Sommersi e salvati

di Elos
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gambetto ***
Capitolo 2: *** Zeitnot ***
Capitolo 3: *** Scacco ***



Capitolo 1
*** Gambetto ***




1. Gambetto




… e c'è il pensiero di quel che deve conservare che si tiene dentro, al quale si aggrappa, non è un bel pensiero, ma è tutto ciò che resta – è un pensiero orribile, marcio, ma è con quel pensiero che possono vincere la guerra.
Severus Piton ha scoperto cosa tengono i Mangiamorte nella fortezza di Maeshowe. Severus Piton deve dirlo all'Ordine. Severus Piton è stato scoperto dal Signore Oscuro, per questa ragione, ma se l'informazione riuscirà ad uscire da quelle mura, se arriverà alle orecchie giuste, allora ne sarà valsa la pena.

Dà la colpa a Lily per quel che sta accadendo, ma senza rancore.



Il giorno in cui Severus Piton aveva visto il cadavere di Harry Potter trascinato davanti al trono dell'Oscuro Signore era stato anche il giorno in cui aveva creduto di diventare pazzo davvero. Anche la Cruciatus non aveva potuto molto, dopo, in confronto a quello.
Erano i frantumi di diciassette anni di piani e progetti, diciassette anni di speranze messe da parte, diciassette anni in cui gli era stato chiesto di sacrificare tutto quel che poteva e lui l'aveva fatto, a malincuore, a denti stretti, ma l'aveva fatto, perché la cosa che doveva compensare con i suoi sacrifici era una cosa talmente grossa che nulla sarebbe bastata mai a pareggiarla sulla bilancia – gli occhi di Lily del color delle foglie e le sue mani e il modo in cui il suo seno si era ammorbidito sotto alla lana del maglione e il modo in cui aveva riso, con il capo piegato da una parte, la bocca socchiusa e i denti bianchi, senza imbarazzo. L'aveva amata per tutte le cose che ricordava, e quelle che non ricordava e che forse non aveva amato erano perse, perdute, ora che lei se n'era andata.
Neanche diciassette anni bastavano a far pari con Lily. E Potter era una noia, un impaccio, un fastidio, un tormento, una spina nel fianco e un disturbo, una fonte continua di disgusto e nausea e rimorso, ma Potter era anche tutto quel che restava di Lily, occhi e mani e tutto il resto, Potter era tutto quel che restava di Lily ed era morto, Potter, adesso, rotto e finito e morto.
Niente più Potter.
Era un brutto colpo per la Profezia, aveva pensato Severus in quei primi momenti di confuso orrore, e poi si era chiesto come diavolo fosse potuto accadere: chi fosse stato l'imbecille che aveva permesso a Potter di finire a Maeshowe, lì, cadavere davanti al trono dell'Oscuro Signore.
Era un brutto colpo per la Profezia. E Lily, Lily, be', Lily...
Aveva detto che l'avrebbe protetto, e adesso era morto. Aveva detto che l'avrebbe protetta, e lei era morta.

Aveva cercato di pensare che fosse un bene. Se Potter era morto, l'Horcrux era morto con lui: a Severus non sarebbe mai stato chiesto di ordinare a Potter di andare al macello, come avrebbe voluto Albus. Non avrebbe mai dovuto guardare Lily negli occhi – c'era Lily, dall'altra parte, c'era sempre Lily, ogni volta che cercava James Potter nella faccia di suo figlio, per ferirlo ed odiarlo, e non gli riusciva mai come avrebbe desiderato; così anche la soddisfazione aveva un sapore amarissimo – e dirle che lo mandava a morire, di nuovo, perché qualcun altro vivesse.
Forse era così che doveva andare. Forse era così che sarebbe dovuta andare da sempre. Potter era morto. L'Horcrux, distrutto.
La Profezia, forse...
Avevano portato via il cadavere, e Severus non sapeva dove. Si era aspettato di vederlo ricomparire – in pezzi, magari, nelle strade di Diagon Alley, la testa inchiodata alle porte di Hogwarts – ma sembrava fosse sparito nel nulla. Bellatrix girava con una faccia soddisfatta del gatto sazio e a Severus venne da chiedersi in un momento di follia, un giorno, se non l'avessero mangiato, perché Bellatrix era fuori di testa e l'Oscuro Signore aveva portato il concetto di pazzia a nuovi livelli. Sarebbe stata una cosa mostruosa da farsi, ma non più mostruosa e orribile e assurda di altre che aveva già visto, alle quali aveva già assistito, alle quali aveva contribuito.
Lily, Lily. Gli occhi verdi di Lily, digeriti.
Gli incubi di quella notte erano stati particolarmente osceni.

Severus aveva scoperto come e perché Potter era morto. Se avesse potuto riportarlo in vita, l'avrebbe fatto, solo per poterlo strangolare di persona.
Ma se fosse stata Lily, si era chiesto poi. Se fosse stata Lily, bianca come un giglio, se avesse saputo che Lily era sotto alle dita, alle unghie di Bellatrix, con i Carrow e i Lestrange e l'Oscuro Signore, lui non sarebbe andato, non sarebbe venuto, per cercare di salvarla?
Lily, Lily, Lily. Forse era un bene che l'Horcrux fosse andato distrutto, ma Lily, Lily, Lily.
Aveva detto che l'avrebbe protetto, per lei, e adesso era morto.



E poi, un bel mattino, l'Oscuro Signore l'aveva fatto chiamare e gli aveva detto c'è qualcosa che voglio farti vedere, Severus, e Severus l'aveva seguito. Erano scesi giù, giù, giù, sempre più giù, sempre più in fondo nei cunicoli terrosi di Maeshowe, quelli che conservavano l'odore dei morti e delle tombe, dove l'unica luce che arrivava era quella delle torce. Era sempre buio, a nord della Scozia, ai margini settentrionali della Gran Bretagna, la luce era come azzurrata anche nei giorni d'estate e sembrava filtrare a fatica, cristallizzata, attraverso i corridoi della fortezza-sepolcro.
E c'era una tomba, in fondo a Maeshowe, una tomba, una cella, in mezzo ad una fila di altre tombe tutte uguali, cellette strette dal soffitto basso e dall'odore fetido di quelli che i Mangiamorte portavano lì, rovinandoli e spezzandoli finché quel che restava non era quasi più una persona.
Non era quasi più una persona neanche quella cosa rotta e nuda nella tomba in fondo a Maeshowe, ma era viva, viva e respirava, e Severus non l'avrebbe riconosciuto se non avesse alzato la testa e non li avesse guardati e non... e non...
C'era Lily dall'altra parte. C'era sempre Lily.

Questo poteva essere un problema, si era detto Severus. Qualcuno gli strillava nel fondo del cervello e in un primo momento lui non riuscì a pensare altro che questo, questo, questo poteva essere un grosso problema.



Il Signore Oscuro sapeva dell'Horcrux. Il Signore Oscuro sapeva dell'Horcrux e non voleva più Potter morto, certo che no, non il suo settimo Horcrux, non adesso che il medaglione era sparito e il diario era saturo di veleno e l'anello era stato rotto, non adesso che era diventato troppo pericoloso continuare a tagliarsi via sezioni di anima.
Il Signore Oscuro era folle e allucinato, ma non era imbecille: l'aveva capito – troppo tardi! – che continuare a giocare al chirurgo con la propria anima l'avrebbe lasciato con la mente devastata, ossessionata, poco più che l'ombra del giovane geniale e affascinante che era stato un tempo. Perciò, Potter gli serviva vivo. Ma Potter non gli serviva intero, non necessariamente, e così lo stavano rompendo, adesso, Potter, e insieme a Potter andavano in pezzi anche i piani di Albus. Potter era vivo, aveva pensato Severus al principio, e per i primi giorni dopo averlo visto in quella cella a Maeshowe aveva sperato che continuassero a tenerlo in vita, sperato che la tirassero per le lunghe. Il terzo giorno, il quarto giorno, aveva pregato che l'Oscuro Signore continuasse a trovarlo divertente, e così dopo una settimana, tredici giorni più tardi, quindici. Poi aveva smesso di pregare del tutto. Ogni volta che cominciava a formulare la cosa tra sé e sé, fa' che anche oggi sia vivo, scopriva un pensiero traditore ed egoista che gli strillava senza voce nelle orecchie, fa' che muoia, fa' che muoia, se solo fosse morto, fa' che muoia, la morte sarebbe stata l'estrema pietà.
Perché lo stavano rompendo, Potter.
Vedere le mani di Lily senza più forma e gli occhi di Lily sotto le unghie di Bellatrix e la voce di Lily si sovrapponeva nei momenti sbagliatissimi a quella di Potter che urlava, e Severus si chiedeva che cosa ne avrebbe pensato, Lily, di vederlo così. Che cosa stesse pensando Lily. Che cosa pensasse di lui.
Era stato un mese molto lungo.



Non poteva dirlo all'Ordine. L'Oscuro Signore non si fidava veramente di lui, e Severus non aveva più lasciato Maeshowe da quando le prime barriere della fortezza erano state chiuse. Sarebbe potuto fuggire – ma, se l'avesse fatto, era certo che Potter sarebbe stato fatto scomparire: altrove, da qualche altra parte, in Inghilterra o in Albania o... o ovunque. Il Signore Oscuro poteva occultarlo ovunque.
Se Severus fosse scappato, se Severus fosse andato ad informare l'Ordine, Potter sarebbe stato fatto sparire nel nulla.
Non poteva scappare. Non poteva comunicare con l'Ordine. Non poteva lasciare Potter a Maeshowe.
Una volta escluse queste, le opzioni che restavano non erano numerose.



Il piano non era stato uno dei suoi piani più felici. Di questo, Severus dava la colpa a Lily: aveva trascorso tredici giorni sognando le sue mani abbandonate sul materasso di una culla da bambino, svuotate e morte, e si era svegliato al mattino con l'impressione di avere ai piedi del letto la cerva d'argento. La vedeva ogni volta che si radeva la barba, lì, in un angolo dello specchio, nei riflessi dei vetri, delle pozzanghere: ma, quando si girava, la cerva non era più lì.
Sarebbe bastato a far diventare matto un uomo meno paziente.
Aveva aspettato che l'Oscuro Signore decidesse di essere annoiato, sufficientemente annoiato da decidere di partecipare ad una retata a Londra. L'aveva guardato partire circondato da un'orda nera di Mangiamorte e poi era andato a cercare Bellatrix.
In assenza dell'Oscuro Signore, era Bellatrix che reggeva il fortino: e Bellatrix era astuta e crudele e potente, ma aveva le sue debolezze – come le avevano tutti.
Avvelenare la cena di Bellatrix e consorte aveva richiesto alcune ore. Troppe, in effetti: aspettare troppo a lungo era pericoloso, perché le retate potevano finire improvvisamente, l'Oscuro Signore poteva tornare da un momento all'altro, tutto poteva andare in fumo in un attimo, lasciando Severus con la schiena esposta, rivelato, scoperto. Severus aveva aspettato il tempo necessario a che il veleno facesse effetto – l'odio negli occhi di Bellatrix, quando si era resa conto di cosa stesse accadendo, palpabile e pulsante come una cosa viva – e poi li aveva lasciati a morire nel corridoio, tutti e due, lei e il marito. Non era rimasto a guardare.
In retrospettiva, un grosso errore.
Potter non gridava più. Potter non gridava più da alcuni giorni. Potter non parlava, non reagiva, ma respirava, era vivo, vivo vivo vivo, e, quando Severus era entrato nella cella, aveva alzato la testa e l'aveva guardato. C'era Lily là dietro. Lily, sempre Lily.
Severus aveva guardato Lily e le aveva detto:
“Dobbiamo andare.”
Lily – Potter – non era in grado di mettersi in piedi, forse era in grado di sollevare un braccio, certo non di camminare. Le scale di Maeshowe sarebbero state un ostacolo insormontabile, e a Severus servivano le mani libere. L'aveva fatto levitare con un colpo di bacchetta e si era girato per lasciare la cella.
Giusto fuori dalla porta, c'era il Signore Oscuro ad aspettarlo, con Bellatrix alle spalle e Rabastan poco dietro, pallidi e con i visi pieni d'odio crudele.
“Ah, Severus...” aveva detto l'Oscuro Signore, ed aveva sorriso: un sorriso lungo, serpentino, spalancato a scoprire denti che parevano aguzzi. “Severus, Severus, Severus.”

In retrospettiva, ecco: non uno dei suoi piani più felici.



E' otto giorni più tardi che Severus capisce che non sarà in grado di lasciare Maeshowe. Non glielo permetteranno. Non ne resterà abbastanza, di lui, da poter uscire.
Così si mette via, un pezzo alla volta, si mette via, nascondendo cose importanti sotto a cose meno importanti, costruendo ricordi e strutture che gli permettano di traghettare quel che serve da una parte all'altra della sua ordalia. Nono giorno, sparisce Hogwarts, decimo, sua madre, Draco e la luna, ingredienti e nomi e visi, undicesimo, dodicesimo, Albus, anche Albus sparisce insieme a tutti gli altri.
Non ha ucciso Albus. Si aggrappa a quel ricordo finché non scompare.
Non ha ucciso Albus.

Dà la colpa a Lily, ma senza rancore, prima di mettere via il pensiero di Lily, di perderlo, via, via sotto a tutti gli altri, nascosto nel fondo dei suoi ricordi sepolti; dà la colpa a Lily di tutto quel che è accaduto. Lily, Lily, bianca come un giglio, se non fosse mai esistita non si sarebbe avuta nessuna Profezia, mai, e Severus non avrebbe potuto tradirla, mai, ed il presente non sarebbe stato una tomba da vivo nei sotterranei di Maeshowe.
Senza rancore. La memoria di Lily è l'odore di ottobre. L'aura verde del vento. Lily gentile. Bianca come un giglio.

Prima che venga buio occulta finalmente il ricordo per cui è lì: quello che l'ha portato in una cella buia, nelle mani dei Mangiamorte, traditore, con la sua colpa scritta nella carne. Il Signore Oscuro non può manometterlo più, non può strapparglielo più via. Severus Piton ricorda. Severus Piton ricorderà, ricorderà, se ne ricorderà quando sarà il momento, e quel ricordo vincerà la guerra. La notte, sparisce la memoria del suo nome, ma

ma Harry Potter è vivo.
Con quel ricordo vinceranno la guerra.


