The 'me' I was supposed to be

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Un ringraziamento a Kaoroar per aver disegnato il modello dei vestiti, dando un senso a ciò che c’era/non c’era nella mia testa (ero comunque pronta a vestire tutti da albero o da pannocchia, sì.), e ad Acchan per il betaggio dei primi due capitoli.
Le informazioni sulle piante sono state prese da wikipedia o dal web in generale.
Chiedo venia per la formattazione del testo, se vi appare strana: ancora una volta il mio essere anti-tecnologia ha colpito.

 

 

Se c’è una cosa che ho imparato – qualcosa che tutti sappiamo, ma ci serve inspiegabilmente una conferma per esserne certi – è che persino la persona più coraggiosa o la più arrogante e sicura di sé ha paura della morte.
Su questo non hai più dubbi dopo gli Hunger Games, che tu sia stato un tributo o un semplice spettatore: non importa quanto questo o quel rappresentante del proprio distretto abbia mostrato un’aria sicura durante la Mietitura, alla sfilata o alle interviste.
Ha paura, e sa che c’è solo una minima possibilità che questa, alla fine, si riveli infondata.
L’unica cosa che cambia, è come l’affronti e cosa mostri di te.

 

La Mietitura nel mio distretto non si svolge poi così diversamente rispetto agli altri, ad eccezione del 2 dove si offrono volontari.
Nel Distretto 5 questo non avviene. La piazza principale in cui si svolge ogni anno quest’estrazione, nel suo essere gremita di potenziali tributi e dei loro familiari, è silenziosa come un cimitero. Beh, a modo suo non è un accostamento di immagini sbagliato: chiunque di noi potrebbe essere presto morto.
Una cosa che credo accomuni tutti i distretti, è che quando sei alla Mietitura speri – oltre che di non essere estratto – che ad essere chiamati non siano né i dodicenni, né i diciottenni. Per i più grandi pensi che sì, forse avrebbero più possibilità di sopravvivere, ma sarebbe davvero assurdo averla scampata finora ed essere estratto proprio all’ultimo anno.
Per i più piccoli, invece, ti senti peggio: pensi che non si può avere tanta sfortuna – un solo foglietto tra mille, che scherzo è? –, e che non bisogna prendersi in giro, è raro per non dire impossibile che un dodicenne esca vivo dall’arena. E poi pensi che allora dovresti offrirti volontario, ma mai nessuno a parte un fratello o una sorella potrebbero farlo, e non è detto che accada.
Nessuno ti biasima davvero se non ti offri, perché nessuno ha fretta di farsi uccidere; ma tu sai che potevi garantire al dodicenne almeno un altro anno di vita.
Si può dire che quest’anno abbiamo scampato entrambi i casi, però.
Alexandra Garcìa è salita sul palchetto allestito per l’occasione, ha mostrato il solito video dei Giorni Bui che tutti conosciamo a memoria. Lei non mi dispiace: molti di noi pensano che qualcuno che conosceva abbia partecipato agli Hunger Games, perché non presenzia mai alla Mietitura con l'aria gioviale di chi ti invita ad una festa, com’è tipico dei portavoce di Capitol City.
Lei sta lì, composta, e fa il suo dovere; persino dell’abbigliamento di Capitol, che si sa essere appariscente, ha poco: la cosa che attira di più l’attenzione sono i tatuaggi fini, eleganti e dai motivi floreali che – azzurri come i suoi occhi – le decorano il volto giovane. Anche i capelli lunghi e biondi attirano l’attenzione, ma non si capisce bene se si tratti di una parrucca o meno. Io credo di no: è già molto bella, non ne ha bisogno.
Dopo l’inno si muove verso l’urna che ospita i nomi e li estrae; così ha fatto anche quest’anno: «Izuki Shun.» è stato il primo «Takao Kazunari.» il secondo.
L’unica cosa del protocollo che ha mantenuto è stata la frase di rito a chiusura del tutto: «Felici Hunger Games. E possa la buona sorte essere sempre con voi.»
Izuki ed io abbiamo rispettivamente diciassette e sedici anni quindi, com’è ovvio, non ci sono stati volontari.
Dopo che il tuo nome viene chiamato, non hai tempo di salutare i tuoi cari, non subito: Alexandra e i Pacificatori ti portano via e ti chiudono in una stanza; solo, naturalmente. Come se non ci fosse già abbastanza sconforto.
Ho perso di vista Shun quando lo hanno fatto entrare nella sua, e dopo pochi passi a me è toccato lo stesso: non mi ricordo nemmeno che mobili arredavano la stanza, per la verità. Pensavo al fatto che in breve la porta, aprendosi, avrebbe rivelato la mia famiglia e che quest’ultima conta mio padre, mia madre e mia sorella minore. Abbiamo fatto un patto, io e lei, quando i suoi dodici anni l’hanno decretata ennesima potenziale vittima dei giochi: chi resta, dei due, deve tenere su la famiglia.
Non ha pianto, quando è entrata: aveva gli occhi gonfi di lacrime mal celate ma è stata brava, e ha stretto la mano della mamma. Papà mi ha abbracciato: «Torna.» ha detto.
«Ci provo.» gli ho risposto abbozzando un sorriso. Non me la sono sentita di promettere o giurare.
Ho abbracciato mia madre e mia sorella più forte che ho potuto, e l’unica cosa che ho promesso è stata: «Sarò sempre Kazunari.» che, vigliaccamente, vuol dire tante cose.
“Lo sarò anche nell’arena”, “lo sarò anche da vincitore”, “lo sarò anche da morto”.
Ho capito che, insieme a loro, veniva portata via anche la madre di Izuki perché quando i Pacificatori hanno aperto la porta l’ho sentita, disperata, nel corridoio.
La madre di Shun non ha che il figlio, ancora vivo.
Mi sono chiesto come si faccia, dopo grida del genere e sapendo cose simili, ad uccidere il tributo del tuo stesso distretto.
Quando Alexandra Garcìa è venuta a prenderci non ha detto nulla e ha mantenuto un’espressione compassata; dall’occhiata che ci siamo scambiati io e Izuki era chiaro che nessuno dei due sapesse se fosse un suo atteggiamento tipico o per via dei Pacificatori che erano con noi.

 

 

Il viaggio verso Capitol City viene generalmente sfruttato per le prime tattiche, il che è il principale motivo per cui da subito ti dovrebbero presentare il mentore che cercherà di venderti al pubblico meglio che può – il che significa cercare di tenerti in vita più a lungo possibile.
Tanto più il tuo distretto è distante, più lungo è il viaggio e maggiore il tempo a tua disposizione prima che tu finisca in pasto al pubblico di Capitol. Il 5 si trova esattamente a metà strada, e il fatto che sia più vicino di altri – come il 12 o il 9 – sembrava aver convinto Alexandra a presentarci il nostro mentore il prima possibile. Quando Kiyoshi Miyaji ci si era presentato davanti, il mio primo pensiero era stato: ci ucciderà lui nel sonno, altro che Hunger Games.
Non è che fosse una brutta persona, ma era l’esempio peggiore di cosa ti fanno i giochi: da quando aveva vinto la sua edizione ne era tornato distrutto in tutti i modi possibili. All’aver tentato di uccidere altre persone per sopravvivere si era aggiunto aver dovuto abbandonare l’altro tributo del 5; non ho mai saputo l’intera storia, ma so per certo che erano amici. Tornato al distretto si è auto recluso nel villaggio dei Vincitori: parla con le persone che incrocia, ma non è più in grado né di sorridere, né di essere gentile, nemmeno con i bambini.
C’è chi l’ha sentito imprecare apertamente contro Capitol, qualcuno ci ha detto che è stato quando gli hanno detto che sarebbe divenuto mentore.
«È questo che fanno i giochi.» aveva detto mio padre una volta, quando commentai che non poteva prendersela persino con i bambini «se anche torni fisicamente sano e salvo, non è detto che tu sia davvero vivo. Né che ti lascino sopravvivere.»
Ora penso di capire cosa volesse dire.

 

 

Dal momento in cui siamo arrivati a Capitol City fino a quando non siamo stati rimessi uno di fronte all’altro prima della sfilata dei tributi, io e Shun avevamo avuto modo di capire che rispetto a tutte le altre volte che avevamo visto la capitale tramite i passati Hunger Games, la realtà era tutt’altra cosa: colorata, certo, e lussuosa ovviamente. Ma esageratamente, in un modo che non ti permette di guardarla a lungo.
È boriosa, sciocca e ridicola; tu la guardi e pensi… che stai andando a morire per il divertimento di questo tipo di persone. Non è qualcosa che puoi spiegare o capire da uno schermo.
La sfilata, come ci aveva spiegato Alexandra, è il primo impatto con il pubblico e tanto più forte è, meglio è; per questo ci ha tenuto a sottolineare l’importanza degli stilisti. Non ho inquadrato quello di Izuki finché non ci siamo visti alla sfilata, mentre il mio è qualcuno che Alexandra conosce da un sacco di tempo per quel che ho capito – si sono salutati calorosamente, e lui ha parlato un po’ di lei mentre eravamo insieme.
Non sono riuscito ad inquadrarlo completamente, Tatsuya: è abbastanza pacato e sorprendentemente “normale” – per lo standard di Capitol – da risultare indecifrabile per una conoscenza superficiale.
Forse ha letto sulla mia faccia questa perplessità, o così mi era sembrato mentre si occupava personalmente di farmi indossare il costume scelto.
«Sembri sorpreso da qualcosa che non ha a che vedere con i giochi.» ha detto con un sorriso.
«Sembrate più normali di quanto credevo possibile, tu e Alexandra.» ho risposto, e se hanno trasmesso anche questo, mio padre deve avermi dato del pazzo suicida: non critichi Capitol City se vuoi almeno provare a sopravvivere. Ma Tatsuya ha sorriso.
«Alex ha perso tanto negli Hunger Games. Io e lei siamo amici.»
Non ho capito subito cosa intendesse, poi ho saputo che una persona a lei cara è rimasta uccisa nei giochi; si trattava del tributo che Miyaji ha dovuto abbandonare nell’edizione che ha vinto.
Capitol City fa anche questo: ti distrugge e poi ti fa guidare altri tributi verso la distruzione affidandoti un ruolo importante – mentore, stilista, non fa differenza per loro probabilmente.

