Intoxicate; the world is getting high.

di Boku no Seida
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1; when ***
Capitolo 2: *** 2; people ***
Capitolo 3: *** 3; run ***
Capitolo 4: *** 4; in circles ***



Capitolo 1
*** 1; when ***


Intoxicate; the world is getting
.
.
.
high




1; when






 
Quella che stavo vivendo non era una scena inusuale nella mia vita. Anzi, a dire il vero era piuttosto consueta. Quasi quotidiana, con una piccola eccezione nei weekend, quando mi chiudevo in casa e non mettevo il muso fuori per non farmi beccare. Non che mi lasciassero in pace anche in quelle occasioni. Loro sapevano come arrivare a me. In qualunque momento... sempre.
Da un po’ di tempo, all’uscita da scuola, prendevo una strada diversa da quella solita per raggiungere casa mia, insomma, con l’intenzione di disorientarli. Le prime volte c’erano cascati, ed ero riuscita a seminarli. Non appena voltavo l’angolo all’incrocio nel quale di solito andavo dritta, sparivo dalla loro vista, e loro tornavano indietro. Però sapevo che quel momento di pausa non sarebbe durato.
Quattro giorni. Allo scoccare del quinto già avevano trovato la mia scorciatoia e mi avevano guidata con grande disinvoltura nel posto che volevano loro, uno in bicicletta e gli altri a piedi. Per quanto la scena fosse la stessa, i posti erano diversi, ma avevano tutti qualcosa in comune. Un vicolo cieco senza scampo, isolato dalle altre case, lontano dalle orecchie delle persone. Una trappola in tutto e per tutto. E mai una volta che non la passassero liscia. Mai una volta in tre anni.
«Ehi, qual è il problema? Ti sei già stancata di scappare?»
«Dobbiamo ammetterlo, l’espediente di cambiare strada ci aveva un po’ scombussolati. Dopo tutto questo tempo, non ci aspettavamo davvero che ancora cercassi di evitarci.»
«Già. Pensavamo fosse chiaro da un bel pezzo che è inutile ribellarsi, Luka.»
Quel giorno erano tre. Pensai che mi era andata bene. Certe volte erano di più, e i loro pugni e i loro calci mi raggiungevano in più parti del corpo a una velocità superiore. Facevano meno male, i loro colpi, se a circondarmi erano solo sei braccia e sei gambe. Specialmente, con solo tre persone riuscivo sempre a trattenere i gemiti di dolore.
Tutto quello che mi limitavo a fare e serrare forte i denti, stringere i pugni, ripararmi la testa e gli occhi con le braccia e lasciarli fare finché non si stancavano. Certe volte erano più indulgenti e non mi lasciavano nemmeno un livido. Certe altre ci prendevano la mano, e allora era dura sopportare il dolore. In entrambi i casi io non mi facevo sentire, cercando di dare l’impressione di colpire qualcosa di inanimato per far perdere loro il gusto. Era una specie di tattica per la sopravvivenza, e decisi di sperimentarla anche quel giorno.
Il primo ragazzo, uno palestrato del club di nuoto con spalle larghe e mento sporgente, mi colpì con un calcio al ginocchio facendomi barcollare all’indietro. Mi diede un paio di spintoni, fino a spingermi contro la rete metallica che delimitava la zona. Lì un suo amico appena più mingherlino, ma parecchio dinoccolato, mirò al volto con un pugno che ricevetti senza fiatare. Mi prese per i capelli e mi gettò per terra, dove il terzo, che non aveva ancora avuto il piacere di picchiarmi, mi atterrò con un calcio sulla schiena. Sentii la polvere che mi riempiva le narici e tossii piano per non farmi sentire.
«Bene bene. E così sei riuscita a evitarci per un po’ di giorni. Dovremo recuperare, non credi?»
«Sì, facciamo qualcosa di intenso per recuperare quattro giorni in un solo pomeriggio.»
«Kaji, muoviti, falla alzare.»
Quello obbedì, afferrandomi per le spalle e tenendomi ferma, in ginocchio sull’asfalto. Il ragazzo che aveva parlato (il terzo, capelli pettinati impeccabilmente e vestito come un figurino) si mise di fronte a me, il cavallo dei suoi pantaloni all’altezza del mio viso.
«Sai cosa fare.»
Quello che mi teneva ferma eseguì l’ordine afferrandomi per i capelli e inclinando il mio volto verso l’alto. In quella posizione potei vedere sia la mano del tipo in piedi slacciarsi la cintura dei pantaloni, sia il suo ghigno divertito.
«Oh, non fare quella faccia, puttanella. Ti piacerà. E mi pregherai di farlo finché non muori asfissiata, vedrai.» disse ridendo.
«Ma lei sa come si fa?» chiese, dubbioso, quello del club di nuoto.
«Le insegneremo. Nessuno nasce imparato, no? Vedrai che dopo qualche lezioncina insieme a noi sarà...»
Un rumore di passi echeggiò lungo la via nella quale ero imprigionata, facendolo fermare nell’atto di abbassarsi i boxer davanti alla mia faccia. A quanto pareva, di chiunque fossero quei passi non doveva essere una persona attesa, tanto meno un loro degno compare. Si richiuse la cerniera in fretta e furia, e tutti e tre si voltarono di scatto per fronteggiare il nuovo arrivato.
