La filosofia di Russia

di Lilith in Capricorn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carla Russo (la fedeltà) ***
Capitolo 2: *** Aaron Kelly (l'amore) ***
Capitolo 3: *** Timothy Brown (la giovinezza) ***
Capitolo 4: *** Jana Esposito (la libertà) ***
Capitolo 5: *** Russia ***



Capitolo 1
*** Carla Russo (la fedeltà) ***


Come ho accennato nell'introduzione, la storia è raccontata da 5 voci narranti (una per ogni capitolo) e ci saranno, di conseguenza, 5 stili diversi.
Ve lo dico perché il primo capitolo è tutta una serie di dialoghi, soltanto dialoghi.
Ma è solo il primo capitolo e c'è una ragione se ho scelto di presentarlo in questo modo.
Per gli altri, invece, ho usato: la terza persona, una lettera, un "diario" e la prima persona col flusso di coscienza.
Ogni stile si addice al personaggio narrante per determinate ragioni che non sto a specificare, sennò non ne usciamo.
Fatte queste precisazioni, vi auguro buona lettura e spero vogliate recensire!

 

LA FILOSOFIA DI RUSSIA

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“Deve essere una specie di hobby: collezionare illusioni di cui non essere all’altezza”
Alessandro Baricco

 



01-Carla Russo (la fedeltà)
 
 
DRIIIIN.
«Chi è?»
«Carla? Sono io, Mariangela.»
«Oh, ciao cara …»
«Ciao … mi fai entrare?»
«Certo, entra, entra pure. Accomodati sul divano. Vuoi qualcosa da bere? Un tè, un caffè …?»
«Il caffè andrà benissimo, grazie.»
 
«Ecco, lo zucchero è qui. Allora: qual buon vento, dopo tanto tempo?»
«Non scherzare, Carla, sai bene perché sono qui.»
«Beh, stai sprecando il tuo tempo, Mari: non ho bisogno né di condoglianze, né di una spalla su cui piangere: non ho lacrime da versare.»
«Ma era tuo figlio, Carla. Per quanti dissapori ci siano potuti essere tra di voi, non posso credere che davvero tu …»
«Credici, Mari. È riuscito a deludere sia me che suo padre in tutti i modi possibili. Non solo non ha completato l’istruzione che gli stavamo pagando, affinché avesse le conoscenze e un titolo per portare avanti l’attività di famiglia.
Ha anche avuto il coraggio di prendere tutti i soldi che avevamo messo da parte per lui e sparire, andare via, in America. E a fare che? A strimpellare su un palco! A fare il musicista!»
«Beh, non si può dire che non abbia avuto successo, in questo: mi è capitato più volte di sentire una canzone del loro gruppo, alla radio.»
«Successo o non successo, guarda un po’ dove lo ha portato “la sua strada”, come la chiamava lui! A sprecare la sua vita, a morire come un idiota!»
«Mio Dio, Carla, non posso più ascoltarti. Era pur sempre tuo figlio. Proprio non riesci a perdonarlo?»
«No, non posso. Ti sembrerà una cosa assurda e snaturata, ma proprio non riesco a perdonarlo per averci delusi, per averci abbandonati quando avevamo più bisogno di lui, per averci traditi.»
«Oh, andiamo, Carla, era solo un ragazzo. Un ragazzo con uno spirito troppo libero per rimanere incollato a questa piccola città, a questo vecchio Paese.»
«Beh, aveva l’obbligo di farlo! Per noi, per tutti quelli che hanno fatto tanto per lui. Non si può avere tutto nella vita, bisogna fare delle rinunce, per un bene più alto, per qualcosa di più giusto.»
«E cosa c’è di più giusto dell’essere sé stessi?»
«Tsk, curioso: è la stessa cosa che mi ha detto lui, pochi giorni prima di scappare di casa.»
«Oh, andiamo, non è scappato di casa! Non era minorenne: aveva anche già dato la maturità, se non sbaglio …»
«Ciò non toglie che sia andato via senza neanche dircelo.»
«Ma è normale: se lo avesse fatto, voi non glielo avreste permesso. Aveva già provato ad andarsene, un paio di volte, quando era più piccolo, mi pare.»
«Già, avremmo dovuto immaginarlo che avrebbe … beh, comunque, la sua fuga, o partenza, o quello che è, per noi è stata un vero e proprio tradimento. Avevamo fiducia in lui. Avevamo bisogno di lui e lui lo sapeva.»
«Carla, credi davvero che se fosse rimasto vi avrebbe agevolato tanto la sua presenza? Andrea non era fatto per questo tipo di vita. Lui era un musicista, un artista, un poeta, un viaggiatore …»
«Sai, Mariangela, comincio a pensare che, forse, sia stato influenzato anche un po’ da te. Anche lui diceva queste cose e aveva queste idee strampalate …»
«Andrea non era uno stupido, credi davvero che qualcuno avrebbe mai potuto plagiarlo? Era uno che pensava con la sua testa, quel ragazzo. Ha fatto tutto da solo.»
«Va bene, forse è come dici tu: lo conoscevi meglio di me, dopotutto. Sai, non sono mai riuscita a capirlo. Mai, neanche quando era piccolo. È sempre stato una strana persona, un enigma vivente, per me.»
«Sembra che tu stia parlando di un disgraziato qualunque e non di tuo figlio. Non hai pronunciato il suo nome neanche una volta, da quando sono qui.»
«Non pronuncio più il suo nome da molti anni, ormai. Lui è andato via, mi ha abbandonata, quindi perché dovrei nominarlo? Perché dovrei parlare di lui? Non lo merita …»
«D’accordo, come preferisci … ora, se vuoi scusarmi, ho delle commissioni da sbrigare. Ciao, Carla. Grazie per il caffè e … anche se per te non ha valore … condoglianze. A me, almeno, dispiace molto per Andrea …»
 
*****
 
«Ciao, tesoro.»
«Ciao, cara. Ehm … ho incontrato Jana, alla stazione. Mi ha detto di tuo figlio … mi dispiace. »
«Non dispiacerti, non ha importanza.»
«Dici davvero? Cara, io speravo … pensavo che, almeno in una situazione come questa, tu avresti potuto …»
«Cosa? Dimenticare tutto? Perdonarlo? Riscoprire un po’ d’amore per lui? Teo, da molto tempo non ho più posto per lui, nel mio cuore.»
«Posso capire perché tu possa avercela con lui, ma … era pur sempre tuo figlio.»
«Questo non basta a perdonargli l’aver mandato in rovina la nostra famiglia.»
«Non è stata colpa sua, Carla, è stato solo un tremendo incidente a rovinare tutto …»
«Incidente che ha ucciso mio marito, certo, ma se lui fosse rimasto, avrebbe potuto prendere il suo posto e salvare tutto.»
«Questo forse è vero … ma non puoi incolpare Andrea solo perché ha scelto di seguire una strada diversa da quella che avevate programmato per lui. Ha solo fatto quello che riteneva più giusto.»
«No, ha solo fatto il comodo suo, dimenticandosi completamente di quelli che, per una vita, lo hanno amato e cresciuto. Dimmi, Teo: tu cosa avresti fatto, al suo posto? Avresti abbandonato la tua famiglia, sapendo quanto questa avesse bisogno di te?»
«Beh, la famiglia è un valore molto importante, naturalmente. No, forse, al suo posto, avrei pensato prima ai miei cari che a me stesso.»
«Ecco, invece lui, evidentemente, si riteneva più importante di tutti noi messi insieme.»
«Questo non posso saperlo, non l’ho mai conosciuto …»
«Non ti sei perso niente, credimi. Cambiamo argomento, per favore, non voglio più parlare di lui, mi è bastata già quella Mariangela, stamattina … ascolta, a proposito dell’amore, della famiglia e tutto il resto … ecco … volevo chiederti se ti va di riprendere quel discorso …»
«Oh, Carla, credevo ne avessimo già discusso a sufficienza.»
«Sì, ma io ti avevo chiesto di pensarci ancora un po’, prima di …»
«L’ho fatto. Ma continuo a pensare che sia ancora …»
«Hai appena detto che per te la famiglia è un valore molto importante.»
«Sì, certo, è appunto per questo che non voglio sposarmi, ora. È ancora troppo presto, Carla …»
«Ci frequentiamo da più di due anni, tesoro. La gente, oggi, si sposa anche dopo un solo mese.»
«Ma io non sono come l’altra gente, cara, lo sai. Sono un uomo un po’ all’antica. E poi, voglio che sia tutto perfetto e stabile, prima che ci sposiamo. E non mi pare che lo sia ancora, purtroppo.»
«Oh, ci risiamo, ancora con la storia di Jana, immagino?»
«Amore, che ci posso fare? Lei … lei non riesce proprio ad accettarmi, quando vengo da te mi evita sempre e non mi parla quasi mai …»
«Teo, te l’ho già detto: quella ragazza è fatta così, è introversa, scontrosa, solitaria. Fa così con tutti, non ce l’ha affatto con te.»
«Sarà, ma a me sembra che ce l’abbia proprio con me. È vero che ha solo un amico e che non parla quasi mai con gli altri coetanei, ma, perlomeno, agli altri non rivolge in continuazione occhiate così … piene di disgusto.»
«Oh, quelle le lancia anche a me. È solo un’adolescente, che ci vuoi fare? È normale che faccia così, molti ragazzi della sua età tendono ad essere un po’ anticonformisti e ribelli.»
«Non è ribelle, Carla, lei mi odia veramente, lo sento.»
«E noi dovremmo rinunciare a sposarci solo perché non piaci a mia figlia? Cosa te ne importa? Tanto è grande, ormai, ha quasi finito la scuola superiore, presto andrà a lavorare o continuerà a studiare all’università. In ogni caso, non credo resterà qui ancora per molto: è irrequieta quasi quanto lo era suo fratello! E poi, in ogni caso, è la mia vita, non la sua: se io amo una persona, ho tutto il diritto di sposarla, non ti pare?»
«Certo, se quella persona è consenziente, però, e io ancora non lo sono … ma questo non vuol dire che non ti ami, lo sai, vero?»
«Smettila, lo dici solo per rabbonirmi.»
«Se funziona …»
«Sei tremendo, te l’hanno mai detto?»
«Quasi tutti, a dir la verità.»
«Ti amo anch’io, furfante, e certe volte ti odio, proprio perché ti amo.»
«Come sarebbe a dire? Ah, voi donne. Siete sempre così complicate.»
«Non siamo noi ad essere complicate, siete voi uomini ad essere troppo semplici.»
«Forse, chi lo sa. Ora, da semplice uomo, vorrei semplicemente stare un po’ con te. Non ci vediamo da tre giorni, o sbaglio?»
«Hm, tre giorni … mi è sembrato molto di più. Mi sei mancato, Teo.»
«Anche tu, cara.»
«Ti amo, non lasciarmi mai, ti prego. Dimmi che sono l’unica … l’unica …»
«Sei l’unica.»
 
*****
 
«Penso che Teo si veda con un’altra donna.»
«Oh, piccina, come puoi pensare una cosa simile? Teo è un uomo così dolce, affettuoso, premuroso.»
«Si, certo, e forse lo è talmente tanto che una donna sola non gli basta.»
«Lui ti ama, Carla.»
«Così dice, ma … chi può saperlo con certezza: la fiducia può essere pericolosa, quandose ne dà troppa, l’ho imparato a mie spese, purtroppo.»
«Sì, è vero, ma come si può non fidarsi di un uomo d’oro come Teo? Cosa è successo?»
«Promettimi di non dirlo a nessuno.»
«Te lo prometto, piccola.»
«Sai, la settimana scorsa è successa una cosa: Teo era molto stanco, quella sera, così era andato a letto più presto del solito, mentre io sono rimasta in sala a finire di guardare un film, in televisione. Poi, quando ho deciso che era ora di dormire, sono andata in camera, mi sono spogliata, messa il pigiama e ho impostato la sveglia.»
«Tutto regolare, insomma.»
«Sì, se non fosse per il piccolo dettaglio stonato di Teo che si rigira nel letto, ancora nel bel mezzo di un sogno, e con un tono di voce inequivocabile, dice: “Maria”.»
«Un tono di voce inequivocabile? Che intendi?»
«Che c’era passione nella sua voce, sentimento. Non capisci? Stava sognando un’altra donna e ha chiamato il suo nome ben due volte.»
«Oh, capisco … beh, tante donne si chiamano Maria, però.»
«Già.»
«Io stessa mi chiamo così.»
«Oh, andiamo, non sospetterei mai di te: sei la mia migliore amica da tutta la vita. Non mi tradiresti mai, ne sono certa. Tu mi vuoi bene, Maria?»
«Ma certo che te ne voglio, piccola.»
«Anch’io, e mi fido ciecamente di te. Sei come una sorella. Sei la persona a cui voglio più bene al mondo, quella a cui affiderei tutto.»
«Sei così dolce e fragile, al volte, Carla …»
«Lo so, è per questo che mi vuoi bene, no? Sono felice che ci sia tu nella mia vita. Mi sento così sola, a volte. Sento che nessuno mi ha mai amato veramente. In quei momenti, penso sempre a te e tutti gli anni che abbiamo passato insieme e a quante ne abbiamo viste. Sei la mia migliore amica, Maria.»
«Lo so. Ti voglio un bene dell’anima, Carla.»
«Meno male che ci sei almeno tu.»
 