 

 

La sfilata dei tributi ti fa sentire come un animale in gabbia, e al tempo stesso oggetto da esposizione. I nostri stilisti hanno fatto un lavoro tale che non importa quanto tu sia vittima, non è semplicemente possibile non restare a bocca aperta almeno per qualche istante.
Sembra che almeno dal punto di vista del vestiario siamo stati fortunati con questa edizione: almeno non siamo vestiti da albero – non lo saremmo stati comunque, quel destino sarebbe potuto toccare al 7, ma il senso è comunque quello. Poteva andare molto peggio.
Per la sfilata siamo stati ripuliti da cima a fondo: il nostro distretto non è particolarmente povero, o sarebbe meglio dire che ce ne sono molti messi davvero peggio di noi come l’11 o il 12. Tuttavia siamo anche abbastanza lontani dal lusso dell’1 o del 2, poco ma sicuro. Quando parlo, quindi, di “darci una ripulita” non sto parlando di un semplice lavarci il viso e dare un senso ai capelli come si potrebbe pensare. Veniamo trattati da vip, ma in realtà tutto somiglia più a come un negoziante lucida al meglio la sua merce perché i clienti la trovino buona abbastanza da pagare per essa.
Lo staff personale di Tatsuya mi ha lavato, raschiato e privato di ogni tipo di pelo potesse essere cresciuto in sedici anni di vita sul mio corpo; pensavo che fosse il tipo di trattamento rivolto solo alle donne – effettivamente non sono in molti a preferire una ragazza pelosa, ecco – ma evidentemente mi sbagliavo, e di molto. O almeno, a Capitol City pare che non ci siano sessisti per quanto concerne il culto del bello e la pulizia e perfezione estetica.
I miei polpacci avrebbero da ridire, ma come ha detto Alexandra, non è saggio andare contro le disposizioni di uno stilista che a conti fatti ha interesse nella tua vittoria.
Vorrei sapere chi non ne ha.
Dopo ore che mi sono sembrate di poco distanti dalla semplice tortura mi sono ritrovato con la pelle più liscia di come l’avevo appena nato probabilmente; mi aspettavo un trattamento simile anche per i capelli e c’è stato un momento in cui ho temuto seriamente che uno dello staff volesse truccarmi come una donna – con la differenza che ad una ragazza dona avere il viso truccato, anche negli eccessi di Capitol… ad un ragazzo ne dubito fortemente. Non so quanto dei ghirigori rosa sul viso mi donerebbero l’apparenza di un avversario temibile nell’arena.
Fortunatamente sia io che Shun siamo stati risparmiati: i nostri capelli sono stati puliti con saponi profumati, pettinati ed acconciati poco rispetto alla vasta gamma di opzioni di cui lo staff era sicuramente dotato.
Siamo stati vestiti separatamente, così come divisi siamo stati per tutto il tempo della preparazione; quando Tatsuya mi ha permesso di vedere allo specchio il prodotto finale la mia espressione non deve essere stata delle più intelligenti. Ha riso: «Qualcosa di strano?» ha chiesto divertito.
«Eh? Strano? No, piuttosto… cioè…» il termine esatto sarebbe per lo più “dialettale”, un modo che abbiamo tra i ragazzi del 5, un paragone strettamente legato a quel che caratterizza il nostro Distretto, l’energia. E ad essa è collegato il vestito che – come ho scoperto una volta riunito a Shun per prendere posizione – fa da compagno a quello di Izuki.
«Come ti è venuto in mente?» è stata l’unica cosa che ho potuto chiedere perché, davvero, a me non sarebbe mai venuta un’idea del genere.
L’abito mio e di Izuki non è, di per sé, qualcosa di strabiliante; sarebbe anche abbastanza strano senza il suo pezzo forte: abbiamo una maglia nera di una semplicità quasi fuori posto per il luogo in cui siamo, mentre i pantaloni sono chiari ma ci fanno sembrare qualcosa di abbastanza contorto da comprendere, visto che ad una prima occhiata sembra che – in un raptus di follia latente – Tatsuya abbia dovuto coprire dei difetti con dei piccoli vetri di forma quadrata che non paiono avere senso di esistere.
Questo se si ignora quello che io stesso ho scambiato per una pettorina in metallo di terza categoria, per di più con un foro al centro.
Sono abbastanza sicuro che i più anziani del nostro Distretto abbiano riconosciuto ad una prima occhiata ciò che occupava quel foro; quanto a me e Shun lo avremo visto una, forse due volte su qualche libro scolastico, ma è raro da trovare in questa forma.
Nel momento in cui ci siamo ritrovati nell’area dove i tributi vengono caricati sulle bighe per poi uscire nell’ordine di numero del proprio distretto, Tatsuya ci sorride mentre lo stilista di Izuki si occupa di scambiare impressioni con alcuni colleghi – “sta vendendo l’idea prima ancora che vi vedano”, ci ha spiegato Himuro.
«Nell’attesa, guardatevi intorno.» ci ha consigliato invece Alexandra, che ho visto sorridere in un cenno d’intesa con Tatsuya per la prima volta «Non avrete molte occasioni per farvi un’idea degli altri tributi senza che questi stiano cercando di uccidervi.» ha aggiunto. Non proprio rassicurante, ma saggio.
Ci sono alcuni che hanno attirato l’attenzione più di altri.
I primi, forse perché più vicini, sono stati i due del Distretto 4: la cosa che mi ha colpito di più è stata la differenza di corporatura a dir poco evidente fra loro. Sarà perché io e Izuki non abbiamo mai differito tanto l’uno dall’altro ma, insieme all’atteggiamento diametralmente opposto, è stato quasi lampante quanto male assortita sembri la loro combinazione – per quanto di certo non decisa da loro ma dalla sfortuna, come per tutti noi.
Quello che sembra più robusto e sicuro supera l’altro di tutta la testa e forse anche qualcosa di più; ha i capelli biondi e corti e lo sguardo di chi reputa tutto quello un seccatura immane. Il piccoletto invece sembra solo terrorizzato, e non ha tutti i torti credo: ha i capelli castani e l’aria di chi vorrebbe solo sparire.
I loro abiti sono praticamente complementari e rendono facile riconoscere da dove vengono: pantaloni blu scuro e semplici, maglia che ricorda una rete, un giacchetto di una stoffa sull’azzurrino, che stacca un po’ dal blu ma non abbastanza da risultare sgargiante. Acqua è l’associazione di idee ovvia quando li guardi, e la rete richiama di certo la pesca, attività principale del 4.
«Wakamatsu e Sakurai, Distretto 4.» ha confermato Alexandra, ma non ha aggiunto nulla sulle capacità; avremo tempo per le strategie.
Altri attirano la mia attenzione sommariamente: un ragazzo moro del 7 che sembra tutto fuorché felice del compagno che si è ritrovato, un piccoletto che mi fa sussultare quando mi passa alle spalle per raggiungere la sua biga senza che io lo abbia minimamente notato prima di quel momento, un ragazzo massiccio e che sta imprecando proprio contro quello che credo sia il suo stilista – visto il terrificante richiamo del suo abito al frumento sospetto sia del 9 – e la coppia di tributi dell’11, riconoscibili per la carnagione scura.
Tuttavia sono due quelli su cui mi soffermo nel particolare al pari del 4: il primo me lo fa notare Shun, e sebbene in un primo momento io abbia pensato che fosse perché il compare aveva capelli chiari al punto da attirare l’attenzione, non ho potuto non ricredermi quando l’ho inquadrato davvero.
Alto. Ma non come quello del 10, che non è proprio piccolo. Questo è gigantesco, se non supera i due metri io posso direttamente suicidarmi prima di entrare nell’arena.
Visti gli abiti sporcati volutamente di carbone penso sia quasi certo si tratti della coppia del 12, e prontamente Alexandra me lo conferma con un semplice e sbrigativo: «Murasakibara Atsushi, Distretto 12. L’altro si chiama Haizaki.»
Beh, mi dispiace per Haizaki, perché io non vorrei dormire nello stesso appartamento con la consapevolezza che una volta nell’arena sarò forse il primo che punterà. Nonostante l'ovvio riferimento all'attività del Distretto, comunque, indossano abiti più decenti delle precedenti edizioni: scuri, certo, e stracciati a sicuro richiamo dello stato di povertà e di lavoro estremamente grezzo, ma su più di due metri di persona dubito che qualcosa di elegante o colorato avrebbe donato. Gli abiti strappati in alcuni punti strategici, come ai bordi delle maniche larghe o a quelli della sciarpa lunga che ha attorno al collo – unica differenza sostanziale dalla mise di Haizaki – rendono, invece, l’idea di persona che non si fermerà in un’arena solo perché rischia di sporcarsi le mani come si potrebbe pensare del piccolo del 4, Sakurai.
L’ultimo che attira la mia attenzione è un ragazzo non troppo distante da noi, che se ne sta già al suo posto sulla biga, l’aria per nulla turbata nonostante sia evidente quanta poca voglia abbia di sentire le chiacchiere in cui si sta perdendo il suo compagno. La cosa strana di quei due è che evidentemente stanno avendo una conversazione – passiva da parte del più alto, ma meglio di nulla – ma entrambi non sembrano davvero interessati a farsi capire o ad ascoltare seriamente.
«Che merda di vestiti, poi.» è la frase che riesco a cogliere prima di vedere il moro scendere dalla biga e dirigersi verso lo stilista che, c’è da dirlo, deve aver sbagliato qualcosa.
«E quelli?» chiedo a Tatsuya, che non sa altro se non che sono del 3 e che poi sparisce a cercare Alexandra, di certo più informata di lui in merito. Nel tempo che lei impiega a tornare dal punto in cui stava parlando con Miyaji, ho modo di osservare i loro costumi e provare a capire cosa deve aver voluto fare lo stilista: forse voleva richiamare i colori di un’esplosione e al tempo stesso l’essenza della meccanica che è parte dell’attività principale del 3. Fatto sta che avergli messo addosso una specie di tutina intera arancione con linee che sembrano richiamare un circuito elettrico è stata a suo modo catastrofica; non la peggiore che si veda ma che non aiuta, soprattutto il tributo silenzioso e con gli occhiali il cui colore di capelli non si accosta affatto bene a quello del costume.
«Midorima Shintarou e Hanamiya Makoto.» ci informa Alexandra quando torna.
Poi non c’è più tempo, e saliamo anche noi sulla biga.

 

 

Quando il mio nome viene chiamato dall’intervistatore, mi avvio verso il palco scenico e ho a malapena il tempo di incrociare Izuki che sta tornando giù avendo appena finito; non è stata una brutta prova la sua.
I tributi prima di lui ci hanno permesso di farci un’idea su cosa dobbiamo aspettarci nell’arena, cosa che io e Shun vorremmo evitare di fare.
Distretto 1, Reo è quello che ci è rimasto più impresso: ha un modo educato e affabile di parlare, il che non fa ben sperare su che razza di persona si possa dimostrare con in mano un’arma. Il compagno sembrava più impegnato a preoccuparsi per lui che di tutti gli altri tributi avversari.
Distretto 2, due armadi che non sarà un bene se finiranno con l’allearsi tra loro: non sembrano particolarmente intelligenti, ma non sembra nemmeno che gli serva un elevato quoziente intellettivo per metterne al tappeto almeno cinque di noi.
Distretto 3, Shinchan e occhi-cattivi (Hanamiya). Ho cominciato ad affibbiargli soprannomi nella speranza di non iniziare a considerarmi spacciato ancor prima di salire sul palco: non sembra che Shinchan e occhi-cattivi collaboreranno – il primo è un fanatico della Dea della Fortuna e convinto che il suo favore gli permetterà di non morire in arena, il secondo sembra fuori di testa abbastanza da piazzare una bomba sotto il letto del suo compagno, se questo gli bastasse ad eliminare in anticipo anche solo un esponente della concorrenza. Sembra furbo e non è un bene.
Distretto 4, il gigante e il bambino: Wakamatsu ha detto poche parole, e fra queste c’era la sua intenzione a non far morire il suo compagno. Sakurai ha per lo più balbettato e si è scusato anche di cose che non c’entravano nulla – penso che nella mente di buona parte del pubblico sia rimasto il “S-Scusatemi se sono un tributo d-debole” che è stato un po’ come invitarci tutti a prenderlo di mira.
Salgo sul palco accolto da luci, applausi e Imayoshi Shoichi – il nostro intervistatore – che mi porge la mano e mi dà il benvenuto secondo il preciso schema usato con chi mi ha preceduto.
Mi fa accomodare e placa il pubblico con qualche osservazione acuta che riassuma il grosso di quel che si è visto di me dalla Mietitura fino a qui; Alexandra dice che si capisce subito dalla prima domanda dove Imayoshi vada a parare di solito con le interviste, verso quale lato di te vuole orientare il pubblico.
«Takao-kun» richiama la mia attenzione, il sorriso al suo posto che penso non sparisca praticamente mai dalla sua faccia «Izuki-kun ha detto di essere figlio unico. Tu invece hai una sorellina, giusto? Quanti anni ha?»
Sinceramente mi chiedo cosa mai potrebbe essere ciò a cui vuole arrivare, dopo questa domanda; non capisco se cerca di rendermi il fratellone simpatico al pubblico, o lo scemo con la voglia di tornare a casa vivo solo per la sorella minore. La cosa sicura è che so che la mia famiglia – come tutte le altre – mi sta guardando e non ho intenzione di rendergli tutto più penoso.
Sorrido: «L’età in cui ogni fratello maggiore deve preoccuparsi per loro.» replico.
«L’età per la Mietitura? È il suo primo anno?» il bello di Imayoshi è che non partecipa veramente alle tue emozioni, non si sta struggendo all’idea di una famiglia con ben due figli come possibili tributi, ma fa sembrare che invece sia così.
«No, no! L’età in cui devi stare attento ai ragazzini che le girano intorno!» chiarisco subito e il pubblico ride, Imayoshi fa qualche commento per assecondarli. Non ho intenzione di dire una cosa ovvia, certo che sono preoccupato all’idea che dopo di me tocchi anche a lei. Alexandra mi aveva avvisato, però: se fossi il solo a non essere figlio unico la mia non sarebbe una storia così strappalacrime da valermi degli sponsor, ma in caso contrario rischierebbe invece di non essere nulla di speciale.
Niente disperazione per mia sorella, quindi.
«Un fratello premuroso, qualcuno dovrà stare attento, soprattutto se tornerai vincitore.» commenta e sembra liquidare così la cosa.
«Beh, se non torno vincitore tornerò morto, e non penso di essere una gran minaccia.» rimbecco, ancora sorridendo e con un’alzata di spalle; non è tanto voler apparire sprezzante, ma se non la metto sullo scherzo penserò anche io a quante siano le mie effettive possibilità… e credo sia da evitare di fronte alle telecamere.
L’intervista prosegue, Imayoshi fa qualche domanda generica – le sensazioni, l’arrivo a Capitol, il mio rapporto con Shun nel Distretto 5 – e in chiusura rimanda le immagini della sfilata. Rivedo me e Izuki sulla biga che, appena uscita, sembra esplodere di luce.
«Spettacolare e molto bello.» osserva Shoichi «Hai partecipato a questa idea con le tue conoscenze sull’energia, Takao-kun
«Nah, io non sono così intelligente!» assicuro, altre risate «E poi anche per noi del 5 quella è roba vecchia, che abbiamo visto al massimo sui libri di scuola!» assicuro.
Quello che ha usato Tatsuya è una cosa chiamata “Particella di Dio”, un concentrato di energia che si sprigiona in una sfera di colori; con i vetri apparentemente senza senso che aveva aggiunto ai nostri costumi, ne è risultato un gioco di luci che pare abbia incantato il pubblico.
Con le immagini che vanno sullo schermo dietro di noi, Imayoshi conclude la mia intervista.

