Ribelli

di iloveromanzirosa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Pov. Sir
 
Posso farcela.
Mi basterà muovermi piano, e nessuno si accorgerà della mia presenza.
Guardo l’edificio decadente, le cui finestre frantumate sono rattoppate con del nastro isolante o chiuse da pezzi di cartone.
E’ da un po’ che giro qui intorno, e ho visto quanto basta per capire che là dentro vi abita un gruppo di Ribelli.
Mi faccio coraggio e mi avvicino cautamente a una finestra. È la prima volta che lo faccio ma non ho altra scelta: l’alternativa è morire di fame. È da almeno tre giorni che non tocco cibo, e l’ultima volta ho rosicchiato scioccamente delle radici che sembravano poco commestibili, nonché dure e croccanti, e bevuto dell’acqua che scorreva in collina nei pressi di una montagna. È un miracolo che non mi sono ancora presa qualche virus intestinale.
Non sarebbe elegante scorrazzare in giro a cercar foglie per scaricare i propri bisogni.
Sposto piano il cartone che riveste la finestra e mi aggiusto la felpa.
Fa freddo qui.
Mi arrampico goffamente aggrappandomi al cornicione malmesso, e facendomi forza con le braccia mi accovaccio pronta per entrare. L’angolo dei miei pantaloni, già bucato in precedenza e incrostato di fango e acqua, si impiglia ad un chiodo e si allarga di un po’.
Fantastico.
Impreco con una smorfia, rendendomi conto troppo tardi di quanto sono stupida a parlare da sola, ma ormai è da così tanto che non parlo con un altro pacifico essere umano che sono arrivata a considerare la cosa triste ma abituale.
Cerco di fare meno rumore possibile, ma le assi del pavimento scricchiolano e non so quanto tempo passerà prima che si accorgano di me.
La stanza non è grande, anzi, somiglia di più a un ripostiglio, ma ho scelto bene: è piena di cibo in scatola e barrette energetiche.
Le pareti sono di un verde acqua più scolorito della tonalità che di sicuro era stata stesa in precedenza, chissà a chi apparteneva questo posto prima dell’avvento dello scombinamento delle stagioni, dell’aria, dell’acqua, delle creature che ci vivono e della vegetazione. È una cosa triste. Ma ognuno di noi umani è obbligato a prendere consapevolezza dei fatti e dell’imminente svolgimento degli eventi.
Mi butto subito su delle bottigliette d’acqua che ho appena notato e, mentre mi disseto, mi guardo riflessa su di un vetro appoggiato alla parete: Stento a riconoscere gli occhi che mi fissano. Neri. Come petrolio. Sono assatanati, lucidi, confusi... non sono più i miei. Quel colore è troppo scuro, le sopracciglia una volta morbide sono tese sulla fronte in un cipiglio concentrato e perenne. I miei capelli sono arruffati lunghi e rossi, dal taglio un po’ squadrato, sicuramente dovuto al mio tentativo di qualche mese fa di darmi una decenza.
E sono riuscita solo a fare peggio: sembro una specie di leone.
Il viso pallidissimo e punteggiato di lentiggini è smunto, sono così dimagrita negli ultimi tempi che mi ci voleva proprio una di quelle barrette. Le labbra pallide e screpolate sono spaccate in alcuni punti, là dove le ho morse a sangue.
La felpa che indosso è troppo grande per me di almeno due taglie, e i pantaloni sono gli stessi da come minimo due settimane.
Mi faccio pena da sola.
Mi riempio le tasche di scatolette, poi mi sfilo dalle spalle lo zainetto e ci metto dentro più bottiglie d’acqua che posso, le mani tremanti ma spicce lavorano come automi dalle unghie spezzate, e infine ci sistemo anche le barrette energetiche.
So che questa scorta mi durerà almeno una settimana, e mi fa felice sapere che forse riuscirò a recuperare uno o due dei miei chili persi, anche perché non è bello essere deboli.
Sto per arrampicarmi di nuovo sul cornicione della finestra pronta per saltare via che mi sento afferrare da dietro. La testa mi fa male nel punto in cui qualcuno sta stringendo i miei capelli, e mi trattengo appena dall’urlare.
Invece gemo piano, tentando di sciogliere la solida stretta che mi tiene ferma la testa.
Sono due pugni grandi e mascolini. Forti.
“E tu chi cazzo sei?” è una voce maschile, fredda e distante.
Non rispondo, invece cerco di graffiargli le dita e pestargli i piedi, ma lui mi afferra le braccia con una sola mano, abbandonando un po’ la stretta sulla testa con l’altra. Troppo tardi realizzo le sue intenzioni quando mi ha già tolto lo zaino dalle spalle. Vorrei urlare di frustrazione e disperazione, ma so che sarebbe inutile, visto che attirerei solo l’attenzione dei suoi compagni.
Non so cosa vuole fare, ma una cosa è certa: non me la farà passare liscia.
“Ti prego...” lo imploro allo stremo. Ma perché mi sono lasciata sfuggire quelle maledette parole? Le lacrime premono negli occhi, e non so come fermarle. Sbatto gli occhi freneticamente e riesco ad asciugarli.
“Chi sei?” ribadisce lui in tono più morbido, ma comunque intimidatorio.
“Lasciami andare!” Esclamo io con un filo di coraggio in più.
Mi molla i capelli, ma continua a tenermi stretti i polsi, non ho la forza nemmeno di allentarla, quella stretta, figurarsi scioglierla.
Mi giro per guardare l’uomo in faccia, ed è un errore.
Avrà si e no due, forse tre anni in più di me. E’ altissimo, sul metro e novanta, pallido, meno di me, ha gli zigomi pronunciati e la mascella squadrata. Dei tratti affilati, e la sua espressione gelida non fa che peggiorare le cose.
Ma questo lo noto in seguito.
La prima cosa che vedo sono l’ebano e la giada.
Dei suoi capelli e dei suoi occhi.
La sola cosa che ci accomuna è il cipiglio sopra gli occhi. Ma il suo non sa di preoccupazione, quanto piuttosto di solitudine e angoscia.
E’ così bello che non ha importanza se mi sta per uccidere.
Spalanco la bocca e ne esce qualche suono soffocato, mentre lui mi stringe ancora più forte i polsi.
Fa avvicinare i nostri volti, mi guarda fisso negli occhi.
“Perché...?” ma non fa a tempo a finire che una voce femminile lo richiama dal piano superiore.
“Michele! Ti sei perso?” Lui distoglie lo sguardo dal mio, liberandomi da quella prigione verde, così oppressiva ma allo stesso tempo piacevole.
“Arrivo!” urla di rimando, e io sobbalzo, perché in quei pochi secondi avevamo parlato in sussurri fatti di suppliche e minacce, e il grido improvviso mi coglie di sorpresa. E inoltre sono convinta che mi voglia portare da lei.
Invece mi spinge verso la spaccatura sul muro attraverso cui sono appena entrata.
“Và via!” sibila. Non me lo faccio ripetere due volte e quasi mi butto fuori dalla finestra.
Corro verso il bosco sbucciandomi le ginocchia sull’asfalto quando inciampo, ma mi rialzo subito.
Beh, come primo saccheggio non è andato malissimo...
 
Pov. Michele
 
Non riesco a credere di averla lasciata andare.
In mano ho ancora il suo zainetto, così lo apro. Dentro ci sono barrette energetiche e bottiglie d’acqua, nonché alcuni effetti personali e una collana d’oro. La devo nascondere per riuscire a trovare dei profitti e tenermeli per me.
Ho notato le sue tasche gonfie di scatolette ancora sigillate, ma ho fatto finta di non accorgermene.
Spero non torni qui, o la prossima volta potrebbe trovarsi Andrea davanti. E lui non sarebbe stato clemente come me, è sempre piuttosto violento, e non fa mai distinzione tra i due sessi. Se non per altre ovvie ragioni.
I suoi occhi disperati mi hanno scosso. Il suo viso magro è così pallido e innocente, in contrasto con lo sguardo maturo dei suoi occhi di petrolio.
Sembra una piccola gatta selvatica con quei capelli, un’affamata piccola gatta selvatica.
Esco dalla stanza prendendo cinque birre dal contenitore nascosto in uno scomparto.
Ne apro una mentre salgo le scale e la sorseggio mentre varco la porta della stanza.
Sento sulle mani ancora i residui di gelo che mi hanno lasciato i polsi della ragazza, talmente magri da sembrare fragili come rametti. Ma rammento ancora la sua pelle morbida contro la mia ruvida, e sento ancora sulle mani i suoi capelli di quell’incredibile colore, trascurati, ma allo stesso tempo bellissimi.
Entro nel salotto malmesso dell’edificio e subito Rossella parte in quarta con le domande.
“Cazzo se ce ne hai messo di tempo. Cos’è, adesso ti fai anche i muri?” È seduta in braccio ad Andrea, il quale mi guarda divertito.
“Chiudi quella fogna Ross” sbotto ghignando. Poi le porgo la sua birra.
Lei me la strappa di mano con lo sguardo offeso.
“Ehi, porta rispetto per la mia ragazza”mi ammonisce Andrea.
“Tanto domani non sarà più qui” sibilo con cattiveria, sentendomi subito dopo colpevole dallo sguardo di Ross. Sono consapevole del loro tira e molla costante, e di certo c’è almeno una possibilità su tre che durante la serata litighino.
Di conseguenza domani Andrea sarà così sbronzo da non reggersi più in piedi.
Ho fatto bene a portargli altre due birre. Gliele appoggio sul tavolo e me ne vado.
Semplicemente sono stufo di quei due, della loro felicità e spensieratezza, mentre io sono solo, peggio di un cane randagio, che poi è quello che sono: un semplice vagabondo che fugge dal suo destino e dalla sua vita.
Mentre ascolto la musica rubata da un cellulare rubato su un materasso rubato mi accorgo di pensare ancora a lei: la Ragazza dai capelli rossi, o la Gatta selvatica.
Non so come chiamarla.
 
Pov. Sir
 
Non riesco a fare a meno di aprire un’altra scatola di tonno dopo essermene divorata una intera. Mi manca il cibo vero. Mi manca terribilmente.
Sono fiera di me stessa per essere stata capace di tenere nascoste le scatolette che avevo in tasca al ragazzo, e ora ne saggio il merito mangiando da re. 
Non è stato sempre così, ho ancora qualche vario ricordo di com’era prima. Quando ancora si poteva mangiare senza dover rubare, quando le strade erano tranquille, e non un corridoio colmo di agguati.
Quando l’uomo ancora conviveva con se stesso.
L’Organizzazione si è mangiata tutto.
Ci sono dei gruppi di persone: i Ribelli. Loro non obbediscono, fanno di testa loro e si rifugiano in vecchi edifici, o addirittura dentro il bosco. Queste specie di gang si sono messe le une contro le altre e ogni giorno scoppiano risse nei vicoli, dalle quali nessuno può scappare.
Mi guardo la cicatrice che ho sul braccio e mi maledico per non aver scelto un mio gruppo. Ora sono sola e ne devo pagare le conseguenze.
Mi corico sul cartone che mi fa da materasso e ascolto le urla lontane di uno scontro poco distante.
Chiudo gli occhi cercando di dormire, ma non è facile dato che con questo freddo mi si stanno congelando pure i capelli.
Mi raggomitolo su me stessa sperando di scacciare questo gelo che mi intorpidisce le membra, e il ricordo delle Sue mani su di me ritorna furbo da un angolo della mia mente, dove lo avevo incatenato. Erano calde, e contro la mia pelle fredda sembravano bollenti, e nella mia mente non sono grevi come le ricordo. Sono gentili, e mi accarezzano i polsi in una presa giocosa.
Beh... se non mi sono riempita la pancia perlomeno mi sono rifatta gli occhi... devo ammetterlo.
Ma ho lasciato lì il mio zainetto, e dentro non vi sono solo le cose che ho quasi rubato, lì ci sono i pochi oggetti che mi porto dietro. La collanina della mamma è una di essi, e non lascerò che la vendano per ricavarne profitti.
Decido quindi di partire all’alba per riprendere il mio zaino, e forse rubare qualche altra razione di cibo,  così da avere i mezzi per sopravvivere a un’altra settimana.
Il ricordo dei suoi occhi mi accompagna mentre scivolo piano verso Nyx.
Per la seconda volta guardo quella casa malridotta, desiderando di avere scelta.
Ma non ce l’ho.
Cerco un’altra via d’accesso: sarebbe scontato entrare dalla stessa stanza in cui si è stati colti con le mani nel sacco.
E trovo una stanza del secondo piano con le finestre di cartone: perfetta per me. Un libero accesso ai ladri.
È ancora notte. Non ce l’ho fatta ad aspettare di più, ma il cielo si sta schiarendo in fretta, devo essere svelta.
Sposto di qualche centimetro il cartone, riuscendo appena ad intravedere una stanzetta in penombra. C’è un letto al centro e una figura sottile si muove piano dentro le lenzuola e sotto le coperte.
Nemmeno l’ombra del mio zaino.
Decido di entrare comunque e di avventurarmi nella tana del lupo.
Attraverso svelta la stanza osservando il bambino nel letto. Mi fa tenerezza tutto raggomitolato com’è su quel materasso.
Apro piano la porta attenta a non svegliarlo e mi ritrovo in un corridoio spoglio e con il muro scrostato.
Alle pareti vi sono almeno sei porte.
E capisco che la mia gita finisce qua, perché nel momento stesso in cui le noto, una di esse si apre e ne esce un uomo a petto nudo.
È alto e brizzolato, i muscoli sono ben definiti e tonici, il torace non è abbronzato, ma pallido come se quell’uomo avesse passato tutta la vita a nascondersi nell’ombra.
Mi fissa sorpreso e un filo di rabbia incupisce il suo sguardo.
Non faccio in tempo nemmeno a fiatare che lui mi prende per il collo e mi sbatte sulla parete.
Un singulto spezza il mio respiro quando le sue mani cominciano a premere aggressive.
All’inizio sento solo la botta sulla schiena, ma quando l’aria comincia a mancare sento di perdere i sensi.
Sento la porta contro cui sono premuta aprirsi violentemente e percepisco la presa del brizzolato allentarsi all’improvviso.
Cado a terra un po’ intontita, ma non per questo rinuncio ad alzarmi pronta a fuggire.
 