*****
 
«Oh, salve professor Kelly.»
«Le mie condoglianze, signora Russo.»
«Oh, non è necessario, professore: vede, io e mio figlio avevamo un rapporto molto … conflittuale. Ecco, diciamo che, in realtà, neanche c’era neanche un vero rapporto.»
«Sì, sua figlia me ne ha parlato, qualche volta.»
«Beh, sono contenta che, almeno con lei, mia figlia riesca ad aprirsi, ogni tanto.»
«Certo, immagino …»
«Anche se trovo un po’ strano che, con tutta la gente che ha attorno, Jana decida di parlare proprio con lei: di solito, professori e alunni non sono nemici naturali?»
«Il più delle volte, purtroppo, sì. Ma Jana è una ragazza diversa: è l’alunna più intelligente che conosca, nonostante le compagnie che frequenta …»
«Oh, certo, a parte quel dolcissimo ragazzo di Marco, non salvo nessuno degli altri ragazzi che conosce. Io glieli dico, glielo ripeto sempre che quei giovanotti non mi piacciono, che dovrebbe frequentare gente più “a posto”, con la faccia più pulita e un linguaggio un po’ meno volgare, magari. Ma lei non mi ascolta.»
«Beh, è un’adolescente. Nonostante sia molto più intelligente e matura delle altre ragazze della sua età, è comunque molto giovane.»
«Già, e i ragazzi di quell’età, purtroppo, raramente ascoltano i consigli dei genitori. Però, lei la ascolta. Forse, lei potrebbe parlarle e …»
«Ci ho provato, ma non dà granché retta neanche me … è una persona molto testarda e un po’ testa calda.»
«Già, proprio come quell’ingrato del fratello, anche se lui era molto peggio.»
«Vorrebbe parlarmi un po’ di lui? Sa, Jana mi dice qualcosa, ma non proprio tutto.»
«Oh, lui era proprio così: testardo e testa calda. Non seguiva mai le regole, faceva sempre tutto di testa sua, aveva una fantasia tanto sconfinata da essere preoccupante. Qualche volta, sembrava quasi che non distinguesse la realtà dal sogno. È sempre stato molto indipendente, molto irrequieto, molto ribelle. Scappava spesso di casa, quando era ragazzo, ma poi tornava sempre.»
«Oh, sì, questo me lo aveva detto anche Jana. Ha parlato di una casa su di un albero, nei pressi delle cascate, a nord della città …»
«La casa sull’albero? Ah, già, quella … non saprei, io non l’ho mai vista, ma Jana giura che esiste, che è stato suo fratello a costruirla e che, spesso, lui la portava lì. Un giorno, le chiesi di portarmi a vederla, ma lei rifiutò assolutamente: diceva che era il loro posto segreto e che solo le persone speciali potevano andarci. Tsk, le persone speciali … e io chi sono? Sono sua madre, no?»
«Oh, non se la prenda, sa come sono i ragazzi …»
«Sì, è quello che mi dice sempre Maria.»
«Maria?»
«Oh, è la mia amica d’infanzia. Vede: quella donna che sta parlando con il mio compagno Teo, accanto alla porta del campanile.»
«Oh, sì, la vedo.»
«Comunque, non c’è molto altro da dire su di lui. Lo avevamo fatto studiare perché potesse prendere il posto di suo padre nell’attività di famiglia. Ma poi, lui ha deciso di andarsene in America, a fare successo con la musica. Sa, suonava la chitarra in un gruppo. Ha sempre amato molto la musica, stava di continuo a fare casino con quell’aggeggio infernale, quando ancora viveva da noi. Non ho mai capito perché alla gente piaccia tanto quel genere di musica: a me sembra solo un’enorme accozzaglia di rumori.»
«Beh, sa com’è, i tempi cambiano, i gusti pure.»
«Più che cambiare, mi pare che peggiorino … la funzione sta per cominciare, il prete sta andando verso l’altare. Le rimane?»
«Ehm … sì, avrei necessità di scambiare due parole con sua figlia, riguardo a un progetto per la mia materia.»
«È bello sapere che c’è ancora gente tanto affidabile, professori che prendono tanto a cuore la carriera scolastica dei propri alunni. Le consiglio di aspettare con pazienza la fine del funerale: Jana era molto affezionata a suo fratello. Si scambiavano lettere molto spesso e lui le inviava sempre qualcosa. Diceva che, un giorno, sarebbe venuto a prenderla e che l’avrebbe portata negli Stati Uniti, con sé.»
«Sì, questo lo so: mi ha confidato che è per questo che ha preso tanto a cuore la mia materia.»
«Beh, buon per lei: almeno, si ritroverà a saper parlare molto bene una lingua utile come l’inglese, anche se suo fratello ha deluso profondamente le sue aspettative, come ha sempre fatto, d’altronde. Quel ragazzo sembrava nato apposta per illudere e poi far soffrire la gente.»

 

E questo era il primo capitolo.
Un mio plauso va a tutti quelli che sono riusciti ad arrivare vivi alla fine XD.
Lo so, il fatto che sia un gigntesco dialogo può rendere la lettura un po' stancante, ma ripeto: solo il primo capitolo è così, non avrei potuto strutturarlo meglio, anzi, credo sia perfetto: è l'esasperazione stilistica che sfiorirà presto, per lasciare il posto all'esasperazione emotiva, che crescerà ad ogni capitolo.
Nel prossimo (che pubblicherò la prossima settimana) presenterò il personaggio del professor Aaron Kelly, per il quale nutro una certa tenerezza, quindi trattatemelo bene u.u.
Mi raccomando: recensite che ho sempre bisogno del vostro parere; inoltre, penso che le recensioni spingano gli autori a migliorare e a creare volentieri nuove storie, quindi, in un certo senso, è una cosa che fa bene sia a me che a voi, no?
Senza contare che è una buona occasione per far fare un po' di ginnastica alle dita ;-).
Anyway, grazie anche solo per aver letto!
Ah, quasi dimenticavo, il lnk del contest: http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10560421 


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PROSSIMO CAPITOLO: SABATO 18 MAGGIO!

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Capitolo 2
*** Aaron Kelly (l'amore) ***


Come promesso, ecco il secondo capitolo, nel quale ho presentato il personaggio del professor Aaron Kelly, con cui si scenderà ancora più a fondo, nella spirale di illusioni ed emozioni.
Non voglio anticiparvi nulla, ma credo sia opportuno fare un piccolo appunto: come ho detto in risposta alla recensione di Ulisse 999, ogni personaggio di questa storia va preso con una certa tenerezza e con un senso di pietà, anche quando fa qualcosa che, generalmente, viene considerato immorale o sbagliato, perché nessuno di loro è "cattivo", ma sono tutti semplicemente vittime - più o meno coscienti di esserlo - del dolore esistenziale causato dall'atto stesso di vivere e ogni loro azione o pensiero è semplicemente una reazione a questo dolore.
Prima di lasciarvi alla lettura, però, vorrei anche fare un paio di ringraziamenti: ad
Ulisse 999 per aver recensito e a Norhade per aver recensito e inserito la storia tra le seguite.
Grazie, e buona lettura a tutti!



LA FILOSOFIA DI RUSSIA

 

02-Aaron Kelly (l'amore)


Il giorno del funerale di Andrea Esposito – detto Andy Syte – c’era il sole e tanta luce per le strade.
Il fatto fu molto peculiare e alcuni ragazzi – probabilmente amici del giovane – dissero che il cielo era felice, perché adesso Andy avrebbe potuto suonare per Dio e per gli angeli, per sempre.
Erano i primissimi giorni di marzo, quelli più nuvolosi e umidi, eppure, proprio quel giorno, il cielo era chiaro e splendente, tanto che pareva quasi estate, nonostante l’aria fredda che ancora si trascinava appresso qualche rimasuglio dell’inverno appena trascorso.
 
Aaron Kelly, avvolto in un elegante cappotto nero, si guardava attorno, fuori dalla chiesa, incuriosito dalla grande varietà di emozioni che attraversava i volti della folla vestita di scuro.
Andrea aveva 27 anni.
27: dicono che sia un “compleanno maledetto”, presso gli artisti del rock.
Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin, Kurt Cobain, Brian Jones, Dennes Boon, Amy Winehouse …
Aaron pensava a tutti loro e ad Andrea.
Andrea … un nome molto poco rock; Andy era decisamente meglio.
 
Non era mai stato un grande appassionato di musica, ma sapeva – dai giornali, dalla televisione, da internet e dai racconti di qualche suo alunno – che ai funerali di quegli artisti c’erano tantissimi giovani e tutti piangevano e quasi si strappavano i capelli.
Addirittura, aveva sentito che quando era morto Elvis, alcune persone si erano suicidate, per la disperazione di aver perso il loro idolo.
Manco fosse morto Cristo!
Aaron non li capiva: come ci si può disperare tanto per qualcuno che nemmeno si conosceva?
 
Sotto questo punto di vista, il funerale di Andy era molto più normale e discreto.
Aveva saputo che la famiglia aveva tenuto nascosto il nome della chiesa in cui si sarebbe celebrata la funzione e anche il luogo dove avrebbe riposato la salma.
Era quasi come se sua madre, in qualche modo, nonostante dicesse di odiarlo, stesse tentando di riprendersi il figlio che il mondo le aveva strappato, sottraendolo a sua volta a quello stesso mondo che lo aveva tanto amato e che, eppure, lo aveva ucciso.
 
Andy Syte era morto crivellato a colpi di pistola proprio da un suo fan, proprio da qualcuno che diceva di amarlo.
Aaron non aveva mai sentito di una storia simile, nel mondo del rock, anche se non escludeva che potesse essere già accaduto, in passato.
Anche Lennon lo avevano ammazzato con i proiettili, ma, da quanto ricordava, l’assassino non era un suo fan. Forse.
E, comunque, sapeva che quell’uomo non si era mai pentito del suo gesto.
 
Non ricordava come si chiamasse, ma il nome del boia di Andy lo conosceva: Richard Parrot.
Nessuno avrebbe mai potuto spiegare il motivo che lo aveva spinto a commettere un tale crimine: la guardia del corpo di Andy lo aveva freddato, anche se troppo tardi.
Una volta identificato il killer, erano andati a casa sua, alla ricerca di qualcosa che potesse spiegare il perché di tutto.
Ma non avevano trovato nulla di interessante: solo la discografia completa della band di Andy, diversi poster e persino una foto autografata del chitarrista: si erano già visti, si erano già incontrati, erano stati vicinissimi e forse, chissà, proprio allora Parrot aveva cominciato a meditare di farlo fuori, per chissà quale assurdo motivo.
 
Comunque, anche al funerale di Lennon c’era un mucchio di gente disperata. A quello di Andy no.
Il che era alquanto strano: anche se c’erano solo pochissimi fan, la gente avrebbe comunque dovuto dimostrare un po’ più di tristezza.
Era il funerale di un ragazzo di 27 anni, dopotutto, e la gente piange sempre al funerale di un ragazzo così tremendamente giovane.
Eppure, non era così: molte persone avevano un’espressione sul viso piuttosto annoiata e alquanto indifferente, parecchi gruppetti di donne chiacchieravano allegramente e gli uomini, anche se un po’ più silenziosi e composti, non sembravano molto seri e mesti.
 
Le vere facce da funerale erano ben poche e appartenevano tutte a ragazzi molto giovani della città che, evidentemente, erano ammiratori di Andy e, chissà, forse c’era anche qualche ex ragazza.
Come la biondina tutta secca che se ne stava silenziosa, in disparte, con la faccia pallida e le braccia strette attorno al corpo, come se volesse scaldarsi o avesse bisogno di un abbraccio.
Non piangeva, ma i suoi occhi erano così spenti, così vacui, così lontani …
 
La persona che più di tutte lo sconcertava, comunque, era Carla Russo, la madre di Andy: gelida, impassibile, col volto severo e un’amarezza negli occhi che non era di certo dovuta alla perdita subita, dato che il professore gliel’aveva vista esibita ogni volta che l’aveva incontrata.
Era come se Carla, dentro di sé, avesse già celebrato i funerali del figlio, molti anni prima, quando lui l’aveva abbandonata, per inseguire la sua strada.
E forse, in città, erano in molti a pensarla come lei, visto l’umore della maggior parte delle persone, lì attorno.
 
Aaron non pensava che Carla fosse una persona cattiva: semplicemente molto sola.
Il figlio l’aveva abbandonata, il marito era morto, la figlia sembrava vivere in un mondo completamente diverso dal suo e il compagno, a quanto pareva, la tradiva.
Bisognava essere ciechi, per non accorgersene: le occhiate, i gesti, i sorrisi, le gentilezze che si scambiavano Teo e quella donna che gli era stata indicata come “Maria” erano inequivocabili, per un occhio attento come il suo.
 
Era evidente che i due nascondessero qualcosa e non era difficile immaginare cosa.
Anche Jana lo pensava. Era una ragazza intelligente e sveglia, molto più di sua madre, che si ostinava a vivere nel suo giardino incantato, sperando così di non essere abbandonata ancora, di non rimanere completamente sola.
Ecco: la solitudine, questa era la sua più grande paura, l’abbandono.
Per questo, Aaron non riusciva ad odiarla: perché gli faceva pietà, quella sua ingenuità cosciente e voluta.
Carla non era cieca, Carla voleva essere cieca.
 
E Aaron si chiedeva se, per caso, avesse deciso di essere cieca anche con lui, o se davvero non se ne fosse ancora accorta.
Forse, aveva semplicemente bisogno di potersi fidare di qualcuno e lui era un professore, il rappresentate di un istituzione importante come la scuola, chi più affidabile e onesto di lui?
Se solo avesse saputo chi era davvero il professor Kelly, forse, avrebbe cominciato a svegliarsi anche con le altre relazioni sociali che intratteneva (Teo e Maria in primis).
O forse, più probabilmente, si sarebbe inoltrata ancora più in profondità nel giardino incantato, continuando ad illudersi, e lo avrebbe fatto sempre di più, finché l’illusione non l’avrebbe uccisa e divorata.
 
*****
 
L’anno precedente, durante l’estate, la professoressa d’inglese, scopertasi finalmente in stato interessante dopo numerosi tentativi, si era messa in aspettativa per un anno e la scuola aveva dovuto cercare un professore per rimpiazzarla come supplente.
Era stato indetto un concorso, nel mese di agosto, che aveva visto un certo Aaron Kelly vincitore.
 
Kelly era un insegnante molto giovane (doveva ancora compiere 35 anni) e un uomo piuttosto attraente: capelli biondicci, occhi celesti e puliti e fisico da nuotatore.
Quello che lo caratterizzava di più, però, era la sua aria distratta.
Se ne andava in giro con lo sguardo per aria, osservando le case, gli alberi, la gente, il cielo, gli uccelli … non guardava mai per terra, rischiando continuamente di inciampare, ma non succedeva mai: più che camminare, sembrava volare.
 
Era un uomo molto cortese ed educato, pieno di passione per la vita e per la propria materia, anche se tanto serio da risultare quasi un po’ freddo, a volte.
Era intelligente, sapeva spiegare molto bene e con fluidità anche le cose più complesse ed era molto empatico, il che gli permetteva di stabilire la giusta distanza nel relazionarsi con gli studenti: era autorevole, ma senza risultare autoritario.
Gli alunni non solo lo rispettavano, ma lo adoravano anche, nonostante la totale mancanza di senso dell’umorismo – qualità, invece, molto apprezzata dai giovani.
 
