Meant to be Alone

di Yoko Hogawa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Adagio ***
Capitolo 2: *** Andante ***
Capitolo 3: *** Andante grazioso ***
Capitolo 4: *** Allegretto ***
Capitolo 5: *** Allegro ***



Capitolo 1
*** Adagio ***


Desclaimer: La serie di Sherlock e tutti i suoi personaggi non sono di mia proprietà ma appartengono prima a sir Doyle, che li ha creati, e poi a Moffat e Gatiss, che li hanno adottati. Non scrivo per soldi ma per scaricare lo stress dovuto ai sequenziali fallimenti di conquista del mondo.

 

Note: Nuovo giro, nuovo kink.

Lo SoulBond!AU è qualcosa che ho scoperto nel fandom inglese, e l’ho amato da subito. Personalmente non mi ritengo esattamente in grado di scriverlo... non so, ho dei forti dubbi, ma ci provo comunque.

Sarà di 3/4 capitoli (vedrò andando avanti). Johnlock principalmente, sofferto fino in fondo, ma c’è qualche pezzetto di Sherlock/Victor e John/Mary. Non sono assolutamente influenti per la trama ma esistono.

È un po’ un esperimento stilistico, in realtà... sto cercando di cambiare qualcosa al mio solito modo di scrivere.

 

Sperando che sia gradito, auguro buona lettura

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1. Adagio

 

 

 

 

 

Da un’intervista al dottor Joseph C. Williams, docente di Biologia Molecolare e Cellulare alla University of Michigan, per Nature:

 

I: potrebbe spiegarci, in parole povere, cos’è un’Anima Gemella?

J.C.W.: in termini comuni viene chiamata “Anima Gemella” colei, o colui,  destinati ad essere la nostra metà perfetta, la persona più adatta a noi sotto ogni profilo. Più precisamente, è la persona il cui nome ognuno di noi ha tatuato sull’anulare sinistro fin dalla nascita.

In termini tecnici viene chiamato SIN.

I: e cos’è un SIN?

J.C.W.: SIN sta per “Soulbond Identification Name”. In poche parole è un metodo di classificazione burocratico come potrebbe esserlo il codice fiscale, o il codice di previdenza sociale. Viene registrato privatamente intorno ai 5 anni, età in cui comincia ad essere pienamente visibile sulla pelle.

I: cos’è un Legame?

J.C.W.: viene comunemente chiamato “Legame” l’incontro fra due Anime Gemelle predestinate. Esso scatta tramite un semplice contatto pelle contro pelle, come una stretta di mano, che innesca una reazione chimica all’interno di alcuni centri recettivi cerebrali. Si manifesta come una piccola scarica elettrica a bassissimo voltaggio, percepita solo marginalmente dall’epidermide, ma identificata spesso come un brivido, o un piccolo spasmo muscolare. Essa crea, appunto, il Legame, ovvero una sorta di co-dipendenza chimica e biologica che va intensificandosi con il tempo e la vicinanza. Conseguentemente, potrebbe anche diminuire con la lontananza, ma non sparirebbe mai del tutto.

I: quali sono gli effetti del Legame?

J.C.W.: i più conosciuti sono sicuramente gli squilibri emotivi nei confronti dell’altra persona. Protezione, affetto, senso di appartenenza. Nei casi di Legami più profondi è stato riscontrato anche un incremento del potenziale psichico, come mutuo riconoscimento e intendimento, profonda empatia. A volte si arriva a dei veri e propri “scambi psichici” in cui un componente della coppia è in grado di sentire il dolore provato dall’altro e viceversa.

I: qual è la spiegazione scientifica di questo fenomeno?

J.C.W.: al momento non esiste una vera e propria spiegazione scientifica, solo ipotesi che, purtroppo, non stanno portando a risultati apprezzabili. Un po’ perché ogni Legame è diverso così come sono diverse le persone che lo compongono, e un po’ perché le coppie che arrivano a questo tipo estremo di Legame sono veramente poche. Al momento sappiamo solo che il nome che compare sull’anulare sinistro è formato da particolari cellule melaniniche, e che a seconda dell’intensità del Legame e dei sentimenti provati il colore diventa più o meno scuro secondo un rapporto diretto. Il pigmento è quello ematico, dunque cresce e decresce su una scala di rossi, dal rosa chiaro al bordeaux. Diventa nero nella vedovanza, e sparisce gradualmente dopo la morte nel giro di poche ore.

Per quanto riguarda la formazione del Legame, le ipotesi più diffuse sono quelle che riguardano il rilascio nel corpo di un particolare ormone che reagisce all’odore dell’altra persona. Test di misurazione ormonale denotano un mutamento del quadro generale, dunque è difficile capire esattamente quale sia. Alcuni scienziati radicali ipotizzano che si vengano a creare delle vere e proprie modifiche a livello di DNA, o di RNA messaggero, ma a mio parere si tratta di speculazioni esagerate. Probabilmente la mutazione del DNA è già avvenuta quando i primi SIN hanno cominciato ad apparire, secoli fa.

I: come spiega la Scienza il fatto che il Legame si formi esattamente con la persona il cui nome abbiamo inciso sul dito? Come fa il nostro corpo, se solo di esso si tratta, a capire chi è la persona più adatta a noi?

J.C.W.: anche in questo caso, posso rispondere solo a livello puramente teorico.

Alcune teorie puntano il dito verso il caso, dicendo che il nome che compare sul dito alla nascita sia semplicemente frutto di una “lotteria” statistica fra i nomi più usati negli ultimi secoli. Secondo questo esempio, noi cercheremo legami stabili solo con le persone che detengono il nome che ci è capitato per caso, non preoccupandoci nemmeno di cercarne altre con altri nomi. Tuttavia, teorie puramente matematiche e statistiche come questa non spiegano il Legame e  tutto il processo che vi è dietro.

Temo che sia una di quelle cose che la Scienza non può ancora spiegare.

I: Esistono eccezioni alla comparsa del SIN?

J.C.W.: sì, esistono. Alcune persone non sviluppano il nome sulla propria pelle, che rimane perfettamente pulita. Questi individui vengono chiamati “Bondless”, o “Senza Legame”. Al contrario, altre persone nascono sì con un nome sul dito, ma esso si presenta già da subito come una ferita costantemente aperta e sanguinante, come un’incisione su pelle viva. Gli scienziati hanno potuto constatare che, in questi casi, le cellule pigmentate che formano il nome impediscono alle piastrine di far coagulare il sangue e, di conseguenza, alla ferita di guarire. Individui di questo tipo vengono comunemente chiamati “BCE” che sta per “Broken Connection Entity”, anche se la cultura popolare ha recentemente coniato il termine dispregiativo “Ribbon”, derivato dalla storpiatura di “Rejected Bond”, ovvero “Legame Rifiutato”.

In entrambi i casi la normale reazione chimica del Legame non avviene.

I: ci sono stati casi in cui un Bondless sia riuscito a sviluppare un Legame, o di un BCE la cui ferita sia guarita ed il Legame ristabilito?

J.C.W.: finora no. E se sono esistite situazioni di questo tipo non sono state riportate su documentazioni storiche consultabili.

 

 

Dal libro “Società del Legame” di Rajat Nara, Sociologo della Devianza, Nuova Delhi; capitolo 3 “mutamenti sociali comunemente accettati e nuove minoranze”.

 

“Il mutamento delle società umane e del comportamento delle masse dopo la comparsa del Legame è imponente.

Supponiamo per esempio di dover fare un’analisi sociale superficiale, tralasciando le variabili di mutamento specifico e concentrandoci solamente sul funzionamento di base dell’animale Società. Si può dire che qualsiasi gruppo sociale, e vale ora come in passato, funzioni basandosi su un insieme di costrutti specifici comunemente accettati da tutti i membri della comunità. Questi costrutti definiscono la Morale – termine del tutto differente da quello di morale religiosa, sia chiaro – del gruppo sociale in questione.

Analizzando reperti e registri storici gli studiosi di tutto il mondo hanno potuto constatare che l’avvento del Legame e di quello che modernamente chiamiamo “Soulbond Identification Name” (SIN) ha provocato un cambiamento radicale della Morale comune e, di conseguenza, anche di quei gruppi sociologicamente definiti “devianti” che formavano le cosiddette minoranze.

In una società in cui la normalità è l’avere sul dito il nome della propria Anima Gemella (poiché è così per l’85% della popolazione mondiale) ovviamente i gruppi di minoranza vengono identificati nei Bondless e nei BCE. Ma non solo, vengono operate distinzioni specifiche all’interno di questi stessi sottogruppi.

Studi statistici operati sulla popolazione carceraria mondiale hanno portato alla luce dati allarmanti sulla percentuale di BCE presente all’interno delle carceri, il 70% della quale è condannata all’ergastolo o accusata di crimini gravi come l’omicidio, il pluri-omicidio o l’omicidio seriale. La pubblicazione di questi risultati ha provocato, come effetto domino, una generale diffidenza nei confronti di questi individui, che si ritrovano ad avere problemi con cose semplici come l’ammissione all’università o il trovare lavori gratificanti.

D’altro canto, la comparsa del SIN e dei Legami ha causato un mutamento nel modo di pensare delle persone, portando alla scomparsa di problemi sociali quali l’omofobia, la xenofobia e il sessismo.”

 

 

Dal forum on-line “Parole al Vento”.

 

JasMine90: Questa storia dei Rabbit mi disturba molto, devo dire. Avete sentito che ce ne sono sempre di più? Tutti quei Legami Spezzati non sono normali. E credo che la colpa sia di quelle persone che decidono di ignorare il proprio SIN.

 

Arabesque: @JasMine90 ormai l’obbligo di mettersi insieme al nostro SIN è superato. È come il fatto di non fare sesso prima del matrimonio, arcaico! Il SIN non è un sostituto del libero arbitrio... voglio dire, tu il tuo SIN lo incontri, ci esci un paio di volte, poi se non ti piace non lo tocchi e non crei il Legame. Mi sembra semplice.

 

Cactus742: @JasMine90 @Arabesque guardate che il SIN non è come scegliere uno yogurt al banco frigo del supermercato! E le vostre sono parole di chi il Legame non lo ha ancora formato. C’è un motivo se la maggior parte delle persone ancora si unisce con la propria Anima Gemella... poi posso capire che ci siano situazioni, come abusi e violenze domestiche, che spingono coppie a separarsi... o anche il fatto che due Anime Gemelle non riescano ad incontrarsi entro una certa età... però non ha niente a che fare con i Rabbit.

 

JasMine90: @Cactus742 è scritto anche in molti libri che il fatto di non legarsi al proprio SIN porta a lungo andare allo spezzarsi del legame, nel ciclo di morte e rinascita. Non me lo sto inventando.

 

Cactus742: @JasMine90 mai detto. Però il tuo punto di vista fa molto casa-e-chiesa. Soprattutto Chiesa (quella con la C maiuscola).

 

CumbaGirl: Io non voglio che sia un mucchio di melanina sul mio dito a decidere chi dovrà essere il compagno della mia vita.

 

Cactus742: @CumbaGirl aspetta di incontrarlo poi ne riparliamo.

 

 

Dalla conferenza del dott. Giancarlo Bellini, professore di Teologia all’Università “La Sapienza”, Roma.

 

“Tutte le religioni del mondo rappresentano il Legame come qualcosa di unico e significativo per il credo stesso, ma al contempo sembrano concordare su di un fatto unico: il Legame è qualcosa di indissolubile, un filo che lega due anime nel ciclo di nascita/morte/rinascita.

Sapere di poter affrontare la morte senza perdere traccia della persona amata non è consolatorio? Molte persone trovano la pace nella morte sapendo che, anche nella prossima vita, la loro Anima Gemella sarà al loro fianco, seppur con un altro nome o con un altro aspetto. Ciò che lega due anime diviene talmente indissolubile, secondo alcuni culti religiosi, che esse possono persino fondersi insieme. Molti fedeli di molte religioni sostengono che i Legami più forti, quelli che sviluppano connessioni psichiche ed empatiche fra loro, non siano altro che l’evoluzione di due anime che sono divenute una sola attraverso diversi cicli vitali, attraverso l’unione spirituale, dei sensi e del corpo. Un’unione totale protrattasi da una vita all’altra.

Ovviamente, di conseguenza, questi Legami sono per essi qualcosa di sacro. Non si debbono spezzare.

Molti culti infatti proibiscono il credo praticato ai Bondless e ai BCE.”

 

 

 

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Violet e Siger Holmes si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra, quando non avevano visto alcun nome comparire all’anulare sinistro del piccolo Sherlock il giorno del suo quinto compleanno.

Mycroft, il figlio maggiore, a quell’età aveva già avuto il suo SIN pienamente visibile.

« Non si preoccupi, signora Holmes » aveva però detto il dottor Abbott: « alcuni bambini sviluppano SIN talmente chiari da rimanere praticamente invisibili per tutto il quinto anno di vita. Il termine massimo di registrazione è il compimento del sesto anno d’età, c’è ancora tempo ».

Era suonato rassicurante, nella sua voce calma e posata da medico tutto d’un pezzo; ma quando il sesto compleanno di Sherlock arrivò e non vi era ancora traccia del suo SIN, il medico dovette per forza sottoporre il piccolo ad un’ecografia per contrasto, in modo da confermare o meno la presenza dell’iscrizione. Era strano che rimanesse sottopelle anche dopo il quinto anno d’età, ma non essendo l’unico caso al mondo tutto era possibile. E la speranza è sempre l’ultima a morire.

Ma la sua voce fu molto meno rassicurante quando disse alla famiglia Holmes, una delle più facoltose dell’Essex, che il piccolo di casa non aveva alcun nome sul suo dito, e che per questo aveva l’obbligo di registrarlo ufficialmente all’anagrafe statale come Senza Legame.

Violet non fu felice di avere un Bondless nell’albero genealogico (altrimenti perfetto) della famiglia.

 

 

 

Jonathan e Margaret Watson si erano detti preoccupati al telefono con il loro pediatra, la terza notte in cui il piccolo John non dormiva a causa di un male alla mano sinistra che nessuno di loro sapeva spiegarsi. C’era solo una piccola macchiolina rossa sull’anulare, ma credevano che fosse del tutto normale; dopotutto il bambino aveva appena quattro anni, probabilmente era solo la pelle che cominciava a scurirsi per poi formare il nome che sarebbe apparso al compimento dei cinque anni.

Anche Harriett, la loro figlia maggiore, aveva provato un po’ di dolore alla formazione del suo SIN. Poteva succedere.

Ma la voce del medico non fu per nulla rassicurante quando ordinò loro di portarlo in ambulatorio il prima possibile, non importava che fosse notte.

I due uscirono di casa in tutta fretta, portando con loro il piccolo John ancora in pigiama, e all’arrivo in ambulatorio il medico lo fece sedere sul lettino e si chinò con una lente d’ingrandimento sulla mano del bambino, focalizzandosi sulla macchia rossa che colorava il dorso dell’anulare sinistro.

Con un sospiro affranto, si tolse gli occhiali e si stronfiò gli occhi. « È un BCE » disse ai due genitori, che cercavano in tutti i modi di tenere calmo John in mezzo alle sue crisi di pianto : « e anche uno precoce, riesco già a vedere il suo SIN sotto la pelle infiammata. La mano gli fa male perché c’è un’infezione in corso... probabilmente il nome comparirà entro le prossime due settimane. Comincerà anche a sanguinare. Vi darò degli antinfiammatori per calmare l’infezione e far diminuire il dolore, ma... » non aggiunse nient’altro, scuotendo piano il capo.

Margaret abbracciò forte il bambino, le prime luci dell’alba all’orizzonte.

Una vita da BCE non era esattamente ciò che si era aspettata per il suo piccolo angelo biondo.

 

 

 

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Sherlock osservò in silenzio suo fratello ricevere la piccola scatolina di velluto rosso contenente l’anello d’argento che segnava il suo passaggio alla maggiore età. Sua madre sorrideva, suo padre gli batteva la mano sulle spalle e gli ospiti chiamati per il party di celebrazione applaudivano con rispetto.

Sherlock arricciò le labbra, infossandosi ancora di più nel divano dall’altro capo della sala.

L’anello d’argento era più un simbolo sociale che una vera e propria utilità. Veniva indossato al posto di quelli di metallo colorato, portati nell’infanzia per coprire il SIN, e significava letteralmente “in cerca”. Lo avrebbe portato fino a che non avesse trovato la sua Anima Gemella, o fino al matrimonio, momento in cui sarebbe stato sostituito con la fede d’oro.

Non aveva mai capito la necessità di seguire esattamente questa prassi, ma funzionava così. E da una famiglia come la loro, con contatti sociali in ogni parte dell’Essex, ci si aspettava una certa “aderenza agli standard”.

Ovviamente questo concetto non si applicava a lui. Sherlock non aveva bisogno di portare alcun anello, dopotutto, dunque queste cose le aveva dovute imparare dai libri, non gliele aveva dette sua madre (come invece aveva fatto con Mycrfot). Aveva 11 anni, certo, ma non era stato difficile capire che sua madre preferisse Mycroft a lui.

Così come non era stato difficile capire il perché.

« Non vai a fare gli auguri a tuo fratello? ».

La voce calda e baritonale di suo padre arrivò un attimo prima della sua mano salda sulla spalla, e Sherlock sbuffò dal naso. « No » rispose semplicemente.

« Perché? » domandò Siger, il tono calmo e, di fondo, forse anche divertito.

« Perché no » gli rispose il bambino, coprendo inconsapevolmente la mano sinistra con quella destra. E Sherlock poteva aver ereditato l’incredibile intelligenza dalla madre, ma di sicuro l’arte dell’osservazione l’aveva imparata dal padre.

« Non vuoi perché non hai il SIN come lui? » domandò l’uomo.

Sherlock scosse la testa. « Non mi interessa » rispose in fretta, ma aggrottò le sopracciglia in un moto di fastidio.

Siger strinse un po’ di più la mano sulla sua spalla. « Sono sicuro, invece, che Mycroft lo apprezzerebbe. Lo sai che ti vuole bene, anche se non lo dice. Ha lo stesso carattere di tua madre » commentò.

« No che non mi vuole bene » rispose però Sherlock, chiudendosi a riccio ancora di più: « nemmeno la mamma » aggiunse poi, allacciando forte le braccia al petto.

Il signor Holmes sospirò mesto. « Non dirlo nemmeno per scherzo, Sherlock. Ti assicuro che non è così ».

« Sì invece » ribatté però il bambino: « li vedo, papà. È perché sono... diverso » disse, soffocando l’ultima parola in un tono di voce più sommesso.

Questa volta, Siger esitò un po’ prima di riprendere parola. Osservarono entrambi Mycroft ricevere abbracci e complimenti da tutti gli invitati sotto lo sguardo palesemente fiero e felice di Violet, che non perdeva occasione per vantarsi della brillante carriera scolastica del figlio e del futuro altrettanto luminoso che lo attendeva.

« Vedi, Sherlock... » cominciò poi: « tua madre segue un Credo molto... puritano. È una di quelle persone che credono che la vera unione sia il Legame e che ogni unione al di fuori di quella fra Anime Gemelle sia immorale. Conseguentemente, fa anche parte di un gruppo di persone che credono che la nobiltà di famiglie come la nostra scorra all’interno dei loro alberi genealogici, e che essi debbano essere perfetti, ovvero composti solo da unioni legittime e spurie di... rami morti » spiegò con calma, continuando a guardare la moglie da lontano ma senza mai togliere la mano dalla spalla del figlio minore. « Condizioni come la tua sono sviluppi prevedibili dell’evoluzione, Sherlock. Anche se rari, sono del tutto normali. Solo che certe persone, per quanto intelligenti, su certi argomenti faticano a vedere oltre la punta del loro naso ».

Non aveva mai sentito suo padre dare opinioni così sincere su sua madre, e soprattutto non l’aveva mai fatto in confidenza con lui. Girò la testa piena di ricci in direzione di suo padre, che rispose allo sguardo con un sorriso sbieco.

Era un segreto fra loro due, capì Sherlock. E ricambiò il sorriso.

« Ora vai a fare gli auguri a tuo fratello, questa sera ti racconto dei pirati del mare cinese » disse l’uomo, accendendo in Sherlock un brivido d’eccitazione all’aspettativa di una nuova storia sui pirati.

 

 

 

 

Sua madre gli aveva ripetuto molte volte che origliare era sbagliato, ma questa volta non aveva fatto apposta.

Doveva solo andare in cucina a prendere un bicchiere d’acqua, perché la mano faceva davvero tanto, tanto male. Non riusciva a dormire – il dito bruciava e il cerotto era già sporco di sangue – e Harry lo aveva minacciato di colorargli la faccia nel sonno con il pennarello indelebile se non avesse fatto silenzio; ecco perché non poteva chiedere aiuto a lei, anche se dormiva nel letto di fronte al suo.

Di solito i suoi genitori erano già a letto a quell’ora, ma non era un problema. Anche se aveva otto anni, John era abituato a cambiarsi il cerotto da solo e a riconoscere dalla scatola quali erano le pastiglie che sua madre gli dava sempre quando aveva male alla mano. Riusciva anche ad arrivare alla credenza dei bicchieri – spostando la sedia e poi salendoci in piedi sopra – dunque no, non aveva davvero bisogno dell’aiuto dei suoi genitori, né di quello di sua sorella.

Ma quella sera la luce della cucina al piano di sotto era accesa, e la porta chiusa. Le voci di sua madre e di suo padre provenivano dall’interno, ovattate ma intuibili, e rimanendo in piedi davanti alla porta con la mano sinistra stretta forte al petto lui non poté fare a meno di ascoltare ciò che stavano dicendo.

« Jonathan, non è colpa sua » stava dicendo sua madre, il tono serio ma controllato.

« Certo, no, non è colpa sua. Ma è la terza scuola che rifiuta l’iscrizione. Ci deve essere un maledetto motivo, perché non riesco a pensare che sia solo perché è un Ribbon. È un bambino, cazzo! » imprecò il padre, il tono duro di quando era arrabbiato per qualcosa, e John sobbalzò appena alla parolaccia – perché non si dicono le parolacce!

« Non chiamarlo così » intervenne subito sua madre.

« ...BCE » si corresse allora suo padre.

Un minuto carico di silenzio riempì la cucina e John, in piedi nel corridoio davanti alla porta, trattenne il respiro nel timore che facesse troppo rumore. Non dovevano scoprirlo, altrimenti si sarebbe preso una bella sgridata.

« Quali sono le alternative? » chiese sua madre dopo un silenzio che sembrò lungo secoli.

« La scuola in città. Forse faranno meno storie ».

« È un’ora andata e ritorno, Jonathan ».

« Lo accompagnerò finché non sarà abbastanza grande da prendere l’autobus da solo ».

« Non è detto che lo prendano... ».

« Dobbiamo provarci. Non abbiamo i soldi per la scuola privata, Maggie ».

« Lo so... ».

« Senti, Harriett comincia la seconda media quest’anno. Possiamo farle cambiare scuola e iscriverla in città. Così potrebbe accompagnare suo fratello e tu dovresti solo portarli e andarli a prendere dalla fermata dell’autobus. Che ne dici? ».

« Ma tutti i suoi amici, amore? Harry sta con loro dalle scuole elementari... ».

« Se vogliamo mandare a scuola John, è l’unico modo. Non voglio mettere mio figlio su di una cattiva strada che è già destinato a percorrere ».

« John non è destinato a nessuna cattiva strada! » urlò sua madre, e John sobbalzò per il repentino cambio di tono. « Smetti di parlare come quegli studiosi da quattro soldi in televisione. Tuo figlio non è un criminale, non ha ancora fatto niente! » gridò.

« Ma potrebbe diventarlo, Margaret, bisogna prendere seriamente in considerazione questa possibilità! È un Ribbon, sai benissimo anche tu che la maggior parte di loro non va a finire bene! E i problemi con la scuola sono solo una piccola parte di ciò che ci toccherà in futuro, è ora di farsene una ragione! ».

« Ti ho detto di non chiamarlo così! ».

La discussone continuò, ma John non rimase ad ascoltare oltre. Aveva capito forse metà di ciò che i suoi genitori stavano dicendo, ma il senso generale era più che sufficiente.

Risalì le scale in silenzio, gli occhi lucidi e pieni di lacrime che minacciavano di rotolargli giù dalle guance, e nonostante il dolore acuto alla mano e la sete disperata si rifugiò fra le coperte del suo letto, affondando il volto nel cuscino.

Non era colpa sua, se era diverso.

Non era colpa sua.

 

 

 

Sherlock si chiuse a chiave nel bagno la notte in cui suo padre morì, rifiutandosi di aprire la porta anche quando Mycroft cominciò a prenderla rumorosamente a pugni.

Aprì il getto della doccia e si infilò sotto l’acqua completamente vestito, senza dare importanza a quanto fosse fredda. Si sedette sul fondo della vasca da bagno e, con una spugna di crine, cominciò a sfregarsi la pelle sull’anulare sinistro.

Sfregò con tutta la forza che aveva, fino a graffiarsi. Sfregò finché non uscì il sangue. « Vieni fuori... vieni fuori! » pregava con voce rotta, trasformando silenziose lacrime di tristezza in un pianto isterico dato dalla rabbia e dal dolore.

« Vieni fuori! » gridò disperato, ma il suo dito rimaneva, in mezzo ai graffi, indubbiamente pulito.

Non poteva rimanere un Bondless, non più. Non senza suo padre.

Sua madre lo avrebbe mandato via, lo avrebbe messo in collegio. L’aveva sentita parlarne a suo padre, una sera, e non importava che Mycroft dicesse di no, che non era vero, che ci avrebbe pensato lui: ora sua madre aveva carta bianca senza suo padre a vietarle anche il solo pensiero.

Non voleva andarsene. Non era colpa sua se quel maledetto nome semplicemente non usciva.

Non era colpa sua.

 

 

 

John si chiuse nel bagno la notte in cui suo padre se ne andò, rintanandosi sotto al lavandino con il disinfettante e la sua scatola di cerotti. Non chiuse a chiave la porta, ma nessuno lo venne mai a cercare. Sua madre era fin troppo distrutta per occuparsi di lui, e Harry semplicemente troppo arrabbiata.

Aveva la febbre, ma era bassa e poteva facilmente ignorarla, ormai. Il dottore gli aveva detto che la ferita sul dito poteva infettarsi spesso, dunque dargli un po’ di febbre. Alla fine, gli veniva come minimo una volta al mese.

Lasciò che un paio di lacrime gli scivolassero silenziosamente lungo le guance mentre rimuoveva con attenzione il cerotto da sopra il dito, faticando un po’ dove un lato si era attaccato sull’altro. Come sempre il suo SIN era ricoperto di sangue secco, e con un batuffolo di cotone imbevuto di disinfettante lo pulì, riportandolo alla luce. Il nome sanguinava – sanguinava sempre – e bruciava – bruciava sempre – ma era lì, in evidenza, dolorosamente presente e rosso, vivo, come una maledizione.

Era per quello, per quella ferita a forma di “Sherlock”, che suo padre se ne era andato. Che lui e sua madre avevano litigato ogni notte per più di un anno. Che Harry aveva dovuto cambiare scuola per accompagnarlo in città ed ora non gli parlava praticamente più.

Tutto perché era diverso.

Era tutta colpa sua.

 

 

 

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A scuola le sue compagne di classe passavano giornate intere a parlare di come sarebbe stato il loro incontro con l’Anima Gemella.

Si immaginavano in situazioni degne della peggiore soap-opera o commedia romantica mai girata; lunghi sguardi d’intesa con il ragazzo all’altro capo della classe, un formicolio eccitato al pensiero che possa essere lui il “Jack” giusto, quello il cui nome risiedeva in rosso ciliegia sotto l’anello di metallo rosa. Lunghe passeggiate e risate e, finalmente, il prendersi per mano. La scossa positiva al contatto e la sensazione del Legame che cominciava a formarsi. Un bacio appassionato al tramonto, il matrimonio, sei pargoli sbavanti e vissero per sempre felici e contenti.

E i discorsi non variavano molto sul tema. Gli facevano venire la nausea.

Dal lato maschile della faccenda non era diverso, se non che i maschi preferivano un approccio più “fisico”. A sentire i loro discorsi, sembravano tutti destinati a sposare una modella di Playboy con seno prosperoso e perennemente in costume da bagno. Non sarebbe stato di certo lui a dire loro che la maggior parte della popolazione femminile del pianeta non arrivava ad avere fattezze da Barbie se non sottoponendosi ad operazioni chirurgiche e usando litri di tinta per capelli. Ridicoli.

Lui non aveva di questi problemi. Non avendo né un nome né un anello da indossare per coprirlo, aveva la fortuna immensa di non doversi abbassare a livello della massa, che nel caso della sua classe rappresentava un estratto notevole di stupidità umana.

A volte, solo a volte, cercava di immaginare come sarebbe stato avere un nome sul dito. Essere come tutti gli altri. Erano quei momenti in cui i suoi cosiddetti “compagni di classe” avevano di meglio da fare che stuzzicare il freak –perché così lo chiamavano da dietro le spalle, facendo però in modo che potesse sentirli chiaramente – e quindi lui veniva lasciato in pace, e poteva passare i pomeriggi nel laboratorio di chimica saltando lezioni inutili e ripetitive e al diavolo l’avvertimento del preside, la sua media più che eccellente era il perfetto lasciapassare per dedicare il suo tempo a cose più istruttive.

Era quasi sicuro che il suo SIN, nell’ipotesi che ne avesse avuto uno, sarebbe stato un nome maschile. I suoi 16 anni d’esperienza erano più che sufficienti al suo quoziente intellettivo plus-dotato per capire di non poter sopportare le femmine e i loro cambi d’umore imprevedibili. Poco importava se fisicamente non provava repulsione – non aveva provato niente, in realtà, le volte in cui aveva sperimentato un bacio, o vari contatti intimi, con ragazze e ragazzi a cui del SIN non importava assolutamente niente –, il suo (modico) apprezzamento degli altri avveniva prima di tutto a livello intellettuale, ed intellettualmente parlando non le sopportava. Perciò un uomo.

Sarebbe stato meno intelligente di lui, ma comunque sopra la media. La competizione lo eccitava solo da un certo punto di vista e non avrebbe apprezzato una competitività elevata nell’uomo con cui (seguendo le logiche sociali) avrebbe dovuto passare la vita. Non poteva apprezzare una persona che avrebbe dovuto sconfiggere, soprattutto dopo averla sconfitta. Avrebbe perso completamente d’attrattiva. Quelli erano i nemici, non i compagni.

Sarebbe stato una persona poco schizzinosa e a cui non avrebbero dato fastidio i suoi esperimenti. Se lo immaginava anche di carattere forte, perché lui sarebbe diventato un detective, dunque il suo compagno non poteva essere da meno e rifiutare l’azione. Anzi, lo avrebbe quasi voluto dipendente dall’azione. Sì.

L’aspetto fisico non era importante. Difficilmente avrebbe potuto essere più alto di lui – Sherlock era già molto alto per la sua età – e sarebbe stato di nazionalità inglese (anche se quest’ultima era più una sua preferenza personale).

La realtà era che poteva immaginarsi ogni persona, ogni nome, ma nessuna di esse sarebbe mai stato al suo fianco. Lui era un Bondless, un Senza Legame, il che voleva dire solo una cosa.

Il suo destino era essere solo.

 

 

 

John aveva presto capito che se voleva evitare guai, doveva mentire.

Sua madre gli aveva comprato un anello di metallo verde, uguale a quello di tutti i suoi compagni di scuola; era a fascia, dunque abbastanza largo per coprire una discreta porzione di dito. O un cerotto.

John cominciò a passare almeno due giorni a settimana rifinendo con le forbici tutti i cerotti in suo possesso, tagliandone i lati per adeguarli alla larghezza del proprio anello. Purtroppo doveva cambiarli molte volte al giorno, dato che il sangue li imbrattava in fretta, e per farlo doveva essere sicuro che non ci fosse nessuno in giro, soprattutto a scuola. Per questo di solito usciva durante le lezioni, chiedendo di poter andare in bagno, e chiudendosi in un cubicolo si toglieva l’anello e cambiava velocemente il cerotto.

Molte volte non bastava – si rendeva necessario anche il disinfettante, soprattutto nei brutti giorni, in cui la ferita bruciava a causa di un’infezione (cosa frequente per quelli come lui) – ma doveva arrangiarsi con ciò che aveva. Gli insegnanti sapevano della sua condizione e non facevano domande, ma fortunatamente i suoi compagni di classe ne erano all’oscuro e nell’ignoranza sarebbero dovuti rimanere. Per il suo bene.

Evitare di rispondere alle domande era molto meno difficile.

Il SIN era un argomento privato che molti preferivano non discutere, se non ad un livello teorico. Chi si rifiutava di confidarlo a qualcuno non veniva guardato con sospetto, ma con una muta comprensione. Per certe persone il SIN era una cosa molto intima, e lui non faceva differenza (per forza di cose).

Per lui era più che intimo: era pericoloso. Solo una volta aveva fatto l’errore di confidare a qualcuno di essere un Ribbon – alle scuole elementari lo aveva detto al suo migliore amico – ma quello si era spaventato ed era corso in lacrime dalla maestra. Non gli aveva più parlato, né lo aveva più avvicinato, e ad un certo punto suo padre aveva ricevuto una telefonata in cui gli dicevano che non poteva più frequentare quella scuola per via di alcune lamentele arrivate dai genitori.

Inutile spiegare che non aveva fatto niente (niente di male, per lo meno), suo padre lo sapeva. Era semplicemente la maledizione dei Ribbon e anche se Jonathan si sforzava, alla fine lo stress era stato troppo.

Alcool e delusione vanno d’accordo. Alcool e famiglia di 4 persone un po’ meno.

Dal momento in cui suo padre se ne era andato di casa, John aveva giurato che non avrebbe più causato guai a nessuno. O, se ci fosse finito, che li avrebbe risolti da solo. Loro madre era una donna in gamba, ma senza un marito e con due figli da crescere aveva già troppo per la testa, quindi non si meritava anche le grane che immancabilmente un figlio Ribbon porta a casa. Si sarebbe nascosto, avrebbe finto, avrebbe mentito. Non era un problema.

Per questo aveva molti amici (ignari), aveva avuto alcune ragazze (ignare), faceva parte di una squadra di rugby con un coach in gamba (ignaro) e guardava con apprensione ai moduli per la scelta del percorso universitario da intraprendere (molti di loro non arrivavano nemmeno a finire il liceo, figuriamoci a fare l’università).

Ma così come aveva sopportato bene quella bugia, per 17 anni John Watson aveva visto ombre ed ostacoli dietro ogni angolo.

Cercava di essere uno studente modello ma non era insolito che si trovasse immischiato in risse di qualche tipo, anche con ragazzi più grandi. Sua sorella, a dispetto delle sue parole d’acido sul criminale che sarebbe sicuramente diventato, aveva cominciato ad alzare il gomito e aveva lasciato l’università ancora prima di cominciarla, portando lei a casa i problemi che John riusciva a lasciare fuori dalla porta. Il suo ennesimo fallimento, ovvero il non aver passato il terzo colloquio di lavoro, non fere altro che aumentare la sua rabbia.

Non volle sentire ragioni. E bevve.

Una sera bevve fin troppo. Finì in ospedale a due passi dal coma etilico e John, che era dovuto andare al suo capezzale nel cuore della notte per risparmiare a sua madre la vista, la guardò dalla porta della camera con astio.

Persone come Harry Watson non si meritavano di avere un’Anima Gemella.

 

 

 

Il giorno del suo diciottesimo compleanno, Sherlock non ricevette un anello d’argento.

Non fu organizzato nessun party, e non ci fu nessun invitato e nessuna torta. Sua madre si limitò a fargli gli auguri e a dargli un bacio sulla fronte, mentre suo fratello gli fece arrivare un pacchetto da Londra che lui nemmeno aprì.

Non si sentiva più a suo agio, in quella casa. Il suo posto fra quelle mura era pian piano svanito con la morte di suo padre e dopo un’adolescenza passata fuori casa finché poteva, e nella sua stanza per il tempo restante, ne era sempre più convinto.

Era conscio che sua madre mal sopportasse la sua presenza, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere. Probabilmente il suo istinto materno era forte, nonostante tutto, o forse lottava contro le regole sociali tipiche del ruolo di madre, che tuttavia non le impedivano di non farsi vedere dal figlio minore per più di venti minuti al giorno. Mycroft era l’unico che si sforzasse per lo meno a cenare con lui, ma da quando era partito per frequentare l’università Sherlock aveva passato anni a tavola da solo con la sola compagnia del telegiornale della sera.

Non si poteva dire che l’odio non fosse reciproco.

Il mondo di Sherlock era chiuso fra le quattro pareti della sua camera, in mezzo alle ampolle di distillati di piante tossiche e farfalle magistralmente catturate ed incorniciate, e lui aveva trovato nella Chimica la figura amica che non aveva mai avuto. Troppo distante la famiglia e troppo ignoranti i suoi compagni di classe, per non riuscire a passare sopra al fatto che lui era diverso dagli altri (più libero  di tutti gli altri).

Lui non aveva legami, non aveva obblighi, non aveva il destino alle costole. Non si sarebbe legato con nessuno, non avrebbe dovuto condividere la propria vita e la propria mente con nessuno e se questo era il prezzo della libertà, non era di certo un sacrificio. Tutt’altro.

Se era nato per vivere solo, allora tanto meglio.

 

 

 

Il giorno del suo diciottesimo compleanno, John ricevette dalle mani di sua madre una scatolina di velluto blu contenente il suo personale anello d’argento.

Sua madre lo aveva preso leggermente più largo degli altri – in modo da riuscire a coprire il cerotto – ma tutto sommato era fine ed elegante, classico si poteva dire. Ci aveva anche fatto incidere le sue iniziali ( J.H.W. sulla parte superiore, in grafia corsiva ) e nell’insieme era il regalo più bello che John avesse mai ricevuto.

Sapeva che sua madre aveva speso per quell’anello più di quello che si poteva permettere, ma nel vedere la felicità nel suo sguardo non ebbe cuore di lamentarsene. Dopo che Harry se ne era andata definitivamente di casa, diretta a Londra per cercare “Clara” (o almeno la ragione ufficiale era quella), vedere sua madre sorridere poteva rendere perfetta la giornata di John.

« Non ricopre esattamente il suo ruolo » gli disse Margaret, incorniciandogli il volto con le mani e baciandolo su di una guancia: « per te non sarà mai una vera e propria Ricerca, probabilmente. Ma volevo che ti sentissi come tutti gli altri, perché non sei diverso. Sei davvero un bravo ragazzo John... quelli che pensano per pregiudizi hanno torto » aggiunse.

John sorrise a sua volta, abbracciando la madre e cambiandosi subito l’anello. Evitò di mostrare per troppo tempo alla donna il cerotto bianco già macchiato di sangue, che venne perfettamente coperto dall’anello d’argento scivolato come acqua sul suo anulare sinistro.

« È perfetto mamma, grazie » la ringraziò John, sedendosi a tavola quando lei si voltò per tirare fuori la torta dal forno.

Erano giorni come quello che lo ripagavano di tutti gli sforzi, e gli facevano dimenticare la rabbia e l’odio che provava per quello “Sherlock” che non avrebbe mai conosciuto, ma che comunque riusciva a rendergli la vita un inferno.

 

 

 

.o0o.

 

 

 

Victor aveva le mani da violinista.

Fini dita affusolate dalla pelle leggermente scura, unghie curate e tocco delicato. Trattava ogni cosa toccasse così come suonava il violino: con eleganza ed assoluta gentilezza. Sfogliando la pagina di un libro, tirando fuori una sigaretta dal pacchetto... se la delicatezza avesse avuto un nome, sarebbe stato Victor Trevor.

Ciò che a Sherlock piaceva, però, era che non trattava lui con la medesima finezza. Anzi, tutto l’opposto.

Perché Victor poteva anche avere le mani delicate, ma la sua musica era passionale, irruenta. La prima volta che lo aveva incontrato stava suonando Mozart, il primo movimento del Violin Concerto no.3, e dalla maestria con cui lo stava eseguendo Sherlock aveva capito subito che non sarebbe mai stato in grado di suonare qualcosa al di sotto di un Allegro con la medesima bravura. Le mani di Victor erano state fatte per la precisione e la velocità.

E, avrebbe ammesso più tardi, per rimanere sempre in contatto con la sua pelle.

Caratterialmente era tutto l’opposto di lui. Solare ed estroverso, era talmente socievole che pochissime persone all’interno del campus non sapevano chi fosse, o non lo avessero saputo da altri. Studente di Fisica, non modello ma comunque con voti molto alti, Trevor era l’esempio del ragazzo di famiglia medio-borghese che riusciva senza fatica a trovare un posto nella vita. Di bell’aspetto, i suoi occhi azzurri e i capelli ricci biondo-ramato lo rendevano il centro delle attenzioni sia di donne che di uomini.

Ma a Victor piacevano le cose strane, e per questo conobbe Sherlock.

Ovviamente Holmes non si era fatto mancare alcune dicerie su di lui, all’interno del campus. Voci che per lo più narravano il suo piccolo diverbio tecnico con il professore di Chimica Organica, a cui Sherlock aveva corretto più di metà della lezione (a ragione, persino).

Era stato Victor ad avvicinarlo, e nonostante inizialmente Sherlock non ne volesse sapere, con il passare del tempo trovò la sua compagnia piacevole in un modo strano.

Piacevole in un modo fisico, capì più tardi.

Non c’erano molte cose che Sherlock apprezzava di Victor – al di fuori della musica e della sua innata passione per i guai – ma una di quelle che gradiva di più era il fatto che il ragazzo non avesse alcun tipo di pregiudizio, e che non si affiancasse a nessun tipo di convenzione sociale. SIN compresi.

Non aveva fatto mistero con Sherlock del proprio SIN: “Chris”. Così come non aveva fatto battute o espressioni strane quando aveva verificato ciò che tutta l’università già mormorava, ovvero che lui fosse un Bondless. Aveva semplicemente sorriso – un sorriso sornione – e da sotto al tavolo aveva allungato un piede a sfiorare la caviglia di Sherlock.

Fu così che Holmes, al suo secondo anno di Chimica al King’s College, scoprì il lato piacevole del sesso. Fra le mani di un Fisico violinista di nome Victor Trevor.

Ad entrambi piaceva sperimentare – essendo studenti di Chimica e Fisica era immancabile – e il sesso non faceva eccezione. A volte era veloce ed irruento, altre preceduto da lenti ed eccitanti preliminari, altre ancora seguito da languidi baci che portavano immancabilmente ad un secondo round ma fra loro rimase sempre e solo quello: sesso. Nonostante non credesse in tutte le convenzioni sociali legate al SIN (come il non fare sesso con altri se non con l’Anima Gemella, per esempio) aveva la convinzione che quel “Chris” fosse l’unica persona che avrebbe davvero mai amato, e metteva con chiunque avesse dei rapporti le cose bene in chiaro.

A Sherlock non importava. Il sesso con Victor era gradevole e senza impegno e lo distraeva per un po’ da un cervello sempre sovraccarico, dunque tanto bastava. Poteva dire che fossero amici, esserlo anche “con benefici” era solo un’utile aggiunta.

 

Le reti del letto di Victor cigolarono rumorosamente durante le ultime spinte, alla fine delle quali raggiunse Sherlock in un orgasmo che li lasciò entrambi spossati. Sherlock aveva ancora indosso la camicia, Victor la maglietta e i calzini, e prima di uscire da lui e stendersi al suo fianco gli posò un bacio sul collo, che Sherlock non ricambiò in alcun modo.

Respirarono profondamente – fuori sincrono – per qualche istante prima che Victor si mettesse seduto con la schiena contro la testiera del letto, allungando la mano verso il cassetto del comodino ed estraendone una scatola di cleenex. Ne strappò un paio e la allungò a Sherlock, che fece lo stesso gesto, iniziando poi a ripulirsi un po’.

Una volta terminato, sempre in silenzio, Victor raggiunse il pacchetto di sigarette e se ne mise due fra la labbra. Sherlock osservò di sottecchi il movimento liscio e armonico delle sue dita mentre facevano scattare l’accendino, e l’alzarsi del suo petto quando inspirò la prima boccata di fumo. Una volta che furono accese, ne passò una a Sherlock, che la prese con muta gratitudine.

La nicotina dopo il sesso era anche meglio.

« Ieri sera non era in camera » cominciò poi Victor, soffiando fuori una nuvola di fumo grigio nella semi-oscurità della stanza, rischiarata solo dalla luce notturna del giardino del campus. « Speravo di passare la notte da te... » lasciò cadere nell’ovvietà del significato.

« L’hai fatto stanotte » rispose Sherlock, facendo cadere la cenere nel posacenere che l’altro aveva appoggiato in equilibrio sulla propria coscia.

Ma Victor non se la bevve. « Non è questo che intendo, Sherlock » disse.

« Allora sii più preciso, Victor » ribatté a tono l’altro.

Sherlock sapeva dove voleva andare a parare, per questo non si stupì troppo quando l’altro afferrò velocemente il suo braccio sinistro, sbottonando il polsino e sollevando di scatto la manica della camicia fino oltre il gomito. Una serie di punture rosse, alcune persino livide, macchiavano la sua pelle chiara in modo che si potessero vedere anche in quella poca luce.

« Sono preciso abbastanza? » domandò sarcastico il fisico, scotendogli leggermente il braccio come per sottolineare le proprie parole. « Cos’è questa volta? Di nuovo cocaina? Credevo che quella volta fosse solo per provare. Lo sai quant’è pericoloso? » domandò a raffica, uno sguardo a metà fra rabbia e preoccupazione sul viso.

Holmes, strappando via il proprio braccio dalle mani di Victor, prese fiato. « Cocaina. Benzoilmetilecgonina. Nomenclatura IUPAC: Metil-3-benzoilossi-8-metil-8-azabiclico-octan-2-carbossilato. Formula bruta: C17H21NO4. Alcaloide. Metabolismo epatico, un’ora di emivita. Dose massima compresa fra 1 e 1,5 milligrammi per chilogrammo di peso corpor– ».

« Va bene, va bene, basta! Ho capito, hai fatto i compiti. Cosa vorresti dimostrare? » lo interruppe Victor, ancora arrabbiato.

Sherlock continuò a fissare il soffitto. « Che sono completamente cosciente di quello che sto facendo, Victor. Non c’è pericolo che la situazione sfugga al mio controllo e sai benissimo che in quanto a igiene sono impeccabile » gli spiegò.

Trevor arricciò il naso. « Sì, lo so » dovette ammettere: « ma ciò non vuol dire che mi piaccia... » aggiunse, il tono amaro nel tornare a fumare la propria sigaretta in silenzio.

Sherlock rimase in silenzio per qualche minuto, gli occhi puntati e fissi sul soffitto, la sigaretta che si consumava da sola fra le sua dita. Solo dopo prese di nuovo parola, infrangendo il silenzio caduto fra loro.

« Aiuta » disse.

Victor, spegnendo il mozzicone nel posacenere, lo guardò con la coda dell’occhio. « Cosa aiuta? » domandò.

« Il caos » rispose Sherlock: « qui dentro » specificò, alzando la mano per battersi un indice sulla tempia.

Poté quasi vedere Victor aggrottare la fronte anche senza guardarlo direttamente in faccia. « Scusa Sherlock, ma non ci arrivo » disse infatti quello, confuso.

Holmes sospirò. « Infatti... » commentò solamente, spegnendo a sua volta la sigaretta e voltandosi sul fianco, dandogli le spalle.

Se il destino avesse voluto che Victor capisse, avrebbe avuto il suo nome tatuato sul proprio anulare sinistro.

 

 

 

John aveva già capito che la sua convocazione nell’ufficio del professor Hardman, insegnante di Oncologia Medica, non era strettamente attinente al suo programma di studi, né all’esame che si sarebbe svolto la settimana successiva. Così come non aveva sicuramente a che fare con la sua borsa di studio, dato che i suoi voti soddisfacevano i requisiti per il mantenimento della stessa lungo tutto l’anno accademico. La sua carriera scolastica era a posto.

Pensò a cos’altro potesse essere mentre aspettava nel corridoio, in piedi accanto alla finestra che dava sul cortile interno. Non gli veniva in mente niente.

Escluso tutto, rimaneva solo una cosa. Sperava che non si trattasse di ciò che temeva. Lo sperava davvero.

« Venga avanti, Watson » sentì il professore chiamarlo.

John, prendendo un profondo respiro, entrò e si chiuse la porta alle spalle.

Hardman non era di certo un giovanotto, ma per essere già responsabile di un corso di studi non era nemmeno anziano. Si portava molto bene i suoi sessantacinque anni, probabilmente grazie allo stile di vita sano che solo un medico zelante è in grado di mantenere con costanza (a volte lo vedeva fare jogging al mattino presto, passando davanti all’entrata dell’università). I capelli brizzolati e folti erano elegantemente pettinati con una riga a tre quarti sulla destra e i suoi occhi, di un particolare colore verde, non perdevano attrattiva da dietro le spesse lenti degli occhiali da vista.

Seduto alla sua scrivania, gli indicò una delle due sedie posizionate di fronte ad essa. John, con un breve cenno del capo, si sedette.

Hardman sospirò, lasciando perdere i documenti che aveva davanti al naso e massaggiandosi la radice del naso con due dita. Una sola occhiata bastò a John per capire che il fascicolo aperto fra loro, sul ripiano eburneo, era proprio il suo.

Deglutì silenziosamente mentre il professore cercava le parole.

« Sai John, prima di diventare professore ero un medico praticante, dunque ho dato molte brutte notizie a tanta gente. Dicono che per fare gli oncologi non bisogni provare troppa empatia per il paziente, ma in realtà non è così. L’empatia serve, quando dici ad una persona che sta morendo lentamente e che il suo corpo la sta tradendo a passo di marcia » disse, prendendo una breve pausa prima di continuare: « dunque mi capirai se mi permetto del tempo, per esporti il problema che il Consiglio Universitario mi ha irruentemente fatto notare solo ieri, e che riguarda te » aggiunse.

Non era per niente confortante. Il Consiglio si riuniva davvero e al completo solo per discutere casi importanti, che la maggior parte delle volte riguardavano una sicura espulsione.

L’hanno scoperto, cominciò a pensare senza poterselo impedire. L’hanno scoperto, l’hanno scoperto, l’hanno scoperto.

Inconsciamente, si stuzzicò con il pollice l’anello d’argento.

« È stato sottoposto alla mia attenzione, così come a quella di tutto il Consiglio, la tua domanda di iscrizione alla facoltà di Medicina e Chirurgia. Inizialmente non ci vedevo assolutamente nulla di male: il format era compilato nel modo giusto, il test d’ammissione superato con ottimi voti, la domanda per la borsa di studio accettata senza problemi. Ai miei occhi, anche sulla carta, eri un perfetto studente di Medicina. Poi mi è stato allungato questo... » e, detto ciò, gli mise davanti un foglio bianco con al filigrana dell’Ufficio Anagrafe. Era una fotocopia, ma un timbro in inchiostro blu e la firma del funzionario addetto lo etichettavano come fotocopia riconosciuta del relativo documento ufficiale.

In giallo, era evidenziata una sola riga.

 

S.I.N. : Broken Connection Entity (“Sherlock”)

 

John non disse una parola. (L’hanno scoperto.)

Hardman sospirò. « Sei stato sfortunato. La London University raramente fa controlli a tappeto così radicali sui suoi studenti. Ma date le nuove statistiche in circolazione sui BCE, quest’anno sono stati adottati metodi più radicali » spiegò.

John rimase ancora in assoluto silenzio. Si limitava a guardare quella maledetta riga evidenziata in giallo e sperava, in cuor suo, che il Karma dell’universo restituisse a “Sherlock” i ventitre anni di merda che lui aveva dovuto subire.

