. Girò per le stanze vuote e fatiscenti. 
La finestra che lasciava sempre aperta sul cielo, quella dalla quale entrava l’aria che sa di mare, era chiusa. 
La finestra era chiusa e gli scuri ben serrati: un’insostenibile inquietudine la colse e gridò...
“TSUBASA! DAIBU! HAYATE!...DOVE SIETE?... BASTA!!!! Tsubasa basta adesso! Non è divertente, smettetela subito!... Saki?!”
La voce, perentoria, le tremava per la forte tensione ma continuò a chiamare fino a supplicare.
“Tsubasa ti prego! Ma che ti è saltato in mente? E come hai fatto, dove l’hai scovato questo bambino...MAH...Lasciamo perdere vieni fuori su...AH...Non posso credere che anche Yukari e Ryo si siano fatti coinvolgere in questa tua stupida bravata! Beh...Ryo puoi anche averlo convinto ma Yukari...Yukari no! Andiamo Yukari, almeno tu, ragiona ti prego. Sono stanca! Non ho più voglia di giocare, basta... Non lasciatemi sola... Sono stanca...”
Il breve monologo della ragazza morì soffocato dalle lacrime: l’avevano abbandonata là.
L’inquietudine divenne terrore.
Ebbe la sensazione di precipitare in acque profonde; era come se stesse precipitando in un profondo abisso, lei arrancava cercando un appiglio, cercava di nuotare per tornare a galla ma invano.
Era sola, piccola e insignificante.
Corse fuori e mentre usciva il timore e la solitudine si tramutavano in collera accesa.
Warashi l’attendeva paziente sulla strada, proprio nel punto dove il taxi li aveva scaricati.
Senza scomporsi, ascoltò la furia delle parole che Sanae, visibilmente adirata e smarrita, gli rovesciò addosso.
“MA CHI SEI TU?!...DOVE MI HAI INTRAPPOLATA?! Avanti dimmi che è successo! Dove sono tutti? Che mi hai fatto?! Chi sei...Sei un mago? Mi hai ipnotizzata? PARLA! PARLA! AVANTI PARLA!”
Il piccolo oppose a Sanae, che lo scuoteva con decisione, un’ estrema tranquillità e parlò.
“Te l’ho già detto! Perché non vuoi capire? Tu non esisti, non abiti qui, non c’è la tua famiglia perché non ce l’hai: tu non sei nata, non hai vissuto, non ti sei sposata, nessuno ti conosce. E’ semplice, tu non hai identità perché non esisti Sanae!”
La calma così statica dell’angelo acuì il turbamento di Sanae che continuò esagitata ad affermare la sua esistenza.
“Come sarebbe che non esisto? Io ci sono, sono qui...Guardami, puoi vedermi e toccarmi. Come puoi dire che non esisto?! Se non esisto che cosa sono io, chi sono io? GUARDA! Guarda, guarda bene ora!”
Nella concitazione Sanae afferrò la borsa per rovesciarne il contenuto a terra: un fazzoletto bianco, dei guanti da sera, una penna con un taccuino e uno specchietto. Niente altro, solamente le solite cose anonime che si mettono nelle borsette per dimenticarcele. 
Cose comuni che non dicono chi sei.
Sanae, stranita, lasciò cadere la pochette e, arroccata nel suo mutismo, osservava ancora con insistenza gli oggetti sparsi ai suoi piedi.
Meccanicamente si inginocchiò per toccare e contare quelle poche cose e poi, inquisitoria, puntò i suoi occhi negli occhi dell’angelo come se volesse trafiggerlo senza pietà. 
“Non hai altro Sanae, non hai documenti!”
Mormorò dolcemente il piccolo senza abbassare lo sguardo.
Quei lievi sussurri scossero la moglie del capitano.
Si toccò le mani, sulle dita sottili nulla: non aveva la vera, né l’anello di fidanzamento: eppure era certa di averli indossati prima di uscire. Non aveva nemmeno il suo bracciale e toccandolo si rese conto che...
“No! Nemmeno quello hai Sanae!”
La interruppe il piccolo.
“Di che parli?”
Mentì la moglie del capitano.
“Del fiore di Daibu...La rosa di carta.”
Sanae, esausta, abbassò mollemente il braccio e, quasi in segno di resa, inclinò la testa sul petto.
Chiuse gli occhi; preferiva assaporarla ad occhi chiusi l’amarezza. 
“In che incubo mi hai rinchiusa? Voglio tornare a casa, a casa dai miei genitori, portami a casa...”
Il piccolo Angelo si avvicinò abbracciandola e prese a carezzarle la nuca e ad asciugarle il viso.  
Alle parole di Sanae Warashi provò un’immensa tenerezza. 
Era strano, pensò, qualunque età avessero, le persone nei momenti di grande difficoltà e smarrimento desideravano tornare dai genitori; madri e padri erano come certezze di comprensione ed esistenza, forse. Come erano fragili gli esseri umani, come era facile per loro dire certe frasi senza capirne la reale importanza e restarne poi annientati. 
La strinse forte e, delicatamente, con un filo di voce, le spiegò.
“Ma quale casa? Tu non hai genitori...Non è un incubo Sanae, è ciò che hai chiesto. Ricordi? Hai affermato che sarebbe stato meglio non esser nata. Ora sei stata esaudita e, credimi, ti è stato concesso un dono prezioso: vedere come sarebbe stata la vita qui senza di te. Lo so, non è facile e vedrai molte cose strane...Dovrai avere coraggio.”
A Sanae parve che l’angelo crescesse e la abbracciasse sempre di più fino a sovrastarla trasportandola poi in un turbinio di luci.
Il buio della notte era scomparso e tutt’intorno era giorno. 
Warashi si staccò da lei tacito.
La moglie del capitano non riusciva a comprendere come fosse possibile che la notte, nella quale erano stati immersi fino a poco prima, fosse svanita tramutandosi in giorno istantaneamente. 
Si concentrò su se stessa: era ancora in ginocchio, nella stessa posizione in cui si trovava a Barcellona, davanti a casa sua e di Tsubasa. Tuttavia, ora, scrutando attentamente ciò che la circondava aveva la sensazione di trovarsi in un altro luogo. Il profumo dell’aria, il parco, i ciliegi, le strade e le case: Fujisawa, erano in Giappone! 
Un fulgido sorriso illuminò l’espressione ombrosa della ragazza: era a casa, dove era cresciuta, dove c’era sua madre!
“Sono a casa, mamma...Mamma!”
Rianimata si alzò lasciando bruscamente l’abbraccio del piccolo angelo.
“NO...SANAE! Sanae aspetta, ricorda ciò che ti ho detto...Non sei a casa...”
La ragazza non lo ascoltava e, come impazzita, corse via. 
“OH...Accidenti come sei faticosa Sanae...”
Warashi la seguì senza arrendersi.
La ritrovò poco dopo alla meta tanto agognata: era ferma davanti alla casa dove aveva abitato. Immobile e placida come per studiare la situazione.
La casa le parve subito un po’ diversa: non era disabitata tuttavia mancava qualcosa, dava l’idea che non ci fosse vita dentro; sembrava priva di gioia, pareva che quell’allegria di tutti i giorni, che Sanae rammentava perfettamente, fosse venuta meno.
Le finestre erano tutte chiuse.
Deglutì; suonò.
La porta d’ingresso si aprì e ne uscì una donna dal volto severo, quasi arcigno. 
Vi riconobbe sua madre. Gli occhi erano attenti e svegli, proprio come li ricordava, ma non erano sereni; la trovò invecchiata e curva. Non era curva in senso fisico, sembrava piuttosto che la sua anima si fosse piegata sotto il peso degli anni troppo lunghi e pesanti da sopportare.
La donna si avvicinò al cancello dove Sanae attendeva.
Fu la moglie del capitano a parlare per prima.
“Mamma!...Mamma sono io...”

Continua...

N.B. Si si ci sono ancora!!!! 

Volevo segnalare, me ne sono ricordata ora scusate, che l’ispirazione per questa storia è nata dal racconto The Greatest Gift, di Philip Van Doren Stern che lo scrisse nel 1939.

Grazie mille a tutti coloro che mi leggono :)

A presto 
Eldarion

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Capitolo 9
*** Il crollo di Tsubasa ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!
 