Aaron non era certamente uno di quelli che alla domanda “che persona è?” avreste definito simpatico.
Il professore non faceva mai battute, parlava molto poco e non rideva mai.
Eppure, grazie a quel suo sorriso educato e cordiale, riusciva a non risultare mai malinconico, triste, o pesante.
 
Aveva attirato subito l’attenzione e il desiderio di tutte le studentesse e anche di qualche studente, oltre, ovviamente, alle professoresse di qualunque età.
Tutti sembravano affascinati da lui. Tranne Jana Esposito, quarta C, 18 anni ancora da compiere, fisico minuto e sottile, capelli castano chiaro, occhi nocciola, lineamenti dolci e sguardo assente.
Una ragazza come tante, una di quelle che raramente attirano qualche attenzione: non avrebbe mai potuto sperare di diventare popolare, nella scuola o nel mondo del lavoro, tanto era invisibile.
Riusciva a mescolarsi con la folla e a mimetizzarsi ovunque, con una facilità notevole, tanto che sembrava quasi non esistere.
 
E, forse, paradossalmente, proprio per quello Aaron l’aveva notata, per il suo silenzio, per la sua “invisibilità”, per il suo quasi esistere.
E poi, a sorpresa, aveva risvegliato il suo interesse durante la prima interrogazione: in due mesi, non l’aveva mai vista scrivere appunti, non l’aveva mai sentita porre una sola domanda, non gli era mai sembrata interessata.
Eppure, quel giorno, in piedi davanti alla cattedra, aveva dimostrato di possedere una mente brillante, una sensibilità profonda e un grande amore per la letteratura.
 
E sapeva parlare. Stava sempre zitta, ma come sapeva parlare!
La gente, di solito, parla sempre di sé, dei suoi problemi, di quello che le piace, di quello che fa, come se pensasse di avere davvero qualcosa di interessante da dire, ma invece non è così.
Il più delle volte, quando aprono bocca, le persone dicono solo cose noiose e banali.
Eppure, parlano sempre.
E invece, quelli come Jana, che hanno un intero mondo nel cuore, spesso parlano molto poco o non parlano affatto e, se lo fanno, è raro che la gente riesca ad apprezzarli.
Aaron era uno di quelli che sapeva farlo e si maledisse per non aver capito prima la diciassettenne.
Poche settimane dopo, si sarebbe rammaricato del contrario.
 
Da parte sua, era accaduto tutto per puro caso, una cosa aveva trascinato l’altra, ma non era sicuro che da parte di Jana fosse altrettanto.
Dopo il giorno dell’interrogazione, in cui, alla fine dell’ora, il professore l’aveva invitata a rimanere ancora cinque minuti, avevano preso l’abitudine di attardarsi un poco, alla fine della mattinata e, qualche volta, di rimanere a scuola anche il pomeriggio, a discutere e preparare diversi progetti.
 
Nonostante nessuno dei due fosse di molte parole, entrambi avevano subito trovato piacevole la conversazione con l’altro.
Entrambi amavano le stesse cose e parlare era molto facile, sembrava quasi che si capissero al volo, anche se Aaron non era molto sicuro di questo: c’erano delle volte in cui si ritrovava a pensare che, in realtà, non comprendeva affatto il mondo di Jana.
 
Era una cosa difficile da capire, figurarsi da spiegare.
Sembrava che, dentro di lei, ci fosse un eterno conflitto tra due poli opposti: l’intensità della sognante meraviglia con cui considerava i libri era paragonabile solo al cinico realismo con cui guardava alla vita; la sua profonda sensibilità umana e artistica faceva violentemente a pugni con il dissacrante disprezzo che dimostrava per la spiritualità e la religione; il suo profondo senso di libertà, giustizia e lealtà contrastava aspramente con la sua indole malinconica e pessimista e con la sua assoluta miscredenza nell’amore.
 
Ecco, forse era proprio questo l’aspetto che più di tutti destabilizzava il professore: il suo assoluto, sprezzante rifiuto dell’amore.
Jana non ci credeva, punto, era impossibile farle cambiare idea.
Non sembrava credere in nulla, a tal proposito, né nell’amore divino, né in quello romantico, né in quello coniugale, né in quello parentale, né nella pietà, che è la forma più nobile, alta e disinteressata.
 
«Oh, andiamo professore, non mi dire che alla tua età ci credi ancora» aveva detto un giorno – gli dava sempre del “tu”.
«Alla mia età? Va bene che sei molto più giovane di me, ma vacci piano: ho solo 34 anni, non sono vecchio»aveva risposto, con un tono un po’ scherzoso e nient’affatto offeso.
«E chi ha detto questo?» aveva subito replicato lei. «E poi, non credere di essere tanto più vecchio di me: sono giovane solo fuori, me lo dicono tutti.»
«Già, probabilmente hanno ragione, purtroppo.»
«Purtroppo?»
«Beh, ecco … io credo che crescere così in fretta sia una cosa molto triste. Non voglio turbarti è solo … è solo quello che penso e sono sempre stato onesto, con te.»
 Jana lo aveva guardato in silenzio, senza realmente vederlo, per qualche secondo, prima di rispondere: «Sì, hai ragione. È una cosa triste, in effetti …»
«Mi dispiace, non era mia intenzione intristirti …»
«Non importa, davvero, hai solo detto una cosa vera, non sentirti in colpa.»
 
Eppure, Aaron ci si sentiva eccome, perché i suoi occhi erano velati e la sua voce mormorante.
«Jana, perché non credi nell’amore?» le aveva chiesto all’improvviso, sinceramente curioso e interessato alla sua opinione, che non aveva tardato ad arrivare.
«Per lo stesso motivo per cui tanti non credono in Dio: perché non è mai successo niente che mi abbia spinto ad avere fede.»
«Non hai fede neanche in Dio.»
«Non ho fede in un bel niente, prof. Ma, parlando dell’amore con l’accezione che gli si dà comunemente, penso che sia tutta un gran cazzata, perché chi lo cerca, spesso, lo fa solo per un egoistico bisogno di affetto, perché non sa stare da solo, per interesse personale, insomma, ed è per questo che, prima o poi, finisce, quando il bisogno viene appagato.»
«Non pensi che si possa amare davvero e per sempre?»
«No. E per quanto riguarda la pietà, poi, penso che anche quella, in fondo, sia un po’ egoistica e che chi la pratica lo fa solo per mettersi la coscienza in pace di fronte a Dio, se è credente, o di fronte a sé stesso, se è ateo. L’amore disinteressato non può esistere: l’uomo è una creatura egoista per natura.»
«E che mi dici della famiglia?»
«Me lo stai chiedendo sul serio, Aaron? La conosci la mia situazione, no?»
La conosceva, la ragazza gliene aveva parlato, qualche giorno prima.
 
Il professore aveva pensato che quella doveva essere la conversazione più triste e senza speranze che avessero mai avuto.
Per un momento, aveva provato pietà per lei: chissà quanto doveva essere malinconica e desolata la sua vita? Quante volte aveva desiderato di poter parlare di queste cose con qualcuno, ma nessuno aveva mai voluto o saputo ascoltarla? Come si fa ad andare avanti, quando non si ha nulla in cui credere e, quindi, nulla per cui vivere?
Era così giovane e così senza speranza da mettere i brividi: in fondo, aveva solo diciassette anni.
 
«Comunque» aveva ripreso lei dopo un momento, «a parte tutte le riflessioni del caso, nella mia vita non c’è mai stato nulla che mi abbia fatto credere nell’amore. Non i genitori, non un amico, nessuno.»
«E tuo fratello?»
«Mio fratello è il più ingenuo ed egoista di tutti, anche se non è cattivo.»
«So che sei molto legata a lui.»
«Sì, ma questo non vuol dire niente: se davvero mi amasse, Andy mi porterebbe via con sé, lontano da qui. Come vedi, non posso farti un solo nome di una persona che mi ami o che mi abbia amato.»
Eppure, nonostante tutto, il professore sapeva che non era vero.
Eppure, nonostante tutto, Aaron la amava.
 
*****
 
Era un pomeriggio d’autunno e pioveva a dirotto.
Jana detestava la pioggia, ma, per fortuna, il meteo aveva annunciato che, nel tardo pomeriggio, l’acquazzone sarebbe scivolato via, esattamente com’era venuto e già da lontano si vedeva una fetta di cielo, tra le nuvole diradatesi.
L’aria era ancora calda, nonostante tutto, e c’era un’umidità quasi palpabile e fastidiosa.
 
Aaron, seduto alla cattedra, durante uno dei loro lunghi momenti di silenzio, aveva corretto un paio di compiti in classe, gli ultimi rimasti, prendendosi le consuete incazzature per gli errori di grammatica stupidi e perfettamente evitabili, con un po’ più di attenzione.
Appena finito, aveva risistemato tutto nella sua cartella blu scuro e si era rilassato sulla sedia girevole, con un sospiro.
In quel momento, si era finalmente accorto che Jana, seduta sul davanzale della finestra, per tutto il tempo, non aveva fatto altro che osservarlo con uno sguardo strano.
Uno che non le aveva mai visto dipinto in faccia così nitidamente, prima, ma solo di sfuggita, nei momenti in cui lui alzava lo sguardo e lei, di colpo, lo abbassava o resettava i lineamenti in “modalità impassibile e imperscrutabile”.
 
Aaron aveva intrecciato le dita, con fare nervoso, aspettando che fosse lei a parlare, a muoversi, o a fare qualunque cosa: c’era un’atmosfera strana, in quella stanza, una sensazione di elettricità e penombra.
Erano rimasti a fissarsi, per diversi minuti, senza osare muovere un muscolo, come in attesa di qualcosa, di qualunque cosa.
Quella situazione stava incominciando ad innervosire il professore, che era sul punto di spezzare tutto, pronto a dire qualsiasi cosa, pur di infrangere quell’imponente muro di silenzio.
 
Aveva appena socchiuso le labbra, quando, all’improvviso, Jana si era finalmente alzata e aveva cominciato a camminare verso di lui.
La cosa, invece che tranquillizzarlo, lo aveva inquietato ancora di più.
C’era tempo, però, avrebbe potuto fare qualcosa, alzarsi a sua volta, spostarsi, dire qualcosa, fermarla.
Ma, quando aveva fatto per alzare le mani e respingerla, era già troppo tardi: Jana gli era letteralmente saltata in braccio, sedendosi sulle sue cosce.
Senza esitare un momento, neanche per guardarlo negli occhi, gli aveva afferrato il volto tra le mani e, senza delicatezza, senza romanticismo e senza pudore, aveva iniziato a baciarlo.
E, in quel momento, Aaron aveva capito di aver definitivamente passato il confine, il punto di non ritorno.
 
Era scorretto, era sporco, era illegale, era peccato, era proibito … era inevitabile.
Ancora una volta, il professore si era reso conto di quanto poco sapesse di Jana: aveva capito che, dentro di lei, c’era molto più di una ragazza silenziosa e asociale, molto intelligente e molto matura, ma non avrebbe mai immaginato che ci fosse tutto questo: una donna.
 
Jana era, nonostante il corpo ancora leggermente indefinito e acerbo, una donna a tutti gli effetti, una che aveva capito come andava il mondo e a quale velocità, una che sapeva leggerti dentro e fare di te quello che voleva, una che sapeva come fare l’amore con un uomo e che lo aveva già fatto chissà quante volte.
Al contrario di quanto aveva sempre pensato, non era neanche stato il primo e, a giudicare dalla sua sicurezza e dalla sua bravura, doveva avere anche una certa esperienza alle spalle.
Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto chiederglielo, ma aveva pensato che, probabilmente, si sarebbe potuta offendere.
 
Jana sembrava nata apposta per scopare: si lasciava fare di tutto, in tutti i modi, senza mai mostrare ritrosia, ma solo una leggera resistenza, per mascherare l’arrendevolezza che in realtà nascondeva, che contribuiva a rendere il tutto ancora più eccitante.
Ogni movimento, ogni sospiro, ogni ansito, ogni sguardo era perfetto, sembrava studiato, premeditato.
Pareva quasi che Jana facesse di tutto per farlo godere e che non si preoccupasse minimamente né del proprio piacere, né di non provare dolore: qualunque cosa, purché a lui piacesse, purché lui stesse bene.
 
Un altro uomo, si sarebbe schifosamente approfittato di una ragazza del genere, si sarebbe preso tutto di lei e non le avrebbe lasciato niente, apostrofandola poi, magari, con parole volgari e sprezzanti.
Questo, Aaron, non l’avrebbe mai fatto: si era preoccupato del massimo piacere di lei, esattamente come lei aveva fatto con lui.
L’aveva abbracciata, l’aveva accarezzata e baciata, aveva ascoltato attentamente il suo corpo, cercando di capire di cosa avesse bisogno, cosa desiderasse, cosa le piacesse; l’aveva presa delicatamente, entrando in lei con molta cura, senza fretta, senza crudezza, senza egoismo.
 
Aveva provato a comunicarle amore, quello stesso amore che, più di ogni altra cosa, lei sembrava disprezzare.
Aveva fatto l’amore con lei e, dopo aver finito, era uscito dal suo corpo con la stessa premura con cui ci era entrato.
Poi, l’aveva tirata su e l’aveva stretta a sé, accarezzandola dolcemente, mentre aspettava che riprendesse fiato e lasciandole soffici baci tra i capelli senza odore.
 
«Devo andare, si è fatto tardi» aveva bruscamente detto lei, sciogliendosi dal suo abbraccio, senza perdersi in tenerezze e rivestendosi con la stessa noncuranza con cui aveva lasciato la stanza, senza dire una parola.
E Aaron aveva pensato che non si era mai sentito più solo di così in tutta la sua vita: la freddezza con cui si era scostata da lui, il muro che aveva chiaramente percepito innalzarsi tra di loro, mentre lei si rivestiva e se ne andava, il suo totale disinteresse per quello che lui aveva cercato di darle …
Il professore si era sentito ferito.
 
