Dragon Ball NG - hellgate

di Sarah Shirabuki
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** prologo ***
Capitolo 2: *** capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** prologo ***


Si destò.

L’irreale giaciglio in cui aveva riposato scomparve con una lenta dissolvenza, la sua forza vitale che tornava a ripopolare quell’universo di materia plasmabile in cui sembrava costantemente di nuotare.

Non sapeva dire per quanto avesse dormito. Forse un’ora, o un giorno, forse anche per un milione di anni. Non avrebbe mai potuto usare quel metro di valutazione, giacché, nel mondo in cui si trovava, il tempo non aveva misura. Lì, in quell’universo parallelo dove le anime giungevano inconsapevoli al finire dei loro giorni, il tempo non aveva né inizio né fine, solo un’inafferrabile estensione verso l’eternità.

E lei, a cui sulla Terra era stato dato il nome di Chichi, sapeva bene che anche la sua stessa consistenza era puramente effimera, che ciò che veramente aveva portato con lei dalla sua vita precedente non era nient’altro che un’anima incorporea. E sapeva che, come tutti gli altri abitanti dell’aldilà, per mantenere un aspetto antropomorfo, per pensare ed agire tramite esso, doveva ricaricarsi periodicamente in un letargico sonno plasmante.

Attraversò la deserta e silenziosa spianata, ombreggiata da tinte blu cobalto, come fosse eternamente e costantemente immersa in un tardo crepuscolo. Il vasto Lago di lacrime si allargava, irrealmente calmo ed immobile, per buona parte della visuale, accogliendo sulle proprie acque l’elegante Hotel Limbo. Il trasparente gazebo dell’ala sud, attualmente vuoto, attendeva l’arrivo di qualche anima temporaneamente sospesa tra i due mondi, il cui destino sarebbe stato deciso da una cruciale partita a scacchi.

Lei non aveva avuto occasione di provare quell’esperienza. Quando era giunto il suo momento, il filo si era spezzato piuttosto rapidamente, senza darle il tempo di combattere.

Si affacciò appena sulla sponda del lago, ammirando la sua immagine riflessa. Lunghi capelli d’ebano, occhi scuri, pelle liscia e senza rughe, corporatura tonica e snella. Dal momento che, in quel mondo, tutto poteva assumere la forma desiderata, erano quelle le sembianze che aveva scelto per se stessa: la giovane donna che era stata molti anni prima di arrivare lì, prima che i segni del tempo si facessero vedere, quando ancora la solitudine e la malinconia erano sensazioni lontane, ed il sogno d’amore che aveva scelto di vivere sembrava solo una piacevole avventura.

Ed ecco profilarsi, dall’altra parte del limbo,il palazzo di Re Enma, maestoso in tutta la sua grandezza, quello che aveva visto comparire davanti ai suoi occhi la prima volta che aveva messo piede in quell’universo parallelo. Era un giudicatore severo e scrupoloso, Enma, signore dei morti, immane con le sue dimensioni esagerate e la sua folta barba nera, ma anche dotato di un fiuto particolare: aveva capito che alcune di quelle creature vissute sulla Terra, di cui lei era stata l’ultima arrivata, non potevano semplicemente essere spedite da una delle due parti, quella dei buoni o dei cattivi. Poiché in vita avevano avuto un ruolo nella salvezza del pianeta, adesso ne avrebbero avuto uno come shinigami, guardiani dell’oltretomba appositamente scelti dal sovrano.

Al bancone dell’immerso archivio, intenta a scrutare con attenzione lo schermo di un computer, sedeva concentrata la Bulma dei suoi ricordi più lontani: luminosi capelli azzurri, occhi chiari e perspicaci che un tempo erano appartenuti alla donna più ammirata del pianeta, labbra morbide e rosse su un viso giovanile dai tratti perfetti. Unica differenza, una rotonda e luminosa aureola sospesa magicamente sopra la sua testa, simbolo della sua meritata beatificazione.

Come poteva, il grande Enma, non aver scelto lei come archivista dell’enorme libro dei morti, il cui contenuto era ora stato efficientemente trasferito in un più moderno software, più velocemente consultabile e aggiornabile?

“Salve, Chichi” la salutò, sollevando appena gli occhi dalla tastiera, ma accogliendola con un aperto sorriso. “Sei in piena forma! Il riposo deve averti ricaricato bene!”.

“Ne avevo proprio bisogno, dopo che la tua dolce metà mi ha ridotto ad uno straccio!” sbuffò Chichi, incrociando le braccia al petto. “Doveva essere solo una simulazione di rissa negli inferi, un modo per allenarsi a domare queste situazioni, ma il principe ha pensato bene di approfittarne per impartirmi una lezione massacrante! Mi era rimasta così poca forza vitale che i miei vestiti si stavano quasi dissolvendo!”.

Bulma rise di gusto, i denti bianchissimi che riflettevano la luce chiara della stanza e gli occhi che scintillavano come perle d’acqua, pensando al suo Vegeta nelle vesti inusuali di mentore dalla pazienza limitata e privo di senso della moderazione.

Chichi, guardandola, a volte aveva l’impressione di tornare indietro nel tempo, quando erano entrambe ancora sulla Terra. Il tempo di una Bulma migliore, quella che, dall’alto della sua presunzione e testardaggine, caratteristiche che Chichi non aveva mai mancato di criticare, si era trovata a dare un senso alla sua vita tramite l’amore di quel burbero individuo venuto dalle stelle. Un tempo sicuramente migliore di quello in cui il destino glielo aveva strappato via, inaspettatamente come glielo aveva mandato.

Era ancora in vita, quando era successo. L’aveva vista cadere in un irreversibile stato depressivo, fino ad abbracciare la completa follia, facendo intorno a lei tabula rasa di chi, rimasto, avrebbe voluto più di ogni altro aiutarla. L’aveva vista infine tendere la mano verso il suo principe, ansiosa di abbandonare quel mondo, che ora non più le apparteneva, per ricongiungersi finalmente a lui, dove avrebbe ritrovato la pace.

Chichi, invece, non aveva avuto bisogno di lasciarsi morire. Le sue già precarie condizioni di salute ed il suo povero cuore malandato le dicevano che non avrebbe dovuto aspettare molto. Bastava attendere pazientemente, così come aveva atteso per tutta la vita i fugaci ritorni dell’uomo che amava, perché presto, finalmente, sarebbe stata lei a raggiungerlo.

Ma così non era stato, perché il suo Goku, questa volta, non era mai giunto al cospetto di Enma.

“Come procede oggi il lavoro?”.

“In realtà, non ci sono molti nuovi arrivi, in questo periodo!” rispose Bulma, mettendo in pausa il computer. “Sembra che ultimamente non muoia più nessuno!”.

“Non mi stupisce, con tutto il progresso di oggigiorno, sulla Terra ci sono sempre più comodità e la gente campa per più di cent’anni! Tutta quella roba tecnologica non è affatto per me, fortuna che me ne sono andata già da un po’!”.

Bulma sorrise, anche se adesso lavorava da guerriera, chi aveva davanti restava sempre la Chichi tradizionalista di un altro tempo e di un altro mondo.

“Non posso darti torto” ammise. “Ma si dà il caso che per noi qui nel Limbo è crisi, visto che oggi non ho da registrare nessun morto mi sono addirittura messa a cambiare stile di scrittura ai file, tanto per ammazzare il tempo! Di questo passo Enma mi manda in cassa integrazione!”.

Chichi la salutò velocemente, recuperando poi il trasparente scouter che posizionò accuratamente davanti agli occhi come un paio di occhiali. Un altro stupido aggeggio tecnologico, ma indispensabile per la comunicazione tra shinigami in quell’infinito mondo dell’aldilà.

Fu il volto di Crili, infatti, incorniciato da bizzarri capelli scuri ma privo del paio di baffi che avevano caratterizzato i suoi ultimi anni, che apparve rapidamente sul piccolo schermo, l’espressione lievemente sottomessa e gli occhi che scrutavano intorno a lui timorosi.

“Scusami, Chichi, ma volevo avvisarti che Vegeta si sta chiedendo dove eri finita” le disse, mortificato. “Dice che il settore tre del quinto girone è rimasto scoperto, ha già assegnato a me, a Yamcha e a Ten dei turni doppi e la mia 18, che ha provato a protestare, è stata mandata a presidiare il penultimo!”.

“Ma che impertinente! Arrivo subito!” esclamò, chiudendo la comunicazione.

Quel maledetto Vegeta. Aveva sempre fatto il despota durante la vita, e adesso pretendeva anche di giocare al capo shinigami. Se non fosse che aveva necessariamente bisogno delle sue lezioni, gliene avrebbe dette di santa ragione!

Arrivò finalmente all’incrocio del Limbo, davanti a cui il destino delle anime si divideva per sempre, ma non quello degli shinigami, che avevano pressoché libero accesso in ogni luogo al fine di poter svolgere il loro lavoro.

Si girò distrattamente verso l’imboccatura destra, al termine della quale un grosso portone azzurro recava, incise d’oro, parole piacevoli ed invitanti:

SALVE, OH BEATI, CHE AVETE MERITATO DI RIPOSARE NELL’ETERNO GIARDINO.

Davanti ad esse v’era una giovane Lunch nata dalla bizzarra fusione delle sue due identità, i capelli e gli occhi diventati una bicromia dei colori che le caratterizzavano, unendosi finalmente e consapevolmente in quella sola figura femminile, che ora, beatificata, aveva avuto l’onere di portiera del paradiso.

“Ciao Chichi, devi entrare per il giro di routine?” le chiese, vedendola volta in quella direzione.

“No, il dovere mi chiama nel quinto girone!”.

Non poteva fare a meno, ogni volta che passava di lì, di gettare un’occhiata verso quell’imponente portone, immaginando i vivaci colori di quell’infinito prato coperto di fiori e irrigato da sonnolenti ruscelli, sotto quel fittizio cielo costantemente sereno.

Le era permesso di varcare quella soglia, in fondo era una shinigami, ma lì, in quelle verdi e pacifiche vallate, non avrebbe mai riposato. Non perché le fosse stato negato il paradiso, ma perché lei stessa aveva scelto di far parte dell’oscuro regno degli inferi. Era per questo che, al posto di una dorata aureola, ai due lati della sua testa spuntava un temibile paio di corna.

Si diresse verso l’altra imboccatura, quella di sinistra, dove un serioso Junior presiedeva un altro alto portone, questa volta tetro ed oscuro nel suo inquietante messaggio:

ENTRATE SVELTI, DANNATI INFERNALI, LA VOSTRA PENA ETERNA VI ATTENDE!

Non aveva mai provato eccessiva simpatia per quell’austero e indecifrabile namecciano, nonostante, sulla Terra, fosse stato un amico prezioso per il suo Gohan e avesse fatto da maestro ad un piccolo Goten. Ma adesso, inevitabilmente, se lo sarebbe ritrovato davanti ogni volta che avrebbe attraversato quella soglia, passaggio che, per i normali dannati, avveniva solo una volta ed in una sola direzione.

“Mi sembra che tu abbia una certa fretta” notò il namecciano, senza scomporsi. “Dovresti deciderti ad usare il teletrasporto come tutti noi, invece che costringermi ad aprire il portone ogni volta, è piuttosto rischioso”.

“Oh, quante storie!” brontolò lei, ansiosa di passare. “Fosse per te, dovrebbe essere in arrivo una catastrofe ogni santo giorno!”.

“Non sono storie” affermò solenne. “Se permetti, io sono qui da più tempo di ognuno di voi e so bene che, anche nell’oltretomba, non c’è mai da fidarsi di nessuno”.

Chichi lo superò, le porte ora finalmente spalancate, entrando infine in quel cupo mondo che era l’inferno. La visibilità era piuttosto limitata, anche a causa delle alte pareti rocciose che delimitavano ogni girone, le quali proiettavano sotto di loro un’inquietante ombra sfaccettata, ma ormai, anche grazie agli scouter, aveva imparato ad orientarsi senza problemi.

Avrebbe potuto raggiungere il quinto girone attraverso la scoscesa scarpata che collegava ogni cerchio a quello sottostante, ma preferì, in questo caso, far uso della piattaforma quadrata che si trovava all’ingresso, attivabile tramite il sigillo di Enma. In un attimo il veloce teletrasporto la proiettò nel settore prescelto, dove la sua figura venne rapidamente ricomposta.

Davanti ai suoi occhi, mani incrociate al petto e sguardo tagliente e accusatorio, il principe dei sajan l’attendeva in silenzio, le due terrificanti corna puntate in avanti, quasi a volerla infilzare.

“Non dire niente!” lo anticipò Chichi, puntando il dito verso di lui. “Avevo bisogno di ricaricarmi dopo il tuo maledetto allenamento! E’ colpa tua se hai voluto divertirti a farmi quasi morire un’altra volta!”.

“Che vergogna” commentò stizzito il sajan. “Con che esseri mi sono ritrovato a lavorare…una donna intrattabile e chiassosa…tre emeriti buoni a nulla…per non parlare poi di quella cyborg, peccato che, quando si è disattivata i circuiti per raggiungere il tappetto, la sua anima non l’abbia seguita nella discarica di macchine usate!”.

“Ma come ti permetti, presuntuoso di un sajan che non sei altro! Pretendi di impartire ordini e di criticare gli altri, quando tu, tra di noi, sei quello che ha più colpe da scontare, laggiù nel fuoco perpetuo!”.

Vegeta la fissò per qualche secondo, mentre un sorrisetto tagliente compariva sulla sua faccia mascolina:

“Oh, giusto, sai che quasi dimenticavo…” approvò sarcastico. “Anche tu sei perfettamente pulita, potevi avere l’aureola proprio come il tappetto, l’inetto predone e l’irritante triclope, ma allora perché mai hai scelto di finire in questo luogo di peccato e di chiedere al sottoscritto, a cui sei sempre stata a debita distanza, di insegnarti i segreti del mestiere?”.

Chichi allontanò gli occhi corvini, sostenere lo sguardo fermo del principe era una bella sfida anche per una come lei, senza contare che, senza volerlo, quella conversazione stava dannatamente degenerando.

“Ah, forse ci sono!” esclamò infine Vegeta, fingendo di esserci arrivato solo allora. “Non sarà mica perché, arrivando qui, non hai trovato chi ti aspettavi, decidendo così di fargliela pagare?”.