Dopo alcuni istanti di silenzio, il professore riprese parola. « Devo chiederti di toglierti l’anello, John ».

Non che non se lo fosse già aspettato. Aveva sentito il sangue gelarsi nelle vene ancora prima di varcare la soglia dell’ufficio. Si era sentito in colpa subito dopo aver barrato la casella “SIN positivo – in cerca” della domanda d’ammissione, quattro anni prima. Aveva sperato solo che il contraccolpo sull’orgoglio non fosse così terribile come lo dipingeva mentalmente...

Ma era anche peggio. Si vergognava come un ladro, più di un ladro, e si tolse l’anello dal dito come un condannato alla sedia elettrica che vorrebbe scusarsi con le vittime del suo sbaglio ma non può. Allungò la mano verso il professore, cerotto bianco in bella vista, ma non provò nemmeno ad alzare lo sguardo per vederne la reazione.

Quel gesto fu accolto dal silenzio.

« Deve fare male... » mormorò poi il professore, e John si stupì nel sentire una vena di dispiacere nella sua voce calda.

Dipende da cosa intende, pensò subito John, ma la risposta che diede fu differente. « Continuamente » sussurrò.

« Prendi degli antidolorifici? » domandò quello.

Watson annuì. « Paracetamolo alternato all’Ibuprofene. Nimesulide quando fa infezione » rispose.

Quello annuì. « Perché hai mentito, John? » domandò poi.

Watson non rispose subito. Cercò di pensare alle parole giuste da dire per non sembrare una povera vittima, ma dal suo punto di vista non aveva alcuna argomentazione che non lo facesse diventare tale. Optò per la sincerità.

« Alle elementari un mio compagno di classe disse alla maestra che sua madre gli aveva detto una bella cosa, la sera precedente. “Matt, se lo vuoi e ti impegni, puoi fare qualsiasi cosa”. Credo che ogni genitore dica più o meno le stesse parole al proprio figlio, una volta nella vita » cominciò a raccontare. « Mia madre non lo ha mai fatto. Ma non perché non fosse premurosa, piuttosto perché non voleva illudermi con delle false speranze. La verità è che se anche mi impegno, io non posso fare ciò che voglio perché ci sarà sempre qualcuno che me lo impedirà ».

Alzò gli occhi per incontrare quelli dell’oncologo che lo guardava con attenzione, le mani incrociate e appoggiate alle labbra, i gomiti sul ripiano della scrivania.

« E tutto per questo » aggiunse John, alzando la mano sinistra. « Volevo fare il medico perché è un mestiere nobile. Se avessi cominciato a curare le persone, e lo avessi fatto bene, probabilmente la gente avrebbe smesso di giudicarmi per pregiudizi e mi avrebbe riconosciuto i meriti del caso. Senza giustificazioni, senza distinzioni, senza dubbi. Ma sono poche, se non inesistenti a livello di pratica, le facoltà universitarie aperte ai Ribbons, e Medicina non è una di quelle. Ho mentito per avere una possibilità. Per avere la possibilità che hanno tutte le persone normali » disse, con la voce ora piena di rabbia.

Non diede tempo al professore di dire qualcosa, perché continuò, gli occhi assottigliati dal risentimento. « I giornali non fanno altro che sparare numeri sui Ribbons, declamando su come continuino ad aumentare i crimini ad opera loro. L’opinione pubblica è talmente concentrata su queste statistiche che evita di elencare quanti sono i crimini commessi dalle persone che non sono Ribbons, e si fidi se le dico che non sono pochi, li ho contati. Ci guardate con diffidenza solo per via di queste cifre, ma provi a mettersi nei nostri panni. Provi a crescere sapendo che quel nome sul dito, quello che non smette mai di sanguinare e continua a bruciare, probabilmente è la prova del fatto che l’unica persona che ci avrebbe davvero amati ha deciso di rifiutarci. E non si sa nemmeno quando, esattamente, o perché. Provi ad immaginare cosa significa sentirsi solo in mezzo alla gente. E noi così ci cresciamo. Peggio ancora: diventiamo grandi sotto gli sguardi diffidenti degli altri, continuamente bombardati dalle parole “mi dispiace ma non può”. Non c’è da stupirsi se arriviamo ai trent’anni con la voglia non solo di vedere il mondo bruciare, ma di alimentarne le fiamme con la benzina » terminò, stringendo forte i denti per impedire all’ira di sovrastarlo. Aveva chiuso le mani a pugno durante il discorso ed ora le unghie stavano lasciando solchi profondi sui suoi palmi.

Il professore non disse nulla per lunghi minuti, limitandosi a guardarlo attentamente. Forse stava cercando le parole adatte ma non esistevano, non erano mai esistite. Contavano solo i fatti, e Hardman puntò subito su quelli.

« John, questo ateneo ti riconoscerà gli anni di studio intrapresi e tutti gli esami già sostenuti » disse.

John, colto alla sprovvista da un moto di sorpresa, sgranò gli occhi.

Hardman continuò. « Purtroppo non posso cambiare le regole dell’ateneo. Il Sommo Rettore ha già dato ordine di certificare la tua espulsione, ma sono riuscito a convincere il Consiglio a riconoscerti ciò che avevi già guadagnato. Sei uno dei miei studenti migliori, e uno dei migliori dell’intero corso, non mi importa che tu sia o meno un BCE. Quei voti te li sei guadagnati impegnandoti quanto e forse più degli altri, dunque te li meriti » sentenziò.

John boccheggiò, indeciso su cosa dire, ma l’oncologo lo batté sul tempo.

« La London University riconoscerà i primi quattro anni del corso di laurea in Medicina e Chirurgia come premio alla costanza e all’impegno dimostrati. Ti verranno riconosciuti tutti gli esami, anche se ti verrà aggiunta una nota di demerito per aver dichiarato il falso in sede d’ammissione. A patto... » esitò: « ...che tu continui i tuoi studi all’Accademia Militare » disse infine.

John aggrottò le sopracciglia, l’espressione dubbiosa. « Nell’esercito? » domandò, stranito.

Hardman annuì. « Nella RAMC non fanno differenze. Se sei meritevole di proteggere la Corona, diventi un soldato uguale a tutti gli altri. Lì la pratica medica, nonostante sia limitata alla chirurgia di primo soccorso, è aperta a chiunque abbia i requisiti giusti per impararla e metterla in pratica sul campo di battaglia. E tu li hai » disse.

Non era diverso dall’entrare nei militari autonomamente. Era storia risaputa che l’Esercito non facesse differenze – come potevano, con una guerra in corso in Medio Oriente? – e alla fine la RAMC finiva comunque per essere l’ultimo porto salvo in cui i Ribbons, i Bondless e i pochi che davvero volevano fare carriera militare andavano a finire. Quella precisazione era più che altro un consiglio, perché nessun’altra università l’avrebbe ammesso, nonostante il riconoscimento degli esami e dei 4 anni già frequentati.

Alla fine, vinto dalla sorte, annuì e accettò l’offerta.

Per lo meno, sperava, come militare sarebbe valso qualcosa.

E se davvero esisteva un Dio, la sua preghiera era che gli piantasse una pallottola in mezzo agli occhi il prima possibile.

 

 

 

.o0o.

 

 

 

Voleva andare oltre.

Superare i limiti.

Gli esperimenti potevano essere replicabili ma le scoperte, quelle vere, avevano la loro percentuale di rischio. Ogni grande scienziato aveva superato la linea di guardia, il confine fra buon senso e ignoto; era questo che li aveva resi grandi: avevano rischiato.

Quello non era esattamente un esperimento. Non stava cercando di dimostrare niente. Era un rimedio per sconfiggere la noia, il tedio, ogni piccola cosa che lo assillava. Il passato che aveva lasciato, un presente senza forma concreta. Un futuro che non riusciva a vedere chiaramente. Era una fuga in silenzio.

Era adrenalina, sangue, estasi. Un’ora di pura perfezione assoluta. Tanti spilli nel cervello come aghi che stimolavano i punti giusti, che obnubilavano i concetti senza importanza, che gli facevano spalancare gli occhi su una realtà che vedeva già meglio degli altri per permettergli di osservarla fino nelle viscere, di carpirne la struttura che la sorreggeva. Tutto quanto usando solo una siringa ipodermica e un laccio emostatico.

Ma fu un attimo. Forse capì che qualcosa era stato storto, forse si pentì della scelta di ignorare le dosi, di provare quei pochi milligrammi in più con la convinzione di essere ormai assuefatto, abituato, di poterne reggere ancora un po’, quel tanto da fargli penetrare il senso stesso delle cose fin dentro gli atomi che le compongono.

Vedeva la pelle delle proprie dita sciogliersi e lasciare scoperto l’osso. Sentiva il dolore dell’acido invisibile che la corrodeva. Ne avvertiva persino il suono, lo sfrigolio sinistro, l’odore di carne cotta, carne umana, e per quanto gemesse ed urlasse l’acido non si fermava, e saliva, mangiandosi strati di epidermide e carne, prima sui polsi, poi sulle braccia...

Allucinazioni, una parte del suo cervello riuscì a dirgli. Visive, uditive, olfattive. Probabilmente le ultime due erano un estremo tentativo del suo cervello di compensare l’iperstimolazione sensoriale. Effetti collaterali della sostanza psicotropa iniettata in vena solo pochi istanti prima.

Sulla corsia preferenziale intra-venosa, sparata dritta dritta verso il cervello.

Capì di essere andato in overdose solo quando aprì gli occhi e ciò che vide fu il drappo di un letto a baldacchino.

« Credevo che non potessi cadere più in basso di così ».

Una voce arrivò dalla sua destra, dalla finestra che dava su di un cielo notturno prossimo all’alba. Aveva riconosciuto la casa dall’odore, e riconobbe quella voce dal tono.

« Mycroft... » gracchiò, la gola secca e dolorante.

Quello non diede nemmeno segno di averlo sentito. « Ho voluto credere che lasciare l’università senza laurearti, dopo aver passato tutti gli esami con voti perfetti, fosse la fine della tua “età della ribellione”. Ho voluto confidare nel fatto che come vendetta ti bastasse, che il tuo occasionale lavoro come consulente per l’Ispettore Lestrade fosse sufficiente a catalizzare la tua buona volontà. Probabilmente mi sbagliavo... » disse.

Un attimo di silenzio, poi l’aggiunta: « io mi preoccupo per te, Sherlock ».

Sherlock non rispose se non con una risatina ironica appena soffiata.

Mycroft ignorò la sua reazione e tutti i significati che metteva in evidenza. « Da oggi sei sotto stretta sorveglianza. Rimarrai qui finché non avrai concluso la terapia riabilitativa. I tuoi farmaci sono sul comodino ».

Senza aggiungere una parola, Mycroft Holmes, in camicia e vestaglia da camera, si staccò dalla finestra e camminò a schiena dritta verso la porta. Si fermò solamente sull’uscio, osservandolo con la coda dell’occhio.

« Io ci tengo a te, Sherlock. Che tu ci creda o no » gli disse, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle.

Sherlock, rigirandosi su di un fianco, chiuse gli occhi esausti e sospirò.

Chissà perché non riusciva a crederci.

 

Fece a malapena in tempo ad entrare nei bagni e a trovare un cubicolo vuoto.

Rigettò tutto ciò che aveva mangiato, con spasmi violenti allo stomaco e alla gola, e dovette aggrapparsi al water a causa di un forte giramento di testa. Le targhette tintinnarono fra la pelle e il tessuto verde della maglia, madida di sudore freddo sulla schiena.

Sentì la porta dei bagni aprirsi giusto prima che un altro conato di vomito lo investisse di nuovo.

« Doc, tutto bene? » la voce del sottotenente Tony Monroe echeggiò appena nella stanza vuota, acquisendo una nota quasi metallica.

John sputò, poi tirò lo scarico e si lasciò crollare a terra, la schiena contro la parete in plastica del cubicolo. Si sentiva improvvisamente senza forze. « Sì... sì, bene » rispose, abbandonando le mani sui pantaloni della mimetica: « dev’essere il cibo tradizionale afghano » ipotizzò.

Sentì l’altro appoggiarsi al muro di fianco alla porta, in attesa. « Mangiamo quella roba tutte le sere da anni e non ti ha mai dato fastidio. A me sembra più una Risonanza » disse quello, il tono tranquillo da chi sa cosa dice.

John roteò gli occhi sotto le palpebre chiuse.

Veniva chiamata “Risonanza” la speciale capacità di una coppia già Legata di poter percepire i forti sentimenti l’uno dell’altro. Nel caso che uno dei due avesse un grave incidente, o si ammalasse di una malattia molto grave, o comunque affrontasse una situazione che causava una gran sofferenza fisica, l’altro individuo della coppia poteva arrivare a subirne gli effetti attraverso vari tipi di malessere (più spesso nausea o febbre).

« Sai bene che per me è impossibile » gli rispose John, trattenendo il fiato al sentore di un altro attacco.

« Sarà... » rispose quello, e John poté quasi vederlo fare spallucce.

« Non è possibile scientificamente » precisò John: « dovresti saperne qualcosa in qualità di Bondless ».

« Ehi, anche se non ho un nome sul dito io credo nell’amore, amico » ribatté quello, e John scosse piano il capo alla filippica che l’altro cominciò sul fatto che se il Legame è vero rimane indissolubile nonostante le apparenze.

« E poi tu ce l’hai un nome, sul dito, dunque non è totalmente impossibile » terminò l’altro.

Watson sospirò, gli occhi chiusi. « È un ricevitore vuoto, Monroe. È impossibile ».

 

 

 

.o0o.

 

 

 

Il dolore, simile ad un’ondata di marea, arrivò solo dopo, quando già era a terra.

Partì dalla spalla e si espanse in tutto il petto, facendo tremare le braccia e rimbombandogli in testa. Aveva fiato sufficiente per un solo gemito perché il dolore era semplicemente troppo, tanto da non permettergli nemmeno di prendere aria per urlare.

Strano. Aveva visto tanti soldati con ferite d’arma da fuoco prima ma nessuno, nessuno si era risparmiato di svuotare i polmoni in urla che andavano dal delirante all’isterico.

Lui sarebbe morto in silenzio. Tanto meglio.

« Watson! ».

Sentiva la sabbia sotto di lui, tutto intorno voci e urla e gemiti e colpi di pistola, di mortaio, di mitraglietta. Tutto lontano, distante, ovattato. Gocce di sudore freddo gli rigavano le tempie e gli incollavano la mimetica alla pelle – dove non ci pensava già il sangue a farlo, per lo meno.

« John! ».

« Chiamate un medico! ».

« Medico! MEDICO! ».

« Johnny, Johnny siamo qui, resta con noi! ».

Voleva alzare la mano per toccare la ferita, sentire quant’era profonda, dove era stato colpito esattamente... voleva dare una mano alle sagome sfocate ed indistinte chine sopra di lui – i suoi commilitoni, lo sapeva, ma grosse lacrime gli appannavano gli occhi e lui aveva paura di chiuderli e non riaprirli mai più – dire loro cosa fare, dove premere, di controllare se era stato colpito in punti vitali, se il proiettile era passato o no, se era ancora dentro... ma il suo braccio era pesante, la mano era pesante, la sua testa era pesante. Anemia. Probabilmente la succlavia, considerato quanto... quanto tempo era passato?

« Strappala, strappa la camicia ».

« Cristo... Cristo quanto sangue... ».

« Monroe, se devi sentirti male fallo altrove! ».

« Johnny resisti, ok? Il dottore sta arrivando, hanno chiamato un mezzo di trasporto. Ti porteranno via da qui. Ti tiriamo fuori da questo inferno, stai tranquillo, ok? ».

« Cristo... Oddio, Cristo... »

« La morfina, datemi la morfina dei vostri kit medici! ».

Le sagome si affaccendavano attorno a lui, mani sporche di sabbia e polvere premevano forte sulla sua spalla sinistra, che faceva un male fottuto ma lui non poteva comunicarlo perché non aveva aria abbastanza, solo a malapena per fare piccoli respiri fra i denti serrati.

Non voleva davvero morire ma era così che sarebbe finita. Da in mezzo alle teste sempre più sbiadite, sempre più somiglianti a delle ombre, uomini che gli sembrava di conoscere ma non sapeva più dirlo con esattezza, John guardò il sole.

Dicono sempre che prima di morire ti passa tutta la vita davanti, ma non è affatto così. Non pensi assolutamente a niente. La tua vita smette di esistere. C’è solo un eterno presente racchiuso in un battito di lancetta dilatato all’infinito e l’unica cosa che il tuo cervello è in grado di formare davvero è una supplica.

Per favore, Dio, fammi vivere.

 

Riaprì gli occhi quando un brivido freddo e violento gli corse lungo la schiena, facendogli tremare i muscoli. Riconobbe la sensazione come quel fastidioso galleggiare indefinito di quando gli veniva la febbre alta.

Aprì piano gli occhi, accecato dai fari e dalle luci d’emergenza della pattuglia esattamente davanti al parabrezza. Lui stesso sembrava steso sul sedile di una macchina della polizia, una borsa del ghiaccio appoggiata sulla fronte e avvolto – con cappotto e tutto – in una coperta arancione.

Arricciò il naso. « Ancora una di queste...? » biascicò, senza però togliersela di dosso. Aveva freddo, tanto per gradire.

« Ne porto sempre una nel bagagliaio » rispose una voce al suo fianco, al posto di guida: Lestrade: « come stai? » domandò.

Ma Sherlock ignorò la domanda. « Cos’è successo? » chiese invece. L’ultima cosa che ricordava era che stava analizzando un cadavere in una via secondaria di Bayswater, poi il vuoto.

« Sei svenuto » lo informò Lestrade: « all’improvviso, senza preavviso. Ti sei interrotto su uno dei tuoi elogi alla stupidità di Anderson e del Reparto Analisi Scientifiche e nel giro di due secondi hai perso conoscenza » spiegò.

Holmes emise un mugugno seccato. « Stavo bene prima » disse.

« Sembrava anche a me » annuì Lestrade.

Sherlock scostò la coperta quel tanto che bastò per farne uscire la mano, poi si tolse l’asciugamano bagnato dalla fronte. « La scena del crimine? ».

« Hai raccolto elementi a sufficienza, tranquillo. Il cadavere è già stato portato via, la Scientifica sta finendo il repertamento » gli rispose Greg.

Sherlock scosse il capo, scontento, ma il mondo girò troppo in fretta per i suoi gusti. Dovette richiudere gli occhi.

« Non mi chiedi se mi faccio? Dopotutto mio fratello ti ha eletto a mio tutore personale, no? » disse poi Sherlock, arricciando il naso in una smorfia di disgusto al sottolineare con la voce le due parole.

Lestrade sospirò. « Senti, faccio solo quello che tuo fratello mi dice di fare. E non sono il tuo tutore. E no, so che non ti stai facendo » disse.

Sherlock capì subito dove voleva andare a parare. « Non mi hai mandato all’aria l’ordine dei calzini come l’ultima volta, spero ».

« Non sto attento ai tuoi calzini durante una retata antidroga, mi dispiace » ribatté Lestrade. « In ogni caso, sei sicuro di sentirti bene? Vuoi andare in ospedale? » chiese.

Sherlock aggrottò le sopracciglia, scuotendo poi il capo in senso negativo.

« Sai almeno cosa possa essere stato? » insisté lo Yarder.

« Ho due teorie » cominciò Sherlock, aprendo la mano sinistra davanti a sé in modo da poter vedere il dorso del dito anulare: « una delle quali è impossibile ».

Lestrade non era uno stupido, e capì a cosa si riferiva. « Una Risonanza? » chiese conferma.

Holmes annuì.

Rimasero in silenzio per lunghi minuti, ognuno perso nei suoi pensieri, finché non fu di nuovo Greg ad interromperlo.

« Potrebbe essere invece » affermò.

Il sopracciglio di Sherlock si alzò di propria spontanea volontà in un’occhiata piena di scetticismo.

« Le leggende, sai? Quelle sui Legami talmente forti e puri da essere indissolubili nonostante le apparenze. Magari hai un Legame che trascende i secoli e le reincarnazioni e ora ne senti gli strascichi » disse.

Sherlock fece schioccare la lingua contro il palato. « Non dire assurdità Lestrade. Sono un Bondless. Niente SIN, niente Legame » sbottò seccato: « è un semplice quanto seccante principio d’influenza. Adesso portami a casa, se non ti dispiace ».

Greg sospirò e, preferendo il silenzio ad una discussione senza capo né cosa, accese il motore della pattuglia e cominciò a guidare verso casa di Mycroft, in cui Sherlock era ancora ospite (anche se non lo sarebbe rimasto ancora a lungo).

Guardando fuori dal finestrino, Sherlock si sfregò involontariamente il dorso dell’anulare sinistro da sotto la coperta.

No, là fuori non c’era nessuno con il suo nome sul dito. Non poteva.

Quando nasci per essere solo le regole sono regole, e sono quelle.

 

 

 

.o0o.

 

 

 

A volte è semplicemente troppo.

La pressione, le aspettative, la delusione che ne segue.

Sono troppe le cose a cui pensare, troppi i problemi che ti affliggono, troppi gli sguardi che incontri e che prima non avresti notato.

La sua mano tremava. La sua gamba era diventata di sua iniziativa un arto completamente inutile. Il suo dito doleva come se dovesse staccarsi dalla mano. La spalla lanciava fitte dolorose ogni volta che muoveva male il braccio. Era un ex-soldato scartato dalla RAMC solo perché gli era stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico che era incredulo di possedere. Un’entità solitaria che si aggirava per Russel Square senza più uno scopo né speranza, in cerca di qualcosa che non sapeva che forma avesse, o cosa fosse.

Un eterno presente che non sfociava su alcun futuro.

« John? ».

Era diventato la personificazione dell’inutilità.

« John Watson? ».

Sentì una voce chiamare il suo nome solo dopo, quando tornò ad afferrare quella realtà da cui la mente era fuggita. Si voltò in direzione dell’uomo che lo aveva apostrofato, appena alzatosi da una panchina che lui non aveva nemmeno visto pochi istanti prima, e se anche la famigliarità di quel volto gli fece scattare qualcosa, non fu sufficiente per fargli davvero capire chi fosse.

Risolse l’altro. « Stamford. Mike Stamford, eravamo insieme al Barts ».

Ecco chi era.

« Sì, scusa, sì. Ciao, Mike » disse allora, stringendo la mano che gli veniva offerta dall’uomo in trench e occhiali. Se lo ricordava, durante il tirocinio del terzo anno di Medicina.

Certo che era ingrassato.

« Sì, lo so, sono ingrassato ».

Appunto.

« No, no... » negò in un soffio, palesemente falso, ma Mike decise di sorvolare.

Ovviamente nella direzione sbagliata. « Ho sentito che eri all’estero da qualche parte, e che ti hanno sparato. Cos’è successo? » gli domandò.

« Mi hanno sparato » disse solamente lui, come se fosse ovvio e non volesse aggiungere nient’altro. Mike non rispose.

Rivedere un vecchio amico era sempre meglio che girare per Londra senza avere la minima idea di cosa fare, così presero un caffè e si sedettero sulla panchina in cui si era accomodato Mike poco prima. Era evidente Stamford non avesse idea di cosa dire – pochi davvero sanno di cosa parlare di fronte ad un ex-soldato zoppo con l’aria di uno che potrebbe buttarsi dal London Bridge prima di sera – così fu John a trovare qualcosa di “innocuo” da dire.

« Allora, sei ancora al Barts? ».

« Ora ci insegno. Ci sono giovani brillanti, proprio com’eravamo noi, una volta. Dio, li odio! » ironizzò.

John ridacchiò per riflesso.

« Tu invece? Resti in città finché non trovi qualcosa da fare? » gli chiese poi Mike.

« Non posso permettermi Londra con la pensione dell’Esercito ».

« Nah, non sopporteresti di stare da nessun’altra parte. Questo non è il John Watson che conoscevo! » esclamò Stamford, forse per tirarlo un po’ su di morale, forse per fare una battuta.

Non fece altro che farlo scattare. « Sì, non sono più il John Watson che conoscevi... » rispose, ma fu incapace di pronunciare la frase per intero, che divenne un sussurro inudibile. La sua mano tremò di nuovo e lui aprì e chiuse le dita, sperando che il tremore passasse prima che Stamford se ne accorgesse.

La situazione era già abbastanza tesa senza che l’altro lo compatisse anche per quello.

« Harry non ha potuto darti una mano? » gli chiese poi.

John lasciò andare una risata amara. « Come no, non accadrà mai ».

« Non lo so... perché non ti cerchi un coinquilino, o una cosa del genere? » ipotizzò poi.

« Oh, andiamo. Chi mi vorrebbe come coinquilino? » rispose lui, scettico.

Mike rispose con una risatina divertita.

John aggrottò le sopracciglia. « Cosa c’è? ».

« Sei la seconda persona che me lo dice, oggi ».

Se Watson fosse stato una persona meno curiosa, probabilmente avrebbe lasciato correre o avrebbe ridacchiato per la coincidenza avvenuta nella vita di quell’uomo nell’arco delle ultime ventiquattr’ore. Se fosse stato davvero disperato, non gliene sarebbe fregato niente e non avrebbe fatto la domanda che, effettivamente, fece.

Col senno di poi, il fatto che non si fosse ancora arreso cambiò tutto.

« Chi è stato, il primo? ».

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Andante ***


Note: ok, secondo capitolo.
Come posso anche solo cercare di commentare la risposta che questa fanfic del tutto sperimentale ha ricevuto? Cioè... non posso, ecco tutto. Non in modo coerente, per lo meno.
Prendo questo piccolo spazio solo per ringraziare tutti coloro che hanno recensito, messo tra i preferiti o comunque seguito il primo capitolo. Mi avete fatto venire la sindrome d’aspettativa (8D) ma il ringraziamento è d’obbligo in ogni caso ♥
 
Questo capitolo è un po’ di passaggio... riguarda più che altro alcuni missing moments avvenuti durante e dopo le puntate regolari della serie.
Altra cosa sono i POV. Nel capitolo precedente erano alternati, in questo no. Volevo determinate scene con un determinato POV, dunque non ho mantenuto l’alternanza Sherlock/John, che userò di nuovo nel prossimo.
 
Auguro comunque, a chi vorrà, una buona lettura ♥
(e ALL HEIL per la quarta serie confermata! *___*)

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2. Andante

 
 
 
 
 
Estrasse la pipetta dalla bottiglia di plastica del reagente, prendendone un quantitativo minimo. Portò la punta in plastica sul vetrino, facendone cadere una goccia sopra il suo campione – un residuo di vernice verde trovata sotto le scarpe del fratello della vittima.
L’uomo sosteneva che venisse da un muro, che aveva scrostato durante i lavori di ristrutturazione della nuova casa appena acquistata. Sherlock la pensava diversamente. Il fratello era il suo indiziato numero uno, combaciava tutto alla perfezione, tutti i pezzi del puzzle erano allineati perfettamente a formare il quadro generale e quel semplice esperimento gli avrebbe dato la soluzione che cercava (e la prova d’accusa che stava cercando Lestrade, ovviamente dalla parte sbagliata).
Il reagente cominciò subito a sfrigolare, provocando una reazione chimica con la goccia di vernice sciolta in base neutra. Mentre riponeva la pipetta sul tavolo, qualcuno bussò e la porta del laboratorio si aprì.
Sherlock lanciò uno sguardo in direzione dell’ingresso solo per sincerarsi di chi fosse. Usare a scrocco il laboratorio di un ospedale universitario aveva l’inconveniente nel fatto che non fosse suo. Era normale che i legittimi occupanti entrassero a loro piacimento (su questo non poteva farci proprio niente).
Come previsto era Mike, ma non era solo. Era accompagnato da un uomo – basso rispetto alla media, zoppo, taglio di capelli e portamento di stampo militare, ferito in azione? Ancora troppo vago. Abbronzato, in vacanza? In missione in Medio Oriente? Troppo presto per dirlo. Anello d’argento al dito, abbastanza largo come fattura, particolare interessante. Vestiti normali, usati ma non sgualciti o dimessi, classe media, introito modesto, disoccupato – che sembrava conoscere.
Distogliendo lo sguardo con noncuranza prese in mano il vetrino e lo mosse con movimenti circolari, osservando bene la reazione. Aveva cambiato colore. Presenza di ferro, dunque. La vernice non proveniva da un muro, ma da uno strumento che aveva un’anima di ferro che si era ossidato con il tempo. Come un cancello... o una scala.
Nel frattempo, il nuovo arrivato si fermò alla fine del tavolo, guardandosi intorno.
« Un po’ diverso dai miei tempi » commentò.
« Non sai nemmeno quanto » rispose Mike.
Istruito al Barts, medico, medico militare.
« Mike, posso prendere in prestito il tuo cellulare? Sul mio non c’è segnale » disse Sherlock sedendosi, il proprio cellulare in mano.
« Cosa c’è che non va con il fisso? » domandò Stamford in risposta.
« Preferisco gli SMS » ribatté velocemente lui, come se fosse ovvio.
Il nuovo arrivato li guardava in silenzio. Sherlock lo osservò con la coda dell’occhio.
Postura diritta, bene bilanciata, è fermo in piedi ma non si appoggia eccessivamente al bastone e non chiede una sedia. Zoppia psicosomatica?
« Scusa, è nel mio giubbotto » gli rispose al contempo Mike, facendo un cenno distratto al corridoio. Lo aveva lasciato in ufficio, probabilmente, appeso all’attaccapanni insieme al suddetto giubbotto.
Stava quasi per sbuffare seccato, quando il (l’ex?) soldato prese parola.
« Ecco, tenga... » cominciò, estraendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni: « usi il mio ».
« Oh... grazie » rispose Sherlock, alzandosi e dirigendosi verso di lui.
Mike decise che era il momento buono per le presentazioni. « Lui è un mio vecchio amico, John Watson ».
Quando gli tese il telefono, e la manica della camicia si alzò a sufficienza, Sherlock dovette reprimere l’istinto di alzare l’angolo destro delle labbra. Aveva il quadro completo.
Medico militare, in missione in Medio Oriente, ferito in combattimento ma non alla gamba, zoppia psicosomatica, quasi di sicuro ha un terapeuta che lo segue, Disturbo da Stress post-Traumatico. Classe media, disoccupato, probabilmente dimesso da poco, vive con la pensione dell’Esercito. Oh. Sul serio Mike? Un coinquilino? Ecco perché l’hai portato qui. Un rischio però, da sotto l’anello si vede il bordo bianco di un cerotto; è un BCE. Mike non sembra saperlo. Notevole che abbia una formazione al Barts con una condizione simile.
Prese il telefono, le loro dita si sfiorarono, e rigirandoselo brevemente lo fece scattare, cominciando a scrivere l’SMS.
Cellulare nuovo modello, troppo costoso per lui, non se lo può permettere. Un regalo. Ha qualcuno che vuole rimanere in contatto. C’è un incisione sul retro, si sente con le dita, e prima l’ha letta di sfuggita. “Harry Watson da Clara xxx”. Tre baci significano legame affettivo, il costo del telefono un legame profondo, dunque una moglie. Una moglie che l’ha lasciato visto che ha dato il telefono al fratello, se ne voleva liberare. Sentimentalismi. La cover è graffiata, così come l’entrata di ricarica: mano instabile, alcolizzato? È un salto nel buio, ma potrebbe essere. Lui non approva, forse sia l’una che l’altra cosa, ed ecco perché non chiederà aiuto.  L’unico dubbio...
« Afghanistan o Iraq? ».
Mike tirò fuori la sua espressione furba, come se attendesse quel teatrino da quando aveva messo piede all’interno del laboratorio. Watson sembrò semplicemente colto di sorpresa.
« Mi scusi? » chiese infatti.
« Qual’era, quella in Afghanistan o quella in Iraq? » specificò subito lui, rendendo più intuibile la domanda e sperando in una risposta rapida che avesse finalmente messo fine alla sua catena di ragionamenti su quell’individuo.
Il medico esitò qualche istante, guardando prima lui e poi Mike, prima di rispondere.
« In Afghanistan. Scusi, ma come faceva a... »
« Ah, Molly! Il caffè, grazie » lo interruppe lui, chiudendo il cellulare e restituendolo a Watson prima di afferrare la tazza di caffè portato dall’anatomo-patologa, appena entrata nella stanza.
« Cos’è successo al rossetto? » domandò alla donna.
« Non mi si addiceva » rispose lei, torcendosi le mani.
« Davvero? Secondo me era un gran passo avanti, la tua bocca è troppo... piccola, ora » espresse la sua opinione, tornando a sedersi al tavolo e sorseggiando il caffè.
« Va bene... » pigolò Molly, uscendo dal laboratorio.
Appoggiando la tazza sul tavolo e cominciando a scrivere una mail sul PC del laboratorio, Sherlock decise di passare alle cose pratiche.
« Le da fastidio il violino? » domandò a John.
Mike sogghignò, evidentemente soddisfatto.
Watson rimase in silenzio un istante, prima di rispondere. « Scusi, come? ».
« Suono il violino quando rifletto, e a volte non parlo per giorni. Le darebbe fastidio? Dei potenziali coinquilini dovrebbero conoscere il peggio l’uno dell’altro » spiegò, rivolgendosi ora direttamente a lui.
Watson sembrò decisamente sorpreso. « Gli... gli hai parlato di me? » chiese a Stamford.
« Neanche una parola » rispose quello.
« Chi ha parlato di coinquilini, allora? » chiese John, questa volta rivolto a lui.
« Io. L’ho detto a Mike questa mattina, che sono un coinquilino difficile da gestire » cominciò, dando le spalle a Watson ed infilandosi il cappotto: « e ora eccolo qui, appena tornato dalla pausa pranzo con un vecchio amico chiaramente appena congedato dal servizio militare in Afghanistan. Non era così difficile da capire ».
« Come faceva a sapere dell’Afghanistan? » domandò John, ora più attento che sorpreso, quasi diffidente. Tipica reazione.
Sherlock ignorò la domanda. « Ho messo gli occhi su un bel posticino in centro a Londra. Insieme dovremmo essere in grado di permettercelo. Ci vediamo lì domani sera alle sette in punto. Scusi, sono di fretta, ho dimenticato il frustino da fantino in obitorio » disse, controllando velocemente il cellulare prima di metterselo in tasca e passare oltre John, ancora fermo in piedi.
« Tutto qui? » domandò poi, prima che uscisse.
Sherlock si allontanò dalla porta con un passo, un movimento fluido derivato dalla camminata che non aveva interrotto. « In che senso? » chiese a sua volta.
« Ci siamo appena incontrati e andremo a vedere un appartamento » disse, nascondendo però una domanda nella frase.
Sherlock si guardò intorno, prima di rispondere. « È un problema? ».
Watson sorrise, incredulo, poi tornò nuovamente serio. « Non sappiamo nulla l’uno dell’altro. Non so dove ci dovremmo incontrare e non so neppure il suo nome » disse, il carattere del soldato finalmente in vista.
Se l’era cercata.
« So che lei è un medico militare tornato a casa invalido dall’Afghanistan. Ha un fratello che si preoccupa per lei, ma lei non vuole chiedergli aiuto perché non lo approva, forse perché è un alcolizzato o più probabilmente perché di recente ha lasciato la moglie. E so che il suo terapista pensa che la sua zoppia sia psicosomatica, e temo abbia perfettamente ragione. Credo possa bastare, no? ».
Lo sguardo di John Watson era passato dal dubbioso all’incredulo nell’arco di tutto il discorso, per poi assestarsi in una serietà sbalordita. Sherlock decise che come dimostrazione poteva essere abbastanza e si girò di nuovo, raggiungendo la porta. Salvo poi fermarsi, e aggiungere:
« Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street. Buo– ».
Fu interrotto prima che potesse terminare la frase.
« “Sherlock”? » scattò improvvisamente Watson, le sopracciglia aggrottate in un’espressione stupita.
Holmes non fu attratto dalla reazione. Molte volte le persone alzavano un sopracciglio a sentire il suo nome, così insolito e di vecchio stampo, dopo trent’anni ci aveva fatto il callo. Ciò che gli impedì di dare una risposta secca e volare fuori dal laboratorio fu l’espressione negli occhi di John Watson, che dietro la sorpresa nascondevano qualcos’altro. Qualcosa che non sapeva assolutamente definire.
Ma si fermò comunque.
Perché non era possibile che il suo nome fosse sul dito di qualcun altro... o sì?
« C’è qualche problema? » domandò allora.
L’espressione di John cambiò così come poco prima, trasformandosi in uno sguardo noncurante. « Scusi, è solo un nome insolito, ecco tutto » liquidò, apparentemente tranquillo.
Forse si era sbagliato ed era stata davvero una reazione dovuta alla stranezza del nome. Forse.
Sherlock annuì lievemente, facendo un cenno con il capo a Mike e, salutando con un « Buon pomeriggio » uscì finalmente dal laboratorio a passo sostenuto.
Interessante, quel John Watson.
 
 
 
Aprì la porta della stanza che aveva in affitto alla pensione militare, richiudendosela alle spalle con mente assente.
Il suo cervello era completamente vuoto. Come se avesse ricevuto una scarica, una sinapsi più potente del solito, ed esso fosse andato in cortocircuito, e fosse in attesa di essere riavviato di nuovo.
SherlockHolmes.
Certo, poteva non essere lui. Ma quanti “Sherlock” esistevano in Gran Bretagna? Una decina? E quanti sotto i cinquant’anni? “Sherlock” non era un nome comune, di sicuro non usato frequentemente.
Era stato come trovarsi davanti un vecchio compagno di classe che lo prendeva sempre in giro. O un compagno di squadra che non aveva trovato impiego più valido per la sua adolescenza se non passandola a sfotterlo. Aveva avvertito l’istinto di tirargli un pugno, la mano sinistra prudere, la ferita sul dito bruciare più che mai.
“Sherlock”, la sua carne lesa gridava, “Sherlock”, eccolo qui, “Sherlock”. Il nome alla fine di tutti i tuoi incubi.
Ma John non lo aveva odiato. Se l’era quasi aspettata, l’ondata di puro risentimento salirgli dallo stomaco e rimbalzargli nel petto, andando su per la gola, su fino al cervello. Ma non era successo.
Lui non odiava Sherlock Holmes.
L’istinto gli diceva che era lui, ma la ragione insisteva a dirgli che non poteva provarlo. E non avrebbe mai potuto.
Lui era un BCE, e Sherlock un Bondless. Non portava alcun anello, lo aveva notato mentre mandava il messaggio con il suo cellulare, e non aveva nessun nome sul dito. Le regole del Legame per loro non valevano, non scattava proprio niente.
Per molti sarebbe stata una prova inoppugnabile... d’altronde combaciava tutto in modo lampante: un Bondless e un BCE con il suo nome inciso sulla pelle. Rifiutante e rifiutato. Una commedia poco divertente che li aveva portati l’uno di fronte all’altro per la durata di dieci minuti in cui lui era stato vivisezionato come una rana a lezione di biologia.
E avrebbe dovuto essere il suo... coinquilino?
Le labbra di John si piegarono in un sorrisetto sarcastico.
A quanto pareva la vita non era stata già abbastanza stronza. La Natura “madre e matrigna” con lui era stata solo una gran puttana e basta. E non perdeva il vizio.
Sospirando, tirò fuori il cellulare dalla tasca, selezionando l’icona dei messaggi.
Aveva chiesto a Stamford chi fosse Sherlock Holmes, ma lui non era riuscito a dirgli granché. Gli aveva detto che era un chimico ma non aveva mai preso la laurea, che si era ritirato dall’università prima di discutere la tesi ma dopo aver seguito tutte le lezioni del corso. Il suo lavoro consisteva nel collaborare saltuariamente con la polizia – cosa già dubbia di per sé – e che grazie ad alcuni agganci famigliari aveva accesso ai laboratori del Barts per le analisi.
Praticamente non aveva risposto a niente. Sherlock Holmes sembrava di più, molto di più, e bastava solo uno sguardo, bastava ascoltarlo solo una volta per capirlo. Sembrava una di quelle persone che, passato lo shock, si amano o si odiano senza avere il lusso di una via di mezzo.
E lui, stranamente, anche se avrebbe dovuto, anche se ne aveva tutte le ragioni... non lo odiava.
Aprì i messaggi inviati, ritrovando velocemente quello digitato da Holmes poche ore prima ed inviato ad un numero sconosciuto che evidentemente l’altro sapeva a memoria.
Se il fratello ha una scala verde, arresta il fratello. – SH
Chi era, Sherlock Holmes? Cos’era? Avrebbe dovuto presentarsi a Baker Street il giorno dopo? Avrebbe dovuto lasciar perdere e cercarsi un’altra sistemazione? Avrebbe dovuto chiudere lì quell’esperienza, evitare di tirare troppo la cinghia della sorte, scomparire dalla vita di Sherlock Holmes facendo sì che Sherlock Holmes sarebbe sparito dalla sua così come ci era entrato?
Senza rimettere in tasca il cellulare, alzò lo sguardo sul computer. Afferrò meglio il bastone e, facendosi forza per alzarsi dal letto, si diresse alla scrivania.
Lo accese, si collegò ad Internet, aprì Google.
E sulla barra di ricerca digitò “Sherlock Holmes”.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Il ristorante cinese Royal China, al 23 di Baker Street1, era un ampio locale con molti tavoli e tendaggi rossi di tessuto pesante, su tendine più sottili e leggere di colore bianco. Alle pareti uno sfavillio di oro e arzigogoli blu davano la tipica atmosfera orientale e lampade cinesi di carta rossa pendevano dal soffitto sopra ogni tavolo, donando al luogo un’atmosfera soffusa e, in un certo senso, privata.
Era ormai mezzanotte passata e nel ristorante erano rimasti pochi avventori. Dopotutto era giovedì. Ma nonostante l’ora Sherlock e John erano stati accolti con un sorriso ed un inchino e accompagnati al loro tavolo, ovvero un piccolo tavolino nell’angolo della sala. La finestra al loro fianco dava sulla strada, e John cominciò a chiedersi se Sherlock non avesse il vizio di tenere sotto controllo l’esterno ogni volta che entrasse in un ristorante. O se, al contrario, andasse al ristorante solo ed esclusivamente per gli appostamenti.
« Non vado al ristorante solo per appostarmi » intervenne il detective dall’altra parte del tavolo, scorrendo il menù con disattenzione. John alzò un sopracciglio.
« Come hai fatto a... ? ».
« Ti si legge in faccia » ribatté Sherlock: « e poi hai guardato me e la finestra per due volte consecutive alternate, era probabile che ti stessi chiedendo se era un mio vizio sedermi accanto alle finestre e per quale motivo lo facessi, dunque ti ho risposto » aggiunse.
Lo conosceva da poco meno di 48 ore e ogni volta che apriva bocca lo lasciava esterrefatto. « Fantastico » commentò, sinceramente colpito.
Sherlock face spallucce. « Facile » rispose, ma l’angolo delle sue labbra si sollevò appena.
Ci aveva messo poco, John, a capire che il detective aveva un debole per i complimenti. E di certo lui non gliene faceva solo per divertirsi, anche perché aveva l’impressione che Sherlock sapesse capire esattamente quando una persona fosse o meno sincera – e non osservando i classici segni della menzogna, come gli occhi o i gesti non-verbali. Lo capiva e basta. Per ingannarlo sarebbe servito un grande bugiardo, probabilmente, e John non lo era. I suoi complimenti erano sinceri.
Lo aveva conquistato. Nel giro di ventiquattro ore, trascinandolo in giro per Londra come una trottola, facendogli vedere l’aspetto nascosto della città, le vene di sangue nero sotto l’epidermide della noia che la ricopriva.
La mano non tremava più, la gamba non doleva più. Non si sentiva solo, non più, non adesso. Mycroft Holmes aveva ragione, con Sherlock lui rivedeva il campo di battaglia, e questo sembrava fargli bene.
Si chiese per un momento chi fosse davvero il più mentalmente disturbato dei due.
Era andato a Baker Street per disperazione, per cortesia. Avrebbe visto l’appartamento e, che fosse o meno bello, avrebbe rifiutato con una scusa qualsiasi. Aveva pensato che fosse impossibile per lui, dopotutto, vivere con il suo SIN, o comunque con la persona che quasi sicuramente doveva esserlo. Gli erano serviti anni per farsene una ragione, per scrollarsi di dosso il risentimento, e non ci era nemmeno riuscito del tutto. Tra l’altro si presentava supponente, spocchioso e decisamente egocentrico, e lui non aveva tempo per avere a che fare con uno come Sherlock Holmes.
Era entrato a Baker Street con l’intenzione di rifiutare. Ne era uscito come un uomo nuovo e con un nuovo appartamento, condiviso con un coinquilino eccentrico e geniale che, tanto per gradire, era anche il SIN che avrebbe dovuto odiare ma che non riusciva a detestare abbastanza da surclassare la curiosità ( e forse l’empatia) che provava nei suoi confronti.
Era fregato.
All’arrivo della cameriera, Sherlock ordinò riso alla cantonese e pollo al limone, mentre John degli involtini primavera, spaghetti di riso con verdure e un piatto di funghi e bambù. La ragazza, giovane e sorridente e dall’immancabile accento orientale, annuì con un sorriso e si diresse in cucina con le loro ordinazioni.
Proprio mentre il silenzio cominciava a farsi quasi imbarazzante, fu Sherlock a prendere parola.
« Sei un BCE » disse, il tono piatto e tranquillo di chi non sta facendo una domanda.
John sobbalzò, colto alla sprovvista. Non pensava di passarla liscia ancora per molto, ma sperava che la privacy dovuta ad argomenti come quello fosse un deterrente sufficiente. A quanto pareva, per Sherlock Holmes non lo era.
John si esibì in un sorrisetto amaro, gli occhi bassi puntati al tavolo. « Speravo che avremmo parlato dell’affitto, in realtà » disse.
« Questo è più interessante » rispose Sherlock, osservandolo attentamente.
« No. No, non credo proprio » ribatté John, duro ed improvvisamente sulla difensiva. Si disse di moderare il tono ma non vi riuscì, era una reazione istintiva che aveva sin dall’infanzia. Tentò, tuttavia, di ammorbidire il discorso: « ti chiederei come l’hai scoperto ma la risposta non mi stupirebbe ».
« Ho visto il cerotto quando mi hai passato il cellulare, ieri al Barts » gli rispose puntualmente Holmes.
« Non è una cosa che noterebbe chiunque ».
« Io non sono “chiunque” » specificò Sherlock, sottolineandolo con l’inflessione della voce. « Inoltre mi ha incuriosito la tua reazione al mio nome. Non è la prima volta che mi capita, ma in questi giorni ho capito che non sei tipo, e mi sono dovuto ricredere. Di conseguenza mi sono chiesto perché... » lasciò cadere Sherlock, sottintendendo senza ombra di dubbio la domanda.
John alzò gli occhi dal tavolo e li puntò in quelli di Sherlock, che avevano deciso di essere di un caldo color azzurro con riflessi verdi. A seconda della luce che li colpiva quelle iridi avevano sfumature diverse, ma non sfuggivano mai al controllo del proprietario. Se Sherlock Holmes voleva che esprimessero qualche sentimento, faceva in modo di farlo trasparire. Se voleva che rimanessero freddi, da essi non potevi leggere nulla.
Come in quel momento.
« Perché cosa? » rispose John, cercando di spingerlo a formulare una domanda diretta. Sembrava l’ultima linea difensiva di chi era con le spalle al muro e si rifiutava di cedere al panico.
L’angolo delle labbra di Sherlock si arricciò appena verso l’alto, prima che riprendesse parola: « vuoi davvero fare questo gioco con me? » domandò ironico.
John non demorse. « Fammi una domanda diretta e avrai una risposta diretta ».
L’altro colse al volo l’occasione. « C’è il mio nome sotto quel cerotto? » domandò, indicando l’anello d’argento al suo anulare sinistro.
John inarcò un sopracciglio nell’espressione più perplessa che riuscì a tirar fuori. Holmes poteva anche essere un ottimo osservatore, ma John mentiva da quand’era piccolo, e la menzogna è un’arte che si apprende e si migliora con il tempo.
« Cosa?! » esclamò, sorridendo sorpreso. Sembrò funzionare, perché Sherlock inarcò un sopracciglio. « Che? No, assolutamente no! Quale persona sana di mente andrebbe a convivere con il proprio SIN in una situazione come la mia? » domandò, scuotendo il capo con un sorrisetto: « pecchi d’egocentrismo, Sherlock » aggiunse, prendendo il bicchiere per bere un sorso d’acqua, sperando che l’altro non si fosse accorto del lieve tremore d’agitazione quando lo aveva afferrato.
Anche se non del tutto convinto, Sherlock sembrava dubbioso. Sempre meglio di niente. Almeno avrebbe smesso di battere il chiodo e magari riconsiderato la sua idea. Forse.
Qualsiasi risposta fosse in procinto di dare Sherlock, fu interrotta dall’arrivo del loro ordine. Rimasero in silenzio mentre la cameriera appoggiava i piatti sul tavolo – momento che John utilizzò per darsi una calmata – e si protrasse anche dopo, durante i primi bocconi.
John decise di spezzare il silenzio portando l’attenzione su qualcos’altro. « È un problema, comunque? » domandò.
Sherlock alzò lo sguardo su di lui. Aveva un modo molto elegante di mangiare. « Cosa? » domandò.
« Il fatto che io sia un Ribbon. Per l’appartamento, intendo » disse. Certe cose era meglio metterle in chiaro subito. Dal canto suo si ritrovava stranamente ben disposto a dividere la casa con Sherlock, ma se l’altro preferiva non averlo intorno...
« No » rispose però Sherlock, come se la domanda in sé non avesse motivo di essere stata posta: « se avessi avuto dei problemi ti avrei allontanato prima » aggiunse.
John annuì. « Capisco ».
« John, presto un’attenzione relativa alle statistiche riguardanti i BCE. Non posso dire che non siano vere, è innegabile che lo sono, ma non mi piace generalizzare. Dopotutto sono un Bondless » disse.
Non aveva tutti i torti. Se i Ribbon erano discriminati, i Bondless erano ritenuti una sottospecie di scherzi di natura. Sherlock era già un tipo piuttosto eccentrico e particolare, dunque John supponeva che l’essere anche un Bondless non lo avesse aiutato molto, nella vita.
Gli sfuggì un sorriso. « Come fai a capire che non sono pericoloso? » gli chiese però, anche se il tono di voce era decisamente più disteso.
Sherlock si pulì le labbra con il tovagliolo. « Prima. Non hai sparato finché non sono stato in pericolo immediato. Hai aspettato di vedere la mia reazione » disse.
« La tua reazione avventata e idiota » intervenne John.
« Quello che è » glissò Sherlock con un gesto della mano: « il punto è ciò che dimostra. Hai una forte fibra morale, non hai ucciso finché non ne sei stato costretto. Per me basta e avanza ».
Watson ridacchiò, incredulo. « E tu basi la tua valutazione sul fatto che ho esitato prima di uccidere un uomo, piuttosto che sul fatto che l’ho effettivamente ucciso? » chiese, sbalordito.
Holmes roteò gli occhi. « Non hai esitato, hai aspettato » specificò Sherlock: « è diverso. Ed è stato... un gran bel colpo » aggiunse, schiarendosi la voce.
John tornò a mangiare il suo riso. « Suppongo che questo sia un “grazie per avermi salvato la vita” ».
« Come ti ho già detto, avevo tutto sotto controllo » ribatté Sherlock, ma John ridacchiò nuovamente. Dietro tutto quell’orgoglio, quell’eccentricità e quella non-considerazione per i sentimenti altrui, intravedeva l’uomo che davvero era Sherlock Holmes, con tutti i suoi difetti e i suoi pregi; un riflesso che probabilmente pochi altri avevano intravisto, e che lui aveva carpito di sfuggita.
E ciò che vedeva non gli dispiaceva affatto.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Mancavano un paio d’ore all’alba quando rientrarono a Baker Street.
Da sopra i grattacieli di Londra, il nero della notte cominciava a sfumare in colori più tenui e, sull’orizzonte, pennellate di tinte pastello spruzzavano azzurri e viola scuri qui e là. Si prospettava una giornata serena.
Come sempre dopo ogni caso, la veglia continua di settantadue ore stava prendendo posto nella sua mente, e la stanchezza da essa derivata cominciava ad appesantirgli le spalle. Non era improbabile che si concedesse più di dieci ore di sonno, una volta conclusi tutti gli strascichi – burocratici e non – del caso.
Erano spariti dalla scena del crimine prima che arrivassero troppe pattuglie della polizia e i giornalisti. Dimmock era stato prevedibilmente concorde a far sì che non dovessero testimoniare, così erano saliti su di un taxi ed erano tornati a casa.
Dopo aver riaccompagnato Sarah, per la precisione.
« Ti ho mai detto quanto mi piace questo posto? Soprattutto quando torno a casa dopo essere stato minacciato con un arma da fuoco » ironizzò John, lasciandosi andare su una delle sedie libere in cucina. Il salotto era ancora disseminato di contenitori e libi, poltrone e divano compresi. Ci sarebbe voluto un pomeriggio intero per ripulire tutto e riconsegnare tutto alla polizia.
Sherlock non commentò, togliendosi il cappotto e appendendolo all’attaccapanni dietro la porta. Si tolse anche la giacca nera e, dirigendosi in cucina a passo calmo, si arrotolò le maniche della camicia oltre i gomiti.
« Girati » disse poi a John, indicandogli con il dito di rivolgere lo sguardo al tavolo e mostrargli il lato della testa.
John, ricordandosi solo dopo pochi istanti di avere una ferita alla testa, fece un cenno vago con la mano. « Non preoccuparti, non fa più male... la disinfetterò prima di fare la doccia » disse.
Ma Sherlock non demorse. « Girati » ripeté, questa volta afferrando con le dita il mento di John e forzandolo a girare il capo. Watson non poté far altro che ubbidirgli (Holmes sapeva essere fin troppo testardo, a volte).
« Ti ho detto che va tutto bene » provò di nuovo John.
« Ti hanno messo K.O. con il calcio di una pistola. Potresti avere un trauma cranico ».
« Non ho un trauma cranico, Sherlock » rispose John con calma, senza tuttavia impedirgli di osservare la ferita: « avrei anche altri sintomi, come la nausea, cosa che non ho. È solo una semplice botta in testa » disse.
« Taglio ».
« Cosa? ».
« Hai un taglio in testa » corresse Sherlock: « resta qui » disse poi, allontanandosi in direzione della propria camera.
Quando tornò indietro, portando con sé disinfettante, cotone idrofilo e un beauty case rigido di pelle marrone, notò che gli occhi di John erano fissi sulle finestre del salotto, ancora marchiate con i numeri cinesi 15 e 1 in vernice gialla.
Il detective spostò uno dei vassoi rimasti sul tavolo da quella sera, vi appoggiò l’attrezzatura medica e cominciò a disinfettare con precisione la ferita fra i capelli di John.
« Ci vorrà un intero flacone di acquaragia per togliere quella vernice... sempre che non ci tocchi cambiare direttamente i vetri... » borbottò John, storcendo il naso quando Sherlock passò il batuffolo di cotone bagnato di disinfettante sul taglio ancora lievemente sanguinolento.
« Pensavo di lasciarli così, in realtà » rispose Sherlock, troppo concentrato per suonare ironico come invece voleva.
« No, Sherlock. Non lascerò una minaccia in cinese sulle finestre del mio salotto » rispose subito John.
« Nostro salotto. E tecnicamente è un codice numerico espresso in ideogrammi dialettali ».
« Quello che è ».
L’angolo delle labbra di Sherlock si arricciò verso l’alto.
Terminò di ripulire la ferita e la pelle circostante, posando il batuffolo sporco sul tavolo e raggiungendo la cassettina marrone. Facendo scattare il gancio la aprì, selezionando attentamente una delle boccette di vetro in essa contenute. Ne svitò il tappo, bagnò abbondantemente un altro pezzo di cotone idrofilo – tenendolo con le pinze – con il liquido trasparente al suo interno, e picchiettando leggermente cominciò a passarlo sulla ferita.
« Che roba è? » domandò il medico, voltando l’ampolla per poterne leggere l’etichetta. Sobbalzò. « Morfina? » domandò poi, scostandosi dalle cure di Sherlock che roteò gli occhi.
« Stai fermo » lo redarguì lui, riportando con la mano libera dalle pinze la testa di John nella stessa posizione di prima.
« Sherlock, Morfina? » chiese però ancora il medico, sconcertato.
Holmes sospirò. « Lieto che tu sappia ancora leggere le etichette » ironizzò distrattamente, tutta l’attenzione concentrata sul bagnare la cute di John il più possibile con l’anestetico.
« Non scherzare. Se Lestrade ti trova con questa... ».
« Ho smesso di usarla per scopi ricreativi anni fa » gli rispose Sherlock, conscio di dove il dottore volesse andare a parare. Dall’ultima retata antidroga, quei due si erano messi d’accordo per tenerlo d’occhio come due pessimi complici in un altrettanto pessimo delitto. « E comunque, se Lestrade trovasse quella cassetta, la Morfina sarebbe l’ultimo dei suoi problemi. E ora sta fermo » aggiunse, sottolineando le ultime parole con la voce.
Cosa che John, ovviamente, non fece. Anzi, si sporse per osservare il contenuto del beauty case.
« Daphne cneorum... » lesse John, spostando con attenzione la ventina di piccole ampolle di vetro chiuse con tappi di sughero e ceralacca. Alcune avevano etichette farmaceutiche, altre erano scritte a mano in grafia ordinata e fine. « Ricinus communis, Datura stramonium... Digitalis purpurea?! » esclamò il medico: « Sherlock, la Digitale è una pianta velenosa! » aggiunse poi, osservando controluce il contenuto liquido e semi-scuro della boccetta.
Sherlock, posando il cotone imbevuto di morfina, cominciò a disinfettare un ago da sutura e il relativo filo. « Già. Immagino dunque che tu non voglia inavvertitamente far cadere quell’ampolla » rispose, come se il fatto non fosse neanche suo.
John lo fissò con tanto d’occhi, ma sospirò come se, ormai, da Sherlock potesse aspettarsi di tutto senza rimanerne eccessivamente sorpreso. « Sembrano fatte in casa » osservò solamente.
« Lo sono » confermò Sherlock.
« Dove hai trovato le piante per farlo? Alcune non crescono nemmeno in queste zone ».
« Me le sono fatte inviare » glissò Sherlock, per poi aggiungere: « la mia adolescenza è stata molto noiosa. E ora immobile » disse, alzando l’ago con i relativi attrezzi per la sutura chirurgica.
John adocchiò con la coda dell’occhio l’ago da sutura, e questa volta rimase davvero fermo mentre Sherlock lavorava.
« Sai anche suturare... » disse dopo qualche istante, per riempire il silenzio.
« Evidentemente » rispose Sherlock.
« Come hai imparato? ».
« Sui cadaveri ».
Chissà perché non ne era sorpreso. « Da Molly? ».
« All’università » corresse Sherlock. Normalmente non avrebbe aggiunto altro, ma con John era diverso.
Non era come tutti gli altri. Sembrava una persona normale ma c’era qualcosa, in lui, che gli altri non avevano.
Ascoltava senza giudicare. Forse fu per questo che continuò a parlare, raccontando qualcosa di sé a qualcun altro di sua spontanea volontà per la prima volta nella sua vita. « Al secondo anno rubai la chiave dell’obitorio all’associato di Medicina Legale. Di notte andavo a cucire insieme le dita delle mani e dei piedi dei cadaveri che avrebbero usato a lezione il giorno successivo » disse.
Sentì John ridacchiare e, di riflesso, sorrise.
« Poveri insegnanti » commentò Watson, divertito.
« Erano degli incapaci in ogni caso » disse Sherlock.
Era una situazione particolare. Qualcosa era diverso, nell’aria forse, o in loro, non lo sapeva. Completamente a suo agio, totalmente rilassato. Una sensazione strana e nuova ma piacevole, quasi inebriante. Conosceva altre persone, Sherlock – Lestrade, Mike, mrs. Hudson, Mycroft – ma con nessuno era così, o lo era anche solo stato in passato.
Nemmeno con Victor. E a Victor lui aveva permesso cose come a nessun altro. Victor aveva toccato e visto e assaggiato e reclamato ogni centimetro di pelle, di corpo, di aria respirabile. Lo aveva visto nella situazione in cui era nudo e scoperto per eccellenza, slegato dalla realtà e dalla ragione; lo aveva posseduto.
Ma Victor non aveva mai avuto la sua mente, la chiave per carpirne i segreti e comprenderne il funzionamento, una cosa che John sembrava essersi semplicemente preso senza rendersene conto. Forse non era intelligente, o particolarmente acuto o furbo, ma John lo attraeva intellettualmente in un modo che nemmeno Sherlock sapeva spiegarsi, ma a cui non prestava molta attenzione.
Ma John fece la domanda sbagliata non appena Sherlock annodò il primo punto, e qualcosa in quella quiete si incrinò.
« Non potevi semplicemente fare come tutti gli altri? Andartene in giro, trovarti qualche ragazza o ragazzo? Magari la tua Anima Gem– ».
Si fermò in tempo, interrompendo la frase, ma troppo tardi. Le mani di Sherlock si fermarono di conseguenza.
« Scusa » disse subito John, ma Sherlock parlò comunque. Fu volontariamente crudele.
Forse per ripicca.
« Non ho mai avuto l’opportunità di dedicarmi a questi svaghi » sputò risentito, lasciando convenientemente fuori il fattore Victor Trevor (il quale era stato comunque solo un esperimento a lungo termine, si disse).
Come previsto, John se ne risentì. « Ti ho chiesto scusa. E comunque non sono svaghi, sono relazioni consensuali fra due adulti... sarebbe normale. È normale. Pensare di non fare sesso se non con la propria Anima Gemella è superato » precisò, divagando leggermente.
« Non devi giustificarti con me per le tue relazioni, John. Sono sicuro che Sarah ha dei buoni motivi per ignorare il nome che ha sul dito » disse, il tono duro, chiudendo velocemente anche il secondo punto di sutura.
« Chi ti dice che Sarah non sia la mia Anima Gemella? » domandò John.
Oh, ma per favore!, pensò Sherlock prima di rispondergli. « Quale persona sana di mente instaurerebbe rapporti con il proprio SIN in una situazione come la tua? » domandò retoricamente, citando quasi letteralmente ciò che John stesso aveva detto quella sera al ristorante cinese.
Sentì John fare scattare la mascella e stringere i denti. « Pensi ancora che il nome sul mio dito sia il tuo? » domandò poi, palesemente teso ed irritato.
Come in uno specchio, la rabbia di John fece agitare anche lui. « Se non è vero fammelo vedere » rispose.
La cosa più sbagliata che potesse dirgli.
John si alzò di scattò dalla sedia, allontanandosi di due passi e girandosi verso di lui. « No, Sherlock. Perché è privato e comunque non sono cazzi tuoi! » esclamò, stuzzicato su di un nervo scoperto: « ma tu cosa ne sai? Cosa ne puoi mai sapere di cosa vuol dire essere come me? Tu non hai mai dovuto cominciare la Ricerca, e come minimo te ne sei persino fregato! Non ti sei mai sentito solo, o abbandonato, non è vero Sherlock? » chiese a voce alta, facendo calare nuovamente il silenzio solo quando si accorse che Sherlock non aveva risposto, ma lo stava guardando con espressione neutra ed immobile.
Si guardarono per un tempo che parve infinito, dilatato dal silenzio dell’appartamento, occhi negli occhi.
Finché con fu John a chiudere gli occhi, e sospirare. « Senti, sono stanco, io... non volevo... ».
« Hai ragione » lo interruppe però Sherlock, senza mai distogliere lo sguardo da lui: « è tutto vero. Sono un Bondless, questo logicamente vuol dire che da qualche parte potrebbe esserci una persona con il mio nome sul dito, un BCE con il mio nome sul dito, ma non m’importa. Sono io che ho rotto il legame, sempre secondo logica; l’avrò fatto per un motivo. E se c’è una persona di cui mi fido in questo mondo, quella sono io » disse, alzando il mento con supponenza: « dunque sì, John, hai ragione. Tutto sommato non me ne frega niente. Sono libero più di quanto tu lo sarai mai » terminò, lasciando tutto sul tavolo e oltrepassandolo velocemente, andando a stendersi sul divano.
John, ancora in piedi davanti alla porta, rimase in silenzio. Sherlock lo sentì deglutire rumorosamente ma non lo guardò, deciso a non replicare a qualunque cosa fosse uscita dalle sue labbra. Perché c’erano diversi modi per sentirsi soli e rifiutati, e John avrebbe dovuto saperlo più di tutti gli altri.
« Mi dispiace... » sussurrò poi il medico, la voce bassa, apologetica. « Vado a dormire un paio d’ore... » aggiunse, dirigendosi verso le scale.
Sherlock non rispose.
Sapeva già che l’indomani mattina avrebbero entrambi fatto finta di niente.
Ed era la cosa che lo innervosiva di più.
 