Ed era la prima volta che succedeva e aveva giurato a sé stesso che non sarebbe mai accaduto e lui era un professore, cazzo! Un professore!
Un uomo di 34 – trentaquattro! – anni che non solo aveva avuto un rapporto con una sua studentessa diciassettenne – una ragazzina! – ma che si era anche lasciato infinocchiare dalla suddetta, perché lei, al contrario di lui, non aveva provato niente, non sentiva niente per lui, non credeva nell’amore.
 
Avrebbe dovuto incazzarsi – con sé stesso e con lei – avrebbe dovuto scacciarla dalla sua vita, allontanarla, non rivolgerle più la parola, avrebbe dovuto dimenticarla, avrebbe dovuto risanare e rinforzare il suo orgoglio maschile, avrebbe dovuto finirla lì, anzi, avrebbe dovuto fermarla prima ancora che accadesse.
Ma Aaron non aveva fatto e non avrebbe fatto nessuna di quelle cose: l’aveva guardata andarsene, con il cuore a pezzi e l’orgoglio ferito, con la consapevolezza che, nonostante tutto, non l’avrebbe allontanata, e che, se fosse successo di nuovo, non avrebbe saputo fermarla.
L’aveva guardata andarsene, giovane, senza speranze, senza amore e irraggiungibile, provando un’immensa pietà per sé stesso e per lei.
 
*****
 
Dopo quel pomeriggio, esattamente come Aaron aveva previsto, c’erano state molte altre occasioni per ripetere l’esperienza e, puntualmente, lui non era mai riuscito a tirarsi indietro.
Dire che continuava a ripetersi che era sbagliato, che pensava che quella storia dovesse finire al più presto e che si sentiva in colpa per quello che stava facendo a sé stesso e a lei, sarebbe terribilmente ipocrita, oltre che totalmente falso.
 
Aaron non ci vedeva nulla di sbagliato o sporco – secondo la sua ottica e la sua morale – in quello che facevano, durante i loro incontri clandestini, non pensava e non desiderava di porre fine al loro rapporto così come si era evoluto e, soprattutto, non provava nessun senso di colpa, né nei confronti di sé stesso, né di Jana, né della sua famiglia, né di nessun altro al mondo.
 
Aaron era soltanto un uomo di 34 anni – quasi 35, ormai – terribilmente solo, disilluso e apatico, che aveva trovato nella giovane Esposito una donna intrappolata nel corpo di una ragazzina, la donna più preziosa, fredda e dura che avesse mai conosciuto, una donna diamante, la vera donna della sua vita, la sola che, con la sua punta tagliente e durissima, era stata capace di scavare un buco nella sua spessa corazza e di intrufolarsi nella sua mente e nella sua vita.
 
Una giovane donna bella e così poeticamente triste, così simile a lui, per certi versi, che non avrebbe potuto non amarla.
Perché era questo che lui sentiva di provare per quella piccola donna: amore.
La amava e lo faceva al punto tale da mettere a rischio la sua carriera, la sua reputazione, la sua intera vita, pur di averla come si desidera avere la persona di cui si è innamorati.
 
Aaron non credeva di aver mai approfittato di lei: non l’aveva mai costretta a fare nulla che lei non volesse, non era stato lui ad iniziare con le avances, approfittando della presunta debolezza di lei, anzi, in un certo senso si poteva dire che fosse il contrario: perché Jana, diversamente da lui, non sembrava provare alcun sentimento, se non una notevole stima e una certa affinità.
Il professore, d’altronde, non si era aspettato nulla di diverso: era già capitato che avessero parlato dell’argomento e Jana era stata fin troppo chiara in proposito.
Per lei, l’amore non era altro che una favola a cui ti insegnano a credere, un’illusione piacevole solo finché, come tutte le illusioni, non viene smascherata, frantumata.
 
Eppure, una piccola parte di Aaron Kelly ci aveva sperato.
Jana, in fondo, per quanto fosse matura, restava comunque un’adolescente, una diciassettenne, una ragazzina piccola e inesperta, che non aveva mai lasciato la sua città natale, che non sapeva nulla del mondo, della vita, dell’amore.
Come poteva dire di non crederci, con assoluta certezza, se non aveva mai avuto occasioni e tempo a sufficienza per sperimentarlo.
Aveva avuto molti amanti, questo era certo, ma quanti di loro erano riusciti ad avvicinarsi tanto a lei, non solo fisicamente?
Chi avrebbe potuto mai dire di averla conosciuta meglio e più a fondo di lui?
Chi avrebbe mai potuto sentirsi tanto in sintonia e affinità con lei?
 
Per questo, Aaron aveva sperato di poter essere davvero il primo, se non l’unico.
Il primo che lei avesse mai amato, l’unico di cui avrebbe conservato un ricordo tanto profondo e intenso.
Eppure, nonostante tutto, Jana non aveva affatto cambiato le sue opinioni al riguardo, né il suo modo di fare, così passionale e quasi devoto quando non indossava vestiti e altrettanto cinico e distante non appena li rimetteva.
 
E la cosa più disarmante di tutte era che lei non sembrava neanche accorgersi dell’effetto che produceva sul professore, di quanto lo facesse sognare, desiderare, sorridere, vivere, godere e, allo stesso tempo, soffrire, sentire solo, usato, insignificante e impotente.
E, forse, era proprio l’ultima la più rilevante e la più grave delle sensazioni, quella che, prima o poi, lo avrebbe portato alla rovina: la sua assoluta, paralizzante impotenza.
 
*****
 
Due mesi dopo il funerale di Andy, Aaron era preoccupato: Jana era sparita da tre giorni.
Ricordava ancora la conversazione avuta proprio quel pomeriggio, quando, dopo la funzione, l’aveva avvicinata con la scusa di un progetto di letteratura di cui voleva parlarle.
 
«Come stai?» le aveva chiesto.
Può sembrare una domanda stupida, in casi come questo, ma il fatto era che Aaron davvero non riusciva a capire come si sentisse: considerato quanto lei fosse legata al fratello, almeno un po’ di dolore avrebbe dovuto trasparire dai suoi occhi castani.
Eppure, invece, lui non ne aveva scorto più di quanto ne mostrasse di solito.
L’unica differenza che aveva notato era un vuoto di luce, nelle pupille e nella sua intera figura, che non riusciva ad interpretare: era assenza di un qualcosa che non sapeva come definire.
Speranza? Ottimismo? Felicità? Desiderio? Amore?
No, non avevano mai fatto parte di lei, quelle cose, perciò non erano loro ad aver lasciato quello strano vuoto …
 
«Tu come stai?» aveva rigirato la domanda.
«Non era mio fratello. Non lo conoscevo neanche.»
«Già, forse nemmeno io. Timothy mi ha scritto una lettera.»
«Timothy?»
«Brown. Timothy Brown, il batterista della band. Era con lui, quando lo hanno ucciso. Ha cercato di proteggerlo e si è pure beccato un proiettile in una spalla, perciò non è potuto venire. Ovviamente, è stato tutto inutile … mi ha inviato una lettera. È arrivata stamattina, ma non ho il coraggio di leggerla.»
«Hai paura di quello che potresti trovarci?»
«Chi non ne avrebbe?»
 
Giusto: chi non ne avrebbe?
Chi non avrebbe paura di leggere una lettera scritta da uno che ha rischiato la vita, pur di salvare un amico, e ha fallito?
«E allora che farai? La brucerai?»
«No. C’è un tempo per ogni cosa. Quando mi sentirò pronta, la leggerò.»
«Dove la leggerai?» le aveva chiesto, ben sapendo quanta importanza avessero i luoghi, per lei.
«Ancora non lo so. Probabilmente, nella casa sull’albero di Andy.»
«Quella vicino alle cascate?»
«Sì, quella che ti ho fatto vedere. La leggerò e poi la seppellirò ai piedi dell’albero, insieme alla cassetta con i ricordi di Andrea.»
«Quale cassetta?»
«Oh, è una di quelle cassette metalliche, rotonde, per pasticcini da tè: dentro, ci sono dei disegni di mio fratello, alcuni suoi vecchi plettri consumati, il tappo della bottiglia di spumante dell’ultimo capodanno insieme, una foto di New York – la città in cui avrebbe dovuto portarmi, un giorno – tutte le sue cartoline e una ciocca di capelli che mi ha regalato, prima di partire.»
 
*****
 
Fregandosene delle lezioni, degli studenti, degli esami e di tutto il resto, il professor Kelly uscì da scuola alla terza ora, dicendo di dover risolvere una faccenda importante, lanciandosi a perdifiato lungo i marciapiedi, fino alla casa della famiglia di Jana.
Negli ultimi mesi, quella ragazza era diventata ancora più silenziosa e inquieta del solito e poi, all’improvviso, era scomparsa, in un pomeriggio come tanti altri, senza tornare a casa per tre giorni e due notti di fila.
Che fosse scappata? Che fosse partita, per andare chissà dove, proprio come faceva Andy, alla sua età?
Molto probabile e se lo aveva fatto, ancora più probabilmente, c’entrava la lettera di quel fantomatico Timothy.
 
«Buongiorno, signora. Mi scusi, se le piombo in casa senza preavviso.»
«Oh, non si preoccupi. Ma lei ha il fiatone? Ha corso? Cosa succede? Ha per caso trovato quella sciagurata di mia figlia?»
«No, non ancora, ma è per questo che sono qui.»
«Mi dica.»
«Per caso, ha mai visto una cassetta per pasticcini da tè, piena di oggetti di suo figlio, che Jana conserva?»
«Una cassetta per …? Ah, sì, certo. Deve essere sull’ultima mensola della sua libreria.»
«Ne è sicura? Davvero?»
«Sì, beh, io credo che sia lì, dove è sempre stata, ma perché …?»
«Potrebbe accertarsene, per cortesia?»
«Ma cosa succede? Perché …?»
«Lei controlli e basta, è una lunga storia …»
 
La donna alta e formosa, così diversa sia fisicamente che intellettualmente da Jana, sparì nuovamente dietro l’uscio di casa, per poi riapparire col volto sospettoso e preoccupato, pochi minuti dopo.
«Mi dispiace, non ho trovato niente. La mensola era impolverata, comunque, e si vedeva ancora chiaramente l’alone pulito lasciato dalla scatola, quindi non deve averla spostata da molto …»
«La ringrazio, signora, ora devo andare.»
«Aspetti, mi dica cosa sta succedendo, la prego …»
 
Ma prima che lei potesse dire o fare qualcosa per fermarlo, il professore era già voltato via, veloce come il vento – come se questo potesse servire a qualcosa – in direzione delle cascate.
Il sentiero che vi conduceva – quello non ufficiale – era antico e quasi mai battuto, perciò era difficile da percorrere, a causa della rigogliosa vegetazione, che non veniva mai potata o sistemata.
Ma era l’unica strada possibile, per arrivare alla casa sull’albero.
 
Non appena vi fu giunto, dopo lunghe ed estenuanti fatiche, con il fiatone alla gola che bruciava, i capelli appiccicati alla fronte dal sudore e tutti i vasi sanguigni periferici dilatati dallo sforzo e dal calore quasi estivo, Aaron chiamò il nome di Jana a gran voce.
La chiamò più forte che poté – per quanto le forze ancora glielo consentissero – e la chiamò ripetutamente, disperatamente, vanamente.
 
Quando fu abbastanza vicino alla quercia che, tra le sue fronde, ospitava una piccola, ma ben costruita, casetta di legno, il professor Kelly si fermò: ai piedi delle grosse radici legnose, un piccolo cumulo di terra bruna e umida, che saltava subito all’occhio, in mezzo a tutto quel verde e marroncino chiaro, indicava che qualcuno aveva recentemente scavato e poi ricoperto il terreno, in quel punto.
 
Lentamente, quasi con il timore reverenziale che gli archeologi riservano ad una tomba antica, il professor Kelly si accinse a profanare quel piccolo loculo fittizio, estraendone una vecchia cassetta metallica per pasticcini da tè.
L’aprì con le mani tremanti e dentro vi trovò, oltre agli oggetti che Jana gli aveva menzionato due mesi addietro, un altro paio che, in teoria, non avrebbe dovuto trovarsi lì dentro: uno era una lunga lettera scritta a mano, custodita dentro una busta che era stata un po’ strappata e spiegazzata, durante l’apertura; l’altro una grossa agenda un po’ sgualcita e stropicciata, dalla rigida copertina grigia.

 



E anche il secondo capitolo è andato.
So che è molto lungo e in alcuni punti anche lento e noioso, ma lo è intenzionalmente: rispecchia il ritmo e l'atmosfera generale della vita del professore e, probabilmente, anche di molte altre persone.
Per quanto riguarda il personaggio di Jana, invece, non giudicate in fretta: anche lei ha un capitolo tutto suo! Non il prossimo, il prossimo sarà la lettera di Timothy.
Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito o anche solo letto il capitolo precedente e anche tutti coloro che avranno voglia di leggere anche questo: grazie e spero apprezziate!


PROSSIMO CAPITOLO: SABATO 25 MAGGIO!

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Capitolo 3
*** Timothy Brown (la giovinezza) ***


Ed ecco puntuale il nuovo capitolo!
Come vi ho anticipato, questa è la lettera che Timothy ha inviato a Jana. So che, teoricamente, sarebbe stato meglio presentare prima il personaggio della ragazza, ma questa lettera ci servirà nel prossimo capitolo e quindi andava messa prima.
Ringrazio tutti quelli che stanno leggendo o che inizieranno a leggere questa storia e spero che la troviate interessante.
Buona lettura!


LA FILOSOFIA DI RUSSIA

 

03-Timothy Brown (la giovinezza)


Cara Jana,

Ho avuto tempo a sufficienza per pensare, prima di scriverti questa difficile lettera.
So che, in teoria, avrei dovuto scegliere un modo diverso, per introdurre queste parole, forse più serio e formale, dato che io e te non ci siamo mai conosciuti di persona, anche se tuo fratello mi ha parlato molto di te.
Eppure, penso che il classico, familiare “cara” sia proprio la formula migliore, per iniziare: credo che voglia essere un modo – un po’ blando e poco efficace – per cercare di avvicinarmi a te il più possibile e per farti sentire quanto sono con te, nell’affrontare il dolore che abbiamo in comune.
 
Non so se Andy ti abbia mai parlato di me, ma io credo di sì; parlava così tanto, lui, non stava zitto un attimo, soprattutto quando era di buon umore.
Sono Timothy Brown, il batterista della band di tuo fratello, il suo membro fondatore, insieme a lui.
 