O meglio, la nuova arrivata. Perché si trattava di una ragazzina, una semplice ragazzina di non più di sedici anni. Non indossava alcuna divisa né aveva una cartella, il che mi rese difficile capire se per caso venisse nella mia stessa scuola o no. Io non l’avevo mai vista. E, a quanto pareva, nemmeno i miei seviziatori.
Quando la videro osservare la scena con espressione indecifrabile scoppiarono a ridere.
«Oh, guardate. Questa piccina si è persa. Dove sono la tua mamma e il tuo papà?»
Lei aggrottò le sopracciglia. «Sapete, questo non è il vostro posto.» Aveva una voce melodiosa, che avrei definito di velluto.
Per contrasto, il tono di quello che mi teneva inginocchiata per terra si fece duro e minaccioso. «A me sembra che sia tu quella fuori posto. Ora torna a casa, prima di fare una brutta fine.»
Lei si schiarì la gola. «Forse non avete capito molto bene. Questo non è il vostro posto, brutti bastardi.»
In un attimo fui mollata e sbattuta a terra, e tutto ciò che riuscii a intravedere furono quei tre che si avvicinavano lentamente alla figura gracile della ragazzina.
«Che hai detto, mocciosa? Vuoi ripeterlo con la bocca sanguinante?»
«Lascia perdere quel che ha detto» ordinò il damerino. «Valla a prendere a tienila ferma, dopo Luka ci occupiamo anche di lei.»
Ma non fecero un passo avanti e rimasero immobili davanti a me, che intanto mi ero alzata in piedi, incuriosita da cosa li avesse fermati. Quando vidi qualcosa brillare nel buio, in mano alla ragazza, rimasi sinceramente impressionata. Aveva una pistola. Ora capivo cosa la rendesse così sicura nell’affrontare quei ragazzi.
«Ah, anche questo. Non è così che si tratta una signora. Dì, ti piacerebbe se io adesso puntassi la mia pistola al tuo amichetto là sotto e te lo sgonfiassi come un palloncino bucato?»
E lo fece davvero. Puntò l’arma al suo pene, e il ragazzo, ingenuamente, se lo coprì con le mani, urlando come un forsennato. «Sei una maledetta pazza!»
Lo sguardo della ragazza si fece di ghiaccio. «Sempre meglio maledetta pazza che figli di puttana del cazzo. Sapete che se si fa esplodere il cranio di un coglione come te e i tuoi amici non c’è niente dentro? Vogliamo provare?»
«Questa m-me la paghi!» I ragazzi corsero via dal vicolo con la coda tra le gambe, superando la ragazzina e la sua pistola. Vidi uno di loro guardarmi prima di sparire: «Tu e la tua amichetta, ce la pagherete!»
E sparirono, lasciandomi sola insieme alla pazza con la pistola.
Lei mi guardò inclinando il capo di lato, come se volesse studiarmi. Io non ricambiai, mi limitai a scrollarmi via la polvere dai vestiti e raccolsi la mia cartella. Mi aggiustai un’ultima volta i capelli e aggirai la sconosciuta, riprendendo la strada di casa da dove l’avevo interrotta come se nulla fosse successo.
«Vai a piedi?» la sentii chiedere, dietro di me.
Mi voltai e mi strinsi nelle spalle in tacito assenso.
Lei indicò con il pollice la bicicletta di uno dei ragazzi che mi avevano intrappolata. In tutto quel trambusto doveva averla dimenticata lì, incustodita. Mi fece cenno di avvicinarmi e io obbedii lentamente, guardandola mentre con una forcina apriva la catena e le toglieva il cavalletto. Per la seconda volta le rivolsi un’occhiata ammirata. Lei si inchinò davanti a un pubblico immaginario.
«Grazie, grazie. Troppo buoni.» Si infilò la pistola in una tasca interna del giubbotto turchese, in perfetta sintonia col colore dei capelli e degli occhi, poi si scansò. «Vai, sali.»
Malgrado la voce sottile sembrava una belva dentro, non solo per come mi aveva salvata ma anche per come si rivolgeva a me: sicura e autoritaria, come se fosse sempre abituata a ottenere quel che voleva. Sentii che se non avessi obbedito sarebbero stati guai. Così lo feci. Salii e misi un piede sul pedale, pronta a partire. A fermarmi fu una sua mano che si appoggiò sulla mia spalla, per aiutarsi a salire e sedersi, schiena contro schiena con la mia, sul portapacchi. «Portami a casa.»
Esitai e feci, con un filo di voce: «Mi spiace, ma non so dove abiti.»
«No, intendevo di portarmi a casa tua.»
Sapevo che avrei dovuto come minimo chiederle perché. O almeno chi fosse lei, come si chiamasse, o cosa volesse da me. Ma, per un qualche motivo, anche se era una sconosciuta e aveva una pistola, non mi sentivo nervosa. Forse era perché ero abituata a quel tipo di cose - essere in balia di qualcuno di pericoloso, intendo. Così, alla fine, l’unica protesta che uscì dalla mia bocca fu: «Non credo sia una buona idea farti vedere in bicicletta con una come me.»
«Se qualcuno avesse qualcosa da ridire potrei farlo tacere con un po’ di piombo in bocca.» La sentii ridere mentre concludeva: «E poi non ho una reputazione da mantenere qui in giro. Quindi zitta e pedala.»
Mi strinsi di nuovo nelle spalle e feci come mi era stato detto, in silenzio.