 
 

.o0o.

 
 
 
Si risvegliò sentendo nel naso un odore forte e sgradevole.
Cloroformio. Lo riconobbe ancora prima di aprire gli occhi.
Ricordarsi cosa fosse successo non fu difficile, le immagini accorsero da sole. Lui e Sherlock avevano appena risolto il caso dei progetti missilistici e recuperato la chiavetta USB, così come avevano superato tutte le prove del dinamitardo. Era appena uscito dal 221B diretto a casa di Sarah quando era stato affiancato da un paio di uomini abbastanza robusti all’entrata della stazione di Baker Street; uno di loro gli aveva premuto un fazzoletto sul naso approfittando della folla che andava e veniva, poi il buio. Era riuscito a sentire l’eco di qualche parola, gli sembrava di aver visto una divisa da poliziotto mentre forti mani lo accompagnavano a terra con la scusa di un malore improvviso, e si ricordava di aver pensato a qualcosa come “cazzo, non è ancora finita” prima di perdere completamente i sensi.
In quel momento, con un diffuso mal di testa ed una lieve nausea dovuta all’anestetizzante, si rendeva finalmente conto di essere caduto in una trappola.
Si impose di restare calmo e, ancora senza aprire gli occhi, tentò di scrollarsi di dosso gli effetti del cloroformio e affinare i sensi.
Oltre al proprio battito cardiaco, accelerato a causa dell’agitazione, sentiva pochi altri rumori. Respiri, un’unica serie di passi in lontananza, uno scroscio come di acqua ma non corrente. Aveva caldo. Si sentiva il petto e la schiena pesanti – forse aveva qualcosa addosso – ma a parte quello l’aria stessa era umida e afosa. Era seduto, le mani legate dietro la schiena, e avrebbe giurato che i listelli di legno sotto le proprie dita fossero quelli del poggia schiena di una panchina. L’olfatto era completamente fuori uso a causa dei residui dell’odore caratteristico del cloroformio, dunque non riusciva ad annusare nient’altro.
Se ci fosse stato Sherlock, avrebbe capito subito, probabilmente. Ma lui non aveva la minima idea di dove si trovasse.
Lentamente, lottando contro la pesantezza delle proprie palpebre ancora reduci da un’anestesia improvvisa, aprì gli occhi.
Mattonelle azzurre, piccole. Proseguivano per tutto il pavimento fino al muro, dipinto di bianco ma rigato di grigio in alcuni punti, dove le punte delle scarpe avevano lasciato il segno. Davanti a lui, diverse panchine di legno chiaro erano allineate lungo tutto il muro e, sopra di esse, attaccapanni di plastica neri seguivano la linea delle panchine lungo la parete.
L’indizio rivelatore, però, fu l’interruzione del piastrellato in favore ad un altro tipo di mattonella, ruvida e bianca, cesellata con disegni romboidali. Antiscivolo, avrebbe detto. Le riconobbe e, come se qualcuno avesse premuto un grilletto immaginario nella sua mente, in quel momento gli sembrò di sentire il tipico odore di cloro.
Era negli spogliatoi di una piscina.
Non fu necessario sollevare del tutto la testa perché la persona dietro di sé, seduta sulla panchina schiena contro schiena, si accorgesse che era sveglio.
« Ben svegliato, Johnny-boy » disse quello, con una voce maschile ma alta, un tono che aveva già sentito da qualche parte (ma ricordare dove non sembrava possibile, in quel momento).
Cercò di mantenere la calma. « Con chi ho il piacere di parlare? » domandò, la voce bassa e il tono duro.
Quello ridacchiò. « Se si rivelasse un piacere ne sarei sorpreso » ribatté, prima di alzarsi e cominciare a camminare avanti e indietro, sempre alle sue spalle.
« Fra poco avrai le mani libere, Johnny, ma mi sembra giusto avvertirti prima di un fatto di non secondaria importanza. Per motivi tecnici, oserei aggiungere » disse, fermandosi e battendo a terra i tacchi delle scarpe come seguendo un motivetto. « Sotto il piumino indossi una quantità di PE4(2) sufficiente a radere al suolo l’intero edificio. Una mossa falsa e di te non rimarrà nemmeno il DNA » disse, il tono allegro e persino canticchiante.
A John non servì abbassare gli occhi per confermare la versione dell’uomo: alcuni fili elettrici spuntavano dal colletto di fianco al suo orecchio sinistro e sentiva distintamente l’esplosivo contro il petto.
Prese un profondo respiro, che rilasciò tremante. « Perché liberarmi le mani? » chiese poi.
« Oh, devi sembrare volontario. Cioè, so che lo sarai, ovviamente. Tutti lo sarebbero con la quantità di plastico che in questo momento porti addosso. Ma tutti gli altri erano liberi e volenterosi e voglio che Sherlock ti veda così. Voglio che dubiti, per un istante, che dietro tutto questo ci sia tu, per poi capire che no, tu sei solo un altro povero stolto che si è fatto catturare come una falena da un neon » disse, senza dare ulteriori spiegazioni.
All’improvviso, John sentì una lama passare fra i suoi polsi e recidere la fascetta di plastica che li teneva legati. Si limitò poi ad appoggiare, lentamente, le mani sulle proprie ginocchia.
« Bravo soldatino » lo sfotté l’altro. Di tutta risposta gli passò di fianco fino a fermarsi di fronte a lui. Sorrise, ferino, su di un volto che tutto si sarebbe potuto dire fuorché che sembrasse malvagio, e che John aveva decisamente già visto.
Aggrottò le sopracciglia quando lo riconobbe. « Tu sei... ».
« Jim del Barts? Sì! » esclamò quello, le mani nelle tasche del costoso completo blu scuro che indossava, compreso di fermacravatta in argento. « Una delle mie interpretazioni migliori » aggiunse, sedendosi davanti a lui e stendendo le gambe fino ad incrociarle a livello delle caviglie.
Poi lo guardò, in silenzio, sorridendo a labbra chiuse, per un tempo che poteva essere lungo qualche secondo o qualche minuto, John non sarebbe comunque riuscito a dirlo. Anche se non voleva ammetterlo, una buona parte della sua concentrazione era slittata all’esplosivo sul suo petto, tanto che faticava persino ad imporsi di respirare con un ritmo regolare.
Si fissarono in silenzio.
« Jim Moriarty » si presentò poi quello, sussurrandoglielo come se fosse un segreto.
« Avevo intuito » rispose John.
Quello finse un’espressione sorpresa. « Vorresti uno zuccherino? » lo sfotté: « suppongo che la vicinanza a Sherlock ti faccia bene. Gli hai già detto di essere la sua Anima Gemella? » domandò Jim, senza mai distogliere lo sguardo, profondamente divertito.
John sgranò appena gli occhi, che volarono subito al proprio anulare sinistro. Lì, libero sia dal cerotto che dall’anello d’argento regalatogli anni prima da sua madre, il nome di Sherlock pulsava di dolore e macchiava la pelle di sangue.
Quando rialzò lo sguardo, Jim era tutto concentrato a farsi passare l’anello d’argento con le sue iniziali da un dito all’altro della mano destra, giocandoci.
John represse la tentazione di scattare verso di lui, così come quella di urlargli contro. « Se pensi che Sherlock accetterà la sfida... ».
« Accettarla? Mi ha invitato lui » gli rispose subito Moriarty, quasi elettrizzato all’idea. « Ha i piani missilistici Bruce-Partington. Vuole che esca a giocare con lui... lo accontento » disse, cominciando a pendere con il corpo verso destra fino a stendersi supino sulla panca, le ginocchia piegate ed accavallate con un piede a penzoloni. La sua attenzione era ancora tutta per l’anello e fu solo quando lo tenne fermo con entrambe le mani che John notò la fede d’oro che portava all’anulare sinistro, sotto la quale era chiaramente visibile un cerotto bianco.
Un BCE. Come lui.
Forse avrebbe dovuto aspettarselo.
« Allora, come ha reagito Sherlock? » domandò ancora Jim, facendo ondeggiare il piede e provandosi l’anello di John in tutte e dieci le dita per vedere in quale entrasse meglio.
Watson arricciò il naso. « Parli molto per essere uno che prende il prestito le voci altrui » disse.
Quello gonfiò le guance, sbuffando. « Mi annoio » si lamentò: « mi sono preso la serata libera per giocare con Sherlock, ma non è ancora arrivato e io non ho niente da fare ».
« Smettila di parlare come se lo conoscessi » non riuscì a trattenersi John.
James, inarcando le sopracciglia, tornò a guardarlo. « Parli come se lo conoscessi meglio di me! » osservò, sembrando francamente sorpreso.
« Convivo con lui ».
« Irrilevante ».
« Siamo amici » continuò John.
« Eppure ha aspettato che tu fossi uscito di casa prima di invitarmi a giocare con lui, lasciandoti all’oscuro di tutto. Oppure pensi che lo abbia fatto per... per cosa, per proteggerti? Per non coinvolgerti? Sherlock è in grado di avere questo tipo di considerazione per te? » domandò, aggrottando poi le sopracciglia quando un pensiero lo colpì. Si girò sul fianco, squadrandolo da capo a piedi. « Chi sei tu, John Watson, per avere il nome di Sherlock sul dito? Che utilità hai tu? » domando retoricamente: « così malandato da essere rispedito a casa persino dall’esercito, così ingenuo da cadere in trappole elementari, così mediocre da dover nascondere che sei un Ribbon... sono molto, molto deluso dal tuo livello di inutilità, e se c’è una cosa che mi assilla è il chiedermi come fa uno come te ad essere l’Anima Gemella di Sherlock Holmes » spiegò.
John attutì il colpo in silenzio, osservandolo mentre posava a terra il suo anello in equilibrio sul dorso, fissandolo pensieroso. « Quanto avrei voluto avere il suo nome sulla mia pelle al tuo posto... » mormorò, dando una lieve spinta al cerchio argenteo, che rotolò fino ad impattare contro la scarpa di John.
Watson deglutì, chiudendo gli occhi sopraffatto da un moto di impotenza. Sospirò pesantemente, tornando poi a guardarlo. « Suppongo che tanto sia inutile, per me. Hai una chance » ironizzò amaramente.
Jim lo fulminò con lo sguardo. Poi, scoprendo i denti, rise.
« Io ho già preso ciò che mi appartiene, Johnny-boy » disse, senza però approfondire oltre.
Dalla stanza adiacente allo spogliatoio, un “bip” spezzò il silenzio. Jim si rimise velocemente seduto, osservando un punto oltre la porta che John non riusciva a vedere. « Seb? » chiamò.
« È arrivato » confermò una voce profonda dall’anticamera.
Moriarty sorrise compiaciuto. « Si va in scena! » esultò, alzandosi in piedi pronto ad uscire. « Rimettiti l’anello e segui le istruzioni che ti darò dall’auricolare. Una parola in più o in meno e... beh, suppongo tu sappia come finisce la frase » gli disse, facendogli l’occhiolino.
Fece appena in tempo a nascondere il nome “Sherlock” sotto l’anello, prima che l’auricolare gli gracchiasse nell’orecchio il primo ordine.
 
 
 
Avevano dovuto chiamare Lestrade.
Lasciare dell’esplosivo al plastico sul bordo di una piscina pubblica non era il caso, avevano convenuto, e l’Ispettore aveva, a sua volta, dovuto tirare giù dal letto gli artificieri per poter recuperare e mettere al sicuro i panetti di PE4 che John si era portato addosso fino ad un’ora prima.
Nel frattempo, ovviamente, lo Yarder volle il resoconto di tutto ciò che era successo. Quando arrivò anche Mycroft la situazione passò, per Sherlock, da noiosa a decisamente seccante. Chiuse senza indugi il discorso con entrambi gli uomini e, facendo cenno a John di seguirlo, si diresse a passo svelto in direzione della strada principale con l’intento di fermare un taxi.
Durante l’attesa e la corsa in taxi verso Baker Street, John aveva (prevedibilmente) cominciato a risentire degli effetti collaterali dell’inalazione di cloroformio. Aveva tentato di parlare al telefono con Sarah, ma era palese che non riuscisse a seguire la conversazione. Sembrava avesse mal di testa, dal modo in cui si massaggiava la tempia sinistra con le dita della relativa mano, e più volte lo aveva visto far ciondolare la testa sul petto a causa di un’attesa sonnolenza.
Non era sua intenzione coinvolgerlo, per questo aveva aspettato. Per quello, e per il fatto che probabilmente John si sarebbe lamentato del suo piano, cercando di convincerlo a desistere, a consegnare i progetti Bruce-Partington a Mycroft e lasciar perdere Moriarty... e lui semplicemente non poteva farlo. Non poteva ignorarlo.
Moriarty era una perla rara. Un individuo di spiccata intelligenza e furbizia; era... un gioco meraviglioso, un’occasione succulenta. Ed era Jim stesso che voleva giocare, non importava che lo avesse minacciato, lo scopo non era realmente quello. Si erano corteggiati per mesi, cercando l’uno tracce dell’altro, e lui semplicemente doveva vederlo, stanarlo, invitarlo al banchetto per vedere il suo avversario, studiarlo, riconoscerlo, associare un volto al nome gracchiato da un uomo morente e da lì riecheggiato fra le alte volte del suo mind palace. Non poteva evitarselo.
Aveva sperato che Moriarty ignorasse John. Che si concentrasse solo su di lui.
Speranza vana.
« Siamo arrivati » interloquì il tassista, rallentando e fermandosi davanti alla famigliare porta scura.
Sherlock alzò gli occhi sullo specchietto retrovisore, strisciò la carta di credito nel POS per pagare la corsa e, una volta che lo strumento gli ebbe confermato il pagamento, scosse la spalla del medico, ora del tutto abbandonato sul sedile.
« John » chiamò, svegliandolo con irruenza: « siamo a casa ».
Watson gemette di fastidio e sbuffò, faticando a tenere gli occhi completamente aperti. Tuttavia biascicò un ringraziamento al tassista e, aprendo lo sportello, uscì dal mezzo.
Sherlock lo precedette, aprendo il portone con le chiavi e tenendolo per fare entrare l’altro. John lo ringraziò con un mugugno, afferrando con forza il corrimano e cominciando a salire le scale lentamente. Sherlock lo seguì.
Non avevano ancora parlato di quanto accaduto, e conoscendo John lo avrebbero fatto di sicuro, prima o poi. Si era aspettato di sentirgli cominciare la predica in taxi, o appena congedati Mycroft e Lestrade, ma non era successo.
Forse, passare la serata a stretto contatto con dell’esplosivo era in grado di smorzare qualsiasi intenzione di dialogo. Non ne sarebbe stato troppo sorpreso.
Tuttavia, lasciare le cose così lo inquietava. Non sapeva bene come spiegarsi quel sentimento, quella reazione zittita e seppellita in profondità nel suo petto, ma il silenzio stanco che John stava trascinando su per le scale insieme al suo corpo era la cosa che più disturbava Sherlock, in quel momento.
Non Moriarty, non il pericolo, non l’adrenalina. Non il timore che aveva provato nel vedere John sotto tiro (il dubbio di un istante al pensiero che fosse un complice). Semplicemente, il silenzio.
« John... » provò dunque a cominciare una volta arrivati al pianerottolo. L’altro, però, era di un altro avviso.
« Domani, Sherlock » lo interruppe. « Ora voglio solo dormire. Stendermi e dormire... » disse a voce bassa, rinunciando persino a fare l’ultima rampa di scale e dirigendosi invece verso il divano, sul quale si buttò supino senza nemmeno togliersi il giubbotto.
Sherlock seguì l’esempio, sedendosi sulla propria poltrona dopo aver gettato il cappotto sullo schienale di quella di John. Il salotto era buio, solo la luce del lampione esterno filtrava dalla finestra, ma il fascio chiaro illuminava il tavolinetto e parte del divano, facendo sì che la stanza fosse sufficientemente illuminata da poter riconoscere gli oggetti che la riempivano. Nessuno dei due aveva acceso il camino quella sera, dato che prevedevano entrambi uscire, dunque la temperatura era sensibilmente più bassa del solito.
Portandosi le mani unite alle labbra, Sherlock rifletté.
Moriarty non era uno sprovveduto. Aveva già intuito che avesse mezzi e possibilità di poter fare ciò che più gli aggradava, che avesse le mani in pasta nelle maggiori organizzazioni criminali, addirittura che fosse un’organizzazione criminale a sé. Era già riuscito ad intuire tutto questo. Ma alla vista... oh, alla vista sembrava ancora di più. Qualcosa di indecentemente attraente. Pianificazione, faccia tosta, presunzione. Dal primo all’ultimo minuto aveva avuto entrambi loro nel palmo della mano e l’intera situazione sotto controllo, ma anche quando non era più stato così, anche quando Sherlock aveva ribaltato la situazione e aveva minacciato di farli saltare tutti in aria senza distinzioni, Moriarty non si era scomposto. E non perché pensasse che Sherlock non ne avesse il coraggio.
« È un avversario complicato, John » non riuscì a fare a meno di dire a voce, la necessità impellente di avere un pubblico che gli accartocciava le viscere. « Temibile. Gli piace stare sul filo del rasoio, e se è coinvolta la morte è meglio. Quella degli altri o direttamente la sua, non ha importanza. Questo fa di lui una persona pronta a tutto, disposta a fare tutto. Ha davanti a sé infinite possibilità » considerò, concentrato.
« Mh... » fu l’unica risposta di John, gli occhi chiusi e le braccia piegate sull’addome.
« È una situazione complicata, rende difficile riuscire a prevedere la prossima mossa. Ma credo di poter riconoscere i segni, lo schema. Probabilmente sarà comunque lui a fare la prima mossa, la prossima volta, il tutto sta nell’essere pronti a rispondere adeguatamente. Come in una partita a scacchi » disse.
Quando non ricevette risposta, però, i suoi occhi chiari saettarono su John.
Era profondamente addormentato. Gli occhi non si muovevano sotto le palpebre, dunque non aveva ancora raggiunto la fase REM, ma il respiro era profondo e regolare e l’espressione rilassata. Probabilmente sia il cloroformio che il picco d’adrenalina avevano contribuito a svuotarlo di tutte le energie, uniti ai giorni passati a seguirlo nel caso. Troppi avvenimenti per quella serata.
Sherlock, abbassando le mani, rimase a guardarlo.
Non poteva evitare a se stesso di considerare quell’uomo una parte fondamentale del proprio presente. Non poteva evitarsi di volerlo proteggere, a modo suo, di volerlo preservare. Voleva essere il solo avversario di Moriarty, in buona parte per egoismo, ma ciò che rimaneva era... per John.
Senso d’appartenenza, questo voleva dire avere accanto John. Un luogo da chiamare “casa” e qualcuno a cui fare riferimento. Cose che aveva sempre avuto ma che non aveva mai davvero posseduto, non volontariamente, ora erano lì: fra le mani gentili di un soldato rimesso insieme alla bene e meglio che però aveva avuto il coraggio, l’intelligenza, di provarci.
Da quando John Watson era apparso nella su vita, in silenzio e per puro caso, lui aveva capito cosa significasse avere un amico e quale sforzo comportasse esserlo a sua volta. Ed era tutto... confuso. Complicato.
A volte si faceva delle domande. Suo padre gli aveva insegnato quel trucco. “Sherlock” gli aveva detto un giorno: “tu sei intelligente, ma ti capiteranno di sicuro cose che non comprenderai del tutto, non subito. Porsi delle domande aiuta a trovare le risposte”.
Si era chiesto se valesse la pena proteggerlo, la risposta era stata “sì”. Si era chiesto perché volesse farlo, la risposta era stata “perché è mio amico”. Si era chiesto se gli bastasse.
Non aveva saputo rispondersi.
C’erano troppe variabili, troppe conseguenze per ogni azione, troppe parole. Ogni mossa prevedeva decine di scenari diversi. Aveva dei dubbi, delle indecisioni, cose che non aveva il coraggio di dire e azioni che non aveva la volontà di compiere.
Tenere agli altri era una fregatura dall’inizio alla fine. E non poteva impedirselo.
Fu mentre lo guardava dormire che, scorrendo con gli occhi la sua figura distesa, il suo sguardo fu attratto dal luccichio argenteo dell’anello sul suo anulare sinistro.
Legame. Anima Gemella. Sherlock aveva smesso di preoccuparsi di quelle cose da piccolo, quando era palese che lui non avrebbe mai avuto nessuno da chiamare tale, consapevole che non ci sarebbe stato nessuno ad aspettarlo alla fine della Ricerca, e che nessuno lo stava cercando a sua volta.
Il suo dito non aveva mai ospitato anelli di nessun genere, o nomi di sorta. La pelle era rimasta candida ed immacolata, nessun insieme di lettere l’aveva mai sporcata.
Oh, c’era stato un tempo in cui lo aveva voluto, sì. Con tutto se stesso. Due volte nella sua vita in cui aveva ceduto, e aveva pregato un Dio in cui non aveva mai creduto perché comparisse qualcosa, su quel dito vuoto, anche solo un’ombra.
Un’ombra qualsiasi, la prima volta. Un’ombra di nome Victor, la seconda (un pensiero che aveva subito cancellato).
Un’ombra di nome John... ?
Con lo sguardo fisso alla mano del medico, illuminata dal fascio di luce lattea proveniente dalla finestra, aggrottò la fronte in un pensiero ingiusto ma allettante.
Per quanto John lo negasse, gli stava nascondendo qualcosa.
Era un tarlo, un sussurro continuo nel retro della sua mente che continuava a tentarlo, a stuzzicarlo.
C’è il mio nome, sotto quell’anello?
La logica lo rendeva possibile. John era un BCE, lui un Bondless. L’interpretazione comune voleva che fossero i Bondless quelli ad aver rinunciato al Legame, in una qualche vita precedente, e che invece fossero i BCE a portarne addosso le conseguenze; loro erano quelli che non avevano avuto occasione di scegliere, che erano stati abbandonati da chi avrebbe dovuto rappresentare la metà esatta della loro anima e di tutto il loro essere, e il dolore fisico di una ferita destinata a non chiudersi mai si riteneva essere la punta dell’iceberg di una lesione interiore ancora più grande.
Secondo questa interpretazione, e ammesso che trovasse la volontà di crederci, era stato lui a recidere il Legame con John.
Perché?
Non lo sapeva (non poteva saperlo). L’unica cosa di cui era sicuro, era che John mentiva.
Un riverbero d’argento colpì i suoi occhi quando John, nel sonno, mosse le dita della mano.
C’era solo un modo per scoprirlo. Per esserne sicuro.
John non lo avrebbe mai fatto volontariamente. Ma ora dormiva, esausto, e non si sarebbe svegliato.
Alzandosi dalla poltrona e scivolando piano in ginocchio ai piedi del divano, Sherlock si avvicinò in silenzio alle mani del medico, poggiate sopra il proprio stomaco.
Fece scivolare con delicatezza la mano destra sotto la sinistra di John, sfiorandogli la pelle del palmo fino a poggiare i polpastrelli sul suo polso. Il suo battito cardiaco era calmo e lineare contro le sue dita, tranquillo come il suo respiro, e non diede segno di essersi accorto della vicinanza di Sherlock, della sua mano a contatto con la propria.
Se fossero stati Anime Gemelle, pensò Sherlock, e quello fosse stato il loro primo, vero contatto, il Legame si sarebbe attivato. Nessuno sapeva com’era davvero prima di provarlo, e succedeva solo una volta nella vita; in molti dicevano che le descrizioni dei libri non gli rendevano giustizia.
Da piccolo aveva voluto tanto provare quell’esperienza... Poi la speranza gli aveva voltato le spalle.
Trattando la mano di John come se fosse un composto chimico particolarmente instabile, la sollevò leggermente in modo da riuscire ad afferrare l’anello d’argento al suo anulare sinistro. Esitò solo un istante prima di cominciare a tirarlo, togliendolo.
Scivolò via dal dito con relativa facilità. E lo vide.
Era sporco di sangue rappreso, la pelle intorno alle lettere rossa ed infiammata, ma era lì. Innegabile come la pioggia, come il sole. Poteva nasconderlo dietro cerotti e menzogne ma non poteva cancellarselo, non poteva scomparire.
Sul dorso dell’anulare, il nome “Sherlock” lo guardava come a colpevolizzarlo in silenzio.
Strinse i denti, trattenendo il respiro in silenzio. Imprimendosi quell’ultima immagine della mente, poi, infilò di nuovo l’anello al suo posto e coprì il proprio nome, di modo che John non si accorgesse di ciò che aveva fatto.
Infine, con un sospiro, si mise seduto con la schiena appoggiata al divano. Chiuse gli occhi, concentrandosi sul proprio respiro, mettendo in ordine i pensieri.
Se lo era aspettato, ma nelle sue previsioni non doveva essere così. Non avrebbe dovuto sentirsi così. Come se John non se lo meritasse (eppure era ciò che pensava), come se fosse colpa sua (anche se non lo ricordava, e chissà quante vite prima).
Si faceva domande a cui non avrebbe mai potuto dare risposta.
Un movimento alle sue spalle attirò la sua attenzione; John si girò su di un fianco, un sospiro stanco fra le narici, e si passò la lingua fra le labbra.
« Sherlock? » mugugnò, gli occhi chiusi e ancora vittima del sonno, appoggiandogli una mano sulla spalla. « Tutto bene? » chiese.
A Sherlock sfuggì un sorrisetto. Stava bene, fisicamente, e John lo sapeva. Ma era troppo confuso e stanco per prestare davvero attenzione a ciò che stava dicendo, probabilmente.
« Certamente » rispose, appoggiando per un secondo la propria mano su quella del medico.
« Riposa » sussurrò a bassa voce. « Va tutto bene ».
 
 
 

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« Spero che questa volta tu non mi abbia stravolto l’ordine dei calzini ».
Sentì la porta della camera da letto di Sherlock chiudersi, e poi il silenzio avvolgere di nuovo la casa. Il fuoco scoppiettava ancora nel camino, diffondendo una luce ed un tepore caldo nel salotto, in stretto contrasto con la neve che continuava a fioccare fuori dalla finestra.
Era stata una bella serata. Conosceva gente che avrebbe pagato per passare una Vigilia così, con gli amici e lo spumante, i regali e un’atmosfera gioiosa. Era la prima volta da quando era giovane che si sentiva così tranquillo, così... a casa.
Ma ovviamente qualcuno aveva dovuto rovinare tutto.
Non si era minimamente accorto di quel pacchetto rosso sul caminetto (ma Sherlock sì). Non aveva fatto caso al significato (ma Sherlock sì). Si era persino dimenticato di quei fastidiosi messaggi, quella sera (ma Sherlock no).
E poi, come al solito, era successo tutto troppo in fretta. La telefonata a Mycroft, Sherlock che prende il cappotto ed esce da solo, Mycroft stesso che telefona dicendogli di setacciare la camera del detective in cerca di cocaina, perché se aveva ragione e avessero davvero trovato il cadavere di Irene Adler, quella poteva essere una “brutta serata”.
Un eufemismo blando per descrivere la paura che Sherlock potesse drogarsi.
E tutto per Irene Adler.
John era un tipo geloso. Poteva controllarsi, fare finta che non gli importasse, sorridere e fingere complicità, ma questo non cambiava nulla. Erano solo maschere, occasioni di circostanza, frasi fatte. Paraventi dietro i quali si nascondeva per non far insospettire Sherlock – e il mondo.
Si era tessuto uno strano equilibrio fra loro da quando era cominciato il caso Adler. Cose non dette, cose lasciate all’intuizione, cose completamente taciute. Domande che John faceva e a cui Sherlock non rispondeva, il mutismo, le porte chiuse in faccia. Era abituato ai modi strani del detective, ai suoi picchi di rabbia e alle giornate di completo silenzio ma questo no, questo era diverso.
Sembrava che ci tenesse. A lei. Alla donna che era riuscita a fregarlo e che continuava a giocare con lui. Come un pavone che si mette in mostra. Come una sirena dalla voce sopraffina il cui unico scopo è stringerti a sé per mangiarti il cuore. Sembrava che ci tenesse, Sherlock, che non teneva mai a nessuno, che dentro al suo cuore non aveva posto che per se stesso.
Che dentro al suo cuore non aveva lasciato entrare nemmeno lui. Lui, che avrebbe dovuto averne il diritto. Lui che possedeva il suo nome scritto col sangue.
Li odiava. Entrambi, ma lei di più. Erano pensieri di cui si vergognava, che teneva per sé e per i momenti in cui, da solo, poteva permettersi di togliere i filtri e analizzare, scartare, sfoltire la mente, liberandosi delle considerazioni scomode, insensate, pericolose.
Liberarsi della voglia di dire a Sherlock la verità. Liberarsi del pensiero che, chissà, sarebbe potuto succedere un miracolo, e...
Chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro, cercando di deglutire il nodo che gli si era formato in gola (senza successo).
Non gli importava nulla di Sarah, o di Jeanette. Usciva con donne che avevano perso la loro Anima Gemella, o non l’avevano mai trovata, e tutte quelle storie cominciavano per capriccio basandosi sulla stessa, infame bugia; raccontava a tutte di non avere più un’Anima Gemella a causa di un incidente, o di non averla mai conosciuta, o di non credere ai SIN, e loro annuivano, compiaciute che un uomo gentile e tutto d’un pezzo come John Watson, romantico e divertente, non credesse al fatto che qualcuno, da qualche parte, lo stesse aspettando.
Non venivano mai a sapere che lui, quel qualcuno, lo aveva già trovato. Ma che era anche una causa persa dal principio.
Riaprendo gli occhi, John osservò la propria mano sinistra, appoggiata in un pugno chiuso sulla copertina del libro che si era messo a leggere in attesa che Sherlock tornasse a casa dall’obitorio.
Aprì le dita, si sfilò l’anello d’argento, cominciò a togliere il cerotto.
Ed eccolo lì. “Sherlock” inciso su pelle viva. Il suo dolorante, sanguinante, piccolo segreto che temeva di aver già rivelato. Il sogno irrealizzabile in fondo al cassetto.
Non aveva potuto odiarlo. Non poteva farlo. Così brillante, così eccentrico, così affascinante, sia mentalmente che fisicamente. Lontanissimo dall’essere l’ideale di uomo perfetto ma era adatto, era la persona adatta a lui, lo sapeva, se lo sentiva. La fiducia che gli aveva subito dato, nonostante sapesse chi fosse e chi rappresentasse, era un sintomo innegabile del fatto che ci tenesse, che lo volesse a discapito di tutto, a discapito del fatto che il destino gli avesse detto “no”.
Ma continuare a ripetersi “lui è mio” non aveva senso, ormai. Nella migliore delle ipotesi, Sherlock sarebbe stato di Irene Adler. Dopotutto poteva. Era un Bondless, così come Irene, e poteva. Potevano entrambi.
E lui, John Watson, avrebbe sorriso, felice per loro – felice per lui.
Nella mente, risuonò per un momento la voce di Moriarty. “Chi sei tu per avere sul dito il nome di Sherlock Holmes?”.
Deglutì, appoggiando l’anello sopra il tavolinetto lì a fianco e riaprendo il libro dove aveva interrotto la lettura, per distrarsi. Al leggere la frase dopo il segno, però, un sorriso amaro gli piegò le labbra.
Perdonami, perdonami di amarti e di avertelo lasciato capire”.3
 
 
 

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Gli era capitato di non riuscire a dormire. In svariate occasioni.
Per la febbre e il dolore alla mano, a causa di un’ennesima sbronza di sua sorella, passando la notte in giro con i suoi amici, o chino sui libri all’università. In guerra, la maggior parte delle volte non dormiva ininterrottamente per giorni. Tornato a casa, non dormiva a causa degli incubi.
Da quando aveva incontrato Sherlock, tuttavia, a tenerlo sveglio era stato principalmente il detective. Con indovinelli dipinti in giallo su muri sperduti accanto ai binari della Overground, o con corse spericolate fra le strade della Londra notturna; a causa di un volino suonato sempre troppo tardi (o troppo presto), o svegliato nel cuore della notte perché unico pubblico disponibile all’ascolto di una sua idea, o di una sua deduzione, o di qualsiasi cosa fosse che gli impedisse il sonno – e che di conseguenza lo impediva a lui.
Tuttavia, quella notte non era lo stesso.
La stanza alla pensione di Dartmoor era comoda ed accogliente. Non grande, ma per lo meno pulita. Un letto singolo al centro, un comodino, tende e moquette ben spolverate, lenzuola pulite, TV funzionante, vista sull’adorabile paesino rurale. Silenziosa come solo la campagna poteva essere. Perfetta per la gita fuori casa a cui il caso di Henry Knight li aveva costretti.
E lui era stanco. In un giorno solo era entrato per la seconda volta in una base segreta supertecnologica (dopo essercisi infiltrato illegalmente una prima volta il giorno precedente), era stato drogato, spaventato a morte da una bestia enorme (vera o falsa che fosse, in quel momento non voleva affatto pensarci), avevano scoperto un progetto super-segreto, incastrato il colpevole, era stato drogato di nuovo ed infine aveva visto lo stesso colpevole esplodere in un capo minato. Senza contare il rapporto alle forze dell’ordine, durante il quale Sherlock aveva ovviamente dovuto insultare metà del corpo armato presente (Lestrade sia lodato per la sua pazienza), e il successivo riaccompagnare a casa Henry, già ampiamente sconvolto e sotto shock.
In poche parole, non si poteva dire che non fosse stanco. Non solo, era spossato.
E allora perché non riusciva a dormire?
Erano le tre del mattino e lui, in pigiama e calzini, faceva zapping appoggiato con la schiena alla testiera del letto. Aveva dovuto fare il giro di tutti i canali un paio di volte prima di incrociare le repliche della terza stagione di Doctor Who e si era messo a vederli senza il minimo sentimento, attendendo solo che il meritato riposo lo venisse a prendere. Si era tolto l’anello, come faceva ogni volta che comparivano sulla pelle i primi sintomi di una futura infezione (che sperava di non avere contratto a Baskerville, ad essere sinceri; fosse mai che il suo dito cominciasse a brillare al buio) e stava semplicemente lì, sul letto, aspettando che la crema antisettica venisse assorbita e facesse effetto.
Sobbalzò trattenendo il fiato quando, a metà del secondo episodio, qualcuno bussò alla porta. Due colpi secchi che risuonarono come petardi nel silenzio della notte.
Non si chiese subito chi poteva essere. Il primo pensiero andò al fatto che la televisione accesa avesse disturbato qualcuno, ma il volume era talmente basso che persino lui faticava a seguire i dialoghi. Allora chi...?
Il mistero fu risolto molto in fretta. « So che sei ancora sveglio, si vede la luce della lampada da sotto la porta ».
Sherlock.
John sospirò, strofinandosi gli occhi con indice e pollice della destra. Recuperò velocemente l’anello, che infilò sopra la crema semi-assorbita, e scendendo dal letto aprì la porta.
Anche Sherlock era in pigiama – che nel suo caso consisteva in un paio di pantaloni grigi da tuta e in una maglietta a mezze maniche blu – e i capelli arruffati suggerivano che si fosse rigirato nel letto senza dormire a sua volta.
« Cosa c’è? » domandò John.
« Posso entrare? » chiese Sherlock.
« Perché? Mi sembrava di aver capito che tu non avessi amici » rimbeccò il medico, facendo del suo meglio per mantenere la finta aria offesa.
Sherlock roteò gli occhi. « Per quanto ancora dovrà andare avanti questa storia? Mi sono già scusato ».
« Avevi cominciato, ma non mi risulta che tu abbia finito » continuò John, ma non poté fare a meno di esprimersi in una risatina a labbra chiuse, alla quale Holmes scosse il capo.
« Sì, invece » decretò quello, facendo un passo avanti ed entrando in camera.
Sempre ridacchiando, John richiuse la porta e tornò a sedersi sul letto, raggiunto poco dopo da Sherlock che si sistemò al suo fianco, il cuscino alzato dietro le loro schiene per dissimulare un po’ di comodità.
Ancora si stupiva quanto fossero diventate normali, per loro, cose del genere. Andare l’uno dall’altro, sedersi insieme a guardare la televisione, fare colazione insieme ogni mattina. Non si erano mai messi d’accordo, non avevano mai stabilito regole, ma lo facevano. Un altro modo per sentirsi a casa.
La stanza cadde in un silenzio confortevole.
Il letto a una piazza era troppo piccolo per ospitare entrambi senza che si stringessero, ma a nessuno dei due sembrava dare fastidio. Le loro spalle si toccavano, così come le loro braccia e i loro fianchi, le gambe unite che si separavano solo alle caviglie che Sherlock teneva incrociate, mentre John leggermente divaricate.
L’aria attorno a loro sembrava rarefatta. Era un’atmosfera strana, un po’ come una dimensione parallela dentro la quale erano finiti senza accorgersene; l’attimo infinito prima della risposta definitiva ad un gioco a premi in televisione, prima di sentire il proprio nome chiamato sul podio, il respiro trattenuto prima di un’iniezione. Una sensazione come di restare in bilico, come se il giorno non fosse scandito dalle ore, ma dal sonno; come se le ore prima del sonno rappresentassero l’ultima possibilità per fare errori di cui ti pentiresti – se solo fosse mattina, se solo fossi giudicato dalla luce del sole. Come se potessi sbagliare perché tanto l’incoscienza cancella tutto, dopo una dormita niente è mai successo, si può fare finta di nulla. Come se il sonno cancellasse la realtà trasformandola in un sogno che può essere tranquillamente dimenticato.
Per questo John si prese la libertà di guardarlo.
Il suo torace magro si alzava e si abbassava a ritmo regolare sotto la maglietta, le sue mani erano appoggiate sullo stomaco, le dita affusolate intrecciate l’una all’altra. Nessun anello a coprire un dito anulare che non presentava alcun nome. Tutto di Sherlock era particolare, unico, ma nulla lo era come il suo viso. Zigomi alti dal contorni affilati, folte sopracciglia nere, come le ciglia, come i capelli mossi e mai veramente in ordine. Labbra sottili e pallide. Occhi chiari di un colore francamente indefinibile.
Sherlock Holmes si portava addosso una bellezza che non poteva essere colta subito, ma che maturava con il tempo. Una bellezza di cui faceva parte il suo carattere impossibile e la sua intelligenza smisurata.
Una bellezza che John non si fece problemi ad osservare nella sua interezza nemmeno quando Sherlock se ne accorse e, piegando leggermente il viso, si voltò a guardarlo.
I loro sguardi si incrociarono e, se per John poteva essere decente (se non consigliabile) distogliere il suo, in realtà non lo fece. Mantenne gli occhi fissi su quelli di Sherlock, in quel momento di un azzurro cupo, e l’unica cosa che riusciva a sentire dentro di sé era la sensazione che continuare a guardarlo in quel modo fosse la cosa più giusta del mondo. Sherlock non parlava, non diceva niente nemmeno con quegli stessi occhi che stava fissando da secondi lunghi quanto minuti interi, e anche se normalmente il suo silenzio lo avrebbe innervosito, in quell’istante non aveva nessuna importanza.
Si avvicinarono senza che fosse necessario, o voluto, o programmato. Successe. Per caso o per istinto, si tesero l’uno verso l’altro, abbastanza perché John riuscisse a sentire i riccioli morbidi di Sherlock contro la fronte, e il respiro lieve dell’altro sul viso.
Fu Sherlock ad abbassare gli occhi per primo, facendoli scorrere lungo tutto il suo braccio sinistro fino all’anello d’argento. John sentì sulla pelle la forza di quello sguardo come se fosse stato tangibile, come una carezza, o lo scorrere delicato di una goccia d’acqua. Abbassò gli occhi a sua volta sulla propria mano, abbandonata a palmo in giù sul punto di unione delle loro cosce.
Sherlock sollevò la sua, posando le dita sul dorso della mancina di John come se stesse toccando l’archetto del suo violino, con reverenza; scivolò dal polso alle nocche nel più completo silenzio, arrivando a sfiorare con il polpastrello del medio la fascia di metallo che copriva il SIN.
Non fece forza, non fece pressione. Solo dopo alcuni istanti posizionò le dita in modo da fare presa sulla curva dell’anello e, forse giustificato dal suo silenzio, cominciò a toglierlo.
John trattenne il fiato. « No... » sussurrò, una leggera tensione alle dita prima immobili.
« Sì » ribatté Sherlock, la voce ridotta a solo fiato. « Sì ».
Talmente vicini, ora, da poter sentire il rispettivo battito del cuore. John chiuse gli occhi mentre Sherlock gli toglieva l’anello, vergognandosi come se stesse per essere denudato, come se Sherlock lo stesse spogliando un bottone alla volta; appoggiò la fronte a quella dell’altro e nascose gli occhi nei suoi riccioli neri, la bocca socchiusa in respiri tremanti.
Lo sentì scivolare via con la solita facilità, ma non riaprì gli occhi per osservare la reazione di Sherlock. Sospeso in un secondo infinito di viscerale terrore, aspettò.
Sherlock passò la punta dell’indice sul nome. Una, due, tre volte. Accarezzando pelle e crema, facendolo bruciare in molti modi, nessuno dei quali salutare. Delicato e... gentile, nel toccarlo, nell’accarezzarlo. Come se volesse curarlo. Come se volesse scusarsi.
Non capiva quanto facesse male.
« Ti prego, no... » mugolò disperato John, gli occhi ben chiusi e il respiro alla deriva, nascosto alla vista come se il non vedere ciò che stava accadendo potesse renderlo meno reale.
Ma Sherlock fece scivolare le dita fra le sue, intrecciandole insieme in una presa sottile. Scostò il capo contro il suo, sollevando appena in mento, facendo sì che il naso di John toccasse il suo e che le sue labbra sottili sfiorassero la guancia del medico nel parlare, nel dire di nuovo: « sì, John ».
Con la mente preda della peggiore tempesta, John lasciò che la vicinanza di Sherlock lo ubriacasse. Sospirò prima di avvicinarsi ancora e poggiare le labbra sulla sua tempia in un bacio tremante e casto, indeciso come il primo, dato con le labbra a malapena in contatto con la sua pelle.
Sherlock smise di respirare e, inclinando il viso, gli baciò la guancia. Qualcosa che più che un bacio fu solo uno sfregamento, insicuro e inesperto, dolce proprio per quel motivo.
John ripeté il gesto, baciandogli lo zigomo. Sherlock gli baciò la mascella.
John gli baciò il naso.
Sherlock il mento.
Unire le loro labbra fu solo il passo successivo. Un punto consequenziale a cui nessuno dei due badò, e di cui nessuno dei due si accorse se non quando successe, e le loro labbra erano le une sulle altre.
Il primo fu casto, e breve. Quasi casuale. Come se nessuno dei due lo avesse cercato ma se lo fossero trovato fra le mani così, senza motivo.
Il secondo fu l’esatta copia del primo. Un semplice incontrarsi di labbra a riprova della scoperta. Il terzo fu un assaggio. Il quarto fu un reciproco cercarsi.
Continuarono così per tutta la notte, stesi sul letto uno di fronte all’altro, divisi se non per le mani giunte. Galleggiando fra gli spazi vuoti del silenzio, sull’orlo di un dormiveglia effimero, a turno trovarono uno le labbra dell’altro finché non furono troppo stanchi per separarle ancora, e si addormentarono respirando uno sulla bocca dell’altro.
 