Accidenti, ricordo ancora il giorno, anzi la notte, in cui l’ho incontrato, sperduto per le strade di New York, con l’aria disorientata e un inglese tanto pessimo da risultare quasi fastidioso.
Ricordo che lo trovai buffo, per come gesticolava, oltre che incredibilmente divertente, perché, nonostante gli impedimenti linguistici, riusciva sempre a dare prova del suo spensierato umorismo.
 
Mi piaceva davvero molto, tuo fratello, mi è piaciuto fin da subito.
E a chi non piaceva, d’altronde? Era una di quelle persone che, per quanto grosse ne combinino, facendo chissà quanti danni, non puoi mai odiare.
Non credo di essermi mai arrabbiato con lui, in tanti anni, nemmeno una volta, anzi, credo di non aver mai nemmeno alzato la voce.
Era una di quelle persone a cui ci si affeziona fin da subito e che ti porti nel cuore per tutta la vita, anche se ci hai parlato una volta sola.
 
E io ci parlai, quella notte, con lui, per poco più di un’ora – per quanto si potesse parlare con uno che a malapena sapeva mettere due parole in croce, in inglese.
Poi, ad un certo punto, se ne uscì che era appena arrivato nella metropoli, non aveva un dollaro in tasca e nemmeno un posto dove andare.
Senza nemmeno starci a pensare, gli proposi subito di venire da me: non lo conoscevo, ci avevo parlato solo un’oretta, non sapevo nulla di lui ed era pure straniero.
Eppure, sentivo che non avevo nulla da temere.
 
Aveva con sé una custodia che riconobbi immediatamente come quella di una chitarra e, quando giunti a casa mia vide la batteria, non ci fu bisogno di dire nulla: tirò fuori la sua acustica e ci mettemmo a improvvisare qualcosa lì, su due piedi, per tutta la notte.
Da lì in poi, non ci siamo mai separati: abbiamo messo su una dio di band, abbiamo avuto un successo che neanche ci immaginavamo, abbiamo avuto sempre più fan, guadagnato sempre più soldi …
 
Certo, non è stato facile, all’inizio soprattutto, ce la siamo dovuta sudare: piccole esibizioni nei locali, contest vari in tutto il Paese, brevissimi concertini di apertura a band molto più importanti e conosciute,  le faticate incisioni dei primi 2 album, l’agognato contratto con una casa discografica, il continuo impegno per farci conoscere da tutti, sempre di più, affinché mandassero più spesso le nostre canzoni in radio, o sui canali musicali in tv, la stesura e la composizione di nuove canzoni, sempre migliori delle precedenti …
 
Non è stato facile e tante persone hanno sempre provato a snobbarci, sminuirci, deprimerci, insultarci e qualche volta anche a fregarci!
Ma ogni volta che si presentava una difficoltà, con la tenacia, la forza e l’ottimismo di Andy dalla nostra, riuscivamo sempre a cavarcela.
Senza di lui, certamente, non saremmo arrivati così lontano: lui era la nostra fonte di energia, la nostra anima, la nostra benzina.
Certo, tutti noi siamo unici, basta toglierne uno qualsiasi e non saremmo più gli stessi: ma lui era davvero speciale, più di tutti noi, perché aveva qualcosa in più che era il centro pulsante del nostro mondo.
 
Mi sono sempre chiesto cosa fosse a renderlo così grande e luminoso ai nostri occhi, agli occhi dei fan, agli occhi di tutto il mondo.
Negli ultimi giorni, ho avuto tanto tempo per pensare – credo di non aver mai riflettuto tanto e tanto a lungo, prima – e forse ho capito cos’era quel qualcosa in più: la sua anima giovane.
 
Questo era Andy: giovane.
L’emblema stesso della gioventù, con la sua forza da spaccare il mondo, il suo entusiasmo incontenibile, il suo spensierato ottimismo, la sua gioia solare e contagiosa, ma anche le sue paure, i suoi problemi, i suoi dubbi, tutto di lui esprimeva giovinezza.
Una giovinezza forte, emblematica, eterna.
Eterno: quando eri con lui, ti sentivi il centro del mondo, un invincibile guerriero, una forza che spacca tutto e poi lo assembla nuovamente in un modo diverso, un modo, probabilmente, migliore.
 
Ecco, penso che sia proprio questo il nucleo dell’adolescenza e dell’età giovane: l’invincibilità.
Quando hai vent’anni, potresti essere, potenzialmente, qualunque cosa: sei all’apice della forza e dell’entusiasmo e, in più, in ogni cosa che fai, ti accompagna sempre quella potente, straordinaria sensazione o convinzione di essere intoccabile, invincibile, eterno.
Non importa cosa tu stia facendo, dove trovi e con chi: qualunque cosa accada, pare sempre che tu abbia tutto il tempo del mondo.
 
Quando uno è giovane, non ha la più pallida idea di cosa sia il tempo, in realtà, non conosce la vecchiaia, non immagina nemmeno fino a che punto possa essere sfocato e incerto il futuro.
Quando uno ha 27 anni e una vita fantastica e da sogno, come era la nostra, si sente il signore del mondo, un principe privilegiato, una sorta di supereroe invincibile e immortale, che non cambierà mai, non conoscerà mai i dolori e i ritmi lenti e distesi della vecchiaia e avrà sempre tutto il tempo del mondo davanti a sé.
Quando uno e giovane o, più generalmente, inesperto e ingenuo, finisce quasi inevitabilmente col collezionare una serie di illusioni di cui, poi, non si dimostra all’altezza.
 
Credo di averla letta, una frase del genere, una volta – mi riferisco all’ultima – ma non ricordo dove.
Quello che ricordo è che non la capii, ma adesso so: è stata la vita stessa a spiegarmi il senso di quelle parole e lo ha fatto con la metodologia più cruda e brutale: frantumando le mie illusioni in un secondo, attraverso la canna di una pistola.
 
Tu sei persino più giovane di me, forse non dovrei dirti queste cose, forse dovrei lasciarti libera di sognare e illuderti, come abbiamo fatto tutti noi.
Eppure, non posso fare a meno di essere sincero: non voglio scrivere cose banali e stupide sulla speranza, su Dio, su quanto fosse straordinario tuo fratello, tanto che sicuramente gli angeli lo avranno portato in paradiso.
Non voglio dirti cazzate del tipo “non avere paura e non piangere per lui, perché adesso è in un posto migliore da dove può vederti, ti resterà sempre accanto e un giorno lo rivedrai”.
Non voglio usare quelle vuote formule di condoglianze che ormai sembrano quasi standardizzate e comandate e che, comunque, trovo fastidiose e prive di qualunque utilità e anima.
 
No, quello che voglio fare è essere assolutamente sincero, con te, anche se potrò sembrarti quasi brutale.
Certo, è vero, io credo in Dio e credo che Andy sia con lui, ora.
Ci credevo prima e ci credo ancora adesso: quello in cui ho smesso di credere è la giovinezza e tutto quello che rappresenta.
 
Quando ho visto quell’uomo vestito di scuro sollevare la pistola e puntarla verso di noi, mi sono gettato su tuo fratello, voltandolo, cercando di fargli da scudo e proteggerlo in tutti i modi.
E non ero da solo: c’erano anche tutte quelle guardie del corpo, con noi – le mie e le sue – tutte intente a formare un enorme scudo umano e a contrattaccare, per fermare quel boia.
Tutti abbiamo cercato di proteggerlo, tutti.
Eppure, è bastata una sola, minuscola pallottola infiltratasi in mezzo a noi, per ucciderlo: gli ha passato il cranio da parte a parte e Andy non ha avuto nemmeno il tempo di capire, di rendersi conto di cosa stesse succedendo, di provare dolore o paura, che era già morto.
 
I suoi occhi si sono spenti in un baleno, il suo collo ha ceduto sotto il peso della testa e il suo corpo si è silenziosamente adagiato a terra sotto i miei occhi, mentre la sparatoria ancora infuriava, alle nostre spalle, ma a me non importava più nulla: tutto ciò che riuscivo a vedere era l’espressione stupita e vuota sul suo volto, il sangue che scorreva a fiotti dalla sua testa e la vita che scivolava via dal suo corpo con una facilità incredibile e disarmante.
 
Così poco basta per morire?
Pochi millimetri di metallo?
Pochi frammenti di tempo?
Quello stesso tempo che ci sembrava illimitato e che, invece, gli è stato portato via in un modo tanto rapido da non permettergli di imprimere neanche un accenno di sofferenza sui lineamenti del suo bel viso, ma solo uno sconcertante, terrificante stupore.
 
Mi chiedo quali siano stati i suoi ultimi pensieri: dicono che quando sei in punto di morte, tutta la tua vita ti passa davanti nel giro di pochi secondi, ma non credo che lui ne abbia avuto il tempo.
Non so se sia un bel modo per morire, questo.
Di sicuro, non era un buon momento …
 
Quello che so è che in quell’istante non ho provato molto dolore, a parte la ferita alla spalla.
La vera, lunga, dilaniante sofferenza è arrivata dopo, quando mi sono svegliato dall’operazione e mi sono reso conto di avere tutto il tempo a disposizione per razionalizzare e pensare e quando, poi, ho finalmente capito quello che, in realtà, già sapevo: che il tempo non è infinito, anzi, è davvero poco e che da un momento all’altro bastano pochi millimetri e pochi istanti perché tutto finisca all’improvviso, così come è iniziato.
 
Può sembrare un concetto banale e scontato, ma ripeto: per noi, per lui, non lo era.
Andy era un illuso, un capitano Smith convinto che il suo Titanic fosse inaffondabile, un Cesare che si reca al Senato in tutta tranquillità, senza nemmeno immaginare che proprio Bruto, il suo figlio adottivo, affonderà il coltello per primo.
Tutti noi eravamo degli illusi e, forse, tante persone come noi lo sono, specialmente i più giovani.
 
Non so se questo sia giusto o no, non so quanto faccia bene illudersi: io, perlomeno, ero felice, prima.
Forse, disilludendomi sono maturato e cresciuto, ma credo che quello che ho perso, rispetto a quello che ho guadagnato, valesse molto di più.
Perciò, in un certo senso, penso che non sia così negativo illudersi: pericoloso, probabilmente, ma necessario per la sopravvivenza stessa, a volte, se non del corpo, quantomeno dell’anima, della speranza e della felicità, di certo.
Per cui, credo che sia giusto illudersi, fino ad un certo punto.
Oltre quel punto, c’è solo la fine.
 
Un giorno, forse, capirai meglio le mie parole: dimenticale, per adesso, ma non dimenticarti che sono state scritte e torna a rileggerle, quando sarai più grande. Forse, assumeranno un nuovo significato, in futuro, col senno di poi.
Comunque, spero di incontrarti di persona, un giorno, e parlare con te e vedere quanto somigli a tuo fratello, perché tutti mi dicono che siete proprio due gocce d’acqua, almeno caratterialmente.
Non so, forse tutto ciò che desidero è solo vedere se è sopravvissuta in te una piccola parte di lui: in me, c’è molto di lui e sento la sua mancanza in ogni momento.
 
A presto,
 

 Timothy


PROSSIMO CAPITOLO: SABATO 1 GIUGNO!

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Capitolo 4
*** Jana Esposito (la libertà) ***


In questo capitolo, sono felice di presentarvi il personaggio di Jana che, per certi versi, mi somiglia abbastanza, per il resto è quasi il mio opposto.
Ringrazio tutti i lettori che seguono questa storia e vi rimando all'appuntamento con il prossimo capitolo (l'ultimo).
Buona lettura :-)!



LA FILOSOFIA DI RUSSIA

 

04-Jana Esposito (la libertà)

Non so come mi sia saltato in testa di mettermi a scrivere un diario: la trovo una cosa stupida, in realtà.
Le uniche persone che scrivono diari, al giorno d’oggi, sono solo le sciocche adolescenti in piena crisi ormonale da pubertà e qualche pseudo scrittrice in erba, specialmente quelle che pubblicano poesie – o almeno quelle che oggi spacciano per poesie.
 
Non mi è mai piaciuto molto scrivere – sebbene i professori di lettere abbiano sempre lodato molto i miei temi – soprattutto odio scrivere a penna: la trovo un’operazione faticosa, lenta e inefficace.
La mia mente viaggia ad una velocità troppo elevata perché la mano riesca a starle dietro e, oltretutto, non ho una grafia molto comprensibile, per cui l’atto di scrivere, a me, risulta molto difficile.
 
Ecco, proprio mentre sto scrivendo, la mia mente è già volata oltre e sto pensando a lui.
Chissà, magari è proprio a causa sua se stamattina, quando sono entrata in quella cartolibreria solo per comprare una penna, alla fine, ne sono uscita fuori con un quadernino grigio topo.
Lo so, non è un colore molto bello, ma credo sia quello che mi rispecchi meglio: è il riflesso fumoso della mia anima.
 
*****
 
So che bisognerebbe indicare la data, all’inizio, ogni volta che si scrive in un diario – qualcuno scrive addirittura l’ora! – ma a me non va.
Forse, perché non considero queste pagine come un diario: diciamo che sono solo un mezzo per estirpare dalla mia testa qualche pensiero.
 
Non ho mai avuto molti amici – per non dire nessuno – e non ho mai sentito il bisogno di sfogarmi o di confidarmi con qualcuno: sono sempre stata piuttosto brava a custodire dentro di me ogni cosa e a dissimulare qualunque turbamento.
Non vedo che scopo abbiano le confidenze e le confessioni, non ci vedo nessuna utilità pratica nel raccontare i fatti miei a qualcuno, sono sempre bastata a me stessa.
 
Eppure, quando l’altro giorno ho visto questo piccolo quaderno dalle pagine bianche – senza quadretti né righe – abbandonato con noncuranza tra le penne – in uno scaffale che, evidentemente, non era nemmeno il suo – qualcosa mi ha spinto a comprarlo.
Una necessità, un istinto, un dovere … non so neanche io bene cosa.
Ultimamente, non so più niente: la mia vita mi sembra così incerta, sfocata, sottosopra, senza senso.
L’unica costante certa è il profondo desiderio di solitudine e, soprattutto, libertà che sento in ogni momento.
 