- - -




“Un Horcrux,” disse Kingsley.
Vivo, pensò Hermione. Vivo, vivo, vivo. Se avesse continuato a ripeterselo abbastanza a lungo, forse avrebbe cominciato a crederci.
Pioveva: l'aprile avanzato sembrava non aver intaccato affatto l'inverno perpetuo della Londra dei Dissennatori, e la pioggia che scendeva fuori dalle finestre era densa, gelida e tagliente. Il vento soffiava con tanta violenza da far tremare i vetri, ed Hermione pensò che era il tempo giusto. Si sentiva così, dentro, vibrante, accesa, e tutti i suoi pensieri le parevano viscidi e scivolosi come pietra bagnata: cercava di afferrarli, ma le sgusciavano tra le dita.
“Un Horcrux,” disse ancora Kingsley. Sembrava non riuscire a fare a meno di ripeterlo, la bocca tirata come se le parole non avessero avuto precisamente un buon sapore. “L'Horcrux di Voldemort.”
Draco, afflosciato sulla poltrona, emise un vago suono d'assenso. Aveva lo sguardo fisso su Piton; forse pensava che, se non l'avesse tenuto d'occhio, l'uomo avrebbe smesso nuovamente di respirare. Il Pensatoio in mezzo a loro emanava una luce d'argento pallidissima, evanescente, che tracciava ombre inquietanti come fantasmi sul pavimento.
“Spiegherebbe molte cose,” disse Draco, il tono strascicato.
Moltissime, pensò Hermione, ma non lo disse. I sogni. Il Serpentese. Il modo in cui erano sembrati conoscersi così bene, lui e Voldemort, legati a doppio filo.
E Silente lo sapeva. Silente l'aveva saputo. E non aveva mai detto niente.
Hermione non sapeva se fosse dolore o colpa, quel che sentiva, paura o confusione o nausea, sapeva solo che faceva stramaledettamente male e che avrebbe voluto smettesse subito. Avevano creduto a Silente, l'avevano seguito, lei e Ron ed Harry, avevano fatto tutto quel che il vecchio aveva detto loro, e per tutto quel tempo lui aveva saputo e non aveva detto niente e si era aspettato che Harry andasse a morire, alla fine.
Neville smise di passeggiare avanti e indietro nella stanza e disse, stancamente:
“Sono passati tre anni. Nel frattempo, Harry potrebbe essere stato ucciso.”
“Uccidere l'Horcrux?” lo interruppe Draco, la voce vacua, senza togliere di dosso gli occhi da Piton. L'esaurimento sembrava non far niente per migliorare la sua faccia aguzza: con le occhiaie fonde, la pelle tesa, il Pensatoio a gettargli il viso in un'aura verdognola, pareva il cadavere di un annegato. “E perché mai avrebbe dovuto farlo? Ce l'aveva in mano, era lì, non poteva scappare. L'Ordine lo credeva morto e nessuno lo avrebbe cercato! Era la situazione perfetta!”
Nessuno lo avrebbe cercato, pensò Hermione. La nausea la invase, vuota, sorda. Nessuno era andato a cercare Harry. Nessuno aveva pensato potesse essere ancora vivo. Lei non lo aveva pensato. Lei non lo aveva cercato.
L'aveva abbandonato, realizzò.
Quando tornò in sé era piegata in due, la testa tra le ginocchia e la gola in fiamme. Qualcuno l'aveva messa a sedere su una poltrona e l'aveva spinta giù, e qualcuno le stava premendo una mano sulla nuca ed una sulla fronte.
“Su, su,” le disse Draco. Suonava un po' più che vagamente nel panico: non era mai stato bravo, Draco, a gestire i problemi altrui. “Non è il momento di cedere all'isteria, Granger.”
Dargli uno schiaffo le avrebbe fatto bene, si disse Hermione. Schiaffeggiare Draco era generalmente una buona idea. Non lo fece, però: aveva paura che, se avesse staccato le dita dai braccioli della poltrona, avrebbe vomitato di nuovo.
Sentì Neville far Evanescere la chiazza già sul pavimento e Shacklebolt proporre di rimandare ogni discussione ad un altro momento, quando Piton si fosse svegliato ed Hermione fosse stata...
“No,” gracchiò Hermione. Draco le batté una goffissima, minuscola pacca su una spalla che avrebbe anche potuto essere un gesto di conforto, prima di lasciarla andare. Lei si tirò dritta a sedere sulla poltrona: “Ne parliamo adesso.”
Neville e Shacklebolt si guardarono ed Hermione ebbe quasi l'impressione di poter sentire la conversazione di non detti che si scambiarono in quella lunghissima occhiata; prima che la cosa potesse irritarla veramente, tuttavia, Draco urtò Neville, passandogli accanto sulla via della poltrona, con uno sbuffo d'irritazione. Neville aggrottò la fronte e si lasciò cadere su una sedia.
“Molto bene. Parliamone adesso. Parliamo degli Horcrux.”
“Ne abbiamo già parlato, degli Horcrux,” replicò Hermione, esasperata. “Ne abbiamo parlato finché c'era qualcosa di cui parlare, e poi abbiamo smesso di parlarne quando abbiamo esaurito le cose che sapevamo.”
Neville batté un dito sull'orlo del Pensatoio.
“Ma adesso c'è Piton,” osservò in tono mite. “Piton potrebbe saperne di più.”
Draco fece strisciare la poltrona sul pavimento quel tanto che serviva per continuare a tenere d'occhio Piton e, contemporaneamente, fissare gli altri.
“Anche ammettendo questo, finché Potter è a Maeshowe, uno degli Horcrux almeno resterà ben al sicuro nelle mani dell'Oscuro Signore.”
Hermione sgranò gli occhi:
“Non possiamo...”
“Forse...” la interruppe Neville, fissandola: “... non potremo salvare Harry, Hermione. Abbiamo già provato a entrare a Maeshowe. Avete già provato ad entrare a Maeshowe. Avete visto com'è andata.”
Hermione si afflosciò sulla poltrona. Sentì la nausea rivoltarle lo stomaco e si sforzò di ricacciarla giù, di tenere tutto dentro.
Lasciare Harry a Maeshowe.
L'hai già fatto una volta, le disse una vocina nel fondo della sua testa, e lei cercò di dire che no, no, no, non l'aveva fatto: ma non riusciva a credere neanche a sé stessa.
“C'è il rito delle Patil,” intervenne Shacklebolt.
Neville piegò il capo da una parte.
“Se funziona,” osservò.
Hermione pensò ai fogli del rito che aveva lasciato al piano di sotto prima che la signora Weasley corresse a chiamarli e li portasse da Piton, Piton che sembrava stesse morendo e che invece si stava svegliando, Piton pieno di ricordi da consegnare. Pensò che gli schemi che aveva visto sembravano ragionevoli. Pensò che si potevano verificare. Controllare. La nausea sembrò rannicchiarsi in un angolo di fronte all'ondata di improvvisa, quasi involontaria, speranza che l'assalì.
“Possiamo controllare,” disse. “Possiamo provare. Non possiamo lasciare lì Harry, Neville. Tu lo sai. Non possiamo lasciare lì Harry, non possiamo non fare nulla per salvarlo.”
Neville chinò il capo.
“Potrebbe non essere rimasto più molto da salvare, Hermione,” disse, pianissimo, dopo un momento di silenzio. “Hai considerato questa possibilità?”
L'aveva considerata. Dio, se l'aveva considerata.
“E se la Profezia avesse ancora valore?” replicò. Non le importava, non le importava, non le importava nulla della Profezia, nulla, non in quel momento, non le importava, importava che c'era Harry ed era vivo e forse, forse, forse si poteva salvare, Harry, Ron era morto, ma Harry... Si ritrovò a bisbigliare, quasi, per paura che alzare la voce avrebbe infranto la magnifica speranza che nella sua testa andava ripetendole che Harry era vivo, era stato vivo quando avevano creduto che fosse morto, e forse lo era ancora, vivo, vivo, vivo: “Hai detto che non ci saremmo arresi. Se non facessimo nulla, adesso, non sarebbe come arrendersi? Il professore pensava che ne valesse la pena, di essere scoperto e torturato, per salvare Harry.”
Draco aprì bocca e fece per dire qualcosa; ma poi dovette ripensarci, e la richiuse di scattò. Neville fissò Hermione in viso per un lunghissimo istante, prima di chiederle:
“Pensi veramente sia la cosa migliore da fare?” Alzò una mano, fermandola prima che potesse rispondergli. “No, pensaci. Pensi veramente che sia la cosa migliore da fare, non per Harry, per noi? Siamo tutto quel che resta. Dopo di noi non ci sarà nessun altro. Siamo tutto quello che resta del mondo com'era prima, tutto quel che resta davanti a Voldemort. Pensi davvero che sia la cosa giusta da fare, rischiare qualcuno di quei pochi che restano nella speranza che tre anni a Maeshowe abbiano lasciato qualcosa da salvare?”
Fu il turno di Hermione di aprire bocca e poi richiuderla. Avrebbe voluto strillare che sì, era la cosa giusta da fare, sì, salvare Harry era la cosa giusta, era giusto, lei l'aveva abbandonato e non voleva abbandonarlo mai più, voleva ritrovarlo, portarlo via da lì, liberarlo, salvarlo, guarirlo. Ma Neville aveva ragione – c'erano solo loro. Nessun altro. Soltanto loro.
Erano andati a salvare Ginny ed avevano quasi perso la guerra. E adesso, Harry?
Pensò all'egoismo. Pensò che si poteva essere egoisti in molti modi.
Ma.
Neville aveva ragione – ma Neville aveva ragione: tutto quel che restava del mondo com'era prima era lì, a Grimmauld Place. Il resto del mondo era inverno e Mangiamorte e nel mezzo, come un'isola, loro. Erano sempre meno, sempre più deboli, sempre più stanchi, spaventati, scarnificati e cicatrizzati, sempre più impotenti mentre la marea saliva e i punti in cui il mondo era salvo e sicuro si facevano sempre più piccoli, più piccoli, più piccoli. Se fosse continuata così, pensò Hermione, presto non ci sarebbe più stato nessuno a cui importasse come il mondo era prima.
“Sì,” disse. “Se non per Harry, per noi.” Agitò una mano e sentì il suo corpo sprofondare nella poltrona, affondare, come la stoffa avesse ceduto sotto al peso della sua infinita stanchezza: “Possiamo andare avanti come siamo andati avanti finora, ma non durerà a lungo. E presto non resterà nessuno ad andare avanti. Ma se c'è una Profezia e se c'è la possibilità che sia ancora lì, che possa funzionare, se Harry è vivo, se c'è qualche speranza...” Serrò le labbra. “Se c'è qualche speranza. Probabilmente moriremo tutti comunque, Neville, ma mi piacerebbe molto morire provandoci.”
“Supponiamo di riuscire a liberarlo,” mormorò Neville, l'espressione indecifrabile. “Supponiamo di riuscire a liberarlo. A riportarlo qui. Supponiamo che sia ancora Harry. Resta la questione dell'Horcrux. E' dentro di Harry, e non si toglie un Horcrux da una cosa senza romperla. Saresti capace di ucciderlo, Hermione? Se servisse, ne saresti capace?”
Ad Hermione tremò un sì, sulle labbra, che avrebbe avuto sapore di menzogna. Pensò ad Harry. Harry buono, Harry caparbio e ottuso, certe volte, Harry che era stato il suo migliore amico per così tanto tempo, tantissimo, nel bene e nel male, Harry tanto pieno di coraggio che aveva strabordato da lui come da un vaso troppo pieno, che si era buttato nel mezzo delle cose e non si era mai tirato indietro, Harry che si era fermato, a Maeshowe, per permettere loro di fuggire.
“L'Harry che ricordo,” disse Hermione, piano, “vorrebbe che io lo facessi.”
Neville sorrise come suo malgrado: il sorriso gli tese la crosta che aveva sulla guancia sinistra e fece spostare tutta la fasciatura che gli nascondeva l'occhio, ma fu malgrado questo una buona qualità di sorriso. Il Neville che Hermione ricordava aveva sorriso sempre un po' così.
Lui alzò la testa ad incontrare lo sguardo di Shacklebolt e, quando questi annuì, disse lentamente:
“Allora ci saranno delle ricerche da fare. Se quel che le Patil hanno portato non funziona, questa discussione potrebbe rivelarsi inutile. Hermione, tu ed Opal lavorerete con Padma e Calì sul rito di Brodgar; è da considerarsi una priorità, perciò sarete escluse dalle ronde, dalle spedizioni, da qualunque altra cosa. Se qualcuno obietta, mandatelo da noi. Draco, abbiamo bisogno di sapere che cosa il professor Piton sa degli Horcrux – se sa qualcosa. Anche questa è una priorità: finché il professore non si sveglia, anche tu sei fuori dalle ronde. E immagino che ci servano altri Mangiamorte vivi.”
Shacklebolt intervenne quietamente, fissando prima Hermione e poi Draco:
“Questa discussione non deve uscire da questa stanza.”
Hermione insorse, inorridita:
“Cosa?”
“Mi hai sentito. Nessuno a parte noi quattro – cinque, contando il professore – deve sapere che c'è la possibilità che Harry Potter sia ancora vivo. Tenete la cosa per voi, per ora. Non parlatene con nessuno.”
“Tranne che con Remus,” disse Draco. C'era una sfumatura di ostinazione, nella sua voce, che fece aggrottare la fronte a Shacklebolt. Neville si raddrizzò sulla poltrona, pronto ad obiettare, ma Shacklebolt lo trattenne.
“Remus,” ripeté. “Qualche ragione per cui dovrebbe essere incluso?”
“Non sarà affatto contento di sapere che gli abbiamo mentito. Meno contento degli altri,” ribadì Draco, il tono distaccato. “Non sarebbe utile tenerlo all'oscuro.”
Neville e Shacklebolt si scambiarono l'ennesima occhiata eloquente; Hermione pensò che, se l'avessero fatto ancora in sua presenza, avrebbe dato in escandescenze.
“Molto bene,” acconsentì Shacklebolt alla fine, mitemente. “Tranne che con Remus.”
“Madama Chips ha sentito il professor Piton, prima,” osservò Hermione.
“Parlerò io con Madama Chips.”
Hermione abbassò il capo:
“Agli altri non piacerà sapere che l'abbiamo tenuto nascosto,” disse piano.
Neville replicò con una scrollata di spalle:
“Preferisco che siano arrabbiati con me, piuttosto che dover avere a che fare con le conseguenze di una serie di spedizioni clandestine a Maeshowe in cerca di Harry. Quando sapremo qualcosa di più – se sapremo qualcosa di più – la cosa andrà ai voti.”
Dopo un momento di silenzio, Draco si alzò in piedi.
“Be'. Se nessuno ha altro di utile da dire, io ho delle cose da fare.”
Nessuno gli chiese che cose da fare avesse, precisamente – nessuno in quella stanza era stupido – e Draco se ne andò senza salutare. Hermione si chiese oziosamente se Remus fosse ancora con Angelina. Se Angelina stesse bene. Se Remus avesse saputo di Piton, se non fosse proprio fuori dalla porta ad aspettare, se Draco avrebbe avuto difficoltà a spiegargli...
“Credevi veramente in quel che hai detto prima?” le chiese Neville.
Ad Hermione ci volle un momento per capire a cosa si stesse riferendo.
Annuì. Ci aveva creduto. Ci credeva. Ci avrebbe creduto anche se avessero fallito, anche se tutto fosse andato nel peggiore dei modi possibili, perché la cosa in cui aveva creduto era una cosa per la quale ne valeva la pena di fallire e morire.
C'erano buone possibilità che sarebbero morti tutti comunque: tanto valeva andarsene così, provando, tentando, invece che in quella lenta, agonizzante, strascinata maniera che stavano sperimentando da tre anni a quella parte, la morte per inedia di tutte le speranze.
“E tu?” chiese a Neville. “Tu ci credi?”
Neville le sorrise di nuovo. Era incredibile come bastasse quel sorriso a riportare il suo volto, croste e bende e lividi compresi, ai tempi della scuola, quand'era stato goffo e grassottello e con tutto quel coraggio ancora acerbo, ben nascosto, a germogliare sotto a tutto il resto.
“Oh...” replicò lui, chiudendo gli occhi. “E' sempre stato molto complicato non credere in Harry.”
E, ecco, pensò Hermione.
Non c'era molto altro da dire.