La donna sospirò arresa, di fronte all’esplicita evidenza. Aveva sempre affermato di aver fatto quella scelta perché, senza il suo Goku, il paradiso sarebbe stato solamente un luogo triste e noioso. Ma tutti sapevano, in realtà, che il vero motivo era un altro. Che si era unita al mondo dei dannati per semplice, infantile ripicca verso il sajan che aveva amato in vita e che purtroppo continuava disperatamente ad amare, giacché quel sajan l’aveva di nuovo tradita.

“Ogni occasione è buona, vero Vegeta, per portare in ballo le pecche del tuo rivale!” era riuscita a dire, risentita.

“Io non ho più niente contro Karoth, volevo solo riuscire a sfidarlo un’altra volta, sei tu l’unica che gli serba rancore!” osservò. “E comunque, il tuo tono di voce mi ha già infastidito abbastanza, torna nel limbo, qui ci penso io!”.

Chichi lo guardò sorpresa, ma si affrettò senza discussioni a tornare rapidamente sui suoi passi. Mai non approfittare delle rare concessioni del principe.

Usò di nuovo il teletrasporto, questa volta proiettandosi direttamente nella Residenza, la spaziosa costruzione limbica dove gli shinigami trascorrevano le loro ore libere in una critica, precaria convivenza. In quel momento, per suo grande sollievo, era l’unica occupante, senza quel solito martellare di perenni voci in disaccordo.

Si sedette sul candido divano, adesso piacevolmente vuoto, per poi attivare con un pulsante il grande schermo a parete, unica finestra verso quel fuggevole mondo che aveva ormai lasciato da molti anni.

 

Continua…

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Capitolo 2
*** capitolo 1 ***


Era tutta un’allegria di colori per le strade di Satan City, quella mattina di Maggio.

Il cielo era di una limpidezza estrema, su in alto, a fare da sfondo agli innumerevoli edifici che proiettavano in alto la città, facendo da ombra al viavai di persone che, ormai vestite di abiti leggeri, si incrociavano frettolose davanti ai negozi, agli uffici e alle banche. Ma c’erano anche tanti parchi, a Satan City, tante isole verdi decorate dai deliziosi alberi in fiore che, insieme alla lenta e suggestiva danza di polline, mandavano nell’aria un piacevole profumo.

Ed era appunto il dolce odore di fiori di ciliegio che raggiunse il bel nasino della ragazza, facendola inspirare profondamente, a pieni polmoni. Era un vero toccasana, dopo la quotidiana ora di volo da West City.

Fackel Brief adorava la primavera. Adorava i profumi, i colori, le temperature più calde ma non troppo, i sorrisi più aperti della gente. I suoi coetanei, in più, avrebbero detto di attenderla con ansia anche per l’avvicinarsi della fine di un lungo anno scolastico.

Ma Fackel non l’attendeva con ansia. Per quanto fosse la sua stagione preferita, la sua semplice logica diceva che reclamarla costantemente non sarebbe servito a farla arrivare prima. Le stagioni, come tutte le cose del suo mondo, avevano un ciclo prestabilito, una durata fissa, un inizio e una fine. Variabili, piacevoli o spiacevoli che fossero, da inserire dentro un’ inconfutabile, rassicurante equazione.

Attraversò a passo svelto l’ultimo incrocio, per poi trovarsi davanti agli occhi la lussuosa villa che si stagliava alla fine di quel tranquillo viale residenziale, delimitato da palme.

Qualcuno, dal giorno prima, aveva accuratamente tagliato la siepe del giardino. Fackel sorrise tra se, pensando all’immagine del Campione del mondo, ormai in carica indisturbata da più di vent’anni, in vesti di meticoloso giardiniere, con tanto di forbici e falciatrice. E magari, invece della tuta da lavoro, l’immancabile e simbolica divisa da combattimento.

Suonò il campanello, dall’esterno della bella cancellata in stile barocco, netto ma piacevole distacco dall’architettura moderna che anche quella città aveva assunto negli anni.

Una testa bionda si era prontamente affacciata dal portone, rivolgendo un solare sorriso alla giovane. Era avvolta in una lunga vestaglia blu ed il volto, benché stanco, senza trucco e con i primi piccoli segni di anzianità, conservava ancora la dolcezza e la morbidezza che appariva nelle vecchie foto dei suoi.

“Buongiorno, tesoro” le disse calorosamente, nonostante la voce assonnata.

“Buongiorno, Marron” le sorrise la ragazza. “Turno di notte, ieri sera?”.

“Esatto!” ammise lei, scrollando le spalle. “Nebe arriva subito, ormai si è abituato alla tua straordinaria puntualità!”.

E non poteva darle torto. Tutte le mattine, alle otto e trenta in punto, dopo aver volato a media velocità da West City e dopo un indifferente atterraggio in qualche vicolo nascosto della città, dove si aggiustava rapidamente le ribelli ciocche lavanda, era pronta per avviarsi verso il prestigioso liceo Orange Star in compagnia del suo più caro amico d’infanzia.

Piacevole quotidianità.

“Eccomi, sono pronto!” esclamò Nebe, uscendo frettolosamente dal portone, una manica della felpa ancora da infilare e le scarpe sciolte, con i quaderni sotto il braccio che cadevano goffamente a terra per mancanza di sostegno.

Fackel rise divertita, portando una mano alle labbra.

“Rilassati, Nebe! Non perdiamo nessun treno!” esclamò. “Puoi finire con calma di vestirti!”.

Il ragazzo sospirò, appoggiando sul muricciolo laterale il disordinato carico scolastico. Nel volto, che riprendeva in parte il colorito del padre e la delicatezza dei tratti della madre, si delineò un sorriso dubbioso mentre, inginocchiatosi per allacciarsi le stringhe, aveva alzato gli occhi su di lei. Occhi incorniciati da fini occhiali, a parer di lei completamente inutili, visto che in realtà, come il suo fratello gemello, ci doveva vedere benissimo.

“Sei tu che ci tieni a rispettare gli orari, te ne sei dimenticata?” le chiese, senza ombra di scocciatura, ma solo con quella voce bassa e gentile con cui sempre le si rivolgeva. Lo conosceva talmente bene da sapere anche cosa doveva frullargli nella testa in quel momento:

Come cavolo fa Fackel, che abita dall’altra parte del continente, ad esser sempre sveglia e pimpante prima di me che abito a mille metri dalla scuola?

Quello che non capiva, invece, era perché mai Nebe si ostinasse ancora ad adeguarsi ai suoi ritmi che così spesso sembravano gettarlo nel caos. Non gli aveva mai fatto pressioni, eppure ormai era diventata una naturale consuetudine andare a scuola insieme. A dire la verità, era una consuetudine fare insieme tutto, ormai.

Decise di limitarsi a sorridere.

“Zeme è già uscito?”.

“Già…” rispose lui, recuperando i quaderni. “Jogging mattutino…cos’è quello?”.

Il suo sguardo era caduto sul fascicolo bianco che la ragazza teneva in mano, accuratamente rilegato e introdotto da un titolo di copertina che a Nebe fece quasi venire la pelle d’oca.

“Astrofisica applicata” rispose candidamente Fackel, mentre si avviavano lungo il viale. “E’ il progetto di fine anno per il professor Rayan. Ci ho passato la notte a finire gli ultimi dettagli…sai, le equazioni differenziali e le integrazioni tornavano tutte, era l’impaginazione che non mi convinceva!”.

Nebe scosse arrendevolmente la testa. Ormai niente di quella ragazza riusciva più a sorprenderlo.

“Non lo trovi…un po’ elaborato come progetto da studentessa di liceo?” chiese cautamente.

Fackel sospirò, mentre alzava la testa verso la frizzante brezza primaverile.

Diciassette anni, penultimo anno di liceo, e una mente che anche i luminari dei più prestigiosi atenei stentavano a possedere. Era un semplice dono di natura, una facoltà in più dell’essere sajan, qualcosa che poteva facilmente etichettarle l’appellativo di ragazza prodigio. Ma lei non voleva esserlo. Era da molti anni che non lo voleva più. Avrebbe potuto saltare il liceo e passare direttamente all’università, ma tutto ciò che desiderava, in realtà, era solo essere una ragazza come le altre, una studentessa che celava le sue vere capacità dietro una più semplice e comune fama di prima della classe. Voleva solo vivere la sua adolescenza…niente di più e niente di meno.

Ma quella era…

“Quella è la prova per la valutazione finale!” rispose, mentre l’amico scorreva con espressione incomprensibile le pagine del fascicolo. “E quello è il professor Rayan, professore di fisica, che come ben sai è la mia materia preferita. Mi sono solo sbizzarrita un po’…vedrai, non immaginerà mai che quelle deduzioni sono opera mia…penserà che ho fatto solo un’accurata ricerca in rete e una brillante relazione!”.

Continuarono a passeggiare lungo lo spazioso marciapiede, solleticati dal giocoso turbinio di polline, mentre il grande edificio del liceo Orange Star cominciava a stagliarsi dietro l’angolo e le voci dei loro coetanei si levavano alte nell’aria, sovrastando suoni di clacson e motori.

Nebe camminava silenzioso, gli occhi fissi sui suoi piedi con sguardo vagamente pensieroso. Rallentò infine il passo, voltandosi lentamente verso di lei.

“Fackel…” mormorò. “Ma non è che tu…che tu hai una…”.

“Una cotta per il professor Rayan?” lo anticipò lei, divertita dalla sua stessa risposta.

Nebe, figlio del famoso Ub, era al pari di suo padre straordinariamente prevedibile. Era per questo che si era sempre trovata bene con lui.

“Andiamo, non dire sciocchezze!” continuò la ragazza, ridendo, mentre lui allontanava lo sguardo. “Non nego che sia un uomo affascinante, ma ciò che mi interessa è solo il giusto riconoscimento alle mie teorie…visto che ancora non posso pubblicarle in riviste scientifiche!”.

Nebe accennò un mezzo sorriso, aggiustandosi distrattamente gli occhiali sul naso, mentre dall’interno della scuola, puntuale come un orologio, risuonava la musica metallica delle prima campanella.

 

La grande aula magna dell’università di West City era delicatamente accarezzata da tiepidi raggi solari, che, filtrando timidamente attraverso le tapparelle delle alte finestre, creavano una piacevole atmosfera ovattata nella voluta semioscurità della stanza. Solo la spaziosa cattedra di legno rifletteva la fluorescenza dell’enorme schermo a parete a lato di essa, sul quale si alternavano complesse formule matematiche, mentre il pubblico di studenti, distribuito nelle ultime e più alte file dell’aula circolare, era solo debolmente rischiarato dalle sporadiche macchie di luce, nascondendosi da esse nell’ansiosa attesa del proprio turno d’esame.

Il professor Ross, uno dei più pretenziosi e severi docenti della facoltà di ingegneria, annuiva con interesse, seguendo l’esposizione del giovane studente al di sopra degli occhiali scivolati sulla punta del naso. Uno dei due assistenti, che sedevano alla cattedra ai lati del professore, fissava con stupore la risoluzione del problema che, attraverso un semplice proiettore, veniva trasmesso allo schermo gigante, mentre l’altro scarabocchiava distrattamente il foglio che aveva davanti, consapevole che, ai suoi tempi, difficilmente avrebbe saputo rispondere ad una domanda del genere.

“Può bastare così, signor Brief” annunciò infine l’anziano professore. “Il suo esame è stato più che soddisfacente. Un altro trenta e lode a confermare il suo ottimo curriculum accademico”.

Il ragazzo sorrise debolmente, alzandosi in piedi e stringendo la mano del professore e degli assistenti, che si preparavano ad annotare il suo voto sul libretto universitario. Non il sorriso entusiasta ed eccitato di chi ha avuto un piacevole successo, come sarebbe stato per la maggior parte degli studenti dietro di lui nell’ottenimento di un risultato del genere, ma l’espressione consapevole di chi, fin dall’inizio, sa che l’unica conclusione accettabile è solo e solamente quella.

Perché era così che Lux Brief concepiva i progressi negli studi. Non un successo personale, non un traguardo da sfoggiare con orgoglio, ma solo, né più né meno, l’adempimento del proprio dovere. Solo un modo come un altro per far degnamente parte di quel maledetto mondo.

Si allontanò dalla cattedra, mentre un altro studente veniva chiamato e si accingeva a raggiungere timidamente il trio di esaminatori. Una volta fuori dall’aula, richiusosi dietro le spalle la grande porta, aprì di nuovo il suo libretto universitario, sfogliandolo con una rapida occhiata.

In un anno e mezzo aveva macinato più esami di quanti il suo piano di studi prevedesse, creandosi una media invidiabile, nota ormai a tutti i docenti. Di questo passo si sarebbe presto laureato con il massimo dei voti, e le strade che si sarebbero aperte davanti a lui sarebbero state infinite.

Già vedeva la faccia di suo padre alla sua futura tesi, radioso nel suo completo elegante, orgoglioso di presentarsi come il padre della nuova promessa dell’ingegneria aerospaziale. Lo vedeva avvicinarsi a lui, abbracciarlo sorridente, poi chiedergli perplesso:

Non sei contento, Lux?

E lui, rispondergli mentalmente:

Scherzi, papà…perché non dovrei essere contento? Ho atteso tutta la vita per essere guardato da te in questo modo, per compiacerti il più possibile! Perché per me non è facile come per la tua Fackel, sai…a me non basta sfogliare distrattamente un libro di fisica per capire immediatamente di cosa tratta, io non ho l’intuito eccezionale di tua figlia, io devo metterci l’anima nello studio, devo passarci nottate insonni, giornate stanche, terribili emicranie…e tuttavia l’ho fatto, papà, l’ho fatto al meglio che potevo. Perché desideravo solo questo momento.

Ma allora perché il suo viso restava impassibile, senza nessun sorriso ad illuminare i suoi tratti?

Attraversò stancamente il corridoio, zaino in spalla, testa bassa, i capelli corvini che gli coprivano parzialmente gli occhi di un azzurro luminoso, che risaltavano come gioielli sul suo abbigliamento decisamente scuro. Voltato l’angolo, poco lontano dalla portineria, un ragazzo e una ragazza, suoi colleghi di corso, distribuivano volantini.

“Lux Brief, vero?” chiese il ragazzo, avvicinandosi a lui nel tentativo fallito di porgli uno dei colorati annunci. “C’è una festa universitaria stasera al West club, biglietto d’ingresso a metà prezzo per gli studenti, che dici amico ti interessa?”.

“No, grazie. Mi dispiace” rispose educatamente, con un mezzo sorriso.