*****
 
Spesso, mi chiedo dove stia il problema: se in me o nella società.
Perché non è possibile che, in ogni momento, io mi senta sempre come un pesce fuor d’acqua.
Io la gente non la capisco, mi sembra così assurda, così artificiale, così distante: e se sono solo io a pensarlo, forse, il problema è in me.
Tutti sembrano sapere tutto: cosa vogliono, cosa è importante, cosa bisogna fare, quello che è buono, quello che non lo è, quello che è vero, quello che no …
 
Da dove gli vengono tutte quelle certezze?
Come fanno a sapere in che modo bisogna vivere?
Perché tutti sembrano incastrarsi così bene nel mondo, mentre io, invece, mi sento come un ingranaggio corroso dal malfunzionamento, dall’aritmia?
 
È tutto così … troppo veloce, troppo fuori tempo, rispetto ai ritmi della natura.
Abbiamo reso ogni cosa schiava dell’uomo: perché non ci alziamo più quando si alza il sole e non ci corichiamo con esso?
Perché coltiviamo le piante in modo da avere in inverno frutti che si trovano solo in estate e viceversa?
Perché consumiamo la Terra più rapidamente di quanto essa non si rigeneri?
Perché vogliamo stravolgere così a fondo i ritmi naturali, i miei ritmi, quelli lenti e ciclici?
 
Non so perché, ma sento che il mio corpo non riesce a tollerare l’ambiente e i ritmi artificiali, ma solo quelli originali e naturali.
Ma io non sono un animale, sono una persona e per questo non ho scelta, posso seguire solo la via che la mia specie ha tracciato per me.
Non posso fare a meno di sentirmi completamente in gabbia – in un modo che gli altri nemmeno possono concepire o immaginare.
 
Ci ho provato, qualche volta, a parlarne con qualcuno, a spiegare come mi sento: nessuno ha capito, anzi, qualcuno mi ha persino riso in faccia, qualcun altro, la maggior parte, mi ha consigliato di parlare con la psicologa della scuola, visto che tanto è un servizio gratuito che ci viene offerto.
Fanculo gli strizzacervelli! Le loro teorie, le loro poltroncine e le loro inutili terapie se le infilino dove dico io!
 
*****
 
Oggi il professor Kelly, dopo l’interrogazione, mi ha chiesto di rimanere in classe cinque minuti per parlarmi.
Lì per lì ho pensato che, forse, avevo fatto qualcosa di male – anche se non riuscivo a capire cosa – o che anche questo nuovo prof, come tutti gli altri, volesse farmi perdere tempo parlando del mio silenzio, della mia solitudine e del mio rifiuto di inserirmi in un contesto scolastico e sociale.
 
Lo hanno fatto tutti, i primi tempi, quando ancora non mi conoscevano bene: poi, un giorno, una professoressa mi ha dato della “disadattata” e, anche se sapevo che non aveva intenzione di offendermi, io mi sono offesa eccome e sono saltata su tutte le furie, urlando tanto forte da attirare l’attenzione del preside che stava passando lì vicino, in corridoio.
Disadattata a chi?! Semmai, siete voi, tutti voi, i disadattati e nemmeno ve ne rendete conto!
 
Comunque, dopo quell’episodio mi hanno sempre lasciato in pace, perché avevano finalmente capito che non c’è niente da fare, con me.
Naturalmente, ogni volta che un prof nuovo si presenta e, non conoscendomi, si mette a fare il buon samaritano, devo ripetere tutta l’operazione daccapo, anche se, comunque, non si è mai più verificato un episodio come quello.
 
Pensavo che anche Kelly, come tutti gli altri, si fosse messo in testa di “correggermi” o “aiutarmi”, in qualche modo.
Invece, non mi ha fatto nessuna domanda sulla mia vita e nemmeno ha accennato a qualche problema o alla proposta di una psicologa o roba simile.
Ha parlato, solo parlato, come si fa con una persona qualunque, con un amico.
Mi ha parlato e, anche se non ero tenuta a rispondere, l’ho fatto lo stesso: sembrava quasi che parlassimo la stessa lingua, che seguissimo un ritmo simile.
Sembrava quasi capirmi.
 
*****
 
Non era la prima volta che mettevo gli occhi sul prof Kelly: è un tipo strano, con l’aria da artista distratto – anche se lui, con l’arte, non c’entra proprio niente.
Come me, sembra stare su un mondo a parte, sganciato dalle regole e dai ritmi artificiali.
Eppure, a differenza mia, lui sembra capirlo il mondo umano.
Non solo, riesce anche ad infiltrarsi piuttosto bene, in mezzo alla folla, risultando solo vagamente eccentrico e peculiare, non un pazzo disadattato come me.
Forse, perché lui è un adulto e da un uomo della sua età ci si aspetta che sia completamente uniformato e inserito, anche se conserva ancora qualcosa della sua personalità adolescenziale.
 
Chissà com’era, quando aveva la mia età?
Chissà se anche lui si è sentito solo e fuori posto?
O magari, chissà, anche allora aveva l’abilità di fingersi “normale”, anche se sinceramente non saprei dare una definizione appropriata del normale: che vuol dire “normale”?
Chi è che stabilisce cosa è normale e cosa non lo è? La società, certo: ma la società è formata da tante – forse troppe – persone.
Da dove parte l’idea? Chi è che davvero detta le regole – non le leggi, le regole?
 
Esiste forse una sorta di coscienza comune?
O forse, invece, è solo la voce della maggioranza?
Oppure, magari, c’è un gruppetto di persone molto ricche e influenti che, senza che noi ce ne rendiamo conto, con metodi e mezzi subdoli e difficili da identificare, stabilisce qual è la direzione del momento e il ritmo da seguire?
E noi tutti ad andargli appresso, come un enorme gregge di pecore senza cervello, che non capiscono un tubo?
Ok, forse quest’ultima ipotesi è un po’ surreale e complottista, ma credo che siano domande da porsi, comunque.
 
*****
 
Non amo molto parlare e alla gente, comunque, non piacciono i miei discorsi e le mie opinioni e talvolta neanche mi ascoltano, ma con Aaron è diverso.
Anche se sono ancora molto restia a raccontare di me e delle mie idee, lui è speciale: in qualche modo, riesce sempre a spingermi a rispondergli e a parlargli, senza che neanche debba insistere.
Non so, è una cosa molto “fluida” e naturale: non ci sono forzature, non percepisco imbarazzi e non ho paura che lui non mi capisca o che mi trovi strana.
 
Non sta lì a giudicarmi – o almeno a me non sembra – anzi, più che altro, sembra attratto da me – fisicamente, non saprei, ma in senso platonico sicuramente.
A lui piace ascoltarmi e a me piace lasciarmi ascoltare e, a mia volta, sentirlo parlare: non è banale, non è noioso, non è egocentrico o saccente.
Forse, è solo un po’ ingenuo e “romantico”, nel senso ottocentesco del termine.
 
Fondamentalmente, credo che Aaron sia un idealista e una specie di “dottor sottile”.
Probabilmente, ha anche un suo personale codice etico e morale che, talvolta, fa un po’ a pugni con quello comune.
È per questo, forse, che non è ancora riuscito a sganciarsi completamente dal mondo, ad uscire dalla gabbia: ha la chiave della serratura, ma, per qualche motivo che non capisco, non la usa.
 
Fossi in lui, sarei già scappata da un pezzo con ogni mezzo: non vedo l’ora che Andy mi porti finalmente via con sé.
Ma starei con lui per poco, giusto il tempo di imparare a camminare con le mie gambe, avendo comunque un piccolo appoggio in lui, in caso di necessità.
Poi, andrei via: New York – come tutte le grandi città – non fa per me.
Me ne andrei in un posto isolato – freddo o caldo, non importa: mi comprerei una casa con un terreno che coltiverei e vivrei solo di quello.
Niente elettricità, niente televisione, niente telefono, nulla di nulla: solo la natura con i suoi ritmi lenti e ciclici e qualche libro a tenermi quel poco di compagnia che mi basta.
 
*****
 
La presenza di Aaron si fa di giorno in giorno più palpabile e importante, nelle mie giornate: ormai, è l’unica persona con cui parlo e mi sento sempre più vicina a lui, anche se, forse, in questo modo, gli sto facendo del male in molteplici modi.
Il primo – e meno importante – è il fattore morale: quanto è giusto che un uomo della sua età e con la sua posizione istituzionale si avvicini tanto ad una come me, un’alunna, una sua studentessa, una ragazzina, in fin dei conti?
 
A me, figurarsi, non importa poi molto e non credo che anche a lui interessi, anche se dovrebbe: chi rischia, in questa storia, è lui, non di certo io.
Un professore non può essere amico di un suo alunno, esattamente come un paziente non può avere come amico il suo medico curante.
Non so, io ho sempre pensato che sia una regola stupida: come puoi impedirti di affezionarti ad una persona, se quella persona ti piace?
Non è una cosa che si può controllare, ma le cose stanno così, purtroppo per lui.
 
Non voglio fargli del male, non voglio metterlo nei guai, ma non riesco ad allontanarlo e poi neanche voglio farlo davvero: è l’unica persona con cui io sia mai riuscita a stabilire un buon contatto.
Dovrei volergli bene, per questo, dovrei proteggerlo, da me e da sé stesso: eppure, non lo faccio.
 
E il problema non è solo di tipo legale – come ho già detto, quello è il male minore, secondo me: ho paura dello sguardo di Aaron.
Quello che leggo nei suoi occhi, nei suoi gesti, nelle sue parole … non mi piace: è pericoloso, è sbagliato e lo è per lui.
 
*****
 
Oggi, Aaron ha tirato fuori proprio il discorso che temevo avrebbe tirato fuori, prima o poi: abbiamo parlato di quello in cui credo e, chissà come, siamo finiti a parlare dell’amore.
Amore: ho sempre odiato questa parola, è così bistrattata, così usurpata del suo significato, così fraintesa, così mistificata.
 
La gente non lo sa, ma è la parola utopistica per eccellenza: amore, a-mors, senza-morte.
Senza morte … che stronzata: che vuol dire?
Tutto muore, tutto passa, tutto finisce: la gente parla di amore, senza neanche sapere di cosa sta parlando e come lo sta dicendo.
 
Proprio come ho detto ad Aaron, l’amore – inteso con il suo vero significato – probabilmente non esiste: quasi tutte le relazioni – oggi più che mai – prima o poi finiscono e se l’amore – per definizione – è qualcosa che non muore mai, che non finisce mai, allora non è amore quello che si vede in giro.
Cos’è, allora? E che ne so: forse solo egoistico bisogno di affetto, incapacità di bastare a sé stessi, debolezza, banale infatuazione, puro e labile desiderio, interesse, stupidità, assuefazione … ma amore non di certo.
 
Mi ha guardato in modo strano: sembrava compatirmi e la cosa mi ha infastidito.
Io ho compatito lui, invece: se a 35 anni non ha ancora capito niente e continua ad illudersi e a credere ad una favola, allora sta proprio messo male.
Non gliel’ho detto, però: non mi piace farlo soffrire e lui sembrava già tanto deluso e intristito.
Sarò anche realista e un po’ nichilista, ma non sono cinica, né insensibile: sono solo una ragazzina, in fondo, e sono più spaventata e fragile di quanto non traspaia.
 
*****
 
Oggi, sfogliando il libro di letteratura spagnola, mi è capitata sottomano una poesia di Lorca: “Gacela de la muerte oscura” – Gazzella della morte oscura.
Dio, si può quasi svenire, davanti a tanta bellezza, se si riesce a capirla, a percepirla.
Ancora mi risuona in mente quella strofa in particolare, la terza, quella centrale:
 
 
Quiero dormir un rato,
Un rato, un minuto, un siglo;
Pero que todos sepan que no he muerto;
Que haya un establo de oro en mis labios;
Que soy un pequeño amigo del viento Oeste;
Que soy la sombra inmensa de mis lágrimas.

 
 

Voglio dormire un momento,
Un momento, un minuto, un secolo;
Ma che tutti sappiano che non sono morto;
Che c’è una stella d’oro tra le mie labbra;
Che sono un piccolo amico del vento Occidentale;
Che sono l’ombra immensa delle mie lacrime.

 
 
Penso che sarebbe bello: dormire, dormire per sempre, scomparire, ma far sapere al mondo intero che non sono morta, che sono ancora qui, ma che non sono con loro, non più.
Chissà, magari non è nemmeno questo quello che il poeta voleva dire, ma chi se ne frega: io ci vedo questo, quello che pensano gli altri non mi importa, compreso quello che pensava lui, mentre la scriveva.
 
Ritengo che l’opera sia sempre più “alta” dell’uomo e che lo scrittore stesso, il più delle volte, non sappia effettivamente quanto ha detto e quanto ha lasciato al mondo.
Guarda Petrarca: era convinto che il “Secretum” fosse il suo capolavoro e che il “Canzoniere” fosse un’opera “bassa” e di scarso rilievo.
 
*****
 
Ho parlato ad Aaron della poesia di Lorca: non la conosceva, ma la cosa non mi ha sorpreso.
Gliel’ho ripetuta a memoria e poi lui è stato zitto a lungo, con gli occhi vacui e distanti.
Mi ha sempre incuriosito quello sguardo: non capisco mai se stia riflettendo o se semplicemente stia ricordando qualcosa che gli è capitata molto tempo fa.
Sembra totalmente raccolto in sé stesso, tanto che potrei anche andarmene con nonchalance dalla stanza e lui non se ne accorgerebbe neanche.
 
Di solito, invece, per quanto possa essere distratto e sovrappensiero, è sempre molto attento a tutto quello che gli accade intorno.
Ho subito notato che con lui è praticamente impossibile copiare o suggerire – non che io ci abbia mai provato, non ne ho bisogno, ma qualche mio compagno di classe è stato beccato.
Anche quando sembra che si stia facendo i fatti suoi o che sia concentrato nel fare qualcosa, in realtà, è sempre vigile e attento.
Per questo, probabilmente, quando cammina con lo sguardo per aria non inciampa mai, non va mai a sbattere e non pesta mai una merda di cane.
 
Certe volte, quasi non mi sembra umano.
Ma poi, puntualmente, non appena apre bocca mi rendo conto di quanto invece lo sia eccome.
Probabilmente, è la persona più vera e umana che conosca e forse è per questo che mi piace così tanto: spesso, sembra essere al di sopra della gente comune – per quanto io abbia sempre odiato questa espressione senza senso.
 