 

 

I giorni dell’addestramento, ci ha detto Miyaji, devono essere sfruttati per due cose: cercare di capire le capacità altrui e aumentare le nostre. Ha consigliato a me e Izuki di lavorare con chiunque capiti, di non provare a nascondere in cosa siamo bravi, ma di mantenere al tempo stesso un profilo basso: «Non c’è bisogno di strafare» ha detto «ma nemmeno di fare i modesti.»
Con Izuki ci siamo divisi per osservare più tributi possibili e darci informazioni a fine giornata, cercando al contempo di seguire i corsi di sopravvivenza nelle aree che ci servono davvero.
Sono pochi quelli che lavorano insieme e fra di loro sono spiccati ancora una volta Wakamatsu e Sakurai che non si sono divisi un attimo. Quello alto del 9 – Kagami se non sbaglio – e uno dei due dell’11, tale Aomine Daiki, hanno rischiato di finire alle mani il primo giorno. Il primo sembra andare abbastanza d’accordo con l’altro del 9, mentre Aomine è menefreghista abbastanza da fare come gli pare; l’altro dell’11, Eikichi, non sembra disperato all’idea di fare da solo. Dubito si aiuteranno.
Il piccolo dell’8, che ho scoperto chiamarsi Kuroko Tetsuya, è mostruoso nella mimetizzazione: anche quando non si camuffa passa già inosservato, forse per il profilo basso che ha di natura, ma se si impegna è introvabile e questo non è un bene. Avrà poca resistenza fisica, ma se non lo si vede beh, non lo si può nemmeno attaccare.
Atsushi, quello alto del 12, ha ciondolato da una stazione all’altra senza un apparente logica e ha mollato a metà quella dei nodi. Haizaki, il suo compagno, si è concentrato sulle armi.
I due del 10 sono stati quasi invisibili e mi è sembrato che non sapessero nemmeno da dove iniziare; quelli del 7 hanno confermato la prima impressione: quello moro e non altissimo, Kasamatsu Yukio, sembrava volere molte cose nella sua vita ma non ritrovarsi Tsutagawa lì, fosse anche solo per il tempo dell’addestramento visto che nell’arena saremo tutti, indistintamente, nemici. Ha cercato il più possibile di tenersi alla larga dalle stazioni in cui lavorava, se non quando era inevitabile interagire con lui.
Non si è nemmeno impegnato a nascondermelo quando abbiamo scambiato qualche parola lavorando sui nodi; sembrava particolarmente nervoso, così mi sono lasciato sfuggire un: «Proprio non ti va a genio, eh?»
La sua risposta è stato schioccare la lingua tra i denti, seccato: «Sto solo sperando che si impicchi nelle reti quando passerà da qui.» ha borbottato, e non ho potuto non ridacchiare.
Anche se crearsi una simpatia adesso equivale a crearsi solo degli ostacoli, a dire di Miyaji.

 

 

Seduti sul divano del nostro appartamento, Miyaji e Alexandra al fianco mio e di Shun, teniamo gli sguardi sullo schermo sul quale stanno passando da un po’ i punteggi dati ai tributi. È l’ultimo tassello mancante all’idea che possiamo farci su chi evitare più possibile nell’arena.
Al momento i sei dei primi tre distretti hanno ottenuto voti tra il dodici (Reo), l’undici (uno del 2 e occhi-cattivi del 3) e il dieci di Shinchan e dell’altro del 2. I due del 4 hanno preso un nove – Wakamatsu – e un sei.
L’immagine di Shun appare sullo schermo e, dopo poco, un otto svetta vicino a lui; il tempo di qualche breve commento e la mia foto prende il posto della sua: in breve la affianca un dieci assolutamente inaspettato. Ai voti che seguono prestiamo attenzione solo per quanto riguarda i più alti o quelli di persone che abbiamo adocchiato all’addestramento.
Kasamatsu ha preso un otto, Kuroko – da cui mi aspettavo un voto simile a Sakurai – un sette, stesso voto preso anche da Kagami del 9 e che non sappiamo come interpretare.
I due del 10 confermano l’impressione avuta in addestramento con dei voti mediocri; Aomine dell’11 ha conquistato un otto che penso sia però ben diverso da quello di Shun o Kasamatsu.
Atsushi del 12, da cui mi aspettavo almeno un dieci, si è fermato al nove e questo non mi aiuta a capire bene cosa dovremmo aspettarci da lui. Finiti i voti, spegniamo lo schermo e rimaniamo in silenzio per qualche momento.
A parlare è Izuki: «Ed ora? Decidiamo delle strategie?» incalza Miyaji, che però non risponde subito.
Io e Shun ci guardiamo, e probabilmente pensiamo la stessa cosa: i voti solitamente decretano per ogni Distretto quale dei due tributi valga la pena di vendere meglio al pubblico. Su quale dei due puntare, a conti fatti.
In questo momento il mentore del 4 di sicuro non ha l’imbarazzo di questa scelta, vista la differenza di voti dei suoi; ma nel caso di Miyaji non c’è tutta questa differenza, o meglio la questione è che la differenza di punteggio tra me e Izuki non è così indicativa, perché le nostre capacità si bilanciano.
Dipende unicamente da cosa abbiamo mostrato di fronte agli Strateghi, che non è comunque tutto quel che mostreremo nell’arena.
Miyaji deve sostanzialmente scommettere e sperare di non sbagliare, se vuole che almeno uno di noi due torni a casa.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Izuki ed io ci siamo salutati la sera scorsa. Ci siamo augurati di sopravvivere, perché non potevamo dirci nient’altro in realtà: tra pochi minuti saremo nell’arena, ad aspettare che sessanta secondi passino per darci il via alla corsa alle armi della Cornucopia, che generalmente dimezza i tributi partecipanti.
Questo vuol dire che, per qualcuno, questi sono gli ultimi momenti da vivo.
Non puoi augurare a qualcuno “buona fortuna” o dirgli “spero che tu vinca”.
Significa che ti consideri già morto.

 

La voce che risuona nella stanza avvisa di prendere posto in quel tubo che ti porterà all’aperto, ovunque l’arena si trovi. Controllo velocemente quello che ho addosso, più per cercare di farmi un’idea su quale ambiente ci sarà fuori che per timore di aver dimenticato qualcosa – la stanza spoglia rende facile notare qualsiasi oggetto superfluo. Il fatto che la tuta che indossiamo non sia particolarmente aderente ma nemmeno troppo comoda non aiuta a capire cosa dobbiamo aspettarci; abbiamo una giacca, quindi potrebbe essere il tipo di ambiente in cui si abbassa in modo particolare la temperatura di notte.
Il tubo si chiude alle mie spalle e risulta quasi claustrofobico; Miyaji ci ha consigliato di contare qualcosa: «Se andate in iperventilazione» ha detto «tanto vale che vi suicidate prima che scadano i sessanta secondi.»
Mi chiedo se ci sia mai stato un tributo che abbia deciso di farlo davvero.
Quando siamo fuori l’aria che arriva addosso è appiccicosa di umidità, la temperatura è strana e la prima cosa che salta all’occhio è la Cornucopia – elemento familiare delle altre edizioni – ad una ventina di metri da noi; su pedane perfettamente identiche alla mia ci sono gli altri tributi. Alla mia sinistra c’è Wakamatsu, a destra uno dell’8.
La Cornucopia è come sempre il centro di tutto ciò che ci permetterà di sopravvivere: armi e zaini. Questi ultimi sono più vicini alle nostre postazioni quanto misero è il loro contenuto: di certo alcuni hanno solo cibo, o solo medicamenti molto essenziali. Forse un’arma piccola, un pugnale. Per quelle vere e proprie, il discorso è molto vario: sul terreno ci sono un paio di bastoni, una spada corta, quello che sembra un set di pugnali.
Wakamatsu sembra aver puntato un tridente che si trova a poco più di tre metri dalla Cornucopia, che di certo conterrà le armi più letali come spade lunghe, sciabole e lance. A metà strada, una balestra.
Prima di spostare lo sguardo più in là noto che Wakamatsu non sta guardando più il tridente, la Cornucopia o gli altri oggetti che potrebbe recuperare: sta guardando, a quattro pedane di distanza da lui, un Sakurai tremante – se non trema davvero penso sia solo perché è terrorizzato abbastanza da non riuscire a fare nemmeno quello… ed è così che dovremmo essere tutti. Terrorizzati tanto da non muoverci; ma la verità è che ognuno reagisce a modo proprio, imprevedibile, ed è questa una delle cose più terrificanti degli Hunger Games.
Devo ignorare gli altri tributi, ne prendo atto mentre siamo a qualcosa come trenta secondi dall’inizio; devo tirar su una strategia almeno in merito a cosa raccogliere e dove andare. Ad una distanza di una quindicina di metri oltre la Cornucopia ci sono abbastanza alberi da far pensare ad una foresta, anche se non sembra fitta quanto un bosco e non so riconoscere ad occhio e da lontano quali alberi siano. Ammesso di riuscire a prendere uno zaino e che esso contenga un contenitore per l’acqua è impossibile capire dove sia la fonte.
In poche parole, uno zaino vale l’altro; meglio preoccuparsi delle armi, perché se non siamo coperti dalla vegetazione non impiegheremo molto ad individuarci l’un l’altro.
Quasi subito capisco che io e Shun potremmo puntare la stessa cosa quando, nel mio campo visivo, rientra di nuovo il set di pugnali. Però poi noto che il suo sguardo è andato oltre – non ho tempo di capire dove, perché con la coda dell’occhio vedo Wakamatsu contrarre i muscoli e questo mi mette in allarme.
Mancheranno sì e no dieci secondi.
Va bene. Pugnali e zaino, ma più i primi.
Devo solo essere più veloce.