Pov. Michele
 
Vengo svegliato da dei tonfi che provengono dal corridoio.
Mi alzo di slancio rabbrividendo all’aria mattutina, anche perché indosso solo i boxer, e spalanco di scatto la porta, allarmato da tutti quei rumori.
Quello a cui non sono preparato è la persona che quasi mi cade addosso, rotolando invece sul freddo pavimento.
Anzi, La persona.
Non riesco a credere che sia ancora qui, non dopo tutti quegli avvertimenti che le ho dato, azzardandomi anche a metterle le mani addosso.
“Prendila!” mi ordina Andrea, e io, non potendo fare altrimenti, la prendo per le braccia, immobilizzandola contro il mio petto.
La sento che si dibatte furiosamente alle mie mani, proprio come la sera precedente, ma so anche che è impossibile che mi contrasti con quei braccini esili che sto stringendo. Avverto il profilo delle sue spalle magre sull’addome, anche se i calci agli stinchi che mi sta tirando fanno piuttosto male.
“Che è successo?” chiedo confuso. Non capisco cosa stia accadendo.
“Ho beccato questa stronzetta a girovagare per i corridoi come nulla fosse” mi spiega lui.
E allora mi sento in colpa, perché so che se le avessi dato lo zaino con le sue cose dentro, questo non sarebbe mai successo.
La sento singhiozzare disperata: ha paura.
E io che posso fare?
 
Pov. Sir
 
Ma come posso essere così impulsiva? Avrei dovuto immaginare che in quell’edificio vi abitassero almeno una decina di persone. Altrimenti che gang sarebbe?
Non riesco a liberarmi dalla stretta di questo ragazzo, ha una mano a trattenermi i polsi e l’altra impugna la mia felpa sformata, sgualcendola ancora di più.
Ho un singulto. Ma come faccio a cacciarmi sempre nei guai?
Sono troppo impulsiva, la prossima volta dovrò stare più attenta. Ma quale prossima volta? Non se questi mi ammazzano! Li sento parlare, ma non percepisco altro che qualche mugugno distante.
Un improvviso dolore alla guancia sinistra mi riporta alla realtà.
Uno schiaffo.
“Sta’ ferma”Mi ordina il brizzolato.
Sono immobile e vorrei scatenare l’apocalisse, ho le mani dietro la schiena e vorrei saltare addosso a quell’uomo e riempirlo di botte.
Una stretta sul mio braccio. Lieve ma decisa. Un avvertimento.
Se quel ragazzo mi sta tenendo in trappola e non vuole aiutarmi, allora perché mi fa questi segni? Non mi vuole uccidere anche lui?
“Andrea...” lo sento chiamare.
“Andrea un corno! Se i Grifoni ci hanno scoperti siamo fottuti, hai capito?” sbraita lui.
“Ma magari fa parte di un altro gruppo...” prova a ribattere Michele. Ha il fiatone, sembra preoccupato, me ne accorgo perché ho la schiena premuta contro il suo petto nudo... aspetta... petto n-nudo?
Divento rossa solo al pensiero di quei muscoli ben definiti, e mi sembra di essermi accorta adesso che un uomo in mutande mi sta stringendo a lui.  
Andrea, da quel che ho capito, si rivolge direttamente a me.
“Come ti chiami?” mi chiede. E io non so che rispondere, perché potrebbero usare ciò che dirò contro di me.
“S-Siriana” rispondo in un sussurro.
Non percepisco più il suo sguardo su di me, così alzo il mio, lo fisso.
“Sei la compagna del Boss?” mi chiede infine facendomi abbassare gli occhi.
“Non so chi sia il B...” faccio per rispondere.
Ride, lui.
“Non è possibile che tu non lo conosca, praticamente tutti sanno che lui è il capo dei Grifoni... a meno che... tu non faccia parte dell’Organizzazione.” A quel nome scatto.
Anche Michele ha una reazione, sento molto bene il breve e lieve singulto che gli spezza il respiro per un attimo.
“No...” cerco di negare, anche se so che non mi crederà perché ormai si è già scritto la mia storia da solo.
Manca solo il verdetto finale.
“No.” Ripeto, come se potesse servirmi.
“Chiudila in una stanza, deciderò dopo che farne, intanto dobbiamo assicurarci che i Grifoni non ci tendano un agguato.” Dice Andrea.
“E... mettiti qualcosa addosso, per favore...” .
Poi si gira e se ne va.
Appena svolta l’angolo Michele lascia la presa dal mio braccio e mi gira  violentemente prendendomi per le spalle.
“Ti avevo detto di non tornare.” Sibila ad un centimetro dal mio viso.
Dovrebbe farmi paura, ma l’unica cosa che riesco a fare è perdermi nel verde dei suoi occhi.
Lui non si muove, e io neanche.
Dopo aver intuito che probabilmente non avrei aperto bocca si allontana da me, spostando la sua salda presa dalle spalle ai polsi, tenendoli insieme con una sola mano.
“Frà!” Lo sento gridare, e io sobbalzo, mi ero abituata al silenzio che si era insinuato tra il nostro gioco di sguardi e noi.
Dall’angolo del corridoio malmesso, lo stesso da cui è sparito Andrea, compare un ragazzino di non più di dodici, forse tredici,anni.
Sta correndo, vedo il suo petto esile alzarsi e abbassarsi in profondi respiri.
Arriva di fronte a Michele, si ferma dritto dritto davanti a lui, come se questo bastasse a farsi dare rispetto. Lo guarda infatti con ammirazione misto a rispetto e un pizzico di stupore, forse dato dal fatto che il suo mito è in boxer con me accanto.
“Ho bisogno che tu la tenga d’occhio, devo rivestirmi, e se vuoi la puoi anche legare.” Ogni volta che quel ragazzo apriva bocca mi lasciava stupita.
E poi dove sarei potuta scappare? In qualsiasi modo andasse ho intuito che non è così facile fuggire da questo luogo: c’è gente ovunque.
“Va bene...” Il ragazzino accoglie di buon grado il compito, gonfiando il petto.
È più alto di me forse di qualche centimetro, considerando la mia scarsa altezza, ma gli ci vogliono due mani per tenermi fermi entrambi i polsi, benché esili anch’essi.
Io semplicemente lo lascio, guardando Michele sparire all’interno della sua stanza.
 
Pov. Michele
 
Appena la porta si chiude mi ci addosso contro.
Stupida ragazzina! Ma in che guai si va a cacciare? Questa faccenda è più grave di qualche furto per principianti. Molto più grave.
Afferro un paio di jeans dal mucchio di pantaloni sparsi a terra e mentre me li infilo cerco con lo sguardo una maglietta non troppo sgualcita. Quando la individuo me la metto subito: devo fare il più in fretta possibile.
Va bene che Francesco è un ragazzino molto scaltro e orgoglioso, ma non è poi così muscoloso da riuscire a trattenere una gatta selvatica come la rossa.
Esco subito prendendo della corda dal mio comodino - se così si può chiamare un tronco d’albero ritrovato nel bosco - .
Resto sorpreso nel vedere che lei non ha tentato di liberarsi, anzi, se ne sta buona buona a testa bassa.
Appena mi vede le leggo negli occhi timore misto a insicurezza, e quando nota la corda tra le mie mani lo riabbassa subito.
E per fortuna.
Altrimenti avrebbe notato il mio sguardo colpevole .
E tutto sarebbe saltato.
Le riprendo i polsi e congedo Frà che non vede l’ora di andarsene – forse avere a che fare con un prigioniero poco bellicoso lo annoia - e con poca fatica le lego le mani dietro alla schiena.
Non riesco a trattenermi dal toccare una ciocca dei suoi capelli e la sento scattare in avanti spaventata.
Lei tenta di girarsi e io la lascio fare.
“Scusa.” Le dico.
Non sembra tranquillizzata dalle mie parole e così mi decido a farmi più severo con lei.
Meglio evitare qualsiasi contatto emotivo e fisico, se non strettamente necessario. Le afferro il braccio e la giro.
Devo portarla nell’altro sgabuzzino, quello senza finestre.
Lei si lascia condurre: è consapevole di non avere scelta.
Lo sguardo curioso di Ross mi arriva agli occhi fino a trafiggermi il cranio come un bastoncino per spiedini.
“E lei chi è?” chiede allegra, forse non ha litigato con Andrea ieri sera. Appena nota la corda ai polsi della rossa il suo sguardo si fa duro e mi lancia un’occhiata severa.
“Ma ti sembra il modo di trattare una ragazza?” mi chiede.
“Ordine del capo” le rispondo io.
“Ora mi sente quello...” e parte in quarta verso la sala delle riunioni.


 
Io sospiro, so che la discussione finirà per diventare una grande litigata.
Riprendo a camminare trascinando con me anche la rossa.
Si sta guardando attorno come un animale braccato: ed ha ragione. Che fine potrà avere? Da quando faccio parte dei Ribelli non mi è mai capitata una cosa del genere. E se le aspettasse la morte?
Scuoto il capo per scacciare questo amaro pensiero dalla mente.
Le gambe si fanno rigide e riluttanti a svolgere il proprio lavoro: sono pesanti dai macigni del senso di colpa, due zavorre astratte ma grevi.
Mi faccio forza perché so benissimo di non avere voce in capitolo.
Essere uno tra gli ultimi arrivati non giova a nessuno e da nessuna parte.
 Raggiungo la porta dello sgabuzzino.


Pov. Sir
 
Quando Michele mi spinge dentro improvvisamente, non posso fare a meno di sussultare.
La corda che mi stringe i polsi comincia a bruciare, e d’un tratto mi assale la paura di quello che potrebbero farmi.
Non sento più le sue rigide mani a contatto con i miei polsi e così mi giro verso di lui, intimorita e arrabbiata allo stesso tempo.
Mi sta fissando.
Non sembra avere alcuna emozione verso di me: lo sento distante come la prima volta che ci siamo visti.
Non riesco a capacitarmi di quello che gli è preso quando mi ha toccato i capelli.
Sembrava una qualche forma di richiesta di perdono, ma forse mi sbaglio.
L’ambiente in cui mi trovo è umido, sto respirando affannosamente ed è per questo che me ne accorgo quasi subito.
Le pareti sono di un colore strano, ma forse è dovuto dalle grandi macchie di muffa che vi torreggiano sopra.
La prima cosa che noto è l’assenza di finestre: d’altronde da uno sgabuzzino che cosa ci si può aspettare?
Michele chiude la porta dietro di sé, e dopo qualche secondo sento il suono della serratura scattare nel silenzio di quell’angusto posto, spezzato solamente dal mio incerto e veloce respiro.
Ecco: ora sì che sono nella merda.
L’unica cosa da cui posso considerarmi al sicuro è l’Organizzazione stessa.
Quando io e mio fratello Alessandro eravamo rimasti soli dopo la guerra, assieme a tutti gli altri minori, avevamo sempre vissuto per strada.
Ma da quando lui è morto le cose non sono più state le stesse.
Gli ho promesso che mi sarei presa cura di me stessa, e così ho cercato di fare.
Ed ha funzionato.
Fino a oggi.