In realtà, non penso che lui sia effettivamente al di sopra di nessuno, dico solo che lo sembra, qualche volta.
Il più delle volte, invece, sembra proprio quello che è: una persona; forse, un po’ più profonda e originale di molte altre, con un punto di vista differente e non scontato, ma comunque una persona, con i suoi pregi, ma anche i suoi difetti.
Chissà, poi qualche volta, probabilmente, sono io che vedo più di quello che dovrei vedere.
 
Comunque, dopo un lungo silenzio mi ha consigliato di leggere i poeti maledetti e decadentisti francesi, perché di certo mi sarebbero piaciuti.
Io gli ho risposto che avevo cominciato a leggerli l’anno scorso, quando avevo trovato sul libro di letteratura una traduzione de “L’albatros” di Baudelaire.
Gli ho detto anche che, oltre a lui, mi è piaciuto molto Rimbaud, che ritengo sia stato molto sottovalutato e frainteso e che, anche oggi, non l’abbiamo ancora compreso a fondo e, forse, non ci riusciremo mai.
 
A quel punto, lui ha annuito leggermente e – fatico ancora a crederci – ha detto che secondo lui somiglio molto a Rimbaud.
Che?! Ma come puoi fare un’affermazione del genere, scusa? Che l’hai conosciuto, per caso? Ti sei pure fatto autografare “Une saison en Enfer”?
Gliel’ho detto e lui, per niente offeso, ci ha riso su e poi mi ha consigliato un paio di autori americani, tra cui Masters.
La letteratura propriamente inglese, secondo lui, non fa per me.
 
*****
 
Da un po’ di tempo, ho smesso di andare a letto con i ragazzi.
Non so perché – sia perché lo faccio, sia perché ho smesso.
Quasi tutti considererebbero riprovevole la mia condotta, qualcuno anche degradante, molti mi affibbierebbero nomignoli poco eleganti e tutt’altro che elogiativi, se solo fossi un personaggio un po’ più in vista: nessuno sembra accorgersi che esisto, finché non gli serve qualcosa o non ci finisco a letto.
 
Comunque, io non mi sento disgustata da me stessa, né ci vedo nulla di male, in quello che faccio: non considero il sesso qualcosa di strettamente legato alla sfera emotiva, anzi.
Per me non è altro che un divertimento, un bel modo per rilassare i nervi, per stabilire un contatto e per stare un po’ con qualcuno senza doverci parlare.
Anche se poi, alla fine, rimango sola.
 
Ma non faccio del male a nessuno, giusto? Anzi, tutto il contrario.
Forse, è per questo che nessuno di quelli che sanno mi ha mai trattata male o insultata.
Forse, è perché un po’ mi capiscono, ma più probabilmente è perché non gliene frega niente.
Uno dei segreti, comunque, è mantenere sempre il controllo: non sono loro che decidono come, quando, dove e con chi, ma sono solo io a condurre il gioco.
E se loro, per caso, ne hanno voglia, ma a me non va, che se ne cerchino un’altra, non sono la loro puttana, voglio che questo sia chiaro: io sono superiore a loro, io sono quella che comanda, io sono quella che decide quando e come si gioca e chi partecipa.
 
Non scelgo ragazzi a caso: solo quelli che so essere psicologicamente più deboli di me e che posso controllare facilmente e mettere in soggezione.
Quando voglio, posso avere un incredibile ascendente sulle persone e ottenere da loro quasi ogni cosa: tutto sta nello scegliere le persone giuste.
 
Ultimamente, però, il sesso mi disgusta un po’ e mi infastidisce.
Non so cosa c’è che non va: so solo che non ne ho più voglia, perché quando lo faccio non provo più quella familiare e inebriante sensazione di potere e di libertà, ma solo nausea e prigione.
Cosa sia a farmi stare tanto male, però, non lo so.
 
*****
 
Dicono che se Dante, Petrarca o Leopardi avessero avuto le loro Beatrice, Laura e Silvia, probabilmente, non avrebbero cercato di amarle attraverso la letteratura, ma lo avrebbero fatto soltanto concretamente e fisicamente, senza scrivere neanche una poesia.
Credo che chi lo ha detto abbia ragione, perché ho smesso di scrivere di Aaron, da quando abbiamo iniziato a farlo, dopo quel pomeriggio di pioggia.
 
Sia chiaro: non sto dicendo di essere innamorata di lui – nevicherà nel Sahara, prima che una cosa del genere accada.
Dico solo che da quel giorno non ho più scritto di lui, anche se non so perché.
Probabilmente, è perché c’è qualcosa che penso e che vorrei dire, ma che non riesco a dire.
Non sono mai stata più confusa e disgustata da me stessa in vita mia.
 
Non amo Aaron, questo è vero, ma gli voglio bene, so che gli voglio bene: e allora perché continuo ad essere così egoista?
Perché non lo allontano, come farei con chiunque altro?
Di solito, quando mi rendo conto che un ragazzo ha passato un po’ troppo tempo a scopare con me, tanto da iniziare ad affezionarsi, lo mando via. Per il mio bene, ma, soprattutto, per il suo.
Secondo questa logica, con Aaron non avrei dovuto nemmeno iniziare.
 
Sento che, in qualche modo, prima o poi finirò per distruggerlo: magari, riusciremmo a portare avanti questa pseudo relazione clandestina per anni, senza mai farci scoprire, ma, un giorno, sono sicura che finirei per farlo impazzire.
E chissà che non stia già impazzendo, perché non riesco più ad ignorare i suoi occhi, il suo sguardo, ogni volta che mi osserva.
È così … innamorato: nessuno mi aveva mai rivolto uno sguardo del genere, ma so distinguere un’occhiata di desiderio da una innamorata.
 
Sentivo, sapevo, che si sarebbe affezionato troppo a me: siamo così affini, così simili e lui ci crede tanto nell’amore, ci crede davvero e, un po’, lo invidio, perché se ci credessi anch’io sarebbe tutto più facile.
Col senno di poi, mi chiedo come sia iniziato tutto: sono stata io a cominciare e non so neanche perché.
Cosa speravo di ottenere?
La libertà, forse, per quanto illogico e irrazionale possa sembrare.
 
Quel pomeriggio pioveva e lui, nel frattempo, correggeva dei compiti.
E io lo guardavo e poi, chissà perché, ho pensato che, forse, farlo con lui mi avrebbe regalato la sensazione di uscire dalla gabbia, se anche solo parlargli era liberatorio e appagante.
È un ragionamento sillogistico e un po’ campato in aria, lo so, eppure è stato proprio come me lo aspettavo: libertà quasi totale.
 
Quasi: una catena, una piccola, leggera catena la sentivo e mi stringeva il collo, legandomi a lui, senza soffocarmi e senza far male.
Un legame senza dolore, senza sbarre, senza gabbie, piacevole.
L’abbiamo fatto, è stato meraviglioso, speciale, ma poi, come da copione, ho levato le tende in totale silenzio e distacco, come sempre.
E non avrei dovuto farlo.
E sento che sarà proprio questo ad ucciderlo, goccia dopo goccia, una lenta, straziante disillusione: perché, comunque, ancora credo – o voglio credere? – di non amarlo.
 
*****
 
Andy è morto.
Vorrei che ci fosse un modo più delicato e discreto, meno brutale, per dirlo, ma non è possibile: la morte non ha nulla di delicato e discreto e, comunque avvenga, è sempre brutale e quella di mio fratello lo è stata particolarmente: gli hanno sparato, mi hanno detto, è stato un suo fan, mi ha informata il telegiornale, se lo meritava, ha cinicamente aggiunto mia madre.
 
Mia madre … non ho mai parlato di lei, in questo diario che diario non è, suppongo perché non ci sia nulla da dire: lei è, semplicemente, la persona più sciocca e illusa a questo mondo, molto più di Aaron – che comunque non è affatto stupido, soltanto un po’ debole e solo e credo sia per questo che ha bisogno di illudersi.
 
E io, allora? Non sono forse un’illusa anch’io?
Che cos’è la libertà, in fondo?
Perché la desidero tanto e posso davvero ottenerla?
Esiste davvero, almeno lei?
Non lo so, non me lo sono mai domandato, a dir la verità, ma dopo quello che è successo ad Andy ho cominciato a farmi qualche domanda …
 
*****
 
Andy meritava un funerale migliore, con molta più gente e molta meno tristezza: a lui sarebbe piaciuto vedere tanta gente che rideva, avrebbe preferito una festa ad una cerimonia – come fanno in certi Paesi – ma non aveva mai fatto un testamento in cui lo richiedesse.
Aveva solo 27 anni, d’altronde: come si può concepire di morire, a quell’età?
 
In chiesa, c’era pure Aaron.
Abbiamo solo parlato, ovviamente, e lui sembrava più depresso di me: non era per via di Andy, naturalmente, non lo conosceva mica.
Era preoccupato e dispiaciuto per me, glielo si leggeva negli occhi.
Avrei voluto dirgli di farsi i cazzi suoi, di lasciarmi in pace e di non preoccuparsi, perché sono abbastanza forte da superarla da sola.
Ma non l’ho fatto: una parte di me, anche troppo grande e importante, era contenta, felice che lui si preoccupasse per me.
 
Credo di non essermi mai sentita più sola, sconfitta, invisibile, disillusa e in gabbia di oggi.
Avevo su di me l’attenzione di tutto il paese, eppure non mi sono mai sentita più ignorata e incompresa.
Persino mia madre, quella con cui, in teoria, avrei dovuto spartire e condividere il dolore, mi sembrava incredibilmente distante e sconosciuta.
Solo lui, solo Aaron Kelly mi ha davvero vista e, per un momento, il primo nella mia vita, ho sentito il bisogno di un contatto profondo, di un sostegno, di una luce, di un po’ d’affetto.
 
Timothy Brown, il batterista, mi ha inviato una lettera, ma non ho il coraggio di aprirla, devo ancora metabolizzare quello che la morte di mio fratello mi ha insegnato.
Ho deciso, comunque, che la aprirò sulla casa sull’albero di Andy, il mio posto segreto.
L’ho anche detto ad Aaron, anche se non so perché: probabilmente, ho agito un po’ come quei criminali che, divorati dal senso di colpa, si lasciano sfuggire, più o meno consapevolmente, degli indizi cruciali per lasciarsi scoprire, poiché non hanno il coraggio di costituirsi, ma sentono comunque il bisogno di una punizione.
 
*****
 
Io e Andy abbiamo costruito questa casetta più di 10 anni fa: io ero piccola, quindi ha fatto quasi tutto lui.
Comunque, ha un significato molto profondo, per me, questo luogo.
Ad Aaron non l’ho mai detto e, come al solito, non so perché: Andy, qui, mi ha salvato la vita.
Stavamo ultimando la costruzione del tetto ed io ero salita su a portare dei chiodi, mi pare, non ricordo bene.
 
Comunque, la scaletta ancora non l’avevamo costruita e usavamo una banale corda con dei nodi, per salire e per scendere.
Non era facile spostarsi lungo quell’affare, soprattutto se si avevano le mani occupate: ero tutta concentrata nello sforzo di mettere le mani e i piedi al posto giusto, cercando di non far cadere nulla, perciò non mi ero resa conto che la corda, essendosi allentata un po’, si stava lentamente sciogliendo dal ramo a cui era stata assicurata.
 
Andy se n’era accorto appena in tempo: mi aveva gridato di tornare giù, ma ormai ero troppo in alto e la corda si era già allentata del tutto e così ero caduta giù.
Allora, lui aveva fatto uno scatto ad una velocità pazzesca e mi aveva presa al volo appena in tempo, rompendosi un braccio e incrinandosi due costole.
Se non mi avesse raggiunta in tempo, sicuramente sarei morta, perché era pieno di piccole rocce, là sotto.
Non credo che lo ringrazierò mai abbastanza.
 
Dopo quell’episodio, per convincermi a sconfiggere la mia nuova paura dell’altezza, non solo disse che, da quel momento in poi, quello sarebbe stato il nostro posto segreto, ma aggiunse che mi avrebbe regalato la casetta sull’albero, incidendo il mio nome nel legno: JANA’S HOUSE, una delle poche cazzate che sapeva dire o scrivere in inglese.
 
*****
 
Ho letto la lettera di Timothy: non mi ha detto nulla che non sapessi già da me, eppure, a vedermelo scritto e sbattuto in faccia in quel modo, ho pianto.
Ho pianto per mio fratello, per Timothy, per mia madre, per Aaron, per me e per tutti noi esseri umani che, per qualche ragione o per diverse ragioni illogiche e controproducenti, continuiamo ad illuderci, pur sapendo a quali conseguenze andiamo in contro.
 
Ho pensato a tutti loro, ma più di tutti ho pensato a me e ho finalmente realizzato che non sarò mai libera come desidero.
Come ha detto Timothy, bastano pochi istanti e pochi millimetri a toglierti tutto: finché sei vivo, non puoi essere libero, finché sei umano, non puoi non seguire le regole e i ritmi artificiali della tua specie.
Anche quando sperimenti la libertà più pura e totale, è solo questione di un momento e, comunque, finché respiri una minuscola catena c’è sempre, se solo le hai permesso anche una sola volta di agganciarsi a te.
 
Per tutta la vita, ho provato costantemente la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma non ho mai capito se l’errore, il tarlo, fosse in me o nel mondo stesso.
Ancora adesso me lo chiedo e non so rispondere, forse perché il tarlo in realtà sta in entrambi, è ovunque, in ogni cosa, in ogni tempo, in ogni individuo.
A rileggere queste parole, sembra quasi di sentir delirare un pazzo, eppure non sono vaneggiamenti senza senso, hanno una logica ben precisa.
 
Ho sempre avuto molti dubbi e molte domande: oggi ne ho fugato qualcuno e ho avuto molte risposte, eppure sento che non è abbastanza, che quello che adesso so ancora non mi basta per capire il mondo e per imparare a viverci.
Anche se ho capito com’è che vanno le cose, come funzionano la società e la vita, questo non cambia il fatto che io non riesco ad adattarmi, anzi, ora che so che la mia unica speranza di evasione era fittizia, non so proprio più cosa fare e dove andare.
 