“Sei sicuro?” insisté la ragazza. “Domani neanche c’è lezione…ci sarà da divertirsi!”.

“Davvero, non posso. Grazie lo stesso” concluse Lux, mentre i due alzavano le spalle arresi.

Chissà perchè si ostinavano ancora a fargli inviti del genere. Probabilmente non lo conoscevano abbastanza. Probabilmente non avevano ancora capito che ad uno come lui non piacevano le feste. Troppa gente, troppa confusione, troppe relazioni sociali da gestire.

E uno come lui non desiderava altro che la pace. Uno come lui, che prendeva trenta ad ogni esame ma che passeggiava sempre solitario nei corridoi dell’università, non desiderava altro che uscire da quel moderno edificio rotondeggiante, guardare il cielo aperto e prendere una buona boccata d’aria fresca.

 

Il corridoio dell’Orange Star High School si era appena riempito di studenti, mentre le rispettive aule si svuotavano per la breve pausa di metà mattina.

Fackel, le braccia colme di libri e quaderni, attraversò la fiumana di gente che si incamminava verso il cortile interno, dirigendosi verso la fila di armadietti che fiancheggiava il corridoio, dove avrebbe trovato Nebe già lì ad aspettarla, uscito dalla classe superiore.

Ma il ragazzo non era appoggiato al muro ad attenderla pazientemente, si stava invece avviando a passo svelto verso di lei, il volto contratto in un’espressione di leggero panico.

“No!” le disse protettivo, le mani protese in avanti a bloccarle figuratamene il passaggio. “Non andare agli armadietti…andiamo in cortile, vuoi…?”.

La ragazza lo guardò, inizialmente divertita dal suo incomprensibile atteggiamento, poi la sua espressione si fece perplessa, mentre il suo sguardo, proiettato oltre la spalla dell’amico, raggiungeva il suo armadietto.

“Fackel…aspetta…”.

Ma lei lo aveva già superato, i libri stretti con forza al petto, gli occhi nerissimi fissi con disgusto verso lo scempio che era stato fatto sulla rettangolare lamina di metallo, proprio sotto l’etichetta con il suo nome:

CHIOMA  ROSA  STINTA !!!

Fackel sospirò, stringendo i denti mentre apriva con sdegno l’armadietto. Questa volta, invece che un banale rossetto, facilmente cancellabile, era stato usato un indelebile pennarello nero che risaltava terribilmente sulla vernice arancione.

“Mi dispiace…” mormorò Nebe, sconfitto. “Avrei voluto riuscire a eliminarlo prima che potessi vederlo, ma…”.

Uno sbuffo di insofferenza uscì dalle giovani labbra del ragazzo, mentre, risollevati gli occhi corvini, capì che il peggio doveva ancora arrivare.

La scena, come ogni mattina, sembrava svolgersi quasi al rallentatore, mentre tutti gli studenti che affollavano il corridoio si aprivano istantaneamente ai due lati, lasciando al centro lo spazio per una inusuale passerella. Tre delle elette del liceo, esibendo gli sfavillanti colori della scuola nei loro costumi minimali dalle scollature vertiginose e dai corti gonnellini svolazzanti, facevano la loro pomposa traversata, muovendo con perfetta sincronia i fianchi e le braccia ad ogni singolo passo, come se anche quella fosse una delle loro stupide coreografie. Ed al centro lei, in posizione leggermente più avanzata delle altre due, i lunghi capelli lisci, lucidi e rossi come una fiamma che ondulavano insieme al corpo, le lunghe gambe perfette che solcavano il corridoio, il prosperoso seno che ondeggiava leggermente ad ogni passo, strappando languide e bramose occhiate alla popolazione maschile circostante.

Ramen, capo cheerleader della squadra di baseball del liceo, nonché la più grande scocciatura che Fackel Brief avesse mai avuto il dispiacere di incontrare.

“Buongiorno, secchioni” disse con un sorrisetto di superiorità, mentre si fermava davanti a loro e incrociava al petto le toniche braccia. “Perché non andate a studiare in classe invece di stare qui a bloccare il passaggio?”.

Fackel la ignorò completamente, mentre continuava con calma a sistemare il suo armadietto, quasi non si fosse nemmeno accorta della sua presenza.

“Ehi, Brief, ti sei lavata le orecchie stamattina? O forse non hai gradito la speciale sorpresa che ti ho riservato personalmente?”.

L’armadietto di Fackel fu richiuso con un metallico colpo secco, mentre la ragazza si voltava di scatto verso l’avvenente cheerleader. Per qualche attimo nel corridoio scese l’assoluto silenzio, le facce incuriosite tutte voltate verso le due compagne che, l’una di fronte all’altra, si fissavano con sfida.

“Ma guarda” rispose infine Fackel con calma, ma spazientita. “Non avevo dubbi che quella pessima calligrafia fosse la tua”.

Nebe si mise arrendevole una mano sul volto, abbassando la testa. Ormai era iniziato, e niente avrebbe potuto fare per fermare l’ennesimo confronto tra le due.

“Non te la prendere, Chioma Stinta” ribattè Ramen con un risolino. “Era solo un omaggio ai tuoi originali capelli…ma dimmi, come hai fatto ad ottenere una tonalità così bizzarra, hai messo la testa in lavatrice ed hai sbagliato lavaggio?”.

Le altre due cheerleader scoppiarono a ridere all’unisono, mentre qualche risatina soffocata si sollevava anche dalla numerosa folla che si era fermata intorno a loro.

Fackel guardò la rivale con compassione, non era che Miss Cosce Al Vento avesse poi tanta fantasia nelle sue battute, ma sembrava trovarci gusto lo stesso. Era antipatica e impertinente con tutti, costantemente rimarcante la propria superiorità contro la nullità della vittima di turno, ma ultimamente aveva bollato lei come bersaglio prediletto, nel tormento della quale sembrava provare un’incomprensibile, gustosa soddisfazione.

“Può anche darsi” rispose infine Fackel, stando al gioco, seppure controvoglia. “Ma tu, invece, ti sei direttamente centrifugata il cervello!”.

Altre risa tra la folla, mentre anche le due cheerleader, leggermente arretrate, trattenevano a stento il divertimento.

Ramen, che invece non sembrava affatto aver apprezzato la battuta,  posò le mani sui fianchi, piegandosi leggermente in avanti, gli occhi ridotti ad una fessura minacciosa e le labbra rosse a formare un sorriso beffardo.

“Ascolta, Brief, io se voglio ti distruggo, sai?” sibilò tra i denti, il viso a pochi centimetri da quello di Fackel. “Credi che mi ci vorrebbe molto a…che diavolo è questa roba?!”.

Le aveva rapidamente strappato, con un abile gesto, il fascicolo che stringeva al petto, leggendone incuriosita l’intestazione ed accingendosi a sfogliarne le pagine.

“Ma guarda un po’…il progetto per il professor Ryan…ma che bel lavoro…di cosa parla?” chiese odiosamente la cheerleader, simulando un profondo interesse.

Attrazione gravitazionale come effetto delle variazioni della geometria dello spazio” rispose prontamente Fackel, cogliendo al volo l’occasione. “Ma non sforzare troppo le meningi, Ramen, non ci sei abituata…limitati ad agitare il didietro davanti ad una folla di tifosi”.

“Senti un po’, sciacquetta!” l’apostrofò rabbiosamente lei, puntandole minacciosamente davanti alla faccia il fascicolo arrotolato, nonostante l’espressione dell’altra fosse rimasto imperscrutabile. “Io non ci tengo affatto ad essere una secchiona noiosa come te, dalla vita sociale inesistente e che si porta sempre al guinzaglio il suo amichetto di fiducia!”.

Questa volta fu Nebe a reagire, frapponendosi tra Fackel e la cheerleader, fissando quest’ultima con profondo disprezzo e con il gran desiderio, mai realizzato, di riuscire a dirgliene quattro.

“Ehi, ragazzi, vi vedo su di giri!” sentì esclamare dal suo stesso timbro di voce, sebbene non avesse ancora aperto bocca.

Si erano ritrovati l’uno di fronte all’altro, come un’immagine che si rifletteva in un invisibile specchio. Ma mentre il primo indossava jeans, felpa e occhiali da vista, il secondo sfoggiava un’attillata divisa da baseball, berretto con la stella del liceo e un’espressione indubbiamente più rilassata.

“Che sta succedendo, baby?” chiese con curiosità a Ramen, mentre metteva un braccio intorno alle spalle della ragazza e si sollevava leggermente la tesa dagli occhi.

“Lascia perdere, Zeme…” l’aveva anticipata arrendevolmente Nebe, ansioso di mettere definitivamente fine a quella stupida disputa. “Non ne vale la pena…”.

“Su, fratellino, un po’ d’allegria!” aveva esclamato l’altro a gran voce, dandogli una pacca sulla spalla, mentre la sua ragazza si faceva scappare un risolino divertito. “Hai un muso lungo…”.

Nebe alzò lo sguardo, poco convinto. Ed eccola lì, la coppia più popolare del liceo, che fissava tutti gli altri dall’alto verso il basso. E Zeme, capitano della squadra di baseball nonché campione ammirato ed acclamato da ormai molto tempo, guardava perfino suo fratello con quella sua superficiale, giocosa superiorità.

La campanella risuonò forte nel corridoio, strappando alla folla di studenti qualche esclamazione di disappunto, mentre tornavano nelle rispettive classi.

“Non avrei mai pensato di arrivare ad odiare qualcuno!” esclamò esasperata Fackel, seguendo con lo sguardo la rossa cheerleader che si allontanava soddisfatta, avvinghiata elegantemente al suo indiscusso campione.

“Almeno non si tratta di tua sorella…” mormorò appena lui, ma Fackel neanche lo sentì, tanto era rimasta allibita nel guardarsi le mani incomprensibilmente vuote. “Cosa c’è?”.

“Il fascicolo di fisica…” balbettò Fackel, mentre un’amara realizzazione le invadeva la mente. “Non ce l’ho più…”.

“E chi ce l’ha, allora…?”.

 

Si era dileguato a passo svelto, i ribelli capelli corvini ancora bagnati per la rapidissima doccia, il borsone da palestra caricato alla bell’e meglio su una spalla. Era sgusciato con aria indifferente dallo spogliatoio, aveva raggiunto l’uscita tramite una facile scorciatoia e si era lasciato definitivamente alle spalle la palestra di arti marziali di Satan City, prima che la voce di Pan potesse richiamarlo stizzita al suo dovere.

Dove credi di andare, Golden? Devi sostituirmi per la lezione di sumo!

E figuriamoci se aveva voglia di passare le successive due ore a dare istruzioni inutili ad un gruppo di ciccioni che neanche riusciva a sollevare il proprio sedere. Lui, Son Golden, uno degli eredi di un prestigioso impero finanziario, poteva passare le giornate in modo molto più interessante.

Neanche ricordava perché si era messo a lavorare come aiuto istruttore nella palestra della sua zia acquisita. Non aveva certo bisogno di denaro, lui, ma trovarsi un lavoretto part-time metteva a tacere il paparino senza tuttavia richiedergli troppo impegno: oltre a poter avere tutti i benefici di una palestra rigorosamente gratis, a volte era persino divertente insegnare judo o karate, specialmente quando le allieve erano belle ragazze in tute attillate le cui pose da combattimento andavano accuratamente guidate.

Senza contare che, lavorando per la palestra, aveva una scusa per andare a Satan City. Perché se West City era il regno della tecnologia e dell’alta finanza, questa era la città della vita.

Della bella vita.

Alla lezione di sumo ci avrebbero pensato gli altri assistenti, si disse mentre raggiungeva lo spazioso parcheggio sul retro, e pazienza se Pan, la volta successiva, lo avrebbe probabilmente accolto con in mano un nunchaku.

Non poteva far aspettare la sua piccola, l’unica creatura che fosse riuscita a rapire il cuore di Son Golden. L’unica di cui non si sarebbe mai stancato, e che avrebbe sempre trattato come una vera signora.

“Ciao, Lady Car” le sussurrò dolcemente, accarezzando la lucida vernice rossa metallizzata. “Ti sono mancato?”.

Già…la sua amata non era altro che una fiammante decappottabile vecchio modello, quelle che ancora solcavano le strade invece che il cielo.

Si lanciò con un balzo al posto di guida, senza nemmeno aprire lo sportello, accese sorridente il motore e poi via, veloce come un lampo, con il vento tra i capelli. Non c’era niente di più sublime che assaporare l’ebbrezza della strada, vedere il tachimetro macinare chilometri e l’indicatore della velocità salire in picchiata, mentre l’impianto stereo emetteva della buona musica rock. Emozioni forti, sensazioni intense, che compensavano quelle che aveva accettato di reprimere per il mancato uso del suo potere.

Imboccò il lungo viale che portava alla Satan City dei quartieri alti, fermandosi poi con un leggero sbuffo al semaforo rosso che si era trovato davanti. Mentre aumentava il volume della radio, cercando di ingannare l’attesa, una decappottabile color argento si fermò alla sua destra, nella corsia di fianco. Alla guida, una bella donna sui quaranta, vestita con eleganza, i capelli biondi sciolti sulle spalle e le rosse labbra carnose.

Con discrezione ricambiò lo sguardo compiaciuto del ragazzo, spostando poi gli occhi verso l’auto.

“Bella macchina” commentò, la voce sensualmente roca.

“Già” rispose Golden, con un sorriso invitante. “Anche la tua non è male…vediamo che sa fare”.

Il semaforo divenne verde, e istintivamente le due auto sgommarono per la rapida partenza, mentre i rispettivi autisti schiacciavano con forza l’acceleratore e lasciavano una scia di fumo sull’interminabile rettilineo.

Per un po’ Golden dette vantaggio alla donna, rimanendo più o meno al suo fianco, illudendola di poter competere con lui, poi schiacciò il pedale fino in fondo, superandola in un secondo e facendole mangiare la propria polvere, mentre dallo specchietto osservava la sua faccia allibita farsi sempre più lontana.

Eh sì, non c’era niente da fare. Poteri o non poteri, il re della strada rimaneva sempre lui.

 

Aveva volato attraverso il continente, dritto verso est, dove il sole stava già tramontando, assaporando il calore degli ultimi raggi dorati che si perdevano dietro all’orizzonte.

