Il ciclo dei vincitori

di Daewen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una difficile promessa ***
Capitolo 2: *** Un deliberato abbandono ***
Capitolo 3: *** Una dolce consapevolezza ***
Capitolo 4: *** Un doloroso bentornato ***



Capitolo 1
*** Una difficile promessa ***


Attenzione! Spoiler del 7° libro! Leggete a vostro rischio e pericolo!

Ok, un nuovo progettino che mi è venuto in mente piano piano. Il capitolo che segue doveva essere in realtà una one-shot, ma continuavo a inserirci avvenimenti superflui, e alla fine mi sono detta: perché non faccio tutti capitoli diversi, ognuno che parla di un personaggio in particolare?
Ogni capitolo sarà introdotto da una poesia di Emily Dickinson, che io adoro =)
Il titolo della fic è idiota, lo so, e spero che Verga non si rivolti troppo nella tomba. Diciamo che sopra le venti volte comincio a preoccuparmi. O.o Comunque sia, l'ho scelto perché, in qualche modo, nonostante tutto, i protagonisti dei vari capitoli sono dei vincitori.
Fatemi sapere se devo continuare a scrivere, mi raccomando!

Una difficile promessa

L'acqua è insegnata dalla sete.
La terra, dagli oceani traversati.
La gioia, dal dolore.
La pace, dai racconti di battaglie.
L'amore, da un'impronta di memoria.
Gli uccelli, dalla neve.
        Emily Dickinson (c.1859)

         Traduzione di Margherita Guidacci


Quello era, in un certo senso, un bambino difficile. Certo, Harry aveva un bel dire che non era affatto vero, ma crescerlo era terribilmente doloroso.
Era serio e tranquillo, sì, ma inciampava un po' troppo spesso. I suoi capelli diventavano rosa o biondicci un troppo frequentemente, nonostante li preferisse di un bel turchese brillante. Aveva la stessa risata contagiosa di sua madre, e la stessa gestualità di suo padre. Doveva sforzarsi di mantenere l'ordine che tanto gli piaceva, perché sebbene avesse per certi versi un carattere piuttosto metodico, tendenzialmente era disordinatissimo. Inoltre, come dimenticare la sua innata passione per i lupi e quell'attrazione apparentemente ingiustificata che provava per la luna? Ancora non sapeva nulla della “malattia” che aveva afflitto suo padre per tutta la sua breve vita. Non che il piccolo Teddy non sapesse nulla dei suoi genitori, tutt'altro: Harry, suo padrino, “zia” Ginny e sua nonna Andromeda si lanciavano spesso in lunghi, malinconici racconti. Harry era stato categorico: lui era cresciuto senza sapere quanto coraggiosi, forti, e giusti, fossero stati i suoi genitori; Teddy non avrebbe mai subito la stessa sorte, assolutamente no. Remus e Tonks erano vissuti da eroi, erano morti da eroi e come tali sarebbero stati ricordati da tutta la comunità magica, il loro giovane figlio compreso.
Se Harry spesso gli raccontava delle varie battaglie, combattute insieme o semplicemente sentite raccontare, e i vari episodi vissuti dai Malandrini, Ginny preferiva snocciolare esilaranti storielle su una Tonks adulta, che lei aveva sempre considerato alla stregua di una sorella maggiore, e Andromeda si lanciava in sfocati ricordi di una bambinetta dai capelli color rosa cicca.
A volte era proprio il piccolo Teddy a chiedere una storia su quei genitori che amava tanto senza averli mai conosciuti. Spesso accadeva quando andava a trovare Harry, che nel vecchio salotto teneva le foto di tutti coloro che erano morti in battaglia. Per non dimenticare, diceva. Tra quelle foto ce n'era una in cui Tonks e Lupin tenevano fra le braccia un fagottino minuscolo, reggendolo come fosse fatto di cristallo, e scrutandolo con tanto amore che chiunque si soffermasse troppo su quella foto finiva col piangere amaramente per quell'ingiustizia. Teddy prendeva quella foto in mano, e aspettava un poco. Aspettava che, come succedeva spesso, uno dei suoi genitori si abbassasse a dargli un bacio, e gli pareva di sentire davvero quel dolcissimo contatto. Allora si voltava verso Harry e gli diceva:«Parlami di loro.»