Note: Partiamo dalle cose importanti. Un grazie sentitissimo a duedicoppe, che ha betato con la solita precisione, rapidità e pazienza anche questa storia. Per la seconda volta in troppo poco tempo, le ho spedito una storia con una data di scadenza di poche ore.
Un grazie anche a dierrevi, che mi ha aiutata per la parte grafica (anche se stava lavorando).

Se non avevate mai letto una storia appartenente alla serie di Come (non) doveva andare, vi siete trovati su questo capitolo, lo avete seguito fino a qui e non ci avete capito un accidenti di un beatissimo niente... nessuna paura: è tutto normale. Siamo ormai agli ultimi colpi (per essere precisi, penultimi) della serie, e non posso più riprendere e ripetere di volta in volta una spiegazione dell'ambientazione: se lo facessi, non si andrebbe più avanti. Considerate questa storia come il capitolo centrale di una storia più lunga, che ho suddiviso in vari pezzi all'interno di una serie.
In particolar modo, temo che per seguire questo specifico capitolo dobbiate aver letto almeno La scatola bianca. Mi dispiace. Si può leggere anche senza, ma sospetto non abbia molto senso, vero?

Tornano per il terzo anno di fila le domeniche buie: una storia per il fandom di Harry Potter per ogni domenica di maggio, con un'ambientazione necessariamente tetra, distopica, inquietante. Per quest'anno, tre o quattro delle domeniche buie saranno occupate dagli aggiornamenti di questa storia in più capitoli, con un capitolo di La strada sbagliata a seguire.
A meno che non mi giunga un'improvvisa illuminazione. Tutto è possibile.

I sommersi e i salvati è l'ultima opera di Primo Levi, chimico, sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, poeta e soprattutto autore, autore di romanzi, autore di saggi, autore di racconti bellissimi e inquieti. Scriveva fantascienza, Levi. Era un narratore prima che un testimone: ma quest'ultima opera è soprattutto una testimonianza, lucida e terribile, dell'esperienza dei campi e delle sue conseguenze.
Mi sento molto Bacio Perugina che scippa brani da Petrarca per appiccicarli ai cioccolatini, ma il titolo si è incastrato lì in un qualche momento della stesura della storia e non se n'è più voluto andare.
Il gambetto, invece, è un'apertura classica degli scacchi che prevede il sacrificio di uno o più pedoni nella prima fase della partita. E no, non gioco a scacchi. Sono una frana a scacchi. Però, ho guardato tutte le puntate di Last Exile. x°°°D

Ringraziando ancora una volta, e sinceramente, tutti quelli che hanno seguito questa serie fino a qui, che mi hanno appoggiata e che mi hanno messo voglia di proseguire fino alla fine. Mi auguro che le nuove svolte non vi deludano.

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Capitolo 2
*** Zeitnot ***




2. Zeitnot




Circa tremila anni prima, c'erano state sessanta pietre a chiudere il circolo dell'anello di Brodgar: di queste, solo ventisette erano ancora in piedi il giorno in cui Voldemort, dopo aver deciso che la struttura di Brodgar era esattamente quello di cui aveva bisogno, l'aveva sollevata, rimpicciolita, incartata come un pacco regalo, e se l'era portata via. Le trentatré pietre restanti, abbattute dalla pioggia, dal gelo, dal tempo che aveva fatto franare la terra e ridurre la roccia in granita di sasso, avevano dovuto essere ricostruite. Il circolo era stato rimesso in piedi attorno a Maeshowe, riposizionato, riallineato perché le pietre fossero orientate nel giusto modo rispetto al sole che sorgeva e a quello che calava nei giorni dell'Equinozio, così che la magia vi scorresse dentro dal suolo al cielo e dal cielo alla tomba nella maniera esatta.
Era stato un gruppo di maghi, tremila anni prima, a progettare il cerchio di Broadgar, quello di Avensbury, le tombe di Maeshowe e le pietre di Stenness, ma erano stati i Babbani, poi, a costruirli. C'era qualcosa di terribile, pensava Hermione, come una specie di ironia cosmica, sapere che Voldemort stava basando tutto il suo nuovo potere su qualcosa che i Babbani avevano messo in piedi.
Le pietre non avevano veramente importanza – o forse ne avevano in quella maniera tutta simbolica, più nella testa che nelle mani, in cui le cose avevano importanza nel mondo dei Maghi. Hermione aveva provato a parlarne con Piton, ma questi si era limitato a gettarle una lunga occhiata sbieca e a chiederle, con perfida gentilezza, se le avanzava tempo a sufficienza per porsi domande oziose, giacché veniva a disturbarlo con le stesse.
Questo lato di Piton ad Hermione non era mancato affatto. Davvero. Si scopriva certe volte – sentendosene in colpa, poi, ma non così tanto da smettere – a desiderare che l'avessero tenuto sotto forma di pianta: una silenziosa, quieta pianta in coma vegetativo che non sapeva cosa fosse il sarcasmo.
Hermione aveva cominciato a vivere sui libri. Tutte le mattine c'erano le Patil, con i loro appunti e idee ed esperimenti, con i suggerimenti che Lumacorno forniva loro, ed era facile far rimbalzare le ipotesi, così, esaminarle da tre punti di vista e lavorarci su assieme a qualcun altro che riusciva a starle dietro, a seguirla; perché la testa di Hermione era sempre andata più veloce di quella della maggior parte delle persone che aveva attorno, ma le Patil erano intelligenti, erano brillanti, avevano fantasia e inventiva e Lumacorno stava insegnando loro a pensare su binari alternativi. Si lavorava bene, con le Patil. Nel pomeriggio c'era Neville, qualche volta, che le portava tè e notizie, Remus che le portava tè e suggerimenti e insisteva perché si riposasse gli occhi per qualche minuto, Draco che le portava tè (raramente) e che si afflosciava nella poltrona accanto alla sua per comunicarle quanto si stesse annoiando, che noia che fosse non poter far niente, che noia, che barba, che noia, non hai ancora finito, Granger?
Granger sembrava non finire mai. Hermione ricordava vagamente che c'erano stati giorni così anche ad Hogwarts; ma non c'era stata tutta questa feroce urgenza, allora, venata di senso di colpa e angoscia e panico. Ogni giorno che passava era un giorno in più che Harry stava trascorrendo – se era ancora vivo, se respirava ancora – a Maeshowe. Ogni giorno che passava era un giorno in più in cui Hermione lo stava abbandonando.
Era tutta una questione di allineamenti, scoprì Hermione all'altezza del decimo giorno. A quel punto, anche il tè aveva cominciato ad essere troppo poco per tenerla attiva le diciotto, venti ore che passava giornalmente sui libri. Aveva chiamato Neville Ron, quel mattino, e Neville l'aveva guardata con un'espressione tale da lasciarla senza fiato, gli occhi che le bruciavano e la gola riarsa.
Era tutta una questione di allineamenti: la tomba-fortezza di Maeshowe, dove solo il livello all'altezza del terreno era visibile agli occhi dei Babbani, era stata costruita per essere un rifugio antichissimo, un luogo di sepoltura ed un luogo di potere. I morti passavano per Maeshowe, e c'era potere, lì, c'era potere nei morti, nel passaggio. Hermione avrebbe voluto poter mettere le mani sull'arco di pietra nei sotterranei del Ministero della Magia – perché era certa che, se avesse potuto studiare quello, si sarebbe avvicinata a capire come funzionava precisamente Maeshowe – ma, malgrado gli Indicibili si fossero schierati in massa al fianco dell'Ordine, entrare al Ministero in quel momento era praticamente impensabile.
Maeshowe era stata allineata con il cerchio di Brodgar ancor prima che Voldemort li sovrapponesse fisicamente: le pietre dell'uno avevano chiamato la terra dell'altra, saltando per tutta una serie di antichissime strutture e linee che erano state tracciate nel mezzo. La Pietra dell'Osservatore. Le Pietre Erette di Stenness. La Pietra di Barnhouse, la pietra di Odino, tutti i cerchi che una volta erano stati lì ed ora non c'erano più, ma il potere restava, era rimasto, la magia era ancora lì. Tutto quel che Voldemort aveva fatto era stato avvicinare il cerchio e la tomba e far sì che il potere che questi prendevano dalla terra arrivasse fino a lui.
Doveva esserci un intermediario, pensò Hermione, confusamente. I pensieri si erano fatti molto confusi all'altezza dell'ottavo giorno, e andavano peggiorando di ora in ora. Avrebbe fatto meglio a dormire, si disse; qualche ora in un letto vero, con coperte e cuscini e tutto il resto, non su una poltrona, su una sedia, con la testa appoggiata al tavolo e ai libri.
Doveva esserci un intermediario. Un mezzo. Un oggetto, una pietra, un qualcosa, una qualunque cosa che stesse in mezzo tra Voldemort e Maeshowe e gli permettesse di assorbire tutto quel potere: era stato potente, prima, ma adesso era invincibile. Non si poteva fare niente, adesso, e le barriere di Maeshowe erano diventate così dense da essere impenetrabili. Bisognava trovare l'intermediario.
“E' ora che tu vada a letto, Hermione.”
“Arrivo subito,” bofonchiò lei, agitando una mano in un gesto vago verso la porta e sperando che qualcuno – chiunque fosse venuto ad interromperla – cogliesse l'invito e se ne andasse. Aveva cominciato a stilare un elenco di strutture simili a quella dell'anello di Brodgar: sapeva che, se avesse potuto testare la sua teoria su una di queste, forse avrebbe saputo come fare a indebolire la resistenza di Maeshowe. L'intermediario. Era tutta una questione di allineamenti, ma se avessero trovato l'intermediario... “Solo un minuto.”
“Hai detto solo un minuto anche un'ora fa.”
“Quel minuto è passato da un po'.”
“E ne sono passati altri cinquantanove, nel frattempo. Stanno tutti tenendo compagnia al primo minuto.”
Hermione fece appena in tempo ad alzare la testa, prima che i gemelli Weasley le afferrassero un braccio a testa e la sollevassero in piedi.
“Ehi!” sbottò lei, indignata.
“Potremmo portarti in braccio,” propose uno dei due – Fred, probabilmente.
“Ma lo faremo solo se prometterai di non maledirci via le braccia. Sarebbe sgradevole.”
“A proposito di braccia, ehi, sono le tue occhiaie, queste? Forte. Non ne avevo mai viste di così grosse, non credevo fosse umanamente possibile.”
“Occhiaie da record.”
“Da collezione.”
“Qualcuno colleziona occhiaie?”
“Io potrei collezionarle.”
Parlando al di sopra della sua testa, avevano cominciato a spingerla molto gentilmente verso la porta, indirizzandola lontana dalla poltrona, dai libri e dalla luce fumosa delle candele. Hermione sbatté le palpebre e sentì gli occhi lacrimarle: aveva passato così tanto tempo con la testa china nella penombra che la luce del corridoio, adesso, le fece male. Aveva fame ed era stanca e si sentiva stordita, leggera, come svuotata: solo la sua testa era piena, ricolma, libri e pergamene e incantesimi sovrapposti, l'immagine del cerchio e della tomba stampati irrimediabilmente sul fondo delle sue pupille e il pensiero di Harry come una costante di angoscia e panico che le ronzava dentro.
“Devo finire qui,” disse, e la sua voce suonò esausta alle sue stesse orecchie. “Non posso ancora andare a dormire.”
“Oh, puoi, invece, e lo farai. In effetti, siamo stati reclutati per assicurarci che tu lo faccia.”
“La mamma è venuta da noi con l'espressione di qualcuno che ha appena visto prendere a calci un cucciolo di Crop,” le spiegò il gemello che era probabilmente George.
“Ci ha detto che erano tre giorni che non ti vedeva uscire da qui.”
“Era Molto Preoccupata. Tu sai com'è. Cose orribili succedono quando Molly Weasley è Molto Preoccupata.”
“Ci ha detto che dobbiamo farti cenare e dormire. Possibilmente in quest'ordine.”
“Ma potresti anche dormire e cenare. E, non prenderla come un'offesa personale, ma tra il cenare e il dormire e il dormire e il cenare potresti anche infilarci, che so, un bagno. Una doccia.”
“Sì, perché odori di vecchia biblioteca, Hermione. Eau de biblioteque, per dirla con Fleur.”
“E ti possiamo assicurare che non è un buon odore.”
Il corridoio era pressoché deserto: ma Lavanda Brown, che incontrarono sulla via per le scale, inquadrò i gemelli, poi Hermione, ed assunse un'espressione sollevata. Hermione cominciò a chiedersi se non avesse effettivamente esagerato, se anche Lavanda Brown sembrava sollevata di vederla in giro. Socchiuse gli occhi, per un attimo, e il cerchio di Brodgar era lì, stampato come a fuoco dietro le sue palpebre.
Decisamente, aveva esagerato.
“Prima di procedere con il sequestro...” disse, ma lo disse senza troppa convinzione, “... avreste potuto chiedermelo.”
Abbiamo provato a chiedertelo. Un'ora fa.”
“E tu ci hai detto un minuto e arrivo.”
“E poi i minuti sono diventati sessanta.”
“Così, abbiamo deciso di affrontare l'ostacolo di petto.”
“Di sollevarlo di peso. Per così dire.”
Sollevarlo. Sollevarlo di peso. Le parole arrivarono alle sue orecchie e lei sorrise, automaticamente, e già mentre sorrideva il suo cervello stava facendo clic, tredici milioni di pensieri e parole che si mescolavano, l'immagine dietro alle sue pupille che si fondeva con quella sul retro delle palpebre e tutto ad un tratto Maeshowe e Brodgar, il cerchio e la tomba, le pietre, tutto divenne chiarissimo e lei seppe, con assoluta, improvvisa, abbagliante certezza, che cosa si poteva fare per spezzarlo.
Si bloccò di scatto, un piede già sulle scale, e i gemelli Weasley si bloccarono con lei.
“Hermione?” disse forse-Fred, sorpreso. E poi, dopo un attimo, più cauto: “Hermione...?”
“Devo parlare con Neville,” disse Hermione. Fissò le scale di fronte a sé senza vederle veramente. Quel che vedeva, adesso, era Maeshowe. Il cerchio di pietre. Si era concentrata sull'intermediario, ma tutto poteva essere un intermediario, ogni cosa, un sasso, una torcia, una stramaledettissima sedia, tutto, ogni cosa, non era importante, non era veramente importante, era la cosa sbagliata su cui concentrarsi. “Devo parlargli subito.”
Fece per girarsi e i gemelli la bloccarono; lei si liberò delle mani di entrambi con una scrollata e cominciò a scendere le scale nella direzione opposta a quella delle stanze da letto, verso la cucina, il soggiorno. Non era ancora sera: c'erano buone possibilità che Neville fosse ancora giù, con gli altri, che stesse parlando con qualcuno, o che ci fosse Shacklebolt. Anche Kingsley le andava bene.
Non c'era Kingsley; ma c'era Neville, in cucina, che stava preparandosi un panino. Alzò gli occhi, vedendola entrare, e sbatté le palpebre, sorpreso e preoccupato:
“Hermione?”
“Hai detto che avresti messo la cosa ai voti se avessimo saputo qualcosa di più,” esclamò lei senza preamboli, appoggiandosi al tavolo della cucina con entrambe le mani.
L'espressione di Neville si fece molto cauta:
“Sì. E' così.”
Hermione era stanca e si sentiva sporca, coperta di polvere, troppo leggera e insieme troppo pesante: ma nella testa il cerchio e la tomba ruotavano insieme, perfettamente incastrati, e attorno ad essi levitava la soluzione.
“Mettiamo la cosa ai voti,” disse Hermione. “Adesso so come aprire Maeshowe.”