 

 

Quando finalmente posso permettermi il lusso di fermarmi siamo in gioco da almeno un’ora e ho trovato un albero dalla chioma un poco più folta degli altri.
Il primo pensiero è che se quest’arena è davvero una zona paludosa questi Hunger Games non dureranno granché, perché non sono un esperto ma so che ci sono animali letali nei punti peggiori. Alberi compresi. E se non possiamo usare questi ultimi come riparo beh, ci ammazzeremo l’un l’altro in un attimo; forse a durare di più saranno quelli che avranno avuto la fortuna di trovare un punto strategico – se ce ne sono – e quelli che sono andati particolarmente bene nella parte di mimetizzazione dell’addestramento.
Il tempo per fare il punto della situazione, ad ogni modo, lo ho.
Il poco che ho visto del caos alla Cornucopia mi fa supporre che sia stato un massacro. Se non siamo già dimezzati manca poco per esserlo – ho perso il conto dei colpi e non ne saprò di più fino a sera.
Riportare alla mente ciò a cui ho assistito mi fa salire un conato che devo calmare ispirando forte dal naso e chiudendo per qualche istante gli occhi, a discapito di quanto sia la cosa meno sicura da fare al momento. Se c’è uno che sono sicuro di non ritrovare vivo al conteggio di stasera, quello è Haizaki del 12. Lui e Murasakibara si sono ritrovati vicini nel momento in cui stavano prendendo uno l’arma e l’altro lo zaino; non so nemmeno perché Atsushi abbia puntato uno così difficile da tirar fuori – ci scommetto che c’è dentro qualcosa di grosso, perché altrimenti non avrebbe avuto senso incastrarlo sotto dei ciocchi di legno che non sono nemmeno tipici di questo ambiente, per quel che ho visto correndo finora.
Fatto sta che Haizaki aveva messo le mani su una spada corta e aveva puntato direttamente il tributo del suo distretto… che non è così insensato, forse, se riesci ad avere tanto distacco.
Murasakibara ha preso uno dei ciocchi e gli ci ha fracassato il cranio. Letteralmente.
La cosa più spaventosa è stata la naturalezza con cui l’ha fatto, la fluidità del movimento con cui ha preso il ciocco, l’ha fatto passare sopra la propria testa e l’ha schiantato con una violenza inaudita contro Haizaki. Così, senza ulteriori reazioni.
Scuoto il capo. Se non voglio fare la stessa fine sarà meglio che io non mi fermi nello stesso posto troppo a lungo.
Apro il piccolo zaino che sono riuscito a recuperare: dentro non c’è molto, ma forse una delle cose più utili, ossia l’occorrente per raccogliere e rendere l’acqua potabile. C’è anche un giacchetto, impermeabile ma leggero. Non c’è cibo, ma poteva andarmi molto peggio.
Ho recuperato i pugnali perché nessun altro li ha puntati: non so quanto sia un bene.
Le priorità sono capire dove riposare la notte senza espormi troppo e che tipo di cibo posso trovare in questo posto. Escludendo gli alberi come riparo, non so quanto rimanga: potrei avere la fortuna di trovare qualcosa, ma non posso sperare nella buona sorte; alla Mietitura non mi ha esattamente sorriso.
Il cibo forse sarà relativamente più facile: tra le piante potrebbero essercene di commestibili ed è probabile che ci sia qualche animale. Se riuscissi a trovare la fonte d’acqua, come prima cosa potrei vedere se ci sono dei pesci… anche se devo prepararmi all’eventualità che lì vicino, nel caso, ci saranno o Wakamatsu o Sakurai. Non penso che due del 4 si lascerebbero sfuggire un’opportunità simile.
È evidente che non ho scelta: devo cercare l’acqua come prima cosa.

 

Trovare Wakamatsu nei pressi era una cosa che avevo messo in conto.
Vederlo lì insieme a Sakurai in quella che è chiaramente un’alleanza, no. L’alligatore che per poco non ha tranciato di netto la gamba di Sakurai avrei preferito non trovarlo affatto.
È ormai chiaro che la zona in cui si trova quest’arena è per lo più paludosa: ne è testimone l’acqua che a vederla non penseresti mai possa ospitare una qualche forma di vita – e che penso sia impossibile usare per bere senza l’occorrente per purificarla –, la conformazione del terreno, il tipo di arbusti che ho incontrato finora. Non me ne intendo, ma mamma è stata nel Distretto 7 da giovane, e ha imparato diverse cose sugli alberi e le piante: certo non ha le conoscenze di qualcuno che vive lì tutta la sua vita, ma ricorda bene almeno le fasce ambientali in cui è più facile trovare alcune specie. L’ha insegnato a me appena sono diventato un possibile tributo, e mia sorella penso abbia già appreso qualcosa ascoltandoci: di sicuro insegnerà anche a lei.
A confermare il tutto, comunque, c’è quell’alligatore che ora se ne sta lì immobile e morto, ma che ha ferito superficialmente Sakurai se ho visto bene – ma non mi avvicino ancora: se sono alleati davvero come sembrano, sarebbe veramente da suicidio farmi avanti. Per quello che voglio capire, mi basta la distanza a cui sono.
«M-Mi dispiace, Kosuke.» pronuncia in un balbettio che sembra proprio caratterizzare il suo modo di porsi «L-Lasciami qui, e—»
«Se devi dire idiozie stai zitto e fammi vedere.» taglia corto Wakamatsu, esaminando velocemente ma con attenzione la gamba dell’altro. Di sicuro ha fretta di andarsene di lì, non solo perché nulla impedisce ad un altro esemplare di attaccarli una seconda volta, ma anche perché non è un punto molto riparato quello. Logico che non abbia intenzione di fermarsi a lungo, specie considerando che ad aver attirato l’alligatore di poco prima credo siano stati i movimenti che hanno dovuto fare inevitabilmente nell’acqua per tirarne fuori qualcosa – che penso potrebbe essere pesce. Sarebbe prevedibile.
Capisco che non è consigliabile imitarli: Wakamatsu per pescare ha il tridente e soprattutto ha la tecnica. Io potrei arrischiarmi ad usare i pugnali – e sarebbe davvero stupido tentare di pescare in quel modo, una mossa disperata che impiegherei troppo ad aggirare – ma il rischio che io finisca in pasto all’alligatore è più alto di quello corso da Sakurai.
Sarà già un’impresa raccogliere l’acqua.

 

I due sono rimasti nei paraggi per il tempo sufficiente a controllare la ferita, recuperare quanto preso prima che io arrivassi e andarsene. Non hanno preso acqua, il che mi fa pensare che o non sanno come renderla potabile o ne hanno già presa altrove.
Per quanto mi riguarda mi sono limitato a riempire in fretta il contenitore ed applicarvi la tintura di iodio che c’era nello zaino, quanto bastava perché nello spostarmi iniziasse a fare il suo lavoro; ho cercato di muovermi nei punti più riparati, anche se non è una garanzia: facendo tutti la stessa cosa prima o poi ci incroceremo inevitabilmente. Ho camminato tanto da essere arrivato in un punto dove non ci sono tracce di passaggio altrui – per quanto altre zone potrebbero essere quelle dove ho corso io stesso, quindi anche questo non è poi così indicativo.
Nello spostarmi ho almeno avuto la fortuna di riconoscere una delle poche specie di piante che mia madre mi ha insegnato a distinguere; considerando che quelle più comuni non credo siano tipiche del territorio paludoso in cui siamo, ho cercato di trovare dei punti di riferimento per ricordare almeno vagamente dove fosse. Di certo è probabile che cresca anche altrove, ma non si sa mai; ho preferito cercare un posto nei paraggi – il lato positivo di questa pianta, la tifa o anche “cattail” è che non ha bisogno per forza di essere cucinata per essere commestibile. Il che è un bene, visto che accendere un fuoco non rientra nei miei piani, finché posso evitarlo. Considerando poi che anche la sua radice è commestibile, direi che più fortuna di questa non potevo averne, per adesso.
Mi sono allontanato il più possibile dall’acqua perché, per la conoscenza che ho, un alligatore è veloce anche sulla terra ferma ed è più probabile che finisca sulla mia strada tanto più rimango vicino a quello che potrebbe essere il suo habitat primario.
Nonostante volessi evitarlo, la scelta più sensata sembra sistemarmi su un albero: sono in un punto troppo poco folto a livello del terreno, per sperare di mimetizzarmi magari tra le piante alte.
Ci riesco quando, ad occhio e croce, penso manchi relativamente poco perché inizi a far buio.

 


L’inno è appena finito, spandendosi per tutta l’arena come spore velenose: ha la capacità di paralizzarti, e continuerà a farlo finché lo sentiremo.
Il silenzio torna ad avvolgermi insieme al buio; pare che nessuno abbia avuto la pessima idea di accendere un fuoco, stanotte, ed è anche comprensibile perché il clima notturno per ora non pare essere particolarmente freddo qui.
Il riepilogo dei caduti alla prima giornata ha contato dodici morti. Questo vuol dire che siamo praticamente già dimezzati. Nell’immenso schermo che diventa il cielo per noi che ancora vivi cerchiamo di capire quali avversari abbiamo avuto già la fortuna di perdere per strada, sono passati come ogni volta i volti dei tributi per cui i giochi si sono già conclusi, in ordine di distretto.
Uno dell’1 e uno del 2: si saranno probabilmente uccisi tra di loro alla Cornucopia.
Il 3 e il 4 hanno ancora entrambi i tributi, il 6 li ha persi entrambi; Tsutagawa del 7, quello che non piaceva a Kasamatsu, anche se non penso lo abbia ucciso lui. Uno dell’8, non Kuroko – il piccoletto – ma l’altro.
Il compagno di Kagami con un punteggio basso, del 9.
Entrambi quelli del 10. Eikichi dell’11… ci scommetto che l’ha ucciso proprio Aomine.
Naturalmente, Haizaki del 12.
Poggio la testa contro l’albero, lascio che la schiena vi aderisca e inspiro, lentamente: è un buon metodo, quando stai per entrare nel panico, respirare piano. Ti obbliga a controllare quanta aria entra ed esce dai polmoni, e concentrarsi su un meccanismo all’apparenza così semplice fa sì che non pensi più alla causa scatenante di quello stesso panico.
Izuki. La faccia di Izuki, pressoché anonima per il resto dei tributi vivi, è passata nel cielo dopo quello del 2.
Dovrei essere contento, perché significa che non mi troverò in condizione di doverlo uccidere io, o di dover pregare razionalmente che lo faccia qualcuno per me. Eppure tutto ciò che riesco a pensare è qualcosa che in realtà avrebbe dovuto passarmi per la testa molto prima, una cosa così ovvia che mi chiedo perché soltanto adesso mi sembri sensata.
Poi, quando sono abbastanza sicuro – dopo un tempo che non so quantificare – di aver recuperato la regolarità del respiro, capisco.
Capisco che negli Hunger Games vieni messo in un’arena con persone che non hai mai visto e a cui non hai avuto tempo di affezionarti: se hai forza abbastanza da non considerarli esseri umani, o la predisposizione a pensare solo ed unicamente alla tua sopravvivenza, ucciderli non è così difficile.
Nauseante, forse, ma non difficile.
Se sei particolarmente fortunato, poi, il tributo scelto insieme a te non è qualcuno che conosci se non di vista; se anche toccasse a te ucciderlo, potresti farcela.
Ma Shun no. Shun lo conoscevo, con Shun sono andato a scuola: non era il mio migliore amico, non era come un fratello, ma Shun era una persona che ho conosciuto e con cui ho condiviso comunque qualcosa, non importa quanto banale sia stata.
E Shun è morto.
Per la prima volta da quando siamo a Capitol, da quando siamo nell’arena, la consapevolezza che qui la gente si uccida davvero finché non ne rimane solo uno mi arriva addosso potente e terribile. Con essa, il pensiero che non sopravvivrò. La paranoia si fa strada, centuplicata rispetto a quando aspettavo sessanta secondi su una pedana che, se fossi erroneamente sceso prima, mi avrebbe fatto saltare per aria.
Chi ha ucciso Izuki? Cause naturali? Qualcosa che potrei non riconoscere, un cibo avvelenato, un animale feroce che non potrei combattere? Oppure qualcuno? Se così fosse, di certo ha tutte le possibilità per uccidere anche me, perché io e Shun di certo non differivamo in forza fisica o capacità, non più di tanto.
Shun è morto.
Mi torna in mente sua madre, portata via dai Pacificatori dopo un saluto che non è mai abbastanza lungo per dire a addio a tuo figlio mentre va a morire.
Sua madre non abbastanza forte da non gridare di dolore nel corridoio di concederle qualche istante in più.
Sua madre che aveva unicamente Izuki al mondo, ed ora è sola con la sua disperazione.
Se tornerò vivo a casa è con questo che dovrò combattere: il senso di colpa per essere vivo.
E finalmente capisco che è questo che ti uccide davvero, che ha sempre ucciso tutti i vincitori, che ti trasforma in quello che è Miyaji – il contenitore umano di tutta la disperazione che riesce a concentrarsi in un solo posto, del senso di colpa per qualcosa di cui dovresti gioire.
Sei vivo, e desideri essere morto.