Era bellissimo veder brillare gli occhi di quel bimbo troppo malinconico, e questo spesso era sufficiente a ripagare i momenti più dolorosi. Harry adorava quel bambino, e faceva di tutto per renderlo felice e spensierato come sarebbe dovuto essere, come sarebbe stato se entrambi i suoi genitori non fossero morti combattendo i Mangiamorte. Da bravo padrino lo portava a vedere tutte le partite di Quidditch in cui giocava Ginny, dapprima loro due da soli, poi accompagnati da Bill, uno dei numerosi fratelli maggiori di sua moglie, e dalla sua figlioletta Victoire, che a soli due anni già presentava un fascino innaturale derivato dall'avere una bisnonna Veela. Teddy adorava quei giorni speciali, in cui non solo passava anche più tempo del normale con Harry, ma si ritrovava, per una volta, a non essere il piccolo di casa, visto che Vic aveva due anni meno di lui. Dopo la partita il piccolo gruppetto festeggiava con la squadra di Ginny, che avessero vinto o no – ma le vittorie erano assai più numerose delle sconfitte, non per niente si stava parlando delle Arpie. I bambini ottenevano una burrobirra a testa e un cartoccio di patatine bagnate di aceto bianco, come piaceva a loro, e i grandi buttavano giù un po' troppo Whisky Incendiario, cosicché poi toccava a Ginny riportare tutti a casa, tra le risate dei bimbi.

Le giornate speciali con nonna Andromeda erano più tristi, e meno intense, ma Teddy le aspettava per tutta la settimana, anche solo perché facevano stare meglio la sua nonnina adorata. La domenica mattina, alle otto in punto, sua nonna lo svegliava e scendeva a preparargli la colazione. Teddy si lavava la faccia e si vestiva – piuttosto malamente, ma insisteva per farlo da solo- e poi scendeva in cucina. Lì lo aspettava la colazione già pronta, e l'ispezione di Nonna Andromeda, la quale controllava che avesse allacciato bene le scarpe, e che i bottoni fossero nelle asole giuste, dopodiché lo spingeva dolcemente verso il tavolo. Lei, già vestita e presumibilmente con lo stomaco pieno, si sedeva accanto a lui e lo guardava mangiare. Mentre Teddy correva a lavarsi i denti, la strega dava una sfogliata veloce alla Gazzetta del Profeta, ma di cattive notizie, ormai, non ce n'erano quasi più. Poi uscivano. Viaggiavano in auto, poiché dopo la morte di suo marito Andromeda si era ripromessa di prendere la patente. Anche in auto ci si metteva almeno mezz'ora ad arrivare al cimitero.
Ogni volta che Teddy superava i cancelli del camposanto sentiva la temperatura abbassarsi di qualche grado, e si stringeva a sua nonna. Camminava aggrappato a lei, almeno fino a quando non si trovavano a pochi metri dalla tomba dei suoi genitori. La lapide era sempre lucida e ben curata, coperta di fiori lasciati lì da loro due, da Harry e sua moglie e da tutti i fratelli di sua moglie. Lasciati lì dai membri dell'Ordine della Fenice e dell'Esercito di Silente sopravvissuti, da maghi e streghe sconosciuti che volevano onorare il loro sacrificio.

Teddy, come secondo un rito che conosceva da sempre, si avvicinava, e carezzava con la punta delle dita le foto dei suoi genitori. E leggeva le scritte.

Remus John Lupin, nato il 10 marzo 1960, morto il 7 giugno 1998
Ninfadora Lupin, nata il 21 maggio 1973, morta il 7 giugno 1998

Il nemico ultimo da sconfiggere sarà la morte.