Non c’era tramonto più bello in tutto il globo di quello che si poteva ammirare dalle colline dei Paoz. Lì, in quelle incontaminate distese verdi, non c’era nessun grattacielo a interrompere il panorama, nessun motore ad inquinare quel mistico silenzio. Solo l’immensità della natura, e la vastità del cielo sopra la sua testa, sfumato di colori come in un delizioso acquarello riscaldato da tinte rosee ed arance.

Lux si abbandonò sulla morbida distesa erbosa, respirando profondamente l’aria genuina delle vicine montagne. Finalmente la pace che ogni giorno, dopo la sua frenetica vita in città, reclamava con ansia.

Perché lì, su quelle colline, la terra gli scivolava tra le dita soffice come zucchero, così diversa dalla durezza del cemento metropolitano, maledettamente immobile e ostile, che solo con l’intervento dei suoi poteri avrebbe potuto sbriciolare.

E perché in quei boschi vivevano solo creature che, proprio come lui, amavano allontanarsi dal caos che portava l’umanità. Gli si avvicinavano senza timore, lo raggiungevano nel suo letto di fiori, giovani cerbiatti, marmotte, scoiattoli e colorati uccelli, che lo guardavano con interesse dai loro piccoli, nerissimi occhietti selvatici. Sostenevano lo sguardo più di qualsiasi essere umano che Lux avesse mai conosciuto, perché il loro cuore era puro, immacolato, senza segreti, senza l’ombra di quel pizzico di peccato celato da ogni uomo.

Con loro non servivano le parole. Loro erano capaci di guardarti dentro. Di sapere chi eri.

E loro sapevano. Sapevano che lui era diverso.

Sapevano che il suo sangue non era lo stesso che scorreva negli uomini di quel mondo, sapevano del suo disagio nel fingere di essere uno di loro, sapevano che spesso avrebbe voluto fuggire via da tutto quello, ma che no, non poteva, non poteva…

E, inevitabilmente, dovevano sapere anche di quel bozzolo di marcio che aveva cercato di rifilare in un angolo sperduto del suo cuore, che aveva tentato di eliminare ma che non sarebbe mai scomparso, tornando a tormentarlo indesiderato…

Erano passati ormai tredici, lunghi anni. E quell’odioso polipo era ancora là, da qualche parte, ad inquinare la sua anima come i gas di scarico della metropoli.

Ma quegli animaletti innocenti continuavano a stargli vicino, a fissarlo senza ombra di timore.

Andate vie, creature innocenti del bosco…statemi lontano, più lontano, voi credete di sapere chi sono, ma vi sbagliate…io non sono solo ciò che credete di vedere…io sono capace di cose orribili…so essere veramente spregevole con chi mi circonda…

E ho quasi ucciso mio padre, una volta.

Chiuse gli occhi, stanco, e si addormentò. Ad ovest, gli ultimi fiochi raggi venivano risucchiati al di là dell’orizzonte.

 

L’insegna al neon del Blue Moon brillava ad intermittenza in quella fresca notte stellata, richiamando decine di avventori che, parcheggiando poco lontano le loro auto di lusso, si preparavano a trascorrere una notte dorata nel locale più alla moda di Satan City.

Golden lasciò al parcheggiatore una mancia extra, affinché la sua Lady fosse trattata nel migliore dei modi.

L’interno del locale era piacevolmente tiepido, non pregno dell’odore di alcol o di fumo come nei locali di seconda categoria, ma profumato di pulito e dei suonanti bigliettoni che i clienti lasciavano alla cassa d’ingresso. Perché era lì che si ritrovava il fior fiore della città, giovani nobili, ricchi borghesi, divi del cinema, che in quella pista psichedelica, con l’aiuto dei drink e dell’alta musica martellante, ormai si scatenavano senza ritegno, sperando che qualche paparazzo non gli sorprendesse proprio nel momento in cui avrebbero vomitato la cena in uno dei lussuosi bagni intarsiati di marmo.

Golden attraversò la pista affollata, passando con piacere sotto i cubi delle ballerine seminude, raggiungendo poi senza troppa fatica l’angolo bar.

“Il solito, Henry” chiese al barman, vestito con un elegante smoking bianco.

“Subito, signor Son” sorrise l’uomo con un leggero inchino, mentre, sorreggendo la bottiglia ghiacciata di vodka con un panno bianco, ne versava una buona dose nel bicchiere del ragazzo.

A circa un metro da lui, una giovane donna, caschetto di lisci capelli corvini, occhi di ghiaccio e corpo longilineo messo in risalto da un tubino nero, era appoggiata al bancone con espressione annoiata, sorseggiando distrattamente dal suo calice di champagne.

“Non si diverte, signorina?” l’abbordò Golden, facendo un passo verso di lei e appoggiando con naturalezza un gomito sul bancone di mogano.

La ragazza si voltò lentamente, il volto magro apparentemente gelido, gli occhi che lo scannerizzavano con noncuranza.

“Non come vorrei” rispose fredda, riportando il bicchiere alle labbra fini. “Il mio agente vuole già riportarmi a casa. Dice che una modella non dovrebbe fare le ore piccole, fa male alla pelle. E lei, invece, si sta divertendo, signor…?”.

“Son Golden” la anticipò lui con orgoglio. “Ma puoi chiamarmi semplicemente Golden, se ti va”.

La ragazza si voltò verso di lui con maggiore interesse, spalancando gli occhi chiari.

Quel Golden?” chiese sorpresa. “Il figlio di Bra Brief della Capsule Corporation?”.

“Esatto” confermò il ragazzo con un sorriso compiaciuto. “Ci conosciamo?”.

“Beh…sai, ho sfilato per la linea di moda di tua madre, l’anno scorso…lavoro interessante…mi piacerebbe rifarlo…”.

“Davvero?” le sorrise maliziosamente lui, avvicinandosi di più a lei, sfiorandole appena la schiena nuda con il dorso della mano. “Chissà…chi può dire che non lo rifarai…”.

La ragazza abbassò lo sguardo con un mezzo sorriso, ma Golden sapeva che le era piaciuto, che il suo corpo era stato scosso da un piacevole brivido. Eccome se le era piaciuto…

“Il mio agente…” farfugliò la modella, guardandosi intorno.

“Oh, andiamo…” la persuase lui, sensuale sussurro proprio all’ altezza dell’orecchio. “Molla quella palla al piede, finchè sei in tempo…vieni via con me…conosco il padrone del Grand Hotel, qui vicino…mi riserva la suite ogni volta che voglio…”.

La ragazza ormai si stava gradualmente struggendo, ma dovette lasciarle sulle labbra il dolce sapore della vodka per far crollare definitivamente tutte le sue difese, simulazioni di inutile dignità che dovevano esentarla dall’andare a letto con il figlio della sua datrice di lavoro.

“Andiamo” la incitò, guidandola verso l’uscita del locale. “La notte è nostra…sta aspettando solo noi”.

 

Continua…

Un grazie a tutti coloro che mi hanno recensita e che seguono la mia storia ** spero vi piaccia ;) aspetto impazientemente le vostre recensioni! Kiss Kiss 

SARAH

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Capitolo 3
*** capitolo 2 ***


Era sempre una tragedia la mattina seguente all’esame. Gli occhi incollati e pesanti al momento del risveglio, le ossa deboli e doloranti, la testa che scoppiava per il repentino rilascio di tensione accumulata.
Lux avrebbe voluto volentieri tornare a letto, dimenticando lo stress dei giorni passati dovuto all’infondato ma straziante timore di non essere all’altezza dell’interrogazione, ma la colazione in famiglia, al mattino, era diventata una sacra consuetudine, essendo uno dei pochi momenti della giornata in cui si ritrovavano tutti e quattro intorno ad un tavolo.
Sapeva quanto ci tenesse suo padre.
Si trascinò pesantemente in cucina, gli occhi ancora socchiusi e una mano a massaggiarsi la fronte. Sua madre era già lì, i capelli lunghi raccolti in una coda, maglietta sbracciata, jeans e comode scarpe da ginnastica. Nonostante avesse già superato i quaranta e vivesse ormai da vent’anni al fianco di uno degli uomini più importanti del pianeta, Pan Son non si sarebbe mai adattata a fare la ricca signora borghese. Lux sorrise tra se alla sola idea, e gli occhi neri di sua madre, notandogli quell’espressione in volto, sembrarono brillare di gioia.
“Ciao, tesoro!” lo salutò con un luminoso sorriso, mentre trafficava nei cassetti dell’angolo cottura. “Dormito bene?”.
“Come un sasso…ero esausto” rispose lui, mentre afferrava al volo tovaglia e tovaglioli e si accingeva ad aiutarla nell’apparecchiare.
“Ho notato che ieri sera sei tornato a casa tardi” disse la donna con naturalezza, sistemando sul tavolo tazze e piattini.
“Già…scusami, mamma…avrei dovuto avvertirti che non sarei tornato per cena”.
“Non fa niente, Lux, e poi dopo tutto lo stress dell’ultimo esame ti fa bene svagarti un pò” lo rassicurò con un sorriso, voltandosi poi verso di lui con quello sguardo intuitivo che solo una madre possiede. “Ma qualcosa mi dice che non hai fatto tardi per festeggiare il tuo voto”.
Lux abbassò lo sguardo, i suoi occhi azzurri non sarebbero mai stati capaci di celare qualcosa a sua madre.
“Sei di nuovo stato sui Paoz, vero?” gli chiese infatti, la voce calma e priva di accusa.
“Sì…” ammise il ragazzo, alzando le spalle. “Mi sono quasi addormentato lì, ho finito per perdere la cognizione del tempo e…”.
Ma Pan aveva momentaneamente abbandonato il suo lavoro, avvicinandosi lentamente a lui, gli occhi trapelanti una leggera apprensione.
“Cos’è che ti piace tanto di quel posto?” gli chiese, con una semplice, sincera curiosità. “Voglio dire…io ci sono cresciuta, è un luogo calmo, pacifico, suggestivo…ma terribilmente solitario ed isolato…cos’è che spinge un giovane come te, nato e vissuto sempre in città, a rifugiarsi là alla fine del mondo?”.
Lux sospirò. Avrebbe tanto voluto dirglielo, confidarsi con lei, ma neanche lui lo sapeva. Neanche lui capiva perfettamente il perché.
“Non so spiegartelo, mamma…è come un richiamo…” mormorò. “E’ come l’istinto che spinge gli animali verso le loro tane sicure. Io sono spinto lì. Qualcosa dentro di me mi dice che malgrado tutto ciò che credo di essere, il mio vero posto non è altro che in quelle terre selvagge”.
Sua madre sembrò lievemente turbata da quelle parole, probabilmente risveglianti sensazioni lontane nel tempo, segregate ma non sigillate nella lista nera dei ricordi, tuttavia alzò gli occhi verso di lui con affetto, accarezzandogli dolcemente una guancia.
“Capisco che tu ti senta bene quando vai lassù da solo, Lux…ma ricordati che la tua casa è qui, che noi siamo qui, e che siamo sempre con te…sempre”.
Il ragazzo le concesse un debole sorriso, non le piaceva vederla così, con quell’espressione preoccupata sul volto. Guardandola tornare indaffarata ai suoi fornelli, sperò di cuore di averla rassicurata.
“Buongiorno, amore” la sentì dire con voce dolce, mentre i suoi occhi si rivolgevano verso l’ingresso della stanza, da cui era appena entrato suo padre.
Completo scuro elegante, cravatta leggermente allentata sulla camicia bianca, il volto ancora perfettamente giovanile nonostante l’età  e i capelli lavanda, interrotti da sporadici ciuffi argento, tirati indietro per la maggior parte.
“Buongiorno, Pan” la salutò con un bacio, ancora in parte assonnato. “Questo nodo, stamattina, proprio non mi vuole riuscire!”.
Mentre sua moglie lo raggiungeva e gli allacciava divertita la cravatta, Trunks si voltò verso il figlio, gli occhi azzurri che incontravano i suoi, mentre gli rivolgeva un paterno sorriso.
“Buongiorno, figliolo”.
“Ciao, papà” lo salutò Lux in risposta, continuando a disporre le ultime stoviglie sulla tavola apparecchiata. Aveva alzato gli occhi solo per un secondo, ma sapeva che suo padre lo stava ancora guardando, probabilmente pensando ad un motivo qualunque per attaccare discorso.
“Buongiorno, famiglia!” .
La voce cristallina di sua sorella aveva prontamente interrotto quel silenzio, precipitandosi giù per le scale e baciando affettuosamente, come avesse ancora cinque anni, la mamma e il papà.
“Allora, ragazzi” iniziò Trunks, sedendosi al tavolo insieme agli altri, mentre Pan versava nelle loro tazze del buon caffè. “Ieri sera sono tornato tardi, ci siamo appena visti. Come è andata la giornata?”.
“Oh, lasciamo perdere, papà!” si lamentò immediatamente Fackel, senza accorgersi che lo sguardo del padre si era rivolto per un attimo al primogenito. “E’ stata un incubo…”.
“Cosa è successo, tesoro?” gli chiese Trunks prontamente, mentre una ruga di ansia gli solcava la fronte. “Hai preso per caso un brutto voto?”.
Lux quasi soffocò nel suo sorso di caffè per reprimere il divertimento. O lo faceva apposta, o suo padre continuava a cadere completamente dalle nuvole. Anche i muri dovevano sapere, ormai, cos’era, o meglio, chi era, che a scuola tormentava la piccola Brief.
“Dì un po’, che ha combinato stavolta la cheerleader?”  le chiese Pan, tagliando corto, mentre si portava la tazza alle labbra.
“Non ci crederete mai!” esclamò Fackel, abbandonando momentaneamente la colazione e gesticolando con le mani. “Ha scarabocchiato il mio armadietto con una scritta indegna, trovando l’ennesima occasione per prendermi in giro”.
“Capirai che novità…” commentò atonale Lux, spalmando distrattamente della marmellata su una fetta di pane tostato.
“Non è tutto!” continuò lei. “Mi ha rubato il progetto di fisica di fine anno, lo ha consegnato al professor Ryan e lo ha spacciato per suo!”.
“Scherzi?” tuonò suo padre, leggermente irato. “Ma non può fare una cosa del genere!”
“E invece l’ha fatto…il professore si è un po’ stupito nel ricevere da lei un elaborato del genere, sicuramente avrà intuito che aveva copiato, ma poi ne è rimasto ugualmente contento e l’ha risparmiata da una sicura bocciatura nella sua materia”.
“E tu sei stata lì a fartela fare sotto il naso?” chiese Lux, con un mezzo sorrisetto. “Fackel Brief, il genietto di West City, che si fa fregare da una cheerleader!”.
“Beh…è stato un momento di distrazione” si giustificò lei, senza cogliere il tono leggermente cinico nelle parole del fratello. “Ormai era fatta, non volevo fare una scenata davanti al prof…non mi restava che consegnare il mio progetto di riserva, sempre ottimo ma non interessante come l’altro”.
“ Ma questo non è giusto, tesoro! E’ questione di principio! Se vuoi telefono io al tuo insegnante e…”.
“Trunks!” lo calmò Pan. “Peggioreresti solamente le cose, facendo proprio il gioco di Ramen! Ascolta, Fackel, le tipe come lei meritano solo di essere ignorate! Fattelo dire da una che alla tua età le avrebbe certamente cavato un occhio!”. 
“E’ una parola…” mormorò Fackel, poco convinta, mentre riprendeva arrendevole a mangiare.
“E tu, Lux, cosa mi dici?” chiese Trunks al figlio. “Ho saputo che hai superato brillantemente l’esame, ieri. Complimenti davvero, figliolo”.
Suo padre non mancava mai di rivolgergli quotidiane attenzioni, stimolandolo ed invitandolo di continuo alla conversazione, seppur con modesti risultati. Ma erano ormai tredici anni che ci provava imperterrito, attento a non dare niente per scontato, a non centellinare i complimenti, a non ripetere lo stesso, indimenticabile errore. A volte, suo malgrado, risultava innocentemente patetico.
“Grazie, papà” gli aveva risposto con un debole sorriso, mentre l’uomo, orgoglioso, gli dava una paterna pacca sulla spalla.
“Sai, Lux, pensavo che…sarei molto felice se…volessi fare il tuo tirocinio pre-tesi da me, alla Capsule Corporation…è solo un’idea, la scelta è tua, ma credo che lavorare lì sia proprio quello che hai sempre desiderato…che ne dici?”.
Era sorprendente vedere con quale difficoltà suo padre, brillantissimo uomo d’affari, avesse pronunciato quella frase, come se quella domanda fatidica potesse finalmente segnare uno storico punto di svolta, che avrebbe per sempre cambiato le cose tra di loro o conservato per sempre quel sottile strato di indistruttibile vetro.
Non era tutto così semplice. Non era semplice come porre al figlio quella domanda retorica, quella dimostrazione di fiducia e di stima che aveva sempre desiderato e che aveva atteso con ansia. Non lo era neanche come aspettarsi una parimenti scontata risposta, che avrebbe fatto finalmente e indiscutibilmente tutti contenti.
Si limitò a sorridergli. Un sorriso che poteva voler dire tante cose, e, allo stesso modo, poteva non voler dire proprio nulla.
 