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“E' una questione di allineamenti,” stava spiegando tre ore più tardi. Parlava mangiando: Neville l'aveva convinta a sdraiarsi e a dormire mentre aspettavano Shacklebolt, ed era sorprendente quali e quanti benefici una stanza priva di libri ed un vero letto potessero apportare. Non c'era stato il tempo di fare la doccia, come i gemelli Weasley avevano sperato, ed Hermione si sentiva ancora l'odore della polvere e delle pergamene vecchie addosso; ma non aveva più l'impressione che la sua testa fosse sul punto di implodere ed aprirsi.
“Da una parte abbiamo Maeshowe.” Sollevò il bicchiere che aveva di fronte. “Dall'altra abbiamo Brodgar.” Tamburellò con l'estremità della forchetta sul tovagliolo. “Entrambi erano stati costruiti sopra a due centri di potere – come Hogwarts – ma non per la stessa ragione. Nel cerchio di Brodgar gli incantesimi funzionavano meglio, erano più potenti, le pozioni preparate erano più efficaci; allo stesso modo, ad Hogwarts Salazar Serpeverde è riuscito a far crescere un Basilisco; era facile incantare gli spazi, ad Hogwarts, perché tutta la scuola era – è – sopra un nodo di potere. Il potere nel cerchio di Brodgar e ad Hogwarts è stato pensato per andare dalla terra verso l'esterno. I maghi hanno usato Brodgar per secoli come una riserva di magia – ma tutti i maghi potevano usarla, era libera, aperta. Era una scatola senza lucchetto.”
Hermione si cacciò in bocca una forchettata di uova e le mandò giù quasi senza masticare.
“Maeshowe, invece...” riprese, agitando la forchetta e puntandola contro Neville: “... era una tomba. Solo una tomba. Credo non sia mai stata pensata per essere altro: una tomba di maghi, un simbolo potente che gli altri maghi potevano riconoscere e che anche i Babbani rispettavano. Ma non c'era potere da sottrarre a Maeshowe. Tutto il potere scorreva dalla terra nella tomba e lì si fermava. A Voldemort non sarebbe servita a niente, così com'era, sarebbe stata inutile. Se Brodgar era una scatola senza lucchetto, Maeshowe era il lucchetto. E così Voldemort ha preso Brodgar e l'ha portata sopra Maeshowe.”
Alzò il bicchiere vuoto, rovesciandolo, e lo posò sul tovagliolo, spingendo poi entrambi in mezzo al tavolo perché fossero bene in vista.
“Erano collegate anche prima: scorrevano sulla stessa linea di potere. Adesso, però, sono incastrate l'una sull'altra, allineate. E' a questo che serviva il rito che le Patil hanno trovato: ad allinearle. Se metti insieme una scatola ed un lucchetto, quello che ottieni è una cassaforte: Voldemort si è costruito la sua cassaforte, e l'ha costruita montando Brodgar sopra Maeshowe.”
Posò la forchetta sul bordo del piatto vuoto, il tintinnio del metallo contro la ceramica stranamente forte nella cucina improvvisamente silenziosa, ma non ebbe il tempo di spingerlo lontano da sé prima che Neville ci scodellasse dentro una mestolata di zuppa di cipolle. Lo stomaco di Hermione emise, malgrado le uova che aveva appena trangugiato, un sordo brontolio; e il ricordo di tutte le volte in cui Ron ed Harry le avevano tolto i libri dalle mani, ad Hogwarts, e le avevano riempito il piatto, mescolò fame e nausea.
“Sembra ragionevole,” disse Remus dopo un lungo momento in cui nessuno aveva detto niente. Lo disse in un tono di voce estremamente quieto; così quieto, pensò Hermione, da far pensare che avesse paura di credere che la cosa non fosse solo ragionevole, che potesse effettivamente funzionare.
Kingsley sembrò interpretare il tono di Remus precisamente come l'aveva interpretato Hermione, perché fece un passo avanti e posò ambo le mani sul tavolo, sporgendosi verso di lei:
“Hai detto che era una questione di allineamenti. E' questo che pensi di fare? Disallinearle?”
“Potremmo mettere un filtro tra l'anello di pietre e Maeshowe.” iniziò Remus. “Una barriera...”
Ma Hermione stava scuotendo la testa, e Remus si interruppe.
“Sarebbe troppo complicato,” spiegò lei. “Il rito delle Patil è un rito lungo e complesso. A Voldemort saranno occorsi mesi interi per metterlo in piedi, e a noi occorrerebbero settimane, molto più probabilmente mesi, per disfarlo... e non li abbiamo. Non c'è solo Harry da tenere in considerazione – c'è anche il fatto che non possiamo andare a Maeshowe e lavorare sulla barriera. Non ne avremmo il tempo. Ci sono i Mangiamorte. C'è Voldemort. La fortezza è sorvegliata. Non possiamo semplicemente starcene là fuori, con le bacchette in mano, e sperare che ci lascino in pace mentre gli smontiamo le difese.”
L'espressione di Remus si fece buia.
“E allora...”
Hermione strinse il bicchiere e lo alzò, lentamente, staccandolo dal tovagliolo. Guardando Remus in viso, sorrise.
“E allora facciamo quel ha fatto Voldemort. Se non si può aggirare l'ostacolo, lo solleviamo.”

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Prima di mettere la cosa ai voti, vi fu la necessità di riferire all'Ordine tutto quel che Piton aveva detto – e tutto quel che Hermione aveva scoperto. Se ne occupò Neville.

Come Hermione aveva predetto, agli altri non piacque affatto sapere che avevano mentito.

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I giorni che seguirono passarono in una bruma di caos e agitazione e cose da fare, perché di cose da fare ce n'erano tante, troppe, e troppe poche persone erano le persone che potevano farle. Il gruppo di Luna venne richiamato da Edimburgo; arrivarono in otto, la mattina presto, con un sole pallidissimo a fare capolino da sopra i tetti di Londra in una delle scarse giornate di bel tempo che l'Inghilterra fredda e grigia di Voldemort e dei Dissennatori aveva visto ultimamente. Alicia Spinnet non aveva voluto essere lasciata indietro, anche se il suo braccio sinistro non era più tornato a posto dopo l'ultimo scontro a Newcastle. Alicia era stata fortunata: Susan Bones era rimasta sul terreno in quello stesso scontro, ed i pezzi rimasti di Ebenezer Gauntlet erano stati sufficientemente piccoli da poter entrare tutti in una scatola. Ritornarono quelli che l'Ordine aveva spedito a Hogsmeade, Seamus Finnigan che era andato in Irlanda assieme alla famiglia di sua madre nella speranza di trovare alleati per la resistenza di Grimmauld Place, Charlie Weasley che era rimasto fino a quel momento in Romania, dove aveva amici che potevano proteggerlo e nasconderlo e dove poteva continuare a fare da collegamento, libero, al sicuro, con il mondo al di fuori dei confini della Gran Bretagna.
Grimmauld Place sembrava affollata e caotica, così, piena come un uovo, piena da scoppiare, ma Hermione non poteva fare a meno di contarli, di contarsi, e di pensare pochi, pochi, pochi.
Era complicato nutrire anche quei pochi, ospitarli, metterli a dormire, evitare che le camere cominciassero a sembrare claustrofobiche e soffocanti, ma c'era bisogno di tutti, adesso, disse Neville, perché Harry Potter era vivo, forse, e Maeshowe poteva essere aperta, forse, e c'era una speranza per tutti loro, forse.
Votarono, e nessuno si sorprese di scoprire che c'erano decine di voti a favore della possibilità di dare battaglia, e solo una manciata di voti contrari.
Erano stati senza speranza, pensò Hermione. Senza speranza, avevano cominciato a credere che sarebbero morti tutti, che non sarebbe rimasto più nessuno, senza speranza, nessuna Profezia a salvarli, niente a cui aggrapparsi; e adesso la speranza era stata buttata loro davanti e ci si stavano accanendo attorno, sopra, così, rifiutandosi di abbandonarla.
Era come una sorsata d'acqua calda, di latte, soffice e bianca e densa, riempiva dal fondo e sembrava risalire fino alla punta delle dita, fino al cuore. Hermione contava quelli di Grimmauld Place e ascoltava Neville parlare e si sentiva piena, fremente; le ribolliva la testa, ma senza dolore, solo in una maniera un po' spaventata, un po' frenetica.
Era eccitazione. Si era dimenticata che sapore avesse, quanto facesse bene.

Ogni Mangiamorte catturato vivo, disse Neville, andava portato da Piton e dalle Patil. Lumacorno andava messo sotto protezione. La ricerca degli Horcrux doveva riprendere: Piton pensava ce ne potesse essere uno alla Gringott, perché Bellatrix – che era stata una Mangiamorte ancora viva e in salute, quando lui aveva chiuso gli occhi per l'ultima volta a Maeshowe, e non la chiazza di sangue e poco altro che Hermione e Draco si erano lasciati alle spalle ad Hogwarts – era stata troppo orgogliosa della cosa preziosa che il suo Oscuro Signore le aveva lasciato in custodia per avere l'intelligenza di non vantarsene mai. Una cosa preziosa forse non era un Horcrux, ma quella era una traccia, una possibilità. Valeva la pena di esplorarla.
Il diario di Riddle era stato distrutto da Harry. L'anello, da Silente. Il medaglione era stato bruciato con l'Ardemonio, quando l'Ordine aveva occupato Grimmauld Place, da Kingsley Shacklebolt ed Hestia Jones.
Ce n'erano altri tre – quattro, si corresse Hermione, quattro. C'erano altri quattro Horcrux. Quello della Gringott, forse. Uno sotto Maeshowe, se c'era ancora, se era ancora vivo, se respirava ancora. E gli altri...
Bill e Charlie Weasley vennero incaricati della spedizione alla Gringott. Un piccolo gruppetto guidato da Hestia Jones venne spedito a caccia di Rabastan Lestrange. Arthur Weasley lasciò Grimmauld Place di buon mattino insieme a Kingsley Shacklebolt, e Neville prese Hermione da parte.
“Scegli la tua squadra,” le disse. “Non meno di cinque e non più di dieci. Possiamo fare a meno di dieci persone.”
Hermione aveva sentito il cuore balzarle in gola:
“Volete mandare me a Maeshowe?”
Neville le lanciò un'occhiata eloquente, un sopracciglio inarcato:
“Mi stai dicendo che, se avessimo deciso di mandare qualcun altro, tu non avresti cercato di andare lo stesso?”
Hermione pensò ad Harry e non gli rispose.
“Sarà un massacro,” disse Neville. Aveva detto la stessa cosa quella mattina; l'aveva detto con estrema gentilezza, e con la medesima gentilezza aveva detto anche che nessuno era obbligato a partecipare alla battaglia. Nessuno doveva sentirsi obbligato a venire. Era certo che non tutti quelli che avrebbero preso parte allo scontro sarebbero sopravvissuti: tutto quel che potevano fare era minimizzare le perdite e dare tempo alla squadra di Maeshowe di entrare e di... e di fare quel che doveva. “Ma, se funzionerà, ne sarà valsa la pena.”
E se non avesse funzionato, pensò Hermione, non sarebbe più importato.
Sarebbero stati tutti morti, probabilmente, e ai morti non importava.