Hai haaai~!
Come si dice, il lupo perde il pelo ma non il vizio, e iniziare così le mie note d'autrice mi piace così tanto che ormai penso lo farò in tutte le storie che pubblicherò. A proposito di questo, questa è la mia seconda fanfiction, starring Miku e Luka, una coppia che stra-amo e che fa sempre la sua sporca figura. World's end dancehall... scommetto che la conosciate tutti, questa, in caso contrario disonore su di te disonore sulla tua mucca vi consiglio vivamente di dargli un'occhiata. Sul serio, ne vale la pena.
Chiaro che la mia è solo un'interpretazione. Ma in fondo quale canzone dei vocaloid non va a interpretazione? L'unica cosa è che vi consiglio di non tenere in considerazione la fine ufficiale del pv, perché potrei sempre cambiare qualcosina. Anche se diciamolo, i finali tragici hanno sempre il loro fascino...
HHHALT! Un'ultima cosa! vi raccomando di farmi sapere se per caso dovrei aumentare il raiting o se per adesso va bene arancione. Le tematiche le sapete, quindi dovreste essere in grado di giudicare... essendo relativamente nuova qui non so bene come gestirmi ^^"
BNS vi ringrazia in anticipo!


ps. i titoli dei capitoli, a fine fanfiction, formeranno la frase di una canzone bellissima che mi ha dato molta ispirazione per scrivere. Soprattutto perché è una canzone niente male come sottofondo per deprimersi. 

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Capitolo 2
*** 2; people ***



2; people








«Gran bella topaia.»
Anche se non avesse usato il tono sarcastico, avrei capito che mi stava prendendo in giro. Casa mia era una villa nel quartiere più lussuoso della città, e potete immaginare che di sicuro non rientrava nella categoria delle topaie a priori. Certo, poteva essere un po’ malandata a causa della mia negligenza, ma nessun dubbio sul fatto che c’era chi avrebbe venduto sua madre per viverci.
La sconosciuta entrò prima di me, scansandomi con una forza inaspettata dall’ingresso per precedermi. Io estrassi le chiavi dalla serratura e mi chiusi la porta alle spalle, accendendo la luce.
«Wooow» fece lei. «Che figata che figata che figata! È una cosa assurda! Questa cazzo di casa è enorme...» Allungò il collo per cercare di vedere la fine del corridoio che si snodava davanti a lei, senza successo. «Potrebbe ospitarcene dieci di famiglie, mica una sola.»
Poi si voltò verso di me, che intanto appoggiavo la cartella sul pavimento. «Che c’è per cena?»
«Che intendi?»
«Non era chiaro?» Si portò, con un gesto quasi involontario, una mano alla tasca nella quale nascondeva la pistola. «Che voglio che mi prepari qualcosa da mangiare per cena. Dio sa da quant’è che tutto quello che ingoio è l’aria che respiro. Ho una fame porca.»
«Ma non ho niente in frigo» arrossii appena. «Neppure in dispensa. Mangio solo per pranzo, a scuola, dove posso comprare...»
«Nessuno ti ha insegnato a fare la spesa?» mi interruppe la mia ospite inattesa.
Guardai lei, poi la mia cartella, che giaceva ai miei piedi. Mi chinai, la aprii e ne estrassi un fagotto avvolto in carta stagnola. Era metà del panino che avevo mangiato per pranzo quel giorno, nella mensa della scuola. Anch’io avevo un certo languorino, ma avevo paura che se prima non avessi sfamato quella ragazza, sarebbe stato un macello.
Glielo porsi, e lei me lo strappò di mano con una smorfia. «Mpf. Davvero non hai niente di meglio per colei che ti ha salvato il culetto?»
«Non è che tu abbia fatto chissà quale impresa» le dissi. La lasciai nella hall, incamminandomi verso le scale che portavano alla mia camera.
Sentii i suoi passi seguirmi con insistenza. «Eh? Ma sei matta o cosa? Sono stata una cazzo di eroina super figa, invece! Una tipo film d’azione: sai, no, quei film con il protagonista sexy che basta che dica una cazzata d’effetto con la faccia da duro li fa scappare tutti a gambe levate? Cazzo se mi sentivo così! E tu non l’hai notato? Dai, è impossibile. Sembrava una scena di un film d’azione di Hollywood, quelli che nominano agli Oscar. “Meglio maledetta pazza che figli di puttana del cazzo”. Ma mi hai sentita? No, dico... è stata una cosa fottutamente incredibile.»
In tutta la durata del monologo io mi ero già cambiata e messa in tuta, cercando di ignorare gli intercalari poco fini che amava inserire ogni due parole e che mi facevano sobbalzare ogni volta. «Guarda che se ti sei divertita così tanto, potrei fartelo rifare. Quella gente mi aggredisce quasi tutti i giorni dopo la scuola, quindi basta che passi da quelle parti e ci trovi lì.»
Lei assunse un’espressione interrogativa ma io la ignorai. Infilai la porta della mia camera, sentendola sempre trotterellarmi dietro, e una volta raggiunto il salotto mi sedetti sul divano e feci per prendere il telecomando.
«No, no. Non hai capito niente dalla vita» la sentii schiamazzare. «Via dal divano grande, lì mi ci stravacco io. Te siediti sulla poltrona, va’. Muoviti.»
Feci come mi aveva detto senza fiatare.
Dopo un po’ di tempo, mi guardai attorno, e finalmente mi resi pienamente conto di quanto fosse strana la situazione in cui mi trovavo.
Me ne stavo rannicchiata sulla poltrona di casa mia e guardavo la TV al plasma che trasmetteva un film che nemmeno mi interessava, e fin lì niente di nuovo. Ciò che c’era nuovo era che, di fianco a me, una perfetta sconosciuta che mi aveva salvata da tre assaltatori e che mi aveva costretta a ospitarla a casa mia, se ne stava, perfettamente a suo agio, in panciolle sul mio divano, e mi osservava in modo molto poco piacevole. Come se avesse da ridire sul fatto che io fossi lì.
Sembrava veramente che tra le due l’estranea fossi io. Era talmente pazzesco che, invece che farmi arrabbiare, la cosa mi stordiva soltanto, lasciandomi basita.
Aprì la bocca per dire qualcosa, ma un rumore improvviso la fece tacere. Io non ci feci caso e ignorai anche la seconda volta che lo stesso rumore si riprodusse. Alla terza, lei non riuscì a stare zitta e sbottò: «Ehi, vuoi far suonare quell’affare ancora a lungo o ti decidi a controllare la posta?»
Scrollai le spalle con indifferenza, cosa che la fece imbestialire ancora di più. Al quarto avviso della mail in arrivo la vidi alzarsi e stiracchiarsi. «Mi hai rotto le palle. Ora vado a dare un’occhiata io. E non ti lamentare se mi faccio i cazzi tuoi, non è colpa mia se lasci il computer acceso e non controlli le tue...»
Mentre parlava aveva raccolto il computer dal pavimento sotto il tavolo sul quale giaceva e aveva dato un’occhiata al suo schermo. Quel semplice gesto la fece tacere. Poi mormorò «Ma che...» e maneggiò il mouse del computer con una certa incredulità mista a impazienza. Quando ebbe finito i suoi occhi erano grandi come piattini. Mi guardò con una certa indecisione. «Ehi, senti... em, ti sono arrivate delle... strane notifiche...»
Io non staccai gli occhi dalla TV. «Oh, non ti disturbare a sentirti sorpresa. Sono le cose normali che mi mandano. Battute oscene, insulti, foto di me che annego nel sangue, video di me che vengo picchiata... solite cose. La routine.»
La ragazza sembrò leggermente scioccata, sulle prime, ma poi si ricompose. Digitò qualcosa con determinazione, poi spense il computer e lo lasciò così come l’aveva trovato, sotto il tavolo. Abbandonò la postazione per prendere quella originaria, sul divano.
Ma da quando aveva visto le notifiche sul computer sembrava irrequieta, e molto più disposta a parlare di quanto non fosse prima. «Che palle!» strepitò, rivolta alla TV. «Ma che razza di mortorio è? Spegni quella lagna. Mi dà sui nervi.»
«Ma io guardo sempre la TV di sera.»
«Bene, stasera no. Spegni quella cazzo di TV, dico sul serio.»
La guardai, impassibile. «Solo altri dieci minuti» richiesi.
Lei balzò sui cuscini del divano, digrignando i denti. «Ti ho detto di spegnere. A me non va di vedere tutte le puttanate che fanno la sera in TV. Spegni, oppure...»
«Oppure mi spari?»
In uno scatto aveva già la pistola in mano, e me la stava puntando alla testa. «E che ne diresti se lo facessi davvero?»
Io non mi spostai di un millimetro, ma continuai a fissarla in quegli occhi azzurri, attraversati da una rabbia insensata, come di bambina viziata. «Probabilmente» commentai in un soffio, «probabilmente direi che sarebbe molto meglio.»
Spiazzata dalla risposta, il suo dito tremò sul grilletto, prima di premerlo.