 
Quando il mattino arrivò e John si svegliò, era solo.
Il sole aveva davvero trasformato la realtà in sogno, e nell’assenza di Sherlock lo sentiva scivolare via. Dubitò che fosse vero, per un istante, ma l’anello abbandonato sulle coperte e il sapore dell’altro sulle labbra lo dissuasero dal non crederci.
Ma ciò che era avvenuto fra loro, cioè che era stato scoperto, faceva parte di una notte chiusa fra parentesi che non si sarebbe più ripetuta; questo John lo lesse negli occhi di Sherlock quando si incrociarono nella hall, e non sapendo cos’altro fare accettò lo status quo senza fiatare.
Continuarono la vita come se nulla fosse, e l’argomento non venne più toccato.
 
 
 

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Nei mesi successivi non ci fu più tempo per parlare. Moriarty  tornò nelle loro vite sui passi di danza della Gazza Ladra di Rossini.4
Uno spartito perfetto che Sherlock riuscì a capire solo dopo, quando ormai un meccanismo perverso e bene oliato, un intricato insieme di cinghie ed ingranaggi, era già stato messo in moto e non vi era più possibilità di fermarlo.
L’intera sua vita ora faceva parte del gioco di Moriarty e l’unica cosa che si chiedeva, l’unica cosa che riusciva a pensare quando la sua mente non girava a vuoto nel ripetere ogni parola che il suo antagonista aveva pronunciato dal momento esatto in cui aveva messo piede in quell’appartamento a quando se ne era andato, era perché non avesse ancora coinvolto John. C’era qualcosa che gli sfuggiva.
E ancora non sapeva se fosse importante, o quanto.
 
 
 
« Stanno decidendo ».
« Decidendo? ».
« Se tornare con un mandato e arrestarmi ».
John distolse lo sguardo dalla finestra mentre l’automobile con a bordo Lestrade e Donovan si allontanava da Baker Street. « Dici? ».
« Procedura standard ».
« Saresti dovuto andare con lui » disse, facendo schioccare le labbra. « La gente penserà che... ».
Venne interrotto. « Non mi interessa cosa pensa la gente ».
« Ti interesserebbe... » continuò John: « se pensassero che sei stupido. O in errore ».
« No, sarebbero loro stupidi o in errore » contraddisse subito Sherlock.
« Sherlock, non voglio che tutti pensino che sei... » si interruppe.
Il detective alzò lo sguardo dallo schermo del computer, già consapevole del continuo della frase ancora prima che l’altro l’avesse iniziata, forse sapendo già dove sarebbe andata a parare la conversazione stessa.
Un istante di silenzio si dilatò fra loro, prima che Sherlock lo interrompesse.
« Che sono cosa? ».
John deglutì, ma non scostò gli occhi da lui. « Un impostore ».
Sherlock sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia. « Temi che abbiano ragione ».
« Cosa? ».
« Temi che abbiano ragione su di me ».
« No ».
« Per questo sei arrabbiato, non puoi contemplare la possibilità che abbiano ragione. Hai paura che io abbia ingannato anche te ».
« No ».
« Moriarty sta giocando anche con la tua mente. Non riesci a capire cosa sta succedendo?! » sbottò Sherlock, sbattendo il pugno sulla scrivania.
John tornò a guardarlo, osservandolo con serietà, prima di riportare gli occhi alla strada fuori dalla finestra. « No, ti conosco troppo bene ».
« Al cento per cento? ».
« Sì » rispose John.
« Lo dici perché ti senti obbligato a farlo? ».
John esitò al suono di quelle parole, il pollice della mano sinistra che subito andò a stuzzicare l’anello d’argento ben fisso all’anulare. Si voltò di nuovo verso Sherlock, l’espressione decisa come lo era stata dall’inizio di quell’assurda conversazione, ferma nell’intenzione di credere in lui perché lo voleva, non perché un nome gli ordinava di farlo.
« Nessuno può fingere per tutto il tempo di essere un coglione tanto irritante ».
 
 
 
Trovare l’indirizzo di Kitty Riley non fu difficile, bastò consultare l’elenco telefonico.
Così come non fu difficile entrare nel suo appartamento senza chiave, bastò l’abilità di Sherlock di aprire le serrature usando una carta di credito.
Al buio più completo, seduti sul piccolo sofà accanto alla porta d’ingresso, attendevano in silenzio che la giornalista tornasse a casa. Non si sentiva altro rumore se non il loro respiro e, a volte, il tintinnio delle manette quando uno dei due picchiettava le dita sul proprio ginocchio.
Sherlock era completamente perso nei propri pensieri, come da mesi a quella parte. John poteva quasi sentire i meccanismi della sua mente sovrumana girare ed incastrarsi a ritmo serrato, escludendo tutto ciò che non fosse importante, tagliando fuori il resto del mondo.
Chiudendo gli occhi nel buio più completo, sospirò piano. Solo nelle ultime due ore aveva preso a pugni un alto funzionario di Scotland Yard, era stato arrestato, ammanettato, era diventato ufficialmente un fuggitivo ed era scappato mano nella mano con Sherlock fino a tendere un’imboscata ad una persona che non conosceva, solo perché Sherlock aveva visto un indizio di sorta chissà dove e pensava che la giornalista potesse chiarire alcune cose che non quadravano.
Di nuovo, si domandò se era più pazzo il pazzo o il pazzo che lo seguiva.
« Sei ancora arrabbiato? ».
La domandò di Sherlock spezzò il silenzio all’improvviso,  distraendolo dai propri pensieri.
« Dovrei » rispose dopo un breve sospiro.
« Vuol dire che non lo sei? ».
« No, non lo sono ».
« Dovresti ».
« Lo so ».
Di nuovo silenzio. Le attese diventano sempre più lunghe quando non si ha nulla da fare (oppure quando si è ammanettati ad un’altra persona con pochi centimetri di catena a decretare il massimo spazio di libertà di movimento autonomo), e così era anche per loro. Probabilmente erano entrati in quell’appartamento da meno di trenta minuti ma sembravano già delle ore.
Fu di nuovo Sherlock ad interrompere quell’immobilità. « John? ».
« Mh? ».
Ma l’altro non continuò. Completamente immobile nella sua posizione, respirava talmente piano che non produceva il minimo rumore. Emise solo un fruscio, che Watson associò ad uno scuotimento di capo. « Niente ».
Anche se nel buio totale la vista era un senso inutile – tenere gli occhi aperti o chiusi era praticamente la stessa cosa – John voltò il capo alla sua destra, dove era seduto Sherlock. Fece schioccare la lingua fra labbra e, facendo tintinnare le manette, allungò la mano a prendere quella del detective.
Non si chiese se fosse giusto, sbagliato, adeguato o se la tempistica fosse corretta. Non si fece domande perché voleva farlo e basta, perché aveva una sensazione sgradevole in fondo allo stomaco che, seppure ragionevolmente infondata, non voleva lasciarlo in pace.
Era come se Sherlock si stesse perdendo.
Sorprendentemente – o forse no – Sherlock non si ritrasse al tocco, così come non lo rifiutò. Intrecciò anzi le loro dita in una presa lieve ma salda.
John si lasciò sfuggire un sorriso.
« Mi sarebbe piaciuto » mormorò poi Holmes, uscendosene dal nulla (o forse da un proprio muto pensiero).
« Che cosa? » chiese infatti Watson.
In risposta, Sherlock mosse il pollice in cerca del suo anulare, che accarezzò piano, una sola volta. « Mi sarebbe piaciuto » ripeté poi.
E John capì.
« Anche a me, Sherlock » rispose. « Molto ».
Possiamo riuscirci comunque, pensò John, possiamo andare avanti comunque; passare la vita insieme come se io fossi ancora tuo e tu non avessi mai smesso di essere mio.
Abbiamo tutto il tempo del mondo.
 
 

.o0o.

 
 
 
Lo guardi da lassù e ti chiedi quanto ne soffrirà.
Se capirà.
Se si chiederà perché.
Se indagherà.
Se ricorderà per autolesionismo.
Se dimenticherà per il suo bene.
È tutto preparato. È tutto un trucco, una magia.
Non ti farai del male (non davvero).
Non morirai (non davvero).
Non cadrai, non davvero. Mai.
Moriarty ti ha spinto sul ciglio del baratro ma ha fatto l’errore di buttarsi prima di te.
Ma anche così, ti resta l’amaro in bocca. Ancora non riesci a capire se hai vinto o perso la tua personale battaglia con il lato oscuro di te stesso che lui rappresentava, con l’avversario che ha tenuto viva la tua immaginazione, la tua sete.
Tu l’hai aspettato per tutta la vita, uno come lui.
Ma lì, in piedi sulla cima di qualcosa che non sa né di vittoria né di sconfitta, ti chiedi se fosse davvero Moriarty colui che hai atteso così ardentemente.
Perché c’è qualcuno, laggiù, che te ne fa dubitare.
 
Avresti davvero voluto che fosse tutto più semplice.
 
Lo guardi da lassù e sai già che soffrirà.
Che non capirà.
Che si chiederà perché ogni giorno,
ma non indagherà.
Che non vorrà ricordare per autolesionismo.
Che, infine, deciderà di dimenticare per il suo bene.
 
Lo guardi da lassù e ti chiedi se alla fine di tutto lui sarà ancora lì.
 
« Addio, John »
« Sherlock! »

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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1. Esiste davvero, sì. L’arredamento interno però è inventato XD
2. Il PE4 è un tipo di esplosivo al plastico simile al C-4, con la differenza che in UK è più diffuso.
3. William Shakespeare, Romeo e Giulietta.
4. “La Gazza Ladra” di Gioacchino Rossini è il titolo della colonna sonora in sottofondo a Moriarty quando, in The Reichenbach Fall, entra alla Tower of London.

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Capitolo 3
*** Andante grazioso ***


Note: va bene, terzo capitolo.
Ormai non posso più commentare la bellezza debilitante delle parole che ricevo per questa fanfic... spero che le risposte siano abbastanza esaustive, perché rimango seriamente senza neuroni ogni volta (e l’ansia da prestazione aumentaaaaa XD).
 
Bene, si entra nelle atmosfere post-Reichenbach. Ammetto che è da un po’ che pensavo di calarmi in questo contesto dal punto di vista di Sherlock, è sono abbastanza contenta di poterlo fare qui.
Come anticipato, ritorna il POV alternato. E devo affrontare lo scoglio Mary, purtroppo, il che mi risulta ostico alla luce degli ultimi spolers, ma è necessario *sospira*.
 
Ah, questo capitolo contiene una sorta di easter egg. Sono palesi, ma mi sono divertita ad inserirli XD vediamo chi li sa trovare.
E dato che mi stava uscendo davvero troppo lungo, ho dovuto per forza di cose spezzarlo in due. Questo ha fatto sì che questa sia decisamente la parte più noiosa... pazienza, il prossimo sarà meglio (spero) ;D
 
Ancora una volta, auguro a chi vorrà una buona lettura ♥
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3. Andante grazioso
 
 
 
 
 
Era stato come inscenare una tragedia.
Reclutare gli attori, preparare la scenografia, studiare il copione. Silenzio in sala. Su il sipario.
Era stato fin troppo bravo, ma non era sicuro che ciò che si era ritrovato fra le mani alla fine della sceneggiata fosse una vittoria.
Sparito dal mondo. Era bastato un trucco di magia e un referto del coroner. Per fare tutto ciò, Molly era stata essenziale.
Molly.
Non aveva più aperto bocca da quando Sherlock le aveva spiegato il piano, facendo ogni singola cosa nel più completo silenzio. Era stato con mani tremanti che gli aveva passato i vestiti di ricambio dopo la caduta – i suoi dovevano esser tenuti come prove e riconsegnati, successivamente, a Mycroft per non destare dubbi – e faticava a trattenere le lacrime quando, accompagnandolo all’uscita automezzi, lo aveva lasciato uscire sotto la pioggia.
Non poteva biasimarla. Gli aveva chiesto di inscenare il suo suicidio e proclamare la sua morte e, più di tutto, di mantenere il segreto della sua premeditata sopravvivenza fino a quando non sarebbe stato il momento (e nemmeno lui sapeva quando questo momento sarebbe giunto). Per lui non sarebbe stato un problema, oggettivamente, ma supponeva che le persone normali – le persone come Molly – trovassero nelle grosse menzogne, nelle bugie che causano dolore, la vera difficoltà del silenzio. Qualcuno una volta gli aveva detto che tutti aspirano alla catarsi,1 ed è per questo che le persone si aiutano l’un l’altra: per perdonare qualcosa a se stesse.
Tutto stava nel crederci.
Ora, nel cuore di Londra con indosso vestiti in cui non si sentiva minimamente a proprio agio – jeans, felpa grigia con cappuccio, scarpe da ginnastica –, l’unica cosa che gli rimaneva di quella giornata erano flash confusi che cercava con tutte le sue forze di tenere fuori dai propri pensieri.
Sentiva la sua mente pronta a scivolare in quella sorta di strano limbo che intercorre fra l’arrivo al giro di boa e l’inizio della seconda metà della corsa; quel momento in cui ci si piega sulle ginocchia e si prendono grandi boccate d’aria tentando di convincersi che la fatica è niente, il dolore è niente, il sudore è niente, la sofferenza è niente a confronto della soddisfazione di tagliare il traguardo.
Aveva bisogno di riflettere, riorganizzare, mettere in ordine le informazioni che, chiuse a chiave nel salone del suo mind palace, minacciavano di fargli esplodere il cervello non appena libere. Aveva bisogno di un luogo dove avrebbe potuto lottare contro la frustrazione senza attirare l’attenzione, dove porsi le domande scomode e darsi risposte ancora più ingombranti. Dove permettere a se stesso di cucirsi addosso gli ultimi pezzi di quell’identità che aveva gettato via ore prima (insieme a tutta la sua vita).
Un posto dove pensare a John e permettere a se stesso di sentirsi male.
Quel posto esisteva e corrispondeva ad un indirizzo di Clapham che Molly gli aveva scritto sull’angolo strappato di foglio a quadretti.
In realtà non credeva che fosse ancora a Londra, quando aveva dato il suo nome a Molly. Avevano perso i contatti dopo l’università, interrotti di netto senza nemmeno un saluto, e lui aveva fatto quello che faceva sempre con le cose che non avevano importanza: ne aveva chiuso il ricordo dentro un barattolo e lo aveva messo sullo scaffale del “potrebbe tornarmi utile”, dimenticandosene.
Solo saltuariamente tornava in quella stanza del mind palace, alla ricerca di chissà quale ricordo, e passandoci davanti si fermava a guardare il piccolo vasetto di vetro, sfiorandolo con gli occhi senza mai toccarlo. Un gesto fatto per caso che però gli faceva arricciare l’angolo delle labbra (e allora sì, forse era stato importante almeno un po’, almeno per un po’).
Finché quel nome non era stato l’unica possibilità d’appello.
Il nome che ora, scritto sulla cassetta delle lettere di una tipica casa a schiera londinese, dai muri color Terra di Siena e il tetto spiovente, era proprio davanti ai suoi occhi.
Stringendosi nelle spalle piene di umidità e fradice di pioggia, suonò il campanello. La porta si aprì quasi istantaneamente.
Victor Trevor.
Non era cambiato di una virgola. Sembrava di vedere lo stesso ragazzo che, all’università, aveva sul comodino le foto del suo Bull Terrier accanto a quella della sua famiglia.2 Forse i capelli erano leggermente più corti, ma sempre del medesimo color biondo ramato, e le spalle si erano fatte più squadrate.
Si guardarono per quello che sembrò un minuto intero, uno in pantaloni e camicia sulla porta di casa sua, l’altro con il cappuccio bagnato di una felpa a coprirgli i capelli imbrattati di sangue secco. Tutto il tempo trascorso insieme era racchiuso in quegli occhi e in quel silenzio, sporcato dai rumori di sottofondo di una città che non dorme mai.
Fu con un cenno secco del capo che Victor fece un passo indietro, invitandolo ad entrare con la mano. Sherlock aprì il cancelletto d’ingresso e, in tre lunghe falcate, entrò in casa a testa bassa.
 
Inizialmente non si dissero niente. Victor si limitò a dargli asciugamani e vestiti di ricambio per poi indicargli il bagno, dove Sherlock passò venti minuti buoni a fissare il suo riflesso allo specchio, ascoltando il silenzio che regnava nella stanza così come nella sua mente. Era infreddolito e stanco, strisce di sangue macchiavano la pelle del suo viso e del suo collo, e gli occhi erano rossi per tutto il trambusto e per il trauma subito che, nonostante le precauzioni prese, non era limitato. Ora che era al sicuro, e l’adrenalina stava cedendo il passo alla spossatezza, non c’era un singolo muscolo che non gli facesse male, e un ematoma esteso stava cominciando a formarsi sul braccio sinistro, che aveva usato come perno per atterrare sul marciapiede.3 Dopo un sospiro decise di fare la doccia, cancellando dal suo corpo almeno una parte di quei segni.
Fece in fretta, lavandosi i capelli e la pelle con i prodotti che trovò all’interno. Si asciugò alla bene e meglio, frizionando i capelli ricci con l’asciugamano senza usare il phon, e infilatosi i vestiti di ricambio (pantaloni neri di una tuta e una T-shirt grigia, Victor si ricordava con cosa gli piacesse dormire, a quanto sembrava) tornò in cucina.
Victor era impegnato a preparare il tè. Lo accolse con un sorriso gentile quando varcò la soglia, scalzo e con i capelli umidi, indicandogli il tavolo con un cenno del capo. Aveva preparato un paio di sandwich e, a giudicare dall’odore, del tè.
Lo stomaco di Sherlock si ribaltò, ma lui non lo diede a vedere. Si sedette alla sedia davanti alla quale era stato appoggiato il piatto con i panini ma, com’era prevedibile, non li toccò nemmeno.
« Non hai fame » disse allora l’altro, finalmente, aggiungendo al tè fumante zucchero e latte.
La sua voce era esattamente come si ricordava, esclusa la sfumatura di preoccupazione che riuscì a percepire. « No » rispose lui, anche se quella di Victor era stata più una constatazione che una domanda.
L’altro ridacchiò come se se lo fosse aspettato, prendendo le tazze e raggiungendolo al tavolo. Solo quando gli posò davanti la sua, Sherlock notò l’anello d’oro all’anulare.
« L’hai trovato? » domandò, senza specificare di cosa parlasse. Victor era sempre stato abbastanza bravo nel capire di cosa parlasse.
Ed infatti non lo deluse. Seguì lo sguardo di Sherlock al proprio anello e, stendendo di riflesso le dita, annuì con un sorriso. « Chris. Lui ha trovato me » disse, alzando lo sguardo: « siamo sposati, ad agosto saranno 4 anni. È architetto, e ora come ora sta lavorando a Nuova Delhi. Io insegno, sai? Fisica, all’università. Passo sei mesi in Inghilterra e sei in India. Beh, esclusi i fine settimana e le vacanze » disse, chiacchierando completamente a suo agio, come se non si fossero persi l’un l’altro da quasi dieci anni.
« E tu? » chiese poi, prendendo un sorso di tè. « Hai trovato qualcuno per cui vale la pena? ».
Probabilmente avrebbe risposto, Sherlock, se il pensiero di John non fosse stato così violento da bloccargli il fiato in gola. Non l’aveva visto dopo la caduta, quando per sembrare morto si era procurato una sincope, ma lo aveva sentito urlare il suo nome prima del volo, e ciò che aveva sentito in quella voce si era scavato un posto al centro esatto del suo petto, torturandolo con spilli ed aghi ad ogni respiro.
Non rispose alla domanda, ma senza accorgersene si sfregò con il pollice destro l’anulare sinistro. Dato che aveva le mani appoggiate sul tavolo, fu un gesto che Victor notò.
« Se non ne vuoi parlare... » cominciò, ma Sherlock lo interruppe.
« John » disse, prendendo un respiro profondo. « Si chiama John ».
« John H. Watson » confermò Victor: « seguo il suo blog. Siete diventati piuttosto famosi ultimamente » commentò.
Sherlock alzò lo sguardo dalla tazza di tè che non aveva intenzione di bere, fissandolo per un attimo in quello sereno e tranquillo di Victor. Non sapeva niente della congiura, del suo nome screditato, di tutto ciò che era successo negli ultimi due giorni. L’articolo della Riley sarebbe uscito solo la mattina successiva – così come i titoli su qualsiasi altro quotidiano – dunque non aveva motivo di dubitare di lui. Non ancora.
Si limitò, per questo, a rispondere con un « già ».
« Non giudicarmi, ma ho sempre sperato che fra di voi ci fosse qualcosa di... più. Di intimo » disse, bevendo un altro sorso di tè.
Sherlock sospirò di nuovo, scuotendo il capo. « È un fraintendimento comune, Victor » commentò solamente.
Gli occhi dell’altro saettarono di nuovo verso di lui. « Niente? Niente, niente? » domandò, curioso.
Sulle labbra di Sherlock balenò il fantasma di un sorriso. « Mi ero dimenticato la tua inutile passione per il gossip » disse, glissando con classe.
« Beh, sapere tutto di tutti era una delle mie specialità, non ricordi? » ironizzò Victor, ma si accorse subito che strappare un sorriso a Sherlock, uno di quei sorrisetti strafottenti a mezza bocca, quella sera era impossibile.
Sherlock non aveva voglia, di sorridere.
« Peccato, Sherlock. Sembra una brava persona » aggiunse solamente.
« Lo è » confermò. Sono io quello sbagliato.
Un silenzio leggero ma malinconico si dilatò nella stanza, accogliendo solo i rintocchi dell’orologio a muro. Silenzio che venne spezzato di nuovo da Victor, la cui voce era tornata seria e preoccupata.
« Sherlock, cos’è successo? » domandò, osservandolo: « la telefonata della signorina Hooper è stata breve, ma sembrava che fosse sull’orlo del pianto. Quando ha detto il tuo nome ho pensato al peggio... » disse.
Holmes evitò di guardarlo, tenendo gli occhi fissi su una venatura del tavolo. Non aveva voglia di spiegare, di ripercorrere con la voce – e con la mente – quelle ultime, estenuanti giornate; non aveva il coraggio di spiegargli cos’avrebbe trovato sui giornali l’indomani mattina, a cosa avrebbe dovuto credere, convincerlo che non fosse un rapitore né un assassino, né tantomeno un impostore.
Spiegare era lungo, impiegava tempo ed energie che lui non aveva più. Per una volta nella sua vita, una volta sola, il suo unico desiderio era di stendersi, chiudere gli occhi e rimandare tutto di qualche ora.
« Lo vedrai domani mattina sui giornali » gli disse dopo alcuni istanti di silenzio: « e crederai a ciò che vuoi ».
Victor, lo sguardo ancora fisso su di lui, assottigliò gli occhi, pensieroso. « So già a chi credere » esordì poi, la voce sicura e perentoria.
Sherlock non ebbe la forza di replicare, ma annuì, riconoscente.
 
 
 
 
Non aveva mai capito l'espressione "come se non fosse nel suo corpo".
La usavano molto spesso nei romanzi (e lui ne aveva letti parecchi), ma non era mai arrivato a capirne il concetto. Forse perché era sempre riuscito ad essere padrone di se stesso, nel bene o nel male, o forse perché l'aveva spesso considerata una definizione troppo strana per essere reale, troppo artefatta.
Tuttavia, seduto a quel tavolo d'acciaio, in una sala interrogatori di New Scotland Yard, non avrebbe potuto trovare parole più adatte di quelle per descrivere come si sentisse.
Come se il corpo non fosse il suo, ma solamente in prestito. Come se non stesse davvero vivendo in quel momento, respirando in quel momento, pensando quel momento. Come se guardasse se stesso dall'esterno e non potesse far altro che provare una profonda pena.
Pover'uomo ridotto allo stremo, la schiena curva e le spalle pesanti. Pover'uomo alla deriva. Pover'uomo.
Non riusciva ancora a capacitarsi di ciò che aveva visto. Oggettivamente lo sapeva, la propria mente aveva capito e catalogato l'accaduto per quello che era: Sherlock si era buttato dal tetto del Barts.
Ma c'era qualcosa in lui - una parte di lui - che non aveva voluto guardare. Che non voleva ricordare. Che si rifiutava di mettere in fila le parole e dirlo ad alta voce, ammettendo la concretezza di ciò che era successo qualche ora prima.
Poter'uomo che ancora non voleva crederci.
Alzò lo sguardo dal tavolo solo quando la porta dall'altra parte della stanza si aprì e da essa entrò un uomo, cravatta nera e camicia bianca sgualcita con le maniche arrotolate fino ai gomiti, portando con sé un fascicolo di cartoncino giallo e una zaffata di odore di sigaretta. Aveva i capelli neri e corti, spettinati come chi é abituato a passarci spesso le dita in mezzo, e la faccia di una persona che nelle ultime ore aveva affidato la propria esistenza alla caffeina.
« Dottor Watson, io sono il Detective Inspector Aberline » si presentò, sedendosi nella sedia di fronte: « prima che lei lo chieda: no, non siamo parenti. Il mio cognome si scrive con un sola "b" » aggiunse, probabilmente per prevenire una domanda che in molti gli facevano ma che John non aveva la minima intenzione di porre.
Capì a cosa si riferisse solo dopo; l'Ispettore Abberline, nel 1888, fu il poliziotto di Scotland Yard assegnato al caso dello Squartatore.
In quel momento non gliene poteva importare di meno, della sua mancata omonimia grammaticale. Lo osservò con sguardo stanco e vacuo, separando le labbra per la prima volta da quella che sembrava un'eternità; dovette umettarle con la lingua, prima di parlare.
« Dov'é Lestrade? » domandò ma quasi si stupì quando la voce si rifiutò di uscire, se non in un sussurro stentato.
Aberline, accavallando le gambe sotto al tavolo e mettendosi comodo, tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un I-phone e un pacchetto di sigarette. John dovette distogliere lo sguardo - la stessa marca di quelle di Sherlock.
« L'ispettore Lestrade non si occupa di questo caso. Per ovvi motivi é stato momentaneamente sospeso dl servizio » disse distrattamente, trafficando per un secondo con le impostazioni del registratore dello smartphone: « mi permette di registrare la nostra conversazione, dottor Watson? » chiese poi.
John annuì.
Il detective fece partire la registrazione e si portò il cellulare vicino alla bocca. « Registrazione dell'interrogatorio del dottor John Hamish Watson, 15 giugno 2011, ore 20:42. Conduce l'interrogatorio il qui presente, Detective Inspector Aberline » disse a chiare lettere, appoggiando poi il telefono sul tavolo in mezzo a loro.
Stava per porgli la prima domanda, ma John non glielo permise, anticipandolo.
« Perché mi trovo qui? » chiese, il tono duro e spossato, decisamente non in vena di giocare o di perdere tempo su delle futilità.
Aberlineafferrò il pacchetto di sigarette, estraendone una e l'accendino. « Le dispiace se fumo? » domandò.
John non mosse un muscolo per negare o acconsentire; Aberline si accese comunque la paglia, ignorando il divieto di fumare in luoghi chiusi ove non consentito.
« Fino a qualche ora fa era qui come testimone, dottor Watson. Come lei ben sa, il principale sospettato di un caso di rapimento, e potenziale serial killer, si è suicidato oggi pomeriggio e lei è l’ultima persona con cui Sherlock Holmes ha parlato » disse l’ispettore.
John chiuse gli occhi ancora prima che finisse la frase.
Strinse i denti quando una poco famigliare ondata di dolore minacciò di sopraffarlo. Sherlock non era né un rapitore né un serial killer! Come si permettevano di accusarlo senza prove? Senza un’indagine approfondita? Era tutto un piano di Moriarty, di un Moriarty che era reale, perché non riuscivano a vedere? Come si permettevano di infangare il suo nome dopo tutto quello che aveva fatto per loro?
Si sentì sull’orlo di perdere il controllo ma ricacciò tutto dentro di sé.
Deglutendo, annuì in silenzio. « Cosa significa “fino a qualche ora fa”? » aggiunse poi, con voce bassa ma seria.
« Lei ha sulla testa un paio d’accuse abbastanza pesanti, dottore » disse quello, aprendo la cartelletta ed estraendone un foglio con il logo della Polizia in alto al centro: « aggressione a pubblico ufficiale e resistenza all’arresto. Fortunatamente per lei non perseguibili fino a nuovo ordine, date le circostanze, ma proseguendo con la normale indagine di routine abbiamo trovato questo... » pronunciò, estraendo un secondo foglio.
Un documento che conosceva bene e che già una volta aveva visto.
Una copia del suo certificato personale, fotocopiato e riconosciuto con un timbro dall’ufficio anagrafe, con una frase evidenziata in giallo.
 
S.I.N.: Broken Connection Entity (“Sherlock”)
 
John non poté fare a meno di arricciare il naso davanti a quelle parole, che tornavano a tormentarlo dopo anni dall’ultima volta che le aveva viste.
Chissà perché, sapeva già dove Aberline volesse andare a parare.
Alzò lo sguardo su di lui, rimanendo in silenzio. Se all’inizio aveva considerato il D.I. come un suo pari – con una divisa, certo, ma sempre un suo pari, una persona esattamente come lui – ora i ruoli erano cambiati; per quanto potesse cercare di vivere senza pensarci, o di nasconderlo per non doverne affrontare le conseguenze, lui era un BCE e, come tale, si sarebbe sempre trovato in una posizione di intrinseca inferiorità rispetto a tutti coloro che, per nascita, avevano la fortuna di avere un’Anima Gemella a desiderarli.
Aberlineinarcò un sopracciglio al suo sguardo decisamente poco amichevole. Indicò poi la fotocopia del certificato con due colpetti del dito indice, soffiando fuori una nuvola di fumo. « Questa mi è nuova » commentò.
John non distolse lo sguardo e non fece nulla per addolcirlo. Perseverò nel suo ostinato silenzio.
« A dire il vero, è nuova a molta gente. Quando ho chiesto informazioni al D.I. Lestrade mi sono sentito rispondere, ed era sincero a giudicare dall’espressione stupita, che non ne sapeva niente. Così ho fatto una veloce ricerca, e mi sono imbattuto in un’interruzione... no, un trasferimento, al quarto anno di Medicina, dalla London University all’Accademia Militare della RAMC. Una scelta peculiare, soprattutto per uno studente con voti eccellenti come i suoi. Mi sono chiesto il perché e, parlando con l’addetto all’ufficio anagrafe, sono venuto a sapere che lo stesso anno il Comitato Direttivo della London University richiese una copia dello stesso certificato che ora le sto mostrando. Coincidenza? Non credo » disse, facendo una pausa per portarsi di nuovo la sigaretta alle labbra e aspirare una boccata di fumo.
Watson seguì i movimenti con gli occhi, ma ancora non aprì bocca. Stava aspettando tutt’altro. Attendeva che arrivasse al punto.
Aberlinelo fissò negli occhi per qualche istante prima di porre la prima di molte domande: « è abituato a nascondere la propria condizione di BCE, dottor Watson? » chiese, la voce supponente e derisoria.
Qualcosa, dentro John, ribollì d’impazienza. La mano destra, che ancora ricordava con piacere l’impatto delle proprie nocche contro la mascella di Gregson, cominciò a prudergli.
« Abbastanza » rispose.
« Sa che in certi casi è reato? » continuò l’altro.
John annuì.
« Può dirlo ad alta voce? » intervenne però Aberline, indicando con un cenno del mento il registratore.
« Sì » pronunciò quindi John.
« Sherlock Holmes ne era a conoscenza? » domandò poi.
A sentire il suo nome, lo stomaco gli si annodò. « Sì » affermò comunque.
« Anche del fatto che il nome sul dito era proprio il suo? » continuò.
Il medico arricciò il naso, infastidito. « Sì » sputò.
Era vicina. La vera domanda che Aberline voleva porgli era dietro l’angolo. Mancava poco.
« C’era qualcosa di romantico fra voi? » chiese però, facendo un giro ancora più largo.
E andando a virare su argomenti decisamente privati.
« Posso rifiutarmi di rispondere? » chiese, quasi del tutto sulla difensiva e decisamente a disagio.
Aberlinefece spallucce: « sì, certo, ma se posso darle un consiglio è meglio che risponda subito, piuttosto che sotto giuramento davanti ad una Corte ».
In trappola, ecco come si sentiva. Bloccato in un buco nella sabbia mentre Aberline se ne stava in piedi sul bordo ad aspettare che la marea lo riempisse. Sapevano bene entrambi che andare ad un processo, per un Ribbon, era come firmare di proprio pugno un ordine di incarcerazione. In un sistema di Common Law come quello inglese, in cui l’ultima parola spettava ad una giuria di (finti) pari – quando mai si era visto un Ribbon, o un Bondless, in quelle giurie? – i BCE venivano condannati colpevoli a prescindere del numero di prove a loro favore.
Stringendo dolorosamente i denti, rispose. « No » disse, secco.
E Aberline prese la palla al balzo.
« Ne è deluso? ».
Insinuazione. Mancava solo un sorrisetto strafottente a piegargli le labbra e John avrebbe potuto riconoscere il momento esatto in cui l’altro aveva afferrato del tutto il coltello dalla parte del manico.
Poteva mentire. Sapeva dove voleva arrivare, ed era abituato a far sembrare verità assolute le più infime bugie. Solo Sherlock era in grado di smascherarlo ancora prima che ci provasse – ma quello non era più un problema.
Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Proteggersi non aveva più senso.
« Come potrei non esserlo, Detective Aberline? » domandò retoricamente: « amo una persona che dovrei odiare. Come potrei non esserlo? » ripeté, deglutendo e scostando finalmente lo sguardo dagli occhi del poliziotto.
Forse dovrei dire “amavo”, pensò fra sé e sé.
Se avesse potuto, Aberline avrebbe sogghignato.
« Abbastanza da essere suo complice? ».
Anche se se l’era aspettata, quella domanda lo colpì peggio di un treno in corsa, facendogli mancare un battito. Sgranò gli occhi e li riportò sul detective che, comodamente accomodato sulla sedia, prese l’ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone direttamente sul tavolo.
« Cosa sta cercando di insinuare? » domandò John con un filo di voce, suonando quasi minaccioso.
« Complicità in omicidio, complicità in rapimento, magari istigazione a delinquere? Chi lo sa. Ho tante possibilità quante sono le indagini sul suo conto che mi attendono, dottor Watson. Chi mi assicura che non sia stato lei, il grilletto che ha fatto scattare Sherlock Holmes? » chiese retoricamente.
John sentì la furia montare di nuovo dentro di sé.
Ma Aberline continuò, imperterrito. « Non credo che lei sia la mente dietro tutto questo, no. Ciò che voglio capire è se ha avuto la sua parte. In una visione d’insieme, non mi sembra normale che un ex medico militare di ritorno dall’Afghanistan con diagnosticato un Disturbo da Stress Post-Traumatico vada a vivere con una persona che per vivere risolve casi d’omicidio. E non solo, ne diventa addirittura l’assistente. Ma la cosa più interessante è che, come BCE, lei sia andato a vivere proprio con l’uomo che, potenzialmente, potrebbe essere il suo SIN. Deve ammettere che tutto ciò sembrerebbe strano anche se si trattasse di una persona normale » disse.
E furono esattamente quelle parole che fecero scattare John, ormai al limite della sopportazione.
« “Normale”?! » sbottò, raddrizzando la schiena: « Cosa ne sa lei? Cosa ne sa di cosa voglia dire trovare il proprio SIN quando si è un Ribbon? Cosa ne sa? Noi non siamo  delle pedine uscite male dalla fabbrica! Su cosa basa questa sua arroganza, sul fatto che sono un Ribbon?! » gridò, le mani chiuse a pugno contro il tavolo: « Io sono innocente, Sherlock è innocente, e nessuno, nessuno, riuscirà mai a convincermi che quell’uomo mi abbia mentito! » sbottò.
Aberline lo guardò in silenzio, l’aria di chi aveva raccolto le informazioni che gli servivano.
« Lei è in stato di fermo, dottor Watson » disse poi, alzandosi e raccogliendo le proprie cose con nonchalance: « due agenti verranno fra poco per scortarla nella sua cella. Si metta comodo ».
 
 
 
 
Victor si fermò con la forchetta a mezz’aria, intento a cuocere il bacon per la colazione. Le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e la cravatta blu ripiegata sulla spalla, si voltò completamente verso la televisione con la bocca socchiusa e gli occhi spalancati.
« Sherlock? » chiamò poi, girandosi verso il salotto solo con il capo ma non con gli occhi, che rimasero puntati sulla giornalista della BBC One.
Sherlock, steso sul divano con gli occhi chiusi e le mani unite sotto al mento, non si scompose minimamente. « Non ora » disse solo, senza muovere un muscolo.
Ma Victor non si arrese. « Sherlock! » esclamò, cercando di trasmettergli l’urgenza.
Holmes aprì gli occhi di scatto, sbuffando, per poi alzarsi e camminare a piedi scalzi fino in cucina.
Una volta posato lo sguardo sulla televisione, la sua espressione cambiò. « Alza il volume » disse a Victor e quello, raggiungendo a tentoni il telecomando, eseguì.
“È di poche ore fa la notizia che il dottor John Watson, collega e amico del detective suicida Sherlock Holmes, è in stato di fermo alla sede di New Scotland Yard con l’accusa di complicità in omicidio e rapimento di minori. Pare che durante un controllo di routine messo in atto dalle forze di Polizia subito dopo il suicidio dell’eroe del Reichenbach, i poliziotti abbiano scoperto che il dottor Watson, famoso per il suo blog, è in realtà un BCE. Le accuse sono per il momento non perseguibili a causa delle indagini tutt’ora in corso, ma una conferenza stampa verrà organizzata in serata con il Detective Inspector Aberline di New Scotland Yard, attualmente a capo delle indagini”.
Sherlock smise di ascoltare nel momento esatto in cui la giornalista passò la linea al collega, fissando lo schermo senza in realtà vederlo. Deglutì, inspirando profondamente, cercando con tutto se stesso di contenere l’irritazione che, sfruttando un momento di debolezza, poteva anche farlo correre seduta stante a New Scotland Yard.
« Victor? » disse poi.
Quello, al suo fianco, girò il capo in sua direzione.
« Mi serve un favore. Devo contattare mio fratello ».
 
 
 
 
La porta della cella si aprì con un sonoro tonfo e un rumore di chiavi, lasciando entrare la figura sempre più trasandata di Aberline.
Si guardarono, uno dalla porta e l'altro dall'unica branda presente nella cella, squadrandosi come cani che cercano un pretesto qualsiasi per cominciare a ringhiarsi contro.
Fu Aberline a mollare per primo il loro muto gioco di sguardi, spostandosi dall'uscio e facendo un cenno verso l'esterno con il mento.
« Sei libero, Watson. Ti hanno pagato la cauzione. Probabilmente anche le accuse decadranno » disse.
John rimase un attimo fermo prima di alzarsi in piedi e dirigersi verso la porta, il passo fermo ma completamente esausto. Non aveva dormito molto, in quei tre giorni, così come non aveva fatto altro che fissare il muro della propria cella sforzandosi di non piangere. Non era il luogo, non era il momento. Se doveva farlo, sarebbe stato solo davanti alla sua tomba, dove avrebbe permesso all'evidenza di schiacciare il suo autocontrollo.
Aberline lo accompagnò lungo tutto il corridoio, rimase lì mentre gli venivano restituiti i suoi effetti personali e lo affiancò di nuovo fino all'uscita. Fortunatamente non incontrò nessuno di sua conoscenza (non sapeva se avrebbe potuto sopportare di vedere Donovan o Anderson senza rischiare un'altra accusa di aggressione a pubblico ufficiale, in quel caso particolare non si fidava affatto di se stesso).
La mano bruciava, il dito sembrava volersi direttamente staccare dal resto dell'arto, e la lieve fotosensibilità era uno dei classici sintomi della febbre da infezione. Aveva bisogno di un antibiotico ma, soprattutto, aveva bisogno di farsi un bagno, sedersi e cercare di mettere in ordine almeno i successivi giorni della propria vita.
« Lei ha delle amicizie in alto, non è vero? » chiese Aberline una volta raggiunta la porta.
Watson, ancora preda della sensazione di non essere completamente in sé, si limitò a fermare il passo e a girare il volto in sua direzione. « Cosa? » chiese.
« La cauzione. E il decadimento delle accuse. L'ordine è arrivato dritto dritto da Gregson, e non ho mai visto Gregson abbandonare una causa che lo riguarda direttamente così in fretta. Questa non può essere altro che l'opera di qualcuno di importante » spiegò, il tono seccato ma più che altro esausto.
John non fece una piega. Solo uno fu il nome che gli venne alla mente, ma si guardò con attenzione dal dirlo.
Nel suo silenzio, Aberline sospirò. « Arrivederci, dottor Watson » disse, girandosi e allontanandosi.
Spero proprio di no, pensò John prima di uscire alla luce del pallido sole londinese.
Fuori dalla porta, dall'altro lato della strada, un'elegante macchia scura era ferma, probabilmente in attesa. La portiera posteriore si aprì ma John non rimase ad aspettare che la famigliare figura di Anthea comparisse sul marciapiede.
Girandosi, sé ne andò a piedi.
L'auto nera non lo seguì.
 
 
 
 
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Osservò da lontano la schiena di John mentre si allontanava dalla lapide nera, seguendo il percorso appena compiuto da mrs. Hudson. Era ben nascosto dietro ai cipressi del cimitero, in un punto in cui poteva tranquillamente vedere senza essere visto, e in cui comunque John non lo avrebbe mai notato.
Lo aveva visto parlare, anche se non aveva potuto capire cosa dicesse, troppo lontano per sentirlo o leggere il labiale. Lo aveva visto esitare, girarsi, cambiare idea, tornare indietro.
Lo aveva visto piangere. E mettersi inconsapevolmente sull’attenti prima di andarsene.
John. Il suo John. Leale, fedele John.
Non avrebbe fatto niente di quello che gli aveva detto prima di buttarsi dal tetto. Non avrebbe mai creduto alle sue ultime parole, a quelle pietose auto-accuse. Avrebbe continuato a difendere la sua memoria fino alla fine, fino allo stremo... pazzo, sciocco John.
Che senso ha difendere la memoria di un fantasma, John? Che senso ha difendere l’onore di una persona che ti ha abbandonato due volte?
Con un sospiro tirò fuori la mano sinistra dalla tasca del cappotto, osservando il dorso dell’anulare con sguardo grave.
Continuava a non esserci niente quando, invece, l’unica cosa che voleva in quel momento era che ci fosse scritto “John”.
Così avrebbe saputo. Così avrebbe capito. Avrebbe visto che il nome non diventava nero, avrebbe intuito che era vivo, che era da qualche parte, nascosto, e forse avrebbe capito che era tutto in piano, una macchinazione necessaria.
Sarebbero stati legati al di là della lontananza.
Con una smorfia, si rimise la mano in tasca. Un’ultima occhiata alla lapidea nera ormai sola in mezzo all’erba e, girando su se stesso, si mise in marcia.
Camminò velocemente fra le tombe del cimitero di West Brompton, infilandosi con nonchalance in una piccola uscita laterale che dava su una stradina a senso unico stretta e raramente utilizzata. Dopo una camminata di 50 metri, aprì lo sportello di un’auto nera e salì sul sedile posteriore.
Dentro, intento a guardare fuori dal finestrino opposto, Mycroft lo aspettava.
« È stata una visita illuminante? » chiese con la sua voce melliflua, gli occhi fissi sul panorama esterno, che cominciò a scorrere con l’incedere tranquillo dell’automobile.
Sherlock non rispose. Mycroft sospirò.
« La tua nuova identità » disse allora, allungando al fratello minore una busta di carta marrone.
Sherlock, afferrandola, la aprì. Conteneva un referto medico fasullo, un cellulare vecchio modello, un biglietto aereo e un passaporto.
Fece scivolare verso l’alto i documenti quel tanto necessario dal leggerne le prime righe. Si accigliò.
« James Kimberley Griffith » lesse: « sul serio, Mycroft? Un malato di cancro? » aggiunse poi, il tono basso e strafottente.
« Una persona che gode di una condizione medica favorevole al nostro scopo » parafrasò il politico, le mani appoggiate sul ventre una sopra l’altra. « Salirai su un volo diretto a Firenze. Essendo un malato di cancro verrai tenuto separato dal resto dei passeggeri, per garantirti una maggiore comodità, il che è esattamente ciò che ci serve per far sì che nessuno abbia l’ardire di riconoscerti. Verrai anche fatto scendere prima degli altri e accompagnato in aeroporto saltando i controlli. A Firenze incontrerai un agente sotto copertura dell’MI6 che ti darà l’indirizzo dell’appartamento che sono riuscito ad affittare in zona. Una volta lì ti manderò, pian piano, tutto l’occorrente per i successivi spostamenti, informazioni comprese. Tutto chiaro? ».
Infilando il falso referto nella busta, Sherlock annuì.
« Dovrai essere cauto » continuò poi Mycroft: « non posso garantirti una protezione costante. La maggior parte delle volte dovrai vedertela da solo » aggiunse.
Sherlock annuì di nuovo. « Lo so ».
Il viaggio verso l’aeroporto proseguì in silenzio, interrotto solamente dal rumore attutito delle ruote sull’asfalto.
Loro non si erano mai parlati molto, e non fuori dal necessario. Nemmeno da piccoli. Mycroft ci aveva provato ad essere un buon fratello maggiore, per un po’; Sherlock gli riconosceva lo sforzo, ma semplicemente non ne era stato in grado. O forse Sherlock lo aveva invidiato, e dunque detestato, troppo fin da subito per dargli una possibilità concreta di formare un legame fraterno.
La loro idea di fratellanza era per uno il dispetto, per l’altro il controllo. Raramente Sherlock aveva ammesso di aver bisogno dell’aiuto dell’altro, e questa era la prima volta che lo faceva volontariamente. Solo Mycroft aveva i mezzi sufficienti a proteggere se stesso dall’onda d’urto che il suo gioco con Moriarty aveva scatenato e, volendo, a proteggere anche le altre persone involontariamente coinvolte.
Solo Mycroft poteva proteggere John, ora. Questo era sufficiente a fargli riconsiderare trent’anni di risentimento.
« Il mio appartamento... » cominciò poi Sherlock, rompendo il silenzio ormai in vista dell’aeroporto: « deve restare esattamente così com’è. Vorrei che pagassi a mrs. Hudson l’affitto e ne mantenessi la proprietà » disse.
« Va bene » rispose Mycroft.
« John può prendere quello che vuole » aggiunse poi: « anche il violino, se vorrà. Nel caso decida di trasferirsi. Devi farglielo sapere ».
« Quale risposta devo dargli, se mi chiede come faccio a saperlo? ».
« Inventati qualcosa » ribatté Sherlock, ma se normalmente il suo tono di voce sarebbe stato seccato e supponente, ora riusciva a suonare solo disilluso e, forse, anche triste.
La macchina rallentò, infilandosi con grazia nel traffico di fronte al Terminal 2. Molte persone entravano ed uscivano dalle porte portando valigie e trolley e, sicuramente, nessuno aveva il tempo di guardare al di là del proprio naso.
Sherlock cominciò a cambiarsi. Si tolse il cappotto, che lasciò sul sedile, infilandosi una felpa verde e una giacca a vento beije. I jeans, che aveva già infilato sopra le uniche scarpe a tennis che possedeva, gli davano l’aria di una persona qualunque e, in attesa di chiudersi nei bagni dell’aeroporto e tagliarseli, nascose i capelli sotto un cappello a tesa larga marrone. Infine, per entrare nel personaggio, sfilò da sotto il sedile un bastone di legno scuro.
Bastarono pochi tocchi per trasformarlo in una persona completamente diversa, e le sue doti recitative avrebbero fatto il resto.
Una volta che ebbe finito di cambiarsi, Mycroft gli porse una scatolina blu. «Tieni. È il momento per te di indossarne uno » gli disse.
Incuriosito, Sherlock la prese. Era talmente abituato a doverne fare a meno che dovette aprirla, per capire cosa contenesse.
Un anello d’argento.
Ma non era un anello normale. Fine ma non troppo sottile, di argento puro ripetutamente lucidato; usato, dunque. Nella parte bassa era visibile un piccolissimo taglio dove l’anello, nel tempo, era stato ristretto. Nella parte alta, e leggermente più larga, una filigrana quasi invisibile riproduceva lo stemma di famiglia – irriconoscibile per chiunque se non per un Holmes.
Sherlock aveva già visto quell’anello. Molte volte.
« È il tuo » disse.
« Corretto » ammise Mycroft.
« Perché lo dai a me? » domandò.
Il fratello maggiore non rispose, limitandosi a guardarlo negli occhi con le labbra strette. Per tutto il tempo aveva tenuto la mano sinistra nascosta sotto la destra, ed ora Sherlock poteva capire il perché non fosse un gesto casuale.
« Ah... » esclamò, togliendo il gioiello dalla scatola e infilandoselo al dito. Era perfetto. « Devo dedurre che avete deciso di Legarvi? » domandò al contempo.
Mycroft, in risposta, tolse la mano destra dalla sinistra e lasciò scoperto l’anello d’oro bianco che da poco ricopriva il suo SIN.
Sherlock lo adocchiò velocemente. « Sbaglio, o avevate deciso di ignorarvi per via dei vostri rispettivi incarichi lavorativi? ».
« E del suo matrimonio » aggiunse Mycroft.
« Che non rappresentava più un problema giù da un po’ » specificò però Sherlock, aprendo e chiudendo le dita della mano sinistra come se, così facendo, potesse abituarsi più in fretta ad indossare un anello. « Cosa vi ha fatto cambiare idea? ».
Mycroft attese qualche istante prima di rispondere, stuzzicando l’anello d’oro bianco – usato dalle coppie Legate durante il periodo di “fidanzamento” – con l’indice della destra.
« Le cose cambiano di fronte alla morte, Sherlock » mormorò poi, scostando gli occhi sul finestrino. « Capisco la necessità di non avvertirmi del tuo piano fino a dopo il funerale, è stata una scelta del tutto logica. Ma in quei giorni non c’era nessun altro, a parte... » deglutì, lasciando cadere. « Non mi pento di questa decisione » aggiunse poi.
Sherlock, che aveva seguito il discorso in silenzio, distolse lo sguardo a sua volta, osservando la struttura dell’aeroporto fuori dal finestrino.
Era strano sentire Mycroft parlare, o anche solo accennare, di sentimenti. Lui che la maggior parte delle volte faceva per il bene della Nazione cose di cui persino Sherlock si sarebbe vergognato. Lui che usava ogni mezzo senza alcuno scrupolo.
Era strano sentire la sua voce sottintendere la paura, la tristezza, l’abbandono.
Il bisogno.
L’amore.
« Importarsene non è un vantaggio » lo rimbeccò poi Sherlock, metà come monito e metà per ripicca.
« Lo so » rispose l’altro.
L’automobile si fermò del tutto e Sherlock, già con la mano sulla maniglia, era ormai pronto per sparire del tutto dalla circolazione. Esitò solo un secondo, prima di scendere.
« Prenditi cura di John » disse solo.
Mycroft, girando il capo verso il fratello minore, annuì.
Il secondo successivo, Sherlock Holmes era sparito.
 