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Capitolo 2
*** Un deliberato abbandono ***


Attenzione! Spoiler del 7° libro! Leggete a vostro rischio e pericolo!

x BlackRoseImmortal: Wow *___* che bella recensione!Molto accurata (e costruttiva, perché mi ha fatto riflettere)! Mi sono affezionata subito al povero Teddy, e mi sono impegnata parecchio nel descriverlo, sono davvero felice del tuo verdetto *___*
x Marelne: grazie =)
x Eneri_Mess: in effetti sembra un prologo. Comunque adoro questo personaggio, e penso proprio che scriverò ancora su di lui! Ho giusto in mente un paio di vicende... ma ora Teddy cede il passo ad un altro personaggio!(e comunque mamma Rowling è davvero cattiva T___T) Sono contenta che ti sia piaciuta anche l'illustrazione =)

Ringrazio tutti quelli che hanno aggiunto questa fanfic ai loro preferiti, GRAZIEEE!!!

Qualche precisazione sul precedente capitolo: le date che si leggono alla fine sono inventate di sana pianta, perché mamma Rowling più di tanto non ci fa sapere. Comunque, l'anno di morte è sicuro, la data di nascita di Remus pure e in teoria (se HP-Lexicon ha ragione) pure l'anno di nascita di Tonks.

Ora vi lascio al nuovo capitolo, che parlerà di... no, scopritelo da soli ^__^

Un deliberato abbandono

Mi piace un volto d'agonia
perché so ch'è sincero.
L'uomo non può contraffare lo spasimo
né simulare il rantolo.

Gli occhi si fanno vitrei ed è la morte.
Impossibile fingere
le perle di sudore sulla fronte
infilate dalla sommessa angoscia.
        Emily Dickinson (c.1861)