Il crollo di Tsubasa


 

La donna di fronte a Sanae, nella quale la ragazza riconosceva a stento la madre, la guardò in silenzio studiandola. 
Alla moglie del capitano parve che un fremito scuotesse quel corpo, e non era gioia. Forse era rabbia: un moto di rabbia repressa.
“Mamma! Mamma sono Sanae!...OH...Mamma sapessi che mi succede, è tutto così strano. Nessuno mi riconosce più ma tu...Tu conosci le stesse persone che conosco io, ti prego, ti prego fammi entrare e abbracciami. Abbracciami come quando ero piccola e tu e papà mi...”
“Basta ora! Non la conosco, io non ho figli!”
La donna, indurita ancor più dal quel discorso supplichevole, interruppe bruscamente Sanae la quale, annientata dalla frase, si aggrappò al cancello e continuò.
“Non è possibile, io sono cresciuta qui con te e papà...Dov’è papà? Deve essere qui, mi ha telefonato ieri proprio da casa!”
“Tuo padre?!”
Rispose la donna sospirando mentre Sanae insisteva ancora.
“Ma sì! Sì...Mio padre, tuo marito...Mamma che ti succede?”
Visibilmente spazientita quella madre sconosciuta troncò la conversazione.
“Ho detto che non ho figli...E mio marito se n’è andato molto tempo fa! Questa è un’altra ragione per cui non mi piacete: se lo conoscete e gli avete parlato siete una delle sue amichette! Ora Andatevene! Non ho niente da dirvi, se lui vi ha lasciata e lo cercate qui vi sbagliate non lo vedo da anni, molti anni!”
La donna girò su se stessa e si diresse verso casa senza dire altro. Non una lacrima scese dal volto della moglie del capitano, troppo scossa per piangere si guardò intorno smarrita.
“Atsushi...”
Mormorò incredula.
Se lei non era nata, era giusto, era più che giusto che la madre non la riconoscesse ma, per quanto la vita potesse essere cambiata per i suoi genitori, Sanae si era immaginata di trovarli felici con Atsushi.
Di nuovo la rabbia si impadronì della giovane che iniziò un’altra folle corsa alla ricerca dei pezzi della sua vita. Corse a perdifiato senza guardarsi intorno, urtando le persone, facendosi strada senza indugio alcuno fino all’asilo dove, se lo ricordava perfettamente, lei accompagnava il suo fratellino.
La costruzione bassa e circondata dai ciliegi in fiore era sempre uguale, e le voci gioiose dei piccoli ospiti animavano il giardino assolato come 
sempre. Prima di entrare Sanae si soffermò a osservare i piccoli alla ricerca di Atsushi: non lo vide.
“Sta cercando qualcuno?”
La voce gentile riscosse la ragazza dal torpore.
“Ah...si...Cerco un bambino di nome Atsushi...Atsushi Nakazawa, mi sembrava che frequentasse questo asilo.”
Sanae, stanca di essere presa per pazza, disse una mezza verità. “Mi dispiace, deve aver sbagliato struttura, c’è un Atsushi ma non è quello che cerca lei. Comunque ora controllo, se vuole seguirmi...”
Sanae seguì l’insegnante e restò con lei mentre consultava i registri attentamente ma senza successo.
“Mi dispiace, è come le dicevo, ho controllato anche gli alunni che hanno già lasciato l’asilo da tempo ma non c’è traccia del bambino che cerca.”
Precisò la maestra gentilmente.
Sanae abbassò gli occhi.
“Devo essermi sbagliata...Naturalmente...”
E lasciò la scuola a testa bassa. Si morse le labbra rivolgendo lo sguardo a Warashi che, come sempre, l’aveva seguita.
“Che è successo? Dov’è Atsushi? Io non esisto, va bene, ma lui cosa c’entra, che ha fatto di male? I miei genitori non hanno avuto solo me, dopo è arrivato Atsushi...Perché? Perché non c’è, perché non vivono tutti insieme felici nella nostra casa?”
Il piccolo angelo era molto triste.
“Non c’è Sanae...Tu non sei nata e nemmeno lui...Vedi Sanae, i tuoi genitori non hanno resistito, non hanno saputo aspettare. Tu non arrivavi e l’attesa, l’angoscia e la delusione li hanno divisi; invece di sostenersi a vicenda nel dolore si sono allontanati fino a separarsi e a dimenticare il loro amore. Non hanno avuto la forza di attendere ancora quel figlio che tanto desideravano e così lo hanno perduto...Sanae...Atsushi non c’è proprio perché sei mancata tu...Tu non c’eri, non eri là a consolare e salvare i tuoi genitori 
perché poi accogliessero anche il tuo fratellino.”
La rabbia di Sanae svanì tramutandosi in lacrime liberatorie.
La ragazza non sapeva spiegarselo ma non provava dolore. Una sorta di rassegnazione prese il posto della volontà di esistere.
“Voglio cercare i miei amici.”
Il piccolo annuì e Sanae s’incamminò lentamente per la via.
Le ombre dei ciliegi e il profumo dei fiori sembrava alleviare le profonde ferite della giovane.
Aveva smesso anche di piangere. Si guardava intorno come a voler fermare le immagini, gli scorci di un mondo al quale non apparteneva più. Chissà cosa le sarebbe accaduto una volta finito il suo viaggio, peccato...Peccato...Forse, pensò, non avrebbe più visto Fujisawa e nemmeno Barcellona,
 i suoi amici. Probabilmente non avrebbe più sentito il calore del sole sulla pelle e la brezza carezzevole scompigliarle i capelli.
In quel momento, solo in quel momento, realizzò che il suo mondo, con tutti i difetti che spesso glielo avevano reso insopportabile, non era poi così male.
Si fermò. Il negozio dei genitori di Ryo era ancora al suo posto. Prese un respiro e attraversò la strada. Quando fu dinanzi all’entrata non ebbe il coraggio di andare oltre. Si bloccò sull’ingresso, sotto il pesante tendone che riparava dal sole di mezzogiorno. Insieme alla rabbia anche il coraggio era sciamato. Fece per voltarsi e andarsene quando... “Posso aiutarla?”
Era la dolcissima voce di Yukari. La sua amica Yukari. Era sempre la stessa, bellissima e sorridente come la conosceva. Quanto avrebbe voluto abbracciarla e dirle chi era, dirle che le era mancata, ma non poteva. La sua amica non l’avrebbe riconosciuta o, peggio, l’avrebbe considerata una matta scacciandola. Sanae, seppure a fatica, trattenne tutte le sue emozioni.
“Si...Certo...Mi chiamo Sanae. Abitavo qui a Fujisawa da piccola, ho frequentato le scuole nella stessa classe di Ryo e Tsubasa, era anche la tua classe se non sbaglio. Sono stata anche manager della squadra di calcio con Te e Kumi e...Beh...Adesso sono qui di passaggio, sto facendo un giro nostalgico e siccome mi ricordavo che il negozio dei genitori di Ryo era da queste parti volevo fare un saluto a lui e ai vecchi amici....Sempre che mi ricordino...”
La moglie del capitano aveva raccontato la sua versione tutta d’un fiato, senza esitazione, recitando il suo ruolo di sconosciuta. Ormai lei non era più lei, anche se aveva un corpo e poteva parlare e provare emozioni, inutile ostinarsi.
Yukari sorrise scrutandola con attenzione.
“Mi dispiace Sanae, ma non mi ricordo di te. Comunque sei la benvenuta. Vieni accomodati.”
E la condusse gentilmente verso un divanetto di vimini circondato da fiori colorati.
“Eccoci qua Sanae, non ho molto tempo ma qualche minuto per chiacchierare e aggiornarti sulla situazione ce l’ho...Dunque vediamo...A quanto pare manchi da molto...Kumi non vive più qua, si è trasferita a Tokyo. Io e Ryo stiamo insieme. Che dire degli altri della squadra... Ah sì! Genzo è sempre in Germania e gioca a calcio con molto successo devo dire. Misaki ha continuato la sua carriera in Francia e ...Non mi viene quel nome...beh...Ti ricordi la Tigre?” Sanae annuì, avida di notizie, e Yukari, ben felice di quel tuffo nel passato, proseguì il suo racconto. “Lui gioca in Italia, non ricordo dove...E così sei stata la manager della squadra...Accidenti è davvero strano che io non mi ricordi di te sai? Ti dirò, non so molto altro, tanti hanno smesso di giocare...Jun è stato operato e ha continuato a giocare per un po’, poi è diventato medico. Di Aoba non so nulla, ricordi quando chiese a Tsubasa di lasciar vincere Jun perché era malato? Il capitano non ebbe la forza di reagire e perdemmo ma jun non perdonò mai Aoba per quello che aveva fatto. Lei gli aveva rubato la vittoria, quella vera, e Tsubasa non lo aveva rispettato come avversario. Per lui fu un vero tradimento, desiderava molto misurarsi col nostro capitano ad armi pari e invece...Anche Tsubasa cambiò molto dopo quell’episodio, è rimasto un altro anno qui in Giappone con la New team ma non era più lo stesso. Quando è partito per il Brasile ci è sembrata più una fuga che altro. Genzo è in contatto con lui, per il resto so che non è più tornato qua in Giappone, ha tagliato i ponti con tutti. Peccato, il fatto è che persino Ryo ha smesso di dedicarsi al calcio, lui non era certo un grande talento ma era bravo. Non so...Si è rotto qualcosa in lui e anche negli altri, forse saranno state le difficoltà, le aspettative deluse, il crollo di Tsubasa...Tanta fatica, tanti sogni e tutto può finire così, in un soffio. Il destino è capriccioso e non è facile tenergli testa, ci si stanca. Probabilmente sarà stata stanchezza...Eppure Tsubasa era così determinato, sembrava una roccia.” Il viso di Yukari, prima luminoso e sorridente, si rabbuiò. A Sanae echeggiavano in testa quelle strane parole...”il crollo di Tsubasa...”