 
 
 
L’aria della notte era fresca ma pungente.
Nemmeno Luglio aveva risparmiato a Londra la pioggia. Aveva piovuto per tutto il giorno, una di quelle pioggerelline fini e di vento che rendono inutile persino l’ombrello, e l’aria era ancora satura di quell’odore tipico e della relativa umidità.
Guardando il cielo coperto di nubi, rese rossastre a causa delle luci di Londra che vi si riflettevano impietose, John sospirò. Si sistemò meglio, steso sulla panchina di legno, muovendo le spalle alla ricerca di una posizione più congeniale (che non trovò). Poi si portò la sigaretta alle labbra.
Non aveva mai fumato in vita sua. Nemmeno in Afghanistan, dove un pacchetto di sigarette riusciva a valere più dell’oro, secondo solo ad una borraccia d’acqua e ad un caricatore pieno. Nemmeno quando la sua vita si era, ripetutamente, trasformata in un inferno e una sigaretta non sarebbe stata altro che una piccola scheggia di sollievo racimolata con mani tremanti.
Era un medico, si diceva. Si trattava della sua salute. Ci teneva alla salute.
O forse, la sua vita non era mai stata un Inferno peggiore di quello.
Nonostante tutto.
Era passato un mese e lui aveva smesso di contare i giorni.
La notizia cominciava a sgonfiarsi, ad essere sostituita da altri scandali, altri gossip. Come ogni altra cosa, il “caso dell’impostore suicida” – com’era stato ribattezzato – cominciava a sbiadire. Pochi articoli erano rimasti, poche le novità da scrivere, ed essendo parte di una ruota che gira in continuazione senza sosta, i giornalisti cominciavano a stancarsi.
Ma questo non aveva impedito alla sua vita di andare letteralmente a puttane.
Dopo che la notizia del suo fermo amministrativo a Scotland Yard si era diffusa, e dopo la soffiata sul fatto che fosse un BCE, conseguenze che non si sarebbe nemmeno sognato – ma che forse avrebbe dovuto aspettarsi – si erano abbattute su di lui come grandine.
Ora tutti sapevano che era un Ribbon. Tutti. Dal postino al Primo Ministro.
I giornalisti non lo avevano lasciato in pace per giorni, appostati davanti alla porta chiusa del 221B di Baker Street come giaguari in attesa di una preda facile, e lui non aveva nemmeno tentato di parlare, di dire la sua opinione. Non era di Sherlock che volevano sapere, loro, credevano che sul detective fosse già stato detto tutto e che i fatti parlassero da soli,  e anche se la maggior parte delle domande implicava comunque Sherlock e il suo lavoro, John non aveva intenzione di dare loro corda.
Eventualmente, si erano stancati. Dopo quindici giorni d’assedio, una mattina avevano cominciato a diminuire di numero e, alla fine, se n’erano andati tutti. Giusto in tempo.
John non era più in grado di vivere a Baker Street. Ogni angolo di quell’appartamento gli ricordava Sherlock, urlava il nome “Sherlock”, e più il tempo passava più il SIN sul suo dito bruciava e sanguinava. I Ribbon e i Bondless non seguono le leggi normali del Legame, John lo aveva sempre saputo, dunque non c’era uno straccio di informazione riguardo ad un BCE rimasto senza... senza cosa? Senza compagno? Senza Legame?
Sherlock non era l’uno, e di certo lui non aveva mai avuto l’altro.
L’infezione era comunque durata per ben dieci giorni, costringendolo a prendere antibiotici e potenti antinfiammatori. Lo stress causato dalla situazione, sommato alla sua situazione medica, non lo aveva aiutato.
Gli era dispiaciuto lasciare mrs. Hudson. La donna non aveva commentato il suo essere BCE, così come non aveva mai mutato atteggiamento nei suoi confronti. Quando era tornato a casa da Scotland Yard, quattro giorni dopo la morte di Sherlock e senza aver potuto partecipare al suo funerale per colpa dell’arresto, lei lo aveva semplicemente abbracciato e aveva pianto sulla sua spalla. John non aveva potuto fare altro che stringerla a sua volta, in silenzio, e volerle bene.
Ogni tanto le telefonava. Lei lo invitava a prendere un tè, ma John rifiutava sempre. Ancora non aveva il coraggio di rivedere quella porta, di varcarla, di risentire sulla pelle la sensazione che dava. E mrs. Hudson, più di tutti, capiva.
Mycroft si era fatto carico dell’appartamento, venne a sapere. Non direttamente da lui, ovviamente. Anthea si era presentata davanti alla porta dell’appartamento di Harry, una mattina, e gli aveva spiegato tutto senza entrare o staccare gli occhi dal cellulare. Gli aveva detto che poteva prendere ciò che voleva, che Sherlock aveva deciso così in un messaggio lasciato a Mycroft prima di morire, ma John accolse quella notizia con una smorfia e il sapore della bile in bocca.
Aveva scritto a Mycroft? Quando, prima di buttarsi? Non poteva lasciare un messaggio anche a lui, invece di farlo assistere a quella caduta che gli si ripresentava sotto il naso non appena chiudeva gli occhi?
Non cercò, in quel momento, di ricoprire di zucchero la pillola amara. Non pensò al fatto che fosse normale, dato che erano fratelli, o comunque l’unico membro della sua famiglia con cui era ancora in contatto.
Si sentì tradito e basta e chiuse la porta senza nemmeno rispondere o salutare. Mycroft non lo contattò più, così come smise di vedere macchine nere seguirlo per strada da lontano.
Un problema in meno, aveva pensato.
Sbagliato. I veri problemi si presentarono in seguito.
Un paio di sere dopo, Greg lo aveva invitato al pub per una pinta. Solo loro due.
Aveva accettato. Nonostante la rabbia che si portava dentro gli corrodesse il fegato, John era un uomo giusto e sapeva che Greg aveva agito in quel modo solo perché obbligato. Sapeva che si fidava di Sherlock – dopotutto lo conosceva da più tempo di lui – e sentiva anche che l’altro, sotto la sua solita voce profonda e la parlata un po’ gergale, aveva il bisogno di scusarsi.
Gliene diede l’occasione.
Greg gli raccontò tutto. Del dopo, del funerale, di Mycroft. Di come fosse rimasto stoico davanti alla bara del fratello, che non avevano potuto aprire per motivi di decenza, ma avesse continuato a prendere profondi respiri come ad auto-imporsi la calma. Di quanto il cimitero fosse pieno di gente.
Di come le sue opinioni su di lui non fossero cambiate, nonostante avesse saputo la notizia che fosse un BCE.
Di come, alcune sere, pensasse a Sherlock e si sentisse in colpa.
John non poté consolarlo, però. Non si sentì in grado di farlo. Il perdono era qualcosa che aveva negato persino a se stesso e, semplicemente, non poteva concederlo ad altri. Ognuno aveva la propria dose di responsabilità, pensava, e i propri fantasmi a tormentarlo.
Ma l’anello d’oro bianco che Greg portava al dito raccontava una storia che John non sapeva, e che si risparmiò di conoscere per il bene del proprio equilibrio emotivo già fragile.
Un equilibrio che non aveva più trovato.
Avrebbe dovuto sentirsi distrutto, forse triste. Credeva che l’impatto della morte di Sherlock sarebbe stata come il proiettile che gli aveva trapassato la spalla, addirittura peggiore. Nelle sue prime sedute con Ella non era nemmeno riuscito a pronunciare il suo nome senza cominciare di nuovo a piangere, o fermarsi per deglutire e riprendere fiato. E doveva sentirsi così, era giusto che si sentisse così; avrebbe continuato a sentirsi così per il resto della sua vita, si era detto, dunque tanto valeva abituarcisi.
Ma una mattina si era svegliato rendendosi conto di aver dormito senza incubi. Si era guardato allo specchio ed era riuscito a pronunciare “il mio migliore amico si è suicidato buttandosi da un tetto” senza esitare, senza aver bisogno di riprendere fiato, senza far tremare la voce.
Si era reso conto che il ricordo di Sherlock non faceva più così tanto male. Ed era troppo presto, era morto da troppo poco tempo... non poteva già essere al di fuori dell’elaborazione del lutto, non quando era ancora così vicino e vivido, non quando il suo SIN ancora lo tormentava con il dolore di un’infezione che sembrava infinita e che non guariva mai.
Ma quella era la realtà, e la realtà era l’indifferenza. E per questo si odiava.
John Watson era sopravvissuto ad un (secondo) abbandono che avrebbe dovuto ucciderlo, ma lo lasciava semplicemente indifferente. Non riusciva a sopportare di averlo dimenticato così in fretta, di avere superato il trauma senza il minimo sforzo, e la sua infelicità non derivava dalla morte di Sherlock, ma dall’odio per la persona in cui quella morte l’aveva trasformato.
Insieme al fumo soffiò fuori anche una risatina amara.
Lasciò penzolare la mano che teneva la sigaretta dalla panchina, muovendo gli occhi sul cielo tutto uguale mentre il sorrisetto gli moriva sulle labbra. A minuti sarebbe arrivato l’autobus ed era lunga la strada per Shoreditch, l’unico buco di Londra in cui era riuscito a trovare un appartamento in cui vivere.
Scostò lo sguardo sulla linea del tetto del Barts sopra di sé, posandolo poi sul marciapiede accanto alla panchina. Ogni traccia di sangue era sparita, ma riusciva tranquillamente a figurarsela mentalmente, prendendola da quell’immagine per sempre marchiata a fuoco nei suoi ricordi.
Si lasciò scivolare dalle dita il mozzicone della sigaretta che, toccando il marciapiede bagnato, si spense subito.
Cedere al fumo; fumare la sua stessa marca di sigarette era l’unico modo in cui era riuscito a crollare, alla fine.
Che vergogna, John Watson.
 
 
 
 
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Alzò gli occhi sullo specchio del lavandino, nudo e con i capelli ancora bagnati.
Uno dei primi raggi di sole della giornata entrò dalla finestra, insieme all’aria calda tipica dell’estate fiorentina, e si posò sulla sua pelle fin troppo chiara.
Avrebbe dovuto abbronzarsi, probabilmente.
Dopo tredici giorni nella città italiana, finalmente era arrivato il primo rapporto di Mycroft. A quanto sembrava i vari clienti di Moriarty erano rimasti scontenti dal suo operato – il codice informatico che, a quanto pare, davvero non esisteva affatto – e si erano lanciati in una caccia all’uomo contro la sua rete di informatori e collaboratori.
Inizialmente aveva sorriso. I nemici dei miei nemici sono miei amici. Ma Mycroft aveva giustamente puntato il dito sulla possibilità che venissero a sapere della sua sopravvivenza, e quella era gente che si faceva pochi scrupoli. Dopotutto Moriarty aveva ingannato quelle organizzazioni criminali con l’unico scopo di “giocare” con lui, dunque era davvero breve il passo che lo avrebbe trasformato a sua volta in loro nemico – e quindi in preda. E lui di certo non aveva tempo da perdere con loro.
Aveva saputo da fonti certe che i principali sottoposti di Moriarty, quelli che erano a conoscenza di almeno parte del folle piano, erano già fuori dal Regno Unito, spariti dalla circolazione prima che le acque si agitassero troppo.
Jonathan Wild. Simon Newcomb. Adam Worth. Ralph Spencer. Sebastian Moran.4
Aveva dovuto pagare caro, per quei nomi. Rientrare nel giro degli spacciatori, arrivare ai magnaccia della prostituzione, parlare con i rivenditori d’armi provenienti dalla ex Jugoslavia, per arrivare infine ai ricettatori d’informazioni, introvabili e cauti quanto cari.
Era stato difficile fare tutto da Firenze, ma se si guadagnavano i contatti giusti l’Italia, in quanto a criminalità organizzata, non tradiva mai le aspettative. Soprattutto se si è Christopher Tietjens, membro decadente dell’alta società inglese, alla ricerca di chi lo ha rovinato e pronto a sborsare una rispettabile quantità di denaro.
Ormai poteva considerare bruciata quella copertura, e sarebbe dovuto partire da Firenze in nottata. Le informazioni che aveva raccolto non dicevano nulla sull’ubicazione delle persone a cui dava la caccia, ma sapeva quasi per certo che si erano spostati tutti in Asia o nel Medio Oriente. Zone di guerra, o povere, in cui difficilmente la mano della civiltà e della tecnologia poteva arrivare a stanarli.
Pensava di partire dall’India, ma Mycroft aveva deciso per lui.
Insieme al fascicolo era arrivato un biglietto aereo per Lhasa, in Tibet, e con esso i documenti della sua nuova identità.
Compresa la fototessera dell’uomo in cui avrebbe dovuto trasformarsi in tutto e per tutto.
Motivo per cui era davanti allo specchio in quel momento.
Mycroftgli aveva detto di aspettare. Di non lanciarsi subito nella caccia. Di lasciare passare l’uragano e mettersi in cerca solo quando il mare fosse stato di nuovo calmo, perché se solo si fosse fatto scoprire in giro per l’Asia sulle tracce di criminali già ricercati, si sarebbe messo troppo in vista. Le notizie nell’underground del crimine volavano ad una velocità diversa da quelle dell’overground della legalità.
Non poteva fare altro che assecondare il volere del fratello.
Sospirando, allungò la mano in un sacchetto di plastica appoggiato sul termosifone spento, estraendone un flacone d’acqua ossigenata, una confezione di permanente fai-da-te e una tinta bionda per capelli.
Quando ebbe finito, e guardò nello specchio, l’uomo che si trovò davanti non era più Sherlock Holmes.
Era Peter Guillam, agente dei Servizi Segreti, inviato a Lhasa per un appostamento diplomatico all’ambasciata britannica in Tibet. E lo sarebbe stato per molto tempo.
Tanto valeva abituarsi all’idea.
 
 
 
 
Il suo nuovo ufficio, o “studio medico” che dir si volesse, non era niente di che.
Una scrivania di legno chiaro e metallo, molto simile ad una cattedra scolastica; una libreria con testi decisamente vecchi, un appendiabiti d’acciaio, un lettino imbottito e un separé tipico dei vecchi ospedali, di quelli di plastica bianca con intelaiatura d’acciaio.
Non vi era alcun apparecchio, ma la Madre Superiora gli aveva garantito che gli sarebbero stati consegnati un ECG e uno spirometro quello stesso pomeriggio. In fondo alla stanza, appena dopo la porta d’ingresso, un armadietto bianco e chiuso a chiave conteneva siringhe, farmaci e tutto il materiale che, in mano ad un bambino, potrebbe essere stato pericoloso. La chiave dell’armadietto gli era stata consegnata insieme alla chiave della stanza stessa.
Appoggiando le sue poche cose sulla scrivania, John sospirò.
Nessuno aveva voluto assumere un BCE.
In ogni luogo in cui si era presentato a chiedere lavoro tutti sapevano già chi fosse, e meno della metà aveva avuto almeno la decenza di fargli un colloquio, prima di scartarlo. Alcuni avevano persino tirato in ballo la scusa dell’igiene e del pericolo di contagio, asserendo che la sua ferita aperta potesse entrare in contatto con il sangue di pazienti infetti – come se non esistessero cerotti e guanti appositamente creati! – e l’avevano buttata su di un patetico “è per il suo bene, dottor Watson” che puzzava di scusa lontano un miglio.
Dopo il terzo ospedale e la decima clinica privata, si era perso d’animo. Dopo il trentesimo fallimento in generale, si era ridotto a cercare il numero di Sarah in mezzo all’agenda.
Sarah era stata gentile, ma sapeva. John lo aveva capito subito non appena gli aveva risposto. Aveva detto di non aver posti liberi, nemmeno part-time, e John aveva voluto credere che fosse la pura verità solo per disperazione, in memoria dei vecchi tempi. Ed era stato proprio quello il motivo per cui Sarah, forse impietosita, gli aveva girato il numero del St. Thomas Crowford.
Un orfanotrofio.
Non aveva faticato a vederci la logica. A parte i bambini orfani per la morte dei genitori, la percentuale più alta di abbandoni si registrava fra i Bondless e, più di tutti, i BCE. Non era difficile che un Ribbon fosse assunto da istituzioni di quel tipo come medico interno, soprattutto se si aveva la “fortuna” che il Ribbon in questione fosse riuscito a finire gli studi e a diventare medico.
Erano posti come quello che gli facevano pensare a sua madre, alla santa donna che aveva voluto tenerlo con sé a tutti i costi, perché quando ci rifletteva oggettivamente non poteva fare a meno di figurarsi, nei primi anni ’80, come ospite di una di quelle strutture. Non li aveva mai sentiti parlarne, all’epoca, ma era sicuro che suo padre ci avesse pensato, prima di andarsene di casa.
Lo aveva sempre odiato ma in quel momento, completamente perso nel ciclone della vita che si era abbattuto su di lui, anche se con l’amaro in bocca non riusciva a dargli torto.
Per lo meno la vista è ottima, si disse, avvicinandosi all’ampia finestra dietro la scrivania; dava sul cortile interno dell’istituto, una distesa ampia di erba verde e alberi al momento spogli, ma poteva tranquillamente immaginarseli d’estate con le chiome piene di foglie verde chiaro. Erano querce, se non andava errato.
Un lieve bussare lo distrasse dalla vista.
« Avanti » disse, girandosi e appoggiando le mani sullo schienale della sedia.
Dalla porta entrò una giovane suora, il vestito nero invernale e il velo dello stesso colore a coprirle i capelli, al collo un rosario di perline bianche che terminava con un piccolo crocifisso d’argento. Aveva il viso lineare e dolce, gli occhi marroni e le sopracciglia bionde, e il sorriso aveva una piega dolce e benevola. Giunse le mani in ventre mentre di fermava al centro della stanza, a qualche passo dalla scrivania.
« Dottor Watson, io sono suor Agatha » si presentò: « la Madre Superiora mi ha detto di riferirle che sarò a sua disposizione per qualsiasi cosa, durante il suo lavoro qui, e che apprezziamo tantissimo la sua presenza nel nostro istituto ».
Il St. Thomas Crowford era un orfanotrofio privato gestito dalle suore. Cattolico, ovviamente, ma nonostante questo non avevano fatto obiezioni quando John aveva detto di essere un BCE. Trovandosi a crescere bambini che per la maggior parte avevano il suo medesimo problema, non provavano alcun tipo di pregiudizio dettato dalla religione.
Essendo di proprietà di privati, il personale presente non facente parte del clero – lui, due addetti alle pulizie e un giardiniere – era pagato.
In realtà lo stipendio non era granché, ma era sufficiente a coprire almeno le spese d’affitto di quella sottospecie di monolocale che aveva trovato a Shoreditch.
Sorrise alla suora, annuendo piano. « La ringrazio, sorella » rispose.
« Agatha va benissimo, dottor Watson » disse quella, prima di chinare piano la testa uscire dallo studio.
John sospirò di nuovo, spiegando il camice ed indossandolo prima di mettere a posto le sue cose.
Quello era il meglio che avrebbe potuto trovare.
Tanto valeva abituarsi all’idea.
 
 
 
 
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Il distaccamento dell’Ambasciata Britannica a Lhasa era un edificio che sembrava meno decadente degli altri solo grazie all’intonaco ancora attaccato ai muri (per la maggior parte).
L’acqua corrente era limitata e garantita da un paio di cisterne sul tetto. La caldaia funzionava a bombole di propano e, quando si spegneva la fiamma pilota, il che avveniva spesso a causa dei forti venti freddi che spiravano in quota, ci volevano quarantacinque minuti perché l’acqua della doccia si scaldasse di nuovo. Vi era una sola linea ferroviaria, costruita nel 2006, che la collegava ad una sola città e senza fermate intermedie.
Lhasa era una copia cinese delle favelas argentine adattate all’alta quota.
Nei giorni di bel tempo, che erano più frequenti di quello che si poteva pensare, tutta la città era avvolta da un panorama a 360 gradi della catena montuosa dell’Himalaya.
Dalla prospettiva di Sherlock, tuttavia, quel posto era il buco più noioso in cui gli fosse mai capitato di vivere.
I suoi incarichi per conto del Governo erano l’unica cosa che gli permetteva di resistere giorno dopo giorno. Smistava informazioni, per lo più, dal Governo agli agenti e viceversa. Un situazione comoda per uno come lui, dato che avrebbe potuto avere su due piedi dettagli sulle persone a cui dava la caccia (Jonathan Wild, Simon Newcomb, Adam Worth, Ralph Spencer, Sebastian Moran; si ripeteva quei nomi ogni mattina come una preghiera, come un mantra, come una ninna nanna stonata), ma l’incarico non rimaneva meno logorante.
Certi giorni gli sembrava di impazzire. Ma le notti... le notti erano peggio.
Il suo appartamento era un monolocale sopra una ferramenta, che per la maggior parte vendeva briglie e vettovaglie per i pastori di capre. Un cucinino, un letto, un bagno, una televisione che prendeva solo canali in cinese pieni di interruzioni, e nient’altro. Niente Internet, niente computer.
Mycroftaveva scelto bene il luogo del suo esilio.
Il più delle volte, di notte, pensava. Permetteva alla sua mente di distrarsi dal quadro generale, di abbassare le barriere che frapponeva fra pensieri e ricordi. Vagava, steso sul letto, nell’ala del suo Mind Palace che aveva abbandonato insieme a Londra, passeggiando fra le porte che aveva chiuso a chiave, sigillando dietro di esse tutti i ricordi che gli sarebbero stati d’intralcio.
La concentrazione non serviva alla caccia, no... serviva a non crollare prima di aver portato a termine il piano.
Dietro la maggior parte di quelle porte, vi era John.
Era la sua droga, era il suo “farsi male”.
A volte bastavano dosi piccole, e allora sceglieva scene legate alla loro ormai persa quotidianità.
Immaginava di trovarsi nel salotto del 221B, seduto sulla poltrona a pensare, con John di fronte a lui intento a leggere uno dei suoi libri. Oppure si vedeva al tavolo in una mattina assolata e John, seduto affianco a lui, sfogliava il giornale con una mano e con l’altra reggeva una fetta di pane tostato mezza sbocconcellata. E teneva la lingua fra le labbra, come qualsiasi volta che leggeva qualcosa di interessante, aggrottando le sopracciglia prima di leggergli dei passaggi di un articolo, convinto che potessero attirare la sua attenzione.
Ma c’erano sere in cui l’immaginazione non era sufficiente. Erano quelle notti in cui continuava a stuzzicarsi inconsapevolmente l’anello d’argento con le dita e l’unico modo che aveva per calmarsi, l’unico modo che aveva per tornare in sé, era aprire la porta più lontana e nascosta di quei corridoi e visitare l’unico ricordo che avesse il potere di distruggerlo, ma di fargli ricordare al contempo come si faceva a sorridere.
Chiudeva gli occhi e all’improvviso era a Dartmoor, il suo nome sul dito dell’uomo che stava baciando.
La sua soluzione al 7%.
 
 
 
 
Era stata una serata estenuante.
Aveva messo in conto che potesse succedergli, quando aveva accettato quel lavoro. Al St. Thomas c’erano bambini anche al di sotto dei cinque anni e, nonostante le probabilità fossero minime, c’erano.
Subito prima della fine del turno, suor Agatha aveva portato in infermeria uno dei bambini più piccoli in preda ad un pianto incontrollato.
John aveva capito subito.
Adamaveva compiuto 5 anni da poco ed era un avventore frequente dell’infermeria. Aveva tirato fuori più pennarelli dal suo naso che da un portapenne e una volta aveva dovuto persino dargli un punto per chiudere un taglio che si era fatto cadendo sui sassi. Quel bambino era una forza della natura ma non lo aveva mai, mai, sentito piangere.
Tranne quella sera.
Riconobbe quel dolore dal suono stesso del pianto.
Non si ricordava come aveva fatto a convincerlo a calmarsi e a dagli la mano sinistra, ma aveva potuto confermare ciò che sospettava grazie ad una semplice lente d’ingrandimento. Il suo SIN – “Emma” – aveva cominciato a riaffiorare e, nel farlo, stava lacerando la pelle.
Era un BCE.
Tutto quello che aveva potuto fare, era stato fargli un’iniezione per il dolore e rimandarlo a letto con una borsa del ghiaccio. Avrebbe imparato da solo cosa voleva dire essere un Ribbon, oppure già lo sapeva osservando i bambini più grandi di lui che ogni tanto entravano dalla porta principale per non uscirne più.
Lui non aveva potuto dire niente. Forse sarebbe stata la persona più appropriata, ma non ci era riuscito. Quando aveva cercato le parole per consolarlo, dentro di sé non aveva trovato niente, solo un vuoto desolante. Ciò che c’era gli era stato portato via.
E sapeva benissimo a chi dare la colpa.
 
Scosse il capo e si avvicinò alla finestra, aprendo il vetro e le persiane. L’aria fresca di fine inverno lo investì con una folata, ma nonostante i brividi lungo la schiena non la richiuse.
Estrasse dalla tasca del camice un pacchetto di sigarette, lesse la marca con una smorfia e, picchiettandolo contro il davanzale, ne estrasse una che si portò subito alle labbra. Una volta riposto il pacchetto, raggiunse l’accendino e aspirò avidamente la prima boccata.
Ormai era diventato un rituale. Non ne sentiva il bisogno durante il giorno, riusciva persino a dimenticarsi di possederle, ma la sera il pensiero tornava, e lui ne sentiva il bisogno.
Solo una. Il tempo necessario a fumarla era il anche il tempo che concedeva alla sua mente di vagare.
Di odiare. Di ricordarsi perché sarebbe stato meglio, per se stesso, non conoscere mai Sherlock Holmes. Morire con un lavoro miserabile, una vita miserabile, un disturbo da stress post-traumatico male diagnosticato e che lo rendeva uno storpio miserabile.
Tutto, fuorché affogare nell’ombra di un morto.
Tenendo stretta la sigaretta con le labbra si tolse l’anello e il cerotto. Ultimamente il dito non lo infastidiva più di tanto, anche se si infiammava regolarmente, ma sembrava che il dolore fosse calato.
Osservò il nome scritto sulla propria pelle, e subito sentì le lacrime pungergli gli occhi. Se li strinse con la mano, prendendo un respiro tremulo.
Si era stancato di amare Sherlock Holmes.
 
 
 
 
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Uscì di casa all’una di notte, incamminandosi lungo la strada buia e deserta spazzata dal vento freddo della montagna. L’estate non aiutava, in Tibet, dove le notti erano comunque gelide e l’aria pungente.
Indossava abiti scuri per evitare qualsiasi occhiata indiscreto, anche se era improbabile che qualcuno fosse ancora sveglio in quella zona della città, e camminando velocemente si diresse alla prima cabina telefonica disponibile.
Staccò la cornetta ed inserì 2 yuan in monete. Quando il segnale diede libero, digitò un numero di telefono ed aspettò la risposta automatica del centralino; dopodiché inserì un codice numerico e, alla conferma della voce pre-registrata, digitò un secondo numero di telefono.
Finalmente, suo fratello rispose.
« Buon pomeriggio, fratellino. O forse dovrei dire buona notte, considerando il fuso orario »5 rispose con la sua solita voce calma.
Ma Sherlock non rispose alla battuta. Era preda di un’attesa febbrile e Mycroft dovette essersene subito accorto, dato che smise di mescolare il tè e il suono del cucchiaino d’argento contro la porcellana che faceva da sottofondo alla telefonata si interruppe bruscamente.
« Sherlock? » domandò dunque, la voce subito venata di preoccupazione. Era facile per il maggiore degli Holmes agitarsi, di questi tempi.
« L’ho trovato » sibilò Sherlock, premendosi la cornetta contro il mento. « Jonathan Wild. L’ho trovato, Mycroft... è qui. È a Lhasa ».
Dall’altra parte non ci fu risposta. Sherlock sapeva che Mycroft aveva ricevuto forte e chiaro e che aveva anche già tratto le sue conclusioni. Quel silenzio era di semplice attesa. Voleva sincerarsi di quali fossero le sue intenzioni.
« Lo vado a prendere ».
« No » fu l’immediata reazione di Mycroft: « è ancora troppo presto. La rete di Moriarty non è stata ancora del tutto eliminata e l’underground criminale non si è ancora fermata. Stanno continuando la caccia, Sherlock, e probabilmente Wild ha attirato l’attenzione di qualcuno spostandosi in Tibet. Sarà sicuramente seguito. Se scoprono che c’è qualcun altro che gli da la caccia– ».
« Non importa » lo interruppe Sherlock: « è un’occasione troppo ghiotta per non approfittarne ».
« Sherlock, cerca di ragionare! ».
« No, tu cerca di ragionare! » sputò a denti stretti, evitando in qualsiasi modo di alzare la voce. « Se è riuscito a sfuggire alla criminalità organizzata per più di un anno significa che è troppo furbo per farsi mettere in trappola. Devo agire ora che non se lo aspetta. Se si sposta di nuovo potrei perderne le tracce... non posso farmi sfuggire l’occasione! » esclamò, masticando fra i denti le parole come se fossero gomma dura.
Mycroft sospirò. Sherlock se lo immaginò, seduto nella sua poltrona, a massaggiarsi la tempia destra con le dita.
« Due giorni » disse infine Mycroft: « tienilo d’occhio per due giorni, il tempo necessario perché io ti faccia recapitare il necessario per la fuga. Pensi di poter aspettare almeno quarantotto ore? » domandò, il tono seccato dall’improvviso stravolgimento dei piani che lo volevano fermo in Tibet per almeno due anni.
Sherlock annuì in silenzio. « Due giorni » confermò poi.
Dall’altra parte, un sospiro. « Stai attento, Sherlock ».
« È stagione di caccia... » rispose solamente il detective, riagganciando.
 
 
 
 
Il tempo era troppo bello, quel giorno, per rimanere chiuso nello studio. Dalla finestra socchiusa poteva sentire i bambini giocare nel cortile sottostante e, considerando le risate, probabilmente quell’improvvisa ondata di bel tempo aveva fatto miracoli per l’umore grigio degli ultimi tempi.
Scendendo le scale dell’istituto con il camice addosso, John si lasciò sfuggire un sorrisetto. Dopo più di un anno di lavoro aveva imparato a conoscere i bambini per nome e, come ricompensa, molti di loro passavano a salutarlo ogni giorno all’infermeria. Il suo studio si era riempito di disegni stilizzati e colorati alla bene e meglio, e lui non esitava ad attaccare alla parete tutti quelli che riceveva. Tanto che aveva quasi terminato lo spazio disponibile.
Face un cenno di saluto con il capo a due suore sul portone, scostandosi per lasciarle passare. Una volta messo piede fuori, poi, si concesse un profondo respiro. Anche l’aria sembrava più buona, nei giorni di sole.
Rimase fermo sulla scalinata in pietra per qualche istante, considerando cosa fare. Il bambino stavano correndo nel parco  urlando a pieni polmoni, dunque era meglio evitare di passeggiare fra gli alberi. Guardandosi attorno optò per una panchina a pochi metri da lui, mezza storta e appoggiata al tronco di una quercia.
Per riposare un po’ sarebbe andata benissimo.
Scese velocemente i gradini, ma quando fu alla fine della scalinata, dall’angolo spuntò fuori una donna all’improvviso e lui, senza poter interrompere lo slancio, le finì contro. I fogli che lei portava fra le mani caddero e si sparsero al suolo con un fruscio.
« Oh, cielo! » esclamò lei.
« Mi dispiace! » si affrettò subito a dire John, appoggiandole d’istinto le mani sulle braccia per evitare che si sbilanciasse e cadesse: « mi dispiace, è che... stava scendendo le scale e non mi sono accorto di lei » si scusò di nuovo, assicurandosi che fosse bene in piedi.
Quando lei alzò gli occhi, John non poté fare a meno di sorriderle.
Aveva i capelli lunghi e mossi, biondi con riflessi castani, e un paio di occhi azzurro scuro su di un viso dolce. Indossava una gonna e un maglioncino con camicetta bianca, e un paio di occhiali da lettura dalla montatura leggera. Non indossava alcun anello, ma il nome sul dito dell’anulare sinistro era nero.
Vedova, dunque. Strano, sembrava molto giovane.
« Non di preoccupi, dottor Watson » disse quella, con voce sicura di sé: « a sua discolpa posso dire che ero disattenta anche io. Ho il vizio di leggere mentre cammino e non guardo mai dove vado » spiegò.
« Non è esattamente una buona abitudine » commentò John.
« Lo so! » rispose quella, ridacchiando.
John non poté esimersi dal ridere a sua volta.
Strano... si era quasi dimenticato come si faceva, a ridere.
Poi si ridestò, aggrottando le sopracciglia. « Come fa a sapere come mi chiamo? » domandò incuriosito, chinandosi sulle ginocchia per aiutare la donna a raccogliere i fogli caduti.
« Oh, beh, io sono l’insegnante di sostegno. Vengo ad aiutare i bambini con i compiti un paio di volte a settimana... per volontariato. Mi parlano spesso di lei... » disse, prima di abbassare la voce e aggiungere: « ...e la conosco di fama ».
John, rialzandosi e passandole i fogli che aveva raccolto, sorrise amaramente. « Già. Tendo a dimenticarmene... » rispose, scostando lo sguardo.
Calò un silenzio pesante quanto inatteso, fra loro, ma fu subito lei ad interromperlo.
« In ogni caso, è un vero piacere conoscerla! » esclamò, tenendo i fogli con un braccio contro il petto e porgendogli la mano libera: « Mary Morstan ».
« John Watson » rispose lui, stringendole la mano: « piacere mio ».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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1. Semi-citazione da “Inception”.
 
2. Nel canone Victor e Sherlock diventano amici perché il cane di Victor morde la caviglia a Sherlock. Ammetto di avere letto come nasce la loro amicizia solo dopo aver pubblicato il primo capitolo, altrimenti l’avrei usata. Ho cercato però di recuperarne qualche elemento in questo ;D
 
3. Sì, mi sto tenendo sul vago apposta XD non faccio supposizioni.
 
4. A parte Moran e Spencer, che vengono citati nel canone, gli altri nomi sono di persone realmente esistite e che, secondo gli studiosi del canone, avrebbero ispirato a Doyle il personaggio di Moriarty.
- Jonathan Wild (1683 – 1725) è stato il capo di una banda di ladri, banditi e ricattatori, venendo per questo considerato il maggiore criminale britannico del XVIII secolo.
- Simon Newcomb (1835 – 1909) fu un matematico e astronomo statunitense.
- Adam Worth (1844 – 1902) fu un criminale gentiluomo americano di origine tedesca. Fu soprannominato “il Napoleone del mondo criminale” dal detective di Scotland Yard Robert Anderson (così come Conan Doyle soprannominò il professor Moriarty “il Napoleone del crimine”).
 
5. Fra il Regno Unito e il Tibet ci sono +8 ore di differenza di fuso orario. Questo fa sì che, se Sherlock chiama all’una di notte, per Mycroft sono le 17.

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Capitolo 4
*** Allegretto ***


Bene, penultimo capitolo.
In teoria ciò che segue doveva essere tutt’uno con il precedente, ma considerando la lunghezza capirete perché ho deciso di spezzarli. Certe volte sono decisamente troppo prolissa.
E ho anche spostato l’ultima parte nel prossimo... sono senza speranza XD
 
Dunque: bravi a tutti quelli che hanno trovato gli easter eggs! Erano facili... praticamente tutte le identità che assume Sherlock sono ruoli recitati da Benedict Cumberbatch in diversi film/telefilm. Nel capitolo precedente erano James Kimberley Griffith (Third Star), Christopher Tietjens (Parade’s End) e Peter Guillam (Tinker Tailor Soldier Spy / La Talpa). Più qualche tributo a “Mio Diletto Holmes” (ce ne saranno anche qui ;D).
In questo ce ne saranno altri, ma li segnalerò in nota con relativi credits.
 
Come al solito, a chi vuole auguro buona lettura ♥

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4. Allegretto

 
 
 
 
 
Schiacciamento della cartilagine tiroidea.
Comunemente detto “colpo al pomo d’Adamo”. Insieme a pochi altri, è uno dei colpi immediati che permette di uccidere un uomo a mani nude.
Non tutti sanno che il pomo d’Adamo non è un osso, ma una cartilagine. Come il naso, o le orecchie. Tessuto molle semi-duro che, in questo caso, circonda la laringe, sede delle corde vocali e principale condotto di respirazione. Viene da sé che, se si spezza la cartilagine, il condotto collassa su se stesso.
Soffocamento.
In sede autoptica è indizio di strangolamento, o impiccagione.
Sherlock non sapeva perché aveva scelto proprio quel metodo per uccidere Jonathan Wild.
Dopotutto, aveva altre possibilità. Aveva una pistola, poteva recuperare un coltello. Erano da soli in quella pensione fatiscente ai margini di Lhasa, dopo che qualche banconota da 100 yuan aveva comprato il silenzio e l’assenza del proprietario e degli altri pochi ospiti, e Wild era stato talmente disattento da essere colto alle spalle e neutralizzato, ammanettato poi al sifone di un calorifero. Era inerme, spavaldo solo per non farsi vedere spaventato, e nella semi-oscurità di quella stanzetta lo aveva persino implorato; gli aveva dato informazioni di ogni genere senza che gli venissero chieste, aveva fatto i nomi di Spencer e Moran. Tutto di sua spontanea volontà.
Sherlock non aveva aperto bocca. Lo aveva osservato dall’alto in basso, in piedi a poca distanza da lui, annotando mentalmente le informazioni utili e scartando quelle inutili.
Subdolo, codardo essere umano, si era ritrovato a pensare: morto il capo, ognuno per sé.
In realtà non lo compativa. Non provava pietà per lui. Non sapeva esattamente cosa pensare, nel pieno di quella sorta di sorda tranquillità di chi si trova davanti qualcosa che ha agognato da molto tempo e ne rimane totalmente deluso.
Quando Wild capì che l’uomo di fronte a lui non era come tutti gli altri aguzzini che gli stavano alle calcagna da più di un anno, Sherlock aveva già alzato la gamba. I suoi studi di baritsu1 gli diedero la forza e la precisione che gli servirono per sferrare un colpo secco, un calcio da manuale, prendendo con la suola degli scarponi il centro esatto della gola.
Ed ora, Jonathan Wild si muoveva come un verme ai suoi piedi, agonizzante, impossibilitato a respirare. Sherlock sapeva che quegli occhi spalancati avrebbero perso il dono della vista entro pochi secondi, e che probabilmente l’udito gli si era già ovattato; la paura gli faceva bruciare più in fretta il poco ossigeno rimasto in circolo nel suo sangue e, continuando così, sarebbe morto prima del sopraggiungere dell’ipossia cerebrale.
Poco importava.
Sherlock Holmes non cercava vendetta, né tantomeno redenzione. Non era indifferente alla morte ma non la temeva. Per un fantasma è difficile diventare un assassino, e questo era lui da più di un anno: uno spettro. Una persona viva ma morta, nascosta dietro un nome fasullo a vivere una vita che non gli appartiene. Aveva tenuto il conto dei giorni senza accorgersene e l’unica cosa che infine voleva, l’unica cosa che gli importava davvero, era tornare a casa.
Non poteva farlo se prima non metteva fine alle vite di cinque uomini? Bene, lo avrebbe fatto. È fin troppo facile superare la linea sottile che divide la morale dalla necessità, e in casi estremi nella necessità non esiste alcun tipo di morale.
No, Sherlock Holmes non provava pena per l’assassino la cui vita si stava spegnendo in agonia ai suoi piedi. Gli bastava pensare che, almeno una volta negli ultimi due anni, le sua mano aveva stretto quella di Moriarty, i suoi servigi erano stati a disposizione del Napoleone del Crimine, il suo occhio aveva agganciato con un mirino una persona per lui importante.
Tanto bastava a trovare il fegato di veder morire un uomo per propria mano e assicurarsi che l’ultima cosa che avrebbe visto sarebbe stato il suo disprezzo.
 
 
 
 
Mary Morstan era un’insegnante di inglese.
Originaria di Manchester, si era trasferita a Londra con il suo precedente marito, morto in un incidente stradale un paio d’anni prima. Aveva cominciato a fare volontariato al St. Thomas come terapia per superare il lutto, ma poi non aveva più smesso. Le piaceva il caffè d’orzo, la lettura e mangiare al Mc Donalds. Le piaceva anche andare al cinema ma solo per vedere film horror e d’azione; la sua idea era che le commedie romantiche potessero essere viste anche in DVD o in televisione e non valessero mai del tutto le 9 sterline del biglietto d’ingresso. Aveva un gatto rosso di nome Oliver – tributo al film della Disney – e, nel tempo libero, le piaceva dipingere fiori con le dita.
John aveva scoperto tutto questo in circa un’ora di conversazione, seduto al tavolino di un Costa Café appena fuori Hyde Park. Si erano incontrati per caso al parco, quella domenica, e dopo qualche secondo di saluti imbarazzati John aveva fatto un passo avanti e l’aveva invitata a prendere un caffè (praticamente la prima cosa che gli era venuta in mente). Lei aveva accettato.
Si erano seduti dopo aver ordinato, e quei dieci minuti che John si era figurato erano diventati ore. Il suo Black Coffee ancora mezzo pieno si era raffreddato, nel frattempo, e lei aveva ordinato un secondo Vanilla Latte solo per non deludere la cameriera, che aveva preso ad osservarli di sottecchi.
Gli piaceva, parlare con lei. Aveva un sorriso che trasmetteva serenità e un modo di narrare gli argomenti che riusciva a trasformare le cose di tutti i giorni in particolarissime avventure. Era simpatica, intelligente e bene educata, e da come si esprimeva riusciva a capire che fosse anche molto acculturata, probabilmente per merito di tutti i libri che leggeva. Scherzando, aveva detto che suo marito una volta le disse “Mary, se non dovessi trovarti a casa rientrando dal lavoro, sicuramente ti ritroverei in una delle tue solite librerie”.
Sembrava serena anche nel raccontare del marito morto, e John non poté fare a meno di apprezzarla, per quello. Non era da tutti mettersi l’anima in pace a quel modo, rialzarsi in piedi e continuare a vivere dopo una perdita grave come la sua, e lui stesso ce la faceva a malapena, permettendo al suo dolore di riaffiorare a galla solo di qualche centimetro. Parlare di Sherlock, per lui, era come afferrare il tappo del vaso di Pandora e provare ad aprirlo; semplicemente, non si doveva fare.
Aveva paura di stuzzicare quel dolore, rinchiuso a forza di calci e pugni in un angolo dimenticato del suo subconscio. Preferiva l’indifferenza e l’abnegazione. Se non ci avesse pensato, se non l’avesse fomentato, o affrontato in alcun modo, era sicuro che prima o poi se ne sarebbe dimenticato, e insieme ad esso sarebbe sparito anche tutto il resto.
Un’opportunità per ricominciare. Ora come ora, voleva solo quello.
Era passato più di un anno, ormai. Ogni giorno l’immagine di Sherlock sbiadiva sempre un po’ di più dai suoi pensieri, la sigaretta durava sempre un po’ di meno, il gesto diveniva un po’ più abitudine e meno rituale.
Lo stava dimenticando, ed era bene così.
Finito il caffè, quando ormai si era fatta ora di tornare a casa, John prese una decisione.
Poteva essere un inganno, o un modo per illudere se stesso, o un tentativo di voltare le spalle a quel grumo scuro di auto-compatimento che gli picchiettava sulla spalla cercando di attirare la sua attenzione. Poteva essere di tutto, in realtà, ma di sicuro qualcosa di meglio. O almeno, in quel momento lo sembrò.
Invitò Mary a cena.
Lei disse di sì.
 