         Traduzione di Margherita Guidacci


Ed ora come diavolo avrebbe superato quell'ostacolo? Venne in suo soccorso il suo fedele elfo domestico, che quelle mura le aveva già superate: «C'è bisogno di un pegno di sangue, Padron Regulus» sibilò dolcemente Kreacher. Aveva ricevuto l'ordine di portarlo dove il Signore Oscuro aveva cercato di ucciderlo. L'ordine del suo padrone andava eseguito.
Il mago diciassettenne lo guardò sorpreso:«Un pegno di sangue? Non stiamo mica parlando di un salasso, vero?»
«Un piccolo taglio sarà sufficiente, Padron Regulus» lo rassicurò l'elfo.
«Ah, allora si può fare...» commentò il giovane, senza tuttavia procedere. Non che avesse paura, no. Non di tagliarsi. Nessuno era mai morto per un taglietto. Beh, quel Corvonero due anni prima c'era andato vicino, ma lo sapevano tutti che Piton a volte esagerava con quel suo... «Sectumsempra!» borbottò, puntando la bacchetta verso l'indice. Strofinò il dito sulla parete, nel punto indicatogli da Kreacher, e restò ad osservare, colmo di stupore riverenziale, la scomparsa di una buona fetta di muro dalla forma di arco a tutto sesto. Sapete cosa aveva fatto? Aveva dimenticato la tortura cui il Signore Oscuro aveva sottoposto Kreacher, ma non appena ne ebbe nuovamente coscienza lo stupore svanì, cedendo il passo all'odio selvaggio che gli aveva fatto compiere quel viaggio. No, no, aspettate, non quel viaggio. Quella pazzia. Era terrorizzato, signore e signori, maghi e streghe, l'ultimo discendente della nobile casata dei Black, “Toujours pur” e tutto il resto, era terrorizzato. Da cosa? Dal buio? Forse. Dagli Inferi che avrebbe presto dovuto affrontare? Probabile. Dalla morte? Sì.
Inspirò profondamente nel buio denso che sapeva di cadaveri bagnati e di acque scure, scure come nessuna pozione al mondo.
«Lumos»
Camminarono per un po', finché Kreacher non chiese al suo padrone di fermarsi. «È qui, Padron Regulus. La barca è nascosta qui. C'è una catena...»
Regulus non lo ascoltava più. Alzò le mani e trovò la catena. Avvicinò ad essa la bacchetta, ma la catena doveva essere invisibile. Borbottò qualcosa e finalmente poté vederla. Dovette fare tre o quattro tentativi prima di trovare il giusto incantesimo che gli permise di tirare a sé la barchetta dalle profondità del lago maledetto. L'elfo salì subito e lui lo seguì. Non sembrava in buone condizioni, ma se Lord Voldemort in persona ci aveva viaggiato... la barca iniziò a muoversi da sola, e Regulus trasalì. Era tanto vicino al minuscolo elfo che lui doveva essersene accorto per forza... oh, ma di cosa gli importava? Il groppo che gli si era formato in gola impedendogli di respirare correttamente era assai più preoccupante. Quella era la paura vera? Tutte le bravate che aveva compiuto da Mangiamorte non erano niente, in confronto a quella breve traversata. La barca li portò da brava a destinazione, tuttavia il ragazzo aveva già visto numerosi corpi morti. Inferi ovunque, come aveva detto Kreacher.
Scesero sull'isolotto al centro del quale troneggiava il temuto bacile, badando a non toccare l'acqua per non irritare troppo presto i cadaveri. Ora era più facile, si rese conto Regulus. Prese la bacchetta in bocca per avere entrambe le mani libere e cominciò a rovistare nelle pieghe della veste e del mantello. Sbuffò leggermente quando le sue dita sfiorarono il metallo, intiepidito dal calore del suo corpo. Tirò fuori un medaglione e lo porse a Kreacher con un sorriso mesto. «Prendilo» mormorò.
«Sì, padrone.»
«Quando il bacile sarà vuoto scambia i medaglioni, d'accordo Kreacher?»
«Sì, padrone» ripeté l'elfo, con voce atona.
«Ed ora ascoltami bene. Devi andartene senza di me, ok? Devi andare a casa e non dire nulla alla padrona, ok? Quello che ho fatto. Non dirle nulla. E distruggi il medaglione, quello di Lord Voldemort, d'accordo?»
L'elfo non aveva potuto far altro che annuire, perché lui era il suo padrone, il suo adorato padron Regulus.
Il giovane annuì a sua volta e riprese a rovistare nelle pieghe della veste fino a trovare una fiaschetta piuttosto antica. La immerse nel liquido più brillante di tutti gli smeraldi di questo mondo, raccolto in un comune bacile di pietra, e cominciò a bere, sorridendo fiducioso. Era tranquillizzante sapere di poter scegliere il proprio destino.
Quello fu il suo ultimo pensiero coerente, prima che il dolore lo attanagliasse.

Kreacher guardò il suo padrone soffrire le stesse pene che aveva sofferto lui, senza poterlo aiutare, perché voleva bene al suo padrone, che era tanto gentile con lui. Kreacher guardò il suo padrone avvicinarsi all'acqua, quando il bacile fu vuoto, e guardò gli Inferi afferrarlo e trascinarlo nelle acque nere, nere come nessuna pozione al mondo. Con mani tremanti sostituì i medaglioni e scomparve nelle tenebre. Gli ordini del suo padrone andavano eseguiti.

Un piccolo Post Scriptum: l'abbandono citato nel titolo non si riferisce a Kreacher, ma alla scelta di Regulus. Che si rivela un vincitore perché per una volta ha deciso il suo destino senza influenze da parte di genitori, Signori Oscuri, ecc.

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Capitolo 3
*** Una dolce consapevolezza ***


Dopo alcuni mesi di silenzio sono tornata. Ho lavorato a lungo su questo capitolo, visto che parla dei miei personaggi preferiti. Spero vi piaccia. x MartyTorsy e Joey: grazie, spero che vi piaccia anche questo chap; x Eneri_Mess: il racconto di Kreacher ha colpito molto anche me, questo capitolo mi è venuto piuttosto naturale. x BlackRoseImmortal: sono felice che ti sia piaciuto anche lo scorso capitolo. Per quanto riguarda l'suo del Sectumsempra, ci ho riflettuto parecchio. Alla fine comunque ho scelto la magia per due motivi: Regulus ha subito un lavaggio del cervello contro i Babbani e i loro metodi, e comunque, da ragazzino qual è, dubito che riesca a farsi molto male... comunque, a posteriori, credo sia preferibile la scelta del coltello.