Quattro giorni dopo quella conversazione, William Rosier, Mangiamorte, venne catturato dalle parti di Nocturne Alley dai gemelli Weasley: aveva cercato di entrare da Magie Sinister – che adesso era un negozio ampio e ben illuminato, con grandi vetrine e un'insegna in lucide lettere d'oro scuro – ma era stato intercettato da una Passaporta-trappola quand'era ancora in mezzo alla via.
Sequestrato, drogato, portato a Grimmauld Place, Lavanda Brown e Madama Chips gli inserirono una Passaporta sotto pelle in mezzo alla schiena, proprio accanto alla colonna vertebrale, e i gemelli Weasley lo lasciarono cadere, un Oblivion più tardi, esattamente dove l'avevano trovato. L'intera operazione non aveva richiesto più di venti minuti, dall'inizio alla fine, per essere portata a termine.
Neville si guardò attorno:
“E' ora.”
L'atrio e le scale di Grimmauld Place erano così affollati che la gente aveva dovuto farsi spazio nelle stanze circostanti: premevano sulle porte, affacciandosi, sporgevano dalla ringhiera del piano superiore. Hermione pensò ai Tre Giorni di Hogwarts. Si erano radunati a Grimmauld Place anche allora, prima di partire. Erano stati molti di più: mancavano dei visi, oggi, nella folla – Ninfadora era stata accanto a Remus, tre anni prima, la McGranitt in prima fila accanto al professor Vitious, alla Vector, alla Sprite, la testa di Hagrid più alta di qualunque altra testa sui gradini delle scale, e Ron ed Harry... Ron ed Harry, il ricordo faceva male, era lacerante, strappava e doleva ovunque, ad ogni respiro le sembrava di sentire qualcosa di rotto muoversi nei suoi polmoni, contro il suo cuore, farle bruciare la gola. Ron ed Harry erano stati al fianco di Hermione, tre anni prima.
Mancavano dei visi, oggi, nella folla, ma c'erano altri visi che allora non c'erano stati, Alicia e Charlie che non avevano partecipato alla battaglia di Hogwarts, Fleur, il maggiore dei fratelli Canon. C'era Draco, anche, a due passi da Hermione: tre anni prima, lui era stato dall'altra parte della barricata.
Quando Neville diede il segnale e cominciarono le prime Smaterializzazioni, Hermione chiuse gli occhi per un attimo.

Prima che il segnale per l'ultimo gruppo venisse dato, salì le scale – quasi vuote, ora che la maggior parte dell'Esercito e dell'Ordine se n'erano andati – ed entrò in camera di Ginny. Si sedette sul bordo del letto, piano, per non disturbare le coperte, e le strinse la mano: la mano-ragno, rovinata ed accartocciata, quella che era andata distrutta a Maeshowe, non la sua mano sana, bianca e magra e integra.
“Andiamo a prendere Harry,” le disse.
Il viso di Ginny non cambiò. Dormiva, dormiva. Non si svegliava. Hermione aveva pensato di somministrarle la stessa mistura che avevano dato a Piton – ma le condizioni di Ginny erano diverse. Era troppo debole, Ginny. Ferita troppo a fondo. Piton aveva cercato rifugio nella pazzia, nel coma; Piton aveva avuto una mente capace di sfuggire alla tortura quando c'era ancora qualcosa da salvare. Ginny era stata indifesa, esposta, scoperta. Ginny era stata una vittima perfetta.
Se tutto fosse andato storto, quel giorno, durante lo scontro, forse qualcuno sarebbe riuscito a tornare a Grimmauld Place. Forse ci sarebbe stato ancora qualcuno a prendersi cura di Ginny. Forse no.
Dal sonno alla morte, pensò Hermione.
Lasciandole andare la mano, si Smaterializzò a Diagon Alley.

- - -



Hermione era cresciuta tra i Babbani. Aveva letto libri Babbani, romanzi Babbani (e i Maghi sembravano mancare di romanzi, curiosamente, come se la loro narrativa fosse principalmente limitata a racconti brevi come aneddoti, a favole, a ballate), aveva guardato documentari ed era andata al cinema. Ai tempi di Hogwarts, così, aveva pensato alla guerra come vi pensavano i Babbani, come a qualcosa dove vi fosse molto rumore, scoppi, esplosioni, boati, il fischio delle pallottole e quello delle granate, e molto sangue. Dopo che la guerra era cominciata, dopo Hogwarts, dopo l'inizio della resistenza e degli assalti notturni e delle imboscate, Hermione aveva scoperto che nelle guerre dei maghi il rumore non era poi così tanto – e neanche il sangue. L'Avada Kedavra non lasciava segni. Certe maledizioni straziavano i corpi dall'interno, che così restavano interi, apparentemente, devastati solo dentro, nascostamente, dove non si vedeva; ed altre maledizioni non lasciavano neanche i corpi. Non c'era niente da seppellire, dopo.
Alla mancanza di sangue, Hermione aveva fatto l'abitudine. Alla mancanza di rumore... no.
Il silenzio era terribile. I corpi implodevano e non c'era suono, si aprivano e non c'era suono, cadevano e non c'era suono. Il rumore di uno sparo sarebbe stato un sollievo, ma nelle guerre dei Maghi la gente moriva senza avere le orecchie piene di niente: moriva senza rumore, cadeva senza rumore. Senza eco.
Lo scontro di Hogsmeade esplose nel silenzio e nella violenza, come uno scoppio pazzo di luci che sfrecciavano da una parte all'altra, incantesimi strillati, mormorati, pensati, maledizioni che bruciavano e spezzavano e l'odore terribile della carne bruciata, del fumo, l'odore putrido dei Dissennatori e il freddo intenso che questi si portavano dietro, come una scia, come uno strascico, così profondo e tagliente da risultare come un dolore tutto suo.
Hermione vide Dean Thomas buttarsi davanti a Luna e cadere quando un'esplosione di luce azzurra lo investì, Luna alzarsi sopra al suo corpo riverso mentre un Patronus brillante come una stella caduta le emergeva dalla punta della bacchetta, il Patronus in forma di lepre sfrecciare sul campo di battaglia e tenere alla larga i Dissennatori, farsi strada tra le ombre nere e i Mangiamorte e lasciarsi dietro una ventata d'aria tiepida, leggera, che rendeva più facile respirare.
Hermione non era certa di essere ancora in grado di usare il suo Patronus, ma quello di Luna non aveva mai messo di splendere. Mai.
Sentì qualcuno urlare alla sua destra ed Hestia Jones la spinse da una parte; Hermione alzò la bacchetta e la lasciò cadere in un gesto secco, e il Mangiamorte che aveva di fronte crollò a terra in uno spruzzo di sangue. Hestia Jones strillò e si premette una mano al petto, ferita – ed Hermione vide qualcosa di piccolo cadere sulla ghiaia, un pezzo di carne, di braccio, dita? Alzò uno scudo di fronte ad Hestia un attimo prima che un Mangiamorte l'abbattesse, e un'Avada Kedavra partita da qualcuno dell'Ordine investì il gruppo che Hermione aveva davanti in una vampa verde.
Sul piazzale di fronte ai Tre Manici di Scopa, Cho Chang e Kingsley Shacklebolt, schiena contro schiena, si stavano aprendo un varco a colpi di bacchetta. Cho aveva i capelli sciolti, scarmigliati, la camicia sporca di sangue e una faccia tanto vuota e bianca da parere intagliata nel marmo. In lontananza, un paio di case stavano bruciando: Hermione sentiva il legno sfrigolare e spezzarsi anche da lì, le fiamme crepitare. Il fuoco disegnava una folle danza di ombre sul selciato.
Sentì qualcuno afferrarle una spalla e si girò con la bacchetta già sollevata e una maledizione già sulle labbra: ma era Draco, solo Draco, e lei spostò la bacchetta di scatto per non puntargliela contro. Draco la tirò via, e lei lo seguì, tagliando la testa con una maledizione al primo Mangiamorte che cercò di pararsi loro di fronte ed usando l'Avada Kedavra sul secondo. Draco lanciò un incantesimo che li coprì alla vista della strada principale e, muovendosi in fretta e con cautela, si infilarono in un vicolo laterale.
Alle sue spalle, Hermione sentì qualcuno – qualcuno che forse era Neville, la voce era sua, la voce di Neville – urlare. Non si girò a guardare: sapeva che, se avesse guardato, non sarebbe più riuscita ad andare avanti.
Draco si sfilò da sotto la camicia la Giratempo ed Hermione fece lo stesso. Le strinsero in mano e le girarono nello stesso momento.
C'era stato poco rumore, sul campo di battaglia: ma il silenzio della Hogsmeade nella quale arrivarono, procedendo a ritroso nel tempo, era quasi innaturale. L'aria era fredda, ma non c'erano Dissennatori nelle vicinanze. Tutto era calmo e quieto, e la ghiaia scricchiolò debolmente sotto i loro piedi, mentre si accostavano all'angolo tra il vicolo e la via principale di Hogsmeade; il profilo dei Tre Manici di Scopa, più a nord, era una sagoma nera che emergeva da un mare di nebbia pallida. Niente era a fuoco. Nessuno urlava. Nessuno stava morendo – ancora.
Hermione respirò profondamente.
“E' fatta,” bisbigliò. Si sentiva stanca. Si sentiva svuotata. L'adrenalina che le pulsava nelle vene non era abbastanza da coprire il ricordo della voce di Neville, del corpo di Dean a terra, del sangue di Hestia.
Staranno bene, pensò. Si aggrappò a quel pensiero con ferocia. Staranno tutti bene.
Un po' alla volta, arrivarono anche gli altri: i gemelli Weasley, graffiati e contusi, ma senza gravi ferite; Opal Taylor, che era stata al suo terzo anno ad Hogwarts prima che la guerra cominciasse e che era nell'Esercito di Potter, adesso, solo perché aveva perso di senso cercare di tener lontani e al sicuro i più giovani tra i Mezzosangue; le gemelle Patil, illese, che arrivarono camminando lentamente lungo la strada principale, e Molly Weasley, che si Materializzò proprio accanto a loro. Aveva rifiutato di lasciare andare George e Fred senza di lei: Hermione aveva pensato a Ron, aveva pensato a Ginny. A Percy, che non era morto a Maeshowe – ma si poteva dire lo stesso che fosse stata Maeshowe ad ucciderlo. Hermione aveva pensato a tutto questo, e poi aveva detto a Molly che poteva venire, sicuro, se voleva. Poteva venire con loro. Stavolta non l'avrebbero lasciata indietro.
Remus tardava ad arrivare, e Draco già stava cominciando a muoversi su e giù per la strada, nervosamente, tracciando circoli sul selciato di Hogsmeade, l'espressione agitata e due dita sul bordo della Giratempo. Se Remus fosse morto durante lo scontro. Se Remus fosse morto un'ora dopo, prima, prima di poter usare la Giratempo...
Quando Remus apparve, finalmente, aveva una profonda ferita su un braccio ed un lungo graffio sulla schiena; era spossato e pallido, e trascinava un po' una gamba. Draco sembrò sgonfiarsi come un palloncino bucato, la linea tesa di schiena e spalle allentata e sul viso un sollievo tale, aperto, doloroso, da suscitare in Hermione una compassione che quasi faceva male al cuore.
Remus le posò una mano sulla spalla ed Hermione gli toccò le dita, gentilmente.
“Tutti pronti?” chiese. Calì si avvicinò ad Opal Taylor tanto da appoggiare la spalla a quella dell'altra. Molly fece un passo avanti e i gemelli Weasley serrarono le dita attorno alle bacchette. Draco lasciò ricadere la Giratempo al sicuro dietro la camicia.
Hermione prese un respiro profondo.
“Si va.”





Note: duedicoppe ha betato questa storia tra le dieci e cinquanta e le undici e cinquanta di stasera. Non ci sono parole abbastanza gentili per ringraziarla.

Lo Zeitnot è un termine degli scacchi che indica una situazione dove uno dei giocatori si trovi con pochissimo tempo a disposizione per completare le proprie mosse; è un termine che ha senso solo nelle partite ufficiali, che hanno un limite di tempo stabilito sin dal principio.
Ne approfitto per pubblicizzare dragons and cupcakes, il blog aperto insieme a LaureDeTroyes (perché la nostra grafomania è viva e vegeta e gode di ottima salute, grazie), dove al momento ho pubblicato soprattutto icons del film "The Avengers". Giuro. x°D Avevo troppo Cicerone da fare e troppo poco tempo per scrivere. Le icone sono state la mia salvezza.

Un grazie, grande, colossale, a tutti voi che avete continuato a seguire questa serie. Grazie. Non potete capire quanto mi abbia resa felice sapere che c'era ancora qualcuno che aspettava di leggere l'aggiornamento.