 

Continua

Chissà...forse Sanae ha capito che deve smettere di combattere ma cercare di capire e vivere il suo viaggio e la sua ricerca come un'occasione per guardarsi dentro. Ma cosa sarà accaduto a Tsubasa?
Mah...Grazie ancora a tutti qurlli che mi seguono!

 

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Capitolo 10
*** Il sogno spezzato ***


Disclaimer I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!

 



Il sogno spezzato

 

Le indulgenti mani di Yukari si posarono sopra quelle di Sanae.

In quel tocco la moglie del capitano avvertì un grande affetto.

Yukari, Sanae ne era convinta, era una persona bella: si preoccupava sinceramente per gli altri e, certamente, aveva quello che i libri e i dizionari avrebbero definito empatia.

O forse no.

Forse era tutta un’illusione, un ostinarsi a voler vedere in quella ragazza il fantasma della sua grande amica.

Forse, molto più semplicemente, a Sanae mancava un gesto affettuoso.

In quel limbo dove era ormai relegata, nella sua sostanziale non esistenza, Sanae voleva essere amata e il tocco di quella giovane, che era stata la sua migliore amica, le sembrava l’ultima occasione per avere un po’ di calore umano.

Per quanto ne sapeva, quella non esistenza poteva essere permanente: lo aveva desiderato lei ed era giusto così.

Si era cancellata con le sue proprie parole.

Quella sciocca frase innocente, che spesso aveva pronunciato senza crederci veramente, si era fatta sentenza divenendo al tempo stesso condanna immediata.

Rabbrividì.

“Va tutto bene Sanae?”

La moglie del capitano annuì senza proferire parola.

Yukari, dal canto suo, continuò senza mai lasciare le mani della ragazza.

“È ciò che ho detto sul nostro capitano che ti turba, vero?...Ti capisco, tutti noi siamo rimasti colpiti dal suo comportamento e dal suo cambiamento. Sai, dopo quella prima sconfitta contro Jun, e la sconfitta nel campionato successivo, credo che Tsubasa abbia creduto di aver deluso la sua squadra. Me lo ha detto Ryo, nessuno dei ragazzi gli ha mai dato colpe, ma in fondo...Si, in fondo è umano avere momenti di debolezza; insomma delle incertezze. Probabilmente Tsubasa non lo ha sopportato, chissà...Magari ha pensato di aver mancato come capitano e di non essere all’altezza del suo ruolo così è fuggito in Brasile, scappando via da noi. Nemmeno ha concluso gli studi qui in Giappone, è partito quasi senza salutare, non ha capito che ci sarebbe mancato. Non è più tornato qui a Fujisawa. Solo i ragazzi, quelli convocati, lo hanno rivisto per il World Youth. Il Giappone lo vinse ma non grazie a Tsubasa, egli seppur bravo non fu certo determinante, era bravo come molti altri ma non è stato lui il leader, il perno intorno al quale far ruotare la squadra. La nazionale si è stretta intorno a Matsuyama, a Jun e a Genzo. So che di recente Tsubasa ha lasciato il Brasile per giocare nel Barcellona, ma nella squadra B, che ha poi lasciato prima della fine del campionato. Ignoro che altro sia accaduto, né cosa faccia ora. Non seguo molto le vicende calcistiche...Troppi ricordi...È stato dopo il World Youth che Ryo ha lasciato il calcio. E così, come vedi, ognuno ha preso la sua strada...”

Sanae, fino a quel momento impassibile, ebbe un sussulto: erano arrivati al passato recente di Tsubasa. Suo marito aveva lasciato la seconda squadra prima della fine del campionato, ecco perché nessuno sapeva di lui a quella festa. E una volta via dalla città catalana? 

Yukari, di fronte al mutismo della moglie di Tsubasa, ribadì la sua domanda.

“Va tutto bene Sanae?”

Sanae, completamente irrigidita, si alzò lentamente, come se fosse rimasta immobile a letto per mesi e dovesse riprendere l’abitudine a camminare e muoversi. 

Era lacerante separarsi dal tepore delle mani della sua Yukari, ma era tempo di andarsene.

Voltò le spalle congedandosi con un filo di voce.

“Grazie di tutto, spero sarai molto felice con Ryo, salutamelo, salutami tutti quanti e...”

Ma non terminò la frase: che senso aveva?

Nessuno di coloro che Yukari le avrebbe salutato poteva ricordarsi di lei. 

Anche dire a Yukari che le mancava era fuori posto, nemmeno aveva il diritto di abbracciarla, figuriamoci dirle che le voleva bene! 

Anzi, probabilmente già solo essere tenuta in considerazione era stato molto, troppo, forse, per una che nemmeno esisteva. 

Uscì.

Era fuori... dal negozio, dalla vita.

Sola, alzò il viso per parlare al cielo e alle sue nuvole bianche.

“Noi avevamo vinto quella partita contro Jun, e i campionati e...”

Il piccolo, che era sempre con lei, intervenne.

“Ma tu non c’eri Sanae! Cerca di ricordare: tu avevi organizzato il gruppo di tifosi, tu avevi convinto tutti ad assistere alle partite, tu volevi così fortemente esserci che alla prima partita della Nankatsu contro il Meiwa saresti persino andata a piedi! Tu avevi preparato la bandiera, incitato la squadra, gli amici, i tifosi e anche Tsubasa! Ci tenevi così tanto che nemmeno Hyiuga ti ha messo paura. E dopo la partenza di Tsubasa, tu avevi seguito e incoraggiato tutti.”

“Ma era tornato Misaki! Lui c’era!...C’era!!!!”

Lo interruppe lei alzando la voce.

Il bimbo sospirò.

“Sanae le vite delle persone sono tutte legate tra loro. E se una creatura viene a mancare lascia un vuoto, un vuoto che nessuno può colmare, non è possibile. Ognuno ha un compito, una sua piccola missione speciale: Misaki ha assolto il suo compito, ma non era sufficiente lui solo e il destino ha preso un’altra via.”

Sanae non replicò e iniziò a vagare tra le strade di Fujisawa, la sua amata Fujisawa: com’era bella!

Warashi la teneva per mano scortandola dolcemente nel suo peregrinare.

Passava nei luoghi che conosceva e ricordava: la sua casa, il negozio dei genitori di Ryo, l’abitazione di Yukari, Villa Wakabayashi, La scuola, il campetto da calcio... 

Era tutto ancora là, anche se lei non ne faceva più parte.

Persino il ciliegio dove se ne stava con Tsubasa era al suo posto e fioriva. 

Fioriva!

Fioriva maledetto!

Maledetto e maestoso se ne stava quieto con i rami appesantiti dai bianchi petali impertinenti ed egoisti!

Il ciliegio non se ne curava, non lo sapeva che lei era sparita da quella città, da quella vita; non lo sapeva che lei, proprio lei che si credeva così inutile, un piccolo vuoto lo aveva lasciato. 

All’albero, che egoista, non importava: lui continuava a fiorire come aveva sempre fatto.

Egoista!

Il ciliegio fioriva anche se Atsushi non era nato, se la Nankatsu non aveva vinto mai un campionato, se Jun e Aoba nemmeno si parlavano più, se Ryo aveva lasciato il calcio, se Genzo era in Germania, Taro in Francia e Tsubasa...

“Tsubasa!!!”

Esclamò mentre, sorpresa, si accorse che Warashi l’aveva condotta verso quella che era la vecchia abitazione del capitano.

Lei lo guardò elemosinando una spiegazione.

Il piccolo angelo, serio, la scrutò.

“Ho solo assecondato il tuo desiderio Sanae. Era qui che volevi venire, vuoi sapere come sta lui, vuoi vedere se è qui. Tu speri che sia qui perché hai paura, una tremenda grande paura Sanae! Hai timore di chiedermelo dove si trova lui.”

Detto ciò le lasciò la mano.

I tenui raggi del tramonto illuminavano il giardino della casa di Natsuko.

Le finestre erano aperte, tutte, tranne una.

“E tu chi sei?”

Le chiese una voce vivace.

La finestra della stanza di Tsubasa era chiusa ma Daichi c’era!

Se ne stava lì con un pallone da calcio in mano e la guardava allegro e spensierato.

“Io sono... Sono Sanae, ero una compagna di classe di tuo fratello Tsubasa, sono passata per...”

La ragazza si interruppe: Daichi aveva abbassato gli occhi e perso il sorriso di poco prima.

“Lui non è qui, vado a chiamarti la mamma.”

Si girò e corse in casa ma senza aprirle il cancello.

Poco dopo comparve Natsuko.