“Non lasciarmi!” gli gridavo scuotendogli le spalle.
“Mi devi promettere che non ti metterai nei guai...” continuava a ripetere “Niente guai... intesi?”. Non potei fare nulla, se non annuire impotente. Mezza annegata tra le lacrime e il dolore gli tastavo il petto: là dove lo aveva colpito la pallottola.
Venne interrotto da un forte attacco di tosse e del sangue gli macchiò la maglietta che non cambiava da quasi una settimana.
Lui cercava di sorridermi, ma i denti macchiati del suo stesso sangue rendevano l’immagine grottesca.
Il braccio bruciava, la testa pulsava, ma ero abbastanza sveglia da capire che non ce l’avrebbe fatta; non quella volta, almeno.
Lui era sempre stato il mio eroe, il mio punto fisso. Ed ora se ne stava andando.
“Ti prego...” mormorai stupidamente: come se lui potesse farci qualcosa.
Ma non mi rispose.
Non mi avrebbe mai più risposto.

 
Sono seduta, o meglio raggomitolata, stretta stretta alla parete come se quel pezzo di muro fosse la mia ancora di salvezza.
Ormai è successo, non c’è nulla da fare.
Fisso la porta che si è appena chiusa trattenendo le lacrime: non c’è modo di scappare e io non posso stare qui.
Sbatto leggermente la testa sull’intonaco scrostato e dei pezzi mi cadono sui capelli.
Stupida, stupida, stupida...
Ogni botta è un insulto a me stessa.
Me lo merito; sono troppo emotiva, troppo poco superficiale da rischiare la vita così, d’impulso, per una collana, un ricordo che ora di certo non mi verrà restituito.
Un primo singhiozzo mi percuote le spalle e io faccio di tutto perché sia l’ultimo, ma non ci riesco.
Scoppio in un pianto dirotto aumentando la forza delle botte.
È colpa mia. Solo colpa mia.
Sono io la causa di tutto, dovevo essere io la vittima di quell’uomo, non mio fratello, il mio fratellone!
Morto. Non c’è nulla in più da dire, si potrebbero usare altri termini: Deceduto, mancato, sparito dalla faccia della terra, stecchito... ma niente descrive la morte meglio di quel verbo. Niente.
Chissà poi se è davvero morto... magari in questo momento sta vegliando su di me.
Magari quel leggero prurito sulla spalla destra è la sua mano che mi consola.
Magari ora sta tentando di asciugarmi le lacrime con i suoi arti fatti d’aria.
Magari... no. È inutile torturarsi con tutti quei se.
Nulla lo farà mai tornare indietro.
Scivolo piano con la schiena dalla parete e in poco tempo mi ritrovo a terra, incapace di un pensiero coerente.
Ripenso a tutti quei bei momenti in cui io e mio fratello, da piccoli, giocavamo a nascondino e sorrido tra le lacrime al pensiero di come non riuscivo mai a trovarlo.
Immagino me: una bella bambina dai capelli rossi e gli occhi scuri che scrutano ogni angolo del piccolo boschetto che usavamo per giocare.
Poi lui: Un ragazzino con i capelli castani, diversi da quelli della sorellina, ma dagli stessi occhi neri ed espressivi.
E poi mi ritrovo a rammentare quando, più grandi, fummo  strappati dalle braccia dei nostri genitori.
Già da allora era così protettivo verso di me.
Ed io l’ho deluso.
Stringo i pugni.
Quando mai potrà andarsene questo dolore?
 
 
 
 
 
 
 
Ciao a tutte coloro che hanno avuto il coraggio di leggere questa mia ff! XD intanto ringrazio in anticipo (per quelle che sono ancora vive) chi mi lascerà una recensione, aggiungerà questa storia alle seguite, alle preferite o alle ricordate. Ma ringrazio anche coloro che se ne staranno in silenzio e la apprezzeranno (o la disprezzeranno). Detto questo: al prossimo capitolo. La aggiornerò tra un paio di settimane, forse dopo o forse prima.
A presto! ;)
Chiara

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Pov. Michele
 
Guardo la porta davanti a me.
Nessun rumore proviene da quel grosso pezzo di legno che mi divide dalla Rossa.
Appoggio l’orecchio sulla superficie piana e mi accorgo di un sommesso singhiozzare.
Aggrotto le sopracciglia.
Quali saranno i suoi pensieri? Le sue idee? Avrà mai modo di esprimerle?
Mi allontano di scatto dall’entrata.
È inutile pensarci: alla fine sarà quel che sarà.
Comincio, riluttante a lasciarla sola, ad allontanarmi percorrendo il corridoio lentamente, ma con passi regolari.
Devo correre in soccorso di Ross.
Arrivo davanti alla porta della camera di Andrea da dove sta di sicuro sfuriando una bella discussione sui diritti delle donne.
“Devi smetterla!” sta ormai urlando Ross.
“Non mi devi sempre trattare come fossi al tuo servizio! Anche io ho voce in capitolo. Vorrei tanto potertelo provare, ma se non me ne dai la possibilità...” la sua voce si incrina e poi si spegne del tutto, forse convinta dai veloci colpetti che sto dando con le nocche delle mani alla porta.
Andrea, felice di quell’interruzione, grida per bene il suo bell’ “avanti” ed io socchiudo piano la porta, come se mi potessero arrivare in faccia i fulmini tirati dagli occhi incazzati di Ross.
“Cosa vuoi?” mi chiede lui quasi sollevato.
“L’ho messa nel ripostiglio.” Lo avviso senza farci giri intorno.
“Okay. Avvisa anche gli altri.” Mi dice congedandomi con un’occhiata.
Io chiudo piano la porta e mi allontano, udendo i rumori riprendere subito.
Evviva.


Arrivo, dopo aver girovagato un po’ a vuoto, alla sala mensa.
Ormai è già piena del tutto e i piccoli tavoli traballanti sono ricolmi di cibo.
Lo stesso che la Rossa, poche ore prima, aveva tentato di rubare.
Mi siedo, come al solito, da solo; anche se gli sguardi lascivi di alcune donne e ragazze attorno a me mi invitano ad andare con loro.
Comincio a mangiare masticando piano il mio boccone.
Forse è meglio che porti del cibo anche alla ragazza? Andrea si arrabbierà se ne prendo un po’ per darlo a lei?
Ma no... Mi alzo di scatto, diretto al ripostiglio delle scorte.
Magari se le porto anche una coperta questa notte non morirà di freddo.
Prendo l’occorrente e, mentre percorro lo stretto corridoio dai muri scrostati, penso a quanto sarà difficile che lei esca viva da questa situazione.
Mi fermo davanti alla porta, da cui ora non proviene alcun suono.
Apro il catenaccio esterno e faccio girare la chiave: due giri, posti per sicurezza dal sottoscritto.
Spingo piano quel pezzo di legno levigato e guardo la figura rannicchiata della ragazza, ora quasi illuminata dalla penombra che ho creato aprendo la porta.
I capelli le ricadono confusi sulle spalle e sul pavimento.
Un mare rosso.
Un mare in cui navigherei solo per naufragare.
Quando lei si accorge del cambiamento di luce si volta di scatto, impedita dalle mani legate.
Ormai le lacrime sul suo viso sono solo un ricordo, ma la loro scia è ben visibile, nonostante la scarsa illuminazione.
Le trema il labbro inferiore, e se lo morde, come per non mostrarmi le sue debolezze.
Mi avvicino piano a lei, come se da un momento all’altro possa scattare in avanti e graffiarmi.
Le poso davanti la ciotola di minestra in scatola che ho trovato e le porgo un cucchiaio. Non sono riuscita a trovarne uno di plastica, vorrà dire che la terrò d’occhio.
Non si sa mai cosa si potrebbe fare con quell’arnese.
 
Pov. Sir
 
Lui è davanti a me, mi porge un cucchiaio.
Ma è stupido? Cosa pensa che io riesca a fare con le mani legate?
Mi allungo il più possibile per afferrare lo strumento.
I miei polsi irritati protestano ed io trattengo un gemito.
Lo afferro saldamente e aspetto che il ragazzo se ne vada, ma non lo fa. Resta lì a fissarmi, come incantato.
No.
Non posso sopportare quest’umiliazione.
Lascio cadere a terra il cucchiaio e, non senza difficoltà, mi volto dall’altra parte, la fronte quasi a contatto con la parete. E aspetto che il rumore metallico cessi di danzare.
“Se stai buona ti libero, okay?” è la prima volta che mi parla direttamente, senza urlare né picchiarmi. Resto lì, rigida, senza sapere cosa fare, come muovermi. 
Lo sento alzarsi e mi aspetto nuovamente che lasci la stanza, ma invece si avvicina a me, quasi a toccarmi.
Mi afferra i polsi, io faccio per ritirarmi, e lui mi strattona. Mi sta avvertendo: lo so già che questa è una causa persa.
E lui ha ragione.
Con movimenti veloci sfila in fretta la corda dai miei polsi screpolati e me la toglie subito dalla portata per evitare che io la prenda.
Io lo guardo stupita.
I suoi occhi verdi hanno un che di familiare, come se quelle finestre fossero la mia casa, la mia salvezza. E in un certo senso è così.
Improvvisamente distoglie lo sguardo da me e si allontana brusco.
Mi indica con un cenno il barattolo con della minestra dentro e io, libera dagli impicci, mi ci fiondo sopra. È bello sentire così spesso il sapore del cibo, ed è palese che qui non manca.
Ingoio la minestra come avevo fatto poco prima con le scatolette rubate.
Quando finisco il ragazzo si china svelto per raccogliere la lattina e il cucchiaio.
E solo adesso mi accorgo della coperta che porta in mano. Da quanto tempo non dormo in una di esse? Troppo, veramente troppo.
Lui si volta, apre di nuovo la porta in cui stanno entrando le prime luci dell’alba e se la chiude alle spalle.
Non mi ha legata, ma la porta fa tre scatti metallici.
Mi asciugo la bocca ancora umida, non mi serve per ora la coperta, in fondo tra un po’ farà più caldo: è della notte che mi preoccupo.


Il tempo passa inesorabile e impossibile da fermare.
Il caldo comincia a farsi insopportabile e così mi tolgo la felpa rimanendo solo con la mia maglietta sgualcita e consunta.
Il clima con l’inquinamento è stato alterato fino ai massimi livelli e ormai con questi sbalzi di temperatura non si sa più come vestirsi.
Deve essere mezzogiorno ormai, e fuori devono esserci come minimo trenta, trentacinque gradi centigradi.
Mi allungo stiracchiandomi per bene dalla mia posizione distesa e cerco di non pensare al pavimento rovente che mi sta cuocendo la schiena e la testa, che già sta scoppiando per motivi suoi.
Mi passo il dorso della mano sulla fronte madida di sudore e poi le dita tra i capelli, cercando di districare almeno un po’ di nodi.
Questo caldo mi rende nervosa, ma so che non posso nemmeno dimostrarlo data la posizione sociale in cui mi trovo.
Da fuori a volte provengono dei rumori, come di bambini che giocano.
Forse sono venuti a vedere la nuova preda della gang, oppure è abituale che loro giochino proprio davanti alla porta.
Alcune volte intervengono anche delle voci adulte che sedano i piccoli per un po’, ma poi ricominciano.
Tutto questo continua da più di quattro ore, ormai.
Respiro profondamente l’aria viziata della stanza, ma questo non contribuisce a schiarirmi le idee, anzi, mi rende ancora più impaziente di alzarmi, muovermi, provare a scappare...
Ma non posso.
Sarebbe tutto inutile.
Se Alessandro fosse ancora vivo a quest’ora saremmo al fresco da qualche parte.
Ma lui non c’è, e devo sbrigarmela da sola.
Mi alzo in piedi e, titubante, provo ad aprire la porta.
“Che stupida.
Michele non è così tonto da lasciarla aperta, in fondo ho sentito io stessa le tre mandate con cui l’ha chiusa.” Mi dico. Abbasso la maniglia lentamente, ma non accade nulla come da copione.
Sospiro sconsolata e torno a sedermi sul pavimento lurido.
Tanto vale conservare le forze per ciò che verrà.
 