Hai haaai~!
Saa saa, minna-san! Grazie per aver aperto anche questo capitolo, malgrado non fosse lungo né, magari, all'altezza del primo. Ma suvvia, dovevo solo introdurre il modo in cui per tutta la fiction Luka e Miku interagiranno.
E sì, non è che sia proprio tutto rose e fiori la loro prima esperienza da coinquiline... Miku le spara pure... insomma, qualcuno le dovrebbe insegnare che bisogna prenderla persa quando le si nega qualcosa, e che non è affatto educato prendere la pistola e cercare di assassinare la gente solo perché non le va a genio.
E ora ecco a voi alcuni quesiti a cui rispondere tanto perché non so cosa scrivere in questo angolo: secondo voi la pallottola l'ha beccata? O Luka si è spostata? Cosa succederà adesso e secondo voi per quale motivo Miku l'ha costretta a ospitarla a casa sua?
Ommioddio, sono elettrizzata quanto voi! [questononèveromafacciamofintadisì]
E mi raccomando, ditemi che cosa ne pensate della situazione nella quale vive Luka. Purtroppo è una realtà per molti adolescenti, adesso. Le sentirete tutte le cose orribili che succedono in giro a causa del bullismo fisico e informatico... persino io che ci scrivo sopra la trovo una cosa assurda. Però in un certo senso capisco anche le ragioni di Luka nell'essere depressa e lasciare che sia così. Prossimamente approfondirò anche questo punto di vista e mi direte che ne pensate.
Nel frattempo be happy!
BNS 