Dolcissima, esattamente come la ricordava, ma con un’espressione velata; in qualche modo il suo bel sorriso c’era ancora però era spento come se non ci credesse in quel sorriso che aveva.

“Buongiorno Sanae. E così eri a scuola con Tsubasa. Mi dispiace lui non abita più qui. Io non lo vedo da anni. Se ne è andato in Brasile e, anche se per giocare a calcio è tornato spesso qui in Giappone, non è più venuto a casa da noi, immagino i motivi.”

La madre del capitano abbassò gli occhi addolorata, ma continuò a spiegare.

“Sai...Certamente ricorderai che sogni aveva. È vero non ha vinto il campionato con la scuola ma è diventato professionista in Brasile. Non gli è andata così male eppure, eppure non è stato più lui, è solo un sogno a metà mi disse. So dalla TV che ha lasciato anche Barcellona, niente altro. È irrequieto, come se avesse fallito, come se gli mancasse qualcosa. Non sembra felice e realizzato, non del tutto. Un sogno a metà e ora...Un’altro sogno spezzato. È per questo che non torna da noi, forse teme i giudizi. Io me lo sento, anche se non l’ho più visto, né gli ho parlato. Non so che altro dirti...Ora ti lascio cara.”

Sanae ebbe appena il tempo di ringraziare la donna che, veloce come un’ombra furtiva, rientrò in casa lasciandola sola e senza parole al cancello.

Ella si inginocchiò davanti a Warashi e gli strinse le mani tra le sue.

 

“Dov’è?... Dimmelo, dimmi dov’è lui...”

 

Continua...

N.B. Ci ho messo tantissimo ma ci sono ancora!

Sanae è ormai consapevole della sua non esistenza, e ha paura: non sa cosa le accadrà alla fine del suo viaggio. Ha cercato notizie qua e là, ora però deve andare fino in fondo e finire quel che ha cominciato...Chissà dove la condurrà il fato... Grazie a tutti coloro continuano a leggermi!!!

A presto e buone vacanze a tutti!!! Eldarion

 

 

 

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Capitolo 11
*** L'alba di un nuovo giorno ***


Disclaimer I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.

Buona lettura!

 

 

 

L’alba di un nuovo giorno

 

 

“Sì...È il momento: andiamo Sanae.”

Warashi abbassò lo sguardo e abbracciò la giovane.

I tenui raggi del tramonto avvolsero le due figure che si fecero piccole nel loro tenero abbraccio.

Dal canto suo, la moglie del capitano aveva perduto tutta la sua rabbia e si abbandonò stancamente tra le accoglienti braccia del piccolo angelo. 

Era pronta.

Era il momento, infine.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì, nel luogo dove si trovava, stava albeggiando; il sole nasceva in un meraviglioso cielo terso spazzato dall’aria frizzante del mattino. 

Osservò il paesaggio muovendo qualche passo incerto: ciò che la circondava le era ignoto. 

Non si trovava a Barcellona, questo già lo sapeva, Yukari era stata molto chiara: Tsubasa aveva lasciato Barcellona prima della conclusione del campionato. 

Frugò nella memoria ma non vi erano ricordi che la vedessero sotto quel cielo, in quello stesso posto. 

Sanae si sentì sperduta, vacillò, inciampò e quasi cadde sotto il peso del timore che, improvvisamente, pervase ogni fibra del suo esile corpo. 

Le gambe cedettero, si inginocchiò perdendosi nell’ascolto di ciò che la circondava.

Si sentivano dei rumori in lontananza, sembrava qualcuno che giocava calciando un pallone. Lo percepiva distintamente tra le voci squillanti che echeggiavano in una lingua a lei completamente sconosciuta.

D’un tratto Sanae si risollevò e un sorriso illuminò il suo viso scacciando l’angoscia che lo aveva deformato poco prima.

Il calcio!

Qualcuno stava giocando a calcio!

D’impulso prese a correre dirigendosi verso le voci e il rumore a lei tanto caro. Forse c’era Tsubasa, forse non stava più tanto male il capitano, forse aveva lasciato Barcellona ma continuava a giocare in un altro posto, in un’altra squadra, forse era di nuovo un grande campione, forse aveva trovato comunque la sua strada, forse... Forse... 

Warashi non la trattenne e non parlò, sarebbe stato inutile. Era il percorso di Sanae, il suo viaggio, lei doveva crescere e capire e quello era il solo modo. 

Abbassò lo sguardo e, mentre la figura della giovane svaniva all’orizzonte, il piccolo angelo si perse nel sole del mattino restando come in attesa.

La ragazza correva e sperava; correva e immaginava di vedere il suo capitano giocare, si era scrollata di dosso ogni cosa terribile e oscura che aveva vissuto fino a poco prima e sperava.

Si fermò di colpo.

Quel campo, la palestra, i palazzi... Era ad Amburgo, dove si allenava Genzo: ci era stata una volta con Tsubasa e Genzo l’aveva chiamata Anego!  

Il cuore le traboccava di gioia: Tsubasa era con Genzo, era con Genzo! Erano di nuovo compagni di squadra, era così: non c’era altra spiegazione! E pensò che tutto quanto fosse meraviglioso: Tsubasa brillava di nuovo!

Distingueva una figura in lontananza, una persona alta e longilinea, le braccia conserte, il cappellino: Genzo. Pronta a recitare nuovamente la parte della nostalgica amica d’infanzia si avviò con decisione verso il portiere. 

Si fermò a pochi passi da lui.

Egli, apparentemente, non si accorse di lei: concentratissimo, osservava ciò che avveniva in campo. 

Sanae ebbe la chiara sensazione che non fosse contento di ciò che vedeva, l’amico le sembrava deluso e amareggiato.

Non voleva più sapere come stavano le cose.

Convinta di non essere stata notata la giovane si voltò per tornare sui suoi passi.

“Ci conosciamo?!”

Le domandò Genzo a bruciapelo.

A lui non sfuggiva nulla, mai. 

Sanae si girò nuovamente verso il ragazzo, arrossì sentendosi come una scolaretta colta sul fatto dal professore. 

Il ragazzo aveva distolto lo sguardo dal campo per posarlo su di lei, gli occhi, come sempre, erano nascosti nell’ombra della visiera ma non aveva quel suo sorriso, alle volte beffardo. Il giovane portiere sorrideva ma il suo, come il sorriso di Natsuko, era velato quasi amaro.

“Ciao Genzo...Beh...Si ci conosciamo ma non pretendo che ti ricordi di me! Mi chiamo Sanae, andavo a scuola con Tsubasa e ho seguito la squadra di calcio dove giocavi con lui, Ryo, e gli altri prima di partire per la Germania...Comunque...Mi trovo qui per lavoro e non volevo ripartire senza provare a fare un saluto a te e Tsubasa, se non sbaglio ha lasciato Barcellona ed è qui ora...”

Genzo scostò il cappellino per guardare Sanae dritta negli occhi.

“Non mi ricordo di te ma sono felice di vederti!...Fujisawa, la Nankatsu, il giorno che conobbi Tsubasa e lo vidi giocare...Che bei ricordi...Ma sono solo ricordi, le memorie di un passato così lontano da noi ormai...”

Detto ciò le strinse la mano e sorrise.

Sorrise pensando a quel periodo. 

Sorrise e i suoi occhi brillavano.

Poi continuò indicando il campo.

“Tsubasa ha lasciato Barcellona, è laggiù, sta giocando. Gliel’ho suggerito io di lasciare Barcellona per raggiungermi qui e mille volte vorrei non averlo fatto!”

A quelle parole così secche Sanae sussultò e cominciò a guardare lo svolgersi delle azioni in campo. Era Tsubasa, o almeno esteticamente era lui, ma nulla, proprio nulla del suo Tsubasa traspariva dal gioco.

Quel giocatore che aveva il corpo di Tsubasa non aveva certo lo spirito e il cuore del suo capitano. 

Si vedeva solo tecnica, una tecnica perfetta senza sbavature, pareva di guardare una sorta di robot ed era sparito il divertimento che il giocatore che aveva conosciuto ci metteva. Al posto della gioia che Il calciatore esprimeva un tempo ora Sanae vedeva solo rabbia. 

Giocava con astio: più che amare il calcio sembrava che Tsubasa lo combattesse e quel pallone che era stato il suo migliore amico era divenuto il suo acerrimo nemico. Con violenza lo colpiva e lo piegava al suo volere e il pallone lo respingeva combattendo contro di lui.

Sanae aveva l’impressione di assistere a una vera e propria battaglia, non una partita animata dalla voglia di misurarsi con altri avversari, magari più bravi, per migliorarsi, ma la lotta rabbiosa di Tsubasa contro il calcio. Ci metteva talmente tanta rabbia che sembrava volesse distruggere il pallone e con esso, forse, il gioco stesso.

Genzo notò il viso sconvolto della sua vecchia compagna di giochi e riprese per spiegarsi e per spiegare anche a se stesso.