Pov. Michele
 
Sto consumando il mio pranzo quando vedo Andrea che mi si siede davanti.
“Allora?” chiede. Io, a malavoglia, distolgo lo sguardo dal mio panino.
“Allora cosa?” domando a mia volta, anche se so già perfettamente l’argomento della nostra discussione.
“La ragazza. Non possiamo tenerla qui e lo sai benissimo.” Mi dice lui.
Io sospiro.
“Lo so.” Dico, cominciando a torturare con le dita la pagnotta che ho in mano.
“Beh... ho controllato.” Continua lui.
“I Grifoni non si vedono da nessuna parte.” Io sospiro di sollievo, almeno una cosa positiva c’è. “Quindi: o sono bravissimi a nascondersi oppure lei fa parte dell’Organizzazione.” Mi sta guardando attentamente negli occhi, come se stesse valutando la mia reazione.
Quel nome mi mette i brividi.
Grida, urla, disperazione.
“Non credo.” Ripeto semplicemente staccandomi da quei ricordi dolorosi.
“Se facesse parte dell’Organizzazione a quest’ora saremmo morti tutti” dico con qualche difficoltà.
Dolore, sangue, spari.
Lui sbuffa, per nulla colpito dalla mia affermazione.
“Potrebbe star mentendo. Hai mai pensato a questa possibilità? Che magari sotto a quel corpicino esile ci sia qualcos’altro che si nasconde?” Abbasso lo sguardo.
Occhi neri e capelli rossi.
No. Non ci avevo pensato.
Si alza, ma sento bene la frase che pronuncia prima di andarsene.
“L’unico modo per liberarci di lei sembra quello di ucciderla”.
Occhi neri e capelli rossi.
Ho un tuffo al cuore.


Pov. Sir
È la seconda volta che quella porta si apre. Ma quando si deciderà a star ferma?
Mi volto dal lato opposto alla posizione raggomitolata in cui ho preso rifugio, in modo da dare le spalle alla luce accecante e ai nuovi arrivati in questa stanza.
Il caldo mi ha dato alla testa: mi sembra che ogni pensiero sia stupido e insensato.
È da un’ora circa che il sole ha cominciato il suo viaggio verso il tramonto, e la temperatura si sta abbassando drasticamente fino ai livelli minimi. Ho rimesso la felpa, ma la coperta è ancora inutile: sono sicura che mi servirà in seguito.
I nuovi arrivati sono in tre, dalla voce li distinguo: Michele, Andrea e qualcun altro di cui non conosco il timbro.
“Non possiamo decidere di ucciderla senza prima averla interrogata” sostiene Michele.
“Lo sapete: io sono qui solo per interrogarla. Non mi va di aspettare, ho altro da fare, c’è Francesco che si è slogato un polso e glielo devo ancora steccare.” Dice la voce sconosciuta.
“Sta’ calmo Spencer, non morirà di certo, Frà ha passato pene peggiori” lo ammonisce Andrea con voce dura.
Povero quel ragazzino, penso, chissà cos’avrà combinato.
Una rissa? Una caduta? La mano del Diavolo? È un peccato che non lo scoprirò mai.
“Perché l’hai slegata?” chiede Andrea probabilmente a Michele. Mi sento un po’ osservata, non c’è che dire.
“Le ho dato del cibo, ho dovuto liberarla” si giustifica lui.
“Le hai dato da mangiare?! Lo sai che non abbiamo tutte le scorte del mondo, Michele, non puoi pretendere di acchiappare una ladra e darle lo stesso cibo che ha tentato di rubare!” Andrea è arrabbiato, ed è palese che si fa rispettare, a giudicare dal silenzio mortificato che segue alle sue parole di ghiaccio.
Un sospiro secco spezza la tensione creatasi, e qualcuno mi afferra per un braccio strattonandomi fino a farmi inginocchiare, e poi alzare.
È Andrea, lo capisco dalla rabbia e la mancata delicatezza dei suoi gesti. Non mi lamento al dolore che mi sta causando premendo la mano sul mio polso irritato, so che lo farei adirare ancora di più di quel che già è.
Ho paura di lui: è prestante, alto e pallido, e i suoi arti forti sono capaci di fare del male. Ma non faccio trasparire il mio timore, non voglio che questi Ribelli abbiano una crepa da sfruttare per demolirmi.
Mi spinge in avanti, buttandomi tra le braccia più gentili di Michele. Non posso dire di essere sollevata per questo, ma almeno non rischio di morire all’istante.
Il sudore che si è creato durante la giornata comincia a freddarsi, e i primi brividi della notte cominciano a farmi visita nonostante la felpa pesante e larga.
“Allora... da dove sei sbucata fuori?” chiede lo sconosciuto. È un uomo bassetto e con la calvizie incipiente, anche se a compensare la mancanza di capelli c’è una folta barba castana. Non ha né l’aria bonaria né malvagia, direi piuttosto che a pelle è piuttosto neutro.
Non riesco subito a rispondere, forse perché la mia voce è rimasta in fondo alla gola: sì, dev’essere successo proprio questo. Già da prima non parlavo con qualcuno da tempo immemore, e adesso le corde vocali non riescono a muoversi... è come se non l’avessero mai fatto.
Così mi appendo a quelle liane, mi ci dondolo come su un’altalena , e tiro fuori la voce.
“Avevo bisogno di mangiare” le mie parole sono roche, mi escono a fatica: mi schiarisco la gola dopo averle pronunciate, ma l’altalena si è già fermata.    
Ascolto impassibile la risata di Andrea, ho capito fin dall’inizio che non crede e non crederà a ogni minima sillaba che uscirà dalla mia bocca, non ci vuole un genio.
Intanto gli altri due spettatori mi fissano basiti come se avessi appena fatto uno di quei rutti di cui si è preda quando si ingoia l’acqua del mare.
“Di che gruppo fai parte, sgorbio?” chiede allora Andrea, fattosi di nuovo scuro in volto.
Questa volta non rimango più impassibile e abbasso lo sguardo spostandolo invece sulla punta consunta delle mie vecchie scarpe da tennis.
“Non ne ho mai avuto uno, io e mio fratello...” Lui mi blocca subito.
“Non mi interessa la storia dell’Orso, voglio sapere da dove vieni”. Io riprendo fiato e aspetto che il cuore risalga dal tuffo che ha fatto alla parola “fratello”.
“Io... io non avevo pensato alla protezione che avrei potuto avere con una gang, così sono rimasta da sola, e... non c’era altro modo... continuando di quel passo sarei di certo morta di fame”. Una volta che comincio a dondolarmi sull’altalena della mia voce non riesco più a fermarmi. E continuo ad ondeggiare al ritmo delle parole che passo fiera sulla lingua e sulle labbra per essere riuscita a ricordarle tutte.
Andrea mi guarda freddo, e poi dice: “ E cosa ti saresti aspettata, che io ti avessi permesso di rubare tutto il cibo a nostro discapito?” ed ha ragione.
Oh, beh... a volte mi sembra di essere un fiore, una rosa appassita di cui sono ormai rimaste solo le spine.
Spencer si gratta la pelata e si accarezza la barba: forse lui mi crede, penso, forse non sono poi così falsa ai loro occhi.
Michele, dietro di me, è impassibile.
“No”rispondo alzando timida lo sguardo dalle scarpe. È stato l’istinto che mi ha portata qui, ecco quello che voglio dirgli. È stata la mia collana a portarmi qui, ecco quello che non dovrei dire. Non è la prima volta che vengo qui, ecco ciò che dico pentendomene subito.
Andrea si fa rosso in viso e una vena in rilievo gli sovrasta la fronte.
“Che cosa?” quasi urla. Io cerco di indietreggiare, ma il corpo saldo di Michele me lo impedisce. È preoccupato, scommetto che ha paura di essere smascherato.
“La... la finestra della stanza delle scorte era aperta, mancava il vetro, e così... ci sono entrata” ovviamente taccio per il suo bene, gli devo un favore dopotutto. Balbetto una risposta inventata su due piedi.
“Era vuota , e così ne ho approfittato per... sfamarmi” adesso però mi sento la farfalla dall’ala spezzata che scivola tra le spine della rosa, tentando maldestramente di schivarle.
Abbasso di nuovo lo sguardo, battendo velocemente gli occhi alla paura di ricevere un altro schiaffo da parte di Andrea, e incasso la testa sulle spalle, come se questo potesse in qualche modo nascondermi da lui e da tutti.
Non è così.
Lui mi si avvicina piano, finché non mi si ritrova a un palmo di distanza, tanto che posso sentire il suo respiro veloce sulla guancia.
“Uccidetela” mormora. Un sussurro che sa di morte e paura. Cerco disperatamente di arretrare mentre Andrea esce dalla stanza sbattendo forte la porta, tanto che essa rimbalza sui cardini e quasi si rompe con un forte fracasso. Lo sapevo: non sarei dovuta entrare in questo edificio, e nemmeno decidere di sottrarre ai suoi abitanti il cibo che avrebbe contribuito a sfamarli per un giorno in più.
“Io non mi sporcherò le mani di sangue un’altra volta per lui... sbrigatela tu, io devo steccare il polso di Francesco” dice Spencer. E, dopo avermi lanciato un’occhiata indecifrabile, se ne va anche lui, chiudendosi l’uscio alle spalle.
E rimaniamo soli.
Il mio cuore batte all’impazzata, ho paura di un altro essere umano come non mi era mai successo in tutta la vita.
Cerco di ribellarmi alle braccia forti di Michele, e ci riesco. Mi fiondo verso la porta ma lui riesce a riacchiapparmi prima che io possa anche solo toccarne la maniglia.
Mi lamento singhiozzando: non è il momento adatto per avere una crisi di nervi.
Mi stringe al suo petto, ma non è un abbraccio, è un modo per impedirmi di muovermi. Mi chiude nella forte stretta dei suoi arti e io smetto di dimenarmi.
“Per favore, non uccidermi... ti scongiuro” lo prego. Sbatto gli occhi velocemente per far asciugare le lacrime, e tento di mostrarmi forte nonostante ciò che gli ho appena detto.
Non mi guarda negli occhi, evita il mio sguardo e allenta la presa, solo per poi bloccarmi le braccia dietro la schiena e girarmi verso l’uscita.
Tento di voltarmi riprendendo a dimenarmi, ma non ci riesco, convinta anche dal forte strattone che mi arriva alle braccia da un Michele spazientito.
Sbuffa rude e comincia a trascinarmi fuori dalla stanza. Dapprima zoppico tentando di restare ancorata al pavimento con i piedi, ma le suole delle mia scarpe sono lisce e scivolose, e di conseguenza Michele finisce a trascinarmi fuori dalla porta, come se fossi una bambolina inerme e di pezza.
È tardi, e i corridoi sono deserti. Nemmeno una luce illumina il corridoio.
Michele procede a tentoni ma spedito, come una persona che conosce la propria casa tanto da orientarcisi anche al buio.
Usciamo da una porta al lato dell’edificio. C’è un piccolo corridoio di sassi che porta all’inizio di un bosco, lo stesso in cui ho seppellito mio fratello e lo stesso in cui probabilmente verrò seppellita io.
Percorriamo la stradina lentamente, forse a causa del fatto che praticamente sono addossata a lui per appesantirlo e rallentarlo.
Il cuore ha raggiunto la sua massima velocità tanto che sembra un piccolo uccello impazzito, e mi chiedo stupidamente cosa ci faccia un colibrì nel mio petto.
Poi Michele mi spinge verso il bosco ed io aspetto solo che lui estragga la pistola.
 