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Capitolo 3
*** 3; run ***



3. run












Continuai a osservarla con un cipiglio tra l’assonnato e il disinteressato, mentre osservavo la fiammella che ondeggiava e si protendeva verso l’alto.
«Un accendino? Davvero?»
«Davvero» brontolò lei. Rimosse il dito dal grilletto della “pistola” e la fiammella si spense con un click. «Non posso nemmeno permettermi degli stivali di gomma quando fuori piove, figurarsi una pistola vera. Questa è solo per far cagare sotto i molestatori. Sai che quando si cresce per strada intimorire la gente è vitale?» Si lasciò cadere all’indietro sul divano, con una smorfia. «Mah, che vuoi saperne te. Guarda dove vivi.»
Io rimasi in silenzio. Finalmente, dopo un paio di minuti, decisi di spegnere la TV, e sul salotto cadde un silenzio denso ma non teso come mi sarei aspettata. Ora, più che indispettita dal disagio nel quale la mia ospite mi aveva messo, dovevo ammettere di esserne incuriosita. Era la prima volta che accennava a qualcosa della sua vita. Non potevo fare a meno di chiedermi chi fosse e cosa le fosse venuto in mente infestando casa mia. Forse salvarmi le aveva dato alla testa?
Ma non era l’unica cosa che mi premeva sapere. Chissà che cosa pensava di me, pure. Una liceale malata di depressione, con manie suicide, completamente remissiva di fronte a stupri, violenze e bullismo, che vive in una bellissima gabbia d’oro e dalla tendenza a obbedire a qualunque assurda richiesta... probabilmente mi riteneva una masochista.
Non avrei saputo dire se fosse vero o no, sinceramente.
«Uhm» fece, interrompendo il silenzio. «Mi sto annoiando. Lo sai, sei veramente uno schifo come padrona di casa.»
«Le mie scuse, ma non mi ero preparata a ricevere ospiti.»
«Sì sì, parla pure come una nobildonna. Ora tutti nodi verranno al pettine.»
«Che intendi?»
Alzò il dito indice al soffitto, uno sguardo birichino in volto. «Giochiamo!» disse in tono di celebrazione. «Un gioco che ho imparato da bambina. Si chiama Verità o Ti Faccio Fumare Dalla Fronte.»
«Strano, avrei giurato che si chiamasse Obbligo o Verità»
«Ah, tu conosci la versione per bambini che hanno avuto un’infanzia normale. No, la mia è la versione per quelli mentalmente instabili. Qualcosa mi dice che sia io che te facciamo parte della categoria, eh?» Si alzò, raccogliendo le gambe al petto. «Ora ti faccio delle domande e tu devi rispondermi con la verità. In questa variante, se scegli obbligo, il mio obbligo sarà farti rispondere alla domanda. Chiare le regole?»
«Mh-mh» masticai tra i denti in segno di assenso.
«Prima domanda: ce l’hai una famiglia?»
«Sì e no. Mia mamma è morta tanto tempo fa, prima che imparassi a parlare, e da allora mio padre va con una donna diversa ogni anno. Da quando ho iniziato il liceo mi ha comprato questa villa, e mi ha messo a disposizione dei soldi per tirare avanti. Non lo vedo da quando avevo quattordici anni. Chiama sempre a Natale e per il mio compleanno. È sempre ubriaco quando chiama, quindi io gli chiudo il telefono in faccia.»
«Bell’inizio... domanda numero due: ce li hai degli amici?»
«Mai avuti, no. E sospetto che non li avrò mai. Chiunque mi si avvicini lo fa con cattive intenzioni. Alza le mani su di me o mi dice cose terribili, il che, per come la vedo io, è molto peggio. A quanto pare, sì... mi odiano tutti quanti.»
«Da quant’è che va avanti la storia del bullismo?»
«Da tre anni. Praticamente ogni giorno, solo che il più delle volte non ci vanno pesante con me per avermi viva e vegeta anche il giorno dopo e non far insospettire gli insegnanti o gli altri ragazzi. Solitamente nessuno mi è così vicino da vedere se le mie braccia sono ricoperte di lividi o se sotto la frangia nascondo delle ferite, quindi le loro preoccupazioni sono vane. Oh, e poi il bullismo informatico. Quello c’è anche da prima. Li diverte dire cattiverie su di me e postare le mie foto mentre me ne fanno di tutti i colori perché non reagisco mai.»
«E come mai non reagisci? Non dici niente a nessuno? Quelli potrebbero finire in galera per quello che ti stanno facendo, non lo sai?»
«Se fosse così dovrei far rinchiudere praticamente tutta la mia classe... e molti studenti di classi superiori. Perché dovrei rovinare gli equilibri della scuola, e far parlare tutti di me? A me non piace stare al centro dell’attenzione. E poi, se uno di quelli venisse a sapere che ho parlato... credo che non mi farebbe fuori, ma molto peggio. Per lo meno adesso ci vanno piano con me. Ma sono consapevole di quel che potrebbero fare. E non voglio che si venga a tanto.»
«Ti hanno già violentata altre volte, vero? Quante?»