“Era sempre stato il suo sogno giocare nel Barcellona, io ho pensato che a Tsubasa bastasse giocare per essere felice e realizzato. Al World Youth ha giocato bene ma non ai suoi livelli, certo in Brasile ha imparato molto ma era solo bravura tecnica, quella non basta e non era da lui comportarsi così. Credetti che fosse stanchezza e mancanza di stimoli. Nemmeno a Barcellona è risorto, anzi l’essere relegato nella squadra B aumentò la sua frustrazione. Si sentiva sprecato nella squadra B. Ho pensato che qui avrebbe avuto nuovi stimoli per tornare ad essere il grande giocatore che conoscevo, quell’impertinente ragazzino che mi fece goal e che, deluso dalle circostanze e piegato dalle difficoltà, è svanito divorato dalla rabbia dei sogni infranti... Mi sbagliavo... Volevo aiutarlo e, se possibile, ho contribuito a farlo precipitare ancor più nel vortice di rabbia che lo aveva colto. Non può lasciare il calcio, sarebbe arrendersi del tutto alla sconfitta ma nemmeno ha la forza di ricominciare e ammetere di aver sbagliato; è così credo che alimenta il suo odio. Gioca con astio perché crede di aver deluso noi della Nankatsu, e se n’e andato pensando di ricominciare in Brasile ma il fantasma del fallimento lo ha seguito e corroso dentro per tutto questo tempo. Non ha mai capito che a noi non importava: qualsiasi cosa fosse successa lui sarebbe stato sempre il nostro capitano e amico. Ed ora...Ora non è qui che voleva essere ma a Barcellona al posto di Rivaul, non ha saputo condurre la squadra al World Youth così come non lo fece quel primo campionato contro Jun. Da allora è fuggito e sempre più la gioia di giocare divenne rabbia per le aspettative deluse e i sogni rimasti a metà. Volevo aiutare Tsubasa a rinascere e l’ho condotto qui, ho sbagliato dovevo lasciare che combattesse: magari stavolta non sarebbe fuggito e invece gli ho teso la mano ed è come se gli avessi tagliato le ali io stesso.”

Improvvisamente Genzo tacque. Prese qualcosa dalle tasche: era un fazzoletto e lo porse alla moglie del capitano.

Ella, frastornata dalle parole dell’amico, piangeva senza essersene accorta.

“Perdonami Sanae capisco che tu sia sconvolta nel sapere tutto ciò di Tsubasa. Probabilmente è molto diverso da quello che ti aspettavi...O forse...Tra voi c’era qualcosa? Scusami ho parlato duramente senza pensare. Asciugati le lacrime, tra poco Tsubasa ci raggiungerà così potrai salutarlo, se vuoi.”

La ragazza annuì, Genzo non era stupido, e tanto valeva ammettere i suoi sentimenti in fondo non c’era alcun male.

Non si dissero altro e presero a osservare lo svolgersi delle azioni in campo. Il gioco si concluse e Tsubasa lasciò il campo dirigendosi verso Genzo.

“Ah...Tsubasa, questa è Sanae era la manager della nostra squadra a Fujisawa, è passata a farci un saluto.”

Tsubasa le sorrise senza parlare.

Sanae si irrigidì.

Ora finalmente lo aveva davanti e poteva guardarlo bene. I suoi occhi erano inespressivi, sembrava che la sua anima fosse volata via.

La ragazza non si trattenne e sfogò tutta la sua angoscia addosso a Tsubasa. 

Era ora che qualcuno gli dicesse come stavano le cose, doveva affrontarle e smettere di scappare come un bimbo impaurito e lei...Lei...Lei non aveva nulla da perdere: non esisteva, non più, ma poteva tentare di salvarlo! Parlò dunque, urlò rovesciando le sue dure parole contro il capitano.

“HAI DIMENTICATO COSA VOLEVI INSEGNARE A SANTANA!? NON TE LO RICORDI VERO? NON TE LO RICORDI COME SI GIOCA, COME SI GIOCA DAVVERO VOGLIO DIRE! HAI DIMENTICATO COME ERA BELLO IL CALCIO E COME TI DIVERTIVA...NO! TU NON LO RICORDI! NON TE LO RICORDI COME GIOCAVI DA BAMBINO CON I TUOI AMICI! TU ERI IL NOSTRO CAPITANO E LO SARESTI STATO SEMPRE NELLA VITTORIA E NELLA SCONFITTA!!!! TE LO RICORDI ROBERTO, IL TUO MENTORE E MAESTRO? RAMMENTI COSA C’E’ SCRITTO NEL QUADERNO CHE TI AVEVA LASCIATO? LA PAGINA 52, VAI A LEGGERLA.... IL CALCIO E’ IL GIOCO PIU’ BELLO DEL MONDO ... è bello perché puoi fare quello che vuoi...Ma tu...Tu no! NO! NON HAI SAPUTO AFFRONTARE LE DIFFICOLTÀ`A TESTA ALTA E HAI CEDUTO ALLA PAURA! CERTO ERA PIU’ FACILE SCAPPARE IN BRASILE E POI A BARCELLONA E ORA QUI!!!! NON HAI SAPUTO GUARDARE IN FACCIA I TUOI COMPAGNI E TE STESSO E AMMETTERE CHE ANCHE TU SEI UNA PERSONA: HAI PREGI E DIFETTI, DUBBI E INCERTEZZE! SEI DIVORATO DALLA PAURA, SEI SPAVENTATO A MORTE E NON SERVE NASCONDERLO E ARRABBIARSI PERCHE’ PUOI SCAPPARE DAI TUOI AMiCI MA DA TE STESSO NO, TU SARAI SEMPRE LI A RICORDARTI QUELLO CHE SEI! PRENDITI LA RESPONSABILITÀ DELLE TUE SCELTE E COMINCIA A CRESCERE E A VIVERE! E...SAI COSA TI DICO?! NON SERVE LA TECNICA, QUELLA NON BASTA: LE PARTITE SI VINCONO CON IL CORAGGIO!!!!

Si interruppe bruscamente, mai nella sua vita aveva gridato tanto contro qualcuno. Nemmeno era certa che il solo destinatario di quelle parole fosse il capitano, lei non si era forse comportata nello stesso modo? Aveva vissuto all’ombra di Tsubasa, scappando dalla vita. Quello che lei era, o che non era, lo doveva solamente a se stessa, non aveva saputo crescere, non aveva saputo vivere e Tsubasa non era responsabile di tutto ciò. Lui si prendeva cura di lei e cercava di renderla felice in ogni modo, come poteva e come credeva fosse giusto. La amava e amava rifugiarsi in lei...Magari sbagliava, come Genzo ora aveva sbagliato con lui, in buona fede...

Due lacrime scesero a bagnarle il viso, indietreggiò di un passo per poi voltarsi e correre via.

Correva e l’alba impietosa illuminava un nuovo giorno, pieno di sogni infranti. 

Non aveva mai provato un dolore così grande: Tsubasa era restato immobile, attonito e incredulo, a quelle rabbiose parole. Sembrava tutto finito per lui, chissà se le sue parole avrebbero in qualche modo cambiato il suo futuro. Poi, come un lampo, balenò nella mente della ragazza un vecchio ricordo....

Lei con Tsubasa... Alle Hawaii sulla spiaggia; lui le raccontava i suoi mille dubbi e le chiedeva, come fosse un bambino smarrito, cosa avrebbe potuto fare se avesse fallito e lei gli rispondeva con quelle stesse parole che Genzo aveva usato poco prima e che lei stessa aveva urlato addosso a Tsubasa...

”Tu sarai sempre il nostro capitano”...Così gli disse.

Poi tra le lacrime implorò...

“Fammi vivere!...Fammi vivere ancora ti prego...Dio...”

 

Continua...

N.B. Eccomi finalmente ho concluso questo capitolo che ho scritto e riscritto...

Sanae ha incontrato Tsubasa e le parole che gli ha rivolto erano rivolte anche a se stessa: ora ha capito... e adesso?

A presto e grazie a tutti coloro che mi leggono!!! :)
Eldarion

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Capitolo 12
*** Troppo tardi? ***


Disclaimer

I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
l’ispirazione per questa storia è nata dal racconto The Greatest Gift, di Philip Van Doren Stern che lo scrisse nel 1939.

Buona lettura!

 

Troppo tardi?

 

 

Dalla finestra aperta non giungeva un filo d’aria.

Le tende bianche erano immobili e l’atmosfera stagnante aveva pervaso completamente il salone della festa. 

Sfinito dalle chiacchiere e delle insistenti domande dei giornalisti si fece strada tra gli invitati.

Era stufo di tutto quel baccano festoso, era stanco della gente. 

Doveva molto non solo al suo talento ma anche a coloro che aveva incontrato e che, in quel momento di celebrazione, pretendevano di avere la sua attenzione, le risposte, i sorrisi, le strette di mano, le confidenze anche. 