 
 
 

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Hejrat, Iran.
Un anno e sei mesi.
Sherlock scese dalla jeep accaldato e stanco, la divisa incollata alla pelle a causa del sudore e le scarpe simili a due fornaci. I baffi gli pungevano il labbro superiore ogni volta che parlava e il colletto inamidato della camicia gli sfregava la pelle sotto ai capelli corti e castani.
Il sergente che lo era venuto a prendere al confine con l’Iraq – distante solo qualche chilometro – scese dal veicolo e lo accompagnò all’interno di un edificio senza finestre, abbandonato e mezzo diroccato, ma funzionale come base operativa temporanea per la piccola task force dell’esercito inglese. Fuori, nel cortile brullo e sabbioso, alcuni soldati erano seduti con i fucili in grembo a giocare a carte all’ombra di una rete mimetica color cachi.
Percorsero una breve rampa di scale, poi un corridoio stretto e malridotto. Crepe di diversa misura tagliavano le pareti da cima a fondo, facendogli dubitare dell’effettiva stabilità strutturale dell’edificio. Gli architravi erano tutti senza porte e schegge di legno azzurro erano disseminate, fra la polvere, per tutto il pavimento.
Doveva essere stato un edificio governativo di qualche tipo, un tempo. Prima della guerra, almeno.
Percorsero tutto il corridoio fino all’ultima porta, davanti alla quale il sergente gli fece cenno di attendere fuori. Lo sentì annunciarlo all’occupante della stanza poi, ricevuta risposta positiva, uscì di nuovo e gli fece cenno di entrare, allontanandosi subito dopo.
Sherlock entrò.
La stanza era bene illuminata e completamente spoglia se non per un tavolo di legno esattamente al centro, su cui erano spiegate mappe e cartine d’ogni tipo, e uno schedario in acciaio ammaccato su un lato. L’unico occupante, un uomo alto e stempiato con i gradi da Capitano e la mimetica color cachi, si mise sull’attenti non appena varcò la soglia.
Sherlock imitò il gesto. « Riposo » disse poi.
L’altro si rilassò, allungandogli la mano in saluto. « Capitano Steven Miggs » si presentò.
Sherlock la afferrò con una stretta salda, mantenendo le spalle dritte. « Maggiore Jamie Stewart » disse a sua volta.
« Benvenuto, Maggiore. Sono stato informato dai miei superiori riguardo alle motivazioni della sua visita. Com’è stato il viaggio? » domandò quello.
Sherlock pensò bene a cosa rispondere e come. L’idea di Mycroft di infiltrarlo nell’esercito con l’identità di un ufficiale faceva acqua da tutte le parti, ma non avevano trovato niente di meglio. Dopo mesi di nulla assoluto era riuscito a carpire qualche voce, informazioni sparse su avvistamenti di un uomo corrispondente alla descrizione di uno degli scagnozzi di Moriarty, e si era attaccato alla pista come un segugio, seguendola fino a che l’odore non era diventato più forte e i sussurri più chiari. Una volta sicuro che uno degli uomini che cercava era invischiato in un caso di contrabbando di uranio fra Russia e Iran, aveva comunicato a suo fratello le sue scoperte e lui se ne era uscito con quel piano pieno di buchi.
Ma praticamente l’unico fattibile in poco tempo. Il Regno Unito aveva pochi appoggi politici in zone di guerra, o di guerriglia, e l’unico servizio collegato effettivamente al Paese era l’esercito. Non avevano avuto altra scelta se non rischiare il tutto e per tutto.
« Caldo » rispose dunque Sherlock, facendo il giro del tavolo con le mani giunte dietro la schiena. Cercò di non dimostrare il passo incerto della stanchezza, la sua migliore amica da quando aveva cominciato la vera caccia ed era stato costretto a lasciare Lhasa.
« Dopo un po’ ci si abitua » disse semplicemente il Capitano, avvicinandosi a sua volta. Non appena fu di fronte alle cartine, la serietà militare riprese il sopravvento e Sherlock capì subito che non c’era più spazio per i convenevoli.
« Siamo appostati in questo buco di villaggio da quasi tre settimane. Come probabilmente saprà, i rapporti fra Iran e Regno Unito si sono deteriorati negli ultimi anni, tanto che è stata chiusa l’ambasciata e dunque non ci è, in definitiva, permesso di entrare nel Paese. Dobbiamo rimanere vicino al confine per ritirarci in Iraq in caso di problemi diplomatici » spiegò brevemente.
In altre parole, pensò Sherlock, se il governo iraniano metteva gli occhi su di loro dovevano fare retro-front e levarsi di torno il più presto possibile. Ora riusciva a capire perché non fossero d’istanza a Tehran.
Dopo una breve pausa, il Capitano continuò: « il motivo di questo dissapore è il nucleare. Un paio d’anni fa l’Iran espresse la propria opinione sul fatto di sviluppare delle centrali nucleari per trarne energia, ma essendo un Paese essenzialmente autoctono a livello petrolifero, le teste quadre delle Nazioni Unite lo presero come un tentativo di corsa agli armamenti e la richiesta venne respinta. Solo che l’Iran non volle sentire ragioni, e tagliò ogni contatto l’occidente » fece una piccola pausa: « crediamo che si stiano rifornendo illegalmente d’uranio dalla Russia, ma una parte di quel carico finisce altrove. Abbiamo scovato un contrabbando secondario verso l’Asia orientale, probabilmente in Corea, ed è in uno di quei sottogruppi ribelli che abbiamo individuato l’uomo che vi interessa » disse, camminando verso lo schedario ed estraendone una cartelletta.
La aprì sul tavolo, mettendo in fila tre foto leggermente sfocate – ma sufficientemente chiare – della stessa persona.
Sherlock represse un sorrisetto soddisfatto.
« Simon Newcomb » confermò il Capitano, picchiettando il dito su una delle fotografie: « cecchino, criminale recidivo... ma credo che siano cose che lei già conosce. Ora è un mercenario. Viene pagato profumatamente per tenere al sicuro il carico fino al confine con il Pakistan e, anche se mi secca ammetterlo, ci rende la vita difficile » terminò, soffiando fuori aria dal naso: « capirà che sono felice di darvi una mano, Maggiore » aggiunse poi.
Sherlock annuì, osservando le tre fotografie e poi le mappe sottostanti. Erano state segnate a matita coordinate e tratti leggeri di percorsi intrigati in mezzo al deserto, e con croci rosse i probabili luoghi in cui la merce veniva contrabbandata. Uno di essi era poco fuori Tehran.
« Per quando è prevista la prossima azione? » domandò Sherlock, alzando gli occhi sul Capitano per trasmettere più sicurezza possibile. Lui recitava la parte del Maggiore inviato dal Governo, in quel caso, e non poteva permettersi il gergo e gli atteggiamenti scontati degli ufficiali d’azione sul campo.
« Domani notte » rispose repentinamente l’altro.
« Dove? ».
« A circa sessanta chilometri ad est di qui » Miggs indicò un punto in mezzo al deserto.
Sherlock annuì. « Le dispiace se faccio una telefonata? » domandò poi. Il Capitano annuì con un cenno secco del capo: « si prenda tutto il tempo che vuole, sono in cortile insieme ai miei uomini se ha bisogno » gli disse, uscendo poi dalla stanza.
Non appena fu da solo, Sherlock estrasse dalla tasca interna della giacca un cellulare. Digitò un numero di telefono, un codice di sicurezza e di nuovo un altro numero di telefono. Rispose Mycroft.
« Novità? » chiese subito, il tono profondo.
Non era da lui saltare i convenevoli – che di solito prendevano la forma di una battuta sarcastica.
« Newcomb » rispose semplicemente Sherlock, altrettanto veloce: « non ha perso tempo a nascondersi, fa il mercenario nel contrabbando di uranio verso l’Asia orientale » lo informò, lo sguardo fisso sulle cartine sparse sul tavolo e sui primi piani sgranati.
Un secondo di silenzio dall’altra parte. « È lui? » domandò poi.
Sherlock poteva sentire un’ira pacata vibrare nella sua voce. Era uno dei rari momenti in cui Mycroft non si limitava solamente a minacciare di essere pericoloso.
« Sì » rispose.
Il cecchino di Lestrade.
« Me ne occupo io » disse solamente prima di riagganciare.
Sherlock chiuse la comunicazione a sua volta, osservando il cellulare per qualche istante prima di girarlo e aprire la cover posteriore. Stava per togliere la batteria quando, posando gli occhi sul proprio anello d’argento, esitò e lo rigirò di nuovo.
Aprì un messaggio vuoto, digitò un numero che sapeva a memoria e cominciò a scrivere. Le dita volarono svelte sulla piccola tastiera con la forza di un’abitudine che non aveva ancora perso, cliccando tasti e lettere, formando parole.
 
Meno due, John. Un passo in più verso casa. – SH
 
Il pollice rimase sospeso sull’invio.
Probabilmente, anche se gli fosse arrivato, John avrebbe pensato ad uno scherzo di cattivo gusto. Qualcuno che voleva prenderlo per i fondelli, torturarlo da lontano. Mycroft gli aveva raccontato tutto di lui, di come se la cavava, dei problemi a trovare lavoro e alloggio. Non poteva proteggerlo dai pregiudizi della gente, no, quello non poteva farlo.
Quello che lui poteva fare, era andare avanti per poter tornare indietro.
Con un sospiro, cancellò il messaggio. Tolse la batteria, estrasse la SIM e, stringendola fra pollice ed indice, la spezzò. Poi buttò a terra il cellulare e lo frantumò con due calci bene assestati.
L’unica cosa che gli rimaneva da fare, era aspettare.
 
Tre giorni dopo, mentre era in viaggio su di un traghetto per Ra’s al Khafji attraverso il Golfo Arabico, da sotto il kefiah a scacchi rossi e bianchi orecchiò una conversazione interessante.
Due giovani stavano discutendo di un’operazione militare avvenuta la notte precedente poco lontano dal confine iraniano occidentale. Parlavano in tagico2, dunque Sherlock non riuscì a capire altro se non il senso generale del discorso, ma a quanto sembrava i contrabbandieri erano stati catturati tutti tranne uno, assassinato con un preciso colpo alla testa e prima di tutti gli altri. L’unico straniero.
Sherlock nascose sotto la stoffa un sorrisetto sardonico.
Molto poco professionale, Mycroft.
 
 
 
 
Stavano camminando tranquillamente per Leicester Square, fermandosi davanti alle vetrine dei negozi e dei teatri.
La serata era fresca ma non umida, complice il bel tempo, e Mary era aggrappata al suo braccio. Faceva commenti ironici sugli improbabili souvenir che la città era in grado di rifilare ai turisti, cose che non avrebbe messo su di un mobile o in una credenza nemmeno se fosse stato necessario alla sua sopravvivenza, e John si era ritrovato a ridere davvero di gusto quando aveva commentato la bruttezza di una tazza con sopra un primo piano del Principe Carlo.
Uscivano ormai da qualche mese, niente più che appuntamenti e piccoli baci della buona notte sotto casa sua, ma entrambi avevano bisogno di tempo e se ne stavano prendendo il più possibile. Venivano da due situazioni diverse ma dolorose, erano entrambi parte di un disegno più grande che era caduto in pezzi senza preavviso, e in quanto anime alla deriva avevano prima bisogno di ritrovare la strada.
John credeva di avere finalmente trovato uno spiraglio di luce.
Mary era simpatica, allegra e intelligente. Abbastanza eccentrica da essere interessante ma non stravagante. Aveva passatempi normali, abitava in una zona fuori dal centro ma tranquilla, era ben voluta da tutti e gentile con chiunque incontrasse.
All’improvviso si era reso conto di aspettare con ansia il fine settimana, così da vederla. Uscire con lei era come respirare aria pulita per qualche ora, staccare da tutto e liberarsi per un po’ dai fantasmi che lo tormentavano.
Non parlavano mai di ciò che c’era fra loro, di quella situazione da “più che amici ma non troppo”, ma nessuno dei due si comportava come se si aspettasse qualcosa dall’altro; stavano bene insieme e questo era l’importante.
Le voleva bene, John. Le voleva bene davvero. Non sapeva se era amore, no, perché il sentimento che aveva provato per Sherlock, quell’infatuazione profonda e sporca e strana e complicata che ancora gli si appiccicava addosso insieme all’odore di nicotina, restava parte di lui e lo bloccava, non gli lasciava vedere oltre il proprio naso.
Ma Mary era fatta di sorrisi e allegria, normalità e tenerezza. Mary rappresentava la vita che aveva desiderato di avere fin da bambino, prima che un nome sanguinante e doloroso come il ricordo della persona a cui apparteneva la distruggesse un pezzo alla volta, ogni minuto di ogni giorno, per anni.
E più di tutto, Mary sapeva. Di lui e di Sherlock, del nome sul suo dito, della sua vita. Le aveva raccontato tutto, scendendo nei dettagli, incontrando sorrisi dolci e un caldo abbraccio. Mary sapeva che non poteva offrirle molto, materialmente parlando, ma le andava bene così.
Si chiese cosa stesse aspettando.
« Mary? » chiamò dunque, fermandosi poco dopo la vetrina di un negozio di magliette. Lei, rallentando il passo, lo guardò con curiosità.
Si stupì di quanto fu semplice trovare le parole. Le prese le mani.
« Tu lo sai che non posso darti molto » cominciò: « non ho un lavoro decente e nemmeno la prospettiva di trovarne uno migliore. Vivo da solo sopra la bottega di un barbiere. Ma più di tutto sono– ».
Lei lo interruppe. « Oddio, non dirmi che stai per farmi il discorso che penso! » esclamò, l’espressione sorpresa.
John sorrise. « Vuoi farmi finire? ».
Lei ridacchiò. « Ok, scusa. Vai avanti » disse.
« Stavo dicendo... oh, al diavolo, ho perso il filo ». Risero entrambi. « Ciò che voglio chiederti, Mary, è se... ti andrei bene comunque? » chiese, a bassa voce e ignaro di tutte le persone che camminavano loro attorno, superandoli.
« John Watson, non sei uno dei miei alunni. Parla chiaramente » lo prese in giro lei, avvicinandosi un poco.
John aveva già letto la risposta nei suoi occhi, ma riformulò la domanda comunque. « Mi piacerebbe che la nostra diventasse una relazione seria » disse.
Mary allungò il collo e lo baciò. Era l’unica risposta che gli serviva.
Da qualche parte, dentro di sé, lo spettro di Sherlock Holmes emise un lamento.
John non lo ascoltò.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
La Mecca, Arabia Saudita.
Un anno e undici mesi.
L’uomo dall’altra parte della strada, oltre la finestra spalancata contro la calura dell’ormai prossima estate, stava parlando con uno degli spacciatori arabi da cui si procurava l’hashish per le proprie serate ricreazionali. La luce del tramonto entrava orizzontale dalle finestre e, nonostante nel deserto l’escursione termica fosse elevata, finché il sole non calava l’aria continuava ad essere un misto di fiamme e afa.
Sherlock abbassò il binocolo, rimanendo nascosto dietro l’angolo della propria finestra.
L’uomo era Adam Worth. Lo aveva scovato a Riyadh quattro mesi prima. Prima di perdere contatto con Mycroft e cominciare ad inseguirlo per mezza Arabia Saudita fino a La Mecca, dove sembrava essersi finalmente stabilito. Prima di cominciare un appostamento fisso lungo mesi e logorante più di qualsiasi guerra di trincea.
Aveva usato gli unici soldi che aveva da parte per pagare l’affitto di quella camera – esattamente quella camera –  perfettamente dirimpetto a quella del tutto uguale che occupava Worth. Non c’era modo di sperare in qualcosa di più tecnologico di un telefono a gettoni, in quel sobborgo della città, dunque l’aiuto di suo fratello era fuori discussione, e in ogni caso lui non poteva muoversi se non per seguire Worth in ogni suo movimento... e non ne faceva molti.
Si era ritrovato in scarsità di cibo dopo i primi due mesi, e da due settimane cominciava ad avere anche poca acqua. Quella del rubinetto era corrente ma nemmeno lontanamente potabile. L’aveva bevuta per vedere di ricavarne qualcosa ma un attacco di dissenteria e febbre lo aveva steso per tre giorni e gli aveva reso una calda settimana di marzo un vero inferno. Racimolava del cibo rubando, quelle poche volte che Worth usciva per mangiare a sua volta; era facile afferrare mele e rametti di datteri dalle bancarelle durante le ore di punta, dove la maggior parte della gente affollava la strada e lui poteva nascondersi con più facilità, camuffarsi in mezzo agli altri. A volte riusciva a prendere anche qualche pezzo di carne secca.
Faceva del suo meglio per mangiare proteine e grassi, ciò che gli serviva per tenersi in piedi, ma non sempre ci riusciva. Fortunatamente era un ladro di talento. A volte la moglie del padrone di casa condivideva con lui del cous-cous, o del pollo, e nonostante non amasse il sapore troppo speziato dei piatti tipici arabi non aveva la faccia tosta di lamentarsi.
Non faceva altro che sudare, ed era facile per uno come lui prendere malattie contro cui i locali erano immuni. Worth sembrava godere di un introito monetario di qualche sorta (spaccio o contrabbando, ipotizzava Sherlock) e dunque aveva più comfort.
Ma Sherlock non si era mai lamentato.
Non aprì bocca per mesi, se non per ringraziare la moglie del padrone in un arabo stentato e per qualche altra parola occasionale. Fortunatamente La Mecca era una città di pellegrini, regola che valeva anche in quartieri come quello, dunque non era difficile vedere stranieri, cosa che gli impediva di dare troppo nell’occhio.
Aveva sicuramente perso almeno dieci chili, e si sentiva stanco. Il piccolo specchio sporco di cui disponeva gli rifletteva l’immagine di un uomo emaciato, di cui si potevano contare le costole quando inspirava, i cui capelli ricominciavano ad allungarsi e a scurirsi di nuovo. Alcuni capelli bianchi erano comparsi in mezzo al castano scurissimo di quei ricci, e Sherlock non ne era sorpreso. Nonostante il sole la sua pelle era più bruciata che abbronzata e una sorta di irritazione da fungo si era espansa sulla pelle della sua mano sinistra, e prudeva. Cercava di non grattarsela per non farla allargare, ma quando cominciò a gonfiargli le dita fu costretto a togliersi di forza l’anello per non fermare la circolazione. Sull’anulare si era formata una piccola macchia scura – probabilmente un livido, o un taglio; si era tolto l’anello troppo tardi? – ma non la badò troppo.
La notte, quando finalmente Worth spegneva la luce e andava a dormire, Sherlock rimaneva sveglio per un’altra mezz’ora e si prendeva il tempo per distrarsi.
L’appostamento non era come stare fermi senza fare niente, non era preda della noia, ma il freddo pungente della notte araba portava con sé i ricordi di nottate più umide passate nella sua amata Londra.
Era lontano da casa da quasi due anni e ormai non funzionava più ripetersi “c’è un valido motivo per cui sono qui”.
L’unico pensiero che riusciva a dargli un po’ di pace, era John.
Le ultime notizie che aveva di lui risalivano ormai a sei mesi prima, e comunque Mycroft non si sbottonava molto. Si limitava a dirgli che stava bene, che stava andando avanti, che la sorveglianza su di lui era stretta e costante e che, soprattutto, nessuno degli scagnozzi di Moriarty gli era alle calcagna. Quello era il suo pensiero fisso e la sua prima necessità. John era al sicuro.
In quel momento, sei mesi dopo, poteva solo continuare a convincersene.
Prima di addormentarsi, di solito, prendeva il chiodo che era riuscito a sfilare da una delle gambe del piccolo tavolo quadrato e si metteva a grattare via l’intonaco dietro la testata del letto, nascosto alla vista, scrivendo soprapensiero brevi messaggi che non avrebbe mai mandato.
 
Ancora un altro giorno, John. – SH
 
Ce la farò, John. – SH
 
So che stai bene, John. – SH
 
Lo so che mi odi, John. – SH
 
Era necessario, John. – SH
 
Ricordo ancora, John. – SH
 
Non mi è mai mancata la pioggia come ora, John. – SH
 
John... – SH
 
Tu mi rendi un uomo peggiore.
 
 
 
 
Mary abitava a Marble Arch, in un appartamento ricavato da quello che prima era un monolocale molto spazioso, fortemente deprezzato a causa della posizione poco attraente (era sopra ad un ristorante cinese). Nonostante il costante via vai di gente e la strada molto trafficata, però, il posto era carino e permetteva di vivere in modo più che decente.
John si era trasferito da lei da un paio di mesi, e oggettivamente la vita non poteva andargli meglio.
Viveva con una donna intelligente e affascinante, che amava guardare Top Gear3 con lui il lunedì sera e non si stancava mai delle repliche di Doctor Who. Certo, la sua vita non era più pregna di azione e pericolo come lo era stata appena tornato dall’Afghanistan, ma superava qualsiasi standard che uno come lui potesse permettersi.
Aveva anche presentato Mary a Greg. Da quando John aveva cominciato a frequentare Mary, lui e l’Ispettore erano usciti più spesso, riallacciando quell’amicizia che era andata un po’ perdendosi durante l’anno precedente. Ormai era un buon amico e, purché non si toccasse il tasto “Sherlock”, le loro serate al pub erano come tutte quelle delle persone normali: allegre e vivaci, ruvide e dentellate come solo le uscite fra uomini potevano essere. Il fatto che Greg fosse una persona alla buona rendeva il tutto ancora più semplice.
Insomma, aveva una vita migliore di quello che poteva aspettarsi e non poteva lamentarsene.
Eppure... eppure.
Si vergognava ad ammettere a se stesso, ogni sera prima di dormire, che ci fosse qualcosa di sbagliato. Qualcosa che non andava. Come se nel grande puzzle che aveva messo insieme a fatica figurasse un pezzo tagliato male che non si incastrava bene con gli altri.
Una crepa, una feritoia, uno spiffero d’aria gelida. Erano le notti in cui non riusciva a prendere sonno e, alzandosi dal letto senza svegliare Mary, usciva sul balcone e fumava la sua sigaretta.
Di solito funzionava. Di solito, quel grumo di dolore sordo che teneva incatenato dentro la stecca di nicotina lo sedava per bene, riempiendo il vuoto con catrame e rimpianti, permettendogli di sopravvivere ancora qualche giorno.
Ormai era più un obbligo che un’abitudine, qualcosa che avrebbe davvero preferito smettere di fare, e nonostante tutti i tentativi di darci un taglio con quell’unica sigaretta, semplicemente si era accorto che non poteva, non ne aveva la forza.
John non ricordava mai del tutto Sherlock Holmes. Non si avventurava mai con la mente in mezzo ai casi risolti insieme, non si figurava mai il suo viso, o i suoi occhi, o i capelli, o la voce. Per lui Sherlock era diventato una sorta di presenza invisibile ed intangibile, dannata e sgradita, ma impossibile da cancellare. Era lui stesso a decidere quando richiamarla, come un demone che andava evocato con una formula magica, ma prendeva la forma di un brivido dietro la nuca; come la sensazione sgradevole di essere guardati nell’ombra, il brutto presentimento lungo una strada silenziosa e male illuminata.
E John lo odiava. Con tutte le sue forze, lo detestava.
Abbandonato due volte, entrambe senza potere di decisione. L’ultima volta, non gli aveva concesso nemmeno la possibilità di salvarlo.
O almeno di provare a farlo.
Non poteva più sopportarlo. Aveva provato a dimenticarlo, a spazzare via con un colpo di spugna qualsiasi ricordo, qualsiasi rimorso, qualsiasi pensiero che anche solo si avvicinasse a Sherlock Holmes, ma sembrava impossibile; per tutto il resto della sua vita, qualunque strada essa prendesse, ogni sera per cinque minuti avrebbe rimpianto ogni momento trascorso insieme a quella persona.
Ogni momento di un Legame che non era nemmeno esistito.
Quella sera in particolare, quel risentimento si dimostrava più persistente. Come se avesse sviluppato una resistenza a quel suo rituale così come un virus può sviluppare una resistenza ai farmaci.
Gli avvelenava il sangue, la mente, i polmoni. Rannicchiato contro la ringhiera del balcone, fronte contro il metallo freddo, stringeva fra le dita il mozzicone fumante di una sigaretta che aveva smesso di portargli beneficio.
Schiacciato, ecco come si sentiva. Intrappolato sotto il peso di un sentimento talmente complicato da non riuscire a decifrarlo. Ne sentiva solo la negatività – rabbia, risentimento, odio, senso di colpa, tristezza, solitudine, senso di inferiorità – e la pesantezza soffocante. Ma l’unica cosa che sapeva, l’unica cosa di cui era sicuro, era che il perno di quella costrizione era Sherlock Holmes.
Sherlock Holmes che lo aveva sfruttato e poi abbandonato. Sherlock Holmes che lo aveva disilluso. Sherlock Holmes che lo aveva attratto a sé senza far altro che essere se stesso. Sherlock Holmes che lo aveva ammaliato, rispettato, guarito. Sherlock Holmes che lo aveva... baciato.
Che aveva accarezzato il proprio nome sul suo dito. Che aveva scoperto ogni suo segreto con uno sguardo e ogni suo dubbio con mani tremanti. Che era sembrato, per un momento, per un maledetto minuto, più umano di chiunque altro.
Sherlock Holmes che lo aveva illuso che fosse possibile.
No... Sherlock Holmes non aveva fatto altro che rovinargli la vita da quando era nato, adesso lo capiva.
Adesso lo capiva.
 
 
 
 
Una volta arrivato a Gidda, città affacciata al Mar Rosso sulla costa ovest dell’Arabia Saudita, entrò nell’hotel a poca distanza dal porto e disse alla reception il suo nome.
Nick Philips.
A quanto sembrava, nonostante l’ora tarda, erano stati avvertiti del suo arrivo e non gli furono poste domande di alcun tipo. Gli consegnarono la chiave della camera, una ricevuta di pagamento e una busta di carta marrone abbastanza spessa e completamente sigillata. Se non avesse saputo cosa contenesse, e se non avesse parlato a qualche ora prima con Mycroft dopo mesi che non riusciva a contattarlo, probabilmente avrebbe dovuto dormire in un’altra topaia. Aveva in programma un viaggio difficile oltre il mare, fino all’interno del Sudan, e notoriamente quello non era un Paese tranquillo.
Fece un cenno al giovane receptionist e si diresse a passo stanco e strascicato verso la propria camera, chiudendosi a chiave la porta dietro la schiena una volta trovata. Era una stanza grande, confortevole, con pesanti tendaggi per il sole e un letto dall’aspetto comodo, e per la prima volta da moltissimo tempo Sherlock si sentì in vena di ringraziare mentalmente Mycroft per i suoi eccessi. Non dormiva su un materasso decente da più di un anno e la sua schiena ne aveva seriamente bisogno. Il fratello maggiore aveva inoltre pensato bene di fargli portare da mangiare in camera, e un carrello con diversi vassoi lo attendeva accanto al tavolo.
Non si tolse nemmeno l’impermeabile che indossava sopra i vestiti incrostati di sangue e sabbia.
Mangiò con le mani, senza nemmeno preoccuparsi di sedersi. Oggettivamente la carne non era granché, tutto pollo e tacchino troppo speziata o per nulla condita, ma la fame che lo aveva consumato nell’ultimo periodo faceva di quel pasto frugale il cibo migliore che avesse mai mangiato.
Si ritrovò a buttare giù i bocconi senza nemmeno masticarli, quasi in difficoltà a deglutirli, ma due agognati bicchieri di acqua fresca risolsero il problema. Quando ebbe spazzolato la tutta la carne, le patate e metà cous-cous di verdure, si avventò sull’ananas e sui datteri, fermandosi solo quando sentì lo stomaco gonfio e la nausea minacciare di fargli rimettere tutto quello che aveva appena ingurgitato.
Solo dopo fece la doccia, godendosi la sensazione dell’acqua calda e corrente sulla pelle. Si prese tutto il tempo a sua disposizione per ripulirsi, lavandosi i denti e rasandosi accuratamente, tenendo gli occhi chiusi e la bocca aperta sotto il getto, come se la pressione dell’acqua potesse aiutarlo a scrostare la sporcizia che si sentiva dentro, attaccata come ruggine alle pareti del suo spirito. Uscì dalla doccia solo quando l’acqua calda finì e i polpastrelli delle sue mani furono pieni di grinze.
Rimase solo con l’accappatoio addosso, i capelli umidi, e si sedette sul letto. Aprì la busta e ne estrasse i documenti della sua nuova identità (Edmund Talbott), un nuovo cellulare usa-e-getta e due siringhe con qualche cc di liquido trasparente; vaccini, intuì, per gentile concessione del sempre fin troppo prudente Mycroft Holmes.
Sospirando, lasciò tutto sulla coperta al suo fianco e si stese.
Uccidere Worth era valso i mesi di appostamento. Alla fine aveva fatto un passo falso, rimanendo scoperto per un tempo sufficiente affinché Sherlock potesse entrare nel suo appartamento, e dopo un combattimento corpo a corpo durato davvero poco – e in cui Sherlock fu favorito dal fatto che Worth fosse strafatto di hashish – Holmes era riuscito non solo ad ucciderlo, ma a farsi dare anche informazioni sui due grandi assenti: Spencer e Moran.
Per la prima volta in quasi due anni, poteva ritenersi soddisfatto.
Mancava poco. Due persone, forse sei o sette mesi, e sarebbe potuto ritornare a Londra. Riavere la sua casa e la sua vita. Avrebbe dovuto spiegare a tutti molte cose, a John in modo particolare, ma era sicuro che prima o poi Watson avrebbe capito. Non subito, no... probabilmente gli avrebbe dato un pugno, o una testata... si sarebbe trovato con il naso sanguinante e con le orecchie fischianti a causa di tutte le grida in cui John si sarebbe sicuramente lanciato, ma quell’esperienza gli stava insegnando a dare al tempo un valore diverso.
Distrattamente, si toccò con il pollice l’anulare sinistro. Sentì la pelle pizzicare.
Aggrottando le sopracciglia ripeté il movimento, ma l’epidermide rispondeva alla pressione con un lieve dolore. Incuriosito da quella strana reazione, accese la luce del comodino e si portò il dorso della mano davanti al volto.
Ciò che vide gli bloccò il fiato in gola e gli fece sgranare gli occhi in un sincero stupore.
Lettere. C’erano delle lettere sulla sua pelle.
Non erano ben marcate, solo puntini di un color rosa scuro che affioravano dalla cute, ma non potevano essere nient’altro che lettere.
Come un fulmine scattò dal letto e andò in bagno, dove la luce bianca del neon gli avrebbe permesso una vista migliore.
Era impossibile. O se era possibile, era senza precedenti noti. Non si era mai sentito di un Bondless che creasse un legame durante un ciclo vitale, di solito succedeva fra un ciclo di reincarnazione e l’altro...
Non sapeva cosa pensare. Provò stupidamente a sfregarsi sotto l’acqua il dito con la mano destra ma le lettere non scomparvero. Anzi, sembravano persino più definite.
Deglutendo, avvicinò la mano agli occhi.
Quattro lettere.
John.
Dovette appoggiarsi con le mani al lavandino.
Non aveva sentito niente. Non era cambiato niente. Com’era possibile?
La scienza dei SIN non era completa, le ricerche ancora in corso, e lui non era un assiduo lettore delle nuove scoperte in quel campo; raramente si trovava a che fare con casi riguardanti i SIN – era più che insolito che due persone Legate si uccidessero o si facessero del male a vicenda, a causa dell’istinto di protezione che nasceva automaticamente con il Legame stesso – dunque non aveva nemmeno la minima idea di come un Bondless potesse non solo avere un nome, ma in quel caso recuperare un legame già spezzato.
Sempre che quello fosse il suo John.
Quanti “John” potevano esserci in Gran Bretagna? E nel mondo?
Ma più ci pensava e più si convinceva che non potesse essere nessun altro.
C’era solo un modo per essere sicuri, ovvero toccarsi; un contatto pelle contro pelle e il Legame si sarebbe formato.
Sempre che non fosse diverso, per lui (per loro). Sempre che con il nome si acquistasse davvero anche la capacità di ricreare un Legame che non era esistito fino a quel momento (sarebbe esistito successivamente? Anche il SIN di John stava cambiando? Cosa sarebbe successo se si fossero toccati? E se John fosse rimasto un BCE? I cambiamenti avvenivano in modo personale o interessavano entrambi i membri della coppia?).
Troppe domande, troppo poche risposte.
Crollò addormentato poco dopo, l’anello d’argento di nuovo (fermamente) al suo posto.
 
 
 
 
 
Non si erano lasciati male.
Non avevano litigato, urlato, tirato piatti contro i muri o minacciato di rovinarsi la vita a vicenda. John non lo avrebbe fatto comunque, un po’ perché non era quel tipo di uomo e un po’ perché, se erano finiti con i piedi in quella palude, era colpa sua.
« Sei un brav’uomo » gli aveva detto Mary prima di separarsi: « so che ce l’hai messa tutta, ma la realtà è che non mi amerai mai abbastanza. E so cosa vuol dire ».
Erano una coppia perfetta, agli occhi di tutti, e forse il problema giaceva nel fatto che lo erano anche ai loro stessi occhi.
Non litigavano, non bisticciavano, non facevano nulla per infastidire l’altro e trovavano una soluzione ad ogni problema semplicemente parlandone da persone civili. Sempre sorridenti e cordiali e tranquilli. Stavano davvero bene l’uno in compagnia dell’altra, non era una finzione, ma in un modo strano non era nemmeno tutta la verità.
John non sapeva come descriverlo, o spiegare quando quella strana picchiata era cominciata, ma una mattina si era svegliato e aveva avuto la sensazione che loro due tentassero di compiacersi a vicenda, come se fossero, l’uno per l’altra, il piano B di un’altra storia finita male.
E non era del tutto errato.
Mary vedova, lui... anche, in un certo senso. C’erano mura di cartone fra di loro, abbastanza sottili da poter udire la voce della persona dall’altra parte ma sufficientemente resistenti da non poter essere abbattute. Ognuno di loro portava sulle spalle un peso diverso ed erano entrambi troppo pazzi e disperati per liberarsene.
Avrebbe potuto funzionare in eterno, fra loro, per questo dovevano darci subito un taglio.
Forse Mary era stata pronta a lasciare il suo peso a lato della strada e raddrizzare la schiena. A nascondere il nome nero del suo ex-marito sotto una nuova fede dorata. Molte volte aveva accennato al matrimonio e ad una famiglia, usando quegli scherzi che racchiudono un desiderio inespresso, ma John non aveva mai risposto. Nonostante avesse desiderato più volte una vita come quella – normale come quella – ora che ce l’aveva a portata di mano non riusciva a trovare il coraggio di dire “sì”.
C’era una parte di lui – una parte profonda, radicata, oscura, nascosta di lui – che ancora stringeva il capo sfrangiato di un filo rosso fluttuante nel nulla; un Legame da lungo tempo spezzato ma che ancora veniva considerato importante e più si sforzava nel dire che non lo fosse, più esso acquistava forza.
Da quell’ingiusta importanza era cresciuto l’odio, e in quell’odio era maturata l’ira.
Finché sorridere era diventato faticoso, rimanere calmo una lotta contro se stesso, resistere all’impulso di mandare a fanculo tutto una mera questione di buon senso. Fino a quel momento aveva creduto che vivere una vita vuota fosse il male, ma aveva scoperto con amarezza che portare avanti un’esistenza intrisa di risentimento era anche peggio.
Almeno, il vuoto non ti corrompe il sangue e la mente secondo dopo secondo, minuto dopo minuto. Il vuoto è arrendevolezza, è silenzio; l’ira è agitazione e nervi tesi e la voglia di mordere, di strappare lembi di carne viva con i denti a tutti coloro che anche solo ti rivolgono la parola, o ti urtano per caso sulle scale della metro.
E quasi ringraziava il cielo che Sherlock Holmes fosse morto, perché se se lo fosse trovato davanti lo avrebbe ucciso.
Senza esitare.
 
Si sedette al tavolo, in una mano cotone idrofilo e disinfettante mentre con l’altra si teneva il telefono vicino all’orecchio.
« E quindi dove sei ora? ».
La voce di Lestrade sembrava sinceramente dispiaciuta dall’altro capo della cornetta. Questa era una delle cose che a John piacevano di Greg, era in grado di provare ed esprimere sentimenti puri. John credeva che Greg non fosse nemmeno in grado di mentire.
« Da Harry. Rimango qui finché non trovo un’altra sistemazione » rispose lui, tenendo il telefono fermo con la spalla mentre si toglieva l’anello dal dito e cominciava a staccare il cerotto sottostante.
Era dal suo ritorno dall’Afghanistan che sua sorella tentava di rendersi utile in qualche modo – sensi di colpa? Esame di coscienza? Terapia della responsabilità? – così, dopo la separazione da Mary, John gliene aveva dato l’occasione. L’appartamento era modesto ma accogliente, con una sola camera da letto, ma a John non importava di dormire sul divano. Finché aveva un tetto sotto cui stare, andava bene tutto.
« Che ne è dell’appartamento a Shoreditch? » chiese Lestrade. Una leggera musica di pianoforte si poteva sentire in sottofondo alle sue parole e John non poté fare a meno di arricciare il naso. Sapeva chi lo stava suonando.
Svitò il tappo del disinfettante.
« Ero in affitto, praticamente l’anno ri-affittato nel momento stesso in cui ho messo il piede fuori dalla porta. Cercherò da qualche altra parte, magari in periferia » spiegò.
Praticamente sentì il cervello di Greg masticare ogni parola e pensare a quale fosse la frase più giusta da dire.
« John... lo sai che potremmo ospitarti noi » disse poi.
Aveva scelto la frase sbagliata.
« Greg... »
« Ti prego... » lo interruppe però Lestrade: « almeno pensaci ».
« Non ho bisogno di pensarci! » ribatté però John, la voce ferma e dura, increspata da quella rabbia che sempre più spesso affiorava in alcune sue frasi e modi di porsi, filtrando tra le crepe. « Non ho intenzione di mettere piede a casa di un Holmes, tantomeno di Mycroft. Fine della discussione ».
Il silenzio fu padrone della conversazione per qualche istante, lasciando nelle orecchie di entrambi solo l’eco di quelle parole e il lieve ronzio delle linea. Fu John a sospirare poi, portandosi le dita della sinistra a massaggiarsi gli occhi prima di riprendere parola.
« Scusami » disse alla cornetta.
« No, hai ragione. Ho sbagliato io. Quando si parla di lui vado in automatico sulla corsia preferenziale... mi dispiace » rispose l’ispettore.
« Suppongo sia normale... » ribatté Watson, ormai disinteressato alla conversazione. Sapeva che non era colpa di Greg, che i sentimenti che un Legame comportava comprendevano senso di protezione ed una certa preponderanza affettiva, dunque non gliene faceva una colpa.
Era solo... invidioso, forse. E arrabbiato. Scontento del fatto che Mycroft Holmes potesse avere quello che a lui era negato, perché non se lo meritava. Quell’uomo non si meritava niente.
« Senti Greg, è meglio se mi riposo un po’. Con tutta questa storia di Mary è stata una settimana un po’ pesante » riprese poi parola, senza nemmeno impegnarsi per rendere la scusa più credibile: « ci risentiamo per una pinta, ok? Magari la prossima settimana ».
Poté quasi vederlo annuire, dall’altra parte del telefono. Dopotutto, non stava salvando solo se stesso, dall’imbarazzo.
« Ci conto. Ah, John... mi dispiace per Mary. Credevo davvero che fosse quella giusta nonostante... ecco, nonostante tutto » esitò.
« Sì... anche io » mentì Watson, terminando la chiamata e appoggiando il telefono sul tavolo. Si prese qualche secondo di silenzio poi, nel tentativo di non pensare troppo al significato di quella conversazione, ritornò a prendersi cura del suo dito.
Prese il batuffolo di cotone ma, quando guardò il proprio SIN, lo lasciò ricadere sul tavolo.
Erano mesi che il dito non si infiammava, settimane che ormai non faceva più male. Giorni, ora, cinque per l’esattezza, che non sanguinava.
Il nome “Sherlock” aveva ormai l’aspetto di una cicatrice rossastra leggermente in rilievo.
E, pian piano, scompariva.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Khartum, Sudan.
Due anni e tre mesi.
L’uomo a cui stava puntando contro la pistola non era Ralph Spencer.
Ansimante e con i capelli sudati incollati al collo e alle tempie, osservò il sorrisetto strafottente di quello che aveva preso in tutto e per tutto le sembianze di un’esca umana.
« Heureux de vous rencontrer, monsieur Holmes »4 sfotté quello, schiena contro il muro di mattoni, disarmato, solo. Abbandonato dai suoi due compagni che sicuramente ora erano chissà dove a passare informazioni vitali a chissà chi.
Era caduto nella trappola come un topo.
« Qui vous envoie? » domandò Sherlock, arricciando le labbra e il naso in una smorfia seccata. Mosse la pistola in avanti per sottolineare la necessità di risposte rapide e concise.
Il ghigno dell’altro aumentò. « Pensa davvero che le dirò chi mi manda? » domandò in un inglese sporco con la “r” moscia, l’accento francese molto spiccato.
« Sarebbe nel suo interesse » ribatté Sherlock, mettendosi in testa di stare calmo. Doveva scoprire tutto quello che poteva dall’uomo che aveva davanti a lui, altrimenti avrebbe solo perso tempo senza guadagnare niente.
« Sono un mercenario, pensa che mi faccia paura una pistola? » domandò strafottente.
« No. Ma il dolore fa paura a tutti » ribatté Holmes, mirando improvvisamente allo stinco sinistro dell’uomo e sparando. Il colpo vibrò nell’aria con un tuono, seguito dall’urlo dolorante dell’altro che si accasciò a terra tenendosi la gamba.
« Putain de merde! » imprecò.
« Soprattutto a chi è pagato solo se rimane vivo » continuò incurante Sherlock, occhi sgranati fissi su di lui, la mira spostata all’altra gamba: « sto ancora aspettando una risposta ».
« Dovrai uccidermi! » gridò quello.
Sherlock sparò di nuovo, centrando questa volta il piede destro. Un altro tuono, un altro urlo.
« Alors? » incitò Sherlock, alzando la mira sul petto.
« Sebastian Moran! » gridò alla fine il mercenario, alzando una mano insanguinata per segnalare a Sherlock di fermarsi: « Sebastian Moran! Girano voci nella rete criminale di un tizio che ha cominciato a dare la caccia ai cuccioli smarriti di Moriarty... Spencer ha sospettato che fosse qualcuno dei tuoi ma non immaginano che sei tu in carne ed ossa! » svuotò il sacco, la voce alta e piagnucolante.
Sherlock prese un profondo respiro, abbassando l’arma. Avvicinandosi velocemente all’uomo, poi, la impugnò al contrario e lo colpì in testa con il calcio.
« Merci pour la disponibilité » gli disse mentre l’altro rovesciava gli occhi e cadeva incosciente sul cemento.
Sherlock si tirò su il cappuccio della maglia e si mise a correre, passando da un vicolo all’altro fino ad arrivare all’altro capo della città. Non era distante ma era difficile per gente come lui, che in cittadine come quella venivano adocchiati con un misto di curiosità e sospetto.
Si fermò in una zona vuota e silenziosa, il fiato che ormai gli era venuto completamente a mancare. Estrasse dalla tasca dei pantaloni il cellulare e, digitando in fretta, mandò un breve messaggio ad un numero privato.
 
Copertura saltata. Moran e Spencer sanno che sono vivo. John? – SH
 
Attese, rigirandosi il telefonino fra le mani. A volte strisciava contro l’anello d’argento e Sherlock si fermava, immaginandosi la piccola scritta sempre più scura che il metallo copriva.
Finalmente arrivò la risposta.
 
Aeroporto. MJN Air, compagnia privata. Presentati come Martin Crieff.
Avvistato Spencer a Montpellier.
John è in salvo, sorveglianza raddoppiata. – M
 
Annuì velocemente e, riprendendo a camminare a passo spedito, si diresse verso il piccolo aeroporto della cittadina.
 
 
 
 
Le prime giornate autunnali cominciavano a rendere plumbeo il cielo di Londra, costringendo i bambini del St. Thomas a rinunciare alle giornate all’aperto. Era ricominciata anche la scuola e, con essa, il via vai delle suore per accompagnare i bambini più piccoli. I più grandi, quelli dai dieci anni in su, andavano tranquillamente da soli e avevano il permesso di rientrare più tardi degli altri.
Ma l’arrivo dell’autunno significava anche la comparsa dei primi raffreddori e delle influenze stagionali. Sembrava esserci già in giro un nuovo virus influenzale e, ovviamente, John aveva dovuto litigare con almeno otto persone al telefono per farsi mandare i vaccini.
Sembrava che gli orfani fossero sempre gli ultimi della fila, e anche se quel comportamento non avrebbe dovuto sorprenderlo o irritarlo, in realtà lo faceva eccome. Soprattutto in quei tempi.
Si era detto più volte che sentirsi abbandonato non l’avrebbe aiutato a diminuire lo stress che la sua continua agitazione gli provocava. Sotto insistenza di Greg era tornato a vedere Ella, ma quando aveva cominciato a parlare di gruppi di sostegno e terapie per il controllo della rabbia aveva smesso di andare. Non era uno di quegli uomini che non sono in grado di tenere le mani a posto e, in preda e veri e propri raptus, vengono coinvolti in risse o fanno del male alle persone a loro vicine; lui era perfettamente in grado di controllarsi e l’odio che provava, quella fiamma che gli faceva maledire il nome di Sherlock Holmes tutte le sere prima di addormentarsi, non era altro che quello: una fiammella. Non aveva output fisici, non era una persona violenta... era soltanto un ex-medico militare stressato e senza prospettiva che dormiva in un buco di appartamento sopra un fruttivendolo.
Abbandonato, disilluso, solo.
A chi sarebbe importato?
Si passò una mano sugli occhi seduto alla scrivania, riprendendosi dall’ennesima telefonata all’NHS di zona. Erano finalmente arrivate due partite di vaccini ma una era per il ceppo sbagliato e l’altra aveva un numero insufficiente di fiale. C’erano molti bambini in quell’istituto, alcuni ancora molto piccoli, non potevano pretendere che facesse il suo lavoro se doveva raccogliere le briciole.
Una voce dentro di sé sussurrò “Mycroft potrebbe risolvere il problema” ma lui la ignorò, zittendola con violenza.
Prese in mano il telefono per tentare di fregare la burocrazia prendendo un’altra strada ma venne interrotto da un energico bussare alla porta.
« Avanti » disse, e in qualche istante si ritrovò sotto al naso la zazzera rossa e la faccia lentigginosa di Richard, uno dei suoi combina guai preferiti.
« Rick » lo salutò, alzandosi dalla scrivania e portandosi in piedi davanti al bambino: « cosa posso fare per te questa volta? ».
« Credo mi serva un cerotto... o due. Forse quattro » disse il bambino, ridacchiando e arrampicandosi sul lettino, la manica della camicia completamente arrotolata in modo da lasciare scoperto il braccio scorticato: « sono... emh... caduto da una panchina » disse.
Una scusa palese.
« O sei inciampato scavalcando un cancello » corresse John, recuperando disinfettante e cotone idrofilo: « prima o poi ti arresteranno » ironizzò, facendo ridere il bambino.
Era sempre meglio scherzare, su queste cose, quando il tuo piccolo interlocutore ha la tua stessa maledizione (è un BCE).
« Ero in giro con gli Irregolari! » esclamò il bambino, come se il nome del loro piccolo gruppo di amici potesse scusarlo di tutti i graffi e i lividi che collezionava a giorni alterni.
« Infatti ho almeno due di voi "Irregolari" nel mio studio almeno una volta a settimana. Dovete stare più attenti » gli rispose John, sperando che il rimprovero bastasse per farlo rimanere in silenzio.
Ma il bambino non sembrava voler tacere. « Abbiamo incontrato un uomo. Ha detto di conoscerti, Doc, e ha detto di salutarti ».
John alzò un sopracciglio ma non prestò, all’inizio, troppa attenzione a quello che Rick stava dicendo. Nonostante fossero passati degli anni lui era John Watson, per qualche tempo era stato sui giornali anche lui, dunque non si stupiva poi molto se alcuni dei bambini parlavano con persone che lo conoscevano di nome.
« Avete detto che non firmo autografi? » scherzò, ripetendo la frase che ripeteva sempre in certe occasioni.
« Sì, ma ci ha detto che dovevamo assolutamente darti una cosa » continuò quello, frugandosi nelle tasche dei
 pantaloni proprio mentre John stava disinfettando la ferita.
« Le Sorelle non vi dicono sempre di non parlare con gli sconosciuti, Rick? » domandò in tono da paternale, aspettando che il bambino avesse finito di muoversi per poter continuare il suo lavoro.
Ma quello gli tese un foglietto stropicciato e piegato in due.
John, scettico, lo prese. « Cos’è? » domandò.
« Ce l’ha dato quel signore. Ha detto che dovevano farlo vedere solo a te, altrimenti non sarebbe stato valido » disse il bambino, allungando il collo per vedere l’interno del foglietto stesso: « cosa c’è scritto? » domandò, curioso.
Era un biglietto normalissimo, strappato da un taccuino, e al suo interno vi erano solo due parole vergate in una calligrafia appuntita e inconfondibilmente adulta.
 

È vivo.

 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Montpellier, Francia.
Due anni e cinque mesi.
Gli obitori si somigliavano tutti, alla fine.
Quello dell’ospedale universitario Lapeyronie aveva un forte odore di disinfettante e prodotti chimici. Il pavimento di piastrellato bianco, così come bianche erano le pareti, così come bianca era la luce forte dei neon – quattro – sul soffitto. Due tavoli d’acciaio al centro della stanza. Le celle frigorifere sul muro in fondo.
Quello del Barts non era poi così diverso. Stessi odori, stesse luci, stesse... sensazioni. Di solitudine e silenzio. Due cose che Sherlock aveva sempre apprezzato.
« Prego, da questa parte » gli fece strada il dottor Dubois, parlando in un inglese sporcato dall’accento meridionale francese. Erano ormai le dieci di sera e la sua telefonata doveva averlo interrotto durante la cena. Aveva alcune briciole di pane intrappolate fra le fibre del maglioncino e sull’indice destro si vedeva il segno rosso del coltello da formaggio.
Sherlock lo seguì, osservando sui vetri delle finestra il riflesso dei propri capelli ricci e rossi. Odiava quel colore.
« Allora, vediamo... » cominciò poi Dubois, infilandosi il camice e prendendo la cartella dei pazienti in entrata. La scorse velocemente, fermandosi di fronte alla fila verticale di celle che andavano dalla 17 alla 19. Dubois aprì la 18.
« Ralph Spencer, inglese, 44 anni, un metro e ottantacinque, caucasico » descrisse velocemente, tirando il carrello e aprendo la zip del sacco nero in cui Spencer era stato infilato. « Morte per dissanguamento a causa di un taglio sulla carotide durante una rissa fuori da una discoteca. Hanno usato una bottiglia di birra, ho trovato schegge di vetro verde e spesso all’interno della ferita. L’ambulanza non è arrivata in tempo » riassunse.
Sherlock lo guardò senza fare una piega. Ne analizzò il viso pieno, le sopracciglia bionde, i capelli castano-biondicci. La carnagione pallida. La ferita, che ripulita risultava ancora più letale. Quello che lo aveva ucciso sapeva come farlo, considerata l’arma del tutto fortuita con cui aveva reciso tre centimetri di epidermide e squarciato la vena carotidea.
Gli era sfuggito. Non era arrivato in tempo. E adesso tutte le informazioni su Moran erano morte con lui.
Arricciò il naso in un moto di disgusto che fortunatamente Dubois non vide. « È lui » disse semplicemente all’anatomopatologo, prima di girarsi e riconquistare a passo svelto l’uscita.
Aveva appena imboccato un vicolo cieco.
 
 
 
 
All’inizio aveva pensato che fosse uno scherzo di cattivo gusto.
Qualcuno che si era divertito ad usare dei bambini per colpirlo dove faceva più male. Qualche giornalista, forse, o qualche amico di Mary, dato che non avevano preso molto bene la storia della separazione. O forse qualche teorico del complotto, di quelli che ancora cercavano di contattarlo tramite un blog che aveva già abbandonato da moltissimo tempo. Persone normali che erano rimaste a quel giorno di due anni e mezzo prima per cercare di “capirci qualcosa”, anche se da capire non c’era proprio niente.
In ogni caso, aveva lasciato perdere. Stava provando per l’ennesima volta di cambiare la propria vita, di evitare il crollo, di non imboccare la “cattiva strada” che suo padre aveva sempre visto distesa davanti a lui e che, ovviamente, era la più facile da percorrere, nemmeno fosse uno scherzo di cattivo gusto.
L’underworld criminale avrebbe pagato a peso d’oro un ex-soldato addestrato all’uso delle armi. E loro non facevano certo distinzione di anelli o reputazione.
Per questo aveva appallottolato e buttato via il bigliettino.
Salvo poi farsene recapitare un altro un paio di giorni dopo, sempre per mano del gruppetto di bambini che si facevano chiamare per gioco “gli Irregolari”, e che non volevano assolutamente svelare i tratti somatici, o anche solo qualche particolare, della persona che ogni tanto spuntava fuori dal nulla e consegnava loro messaggi per il dottor Watson.
Continuò così per quasi tre mesi.
Messaggi sempre di una sola frase: date, luoghi, nomi.
“Nick Philips” diceva uno, “12 febbrario 2012, Lhasa” vi era scritto su di un altro, “Simon Newcomb” diceva un altro, e poi ancora “Hejrat”, “Ralph Spencer”, “Arabia Saudita”, “Peter Guillam”... nomi che non conosceva, città dell’Asia e del Medio Oriente che non avevano alcun senso, date che per lui non avevano significato. Aveva provato a digitarle e lanciare una ricerca su Internet ma non portavano a nulla di interessante.
E più quella storia andava avanti, più si sentiva inquieto.
Era sul punto di avvertire la polizia – o Greg, per lo meno – ma l’ultimo biglietto che gli arrivò tramite gli Irregolari conteneva qualcosa di diverso.
Conteneva una fotografia.
Gli si chiuse lo stomaco.
Era lontana, scattata da un’angolazione più alta rispetto al soggetto. Ritraeva la finestra un edificio squadrato, forse un ospedale; i cartelli direzionali del parcheggio, posizionati sotto un lampione e presi nell’inquadratura solo in parte, erano in francese.
John avrebbe potuto riconoscere l’uomo nella foto anche ad occhi chiusi. Certo, aveva i capelli rossi e un taglio diverso, indossava vestiti alla mano e un giubbotto di jeans, ma il viso, l’inclinazione della testa e gli occhi... soprattutto quelli, erano inconfondibili. Era stata scattata di notte ma la luce dei neon all’interno dell’edificio, forte e chiara, rifletteva il colore di quelle iridi come una cartina tornasole.
Non poteva essere lui. Era sicuramente uno sbaglio. Una persona che gli somigliava. Dopotutto la fotografia era stata presa da lontano, non si vedeva bene, niente era perfettamente definito. Era stata scattata di notte con una luce pessima. Erano solo macchie di colore su carta lucida.
Poteva essere chiunque, ma non Sherlock. Non Sherlock. Sherlock Holmes era sepolto sei metri sotto una lapide nera al West Brompton Cemetery, fuori dalla sua vita com’era giusto che fosse.
Ma allora perché il cuore gli batteva come se dovesse farsi strada fra una costola e l’altra e uscirgli dal petto? Perché provava quel misto di furia e reverenziale terrore che lo teneva inchiodato a terra ed immobile a fissare la fotografia di uno sconosciuto? Perché non riusciva a convincersi che non fosse  lui?
Prendendo un respiro flebile fra le labbra socchiuse, girò la foto. Questa volta, sempre nella medesima calligrafia di tutti i precedenti biglietti, le frasi erano due:
 

Domani 18:15, Bethnal Green, banchina direzione Stratford.
È ora di conoscere la verità.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Gli easter eggs di questa puntata:
Magg. Jamie Stewart – War Horse
Nick Philips – The Whistleblower
Edmund Talbott – To the End of the Earth
Martin Crieff – Cabin Pressure (insieme alla MJN Air XD)
 
1 – Il Baritsu un’arte marziale da autodifesa, ideata da Edward William Barton - Wright e sviluppatasi originariamente in Inghilterra. Sir Doyle la cita fra le doti di Holmes, che la conosceva e la praticava.
 