Quando Golden tornò a casa, quella mattina, sua madre doveva essere già uscita per andare a lavoro, dal momento che la sua aerodinamica aircar non era più parcheggiata nella piccola piazzola di sosta a lato della casa. Suo padre, invece, sicuramente sarebbe stato ancora sotto le coperte per via del pub, ma il ragazzo preferì ugualmente attraversare il giardino ed entrare dalla porta sul retro, di gran lunga meno in vista.
Entrò in casa con un sospiro di sollievo, i capelli ancora scarmigliati e i vestiti del giorno prima abbottonati male. Quasi sobbalzò di sorpresa alla vista di suo padre, seduto tranquillamente in poltrona in maglietta bianca e pantaloni del pigiama, che lo fissava con assoluta naturalezza.
“Buongiorno, Golden” lo salutò. “O dovrei dire buonanotte, visto che, a quanto mi risulta, non sei ancora andato a letto?”.
Il giovane colse nella voce del padre una punta di noioso rimprovero. Non ci credeva, sua zia Pan, quando le diceva che suo padre riusciva ad essere estremamente asfissiante e ficcanaso. Sosteneva addirittura che, probabilmente, non stavano parlando dello stesso Son Goten.
“Ho passato la notte a Satan City” lo liquidò frettolosamente, avviandosi su per le scale trasparenti. “Credo di essere abbastanza grande per permettermelo senza dover dare spiegazioni, non ti pare?”.
“Certo, Golden, ma…dimmi, chi è la fortunata, questa volta?”.
Non era stata certamente una domanda complice tra padre e figlio, quella, avrebbe anche potuto sembrarlo se Golden non avesse conosciuto l’opinione di suo padre riguardo al genere di donne che frequentava, ma quello era solo un modo fuorviante per fargli un altro dei suoi rimproveri.
Decise comunque di approfittarne e stare al suo gioco, anzi, la cosa lo divertì a tal punto da tornare indietro sui suoi passi, finendo per sedersi scompostamente proprio nella poltrona davanti a suo padre.
“Oh, papà, era uno schianto, non immagini neanche!” iniziò, fingendo di rivolgersi ad un comune amico, mentre fissava sognante il soffitto. “Sapessi che corpo…e che ardore…sai, io ce l’ho messa tutta, ma lei sembrava non averne mai abbastanza…”.
“Credo di essere rimasto indietro” lo interruppe Goten, cambiando discorso, evidentemente, pensò il ragazzo, la strategia di fare l’amico come scusa per dirgliene quattro non solo non funzionava, ma poteva anche essere piuttosto imbarazzante. “Ero convinto che uscissi con la figlia di Roger Magnus, il ricco imprenditore di Satan City…o almeno, è quello che sostiene la stampa”.
Gli lanciò una delle riviste di sua madre che erano sull’ovaleggiante tavolino di cristallo, la pagina aperta ad una sua foto notturna e sfocata che, con un alto ingrandimento, lo immortalava abbracciato ad una deliziosa biondina all’uscita di un galà dell’alta società.
“Violet Magnus? Sono uscito solo un paio di volte con lei, non le devo niente!”.
“Chissà se sarà d’accordo quando vedrà sui giornali le tue foto con un’altra, appena tre giorni dopo…mi sembra che i giornalisti ci abbiano preso gusto ad andare a scoprire chi sarà la tua prossima fiamma” disse Goten con rassegnazione.
“E allora?” si giustificò il ragazzo. “Io non faccio promesse a nessuna di loro. Ci divertiamo, e se i paparazzi ci beccano, tanto meglio. Un po’ di pubblicità reciproca non fa mai male”.
“Pubblicità per che cosa? Per l’azienda di tuo zio?” chiese il padre sconvolto. “Mi sembra che abbiano lanciato un’adeguata campagna pubblicitaria per questo, senza bisogno di qualcuno della famiglia particolarmente egocentrico che andasse in giro a far parlare di se e della sua sfrenata vita mondana, non ti sembra?”.
“Ma che vuoi saperne tu di come funzionano le cose in quest’ambiente!” si difese Golden, alzandosi spazientito dalla poltrona. “A te non sono mai piaciuti i riflettori, e non dovrai preoccupartene, visto che di certo non andranno mai a puntare la loro luce su di te!”.
Goten incassò con amarezza l’ennesima sconfitta, non per ciò che gli era stato detto, sapeva che erano solo parole, ma semplicemente amareggiato dall’ennesima dimostrazione della strafottenza e della superficialità di suo figlio, delle quali, seppure inconsapevolmente, l’unica vittima era solo lui stesso.
 
“Uova, carne o pesce, signorina?” chiese senza troppo garbo la vecchia signora della mensa, i capelli grigi raccolti in una retina e il grembiule sporco di sugo.
“Pesce, grazie” rispose senza troppi dubbi Fackel, mentre già la fila interminabile di studenti dietro di lei la pressava noiosamente, ognuno impaziente di ottenere il proprio turno. Per fortuna, Nebe aveva già occupato due posti ad uno dei tavoli della spaziosa stanza.
“Oh, finalmente!” gioì la ragazza distrutta, appoggiando sul tavolo il vassoio e sedendosi davanti all’amico. “Ogni giorno fare la fila per pranzare è un vero incubo!”.
“Almeno fosse buono il cibo!” aveva osservato il ragazzo con un rassegnato sorriso.
In realtà, a Nebe non importava un bel niente se la mensa era disgustosa, o se per avere il proprio pasto dovevi fare a botte con gli altri studenti. Non se poi il risultato era sedere lì insieme a lei, per una buona mezzora, chiacchierando, scherzando, raccontandosi come avevano passato la mattina…
Non c’era niente di più gratificante del semplice guardarla sorridere, parlare, mangiare. Starle accanto e condividere il suo tempo con lei. Bastava questo, a Nebe, per veder spuntare il sole anche in una giornata piovosa.
Esultanti gridi maschili richiamarono l’attenzione di tutta la sala mensa, mentre i giocatori della squadra di baseball facevano rumorosamente il loro ingresso nella stanza, accompagnati da un festoso quintetto di cheerleaders.
“Non ti voltare, Fackel” le consigliò Nebe, a bassa voce, che era seduto in direzione dell’ingresso. “Ma stanno arrivando le scocciatrici…”.
La ragazza si girò invece istantaneamente, incrociando per un paio di secondi gli occhi azzurri della sua odiosa rivale dai capelli rossi, un breve ma intenso sguardo che sembrò emettere scintille in tutto il suo percorso. Tuttavia, per il momento, Ramen e le sue compari sembravano occupate ad acclamare i loro campioni.
Zeme lanciò un altisonante ululato di gioia, agitando in aria il berretto, mentre i sorridenti compagni di squadra, tutt’intorno, sembravano idolatrarlo con improvvisati cori.
“Urrà per il nostro capitano! E per la qualificazione in finale dell’Orange Star! Urrà urrà!!”.
Le cheerleaders batterono vivacemente le mani, mentre Zeme stringeva a se la sua ragazza e le stampava un festoso bacio sulle labbra, invidiato da buona parte dei ragazzi ai tavoli che, abbandonato momentaneamente il loro boccone, si erano incantati a guardare la scena.
“Poveri illusi…” commentò tra se Fackel, sbocconcellando distrattamente il suo pesce. “Cosa ci troveranno in una come lei…che oltre ad essere tutta scena e poca sostanza, ti guarderà sempre dall’alto in basso a meno che tu non sia vincente e popolare!”.
Nebe aveva sorriso, la conosceva troppo bene per non notare che, oltre ad un inevitabile odio, doveva provare anche una punta di infondata gelosia nei confronti della cheerleader.
“Fammi indovinare, Nebe…in questo momento sta scegliendo il menù più dietetico, con le sue insalatine scondite ed i suoi yogurt magri…sta già bloccando la fila da un paio di minuti, ma nessuno oserà mai dirle niente…e poi, con il suo passo sicuro e lo sguardo alto, si avvierà verso il tavolo d’elite delle cheerleaders e dei giocatori di baseball, dal quale non verrà sollevato un solo argomento, con un minimo di spessore, che andrà oltre a palle, mazze e saldi di primavera…”.
“Come è finita poi tra te e Ramen, per l’incidente dell’altro giorno?” le chiese lui con sana curiosità.
“Non è finita…” rispose lei, con una strana luce negli occhi che preoccupò leggermente il ragazzo. “Non è affatto finita…”.
Nebe preferì non immaginare cosa avrebbe potuto fare la dignità ferita di una ragazza che, nonostante l’indole calma e razionale, dopo un anno di frecciatine, di dispetti e di piccole sfide quotidiane, si vedeva anche derubata, attraverso il progetto scolastico, della propria mente, ritenuto unico vantaggio nei confronti dell’altra e definitiva goccia in grado di far traboccare il vaso.
Non avrebbe voluto immaginarlo, ma, suo malgrado, non dovette attendere molto per scoprirlo. Solo il tempo che impiegò Ramen per attraversare, munita del suo vassoio, lo stretto corridoio che separava due file di tavoli, a sinistra della quale sedevano lui e Fackel. Successe tutto molto in fretta, ma nel momento in cui la Brief allungò la gamba di lato appena davanti ai piedi della cheerleader, Nebe desiderò con tutto se stesso che quella scena stesse avvenendo esclusivamente nella sua mente, al sicuro da conseguenze.
Ma non fu così. Ramen venne proiettata immediatamente in avanti, finendo a peso morto su uno dei tavoli già occupati, il viso spiaccicato sul contenuto del vassoio, schizzato in buona parte sui vestiti dei malcapitati studenti.
Quando infine si rialzò lentamente, nella stanza scese un immediato, allibito silenzio: la capo cheerleader della squadra di baseball, nonché reginetta dell’anno e la studentessa più invidiata, temuta e popolare del liceo, aveva la faccia gocciolante di yogurt, i capelli zuppi di chissà quale disgustosa minestrina e la parte superiore della divisa macchiata di sugo, con pezzi di pane e foglie di insalata catturate dalla generosa scollatura.
Zeme, poco lontano da lei, non seppe trattenere un’innocente risata, che immediatamente contagiò qualche altro giocatore, rincuorato dalla rischiosa iniziativa del loro capitano.
“Non è affatto divertente!” sbottò la ragazza verso di lui, per poi girarsi di scatto verso Fackel e indicandola minacciosamente con un dito. “Tu!” .
Fackel la fissò con indifferenza, un divertito risolino nascosto dal boccone di pane che stava masticando.
“Qualche problema, Ramen?” le chiese candidamente, con un sorriso gentile, mentre Nebe, portando le mani al volto, avrebbe volentieri voluto entrare sotto al tavolo.
La rossa cheerleader strinse i denti con rabbia, mentre afferrava un piattino di dolce dal primo vassoio a portata di mano e lo scaraventava in direzione della Brief. Ma questa abbassò la testa prontamente, e la fetta di torta finì sulla nuca di un ragazzo del tavolo dietro.
“Ehi!” protestò questo, mentre il ripieno di crema gli scivolava sul colletto della maglietta. “Ma chi è stato!?”.
Senza trovare il diretto responsabile, lo studente approfittò per scagliare il suo pranzo verso il gruppo di giocatori di baseball, che continuavano a ridacchiare divertiti, i quali non accolsero certo la provocazione senza un’adeguata risposta di gruppo.
In men che non di dica, nonostante gli scandalizzati ammonimenti della signora della mensa, la stanza si trasformò in un vivace e chiassoso campo di battaglia, dove le munizioni di cibo volavano indisturbate nell’aria ad imbrattare progressivamente tutti e trecento gli studenti, nascosti invano dietro ai tavoli velocemente disposti a mo’ di barricate.
Fackel cercò di dileguarsi velocemente dalla sala, cercando di raggiungere la porta senza essere casualmente centrata da bignè alla frutta o da uova sode, ma la sua maglietta fu improvvisamente trattenuta da dietro.
“Dove credi di andare, Chioma Stinta!”.
La cheerleader, il viso e gli indumenti ancora parzialmente imbrattati, l’aveva fronteggiata con sguardo talmente raggelante che, per un momento, Fackel pensò che stesse quasi per stringerle le mani al collo. Ma non lo fece.
“Tu sei finita, Brief, sei morta!” le promise, occhi negli occhi, a pochi centimetri dal suo volto. “Io…io…”.
Ma non riuscì nemmeno a finire la frase, giacchè, in quello stesso momento, il preside del liceo spalancò le porte della sala mensa con gli occhi fuori dalle orbite, mettendo rapidamente fine a tutto quel trambusto.
“Ma che diamine sta succedendo, qui??” sbraitò, scioccato. “Chi sono i responsabili di tutto ciò?”.
Le facce degli studenti, ammutolite e seminascoste, si fissarono tutte in direzione delle due ragazze che, in piedi l’una di fianco all’altro a pochi passi dal preside, abbassarono gli occhi con imbarazzo.
 