Pov. Michele
 
Prendo il calcio della mia nove millimetri silenziata, devo ucciderla, è questo che mi hanno detto.
Non è la prima volta che lo faccio, non dovrebbero esserci tutti questi problemi, eppure...
Lei è in piedi davanti a me, circa tre metri ci dividono.
Non si muove. È bloccata sul posto come un animale braccato e mi guarda fisso con quei suoi occhioni scuri.
Quando le punto contro la pistola sussulta, e il suo sguardo si sposta da me ad essa, ma poi ritorna subito alla sua posizione iniziale.
Dio quant’è bella, penso.
Ha i capelli scompigliati che le ricadono sulla fronte, sulle guance, sulle labbra...
La felpa troppo grande le ricade sulle braccia, supera quelle piccole manine bianche nascondendole e facendola sembrare una bambina che prova i vestiti del padre.
Vedendomi esitare prova a fare un passo indietro: non è così ingenua.
“Ferma dove sei” le intimo saldando la presa sulla pistola.
Lei si blocca all’istante e la vedo farsi rossa in viso, le lacrime che premono per uscire.
Non mi rivolge la parola, ma del resto non l’ha mai fatto veramente.
Sto per premere il grilletto quando qualcosa nel suo sguardo mi fa esitare nuovamente. Non so bene cosa sia, forse il suo cipiglio concentrato che si rilassa a una nuova consapevolezza, o forse il suo chiudere gli occhi attendendo la morte.
Abbasso lentamente la pistola, e con lei anche tutti i muri che mi proteggono. L’arma cade sulle foglie con un tonfo.
Mi sento debole e spossato, come se avessi appena corso una maratona, ho le ginocchia molli e gli occhi stanchi.
“Vattene” le dico sottovoce.
Mi guarda sorpresa, indietreggia lentamente, come se si aspettasse di vedermi scattare verso l’arma. Sembra un piccolo cucciolo spaurito: è confusa, non sa che fare.
Arriva fino quasi a nascondersi dietro un albero.
“Vattene!” questa volta quasi urlo.
Non so cosa cavolo mi stia prendendo, non riesco a capirlo, scuoto la testa e mi premo le dita contro gli occhi, cercando di ricostruire i muri che prima mi rivestivano.
Non voglio più vederla! Quella ragazza è capace di suscitarmi pensieri strani su barriere e crepe... non mi sembra più di essere lo stesso.
“No” è a malapena un sussurro, ma lo sento ugualmente nel silenzio della notte.
È stata la Rossa a parlare.
“Che cosa?” chiedo come un cretino. Sono spaesato, non capisco cosa stia accadendo. La vedo farsi coraggio e avvicinarsi come se fossi una bestia: lentamente e con timore.
“Voglio che tu mi restituisca la collana” dice secca. È la prima volta che la vedo così determinata, con uno sguardo deciso. Faccio mente locale e la guardo incuriosito e un po’ altezzoso.
Dapprima non capisco di cosa stia parlando, ma poi ricordo: quando avevo vuotato lo zaino che aveva usato per tentare di rubare alcune delle scorte, ho trovato alcuni effetti personali che avrebbero potuto risultarmi utili, e tra di loro c’era una collanina d’oro bianco.
Come può avere il coraggio di chiedermi una cosa simile?  Non è per nulla nella posizione di farlo.
Se ha rischiato e sfida tutt’ora la morte allora vuol dire che è proprio importante.
Quasi mi metto a ridere per l’assurdità di questa situazione.
Si è avvicinata un po’, abbandonando lentamente il rifugio sicuro che quel tronco le dava, ed ora si trova circa a quattro metri da me. E si avvicina, si avvicina, si avvicina... fino a quando i nostri corpi non distano che qualche palmo.
Mi arriva all’incirca appena sotto all’attaccatura del collo, è piuttosto bassina nonostante dimostri sedici diciassette anni, ed è per questo che deve per forza alzare lo sguardo per incrociare il mio.
Il cipiglio è tornato, e così sembra proprio una piccola bambolina capricciosa, ma quando la guardo negli occhi mi accorgo che il suo atteggiamento è cresciuto e adulto.
“Non me ne vado senza” dice in un bisbiglio.
Ed è qui che mi arrabbio sul serio: come osa comportarsi così dopo che le ho risparmiato la vita? Non riesce a capire quant’è fortunata?
Il piccolo omino muratore che è in me ricostruisce i muri in tempo record, e le mie braccia, come dotate di volontà propria si muovono di scatto.
Il manrovescio le colpisce dritta la guancia sinistra, e quando mi accorgo di quello che ho appena fatto è troppo tardi.
Il ceffone è stato così forte che questo la porta a circa un metro da me. Inizialmente barcolla all’indietro, ma poi perde l’equilibrio e cade sul sedere con un tonfo.
È la prima volta che vedo vere lacrime sul suo viso, e il pensiero di essere stato io a causarle mi fa stare male.
Tenta di alzarsi, poggiando delicatamente la mano sulla gota ferita e arrossata, ma non ci riesce perdendo l’equilibrio e ricadendo sulle foglie.
Alza lo sguardo lentamente, incredula di ciò che è accaduto.
Nero e Verde si scontrano inseguendosi, sfamandosi, scoprendosi. 
Oddio, che cosa ho fatto...? 
I suoi occhi lucidi si liberano dalla mia stretta, si chiudono e si saldano lasciando cadere gocce salate.
Si rimette in piedi velocemente, traballando instabile.
Cerco di avvicinarmi, ma impaurita lei lancia una specie di strillo soffocato e indietreggia velocemente.
L’ultima cosa di lei che vedo è il bagliore rosso dei suoi capelli.
Perché lei mi fa quest’effetto? 
 
 
 
 
 
Ciao a tutte! :3 sì, lo so, avevo detto due settimane, ma non ho saputo resistere e mi sono rintanata a scrivere tutta domenica XD
Vi è piaciuto questo capitolo? Fatemelo sapere con una piccola recensione :D
Devo ringraziare tutti coloro che hanno messo la mia storia tre le seguite, chi l’ha messa tra le ricordate, chi tra le preferite e a chi mi ha recensito.
Un grazie speciale ad Ashwini che ha saputo darmi la motivazione per continuare a scrivere. Mi raccomando, passate a leggere la sua storia http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1768868&i=1
Ciao, alla prossima, e mi raccomando recensite in tante! :D

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Pov. Sir
 
Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida Stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida stupida.
Ma che cavolo vado a pensare?
Come posso essere stata così idiota da potergli chiedere una cosa del genere?
E adesso ci ho rimediato una bellissima macchia viola appena sotto l’occhio.
È da circa un’ora che sono qui: seduta sotto i rami frondosi di un albero, raggomitolata fra le sue radici nodose e sporgenti, e ancora non ho capito bene cosa sia successo.
Tremo dal freddo, non ho coperte in cui trovare riparo, e questo luogo mi è sconosciuto.
Mi copro il collo coi capelli, come a creare una specie di sciarpa, e mi abbraccio le ginocchia con le braccia.
Questo luogo non è sicuro, non lo è per niente. Non solo è estraneo, ma la foresta è il luogo in cui avvengono le battaglie più cruente, ed è un luogo molto soggetto ai predoni, nonché ai seguaci dell’Organizzazione.
Già li vedo arrivare con la loro divisa bianca immacolata, pronti a far fuoco con le loro K.R., le pistole che ho imparato a riconoscere e temere.
Ora che ci penso sono passati due anni dal momento in cui ho visto un vero Organizzatore al di fuori delle immagini che si potevano intravedere nel megaschermo della mia famiglia.
Nel 2102 infatti la tecnologia si era molto avanzata, le televisioni si erano ormai trasformate in grandi monitor 4D, tablet e cellulari si erano ormai uniti in una cosa sola.
Peccato che adesso, nel 2104, io sono provvista sia della tecnologia che dei mezzi per poter sopravvivere, quindi mi pare di essere messa piuttosto male.
Tutto è però iniziato nel 2087, quando mio fratello era ancora piccolino e mia madre era incinta di me.
In quell’anno nacque un partito, chiamato Ordine, prevedeva strade pulite, minore inquinamento, minore spreco, ma c’era un unico problema. Così facendo non si sarebbero potuti aiutare i paesi ancora in via di sviluppo, e i miei genitori facevano parte di ciò che oggi è chiamato ribellione, ma che ieri era nominato Controversismo.
Facendo parte di una famiglia abbastanza in vista, pensarono di riuscire, assieme ad altre persone, a bloccare questo partito.
Facendosi poi catturare e ammazzare da sicari pagati appositamente per non lasciare alcuna traccia, lasciando al loro destino i loro figli. Io e mio fratello, che all’età di sedici anni dovette occuparsi di me che ne avevo appena dodici.
Ed è da quel momento che il mondo ha cominciato ad andare a rotoli: i paesi in via di sviluppo sono in preda alla povertà, e le famiglie meno ricche di quelli restanti non hanno una situazione molto diversa.
Mi rialzo in piedi a fatica, sapendo che probabilmente la situazione non cambierà mai, e appoggio la mano alla corteccia di questo albero morente. Probabilmente nemmeno lui sa quanto potremo ancora resistere a questa miseria, nonostante abbia più di cento anni.
Chissà com’era la situazione prima... non avendo potuto pagare docenti mio fratello mi aveva insegnato quanto più sapeva, ma si sa che anch’egli aveva solamente sedici anni.
Domani voglio muovermi, a giudicare dalla posizione del sole il nord dovrebbe essere da quella parte.
Compio un passo maldestro, mentre la notte scende come un velo oscuro sugli alberi e su di me.
Forse è meglio se mi sposto adesso, per evitare che quel Michele mi segua. Non sembrava avere intenzioni benevole, almeno non verso i miei confronti.
Cammino spedita fra gli alberi malmessi, passano ore quando scorgo un albero che mi sembra familiare.
Comincio a scavare con le unghie la terra già smossa in precedenza, e ne tiro fuori una confezione di marmellata di pesche.
Comincio a mangiarla, consapevole che per domani non avrò nulla di cui nutrirmi.
Quando finisco sospiro. Vorrei non trovarmi in questa spregevole situazione.
Mi stendo sul mio solito cartone, che trovo a cento metri di distanza. Sto per prendere sonno, cullata dal rumore un po’ inquietante dalle foglie frustate dal vento, quando una goccia d’acqua mi colpisce la guancia.
Fantastico. E ora dove cazzo vado? Mi alzo con uno sbuffo, lasciando al suo destino il mio cartone.
Devo trovare un luogo in cui non posso bagnarmi. Se prendessi una qualche malattia chi si occuperebbe di me?
Trovo un capanno, che di capanno non ha più niente dato che è tutto sfondato, ma di tetto ce n’è abbastanza.
Mi rannicchio alla parete bagnata come un pulcino.
Mi strizzo i capelli e tolgo la felpa. Tremo di freddo, ma almeno non ho più i vestiti fradici.
Da una crepa sul soffitto legnoso entrano gocce d’acqua, ma sono contenta di aver trovato un luogo disabitato.
“Ehi, venite qui!” è una voce maschile. Ho un colpo al cuore.
Non è Michele, è qualcun altro che non conosco... come farò? Mi addosso completamente alla parete tappandomi la bocca con le mani, così da non far loro udire il minimo rumore.
“Forse c’è qualcosa qui dentro!” la voce è più vicina, questa volta. È buio, ma il crepuscolo ancora non è finito, e si vede ancora abbastanza bene l’ambiente circostante.
Sto per cominciare a credere che se ne siano andati quando mi trovo davanti uno di questi ragazzi.
“Meglio di quanto credessi...” io lo fisso spaventata, incapace di muovermi. un turbine di emozioni scorre dentro di me, a ritmo con il mio cuore.
Tento di indietreggiare, ma il muro mi preme sulla schiena come a ricordarmi che non c’è via di fuga.
“Non mi toccare” gli intimo. Non credo di essere molto convincente dato che scoppia a ridere.
“C’è una gatta selvatica qui!” chiama sghignazzando i suoi compagni.
Mi prende per un braccio ed io, con tutta la forza di cui sono capace, gli tiro un cazzotto sul mento, facendo più male a me stessa che a lui.
Però ottengo lo stesso ciò che avevo pianificato: mi lascia andare come scottato, ed io gli passo sotto il braccio, credendo di aver creato un buon diversivo.
Capisco di essermi sbagliata nel momento in cui mi afferra per la vita e mi ricaccia dentro il capanno, stringendomi alla parete pesando su di me con tutto il suo corpo.
“Brutta stronzetta, te la farò pagare cara” è molto arrabbiato, e il suo sussurro gelido mi ferma immobile sul posto, anziché farmi reagire.
Sento qualcosa di freddo toccarmi la guancia: è la sua mano gelida che mi lascia una carezza lasciva.
Tremo di paura, e lui ricomincia a ridere.
“È un peccato dover rovinare questo bel visetto” continua con il suo monologo.
Comincio a ribellarmi dopo quel momento di panico, ed è costretto ad usare tutte e due le mani per tenermi ferma, ancorata alla parete.
Disperata tiro fuori le unghie e gli graffio il viso, più forte che posso. Non riesco a capacitarmi di ciò che ho fatto. Sono sempre stata una persona tranquilla, non ho mai usato la violenza per i miei comodi, e tantomeno artigliato il viso di qualcuno.
Questa volta ulula tanto forte da farsi sentire dai suoi compagni, che lo chiamano da fuori.
“Ehi! Senti, se questo capanno comincia a crollarti addosso io non entro mica, eh?” è stata una donna a parlare, e dalla voce sembra avere come minimo una quarantina d’anni, oppure le piace soltanto fumare.
Nessuno di loro accenna ad entrare, ed è meglio dato che posso a malapena reggere l’attacco di una persona, figuriamoci di più.
L’uomo che mi sta davanti è abbastanza giovane, sulla trentina, direi. Potrebbe avere un bel viso, se non avesse quei tre graffi profondi che gli segnano la guancia già arrossata e pulsante di sangue.
Il pugno mi arriva improvvisamente, ma in un certo senso me lo sarei aspettata comunque, facendomi perdere i sensi per un attimo. Puntini gialli e rossi offuscano la mia vista, è strano, mi sarei aspettata gli uccellini a farmi cip cip sulla testa.
Barcollo di lato, ma lui mi sostiene, solo per tirarmi un calcio sullo stomaco che mi spedisce a terra in preda ai conati. Tossisco forte, e non ho il tempo nemmeno di tentare di far forza sulle braccia così da rimettermi in piedi che mi arriva una pedata al fianco. Questa volta rotolo lateralmente, e gemo dal dolore. Più che un lamento, però, sembra un urlo.
Sto per cominciare a supplicarlo di fermarsi quando mi arriva un altro calcio, che mi toglie il respiro e impedisce di parlare.
“Allora, puttanella, come ti senti adesso, eh?” lo sento gridare in preda a una crisi isterica.
Sputo a terra, e quello che vedo non è solo saliva, c’è anche un grumo di sangue, e allora ci sono solo due opzioni: o mi ha rotto un dente oppure è successo qualcosa di grave grazie ai suoi calci.
Magari mi ha pure rotto una costola.
Lo percepisco che strilla ancora, ma ormai non lo ascolto più. Sento che sto per perdere i sensi, il dolore si affievolisce fino a scomparire.
Ecco, e così è questa la mia fine.
Morire in un capanno, di notte e con la pioggia.
Finalmente, però, potrò mettere alla mia esistenza la parola fine.
Chissà, magari nel luogo in cui sto per andare ci sono anche mamma, papà e Alessandro.
Alessandro... mi dispiace non aver mantenuto la promessa. Penso.
Ma, vedrai, saremo più felici insieme.
Chiudo gli occhi aspettando che le tenebre giungano.
Dov’è la luce bianca?
Questo è il mio ultimo pensiero, prima di vederla e librarmi verso di essa, leggera come una piuma che attraversa silenziosa le correnti del vento.
 