«Fino a ora, forse, due o tre volte. Violenze complete, di gruppo. Più spesso, come oggi, si divertono a farmi fare cose schifose con loro. All’inizio, sai, cercavo di ribellarmi. Poi però loro continuavano a pedinarmi, e ancora, ancora, non mi lasciavano in pace un attimo, così io ho deciso che piuttosto che scappare dall’inevitabile e impazzire definitivamente avrei dovuto mettermi il cuore in pace e lasciare che fosse. Tanto non c’era via d’uscita.»
«E perché sei diventata loro bersaglio in questo modo così spietato? C’è una ragione o hanno tirato a sorte su chi usare come agnello sacrificale?»
«No... una ragione c’è.»
E fu allora che, dopo un fiume di parole che non pronunciavo da... nemmeno mi ricordavo quando, e specialmente non in presenza di una persona così incredibilmente vicina (strana definizione per un’estranea senza nome), tacqui. Perché mi resi conto di avere paura a andare così a fondo e scavare, scavare fino a tornare a quel giorno.
Potevo essere una masochista completamente sottomessa, ma ripensare a quei momenti mi faceva sempre un male per niente piacevole. Era anche peggio che essere picchiata, cento volte peggio che essere usata come un giocattolo sessuale, e mille volte peggio che essere minacciata per non parlare.
La mia ospite si riscosse, e aggrottò le sopracciglia per il disappunto. «Una ragione c’è... quale sarebbe, se posso chiedere?» La sua voce aveva un che di tagliente.
Io guardai altrove. «... Non è importante.»
«Se ti fanno il culo ogni giorno sarà qualcosa di importante, no?» sbottò lei, battendo con furia le mani sui cuscini del divano. «Dì, ma vuoi veramente farmi incazzare? Perché sembra che tu abbia un talento naturale.»
«Mi spiace» commentai, sentendomi stranamente sincera. «E va bene... senza girarci intorno, tutto cominciò alla prima festa annuale del mio liceo. Era l’inizio della pubertà un po’ per tutti, e molti miei compagni già uscivano con i loro fidanzati... c’era persino chi aveva già perso la verginità, pensa te. Quella situazione mi preoccupava. Io non avevo mai pensato seriamente ai fidanzati, mentre le ragazze che conoscevano non facevano che parlare di quanto fosse bello quel ragazzo, o quanto fosse simpatico quell’altro... così cercavo di entrare in sintonia e guardare i ragazzi. Be’, non mi dicevano nulla. Nessuno di quegli incredibili batticuori ai quali inneggiavano i miei coetanei.
«Pensai che avevo qualcosa che non andava. Forse ero troppo ingenua. Forse era ancora troppo presto, per una come me, pensare a cose del genere. Poi però... successe che nella mia classe arrivò un nuovo studente. Cioè, una nuova studentessa. E da allora mi resi conto che in verità ero prontissima per le storie d’amore e i batticuore, solo che non lo ero per i maschi, ma per le femmine. Mi ero perdutamente innamorata della nostra nuova compagna. E sai che vuol dire, perdutamente? Non sognavo che lei, non desideravo che lei, perfino quando mi masturbavo pensavo a lei. Era diventata un’ossessione, e non mi faceva bene. Così un giorno decisi di farla finita. E quel giorno era il ballo della scuola.
«Glielo dissi, ok? Con la mia dannata ingenuità le dissi che l’amavo lì davanti a tutti, tutti con i loro cavalieri e le loro dame, maschio e femmina, maschio e femmina. I primi insulti furono “sfigata, frocia, deviata mentale, mostro!” e vennero da chi guardava. Ma la cosa infinitamente peggiore, peggiore che quelle parole, peggiore che i loro sguardi su di me, peggiore che tutto quello che vissi dopo quel momento... furono gli occhi orripilati di lei su di me, le sue labbra che dicevano: “non... non parlarmi mai più. Mai più” con un tono freddo come il ghiaccio, e il suo voltarmi le spalle subito dopo.
«Mi trattò come una portatrice di qualche strana malattia infetta per tutta la settimana successiva al fatto. Ogni volta che le capitavo davanti vedevo ben chiaro il disgusto nel suo sguardo. E anche il timore che, che ne so, potessi saltarle addosso da un momento all'altro. A quanto pare l'avevo sconvolta e la cosa non stava bene ai suoi amichetti, che si misero in testa certe paranoie su di me: che io fossi una schizzata pericolosa, una emo squilibrata, cose così... fu da allora che il bullismo informatico iniziò. Tutti scrivevano sui social network: state lontani dalla pazza furiosa lesbica! Ha tentato di violentare la nostra amica! Noi l'abbiamo vista! E così tutti iniziarono a starmi alla larga anche di più di quanto non facessero prima.
«Comunque, ancora una volta, la reazione di lei fu ciò che mi ferì di più. Per me, avrebbero potuto continuare a insultarmi, picchiarmi, scrivere infamie o sputarmi in faccia, di loro non mi interessava nulla... o almeno finché, alla fine, lei sparì dalla circolazione. Si era trasferita a causa mia. E il suo rifiuto totale mi portò sulla strada della follia definitivamente. Ed è lì che vago da allora, senza cercare di uscirne e ricominciare daccapo. Perché, in fondo, penso... anzi, sono profondamente sicura di non meritarlo. Ho sbagliato, e questa è la mia punizione.»