* * *
 
Bulma assistette allibita al repentino spegnimento del computer, mentre le luci dell’archivio, con un sibilo soffocato, lo imitavano arrendevoli. Una silenziosa oscurità scese lenta nella stanza, lasciandola completamente al buio.
Che ci fosse stato un guasto nel generatore di antimateria? Avrebbe anche potuto ripararlo, se solo fosse riuscita a trovare lo scouter, in grado di permettere la visione ad infrarossi…
Mentre lo cercava frettolosamente a tastoni sulla disordinata scrivania, qualcuno la sorprese da dietro, cingendole la vita con forti braccia.
Aveva gridato d’istinto, prima che una mano le coprisse frettolosamente la bocca e una voce familiare le sussurrasse qualcosa all’orecchio:
“Sshhh! Vuoi che Enma riesca a sentirti fin dall’altra parte del palazzo?!”.
Rassicurata, era scivolata allora in quella stretta, ma non prima però di rimproverarlo:
“Vegeta! Mi hai fatto spaventare! Piombare qui al buio e sorprendermi alle spalle!”.
“E chi credevi che fosse? Non sarai mica diventata paranoica come il namecciano!”.
“Ma no! E’ che…ti sembra il caso…staccare la corrente e distrarmi dal mio lavoro! Se lo sa Enma, ti spedisce di nuovo a spalare carbone!”.
“Ma se non hai niente da fare! E poi, non mi va che quell’energumeno possa averti a disposizione tutto il giorno!”.
Bulma aveva sorriso, accarezzando, al buio, i tratti marcati del volto del suo principe, fino ad arrivare ai folti capelli corvini e alle infernali protuberanze che ora gli uscivano dalle tempie.
Quanto le era caro quel contatto…
Anche se i loro corpi non erano altro che un parto della loro forza di volontà, scaturito dall’energia vitale che le loro anime possedevano, le sensazioni che la loro vicinanza le trasmetteva avevano un sapore buono, piacevole, quasi più profonde ed appaganti di quelle che si potevano provare in vita.
Aveva abbandonato tutto pur di potergli stare accanto di nuovo…lei, la sua immagine, il suo senno, il suo lavoro, la sua famiglia…la famiglia che, per quanto bizzarra, era tutto ciò che desiderava, immortalata da quel vecchio scatto, quello che lei aveva definito la foto perfetta, nel ritrovamento della quale aveva investito alcune delle sue ultime energie, gli ultimi sprazzi di una ragione ormai perduta…
Ma quella famiglia perfetta aveva smesso d’esistere, nel momento stesso in cui l’uomo che amava le era stato portato via. E chi incolpare per questo? A chi rivolgere la propria rabbia, quando non c’era più un vero colpevole per quell’irreversibile perdita?
Il suo Trunks…lui l’aveva già perdonata, ma mai avrebbe perdonato se stessa per non avergli detto addio…
“Tu, oscuro peccatore, non dovresti stare qui ad infastidire un’anima celeste!” lo rimproverò bonariamente. “Sono le regole!”.
“Stupidaggini!” sbuffò il sajan, stringendola di più. “Sai che me ne sono sempre fregato delle regole!”.
Le loro labbra si incontrarono nell’oscurità, assaporando quell’unione tanto attesa, mentre un fastidioso trillo interrompeva bruscamente quel contatto.
“Che diavolo c’è, ora?” sbraitò Vegeta, afferrando il cercapersone dalla tasca dei pantaloni. “Quegli incapaci! Vogliono che li raggiunga nell’ultimo girone, dicono che è un’emergenza!”.
“Oh!” esclamò Bulma, stupita. “E’ meglio che tu vada, allora! Sai già di che si tratta?”.
“No, ma sicuramente è in corso l’ennesima insurrezione ad opera dei dannati, e come al solito, se non intervengo io, gli altri non sanno dove mettere le mani!”.
 
Il girone era calmo, insolitamente tranquillo, le anime infernali silenziose nelle loro nicchie buie, ad attendere con rassegnazione il loro turno nell’espiazione delle pene più gravi.
Al limitare del cerchio intravide tre luminose aureole, più un paio di corna al di sopra di lisci capelli biondi. Crili, Yamcha, Tensing e 18, il quartetto che, per l’ennesima volta, gli doveva delle esaurienti spiegazioni.
“Allora, quale sarebbe l’emergenza?” chiese loro, fulminandoli uno ad uno con lo sguardo. “Non vedo nessun problema!”.
“Ecco…” rispose timidamente Crili. “Il problema è…lui!”.
Aveva seguito lo sguardo incerto del nanetto, finendo per imbattersi in una figura ancora più piccola, che avvicinandosi nemmeno aveva notato, e che ora si stringeva nelle spalle ai piedi di Yamcha e Tensing, che lo controllavano a vista.
Un rivoltante mostriciattolo giallognolo, che adesso lo guardava dal basso con gli occhietti tondi che sbattevano confusi.
“Babidi??” chiese, sgomento. “Ma che diavolo…”.
“L’abbiamo trovato aggirarsi in zona proibita con fare sospetto” gli spiegò Tensing, lanciando occhiate minacciose al maghetto, dall’alto della sua statura.
“Era all’ingresso del Cocito” precisò Yamcha. “Sembrava voler trovare un modo per entrare!”.
“No, no, non è vero!” negò Babidi, rivolto supplicante in direzione di Vegeta. “Io stavo solo passeggiando, e sapete come succede, cammina, cammina, ho smarrito la strada!”.
“Taci!” lo zittì 18, il pugno abbassato verso di lui ed il grande desiderio di tirare un calcio in quella testa rugosa.
Babidi si fece ancora più piccolo, sparendo quasi all’interno del suo lungo mantello.
Vegeta si avvicinò di qualche passo, ma il suo sguardo tagliente era indirizzato, più che al mago, al quartetto di shinigami.
“Qualcuno vuole di grazia spiegarmi cosa mi avete chiamato a fare??” chiese irato, il tono di voce che cresceva ad ogni sillaba.
I quattro si guardarono dubbiosi, per poi lasciare la parola a Yamcha:
“Pensavamo che stesse architettando qualcosa! Se fosse entrato là…”.
“Già, se fosse entrato là? Per sua sfortuna si sarebbe trovato in mezzo all’enorme ghiacciaio perenne, e se anche per caso fosse riuscito ad attraversarlo, beh, non credo che avrebbe apprezzato ciò che c’è dopo!”.
Babidi annuì vigorosamente, mentre un sorrisetto sollevato si faceva strada sul suo volto da insetto:
“Sì, sì, infatti! Io stavo solo cercando di capire dove mi trovavo!”.
“Ma insomma!” protestò Tensing, ormai agitato. “Non mi sembra normale che un dannato come lui si aggiri liberamente per gli inferi!”.
“Bene, allora riportate il microbo nel suo settore! C’era bisogno di chiamare me per farlo!?”.
Mentre Tensing si allontanava scuotendo la testa e 18 afferrava Babidi per il mantello con poca delicatezza, Yamcha incrociò le braccia al petto, borbottando tra se:
“Già! Peccato che quando non viene chiamato abbia lo stesso da ridire!”.
Ma Vegeta, a cui non era sfuggita la frase, tornò davanti allo shinigami, guardandolo con superiorità:
“Ti ha forse interpellato nessuno?”.
 
* * *
 
Una piccola lampada da tavolo a basso consumo, solo quella ad illuminare le pagine ingiallite di quel vecchio manoscritto, lasciando gli angoli più lontani della stanza immersi in una cupa oscurità. Da fuori, arrivavano ovattati i rumori serali della città, voci lontane o motori passanti, mentre l’ostello studentesco già riposava silenzioso dopo il puntuale annuncio del coprifuoco.
Anche le sue due coinquiline dovevano già dormire, nelle quiete camere attigue, ma lei, nonostante la leggera stanchezza, vegliava insonne su pagine ormai lette e rilette:
Non ci credo ancora. L’ha fatto entrare in casa sua. Gli ha dato da mangiare, da bere, perfino un letto per dormire. Lei sembra sicura di quello che fa, ma io sono preoccupato…
Non dovrebbe condividere lo stesso tetto con un individuo del genere.
Quello era stato solo l’inizio, pensò, mentre saltava qualche pagina. Sapeva a memoria quali fossero state le conseguenze di quella follia. Eppure, adesso aveva un gran bisogno di rileggere quelle righe, scritte con la calligrafia un po’ trasandata di chi, in vita, non ha mai avuto un gran bisogno di usare una penna:
Era stato come un boato, un’esplosione improvvisa. C’eravamo precipitati immediatamente là, verso quell’ammasso di macerie che restava del lavoro di mesi. Anche prima di arrivarci, sapevamo già chi ne fosse l’artefice. E infatti eccolo là, violabile e indifeso come mai avevo avuto occasione di vederlo, un’immagine così inusuale che, per un momento, quasi non mi sembrò trattarsi della stessa persona presuntuosa ed arrogante che mi ha sempre guardato come fossi un insetto.
Ma poi, ecco che lei gli va incontro, da crocerossina compassionevole…ed era proprio compassione quella che vedevo nei suoi occhi, quella che l’ha spinta poi a vegliarlo giorno e notte per tutta la convalescenza. Gli stava vicino, pericolosamente vicino…
Io ho tentato di metterla in guardia, ma erano solo parole gettate al vento, perché lei ormai non mi sentiva più…
Nei suoi occhi, adesso, non c’era più soltanto compassione…
Passò di nuovo oltre, gli avvenimenti che seguivano erano ormai più che scontati. Ma c’era una cosa che non capiva ancora, una frase datata qualche anno dopo, sul finire di quel vecchio quaderno, in apparente contrapposizione a tutti i sentimenti che quelle parole avevano precedentemente trasmesso:
Sembra felice. E’ strano, probabilmente non capirò mai come possa appagarla un rapporto del genere, o un erede in cui per metà scorre il sangue di un pericoloso alieno dalla statura limitata, ma non sta certo a me dare giudizi. Io ne ho perso il diritto già da molto, e, devo ammettere, me lo sono proprio meritato.
Forse non condividerò mai le sue scelte, ma non per questo la odierò. Tutto ciò che posso fare, adesso, è concedere il mio aiuto qualora ce ne fosse bisogno, intervenire sempre al fianco di coloro con cui, nel bene e nel male, ho condiviso segreti ed esperienze.
Non sarà molto, ma è mio dovere.
Chiuse il manoscritto, sbuffando leggermente.
No, non era affatto giusto. Quella era stata una resa, una sconfitta accordata, un’umiliazione troppo grande, inflitta da chi aveva preteso di prendersi ciò che non gli apparteneva.
Chi aveva scritto quelle pagine aveva lasciato correre passivamente, non avrebbe potuto fare altrimenti, ma ora, anche a distanza di molti anni, le cose si sarebbero aggiustate, il torto scontato.
La giusta vendetta veniva finalmente realizzata.
 
Continua…

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Capitolo 4
*** capitolo 3 ***


Fackel corse su per le scale di casa, veloce come il vento. Quel libro di matematica, che si era disgraziatamente dimenticata e per il quale era dovuta tornare indietro già a metà strada per Satan City, non si decideva a venir fuori. Il suo quotidiano ordine non aveva mai permesso eventualità del genere, ma la sera precedente aveva avuto la testa da un'altra parte.
E come darsi torto, dopo che la sera prima si era trattenuta fino a tardi a pulire la mensa, inevitabile punizione dopo il disastro combinato a pranzo. Anche Ramen era stata obbligata a farlo, e vederla con addosso un grembiule ed in mano una scopa era stato estremamente divertente. Fortunatamente, tutta l’operazione era stata presieduta dallo sguardo severo della signora della mensa, in modo che le due ragazze non potessero scambiarsi neanche una parola e si tenessero a debita distanza di sicurezza. E così era stato, un lungo, interminabile pomeriggio passato a lucidare pavimenti e a smacchiare i muri, in un inquietante silenzio intervallato solo dai brevi sguardi assassini che lei e Ramen si scambiavano.
Quando finalmente era tornata a casa, aveva avuto appena il tempo sufficiente per finire i suoi compiti. Ma dov’era, adesso, quel dispettoso libro?
Aveva già perlustrato interamente la sua stanza, senza esito, e istintivamente si precipitò nella camera di suo fratello, dimenticando di bussare e spalancando frettolosamente la porta.
“Scusami, Lux, hai per caso visto il mio…”.
Il ragazzo, disteso sul letto e con la testa comodamente appoggiata su un doppio cuscino, fece un balzo improvviso, nascondendo sotto di esso, con un rapido gesto, la rivista che stava leggendo.
“Ehi, potevi almeno bussare!” la rimproverò, con un leggero rossore sul volto, ma la ragazza lo stava già fissando con espressione incuriosita, come se si fosse già dimenticata di ciò che stava cercando.
“Cosa stavi leggendo?” gli chiese maliziosamente, avvicinandosi al letto con passi lenti e inquisitori.
“Non ti riguarda! E adesso vattene, per favore!”.
Ma Fackel lo anticipò con uno scatto, tirando fuori da sotto il cuscino il misterioso giornaletto. Il suo sorriso giocoso si trasformò lentamente in un’espressione più seria, mentre i suoi occhi scrutavano sorpresi la copertina, rimuovendo definitivamente l’idea che si era fatta su ciò che avrebbe trovato.
“Compendio mensile di botanica e zoologia?” chiese con meraviglia. “Io non credevo che…queste discipline ti interessassero a tal punto”.
“Ok, e allora?” si difese Lux, arreso, le braccia incrociate al petto e lo sguardo che si defilava da un’altra parte. “Uno non può avere le proprie passioni?”.
Fackel lo guardò affettuosamente, con un sorriso gentile, nonostante sapesse già che non sarebbe stato ricambiato.
“Non è questo il punto, secondo me” gli disse. “Tu hai scelto di seguire le orme di papà, ma a te piace la natura, non la tecnologia…perché non gliene parli?”.
“No!”.
“Ma perché? Sono sicura che sarebbe ugualmente contento!”.
“Basta così!” la zittì, spingendola educatamente ma decisamente fuori dalla sua stanza. “Adesso, se non ti dispiace, ho da fare!”.
Le chiuse praticamente la porta in faccia, lasciando la sorella a fissare il legno allibita. Poi, dopo qualche secondo, mentre già lei se ne stava andando arresa, si riaffacciò con indifferenza.
“Ah, se lo cerchi, il tuo libro è in bagno” la informò con noncuranza. “Credo tu ce lo abbia lasciato ieri sera, tentando assurdamente di studiare mentre ti asciugavi i capelli!”.
 