Era sinceramente grato a tutte quelle persone tuttavia era anche stremato e indebolito dal fervore che lo circondava: aveva ora un profondo fastidio verso la folla euforica e desiderava andarsene.

Solo lei avrebbe potuto dargli un po’ di respiro e tranquillità per poi permettergli di potersi calare nuovamente nel turbinio dei festeggiamenti.

Si guardò intorno cercando la sola cosa della quale sentiva l’estrema necessità ma non la vedeva da nessuna parte.

Non c’era.

Non c’era più!

Di Sanae non vi era traccia alcuna.

Gli mancò l’aria.

Tsubasa sapeva perfettamente che, almeno quanto lui, Lei amava starsene in disparte, all’aperto quando era possibile. 

Sicuro di vederla spuntare dalla finestra si diresse con passo deciso verso la terrazza dalla quale si godeva un magnifico panorama, la ragazza amava molto contemplarlo in silenzio.

Una strana inquietudine, mista alla pesantezza dell’aria estiva, avvolse il capitano permeando ogni fibra del suo corpo: lì fuori era tutto silenziosamente vuoto e deserto. 

Sanae non era là!

Percorse più volte quell’ampio spazio, avanti e indietro, indietro e avanti per poi fermarsi e arrendersi all’evidente assenza della moglie.

Restò impassibile a scrutare il buio della notte: esso pareva tuffarsi verso il mare e, impavido, si buttava giù per la scogliera scoscesa come attirato da un grande buco nero.

“Tsubasa!…Sei pallido, ti senti male?”

La voce di Rivaul lo destò e, spaesato, il giocatore si voltò verso l’amico.

“Sto bene. Hai visto Sanae?”

Tsubasa tagliò corto volutamente: doveva subito sedare quell’insolita agitazione che lo aveva invaso senza pietà e che si era impadronita di lui opprimendogli il petto col suo peso.

“Poco fa era qui in terrazza, magari è in giardino, o magari era stanca ed è tornata a casa. Vuoi che ti aiuti a cercarla?”

A Rivaul non era certo sfuggita l’inquietudine che, a fatica, Tsubasa cercava di trattenere ma sapeva anche che il giovane calciatore era molto riservato e non avrebbe condiviso la sua preoccupazione.

“Grazie ma… Proverò a cercarla in giardino” e senza dire altro si voltò dileguandosi nell’oscurità verde del parco.

Erano stati più volte alla villa e sia lui che Sanae la conoscevano bene ma lei non era da nessuna parte, quantomeno in nessuno dei luoghi dove era solita rifugiarsi. Disperato raggiunse il parcheggio: l’auto era ancora là.

“Potrebbe aver preso un taxi” mormorò, senza crederci, al vento che spirava dal mare.

Strinse i pugni e poi afferrò con decisione il cellulare.

“Rispondi ti prego…”

Dall’altro capo qualcuno sollevò il ricevitore

“Pronto…” 

Tsubasa riconobbe immediatamente la voce assonnata del figlio.

“Daibu che ci fai ancora sveglio?!”

“Io non ero sveglio papà, sei tu che mi hai svegliato!”

La risposta semplice del bambino era disarmante e molto sensata: era stato lui a disturbare il sonno del piccolo.

Tsubasa si sentì uno sciocco.

“Ah…beh….Mi dispiace Daibu, hai ragione ma credevo avrebbe risposto la zia Yukari…Io…”

Tsubasa non sapeva davvero cosa dire per non allarmare Daibu.

“La zia Yukari non poteva rispondere perché io ho preso il telefono e l’ho tenuto con me. Volevo risponderti io, Warashi mi ha detto che ti saresti preoccupato. Se stai cercando la mamma non devi preoccuparti: lei è con Warashi e lui ha detto che dovevo fidarmi perché l’avrebbe riportata a casa. Quindi papà devi stare tranquillo!”

Il capitano non credeva alle sue orecchie: era suo figlio a proteggerlo e a rassicurarlo! Per un attimo il capitano ebbe la netta impressione che i loro ruoli si fossero invertiti.

“Si ma…”

Il piccolo, per nulla sorpreso dalla titubanza del padre continuò.

“Anche la zia Yukari era preoccupata ma le ho detto quello che ho detto a te: la mamma è al sicuro con Warashi. La zia mi ha creduto, ha detto che anche lei da piccola aveva un amico così. E ha detto anche che sicuramente porterà cose belle. La mamma ritornerà da noi, te la riporterà il vento vicino al mare…Così, così ha detto! E lo ha detto poco fa quindi non c’è più da avere paura: perché io ce l’avevo tanta paura ma adesso sono tranquillo e anche tu devi esserlo papà. Warashi dice che abbiamo ricevuto un regalo, un regalo speciale…Ho sonno…Buonanotte papà!” 

Il piccolo riattaccò senza che Tsubasa avesse il tempo di replicare d’altro canto era chiaro che Daibu non lo avrebbe ascoltato oltre.

“Warashi…”

Tsubasa pronunciò quel nome con un filo di voce e la brezza marina lo rinfrescò improvvisamente ridandogli vita. 

Era come se fiabe e leggende in quella notte si fossero destate: sorte dal mare popolavano l’oscurità e si diffondevano sulle ali del vento. 

Certamente non era cosa comune essere partecipi di quel sortilegio notturno. 

Forse doveva dare ascolto a suo figlio, le cui parole gli avevano riempito il cuore, e avere fiducia: una fiducia nella vita e nei suoi misteri che Tsubasa, doveva ammetterlo, crescendo aveva perduto pian piano.

Aveva dimenticato molte cose che stava ora rammentando e tante altre, nel frastuono che lo circondava, le aveva perse di vista.

Non poté fare ameno di domandarsi il perché di quei singolari avvenimenti e come mai quella strana magia aveva avvolto ora la sua esistenza e quella della sua famiglia. 

Non sapeva spiegarsi la ragione ma, in fondo… Perché no?

Se suo figlio era così fiducioso chi era lui per rifiutarsi di esserlo?

Una cosa però lo turbava profondamente: per quale ragione Sanae si era allontanata e perché Daibu aveva avuto paura per poi tranquillizzarsi…

Si mise in attesa, umilmente, certo che la notte gli avrebbe parlato sciogliendo tutti i  suoi dubbi.

“Warashi…Mi sembra di tornare bambino.” 

Sospirò e sorrise, poi si avviò nel folto del giardino verso la scogliera seguendo il rumore scuro del mare. 

Era tutto davvero strano ma non si sentiva matto o stupido, no: era solo una persona alla quale, come aveva asserito Daibu, era stato fatto un regalo speciale.

L’aria, prima immobile e greve, si era fatta fresca e frizzante. 

Il vento giocava tra le fronde e scherzava con le foglie che si agitavano piano.

La fioca e consolante luce lunare accompagnava i passi del giovane nel suo misterioso viaggio alla ricerca della moglie. 

Era la prima volta, pensò Tsubasa, che non sapeva dove trovarla. 

Improvvisamente si rese conto che Sanae, era sempre accanto a lui, fin da bambini, e pareva vivere solo per lui, sognava anche il suo sogno. 

Erano cresciuti sognando insieme e ancora vivevano quel sogno ma cosa aveva fatto lui per lei? 

Si era preso cura di lei e la amava così come amava sognare con lei. 

Tuttavia l’amara constatazione era che lui aveva sognato solo per se stesso. 

Non sarebbe stato invece più bello sognare anche un altro sogno, diverso, uno dove accompagnare la sua adorata Sanae? 

La giovane aveva indubbiamente saputo tirare fuori la parte migliore di lui, ma lui con lei non aveva saputo fare altrettanto e, almeno fino a quel momento, lui non ci aveva nemmeno mai pensato.

La calma e la sicurezza che Daibu gli aveva infuso poco prima lo abbandonarono: e se Sanae fosse volata via per vivere un sogno tutto suo, lontana da lui? 

Era giusto così, lui se lo meritava.

Ora poteva osservare la situazione da una diversa e inedita angolazione: lui si era limitato a realizzare il suo sogno senza cercare di aiutare Sanae a trovarne uno tutto suo. 

Non glielo aveva mai chiesto se aveva un desiderio, un sogno speciale e forse, pensò, lui mai le aveva dato la possibilità di guardarsi dentro e pensarci seriamente.

Improvvisamente Tsubasa si sentì troppo ingombrante: lui e il suo sogno erano così mastodontici da inglobare e fagocitare tutto quanto il resto.

Fin da piccolo aveva sempre saputo cosa avrebbe fatto da grande e aveva trascinato con sè Sanae. 

Lei, al contrario, non aveva mai parlato di cosa avrebbe fatto da grande: forse desiderava solo vivere con lui e aiutarlo o forse, e questo era ciò che più feriva Tsubasa, sua moglie, troppo assorbita da lui, non ci aveva mai pensato ai suoi desideri e alla sua vita.

Il giovane calciatore realizzò che probabilmente in ogni persona c’erano dei sogni e dei desideri da realizzare.