Pov. Michele


Torno barcollando verso l’edificio che dovrei chiamare casa, ma che per me è solo un ammasso di ferraglia inutile.
Cosa cazzo ho fatto? L’ho lasciata andare. Non la conosco, ma so che la Rossa tornerebbe senza alcun indugio, specialmente per quella fottuta collanina d’oro.
Caspita, se avessi saputo che per lei valeva così tanto da lasciarci la pelle allora gliel’avrei data subito.
Ma prima ero in collera e confuso, e mi ero rifiutato di darle quel monile.
Non so che mi è preso. L’ho pure picchiata... non avevo mai messo le mani addosso a una donna prima d’ora, e mi è bastato vedere quel suo nero sguardo di sfida per non vederci più.
Cammino per i corridoi deserti, oltrepassando porte chiuse, finché non arrivo alla mia. La apro e ci entro, facendomi spazio tra i vestiti buttati a casaccio in ogni dove.
Trovo dopo alcune ricerche la scatolina di cartoncino, che in precedenza era una scatola di preservativi (non so come ne sono venuto in possesso, giuro) e tiro fuori la catenina sottile.
Cos’avrà di tanto speciale questo ciondolo a forma di cuore? Me lo passo tra le dita, curioso.
Quasi lo lascio cadere a terra quando, senza accorgermene, lo rompo in due. Ma non si è rovinato, anzi, al suo interno c’è una fotografia. Ritrae una famiglia composta da quattro persone, un uomo, una donna, e due bambini.
La donna è rossa di capelli, e gli occhi verdi puntano proprio all’obbiettivo, e sembrano sorridermi.
L’uomo è alto, così tanto che per fare la foto si è dovuto chinare un po’. Ha i capelli castani, e una calvizie incipiente.
Il bambino avrà più o meno otto, nove anni, è bassino e sorridente, ed è leggermente davanti alla bambina, come a volerla proteggere.
Mi accorgo che è Lei dopo averle guardato gli occhi. È stata colta nel momento in cui si stava portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, gesto che le ho già visto fare. Avevo ragione, sono capelli fantastici.
Sorride genuinamente, e mi trafigge con il suo sguardo allegro, quello che mai ho visto e, probabilmente, mai avrò occasione di vedere. Tiene stretta la mano della madre, felice.
Perché lo sto tenendo io sul palmo questo ciondolo? Cosa mai ci potrò fare? Non centro nulla con lei e la sua famiglia, e non ho tantomeno il diritto di appropriarmi di una sua cosa così prepotentemente e inavvertitamente.
Chiudo quella piccola scatolina e me la infilo in tasca.
Cazzo, non posso lasciarla andare così, non se lo merita. Qualsiasi cosa abbia passato non posso reputarmi abbastanza da rubarle un ricordo così importante.
Mi alzo di scatto, ed apro la porta, precipitandomi nel corridoio.
Le assi di legno scricchiolano, ma non mi importa, fosse per me si potrebbe svegliare anche il mondo intero.
Sono quasi all’uscita quando vado a sbattere contro un’ombra. È Andrea.
“Che ci fai ancora in piedi, ragazzo?” mi chiede basito. Penso velocemente a una risposta, e mentre gli rispondo sorrido da bravo ragazzo.
“La terra era troppo dura, il badile non serviva a molto e ci ho messo un bel po’ per seppellire il corpo della ragazza” gli spiego.
Non sembra avere qualche dubbio su ciò che gli dico, d’altronde quando mai gli ho mentito?
“Ah, allora va bene, sei giustificato” soffoca uno sbadiglio e ricomincia a camminare, incurante di ciò che accade dietro. Infatti appena si volta riprendo a correre, scagliandomi a tutta velocità nel bosco, schivando alberi e massi, cespugli e tronchi marciti.
Comincia a piovere improvvisamente, come se il cielo volesse impedirmi di reggermi sui piedi, facendomi inciampare sullo strato fangoso.
Passa una mezzoretta prima che io mi fermi e trovi un albero, sulle cui radici è adagiato una strana poltiglia marroncina, che prima dell’arrivo della pioggia sarebbe dovuto essere un pezzo di cartone.
Lo oltrepasso, cercando qualcosa che mi faccia capire la sua presenza.
Poi scorgo qualcosa di blu che esce dalla porta di un capanno, corro verso quel punto, magari si è rifugiata in quell’angusto posto, chi può saperlo.
I miei passi sono attutiti dallo scroscio dell’acqua, ed è per questo che mi accorgo dopo dell’uomo che si accanisce calciando qualcosa di inerme sul pavimento.
Sbatto le palpebre confuso, cercando di scorgere l’oggetto delle sue attenzioni.
È una ragazza, almeno credo, difficile da capirlo a giudicare dai lineamenti coperti di sangue.
Riconosco però la maglietta lilla, i pantaloni consumati e bucati, i capelli rossi...
Mi scaglio su di lui, caricandolo con un pugno. Uno schiocco secco mi segnala che il setto nasale si è rotto, e l’uomo, tenendosi il naso sanguinante con due mani, smette di tirar calci e mi guarda stupito: non si era accorto di me.
Guardandolo meglio in viso scorgo dei graffi sanguinanti sulla guancia sinistra, la gattina allora ha tentato di difendersi tirando fuori le unghie.
Sposto lo sguardo su di lei, vedendola giacere, immobile, sul pavimento. Il sangue le esce dal naso, dalla bocca e da un taglio sul mento.
Distolgo lo sguardo da quella vista orribile nel momento in cui l’uomo carica, agganciandomi con le braccia in una presa da lottatore. Io mi ribello e, furioso, gli tiro più pugni di cui sono capace, a costo di ferirmi le mani.
Dopo un po’ di tempo capisce che con me non ha proprio speranze, già stremato com’è dopo essersi accanito sulla Rossa.
Barcollando scappa via, pestando la felpa blu della ragazza.
La prendo, è tutta stracciata e bagnata, nonché impregnata di fango: è ormai inservibile.
Mi avvicino a quella povera creatura sfiancata, la giro a pancia un su e, vedendo com’è stata ridotta, dubito che sia viva. le poggio due dita sulla giugulare e, dopo aver sentito il suo flebile battito, la prendo per le ginocchia e le spalle, sostenendola con le braccia e proteggendola dal freddo. Mi sfilo la giacca e gliela metto sulle spalle, rimanendo solo con la felpa.
Esco dal capanno, correndo sotto la pioggia con lei in braccio. Che situazione assurda...
La pioggia mi arriva negli occhi, ma per questo non rinuncio a tirare avanti. Il freddo mi colpisce pungente fin nelle ossa, ma continuo a correre, a correre, a correre... non so nemmeno io per quanto tempo.
Spalanco con un calcio la porta della piccola casetta cementata che era usata, un tempo, per contenere la legna da ardere, ma che ora è solo un covo per ragni.
La adagio piano per terra e vado a prendere delle coperte dal ripostiglio, e agguantando dallo scaffale vicino all’entrata la valigetta di pronto soccorso.
Corro velocemente fino a ritornare nel punto in cui ho lasciato la ragazza, e mi chiudo la porta dietro le spalle. Come prima cosa stendo una coperta a terra, e vi adagio la poveretta sopra, per poi coprirla con un plaid. Spero che questo basti a tenerla al caldo.
Apro la valigetta bianca e ne tiro fuori una pezza, con cui detergo il sangue dal suo bel viso.
Ha una guancia annerita, mentre l’altra si sta gonfiando a vista d’occhio. Il labbro è spaccato e tumefatto, e il taglio sul mento sanguina ancora, anche se non ha bisogno di punti.
Quando finisco strizzo la pezza in un secchiello con dell’acqua dentro e, dopo un momento di indecisione, abbasso la coperta e le alzo la maglietta.
Le fisso sgomento la pancia: la pelle è liscia e bianca, ma non è questo a lasciarmi basito, sono le macchie bluastre e viola che la decorano. Provo un forte prurito alle mani, sono tentato di ripartire alla ricerca di quel mostro e fargli il doppio di ciò che vedo sul corpo della Rossa.
Comincia a tremare di freddo, e così le riabbasso la maglietta, non dopo aver tastato in cerca di ossa rotte. Non avendone trovata alcuna fuori posto le rimbocco per bene le coperte. Mi sento un padre premuroso, magari il mio avesse fatto lo stesso con me.
Non posso lasciarla sola, potrebbe aver bisogno di qualcosa, e sento che le sta pure salendo la febbre.
Mi siedo, le spalle al muro e una strana voglia di abbracciare la ragazza stesa accanto a me.
E poi, non so come e tantomeno quando, mi addormento, cullato dal rumore della pioggia e del vento.
 
Pov. Sir
 
Passo un periodo confuso.
Dove sono i miei genitori? E Alessandro?
Perché la luce bianca mi ha abbandonato?
Perché sento di nuovo il dolore?
Perché ho così freddo?
Pensieri confusi e addirittura stupidi passano a far visita alla mia testa pulsante e ferita.
Cosa sono tutti quei pomodori volanti? Perché quei conigli mangiano il mangime se hanno le carote a disposizione? Perché esistono le turche?
Non riesco a fermare ciò che vedo e penso, ma in un certo senso è meglio, queste visioni mi sottraggono in parte al dolore.
Mi rigiro nel mio giaciglio, presa da un’improvvisa vampata di calore. Mi tolgo la coperta scalciando debolmente, ma questa ritorna subito al suo posto a causa di un paio di mani che me le costringe addosso.
Gemo la mia protesta aprendo i miei occhi febbricitanti, e la persona che mi trovo davanti mi lascia stranita. È un ragazzo bellissimo, ma quasi niente in confronto alle magnifiche ali bianche che gli spuntano dalla schiena. Sembrano soffici e delicate, ma so che sono forti, devono esserlo per forza.
Sbatto le palpebre e queste scompaiono, lasciando solo il ragazzo.
Ancora qualche secondo e il buio mi inghiottisce vorace, donandomi un senso di sollievo e torpore.
 