Hai haaai!
Saa saa minna-san! Sono depressa. E' proprio un periodaccio, sapete? Meh, speriamo passi, nel frattempo, mi tengo occupata con la scrittura! Avrete notato che questo capitolo è più lungo, perché ora ci passo su più tempo, limo di più i dettagli, per non... sapete... pensare a altro.
Bene, più cose di così non avrei potuto spiegarle su Luka... o meglio, non adesso, ma presto ci sarà una specie di "seconda parte" alla sua confessione di cosa pensa della vita. Qui siamo venuti a sapere della sua triste, triste storia, e anche di come vede il bullismo che le viene inflitto. Piuttosto masochista, la nostra Megurine, eh? Che ne pensate del suo modo di ragionare? Da folli o, in una situazione analoga, sareste anche voi caduti nel burrone in cui lei sta praticamente sguazzando? E che ne pensate del carattere piuttosto... invadente (che è dire poco) di Miku? Quali sono le sue vere intenzioni?
Fatemi sapere se la storia continua a piacervi, mi raccomando ;) almeno voi fate sentire che ci siete.
Al prossimo aggiornamento, che spero arriverà presto!
BNS

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Capitolo 4
*** 4; in circles ***


4; in circles






















«Agh... che merda.»
Finsi di non aver sentito e cercai di chiudere gli occhi, per lo meno per cercare di recuperare un briciolo di sonno. Ma la sua voce mi giunse di nuovo con un’altra lamentela, facendomi sospirare. «Allora» iniziai. «Per l’ultima volta, qual è il problema?»
«Questo fottuto materasso è il problema. E dire che pensavo che voi ricchi dormiste su cose più morbide. Ce li avete i soldi per permettervelo, no?»
«Guarda che i ricchi imbottiscono il materasso di banconote per non metterle in banca. Lo sai che stai dormendo sopra i miei risparmi di tre milioni di yen?»
Subito la sentii tastare il letto e muoversi convulsamente, come se stesse cercando di graffiare la federa con le unghie. «PORCO MONDO! Dici sul serio!?»
«Ah ah... certo che no.»
«Ooooh» fece lei. «Vedo che anche i depressi cronici hanno senso dell’umorismo.»
«Se così non fosse tanto varrebbe metterci un’etichetta attorno all’alluce e chiamarci cadaveri, non pensi?» replicai. «E comunque il nostro si chiama “humor inglese”. Perché ogni volta che proviamo a fare gli spiritosi non si capisce, e quando si capisce non fa mai ridere nessuno.»
«Ottima definizione, miss saputella. Che ti sei mangiata prima, un vocabolario?»
Il fatto era, che sapeva benissimo cosa mi fossi mangiata, visto che era a tavola con me. Così come la sera prima, e quella prima, e quella prima ancora. Mi aveva accompagnata a fare la spesa il giorno dopo che si era fatta ospitare da me, e così, stando in mia compagnia, aveva anche scoraggiato l’incursione dei miei soliti assalitori, che ancora avevano ben chiaro in mente il momento in cui i loro genitali erano stati minacciati dalla sua temibile “arma”.
Non mi aveva più mollato, lei. Non avevo la minima idea del perché si ostinasse a starmi appiccicata. Forse era pietà, compassione, o forse davvero pensava di essere una specie di eroina e si sentiva in dovere di proteggermi. Qualunque fosse il suo vero proposito, col tempo avevo perfino smesso di preoccuparmene seriamente. Perché sapevo che le cose più piacevoli erano proprio quelle che non si riuscivano a spiegare. E allora perché provarci? Va bene che ero masochista, ma un po’ di bene me lo volevo persino io.
Comunque, tutto sommato, era bello. Stare in sua compagnia, intendo.
Sotto la corazza da ragazzina selvaggia e volgare, si nascondeva una personalità buffa con cui era facile scherzare e prendere in giro, quando anche lei stava al gioco. Mi faceva ridere, mi teneva di buonumore, e mi faceva sentire inspiegabilmente sicura. Non che tutti questi cambiamenti fossero visibili: per i miei compagni di classe, quando stavo a scuola, ero la solita “puttana lesbica emo” di sempre. Ma quello perché - incredibile a dirsi - soffrivo la sua mancanza quando non era con me.
A pensarci mi veniva sempre da ridere. Non sapevo nemmeno il suo nome.
Ma mi sembrava talmente naturale stare con lei che l’idea di perdere tempo prezioso per chiederle una cosa tanto stupida mi sembrava uno scempio. Impensabile.
Forse lo ero davvero, alla fine. Pazza.
Ma forse lo era anche lei. Quindi andava tutto bene.
Quella era la settima notte che mi dormiva accanto. Una settimana, esatto; era da una settimana che mi gironzolava intorno, mi scroccava i soldi per il cibo, e faceva la dispotica nella mia stessa casa comandandomi a bacchetta. E che, come dimenticarlo, mi teneva lontana dai guai, e soprattutto compagnia.
Di solito quando ci mettevamo a letto si addormentava sempre subito. Ma quella notte fu diverso. Era in vena di chiacchiere, a quanto pareva. E io non potevo che assecondarla, visto che sapevo quanto non amasse che le si disobbedisse. «Senti, disperata, me la toglieresti una curiosità che ho da un po’ di tempo?»
«Se proprio vuoi che lo faccia.»
«Hai mai avuto una storia d’amore con una ragazza?»
«No» sorrisi amara. «Mai avuto il privilegio. Non me lo lasciavano fare.»
«Ah... capisco.» Un attimo di pausa, prima di sbottare, del tutto senza preavviso: «E che cazzo, però, questa cosa mi sta sulle palle! Il fatto che ti costringevano a fare tutto quello che pareva a loro. Che pezzi di merda!»
«Disse quella che mi ha seguita fino a casa, che sfrutta la mia ospitalità e mi obbliga a stare al suo servizio come una servetta.»
«Senti, è una cosa diversa.»
«E in che modo?»
«E’ una cosa diversa, e punto.» Mise su il broncio. «Scommetto che quelli lì ce l’hanno una casa in cui non vedono l’ora di tornare dopo aver fatto i loro sporchi comodi, una famiglia che gli prepara il loro bel pranzetto, un camino davanti al quale sedersi per scaldarsi e un bel lettuccio in cui fare la nanna, a posto con la loro disgustosa coscienza.»