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Capitolo 3
*** Scacco ***




3. Scacco




Non ci si Smaterializzava all'interno di Maeshowe, e superare le barriere camminando o a cavallo di una scopa avrebbe richiesto troppo tempo e troppa visibilità; ma la Passaporta accanto alla spina dorsale di William Rosier li guidò all'interno della fortezza come una calamita, un magnete, tirandoli attraverso le barriere. La Maledizione Imperius non aveva permesso a Rosier di seguire il grosso dei Mangiamorte ad Hogsmeade – e lo trovarono ancora lì, così, all'imboccatura del primo corridoio di Maeshowe, a meno di tre passi dalla soglia, mentre camminava avanti e indietro diviso tra l'impulso di obbedire alla Maledizione e quello di obbedire al Marchio.
Uccisero Rosier diciassette minuti dopo aver usato le Giratempo; approssimativamente nello stesso momento, in effetti, in cui Voldemort era stato avvistato/sarebbe stato avvistato/stava venendo avvistato – sul campo di battaglia di Hogsmeade.
Stavano infrangendo tutta una lunghissima serie di regole e protocolli sull'uso delle Giratempo, e facendo tutto quel che non si sarebbe dovuto fare quando se ne usava una. Cinque anni prima, ad Hermione sarebbe importato. Tre anni prima, se ne sarebbe preoccupata. Stavano causando tutta una serie di infiniti paradossi, forse irrisolvibili, perché loro erano ad Hogsmeade, adesso, e stavano combattendo – ma erano anche qui, a Maeshowe, e stavano cambiando il passato. Il piano aveva funzionato/forse aveva funzionato/forse sarebbe funzionato, Voldemort non si sarebbe Materializzato a Maeshowe – perché non era accaduto prima – e loro sarebbero riusciti a scendere e sarebbero sopravvissuti/stavano sopravvivendo ad Hogsmeade.
Quando aveva pianificato tutto assieme a Neville ed a Shacklebolt, Hermione aveva pensato a Fierobecco. Aveva pensato a quel che era successo in una notte di luna piena molti anni prima: Fierobecco che non era mai morto, in nessuno dei possibili futuri – ed Harry, Harry che aveva modificato il futuro perché l'aveva già modificato. In ogni possibile passato.
Era stato pensando ad Harry, ed al cervo che aveva messo in fuga i Dissennatori, quella notte, sulla superficie nera del lago, che Hermione aveva deciso che era una pazzia, sicuro, e forse sarebbero morti tutti, sicuro, ma era tutto quel che potevano provare. Adesso, così. Tutto quel che potevano tentare.
Avevano lasciato le Patil ed Opal Taylor appena fuori dai confini della barriera di Maeshowe, nascoste sotto un velo di incantesimi e protezioni ed accovacciate nella nebbia brumosa delle Orcadi. Soffiava un vento tagliente che sembrava arrivare fin dentro Maeshowe malgrado le pareti di terra e le torce accese, di un freddo acutissimo e denso che colava nelle ossa e rendeva pesanti i movimenti.
Doveva essere pieno di Dissennatori, là attorno, si disse Hermione. Se lo disse senza permettersi di pensarci troppo, perché se l'avesse fatto – se avesse veramente immaginato l'orda nera che portava il gelo e il terrore – proseguire sarebbe divenuto intollerabile.
Piton aveva dato loro una mappa, ed Hermione aveva aggiunto sulla pergamena tutto quel che ricordava di Maeshowe, le svolte e le porte e le barriere. Si mosse un po' a memoria, adesso, forzando da una parte tutto quel che i ricordi portavano con sé – il dolore e il panico e la nausea, quello era il punto dove Ron le aveva cacciato in mano la Passaporta e l'aveva spinta via, lì Harry si era fermato ed aveva detto loro di proseguire senza di lui, qui il Mantello si era impigliato una prima volta e da quella porta era apparso Voldemort...
Le pareti di Maeshowe sembravano fremere, tremare. Hermione pregò che le Patil riuscissero, che il rito funzionasse, pregò di aver avuto ragione, e scese la prima rampa di scale.

Vedere l'Ordine e l'Esercito schierati nella loro interezza nelle strade di Hogsmeade e come pronti per l'ultima battaglia aveva attirato Voldemort all'esterno: era andato e si era portato dietro i suoi luogotenenti, il Circolo Interno, gran parte dei suoi Mangiamorte ed una schiera di Dissennatori così fitta da oscurare il cielo; ma non aveva lasciato Maeshowe precisamente sguarnita.
Non meno di cinque, aveva detto Neville. Erano in nove, adesso, e farsi largo attraverso la tomba-fortezza richiese loro ogni oncia d'energia, magia e astuzia che avevano.
Uccisero Alecto Carrow ai piedi delle scale e Amycus quando venne loro incontro urlando. Non lasciarono al Mangiamorte che venne dopo il tempo di dare l'allarme: Remus l'abbatté con un'Avada Kedavra proprio nel mezzo del petto. Draco usò l'Ardemonio sulla prima stanza che trovarono, e non si fermarono a guardare quel principio di incendio trasformare la tomba di Maeshowe in una pira, ma proseguirono ancora.
Remus smontò una trappola nel mezzo del corridoio del primo livello sotterraneo, e poi un'altra sulle scale che portavano in basso. C'era una fossa piena di Inferi che tagliava la strada dopo l'ultimo gradino: il corridoio riprendeva solo dall'altra parte della crepa, ed era troppo lontano per poter saltare.
Ci doveva essere un percorso alternativo, si disse Hermione, freneticamente, i Mangiamorte dovevano pure poter passare in qualche modo. Remus salmodiava incantesimi alla sua sinistra nella speranza di trovare quello giusto ed aprire la strada, l'Ardemonio crepitante alle loro spalle, e il calore e il rumore le impedivano di riflettere. Un incantesimo di levitazione fallì miseramente; un tentativo di Trasfigurare il pavimento in un ponte di terra, dapprima, e poi di corda, non dette alcun effetto. Pensa. Hermione chiuse gli occhi. Pensa. Pensa, pensa, pensa.
Uno dei gemelli la spinse da una parte ed entrambi puntarono la bacchetta nel fondo della fossa:
Geminio.”
Geminio!”
“Che cosa state facendo?” bisbigliò Draco, inorridito. Gli Inferi nella fossa avevano preso a duplicarsi, adesso, più mani che si protendevano verso di loro, più corpi pressati, spingendosi l'uno addosso all'altro nello spazio improvvisamente dimezzato. Draco inghiottì a vuoto. “Non dovrebbe poter funzionare sugli esseri umani...”
Hermione batté le palpebre, gli occhi fissi sulla marea di corpi sfasciati e rotti, le pupille cieche, le bocche socchiuse senza respiro e senza voce.
“Gli Inferi non sono più umani,” bisbigliò. Puntò la bacchetta nella fossa ed esclamò “Geminio!”
Un attimo dopo erano tutti sul bordo della crepa spalancata, le bacchette dirette contro gli Inferi che continuavano a premere gli uni addosso agli altri, sempre più, sempre di più, arrampicandosi e salendo, spinti verso l'alto dalla loro stessa massa, perché erano diventati troppi per la crepa stretta e fonda. L'odore era quello di carne morta, putrida, di cose viscide e aperte, ed era un odore pervasivo, invasivo, un odore vischioso che sembrava penetrare dentro la pelle. Hermione cercò di non respirare, al principio,e poi di tirare solo respiri piccoli piccoli, mezzi respiri che non servivano ad attutire il fetore, ma lo rendevano meno assoluto.
Quando uno degli Inferi riuscì a sporgersi abbastanza da cercare di afferrare l'orlo della gonna di Molly con le dita adunche e contratte come artigli – Hermione pensò alla mano-ragno di Ginny e dovette combattere la nausea per un attimo – Remus abbassò la bacchetta in una sferzata rapida:
Duro!”
Procedettero su un sentiero di Inferi pietrificati, facendosi largo tra braccia e mani protese, sollevate. L'inferno doveva essere così, si disse Hermione, un lago di pietra e i morti tra le onde, il fetore e il freddo e il buio e nessun posto dove scappare. Se lo disse vacuamente: anche l'orrore sembrava aver raggiunto un livello oltre il quale si faceva apatico e sordo.
L'Ardemonio sarebbe giunto presto fin laggiù e forse – ti prego, fa' che sia così – anche del sentiero di Inferi non sarebbe rimasto niente.
I Mangiamorte arrivarono quando avevano già un piede nel corridoio, al sicuro, e solo Fred era ancora appoggiato sulle spalle degli Inferi. Hermione usò il Sectumsempra sul primo Mangiamorte che le capitò davanti, perché le mani le tremavano troppo, per la nausea e il terrore cieco, vuoto, per essere certa di avere la concentrazione necessaria per la Maledizione Che Uccide.
Non ci furono più soste, dopo: nessuna pausa, nessuna interruzione, solo Mangiamorte che continuavano ad arrivare e poi i Dissenatori, poco più sotto, ed un livello più in basso un qualcosa viscido e grosso come un enorme serpente, ma con troppe teste e troppi occhi, che dovettero fare a pezzi per poter superare. Remus rimase davanti ad Hermione per tutto il tempo, Molly giusto in fondo alla fila, ed Hermione ebbe l'impressione che la stessero proteggendo, che tutti loro stessero cercando di tenerla in mezzo al gruppo, protetta e schermata da ogni lato. Avrebbe voluto protestare – ma ogni passo che faceva e che la portava giù, sempre più giù, era un passo più vicino al cuore di Maeshowe, un passo più vicino al posto dove avevano trovato Ginny, rotta e cieca e distrutta, Ginny che non si poteva più rimettere insieme, Ginny che non c'era più anche se Harry era rimasto indietro per salvarla.
Se si fosse fermata, pensò Hermione, se avesse parlato per dire qualcosa che non fossero istruzioni o per pronunciare qualcosa che non fosse una maledizione, si sarebbe rotta anche lei. Sarebbe andata in pezzi, così.

Tre anni prima, Piton aveva scoperto Harry nel fondo delle celle-tombe di Maeshowe. Tre anni dopo, c'erano buone possibilità che non fosse più lì – perché una persona intelligente, pensava Hermione, una persona lucida e sana di mente, l'avrebbe fatto sparire immediatamente, spedire dall'altra parte del mondo, trasportare in un'altra prigione, in un'altra gabbia, che forse sarebbe stata meno sicura, ma che indubbiamente sarebbe stata meno ovvia.
Voldemort non era sano di mente. Voldemort non era lucido. Voldemort aveva tagliato via fette della propria anima.
Perché mai avrebbe dovuto farlo? Aveva detto Draco. Era stato solo pochi giorni prima, ma sembrava fosse passata una vita, da allora, tutta una vita in cui Hermione non aveva fatto altro che uccidere Mangiamorte mascherati in corridoi bui, freddi, senza vie di fuga. L'Ordine lo credeva morto e nessuno lo avrebbe cercato.
Era la situazione perfetta!