Ritorno in superficie dolorosamente. Mi brucia la faccia, specialmente il labbro,e quando provo a muovermi il busto mi lancia una fitta tremenda, che mi obbliga a rimanere ferma.
“Hai fame?” mi chiede una voce.
È roca e stanca, familiare e fredda. Mi volto non senza difficoltà, ignorando i dolori che mi lancia il mio corpo.
Mi guardo attorno e vedo solo mattoni di cemento accostati e uno sopra l’altro, a formare un edificio a me sconosciuto. Proprio appoggiato alla parete c’è un ragazzo, anzi, Quel ragazzo: Michele.
Mi guarda con un’aria strana, sembra... colpevole?
“Stammi lontano” gli ordino poco convinta, ricordando ciò che mi ha fatto... quando? Che giorno è oggi? Mi domando come sono arrivata qui.
Lui si alza e viene verso di me. Quando vede che voglio alzarmi per scappare via, svelto, si inginocchia e mi spinge le mani sulle spalle, in modo tale da tenermi sdraiata.
Il mio respiro accelera: non mi fido di lui, non dopo lo schiaffo che mi ha dato.
“Ti prego... non mi toccare” mugolo impotente.
Lui ritrae le mani riluttante, ed io sospiro sollevata.
Ha il solito barattolo di minestra nella mano sinistra, e sulla destra ha un cucchiaio.
Non me lo porge, come avevo pensato, ma lo immerge nella lattina e ne tira fuori una bella cucchiaiata.
Poggia il contenitore a terra e, deciso, mi prende per la nuca, l’unico punto che non mi duole.
La sua presa è gentile, e lentamente mi alza la testa, così da potermi imboccare senza farmi soffocare.
Perché adesso si prende cura di me? non mi riesco a dare una risposta.
“Ho pensato che tu potessi essere affamata dopo due giorni di febbre” era un sorriso quello? Potrei giurare di aver visto gli angoli della sua bocca sollevarsi.
accetto la minestra e lascio che si occupi di me come non aveva mai fatto nessuno al di fuori della mia famiglia.
La sua mano sulla mia nuca è calda e piacevole, mi sostiene la testa in una presa ferrea ma comunque gentile.
“Cos’è successo?” chiedo dopo qualche minuto di silenzio.
Lui mi imbocca di nuovo e poi sorride sarcastico.
“Speravo potessi dirmelo tu” mi risponde. Lo guardo affondare di nuovo il cucchiaio dentro il barattolo, e inghiottisco il mio boccone prima di cominciare a parlare.
“Non ricordo granché, solo...” esito “il dolore”. Mi guarda con la compassione padrona del suo sguardo. Chissà che aspetto devo avere... non dev’essere per niente bello dato che mi sento la guancia gonfia e pesante, assieme alle labbra.
“Capisco” e poi, solo il silenzio.
È di nuovo notte. Il giorno non lo ricordo granché dato che ho passato la gran parte del tempo a sonnecchiare, ma lui non c’è.
Quando mi sono addormentata lui si era appena seduto alla parete, e mi sentivo il suo sguardo addosso.
Alzo il viso dal mio braccio addormentato e formicolante, e mi guardo attorno.
No, se n’è proprio andato. Chissà se tornerà mai.
Ho appena finito di formulare questo pensiero e rannicchiarmi sotto le coperte, che Michele entra dalla porta di legno, facendo meno rumore possibile.
Un po’ sobbalzo dallo spavento, un po’ sono felice che sia qui.
Ha i capelli scompigliati, un filo di barba e la felpa stropicciata come se si fosse appena svegliato.
Ha due panini in mano, e me ne porge uno mentre addenta famelico il suo. Ho recuperato le forze abbastanza da poter mangiare da sola, e per fortuna lui se n’è accorto.
Lo ringrazio flebilmente, mentre lo osservo sedersi al suo solito posto, appoggiato alla parete.
Do il primo morso al panino, e mi sento in paradiso. Non ricordo di aver mai mangiato nulla di così buono in tutta la mia vita, mai. Comincio a divorarlo, così velocemente che rischio di soffocarmi.
Tossicchio un paio di volte prima di riprendere a mangiare, incurante dello sguardo divertito di Michele.
“Buono?” mi sorride.
Aspetta... mi ha sorriso? Sì, l’ha proprio fatto. È la prima volta che gli vedo un’espressione serena su quel volto, e devo dire che è molto più... umano così.
Annuisco sorridendogli a mia volta, stando attenta a non tirare troppo il labbro spaccato.
Quando finisco di rifocillarmi mi sdraio nuovamente sulle coperte, e mi ci rannicchio come una bambina spaventata del temporale, solo che è ciò che sta fuori da questo edificio a preoccuparmi.
Lui non si alza né va via, nonostante l’ora tarda.
Dopo qualche minuto di silenzio non colmato è lui ad interagire per primo.
“Chi sei veramente?” mi chiede. È un sussurro che sa di promesse mantenute e silenzi concordati.
Mi volto a guardarlo. Mi sta fissando, mi sento nuda di fronte al suo sguardo, è così maturo e profondo.
Quel verde selvaggio si scontra con il nero, incatenandosi l’un l’altro e rincorrendosi come spire focose di respiro e sbattiti di ciglia.
 
Ed eccoci qui con un nuovo, caccoloso, capitolo alla mia storia! Lo so... è cortissimo, ma non ho avuto molto tempo per scrivere, e c’è stata una serie di sfortunati eventi che mi ha impedito di scrivere per un tempo interminabile. Ma non vi ho abbandonato, è questo che conta, no? XD
Spero di non avervi deluso, :*
La vostra,
Chiara
P.S. non dimenticatevi di andare a leggere questa storia fantastica, vi lascio il link ;)
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1768868&i=1
 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***



Ho bisogno di aiuto con l’immagine di copertina, per chi voglia aiutarmi a realizzarne una non esiti a mandarmi un messaggio privato.
 

“Chi sei veramente?”
Chi sono? Non lo so. Non so più di che mondo faccio parte da tempo.
Sono una foglia avvizzita che resiste alle intemperie, ma che sa già di essere destinata a cadere. Sono un soffio freddo, l’alito di un vento sconosciuto, troppo debole per essere preso in considerazione. Sono un piccolo pesce rosso che si ostina a vivere nel mare tropicale, senza rendersi conto che quello non è il posto a lui adibito.
Sono tante cose. Sono tutto e sono niente.
Chi sono? Sono una piccola cerbiatta impaurita. 
Ciao, mondo.
Tu che mi guardi da ogni angolazione.
Ti ricorderai di me?
No, vero?
“Mi chiamo Siriana” gli dico semplicemente, dopo aver cercato e trovato mille parole. Parole che avrei voluto rivelargli senza alcun freno. Mi mordo la lingua per non aggiungere altro, in fondo con lui avrò scambiato più o meno due parole in croce.
Lui mi guarda impassibile, però poi le sue labbra si muovono nuovamente. Sono carnose, non troppo da farlo sembrare effeminato, ma non sono nemmeno invisibili. Hanno un colore un po’ sul rosso e un po’ sul viola, sembrano fatte apposta per essere baciate... mi distolgo immediatamente da questi pensieri totalmente nuovi, e focalizzo l’attenzione sulle parole che ha appena pronunciato.
“Come sei finita tra i Ribelli?” una fitta al mio cuore già infranto mi ricorda che quelli sono ricordi troppo dolorosi per essere riesumati un’altra volta, e così tengo la bocca chiusa, aspettando che sia lui il primo ad aprire la sua.
Ma non lo fa.
Resta a fissarmi con i suoi occhi di giada, mentre i miei seguono i ghirigori che compiono le mie dita sul pavimento.
“Capisco...” quando la sua voce spezza il silenzio creatosi io sussulto, aspettandomi una protesta, che però non arriva. “Me ne parlerai un’altra volta”.
Poi si alza, raccoglie con un gesto veloce i tovaglioli di carta con cui aveva avvolto i panini, ed esce dalla casetta. Correndo veloce sotto la pioggia che, scrosciante, non accenna a cessare il suo pianto.
Forse il cielo ha deciso di piangere con me, o meglio, di versare al posto mio le lacrime che ancora non si sono riversate fuori dai miei occhi.
Sospiro e ascolto il rumore di quelle gocce d’acqua che, imperterrite, si ostinano a buttarsi dalle nuvole come piccole paracadutiste.
E poi, tutto d’un tratto, il mondo tace.
Mi stendo sulla coperta, godendomi questo silenzio meritato. Sentendo però la mancanza delle gocce, che mi ricordavano di non essere la sola al mondo a cadere, mi addormento.
A volte vorrei essere qualcun altro, chi non sono, mai sono stata e mai sarò.
A volte vorrei essere passata dalla parte dell’ Organizzazione, solo per ventiquattrore, per vedere ciò che si prova ad avere cibo ogni giorno.
A volte vorrei non trovarmi qui, vorrei essere da mio fratello, con la mia famiglia.
Ci ho pensato qualche volta, al suicidio. Non ho mai avuto il coraggio di arrivare ai fatti, però. Sono troppo attaccata alla mia vita. Troppo debole per lasciare questo mondo che con me non ha più nulla da spartire.
 
Pov. Michele
“Chi sei veramente?” le chiedo con un groppo in gola.
La mia richiesta non è un semplice pretesto per passare del tempo, è una domanda di vita, di cielo, di sale e di mare.
È una domanda di sangue. Me ne accorgo perché le si velano improvvisamente gli occhi ed evita il mio sguardo.
Io attendo, attendo che sia lei a rispondermi per prima, attendo che lei incateni il suo sguardo profondo con il mio.
Attendo... attendo... attendo... E nulla.
Non mi parla, non mi guarda, non mi calcola.
Presta tutta la sua attenzione al pavimento, che accarezza con una mano, tracciando disegni invisibili.
“Capisco...” dico con un filo di voce.
Lei alza il suo sguardo di pece e mi fissa. I suoi occhi sono ancorati ai miei come per dire: “Non lasciarmi andare” ed io vorrei solo risponderle: “Non ti lascio”.
Le sue labbra si schiudono, ed io provo un forte dolore alla bocca dello stomaco.
Stiamo a guardarci per pochi secondi, ma a me sembra già di sapere a memoria la posizione di ogni sua lentiggine.
Mi alzo di scatto, e lei non si muove, mi avvicino alla porta e le lancio un’occhiata veloce: è tornata a guardare il pavimento, alcune ciocche di capelli aggrovigliati le ricadono davanti al viso, coprendolo parzialmente.
Mi lancio correndo sotto la pioggia, dirigendomi verso casa.
Le porterò una spazzola.
 