Una difficile promessa

Io canto per riempire l’attesa:
annodarmi la cuffia,
richiudere la porta di casa
e non ho altro da fare,

finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme camminiamo verso il giorno,
l’uno all’altro narrando di come cantammo
per scacciare la tenebra.
Emily Dickinson (c.1864)

Traduzione di Margherita Guidacci


Mio Dio,
(chi)
cosa diavolo aveva
(combattuto)
bevuto per ridursi così? Era sdraiata e aveva gli occhi chiusi, eppure la sua testa la stava facendo impazzire, doveva
(aver lottato)
essersi scolata quantomeno...
Tonks lanciò un urlo e si rizzò a sedere. La sua testolina, non contenta di dolere in modo insopportabile, prese anche a vorticare furiosamente. Fece leva sulle braccia e aprì prudentemente un occhio.
Era al S. Mungo. Girò prudentemente il capo verso destra, e il suo sguardo frastornato incrociò quello di Kingsley. «Ben svegliata» le sorrise l'Auror, incerto. Accanto a lui c'erano i suoi genitori, chiaramente sollevati.
«Il Ministero, i Mangiamorte... zia Bellatrix...» gemette Ninfadora. La ragazza ricambiò impotente lo sguardo mesto del collega «Cosa...?»
«Abbiamo vinto.» mormorò lui.
«A vederti non si direbb...»
La porta della stanza si spalancò con un frastuono non indifferente, e il suo protettore entrò a passo di guerra. Malocchio Moody, in tutta la sua affascinante bruttezza, la fissò ardentemente con l'occhio buono: quello magico vorticava come impazzito. «Ben svegliata. Si sentono le tue urla dal piano di sotto, Ninfadora» specificò, facendo arrossire la sua pupilla «Kingsley, gli hai detto di Sirius?» ringhiò subito dopo, senza darle il tempo di arrabbiarsi per la storia del nome. Il nome Ninfadora fa schifo, bla bla bla.
Il diretto interessato lasciò vagare lo sguardo, evitando accuratamente di guardare la giovane, il cui sguardo era evidentemente assetato di informazioni. «Kingsley, cosa...?»
Moody sbuffò: non doveva gradire molto quello che stava per fare, ma non cambiò atteggiamento «Tuo cugino è morto.» borbottò dopo un'eternità.
Il cuore di Tonks mancò un battito, le braccia si fecero molli e lei scivolò di nuovo in posizione sdaiata. Kingsley, furente, afferrò Moody per il mantello e lo trascinò fuori della stanza. Lei tenne gli occhi chiusi, cercando di svuotare la mente. «Parla di Sirius, vero?»
Non le rispose nessuno e lei riaprì appena gli occhi. Spiò sua madre attraverso le ciglia folte.
«Mamma?»
«Sì.»
Tonks richiuse di scattò gli occhi.

Morto.

Si rannicchiò sul fianco sinistro, per dare le spalle al mondo.

Morto, morto, morto.

Suo cugino, l'unico che riconoscesse come suo parente – eccezion fatta per i suoi genitori, ovviamente- era morto. Sirius era morto.

Era morto, era morto, era morto.

L'unico parente accettabile.

Morto, morto, morto.