Si aggrappò a quel pensiero, anche se faceva male, e continuò a tenerlo stretto mentre scendevano.
“Ci siamo,” bisbigliò, alla fine, un milione di ere più tardi, tanto più in basso rispetto al livello del terreno da darle l'illogica, folle impressione di essere scesa fin nel centro della terra. “E' qui che abbiamo trovato Ginny.”
Sarebbe stato terribile, pensò, se Harry fosse stato proprio lì dentro, lì dove Ginny era stata, lì dove l'aveva presa, sollevata, il posto dal quale l'aveva tirato fuori. Cosmicamente ingiusto. Cosmicamente orribile. Pregò che Voldemort non gli avesse fatto questo – almeno questo – ma la cella era vuota. Molly fissò le sbarre con un'espressione tanto vuota da fare spavento.
L'aria era pesante e densa: sembrava loro di sentir premere tutto il suolo che avevano sopra la testa, tutti i piani e le stanze e la massa pura e cruda di terra e sassi, comprimendoli da ogni lato. Ad Hermione fischiavano le orecchie. Pensò ad Harry chiuso per anni – tre anni, dodici mesi per tre anni, trentasei mesi a trenta giorni al mese, faceva un infinito numero di giorni trascorsi così, da diventarne pazzi, folli – senza sole, senza aria, con la pressione a schiacciargli il petto. Si appoggiò con una mano alla parete, perché le gambe sembrarono maldisposte, per un momento, a sorreggere il suo peso.
Remus stava passando di fronte a tutte le celle, spalancandole a colpi di bacchetta e guardando in ciascuna di esse, freneticamente. Draco gli tenne dietro, e dopo un attimo anche Molly li raggiunse. Fred e George rimasero accovacciati a fare da palo ai piedi delle scale, le teste sollevate verso l'alto. Si sentiva l'Ardemonio urlare e sfrigolare in lontananza; ad ogni secondo che passava pareva che il suono si facesse più vicino, incombente. Era il suono di un conto alla rovescia.
C'erano decine di celle, cellette, minuscole e schiacciate, poco più che buchi nel terreno dove doveva essere impossibile mettersi veramente in piedi, sdraiarsi del tutto. In una di esse, Hermione trovò un corpo lasciato a sfaldarsi; si ritrasse di fronte al fetore acuto, intollerabile, scossa dai conati di vomito, e per un attimo venne presa dal terrore di fronte all'idea che si trattasse di Harry: ma il corpo era troppo grosso, troppo alto e largo e massiccio. Non era Harry. Sentiva uno strato fine di sudore ghiacciato imperlarle la fronte e la schiena. Non era Harry. Richiuse la porta e prese un lunghissimo, profondissimo respiro nel corridoio, dove l'aria sapeva di freddo e di muffa e di paura, certo, ma non era intrisa fino alla saturazione dell'odore dei corpi morti.
“Harry!”
Il nome la fece sussultare. Remus stava richiudendo un'altra cella – vuota, erano tutte vuote – e aveva cominciato a chiamare ad alta voce.
“Harry!”
Hermione fece per dirgli di non gridare, di tenere la voce bassa; ma realizzò prima di aprire bocca che era stupido cercare di far piano, quando tutta Maeshowe, ormai, doveva sapere che erano lì. Forse lo sapeva anche Voldemort, adesso. Forse stava tornando indietro. Forse...
“Harry!” gridò anche lei, e sentì Molly farle eco. Corse lungo la fila di porte chiuse, aprendole tutte, una dopo l'altra, senza smettere di chiamare, Harry, Harry, Harry. Per anni aveva cercato di non nominarlo mai, mai, Harry, perché c'erano due nomi che le facevano male al cuore, Ron ed Harry, i nomi di quelli che erano venuti con lei a Maeshowe e che lei aveva lasciato indietro, quelli che aveva abbandonato, e Ginny non era neanche veramente viva, adesso, non l'avevano salvata, non c'era stato più niente da salvare, stupidi e ignoranti e arroganti, avevano creduto di poter sconfiggere la morte e ora Ron era morto, Hermione non l'avrebbe mai più sentito ridere e protestare e lamentarsi, ed Harry... Harry...
“Qui non c'è nessuno,” disse Draco. Lo disse molto piano, una mano ancora sulle sbarre di una delle celle; ma, quando Hermione si girò di scatto ed aprì bocca per protestare, furiosa, lo ripeté con diverse once in più di convinzione nel tono di voce: “Non c'è nessuno, Granger.”
“Ci sono altre...”
“Non ce ne sono.”
Hermione sbatté le palpebre. Per un attimo, le sembrò che il mondo le tremasse sotto i piedi. Tutte le porte erano aperte: erano state decine, dozzine di porte chiuse, decine e dozzine di possibilità, e adesso erano tutte aperte e non c'era...
Non c'era nessuno.
Harry non c'era.
Era stata una scommessa, si disse. I pensieri si muovevano a fatica dentro di lei, rimbalzando gli uni addosso agli altri, affollandosi, viscidi e vischiosi, senza far presa da nessuna parte ma troppo densi per poterli spingere via e svuotarsi la mente.
Era stata una scommessa. C'era sempre stata la possibilità che fosse tutto inutile – che Harry non fosse lì. Forse Voldemort l'aveva portato via. Forse era altrove. Forse era morto. C'era sempre stata la possibilità che fallissero, anche se avessero vinto, anche se tutto fosse andato bene, c'era sempre stata la possibilità che tutto quel che avevano fatto per arrivare fin lì si rivelasse privo di senso.
Remus continuava a muoversi su e giù per le celle, entrando in ciascuna di esse, esplorandole, come non volesse credere che quel che aveva di fronte agli occhi era la verità; come non volesse credere che Harry non c'era, non era lì, non l'avrebbero trovato. Molly stava guardando la cella vuota di Ginny, di nuovo, ed era evidente che stesse vedendovi dentro qualcos'altro. Ginny che era sfuggita a Maeshowe – ma non veramente. Ginny che non si svegliava, che non si sarebbe più svegliata.
Privo di senso, pensò Hermione. Avrebbe voluto potersi lasciar cadere a terra, rannicchiarsi e piangere, perché era tutto privo di senso, privo di senso, insensato, tutte le cose sbagliate e ingiuste e orribili che erano accadute, prive di senso. Il mondo aveva perso di logica.
Si era aggrappata così tanto all'idea che fosse vivo, Harry, che respirasse ancora, che aveva perso l'appiglio sulle barriere e sulla distanza che era riuscita a costruirsi nel corso degli ultimi tre anni, lentamente, faticosamente, un mattone di ostinazione ed insensibilità alla volta. Non trovarlo, così, fu come saperlo morto di nuovo.
Alla fine, anche Remus dovette fermarsi. Hermione si sentiva il petto così pieno, gonfio, da avere l'impressione che non ci fosse più spazio nei suoi polmoni per tirare il fiato, e quando Molly le posò una mano sulla spalla dovette reprimere l'istinto di urlare.
“Dobbiamo andare,” le disse Molly.
Hermione scosse la testa.
“Non possiamo fare niente, Hermione,” insisté Molly. “Dobbiamo tornare dagli altri. Se ad Hogsmeade...”
Un fremito nelle pareti di Maeshowe le mozzò le parole in bocca; per un attimo Hermione credette che fosse la terra a tremare, un terremoto, che il fuoco ai livelli superiori stesse causando dei crolli nella fortezza – ma poi si ricordò quando Maeshowe aveva sussultato così, cos'era stata a farla fremere allora, ed un brivido di terrore ghiacciato le scivolò giù per la spina dorsale.
“E' arrivato,” bisbigliò. Draco la fissò, gli occhi pieni del medesimo orrore che Hermione si sentiva in gola. “E' Voldemort. E' arrivato.”

Dopo un istante di raggelata immobilità, Remus le afferrò la spalla che Molly non stava stringendo. “Le Patil,” le ordinò. “Chiamale. Dobbiamo uscire di qui – adesso.”
Hermione si cacciò una mano in tasca. Costrinse le sue dita a non tremare mentre si stringevano attorno ad un vecchio galeone d'oro dai bordi logori. Lo estrasse, serrandolo nel palmo con fermezza, e ne strofinò la superficie con il pollice. Il galeone rimase opaco e immutato per un lunghissimo istante; poi, mentre lei lo guardava e tratteneva il fiato, in bilico sull'orlo del terrore, i numeri di serie che formavano un circolo attorno alla superficie ossidata cominciarono a cambiare. Alcune delle cifre divennero lettere, ed Hermione dovette aguzzare lo sguardo per riuscire a decifrarle:
1 M1NUT0
“Un minuto,” ripeté a voce alta, il fiato mozzo. “Le Passaporte?”
Fred estrasse un vecchio orologio da taschino dai pantaloni, Remus tirò fuori una bottiglia di Burrobirra vuota da una tasca interna della giacca e Draco armeggiò con una sacca che portava appesa alla cintura per farne riemergere una vecchia cravatta.
Le guardarono, raccolti a circolo attorno alle Passaporte, e sul viso di tutti passò la medesima domanda: funzionerà?
“Se non dovesse funzionare...” cominciò Remus, lentamente. Draco fece un gesto impaziente, come per interromperlo, ma Remus proseguì guardando Hermione in viso: “... ne sarà comunque valsa la pena.”
L'amarezza aveva sapore di cose perse, mancate. Aveva l'odore del fallimento. Hermione scosse la testa.
“E' stato inutile,” disse piano.
“Dovevamo provarci,” ribatté Remus con fermezza. “Abbiamo fatto la cosa giusta.”
Draco serrò le dita attorno alla vecchia cravatta e la alzò nel mezzo del gruppo, scuotendola un po', la fronte aggrottata e l'espressione caparbia:
“Funzionerà.”
Hermione non poté fare a meno di sorridere un po'.
Maeshowe fu scossa da un secondo tremito, più forte, più violento, e il calore dell'Ardemonio cominciò ad invadere anche il livello inferiore di Maeshowe: tuttavia, malgrado le vampe e il fuoco e la luce rossastra che sembrava ingoiare quella flebile delle torce che avevano acceso, c'era una qualità di freddo invincibile che andava calando su di loro e che sembrava permeare le ossa, affondare nella carne, portare via ogni gioia, ogni speranza. Hermione chiuse gli occhi – e li spalancò, di botto, quando il ricordo del viso di Ron proteso verso il suo, coperto di graffi, di terra, terrorizzato, si fece strada al di sotto delle palpebre.
Ad occhi chiusi, il potere dei Dissennatori aveva effetto più in fretta.
“Sono quasi qui,” mormorò George.
Draco cominciò a battere i denti, per il freddo, la paura; si girò verso di lei, le dita sempre strette attorno alla cravatta – quelle di Hermione solo un centimetro più in basso, così vicine che, ogni volta che muoveva appena la mano, toccava quelle di lui.
Fu in quell'attimo che Maeshowe sembrò morire.
Era una strana sensazione: fino a quel momento era stata come una cosa viva, pulsante, come un cuore gelido che batteva tutt'attorno a loro, e il tremito delle sue pareti accese li aveva accompagnati mentre scendevano, scendevano, scendevano. L'Ardemonio parve prendere entusiasmo e foga, tutto ad un tratto, ed Hermione lo sentì stridere e crepitare con crescente violenza, vide le ombre e le teste adunche, mostruose, che si dimenavano tra le fiamme, non più trattenute dalle barriere attorno e dentro Maeshowe, e seppe che ce l'avevano fatta. Il pensiero giunse portando con sé una colata d'incredulità che parve gelarla sul posto.
Ce l'avevano fatta.
Le Patil c'erano riuscite.
Potevano andarsene.
Potevano...
“Ha funzionato!” esclamò Draco, trionfante, ed Hermione fece per stringere le dita più forte ed aspettare lo strattone all'altezza dello stomaco che l'avrebbe trascinata via, fuori da Maeshowe, al sicuro; ma l'urlo di Molly la colse di sorpresa. Alzò la testa di scatto, e così facendo vide in fondo al corridoio e alla base delle scale un paio di piedi bianchi e scalzi e scarni scendere i gradini, vide l'ombra nera delle vesti e l'aura di terrore e orrore impotente che aveva cominciato ad accompagnarlo da quando Maeshowe e Brodgar erano stati fusi assieme, vide la faccia serpentina senza naso, senza labbra, con occhi troppo stretti ed un'espressione di furia indescrivibile, perché doveva essersi accorto di quel che era accaduto a Maeshowe, Voldemort, e la cosa non doveva essergli piaciuta per niente.
Per un attimo, Hermione credette che il cuore le si fosse fermato in petto.
Ma poi una palla di luce azzurra non più grande di un pugno passò schizzando accanto alla testa di Voldemort, giù per la strettoia delle scale, e sfrecciò nel corridoio.
Hermione sentì la cravatta sfuggirle dalle dita.
“Ron...?” bisbigliò. Sentì Remus gridare, le mani di Draco cercare di afferrarla, di trattenerla, ma tutto il suo mondo si era ridotto alla sfera, alla luce, al globo di luce rubata del Deluminatore di Silente che stava schizzando verso di lei. Anche Voldemort sembrava essere scomparso di fronte a quella luce.
Il globo del Deluminatore le arrivò di fronte e, senza rallentare, le passò attraverso. Hermione smise di pensare: si girò e spinse via le braccia protese verso di lei, mentre Fred e George e Molly sparivano assieme a due delle Passaporte, mentre Remus urlava e un lampo di luce color dell'ambra illuminava a giorno il corridoio alle sue spalle – la luce di un Protego – e Draco si lasciava cadere la cravatta di mano. Anche la cravatta scomparve nel nulla, al sicuro e senza passeggeri, chiamata via assieme alle altre Passaporte.
La sfera azzurra schizzò come un Boccino impazzito giù per il corridoio, poi a destra lungo un breve corridoio cieco tra due ali di cellette aperte e infine attraverso quello che sembrava solo un muro di terra, un muro come tutti gli altri, un muro chiuso, ma Hermione sapeva che quella era il globo del Deluminatore, sapeva chi aveva creato il Deluminatore, sapeva a chi apparteneva, a chi doveva appartenere, Ron, Ron, Ron, aveva visto Ron accendere e spegnere le luci di Grimmauld Place troppe volte per non riconoscere l'incanto, troppe volte per non credere che dietro al muro, solo dall'altra parte...
Bombarda Maxima!” urlò. Non si aspettava che funzionasse davvero – ma tutte le barriere di Maeshowe erano ancora alzate, distrutte, e Voldemort era solo umano, adesso. Il muro esplose in una pioggia di terriccio e detriti ed Hermione ne sarebbe stata investita, se non fosse stato per il Sortilegio Scudo lanciato da Draco proprio di fronte a lei.
“Sei impazzita?” urlò lui, afferrandole un braccio. “Sei pazza, moriremo tutti, dobbiamo Smaterializzarci via di qui! Dobbiamo...”
Smise di urlare, di botto, e il silenzio fu assordante.
Dietro al muro cieco che non era poi, dopotutto, così cieco come sembrava, c'era una celletta piccola e stretta dalle pareti di terra nuda e il pavimento rivestito di pietra. La luce azzurra del globo del Deluminatore la illuminava fiocamente, e sotto la luce si vedeva la forma per terra, rannicchiata sotto qualcosa che forse era una coperta. C'era un fetore pungente nell'aria, fetore di corpi sporchi, non lavati, non di corpi morti; era l'odore di una persona viva, ed Hermione fece un passo avanti ed esalò:
“Ron?”
La cosa rannicchiata sotto la coperta si mosse debolmente, tutta arti lunghi e magrissimi e giunture gonfie, ed Hermione si lasciò cadere in ginocchio e gattonò accanto ad essa, sentendosi piena di panico e di una strana, dolorosa forma d'eccitazione.
“Ron?” chiamò ancora, e poi: “Harry...?”
Sentì rumore di passi in corsa lungo il corridoio mentre lei ancora stava cercando di racimolare il coraggio di toccare la persona sotto la coperta, e la voce di Remus esclamare in tono d'urgenza, affannato e teso:
“Gli scudi nel corridoio li rallenteranno solamente, non potranno... oh, Merlino.” La voce virò bruscamente all'incredulità ed all'orrore. “Hermione?”
“Harry?” bisbigliò ancora lei. “Ron? Harry?”
Afferrò una di quelle gambe magrissime, scomposte, e la persona sotto la coperta alzò finalmente la testa, a fatica, e la guardò e si guardarono e aveva gli occhi verdi.
Hermione gli buttò le braccia al collo, senza pensare, ed Harry puzzava ed era troppo magro e parve non riconoscerla, al principio: ma poi tutta la faccia gli si illuminò come da dentro. Alzò le mani – che erano magre e rovinate, ma non mani-ragno, non come la mano di Ginny – e le strinse la giacca, aggrappandosi ad essa con tutta la disperazione senza forze di un naufrago con la sua tavola.
Aprì bocca ed Hermione si aspettò di sentir uscire dalle sue labbra spaccate il suo nome, il nome di Ron, qualunque cosa, ed invece quel che venne fuori fu solo una serie di sibili rotti ed orribilmente familiari.
Lo scudo di Remus si ruppe da qualche parte nel corridoio alle loro spalle. Hermione serrò le braccia attorno ad Harry, chiuse gli occhi e si concentrò forte, forte, più forte che poteva, sull'essere fuori di lì, sull'essere a Grimmauld Place, sull'essere al sicuro, in salvo, altrove.
Si Smaterializzarono attraverso le barriere alzate.