2 – Il tagico è un dialetto del farsi, parlato in Iran.
 
3 – Top Gear è un programma televisivo che parla di auto e motori. In Italia viene trasmesso su DMAX e penso che sia uno dei più divertenti che abbia mai visto XD (mi riferisco alla versione UK).
 
4 – Tutto il francese è assai maccheronico, gentilmente tradotto da Bing per sopperire alla mia ignoranza linguistica.

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Capitolo 5
*** Allegro ***


Beh, ultimo capitolo.
Cosa si scrive, di solito, nelle note di testa dell’ultimo capitolo? Non mi capita spesso, diciamo. Ho la fobia dei finali.
Devo dire che quando ho cominciato questa fanfic non mi aspettavo di certo tutto questo... caos. In senso buono, ovviamente. L’avevo cominciata per svago.
Ha avuto una risonanza incredibile. Più di quello che ci si aspetta quando si scrive per passione e/o passatempo. E per questo devo davvero ringraziare tutti voi che leggete, preferitate e recensite questa fanfic. Mi avete messo addosso l’ansia da prestazione già dal primo capitolo, ma devo dire che è stato proprio un bel viaggio XD
 
Per l’ultima volta – almeno su questi lidi – vi auguro una buona lettura ♥
 
(P.S.: Inoltrate pure qualsiasi lamentela, soprattutto sull’OOC finale, all’ambasciata italiana a Nuova Delhi. Sarò emigrata lì ;D).

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5. Allegro

 
 
 
 
 
Aveva pensato di non andarci.
Nessuno lo avrebbe fatto. Nessuno, che avesse almeno un po’ di buon senso e un briciolo di amor proprio.
Forse questo concetto non si applicava a lui, allora. Dopotutto non aveva niente da perdere.
Bethnal Green era una fermata della Central line, piccola ma famigerata a causa di una strage civile avvenuta durante la Seconda Guerra Mondiale. Non era molto trafficata, solitamente, ma lo diventava (come tutto il resto della linea) durante gli orari di punta.
Come le 18:15.
Più rimaneva fermo in piedi alla banchina in direzione Stratford, più si rendeva conto che tutto ciò che lo circondava non era casuale.
C’era molta gente lungo i binari, ferma in piedi ad aspettare i treni. Tutte persone con abiti eleganti e ventiquattrore, studenti nelle loro divise scolastiche che tornavano a casa dal rientro pomeridiano o adolescenti in tuta da ginnastica che si dirigevano sul campo da rugby.
Per un momento pensò a quando era lui, a giocare a rugby. A quando si riempiva di fango e si rompeva le ossa in mischia solo per scaricare il quantitativo spropositato di rabbia e delusione adolescenziale che si portava dentro. Aveva passato l’adolescenza sempre sul punto di esplodere, sempre sul punto di urlare al mondo quanto fosse ingiusto e schifoso.
Un po’ come si sentiva in quel periodo.
Implodeva ogni giorno. Silenziosamente e sempre da solo, ma arrivava ad un certo punto della giornata in cui doveva fare due profondi respiri e trattenersi dallo spaccarsi le nocche delle mani prendendo a pugni un muro.
Forse era quello in motivo per cui ora si trovava in mezzo a tutta quella gente senza sapere cosa – o chi – aspettarsi. Perché i lividi sulle mani e un nome ormai sbiadito sul dito erano diventati meglio che ricordarsi quei 18 mesi con Sherlock e pensare a quanto fosse stato vicino alla vera felicità.
Deglutì, guardandosi intorno per distrarsi da certi pensieri. Proprio in quel momento, l’altoparlante della stazione annunciò la temporanea interruzione delle corse a causa di un intralcio sui binari, nelle gallerie. Un mormorio di disappunto si levò dalla folla, che si faceva sempre più fitta e numerosa.
Si ritrovò ben presto con la schiena appoggiata al muro. Le lancette dell’orologio da polso che indossava segnavano esattamente le 18:20.
Avrebbe dovuto andarsene. No, non sarebbe nemmeno dovuto andare lì. Tutta l’intera storia puzzava di marcio da ogni punto di vista. Cosa ci faceva lì? Cosa sperava di trovare?
Stava per incamminarsi verso l’uscita quando un uomo lo affiancò in silenzio, entrando con un gruppetto di pendolari.
« Sono sorpreso che abbia accettato l’invito, Capitano Watson ».
John si irrigidì, staccandosi dal muro e squadrando di riflesso le spalle. Istintivamente cercò il rassicurante peso della pistola, dimentico che essa era chiusa a chiave ormai da anni nel cassetto del suo comodino.
Indeciso sul da farsi, optò per stare al gioco.
« Le premesse erano invitanti » ribatté. « Con chi ho il piacere? » domandò subito dopo.
L’uomo, a differenza sua, si mise tranquillamente le mani in tasca e si appoggiò con la schiena alla parete. Guardandolo con la coda dell’occhio, John vide un uomo alto e ben piazzato, capelli biondi dall’aria dismessa e occhi marroni; aveva mani dalle dita robuste e l’inconfondibile aria da esercito.
Riusciva a sentirne quasi l’odore.
« Sebastian Moran » rispose quello, guardando dritto davanti a sé.
« Moran... » John assaggiò il nome con la lingua. « Mi ricordo. Un disertore. Credevo fossi a marcire in un qualche carcere militare » aggiunse poi, restio a dargli troppa confidenza o ad ammorbidire il tono.
Moran ridacchiò, divertito.
« Ricordami, Colonnello, quanti civili hai ucciso? » continuò poi Watson senza nemmeno sforzarsi di essere rispettoso.
« Ventiquattro. Più dodici di noi in alcune azioni insospettabili » precisò: « mi piacciono i numeri pari ».1
John storse il naso. Se c’era stato qualcosa di azzeccato, nella sua vita, quella era stato l’Esercito nonostante fosse formato quasi nella sua interezza da Bondless e BCE, ovvero da persone che difficilmente avevano altro posto al mondo. La gente – quella “normale” – credeva che l’aiutare la difesa del Paese e dei suoi ideali fosse un passo avanti, per Bondless e BCE, ma non si esimeva dal chiamarli comunque “feccia” a bassa voce, senza farsi sentire.
Se loro erano feccia, i traditori come Moran erano la crosta di sporco sul fondo del barile.
« Si può sapere cosa vuoi da me? » chiese – sputò – seccato.
« Rilassati, Capitano. Sono qui perché abbiamo una conoscenza in comune » gli rispose. Si tolse le mani dalle tasche, poi, per sfilarsi l’anello d’oro che portava all’anulare sinistro.
John trasalì, a disagio. Togliersi l’anello in pubblico era semplicemente qualcosa che non si faceva, una convenzione sociale legata alla privacy dei SIN; ma nessuna delle persone che li circondavano sembrava badarci e, chi se ne accorse, distolse lo sguardo.
Moran sogghignò alla sua reazione, ma gli mostrò comunque la mano sinistra.
E John lo vide.  Sul dorso dell’anulare non vi era alcun nome, solo una cicatrice traslucida più chiara della pelle che, guardandola meglio, era formata da tre lettere incise sulla pelle in modo maldestro (e sicuramente doloroso).
J I M.
Realizzò quasi immediatamente con chi aveva a che fare e si girò di scatto, allontanandosi di un passo (per quanto la folla glielo permettesse) e mettendosi sulla difensiva.
Ma Sebastian Moran sembrava la persona più tranquilla dell’universo mentre si rimetteva al dito la fede come se il fatto nemmeno fosse suo.
« Sono un Bondless » cominciò poi: « ...il Bondless di James. Così come lui era un Ribbon. Mi ritrovò nella prigione militare di Kabul e, per usare le sue parole, mi “reclamò”. Ha usato un cutter, per fare questo » disse, muovendo il dito con l’anello dorato.
John non fece una piega, teso e pronto a tutto. Moran non faceva altro che osservarlo e non sembrava avere in mente una qualsivoglia azione offensiva.
« Penso che tu sappia perché ho voluto incontrarti, Capitano » disse poi.
« Non sono più “Capitano” ».
« Non si smette mai di essere un soldato » rispose però Moran, esprimendo a parole ciò che anche John pensava: « Le tue medaglie e menzioni in dispaccio meritano almeno il rispetto del grado » disse, serio.
John rimase in silenzio, pensieroso. Poteva fidarsi?
Aveva scelta?
« La fotografia... » cominciò allora: « ...è autentica? ».
« Affermativo » rispose l’altro: « scattata a Montpellier, in Francia, circa un mese fa ».
John prese due profondi respiri. « Lui è morto ».
« Per te, » rispose Moran: « per l’opinione pubblica. Ma non lo è mai stato davvero ».
Il cuore di John accelerò. « Menti » lo accusò.
« Sei tu che non vuoi accettare la possibilità che io abbia ragione ».
John scosse il capo, distogliendo lo sguardo e fissandolo sulla punta rovinata delle proprie scarpe. « No... » mormorò, incredulo: « l’ho visto cadere... ero lì quando... quando... » borbottò a bassa voce.
« Non so come ha fatto » intervenne Moran, il tono franco che i soldati usano con i propri commilitoni: « l’ho rintracciato per caso parlando con un falsario di Birmingham. Se ne andava in giro a cercare gli uomini che avevano collaborato con Jim tre anni fa... ho avuto conferma che si trattava di Sherlock Holmes solo cinque mesi fa » spiegò.
Watson non sapeva cosa dire. Continuava a scuotere la testa ad inerzia, come se quel movimento dovesse aiutarlo a rendere tutto meno possibile e dunque a mantenere una calma composta, rifiutandosi di credere a ciò che sentiva e a ciò che aveva visto. Nella mente aveva solo gli eterni fotogrammi di quel volo giù dal tetto del Barts e del sangue sull’asfalto.
Come poteva essere tutto una menzogna?
Come poteva?
Ma la domanda che alla fine fece fu un’altra.
« Perché io? Perché adesso? Perché qui? ».
Moran distolse di nuovo lo sguardo da lui, tornando a guardare qualcosa davanti a sé. « Perché i mocciosi, intendi? » domandò retoricamente: « non so se l’hai notato, ma hai praticamente mezza città alle costole » disse, quasi candidamente.
John alzò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia. « In che senso? » chiese.
« Sorveglianza. È diventato difficile avvicinarti, ho rischiato di farmi scoprire, la prima volta. I bambini erano il modo meno pericoloso per contattarti. Nessuno si preoccupa di un gruppo di orfani scapestrati che girano per Londra, soprattutto se sono Ribbons » spiegò.
La prima immagine che gli passò per la mente fu il volto irritante di Mycroft Holmes e seppe subito che, nonostante non lo vedesse o sentisse da quasi tre anni, questo non valeva per entrambi ed in entrambi i sensi.
Trattenne un fiotto di fastidio. « Perché dovrebbe sorvegliarmi? » domandò poi, anche se cominciava ad intuire la risposta.
« Sicurezza » rispose subito Moran: « a causa mia. Perché sono a piede libero e sono io quello che doveva ammazzarti, se Holmes non si fosse buttato dal tetto ».
Watson, se possibile, si fece ancora più teso. Il corpo era completamente rigido e i muscoli del collo potevano tranquillamente essere paragonati a corde di violino. Se non fosse stato pressato in mezzo alla folla di pendolari sarebbe indietreggiato fino a raggiungere una distanza di sicurezza maggiore dei trenta centimetri che attualmente li separavano. Ma non poteva, ed ora era sufficientemente cosciente che anche il ritardo dei treni fosse opera del Colonnello Moran.
Confusione, pensò. Gente. Tante teste che avrebbero facilmente reso inutile un sistema CCTV, o impedito a delle invisibile guardie del corpo di fare il loro lavoro. Si immaginava gli uomini di Mycroft bloccati nella folla, o del tutto assenti dato che quello era un tragitto che lui faceva abitualmente almeno un paio di giorni a settimana. Era tutto volto ad allontanare la morsa di sorveglianza che Mycroft  doveva aver stretto intorno a lui senza che lui se ne accorgesse.
Proprio quando pensava di essersi tolto per sempre dai piedi la stirpe Holmes.
Quasi non voleva sapere la risposta alla sua prossima domanda.
« È vivo? » domandò, il tono duro e venato d’ira.
« Sì » rispose Moran.
« Come posso esserne sicuro? ».
« Hai la fotografia, tutti i suoi alias che sono riuscito a scoprire e persino i luoghi in cui è stato ».
John soffiò fuori una breve risata scettica. « E dovrei fidarmi sulla base di una fotografia e di un paio di nomi? ».
« Eppure sei qui » rispose franco l’altro.
John si ammutolì.
Non sapeva più distinguere cosa lo facesse arrabbiare di più, in tutta quella storia. Credere a Moran – credere alla fotografia di colui che pensava essere un fantasma fino al giorno prima – significava rendere reali una serie di implicazioni.
Menzogna. Tradimento. Quasi tre anni di vuoto e desolazione e rabbia, tanta rabbia... tre anni di rimpianti in cui non si era sentito all’altezza di niente, in cui aveva smontato il proprio orgoglio pezzo dopo pezzo facendo finta che esistesse ancora, negando di averlo distrutto con le proprie mani.
Quasi tre anni di sigarette fumate alla memoria di un traditore.
Traditore, traditore, traditore, traditore, traditore!
Perché non mi hai detto niente? Perché non mi hai coinvolto? Sarebbe bastata una parola e ti avrei seguito in capo al mondo. Ero già tuo da usare come volevi.
Ti amavo già così tanto e tu nemmeno lo meritavi.
Non si accorse nemmeno di stare stringendo i pugni fino a far sbiancare le nocche e conficcarsi le unghie nella carne dei palmi. Non si accorse dei muscoli tremanti per la tensione e dei denti serrati fino a farsi dolere le gengive. Guardava il volto noncurante di Moran con l’espressione furente di un uomo che nasconde dentro di sé una bestia pronta a saltarti al collo.
E forse lo era.
Forse lo era sempre stato.
Forse era nella sua natura di BCE.
Forse suo padre aveva sempre avuto ragione.
Soffiò fuori uno sbuffo d’aria dal naso, chiudendo gli occhi alla ricerca non di uno stato di calma (non poteva) ma almeno di autocontrollo.
« Cosa vuoi da me? » chiese poi, con un tono che sembrava rassegnato ma lo era solo in apparenza.
Se si fosse tolto l’anello, John ne era sicuro, il nome di Sherlock probabilmente sarebbe stato a malapena visibile.
Forse anche il SIN era una prova. Lo spezzarsi definitivo di un Legame già a senso unico che aveva fatto guarire la sua perenne ferita e fatto scomparire quel nome che era sempre stato più disperazione che speranza.
Moran rimase in silenzio per un istante, guardandolo dritto negli occhi senza la minima emozione.
« Voglio Sherlock Holmes » disse poi.
John ricambiò lo sguardo. « Vuoi ucciderlo? » chiese.
« Sì » ammise il Colonnello.
« Vendetta? ».
« Sì » rispose di nuovo.
« E perché dovrei aiutarti? » chiese allora John.
« Perché siamo simili, in fondo » disse Sebastian: « abbiamo entrambi tentato di ricavare del buono dalla nostra vita e guarda come siamo stati ripagati. Spendibili in guerra, da scartare non appena diventati inutilizzabili, ributtati in una società che ci ha sempre considerati come una sottocategoria dell’essere umano, qualcosa di simile alle bestie. Tu sei stato ottimista e lo sei stato più a lungo, io l’ho capito prima ».
John non rispose, cercando di rifiutare la verità che filtrava da quelle parole. Una verità che era già penetrata dentro le sue ossa con tutta la sua forza.
« E questo dovrebbe giustificare un mio tradimento nei confronti di... Sherlock? » non riusciva nemmeno a pronunciare il suo nome senza interrompersi.
« Lui non si è fatto di questi problemi, mi sembra » rispose però Moran.
Come poteva ribattere ora? Come poteva dirgli “no”, quando persino lui stesso non credeva più in niente?
Tutto il tempo passato con Sherlock sembrava un’inezia, qualcosa che solo lui era stato idiota abbastanza da considerare importante. Aveva tanti bei ricordi di lui – non ultimo quel bacio, quella notte sempre più lontana e sfocata – ma ai suoi occhi si erano trasformati in momenti incongruenti, attimi che solo lui aveva ancora il coraggio di conservare con cura.
Scommetteva che Sherlock se ne era già dimenticato. Anzi, probabilmente per lui era stata tutta una prova, una sorta di gioco, di esperimento. E lui, John Watson, un cagnolino fedele con cui giocare per un po’ e che poi aveva abbandonato.
Abbandono, sì. Aveva convissuto con l’abbandono. Lo aveva respirato con l’aria e ingerito con l’acqua.
Per lui Sherlock Holmes era importante.
O meglio, lo era stato.
Non si ricordava più quando aveva smesso di esserlo.
Cosa lo obbligava a proteggere Sherlock Holmes? Cosa lo spingeva a rispondere “vaffanculo” col rischio di venire ucciso a sangue freddo esattamente lì, su quella banchina? Lo avrebbe fatto se avesse saputo.
Lo avrebbe fatto, se il nome sul proprio dito non stesse inesorabilmente scomparendo.
Cosa si ha da perdere quando non si possiede più niente ed il futuro non ha in serbo nulla se non l’incertezza? A cosa dovrebbe aggrapparsi una persona se tutto ciò che ha di più caro si scopre essere frutto di una menzogna?
Perché non assecondare le aspettative della società, allora?
Perché non scegliere la strada più semplice?
« Quale sarebbe la mia parte in tutto questo? » domandò dopo qualche istante di pensoso – e rassegnato – silenzio. Le persone attorno a loro cominciavano a muoversi sul posto, irritate per il ritardo del treno.
« L’esca » rispose semplicemente Moran.
John ridacchiò amaramente. « Chi ti dice che gli importi così tanto di me? ».
« Ti ha salvato la vita. Vi ha salvato la vita. A te, a quel Detective di Scotland Yard e alla vostra padrona di casa. Eravate dei bersagli tutti e tre » gli spiegò: « verrà anche questa volta. Non si sarebbe impegnato così tanto a darci la caccia, altrimenti ».
Era consapevole che quella rivelazione avrebbe dovuto rabbonirlo, fargli provare orgoglio o, quantomeno, un positivo senso di comprensione nei confronti di Sherlock... ma non fu così. Non sentì niente, nemmeno dispiacere, tantomeno responsabilità.
« Intuirà tutto » rispose John.
Il Colonnello fece spallucce: « ci proverà comunque » assicurò.
« Come fai ad esserne sicuro? » continuò John.
Moran, distrattamente, si toccò la fede con le dita. « Ci conto » rispose solamente.
Anni prima non avrebbe mai accettato. Sarebbe stato persino nauseato dal pensiero di lavorare al fianco del braccio destro di Moriarty, l’uomo che aveva fatto passare loro l’inferno.
Ma non in quel momento. Non più. Non sentiva niente. I suoi sentimenti erano addormentati, rinchiusi in un angolo buio del suo subconscio, inermi. Forse era quella la cosa davvero spaventosa.
Nel suo silenzio, Moran osservò l’orologio. « Tempo scaduto, Capitano » disse, staccandosi dal muro e raddrizzando la schiena. « Due giorni, Watson. Sai come contattarmi ».
John aggrottò minacciosamente le sopracciglia. « Credi davvero che userò gli Irregolari? » chiese.
« E tu credi davvero che me la prenderò con dei bambini? » chiese di rimando Moran, come se il fatto che avesse un briciolo di coscienziosità fosse scontato.
John non rispose, limitandosi a guardare le spalle del Colonnello mentre si allontanava in direzione dell’uscita.
 
 
 
 
Pensò a quella possibilità tutta la notte. E tutto il giorno seguente. E persino la notte successiva.
Senza dormire, senza mangiare. Immobile con lo sguardo fisso in un punto.
Aveva contato i propri pensieri uno ad uno, considerato le possibilità e le conseguenze, le prospettive. Si era lasciato affogare nell’idea alla ricerca di un qualcosa che lo fermasse o che, almeno, gli facesse nascere il dubbio.
Ma non trovò niente.
Riusciva solo a pensare che Sherlock era vivo, lo era sempre stato, e lui non lo aveva mai saputo.
Qualcuno sapeva? Quasi sicuramente sì. Qualcuno doveva averlo aiutato a fuggire, a nascondersi, a fingere.
Chi? Qualcuno che conosceva? Qualcuno di cui si fidava?
Più ci pensava e più si sentiva tradito, patetico... inutile.
Rimpiazzabile.
La mattina del terzo giorno mandò Agatha a cercare Rick e strappò un foglietto dal blocco delle ricette. Afferrò una penna e, senza esitare, scrisse la sua risposta.
 

Ci sto.

 
 
 
 

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Londra, Regno Unito.
Due anni e dieci mesi.
Fra tutto quello che il Detective Inspector Lestrade avrebbe potuto trovare ritornando a casa dal lavoro – vivendo con un Holmes non si può mai dire – ciò che effettivamente trovò lo lascio esterrefatto.
Seduti sulle due poltrone del salotto, uno di fronte all’altro, i fratelli Holmes lo stavano guardando  in silenzio.
O meglio, si erano zittiti non appena avevano sentito la porta d’ingresso aprirsi e chiudersi, Greg ne era sicuro. Non li aveva sentiti parlare, né sospettava della loro presenza finché non li aveva visti, ma quei due avevano dipinta in faccia quell’espressione a tratti tesa di quando si sta parlando di qualcosa di privato al tavolo del ristorante e il cameriere arriva con l’ordine.
D’altro canto, probabilmente gli stavano dando il tempo di ammortizzare il trauma.
Cosa che Greg non stava assolutamente facendo. Ci vollero cinque minuti buoni  prima che riuscisse a smettere di fissare Sherlock e chiudesse la bocca, tra l’altro senza nemmeno ricordarsi quando l’avesse spalancata.
« Non è vero » balbettò dopo quattro tentativi a vuoto: « tu sei morto ».
« Vedo che non hai ancora perso il vizio di sottolineare l’ovvio, seppur errato » commentò Sherlock, guadagnandosi un’occhiata di sbieco da parte del fratello.
Lo stesso che, subito dopo, si rivolse a Lestrade. « Greg, possiamo spiegarti tutto se manterrai la calma necessaria ad ascoltare senza farne una tragedia » premise.
« Farne una tragedia? » ripeté l’Ispettore, risentito: « farne una tragedia?! Io non ne sto facendo una tragedia, questo è un fottuto complotto! » sbottò, lanciando il trench sul divano di fronte alle due poltrone. Greg Lestrade era sempre stato molto schietto nell’esprimere i suoi stati d’animo, ma ciò che indicava davvero un suo stato d’alterazione era il numero di imprecazioni che usava in una frase.
Nessuno dei due Holmes osò pronunciare parola.
Lestrade continuava a guardarli con un’espressione incredula e le sopracciglia contratte in un cipiglio aggressivo. Aveva voglia di dargli un pugno, Sherlock poteva facilmente dedurlo. Stava stringendo la mano lungo il fianco fino a far sbiancare le nocche nello sforzo di trattenersi. Forse non lo aveva ancora aggredito senza riserve per “merito” della presenza di Mycroft. Non si sarebbe sorpreso se il poliziotto avesse cominciato a limitare le le zuffe da basso borgo, quando era in compagnia del suo compagno.
Gli ci vollero ancora alcuni minuti prima che realizzasse completamente la situazione e capisse anche ciò che non era rivelato, ma ampiamente sottointeso. Girò lentamente il capo e il suo sguardo si posò proprio su Mycroft.
« Tu lo sapevi... » mormorò, incredulo. Per la prima volta, Sherlock vide un accenno evidente d’ansia sul volto del fratello.
« Sì, ma– ».
« Lo sapevi! » lo interruppe Lestrade, alzando la voce: « tre fottuti anni e l’hai sempre saputo! » continuò, a dir poco agitato.
L’ansia fece posto alla fermezza, sul volto del politico. « C’era più di un buon motivo per non metterti al corrente del piano, Gregory. Ora calmati » disse, il tono normale ma profondo, adamantino.
Peccato non servisse proprio a niente.
« Non dirmi di calmarmi, Mycroft, maledizione! » rispose l’Ispettore, alzando la voce quel tanto che bastava ad imporsi sull’altro (una cosa che solo a lui sembrava essere permessa): « fra tutte le cose che potresti dire in questo momento, “calmati” è la più sbagliata! » esclamò.
Mycroft mantenne il contegno. « Stai esagerando » disse.
« Non credo proprio » ribatté però Lestrade: « voi Holmes non avete filtro, siete geneticamente programmati per essere dei cazzoni, dunque non avete la fottuta idea di cosa voglia dire “esagerare” » disse tutto d’un fiato, guardando Mycroft ma riferendosi ad entrambi: « perché sì, signor Governo, fare finta di suicidarsi e sparire dalla circolazione per tre anni, lasciando indietro tutte le persone che a lui tenevano e che tuttora lo credono morto, si chiama “esagerare”. Anzi, si chiama “oltrepassare il limite della decenza”! » si sfogò.
In tutto questo, Mycroft rimase seduto e calmo, come se ciò che l’altro stava declamando non fosse nemmeno di suo interesse. Ma era una facciata: in realtà aveva assorbito ogni parola e la prova tangibile che lo stesse ascoltando attentamente era il fatto che avesse tenuto le mani ancorate sui braccioli della poltrona dal momento in cui Lestrade aveva messo piede nella stanza.
Suo fratello era cambiato, considerò Sherlock. E non pensava fosse solo merito del Legame, se era arrivato ad avere una così alta considerazione per Lestrade da subire una ramanzina – anche se non rivolta direttamente a lui – in silenzio. Mycroft Holmes non era rimasto zitto nemmeno l’unica volta in cui sua madre aveva messo in discussione l’alimentazione poco salutare a base di carboidrati e zuccheri che lo rendeva un ragazzino sovrappeso con la faccia rotonda. Era entrato in politica non solo per merito della sua intelligenza, ma anche grazie alla sua particolare caratteristica di potersi rigirare le persone sul dito utilizzando un quantitativo effettivo di sole 50 parole, congiunzioni comprese.
Potere a cui Lestrade sembrava essere completamente immune.
Dopo lunghi minuti di esclamazioni furiose e sguardi infuocati d’ira, nella stanza calò il silenzio. Greg aveva la mascella contratta e il fiato corto, ma alla fine si arrese all’evidenza di non ricevere alcun tipo di risposta da parte del compagno e, irritato, sbuffò. Si strofinò gli occhi con le dita, riflettendo sul da farsi e trovando finalmente la calma necessaria per ascoltare. Poi, per la prima volta dall’inizio di quella discussione, posò lo sguardo su Sherlock.
Sembrava che stesse guardando un poltergeist, o qualcosa di molto simile ad uno spettro. Anche solo vederlo respirare, notò Sherlock, lo agitava. Pensò che fosse una reazione tutto sommato normale, dato che per tre anni in molti lo avevano creduto sepolto in una bara sotto svariati metri di terreno e un prato ben curato.
Greg prese un respiro profondo, prima di tirare fuori la voce.
« Dammi un buon motivo per non prenderti a pugni seduta stante, perché giuro che non ho mai avuto così tanta voglia di vedere qualcuno sputare i denti uno per uno a furia di calci in bocca »  disse.
Sherlock sostenne il suo sguardo ma non rispose.
« Cosa... cosa ti è venuto in mente di fare? Perché? Io non... non mi sento nemmeno in grado di commentare in modo intelligente ».
« Ho notato » ribatté Sherlock; Lestrade gli scoccò un’occhiataccia.
« Dovrei pestarti a sangue » ripeté poi l’Ispettore.
Il minore degli Holmes annuì ma non ruppe il silenzio.
« Cristo santo... » borbottò poi il poliziotto, strofinandosi ancora gli occhi con la mano destra e lasciandosi cadere sul divano: « tre anni... il funerale, i fiori, i processi... John è finito in galera, lo sai questo? Anche sui giornali. Gli hanno rovinato la vita pubblicamente mentre ti piangeva e tu stavi... facendo cosa, di preciso? Ti nascondevi? Ovvio che ti nascondevi... » continuò a parlare con la mano sugli occhi. « Spero che tu abbia intenzione di dirglielo. Tipo, adesso » aggiunse poi, tornando a guardare il detective.
Sherlock scosse il capo. « No. Per John è ancora troppo presto » disse.
Lestrade lo guardò come se dovesse azzannarlo al collo, ma vide qualcosa negli occhi di Sherlock che lo fece desistere. Persino Sherlock era ormai consapevole di cosa avesse visto l’altro – quell’istante in cui non aveva potuto impedirsi di abbassare gli occhi al ricordo di John, del nome che ora l’anello d’argento aveva scopo di nascondere – e cercare di nasconderlo era più un dolore che una necessità.
Ci volle un altro minuto, prima che l’Ispettore cedesse. « Va bene... » concesse poi: « spiegatemi tutto ».
Mycroft incrinò le labbra nell’ombra di un sorriso. « Grazie, Greg » gli offrì.
« Aspetta prima di ringraziare, Myc » rispose però Lestrade: « ho deciso di ascoltarlo, non di perdonarlo ».
 
 
Il racconto di Sherlock durò più di un’ora. La cena era stata presto sostituita da tre bicchieri di Whiskey e ghiaccio, che nel caso dello Yarder si erano trasformati in tre bicchieri di Whiskey liscio.
Raccontò tutto. Dalla caduta alla fuga a Firenze, dall’anno passato sotto copertura a Lhasa alla caccia attraverso tutto il Medio Oriente fino in Francia. Del ruolo di Molly, e di Victor, e di Mycroft. Di come avesse dovuto rimanere solo e nascosto, mantenendo il segreto, accontentandosi di alcuni brandelli d’informazione che non sempre riusciva ad avere. Raccontò tutto con il tono fermo ma senza mai staccare gli occhi dal tappeto. Si interrompeva ogni tanto per bere un sorso d’alcool dal bicchiere ma riprendeva subito dopo, senza altre interruzioni, che comunque non arrivarono mai.
Quando arrivò alla fine, il silenzio scioccato di Lestrade e quello carico d’aspettativa dei due fratelli si fusero in una coltre pesante che li avvolse.
Il poliziotto sbatté le palpebre un paio di volte, con le labbra socchiuse e gli occhi fissi su un punto qualsiasi fra le poltrone di Sherlock e Mycroft. Teneva in mano il bicchiere vuoto da più di venti minuti, a mezz’aria, e più volte aveva preso fiato come se dovesse parlare ma non aveva pronunciato parola.
Infine sospirò, massaggiandosi la radice del naso con pollice ed indice della mano libera.
« Mi serve una sigaretta... » borbottò, parlando più a se stesso che con le altre due persone presenti.
« Mi sembrava che avessi smesso » intervenne Mycroft, più che altro per cercare di alleggerire la tensione che il silenzio contribuiva solo ad appesantire ancora di più.
« Quelle d’emergenza non valgono » ribatté lo Yarder, appoggiando finalmente il bicchiere vuoto sul tavolino e chinandosi in direzione di Sherlock, i gomiti puntellati sulle ginocchia. « Credo di doverti ringraziare » disse con un mezzo sorriso strano.
Sherlock scosse il capo. « Non l’ho fatto per te ».
« L’hai fatto anche per me. Dunque grazie » ripeté Greg, apparentemente più tranquillo e padrone di sé. Si alzò, poi, stiracchiandosi e adocchiando l’orologio: « è tardi, ma ho fame. E tu hai bisogno di mangiare qualcosa, sembri trasparente. Se ti mettessi controluce potrei vederti le ossa » disse rivolto a Sherlock.
« No, io– » cercò di rispondere il consulting detective, ma ribattere fu inutile.
« Non era una domanda » tagliò corto Lestrade, incamminandosi verso la cucina.
Mycroft si alzò, seguendo il compagno in cucina come se fosse semplicemente abitudine (e forse lo era). Sherlock esitò un istante, adocchiando il proprio anello d’argento come per riflesso condizionato, pensando per lo stesso principio a John, che ancora non sapeva nulla.
Smise di osservare la piccola striscia di metallo – e di immaginarsi il nome sottostante – prima che nella sua mente apparisse per troppo tempo il volto di John; si alzò a sua volta e seguì il fratello in cucina.
In quel momento, il telefono di casa Holmes trillò.
 
 
 
 

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L’automobile grigia procedeva a velocità sostenuta sulla A400 diretta verso nord. Il blu indaco della sera colorava un cielo stranamente sereno sopra lo skyline degli edifici in centro, che sfilavano velocemente fuori dal finestrino posteriore da cui John li stava guardando. Non distolse lo sguardo finché, dal sedile davanti a lui, non arrivò il segnale acustico di un SMS ricevuto.
« È stato avvistato a Heathrow due ore fa » disse Moran. Era sottointeso che parlasse con John e non con i due scagnozzi silenziosi che erano rientrati nel piano come fantocci di contingenza.
John chiuse le dita intorno al proprio anello d’argento – che ormai non copriva più alcun nome visibile – e strinse forte.
« Sei sicuro che sia lui? » chiese poi.
Non poteva vedere il volto del Colonnello ma riuscì ad immaginarsi comunque la sua espressione accigliata. « Hai ancora dei dubbi, Capitano? » domandò infatti quello.
Watson non rispose.
« Lo sospettavo » continuò Moran: « è difficile convincere il fedele Watson del torto subito per mano del suo Holmes » ironizzò.
« Non è il mio Holmes » ribatté però John con rabbia, dando retta più all’istinto che alla ragione (ancora indecisa, dubbiosa, piena di paure). La mano era stretta attorno all’anello così forte da premere dolorosamente il metallo contro la pelle dell’anulare. « Non lo è... » soffiò fra le labbra.
Non lo è mai stato.
 
 
 
 

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Lo studio di suo fratello non era cambiato di una virgola rispetto all’ultima volta che lo aveva visto (molto prima di andare a vivere a Baker Street); file ordinate di libri rilegati in pelle riempivano le librerie a parete e gli schermi piatti di due computer facevano sembrare la scrivania uno spaccato di qualche ufficio dell’MI6.
Mycroft li precedette all’interno della stanza a passo svelto, accendendo uno dei due monitor nel sedersi sulla poltrona di pelle. Inserì velocemente una password di sicurezza e, senza esitare, aprì l’allegato di una mail privata arrivatagli giusto qualche minuto prima, contemporaneamente alla telefonata che aveva interrotto qualsiasi loro tentativo di mettere qualcosa sotto i denti.
Il file era un video.
« Una telecamera su Northumberland Avenue ha registrato questo » disse il maggiore degli Holmes, facendo partire un filmato lungo solo quattro minuti e ripreso in bianco e nero senza audio.
Sherlock e Lestrade , in piedi ai lati della sedia di Mycroft, osservarono sconcertati le immagini di un cupo e apparentemente ignaro John Watson che veniva affiancato da un’auto argentata, preso di spalle dalle due persone che camminavano sul marciapiede dietro di lui e costretto a salire contro la sua volontà.
Un sequestro di persona in piena regola.
« Cristo santo... » borbottò fra i denti Greg, tappandosi la bocca con la mano destra in segno di completa incredulità. Sherlock si limitò a sgranare gli occhi, allungandosi per far ripartire il filmato e guardarlo più da vicino.
« L’auto risulta rubata » continuò Mycroft: « i due uomini che hanno preso il dottor Watson alle spalle sono entrambi pregiudicati e BCE, si chiamano Ivan Stanislav e Mika Kojinskij, figli di immigrati ucraini. Precedentemente incriminati per furto aggravato e sequestro di persona ».
« Sono rintracciabili? » domandò Lestrade, mentre Sherlock era ancora concentrato sul video e lo riguardava ossessivamente ancora e ancora.
« Li stiamo attualmente seguendo » confermò Mycroft: « sembra che non facciano nulla per evitare le telecamere CCTV, anzi. Si ha quasi l’impressione che vogliano rimanere in vista » disse.
« Una trappola? » domandò Greg.
« Un invito » intervenne però Sherlock.
Mycroft annuì. « Immagino che non ci sia bisogno che ti suggerisca chi penso ci sia, dietro a tutto questo » disse poi, intrecciando le dita delle mani e posandole sul legno scuro della scrivania.
« Moran » confermò Sherlock senza nemmeno guardarlo: « è palese. Ma questo video non mi convince. C’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che non va? Cosa c’è che non va? Deve esserci qualcosa che non va » cominciò a borbottare velocemente, guardando il filmato per l’ennesima volta.
« A me sembra abbastanza chiaro » commentò Greg.
« Per fortuna che non ci sei solo tu, allora » rispose Sherlock piccato, guadagnandosi (ancora) un’occhiataccia da parte di Mycroft (che ignorò).
Doveva per forza esserci qualcosa di sbagliato. Per quanto fosse capitato in passato che John venisse rapito – da Moriarty, in primis – era stato differente. Era un soldato, dopotutto, poteva essere preso alla sprovvista ma non trattenuto per troppo tempo... non lo avevano addormentato. Non lo avevano addormentato. Si erano limitati a caricarlo in macchina con la forza... che senso aveva? John avrebbe potuto lottare, ribellarsi... magari c’era qualcun altro in macchina? Qualcuno pronto a puntargli una pistola alla tempia ordinandogli di non reagire? Lo stesso Moran? Quante probabilità c’erano?
Arricciò il naso in una smorfia, non riuscendo a seguire i propri pensieri. Strinse i denti fino a sentire dolore alle gengive e, con uno scatto d’ira, sbatté violentemente le mani sulla scrivania.
Lestrade sobbalzò mentre Mycroft si limitò ad osservarlo. « Che cosa vuoi fare? » chiese poi il politico.
Sherlock ispirò profondamente, osservando un fermo immagine del momento in cui John stava per essere trascinato in macchina. « Vado » disse poi.
« È una trappola » ribatté Mycroft.
« Lo so » rispose Sherlock: « ma è John ».
Gli occhi di Mycroft si assottigliarono. « Ed è importante? » domandò.
« Myc! » esclamò Greg scandalizzato, ma Holmes alzò la mano come per fargli cenno di aspettare la fine del discorso.
Sherlock non rispose, continuando a guardare fisso gli uomini incisi in quel fotogramma.
Mycroft continuò. « Lo hai tradito prima tu. In buona fede ma nella consapevolezza di avere poche, se non rare, chance di perdono. Sapevi e sai benissimo che saresti potuto tornare e non trovarlo più, dato che non ti stava di certo aspettando. Sarà anche tuo amico ma, oggettivamente, lo ritengo una persona inutile se non rimpiazzabile » lo stuzzicò. « Cosa ti ha fatto cambiare idea? ».
Sherlock non diede segno di voler rispondere.
Ma il fratello non si arrese. « Sherlock? » incalzò.
« Vuoi farla finita?! » sbottò allora il più giovane, ringhiando in direzione dell’altro: « è John, è ovvio che voglio salvarlo! È stato lo scopo degli ultimi tre anni della mia vita! » esclamò.
Ma Mycroft scosse il capo. « Non è solo questo. C’è qualcos’altro » disse.
« Oh, da quando sei diventato così intuitivo, Mycroft? » sfotté il detective.
Gli occhi di Mycroft si posarono su Lestrade per un istante. « Non si finisce mai di imparare » disse criptico, tornando a guardare Sherlock con lo sguardo di chi si aspetta di sentire la risposta che vuole.
Sherlock roteò gli occhi, esasperato. Facciamola finita. Si tolse senza grazia l’anello d’argento dal dito e allungò la mano in direzione dei due uomini.
Sull’anulare c’era, inciso in un rosso vermiglio, il nome “John”.
Le sopracciglia di Mycroft si alzarono per la sorpresa mentre Lestrade, spalancando la bocca, soffiò fuori un ennesimo: « Cristo santo! ».
Aspettò qualche istante, Sherlock, prima di prendere la di nuovo la parola. « Come vedi, c’è un motivo valido » disse.
« Potrebbe non essere lui » intervenne Mycroft, ostinato.
« Non potrebbe essere nessun altro » rispose però Sherlock, e per la prima volta nei suoi occhi grigi si leggeva molto più della logica razionalità a cui aveva dedicato la propria vita.
« John ha il tuo nome sul dito » intervenne poi Lestrade: « lo sapevi? ».
Sherlock annuì.
Lo yarder lo guardò dritto negli occhi per un po’, salvo socchiuderli nello sbuffare poco dopo. « Ora non posso di certo lasciarti andare da solo » disse.
Mycroft, nella poltrona, sussultò appena. Lestrade, notandolo, gli appoggiò una mano sulla spalla e la strinse piano. Sotto quel tocco, Holmes sembrò rilassarsi.
« Fai attenzione » disse poi a Greg, il tono basso e intimo.
« Come sempre » gli rispose Lestrade nel medesimo tono.
« Anche tu » aggiunse poi rivolto a Sherlock, che annuì semplicemente.
Bastò uno sguardo perché Sherlock e Lestrade uscissero di fretta dalla stanza, diretti verso quello che, piuttosto che una trappola, sembrava un formale invito all’ultimo giro di carte di una partita durata tre anni.
 
 
 
 
Camden Town era uno dei quartieri di Londra più adatto per lo shopping eccentrico. Pieno di negozi d’ogni tipo e dimensione, da buchi di qualche metro quadro a veri e propri edifici su tre piani, era il posto giusto per tutte quelle persone che nel vestire e nell’arredamento avevano gusti particolari. Botteghe di tatuatori si alternavano a negozi con abiti stile goth e dark, magliette a mezze maniche con stampe di ogni tipo, cappellini a visiera e deer stalkers, scarpe, bigiotteria, erbe orientali e molto altro.
Centro nevralgico del quartiere era però il mercato vero e proprio: il Camden Lock Market. Costruito sulle sponde del Regent’s Canal, non poteva essere descritto se non come un vero e proprio concentrato di vita e persone, merci accatastate una sull’altra in bancarelle all’aperto o al chiuso, un potpourri infinito di decorazioni etniche, vestiario, bigiotteria, libri, oggetti vintage, antiquariato, modernità e cibi di ogni nazionalità. I prezzi tutto sommato accessibili e qualche vendita sottobanco facevano del posto il luogo ideale per i giovani.
John non ci andava da molto, ma ci era stato qualche volta con alcuni compagni di università quando si era appena iscritto a Medicina. Ricordava dettagliatamente l’atmosfera calorosa e piena di vita di quel luogo, ricco di persone e risuonante di musica e delle urla dei commercianti, e nonostante fosse un luogo perennemente affollato non aveva potuto fare a meno di girarlo in lungo e in largo con la classica curiosità della gioventù.
Tuttavia, in quel momento il Camden Lock non era niente di ciò che ricordava.
Il buio della mezzanotte aveva fatto cadere sulle bancarelle di legno tutte in fila un velo di silenzio inquietante, mentre il cielo coperto di nubi non aiutava la luce della città a riflettersi abbastanza per illuminare la strada. Il lieve lucore che gli consentiva di vedere almeno un po’ davanti a sé proveniva dalle luci della vicina Chalk Farm Road e dai lampioni rotondi in ferro battuto installati sui marciapiedi in riva al canale.
Anche così, però, il luogo era silenzioso e deserto e John poteva sentire solo l’eco dei propri respiri riempire l’aria.
Solitudine. Era esattamente la parola adatta per descrivere quello che aveva in quel momento davanti agli occhi – e dentro al cuore. Incredibile come un luogo come quello, pullulante di vita al mattino, la notte divenisse un posto così freddo e desolato.
Un rumore di passi lo distrasse. Da una curva del sentiero alla sua destra spuntò Sebastian Moran con il volto illuminato dall’accendino con cui si stava accendendo una sigaretta.
« Hanno abboccato all’amo » disse, avvicinandosi e appoggiandosi con le natiche alla stessa balaustra di ferro a cui era appoggiato John.
Watson lo guardò con la coda dell’occhio ma non rispose. Moran sbuffò una voluta di fumo bianco che diffuse nell’aria l’odore acre della nicotina, subito spazzato via dalla leggera brezza notturna.
« Lo ucciderai? » domandò poi, lo sguardo fisso davanti a sé.
Il Colonnello prese un’altra boccata di fumo. « Sì » rispose l’ex militare senza esitazione: « tu riuscirai a fare lo stesso? » domandò poi.
John, ancora una volta, non rispose.
« Non è importante » riprese Moran: « la tua funzione principale è l’esca ».
John inspirò una grossa boccata d’aria, soffiandola poi fuori dal naso.
Non era sicuro che sarebbe stato in grado di uccidere Sherlock, o se la rabbia avrebbe semplicemente preso il sopravvento e avrebbe lasciato che il fato facesse il suo corso. Non era convinto di potersi trasformare in un criminale ma era sicuro di avere la forza di farlo, di poterlo oggettivamente diventare. Si sentiva come in piedi al centro di quel fantomatico incrocio con più direzioni, solo che le strade che si dipanavano davanti a lui erano tutte oscure e scoscese. Era in grado di uccidere, lo aveva già fatto. La differenza dai tempi di guerra esiste solo socialmente, solo agli occhi degli altri, perché un soldato che preme un grilletto, che mette in atto l’azione semplice del piegare un dito su di un pezzo di metallo, rimane la stessa. Ciò che differenzia un criminale da un eroe è solo la presenza di un nemico che persone più in alto di te ti danno il permesso di uccidere.
Ma cosa succede quando non esistono persone “più in alto”? Quando si è padroni solo di se stessi?
Uccidere per se stessi... perché è sbagliato?
Non riusciva più a discernere fra buono e cattivo, fra eroe e criminale, e più ci pensava più si rendeva conto che era questo, questo, che lo avrebbe trasformato in un assassino.
Che l’obbiettivo fosse Sherlock, alla fine, faceva ben poca differenza.
 