Otto e trentacinque. Fackel non si vedeva ancora.
Decisamente strano, pensò Nebe, mentre si affacciava alla vetrata trasparente della sala da pranzo, aperta sul giardino. Era perfino riuscito ad essere pronto in tempo, quella mattina.
“Dunque…” ripeteva tra se suo padre, seduto davanti ad una tazza fumante di caffè e ad un blocco per appunti. “…vi garantisco quindi l’assoluta affidabilità, l’inimitabile…no, no, non ci siamo!”.
“Che stai scrivendo, papà?” gli chiese bonariamente divertito, appoggiandosi leggermente alla parete mentre ingannava l’attesa.
Ub lo guardò, mentre un sospiro arrendevole gli usciva dalle labbra.
“Devo sponsorizzare la linea sportiva di un grande magazzino di Satan City…hanno voluto che parlassi all’inaugurazione del negozio, ma non trovo le parole adatte…”.
Abbassò di nuovo la testa, ormai completamente rasata e priva dei bizzarri capelli neri che avevano contrassegnato la sua gioventù, riportando gli occhi corvini su quel maledetto pezzo di carta che rimaneva immancabilmente bianco.
“E perciò vi consiglio, gentili cittadini…” riprese, impacciato. “L’eccezionale qualità di questa linea comoda, pratica…ehm…”.
“…moderna, originale, stravagante, innovativa!” gli aveva prontamente consigliato Zeme, entrando nella stanza e afferrando una delle brioche dal vassoio sul tavolo, assaggiandola con gusto.
“Ma…Zeme” aveva obiettato Ub, grattandosi la testa con indecisione. “Io ho visto questi prodotti…non hanno niente di originale e tanto meno di stravagante…sono comuni tute da palestra!”.
“Appunto, papà! Se si vuole avere effetto bisogna esagerare, aggiungere qualcosa in più a quello che è…alla gente di solito non piace la semplice normalità!”.
Aveva detto quelle parole lanciando una fugace occhiata al fratello, che si voltò di nuovo con indifferenza verso la vetrata. Ub, soddisfatto, accolse con gioia il consiglio del figlio, aggiungendo quella bizzarra serie di aggettivi all’elenco.
“Buongiorno tesoro, buongiorno ragazzi!” li aveva salutati frettolosamente Marron, affacciandosi nella stanza, i capelli biondi raccolti sulla nuca da un fermaglio e la valigetta da lavoro con camice e articoli sanitari. “Stamattina devo correre presto in ospedale, in frigo c’è un po’ di dolce se avete fame, e tu Ub, fammi sapere come è andata l’inaugurazione, più tardi!”.
“Ok, cara, a stasera!” l’aveva salutata l’uomo con un sorriso, abbandonando per una attimo la scrittura.
“Ciao, mamma!” avevano esclamato invece all’unisono i due gemelli.
Marron sorrise, le piccole fossette ai lati della bocca che le davano ancora un’espressione giovanile. Fissò teneramente i suoi due ragazzi: il modo con cui la salutavano, oltre alla loro straordinaria sincronia nel farlo, era probabilmente l’unica cosa che ancora li accomunava. Ne era passato di tempo, da quando lei e Ub facevano addirittura fatica a riconoscerli.
Nebe guardò di nuovo fuori, sperando di vedere arrivare un’inconfondibile chioma lavanda al di là della cancellata.
“Quant’è che la stai aspettando, Nebe?” le chiese improvvisamente suo fratello, avvicinandosi a lui, la colazione ancora in mano e il cappellino già in testa.
“Oh…è in ritardo di soli dieci minuti, in realtà” rispose il ragazzo, alzando le spalle. “Ma sai com’è Fackel…è sempre così puntale!”.
Zeme sorrise tra se, scuotendo la testa divertito.
“Non parlavo di stamattina, fratello…sai cosa intendo”.
Nebe distolse repentinamente lo sguardo, ringraziando la sua carnagione scura in grado di celare, in parte, il rossore che adesso gli infiammava le guance.
“E’ troppo tempo, non credi, che le nascondi quello che provi per lei” convenne Zeme, senza malizia nella voce, solo la spontaneità di un’opinione fraterna, quella che da lui trapelava quando si trovavano da soli, fuori dalle mura del liceo. “Non puoi sempre aspettare che le cose piovano dal cielo…devi prendertele, se le vuoi!”.
“Non è così semplice” mormorò Nebe, con un debole sorriso. “Tra noi cambierebbe tutto in quello stesso momento. Niente sarebbe più come prima”.
“E tu forse non vuoi che le cose cambino? Vuoi continuare ad essere solo il suo migliore amico per sempre, quello con cui si confiderà quando uscirà con altri ragazzi? Perché succederà, prima o poi, se tu non…”.
“Il problema è che…Fackel non ama i cambiamenti” lo interruppe Nebe. “Lei colloca tutto in un posto preciso…persone, cose, sentimenti…vuole poterli tenere sotto controllo, averli sempre a portata di mano, conoscerli nei dettagli…se le rivelassi…insomma, se le dicessi la verità, sconvolgerei il suo puzzle perfetto…e forse perderei il mio posto nella sua vita”.
“Mai accontentarsi, Nebe” gli sussurrò lui, mentre recuperava dalla spalliera della sedia la felpa con lo stemma del liceo e si avviava verso la porta. “Certe volte, bisogna avere il coraggio di rischiare!”.
Lo guardò salutare il padre, ancora concentrato sul lavoro, per poi uscire dalla stanza. Quando Nebe si voltò di nuovo verso la vetrata, intravide finalmente la familiare figura di lei che si avvicinava a passo svelto lungo il viale, e il suo cuore sobbalzò.
Probabilmente aveva ragione Zeme. Lui l’avrebbe anche aspettata per sempre, se era necessario, ma forse era giunto il momento di andarle incontro.
 
Finalmente, il semaforo pedonale divenne verde. Una fiumana di persone si riversò nella strada momentaneamente sgombra, avviandosi a passo deciso verso l’altro lato. Uomini d’affari, donne in carriera, magnati dell’alta finanza che parlavano con veemenza al cellulare, tutti che correvano verso la loro quotidiana vita frenetica, verso gli alti uffici che svettavano nel centro di West City, il cuore degli affari.
Lux, invece, per ora doveva solo arrivare dall’altra parte della strada, verso la galleria commerciale.
Credo che lavorare alla Capsule Corporation sia proprio quello che hai sempre desiderato…
E come dare torto a suo padre. Ottenere un posto nell’azienda di famiglia era diventato il suo obiettivo più grande. Aveva fatto sacrifici per arrivare a quella fatidica proposta di lavoro, e adesso, adesso che finalmente era arrivata, non aveva neanche il coraggio di riconoscere a se stesso che quel posto tanto ambito, in realtà, per lui non significava altro che un posto nella vita di suo padre…
Tu hai scelto di seguire le orme di papà, ma a te piace la natura, non la tecnologia…
Continuava a denigrare sua sorella, senza un motivo plausibile, forse solamente perché lei aveva sempre maledettamente ragione. Ma non l’avrebbe ascoltata. Avrebbe continuato a tapparsi le orecchie, a mettere ostinatamente la testa sotto la sabbia, perché quella cosa, quella brutta cosa, era sempre lì, in agguato, pronta ad attaccare ad ogni suo minimo errore. Aveva promesso di fuggire da quella voce interiore, tanto pericolosa, scegliendo invece di farsi trasportare passivamente dalle acque. Acque dritte e rettilinee, proprio come quel fiume di gente tra cui si era trovato a camminare.
Ricordati che la tua casa è qui, che noi siamo qui, e che siamo sempre con te…
Sua madre…non poteva coinvolgerla sempre nei suoi problemi, non era giusto. Aveva già sofferto abbastanza per lui. Doveva affrontare la sua battaglia interiore da solo, quella stremante, eterna lotta contro il suo lato oscuro.
Entrò pensieroso nella spaziosa panetteria, dove snodati robot, al posto di fornai in carne ed ossa, lavoravano meccanicamente la pasta.
“Buongiorno, signora Cotton”.
La padrona del negozio, una robusta donna sui sessant’anni seduta alla cassa, gli sorrise maternamente, la bocca che sembrava un’allegra mezzaluna.
“Buongiorno, Lux!”.
“Lux?” chiese, voltandosi indietro, una cliente davanti a lui, che stava in quel momento pagando il conto. “Lux Brief, figlio di Trunks Brief?”.
“Sì, è proprio lui” rispose compiaciuta la signora Cotton, mentre il ragazzo infilava distrattamente le mani in tasca e sembrava aver trovato qualcosa di estremamente interessante nella muratura delle pareti. “Ma questo bel giovanotto non è il tipo che si dà le arie, sa, signora Smith, è proprio un bravo ragazzo, sempre così buono e gentile, che quando ha tempo preferisce andare a fare commissioni per sua madre che a divertirsi, mica come la maggior parte dei ragazzi di oggi!”.
Le due donne continuarono per un po’ a commentare sorridenti, ripetendo che non c’erano più i giovani di una volta, che avere un figlio del genere era una fortuna e che bisognava tenerselo stretto, e tante altre belle storie. Infine, la loquace e curiosa cliente se ne andò dal negozio con la sua spesa.
“Ecco qua, Lux, la ricevuta è nella busta!” lo avvisò la commessa, porgendogli i suoi acquisti. “Salutami tua madre!”.
“Senz’altro” rispose Lux con un mezzo sorriso. “Ah, una cosa, signora Cotton…”.
Le si avvicinò lentamente, facendole un segno con la mano come per invitarla ad affacciarsi di più al bancone e a porgergli l’orecchio.
“Io non sono affatto un bravo ragazzo, sa…” le bisbigliò cospirante. “Io sono cattivo…molto, molto cattivo”.
Se ne andò con noncuranza, gustandosi però, con un rapido sguardo, l’espressione allibita della donna, che lo fissava immobile a bocca aperta, il volto rotondo diventato improvvisamente pallido.
Mentre usciva dal negozio, un sorrisetto compiaciuto si disegnò lentamente sul suo volto.
 
“Dottoressa Bra, mi perdoni se la disturbo, ma c’è qui suo figlio che vuole vederla…” comunicò Irina tramite la linea interna, alzando poi gli occhi minacciosa verso il giovane Son che, nonostante l’iniziale negazione della segretaria, aveva insistito per parlare con sua madre.
Quel ragazzo, si disse mentalmente, era tremendamente cocciuto. La vicepresidentessa le aveva detto esplicitamente che era molto impegnata e che non voleva interruzioni di nessun tipo. Adesso finalmente anche lui avrebbe capito che…
Ma la sua espressione, mentre ascoltava la risposta, si fece improvvisamente sorpresa.
“Allora?” gli chiese Golden, incoraggiandola.
“Ha…ha detto che può andare…” balbettò Irina, incredula e sconfitta.
Il ragazzo la salutò con lo sguardo compiaciuto di chi ha appena vinto una sfida, avviandosi poi verso l’ufficio di sua madre. Aprì lentamente la porta, entrando nella luminosa stanza la cui spaziosa vetrata dava su un suggestivo spaccato di West City. Sua madre era seduta alla scrivania, sulla quale regnavano disordinatamente pile di fogli, cancelleria varia e campioni di tessuto, e parlava animatamente al telefono.
“No, mi sembra di averle già detto che ho assolutamente bisogno di quel materiale per domattina!” scandiva spazientita, accavallando una gamba e girando nervosamente una penna tra le dita. “E’ già una settimana che ho fatto quell’ordine, i tempi di trasporto non sono un mio problema!”.
Golden, divertito, si sedette comodamente nella poltrona davanti alla scrivania.
Attraente, in gamba, intelligente e con l’eleganza nel sangue, nel suo tailleur blu scuro, i capelli tirati su e occhiali da vista griffati con la montatura rossa. Se per la rara e ancor fresca bellezza poteva competere con poche altre donne del pianeta anche sotto i quarant’anni, nessun uomo poteva batterla, per intuizione e determinazione, nel campo degli affari. E se suo zio Trunks era spesso e volentieri troppo accondiscendente, sua madre si faceva rispettare e temere da ogni subalterno, che difficilmente si sarebbe arrischiato a permettere un ritardo nelle consegne.
“Cosa? Non ce la fate?” chiese minacciosa. “Beh, fate in modo di farcela o non ci metterò molto a cambiare fornitore!”.
Riattaccò non troppo delicatamente il ricevitore, per poi alzare gli occhi verso il figlio e cambiare totalmente e repentinamente espressione.
“Ciao, tesoro!” lo salutò con gioia, accogliendolo con uno splendido sorriso. “Che piacere vederti! Come mai qui?”.
“Devo forse avere un una ragione precisa per venire a trovare mia madre a lavoro?” chiese innocentemente il ragazzo, trovando un gusto infantile a girarsi a destra e a sinistra con la comoda poltroncina munita di rotelle.
Bra lo guardò bonariamente, inarcando sospettosa un sopracciglio: “Sì!”.
“E va bene” ammise Golden, alzando arreso le spalle. “Mi servirebbe un piccolo prestito, mami… ho avuto diverse spesucce in questo mese, e tu sai che, insomma, lo stipendio che mi elemosina Pan alla palestra è un tantino…come dire…misero!”.
Risero entrambi con gusto, ripensando all’ultima busta paga nella quale, oltre a poche centinaia di yeni, il ragazzo aveva trovato un messaggio leggermente minatorio di Pan:
E’ anche troppo, ragazzaccio, per quello che ti meriti!
Era corso subito a farlo vedere a sua madre e, complici, si erano ritrovati tutti e due a piegarsi in due dalle risa.
“Ok, Gold” acconsentì infine Bra, mentre dal cassetto della scrivania tirava fuori una carta di credito nuova di zecca, la parte metallica che luccicava come oro nella morbida luce pomeridiana.
Golden sorrise soddisfatto, allungando istintivamente la mano, ma la donna ritrasse prontamente l’ambito cartoncino, lanciandogli un’occhiata dubbiosa.
“Un momento!” l’ammonì, con tono inquisitorio. “Non è che…devi usarli per comprare qualcosa di costoso ad una ragazza?”.
“Figuriamoci! Devo solo fare qualche ritocco all’auto!” replicò lui divertito. “E poi, mamma, lo sai che sei tu l’unica donna della mia vita!”.
Bra sorrise, piacevolmente rassicurata, guardandolo con affetto.
Le madri, pensò Golden, potevano essere molto gelose dei loro figlio maschi. Soprattutto quando la madre in questione era Bra Brief.
 