Perché i suoi genitori non erano accettabili, andiamo, chi mai, sano di mente, avrebbe mai definito i propri genitori accettabili? Sua madre era troppo perfetta e suo padre troppo imperfetto. Da nausea. Sirius invece era quello che si scolava tanto Whiskey Incendiario da mettersi a cantare canzoni di Natale babbane ad un ippogrifo, quello che per un amico aveva imparato a trasformarsi in un cagnaccio pulcioso, quello che era tanto coraggioso, e tanto stupido, da accettare qualsiasi, qualsiasi sfida, che fosse stata lanciata da un elfo domestico un po' alticcio, dai suoi migliori amici, o da un Mangiamorte.
Sirius era quello forte, che ti ispirava qualsiasi azione avventata. Quello che non rideva di lei ma con lei, che quando era una mocciosetta di cinque anni si era trasformato in quel cagnaccio rognoso e l'aveva fatta salire in groppa, tra gli sbuffi divertiti di Ted Tonks e le lamentele sconsolate di Andromeda Black, quello grazie al quale era fiera di essere una Black, appunto.

Morto, morto, morto.
Morto.

Si costrinse a fissare le lenzuola che chissà quando, e come, si erano mosse a coprirle la testa, a fissare il colore strano che le tingeva, un misto del riverbero del sole sulla sua pelle e della luce stessa. Le fissò, le fissò, le fissò, fino a quando non riuscì a scivolare in un sonno agitato, vagamente conscia del furioso litigio tra Malocchio e Kingsley sulla mancanza di tatto del primo.


Dormì a lungo,e si svegliò stranamente serena. Si stiracchiò, chiedendosi pigramente perché diavolo era completamente coperta dalle lenzuola, e soprattutto perché quelle lenzuola non erano assolutamente familiari. Sospirò, e si scoprì la testa con un gesto impacciato dai residui di sonno. Girò su se stessa, rannicchiandosi sul fianco destro, e registrò vagamente la presenza di sua madre. Si accorse... beh, era stupita, come se avesse dovuto esserci qualcun altro al suo posto. Dei brandelli di sogno riaffiorarono senza preavviso. Un funerale, e lei che si aggrappava a Lupin -ommioddiommioddiommioddio- e ricordò la lapide.
Sirius Black: prigioniero del suo passato, c'era scritto-
Si tirò su a sedere come se la sua vita dipendesse da quel gesto, no, come se la vita di Sirius dipendesse dal quel gesto. E scoppiò a piangere. Sua madre si chinò verso di lei e prese a consolarla, come l'aveva consolata quando una mattina aveva trovato Dandelion, il suo gerbillo, sdraiato sulla schiena. Si sentì piccola e fragile e non le piacque, e poi c'era... quel tarlo... perché quando sua madre le passava una mano sulla fronte incandescente per la febbre davanti agli occhi le compariva il volto stanco, ma sorridente, di Lupin?

Riscomparve tra le lenzuola spiegazzate, e scivolò in un soffocante dormiveglia. Sentì vagamente suo padre che rientrava nella stanza e appoggiava qualcosa sul comodino.
«L'ha presa male» mormorò sua madre, sconsolata.
Fu l'ultima cosa che catturò la sua attenzione prima che il sonno – con i suoi incubi- la ghermisse di nuovo.

Era buio e caldo. Un caldo simile ad una sauna, umido e soffocante. Respirava male. Sentì una sensazione opprimente sul petto, simile a quella che avrebbe provato se avesse sofferto di claustrofobia. Si portò una mano al collo. Era appiccicoso e umido. In un modo diverso dal sudore. Non riusciva a vedere le sue mani, tanto era buio, così le avvicinò al viso. L’odore impastato e ferroso del sangue le colpì il naso come una frustata. Si tastò di nuovo il collo. C’era uno spacco orizzontale. Vi infilò la mano. Le dita affondarono fino a toccare la spina dorsale. Il taglio attraversava perfino la trachea.