Pov. Sir
 
Tento di alzarmi in piedi, ma i dolori che serpeggiano pungenti lungo il mio corpo lo impediscono alla grande, tenendomi segregata qui dentro, a guardare da una piccola finestrella appannata il mondo che sta là fuori.
Le mie ginocchia tremano per lo sforzo, mentre tento di mantenere l’equilibrio quel tempo bastante a tenermi in piedi per vedere com’è la situazione all’esterno di questa casetta.
Cado pesantemente avendo osato troppo, e mi sporgo in avanti con le mani per attutire il colpo.
I palmi bruciano un pochino, ma è un dolore sopportabile rispetto a quello che sento allo sterno.
Mi alzo la maglietta ancora sporca di sangue e sudore e vedo le macchie violacee che mi fissano dalla loro postazione.
Sospiro. A volte il mondo è proprio crudele.
Chissà, poi, dov’erano finiti i compagni di quell’uomo che mi ha fatto ciò...
Se avessero saputo cosa stava facendo il loro compare sarebbero corsi a salvarmi?
Probabilmente no.
Striscio lentamente verso il mio giaciglio: sta cominciando a fare freddo, ed io sono ancora troppo debole per sopportarlo. In più ho anche fame.
Mi distendo piano, stando attenta a poggiarmi sulla schiena, il luogo che è stato meno soggetto alle percosse.
Guardo attentamente il soffitto, coprendomi per bene con le coperte, e mi immagino il cielo stellato. Adesso le stelle si vedono solo grazie ai telescopi e in luoghi senza troppe luci artificiali, ma quando ero bambina queste si potevano ancora vedere. Ferme. Presenti ogni notte.
Ora però non ci sono più, scoraggiate dall’avvento dei fatti che hanno contribuito alla loro scomparsa.
Chiudo gli occhi, cullata da quei piccoli sussurri invisibili e luminosi.
È un rumore a svegliarmi.
Apro gli occhi con uno scatto, e con la stessa velocità mi metto a sedere, lanciando poi un gemito di dolore.
“Tranquilla, sono solo io” Mi rassicura Michele.
Ricado pesantemente rilassandomi sulla coperta, con un respiro profondo fatto per attutire la fitta. Non cambia poi molto, ma almeno ora sono rilassata.
Lui chiude la porta, ecco cos’è stato a svegliarmi. Fa qualche passo in avanti e avverto un fruscio accanto alla testa. Spalanco gli occhi, chiedendomi quando mai li avessi chiusi, e mi volto lentamente, tentando di domare i dolori alle guance.
È lui che mi porge una maglietta grigia da uomo con la scritta “il fumo uccide” stampata sopra a caratteri neri e dei pantaloni blu da ginnastica.
“Ho pensato che ormai i tuoi vestiti non ti andassero più, logori come sono” mormora lui, guardandomi di sottecchi.
Guardo la mia T-shirt lilla, sporca di sangue e terra, e i pantaloni bucati sull’orlo e sulle ginocchia. Mi si riempiono gli occhi di lacrime, e le trattengo con fermezza, al ricordo di ciò che quell’essere mi ha fatto  Michele continua a guardarmi negli occhi, ma poi distoglie lo sguardo, forse convinto dalla loro eccessiva lucidità.
“Perché sei gentile con me?” gli chiedo in un sussurro.
Lui non risponde, e comincio a convincermi di non aver mai posto questa domanda. Si volta ed esce fuori dal capanno, là dove ormai ha smesso di piovere.
Prima di chiudersi la porta alle spalle mi lancia un’occhiata, e poi, dopo qualche istante mi dice:
“Ti lascio cinque minuti” .
Guardo l’apertura serrata per qualche istante, ma subito mi rialzo in piedi, a fatica.
Mi tolgo la maglietta sudicia, e subito dopo anche i pantaloni.
Resto, per un attimo, nuda. In piedi al centro del capanno, non osando guardare il mio corpo martoriato.
Osservo invece il terreno, soffermandomi prima sul mio giaciglio e poi sui vestiti a terra.
Afferro la maglietta grigia, coprendomi i seni velocemente. Avevo perso il mio ultimo reggiseno nel momento in cui, dopo aver perso entrambi i ferretti, si era rotto in due.
Me la infilo, combattendo contro le fitte prepotenti alla braccia, e lo stesso faccio con i pantaloni.
Sto più comoda adesso, e mi sento anche più pulita.
Mi siedo sopra le coperte, attendendo l’arrivo di Michele.
 
Pov. Michele
 
Mi chiudo la porta alle spalle.
Già. Perché l’ho aiutata?
Forse perché mi ricorda qualcuno,oppure perché non trovo giusto il fatto che lei venga così maltrattata quando non ha fatto nulla di male. Perché non ha fatto nulla, vero?
Sono confuso. Non solo da me stesso, ma anche da tutto ciò che sta accadendo al mondo.
L’Organizzazione, la Ribellione. Movimento di cui faccio parte da tre anni, ormai.
Quando avevo appena quindici anni ero rimasto solo, solo in balia degli uomini che tentavano in tutti i modi di annientare i sopravvissuti.
Ma poi, una sera, avevo incontrato Andrea. Allora appena venticinquenne non si era fatto scrupoli a tenermi con se e farmi conoscere a tutta la sua famiglia, il gruppo di superstiti già allora abbastanza diffidente verso gli ultimi arrivati.
Ero riuscito a farmi valere grazie alle mie azioni, alcune delle quali non erano proprio degne di un uomo.
Avevo cominciato a rubare piccole cose, come d'altronde facevano tutti. Era l’unico modo per garantirsi ancora un giorno di vita, e allora non mi facevo scrupoli a infrangere le leggi che fin da piccolo ero stato educato a rispettare.
Ma i tempi erano cambiati, e rubare non era diventato un crimine, bensì un’azione quotidiana.
Presto però il cibo aveva cominciato a diventare più unico che raro, e per fare scorta bisognava spingersi in azioni sempre più pericolose, finché un giorno non m’imbattei in un gruppo dell’Organizzazione.
Serro gli occhi.
Ricordo ancora la leggera pressione che feci al grilletto per spegnere in meno di un istante la vita di un soldato.
Lo beccai esattamente sulla fronte, e non fu come nei film.
L’uomo non cadde a terra con gli occhi vitrei.
Il sangue gli schizzò subito giù dalla fronte, attraversando in una scia scarlatta l’occhio ancora aperto, il naso e le labbra.
Dopo qualche secondo cadde in ginocchio, facendo un rumore che ricorderò per l’eternità.
Come di un sacco che cade su un pavimento di marmo.
Barcollo un po’, passando in rassegna gli altri ricordi confusi.
Andrea che ne uccideva un altro e Luca che veniva colpito mortalmente sul collo.
Mi appoggio alla casetta, ascoltando i rumori che provengono dall’interno di essa.
Non posso credere di averla portata così vicina alla base.
Andrea non vuole più nessuno nel Gruppo, potrebbero essere delle spie mandate dai Grifoni.
I Grifoni sono dei Ribelli, proprio come noi. Con la differenza che pur di sopravvivere accettano le taglie imposte dall’Organizzazione e catturano i gruppi ricercati in cambio di protezione.
Quindi, in pratica, sono dei traditori del Controversismo.
Non sono mai riuscito ad accettare il motivo che spinge certi uomini a diventare così meschini pur di continuare a vivere, ma in fondo io non sono tanto diverso da loro. Il desiderio di vita è così forte in qualsiasi essere umano, e può manifestarsi in diverse intensità: alcuni farebbero di tutto pur di non cedere, altri si lasciano andare.
Tendo l’orecchio per scorgere altri rumori, e ascolto il rassicurante rumore di vestiti che cadono a terra, e il fruscio di altri che vengono spiegati e indossati.
Per un qualche inspiegabile motivo provo un fortissimo desiderio di spiarla dalla finestra, e quasi lo faccio, trattenendomi all’ultimo secondo.
Se avessi anche solo dato un’occhiata non sarei stato certo stato diverso dall’uomo che l’ha aggredita.
Stacco l’orecchio dalla superficie rugosa del cemento, tentando di calmare il mio respiro affannato  e di rimettere a dormire il mio amico dei piani bassi, che si è risvegliato magicamente.
Caspita, quella ragazza mi fa uno strano effetto.
Non è mai successo che io mi ecciti solo nel sentire il rumore di vestiti spostati, insomma... alla fine non è nemmeno poi così tanto carina.
Vero? Falso.
La verità è che pur non conoscendola ho sviluppato una certa attrazione per lei.
È così... fragile.
Ma so che non è vero. Ne ho avuto prova solo qualche giorno fa, quando, con una sicurezza e determinazione mai vista in nessuna donna, mi aveva chiesto che io le restituissi il medaglione, anzi, lo aveva preteso.
Comincio a camminare, facendo respiri profondi.
Il medaglione adesso ce l’ho in tasca. Non posso di certo nasconderlo da qualche parte, il rischio che qualcuno lo trovi e lo venda è troppo grande, ed io non posso permettermelo.
Non so ancora se perché ho paura di rimanere senza di che vivere o se così non potrei più restituire il ciondolo alla rossa.
Quando i rumori all’interno della casetta cessano aspetto qualche minuto, e poi allungo la mano verso la maniglia della porta, spingendola cautamente.
Forse ho paura di trovarla nuda davanti a me, anche se non è proprio una brutta idea.
Scaccio il pensiero con una scrollata di spalle, convinto anche dal fatto che lì in basso si sta ancora un po’ stretti.
Le rivolgo un’occhiata sfuggevole. In fondo lei sta ancora aspettando una risposta alla sua domanda di prima.
Decido di non risponderle. Non adesso, almeno.
Piuttosto vado in un angolo polveroso e comincio a fissarla discretamente.
O almeno, provo a farlo.
È raggomitolata nella coperta, stretta stretta con le ginocchia al petto.
La mia maglia le sta larghissima, come pure i pantaloni. Infatti ha dovuto rigirarli di un bel po’ prima che si potessero scorgere i piedini nudi.
Per quelli non ho potuto fare nulla. Non ho scarpe della sua misura, essendo un ragazzo, ma se le avessi fregate a qualcuno di certo se ne sarebbe accorto, e l’avrebbero scoperta.
Non si è resa conto del fatto che la sto fissando, e ringrazio i cieli per questo.
Lei non si muove, ed io nemmeno.
Dopo un po’ si addormenta, e così decido di lasciarla in pace. Ci sarà tempo per spiegarle tutto, un domani.
Mi alzo lentamente, attento a non svegliarla.
Le passo accanto in punta di piedi, e quando sto per aprire la porta e sgattaiolare via mi assale un pensiero.
Una fitta allo stomaco mi suggerisce di voltarmi, e così faccio.
È girata su un fianco, e tutti i suoi capelli sono sparsi sulla coperta e sopra il suo braccio, piegato sotto la testa per fare da cuscino.
Come un automa, quasi incosciente di ciò che sto facendo, mi infilo una mano in tasca e ne estraggo la collanina.
Gliela appoggio accanto alla guancia, che, martoriata, mia guarda fiera.
In quel momento la ragazza sospira nel sonno, e mormora qualcosa di incomprensibile.
Mi alzo subito, conscio del rischio di svegliarla, ed esco dalla casetta.
Solo dopo essere arrivato alla porta della base realizzo il nome che ha sussurrato la Rossa.
Michele.
 
Pov. Sir
 
È da giorni che continuo a navigare nel dormiveglia costante. Non c’è un momento in cui io sia pienamente sveglia, né uno in cui io stia dormendo profondamente.
Per questo credo di sognare nel momento in cui il mio naso sfiora qualcosa di fresco e metallico.
Spalanco gli occhi e mi esce un grido strozzato.
Ma non è di paura, è di pura felicità.
Si tratta infatti del mio medaglione.
Sorrido come un’ebete, di sicuro è stato Michele, e chi altri sennò? Forse è una dimostrazione di scuse, forse di affetto.
Arrossisco.
Lui non sa che sogno ho fatto solo qualche ora fa.
Eravamo su un prato fiorito, lì l’Organizzazione non era riuscita ad arrivare.
Lui mi baciava ogni ferita sul viso e sul collo, sanandole istantaneamente.
Io ridevo, ma poi mi ero subito fatta seria: mi aveva appena baciato l’angolo della bocca, cancellandone la spaccatura dolorosa.
Ormai non provavo più niente, niente oltre la gratitudine e... l’affetto.
Lui mi aveva baciata sulle labbra, ed io avevo ricambiato ridendo e sussurrando il suo nome, accarezzandogli i capelli.
Nero e Verde si erano scontrati un’altra volta, ma solo per fondersi l’un l’altro.
Mi ero svegliata di soprassalto, realizzando che quello era il primo sogno che facevo da diversi mesi.
Torno al presente, sfregandomi gli occhi con una strana sensazione allo stomaco.
Euforia, direi.
Oppure le fantomatiche farfalle nello stomaco?
Preferisco non rispondermi, e invece slaccio il fermaglio e mi aggancio la collana al collo.
Quando la porto, sembra che, in qualche modo, i problemi della vita si attenuino, come nebbia che si tramuta in foschia.
Sorrido. Almeno una cosa positiva in questa vita c’è.
 
 
Ciao mie bellissime fan! *Si sfrega le mani, orgogliosa del suo lavoro* :D
Comincio col dire che questo capitolo mi ha fatta sudare un bel po’, e mi scuso dell’impossibile ritardo.
Detto questo ringrazio infinitamente le 28 persone che hanno inserito la mia storia tra le seguite (su su! Fatevi avanti! Non siate timidi e recensite!), le 5 tra le ricordate, le 11 tra le preferite e alle meravigliose 25 recensioni che mi avete lasciato.
Un saluto speciale ad Ashwini, grandissima persona che sa tirar su il morale anche a chi ce l’ha a terra XD
 
Spazio pubblicità:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1768868 storia fantastica, colma di romanticismo e un pizzico sovrannaturale.
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Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, al prossimo!
P.S. cercherò di aggiornare più in fretta possibile ;)

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