Grandi o piccoli che fossero quei sogni la cosa importante  era che alcuni individui li realizzavano pienamente, altri li realizzavano senza riconoscerli mentre altri ancora li possedevano nel profondo ma talmente nascosti che faticavano a riconoscerli. 

Il capitano si rese conto di essere stato tremendamente ingiusto e cieco: anche se amava molto sua moglie, anche se era in buona fede, era chiaro che con lei aveva sbagliato.

L’inquietudine pesava come un macigno.

E se fosse stato troppo tardi? 

Se Sanae non fosse mai tornata?

Se Daibu avesse avuto torto?

Se Warashi si fosse sbagliato? 

Se Warashi avesse fallito con Sanae, magari proprio all’ultimo istante quando credeva di avercela fatta?

Quel Warashi in fondo era solamente un bambino e perdere Sanae, pensò Tsubasa, era la punizione per lui, per non aver saputo vedere e comprendere, era giusto così.

Poi, non lontani, il capitano udì un fruscio e un tonfo…

 

Continua…

 

Ciao a tutti, finalmente dopo una lunga assenza rieccomi qua!

Come state?

Forse questo è un capitolo un po’ inaspettato, lo è stato anche per me in verità: non era intenzionale questo pezzo sui pensieri di Tsubasa, il tutto era nato come un piccolo accenno al capitano, al quale era giusto dare un breve spazio in mezzo alle traversie di Sanae… solo che poi, mentre scrivevo, le parole sono diventate una valanga e il capitolo ha preso forma… :-)

 

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Capitolo 13
*** La finestra aperta ***


Disclaimer
I personaggi non sono miei, appartengono a Yoichi Takahashi.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Note personali: 
un sincero e affettuoso GRAZIE a Sigfrido di Xanten che mi ha ridato fiducia :-)
 
E, come sempre, ringrazio coloro che dedicheranno del tempo alla lettura della mia storia e coloro che avranno la pazienza di recensirla.
Buona lettura!



La finestra aperta



“Fammi vivere ti prego, fammi vivere di nuovo…Ti prego...”

E mentre mormorava la sua supplica le parole che aveva urlato addosso Tsubasa le martellavano la testa:

“HAI DIMENTICATO COSA VOLEVI INSEGNARE A SANTANA!? NON TE LO RICORDI VERO? NON TE LO RICORDI COME SI GIOCA, COME SI GIOCA DAVVERO VOGLIO DIRE! HAI DIMENTICATO COME ERA BELLO IL CALCIO E COME TI DIVERTIVA...NO! TU NON LO RICORDI! NON TE LO RICORDI COME GIOCAVI DA BAMBINO CON I TUOI AMICI! TU ERI IL NOSTRO CAPITANO E LO SARESTI STATO SEMPRE NELLA VITTORIA E NELLA SCONFITTA!!!! TE LO RICORDI ROBERTO, IL TUO MENTORE E MAESTRO? RAMMENTI COSA C’E’ SCRITTO NEL QUADERNO CHE TI AVEVA LASCIATO? LA PAGINA 52, VAI A LEGGERLA.... IL CALCIO E’ IL GIOCO PIU’ BELLO DEL MONDO ... è bello perché puoi fare quello che vuoi...Ma tu...Tu no! NO! NON HAI SAPUTO AFFRONTARE LE DIFFICOLTÀ`A TESTA ALTA E HAI CEDUTO ALLA PAURA! CERTO ERA PIU’ FACILE SCAPPARE IN BRASILE E POI A BARCELLONA E ORA QUI!!!! NON HAI SAPUTO GUARDARE IN FACCIA I TUOI COMPAGNI E TE STESSO E AMMETTERE CHE ANCHE TU SEI UNA PERSONA: HAI PREGI E DIFETTI, DUBBI E INCERTEZZE! SEI DIVORATO DALLA PAURA, SEI SPAVENTATO A MORTE E NON SERVE NASCONDERLO E ARRABBIARSI PERCHE’ PUOI SCAPPARE DAI TUOI AMiCI MA DA TE STESSO NO, TU SARAI SEMPRE LI A RICORDARTI QUELLO CHE SEI! PRENDITI LA RESPONSABILITÀ DELLE TUE SCELTE E COMINCIA A CRESCERE E A VIVERE! E...SAI COSA TI DICO?! NON SERVE LA TECNICA, QUELLA NON BASTA: LE PARTITE SI VINCONO CON IL CORAGGIO!!!!”

Il sole del mattino si faceva sempre più caldo e l’aria la avvolgeva nel suo tepore, ma Sanae continuava a correre in preda all’angoscia senza sentire l'abbraccio del giorno sulla sua pelle.

Ella pensava solo a cosa sarebbe stato di lei e della sua vita. 

Quella vita che aveva denigrato fino a desiderare di non esser mai nata e che ora rivoleva più di ogni altra cosa al mondo. 

D’un tratto la moglie del capitano inciampò e cadde a terra.

“Ahi…”

Non fece troppo caso alla caduta; subito si mise in ginocchio titubante sul da farsi: si trovava di nuovo immersa nel buio e nel profumo salato del mare.

Sentì freddo ed era notte, proprio come quando tutto cominciò: poteva significare solamente che non era più ad Amburgo. 

Si alzò asciugandosi le lacrime e cercando di capire dove fosse.

“Warashi? Dove sei?… E dove sono io...”

Sanae scrutò nell’oscurità senza trovarvi alcuna risposta, né consolazione: il piccolo Angelo che l’aveva esaudita nella sua sciocca richiesta vegliandola in quella strana avventura non era più accanto a lei.

La ragazza strinse le braccia intorno a sé mentre la brezza che spirava dal mare la accarezzava  volando via rapida e silenziosa.

Non sentiva più la voce del vuoto che la chiamava, non desiderava più buttarsi nell’abbraccio delle onde che si frantumavano disperate sulle rocce.

L’impeto del vento era cessato e il mare poteva riposare placido sotto la tenue luce lunare. 

La moglie del capitano era stata ad un passo dal vuoto ma ora non le importava più: quella voce le era indifferente.

Lei era Sanae e la luna non le sembrava più così stupida e bugiarda; nemmeno le ombre erano inutili, le ombre semplicemente accompagnavano la luce. 

Luce ed ombra convivevano in una danza d’amore infinita così come il sole e la luna si alternavano per darsi riposo e sostegno. 

Lei era Sanae, lo era sempre stata e adesso ne era conscia. 

Non era un’ombra, non era l’ombra di Tsubasa, ora non più, ma a chi poteva interessare adesso?

Il viaggio era ormai concluso e il piccolo Angelo l’aveva abbandonata a se stessa.

La giovane si sentiva proprio come una bambina smarrita e, d'altro canto, era come se lo fosse: lei non esisteva, non aveva un passato, né conoscenti o amici, doveva ricominciare tutto da capo costruendosi tutta una vita.

Sospirò, non era cosa da nulla ma forse un punto di partenza l’aveva: qualcosa poteva ancora fare per rimediare a ciò che aveva visto.

Per i suoi genitori e per Atsushi era troppo tardi però per Jun e Aoba no. La ragazza era ben decisa a tentare di ricongiungerli e anche con Tsubasa non tutto era perduto: doveva costringerlo ad affrontare la realtà senza paura.

A quest'ultimo aveva scagliato contro delle parole feroci, parole che lei aveva ben compreso e ora doveva fare in modo che anche lui le facesse sue, era il solo modo per farlo risorgere. 

Aveva lasciato il suo capitano muto e impietrito ma l’espressione di Genzo lei se la ricordava bene: c'era speranza negli occhi del portiere e approvazione nel modo in cui annuì. 

Fu solo un attimo ma non aveva frainteso, Sanae ne era certa: alle sue parole taglienti Genzo si era come risvegliato. Lei aveva solo dato voce alla verità, una verità scomoda e amara che anche Wakabayashi conosceva bene.

Quello sarebbe stato il suo punto di partenza.

Sì.

Era la strada giusta: poteva andare in Germania, Genzo era stato molto gentile, e con il suo aiuto…

Un rumore improvviso la spaventò distraendola dai suoi piani per il futuro.

“Chi c’è là!”

Urlò alla figura che emerse dal buio.

“Sono io Sanae, sono solo io.”

Poi, piano piano, l’ombra che le si era fermata dinanzi prese le sembianze di Tsubasa.

La ragazza sussultò facendo un passo indietro: era il “suo" Tsubasa?

Il calciatore fece per avvicinarsi e abbracciarla ma Il tono fortemente turbato di Sanae lo bloccò.

“Stai lontano! Non mi toccare!”

Il capitano replicò ma non si mosse oltre.

“Sanae sono io, ti stavo cercando per tornare a casa ma tu… “

Sanae lo interruppe e con il cuore in gola chiese perentoria ciò che voleva sapere.

“Mi riconosci?! Tsubasa mi riconosci? Siamo a Barcellona? Rispondimi!”