 

 

È passato un giorno e mezzo – escluso quello dell’inizio dei giochi – e c’è stato un solo morto, l’altro tributo del 2 che, a voler fare una stima, penso sia stato ucciso da Reo.
Mi sono spostato continuamente ad intervalli più o meno regolari di un paio di ore, approfittandone per raccogliere altra tifa quando ne ho trovata o tornando di un poco sui miei passi quando, andando avanti, mi rendevo conto che rischiavo di non trovarne. Ho individuato anche un tipo di mirtillo commestibile – è acido e ha un pessimo sapore, ma non si può esattamente fare gli schizzinosi qui.
L’assenza di attacchi che penso durerà ancora per poco – non c’è spettacolo così, dovranno pure obbligarci a portare avanti i giochi in qualche modo – mi ha dato il tempo di fare due cose: analizzare quelli che sono rimasti in gara ed elaborare una strategia personale.
Siamo rimasti in undici: Reo, se consideriamo favoriti i primi quattro distretti, può pensare di allearsi con una persona sola, ossia occhi-cattivi. Ma francamente l’indole di quest’ultimo non mi sembra da alleanza; in caso contrario, la cosa più sensata sarebbe stata allearsi con il tributo del tuo stesso distretto, ed era chiaro che né lui né Shinchan avevano quell’intenzione.
Suppongo quindi che siano ognuno per la sua strada.
Wakamatsu e Sakurai sono forse l’unica vera alleanza, almeno per ora: puntare Sakurai significa ritrovarsi l’altro subito alle calcagna, e un due contro uno non è mai auspicabile.
Kasamatsu non so se sia orientato più sulla totale difensiva, o su una non-aggressione intelligente, ossia se punti a proteggersi in caso di attacco o ad attaccare solo chi è più alla sua portata sulla carta.
Kuroko penso sia sulla difensiva, ma che non si sia alleato con nessuno: obiettivamente, non penso gli convenga.
Kagami e Aomine sembrano abbastanza tipi da attacco, e ho incrociato il primo in un goffo tentativo di mimetizzarsi vicino ad un corso d’acqua. Potrebbe avere a che fare fin troppo presto con un alligatore.
Atsushi è quello che meno ha possibilità di passare inosservato ma – e devo basarmi su un ragionamento in cui non posso includere armi, perché non ho idea di chi abbia preso cosa ad eccezione di Kuroko che ho intravisto prima di allontanarmi dalla Cornucopia – non ne ha davvero bisogno.
È l’ultimo che sceglierei di attaccare.
La mia strategia è sopravvivere finché non vengo ucciso, che questo avvenga prima o dopo è un dettaglio relativamente secondario. C’è una cosa che devo fare e più tempo ho, meglio è; non posso giocare al gatto con il topo. Devo solo preoccuparmi di far sembrare che io stia tramando qualcosa, perciò mi sposto con la scusa di osservare, di studiare. Mi fermo ad intervalli regolari, controllo gli arbusti, ciò che mi circonda; tocco il terreno di tanto in tanto, come a controllarne consistenza ed umidità.
Questo penso terrà a bada il pubblico con la curiosità, e spero che partano scommesse – di che genere non mi importa – che facciano pensare agli Strateghi che tutto abbia un senso per cui valga la pena aspettare.
Sto considerando verso dove orientarmi che un colpo a ovest rispetto a dove sono ci segnala che ora siamo in dieci; chi sia morto non si sa, naturalmente, e manca ancora mezza giornata al solito riepilogo.
Se qualcuno ha ucciso qualcun altro, è comunque abbastanza distante perché io non debba preoccuparmi di velocizzare il passo più del dovuto.
O almeno ne sono convinto finché non risuona in tutta l’arena l’annuncio di Akashi Seijuro, il capo degli Strateghi: parla con voce calma e controllata, ma autoritaria. Sembra che ti stia dando una scelta, come a dire “puoi farlo, ma in caso contrario non accadrà nulla di irreparabile”, ma non è così.
Affatto.
«Da questo momento al concludersi della giornata, come limite ultimo di tempo, i tributi sono chiamati a prendere parte ad almeno uno scontro diretto, pena la squalificazione dai giochi.»
L’annuncio risuona due volte per essere certi che tutti l’abbiano sentito.
In altre parole, il pubblico si annoia perché non ci stiamo ammazzando tra di noi ad una velocità accettabile – va bene far durare lo show, ma non se devono essere giorni e giorni di gente che si evita scappando in un terreno paludoso.
In altre parole, o ci uccidiamo tra di noi dando spettacolo, o ci uccideranno loro in chissà quali modi.
Perché di certo “squalifica” non vuol dire che ti riporteranno a casa e pazienza, hai perso i giochi.
Questo scombina i miei piani e significa che qualcuno, da qualche parte e verosimilmente, sta già puntando verso di me.

 

Egoisticamente, a questo punto potrei persino tornare sui miei passi e non fare nulla, perché una cosa è certa: lo spettacolo di oggi è stato ormai assicurato al pubblico di Capitol City.
Due colpi si sono levati in aria, e io so a chi appartengono: il primo era per Sakurai, il secondo per Hanamiya del 3. Me li sono ritrovati davanti che quest’ultimo aveva appena atterrato Sakurai.
Non ha implorato pietà. Da Sakurai forse te lo saresti aspettato, ma è morto con una dignità più spaventosa della violenza con cui è stato ucciso.
Sassate. Non per mancanza di armi, non per difesa estrema, ma solo per cruda e macabra crudeltà.
Hanamiya
l’ha immobilizzato e praticamente torturato per farsi dire dov’era Wakamatsu – la loro alleanza non era un mistero nemmeno per gli altri, e di sicuro il biondo è un bersaglio più degno di attenzione per occhi-cattivi.
Sakurai non ha parlato, e il risultato è stato un incessante ripetersi di sassate; c’era sangue ovunque, quando è arrivato Wakamatsu. La violenza inaudita con cui si è scagliato su Makoto, istintivamente, l’ho ritenuta giusta: potrà sembrare barbaro, ma io penso che siamo qui, ventiquattro ragazzi praticamente coetanei costretti ad uccidersi, e dovrebbero esserci almeno rispetto e solidarietà, abbastanza da decidere di porre fine alle vite altrui nel modo più veloce e meno doloroso possibile.
Invece non è così. Qui c’è gente, magari rara ma c’è, fuori di testa quasi quanto quelli di Capitol o il cui istinto di sopravvivenza li porta all’estremo dove nemmeno la follia potrebbe guidarli.
Hanamiya
ha smesso di essere umano nel momento in cui ha messo piede nell'arena, sempre che lo fosse almeno fuori.
Wakamatsu era ferito. Forse per quello Sakurai era solo, forse cercava qualcosa per medicarlo e alleviargli il dolore e per lo stesso motivo, forse, non ha mai gridato il nome del compagno per avere soccorso.
È rimasto a piangerlo. E questo è il gesto più umano e sincero che io abbia visto da quando siamo a Capitol.
Allontanandomi ho pensato che se sopravvivrò, sarà ironico: sarò diventato come Miyaji, che ho tanto criticato ma che finalmente ho compreso. Ad ucciderlo dentro non è stato solo l’abbandono del tributo del suo Distretto.
È stato assistere alle morti di altri esseri umani senza poterne salvare nessuno, salvo mettere automaticamente in pericolo la propria stessa vita.
Può sembrare scontato dire che “avrebbero dovuto aiutarli”, ma la verità è che agli Hunger Games nessuno mai diventa un eroe.
Avevo capito di aver tralasciato un dettaglio importante della mia strategia; o meglio, che la cosa che devo fare non può andare a buon fine, continuando così.
Dovevo e devo sopravvivere, e per farlo intanto avrei dovuto presumibilmente avere uno scontro diretto che, contrariamente al mio affrettato pensiero iniziale, non implicava un’uccisione. Non dall’annuncio.
L’occasione si è presentata mentre mettevo distanza tra me e Wakamatsu. Spostandomi nell’erba alta tra alcuni arbusti, mi sono ritrovato per la seconda volta osservatore di uno scontro in mezzo a cui nessuno sano di mente si sarebbe messo: Midorima del 3 e Reo dell’1. Inutile sottolineare chi stesse avendo la meglio.
Io e Shun non avevamo in comune forza fisica o capacità strategica, ma una sola abilità: non è tipica del 5, è solo che a noi è capitata. Alcuni la chiamano “visione periferica”, ma di solito c’è almeno un punto cieco. La mia non lo ha, e quella di Shun non era di molto inferiore. Può sembrare inutile, ma in mezzo all’erba alta e non visibile al tuo nemico la capacità di vedere tutto ciò che ti circonda è un vantaggio notevole; ti fa prendere in considerazione fattori che normalmente saresti portato a tralasciare.
Ed è stato in quel momento che l’ho capito: uno scontro poteva essere anche un combattimento finito in parità, dopotutto. Almeno per stavolta.
Ci ho rimesso un pugnale, ma non è una gran perdita, sia perché ne ho altri ancora inutilizzati e sia perché l’aver costretto Reo alla ritirata mi è valso la sopravvivenza di oggi. Anche se quando Midorima ha dato segno di avermi visto ho pensato che, a conti fatti, fosse comunque finita.
«Non sapevo che nei giochi ci fossero anche gli eroi stupidi.» ha commentato, lasciandomi intendere di avermi individuato o di aver almeno capito che c’era qualcuno ancora nei paraggi.
Mi è sembrato sciocco nascondermi e sono uscito allo scoperto, anche se in guardia.
«Niente eroismo, ma dovevo partecipare almeno ad uno scontro, no?» dirlo con la consapevolezza che mi stanno ascoltando non mi preoccupa particolarmente, perché è una mancanza degli Strateghi non aver specificato di uccidere. Anche se non credo che Akashi Seijuro lasci nulla al caso o faccia errori grossolani di questo tipo.
Ci siamo studiati per qualche istante poi, non so bene perché, ho pensato di doverglielo dire: «Uno dei colpi era Hanamiya
Forse ho pensato che di Shun io avrei voluto saperlo prima di un riepilogo serale che vedrebbero tutti; lui però ha taciuto, fatto un sospiro impercettibile, si è sistemato gli occhiali sul naso. Sembrava si aspettasse qualcosa. Non sapevo nemmeno se provare ad allontanarmi.
«Non eravamo legati.» ha detto poi, niente più di questo, ma sempre una risposta. Mi è scappato uno sbuffo divertito che è risultato comico nell’intera situazione: «Non sei di tante parole, eh Shinchan?» ho commentato, e l’ho visto scomporsi più per questo che per la notizia di occhi-cattivi. Forse non è abituato ai nomignoli, o forse non si aspettava questo atteggiamento amichevole.
Ha continuato a non sembrare ostile, e ho pensato che non avrei avuto un’occasione migliore di quella; ho tentato il tutto per tutto.
«Alleiamoci. Per un po’, s’intende.» perché non sono così stupido da credere che ad un certo punto non ci ritroveremo l’uno contro l’altro. È la prassi del gioco.
L’alleanza che intendo io è differente da quella di Wakamatsu e Sakurai, basata su un legame che non hanno voluto calpestare solo per colpa degli Hunger Games, un legame tale per il quale Wakamatsu si è offerto volontario al posto dell’altro tributo estratto insieme a Sakurai, probabilmente nella speranza che almeno questo gli salvasse la vita. Se non si è offerto per Sakurai è perché questi si sarebbe fatto avanti dopo per affiancarlo comunque, rendendo il tutto vano.
L’alleanza che voglio io è quella che ti permette per un po’ di preoccuparti di un tributo in meno, e che mi vale il tassello mancante al raggiungimento del mio obiettivo.
«È fuori discussione.»
«Shinchan, come sei freddo!» ho ribattuto, senza perdere di vista la zona in cui siamo; ci mancava solo di farsi uccidere durante una chiacchierata: «Ma rimane il fatto che mi devi la vita.» ho puntato – è stato meschino, lo ammetto – sul fatto che se non è tipo dalla morale integra e inattaccabile, di sicuro Midorima Shintarou è uno a cui non piace avere debiti.
«Non mi stava uccidendo.»
«Non ancora. Ma nessuno ci assicura che non l’avrebbe fatto senza il mio aiuto, no?»
Si è preso una lunga pausa, e ho pensato che stesse ponderando come uccidermi e farla finita; invece, inaspettatamente, ha sospirato rassegnato annuendo.<
«Cosa vuoi da questa alleanza? Che ci guadagni, Takao?» ah, si è persino ricordato il mio nome.
«Un nemico in meno, almeno per un po’. Ognuno fa quello che vuole durante il giorno, ma la sera ci ritroviamo. Scambio di informazioni e quello che serve.» mi sono mantenuto sul vago, perché alleanza o no non ho intenzione di dire tutto e subito. Forse un attimo prima della fine, qualunque essa sia.
«…Però piantala con quel nomignolo.»
Mi è inevitabilmente scappato da ridere; non so con quali motivazioni abbia accettato, ma mi basta che l’abbia fatto per ora.
A svegliarlo in questo momento è il suono dell’inno; forse l’idea di qualcuno che monti una sorta di turno di guardia gli ha permesso di rilassarsi il minimo necessario a dormire un po’. Sbatte le palpebre, forse stupito lui stesso di essersi appisolato.
«Quanti siamo?»
«Otto.» rispondo: «Hanamiya, Sakurai e Murasakibara sono fuori. Il primo ha ucciso il secondo, poi Wakamatsu del 4 ha ucciso lui. Murasakibara non lo so.» e questo mi preoccupa. Chi uccide un gigante di più di due metri tra chi è rimasto di noi?
Shinchan non dice nulla, non subito.
«Uccidere Makoto non era facile.»
«Se sei impazzito di dolore, probabilmente sì.» dico soltanto. Lui rimane in silenzio per un tempo ancora più lungo, e alla fine mi guarda scettico: «Essere sentimentali non ti aiuterà.»
Poi mi passa la giacca con cui si era coperto per metà, e monta la guardia.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