Si tirò a sedere, gettando via le lenzuola. Il sogno le aveva messo un’agitazione tale addosso che saltò istitivamente giù dal letto. Voleva fuggire! Poi alzò la testa e... beh, c’era Lupin davanti a lei, con un’espressione imbarazzata, diversa da quell’educato sorriso che mostrava talvolta. Lei arrossì, memore del sogno, e tornò ad abbassare la testa, e lui si grattò la fronte, cercando intanto di guardare altrove. Ovunque, ma non davanti a sé. Tonks ricadde pesantemente sul materasso.
«Come stai?»
La giovane indossò il suo miglior sguardo inquisitore e lo puntò sull’uomo. Mosse appena il capo per scansare dagli occhi la frangia, un po’ troppo lunga. Non aveva voglia di cambiare taglio di capelli, in quel momento. Non aveva voglia di fare granché, compreso respirare. Inclinò la testa e si sporse in avanti, verso lui, e sorrise amaramente «E tu? Tu come stai?» non era proprio una vera risposta – non era nemmeno una risposta educata, e fortunatamente sua madre non c’era. Non era una vera risposta ma diceva tutto. Si sentivano nello stesso identico modo.
Sospirò e chiuse gli occhi. Doveva avere la febbre, o comunque stava piuttosto male. Si sentiva svenire, per l’esattezza. Lupin la scrutò, comprensivo. Tonks sentì qualcosa, dentro, un formicolio decisamente piacevole. Singhiozzò e tornò a stendersi sul letto. Si accartocciò sotto le lenzuola, cercando di sopprimere quel sorriso dolce che lottava per salirle alle labbra. Non era tempo per essere felici, quello.
Però ora il freddo si era un po’ placato, si sentiva meglio.

Sentì il rumore della sedia di metallo che grattava il pavimento. Lupin sarebbe rimasto accanto a lei, a proteggerla, ancora per un poco.

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Capitolo 4
*** Un doloroso bentornato ***


Attenzione! Spoiler del 7° libro! Leggete a vostro rischio e pericolo!

x lyrapotter: sia Kreacher che Regulus hanno guadagnato parecchi punti, per quel che mi riguarda! Sono felice che le shot ti abbiano emozionato così tanto!
x SakiJune: WOW! *__* che recensione! Il complimento lo accetto benvolentieri ^____^ Sono molto molto felice che il mio stile ti piaccia *me commossa*

Un doloroso bentornato

Io canto per riempire l’attesa:
annodarmi la cuffia,
richiudere la porta di casa
e non ho altro da fare,

finché risuoni vicino il suo passo,
e insieme camminiamo verso il giorno,
l’uno all’altro narrando di come cantammo
per scacciare la tenebra.
Emily Dickinson (c.1864)

Traduzione di Margherita Guidacci


Il primo settembre Harry dovette tornare a Hogwarts per frequentare il settimo e ultimo anno, insieme a buona parte dell'Esercito di Silente.
Almeno, buona parte di quelli che erano sopravvissuti. Troppa gente si era sacrificata affinché Voldemort fosse sconfitto, e il vuoto che quelle persone avevano lasciato in lui fece capire a Harry il significato dell'ultima cosa che Silente gli aveva detto: «Non aver pietà dei morti, Harry. Abbi pietà dei vivi, e, soprattutto, di coloro che vivono senza amore.» Raramente aveva sentito qualcosa di più vero.
Camminare nella Sala Grande era come gettarsi nelle fiamme. Invece dei tavoli Harry vedeva i corpi di Fred, di Remus, di Tonks, di Colin Canon... vedeva il centauro Fiorenzo sanguinare orribilmente e lo sguardo assente di George e le lacrime di Ginny. Vedeva il sangue e udiva i pianti. Odiò i rubini che presto si sarebbero accumulati per segnare il punteggio dei Grifondoro, perché il loro rosso era troppo simile ai toni di una vita che scompare.