 
 
 
Lestrade frenò bruscamente sotto il ponte della ferrovia del Camden Lock Market, accostando il più possibile l’auto al bordo della strada e spegnendo il motore. Il fatto che fosse un punto particolarmente coperto alla vista di chiunque li aiutò a sgattaiolare in silenzio fuori dalla vettura e dirigersi, mantenendo lo stesso silenzio, verso la cerchia di fitte bancarelle di legno scuro.
« Ho chiamato i rinforzi » mormorò Lestrade, estraendo dalla fondina la sua 9mm d’ordinanza mentre seguiva Sherlock verso il mercato: « rimarranno appostati all’esterno del perimetro fino a nuovo ordine. Non voglio rischiare la vita di John, qualunque sia la situazione » disse.
Sherlock annuì, percorrendo alla chetichella la stradina in discesa che costeggiava una sponda del Regent’s Canal e si buttava nell’area centrale della zona mercantile. Proseguirono con passi leggeri, coperti dalle ombre, camminando affiancati alle lunghe file di banchetti ben chiusi.
Non riusciva a togliersi dalla mente l’idea che ci fosse qualcosa di sbagliato, in tutta quella situazione; un po’ come ascoltare una sinfonia nel pieno d’orchestra e notare comunque il suono distorto dell’unico violino male accordato.
Era strano, ma non avrebbe saputo spiegare perché. Se glielo avessero chiesto, non sarebbe riuscito a puntare il dito sul fotogramma esatto di quel filmato in bianco e nero che gli aveva fatto nascere il dubbio, perché era una sensazione d’insieme, un’invisibile filo spezzato nell’intreccio di un intero tappeto. Nascosto talmente bene che gli occhi da soli non sarebbero riusciti ad individuarlo.
Non c’era niente, nel filmato, che fosse oscuro, o poco chiaro. Il suo era un vero e proprio presentimento, qualcosa di così illogico e astratto che il suo primo istinto fu di rifiutarlo. Forse era per quello che non riusciva a capire.
Ma il presentimento restava, appoggiato sulle sue spalle come una colpa, ancorato al suo stomaco sottoforma di fastidio.
Forse non voleva trovare la pecca, il segno sbagliato che invalidava l’intera equazione. Forse era perché riguardava John, il rapimento di John; ciò che aveva voluto evitare e per cui aveva sacrificato 3 anni della propria vita (senza alcun rimpianto), l’unico obiettivo per cui aveva inseguito una manciata di uomini per tutta l’Asia: tenere John al sicuro. Si trattava di Moran che era riuscito a mettere le mani su John e questo non era concepibile.
Si chiese se non fosse colpa del nome. Se non fosse la nuova consapevolezza di avere qualcuno, qualche lettera sul dito che ormai aveva disperato dal possedere. Essere diventato, almeno sotto quel frangente, come gli altri: la metà di qualcos’altro, qualcosa all’infuori di sé, oltre sé. Si chiese se non era solo suggestione, preoccupazione inutile.
Eppure.
Cos’era quel sentore? Quel dubbio di aver fatto un errore di considerazione? L’ultima volta che l’aveva provata era seduto in un pub di Dartmoor e cercava di convincersi di non aver visto un enorme mastino idrofobo con gli occhi rossi. (Oppure due giorni dopo, in un mattino dalla luce grigia, quando aveva applicato lo stesso procedimento mentale per chiudere dentro di sé una notte intera di languidi baci).
Obbligando se stesso a rimanere concentrato, fece cenno a Lestrade di accovacciarsi e nascondersi nell’angolo in ombra dell’ultima bancarella della via. Allungando il collo oltre la svolta gettarono una prima occhiata alla piazzetta centrale interna.
Lì, in piedi accanto ad una delle prima panchine sotto i gazebo in ferro battuto al centro della piazza, Sebastian Moran era in attesa. La sagoma dell’ex soldato era visibile nonostante la luce fioca, e se non fosse bastato vi era comunque il punti arancione della sigaretta che stava fumando.
Lestrade gli toccò brevemente la spalla con le dita e Sherlock annuì senza scostare gli occhi da Moran. Il detective sentì chiaramente il “click” della sicura della 9mm che veniva rimossa.
Moran sembrava essere solo. Che tenesse John in un altro posto? No, secondo le informazioni raccolte da Mycroft erano stati visti arrivare a Camden insieme. Era stato lasciato da qualche altra parte di quel luogo? Dopotutto il Market era esteso. Magari lo aveva legato, immobilizzato, imbavagliato... era incosciente? Lo aveva... picchiato?
Sentì nascere dentro di sé una rabbia tanto irrazionale quanto lo erano i suoi stessi pensieri.
Aveva ragione a pensare che John lo rendesse un uomo peggiore. Lo rendeva debole.
Sospirò, decidendo di fare la sua mossa. Fece segno a Lestrade di mantenere la posizione e, prima che lo yarder riuscisse ad impedirglielo (che ci provasse, per lo meno), si alzò e camminò in direzione di Moran, un passo dietro l’altro senza una specifica cadenza o forza.
L’ex Colonnello non sembrava armato ma Sherlock non ci avrebbe giurato. Dopotutto era famoso per essere stato un tiratore scelto dell’esercito prima di venire congedato con disonore per diserzione, e imprigionato per omicidio plurimo.
Moran, a vederlo comparire, alzò il capo e lo guardò avvicinarsi. La sua espressione non variò dalla maschera di freddezza che stava indossando; si limitò a prendere la sigaretta fra pollice ed indice, gettarla a terra e spegnerla con la punta della scarpa.
Sherlock si fermò ad una decina di metri di distanza, braccia lungo i fianchi e occhi puntati sull’ex soldato. A sua volta, Moran incrociò il suo sguardo.
« Mi hai cercato a lungo » disse poi il braccio destro di Moriarty: « eccomi ».
« Dov’è John? » domandò subito Sherlock, scoprendo le sue carte senza nemmeno prendere in considerazione che, così facendo, avrebbe potuto mettere in evidenza una sua debolezza. Dopotutto era lì, e il motivo reale per cui si era precipitato in una trappola fin troppo ovvia era più che palese.
Sebastian Moran non rispose subito. « Puoi dire al poliziotto che ti accompagna di uscire allo scoperto » disse però quando decise di farlo.
Holmes non provò nemmeno a fingere che così non fosse. Non aveva notato alcuna sentinella all’interno del Market ma non era escluso che ne avesse qualcuna all’esterno. I due uomini che lo avevano aiutato a rapire John erano mercenari, uomini che finché avevano un guadagno garantito potevano fare qualsiasi cosa per chiunque la richiedesse, senza fiducia né obblighi verso niente e nessuno se non il denaro.
Alzò una mano e fece cenno a Greg di avvicinarsi. Avrebbe giocato a carte completamente scoperte. Se Moran era davvero l’uomo che i suoi informatori avevano descritto, allora avrebbe fatto di tutto per condurre una partita ad armi pari. Gli avrebbe mostrato John.
Lestrade orbottò qualche insulto a denti stretti, uscendo dall’ombra con la pistola bassa ma ben ferma fra le mani. Si fermò qualche metro dietro Sherlock, sottolineando con la posa e lo sguardo che era pronto ad aprire il fuoco a qualsiasi movimento sospetto.
Ma Moran era tranquillo. John aveva detto, una volta, che la guerra cambiava la percezione del pericolo di un uomo, e di conseguenza anche la soglia di tensione e stress necessari per spezzare lo stato di concentrazione delle persone abituate ad essere sempre all’erta.
Come i soldati.
Come si era aspettato, non fu necessario che Sherlock ripetesse la domanda. Moran fece un cenno con la mano a qualcuno nell’ombra dietro di lui, che cominciò ad avanzare fino ad affiancare l’ex soldato e farsi vedere da Holmes e Lestrade. Fu così che accanto a Moran, decisamente sano e salvo e senza armi puntate minacciosamente alla tempia, comparve John Watson.
Greg non arrivò subito a realizzare cosa stava succedendo, ma Sherlock sì. Sherlock notò la postura tesa ma non agitata, la pistola (non sua) impugnata con la mancina e premuta contro la gamba, ma più di tutto lo sguardo, quegli occhi stanchi e rassegnati cerchiati da occhiaie violacee, ombre scure che oscuravano qualsiasi cosa bella si ricordasse di poter vedere, dentro quelle iridi blu, e che adesso non risiedevano in nessuno dei suoi sguardi. Era arrabbiato, anzi, era furioso, e Sherlock poteva percepire quell’ira come un’estensione del corpo di John, un’onda che irradiava da lui e si espandeva fino ad investirli.
Holmes capì senza esitazione che John non era affatto stato rapito.
John Watson era lì di sua spontanea volontà.
« John! » esclamò Lestrade, il tono sollevato. « John, stai bene? » domandò, preda di un’ingenuità (o di una fiducia) cieca.
Ma John non gli rispose. In realtà, non scostò mai lo sguardo da quello di Sherlock.
Alla mancata risposta, anche della voce di Lestrade si insinuò il dubbio. « John...? » chiamò ancora, questa volta interdetto, spostando lo sguardo dall’amico all’ex Colonnello.
« Lestrade, basta così. Ormai dovresti aver capito » gli disse Holmes, occhi ancora fissi in quelli di John – ancora alla ricerca di un’eco dell’uomo che aveva conosciuto.
Dell’uomo il cui nome era apparso sul suo dito.
Ma non lo vedeva. C’era solo uno sguardo che era come un muro, una fortezza solida cementata con il risentimento; la sua sola presenza tradiva un orgoglio che si reggeva in piedi a stento, più volte distrutto e rimesso insieme alla bene e meglio, incrinato da profonde crepe e smussato agli angoli.
Si chiese per un istante se tutto quello fosse colpa sua, ma scoprì che preferiva di gran lunga non trovare risposta a quella domanda.
Dietro di lui, Lestrade trattenne il fiato quando finalmente realizzò. « Non è possibile... » mormorò incredulo, occhi sgranati fissi su Watson: « non lo faresti mai... » balbettò poi.
« Cuciti la bocca, Greg. Tu sei l’ultima persona a porte dire con certezza cosa farei o cosa non farei » gli rispose John, tirando finalmente fuori la voce, rivolgendosi al poliziotto nonostante continuasse a tenere gli occhi fissi in quelli di Sherlock.
Moran non intervenne, né si mosse in alcun modo. Rimaneva semplicemente in attesa del momento adatto, lasciando a John uno spazio tutto suo come se fosse frutto di un accordo, o di una sorta di contorto rispetto che l’ex Colonnello sembrava provare per l’ex Capitano.
E Greg non demorse.
« John, possiamo spiegarti. Sherlock può spiegarti. Lo ha fatto per– ».
« Salvarmi » lo interruppe però il medico: « per evitare che ci uccidessero. Un proiettile a testa. Lo so. Cosa me ne faccio? Credi che sia una giustificazione? » domandò, freddo, come se non gliene importasse niente (quando in realtà era semplicemente troppo, troppo, da sopportare).
Lestrade rimase senza parole per lo stupore.
Lo sguardo fra loro non si interruppe mai. Sembrava che John stesse ancora decidendo cosa fare con la pistola, se puntargliela finalmente contro o no, e cercava quella risposta nello sguardo di Sherlock, che dal canto suo non sapeva cosa pensare.
Si era aspettato di tutto. Che lo rifiutasse, che se ne andasse, che addirittura non fosse più lì, il giorno in cui sarebbe andato a cercarlo. Si era immaginato le urla e i pugni così come le lacrime e i baci (quando decideva di fantasticare un po’ di più). Tutto... tutto tranne quello.
Tutto, tranne vederlo al fianco dell’uomo che era stato il braccio destro di Moriarty, colui che aveva puntato la canna di un fucile e il relativo mirino su di lui nell’intenzione di ucciderlo, indeciso a sua volta se ucciderlo o meno.
« Cosa ti aspettavi, John? » domandò allora Sherlock: « delle scuse? ».
Watson soffiò fuori una risatina scettica. « Me le faresti? ».
« No » rispose secco Holmes: « non mi pento di ciò che ho fatto ».
« Certo che no... » lo sfotté John, facendo scomparire il sorriso amaro dalle labbra così com’era comparso. Prese un respiro profondo e continuò, il tono duro e sterile: « sai cos’ho detto al poliziotto che mi ha interrogato alla centrale di polizia, subito dopo aver visto il mio migliore amico... ma chi vogliamo prendere in giro, la persona che amavo, buttarsi giù da un tetto e atterrare di faccia sul marciapiede? Mi ricordo le parole esatte: “nessuno mi convincerà mai che mi abbia mentito” » citò a memoria.
Sia Sherlock che Lestrade rimasero in silenzio di fronte a quelle parole, finché John non continuò: « mai mi sarei aspettato che mi avesse mentito davvero » disse con amarezza, arricciando il naso in una smorfia risentita.
Sherlock assorbì ogni parola, sebbene contro la sua volontà, sentendone nello stomaco ogni sillaba. Non poteva impedirselo se era la voce di John che le pronunciava, lo stesso tono che aveva ascoltato per mesi in ogni sfumatura, che aveva ricordato nei momenti difficili accompagnato al suo viso, all’espressione stupita e sorridente che accompagnava ogni “fantastico” che John immancabilmente pronunciava dopo una sua deduzione particolarmente brillante. Giorno dopo giorno quella voce era stata la compagna che lo guidava durante le poche ore di sonno che si concedeva, echeggiando fra le volte imponenti del suo palazzo mentale nelle vesti di un invisibile custode.
Per questo scosse il capo. « Non capisci. Perché non capisci? » borbottò a mezza voce. E ringhiò, frustrato. E rispose.
« Avresti fatto la stessa cosa » affermò, e suonò molto simile ad un’accusa.
« È vero » annuì John.
« E allora perché?! » sbottò il consulting detective facendo un passo avanti; John sussultò al tono improvvisamente alto mentre Moran ebbe un fremito alla mano, che però non mosse dal proprio fianco.
« Per il dopo » rispose John, ora decisamente arrabbiato, ma non aggiunse altro. Aveva molto da dire, Sherlock riusciva a capirlo da come stringeva le labbra, ma non aveva intenzione di farlo. Forse non in quel momento.
Forse mai più.
Gli parve, per un momento, che il nome sotto l’anello bruciasse. Un dolore sordo gli partì dalla mano sinistra, da quel “John” color ciliegia matura, e risalì il braccio lungo i nervi come una piccola scossa. I muscoli del suo braccio si tesero impercettibilmente, ma lui fece finta di nulla.
Stava per ribattere di nuovo – per tentare di capire il perché – ma fu anticipato ed interrotto dallo stesso Moran, che con un movimento veloce si portò la mano dietro la schiena ed estrasse una pistola dalla cintola, puntandola su Sherlock.
Come se fosse stato punto da un’ape, Lestrade rispose a quella mossa puntando l’arma d’ordinanza contro Moran e John, a sua volta, la sollevò su Lestrade. L’unico disarmato era Sherlock così come Moran era l’unico a sapere cosa stesse davvero facendo.
L’ex Colonnello stirò le labbra in un sorrisetto strafottente. « Non ho tutta la notte, Capitano » disse, rivolto a Watson anche se non lo guardava direttamente. John si limitò ad un cenno del capo che non era né una scusa né un riconoscimento. Gli si poteva leggere il dubbio negli occhi ma ora lo stesso dubbio giaceva nelle membra di Sherlock, silenziosamente incapace di ragionare con la solita coerenza.
Watson aveva già ucciso. Possedeva un’ottima mira e aveva dimostrato più volte di avere i nervi saldi. Se fosse giunto alla conclusione che la morte di Sherlock Holmes fosse il giusto prezzo per risolvere almeno in parte i suoi propri problemi, lo avrebbe ucciso e non se ne sarebbe pentito.
Quello era il suo John.
« Abbassa la pistola, Moran! » esclamò Lestrade, il tono del poliziotto ad indurire la sua voce.
« Mi fermerai tu, Lestrade? Insieme agli uomini che sicuramente hanno già circondato questo posto? » domandò retorico il soldato.
« È il mio lavoro » rispose Greg, in modo da far bastare quell’affermazione.
Sebastian ridacchiò. « Non farmi ridere ».
« Sei in errore, Lestrade, se pensi che a loro interessi uscire vivi da qui » intervenne Sherlock, ora con gli occhi puntati su Moran: « è vendetta pura, sopravvivere non era parte del piano. Non è difficile immaginare di chi sia l’anello d’oro che porti al dito, ignorando il lutto che invece dovresti indossare, e che non ti sforzi di nascondere. James Morirarty portava un anello uguale a quello. Non ti interessa uscire vivo da qui, altrimenti avresti fatto lo sforzo di cercarti qualche alleato, magari vecchi commilitoni, ma comunque più fedeli del mio amico, che ancora non sa esattamente cosa sta facendo e perché. No... se uccidi me vivere non sarà più così importante, vero? » terminò il detective.
L’ex soldato non fece scomparire il sorrisetto dalle labbra, dimostrando senza parole che ciò che Holmes aveva appena detto corrispondeva a verità.
L’aria si fece più tesa.
Con gli occhi, Greg cercò John. Sul volto dell’uomo che gli stava puntando addosso una pistola carica con il dito già sul grilletto vi era solo una fredda maschera di pietra sotto cui era impossibile leggere qualsiasi cosa.
« John! » esclamò il poliziotto, cercando di farlo ragionare in un qualche modo.
Ma Watson non ebbe alcuna reazione.
« Lo sa anche lui » intervenne ancora Sherlock, questa volta con una note greve nella voce.
« Non puoi essere d’accordo! John! » continuò imperterrito Lestrade, rifiutandosi di credere che l’uomo in piedi davanti a loro era lo stesso John Watson suo amico da anni, ma il medico sembrava non ascoltarlo nemmeno.
Sherlock si guardò intorno con circospezione, cercando di individuare tutte le possibili vie d’uscita.
Aveva poche possibilità, ma non riguardava solamente lui. Moran era un tipo furbo anche se non geniale, possedeva quella scaltrezza tipica degli ufficiali, per questo la presenza di John al suo fianco aveva, in realtà, due scopi: primo, fare da esca; secondo, dimostrargli apertamente che avrebbe perso in ogni caso.
Anche se fosse riuscito a fuggire, Moran non doveva far altro che uccidere John.
Probabilmente sarebbe stata una vendetta efficace anche quella. Colpire la Mente trafiggendo il Cuore. Sicuramente aveva tratto un’ottima lezione dalle parole di Moriarty – “ti brucerò il cuore” – e dal fatto che fosse innegabile, ormai, che il cuore di Sherlock Holmes risiedeva in John Watson. Era John Watson.
Chissà se John aveva preso in considerazione quella possibilità... chissà se aveva rinunciato a tutto ciò di buono che aveva per... cosa? Per ucciderlo? Per vendicarsi a sua volta di una menzogna?
No. John non era così. L’uomo che aveva imparato a conoscere, ad accettare e ad... amare... non era un criminale.
Era solo un ex medico militare malato d’adrenalina con il suo nome sul dito.
Il pensiero che John avesse preso la decisione di aiutare il nemico sapendo perfettamente che non ne sarebbe, verosimilmente, uscito vivo lo colpì come uno schiaffo. Una realizzazione coerente, tutto sommato, con il John Watson che Mycroft gli aveva dipinto nell’ultimo periodo: quello pubblicamente diffamato dai giornali, con un lavoro a malapena sufficiente a mantenersi e con una vita alla deriva. Troppo orgoglioso per suicidarsi, per sopportare il pensiero di essere così debole da mettersi in bocca la canna della pistola e farla finita, ma morire con la soddisfazione di avergliela fatta pagare, anche solo simbolicamente, anche solo per un secondo, anche se non aveva il coraggio di ucciderlo per davvero e premere quel grilletto (e lo sapeva), era una cosa diversa. Era sufficiente.
Come aveva fatto a non capirlo prima?
Come aveva fatto a non capire che John non era cattivo, non si era lasciato travolgere dalla rabbia e dalla disperazione, non del tutto. Era solo... perso. Smarrito.
Doveva fare qualcosa. Il dito di Moran, sul grilletto, cominciava già a piegarsi e a fare pressione.
Prese la decisione di fare l’unica cosa possibile.
Confidando nel fatto che John non avrebbe sparato – che non volesse sparare, tantomeno a Lestrade – si piegò sulle ginocchia quel tanto necessario a posare le mani a terra e, spostando il peso su una gamba sola, lanciò un calcio basso sulla gamba debole di John, che effettivamente non sparò e perse l’equilibrio. Poté vedere con la coda dell’occhio Moran spostare l’arma verso il basso seguendo il suo movimento, a presa ferma di un cecchino professionista solo marginalmente preso alla sprovvista, ma fortunatamente Lestrade ebbe i riflessi buoni e gli si gettò addosso, buttandolo a terra; il colpo che partì dall’arma di Moran spezzò il silenzio della notte e gli fece fischiare le orecchie. Gli agenti di polizia all’esterno del mercato, sicuramente all’ertati dallo sparo, accesero le sirene delle volanti come avvertimento.
Non ci fu molto tempo per pensare. John era caduto ma non aveva perso la pistola, che gli puntò contro seguendo una sorta di istinto primitivo all’autodifesa con l’offesa – sicuramente un ricordo indelebile della guerra. Il colpo non partì solo perché Lestrade, impegnato in un corpo a corpo con Moran, cercando in tutti i modo di disarmare il Colonnello urtò invece Watson, che perse la stretta sulla nove millimetri. L’arma scivolò lontano di qualche metro, volteggiando sul cemento.
John e Sherlock si scambiarono un’occhiata. Poi scattarono.
Holmes era sicuramente in vantaggio, essendo solo chinato e non inginocchiato, ed infatti arrivò per primo alla pistola che però non riuscì a prendere; John gli aveva saldamente afferrato la caviglia e gli aveva impedito così di mantenere l’equilibrio. Cadde sul cemento con le mani e le ginocchia ma si trovò totalmente disteso a terra quando il medico afferrò meglio le sue gambe e tirò, allontanandolo dall’arma.
John fece per rialzarsi ed allungarsi verso la pistola ma questa volta fu il turno di Sherlock di strattonarlo per il giubbotto, impedendogli di appropriarsene.
Erano a terra entrambi ma nessuno dei due sembrava davvero intenzionato a ferire l’altro. Sherlock conosceva il baritsu e John era stato un soldato, dunque sapevano tutti e due come combattere corpo a corpo... ma ciò non accadde. Continuavano semplicemente a strattonarsi per i vestiti, ad impedirsi l’un l’altro di raggiungere la pistola, come se essa fosse veramente il punto di svolta dell’impasse in cui si erano ritrovati, l’ostentazione di potere necessaria ad uno dei due per impedire all’altro di perseguire i suoi sforzi.
Sherlock aveva solo una vaga consapevolezza del secondo combattimento in corso alle loro spalle fra Moran e Lestrade, i cui colpi sordi di carne contro carne gli arrivavano alle orecchie, ma non poteva colpire John per andare ad aiutare il poliziotto. Non ci sarebbe riuscito, così come John sembrava incapace di fare la stessa cosa.
Fu quando il pensiero di colpirlo, di dargli un pugno o un calcio sufficiente ad intontirlo qualche secondo, che successe.
Nello stesso istante, sia John che Sherlock allungarono la mano sull’impugnatura dell’arma e quella del detective si posò su quella del medico.
La gente aveva ragione, le descrizioni dei libri non gli rendevano giustizia.
Fu come risalire in superficie dopo una lunga apnea e sentire l’aria fresca sulla pelle e nei polmoni. Ogni muscolo del suo corpo vibrò come colpito da una scarica elettrica, una di quelle piccole scosse elettrostatiche che a volte si prendono toccando oggetti di metallo, e percepì un calore dolce irradiarsi dal punto esatto in cui le loro pelli erano entrate in contatto.
Il cuore perse un battito, poi accelerò. Poteva già sentire l’istinto di protezione e l’impulso, molto simile ad un imperativo categorico, di prendere la sua mano e non lasciarla andare mai più. Se qualche istante prima John Watson era solo l’oggetto di un irrazionale attaccamento emotivo, ora era il centro di gravità del suo universo.
Capì dall’espressione a dir poco scioccata del medico che gli era appena accaduta la stessa cosa, che aveva provato le sue medesime sensazioni ed era giunto ad un’identica conclusione.
Il Legame.
Una cosa che fra loro non sarebbe nemmeno dovuta esistere. Non a due persone nate per essere sole e destinate a rimanere tali.
Sherlock riusciva a sentire nel retro della sua mente una presenza che non era la sua farsi spazio con cautela, lentamente, fino a reclamare il suo posto in punta di piedi e gradualmente. Fino a che non poté sentirlo.
Paura. Sorpresa. Inquietudine. Incredulità. Tristezza. Una consapevolezza, dietro la facciata, una frase ripetuta: “lo sapevo”. Sentimenti che non erano suoi.
Era John.
L’uomo che ora lo guardava come se capisse. Come se gli avesse letto dentro le emozioni che lui stesso non riusciva a catalogare e a riconoscere come proprie. Lo stesso uomo che lasciò completamente perdere la pistola e la lotta e gli afferrò la mano sinistra, tenendola ferma e sfilandogli con forza l’anello d’argento.
Quando John vide il proprio nome sul dito di Sherlock, trattenne il fiato e serrò strette le labbra. Lo sguardo che alzò poi sul detective era confuso e colpevole, così come lo erano i suoi sentimenti (Sherlock poteva sentirlo).
Si guardarono in silenzio. La situazione in cui erano coinvolti non era più così importante, il rumore della colluttazione di Moran e Lestrade sfumato in una sorta di rumore ovattato e lontano, le sirene della polizia del tutto sparite.
Watson prese fiato per parlare, finalmente, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Sherlock fece lo stesso ma si accorse di non sapere cosa dire. Continuavano semplicemente a tenere gli occhi uno su quelli dell’altro, sapendo di essere idealmente nemici ma consapevoli di non potersi fare del male, non più. Erano l’uno parte dell’altro così profondamente da non riuscire più a distinguere dove finiva l’esistenza dell’uno e cominciava quella dell’altro. Un legame appena formatosi, ma già così potente che se John ne era semplicemente confuso Sherlock cominciava ad averne paura.
Eppure sembrava la cosa più strana, travolgente e... bella... che avesse mai provato.
Di nuovo cercò di parlare ma uno sparo lo interruppe prima che potesse pronunciare il nome di John. Si girarono entrambi di scatto, un fischio alle orecchie a causa del colpo, e tutto si consumò troppo in fretta perché Sherlock si rendesse davvero conto di ciò che stava succedendo.
Vide Lestrade a terra che si teneva il braccio gemendo di dolore e Moran in piedi che puntava la pistola verso di lui. I suoi riflessi furono di un secondo troppo lenti e già si stava preparando inconsapevolmente a sentire il dolore del proiettile che penetrava la sua carne – o a morire con il medesimo proiettile nel cervello – quando la sua mente fu invasa da una voce che non era la sua, che rimbombò come una eco in una stanza vuota.
« NO! ».
John.
Si voltò verso di lui nell’istante stesso in cui il medico raggiungeva la pistola e, girandosi verso Moran, premeva il grilletto. Lo sparo fu ancora più assordante di quello precedente a causa della prossimità ma la mira di John si rivelò, ancora una volta, impeccabile.
Sebastian Moran cadde, morendo ancora prima di toccare terra.
Riuscirono a malapena a riprendere a respirare prima che i poliziotti arrivassero, squarciando la penombra con la luce delle torce. Furono su di loro al grido di “fermi dove siete” e mentre alcuni uomini urlavano alla ricetrasmittente di mandare un’ambulanza, altri due si avventarono su John, disarmandolo e bloccandolo a terra con il volto premuto contro il cemento.
Sherlock cercò i chiamarlo, ma non fu sicuro di esserci riuscito a causa del continuo ronzio che aveva ancora nelle orecchie. L’ultima cosa che vide prima di essere sollevato da terra e allontanato di forza furono le labbra di John muoversi a formare il suo nome – “Sherlock” – e i suoi polsi chiusi in un paio di manette.
 
 
 
 

.o0o.

 
 
 
 
Questa volta la cella era silenziosa, con le pareti bianche e il pavimento in linoleum grigio, la porta dipinta di un verde pallido che richiamava alla mente gli ospedali psichiatrici. Sarebbe stata anche accogliente se l’unica illuminazione non fosse venuta da un neon ben fissato al soffitto e protetto da un reticolato stretto, la cui luce a tratti traballante si rifletteva sul bianco dei muri con un’intensità tale da ferire gli occhi. Se fosse stato epilettico, probabilmente gli sarebbe già venuto un attacco.
Come in tutte le celle, l’arredamento era essenziale: una branda, lenzuola (fortunatamente) pulite, una coperta di lana marrone e il minimo indispensabile dei sanitari. La guardia che gli portava i pasti due volte al giorno gli aveva allungato anche qualche libro e un paio di riviste – due polpettoni di Dan Brown che non valeva la pena rileggere e il Time del mese scorso – ma li aveva abbandonati in terra di fianco al letto senza nemmeno sfogliarli.
Starsene seduto a fissare il vuoto, questo faceva John Watson da quasi due giorni.
A gambe incrociate fra le coperte sfatte della brandina che doveva chiamare “letto”, ascoltando in alternanza i suoni della città fuori dalla piccola finestra che dava sul muro del palazzo di fronte e i passi nel corridoio oltre la porta chiusa. Senza aver voglia di fare nient’altro che quello: guardare un punto morto del pavimento e cercare il silenzio fra i rumori.
Aveva provato a sforzarsi di fare... qualcosa. Leggere, soprattutto, dato che sembrava l’unico passatempo possibile. Canticchiare, cercare di pensare al meglio, di essere ottimista.
Ma non ne aveva motivo, e l’ultima cosa che voleva davvero fare era pensare. Lo aveva già fatto anche troppo la prima notte che aveva passato lì dentro, quando gli avevano detto senza mezzi termini che avevano già ottenuto la proroga di fermo a 36 ore per direttissima e che probabilmente sarebbe finito davanti alla Corte, questa volta. E John sapeva benissimo cosa stava a significare.
Carcere.
L’idea di finire in prigione non lo spaventava. Aveva il vago sentore di cosa avrebbe trovato dentro quelle mura, delle cose a cui sarebbe andato incontro per potersi “adeguare” alla vita della comunità carceraria, e se doveva essere del tutto sincero aveva visto di peggio, in guerra e anche fuori. La sua reputazione era già sufficientemente rovinata, supponeva; sperava che lo fosse abbastanza da farsi un nome in certi ambienti, così da incutere almeno un po’ di timore per essere lasciato in pace e possibilmente solo.
Dopotutto, annegare nella vergogna era una pena sufficiente, per gente come lui.
Non riusciva a togliersi dalla testa l’espressione di Greg. Non delusa, ma ferita. E quella di Sherlock, che...
No, non poteva nemmeno descriverla. Quella notte era stata di confusione pura, paura e risentimento mescolati in un calderone esplosivo, rabbia e rimorso e voglia di chiudere a doppia mandata un capitolo della propria vita che aveva imboccato strade sconosciute e tutte apparentemente senza via d’uscita.
Anni di finzione e di menzogne crudeli. Chi sapeva? Chi lo aveva aiutato e nascosto? Si era posto quelle domande a ripetizione da quando aveva visto quella fotografia mandatagli da Moran, la prova che Sherlock era vivo e lontano da lui. Si era sentito circondato da nemici, da persone intente a ridere di lui nell’ombra, a compatirlo nell’ombra, come se la pietà che provavano tutti per lui – tutti, tutti, da Molly a Stamford a Lestrade alla signora Hudson – non bastasse a farlo sentire inadeguato e incredibilmente, immancabilmente, solo.
Credeva di poterlo uccidere. Aveva avuto la voglia di chiudere le sue mani attorno a quel suo collo lungo e pallido e stringere forte, serrare le dita fino a lasciare il livido e a togliere via il fiato e a vederlo chiudere gli occhi soffocato nella sua stessa ipocrisi; Sherlock Holmes il bugiardo, Sherlock Holmes il traditore... aveva stretto nel palmo della mano l’occasione di diventare assassino e morire a sua volta e mettere la parola “fine” a tutto...
Ma non lo aveva fatto.
Vederlo non gli aveva fatto quell’effetto. Non aveva aumentato la sua rabbia, non l’aveva trasformata nella furia che aspettava per decidersi finalmente a diventare assassino dei giusti.
Vedere quegli occhi, e quelle labbra, e quel viso senza tracce scarlatte di sangue, quel petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del respiro, quelle mani muoversi piene di vita... sentire la sua voce, l’affanno della fatica, il calore della sua pelle... aveva scatenato in lui solo una profonda nostalgia, una malinconia quasi fastidiosa, e per un istante era stato... felice.
Non lo avrebbe ucciso. Lo aveva capito nel momento esatto in cui lo aveva visto camminare verso Moran. Non poteva farlo.
L’amore che provava per quell’uomo era semplicemente troppo profondo. Lui vi era annegato dentro mille volte e ne era riemerso mille volte, ne era assuefatto a tal punto da non riconoscerlo, scambiandolo per la follia di cui si ammalano gli ingenui (la venerazione).
Ma era sempre stato lì. Nella vita come nella morte, era sempre stato lì.
E ora...
Al solo pensiero John si strinse la mano sinistra con la destra, appoggiandovi sopra le labbra mentre si portava le gambe al petto, chiudendosi su se stesso. Gli avevano tolto l’anello insieme a tutti gli altri effetti personali dunque solo un particolare cerotto di plastica nera, usato nelle carceri e negli ospedali in sostituzione al metallo, copriva il nome che aveva avuto solo pochi istanti per vedere, prima che gli applicassero quella banda scura che non poteva togliersi da solo.
C’era. Era lì. “Sherlock”, in caratteri rossi, appena un po’ sbiaditi, ma c’era. Non era scomparso. Non del tutto. Mai del tutto.
Non era una ferita, non sanguinava, non faceva male. Non era più un perenne taglio aperto dolorante e discriminante, il ricordo indelebile di un legame già spezzato; anzi.
Tutto l’opposto. Il Legame c’era, ora, l’aveva sentito. Irruento come una tempesta ma dolce, delicato persino, caldo e rassicurante. La sensazione stranissima di risalire in superficie dopo una lunga apnea, respirare un’aria diversa, percepire fino all’ultimo dei propri nervi tremare nel primo, vero respiro fuori dall’acqua.
Sentire Sherlock come parte di sé, dentro e fuori di sé, altra metà di sé. I sentimenti che non si spiegava e le parole che non riusciva a dire.
Nessuno gli aveva mai descritto il Legame in quel modo. O forse, nessun altro aveva un Legame come il loro.
Forte, avrebbe osato dire. Disperato. Represso talmente tanto e talmente tanto sperato da esplodere, una volta innescato.
Anche lui, ora, era una persona normale. Anche lui aveva un’Anima Gemella, qualcuno che avrebbe sempre capito, e quel qualcuno era Sherlock Holmes: la persona che aveva tutti i motivi per odiare ma che non poteva smettere di amare.
Perché...? Perché con tutto il tempo, con tutte le possibilità che avevano avuto... doveva succedere proprio ora?
Il rumore delle chiavi nella porta lo distolse dai pensieri in cui era caduto senza volerlo. Una volta che si aprì, il Detective Inspector Aberline entrò all’interno e se la richiuse alle spalle.
« Dottor Watson » salutò, asciutto ma cordiale.
John distese le gambe, ma non parlò e non si alzò dalla branda.
Aberline sembrò non badare troppo ai convenevoli. « Ha una visita » disse schietto: « il regolamento lo vieterebbe ma mi è stato fatto capire di non andare troppo per il sottile. Lo lascio entrare, ma metterò un agente di guardia fuori dalla porta. Non faccia strani scherzi » avvertì, del tutto disinteressato alla possibile reazione di John, e ancora prima che potesse rispondere – prima che potesse dirgli che le visite se le risparmiava volentieri – Aberline uscì di nuovo. Lo sentì parlare nel corridoio con la sua “visita”, non distinguendo altro che un mormorio sommesso e senza senso, e quando la porta si riaprì Watson non seppe se credere ai suoi occhi o convincersi di stare solo sognando.
Da quella porta entrò Sherlock Holmes.
Era perfetto in uno dei suoi soliti completi scuri – camicia bianca – e di sicuro doveva aver lasciato fuori il cappotto, uno di quegli oggetti che lì dentro non erano ammessi. Gli avevano fatto togliere anche l’orologio e i lacci delle scarpe, notò, come nelle procedure standard di sicurezza.
Sentiva di avere molte cose da dirgli, altrettante da chiedergli, ma quando aprì la bocca e prese fiato per parlare, le parole non uscirono. Non sapeva da dove cominciare, se dalle scuse o dalle accuse, e la vergogna era troppa in tutto.
Fortunatamente, dopo lunghi istanti, il primo a parlare fu Holmes.
« Ho sentito la tua voce » disse: « quando hai sparato a Moran. Hai urlato “no” con la mente e io l’ho sentito, con la mia » aggiunse, picchiettandosi l’indice destro sulla tempia.
Sottintendeva una domanda, quella frase. Una domanda che John capì.
« L’ho pensato » affermò.
Sherlock annuì. « È stato un... beh, un bel... ».
« colpo » completò John.
Holmes annuì di nuovo.
« Grazie » disse Watson.
Silenzio. Incredibile come due persone che in passato non erano capaci di rimanere in silenzio se presenti contemporaneamente nella stessa stanza non riuscissero più a superare la quarta battuta di un dialogo.
Questa volta, fu John a spezzarlo. Prendendo il coraggio a due mani e deglutendo un boccone di vergogna.
« Sherlock, ti devo delle– ».
« Non serve » lo interruppe il detective.
« Sì che serve. Io– ».
« Ti ho già perdonato » tagliò ancora Sherlock. « Non avevi intenzione di uccidermi, comunque, dunque non c’è niente di cui chiedere perdono » disse.
« Niente? » domandò John con una risatina incredula e al contempo triste: « ti ho tradito. Ti ho voltato le spalle, ho... provato ad ucciderti! » esclamò.
Holmes roteò gli occhi e sbuffò. « Mi piacerebbe vederti provare » ironizzò.
« Sherlock, non sto scherzando! » disse John ad alta voce, serio, sull’orlo di un collasso nervoso.
Il detective si zittì, osservandolo in silenzio.
Parlò con tono calmo, quando riprese parola: « l’ho fatto io per primo, forse me lo meritavo. Era solo una brutta giornata » disse, e John ebbe qualche difficoltà a capire la battuta che vi si celava dietro, ma ci arrivò... e sorrise.2
« Ho avuto un paio di brutti anni, allora » gli rispose, sospirando e calmandosi. L’agente all’esterno, che al sentirlo alzare la voce si era affacciato per vedere cosa stesse succedendo, tornò in posizione.
Sherlock si avvicinò, coprendo in pochi passi la distanza che lo separava dalla branda, e si sedette al suo fianco. Subito John fu investito da un’ondata di tranquillità, una sorta di beatitudine simile a quella che si prova pochi secondi prima di addormentarsi, e capì che il Legame amplificava il senso di protezione dato dalla vicinanza di Sherlock. Non riuscì a trattenersi dall’inclinare la testa e appoggiarla sulla spalla del detective, che dal canto suo non solo non se ne lamentò, ma si mosse in modo da farlo avvicinare ancora di più; la testa di John si incastrò perfettamente nello spazio fra la spalla e il collo di Sherlock e il detective ne approfittò per appoggiarsi con il capo a quello del medico.
Il modo perfettamente naturale in cui si erano mossi, senza bisogno di parole né di permessi, li fece sorridere. Fu altrettanto naturale, a quel punto, cercare e unire le loro mani, intrecciando le dita.
John socchiuse gli occhi, godendosi quella vicinanza conosciuta ma al contempo nuova, a cui era abituato ma che costituiva un lato del tutto inesplorato del suo coinquilino.
« Sherlock? » chiamò poi il medico, la voce bassa data la vicinanza.
« Mh? » rispose il detective, gli occhi completamente chiusi.
« Tutto questo... questa... sicurezza, questo senso di protezione, questo... calore... è merito... è solo merito del Legame? » domandò, deglutendo.
Non era quella la vera domanda. Dietro di essa si nascondeva un altro quesito, un altro dubbio che doveva fugare a tutti i costi, una verità che doveva conoscere a costo di perdere tutto.
Sei tu ad amarmi o è solo la risonanza del Legame?
Non si stupì affatto quando Sherlock capì esattamente quale fosse il vero dilemma e rispose di conseguenza.
« Non per me » disse. « Sono io. Il Legame lo... » esitò.
« Amplifica » completò John per lui. « Anche quella strana... ».
« Empatia? » continuò Sherlock sulle sue parole: « non lo so. Ora mi sento calmo e tranquillo, direi quasi “protetto”, ma è la tua vicinanza, non sei tu » disse. « Quella notte ho sentito te. Potrebbe essere stato un caso, oppure... ».
« La situazione » intervenne John. « L’adrenalina? O altrimenti... ».
« L’intensità » riprese Holmes: « è corretto supporre che sotto stress si provino emozioni più forti. Fatto sta che rimane un Legame... ».
« Anomalo » continuò Watson. « Più forte » si corresse poi.
« Più profondo » aggiunse l’altro.
« Speciale » ribatté subito il medico, sorridendo appena. « Sherlock, ti rendi contro ci stiamo... ».
« Completando le frasi a vicenda. Sì » disse, piegando a sua volta le labbra in un lieve sorriso. « È una cosa... ».
« Strana » concordò Watson.
Ridacchiarono.
Cadde di nuovo il silenzio, ma questa volta fu una quiete serena. Passarono interi minuti ascoltando i rispettivi respiri, il frusciare della pelle dove John strofinava il pollice sulla mano di Sherlock, il battito lieve dei loro cuori asincroni.
Fu John, di nuovo, ad interrompere quel momento.
« Sherlock? » chiamò per la terza volta.
« Mh? ».
« Posso vederlo? » domandò in un sussurro, sottintendendo il cosa.
Ma Sherlock capì. Sherlock capiva sempre e avrebbe sempre capito, da quel momento in avanti.
Annuì brevemente prima di tendere la mano sinistra a John. Il medico sciolse l’intreccio delle loro dita per poter prendere quella di Sherlock fra le proprie e, con delicatezza, rimuovere l’anello d’argento che ricopriva l’anulare.
Quando vide, sotto di esso, il proprio nome scritto in un carminio scurissimo, dovette stringere i denti per non far uscire il gemito di commozione che gli era improvvisamente salito in gola.
Una vita intera. Lo aveva desiderato per una vita intera. Ci aveva sperato pur sapendo che non sarebbe mai accaduto e invece eccola, l’altra metà del filo, l’altra parte di sé. Sherlock Holmes, che aveva già stravolto la sua vita, era riuscito a stravolgere anche le leggi del destino.
Prese un respiro tremulo mentre sentiva gli occhi pericolosamente lucidi. Deglutì per tentare di fermarsi, perché andava bene tutto ma mettersi a piangere come un bambino no, quello no. Era un uomo, maledizione: aveva quasi trentacinque anni, non sei.
Sherlock, al suo fianco, soffiò fuori una lievissima risata. Si avvicinò a lui fino a sfiorare la sua guancia con la punta del naso, gli occhi azzurri nascosti sulla sua tempia e sotto le ciocche di ricci scuri.
« Non starai per piangere, dottor Watson? » ironizzò in un soffio, dipingendosi sulle labbra un sorrisetto.
John si voltò in sua direzione, lentamente, strofinando il naso su quello dell’altro. « Non ti darò questa soddisfazione » ribatté, e questa volta non aspettò prima di annullare la brevissima distanza che li divideva.
Unì le loro labbra in un bacio casto, uguale a quello che si erano scambiati anni prima a Dartmoore, nell’intimità di una camera d’albergo e di un letto fin troppo stretto. Ora erano in una stanza di tutt’altro tipo, sterile e squallida, ma la sensazione era la stessa di quella notte.
A dimostrazione che, Legame o non Legame, fra loro non c’era mai stato nient’altro che quello.
Si assaggiarono per una, due, tre volte. Giocando con le labbra in piccoli baci superficiali, respirando piano, socchiudendo gli occhi per guardare quelli dell’altro. Si sfiorarono con la punta delle lingue ma non approfondirono quel bacio più di così, limitandosi a toccarsi di tanto in tanto, come se stessero accarezzando le labbra con le labbra, la lingua con la lingua.
Ci sarebbe stato tempo, per altro. Per la passione, per i preliminari, per la dolcezza così come per la frenesia.
Ora avevano davvero tutto il tempo del mondo.
Si separarono giusto un istante prima che un paio di colpi secchi sulla porta rompessero l’atmosfera. « Due minuti! » avverti la voce di Aberline.
« No... » mormorò John, ancora a pochi millimetri dalle labbra di Sherlock, il quale emise un lieve sospiro.
« Uscirai presto » gli disse poi, allontanandosi per non ricadere in tentazione: « Mycroft si sta già occupando di tutto » specificò.
Il volto di Watson si indurì appena. « Non posso continuare a farmi salvare il culo da tuo fratello ».
« Oggettivamente, John, tu non hai fatto alcunché. Anzi, hai impedito che Moran mi uccidesse. Questo dimostreremo: i fatti. Niente sotterfugi » disse il detective, gli occhi nei suoi. « Poteva benissimo essere tutto un nostro piano per catturare Moran... no? » domandò retoricamente, un mezzo sorriso furbo ad illuminargli il volto.
John alzò l’angolo delle labbra. « E questo non lo chiami un sotterfugio? ».
« Il risultato non cambia » tagliò corto Sherlock, alzandosi dal letto e sistemandosi la giacca. Pochi istanti dopo, Aberline aprì la porta e fece cenno al detective di uscire.
John si alzò a sua volta, stranamente agitato. Non gli piaceva l’idea di essere separato di nuovo da Sherlock – uno degli effetti collaterali del Legame, suppose – e poteva vedere nella postura rigida di Holmes che anche per lui era così.
« Sherlock, come sta Lestrade? » gli chiese dunque, un po’ per interesse personale e un po’ per guadagnare ancora qualche istante in sua compagnia.
Sherlock sembrò leggergli nel pensiero, perché inarcò per un secondo l’angolo destro delle labbra. « Bene. Era solo un colpo di striscio, sono bastati cinque o sei punti » gli rispose, allungando poi una mano e appoggiandola sulla sua guancia. John inclinò il capo verso di essa.
« Ci vedremo presto, John » promise.
Il dottore chiuse gli occhi quando quella mano scivolò via e Sherlock, a passo veloce, uscì dalla porta che subito si richiuse alle sue spalle.
Preferiva non avere il ricordo della sua schiena come compagnia per i prossimi giorni, ma piuttosto quello delle sue labbra.
 
 
 
 

Epilogo
.o0o.
Due mesi dopo

 
 
 
 
« È indecente » disse John fra un respiro e l’altro, steso supino sul materasso. Solo un drappo scomposto di lenzuolo recuperato chissà dove gli copriva il bacino e le cosce, fresco sulla pelle sudata.
Steso al suo fianco, in orizzontale sul letto e con la testa appoggiata sul suo petto, Sherlock ascoltava il battito del suo cuore ad occhi chiusi, girato sul fianco. Anche lui era a malapena coperto dall’angolo dello stesso lenzuolo, ma se fosse dipeso da John gli avrebbe proibito persino di vestirsi.
Le labbra di Sherlock si piegarono in un sorrisetto. « Se ti riferisci a ciò che mi hai fatto prima, sono d’accordo » ironizzò.
John sogghignò. « Non mi sembra che ti sia dispiaciuto » disse, riflettendo il medesimo sorriso.
« Mai detto questo » rispose infatti il detective. « A cosa ti riferisci, allora? » chiese poi, gli occhi chiusi e la labbra ancora arrossate dai baci.
Era bellissimo. Aveva sempre pensato che lo fosse, con quel corpo longilineo e quegli occhi chiarissimi, ma senza vestiti, sudato e con i capelli in disordine lo era ancora di più. Di tutte le cose che potevano piacergli del sesso con Sherlock Holmes – a parte l’atto in sé – una delle principali erano i momenti del “dopo” come quello, in cui rimanevano semplicemente sdraiati sul letto sfatto a riprendere fiato, senza vergogna nel guardare e lasciarsi guardare. John poteva passare ore a sfiorare con lo sguardo ogni centimetro del corpo nudo di Sherlock e, a dire il vero, era quello che faceva ogni volta. E non solo con gli occhi.
Sospirò. « A noi due che facciamo l’amore in pieno pomeriggio, con la possibilità che arrivi un cliente, o mrs Hudson, o Lestrade in ogni momento. Ecco a cosa mi riferisco. È indecente » ripeté scherzosamente, portano la mano fra i riccioli scuri in una carezza gentile.
Più lo guardava e più non poteva credere che fosse successo davvero. Che uno come lui, reietto per tutta la vita, potesse meritare qualcuno come Sherlock Holmes.
« Dipende molto dai punti di vista » disse il detective, sistemandosi meglio con la testa sul suo petto, occhi chiusi e respiro lieve. Aveva le braccia piegate davanti al petto e questo faceva in modo che il suo SIN, lasciato scoperto (come sempre quando erano soli), grazie all’angolazione delle dita affusolate fosse pienamente visibile.
John non poté fare a meno di allargare il sorriso, adocchiandolo.
Sherlock, evidentemente, se ne accorse. « Smettila di guardarmi così » lo rabbonì.
« Così come? ».
« Con quel sorrisetto perso. Sembri un idiota » lo stuzzicò.
Ma John era ormai troppo esperto per offendersi ancora, alle parole del compagno; ormai sapeva che nascondevano tutt’altro. « Mi dispiace, non posso » rispose però.
Sherlock sbuffò, fintamente seccato ma, sotto sotto, adulato.
Scene come quella si ripetevano da circa due mesi. Calma, tranquillità e pace che seguiva momenti di pura estasi e passione a dir poco travolgente – e non era un aggettivo di John usava con leggerezza, proprio no.
Perché sì, pian piano avevano scoperto che il loro Legame “atipico”, così forte, aveva le sue “regole” e le sue... sorprese.
Erano già consapevoli che l’empatia fosse una loro particolare prerogativa. In presenza di situazioni particolarmente stressanti o di sentimenti “puri” (come rabbia o paura), loro acquisivano la capacità di sentire le emozioni dell’altro e, a volte, persino un frammento dei rispettivi pensieri.
Non succedeva sempre, ovviamente, ma scoprirono ben presto, e con una certa sorpresa, che anche il sesso poteva essere annoverato fra le “situazioni scatenanti” di questo fenomeno.
John non faceva fatica a capire il perché. Il sesso era fisicità, concretezza, apertura; non era solo il corpo a cambiare, rilasciando una determinata serie di ormoni e sostanze chimiche che Sherlock sapeva a memoria, ma nel loro caso – come nel caso di tutte le persone che si amano – si trattava anche di cuore, e mente, e sentimenti, e fiducia reciproca.
Era condivisione. Totale e completo abbandono di se stessi all’altro, alle sue mani e alle sue labbra, mettendosi a nudo in tutti i significati del termine, esponendo vergogne e fierezze, intimità vera e propria. Già normalmente il sesso era una fusione per antonomasia, ma il loro Legame riusciva a fare ancora di più.
Non era più una questione di avvertire l’altro solo fisicamente. La consistenza della pelle, la morbidezza delle labbra, la durezza dell’eccitazione dentro di sé. Non si trattava più di assorbire i sospiri e le parole spezzate dall’affanno nel tentativo di strappare piccoli brandelli d’anima con l’intenzione di unirli alla propria.
Quella era una fusione nel senso più completo del termine. John poteva sentire Sherlock dentro di sé, non solo fisicamente tramite i loro corpi, ma anche, e soprattutto, mentalmente. E Sherlock... oh, Sherlock aveva la mania di abbandonarsi completamente al sesso e a John, lasciando perdere concentrazione e ragionamento, ricercando in modo puramente istintivo il piacere e l’eccitazione, amando John con tutto se stesso e, al contempo, venerandolo non meno di quanto John amasse e venerasse lui. Era la cosa più vicina esistente al contatto di due anime e questo, questo più di tutte le altre cose, rendeva la loro unione fisica indimenticabile. Che fosse attivo o passivo, calmo e gentile o impetuoso e furioso, post-risoluzione di un caso o culmine di ore di baci e carezze, il sesso fra loro aveva raggiunto il vero e proprio significato di unione e li aveva portati a conoscersi l’un l’altro talmente a fondo da averne quasi paura.
Ma ogni volta, ogni volta, quando insieme all’aumentare del desiderio sentiva l’ormai famigliare presenza della mente di Sherlock nella propria e vedeva letteralmente oltre quegli occhi chiari e quell’intelligenza spropositata, ciò che vi trovava era devozione pura e semplice ed era consapevole che Sherlock, nello stesso istante, trovava in lui la stessa cosa.
Il tono di voce fu dolce, nell’interrompere il tranquillo silenzio caduto fra loro. « Ti amo » disse.
Sherlock socchiuse gli occhi, osservandolo serenamente. « Lo so » rispose.
« So che non c’è davvero bisogno di dirlo... » Sherlock poteva sentirlo: « ma se penso a quello che stavo per... che avevo intenzione di... » cominciò.
Sherlock lo interruppe posandogli due dita sulle labbra. « Non importa » disse.
John sospirò. « Come puoi dire che non importa? » chiese poi, un accenno di malinconia nella voce.
Un pensiero che lo tormentava nella mente.
« Lo dico perché è vero » gli rispose Sherlock, senza muovere un singolo muscolo e rimanendo appoggiato con l’orecchio al petto di John: « capivo dai tuoi movimenti che non mi avresti sparato. Da come tenevi la pistola. Da come cercavi strenuamente di non colpirmi, quando sarebbe stato facile se non inevitabile farlo anche per errore. Dal tuo silenzio. Non mi avresti ucciso, lo sappiamo entrambi » disse.
« Avrei potuto » continuò però il medico.
« Potere e volere sono due cose diverse » tagliò corto Sherlock, per poi portare la mano sulla guancia del medico in una lieve carezza. « Ora basta chiedere scusa, John ».
Il medico chiuse gli occhi, lasciando che quelle parole si depositassero dentro di sé. Non avrebbe mai smesso di chiedergli scusa, così come Sherlock si scusava in silenzio per quei tre anni suonando il violino per lui e standogli vicino quando ne aveva più bisogno.
Non era tutto perfetto. Niente lo è mai del tutto. Il rientro di Sherlock in società, la scoperta che erano Legati, le continue richieste di ricercatori interessati al loro Legame unico, unico caso di un Bondless a cui è comparso il nome e di un Ribbon il cui nome è guarito. E poi c’erano gli incubi, che tormentavano entrambi; la difficoltà di Sherlock di rimettersi del tutto in forze, gli strascichi dei guai giudiziari di John, i piccoli e grandi problemi di ogni caso che accettavano e le loro scaramucce quotidiane che rientravano pian piano a far parte della loro vita.
Stavano tornando alla normalità. Ma John, per la prima volta da quando era piccolo, riusciva a vedere altro.
Riusciva a vedere oltre.
Il sapore dolce della parola “insieme”. La fede d’oro al loro dito. Un figlio, forse? Oh, sarebbe stato bello... ma gli bastava anche la consapevolezza di ogni mattino in cui si sarebbe svegliato con il viso addormentato di Sherlock accanto a lui, di ogni “buon giorno” con un bacio sulle labbra.
Si vedeva allo specchio a guardare con aria critica il biondo cedere il passo al grigio, e vedeva Sherlock mettere il muso alla comparsa del suo primo capello bianco, come se fosse una cospirazione contro di lui.
Vedeva il Ritiro. Una casa in campagna, un cane, delle api. Dolori alla schiena e smorfie infastidite nel notare quanto era diventato difficile chinarsi a raccogliere il tovagliolo.
Ci sarebbero state gioie e dolori, attimi di paura e momenti d’eccitazione, ferite fisiche e non ma tutto questo era niente, era normale, e sentiva che tutto si sarebbe risolto finché avesse stretto la mano di Sherlock sentendo il detective stringergliela in risposta.
Vedeva la vita che avevano davanti come se l’avessero già vissuta. E chi poteva dire che non fosse effettivamente così? Se le loro anime erano destinate a rinascere in eterno, a rivivere sempre le stesse vite in epoche diverse... se questo voleva dire incontrarsi ogni volta, stare al fianco di Sherlock ogni volta, allora John non poteva essere più felice di così.
Insieme. Nella vita come nella morte.
Vita dopo vita.
Sempre.
 
 
 
 
 
 
 
 

Fine.

 
 
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1- Un tributo a “Bleeding in Baker Street” di Fusterya.
2- Un riferimento alla battuta della 2x01 “A Scandal in Belgravia”. («I was a soldier Sherlock, I killed people! »«You were a doctor, John! »«I had bad days! »).
3- Piccolo tributo ad una delle scene più slash famose del Canone, da “L’Avventura dei Tre Garrideb”.

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