L’acqua a mia disposizione è finita, quindi ho dovuto mio malgrado avvicinarmi di nuovo all’unica fonte che ho trovato da quando siamo qui; Shinchan ne aveva bisogno a sua volta, abbiamo pensato che tanto valeva andare in due coprendoci le spalle a vicenda.
Abbiamo appena finito di aggiungere entrambi la tintura di iodio, tenendo a mente che ci vorrà un po’ perché sia bevibile, che si sente un boato in direzione della Cornucopia e non ha nulla a che fare con il segnale della morte di un tributo, che lo segue a pochi minuti di distanza mentre io e Shinchan stiamo cercando di capire se qualcuno non sia per caso incappato nelle mine vicino alle pedane.
Lo sguardo di Midorima va in quella direzione, sebbene da dove siamo non sia possibile vedere chissà cosa; mentre sto per imitarlo, lo vedo e lo sforzo di non fare movimenti bruschi è maggiore di quanto si possa credere.
«Shinchan, rimani girato e non ti muovere.» dico con il tono più calmo e sommesso che mi riesce di tirare fuori; lo vedo irrigidirsi suo malgrado, ma rimane fermo. Una delle prime cose che abbiamo concordato è il livello di fiducia che possiamo avere l’uno nell’altro e il compromesso è accettabile: possiamo anche cercare di ammazzarci fra di noi, e quindi essere guardinghi l’uno verso l’altro, ma se siamo “fuori” – ossia, come in questo momento, alla mercé degli altri tributi in egual misura – l’alleanza va rispettata.
Penso che abbia capito che ho interesse nel fatto che rimanga vivo almeno per un po’, e che mi stia a sentire ne è la dimostrazione.
Ai suoi piedi, si muove lentamente un serpente lungo almeno due metri che non sono minimamente in grado di riconoscere, non essendo esperto della fauna di un territorio come questo; so che ci sono anche tipi che vivono vicino e nell’acqua, ma non ho idea di quanto siano letali e vorrei non doverlo scoprire a spese mie o di Shinchan.
«Cosa c’è?» mi domanda in un soffio, e con movimenti più silenziosi possibili porto una mano vicino al fianco e ai pugnali che ho fissato in vita grazie alla cinghia che li teneva insieme alla Cornucopia.
«Serpente.» sussurro solamente; prima che per istinto lui possa muoversi o che il rettile gli si avviluppi alla gamba, un pugnale gli ha trafitto la testa uccidendolo e immobilizzandolo lì dov’era. A quel punto Shinchan porta lo sguardo verso il basso, poi su di me.
«Non hai nemmeno guardato. O sei fortunato, o sei pericoloso.» dice solamente, senza ringraziamenti, portando la mano a sistemare gli occhiali in quello che – ormai è chiaro – è un gesto meccanico, come l’inflessione con cui finisce le frasi che mi farebbe ridere, se la situazione fosse diversa.
Scrollo le spalle e abbozzo un sorriso; non è che non ho guardato, ma è meglio se – per il momento – evito di dirgli tutto.

È il tramonto quando arrivo in prossimità del punto d’incontro con Shinchan.
Nell’arco della giornata, dopo il primo colpo della mattina, ne è seguito un altro, motivo per cui a metà giornata una seconda comunicazione del capo degli Strateghi ha revocato l’obbligo di prendere parte ad almeno uno scontro; è sembrato come se volesse dire che ci risparmiava perché eravamo stati bravi a procurare loro almeno un paio di morti su cui speculare fino al giorno dopo.
Ma che nulla gli impedisce di rendere di nuovo valida quella regola tutte le volte che vuole, se non gli assicuriamo un degno spettacolo. È stato rivoltante.
Senza poi considerare il fatto che, per quanto ne so, il secondo colpo potrebbe essere Shinchan, dal quale mi sono diviso poco dopo l’incidente del serpente.
Sto per aggirare dei cespugli alti quando un rumore e dei movimenti che noto con la coda dell’occhio colgono la mia attenzione; mi volto di scatto – so che non è una mossa intelligente, forse, ma dargli il tempo di prendere la mira sarebbe un suicidio, letteralmente – in cerca di una traiettoria che mi dia una sicurezza quasi totale di colpire il bersaglio quando inquadro Kasamatsu, l’unico tributo rimasto del 7.
Un primo sguardo mi convince che ha diverse priorità, ma tra queste non c’è il tentare di uccidermi: è troppo occupato a tenersi in piedi reggendosi ad uno degli arbusti. Ha il respiro velocizzato e ad una prima occhiata mi sembra quasi che sia appena uscito dalla palude.
Se mi ricredo è per ragioni che diventano ovvie nel momento stesso in cui, fermandosi, mi concede l’opportunità di guardarlo meglio: innanzitutto, se fosse finito davvero in acqua con ogni probabilità qualche animale gli avrebbe impedito di uscirne. In secondo luogo, quello che ha addosso non è acqua ma sudore e diventa evidente quando il suo respiro si fa persino più affannato; è chiaro che non sta bene.
O ha corso per chilometri fuggendo da chissà cosa o c’è dell’altro, qualcosa che non sono ferite.
Non azzardo ancora ad avvicinarlo, perché non importa se abbiamo scambiato qualche parola tutto sommato amichevole durante l’addestramento, nulla mi dice che non abbia ancora forza sufficiente ad uccidermi… o almeno, questo sarebbe il pensiero iniziale.
Scuoto appena la testa: non si regge in piedi, ma soprattutto so una cosa che non ha nulla a che fare con i giochi, le armi, le strategie o con la paura.
Ed è che non è questo il tipo di persona che mio padre e mia madre hanno cresciuto.
Muovo un passo verso di lui, Kasamatsu alza lo sguardo con decisione su di me e capisco che se solo avessi intenzione di ucciderlo, non me lo renderebbe un compito facile. Mi fermo, perché capisco che è come un animale ferito: non sta ragionando, se invado il suo territorio, lui lo difenderà.
Poi la noto. Non me ne ero accorto prima perché era sul lato sinistro che, da dove sono, non vedevo completamente perché la gamba è anche coperta dai pantaloni: lungo un lato – visibile nel momento in cui mi fronteggia – un taglio non troppo profondo ferisce l’arto. È proprio il fatto che non sembri una ferita grave, però, a farmi storcere il naso… e lo sento. Un odore che non avevo colto prima, forse perché l’adrenalina mi aveva portato a fare attenzione a non perdere di vista la possibile minaccia; ora che però la mia attenzione è su di esso, sembra diventare ogni secondo più forte.
Infezione. La realtà mi colpisce in faccia come uno schiaffo: nessuno di noi ha pensato alle infezioni, che in un posto del genere e con tutti i tipi di insetti che potrebbero esserci, avrebbe dovuto essere la prima cosa di cui preoccuparsi. Poi mi rendo conto che era così che doveva essere: troppo presi dai serpenti, dagli alligatori, dalle piante potenzialmente velenose e dalla necessità di trovare acqua per pensare a cosa ci svolazzava intorno, all’apparenza innocuo.
La ferita di Kasamatsu emana un odore che, se si facesse più vicino – per uccidermi o per una disperata ricerca di aiuto – sarebbe insopportabile forse. Ma lui non lo fa; mi guarda, quasi aspettando che io me ne vada per crollare a terra.
«…Da quanto è infetta?» domando schietto, perché non ha senso girarci intorno. Lui sembra capire che nascondermelo è inutile e poggia di peso la schiena contro il tronco, si lascia scivolare a terra. Inspira più aria che può, a pieni polmoni e quasi ringhia quando mi risponde: «Abbastanza perché stia per marcire.»
Lo dice con una crudezza tale che, più che spaventato dalla morte, sembra animato solo dalla voglia di uccidere in massa tutti quelli che ci hanno portato qui.
Inutile chiedergli perché non la cura, è evidente che nessuno sponsor gliene ha dato la possibilità.
Nessuno lo vuole vivo, ed è una consapevolezza che avrebbe potuto ucciderlo prima di quanto non stia facendo l’infezione.
Stringo i pugni: nessuno vuole vivo uno come Kasamatsu, proprio come nessuno vorrebbe vivo me. Probabilmente l’unico motivo per cui non sono ancora sepolto – sempre che i tributi gli risultino degni di una sepoltura, e ne dubito – è che sono sopravvissuto per conto mio, evitando di incappare in qualcosa di così pericoloso da far sì che avessi bisogno di aiuto esterno.
Siamo troppo puliti per un gioco sporco e persone sudice come quelle di Capitol City.
«Vuoi darmi il colpo di grazia?» mi chiede, crudo. Non so cosa faccia più male: pensare che sia rassegnato ad un’idea del genere, o che me lo stia chiedendo per farmi un favore – quest’ultima possibilità significherebbe che persino in un momento simile riesce ad essere altruista. Qui, in questo luogo, mentre si muore, qualcuno riesce ancora a mantenere la sua integrità morale, quale che sia.
Non potrei mai fargli il torto di credere che sia perché ormai è prossimo alla morte.
Muovo qualche passo verso di lui, fino ad essere distante di sì e no un paio di passi; mi siedo a terra, e Kasamatsu mi guarda.
«Allora?» mi incalza, perché sono certo che aspettare la morte senza sapere quando il tuo boia colpirà sia più spaventoso della morte stessa. Scuoto la testa.
«Allora non ti lascio morire da solo. Nessuno se lo merita, e tu forse meno di tutti.»
Quasi un’ora dopo, Kasamatsu ha chiuso gli occhi e so che non li riaprirà.
Non sono pratico di come si onorano i morti, conosco solo un gesto che ho visto fare da bambino, ma non so nemmeno se sia vecchia usanza ormai perduta del 5 o solo quella di qualcuno di passaggio, all’epoca.
Mi alzo in piedi e guardandolo sfioro in sequenza la mia fronte, chiudo la mano in un pugno che poso all’altezza del cuore; sebbene non lo abbia mai chiesto, il significato è intuibile: “nella memoria, nel cuore”. Qualunque sia l’origine di questo addio, è un segno di rispetto.
Mi volto e raggiungo il punto d’incontro; quando il colpo che segnala la morte di Kasamatsu riempie l’aria, di fronte a me Shinchan mi ha appena raggiunto.
Nel cielo quella sera svettano i volti di tre persone: Kagami del 9, Kuroko dell’8 e Kasamatsu del 7.
Siamo rimasti in cinque: Wakamatsu del 4, Reo dell’1, io, Shinchan e Aomine dell’11.
Forse è il momento di concludere l’alleanza, prima di ritrovarci ad ucciderci a vicenda per costrizione.