La campanella aveva finalmente risuonato l’ultima nota della giornata, guidando gli stremati studenti verso l’uscita della scuola, ad abbracciare la luce dorata del tardo pomeriggio. I corridoi si erano rapidamente svuotati, solo qualche custode rimaneva tra le aule per le pulizie di fine giornata, e le suggestive macchie d’ombra riversate sui muri sembravano magicamente intervallate da originali disegni di luce.
Infine la vide, davanti al suo armadietto, ai piedi un barattolo di vernice arancione ed in mano un pennello che passava con cura sul fine metallo. I capelli, quei morbidi, stupendi capelli che lei odiava tanto, erano accuratamente raccolti in alto, la fronte libera da ciocche lavanda. Il suo profilo era come una figura di colore in quello spoglio corridoio, meravigliosa in ogni singolo dettaglio, perfetta nella sua semplicità. Un viso dolce, acqua e sapone, dalla carnagione chiara e dalla pelle così morbida che era quasi impossibile non cedere ad accarezzarla, gli occhi neri, che ora controllavano soddisfatti il risultato, profondi e sfaccettati come laghi, in cui avresti solo voluto perderti e non tornare mai più a galla.
E quelle labbra…
Quelle labbra fini, naturalmente rosee, senza traccia alcuna di rossetto ad impastarle, ora leggermente aperte mentre la ragazza era concentrata sul lavoro…quelle labbra che Nebe, per diciassette anni, non aveva mai sfiorato.
“Ciao, Fackel” la salutò, avvicinandosi a lei, zaino in spalla. “Vedo che ti sei messa al lavoro”.
La ragazza si voltò verso di lui, accogliendolo con un caldo sorriso. Sulla guancia si era accidentalmente disegnata una breve striscia arancione.
“Ciao! Sono passati già due giorni e non potevo certo dare la soddisfazione a Ramen di lasciare l’armadietto in quello stato!”.
Nebe allungò istintivamente la mano, con l’intenzione di cancellargli quel simpatico sbafo dal volto con il palmo del pollice. Ma la ritrasse poi con indifferenza, portandola imbarazzato alla nuca.
“Ehm…hai una macchia di vernice sul viso…” la informò, cercando di riprendere il controllo di se. “Non dovevi dipingere solo l’armadietto?”.
Fackel rise, strofinandosi la guancia con le dita. Quel sorriso caldo, aperto, familiare. In quel momento, Nebe capì che non poteva più aspettare.
“Fackel, senti…devo dirti una cosa…” balbettò, cercando di guardarla negli occhi, occhi corvini che, adesso, sembravano puntati su di lui con curiosità.
“Che cosa?”.
“Ecco…io…cioè, tu…insomma…”.
La sua voce aveva iniziato lentamente a tramare, mentre spostava nervosamente il peso del corpo da una gamba all’altra.
“Sì?” lo incoraggiò lei, la testa leggermente piegata di lato.
“Beh, io…volevo dirti che…che…”.
“Nebe…” mugolò stanca la ragazza. “Devo finire questo lavoro e passare in biblioteca, se non ti sbrighi, a casa mi daranno per dispersa!”.
Il ragazzo abbassò prontamente lo sguardo verso il pavimento, in mezzo al quale, in quel momento, avrebbe scavato volentieri una profonda buca dove poter sparire.
“Ecco, niente, volevo semplicemente dirti che…che avrei bisogno di prendere in prestito il tuo libro di chimica!”.
“Tutto qui?” sorrise divertita la ragazza. “Ci voleva tanto? E’ ancora in aula, lo troverai sul mio banco! Se mi aspetti, ce ne andiamo insieme!”.
“O-ok…torno subito…” mormorò lui, sforzandosi di sorridere.
In realtà, avrebbe volentieri voluto prendersi a schiaffi.
 
* * *
 
"Vinto!” esclamò 18 con un sorrisetto soddisfatto, mentre toglieva fishes dal gruzzolo di Chichi e le faceva scivolare verso il suo malloppo, attraverso il piccolo tavolino da caffè che in quel momento sembrava diventato il banco di un casinò. “Queste equivalgono ad altri due turni di ronda che mi devi!”.
Chichi sbuffò leggermente, mentre sul suo viso giovanile compariva un broncio risentito.
“Maledizione! Ero convinta che questa volta ce l’avrebbe fatta!”.
Qualche risolino rassegnato si udì nella grande sala della Residenza, dove i sette shinigami si erano riuniti, finiti i loro turni di lavoro quotidiani, davanti al grande schermo.
“Ma insomma…non è giusto scommettere così sui sentimenti di un povero ragazzo!”.
Era la stata la voce di Crili che aveva mormorato cautamente quella frase, mentre osservava, dolente, suo nipote che si allontanava sfiduciato.
“Ha bisogno di tempo, poverino!” continuò. “Non sono cose così facili da dire…”.
“Scommetto che ha preso dal nonno!” esclamò Yamcha, mentre una risata generale si sollevava tra di loro, lasciando il più basso shinigami immerso in un evidente imbarazzo.
Solo Vegeta, al margine del divano e leggermente scostato dagli altri, fissava serio lo schermo, senza trovare il medesimo interesse in quelle monotone situazioni quotidiane. L’unico commento che gli veniva in mente era che, nonostante quei bambocci fossero suoi nipoti ed i loro genitori portassero entrambi geni sajan, il loro sangue, con il passaggio di una generazione, si era ulteriormente arrugginito. E come poteva essere altrimenti…
Una ragazzina tutta numeri la cui unica sfida era competere con un’inutile ballerina…
Un fanciullo tutto casa e studio che aveva ancora paura dell’uomo nero come un poppante…
E infine, un giovincello completamente fuori di testa il cui sorriso smagliante compariva costantemente nel genere di riviste che, quando era ancora in vita, lui usava solo in una stanza e con un unico scopo…
Da non credere che quei marmocchi fossero nipoti suoi! Sicuramente dovevano aver preso dai Son!
D’un tratto, l’orologio a muro cominciò a battere forti rintocchi, mentre nella sala le voci femminili si zittivano bruscamente.
“Silenzio!” ammonì Bulma, mentre si accomodava sulla punta del bianco divano, telecomando stretto in mano come fosse un’arma da combattimento. “Ci siamo, ci siamo, sta per cominciare la 6945esima puntata di Sentieri infernali!”.
Sullo schermo, intanto, reimpostata la visione dei canali celesti, si faceva strada, sonorizzata da un’avvincente canzone, la sigla della soap con i volti dei protagonisti.
“Che cosa? Dovremmo vedere questa roba?” chiese Yamcha, con una smorfia di disgusto.
“E’ ovvio!” scandì Chichi, eccitata. “Come potremo perderci quest’episodio, Angel sta per rivelare a Serafin che l’ha tradito con Cherubin, mentre Belzebù è finalmente sul punto di baciare Luciferin!”.
“Per favore…” sbuffò Tensing. “Avanti, Vegeta, fai qualcosa tu per risparmiarci questa lagna!”.
Ma Vegeta neanche lo sentì, gli occhi d’ebano rapiti dalle immagini sullo schermo, le mani che stringevano un sacchetto di popcorn che sgranocchiava passivamente.
“Sshhh!” si limitò a fiatare, facendo distrattamente segno con la mano di abbassare la voce, mentre gli altri tre uomini, metà scioccati e metà divertiti, lo guardavano allibiti.
Ma non dovettero attendere molto per vedere l’espressione concentrata del principe mutare repentinamente, trasformandosi in un’occhiataccia omicida mentre, al posto dell’avvenente protagonista maschile, compariva la brutta faccia di Enma.
“Qualcuno batte la fiacca, eh?” chiese il gigante, accarezzandosi nervosamente la barba scura. “Ti sei forse scordato, Vegeta, la tua espiazione di colpe quotidiana?”.
Il principe sbuffò adirato, era già abbastanza noioso essere regolarmente mandato ad alimentare la bollente fornace del fuoco perpetuo, non c’era bisogno che quel guastafeste glielo ricordasse proprio nel momento cruciale della sua soap preferita!
“Avanti, sbrigati a tagliare la corda, o per colpa tua ci perdiamo la puntata anche noi!” lo esortò la cyborg, mentre le altre donne reclamavano trepidanti il ritorno del programma e i tre insulsi maschi se la ridevano di nascosto.
Se ne andò borbottando qualcosa contro il padrone dell’oltretomba, uscendo con rabbia dalla Residenza. Mentre raggiungeva a passo svelto il primo teletrasporto, si ritrovò improvvisamente tra i piedi quella vecchia scocciatrice di Baba, che, appoggiata al suo bastone, stava risalendo lentamente il Limbo nella sua quotidiana passeggiata.
“Salve, bel fusto” gracchiò la vecchia, lanciando un’occhiata allusiva al principe. “Te ne vai al lavoro anche oggi?”.
“No, vado a farmi una sauna al Fuoco perpetuo!” rispose sarcastico lui, sbuffando.
Il sorriso sdentato della maga si aprì orripilante, mentre pensieri tutt’altro che innocenti le attraversavano quella piccola testa rugosa:
“Peccato che non possa vedere quella mercanzia di muscoli bagnati di sudore mentre alimenti la fornace a torso nudo!” esclamò, mentre pian piano riprendeva il suo cammino, senza mancare però di voltarsi rapidamente indietro per osservare la figura del sajan da un’altra prospettiva. “Mi accontenterò del belvedere che si intravede da quel paio di pantaloni di pelle attillati!”.
Vegeta sobbalzò per l’imbarazzo, sentendosi improvvisamente vulnerabile alle occhiate languide di quella vecchia pervertita. Ci mancava solo lei per maledire definitivamente quella pessima giornata.
Salì rapidamente sulla pedana del teletrasporto, proiettandosi finalmente verso l’ultimo girone. E così via, di nuovo ad espiare le sue antiche malefatte a palate di carbone.
Intanto, per fortuna sua ma non delle donzelle che dalla Residenza seguivano speranzose la trasmissione, Angel non trovava ancora il coraggio di rivelare il suo tradimento, mentre Belzebù e Luciferin rimandavano alla puntata successiva il loro tanto atteso bacio.
La solita storia, scontata e prevedibile, proprio come le vicende che, ormai da molti anni, erano soliti spiare sulla Terra.
 
* * *
 
“Ti sto chiamando, oscuro signore delle tenebre…riesci a sentirmi?”.
Solo denso fumo compariva per ora nella piccola sfera translucida, stretta tra i bramosi artigli dell’invocatore. Il silenzio, l’oscurità e l’impaziente attesa opprimevano con forza il suo piccolo rifugio, facendo di quelle improvvisate mura una bolla di pathos crescente.
Nessun nome da invocare, nessuna direzione precisa a cui rivolgersi, solo un’ancestrale consapevolezza, una primitiva fiducia verso il potere dell’ignoto. Ci aveva creduto fortemente e, liberando la propria mente dalle barriere fisiche, aveva srotolato il suo intelletto come fosse una fune calata dalla finestra, lanciandola poi verso quell’indistinto punto dello spazio.
“Parla”.
Solo una parola era giunta finalmente alla sua coscienza, non trasportata dall’etere ma soltanto da quel labile filo mentale. Una voce profonda, echeggiante, a cui, all’interno della sfera, facevano da sfondo solo ombre vaghe e distinte, sagome scure dai contorni inquietanti.
Il contatto era finalmente riuscito. Un sorriso fiero si disegnò sui suoi tratti.
“Io ti chiamo da lontano, oh signore, qualora non ho modo di raggiungerti. Non c’è ragione che ti dica il mio nome, tu sai chi sono, puoi sentirlo…”.
Qualche attimo di silenzio, solo un ovattato fruscio disturbava quella quiete. Lo percepiva distintamente, percepiva la mente della creatura che lo sondava attentamente attraverso quel collegamento psichico, come una mano felpata sulla sua testa.
“Ti ho cercato a lungo” continuò, avvertendo il progressivo dissiparsi dei dubbi. “E finalmente ti ho trovato su questa lunghezza d’onda. So che sei in trappola, mio signore, ma io conosco il modo per donarti di nuovo la libertà”.
Qualche movimento nella sfera, impercettibili cambiamenti di luminosità e consistenza.
“Quale compenso avresti per te?” chiese la voce, grave e fredda come il marmo.
L’invocatore sorrise avidamente, nessun dubbio passava minimamente per la sua mente:
“La vendetta”.
La mano felpata lo sfiorò ancora virtualmente, questa volta penetrando negli anfratti più oscuri della sua anima, alla ricerca della verità. E la trovò, perché era proprio ciò di cui si trattava.
“In che modo?”.
Domanda legittima.
“Ho un contatto” spiegò, con autocompiacimento. “Adesso è silente, dorme un profondo sonno da tanto tempo, addormentato piacevolmente in un nuovo, inconsapevole sangue…ma si desterà presto al mio richiamo, percorrerà la strada che io gli ordinerò, e aprirà infine la vostra antica prigione”.
Nella sfera, proiettandovi con un breve sforzo l’immagine del suo pensiero, si delineò lentamente una giovane figura umana, i contorni dolcemente sfumati come nel riflesso di un lago.
“L’ora è giunta” concluse. “Presto la Terra non sarà più la stessa”.
 
Continua…

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