Il giovane calciatore sapeva bene, dalle parole del piccolo Daibu, che quella non era stata una notte qualsiasi della loro vita. 

Era stata la notte decisiva e Warashi gli aveva riportato Sanae: come promesso l’aveva lasciata nel vento, vicino al mare.

“Amore… Certo che ti riconosco. Ma tu sei ferita Sanae: sanguini.”

La moglie del capitano si guardò: aveva il vestito logoro e bagnato, e la gamba che si era ferita cercando di raggiungere quell’Angelo spericolato sanguinava di nuovo e tutto le parve magnifico!

“Sanguino! E la rosa? Ce l’ho ancora, ho ancora la rosa di Daibu…Non posso crederci… Io sono viva!” 

Disse toccando il braccialetto al quale aveva legato il regalo del figlio. 

Sanae si prese il viso tra le mani, era felice e rideva.

“Sono viva, io esisto, sono di nuovo io!" 

Tutta sola e avvolta nella notte era stata così presa dalla disperazione, dalla paura e dai suoi pensieri su cosa avrebbe fatto che non si era accorta di avere di nuovo il vestito strappato, la ferita sanguinante e tutto quanto il resto! 

Si precipitò verso Tsubasa e lo abbracciò.

“Oh Tsubasa non sai che mi è successo: è stato terribile, ero con Warashi! Warashi diceva di essere un Angelo e mi ha accompagnata in un viaggio orribile. Ho avuto così tanta paura! Io non esistevo, Rivaul non sapeva chi fossi e persino Yukari, Genzo e mia madre! Nessuno mi riconosceva anzi io… Io ero nessuno per tutti quanti! Non sapevo più se avrei vissuto di nuovo, né se ti avrei rivisto … Warashi ora se n’è andato, mi ha lasciata qui sola! Diceva di essere un Angelo, un Angelo! Capisci?!”

Il ragazzo ascoltò con calma la spiegazione concitata della moglie e prese ad accarezzarle la nuca.

“Lo so, so tutto e lo sanno anche Daibu e Hayate.”

Sanae, completamente stranita, si staccò dal corpo di Tsubasa.

“Cosa?! Tu mi credi? Tu credi che io abbia incontrato un Angelo?! Anche se...Sí, ti confesso che per certi versi mi pareva un demone… Sapevi che ero con quel Warashi?”

Tsubasa sorrise calmo.

“Daibu mi ha raccontato che eri in pericolo, stavi per fare qualcosa di irrimediabile, ma dovevo stare tranquillo perché eri con Warashi. Anche tu mia cara avresti dovuto avere fiducia e credere che fosse un Angelo! Sanae è bastato così poco tempo trascorso in Europa perché tu dimenticassi la tradizione giapponese? Un Angelo, un Angelo bambino è proprio quello che è un Warashi. Il piccolo Angelo che sceglie di vivere insieme a una famiglia e la protegge. Lo ricordi ora?”

La giovane era stata così cieca e ripiegata sui pensieri bui del suo cuore e sui propositi oscuri della mente che non aveva riconosciuto l’Angelo. 

Lo aveva addirittura preso in giro perché non aveva le ali, aveva desiderato ferirlo perché la lasciasse sprofondare in pace nelle acque del mare; tuttavia lui non si era scoraggiato e l’aveva accompagnata nel suo viaggio verso la consapevolezza e la conoscenza di sé.

“Warashi! Certo. Oh Tsubasa, ho desiderato morire, mi sono sentita inutile e stupida. Invisibile tanto da non avere un nome, ho pensato di essere come una Luna che riflette solo la tua immensa luce. Ti ho quasi odiato Tsubasa: sì, perché tu eri un sole così luminoso da annientare tutto nella sua aura, un sole tanto potente da scacciare e cancellare le ombre inglobandole nella sua luce. Io ero l’ombra che non aveva nome, ero nessuno e ho desiderato di non esser mai nata e poi ho visto la vita senza la mia esistenza e non mi è piaciuta. Le vite sono tutte legate tra loro. La mia vita è legata a quella di molte altre persone… Ora lo so. Tsubasa, voglio tornare a casa, riportami a casa, ti prego.”

Tsubasa la prese per mano.

“Perdonami Sanae. È stata anche colpa mia se ti sei sentita così. Ti ho lasciata sognare il mio sogno. Sono felice che tu lo condivida con me e non vorrei fosse diversamente ma ero così preso a rincorrerlo che non ti ho mai chiesto se tu ne avevi uno tuo. Sono stato ingombrante e indifferente, preso solo da me stesso non ho fatto altro che trascinarti con me dietro ciò che volevo io pensando che bastasse.”

La ragazza si impensierì.

“Tsubasa! Io non lo so, non so quale sia il mio sogno: non ci ho mai pensato.”

E il capitano replicò nuovamente.

“Penso sia normale Sanae. Io ho sempre saputo cosa volevo fare da grande e poi ho trovato te e altri con cui condividere e realizzare il mio sogno. Forse ti ho distratta, forse tu hai dimenticato cosa desideravi prima di incontrarmi o invece…È anche possibile che io ti abbia incontrata proprio perché  devo aiutarti a trovare il tuo sogno e  devo imparare a non essere più così egoista. Ora torniamo casa Amore."

Mano nella mano si lasciarono l'oscurità alle spalle; inanzi  a loro il manto della notte si ritraeva lentamente: era l'ora che precede l'alba.

L'auto era al suo posto e Sanae, non senza timore, cercò le chiavi nella sua borsa: questa volta le trovò! 

Non aveva più dubbi, poteva finalmente tornare a casa.

La strada volava via leggera e, una volta giunti, la moglie del capitano si guardò intorno molto attentamente: il cancello, il giardino, la casa, tutto era come lo aveva lasciato.

Salirono le scale e aprirono la porta, intorno li accolse il silenzio assonnato delle prime luci dell’alba, nella casa dormivano ancora tutti.

Sanae e Tsubasa sorrisero: Daibu e Hayate, nel tentativo di aspettarli svegli, si erano addormentati disordinatamente sul divano. 

Daibu stringeva nelle mani il telefono. Tsubasa glielo tolse piano e poi si accostò a Sanae. 

La ragazza aprí la finestra e guardò il cielo che via via schiariva sempre più.

"Mamma... Papà... Siete tornati!”

“Finalmente!…Mamma! Io ho fame!”

La voce allegra di Daibu e Hayate li chiamava. 

Si voltarono: i gemelli, svegli e pimpanti, corsero loro incontro e li abbracciarono riempiendoli di baci.

“Ehi…Se avete fame coraggio, prepariamo qualcosa!”

Disse allegramente il capitano.

“Si dai papà facciamo una sorpresa a zia Yukari!…Ma devi ricordarti il nostro amico, Warashi… Saki…Lei ogni tanto lo dimentica ma noi no non possiamo!”

Tsubasa e i piccoli si avviarono allegramente verso la cucina.

Sanae chiuse gli occhi e offrì il viso all’aria del mattino che entrava dalla finestra aperta.

“Già…Warashi, dove sarai ora?…Grazie!”

La ragazza parlò al vento con una punta di rammarico: l’Angelo l’aveva salvata restituendola alla vita e lei non lo aveva neppure ringraziato.

“Sono qui Sanae!”

Lei aprì gli occhi e incontrò quelli del piccolo che la fissava sorridente dal terrazzo.

“Sanae… Hai avuto una bella vita Sanae e sarebbe stato un peccato buttarla via. Ora lo sai chi sei?”

Lei annuì.

“Io sono tutto ciò che è stato prima di me, sono tutto ciò che ho fatto e sono tutto ciò che farò e che non ci sarebbe stato se io non fossi venuta al mondo. Io sono tutte le persone che ho incontrato e che incontrerò, qualcosa di me è in loro e loro hanno lasciato qualcosa in me…Io sono Sanae e non ho più paura di dire il mio nome.”

L’Angelo sorrise e scomparve.

Sanae rimase dov’era e richiuse gli occhi…

Dalla finestra aperta sul cielo entrava di nuovo la luce! 

Questa volta non c’era alcuna remora in lei.

Poteva sentire la luce vera, quella pura del giorno, quella che la faceva vivere; e poteva sentire l'aria che sa di mare e ti fa respirare e stare bene perché ora sapeva chi era, lei era Sanae e non temeva di vivere!

Fine

N.B. Il cerchio si è chiuso, La Sanae dubbiosa che non diceva il suo nome ed era rimasta come la bambina che guardava il suo capitano dalla finestra è cambiata. Anche Tsubasa è cambiato e ora possono vedere e vedersi in maniera diversa e più consapevole. 

Mi dispiace averci messo così tanto tempo a concludere questa storia e anche di essere stata incostante negli aggiornamenti, spero di non aver abusato troppo della vostra pazienza. 
Se ci incontreremo in altre storie che scriverò mi auguro di poter essere più puntuale e meno lenta!
Grazie mille a tutti coloro che hanno seguito questo mio racconto un po’ strano <3
A presto!
Eldarion

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