L'ultima cosa che Hermione credette di sentire – ma forse l'aveva solo immaginata – fu l'urlo di Voldemort alle loro spalle, nel corridoio, che se li vedeva sfuggire di mano.

- - -



“Tre minuti,” mormorò Neville. Avrebbe dovuto essere a letto. Avrebbe dovuto riposare. Aveva la faccia bendata – ancora una volta – e Madama Chips aveva spiegato che la nuova ferita aveva danneggiato l'occhio sinistro irrimediabilmente; che, se anche c'era stata una possibilità di salvarlo dopo le Acromantule, adesso quella possibilità non esisteva più. Kingsley aveva detto qualcosa a proposito di Malocchio Moody e Neville aveva sorriso. “Le Patil e la Taylor sono riuscite a tenere il Cerchio di Brodgar sollevato per tre minuti.”
Hermione tenne la testa sulle braccia intrecciate, i gomiti premuti sulle ginocchia, e non alzò lo sguardo. Si sentiva stanca: stanca di una stanchezza vibrante, fremente, che le impediva di dormire, stanca e troppo leggera, insieme troppo piena e troppo vuota, stanca come non era stata stanca mai. Dalle scale si sentivano le voci che provenivano dal piano di sotto, da quello di sopra, i lamenti e i pianti, il suono dell'Ordine e dell'Esercito che si contavano e che si trovavano decimati.
Amos Diggory era morto; con lui era caduta Katie Bell, che si era rifiutata di non prendere parte alla battaglia malgrado le ferite che aveva già riportato a Newcastle, era caduta Emma Lee Carlisle dell'Ordine, Anthony Finnegan dell'Esercito, e poi gli altri, tutti gli altri, tutti quelli dei quali Hermione non conosceva il nome, tutti quelli che erano morti perché Maeshowe potesse essere aperta.
“Non bastano,” disse Hermione.
Non ebbe bisogno di girarsi per sapere che Neville la stava guardando.
“Sono bastati,” replicò lui.
“Adesso Voldemort sa che possiamo farlo.” Sentendo di avere la voce rauca e graffiata, la gola troppo secca, Hermione si leccò le labbra asciutte. “Sarà pronto, la prossima volta.”
Dean Thomas e Jordan Lee avevano riportato ferite tanto gravi da costringere gli altri a trascinarli via dal campo di battaglia. Seamus Finnigan era stato dichiarato disperso – ed erano passate ore dalla fine della battaglia, troppe ore, tutti cominciavano a chiedersi se i Mangiamorte non l'avessero preso, se non l'avessero loro, adesso, se sarebbe ricomparsa presto un'altra pelle appesa alle porte di Diagon Alley, un'altra testa in un cesto, un altro corpo fatto a pezzi mentre respirava ancora. Hestia Jones avrebbe perso probabilmente l'uso di una mano. Nessuno sapeva se Arthur Weasley sarebbe sopravvissuto: quando l'avevano tolto dalle mani dei Dissennatori, uno di questi aveva già avuto la bocca spalancata.
“Hermione...” mormorò Neville. Lo mormorò con gentilezza, e fu la gentilezza a causare il crollo di lei: che sentì le cose creparsi e franare nella sua testa, tutto il panico e il terrore e il senso di colpa e l'angoscia, i ricordi come flutti di marea, come un'inondazione, e non c'era niente a trattenerli adesso che la diga delle cose da fare si era esaurita.
Dean, Jordan, Seamus, Arthur, Arthur, Arthur, Katie e Amos ed Anthony ed Emma e tutti gli altri a cui non riusciva a dare un nome, una faccia, e se ne vergognava, adesso, si vergognava di non riuscire a ricordarli tutti, perché tutti quelli che erano caduti, che forse sarebbero caduti, erano morti e stavano forse morendo perché Harry potesse essere salvato, e lei l'aveva lasciato indietro, Harry, l'aveva lasciato, non c'era stato nessuno a salvare Harry per tre anni, nessuno che sapesse che era vivo, che respirava, che stava continuando a respirare a Maeshowe e che respirava da solo, che Ron era tornato indietro per aiutarlo ed Hermione non l'aveva fatto.
Sentì le lacrime colarle sul viso e la gola vibrarle per i singhiozzi e cercò di non fare troppo rumore – c'erano altri che piangevano, al piano di sopra, quelli che avrebbero seppellito qualcuno quella sera – quando Neville le afferrò le spalle e la tirò verso di sé. Hermione gli affondò la testa nel collo. Cercò di non pensare. Di non ricordare. Jordan e George e Fred con la testa china su una tarantola. Dean su un manico di scopa, l'anno in cui Harry e Ginny avevano avuto mesi di luce da passare insieme, Arthur sempre così buono, così sereno, Amos che aveva portato ancora il lutto del suo ragazzo, il primo a morire, il primo, che Voldemort aveva ucciso prima ancora che la guerra iniziasse, Katie, oh, Katie. Katie.
“E' andato tutto per il meglio, Hermione,” disse Neville. Glielo bisbigliò dritto dentro un orecchio, forse nella speranza che così lei riuscisse a sentirlo ed a capirlo. “Siamo sopravvissuti. Siamo ancora qui.”
Siamo ancora qui, le stava dicendo Neville, stiamo ancora combattendo. Non ci siamo arresi. Non abbiamo perso la speranza.
Il ricordo della speranza era il ricordo dei Dissennatori sul lago nero di Hogwarts, in una notte con troppa luna e troppo tempo, quando il Patronus di Harry aveva tagliato in due il buio.
“E' vivo,” singhiozzò Hermione, piano, soffocando la voce contro la giacca di Neville. “Era ancora vivo, io non lo sapevo, non lo sapevo, lo giuro, non sapevo...”
Neville continuò ad accarezzarle la testa e non disse niente.

Avevano mandato Luna da Harry. Luna era arrivata, con la sua gonna viola ancora sporca di sangue dopo la battaglia di Hogsmeade, e gli aveva preso le mani, l'aveva toccato e gli aveva parlato e, quando era uscita, aveva detto che certo Harry avrebbe potuto stare peggio. Madama Chips aveva ribattuto che difficilmente Potter avrebbe potuto stare peggio, ma Hermione aveva pensato a quelli che avevano trovato in pezzi, a quelli che non avevano trovato affatto, a Severus e a Ginny. Sentiva d'essere personalmente d'accordo con Luna.
Harry era magro come un bambino denutrito, le giunture troppo gonfie, l'addome tirato, le costole in perfetta evidenza anche sotto ai vestiti pesanti in cui l'avevano infilato. Aveva una linea di lividi freschi sul braccio destro e la gamba sinistra che pareva essere stata rotta e poi rinsaldata con l'osso nella posizione sbagliata; la pelle era cicatrizzata in punti dove Hermione non aveva saputo in precedenza che si potessero creare cicatrici, era bianco del bianco che hanno i corpi chiusi al buio per anni ed anni ed anni, e sembrava che tutto quel buio e quel silenzio gli avessero danneggiato la vista e l'udito.
Harry non parlava. Sibilava, questo sì: sembrava dimenticarsi che nessuno poteva capirlo, a volte, ed allora apriva bocca e tutto quel che gli usciva erano una lunga serie di sibili sordi che davano i brividi, ed Hermione sapeva – tutti sapevano – che cos'erano quei sibili, e sapeva che nessuno poteva capirlo e sapeva – credeva di sapere – perché Harry non riuscisse a parlare una lingua diversa dal Serpentese, e quella conoscenza, quel sapere che Hermione riusciva ad immaginare, le dava una sensazione di nausea tanto forte da essere quasi fisica.
Harry era – Harry era vivo. Harry c'era ancora. Harry era : e respirava e pensava ed aveva sorriso ad Hermione prima che si Smaterializzassero fuori da Maeshowe. Hermione si aggrappava a quel sorriso come alla possibilità che qualcosa, forse, potesse ancora essere salvato.
Da Hogsmeade era tornato un esercito decimato: stavano ancora contando i morti, quelli che erano rimasti sul terreno, i feriti e quelli che forse non si sarebbero ripresi, ma già i primi che erano rientrati avevano cominciato a passare davanti alla camera dove Harry stava dormendo, alla spicciolata, al principio, uno alla volta, e poi senza neanche far finta di essere lì per caso, accalcandosi sulle scale e guardando la porta chiusa della stanza.
Hermione cercava di non pensare al fatto che quella sfilata dopo la battaglia assomigliasse tanto ad un pellegrinaggio.



Bill e Charlie ricomparvero ventiquattr'ore dopo la battaglia di Hogsmeade. Avevano con sé una coppa d'oro vecchio, piccole ustioni sulle mani e sulle braccia ed un'espressione di soddisfazione fosca sul viso. Hermione non ebbe bisogno di chiedere per sapere che la spedizione alla Gringott era andata bene e che c'era un Horcrux di meno da trovare, adesso.
Lo bruciarono come avevano fatto con il Medaglione, e Bill e Charlie raccontarono che era stato Fletcher ad aiutarli a scappare. Non ce l'avrebbero fatta, se non fosse stato per lui. Aberforth Silente era uscito dal suo locale nel mezzo della battaglia di Hogsmeade per mettersi al fianco dell'Ordine, e così adesso era stato riconosciuto, era un ricercato, e aveva dovuto cercare rifugio a Grimmauld Place insieme a tutti gli altri. Seamus ricomparve il mattino successivo, ferito e ammaccato e straordinariamente vivo; trovandosi accerchiato e troppo stordito per Smaterializzarsi, si era nascosto in una cantina vuota di Hogsmeade finché non era stato in grado di filarsela. Arthur sembrava stesse meglio. Si era svegliato. Si stava riprendendo. I Dissennatori non dovevano avuto il tempo di somministrargli il Bacio.
Sembrava come un mattino di primavera, pensò Hermione, come un mattino di primavera dall'aria più lieve e piena di cose buone, possibilità, speranze. Neville le spinse davanti un bicchiere di latte, a colazione, e le posò una mano sulla spalla.



Lavanda aveva somministrato ad Harry una mistura di infuso di Verbena e Pozione Soporifera per essere certa che dormisse, e Piton aveva insistito perché si aggiungesse qualche goccia di Distillato della Pace al composto. L'avevano messo nella stanza accanto a quella di Ginny, in un letto pulito, con coperte pulite e lenzuola pulite ed un pigiama pulito. Hermione aveva tirato via i cuscini del divano e glieli aveva messi tutti intorno – perché Harry continuava a sussultare e tremare, nel sonno, ed ogni posizione pareva causargli dolore dopo pochi minuti. La linea di cicatrici nuove che gli scorreva su un lato della gola ed andava a sparire sotto la maglia contrastava stranamente con la biancheria liscia del letto; la cicatrice a forma di saetta era rossa e gonfia all'attaccatura dei capelli.
Harry dormiva e dormiva, ed Hermione rifiutava di allontanarsi dalla sua stanza. Si era fatta convincere a scendere in cucina per mangiare qualcosa al mattino e alla sera, brevi pause dalle quali ritornava di corsa, nervosa, senza riuscire a persuadersi che non c'era rischio che Harry le sparisse di nuovo da sotto agli occhi. La rassicurava il fatto di non essere sola in questo: Remus continuava a fare avanti e indietro ad intervalli regolari come quelli di un pendolo, su e giù per le scale, per fermarsi nella stanza di Harry, e Molly Weasley aveva passato la notte seduta su una seggiola di fronte al letto.
Doveva essere destino, perciò, che nel momento in cui Harry finalmente si svegliò e aprì gli occhi non ci fosse nessuno a vederlo alzarsi.
Hermione, che tornò in camera con un bicchier d'acqua solo per trovare il letto sgombro e la stanza deserta, si dovette appoggiare ad una parete, barcollando, con l'orribile, allucinante impressione di aver sognato tutto. Non avevano salvato Harry. Non c'era nessun Harry da salvare, l'aveva immaginato, l'aveva solo immaginato...
Sentì qualcosa muoversi nella camera accanto e si mosse ciecamente, spinta dai propri piedi più che dalla propria testa, fuori nel corridoio e poi nell'altra stanza.
Harry era seduto accanto al letto di Ginny. Con le mani sulle ginocchia, la schiena curva in avanti e i piedi scalzi, non pareva essersi accorto dell'ingresso di Hermione. Teneva gli occhi fissi sulla ragazza sul letto, l'espressione indecifrabile; alzò un braccio, dopo un momento, e le sistemò una ciocca di capelli rossi dietro ad un orecchio, lontana dagli occhi e dal naso, con un gesto di una delicatezza insostenibile. Hermione sentì qualcosa spezzarlesi dentro: fece male, ma il dolore parve, per una volta, netto e pulito, lacerante come un taglio, come una frattura, senza residui.
Scivolando nella stanza, Hermione sollevò un'altra sedia e la posò accanto a quella di Harry, lasciandosi cadere seduta vicino a lui; così vicina che le loro ginocchia si toccavano quasi.
“Ciao, Harry.”
Harry si girò e le sorrise.





Note: Di nuovo, le prime righe sono tutte per ringraziare duedicoppe, che ha betato anche questo capitolo a tempo da record. Un buon dodici per cento del completamento di questa storia, per chi volesse cogliere la citazione, è dovuto solo a lei.

Lo scacco è la minaccia diretta al pezzo del re negli scacchi; quando è matto, determina la partita.

E anche questa settima e penultima parte di Come (non) doveva andare è conclusa. Con la prossima storia si tireranno le fila, si chiuderanno le trame e si darà un finale al tutto. Non è detto che non decida in futuro di aggiungere altri pezzi alla serie, one-shots o anche scene più lunghe, ma al momento non mi sembra probabile. La settimana prossima aggiornerò La strada sbagliata, per chiudere il mese delle domeniche buie.
Preavviso che l'ultima storia di Come (non) doveva andare probabilmente apparirà prima dell'anno prossimo; non vorrei mostrarmi troppo fiduciosa nel dire che è possibile compaia prima della fine dell'estate, ma...

Ringraziando ancora una volta tutti quelli che si sono fermati a lasciarmi un'opinione, un pensiero, quelli che stanno seguendo questa storia verso la fine - con la speranza che questo capitolo non vi abbia deluso.

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