Da soli non si può affrontare un dolore tanto grande, Harry lo sapeva. Forse fu per questo motivo che dopo lo smistamento e dopo il banchetto, invece di ritrovarsi con i vecchi amici nella Sala Comune dei Grifondoro, o di ritirarsi vigliaccamente nel dormitorio maschile per evitare gli sguardi di tutti, si diresse verso il familiare gargoyle. La statua balzò di lato nel vederlo, e il ragazzo, profondamente sorpreso, restò a fissarlo imbambolato. In effetti non conosceva la parola d'ordine, e difficilmente avrebbe potuto indovinarla, stavolta. Il gargoyle si voltò a guardarlo «Avanti ragazzo, sei atteso. Non farla aspettare!»
Inspirò profondamente e ubbidì.
Scale a chiocciola, scalini ripidi che rischiano di farti scivolare ad ogni passo.
Non li aveva dimenticati quegli scalini, grazie a Dio. Non aveva dimenticato quell'ufficio. Essere dimenticati è peggio che morire. Morire due volte.
L’ufficio era cambiato. Era cambiato da quanto vi risiedeva Silente, ovvio, ma anche da quando era stato Piton a guidare –proteggere- la scuola. Ora era più... severo. Sobrio, ecco. I drappeggi che decoravano la stanza tendevano ai colori dei Grifondoro, nonostante il Preside non dovesse essere di parte. D’altra parte la McGrannitt aveva passato troppi anni a occhieggiare severamente la Casa di Harry per poter perdere subito l’abitudine a quei colori regali.
Minerva sedeva sullo scranno con aria regale. La vecchiaia segnava il suo viso ora come mai aveva fatto. Harry non vedeva una signora di mezz’età dal sottile umorismo, ma una vecchia esausta. Senza attendere il suo invito, Harry si sedette dinanzi a lei. Il silenzio sopravvisse a lungo, finché la McGrannitt non trasse un faticoso, profondo respiro. Harry aveva voglia di piangere. La professoressa cominciò a parlare, e lui quasi non l’ascoltava. Poi udì il nome di Silente. Stava raccogliendo frammenti di ricordi e dava loro vita, quasi un Pensatoio vivente. Harry ci mise del suo, ovviamente, e dopo Silente ricordarono tutti i membri dell’Ordine, perfino Piton. Ricordarono degli occhialetti di Silente e risero della sua passione sfortunata per le Gelatine Tuttigusti+1, discussero dell’atto eroico di Piton, del suo amore mai corrisposto –segreto che Harry aveva covato a lungo dentro di sé, e che ora sentì di poter rivelare- parlarono del futuro di Teddy Remus Lupin, ma non di come sarebbe potuto essere, perché sarebbe stato troppo doloroso. Il ragazzo riferì di come i Weasley stessero affrontando il lutto, di come George sembrasse non riuscire a riprendersi. Tutte cose che aveva notato nel corso dell’estate, ma ad esse pure non aveva dato voce per tema di ferire ulteriormente la sua Ginny, e Ron. La McGrannitt con un gesto delicato trasfigurò una un calice in una targa finemente decorata, con scritto “Qui lavorò Dobby, elfo libero”, che avrebbe poi fatto appendere nelle cucine. Allo stesso modo creò altre targhe per Lupin e Malocchio, da appendere nell’aula di Difesa Contro le Arti Oscure, ma non per Piton, che aveva già il suo truce ritratto in quello stesso studio dove stavano celebrando quella sorta di Cerimonia Funebre.

Quando Harry, ebbro di tristezza, si trascinò nel suo dormitorio, trovò Ron seduto sul suo letto, le mani strette fino a essere bianche intorno alla sua bacchetta. Egli stesso era violentemente pallido, poco più d’un fantasma. Nel vederlo arrivare si alzò in piedi, e cominciò ad indossare il pigiama, sempre lo stesso, corto pigiama. Harry si riavviò i capelli. Capiva il punto di vista dell’amico sin troppo bene. Era rimasto in piedi ad aspettarlo per assicurarsi che, in effetti, era ancora vivo.
Anche se tutto era tranquillo, anche se Voldemort se n’era andato per sempre.
Perché anche Fred se n’era andato per sempre.
Harry si cambiò meccanicamente, tanto da non accorgersi nemmeno di averlo fatto, e scivolò sotto le lenzuola. «Bentornato a Hogwarts, Harry» mormorò al soffitto.

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