Mi misi le mani dietro la nuca, a pancia in su. «E tu queste cose non le hai?»
«Sei perspicace» commentò lei, ma poi rimase in silenzio.
Mi voltai verso di lei. «Cambiando discorso... non posso fare a meno di aver notato una tua tendenza a... parlare in modo non esattamente consono a una ragazza della tua età.»
«Tutte le ragazze della mia età parlano così, tranne le ochette che se la tirano come te.»
«Potrei insegnarti a parlare meglio» le sorrisi dolcemente. «Sai, senza intercalari volgari, e in modo meno sgrammaticato. Non credo che tu sia una grande studiosa, o sbaglio?»
«Non credo che lo sarei nemmeno se andassi a scuola» grugnì lei per tutta risposta. Malgrado il buio riuscii a vedere un leggero rossore di vergogna affluirle alle guance.
Forse non le piaceva tanto essere così rozza, o almeno non come lo dimostrava, pensai.
Distolsi lo sguardo dal suo volto e lo puntai sulle travi del soffitto. «Lo sai, io mi interesso abbastanza di letteratura, arte... e musica. So anche suonare qualche strumento. Pianoforte, viola da gamba, chitarra. Ogni tanto canto anche, ma» risi incerta «non lo faccio mai a voce troppo alta, per evitare di spaccare vetri o cose del genere.»
La sentii reprime una risata, che si impose di soffocare nelle lenzuola. «Oh. Una figlia di papà come si deve. Non ti sei proprio fatta mancare niente, eh? Dimmi, ti sei pure imparata a memoria il galateo?»
«Conoscerne alcuni passi è utile» risposi.
«Come no. Così conosci dieci modi diversi per pulirti il sangue dal labbro quando ti pestano in un vicolo cieco.»
La ignorai: «Se vuoi potrei darti qualche lezione, visto che non frequenti la scuola. Invece di stare qui a far niente mi piacerebbe rendermi utile e sdebitarmi per quando hai messo in fuga quei ragazzi, l’altro giorno. Potrei anche insegnarti a suonare qualche strumento. Sai, è un modo molto efficacie di scaricare la tensione e dimenticarti di tutto. Ci sei solo tu, e la musica nell’aria, e le tue dita che volano, sempre impegnate, per creare nuove melodie. È tutto un altro mondo, ed è veramente, veramente bello.»
«Suonare non mi serve a sopravvivere» fece lei con voce piatta.
«Su questo ho i miei dubbi» replicai. «Ma è inutile che continui a ricamarci sopra. È un’esperienza che finché non vivi in prima persona, non capirai mai fino in fondo.»
Per la prima volta, una mia affermazione le aveva fatto perdere le parole, così stette in silenzio e solo dopo un po’ si girò dall’altra parte.
Sentendomi rassicurata da quel fatto più unico che raro, le scossi lievemente una spalla. Lei sussultò, evidentemente sorpresa da quella mia presa di iniziativa. Era la prima volta che avevamo un contatto fisico, ora che ci facevo caso. Era strano. Ma in un certo senso, anche piacevole. Un po’ come il suo starmi addosso da una settimana a quella parte. «Senti... io non ho sonno. Ti va di provare a suonare qualcosa?»
«N-No grazie» balbettò.
«Allora ti va se ti faccio sentire qualcosa io?»
Lei fece roteare gli occhi. «Fai quel cazzo che ti pare.»
«Ah-ah... basta che la smetti con le parolacce.»
«Che due-» iniziò, ma guardandomi in faccia riuscì a trattenersi: «Accipicchia, che seccatura
«Molto meglio» le sorrisi.
Mi alzai dal materasso e lei mi imitò. Tutto sommato non era stato così difficile convincerla, forse le andava veramente sentirmi suonare. Quella sorta di attenzione mi fece sentire lusingata. Non avevo mai avuto una persona che si interessasse a me, anche solo un po’, e pensai che fosse veramente una bella sensazione.
Raggiunsi il mio studio e mi sedetti al pianoforte. Mi sgranchii le dita, come vedevo fare ai pianisti veri. «Questo è il mio strumento preferito» le confidai prima di iniziare a suonare davanti al suo sguardo fintamente distaccato. Cominciai a capire che il suono della melodia le piaceva quando la vidi, con la coda dell’occhio, raddrizzarsi, e quel po’ di sonno nei suoi occhi sparire definitivamente, lasciandola più sveglia che mai. Quando finii il pezzo, ci guardammo negli occhi.
«Era...» iniziò lei, a disagio. «Cioè... non era male. Era carino.»
«Ammettilo che non vedi l’ora di provare» la provocai.
Si voltò, mormorando un «Mai» poco udibile.
Quel suo ostinarsi a fare la tsundere della situazione non fece che divertirmi. Senza nemmeno rendermene conto l’avevo afferrata per i polsi e allungato il collo, per stamparle un lungo bacio sulla guancia già bollente.

























Hai haai!
Non so che dirvi. C'è solo una cosa molto importante che dovete sapere: aspettatevi yuri selvaggio di qui a breve.
Anche se scommetto ci foste arrivati prima di me XD e poi, come posso far dormire Luka e Miku nello stesso letto senza farle... consumare il loro amore? Eh...
Mi sento sempre una pervertita che spia le coppie da un cespuglio mentre loro... make out, se sapete che intendo.
Comunque, in questo capitolo non c'è molto da dilungarsi in complessità introspettive. C'è giusto qualche indizio in più sulla vita che Miku conduceva prima di infestare la villa di Luka. Ma per il resto... il prossimo capitolo sarà più utile per capire la loro psiche molto più a fondo, specie quella di Luka. Per quella di Miku vi tocca aspettare. Ee... che volete che vi dica, c'est la vie.
Ah, una grande anticipazione: da questo capitolo una cosa cambierà in modo radicale, una cosa che non vi aspettereste mai! Ovvero, Miku la smette con le parolecce! /i lettori e l'autrice lanciano coriandoli orgogliosi/
Breva, breva, è già un grande passo avanti.
Al prossimo aggiornamento!
BNS <3 

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