È una sensazione estremamente disarmante e assolutamente paralizzante, tanto che non riesco più nemmeno a muovere un dito, perché non posso evitare di indagare sul senso del mio gesto, sul suo scopo, sui suoi effetti, su dove mi porterà, anche se si tratta solo di una banale contrazione di muscoli che sposterà una parte di me di soli pochi centimetri.
Mi sento così impotente, così inerte, così … alla fine.
Sì, penso di aver finito, oggi, finito tutto.
 
L’aria attorno alla casetta sull’albero è umida e pesante: questo perché c’è una grossa cascata che scroscia rumorosamente, a pochi metri da qui, durante tutto l’anno.
Ho sempre trovato il suo rumore costante e neutro come un rimedio rilassante e smorzante per le mie tensioni: quando mi sento sottosopra più del solito, vengo sempre qui e il suono dell’acqua che scorre e si schianta sempre allo stesso ritmo regolare ha il potere di calmarmi e farmi sentire in pace, come se la cascata potesse capirmi, come se io e lei comunicassimo nello stesso linguaggio e con lo stesso codice.
 
Sembra quasi parlarmi, a volte.
Anche adesso mi parla e mi dice che è il momento, che seguire l’acqua è l’unica via possibile, per me.
Forse, ha ragione, dovrei andare via, seguire il suo consiglio e finalmente sparire e dormire per sempre, sempre libera, sempre in pace.
Cosa vuoi che sia: una manciata di istanti di volo e poi l’oblio …
Mi tornano in mente i versi di Lorca, così melodiosi, così languidi, così distesi, così tragici, così insensati e contraddittori … come si fa a dormire per un secolo, senza morire?
 
Forse, si muore veramente solo quando gli altri ti considerano morto: si può essere defunti pur essendo ancora vivi, a volte, e io, in fondo, non sono già morta a metà?
Basterebbe solo un passo, un piccolo passo in più, pochissimi istanti, pochissimo spazio … mi chiedo solo cosa penserà Aaron, come si sentirà, quanto soffrirà …



Eh, capitolo lunghetto, lo so, ma non potevo fare altrimenti: Jana è un personaggio molto complesso, tanto che non credo di essere stata in grado di restituirlo completamente e correttamente. Avrei voluto avere un po' più di spazio per lei, ma, come ho già detto, i capitoli a mia disposizione erano solo 5 e non volevo che questo diventasse eccessivamente lungo (altrimenti sarebbe risultato più pesante di quello che già è XD).
Complimenti e grazie a tutti i masochisti che sono riusciti ad arrivare fino alla fine senza tagliarsi le vene per la noia e la depressione XD (perché mi rendo perfettamente conto che questa storia e questo capitolo in particolare lo sono, ma lo sono volutamente).



ULTIMO CAPITOLO: SABATO 8 GIUGNO!

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Capitolo 5
*** Russia ***


LA FILOSOFIA DI RUSSIA

 

05-Russia


Ascoltando i discorsi di Andy, osservandolo e vivendo ogni giorno a contatto con lui, mi sono sempre chiesta come fosse il luogo da cui ha sempre cercato di fuggire, non solo fisicamente, se capite cosa intendo: a volte, per quanto lontano si vada e per quanto a lungo ci si sposti, le nostre radici, in qualche modo, ci seguono costantemente, con passo leggero e discreto, ma sempre costante.
 
Non so quanto effettivamente Andy si portasse appresso delle sue origini, ma quello che so è che sapeva ostentare con molta maestria una facciata che non credo gli somigliasse poi molto: allegro era allegro, certo, ottimista e gentile, anche, sognatore, spirito libero, esuberante …
Tutti quelli che conoscono il suo nome e che hanno avuto il piacere di incontrarlo lo hanno sempre descritto così.
Qualcun altro – quelli che magari lo conoscevano meglio – hanno aggiunto, col tempo: ingrato, solitario, egoista, infantile, inarrivabile, incomprensibile, illuso …
 
Forse, hanno tutti un po’ ragione, ma credo che nessuno, in verità, abbia mai colto appieno la profondità dei sentimenti e della sensibilità di quel ragazzo.
Timothy e Jana, certamente, sono quelli che più si sono avvicinati alla verità: Andy, in un certo senso, si illudeva di essere intoccabile, invincibile e immortale, come se avesse tutto il tempo e la forza del mondo a disposizione.
Timothy questo l’ha capito, perché anche lui ha nutrito per anni le stesse errate convinzioni del suo amico, anche se, io credo, per motivi diversi.
 
Ecco, questa è una cosa che, a quanto pare, nessuno si è ancora chiesto – forse perché nessuno sente la necessità di chiedersela: perché Andy ha scelto di illudersi fino alla fine?
Timothy, probabilmente, è convinto che lui non fosse del tutto consapevole del gioco di illusioni creato dalla sua mente, esattamente come non ne era lui.
Jana, invece, non credo si sia minimamente posta il problema, così concentrata su sé stessa, sulla sua amara adolescenza e sul suo temperamento autodistruttivo.
 
Forse, l’unica persona che davvero ha tutti gli indizi e i mezzi per giungere alla verità è proprio Carla, sua madre, quella il cui numero di telefono tante volte è comparso sulla rubrica di Andy, senza che lui abbia mai trovato il coraggio di avviare la chiamata; quella il cui nome, per diverse notti, si è modellato sulle labbra addormentate del ragazzo; quella che ha sempre turbato la vita del suo stesso ingrato figlio, ogni singolo giorno, negandogli l’amore, il sostegno e la comprensione che ha sempre meritato e ricercato, senza mai trovare.
 
Non penso sia un caso se lui ha deciso di affibbiarmi lo strano nomignolo di “Russia”, che tanto ricorda il cognome da nubile di sua madre e che, altrimenti, non avrebbe altre spiegazioni, visto che con la Russia, io, non c’entro proprio niente: che io sappia, sono nata e ho sempre vissuto nello stato di New York, spostandomi solo occasionalmente assieme ad Andy, per i concerti.
 
Se non l’avete ancora capito, io credo che sia proprio per questo che lui si illudesse di avere a disposizione tutto il tempo del mondo e di rimanere per sempre giovane: l’idea che io mi sono fatta è che lui ne avesse bisogno, per evitare di sentirsi troppo vecchio, per non pensare che il tempo scorre per tutti, per annullare ogni scadenza e fare in modo da rendere prive di significato le parole “è troppo tardi”.
 
Sì, insomma, io credo che se lui si comportava in quel modo, come un eterno ragazzino, come una sorta di Peter Pan, era proprio a causa di sua madre e del fatto che non aveva saputo insegnargli ad amare, nel modo più semplice e naturale: amandolo a sua volta.
Penserete che sia una conclusione banale e un po’ troppo freudiana, ma vi assicuro che, spesso, nulla è più vero e sfuggevole dell’ovvio.
 
Una palese e inconfutabile dimostrazione della mia teoria sta nel suo profondo e disperato bisogno di amore e della sua disarmante incapacità di donarne a sua volta: ho visto tantissime ragazze entrare dalla sua porta, fermarsi per un po’ e poi fuggire via, inevitabilmente; ho scorto dispiacere e delusione sostituire affetto e fiducia negli occhi di Timothy troppe volte; ho osservato le lacrime di Jana, così calde e vergini, solcare le sue guance, mentre Andy solcava i suoi pensieri; io stessa, spesso, sono stata dimenticata e trascurata da lui, ma, a differenza di tutti gli altri, non gliene ho mai fatto una colpa: credo che nessuno lo abbia mai conosciuto – e di conseguenza capito – meglio di me.
 
Non so perché, spesso, alla gente piaccia parlare e confidarsi con quelli come me: credo sia per via della nostra stessa natura che ci spinge, inevitabilmente, alla riservatezza e al silenzio, al mistero e alla pazienza.
Andy si rivolgeva spesso a me, quando non sapeva più dove andare o non aveva più nessuno a cui sentirsi vicino – sempre che lui si sia mai sentito davvero vicino a qualcuno.
 
Ho sempre sospettato che lui si ritenesse indegno e non meritevole di amore, convinto che nessuno lo avrebbe mai voluto per quello che era: un eterno bambino, lunatico e un po’ distante, nonostante apparisse sempre così allegro e spensierato, in pubblico.
Una persona, insomma, molto più complessa e triste di quanto non sembrasse.
E credo anche che questa convinzione l’avesse internata al punto tale da farla completamente sua, spingendosi a sabotare consapevolmente le sue ultime relazioni, convinto che non avrebbe mai potuto avere il tipo di felicità di cui necessitava.
 
Credo che Jana, sotto molti punti di vista, sia molto simile ad Andy: l’unica differenza sostanziale tra i due è che lei non si preoccupa affatto d ostentare una felicità che, in realtà, non prova, ma si mostra al mondo per quella che è, senza veli e senza imbarazzo.
Non la conosco da molto, anzi, ma proprio come Andy mi fa molta pietà.
 
Non conosco molto bene nemmeno il professor Aaron Kelly, ma da quel poco che so e che ho potuto scoprire di lui, credo che sia un po’ l’opposto dei due fratelli: non ho dubbi che sia in grado di amare – anche se ad un primo approccio non si direbbe – anzi, mi sembra addirittura che il suo bisogno di dare amore sia molto più forte ed importante del bisogno di riceverne.
Chissà, forse è proprio per questo che Jana lo attrae tanto intensamente.
 
Solo dopo aver conosciuto la madre di Andy, comunque, ho davvero capito perché – nonostante tutti i suoi problemi irrisolti con lei – lui abbia deciso di fuggire dalle sue stesse radici: se paragonato a quello di Carla, il bisogno d’amore di Andy è grande quanto un granello di sabbia.
Non credo di aver mai conosciuto una persona più fragile e “sull’orlo” di lei, tanto che mi aspetto solo di vederla cadere giù da un momento all’altro: penso che, ormai, abbia raggiunto un profondità tale che le sarà impossibile risalire dall’abisso di sé stessa.
Il ragazzo, semplicemente, aveva paura di essere trascinato in quello stesso pozzo senza fine.
Che la sua fuga sia stata utile o meno, produttiva o meno, giusta o meno, non importa. Non più.
 
Una cosa che ho notato – oltre al fatto che il luogo dal quale Andy tentava di fuggire non è altro che una spirale di desideri infranti e necessità mai appagate – è che nessuno sembra aver minimamente dato peso alla mia presenza: non sono comparsa nemmeno per un istante né nei pensieri, né nelle parole della gente che mi vive intorno.
 
È una cosa strana: anche in America mi succedeva sempre, con tutta quella gente così concentrata sul proprio ritmo, sui propri impegni, sulle proprie ambizioni e così poco attenta agli altri, in tutti i sensi.
Ma New York è una città grande, così lontana e culturalmente diversa dal piccolo paese natale di Andy, che mi ero aspettata qualcosa di diverso.
 
Invece, credo di non essermi mai sentita più ignorata e invisibile in tutta la mia vita: qui, forse, la gente è ancora più concentrata su sé stessa di quanto non lo sia nella Grande Mela – bah, nessuno la chiama più così, ormai.
Nessuno sembra mai avere un po’ di tempo per me – lui, invece, ne trovava quasi sempre – ma solo per sé stessi, per la propria vita, i propri dolori, i propri fallimenti, le proprie frustrazioni, i propri pensieri …
 
Sono stata a casa di Carla per mesi e lei non mi ha quasi degnata di uno sguardo e Jana, figurarsi, non si è minimamente accorta della mia presenza, neanche durante i tre giorni che ho trascorso alle cascate, nella casa sull’albero, assieme a lei, curiosa di scoprire cosa avrebbe fatto: la gente si sente libera di fare tutto quello che vuole, davanti a quelli come noi, non gli sfiora neanche mai la mente l’idea di cosa pensiamo noi di loro.
Forse, perché ci credono stupidi, privi di sensibilità umana e comprensione.
 
Non lo so con certezza, non me lo sono mai chiesto.
Quello che so è che ho trascorso ben tre giorni accanto a Jana, senza che lei mi notasse; ho visto il professore arrivare tutto trafelato, urlando disperatamente il suo nome all’acqua scrosciante, mente io lo chiamavo, più forte che potevo, dicendogli: «Eccola, è qui, sciocco! Non la vedi?».
Ma lui non l’ha vista, non finché lei stessa non è sbucata dalla finestrella della casetta, sussurrando: «Sono qui.»
 
Lo trovo estremamente fastidioso questo comportamento degli esseri umani, ma, purtroppo, non posso farci niente: sarà meglio che mi abitui al più presto, perché dubito che troverò un’altra persona così sensibile e attenta a me come Andy, una di quelle che mi parlano e, addirittura, si confidano con me, come se io potessi rispondergli nella loro lingua.
 
Ma, con l’apparato fonatorio che la mia specie si ritrova, non posso farlo e mi ritrovo, perciò, a dover scendere a patti con questa realtà, nel rapportarmi con gli esseri umani, esattamente come questi ultimi, nel rapportarsi con la vita, devono scendere a patti con la loro stessa natura, che li spinge a collezionare illusioni di cui, poi, non si rivelano all’altezza, quasi fosse una sorta di ironico, triste hobby.
 
Comprendo perfettamente le loro ragioni, ma non le condivido affatto: insomma, perché farsi mille problemi?
Perché crearsi illusioni e ambizioni troppo elevate, per poi cadere e soffrire inevitabilmente?
Perché non lasciarsi tutto il dolore e le esperienze negative alle spalle, andando avanti e provando a cercare la felicità nelle piccole cose?
Perché tormentarsi nel desiderare cose impossibili, quando è sufficiente un buon pasto abbondante e una lunghissima, bella dormita, per stare bene?
 
Mah, forse il problema sono io che sono troppo poco evoluta per capire, proprio come dicono loro, e magari hanno anche ragione.
Ma sapete che vi dico? Se vivere come un essere umano è davvero così complicato, preferisco vivere secondo la mia filosofia: preferisco essere la semplice gattina bianca che sono, rilassata e disinvolta, piccola e poco evoluta, in grado di trovare il piacere con poco, muta e incapace persino di portare ad una conclusione vera e propria questa strana, triste storia complicata, priva di un finale.


Ringrazio tutti quelli che hanno recensito o messo questa storia tra le seguite e le ricordate e anche tutti i lettori silenziosi che l'hanno seguita fino alla fine.

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