A risvegliarmi è un «Ohi, Takao.» di Shinchan. Basta e avanza visto che qui appisolarsi è l’equivalente di dormire profondamente nella sicurezza della propria casa, ed è un lusso che non sono nemmeno così certo di potermi permettere più ormai, anche se Midorima non ha dato cenno di volermi uccidere nel sonno, non ancora almeno; immagino che reputi ancora in corso l’alleanza, in attesa che sia io stesso a suggerire di revocarla.
Apro gli occhi immediatamente, individuandolo senza difficoltà.
«Cambiamo turno…?» domando, ma lui scuote la testa e non si muove dalla sua posizione: «Rumori. Vado di là.» spiega sbrigativamente e prima ancora che io registri effettivamente la direzione a cui si riferisce, è già sparito oltre un lato di erba alta poco distante.
Nel silenzio del punto in cui ci stavamo riposando – probabilmente l’ultima occasione di riposarci e di mangiare qualche mirtillo e un poco di tifa rimediati, nonostante il primo sia acido e faccia particolarmente schifo – tendo l’orecchio per captare anche il minimo rumore; siamo arrivati ad essere nella condizione in cui anche sentire un solo fruscio in più può salvarti la vita.
Recupero velocemente un pugnale e mi posiziono in modo da essere pronto a scattare in avanti se necessario; una manciata secondi e sento partire un colpo che mi fa sussultare: non è un’arma, ma il segnale che ora siamo in quattro… e non so se tra questi c’è il mio alleato.
Un morsa mi chiude lo stomaco, e per quanto irrazionale possa essere mi ritrovo a seguire la stessa direzione presa da Shinchan. So da me che è stupido, che a conti fatti non abbiamo legami, che un’alleanza in un’arena in cui rischi di essere ucciso da un momento all’altro non può considerarsi tale o qualcosa che ci si avvicini. Penso soltanto che sia diventato tutto troppo, all’improvviso.
L’unico che si avvicinasse al concetto di “amicizia”, Shun, è morto nella prima mezza giornata e non so nemmeno come.
I due che dall’inizio hanno mostrato apertamente che non si sarebbero piegati a Capitol e avrebbero tenuto fede al legame – qualunque esso fosse – che li univa, sono stati separati dalla follia violenta di Hanamiya.
Kasamatsu, a cui forse mi sentivo più affine, è morto abbandonato dalle persone che stiamo intrattenendo.
Ed ora Midorima, che potrà non essere un vero alleato né un amico, ma che è abbastanza leale da mantenere fede ad un patto anche solo temporaneo, potrebbe essere stato ucciso senza che io sappia neppure come.
Mentre aggiro incautamente un arbusto, mi ritrovo a finire contro qualcosa in movimento che capisco essere una persona e che a guidarmi sono le uniche cose che non avrebbero mai dovuto prendere il sopravvento: panico e paura, causati dalla consapevolezza totale e schiacciante che se uscirò vivo da qui avrò visto così tante cose che non ci sarà mai modo di raccontarle senza chiedersi se non sarebbe stato meglio morire qui. Capisco, ancora una volta, che non c’è speranza per chi ne esce di non divenire come Miyaji: è un destino già scritto dal quale non c’è scampo.
Finalmente il mio quadro è completo, mentre mi costringo a fare almeno un passo indietro per non essere completamente alla mercé di chiunque sia davanti a me nel buio quasi totale a cui i miei occhi non si sono ancora del tutto abituati.
La risposta è sempre stata lì: nel modo in cui Miyaji allontanava le persone, in come le guardava, in come gli parlava – aveva un peso sulle spalle impossibile da raccontare, e nei vivi che incrociavano il suo cammino deve sempre aver visto un costante, opprimente senso di colpa che rende difficile respirare e ti fa solo venir voglia di gridare, arrabbiarti e forse anche piangere.
Finché non ne puoi più.
Sto per colpire con il pugnale, quando finalmente mi rendo conto che di fronte a me c’è Midorima e mi blocco di scatto all’ultimo secondo; lui era comunque in guardia per difendersi, e capisco che per quanto possiamo fingere di fidarci l’uno dell’altro, non possiamo farlo davvero. Dobbiamo necessariamente essere pronti l’uno ad un tiro mancino dell’altro.
Abbasso l’arma, guardo oltre la sua spalla, poi torno su di lui: devo avere una faccia fin troppo sconvolta perché mi guarda perplesso, capendo che sto pensando a molte cose tranne cercare di ucciderlo.
«Ohi—»
«Cos’era? Chi…?» lascio in sospeso la domanda perché è chiaro a cosa mi sto riferendo; lo intuisce anche lui e sospira leggermente, portando la mano a sistemare appena gli occhiali in un gesto che ho ormai capito essere meccanico ed inconscio.
«Aomine. Avevo piazzato una trappola poco distante da qui.»
Non lo dice, ma è chiaro che la trappola ha funzionato. Questo dovrebbe rallegrarmi, ma è come un cappio che ti si stringe attorno al collo, sempre più stretto fino a che non ti rende impossibile anche solo boccheggiare.
Sento i muscoli del mio viso stendersi in un sorriso che non ha nulla di felice o soddisfatto. Devo sembrare piuttosto tra il rassegnato e il disperato.
«Dobbiamo spostarci.» propongo, ma Midorima non sembra della stessa idea: «Direi di no, almeno finché non fa giorno. Con il buio nessuno si avventurerà qui a cercare chi può aver ucciso chi. Tra l’altro, per quanto ne sanno potrebbero essere stati animali o chissà che altro. Troppe incognite per rischiare, specie ora che siamo solo in quattro.» spiega, e capisco che finché il panico continua ad avere la meglio su di me non posso permettermi nemmeno di formulare ipotesi, né prendere decisioni drastiche.
Inspiro ed espiro, muovendo qualche passo indietro, facendomi di lato perché Shinchan possa affiancarmi anziché camminarmi dietro o essere costretto a superarmi dandomi le spalle.
Capisco da me che nessuno dei due muore dalla voglia di farlo, a questo punto.
Torniamo sui nostri passi fino al punto in cui eravamo e ci sediamo entrambi; tra noi regna il silenzio per diverso tempo, e il respiro di Midorima è così regolare che mi convinco che si sia appisolato quando parla: «Non ti serviva davvero un alleato, vero?»
Mi spiazza questa domanda, e al tempo stesso mi ricorda che non posso ancora dare di matto e vanificare tutto; manca poco, ma devo resistere. Questo pensiero ha la capacità di calmare quell’agitazione che il panico aveva scatenato.
«Non per quello che pensi. Voglio dire, ha fatto comodo dovermi guardare le spalle da una persona di meno, ovvio.» ammetto con un sospiro leggero, riuscendo a concedermi anche un sorriso lieve, sebbene invisibile sia per il buio, sia perché non ci guardiamo nella posizione in cui siamo.
Ci sfioriamo solo le spalle.
«Siamo in quattro. Sbrigati, perché l’alleanza non durerà a lungo.»
«Eddai Shinchan, così mi fai tristezza!» rimbrotto – insomma, potrebbe dirlo in modo più carino e gentile.
«Non c’era nulla di allegro fin dall’inizio.» obietta lui con il realismo che sarebbe forse giusto avere, a questo punto; che avrei dovuto avere dall’inizio: «E basta con quel nomignolo. Se stai davvero pensando a me come un alleato o un amico, smettila. Perché non ti aiuterà quando dovrai provare ad uccidermi.» dice, schietto.
Potrebbe sembrare un arrogante modo di dirmi che ci posso anche provare, ma lui non morirà certamente per mano mia; invece io ci leggo altro, e mi chiedo a questo punto se non sarebbe meglio cercare ognuno uno dei due rimasti, nella speranza che – se è destino non arrivare in “finale” – sia qualcun altro ad ucciderci.
«Non aiuterà nemmeno te, eh?» gli faccio presente e il suo silenzio basta come risposta.
«Rimani ad osservare anziché attaccare, salvi gli altri tributi, non dai loro il colpo di grazia» inizia, e dall’ultima parte della frase capisco che mi ha visto aspettare che Kasamatsu morisse «hai davvero capito che alla prima possibilità qui cercano di ucciderti?» mi fa notare, il tono brusco.
Penso di capire cos’è che lo infastidisca tanto.
«Shinchan, domani mattina non ci dividiamo.» inizio, come se mi avesse chiesto tutt’altra cosa: «Un’ultima alleanza fino a che non mi uccidono. O se rimaniamo soltanto noi, ovviamente. Ho bisogno di te fino alla fine.» ammetto e lo sento voltare il viso per cercare probabilmente di scorgere il mio.
Inspiro piano, abbozzo un sorriso, mi giro a mia volta: è come quando fa freddo e sei a pochi metri da casa ma il gelo ti è penetrato fin nelle ossa.
Devi solo resistere un altro po’ e sarai arrivato.
«Mi parli di te, Shinchan?»
Perché potrà sembrare assurdo, ma morire sapendo che tutto ciò che ho visto negli altri o che un’alleanza anche solo di convenienza siano stati completamente falsi e niente di più è peggiore dell’idea stessa di morire.

Passiamo il tempo che manca all’alba parlando, anche se penso non saprò mai cos’abbia spinto Midorima ad accettare l’idea folle di parlare, così come sono abbastanza certo che non mi abbia detto tutto naturalmente.
È del Distretto 3, dove meccanica ed elettronica sono la specialità di tutti, chi più e chi meno; lui stesso se ne intende ed è così abituato a fare i calcoli e ad analizzare e riparare macchinari che le trappole sono la sua specialità, migliorata ancora di più nella settimana di addestramento. È figlio unico e non ha mai digerito Hanamiya più di tanto: una conoscenza superficiale il cui modo di agire lo aveva convinto da subito a non accettare un’alleanza se anche lui gliel’avesse proposta.
È mio coetaneo, anche se avrei scommesso fosse più dell’età di Shun; a suo modo è persino divertente, in alcune reazioni che ha oltre che nell’inflessione con cui finisce le frasi.
«Hai proprio l’aria del fratello maggiore stupido e iperprotettivo.» o «Ti hanno mai detto che sei fastidioso?» sono tipiche risposte che mi ha dato quando ho accennato a mia sorella, o in generale alla vita nel mio Distretto.
Su di lei, però, si è soffermato con un picco di sensibilità di cui forse non si è reso conto nemmeno lui e di cui molti, di certo, non lo credevano capace – me compreso: «Dovresti voler provare a tornare. Per lei.»
«Non è che io non voglia tornare a casa vivo, sai? O almeno provarci.» gli ho fatto notare, restando qualche momento in silenzio.
Domani saremo comunque o morti, o come tali: qualsiasi provvedimento di Capitol City per quanto sto per dire non riesce a preoccuparmi più di Reo o Wakamatsu.
«Ma se torno vivo sarò un possibile Mentore. Potrei persino dover fare la caccia allo sponsor per mia sorella, un giorno. Vivrei per i prossimi anni con l’angoscia ad ogni Mietitura, sapendo cosa l’aspetterebbe se venisse scelta. Mi fa quasi sembrare piacevole l’idea di non tornare a casa, a volte.» ammetto, con un poco di vergogna all’idea che forse queste saranno le parole che mia madre e mio padre sentiranno mentre mandano chissà quale riepilogo di questa giornata. È come se li stessi pugnalando alle spalle, come se gli avessi dato la speranza di vedermi tornare per poi troncarla di netto.
«Questa Mietitura è andata bene perché in quest’Edizione Speciale hanno voluto solo tributi maschi. Di sicuro cercano di diminuire la forza lavoro che potrebbe potenzialmente ribellarsi… ma dall’anno prossimo toccherà di nuovo a maschi e femmine, indistintamente.» ho concluso, senza aggiungere altro.
In questi giochi io non ho ancora ucciso nessuno.
Figurarsi se mia sorella sarebbe mai in grado di prendere la vita di una persona così.

L’alba arriva che non abbiamo chiuso occhio, ma penso che valga lo stesso anche per gli altri due rimasti.
Abbiamo mangiato tutte le provviste rimaste, tenendo da parte solo un poco di acqua che potrebbe servire dopo una fuga o qualcosa del genere; dubitiamo entrambi che a fine giornata saremo ancora nell’arena, in un modo o nell’altro.
Ci muoviamo con attenzione, in silenzio: non è più tempo di parlare, ormai.
Siamo in marcia da almeno un’ora quando, verso ovest, sentiamo un grido lancinante che somiglia a quello di un animale ferito. Ci basta uno sguardo e un cenno d’intesa per iniziare a muoverci in quella direzione dove, è praticamente certo, si stanno scontrando Reo e Wakamatsu.
Sarebbe totalmente inutile non andargli incontro, perché significherebbe dar loro le spalle e non hanno bisogno di un ulteriore vantaggio.
Quando siamo ormai vicini – arrivano voci e questo basta a farci capire che è meglio iniziare a tenere seriamente qualsiasi possibile arma a portata di mano – un pensiero mi passa per la testa: se non fossi io a vincere, chi vorrei vincesse gli Hunger Games?
Reo non me l’ha raccontata giusta fin dall’inizio, nel bene o nel male non si è mai capito cosa gli passasse per la testa, quanto fosse disposto a giocare sporco, quanto potesse o volesse sacrificare; per motivi che non saprei spiegare, mi dà la sensazione di essere più simile ad Hanamiya che a Kasamatsu.
Se penso a Wakamatsu penso a Sakurai, a come lo ha visto morire, a come ha ucciso per vendicarlo senza esitare un solo istante e mi chiedo se lui voglia davvero sopravvivere; se pensi che sia suo dovere tornare vivo per rispetto al suo compagno o se preferisca l’idea di morire e raggiungerlo, se c’è qualcosa dopo la morte.
E Shinchan, al mio fianco? Vuole vivere, certo che vuole vivere… ma dopo aver parlato con lui mi chiedo se una persona così, rimanendo da sola, possa sopportare tutto quello che verrà dopo.
Un tonfo che fa tremare un arbusto a nemmeno un metro da me ci fa fermare; vedo Reo avventarsi su quello che è chiaramente Wakamatsu e nel tempo che impiego a farli rientrare completamente nel mio campo visivo Reo lo ha trafitto con una spada lunga. Non mi stupisce che ne abbia una: di sicuro è uno di quelli che era riuscito ad andare a recuperare un’arma praticamente nella Cornucopia.
Gli vedo estrarre la lama insanguinata, segno che il colpo deve essere di certo andato a segno e mi muovo ancor prima di ragionare davvero.
Mi torna in mente quanto la disperazione per la perdita di una persona possa portarti a uccidere come se tu non avessi fatto altro nella tua vita, ma con essa torna anche la figura di Wakamatsu ancora sporca del sangue di Hanamiya che non si è curato di altri tributi che potevano essere lì intorno, di possibili attacchi alle spalle. Si era preoccupato solo di prendere il corpo di Sakurai e piangerne la morte – sembrava aver detto al diavolo le telecamere, gli Strateghi, il pubblico e tutta Panem che permette barbarie simili.
So che alla fine non si può vincere in tre, che non posso sperare di voler salvare me stesso e anche gli altri.
Negli Hunger Games non esistono eroi.
So cos’ha detto Miyaji, ma il mio pugnale è già conficcato nella gamba di Reo ed è troppo tardi per ogni ripensamento; lo vedo guardarmi con l’astio di chi è stato interrotto ad un istante dalla fine di qualcosa e poi indietreggiare. Non mollo il pugnale, lasciando che se vuole allontanarsi debba fare forza abbastanza da causarsi dolore per l’estrazione della lama.
Contrariamente alle mie aspettative, lui approfitta della posizione: si piega in avanti e sta per tranciarmi di netto un arto, quando un lamento istintivo abbandona le sue labbra e noto che un secondo pugnale gli si è conficcato nella spalla, costringendolo ad indietreggiare sul serio stavolta.
Shinchan mi sorpassa, una sciabola alla mano che fino a quel momento non aveva mai estratto e che aveva forse recuperato dal corpo di Aomine, concedendomi un solo sguardo che sembra darmi tacitamente dell’idiota.
«Con questo il debito è saldato!» si assicura di farsi sentire e capisco che fino a quel momento ha mantenuto la parola con me, ma soprattutto con se stesso.
Mi volto verso Wakamatsu, che mi ero lasciato alle spalle, ma in un primo istante distinguo quasi solo sangue: è ovunque e si sta spargendo a macchia d’olio, tanto che mi provoca un capogiro. È davvero troppo.
Tossisce e ne sputa anche dalla bocca, macchiandosi la mano.
Mi guarda. Forse sta soppesando se voglio ucciderlo e dargli il colpo di grazia; poi, dal suo sospiro pesante, capisco che si è reso conto che morirà comunque. Apre la bocca, muove le labbra, ma non afferro quello che dice.
Con la coda dell’occhio noto Shinchan in difficoltà, ma quando sto per scattare verso loro due, una mano di Wakamatsu riesce ad afferrarmi; sono convinto che sia per conficcarmi il tridente da qualche parte, quando finalmente quello che aveva tentato di dirmi riesco a percepirlo.
Mi ritrovo addosso a lui, sporco del suo sangue e il tridente premuto contro il petto dalla mano che non mi ha tirato con quelle che devono essere state le ultime forze che aveva.
Uccidilo.
Non so se Reo si meriti una richiesta simile, ma ci sono due cose che sono chiare per me a questo punto: Wakamatsu, che è degno del rispetto di tutti i distretti e di cui il suo potrà essere eternamente orgoglioso, mi ha affidato un’ultima volontà.
Shinchan, che ha avuto l’orgoglio e il coraggio di credere in un’alleanza che avrebbe potuto essere una trappola, non può e non deve morire.
Mi volto e, quasi nello stesso momento, lancio un pugnale; colpisco la schiena di Reo, che in quel momento mi sta dando le spalle mentre con un calcio piazzato in pieno stomaco ha allontanato da sé Midorima facendolo boccheggiare. Mi punta senza esitazioni, caricandomi con tutto il peso del corpo e lo capisco: posso uscirne solo in un modo, perché un pugnale è troppo corto per combattere una spada lunga. Anche se gliene lanciassi a raffica potrei finirli prima di renderlo inoffensivo o prima che mi raggiunga.
Non ho il tempo di mirare, ma non ce ne è davvero bisogno: afferro il tridente con entrambe le mani e mi abbasso leggermente quando è ormai ad un soffio da me.


«Me ne occupo io. Grazie.» dice con tono grave Miyaji, posando una mano sulla spalla di Midorima; la stringe appena, sembra voglia dire qualcosa ma non lo fa.
Lascia la stanza, dandogli del tempo da solo; lui abbassa lo sguardo sul tavolo di quella stanza dove, a dirla tutta, non ha idea di come il biondo sia potuto entrare. Non pensa sia un classico che il Mentore di un altro distretto possa far visita al vincitore.
Gli occhi inquadrano un marchingegno elettronico che è fra i più cari del Distretto 3: serve a leggere vari chip per la registrazione di dati. Alcuni, ormai in disuso, se inseriti sotto pelle possono registrare mnemonicamente. Li usavano le spie della Ribellione: non dovevi parlare, non venivi scoperto e quelli registravano ciò che dicevi, sentivi o prendeva forma di azione nella tua mente.
Non potevano essere ingannati.
Non gli si poteva mentire con una formulazione volontaria di un pensiero.
Erano stati un’arma troppo scomoda perché Capitol non se ne liberasse, ma qualcosa era rimasto.
Takao l’aveva avuto addosso per tutti i giochi, consapevolmente; Miyaji non si era perso in spiegazioni.
Quel che sapeva, Midorima lo aveva appreso dallo stesso Takao: colpito a morte da Reo, si erano uccisi a vicenda.
Ehi, Shinchan., gli aveva detto, arrivando persino ad estrarre da solo con un pugnale il chip – sotto pelle, all’attaccatura dei capelli, Mi servi proprio fino alla fine. Non lo perdere, mh?.
Lo aveva tenuto, consegnato a Miyaji.
Aveva capito solo allora. Del tempo di quell’alleanza… solo allora.
Stringe il congegno in una mano.
L’altra si abbatte sul tavolo, con forza, con rabbia.
Takao non aveva mai avuto intenzione di sopravvive davvero.

«Con questo avremmo una testimonianza, ma se muori non la si potrà recuperare.»
«Formerò un’alleanza. Il vincitore, se non sarò io, l’avrà con sé. Vai da lui, e fattela consegnare. E basta Hunger Games, Miyaji-san.»
Un sorriso leggero.
L’unica richiesta – non “fammi sopravvivere”.
L’unica scommessa – non su chi far sopravvivere, ma su chi far morire.
L’ultima scommessa, e un’altra vita sulla coscienza.
Ma ora basta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Proprio due parole, arrivata alla fine.
Come chi ha seguito la stesura da vicino e passo per passo sa, non sono mai stata pienamente soddisfatta di questa long. Tuttavia ringrazio Rota per aver indetto il contest e avermi dato la possibilità di scriverci su: mi è piaciuto informarmi, cercare di far quadrare le cose soprattutto per quanto concerneva l’arena.
Se a qualcuno è piaciuta, la mia soddisfazione è ancora più grande di quanto non fosse già per la posizione raggiunta nel contest. Un ringraziamento (ulteriore e speciale) va a snowscene, per avermi sopportata tutto il tempo con le mie “ma è ‘Distretto’ o ‘distretto’?”, le richieste sull’IC, le paturnie, l’esaltazione mentre uccidevo Haizaki (…), la sofferenza mentre mandavo a morire il limite di parole imposto dal contest dilungandomi sulle morti che ho deciso di descrivere.
Sei stata preziosa nella stesura di tutto ciò (L)

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